Di che cosa parla veramente una canzone?

di HannibalLecter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


 

 

Faceva freddo, un freddo becco qualcuno avrebbe detto, di quelli che trapassano maglioni e cappotti e penetrano fin nelle ossa lasciandoti scie di gelo per tutto il corpo.

Le strade erano deserte, avvolte nella luce spettrale ed intermittente dei vecchi lampioni che costeggiavano il lungo fiume, lastricate da uno spesso strato di neve trasformata in una lamina di ghiaccio dalle migliaia di passi che aveva sorretto. Il fiume scorreva silenzioso poco più in basso e in lontananza si udiva l'eco di una sirena.

Affrettai il passo cercando di non rompermi l'osso del collo scivolando sulla superficie lastricata del marciapiede ghiacciato. La mia pesante sciarpa di lana a righe non bastava a ripararmi dalle folate di vento gelido che soffiavano nella mia direzione rendendo la pelle del mio viso insensibile.

Sospirai di sollievo nel vedere poco più avanti la debole luminescenza verdastra prodotta dall'insegna del pub verso cui ero diretta. Sbattei rapidamente i piedi per scrollare via la neve rimasta adesa ai miei stivali e spinsi la porta di legno cigolante adornata con una ghirlanda, ricordo del periodo natalizio appena passato.

Un sorriso nacque spontaneo sulle mie labbra non appena entrai nel locale e un meraviglioso tepore mi avvolse e una dolce musica mi diede il benvenuto.

Mi sfilai rapida la cuffia e scrollai i miei lunghi capelli castani. Rivolsi un veloce saluto a Sally mentre sistemavo il mio cappotto su una gruccia libera nel guardaroba.

Nessuno aveva mai capito veramente quale fosse il ruolo effettivamente svolto da Sally all'interno del locale. Ogni sera, martedì escluso, tu la trovavi appollaiata sullo sgabello nell'atrio del locale, tra la porta che conduceva alle toilette e quella per il guardaroba. Era sempre intenta a scribacchiare su un quadernino dalle pagine gialle e smetteva solo quando lo scampanellio della porta d'ingresso annunciava un nuovo arrivato, allora, in quel caso, distoglieva per pochi secondi la sua attenzione dalle pagine riempite da fitto inchiostro giusto il tempo per rivolgere loro un sorriso assente prima di perdersi nuovamente nel suo mondo di carta e parole.

La sua chioma bionda fu la prima cosa che vidi non appena sbucai nell'ampia stanza che ospitava il locale vero e proprio. Stava parlando in modo concitato con Will, il cameriere del weekend, e lo si poteva capire dal continuo gesticolare delle sue mani e dal lieve ma frenetico dondolio del suo piede.

Sienna era tutto tranne che inglese. Terribilmente impicciona, adorava le battute volgari, parlava sempre ad alta voce, era perennemente in ritardo e parlava. Sempre. Non era capace di stare in silenzio per più di due minuti, riusciva a trovare validi argomenti di conversazione con chiunque: dalla trisnonna sorda del suo vicino di casa al neonato di due settimane della sua parrucchiera. In assenza di un interlocutore umano non disdegnava il relazionarsi e il discorrere con gatti, api, gerani o pacchetti di biscotti.

«Cecilia! Sei in ritardo!», mi apostrofò non appena il suo iperattivo cervellino decise, per mia sfortuna, di lasciare un attimo di respiro al povero Will, visibilmente provato dalla chiacchierata a senso unico con Sienna, per dedicarsi ad una vittima fresca fresca, ovvero io.

Sorvolai sulla sua allusione al mio ritardo e mi limitai ad alzare gli occhi al cielo esasperata.

«Vederti è sempre una gioia», commentai dandole un veloce bacio sulla guancia ricoperta di fard, «Will, oggi è giovedì, che ci fai qui?».

Ovviamente il diretto interessato non fece in tempo a rispondere perché Radio Sienna lo aveva battuto sul tempo iniziando a raccontarmi dell'infortunio del povero Jim, che era caduto mentre scaricava dei bancali e si era slogato una caviglia. Il medico era stato categorico: riposo assoluto per una settimana.

«Come avete fatto a convincerlo a restare nel suo appartamento senza scendere quanto meno a supervisionare?», domandai divertita.

Quel pub esisteva solo se esisteva Jim, l'anima di questo locale. Lui lo aveva aperto nel lontano 1991, lui preparava i cocktails, lui aveva gli agganci giusti per procurarsi birra Guinness per veri intenditori, lui da anni tramite il suo spirito di iniziativa e la sua totale fiducia nella gioventù piena di talento musicale che popolava scantinati e garage di Londra promuoveva nuovi gruppi e cantanti emergenti ospitando i loro concerti.

Probabilmente avevano dovuto sedarlo o legarlo al letto per assicurarsi che non rischiasse di peggiorare la situazione della sua già malandata caviglia ruzzolando giù per le scale nel vano tentativo di fare un salto a controllare che il suo bar fosse ancora in piedi.

«C'è Karen che riveste il ruolo di cane da guardia per questa settimana», mi spiegò Will mentre sciacquava un paio di boccali da mezzo litro.

«Direi che assomiglia più ad un mastino...», specificò Sienna riferendosi al carattere dispotico della madre di Jim, che, a quarant'anni suonati, era ancora terrorizzato dalla sua genitrice e le obbediva come un agnellino.

Balzai giù dallo sgabello facendo attenzione a non ammazzarmi nel tentativo di mostrarmi agile, «Allora andrò a fargli un salutino così lo salvo per qualche minuto dalla sua adorabile mammina».

Quella sera il palco nell'angolo era vuoto, solo un ragazzo con un maglione verde se ne stava in un angolo, intento ad accordare una chitarra acustica di legno scuro, a testa china. Non sembrava curarsi delle poche persone sedute nella stanza attorno a lui o della musica jazz che riecheggiava a basso volume dalle casse. Aveva i capelli più spettinati che avessi mai visto nella mia breve vita, e detto dalla sottoscritta, campionessa nella lotta contro nodi e capelli ingarbugliati nemici della spazzola, era davvero una cosa insolita. Fu solo in quel momento che mi accorsi che aveva sollevato lo sguardo e mi stava rivolgendo uno sguardo interrogativo. Avvampai imbarazzata perché lo avevo fatto di nuovo. Avevo il brutto vizio di perdermi nei miei pensieri e mentre lo facevo mi ritrovavo, inconsapevolmente, a fissare la mia attenzione su qualcosa, e quando quel qualcosa era una persona il tutto risultava abbastanza imbarazzante per la sottoscritta che agli occhi dei poveri sconosciuti, sottoposti ad un esame non gradito, probabilmente mi davano mentalmente della stalker o della psicopatica.

Feci una rapida piroetta per dargli le spalle nel più breve tempo possibile e mi diressi quasi correndo verso la porticina rossa che conduceva al magazzino e alla scala dell'appartamento di Jim.

Come tutti i cani da guardia degni di  questo nome la Signora Karen mi intercettò non appena feci per abbassare la maniglia della porta di vetro smerigliato sul pianerottolo delle scale. La sua testa, con relativa pettinatura fresca di parrucchiere, fece capolino sulla soglia e mi ritrovai addosso due occhietti vispi che mi squadravano inquisitori.

«Mi sembra di essere la madre di Elton John», esclamò facendosi di lato per farmi entrare, «Ha avuto più visitatori Jimmy in un solo giorno di convalescenza che Michael Jackson quando è morto!».

Non sapendo come replicare mi limitai ad un sorriso d'assenso. Jim diceva sempre che le madri non andavano contraddette se non si voleva andare a caccia di guai e che questa primaria regola per la sopravvivenza e la serenità domestica valeva nel caso di Karen.

«Tu saresti?», mi domandò poi mentre mi faceva strada.

«Cecilia, un'amica di Jim», risposi rapida senza specificare il fatto che sapevo benissimo dove fossa la camera di Jim dato che era successo più di una volta che, a causa della troppa Tequila, restassi a dormire da Jim, che oltre ad essere un bravo barista ed un ottimo amico era anche il rifugio di tutti i suoi avventori affezionati ed ubriachi.

«Un'amica eh?», ripeté sospettosa scrutandomi ancora una volta.

Un esasperato «Mamma!» giunse da dietro la porta socchiusa che dava sulla stanza di Jim. La signora mi dedicò un ultimo sguardo ammonitore prima di darmi le spalle e, ticchettando dall'alto di un paio di stivaletti dal tacco a spillo, tornarsene in cucina.

Jim era sdraiato al centro del suo grande letto matrimoniale ricoperto dalla solita trapunta patchwork dai mille colori. La caviglia era fasciata da un candido bendaggio, probabilmente opera dell'amorevole madre.

«Ehi Cece!», mi salutò felice facendomi cenno di avvicinarmi e sedermi vicino a lui.

Mi sfilai rapida gli stivali e salii sul letto facendo attenzione a non colpire inavvertitamente il piede già malandato. Mi sedetti appoggiandomi alla testiera di legno chiaro del letto e mi chinai a dargli un affettuoso abbraccio.

«Ah Jim cosa mi combini insomma?», lo rimproverai scherzosamente, «Perché non mi hai avvertito? Sarei venuta prima», gli feci notare.

«Primo, sapevo benissimo che oggi avevi un esame, secondo mamma chioccia mi ha ritirato il telefono perché sostiene che tutti quei messaggi e quelle chiamate mi impedivano di riposarmi», mi spiegò stropicciandosi pigramente un occhio, «Averla qui ventiquattr'ore mi sta facendo impazzire: vuole rassettare, pulire, buttare tutto ciò che trova. È inarrestabile...».

Ridacchiai immaginandomi la Signora Karen che spolverava le centinaia di cd e vinili, che erano il fiore all'occhiello del figlio, invertendo l'ordine cronologico precisissimo secondo cui Jim li aveva sistemati sugli scaffali. Probabilmente Donna Summer sarebbe finita accanto ai Blur e i The Who avrebbero fatto compagnia a Simon & Garfunkel.

«Pensa positivo; almeno per questa settimana potrai mettere in pausa la tua dieta basata su bistecche mal cotte e fagioli in scatola», lo presi in giro.

«Magari! Mi propina solo brodini e purè come se fossimo in una casa di riposo»

«Devo quindi dedurre che mangi alle cinque e mezza e vai a dormire alle sette?»

«Sì! Infatti ho già fame. Non è che potresti portarmi...»

«Nonono, non oserei mai contraddire le disposizioni di mammina», lo fermai prima che potesse chiedermi ciò che sapevo già benissimo.

Una porzione take away di ali di pollo e patatine con salsa piccante dal messicano all'angolo della strada.

Jim campava grazie alla pizza da asporto, il take away, il cinese a domicilio, i surgelati e i prodotti in scatola. I muffin e le torte deliziose che facevano spesso bella mostra di sé sull'alzata in cristallo, regalo di mia madre che avevo bellamente sbolognato a Jim, erano creazioni di Sally e l'unico contributo da lui offerto era il mangiarne la metà nel tragitto cucina-bar.

«Ho fame!», protestò mettendo il broncio come fanno i bambini a cui viene negata l'ennesima caramella.

«Niente cibo fino a domattina! E non fare i capricci», una voce lo ammonì all'istante. Non una voce ma La voce, un attimo dopo seguita dalla sua legittima proprietaria.

Dovetti fingere di sbadigliare per nascondere il sorrisetto che mi si era stampato in volto nel vedere il povero Jim alzare gli occhi al cielo esasperato mentre la Signora Karen gli rimboccava amorevolmente le coperte.

Capii che l'incursione della mamma di Jim era stata studiata ad hoc per farmi capire che era ora levassi le tende e lasciassi dormire il malato. In fondo era tardissimo: la radiosveglia sul comodino segnava le 8.47 p.m.

Mi rinfilai gli stivali e, dopo aver salutato velocemente madre e figlio, con particolare ghigno irrisorio rivolto a Jim alle spalle di sua mamma, ridiscesi al piano di sotto.

Ero ancora sulle scale quando il mio telefono nella tasca posteriore dei jeans iniziò a vibrare insistentemente.

Noel.

Sbuffando scorsi il dito sullo schermo per accettare la chiamata. Il mio amato coinquilino aveva il brutto vizio di chiamarmi per ogni sciocchezza. Purtroppo era una persona che non si perdeva d'animo facilmente perciò non rispondergli portava solo ad avere 117 sue chiamate perse.

«Cos'è successo stavolta? Ti sei scordato dove hai messo la crema idratante? Ti dei dimenticato di registrare l'ultima puntata di Pretty Little Liars? Sono finiti i mirtilli con i loro preziosissimi ed irrinunciabili antiossidanti?», domandai prendendolo in giro.

«Questa volta è una cosa seria: Draco si è mangiato una vaschetta maxi di gelato e ora ha una strana tonalità verdastra...», mi informò preoccupato.

Mi sedetti sull'ultimo gradino della scale e mi passai una mano tra i capelli.

«La vaschetta da tre chili?», domandai cercando di restare calma.

Era impossibile. Draco era un gatto dall'appetito piuttosto generoso ma se neanche io e Hannah eravamo riuscite a finire da sole la vaschetta da tre chili mentre ci struggevamo e rischiavamo la disidratazione a forza di piangere guardando uno stupido filmetto di Nicholas Sparks non poteva avercela fatta un gatto grasso.

«Sì! Io...io non so come sia potuto succedere...cioè sono stato in doccia per pochissimo tempo. Cinque minuti...dieci forse...ok un quarto d'ora ma...»

Interruppi i suoi farfugliamenti confusi non appena il mio cervello elaborò la notizia appena ricevuta.

«Vuoi dirmi che sei appena uscito dalla doccia?! Noel, testa di broccolino che non sei altro, quando sono uscita di casa un'ora fa tu eri già da mezz'ora sotto l'acqua calda a gorgheggiare cercando di imitare George Michael!»

Quel ragazzo mi avrebbe resa pazza. Oltre che povera a forza di consumare un terzo del patrimonio idrico mondiale ogni volta che si faceva una doccia. E lui si lavava molto molto spesso. Molto più spesso di qualsiasi normale persona pulita e amante dell'igiene presente sul globo.

«Cece, non succederà più te lo prometto ma ora ti prego torna a casa a salvare Draco! Io non so che fare e non vorrei vomitasse sulle mie pantofole nuove...»

Picchiettai nervosamente le dita sulla superficie di legno del gradino pensando ad una rapida soluzione. Storsi il naso, c'era odore di fumo in quella stanza.

«Guarda nel cassetto sotto al bollitore; dovrebbe esserci un'agendina con la lista dei numeri da chiamare per le emergenze: cerca il veterinario. Nel frattempo ti metto in vivavoce e cerco nella mia rubrica...»

Mentre scorrevo rapida tra i mille nomi che figuravano come miei contatti Noel iniziò ad elencarmi i nomi presenti sull'agendina.

«Tua madre no, mia madre no, padri, nonni, zii vari no, bisnonno Samuel? Tu in caso di emergenza chiameresti il tuo bisnonno centenario?!», la sua voce incredula riecheggiò in tutta la stanzetta buia.

«Noel, datti una mossa!»

Dustin Day

Dylan

Edith

Elliott Mitchell

Ernest Fray

Eva Kline

Eve

Felicity Dust

François Truffat

Trovare quel benedetto veterinario si stava rivelando più complicato del necessario.

