Faceva
freddo, un freddo becco
qualcuno avrebbe detto, di quelli che trapassano maglioni e cappotti e
penetrano fin nelle ossa lasciandoti scie di gelo per tutto il corpo.
Le
strade erano deserte, avvolte
nella luce spettrale ed intermittente dei vecchi lampioni che
costeggiavano il
lungo fiume, lastricate da uno spesso strato di neve trasformata in una
lamina
di ghiaccio dalle migliaia di passi che aveva sorretto. Il fiume
scorreva
silenzioso poco più in basso e in lontananza si udiva l'eco
di una sirena.
Affrettai
il passo cercando di non
rompermi l'osso del collo scivolando sulla superficie lastricata del
marciapiede ghiacciato. La mia pesante sciarpa di lana a righe non
bastava a
ripararmi dalle folate di vento gelido che soffiavano nella mia
direzione
rendendo la pelle del mio viso insensibile.
Sospirai
di sollievo nel vedere poco
più avanti la debole luminescenza verdastra prodotta
dall'insegna del pub verso
cui ero diretta. Sbattei rapidamente i piedi per scrollare via la neve
rimasta
adesa ai miei stivali e spinsi la porta di legno cigolante adornata con
una
ghirlanda, ricordo del periodo natalizio appena passato.
Un
sorriso nacque spontaneo sulle mie
labbra non appena entrai nel locale e un meraviglioso tepore mi avvolse
e una
dolce musica mi diede il benvenuto.
Mi
sfilai rapida la cuffia e scrollai
i miei lunghi capelli castani. Rivolsi un veloce saluto a Sally mentre
sistemavo il mio cappotto su una gruccia libera nel guardaroba.
Nessuno
aveva mai capito veramente
quale fosse il ruolo effettivamente svolto da Sally all'interno del
locale.
Ogni sera, martedì escluso, tu la trovavi appollaiata sullo
sgabello nell'atrio
del locale, tra la porta che conduceva alle toilette e quella per il
guardaroba. Era sempre intenta a scribacchiare su un quadernino dalle
pagine
gialle e smetteva solo quando lo scampanellio della porta d'ingresso
annunciava
un nuovo arrivato, allora, in quel caso, distoglieva per pochi secondi
la sua attenzione
dalle pagine riempite da fitto inchiostro giusto il tempo per rivolgere
loro un
sorriso assente prima di perdersi nuovamente nel suo mondo di carta e
parole.
La
sua chioma bionda fu la prima cosa
che vidi non appena sbucai nell'ampia stanza che ospitava il locale
vero e
proprio. Stava parlando in modo concitato con Will, il cameriere del
weekend, e
lo si poteva capire dal continuo gesticolare delle sue mani e dal lieve
ma
frenetico dondolio del suo piede.
Sienna
era tutto tranne che inglese.
Terribilmente impicciona, adorava le battute volgari, parlava sempre ad
alta
voce, era perennemente in ritardo e parlava. Sempre. Non era capace di
stare in
silenzio per più di due minuti, riusciva a trovare validi
argomenti di
conversazione con chiunque: dalla trisnonna sorda del suo vicino di
casa al
neonato di due settimane della sua parrucchiera. In assenza di un
interlocutore
umano non disdegnava il relazionarsi e il discorrere con gatti, api,
gerani o
pacchetti di biscotti.
«Cecilia!
Sei in ritardo!», mi apostrofò
non appena il suo iperattivo cervellino decise, per mia sfortuna, di
lasciare
un attimo di respiro al povero Will, visibilmente provato dalla
chiacchierata a
senso unico con Sienna, per dedicarsi ad una vittima fresca fresca,
ovvero io.
Sorvolai
sulla sua allusione al mio
ritardo e mi limitai ad alzare gli occhi al cielo esasperata.
«Vederti
è sempre una gioia»,
commentai dandole un veloce bacio sulla guancia ricoperta di fard,
«Will, oggi
è giovedì, che ci fai qui?».
Ovviamente
il diretto interessato non
fece in tempo a rispondere perché Radio Sienna lo aveva
battuto sul tempo
iniziando a raccontarmi dell'infortunio del povero Jim, che era caduto
mentre
scaricava dei bancali e si era slogato una caviglia. Il medico era
stato
categorico: riposo assoluto per una settimana.
