L'esorcista fatta di tenebre.

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Una bambina dagli occhi neri. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Bloody Rose. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Hänsel und Gretel. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Allen Walker. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Parte uno: Kevin Yeegar. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Parte due: Kevin Yeegar. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Tyki Mikk. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Nel frattempo. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Pensieri. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Past. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - L'esorcista fatta di tenebre. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Consapevolezza. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Verso Edo. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Red. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Prima Sfioritura. ***
Capitolo 16: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Prologo - Una bambina dagli occhi neri. ***


Prologo.
 


Una bambina dagli occhi neri.
 


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Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità.”
 
— Fedor Dostoevskij 
 
Era tutta coperta di fuliggine. Davanti al suo viso infantile s’innalzava lo scheletro di una vecchia casa, tenuta in piedi da quelle poche travi ancora non incenerite. Le fiamme schioccavano nel freddo vento notturno, scoppiettando di tanto in tanto e illuminando di ombre sinistre lo spazio che si stanziava attorno ai resti dello scheletro.
Dietro le lenti degli occhiali, lo sguardo color corallo del Generale Cross contemplava solo la piccola figura della bambina che se ne stava in piedi accanto a lui, stringendo la sua tunica in una piccola mano mentre con l’altra si asciugava le lacrime.
Mosso da un moto di compassione il Generale si inginocchiò, in modo da arrivare più o meno all’altezza della bambina, e le asciugò lui stesso le lacrime. Lei non si mosse, si limitò a guardarlo con i suoi occhi neri come il buio, che adesso li circondava, incerti e spaventati e tristi dopo l’accaduto di quella notte, ma anche diffidenti e scaltri nei suoi confronti. Aveva gli stessi occhi di Alex, che adesso non c’era più.
 Purtroppo, pensò Marian, non sono riuscito ad arrivare in tempo per salvarvi tutti.
«Mi dispiace» sussurrò l’uomo, caricandosi la bambina fra le braccia. Quella sbatté le palpebre sorpresa dal gesto del Generale che, tutta via, sembrava più sorpreso da se stesso che dallo sguardo che gli riservò in un secondo momento la piccola.
Non era mai stato bravo con i bambini, Marian Cross, non gli era mai importato di loro a meno che non facessero colpo sulle donne tuttavia questa volta si sentiva in dovere di salvare la figlia di un suo caro e vecchio amico, almeno per rendere un, sebbene minimo, favore ai genitori della bambina. Anch’essi, come lui, erano stati ottimi esorcisti e suoi fidati amici ma non avevano potuto nulla contro il numeroso attacco a sorpresa che gli era stato riservato dagli Akuma. Avevano gettato la loro unica figlia fra le braccia di Marian e gli avevano ordinato di salvarla, prima di venire bruciati vivi assieme ai loro nemici, senza smettere di combattere.
«Signore» la flebile voce della bambina raggiunse le orecchie di Marian in poco tempo, facendolo ridestare dalla visione che gli si trovava davanti. Timpacampi, intanto, svolazzava davanti alla casa registrando i fatti.
«Chiamami maestro.»
«Maestro, voglio la mamma» pigolò la bambina, stringendo forte tra le mani piccole una delle lunghe ciocche di capelli del Generale. Le lacrime che avevano ripreso a scendere più frequenti di prima inzupparono la spalla del Generale, le piccole spalle mosse dai singhiozzi portarono Cross a stringerla un po’ di più. «Perché non viene a prendermi? Era dentro la casa, assieme a papà. Perché non tornano a prendermi? Sono morti?» La bambina poggiò la testa sulla spalla del Generale sulla quale stava piangendo e vi nascose il viso. «Maestro, perché sono morti?» sussurrò lei, prime di chiudere gli occhi e smettere di parlare.
Tutto calò in una strana quiete, mossa dallo scoppiettio e il cigolio delle travi che cadevano e prendevano fuoco, il rumore del respiro della bambina e il battito del cuore del Generale, che quella sera sembrava molto turbato.
Marian Cross osservò ancora la casa, mentre questa veniva rasa al suolo dalle fiamme e chiuse gli occhi prima di darle le spalle. Timcampi lo seguì con velocità, poggiandoglisi sul cappello. Cross gli diede una pacca amichevole sopra la testa e sospirò: non gli capitava mai di vedere scene come quella, di sentire quel peso sul cuore come gli stava accadendo ora. Che cosa strana. Lui, il famoso Marian Cross, debitore a mezzo mondo, ora si trovava con in braccio una bambina piangente e senza un posto dove stare. Come avrebbe fatto? Di certo nessuna delle sue amanti lo avrebbe accolto se avesse portato con se una bambina. Non gli rimaneva che andare… all’Ordine Oscuro.
Dannazione, lui odiava quel posto ma non poteva lasciare la bambina per strada. Perché tutte a lui?
«Maledizione» borbottò, mentre Timcampi se la rideva sotto i baffi.
 
 
«Quindi, Cordelia e Alex sono stati uccisi e ti hanno affidato la figlia.»  Komui si passò una mano fra i capelli scompigliati dal cuscino, mentre con gli occhi scuri e assonnati esaminava come meglio poteva il volto della bambina, profondamente addormentata fra le braccia del Generale. L’uomo doveva ammettere che tutto si sarebbe aspettato da Cross tranne che tornasse con una bambina addormentata fra le braccia nel bel mezzo della notte, e per di più con l’orribile notizia della morte di due esorcisti che stavano rientrando al quartier generale.
«Esatto.» Il Generale lanciò un’occhiata alla bambina, e da dietro le lenti dei suoi occhiali a Komui parve di vedergli gli occhi lucidi. Ma doveva essere stata solo un’allucinazione: Cross Marian non piangeva mai, e mai si presentava di sua spontanea volontà al Quartier Generale. Doveva proprio voler bene a quella coppia di esorcisti, pensò Komui. «Ascolta Komui, questa bambina non ha più nessuno e io non posso occuparmene. Si chiama Evangeline e ha la stessa età di Lenalee…» Gli occhi rossi di Cross si posarono in quelli neri del supervisore della sezione scientifica e gli porsero una tacita, chiara domanda.
«Ho capito. La dia pure a me, Generale. Me ne prenderò cura io. » L’uomo allungò le mani verso Cross, mentre questo era intento a liberare con cautela i propri capelli e la tunica dalla stretta della bambina, che sembrava non volerlo lasciare a nessun costo. Quando passò il corpo addormentato della piccola al supervisore uno strano senso di leggerezza gli ricadde sulle spalle, evidenziato dall’umido delle lacrime cadute sulla sua divisa che ora lo stavano raffreddando.
 «Conto su di te, Komui Lee.» Il Generale Cross voltò le spalle all’uomo e si avviò verso il buio che incombeva oltre l’Ordine Oscuro, pronto a far sparire le proprie tracce il prima possibile. «Ah, dimenticavo: la mocciosa è compatibile.» L’uomo dai capelli rossi si voltò nuovamente per un breve istante, frugò in tasca e ne estrasse un piccolo frammento di Innocence.
«Oh, davvero? Bene bene.» Kmoui sorrise, accarezzando con dolcezza il capo della piccola che teneva fra le braccia. Le ricordava così tanto Lenalee. Poi, ridestandosi alzò il viso e fulminò Cross con lo sguardo. «Ah, Generale si ricordi di mandarci i suoi rapporti mensili! Sono tre mesi che li aspettiamo. Li invii, tutti!»
« Si si, li manderò.» Cross mosse con pigrizia la mano e tornò sui suoi passi dopo averlo lanciato al supervisore il piccolo frammento di Innocence e allora scomparve.
Komui rimase fermo in mezzo all’atrio principale del Quartier Generale con in braccio una bambina che non era Lenalee e un frammento di Innocence che brillava illuminando la stanza del suo tenue colore verde. Komui gettò uno sguardo alla ragazzina addormentata fra le sue braccia, osservò i suoi capelli neri e spettinati, le accarezzò le guance con la mano libera, con l’intento di pulirle il viso dalla fuliggine che, però, creava solo scie di nero che stonavano con la pelle arrossata dal troppo caldo che aveva sofferto: sembrava così fragile, quasi si dovesse rompere. Era simile a una bambola di porcellana, che aveva iniziato a creparsi.
«Bene, a quanto pare siamo rimasti solo io e te, Eve» sussurrò l’uomo, stringendosi al petto quella bambina che Cross gli aveva portato. Lei, nel sonno, gli strinse il pigiama in un pugno e si accoccolò di più a lui. Komui sorrise impercettibile, restando ancora qualche secondo ad ascoltare il suono del respiro di lei infrangersi contro il proprio collo, poi si voltò e ritornando sui suoi passi si mise a pensare a una buona spiegazione da dare al reparto scientifico, a Lenalee e a Evangeline l’indomani

 

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Isil (Likeapanda): Bene bene, eccomi qui. Ciao a tutti/e esorcisti e Noah e esseri umani (un po’ come preferite.) E’ un piacere conoscervi e avervi attratti con la trama fra le righe di questa umile storia. Ok, ammetto che come inizio è piuttosto scarso, ma avevo in mente quattro prologhi e tirando a caso è uscito questo.
Evangeline: Cos…?! COSAAAA?! Quatto prologhi?! E TU HAI ESTRATTO QUELLO PIU’ STUPIDO DI TUTTI?! Vabbè , inutile discutere tanto scommetto che anche gli altri tre erano penosi.
Isil: Ecco…
Komui: Su su, non litigate. Dopo tutto, una storia deve avere un qualche colpo di scena no? #OcchiatacciaDiEvangeline Eh… eheheh #RisataCaricaDiImbarazzo. Non dobbiamo prendercela con Isil-sama, Eve.
Isil: Io ascolterei Komui-dono, Eve-kun. Ho in mente molte, moooooooooooooltissime cose per il tuo futuro.
Evangeline: …
Isil: Perché i puntini di sospensione? Non ti fidi di me?! #SguardoDiFuoco
Evangeline: Chi si fida di te finisce sempre male, chiedilo alla protagonista della tua altra storia. E’ morta e ora si ritrova negli inferi. Credo che inizierò già ad odiarti adesso, almeno in futuro verranno fuori splendidi insulti.
Komui: Non litigate, ve ne prego. Almeno non davanti agli spettatori.
Evangeline: Zitto, uomo con la sindrome della sorella!
Komui: Ma… T.T
Isil: Evangeline, comportati bene! Piccola ingrata, come ti ho fatto ti distruggo!
Komui: Io NON ho la sindrome della sorella!
Isil & Evangeline: SI. Ce l’hai.
Komui: #FacciaDisperata Beh, almeno su qualcosa andate d'accordo.Va bene, ma adesso smette di litigare, per favore.
Evangeline: Tzè.
Isil: Bene, scusate quest’interruzione ma qualcuno non sa quando tenere la lingua a freno (#OchiatacciAEve). Ora passiamo alle cose importanti: se il capitolo è stato di vostro gradimento ci farebbe piacere ricevere una recensione con i vostri pensieri, non abbiamo problemi ad accettare anche critiche costruttive e complimenti ( i complimenti non guastano maiiii)
Evangeline: E chi te li dovrebbe fare i complimenti per questa schifezza?
Isil: Brutta ingrata! Ora ti faccio vedere io!
Komui: Beeeeene. Speriamo di aver attirato la vostra attenzione con questo prologo, gentili lettori… Ah, quasi dimenticavo: non preoccupatevi se le immagini d’inizio capitolo e delle N.d.a sono tetre, a Isil-sama piacciono e questo è solo un modo per usarle e… RAGAZZE, NON PRENDETEVI PER I CAPELLI! RAGAZZEEE!
Scusatemi cari lettori, devo intervenire. Alla prossima, vi aspettiamo.
RAGAZZE! LENALEE AIUTOOOOO!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Bloody Rose. ***


Capitolo 1.
 


Bloody Rose.
 


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Tieni duro, piccola soldatessa
Stringi i denti”
 
— Mockingbird, Eminem
 

Quando aprii gli occhi un tenue raggio di sole mi stava colpendo in faccia. Mi faceva male la testa, le gambe e persino le braccia. C’era un cattivo odore di bruciato che aleggiava fra quelle pareti alte e strette, proveniva da me. Sbattei le palpebre e mi misi a sedere, le coperte bianche che mi coprivano scivolarono sulle mia gambe stanche. Mi osservai le mani: erano così nere, piene di fuliggine e le unghie così rovinate. Passai le dita fra i capelli intrigati cercando di sfare i nodi, poi rinunciai. Magari la mamma li avrebbe strigati. La mamma…
«Mamma?» Mi guardai attorno, ma nella stanza c’ero solo io, e un orribile quadro di una bambola gigantesca con dei fili attaccati a polsi e caviglie. I suoi occhi azzurri, vitrei mi fecero accapponare la pelle. Ma dov’ero?
Scesi dal letto, incespicando nelle coperte che mi ero aggrovigliata attorno alle gambe nella notte e mi avviai verso l’unica porta presente in quella strana stanza. Poggiai la mano sopra la maniglia e l’abbassai, venendo investita da una folata di vento freddo che mi scompigliò i capelli.
«Olalala, ti sei svegliata.» Un giovane uomo apparso dal nulla si inginocchiò davanti a me, sorridendomi con gli occhi scuri. Mi tese una mano, che rifiutai. «Capisco. Non ti fidi di me perché non sai chi sono, eh? Rimediamo subito: il mio nome è Komui Lee e sono il supervisore della sezione scientifica dell’Ordine Oscuro.  Da oggi mi prenderò cura di te.» La sua voce era gentile, calma e dolce ma riuscii comunque a scorgervi una nota di tristezza camuffata. L’ordine Oscuro, pensai, era la sede degli esorcisti. Ma cosa ci facevo io li? Soprattutto ora che i miei genitori…
«La mamma è morta, papà è morto» sussurrai, mentre le immagini della notte prima tornavano a farsi vive nella mia mente.
Il viso della mamma che mi gridava di stare indietro mi passò davanti agli occhi quando sbattei le palpebre, la voce di papà che urlava il nome del Maestro e gli chiedeva di salvarmi mi rimbombò nelle orecchie. Portai una mano al petto e strinsi un poco la presa sulla maglietta logora che avevo indosso, che mi faceva male. Mi doleva tanto, proprio in mezzo, come se da un momento all’altro qualcosa dovesse rompersi e non riuscire più a rimettersi assieme. Chissà cos’era. Chissà perché faceva così male.
«Dov’è il maestro?» Già, dov’è il maestro? Dovevo trovarlo, ringraziarlo e dirgli che l’avrei seguito nella sua missione, che avrei distrutto gli akuma con lui, per lui perché gli dovevo la vita. Mi aveva tirata fuori dalle fiamme la sera prima senza fare obbiezioni, e senza farsi troppi problemi mi aveva portata al coperto. Il maestro, quell’uomo di cui mamma e papà mi avevano parlato a lungo era tutto quello che mi rimaneva, in un certo senso.
Ridussi gli occhi a due fessure, mentre aspettavo una risposta. Komui, che aveva assottigliato le labbra fino a ridurle a una semplice linea retta, sospirò. Quello strano gesto mi mise in allarme, facendomi stringere le mani a pugno di nascosto dietro la schiena.
Il giovane uomo si tolse il capello dalla testa e si accarezzò i lunghi capelli neri, infine disse: «Il Generale Cross ti ha lasciata qui ieri sera poi è ripartito.»
Crack. Quel qualcosa che prima era in stallo dentro al mio petto si sbilanciò da una parte, dondolò un poco e poi cadde rompendosi in mille pezzi. Mi sembrò di riuscire a distinguere perfettamente il rumore di ogni crepatura, il sibilo della caduta e infine la rottura decisiva. Che cosa strana, perché faceva così male? Che cosa si era rotto di così importante dentro di me?
Mi trattenni dal portare le mani al petto e stringerle forte attorno alla stoffa degli abiti che portavo. Come se quel gesto mi facesse sentire meglio, pensai.
«Devo farmi un bagno» la voce che uscì dalla mia bocca era lontana, fredda e incolore quasi fosse di un’altra persona.
Komui si issò sulle gambe, rimettendosi lo strano capello che prima si era tolto e mi guardò stranito. Certo, probabilmente si aspettava che mi mettessi a piangere come una bambina davanti a lui. Io sono una bambina. Ho appena tredici anni.
Mi morsi l’interno delle guance; io non avrei pianto, perché piangere non sarebbe servito a far rivivere i miei genitori o a far tornare il maestro bensì solo a farmi apparire debole. Io non ero debole, non volevo essere debole. Io non dovevo essere debole, per la mamma e per papà. Loro non erano stati deboli l’altra notte.
«S-si.» Il supervisore della sezione scientifica mi guardò ancora per qualche secondo, prima di voltarsi e accompagnarmi ai bagni del Quartier Generale. «Mia sorella, Lenalee, ti porterà dei vestiti puliti. Prenditi il tempo che ti serve, Eve.»
«Non mi chiamo Eve» lo rimbeccai, riservandogli uno sguardo truce.
Lui fece un passo indietro, forse spaventato. «Va bene. Allora… pensa solo a rilassarti.» Mi sorrise e si allontanò.
Ero stata troppo fredda? Lo guardai andare via, sparire dietro la grossa porta da cui eravamo entrati e allora mi voltai a osservare i bagni: erano tre grandi vasche circolari collegate fra loro ricolme di acqua calda; sopra la più alta delle tre c’era un piccola cascata che manteneva pulito lo scorrere delle acque termali. Sotto le tre vasche, poi, c’era come un piccolo livello che gettava l’acqua in delle condutture che la depuravano e la portavano alla cascata. 
Quello sarebbe dovuto essere un bagno?
Sospirai e iniziai a spogliarmi, gettando gli stracci che ricoprivano il mio corpo dove capitava. Quando entrai nella vasca l’acqua prese immediatamente a colorarsi del nero che mi ricopriva la pelle, diventò simile a un pozzo di petrolio che piano pino veniva trascinato via per lasciare spazio a dell’altra acqua, pulita.
Che strano posto, pensai. M’immersi completamente e tentai di sfare i nodi dei miei capelli con le dita, peggiorando solo la situazione. Rinunciai e andai ad appoggiarmi al bordo di roccia della pietra, con lo sguardo perso nel vuoto fra i vapori della sorgente.
«C’è nessuno?» La voce di una bambina mi ridestò dal nulla dei mei pensieri, facendomi voltare come colt in fragrante. Affondai nell’acqua fino alle labbra e la guardai venire avanti, mentre i suoi lunghi capelli neri, legati in due codini alti, si arricciavano a causa dell’umidità. Era piccola, però aveva un bel portamento messo in evidenza dalla divisa da esorcista che indossava. I suoi grandi occhi, di un colore viola scuro tendente al nero volavano ovunque per il bagno. 
Quando i nostri sguardi si trovarono lei sorrise, avvicinandosi. «Ciao, sono Lenalee.» Le sue labbra si piegarono verso l’alto, mentre mi porgeva due flaconi: uno di shampoo e l’altro di balsamo.
Lei era la sorella di Komui? Era così diversa da lui, sembrava così fragile. Avevo paura a sfiorarla anche solo per prendere le bottigliette. Chissà se era davvero così fragile, Lenalee.  Presi lo shampoo e distolsi lo sguardo dai suoi grandi occhi, perendo nuovamente il mio nei vapori che galleggiavano fra le vasche.
La mamma e papà mi volevano portare in questo luogo, perché? Non potevo restare da nonna, come avevo sempre fatto? Se mi avessero lasciato da lei a quest’ora non sarebbero morti, io non sarei sola.
Probabilmente Lenalee capì a cosa stavo pensando, perché piegò la testa da una parte e disse: «Tranquilla, prima o poi si supera tutto.» Mi prese la bottiglia di shampoo dalle mani e ne versò una quantità sulla mia testa iniziando a sfregare bene e con forza, ma senza farmi male.
Sbarrai le palpebre. Perché quella ragazzina stava facendo quello? Non ci conoscevamo neppure. Socchiusi le labbra sorpresa. E poi, perché mi aveva detto quella cosa?
«Come potresti capire tu? Tu hai Komui» borbottai, all’improvviso irritata da quelle parole dette con tanta leggerezza. Che ne sapeva lei di quello che provavo io adesso?
«Le nostre storie non sono così diverse, sai? Anche io e Komui siamo orfani» sussurrò Lenalee, e la sua voce si fece più fievole. «I nostri genitori sono stati uccisi da alcuni akuma. Gli esorcisti mandati per distruggerli arrivarono troppo tardi e non riuscirono a salvarli. Perciò ti capisco, so come ti devi sentire adesso.»
Lenalee era… orfana?
«Certo… io ho Komui, quindi non sono sola però credo di capirti lo stesso. Quando capirono che ero compatibile con i Dark Boots mi portarono all’ordine e mi rinchiusero in una stanza perché non facevo altro che scappare per cercare mio fratello. Ero così spaventata, e la cosa peggiore era che mi avevano lasciata sola.» Le sue mani morbide smisero di muoversi, mentre un secchio di acqua calda mi cadeva sulla testa per sciacquarla. Rivoli di acqua nera mi colarono sulle guance, percorsero la mascella e si tuffarono nell’acqua pulita colorandola di quella triste tinta scura.
«Però hai Komui» bisbigliai, immergendomi nuovamente completamente. L’acqua mi accolse in un abbraccio caldo, prima di lasciarmi tornare in superfice.
«Mio fratello ha rinunciato alla sua libertà per me, non potrò mai sdebitarmi con lui» ammise Lenalee, passando al balsamo.
Nessuna delle due parlò più per molto tempo, finché non decisi che era il momento di uscire dalla vasca. Allora, Lenalee mi aiutò a uscirne tenendomi la mano in modo da assicurarsi che non scivolassi, poi mi avvolse in un asciugamano di spugna candida e sorrise ancora. Aveva un bel sorriso, Lenalee Lee.
«Grazie» mormorai imbarazzata. Lei era stata così buona con me anche se non ci conoscevamo, mentre io l’avevo subito attaccata con i miei gesti bruschi. Ringraziarla era una cosa così minima per la sua bontà. Dovevo fare qualcosa di più.
«Andrà tutto bene, vedrai. I ragazzi della sezione scientifica sono simpatici e persino mio fratello, anche se a volte sembra un tipo strano. Sei già parte della famiglia.»
Il mio cuore prese a battere così veloce che pensai sarebbe uscito fuori dal petto. «Sono già parte… della famiglia?»
«Tutti noi esorcisti siamo una famiglia.»
«Ma io non sono un’esorcista» bisbigliai. Lenalee si bloccò davanti a me, le mani ferme sui bottoni della soffice camicia bianca che mi aveva portato.
I suoi occhi color malva mi esaminarono con calma poi, inaspettatamente, mi tirò verso di se e mi abbracciò per qualche secondo. Il suo profumo di sapone m’invase le narici, portandomi a chiudere gli occhi e ad affondare la testa nell’incavo del suo collo.
«Sei una compatibile, perciò sei un’esorcista. Sei già una di famiglia, Evangeline, almeno per me.» Allargai le braccia e ricambiai l’abbraccio.
Era così dolce, Lenalee Lee.
Era così dolce mentre il mondo la fuori era così crudele. L’avrei protetta, decisi. L’avrei protetta da tutto quello che avrebbe potuto ferirla. L'avrei protetta a qualunque costo.
 
 

«Evangeline lei è Hebraska, un’esorcista come te. Ora controllerà la sincronizzazione che hai con la tua Innocence, poi te la porgerà.» Komui mi spinse un po’ più avanti verso il bordo di quello strano ascensore, ricevendo in cambio un’occhiataccia che lo fece indietreggiare. Subito dopo, si schiarì la gola imbarazzato e mi fece segno di guardare quella strana cosa che avevo davanti.
Hebraska sembrava una specie di brutto serpente gigante semitrasparente, con una brutta messa-in-piega.
«Non mi piaci» le rivelai, dandole le spalle per dirigermi verso il pannello di controllo e far risalire l’ascensore. Non ero un genio quando si trattava di buone maniere, ma non me ne importava più di tanto.
«Così piccola e già così fredda e arrogante» la voce di Hebraska suonò come le corde di un violino in quel luogo scavato nel profondo del castello.
Le rivolsi un’occhiata in tralice pronta a ribattere, quando lei mi si avvicinò velocemente. Non so se quello che mi rivolse prima di sollevarmi fosse un sorriso o un ghigno di vittoria, fatto sta che quando i suoi tentacoli mi strinsero sentii qualcosa dentro di me rabbrividire. Era viscida e fredda la sua presa, la detestavo.
«Mettimi giù, o ti taglio un braccio» dissi seriamente disgustata.
Lei non fece caso alle mie parole e appoggiò la sua fronte alla mia, socchiudendo le labbra e rafforzando la presa, chiudendo gli occhi per concentrarsi.
«Uno percento. Sette percento. Tredici percento. Ventitré percento.»
«Questa cosa è stupida!» gridai scocciata, rivolgendo il mio sguardo a Komui.
Lui alzò le mani verso di me, come a proteggersi, e rise imbarazzato. «Suvvia Evangeline, Heb sta’ solo calcolando la tua compatibilità con l’Innocence.»
«Sessantatré percento. Settanta percento. Settantacinque percento.» Tutti quei numeri cominciavano a darmi alla testa. A cosa serviva contare così? Ero compatibile, mi sembrava già un punizione più che adeguata al mio comportamento. «Ottantotto percento.» Hebraska mi rimise sull’ascensore e si allontanò.
«Il tuo massimo.» Mi sorrise Komui, poggiandomi una mano sulla spalla.
«Non toccarmi» sibilai e lui si ritrasse.
«Okay. Ah, giusto!» Frugando in una delle tasche della sua divisa Komui estrasse un piccolo bracciale  dalla forma a spirale, che ricordava il corpo di un serpente, dalla larghezza regolabile. Me lo porse con le labbra rivolte verso l’alto e rimase in attesa della mia reazione.
Inarcai le sopracciglia mentre studiavo quell’oggetto: era nero come i miei occhi, però la pelle che lo ricopriva era lucida e morbida. Su una delle sommità, inciso in un elegante corsivo era scritto: Bloody Rose.
«Cosa sarebbe, questa cosa?» Chiesi tornando a guardare Komui, che sembrava aver perso le speranze nell’attendere una mia possibile reazione.
L’uomo abbandonò le braccia verso il basso e sospirò rassegnato, poi disse: « Questa è la tua innocence.»
«Eh?» Questa volta furono le mie braccia a cascare a terra. «Questo insulso braccialetto sarebbe la mia innocence? E cosa dovrebbe fare: portare il senso dello stile agli akuma?»
«Perché non provi a evocarla?» Hebraska si posizionò dietro Komui, e entrambi attesero.
Li osservai attentamente con scetticismo. Chissà cosa ne sarebbe venuto fuori, da quello stupido bracciale.
Vabbè, tentar non nuoce, mi dissi.
«Innocence attivati!» Fu come ricevere una calda carezza e subito dopo uno schiaffo. All’inizio mi pervase una dolce sensazione di tranquillità e subito dopo mi sembrò di venire catapultata contro un muro e di finire a terra agonizzante. L’innocence pulsò fra le mie mani, mentre le mie energie andavano a convergersi al suo interno e la modellavano. Divaricai le gambe per restare in equilibrio e socchiusi le labbra in un urlo muto, mentre Rose cresceva verso l’alto e sibilava piano.
Un’intensa luce verde pallido investì l’intera stanza in cui ci trovavamo e poi svanì all’improvviso, lasciando tutti e tutto nel silenzio e nel buio più totale. Non mi accorsi nemmeno che avevo chiuso gli occhi fin quando non li aprii e la realtà mi colpì in faccia completamente. Davanti a me, dove prima c’era stato Komui adesso era presente una sagoma con le sue fattezze ma dai colori diversi: verde, rosso, arancio che si muovevano con essa. Era come vedere con degli occhiali e per l’individuazione del calore termico, per la visione notturna. Che cosa strana.
Rose sibilò ancora attirandomi a guardare verso il basso dove stretta fra le mie mani c’era una frusta, che si contorceva come il corpo di un serpente.
Dunque quella era la mia innocence. Del tutto diversa da quello che mi sarei aspettata. Era così… spaventosa.
«Evangeline, ti senti bene?» Komui fece un passo in avanti e i colori presenti all’interno del suo corpo si mossero con lui.
«Benissimo» sussurrai, sentendomi piena di energia. «Riesco a vedere il tuo calore corporeo Komui, a sentire l’energia di quel brutto serpente semitrasparente di Hebraska.» Alzai gli occhi sul supervisore e sorrisi tirando su solo un angolo della bocca.
«Le tue iridi sono… completamente nere, Evangeline e le tue pupille brillano di un verde troppo acceso. Sicura di…»
«Sto benissimo.» Alzai la mano in cui tenevo stretta la Bloody Rose e questa, di sua iniziativa, strisciò sul mio braccio e passò dietro il collo per poi legarsi all’altro arto. «Mai stata meglio.» E chi l’avrebbe mai detto che la maledizione del compatibile mi avrebbe fatto sentire così piena di forze? Era stato come ricevere una doccia fredda all’inizio ma ora mi sembrava di galleggiare in un turbine di acqua tiepida e rilassante.
«Ne… ne sono felice» mormorò il giovane uomo, accarezzandomi con fraternità la testa.
Alzai gli occhi verso di lui e scoprii i denti. «Non toccarmi i capelli.» Lenalee me li ha sistemati con cura.
Oh già, Lenalee! Dovevo correre a dirle che finalmente ero entrata nella famiglia a tutti gli effetti e che ora avevo finalmente un qualcosa, quel qualcosa che mi avrebbe permesso di proteggerla da tutte le cose brutte che stavano fuori dall’ordine. Avrei potuto proteggerla davvero. Non avrei permesso a nessuno di torcere un solo capello a quella ragazza, che era stata l’unica che aveva provato realmente a capirmi.
Ok, anche Komui era stato gentile ma…
Mossa dal senso di colpa del mio atteggiamento ritirai l’innocence e la misi al polso nella sua forma di braccialetto, mentre la vista mi tornava normale e potevo iniziare a distinguere i tratti giovanili di Komui.
«Grazie» dissi «per avermi accettato nell’Ordine come se fossi una di famiglia. Non volevo trattarti male.» E prima che me ne rendessi conto il giovane uomo mi stava stringendo fra le sue braccia, e l’odore di caffè che proveniva dalle sue vesti mi stava entrando nel naso.
Questo non vuol dire che puoi toccarmi!, gli avrei voluto gridare ma non lo feci. Dopo tutto, Komui era una persona buona e non si meritava di essere trattato male, specialmente da una ragazzina di tredici anni.

 
 

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Isil: Baka! Baka! Baka! Bakaaaaaa! Come ti permetti di trattare così Komui?!
Evangeline: Baka lo devi dire a te stessa! E’ tutta opera tua se lo tratto così!
Lenalee: Ragazze, vi prego non litigate un’altra volta. Per favore.
Evanegeline: Mh? Si, va bene. Scusami.
Isil: … le dai ascolto? #BatteLePalpebreSorpresa
Evangeline: Non farei mai nulla che andrebbe contro il volere di Lenalee.
Isil: Mh, bene… Allora cari lettori eccoci di nuovo qui ^-^ Sono felice di vedere che siete in molti a leggere questa fanfic (anche se nessuno sembra voler recensire. Ma perchééééééé? T.T)  Anyway, spero che questo capitolo vi abbia attratti verso i prossimi che vedranno una Evangeline diversa.
Lenalee: Meno scontrosa?
Isil: Più grande, Lenalee-chan. Infatti gli avvenimenti dai prossimi capitoli saranno ambientati durante il periodo del manga/anime.
Evangeline: Spero per te che siano dei buoni capitoli e non spazzatura come questa roba qui.
Isil: EVANGELINEEEEEEEEEEEEEE! La lezione dell’ultima volta non ti ha fatto capire proprio nulla? Se Komui non mi avesse fermato a metà… dov’è Komui?

Lenalee: Il fratellone non si sentiva bene, probabilmente la scoperta della spaventosa innocence di Eve l’ha scombussolato, perciò ci sono io al suo posto oggi ^-^
Isil: Sempre colpa tua, Eve-kun.
Evangeline: Tzé.
Isil: Mh. Vebbè. Speriamo si rimetta presto. Ad ogni modo, un bacio a tutti voi, cari lettori, e alla prossima.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Hänsel und Gretel. ***


Capitolo 2.



Hänsel und Gretel.


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You never know.
 
 


«Oh, Evangeline oggi per te ho una splendida missione. Te ne andrai dritta in Germania, nella regione del Baden-Württemberg a esplorare la Foresta Nera.» Komui, seduto dietro la sua elegante e disordinata scrivania, mi porse il materiale per la missione con un sorriso serafico stampato in faccia. «Ultimamente ci sono stati molti avvistamenti di Akuma nei pressi dei numerosi boschi che la compongono, pensiamo possa esserci dell’Innocence.»
Inarcai le sopracciglia e cominciai a scrutare alcune delle informazioni riportate nel fascicolo, mentre Lenalee entrava nella stanza e mi sorrideva, per poi andare a versare del caffè al fratello.
«Ciao Evangeline.» Smisi di sfogliare le pagine quando una notizia mi saltò agli occhi, facendomi mettere sull’attenti.
«Una missione in coppia?!» Sibilai, indirizzando il mio sguardo freddo verso Komui. L’uomo mi sorrise affabilmente, tentando di nascondere la paura che la mia voce gli procurava ogni volta e annuì.
Una missione in coppia. Non uscivo mai in coppia con nessuno a parte Lenalee, ma se questa volta Komui mi aveva chiamato separatamente da sua sorella, avevo pensato, era perché la missione richiedeva molta forza bruta e un notevole impegno fisico che la ragazza non avrebbe potuto sopportare. Lenalee era un’ottima esorcista, certo, ma ogni tanto si faceva prendere dal momento e si gettava a capo fitto nella protezione degli esseri umani che ci circondavano dimenticandosi dei suoi doveri, e la cosa non andava bene. Non ero mai stata contraria al suo modo di pensare, ai suoi ideali che tentava continuamente di mettermi in testa però ero fatta a modo mio e continuavo a pensare che lei fosse troppo buona, troppo fragile.
Lenalee per me era sempre stata fragile. Una creatura che aveva bisogno di protezione e tranquillità, per la quale avrei dato la vita. E anche se a volte mi era sembrata più impetuosa di un uragano sul campo di battaglia e non si era mai arresa, anche se aveva combattuto con quella determinazione che le scorreva dentro il sangue con naturalezza non ero mai riuscita a cambiare idea. Lenalee era troppo buona e io l’avrei protetta.
«E chi sarebbe il mio compagno, Komui?» chiesi chiudendo con forza il fascicolo, mentre i miei occhi scuri seguivano la sagoma della ragazza cinese che si apprestava a uscire dalla stanza. Quando Lenalee fu finalmente uscita mi riconcentrai su Komui.
L’uomo sospirò, bevve un sorso di caffè e infine disse: «Non capisco questa tua freddezza nei miei confronti. Sei sempre così cattiva, non mi vuoi neppure un po’ di bene Eve?»
«Non chiamarmi Eve, Komui!» Sbraitai, avvicinandomi con velocità alla scrivania e stringendo con forza il suo profilo. Mi sentivo così violata dagli altri quando mi chiamavano Eve.
Mi sembrava di essere esposta a un qualche tipo d’affetto che non sarei stata in grado di ricambiare, o anche se ci fossi riuscita non avrebbe portato a nulla di buono. Ero un’esorcista e non potevo lasciarmi andare alle emozioni, perché se l’avessi fatto avrebbe voluto dire diventare debole.
Le emozioni, tutte quelle che non sono rabbia e odio erano sono inutili. Non ti portano ad altro che la sconfitta e l’incapacità di agire, pensai. Se ti affezioni a qualcuno penserai a proteggerlo, mandando a monte la missione e rischiando di perdere l’innocence.
«O-ok.» Il supervisore si ritrasse sulla sua sedia, stringendo fra le lunghe dita la tazza di caffè bollente.
Sospirai e lasciai andare la scrivania e le scartoffie che avevano avuto la sfortuna di incontrare la mia stretta poi feci un passo indietro e incrociai le braccia al petto. «Scusami, Komui» mormorai, realmente costernata dal mio cattivo carattere. Scossi il capo e spostai il peso da una gamba all’altra. «Chi sarà il mio compagno, Komui? Spero che non si tratti di Lenalee, ho dato una letta a questi dati e la missione mi sembra troppo cruenta p…»
«Oh, Kanda!» Komui si alzò in piedi senza lasciarmi finire il discorso, con gli occhi brillanti sotto le lenti degli occhiali. Mi morsi le guance per non gridargli dietro brutte parole, girandomi su me stessa per seguire il percorso che stava compiendo. Quindi, socchiusi di poco le labbra quando le mie iridi scure si poggiarono sul ragazzo appena entrato.
Era un esorcista più grande di me, ma non adulto, e aveva lunghi capelli neri legati in una coda e una corta frangia che gli ricadeva sugli occhi. I suoi occhi, un blu scuro tendente al nero, incenerirono il supervisore con uno sguardo quando questo gli poggiò una mano sulla spalla e lo condusse verso la scrivania.
Kanda Yuu sarebbe stato il mio compagno per la missione? Rabbrividii al solo pensiero e smisi di tormentarmi le guance con i morsi di frustrazione. Io e Kanda non ci eravamo mai parlati molto, solo qualche litigio di tanto in tanto quando uscivamo in missione con Lenalee su chi fosse il più forte in combattimento.
«Kanda, Evangeline è la tua compagna in questa missione» squittì l’uomo, gettando in avanti Kanda per ritornare alla sua scrivania. Il ragazzo, mosso dalla forza della spinta amichevole di Komui, fece qualche passo in avanti arrivando a sfiorarmi il torace con il suo. Assottigliai lo sguardo facendo un passo indietro, lui mi imitò.
Non mi sforzai neppure di sorridere a quel ragazzo e rivolgendomi direttamente al supervisore affermai: «Questa missione è una passeggiata, Komui. Posso farcela benissimo da sola, senza avere un peso sulle spalle più grosso e alto di me.»
«Tzk, neppure tu sei tanto leggera» si limitò a commentare il ragazzo, incrociando come me le braccia al petto.
Lo guardai con il fuoco negli occhi e mi preparai a ribattere, quando Komui intervenne cinguettando: «E questo è il perché vi ho messi in squadra assieme! Siete sempre così freddi con tutti, magari assieme troverete un giusto feeling!» Il supervisore si avvicinò a noi sorridente, con uno strano sguardo riposto dietro le lenti degli occhiali.
D’istinto feci un passo indietro, più che certa che in quella mente malata il cinese stesse tramando qualcosa, ma l’uomo fu più veloce e mi prese per la manica della divisa attirandomi a se, come stava capitando a Kanda. Essendo entrambi più bassi di lui non si sforzò molto ad abbracciarci per le spalle e spremerci uno contro l’altra. Sfortunatamente quella che risentì di più di quella stretta fra i tre fui io, con il mio metro e settanta d’altezza ero la più bassa del gruppo.
«Komui» protestai visibilmente seccata, mentre con le mani poggiate sul petto di Kanda tentavo di fare leva per allontanarmi da lui, che nell’intento di fare la stessa cosa aveva poggiato le mani sulle mie spalle.
«Ti taglierò a fette con Mugen!» ringhiò Kanda. Komui, per dispetto, ci strinse un po’ di più limitando i miei spostamenti e facendomi finire la faccia a raso collo di Yuu, che s’irrigidì. Ma che saltava in mente al nostro supervisore? All’improvviso gli era passata la sindrome della sorella e gli era venuta quella per gli esorcisti? Proprio non capivo. In ogni modo una cosa la sapevo: Komui stava giocando con la sua vita come se non valesse niente. Gliel’avrei fatta pagare cara.
«KOMUIIII» gridammo entrambi e allora l’uomo ci lasciò. Potendo finalmente muovermi, poggiai le mani sul petto di Yuu e lo spinsi via, portandomi una mano al collo per massaggiarlo.
«Feeling un corno, Komui Lee! Ora te la faccio vedere io!» Ululai, poggiando una mano sulla mia Innocence.
«Evangeline, tieni a freno gli istinti!» Qualcosa mi colpì in testa all’improvviso, portandomi a voltare il capo con velocità e ad afferrare il polso del mio assalitore. Lenalee sussultò appena quando la strinsi con forza nella mia presa, poi si rilassò nel momento in cui la liberai.
«Lenalee?» Cosa ci faceva lei li? Aveva assistito a tutta la scena? A giudicare dal colpo che mi ero presa in testa avrei giurato di si. Sospirai, accarezzandomi il punto dolorante e alzai gli occhi al cielo: lei capitava sempre quando non doveva.
«E tu fratellone: non giocare col fuoco » rimbeccò Komui come se fosse stata loro madre, con una scintilla di amore nascosta nello sguardo severo.
 
 
Il treno viaggiava con velocità, fuori dal finestrino vedevo il paesaggio cambiare in fretta senza che avessi il tempo di studiarlo a dovere. Era come osservare una macchia indistinta di verde delle più svariate sfumature, bianco e azzurro. Era come guardare la vita che mi scorreva fra le mani, così sfuggevole.
«Ti odio» sussurrai al mio riflesso senza pensare. Il Finder seduto accanto a me mi scoccò un’occhiata, lo vidi dalla sua immagine riflessa dal finestrino, restando però muto.
Stupidi Finder. Non avevo nulla contro di loro, ma solo sentirli accanto a me, solo sapere che erano una palla al piede per la missione –perché lo erano. Erano uomini normali non compatibili con l’innocence- mi metteva addosso una tale ansia. Non volevo proteggere nessuno durante le mie missioni. Volevo solo pensare a portare a termine il mio compito, mentre loro erano solo d’intralcio.
«Il sentimento è reciproco» rispose Yuu, chiudendo con uno schiocco il fascicolo che teneva stretto fra le mani. Con le lunghe dita arrotolò i fogli del rapporto, poi lo infilò con disinvoltura dentro la lunga giacca che faceva parte della sua uniforme.
Non lo degnai di uno sguardo, poggiando le fronte sul finestrino del treno per avere un po’ di sollievo dal caldo che la mia, di divisa, mi provocava. Ancora adesso mi continuavo a domandare perché mi fossi fatta fare dei pantaloni lunghi e stretti, e non una gonna corta come quella di Lenalee, che trattenevano il mio calore corporeo facendomi assomigliare a una stufa; mi chiedevo perché non avessi scelto una semplice canottiera, al posto di una giacca corta e scura che attirava i raggi del sole come mosche al miele.
Sbuffai, creando un alone di condensa sul finestrino.
«Oh, guarda che bel ragazzo.»
«Shhh, Maddy non vorrai che ci senta, e poi ha la ragazza» sussurrò una voce attirando la mia attenzione. I miei occhi corsero sui sedili del treno posizionati accanto ai nostri, due ragazze stavano parlottando tra loro mentre una di queste arrossiva violentemente nell’incontrare il mio sguardo. Inarcai le sopracciglia sorpresa e mi voltai verso Yuu, sempre rigorosamente silenzioso con quella sua espressione indecifrabile in viso.
«Ehy, Yuu.» I suoi occhi blu scuro mi freddarono subito, mentre con un cenno del capo gli indicavo le due ragazze. Lui aggrottò le sopracciglia e si voltò a fissarle, finendo col farle arrossire entrambe.  I loro gridolini sommessi occuparono il mio spazio uditivo quando il ragazzo tornò a fissare davanti a se, me.
Incrociai le braccia al petto e rizzai leggermente le spalle, riducendo gli occhi a due fessure. «Non troverai mai una ragazza se continui a comportarti così, Mr. Codino» gli dissi, per poi poggiarmi con la schiena allo scomodo schienale di pelle blu del vagone.
«Tzk» fu la sua unica risposta, prima che si voltasse e iniziasse a guardare il paesaggio sfuggente dal finestrino. Rimasi a osservare Yuu per qualche tempo, domandandomi cosa lo rendesse così fuggente e riservato, ma rinunciai quasi subito a trovare una risposta.
Yuu era Yuu, ed era fatto a modo suo come io ero fatta a modo mio. Sarebbe stato inutile tentare di capirlo, quando persino i suoi gesti erano calcolati in modo da tenerti all’oscuro di tutto. Chissà se un giorno sarei riuscita a comprenderlo. Lui che era così taciturno… era così simile a me. Chissà che storia aveva alle spalle.
«24» sussurrai, scrocchiano leggermente le nocche. Gli occhi blu del ragazzo mi osservarono taciturni, confusi. «24 è il numero delle persone uccise in una settimana nella Schwarzwald. Che tipo di Akuma potrebbe fare questo? »
«Tutti» soffiò annoiato Yuu, tornando al paesaggio. Chiusi gli occhi e scossi il capo, schioccando con forza la lingua. Non era mai importato neppure a me degli uomini che si impicciavano negli affari dell’organizzazione, che continuavano ad andare contro la morte nonostante tutto; li avevo sempre trovati stupidi. Ma in questo caso… era diverso, era diverso perché quelle 24 vittime erano tutti bambini.
«24» ripetei ancora, spostando lo sguardo verso l’esterno del finestrino «bambini.»
Dal vetro potei vedere Yuu sospirare, estrarre dal lungo soprabito il fascicolo datoci da Komui e sfogliarlo con velocità, per poi bloccarsi a una pagina. «Komui ha denominato il caso: Hänsel und Gretel. Dodici coppie di bambini, tutti provenienti da paesi che costeggiano la Foresta Nera, uccisi e portati fuori dalle porte delle loro case come trofei.»
Mi strinsi un po’ di più le braccia al petto, socchiudendo le palpebre per mettere a fuoco il volto di Yuu riflesso nel vetro. Il suo sguardo era tutto per il fascicolo, e non si stava minimamente accorgendo di avere le labbra socchiuse in una specie di smorfia che lo rendeva più umano, più distante dal suo essere “freddo”.
Rose fremette al mio braccio, portandomi a scattare e metterci una mano sopra. Kanda mi rivolse un’occhiata fugace, inarcando le sopracciglia. Scossi impercettibilmente il capo, stringendo di più Rose.
«Qualcosa non va?» Borbottò Kanda.
«Io… ho bisogno di prendere un po’ d’aria» sussurrai, alzandomi in piedi di fretta e sgusciando fuori dal posto assegnatoci. Non badai neppure alle occhiate che quelle due ragazze mi rifilarono, tanto Rose mi pulsava nel posto.
Mi chiusi alle spalle la porta della cabina e mi lanciai contro la piccola ringhiera che divideva il vagone dal binario. L’aria soffiava attorno a me, alzando in ciocche disordinate i miei capelli neri e facendo danzare la frangia prima composta sulla mia fronte. Chiusi gli occhi e feci respiri profondi, tentando di dimenticare il dolore provocatomi da Rose. Oh, in questi casi avrei voluto prendere la mia innocence e gettarla via, o in borsa magari ma non potevo. Rose era attaccata ai nervi del mio polso e riceveva impulsi dal cervello quando era attiva, per questo aveva le movenze di un serpente, e mi faceva vedere le stelle quando… c’erano Akuma nelle vicinanze.
Aprii gli occhi all’improvviso, guardandomi attorno con circospezione attivando Rose, che subito si arrampicò verso il mio collo e si fermò sull’altra spalla. La mia vista perse colore, mantenendo solo quelli primari. Volteggiai su me stessa in cerca di qualsiasi cosa sospetta. A un tratto, un movimento colse il mio interesse e poi un tonfo. Proveniva dal tetto.
Una smorfia si disegnò sulle mie labbra, l’adrenalina prese a scorrere nel mio corpo. Prima di agire, però, un qualcosa scattò nel mio cervello: avrei dovuto avvertire Yuu? Forse… nah. 
Tirai indietro il braccio destro e lanciai la mia frusta verso l’alto, con tutta la forza che avevo. A qualcosa si sarebbe attorcigliata la mia Rose, no? Le mie preghiere furono esaudite quando, dopo pochi secondi, sentii Rose tendersi in segno di assenso. Saltai sulla piccola ringhiera del vagone e poi mi lanciai verso l’alto, tirando la frusta verso di me in modo da venire slanciata sul tetto della carrozza. Folate di vento forte, molto di più rispetto a prima, mi schiaffeggiarono con cattiveria mentre i caldi raggi del sole tedesco mi scaldarono la pelle.
Feci un passo, attenta a dove mettevo i piedi, poi un altro. Niente. Disattivai l’innocence e mi accigliai, perplessa. A parte il rigoglioso panorama non sembrava esserci altro che la carrozza sotto i miei piedi, il vento che mi pizzicava la pelle provocandomi un po’ di sollievo dal troppo caldo e il cielo sopra la mia testa.
Tic. Tic. Tic.
«Bloody Rose: Spine dell’inferno! » Urlai, voltandomi con velocità. La mia innocence fremette, mentre la pelle nera che la ricopriva si lacerava e, al suo posto, spuntavano borchie affilate e appuntite che brillavano al sole come diamanti. Potevo sentire ogni lacerazione come se fosse stata sulla mia pelle, ogni borchia spuntare sulla mia innocence come se stesse trafiggendo la mia carne. Perché i tipi parassita erano così dolorosi? Repressi una smorfia e strinsi i denti, mentre la mia innocence si andava a scontrare con… il piatto di una spada.
«Yuu?» Abbassai il braccio, ricevendo in cambio un occhiata folgorante dal mio compagno di missione. I suoi occhi si ridussero a due fessure mentre Rose si ritirava per tornare un bracciale e lui riponeva Mugen nel fodero.
«Ma sei impazzita!? Volevi farmi fuori!?» Sbraitò, animando la conversazione con gesti più che eloquenti.
Incrociai le braccia al petto, iniziando a battere un piede sul tetto del vagone. «Tzé. Al massimo avrei potuto graffiarti la faccia, Kanda. Dopo tutto, sei veloce.»
«Tzk.» Voltò il viso verso la foresta che stavamo affiancando e vi impresse un’espressione gelida. I lunghi capelli neri schioccavano nel vento come i miei, animando le folate di suoni diversi dai loro sibili. «Scendiamo» ordinò.
Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi, ma non smisi di battere il piede sul tetto. Ma era diventato scemo tutto insieme?
«E le valigette? I rapporti?» Chiesi, alzando la voce per sovrastare un fischio del treno.
«Il Finder si occuperà di tutto, ora dobbiamo andare. Prima ci addentriamo nella foresta, prima troviamo quel dannato Akuma e l’innocence, prima torniamo alla home» spiegò annoiato, come se tutto quello fosse ovvio.
«E come ci arriviamo nella foresta?! Il treno viaggia a…»
«La tua frusta, usiamo quella dannata innocence. Può arrivare a grandi distanze, vero? Gioca a fare la scimmia come sempre e attaccala a un ramo» borbottò esasperato, come se anche quel piano fosse ovvio. «Muoviti» ordinò, venendo nella mia direzione e passando una mano attorno ai miei fianchi. «Ormai stiamo uscendo dalla foresta.»
Inarcai le sopracciglia e poggiai una mano sul petto di Yuu, allontanandolo da me. «Woooho, codino boy, che stai facendo?»
Lui fece una smorfia e alzò gli occhi al cielo. «Non lo faccio perché mi piaci» chiarì, «ma perché è il modo migliore per non cadere. Cosa credevi, che ti avrei dato la mano per intraprendere un volo di non so quanti metri da un treno in corsa a un albero, con il rischio di cadere? Tzk.» Beh, come ragionamento non faceva una piega. Tutta via, detestavo essere toccata da qualcuno; solo sentire il calore del loro corpo mi faceva tornare alla mente quell’incendio, le mie ustioni.
Ma non potevo tirarmi indietro. Pregai che il Finder fosse a conoscenza delle intenzioni di Yuu, quando gli passai a mia volta un braccio dietro alla schiena e attivai l’innocence.
«Sei disgustosa con l’innocence attivata. Sembri un demonio, detesto i tuoi occhi» borbottò il ragazzo.
«Beh, tu sei orribile anche senza innocence» ribattei, lanciando Rose verso uno degli alberi più vicini. Rafforzai la presa sul ragazzo e insieme prendemmo la rincorsa e ci lanciammo dal treno, abbandonandoci alla sorte.
Le braccia di Yuu strinsero la mia schiena con forza. Che avesse paura delle altezze? No, più probabilmente aveva paura che l’avrei fatto cadere. E l’avrei fatto davvero pur di non dover sentire le sue mani, il suo sguardo critico su di me. Detestavo il contatto umano, e anche Kanda a quanto ricordavo. Gli rivolsi uno sguardo indagatore, alzando un sopracciglio mentre esaminavo il suo profilo apparentemente perfetto. Perché mai avevamo deciso di scendere così dal treno?, mi chiesi. La stazione era vicina e in più avevamo abbandonato Finder e bagagli nella carrozza, e la cosa non era da Yuu. Lui, a quanto ricordavo dalle missioni che avevamo fatto con Lenalee, si portava sempre dietro la valigetta con il Golem per registrare ogni cosa. Eppure oggi no. Che cosa strana.
Quando atterrammo Kanda lasciò la presa troppo presto e si ritrovò sdraiato sul tronco, penzolante verso terra. Per la seconda volta, il mio unico pensiero fu: che cosa strana, lui ha sempre avuto un perfetto equilibrio.
«Alzati, Yuu: prima troviamo l’Akuma e l’Innocence, prima torniamo alla home. L’hai detto tu. Non abbiamo tempo da perdere, poltrone» lo schernii, curiosa della sua reazione.
Il ragazzo si alzò, leggermente trafelato dallo sforzo e il colpo ricevuto contro il ramo dell’albero, si spazzò via lo sporco dalla divisa e mi lanciò uno sguardo di fuoco. Non disse nulla del fatto che l’avevo chiamato per nome, cosa che di solito lo mandava sui nervi con facilità. Affilai lo sguardo mentre lui  si voltava, preparandosi a saltare giù dal ramo sul quale eravamo. Ai miei occhi, ancora in preda all’innocence, il suo calore corporeo sembrava altissimo; perché non l’avevo notato prima?
«Tzk» borbottò, prima di saltare.
Chi sei tu?
 
 
Dentro la Foresta Nera i raggi del sole passavano a spicchi tra le alte fronde degli alberi sempre verdi, e si gettavano sul sottobosco creando lame di luce calda. Camminavamo da quasi un’ora ormai e nessuno dei due aveva spiccicato parola, eravamo rimasti muti ad ascoltare la natura che ci circondava.
«Ehy, Yuu» sussurrai, ormai stufa di sentire Rose vibrare al mio polso, farmi continuamente male. Non aveva smesso di farmene da quando ero salita sul tetto del vagone. «Qualcosa non va.»
«Cosa? Akuma? Io non sento nulla.» Domandò, senza neppure voltarsi. Eppure, me lo sentivo nella pancia che qualcosa non andava. Non avevamo incontrato ancora nessun’akuma, nessun segno di innocence.
Non avremmo dovuto saltare giù dal treno così, perché mai gli avevo dato retta? Stupida. Stupida, stupida stupida!
Gettai un’ultima occhiata a Yuu: solite spalle, solito portamento, solita capigliatura eppure… anche in lui c’era qualcosa che non andava. C’era come un’aura anomala che gli ronzava attorno; e poi non mi aveva ancora ripreso per averlo chiamato per nome. Alzai il mio viso verso l’alto quando entrai nella scia di un raggio di sole e mi bloccai: qualcosa stava oscurando le nuvole. Qualcosa come… fumo. Fumo uguale fuoco.
Fuoco.
Sbarrai gli occhi spaventata. Fuoco. Odiavo il fuoco, detestavo il fumo che lo precedeva. Tutte quelle fiamme, tutto quel calore, tutta quella distruzione. Così, mentre Kanda procedeva con la sua camminata io restavo ferma al centro di un fascio di luce a osservare una nube di fumo innalzarsi verso l’alto sempre di più, sempre più vicina finché non udii il suono delle fiamme che corrodono gli alberi. Li divorano.
Vidi le fiamme avvicinarsi, sentii il calore iniziare a riscaldarmi la pelle e i vestiti. Socchiusi le labbra, mentre Rose riprendeva a vibrare con talmente tanta forza che mi sembrava avesse intenzione di staccarmi un braccio. Indietreggiai, portandomi il polso al petto e stringendolo; arrivando persino a conficcarmi le unghie nella pelle per tentare di scarnificarla e togliere l’innocence.
«Trovata» sussurrò una voce al mio orecchio, una di quelle che conoscevo bene ma che, ormai l’avevo capito, non era di chi mi aspettavo. Che giro aveva fatto, quell’akuma?
Presi un profondo respiro, tentando di dimenticarmi delle fiamme e delle loro lingue di fuoco che correvano verso di noi -Dio, com’era difficile!- e mi voltai.
«Muoviti! Non voglio bruciare vivo» gridò Kanda, allungando una mano ed afferrandomi il polso buono. Provò a muoversi ma io rimasi ferma immobile, ricevendo un’occhiata di fuoco.
«Ehy, posso chiederti una cosa? » Sussurrai.
«Si.» Rispose lui, stringendo un poco la presa delle sue dita. L’aveva capito.
Soffiai fuori un mezzo sospiro e scossi il capo, attivando l’innocence.  «Da quando hai preso il posto del vero Kanda?»
L’essere sorrise, alzando lo sguardo verso l’alto, contemplando le volute di fumo grigio. «Come l’hai capito?» La sua voce subì un brutto cambiamento nel mezzo della frase, passando dal tono basso della voce di Yuu ad un alta e squillante.
«Troppi errori, fai schifo nel recitare» lo schernii, facendo un passo indietro. «Chissà lo fai anche nel combattimento. Ah, ti ucciderò e poi prenderò l’innocence che stai cercando»
«Ho già l’innocence, exsorcissssta. L’aveva trovata uno dei bambini che ho uccisssso; e ora non mi rimane che uccidere te» sibilò lui, abbassando il viso verso di me. Inorridii dentro, mentre i miei occhi si poggiavano sul suo viso verde e coriaceo, che ricordava quello di un serpente con quegli occhi verdi pisello dalla pupilla stretta. Fece scrocchiare malamente il collo e poi portò le mani al petto aprendovi uno squarcio e mostrandomi la sua vera forma. Metà serpente e metà lucertola, un’umanoide dai tratti di un rettile. «Fatti sotto, piccola exsorcissssta. Ti divorerò come ho fatto con quei bambini, e prenderò la tua innocence.»
«Sei orribile e crudele» lo schernii, attivando Rose e schioccando subito una frustata al suo viso. «Morirai prima di potermi toccare.»
Alzai il braccio verso l’alto e la mia innocence si attorcigliò ad un ramo, tirandomi su. Dovevo elaborare un piano d’attacco in fretta. Molto in fretta. Inizia a spremermi le meningi, mentre le urla della macchina del Conte del Millennio, più in basso, gridava per il dolore dell’occhio appena perso. Cosa potevo fare? L’unica opportunità che avevo era attaccarlo dall’alto, con velocità senza lasciargli il tempo di controbattere oppure… bruciarlo vivo. Ma quello avrebbe significato andare incontro al fuoco e io… io non volevo. No. Non mi sarei avvicinata al fuoco.
 Intanto, l’akuma, appena ripresosi dal colpo subito, mi osservò con i suoi occhi da rettile e prese la rincorsa lanciandosi verso il tronco del pino. Mi aggrappai al mio appoggio, mentre l’albero veniva scosso da brutte e violente onde.
«Cazzo» ringhiai sottovoce, guardandomi attorno. Ormai il fumo dell’incendio cominciava a oscurare la foresta attorno a noi, e la luce non riusciva a passare quello strato grigio e spesso. L’aria iniziava a diventare insopportabile per i polmoni. Ero in trappola, non avevo chance di attaccarlo dall’alto, dovevo passare all’attacco diretto.
«Exsorcistaaaa!» Urlò con la voce acuto l’essere. «Combattiii!»
Sospirai e mi passai una mano sul volto. Dovevo vincere, non solo per me ma anche per quei bambini morti (e per dimostrare al vero Yuu che io potevo portare a termine qualsiasi missione anche da sola!).
Andiamo, mi dissi.
Saltai giù dall’albero e atterrai sopra l’akuma, colpendolo con forza con Rose, per poi venire sbalzata contro l’albero.
 Mossa affrettata. Mossa affrettata.
«Exssssorcista, sei mia!»
Alzai gli occhi verso il fumo che mi galleggiava davanti e: «Bloody Rose: spine dell’inferno!» L’innocence sparì nella foschia, la sentii legarsi attorno a qualcosa e stringere, e tintinnare sonoramente. Forse gli avevo rotto i denti. Esultai, alzandomi in piedi e tirando la frusta verso di me poi, quando vidi la sagoma avvicinarsi sferrai un pugno, colpendo in piena faccia il mio avversario.
«Baka Moyashi! Che diamine stai facendo!?» Yuu mi guardò come se fossi il diavolo in terra, mentre si accarezzava la mascella dolorante.
«Yuu!» Feci un passo verso di lui, circospetta, spegnendo la mia innocence. Mi tremavano le mani, più per la tensione che per la paura di scoprire che in realtà quel tipo non era Kanda bensì l’akuma.
«Non chiamarmi Yuu, Baka!» Ululò, e io sentii come se un peso dal petto mi venisse tolto. Era quello vero. L’unico e l’originale.
«Oddio, sei davvero tu. Sei qu…» Una coda mi colpì su un fianco, scaraventandomi contro uno dei tanti alberi lontani dal mio compagno. Colpii malamente un tronco, accasciandomi al suolo.
«Baka» strillò Kanda, impugnando Mugen e, ceco contro la foschia grigia, iniziando a parare fendenti alla ceca a destra e a manca.
Sbattei le palpebre, alzandomi nuovamente in piedi. Mi ero fatta battere da un gioco di ombre, avevo abbassato la guardia non appena avevo riconosciuto qualcuno a me famigliare e… Kanda mi volò accanto, schiantandosi di schiena contro il mio petto e schiacciandomi nuovamente contro la corteccia. Imprecai ad alta voce e lo spostai con sgarbo, attivando la mia innocence.
«Dimagrisci, pesi come un piombo» gli strillai contro, mentre con lo sguardo tentavo di captare la presenza di calore. Vedevo solo quello di Yuu.
«Dietro di te!» Gridai a un tratto, individuando con la coda dell’occhio un movimento colorato. Il samurai fece una mezza piroetta e affondò Mugen nel collo dell’essere, sollevandolo un aria e gettandolo davanti a me. Fece per togliere la spada e lasciare aperta la ferita, in modo che l’akuma esplodesse, ma lo fermai.
«Dov’è l’innocence?» Sibilai, facendo scorrere Rose sul suo copro; le borchie ancora presenti graffiavano la sua pelle in profondità causandogli urli di dolore lanciante.
Però, il serpente-lucertola rise, spuntando sangue nero dalle labbra. Alzò un braccio e indicò le fiamme che ardevano vivide appena dietro di noi. «Li dentro» soffiò.
«Non prendermi in giro! Dove hai messo l’innocence?!» Domandai nuovamente alterata, e la mia frusta andò a stringergli la testa, affondando nel cranio. Non volevo accettare una verità così scomoda. No.
L’essere gridò dolorante, ma poi riprese a ridere di gusto. «Il mio nasssscondiglio, è la dentro. Buona fortuna, Hänsel und Gretel.»
«Crepa!» Urlai carica di frustrazione, e come la mia voce si diffuse nell’aria impregnata di fumo Rose scattò: la presa sul cranio dell’essere si fece talmente forte da spappolarlo come fosse stata un’arancia e nulla di più. Il sangue schizzò sui miei vestiti a gocce, corrodendone la stoffa in vari punti.
«Ma sei impazzita? Ora esploderà! Muoviti a metterti dietro di me, oppure finirai arrostita» Abbaiò Kanda, levando Mugen dal corpo dell’essere e infilzandola a terra. Sbuffai scocciata mentre mi posizionavo dietro di lui, sedendomi a terra e dandogli la schiena.
In realtà dentro stavo morendo di terrore, ma non volevo darlo a vedere. Le fiamme; il fuoco; il calore erano le cose che tormentavano i miei incubi da tre anni a questa parte.
L’esplosione causata dalla sparizione dell’akuma mosse la terra con forza, costringendomi ad affondare le mani nel terreno del sottobosco molliccio e fangoso ma, come cosa positiva, spazzò via la maggior parte del fumo causata dalle fiamme.
 