«Hannah no, Adam pfff, Oliver men che meno, Sienna come se potesse mai aiutarci in qualcosa, Keira nah, estetista direi di no...», Noel continuava a borbottare imperterrito, «Sai almeno come si chiama?»

«Mark Qualcosa...»

«Sicura? Qui non c'è alcun Mark ma in compenso c'è un Eric con tanto di cuoricino scribacchiato accanto...»

«Certo che si! Io mi ricordo sempre i nomi! Comunque lascia stare l'ho trovato. Lo avevo salvato sotto il nome Veterinario, ci sarei potuta arrivare prima...»

Due minuti più tardi stavo ringraziando il veterinario prima di chiudere la chiamata.

Mandai un rapido messaggio a Noel intimandogli di non muoversi che il veterinario stava arrivando e io con lui.

Mi alzai dal gradino su cui ero seduta e proprio in quel momento sentii un trambusto e un'imprecazione provenire dalla mia destra.

«Chi è?», domandai cercando la torcia tra le mille funzioni inutili del mio smartphone.

Quando alzai il telefono il fascio di luce bianca incorniciò il viso del ragazzo con la chitarra, che si riparò gli occhi di fronte a quella luminosità fastidiosa ed improvvisa.

Abbassai il telefono e mi avvicinai all'angolo della stanza dov'era lui.

Vidi che la finestra era socchiusa e che la fievole luce arancio di una cicca di sigaretta non ancora spentasi faceva capolino dal posacenere che Jim teneva sul davanzale.

Ecco spiegato l'odore di fumo.

Feci qualche passo indietro e tastai il muro alla ricerca dell'interruttore della luce, che sapevo essere accanto alla prima scaffalatura sulla destra.

La stanza diventò improvvisamente chiara, nonostante la lampadina che pendeva solitaria dal soffitto scrostato fosse una di quelle a bassa intensità luminosa.

Non appena i miei occhi si abituarono alla luce ebbi finalmente la possibilità di guardare il ragazzo in volto.

Era indubbiamente carino. Sì, proprio carino. E credo che ciò che lo rendeva tale fossero quei capelli così spettinati e l'aria un po' persa.

«Da quanto tempo sei lì?», gli domandai sospettosa.

«Dall'inizio della tragicomica...», mi rispose tranquillo abbozzando un sorriso.

Oh cazzo. Non era lo sguardo perso. Non erano i capelli spettinati. Erano quelle deliziose fossette che gli si erano appena formate ai lati della bocca a renderlo maledettamente carino.

«Il mio gatto sta male e il mio coinquilino starà male dopo che sarò tornata a casa e gli avrò dato una bella lezione», gli spiegai cupa.

Lui scoppiò a ridere e quelle stupende fossette tornano e io per un attimo mi scordai di essere nel magazzino del bar di Jim, di Draco e di Noel l'idiota e mi persi nel guardare le fossette di quel ragazzo sconosciuto.

Mi riscossi rapidamente, mi diedi mentalmente della sciocca ragazzina che va in iperventilazione alla vista di due stupide fossette e feci per andarmene ma mi fermai quando lo sentii parlare: «Anche io tengo la mia bisnonna di 102 anni tra i contatti d'emergenza...»

Mi voltai nuovamente e lo squadrai, incerta su cosa ribattere.

«Ezra», esclamò all'improvviso porgendomi una mano e corredando il tutto con una fugace apparizione delle fossette gemelle.

Proprio in quell'istante il nome di Noel iniziò a lampeggiare sullo schermo del mio telefono.

Rivolsi ad Ezra uno sguardo di scuse e risposi alla chiamata: «Dimmi»

«Ha iniziato a fare dei miagolii strani ed è da un minuto buono che se ne sta immobile spanciato sul parquet...sono un po' preoccupato. Quanto ci impiega Mark il veterinario ad arrivare?», mi domandò concitato il mio coinquilino.

«Arrivo immediatamente», lo rassicurai avviandomi verso la porta, «Lascialo tranquillo ma continua a tenerlo d'occhio», mi congedai rapida.

«Ezra...», lo salutai velocemente prima di uscire e lanciare un ultimo sguardo al ragazzo dalla belle fossette.

Non appena tornai nella sala principale del locale mi venne da piangere alla vista di Hannah e Adam seduti accanto a Sienna, intenta a trattenerli con uno dei suoi monologhi. Non sarei mai riuscita a raggiungere casa.

«Cecilia!», strillò quel cretino biondo di nome Adam.

Mi precipitai ad abbracciare alla svelta Hannah, riservai al suo fratellino una rapida tirata di capelli e borbottando delle scuse mi avviai al guardaroba.

Mi ero appena imbacuccata per bene, pronta ad uscire per affrontare il gelo invernale, un gatto con indigestione da gelato e un coinquilino gay isterico, quando un affannato «Aspettaci!» mi fece fermare.

Sienna, infagottata in un pellicciotto color viola con tanto di paraorecchie abbinato, mi sventolò di fronte al naso il suo cellulare.

Le bloccai il polso per evitare che mi facesse venire il mal di mare e guardai la foto del mio povero Draco spiaggiato sul pavimento con un colorito cadaverico.

Quello scemo di Noel invece di confortare il mio povero gattone lo fotografava e inviava la foto a tutti i nostri amici.

Maledetti gruppi di Whatsapp!

«Forza andiamo!», ci esortò Hannah, avvolta nel suo cappotto giallo limone.

«Andiamo dove scusa?», le domandai stranita.

Io andavo. Loro restavano.

«A salvare il gatto di Voldemort!», esclamò Adam spuntando alle spalle di sua sorella trascinandosi appresso Belle Fossette.

«Per carità! Già dovrò contenere un idiota non mi servite anche voi!», esclamai spalancando decisa la porta d'ingresso.

Porta che richiusi dopo una frazione di secondo. Come era potuto succedere che nell'ora in cui ero stata nel pub si era scatenata una tempesta di neve?

«Io ho un'auto trallalero trallala...», mi canticchiò in un orecchio Adam.

Lo afferrai per un orecchio e gli sibilai: «Sarà meglio per te che neanche il più piccolo dei fiocchi di neve sfiori la mia persona...»

Un minuto dopo eravamo tutti e cinque pigiati nell'utilitaria color puffo della Signora Spencer, madre di Hannah e Adam.

«Spiegatemi cosa ci fa lui qui», feci notare dal sedile posteriore, dove ero stata schiacciata tra Hannah, il pulcino, e Sienna, il Teletubbies viola.

«Ezra ti presento l'adorabile e svitatissima Cecilia Lawrence, Voldy ti presento Ezra Cunningham», mi introdusse il simpaticissimo ed irritante Adam.

«Cecilia...», ripeté Ezra sorridendomi.

Chi aveva creato quelle perfette fossette sulle sue guance?

«I ragazzi stanno pensando di far entrare Ezra nel gruppo», mi spiegò Hannah tranquilla.

Ecco spiegato l'arcano.

Dopo mille frenate e accelerate a casaccio di Adam, centinaia di imprecazioni di Sienna e ventitré chiamate perse da Noel arrivammo finalmente a destinazione.

Io e il cretino condividevamo un quadrilocale in una palazzina un po' vecchiotta, di quelle in mattoni con le scale anti-incendio. Ognuno aveva la sua stanza ma purtroppo il bagno era da condividere e Noel era peggio di dieci donne messe insieme: ore e ore a pettinarsi, lavarsi, spalmarsi addosso ogni sorta di intruglio e poltiglia e rimirarsi allo specchio e fare la ruota tutto tronfio. La terza stanza era La Terra di Mezzo detta anche cabina armadio. In quei quattro metri quadrati scarsi, separati in due metà perfette da una linea invisibile, erano stipati abiti, cappotti, borse, scarpe, cinture, cappelli ed ogni sorta di accessorio di moda inutile ed assurdo miei e di Noel. I suoi ovviamente superavano di gran lunga i miei.

La povera Hannah rischiò di trovarsi stampata in fronte la porta d'ingresso dell'appartamento tanta era la foga con cui Noel la spalancò all'improvviso.

«Grazie a Christian Dior siete qui!», ci accolse esagitato, «Secondo me è morto...»

Gli tirai uno scappellotto prima di precipitarmi al capezzale di Draco. Poveretto, aveva davvero una brutta cera.

«Una volta il gatto della mia vicina si bevve un intero bottiglione di ammorbidente...», iniziò a raccontare vaga Sienna mentre si liberava del suo topo viola peloso.

«E...?», la incoraggiò Hannah.

«E morì», concluse sorridendo.

«La vicina o il gatto?», si informò Adam.

Oddio frequentavo sul serio gente così idiota?

Noel iniziò a piagnucolare perché la sua vita sarebbe stata più buia se Draco non ne avesse più fatto parte.

Bugiardo. Bugiardo. Bugiardo.

Se solo avesse saputo come farlo e avesse avuto lo stomaco per farlo davvero avrebbe scuoiato vivo il mio povero gatto per poi utilizzare il suo pelo come decorazione per il suo cappotto di puro cashmere.

In quel momento un bussare deciso alla porta mise fine, almeno per il momento, a quel circo.

Noel smise immediatamente di frignare e corse di fronte allo specchio che capeggiava all'ingresso e si assicurò di essere in ordine, nei suoi pantaloni super aderenti e nel suo maglione dolcevita, che lo faceva assomigliare ad un bohémien parigino.

Sienna, nel giro di tre secondi, riuscì a pescare dalla sua borsa lillà che ricordava un trolley per le dimensioni uno specchietto e una trousse e ad imbellettarsi.

Il veterinario si rivelò essere un uomo sui trent'anni, molto alto ed abbronzato.

Con la coda dell'occhio vidi Sienna drizzare le antenne, iniziare a passarsi le dita tra i capelli e fare gli occhi languidi. Tutto ciò non sfuggì a Noel che le rivolse uno sguardo assassino.

Scambiai un'occhiata esasperata con Hannah e accompagnai il bel veterinario accanto alla quasi salma del mio animaletto domestico.

Lo visitò rapidamente, rigirandolo come un calzino, e poi si rialzò in piedi decretando che si trattava di un'intossicazione e che avrebbe dovuto portarlo con sé alla clinica per quella notte.

Noel cercò in ogni modo di convincerlo a restare per un caffè, per una partita a scarabeo, per raccontargli di come il suo canarino morì di crepacuore ma quello declinò cortesemente ogni invito.

Noel e Sienna furono così costretti a dirgli addio mentre io accarezzavo e rassicuravo il mio povero Draco.

«Arrivederci Mark e grazie ancora. Ci vediamo domani quando verrò a riprendere il mio tesorino», tubò il mio coinquilino.

Il suo tesorino?

«Va bene, a domani», poi aggiunse, «Io mi chiamo Eric però...»

Opsss.

Noel mi fulminò con lo sguardo: «Allora il cuoricino era per lui! Imbrogliona!», mi accusò offeso.

Eric ci guardò perplesso: «Cuoricino?»

«Lasci stare. A domani!», lo congedai spingendo lui con il mio gatto tra le braccia fuori dalla porta, prima di chiudermela alle spalle e voltarmi per picchiare quel cretino di Noel.

«Credo comprerò anche io un gatto e lo rimpinzerò ogni giorno di gelato...», asserì Sienna che tra un po' aveva gli occhi a cuoricino.

«Partitone a Monopoli?», domandò Hannah.

«Sì! Voglio lasciarti in mutande per la milionesima volta cara sorellina», esclamò entusiasta Adam.

«Come vedi qui non ti puoi annoiare», sussurrai ad Ezra, che fino ad allora se ne era rimasto in disparte, passandogli accanto per andare a recuperare la scatola del gioco e i biscotti al cioccolato.

 

 

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Capitolo 2
*** II ***


 

 

 

So che eravate molto in ansia per la sorte del povero Draco ma ci tengo a rassicurarvi: proprio ora quell'infido essere felino, dopo la notte in compagnia del bel veterinario, se ne sta spaparanzato a pancia in giù sul tappeto intento a strafogarsi di tartare al salmone.

Eh si, perché il piccolo principino mangia solo il pesce più pregiato e costoso e beve solo il latte più fresco e proveniente dalla mucca più giovane e in salute.

Con Noel non parlo da stamattina quando abbiamo litigato per decidere chi dovesse andare a ritirare il nostro cucciolotto dallo studio del bel dottorino e il tutto si è concluso con lui che mi chiudeva in casa, dopo essersi assicurato che tutte le chiavi fossero in suo possesso, e io che gli rivolgevo i peggiori improperi del mio repertorio.

Oggi è sabato e fortunatamente non sono di turno in ospedale. Credetemi, amo medicina con tutta me stessa ma questo tirocinio mi sta prosciugando tutte le energie ed è riuscito a scalfire persino il mio, fino ad ora, inattaccabile entusiasmo verso la professione.

Grey's Anatomy è la serie Tv più illusoria di sempre. Niente Dottor Stranamore ma primari vetusti ed indisponenti che pensano di governare il mondo. Niente Cristina, George, Izzie e Alex che ti supportano e condividono con te notti insonni di guardia, cuori infranti, bocciature agli esami e strigliate da parte dei responsabili ma spietati avversari con cui gareggiare in modo sleale e meschino per riuscire ad ingraziarsi lo staff del proprio reparto. Altro che Hunger Games, la voglia di arrivare in vetta, essendo disposti a calpestare chiunque si interponga, che caratterizza i tirocinanti di medicina li supera di gran lunga.

Grazie al cielo mi mancano solo pochi mesi alla laurea perché altrimenti avrei commesso sul serio un omicidio e la vittima designata sarebbe stato sicuramente Charles Cocco Di Papà Wilkinson, figlio del nostro docente di riferimento e nipote del direttore del nostro ospedale. Sguardo sprezzante, camice sempre perfettamente inamidato, dall'alto del suo scranno di boria e alterigia passava le sue giornate a denigrarci e a ripetere il suo mantra preferito: «Non sono un raccomandato». Ogni volta che lo diceva potevo quasi vedere una freccia luminosa con scritto BUGIA che indicava nella sua direzione.

Uno scampanellio mi distolse dai miei cupi pensieri e mi ricordò che era quasi mezzogiorno e io ero ancora in pigiama e a stomaco vuoto.

Ciabattai fino alla porta dove, non appena sollevai il citofono, lo schermo mi mostrò i visi sorridenti di Sienna e Adam.

Pigiai il pulsante di apertura del portoncino d'ingresso, socchiusi la porta e mi diressi in bagno.

«La porta è aperta!», strillai sentendo dei passi, mentre mi sciacquavo rapidamente il volto e legavo i miei capelli troppo lunghi in uno chignon spettinato.

Mi infilai le lenti a contatto, indossai un paio di pantaloni della tuta, una felpa scolorita della Gap e trotterellai in salotto.

«Ecco i tuoi soliti tre quintali di posta», esclamò Sienna appoggiando sul tavolo della cucina una pila pericolante di buste, dépliant e riviste.

Come sempre era vestita in modo poco appariscente: cappotto color carota, stivali dal tacco vertiginoso e abitino giallo canarino. La cosa sorprendente era che stava benissimo nonostante i colori chiassosi e l'asimmetria dei suoi capi.

Sbuffai recuperando la tovaglia dal cassetto sotto al gas. «Noel e la sua brutta abitudine di lasciare il nostro indirizzo ad ogni negozio per ricevere il catalogo a casa...», spiegai scocciata.

Tutto ciò mi costringeva ad andare a gettare la carta ogni due giorni.

