Make it home.

di LittleWillow_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Take me back to the start. ***
Capitolo 2: *** My father's son ***



Capitolo 1
*** Take me back to the start. ***


Capitolo 1
“You can not wait any long time
 Although you’re gone maybe so right
 I’ve been waiting so long
Just to know if you made it home that night”
[Thenewno2, Make it home]
 
Giugno 2015
Sarebbe stato un bel viaggio. Dhani poteva sentire il loro jet privato  staccarsi da terra e ancora trovarsi a trattenere il respiro. Rise, perché sapeva che suo padre era riuscito a trasmettergli quella sua paura. Erano passati decenni ormai da quando vi era salito assieme a lui la prima volta e gli aveva stretto forte la mano  per tranquillizzarlo – pur essendo più agitato di lui-. Con il tempo volare era diventato  all’ordine del giorno per chiunque, eppure un brivido si insinuava lungo la sua schiena ogni volta che l’aereo cominciava a librarsi in aria.
Si stropicciò gli occhi, tradendo un’espressione stanca. Non era l’unica cosa a preoccuparlo, oltretutto. Non si muoveva spesso senza Sola da quando si  erano sposati e il fatto che non fosse lì con lui non lo aiutava, nonostante sapesse che prima sarebbero arrivati a Los Angeles prima avrebbe potuto rivederla. Sola era il raggio di sole che si era  infiltrato nella sua vita in un pomeriggio autunnale e che non lo aveva più lasciato.  Se fosse stata lì si sarebbe presa gioco di lui e delle sue tremila preoccupazioni, ne era sicuro. Un sorriso nostalgico gli illuminò le labbra provando ad immaginare cosa avrebbe detto suo padre della donna con cui desiderava condividere la sua vita.
Ricordava che da piccolo aveva sognato di sposare una donna con gli occhi scuri e i capelli belli della sua mamma – e poco importava che Sola avesse gli occhi azzurri e i capelli così biondi - , di essere un padre bravo tanto quanto lo era stato George per i suoi futuri bambini, i quali avrebbero avuto un nonno meraviglioso pronto ad accompagnarli in tante lunghe passeggiate nel verde.
Era bastato così poco per svegliarsi urlando da quel sogno. Una diagnosi, un foglio con sotto l’elegante firma di un dottore – che Dhani non aveva preso a pugni solo perché sapeva che suo padre non avrebbe approvato la violenza nemmeno in quel caso * - , ed infine la pioggia di un uggioso pomeriggio di fine novembre.
“Dhan, cosa dovremo fare di preciso?”
Dhani si girò indietro, vedendo il più piccolo dei Lennon seduto accanto a Julian ed evidentemente annoiato e poco convinto.
“Presentare, suppongo” rispose con un sospiro. La sua indole riservata e timida –una vera e propria eredità familiare-  non avrebbe retto il condurre un intero concerto ed era contento che Sean fosse lì ad aiutarlo e che Julian sarebbe stato a  sostenerli in platea.
“Presentare” rifletté Sean, tamburellando sul braccio del sedile dove era seduto “Sai cosa significa il fatto che ci abbiano invitati tutti e tre? Che siamo qui perché sono interessati a chi i nostri genitori erano e non a chi siamo noi,  e non so come abbiamo potuto accettare.”
Sia Julian che Dhani potevano percepire il nervosismo nella sua voce ed entrambi sapevano che Sean poteva essere un po’ irritante quando era nervoso, ma comprenderne segretamente il motivo.
“Avevo dimenticato quanto tu fossi paranoico, Sean.” replicò Dhani.
Chiunque - qualsiasi figlio d’arte nel mondo - aveva passato quella fase in cui sei semplicemente terrorizzato dal fare qualsiasi cosa perché sai che, quando la farai, il confronto con il tuo insormontabile padre sarà inevitabile. Tutti e tre avevano provato la frustrazione del presentare un nuovo album e sentirsi rivolgere tremila domande, ma non sul loro nuovo progetto, bensì sulla loro infanzia, ed era stato difficile superarla e digerire il tutto.
