Di che cosa parla veramente una canzone? di HannibalLecter (/viewuser.php?uid=452484)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 1 *** I ***
Faceva
freddo, un freddo becco
qualcuno avrebbe detto, di quelli che trapassano maglioni e cappotti e
penetrano fin nelle ossa lasciandoti scie di gelo per tutto il corpo.
Le
strade erano deserte, avvolte
nella luce spettrale ed intermittente dei vecchi lampioni che
costeggiavano il
lungo fiume, lastricate da uno spesso strato di neve trasformata in una
lamina
di ghiaccio dalle migliaia di passi che aveva sorretto. Il fiume
scorreva
silenzioso poco più in basso e in lontananza si udiva l'eco
di una sirena.
Affrettai
il passo cercando di non
rompermi l'osso del collo scivolando sulla superficie lastricata del
marciapiede ghiacciato. La mia pesante sciarpa di lana a righe non
bastava a
ripararmi dalle folate di vento gelido che soffiavano nella mia
direzione
rendendo la pelle del mio viso insensibile.
Sospirai
di sollievo nel vedere poco
più avanti la debole luminescenza verdastra prodotta
dall'insegna del pub verso
cui ero diretta. Sbattei rapidamente i piedi per scrollare via la neve
rimasta
adesa ai miei stivali e spinsi la porta di legno cigolante adornata con
una
ghirlanda, ricordo del periodo natalizio appena passato.
Un
sorriso nacque spontaneo sulle mie
labbra non appena entrai nel locale e un meraviglioso tepore mi avvolse
e una
dolce musica mi diede il benvenuto.
Mi
sfilai rapida la cuffia e scrollai
i miei lunghi capelli castani. Rivolsi un veloce saluto a Sally mentre
sistemavo il mio cappotto su una gruccia libera nel guardaroba.
Nessuno
aveva mai capito veramente
quale fosse il ruolo effettivamente svolto da Sally all'interno del
locale.
Ogni sera, martedì escluso, tu la trovavi appollaiata sullo
sgabello nell'atrio
del locale, tra la porta che conduceva alle toilette e quella per il
guardaroba. Era sempre intenta a scribacchiare su un quadernino dalle
pagine
gialle e smetteva solo quando lo scampanellio della porta d'ingresso
annunciava
un nuovo arrivato, allora, in quel caso, distoglieva per pochi secondi
la sua attenzione
dalle pagine riempite da fitto inchiostro giusto il tempo per rivolgere
loro un
sorriso assente prima di perdersi nuovamente nel suo mondo di carta e
parole.
La
sua chioma bionda fu la prima cosa
che vidi non appena sbucai nell'ampia stanza che ospitava il locale
vero e
proprio. Stava parlando in modo concitato con Will, il cameriere del
weekend, e
lo si poteva capire dal continuo gesticolare delle sue mani e dal lieve
ma
frenetico dondolio del suo piede.
Sienna
era tutto tranne che inglese.
Terribilmente impicciona, adorava le battute volgari, parlava sempre ad
alta
voce, era perennemente in ritardo e parlava. Sempre. Non era capace di
stare in
silenzio per più di due minuti, riusciva a trovare validi
argomenti di
conversazione con chiunque: dalla trisnonna sorda del suo vicino di
casa al
neonato di due settimane della sua parrucchiera. In assenza di un
interlocutore
umano non disdegnava il relazionarsi e il discorrere con gatti, api,
gerani o
pacchetti di biscotti.
«Cecilia!
Sei in ritardo!», mi apostrofò
non appena il suo iperattivo cervellino decise, per mia sfortuna, di
lasciare
un attimo di respiro al povero Will, visibilmente provato dalla
chiacchierata a
senso unico con Sienna, per dedicarsi ad una vittima fresca fresca,
ovvero io.
Sorvolai
sulla sua allusione al mio
ritardo e mi limitai ad alzare gli occhi al cielo esasperata.
«Vederti
è sempre una gioia»,
commentai dandole un veloce bacio sulla guancia ricoperta di fard,
«Will, oggi
è giovedì, che ci fai qui?».
Ovviamente
il diretto interessato non
fece in tempo a rispondere perché Radio Sienna lo aveva
battuto sul tempo
iniziando a raccontarmi dell'infortunio del povero Jim, che era caduto
mentre
scaricava dei bancali e si era slogato una caviglia. Il medico era
stato
categorico: riposo assoluto per una settimana.
«Come
avete fatto a convincerlo a
restare nel suo appartamento senza scendere quanto meno a
supervisionare?»,
domandai divertita.
Quel
pub esisteva solo se esisteva
Jim, l'anima di questo locale. Lui lo aveva aperto nel lontano 1991,
lui
preparava i cocktails, lui aveva gli agganci giusti per procurarsi
birra
Guinness per veri intenditori, lui da anni tramite il suo spirito di
iniziativa
e la sua totale fiducia nella gioventù piena di talento
musicale che popolava
scantinati e garage di Londra promuoveva nuovi gruppi e cantanti
emergenti
ospitando i loro concerti.
Probabilmente
avevano dovuto sedarlo
o legarlo al letto per assicurarsi che non rischiasse di peggiorare la
situazione della sua già malandata caviglia ruzzolando
giù per le scale nel
vano tentativo di fare un salto a controllare che il suo bar fosse
ancora in
piedi.
«C'è
Karen che riveste il ruolo di
cane da guardia per questa settimana», mi spiegò
Will mentre sciacquava un paio
di boccali da mezzo litro.
«Direi
che assomiglia più ad un
mastino...», specificò Sienna riferendosi al
carattere dispotico della madre di
Jim, che, a quarant'anni suonati, era ancora terrorizzato dalla sua
genitrice e
le obbediva come un agnellino.
Balzai
giù dallo sgabello facendo
attenzione a non ammazzarmi nel tentativo di mostrarmi agile,
«Allora andrò a
fargli un salutino così lo salvo per qualche minuto dalla
sua adorabile
mammina».
Quella
sera il palco nell'angolo era
vuoto, solo un ragazzo con un maglione verde se ne stava in un angolo,
intento
ad accordare una chitarra acustica di legno scuro, a testa china. Non
sembrava
curarsi delle poche persone sedute nella stanza attorno a lui o della
musica
jazz che riecheggiava a basso volume dalle casse. Aveva i capelli
più
spettinati che avessi mai visto nella mia breve vita, e detto dalla
sottoscritta, campionessa nella lotta contro nodi e capelli
ingarbugliati
nemici della spazzola, era davvero una cosa insolita. Fu solo in quel
momento
che mi accorsi che aveva sollevato lo sguardo e mi stava rivolgendo uno
sguardo
interrogativo. Avvampai imbarazzata perché lo avevo fatto di
nuovo. Avevo il
brutto vizio di perdermi nei miei pensieri e mentre lo facevo mi
ritrovavo,
inconsapevolmente, a fissare la mia attenzione su qualcosa, e quando
quel
qualcosa era una persona il tutto risultava abbastanza imbarazzante per
la
sottoscritta che agli occhi dei poveri sconosciuti, sottoposti ad un
esame non
gradito, probabilmente mi davano mentalmente della stalker o della
psicopatica.
Feci
una rapida piroetta per dargli
le spalle nel più breve tempo possibile e mi diressi quasi
correndo verso la
porticina rossa che conduceva al magazzino e alla scala
dell'appartamento di
Jim.
Come
tutti i cani da guardia degni
di questo nome la
Signora Karen mi
intercettò non appena feci per abbassare la maniglia della
porta di vetro
smerigliato sul pianerottolo delle scale. La sua testa, con relativa
pettinatura fresca di parrucchiere, fece capolino sulla soglia e mi
ritrovai
addosso due occhietti vispi che mi squadravano inquisitori.
«Mi
sembra di essere la madre di
Elton John», esclamò facendosi di lato per farmi
entrare, «Ha avuto più
visitatori Jimmy in un solo giorno di convalescenza che Michael Jackson
quando
è morto!».
Non
sapendo come replicare mi limitai
ad un sorriso d'assenso. Jim diceva sempre che le madri non andavano
contraddette se non si voleva andare a caccia di guai e che questa
primaria
regola per la sopravvivenza e la serenità domestica valeva
nel caso di Karen.
«Tu
saresti?», mi domandò poi mentre
mi faceva strada.
«Cecilia,
un'amica di Jim», risposi
rapida senza specificare il fatto che sapevo benissimo dove fossa la
camera di
Jim dato che era successo più di una volta che, a causa
della troppa Tequila,
restassi a dormire da Jim, che oltre ad essere un bravo barista ed un
ottimo
amico era anche il rifugio di tutti i suoi avventori affezionati ed
ubriachi.
«Un'amica
eh?», ripeté sospettosa
scrutandomi ancora una volta.
Un
esasperato «Mamma!» giunse da
dietro la porta socchiusa che dava sulla stanza di Jim. La signora mi
dedicò un
ultimo sguardo ammonitore prima di darmi le spalle e, ticchettando
dall'alto di
un paio di stivaletti dal tacco a spillo, tornarsene in cucina.
Jim
era sdraiato al centro del suo
grande letto matrimoniale ricoperto dalla solita trapunta patchwork dai
mille
colori. La caviglia era fasciata da un candido bendaggio, probabilmente
opera
dell'amorevole madre.
«Ehi
Cece!», mi salutò felice
facendomi cenno di avvicinarmi e sedermi vicino a lui.
Mi
sfilai rapida gli stivali e salii
sul letto facendo attenzione a non colpire inavvertitamente il piede
già
malandato. Mi sedetti appoggiandomi alla testiera di legno chiaro del
letto e
mi chinai a dargli un affettuoso abbraccio.
«Ah
Jim cosa mi combini insomma?», lo
rimproverai scherzosamente, «Perché non mi hai
avvertito? Sarei venuta prima»,
gli feci notare.
«Primo,
sapevo benissimo che oggi
avevi un esame, secondo mamma chioccia mi ha ritirato il telefono
perché
sostiene che tutti quei messaggi e quelle chiamate mi impedivano di
riposarmi»,
mi spiegò stropicciandosi pigramente un occhio,
«Averla qui ventiquattr'ore mi
sta facendo impazzire: vuole rassettare, pulire, buttare tutto
ciò che trova. È
inarrestabile...».
Ridacchiai
immaginandomi la Signora
Karen che spolverava le centinaia di cd e vinili, che erano il fiore
all'occhiello del figlio, invertendo l'ordine cronologico precisissimo
secondo
cui Jim li aveva sistemati sugli scaffali. Probabilmente Donna Summer
sarebbe
finita accanto ai Blur e i The Who avrebbero fatto compagnia a Simon
&
Garfunkel.
«Pensa
positivo; almeno per questa
settimana potrai mettere in pausa la tua dieta basata su bistecche mal
cotte e
fagioli in scatola», lo presi in giro.
«Magari!
Mi propina solo brodini e
purè come se fossimo in una casa di riposo»
«Devo
quindi dedurre che mangi alle
cinque e mezza e vai a dormire alle sette?»
«Sì!
Infatti ho già fame. Non è che
potresti portarmi...»
«Nonono,
non oserei mai contraddire
le disposizioni di mammina», lo fermai prima che potesse
chiedermi ciò che
sapevo già benissimo.
Una
porzione take away di ali di
pollo e patatine con salsa piccante dal messicano all'angolo della
strada.
Jim
campava grazie alla pizza da
asporto, il take away, il cinese a domicilio, i surgelati e i prodotti
in
scatola. I muffin e le torte deliziose che facevano spesso bella mostra
di sé
sull'alzata in cristallo, regalo di mia madre che avevo bellamente
sbolognato a
Jim, erano creazioni di Sally e l'unico contributo da lui offerto era
il
mangiarne la metà nel tragitto cucina-bar.
«Ho
fame!», protestò mettendo il
broncio come fanno i bambini a cui viene negata l'ennesima caramella.
«Niente
cibo fino a domattina! E non
fare i capricci», una voce lo ammonì all'istante.
Non una voce ma La voce, un
attimo dopo seguita dalla sua legittima proprietaria.
Dovetti
fingere di sbadigliare per
nascondere il sorrisetto che mi si era stampato in volto nel vedere il
povero
Jim alzare gli occhi al cielo esasperato mentre la Signora Karen gli
rimboccava
amorevolmente le coperte.
Capii
che l'incursione della mamma di
Jim era stata studiata ad hoc per farmi capire che era ora levassi le
tende e
lasciassi dormire il malato. In fondo era tardissimo: la radiosveglia
sul
comodino segnava le 8.47 p.m.
Mi
rinfilai gli stivali e, dopo aver
salutato velocemente madre e figlio, con particolare ghigno irrisorio
rivolto a
Jim alle spalle di sua mamma, ridiscesi al piano di sotto.
Ero
ancora sulle scale quando il mio
telefono nella tasca posteriore dei jeans iniziò a vibrare
insistentemente.
Noel.
Sbuffando
scorsi il dito sullo
schermo per accettare la chiamata. Il mio amato coinquilino aveva il
brutto
vizio di chiamarmi per ogni sciocchezza. Purtroppo era una persona che
non si
perdeva d'animo facilmente perciò non rispondergli portava
solo ad avere 117
sue chiamate perse.
«Cos'è
successo stavolta? Ti sei
scordato dove hai messo la crema idratante? Ti dei dimenticato di
registrare
l'ultima puntata di Pretty Little Liars? Sono finiti i mirtilli con i
loro
preziosissimi ed irrinunciabili antiossidanti?», domandai
prendendolo in giro.
«Questa
volta è una cosa seria: Draco
si è mangiato una vaschetta maxi di gelato e ora ha una
strana tonalità
verdastra...», mi informò preoccupato.
Mi
sedetti sull'ultimo gradino della
scale e mi passai una mano tra i capelli.
«La
vaschetta da tre chili?»,
domandai cercando di restare calma.
Era
impossibile. Draco era un gatto
dall'appetito piuttosto generoso ma se neanche io e Hannah eravamo
riuscite a
finire da sole la vaschetta da tre chili mentre ci struggevamo e
rischiavamo la
disidratazione a forza di piangere guardando uno stupido filmetto di
Nicholas
Sparks non poteva avercela fatta un gatto grasso.
«Sì!
Io...io non so come sia potuto
succedere...cioè sono stato in doccia per pochissimo tempo.
Cinque
minuti...dieci forse...ok un quarto d'ora ma...»
Interruppi
i suoi farfugliamenti
confusi non appena il mio cervello elaborò la notizia appena
ricevuta.
«Vuoi
dirmi che sei appena uscito
dalla doccia?! Noel, testa di broccolino che non sei altro, quando sono
uscita
di casa un'ora fa tu eri già da mezz'ora sotto l'acqua calda
a gorgheggiare
cercando di imitare George Michael!»
Quel
ragazzo mi avrebbe resa pazza.
Oltre che povera a forza di consumare un terzo del patrimonio idrico
mondiale
ogni volta che si faceva una doccia. E lui si lavava molto molto
spesso. Molto
più spesso di qualsiasi normale persona pulita e amante
dell'igiene presente
sul globo.
«Cece,
non succederà più te lo
prometto ma ora ti prego torna a casa a salvare Draco! Io non so che
fare e non
vorrei vomitasse sulle mie pantofole nuove...»
Picchiettai
nervosamente le dita
sulla superficie di legno del gradino pensando ad una rapida soluzione.
Storsi
il naso, c'era odore di fumo in quella stanza.
«Guarda
nel cassetto sotto al
bollitore; dovrebbe esserci un'agendina con la lista dei numeri da
chiamare per
le emergenze: cerca il veterinario. Nel frattempo ti metto in vivavoce
e cerco
nella mia rubrica...»
Mentre
scorrevo rapida tra i mille
nomi che figuravano come miei contatti Noel iniziò ad
elencarmi i nomi presenti
sull'agendina.
«Tua
madre no, mia madre no, padri,
nonni, zii vari no, bisnonno Samuel? Tu in caso di emergenza
chiameresti il tuo
bisnonno centenario?!», la sua voce incredula
riecheggiò in tutta la stanzetta
buia.
«Noel,
datti una mossa!»
Dustin
Day
Dylan
Edith
Elliott
Mitchell
Ernest
Fray
Eva
Kline
Eve
Felicity
Dust
François
Truffat
Trovare
quel benedetto veterinario si
stava rivelando più complicato del necessario.