«Toelettatura per serpenti a sonagli?», ridacchiò Adam mostrandomi un piccolo fascicolo ancora nel cellophane pescato a caso dalla pila.

Scossi la testa esasperata mentre spostavo tutto quel cumulo di cartacce a cui mi sarei dedicata più tardi in camera mia.

«Dov'è Hannah?», domandai tornando in cucina.

Hannah e Adam si sopportavano a fatica eppure facevano quasi sempre tutto insieme.

«Da Oliver»

«Quando si decideranno a convolare a nozze?», sbottò Sienna, «Voglio avere una scusa per comprarmi un abito di Chanel per essere una damigella meravigliosa», concluse piroettando.

«Come se ti servisse una scusa...», borbottai posando con malagrazia tre piatti sul tavolo.

«Ehi, Voldemort è di cattivo umore, temete oh babbani!», esclamò Adam scrutandomi beffardo.

Sapevo benissimo che era inutile prendermela per un piccolo ed insignificante screzio con Noel ma ogni volta che ci trovavamo in disaccordo lui spariva e io mi rannuvolavo.

Eravamo peggio di quelle coppie sposate da cinquant'anni; borbottavamo, non ci sopportavamo, bisticciavamo eppure non riuscivamo a stare lontani troppo a lungo.

Se a Noel fossero piaciute le donne e non i bei veterinari e se io avessi avuto un debole per le checche isteriche saremmo stati una coppia perfettamente assortita.

«Noel non c'è», constatò Sienna con la testa dentro il frigo.

«Avete litigato!», gongolò Adam, contento di aver scoperto la causa del mio broncio, «Siete così tenerelli quando vi evitate e fate i sostenuti l'uno nei confronti dell'altro quando invece vi mancate e siete dispiaciuti...», mi prese in giro.

«Io non sono dispiaciuto!», protestò con voce capricciosa Noel, appena entrato dalla porta d'ingresso.

Non osava guardarmi negli occhi e si limitava a fissare la tavola apparecchiata per sole tre persone.

Vidi il suo viso oscurarsi e dopo aver fatto un cenno rapido per salutare i nostri due ospiti si voltò e poco dopo sentimmo la porta del bagno sbattere con forza.

Sienna mi strappò di mano la pentola che avevo appena recuperato dalla lavastoviglie e mi ordinò imperiosamente: «Vai»

Mi voltai verso Adam in cerca di supporto ma lui si strinse nelle spalle e mi indicò la porta dietro cui Noel era sparito.

Sbuffando e mormorando vari insulti poco carini nei confronti dei due traditori marciai verso il bagno e arrivata di fronte alla porta feci un respiro profondo ed entrai.

Un denso vapore mi accolse in quello che sembrava essere diventato un angolo di foresta pluviale in quanto ad umidità elevata. Avevamo anche una scimmia che si stava lavando quindi eravamo piuttosto fedeli all'ambientazione originale.

«Mi sto facendo una doccia», constatò incolore la voce di Noel proveniente da dietro la tenda rosa shocking che lo nascondeva alla mia vista.

«Davvero?», chiesi sogghignando, «Pensavo stessi frignando di nascosto perché sai benissimo di essere in torto stavolta e stavi pensando a quale meravigliosa e costosissima borsa potresti regalare alla sottoscritta per ottenere il mio perdono...»

Spense l'acqua e lo sentii afferrare un barattolo, probabilmente di shampoo.

«Io con te non ci parlo», mugugnò imbronciato.

Noel che puntava i piedi e si comportava da bambino cocciuto era semplicemente adorabile. E ancora più adorabile era il fatto che non fosse in grado di fare l'offeso per più di un'ora.

Mi sedetti sul water aspettando pazientemente il momento, ormai vicino, in cui sarebbe scoppiato e avrebbe ricominciato a parlarmi come faceva sempre. Potevo quasi percepire lo sforzo immane che stava facendo per restare impassibile mentre ogni fibra del suo essere moriva dalla voglia di raccontarmi cosa era successo dal veterinario.

«Pranzi con noi?», buttai là vagamente mentre mi fissavo lo smalto sbeccato sulle unghie.

Silenzio.

«È arrivata la posta e con essa il nuovo numero di Elle e Marie Claire...», ritentai.

Nulla.

Mmh, per farlo scattare avevo bisogno di qualcosa che lo interessasse sul serio. Mi guardai intorno cercando uno spunto e lo sguardo mi cadde sullo sgabello accanto al lavandino, sgabello su cui erano riposti, perfettamente ripiegati e in ordine, un paio di pantaloni neri e un cardigan blu notte.

Idea luminosa!

«Stavo pensando che, poiché la tua stanza è più grande della mia, io avrei diritto a più spazio di te nella nostra cabina armadio», mormorai a mezza voce sperando con tutta me stessa in una reazione, «Credo sposterò tutte le tue scarpe in cantin-»

«NO!», strillò spalancando la tenda e mostrandosi in tutta la sua meravigliosa nudità.

Saltai in piedi e mi misi ad applaudire e saltellare felice.

«Smettila di fare la foca scema e passami un asciugamano», borbottò cercando però di nascondere un sorriso.

Gli lanciai il suo accappatoio Ralph Lauren di morbidissima spugna grigio perla e poi gli saltai amorevolmente al collo.

«Adam ha ragione a chiamarti Voldemort...sei perfida», mormorò dandomi un bacino sulla fronte.

Gli scompigliai i capelli e gli sorrisi malefica: «Lo so, infatti se fossi in te una controllatina alle tue scarpe la darai ugualmente...non si sa mai»

Saettai fuori dal bagno prima che avesse il tempo di assimilare la notizia e di tramortirmi colpendomi alla testa con il barattolo alquanto pesante della sua preziosissima crema idratante Lancôme.

«Ceciliaaaaaaaa, io ti ucciderò prima o poi!», mi raggiunse la sua minaccia urlante mentre raggiungevo sana e salva la cucina.

«Afefe faffo pace?», mi domandò subito Adam con la bocca piena di patatine.

«Dio, Adam! Sei rivoltante!», strillò schifata Sienna mentre spegneva i fornelli e afferrava un sottopentola.

«Sienna, amore mio, non c'è bisogno che mi chiami Dio, per te posso essere solo Adam...», la rimbeccò cercando di suonare lascivo e malizioso.

Sienna gli tirò una scappellotto e ci richiamò tutti a rapporto per pranzare.

***

Due orette più tardi ero seduta sul mio letto intenta ad aprire e catalogare le mille buste arrivate per posta. Sienna era sparita quasi subito dopo pranzo mormorando qualcosa riguardo a dei saldi imperdibili in un grande magazzino del centro mentre Adam aveva rapito Noel per le solite prove del sabato pomeriggio.

Erano tutti eccitati perché era la prima volta che avrebbero suonato nuovamente con un tastierista, che avrebbe fatto anche da seconda voce, da quando Jack se n'era andato tre mesi prima.

I ragazzi ci avevano invitato, o per meglio dire ordinato, di fare un salto più tardi e di portare le pizze.

Sospirai mentre mettevo in cima alla pila di buste vuote e carta straccia l'ennesimo volantino di pubblicità destinato a finire nella spazzatura.

Strappai distrattamente l'ultima busta della giornata pensando già alla visita che proprio oggi avrei dovuto fare ai miei cari ed adorati genitori.

Sperai con tutta me stessa che mia madre fosse di buon umore e ben imbottita dei suoi farmaci in modo da evitarmi i suoi spaventosi sbalzi d'umore e i suoi discorsi sconclusionati riguardo alla vita da pezzente che conducevo.

 

Gentili Mr. Donovan e Ms. Lawrence,

dopo i molti solleciti fatti Loro pervenire mi trovo costretto a tentare per l'ultima volta a trovare un punto d'accordo in modo cortese e civile prima di passare ad azioni legali e conseguente sfratto forzato.  La quota mensile dell'affitto comprensiva delle spese condominiali è, come pattuito tre anni fa, di 750 sterline. Purtroppo è da ormai cinque mesi che ricevo solamente la metà della somma accompagnata da bigliettini temporeggiatori ricchi di promesse, mai mantenute, di un pareggio delle spese nei tempi più rapidi futuri. Mi dispiacerebbe essere costretto a mandarvi via, siete sempre stati due giovani perbene, educati e responsabili, ma non posso fare altrimenti. Questo è il mio ultimo avvertimento: uomo avvisato...

Cordialmente,

K. F. Hunting

 

Passarono due minuti buoni prima che riuscissi a capire pienamente cosa significasse quella lettera.

Già vedevo la gioia incontenibile di Mamma nel potermi finalmente avere di nuovo tra le sue grinfie laccate di rosso fuoco Chanel e di Papà nel riavere la sua principessina a casa. Probabilmente mi avrebbe comprato un pony, convinto com'è che io abbia cinque anni e mi diverta ancora a giocare al cavalluccio sulle sue ginocchia.

Dovevo chiamare Noel. Subito.

Il numero da Lei chiamato non è al momento raggiungibile, La invitiamo a riprovare più tardi.

Dopo l'ennesima nenia ripetuta dalla voce registrata persi la pazienza e corsi nell'altra camera per vestirmi e raggiungere il prima possibile quell'idiota del mio coinquilino che presto si sarebbe trovato o a fare il barbone sotto il Tower Bridge o a fare da dama di compagnia a Madre e alle sue amiche del circolo del bridge o da facchino al campo di golf di Papà.

Mi infilai velocemente un pesante maglione rosso, un paio di jeans e i miei anfibi neri. Gettai rapidamente cellulare, chiavi e portafogli nella tracolla di cuoio e dopo essermi avvolta nel mio cappotto di tweed e  nella mia sciarpa grigia ed argento dei Serpeverde mi apprestai ad affrontare il gelo londinese.

Le prove avvenivano nella cantina della villetta degli Spencer che si trovava a tre fermate di metro dal mio appartamento. I genitori di Hannah e Adam erano stati nei tempi della loro ormai lontana gioventù i classici hippie tutti pace, erba, musica e amore libero ed erano stati gli unici a mostrarsi entusiasti all'idea di avere una sala prove in casa. Ai miei non lo avevo neanche proposto perché sicuramente loro mi avrebbero affittato la più bella e la più costosa tra le sale prove di Londra.

Le note di Luna dei Bombay Bicycle Club mi accolsero ancor prima di suonare il campanello.

«Cecilia tesoro!», mi accolse Mrs. Spencer gettandomi le braccia al collo e stritolandomi in un abbraccio soffocante.

L'espansività e affettuosità della madre di Hannah mi avevano sempre spiazzata e messa un po' a disagio. Probabilmente questo mio problema derivava dalla mia infanzia e dalla quasi totale assenza di contatto tra me e mia madre che l'aveva caratterizzata. Ricordo benissimo le braccia paffute e soffici e il seno morbido e prosperoso di Consuelo, la tata cilena, che mi cullava per tempi infiniti quando mi aggrappavo a lei come una scimmietta. Mi pequeño koala mi chiamava sempre quando la cingevo stretta stretta e non la lasciavo andare più. Mamma l'aveva licenziata poco dopo quando aveva scoperto che quando veniva a prendermi all'asilo, invece di filare dritte a casa, ci formavamo a giocare al parco pubblico per un'oretta. Consuelo aveva pianto, io avevo pianto e Mamma aveva continuato indignata a borbottare tra sé che erano cose da pazzi, portare una piccola bambina delicata come me in mezzo a batteri e sporcizia. Avevamo ettari di giardino, che bisogno c’era di fermarsi in un sudicio parchetto nei sobborghi?

«I ragazzi sono di sotto», mi informò allontanandosi e iniziando ad aiutarmi a levarmi il cappotto, «Ma immagino lo abbia sentito da te…», concluse ridacchiando tra sé facendo riferimento al volume spaccatimpani della musica proveniente dal piano sotto ai nostri piedi.

La loro cantina non era neanche insonorizzata eppure Hazel Spencer non faceva una piega, come se avere i Vampire Weekend che risuonavano a mille decibel per casa fosse una cosa normalissima. Mamma si imbottiva di Xanax anche solo per sopportare il coro natalizio di bambini che ogni anno alla vigilia aveva l’ardire di suonare al cancello e di farsi a piedi il mezzo kilometro buono che lo separava dalla porta d’ingresso.

«Mi fermo solo un attimo», spiegai per evitare di apparire antipatica e scortese, «Devo tornare a casa oggi pomeriggio», mi scusai.

Mrs. Spencer non commentò e gliene fui immensamente grata. Lillian Lawrence non era propriamente la tipica mamma con cui scambiare due pettegolezzi mentre si era in fila ai colloqui generali o con cui organizzare sedute di yoga al parco. Avevo frequentato le scuole più prestigiose di Londra, a mio avviso i posti peggiori del mondo. Figli di papà ovunque, smorfiose bamboline con troppa fretta di crescere e professori così accondiscendenti nei confronti dei rampolli delle famiglie londinesi da risultare viscidi e assolutamente poco professionali.

Hannah l’avevo conosciuto quando in quinta elementare io e Sienna fummo beccate a scrivere con una bomboletta blu elettrico un gigantesco BITCH sull’auto della nostra vice preside che voleva obbligarci ad iscriverci alla sua associazione di beneficenza nei confronti dei bambini meno fortunati. Detto così sembrerebbe un puro atto vandalistico ma se voi foste stati presenti ad una di quelle manifestazione di infinita ‘bontà d’animo e generosità’ avreste capito e sostenuto me e Sienna. Gli alunni della nostra scuola, vestiti di tutto punto con la divisa perfettamente in ordine, andavano in una qualsiasi scuola pubblica in periferia, nella periferia di Londra non del Burundi, il ché avrebbe certamente avuto più senso, e, dopo un discorso intriso di falsa commozione e finto orgoglio della vice preside, distribuivamo tra i banchi quaderni, matite e cancelleria varia. Era insopportabile. Lo sguardo con cui quei bambini, nostri coetanei, accettavano i nostri schifosissimi regali era insopportabile. Quello che facevamo, o meglio ci obbligavano a fare, non era generoso ed altruistico, no, era solo un modo per mettere in evidenza il fatto che noi, figli di membri del parlamento, di luminari nel campo della medicina, di uomini importanti della City, di eminenti avvocati eravamo superiori a loro, poveri piccoli bimbi sfortunati, nati da semplici impiegati, operai e casalinghe. Odiavo fare tutto ciò. Odiavo quando squadravano le mie scarpe alla bebè di lucidissima vernice che probabilmente valevano quanto mezzo stipendio mensile dei loro padri, scarpe che io non sopportavo e avrei volentieri lanciato fuori dalla finestra o dato loro in cambio di un paio di Converse fasulle comprate per dieci sterline da Selfridges. Odiavo i sussurri che si scambiavano alle nostre spalle. Mi sentivo assolutamente inadeguata. Mi vergognavo di appartenere a quella gente e quando tornavo a casa sulla Mercedes con l’autista e mia madre mi chiedeva «Allora sono stati contenti dei vostri gentili doni quei poveri bambini sfortunati?», stavo ancora peggio.

Vi confesso che quelle scarpe lucidissime le regalai ad un senzatetto il giorno dopo quella terribile esperienza in un attimo di distrazione da parte della mia severissima tata tedesca. A Mamma raccontai di aver scordato dove fossero finite e lei scrollò le spalle dicendo che ne avremmo comprato un modello per bambine più grandi. Era quello l’atteggiamento che mi irritava. Perdevo qualcosa: scrollatina di spalle. Tanto lo si poteva ricomprare.