«Come
avete fatto a convincerlo a
restare nel suo appartamento senza scendere quanto meno a
supervisionare?»,
domandai divertita.
Quel
pub esisteva solo se esisteva
Jim, l'anima di questo locale. Lui lo aveva aperto nel lontano 1991,
lui
preparava i cocktails, lui aveva gli agganci giusti per procurarsi
birra
Guinness per veri intenditori, lui da anni tramite il suo spirito di
iniziativa
e la sua totale fiducia nella gioventù piena di talento
musicale che popolava
scantinati e garage di Londra promuoveva nuovi gruppi e cantanti
emergenti
ospitando i loro concerti.
Probabilmente
avevano dovuto sedarlo
o legarlo al letto per assicurarsi che non rischiasse di peggiorare la
situazione della sua già malandata caviglia ruzzolando
giù per le scale nel
vano tentativo di fare un salto a controllare che il suo bar fosse
ancora in
piedi.
«C'è
Karen che riveste il ruolo di
cane da guardia per questa settimana», mi spiegò
Will mentre sciacquava un paio
di boccali da mezzo litro.
«Direi
che assomiglia più ad un
mastino...», specificò Sienna riferendosi al
carattere dispotico della madre di
Jim, che, a quarant'anni suonati, era ancora terrorizzato dalla sua
genitrice e
le obbediva come un agnellino.
Balzai
giù dallo sgabello facendo
attenzione a non ammazzarmi nel tentativo di mostrarmi agile,
«Allora andrò a
fargli un salutino così lo salvo per qualche minuto dalla
sua adorabile
mammina».
Quella
sera il palco nell'angolo era
vuoto, solo un ragazzo con un maglione verde se ne stava in un angolo,
intento
ad accordare una chitarra acustica di legno scuro, a testa china. Non
sembrava
curarsi delle poche persone sedute nella stanza attorno a lui o della
musica
jazz che riecheggiava a basso volume dalle casse. Aveva i capelli
più
spettinati che avessi mai visto nella mia breve vita, e detto dalla
sottoscritta, campionessa nella lotta contro nodi e capelli
ingarbugliati
nemici della spazzola, era davvero una cosa insolita. Fu solo in quel
momento
che mi accorsi che aveva sollevato lo sguardo e mi stava rivolgendo uno
sguardo
interrogativo. Avvampai imbarazzata perché lo avevo fatto di
nuovo. Avevo il
brutto vizio di perdermi nei miei pensieri e mentre lo facevo mi
ritrovavo,
inconsapevolmente, a fissare la mia attenzione su qualcosa, e quando
quel
qualcosa era una persona il tutto risultava abbastanza imbarazzante per
la
sottoscritta che agli occhi dei poveri sconosciuti, sottoposti ad un
esame non
gradito, probabilmente mi davano mentalmente della stalker o della
psicopatica.
Feci
una rapida piroetta per dargli
le spalle nel più breve tempo possibile e mi diressi quasi
correndo verso la
porticina rossa che conduceva al magazzino e alla scala
dell'appartamento di
Jim.
Come
tutti i cani da guardia degni
di questo nome la
Signora Karen mi
intercettò non appena feci per abbassare la maniglia della
porta di vetro
smerigliato sul pianerottolo delle scale. La sua testa, con relativa
pettinatura fresca di parrucchiere, fece capolino sulla soglia e mi
ritrovai
addosso due occhietti vispi che mi squadravano inquisitori.
«Mi
sembra di essere la madre di
Elton John», esclamò facendosi di lato per farmi
entrare, «Ha avuto più
visitatori Jimmy in un solo giorno di convalescenza che Michael Jackson
quando
è morto!».
Non
sapendo come replicare mi limitai
ad un sorriso d'assenso. Jim diceva sempre che le madri non andavano
contraddette se non si voleva andare a caccia di guai e che questa
primaria
regola per la sopravvivenza e la serenità domestica valeva
nel caso di Karen.
«Tu
saresti?», mi domandò poi mentre
mi faceva strada.