«Hannah
no, Adam pfff, Oliver men che
meno, Sienna come se potesse mai aiutarci in qualcosa, Keira nah,
estetista
direi di no...», Noel continuava a borbottare imperterrito,
«Sai almeno come si
chiama?»
«Mark
Qualcosa...»
«Sicura?
Qui non c'è alcun Mark ma in
compenso c'è un Eric con tanto di cuoricino scribacchiato
accanto...»
«Certo
che si! Io mi ricordo sempre i
nomi! Comunque lascia stare l'ho trovato. Lo avevo salvato sotto il
nome
Veterinario, ci sarei potuta arrivare prima...»
Due
minuti più tardi stavo
ringraziando il veterinario prima di chiudere la chiamata.
Mandai
un rapido messaggio a Noel
intimandogli di non muoversi che il veterinario stava arrivando e io
con lui.
Mi
alzai dal gradino su cui ero
seduta e proprio in quel momento sentii un trambusto e un'imprecazione
provenire dalla mia destra.
«Chi
è?», domandai cercando la torcia
tra le mille funzioni inutili del mio smartphone.
Quando
alzai il telefono il fascio di
luce bianca incorniciò il viso del ragazzo con la chitarra,
che si riparò gli
occhi di fronte a quella luminosità fastidiosa ed improvvisa.
Abbassai
il telefono e mi avvicinai
all'angolo della stanza dov'era lui.
Vidi
che la finestra era socchiusa e
che la fievole luce arancio di una cicca di sigaretta non ancora
spentasi
faceva capolino dal posacenere che Jim teneva sul davanzale.
Ecco
spiegato l'odore di fumo.
Feci
qualche passo indietro e tastai
il muro alla ricerca dell'interruttore della luce, che sapevo essere
accanto
alla prima scaffalatura sulla destra.
La
stanza diventò improvvisamente
chiara, nonostante la lampadina che pendeva solitaria dal soffitto
scrostato
fosse una di quelle a bassa intensità luminosa.
Non
appena i miei occhi si abituarono
alla luce ebbi finalmente la possibilità di guardare il
ragazzo in volto.
Era
indubbiamente carino. Sì, proprio
carino. E credo che ciò che lo rendeva tale fossero quei
capelli così
spettinati e l'aria un po' persa.
«Da
quanto tempo sei lì?», gli
domandai sospettosa.
«Dall'inizio
della tragicomica...»,
mi rispose tranquillo abbozzando un sorriso.
Oh
cazzo. Non era lo sguardo perso.
Non erano i capelli spettinati. Erano quelle deliziose fossette che gli
si erano
appena formate ai lati della bocca a renderlo maledettamente carino.
«Il
mio gatto sta male e il mio
coinquilino starà male dopo che sarò tornata a
casa e gli avrò dato una bella
lezione», gli spiegai cupa.
Lui
scoppiò a ridere e quelle
stupende fossette tornano e io per un attimo mi scordai di essere nel
magazzino
del bar di Jim, di Draco e di Noel l'idiota e mi persi nel guardare le
fossette
di quel ragazzo sconosciuto.
Mi
riscossi rapidamente, mi diedi
mentalmente della sciocca ragazzina che va in iperventilazione alla
vista di
due stupide fossette e feci per andarmene ma mi fermai quando lo sentii
parlare: «Anche io tengo la mia bisnonna di 102 anni tra i
contatti
d'emergenza...»
Mi
voltai nuovamente e lo squadrai,
incerta su cosa ribattere.
«Ezra»,
esclamò all'improvviso
porgendomi una mano e corredando il tutto con una fugace apparizione
delle
fossette gemelle.
Proprio
in quell'istante il nome di
Noel iniziò a lampeggiare sullo schermo del mio telefono.
Rivolsi
ad Ezra uno sguardo di scuse
e risposi alla chiamata: «Dimmi»
«Ha
iniziato a fare dei miagolii
strani ed è da un minuto buono che se ne sta immobile
spanciato sul
parquet...sono un po' preoccupato. Quanto ci impiega Mark il
veterinario ad
arrivare?», mi domandò concitato il mio
coinquilino.
«Arrivo
immediatamente», lo
rassicurai avviandomi verso la porta, «Lascialo tranquillo ma
continua a
tenerlo d'occhio», mi congedai rapida.
«Ezra...»,
lo salutai velocemente
prima di uscire e lanciare un ultimo sguardo al ragazzo dalla belle
fossette.
Non
appena tornai nella sala
principale del locale mi venne da piangere alla vista di Hannah e Adam
seduti
accanto a Sienna, intenta a trattenerli con uno dei suoi monologhi. Non
sarei
mai riuscita a raggiungere casa.
«Cecilia!»,
strillò quel cretino
biondo di nome Adam.
Mi
precipitai ad abbracciare alla
svelta Hannah, riservai al suo fratellino una rapida tirata di capelli
e
borbottando delle scuse mi avviai al guardaroba.
Mi
ero appena imbacuccata per bene,
pronta ad uscire per affrontare il gelo invernale, un gatto con
indigestione da
gelato e un coinquilino gay isterico, quando un affannato
«Aspettaci!» mi fece
fermare.
Sienna,
infagottata in un
pellicciotto color viola con tanto di paraorecchie abbinato, mi
sventolò di
fronte al naso il suo cellulare.
Le
bloccai il polso per evitare che
mi facesse venire il mal di mare e guardai la foto del mio povero Draco
spiaggiato sul pavimento con un colorito cadaverico.
Quello
scemo di Noel invece di
confortare il mio povero gattone lo fotografava e inviava la foto a
tutti i
nostri amici.
Maledetti
gruppi di Whatsapp!
«Forza
andiamo!», ci esortò Hannah,
avvolta nel suo cappotto giallo limone.
«Andiamo
dove scusa?», le
domandai stranita.
Io
andavo. Loro restavano.
«A
salvare il gatto di Voldemort!»,
esclamò Adam spuntando alle spalle di sua sorella
trascinandosi appresso Belle
Fossette.
«Per
carità! Già dovrò contenere un
idiota non mi servite anche voi!», esclamai spalancando
decisa la porta
d'ingresso.
Porta
che richiusi dopo una frazione
di secondo. Come era potuto succedere che nell'ora in cui ero stata nel
pub si
era scatenata una tempesta di neve?
«Io
ho un'auto trallalero
trallala...», mi canticchiò in un orecchio Adam.
Lo
afferrai per un orecchio e gli
sibilai: «Sarà meglio per te che neanche il
più piccolo dei fiocchi di neve
sfiori la mia persona...»
Un
minuto dopo eravamo tutti e cinque
pigiati nell'utilitaria color puffo della Signora Spencer, madre di
Hannah e
Adam.
«Spiegatemi
cosa ci fa lui qui», feci
notare dal sedile posteriore, dove ero stata schiacciata tra Hannah, il
pulcino, e Sienna, il Teletubbies viola.
«Ezra
ti presento l'adorabile e
svitatissima Cecilia Lawrence, Voldy ti presento Ezra
Cunningham», mi
introdusse il simpaticissimo ed irritante Adam.
«Cecilia...»,
ripeté Ezra
sorridendomi.
Chi
aveva creato quelle perfette
fossette sulle sue guance?
«I
ragazzi stanno pensando di far
entrare Ezra nel gruppo», mi spiegò Hannah
tranquilla.
Ecco
spiegato l'arcano.
Dopo
mille frenate e accelerate a
casaccio di Adam, centinaia di imprecazioni di Sienna e
ventitré chiamate perse
da Noel arrivammo finalmente a destinazione.
Io
e il cretino condividevamo un
quadrilocale in una palazzina un po' vecchiotta, di quelle in mattoni
con le
scale anti-incendio. Ognuno aveva la sua stanza ma purtroppo il bagno
era da condividere
e Noel era peggio di dieci donne messe insieme: ore e ore a pettinarsi,
lavarsi, spalmarsi addosso ogni sorta di intruglio e poltiglia e
rimirarsi allo
specchio e fare la ruota tutto tronfio. La terza stanza era La Terra di
Mezzo
detta anche cabina armadio. In quei quattro metri quadrati scarsi,
separati in
due metà perfette da una linea invisibile, erano stipati
abiti, cappotti,
borse, scarpe, cinture, cappelli ed ogni sorta di accessorio di moda
inutile ed
assurdo miei e di Noel. I suoi ovviamente superavano di gran lunga i
miei.
La
povera Hannah rischiò di trovarsi
stampata in fronte la porta d'ingresso dell'appartamento tanta era la
foga con
cui Noel la spalancò all'improvviso.
«Grazie
a Christian Dior siete qui!»,
ci accolse esagitato, «Secondo me è
morto...»
Gli
tirai uno scappellotto prima di
precipitarmi al capezzale di Draco. Poveretto, aveva davvero una brutta
cera.
«Una
volta il gatto della mia vicina
si bevve un intero bottiglione di ammorbidente...»,
iniziò a raccontare vaga
Sienna mentre si liberava del suo topo viola peloso.
«E...?»,
la incoraggiò Hannah.
«E
morì», concluse sorridendo.
«La
vicina o il gatto?», si informò
Adam.
Oddio
frequentavo sul serio gente
così idiota?
Noel
iniziò a piagnucolare perché la
sua vita sarebbe stata più buia se Draco non ne avesse
più fatto parte.
Bugiardo.
Bugiardo. Bugiardo.
Se
solo avesse saputo come farlo e
avesse avuto lo stomaco per farlo davvero avrebbe scuoiato vivo il mio
povero
gatto per poi utilizzare il suo pelo come decorazione per il suo
cappotto di
puro cashmere.
In
quel momento un bussare deciso
alla porta mise fine, almeno per il momento, a quel circo.
Noel
smise immediatamente di frignare
e corse di fronte allo specchio che capeggiava all'ingresso e si
assicurò di
essere in ordine, nei suoi pantaloni super aderenti e nel suo maglione
dolcevita, che lo faceva assomigliare ad un bohémien
parigino.
Sienna,
nel giro di tre secondi,
riuscì a pescare dalla sua borsa lillà che
ricordava un trolley per le
dimensioni uno specchietto e una trousse e ad imbellettarsi.
Il
veterinario si rivelò essere un
uomo sui trent'anni, molto alto ed abbronzato.
Con
la coda dell'occhio vidi Sienna
drizzare le antenne, iniziare a passarsi le dita tra i capelli e fare
gli occhi
languidi. Tutto ciò non sfuggì a Noel che le
rivolse uno sguardo assassino.
Scambiai
un'occhiata esasperata con
Hannah e accompagnai il bel veterinario accanto alla quasi salma del
mio
animaletto domestico.
Lo
visitò rapidamente, rigirandolo
come un calzino, e poi si rialzò in piedi decretando che si
trattava di
un'intossicazione e che avrebbe dovuto portarlo con sé alla
clinica per quella
notte.
Noel
cercò in ogni modo di
convincerlo a restare per un caffè, per una partita a
scarabeo, per
raccontargli di come il suo canarino morì di crepacuore ma
quello declinò
cortesemente ogni invito.
Noel
e Sienna furono così costretti a
dirgli addio mentre io accarezzavo e rassicuravo il mio povero Draco.
«Arrivederci
Mark e grazie ancora. Ci
vediamo domani quando verrò a riprendere il mio
tesorino», tubò il mio
coinquilino.
Il
suo tesorino?
«Va
bene, a domani», poi aggiunse,
«Io mi chiamo Eric però...»
Opsss.
Noel
mi fulminò con lo sguardo:
«Allora il cuoricino era per lui! Imbrogliona!», mi
accusò offeso.
Eric
ci guardò perplesso:
«Cuoricino?»
«Lasci
stare. A domani!», lo congedai
spingendo lui con il mio gatto tra le braccia fuori dalla porta, prima
di
chiudermela alle spalle e voltarmi per picchiare quel cretino di Noel.
«Credo
comprerò anche io un gatto e
lo rimpinzerò ogni giorno di gelato...»,
asserì Sienna che tra un po' aveva gli
occhi a cuoricino.
«Partitone
a Monopoli?», domandò
Hannah.
«Sì!
Voglio lasciarti in mutande per
la milionesima volta cara sorellina», esclamò
entusiasta Adam.
«Come
vedi qui non ti puoi annoiare»,
sussurrai ad Ezra, che fino ad allora se ne era rimasto in disparte,
passandogli accanto per andare a recuperare la scatola del gioco e i
biscotti
al cioccolato.
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Capitolo 2 *** II ***
So
che eravate molto in ansia per la
sorte del povero Draco ma ci tengo a rassicurarvi: proprio ora
quell'infido
essere felino, dopo la notte in compagnia del bel veterinario, se ne
sta
spaparanzato a pancia in giù sul tappeto intento a
strafogarsi di tartare al
salmone.
Eh
si, perché il piccolo principino
mangia solo il pesce più pregiato e costoso e beve solo il
latte più fresco e
proveniente dalla mucca più giovane e in salute.
Con
Noel non parlo da stamattina
quando abbiamo litigato per decidere chi dovesse andare a ritirare il
nostro
cucciolotto dallo studio del bel dottorino e il tutto si è
concluso con lui che
mi chiudeva in casa, dopo essersi assicurato che tutte le chiavi
fossero in suo
possesso, e io che gli rivolgevo i peggiori improperi del mio
repertorio.
Oggi
è sabato e fortunatamente non
sono di turno in ospedale. Credetemi, amo medicina con tutta me stessa
ma
questo tirocinio mi sta prosciugando tutte le energie ed è
riuscito a scalfire
persino il mio, fino ad ora, inattaccabile entusiasmo verso la
professione.
Grey's
Anatomy è la serie Tv più
illusoria di sempre. Niente Dottor Stranamore ma primari vetusti ed
indisponenti che pensano di governare il mondo. Niente Cristina,
George, Izzie
e Alex che ti supportano e condividono con te notti insonni di guardia,
cuori
infranti, bocciature agli esami e strigliate da parte dei responsabili
ma
spietati avversari con cui gareggiare in modo sleale e meschino per
riuscire ad
ingraziarsi lo staff del proprio reparto. Altro che Hunger Games, la
voglia di
arrivare in vetta, essendo disposti a calpestare chiunque si
interponga, che
caratterizza i tirocinanti di medicina li supera di gran lunga.
Grazie
al cielo mi mancano solo pochi
mesi alla laurea perché altrimenti avrei commesso sul serio
un omicidio e la
vittima designata sarebbe stato sicuramente Charles Cocco Di
Papà Wilkinson,
figlio del nostro docente di riferimento e nipote del direttore del
nostro
ospedale. Sguardo sprezzante, camice sempre perfettamente inamidato,
dall'alto
del suo scranno di boria e alterigia passava le sue giornate a
denigrarci e a
ripetere il suo mantra preferito: «Non sono un
raccomandato». Ogni volta che lo
diceva potevo quasi vedere una freccia luminosa con scritto BUGIA che
indicava
nella sua direzione.
Uno
scampanellio mi distolse dai miei
cupi pensieri e mi ricordò che era quasi mezzogiorno e io
ero ancora in pigiama
e a stomaco vuoto.
Ciabattai
fino alla porta dove, non
appena sollevai il citofono, lo schermo mi mostrò i visi
sorridenti di Sienna e
Adam.
Pigiai
il pulsante di apertura del
portoncino d'ingresso, socchiusi la porta e mi diressi in bagno.
«La
porta è aperta!», strillai
sentendo dei passi, mentre mi sciacquavo rapidamente il volto e legavo
i miei
capelli troppo lunghi in uno chignon spettinato.
Mi
infilai le lenti a contatto,
indossai un paio di pantaloni della tuta, una felpa scolorita della Gap
e
trotterellai in salotto.
«Ecco
i tuoi soliti tre quintali di
posta», esclamò Sienna appoggiando sul tavolo
della cucina una pila pericolante
di buste, dépliant e riviste.
Come
sempre era vestita in modo poco
appariscente: cappotto color carota, stivali dal tacco vertiginoso e
abitino
giallo canarino. La cosa sorprendente era che stava benissimo
nonostante i
colori chiassosi e l'asimmetria dei suoi capi.
Sbuffai
recuperando la tovaglia dal
cassetto sotto al gas. «Noel e la sua brutta abitudine di
lasciare il nostro
indirizzo ad ogni negozio per ricevere il catalogo a
casa...», spiegai
scocciata.