Tornando a noi: Sienna e io fummo ‘punite’ e così per tre mesi dovemmo andare ad aiutare la squadra dei giardinieri comunali a prendersi cura delle aiuole di Hyde Park. Hannah ai tempi era una bellissima e simpaticissima bambina di dieci anni tutta ponchi dai colori improbabili e sorrisi. Lei era lì di sua spontanea volontà: adorava la natura e voleva dare una mano per abbellire la sua città. Non si pose nessun problema la prima volta che ci vide nei nostri cappottini Burberry scaricate da una Porsche fiammante. No, lei ci salutò felice e si presentò abbracciandoci, tratto che aveva ereditato dalla madre a quanto pare. Mi piacque da subito e mi piacque perché mi trattò come se fossi una normalissima bambina come lei, cosa che tra l’altro ero ma che nessuno sembrava comprendere pienamente.

Una testa rossa sbucò alle spalle di Mrs. Spencer e mi ritrovai presto intrappolata in un altro abbraccio.

«Sei arrivata presto», esclamò contenta Hannah, avvolta in un maglione a trecce fatto a mano e in un paio di pantaloni di velluto a costine risalenti probabilmente alla prima guerra mondiale. Ah, Hannah e la sua passione smodata per i negozi con vestiti di seconda mano e il vintage.

Detti un’occhiata rapida al mio orologio da polso: 3.23 pm.

Dovevo decisamente darmi una mossa, parlare con Noel e levare le ancora al più presto.

 

«Cosa vuol dire che sei al verde?!», esclamai esasperata.

Noel era laureato con il massimo dei voti in economia e si occupava dell’amministrazione delle risorse di molti personaggi influenti della città. Era un commercialista oculato e prudente. Sì, lo era ma solo con i soldi altrui. I suoi risparmi invece non riuscivano mai ad essere messi a riposo in una cassetta di sicurezza in banca ma finivano quasi sempre nelle casse di Prada, Yves Saint Laurent o Dior.

«Non ho un soldo ora come ora», spiegò mogio mogio senza guardarmi negli occhi e fissandosi la punta delle sue scarpe da quattrocento sterline suonanti.

«Noel, perché non me ne hai parlato?», domandai torturandomi disperatamente una ciocca di capelli.

Avremmo potuto trovare una soluzione se ne avessimo discusso cinque mesi fa quando non pendeva su di noi una spada di Damocle che rischiava di cadere da un secondo all’altra affettandoci senza pietà. Avremmo potuto risolvere il tutto con calma quando ancora nessuno ci minacciava di conseguenze legali e quando non avevamo un debito di duemila sterline.

«Me ne vergognavo, insomma Cece, fare economia è il mio lavoro e invece…», mormorò quasi arrabbiato con sé stesso passandosi disperato una mano sul volto.

Pensa cervellino, pensa. Lavoravo come babysitter per otto sterline l’ora e dieci se dovevo tenere il bambino fino a tardi ma tutto ciò che ricavavo cantando ninne nanne e sorbendomi ore e ore di Peppa Pig, che tra l’altro mi piaceva molto, serviva per pagare la mia parte di affitto, le spese di luce, acqua e gas, l’abbonamento ai mezzi pubblici e il cibo. Nonostante la mia voglia di indipendenza avevo dovuto capitolare di fronte al caro prezzo della vita e accettare un piccolo aiuto mensile da parte dei miei. Certo poi avevo il fondo fiduciario intestato a mio nome fin dalla tenere età di due anni ma mi ero sempre rifiutata di toccare quel denaro, la cui somma ignoravo.

«Noel, parliamone onestamente: il prossimo mese potresti permetterti i soldi dell’affitto?», domandai sincera.

«No, o perlomeno non tutto, forse duecento…non di più»

Il mio telefono iniziò a vibrare e lessi il nome di mio padre sullo schermo.

Si era fatto veramente tardi.

«Devo scappare ora», esclamai dirigendomi verso le scale, «Noel, non abbatterti, troveremo una soluzione», lo rassicurai sorridendo.

Non sapevo come ma questo era un problema assolutamente secondario. Certo, Cecilia come no, fai sempre la WonderWoman da strapazzo.

«Quindi non mi libererò tanto facilmente di te, oh mia pazza coinquilina?», domandò ritrovando il suo solito buonumore.

Muahahaha, mai.

«Sogna, bello mio», e con quello mi congedai.

 

***

Una nuvola di Chanel N.5 mi avvolse non appena Lillian Lawrence fece il suo ingresso nel suo salottino da tè, decorato in modo talmente lezioso e zuccherino da far invidia allo studio di Dolores Umbridge.

Ed ecco a voi mia madre: messa in piega perfetta, tubino color pesca con golfino di cashmere abbinato, scarpe tacco 10 e fronte aggrottata.

Si fermò sulla soglia a studiarmi. Vidi i suoi occhi percorrere la mia intera figura, dai jeans stropicciati al maglione leggermente scolorito dai troppi lavaggi. Stava prendendo le misure della sua unica e debosciata figlia che viveva in un appartamento squallido lontano dal centro, che mangiava ai fast food, che frequentava proletari e, orrore degli orrori, lavorava.

«Spero tu abbia le scarpe pulite!», squittì infine squadrando i miei anfibi che sicuramente avevano visto giorni migliori.

Lei non mi vedeva da quasi un mese e la prima cosa che mi diceva era un rimprovero riguardante le mie scarpe. Normale no?

«Eccola qui la mia Cece adorata!»

Mi voltai e un sorriso a trentadue denti mi si dipinse sul volto. Mio padre, occhiali storti sul naso e gilet scozzese orribilmente orribile, mi strinse in un caldo abbraccio.

Ancora stretta tra le braccia del mio amato e sempre più spiegazzato padre mi accorsi delle due persone che ci stavano fissando dalla soglia.

Non poteva essere vero. Mi veniva quasi da piangere.

«Bisnonno Samuel!», strillai al settimo cielo precipitandomi accanto alla carrozzina sui cui era seduto il mio carissimo nonnino.

Era da più di un anno che non tornava a casa, troppo malato per poter fare qualsiasi cosa che non fossero tour infiniti tra i vari ospedali e visite dai più eminenti specialisti. L’ultima volta che ero andata a trovarlo lo avevo trovato peggiorato e non aveva fatto altro che stringermi spasmodicamente la mano e sussurrare come una nenia infinita il mio nome alternato a quello di sua moglie Lillian, defunta ormai da cinquant’anni. Almeno credo intendesse chiamare sua moglie.

Ora sembrava stare decisamente meglio e il suo sorriso sereno e il colorito non più terreo sembravano confermare la mia speranza.

«Tutti a dirmi che ormai era una questione di ore, la tua prozia Petunia probabilmente aveva già pronta la bara, brutto avvoltoio quella donna…», ridacchiò tra sé e sé lasciandomi esterrefatta a fissare quanto fosse bello vederlo così allegro,  «Tsè, decido io quando morire e io non me ne vado fino a quando la mia Cecilia non diventa medico come il suo orgogliosissimo bisnonno che solo allora morirà felice e contento», scherzò stringendomi affettuosamente la mano.

Volevo piangere tanta era la gioia che quel momento mi stava regalando, ero convinta anche io che presto avrei dovuto dire addio al mio amatissimo bisnonno ma questo momento imprevisto di lucidità e buonumore era un dono bellissimo che ero decisa a godermi pienamente.

Perciò chiusi, almeno per il momento, la faccenda dell’affitto e dei problemi finanziari di Noel in un cassetto e mi concentrai su quello splendido momento in famiglia.

«Nonno, vuoi del thè?», chiese premurosa mia madre mentre si inginocchiava al fianco dell’anziano e gli sistemava la coperta a quadri che aveva sulle gambe.

L’unica persona per cui mia madre manifestava apertamente affetto, o per lo meno tentava di manifestarlo in un modo diverso dal suo solito modo sempre un po’ freddo e distaccato, era il nonno Samuel.

«Tesoro mio, non preoccuparti», la rassicurò lui dandole una lieve carezza sul viso, «Nel caso mi venisse sete manderemo questo mio inutile nipote a prendermi qualcosa», borbottò facendo riferimento al ragazzo alle sue spalle che finora era rimasto in religioso silenzio.

Distolta la mia attenzione dal nonno mi concentrai finalmente sulla presenza dietro di lui.

Sebastian Lawrence.

Il più spocchioso tra i cugini della famiglia e il mio compagno di giochi obbligato per tutta l’infanzia.

«Adorato cugino», lo salutai melliflua cercando di nascondere una smorfia.

«Cugina prediletta», mi rispose per le rime lui sollevando appena un sopracciglio mentre mi scrutava attento.

«Sempre impeccabile vedo», gli feci notare sarcastica studiando la sua camicia immacolata e la piega perfetta dei pantaloni.

Bello da sembrare finto, tanto stronzo da farti capire immediatamente che, purtroppo, era tutto tranne che finto.

«Sempre più arruffata e squisitamente plebea», mi rimbeccò lui lanciando un’occhiata eloquente ai miei anfibi piuttosto vissuti.

«Sebastian è tornato a Londra per completare gli studi…», mi spiegò mia madre regalando al cugino idiota un sorriso luminoso.

Madre ovviamente adorava Sebastian, d’altra parte lui incarnava tutto ciò che io non ero e che lei avrebbe voluto disperatamente fossi.

«Pff, è tornato solo perché gli ho tagliato i fondi e quella squattrinata di sua madre è troppo ubriaca ai Caraibi per provvedere al figlio…», borbottò bisnonno Samuel facendogli segno di spingerlo fino al divano, in modo da essere vicino a mia madre e poterci guardare in faccia, «Fondi che tra l’altro stava sperperando in tutto fuorché i suoi studi…»

«Suvvia Samuel sono giovani e vogliono divertirsi…», commentò bonario mio padre spostandosi per far posto accanto a sé a Sebastian che aveva uno sguardo alquanto torvo.

«Giovani un cazzo!»

«Nonno!», esclamò scandalizzata mia madre mentre io cercavo di mascherare una risata con un colpo di tosse.

«Che hai intenzione di fare a Londra?», chiesi giusto per cortesia, non ero molto interessata alla sorte di Sebastian detto onestamente.

«Vuol prendere esempio da te, mio fiorellino», mi spiegò il nonno strizzandomi l’occhio.

Che cavolo gli avevano somministrato per farlo tornare come ai vecchi tempi?

«Studierà alla London School of Economics», proclamò mamma gonfiandosi come un pavone tronfio.

Sai che storia. Noel si era laureato lì due anni prima e quando lo aveva conosciuto mamma non aveva fatto tutto questo teatrino ma aveva continuato a guardarlo sospettoso e a fargli domande indiscrete riguardo alla sua vita sentimentale.

«E starà qui con voi?», domandai mettendomi a ridere.

Il cugino scapestrato che dopo anni di bagordi negli States torna in madrepatria per essere messo in riga. Troppo esilarante. Soprattutto se il cugino in questione era Sebastian.

«Magari…», sospirò mamma.

«No angioletto, starà da te», commentò candido il nonno.

E in quel momento smisi di ridere.

 

 

 

 

Fate una buona azione: donate una piccola recensione a questa povera autrice disperata ed insonne.

Buonasera a tutti,

sono stanchissima quindi sarò breve. Il personaggio di Sebastian è stata un’idea dell’ultimo minuto quindi vedremo se sarò in grado di svilupparlo per bene e di inserirlo in modo armonioso tra gli altri personaggi. Prometto che prossimamente mi concentrerò anche sugli altri protagonisti e inizierà a succedere qualcosa che non siano semplicemente puri dialoghi di passaggio.

AAA: Cercasi disperatamente un nome per la band dei ragazzi.

Idee e proposte sono ben accette. Ho in mente un nome ma non mi convince pienamente quindi chiedo a voi.

Grazie!

Bacini,

S.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** III ***


 

 

Non ho mai sopportato le porte chiuse, soprattutto in casa mia ma mai quanto quella mattina desiderai di aver serrato a doppia mandata quella della mia camera la sera precedente. Se lo avessi fatto ora non mi ritroverei, alle sette di domenica mattina, con una Sienna carica come non mai in una tuta tecnica argentata della Nike intenta a tirarmi i piedi per convincermi ad andare a correre con lei.

Odiavo il freddo. Odiavo l'attività fisica. Odiavo alzarmi presto. Quindi che accipigna voleva dalla sottoscritta?

«Mmh no», farfugliai nascondendo la testa sotto al cuscino e scalciando affinché mollasse la presa e liberasse le mie povere caviglie ormai doloranti.

La sentii sbuffare ed imprecare sottovoce mentre iniziava ad arrampicarsi sul letto, sempre più vicina alla mia testa sepolta.

«Hai due secondi per alzarti di tua spontanea volontà dopodiché adotterò la modalità Suor Margaret», mi minacciò.

Oh no. La tecnica Suor Margaret no!

Quella sciroccata approfittò del mio momento di panico e mi strappò il cuscino da sopra la testa facendo emergere il nido di quaglia che erano i miei capelli.

Suor Margaret era la responsabile delle camerate femminili del campo scuola in Costa Azzurra organizzato dal nostro istituto ogni estate. A un primo sguardo appariva come una materna e paffutella nonnina ma in verità era un generale svizzero travestito. La sveglia suonava sempre alle sei in punto. A chi importava che quelle fossero le tante agognate vacanze estive? La cosa fondamentale, soleva dire lei, era essere sempre attivi e produttivi e recitare le lodi mattutine per accompagnare il sole che sorgeva. Chi provava a sbuffare o a mormorare la famosa frase «Altri cinque minuti...» veniva sottoposto alla specialissima tecnica di risveglio traumatico inventata e messa a punto da Suor Margaret.

Per iniziare ti privava di cuscino e lenzuola, dopodiché spalancava la finestra e afferrava il tuo orecchio sinistro sollevandoti di peso e trascinandoti nella cappellina della casa dove, munita di libro delle preghiere da duemila e passa pagine, ti obbligava a recitare per cinquecento volte il Padre Nostro, e ad ogni pausa o lacrima, SBAM!, il libro sulle mani. Dopo questo, sempre in pigiama e sempre a stomaco vuoto, ti portava in camera a recuperare il costume e poi via in spiaggia. Lì lei si toglieva il suo abito monacale blu e restava in quella specie di costume che assomigliava ad un mezza muta e, sempre tirandoti per l'orecchio sinistro, ti gettava in mezzo alle onde gelide obbligandoti a nuotare per almeno un'ora. L'acqua fredda fortifica il fisico e lo spirito, ripeteva sempre. A mio parere procurava solo starnuti e nasi gocciolanti.

«Uno...», iniziò a contare Sienna, un ghigno malefico stampato in volto e un dito laccato di viola sollevato minaccioso.

«Qui non c'è il mare!», le ricordai sorridendo vittoriosa per la mia intuizione.

«No, ma c'è il meravigliosamente inquinato e sudicio Tamigi...», mi rispose sorridendo candidamente e sollevando un secondo dito nella mia direzione, «Ops, due...»

E con uno scatto felino mi spinse e mi fece rotolare giù dal letto e, presa in contropiede, atterrai sul pavimento facendo un trambusto non da poco.

«Sei scema?!», urlai alzandomi dal parquet ghiacciato in meno di mezzo secondo.