«Cecilia,
un'amica di Jim», risposi
rapida senza specificare il fatto che sapevo benissimo dove fossa la
camera di
Jim dato che era successo più di una volta che, a causa
della troppa Tequila,
restassi a dormire da Jim, che oltre ad essere un bravo barista ed un
ottimo
amico era anche il rifugio di tutti i suoi avventori affezionati ed
ubriachi.
«Un'amica
eh?», ripeté sospettosa
scrutandomi ancora una volta.
Un
esasperato «Mamma!» giunse da
dietro la porta socchiusa che dava sulla stanza di Jim. La signora mi
dedicò un
ultimo sguardo ammonitore prima di darmi le spalle e, ticchettando
dall'alto di
un paio di stivaletti dal tacco a spillo, tornarsene in cucina.
Jim
era sdraiato al centro del suo
grande letto matrimoniale ricoperto dalla solita trapunta patchwork dai
mille
colori. La caviglia era fasciata da un candido bendaggio, probabilmente
opera
dell'amorevole madre.
«Ehi
Cece!», mi salutò felice
facendomi cenno di avvicinarmi e sedermi vicino a lui.
Mi
sfilai rapida gli stivali e salii
sul letto facendo attenzione a non colpire inavvertitamente il piede
già
malandato. Mi sedetti appoggiandomi alla testiera di legno chiaro del
letto e
mi chinai a dargli un affettuoso abbraccio.
«Ah
Jim cosa mi combini insomma?», lo
rimproverai scherzosamente, «Perché non mi hai
avvertito? Sarei venuta prima»,
gli feci notare.
«Primo,
sapevo benissimo che oggi
avevi un esame, secondo mamma chioccia mi ha ritirato il telefono
perché
sostiene che tutti quei messaggi e quelle chiamate mi impedivano di
riposarmi»,
mi spiegò stropicciandosi pigramente un occhio,
«Averla qui ventiquattr'ore mi
sta facendo impazzire: vuole rassettare, pulire, buttare tutto
ciò che trova. È
inarrestabile...».
Ridacchiai
immaginandomi la Signora
Karen che spolverava le centinaia di cd e vinili, che erano il fiore
all'occhiello del figlio, invertendo l'ordine cronologico precisissimo
secondo
cui Jim li aveva sistemati sugli scaffali. Probabilmente Donna Summer
sarebbe
finita accanto ai Blur e i The Who avrebbero fatto compagnia a Simon
&
Garfunkel.
«Pensa
positivo; almeno per questa
settimana potrai mettere in pausa la tua dieta basata su bistecche mal
cotte e
fagioli in scatola», lo presi in giro.
«Magari!
Mi propina solo brodini e
purè come se fossimo in una casa di riposo»
«Devo
quindi dedurre che mangi alle
cinque e mezza e vai a dormire alle sette?»
«Sì!
Infatti ho già fame. Non è che
potresti portarmi...»
«Nonono,
non oserei mai contraddire
le disposizioni di mammina», lo fermai prima che potesse
chiedermi ciò che
sapevo già benissimo.
Una
porzione take away di ali di
pollo e patatine con salsa piccante dal messicano all'angolo della
strada.
Jim
campava grazie alla pizza da
asporto, il take away, il cinese a domicilio, i surgelati e i prodotti
in
scatola. I muffin e le torte deliziose che facevano spesso bella mostra
di sé
sull'alzata in cristallo, regalo di mia madre che avevo bellamente
sbolognato a
Jim, erano creazioni di Sally e l'unico contributo da lui offerto era
il
mangiarne la metà nel tragitto cucina-bar.
«Ho
fame!», protestò mettendo il
broncio come fanno i bambini a cui viene negata l'ennesima caramella.
«Niente
cibo fino a domattina! E non
fare i capricci», una voce lo ammonì all'istante.
Non una voce ma La voce, un
attimo dopo seguita dalla sua legittima proprietaria.
Dovetti
fingere di sbadigliare per
nascondere il sorrisetto che mi si era stampato in volto nel vedere il
povero
Jim alzare gli occhi al cielo esasperato mentre la Signora Karen gli
rimboccava
amorevolmente le coperte.
Capii
che l'incursione della mamma di
Jim era stata studiata ad hoc per farmi capire che era ora levassi le
tende e
lasciassi dormire il malato. In fondo era tardissimo: la radiosveglia
sul
comodino segnava le 8.47 p.m.