Lo era stato per Julian, quel figlio che si era sempre sentito non voluto e il quale John  aveva sempre trascurato, e lo era stato per Sean quando il mondo non la vita, il mondo, Dhani, il mondo, il giovane Harrison era sicuro che entrambi i due Lennon lo avrebbero puntualizzato-  si era rivelato crudele e aveva deciso che John non avrebbe nemmeno potuto provare ad essere un padre migliore per Sean di quello che era stato per il maggiore dei suoi figli e di quello che il suo era stato per lui.
Era stato difficile anche per lui, Dhani, quando un giorno appena ventitreenne si era ritrovato  ad affrontare milleuno chiacchiere e tremila pettegolezzi,  ed era solo, solo in uno studio ad incidere le canzoni di suo padre con un groppo in gola troppo grande ma una promessa ancora più importante e ancora più grande da mantenere.
“Sean, è una serata per il Nepal. State facendo del bene.” provò piano Julian.
Era sempre un argomento spinoso quello, ed era contento di potersi limitare a guardare, ma era orgoglioso di suo fratello e di quella specie di cugino che era Dhani. Stavano facendo del bene.
“Facile dirlo quando devi stare in platea e non devi aver paura che qualcuno compaia magicamente per chiederti cosa ti ricordi di tuo padre che è morto quando avevi appena cinque anni, non è vero?”
Fu un attimo che il più giovane dei Lennon sembrò allontanarsi verso la coda dell’aereo, infuriato. Julian scosse la testa.  Sapeva bene che quella totale incapacità di gestire le sue emozioni Sean  l’aveva presa dal genitore che avevano in comune, dopotutto.
“Family business”  disse semplicemente, rivolgendo un’occhiata di scuse a Dhani e seguendo il fratello.
Dhani annuì, silenzioso e rispettoso come sempre. Sapeva che Julian e Sean si vedevano poco e non voleva certo intromettersi o invadere in alcun modo la loro privacy. Li seguì con lo sguardo fino a dove gli era possibile però e si trovò a riflettere su di loro.
Sean a volte lo faceva davvero uscire di testa, quei due lo facevano uscire di testa. Avevano qualcosa, qualcosa che lui, figlio unico, poteva solo spiare dal buco della serratura ed ammirare in silenzio. Un legame, una linea di sangue unica e speciale,  che avrebbero dovuto tutelare e proteggere con i denti e con le unghie, qualcosa di cui Dhani forse non aveva mai sentito l’assenza durante l’infanzia confortata dalle coccole di entrambi i suoi genitori, ma che una volta morto suo padre aveva desiderato più che mai, un fratello, una persona con cui piangere e ridere per le stesse identiche cose.
Ciò che per lui era un sogno utopico e lontano, per loro era una realtà ed era questo a farlo davvero imbestialire.
Poggiò la testa sul sedile, stanco.
Quel viaggio si stava rivelando già più impegnativo di quanto avesse previsto.
***
 
 
Novembre 1975
La prima volta che lo  aveva visto aveva le manine e i piedini così piccoli ed era così tranquillo nel caldo abbraccio di loro padre che Julian avrebbe voluto scuoterlo forte ed urlare contro sia a John che a lui.
Julian avrebbe voluto urlare contro a John e chiedergli perché? – perché quel dannato bambino meritava più attenzioni di lui, perché? –  e come?  - come diavolo aveva potuto tradirli, tradire lui e la sua mamma, loro che lo avevano amato così tanto?-
Avrebbe voluto urlargli contro e vedere una confessione fuoriuscire dalle sue labbra, tutto meglio di quell’assordante silenzio a cui lui l’aveva condannato,  all’essere in perenne attesa di una telefonata – non un abbraccio, nulla di più di una misera telefonata – che non arrivava mai.