 
«Torna indietro, Baka!» Le grida di Yuu rimbombavano nella foresta, mentre io continuavo ad andare verso l’unica direzione da cui ancora proveniva qualche spiraglio di luce.
Non volevo tornare verso le fiamme, anche se questo significava che non avrei trovato l’innocence. Avrei aspettato che l’incendio si fosse spento, poi sarei tornata e avrei preso quel frammento, che in futuro avrebbe rovinato la vita di qualcuno.
«Baka, fermati!» Le dita di Yuu si strinsero attorno alla mia spalla con forza, facendomi voltare verso di lui e i suoi occhi blu. Sembrava così arrabbiato, e le fiamme dietro di lui sembravano messe li apposta.
«Baka sarai tu, stupida Kanda! Lasciamo che il fuoco si plachi e poi torniamo a prendere l’innocence; tentare di prenderla con tutto questo fuo…»
«Muovi il culo e andiamo a cercare quella dannata innocence! Non ho intenzione di lasciarla prendere a qualche stupido akuma, solo perché tu hai paura del fuoco!»
Come faceva a sapere che aveva paura del fuoco? Lui non avrebbe dovuto saperlo. Nessuno doveva sapere che io avevo paura del fuoco, avrei perso la mia credibilità di persona forte e indipendente. Sarei sembrata troppo… umana.
«Io non ho paura del fuoco, Ba-Kanda!» Sbraitai, togliendomi la sua mano di dosso con uno schiaffo. Lui sbatté le palpebre sorpreso, mentre mi dirigevo verso l’incendio.
Man mano che andavo avanti mi pentivo del mio brutto carattere. Perché dovevo essere così orgogliosa? Perché non dirgli della mia paura per le fiamme? Sospirai scocciata, mentre facevo un altro passo avanti.
Le fiamme ardevano davanti a me, divorando le ultime carcasse degli alberi che gli sbarravano la strada. Il calore mi si schiacciava in faccia, facendomi ardere la pelle come se dovesse realmente prendere fuoco. Mi pentii della mia scelta all’istante, tradendo la mia cocciutaggine facendo un passo indietro.
Ma se mi tiro indietro, mi dissi, Yuu crederà che ho davvero paura del fuoco.
«Ehy, Mr. Codino non è che la tua spada magica può aprirci una strada tra le fiamme? Non ho intenzione di abbronzarmi prima del tempo.» Voltai la testa verso Kanda, che mi aveva affiancato poco prima, e lo vidi scuotere leggermente il capo, come se fosse esasperato.
 
 
«Sei uno stupido deficiente!» Strillai a Kanda in mezzo alla hall della Home, quando degli infermieri ci caricarono su due barelle. «Portiamo a termine la missione, hai detto! Non lascerò che qualche akuma si prenda la nostra innocence, hai detto. Mugen ci proteggerà tutti e due dalle fiamme, HAI DETTO!» Gli puntai contro la mia mano sinistra, ustionata a causa delle fiamme ma ancora chiusa a pugno sul pezzo di innocence che avevamo recuperato.
La capo infermiera mi lanciò un’occhiata in tralice, costringendomi a zittirmi. Mi ripoggiai al lettino con la schiena, borbottando parolacce sottovoce mentre il dolore mi accarezzava schiena e braccio. Maledii con tutta me stessa Yuu, anche se alla fine non era stata colpa sua se ero finita così: avevamo trovato l’innocence nascosta in un tronco d’albero e Kanda aveva mandato me a prenderla mentre, schiena contro schiena, lui teneva lontane le fiamme con Mugen. L’avevo già stretta fra le dita quando l’albero era crollato, seppellendomi sotto il suo peso e incendiando la mia divisa, ustionandomi. Allora mi ero fatta prendere dal panico, non ero nemmeno riuscita ad attivare la mia innocence. Mi ero limitata a gridare spaventata, dolorante a causa del bruciore sulla pelle e del ribrezzo nel sentirla sfrigolare sotto quel troppo calore. Allora Kanda si era voltato sentendomi urlare, mi aveva chiamata e poi vista, si era distratto e allora le fiamme l’avevano colpito al torace. Tutta via era stato più svelto di me, che ero bloccata sotto il tronco dell’albero in fiamme. Mi aveva persino salvata… Oh, non aveva senso prendersela con lui anche se avrei voluto tanto. L’unica responsabile ero io!
Ah, che vergogna! Essere salvata come una bambina indifesa! Baka, baka, bakaaaaa!
Era stata solo colpa mia. Avevo esitato nell’avvicinare la mano all’albero, se non l’avessi fatto, se la mia paura non mi avesse bloccata in quell’istante… probabilmente ora non saremmo stati sdraiati su delle brande dirette in infermeria.
«Ehyyyy, YUUUUUU, EVANGELINEEEEEEEEE!» Entrambi ci voltammo verso la scalinata dalla quale era venuto il richiamo. Strabuzzai gli occhi nel vedere una testa rossa che correva verso di noi, seguito da Komui e Lenalee.
«Ti prego, dimmi che non è Lavi» sussurrai a Kanda, che aveva riportato lo sguardo verso l’alto.
«Tzk, non lo farò» ribatté lui, chiudendo gli occhi.
«Yuuuu!» Bookman Junior sorrise all’esorcista, rifilandogli una pacca sull’unica parte della spalla ustionata. Kanda socchiuse le labbra in un muto grido, mentre Lavi veniva da me.
Repressi una risata, mentre Kanda mi rivolse un’occhiataccia. Lavi mi oscurò la vista del samurai, appoggiandosi con i gomiti alla barella, vicino alle mie spalle. Mi sorrise gentilmente, accennando ad accarezzarmi i capelli rovinati dalle fiamme.
«Evapora» sibilai, voltando il viso dall’altra parte. Non odiavo Lavi, affatto; era uno dei pochi esorcisti che avevo preso in simpatia, però ogni tanto si prendeva troppe confidenze.
«Sei crudele, Eve-chan!» Esclamò, allungandosi verso il mio viso. Il suo unico occhio verde mi guardò implorante, mentre io tentavo di ignorarlo. Com’era cocciuto; dopo tutto questo tempo ancora non aveva capito che il contatto umano io proprio non lo sopportavo, e neppure quel soprannome!
Prima che potessi rimbattere, Komui apparve accanto a Lavi e gli posò una mano sulla spalla. «Su su Lavi, lascia stare Evangeline. Ha passato una brutta settimana, le serve riposo.» Bookman Jr. sospirò rassegnato, mi sorrise e poi si voltò verso Yuu.
«Ehy ehy ehy YUUUUUUUU!» Rise prima di partire all’attacco anche con lui. L’osservai allontanarsi, tirando un sospiro di sollievo.
«Come stai, Evangeline?» Domandò Komui, parandosi davanti alla mia vista in modo da nascondere la nostra conversazione a tutti gli altri. Intanto da dietro la sua schiena provenivano gli schiamazzi di Lavi, le risate di Lenalee e i borbottii di Kanda. Era il rumore di casa.
Chiusi gli occhi e risposi: «Ho preso la tua stupida innocence, quindi credo vada bene.» Allungai il braccio ustionato verso di lui e aprii finalmente il pugno, rivelando al suo interno il frammento di innocence. L’uomo la prese con gentilezza, attento a non farmi male, ma scosse il capo.
«Hai capito il senso della mia domanda, si?» Sussurrò, abbassandosi un pochino. I suoi occhi neri, di qualche tonalità più chiari dei miei, scintillarono di autorevolezza. «Buttarsi così in mezzo alle fiamme… Eve, questa cosa è stata irrazionale e stupida. E poi, pensavo che tu avessi pau…»
«Zitto.» Lo bloccai io, facendogli segno di tacere. Komui era l’unico a sapere della mia paura, forse perché anni fa, in un momento di debolezza personale, gliene avevo parlato. «Kanda mi ha spinto a farlo, e siccome eravamo una squadra non potevo lasciarlo solo» sussurrai, attenta a non farmi sentire da nessuno. «Camminare in mezzo a quelle fiamme mi ha fatto venire la pelle d’oca. Ho avuto paura, Komui.»
«Capisco» sorrise appena, accarezzandomi con modo fraterno una ciocca di capelli ormai bruciata. Non lo ripresi, perché stranamente quel gesto –fatto da lui, e lui solo-mi infuse calma. Il Supervisore era come uno di famiglia, per me. Komui era come mio fratello, perché lui mi aveva sempre tratta come una sorella. «Mi spiace per i tuoi capelli.»
«Li taglierò, non è un problema.» I nostri occhi s’incrociarono e scorsi una piccola lacrima solcare la sua guancia. Povero Komui, dovevo proprio averlo messo in pensiero. «Ho sempre voluto provare un taglio corto; anche mamma l’aveva.»

 
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Isil: Hola, hola, hooooola #SventolaLaManina Allora, innanzi tutto grazie a Lady Red Moon, che è stata la prima a recensire la storia (sto costruendo la statuetta d’oro, non l’ho dimenticato), GiulyRabePro (Ho adorato la vostra simpaticissima recensione :3)  e KH4, per le recensioni appunto.
Evangeline: Ti odio.
Isil: Uh, sei già arrivata?!
Kanda: Il sentimento è reciproco, Baka.
Evangeline: Baka a chi?! Ba-kanda!
Lavi: Uhhhhh… mi piace quando siete così attivi.
Isil: Oh signore #EsasperazioneTime Ormai ci rinuncio, con voi è inutile.
Lenalee: Isil-sama, perché non andate a riposarvi? Ci pensiamo io e mio fratello ad andare avanti.
Isil: Oh, Lenalee mi salvi la vita. La scuola mi sta uccidendo. Buona notte.
Lenalee: Buona notte, Isil sama. Allora…
Lavi: FERMATI LENALEEEE! Ci penso io, oggi! Alloooorrrraaaa, la domanda che tutti qui si fanno, ma che non si decidono a dire perché non trovano il  momento giusto è: PERCHE’ EVE SI FA CHIAMARE EVE DA KOMUI E NON DA ME T.T?  Che ne avete pensato del capitolo?
Kanda: Tzk, logicamente non è piaciuto. Quella è stata un peso per tutto il viaggio.
Evangeline: Io e te ci siamo incontrati solo all’ultimo, ed è stata colpa tua se siamo finiti in ospedale, Ba-Kanda!
Kanda: Baka Moyashi!
Lenalee: Bene bene, per ora abbiamo finito. E’ tardi e siamo tutti stanchi. Vi auguriamo una buona settimana e ritorno/andata a scuola.
Lavi: Esatto! Così, mentre noi salviamo il mondo e tentiamo di dare una risposta alla mia domanda  voi divertitevi sui banchi. Nuovo anno nuove sfide.
Komui: Oddio, sono in ritardo!
Lenalee: Fai ancora in tempo per i saluti, Onii-san.
Komui: Allora #Fiatone: buona scuola, caro lettore/lettrice. Non dimenticare di farci sapere cosa ne pensi di questo capitolo. Alla prossima.
Evangeline: Tanto non tornano, questi capitoli fanno cagare.
Kanda: Tzk, non per nulla sei tu la protagonista.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Allen Walker. ***


Vi preghiamo di leggere le N.d.a alla fine del capitolo.
 

Capitolo 3. 



Allen Walker.


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I HATE YOU.
 


Le fiamme stavano crepitando attorno a me, colorando di tinte accese la notte estiva. In lontananza una casa stava prendendo fuoco, ardendo con fragore. Delle grida attirarono la mia attenzione. Un uomo uscì dalla costruzione, stringendosi al petto una bambina. Socchiusi le labbra, tentando di fare qualche passo in avanti verso di loro; dovevo aiutarli, tutti. C’era ancora qualcuno nella casa, le loro grida arrivavano fino a dove stavo io.  
Feci un passo in avanti e… mi ritrovai fra le mura brucianti della costruzione. Attorno a me c’erano solo fuoco, cenere e fumo. Così tanto fumo. Tossii e mi voltai: da dove mi trovavo potevo vedere, anche se erano già lontani, i visi dei due usciti dalla casa. Quello dell’uomo era così serio, così maturo. I lunghi capelli rossi che gli scendevano sulle spalle parevano un avvertimento per chi gli stava intorno: “io porto guai.”
Allungai un braccio verso di lui non appena lo riconobbi, inalando fumo nel tentativo di riempirmi i polmoni d’aria.
«Maestrooooo!» Gridai con tutta me stessa, prima che una trave infuocata mi cadesse addosso.
 
Mi svegliai con l’adrenalina che scorreva nel mio corpo, mettendomi a sedere con il cuore che batteva a mille. Le coperte che mi coprivano il busto scivolarono sulle mie gambe, lasciando allo scoperto le fasciature macchiate di sangue che mi ricoprivano completamente il torace e il braccio sinistro. Mi portai una mano al petto, facendola salire fino al viso per spostare indietro i capelli appiccicati alle tempie e alla fronte dal sudore. Era stato un sogno così realistico.
«Ancora quel sogno?»
Sobbalzai, colta alla sprovvista, e mi voltai verso la sedia che sostava accanto al mio letto. Seduto li, con le lunghe gambe incrociate e un giornale fra le mani, Komui mi osservava da dietro le lenti dei suoi occhiali. Contro luce i suoi occhi neri sembravano risplendere di una strana luce.
«Da quanto sei qui?» Chiesi, rigettandomi a peso morto sul materasso alle mie spalle; la schiena mi lanciò una stilettata di dolore che accusai con un smorfia, mentre mi sistemavo meglio sotto le coperte.
«Da quando la tua infermiera mi ha chiamato dicendomi che stavi gridando nel sonno. Più o meno mezz’ora fa» rispose controllando sull’orologio, per poi tornare a leggere il giornale.
«Tzé, non potevi svegliarmi?» Gracchiai, per poi tossire violentemente. Mi misi di lato e gettai la testa oltre il materasso, colpendomi ripetutamente il petto finché la tosse non cessò.
Komui, che fino a quel momento mi aveva tenuta per le spalle con una presa rigida, sembrò rilassarsi e mi lasciò andare. Tornai a osservare il soffitto, con i polmoni doloranti. Da quando ero tornata non mi avevano fatta muovere dall’infermeria; “sei troppo grave”, dicevano continuamente, “hai bisogno di riposo.” E purtroppo, mi costava molto ammetterlo, avevano ragione. Avevo respirato così tanto fumo in quella foresta che ancora adesso, dopo tre giorni dal mio rientro, lo tossivo fuori. Ero affumicata.
«Ah, guardami: sedici anni e già sono ridotta uno straccio. Già la vita di un tipo parassita è corta, se vado avanti così morirò prima del tempo. Poco male, no Komui? Più cibo per gli altri e meno lavoro per Jerry.»
«Non dirlo neanche per scherzo!» L’uomo scattò verso di me e mi puntò un dito contro. Nei suoi occhi ardeva la rabbia mista a delusione e, forse, persino tristezza. Sapevo che Komui non approvava le mie idee sulla vita ma… perché aveva sempre quella scintilla di tristezza negli occhi? Mi faceva sempre sentire in colpa, quel dannato uomo che non accettava la verità sul mio conto.
 Tutti sapevamo che avrei vissuto molto meno degli altri, allora perché arrabbiarsi tanto? Perché continuare a dire “non pensarci!” quando la verità e il mio futuro mi stavano davanti, brillando come insegne luminose? Perché preoccuparsi tanto di me?
«La tua vita è importante, Evangeline! Non scherzarci sopra come se nulla fosse!» Sbraitò lui, gettando il proprio braccio lungo il fianco coperto dal lungo camice bianco.  
Ogni tanto mi domandavo perché dannazione si preoccupasse tanto per me. Komui aveva così tanto da fare e poi c’era Lenalee di cui occuparsi, io non avrei dovuto contare niente per lui.
Scossi il capo, per poi fermarmi ad osservare il fratello di Lenalee. Con un gesto stanco della mano gli intimai di sedersi, poi gli sorrisi appena. Ero talmente strafatta di morfina che ogni gesto che facevo era stancante. Odiavo la morfina.
«Ascolta Komui» sussurrai stancamente «non agitarti tanto. Stavo solo scherzando, è logico che mi importa della mia vita.» Gli sorrisi leggermente, giusto per addolcire quella bugia. Non mi piaceva mentire a Komui, perché lui non lo faceva mai con me, ma era necessario farlo ogni tanto; specialmente in queste situazioni. A me non interessava della mia vita, per nulla. L’unica cosa di cui m’importava era la vita di Lenalee, e la sua salvezza.
Alzai gli occhi al cielo quando la mia testa prese a girare. Capendo che la medicina iniziava a fare davvero effetto e decisi di nascondere le braccia sotto le coperte per staccare la flebo della morfina. Stupida morfina, stupide infermiere che mi avevano agganciato quella flebo alle braccia. Con tutta la calma possibile, mordendomi le guance per trattenere i mugolii di fastidio, estrassi gli aghi dalla mia pelle. Immediatamente sentii il materasso iniziare a bagnarsi di morfina, e la testa calmarsi dai giramenti. Non avevo alcuna intenzione di riaddormentarmi, se l’avessi fatto magari avrei nuovamente fatto quel sogno… e non l’avrei sopportato. 
«Evangeline» mormorò lui, con quel fare fraterno che usava di solito per addolcire Lenalee in quelle sue poche giornate no.
«Ehi, Komui» mi affrettai a dire io, capendo già che il discorso che avrebbe iniziato dopo quel: “Ehi, Evangeline”,  detto in modo tanto smielato, sarebbe gravato sulle prossime missioni che avrei dovuto saltare. «Sai, la dottoressa ha detto che mi rimarranno le cicatrici» sospirai, mostrandogli con noncuranza il braccio sinistro. «Secondo te mi doneranno?» Domandai, sorridendogli un poco.
Il giovane uomo sussultò appena, allungando una mano verso la mia e circondandola con le sue dita lunghe. Non mi opposi a quel gesto, sarebbe stato inutile e scortese, e lasciai che Komui mi stringesse la mano e che il suo calore passasse attraverso le bende. Con delicatezza l’uomo spostò la sedia in avanti, in modo da poter appoggiare comodamente i gomiti sul materasso del mio letto e si portò la mia mano alle labbra depositandovi un piccolo bacio. Per quanto fossi una che detestava il contatto fisico, mi rilassai sentendo il calore di Komui contro la mia pelle. Espirai a fondo e poi trassi un bel respiro, infine dissi: «Non pensi che sembrerò ancora più cattiva così? Gli akuma mi temerebbero di più se avessi qualche bella cicatrice.»
Il suo sguardo si addolcì un poco, conservando però al suo interno quella nota di amarezza che aveva avuto sin dall’inizio. «Ah, non penso che tu sembri cattiva, magari un po’ inquietante, ecco. Si, inquietante è il termine giusto» scherzò lui, ridendo un poco. «E, per quanto possa contare per te la mia opinione, trovo che gli akuma siano già tutti spaventati da te e la tua innocence» aggiunse, tirandosi di più gli occhiali sul naso.
Gli sorrisi, togliendo la mia mano dalla sua stretta e sistemandomi meglio sotto le coperte. La morfina iniziava a lambirmi le gambe, facendomele sentire appiccicose. Dovevo trovare un modo per toglierla da li e magari, già che c’ero, anche uno per svignarmela. Così, mentre Komui si versava dell’altro caffè nella tazza pensai a un diversivo qualsiasi che potesse funzionare. Alla fine la trovai: una scusa banale e non troppo difficile da far ingoiare a Komui.
Socchiusi leggermente le palpebre, sospirando. «Mi stanno riempiendo di morfina, Komui, tra poco inizierò a sparare cavolate a raffica.» Fa che beva questa bugia.
«Capisco. Allora ti lascio riposare, Evangeline» mi confermò, leggendo fra le righe della mia finta domanda. Gli sorrisi nuovamente, chiudendo le palpebre. Sentii il peso dei suoi gomiti diminuire, finché non fu scomparso dal letto; allora mi concentrai sui suoi passi, prima vicini poi sempre più lontani.
«Sei un anf…anfelo» balbettai, coricandomi sotto le coperte.
«Buon riposo Eve» mormorò da dietro la tenda, facendomi risucchiare le guance dentro la bocca. Tzk, come odiavo quel soprannome. Sapeva così di casa, di famiglia.
Attesi ancora qualche minuto, giusto per accertarmi che l’infermeria fosse libera, poi scalciai le coperte lontano e mi alzai.
 
«Possiamo fare i pantaloni bianchi?» Domandai, allungandomi sopra il bancone su cui Johnny stava lavorando.
Il ragazzo fece girare la matita fra le lunga dita, con un sorriso stampato sulle labbra che ricordava quello di un maniaco e, con un veloce movimento di polso, scrisse sopra i pantaloni indossati dal disegno una bella “W” (WHITE.)
Sorrisi leggermente, portandomi la mano bendata sotto il mento, mentre con l’altra andava a poggiarsi sul mio fianco libero. Osservai la bozza di disegno che avevo davanti con occhio critico, ripercorsi con lo sguardo il profilo degli stivali alti e scuri, le cuciture che sarebbero state sui pantaloni, la corta giacca nera con sopra lo stemma dell’ordine. Era davvero ben fatta, Johnny era un mago del disegno, eppure mancava qualcosa. Diedi un piccolo colpo d’anca alla spalla di Johnny, che seduto arrivava al mio bacino, e gli indicai il petto del disegno. I suoi piccoli occhi lo analizzarono a loro volta da dietro le enormi e rotonde lenti degli occhiali.
«Neh, dimmi un po’ cervellone, che ci mettiamo sotto la giacca è? Vuoi lasciarmi andare in giro nuda?» Borbottai, facendogli notare che non avevo neppure un misero filo di tessuto sotto quell’indumento.
Il riccio arrossì, colto alla sprovvista dalla mia osservazione, e prese a tracciare di lato alla figura una canottiera lunga e, all’apparenza, comoda.
Abbassai il viso nella direzione dello scienziato e gli feci l’occhiolino, allontanandomi dal profilo dello schienale della sua sedia, su cui ero stata appoggiata fino a quel momento. Scrocchiai le nocche, provocandomi onde di dolore che si percossero per tutto il mio corpo, poi voltai le spalle alla sezione scientifica e mi avviai verso l’uscita.
Sull’uscio della sezione scientifica incrociai Reever, lo sguardo assonnato e i capelli biondi scompigliati. Povero Caposezione, da quando ero entrata nell’ordine non avevo fatto altro che vederlo lavorare dalla mattina alla sera –e cercare di farlo fare anche a Komui. Mi aveva sempre fatto tanta pena, Reever.
«Evangeline! Cosa ci fai qui?!» esclamò lui, sorpreso di vedermi gironzolare per il laboratorio. In realtà potevo capire benissimo il suo stupore: non ero un tipo di ragazza a cui piaceva la scienza, perciò passavo la maggior parte del tempo in palestra ad allenarmi con Rose.
«Wenhamm, ciao a te» borbottai.
«Evangeline, ma cosa ci fai qui? Non dovresti essere in infermeria? Le tue ferite…» Ed ecco che qualcun altro tornava a preoccuparsi per la mia salute. Proprio non li capivo, questi qui. Perché si preoccupavano, o facevano finta di farlo?
«Sono in piedi, no? Quindi sto bene» risposi scocciata, avanzando verso l’uscita. Mi fermai quando la mia spalla sfiorò la sua, e allora dissi: «Se dici a Komui che mi hai visto in giro, ti uccido.» Mi alzai leggermente sulle punte, per arrivare alla sua altezza (era dannatamente alto!) e aggiunsi: «Comprendi?»
Il ragazzo australiano annuì, prima di proseguire per la sua strada. Ah, povero caposezione non si meritava di essere trattato così, però sempre meglio prevenire che curare.
Camminai ancora un poco per l’Ordine, girovagando per quelle sezioni dove sapevo il personale non mi avrebbe mai trovato finché il mio stomaco non brontolò. Allora, poggiai una mano sulla pancia e l’accarezzai.
 
«Il solito, Jerry» ordinai, poggiando entrambe le braccia sul pass. L’indiano, stretto nei suoi soliti vestiti da cuoco, mi sorrise e poi prese ad ancheggiare fino al forno.
Succedeva, a volte, che mi domandassi il motivo per cui Jerry si atteggiava così, ma rinunciavo spesso a darmi una risposta perché tanto la sapevo già. Il cuoco della sede centrale dell’ordine oscuro, oltre a essere il migliore cuoco del paese –e questo dovevo ammetterlo anche io, senza ripensamenti- era anche il più eccentrico. Con quel suo puntino rosa in mezzo agli occhi che richiamava le sue origini indiane, poi, Jerry attirava l’attenzione di tutti.
All’Ordine l’adoravano tutti, me compresa – persino quelle volte che sembrava avere delle voglie da donna, o si comportava da donna più del solito.
 «Eccoooooo quiiiiiiii» squillò a un tratto l’indiano, arrivando al pass con in mano un piatto fumante. I suoi occhi, nascosti dagli occhiali, mi sorrisero.
Allungai le mani verso il vassoio, sorridendogli. «Gra… Ma cosa fai? Ridammelo, sto morendo di fame» sbottai allungandomi verso Jerry, quando con uno scatto mi tolse il cibo da sotto il naso e lo portò dietro la schiena. La schiena mi lanciò una stilettata di dolore, così fui costretta a lasciar perdere i tentativi di recupero del cibo.
Maledissi segretamente Jerry e la sua velocità, e persino quella luce che adesso gli brillava negli occhi. Chissà cosa aveva in mente.
«Dimmi un po’, Evangeline, com’è andata l’ultima missione?» Chiese, allungandosi verso di me sorridente. «Komui non mi ha voluto dire nulla» aggiunse, con un certo nervosismo calcolato nella voce. I suoi occhietti mi scrutavano in attesa di una risposta, affamati di nuovi pettegolezzi.
«Non male. Abbiamo recuperato l’innocence e basta, siamo tornati a casa» mi limitai a dirgli, voltando leggermente il capo in direzione della mensa.
La maggior parte delle lunghe tavolate era già piena, con Finder che parlavano fra loro da buoni amici e si raccontavano delle ultime missioni a cui avevano partecipato. Nascosto dietro a un bestione riconobbi perfino lo stesso tizio che aveva accompagnato me e Yuu in Germania; se ne stava sorridente a parlare con tutti i suoi compagni, certo, lui poteva permetterselo.
Mi morsi l’interno delle guance per placare l’istinto omicida che stava nascendo nel mio petto. In un certo senso, nell’angolo più recondito del mio essere in versione “lavorativa”, invidiavo quegli uomini: non erano stati scelti dall’innocence, erano deboli e praticamente inutili ma almeno vivevano serenamente, con la consapevolezza che il loro tasso di mortalità era di circa l’80% inferiore a quello di un esorcista.
Beati loro.
«Si, si, questo me l’ha già detto anche Komui; anzi, è l’unica cosa che mi ha detto» squittì Jerry, attirando il mio sguardo su di se. Mi ero completamente dimenticata di lui. «Ma io voglio sapere, come mai eri fra le braccia di Kanda quando siete arrivati dal gate? Mh?» Sorrise maliziosamente, come se avesse colto nel segno un qualcosa che in realtà non c’era. «Passavo di li per caso, e ti ho vista aggrappata a quel bel ragazzo dai capelli neri» fece uno strano movimento delle sopracciglia, arrivando con il viso a pochi centimetri dal mio.
Socchiusi le labbra e mi tirai indietro, stampandogli la mia mano sulla faccia per allontanarlo.
«Evavate covì cavini» farfugliò contro la mia mano, sputandoci sopra fino a farmi decidere di lasciarlo. «Eri praticamente incollata a lui. Vi avrei volentieri fatto una foto, ma le infermiere mi hanno scacciato. Allora, come mai eravate così vicini, voi due?» Mosse ancora una volta le sopracciglia.
Strinsi a pugno la mano sinistra, facendomi del gran male. Allora, socchiusi le labbra pronta a rispondere che non era come pensava –perché sapevo perfettamente cosa stava pensando- quando dall’auto-parlante arrivò la voce del custode dell’ordine che gridava “Intrusione Spia! Instrusione Spiaaaa!Akumaaaaa!”
Senza neppure lasciare il tempo a Jerry di commentare la notizia, girai sui tacchi e corsi verso l’uscita dell’ordine. Sapevo che così avrei aggravato la mia situazione, che le mie ferite –specialmente quelle riportate dall’innocence- si sarebbero riaperte e avrei sofferto ma dovevo difendere casa mia.
Komui mi ucciderà.
 
La notte fuori dal castello era gelida, almeno per me che non indossavo altro che dei semplici pantaloni bianchi e una maglietta leggera a maniche corte. Le bende tenevano al caldo il mio torace e il braccio sinistro, mentre il braccio destro tremava dal freddo e dalle stilettate di dolore che le ferite mi lanciavano ogni qual volta lo muovevo.
Alzai lo sguardo verso l’alto, dove golem neri come la pece puntavano a registrare ogni cosa nei paraggi, e scorsi una figura che calava dall’alto. La figura si fermò per un attimo, con un atterraggio perfetto proprio sopra il cornicione che copriva il guardiano del palazzo in un tripudio di nero e bianco splendente che proveniva dai fievoli raggi lunari, e che si abbatteva sull’elsa della sua katana come le onde contro la battigia. I lunghi capelli, racchiusi in una coda di cavallo alta, schioccavano nel vento notturno come era solita fare la mia innocence quando era in funzione.
Mi bloccai ad ammirare la scena: la preda e il predatore che si osservavano prima di sbranarsi.
«Hai proprio un bel fegato a venire da solo» disse l’esorcista, sguainando la spada con velocità.
Kanda! Certo che è lui, chi altro sennò?! Digrignai i denti e aumentai la spina delle mie gambe, sentendo la schiena contorcersi dal dolore. Ero così lontana da loro, e il dolore delle ferite che sfregavano contro le bene era così forte che avrei voluto fermarmi, ma non potevo. Non volevo. Questa volta non avrei lasciato a Kanda l’onore di aver distrutto un altro akuma al mio posto, di aver salvato la situazione nuovamente. Assolutamente no! Avrei dimostrato a tutti che ero tornata in forma, anche se era un bugia, e che potevo riprendere il mio lavoro.
«Eh, no Mr. Frangetta, questo qui è mio. Innocence ì, attivati» sussurrai, scivolando a terra per evitare l’attacco di Kanda. Rose esplose letteralmente sul mio braccio: le ferite che mi ero procurata nel tentare di togliermela –accecata dal panico del fuoco- si riaprirono con sonori schiocchi raccapriccianti mentre la frusta prendeva a scivolare sulla mano come un serpente, viscida di sangue, e ad arrotolarsi attorno a una delle gambe dell’akuma.
Kanda ritrasse la spada con velocità. Giusto in tempo, mi dissi quando alzai la testa per osservare i danni che l’esorcista aveva procurato al nemico. L’enorme, strana mano del ragazzino che mi ritrovavo davanti (non più di quindici anni, o almeno così credevo –anche se i suoi capelli bianchi erano parecchio strani-) era stata lacerata a metà dalla lama di Mugen. Tagliata con la semplicità con cui si taglia il burro.
Mi alzai, pulendomi con la mano libera i pantaloni e la maglietta e mi voltai verso Yuu. Lui non perse tempo, mi fulminò con lo sguardo senza pensarci, poi mi puntò Mugen contro.
«Cosa ci fai qui, baka?! Non eri in infermeria a morire? Tornaci!» Sbraitò contrariato alla mia presenza.
«Tzk, pensavi che un colpo come quello mi avrebbe messo K.O così facilmente?» alzai gli occhi al cielo e poggiai una mano sulla lama della sua spada, spostandola. «Certo che no. E poi, non penserai che ti lasci tutto il divertimento, Frangetta. Questo qui è mio, devo rifarmi dalla scorsa missione.» Lui gonfiò le guance e strinse la mano libera a pugno, poi mi lasciò perdere e si riconcentrò sul ragazzino. Decisi di fare lo stesso.
«Ehi tu, cos’è quel braccio?» Con attenzione l’esorcista poggiò Mugen sulla mano sinistra, accarezzandone la lama con cura calcolata.
«E’ un’arma anti-Akuma. Sono un’esorcista» rispose l’intruso, e non c’era paura nella sua voce. Per essere capitato in una situazione del genere, con due esorcisti che gli puntavano le proprie armi contro, aveva fegato.
Alzai di scatto le sopracciglia, tirando leggermente Rose a me. Il ragazzino dai capelli bianchi oscillò un poco, a causa del piede stretto nella morsa della mia frusta, ma poi si rimise in piedi. I suoi occhi argentei mi osservarono curiosi, poi diffidenti e infine si poggiarono sulla mia innocence e ne seguirono il profilo fino a fermarsi sul mio palmo dove sostava l’inizio del manico. Intensificò lo sguardo, portandomi a coprire l’inizio della frusta con la mano sinistra per il senso di fragilità che mi avvolse all’improvviso; le bende che mi fasciavano le dita e il palmo si impregnarono del sangue che mi usciva dalla ferite. Ridussi le palpebre a due fessure, tirando ancora la frusta verso di me. Questa volta il ragazzino cadde, in malo modo, sulla schiena.
«Cosa?» Chiese Kanda, strabuzzando gli occhi. «Custode?!» Rivolse uno sguardo assassino alla grossa faccia posta sulla parete principale dell’ordine, che subito si rianimò spaventata.
Intanto io mi concessi di osservare il nuovo arrivato, girandogli attorno con curata attenzione. Mi piegai sul suo viso, nascondendo la smorfia di dolore che provavo, mentre qualche goccia del mio sangue colava giù dalle dita delle mani strette attorno al manico dell’innocence e finiva in viso al ragazzino, o sul suo collo.
I suoi tratti erano gentili, quindi costatai che doveva davvero essere più piccolo di me, gli occhi grigi brillanti di terrore e curiosità nel buio della notte; sull’occhio aveva una strana cicatrice rossa.
«Capelli bianchi…» sussurrai, sedendomi sui talloni per osservarlo più a fondo. Feci passare una mano a pochi centimetri dai suoi capelli, ma non sentii nessuna strana aura. Non sembrava essere un akuma, ma non si era mai troppo prudenti in casi come questi.
 Gli occhi grigi del ragazzo sbatterono con violenza quando mi avvicinai ulteriormente, scorgendo un pentacolo sulla sua fronte.
«No! Cioè, insomma! Sono sicuro di aver visto un pentacolo sulla sua fronte!» Si stava intanto giustificando il custode dell’ordine.
«E c’è» affermai, alzandomi in piedi per dirigermi verso il crepaccio e gettarlo giù di sotto. Ancora attaccato alla mia frusta il ragazzino veniva trascinato ovunque volessi. Le sue grida di disaccordo risuonavano tutte attorno a noi. «E sta un po’ fermo, stupido» sibilai, dandogli un nuovo strattone che lo fece zittire.
«Se era un akuma cosa facevo?!» Gridò il guardiano, tirando su col naso.
 «Ci penso io a sbarazzarmene! Sta zitto e torna a dormire, rompi scatole di un guardiano che non sei altro!» Sbraitai, voltandomi verso di lui e puntandogli la mano buona contro.
«Sono un essere umano! Sarò anche un po’ maledetto, ma sono un umano di tutto rispetto!» Si ribellò il ragazzino, riuscito a liberarsi da Rose. Con pugni veloci e leggeri aveva iniziato a colpire il guardiano, che si stava agitando come un’anguilla in trappola, gridando come una femminuccia.
«Ma non potevamo avere un cane come guardiano, oppure numero 65?» Borbottai, facendo dietro front e dirigendomi verso il moccioso.
«Non importa. Basterà vedere cosa c’è dentro per capire. Con la mia Mugen ti farò a pezzi» sussurrò Kanda, partendo all’attacco.
«Aspetta. Sul serio aspetta! Non sono un nemico!» Tentò di fermarlo il ragazzino, allungando il braccio –all’apparenza innocence- verso di lui.
Ma per favore, mi dissi, già pronta a spiaccicargli la testa contro il pavimento. Era un classico degli akuma, il travestimento. C’ero già cascata in Germania, non avrei ripetuto lo stesso errore una seconda volta.
«Inn…» fermai l’evocazione quando una ventata d’aria mi travolse in pieno, schiaffeggiandomi come per evidenziare la mia immobilità, lasciandomi con le labbra socchiuse e la lama della spada di Yuu a sfiorarmi la guancia; la sua spalla si scontrò con la mia spostandomi violentemente. Mi voltai, colta alla sprovvista. Una manciata di capelli mi volò davanti agli occhi, confondendosi con il nero della notte che mi stava attorno, e scomparve qualche metro più in la. Il mio cuore, che fino ad allora aveva battuto come un forsennato per l’inaspettato gesto di Yuu riprese a battere normalmente.
Gettai uno sguardo alla katana del mio compagno esorcista brillare, poi osservai Kanda e ancora la katana che continuava a fendere l’aria come se nulla fosse accaduto. E fu proprio quella la cosa che mi fece arrabbiare di più: lui continuava ad agire come se non fosse successo niente, come se non avesse rischiato di tagliarmi il viso in due, sul serio. Come se io non ci fossi neppure stata, sulla sua traiettoria.
Per lui ero come un fantasma: inesistente.
Ma io, invece, c’ero; ed ero persino più forte di lui! Più forte, più cattiva e più arrabbiata che mai.
«Ho detto che il pivellino, qui, è mio!» Ringhiai con cattiveria, lasciando uscire tutta la frustrazione che avevo in corpo. Fu come ricevere un pugno nello stomaco, perché tutti i miei muscoli si contrassero nello sforzo, ma ne valse davvero la pena.
Kanda si voltò distratto dal mio grido, mentre tiravo indietro il braccio destro e, con tutta la forza che avevo, lo spingevo in avanti. Con un sibilo Rose fendette l’aria, davvero simile al corpo di un serpente, per poi attorcigliarsi attorno alla spada del giovane samurai e bloccare il suo attacco contro il ragazzino. Kanda mi aveva proprio fatta arrabbiare.  Me l’avrebbe pagata.
«STUPIDA» strillò Yuu, rivolgendomi uno sguardo d’odio. «Chi se ne frega se lo vuoi ammazzare tu, io sono più veloce!»
«… aver ricevuto una lettera da parte del maestro Cross!» Finì la sua frase, intanto, il ragazzino.
Entrambi ci voltammo verso di lui, sconvolti.
«Una lettera da parte del gen… del generale Cross?» mormorai, con il battito del cuore che aumentava sempre di più. Era come se all’improvviso mi avesse investito una ventata d’aria fresca che mi serviva per respirare, come se le mie ferite non facessero più male.
Trattenni il respiro.
Il generale Cross era vivo. Il generale… avrei potuto rivederlo e ringraziarlo per avermi salvata, per avermi portata da Komui. Il generale era vivo, avrei potuto ripagare finalmente il debito che avevo verso di lui. D’istinto feci un passo verso il giovane ragazzo, poi un altro e un altro ancora. Più mi avvicinavo al giovane dai capelli bianchi più Rose diventava corta e perdeva la presa sull’arma di Kanda; alla fine cadde a terra con un tonfo, alzando una nube di polvere passeggera.
«Una lettera di presentazione?» Domandò Kanda, senza staccare la punta di Mugen dal viso del giovane.
«Si» sussurrò quello, ingoiando a vuoto. «Indirizzata ad un certo Komui.»
«Kanda leva quella katana dalla faccia di questo ragazzino, ha informazioni sul generale Cross» mormorai, voltandomi con velocità verso il mio compagno. I suoi occhi azzurri mi trafissero con odio; non mi aveva di certo perdonata per la mia smattata di prima, ma era stata colpa sua se avevo reagito così.
I nostri sguardi si sostennero per molti secondi ancora e, quel cocciuto di un esorcista, non dava segno di voler allontanare l’arma dal viso del ragazzino. Feci un passo verso Frangina, pronta a suonargliele di santa ragione, quando un golem comparì dal nulla dietro la mia schiena e si fermò davanti a noi.
«Kanda, ferma l’attacco! Fermati, stupido!» Gracchiò la ricetrasmittente, e subito riconobbi la voce di Reever
«Hai sentito, Ba-Kanda? Reever ha detto che devi finirla» Ruggii, poggiando una mano su Mugen con l’intenzione di spingenerla lontana dalla faccia del giovane dai capelli bianchi. La lama non si mosse di un millimetro.
Quando Yuu si metteva in testa di portare a termine una missione non c’era nulla che poteva fargli cambiare idea, proprio niente. Come odiavo questo lato di lui. Come odiavo lui.
«Levati dai piedi, sei solo d’intralcio!» Rispose brusco il ragazzo, spingendomi lontana con un gesto della mano.
 «Hai passato il limite, Kanda» sibilai io, spingendo in avanti Rose per farla attorcigliare attorno a Mugen, stringere la presa e scostarla con forza dal viso del presunto esorcista. Mi ritrovai il piatto della spada premuto contro il lato destro del torace, e un Kanda alquanto scocciato a pochi centimetri dalla mia faccia.
Come lo odiavo, quel tipo. Era sempre così scorbutico e antipatico, e scorbutico! Era così… Kanda! Per una volta che avevo trovato qualcuno che avesse avuto notizie del Generale Cross lui voleva farlo fuori. Non gliel’avrei permesso, per nulla al mondo.
«Lasciami andare, o ti faccio fuori» mi minacciò, tirando Mugen verso il suo fianco. Non funzionò, il suo tentativo portò soltanto a una stretta più solida da parte di Rose.
«Sempre che non lo faccia prima io.»
«Sei autorizzato ad accedere al castello, Allen Walker-kun» gioì la voce di Komui, attraverso uno dei tanti golem che ci volavano sopra la testa.
«Komui, cosa significa? E perché questa impicciona si è intromessa nel mio duello?!» Sbraitò Kanda, continuando a muovere Mugen verso di se. L’unico problema era che più si agitava più la lama veniva avvolta dalle spire della mia Rose.
«Scusa, siamo saltati subito alle conclusioni. Questo ragazzo è un allievo del generale Cross, il fatto che Timcampy lo accompagni ne è la prova evidente.» Cinguettò, con il sottofondo di un Reever molto frustrato che si lamentava del suo supervisore. «Per quanto riguarda Evangeline, non sapevo neppure io che fosse uscita dalla sua camera d’ospedale ma me ne occuperò immediatamente. Intanto, smettetela di litigare!»
«Smettila Kanda, hai sentito Komui? Lui è un nostro compagno» gli ringhiai all’orecchio, accorciando a tal punto Rose da sentire il piatto della spada premere contro la mia pelle nuda e calda di sangue.
«E-e-e-esatto» balbettò Allen, ancora appiccicato al muro dallo spavento.
In un certo senso potevo capirlo: non è mai facile ambientarsi così, per di più dopo aver visto la morte in faccia a causa di una spada e uno strano samurai che mette i brividi; per poi assistere a un litigio fra colleghi.
«Insomma, ti abbiamo detto di smetterla no?» Tuonò Lenalee, comparsa dal nulla, dopo aver riposto in testa a Kanda una sonora botta con il suo fascicolo.
Per la prima volta dopo tre giorni mi ritrovai a sorridere soddisfatta.
 
 
«E anche tu» aggiunse lei, «smettila di tormentarlo e torna in infermeria» e puntò la mia frusta stretta attorno alla sua spada. Socchiusi le labbra contrariata, poi mi morsi le guance e lasciai andare l’arma di Yuu, ritirando la mia dall’evocazione. «Entrate.»
 
 
«Irresponsabile, egoista e imprudente!» Komui mi fece sedere sul tavolo del suo laboratorio e prese ad esaminare Rose, girando e rigirando il mio braccio fra le sue mani calde. Il suo solito profumo di caffè, che di solito mi faceva venire la nausea adesso non mi dava fastidio, anzi lo apprezzavo persino. Forse tutto mi sembrava un po’ più dolce adesso che, involontariamente, avevo scoperto che il Maestro era vivo.
«Guarda come ti sei ridotta il braccio! I-io…. Ahhh!» Il supervisore s’infilò le mani nei capelli e li tirò, facendo cadere a terra persino il suo prezioso capello.
Povero Komui, lo facevo preoccupare sempre. Eppure… era sempre li, costantemente accanto a me quando avevo bisogno di lui. Quanto era stupido; perché non capiva che tutto quest’affetto non poteva fargli altro che male? Io non ero destinata a vivere per sempre, al contrario ero più propensa alla morte da giovane. Ogni mia azione, ogni mio respiro, ogni mia mossa sbagliata erano un contratto sempre più vicino alla morte eppure Komui mi restava sempre affianco.
«Sei un caso disperato! La tua innocence era ancora fuori uso, danneggiata  ma tu l’hai usata lo stesso! Sei impossibile, Evangeline!» Il viso di Komui era rosso di sforzo, e una vena gli pulsava sul collo. Era così diverso dal classico, calmo Komui.
Forse aveva ragione, però: non avrei dovuto usare Rose, perché il dolore che sentivo al braccio in questo momento era peggiore di quando ero rimasta intrappolata nell’incendio dell’ultima missione.
Mi portai la mano sinistra al viso e la passai sulle guance e sugli occhi con pigrizia, andando poi ad accarezzarmi le meningi con stanchezza. Chiusi gli occhi e sospirai; sotto le palpebre iniziarono a formarsi tante piccole macchie colorate. Ero così stanca, non  me n’ero accorta fino a quel momento perché l’adrenalina che mi era entrata in circolo mi aveva tenuta scattante, ma ora era come se tutti gli sforzi di poco prima mi fossero ricaduti sulle spalle.
«Ehi, Evangeline tutto bene?» mormorò Komui, poggiandomi una mano sulla spalla. Socchiusi le palpebre e, con un’unica lacrima di sollievo che mi colava giù dalla guancia, gli sorrisi.
«Lui è vivo. Il Generale Cross…» mormorai, asciugando il tratto che quell’unica goccia stava disegnando sul mio profilo. La stretta di Komui si alleggerì di poco, e nei suoi occhi baluginò come una piccola scintilla di sollievo. «Potrò finalmente pagare il mio debito, Komui.» Sorrisi.
Sotto alle bende e al mio petto, incastrato fra i polmoni e rinchiuso fra le costole il cuore mi batteva all’impazzata. Era come se finalmente fossi riuscita a togliere il masso che vi gravava sopra da quattro anni a quella parte; era come se mi sentissi più leggera.
Cross Marian era vivo, e niente si sarebbe frapposto fra lui, me e il mio desiderio di riuscire a saldare il mio debito. Dopo tutto, gli dovevo la vita. Dovevo trovarlo, e al diavolo le missioni di recupero dell’innocence.
Con un gesto repentino, sorto dal nulla, afferrai il polso della mano di Komui che mi sostava ancora sulla spalla e lo strinsi, trascinando verso di me l’uomo. Alzai il viso nella sua direzione, specchiandomi nelle lenti dei suoi occhiali e dissi: «Autorizzami una missione di ricerca per il Generale Cross Marian.»
Il supervisore sbatté le palpebre, poggiando l’altra mano sulla mia. Le dita di Komui si strinsero attorno alle mie bende e il loro calore si infuse sulla mia pelle martoriata come un balsamo ristoratore.
«Non posso fartelo fare, non se ne parla, non adesso» rispose rigidamente, e colsi il guizzo della sua mascella che si tendeva. «Se proprio hai intenzione di cercarlo, dovrai aspettare di essere guarita del tutto.»
«Posso riuscirci, Komui. Lo posso trovare, devi solo autorizzarmi a…» tentai una seconda volta, rafforzando la presa sul suo polso. Komui doveva accettare, doveva dirmi di si. Io dovevo trovare Marian Cross, a tutti i costi e sapevo di potercela fare anche ridotta così com’ero... Allora perché Komui non voleva autorizzarmi?
Poi, un lampo baluginò fra i miei pensieri accendendo tutte le lampadine. La corrente animò i fili, fece scattare gli interruttori spenti fino a quel momento.
Staccai la mano dalla pelle di Komui e l’allontanai, saltando giù dal tavolino su cui ero rimasta seduta fino ad allora; la stanchezza parve evaporare in un secondo, lasciando lo spazio a tanta ira e frustrazione.
«Stai dicendo che sono debole e inutile, adesso? Che, se mi mettessi alla ricerca di Cross e incontrassi degli ostacoli sul mio cammino loro mi schiaccerebbero come un insetto. E’ questo che cerchi di dire?» Sbraitai.
Komui trasse un profondo respiro, annuì.
Il cuore che prima batteva tanto velocemente adesso sembrava essersi raggrinzito di colpo, ferito. Mi sentivo tradita dal supervisore e, ancora di più, da me stessa per quell’orribile sentimento che stavo provando.
Tradimento.
Non avrei dovuto sentirmi tradita, dopo tutto mi aspettavo quella risposta eppure…
«Va all’inferno Komui. Partirò lo stesso anche se non mi autorizzerai» sibilai con cattiveria.
«Evangeline» tentò di richiamarmi il Supervisore, ma ormai ero assorta nei miei pensieri caotici e contrastanti. Talmente assorta da non accorgermi di aver colpito in pieno Alle Walker, adesso steso a terra dolorante.
Abbassai lo sguardo e lo trafissi senza ripensamenti, digrignando leggermente i denti.
Perché lui aveva potuto trascorrere anni con Cross mentre io ero stata costretta a restare chiusa in questo posto schifoso, con la speranza che un giorno l’uomo che mi aveva salvata da una morte certa fosse venuto a tirarmene fuori? Cos’aveva Allen Walker in più di me, da portare il maestro a volerlo tenere al suo fianco?
Perché mi sentivo così delusa e tradita, non solo da Komui ma anche da Cross? Perché mi sentivo, in un certo senso, abbandonata?
«Sei sulla mia strada, Baka Moyashi» sputai fuori velenosamente, ignorando apertamente la replica di Lenalee, che mi diceva di comportarmi meglio.
«S-scusa» borbottò il ragazzo dai capelli bianchi, alzandosi e spostandosi di lato per permettermi di passare.
«Evangeline, non dovresti trattare così i nuovi arrivati» intervenne Komui, fermandosi accanto a me. Che si fosse pentito delle sue parole? Improbabile. Lui le pensava davvero quelle cose.
«Zitto tu, non c’entri nulla.» Tornai a fissare Allen negli occhi, facendo un passo nella sua direzione; lui indietreggiò. «La prossima volta che mi intralcerai: ti aprirò in due come se fossi burro, Moyashi» gli intimai, per poi allontanarmi dal trio.
Tradita. Abbandonata. Delusa. Furiosa.
 
 
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Lenalee: Bene bene, eccoci qui caro lettore/lettrice. Ben tornato/a. Oggi sta a me fare i ringraziamenti per le ultime recensioni (Graaaazzzziiiieeee), perché Isil-sama non sarà con noi. Purtroppo si è beccata la febbre e non sta bene.
Evangeline: E ti pareva? Quella ormai non c'è mai; è già tanto che si ricorda di aggiornare.
Lenalee: Evangeline, non dire così. Isil-sama è una brava ragazza.
Allen: Se continua a scrivere le cose che mi accadono così, in questo modo, non è tanto buona!
Evangeline: L’unica cosa buona che ha fatto è stata quella di far si che ti facessi male, Baka Moyashi. Non togliermi il divertimento!
Kanda: Tzk, ruba pure le mie esclamazioni Baka.
Evangeline: Zitto frangetta
Allen: Ok, non volevo dare inizio a una discussione. Finiamola q…
Kanda: Zitto. Io non discuto con i maledetti.
Evangeline: E io non discuto con i Moyashi.
Allen: -.-“
Lenalee: Perfetto, vedo che andate tutti d’accordo. Eh eh eh (meglio finire in fretta questa rubrica.) Allora, Isil-sama mi ha lasciato una lettera per voi. Buona lettura e al prossimo capitolo.
 
Caro lettore/lettrice,
 
so che questo capitolo è alquanto strano, per non dire che i sentimenti di Eve sono contrastanti fra loro ogni 3x2. Mi spiace tanto, nel caso vi avessi confusi. Volevo comunque avvertirvi che è tutta una cosa studiata, perché il personaggio si sta evolvendo con più velocità di quanto credessi, o avessi calcolato. Sorgono ancora parecchie lacune nella mia trama (ho così tante idee in mente), e spero vivamente di non perdermi con l’andare dei capitoli; prego, inoltre, che il mio scritto non diventi troppo pesante con il tempo. Vi prego di appuntarmi ogni cosa che riterrete debba essere cambiata/rivista in una recensione.
Per ora, dopo questo è tutto. Vi sono grata se vi siete fermati a leggere questo appunto. Un grazie speciale a chi ha recensito gli scorsi capitoli.
Ci vediamo alla prossima tappa del viaggio di Eve.
Un bacio,
 
Isil.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Parte uno: Kevin Yeegar. ***


Capitolo 4.


Kevin Yeegar.



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BAD GIRL.
 