Mi
rinfilai gli stivali e, dopo aver
salutato velocemente madre e figlio, con particolare ghigno irrisorio
rivolto a
Jim alle spalle di sua mamma, ridiscesi al piano di sotto.
Ero
ancora sulle scale quando il mio
telefono nella tasca posteriore dei jeans iniziò a vibrare
insistentemente.
Noel.
Sbuffando
scorsi il dito sullo
schermo per accettare la chiamata. Il mio amato coinquilino aveva il
brutto
vizio di chiamarmi per ogni sciocchezza. Purtroppo era una persona che
non si
perdeva d'animo facilmente perciò non rispondergli portava
solo ad avere 117
sue chiamate perse.
«Cos'è
successo stavolta? Ti sei
scordato dove hai messo la crema idratante? Ti dei dimenticato di
registrare
l'ultima puntata di Pretty Little Liars? Sono finiti i mirtilli con i
loro
preziosissimi ed irrinunciabili antiossidanti?», domandai
prendendolo in giro.
«Questa
volta è una cosa seria: Draco
si è mangiato una vaschetta maxi di gelato e ora ha una
strana tonalità
verdastra...», mi informò preoccupato.
Mi
sedetti sull'ultimo gradino della
scale e mi passai una mano tra i capelli.
«La
vaschetta da tre chili?»,
domandai cercando di restare calma.
Era
impossibile. Draco era un gatto
dall'appetito piuttosto generoso ma se neanche io e Hannah eravamo
riuscite a
finire da sole la vaschetta da tre chili mentre ci struggevamo e
rischiavamo la
disidratazione a forza di piangere guardando uno stupido filmetto di
Nicholas
Sparks non poteva avercela fatta un gatto grasso.
«Sì!
Io...io non so come sia potuto
succedere...cioè sono stato in doccia per pochissimo tempo.
Cinque
minuti...dieci forse...ok un quarto d'ora ma...»
Interruppi
i suoi farfugliamenti
confusi non appena il mio cervello elaborò la notizia appena
ricevuta.
«Vuoi
dirmi che sei appena uscito
dalla doccia?! Noel, testa di broccolino che non sei altro, quando sono
uscita
di casa un'ora fa tu eri già da mezz'ora sotto l'acqua calda
a gorgheggiare
cercando di imitare George Michael!»
Quel
ragazzo mi avrebbe resa pazza.
Oltre che povera a forza di consumare un terzo del patrimonio idrico
mondiale
ogni volta che si faceva una doccia. E lui si lavava molto molto
spesso. Molto
più spesso di qualsiasi normale persona pulita e amante
dell'igiene presente
sul globo.
«Cece,
non succederà più te lo
prometto ma ora ti prego torna a casa a salvare Draco! Io non so che
fare e non
vorrei vomitasse sulle mie pantofole nuove...»
Picchiettai
nervosamente le dita
sulla superficie di legno del gradino pensando ad una rapida soluzione.
Storsi
il naso, c'era odore di fumo in quella stanza.
«Guarda
nel cassetto sotto al
bollitore; dovrebbe esserci un'agendina con la lista dei numeri da
chiamare per
le emergenze: cerca il veterinario. Nel frattempo ti metto in vivavoce
e cerco
nella mia rubrica...»
Mentre
scorrevo rapida tra i mille
nomi che figuravano come miei contatti Noel iniziò ad
elencarmi i nomi presenti
sull'agendina.
«Tua
madre no, mia madre no, padri,
nonni, zii vari no, bisnonno Samuel? Tu in caso di emergenza
chiameresti il tuo
bisnonno centenario?!», la sua voce incredula
riecheggiò in tutta la stanzetta
buia.
«Noel,
datti una mossa!»
Dustin
Day
Dylan
Edith
Elliott
Mitchell
Ernest
Fray
Eva
Kline
Eve
Felicity
Dust
François
Truffat
Trovare
quel benedetto veterinario si
stava rivelando più complicato del necessario.
«Hannah
no, Adam pfff, Oliver men che
meno, Sienna come se potesse mai aiutarci in qualcosa, Keira nah,
estetista
direi di no...», Noel continuava a borbottare imperterrito,
«Sai almeno come si
chiama?»