Avrebbe voluto prendere quel bambino e portarglielo via, perché entrambi potessero soffrire un quarto di quello che lui gli aveva  fatto soffrire , ma cancellò  con rabbia quel velo di lacrime che gli annebbiava la vista e si limitò a sfiorare la pelle del neonato e a posargli un bacio leggerissimo sulla testa che sapeva di tenerezza, di un “ti proteggerò fino alla fine”, di  una promessa silenziosa ma solo loro, in cui nessuno avrebbe mai potuto interferire.
In fondo non importava cosa sarebbe successo: lui era Sean e Julian lo amava già così tanto.
***
 
   Giugno 2015
Una promessa è una promessa ed era a quella promessa a cui  Julian aveva cercato di mantenersi fedele nel corso degli anni e in quel momento. Ne aveva sopportate tante di promesse non rispettate nella sua vita che il minimo che sentiva di dover fare era aiutare suo fratello quando aveva bisogno. Era sempre stato strano il loro rapporto: aveva odiato quel bambino e lo aveva spiato per anni crescere dentro  un televisore con  la sua famiglia così unita, così come non lo era stata la sua. Lo aveva ispezionato chiedendosi perché suo padre fosse disposto a rinunciare alla sua carriera per Sean e non per lui. Quella domanda  senza risposta lo aveva perseguitato per anni e a volte tornava ancora a fare insistentemente intrusione nella sua testa.
 Guardò Sean in quel momento davanti a sé. Era seduto e guardava l’azzurro fuori dal finestrino e Julian rimase in silenzio per qualche istante, ammirandolo in quel  suo look estroso che ricordava tanto John. Ad un certo punto fu il minore dei Lennon a girarsi di colpo.
“Tu ci pensi mai?”
C’erano cose che non dicevano ad alta voce perché semplicemente non c’era bisogno che venissero dette. Era parte di quel legame che Dhani usava osservare con occhi trasognanti in silenzio.
“Spesso” ammise imbarazzato, sedendosi di fronte a lui “Anche io odio le domande su di lui, lo sai. Sono qui solo per sostenere te, Sean.  Ma più ne cantano le lodi più credo che non abbiano idea del fatto che per l’ottanta percento del tempo… ”
 “… Si comportasse da bastardo” completò la frase Sean con un piccolo sorriso, inclinando il capo e lasciandosi scappare un sospiro pesante “ Sai, a volte dopo i concerti la gente viene da me e da Charlotte** e mi dice “Adoravo tuo padre”. All’inizio ne ero orgoglioso, era bellissimo, ma un giorno di punto in bianco ho realizzato di non sapere nemmeno chi fosse, e Jules, forse dovrei odiarlo per le sue mille contraddizioni, ma tutto ciò che riesco a pensare è che non so chi fosse, ho sentito raccontare di lui da quando ho ricordi, ma non so chi era davvero ed è difficile. Vorrei averlo conosciuto, conosciuto sul serio.”
Julian annuì, stropicciandosi gli occhi.
Non importava quanto l’avesse odiato. E Julian l’aveva odiato così tanto, ogni volta che l’aveva visto litigare con sua madre, calpestare il pavimento della loro casa come se ancora gli appartenesse, ogni volta che ormai in prima adolescenza aveva urlato contro anche a lui, suo figlio,  perché apparentemente assente e disinteressato – come se non stesse solo provando a mettere in pratica quello che lui gli aveva insegnato -,  ma soprattutto aveva odiato il fatto di non essere mai riuscito ad odiarlo perché una  parte di lui non avrebbe mai smesso di ricordargli che si trattava sempre di suo padre.
“Avrei voluto conoscerlo anche io, Sean”  confessò poi, in un sussurro.
***
 
Era passata quasi mezz’ora da quando Julian e Sean si erano allontanati e Dhani preso dalla nausea, dal nervosismo e dall’agitazione, aveva aperto la scatola di biscotti cinesi comprata quasi per caso all’aeroporto di Londra, poco prima di partire. Spezzandone uno,  gli tornò alla mente quando da piccolo aveva l’abitudine di aprirli solo per farsi leggere le frasi all’interno da sua mamma e dal suo papà e quanto amasse ascoltarle e sorrise, aprendo il bigliettino all’interno.