Pioveva. Da dietro il vetro dell’unica finestra che avevo (ed ero fortunata ad averne una!) potevo chiaramente vedere le molteplici gocce di pioggia che cadevano verso il basso, ansiose di finire la loro corsa e andarsene da questo mondo scorbutico e acido. Scendevano, crollavano a terra e sul vetro della mia finestra con tonfi simili a quelli provocati dai proiettili degli akuma, solo in una versione miniaturizzata. Il loro suono arrivava ovattato alle mie orecchie, schiacciate fra il cuscino. Era mattina e la voglia di alzarmi ancora non si decideva ad avvolgermi nelle sue braccia, come faceva solitamente. Evidentemente perché la sera precedente ero tornata da una riunione con la sezione scientifica –in cui avevamo discusso della mia innocence- molto tardi. Reever e Komui erano proprio cocciuti quando si mettevano in testa qualcosa.
Sbadigliai tirandomi la coperta sopra il mento, poi mi strofinai ancora una volta le palpebre per svegliarmi meglio. Osservai per l’ennesima volta fuori la finestra: il cielo plumbeo esplose di luce, un lampo squarciò quella brutta mattina semi-invernale e successivamente un tuono fece tremare le imposte.
Che giornata perfetta, mi sussurrai nella mente.
La pioggia mi era sempre piaciuta, forse perché spegneva il fuoco, o forse perché mi dava quella calma apparente che mi serviva per rimettermi in careggiata con i pensieri e le emozioni in contrasto fra loro. Forse da fuori potevo sembrare composta e seria, ma dentro avevo un caos totale. Perché alla fine, osservando la realtà dei fatti quello che ero veramente era: un mix scorbutico e caotico, misto a orgoglio e acidità, e la cosa peggiore è che lo sapevo e mi andava bene così.
Ma perché mi ero messa a pensare a quelle cose? Scossi il capo, peggiorando la mia capigliatura già danneggiata dal solito sonno movimentato, tornai a guardare la pioggia. Era sempre bello osservare le lacrime del cielo riversarsi sulla terra, mi sapeva di qualcosa di mistico ed eterno che niente e nessuno avrebbe potuto modificare; era un po’ come se il cielo stesso piangesse al posto mio che, ormai, ero talmente fredda e marcia dentro da non riuscire più a versare lacrime concrete –non che ne avessi motivo, parliamoci chiaro. Insomma, perché avrei dovuto piangere? La mia vita andava a gonfie vele, le ferite erano guarite e presto sarei partita per qualche altra nuova missione. Certo, mi rimaneva ancora l’amaro in bocca di qualche settimana prima per la scoperta del fatto che Cross avesse avuto un allievo segreto (che non ero stata io!) negli anni in cui tutti pensavano fosse scomparso; per il resto andava bene.
Il rumore di nocche che sbattevano contro l’uscio mi fece ridestare dai miei pensieri, portandomi a borbottare con un assonato, quanto svogliato sbadiglio: “avaaaanti.”
«Buon giorno» cinguettò una voce.
La porta si aprì cigolando, per poi richiudersi con leggerezza. Mossi un poco la bocca ancora impastata dal sonno prima di mettermi seduta, appoggiandomi contro lo schienale del letto, per poi rivolgere alla ragazza che era appena entrata uno sguardo lungo e addormentato. Lenalee mi sorrise, divertita dalla scena, avvicinando la sedia della scrivania al letto poi mi porse un tazzone, dal quale proveniva un delizioso odore di cioccolata, e si mise seduta in silenzio. Le sorrisi a mia volta, mentre la ceramica della tazza mi bruciava i palmi delle mani –ormai non più fasciate dalle bende.
«Buon giorno. Grazie» sussurrai, portandomi alla bocca l’orlo della tazza e buttando giù un sorso di quel liquido scuro e dolce. La cioccolata scivolò giù nella mia gola, riscaldandomi tutta.
«Figurati» commentò lei, volgendo lo sguardo alla finestra. Un lampo le illuminò il viso, per poi oscurarlo con le ombre proiettate dalla finestra.
La stanza rimase celata in un silenzio distorto dai tuoni per qualche minuto. Era sconcertante, in un certo senso, trovarsi con Lenalee in una stanza e restare muti. Di solito chi si trovava in presenza di Lenalee non poteva fare a meno di sorride , anche solo guardandola. Eppure oggi… Lanciai uno sguardo alla cioccolata, bevendone un sorso.
«Lenalee, tutto bene?» sussurrai, staccando gli occhi dalla cioccolata calda riposta fra le mie mani.
Lei era li, schiena dritta e sguardo perso fuori dalla finestra come lo era stato il mio fino a poco prima. Gli occhi violacei che riflettevano la luce dei lampi, le gocce di pioggia che sembravano fatte apposta per sostarvi all’interno.
«Puoi leggermi una poesia, Evangeline?» Chiese lei all’improvviso, voltandosi verso di me con un sorriso sulle labbra. E allora capii che non andava tutto bene; quando io leggevo poesie ero triste, quando Lenalee mi chiedeva di leggerle una poesia significava che si sentiva sola, confusa e persa.
«Certo. C’è nulla di cui vorresti parlarmi? Sei sicura di… stare bene?» Sussurrai, tentando di lasciar perdere la poesia.
«Sto benissimo» sorrise. «Vorrei solo sentire un poesia» mormorò, senza smettere di tenere le labbra rivolte verso l’alto. Era brutto vederla fingere che tutto andasse bene, pretendere da se stessa che ogni cosa andasse bene, ma non me la sentivo di farle capire che mi ero accorta della sua falsa.
Così, ridussi la mia bocca a una leggera linea retta e annuii, alzandomi da letto. Il freddo pungente d’inizio inverno mi colpì come uno schiaffo, facendo nascere la pelle d’oca sulla pelle nuda delle mie gambe. Nota per me: chiedere a Johnny di crearmi un pigiama lungo e caldo e smettere di dormire in mutande e canottiera. Poggiai la tazza sulla scrivania, ingombra di scartoffie e rapporti ancora da consegnare, e mi misi a frugare fra i libri di poesie che avevo raccolto durante tutti i viaggi che avevo fatto in quei quattro anni. Passai con leggerezza le dita sulle copertine dei libri e ne pescai uno a caso, tornando sui miei passi.
Mi gettai sul materasso, coprendomi con le coperte le gambe, e porsi il libro a Lenalee. «Apri una pagina a caso» dissi.
Lenalee aprì le pagine alla cieca e lesse il primo titolo che le saltò agli occhi: «Thomas Moor: l’ultima rosa d’estate», poi mi porse il tomo, accavallando le gambe in attesa dell’inizio della lettura.
“Thomas Moore. L’ultima rosa d’estate”, proprio adatta a Lenalee.
Presi fiato, cominciai (non prima di averle lanciato una sfuggente occhiata):
«Ecco l’ultima rosa dell’estate
che va via sfiorendo da sola.
Tutte le sue graziose compagne
sono già appassite e scomparse.
Nessun fiore della sua famiglia,
nessun bocciolo di rosa le è vicino
a riflettere il lieve arrossire
a dare un sospiro per un sospiro
Mentre leggevo lanciavo veloci occhiate alla mia amica, che aveva chiuso gli occhi per concentrarsi meglio sull’ascolto (o per chiudersi nel suo mondo?)
Lenalee era così bella quanto sola, come la rosa di cui si parlava nella poesia di Moore, eppure non voleva che si sapesse, perché non voleva far preoccupare nessuno. Ma, così facendo peggiorava solo la situazione. Fingere non l’avrebbe di certo aiutata a stare meglio, e fingere di non sapere non faceva altro che far star male anche me, che mi sentivo impotente e inutile. Ero impotente, ed era una verità lampante. Perché non potevo fare nulla? Perché non potevo far si che lei si sentisse meno sola?
«Io non ti lascerò sola
mentre langui sul tuo stelo
Fino a che l’amore dorme,
va’ e dormi con loro.
Così gentilmente cospargo con i tuoi petali il letto
dove gli sposi del tuo giardino
giacciono senza profumo e inerti.
Possa io seguirti presto
quando gli amici partiranno
e le gemme cadranno dal cerchio brillante di luce.
Quando i veri cuori sono appassiti
e quelli affettuosi sono gonfi »
Lenalee sospirò.
«Chi potrebbe abitare questo mondo buio, da solo?» Conclusi, chiudendo velocemente il tomo.
L’aria nella stanza parve gelarsi di nuovo, mentre io tentavo di togliermi l’amaro che avevo in bocca. Quella poesia era capitata a pennello nel momento sbagliato. Perché non era uscito qualcosa di più allegro? Ah, ci sono, forse perché i poeti sono tutti dei masochisti antipatici e carichi di tristezza, rimorso e dolore represso.
Ingoiai un fiotto di saliva e mi accarezzai la fronte, poggiando il libro al mio fianco. Adoravo quella poesia, ma ogni volta che finivo di leggerla mi si creava uno strano nodo alla bocca dello stomaco. Tutta via, questa volta il nodo allo stomaco non era colpa dei sentimenti di Moore, che trasudavano da quei versi, bensì dallo stato d’animo di Lenalee..
«Bellissima» sussurrò Lenalee, rivolgendomi uno sguardo.
«Si, lo penso anche io» annuii. Dovevo affrettarmi a cambiare discorso, a distanziarmi da quella poesia al più presto per il bene di entrambe. Così, decisi di fare la domanda più semplice del mondo: «Ma che ore sono?»
«Quasi le dieci» m’informò la ragazza, accarezzandosi uno dei codini.
«Ah, bene. L-l-le dieci?!» Strillai io, alzandomi come una furia dal letto. Lenalee trattenne un urlo di sorpresa, saltando in piedi quando io scattai in avanti verso l’armadio.
 Ero in ritardo! Komui il giorno prima mi aveva detto che alle dieci e trenta sarei dovuta andare nel suo ufficio per parlare della mia nuova missione, e invece ero ancora a letto. Mi avrebbe uccisa! Ma che dico?! Mi avrebbe presa e messa fra le mani di uno dei suoi tanti Komurin, che era anche peggio.
«Devo ancora farmi il bagno e il trucco, e vestirmi e arrivare in quell’habitat selvaggio e sconosciuto che è l’ufficio di tuo fratello!» Mi caricai fra le braccia la divisa e gli stivali, e aprii la porta con enfasi, uscendo in corridoio. «Ci vediamo dopo Lenalee-chan, sono in ritardo!» Presi a correre come se ne andasse della mai vita, sfrecciando a piedi nudi sulle piastrelle fredde del pavimento.
«Evangeline!» Mi voltai quando l’urlo della giovane cinese mi raggiunse, senza però smettere di correre all’indietro. Non potevo fare questo a Komui, non potevo presentarmi tardi a un appuntamento di lavoro perché, per quanto odiassi ammetterlo, ci tenevo alle missioni. Ok, erano una seccatura ma alla fine erano il mio lavoro.
«Si?» Strillai, ormai lontana dalla porta della mia stessa stanza. Lenalee si allontanava sempre di più, diventando piccola e indistinta.
Gridò qualcosa, che però non riuscii a capire.
«Non ti sento! Ci vediamo dopo!» Urlai, tornando a guardare avanti a me. Ancora una volta la giovane esorcista gridò senza però sapere che non potevo capirla.
 
 
«Stupido Moyashi» mormorai fra i denti, digrignandoli fino a sentirli scrocchiare con forza.
Allen se ne stava spaparanzato sul divano dietro di me, con una busta del ghiaccio premuta sui capelli bianchi e un brutto livido violaceo che risaltava sulla mascella sinistra. Dalle labbra gli uscivano mugolii sommessi e doloranti, qualche volta anche delle piccole e storpiate imprecazioni in svariate lingue diverse.
«Ma ti sembra questo il modo di accogliere un compagnooo?» si lamentò lui, rizzandosi in piedi e venendo verso di me. I capelli chiari, quei pochi che non erano bagnati, fluttuarono sopra la fascia che gli avevo arrotolato malamente in testa dopo averlo colpito per sbaglio appena entrata nell’ufficio di Komui.
Non l’avevo fatto apposta, ma lui era sbucato da dietro l’uscio e io, con i miei riflessi sempre all’erta, l’avevo prima colpito alla mascella e successivamente scaraventato contro il divano.
«Se ti avvicini ti stacco un braccio» lo minacciai, attivando l’innocence  e puntandogliela contro.
Rose si arrotolò al mio braccio, strisciò sul palmo della mia mano e si bloccò sulla punta del mio dito medio sibilando minacciosa. Riuscivo a vedere il calore corporeo di Allen aumentare, mentre si allungava col busto nella mia direzione.
«Neh, Eve-chan perché sei così crudele con me?» Mugolò, sorridendomi con quel suo fare un po’ idiota.
Sbuffai, schiaffeggiandolo con la mia frusta. L’albino ciondolò un poco, sbattendo le palpebre con velocità e sorpresa, e poi cadde a terra con le gambe all’aria. Ritirai l’innocence e gli diedi le spalle, incrociando le braccia al petto. Stupido pidocchio.
«E smettila di chiamarmi Eve-chan, baka » aggiunsi, dirigendomi verso la scrivania di Komui –che ancora non era arrivato- in cerca del fascicolo della missione che avrebbe dovuto assegnarci oggi.
Alla fine mi ero data tanto affanno per nulla, correndo come una pazza per l’ordine cercando di prepararmi in tempo, con l’unico risultato di fare  una brutta, e alquanto poco accettabile figuraccia con quello stupido Bookman Jr.
Stavo correndo verso i bagni femminili, pensando a cosa Lenalee avesse tentato di dirmi poco prima, quando mi scontrai contro qualcuno. L’impatto mi fece perdere l’equilibrio -però non persi la presa sugli abiti- e crollare all’indietro. Due mani furono veloci: mi presero per le spalle stringendole con forza e mi tirarono verso il proprietario, che stava inciampando al temo stesso. Probabilmente stava tentando di reggersi in piedi, e credendo che io vi fossi rimasta si era aggrappato a me.  Il calore corporeo del ragazzo penetrò attraverso i vestiti fino ad arrivare alla mia pelle, riscaldandola e provocandomi un leggero strato di pelle d’oca.
Cademmo. Capitolammo a terra con un tonfo sordo e una posizione alquanto ambigua.
 Mi ritrovai schiacciata contro un petto largo, fra noi uno strato di vestiti e una presa di ferro sulla schiena; le gambe strette contro i fianchi di chi mi aveva evitato la caduta all’indietro solo per farmene fare una in avanti.
«Ah, la testa» mugolò lo sconosciuto sotto di me alzandosi a sedere.
Scivolai sulle sue gambe, accarezzandomi le spalle doloranti per la presa di poco prima, pronta a gridare contro chi si fosse permesso di toccarmi. I vestiti scivolarono fra i nostri fianchi, lasciandomi appoggiata a una divisa lucida e nera, riscaldata dal calore del proprietario. Sentivo ancora una delle braccia cingermi la schiena, come se dovessimo cadere nuovamente.
«Tutto bene?» Domandò il ragazzo. «…Evangeline?!» Strillò poi, facendomi spostare lo sguardo dalle spalle al suo viso.
«Baka Usagi?» Sbattei le palpebre sorpresa, per poi allontanarlo poggiandogli le mani sul petto. I nostri occhi sostennero lo sguardo con sorpresa, i miei neri come l’inverno e il suo verde come la primavera, mentre con delicatezza Lavi allontanava il braccio dalla mia schiena, per poi ripensarci e ripoggiarcelo.
Inarcai le sopracciglia sorpresa dal gesto; cosa aveva in mente? Meglio uccidere quell’indelicato tentativo sul nascere. Caricando il braccio destro all’indietro mi preparai a colpirlo alla testa, dove ancora non si era fatto male. Quando il pugno arrivò a destinazione Bookman Jr. si ritrasse da me per iniziare a lamentarsi, accarezzandosi la testa dolorante con fare protettivo e così ebbi l’opportunità di alzarmi e stringermi nuovamente i vestiti al corpo. Solo in quel momento mi accorsi d’aver dimenticato di mettermi qualcosa di lungo, o un paio di pantaloncini addosso prima di uscire dalla camera; pensandoci bene, mi venne in mente che forse era quello che Lenalee aveva tentato di dirmi poco prima. Che stupida che ero stata a non tornare sui miei passi per ascoltarla!
«Non osare mai più toccarmi in quel modo, stupido coniglio, o giuro che ti taglierò a metà con la mia Bloody Rose» lo minacciai acidamente, riprendendo a correre verso i bagni.
 
«Oh, bene bene vedo che ci siete tut… che ti è successo alla testa?» Komui si avvicinò ad Allen in poche falcate, e gli poggiò una mano sul collo per tirarlo verso il basso ed esaminargli il capo.
 Con il suo metro e novantuno di altezza, in contrapposizione al metro e sessantanove dell’esorcista, non avrebbe dovuto avere problemi ad osservarlo anche dall’alto ma evidentemente si trovava meglio in quella posizione. Bevve un sorso di caffè e annuì col capo, lasciò libero Allen e si diresse verso il suo habitat naturale: una scrivania contornata da colonne di documenti, rapporti e cose non ancora ben identificate circondata da un mare di altre scartoffie, che si attaccavano alla suola degli stivali come se fossero gomme da masticare. A dire la verità non mi sorprendeva, con tutti i sonnellini che si faceva di nascosto Komui, ignorando i suoi doveri da supervisore –che comprendevano pulire quella scrivania, ridotta così da…sempre-, potevano benissimo esserci nate nuove forme di vita sotto quei fogli. Alcuni, se non ricordavo male, erano depositati a terra da quando ero arrivata all’ordine quattro anni fa.
«Questa scrivania fa schifo, Komui. Ci sono nate nuove forme di vita sotto i fogli per terra, e come minimo hanno persino organizzato degli impianti sciistici fra le pagine spiegazzate» sborbottai, spostando il peso da una gamba all’altra.
Il cinese sorrise, spostando un poco il capo verso sinistra. Lo faceva sempre, avevo notato, quando sapeva che le affermazioni degli altri erano esatte ma non gliene importava nulla.
Sbuffai.
«Bene bene, questo è il vostro nuovo incarico» squittì Komui, porgendomi un fascicolo. Inarcai le sopracciglia, colsi l’insieme di fogli e mi diressi verso il divano dove mi accomodai.
«Fa vedere anche a me» pigolò Allen, allungandosi sopra la mia spalla, poggiandovi le mani sopra. Roteai le iridi verso l’alto e aprii il fascicolo, tentando di ignorare il calore e la presenza del ragazzo che premevano su di me. C’era troppo contatto fisico.
Presi un bel respiro e mi morsi le guance, i miei occhi lessero velocemente la prima pagina:
Nome: Kevin Yeegar.
Stato: Generale.
Innocence: Equipaggiamento.
Tipo di missione: Protezione da possibile attacco Noah.
Tossii di sorpresa, per poco non mi strozzai anche con la saliva. Il Pidocchio  fu subito pronto a colpirmi pacatamente sulla schiena, per evitarmi l’infermeria a causa di un soffocamento. Lo fulminai con lo sguardo, portandolo ad arretrare, mentre invece dentro, in un angolino recondito e oscuro della mia mente lo stavo ringraziando. Odiavo dover essere gentile con qualcuno che non era Lenalee, o persino Komui a cui dovevo realmente qualcosa.
«Kevin Yeegar? » Tossii fuori, dandomi io stessa dei colpi sul petto con il pugno chiuso.
Il generale aveva bisogno di protezione dai Noah? I miei occhi s’illuminarono di una luce sinistra, carica d’odio e vendetta.
Ero al corrente della forza dei Noah – ricordavo ancora quando Lenalee era tornata dalla sua missione in Germania, dove avevano trovato quella nuova esorcista Miranda. Ricordavo il suo sguardo stanco e distrutto, come se qualcosa l’avesse colpita nel profondo e non fosse riuscita a dimenticarlo. Mi ricordavo le grida che avevo lanciato contro Allen Walker, perché non era riuscito a difenderla, il rammarico nel comprendere che era colpa mia se era ridotta così perché non ero andata con lei, bensì ero rimasta incatenata su un letto d’ospedale. E poi, ricordavo l’odio nei confronti dei Noah, specialmente di quella piccola di cui, successivamente, Allen mi aveva raccontato- ma loro erano al corrente della mia?
«Lo so che è un incarico difficile, e capirei se non voleste accettare» cominciò Komui, sedendosi dietro la scrivania, quasi scomparendo alla nostra vista.
Senza pensarci due volte mi alzai in piedi, colpendo il mento di Allen con la mia spalla facendolo cadere a terra e dissi: «Accetto.» La mia voce non era mai stata più incolore di così, o tetra o sicura. Certo che avrei accettato, l’avrei fatto sempre se questo significava vendicare Lenalee.
Al diavolo i Noah e tutti i loro strani e stupefacenti poteri: io li avrei cancellati dalla faccia della terra. Lo sentivo ardere dentro di me; era un desiderio talmente forte che mi stava bruciando dentro, riducendo ogni cosa a cenere. Se prima ero marcia dentro ora ero viva, carica di un incendio d’odio che si sarebbe spento solo quando avrei portato a termine la missione.
«Spaccherò la faccia a quei bastardi, se mai si dovessero mettere sulla mia strada» ringhiai, stringendo talmente tanto il fascicolo fra le mani da ridurlo in una strana e inutile pila di fogli stropicciati. «Muoviti, baka Usagi, partiamo immediatamente» gracchiai.
 «M-ma veramente non ci sono treni oggi, pensavo di farvi partire domattina e…» intervenne Komui, preso contropiede dalla mia determinazione.
Lo fulminai con un’occhiataccia , spingendo il fascicolo contro il petto di Lavi che si era appena rialzato. Il rosso lo prese, stringendolo per non farlo cadere a terra poi tossì; l’avevo colpito con troppa forza, probabilmente. Colpa del momento, forse.
«E’ inaccettabile, Komui» sibilai, avvicinandomi al cinese. Gli puntai un dito al petto, socchiudendo le labbra pronta a continuare quando un urlo irruppe nella stanza. Tutti e tre ci voltammo all’unisono.
«E questo?» mormorò sorpreso Komui, sbattendo le palpebre con velocità.
«Vado a vedere cos’è successo, forse si tratta di Crowely» propose Allen, e ora che me lo faceva notare poteva anche avere ragione: l’urlo era maschile. Forse quello stupido novellino aveva combinato qualche altra stupidaggine delle sue.
«Si, vai che è meglio» sussurrai nel vederlo uscire dalla stanza a gran velocità.
Aspettai che fosse fuori dalla mia visuale per chiudere la porta e andarmi a sedere sul divano, accavallando le gambe con un gesto accuratamente calcolato.  Gli occhi di Komui seguirono i miei movimenti da dietro la scrivania, illuminandosi di comprensione poco dopo.
«Evangeline lo so che ancora non hai dimenticato quello che i Noah hanno fatto a Lenalee, ma…»
«Perché, tu si?»
«Certo che no, mi pare ovvio, ma non potrei sopportare di vederti tornare in una bara solo perché vuoi vendicarla così. Devi tentare di essere meno aggressiva, Evangeline, o il tuo carattere in questa nuova guerra potrebbe portarti alla morte» con lentezza il supervisore si alzò dalla sedia e venne verso di me.
Esaminai i suoi occhi neri, così carichi di angoscia e paura da farmi quasi male al cuore. Quasi.
«Non tornerò in una bara, Komui» lo tranquillizzai, accarezzandomi stancamente gli occhi. Avevo fatto tutto talmente di corsa, quella mattina, che non mi ero neppure truccata perciò non dovevo preoccuparmi di farmi strane righe nere sul viso se l’avessi toccato. «Sono forte, io. Lo sai che…»
«Sei cocciuta, testarda e impulsiva. Non sono io che volevo affidarti questa missione, ma i piani alti ti hanno ritenuta adatta e perciò ho dovuto sottostare alle loro regole, ecco la verità.» Con velocità si inginocchiò davanti a me e poggiò le sue mani sulle mie ginocchia. «So cosa stai per dire: “non toccarmi!” ma ascoltami bene: almeno questa volta io vorrei che seguissi meno l’istinto e di più il cervello, Evangeline. Questa guerra non è un gioco, non puoi pensare di poter battere un Noah a occhi chiusi, nemmeno se le tue intenzioni sono quelle di vendicare Lenalee. Devi avere pazienza.»
E adesso da dove se l’era tirate fuori queste parole, il supervisore scansafatiche? Perché mi diceva questo con così tanta facilità? Perché pensava che io potessi morire?
Con un gesto scocciato ricacciai indietro qualche capelli nero che mi era ricaduto sul viso, per poi soffermarmi a osservare il giovane uomo con fermezza gelida.
«Credi che non lo sappia?! Che non sappia che i Noah sono molto più forti di me, che abbia poche possibilità di vittoria? Credi che non m’importi?» M’alzai in piedi, portandolo a cedere seduto per il movimento improvviso.
Le mie vesti attillate gracchiarono per il movimento improvviso, il mio caschetto di capelli fluttuò vicino alle mascelle per poi fermarsi. Gli occhi scuri di Komui si dilatarono nel incontrare i miei che, a confronto dei suoi che adesso parevano grigi, erano due buchi neri senza ritorno.
 «Credi che non abbia pensato a un modo per batterli senza espormi troppo?» Gridai su tutte le furie, sentendomi tradita dalle parole di Komui.
Aveva realmente così poca stima di me? «Si vede che non mi conosci troppo, Komui Lee. Non so con chi pensi di avere a che fare quando parli di pericolo, guerra e morte ma ti ricordo che io sono un’esorcista e combattere è il mio lavoro; un lavoro che faccio con tutte le mie forze, che evidentemente tu scambi per avventatezza e impulsività. Ok, è vero che voglio vendicare Lenalee, ma questo non mi rende più stupida o caparbia di quanto tu pensi. Dimmi, caro supervisore, tu non hai mai voluto lottare per difendere chi ti sta a cuore?» Sapevo di rivolgergli parole pungenti, aggressive ma era tutta colpa sua. Lui mi aveva portata a parlargli così. «Hai mai rischiato di capire che se in battaglia non attacchi per primo sei il primo a morire? Che se non tenti di difendere quelli a cui vuoi bene sei già morto? No, non penso proprio.» Tolsi il dito che gli avevo puntato contro il viso, stringendo la mano a cui apparteneva a pugno. «Allora smettila di dire tutte queste cose su di me! Se tu sapessi cosa si prova a stare la fuori, faccia a faccia con la morte ogni giorno, con la consapevolezza che da un momento all’altro chi ami può morire, che tu stesso puoi morire allora scommetto che non diresti queste cose di me; scommetto che capiresti il perché di quelle mie azioni che tu definisci: “impulsive e avventate”. Ma, alla fine, non puoi capirlo realmente Komui: tu non ci sei mai stato sul campo di guerra.» E con quell’ultima, fredda frase voltai i tacchi e mi diressi verso l’uscita, con l’amaro in bocca per l’acidità che avevo usato con il supervisore.
Alla fine, anche se non volevo, mi ero affezionata a lui e questo era il risultato dei miei sentimenti. Quello che prima poteva essere un rapporto basato sulla fiducia e, da parte mia, quel poco affetto che riuscivo a tirare fuori raramente ora era diventato un arida distesa di detriti e sabbia ustionante.
Komui mi aveva delusa, spezzata in due con le sue parole che, forse, volevano essere un avvertimento per il futuro e io, d’altro canto, non avevo fatto altro che ghiacciarlo con le mie, sputandogli in faccia una verità che nascondeva fra le righe un messaggio chiaro e tondo: sei insignificante in questa guerra, Komui Lee.
«Evangeline» sussurrò, ma io non mi voltai a guardarlo.
Oh, ma perché quando qualcuno voleva scusarsi, o almeno provarci, iniziava sempre il discorso con il mio nome detto in quel modo? Perché?
«Domani non preoccuparti di venirmi a salutare, non ho bisogno di te» lo congelai, uscendomene dalla stanza.
Qualcosa al centro del mio petto, che fino ad allora aveva battuto veloce, si fermò dandomi la consapevolezza di aver tradito i miei ideali.
Da quando sono diventata così debole? Da quando mi sono permessa di affezionarmi a qualcuno così tanto?
 
«Evangeline-san» Allen mi strappò dai miei pensieri. Abbandonai la visione della città che sfumava da dietro il vetro del finestrino del treno e mi concentrai sul viso gioviale del giovane.
«Che vuoi, pidocchio?» chiesi annoiata dalla sua richiesta di attenzioni.
Lui si scurì in volto, ormai tutto il Q.G lo chiamava così, e curvò le spalle verso il basso. Quel gesto lo fece sembrare più giovane di quanto non fosse, sebbene i suoi capelli erano bianchi Allen rimaneva un quindicenne.
Alzai gli occhi al cielo e schioccai la lingua. «Allora?» Lo spronai.
«Io, ehm… ecco mi stavo chiedendo che tipo di innocence si ala tua, Evangeline-chan. Sono qui da parecchio tempo ma non ho ancor avuto tempo di informarmi su tutti voi, perciò ero curioso di chiedertelo» ammise, carico d’imbarazzo.
«Parassita.» Sborbottai, tirandomi su la manica destra della divisa per mostrargli il bracciale a forma di serpente avvolto al mio avambraccio. «Si chiama Bloody Rose » mi avvicinai a lui. «Vedi qui?», indicai la parte più interna della frusta voltando leggermente il braccio di due quarti, «Rose è attaccata ai miei nervi tramite la sua coda e prende vita quando l’attivo, accentuando la mia visione, rendendola quasi notturna. E’ come se fossi io stessa un serpente, con l’unica differenza che io vedo il calore corporeo invece di captarlo con la lingua.» Mi tirai indietro riappoggiandomi al sedile del treno.
Timcampy volò sulla mia mano sinistra mentre Allen rizzava il viso dal mio braccio e si appoggiava il mento alla mano, prendendo fiato. I suoi occhi grigi seguirono il golem dorato trovando la mia pelle ustionata esposta, l’esaminò velocemente.
«Ti fa ribrezzo?» Chiesi, allungando la mano con il golem verso di lui. Il giovane scosse velocemente il capo colto alla sprovvista: probabilmente pensava che non l’avessi visto sbirciare.
«No. No, assolutamente» si affrettò a dire, gesticolando animatamente. «Sono l’ultimo a cui cose del genere dovrebbero fare ribrezzo; insomma, anche la mia mano sinistra non è che sia una meraviglia», e mi mostrò il braccio sfregiato dall’innocence.
Guardando quella strana carne color rosso mattone, piena di grinze e con una brillante croce incastonata nel mezzo del dorso della mano mi venne da sorridere. Era quasi divertente e ironico al tempo stesso vedere come l’innocence riduceva gli apostoli di Dio: li sfregiava, li conduceva alla morte, li costringeva a non avere una famiglia. Li portava a smettere di credere in una salvezza, in una vita concreta.
«Come ti sei ridotta così?» Domandò Allen, allungando una mano per toccarmi la pelle. Fiorò il dorso sfregiato con delicatezza poi ritrasse le dita, visibilmente in imbarazzo. Tim volò da lui, poggiandosi sulla sua testa.
«Una missione, tre giorni prima che arrivassi tu. Io c’ho rimesso tutto il braccio sinistro e una parte della schiena ma alla fine abbiamo recuperato l’innocence» spiegai, rigirandomi davanti agli occhi il mio stesso arto.
La pelle era leggermente più arrossata dell’altra mano, che invece aveva un bel colorito candido e omogeneo, ed era solcata da parti più marcate fatte di linee dissimili fra loro –i rami a cui ero rimasta incastrata sotto.
«Abbiamo?» Sussurrò a se stesso Allen, ma abbastanza forte da farsi sentire.
«Si, c’era Kanda con me quando mi sono ridotta così. E’ stato lui… è sta… è stato lui a salvarmi» sbuffai fuori, ancora visibilmente scocciata dal fatto. Ma poi perché ne stavo parlando con Allen Walker?! Che cosa c’entrava lui in tutto questo?
«Capisco. Tu e lui state assieme?»
Quella domanda per poco non mi fece strozzare con la mia stessa saliva. Mi tirai un colpo al petto per tornare a respirare normalmente, tossii.
«Ma come ti vengono in mente idee come queste, Moyashi?!» strillai colpendolo in testa con forza, facendo voltare i pochi passeggeri del treno nella nostra direzione.
Il giovane si afflosciò contro il proprio sedile, tenendosi la testa fra le spalle e mugolando scuse alternate a docili imprecazioni di dolore.
«E’ che siete così simili; ho chiesto a Jerry, il cuoco, se eravate fratelli ma lui mi ha detto di no e ha aggiunto che, secondo i suoi ultimi resoconti, avete passato molto tempo assieme. Così ha dedotto che usciste insieme e mi ha chiesto di domandartelo!»
«Stupido Moyashi!» ululai nuovamente, colpendolo sopra il bernoccolo causatogli poco prima.
«Perché mi picchi sempre?!» abbaiò indifeso Allen, appallottolandosi su se stesso.
«Perché Jerry non è qui, e quindi non posso picchiare lui» replicai, incrociando furiosamente le braccia al petto. «E tanto per essere chiari: fra me e Yuu non c’è nulla e mai ci sarà qualcosa!»
Dopo quell’accaduto andammo avanti a parlare per un poco dopo che gli chiesi come aveva scoperto di essere un’esorcista e lui si mise a raccontarmi tutta la sua storia: da quando Mana l’aveva adottato, a quando erano morto e lui l’aveva fatto diventare un’akuma ed era stato maledetto. Mi raccontò anche di quando l’aveva trovato il maestro e l’aveva preso con se.
«Ti invidio» mi ritrovai a sussurrare e Allen smise di parlare, bloccando le sue labbra a metà della nuova frase.
Si passò una mano fra i capelli bianchi, scoprendo il pentacolo rosso disegnato sulla fronte, e tossì sorpreso.
«Hai potuto vivere col maestro tutti questi anni e imparare così tanto; come avrei voluto essere al tuo posto» ammisi.
«Non è che ti sia persa molto, eheh» ingoiò un fiotto di saliva, tirandosi il colletto della divisa lontano dal collo. Lo tagliai con uno sguardo di ghiaccio e incrociai le mani al petto, accavallando le gambe.
Stupido moccioso che non era altro: aveva avuto la fortuna di conoscere e vivere con Cross e aveva il coraggio di dire: “non è che ti sei persa molto.” Ingrato. Se non fosse stato per il Generale adesso Allen avrebbe potuto essere benissimo rimasto in strada a fare l’elemosina.
«Se dici a qualcuno che ti ho detto queste cose: attorciglierò Rose con tanta forza attorno al tuo collo che si spezzerà, chiaro pidocchio?»
«S-si Signora!» esclamò il ragazzino, e la conversazione terminò così.
 
Il sole splendeva quando scendemmo dal treno, i tulipani attorno a noi ci accecarono con i loro colori sgargianti mentre le pale dei mulini a vento giravano tranquille nel vento.
Odio questo sole.
«Ma non dovrebbe essere inizio inverno?» Mi lamentai.
«Mi scusi, siete Allen Walker e Evangeline Corsi?» Un finder, un uomo di bell’aspetto dai capelli corti e scuri e la barba curata, ci si avvicinò sorridente.
«Si, siamo noi» annuì Allen.
«Sono un cercatore dell’unita di Yeegar. Il mio nome è Thierry» si presentò, inchinandosi davanti a me.
Inarcai le sopracciglia e osservai il Pidocchio. Non avevo mai capito questa cosa dell’inchinarsi, era sempre stata un tabù per me.
«P-piacere. Io sono Allen Walker, grazie per esserci venuto incontro» si affrettò a rispondere Allen prima di inchinarsi, capendo dalla mia occhiata la domanda che gli stavo ponendo.
«Il supervisore Komui ha detto di consegnare questa al Generale» intervenni io, sovrapponendomi alle parole di Allen. Gettai fra le braccia del finder la valigetta che avevo avuto in custodia quella mattina e mi voltai.
«M-mi dispiace ma il generale Yeegar non è più qui.» La frase mi fece scattare sull’attenti. Che si fosse scontrato con dei Noah e avesse perso? No, impossibile sennò perché quell’uomo sarebbe stato così calmo? «Ha ricevuto notizie riguardanti dell’innocence ed è partito per il Belgio.»
«Sei serio?» Chiesi, sentendo il mondo crollarmi sulle spalle. Tutta quella strada fatta in treno fino a li, a sorbirmi i discorsi della mammoletta per poi scoprire che il Generale era in Belgio?! Che avevo fatto di male?
«Si» annuì il finder.
«Moyshi, prendi la valigetta: ce ne andiamo in Belgio!»
«Il generale mi ha inviato qui apposta per farvi da guida, signorina» intervenne Thierry, facendomi voltare per l’ennesima volta. «Evangeline-san vi prego di avere pazienza, il prossimo treno passerà fra due ore.»
E fu così che mi ritrovai imprigionata in una missione che oltre ad avermi fatto litigare con Komui adesso si preannunciava già noiosa. Il giorno prima sarei partita subito, all’istante mentre adesso, che la situazione era tranquilla e noiosa non vedevo l’ora di tornarmene alla Home. Almeno li qualcuno con cui animarmi la giornata ce l’avevo: Lenalee, per esempio.
 
 
To be continued…

 
 
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Allen: Ohhhh, eccoci qui! Bentornati alle Note d'autore; oggi ci sarò io a farve da conduttore, assieme a Evangeline-chan ^-^
Evangeline: Yeeee *suona la trombetta con noiai*
Allen: Non troppo felice, Evangeline-chan. Non si sa mai che potrebbe riprenderti a battere il cuore.
Evangeline: Ripetilo se hai il coraggio, mammoletta! Ti riduco le ossa in poltiglia e *comincia tiritera*
Allen: Vogliate scusarmi *ignora Eve*. Per prima cosa, benvenuti cari lettori e grazie per le scorse recensioni. Ora, vi riporto alcune delle parole che Isil-sama (ancora malata) mi ha chiesto di farvi conoscere:

Caro lettore/lettrice,

ciao. Ci tengo a ringraziarvi io stessa per le vostre ultime recensioni e per quelle future, mi fanno e faranno sempre molto piacere. Come avrete intuito questo capitolo è un’introduzione per il prossimo, infatti non c’è quell’azione che ci si aspetterebbe. Per chi ha visto l’anime spero vivamente che l’introduzione di Evangeline nel capitolo sia stata azzeccata (avrei voluto metterla in coppia con Lavi, ma successivamente ho pensato che Allen fosse meglio –nel prossimo capitolo dovranno collaborare contro i Noah, dopo tutto. Non siete curiosi di sapere come se la caveranno?)
In ogni modo, mi chiedevo cosa ne pensaste del fatto di Lavi, la litigata con Komui e la varie domande di Allen. Ditemi la vostra, mi raccomando!

Baci,
 
Isil.

 
Evangeline: Questa sta proprio fuori.
Allen: Non per niente sei uscita dalla sua testa.
Evangeline: Ora stai rompendo le scatole Mammoletta; Boody Rose evocazione, primo livello: spine dell’infernooooo!
Allen: O dannazione! *scappa*

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Parte due: Kevin Yeegar. ***


Avviso: in questo capitolo si farà uso di “suffissi onorifici”; se qualcuno è interessato a saperne il significato legga le N.d.a
 
                                                                                           
                                                                           Capitolo 5.                                                                                     
 

Kevin Yeegar – parte seconda
 

 
 
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He.



«Se ti azzardi a proferire solo un’altra parola, ti strangolo.»
«Sei così crudele, Eveangeline-san*»  pigolò Allen, prima di riceve un sonoro pugno dritto sulla testa candida.
Ero stufa di sentirlo parlare con Thierry di quanto il Generale Cross non fosse una brava persona, in quanto doveva soldi a tutto il mondo, oppure di quanto non riuscisse a credere che ci potesse essere un Generale “buono.” Erano più di tre ore che non parlavano d’altro e, sinceramente, la cosa iniziava a stufarmi. Non so come Allen gestiva le sue missioni, non mi interessava, ma a me piaceva il silenzio e se avessi captato un’altra parola nell’arco  di pochi minuti sarei esplosa portando con me il treno intero.
«Chiudi quella fogna, moccioso» sibilai, lanciandogli un’occhiataccia che gli fece venire la pelle d’oca. «Ho la testa che non riesce più a elaborare un pensiero a causa della tua parlantina!»
Il ragazzino alzò le palpebre e scosse le spalle per togliersi di dosso i resti del mio sguardo, poi sospirò e si abbandonò contro il sedile.
Bene, pensai mentre tornavo a guardare fuori. Il treno correva veloce ma infondo era meglio così: eravamo passati da splendidi prati rigogliosi e verdi, cieli azzurri e limpidi come l’estate all’opposto. Oltre il nostro vetro si vedevano a malapena delle montagne in lontananza, il cielo era carico di tinte scurissime orribili alla vista – probabilmente causate dalle miniere di carbone che stavano nei paraggi – e l’aria doveva essere irrespirabile. Non volevo pensare al dolore che avrei sentito nel petto non appena avessi messo piede fuori dal treno, mi veniva la pelle d’oca solo a pensarci.
 Poggiai il mento sul palmo sinistro e rimasi a osservare la desolazione che ci attendeva alla prossima fermata. Sembrava di guardarmi dentro: nera, piena di fumo e, nel nucleo di tutto, marcia.
«Evangeline-sama*» la voce di Thierry mi urtò come la vista di un qualsiasi Komurin. Il silenzio che si era creato dopo tanta fatica nello scompartimento scomparve in pochi attimi, tagliato via come una fetta di burro.
Sbuffai, andando a creare un alone sul vetro del finestrino, e mi voltai verso il finder. L’uomo arrossì per un momento, visibilmente messo a disagio dal mio brutto carattere, poi ritrovò la calma e mi sorrise.
«Non avevo detto di fare silenzio?» Dissi acidamente, accavallando le gambe con furia. Mi passai una mano fra gli ormai corti capelli neri – avevo dovuto fare un taglio drastico, l’incendio li aveva rovinati più del previsto- e mi sistemai meglio la frangia sopra agli occhi.
«Lo so Evageline-sama, ma mi chiedevo, visto che mancano ancora due ore al nostro arrivo, se potesse raccontarmi qualcosa di lei. Il Generale mi ha chiesto di raccogliere informazioni su di voi, in modo da capire come comportarsi successivamente.»
«“Successivamente” cosa?» mi accigliai confusa.
«Oh» il Finder trasalì. «Il signor Komui ha chiesto a tutti i Generali di fare ritorno al Q.G di Londra per colpa delle apparizioni dei Noah; non lo sapeva?» Mi prese in contropiede.
No, non sapevo Komui avesse chiesto una cosa simile, ma non potevo di certo dirglielo. Che figura avrei fatto affermando di non saperne nulla di quella faccenda? Probabilmente sarei passata come “quella inutile a cui non viene fatto rapporto sulle decisioni del Supervisore” e non potevo permetterlo. Non volevo.
Decisi di mentire: «Certo che ne ero al corrente. In ogni modo, Finder, io non mi fido di nessuno, specialmente delle persone che mi stanno accanto e perciò non ti dirò neppure un particolare sul mio conto» affermai decisa, senza fare una piega. «In più, non è la prima volta che incontro il generale Yeegar; sicuramente lui si ricorderà di me e della mia innocence. Non ho dubbi su questo» conclusi il discorso, estraniandomi nuovamente dal resto del mondo.
 
«Eve-chan*, vorrei presentarti uno dei Generali dell’Ordine: Kevin Yeegar.» Komui poggiò una mano sulla mia schiena spingendomi leggermente in avanti, verso un uomo dai lunghi capelli bianchi come la neve che scendeva adesso fuori dalla finestra.
Ricordo che a quel tempo non mi ero ancora abituata al suo modo di fare, ero entrata nell’ordine da qualche settimana e tendevo a non parlare molto se non per riprenderlo sul fatto che non dovesse darmi soprannomi. Ricordo anche che tendevo a ignorare un po’ tutti, tranne Lenalee.
«E’ la figlia di Cordelia, vero? Guarda, guarda: ha i suoi occhi.» Mi sorrise l’anziano signore, piegandosi verso il basso per arrivare alla mia altezza. Sbattei le palpebre, inarcando le sopracciglia sorpresa di scoprire che quell’uomo conoscesse mia madre. «Ma i capelli, beh, quelli sono di Alex. Senza dubbio, sei la loro bambina.» Mi diede una pacca sulla testa, con fare affettivo. «Quanti anni hai adesso, tredici?»
«Mh» mi limitai a rispondere. Come ho già detto, non mi piaceva parlare ne tanto meno essere toccata così da un perfetto sconosciuto.
«Vedo che sei di poche parole com’era tuo padre. Quando erano miei allievi, tua madre tentava sempre di farlo parlare più che poteva, sai?» Sinceramente, non stavo ascoltando neppure una parole di quello che il Generale stava dicendo, bensì mi limitavo a osservarlo. Sembrava… affidabile. Forse lui sapeva.
Esaminai i suoi occhi severi, al contempo sorridenti e allungai una mano a toccargli i baffi. Li tirai un poco, provocando un urlo strozzato da parte di Komui. Non che fossi solita fare cose del genere, ma non avevo mai visto baffi così curati. Il viso del Generale si irrigidì un poco; che non gli piacesse che i suoi baffi venissero toccati? Peggio per lui.
«Neh, sai dov’è il Generale Cross?» Domandai senza pochi giri di parole.
Yeegar socchiuse le labbra, probabilmente preso in contro piede dal tono rigido che avevo usato, mentre sul suo volto calava un’ombra. Era arrivato alla conclusione che del suo racconto non mi aveva scalfita neppure un poco, che mi era entrato da un’orecchia per uscire dall’altra. Molto probabilmente era rimasto deluso, oppure sorpreso.
«Eve-chan!» Mi riprese allora Komui mortificato, staccandomi dai baffi dell’uomo.
Gli rivolsi un’occhiata glaciale prima di rivolgermi ancora al vecchio: «Lo sai o no?»
«N-no» scosse il capo l’anziano.
«Tzk. Allora non mi interessi» esclamai con la voce incolore, sorpassando le lunghe gambe del Supervisore che, nel frattempo, si era messo a fare una sfilza di scuse all’uomo dai capelli bianchi.
 
 
Una grossa nube di fumo si librò in aria, impedendo all’Akuma di sferrare il proprio attacco.
«Lenalee!» Gridai impaurita, mentre sfrecciavo con Rose fra i rami più alti degli alberi. Non c’era nulla che ostacolasse la mia vista, potevo vedere il calore di ogni cosa mi stesse attorno ma non riuscivo a scorgere quello della mai compagna.
Era successo tutto così in fretta che non avevo avuto il tempo di intervenire; l’Akuma mi aveva preso in contropiede, spedendomi a volare con i fringuelli e costringendomi ad abbandonare il fianco di Lenalee, poi c’era stata quell’esplosione.
«Ti sono dietro» mi rispose la sua voce seria, facendomi sorridere involontariamente. Stava bene, menomale. «Conto su di te, Eve-chan!»
«Ah ah, non ti deluderò.» Quell’Akuma aveva scelto un’avversaria degna di nota; non l’avrei lasciato vivere ancora a lungo.
«Vieni da me, Exsorcissssta» lo sentii ridere. Forse pensava di essere in vantaggio, che con tutta quella nebbia sabbiosa non riuscissi a vederlo… povero ingenuo.
«Bloody Rose: Spine dell’Inferno!» Urlai, caricando un colpo che sarebbe andato a finire dritto sulla testa del demone. La mia frusta fendette l’aria, tagliò la polvere bruna che ancora fluttuava fra me e il mio bersaglio e si andò a conficcare nella sua testa con un sonoro, agghiacciante e –per me- splendido CRACK! Spruzzi di sangue nero si riversarono a terra, sui miei vestiti e sulla mia pelle come scrosci di una cascata mentre il corpo dell’orribile cosa esplodeva.
«Lenalee!» Abbaiai, gettandomi su di lei per proteggerla dalla pioggia acida.
Il mio corpo la costrinse a terra, mentre lei si rannicchiava colta alla sprovvista sotto di me. ok, forse avrebbe potuto salvarci lei stessa, ma solo il pensiero che qualcuna di quelle gocce potesse colpirla e, magari, finire su una delle sue ferite e infettarla mi dava la nausea. Io ero un tipo parassita, il sangue di akuma non mi poteva uccidere, ma lei… lei era un tipo equipaggiamento e quella roba era letale.
«Eve-kun» esclamò la ragazza cinese, non appena la pioggia fu terminata.
Mi sentivo la schiena a pezzi, le gambe doloranti e la divisa strappata che lasciava all’aria gelida di novembre il permesso di pungermi le ferite eppure le sorrisi e mi alzai, aiutandola a fare lo stesso.
«Stai bene?» Chiesi. Avevo quasi quindici anni, eppure mi sentivo molto più vecchia a causa della mia forza fisica e la mia cocciutaggine. Chissà quante ragazzine della mia età avrebbero potuto sopportare un simile trattamento?
«Si. Tu invece? Tutto quel sangue che ti si è riversato addosso…» Lenalee sembrava preoccupata, lo era. Perché? Non volevo succedesse questo, volevo che stesse bene.
«Non è nulla. Sto bene, fresca come una rosa.»
Un rumore ci fece voltare, mettendoci entrambe sull’attenti. Spinsi protettivamente Lenalee dietro di me, sebbene sapessi che lei avrebbe potuto combattere meglio di me che ero tutta acciaccata, e portai Bloody Rose all’altezza del mento.
«Vai, Bloody Rose!» Sentii il netto taglio che la mia frusta apportò alla nebbia, ormai del tutto diradata, e poi lo scontro con del metallo. Qualcosa mi trascinò in avanti, strappandomi dalla mia postazione con forza e velocità. Volai in avanti atterrando ai piedi di qualcuno, che sobbalzò all’istante.
«Generale, è la piccola Corsi.»
 «Piccola a chi?!» Esclamai quasi immediatamente ancora stesa a terra, afferrando il mio assalitore per una caviglia e facendolo a cadere a sua volta. Questo, un finder adulto e vestito di bianco, che aveva imprigionato il mio attacco in una campo di forza, piombò al suolo con un tonfò maniacale che lo portò a inveire.
«Evangelineee, stai bene?» Lenalee mi aiutò ad alzarmi, mentre venivamo affiancate dal Generale Yegaar. Aveva gli stessi baffi di un anno prima, gli stessi lunghi capelli bianchi, lo stesso portamento.
«Ah» annuii, incrociando le braccia al petto. La mia divisa adesso non era solo sfilacciata e sporca di sangue e polvere, no, c’era persino del fango ora.
«Lenalee, Evangeline cosa ci fate qui?»
«Non siamo tenute a risponderle, uo…»
«Eve-kun! Eravamo in missione, ma stavamo per tornare a casa» spiegò pazientemente Lenalee.
«Capisco. Allora, essendo che anche io sto tornando a Londra per un rapporto vi potrei dare un passaggio» propose lui, indicando la sua carrozza trainata da quattro cavalli bianchi.
«Non ci teniamo, possiamo benissimo cavarcela da sole» sputai fuori acida, indirizzando il mio sguardo da tutt’altra parte.
«Eve-kun, smettila!» Mi riprese materna la mia compagna, rifilandomi un piccolo schiaffo sul collo. Sbuffai, incassando la testa fra le spalle.
Ah, lei e le sue buone maniere!
«Uguale al padre» commentò il vecchio.
«Tzk. Avete notizie di Cross Marian?»
«Ecco… veramente non si sa più nulla del Generale da…»
«Allora non ci interessa. Faccia buon viaggio, Yeegar-sama» presi Lenalee per il polso e mi avviai lontano dall’uomo con passo deciso, lasciandolo li a guardarmi con gli occhi cerchiati dall’incredulità.
«Accetteremmo volentieri il suo passaggio, Generale Yeegar» sorrise a un tratto la mia compagna, fermando la mia fuga con convinzione.
 
 
 
«Evangeline-sama?»
«Evangeline?»
Una mano mi scosse un poco, portandomi a storcere il naso dal disappunto. Socchiusi leggermente le labbra, sbattendo le palpebre velocemente per svegliarmi del tutto da quel sonno che mi aveva accolta improvvisamente fra le sue braccia. La prima cosa che vidi fu il viso pallido di Allen, a pochi centimetri dal mio.
«Pidocchio!» Strillai colta alla sprovvista, prendendolo per le spalle e spingendolo contro il mio ginocchio.
Il giovane esorcista cadde in ginocchio sul pavimento sporco della cabina, reggendosi con le lacrime agli occhi la pancia dolorante. Il Finder accanto a lui sembrava essersi pietrificato.
«E-e-evangeline, s-s-iamo ar-rrrivati.» balbettò Allen, accasciandosi al suolo definitivamente.
«Eh?» Socchiusi le labbra in una piccola “o” e mi guardai attorno, sbattendo per l’ennesima volta le palpebre. Rivolsi il mio sguardo cenerino all’esterno e, con mi grande sorpresa, constatai che il treno sii era fermato. Eravamo arrivati a destinazione e io durante l’ultimo tratto di corsa mi ero… addormentata?!
Oh, che imbarazzo!
«Mh. Bene, allora perché siamo ancora qui?» Mi alzai in piedi estraendo dalla portantina la mai valigetta e quella che avremmo dovuto consegnare al Generale, poi mi rivolsi ad Allen: «Muoviti Moyashi; il treno ripartirà a minuti.»
«S-s-si» rispose flebilmente l’albino.
 
 
 
«Ma che cittadina gioiosa. Non mi sarei mai aspettata un’accoglienza così amorevole» ironizzai annoiata non appena mettemmo piede in città. I miei stivali alzavano folate di polvere a ogni passo, colorandomi la visuale di marrone per qualche minuto: era l’unico colore differente dal nero e il grigio che pareva dar vita a quel luogo sperso nel mondo.
«Su su, Evangeline-kun, di sicuro arriverà qualcuno a prenderci» rispose sorridente Allen, tentando di sdrammatizzare la situazione.
Gli rivolsi un’occhiata fugace, carica di disprezzo, e sbuffai voltando lo sguardo in lontananza.  «Come minimo ti hanno visto in faccia e si sono presi paura, pidocchio.»
«Eh?» L’albino si scurì in volto, bloccandosi a metà strada per attutire il colpo che gli avevo appena inferto. «Sei così crudele, Evangeline-kun.»
«Si s…» Rose pulsò al mio braccio portandomi a voltarmi di scatto, sull’attenti. L’Innocence batté di nuovo contro la mia pelle provocandomi una fitta momentanea al braccio, che strinsi con forza all’altezza del polso con la mano libera. «Moyashi?» Domandai avvicinandomici, sbattendo le palpebre per allontanare lo strato di polvere che si era alzato, per l’ennesima volta.
«Si, lo sento» annuì lui, parandosi al mio fianco.
Sul mio viso, contro ogni aspettativa, si allargò un grande sorriso soddisfatto.
«Sentire cosa, signori esorcisti?» Thierry si fece avanti incuriosito dal nostro discorso.
«C’è un Akuma» lo informai nel mentre l’adrenalina si faceva spazio nelle mie vene: mi sentivo pronta, carica. Sarei riuscita a demolire persino una torre se me l’avessero chiesto.
Attorno a noi, la città rimase muta alla mia affermazione; chiusa nel suo silenzio spettrale, quasi a riprendermi per il fatto che mi ero elettrizzata per una cosa che avrebbe dovuto essere spaventosa, catastrofica. Ma non potevo farci nulla; avevo abbassato la guardia in treno e adesso, dopo che me ne ero resa conto, non avrei permesso ad Allen di pensare che fossi debole come ero sembrata, molto probabilmente, mentre dormivo.
«Un… akuma?»
Allen annuì, voltandosi verso il Finder. «Un akuma, ha percepito l’Innocence ed è scomparso» aggiunse l’albino, con un tono di voce serio.
«Ah, nessuno riesce a sfuggirmi, tanto meno una preda così» sussurrai malefica, poggiando a terra la valigetta con dentro il Golem da consegnare al Generale. «Innocence, attivati!»
Fu come iniettarsi nelle vene una scarica di pura energia in stato liquido, che corse su per la spina dorsale facendomi fremere persino la punta dei capelli. L’ormai abituale dolore causato dalla prima attivazione mi sfiorò la pelle, infittendosi nel punto in cui i nervi stavano lavorando di più: il polso. La mia vista si oscurò per qualche attimo, tornando poi più efficiente che mai. Adesso potevo vedere i corpi degli abitanti nascosti nelle case impauriti e tremanti e poco più avanti, fuori dalla città, un altro corpo in movimento.
 «Ah ah, trovato! Allen, pensa al Golem e al Finder!» Ordinai, scrocchiando le nocche con naturalezza, iniziando a correre verso il mio prossimo bersaglio.
«Evangeline-sama, non avrai intenzione di combatterlo da sola?» S’intromise Thierry sconcertato, preoccupato dalla mia reazione improvvisa.
Forse lui era abituato a lavorare col Generale e perciò noi semplici esorcisti gli sembravamo deboli ma non mi aveva ancora vista all’opera. Probabilmente, dopo averlo fatto, si sarebbe ricreduto.
«Col cavolo che ti lascio andare via, preda» Urlai, ignorando completamente l’uomo.
L’eco della mia voce si spanse fino alle montagne che stavano poco più avanti, tornando indietro e poi bloccandosi. Scattai velocemente in avanti, senza lasciare il tempo ad Allen di ribattere.
Il vento sporco di cenere mi schiaffeggiò il viso, portandomi a coprirmi gli occhi con il braccio; nel frattempo con i nuovi stivali creati da Johnny mi sembrava di volare, perciò correvo con una velocità che mai avrei pensato di raggiungere. La nuova divisa era più leggera di un petalo di rosa e, volevo sperare per lo scienziato, più resistente della mia stesa pellaccia. Non mi ero mai sentita più a mio agio di allora con degli indumenti; sembravano fatti, erano stati messi assieme apposta per me. La mia frusta scattò verso uno dei comignoli delle case che avevo difronte alzandomi e dandomi lo slancio per volare in alto e aggrapparmi a quello dopo, e a quello successivo ancora. Mi libravo in aria simile ad un falco predatore che non stacca la vista dalla sua cena.
«Akumaaaaaaaa, sei mioooo!» Ululai in preda all’adrenalina, con i capelli corti che schioccavano nel vento come fruste. Atterrai, e dopo una giravolta che mi cosparse di terra e polvere i vestiti mi rialzai riprendendo l’inseguimento.
Davanti a me si muoveva una creatura grigia, dalle parvenze simili a quelle umane ma con dei movimenti più robotici. Il corpo, sembrava interamente coperto di metallo, brillava sinistro sotto la luce grigia delle nubi ricche di sporcizia.
«Vieni qui, non ti faccio male lo giuro!» Risi sadica, seguendolo nella sua corsa verso una strada senza uscita. Quanto potevano essere stupide le armi del Conte? Quanto potevo essere pazza io?
«Persistente! Persistente! Persistente!» Continuava a ripetere quello ed ogni tanto, quando guadagnava un po’ di strada, si voltava a osservare la carrozza che lo stava inseguendo.
Una carrozza?!
Vedere un veicolo che inseguiva l’arma del conte mi spiazzò per qualche minuto, portandomi a fermarmi sul posto con le palpebre ben alzate.
«Sei dannatamente persistente!» Ringhiò l’Akuma contro l’uomo che stava scendendo dalla carrozza.
Questo indossava una lunga veste nera che arrivava alle ginocchia, pantaloni scuri e stivali dell’ennesimo tono di colore. L’unica diversità era data dai lunghi capelli e i baffi pallidi come quelli di Allen. Socchiusi le labbra quando capii di chi si trattava.
«Ora non puoi più scappare! Farò in modo che tu restituisca l’Innocence che hai preso all’uomo che hai ucciso!» Tuonò il Generale, puntando un dito contro l’essere che aveva preso a ridere sbeffeggiandolo.
«E ora chi è che non ha più vie di fuga?» Domandò l’essere grigio, indicando il cielo con un movimento repentino delle braccia.
Senza accorgermene, alzai gli occhi nella direzione da lui indicata e mi ritrovai a ingoiare un fiotto di saliva. Non era paura quella che sentivo, che mi riduceva la gola a una specie di deserto in miniatura. Assolutamente. Penso che fosse più qualcosa come la sorpresa che mi fece quell’effetto.  Davanti ai miei occhi si apriva un intero cielo schermato di Akuma di primo livello che incombevano sul generale senza ritegno. Dovevo fare qualcosa.
Ripresi a correre, con il cuore che batteva a mille dall’adrenalina e la convinzione che avrei risolto tutto io, da sola. Non ascoltavo neppure più le parole che quei due avversari si dicevano; avevo solo un obiettivo in mente: far sapere ad entrambi che io ero presente e che avrei risolto le cose alla mia maniera.
«Generale, ci penso io ai Livello uno!» Urlai quando gli fui davanti, schermando i proiettili di sangue akuma che gli erano stati indirizzati. La mia Rose schioccava a destra e sinistra come la coda di un demone, mentre l’uomo dietro di me si risvegliava dal moto di stupefazione che gli aveva dato la mia vista. Probabilmente non si era accorto di me fino a quell’istante. «Vada!» Strillai, agganciando una delle bambole del conte e tirandola verso il crepaccio alla mia destra.
L’uomo annuì velocemente, per poi dirigersi verso il Livello due.
«Bene, e adesso a noi bamboline» sibilai spiccando il volo, balzando da un’arma all’altra e causando ferite a tutte e come meglio potevo. Del sangue mi schizzava sui vestiti, altro sul viso o le mani e bruciava, sfrigolava contro la mia pelle quasi fosse acido però non mi creava troppo dolore.
A un tratto, l’Akuma al mio fianco che avevo puntato subito prima di quello su cui risiedevo ora esplose portandomi a nascondere il volto fra le braccia. Una nube di fumo e sangue mi colò contro, un pezzo di armatura sconnessa e bitorzoluta mi colpì con tanta forza da scaraventandomi verso il basso. Le mie orecchie fischiarono a causa dell’onda durto.Non avevo sentito arrivare nessuno, com’era potuto esplodere da solo? Precipitai per qualche metro dall’alto prima che riuscissi a riprendermi dallo shock improvviso e ad agganciarmi ad uno degli akuma che stava puntando il Generale Yeegar, impegnato nella battaglia.
«Evangeline-kun, tutto bene?» Riconobbi quella voce come il portatore della mia svenuta, perciò quando mi voltai fulminai la sagoma di calore di Allen Walker con i miei occhi da demone.
«E’ colpa tua, non è vero Moyashi?!» Strillai furiosa, schioccando la punta acuminata di Rose contro l’ennesimo nemico. «Appena avrò finito con questi qui, ti farò fuori! Adesso: levati di mezzo!»
Lasciai perdere il quindicenne e mi concentrai sugli ultimi Livello uno rimasti. Quando le esplosioni finirono potei lasciarmi andare ad un sospiro liberatorio, abbassando lo sguardo verso il Generale per controllare la situazione. Lo trovai privato dell’avversario, solo dove l’avevo lasciato.
Dov’è l’Akuma?, mi chiesi sgranando gli occhi.
E poi lo vidi: si ergeva a mezz’aria con un orribile copia di un cannone che gli usciva dalla pancia, e mi pareva avesse tutta l’aria di voler sparare contro Yeegar. In effetti, voleva realmente sparare contro il generale.
Dannazione.
«Walker, fallo crepare!» Strillai una volta che mi fui catapultata dinnanzi all’uomo dai capelli bianchi e l’ebbi fatto abbassare.
Odiavo il fatto di dover lasciare la gloria a qualcun altro ma, per quanto mi costasse ammetterlo, Allen era più fresco di me e la mia Innocence necessitava di riposo visto l’enorme quantitativo di sangue Akuma che aveva accumulato.
«Non si muova, per favore, Generale Yeegar» ordinò l’albino, sparando poi un colpo che fendette in due la pancia del nemico, facendolo esplodere in una pioggia di scaglie appuntite, fuoco e fiamme e sangue.
 