«No, sono Sienna. Ricordi?»

La detestavo.

La vidi sparire dalla camera per tornare poco dopo con una tuta grigio scuro ripiegata su un braccio e le mie scarpe da ginnastica tra le mani.

«Sei ancora lì impalata? Hop hop!», mi rimproverò spingendomi verso il bagno ed aprendo il rubinetto.

Mi sciacquai il viso e mi legai i capelli in una treccia disordinata prima di strappare dalle mani di Sienna, la mia ex-amica, la tuta ed indossarla seguita dalle scarpe.

Passando per il corridoietto, infilai la testa nella camera di Noel per vedere se l'uragano Sienna aveva svegliato anche lui, ma lo vidi dormire placido e beato come un bebè, con la faccia immersa nel cuscino e il corpo avvolto in un bozzolo di coperte.

Beato lui.

Socchiusi la porta e mi diressi verso l'ingresso sospirando rassegnata di fronte al mio triste destino.

 

Avevamo corso per quasi un'ora, okok io avevo arrancato cercando disperatamente di tenere il passo, e, dopo aver fatto un po' di stretching conclusivo, avevamo concordato di fermarci a fare colazione nella piccola caffetteria dietro l'appartamento di Sienna.

«Ora che ho recuperato il fiato e con esso l'uso della parola posso finalmente domandarti ciò che volevo chiederti da stamattina all'alba: perché?», la interrogai sorseggiando il mio cappuccino.

Sienna non era un tipo da aria aperta e corse mattutine. No, lei aveva il suo prezioso abbonamento in palestra e lì passava i suoi pomeriggi tra yoga, pilates e kickboxing, la sua ultima trovata per allontanare lo stress.

«L'ho rifatto», mormorò giochicchiando con le briciole della sua brioche.

Mi lasciai scivolare sullo schienale della sedia in plastica rigida e mi rigirai nervosamente la treccia tra le dita.

«Questa è una specie di camminata della vergogna?», domandai sporgendomi al di sopra del tavolino per fissarla con sguardo indagatore.

Lei si strinse nelle spalle ed annuì con un sorrisetto.

«Sienna!», la rimproverai prontamente, «Cosa avevi detto meno di due settimane fa?»

Aveva giurato sulle sue Manolo Blahnik di autentico pitone che avrebbe messo fine alle sue storie da una notte e basta. Lo aveva promesso sulle Scarpe, uniche ed inimitabili.

«È una fortuna che abbia il tuo stesso numero...», commentai sovrappensiero.

«Scordatele!», esclamò agitando un dito davanti al mio viso già in estasi all'idea di possedere un paio di Blahnik originali, «Non dopo quello che hai combinato tu la settimana scorsa»

Immagini confuse di Margarita, lenzuola color antracite e di un tizio con la barba attraversarono la mia mente.

«Io non avevo fatto alcun giuramento!», mi difesi.

Accidenti a lei e alla sua innata capacità di girare la frittata sempre e solo a suo favore.

Scrollò le spalle indifferente alle mie proteste, «Bye bye scarpine», concluse vittoriosa sapendo di aver segnato il punto decisivo di questo match.

Sbuffai furiosa e feci un cenno distratto alla cameriera indicando la tazza vuota.

Sienna avvicinò la sua sedia alla mia e mi guardò seria dritta negli occhi.

«Stamattina mi sono sentita fuori posto. In metropolitana, tra uomini in giacca e cravatta pronti per una giornata di lavoro e madri con bambini diretti ai giardinetti mi pareva che gli sguardi di tutti fossero fissi sui miei tacchi ridicolmente alti e il mio abito rosso da rimorchio decisamente troppo corto e scollato per non essere un chiaro indizio di dove ho passato la notte. Mi sono resa conto di quanto io valga poco, di quanto sia patetica la mia necessità di avere sempre qualcuno accanto e di quanto la mia allergia alle relazioni serie e adulte mi abbia resa miserabile. E ho capito che devo porre la parola fine a tutto questo squallore»

Sembrava che nella caffetteria il brusio tipico del sabato mattina fosse cessato all'improvviso, come per sottolineare con quel silenzio denso e pesante quanto fosse profondo il tormento che oscurava e gravava come una nube plumbea sullo spirito solare della mia amica.

Le strinsi affettuosamente la mano che teneva posata sul tavolino e le sorrisi incoraggiante.

«Sienna tu sei l'esatto contrario del patetismo. Sei una donna fiera, indipendente e stupenda che a volte sbaglia, che per fortuna sbaglia. E hai ragione: dobbiamo darci un taglio con le botte e via. Un taglio netto», affermai con enfasi.

Lei mi guardò per qualche secondo dubbiosa prima che il suo viso si illuminasse e esclamasse al settimo cielo, «Ho io la soluzione: castità!»

Avevo sentito bene? Sienna, colei che gli uomini se li mangiava a colazione e, dopo esserseli gustati per bene, abbandonava senza troppi scrupoli stava davvero proponendo di darsi alla castità? Davvero esilarante.

«Credo che dovresti porti un obiettivo quantomeno realistico...», le feci notare.

Se da frequentatrice assidua di letti di sconosciuti voleva trasformarsi in una ragazza assennata e morigerata il processo doveva essere graduale.

Le mie diete fallimentari ne erano un chiaro esempio. Passavo dal trangugiare l'equivalente di tre pranzi di Natale allo spiluccare due foglioline scondite di insalata era ovvio che dopo due giorni mi sarei ritrovata a piangere con la testa nel freezer in cerca di gelato.

«Tu credi che io non possa farcela!», esclamò piccata la mia amica spalancando incredula i suoi occhioni cerulei, «Mentre ovviamente sei convinta che tu potresti benissimo farlo, vero?»

«Assolutamente», confermai annuendo decisa.

Sienna e la vita casta e monastica era un binomio che sicuramente non sarebbe durato molto perciò potevo state tranquilla. Nel giro di due settimane avrei vinto e avrei potuto ricominciare ad avere una vita sessuale attiva. Non che potessi paragonarmi neanche lontanamente a Sienna, però non ero stata esattamente una santa negli ultimi mesi e Jack poteva testimoniarlo. E tutto era andato benissimo perché riuscivamo ad avere i vantaggi di una relazione, sesso frequente e chiacchierate sui problemi esistenziali, senza doverci scontrare con le molteplici scocciature di essa, gelosie, vendette, litigi e compagnia bella. Fino a quando Jack non era saltato fuori con la storia di Amsterdam e del trasferimento. Così mi ero ritrovata in un colpo solo senza consigliere, sprovvista di amico di letto e la band si ritrovò priva di chitarrista.

Ovviamente tutti avevano incolpato me. Ancora mi domando il perché.

Ma prima di Jack avevo fatto per mesi la vita da suora uscendo sempre e solo con Noel, suoi amici terribilmente belli ma irrecuperabilmente gay e Adam, il cui unico neurone solitario non mi aveva mai neanche lontanamente attratto. Perciò avrei potuto benissimo rifarlo.

«Benissimo», con un espressione solenne pescò un tovagliolino dal centro del tavolo e si voltò a picchiettare sulla spalla di un ragazzo intento a leggere un tomo da più di mille pagine.

Dieci secondi più tardi, dopo vari sorrisi ammalianti e sbattimenti di ciglia, Sienna mi mostrò vittoriosa una penna a sfera.

Iniziò a scartabellare tutta presa sul tovagliolo. La vidi titubare un attimo, mordicchiarsi il labbro inferiore indecisa e poi riprendere a scrivere come se avesse ritrovato il filo dei suoi pensieri.

Ne approfittai per dare una sbirciatina al menù. Avevo una fame terribilmente e il croissant che mi ero appena pappata non aveva saziato il mio stomachino esigente. In più la sera prima non avevo cenato perché tornata dall'ospedale mi ero fatta una doccia (Noel per fortuna era disperso chissà dove) ed ero crollata sul letto, fino al brusco risveglio di stamane.

Acciuffai il cameriere che stava passando rapido accanto a noi e gli chiesi se poteva portarmi un muffin ai mirtilli. Wow, aveva degli occhi quasi trasparenti, così belli da ricordarmi quelli di Ian Somerhalder, che accidenti a lui, si era purtroppo, con mio enorme disappunto, appena sposato. Così come Adam Levine che era destinato a me e invece si era andato ad accasare con niente meno che un angelo dalle gambe chilometriche di Victoria's Secrets.

Cecilia Lawrence! Stai per firmare un contratto di castità, d'ora in poi devi stare alla larga dagli esseri di genere maschile che non siano gay o over cinquanta. Facciamo over sessanta perché un pensierino su Tom Cruise lo farei eccome se mi capitasse sotto tiro.

«Fatto!», trillò soddisfatta la mia amica spingendo verso di me il tovagliolino fittamente ricoperto di inchiostro e sorridendomi incoraggiante.

Abbassai lo sguardo preoccupata, quando Sienna appariva così esageratamente radiosa e soddisfatta bisognava iniziare a prendere delle precauzioni perché qualcuno avrebbe potuto farsi male.

Noi, Sienna Clark e Cecilia Lawrence, in nome di un bene superiore e appellandoci alla dignità femminile dichiariamo di rinunciare a qualsiasi azione di tipo carnale. Non solo l'atto sessuale non sarà permesso ma anche qualsiasi attività ad esso correlata. Ci impegniamo a preservarci pure e illibate per i tempi a venire e a rinunciare, nel caso ci dimostrassimo  deboli, volubili e  cedessimo al fascino della carne a consegnare all'altra firmataria del suddetto patto:

Ms. Clark:  n. 1 paio scarpe Manolo Blahnik (sapendo che se la separazione dovesse davvero avere luogo la sopracitata signorina morirebbe di crepacuore)

Ms. Lawrence:  prestito della durata di due settimane del suo appartamento situato a New York (sapendo che la signorina non lo utilizza mai perché è una sciocca bimbetta innamorata del clima uggioso di Londra)

La rinuncia da parte di una delle due contraenti determinerà come penalità l'attuazione delle norme sopra elencate.

Firme:

 

«Illibate? Sul serio?», mormorai con le lacrime agli occhi.

Sienna aveva fatto il countdown per la perdita della verginità al liceo ed era finita che voleva così tanto diventare donna prima del tempo che tutti la credevano un'assatanata malata di sesso e non riuscì nel suo intento se non a diciassette anni suonati.

Per fortuna nella vita faceva la giornalista in una rivista di moda e non stendeva contratti per multinazionali.

«Vincerò io», mi sfidò, allungando una mano e lasciando la sua firma svolazzante sul bordo inferiore del pezzo di carta, «Non ho alcuna intenzione di separarmi dalle mie scarpe da cinquecento sterline»

Le strappai di mano il tovagliolo e scribacchiai le mie iniziali, «Vincerò io perché non ho alcuna intenzione di chiedere un favore ai miei»

Piuttosto mi sarei gettata senza paracadute dalla Tour Eiffel o avrei fatto un bagno con degli alligatori affamati.

«Bene»

«Vinca il migliore», conclusi sfidandola e scambiando con lei un sorriso carico di sottintesi.

Quando il cameriere mi portò il muffin non feci una piega di fronte ai suoi dolci occhi azzurri. Se non ero pura e illibata io!

***

 

«Cece, non è per caso che tu hai un angolino ancora libero in camera tua?», strillò Noel dalla sua stanza.

Mi guardai attorno pensierosa, le braccia cariche di una pila di scatole da scarpe.

I cassetti inferiori del mio armadio ero riuscita a chiuderli puntando i piedi contro il letto e spingendo con tutta la forza che avevo e non avevo la più pallida idea di come avrei fatto a riaprirli. I vestiti appesi al di sopra erano talmente stipati che per prelevarne uno dovevi spendere un'ora a passare in rassegna quella fitta giungla di tessuti e colori compattamente in fila. Una torre di cappotti e borse ricopriva il mio letto e ogni centimetro quadrato di parquet era ricoperto da scarpe e relative scatole.

Volevo piangere. Dove accidenti avrei messo tutta quella roba?

Sbuffando mollai le scatole che avevo tra le braccia accanto alle altre che mi guardavano beffarde dal pavimento e marciai fuori dalla stanza facendo una specie di corsa agli ostacoli per evitare di inciampare in una ballerina o in uno stivaletto abbandonato.

Il mio cuore si consolò rapidamente nel vedere le condizioni disperate in cui versava Noel e la sua stanza con lui. Sembrava di essere finiti in un bazaar affollatissimo pieno di qualsivoglia cianfrusaglie e chincaglierie.

Sollevai dubbiosa una tuta di ciniglia color melanzana e spostai con la punta dei piedi uno stivale da cowboy con tanto di vero sperone per avere lo spazio necessario per poggiare il mio culetto sul suo letto.

«Non ce la posso fare!», esclamò scoraggiato il mio coinquilino, di cui, essendo per metà infilato con la testa nei meandri più profondi del suo armadio, avevo una piena visuale del suo didietro.

«Fai una cernita», proposi analizzando con occhio scettico le cravatte annodate e gettate alla rinfusa accanto a me, «Sono certa che un po' di beneficenza ti risolleverà il morale...»

Quello per tutta risposta mi mostrò il dito medio.

«Comunque anche io sono sua tua stessa barca», gli feci presente.

Tra quel caos di oggetti pescai un paio di occhiali da sole dalla montatura tartarugata. Strano, mi parevano familiari. Li indossai e balzai in piedi per potermi guardare allo specchio. Nel compiere questa operazione calpestai nell'ordine: un sombrero messicano dal diametro esageratamente ampio, una giarrettiera rosa shocking, sulla cui provenienza preferii non fare domande, e una t-shirt delle tartarughe ninja.

«Brutto babbano babbeo!», strillai non appena vidi il mio riflesso, «Questi sono miei!»

«Oh, li avrò presi per sbaglio», liquidò la questione Noel, senza neanche prendersi il disturbo di togliere quella sua testolina vuota dall'interno del guardaroba.

Adoravo quel paio di occhiali da sole, comprati da un ragazzo tunisino gentilissimo durante il mio viaggio a Barcellona. Due estati fa erano misteriosamente scomparsi e, dopo infinite ricerche, mi ero rassegnata e ne avevo acquistato un nuovo paio assicurandomi che il modello fosse il più simile possibile all'originale andato smarrito.

«E dimmi, c'è per la caso la possibilità che altre cose di mia proprietà siano finite per caso nel tuo armadio?», chiesi furiosa.

Perché non potevo andare a vivere da sola? O perché non potevo avere un coinquilino normale? Certo, Noel era una persona molto ordinata ed attenta alla pulizia e di ciò ringraziavo il cielo ogni giorno, soprattutto dopo che Oliver mi aveva raccontato che il suo coinquilino lasciava sempre i boxer sporchi sul pavimento del salotto, nel bagno coltivava una colonia di funghi e si faceva la doccia una volta alla settimana. La situazione però, vista da un punto di vista differente, appariva tragica. Noel teneva si alla sua igiene ma in modo quasi maniacale. Secondo voi è normale una persona che fa una media di cinque docce al giorno?

Una volta avevo fatto un calcolo approssimativo ed ero giunta alla conclusione che la giornata di Noel si ripartisse in: sette ore di sonno, otto ore di lavoro, tre ore di pranzi/cene, due ore serali di rottura dei cosiddetti nei confronti della sottoscritta e le restanti quattro ore quotidiane chiuso in bagno. Docce, bagni infiniti tra bagnoschiuma profumati e bastoncini di incenso dalla fragranza esotica, teatrini e piroette davanti allo specchio, imbellettamenti, fanghi e intrugli vari occupavano un sesto delle sue giornate.