“Non augurarti che sia più facile, augurati di essere più forte***” lesse ad alta voce Sean, comparendo all’improvviso alle sue spalle insieme a Julian e strappandoglielo di mano “Siamo nostalgici oggi, Harrison?”
“No. Stavo solo pensando” replicò il più giovane, lanciando un’occhiata interrogativa a Julian, quasi a chiedergli il perché di quel repentino cambiamento d’umore del suo fratellino.
A quello sguardo il maggiore dei due rispose con un’alzata di spalle e mimando un “E’ Sean”  in labiale. Suo fratello a quasi quarant’anni aveva più sbalzi d’umore di un adolescente. Dhani non riuscì a trattenere un piccolo sorriso che non sfuggì inosservato al più piccolo dei Lennon.
“Sono molto deluso da te, Dhan” affermò con una finta indignazione che fece sorridere Julian “Oltre a prenderti gioco di me con mio fratello, non offri nemmeno nulla?”
Dhani fece un  cenno gentile  con la testa verso la scatola, ma nonostante ciò Sean non sembrava soddisfatto.
“Me li offri così? Cosa n’è delle vostre maniere da lord inglesi?”
Risero tutti e tre, contenti che l’atmosfera si fosse alleggerita e che fosse finalmente quella fra tre vecchi amici che non si vedono da tempo. Il tutto servì a rasserenare Dhani, proprio quando stava cominciando a considerare quel  viaggio un’impresa epica e insostenibile.
 “Prendili e piantala, Sean” lo rimproverò bonariamente Julian, e così fece Sean, prendendo un biscotto e passando poi la scatola al fratello.
Non si apprende niente da quanto ti viene raccontato. Devi scoprirlo da solo***** “  lesse Sean ad alta voce.
Se ne avesse avuto l’opportunità, Sean quel consiglio l’avrebbe senz’altro seguito, ma sapeva che certe cose sarebbero rimaste sempre irrisolte, nonostante non avesse mai imparato a conviverci.
“Ci mancava giusto la frase ipocrita del giorno” commentò poi, tra  l’amaro e lo sprezzante.
“Non dire così” ribatté Dhani, con aria seria “Dalle chiacchiere non si impara nulla”
“Già” aveva risposto Sean, pensieroso.
“E quando non hai null’altro dei racconti e delle parole a cui affidarti nessuna possibilità di scoprire nulla da solo ?” avrebbe voluto ribattere, ma quella domanda avrebbe potuto creare un nuovo battibecco con il più giovane del gruppo e decise di lasciare perdere. Decise di rivolgersi invece a Julian, che era rimasto in silenzio.
“Cosa c’è scritto nel tuo, Jules?”
Non lasciare che il tuo passato sia scaraventato nel tuo presente per distruggere il tuo futuro. Guarda ad esso con gli occhi del presente.******
Julian socchiuse appena gli occhi, quegli occhi che a volte sembravano cominciare a parlare ad alta voce di un mondo antico e lontano, un mondo che non c’era più. Si sporse in avanti, guardando di sottecchi Sean.  Ripensando alla loro conversazione di prima pensò che forse non era un caso, che quelle parole non erano un caso, avrebbe voluto dirlo a Sean il quale avrebbe riso chiedendogli perché doveva sempre essere lui quello sentimentale, ma lui non era Sean e Sean in fondo non aveva  idea. Non aveva idea di cosa volesse dire provare nel profondo il desiderio di costruirsi una famiglia -sua madre avrebbe voluto diventare nonna, il non averla accontentata a volte lo perseguitava, ma semplicemente  faceva così male, capite? -  ed essere felice e allo stesso tempo sentire quella frustrazione che non lo abbandonava – a volte lui aveva provato ad abbandonare lei, ma lei non sembrava volerne sapere -.
“Un ‘altra di quelle cose che sembra più facile dire che fare” replicò Sean.
“Ma è comunque l’unico modo per essere felici davvero. Andare avanti, intendo” intervenne Dhani, evitando di spiegarsi e di raccontarsi, perché in fondo lui sapeva che era molto meglio così.