Tutto
ciò mi costringeva ad andare a
gettare la carta ogni due giorni.
«Toelettatura
per serpenti a
sonagli?», ridacchiò Adam mostrandomi un piccolo
fascicolo ancora nel
cellophane pescato a caso dalla pila.
Scossi
la testa esasperata mentre
spostavo tutto quel cumulo di cartacce a cui mi sarei dedicata
più tardi in
camera mia.
«Dov'è
Hannah?», domandai tornando in
cucina.
Hannah
e Adam si sopportavano a
fatica eppure facevano quasi sempre tutto insieme.
«Da
Oliver»
«Quando
si decideranno a convolare a
nozze?», sbottò Sienna, «Voglio avere
una scusa per comprarmi un abito di
Chanel per essere una damigella meravigliosa», concluse
piroettando.
«Come
se ti servisse una scusa...»,
borbottai posando con malagrazia tre piatti sul tavolo.
«Ehi,
Voldemort è di cattivo umore,
temete oh babbani!», esclamò Adam scrutandomi
beffardo.
Sapevo
benissimo che era inutile
prendermela per un piccolo ed insignificante screzio con Noel ma ogni
volta che
ci trovavamo in disaccordo lui spariva e io mi rannuvolavo.
Eravamo
peggio di quelle coppie
sposate da cinquant'anni; borbottavamo, non ci sopportavamo,
bisticciavamo
eppure non riuscivamo a stare lontani troppo a lungo.
Se
a Noel fossero piaciute le donne e
non i bei veterinari e se io avessi avuto un debole per le checche
isteriche
saremmo stati una coppia perfettamente assortita.
«Noel
non c'è», constatò Sienna con
la testa dentro il frigo.
«Avete
litigato!», gongolò Adam,
contento di aver scoperto la causa del mio broncio, «Siete
così tenerelli
quando vi evitate e fate i sostenuti l'uno nei confronti dell'altro
quando
invece vi mancate e siete dispiaciuti...», mi prese in giro.
«Io
non sono dispiaciuto!», protestò
con voce capricciosa Noel, appena entrato dalla porta d'ingresso.
Non
osava guardarmi negli occhi e si
limitava a fissare la tavola apparecchiata per sole tre persone.
Vidi
il suo viso oscurarsi e dopo
aver fatto un cenno rapido per salutare i nostri due ospiti si
voltò e poco
dopo sentimmo la porta del bagno sbattere con forza.
Sienna
mi strappò di mano la pentola
che avevo appena recuperato dalla lavastoviglie e mi ordinò
imperiosamente:
«Vai»
Mi
voltai verso Adam in cerca di
supporto ma lui si strinse nelle spalle e mi indicò la porta
dietro cui Noel
era sparito.
Sbuffando
e mormorando vari insulti
poco carini nei confronti dei due traditori marciai verso il bagno e
arrivata
di fronte alla porta feci un respiro profondo ed entrai.
Un
denso vapore mi accolse in quello
che sembrava essere diventato un angolo di foresta pluviale in quanto
ad
umidità elevata. Avevamo anche una scimmia che si stava
lavando quindi eravamo
piuttosto fedeli all'ambientazione originale.
«Mi
sto facendo una doccia», constatò
incolore la voce di Noel proveniente da dietro la tenda rosa shocking
che lo
nascondeva alla mia vista.
«Davvero?»,
chiesi sogghignando,
«Pensavo stessi frignando di nascosto perché sai
benissimo di essere in torto
stavolta e stavi pensando a quale meravigliosa e costosissima borsa
potresti
regalare alla sottoscritta per ottenere il mio perdono...»
Spense
l'acqua e lo sentii afferrare
un barattolo, probabilmente di shampoo.
«Io
con te non ci parlo», mugugnò
imbronciato.
Noel
che puntava i piedi e si
comportava da bambino cocciuto era semplicemente adorabile. E ancora
più
adorabile era il fatto che non fosse in grado di fare l'offeso per
più di
un'ora.
Mi
sedetti sul water aspettando
pazientemente il momento, ormai vicino, in cui sarebbe scoppiato e
avrebbe
ricominciato a parlarmi come faceva sempre. Potevo quasi percepire lo
sforzo
immane che stava facendo per restare impassibile mentre ogni fibra del
suo
essere moriva dalla voglia di raccontarmi cosa era successo dal
veterinario.
«Pranzi
con noi?», buttai là
vagamente mentre mi fissavo lo smalto sbeccato sulle unghie.
Silenzio.
«È
arrivata la posta e con essa il
nuovo numero di Elle e Marie Claire...», ritentai.
Nulla.
Mmh,
per farlo scattare avevo bisogno
di qualcosa che lo interessasse sul serio. Mi guardai intorno cercando
uno
spunto e lo sguardo mi cadde sullo sgabello accanto al lavandino,
sgabello su
cui erano riposti, perfettamente ripiegati e in ordine, un paio di
pantaloni
neri e un cardigan blu notte.
Idea
luminosa!
«Stavo
pensando che, poiché la tua
stanza è più grande della mia, io avrei diritto a
più spazio di te nella nostra
cabina armadio», mormorai a mezza voce sperando con tutta me
stessa in una
reazione, «Credo sposterò tutte le tue scarpe in
cantin-»
«NO!»,
strillò spalancando la tenda e
mostrandosi in tutta la sua meravigliosa nudità.
Saltai
in piedi e mi misi ad
applaudire e saltellare felice.
«Smettila
di fare la foca scema e
passami un asciugamano», borbottò cercando
però di nascondere un sorriso.
Gli
lanciai il suo accappatoio Ralph
Lauren di morbidissima spugna grigio perla e poi gli saltai
amorevolmente al
collo.
«Adam
ha ragione a chiamarti
Voldemort...sei perfida», mormorò dandomi un
bacino sulla fronte.
Gli
scompigliai i capelli e gli
sorrisi malefica: «Lo so, infatti se fossi in te una
controllatina alle tue
scarpe la darai ugualmente...non si sa mai»
Saettai
fuori dal bagno prima che
avesse il tempo di assimilare la notizia e di tramortirmi colpendomi
alla testa
con il barattolo alquanto pesante della sua preziosissima crema
idratante
Lancôme.
«Ceciliaaaaaaaa,
io ti ucciderò prima
o poi!», mi raggiunse la sua minaccia urlante mentre
raggiungevo sana e salva
la cucina.
«Afefe
faffo pace?», mi domandò
subito Adam con la bocca piena di patatine.
«Dio,
Adam! Sei rivoltante!», strillò
schifata Sienna mentre spegneva i fornelli e afferrava un sottopentola.
«Sienna,
amore mio, non c'è bisogno
che mi chiami Dio, per te posso essere solo Adam...», la
rimbeccò cercando di
suonare lascivo e malizioso.
Sienna
gli tirò una scappellotto e ci
richiamò tutti a rapporto per pranzare.
***
Due
orette più tardi ero seduta sul
mio letto intenta ad aprire e catalogare le mille buste arrivate per
posta.
Sienna era sparita quasi subito dopo pranzo mormorando qualcosa
riguardo a dei
saldi imperdibili in un grande magazzino del centro mentre Adam aveva
rapito
Noel per le solite prove del sabato pomeriggio.
Erano
tutti eccitati perché era la
prima volta che avrebbero suonato nuovamente con un tastierista, che
avrebbe
fatto anche da seconda voce, da quando Jack se n'era andato tre mesi
prima.
I
ragazzi ci avevano invitato, o per
meglio dire ordinato, di fare un salto più tardi e di
portare le pizze.
Sospirai
mentre mettevo in cima alla
pila di buste vuote e carta straccia l'ennesimo volantino di
pubblicità
destinato a finire nella spazzatura.
Strappai
distrattamente l'ultima
busta della giornata pensando già alla visita che proprio
oggi avrei dovuto
fare ai miei cari ed adorati genitori.
Sperai
con tutta me stessa che mia madre
fosse di buon umore e ben imbottita dei suoi farmaci in modo da
evitarmi i suoi
spaventosi sbalzi d'umore e i suoi discorsi sconclusionati riguardo
alla vita
da pezzente che conducevo.
Gentili
Mr. Donovan e Ms.
Lawrence,
dopo
i molti solleciti fatti Loro
pervenire mi trovo costretto a tentare per l'ultima volta a trovare un
punto
d'accordo in modo cortese e civile prima di passare ad azioni legali e
conseguente sfratto forzato. La
quota
mensile dell'affitto comprensiva delle spese condominiali è,
come pattuito tre
anni fa, di 750 sterline. Purtroppo è da ormai cinque mesi
che ricevo solamente
la metà della somma accompagnata da bigliettini
temporeggiatori ricchi di
promesse, mai mantenute, di un pareggio delle spese nei tempi
più rapidi
futuri. Mi dispiacerebbe essere costretto a mandarvi via, siete sempre
stati
due giovani perbene, educati e responsabili, ma non posso fare
altrimenti.
Questo è il mio ultimo avvertimento: uomo avvisato...
Cordialmente,
K.
F. Hunting
Passarono
due minuti buoni prima che
riuscissi a capire pienamente cosa significasse quella lettera.
Già
vedevo la gioia incontenibile di
Mamma nel potermi finalmente avere di nuovo tra le sue grinfie laccate
di rosso
fuoco Chanel e di Papà nel riavere la sua principessina a
casa. Probabilmente
mi avrebbe comprato un pony, convinto com'è che io abbia
cinque anni e mi
diverta ancora a giocare al cavalluccio sulle sue ginocchia.
Dovevo
chiamare Noel. Subito.
Il
numero da Lei chiamato non
è al momento raggiungibile, La invitiamo a riprovare
più tardi.
Dopo
l'ennesima nenia ripetuta dalla
voce registrata persi la pazienza e corsi nell'altra camera per
vestirmi e
raggiungere il prima possibile quell'idiota del mio coinquilino che
presto si
sarebbe trovato o a fare il barbone sotto il Tower Bridge o a fare da
dama di
compagnia a Madre e alle sue amiche del circolo del bridge o da
facchino al
campo di golf di Papà.
Mi
infilai velocemente un pesante
maglione rosso, un paio di jeans e i miei anfibi neri. Gettai
rapidamente
cellulare, chiavi e portafogli nella tracolla di cuoio e dopo essermi
avvolta
nel mio cappotto di tweed e nella
mia
sciarpa grigia ed argento dei Serpeverde mi apprestai ad affrontare il
gelo
londinese.
Le
prove avvenivano nella cantina
della villetta degli Spencer che si trovava a tre fermate di metro dal
mio
appartamento. I genitori di Hannah e Adam erano stati nei tempi della
loro
ormai lontana gioventù i classici hippie tutti pace, erba,
musica e amore
libero ed erano stati gli unici a mostrarsi entusiasti all'idea di
avere una sala
prove in casa. Ai miei non lo avevo neanche proposto perché
sicuramente loro mi
avrebbero affittato la più bella e la più costosa
tra le sale prove di Londra.
Le
note di Luna dei Bombay
Bicycle Club mi accolsero ancor prima di suonare il campanello.
«Cecilia
tesoro!», mi accolse Mrs.
Spencer gettandomi le braccia al collo e stritolandomi in un abbraccio
soffocante.
L'espansività
e affettuosità della
madre di Hannah mi avevano sempre spiazzata e messa un po' a disagio.
Probabilmente questo mio problema derivava dalla mia infanzia e dalla
quasi
totale assenza di contatto tra me e mia madre che l'aveva
caratterizzata.
Ricordo benissimo le braccia paffute e soffici e il seno morbido e
prosperoso
di Consuelo, la tata cilena, che mi cullava per tempi infiniti quando
mi
aggrappavo a lei come una scimmietta. Mi pequeño
koala mi chiamava
sempre quando la cingevo stretta stretta e non la lasciavo andare
più. Mamma
l'aveva licenziata poco dopo quando aveva scoperto che quando veniva a
prendermi all'asilo, invece di filare dritte a casa, ci formavamo a
giocare al
parco pubblico per un'oretta. Consuelo aveva pianto, io avevo pianto e
Mamma
aveva continuato indignata a borbottare tra sé che erano
cose da pazzi, portare
una piccola bambina delicata come me in mezzo a batteri e sporcizia.
Avevamo
ettari di giardino, che bisogno c’era di fermarsi in un
sudicio parchetto nei
sobborghi?
«I
ragazzi sono di sotto», mi informò
allontanandosi e iniziando ad aiutarmi a levarmi il cappotto,
«Ma immagino lo
abbia sentito da te…», concluse ridacchiando tra
sé facendo riferimento al
volume spaccatimpani della musica proveniente dal piano sotto ai nostri
piedi.
La
loro cantina non era neanche
insonorizzata eppure Hazel Spencer non faceva una piega, come se avere
i
Vampire Weekend che risuonavano a mille decibel per casa fosse una cosa
normalissima. Mamma si imbottiva di Xanax anche solo per sopportare il
coro natalizio
di bambini che ogni anno alla vigilia aveva l’ardire di
suonare al cancello e
di farsi a piedi il mezzo kilometro buono che lo separava dalla porta
d’ingresso.
«Mi
fermo solo un attimo», spiegai
per evitare di apparire antipatica e scortese, «Devo tornare
a casa oggi
pomeriggio», mi scusai.
Mrs.
Spencer non commentò e gliene
fui immensamente grata. Lillian Lawrence non era propriamente la tipica
mamma
con cui scambiare due pettegolezzi mentre si era in fila ai colloqui
generali o
con cui organizzare sedute di yoga al parco. Avevo frequentato le
scuole più
prestigiose di Londra, a mio avviso i posti peggiori del mondo. Figli
di papà
ovunque, smorfiose bamboline con troppa fretta di crescere e professori
così
accondiscendenti nei confronti dei rampolli delle famiglie londinesi da
risultare viscidi e assolutamente poco professionali.
Hannah
l’avevo conosciuto quando in
quinta elementare io e Sienna fummo beccate a scrivere con una
bomboletta blu
elettrico un gigantesco BITCH sull’auto della nostra vice
preside che voleva
obbligarci ad iscriverci alla sua associazione di beneficenza nei
confronti dei
bambini meno fortunati. Detto così sembrerebbe un puro atto
vandalistico ma se
voi foste stati presenti ad una di quelle manifestazione di infinita
‘bontà d’animo
e generosità’ avreste capito e sostenuto me e
Sienna. Gli alunni della nostra
scuola, vestiti di tutto punto con la divisa perfettamente in ordine,
andavano
in una qualsiasi scuola pubblica in periferia, nella periferia di
Londra non
del Burundi, il ché avrebbe certamente avuto più
senso, e, dopo un discorso
intriso di falsa commozione e finto orgoglio della vice preside,
distribuivamo
tra i banchi quaderni, matite e cancelleria varia. Era insopportabile.
Lo
sguardo con cui quei bambini, nostri coetanei, accettavano i nostri
schifosissimi regali era insopportabile. Quello che facevamo, o meglio
ci
obbligavano a fare, non era generoso ed altruistico, no, era solo un
modo per
mettere in evidenza il fatto che noi,
figli di membri del parlamento, di luminari nel campo della medicina,
di uomini
importanti della City, di eminenti avvocati eravamo superiori a loro,
poveri
piccoli bimbi sfortunati, nati da semplici impiegati, operai e
casalinghe.
Odiavo fare tutto ciò. Odiavo quando squadravano le mie
scarpe alla bebè di
lucidissima vernice che probabilmente valevano quanto mezzo stipendio
mensile
dei loro padri, scarpe che io non sopportavo e avrei volentieri
lanciato fuori
dalla finestra o dato loro in cambio di un paio di Converse fasulle
comprate
per dieci sterline da Selfridges. Odiavo i sussurri che si scambiavano
alle
nostre spalle. Mi sentivo assolutamente inadeguata. Mi vergognavo di
appartenere a quella gente e quando tornavo a casa sulla Mercedes con
l’autista
e mia madre mi chiedeva «Allora sono stati contenti dei
vostri gentili doni
quei poveri bambini sfortunati?», stavo ancora peggio.
Vi
confesso che quelle scarpe
lucidissime le regalai ad un senzatetto il giorno dopo quella terribile
esperienza in un attimo di distrazione da parte della mia severissima
tata
tedesca. A Mamma raccontai di aver scordato dove fossero finite e lei
scrollò
le spalle dicendo che ne avremmo comprato un modello per bambine
più grandi.