Da ciò si deduceva il perché io andassi spesso in giro con una gamba depilata e l'altra no, con la vescica piena fino a scoppiare e perché mi lavassi i denti mentre in contemporanea mi insaponavo i capelli e mettevo lo smalto.

Sì, perché il signorino sopracitato mi cronometrava. Sisi, avete capito bene. Non appena io sparivo dietro alla porta del bagno, lui si piazzava fuori dalla soglia munito di cellulare e l'ultimo numero di Vogue e strillava: «Meno quindici», deliziandomi con il suo seccante conto alla rovescia fino allo scadere del quarto d'ora concessomi. E guai se tentavo di sgarrare e uscire dai tempi da lui, sua altezza serenissima duca dei rompicoglioni, perché allora entrava come una furia e spalancava la tenda della doccia incurante del significato della parola 'Privacy'.

Avevo provato a chiudermi dentro a chiave ma purtroppo il bel damerino, nessuno sa come o dove, aveva imparato ai tempi della sua scellerata gioventù bruciata a scassinare le serrature e così, quando ebbi quella bruttissima idea, me lo ero ritrovato in bagno con un ghigno malefico stampato in volto, pronto a reclamare il suo turno.

«Oh, è molto probabile», mi rispose tranquillo, «Il tuo foulard, ad esempio, quello di Hermés, l'ho intravisto prima mi pare...», commentò vago sempre con il suo bel sederino al vento e la testa sepolta sotto alle giacche appese nel mobile.

Un urlo di rabbia repressa riempì l'aria e, con mia grande sorpresa, mi resi conto di essere stata io ad emetterlo. Giurai a me stessa che questa volta avrei davvero usato il suo completo di Prada come lettiera per Draco. E prima di fare ciò avrei rimpinzato il mio gattino adorato con un bel manicaretto a base di peperoni e uova, mix letale che, come avevamo avuto modo di sperimentare l'anno scorso, aveva il potere di trasformarlo nell'esorcista. Cioè, ancora più di quanto già non fosse.

Scandagliai il letto alla ricerca di un oggetto da lanciargli in testa, qualcosa abbastanza contundente da necessitare un suo ricovero in ospedale. Un lungo ricovero.

Lo scampanellio della porta d'ingresso interruppe il mio piano omicida.

«Cece, la porta», mi fece presente il mio tesorino.

Esclamai tra me e me tutte le maledizioni che mi venivano in mente e al colmo dell'esasperazione gettai nella sua direzione la prima cosa che mi capitò sottomano.

Ovviamente lo mancai, e non per un soffio, ma per un metro buono. Giusto, avrei dovuto immaginarlo dal momento che a tiro con l'arco ero riuscita a colpire il mio insegnante che si trovava a dieci metri dal bersaglio. Ed ero pure convinta di aver mirato per bene quella volta.

Il rumore di vetro infranto ebbe il potere di far riemergere dalle profondità abissali di vestiti di alta moda Noel che lanciò un'occhiata verso la fonte del trambusto e sorridendo constatò: «Dì addio ai tuoi adorati occhiali da sole»

NO! Non era possibile. Gli avevo lanciato il mio amato paio di occhiali appena ritrovato dopo due anni di agognata separazione.

Spalancai la bocca e strinsi i pugni, ma purtroppo per me, e per fortuna per Noel, non ebbi il tempo di strillare nulla perché un sonoro bussare alla porta mi precedette.

Assottigliai gli occhi e gli puntai un dito contro, «Avada Kedavra», sibilai prima di voltargli le spalle e affrettarmi verso l'ingresso.

Lo scocciatore impaziente alla porta si rivelò essere l'amato cugino Sebastian.

«Cugino», borbottai facendomi di lato per farlo entrare.

Non appena sorpassò la soglia il mio occhio cadde su ciò che stava alle sue spalle.

A i u t o !

Una ventina, tra trolley, valigie, bauletti e beauty case, tutti rigorosamente decorati con il monogramma di Louis Vuitton, sostavano sullo zerbino del pianerottolo.

Neanche Noel arrivava a tanto. E con questo ho detto tutto dal momento che lui era abbonato alle multe aeroportuali legate al suo bagaglio, anzi sarebbe meglio dire bagagli, mai conformi con i limiti di peso e misura stabiliti dalle compagnie aeree.

«Dove pensi di metterle quelle?», esclamai ancora sotto shock cercando di contarle mentalmente e di autoconvincermi che, no, era solo un miraggio e davanti agli occhi non avevo davvero ventitré valigie.

«È sempre una gioia incontrarti, cugina cara», mi rispose sarcastico, il suo tono di voce con un timbro più strascicato e antipatico del solito, «Il mio bagaglio, alquanto esiguo, soprattutto se confrontato con le mie necessità, ovviamente verrà con me nella mia nuova camera padronale. Mi sembra ovvio, non sei d'accordo carissima?»

«No, carissimo, non sono d'accordo. Prima di tutto perché la tua stanza non è padronale né sciocchezze simili ma è il nostro ex guardaroba», gli risposi accigliata, «E poi se davvero vuoi tutta quella robaccia devi scegliere: o tu o i bagagli. Entrambi non ci stanno», conclusi pratica.

«Robaccia?», una voce scandalizzata ci fece voltare verso il viso adorante del mio coinquilino.

Ecco, ci mancava solo lui.

«Noel questo è il mio irritante cugino, Sebastian questo è il mio coinquilino idiota», li presentai velocemente.

Noel sembrava in trance. Avevo lo sguardo vacuo e non la smetteva di fissare quelle stramaledette valigie. Sembrava stesse assistendo ad un miracolo.

All'improvviso alzò lo sguardo su mio cugino e allungando una mano  chiese con voce tremante: «Quello che i miei occhi vedono è davvero il set completo di valigeria di Louis Vuitton?»

«Dal primo all'ultimo pezzo», confermò spocchiosamente Sebastian.

«Cos'è? Vogliamo portare dentro le tue cose o dobbiamo stare qui ancora a lungo in muta adorazione?», domandai sempre più scocciata.

Primo, non sopportavo Sebastian. Cresciuto o meno restava sempre colui che mi aveva infilato una rana nella torta di compleanno.

Secondo, sapevo benissimo che Mrs. Fry in quel momento era con l'occhio incollato allo spioncino, intenta a captare chissà quali segreti.

Terzo, erano le quattro di sabato pomeriggio e io volevo andare a comprare un armadio nuovo prima di Pasqua.

Noel con un colpo deciso di bacino mi costrinse a spostarmi e, ignorando le mie proteste, si avvicinò ai bagagli tanto idolatrati, «Ignorala, Sebastian, come faccio io quando diventa molesta, cioè quasi sempre»

«La mia cugina adorata ha molti pregi ma l'essere amabile non è, per nostra sfortuna, tra questi», gli diede manforte il piccolo lord, «Credo che andremo molto d'accordo», concluse sorridendo sornione a Noel.

Ecco, l'imbecille complicità maschile mancava alla lista delle mie disgrazie.

Ricapitoliamo Cecilia, nel caso te ne fossi dimenticata. Hai firmato un contratto di castità. Il tuo fastidioso cugino si trasferisce da te e sembra possedere, secondo una inquietante somiglianza, i peggiori difetti dell'altro mio coinquilino, il frivolo pappagallo. Tua madre tra meno di una settimana darà l'ormai tradizionale gala per l'inaugurazione della stagione lirica di quest'anno, ciò significa abiti tanto belli quanto scomodi e inutilmente dispendiosi, tanti sorrisi forzati a persone a me ignote e schifosi canapè al sapore di cartone. La tua camera pare un campo di battaglia e hai più vestiti e cianfrusaglie di quello che fisicamente il tuo armadio può contenere. E tra meno di tre settimane sarà San Valentino, la festa più maledettamente inutile ma allo stesso tempo irritante dell'anno.

Feci rapidamente dietrofront, lasciando i due babbei a vedersela da soli con le loro preziose valigie griffate e mi fiondai in camera.

Perlustrai alla svelta i vestiti abbandonati sulla poltrona vicino alla finestra e mi infilai una camicia azzurra, un maglione blu dallo scollo tondo da cui spuntava il colletto della camicia e un paio di pantaloni neri. Anfibi, cappotto blu, sciarpa e cuffia. Scattai rapida delle foto alla camera e poi lasciai scivolare il telefono nella tracolla.

Tornai all'ingresso dove la torretta di bagagli sembrava essersi abbassata e mi misi a cercare le chiavi della macchina di Noel sul mobiletto basso dell'atrio.

Non c'erano. Questo voleva dire solo una cosa. Cercando di fare meno rumore possibile zampettai nuovamente nella zona notte e arrivai quatta alle spalle del mio coinquilino. Poi, con un balzo felino, gli saltai addosso e mentre lui, preso alla sprovvista, cercava di recuperare l'equilibrio e di liberarsi di me, io infilai rapida le mani nella tasca dei suoi pantaloni e feci sgusciare fuori da esse le chiavi della sua Ford.

Lo mollai e mi precipitai all'ingresso urlando, «Grazie per il prestito!»

***

 

Chi l'avrebbe mai detto che ci fossero così tante varietà e modelli di armadi tra cui scegliere?

A me serviva un mobile solido, funzionale e, soprattutto, capiente. Molto capiente.

Stavo osservando dubbiosa un guardaroba alto due volte me e largo quanto due tavoli da pingpong quando sentii qualcuno chiamare il mio nome.

Non mi voltai, pensando che fosse qualche altro cliente che stesse attirando l'attenzione della moglie o della figlia.

Quando però, pochi attimi più tardi, sentii nuovamente chiamare il mio nome, e questa volta proprio vicino a me, mi voltai e la prima cosa che incontrai furono un paio di occhi verdi corredati da fossette.

Dalla sorpresa lasciai cadere per terra il paio di matitine che avevo trafugato. Ormai era un'abitudine, non me ne andavo dall'Ikea senza una matita di legno in tasca.

«Ezra?», mormorai quando mi rialzai, paonazza in volto, con le mie stupide matite in mano.

«In persona», nuovo sorriso, «Sei anche tu una rapinatrice di matite?», mi chiese mostrandomi con fare circospetto il contenuto della tasca del suo montgomery.

Non potei fare a meno di rispondere al suo sorriso.

«Che ci fai qui?», domandai curiosa.

Probabilmente dalla quasi morte di Draco lo avevo incrociato al massimo un paio di volte e ci eravamo sempre limitati a dei cenni del capo e probabilmente dei patetici 'hey' erano stati i nostri unici tentativi di conversare.

Quindi da dove saltava fuori tutta questa voglia di ciarlare, Cecilia?

«Avevo bisogno di un comodino nuovo»

«Cos'è successo a quello precedente?», domandai, due secondi prima di mordermi la lingua.

Cecilia! Tieni la tua boccaccia chiusa. Vuoi chiedergli anche cosa ci teneva dentro al comodino?

«La mia ex ragazza lo ha gettato dal balcone sul parabrezza della mia auto», mi spiegò tranquillo, come se lanciare comodini dalla finestra fosse un hobby comune.

«Wow! Che le hai fatto?»

Mi sarei schiaffeggiata da sola. Mai sentito parlare di discrezione? Accidenti, io proprio gli affari miei non me li sapevo fare.

Chissà che starà pensando della mia curiosità morbosa. Probabilmente che sono una psicopatica, il che non è una novità dato che lo pensano tutti i miei conoscenti.

«L'ho lasciata», si passò quasi imbarazzato una mano tra i capelli spettinati come al solito, «Non l'aveva presa bene a quanto pare...»

«Direi proprio di no»

Cecilia, quando vuoi puoi anche smetterla di fissare come una sociopatica la sua bocca e quelle dannate fossette. Fai con calma eh, mi raccomando, cosicché anche lui capisca quanto tu sia disagiata dopo appena tre frasi.

«Tu che fai qui?»

«Cerco un armadio», risposi indicando vaga quello che stava esposto davanti a noi, «Ma nessun ex lo ha gettato giù dalla finestra. Anche perché ci vorrebbe Thor per sollevarlo e trovarlo uno così. E poi non ho un'auto e finirebbe solo per cadere su quella di Noel, che diventerebbe ancora più isterico e molesto di quanto già non sia»

Un freno cervello-bocca no? Che mi succedeva insomma?

Lui per tutta risposta scoppiò a ridere. E le malefiche tornarono a contornargli la bocca. Non doveva ridere. Non poteva ridere. Altrimenti addio lucidità mentale.

«Te ne intendi di armadi?», gli domandai improvviso.

Se parlava non poteva ridere, o almeno speravo fosse così.

«Direi di sì, in fondo è il mio lavoro»

Mi fece cenni di seguirlo mentre si dirigeva all'inizio dell'esposizione.

«Costruisci armadi?»

Ero diventata stupida, era ufficiale.

Scosse il capo e mi prese per mano, tirandomi verso di sé. Una signora alle mie spalle mormorò uno sgarbato «Finalmente» e riprese a spingere il suo carrello per il corridoio ora non più intasato dalla mia presenza.

«Sono un architetto, specializzato in interni per la precisione», mi indicò un catalogo che ovviamente io in precedenza avevo bellamente ignorato, «Se vuoi posso aiutarti»

Belle Fossette costituiva un ipotetico ostacolo tra me e le mie future Manolo Blahnik? Sì, decisamente si.

 

 

 

Eccomi qui!

Questo capitolo è frutti dei ritagli di tempo di questa mia prima e devastante sessione estiva. Credo che, essendo io, in questi tristi giorni di studio matto e disperatissimo, uno straccio, anche la mia scrittura ne risenta, infatti questo capitolo mi pare un po' sottotono ma non volevo farvi aspettare troppo perciò lascio giudicare a voi. Ringrazio tantissimo chi ha letto in silenzio, chi l'ha inserita tra le ricordate o le seguite e la ragazza che mi ha lasciato la mia prima (e finora unica 😢) recensione.

Bacini,

S.

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Capitolo 4
*** IV ***


 

 

Maneggevole, funzionale e facile da montare. Così recitava il foglio delle istruzioni di montaggio del mio nuovo armadio Ikea, dove tre disegnini esplicativi mostravano un omino che in pochi passaggi riusciva ad assemblare un solido guardaroba partendo dalle componenti sparse presenti inizialmente nella confezione.

Fissai il sorriso sul volto dell'omino nell'ultimo dei disegni, quello in cui, a lavoro concluso, ammirava soddisfatto il suo bel mobile. Dopodiché spostai lo sguardo attorno a me: un campo di battaglia.

La stanza, ancora invasa da abiti, borse, scarpe ed ogni sorta di cianfrusaglie accumulate in più di vent'anni anni di vita, ora era anche riempita dai vari pezzi che avrebbero dovuto costituire il mio nuovo armadio.

Erano le cinque di una domenica pomeriggio di inizio febbraio e, in sei ore di lavoro ininterrotto, ero riuscita a dare vita ad una costruzione astratta, a metà tra Gaudì e l'architettura razionalista, con un pizzico di Picasso, che certamente non assomigliava ad un armadio.

In preda alla disperazione mi accasciai a terra, tra viti e pezzi non ben identificati che non ero riuscita a capire a cosa servissero e dove dovessero andare, facendo attenzione a non sedermi sul trapano e a non calpestare il martello.