«Perché siamo venuti qui? Il lavoro è finito, potevamo benissimo lasciare questo posto tetro e dimenticato da Dio» borbottai incrociando le braccia al petto, mentre il Generale Yeegar ancora si scusava con i cittadini per il disagio causato.
Dovrebbero ringraziarci loro, pensai annoiata, volgendo lo sguardo al campo di battaglia. Al posto di quella che pria era stata una pianura di terra perfettamente liscia e regolare, sebbene un po’ fangosa e polverosa, adesso c’erano zolle di terra capottate alternate a buche larghe almeno due metri e profonde altrettanto. Il terreno accidentato veniva poi in un punto nascosto dalle macerie di alcuni Akuma non ancora spariti del tutto.
«Tzk.»
«Suvvia, Eve-kun, non è bello che il Generale voglia interloquire con la gente che ha aiutato?» Intervenne Allen, poggiandomi una mano sulla spalla con fare affettivo.
Ridussi gli occhi a due fessure e, con tutta la lentezza che mi era possibile, lo fulminai con uno sguardo di ghiaccio. Il quindicenne si rabbuiò immediatamente, spaventato dalla mia reazione, e tolse l’arto prima che potessi tagliarglielo via. Calore umano, confidenze come quelle: nessuno poteva averle con me, tranne una singola eccezione che al momento non era presente.
«A proposito, Moyashi» diedi le spalle agli abitanti del luogo per osservare meglio l’esorcista, che aveva iniziato a sbattere le palpebre con velocità. «Non l’hai ancora pagata per il volo che mi hai fatto fare oggi. Preparati a soccombere» e detto quello gli circondai con un braccio il collo e strinsi leggermente, a poco a poco sorridendo a chiunque ci guardava.
 
 
La notte in quella città era qualcosa di macabro. Non riuscivo a distinguere le stelle a causa delle troppe nubi e l’aria fredda entrava nei miei vestiti pizzicandomi la pelle con frequenza, quasi ci provasse gusto. Avevo deciso di non entrare in carrozza a mangiare ma di restare fuori a tenere d’occhio i quattro cavalli bianchi del Generale. Sinceramente, non che me ne importasse molto di quegli animali ma per mio tornaconto preferivo di certo loro a un gruppo di Finder e due esorcisti, tutti uomini.
La verità è che mi sentivo messa come da parte: tutti si erano concentrati su Allen Walker dopo lo scontro e nessuno mi aveva chiesto più di uno “stai bene?”  La mia non era invidia, non avrei mai potuto essere invidiosa del Moyashi, era solo… non sapevo neppure io che nome conferirgli.
Generale Coss, pensai alzando il viso verso il cielo blu, perché non mi raggiungi? Vorrei tanto parlarti e sapere cose, avere risposte e farti domande.
«Evangeline» la voce calma del signor Yeegar mi fece alzare lo sguardo. «Ti ho portato la cena.»
Nel buio della notte, illuminato solo dalla luce fioca che la carrozza emanava alle sue spalle sembrava l’ombra di un qualche fantasma di un passato ormai sbiadito. Il ricordo offuscato dell’uomo che avevo conosciuto anni prima, quando ero appena una bambina.
«Grazie.» Presi il piatto dalle sue mani calde e rigose, mentre il mio stomaco si metteva a brontolare di piacere. Mi portai una mano alla pancia per attutire il rumore e poi sorrisi leggermente all’uomo per ringraziarlo, prima di iniziare a mangiare.
Lui, inaspettatamente, si sedette difronte a me e incrociò le braccia nascondendo le mani nelle maniche opposte, come era solito fare Bookman.
«Ti ringrazio molto per oggi, specialmente per avermi fatto da scudo a costo della tua vita» si accarezzò il mento, mentre sorrideva gentilente.
«Ho fatto quello che doveva essere fatto» risposi con semplicità, infilandomi un boccone di bistecca fra i denti. Il sugo scese nella mia gola inondandola di piacere, aromi speziati e pepe.
Non si poteva certo dire che il vecchio cucinasse male.
«Certo…»
«Ascolti Generelare, lei non sa nulla di Cross Marian? Se sa qualcosa la prego di riferirmela.» Forse questa volta sarebbe stato diverso, forse avrebbe risposto positivamente alla mia domanda.
«Mi spiace Evangeline, non so nulla di quel diavolo da quattro anni ormai.» Forse dovevo smettere di chiederglielo e basta. Prima che potessi ringhiargli contro che Marian non era un diavolo, il Generale si schiarì la voce e si avvicinò leggermente a me dicendo: «Ho una notizia riguardo l’altro lui, però.»
Ingoiai il pezzo di carne che avevo fra i denti e iniziai a tagliarne un altro, nascondendo il meglio possibile la mia sorpresa. Che ne sapeva quel tizio di lui?
 Quello sembrava l’ennesimo momento adatto per stupirsi di qualcosa; non avevo fatto altro per tutto il giorno.
«Non c’è nulla che non sappia di lui» affermai con semplicità, affondando il coltello nella bistecca con decisione. «Crede che non sappia dov’è, quello che fa e come manda avanti la propria vita?» e giù un altro pezzo di carne.
«Evangeline» sussurrò tristemente il vecchio dai capelli lunghi, accarezzandosi il dorso della mano.
«Non mi interessa, Generale. So di lui tutto quello che mi preme sapere e nient’altro di più. Per quella persona io sono morta tanto tempo fa, questo è quello che conta.»
«Se questo ti soddisfa, allora ti lascio mangiare in pace», si alzò spazzandosi via dall’uniforme fili d’erba fresca. Poi sorrise per l’ennesima volta nel buio e mi diede le spalle, dirigendosi alla vettura.
«Generale» lo richiamai alzandomi in piedi.
«Si?» Si voltò lui, le mani sempre infilate nelle maniche opposte.
«La ringrazio per il pasto. Per quanto riguarda le informazioni su Marian: è scadente come sempre.»
 
 
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Isil: Hola hola hola! Siamo toranti :3
Evangeline: SEI IN RIATRDISSIMOOOOOO! BAKAYARO’!
Allen: Suvvia, Eve-chan non penso che dovresti trattare così Isil-sama dopo tutto è lei che ti ha dato vita… A proposito Eve-kun, chi sarebbe questo LUI?
Evangeline: Tu, sei ancora vivo? Pensavo di averti dato una bella lezione prima di cena. Rimedio subito*botta in testa* E smettila di chiamarmi EVE!
Allen: … Ahiaaaa! Isil-samaaaaa!
Isil: Suvvia figlioli cari, dateci un taglio e spiegate ai nostri amici i suffissi onorifici prima che decida di uccidervi dal primo all’ultimo.
Allen & Evangeline (lei: tzk): Procediamo subito.

San: さん?): utilizzato per indicare il rispetto nei confronti di qualcuno, come un collega di lavoro, un proprio superiore oppure uno sconosciuto a cui ci si rivolge in maniera educata, ma può essere utilizzato anche con persone con le quali non si ha un rapporto amichevole per pura formalità (andando ad assumere una sfumatura di distacco fra le due persone). Nella stragrande maggioranza dei casi è analogo al nostro "signore/a"
Sama: (様?): utilizzato per indicare il rispetto nei confronti di qualcuno che riveste un titolo importante o ha uno status particolarmente elevato, per esempio un primo ministro o un sacerdote, o il superiore sul lavoro. Il suffisso "-sama" viene usato anche per rivolgersi alle divinità: in giapponese, Dio è definito come Kami-sama. Nelle traduzioni italiane è spesso tradotto con aggettivi come "onorevole" (come è anche avvenuto in passato in film e romanzi), oppure "venerabile" o "rispettabile"
Chan: (ちゃん?): utilizzato come vezzeggiativo, propriamente verso i bambini con i quali nel linguaggio occidentale corrisponderebbe all'appellativo "piccolo/a" o ad un diminutivo (es. Carletta, Luigino). Può però (ed è diffusissimo in tal senso) essere utilizzato anche fra persone adolescenti o adulte e in questi casi indica forte amicizia e confidenza, come per esempio fra amiche di scuola, ma può indicare anche affettuosità e un certo grado di intimità, come fra coppie o fra parenti più grandi verso parenti più piccoli (es. la madre al figlio). Generalmente si utilizza più spesso e con connotazioni meno strette fra ragazze, mentre se usato da un ragazzo per rivolgersi ad una ragazza non parente è più probabile che indichi che vi sia un rapporto particolare fra i due (es. fidanzati o amici d'infanzia)
Kun: (in kanji 君, in hiragana くん?): uno dei suffissi più diffusi, utilizzato tra ragazzi e amici per indicare una certa forma di rispetto, o da un adulto verso una persona molto più giovane come segno di confidenza. Può essere rivolto da un ragazzo anche alle ragazze ma questo caso è più raro. Può essere utilizzato da un anziano o adulto per rivolgersi a giovani di entrambi i sessi. È utilizzato anche in ambito lavorativo.
Evangeline: Eccoli tutti qui. Contenta?
Isil: *sorriso sgargiante* Aye! (Cit. Happy) Bene, ora che abbiamo portato a termine questa descrizione, vi lascio liberi di riposarvi miei bocciuoli.
Evangeline: Cos’hai oggi? Mi sembri troppo esaltata e attiva... Non sarà mica che hai bevuto troppo sakè, ancora?
Allen: Evangeline, meglio che andiamo. Questa sera Isil-sama non sembra molto in se.
Evangeline: Per una volta sono d’accordo con te, Moyashi.
Allen: A presto lettori. Al prossimo capitolo.
Isil: CIAOOOOO. Allen, sei propio un bel ragazzino lo sai? Se non avessi due anni in meno di me magari... NO! POI LAVI SI INGELOSISCE. UPS, NON DIRE A KANDA QUELLO CHE HO APPENA DETTO!

Allen: Certo, certo.Venga, Isil-sama, la mettiamo a letto.
Evangeline: O Signore *schiaffo in fronte *

 

 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Tyki Mikk. ***


Capitolo 6.
 

Tyki Mikk.



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Bad Black Watchdog.
 

Il mare era un tripudio di grigi e neri, con alte onde che s’infrangevano sul porto e facevano oscillare spaventosamente le navi ormeggiate. Scrosci di pioggia cadevano a terra, schizzando ovunque e qualunque cosa si presentasse sul loro cammino, noi esorcisti compresi.
Il mantello che mi ero messa poco dopo aver salutato il Generale Yeegar adesso ballava nelle raffiche di vento secco e freddo, e mi riparava a stento la testa dalla pioggia, che di tanto in tanto cadeva di lato trascinata dal vento e s’infiltrava in esso. Le punte scure dei miei capelli gocciolavano sul mio collo, facendomi rabbrividire ogni volta. Lo stesso si poteva dire dei miei poveri pantaloni pallidi che, come al solito, si erano bagnati e perciò macchiati, nonché incollati alle mie gambe come polipi. Sembravo uno straccio ambulate, nel nero di quel pomeriggio sconsolato.
I miei stivali calpestavano terra provocando un pesante rumore, non abbastanza forte però da sovrastare quello della pioggia.
«Dovevamo ripartire ieri sera, Moyashi! Te l’avevo detto. Vedrai che oggi non partirà dal porto neppure una nave!» E quale uomo sano di mente salperebbe?
Allen si passò una mano fra i capelli, nascosti anch’essi da un cappuccio, e sorrise imbarazzato. Sicuramente si rendeva conto anche lui della situazione attuale: mare mosso, vento di bufera e pioggia non erano di certo le agevolazioni adatte per un viaggio in barca. Si vedeva a malapena la luce del faro!
«Entriamo, presto» annunciò l’albino, aprendo la porta dell’immobile adibito alla biglietteria per i traghetti.
«Di certo non resto qui fuori» borbottai contrariata da quella sua uscita tanto ovvia quanto scontata , nascondendo la voce fra i rumori circostanti.
Non che non volessi farmi sentire, però cominciavo a pensare che sprecare fiato così inutilmente per riprenderlo era stupido. Alla fine non faceva nulla di male, quella mammoletta, se non preoccuparsi per tutti e dire cose scontate.
Entrati ci accolse un’aria più calda rispetto a quella di prima. Un gruppo di persone era radunato davanti a un uomo in piedi sopra una cassa, che ricevette subito l’attenzione di Allen. Il mio compagno corse a sentire cosa diceva mentre io, lasciata sola sull’uscio, rimanevo a guardarmi attorno.
Gocce fredde colavano giù dal mio mantello e dagli stivali, i pantaloni erano talmente fradici da essersi incollati più del dovuto alle mie gambe, affaticandone i movimenti. Con un gesto mi tolsi il cappuccio, lasciando ai miei capelli corti la libertà di muoversi mentre osservavo gli oggetti intorno a me in cerca di qualcosa per scaldarmi, sedermi magari.  
Tremavo, tremavo come se mi avesse appena ferito qualche akuma e non riuscissi ad incassare il colpo. Sentivo le labbra pesanti e la gola secca, il viso congelato e le mani non più in grado di muoversi. Se avessi fatto un altro passo avrei rischiato sicuramente di finire crepata come la porcellana, per poi crollare a terra in mille pezzi. Era vero che mi piaceva la pioggia, ma essere bagnata fino a questo punto era tutt’altro discorso. Con disinvoltura strizzai la maglia. Un getto d’acqua si riversò impertinente sul pavimento.
I miei occhi scuri esaminarono bene la stanza, una costruzione comune di legno, con appese alle pareti immagini del mare e di barche, gli orari delle partenze delle navi e i luoghi dov’era possibile dirigersi. In poche parole c’era di tutto, tranne una dannata stufa su cui fare affidamento per riscaldarsi.
Roba da pazzi, borbottai a me stessa mentre stringevo i denti e tentavo di fermare il mio corpo dal tremolio causato dal freddo.
Inutile, ero così bagnata che ormai avevo già preso sicuramente il raffreddore.
«Pare che per oggi dovremmo restare qui» m’informò l’albino, di ritorno dal piccolo plotone di gente. Io, che mi ero stretta le braccia al corpo per fermare le sommosse involontarie causate dai miei muscoli infreddoliti, annuii e voltai la testa nella sua direzione. Alcune gocce mi colarono sulla schiena, portandomi a inarcarla.
Allen socchiuse le labbra, interdetto dai miei gesti. Le pagliuzze grigie dei suoi occhi esaminarono ogni centimetro del mio corpo. Probabilmente dovevo sembragli uno di quei cani randagi infreddoliti, bisognoso d’aiuto.  Non distolsi lo sguardo dal suo viso finché i suoi occhi non tornarono ai miei.
«Beh?» chiesi, stringendo un pochino più saldamente le mie stesse braccia. «Perché mi fissi così?»
«Sei fradicia, Evangeline-chan. Andiamo a trovare un riparo per la notte, oppure ti prenderai un raffreddore.» La voce di Allen era preoccupata, ma sul suo viso restava lo stesso un sorriso sincero che mi portava a chiedermi cosa realmente stesse pensando. Non era possibile che fosse sempre così sorridente. Che cosa nascondeva in realtà quell’involucro pallido e maledetto?
«Sciocchezze, sto benissimo» sminuii l’ovvio. Era inutile pensarci, il raffreddore l’avevo già. «Mi siederò da qualche parte e riposerò un poco. Il mattino non è poi così lontano Allen-kun.»
Lui sospirò, accarezzandosi i capelli corti con la mano sana. Lo faceva spesso, avevo notato, e specialmente in mia presenza. Probabilmente era un gesto meccanico guidato dall’imbarazzo.
Con il mio piccolo bagaglio stretto fra le dita mi diressi verso una panca semioccupata. Tim che svolazzava allegramente fra me e Allen, felicemente asciutto.
 
Quando ci aveva chiamati non avevo voluto crederci. Mi ero convinta che fosse un miraggio causato da un’apparente febbre dovuta al mio totale fradiciume, che Lenalee non fosse reale. Che mai ci doveva fare in un luogo come quello?, mi ero chiesta stropicciandomi gli occhi.  Eppure lei c’era, ferma in mezzo alla folla di persone borbottanti a causa del rinvio delle partenze. Era li, la giovane esorcista cinese,  con il lungo soprabito scintillante di gocce di pioggia, la propria valigetta stretta in entrambe le mani e i capelli perfettamente in ordine. Gli occhi color malva sorridenti.
Ora, in piedi sulla soglia un Caffee, con il caldo che cominciava a lambirmi la pelle in un abbraccio tutto mi sembrava aver preso una piega leggermente migliore. Con Lenalee al mio fianco, poi, e Allen –con il suo costante buon umore- muto accanto me ogni cosa andava meglio. Mi sentivo persino meno raffreddata. Cosa poco probabile, ma possibile.
«Ho voglia di cotolette» borbottai, toccandomi lo stomaco che aveva iniziato a brontolare. Ora che ci pensavo, non mangiavo nulla da quella mattina. Ci eravamo messi subito in viaggio per riuscire ad arrivare al molo e non avevamo fatto neppure una sosta. Non ci eravamo seduti e neppure riposati. Ora invece si preannunciava il momento esatto per rilassarsi.
Lenalee rise alla mia affermazione. Si accarezzò i capelli liberi dal cappuccio e mi guardò, consegnandomi la propria valigetta. Inarcai le sopracciglia, stringendola fra le dita.
«Prima però cambiati; non credo ti lasceranno sedere ridotta così.» Abbassò lo sguardo scannerizzando ogni centimetro di stoffa, ogni minima goccia che scivolava fino a schiantarsi a terra in un piccolo lago in miniatura.
Annuii lievemente, distogliendo lo sguardo dal suo. Con una mano mi ravvivai i capelli bagnati, che iniziavano ad asciugarsi. «Probabilmente hai ragione, sarà meglio che vada in bagno.» Leva il probabilmente, Evangeline. Mi avviai verso la porta posta a pochi passi dl bancone principale, richiudendomi poi dentro la piccola stanza.
Il bagno era una stanza stretta, dove tutta via si riusciva a muoversi liberamente. All’interno vi era persino una specchio. Quando mi avvicinai alla superfice riflettente sobbalzai: i capelli erano incollati alle tempie, cadevano sulla mascella simili a serpenti neri; il trucco era colato e mi aveva reso il viso simile a un panda, con la differenza che io non sembravo adorabile come uno di loro. Tirandomi le guance verso il basso, cominciai a scuotere il capo.
Ok. Potevo riuscire a rendermi nuovamente presentabile. Ce l’avrei fatta.
Con velocità mi sciacquai la faccia: desso ero almeno presentabile. Mi voltai, curiosa di sapere quali tipo di vestiti si nascondessero nella valigetta prestatami da Lenalee. Quando l’aprii, dopo un sussurrato clic, il contenuto esplose. Probabilmente vi era stato rinchiuso a forza. In effetti in quelle dannate valigette non entrava nulla.
Nota per me: domandare a Johnny di procurarci valige più grandi.
 
Quando poggiai le braccia sul bancone, Lenalee ed Allen alle mie spalle intenti a chiacchierare, gli occhi di un uomo seduto da solo si posarono sul mio braccio sinistro. Involontariamente avevo dimenticato i guanti e così la pelle arrossata che mi ero procurata nella missione con Yuu era ben visibile. Lo ignorai, e facendo appello a tutta la mia forza di volontà - che gridava “spiattellalo contro il bancone!” – mi concentrai sulla cameriera in servizio. Era piccola e carina, con due occhi azzurri svegli e sorridenti.
Alzò lo sguardo dal taccuino che teneva fra le dita e mi fece un cenno con la testa: era il mio turno di ordinare. «Una tazza di caffè, per favore.»
«Te la porto al tavolo o l’aspetti qui?» chiese, scribacchiando sul suo bloc-notes - credo che lo facesse più per noia che per obbligo. Con un gesto svelto della mano, si portò dietro l’orecchio un ciuffo biondo.
«Aspetterò qui.» Mentre lei mi dava le spalle, mi poggiai distrattamente sul bancone e sostenni la testa con il palmo della mano.
Lo sguardo mi scivolò sui miei due compagni: sembravano tranquilli. Allen si ingozzava assieme a Tim –ancora mi chiedevo come potesse mangiare, lui che era un robot- mentre Lenalee sorseggiava la sua tazza di caffè. Stavano scambiando due chiacchiere, ogni tanto si sorridevano e l’esorcista cinese piegava la testa di lato com’era solita fare quando discuteva di cose che le piacevano. Allen invece parlava a bocca piena, sorridendo costantemente fra un boccone e l’altro. Erano un bel quadretto, alla fine. Chissà se avrei mai più avuto l’occasione di assistervi.
Nascondendo l’ombra di un sorriso mi voltai in attesa della cameriera. I pantaloni che indossavo scricchiolarono un poco, colpa del lattice con cui erano fatti.  Il tumore attirò nuovamente l’attenzione dell’uomo su di me.
Non avevo mai criticato i gusti di Johnny o Lenalee in fatto di tessuti, ma creare pantaloni come quelli sembrava più una specie di trappola per esorcisti che un semplice indumento. Ogni movimento era simile a una tortura, tanto stringevano le cosce. Avremmo potuto proporli come arma anti-akuma. Sarebbe stato esilarante vedere quei cosi enormi finire dentro un paio di questi e scoppiare come palloncini. Puf.
«Raccontatelo anche a me» una voce s’insinuò fra i miei pensieri felici, riportandomi nella taverna.
Voltando gli occhi verso l’uomo seduto alla mia sinistra lo trovai intento a sorridermi, con un boccale di birra in mano. Le labbra sottili sorridevano, gli occhi nascosti dietro i grandi occhiali rotondi brillavano di una strana luce.
Smisi di pensare e mi feci seria. Inarcando le sopracciglia dissi: «Prego?»
«Ma si, raccontatemi quello che vi stava facendo sorridere. Andiamo.» richiese lui, bevendo un sorso. Si passò una mano fra i corti capelli ricci, dopo di che s’infilò in bocca una sigaretta.
«Tzk.» Scossi il capo, ignorandolo. Non sapevo bene cosa quel tipo stesse tentando di fare: se un abbordaggio, oppure solo quattro chiacchiere ma probabilmente non si era accorto di aver sbagliato persona. Detestavo gli sconosciuti. Specialmente quelli che si credevano furbi.
«Che fai ora, m’ignori? Oh, suvvia.» Una sua mano si poggiò sulla mia, stringendola un poco.
Sussultai colta dalla sorpresa di quel gesto e, sebbene in minima parte, dal dolore che mi provocava ancora l’ustione. In quei punti la pelle era ancora troppo delicata, e lo sarebbe rimasta per lungo tempo.
«Il tuo caffè» la cameriera mi sorrise, mentre poggiava la tazza sul bancone. Annuii, facendole segno di aspettare un minuto.
 «Dimmi, come ti sei fatta questa? Ti va di racco…»
Prima che l’uomo finisse la frase, ero girata su me stessa liberandomi dalla presa –in modo da non causarmi troppo dolore alla pelle tirando con forza, giocando sul fattore sorpresa-, avevo poggiato il piede destro contro una delle gambe del suo sgabello e poi l’avevo spinto via. L’uomo cadde a terra con un tonfo sonoro, assieme alla sedia, rovesciandosi in testa birra e cibo.  Non potei fare a meno di guardarlo dall’alto in basso con sguardo feroce, prima di far come se nulla fosse successo.
«Grazie.» Strinsi la tazza fra le mani, scavalcai l’ospite e andai a sedermi.
Quando mi accomodai accanto a Lenalee, lei mi fissò di sbieco. Sapevo bene quali erano i pensieri che le vorticavano in testa, in quanti modi la sua lingua avrebbe voluto riprendermi per il mio cattivo comportamento. Ma la conoscevo tanto bene da sapere che non mi avrebbe detto nulla. Sopportare questi miei attacchi verso chi mi sfiorava, chi tentava di toccarmi e prendere confidenza con tanta velocità era una cosa che con cui nel tempo era riuscita a convivere. Penso che l’avesse fatto più per vivere tranquillamente, collaborare con l’anima in pace. Se non l’aveva fatto per quello, allora, non sapevo per cosa potesse essere.
Mi morsi una guancia: l’avevo delusa, e questo mi dava davvero fastidio. Ma perché non riuscivo a farne una giusta?
Prendendo un profondo respiro accarezzai Tim, per poi accoglierlo sul palmo della mia mano. Allen mi riservò un’occhiata incuriosita, prima di pulirsi la bocca con un tovagliolo e piegare leggermente la testa da una parte. I suoi occhi cangianti erano incuriositi dal mio comportamento, dal modo in cui studiavo il piccolo Golem dorato. Era strano sentire le piccole zampette del boccino solleticarmi la pelle arrossata, il calore del suo piccolo corpo prodotto riscaldarmi lievemente. Con la larga bocca Tim sorrise, per poi leccarmi la faccia improvvisamente. Sputacchiai, lasciandolo cadere sopra un’arrosto.
Allen e Lenalee risero.
«Se lo fai un’altra volta, ti strappo le ali piccoletto» lo minacciai, pulendomi le guance. Tim sorrise, prima di addentare la carne. Corrugai le sopracciglia, stupita da quella mossa.
«Tim è fatto a modo suo» mi spiegò Allen, accarezzando il golem. «E’ stato creato dal Generale Cross, perciò è diverso dagli altri golem: ha un comportamento quasi umano. Credo che sia più simile a un cane, a dire a verità.» Gli occhi grigi del ragazzino sorrisero al piccolo oggetto rotondo, senza risparmiare affetto. «Sono contento che almeno per una volta il generale abbia fatto qualcosa di buono.»
Stavo già per ribattere quando Lenalee mi batté sul tempo. Poggiando sulla tavola la propria tazza, la giovane cinese rizzò elegantemente la schiena e si schiarì la voce. «A dire la verità, non fu solo Cross a costruire Tim. O almeno, a farne il progetto.»
Allen sbatté le palpebre, sorpreso. Lo imitai. Avevo sentito varie volte, da molte voci diverse la storia di Tim: il golem d’oro creato dal Generale “Nullafacente”, che aveva la tendenza ad azzannare ogni cosa gli capitasse a tiro. Però non avrei mai pensato che per costruirlo Cross avesse chiesto aiuto a qualcuno.
Un lampo di inquietudine passò negli occhi viola di Lenalee; probabilmente si stava stupendo della nostra ignoranza.
«Lo aiutò Anita.»
«Anita?» Non era un nome nuovo per me, eppure non riuscivo a collegarlo a nessuna faccia in quel momento. Anita.
«La ragazza australiana arrivata qualche anno dopo Reever» lo spiegò come se dovesse essere una cosa ovvia, da tutti i giorni.
Un flash balenò nella mia mente, due occhi azzurri come l’acqua caraibica. La figura della scienziata cominciava a diventare nitida nella mia mente.
Anita. Anita… ANITA! 
Anita, un’australiana di ventiquattro anni che si ritrovava sempre Lavi fra i piedi per ogni minima cosa. Ricordai i suoi capelli tinti di rosso, che le sfioravano le spalle come una morbida coperta ondulata, e la pelle pallida. La rammentai con un camice bianco che le copriva il corpo basso, il seno prosperoso e Lavi che vi lanciava occhiate di soppiatto.
Mi ritrovai  scuotere la testa, sospirando un “ah” mentre mi accarezzavo la fronte.
«Quella Anita» annuii, ricevendo un sorriso da parte di Lenalee.
«Io… non la conosco» sussurrò Allen, arrossendo a disagio. La cinese gli sorrise, ammiccandogli.
Non era così grave il fatto di non conoscere tutta la sezione scientifica, quei cervelloni erano come i criceti: si moltiplicavano a vista d’occhio. Tutta via era davvero difficile non riconoscere Anita: era l’unica, oltre Lavi, ad avere i capelli rossi –con la differenza che i suoi tendevano più al prugna che all’arancio, come invece facevano quelli del ragazzo.
«Quando rientreremo alla Home te la presenterò. E’ simpatica, un bel personaggio» affermò Lenalee.
«Autoritaria, calcolatrice e un po’ stravagante, almeno in fatto di ragazzi» mi lasciai scappare dalle labbra. Poggiai, poi, la guancia su un palmo e afferrai la zuccheriera, cominciando a versare lo zucchero nel caffè. I granelli scendevano nel liquido scuro con impazienza, scomparendovi all’interno e incantandomi con il loro movimento continuo. Era sempre lo stesso movimento. Noioso. Incantatore. Qualche minuto dopo dovevo essere caduta in trans, perché il mio cervello iniziò ad elaborare il ricordo di una giornata avvenuta pochi mesi prima senza che me ne rendessi conto.
 
La Home era semi-deserta. Il guardiano fuori dalla porta dormiva, la cucina era silenziosa perché Jerry stava male e i soldati posti all’entrata di alcuni uffici si erano appisolati sulle aste delle proprie lance. All’interno dei corridoi l’aria era fredda, pungente sulla pelle come gli aghi di Bookman. Di tanto in tanto quei lunghi in cunicoli bui, impreziositi da dipinti inquietanti e finestre che si affacciavano sullo strapiombo, si udivano gli echi delle grida rivolte al Supervisore dal resto della Sezione scientifica.
Spazientita, chiusi in malo modo il libro che ero intenta a leggere e mi precipitai fuori dalla stanza dirigendomi in laboratorio. Le mie gambe scattavano veloci, quasi si  trattasse della mia stessa vita, e il freddo mi tagliava via dalla pelle quel poco calore che ero riuscita a accumulare sotto le coperte.
Con rabbia spalancai la porta che conduceva ai laboratori e ringhiai imponendomi su tutti gli scienziati, oscurando loro la vista della luce. Un’ombra scura mi calò sul volto, i miei occhi brillarono sinistri quando due di questi si voltarono. Gli unici.
«Evangeline-chan, ehilà.» Lavi ingoiò un fiotto di saliva, rizzando la schiena colto alla sprovvista. Qualche ciuffo ribelle gli ricadde sul viso, mentre con velocità lui continuava a rispedirli indietro.
«Junior» sibilai, mettendo un piede sul primo gradino. «Quale parola del mio recente avvertimento non ti è entrata in quel cervello magazzino? “Fai” oppure “silenzio”?»
«Oh, Evangeline-san menomale sei qui. Mi serviva giusto una mano in più» la voce del terzo individuo interruppe il nostro scambio di opinioni. Da dietro Lavi, con le mani piene di cartelle e scartoffie, apparve Anita. I brillanti capelli rosso scuro nascosti dalla semi oscurità, gli occhi azzurri come due fari.
Istintivamente tornai sulla soglia della porta, intenzionata ad andarmene prima possibile. Non che avessi paura di Anita, dopo tutto non avrebbe mai potuto farmi del male, ma ogni tanto aveva quella strana luce negli occhi che mi portava a chiedermi come mai non fosse una compatibile –oppure un’assassina professionista. Solo quando abbassai lo sguardo sulle mani di Lavi capii per che cosa le servisse l’aiuto: trasporto di documenti dal suo ufficio a quello di Komui.
«No» risposi immediatamente, voltandole le spalle. «Hai il Coniglio, accontentati di lui. Ho di meglio da fare.»
«Peccato, chissà cosa penserà Lenalee appena le dirò che non sei stata per nulla gentile in sua assenza…» Che colpo basso. «Se non sbaglio le avevi promesso che saresti stata gentile con tutti» oh, questo era davvero scorretto. «Vero?»
Strinsi le magni a pugno, prendendo un bel respiro e mi parve di sentire Lavi irrigidirsi dalla tensione. Probabilmente non si aspettava quell’astuzia da parte della scienziata. Solo quando sospirai fuori tutta l’aria, e mi voltai iniziando a scendere le scale lo vidi rilassarsi.
«Allora, da dove comincio?» Domandai acidamente, strappandole di mano i fogli.
 
«Smettila» sborbottai sotto voce, tirando una gomitata a Lavi nel costato. Lui si piegò leggermente sul fianco dolorante, pigolando frasi che non riuscii a capire.
«Eve-chan, sei crudele» sentii poi, «non dovresti ferire i tuoi alleati.» Anita mi si era affiancata e sorrideva tranquillamente. Lasciai un po’ di spazio fra me e lei, andando a sbattere contro Bookman Jr.
Il suo unico occhio verde seguì con attenzione il mio movimento, poi le sue labbra si piegarono verso il soffitto. «Anita-chan ha ragione, Evangeline. Non dovresti picchiare i tuoi alleati .»
«Specialmente se sono bei ragazzi.» affermò la donna, e il rosso andò in tilt. L’unico occhio sano del giovane parve scomparire dietro un cuore immaginario, pulsante e con tanto di “bum bum bubum” incorporato.
«St-st-st-STRIKEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE» lo urlò così forte che, quando ebbe finite, tutto quello che rimase della sua voce non era altro che un raschio quasi inesistente. Anita l’osservò di sbieco, prima di precederci.
Scossi il capo esasperata, voltandomi verso l’esorcista. Lui ancora seguiva con lo sguardo la scienziata, sbavando leggermente.
«Riprenditi.» Gli tirai uno schiaffo sulla collottola, lasciandolo da solo in corridoio.
«Eve-channnn! Assscccccccpettami!» Riuscii a sentirlo solo grazie all’eco prodotto dalle pareti, quel suono raschiato e tirato fuori a forza dalla gola.
Chiusi gli occhi, aspettai che mi raggiungesse, lo colpii di nuovo. La mano mi pulsò per la seconda volta nel giro di pochi istanti, ma nel petto parve crescermi un senso di leggerezza che mi spingeva, tentava a farlo per l’ennesima volta. Colpire Lavi aveva un non-so-che di calmante, rinvigorente.  Ora capivo perché Bookman lo faceva di continuo.
«Idiota. Smettila di chiamarmi Eve» ringhiai, mentre lui mi si affiancava.
Alzò le sopracciglia, sbatté la palpebra e si sistemò meglio i fascicoli fra le braccia. I muscoli si gonfiarono sotto la divisa. «Ti conosco da due anni ormai, Evangeline, ma ancora non riesco a capirti. Posso sapere perché sei così… chiusa?»
«Non lo sa Lenalee, figurati se te lo vengo a dire a te» sbottai acida, voltando il viso da tutt’altra parte. Probabilmente dovevo aver accumulato molto ossigeno, perché quando rilasciai un sospiro uscì tutto con un sibilo continuo.
Al diavolo lui e la sua anima da Bookman, con quella voglia di conoscere tutto di tutto e tutti, che io non potevo sopportare. Che poteva fregargliene a lui di me, dei miei comportamenti?
La gente ha segreti, ed è meglio così. I segreti ti rendono forte, immune da tante cose. Io custodivo i miei con cura, gelosia. Li stringevo nell’angolo più recondito e buio della mia anima perché, sebbene mi provocassero costantemente fitte al cuore, mi aiutavano ad andare avanti. Che mi spingevano ad andare avanti. Un giorno, magari, sarebbero venuti a galla, ma fino ad allora nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza, a meno che la mia morte non fosse stata vicina.
Fra me e Lavi cadde il silenzio, rotto solo dal rumore dei nostri passi e quelli di Anita poco più avanti.
«Chiudi la bocca, Coniglio, non penso che le donne delle pulizie gradiscano lavare via la tua bava» gracchiai, senza però degnarlo di un vero e proprio sguardo. Sinceramente, non ce n’era bisogno. Da quando Anita aveva affermato che era un bel ragazzo, non aveva fatto altro che sbavarle dietro.
Mi preoccupava più lei che lui, a dirla tutta. Chi mai avrebbe definito Lavi “un bel ragazzo”? Alzai gli occhi al cielo: ora capivo perché di tanto in tanto portava gli occhiali.
«Sbavo perché ho qualcuna a cui sbavare dietro. Insomma: non è perfetta? Piccola, formosa, occhi profondi e di un azzurro intenso che ti fa ricordare l’oceano e…»
«Ed è interessata a Kanda» interruppi le sue fantasie, riportandolo alla realtà. Come colpito da una stella cadente Lavi tornò al pianeta terra, con l’occhio verde più aperto che mai. Le labbra rosee socchiuse in una muta domanda (“ma che dici?!”) e le sopracciglia aggrottate. «Non dirmi che non lo sapevi?»
«Ma cosa dici?» Pareva più un’accusa che una domanda. Ehi tu, che cazzo hai detto?
«L’ovvio, idiota di un Bookman. Mi domando se quella gli occhiali non debba tenerli sempre, invece che di tanto in tanto; ha proprio degli strani gusti.» Indicai svogliatamente al rosso la scienziata, che stava amorevolmente parlando con Yuu.
Lei parlava, lui la guardava, lei arrossiva. Penso che riuscì persino a raggiungere le stessa tonalità rosso scuro dei suoi capelli; mentre Lavi arrivava a quella mezza arancione dei suoi.
Con un gesto improvviso abbandonò i suoi fogli sui miei, raddoppiando il peso che gravava sulle mie spalle e scattò verso i due. Rimasi ferma, stupita. Lavi aveva… aveva davvero fatto quella cosa? Mi morsi le guance per non gridargli dietro. Ero infuriata per quell’avventatezza, ma al tempo stesso curiosa di sapere come sarebbe andata a finire. Lasciai tutti i fascicoli a terra e vi poggiai sopra i gomiti, reggendomi il mento con il palmo della mano. Rose formicolò un poco, ma smise immediatamente.
Affilai lo sguardo, incrociando le gambe. Nel frattempo Lavi si era parato accanto ad Anita, circondandole il collo con un braccio. Lei gli aveva riservato un’occhiataccia.
«Yuuu» esclamò Lavi divertito, rifilando al giapponese una pacca sulla spalla. Inarcai le sopracciglia allibita, finché Kanda non gli puntò al collo Mugen. Ora sembrava quasi una scena normale. «Hai conosciuto la mia ragazza? Eh?» continuò il rosso, stringendo un po’ più a se la donna. Lei sobbalzò sul posto, mentre il moro rinfoderava la spada.
«Si. E ora stavo per andarmene.» Gettò un’occhiata ad Anita, che era diventata paonazza. «Ci vuole coraggio per stare con uno come lui.» Li superò, senza lasciare il tempo alla scienziata di replicare.
Ci osservammo mentre mi superava, intrattenendo con i nostri occhi una muta conversazione. Quando il contatto si interruppe repressi un ghigno annoiato, tornando a monitorare Lavi.
«Io sarei la tua ragazza?!» Anita alzò la voce, visibilmente alterata. Puntò un dito contro il petto del giovane e gonfiò le guance: «La tua ragazza un corno, guercio! »
«Ma ma ma ma ma» Junior socchiuse le labbra.
«Sei un idiota! Per una volta che riuscivo a intrattenere un dialogo che si può definire “umano” con Kanda tu, tu!» Era divertente vedere Anita gridare contro Lavi, tuttavia mi sentivo messa da parte. Lasciata sola, a stiracchiarmi sopra una pila di moduli e cartacce.
Scossi il capo, rizzai la schiena e scrocchiai le nocche. Meglio intervenire.
«CONIGLIOO» strillai, attirando la loro attenzione. La mia voce echeggiò per il corridoio, saltando da un muro all’altro con una potenza quasi distruttiva. «Vieni qui e riprenditi i tuoi fogli, oppure ti strangolo!» Attivai l’Innocence e la lanciai verso di lui: Rose si arrotolò attorno all’avambraccio pallido del rosso, tirandolo nella mia direzione. Lavi cadde ai miei piedi, alzando il suo occhio smeraldo a incontrare i miei ossidiana.  «Porta questa roba da Komui, e vedi di non fare altri danni» ringhiai.
Ritirai l’Innocence, superando il corpo dell’esorcista ma quando l’operazione fu completata le vene del mio polso pulsarono, si gonfiarono e diventarono più visibili del solito. Successivamente arrivò una stilettata di dolore tanto potente da costringermi a tenere la mano sana attorno all’arma, che si stava trasformando. Si bloccò a metà della mutazione.
Qualcosa non andava con il funzionamento di Rose, del mio corpo: era come se tutti i miei nervi si stessero rifiutando di muoversi. Era come se non fossi più padrona della mia stessa carne, di me.
«Evangeline, vieni come me, per favore» mi ordinò Anita, dopo avermi lanciato una lunga occhiata. Sapevo cosa aveva fatto: mi aveva studiata con gli occhi, azionando quel suo cervello malefico e strabiliante, e adesso stava per portarmi da Hebraska.
Sospirai, richiamando a me la frusta con tutta la forza di volontà che possedevo: Bloody Rose tornò normale, ma il dolore persistette. «Porta tutto nell’ufficio di Komui, e non fare danni» ripetei al Bookman, poi scomparii dalla sua vista seguendo la scienziata.
 
«Nessuno qui dentro conosce questo dannato tipo di Innocence, allora?! Neppure questo orribile serpente trasformato ne ha idea?!» chiesi alterata, indicando la mezza trasformazione di Rose e poi Habraska. La donna Innocence sbuffò. Penso che si fosse arresa e avesse capito che non avrei mai smesso di definirla così. Era un brutto vizio, certo, ma un soprannome azzeccato.
Komui alzò gli occhiali e si accarezzò il naso, per poi passare a massaggiarsi la fronte. Sembrava turbato, così come Anita che adesso aveva iniziato a fare avanti e indietro per tutto l’ascensore.
«Purtroppo, Evangeline, il tuo reale tipo di Innocence è conosciuto da pochi e nascosto a molti» spiegò la rossa, avvicinandomisi. «Le uniche persone che ne sanno realmente qualcosa sono due dei generali: il Generale Yeegar e Cross. Ma come tutti sappiamo Cross è da qualche parte, disperso, e Yegaar non è solito abbandonare la sua ricerca di compatibili per tornare alla Home.»
Digrignai i denti, stringendo i pugni. Faceva male, dannazione, ma meglio quello che tirarle un pugno dritto sul naso. «Quindi sono fottuta» sussurrai.
«Eve» Lee mi poggiò una mano sulla spalla sinistra, stringendo un poco. Penso che per lui dovesse essere un gesto di conforto, ma per me non fece altro che aumentare il livello di frustrazione che mi era salito in corpo.
Lo ignorai. Non volevo mettermi a litigare.
«C’è nulla che possiamo fare, nel frattempo? Tu cosa ne pensi Anita? Hebraska?» Chiese il Supervisore, restando alle mie spalle.
La scienziata si accarezzò la folta chioma fulva, poi guardò Heb e infine me. Nei suoi occhi limpidi potevo leggere preoccupazione. pena. Pena, ah!
«Per ora, tutto quello che possiamo fare è monitorare la situazione, almeno due volte al mese.» Anita si accarezzò il collo e: «Se mai dovessi sentirti davvero male, none sitare a venire da me. Nel frattempo tenterò di convincere Yegaar a farmi dire il più possibile sul tuo tipo di innocence.»
 
 
Bloody Rose  lanciò una scossa, facendo tremare il mio corpo quasi fosse stato una foglia autunnale pronta a staccarsi dall’albero. Tutti i muscoli si contrassero, bloccando la funzione dei movimenti per qualche secondo; riuscii solo ad alzare le palpebre. Poi tutto passò.
 Aprii gli occhi soffocando un urlo di dolore, rizzando la schiena come se qualcuno mi avesse appena infilzato da parte a parte. Un altro attacco da parte della mia stessa arma. La mia tazza di caffè, ormai freddo, si catapultò sul tavolino, cospargendo di liquido nero l’intera superfice adesso vuota. Dannazione. Dovevo stare attenta con i movimenti dopo che succedevano quelle cose, Anita me l’aveva ripetuto costantemente.
 Cominciai a pulire senza degnare i miei compagni di uno sguardo, troppo frastornata dai ricordi. Dai pensieri.
 Lenalee mi guardò di sbieco, mentre prendeva dei fazzolettini e iniziava a tamponare sul pasticcio; Allen mi sorrise, aiutandomi.
«Scusatemi» mormorai assonnata.
Rose fremette di nuovo.
Ultimamente accadeva spesso, troppe volte. Komui mi aveva detto di chiamarlo nel caso le cose si fossero complicate, ma il mio eco mi costringeva a dire “NO”. Era come un rifiuto. Eppure… eppure avrei dovuto farlo. Dopo tutto si trattava di una cosa seria, sulla quale non avrei nemmeno dovuto rimuginare. La mia Innocence stava praticamente… No. Non avrei assolutamente chiamato il Q.G; avrei trovato una risposta per conto mio, e sapevo già a chi rivolgermi. Peccato che non l’avessi fatto quando ne avevo avuto l’occasione a portata di mano. Stupida.
Con avventatezza portai il braccio destro sotto il tavolo, stringendo il polso fra le gambe. Il pulsare si placò un poco, donandomi sollievo.
«Qualcosa non va, Eve-chan? Stavi dormendo così bene e all’improvviso ti sei svegliata» sussurrò Lenalee, dopo aver allontanato dalle labbra la propria tazza.
Mi ero addormentata, ecco perché il ricordo di quel momento mi era sembrato così reale. Magari ricordarmi di quel dolore improvviso di allora l’aveva riportato a galla nel presente. Ma chi volevo prendere in giro? Avevo bisogno d’aiuto, risposte, consigli.
«No, è tutto a posto. Ho solo ricordato di aver dimenticato di dire una cosa urgente al Generale, che mi aveva chiesto tuo fratello.» Lanciai un’occhiata a Rose, che ancora pulsava. «Scusatemi, davvero, ma devo lasciarvi. A presto!» Senza lasciare a nessuno dei due il tempo di reclamare, mi alzai e uscii dal locale.
Richiusi la porta alle mie spalle e mi strinsi nel mantello. La tenda sopra l’entrata mi proteggeva dalle scrosciate di pioggia, ma il vento portava con se alcune gocce che si andavano a schiantare contro il tessuto simili a proiettili. Affilai la vista, in cerca di una direzione.
Dovevo trovare Yegaar il prima possibile. Non ci avrei messo molto, era a poche ore dalla città sicuramente, ma vista la pioggia battente ci avrei messo certamente di più a raggiungerlo. E poi, avevo bisogno di un mezzo. Uno veloce.
«Ehi tu!» strillai a un uomo che mi passò davanti, quasi l’avesse mandato il fato. «Poche storie, mi serve il tuo cavallo!»
 
 
Saltai praticamente giù dalla sella. Le gocce di pioggia che mi colpivano come proiettili e i boati degli attacchi degli akuma che mi frantumavano i timpani. Staccai il mantello dal portante, questo cadde a terra lasciandomi alla mercé della pioggia. Tirai uno schiaffo al sedere dell’animale e questo nitrì, partendo al galoppo verso la città.
«Generale!» Era la voce di Thierry, il finder che ci aveva accompagnato durante il nostro viaggio in Belgio.
Affilai lo guardo, scavando fra le gocce e individuandoli. Era ancora abbastanza lontana, perciò vedere bene dove fossero con quel cielo grigio e tutta quell’acqua era difficile, tutta via non impossibile. I tre Finder del Generale Yegaar erano tutti ammassati sul lato ovest della strada, e guardavano nella direzione del loro superiore.
«Sbrigatevi, andate via!» Le parole dell’esorcista si persero nel vento. «Vi raggiungerò presto» aggiunse, e tre akuma di primo livello esplosero in volo.
Dovevo intervenire. Dovevo aiutarlo. La mia Innocence me lo imponeva, lo sentivo dal modo in cui pulsava al braccio, facendo fremere i nervi e i muscoli. Mi rubava energie preziose, che riponeva al suo interno in attesa di essere sfoderata. Un’ondata di adrenalina mi colpì come un treno in corsa.
«Andate» ordinai a mia volta, correndo nella loro direzione. I presenti si voltarono a guardarmi, stupiti. «Andate via velocemente, oppure vi strapperò la carne dalle ossa a forza di frustate» intimai, attivando Rose. L’arma sibilò nel vento gelido, attorcigliandosi sopra un nemico per poi iniziare a stringere. Sentivo l’energia del cristallo sacro diffondersi per tutta la loro superfice, irradiarli, purificarli, far esplodere la bambola del Conte.
«Evangeline» Yeegar si voltò verso di me quando mi fermai al suo fianco, socchiudendo le labbra.
Probabilmente non si aspettava un mio ritorno; neppure io mi sarei mai aspettata di tornare indietro. Eppure, se l’avevo fatto c’era un motivo serio, domande che necessitavano di risposte immediate.
Con un colpo di frusta eliminai due armi nemiche, che avevano tentato di superarmi. Sarebbero volute arrivare ai Finder, ma la loro corsa si era fermata prima. Nessuna di quelle orribili bambole sarebbe riuscita a superarmi, a evitare me e la mia frusta.
Io li dovevo essere ricordata come la morte, non un’esorcista qualunque.
 «Non si faccia strane idee, Generale. Sono tornata perché devo avere delle risposte» sussurrai tra i denti, tanto silenziosamente che mi chiesi se l’anziano mi avesse sentita.
«Non avevo dubbi» rispose immediatamente l’uomo. «Ma adesso, dobbiamo resistere finché il quartier generale non ci manderà inforzi, a tutti i costi.» Annuii.
Mi sembrò che l’aria si stesse rarefacendo, mentre le due bambole del Conte, enormi ammassi evoluti al livello due alti almeno cinque metri, si fecero avanti. Ormai i livello uno erano andati, tutti, e non rimanevano che quelle due macchine da guerra davanti a noi. Una aveva un brutto colore grigiastro, una specie di corazza ambulante con l’elmo a forma di teschio; l’altra era un’armatura tozza e rossastra, con una grande lancia stretta fra le dita.
Saremmo riusciti a sconfiggerli entrambi? Certo. Dovevamo; dovevo. Se non fossimo riusciti a vincere non me lo sarei mai permesso.
«E lei chi è? Il tuo cane da guardia?» La voce calda di un ragazzo si fece spazio nei miei pensieri, portandomi a guardarmi attorno confusa. Poi apparve, da dietro le gambe del mostro grigio un giovane uomo ben vestito, dagli occhi d’ambra. Ci guardammo, mentre lui sorrideva e abbassava leggermente il cilindro in un inchino.
Sputai fuori un ringhio, affondando di più i piedi a terra. «Un cane da guardia che non ha paura di mordere, specialmente i Noah.» Il ragazzo soffocò una risata, passandosi una mano fra i capelli ricci, mostrando le stimati che gli sfregiavano la pelle nocciola. Gli occhi d’ambra tornarono ai miei.
Rizzai la schiena, come se quel gesto potesse darmi un’aria più pericolosa, stringendo con forza il manico di Rose fra le dita più pallide del solito. C’era tensione nell’aria, si poteva tagliare con il coltello, eppure nessuno osava più dire nulla. Solo il vento interrompeva la quiete, soffiando sinistro e accarezzando i nostri capelli.
 «Non credo che riusciresti a ucciderci» lanciò uno sguardo verso l’alto, ad una giovane ragazzina che se ne stava comodamente seduta sull’armatura più bassa. «Noi Noah siamo immortali. Non è forse così, Road?»
«Penso che sia giusto dire così Zio Tyki.» La piccola sorrise, sbattendo i piedi contro il metallo che prese a tintinnare. Tin tin tin. Era un rumore insopportabile, continuo che mi fece venire voglia di strapparmi le orecchie. La rabbia cresceva nel mio corpo, mentre associavo il nome del nemico a quello che mi aveva riportato Allen quel giorno: Road Kamelot.
«Tu» sibilai fra i denti, attivando il primo livello di Rose. La vista mi si appannò di colori rossi, arancio e gialli, talvolta persino verdi. Le sagome dei nemici divennero come fari abbaglianti nella nebbia, ben distinte nonostante la pioggia. Il rumore delle borchie che sfregiavano la pelle di Rose prese il posto della pioggia. «Sarai il mio premio di caccia.»
«Ma come corriamo» rise il Noah, facendo roteare il bastone da passeggio fra le lunghe dita guantate di bianco. «Che ne dici se prima di prenderti la testa della mia adorata nipotina, tu affrontassi i nostri akuma?» Aveva una voce calda e seducente, che sarebbe persino potuta piacermi se non l’avessi voluto uccidere. In generale non era un brutto ragazzo, ma questo non significava che l’avrei lasciato vivere. «Mostraci quanto vali, cattivo cane da guardia» affilò lo sguardo, «nero.» Lanciò un’occhiata ai miei capelli.
«Ti strapperò la testa a morsi, porcospino» ringhiai indicando con un cenno del mento i suoi capelli, caricando il braccio all’indietro pronta a colpire. Lui affinò lo sguardo, con l’intento di freddarmi sul posto. Fallì miseramente.
 Quando tutto questo sarà finito, pensai, chiederò risposte al Generale e tornerò alla Home con la testa di quei due in un sacco.
La battaglia cominciò.

 
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Isil: Oddeo, ma quanto tempo è che non ci si vede?
Evangeline: Troppo poco -.-
Isil: Tu non mi sei mancata nulla, sappilo. Ero solo in pensiero per Anita che, ho l’onore di dire, è stata creata a immagine di una ragazza che mi sopporta continuamente. Ha persino il suo nome. Grazie Anita :3 –sarai anche nei prossimi capitoli, sappilo!-
Evangeline: E questo che c’entra, vecchia pazza?
Isil: Ma ci sei solo tu stasera?
Evangeline: Gli altri sono praticamente invisibile nel tuo stupido capitolo, perciò hanno deciso di uscire a mangiare assieme il sushi, ma io lo detesto così ho rifiutato.
Tyki: Io non sono andato…
Isil: Oh, Dio ci benedice con una visione paradisiaca. Ciao Tyki.
Evangeline: Proprio. Vedere te, Tyki, è come bearsi della visione di una stupida palla di lana intrigata.
Tyki: Lo stesso vale per te, cagnaccio. In ogni modo, buona sera Isil-sama, incantevole come sempre.
Isil: Cristo, Evangeline basta! Grazie caro. Purtroppo non possiamo dilungarci a lungo, mi attendo nella Terra di Mezzo, perciò passiamo direttamente ai saluti e tutti al prossimo capitolo!
Evangeline: *alza gli occhi al cielo* Ciao.
Tiky: Un bacio ad Anita. Spero di incontrarti presto.
Isil: Questo non succederà mai e lo sai anche tu, gigolò. Anyway: un bacio a tutte/i e al prossimo episodio.
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Nel frattempo. ***


Capitolo 7.


Nel frattempo.
 


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Your life.
 
 
Intanto, alla locanda


La porta si era richiusa alle loro spalle con un leggero tintinnio, provocato dalla campanella posta sopra di essa. Gli occhi dei due esorcisti ancora stentavano ad assimilare le immagini di poco prima, presi troppo in contropiede da quei gesti improvvisi per capire cosa, in quel momento, aveva attraversato la mente di Evangeline.
Lenalee si ritrovò a scuotere il capo, simulando una normale reazione che avrebbe avuto in qualsiasi altro giorno. Eppure sentiva che qualcosa non andava. C’era qualcosa nei movimenti che Eve aveva fatto poco prima, nel suo comportamento che l’avevano insospettita sin da subito. Ma aveva deciso di non intervenire o immischiarsi, sapeva quanto la giovane detestasse parlare dei suoi problemi, specialmente con lei. L’esorcista aveva sempre affermato che non voleva darle dispiaceri, che voleva proteggerla a discapito del prezzo da pagare. Ma non aveva ancora capito che nascondendole le cose, esiliandola da tutto ciò che la tormentava non faceva altro che farla sentire inutile e, anche peggio, un peso gravoso sulle sue spalle già affaticate.
«Lenalee» il suo nome in quel momento era più simile a una domanda che ad un richiamo. Gli occhi malva della giovane cinese andarono incontro agli argentini del compagno, che la fissava tutt’ora stupito. «Cosa…?»
La ragazza rilassò le spalle, riprendendo fra le mani la tazza ormai fredda. Era più un’abitudine che una necessità. «Non preoccuparti, Allen-kun, probabilmente Eve ha dimenticato di consegnare al Generale un messaggio di mio fratello.» Sorrise nella bugia. Cosa doveva chiedere realmente a quell’uomo?
Lo sguardo di lui rimase tutta via preoccupato, incerto. Allen stesso pareva essere in bilico su una fune: non sapeva se crederle oppure no. Non sapeva se porle alcune domande, oppure tenerle per se senza farne parola. E Lenalee capii stava fallendo, non stava riuscendo a emarginare il timore che provava in fondo all’animo. Ma dopo tutto non avrebbe dovuto stupirsene: lei non era Evangeline, che con la sua cocciutaggine e masochismo nascondeva segreti corrosivi per l’animo, e si sfogava durante le battaglie con forza bruta fregandosene delle conseguenze che avrebbe riportato il suo corpo. Lei era Lenalee, che piangeva se un suo amico veniva ferito e non riusciva a trattenere le lacrime neppure se ci provava. Lei non era l’incarnazione della forza, ma le andava bene così. Pur non avendo tutti i requisiti del “cuore di ghiaccio” sapeva il fatto suo, e ne andava fiera.
«Cosa ne pensi di Eve, Allen-kun?» Domandò a un tratto lei, sebbene sapesse che l’albino in realtà fremeva dalla voglia di avere risposte a domande diverse, che lui stesso avrebbe dovuto chiedere. Ma non le importava, perché uno strano meccanismo si era azionato nei meandri della sua mente e necessitava della risposta a quel semplice quesito.
Allen trattenne il fiato per un secondo, interdetto e incerto sul cosa rivelare e cosa tenersi per se. Alla fine parve rinunciare a nascondere i propri pensieri e sospirò, gettando fuori dalle labbra un soffiata calda e gentile che andò a far fremere Tim. Allen sapeva di dover dosare le parole che usava, calcolarle e studiarle quando si riferiva ad Evangeline in quanto per Lenalee era come una sorella; tutta via, non voleva di certo nascondere la verità sui suoi pensieri. Non c’era nulla di male a pensare quelle cose.
Sbatté distrattamente le palpebre, incontrando poi gli occhi malva della giovane esorcista cinese: erano seri e concentrati su di lui, eppure sembravano anche distanti e persi nei propri ricordi. Chissà a cosa stava realmente pensando Lenalee.
«Penso che Evangeline sia una persona con notevole forza fisica e un carattere alquanto sfuggente» rabbrividì al pensiero del loro primo incontro. Rivide gli occhi assetati di sangue di lei e quelli freddi e giudicatori di Kanda. Un’ombra calò sul suo viso: «Ecco, a dire la verità pensò che sia spaventosa come Kanda, forse persino di più. Fra i due non so chi sia quello che fa accapponare di più la pelle» si strinse nelle spalle, tentando di frenare i gelidi sospetti che si erano infilati nella sua mente.
Kanda era pericoloso,  un attacca brighe calcolatore, mangiatore di soba a cui piaceva affibbiare nomignoli stupidi ma Evangeline non poteva certo essere al suo pari. Certo che no. Lei era la quint’essenza del male in persona: una bestia sotto forma di ragazza costantemente assetata di guerre e scontri contro il nemico, incosciente e per nulla osservatrice. Agiva secondo l’istinto, al contrario di Yuu.
Ma era quello che li rendeva tanto micidiali: entrambi avevano due tecniche tanto diverse da sembrare uguali. Ed entrambe portavano sempre e solo ad un unico risultato finale: la palese sconfitta del nemico, a prescindere dalla forza e stazza.
«Evangeline, si. Si, Evangeline fa di certo più paura, con quegli occhi verdi brillanti e quel temperamento metà animale e metà fantasma.»
«Evangeline è sempre stata fredda con tutti» si ritrovò ad ammettere la cinese, prendendo Allen in contropiede.
Senza rendersene conto era caduta nella trappola creata da lei stessa. Ma non aveva potuto resistere, il suo “Io” interiore le aveva gridato contro tutto il tempo: “Sfogati! Parla con Allen, lui può capirti! Smettila di portare questo fardello da sola e raccontagli delle tue insicurezze!” e lei aveva ceduto. Dopotutto non aveva mai creduto che il portare segreti pesanti sull’animo facesse bene. «Sin dal suo arrivo ha tentato di rimanere nell’ombra, nascondendosi in camera sua come un gatto nero nella notte; persino con me non si è mai lasciata del tutto andare. Certo, so che rispetto ad altri ho molta più confidenza con lei eppure», si liberò della tazza, stufa di sentire il freddo della ceramica arrampicarsi sopra le dita «non mi lascia mai entrare dentro quella corazza che si è costruita da quando i suoi genitori sono morti. E negli ultimi tempi il divarico fra di noi è andato a ingrandirsi.»
Allen ascoltava con tanto d’orecchie, continuando ad accarezzare Tim distrattamente. Il piccolo Golem, dal canto suo, aveva smesso persino di fare quel suo strano miagolio ferreo per concentrarsi sul racconto della giovane. Negli occhi di Lenalee era calata un’ombra. Un velo semitrasparente che le copriva lo sguardo così come la frangia, intenti a mascherare i suoi sentimenti già troppo percepibili dal tono di voce.
«Lei tenta di proteggermi, a volte mi ritrovo a immaginarmela come una specie di “mamma orsa” che tenta di proteggere il proprio piccolo. Il problema è che questa cosa, questo suo comportamento penso sia indotto più da una specie di “obbligo” che lei stessa si pone, che come cosa volontaria. In un certo senso credo di essere una specie di caso espiatorio, anche se detta così la fa passare come una poco di buono che mi usa e basta, e non è di certo vero» lei alzò gli occhi a incontrare quelli dell’amico. «Eve è così forte Allen. Forte, orgogliosa e sola» singhiozzò.
«Lenalee» le mani di Allen trovarono quelle dell’amica e le strinsero forte, riscaldandole. «Sei la persona a cui Evangeline tiene di più, sapere che stai piangendo per lei la distruggerebbe non trovi?» Stava tentando di consolarla quando nemmeno lui riusciva a capire come mai fossero arrivati a quell’argomento. Certo, all’inizio era stato curioso di sapere il motivo reale di quella improvvisa dipartita ma mai si sarebbe immaginato di ritrovarsi invischiato nei dubbi di Lenalee.
In un certo senso si sentiva in imbarazzo, nell’altro in dovere. Voleva consolare Lenalee.
«Hai ragione, scusa, mi dispiace. Non volevo metterti in difficoltà, Allen-kun.» Con velocità le mani della giovane sgusciarono fuori dalle presa di lui, andando ad asciugare quella lacrime amare che le rigavano le guance.
«Figurati» sorrise l’albino.
Prima che uno dei due potesse riprendere a parlare, il golem della ragazza squillò portandola a rispondere.
«Lenalee, dimmi che hai trovato Evangeline e che siete assieme, ti prego» la voce di Komui era un misto d’ansia e speranza, ma anche tristezza.
La giovane esorcista cinese sbatté le palpebre confusa, iniziando a giocare con la cornetta del telefono. Non era strano che suo fratello la chiamasse, chiedendole le più svariate cose gli venissero in mente, ma mai il suo tono era sembrato più serio di così. Che qualcosa non andasse? Se fosse stato così, allora prima lei aveva visto giusto.
«Lenalee. Lenalee ci sei?» Era diventato quasi insistente, e lei sapeva che in quel caso gli premeva di più sapere di Evengeline che di lei. C’era qualcosa che quei due gli tenevano nascosto da anni ormai, e sebbene la curiosità la portasse a desiderare di sapere di più il buon senso le implicava di farsi gli affari suoi. Che fosse a causa di quel segreto che Eve si era allontanata da lei, da tutti con più forza e vigore negli ultimi tempi?
«No» sussurrò, quasi si sentisse in colpa.
La conversazione cadde nel silenzio più assoluto, interrotto solo dal battito d’ali del golem nero della giovane. Persino Allen, con Tim, avevano perso la voglia di scherzare che era tornata pochi istanti fa.
«Lo sapevo! Maledetta lei e il suo stupido comportamento!» borbottò contrariato il Supervisore. Lenalee corrugò le sopracciglia. «Lenalee, ascoltami bene, dovete raggiungere il Generale Yeegar e Eve al più presto. Sulla strada del Generale sono pervenute due complicazioni: Road Kamelot e Tyki Mikk. Siete i rinforzi più vicini che abbiamo, perciò fate presto. Ah, Lenalee, stai attenta per l’amor del cielo!»
 