Era quello l’atteggiamento che mi irritava. Perdevo qualcosa:
scrollatina di
spalle. Tanto lo si poteva ricomprare.
Tornando
a noi: Sienna e io fummo
‘punite’ e così per tre mesi dovemmo
andare ad aiutare la squadra dei
giardinieri comunali a prendersi cura delle aiuole di Hyde Park. Hannah
ai
tempi era una bellissima e simpaticissima bambina di dieci anni tutta
ponchi
dai colori improbabili e sorrisi. Lei era lì di sua
spontanea volontà: adorava
la natura e voleva dare una mano per abbellire la sua città.
Non si pose nessun
problema la prima volta che ci vide nei nostri cappottini Burberry
scaricate da
una Porsche fiammante. No, lei ci salutò felice e si
presentò abbracciandoci,
tratto che aveva ereditato dalla madre a quanto pare. Mi piacque da
subito e mi
piacque perché mi trattò come se fossi una
normalissima bambina come lei, cosa
che tra l’altro ero ma che nessuno sembrava comprendere
pienamente.
Una
testa rossa sbucò alle spalle di
Mrs. Spencer e mi ritrovai presto intrappolata in un altro abbraccio.
«Sei
arrivata presto», esclamò
contenta Hannah, avvolta in un maglione a trecce fatto a mano e in un
paio di
pantaloni di velluto a costine risalenti probabilmente alla prima
guerra
mondiale. Ah, Hannah e la sua passione smodata per i negozi con vestiti
di
seconda mano e il vintage.
Detti
un’occhiata rapida al mio
orologio da polso: 3.23 pm.
Dovevo
decisamente darmi una mossa,
parlare con Noel e levare le ancora al più presto.
«Cosa
vuol dire che sei al verde?!»,
esclamai esasperata.
Noel
era laureato con il massimo dei
voti in economia e si occupava dell’amministrazione delle
risorse di molti
personaggi influenti della città. Era un commercialista
oculato e prudente. Sì,
lo era ma solo con i soldi altrui. I suoi risparmi invece non
riuscivano mai ad
essere messi a riposo in una cassetta di sicurezza in banca ma finivano
quasi
sempre nelle casse di Prada, Yves Saint Laurent o Dior.
«Non
ho un soldo ora come ora»,
spiegò mogio mogio senza guardarmi negli occhi e fissandosi
la punta delle sue
scarpe da quattrocento sterline suonanti.
«Noel,
perché non me ne hai parlato?»,
domandai torturandomi disperatamente una ciocca di capelli.
Avremmo
potuto trovare una soluzione
se ne avessimo discusso cinque mesi fa quando non pendeva su di noi una
spada
di Damocle che rischiava di cadere da un secondo all’altra
affettandoci senza
pietà. Avremmo potuto risolvere il tutto con calma quando
ancora nessuno ci
minacciava di conseguenze legali e quando non avevamo un debito di
duemila
sterline.
«Me
ne vergognavo, insomma Cece, fare
economia è il mio lavoro e invece…»,
mormorò quasi arrabbiato con sé stesso
passandosi disperato una mano sul volto.
Pensa
cervellino, pensa. Lavoravo
come babysitter per otto sterline l’ora e dieci se dovevo
tenere il bambino
fino a tardi ma tutto ciò che ricavavo cantando ninne nanne
e sorbendomi ore e
ore di Peppa Pig, che tra l’altro mi piaceva molto, serviva
per pagare la mia
parte di affitto, le spese di luce, acqua e gas,
l’abbonamento ai mezzi
pubblici e il cibo. Nonostante la mia voglia di indipendenza avevo
dovuto
capitolare di fronte al caro prezzo della vita e accettare un piccolo
aiuto
mensile da parte dei miei. Certo poi avevo il fondo fiduciario
intestato a mio
nome fin dalla tenere età di due anni ma mi ero sempre
rifiutata di toccare
quel denaro, la cui somma ignoravo.
«Noel,
parliamone onestamente: il
prossimo mese potresti permetterti i soldi
dell’affitto?», domandai sincera.
«No,
o perlomeno non tutto, forse
duecento…non di più»
Il
mio telefono iniziò a vibrare e
lessi il nome di mio padre sullo schermo.
Si
era fatto veramente tardi.
«Devo
scappare ora», esclamai
dirigendomi verso le scale, «Noel, non abbatterti, troveremo
una soluzione», lo
rassicurai sorridendo.
Non
sapevo come ma questo era un
problema assolutamente secondario. Certo, Cecilia come no, fai sempre
la
WonderWoman da strapazzo.
«Quindi
non mi libererò tanto
facilmente di te, oh mia pazza coinquilina?»,
domandò ritrovando il suo solito
buonumore.
Muahahaha,
mai.
«Sogna,
bello mio», e con quello mi
congedai.
***
Una nuvola
di Chanel N.5 mi avvolse non appena Lillian Lawrence fece il suo
ingresso nel
suo salottino da tè, decorato in modo talmente lezioso e
zuccherino da far
invidia allo studio di Dolores Umbridge.
Ed ecco a
voi mia madre: messa in piega perfetta, tubino color pesca con golfino
di
cashmere abbinato, scarpe tacco 10 e fronte aggrottata.
Si
fermò
sulla soglia a studiarmi. Vidi i suoi occhi percorrere la mia intera
figura,
dai jeans stropicciati al maglione leggermente scolorito dai troppi
lavaggi.
Stava prendendo le misure della sua unica e debosciata figlia che
viveva in un
appartamento squallido lontano dal centro, che mangiava ai fast food,
che
frequentava proletari e, orrore degli orrori, lavorava.
«Spero
tu
abbia le scarpe pulite!», squittì infine
squadrando i miei anfibi che
sicuramente avevano visto giorni migliori.
Lei non mi
vedeva da quasi un mese e la prima cosa che mi diceva era un rimprovero
riguardante le mie scarpe. Normale no?
«Eccola
qui
la mia Cece adorata!»
Mi voltai e
un sorriso a trentadue denti mi si dipinse sul volto. Mio padre,
occhiali
storti sul naso e gilet scozzese orribilmente orribile, mi strinse in
un caldo
abbraccio.
Ancora
stretta tra le braccia del mio amato e sempre più
spiegazzato padre mi accorsi
delle due persone che ci stavano fissando dalla soglia.
Non poteva
essere
vero. Mi veniva quasi da piangere.
«Bisnonno
Samuel!», strillai al settimo cielo precipitandomi accanto
alla carrozzina sui
cui era seduto il mio carissimo nonnino.
Era da
più
di un anno che non tornava a casa, troppo malato per poter fare
qualsiasi cosa
che non fossero tour infiniti tra i vari ospedali e visite dai
più eminenti
specialisti. L’ultima volta che ero andata a trovarlo lo
avevo trovato
peggiorato e non aveva fatto altro che stringermi spasmodicamente la
mano e
sussurrare come una nenia infinita il mio nome alternato a quello di
sua moglie
Lillian, defunta ormai da cinquant’anni. Almeno credo
intendesse chiamare sua
moglie.
Ora sembrava
stare decisamente meglio e il suo sorriso sereno e il colorito non
più terreo
sembravano confermare la mia speranza.
«Tutti
a
dirmi che ormai era una questione di ore, la tua prozia Petunia
probabilmente
aveva già pronta la bara, brutto avvoltoio quella
donna…», ridacchiò tra sé e
sé lasciandomi esterrefatta a fissare quanto fosse bello
vederlo così allegro, «Tsè,
decido io quando morire e io non me ne
vado fino a quando la mia Cecilia non diventa medico come il suo
orgogliosissimo bisnonno che solo allora morirà felice e
contento», scherzò
stringendomi affettuosamente la mano.
Volevo
piangere tanta era la gioia che quel momento mi stava regalando, ero
convinta
anche io che presto avrei dovuto dire addio al mio amatissimo bisnonno
ma
questo momento imprevisto di lucidità e buonumore era un
dono bellissimo che
ero decisa a godermi pienamente.
Perciò
chiusi, almeno per il momento, la faccenda dell’affitto e dei
problemi
finanziari di Noel in un cassetto e mi concentrai su quello splendido
momento
in famiglia.
«Nonno,
vuoi
del thè?», chiese premurosa mia madre mentre si
inginocchiava al fianco
dell’anziano e gli sistemava la coperta a quadri che aveva
sulle gambe.
L’unica
persona per cui mia madre manifestava apertamente affetto, o per lo
meno
tentava di manifestarlo in un modo diverso dal suo solito modo sempre
un po’
freddo e distaccato, era il nonno Samuel.
«Tesoro
mio,
non preoccuparti», la rassicurò lui dandole una
lieve carezza sul viso, «Nel
caso mi venisse sete manderemo questo mio inutile nipote a prendermi
qualcosa»,
borbottò facendo riferimento al ragazzo alle sue spalle che
finora era rimasto
in religioso silenzio.
Distolta la
mia attenzione dal nonno mi concentrai finalmente sulla presenza dietro
di lui.
Sebastian
Lawrence.
Il
più
spocchioso tra i cugini della famiglia e il mio compagno di giochi
obbligato
per tutta l’infanzia.
«Adorato
cugino», lo salutai melliflua cercando di nascondere una
smorfia.
«Cugina
prediletta», mi rispose per le rime lui sollevando appena un
sopracciglio
mentre mi scrutava attento.
«Sempre
impeccabile vedo», gli feci notare sarcastica studiando la
sua camicia
immacolata e la piega perfetta dei pantaloni.
Bello da
sembrare finto, tanto stronzo da farti capire immediatamente che,
purtroppo,
era tutto tranne che finto.
«Sempre
più
arruffata e squisitamente plebea», mi rimbeccò lui
lanciando un’occhiata
eloquente ai miei anfibi piuttosto vissuti.
«Sebastian
è
tornato a Londra per completare gli studi…», mi
spiegò mia madre regalando al
cugino idiota un sorriso luminoso.
Madre
ovviamente adorava Sebastian, d’altra parte lui incarnava
tutto ciò che io non
ero e che lei avrebbe voluto disperatamente fossi.
«Pff,
è
tornato solo perché gli ho tagliato i fondi e quella
squattrinata di sua madre
è troppo ubriaca ai Caraibi per provvedere al
figlio…», borbottò bisnonno
Samuel facendogli segno di spingerlo fino al divano, in modo da essere
vicino a
mia madre e poterci guardare in faccia, «Fondi che tra
l’altro stava
sperperando in tutto fuorché i suoi
studi…»
«Suvvia
Samuel sono giovani e vogliono divertirsi…»,
commentò bonario mio padre
spostandosi per far posto accanto a sé a Sebastian che aveva
uno sguardo
alquanto torvo.
«Giovani
un
cazzo!»
«Nonno!»,
esclamò scandalizzata mia madre mentre io cercavo di
mascherare una risata con
un colpo di tosse.
«Che
hai
intenzione di fare a Londra?», chiesi giusto per cortesia,
non ero molto
interessata alla sorte di Sebastian detto onestamente.
«Vuol
prendere esempio da te, mio fiorellino», mi spiegò
il nonno strizzandomi
l’occhio.
Che cavolo
gli avevano somministrato per farlo tornare come ai vecchi tempi?
«Studierà
alla London School of Economics», proclamò mamma
gonfiandosi come un pavone
tronfio.
Sai che
storia. Noel si era laureato lì due anni prima e quando lo
aveva conosciuto
mamma non aveva fatto tutto questo teatrino ma aveva continuato a
guardarlo
sospettoso e a fargli domande indiscrete riguardo alla sua vita
sentimentale.
«E
starà qui
con voi?», domandai mettendomi a ridere.
Il cugino
scapestrato che dopo anni di bagordi negli States torna in madrepatria
per
essere messo in riga. Troppo esilarante. Soprattutto se il cugino in
questione
era Sebastian.
«Magari…»,
sospirò mamma.
«No
angioletto, starà da te», commentò
candido il nonno.
E in quel
momento smisi di ridere.
Fate
una buona azione: donate una piccola recensione a questa povera autrice
disperata ed insonne.
Buonasera
a tutti,
sono
stanchissima quindi sarò breve. Il personaggio di Sebastian
è stata un’idea
dell’ultimo minuto quindi vedremo se sarò in grado
di svilupparlo per bene e di
inserirlo in modo armonioso tra gli altri personaggi. Prometto che
prossimamente mi concentrerò anche sugli altri protagonisti
e inizierà a
succedere qualcosa che non siano semplicemente puri dialoghi di
passaggio.
AAA:
Cercasi disperatamente un nome per la band dei ragazzi.
Idee
e proposte sono ben accette. Ho in mente un nome ma non mi convince
pienamente
quindi chiedo a voi.
Grazie!
Bacini,
S.
|
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Capitolo 3 *** III ***
Non
ho mai sopportato le porte
chiuse, soprattutto in casa mia ma mai quanto quella mattina desiderai
di aver
serrato a doppia mandata quella della mia camera la sera precedente. Se
lo
avessi fatto ora non mi ritroverei, alle sette di domenica mattina, con
una
Sienna carica come non mai in una tuta tecnica argentata della Nike
intenta a
tirarmi i piedi per convincermi ad andare a correre con lei.
Odiavo
il freddo. Odiavo l'attività
fisica. Odiavo alzarmi presto. Quindi che accipigna voleva dalla
sottoscritta?
«Mmh
no», farfugliai nascondendo la
testa sotto al cuscino e scalciando affinché mollasse la
presa e liberasse le
mie povere caviglie ormai doloranti.
La
sentii sbuffare ed imprecare
sottovoce mentre iniziava ad arrampicarsi sul letto, sempre
più vicina alla mia
testa sepolta.
«Hai
due secondi per alzarti di tua
spontanea volontà dopodiché adotterò
la modalità Suor Margaret», mi minacciò.
Oh
no. La tecnica Suor Margaret no!
Quella
sciroccata approfittò del mio
momento di panico e mi strappò il cuscino da sopra la testa
facendo emergere il
nido di quaglia che erano i miei capelli.
Suor
Margaret era la responsabile
delle camerate femminili del campo scuola in Costa Azzurra organizzato
dal
nostro istituto ogni estate. A un primo sguardo appariva come una
materna e
paffutella nonnina ma in verità era un generale svizzero
travestito. La sveglia
suonava sempre alle sei in punto. A chi importava che quelle fossero le
tante
agognate vacanze estive? La cosa fondamentale, soleva dire lei, era
essere
sempre attivi e produttivi e recitare le lodi mattutine per
accompagnare il
sole che sorgeva. Chi provava a sbuffare o a mormorare la famosa frase
«Altri
cinque minuti...» veniva sottoposto alla specialissima
tecnica di risveglio
traumatico inventata e messa a punto da Suor Margaret.
Per
iniziare ti privava di cuscino e
lenzuola, dopodiché spalancava la finestra e afferrava il
tuo orecchio sinistro
sollevandoti di peso e trascinandoti nella cappellina della casa dove,
munita
di libro delle preghiere da duemila e passa pagine, ti obbligava a
recitare per
cinquecento volte il Padre Nostro, e ad ogni pausa o lacrima, SBAM!, il
libro
sulle mani. Dopo questo, sempre in pigiama e sempre a stomaco vuoto, ti
portava
in camera a recuperare il costume e poi via in spiaggia. Lì
lei si toglieva il
suo abito monacale blu e restava in quella specie di costume che
assomigliava
ad un mezza muta e, sempre tirandoti per l'orecchio sinistro, ti
gettava in
mezzo alle onde gelide obbligandoti a nuotare per almeno un'ora.
L'acqua fredda
fortifica il fisico e lo spirito, ripeteva sempre. A mio parere
procurava solo
starnuti e nasi gocciolanti.
«Uno...»,
iniziò a contare Sienna, un
ghigno malefico stampato in volto e un dito laccato di viola sollevato
minaccioso.
«Qui
non c'è il mare!», le ricordai
sorridendo vittoriosa per la mia intuizione.
«No,
ma c'è il meravigliosamente
inquinato e sudicio Tamigi...», mi rispose sorridendo
candidamente e sollevando
un secondo dito nella mia direzione, «Ops, due...»
E
con uno scatto felino mi spinse e
mi fece rotolare giù dal letto e, presa in contropiede,
atterrai sul pavimento
facendo un trambusto non da poco.
«Sei
scema?!», urlai alzandomi dal
parquet ghiacciato in meno di mezzo secondo.