Il libro di otorinolaringoiatria giaceva abbandonato ai piedi del letto tra evidenziatori e appunti sparsi.

Avevo rinunciato a sei ore di studio per creare un inquietante monumento che pareva la Tana, la casa dei Weasley, sviluppandosi in modo disordinato verso l'alto.

Avevo dovuto rinchiudere Draco nel bagno perché quando aveva visto il prodotto del mio duro lavoro era impazzito e aveva rizzato il pelo iniziando a miagolare in modo terrificante verso di esso.

Se fosse stato un cane avrei dovuto spedirlo a quel programma su Real Time, quello con lo psicologo canino. Ma per Draco ormai l'unica soluzione restava un bravo esorcista.

Mi rialzai dal parquet della mia camera e ciabattai in cucina cercando Noel.

Ovviamente sapevo già che chiedere il suo aiuto corrispondeva a domandare a Kim Kardashian quanto costava un litro di latte del supermercato ma si sa che la speranza è l'ultima a morire e che in casi disperati l'essere umano tende ad appigliarsi dovunque pur di non annegare nel mare di pupù da cui è circondato.

Trovai invece il mio stronzo cugino spaparanzato allegramente sul nostro divano sfondato. Aveva gli occhi chiusi e le cuffiette dell'iPod nelle orecchie. Pur non facendo nulla trasudava spocchia e nobiltà da tutti i pori, dalla posa composta anche nel sonno, stile mummia in un sarcofago, perché fare sonnellini con gambe e braccia buttate di qua e di là era terribilmente plebeo, alla sua tenuta da casa, che non prevedeva tute improponibili o maglioni infeltriti e sbiaditi come la mia, consistente in morbido e caldo cardigan di alpaca color beige, pantaloni grigio scuro e ai piedi pantofoline di velluto con le sue iniziali ricamate in oro, tutto mi faceva ricordare quanto fosse incredibilmente borioso ed altezzoso quell'essere inspiegabilmente mio consanguineo.

Senza troppi complimenti feci atterrare il cuscino della poltrona accanto a me dritto sul suo bel visino serenamente addormentato.

Due nanosecondi dopo il mio regal parente aveva già perso tutti il suo aplomb, sostituito invece da una sfilza di epiteti poco carini riferiti alla sottoscritta dal linguaggio degno di un mozzo di una nave pirata.

Sebastian era adorabile quando si comportava da essere terreno e non da dio sceso in terra, anzi era proprio spassoso, soprattutto quando si arrabbiava o era terribilmente triste e sconsolato.

A sette anni lanciò il suo esercito di Power Ranger parlanti nella piscina della casa in Costa Smeralda perché voleva vedere se avrebbero iniziato a nuotare per salvarsi. Quando il giardiniere li ripescò fradici e destinati al mutismo perenne, grazie al bagnetto a cui le batterie e i cavetti elettrici nella loro schiena erano stati sottoposti, Sebastian pianse l'anima. Iniziò a sparire sempre più spesso e ogni giorno, dopo ore di ricerca, lo ritrovavano in angoli remoti della villa in compagnia dei suoi giocattoli rotti. Quando sua madre, stanca di quelle fughe, spedì qualcuno a comprare una squadra nuova fiammante di Power Ranger, Sebastian urlò così forte e pestò i piedi così violentemente da far venire un mini infarto alla nonna e da far scappare a gambe levate la sua tata svizzera, traumatizzata dagli strilli demoniaci del bambino. Il resto della vacanza era trascorso con una piccola Cecilia cicciotta che faceva castelli di sabbia e passava ore in acqua con il suo salvagente a forma di cavalluccio marino, mentre Sebastian stava tutto il giorno a seppellire e disseppellire quei poveri Power Ranger muti e rovinati senza proferire parola.

«Sai montare un armadio?», gli domandai ignorando i suoi continui borbottii.

«Secondo te?»

Ovviamente. Era probabile che si fosse appena fatto fare la manicure e quindi che cosa mai andavo a pensare. Sebastian che forniva un qualche aiuto? Ma quando mai!

Avrei dovuto prevederlo dal momento che lui era la stessa persona che alla mia telefonata, da una stradina dispersa nella campagna del Kent con l'auto in panne, mi aveva risposto laconico, «Chiama un carroattrezzi». Quando lui era a quattro kilometri da me dato che stavo cercando di raggiungerlo quando l'auto aveva dato forfait e il carroattrezzi probabilmente ci avrebbe impiegato ore.

Il principino mi diede le spalle rotolando su un fianco, facendomi intendere chiaramente di voler continuare a riposare indisturbato.

«Grazie mille davvero!», sbottai indispettita prima di girare sui tacchi e tornarmene in camera.

«Chiama tuo papà e fatti mandare qualcuno», mi strillò dal salotto il damerino che non poteva assolutamente far qualcosa di prima persona ma doveva sempre delegare, a suon di sterline ovviamente.

Piuttosto che chiamare papà mi sarei tenuta quella meravigliosa opera d'arte che ora capeggiava ai piedi del mio letto.

Ripescai da terra il libretto delle istruzioni; magari mi era sfuggito qualcosa e rileggerlo si sarebbe rivelato utile.

 

07499674531

Nel caso avessi bisogno di aiuto.

E.

 

Avete presente quando si dice una manna dal cielo? Ecco, l'appunto scribacchiato da Ezra su un angolo spiegazzato del volantino esplicativo giunse come un raggio di sole dopo giorni e giorni di maltempo.

Tempo un minuto ed ero già intenta a digitare in modo febbrile il numero sullo schermo del mio telefono.

Squillò otto volte a vuoto, alla nona, una voce assonnata mugugnò, «Pronto?»

Anche questo fu un caso fortuito perché io ogni volta che chiamavo qualcuno facevo esattamente nove squilli dopodiché, in assenza di risposta, desistevo e riattaccavo.

«Ezra? Ti ho svegliato?», chiesi dubbiosa lanciando un'occhiata alla radiosveglia sul comodino.

5.47 p.m.

Magari stava emulando il mio nobile cugino ed era perso nel mondo dei sogni su un divano a qualche kilometro di distanza.

«Chi parla?», sonoro sbadiglio e voci in sottofondo.

Avevamo scambiato due parole in croce e già mi sentivo terribilmente imbarazzata e a disagio. Perché lo avevo chiamato? Ci conoscevamo a malapena e prima di incontrarci all'Ikea non avevamo neanche mai avuto una vera conversazione.

«Cecilia?», un'ombra di sorpresa nella voce.

«Ehm si», confermai sommessamente, «Ti ho disturbato?», domandai nuovamente.

Se era vero, come sospettavo, che si era appena svegliato era probabile che fosse ancora un pochetto rimbambito dalla siesta.

Fruscii, una porta sbattuta e un colpo di tosse arrivarono dall'altro lato della cornetta.

Dove accidenti era? E con chi?

«Oh no, no. Come fai ad avere il mio numero?»

Ok, il sonnellino pomeridiano che poteva averlo rintronato un pochetto ma erano passate poco più di ventiquattr'ore dal nostro ultimo incontro. Probabilmente faceva uso di sostanze non ben identificate ma sicuramente brucia neuroni.

«Me lo hai dato tu», spiegai con una punta di fastidio. «Ieri», specificai.

«Ti serviva qualcosa?», nuove voci in sottofondo, il suono di un clacson, delle risate trattenute.

«Deduco tu sia impegnato. Lascia stare, grazie lo stesso e scusami», cercai di congedarmi senza far percepire la mia confusione dopo quella stramba telefonata.

«No, Cecilia, aspett-»

Troppo tardi, avevo già riattaccato.

Cecilia Lawrence non mendicava le attenzioni di nessuno e comprendeva benissimo quando stava disturbando qualcuno.

Mollai la stanza nel caos in cui si trovava e sconsolata andai in cucina con l'intenzione di prepararmi un thè caldo, sebbene in ritardo sulla tabella di marcia, completamente stravolta a causa dell'imprevisto dell'armadio.

Riempii di acqua il bollitore e lo accesi. Preparai una tazza e poi avvicinai una sedia alla dispensa, prima di arrampicarmici sopra per raggiungere il ripiano più alto e acciuffare la scatola nuova di bustine di Earl Grey.

Mentre aspettavo che l'acqua giungesse ad ebollizione l'occhio mi cadde sulla lavagnetta magnetica affissa sul frigorifero.

Sono tornato a casa.

Ci vediamo martedì.

Ti spiegherò.

In bagno sempre quindici minuti, ho impostato un timer nella doccia.

Bacini Cece (e Seb)

N.

Quella si che era una notizia preoccupante. Noel avrebbe preferito essere essere picchiato con un bastone di bambù sotto le piante dei piedi piuttosto che fare ritorno a casa sua per una causa che non fosse una festività comandata.

La famiglia Donovan viveva a Exeter e rappresentava tutto ciò da cui Noel aveva disperatamente cercato di sfuggire dall'età di dieci anni. Madre casalinga, padre avvocato di provincia, villetta a schiera, pastore tedesco, station wagon familiare, vacanze sempre nel medesimo luogo tutte le estati. Erano una famiglia molto unita, i suoi genitori erano delle persone molto cordiali ed entrambe le volte che li avevo incontrati erano stati particolarmente carini nei miei confronti. Noel però temeva che la vita dei suoi genitori, ai suoi occhi terribilmente ordinaria e monotona, potesse diventare lo stampo della sua. Quando a diciotto anni Noel disse ai suoi genitori di essere gay, appena prima di fare i bagagli e partire, solo e squattrinato, per Londra, loro non la presero molto bene. Suo padre che aveva risparmiato per anni in vista delle spese della facoltà di legge di Cambridge che Noel avrebbe dovuto frequentare secondo i suoi progetti dovette rassegnarsi al fatto di avere un figlio che già a undici anni leggeva il Financial Times invece dei fumetti. Sua madre che segretamente aveva già sferruzzato dozzine di piccoli maglioni, piccole calzine e piccoli berrettini per i suoi nipotini, figli del suo unico figlio, aveva dovuto chiudere tutto in soffitta, consolandosi con l'idea che almeno non avrebbe mai dovuto fare la guerra ad un'eventuale nuora che pensava di saperne più della suocera.

Anni più tardi, accettato il fatto di avere un figlio omosessuale e genio della finanza, continuavano a telefonargli per assicurarsi che si nutrisse, cosa che faceva indubbiamente, complice un metabolismo da tritatutto che gli invidiavo con tutto il cuore, che non spendesse più di quanto guadagnasse, cosa su cui stava ancora lavorando, e per informarsi riguardo ad eventuali ragazzi da presentare loro.

Noel inventava sempre qualche scusa poco credibile per sfuggire alla voce di sua madre che si preoccupava proveniente dalla nostra segreteria telefonica e così finiva che ero sempre io a prendere le chiamate, dispiaciuta per il modo in cui Mrs. Donovan veniva costantemente ignorata dal figlio, e a fare lunghe chiacchierate con lei. Avevo scoperto così che era una donna dai mille interessi, dal cake design alla pittura ad olio, passando per lo squash e i tornei di burraco.

Quando il bollitore iniziò a borbottare e fischiare in modo insistente lo spensi. Pescai dall'armadietto la scatola in cui tenevo i miei biscotti preferiti, le digestive.

Stavo versando l'acqua bollente nella tazza quando il campanello alla porta suonò.

Non mi illusi neanche per un momento che sarebbe andato Sebastian ad aprire, abituato com'era ad avere un maggiordomo era già tanto se rispondeva lui in persona al suo cellulare.

Sbirciai dallo spioncino e per farlo dovetti alzarmi in punta di piedi, un giorno qualcuno mi avrebbe spiegato perché nel nostro palazzo tutto sembrava costruito per il popolo dei watussi.

Ezra.

Anzi, per essere più precisi, Ezra una chitarra e un amplificatore.

Aprii la porta sostando sulla soglia, non avevo ancora deciso se farlo entrare o meno.

Dopotutto meno di dieci minuti prima aveva impiegato mezzo secolo a ricordarsi chi fossi e si era a malapena trattenuto dallo sbadigliarmi in faccia, ok tecnicamente in faccia alla cornetta, ma l’effetto sarebbe stato il medesimo.

«Cecilia, ricordi?», domandai indicandomi.

Lui alzò gli occhi al cielo e sbuffò, «Sono assonnato, non stupido»

«Davvero?», lo punzecchiai, «Non me ne ero accorta, perdonami»

Simpatia portami via.

Lui fece un cenno verso la custodia dello strumento che portava sulle spalle, «Mi fai entrare?»

Certo caro, e ti stendo anche un tappeto rosso, con lancio di petali profumati al tuo passaggio.

«Cosa vuoi?», domandai scontrosa.

Io sapevo senza dubbio come farmi degli amici.

Ezra sollevò un sopracciglio e assunse un’espressione scocciata, «Non ti serviva aiuto per caso?», si passò distrattamente una mano tra i capelli arruffandoli ancora di più, «Io il numero te lo avevo lasciato per quello, non per telefonarci a vicenda e raccontarci i nostri drammi sentimentali»

«Io non ho drammi sentimentali», commentai piccata.

Come si permetteva?

Lui fece spallucce e mi superò senza aspettare che mi spostassi dalla soglia, finendo così per strusciare il suo braccio destro contro il lato sinistro del mio corpo.

Era proprio un maleducato, altroché!

«Che mi dici di Jack?», mi sussurrò piano in un orecchio sfiorandomi per un secondo il lobo con le labbra, prima di dirigersi in soggiorno ed esclamare, «Hey! Che ci fa Seb sul tuo divano?»

Come diamine faceva a sapere di Jack? Che domande! Noel il pettegolo ovviamente. Lui e la sua assoluta incapacità di tenere la sua boccaccia chiusa e di farsi gli affari propri. Un giorno gli avrei sul serio tagliato lingua e dita per fare in modo che la sua persona non potesse più diffonder, tramite parole e frasi scritte, notizie false e infiocchettate dalla sua fervida e malata immaginazione che non riguardavano lui.

Mentre chiudevo la porta e spingevo l’amplificatore, con un peso che probabilmente gareggiava con quello di una balenottera azzurra, contro al muro, dato che Ezra lo aveva semplicemente mollato nel bel mezzo dell’ingresso, sentii la risata del mio nobile cugino provenire dall’altra stanza.

La scena che mi si parò davanti agli occhi fu piuttosto inaspettata. Il mio adorato parente stava abbracciando entusiasticamente Ezra, il quale sorrideva incredulo e gli restituiva altre pacche affettuose, ai loro occhi, probabilmente a me avrebbero sfondato la cassa toracica.

«Ezra Cunningham! Che fine avevi fatto?», esclamò Sebastian non appena si separò da quello che pareva essere un suo grande amico.

Ezra seguì l’esempio del compare e si sedette sul divano, ignorando bellamente la mia persona.

«Io sono andato a studiare a Parigi», si giustificò quello, «Tu invece dove sei sparito? Nessuno è più riuscito a rintracciarti o ad avere tue notizie…»

Mi accovacciai sul bracciolo della poltrona, incuriosita da quei due, «Oh, è stato per un po’ negli States a fare la cosa che gli viene meglio», commentai aspra.

«E cioè?», domandò interessato Ezra sorridendo al cuginastro.

«L’idiota», chiosai candida.