 
Sul campo di battaglia
 
 
E divenne tutto buio, silenzioso. Il mondo si fermò per un attimo, mentre il mio urlo riecheggiava nel nulla più denso e assoluto. Gli occhi si chiusero ancora prima che riuscissi a fare qualsiasi altra cosa, a pensare o muovermi. Strillai in preda alla frustrazione. Esclamai parole che sarebbero dovute essere impronunciabili per una ragazza. Mi sentivo in trappola, incapace di muovere persino un muscolo; la mia Innocence aveva scelto il peggior momento per bloccarmi. Solo dopo qualche tempo  riuscii a comandare ai miei muscoli di svegliarsi, allungarsi verso il Generale e tentare di afferrarlo per salvarlo, spingerlo fuori dalla portata di quella piccola pazza dai capelli a punta. Ma non ci riuscii. Fallii miseramente. Yeegar venne inghiottito da un bulbo nero, assieme ai due componenti della famiglia del Conte del Millennio.
 Battei i pugni a terra ansimante e tremante, scossa da una battaglia che si era rivelata più ardua del previsto. I rinforzi non erano arrivati e i due Noah ci stavano dando del filo da torcere. Stavano vincendo. Non ero stata abbastanza veloce da salvarlo. Perché a un tratto Rose mi aveva lasciata? Cosa significava? Cosa dovevo fare? Cosa avrei dovuto fare? Era come se l’Innocence si stesse ribellando a me, senza curarsi delle conseguenze che questa cosa avrebbe inflitto all’esito della battaglia. Era come se la mia linfa vitale mi stesse abbandonando, e forse era così. Ma non avrei permesso che accadesse ora: prima dovevo, volevo avere delle risposte da Yeegar e per farlo dovevo riuscire a salvarlo.
Generale, perché quando mi è utile decide di scomparire in questo modo? Dannato, quando ti tiro fuori da quel buco nero ti strangolo con le mie stesse mani. Li mortacci tua.
«Dannazione!» Battei un pugno a terra, tirandomi in ginocchio. Il fango aveva sporcato la mia divisa nuova, e la pioggia vi stava giocando sopra disegnando linee frastagliate. Mi alzai in piedi barcollante, poi con tutta la forza che avevo mi scagliai contro il muro nero che li aveva inghiottiti.
Il cielo ruggì con cattiveria, fulmini esplosero con boati tremendi fra i monsoni grigi quando il mio corpo entrò in contatto con la barriera che, per l’ennesima volta, mi rispedì da dov’ero venuta. Caddi malamente di schiena, sbattendo persino la testa. Ringhiai, mi rialzai, riprovai. Non potevo abbandonare così il Generale, che nonostante il modo in cui l’avevo sempre trattato non aveva mai perso la speranza con me. Continuava a pensare che un giorno sarei riuscita a sorridere nuovamente, ad essere più felice, pur conoscendo la mia situazione attuale. E lo sapevo che era così. Avevo appreso che sapeva dell’Innocence quella mattina. L’avevo sentito che lo diceva a uno dei suoi finder mentre ce ne stavamo andando. «E’ una ragazza difficile, un brutto passato l’ha portata a essere quello che sua madre non avrebbe mai voluto, e un’Innocence pericolosa l’ha condotta sul cammino del dolore. Tutta via, non perdo la speranza che un giorno, finalmente, riesca a sorridere col cuore e non solo con le labbra, quando raramente lo fa» aveva sospirato.
«Oh, ma andiamo!» Esclamai esasperata, tornando alla carica. Mi facevano male le mani e le braccia si erano sbucciate per le continue scosse che ricevevo dalla barriera di Road.
Ma no, non avrei mai e poi mai abbandonato quell’uomo. Lui credeva in me, e aveva le risposte che mi servivano. Inoltre, non avrei lasciato vincere un porcospino troppo cresciuto e la pazza che aveva ferito Lenalee. Nessuno poteva sfidarmi, ferire la persona che contava di più per me al mondo e rapire uno dei cinque riuscendo a farla liscia.  
Avrei preso la testa dei due Noah come bottino di guerra, era una cosa certa.
«Venite fuori di li! Mi hai sentito, Porcospino? Venite fuori e combattete come si deve!» Strillai con tutto il fiato che avevo in corpo.
La pioggia prese a cadere con più intensità, e dall’alto del cielo arrivò il ruggito del temporale. Il vento fischiò muovendo le fronde scure della vegetazione a destra e sinistra, aumentando di minuto in minuto la propria forza.
Non ricevetti nessuna risposta.
«Codardi, l’avete voluto voi!» Frustai l’aria con la mia Innocence, creando per qualche secondo una scia dove ne vento ne pioggia osarono mettere piede. L’arma sibilò lungo tutto il tragitto per poi abbattersi con forza contro il campo creato da Road, vi si attorcigliò contro. «Bloody Rose, secondo livello: veleno della rosa!»
L’onda d’urto mi arrivò contro come un’onda anomala. Sentii l’Innocence pulsare con vivacità al mio braccio, muoversi sulla mia pelle e iniziare a mutare forma. Come un serpente che stritola la propria preda Rose cominciò a strisciare sul mio braccio destro, circondò le spalle e raggiunse anche il sinistro, dove si legò all’altro polso prima di partire all’attacco. Due lunghi fili rossi, colorati dal sangue che scorreva nelle mie vene, presero a stringere il campo di forza nella loro morsa, mentre le punte simili a quelle di freccia attaccate ai loro estremi iniziavano a raspare e spaccare il tutto. La superfice liscia dello scudo creato da Road prese a creparsi.
Sapevo che non avrei dovuto abusare del secondo livello di Rose, Komui e Anita me lo ripetevano in continuazione, ma se con le buone non funzionava tanto valeva usare le cattive. Mi sarei assicurata in seguito di nascondere il fatto.
Proprio mentre l’Innocence stava stringendo con più intensità, il suono di una canzone pervenne alle mie orecchie portandomi ad un blocco momentaneo. Persino sopra tutto il frastuono causato dalla pioggia si riusciva a sentire limpidamente ogni singola parola.
«Il Conte del Millennio sta cercando, sta cercando un cuore prezioso. Vediamo se sei tu.» Strinsi i denti, ripresi a stringere. E la barriera cedette sotto l’influsso del’Innocence, o almeno per una buona parte.
Il Generale mi riapparve davanti, gli occhi chiari aperti in un muto grido di disperazione. Chissà cosa aveva subito dentro quel buco nero. Mi precipitai da lui, poggiandogli una mano sulla spalla.
«Evangeline, sei ancora viva» affermò, e per un secondo sorrise.
«Tzk, con chi crede di avere a che fare?» borbottai contrariata da quel suo stupore, poggiando le mani ai fianchi. Le punte della mia nuova forma di Innocence tintinnarono fra loro, attirando la sua attenzione.
Quando gli occhi vigili dell’uomo trovarono la forma di Rose al loro interno scoccò una scintilla, fredda e distante come le stelle nella notte. Le labbra coperte dai folti baffi bianchi si irrigidirono, seguite a ruota dai muscoli. Probabilmente stava riconoscendo il tipo di Innocence che avevo al mio comando, pensando a quanto dovessi essere stata incauta nell’usare il secondo livello.
«La tua vita ne risentirà, Evangeline» sussurrò, ignorando per qualche minuto i due Noah, che erano il problema principale.
«Stia tranquillo Generale, so quali rischi corro. Ero venuta qui per chiederle informazioni sulla mia Innocence, appunto, ma a quanto pare ne parleremo più tardi, Generale.» Rivolsi i miei occhi a Mikk, che rimase leggermente intontito dal mio nuovo sguardo.
Sarà che non si aspettava di vedermi con un’Innocence dalla forma diversa, sarà che si aspettava di rispecchiarsi negli occhi verdi smeraldo di prima e invece se n’era ritrovati due più rossi del sangue, non attaccò immediatamente.
In quegli istanti di tregua, mi concessi di puntargli un dito contro. «Svuoterò la tua testa da quel misero cervello che ti ritrovi, e ne farò il mio porta biscotti.» Certo, suonava alquanto macabro ma almeno rendeva l’idea di cosa l’aspettasse.
Il riccio soffiò su una ciocca di capelli che gli era ricaduta sul bel viso e poi accarezzò la visiera del cilindro, dopo di che tornò a fissare i suoi occhi nei miei. «Finiamola in fretta.»
Partì a una velocità incredibile cogliendomi alla sprovvista, ma non del tutto. Una delle qualità del secondo livello di Rose era la velocità, l’astuzia. Perciò, quando lo vidi saltare addosso al Generale, con il palmo munito di una strana ed enorme farfalla che doveva essere la sua arma, virai su me stessa e indirizzai le due corde al suo polso. Queste si strinsero con forza contro la pelle e lo tirarono giù, dando il tempo a Yeegar di spostarsi.
«Zio Tyki!» L’urlo sorpreso di Road mi sporse a sorrise, mentre l’esplosione del colpo non andato a segno di Mikk rimbombava nell’aria.
«Ehi, ci sono anche io qui!» Esclamai, offesa dal fatto che mi avesse ignorato.
Tyki mi rivolse uno sguardo carico d’odio, forse più per il fatto che gli avessi sporcato il vestito che per altro e mi si gettò contro. Lo scansai, ricorrendo a uno dei due fili per agganciarmi ad un albero poco distante e tirarmi su; purtroppo persi la presa su di lui, che tornò alla carica colpendo il Generale al petto. Il mio cuore smise di battere finché Yeegar non riuscì a ribattere, poco dopo aver borbottato qualcosa a se stesso. Allora, cercando di usufruire del fattore sorpresa, scivolai lungo i rami degli alberi vicini e quando arrivai abbastanza vicina al nemico mi preparai ad assalirlo. Qualcosa mi impedì di saltare.
L’innocence si era aggrappata a un ramo distante dall’albero in cui mi trovavo. Impigliata, attorcigliata nelle fronde della criniera smeraldina di uno stupido albero. Non potevo agire. Tirai con tutta me stessa, impiegando tutta la forza che avevo a disposizione per riuscire a liberarmi.
«Evangeline» la voce di Yeegar risuonò fra gli alberi, pesante. «Evangeline, non uscire fuori dal tuo nascondiglio, non osare venire qui! E’ un ordine!»
«Vecchio, ma che dici?» Urlai, e la pioggia coprì le mie parole. Poi, colta alla sprovvista, mi ritrovai stretta nelle presa dell’Innocence di Yeegar che mi trascinava di albero in albero verso il più lontano. Di tanto in tanto tremava ma quando finalmente raggiunse il suo obiettivo smise di farlo: mi ripose con forza fra le fronde di un albero enorme, attorcigliando la mia Innocence al ramo più alto di tutti. «Vecchio!» Strillai.
La sua Innocente scomparve dalla mia vista, lasciandomi sola dentro un albero, sotto la pioggia.  Poco dopo, un lampo verde esplose sopra l’intera foresta, illuminandola di ombre sinistre e seghettate che ricordavano fantasmi. Il mio cuore si fermò. Lo percepii nell’aria, dal suono e dalla naturale sensazione che mi pervenne contro subito dopo che su tutto calò il buio e ogni cosa riprese a essere com’era prima della battaglia. Innocence. Quella a cui avevo assistito era stata l’esplosione dell’Innocence del Generale.
 
Quando riuscii a tornare sul campo di battaglia, era tutto finito. Corpi di Akuma giacevano a terra tagliati a metà, parti della carrozza con cui era solito viaggiare il Generale erano sparsi ovunque. Dei Noah nessuna traccia. Mi fermai un momento a respirare, riprendere quel fiato da cui lo sforzo per liberare la mia Innocence e la corsa contro il tempo per arrivare fino li mi avevano privato. Sentivo i muscoli doloranti, febbricitanti dai colpi subiti, io stessa mi sentivo come investita dal fuoco di un drago. Neppure la pioggia riusciva a raffreddarmi.
«Generale Yeegar, mi risponda!» gridai. La voce, però, lasciò le mie labbra con poca convinzione. Non sapevo se l’uomo era ancora vivo, avevo visto e percepito bene la sua Innocence mentre veniva fatta esplodere e lasciava questa terra per sempre, come un fiore che appassisce. Ma non volevo crederci. Yeegar non poteva essere morto, non per mano di qualche stupido Noah. Non potevano avere vinto contro uno dei Cinque Generali. Non potevano.
Eppure, quando avvistai Thierry in lontananza, semi nascosto dalla foschia che era venuta a crearsi, con lo sguardo basso e i pugni serrati mi sentii male. La convinzione che Yeegar non ce l’avesse fatta strinse il mio stomaco in una morsa ferrea, dolorosa in modo tale da farmi stare persino male. Da farmi sentire in colpa. Ma io di colpe non ne avevo, giusto?
«Thierry.» Assestai qualche passo traballante nella sua direzione, quando finalmente individuai il corpo del mio superiore, crocifisso con le sue stesse catene ad un albero. Non urlai, non vomitai ne presi a gridare o piangere. L’unica cosa che ebbi il coraggio di fare fu sostenere lo sguardo contro quella schiena nuda dai propri indumenti, che erano andati tagliati e ora penzolavano appena sopra la cintura.
Il finder mi rivolse uno sguardo stupito. Probabilmente non si ricordava neppure che ero stata li. Che c’ero anche io. Poi scosse il capo e gettò gli occhi a terra, senza avere il coraggio di rivolgermi parola; quella volta sarei dovuta essere io a non avere il coraggio. Sebbene costretta, ero stata nascosta per l’intera ultima parte della battaglia e ci avevo messo troppo per tornare sui miei passi.
«Tiratelo giù di li» ordinai, senza la minima traccia d’angoscia nella voce. Stupii persino me stessa che, nonostante le innumerevoli volte, non avrei mai pensato di riuscire a mantenere un tono di voce impassibile. Vedendo che nessuno dei tre finder ubbidivano, divaricai le gambe per sorreggermi meglio e presi un bel respiro. «Tiratelo giù, ho detto! Non merita una fine così! Datevi una svegliata, trio di incompetenti. Questa è la guerra, non c’è tempo per piangere i morti!»
«Generale Yeegar.»
Mi voltai, sorpresa e scioccata dalla velocità con cui Allen poteva arrivare nei momenti meno opportuni. I suoi occhi d’argento non mi guardarono neppure, intenti a osservare lo scempio che i Noah avevano riservato a quell’uomo che qualche giorno prima aveva conosciuto. Il suo pomo d’Adamo s’alzò e s’abbassò con velocità, mentre le nocche diventavano pallide come la neve. Ma non fu quel suo repentino guizzo d’odio che gli apparve negli occhi a far si che il mio cuore si fermasse una seconda volta. Al contrario, quel muscolo involontario smise di pompare sangue al mio corpo quando una seconda voce irruppe fra la densa coltre di nebbia sussurrando un’impercettibile: «Oddio.»
E fu più forte di me. L’istinto di protezione agì prima che il mio cervello si mettesse in moto da solo e cominciasse a ragionare. Spintonai da parte Thierry, che non oppose la minima resistenza –davvero provava tutto quel dolore per la perdita del Generale?- e corsi incontro a Lenalee. Le mie braccia si chiusero attorno a quelle spalle minute, che erano solite dare l’input per un abbraccio, e le sostennero accompagnando con dolcezza la caduta del corpo dell’esorcista verso terra. La strinsi a me con delicatezza, quasi fosse un antico vaso di porcellana sul punto di spaccarsi per poi non riuscire a tornare più come prima. E lei pianse, singhiozzò e strinse la mani contro la giacca della mia divisa fregandosene di tutto il fango che avevo addosso. E mi ruppi un po’ anche io, sebbene nel profondo, perché di vederla così debole e demoralizzata proprio non ne ero capace. «Andrà tutto bene» le avrei voluto dire, con un sorriso di quelli che lei mi chiedeva costantemente che, però, rifiutavo sempre di fare. Ma sapevo che non sarebbe stato così, che nulla sarebbe mai andato davvero “bene”. Non per Lenalee almeno, non per l’idea del mondo che mi ero fatta e in cui l’avevo collocata. Lei era così piena di luce e speranza, mentre questo mondo traboccava di tenebre e fantasmi pronti a uccidere. E poi, la guerra era troppo forte perché ci si potesse tirare indietro. Senza rendercene conto eravamo finite troppo dentro persino per poter sperare di respirare ossigeno che non fosse contaminato dall’odore di morte e disperazione; crollate in un pozzo senza fondo che inghiottiva la luce del sole nascondendola agli occhi.
 Non c’era pace per noi. Non ci sarebbe mai stata, almeno per me.
Non c’era futuro per chi era stato scelto dal cristallo di Dio. Almeno, nessun futuro che implicasse la frase “e vissero felici e contenti.”
«Lenalee, smettila di piangere» dissi invece contro ogni mia recente supposizione. «Siamo in guerra, e in guerra si muore. Il Generale Yeegar ha combattuto con coraggio, non servirà a nulla piangerlo. Penso che lui non vorrebbe vedere la preziosa sorellina di Komui Lee versare lacrime salate a causa sua. Perciò dacci un taglio e comportati come un soldato, come ci è stato richiesto dai piani alti.» Il cuore mi faceva male.
«Ma non l’avete un cuore voi, Evangeline?»  La voce frustrata di Thierry mi colpì i  timpani, portandomi a voltare leggermente il capo. Il suo sguardo scuro mi trafisse quasi concretamente, in realtà. «Non pensate che sia giusto piangere la perdita di quest’uomo? Non avete sentimenti?»
Accarezzai distrattamente il viso della mia compagna, asciugando le striature trasparenti che le solcavano il viso.
«Evangeline, cosa…?» pigolò lei, vedendo che le mie gambe si stavano raddrizzando. Le sorrisi, ignorando completamente la risposta che aspettava.
«Io sono un soldato di Dio» ammisi, «e come quest’uomo mi batto per salvaguardare l’umanità. Lui e io abbiamo combattuto per le stesse cause, con o contro voglia, senza mai dimenticare che in gioco c’era la nostra vita. Quando l’Innocence ci ha scelti sapevamo il destino a cui andavamo incontro, il prezzo che ci veniva richiesto. Il Generale Yeegar l’ha pagato quest’oggi. Non ci trovo nulla di triste in questo.» Provo solo amarezza, per me stessa più che per quell’uomo. Se solo fossi arrivata prima. Se solo fossi riuscita a liberarmi con più velocità.
«Siete spregevole!» La mano di Thierry sfiorò la mia guancia, prima che la mia stessa Innocence gli imprigionasse il polso in una morsa ferrea. Riuscii a vedere il mio riflesso nei suoi occhi sorpresi, spaventati: una macchina assassina che non prova pietà per nessuno, neppure per coloro che combattono nella sua stessa fazione.
«Sono un diavolo, scelto da Dio ma pur sempre un diavolo, e in quanto tale è nella mia natura essere spregevole» sibilai, strattonandolo da una parte. Il corpo dell’uomo volò attraverso la foschia, tagliando la nebbia e creandovi un corridoio che si andò a riempire qualche minuto dopo il suo passaggio; dopo di che, atterrò sotto l’albero del Generale. Richiamai a me l’innocence, tornando a vedere a colori abitudinari e sistemai entrambe le braccia sui fianchi. Gli puntai un dito contro, affilando lo sguardo quasi a volerlo tagliare. «Prova a sfiorarmi ancora e la tua vita finirà in quell’istante.»
«Il Generale Yeegar! Si muove! E’ ancora vivo!» E con quella frase di Allen terminò la discussione.
 
 
«Mi dispiace, questo è tutto quello che siamo riusciti a fare. Le ferite sono davvero gravi, è vivo per miracolo. Ora possiamo solo aspettare e vedere come andrà.» Il dottore s’inchinò innanzi a noi, poi si congedò.
A guardarlo adesso, il Generale più che un essere umano assomigliava a una mummia appena risorta a cui era stata attaccata su una misera parte di volto e collo della carne, giusto per renderlo più umano. Era una visione inquietante e tragica. Pensare che uno dei cinque esorcisti più forti dell’Ordine era stato ridotto così da un Noah nel giro di nemmeno un’ora faceva accapponare la pelle. Ma ormai quel che era successo non si poteva cambiare. L’armata di Dio aveva perso un importante soldato, lasciando i suoi sottoposti a brancolare nel buio con le braccia allungate davanti a se, come in cerca disperata di una luce che si tardava ad arrivare.
“La speranza è l’ultima a morire” era solita dire mia nonna, ma in questa vita di sacrifici persino la persona che aveva più sperato –Il Generale Yeegar- era stato sconfitto con brutalità inaudita.
La speranza è l’ultima a morire, ma se poi anche quella scompare cosa ci resta? Rimaniamo vuoti e freddi, aridi come il deserto che non riesce a dissetarsi. Perdere la speranza è un po’ come perdere il cuore. Senza cuore non si più vivere, perché senza di lui ogni cosa smetterebbe di muoversi. E infondo la verità è che è la speranza –anche quella nascosta ai pensieri- a mandarci avanti e farci muovere. Senza di essa siamo finiti.
Già, ma come potevamo noi esorcisti continuare a sperare di poter battere i Noah dopo esserci ritrovati davanti il Generale ridotto in quelle condizioni? Di certo la nostra fiducia, la consapevolezza che, sebbene in minima parte, potevamo vincere contro quegli esseri invasati si stava riducendo. Persino io, che con il mio scetticismo non avevo mai alimentato la consapevolezza che avremmo potuto vincere, mi sentivo crollare leggermente. Probabilmente era a causa di tutto quel mix di cose che si divertivano a ballare sulla mia schiena una tarantella, con tanto di tacchi alti. Ma come poteva qualcuno anche solo sperare di mantenere salda la sua speranza, quando vedeva e comprendeva ciò che era successo? La risposta non la sapevo nemmeno io.
«… il prossimo sarai tu?» Ascoltarlo cantare quell’insulsa canzone mi metteva rabbia. Era come stare a sentire un gatto che graffia le tende, ascoltarlo lacerare la stoffa ancora e ancora, e ancora finché è ridotta a uno scempio e tu sei impazzito.
Non potevo sentirla più. Non potevo guardarlo più. Non riuscivo a perdonare me stessa per il mio ritardo sul campo di battaglia. Perciò, scossi con amarezza il capo e sorpassai i presenti nella stanza uscendo. Li sentii, comunque. Gli occhi di Allen e Lenalee non si staccarono dalla mia schiena neppure per un istante.
C’era calma nei corridoi dell’ospedale di quella piccola cittadina. Una calma apparente, che sostava senza ritegno solo in quegli spazi che sembravano prolungarsi all’infinito e gioire delle luci a neon che ronzavano sopra di loro, in un’atmosfera quasi da film fantascientifico. Nell’aria aleggiava un odore di sanitari e limone, probabilmente dovuto al sapone usato per lavare il linoleum a terra.  Più ci si guardava attorno più sembrava di essere atterrati in uno strano labirinto, fatto d’ombre e rumori sinistri.
Mi sarebbe piaciuto uscire di li, sbattermi una porta alle spalle e dimenticare ogni cosa. Avrei voluto abbandonare tutto, ma non potevo. Le catene che mi gravavano sulle spalle sembravano essersi fatte più pesanti, mi trascinavano con loro verso l’inferno. Poco male, mi ero ripetuta più volte, tanto di certo il mio posto non sarà in paradiso. Eppure, magari, se Yeegar fosse riuscito a sopravvivere meglio (!) avrei potuto avere risposte a domande che avrebbero potuto aiutarmi a salire di qualche girone. Mi sarei potuta allontanare da Lucifero quel tanto che bastava per vivere più serenamente in mezzo ai miei peccati.
Successivamente a un ringhio propagatosi nel basso ventre, colpii con forza il muro con la mano destra. Il dolore si diramò iniziando dalle nocche per poi proseguire lungo le dita e l’intero braccio. Riuscii a distrarmi da quei pensieri, e probabilmente a procurarmi anche qualche microfrattura. Ero così frustrata! L’unico uomo ancora in circolazione che poteva darmi informazione che mi servivano era diventato inutile, e l’Ordine aveva perso uno dei Cinque. Ed era colpa mia! Solo colpa mia.
Avrei potuto salvarlo; avrei potuto uccidere quella dannata bambina che ha ferito Lenalee.
Appoggiai la fronte contro la parete, beandomi del fresco che investì la mia pelle. Cosa avrei fatto adesso? Avrei continuato la mia ricerca di informazioni. Come? In qualche modo, inventandomi qualcosa. Con chi? Da sola. Perché? Perché Cross non è qui, e non deve sapere che tipo di Innocence sia la mia. Lo devo trovare, ma per farlo deve capire come fermare Rose.
Passi. Il rumore di passi irruppe con violenza in quel silenzio ultraterreno, costringendomi a mettermi sull’attenti. Erano troppo veloci per essere i passi di qualche medico, troppo pesanti per appartenere a un’infermiera. Accarezzai il bracciale a forma di serpente che portavo al braccio e mi preparai ad usarlo. Avrei ucciso chiunque, qualunque estraneo avesse tentato di oltrepassare quella porta.
«Komui?» Avrei dovuto saperlo, almeno sospettarlo. Lui era il Supervisore della Sezione Scientifica della sede principale dell’Ordine, sarebbe per forza accorso dal Generale.
Gli occhi neri del giovane mi osservarono. Il respiro trafelato indicava che non aveva corso solo per le scale dell’ospedale. «Evangeline.»
Ero così felice di vederlo. Per la prima volta da quattro anni avrei voluto gettarmi nelle sue braccia e piangere a dirotto, così da far scivolare via quel peso pressante che mi opprimeva. Sarebbe potuto essere per qualche ora la mia ancora di salvezza, di cui avevo bisogno. Ma qualcosa mi frenava dal farlo. Un sentimento che non avevo ancora imparato a controllare e che condizionava continuamente la mia vita: l’orgoglio. Per quanto avrei voluto sentire il calore di Komui, a cui in segreto avevo sempre guardato come a una specie di fratello maggiore, non potevo dimenticare le parole che aveva pronunciato prima della mia ultima partenza. Il tono con cui le aveva dette. I gesti con cui le aveva accompagnate. Non potevo passare sopra il messaggio nascosto fra quelle frasi scappate dopo tanto tempo dalle sue labbra.
Prendendo un bel respiro ignorai l’occhiata che riservò a Rose, andando poi a incrociare le braccia al petto per nasconderla. «Yeegar è li dentro», con un cenno del capo gli indicai l’entrata della stanza. «Non ti aspettare nulla di buono; non è un bello spettacolo.» Senza ascoltare la sua risposta gli diedi le spalle, allontanandomi di poco.
Quanto sperai che mi seguisse per chiedermi se andava tutto bene. Quanto avrei voluto crogiolarmi in uno di quegli abbracci che riservava solo ed esclusivamente a Lenalee. Quanto mi sarebbe piaciuto, per una volta tanto, sentirmi come lei; poter contare sull’aiuto, sulla consapevolezza che c’era qualcuno li per lei che l’avrebbe sempre sostenuta. Purtroppo per me, il mio carattere aveva fatto allontanare persino l’unica persona che pensavo non avrebbe mai ceduto ad abbandonarmi. Io stessa avevo gettato la spugna.
Non so se Komui tentennò un poco prima di entrare, fatto sta che quando mi voltai intravidi solo la coda del suo cappotto sparire oltre l’uscio. Sospirai.
«Evangeline-chan!» Qualcosa mi strinse a se, costringendomi contro una fonte di calore inaspettato. Il profumo del giovane pervase i miei sensi, portandomi a chiudere gli occhi per qualche secondo. «Eve.» Somigliava più a un sospiro che al mio nome. Ma andava bene così…
Era bello sentirsi circondare da braccia conosciute, sebbene non fossero quelle che avrei voluto. Era come ritrovarsi in una fortezza, protetta da quelle mura che avevi aspettato tanto e che finalmente qualcuno si era deciso a ergere. Rilassante, così l’avrei definito. Ma eccolo tornare all’attacco, quell’odioso senso d’orgoglio che mi costrinse ad allontanami da Lavi con naturalezza. Non potevo certo biasimare i miei compagni se sentivano il bisogno di abbandonarmi o lasciarmi indietro, ero io che li allontanavo in fin dei conti.
«Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così?» Mormorai, guardando dritta in quel suo unico occhio verde smeraldo. Il rosso sorrise sornione, accarezzandosi distrattamente il collo con una mano. Era sempre il solito, prevedibile Junior. Ma andava bene così.
«Mi dispiace, è stato più forte di me: sono solo contento che tu stia bene.»
Il mio cuore accelerò, portandomi a socchiudere le labbra con inaspettato stupore. Lui si era preoccupato per me, nonostante io continuassi a trattarlo male. Forse avrei dovuto addolcire i miei modi di fare, tentare di stare al passo con tutti loro per quanto riguardava i legami. Oppure no. Perché pensavo a quelle cose?
Assolutamente non potevo. Avevo una meta ben precisa nella mia vita, che necessitava di essere portata a termine senza complicazioni o variazioni. Completata quella chissà cosa ne sarebbe stato di me. Non avevo tempo per affezionarmi agli altri (avevo già sgarrato la regola facendolo con Lenalee; e desiderando che Komui mi vedesse come una sorella) e questo aveva apportato a me stessa non pochi danni. Sapevo di non essere del tutto cosciente, attenta a cosa mi succedeva attorno quando uscivo in missione con Lenalee. Lei e la sua salvaguardia erano la mia priorità, e non andava di certo bene.
Torna in te, Evangeline. «Beh, come puoi vedere non ce n’era bisogno. So badare a me stessa, al contrario di qualcun altro all’interno di quest’ospedale» e i miei occhi scivolarono sul raggio di luce che fuoriusciva dalla stanza del Generale. Lavi sbatté la palpebra, stupito dall’acidità riposta nelle mie parole, e ingoiò a vuoto un fiotto di saliva. Forse avrei dovuto risparmiarmela questa. «Ora sarà meglio che vai, Bookman non ci sta’ guardando di buon occhio.»
«E come potrei?» Borbottò il vecchio panda, riducendo gli occhi truccati di nero a due fessure.
Inarcai le sopracciglia e mi abbassai alla sua altezza con il busto, sfiorando i fianchi di Lavi. I nostri occhi non persero mai contatto, combattendo silenziosamente una discussione in cui io ebbi la meglio perché il vecchio decise di voltarsi e dirigersi nella stanza. Silenziosamente venne seguito da rosso.
«Puoi dire tutto quello che vuoi, Evangeline» sentenziò una voce alle mie spalle, facendomi drizzare i capelli sulla nuca. «Ma il tuo caratteraccio è inappropriato per una ragazza.»
«E le tue idee sono inappropriate per me. Non m’importa che pensi» replicai d’istinto, voltandomi a osservare due pozze azzurre. La proprietaria scosse violentemente il capo, visibilmente contraria a quel mio modo di fare.
Con una mano guantata si accarezzò i corti capelli rossi fuoco, mordendosi le guance per fermare il nervoso che le stava salendo. Forse, prima di rivolgersi ancora a me con pacatezza, si morse la lingua.
«Hai qualcosa per me?» Borbottai, con il cuore pesante per l’attesa risposta. Se avesse detto di “si” era probabile che le nuove notizie sarebbero state crudeli, degradanti.
«Si. Ma sarebbe meglio parlarne lontano da qui, e con Komui presente. Dopo tutto, è della tua vita che parliamo.»
 
 
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Isil: Eccoci ancora qui.
Evangeline: Yu uhu, la felicità trabocca da tutti i miei pori.
Isil: Non ne dubito *sospiro*
Anita: Yep. Che mortorio che c’è qui, Madonna santa. Per fortuna: Anita è qui, e la festa comincia.
Evangeline: Oh, ma per favore. Oggi non è proprio giornata, perciò vedi di non tirarla per le lunghe.
Isil: Si, in effetti. Anita, non metterci troppo. Per la nostra Eve non è un buon momento.
Anita: Ooook.  Bene, a quanto pare la giornata non va, per nessuna delle due qui sopra, perciò non andiamo per le lunghe. Un ringraziamento speciale a quelle due sante che hanno recensito lo scorso capitolo (abbiamo apprezzato molto) e un abbraccio forte, forte, forte.
Isil: Yeeep. Thank you, mon petit.
Anita: Già. *Una porta sbatte* Beh, a quanto pare abbiamo perso Evangeline-chan…
Isil: Non credo siano tempi buoni per lei, lasciamola stare per un po’.
Anita: *annuisce* Allora sarà meglio che per oggi la finiamo qui. Un bacio a tutti, alla prossima.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Pensieri. ***


Capitolo 8.


Pensieri.


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Innocence lost.
 

Con una folata di vento, l’esterno mi accolse intraprendente. Il mantello dalle decorazione argentee dell’Ordine Oscuro ondeggiò come la marea, così fecero i miei capelli corti. Anita si chiuse nel suo giubbino color sabbia. Metà faccia scomparve sotto la sciarpa nera.
Ad attenderci fuori dall’ospedale stava una carrozza; i cavalli che aspettavano pazientemente il nostro arrivo sbuffarono nel vederci, e il cocchiere non si fece pregare e saltò giù ad aprirci la porta. Rifiutai il suo aiuto per entrare, allontanando malevolmente la mano guantata che mi porgeva. Ero una ragazza, e su questo non ci pioveva, ma non per ciò dovevo essere aiutata in tutto. Salire su una carrozza potevo benissimo farlo da sola. Come tutto il resto.
La rossa diede indicazioni all’uomo, in modo che non partisse finché non fossero arrivati gli altri, aspettò che la porta si chiudesse e poi mi riservò uno sguardo glaciale. Inarcando le sopracciglia mi spaparanzai contro il comodo sedile di pelle.
«Signore, quanto sei rude» si lamentò. «Una bella ragazza come te potrebbe avere tutto da tutti, e invece guardati: acida come la mela di una strega.»
«Scommetto che tu sei la strega. L’aspetto è quello» risposi prontamente, aggiudicandomi il secondo sguardo truce.
Non potevo non pensare a lei se non in quel modo. Sin da quando l’avevo conosciuta quella donna si era divertita ad usarmi come portantina, alcune volte aveva persino tentato di farmi fare il piccione viaggiatore –inutile dire che le sue lettere, i rapporti e le varie scartoffie che mi appioppava le avevo bruciate tutte durante il percorso. Il più delle volte che tentavo di evitarla, poi, mi compariva magicamente davanti; e, come se questo non la rendesse simile a una qualche specie di stolker, Anita era una patita del Bon Ton e tutta quella roba signorile li. Indi per cui detestava me e il mio comportamento, a suo dire “mascolino e rozzo”. Certo, c’erano state delle volte in cui aveva dimostrato una certa apprensione nei miei confronti, ma quelle le si poteva contare sulle dita. Il più del tempo passato a conviverci nella Home era, al contrario, trascorso fra battutacce da parte mia e sibili, maledizioni e paternali da parte sua. Crescendo le cose non si erano fatte molto diverse.
Anche adesso, mentre estraeva dall’interno del suo giubbotto un fascicolo contenente le nuove informazioni, la sua schiena era perfettamente retta, le gambe allineate e i movimenti fluidi. Le labbra pitturate del medesimo colore dei capelli stavano piegate con leggerezza verso l’alto. Un’impeccabile mente calcolatrice travestita da donna.
Accavallai le gambe e mi disfeci dei guanti, mostrandole per la prima volta dalla mia dipartita dalla sede la bruciatura fatta in Germania. Lei si bloccò, inorridita e sgomenta, poi distolse lo sguardo poggiandolo nel mio.
«Inquietante» sussurrò, prima di porgermi i fogli.
«Tzk. Il tuo abbigliamento, qui, è l’unica cosa inquietante.» E così lanciai un’occhiata ai suoi pantaloni neri e le strane scarpe rosse.
No, di certo non correva buon sangue fra noi. E non sarebbe mai corso, e questa era una cosa palpabile.
«Dovevi nascere uomo, Evangeline» affermò lei, porgendomi il dépliant. Un’esigua pila di fogli plastificati, bianchi come la purezza macchiata da lettere nere.
La ignorai e aprii ansiosa di sapere. Davanti agli occhi si presentò la foto dell’unica persona che pensavo non avrei mai rivisto. Certo, mi tenevo informata sulla sua vita, i suoi affari, ma vederlo con i miei occhi era così strano. Non aveva nulla di quel ragazzino che avevo imparato a conoscere. Persino gli occhi erano cambiati; la luce che era solita avvolgerli sembrava essersi dissipata come la nebbia in un giorno di sole. Così diverso. Così cresciuto. Riconoscere in lui quei tratti fanciulleschi che mi riportarono all’infanzia fu difficile. E fece più male al cuore di qualsiasi informazione negativa riguardante la mia Innocence. Mi riscoprii a ingoiare un fiotto di saliva, mentre le mie dita tremanti andavano a comporre i contorni di quella sagoma.
 Così diverso da allora. Così cresciuto. Così lontano.
 
Si è infantili quando nel corso di un gioco qualcuno che non sei tu vince, e allora senti la rabbia che ti sale e inizia a gridare e piangere. Si è infantili quando, dopo aver ingurgitato la cena con foga per il dessert, il tuo dolce ti sembra più piccolo di quello del bambino che ti è vicino –ma non è così- e allora inizi a fare i capricci. Si è infantili quando… quando si ha quell’innocenza che luccica negli occhi, che non sparisce neppure durante un pianto. E io l’avevo, sapevo di averla, ma mi andava bene così. Mi piaceva l’idea di avere ancora in me l’innocenza. A quei tempi non mi preoccupavo molto di non essere me stessa. Nel bene e nel male. Che questo significasse gridare a pieni polmoni per disappunto, oppure ridere a crepa pelle per la felicità. Mi piaceva esternare i miei sentimenti, a tutti.
Ricordo che il giorno in cui mamma e papà vennero dalla nonna a trovarci, io lei e lui eravamo tutti davanti al fuoco. Ignari della loro visita imminente la vecchia donna ci stava leggendo una fiaba, fermandosi nei punti principali per fare aneddoti riguardanti papà da piccolo. Rammento che lo trovavo noioso, ero sempre ansiosa di sapere che succedeva, ma al contempo m’interessava conoscere qualcosa di più su mio padre. Così, quando mai l’avessi rivisto, avremmo potuto scherzarci su.
Era il giorno del mio tredicesimo compleanno quando mamma varcò la soglia di casa, inaspettatamente. Fuori pioveva a dirotto e la sua mantella nera era fradicia e gocciolante. Lo stemma dell’ordine oscuro che brillava come l’occhio del diavolo. I corti capelli neri le si erano appiccicati al viso, ma lei non se ne preoccupò. Con le labbra piegate all’insù, tese le braccia verso di me e io le andai incontro incurante della pioggia che la rivestiva. Quando mi strinse a se il calore del suo corpo, in netto contrasto con il freddo del mantello, bastò a darmi quella parvenza di famiglia normale. Bastò a farmi sapere che lei era li concretamente, non stavo sognando.
La nonna e lui, al contrario di me, si alzarono con calma, sorridenti. Già. Lui non era mai stato un tipo troppo spumeggiante, gli piaceva fare le cose con la calma dovuta.
Poi fu il turno di papà. Entrò borbottando qualcosa contro il mal tempo, si chiuse la porta alle spalle e tolse il cappuccio dai corti capelli neri. Li spazzolò, le gocce che si fiondavano su tutto e tutti. Sua madre che lo riprendeva, lui che rideva. Poi, i suoi occhi color ossidiana si fermarono su di lui, poco prima che gli accarezzasse i capelli scuri con enfasi, beccandosi una maledizione amorevole. Io non potevo crederci. Erano tutti li. Tutti a casa. Tutti felici.
Non potevamo sapere cosa sarebbe successo da li a pochi giorni.
Passammo una bella serata davanti al fuoco, mentre mamma e papà ci raccontavano dei loro viaggi in giro per il mondo –senza mai nominare gli akuma. Io e lui credevamo lavorassero per una ditta, l’unica a sapere la verità era la nonna.
«Eve, tesoro» disse a un tratto la mamma. Alzai gli occhi verso di lei e le sorrisi, mentre con gentilezza la donna mi accarezzava i lunghi capelli. Erano così morbide le sue carezze, e lei profumava di muschio e mare. «Ti abbiamo portato un regalo.»
Il mio cuore prese a battere all’impazzata. Mi piacevano i regali. Il gusto dell’attesa che ti portava ad immaginare cosa ci fosse nel pacco; l’adrenalina che la curiosità ti induceva.  Si, si mi piacevano.
Papà mi disse: «Chiudi gli occhi.» E io lo feci. Mi prese le mani, stringendole leggermente fra le sue grandi e calde, e un po’ ruvide, mentre mi scoprivo a ridere divertita da quel tocco che provocava solletico. Lo sentii ridere a sua volta. Poi qualcosa di freddo si poggiò sul mio palmo, formicolando con più intensità. Una profonda risata lasciò le mie labbra: non lo sopportavo proprio il solletico. Perciò, ansiosa di vedere di cosa si trattasse, aprii gli occhi. La piccola pietra, perché certo non era grande, occupava a malapena il mio palmo e riluceva di un brillante verde. I suoi raggi si sprigionavano ovunque nella stanza, creando ombre in contro cui quelle del fuoco non si degnavano di gareggiare. Quel frammento era troppo luminoso, le fiamme troppo poco.
«E’… Beh, non si più dire che non brilla» ammisi, rigirandomelo fra le dita. Nonna soffocò una risata trattenuta, mentre lui scosse il capo e poi alzò gli occhi al cielo. Tutta via, intravidi un leggero scatto delle sue labbra verso l’alto.
«Brilla, brilla» asserì papà, sorridendomi. Alzai il volto verso di lui e gli diedi un piccolo, leggero bacio sulla guancia. Quelli che schioccavano come botti li riservai alla mamma, che non trattenne le risate e i mugolii di contentezza.
Il resto della serata passò fra le risate, e i racconti. Non potevo essere più contenta.
Fu quando, il giorno successivo, i miei genitori mi dissero che per usare il mio regalo dovevo partire con loro che persi tutto l’interesse per la piccola pietra. Provai a ridargliela, ma loro dissero che era mia e che non potevano riprenderla. Che apparteneva a me. Che mi aveva scelta, come invece non era accaduto a lui. (Ma questo lo scoprii più tardi)
Piansi un po’. Non volevo abbandonare la nonna, ne tanto meno lui.
«Oh, smettila di piangere e fai la grande Evangeline. Hai tredici anni, dopo tutto, e questa è una grande opportunità. Viaggiare con mamma e papà, verso l’Inghilterra, è un’esperienza unica. Basta frignare, cresci e prenditi le tue responsabilità. E poi, non sei curiosa di sapere qual è il tuo vero regalo?» Era stato così severo con me, quando entrando in camera mia mi aveva trovato in lacrime.
 Lui le odiava, quelle gocce. L’aveva sempre fatto. E io lo invidiavo, perché sapeva sempre come comportarsi, nonostante tutto. Certo, a volte avevo paura che portasse pesi più grossi di se sulle spalle, ma  anche fosse stato così non lo dava a vedere. Era fatto di adamantio, lui, mentre io ero come un ramo pronto a spezzarsi al minimo soffio di vento.
Mi ripromisi di diventare forte, che quando ci saremmo rincontrati lui non mi avrebbe riconosciuta tanto ero cresciuta. Sia di fisico che di carattere. Non l’avrei deluso.
Così prima di partire abbracciai forte la nonna, e ancora di più lui. Ci promettemmo di rivederci presto. Di girare il mondo assieme.
Ma se avessi saputo cos’era realmente quella pietra, sarei partita comunque? Se avessi saputo che quel regalo mi avrebbe distrutto la vita, l’avrei accettato comunque? Se avessi saputo che avrei dovuto rinunciare a lui e alla nonna per sempre, li avrei lasciati? C’erano troppi “se”, e così poche risposte a quel tempo.
E così, dopo quella partenza, non l’avevo mai più rivisto.
 
Non fino ad adesso, almeno. Il suo volto era così cambiato, i capelli erano più lunghi, aveva messo su muscoli. Chissà se poi aveva iniziato a girarlo il mondo, anche da solo. Chissà se c’era andato al funerale della nonna. Chissà se a me ci pensava, anche raramente. Era così doloroso pensarci, che non mi resi conto di stare soffrendo finché l’Innocence non iniziò a pulsami al braccio, nel tentativo di attivarsi. Il mio dolore era il suo. La mia rabbia era la sua.
«Cos’è questo?» La voce uscì con ruvida acidità dalle mie labbra, cogliendo Anita alla sprovvista.
I suoi occhi azzurri annasparono sul mio viso, alla ricerca di qualche movimento del mio corpo che le dicesse che stavo scherzando. Che non ero seria. Che non ero furiosa. Ma per lei fu impossibile, perché non sarebbe stata la verità. La mia mascella era contratta, i muscoli tesi, la raccolta d’informazioni stritolata all’interno del mio pugno ustionato. La foto di lui ridotta a un ammasso di pieghe.
«Un regalo, una specie ecco. Visto quello che ti è successo ultimamente, Komui e io pensavamo che sapere qualcosa di più su di lui ti avrebbe tirato un po’ più su il morale. Sai… Si, insomma»
«Beh, PENSAVATE MALE!» gridai talmente tanto che mi fece male la gola. Il suono uscì graffiato, librandosi nella vettura come lo spettro di un fantasma. La scienziata rimase incollata al suo posto, sorpresa dalla mia reazione. «Non ho bisogno che voi, ipocriti che usano anime di innocenti per servire una causa dove tanto non ci sarà mai un vincitore, che continuano imperterriti a mascherarla come giusta, vi preoccupiate per me che –guarda caso- sono una di quelle. Certo, magari non sarò la più linda, ma questo non i da l’autorizzazione a riesumare persone che non dovreste neppure conoscere. Non ne avete il diritto! Non siete nessuno per permettervi di frugare nella mia vita passata, fare ricerche a mia insaputa su qualcuno a cui tengo.»  E poi, avvicinandomi di più a lei, come un serpente pronto a rilasciare il proprio veleno nella preda: «Non mi avete già rubato abbastanza? Volete privarmi anche dell’ultimo, importante segreto che mi appartiene veramente? La mia vita, per la vostra stupida causa, non è abbastanza?» Furono frasi sibilate, cariche di odio e disprezzo che non diedero via di fuga alla donna.
Non rispose. Non fiatò. Rimase ferma, spremuta contro il suo sedile con gli occhi sbarrati. Solo quando mi allontanai, riprendendo coscienza del mio corpo e gettando lo sguardo oltre il finestrino, lei riprese a respirare. La gola mi bruciava, i polmoni sembravano sul punto di scoppiare. Il cuore batteva più veloce delle ali di un colibrì.
«Al diavolo, Anita. Al diavolo voi e la vostra merda di missione! Questa cosa» e indicai Rose «non è altro che una catena che tiene noi esorcisti legati a un palo, come cani da guardia ben addestrati. Non abbiamo neppure più il diritto di avere segreti nostri, privati? Se questa è la libertà che ci dona la causa che serviamo, la chiesa, l’Ordine Oscuro non oso immaginare cosa succede a chi decide di ritirarsi.»
Le pozze azzurre di Anita ebbero un tremolio. Era visibilmente scossa. «E allora perché non lo scopri?! Avanti, ribellati all’Innocence, a noi e guarda cosa succede. Scommetto che staremmo tutti meglio senza una che continua a lanciare malumore ai colleghi come ci fossero le svendite» mi spronò poi, con un moto di voce improvvisamente furioso.
«Magari mi vedrai» risi amaramente, «consumata dalla stessa Innocence che ho giurato di servire ciecamente. Si, lo farai di sicuro. Dopo tutto, infili sempre il naso in faccende che non sono di tua competenza e sei venuta a sapere della data della mia morte. So, come minimo sarai in prima fila quando accadrà. Ma ti dirò: non ho intenzione di lasciare questo schifo di posto prima di aver saldato il mio debito. Perciò apri bene le orecchie, piccola bastarda: credo che dovrai aspettare ancora mesi prima di vedere la terra che circonda il mio corpo, come succederà a breve con quel vecchio che hai visitato poco prima.»
La scheda delle informazioni scricchiolò nel mio pugno, poi si ruppe. La plastica si sfasciò nella mia mia mano, gracchiando, e i fogli la seguirono. Poi silenzio. Silenzio per interminabili minuti, mentre fuori ricominciava a piovere e le gocce si fiondavano sui finestrini rigandoli e appannandoli.
Mi ero comportata da ingrata, me ne rendevo conto. Alla fine Komui e Anita avevano pensato che con quelle informazioni mi avrebbero rallegrata, ma la rabbia che mi aveva procurato quell’intrusione solo io potevo conoscerla. Era come se qualcuno avesse frugato fra i miei organi vitali e poi, di punto in bianco, avesse trovato il cuore. Era come se qualcuno si fosse divertito a tentare di strapparlo, gettarlo lontano da me. C’era una persona a cui tenevo più di Lenalee e il Generale Cross, e Komui ed era lui, di cui nessuno avrebbe dovuto sapere ma che ora conoscevano. L’unica ombra che avrei voluto portare con me in eterno, adesso era abbagliata dalla luce. Scoperta.
Era frustrante.
A porta della carrozza si aprì di punto in bianco, e un Allen umidiccio fece il suo ingresso nell’abitacolo. Si bloccò con un piede dentro e l’altro ancora poggiato sullo scalino. Gli occhi pallidi che correvano dalla figura della scienziata a me, e viceversa.
«Gente, che atmosfera gelida» sussurrò. Tim annuì, prima di alzarsi dalla sua spalla e volare fuori, sopra la chioma scura di Lenalee. «Sembra che ci sia un frigorifero ap…»
«STA ZITTO!» sbraitammo in coro entrambe, per poi tornare ad ignorarci. Un’ombra calò sul suo volto. Entrò senza dire nient’altro, seguito a ruota da Lenalee.
Venne fuori che Komui doveva fermarsi almeno un’ora ancora, perciò avevamo il tempo di riposare un poco. «Perfetto» dissi. «Vado a farmi due passi.» «Ma Eve, sta piovendo» borbottò l’esorcista cinese, guadagnandosi solo un’occhiataccia che la mise a tacere. Non aspettai altri commenti, me ne andai dalla carrozza, atterrando in una puzza di fango e con le mani in tasca mi misi in cerca del primo cestino della spazzatura. Prima mi disfacevo di quel fascicolo, prima avrei sbollentato la rabbia.
 
Avevo preso più acqua in quei giorni che in tutti gli altri. Ma che potevo farci? Alla fine era colpa mia, che persistevo nell’intento di girare senza ombrello e con un cappuccio troppo piccolo. Idiota. Potevo sentire chiaramente la vocina nella mia testa insultarmi senza ritegno, senza pensarci due volte. C’era realmente bisogno di fare così? Sei sempre troppo aggressiva. A lui non piaceresti.
«Lui non sa neppure che sono viva» sussurrai. Gettai la schiena contro la panchina e innalzai la faccia al cielo. Fredde, pungenti le gocce mi cadevano sulla pelle e colavano delineando i contorni degli zigomi, delle guance. Non avevo freddo, non troppo almeno.
Ma se lo sapesse, eh? Ci hai pensato almeno a cosa ti vorrebbe dire? Tzé, sei arrivata a trattare male persino tua sorella.
«Lei non è mia sorella.» Era la prima, vera volta che lo dicevo a voce alta. In un certo senso era strano; dolorosamente vero. Ammettere che Lenalee non era mia sorella era un po’ come prenderla, stringere la sua immagine che mi aveva sempre fatto da ancora per poi vederla sgretolarsi. Oh, la verità è sempre così dolorosa. Perciò decisi di non pensarci più, abbandonandomi alla pioggia.
Un movimento catturò la mia attenzione dopo poco, portandomi a sospirare. Con tutta quella gente tra i piedi chi mai avrebbe sperato di avere qualche attimo di pace? Io, ma la mia fiducia era mal riposta.
 «Che vuoi, Moyashi?» Era impossibile non riconoscere i suoni che produceva. Sarebbero stati troppo leggeri per qualcun altro, non per lui però.
«Fare due chiacchiere.»
«Mhh. Che risposta spiccia, non è da te.» Evangeline, la maga del sarcasmo. Quella vocina proprio non voleva abbandonarmi. Attesi che lui si sedesse prima di rivolgergli un’occhiata fugace, senza però abbandonare la mia posizione. Rimasi con la schiena inarcata quanto me lo permetteva la panchina, i gomiti poggiati sul profilo di ferro in alto. «Dovresti almeno avere un buon argomento per venire a disturbarmi, non trovi?»
Walker poggiò i gomiti sulle ginocchia, inarcandosi in avanti, poi ci ripensò e si erse. «Anita-san mi ha detto che avete litigato.»
«Dannazione, ma quella non se li sa proprio fare i fatti propri è? Tzk.» Addio al preludio di pace. Ma poi, perché ci avevo sperato in un qualche attimo di pace, pur avendo Allen vicino?
«Evangeline-chan, io non so cos’è successo e nemmeno lo voglio sapere, ma se c’è qualcosa che posso fare per farti stare meglio non esitare a chiederla. Siamo una famiglia, dopo tutto.» Risi. Amaramente, scioccamente ma risi.
«Oh Allen» sussurrai fra la pioggia, rizzando la schiena per avvicinarmi a lui. Gli presi il mento fra l’indice e il pollice, incurante del suo sguardo sorpreso. Certo potevo ben capirlo, in quel momento dovevo sembrargli alquanto strana e diversa dalla solita Evangeline. E lo ero, senza ombra di dubbio.
Incollai i miei occhi ai suoi, sorridendo meschinamente. «Sei così ingenuo, Allen-kun. Un tenero bocciolo di pesco, pallido come la neve, che crede ancora in tutti quegli ideali preconfezionati con cui ti addestrano.» Lo lasciai andare, inarcandomi sulle mie stesse ginocchia. «La verità? Non c’è nessuna casa, solo un grande castello nero come tutto il resto.» Sentivo il cuore pesante. Troppe verità dette con troppa poca noncuranza. Stavo cadendo; stavo per sfracellarmi al suolo come quel rametto che ero stata anni addietro. Se crollavo ora, non mi sarei più rialzata. «Non esiste “una casa”, ne tanto meno “una famiglia”. Siamo solo persone, con vite rovinate dal cristallo di Dio, che lottano per arrivare a fine giornata. Siamo solo questo. Nulla di più di esseri umani» sospirai. «Esseri mortali a cui viene chiesto di essere spediti al macello per una causa persa in par» e mi arrivò uno schiaffo. Secco, sonoro e doloroso.
Non mi ero neppure accorta che l’albino si era alzato, presa com’ero dal mio sproloquio. Avevo continuato a elargire sentenze senza calcolarlo minimamente. Eppure lui c’era li, in carne ed ossa e come risultato della sua concretezza, adesso, avevo una guancia in fiamme. Il viso rivolto verso l’ospedale.
Stupita. Non penso ci fosse altro aggettivo che potesse definirmi. Quando alzai gli occhi per incontrare quelli di Allen, lui era rosso in viso. «Scusa» borbottò. «Scusa ma non ci riesco a sentire qualcuno parlare così, con arrendevolezza. Evangeline-chan, quand’è che hai perso la speranza? Quand’è che hai smesso di credere nella causa per cui combatti? EH?»
«Non lo so.» E in parte era vero. Quand’è che avevo smesso di sperare che il Conte del Millennio potesse essere battuto? Presi un bel respiro. «Ah, ormai perdo colpi Allen-kun. La mia determinazione scema man mano che ci avviciniamo a Cross-sama. In questo momento m’importa solo di trovarlo e farla finita.»
Lui si ravvivò i capelli bagnati. «E’ così, davvero importante per te trovare Marian Cross?» Lo vidi rabbrividire nel pronunciare quel nome. «Perché? Che ha di così speciale? Non credi che sia tempo di abbandonare quell’ombra che ti tiene incastrata nel passato per iniziare a vivere nella luce del presente?»
Rimasi in silenzio per qualche minuto. Che diavolo mi stava succedendo? Perché a un certo punto mi ero ritrovata a autocommiserare la mia vita, per di più con Allen accanto? E da quando permettevo agli altri di schiaffeggiarmi?
«Belle domande, Moyashi. Meriterebbero risposte altrettanto belle, ma posso solo dirti che credo di dover molto al Generale Cross, dopo tutto mi ha salvata. Lo voglio trovare per saldare questo debito, ricordargli che non ho dimenticato quello che ha fatto per me. Tutto qui, a prescindere che la sua ombra mi tenga incatenata nel passato o no» eppure non mi sento così legata a lui, non com’ero prima di conoscerti Walker. Che la mia forza di volontà mi stia abbandonando?
 Mi alzai, sovrastandolo con i centimetri che ci differenziavano. Non avevo mai fatto caso alla differenza di statura. «Diamine, sei davvero uno scricciolo Moyashi. Mh… il mio pugno è all’altezza della tua testa. Non dovrebbe essere difficile colpirti» constatai, mi accarezzai la guancia. « La prossima volta che provi a tirarmi uno schiaffo, ti sotterro. Vedi di non dimenticarlo.» Rose fremette al mio braccio, scivolando sul collo di Walker come una vipera. L’esorcista si bloccò. Riuscii a vedere il suo calore corporeo passare da giallo ad arancio, e infine rosso. Risi, ma forse parve più un sibilo roco. «Intesi?» Annuì.
 