«No,
sono Sienna. Ricordi?»
La
detestavo.
La
vidi sparire dalla camera per
tornare poco dopo con una tuta grigio scuro ripiegata su un braccio e
le mie
scarpe da ginnastica tra le mani.
«Sei
ancora lì impalata? Hop hop!»,
mi rimproverò spingendomi verso il bagno ed aprendo il
rubinetto.
Mi
sciacquai il viso e mi legai i
capelli in una treccia disordinata prima di strappare dalle mani di
Sienna, la
mia ex-amica, la tuta ed indossarla seguita dalle scarpe.
Passando
per il corridoietto, infilai
la testa nella camera di Noel per vedere se l'uragano Sienna aveva
svegliato
anche lui, ma lo vidi dormire placido e beato come un bebè,
con la faccia
immersa nel cuscino e il corpo avvolto in un bozzolo di coperte.
Beato
lui.
Socchiusi
la porta e mi diressi verso
l'ingresso sospirando rassegnata di fronte al mio triste destino.
Avevamo
corso per quasi un'ora, okok
io avevo arrancato cercando disperatamente di tenere il passo, e, dopo
aver
fatto un po' di stretching conclusivo, avevamo concordato di fermarci a
fare
colazione nella piccola caffetteria dietro l'appartamento di Sienna.
«Ora
che ho recuperato il fiato e con
esso l'uso della parola posso finalmente domandarti ciò che
volevo chiederti da
stamattina all'alba: perché?», la interrogai
sorseggiando il mio cappuccino.
Sienna
non era un tipo da aria aperta
e corse mattutine. No, lei aveva il suo prezioso abbonamento in
palestra e lì
passava i suoi pomeriggi tra yoga, pilates e kickboxing, la sua ultima
trovata
per allontanare lo stress.
«L'ho
rifatto», mormorò
giochicchiando con le briciole della sua brioche.
Mi
lasciai scivolare sullo schienale
della sedia in plastica rigida e mi rigirai nervosamente la treccia tra
le
dita.
«Questa
è una specie di camminata
della vergogna?», domandai sporgendomi al di sopra del
tavolino per fissarla
con sguardo indagatore.
Lei
si strinse nelle spalle ed annuì
con un sorrisetto.
«Sienna!»,
la rimproverai
prontamente, «Cosa avevi detto meno di due settimane
fa?»
Aveva
giurato sulle sue Manolo
Blahnik di autentico pitone che avrebbe messo fine alle sue storie da
una notte
e basta. Lo aveva promesso sulle Scarpe, uniche ed inimitabili.
«È
una fortuna che abbia il tuo
stesso numero...», commentai sovrappensiero.
«Scordatele!»,
esclamò agitando un
dito davanti al mio viso già in estasi all'idea di possedere
un paio di Blahnik
originali, «Non dopo quello che hai combinato tu la settimana
scorsa»
Immagini
confuse di Margarita,
lenzuola color antracite e di un tizio con la barba attraversarono la
mia
mente.
«Io
non avevo fatto alcun
giuramento!», mi difesi.
Accidenti
a lei e alla sua innata
capacità di girare la frittata sempre e solo a suo favore.
Scrollò
le spalle indifferente alle
mie proteste, «Bye bye scarpine», concluse
vittoriosa sapendo di aver segnato
il punto decisivo di questo match.
Sbuffai
furiosa e feci un cenno
distratto alla cameriera indicando la tazza vuota.
Sienna
avvicinò la sua sedia alla mia
e mi guardò seria dritta negli occhi.
«Stamattina
mi sono sentita fuori
posto. In metropolitana, tra uomini in giacca e cravatta pronti per una
giornata di lavoro e madri con bambini diretti ai giardinetti mi pareva
che gli
sguardi di tutti fossero fissi sui miei tacchi ridicolmente alti e il
mio abito
rosso da rimorchio decisamente troppo corto e scollato per non essere
un chiaro
indizio di dove ho passato la notte. Mi sono resa conto di quanto io
valga poco,
di quanto sia patetica la mia necessità di avere sempre
qualcuno accanto e di
quanto la mia allergia alle relazioni serie e adulte mi abbia resa
miserabile.
E ho capito che devo porre la parola fine a tutto questo
squallore»
Sembrava
che nella caffetteria il
brusio tipico del sabato mattina fosse cessato all'improvviso, come per
sottolineare con quel silenzio denso e pesante quanto fosse profondo il
tormento che oscurava e gravava come una nube plumbea sullo spirito
solare
della mia amica.
Le
strinsi affettuosamente la mano
che teneva posata sul tavolino e le sorrisi incoraggiante.
«Sienna
tu sei l'esatto contrario del
patetismo. Sei una donna fiera, indipendente e stupenda che a volte
sbaglia,
che per fortuna sbaglia. E hai ragione: dobbiamo darci un taglio con le
botte e
via. Un taglio netto», affermai con enfasi.
Lei
mi guardò per qualche secondo
dubbiosa prima che il suo viso si illuminasse e esclamasse al settimo
cielo,
«Ho io la soluzione: castità!»
Avevo
sentito bene? Sienna, colei che
gli uomini se li mangiava a colazione e, dopo esserseli gustati per
bene,
abbandonava senza troppi scrupoli stava davvero proponendo di darsi
alla
castità? Davvero esilarante.
«Credo
che dovresti porti un
obiettivo quantomeno realistico...», le feci notare.
Se
da frequentatrice assidua di letti
di sconosciuti voleva trasformarsi in una ragazza assennata e
morigerata il
processo doveva essere graduale.
Le
mie diete fallimentari ne erano un
chiaro esempio. Passavo dal trangugiare l'equivalente di tre pranzi di
Natale
allo spiluccare due foglioline scondite di insalata era ovvio che dopo
due
giorni mi sarei ritrovata a piangere con la testa nel freezer in cerca
di
gelato.
«Tu
credi che io non possa farcela!»,
esclamò piccata la mia amica spalancando incredula i suoi
occhioni cerulei,
«Mentre ovviamente sei convinta che tu potresti benissimo
farlo, vero?»
«Assolutamente»,
confermai annuendo
decisa.
Sienna
e la vita casta e monastica
era un binomio che sicuramente non sarebbe durato molto
perciò potevo state
tranquilla. Nel giro di due settimane avrei vinto e avrei potuto
ricominciare
ad avere una vita sessuale attiva. Non che potessi paragonarmi neanche
lontanamente a Sienna, però non ero stata esattamente una
santa negli ultimi
mesi e Jack poteva testimoniarlo. E tutto era andato benissimo
perché
riuscivamo ad avere i vantaggi di una relazione, sesso frequente e
chiacchierate sui problemi esistenziali, senza doverci scontrare con le
molteplici scocciature di essa, gelosie, vendette, litigi e compagnia
bella.
Fino a quando Jack non era saltato fuori con la storia di Amsterdam e
del
trasferimento. Così mi ero ritrovata in un colpo solo senza
consigliere,
sprovvista di amico di letto e la band si ritrovò priva di
chitarrista.
Ovviamente
tutti avevano incolpato
me. Ancora mi domando il perché.
Ma
prima di Jack avevo fatto per mesi
la vita da suora uscendo sempre e solo con Noel, suoi amici
terribilmente belli
ma irrecuperabilmente gay e Adam, il cui unico neurone solitario non mi
aveva
mai neanche lontanamente attratto. Perciò avrei potuto
benissimo rifarlo.
«Benissimo»,
con un espressione
solenne pescò un tovagliolino dal centro del tavolo e si
voltò a picchiettare
sulla spalla di un ragazzo intento a leggere un tomo da più
di mille pagine.
Dieci
secondi più tardi, dopo vari
sorrisi ammalianti e sbattimenti di ciglia, Sienna mi mostrò
vittoriosa una
penna a sfera.
Iniziò
a scartabellare tutta presa
sul tovagliolo. La vidi titubare un attimo, mordicchiarsi il labbro
inferiore
indecisa e poi riprendere a scrivere come se avesse ritrovato il filo
dei suoi
pensieri.
Ne
approfittai per dare una
sbirciatina al menù. Avevo una fame terribilmente e il
croissant che mi ero
appena pappata non aveva saziato il mio stomachino esigente. In
più la sera
prima non avevo cenato perché tornata dall'ospedale mi ero
fatta una doccia
(Noel per fortuna era disperso chissà dove) ed ero crollata
sul letto, fino al
brusco risveglio di stamane.
Acciuffai
il cameriere che stava
passando rapido accanto a noi e gli chiesi se poteva portarmi un muffin
ai mirtilli.
Wow, aveva degli occhi quasi trasparenti, così belli da
ricordarmi quelli di
Ian Somerhalder, che accidenti a lui, si era purtroppo, con mio enorme
disappunto, appena sposato. Così come Adam Levine che era
destinato a me e
invece si era andato ad accasare con niente meno che un angelo dalle
gambe
chilometriche di Victoria's Secrets.
Cecilia
Lawrence! Stai per firmare un
contratto di castità, d'ora in poi devi stare alla larga
dagli esseri di genere
maschile che non siano gay o over cinquanta. Facciamo over sessanta
perché un
pensierino su Tom Cruise lo farei eccome se mi capitasse sotto tiro.
«Fatto!»,
trillò soddisfatta la mia
amica spingendo verso di me il tovagliolino fittamente ricoperto di
inchiostro
e sorridendomi incoraggiante.
Abbassai
lo sguardo preoccupata,
quando Sienna appariva così esageratamente radiosa e
soddisfatta bisognava
iniziare a prendere delle precauzioni perché qualcuno
avrebbe potuto farsi
male.
Noi,
Sienna Clark e Cecilia
Lawrence, in nome di un bene superiore e appellandoci alla
dignità femminile
dichiariamo di rinunciare a qualsiasi azione di tipo carnale. Non solo
l'atto
sessuale non sarà permesso ma anche qualsiasi
attività ad esso correlata. Ci
impegniamo a preservarci pure e illibate per i tempi a venire e a
rinunciare, nel
caso ci dimostrassimo deboli,
volubili
e cedessimo al
fascino della carne a
consegnare all'altra firmataria del suddetto patto:
Ms.
Clark: n. 1 paio
scarpe Manolo Blahnik (sapendo che
se la separazione dovesse davvero avere luogo la sopracitata signorina
morirebbe di crepacuore)
Ms.
Lawrence: prestito
della durata di due settimane del
suo appartamento situato a New York (sapendo che la signorina non lo
utilizza
mai perché è una sciocca bimbetta innamorata del
clima uggioso di Londra)
La
rinuncia da parte di una
delle due contraenti determinerà come penalità
l'attuazione delle norme sopra
elencate.
Firme:
«Illibate?
Sul serio?», mormorai con
le lacrime agli occhi.
Sienna
aveva fatto il countdown per
la perdita della verginità al liceo ed era finita che voleva
così tanto
diventare donna prima del tempo che tutti la credevano un'assatanata
malata di
sesso e non riuscì nel suo intento se non a diciassette anni
suonati.
Per
fortuna nella vita faceva la
giornalista in una rivista di moda e non stendeva contratti per
multinazionali.
«Vincerò
io», mi sfidò, allungando
una mano e lasciando la sua firma svolazzante sul bordo inferiore del
pezzo di
carta, «Non ho alcuna intenzione di separarmi dalle mie
scarpe da cinquecento
sterline»
Le
strappai di mano il tovagliolo e
scribacchiai le mie iniziali, «Vincerò io
perché non ho alcuna intenzione di
chiedere un favore ai miei»
Piuttosto
mi sarei gettata senza
paracadute dalla Tour Eiffel o avrei fatto un bagno con degli
alligatori
affamati.
«Bene»
«Vinca
il migliore», conclusi
sfidandola e scambiando con lei un sorriso carico di sottintesi.
Quando
il cameriere mi portò il
muffin non feci una piega di fronte ai suoi dolci occhi azzurri. Se non
ero
pura e illibata io!
***
«Cece,
non è per caso che tu hai un
angolino ancora libero in camera tua?», strillò
Noel dalla sua stanza.
Mi
guardai attorno pensierosa, le
braccia cariche di una pila di scatole da scarpe.
I
cassetti inferiori del mio armadio
ero riuscita a chiuderli puntando i piedi contro il letto e spingendo
con tutta
la forza che avevo e non avevo la più pallida idea di come
avrei fatto a
riaprirli. I vestiti appesi al di sopra erano talmente stipati che per
prelevarne uno dovevi spendere un'ora a passare in rassegna quella
fitta
giungla di tessuti e colori compattamente in fila. Una torre di
cappotti e
borse ricopriva il mio letto e ogni centimetro quadrato di parquet era
ricoperto da scarpe e relative scatole.
Volevo
piangere. Dove accidenti avrei
messo tutta quella roba?
Sbuffando
mollai le scatole che avevo
tra le braccia accanto alle altre che mi guardavano beffarde dal
pavimento e
marciai fuori dalla stanza facendo una specie di corsa agli ostacoli
per
evitare di inciampare in una ballerina o in uno stivaletto abbandonato.
Il
mio cuore si consolò rapidamente
nel vedere le condizioni disperate in cui versava Noel e la sua stanza
con lui.
Sembrava di essere finiti in un bazaar affollatissimo pieno di
qualsivoglia
cianfrusaglie e chincaglierie.
Sollevai
dubbiosa una tuta di
ciniglia color melanzana e spostai con la punta dei piedi uno stivale
da cowboy
con tanto di vero sperone per avere lo spazio necessario per poggiare
il mio
culetto sul suo letto.
«Non
ce la posso fare!», esclamò
scoraggiato il mio coinquilino, di cui, essendo per metà
infilato con la testa
nei meandri più profondi del suo armadio, avevo una piena
visuale del suo
didietro.
«Fai
una cernita», proposi
analizzando con occhio scettico le cravatte annodate e gettate alla
rinfusa
accanto a me, «Sono certa che un po' di beneficenza ti
risolleverà il morale...»
Quello
per tutta risposta mi mostrò
il dito medio.
«Comunque
anche io sono sua tua
stessa barca», gli feci presente.
Tra
quel caos di oggetti pescai un
paio di occhiali da sole dalla montatura tartarugata. Strano, mi
parevano
familiari. Li indossai e balzai in piedi per potermi guardare allo
specchio.
Nel compiere questa operazione calpestai nell'ordine: un sombrero
messicano dal
diametro esageratamente ampio, una giarrettiera rosa shocking, sulla
cui
provenienza preferii non fare domande, e una t-shirt delle tartarughe
ninja.
«Brutto
babbano babbeo!», strillai
non appena vidi il mio riflesso, «Questi sono miei!»
«Oh,
li avrò presi per sbaglio»,
liquidò la questione Noel, senza neanche prendersi il
disturbo di togliere
quella sua testolina vuota dall'interno del guardaroba.
Adoravo
quel paio di occhiali da
sole, comprati da un ragazzo tunisino gentilissimo durante il mio
viaggio a
Barcellona. Due estati fa erano misteriosamente scomparsi e, dopo
infinite
ricerche, mi ero rassegnata e ne avevo acquistato un nuovo paio
assicurandomi
che il modello fosse il più simile possibile all'originale
andato smarrito.
«E
dimmi, c'è per la caso la
possibilità che altre cose di mia proprietà
siano finite per caso nel
tuo armadio?», chiesi furiosa.
Perché
non potevo andare a vivere da
sola? O perché non potevo avere un coinquilino normale?
Certo, Noel era una
persona molto ordinata ed attenta alla pulizia e di ciò
ringraziavo il cielo
ogni giorno, soprattutto dopo che Oliver mi aveva raccontato che il suo
coinquilino lasciava sempre i boxer sporchi sul pavimento del salotto,
nel
bagno coltivava una colonia di funghi e si faceva la doccia una volta
alla
settimana. La situazione però, vista da un punto di vista
differente, appariva
tragica. Noel teneva si alla sua igiene ma in modo quasi maniacale.
Secondo voi
è normale una persona che fa una media di cinque docce al
giorno?
Una
volta avevo fatto un calcolo
approssimativo ed ero giunta alla conclusione che la giornata di Noel
si
ripartisse in: sette ore di sonno, otto ore di lavoro, tre ore di
pranzi/cene,
due ore serali di rottura dei cosiddetti nei confronti della
sottoscritta e le
restanti quattro ore quotidiane chiuso in bagno. Docce, bagni infiniti
tra
bagnoschiuma profumati e bastoncini di incenso dalla fragranza esotica,
teatrini e piroette davanti allo specchio, imbellettamenti, fanghi e
intrugli
vari occupavano un sesto delle sue giornate.