Purtroppo non avevo mai avuto dei buoni riflessi, come le molteplici pallonate ricevute al liceo testimoniavano, e così mi scansai troppo tardi e la pantofola lanciatami da quel deficiente con cui condividevo l’albero genealogico mi colpì dritta in fronte per poi cadere con un tonfo a terra.

Mugugnai di dolore e mi massaggiai il punto in mezzo agli occhi dove ero stata centrata, manco fossi un tiro al bersaglio.

«Sono contenta che torni la tua pazza e sclerotica madre, sono davvero contenta», sibilai cattiva, facendomi sfuggire ciò che papà mi aveva fatto giurare sulla testa di Bisnonno Samuel di non rivelare a Sebastian.

Mi portai subito le mani alla bocca, desiderando ardentemente di aver tenuto la bocca chiusa.

Sebastian sbiancò visibilmente e si alzò dal sofà iniziando a girare in tondo per il salotto.

Questo voleva dire che, avendo io rotto la promessa fatta, il nonno sarebbe stato colpito da una qualche sorta di maledizione senza perdono?

«Dov’è ora?», domandò terreo.

Aveva gli occhi spalancati, colmi quasi di terrore, e continuava a contorcersi le mani senza sosta.

«A L.A. credo. Sarà a Heathrow domattina», bisbigliai in preda ai sensi di colpa.

Lo vidi annuire brevemente prima di eclissarsi in camera sua, telefono alla mano, un cenno distratto diretto a Ezra.

Se c’era una cosa che mandava completamente a farsi fottere il bel castello fatto di alterigia e raffinatezza in cui Sebastian si rifugiava quella era sua madre.

Calliope Seraphina Lawrence. Detta anche PsicoZia, a causa della sua pazzia, ormai accertata e accettata da tutta la famiglia.

Sospirando sconsolata feci segno ad Ezra di seguirmi e a passi lenti mi diressi nella mia stanza, assicurandomi di lasciare aperta la porta.

Mi lasciai cadere sul letto, lo sguardo rivolto alla mia creazione astratta.

Vidi come si guardava attorno curioso, studiando ogni dettaglio, dalla stampa di Warhol appesa sopra al comò di sinistra alla poesia di Pessoa scarabocchiata sui post-it sparsi sulla scrivania; vidi e mi sentii quasi nuda di fronte al suo sguardo scrutatore. Ma non era uno scrutare che ti metteva imbarazzo e ti faceva sentire giudicata, no, era come uno sguardo bramoso di sapere di più, desideroso di guadagnarsi il permesso di guardare le cose più da vicino.

La mia stanza era sempre stata il mio rifugio e io tendevo a trasformare in qualcosa di mio e solo mio tutto ciò che lo era, anche se per un breve periodo.

E così quando mi ero trasferita in quell’appartamento avevo dipinto le pareti da sola, due bianche e due color verde acqua, avevo scovato stampe di quadri famosi al mercatino di Portobello Road e le avevo affisse alle pareti, seguendo un ordine che agli occhi degli altri pareva caotico ma che era chiarissimo nella mia mente.

E così Schiele,             Warhol, Manet, Kokoschka, Rembrandt e Botticelli erano solo alcuni degli artisti più celebri che con le loro opere rendevano più bello il mio piccolo mondo.

Citazioni, stralci di frasi e versi di poesie completavano l’opera, scritti su fogli volanti, su appunti fissati alla testata del letto con un pezzetto di scotch, dipinti sulla porzione di muro accanto alla porta.

Avevo una passione immensa per l’arte; adoravo tutto: musica, pittura, scultura, architettura, teatro, cinema, letteratura, poesia.

«Questo quadro è qualcosa di spettacolare e terrificante al tempo stesso…», lo sentii commentare piano alle mie spalle.

Quando mi voltai lo vidi di fronte al muro, intento ad ammirare una piccola riproduzione di un quadro che mi lasciava da sempre senza parole, regalandomi in egual misura inquietudine e profonda pace.

Si trattava de L’isola dei morti di Arnold Böcklin, quadro che rappresentava un’isola, dalle alte pareti rocciose, che sembrano quasi racchiuderla, e al centro dei cipressi, alti e svettanti verso il cielo. Nella porzione di mare antistante la macchia di terra è presente una piccola imbarcazione che si sta avvicinando, su questa sono presenti due figure, di cui una incappucciata di bianco, e una piccola bara del medesimo colore del manto del passeggero.

 Mi riscossi dallo stato pensieroso in cui ero caduta e gli ricordai il motivo per cui eravamo lì, «Potresti darmi una mano con l’armadio?», lo interrogai, indicando timidamente la forma prima di forma in verità ai piedi del letto.

Una risata ruppe la quiete di quel tardo pomeriggio e riecheggiò tra le pareti dell’appartamento silenzioso.

«Quello…», iniziò, presto interrotto da un nuovo attacco di ilarità, «Quello è l’armadio che abbiamo comprato ieri?»

Abbiamo?

Si avvicinò alla mia opera mentre io mi mordicchiavo nervosa un labbro.

Era davvero imbarazzante. Anzi, era assolutamente vergognoso che una quasi dottoressa, capace di suturare alla perfezione delle ferite, non fosse in grado di montare uno stupido armadio Ikea che, come mi ricordava il viso sorridente del tizio del manuale, era molto semplice da assemblare.

Per non parlare della mia incapacità di cucinare un misero uovo alla coque, di separare nel modo corretto i colori in lavatrice e calibrarne i gradi di lavaggio e di utilizzare il forno senza l’intervento di una squadra dei pompieri.

Ezra mi sorrise incoraggiante, «All’opera!». Si sfilò il maglione a righe che indossava e restò con una vecchia t-shirt sbiadita dei Dire Straits.

 

Le successive due ore trascorsero in un soffio. Ezra era un ottimo insegnante e, dopo aver smontato la mia creazione, non si limitò a rimontarlo nel modo corretto ma mi mostrò e mi spiegò a cosa servissero tutte quelle viti e quei coni di plastica bianca che assomigliavano tanto a delle cialde per gelato.

Quando l’opera fu completa ci sedemmo, fianco a fianco, ai piedi del letto per ammirare il frutto del nostro lavoro.

«Ottima scelta, è proprio un bell’armadio! Chissà chi te lo ha consigliato...», ridacchiò lui facendo dondolare i piedi.

Incrociai pigramente le gambe, «Un meraviglioso commesso Ikea! Occhi color zaffiro, capelli così biondi da sembrare bianchi, origini svedesi come i mobili che vendeva, lo conosci?», gli domandai prendendolo in giro.

«Probabilmente, se i commessi Ikea corrispondessero davvero alla tua descrizione, Noel si sarebbe già accampato in modo permanente in uno dei letti a baldacchino dell’esposizione del reparto zona notte…»

Scoppiai a ridere immaginandomi la polizia intenta a trascinare via di peso il mio coinquilino che, resistendo con tutte le sue forze, si opponeva aggrappandosi alle coperte del letto occupato abusivamente per spiare i bei commessi.

«Elimina il probabilmente, lo farebbe di sicuro!», mi passai una mano sugli occhi, era da quella mattina che portavo le lenti a contatto e la stanchezza iniziava a farsi sentire, «Dov’eri quando ti ho chiamato?», gli domandai cercando di non perdere il filo dei miei pensieri in quegli enormi occhi verdi che mi fissavano brillanti.

Sospirò ed abbassò un attimo lo sguardo prima di rialzarlo deciso e tornare a guardarmi in quel suo modo troppo intenso, «Stavo dormendo nel retro di un pulmino. Stavamo tornando da un concerto e ho passato la notte in bianco»

Questo spiegava il perché di tutto quel trambusto in sottofondo e della voce assonnata.

«Non suoni con i ragazzi ora?»

Adam, Noel e Oliver avevano approvato il suo ingresso nella band e così ora gli Sleepless Nights avevano un nuovo chitarrista. Dopo Jack.

«Sì, ma quando capita faccio anche dei piccoli concerti acustici come solista», mi spiegò, piegando leggermente la testa verso destra, «Sai, per racimolare qualcosina…»

Lo disse piano, quasi come se fosse una cosa di cui vergognarsi. Ma eravamo tutti sulla medesima barca; la nostra intera generazione, lauree in tasca e dottorati in dirittura di arrivo, si reinventava in continuazione per riuscire ad arrivare alla soglia dei trent’anni camminando sulle proprie gambe.

Bastava guardare me e le prolungate ore di tortura a cui mi sottoponevo volontariamente, tra babysitteraggio e ripetizioni, per cercare di guadagnare qualcosina e al tempo stesso non commettere infanticidi. O Hannah che lavorava in questa radio in stile underground, che aveva sede in un capannone ammuffito e decorato da fitte ragnatele a Mayfair, dove trasmetteva musica deprimenti di artistoidi pseudo intellettuali la cui musica avrebbe istigato al suicidio anche la persona più gioiosa e amante della vita. Sienna, aspirante futuro direttore di Vanity Fair UK, per il momento si accontentava di scrivere articoli riguardanti gli ultimi stilosi tagli del pelo dei barboncini di qualche baby cantante appena partorita da un qualche talent o in cui doveva mentire spudoratamente e riempire due colonne intere di lodi nei confronti del look monotono e sempre uguale di Angela Merkel. Adam, laureato in scienze politiche, mentre aspettava di diventare un deputato di spicco, aggiustava auto d’epoca e cercava nuovi palchi da calcare per far conoscere gli Sleepless Nights. Oliver era l’unico ad avere un lavoro fisso con uno stipendio di tutto rispetto e il suo essere un genio dell’informatica sicuramente aveva giocato un ruolo di spicco.

Noel invece, pur guadagnando letteralmente una barca di soldi laggiù nel cuore pulsante della City, riusciva a restare puntualmente senza un pound prima della metà del mese.

«Suoni e canti?»

Annuì e io sempre più curiosa non riuscii a trattenermi, «Mi fai sentire qualcosa?»

Amavo la musica anche se avevo dei gusti molti particolari. Gli anni ’80 erano per me l’età dell’oro della musica, con sporadiche eccezioni nei decenni che li precedevano e succedevano. Ero fermamente convinta che il nuovo millennio non offrisse novità molto significative in campo musicale e l’unica corrente che apprezzavo era l’indie rock, genere suonato e prediletto anche dalla band dei miei amici.

Lasciandomi di stucco, già pronta com’ero a insistere e combattere contro una timidezza fuori luogo, si alzò e sparì oltre la soglia della camera.

Tornò pochi istanti più tardi e, dopo aver accostato la porta, tornò a sedersi sul letto a gambe incrociate.

«Richieste particolari?»

«Libertà assoluta», lo incoraggiai.

Mi fissò titubante, «Sii clemente, ti prego», mi supplicò accennando un sorriso.

Dopodiché imbracciò per bene lo strumento, sistemandolo con cura sulle cosce e abbassando il capo, concentrato solo su quelle sei corde.

E poi iniziò a sfiorare leggero le corde, la testa chinata che non mi permetteva di vedergli il volto e una dolce melodia a me sconosciuta nell’aria.

 

Through my window, cold wind blowing
I can't take this
I can't take no more

 

Ero pronta a tutto. A tutto ma non a questo.


Cars they race by, burning headlights
In the mirror, I watch myself cry

Play me a simple song, so I can sing along
Cherry blossoms in spring, they mean everything.

Adam aveva una voce indiscutibilmente bella. Era talentuoso e tutti lo riconoscevano.

Ezra no, aveva una voce imperfetta, dal timbro vibrante eppure incerto. Più che cantare pareva sussurrarti all’orecchio.

In my soul I'm aching to grow
Longing for a love I've never known

My own life has taken its toll
Drunk on whiskey, God don't let me go.

Era l’esperienza più destabilizzante di cui ero mai stata testimone. Pareva che quelle parole mi cullassero, mi confortassero e al tempo stesso mi dessero un pugno dritto in volto.

Provavo un’immensa malinconia ed ero divisa tra un dolore pressante che mi faceva venire voglia di lasciarmi andare e piangere e un conforto, una dolce promessa che tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Play me a simple song, so I can sing along
Cherry Blossoms in spring, and all the joy that it brings

Cause I've been out on the road, driving with no place to go
From Cheyenne out to Frisco, I'm dying to find me a home

Sembrava completamente rapito dalla musica e solo verso la fine rialzò il viso e mi accorsi che teneva gli occhi chiusi, le dita che danzavano libere ed esperte sulle corde.

Take me home,
Take me home,
Take me home,
Take me home.

Le ultime parole si spensero nell’aria e il silenzio tornò a fare da padrone.

La mia mancanza di commenti fu interpretata probabilmente come un muto dissenso perché Ezra mi domandò preoccupato, «Così male?»

E aveva un’espressione così corrucciata e degli occhi così luminosi che io non ce la feci e scoppiai a piangere come una bambina.

Cercai di asciugare rapidamente le lacrime che sempre più copiose mi rigavano le guance ma era come tentare di arrestare un fiume in piena utilizzando un fazzolettino di carta.

Arraffai alla cieca la scatola di kleenex, onnipresente sul mio comodino, e mi soffiai rumorosamente il naso. Non osavo alzare lo sguardo per paura di scoprire che Ezra era fuggito di fronte a questo sfoggio di folle emotività.

Sentii una leggera pressione sul capo e mi resi conto che Ezra aveva abbandonato la chitarra sul pavimento per poi avvicinarsi a me e cingermi delicatamente tra le braccia, lasciandomi delle lievi carezze sui capelli.

«Ho reagito nell’esatto modo quando l’ho sentita per la prima volta…», cercò di consolarmi cullandomi piano.

Nel sentire ciò nuovi singhiozzi mi scossero il petto. Mi scostai brusca e tra una cortina di lacrime lo squadrai torva, «Credi davvero che sia stata la canzone?», domandai dandogli una spinta, «Tu! Sei stato tu! Io non piango mai e ora guardami…sto producendo più acqua di quanta non ce ne sia nella fontana di Trafalgar Square!»

Lo spintonai nuovamente cercando di allontanarmi da lui ma lui mi imprigionò i polsi e mi fissò negli occhi. Lo vedevo sfuocato a causa delle lacrime che continuavano a scendere inarrestabili ma vidi benissimo le meravigliose fossette che mi salutarono maliziose dagli angoli della sua bocca un attimo prima che mi scoppiasse a ridere in faccia.

Rideva e non mi lasciava andare, rideva e io continuavo a piangere e la situazione era così assurda da essere semplicemente comica. E resami conto di ciò mi lasciai andare anche io ad una timida risatina.

«Sei un idiota e non ci credo che hai pianto per questa canzone», esclamai liberandomi dalla sua stretta e cercando di asciugarmi, almeno sommariamente, il viso.

«E fai bene dato che non è vero», mi rispose sogghignando, «Adoro le fan come te, soprattutto quando passata la fase dello sciogliersi in lacrime passano a quella in cui tentano di strapparsi gli abiti di dosso, strillano come degli aquilotti neonati e paiono possedute»

Gli mollai uno scappellotto all’istante, «Sei un idiota! E probabilmente la tua unica fan sarà tua madre», insinuai maligna.

«E non dimentichiamoci della Bisnonna Violet! Con lei sono a quota due…», commentò fiero.

Allungai una mano e gli scompigliai i capelli, «E con me fanno tre», sussurrai prima di alzarmi e andare a vedere che fine avesse fatto il cugino disperso.

 

 

 

La canzone è Cherry Blossoms dei Night Beds.

Grazie a tutti i lettori silenziosi, grazie davvero.

S.

 

 

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