«Mark
Qualcosa...»
«Sicura?
Qui non c'è alcun Mark ma in
compenso c'è un Eric con tanto di cuoricino scribacchiato
accanto...»
«Certo
che si! Io mi ricordo sempre i
nomi! Comunque lascia stare l'ho trovato. Lo avevo salvato sotto il
nome
Veterinario, ci sarei potuta arrivare prima...»
Due
minuti più tardi stavo
ringraziando il veterinario prima di chiudere la chiamata.
Mandai
un rapido messaggio a Noel
intimandogli di non muoversi che il veterinario stava arrivando e io
con lui.
Mi
alzai dal gradino su cui ero
seduta e proprio in quel momento sentii un trambusto e un'imprecazione
provenire dalla mia destra.
«Chi
è?», domandai cercando la torcia
tra le mille funzioni inutili del mio smartphone.
Quando
alzai il telefono il fascio di
luce bianca incorniciò il viso del ragazzo con la chitarra,
che si riparò gli
occhi di fronte a quella luminosità fastidiosa ed improvvisa.
Abbassai
il telefono e mi avvicinai
all'angolo della stanza dov'era lui.
Vidi
che la finestra era socchiusa e
che la fievole luce arancio di una cicca di sigaretta non ancora
spentasi
faceva capolino dal posacenere che Jim teneva sul davanzale.
Ecco
spiegato l'odore di fumo.
Feci
qualche passo indietro e tastai
il muro alla ricerca dell'interruttore della luce, che sapevo essere
accanto
alla prima scaffalatura sulla destra.
La
stanza diventò improvvisamente
chiara, nonostante la lampadina che pendeva solitaria dal soffitto
scrostato
fosse una di quelle a bassa intensità luminosa.
Non
appena i miei occhi si abituarono
alla luce ebbi finalmente la possibilità di guardare il
ragazzo in volto.
Era
indubbiamente carino. Sì, proprio
carino. E credo che ciò che lo rendeva tale fossero quei
capelli così
spettinati e l'aria un po' persa.
«Da
quanto tempo sei lì?», gli
domandai sospettosa.
«Dall'inizio
della tragicomica...»,
mi rispose tranquillo abbozzando un sorriso.
Oh
cazzo. Non era lo sguardo perso.
Non erano i capelli spettinati. Erano quelle deliziose fossette che gli
si erano
appena formate ai lati della bocca a renderlo maledettamente carino.
«Il
mio gatto sta male e il mio
coinquilino starà male dopo che sarò tornata a
casa e gli avrò dato una bella
lezione», gli spiegai cupa.
Lui
scoppiò a ridere e quelle
stupende fossette tornano e io per un attimo mi scordai di essere nel
magazzino
del bar di Jim, di Draco e di Noel l'idiota e mi persi nel guardare le
fossette
di quel ragazzo sconosciuto.
Mi
riscossi rapidamente, mi diedi
mentalmente della sciocca ragazzina che va in iperventilazione alla
vista di
due stupide fossette e feci per andarmene ma mi fermai quando lo sentii
parlare: «Anche io tengo la mia bisnonna di 102 anni tra i
contatti
d'emergenza...»
Mi
voltai nuovamente e lo squadrai,
incerta su cosa ribattere.
«Ezra»,
esclamò all'improvviso
porgendomi una mano e corredando il tutto con una fugace apparizione
delle
fossette gemelle.
Proprio
in quell'istante il nome di
Noel iniziò a lampeggiare sullo schermo del mio telefono.
Rivolsi
ad Ezra uno sguardo di scuse
e risposi alla chiamata: «Dimmi»
«Ha
iniziato a fare dei miagolii
strani ed è da un minuto buono che se ne sta immobile
spanciato sul
parquet...sono un po' preoccupato. Quanto ci impiega Mark il
veterinario ad
arrivare?», mi domandò concitato il mio
coinquilino.
«Arrivo
immediatamente», lo
rassicurai avviandomi verso la porta, «Lascialo tranquillo ma
continua a
tenerlo d'occhio», mi congedai rapida.