Da
ciò si deduceva il perché io
andassi spesso in giro con una gamba depilata e l'altra no, con la
vescica
piena fino a scoppiare e perché mi lavassi i denti mentre in
contemporanea mi
insaponavo i capelli e mettevo lo smalto.
Sì,
perché il signorino sopracitato
mi cronometrava. Sisi, avete capito bene. Non appena io sparivo dietro
alla
porta del bagno, lui si piazzava fuori dalla soglia munito di cellulare
e
l'ultimo numero di Vogue e strillava: «Meno
quindici», deliziandomi con il suo
seccante conto alla rovescia fino allo scadere del quarto d'ora
concessomi. E
guai se tentavo di sgarrare e uscire dai tempi da lui, sua altezza
serenissima
duca dei rompicoglioni, perché allora entrava come una furia
e spalancava la
tenda della doccia incurante del significato della parola 'Privacy'.
Avevo
provato a chiudermi dentro a
chiave ma purtroppo il bel damerino, nessuno sa come o dove, aveva
imparato ai
tempi della sua scellerata gioventù bruciata a scassinare le
serrature e così,
quando ebbi quella bruttissima idea, me lo ero ritrovato in bagno con
un ghigno
malefico stampato in volto, pronto a reclamare il suo turno.
«Oh,
è molto probabile», mi rispose
tranquillo, «Il tuo foulard, ad esempio, quello di
Hermés, l'ho intravisto
prima mi pare...», commentò vago sempre con il suo
bel sederino al vento e la
testa sepolta sotto alle giacche appese nel mobile.
Un
urlo di rabbia repressa riempì
l'aria e, con mia grande sorpresa, mi resi conto di essere stata io ad
emetterlo. Giurai a me stessa che questa volta avrei davvero usato il
suo
completo di Prada come lettiera per Draco. E prima di fare
ciò avrei rimpinzato
il mio gattino adorato con un bel manicaretto a base di peperoni e
uova, mix
letale che, come avevamo avuto modo di sperimentare l'anno scorso,
aveva il
potere di trasformarlo nell'esorcista. Cioè, ancora
più di quanto già non
fosse.
Scandagliai
il letto alla ricerca di
un oggetto da lanciargli in testa, qualcosa abbastanza contundente da
necessitare un suo ricovero in ospedale. Un lungo ricovero.
Lo
scampanellio della porta
d'ingresso interruppe il mio piano omicida.
«Cece,
la porta», mi fece presente il
mio tesorino.
Esclamai
tra me e me tutte le
maledizioni che mi venivano in mente e al colmo dell'esasperazione
gettai nella
sua direzione la prima cosa che mi capitò sottomano.
Ovviamente
lo mancai, e non per un
soffio, ma per un metro buono. Giusto, avrei dovuto immaginarlo dal
momento che
a tiro con l'arco ero riuscita a colpire il mio insegnante che si
trovava a
dieci metri dal bersaglio. Ed ero pure convinta di aver mirato per bene
quella
volta.
Il
rumore di vetro infranto ebbe il
potere di far riemergere dalle profondità abissali di
vestiti di alta moda Noel
che lanciò un'occhiata verso la fonte del trambusto e
sorridendo constatò: «Dì
addio ai tuoi adorati occhiali da sole»
NO!
Non era possibile. Gli avevo
lanciato il mio amato paio di occhiali appena ritrovato dopo due anni
di
agognata separazione.
Spalancai
la bocca e strinsi i pugni,
ma purtroppo per me, e per fortuna per Noel, non ebbi il tempo di
strillare
nulla perché un sonoro bussare alla porta mi precedette.
Assottigliai
gli occhi e gli puntai
un dito contro, «Avada Kedavra», sibilai prima di
voltargli le spalle e
affrettarmi verso l'ingresso.
Lo
scocciatore impaziente alla porta
si rivelò essere l'amato cugino Sebastian.
«Cugino»,
borbottai facendomi di lato
per farlo entrare.
Non
appena sorpassò la soglia il mio
occhio cadde su ciò che stava alle sue spalle.
A
i u t o !
Una
ventina, tra trolley, valigie,
bauletti e beauty case, tutti rigorosamente decorati con il monogramma
di Louis
Vuitton, sostavano sullo zerbino del pianerottolo.
Neanche
Noel arrivava a tanto. E con
questo ho detto tutto dal momento che lui era abbonato alle multe
aeroportuali
legate al suo bagaglio, anzi sarebbe meglio dire bagagli, mai conformi
con i
limiti di peso e misura stabiliti dalle compagnie aeree.
«Dove
pensi di metterle quelle?»,
esclamai ancora sotto shock cercando di contarle mentalmente e di
autoconvincermi che, no, era solo un miraggio e davanti agli occhi non
avevo
davvero ventitré valigie.
«È
sempre una gioia incontrarti,
cugina cara», mi rispose sarcastico, il suo tono di voce con
un timbro più
strascicato e antipatico del solito, «Il mio bagaglio,
alquanto esiguo,
soprattutto se confrontato con le mie necessità, ovviamente
verrà con me nella
mia nuova camera padronale. Mi sembra ovvio, non sei d'accordo
carissima?»
«No,
carissimo, non sono
d'accordo. Prima di tutto perché la tua stanza non
è padronale né sciocchezze
simili ma è il nostro ex guardaroba», gli risposi
accigliata, «E poi se davvero
vuoi tutta quella robaccia devi scegliere: o tu o i bagagli. Entrambi
non ci stanno»,
conclusi pratica.
«Robaccia?»,
una voce
scandalizzata ci fece voltare verso il viso adorante del mio
coinquilino.
Ecco,
ci mancava solo lui.
«Noel
questo è il mio irritante
cugino, Sebastian questo è il mio coinquilino
idiota», li presentai velocemente.
Noel
sembrava in trance. Avevo lo
sguardo vacuo e non la smetteva di fissare quelle stramaledette
valigie.
Sembrava stesse assistendo ad un miracolo.
All'improvviso
alzò lo sguardo su mio
cugino e allungando una mano chiese
con
voce tremante: «Quello che i miei occhi vedono è
davvero il set completo di
valigeria di Louis Vuitton?»
«Dal
primo all'ultimo pezzo»,
confermò spocchiosamente Sebastian.
«Cos'è?
Vogliamo portare dentro le
tue cose o dobbiamo stare qui ancora a lungo in muta
adorazione?», domandai
sempre più scocciata.
Primo,
non sopportavo Sebastian.
Cresciuto o meno restava sempre colui che mi aveva infilato una rana
nella
torta di compleanno.
Secondo,
sapevo benissimo che Mrs.
Fry in quel momento era con l'occhio incollato allo spioncino, intenta
a
captare chissà quali segreti.
Terzo,
erano le quattro di sabato
pomeriggio e io volevo andare a comprare un armadio nuovo prima di
Pasqua.
Noel
con un colpo deciso di bacino mi
costrinse a spostarmi e, ignorando le mie proteste, si
avvicinò ai bagagli
tanto idolatrati, «Ignorala, Sebastian, come faccio io quando
diventa molesta,
cioè quasi sempre»
«La
mia cugina adorata ha molti pregi
ma l'essere amabile non è, per nostra sfortuna, tra
questi», gli diede manforte
il piccolo lord, «Credo che andremo molto
d'accordo», concluse sorridendo
sornione a Noel.
Ecco,
l'imbecille complicità maschile
mancava alla lista delle mie disgrazie.
Ricapitoliamo
Cecilia, nel caso te ne
fossi dimenticata. Hai firmato un contratto di castità. Il
tuo fastidioso
cugino si trasferisce da te e sembra possedere, secondo una inquietante
somiglianza, i peggiori difetti dell'altro mio coinquilino, il frivolo
pappagallo. Tua madre tra meno di una settimana darà l'ormai
tradizionale gala
per l'inaugurazione della stagione lirica di quest'anno, ciò
significa abiti
tanto belli quanto scomodi e inutilmente dispendiosi, tanti sorrisi
forzati a
persone a me ignote e schifosi canapè al sapore di cartone.
La tua camera pare
un campo di battaglia e hai più vestiti e cianfrusaglie di
quello che
fisicamente il tuo armadio può contenere. E tra meno di tre
settimane sarà San
Valentino, la festa più maledettamente inutile ma allo
stesso tempo irritante
dell'anno.
Feci
rapidamente dietrofront,
lasciando i due babbei a vedersela da soli con le loro preziose valigie
griffate e mi fiondai in camera.
Perlustrai
alla svelta i vestiti
abbandonati sulla poltrona vicino alla finestra e mi infilai una
camicia
azzurra, un maglione blu dallo scollo tondo da cui spuntava il colletto
della
camicia e un paio di pantaloni neri. Anfibi, cappotto blu, sciarpa e
cuffia.
Scattai rapida delle foto alla camera e poi lasciai scivolare il
telefono nella
tracolla.
Tornai
all'ingresso dove la torretta
di bagagli sembrava essersi abbassata e mi misi a cercare le chiavi
della
macchina di Noel sul mobiletto basso dell'atrio.
Non
c'erano. Questo voleva dire solo
una cosa. Cercando di fare meno rumore possibile zampettai nuovamente
nella
zona notte e arrivai quatta alle spalle del mio coinquilino. Poi, con
un balzo
felino, gli saltai addosso e mentre lui, preso alla sprovvista, cercava
di
recuperare l'equilibrio e di liberarsi di me, io infilai rapida le mani
nella
tasca dei suoi pantaloni e feci sgusciare fuori da esse le chiavi della
sua
Ford.
Lo
mollai e mi precipitai
all'ingresso urlando, «Grazie per il prestito!»
***
Chi
l'avrebbe mai detto che ci
fossero così tante varietà e modelli di armadi
tra cui scegliere?
A
me serviva un mobile solido,
funzionale e, soprattutto, capiente. Molto capiente.
Stavo
osservando dubbiosa un
guardaroba alto due volte me e largo quanto due tavoli da pingpong
quando
sentii qualcuno chiamare il mio nome.
Non
mi voltai, pensando che fosse
qualche altro cliente che stesse attirando l'attenzione della moglie o
della
figlia.
Quando
però, pochi attimi più tardi,
sentii nuovamente chiamare il mio nome, e questa volta proprio vicino a
me, mi
voltai e la prima cosa che incontrai furono un paio di occhi verdi
corredati da
fossette.
Dalla
sorpresa lasciai cadere per
terra il paio di matitine che avevo trafugato. Ormai era un'abitudine,
non me
ne andavo dall'Ikea senza una matita di legno in tasca.
«Ezra?»,
mormorai quando mi rialzai,
paonazza in volto, con le mie stupide matite in mano.
«In
persona», nuovo sorriso, «Sei
anche tu una rapinatrice di matite?», mi chiese mostrandomi
con fare
circospetto il contenuto della tasca del suo montgomery.
Non
potei fare a meno di rispondere
al suo sorriso.
«Che
ci fai qui?», domandai curiosa.
Probabilmente
dalla quasi morte di
Draco lo avevo incrociato al massimo un paio di volte e ci eravamo
sempre
limitati a dei cenni del capo e probabilmente dei patetici 'hey' erano
stati i
nostri unici tentativi di conversare.
Quindi
da dove saltava fuori tutta
questa voglia di ciarlare, Cecilia?
«Avevo
bisogno di un comodino nuovo»
«Cos'è
successo a quello
precedente?», domandai, due secondi prima di mordermi la
lingua.
Cecilia!
Tieni la tua boccaccia
chiusa. Vuoi chiedergli anche cosa ci teneva dentro al comodino?
«La
mia ex ragazza lo ha gettato dal
balcone sul parabrezza della mia auto», mi spiegò
tranquillo, come se lanciare
comodini dalla finestra fosse un hobby comune.
«Wow!
Che le hai fatto?»
Mi
sarei schiaffeggiata da sola. Mai
sentito parlare di discrezione? Accidenti, io proprio gli affari miei
non me li
sapevo fare.
Chissà
che starà pensando della mia
curiosità morbosa. Probabilmente che sono una psicopatica,
il che non è una
novità dato che lo pensano tutti i miei conoscenti.
«L'ho
lasciata», si passò quasi
imbarazzato una mano tra i capelli spettinati come al solito,
«Non l'aveva
presa bene a quanto pare...»
«Direi
proprio di no»
Cecilia,
quando vuoi puoi anche
smetterla di fissare come una sociopatica la sua bocca e quelle dannate
fossette. Fai con calma eh, mi raccomando, cosicché anche
lui capisca quanto tu
sia disagiata dopo appena tre frasi.
«Tu
che fai qui?»
«Cerco
un armadio», risposi indicando
vaga quello che stava esposto davanti a noi, «Ma nessun ex lo
ha gettato giù
dalla finestra. Anche perché ci vorrebbe Thor per sollevarlo
e trovarlo uno
così. E poi non ho un'auto e finirebbe solo per cadere su
quella di Noel, che
diventerebbe ancora più isterico e molesto di quanto
già non sia»
Un
freno cervello-bocca no? Che mi
succedeva insomma?
Lui
per tutta risposta scoppiò a
ridere. E le malefiche tornarono a contornargli la bocca. Non doveva
ridere.
Non poteva ridere. Altrimenti addio lucidità mentale.
«Te
ne intendi di armadi?», gli
domandai improvviso.
Se
parlava non poteva ridere, o
almeno speravo fosse così.
«Direi
di sì, in fondo è il mio
lavoro»
Mi
fece cenni di seguirlo mentre si
dirigeva all'inizio dell'esposizione.
«Costruisci
armadi?»
Ero
diventata stupida, era ufficiale.
Scosse
il capo e mi prese per mano,
tirandomi verso di sé. Una signora alle mie spalle
mormorò uno sgarbato «Finalmente»
e riprese a spingere il suo carrello per il corridoio ora non
più intasato
dalla mia presenza.
«Sono
un architetto, specializzato in
interni per la precisione», mi indicò un catalogo
che ovviamente io in
precedenza avevo bellamente ignorato, «Se vuoi posso
aiutarti»
Belle
Fossette costituiva un
ipotetico ostacolo tra me e le mie future Manolo Blahnik?
Sì, decisamente si.
Eccomi
qui!
Questo
capitolo è frutti dei ritagli
di tempo di questa mia prima e devastante sessione estiva. Credo che,
essendo
io, in questi tristi giorni di studio matto e disperatissimo, uno
straccio,
anche la mia scrittura ne risenta, infatti questo capitolo mi pare un
po'
sottotono ma non volevo farvi aspettare troppo perciò lascio
giudicare a voi.
Ringrazio tantissimo chi ha letto in silenzio, chi l'ha inserita tra le
ricordate o le seguite e la ragazza che mi ha lasciato la mia prima (e
finora
unica 😢)
recensione.
Bacini,
S.
|
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Capitolo 4 *** IV ***
Maneggevole,
funzionale e facile da
montare. Così recitava il foglio delle istruzioni di
montaggio del mio nuovo
armadio Ikea, dove tre disegnini esplicativi mostravano un omino che in
pochi
passaggi riusciva ad assemblare un solido guardaroba partendo dalle
componenti
sparse presenti inizialmente nella confezione.
Fissai
il sorriso sul volto
dell'omino nell'ultimo dei disegni, quello in cui, a lavoro concluso,
ammirava
soddisfatto il suo bel mobile. Dopodiché spostai lo sguardo
attorno a me: un
campo di battaglia.
La
stanza, ancora invasa da abiti,
borse, scarpe ed ogni sorta di cianfrusaglie accumulate in
più di vent'anni
anni di vita, ora era anche riempita dai vari pezzi che avrebbero
dovuto
costituire il mio nuovo armadio.
Erano
le cinque di una domenica
pomeriggio di inizio febbraio e, in sei ore di lavoro ininterrotto, ero
riuscita a dare vita ad una costruzione astratta, a metà tra
Gaudì e
l'architettura razionalista, con un pizzico di Picasso, che certamente
non
assomigliava ad un armadio.
In
preda alla disperazione mi
accasciai a terra, tra viti e pezzi non ben identificati che non ero
riuscita a
capire a cosa servissero e dove dovessero andare, facendo attenzione a
non
sedermi sul trapano e a non calpestare il martello.