 
La strada era accidentata. Ed era una fortuna. Con tutti gli scossoni che ci riservava, la carrozza ondeggiava a meraviglia nascondendo i miei tremiti di freddo. Anche se ero avvolta in una coperta calda e avevo cambiato i vestiti potevo ancora sentirle, le gocce fredde che penetravano oltre la stoffa e mi bagnavano. Pungevano la mia pelle come gli spilli di Bookman, che in quel momento stava spiegando ad Allen cosa fosse il “cuore”.
Ricordavo di averne sentito parlare tempo addietro, quando prima di far fuori un akuma di secondo livello l’avevo stretto nella mia morsa lui mi aveva sputato in faccia prima di pronunciare la sua ultima frase: «Il cuore pulsa già, fra le mani del Conte del Millennio. Esorcisti, il mondo che tanto vi affannate a proteggere è già sul punto di morire» e poi gli avevo staccato la testa. Successivamente mi ero fatta spiegare meglio da Komui il significato delle parole, del “cuore”.
 «Sicuramente, se esiste qualcuno adatto a un’Innocence del genere, dev’essere forte almeno quanto un Generale» dedusse Lavi, con lo sguardo per nel vuoto. Mi ritrovai ad annuire, catturando lo sguardo stupito di Komui. Non succedeva molte volte di vedermi d’accordo con qualcuno che non fosse Lenalee, lo riconoscevo.
«Cosa ne pensi, Evangeline?» mi domandò appunto l’uomo.
Allontanai la fronte dal finestrino e rizzai la schiena, voltandomi a osservarlo. Dopo la chiacchierata con Allen non ero stata molto loquace –ma alla fine, non è che lo fossi sempre-, e mi sentivo leggermente scossa. Le domande che mi aveva rivolto ronzavano ancora nella mia testa, ogni volta con risposte diverse. La sua affermazione, poi, sovrastava ogni quesito. Cross era davvero una delle ombre che mi tenevano legata al passato, a pensarci bene. E ad un tratto ebbi la consapevolezza che la voglia di trovare Marian stava vacillando. Lo capivo dal modo in cui piano piano i ragionamenti di Allen ne mettevano in moto altri miei, che mi allontanavo dall’idea che trovarlo fosse possibile. Forse era come diceva Walker. Si, il Generale non era altro che un’ombra del mio passato che non volevo dimenticare. Proprio come lui. Il fatto è che non ne avevo la forza, di allontanarmi per sempre dalle due sole cose che mi rimanevano. Dai due soli ponti che portavano scritto sulla fiancata: “passato”. La verità è che non volevo rinunciarci. NON POTEVO!
PERCHE’ STO DANDO RAGIONE AD ALLEN? E COSA C’ENTRA ADESSO?
Interiormente, mi tirai i capelli e iniziai a scuotere il capo; interiormente, soffocai uno sbuffo. «Il Coniglio ha ragione. Questo spiega perché il Conte ha aggredito uno dei Cinque: ha fatto il nostro stesso ragionamento. Purtroppo per lui, ma meglio per noi, Yeegar non era quello giusto.» Scrocchiai le nocche, poi il collo. «Io proporrei di richiamare tutti i restanti Generali nella sede dell’Ordine, li di certo potremmo tenerli d’occhio.»
«E tu avresti l’opportunità di rivedere il tuo maestro, non è così Eve-chan?» Scherzò Lavi, sfoderando uno dei suoi sorrisi da bonaccione.
«Taci, stupido. E smettila di chiamarmi così, sai che non lo sopporto» incrociai le braccia al petto.
«Evangeline-san ha avuto un maestro fra i Generali?» Allen sembrava spiazzato, del tutto preso alla sprovvista. Certo, doveva essere una cosa naturale dopo tutto. Lui era arrivato all’ordine solo da qualche mese.
Lavi annuì, senza togliersi il sorriso dalle labbra. Quel suo occhio verde luccicava vispo, più acceso e vivo della fiammella di una candela. «Esattamente. Anche se per poco più di due mesi, il Generale Sokaro ha accettato di insegnare a Evangeline ogni tecnica del combattimento.»
«Sokaro? Che tipo è?» A quanto pareva l’albino era davvero curioso. Strano ma vero, quel lato di lui iniziava a piacermi.
«Un tipo molto affabile, Allen-kun. Davvero gentile, il ritratto della dolcezza.» E sorridendo velenosamente, aggiunsi: «Scommetto che ti piacerebbe.»
«Il Generale Sokaro è una macchina assassina» intervenne Lenalee, fulminando sia me che il rosso con un’occhiataccia. Lei odiava le bugie, anche se era a fin di divertirsi. E Anita, agganciandosi al discorso della giovane: «Ed Evangeline è rimasta con lui meno di due mesi, non perché lui fosse ingestibile ma perché lei stava prendendo troppo la mano alle sue maniere. Ti sei mai chiesto il perché del suo così crudo comportamento? Ci è cresciuta, con gli insegnamenti di quello.»
«Fino a prova contraria, per quanto i suoi metodi siano poco ortodossi, il suo è un lavoro eccellente. Grazie al Genere, di fatto, sono in grado di strappare la testa da un corpo umano senza sporcare nemmeno la tappezzeria. Proprio come piace a Komui-kun, non è così?» lanciai uno sguardo veloce all’uomo, che assisteva alla scena interdetto.
Trovandosi messo di mezzo sussultò. «Evangel»
«Vogliamo provare, Anita-san?» domandai subito dopo, interrompendo a metà la frase del supervisore. Anita aveva fatto due passi falsi quel giorno 1) aveva fatto ricerche su di lui 2) aveva promulgato ideali che facevano apparire il mio maestro un mostro. Nessuno doveva permettersi di offendere li Generale, specialmente chi non ci aveva mai lavorato assieme.
«Provaci, ti farò vedere di che pasta sono fatti gli scienziati dell’Ordine» mi sfidò. Aveva una strana luce negli occhi, così viva da far paura. Internamente sorrisi. Allora ce le aveva le palle!
«Questa era l’aria di cui parlavo quando sono entrato in carrozza, prima» borbottò sottovoce Allen, ritirandosi vicino a Lavi. Lenalee sospirò, scuotendo il capo.
«Si… Dunque dicevamo, fronteggiare tutti quegli akuma –insieme ai membri della famiglia Noah, per giunta- è decisamente troppo, anche per un Generale» e sono sicura che mi guardò perché avrebbe voluto aggiungere: “Ne abbiamo avuto le prove oggi stesso”, ma non lo fece perché sapeva quanto mi sentissi in colpa. «Perciò sto’ pensando a Cloud, Sokaro, Cross e Tiedoll.» Inarcai le sopracciglia, mentre lui si sistemò gli occhiali. «Per proteggere i restanti Generali, tutti gli esorcisti sono stati suddivisi in quattro squadre, e le abbiamo assegnate a loro come guardie del corpo.»
Gli occhi mi brillarono. Una missione di salvaguardia, se così la si poteva definire, era l’ultima cosa di cui volevo occuparmi visto l’esito dell’ultima esperienza. Eppure, in ballo questa volta non c’era la possibilità di scortare Yeegar, bensì Cross. Certo, la possibilità erano uno a quattro ma, avendo il discepolo di Marian dalla nostra, sapevo che Komui ci avrebbe affidato quella missione. Doveva affidarcela. Doveva affidarmela. Perciò, prima che elencasse i nomi dei componenti della squadra incrociai di nascosto le dita.
«Perciò Allen-kun, Lenalee, dovreste incontrarvi immediatamente col Generale Cross.» E prima che potessi protestare –cosa che avrei fatto immediatamente. Lui mi conosceva troppo bene, per non capirlo- aggiunse:  «Tu, Evangeline, sei stata richiesta espressamente da Sokaro. Vuole e te, in quanto sua allieva.» Non lo contradissi.
 

 
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Isil: Questo capitolo è alquanto confuse.
Evangeline: Tu sei alquanto confusa.
Isil: Giusto.
Anita: State andando d’accordo? Dio santo, che vi prende?
Evangeline: A natale siamo tutti più buoni, e in questo momento non ho voglia di litigare. *Anita socchiude le labbra* SI LO SO CHE NATALE E’ PASSATOOOOO!
Anita: Tzk, che antipatica. Anyway passiamo subito ai ringraziamenti: a te, che hai recensito/letto lo scorso capitolo (Eve: aggiungerei orrendo), un abbraccio forte, forte, fooooooorte.
Isil: Yep yep. Scusateci la fretta, ma il computer da i numeri e dobbiamo portarlo ad aggiustare. Perciò… perciò… sigh. Sigh.
Evangeline: Idiota. Portiamo il computer ad aggiustare, quindi non ci sentiremo per un po’. Addio.
Anita: Addirittura “addio”, oh Evangeline-chan come sei drammatica.
Evangeline: E COSA AVREI DOVUTO DIRE?!
Anita: A PRESTOOOOOO :3
 

 
 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Past. ***


Avvertenze: capitolo di passaggio
 
Capitolo 9.


Past.



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Remember me.
 
Londra, sede Ordine Oscuro, quattro anni prima.
 
Era buio, umido e, come sempre da quando vi era entrato, pieno di cervelloni in camice bianco. A differenza sua i loro quozienti intellettivi superavano la media di molto, ma questo non era certo un dato importante. L’unica cosa che gli fregava in quel momento era di scoprire il volto di gli era stato affidato da Komui, che dopo una varia e alquanto pesante discussione l’aveva fatto cedere. Alla fine, quanto mai sarebbe potuto essere problematico occuparsi di un giovane esorcista? Ci era già passato, tanto tempo fa. La Home non gli aveva più affidato allievi dopo che l’ultimo si era ritirato, affermando di trovare i suoi modi bruschi e ben poco ortodossi. Chissà perché, poi, tutto d’un tratto  gliene volevano affidare uno. Bah. Gente alquanto strana, quei cervelloni.
Dandosi qualche pacca sull’elmo d’acciaio, Sokaro avanzò fra i meandri del laboratorio scientifico. Erano mesi che non ci metteva piede, tutti gli occhi erano impressi su di lui e la sua imponente figura. Con i suoi due metri e cinque, e la sua Madness riposta sulle spalle non si poteva certo dire che passava inosservato.
«Mhhh» il borbottio riverberò nell’elmo, spandendosi con forza nell’aria attorno a se. Gli scienziati distolsero svelti lo sguardo impauriti, tornando al loro lavoro.
«Generale Sokaro, bentornato.» L’uomo si guardò intorno, corrugando le sopracciglia. Aveva già sentito quello voce, se la ricordava. L’aveva immagazzinata in un angolo della mente, ma per qualche ragione non riusciva a ricordarsi di chi fosse. Non riusciva neppure a individuare la provenienza di quella voce. Da dove diavolo veniva?
Si guardò attorno, sbattendo costantemente le palpebre. Che cosa strana, l’avevano davvero chiamato?
«Generale Sooooookaroooooo! GENEEEERALEEEEE, SONO QUI, SONO QUIIII!» L’uomo si guardò alle spalle, ma ancora niente. Eppure, il richiamo gli era arrivata forte e chiaro questa volta, come se il proprietario fosse sotto di lui.
Abbassò lo sguardo, ancora accigliato, ed eccola li: alquanto bassa (anche se rispetto a lui erano tutti bassi), con gli occhi più azzurri del cielo primaverile, con sfumature che riportavano alle nubi plumbee di metà ottobre.
I capelli rossi finemente intrecciati in una complicata treccia le ricaddero sul viso, mentre con lo sguardo, a sua volta,  esaminava attentamente l’uomo. Con i colori sgargianti che si ritrovava, in netto contrasto fra loro, la giovane gli ricordò  una qualche specie rara di pappagallo. Si ritrovò involontariamente a sorridere, ricordandosi solo allora che il nome di lei era Anita.
La scienziata fece un passo indietro, poggiando i pugni sui fianchi. «Bentornato, Generale Sokaro» ripeté allora, sbuffando su un ciuffo ribelle. Questo traballò in aria, per poi cadere di lato con leggerezza. «Sono Anita, spero si ricordi di me, prego mi segua.»
I colleghi del canarino non smisero di seguirli con lo sguardo finché non voltarono l’angolo e furono soli, persi in mezzo alla luce offuscata di quella che era l’entrata antecedente allo studio di Komui. I passi della donna erano veloci, i tacchi degli stivali rimbombavano fra le pareti come innumerevoli spari di pistola. Pistola. Solo pensare a quell’arma gli riportava alla mente Marian Cross, la sua innocence. Chissà che fine aveva fatto quella canaglia.
Scacciando quel pensiero dalla testa, Sokaro affondò lo sguardo sulla sua guida. Avrebbe voluto chiederle qualcosa riguardo l’esorcista che gli stavano per affidare, ma lei fu più veloce e iniziò con un nome: «Evangeline.» Poi si voltò ad aspettarlo, e riprese a camminare al suo fianco. «Tredici anni, quattordici il prossimo novembre. Impertinente, arrogante, molto chiusa per quanto riguarda i rapporti. Una specie di peste sotto forma umana, che Komui-san ha deciso di affidare a lei» fece una pausa, arricciando le labbra rubine in una smorfia. «Spero che riesca a resisterle. E’ con noi da solo un mese, ma per quanto riguarda alcune sfaccettature del suo carattere, mi creda, abbiamo già imparato a conoscerle bene. Ha sempre la risposta pronta, oppure non parla quasi mai. Una ragazzina alquanto-»
 «Mi state affidando una… ragazzina?» Ringhiò il Generale, bloccando la rossa nel bel mezzo del monologo. Proprio non riusciva a capire: anni prima lo ritenevano troppo violento, e adesso gli affidavano una ragazzina. Che problema aveva Komui, oltre il complesso della sorella, ovvio.
«Gliel’ho già detto, Generale, quella non è una ragazzina è una peste» lo rimbeccò lei, incrociando le braccia al petto.
Sokaro schioccò le nocche, prima di rivolgerle uno sguardo di soppiatto. «Perché dovreste affidarmi una peste, Anita? Sapete bene i miei metodi d’insegnamento e-»
«Proprio per questo le stiamo affidando Evangeline, Generale. Speriamo che con i suoi metodi poco ortodossi lei riesca a far uscire quella ragazzina dal guscio, che si è creata con le sue stesse mani.» L’uomo non poté fare a meno di notare negli occhi di lei una scintilla; probabilmente, anche se la definiva come una specie di demonio doveva volerle molto bene. «Eve-chan… ha visto i suoi genitori morire davanti ai suoi occhi. Briciati dopo l’attacco di alcuni akuma, mentre la stavano portando al quartier generale per farla sincronizzare con la propria Innocence. Da allora ha eretto un muro, in cui non è penetrato nessuno se non Lenalee-chan. Ma anche su questo ho i miei dubbi.»
«Capisco. Quindi me la state affidando perché, pensate che restando al mio fianco riuscirà a far crollare la barriera. Certo.» Il messicano annuì, incrociando le bracci al petto muscoloso. Beh, se la ragione della richiesta di Komui era quella allora l’avrebbe accettata volentieri. Avrebbe aiutato con piacere un nuovo membro dell’Ordine, senza contare che finalmente avrebbe potuto divertirsi nuovamente a punzecchiare qualcuno, che non fossero i finder, durante le missioni. «Beh, credo che far crollare i muri sia la mia specialità» affermò poi.
«Lo spero vivamente, Generale.» Anita aveva una strana luce negli occhi mentre si fermava e gli si parava davanti, bloccandogli l’entrata allo studio di Komui. «Lo spero con tutto il mio cuore. Evangeline ha bisogno di far crollare quel dannato muro, che la sta privando di tante belle cose. Perciò, Signore» inaspettatamente strinse le sue piccole mani attorno alle proprie, facendo fermare il cuore di lui per qualche istante, «faccia crollare realmente quel muro.» Sokaro annuì, sorpreso dalla decisione che il canarino mise in quel gesto.
 
«Evangeline, questo è il Generale Sokaro. Sarà il tuo nuovo maestro.» Komui le diede una spinta leggera, invitandola ad avanzare.
Sokaro si tolse l’elmo e lo strinse contro il fianco col braccio, camminando a sua volta verso la bambina. Mugugnò qualcosa, fissandola con gli occhi socchiusi come quelli di un felino a caccia. Lei inarcò le sopracciglia, incuriosita. La sua nuova allieva era una piccola massa, più bassa di quanto si aspettasse per qualcuno di quell’età, con una folta chioma di lunghi capelli ombrosi e due occhi scuri come il mare in burrasca. Uno sguardo così docile. Non aveva nulla della peste che Anita gli aveva descritto.
«Avanti, Eve-chan, non avere timore» la spronò sorridente il Supervisore, poggiandole una mano sulla spalla.
La bambina strinse i pugni, voltando la testa verso l’uomo con uno sguardo assassino. Il contatto visivo che si era creato col Generale si scheggiò di colpo, come a volerlo riportare alla realtà. L’uomo sbatté la palpebre. «Se mi chiami ancora “Eve” ti spedisco a volare con i golem dello strapiombo.» Komui impallidì, Sokaro sorrise. Allora Anita non gli aveva detto una bugia.
Si preannunciava una lunga convivenza.
 
Berlino, Fairy’s inn, quattro anni prima.
 
Erano passate tre settimane da quando Evangeline gli era stata affidata, e ancora non lui non era riuscito a buttare giù quel muro. Si era rivelata un’impresa più difficile del previsto. Quella mocciosetta era così fredda e distaccata da tutti. Quasi che, col passare del tempo, la vita uscisse dal suo corpo lasciando solo un involucro vuoto. E non aveva senso dell’umorismo.
Persino adesso, dopo che lui aveva tentato di farla sorridere con una di quelle battute che raramente era solito fare, lo ignorava. Se ne stava seduta alla scrivania della propria camera, con le caviglie incrociate sotto la sedia e il naso infilato in un complesso libro di matematica. E lui se ne stava a osservarla con le braccia appoggiate sullo schienale della scheda, e il petto spinto contro esse.  L’elmo riluceva contro luce, splendente dei fulminei raggi di sole che entravano dalla finestra e creavano lame di colori ovunque. Qualcuna le colpiva anche i capelli, illuminandoli di sfaccettature candide.
Il Generale si portò una mano alla guancia, affondandoci contro. Che diavolo aveva quella bambina? Il trauma si era talmente radicato in lei da farle congelare il cuore? Sospirò, poi mugugnò.
«Ogni volta che sospiri la felicità ti sfugge, non lo sapevi?» Chiese a un tratto lei, sarcastica, senza degnarlo di uno sguardo. La penna che continuava a correre veloce sul quaderno, infondendo il suo rumore per l’intera stanza.
«Mh. Tu lo fai spesso, però» affermò lui con la solita voce roca, sistemandosi meglio contro lo schienale della sedia. Sentiva le rifiniture di legno premergli contro la maglia, i pettorali. Sentiva il cuore battere con regolarità.
«Io non ho bisogno di fortuna. Non ci credo. La fortuna e la sfortuna sono solo cose per gli stupidi.»
Sokaro sbuffò nuovamente, accarezzandosi i capelli rasati. Certo che quella nanetta era peggio di un akuma, quando ci si metteva. Con quella voce acuta e gli occhi taglienti, la pelle diafana in contrasto con i capelli neri, sembrava realmente una pantera nel corpo di una topolina. Sorrise sotto i baffi, affondando ancora più avanti verso di lei. La sedia scricchiolò. Più la guardava, più vedeva Alex in lei. Certo, la bellezza era stata ereditata dalla madre ma, come dire, i tratti paterni erano come una pennellata di grigio in un dipinto completamente azzurro. Distinguibili, uno per uno. Il modo di tenere la penna, la postura della schiena, il modo in cui sbuffava. Tutte cose semplici, certo; piccoli particolari che, però, la rendevano uguale a lui in tutto e per tutto. Persino il caratteraccio ce si ritrovava ricordava al Generale il padre.
«Smettila di fissarmi, gigante» borbottò quella, come se gli avesse letto nella mente.
Lui la ignorò platealmente, e grattandosi una guancia disse: «Se non credi nella fortuna e nella sfortuna, allora in cosa credi?»
La bambina poggiò la penna sul quaderno, inspirò profondamente e si voltò. Lo sguardo felino lo trafisse da parte a parte, portandolo a raddrizzare la schiena come per affermare che era lui il più grosso e non lei, come al contrario poteva apparire in quell’istante. Con una piccola mano la giovane si accarezzò la fronte, poi tirò indietro i capelli. «Credo in me stessa», affermò. «Credo in me stessa, così come tutti dovrebbero fare. Credo in me e basta, e non ho bisogno di crearmi una cosa chiamata “fortuna”, come fanno alcuni che si vanno a raccontare chissà cosa per trovare la forza di compiere atti che se no non riuscirebbero a fare.» E tornò al suo tomo, senza più fiatare.
Sokaro si ritrovò  ingoiare a vuoto, felice e, al tempo stesso, impallidito a causa di quella risposta così schietta.
 
Bruxelles, Belgio, quattro anni prima.
 
Il nemico era vinto. Evangeline li aveva battuti tutti, senza voler alcun aiuto. Il generale l’aveva lasciata fare, e successivamente si era ritrovato a sghignazzare contento per i frutti del suo insegnamento. La piccola bambina vorticava a destra e a manca come un cobra, letale. La sua innocence spinosa con lei. Ma poi, proprio mentre l’ultimo nemico si accingeva a cadere, quel sorriso era morto sotto l’elmo. L’aveva vista crollare al suolo così, all’improvviso. Toccare terra in una nube di polvere, e di ultimi rottami di akuma. L’aria era stata pungente prima di diradarsi e permettere a Sokaro di accorrere in suo aiuto. Si era spaventato, finché lei non gli aveva sorriso nell’intento di alzarsi. Poi era ricaduta in ginocchio, tremando per lo sforzo e il freddo. L’innocence aveva riacquistato la sua forma originale, così come i suoi occhi. Era tutta coperta di sudiciume a causa dei nemici esplosi, e qualche ferita le sanguinava leggermente, ma pareva non importarle. Il cuore dell’uomo si era quietato, tornando a battere normalmente. Non aveva nulla di grave, solo stanchezza fisica che non le permetteva di alzarsi. Dopo vari secondi in cui si era pregustata la vittoria, lui  l’aveva raccolta fra le braccia e lei aveva mugolato, borbottato contro il Conte del millennio e infine si era decisa a smettere. Senza forze. Priva di voglia di rimanere sveglia, ma con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Aveva distrutto i sui primi akuma con le tecniche da lui insegnatole, e sembrava molto contenta di ciò. Si era stretta al suo petto, incurante del fatto che agli occhi suoi e dei finder sarebbe potuta persino sembrare docile, innocente. E lo era davvero, aveva costato il Generale dopo aver sentito più volte il suo respiro infrangersi contro il proprio petto. Era la madre di una dolcezza infinita, nascosta sotto una cupola di spesso e duro adamantio che nessuno riusciva a penetrare. Ma, forse, lui iniziava a intravedere delle crepe in essa. Forse, forse ci stava riuscendo a far crollare il muro.
La posizionò meglio fra le braccia e salì sulla carrozza. Rivolse lo sguardo al cielo notturno, copiosamente disseminato di stelle brillanti come fari e, silenziosamente, sorrise a due suoi vecchi amici. Si congratulò con loro per la vita forte, tenace e preziosa che avevano messo al mondo.
Per tutta risposta, una stella si staccò dal manto blu e volò lontano, come per ringraziamento.
 
La poggiò nel suo letto, e si appoggiò contro il davanzale della finestra. La osservò sorridente: era soddisfatto del suo lavoro; stava plasmando una meravigliosa, nuova esorcista. In tutti i sensi. La piccola Evangeline, lui lo sapeva per certo, prospettava di diventare una meravigliosa donna come lo era stata la madre Cordelia, anni prima di lei. Splendida e letale, come un serpente raro pronto a mordere alla prima occasione se necessario. Non avrebbe voluto essere nei panni del ragazzo che l’avrebbe fatta innamorare. Già se lo immaginava, succube e continuamente ripreso. Senza pensarci rise, svegliandola.
Evangeline si voltò nella sua direzione, esaminandolo sonnecchiante. «Grazie per avermi messa a letto» borbottò, biascicando parola per parola.
«Di nulla, topolina» annuì lui, staccandosi dal suo appoggio per poi dirigersi verso la porta.
La sentì irrigidirsi mentre girava il pomello, udì il materasso cigolare poi, quando meno se l’aspettava, una voce raggiunse le sue orecchie. «Potrebbe... potrebbe restare con me finché non mi addormento, per favore?» Per poco la saliva non gli andò di traverso. Si girò, con la calma con il quale era solito fare – non voleva spaventarla, anche se a dire la verità era lui quello spaventato li – e la trovò poggiata su un gomito, intenta a esaminarlo con lo sguardo.
«Certamente, topolina.» Richiuse l’uscio alle sue spalle, dirigendosi verso la poltrona posta accanto al letto. Ci sprofondò dentro, unendo le mani sul ventre.
«Non chiamarmi to» i loro occhi si incrociarono, lei sospirò bruscamente. «Oh, lasciamo perdere. Buona notte, Generale.» Si tuffò contro il cuscino e gli diede la schiena. Lui rise nuovamente, con più dolcezza questa volta.
 
Vienna, quattro anni prima.
 
 
«Che c’è, topolina, hai esaurito le forze?» Se c’era una cosa che Sokaro aveva fatto capire ad Evangeline, in quel primo mese e mezzo di convivenza, era che a lui piaceva stuzzicare avversari e alleati. Lei, ultimamente, si era ritrovata vittima delle sue battutine con più frequenza in quanto sua allieva. Eppure ancora non demordeva dall’ignorarlo e basta, e ciò rendeva tutto più divertente.
Rispondeva sempre con la violenza, tipica di quel suo caratteraccio. Oh almeno, lo faceva quando lui usava quel degradante soprannome sui campi di battaglia, con il nemico di fronte. Quelli erano di certo i momenti migliori. La bambina diventava rossa in viso, gonfiava le guance e gli sputava contro tutto quello che le passava per l’anticamera del cervello.
L’akuma se ne stava di fronte a loro, le sopracciglia corrugate per l’insolita scenetta a cui non era pronto ad assistere. Doveva essere spiazzante, in un certo senso, e persino buffo. Non si poteva di certo affermare che incontrare un’insolita accoppiata di due esorcisti come loro (una tredicenne alta poco meno di un metro e sessantacinque, e un gigante alto più di due metri di trentasette anni) che litigavano nel bel mezzo di una battaglia come fossero stati al Q.G fosse roba da tutti i giorni. In certi versi poteva persino sembrare una bella scenetta. Si, il Generale l’avrebbe sicuramente raccontata in giro, giusto per fare imbestialire un po’ Evangeline.
«Ma cosa vai dicendo, armatura che cammina? Posso ancora farcela!» sbraitò la bambina, battendo violentemente il piede a terra. Aveva le guance rosse, gli occhi di un demone.
L’akuma si grattò la guancia grigia, imbarazzato. «Ecco… signori esorcisti… i-io sarei qui.»
«Ah! Se proprio ne sei sicura provamelo, topolina» la sbeffeggiò lui, appoggiandosi con noncuranza alla sua grossa Madness. La lama a doppio taglio dell’arma non sembrava scalfirlo minimamente. C’era abituato, dopo tutto. «Non ti muovi? Hai paura?»
«Brutto, mhhhh!» Gonfiando le guance, Evangeline schioccò la punta di Rose a terra. Gli spunzoni s’infilzarono nel terreno sabbioso, che scoppiò in aria quando la richiamò a se. «Chi è che non avrebbe più forze, eh?» e con un movimento del polso la sua arma oscillò in aria, si strinse attorno al collo del nemico imbambolato e gli strappò la testa. Si voltò, la piccolina, mentre questo esplodeva e andava a creare uno sfondo di fumo e fuoco.
«Direi che sei ancora in forma, topolina» annuì il Generale.
Lei gonfiò le guance, adirata per il soprannome, poi voltò la testa indignata e lo sorpassò diretta all’hotel. Con lo sguardo fermo sulla sua schiena, Sokar afferrò il proprio golem e usufruì di uno dei telefoni dei finder. Vi attaccò l’aggeggio, recitò un messaggio per Komui: «Il muro si sta sgretolando.»
Sentì un forte baccano, poi una cornetta che si alzava. «Sul serio?» fu la risposta pronta da Londra. Dalla voce che gli pervenne all’orecchio, Sokaro non seppe dire se Komui fosse stato più sorpreso o felice.
«Si, o almeno credo. E’ sempre acida, ma si comporta con più famigliarità nei miei confronti. Sembra quasi umana.»
 
Londra, sede dell’Ordine Oscuro, tre anni e dieci mesi prima.
 
La Home sembrava quasi piacevole questa volta, si ritrovò a pensare Sokaro. Eppure, non lo era. Evangeline stava al suo fianco, la valigia stretta fra le mani incerottate dopo l’ultima battaglia. Sull’occhio sinistro aveva una benda: una scheggia le aveva causato una ferita alla palpebra, una ferita lieve che sarebbe guarita in pochi giorni aveva detto il medico, tutta via c’era stato bisogno di una copertura. La bambina sospirò, accarezzandosela distrattamente. Komui la osservò, le mani ancora sui fianchi e un accenno di sorriso sul viso giovanile.
«Sono felice che Evangeline abbia appreso tanto da lei, Generale. La ringrazio per averle insegnato.» Un leggero inchino, un altro sorriso.
Sokaro inarcò le sopracciglia sotto l’elmo, poi, d’istinto si ritrovò a scompigliare i capelli della piccola esorcista. La sentì irrigidirsi, visibilmente contraria al gesto, ma non disse nulla. Lui smise poco dopo, sorpreso che la bambina non avesse reagito come suo solito. Tornò serio. «E’ stata una brava allieva.»
«Non ne dubito» asserì Anita, allungando una mano verso il bagaglio di Eve. Sokaro seguì i suoi movimenti, attentamente. «Dammi pure la valigia Eve-chan, te la porterò in camera.»
«Se mi tocchi, ti strappo il collo dal busto come mi ha insegnato il Generale. Sai che non sopporto essere toccata» reagì subito lei, tirandosi indietro per poi sorpassarli tutti. Rizzò la schiena, alzò il mento e strinse forte i pugni contro la maniglia del bagaglio a mano. «In camera mia ci arrivo da sola. Sono stata via solo due mesi, non quarant’anni. E poi, quante volte devo ripeterti di non chiamarmi “Eve”, vecchia strega?!»
«Evangeline» la richiamò Komui, visibilmente sbalordito dal suo comportamento.
Sokaro scosse il capo, prendendo atto di una triste verità. Il muro che lui stesso aveva pensato di aver buttato giù, in realtà, non era mai caduto. Si era solo venato, ma riportandola al Q.G era stato proprio lui a ricostruirlo più forte di prima. Forse avrebbe dovuto tenerla ancora con se, solo qualche mese.
 «Si, è il mio nome. Sono felice che tu te lo ricordi, Signor Supervisore» aveva una voce così fredda, costatò Sokaro, lontana da quella con cui gli si era rivolta nei due mesi successivi. Non aveva nulla di quella bambina che lo aveva pregato di non lasciarla sola nel cuore della notte. «Adesso, se volete scusarmi, ho delle poesie che mi aspettano» la tredicenne incrociò lo sguardo del Generale e lo fulminò, poi gli diede le spalle.
Il cuore di Sokaro tremò un pochino. Aveva riconosciuto bene il sentimento nascosto dietro le iridi di lei: abbandono. Evangeline si stava comportando così perché si sentiva abbandonata, da colui che aveva preso come modello per mesi. Dallo stesso uomo che si era preso cura di lei.
«Il muro c’è ancora» sospirò Anita, abbracciandosi da sola come per confortarsi. Gli occhi grigi si macchiarono di azzurro, quando inaspettatamente levò lo sguardo al Generale. Rimasero muti per qualche minuto, finché la donna non se ne uscì fuori con un: «Può andare, Generale. La ringraziamo per la sua collaborazione, ma da adesso Evangeline torna sotto la nostra giurisdizione. Ha fatto abbastanza. Ora, se volete scusarmi, vado a cercare Lenalee per informarla che Eve è tornata» e lasciò i due uomini soli.
Sokaro strinse i denti e si trattenne. Alla fine sapeva che gli avrebbero rivolto quelle parole, ma erano bastati due mesi perché si abituasse alla convivenza con quella mocciosetta. Poco più di due mesi trascorsi assieme e adesso che l’Ordine l’aveva ripresa indietro, a lui non andava bene. Certo, non era la prima volta che un allievo lo aveva lasciava a tirocinio concluso; anzi, molti l’avevano lasciato anche prima, però nessuno di loro aveva pianto nel farlo. E poi quello sguardo. Quel senso di abbandono che gli aveva rivolto. Senza volerlo ritornò a qualche giorno prima, quando le aveva detto che la Home l’aveva classificata come esorcista a tutti gli effetti e, perciò, che il suo tirocinio era finito. La vedeva ancora davanti ai suoi occhi, piccola, forte e sorpresa. Piangente calde e silenziose lacrime, che avevano iniziato a rigarle le guance senza che lei volesse. Aveva persino protestato contro esse, poi aveva stretto i pugni lungo i fianchi, talmente tanto da arrossare la pelle pallida delle nocche. Non se ne voleva andare, non voleva tornare alla home. «Non voglio tornare là» aveva singhiozzato, prima di aggiungere che, nonostante i suoi capricci, le mancava Lenalee. «Non ho avuto modo di conoscerla bene, mi hanno affidato subito a lei Generale, ma questo non vuol dire che non le voglia bene, a Lenalee intendo. Però… però non ci voglio tornare alla Home; mi ricorda mamma e papà. Non ci sono che esorcisti e scienziati, e quello strano coso melmoso»
«E’ Hebraska» l’aveva corretta lui, sorridendo un poco. Con una mano guantata gli aveva carezzato la testolina, Evangeline non aveva ribattuto.
«Quel che è» aveva ribattuto lei, asciugandosi le lacrime. Poi l’aveva guardato e stretto una delle sue maniche nella propria, piccola mano. «Mi tenga come sua allieva, la prego. Non voglio tornare la dentro. E’ un castello così grande, a volte così silenzioso che mi trovo a perdermi nei ricordi e non voglio. Non voglio farlo! La prego, mi tenga con lei almeno i ricordi non torneranno più. Lei rimane sempre con me la sera, non mi lascia mai sola. Non mi mandi via.»
Vederla piangere così era strano, pensò Sokaro. Vederla pregarlo di qualcosa, però, lo era ancora di più. Anche se la sua era una richiesta del tutto lecita. L’immagine che si era fatto di lei, di una corazza vivente, si era lentamente sgretolata fra le braccia di lui, mentre la bambina si apprestava ad abbracciarlo stretto incurante dell’armatura che indossava. «Evangeline» la sua voce, usualmente graffiante e roca, uscì bassa e si disperse nella loro camera d’albergo.
«Non mi faccia tornare la. Non mi faccia tornare alla mia solita stanza, dove tutto è così silenzioso e buio, e i ricordi affiorano nella mia testa come nulla. Non mi faccia tornare nel mondo in cui sono cresciuti mamma e papà, la prego. Io non voglio.» Piangeva, e non accennava a smettere.
Smise solo quando Sokaro la distanziò da se, spiegandole il motivo di quella scelta. «Hai imparato tutto, Evangeline. Non hai più bisogno di insegnamenti, puoi affrontare da sola missioni che prima non potevi. E smettila di piangere, non ti si addice proprio topolina.»
Lei era rimasta in silenzio, cercando di calmare il cuore che sembrava impazzito. Poi, quando ebbe finito, respirò a fondo. «Il mio nome è Evangeline» sibilò sommessamente, riservando all’uomo uno sguardo glaciale. «Non osi dire a nessuno quello che le ho appena raccontato, oppure le taglio la testa.» Si accarezzò il viso caldo e rigato dalle lacrime, e uscì.
E allora Sokaro, ripensando a quel momento, seppe di aver detto le cose sbagliate, di aver ferito quella piccola allieva a cui, infondo, aveva fatto l’abitudine. Il muro che aveva iniziato a crollare era risorto, più spesso e forte di prima. Anzi, non era mai caduto ma lui se n’era accorto troppo tardi.
 
India, Oggi.
 
Sokaro aprì gli occhi. La luce del sole veniva mitigata dal fogliame degli alberi sopra la sua testa, che la filtravano tra le foglie bloccando la sua caduta verso terra. Sbatté più volte le palpebre, sbadigliando sonoramente. Si era appisolato non appena finito il pranzo, quando per noia si era distaccato dai suoi finder e aveva deciso che era il momento di starsene un po’ in santa pace. A quanto pare, però, neppure nel sonno gli era concessa. Forse a causa del troppo cibo ingurgitato, oppure per la notizia che Komui aveva aggiunto alla squadra di esorcisti affidatagli Evangeline, si era ritrovato a sognarla. Che cosa strana, non l’aveva mai fatto. Non più almeno. Non dopo che, finalmente, anni prima era riuscito a scacciarsi dalle spalle il peso opprimente che continuava a spingerlo verso terra, intimandogli che non era stato in grado di comprende la richiesta disperata di una bambina. Il suo bisogno di non sentirsi abbandonata.
Si passò le mani sugli occhi, e ancora assonnato decise che poteva permettersi un altro po’ di riposo. Tanto dovevano aspettare quei quattro esorcisti, no? C’era ancora del tempo; a quanto ne sapeva sarebbero arrivati verso sera. Magari, nel suo nuovo sonno ristoratore, avrebbe sognato qualcosa, qalcuno che non fosse stato Eve… No. Impossibile. Strano ma vero era troppo curioso di sapere, conoscere ogni suo cambiamento. Voleva vederla, scoprire se quegli occhi erano diventati meno severi, se i capelli si erano allungati, se si era abbronzata un pochino. Voleva conoscerla di nuovo, era curioso. Ansioso di scoprire come quella bambina si era trasformata; e se, finalmente, era riuscita a buttare giù il muro e vivere in pace con se stessa. Con il mondo.
Sospirò, accarezzato dal vento indiando.
«Il tuo brutto vizio di sospirare non lo perderai mai, è vecchio? E’ ora di alzarsi.» La voce gli era arrivata da lontano, offuscata dal rumore del fiume che scorreva poco distante. Incuriosito, tese le orecchie. Silenzio. «Alzati, armatura ambulante!» Una scarpata lo colpì dritto sulla spalla, facendolo sobbalzare e cadere di lato. Colto alla sprovvista da quella voce nuova, il Generale si issò in piedi di scatto e scagliò in avanti  un pugno, che prontamente l’avversaria schivò.
«Evangeline, ma cosa fai?! Non puoi prendere a scarpate un Generale!» gridò qualcuno, visibilmente sorpreso e allarmato dal gesto della giovane.
Sokaro abbassò le difese rimanendo col fiato sospeso, come sul filo di un rasoio. «Perché no? Voglio dire, tanto, in un modo o nell’altro, andava svegliato comunque, stupido di un Kazana» borbottò l’attentatrice, rifilando al compagno uno sguardo veloce. Il vento fece frusciare le fronde verdi degli alberi, cullando anche qualche ciocca scura della giovane.
«Ma…» il ragazzo dai capelli castani scosse il capo, pronto a concludere la frase, quando lei gli rifilò un pugno sulla spalla. La ragazza lo fissò intensamente, uscendosene poi con un: «Tzk, fa silenzio.»
«Evangeline-san, ti sembra il modo?!» intervenne una terza voce, più baritonale della prima, attirando l’attenzione della nominata su di se. Contro luce, i tratti degli esorcisti erano difficili da studiare. Solo una cosa saltava agli occhi: il colore dei capelli. Il nuovo arrivato li aveva neri, così come la giovane donna.
Lei digrignò i denti, visibilmente infastidita da tutte quelle paternali. «Ascoltatemi bene: potete essere esorcisti da molto più tempo di me, ma io con questo caprone ci ho convissuto, e so che con le buone non si sveglia! Perciò, fatevi i fatti vostri e non intromettetevi più nei miei affari, o vi taglio le palle. E giuro che lo faccio!» I due sbiancarono, ma non ancora contenta la giovane si avvicinò un poco al nuovo arrivato ed aggiunse: «E io mantengo sempre la mia parola, Chakar.» Questo s’irrigidì.
«Sei impossibile» commentò una quarta voce.
«Sta zitto Suman» ringhiò furente lei, prima di voltarsi verso Sokaro.
Il Generale non aveva aperto bocca da quando si era alzato; anzi, era rimasto muto a osservare la scena, quasi sorpreso. No, evidentemente sorpreso. All’inizio gli era parso di riconoscere Cordelia nel profilo contro luce della figura, ma poi avevano tutti detto quel nome e il suo pensiero era sfumato assieme al vento.
L’attentatrice fece un passo avanti, l’ombra del fogliame che si depositò sulla pelle di lei permise agli occhi del Generale di studiarla. Aveva innanzi una splendida ragazza, non la tredicenne bassina che aveva sognato poco prima. Davanti ai suoi occhi sostava una bellezza rara, di quelle che vanno comprese e sapute prendere. Evangeline. Era cresciuta. Tanto. Di quella bambina che era stata non era rimasto nulla, neppure un segno ad indicare che fosse realmente esistita. Persino la sua Innocence sembrava diversa.
 L’Evangeline di adesso era alta, almeno un metro e settanta abbondante, e aveva gli occhi più taglienti del filo di una scure; la pelle pallida era più lucida di quanto era mai stata in passato, riluceva al sole come fosse stata fatta di diamante; le labbra che da bambina aveva sempre curato con diligenza –in quanto diceva che alla sua mamma piacevano tanto, che era la cosa che preferiva di lei-, ora erano leggermente screpolate, tagliate; i capelli erano corti, le sfioravano le spalle a mala pena; e il fisico era asciutto e con forme non troppo eccessive. Ricordava, sotto certi aspetti, un’agile gazzella, sotto altri una temibile pantera.
Negli anni era cambiata così tanto che Sokaro fece fatica ad associare la ragazza che aveva davanti a quella piccola bambina che aveva addestrato. Fatica, quel termine era solo un diminutivo di ciò che sentiva dentro. Fatica, stupore, incomprensione e tante altre cose vorticavano all’interno del proprio corpo.
«Beh?» chiese lei, squadrando l’uomo da cima a fondo. Portò le mani ai fianchi e spostò il peso su un piede solo, senza perdere mai il contatto visivo. «Che ti è successo, armatura che cammina, la vecchiaia ti ha fatto dimenticare come si fa a parlare? Oppure le ossa non riescono più a muoversi come dovrebbero?» Sfacciata. Terribilmente sfacciata ed arrogante.
Sbattendo una volta le palpebre, il Generale tornò alla realtà. Forse, dopo tutto, il carattere non era cambiato.  Sbuffò, lanciando uno sguardo al cielo terso. Ah, è tutto tuo questo caratteraccio Alex! Stesso D.N.A., non ci piove. Mi ricorda te all’inizio di tutto.
«No, nient’affatto topolina» scosse il capo lui, avviandosi verso la ragazza. Quando le arrivò vicino, si fermò e le scompigliò i capelli. Lei trattenne il fiato, gonfiando le guance fino a diventare rossa.
Eve sapeva bene che non poteva picchiare il Generale ancora un volta, gli altri tre esorcisti che stavano assistendo alla scena non gliel’avrebbero permesso. Tanto meno lui.
«Smettila! Ti stacco un braccio!» lo minacciò, voltandosi di scatto. «E non chiamarmi più “topolina”! Non ho più tredici anni!»
Lui rise, procedendo spedito verso la carrozza. Con un sorriso sulle labbra, nascosto alla vista dei suoi subordinati, sorrise felice. Un po’ sollevato. Forse non era cambiata del tutto. Cresciuta, certo, ma in fondo in fondo rimaneva sempre la bambina con cui aveva avuto a che fare.
 
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Evangeline: E QUESTO COSA SAREBBEEEEEEEEE?! Come hai solo osato rendere pubblici questi momenti imbarazzanti della mia vita!? VECCHIO!
Sokaro: Zitta, topolina. Il capitolo lo gestisco io, e io decido cosa metterci e cosa no. Taci.
Evangeline: Giuro che ti stacco la testa #AlzaPugno
Sokaro: Shhhh. Se continui a urlare così, ti rovinerai le corde vocali.
Evangeline: AL DIAVOLO LE CORDE VOCALI, IO TI CANCELLO DA QUESTO MONDOOOOO!
Isil: E così si conclude questo capitolo di passaggio. #Sogghigna# e così anche Evangeline sa piangere. Bene bene, muahahahhaa… Oh, siete ancora qui? Beh, non fate caso a quello che ho detto prima, eh :3
Evangeline: E’ ANCHE COLPA TUA, VECCHIA PAZZOIDE! ORA TI ELIMINO DA QUESTO PIANETAAAA!
Isil: Sono morta…. A PRESTOOOOOOOO!
Evangeline: Torna qui, vecchia!
 
 

 
 
 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - L'esorcista fatta di tenebre. ***


Capitolo 10.



L’esorcista fatta di tenebre.




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 “Perchè tutti mentono. Si dice solo una parte della storia, e per esperienza ho imparato che la parte tralasciata è spesso la più importante.”
 
— "Vicino a te non ho paura" - Nicholas Sparks
 


«Come sarebbe a dire che sono tutti… morti?» La voce era quella di un giovane ragazzo, incrinata dal dolore. Non l’avrei confusa con nessun’altra al mondo, ne ero sicura. Il suo timbro limpido e alto erano come un marchio di fabbrica pe le mie orecchie, e così sarebbe sempre stato. Ne ero certa.
Con un po’ di timore sbirciai dalla serratura, strizzando l’occhio il più possibile per osservare al meglio. Eccolo li. In piedi di fronte alla scrivani di Komui, ingombra di scartoffie come sempre, stava un giovane ragazzo dalla pelle pallida e i capelli color della pece brillanti di sfumature bluastre sotto la luce dei neon. Era alto, una figura che di certo non passava inosservata. Non ai miei occhi.
Strinse i pugni, lui, per poi rilassare i muscoli tesi. Non riuscivo a vedergli bene il viso, i capelli erano troppo lunghi e gettavano sui suoi lineamenti ombre scure. Avrei dovuto dirgli di farseli tagliare dalla nonna, e magari l’avrei fatto. Oppure, più semplicemente, avrei accidentalmente fatto cadere dalla finestra della mia stanza un biglietto nel momento in cui lui sarebbe uscito, così da fargli sapere che in realtà io esistevo ancora. Che non ero scomparsa.
«Mi dispiace, Marco. Non abbiamo potuto impedirlo.» Komui si alzò, girò attorno alla scrivania e gli posò una mano sulla spalla. Il ragazzo s’irrigidì, prima di scivolare a terra con le ginocchia e piegarsi su se stesso battendo i pugni contro il pavimento. Le sue spalle erano scosse da tremiti, veloci e rumori singhiozzi.
«Se solo fossi stato io il compatibile! Se solo fossi stato io!» continuava a ripetere, ignorando i tentativi di Komui di farlo alzare. «SE SOLO FOSSE TOCCATO A ME, QUELLA VOLTA!»
 
Continuavo a domandarmi il significato di quella frase. A volte credevo che quell’immagine dipinta nei miei pensieri fosse solo un ricordo vago, che le cose non erano mai andate così, eppure sapevo che non c’era altra spiegazione per tutto quello. Lui c’era stato all’Ordine quel giorno, Komui gli aveva dovuto rivelare una mezza bugia e poi Marco se n’era andato. Era Scomparso dalla mia vista, dalla mia vita per sempre. Neppure fosse stato un fantasma o  una qualche specie di amico immaginario. E io soffrivo. Soffrivo ogni giorno di più conscia di conoscere ogni cosa che lo riguardava, mentre a lui di me non restavo altro che un ricordo, ormai, sicuramente sbiadito.
Chissà se gli era mai apparso il Conte, dopo che aveva saputo di “noi”?, mi trovavo a chiedermi questa volta. Come avrebbe reagito se fosse accaduto davvero? Chissà se avrebbe reagito?
Continuavo a domandarmi il significato di quella frase anche adesso che gli akuma volavo attorno a noi, in un cerchio talmente stretto da farmi mancare l’ossigeno. L’aria attorno a noi era satura del gas dei Livello uno, del loro sangue che mi macchiava i vestiti e la pelle del viso. E io bruciavo. Dio, quanto bruciavo. Sentivo il veleno passare fra i pori e insediarsi nella carne, per poi venire espulso con facilità. Questa era la cosa positiva di essere un tipo parassita: il veleno degli akuma, alla fine, non era veleno. Non del tutto. Un’altra cosa importante era che, grazie al mio tipo di Innocence, potevo tranquillamente sporcarmi le mani anche se soffrivo. Così, accecata letteralmente da uno spruzzo improvviso di sangue lasciai che Rose partisse alla ricerca dell’ennesima vittima, che non tardò ad arrivare. Richiamai il primo livello della mia frusta e mi pregustai il rumore delle borchie appuntite e ricurve che sferzavano la sua superfice infondere l’aria, per poi aggrapparsi come artigli al corpo del nemico. Passai la manica della mia divisa sul viso, spargendo il sangue sulla mia pelle formicolante. Dischiusi le palpebre e lo vidi: alto e snello, con le spalle larghe foderate da quella che sembrava un’armatura arancione e gli occhi seminascosti da un orribile casco allungato sulla cima dell’ennesimo colore. Socchiuse le labbra, l’akuma, prima di aggrapparsi con le mani stecchite alla frusta.
«Dannata exsorcista! Ti ucciderò, BASTARDAAA!» Si dimenava con un pesce fuor d’acqua, peggiorando solo la situazione in cui si trovava.
«Spiacente » ansimai, tirando con forza.
 Il corpo dell’essere emise uno scricchiolio acuto che mi fece accapponare la pelle, poi da quella gola variopinta uscì un grido raschiato e lacerante. Sembrava l’urlo di un dannato (cosa che in realtà era).
«Questa esorcista ha ancora tempo prima di morire. Poco, ma ne ha.»
«TI UCCIDERO’! TI UCCIDERO’! STRAPPERO’ QUEL TUO BRUTTO MUSO DALLE OSSA E LO MANGERO’! LURIDA CAGNA!» diceva, o forse era meglio dire che strillava come un’oca. I lineamenti pappagalleschi del suo viso si contorcevano, i colori variavano accecandomi gli occhi. Passava dal blu scuro al giallo, al verde e, arrivò persino, al rosa shock. S’illuminò persino di luce, e fu allora che diedi l’ultimo strattone.
Le sentii. Sentii il crack del collo di quell’akuma che si spezzava; provai il piacere della vittoria, mi gustai il suono come fosse stato una musica dolce. Esoricsta 1 – 0 Akuma.
La testa del mio nemico cadde a terra, ruzzolò e si fermò solo quando raggiunse il piede di un altro akuma. Ci guardammo. I suoi occhi, come quelli del morto, erano nascosti da una specie di visiera ma potevo comunque sentire la pressione di quello guardo. Sorrideva, il bastardo, con quella sua mandibola scheletrica mentre ricalciava verso di me la testa del compagno. La scansai, poi liberai il corpo dalla presa di Rose e questo cadde a terra come un sacco di patate.
«Beh? Che aspetti, hai paura forse?» domandai beffardamente, mentre la mia pelle si colorava di stelle nere che bruciavano e pizzicavano, e poi scomparivano sotto di essa. Era il segno che il veleno dei suoi amici stava entrando in circolo. Purtroppo per loro però, che erano morti per iniettarmi quel siero nelle vene, io non sarei morta. Avrei solo patito un po’ e nulla di più.
«Titolo: La ragazza dai capelli di ombra.» I lunghi capelli castani frusciarono nel vento mentre si alzava e si fiondava su di me.
Mi misi in posizione, pronta ad attaccare. Ma proprio all’ultimo questo virò verso l’alto, scansando Rose. Prolungò le mani nella mia direzione, ridendo come un clown. Questo non fece altro che peggiorare le cose. Visto dalla mia prospettiva quello strano essere sembrava un clown; e io odiavo i clown. Digrignai i denti, presa in contropiede da quella sua mossa fulminea, e scaraventai la mia innocence contro di lui. Nel contempo, l’akuma mi riversò contro una scarica di strane palle large quanto un pugno e luccicanti. Appena una di loro mi sfiorò la pelle questa sfrigolò. Sussultai, ringhiando silenziosamente e dimenticai di attaccare. Al diavolo lo scontro testa a testa, mi sarei limitata a schivare quelle strane palle di calore simili a fuoco.  Non ne avrei sfiorata neppure mezza. Era una promessa.
Il mostro sorrise, ghignando un poco. «Titolo: La ragazza che aveva paura del fuoco.»
Ingoiai a vuoto. Il manico di Rose stridette fra le mie mani, mentre lo stringevo con tanta forza che le nocche diventavano bianche. Gridai, e mi parve che per un attimo tutti i combattimenti smettessero e gli occhi si puntassero su di me.
«Titolo: La ragazza ferita» e giù un’altra ondata di sfere brillanti.
Strillai, scaraventandomi verso il nemico che adesso si stava abbassando con lentezza. «Muori! Muori! Muori!» Non mi sembrava neppure la mia voce. Era acuta, graffiata e più triste di quanto mi sarei mai aspettata.
Lasciai che le sfere mi schiacciassero verso terra, bruciandomi con cattiveria i vestiti. Mi rialzai sempre. Indifferentemente dal dolore, continuai a fendere l’aria con cattiveria. Eppure, non riuscivo a colpire quella cosa nemmeno una volta. Era così frustrante.
«E va bene, l’hai voluto tu» sbraitai, bloccandomi nel bel mezzo della mia corsa. L’akuma si fermò sorpreso dal mio comportamento, e tutto divenne stallo. Tutto sembrò congelarsi.
«Evangeline, non ti azzardare!» Ma la voce di Sokaro si perse nella sabbia che si alzava turbinando attorno a me. Lo guardai, per qualche secondo, incontrando quegli occhi che avevo imparato a conoscere. Quando mi voltai, lo sentii ancora chiamare il mio nome.
Lo ignorai. Non avrei dovuto, però sentivo nascere dentro una rabbia così forte che sembrava sormontare ogni cosa, anche il buon senso. «Innocence, secondo livello: rilascio. Veleno della rosa!» Rose fremette, arrampicandosi con velocità sulle mie spalle.
«EVANGELINE!» strillò Sokaro.
L’akuma ghignò, scrocchiandosi le nocche. «Titolo: L’esorcista fatta di tenebre
«MUORI!» Rose scattò. Sibilando in avanti i due fili rossi del destino si attorcigliarono contro le braccia dell’akuma, con tanta forza che sentii la sua armatura contorcersi sotto la mia forza. Riuscivo a vedere chiaramente il calore del suo corpo, il ghigno posto su quell’orribile porzione di metà faccia scoperta.
Prima che potessi ucciderlo, qualcuno mi tirò indietro e sorpresa fui costretta a lasciare la presa. Caddi rovinosamente a terra, battendo la testa con forza. La vista mi si appannò per qualche istante, circondando le forme di un velo nero, mentre sentivo qualcuno urlare degli ordini. Coprii il volto con le mani estraniandomi dalla battaglia, come se quel gesto avesse potuto darmi un po’ di forza in più. In realtà, mi sentivo come svuotata. Persino la testa sembrava più leggera. Inesistente quasi.
Quando mi rialzai, davanti a me si ergeva solo Tyki mentre l’akuma era scomparso. Sputai del sangue a terra, per poi assumere la posizione di battaglia. Rose pulsò, minacciosa.
«Ritira gli artigli, Cagnaccio» i suoi occhi d’ambra mi scrutarono prima di sorridere «la tua battaglia finisce qui.» Una carta gli sbucò fuori dalla giacca, bloccandolo poco prima che attaccasse.
«Evvvvvvvaaaaangelineeeee Coooooorsiiiiii. Uccidetelaaaaaaaa, così potrò cancelllarlaaaaaa dallllaaaaaaaaaaaa listaaaaaaa.»
«Si, si. Dammi il tempo.»
«Persona sbagliata, Porcospino. Io non muoio tanto facilmente.» Barcollai sulle gambe, debole. Era proprio vero che i tipo parassita si stancavano prima di tutti gli altri.
Tyki sorrise, passandosi una mano sul volto. Quel bel volto giovane, che all’apparenza poteva sembrare quello di un angelo ma che nascondeva, ben imbavagliato dietro una maschera, quello di un diavolo. Certo, io non avrei dovuto commentare. Forse, anzi sicuramente, quella me stessa che facevo vedere continuamente nascondeva agli occhi di tutti il diavolo, quello vero.
Ero più demone di lui.
Dicevo di battermi per una buona causa quando in realtà lo facevo solo perché, speravo, questo mi avrebbe portato a rincontrare quella persona a cui tanto bramavo; solo perché ero stata scelta da quel dannato cristallo divino. Lo facevo, in fin dei conti, perché ero costretta. Se mi fossi rifiutata sarei diventata una caduta. Non avevo altra scelta. Non ne avevo mai avuta. Mentre Tiky lo faceva perché era nella sua natura, perché sosteneva la sua famiglia. Lui era libero di agire come preferiva. Perché voleva. Perché era libero.
All’improvviso provai un moto di rabbia nei suoi confronti. Di gelosia. Gelosia corrosiva che iniziò a stringere con forza il mio cuore, che mi smorzò il fiato. Che mi fece prudere le mani, e fece venire voglia alle mie corde vocali di vibrare con tanta forza da spezzarsi. Pensai di cadere nuovamente a terra, ma non lo feci.
Perché sarei dovuta essere gelosa di lui? Strinsi i pugni. Perché dovevo essere gelosa di lui? Chiusi le palpebre. Perché ero gelosa di lui? M’imposi di non pensarci, ma più mi ordinavo di farlo più mi domandavo il “perché”. Perché. Perché. Perché. PERCHE’?!
«Sir. Tyki Mikk» sussurrai affannosamente, inchiodandolo nel mio sguardo. Vedevo il mio riflesso nei suoi occhi d’ambra. Osservavo il mio aspetto demoniaco specchiarsi in quel viso giovane e mi sentivo afflitta e, al contempo, fortissima
 Lo afferrai per il colletto della camicia e lo tirai vicino a me. Lo spinsi verso il basso, in modo che i nostri nasi si sfiorassero. Lui non oppose resistenza, al contrario si lasciò guidare sorpreso dal mio gesto. Inarcò le sopracciglia quando, di sfuggita, gli feci passare le mani fra i riccio scuri.  E poi premetti le mie labbra sulle sue, con delicatezza, e chiusi gli occhi, gustandomi quell’inaspettata rigidezza del suo corpo. Era sorpreso, sconvolto forse. Per qualche secondo mi sentii più potente che mai. Avevo colto alla sprovvista un Noah, quel tanto che bastava per infilzarlo a dovere. Ma non lo feci: nonostante tutto ero una guerriera leale. In questo caso sapevo dove dovevo fermarmi. Solo quando riaprii le palpebre e gli accarezzai il viso, mi allontanai di un passo.
Tiky rimase fermo, mentre aleggiava sul suo volto quell’espressione che tanto mi divertiva. Poi si raddrizzò, accarezzandosi le labbra fini. «Il bacio della morte» sussurrò, e un sorriso piegò leggermente la sua bocca. «Cos’è, un marchio?»
«Una specie» ammisi. Schioccai le nocche e spazzai via la polvere dalle spalle. Affilai lo sguardo, accarezzando i due fili sottili e forti che mi circondavano le braccia. «Ho intenzione di ucciderti, Sir. Tyki Mikk, e quello era un avvertimento.»
Lui si aggiustò il cilindro e poggiò una mano sopra la visiera. «Sei diventata ambiziosa, Cagnaccio»
«E tu troppo spavaldo, Porcospino. Non mi credi in grado di ucciderti? Così mi offendo.» Una luce balenò nei suoi occhi felini.
«Non sia mai. Tutta via, credo che ti ucciderò prima io» affermò, accarezzandomi il collo con delicatezza, proprio nello stesso punto in cui l’avevo sfiorato io. I suoi guanti frusciarono contro la mia pelle, freddi e lisci. Rabbrividii.
Mi vidi ancora nei suoi occhi, ma questa volta non avevo intenzione di giocare pulito. «Provaci» lo sfidai, scagliandogli contro Rose.
 