«Ezra...»,
lo salutai velocemente
prima di uscire e lanciare un ultimo sguardo al ragazzo dalla belle
fossette.
Non
appena tornai nella sala
principale del locale mi venne da piangere alla vista di Hannah e Adam
seduti
accanto a Sienna, intenta a trattenerli con uno dei suoi monologhi. Non
sarei
mai riuscita a raggiungere casa.
«Cecilia!»,
strillò quel cretino
biondo di nome Adam.
Mi
precipitai ad abbracciare alla
svelta Hannah, riservai al suo fratellino una rapida tirata di capelli
e
borbottando delle scuse mi avviai al guardaroba.
Mi
ero appena imbacuccata per bene,
pronta ad uscire per affrontare il gelo invernale, un gatto con
indigestione da
gelato e un coinquilino gay isterico, quando un affannato
«Aspettaci!» mi fece
fermare.
Sienna,
infagottata in un
pellicciotto color viola con tanto di paraorecchie abbinato, mi
sventolò di
fronte al naso il suo cellulare.
Le
bloccai il polso per evitare che
mi facesse venire il mal di mare e guardai la foto del mio povero Draco
spiaggiato sul pavimento con un colorito cadaverico.
Quello
scemo di Noel invece di
confortare il mio povero gattone lo fotografava e inviava la foto a
tutti i
nostri amici.
Maledetti
gruppi di Whatsapp!
«Forza
andiamo!», ci esortò Hannah,
avvolta nel suo cappotto giallo limone.
«Andiamo
dove scusa?», le
domandai stranita.
Io
andavo. Loro restavano.
«A
salvare il gatto di Voldemort!»,
esclamò Adam spuntando alle spalle di sua sorella
trascinandosi appresso Belle
Fossette.
«Per
carità! Già dovrò contenere un
idiota non mi servite anche voi!», esclamai spalancando
decisa la porta
d'ingresso.
Porta
che richiusi dopo una frazione
di secondo. Come era potuto succedere che nell'ora in cui ero stata nel
pub si
era scatenata una tempesta di neve?
«Io
ho un'auto trallalero
trallala...», mi canticchiò in un orecchio Adam.
Lo
afferrai per un orecchio e gli
sibilai: «Sarà meglio per te che neanche il
più piccolo dei fiocchi di neve
sfiori la mia persona...»
Un
minuto dopo eravamo tutti e cinque
pigiati nell'utilitaria color puffo della Signora Spencer, madre di
Hannah e
Adam.
«Spiegatemi
cosa ci fa lui qui», feci
notare dal sedile posteriore, dove ero stata schiacciata tra Hannah, il
pulcino, e Sienna, il Teletubbies viola.
«Ezra
ti presento l'adorabile e
svitatissima Cecilia Lawrence, Voldy ti presento Ezra
Cunningham», mi
introdusse il simpaticissimo ed irritante Adam.
«Cecilia...»,
ripeté Ezra
sorridendomi.
Chi
aveva creato quelle perfette
fossette sulle sue guance?
«I
ragazzi stanno pensando di far
entrare Ezra nel gruppo», mi spiegò Hannah
tranquilla.
Ecco
spiegato l'arcano.
Dopo
mille frenate e accelerate a
casaccio di Adam, centinaia di imprecazioni di Sienna e
ventitré chiamate perse
da Noel arrivammo finalmente a destinazione.
Io
e il cretino condividevamo un
quadrilocale in una palazzina un po' vecchiotta, di quelle in mattoni
con le
scale anti-incendio. Ognuno aveva la sua stanza ma purtroppo il bagno
era da condividere
e Noel era peggio di dieci donne messe insieme: ore e ore a pettinarsi,
lavarsi, spalmarsi addosso ogni sorta di intruglio e poltiglia e
rimirarsi allo
specchio e fare la ruota tutto tronfio. La terza stanza era La Terra di
Mezzo
detta anche cabina armadio. In quei quattro metri quadrati scarsi,
separati in
due metà perfette da una linea invisibile, erano stipati
abiti, cappotti,
borse, scarpe, cinture, cappelli ed ogni sorta di accessorio di moda
inutile ed
assurdo miei e di Noel. I suoi ovviamente superavano di gran lunga i
miei.