Il
libro di otorinolaringoiatria
giaceva abbandonato ai piedi del letto tra evidenziatori e appunti
sparsi.
Avevo
rinunciato a sei ore di studio
per creare un inquietante monumento che pareva la Tana, la casa dei
Weasley,
sviluppandosi in modo disordinato verso l'alto.
Avevo
dovuto rinchiudere Draco nel
bagno perché quando aveva visto il prodotto del mio duro
lavoro era impazzito e
aveva rizzato il pelo iniziando a miagolare in modo terrificante verso
di esso.
Se
fosse stato un cane avrei dovuto
spedirlo a quel programma su Real Time, quello con lo psicologo canino.
Ma per
Draco ormai l'unica soluzione restava un bravo esorcista.
Mi
rialzai dal parquet della mia
camera e ciabattai in cucina cercando Noel.
Ovviamente
sapevo già che chiedere il
suo aiuto corrispondeva a domandare a Kim Kardashian quanto costava un
litro di
latte del supermercato ma si sa che la speranza è l'ultima a
morire e che in
casi disperati l'essere umano tende ad appigliarsi dovunque pur di non
annegare
nel mare di pupù da cui è circondato.
Trovai
invece il mio stronzo cugino
spaparanzato allegramente sul nostro divano sfondato. Aveva gli occhi
chiusi e
le cuffiette dell'iPod nelle orecchie. Pur non facendo nulla trasudava
spocchia
e nobiltà da tutti i pori, dalla posa composta anche nel
sonno, stile mummia in
un sarcofago, perché fare sonnellini con gambe e braccia
buttate di qua e di là
era terribilmente plebeo, alla sua tenuta da casa, che non prevedeva
tute
improponibili o maglioni infeltriti e sbiaditi come la mia, consistente
in
morbido e caldo cardigan di alpaca color beige, pantaloni grigio scuro
e ai
piedi pantofoline di velluto con le sue iniziali ricamate in oro, tutto
mi
faceva ricordare quanto fosse incredibilmente borioso ed altezzoso
quell'essere
inspiegabilmente mio consanguineo.
Senza
troppi complimenti feci
atterrare il cuscino della poltrona accanto a me dritto sul suo bel
visino
serenamente addormentato.
Due
nanosecondi dopo il mio regal
parente aveva già perso tutti il suo aplomb, sostituito
invece da una sfilza di
epiteti poco carini riferiti alla sottoscritta dal linguaggio degno di
un mozzo
di una nave pirata.
Sebastian
era adorabile quando si
comportava da essere terreno e non da dio sceso in terra, anzi era
proprio
spassoso, soprattutto quando si arrabbiava o era terribilmente triste e
sconsolato.
A
sette anni lanciò il suo esercito
di Power Ranger parlanti nella piscina della casa in Costa Smeralda
perché
voleva vedere se avrebbero iniziato a nuotare per salvarsi. Quando il
giardiniere li ripescò fradici e destinati al mutismo
perenne, grazie al
bagnetto a cui le batterie e i cavetti elettrici nella loro schiena
erano stati
sottoposti, Sebastian pianse l'anima. Iniziò a sparire
sempre più spesso e ogni
giorno, dopo ore di ricerca, lo ritrovavano in angoli remoti della
villa in
compagnia dei suoi giocattoli rotti. Quando sua madre, stanca di quelle
fughe,
spedì qualcuno a comprare una squadra nuova fiammante di
Power Ranger,
Sebastian urlò così forte e pestò i
piedi così violentemente da far venire un
mini infarto alla nonna e da far scappare a gambe levate la sua tata
svizzera,
traumatizzata dagli strilli demoniaci del bambino. Il resto della
vacanza era
trascorso con una piccola Cecilia cicciotta che faceva castelli di
sabbia e
passava ore in acqua con il suo salvagente a forma di cavalluccio
marino,
mentre Sebastian stava tutto il giorno a seppellire e disseppellire
quei poveri
Power Ranger muti e rovinati senza proferire parola.
«Sai
montare un armadio?», gli
domandai ignorando i suoi continui borbottii.
«Secondo
te?»
Ovviamente.
Era probabile che si
fosse appena fatto fare la manicure e quindi che cosa mai andavo a
pensare.
Sebastian che forniva un qualche aiuto? Ma quando mai!
Avrei
dovuto prevederlo dal momento
che lui era la stessa persona che alla mia telefonata, da una stradina
dispersa
nella campagna del Kent con l'auto in panne, mi aveva risposto
laconico,
«Chiama un carroattrezzi». Quando lui era a quattro
kilometri da me dato che
stavo cercando di raggiungerlo quando l'auto aveva dato forfait e il
carroattrezzi probabilmente ci avrebbe impiegato ore.
Il
principino mi diede le spalle
rotolando su un fianco, facendomi intendere chiaramente di voler
continuare a
riposare indisturbato.
«Grazie
mille davvero!», sbottai
indispettita prima di girare sui tacchi e tornarmene in camera.
«Chiama
tuo papà e fatti mandare
qualcuno», mi strillò dal salotto il damerino che
non poteva assolutamente far
qualcosa di prima persona ma doveva sempre delegare, a suon di sterline
ovviamente.
Piuttosto
che chiamare papà mi sarei
tenuta quella meravigliosa opera d'arte che ora capeggiava ai piedi del
mio
letto.
Ripescai
da terra il libretto delle
istruzioni; magari mi era sfuggito qualcosa e rileggerlo si sarebbe
rivelato
utile.
07499674531
Nel
caso avessi bisogno di
aiuto.
E.
Avete
presente quando si dice una
manna dal cielo? Ecco, l'appunto scribacchiato da Ezra su un angolo
spiegazzato
del volantino esplicativo giunse come un raggio di sole dopo giorni e
giorni di
maltempo.
Tempo
un minuto ed ero già intenta a
digitare in modo febbrile il numero sullo schermo del mio telefono.
Squillò
otto volte a vuoto, alla
nona, una voce assonnata mugugnò,
«Pronto?»
Anche
questo fu un caso fortuito
perché io ogni volta che chiamavo qualcuno facevo
esattamente nove squilli
dopodiché, in assenza di risposta, desistevo e riattaccavo.
«Ezra?
Ti ho svegliato?», chiesi
dubbiosa lanciando un'occhiata alla radiosveglia sul comodino.
5.47
p.m.
Magari
stava emulando il mio nobile
cugino ed era perso nel mondo dei sogni su un divano a qualche
kilometro di
distanza.
«Chi
parla?», sonoro sbadiglio e voci
in sottofondo.
Avevamo
scambiato due parole in croce
e già mi sentivo terribilmente imbarazzata e a disagio.
Perché lo avevo
chiamato? Ci conoscevamo a malapena e prima di incontrarci all'Ikea non
avevamo
neanche mai avuto una vera conversazione.
«Cecilia?»,
un'ombra di sorpresa
nella voce.
«Ehm
si», confermai sommessamente,
«Ti ho disturbato?», domandai nuovamente.
Se
era vero, come sospettavo, che si
era appena svegliato era probabile che fosse ancora un pochetto
rimbambito
dalla siesta.
Fruscii,
una porta sbattuta e un
colpo di tosse arrivarono dall'altro lato della cornetta.
Dove
accidenti era? E con chi?
«Oh
no, no. Come fai ad avere il mio
numero?»
Ok,
il sonnellino pomeridiano che
poteva averlo rintronato un pochetto ma erano passate poco
più di
ventiquattr'ore dal nostro ultimo incontro. Probabilmente faceva uso di
sostanze non ben identificate ma sicuramente brucia neuroni.
«Me
lo hai dato tu», spiegai con una
punta di fastidio. «Ieri», specificai.
«Ti
serviva qualcosa?», nuove voci in
sottofondo, il suono di un clacson, delle risate trattenute.
«Deduco
tu sia impegnato. Lascia
stare, grazie lo stesso e scusami», cercai di congedarmi
senza far percepire la
mia confusione dopo quella stramba telefonata.
«No,
Cecilia, aspett-»
Troppo
tardi, avevo già riattaccato.
Cecilia
Lawrence non mendicava le
attenzioni di nessuno e comprendeva benissimo quando stava disturbando
qualcuno.
Mollai
la stanza nel caos in cui si
trovava e sconsolata andai in cucina con l'intenzione di prepararmi un
thè
caldo, sebbene in ritardo sulla tabella di marcia, completamente
stravolta a
causa dell'imprevisto dell'armadio.
Riempii
di acqua il bollitore e lo
accesi. Preparai una tazza e poi avvicinai una sedia alla dispensa,
prima di
arrampicarmici sopra per raggiungere il ripiano più alto e
acciuffare la
scatola nuova di bustine di Earl Grey.
Mentre
aspettavo che l'acqua
giungesse ad ebollizione l'occhio mi cadde sulla lavagnetta magnetica
affissa
sul frigorifero.
Sono
tornato a casa.
Ci
vediamo martedì.
Ti
spiegherò.
In
bagno sempre quindici
minuti, ho impostato un timer nella doccia.
Bacini
Cece (e Seb)
N.
Quella
si che era una notizia
preoccupante. Noel avrebbe preferito essere essere picchiato con un
bastone di
bambù sotto le piante dei piedi piuttosto che fare ritorno a
casa sua per una
causa che non fosse una festività comandata.
La
famiglia Donovan viveva a Exeter e
rappresentava tutto ciò da cui Noel aveva disperatamente
cercato di sfuggire
dall'età di dieci anni. Madre casalinga, padre avvocato di
provincia, villetta
a schiera, pastore tedesco, station wagon familiare, vacanze sempre nel
medesimo luogo tutte le estati. Erano una famiglia molto unita, i suoi
genitori
erano delle persone molto cordiali ed entrambe le volte che li avevo
incontrati
erano stati particolarmente carini nei miei confronti. Noel
però temeva che la
vita dei suoi genitori, ai suoi occhi terribilmente ordinaria e
monotona,
potesse diventare lo stampo della sua. Quando a diciotto anni Noel
disse ai
suoi genitori di essere gay, appena prima di fare i bagagli e partire,
solo e
squattrinato, per Londra, loro non la presero molto bene. Suo padre che
aveva
risparmiato per anni in vista delle spese della facoltà di
legge di Cambridge
che Noel avrebbe dovuto frequentare secondo i suoi progetti dovette
rassegnarsi
al fatto di avere un figlio che già a undici anni leggeva il
Financial Times
invece dei fumetti. Sua madre che segretamente aveva già
sferruzzato dozzine di
piccoli maglioni, piccole calzine e piccoli berrettini per i suoi
nipotini,
figli del suo unico figlio, aveva dovuto chiudere tutto in soffitta,
consolandosi con l'idea che almeno non avrebbe mai dovuto fare la
guerra ad
un'eventuale nuora che pensava di saperne più della suocera.
Anni
più tardi, accettato il fatto di
avere un figlio omosessuale e genio della finanza, continuavano a
telefonargli
per assicurarsi che si nutrisse, cosa che faceva indubbiamente,
complice un
metabolismo da tritatutto che gli invidiavo con tutto il cuore, che non
spendesse più di quanto guadagnasse, cosa su cui stava
ancora lavorando, e per
informarsi riguardo ad eventuali ragazzi da presentare loro.
Noel
inventava sempre qualche scusa
poco credibile per sfuggire alla voce di sua madre che si preoccupava
proveniente dalla nostra segreteria telefonica e così finiva
che ero sempre io
a prendere le chiamate, dispiaciuta per il modo in cui Mrs. Donovan
veniva
costantemente ignorata dal figlio, e a fare lunghe chiacchierate con
lei. Avevo
scoperto così che era una donna dai mille interessi, dal
cake design alla
pittura ad olio, passando per lo squash e i tornei di burraco.
Quando
il bollitore iniziò a
borbottare e fischiare in modo insistente lo spensi. Pescai
dall'armadietto la
scatola in cui tenevo i miei biscotti preferiti, le digestive.
Stavo
versando l'acqua bollente nella
tazza quando il campanello alla porta suonò.
Non
mi illusi neanche per un momento
che sarebbe andato Sebastian ad aprire, abituato com'era ad avere un
maggiordomo era già tanto se rispondeva lui in persona al
suo cellulare.
Sbirciai
dallo spioncino e per farlo
dovetti alzarmi in punta di piedi, un giorno qualcuno mi avrebbe
spiegato
perché nel nostro palazzo tutto sembrava costruito per il
popolo dei watussi.
Ezra.
Anzi,
per essere più precisi, Ezra
una chitarra e un amplificatore.
Aprii
la porta sostando sulla soglia,
non avevo ancora deciso se farlo entrare o meno.
Dopotutto
meno di dieci minuti prima
aveva impiegato mezzo secolo a ricordarsi chi fossi e si era a malapena
trattenuto dallo sbadigliarmi in faccia, ok tecnicamente in faccia alla
cornetta, ma l’effetto sarebbe stato il medesimo.
«Cecilia,
ricordi?», domandai
indicandomi.
Lui
alzò gli occhi al cielo e sbuffò,
«Sono assonnato, non stupido»
«Davvero?»,
lo punzecchiai, «Non me
ne ero accorta, perdonami»
Simpatia
portami via.
Lui
fece un cenno verso la custodia
dello strumento che portava sulle spalle, «Mi fai
entrare?»
Certo
caro, e ti stendo anche un
tappeto rosso, con lancio di petali profumati al tuo passaggio.
«Cosa
vuoi?», domandai scontrosa.
Io
sapevo senza dubbio come farmi
degli amici.
Ezra
sollevò un sopracciglio e
assunse un’espressione scocciata, «Non ti serviva
aiuto per caso?», si passò
distrattamente una mano tra i capelli arruffandoli ancora di
più, «Io il numero
te lo avevo lasciato per quello, non per telefonarci a vicenda e
raccontarci i
nostri drammi sentimentali»
«Io
non ho drammi sentimentali»,
commentai piccata.
Come
si permetteva?
Lui
fece spallucce e mi superò senza
aspettare che mi spostassi dalla soglia, finendo così per
strusciare il suo
braccio destro contro il lato sinistro del mio corpo.
Era
proprio un maleducato, altroché!
«Che
mi dici di Jack?», mi sussurrò
piano in un orecchio sfiorandomi per un secondo il lobo con le labbra,
prima di
dirigersi in soggiorno ed esclamare, «Hey! Che ci fa Seb sul
tuo divano?»
Come
diamine faceva a sapere di Jack?
Che domande! Noel il pettegolo ovviamente. Lui e la sua assoluta
incapacità di
tenere la sua boccaccia chiusa e di farsi gli affari propri. Un giorno
gli
avrei sul serio tagliato lingua e dita per fare in modo che la sua
persona non
potesse più diffonder, tramite parole e frasi scritte,
notizie false e
infiocchettate dalla sua fervida e malata immaginazione che non
riguardavano
lui.
Mentre
chiudevo la porta e spingevo
l’amplificatore, con un peso che probabilmente gareggiava con
quello di una
balenottera azzurra, contro al muro, dato che Ezra lo aveva
semplicemente
mollato nel bel mezzo dell’ingresso, sentii la risata del mio
nobile cugino
provenire dall’altra stanza.
La
scena che mi si parò davanti agli
occhi fu piuttosto inaspettata. Il mio adorato parente stava
abbracciando
entusiasticamente Ezra, il quale sorrideva incredulo e gli restituiva
altre
pacche affettuose, ai loro occhi, probabilmente a me avrebbero sfondato
la
cassa toracica.
«Ezra
Cunningham! Che fine avevi
fatto?», esclamò Sebastian non appena si
separò da quello che pareva essere un
suo grande amico.
Ezra
seguì l’esempio del compare e si
sedette sul divano, ignorando bellamente la mia persona.
«Io
sono andato a studiare a Parigi»,
si giustificò quello, «Tu invece dove sei sparito?
Nessuno è più riuscito a
rintracciarti o ad avere tue notizie…»
Mi
accovacciai sul bracciolo della
poltrona, incuriosita da quei due, «Oh, è stato
per un po’ negli States a fare
la cosa che gli viene meglio», commentai aspra.
«E
cioè?», domandò interessato Ezra
sorridendo al cuginastro.
«L’idiota»,
chiosai candida.