 
Quando aprii gli occhi mi sembrò di stare morendo. Mi ero svegliata ancora una volta, e ancora avevo la fronte imperlata di sudore freddo. Il cuscino era fradicio, così come le coperte. Era impossibile riuscire a dormire ancora, dopo tutto quello che era successo nei giorni addietro. Perciò, pur di non sognare continuamente le stesse scene mi alzai scalciando via le lenzuola. Caddero in fondo al letto, con un tonfo sordo seguito da quello dei miei piedi. Non avevo mai indossato una vestaglia prima di allora, perciò quando la stoffa morbida scivolò sulle mie cosce mi sembrò un strana sensazione. Una carezza fredda, di un pallido verde acqua. Che poi, perché l’avevo indossata? Ah già, era di Lenalee. L’avevo messa perché così, avevo pensato, l’avrei sentita più vicina. Non la vedevo da settimane, mi mancava.
Alzandomi, mi asciugai la fronte e uscii in corridoio. Passai davanti alla sezione scientifica e ignorai il borbottio sommesso che faceva chi ancora stava in piedi. Mi domandai che stessero facendo, ma forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta muta nei pensieri. Preparavano le camere crematorie. Per i morti. Per i miei compagni. Una stretta s’impossessò del mio cuore, portandomi a singhiozzare sommessamente. Le mie spalle erano scosse da tremiti, ma nessuna lacrima lasciava i miei occhi. E’ che faceva male, tanto male. Mi sentivo impotente, come lo ero stata tanti anni fa.
Senza accorgermene mi ritrovai nell’ufficio di Komui, al buio. Da sola.
 
«Fuggiti!» ringhiai con rabbia, facendo capitolare una sedia a terra. Le molteplici carte di Komui volarono attorno a me, creando un’aura di confusione più marcata di prima. «Ecco cosa abbiamo fatto: siamo fuggiti, come topi!» Il colpo che diedi alla scrivania del supervisore rimbombò come uno di quelli di Rose, che procurava quando veniva schioccata in aria.  
Anita sussultò, sorpresa dal mio improvviso attacco di rabbia. Tutta via non mi voltò le spalle, non se né  andò. Era l’unica che al mio ritorno aveva avuto il fegato di starmi accanto. L’unica che era venuta ad asciugarmi il sudore tutte le sere, a qualsiasi ora della notte. E che aveva il coraggio di guardarmi ridurre quella stanza così. Senza dire nulla. Senza tentare di fermarmi.
«MALEDIZIONE!» urlai.
Lei si portò una mano ai capelli, adesso biondi, e la trascinò piano piano verso il volto prima di abbassarlo un poco per non incontrare i miei occhi. Probabilmente dovevo essere davvero spaventosa. Dovevo assomigliare al diavolo che avevo in corpo. Fatto sta che non me ne rendevo conto. O non volevo. Non me ne importava. Ero troppo furiosa anche solo per pensare una cosa simile. Mi ero vista costretta a seguire Sokaro mentre altri tre restavano a combattere. Avevo abbandonato i miei compagni, per portare in salvo un Generale che sapevo benissimo ce l’avrebbe fatta da solo. E adesso loro erano morti! Morti perché non ero rimasta ad aiutarli! Morti.
Per la prima volta dopo tanti anni mi sentivo in colpa. «Dannazione! Dannazione! Dannazione!» Cercai qualcos’altro da tirare, ma l’unica cosa che mi trovai fra le mani tremolanti di rabbia fu il fascicolo di Chakar. Mi bloccai, prima che fosse troppo tardi, a osservare la foto sul curriculum. I suoi occhi castani, sorridenti nonostante l’espressione seria. «Dio» mormorai, lasciandolo cadere sul ripiano. «DIO, ma a cosa siano arrivata?» Mi cedettero le ginocchia. Fui pronta a sorreggermi aggrappandomi alla scrivania. «Ma dove ho sbagliato?» Mi veniva da piangere, ma le lacrime non uscivano. L’orgoglio aveva sempre la meglio. L’aveva avuta anche quel giorno, l’aveva avuta sempre. Lo sapevo!
«Evangeline» due braccia mi strinsero con leggerezza.
«Anita» mormorai, lasciandomi cadere verso il basso. Lei mi sostenne, facendomi toccare terra con gentilezza. Era così strano vederla con quei capelli chiari, che non sapevo se fosse lei realmente oppure no. Eppure, il tocco era quello. Gentile, famigliare, caldo. «Dove ho sbagliato?»
«Non hai sbagliato nulla. Non hai sbagliato nulla, Evangeline. Non è colpa tua.» Mi accarezzò i capelli, stringendomi più forte. L’abbracciai a mia volta, aggrappandomi ai suoi vestiti e alzando il viso verso l’alto. Il neon delle luci mi accecò, costringendomi a socchiudere gli occhi. Il ronzio continuo che produceva mi portò a chiuderli del tutto, in uno stato di apparente fine del mondo.
«Li ho lasciati a morire. Mi hanno detto di seguire Sokaro e io l’ho fatto, li ho abbandonati. Sono morti per colpa mia. Ancora una volta, qualcuno è morto a causa della mia inettitudine. Anche allora» mi portai le mani a coprirmi le palpebre «se avessi saputo combattere, mamma e papà sarebbero vivi. Magari…» Sentii una goccia rotolare giù dagli occhi, disegnare un rivolo sulla mia guancia e cadere a terra con un piccolo plic. «Se fos---ssi rimasta, m-magari» la voce uscì troppo scossa, troppo rotta. Stavo per piangere sul serio. Non volevo che qualcuno mi vedesse. Così l’allontanai, dandole le spalle.
«Ma cosa? Evangeline?»
«Vai fuori, Anita, te ne prego.» E forse fu per la sorpresa di sentirmi chiedere una cosa gentilmente. E forse fu la scoperta che avevo la voce rotta e la testa bassa, e i pugni chiusi. E forse fu un po’ per tutto quello che era successo poco prima che, Anita non ribatté e si voltò uscendo in silenzio.
Non appena fu scattato il click della serratura caddi a terra, stringendomi nelle mie stesse braccia e poggiando la fronte sul pavimento cosparso di fogli. Soffocai tutto il mio dolore, e iniziai a piangere. Non piansi solo per i miei compagni morti, ma per la consapevolezza che erano morti per salvare un mondo ormai già segnato e circondato dalle tenebre. Singhiozzai sonoramente, incurante che qualcuno avesse potuto sentirmi, mentre vedevo quei tre ragazzi venire uccisi e quella dannata casa andare in fiamme ancora e ancora e ancora, all’infinito. Erano morte così tante persone, e io non avevo potuto fare nulla. Ero stata inutile. Ero fuggita.
I miei genitori avevano dato la mia vita per me, che non ero stata in grado di salvarli. I miei compagni erano morti perché non ero stata in grado di tornare indietro abbastanza in fretta, perché ero rimasta al fianco del Generale. E forse, anche Lenalee adesso se la stava vedendo brutta perché io non ero con lei. Magari era ferita, piangeva… Quell’eventualità mi portò solo a incupirmi di più, a piangere più sonoramente.
Non so per quanto tempo piansi, ma quando iniziai a smettere i singhiozzi si fecero più frequenti e meno forti. Mi faceva male il petto, e sentivo il viso in fiamme. Non mi succedeva da tempo, e francamente non avrei voluto succedesse più. Mi sentivo così fragile.
Mi abbracciai più forte, obbligandomi di smettere di piangere. Basta. Basta. Basta. Non riuscivo a fermare quelle poche lacrime che ancora non si erano decise a morire. Continuavano a bagnarmi il volto accaldato, rosso di sforzo. Rotolavano giù sui miei palmi, contro il pavimento.
«Basta!» mi ordinai e sbattei i pugni a terra. La scossa di dolore iniziale si riversò sulle braccia, poi per tutto il corpo. Mi asciugai il viso.
Piangere non avrebbe riportato in vita nessuno, quindi che senso aveva versare lacrime? Ormai quello che doveva succedere era successo. E io non avevo saputo salvare i miei compagni. E i miei genitori. Ed era colpa mia. Anzi no, era tutta colpa dell’innocence! Quella dannata bastarda che mi aveva rovinato la vita.
 
«Se solo fossi stato io il compatibile! Se solo fossi stato io!» continuava a ripetere, ignorando i tentativi di Komui di farlo alzare. «SE SOLO FOSSE TOCCATO A ME, QUELLA VOLTA!»
 
Affilai lo sguardo, graffiando le preziose carte di Komui. La rabbia crebbe dentro di me. Dopo il dolore e la frustrazione, era giusto che provassi quel sentimento. Già, se solo fosse toccato a lui, quella volta. Ma quale volta, precisamente?

 


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Evangeline: Questo capitolo fa schifo.
Isil: Abbi pie-
Evangeline: Fa schifo, sul serio.
Isil: Evan-
Evangeline: ‘Fanculo, è orrendo. Io esco.
Isil: -.-
Evangeline: Ciao.

Isil: Okokokok! Ammetto che non avevo idee! Lo ammetto! Scusatemi #guarda altrove# Al prossimo capitolo...
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Consapevolezza. ***


Capitolo 11.


Consapevolezza.


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"Non c'è fortuna, non c'è destino, non c'è sorpresa per me."
 
- Chiara
 
Quando aprii la porta, Anita era li che mi aspettava. Aveva gli occhi rossi e gonfi, le unghie mangiucchiate e un diavolo per capello. Qualche ciuffo biondo le cadeva scompigliato sulle spalle, staccandosi dal maldestro chignon fatto sul momento. Era appoggiata al muro e il camice le si era spiegazzato. Sembrava… stanca. Sfinita. Non l’avevo mai vista così in disordine, e mai avrei pensato di poterlo fare.
Quando sentì l’uscio chiudersi alle mie spalle, i suoi gelati occhi azzurri si posarono su di me. Socchiuse le labbra, mentre le sue pupille si allargavano come sorprese. «Qualcosa non va?» mormorai, per paura che la mia voce uscisse graffiata di pianto.
«No, va tutto bene. Scusami, è che sono solo un po’ stanca.» Si accarezzò distrattamente il viso, sorridendo poi. «Comunque, ora va meglio?» domandò, massaggiandosi il collo con pigrizia.
Annuii, incrociando le braccia al petto. La vestaglia frusciò solleticandomi il ventre, attirando il suo sguardo. La vidi alzare curiosa le sopracciglia, come risvegliatasi da un sonno ad occhi aperti, e socchiudere le labbra. M’indicò, accennando a dire qualcosa. «Non chiedere» misi le mani avanti, sorpassandola. Lei alzò le braccia verso il soffitto, seguendomi.
«Komui» sussurrò a un tratto lei, interrompendo il silenzio creatosi, «si è preoccupato molto per te, in questi ultimi giorni.»
I nostri passi risuonarono per l’ennesima volta nel corridoio, prima di bloccarsi. Voltai stancamente il collo e con la coda dell’occhio riuscii a vederla distintamente. Che avrei dovuto dirle? Me l’ero aspettata, quella confessione, però non ci trovavo nulla da commentare. Senza contare che mi sentivo alquanto infastidita da tutto ciò. Infondo, non era venuto a cercarmi nemmeno una volta. Mi aveva lasciata sola, chiusa come un riccio nella mia stanza e non si era nemmeno avvicinato alla porta. E la cosa più strana era che, tutto quello mi aveva dato fastidio. Ci ero rimasta male, io che avevo sempre ribattuto che l’affetto era per gli stupidi. Ero rimasta ferita, nonostante avessi sempre voluto che nessuno mi si avvicinasse. Perché?
Strinsi i pugni, mentre la consapevolezza irrompeva nelle mie vene come un uragano. Ingoiai a vuoto, voltandomi con velocità per impedire ad Anita di vedere la mia pupilla dilatarsi. Io lo volevo, l’affetto di Komui. L’avevo sempre voluto, nonostante avessi continuato a negarlo. Deglutii nuovamente, riprendendo a camminare. Sentivo i capelli solleticarmi il collo, come un soffio leggero. Rabbrividii. Ma che mi stava succedendo? Perché mai andavo a pensare quelle cose assurde? Maledizione. Era bastato un pianto ed ecco che le emozioni arrivavano a galla, fuggendo da quelle prigioni in cui le avevo rinchiuse. Dovevo rimettercele, a qualunque costo. Non importava il prezzo da pagare.
«Evangeline, aspettami» mi richiamò Anita, ma era già molto lontana e non riuscì a raggiungermi mentre giravo l’angolo, perdendomi così nel buio di un corridoio.
Non so per quanto girovagai per l’Ordine, immersa nei miei pensieri e nella caccia a questi sentimenti, ma quando mi fermai per rimettere a posto le idee mi ritrovai ancora un volta nell’ufficio di Komui; con tutte le carte sparse a terra distrutte, accartocciate. Le stelle ancora brillavano alte in cielo, di un blu notte così simile al velluto che mi portò ad affacciarmi al finestrone che specchiava sulla strada d’ingresso del castello.
Chiusi gli occhi, circondandomi con le mie stesse braccia. A pensarci bene non ricordavo la prima volta che ero arrivata li. Se ci pensavo, l’unica cosa che mi veniva in mente era il volto di Komui che sorrideva mentre tentava di fare amicizia. Non quello del maestro. Lui non c’era al mio risveglio, se n’era già andato. Ma allora perché lo stavo cercando? Perché in tutti questi anni passati avevo fatto tanto per trovarlo? Feci schioccare la lingua, stringendo un po’ di più la presa. Ma poi, no, perché quella sera aveva salvato solo me e non i miei genitori? Perché non era intervenuto nella battaglia? Non era troppo tardi per salvarli, infondo lui era un Generale e avrebbe potuto concludere tutto con il solo schiocco delle dita. Se n’era per caso lavato le mani? Affondai un po’ di più le unghie nella carne scoperta, chiudendo gli occhi.
Poi un cigolio attirò la mia attenzione, seguito da un rumore di passi attutito da delle pantofole. Osservai Komui richiudersi la porta alle spalle, mentre si dirigeva verso di me. Non gli diedi il tempo di dire nulla, solo lo ignorai per un primo momento tornando alle stelle.
Socchiusi le labbra pronta a parlare, a dirgli qualsiasi cosa riguardante Marco. Io volevo vederlo. E non me ne importava nulla delle regole dell’Ordine. In più, volevo le risposte a tutte quelle domande che poco prima mi avevano attanagliato la mente. Me le meriavo, aveva sempre fatto ogni cosa senza esitare. Magari battibeccavo però portavo a termine ogni incarico. Avevo il diritto di sapere, di chiedere e ricevere tutte quelle risposte che si erano sempre rifiutati di darmi.
«Komui» mormorai, voltandomi del tutto verso di lui. La luce della luna che si spandeva sul pavimento venne tagliata dalla mia ombra, così diversa dal solito. Sembrava più scura, più densa e pesante da muovere. Lui alzò gli occhi dai fascicoli salvi sulla sua scrivania, voltando la sedia nella mia direzione.
Rimanemmo entrambi in attesa di qualcosa, ma i discorsi che mi ero preparata  morirono sulle labbra un’altra volta. Oh, ma cosa diamine mi stava succedendo? Era una cosa così stressante!
La presa sulle braccia si rafforzò nuovamente, facendomi male. «Cosa c’è che non va in me? S-sento che c’è qualcosa che non va, qui dento –indicai il petto- e ho provato a mettere tutto in ordine ma non riesco, non bene. Perché?» Le parole rimasero sospese nell’aria fra noi, mentre lui socchiudeva le labbra stupito. Probabilmente, anzi sicuramente, si aspettava che gli inveissi contro (ed era anche il mio obiettivo principale) ma non era successo.
L’uomo si tolse gli occhiali, accarezzandosi stancamente le meningi. «Dio, finalmente ci siamo» sussurrò, più a se stesso che a me. Inarcai le sopracciglia, completamente colta alla sprovvista da tale affermazione.
«Pensavo che questo momento non sarebbe mai arrivato. Evidentemente, fortunatamente mi sbagliavo.» Si alzò, venendomi incontro. Aveva un passo sicuro, notai, e una luce di quella che sembrava felicità negli occhi.
«Che diavolo stai dicendo?» sbraitai all’improvviso, stringendo i pugni. «Mi stai prendendo in giro? Guarda che uno di quei sentimenti di cui parlavo è l’ira» minacciai.
Lui scosse il capo, facendosi più vicino. Non me l’ero immaginato, costatai, aveva davvero una luce di sottile felicità negli occhi. «Assolutamente. Sono solo felice di vedere che, finalmente, stai tirando fuori quel lato umano che hai provato a nascondere per tanti anni.» Mi accarezzò una guancia, sorridendo. Aveva la pelle calda e morbida, chiaro segno che non si occupava di lavori manuali da tanto, tanto tempo. «Sono davvero felice. Significa che sei cresciuta, Evangeline.» Le lunghe dita snelle s’infiltrarono fra le ciocche nere, infondendomi un certo senso di piacere. «Sono così sollevato» e mi strinse fraternamente. Il mio volto atterrò sul suo petto, le mie mani si strinsero alla sua schiena vellutata dall’accappatoio bianco. Profumava.
 
Quando aprii gli occhi ormai s’iniziava a vedere una striscia di luce pallida che cadeva oltre il burrone dell’Ordine. Mi accarezzai il volto, sbadigliando. A pensarci bene, neppure mi ero accorta di essermi addormentata sul pavimento dell’ufficio di Komui la notte prima. Dovevo essere davvero stremata.
Mi tirai a sedere, staccando dal viso i fogli rimasti incollati alla bava e mi stirai per poi alzarmi. Il mio riflesso tagliò il vetro della finestra, mostrandomi l’aspetto che possedevo. La solita pelle pallida, che sembrava più trasparente del solito, la stessa camicia verde acqua e dei disordinati capelli sparati in tutte le direzioni. Così scuri da confondersi con il velo brillante di stelle della notte sorniona; così cenerini da far risaltare una moltitudine di ciocche bianche che accarezzavano il collo in un rigido saluto. Mi avvicinai al vetro, stupita, mentre tentavo di separare quei fili di ragno dalla tela nera. Brillarono di un bianco accecante, limpido, che mi fece persino male agli occhi.
«Cristo» sussurrai, lasciando andare ogni singola ciocca. « Sta a vedere che...» Con fretta tirai la manica destra in alto, il petto che sembrava tremare come una cassa stereo. Repressi un gemito. Li, dove l’attaccatura di Rose andava a fondersi con la mia pelle si andavano a diramare piccole spaccature, ancora praticamente invisibili agli occhi poco allenati al buio. Il mio cuore smise di battere, per poi riprendere a scandire ogni singola corsa con un boato assordante.  «Oh, grandioso» sussurrai piccata, passandoci sopra le dita ustionate. Seguii il loro filo conduttore fino a metà avambraccio, dove finivano. Erano calde, seghettate e chiare. Sembravano la pelle di un serpente in muta.
Ironico, pensai, dopo tutti questi anni passati a definirmi tale lo sto diventando sul serio. Riabbassai la manica e sospirai.
Avevo sempre saputo che ci sarebbe stato un momento, della mia breve vita, in cui avrei preso realmente coscienza di quello che mi stava per accadere ma… Scossi velocemente il capo, schiaffeggiandomi da sola. Sapevo che sarebbe successo, avevo passato gli ultimi quattro anni della mia vita ad aspettare questo momento e non potevo avere paura proprio ora. Assolutamente.
E’ il tuo destino. Rimboccati le maniche e prendilo di petto.
Il sole iniziò pian piano a tingere l’alba di un color oro brillante, risvegliandomi da quei pensieri transitori. Nonostante tutto, le stelle non perdevano la voglia di brillare.
Non era il momento di spaventarsi. Non potevo permettermelo. E poi, prima che questo potesse succedere sarei morta. Ma non me ne sarei andata senza aver salutato Lenalee, o trovato Cross; quell’uomo mi doveva delle risposte. Tante.
Diedi le spalle alla finestra, al sole, rifugiandomi nelle tenebre che ancora aleggiavano nei corridoi dell’Ordine assieme al silenzio, rotto solo dal rumore leggero dei miei passi. Non ci misi molto a raggiungere la mia camera, lavarmi velocemente e preparare un borsone. Dovevo fare in fretta, prima che qualche mattiniero si svegliasse e tentasse di fermarmi. Riuscii persino a buttare giù due righe ad Anita a cui, nonostante il mio brutto carette, ammettevo di dovevo tanto. Lo infilai sotto la sua porta, per poi affrettarmi verso l’uscita. Incrociai diversi usci a me conosciuti, ognuno dei quali veniva associato ad un volto diverso. Un viso conosciuto, la maggior parte delle volte sorridente. Mi domandai se, una volta venuti a sapere del contenuto della lettera che avevo lasciato alla scienziata, gli sarei mancata. Mi chiesi se Komui, la cui camera era appena scivolata di fianco a me nel più totale silenzio, si sarebbe preoccupato almeno un po’. Certo che lo farà. Lo sai che sarà così, lo conosci.
Repressi un sorriso amaro e deglutii, pronta a portare a termine la missione che mi ero prefissata. Svoltai l’ennesimo angolo, scrocchiando le nocche per allentare la tensione che sentivo. Non avrei mai pensato che l’idea di andarsene da li, realmente, mi avrebbe chiuso lo stomaco in una morsa ferrea. Lasciare l’Ordine significava abbandonare persone la cui presenza ormai era scontata; dimenticarsi il sapore dei cibi di Jerry; le litigate con Anita e le minacce ai ragazzi della Sezione Scientifica. Voleva dire lasciarsi ogni cosa alle spalle. Ero pronta a tutto questo? Ero sicura di volermi lasciare tutto quello alle spalle? Certo che lo ero. Anche se faceva male.
Strinsi le dita attorno alla maniglia. La porta cigolò un poco, iniziando ad aprirsi.
«Bei capelli.» Mi fermai sull’uscio, socchiudendo le palpebre e trovandomi a sorridere. Avrei riconosciuto quella voce fra mille. Il timbro era basso e ruvido, l’accento così marcato da far venire la pelle d’oca a chiunque. Ma non a me, che avevo imparato ad apprezzarlo. Mi accorsi di aver desiderato voler vederlo prima di scomparire.
Con la coda dell’occhio individuai la sagoma di Sokaro, poggiato con una spalla al muro più vicino. Le forti braccia incrociate al petto gonfio. «Almeno io ce li ho, i capelli» affermai.
Lui soffocò una risata roca. «Vedi di non morire, la fuori. Va bene, topolina?»
«NON CHIA…» mi morsi la lingua, girandomi ad osservare il portone. Era strano pensare di doverlo lasciare li, mentre di solito era lui quello che –quando le missioni erano troppo pericolose- mi rinchiudeva in hotel. Sembrava una strana barzelletta mal riuscita.
«Torna tutta intera, ok?» Sarei davvero tornata? Lui ci sperava, sul serio?
Prima di parlare mi voltai completamente nella sua direzione e gli regalai uno di quei sorrisi che ero solita riservare a Lenalee. Lui sembrò irrigidirsi, per poi sciogliersi. «Ci proverò, crapa pelata.» La porta si chiuse alle mie spalle, distaccando il mio nuovo presente da quello che, ormai, sembrava già un lontano passato.
 
La brezza mattutina mi colpì con un soffio leggero, facendomi rabbrividire. I capelli frusciarono nel vento, morbidi. Mi fermai per respirare e inspirare un’ultima volta l’aria fresca e ad osservare il panorama che si godeva da quel burrone. Faceva tremendamente freddo a quell’ora di mattina. Ringraziai silenziosamente Johnny per la nuova uniforme nera e rossa che teneva caldo, e che si confondeva perfettamente con le ombre. Riuscii a passare inosservata sotto lo sguardo del guardiano di pietra mezzo addormentato e a sgattaiolare giù, verso le case e le strade ancora dormienti.
Non mi voltai indietro, nemmeno quando raggiunsi la fine del crepaccio e m’inoltrai in città. Non mi voltai. Semplicemente sentivo che, se l’avessi fatto, tutto mi sarebbe crollato addosso e che la consapevolezza del mio destino mi avrebbe spinto a terra con un soffio. Avrebbe fatto male, ecco la verità, e io non volevo soffrire. Avevo deciso che avrei tenuto i pianti e i rimpianti per la fine, quando ogni cosa, anche la più misera delle emozioni e il più sbiadito dei ricordi, avrebbe iniziato a colarmi dai palmi delle mani come polvere del deserto.
Un respiro. Un battito di cuore. Un soffio sulle ciglia. Una risata . Un abbraccio di Lenalee. Un bacio sulla guancia. Tutto. Avrei pianto per tutto. Me l’ero giurata che mi sarei lasciata andare, solo quando sarei morta.
Grazie di tutto. Nonostante il mio carattere mi siete rimasti vicini e Dio solo sa quant’è difficile sopportarmi, fu il mio ultimo pensiero rivolto a quel luogo e quelle persone. E mi si strinse il cuore, perché avrei voluto dirle di persona quelle cose. Ma era troppo tardi, per me.

 


Komui.
 

«KOMUI!» la voce gli riverberò nelle orecchie per parecchi secondi, prima che finalmente riuscisse ad aprire gli occhi. Si voltò, semi accecato dalla luce improvvisa del mattino che gli apparve davanti allo sguardo. Anita lo fissava con occhio critico, le mani puntate sui fianchi e un piede che batteva a terra.
«Cosa… cosa c’è?» sbadigliò, portandosi una mano alla bocca. Lanciando uno occhiata alla sveglia affermò a se stesso che era davvero presto: le 6.30 di mattina, un orario particolarmente insolito per essere svegliati da lei che era sempre l’ultima a scendere dal letto. «Anita, che ci fai in piedi a quest’ora?»
La donna lo ignorò, guardando ansiosamente il corridoio. Ora che ci pensava bene –e aveva messo gli occhiali- il supervisore poteva notare nel viso della giovane una certa apprensione. Inarcò le sopracciglia, alzandosi dal materasso con più velocità. Se qualcosa preoccupava Anita, significava che anche lui doveva mettersi sull’attenti. Perché se lei era in ansia voleva dire che c’erano di mezzo o Lenalee e gli esorcisti o, peggio ancora, Evangeline e la sua Innocence.
«Anita» la richiamò, poggiandole una mano sulla spalla «che sta succedendo?»
Lei lo guardò con tanto d’occhi e ingoiò a vuoto, prima di prenderlo per il colletto della camicia e tirarlo in basso, verso il proprio volto. «Ascoltami, Komui» sussurrò velocemente al suo orecchio «c’è un problema con Eve. Il suo tempo, come dire, credo sia agli sgoccioli.»
Il cuore dell’uomo ebbe un sussulto. La sua piccola Eve. Sapeva già cosa sarebbe accaduto quando aveva esaminato quel pezzo di Innocence anni addietro, però aveva continuato a sperare che quel momento non sarebbe mai arrivato. L’aveva voluto. Ci aveva creduto persino. Eve non gli aveva mai dato alcun segno, nulla di cui preoccuparsi. Era sempre stata forte, cocciuta, sicura di se e non si era mai scomposta davanti a niente. Gli era sembrata talmente sana che, dopo un certo periodo, la storia della sua Innocence era stata archiviata nei reconditi di quella mente da scienziato. Mentre adesso, la bambina che era diventata una splendida ragazza davanti ai suoi occhi, quella giovane che aveva amato quanto sua sorella minore, stava per andarsene. Non ci voleva credere.
Fece qualche passo indietro, seguito da Anita. Il materasso si piegò sotto il loro peso, mentre tutto sembrava diventare immobile. Il supervisore tacque per qualche minuto, intento a rimuginare su tutti i calcoli fatti nel tempo su quella dannata Innocence. Era troppo presto per lei per andarsene. Non poteva già essere arrivata allo stadio finale.
Si voltò, le pupille dilatate dagli occhiali. «Dov’è adesso?» si ritrovò a chiedere, stringendo le spalle della scienziata con forza. Negli occhi azzurri di lei apparve una luce di rimorso, rimprovero. Il cuore di Komui sembrava voler uscire dal petto, lo udiva rimbombare persino nel cervello. Sentì le mani iniziare a tremargli. Deglutì, stringendo un po’ di più le spalle della scienziata. Perché non rispondeva? Cosa… Serrò le palpebre, rilassando tutti i muscoli. Una triste consapevolezza gli attanagliava lo stomaco. «Lei… non è più qui, non è così?»
Anita si ritrovò ad annuire, e prima che Komui potesse fare qualsiasi cosa tirò fuori dalla tasca del camice una lettera. Era un semplice foglio piegato, sicuramente di fretta, ma la calligrafia era precisa e ben leggibile. Non serviva un occhio esperto per capire a chi appartenesse.
L’uomo alzò un sopracciglio. «L’ho trovato sotto la mia porta circa dieci minuti fa» ammise lei, grattandosi nervosamente l’avambraccio. Guardandola, si disse Komui, non assomigliava per niente alla solita Anita composta e decorosa. Questa ragazza che aveva davanti agli occhi sembrava di più una semplice donna preoccupata per una persona cara. E forse era così. Lui sapeva quanto la storia di quella ragazza le stesse a cuore, visto che suo fratello minore era andato incontro allo stesso destino di Eve.
Lo scienziato annuì, dandole conferma di aver capito, poi prese a leggere le poche righe inchiostrate fra i quadratini.


 

Anita,
 
mi spiace doverti dire “ciao” così, ma non ho altro modo. Stamattina mi sono svegliata e ho trovato una bella sorpresa: la consapevolezza che il mio contratto con questa vita è agli sgoccioli. Ho una buona parte di capigliatura bianca, non so neppure io se definirla originale o inquietante, e un nuovo tatuaggio sull’avambraccio destro. A quanto ricordo avevate detto che, nel preciso istante in cui sarebbe iniziato il conto alla rovescia, quello era il segnale, no?  Perfetto, significa che siamo al capo linea. Buon per te, credo, che non hai mai sopportato il mio disordine e quel caratteraccio che mi ritrovo.
Ad ogni modo, penso di doverti dei sinceri ringraziamenti. Vorrei poterteli fare di persona, magari stringerti fra le braccia come hai fatto tu con me la sera scorsa, ma a quanto pare non ce ne sarà occasione. Quindi, accontentati di questo pezzo di inutile carta macchiata dagli scarabocchi di un’esorcista corrosa dalle tenebre.
Per quanto riguarda Komui, perché so che andrai dritta da lui, spero solo che non la prenda male. Digli che è stato per me come quel fratello a cui ho dovuto dire addio. Riferiscigli che mi fa male il cuore se penso di doverlo lasciare, per un bel po’ di tempo, ma avvisalo che non ho fretta di rivederlo! Penso che il paradiso possa aspettare per lui, mentre l’inferno inizia a reclamarmi. Sai, è ora che il suo diavolo migliore torni a casa.
Se dovessi vedere Kanda e Lavi, nel caso io non facessi in tempo, digli che ho lasciato ad entrambi un regalo nella mia camera, proprio dentro l’armadio. C’è anche un pensiero per il Moyashi. (A proposito di Allen: credo che nonostante tutto, i capelli bianchi stanno meglio a me.)
Invece, se non riuscissi a vedere Lenalee e lei dovesse chiederti cosa mi è successo, ti prego dal più profondo del cuore di non dargli la notizia della mia morte. Riferitele che sono partita per una lunga missione, e che non sapete quando ritornerò. Ogni volta che vi chiederà di me affermate che sono incaricata di risolvere altri incarichi. Non potrei sopportare di saperla ferita. Non potrei sopportare di essere io la causa di un suo pianto, qualunque esso sia. Ti prego. Vi prego.
 
Eve
 
P.s: grazie per esservi presi cura di me tutti questi anni, ed avermi supportato e sopportato nonostante tutto. Mi mancherete.
 



Komui serrò il foglio fra le lunghe dita e rimase muto. Una lacrima gli solcò la gota cadendo fra le pieghe della lettera, andando a macchiarla la dove c’era la sua firma. Deglutì.
«Non hai intenzione di fermarla? Potremmo essere ancora in tempo, sai?» chiese Anita, rompendo il silenzio. I suoi occhi azzurri erano velati da lucide e calde lacrime, che vi sostavano in attesa di rotolare a terra.
«E’ già partita, Anita, lo sai bene anche tu. Non possiamo più fare nulla, se non pregare che torni a casa assieme a Lenalee, e tutti gli altri.» Eppure, dentro il proprio petto, Komui si sentiva pesante e oppresso da un qualche genere di senso di colpa. Come se, inconsciamente, avesse creduto che quella era davvero una lettera d’addio e che non l’avrebbero più rivista.
 
 

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Isil: SIAMO QUASI AGLI SGOCCIOLIIIII T.T
Evageline: Io di certo.
Isil: ANCHE LA STOOOOOOOOOOOOORIAAAAA Y.Y
Evangeline: Ma chi se ne frega della tua stupida storia, qui? E’ la mia vita quella che è davvero importante. Vuoi farmi davvero morire, vecchia pazza!?
Isil: Beh…
Evangeline: SEI SERIA?! Basta. Ora ti strappo le dita!
Isil: WAAAAAAA *fugge*
Evangeline: I tizi che leggono, questi qui che ci seguono, mi ringrazieranno!

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Verso Edo. ***


Capitolo 12.


Verso Edo.



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Il tempo corre per tutti.
 

Ancora non potevo crederci. Con tutte le terre emerse e i mari che le dividevano la mia fortuna sembrava essersi persa; affondata negli abissi più reconditi e oscuri. E più li osservavo più ne ero certa.
«Avanti, mangia qualcosa figliolo.» Inarcai le sopracciglia, scuotendo il capo. Si, la consapevolezza che la mia fortuna fosse svanita chissà dove cresceva di momento in momento.
«Tzk, ti ho già detto che non sono tuo figlio!» Kanda allontanò con il piede il Generale Tiedoll, costringendolo alla lontananza. Il volto una maschera di rabbia crescente. «STAMMI LONTANO!»
Idioti, non riuscivo a pensare ad altro. Mi ero imbattuta nella squadra di Tiedoll durante un cambio di nave e da allora non avevo più avuto un attimo di pace. Per quanto Kanda m’ignorasse, ed era una cosa reciproca, Marie e il Generale tentavano continuamente di conversare. Volevano farmi sentire parte della squadra, ma io non volevo avere nulla a che fare con loro. Avevo un obbiettivo, e l’avrei portato a termine senza distrazioni.
«Il Generale», Marie si avvicinò un poco a me e sorrise, «è fatto a modo suo. Ma è una brava persona.»
«Si, si, lo so lo so.» Mi stiracchiai un poco, alzandomi. Poi, senza dire una sola parola mi avviai verso l’uscita.
«Vai a prendere un po’ d’aria?» sussurrò Marie, indicandomi con le bacchette del proprio pranzo la porta della cabina.
Mi voltai a guardarlo, annuendo. «Qui dentro ci sono troppi idioti.»
Percorsi il ponte con pigrizia, guadagnandomi qualche occhiata dai vari marinai che erano intenti a lavorare e pulire. Negli ultimi tempi tutti tendevano a ignorarmi, per via del mio brutto carattere e la strana aura che mi circondava ma a me non importava. Tutta quella diffidenza non mi toccava nemmeno un poco, scivolava sulla mia pelle sfregiata come olio.
 Mi poggiai alla ringhiera della nave, in ascolto del mare che ne lambiva lo scafo. Quell’immensa distesa di azzurro brillante si allungava fino all’orizzonte, dove poi si fondeva con il cielo. Produceva un rumore dolce, quasi soave. Era rilassante e strano al tempo stesso. Sebbene avessi viaggiato più volte in nave non mi ero mai realmente fermata ad ascoltare le sue canzoni. Neppure una volta. Affondai una guancia contro il pugno chiuso, sospirando. Che cosa mi ero persa per tutto questo tempo. Mi domandai se, a contrario di me, Lenalee l’avesse mai ascoltato a dovere il linguaggio segreto delle onde, se avesse mai letto fra le righe degli strepiti dei gabbiani che si gettavano in mare e nel soffio del vento frizzantino. Mi ritrovai  a pensare se Allen e Lavi, persino Kanda che come me tendeva a isolarsi da ogni cosa,  avessero pensato, almeno una volta tanto, a queste cose. Poi scossi il capo, risvegliandomi dal sonno apparente in cui mi ero gettata. Non potevo perdermi in queste cose. Prima di farlo dovevo raggiungerli, e anche in fretta. 
Affondai le mani nei capelli, più corti di prima, e tirai un poco. Era strano non sentire i fili scuri intrecciarsi nelle dita dietro la testa, ma rasarli era stato l’unico modo per nasconderli completamente alla vista. Fortunatamente, le ciocche nere si erano rivelate più numerose di quelle bianche e più lunghe del previsto, e riuscivano a coprire ogni cosa. Era strano, ma restavo sempre io: con qualche ciocca più corta, certo, e uno strano e contorto insieme di righe sulle braccia.
A un tratto dei brusii attirarono la mia attenzione. La nave aveva preso a rallentare, le voci a salire e, dopo qualche secondo, avevo iniziato a riempirmi di nervosismo. Perché volevano far durare quel dannato viaggio più a lungo del previsto? A quanto ne sapevo la squadra Cross era ancora in Asia, se non mi muovevo subito non li avrei raggiunti in tempo per unirmi a loro, per viaggiare verso Edo. E non potevo permettermelo. Io dovevo esserci.
Perciò, mi allontanai dal parapetto dell’imbarcazione e mi diressi verso il lato opposto. Il lungo soprabito che copriva la divisa sventolò ai miei piedi, creando come una seconda ombra più scura, che ricordava l’inchiostro. Frusciò un’ultima volta, l’abito, prima che mi fermassi alle spalle dei marinai. «Beh, perché ci siamo fermati? Io non ho tutto questo tempo da perdere» asserii, incrociando le braccia al petto.
«S-signorina», cominciò un ragazzo alquanto giovane. Aveva gli occhi di un animale impaurito, nei quali il predatore trova piacere nell’osservare il proprio riflesso. «Ci dispiace, ma i resti di una nave bloccano il passaggio. Dovremmo aggirarli per non apportare danni alla nave, perc-»
Inarcai le sopracciglia, annoiata. Detestavo le scuse campate in aria e tutto quel tempo sprecato in parole inutili, mentre si potrebbe lavorare. «Tzk, smetti di giustificare questo ritardo e datevi un mossa.» Spostai il mio sguardo dal suo viso al mare e mi sentii tremare dentro. Con la coda dell’occhio lo individuai: un movimento che attirò la mia attenzione.
«Fatti da parte.» Lo spinsi via in malo modo, iniziando ad allontanare tutti quelli che si mettevano sulla mia traiettoria. Solo quando riuscii ad affacciarmi al parapetto mi accorsi del fatto che, sebbene non me ne fossi resa conto prima, il mio cuore aveva smesso di battere.
Li nell’acqua buia e nera dell’ombra della nostra barca, che si scontrava contro lo scafo, stava la divisa nera e argentea di un’esorcista. Alzai il volto a scandagliare i resti dei detriti che galleggiavano più avanti. Cercavo, col cuore in gola e la paura negli occhi. Uno scintillio, un’altra divisa. Ma non la sua. Cercai ancora, convulsamente oserei dire, finché una gonna che aveva continuato a galleggiare fino a quel momento nei pressi di qualche tavola non mi saltò agli occhi. Allora sentii un peso sulle spalle tremendo, e uno squarcio sul cuore ancora più doloroso.
Lenalee.
Ma non poteva essere morta. Non lei. Afferrai il legno del parapetto e lo strinsi forte fra le mani, Rose che pulsava dolorosamente. Doveva essersi salvata in qualche modo. Tutti dovevano aver trovato almeno una via di fuga! «Povera gente» diceva intanto un vecchio marinaio, scuotendo la testa. «Probabilmente si stavano dirigendo in quella città infestata e la sfortuna li ha colpiti.»
«Parlate di Edo?!» La mia voce uscì dalle labbra con velocità e convinzione, secca. Gli occhia verdi dell’uomo si allargarono e rimpicciolirono svariate volte, mentre mi puntava una mano al cuore come per tenermi lontana. L’avevo spaventato, ma non m’importava.
Partii in gran carriera e gli strinsi le mani sulle spalle, scuotendolo un poco. Il marinaio spostò le mani in avanti e tentò di allontanarmi, inutilmente. Anche se ero una donna e lui un marinaio che si era fatto i muscoli negli anni, ero più forte e determinata. Non avrei lasciato che mi spostasse finché non mi avesse risposto.
Intensificai il mio sguardo fino a che non iniziò a mutare e le forme cambiarono colore. Rose si arrampicò di nascosto sul mio braccio, in modo da non essere vista. Il vecchio sgranò gli occhi e urlò un poco. «Quanto dista da qui, quella città? QUANTO?!»
«Fo-forse qualche ora, forse un giorno, i-io non lo so» ammise, parandosi il capo con gli avambracci. «Non mi sono mai informato troppo, su quell’inferno vivente.»
«Tzk.» Lo spinsi via, e lui dopo aver arretrato di qualche passo cadde fra un gruppo di corde. Quando mi voltai, l’intero equipaggio e i pochi ospiti mi stavano osservando impauriti. «Che c’è da guardare?!» Ognuno abbassò o distolse lo sguardo.
E fu un attimo. L’uomo si rialzò, come mosso da invisibili fili trasparenti, e si scagliò verso di me con brutalità. Rose fremette, portandomi a voltarmi in tempo per vederlo arrivare. Aveva una smorfia orrenda sul viso cotto dal sole, che mi portò a ridere mentre saltavo all’indietro evitandolo. Il suo pugnò andò a vuoto, ma questo non sembrò scoraggiarlo. Intanto nessuno osava intervenire, troppo presi dal combattimento o attanagliati dalla paura di farsi male. Avevo il cuore che batteva a mille per l’adrenalina. In quel momento ringraziai silenziosamente gli anni passati ad allenarmi con un istruttore esperto all’Ordine. Adesso che non potevo usare l’Innocence a piena potenza sulla nave (in quanto eravamo troppo vicini a Edo e questo ci avrebbe fatti scoprire) le mosse rimaste chiuse nei cassetti della mia mente per tanto tempo erano pronte a uscire.
Sorprendentemente, mi ritrovai a evitare ogni colpo con precisione. Mantenni il mio sorriso, quasi con strafottenza, mentre il viso dell’uomo si imperlava di sudore e diventava sempre più accigliato. «Che c’è , vecchio, è tutto quello che sai fare?» Mi abbassai veloce, distendendo una gamba e ruotando: lui cadde a terra come un sacco di patate.
«Strega» sibilò, rialzandosi veloce.
«Mi hanno dato soprannomi peggiori.» Alzai le spalle e feci un salto all’indietro, poggiando le mani sul legno rovinato dal tempo per poi darmi la spinta e atterrare dolcemente sulle piante dei piedi. Due dei marinai alle mia spalle si spostarono, veloci come il vento.
L’uomo serrò la mascella, in un primo momento pensai che volesse abbandonare ma quado lo vidi correre nella mia direzione mi lasciai sfuggire l’ennesimo sorriso. Avanzò come un bufalo, sicuro di se e con il pugno alzato. Mi mossi in fretta, arretrando un poco ancora. Lanciando uno sguardo alle mie spalle notai che ero praticamente attaccata al corrimano che ci divideva dal mare. Tornai all’uomo: era vicino, ma potevo farcela. Dovevo essere più veloce del morso di un serpente. Aspettai che mi raggiungesse prima di scansarmi di lato e poggiargli le mani sulle spalle. Concentrai la forza sulle braccia, sollevandolo quel tanto che bastava per ribaltarlo e gettarlo fuori bordo.
Lui cadde, accompagnato da un sonoro rumore di onde infrante e di spruzzi d’acqua, che s’innalzarono verso il cielo simili a splendide sculture temporanee.
«Tzk.» Scrocchiai le nocche, voltandomi verso gli spettatori. Nessuno disse nulla, tranne qualcuno che stava cooperando per ritirare a bordo il proprio compagno.
Un gabbiano cantò in lontananza, rompendo il silenzio che si era andato a creare. Assieme a lui, quasi a volerlo accompagnare, un porta cigolò. Il rumore di passi veloci si diffuse sul ponte della nave, fino a fermarsi poco dietro di me. Con la coda dell’occhio colsi i tratti di Marie, attento alla situazione che lo stava circondando. Kanda, affianco a lui, sembrava scocciato come al solito.
«Evangeline-chan» sussurrò una voce dolce «va tutto bene, cara?» Il Generale mi poggiò una mano sulla spalla e, impercettibilmente, mi spinse indietro. Feci per ribattere quel gesto ma poi mi fermai: non era il caso di attaccar nuovamente briga.
Tiedoll avanzò, con quel suo solito sorriso rilassato sulle labbra. I marinai fermarono il proprio lavoro, per l’ennesima volta, e si voltarono a guardarci. L’uomo che poco prima era rotolato in mare era stato riportato a bordo, e adesso si stava alzando, venendoci incontro. Era rosso in volto, sicuramente si era appena accorto di aver avuto paura, di essere stato battuto di una ragazzina appena diciasettenne.
«Tutto bene» borbottai, incrociando le braccia al petto. «Questo qui», con un cenno del mento gli indicai l’uomo di fronte a noi, «si è solo scaldato un po’ troppo e così l’ho aiutato a raffreddarsi. Tutto qui.»
«Piccola str--» Tiedoll gli poggiò una mano sulla spalla, nascondendolo alla mia vista.
«La nostra imbarcazione è pronta?» chiese semplicemente, e mi parve di vedere l’omone deglutire, nuovamente spaventato.
 
 
Il mare brillava, mentre scivolavamo veloci sulle sue onde. Le forti braccia di Marie remavano con forza, aiutate dall’Innocence con fattezze umane del Generale che ci sospingevano sempre più avanti. In lontananza stava scomparendo la nave sulla quale avevano viaggiato, con tutti i suoi stupidi marinai. Ero così felice di essermela lasciata alle spalle, anche se tutto quel trambusto che avevo causato mi aveva divertita un poco. Le vecchie tecniche funzionavano ancora a dovere.
«Evangeline, figliola», osservai Tiedoll corrucciata, avrei voluto rispondergli ma sapevo che questo non l’avrebbe dissuaso dal chiamarmi così perciò mi limitai a sbuffare, «è stato Sokaro a insegnarti a combattere così?»
«Tzk, quell’armatura che cammina? Ovvio che no.» E distolsi lo sguardo, tornando all’infinito orizzonte dove cielo e mare si fondevano. «Per utilizzare quelle tecniche ci vuole anche un cervello, cosa che lui non sembra possedere.»
«E allora c-»
«Qualcuno della squadra speciale di combattimento “corvi”, del dipartimento segreto dell’ufficio centrale» tagliai corto, attirando così l’attenzione dei tre esorcisti. Marie mi osservava sorpreso. «Komui ne chiamò uno dopo che tornai dai due mesi di addestramento con Sokaro.» Solo a ripensarci mi ritrovai a socchiudere le palpebre, chiedendomi quanto il Supervisore avesse sudato per far si che qualcuno accettasse di inviarlo alla sede appositamente per me. Solo per me.
«Dicono che quei combattenti siano i più letali dell’ordine, se escludiamo alcuni esorcisti» ammise Marie, smettendo di remare. La barca, tutta via, non si fermò.
«Così pare» annuii, annoiata. Era strano parlarne però, mi sentivo un po’ come in debito. Solo pensando a quelle lezioni private si era aperta una porta immensa che mi aveva ricondotta a ogni cosa che Komui aveva fatto per me. Più mi fermavo a rimuginarci sopra più l’odio che avevo iniziato a provare il Supervisore quella sera si attenuava. Si placava un poco, quel sentimento così crudele, ma riemergeva subito dopo quando le sue parole tornavano a sfiorarmi.
«Non sono io che volevo affidarti questa missione, ma i piani alti ti hanno ritenuta adatta e perciò ho dovuto sottostare alle loro regole, ecco la verità.» Con velocità si inginocchiò davanti a me e poggiò le sue mani sulle mie ginocchia. «So cosa stai per dire: “non toccarmi!” ma ascoltami bene: almeno questa volta io vorrei che seguissi meno l’istinto e di più il cervello, Evangeline.»
Strinsi con forza i pugni e li battei sul corrimano della barca con talmente tanta forza che, se non ci fosse stato il fantoccio di Tiedoll a sorreggerci, si sarebbe capottata. Gliel’avrei fatta vedere io, a quel buffone scansafatiche. Se lui non voleva vendicare Lenalee a dovere, perché la verità era che era debole e non poteva fare nulla di concreto, sarei stata io a squartare qualche corpo con la forza bruta.
«A cosa stai pensando, Evangeline-chan?» chiese il Generale, restando a una buona distanza di sicurezza.
Alzai gli occhi nella sua direzione e assottigliai lo sguardo. «Che li ucciderò tutti» ringhiai sommessamente. «Li sventrerò finché non saranno talmente vuoti da assomigliare a un vaso.» Il rumore della mia pelle che si tirava sembrò lo stesso di una frustata.
 
Anita.


Fra le numerose scartoffie di cui doveva occuparsi una in particolare aveva attirato la sua attenzione. Seduta dietro una scrivania, era intenta a leggerla. Sui fogli bianchi come la neve le prole stampate sembravano ferite fresche, sanguinanti. E la foto del compatibile, che si presupponeva dovesse essere attuale stonava con la descrizione: nessuno si era mai preso la briga di aggiornare quel fascicolo. Forse avrebbe dovuto farlo lei…
Sospirò, mettendosi le mani nei capelli chiari per poi tirarli un poco. Non riusciva a capire come mai ma, dopo tutte le parole cattive che negli anni quella giovane le aveva riservato lei ancora non riusciva ad odiarla. Eppure, avrebbe dovuto. Perché non ci riusciva?
«Buon giorno, Anita.» La giovane alzò gli occhi azzurri ad incontrare quelli dell’interlocutore, e sorrise. «Buon giorno a te, Reever.» Reever la guardò per un secondo prima di arrossire e spostare lo sguardo verso la scrivania. D’un tratto, le sue sopracciglia si corrugarono.
Lo scienziato poggiò le proprie scartoffie su una scrivania li vicino e, aggirando il tavolo della giovane, le si posizionò vicino. Lei poteva sentire i loro corpi sfiorarsi, ma non poteva vedere il viso rosso del ragazzo australiano che stava piegato sopra la sua spalla.
Con un movimento veloce, un po’ impacciato, il Caposezione afferrò il fascicolo che prima stava osservando e lo esaminò. Poteva vedere solo gli occhi spuntare da dietro quella cartella, e vi leggeva dentro tante cose: curiosità, confusione e un po’ di tristezza. «Guarda com’era piccola qui» si ritrovò a sospirare l’uomo, abbassando le scartoffie per sfoderare un largo sorriso. «E’ incredibile: non si direbbe nemmeno lei.»
«Troppo carina, vero?» domandò gentilmente Anita, accavallando le gambe prima di girarsi verso di lui, che si era seduto contro il margine della scrivania.
«Sembra una bambolina di porcellana», ammise Reever, «anche se lo sguardo è lo stesso di oggi.» Poi, come appena risvegliatosi da un sogno improvviso, il Caposezione staccò gli occhi dalla piccola foto e li indirizzò alla collega. «Come mai stavi sfogliando il suo fascicolo? Hai avuto qualche sua notizia?» chiese.
Anita scosse il capo, incrociando le braccia al petto e disse: «No, nulla. Nemmeno la più misera delle frasi.» Sospirò, ma non rivelò all’amico che era preoccupata. Certo, Reever sapeva del tipo di Innocence di Evangeline –era l’unico oltre lei della Sezione Scientifica ad esserne a conoscenza- ma non era al corrente degli ultimi fatti accaduti. Non sapeva che ormai la vita della giovane era agli sgoccioli. «Ad ogni modo, stavo mettendo a posto i fascicoli degli esorcisti e mi è capitato il suo. Stavo pensando di cambiare quella foto con una nuova» ammise.
Reever la osservò, annuendo. I suoi occhi chiari la confusero per un’istante, prima che scuotesse il capo silenziosamente e tornasse alla realtà. Perché si era persa a guardarlo così? Sentendo le guance arrossarsi si voltò dall’altra parte, come intenta a fare qualcosa. Prese un fascicolo a caso e lo aprì, nascondendocisi dietro.
Sopra la cartella, nel solito inchiostro nero, stava scritto un nome: Cordelia Leclerc. Anita non sapeva perché, ma quel nome le era famigliare. Così spinta dalla curiosità, aprì il fascicolo, senza troppe parole, mentre si avvicinava al collega. La prima cosa che la colpì furono i due grandi occhi neri dell’esorcista intenti a scrutarla: erano fieri e felici, ma sembravano voler lanciare come lame affilate all’osservatore; poi le labbra: rosse -come i tulipani appena sbocciati- che sorridevano garbate, senza però cercare di nascondere la sua vera natura di combattente. Sembrava una persona meravigliosa e letale al tempo stesso. Così bella da far male al cuore.
Senza accorgersene, si ritrovò la mano di Reever sulla propria intenta a girare il fascicolo verso di se. Sobbalzò un poco. «Ah, Cordelia!» esclamò lo scienziato, rivenendola dall’osservare la donna. «Tu... non l’hai conosciuta, vero?»
Anita annuì col capo, incapace di parlare. Poi, prendendo un bel respiro, aggiunse: «Però, ne ho sentito parlare, ogni tanto.»
«Non ne dubito. Era una donna bellissima, perciò è lecito che qualcuno ne parli ancora.» A quell’affermazione Anita si sentì come pervadere da una scintilla, che le si accese nel petto. Tentò di ricacciarla indietro ma quella non volle sapere nulla, rimase li. Cos’era? La donna si pizzicò un braccio. Non poteva essere gelosia!
«Ricordo che, l’ultima volta che la vidi, era partita per una “missione”, se vogliamo chiamarla così, di recupero di un compatibile in Italia. Qualche ora dopo arrivasti tu» le sorrise.
«Com’è morta?» Aveva sentito parlare di lei, certo, delle sue imprese e della sua leggiadra Innocence, ma non aveva mai indagato più di tanto sul suo conto personale. Così come non aveva mai potuto fare con Evangeline: Komui non le aveva mai voluto rivelare nulla della notte dell’incidente, dei nomi dei suoi genitori o di altro, in quanto voleva che quella faccenda fosse sepolta il prima possibile.
 «Komui, non te l’ha mai detto? Si, insomma, non ti è mai pervenuta la storia intera della sua morte?» chiese curioso il Caposezione. Anita scosse il capo: avrebbe dovuto importargliene qualcosa di quell’esorcista? «Strano. Ad ogni modo, Cordelia era la madre di Evangeline.»
Le parve che il mondo si fermasse. Riguardò quegli occhi, così silenziosamente scaltri e affilati e deglutì a vuoto. Erano gli stessi della sua Eve, solo più tendenti al blu, e lei non se n’era accorta. Ecco cos’era quella strana aura di somiglianza che aveva sentito fino ad ora. Anche i tratti del volto erano simili, il taglio di capelli… Perché non se n’era accorta?
«Cordelia e Alex, il marito, andarono in Italia dai figli per conto delle Sfere Interne. Avevano già provato a far sincronizzare il figlio maggiore, ma a scarso risultato, così provarono con la minore e la scoprirono in grado di usare l’Innocence. Il resto della storia credo tu lo sappia.» C’era una scintilla di tristezza nello sguardo di Reever, mentre le riporgeva entrambi i fascicoli. «Mi domando cosa farebbe ora Cordelia, se sapesse a cosa è destinata sua figlia.»
«Lei… lei non sapeva di che tipo di Innocence si trattava, quando l’ha portata a Eve?» Anita sentì lo stomaco stringersi in una morsa di ferro. Com’era possibile una cosa del genere? Quale genitore…
«Nessuno di noi sa, di per certo, che tipo di Innocence nascerà quando la si dona a un compatibile. Tutto dipende dai due protagonisti della vicenda.» Il Caposezione si accarezzò stancamente le meningi, e le sembrò così stanco che, senza accorgersene, si ritrovò a sorridergli poggiando una mano sul suo ginocchio.
«Grazie mille dell’informazione, Caposezione. Credo che sia ora che tu vada a riposarti, penserò io a tuo lavoro.» Reever socchiuse le labbra, prima di scostare lo sguardo. Verso qualcos’altro. Era la seconda volta che lo faceva in pochi minuti di conversazione.
Anita sbuffò, incrociando le braccia al petto con impeto. «Oh, ma insomma, ho qualcosa in faccia?!» sbottò, rossa in viso. Sperava sul serio che non fosse così, ma dopo tutti quegli straordinari era probabile che senza accorgersene si fosse toccata gli occhi e sbavato il trucco.
«C-cosa?» Reever sbatté le palpebre.
«Andiamo Wenhamm, avrai distolto lo sguardo all’incirca cinque volte da quando abbiamo iniziato a parlare. Ho qualcosa in faccia!?» Cominciò a sfiorarsi le guance, ripetendo continuamente “qui?” “qua?” “o magari qui?”
Il Caposezione sbiancò, poi riprese colore e si portò una mano al collo della camicia che indossava tirandolo un poco. «N-no. Non hai nulla che non vada.» Si alzò con velocità, accarezzandosi i capelli appena tagliati. «I-io devo andare. Ci vediamo, Anita.» E scappò velocemente immergendosi fra le pile di libri, così com’era arrivato.
Ad ogni modo, quel comportamento non le andava a genio. Continuò a toccarsi il viso, mentre si alzava e usciva dalla Sezione Scientifica. «KOMUIIIIIIII!» Ci mise poco ad entrare nell’ufficio del suo direttore e a gettarsi sulla scrivania. Lui sobbalzò colto alla sprovvista e impaurito. «HO QUALCOSA SULLA FACCIA!?»
«No Anita, non hai nulla sul tuo viso. Perché?» Lei arrossì, allontanandosi da lui con velocità per sventolare innocentemente una mano in aria. «No, così» disse.
«Senti Anita» la bloccò prima che se ne andasse. Lei gli rivolse il proprio sguardo, le sopracciglia inarcate. «Non hai avuto anche tu, si insomma, una strana sensazione? Non ti sembra che qualcosa non vada?»
«Mh?» La scienziata socchiuse le palpebre e poi sorrise, avvicinandosi all’amico. Gli accarezzò i capelli liberi dal capello gli baciò la fronte. Poteva benissimo capire la preoccupazione che lo attanagliava: da quando Eve era praticamente scappata per raggiungere Lenalee nelle condizioni in cui si trovava, beh, il supervisore non si era dato pace. Aveva paura per sua sorella, molta, e anche per quella giovane donna che aveva preso sotto la sua ala. Soffriva per la loro lontananza. «Non preoccuparti per loro, Komui» sussurrò la bionda «sono grandi e forti, e sai che Lenalee sarà ben protetta se Eve dovesse raggiungerla.» Incontrò i suoi occhi, e continuò a sorridergli anche mentre gli accarezzava le guance e sostava leggermente la testa verso sinistra. «Sai benissimo anche che, nonostante tutto, Eve non morirà così facilmente. Non finché non avrà riportato a casa Lenalee.»