La
povera Hannah rischiò di trovarsi
stampata in fronte la porta d'ingresso dell'appartamento tanta era la
foga con
cui Noel la spalancò all'improvviso.
«Grazie
a Christian Dior siete qui!»,
ci accolse esagitato, «Secondo me è
morto...»
Gli
tirai uno scappellotto prima di
precipitarmi al capezzale di Draco. Poveretto, aveva davvero una brutta
cera.
«Una
volta il gatto della mia vicina
si bevve un intero bottiglione di ammorbidente...»,
iniziò a raccontare vaga
Sienna mentre si liberava del suo topo viola peloso.
«E...?»,
la incoraggiò Hannah.
«E
morì», concluse sorridendo.
«La
vicina o il gatto?», si informò
Adam.
Oddio
frequentavo sul serio gente
così idiota?
Noel
iniziò a piagnucolare perché la
sua vita sarebbe stata più buia se Draco non ne avesse
più fatto parte.
Bugiardo.
Bugiardo. Bugiardo.
Se
solo avesse saputo come farlo e
avesse avuto lo stomaco per farlo davvero avrebbe scuoiato vivo il mio
povero
gatto per poi utilizzare il suo pelo come decorazione per il suo
cappotto di
puro cashmere.
In
quel momento un bussare deciso
alla porta mise fine, almeno per il momento, a quel circo.
Noel
smise immediatamente di frignare
e corse di fronte allo specchio che capeggiava all'ingresso e si
assicurò di
essere in ordine, nei suoi pantaloni super aderenti e nel suo maglione
dolcevita, che lo faceva assomigliare ad un bohémien
parigino.
Sienna,
nel giro di tre secondi,
riuscì a pescare dalla sua borsa lillà che
ricordava un trolley per le
dimensioni uno specchietto e una trousse e ad imbellettarsi.
Il
veterinario si rivelò essere un
uomo sui trent'anni, molto alto ed abbronzato.
Con
la coda dell'occhio vidi Sienna
drizzare le antenne, iniziare a passarsi le dita tra i capelli e fare
gli occhi
languidi. Tutto ciò non sfuggì a Noel che le
rivolse uno sguardo assassino.
Scambiai
un'occhiata esasperata con
Hannah e accompagnai il bel veterinario accanto alla quasi salma del
mio
animaletto domestico.
Lo
visitò rapidamente, rigirandolo
come un calzino, e poi si rialzò in piedi decretando che si
trattava di
un'intossicazione e che avrebbe dovuto portarlo con sé alla
clinica per quella
notte.
Noel
cercò in ogni modo di
convincerlo a restare per un caffè, per una partita a
scarabeo, per
raccontargli di come il suo canarino morì di crepacuore ma
quello declinò
cortesemente ogni invito.
Noel
e Sienna furono così costretti a
dirgli addio mentre io accarezzavo e rassicuravo il mio povero Draco.
«Arrivederci
Mark e grazie ancora. Ci
vediamo domani quando verrò a riprendere il mio
tesorino», tubò il mio
coinquilino.
Il
suo tesorino?
«Va
bene, a domani», poi aggiunse,
«Io mi chiamo Eric però...»
Opsss.
Noel
mi fulminò con lo sguardo:
«Allora il cuoricino era per lui! Imbrogliona!», mi
accusò offeso.
Eric
ci guardò perplesso:
«Cuoricino?»
«Lasci
stare. A domani!», lo congedai
spingendo lui con il mio gatto tra le braccia fuori dalla porta, prima
di
chiudermela alle spalle e voltarmi per picchiare quel cretino di Noel.
«Credo
comprerò anche io un gatto e
lo rimpinzerò ogni giorno di gelato...»,
asserì Sienna che tra un po' aveva gli
occhi a cuoricino.
«Partitone
a Monopoli?», domandò
Hannah.
«Sì!
Voglio lasciarti in mutande per
la milionesima volta cara sorellina», esclamò
entusiasta Adam.
«Come
vedi qui non ti puoi annoiare»,
sussurrai ad Ezra, che fino ad allora se ne era rimasto in disparte,
passandogli accanto per andare a recuperare la scatola del gioco e i
biscotti
al cioccolato.