Purtroppo
non avevo mai avuto dei
buoni riflessi, come le molteplici pallonate ricevute al liceo
testimoniavano,
e così mi scansai troppo tardi e la pantofola lanciatami da
quel deficiente con
cui condividevo l’albero genealogico mi colpì
dritta in fronte per poi cadere
con un tonfo a terra.
Mugugnai
di dolore e mi massaggiai il
punto in mezzo agli occhi dove ero stata centrata, manco fossi un tiro
al
bersaglio.
«Sono
contenta che torni la tua pazza
e sclerotica madre, sono davvero contenta», sibilai cattiva,
facendomi sfuggire
ciò che papà mi aveva fatto giurare sulla testa
di Bisnonno Samuel di non
rivelare a Sebastian.
Mi
portai subito le mani alla bocca,
desiderando ardentemente di aver tenuto la bocca chiusa.
Sebastian
sbiancò visibilmente e si
alzò dal sofà iniziando a girare in tondo per il
salotto.
Questo
voleva dire che, avendo io
rotto la promessa fatta, il nonno sarebbe stato colpito da una qualche
sorta di
maledizione senza perdono?
«Dov’è
ora?», domandò terreo.
Aveva
gli occhi spalancati, colmi
quasi di terrore, e continuava a contorcersi le mani senza sosta.
«A
L.A. credo. Sarà a Heathrow
domattina», bisbigliai in preda ai sensi di colpa.
Lo
vidi annuire brevemente prima di
eclissarsi in camera sua, telefono alla mano, un cenno distratto
diretto a
Ezra.
Se
c’era una cosa che mandava
completamente a farsi fottere il bel castello fatto di alterigia e
raffinatezza
in cui Sebastian si rifugiava quella era sua madre.
Calliope
Seraphina Lawrence. Detta
anche PsicoZia, a causa della sua pazzia, ormai accertata e accettata
da tutta
la famiglia.
Sospirando
sconsolata feci segno ad
Ezra di seguirmi e a passi lenti mi diressi nella mia stanza,
assicurandomi di
lasciare aperta la porta.
Mi
lasciai cadere sul letto, lo
sguardo rivolto alla mia creazione astratta.
Vidi
come si guardava attorno
curioso, studiando ogni dettaglio, dalla stampa di Warhol appesa sopra
al comò
di sinistra alla poesia di Pessoa scarabocchiata sui post-it sparsi
sulla
scrivania; vidi e mi sentii quasi nuda di fronte al suo sguardo
scrutatore. Ma
non era uno scrutare che ti metteva imbarazzo e ti faceva sentire
giudicata,
no, era come uno sguardo bramoso di sapere di più,
desideroso di guadagnarsi il
permesso di guardare le cose più da vicino.
La
mia stanza era sempre stata il mio
rifugio e io tendevo a trasformare in qualcosa di mio e solo mio tutto
ciò che
lo era, anche se per un breve periodo.
E
così quando mi ero trasferita in
quell’appartamento avevo dipinto le pareti da sola, due
bianche e due color
verde acqua, avevo scovato stampe di quadri famosi al mercatino di
Portobello
Road e le avevo affisse alle pareti, seguendo un ordine che agli occhi
degli
altri pareva caotico ma che era chiarissimo nella mia mente.
E
così Schiele,
Warhol, Manet, Kokoschka, Rembrandt
e Botticelli erano solo alcuni degli artisti più celebri che
con le loro opere
rendevano più bello il mio piccolo mondo.
Citazioni,
stralci di frasi e versi
di poesie completavano l’opera, scritti su fogli volanti, su
appunti fissati
alla testata del letto con un pezzetto di scotch, dipinti sulla
porzione di
muro accanto alla porta.
Avevo
una passione immensa per
l’arte; adoravo tutto: musica, pittura, scultura,
architettura, teatro, cinema,
letteratura, poesia.
«Questo
quadro è qualcosa di
spettacolare e terrificante al tempo stesso…», lo
sentii commentare piano alle
mie spalle.
Quando
mi voltai lo vidi di fronte al
muro, intento ad ammirare una piccola riproduzione di un quadro che mi
lasciava
da sempre senza parole, regalandomi in egual misura inquietudine e
profonda
pace.
Si
trattava de L’isola dei morti di
Arnold Böcklin, quadro che rappresentava
un’isola, dalle alte pareti rocciose, che sembrano quasi
racchiuderla, e al
centro dei cipressi, alti e svettanti verso il cielo. Nella porzione di
mare
antistante la macchia di terra è presente una piccola
imbarcazione che si sta
avvicinando, su questa sono presenti due figure, di cui una
incappucciata di
bianco, e una piccola bara del medesimo colore del manto del passeggero.
Mi riscossi dallo stato
pensieroso in cui ero
caduta e gli ricordai il motivo per cui eravamo lì,
«Potresti darmi una mano
con l’armadio?», lo interrogai, indicando
timidamente la forma prima di forma
in verità ai piedi del letto.
Una
risata ruppe la quiete di quel
tardo pomeriggio e riecheggiò tra le pareti
dell’appartamento silenzioso.
«Quello…»,
iniziò, presto interrotto
da un nuovo attacco di ilarità, «Quello
è l’armadio che abbiamo comprato ieri?»
Abbiamo?
Si
avvicinò alla mia opera mentre io
mi mordicchiavo nervosa un labbro.
Era
davvero imbarazzante. Anzi, era
assolutamente vergognoso che una quasi dottoressa, capace di suturare
alla
perfezione delle ferite, non fosse in grado di montare uno stupido
armadio Ikea
che, come mi ricordava il viso sorridente del tizio del manuale, era
molto
semplice da assemblare.
Per
non parlare della mia incapacità
di cucinare un misero uovo alla coque, di separare nel modo corretto i
colori
in lavatrice e calibrarne i gradi di lavaggio e di utilizzare il forno
senza
l’intervento di una squadra dei pompieri.
Ezra
mi sorrise incoraggiante, «All’opera!».
Si sfilò il maglione a righe che indossava e
restò con una vecchia t-shirt
sbiadita dei Dire Straits.
Le
successive due ore trascorsero in
un soffio. Ezra era un ottimo insegnante e, dopo aver smontato la mia
creazione, non si limitò a rimontarlo nel modo corretto ma
mi mostrò e mi
spiegò a cosa servissero tutte quelle viti e quei coni di
plastica bianca che
assomigliavano tanto a delle cialde per gelato.
Quando
l’opera fu completa ci
sedemmo, fianco a fianco, ai piedi del letto per ammirare il frutto del
nostro
lavoro.
«Ottima
scelta, è proprio un
bell’armadio! Chissà chi te lo ha
consigliato...», ridacchiò lui facendo
dondolare i piedi.
Incrociai
pigramente le gambe, «Un
meraviglioso commesso Ikea! Occhi color zaffiro, capelli
così biondi da
sembrare bianchi, origini svedesi come i mobili che vendeva, lo
conosci?», gli
domandai prendendolo in giro.
«Probabilmente,
se i commessi Ikea
corrispondessero davvero alla tua descrizione, Noel si sarebbe
già accampato in
modo permanente in uno dei letti a baldacchino
dell’esposizione del reparto
zona notte…»
Scoppiai
a ridere immaginandomi la
polizia intenta a trascinare via di peso il mio coinquilino che,
resistendo con
tutte le sue forze, si opponeva aggrappandosi alle coperte del letto
occupato
abusivamente per spiare i bei commessi.
«Elimina
il probabilmente, lo farebbe
di sicuro!», mi passai una mano sugli occhi, era da quella
mattina che portavo
le lenti a contatto e la stanchezza iniziava a farsi sentire,
«Dov’eri quando
ti ho chiamato?», gli domandai cercando di non perdere il
filo dei miei
pensieri in quegli enormi occhi verdi che mi fissavano brillanti.
Sospirò
ed abbassò un attimo lo
sguardo prima di rialzarlo deciso e tornare a guardarmi in quel suo
modo troppo
intenso, «Stavo dormendo nel retro di un pulmino. Stavamo
tornando da un
concerto e ho passato la notte in bianco»
Questo
spiegava il perché di tutto
quel trambusto in sottofondo e della voce assonnata.
«Non
suoni con i ragazzi ora?»
Adam,
Noel e Oliver avevano approvato
il suo ingresso nella band e così ora gli Sleepless Nights
avevano un nuovo
chitarrista. Dopo Jack.
«Sì,
ma quando capita faccio anche
dei piccoli concerti acustici come solista», mi
spiegò, piegando leggermente la
testa verso destra, «Sai, per racimolare
qualcosina…»
Lo
disse piano, quasi come se fosse
una cosa di cui vergognarsi. Ma eravamo tutti sulla medesima barca; la
nostra
intera generazione, lauree in tasca e dottorati in dirittura di arrivo,
si
reinventava in continuazione per riuscire ad arrivare alla soglia dei
trent’anni camminando sulle proprie gambe.
Bastava
guardare me e le prolungate
ore di tortura a cui mi sottoponevo volontariamente, tra
babysitteraggio e
ripetizioni, per cercare di guadagnare qualcosina e al tempo stesso non
commettere infanticidi. O Hannah che lavorava in questa radio in stile
underground, che aveva sede in un capannone ammuffito e decorato da
fitte
ragnatele a Mayfair, dove trasmetteva musica deprimenti di artistoidi
pseudo
intellettuali la cui musica avrebbe istigato al suicidio anche la
persona più
gioiosa e amante della vita. Sienna, aspirante futuro direttore di
Vanity Fair
UK, per il momento si accontentava di scrivere articoli riguardanti gli
ultimi
stilosi tagli del pelo dei barboncini di qualche baby cantante appena
partorita
da un qualche talent o in cui doveva mentire spudoratamente e riempire
due
colonne intere di lodi nei confronti del look monotono e sempre uguale
di
Angela Merkel. Adam, laureato in scienze politiche, mentre aspettava di
diventare un deputato di spicco, aggiustava auto d’epoca e
cercava nuovi palchi
da calcare per far conoscere gli Sleepless Nights. Oliver era
l’unico ad avere
un lavoro fisso con uno stipendio di tutto rispetto e il suo essere un
genio
dell’informatica sicuramente aveva giocato un ruolo di spicco.
Noel
invece, pur guadagnando
letteralmente una barca di soldi laggiù nel cuore pulsante
della City, riusciva
a restare puntualmente senza un pound prima della metà del
mese.
«Suoni
e canti?»
Annuì
e io sempre più curiosa non
riuscii a trattenermi, «Mi fai sentire qualcosa?»
Amavo
la musica anche se avevo dei
gusti molti particolari. Gli anni ’80 erano per me
l’età dell’oro della musica,
con sporadiche eccezioni nei decenni che li precedevano e succedevano.
Ero
fermamente convinta che il nuovo millennio non offrisse
novità molto
significative in campo musicale e l’unica corrente che
apprezzavo era l’indie
rock, genere suonato e prediletto anche dalla band dei miei amici.
Lasciandomi
di stucco, già pronta
com’ero a insistere e combattere contro una timidezza fuori
luogo, si alzò e
sparì oltre la soglia della camera.
Tornò
pochi istanti più tardi e, dopo
aver accostato la porta, tornò a sedersi sul letto a gambe
incrociate.
«Richieste
particolari?»
«Libertà
assoluta», lo incoraggiai.
Mi
fissò titubante, «Sii clemente, ti
prego», mi supplicò accennando un sorriso.
Dopodiché
imbracciò per bene lo
strumento, sistemandolo con cura sulle cosce e abbassando il capo,
concentrato
solo su quelle sei corde.
E
poi iniziò a sfiorare leggero le
corde, la testa chinata che non mi permetteva di vedergli il volto e
una dolce
melodia a me sconosciuta nell’aria.
Through
my window, cold wind blowing
I can't take this
I can't take no more
Ero
pronta a tutto. A tutto ma non a
questo.
Cars they race by, burning headlights
In the mirror, I watch myself cry
Play me a simple song, so I can sing along
Cherry blossoms in spring, they mean everything.
Adam
aveva una voce indiscutibilmente
bella. Era talentuoso e tutti lo riconoscevano.
Ezra
no, aveva una voce imperfetta,
dal timbro vibrante eppure incerto. Più che cantare pareva
sussurrarti
all’orecchio.
In my soul I'm aching to grow
Longing for a love I've never known
My own life has taken its toll
Drunk on whiskey, God don't let me go.
Era
l’esperienza più destabilizzante
di cui ero mai stata testimone. Pareva che quelle parole mi cullassero,
mi
confortassero e al tempo stesso mi dessero un pugno dritto in volto.
Provavo
un’immensa malinconia ed ero
divisa tra un dolore pressante che mi faceva venire voglia di lasciarmi
andare
e piangere e un conforto, una dolce promessa che tutto sarebbe andato
per il
verso giusto.
Play me a simple song, so I can sing along
Cherry Blossoms in spring, and all the joy that it brings
Cause I've been out on the road, driving with no place to go
From Cheyenne out to Frisco, I'm dying to find me a home
Sembrava
completamente rapito dalla
musica e solo verso la fine rialzò il viso e mi accorsi che
teneva gli occhi
chiusi, le dita che danzavano libere ed esperte sulle corde.
Take me home,
Take me home,
Take me home,
Take me home.
Le
ultime parole si spensero
nell’aria e il silenzio tornò a fare da padrone.
La
mia mancanza di commenti fu
interpretata probabilmente come un muto dissenso perché Ezra
mi domandò
preoccupato, «Così male?»
E
aveva un’espressione così
corrucciata e degli occhi così luminosi che io non ce la
feci e scoppiai a
piangere come una bambina.
Cercai
di asciugare rapidamente le
lacrime che sempre più copiose mi rigavano le guance ma era
come tentare di
arrestare un fiume in piena utilizzando un fazzolettino di carta.
Arraffai
alla cieca la scatola di
kleenex, onnipresente sul mio comodino, e mi soffiai rumorosamente il
naso. Non
osavo alzare lo sguardo per paura di scoprire che Ezra era fuggito di
fronte a
questo sfoggio di folle emotività.
Sentii
una leggera pressione sul capo
e mi resi conto che Ezra aveva abbandonato la chitarra sul pavimento
per poi
avvicinarsi a me e cingermi delicatamente tra le braccia, lasciandomi
delle
lievi carezze sui capelli.
«Ho
reagito nell’esatto modo quando
l’ho sentita per la prima volta…»,
cercò di consolarmi cullandomi piano.
Nel
sentire ciò nuovi singhiozzi mi
scossero il petto. Mi scostai brusca e tra una cortina di lacrime lo
squadrai
torva, «Credi davvero che sia stata la canzone?»,
domandai dandogli una spinta,
«Tu! Sei stato tu! Io non piango mai e ora
guardami…sto producendo più acqua di
quanta non ce ne sia nella fontana di Trafalgar Square!»
Lo
spintonai nuovamente cercando di
allontanarmi da lui ma lui mi imprigionò i polsi e mi
fissò negli occhi. Lo
vedevo sfuocato a causa delle lacrime che continuavano a scendere
inarrestabili
ma vidi benissimo le meravigliose fossette che mi salutarono maliziose
dagli
angoli della sua bocca un attimo prima che mi scoppiasse a ridere in
faccia.
Rideva
e non mi lasciava andare,
rideva e io continuavo a piangere e la situazione era così
assurda da essere
semplicemente comica. E resami conto di ciò mi lasciai
andare anche io ad una
timida risatina.
«Sei
un idiota e non ci credo che hai
pianto per questa canzone», esclamai liberandomi dalla sua
stretta e cercando
di asciugarmi, almeno sommariamente, il viso.
«E
fai bene dato che non è vero», mi
rispose sogghignando, «Adoro le fan come te, soprattutto
quando passata la fase
dello sciogliersi in lacrime passano a quella in cui tentano di
strapparsi gli
abiti di dosso, strillano come degli aquilotti neonati e paiono
possedute»
Gli
mollai uno scappellotto
all’istante, «Sei un idiota! E probabilmente la tua
unica fan sarà tua madre»,
insinuai maligna.
«E
non dimentichiamoci della Bisnonna
Violet! Con lei sono a quota due…»,
commentò fiero.
Allungai
una mano e gli scompigliai i
capelli, «E con me fanno tre», sussurrai prima di
alzarmi e andare a vedere che
fine avesse fatto il cugino disperso.
La
canzone è Cherry
Blossoms dei Night Beds.
Grazie
a tutti i lettori silenziosi, grazie davvero.
S.
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