 

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Isil: Non mi dilungherò troppo, in quanto ho davvero troppo da fare, maaaaaaa T.T Ormai siamo agli sgoccioli (ma ho tante tante ideeeeeee per i prossimi capitoli). Ora devo andare, un bacione.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Red. ***


Capitolo 13.


Red.



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Sangue e destino.
 



Parigi.


«Che volete?»
Anita trattenne un sospiro sorpreso, confusa da quel benvenuto che di buono non aveva proprio nulla.  Il ragazzo dietro al bancone era bello, alto e ben piazzato e in un certo senso le faceva accapponare la pelle. Quegli occhi leonini, più blu della notte li esaminavano con astio. Ma probabilmente anche lei avrebbe reagito così con le persone che gli avevano rovinato la vita, pensò.
Komui si fece avanti, il lungo impermeabile nero brillava sotto le luci a neon. Le gocce cadevano sul pavimento creando piccole pozze, facendo un rumore che sembrava durare ore e che rimbombava nelle orecchie della scienziata con forza. Aveva il cuore che batteva veloce.
«Lo sappiamo, ma abbiamo bisogno di lei.»
«E per cosa?» Le sopracciglia del giovane si corrugarono, donando al suo sguardo una luce pericolosa. «Vi siete già presi tutto quello che avevo.»  Si voltò a guardare una piccola bambina dai capelli neri che giocava poco lontano dal bancone del bar, poi congelò il Supervisore con la voce: «Non vi permetterò di portarmi via anche mia figlia, se è questo che pensate.»
Più lo guardava, più era sicura di vedere l’immagine maschile della giovane esorcista. E più si soffermava sulla bambina –con quei suoi corti capelli a caschetto e la pelle di porcellana- più le ricordava la ragazza di cui erano venuti a chiedere informazioni.
«Non siamo qui per sua figlia» aveva una voce decisa Komui, mentre si toglieva il capello che tanto gli piaceva dai lunghi capelli. «Siamo qui per sua sorella.»
Il ragazzo deglutì a fatica, prima di riprendere il controllo del suo corpo. Lo sguardo sorpreso lasciò il posto a quello di un felino impaurito e inferocito. Lasciò andare il bicchiere che stava pulendo fino a quel momento, e il rumore attirò l’attenzione della bambina. Gli occhi neri incontrarono quelli di Anita, senza però vederla realmente: ma questo era quello che pensava la scienziata.
«Andatevene.» Strinse le mani sul bancone, così forte che i muscoli sotto la maglia si gonfiarono e il legno scricchiolò.
Anita si sentì pervadere dalla paura. Era così furioso che da un momento all’altro si aspettava di vedere Bloody Rose scatenarsi dalle sue braccia e stringerle il collo in una morsa letale. Sapeva che non poteva essere così, ma l’aspetto che aveva sembrava proprio quello di Evangeline quando perdeva il controllo.
«Komui» sussurrò la bionda, poggiando una mano sul soprabito del proprio capo, «dai andiamocene. Non dovevamo venire qui.»
«Solo un attimo.» Le rivolse un sorriso, poggiando la propria mano su quella di lei. «Ascl-»
«Non ho intenzione di ascoltarvi!» Il grido di Marco fece tremare i bicchieri e le bottiglie poste sugli scaffali. «Non ho mai parlato a mia moglie e mia figlia di voi, della vera causa della morte della mia famiglia perché non avevo intenzione di immischiarle in niente. Perciò andatevene via!»
Anita chiuse gli occhi: odiava sentire gridare gli uomini in quel modo. Vedere i loro volti oscurarsi e le vene sul collo gonfiarsi di rabbia.  Le ricordavano una cosa che avrebbe voluto dimenticare, ma che non intendeva andarsene. Era sempre li, quell’insieme di ricordi dolorosi. Costantemente al suo fianco.
Qualcosa le tirò il giubbotto, portandola a distrarsi. Internamente ne fu grata. La piccola mano della bambina di Marco le stringeva la stoffa, continuando a chiamarla con voce bassa. Le labbra rosse, di quei trucchi venduti dai negozianti per i bambini, sussurravano in continuazione il suo nome. Sembrava quasi una canzone.
 La scienziata si abbassò, trattenendo il fiato. Sembrava davvero di stare davanti a una piccola Evangeline, in tutto. Con quegli occhi a taglio di gatto, la bocca sottile, la pelle tanto pallida da sembrare un foglio.
Per un momento Anita si sentì come impallidire, il cuore le ruzzolò nel petto. Si chiese come sarebbe stata la vita di Evangeline se i suoi genitori non fossero morti, se non avesse dovuto abbandonare il fratello –che adesso stava per litigando con Komui. La visione di quella piccola creatura la fece sentire in colpa: che diritto avevano avuto, che diritto avevano quelli dell’Ordine Oscuro di strappare una persona dalla sua famiglia? Se lo chiese più volte, in pochi attimi.
«Come ti chiami?» le domandò la piccola, con una voce dolce quanto il miele. Stava accarezzando il simbolo dell’Ordine Oscuro, lo teneva d’occhio come se ne fosse attratta come le mosche dal miele. Una luce balenava nelle sue pupille.
«Anita. Tu?»
«Evangeline… significa “bene”» sussurrò la piccola. Le prese la mano e la voltò rivolgendo il palmo verso l’alto, cominciando a far passare le mani sulla pelle fredda. «Il nome Anita mi piace molto, sai che significa “misericordia e pietà”? E anche “grazia divina”?»
«Davvero? Non… non lo sapevo.» Le sorrise morbidamente, soffermandosi sulla smorfia attenta che sostava su quel viso giovane.
 “Bene”, pensò, era proprio adatto a descrivere la “sua” Eve. Quell’unica parola racchiudeva in se tutto l’essere che quella giovane donna era, e la scienziata non aveva vergogna di dirlo.
«Il signore si chiama Komui, non è così? Significa “colui che compie la volontà divina”»,  liberò la mano e passò ad analizzare il polso, «ma anche “colui che va contro la volontà divina”.»
Le parole di quella piccola creatura l’affascinavano, tanto che si dimenticò delle urla che le circondavano. La paura scomparve, dissolvendosi come una nube attorno a lei e un muro cadde fra loro e i due uomini mentre parlavano. «Come sai tutte queste cose, Ev-», le sembrava strano affibbiarle quel nome, troppo abituata a usarlo per richiamare un qualcuno che non era chi aveva davanti.
«Chiamami Lynn» l’aiutò la piccola, senza però degnarla di uno sguardo, «la mamma mi chiama sempre così. L’unico che mi chiama “Eve” è mio padre, sempre lo stesso giorno dell’anno, ogni anno.» Abbassò di più la voce, e riprese a parlare come persa in un limbo: «Ogni tanto piange, si alza in piena notte e va sul balcone a osservare le stelle; ma per farlo deve passare davanti alla mia camera e così lo sento. Forse ripensa alla zia, ha una sua foto nascosta in camera sua.»
 La piccola la ipnotizzò con uno sguardo vuoto e pieno al tempo stesso. Con due occhi che sembravano buchi neri: prendevano ogni cosa, la incanalavano e non lasciavano uscire nulla. Milioni di miliardi di risposte vi erano nascoste all’interno, e nessuna di loro avrebbe mai più trovato la luce. Sarebbero state utilizzate in futuro in modo discreto, e su questo Anita non aveva dubbi.
Lynn non parlò più, chiuse gli occhi per qualche minuto e quando li riaprì una piccola lacrima scese a rigarle la guancia. Il bel visino era stato sfregiato da una smorfia, che scomparve subito non appena la piccola sembrò tornare alla realtà. La lacrima si dissolse, perdendosi sul pavimento del bar.
«Come sai tutte queste cose?» domandò la scienziata, sperando di distrarla dai pensieri tristi che l’avevano avvolta in quegli istanti. Probabilmente, non doveva essere stato facile neppure per lei –a discapito dell’età- far finta di nulla con suo padre.
Le mani morbide della bambina pigiarono nuovamente qualche secondo sul polso con attenzione, mentre lei restava concentrata in una specie di mondo a metà tra il vero e l’assorto. Qualche ciuffo di tenebra le oscurò i lineamenti.
Come sapeva quelle cose, quelle verità sul passato di suo padre? Come era arrivata a conoscere la storia Eve, nonostante Marco non le avesse mai raccontato nulla?
«E’ questo il suo punto debole» affermò la bambina, puntellandole con l’indice una vena sul polso. «Si. E’ proprio qui.» La lasciò, gettando le braccia lungo i fianchi nascosti dalla stoffa azzurra del vestito.
Anita socchiuse le dolci labbra rosse, interdetta. «Il punto debole di chi?»
«Della Zia. L’ho visto nei tuoi ricordi, quando ti ho sfiorato.» Il fiato della bionda si bloccò in gola, mentre le urla dei due uomini sembrarono bloccarsi a metà strada.
Tutto rimase in stallo, in bilico sopra ogni cosa. Il silenzio calò nella stanza come un velo. L’astio che si era impadronito della scena, con le urla accorse in suo soccorso, si polverizzò fino a rimanere un ricordo lontano. Niente si muoveva, solo i vetri che tremolavano un poco al passaggio delle carrozze sulla strada. L’impossibile stava accadendo davanti ai loro occhi. Oh meglio, la paura più grande di un uomo che si era visto portare via tutto stava iniziando. La storia si stava ripetendo: stesso nome, stessi colore di capelli, stessi tratti.  La scienziata sperava non lo stesso destino.
Marco trattenne il respiro, osservando la sua piccola dagli occhi brillanti lanciarsi in un circolo vizioso senza fine.
«C-come scusa?» Komui si avvicinò, ma la bambina non lo degnò di un singolo sguardo. Era troppo concentrata su Anita per notare qualcos’altro. «Cos’hai appena detto?»
«L’ho visto.» E il viso di Evangeline sorrise, senza rimorsi o paura.
Gli intensi occhi scuri brillavano sotto la luce delle lampade, riflettendone qualche lama che andava a donare al suo sguardo un colore più chiaro, simile a quello del padre.
«Questo è…» Anita non sapeva come descriverlo, perciò terminò la frase lanciando un’occhiata a suo collega che da dietro gli occhiali esaminava attento la piccola.
Nei ricordi di Marco scattò una scintilla, che lo portò ad agire con velocità. «BASTA COSI’!» Prese in braccio la bambina, stringendola a se. I suoi occhi fulminarono la giovane scienziata, che intanto si era alzata.
Il fratello di Evangeline era un tipo alto e muscoloso, perciò quando la donna si trovò a fronteggiarlo ebbe come la sensazione di assomigliare ad una misera falena, mentre lui pareva un’aquila. Forte, fiera, pronta a scendere in picchiata per tagliarla in due con il suo becco affilato.
Le dita stringevano il corpo della piccola come arpioni: non voleva lasciarla andare.
«Basta. Basta. Non vi è bastato portarmi via tutto il resto? Andatevene.» Non c’era più astio nella sua voce, solo stanchezza e arrendevolezza. In quegli occhi marini si stava spegnendo la scintilla di rabbia, e si stava insinuando nel suo animo la consapevolezza che urlare non sarebbe servito a niente: l’Ordine Oscuro era parte della sua vita nel male, perché di bene in tutto quello non c’era proprio niente, e non l’avrebbero mai lasciato in pace.
«Signor Corsi», la voce di Anita non era mai stata più flebile, «siamo al corrente dell’astio che prova nei nostri confronti, e sinceramente lo trovo più che giustificato, ma non siamo venuti qui per sua figlia –principalmente.» Fece un bel respiro, azzardando un passo verso l’uomo: «Siamo venuti per domandarle qualcosa su sua madre e suo padre, perché crediamo che abbiano parlato di quel viaggio di ritorno con qualcuno, quella volta. E’ probabile che si trattasse di un membro della famiglia Noah, così volevamo sapere se aveva visto qualcosa allora.»
Le labbra di Marco si socchiusero sorprese. Posizionò meglio Lynn sul suo braccio. «I miei genitori potrebbero essere stati traditi?» Non poteva credere a quelle parole.
«Potrebbe esserci di peggio» intervenne Komui, lanciando poi un’occhiata alla piccola tossì un poco «ma sarebbe meglio parlarne in privato. Non sono argomenti adatti a una bambina.»
«Ne verrei a conoscenza comunque, Caposezione» si affrettò a freddarlo lei, scatenando un piccolo sorriso di Anita.
«Tale e quale a tu-sai-chi» sussurrò –in un certo senso fiera-  la bionda al giovane uomo, facendo poi l’occhiolino alla ragazzina.
 
Prima di seguire i due scienziati, che si stavano dirigendo verso il bancone del bar per prendere posto, Marco rifilò uno sguardo a sua figlia. Ogni tanto capitava che gli ricordasse sua sorella –quasi sempre a dire la verità- ma non pensava che persino il loro destino fosse uguale.
Da quando Christa, la madre, le aveva regalato quella piccola pietra verde qualche giorno fa, tutto era come precipitato in un baratro senza fondo per lui. Aveva visto i suoi segreti venire alla luce, le sue paure più profonde scoperte dalla sua stessa figlia, il suo passato essere scoperchiato e riportato in vita. La bambina che lui avrebbe voluto tenere al sicuro da quel secondo mondo parassita che viveva nel loro, che avrebbe voluto stringere ogni sera con la consapevolezza che era sana e salva e immune a quegli orrori era la stessa che, adesso, gli sorrideva con la consapevolezza che tra non molto l’avrebbe dovuto lasciare.
«La zia» gli sussurrò all’orecchio sorridendo «è una tipa in gamba, sai papà? Ha superato tante brutte cose. Chiedi alla Signora Anita di lei.» Saltò giù dalle sue braccia e con un sorriso vivace corse dalla donna, costringendola a prenderla in braccio.
 



A Edo
 

Si sentiva soffocare, e faceva tremendamente male. Il collo sembrava andargli a fuoco, e più Tyki Mikk stringeva più lei rantolava in cerca d’aria. Stava tropo male. Stava soffocando. Vedeva davanti a se tante piccole macchie, apparivano e scomparivano ad una velocità incredibile e avevano costantemente diverse grandezze e colori. Le danzavano davanti come i lontani fiori dei ciliegi che si erano salvati dalla distruzione di quel luogo.
Si chiese per quanto ancora sarebbe riuscita a sopportare la presa del Noah sulla sua trachea. Ora che non aveva più l’uso della sua Innocence, dopo quel dannato scontro in mare con il Livello 3, si sentiva tremendamente fragile e… inutile. Non poteva saltare, non poteva liberarsi, non poteva combattere perché le gambe le dolevano in continuazione! Era semplicemente in trappola e non c’era niente da fare.
«Lenalee!» La voce di Lavi era distante, le orecchie della giovane esorcista la captarono a stento. Avrebbe voluto rispondergli, ma riuscì solo a pensare di riempir ei polmoni d’ossigeno.
Il Noah la tirò più vicina a se, facendola scontrare con il proprio petto. Riusciva a sentire il calore del corpo di lui insinuarsi oltre la stoffa della divisa, il suo respiro soffiarle sopra la parte destra del viso bendata. Non era come quando l’abbracciava suo fratello: allora il calore era tepore dolce e ben accolto, e il respiro una carezza dolce. Adesso aveva paura: più vicina si rivelava al corpo del suo assalitore più probabilità c’erano di essere ferite.
«Le donne dovrebbero morire senza opporre resistenza» dichiarò il moro, afferrandole meglio la gola. Dalle labbra le uscì un gemito.
«Lenalee!» L’urlo di Lavi, questa volta, le risuonò nei timpani con una forza sovrumana. La portò a stringere le palpebre dal dolore, dallo shock.
Dicono che quando si è in procinto di morire si riviva la propria storia alla velocità della luce, e per lei non fu diverso. Lenalee si ritrovò al buio,  sentì la paura invaderla con una forza prepotente quando rivide il viso dell’uomo che l’aveva terrorizzata; si calmò non appena Komui gli mostrò il proprio sorriso, e quando i ragazzi della sezione scientifica le dettero il “bentornato”. Provò gioia non appena si figurò davanti la faccia di Lavi e Kanda, e Crowely; arrossì alla vista di Allen e perse un battito quando Evangeline le arrivò davanti: l’espressione rilassata, come sempre quando parlava con lei, e la voce calma mentre le leggeva una delle tante poesie che possedeva. E nuovamente Komui,  che battibeccava con la ragazza. Suo fratello che l’abbracciava.
Si sentì abbandonare, Lenalee, quando le dita di Tyki strinsero con tanta forza la sua gola da farle pensare che il suo momento era giunto. La gola le bruciava, le parole raschiavano contro essa come il gesso sulla lavagna.
 Nemmeno il pugno che Chaoji, il marinaio salvatosi dalla lotta contro gli akuma, aveva sferrato al Noah l’aveva fermato dal compiere il suo obiettivo. Gli era solo passato attraverso, nulla di più.
«Lenalee!» Una nuova voce irruppe nel discorso fra i due, risvegliando la giovane dallo stato di congelamento in cui si trovava.  Riconosceva quel timbro forte e deciso, graffiante e ben udibile nonostante il vento le fischiasse con forza nelle orecchie.
E poi ci fu uno schiocco e un fendente colpì Tyki proprio sulla guancia, sfiorando anche lei. Poté sentire lo spostamento d’aria, il sibilo ancora prima che la frusta serpentina di Eve colpisse il Noah. Sorrise inaspettatamente, cercando l’amica con gli occhi. Ma l’esorcista sembrava invisibile nel buio di quella notte. Un’ombra fra le tenebre.
«Ti do due  opzioni, porcospino: o la lasci, o perdi il braccio. A te la scelta.» Come un diavolo, Evangeline apparve dal tetto di una casa vicina e atterrò a pochi metri da Tyki. Gli ossi più verdi di uno smeraldo luminescente, affilati come rasoi si fermarono in quelli d’ambra del riccio.
Lenalee trattenne il fiato, mentre il Noah saltava di lato scartando un attacco di Kanda, la cui Mugen fischiò nell’aria con velocità.
«Oggi ci sono un mucchio di persone, eh?» Il moro accarezzò il collo a Lenalee, sorridendo divertito ai due esorcisti davanti a lui. In particolare i suoi occhi gravavano sulla ragazza dagli occhi cangianti, che aveva serrato la mascella. Gli sembrava cresciuta dopo il loro ultimo incontro; appariva ai suoi occhi lucenti come una giovane guerriera.
Tyki poteva ancora ricordare il sapore delle sue labbra sulle proprie, il profumo misto all’odore di sangue che aveva inalato quel giorno sul campo di battaglia. In un certo senso, gli era piaciuto essere colto alla sprovvista in quel momento. Essersi fatto rubare un bacio da un’esorcista lo rendeva in qualche modo più… lussurioso. Aveva fatto una cosa proibita, e provava un piacere immenso in tutto ciò.
Soffiò il vento scompigliandogli i capelli, mostrandogli per un secondo qualche ciocca bianca nascosta molto bene in quelli di lei. Un lampo gli attraversò gli occhi. Cosa le stava succedendo? Poteva usarlo a suo favore?
«Anche tu sei un amico di quell’imbroglione chiamato Allen Walker?» chiese sfrontato il Noah, colpendo lo spadaccino alla sprovvista.
Kanda borbottò scocciato, migliorando la presa sulla sua katana. «Tzk. Non mi interessa quel pidocchio.»
«Pidocchio?» Il giovane Tiky non avrebbe mai immaginato che, oltre che a Evangeline, ci potesse essere qualcun altro dell’Ordine Oscuro di così poche parole.  
E come se l’avesse chiamata, la ragazza schioccò le nocche e fece un passo avanti, guadagnandosi l’attenzione del gruppetto che assisteva alla scena. Guardava il Noah con gli occhi, ma con la mente pensava solo alla sua amica, ancora preda di quel fantoccio dal viso angelico. «Immagino tu abbia scelto la seconda opzione, Porcospino. Bravo, è la mia preferita!»
Senza aspettare una risposta dall’uomo la giovane scattò: frustò l’aria con cattiveria distruggendo una parte di tetto sottostante.
Era bella Eve, pensò Lena dimenticandosi per qualche istante del pericolo in cui si trovava, agile, aggraziata in quei movimenti tanto distruttivi. La mascella aveva assunto un’angolazione diversa ora che si era rasata i capelli sottostanti, sembrava più fluente e femminile. Un cobra pronto ad avvelenare la sua preda.
«Eve» sussurrò la cinese mentre Tyki la portava sempre più lontano dai suoi compagni, per difendersi dagli attacchi, e vedeva le loro ombre fondersi con la notte. Solo lo spadaccino e l’amica rimanevano visibili, li rincorrevano con foga senza mai fermarsi e dissolvevano ogni Tease che il Noah gli scagliava contro.
La giovane si muoveva veloce, ma come ogni volta Lenalee poteva vedere il dolore nascondersi dietro quello sguardo assassino. Non poteva provarlo in prima persona, ma da quello che suo fratello gli aveva raccontato l’Innocence di Eve era ben diversa dalle altre: aveva una forza distruttiva che feriva anche il padrone. E lei avrebbe voluto aiutarla, dirle di smettere di combattere ma non poteva perché in realtà non voleva. E si rendeva conto che erano pensieri da egoista, ma lei non voleva morire li, così –fra le mani di una Noah, presa come ostaggio senza nemmeno aver avuto la possibilità di combattere. Senza aver riabbracciato suo fratello.
 Non voleva.
Si dibatté più forte che poté quando sentì la terra sotto i piedi, e la frusta della giovane combattente sfiorarle un polso (appena un sussurro, un tocco leggero prima di ritirarsi) per tentare di afferrarla. Strinse le palpebre, l’esorcista imprigionata, e si dimenò ma le dolevano le gambe e sentiva che stava venendo meno.
«Dovrei fare in modo che tu non possa più ribellarti?» le sussurrò Tiky all’orecchio prima di stringere con forza la sua gola con un braccio.
Lenalee tentò di liberarsi, invano. «Torcile un capello e ti ritroverai senza testa!» sentì gridare, prima di perdere i sensi.
 


Evangeline.
 

Kanda attaccò, arrivando a sfiorare il viso di Lenalee. La punta di Mugen si fermò in tempo, accarezzandole il profilo del naso.
Tyki, che con il suo corpo poteva attraversare qualsiasi cosa –tranne l’innocence- aveva agito così in fretta che nemmeno eravamo riusciti a calcolare le sue mosse. E adesso chissà dov’era finito, perso nel giardino di quella casa divenuta il nostro campo di battaglia.
Mi mossi con sveltezza, sentendo il vento gelido della notte insinuarsi sotto il lungo soprabito che indossavo. Il nero della notte si mescolava con il tessuto impermeabile, non brillavano sopra esso neppure le poche stelle erse in celo. Ero un’ombra; ma non c’era niente di nuovo in questa affermazione.
Lenalee. Mi avvicinai, ma prima che riuscissi a sfiorarla notai che qualcosa si stava avvicinando nel buio. Silenziosa, sinistra. Affilai lo sguardo.
La cosa attaccò, e io fui costretta ad allontanarmi dal corpo della ragazza in fretta. Tyki la riprese con se, parando immediatamente un attacco di Yuu.
L’esorcista fu gettato lontano: colpì il muro e lo sentii gemere. Non avevo mai visto tanta forza bruta in un attacco donato con noia, come non avevo mai preso atto del fatto che Yuu fosse umano. Che potesse provare dolore. Adesso, però, che lo vedevo barcollare sulle gambe non potevo fare altro che pensare fosse vero.
«Yuu, come ti senti?» domandai, deviando per qualche minuto le farfalle divoratrici che Tyki gli gettava contro.
«Non chiamarmi Yuu!» Fendette con la spada uno stormo di animali, prima di portarsi una mano alla spalla sinistra. Gli doleva.
«Evidentemente è tutto ok» intervenne Tyki.
Lo guardai con astio. Sentivo il sangue fluire nelle vene impetuoso, con una forza tale che quasi pensavo sarei andata a fuoco. Rose si agitava forte contro il mio polso. Riuscivo a sentire il “crack” prodotto dalla pelle del mio braccio destro che andava a venarsi, simile a quella di un serpente in piena muta.
Gli avrei staccato la testa, a quel porcospino, poi ci avrei giocato a pallone. Mentre vedevo Lenalee svenuta fra le sue braccia, sentivo la testa scoppiare.
«Lasciala andare!» strillai, scaraventando la frusta contro di lui con tanta forza da spaccare un intero muro quando le borchie che la ricoprivano si conficcarono al suo interno.
Tyki volò indietro, evitando il colpo con maestria. «Sei arrabbiata, Cagnaccio? Rivuoi il tuo padrone indietro?» mi canzonò, passandosi una mano fra i capelli.
La desolazione di Edo gli faceva da sfondo. Uno scenario perfetto per un distruttore come lui.             Il vento gelido lo accarezzò, mentre gli occhi furbi brillavano di divertimento.
Serrai i pugni. «Sarà meglio che la lasci andare, altrimenti»
«Cosa? Hai intenzione di correre verso di me e baciarmi ancora?» Il mio cuore perse un battito, mentre Yuu alla mia sinistra si lasciava andare a un’esclamazione –la prima che gli avessi mai sentito fare in tutta la mia breve vita- molto colorita su quell’accaduto.
«Che c’è, Cagnaccio, ti ho punto sul vivo?» Quegli occhi d’ambra, che tanto mi avevano affascinata quel giorno in battaglia, adesso, mi parvero più viscidi che mai.
Strinsi forte la mia frusta, affilando lo sguardo. Più lo scrutavo più volevo ucciderlo. Il suo modo di toccare Lenalee, di stringerla mentre era inerme a causa sua mi faceva infuriare. La sua convinzione di potermi battere, il suo sorriso da vincitore di una battaglia già vinta mi faceva imbestialire. Il suo carattere menefreghista, malizioso non faceva altro che farmi vedere rosso.
«Sei morto.»  E non era un commento così per dire, ma un’esclamazione che andava a leggere nel futuro.
Scagliai contro il Noah Rose, più forte che potei. Ma Tyki sembrava sempre più veloce, nonostante i miei sforzi. Nemmeno un attacco a sorpresa lo colse impreparato.
A un tratto, sentii il mio cuore perdere qualche battito e d’istinto mi portai la mano libera al petto. Batteva ancora, sentivo il ritmico ticchettio che scandiva i battiti. Forse era stato solo un momento, questione di attimi che scomparve immediatamente.
Il Noah non si accorse di nulla.
«La rabbia ti farà venire le rughe» affermò, evitando con maestria un frontale.
«Tu invece non le avrai mai, perché morirai prima della vecchiaia!» E questa volta lo colpii con forza al braccio sinistro, strattonandolo nella mia direzione.
Udii la sua carne lacerarsi, le borchie di Rose infilarsi sotto la pelle e tirarla per portarlo verso di me. E lui esclamava poderosamente, si rivoltava contro l’Innocence maledicendoci.
Gemette, riuscendo però a districarsi dalle spire della frusta. «Ahi ahi», arretrò fino a saltare su l’ennesimo tetto. Sembrava un gatto, schivo e attento. Furioso.
Sorrisi compiaciuta, nel vederlo sanguinare copiosamente; nell’osservare i buchi e il rosso acceso che gli macchiavano la camicia pallida e la pelle.
 «Non ti hanno mai detto che le persone aggressive non riscuotono molto successo in amore?» C’era astio nei suoi occhi, mentre gridava quelle parole dall’alto della sua nuova postazione.
Lo ignorai seguendolo veloce, senza esitazioni. Sentivo i rumori della battaglia che incombeva alle mie spalle, vedevo la desolazione creata da quegli akuma giganti ma non me ne importava. Tutto quello non aveva senso, perché non era lei. Perché non significava nulla per me. «E chi se ne frega!» ammisi atterrando davanti al giovane, con maestria e forza. «Potrei vivere senza amore, sopportare questa Innocence, morire in continuazione per milioni di anni, se sapessi che il mio comportamento salverebbe sempre Lenalee.»
Tyki sgranò le palpebre, per poi affilare lo sguardo. «Se non sapessi che lei è il tuo appiglio per non cadere nel baratro, direi che ne sei innamorata.» Le sue braccia forti alzarono Lenalee per posizionarla meglio, e allora mi persi a osservarla come prima non avevo fatto.
Sembrava stesse soffrendo. Mi morsi le labbra. No, non era solo un pensiero incosciente di un ragazza: lei stava male e me lo sentivo nel petto; nel cuore che doleva e nella testa che pulsava. Era più che una semplice sensazione. Potevo capirlo dal modo in cui la sua bocca era piegata, il suo unico occhio visibile si contraeva in quel sonno agitato. Che cose le stava succedendo!? Che stava combinando Tyki nella sua testa?  
«Devi ridarmela!» strillai al limite. «Questo è un ultimatum, Porcospino.» Caricai il polso, pronta ad attaccare.
Un braccio mi cinse il bacino tirandomi indietro, stringendomi ad un corpo rigido e caldo; i capelli lunghi del ragazzo mi solleticarono il collo e la sua mantella mi nascose per qualche secondo prima di venire smossa dal vento.
L’esorcista guardò il nemico, affilando lo sguardo. «Mi stai sottovalutando, riccio.» Yuu mi spinse un po’ indietro, senza lasciarmi andare però.
Sentivo la tensione del mio compagno spargersi sulla pelle, fra le mie ossa. Il braccio destro mi lanciava stilettate di dolore da quanto lo stringeva, e pensai di aver persino udito nuovamente il rumore della pelle che si spezzava sotto la manica. Probabilmente lo sentirono anche i due ragazzi, perché i loro occhi seguirono i miei.
Conoscevo alla perfezione le insenature createsi sull’involucro che rivestiva i miei muscoli, le escoriazioni che lo solcavano negli stessi punti. L’ennesimo suono, così vicino alla gomito, mi portò a socchiudere le labbra e morderle fino a far uscire il sangue. Non provavo dolore, solo continue e pressanti pulsazioni ritmiche che mi balenavano nel cranio come un beat. E il rumore si alzava, sempre di più, portandomi sull’orlo dell’esaurimento, finché non chiusi gli occhi incrociandone altri due.
Neri. Profondi. Gentili. Sembrava mi parlassero, mentre potevo vederli analizzare il mio corpo da cima a fondo. Avevano una parvenza di unico e famigliare, ma erano troppo distanti perché riuscissi a comprendere che cosa li rendesse tali.
Socchiusi la bocca, ignara di quello che stava accadendo attorno a me. Potei sentire solo Yuu che m’inveiva contro: «Hai esagerato con quel tuo marchingegno al braccio», per poi tornare ad affettare Tyki con la lingua. «Mi stai sottovalutando. Pensi che non sia in grado di tagliare tutte queste tue stupide farfalle?»
E, Dio, quanto avrei voluto reagire e rispondergli ma mi parve di essere incollata al suolo con le mani legate dietro la schiena e la lingua tagliata. Non riuscivo a parlare, a muovermi, a ragionare come si deve: mi sentivo posseduta. Lo ero? Non potevo fare niente.
 Mi sentivo attratta da quello sguardo nero come per forza maggiore. Strinsi le palpebre, caddi nell’ignoto.
Nel buio di quel luogo, nei reconditi della mia mente, si fece largo un piccola luce bianca che sfrecciò davanti ai miei occhi lasciando una scia che pian piano scomparve assieme a essa. Poi, in lontananza esplose in una cascata di scintille illuminando il corpo in piedi di una bambina.
Aveva lunghi capelli corvini, una corta frangia, pelle chiara e labbra sottili che sorridevano assieme agli occhi cenerini. Un lungo vestito cremisi, che rasentava il suolo, le danzava intorno a ogni piccolo passo. Prese a correre verso di me ridendo, ma non mi vide realmente. Sembrava… felice. Divertita come una bambina può essere in quel mondo che si crea, dove tutto va bene e le cose cattive non esistono. Giocava, scoccando avanti e indietro una frusta sibilante.
Poi si accorse di me, ci guardammo. Ci guardammo per tanto tempo dritte negli occhi, provai un brivido. Quegli occhi neri si fusero al verde, e mi colpirono nel profondo. Una sensazione già conosciuta che, però, non riuscivo ad identificare mi lasciò l’amaro in bocca e un buco nel petto, un nodo allo stomaco.
 La bambina divenne adolescente, la luce divertita nei suoi occhi scomparve lasciando il posto ad un’altra più buia. Il vestito si dissolse in una pioggia di sangue e il suo corpo venne ricoperto di cenere nera che andava a raggrumarsi ad ogni goccia e scendeva, solcava la pelle chiara rigandola. Le iridi rosse mi abbagliarono, gli strani fili color rubino che avevano iniziato a volteggiarle attorno mi puntarono.
Deglutii a vuoto, mentre la vedevo farsi sempre più vicina. Si fermò a pochi passi da me, allungò una mano rovinata e la ritrasse, come a volerci ripensare, alzandosi nuovamente. L’adolescente sparì, diventando buio nel buio. Nient’altro che un’ombra, ovvero quello che era stata.
Comparve la nuova lei. Niente più luce in quegli occhi neri e bianchi, così simili a quelli di un fantasma. Niente più sangue su quei fili pallidi e sottili che si aprivano alle suo cospetto, dai suoi polsi, come tanti raggi di luce inesistente. Solo ferite su quel corpo martoriato; pelle distrutta che si squama, come quella di un serpente.
Un serpente. Era quella la parola che meglio descriveva quella ragazza ormai arrivata al limite.
Deglutii ancora, vedendola sorridermi. Alle sue spalle potevo ancora distinguere i due penetranti occhi neri che mi avevano rinchiusa in quello strano posto. Non si muovevano, non fiatavano.
La nuova figura mi sfiorò il volto, arrivando con le sue labbra alle mie e poggiandovi sopra un casto bacio. Tremai dentro, nel profondo, mentre tutto oscillava impetuosamente.
La ragazza si allontanò, avvicinandosi al confine con le tenebre che l’avrebbe nascosta alla mia vista, inghiottita. Sorrise un poco, si lasciò cadere, divenne cenere che il vento trasportò via.
Gli occhi neri si chiusero, una lacrima li solcò inumidendone le ciglia. Poi, com’erano arrivati, scomparvero assieme.
Qualcosa mi morse. Con violenza e ingordigia. Gridai, sentendo la pelle venir strappata da centinaia di piccoli denti aguzzi, insaziabili. Spalancai le palpebre quel tanto per riuscire a vedere le Tease di Tyki accerchiate attorno a me, poggiate sulle mie spalle come una coperta di ricercato tessuto viola.
Non riuscivo a capire dove mi trovavo. Attorno a me era come se la battaglia si fosse estinta: dov’erano tutti?
Il cielo nero era anonimo mentre mi alzavo e scacciavo via i predatori, strappandoli con tanta forza da non sentire più il dolore. Rivoli di sangue scarlatto macchiarono i miei abiti, le mie braccia. Le gocce, il loro calore s’irradiava sulla mia pelle stanca e seguiva il percorso del braccio tuffandosi sulle punte delle dita, da cui si tuffavano con tranquillità.
Un senso di nausea mi avvolse in una morsa letale, portando a gettarmi in ginocchio. Mi piegai oltre il tetto e vomitai nella strada sottostante. Poi mi pulii con il soprabito distrutto e lo gettai via, rialzandomi. Che scena pietosa.
«Ma guarda come ti sei ridotta, nemmeno tua nonna» mi rimproverai, cominciando a camminare sui tetti. Più acquistavo velocità più i miei passi si facevano sicuri. Le tegole sembravano reggere bene il mio peso, perciò non c’era nulla di cui dovevo preoccuparmi, a parte il freddo. Senza qualcosa a coprirmi le spalle l’aria si sentiva di più: più dura, più arcigna, più fredda.
Quando finalmente ritrovai Yuu, Tyki gli stava lanciando Lenalee come fosse un sacco di patate. Ringhiai, attirando la loro attenzione e mi precipitai dalla giovane.
«Ah, ma sei ancora viva.» Il Noah sorrise, caricando Tease nella sua mano destra.
«Tu non per molto, invece» sputai acidamente fuori, parando il corpo di Kanda con il mio. «Ora ci facciamo un bel balletto solo io e te, Mr. Capellicotonati.» Presi fiato, e con tutta la buona volontà gridai nella mia testa e sussurrai sul campo: «Innocence, secondo livello: veleno della rosa, attivati.»
Ed ecco che Rose fremette, si arrampicò oltre le mie spalle e abbracciò i miei arti. Tentacoli rossi scaturirono da quella che una volta era stata un’unica frusta, da entrambe le parti, e si andarono a ergere sopra la mia figura frementi.
Tyki sorrise, ma nei suoi occhi qualcosa si spense: non era più tanto sicuro di essere il vincitore designato della battaglia.
«Ce la faccio da solo, piv-»
Osservai Yuu, che si zittì per la prima volta da quando l’avevo conosciuto. «Zitto, e resta a guardare mentre ti salvo la vita, pivello. E ora» sorrisi diabolica «lasciami inaugurare questa danza, Porcospino.»
I fili di Rose si scatenarono in aria. Corsero verso il cielo e poi si gettarono sulla terra, creando un’onda simile a sangue che colpì a raso i piedi del Noah. Mi lasciai sfuggire un grugnito di frustrazione, senza arrendermi. I serpenti strisciarono sulle tegole, si arrampicarono nel vento e continuarono a rincorrere il nemico finché quest’ultimo non decise di saltare troppo in alto persino per loro.
«Finiamola qui, che ne dici Cagnaccio?» Un raggio di luce viola piombò su di noi. Correva come un cane da caccia dietro una lepre, non aveva intenzione di fermarsi.
Non ci può tenere tutti, mi dissi. Così, feci la scelta più veloce che mi si parò davanti agli occhi: voltai la schiena al getto, diressi i tentacoli verso Yuu e Lenalee e li circondai con essi per proteggerli. Vi si chiusero attorno creando una barriera protettiva, lontana dal pericolo imminente.
Almeno ho la certezza che è al sicuro. Potevo già sentire il dolore attanagliarmi le carni, il calore cuocermi i muscoli e strappare i tessuti fino a ridurli in cenere. Respirai a fondo, senza voltarmi. Il sangue colava ancora sulla mia pelle dalle miriadi di piccole ferite, ormai ai miei piedi si era creato un piccolo rivolo che colava fra le insenature delle tegole e scendeva fino alle grondaie, perdendosi.
«Eve-chan!»
«Baka Usagi!» Scese dal cielo, i capelli rossi scompigliati e la bandana in procinto di volare via. Poggiò la sua schiena contro la mia. Era caldo e aveva il respiro pesante, ma sembrava riuscire a reggersi bene sulle proprie gambe.
«Evangeline, ho bisogno che tu mi spinga in avanti» spiegò Lavi, allineandosi meglio con la linea della mia figura.
Mi accigliai, piegandomi leggermente sulle ginocchia per trovare più appiglio. Potevo sentire Yuu lamentarsi all’interno del bozzolo, maledicendomi con tutte le lingue di sua conoscenza. «Che diavolo hai intenzione di fare, Lavi?»
«Il colpo che sta per arrivare è forte, potrebbe spingermi indietro e farmi perdere l’equilibrio. Cerca di contrastare la mia caduta, Evangeline, e forse riusciamo a uscire da questo inferno.»
Alzai gli occhi al cielo, ma ubbidii senza battibeccare. Quando il colpo del Noah raggiunse il martello di Lavi sentii il suo corpo venir gettato contro il mio. Mi stava pressando, ma sebbene alcune tegole erano rese scivolose dal sangue riuscii ad riacquistare sempre l’equilibrio e lui non cadde. I nostri corpi tremavano di sforzo, all’unisono come guidati da un timer. Il suo profumo saliva alla mie narici assieme a quello ferroso del liquido rosso, a quello di bruciato e a quello del sudore. Il vento si era fatto forte e turbolento, scuoteva i vestiti su e giù con veemenza e cattiveria: frustavano nei mulinelli trasparenti colpendoci come le Tease di Tyki sulle ferite.
Finalmente, l’attacco cessò. Si era consumato in poco tempo, che a me era parso sotto forma di ore. Avevo le gambe indolenzite, il torace fremente e il corpo dolorante.
«Questa gente» soffiò fra i denti Tyki, dall’alto della sua postazione. Lo intravidi con la punta dell’occhio: volava, bellissimo nella sua figura giovanile, pericoloso come un raro fiore.
Proprio quando ci stavamo preparando ad un nuovo attacco, il Noah della lussuria scomparve.
Lanciai uno sguardo all’Arca che ci sovrastava, mentre richiamavo a me l’Innocence. Tutto questo, non era neanche l’inizio.

 



Note di Autore
 
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Isil: Well… Non mi dilungo, perché tutto questo scrivere (non parlo solo di questa FF) mi sta uccidendo e devo studiare amministrazione (maledette società! Quanti tipi ne devono esistere, è?!)
Evangeline: Tanto, anche se ti fossi dilungata nessuno ti avrebbe calcolata. No one read what you write here.
Isil: Jerk. Ad ogni modo => perdonatemi per il ritardo assurdo. Ma, io sono solo una diciottenne piena di compiti Y.Y Oh, a proposito: CIAO BEGGHIIIIII :3
Evangeline: Cia.
Isil: Nemmeno una “O” per la Beggggggggghi?
Evangeline: Tzk. No.
Isil: @-@ [°]-[°]... #sospiro# Buona notte gente.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Prima Sfioritura. ***


Capitolo 14.


Prima sfioritura.



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Soffia il vento, portando con se i primi petali.
 
 

Quando aprii gli occhi, la prima cosa che sentii fu un vuoto al petto. Un enorme risucchio, che scavava dentro di me e tentava di farmi soffocare. Avevo bisogno d’aria, subito.
La mia faccia batteva a terra, fredda contro il terreno. Non avevo più sensibilità di movimento, e sentivo il corpo tremendamente pesante, ma dovevo muovermi. Dovevo respirare, altrimenti sarei morta. Con un colpo di reni mi girai con la pancia verso l’alto, guardai il cielo nero e respirai incanalando più aria che potevo. Mi sembrò di rinascere, ma al tempo stesso di morire. C’era qualcosa che non andava. I miei polmoni si gonfiavano, ma pareva che l’aria stentasse a entrare.
Facevo fatica a ricordare cosa fosse successo dopo la scomparsa di Tyki. Mi venivano alla mente solo immagini nere accompagnate da un forte vento caldo e soffocante. Poi tanto dolore. Dolore ovunque, continuo, pulsante. Urla provenienti da ogni dove.
Alzai un braccio verso il cielo, l’ustione si confondeva con la notte. Analizzai le mie dita bruciate, reprimendo una smorfia di disgusto nel constatare che forse, quella volta fuori dall’ospedale di Yeegar, Anita aveva avuto tutte le ragione per fare quella faccia.
«Maledizione» sussurrai a me stessa, prima di stringere quel braccio segnato dalle fiamme al petto. «Prima quello spettacolino della crescita, poi quegli strani occhi che mi fissavano, dopo quel maledetto porcospino che scompare nel nulla e adesso questa dannata allucinazione. Che mi sta succedendo?» Osservai l’Innocence al mio braccio: «Che scherzi mi vuoi giocare?»
Repressi una grido frustrato e mi alzai, barcollando un poco sulle gambe. «Sei proprio senza speranza, cara la mia esorcista» borbottai fra me e me, barcollando nel fumo che mi accerchiava.
«Evangeline», che voce pallida. «Evangeline», l’ho già sentita da qualche altra parte. Ma è troppo lontana, non riesco a capire di chi sia. «Aiutami.»
Allungai un braccio nel vuoto, convinta che la persona che mi chiamava fosse davanti a me. Non trovai nessuno. Deglutii.
E’ solo un’allucinazione. Un’allucinazione e nient’altro. Ignora e vai avanti.
«Evangeline», sembrava una supplica. Un richiamo preoccupato. «Evangeline, tirami fuori di qui. Aiutami.» Mi tappai le orecchie, scuotendo il capo. «Eve, aiutami.»
Sgranai le palpebre. «Lenalee!» Perché ci avevo messo così tanto a capire che era lei? «Lenalee, DOVE SEI?» Avevo urlato così forte che la voce mi aveva graffiato le corde vocali, portandomi a raschiare ogni parola.
Iniziai a correre alla cieca cambiando in continuazione direzione, più lei mi chiamava più io mi sentivo in colpa. Avrei dovuto capire subito a chi apparteneva quella voce. Invece, ero rimasta ferma nel bel mezzo del nulla a parlare con me stessa.
Affondai l’ennesimo passo, evitando per un pelo i fili affilati come rasoi di Marie. La nebbia si sciolse, allontanandosi da me come per magia. Le lucenti corde dell’esorcista vibrarono nel vento, soffiando a pochi millimetri dal mio volto.
Incontrai gli occhi ciechi di Marie, mentre lui si sforzava di tenere a bada uno scimmione dalla testa a punta. Lavi, sdraiato a terra, tentava di rialzarsi. Ma non fu quello ad attirare la mia attenzione: poco lontano, puntato verso il cielo come uno smeraldo illuminato dal sole, si ergeva l’Innocence cristallizzata di Lenalee.
Era bellissima, brillante e calda. Potevo sentire la sua temperatura persino dal punto in cui ero. Era una costruzione così imponente da portare ad alzare la testa.
«Evangeline, aiutami. Fammi uscire di qui!» il grido della cinese si spanse nell’aria. Il mio cuore saltò nel petto, portandomi a gridare a mia volta: «Sono qui! Arrivo Lena, sto arrivando!»
Scivolai sotto le lunghe corde di Marie, sentendole soffiarmi sopra il capo. Poi corsi via. Non sentivo male ne alle gambe, ne al petto o alla testa. Era come se tutto fosse scomparso. Tutto era passato in secondo piano dopo che avevo sentito la sua voce chiamarmi, gridare di aiutarla.
«Sono qui! Sono qui, sono qui, sono qui, sono qui» continuavo a ripeterle, a ripetermi. Era come un karma,  mi aiutava a dimenticare la fatica.
Correvo più veloce del vento, come se ne andasse della mia vita. E quando la raggiunsi, e la sua mano si impresse contro il cristallo non potei fare altro che farla coincidere con la mia. Sperai di riuscire a salvarla, perché sennò sarei morta io.
«Ora… ora ti tiro fuori di qui, lo giuro» sussurrai senza fiato, ma abbastanza forte perché lei potesse capirlo. «E quando sarai uscita, parleremo di questa tua strana Innocence, va bene?»
«Evangeline» Il mio cuore si strinse, in una morsa dolorosa e pungente.
«Lenalee, stai tranquilla. Sono qui, ora ti tiro fuori.»
«Si. Si, va bene» singhiozzò, stringendo un poco le dita contro l’innocence cristallizzata.
Qualcosa si mosse dentro di me, portandomi a digrignare i denti. «Non piangere, non piangere Lenalee, ti prego.» Mi allontanai e evocai Rose. «Ora ti tiro fuori. Fidati di me.»
Caricai le braccia, evocando il secondo livello di Rose e avvolsi l’innocence di Lena con la mia. Il calore che l’avvolgeva arrivò anche a me, infondendomi sicurezza. Ok, ci sono quasi, resisti ancora un po’. L’arma di Lenalee si piegò un poco sotto lo sforzo della mia. Il rumore del mio braccio che iniziava a spezzarsi rimbombò sotto le forti ondate dei colpi che arrivavano da lontano, sul campo di battaglia.
Faceva male; ne avrebbe fato di più se non fossi riuscita a salvarla.
«Ci son…» venni sbalzata via da un’onda d’urto.
Volai per qualche metro, sentendo il vento caldo frustarmi i vestiti. Atterrai sulle piante dei piedi, aggrappandomi con le mani alla pavimentazione che si sfaceva sotto le dita. Rose rimase aggrappata all’innocence di Lenalee.
La terra era solcata da profondi graffi; le mie mani e le mie braccia erano nere. Il sudore m’imperlava la fronte. Mi ritrovai ad alzare il viso. Lo sguardo rosso che brillava in quella landa oscura che era Edo.
E accadde tutto in un tempo talmente ristretto da stupire tutti. Una bolla nera avvolse Lenalee, inghiottendo anche i fili di Rose al suo interno. Qualcosa iniziò a morderli, a tirarli, a strapparli. La risata della nemesi dell’Ordine Oscuro si dilagò fra di noi. Mi si bloccò il fiato in gola. Nessuno parlò per qualche tempo. Minuti che mi parvero ore.
Dannazione!
«Kanda!» urlai, cogliendo la sua sagoma muoversi verso Lenalee. Ero in trappola,  dovevo intervenire in qualche modo.
La risata del Conte del Millenio mi risuonò nelle orecchie. Mi morsi il polso, mentre osservavo il mio compagno scagliarsi contro la Dark Matter.
Però, più addentavo la mia stessa Innocence, più mi sembrava che lei volesse aggrapparsi a me. Ero connessa a Rose da così tanto tempo che riuscivo a sentire i suoi sentimenti. Mi si stringeva lo stomaco. Rabbia, dolore, frustrazione per quella situazione fuori controllo si stavano mescolando. Stavano andando a creare un tornado pronto a travolgere ogni cosa.
Con il fiato corto restai a guardare il Conte avvicinarsi a Lenalee. Dovevo sbrigarmi.
 Bloccai Kanda con le pupille. Riuscivo a vederne il calore corporeo attraverso l’innocence. Mi spiace, mi ritrovai a pensare vedendo i fili luccicare sotto la luce della luna.
 «Taglia i miei fili, Yuu. Tagliali!» Gli ordinai, alzandomi in piedi per allontanarmi più che potevo dalla sfera. Le corde rosse ti tesero, scricchiolarono.
L’esorcista mi lanciò uno sguardo sorpreso. «Andiamo pivello! Riesci a tagliarli oppure no?!» lo spronai.
«Eve, sei impazzita!?» sbottò da lontano Lavi.
«Avanti Yuu!» continuai imperterrita. Mi facevano male i polsi; mi faceva male la mia innocence.
 Ero al corrente che sarebbe successo, ma se avevo intenzione di salvare Lenalee dovevo aggirare ogni ostacolo e puntare dritta alla meta. E in questo momento, Rose intrappolata era un ostacolo.
Perdonami Rose, ma lei viene prima.
«YUU!» In un certo senso mi piangeva il cuore. Stavo per rinunciare alla mia arma per salvare la persona che amavo di più al mondo. Ma ne valeva la pena.
«STRINGI I DENTI» ringhiò lui, scocciato dal mio ultimo richiamo.
 
Parigi
 



«Sebbene questa sia solo una nostra supposizione, noi pensiamo che» un urlo fece girare i tre adulti verso la piccola seduta poco lontano da loro.
Le pupille di Marco si dilatarono per la paura e la sorpresa. Anita si trovò a socchiudere le labbra, davanti allo spettacolo raccapricciante che le si presentava innanzi. Komui deglutì a vuoto.
Davanti ai loro occhi la pelle della bambina si stava scheggiano con un rumore secco - porcellana che cade a terra, corda che si spezza. Lo sguardo terrorizzato di Lynn si perse in quello di Anita, che stava iniziando ad arretrare con la sedia. Pronta a raggiungerla.
Gli occhi di Lynn iniziarono a variare: passavano dal nero al verde, al rosso. Non sta succedendo a lei, pregò Marco. Dai suoi piccoli polsi aveva iniziato a scendere sangue scuro. Macchiava il pavimento di legno, picchiava su di esso come gocce di pioggia sull’asfalto.
La bambina gridò nuovamente.
«Lynn» sussurrò Marco, gettando indietro la sedia. Corse verso di lei.
«Papà» pianse, e le lacrime si mischiarono al rosso. Il bel viso pallido stava perdendo ogni tratto fanciullesco, crepandosi così come stava accadendo alle braccia.
Una profonda frattura si aprì sulla guancia destra, arrivando a sfiorarle l’occhio.
«Komui!» gridò Anita, raggiungendo Lynn, «cosa significa?!»
«Toglietele la pietra dal collo» ordinò l’uomo. «E’ probabile che non solo la sua innocence la colleghi ad altri esorcisti ma persino che le permetta di provare quello che provano loro.»
«Lei sta provando questo?» chiese la scienziata, avvicinandosi al collo della piccola. Allungò le dita per stringerle attorno alla catenina che portava.
«Che le sta succedendo?!» sbraitò Marco, prendendo il supervisore per il colletto della giacca. «Che sta facendo quella dannata pietra alla mia bambina?»
La scienziata tentò di distorcere le urla ed allontanarle da lei. Si concentrò sull’innocence di Lynn, che brillava fievole contro il suo collo. Era tiepida, ma sembrava che Evangeline la sentisse bruciare contro di lei, corroderle la pelle.
Quando Anita la racchiuse fra le proprie dita la pietra le mandò una scossa. Sentì le falangi tremare, tirò la catenina colta alla sprovvista e questa si ruppe. Tutto finì. La lanciò lontana e prese la piccola fra le braccia.
Era calda e non tremava più; la pelle aveva perso quel pallore anormale e i tagli erano scomparsi. Il sangue non colava più, era scomparso come fumo nell’aria. «Ehi» sussurrò la scienziata «ehi, Lynn stai bene?»
La bambina la osservò come se non la vedesse, sembrava potesse guardarle attraverso. Come se… come se si trovasse in un altro luogo e non li, con loro.
«Lynn» provò ancora, carezzandole il capo. «Ehi, piccola.»
«Manca poco» lo disse come se una parte di lei fosse turbata da qualcosa di frustrante, distruttivo. «Manca poco» pianse.  Grossi lacrimoni le rigarono le guance macchiate da strisce rosse. «Manca poco» ripeté. Non fece altro, continuò a ripetere quella frase ancora e ancora e ancora nonostante il padre cercasse di farle dire qualcos’altro. Qualsiasi cosa.
Lynn sembrava essere piombata in stallo. In un mondo parallelo dal quale non poteva, non riusciva più a uscire.
«Tesoro», Marco la strinse a se. «Lynn, tesoro, parla con papà. Ti prego.» La scosse un poco, ma lei non rispose.
Anita chiuse gli occhi, stringendosi fra le proprie braccia. Stava davvero accadendo tutto quello? Perché? Cosa stava succedendo a Edo? La sua Eve stava morendo, oppure quella di Lynn non era altro che una predizione? Qualcosa che sarebbe potuto accadere in un futuro prossimo?
Con gli occhi azzurri ben aperti, la scienziata ignorò i due uomini che stavano parlando alla piccola e li fece allontanare. «Ma che fai?» Marco si dimenò, provando a prenderla per la spalla.
«Stai indietro» gli ordinò «e lascia fare a me.» S’inginocchiò. Il pavimento di legno le graffiò i jeans, portandola a mugugnare un poco. Ma avrebbe fatto di tutto per aiutare quella bambina, perché era troppo piccola e innocente per finire come sua zia. Per restare intrappolata in un mondo sanguinante e doloroso.
C’era solo un modo per tirarla fuori da quel coma improvviso, e Anita doveva riuscirci. Era una scienziata, ma sul suo curriculum c’era scritto anche “dottore” e “psicologo”. Sperava che gli anni passati a non praticare non le avessero fatto perdere il proprio tocco.
Le poggiò i palmi sulle spalle e strofinò un poco per riscaldarla, era fredda come il ghiaccio. Le accarezzò le guance. «Lynn, dove ti trovi adesso?»
La mora tacque, per poi socchiudere le labbra. «In un posto tutto nero.»
«Bene.» Un posto tutto nero, dove poteva essere? La mente di Anita continuava a vagare in tutti i luoghi che conosceva, e ne conosceva tanti. Ma di posti neri, completamente oscuri non ne era a conoscenza. «Sei con qualcuno?»
«Si.»
«Com’è fatto? Cosa indossa?»
«E’ un ragazza, alta. Indossa una divisa nera e argentea, dilaniata in qualche punto.» Il corpo di Lynn ebbe un fremito, le palpebre tremarono. «E’ ferita, perde sangue dai polsi, combatte contro qualcosa di bianco e veloce. Un… demone. Un bambino demone.»
«Vai avanti Lynn, sei bravissima» la incoraggiò la bionda. «Dimmi di più, ti va?» La donna sentiva salire dentro di se l’ansia. Sperava davvero che quello fosse un presagio, nulla di più. Un sogno incondizionato di quella strana innocence che la bambina aveva tenuto fino a quel momento al collo.
«Lei ha la pelle venata. E’ come se si stesse rompendo. Perde  tanto sangue, le braccia sono solo rosse. Lei… lei ha fatto qualcosa di terribile alla sua innocence. Sta… morendo. Stanno morendo entrambe. Posso sentire il loro dolore, fa tanto male.»
« Si può salvare? Tu la puoi aiutare, c’è un modo per farlo?»
La piccola scosse il capo. I lunghi capelli neri le fluttuarono attorno come una coperta d’ombra. «E’ troppo tardi. E’ tutto scritto. Non può più essere salvata. Non posso più» e aprì gli occhi, come se si fosse risvegliata da un incubo.
Per quanto il cuore di Anita avesse smesso di pompare sangue, non poté non sospirare di sollievo. La sua psicologia aveva funzionato. Lynn aveva gli occhi aperti, le lacrime che scendevano e le braccia strette attorno al collo del padre.
La scienziata sospirò, gettandosi a sedere sul pavimento. Ormai c’era poco da essere felici, la predizione di Lynn aveva un soggetto ben preciso e per quanto non volesse ammetterlo faceva fatica a non pensare a quella povera anima. Ma qualcosa per aiutarla doveva esserci. Lei doveva trovarlo un modo per non vedere quella vita sfumare dalle sue mani e dissolversi nel vento.
Doveva.
«Sei stata bravissima. Degno di te, dottoressa» le sussurrò Komui con un sorriso, inginocchiandosi davanti a lei. Gli occhi scuri la osservavano fieri. Ma lei riusciva a guardare oltre quella piccola barriera esterna, riusciva a leggere quelle emozioni che l’affliggevano a sua volta.
Anita annuì, accettando la sua mano per alzarsi. Si concentrò sulle mani del suo superiore, stringendole sempre di più. Ora era lei quella a cui girava la testa. Che si sentiva oppressa da tutta quella verità, nuda e cruda.
«Sei stata bravissima» ripeté lui, carezzandole con le lunghe dita il dorso della mano. Lei si limitò ad annuire.
«Grazie.» Stordita la bionda si voltò. I penetranti occhi blu di Marco la osservavano diversamente da prima, l’astio era scomparso lasciando il posto alla gratitudine. «Ti devo la vita di mia figlia.»
«No» si affrettò a rispondere lei «non mi devi nulla. Solo» si avvicinò a Lynn e le accarezzò i capelli «promettimi di non farla più avvicinare all’innocence, mai. Proteggila da questa dannata Guerra Santa.»
Il giovane strinse di più a se la figlia e annuì, poggiando un palmo sulla spalla della dottoressa. «In un certo senso sono felice che… che mia sorella abbia voi al suo fianco.» Il respiro di Anita e Komui si fermò. Lui sapeva? «Dovete proteggerla, come avete fatto con la mia piccola.»
«Come sai di Evangeline?»
 

Edo
 


«Bookman», la voce era un sussurro appena accennato, «ho delle domande da porti.»
Il vecchio socchiuse le palpebre prima chiuse. L’esorcista lo stava guardando con gli occhi più scuri che le avesse mai visto, colmi di milioni di sentimenti che però lui non riusciva a leggere.
Gli occhi del vecchio si posarono sui suoi polsi fasciati, sulle ferite che aveva in faccia e sulle gambe. Si chiese cosa stesse provando, quella giovane ragazza ormai prossima all’oblio eterno. E si domandò cosa l’avesse spinta a chiedergli di aiutarlo, lei che l’aveva sempre evitato.
«Mi chiedevo quando ti saresti fatta avanti», poggiò la pipa su un sasso e lanciò un’occhiata veloce a quel cretino del proprio apprendista che aveva la testa sotto una cascata.
Lei seguì il suo sguardo, prima di piegarsi sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza. «Si, beh, vedi di non farci l’abitudine.»
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** AVVISO ***


VOLEVO AVVISARE CHE CON EFP MI STO TROVANDO DAVVERO MALE!
PERCIO', LA STORIA CHE STATE LEGGENDO VERRA' TRASCRITTA NON PIU' QUI' MA SU WATTAPAD -SOTTO LO STESSO NOME - .
MI SPIACE MOLTO,
 
ISIL.

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