“Non credo che sia possibile staccarsi in maniera completa dal passato” cominciò Julian un po’ incerto e un po’ mestamente  “La verità è che tornerà sempre qualcosa a ricordarti di lui
(Julian non sapeva a chi si riferisse quel lui.  Forse al tempo, forse  a lui. Era sempre meglio non chiederselo, in fondo.)
Il giovane Harrison non fece in tempo a rispondere che Sean cambiò completamente argomento.
“Stiamo precipitando” annunciò.
“Cosa?” chiese Dhani, improvvisamente allarmato, abbandonando quella calma che lo caratterizzava, già immaginando di vedersi in prima pagina assieme ai due Lennon come protagonisti di un’orribile tragedia. Julian invece  non si mosse di un centimetro, abituato all’humor nero del fratello.
“Paura?” lo schernì Sean “Sto scherzando, Harrison, rilassati. Siamo solo in procinto di atterrare”
 
***
L’arrivo non fu dei più tranquilli, anzi fu senz’altro estremamente movimentato, nonostante Dhani  fosse contento di mettere i piedi a terra. Lo tranquillizzava un po’, anche se questa  tranquillità durò poco, appena il tempo di realizzare che-
“Non siamo a Los Angeles” affermò con convinzione il piccolo del gruppo, sbarrando i suoi grandi occhi color inchiostro.
“Lo sai che sono più  bravo io in questi giochi, Dhan” ribatté Sean, avviandosi verso l’uscita principale.
Ma una volta usciti ai tre apparve chiaro che lo scenario che si poneva davanti non assomigliava minimamente a quello dove avrebbero dovuto trovarsi. Dove diavolo erano?
“Vivo a Los Angeles da anni  e questa non è Los Angeles” ribadì Dhani. “Ma mi sembra di conoscere questo posto.”
 Ed aveva ragione. Quel posto, quella località era radicata nel loro DNA dal momento in cui avevano messo piede in quella terra, da quando avevano ricordi.
 “Dannazione” disse Sean ad  denti stretti, sbattendo violentemente il bagaglio per terra, attirando l’attenzione di un gruppo di ragazze di fronte a lui.
Julian stava in silenzio, meditando e cercando una spiegazione. Aveva riconosciuto quel posto – che gli aveva dato i suoi natali, che era stato le sue lacrime ma anche i suoi momenti felici -    nell’esatto momento in cui vi aveva piede. Ma non poteva essere….
“Siamo a Liverpool” mormorò poi con aria grave, aggiungendo “Questo è l’aeroporto di papà, Sean. Davvero non lo hai riconosciuto?”
“Non è possibile. C’era una scritta enorme che diceva “John Lennon Liverpool  Airport” proprio là, sull’entrata principale. Dove diavolo è adesso?” domandò Dhani, con un tono un po’ più concitato, perché perfino lui in quella situazione stava per spazientirsi.
Tuttavia l’alzare la voce non fu una scelta saggia perché una ragazza del gruppetto che già dal momento in cui Sean aveva sbattuto la valigia per terra li stava osservando si avvicinò a Dhani, sbarrando gli occhi.
“Scusami sei… sei…sei per caso George Harrison?”
Dhani alzò gli occhi al cielo, mentre Sean tratteneva un sorriso e Julian rifletteva su quell’assurda situazione. A volte si chiedeva come diavolo avesse fatto suo padre a gestire intere folle di ragazzine senza diventare matto.
“No, lui non è più in giro da un po’ di anni ormai.” ribatté Dhani, sussultando a quel ricordo doloroso.
La sconosciuta dai capelli biondi acconciati in un taglio un po’ retrò incrociò le gambe, perplessa.
“Cosa intendi dire con “Non è più in giro da un po’ di tempo” ?”
 Era difficile dire ad alta voce “Perché è morto”. Erano passati quattordici anni e ricordava ogni singola lacrima che gli nascondeva durante la malattia  e ogni volta in cui lui tentava di confortarlo. Gli aveva promesso che sarebbe stato bene e che avrebbe sorriso di nuovo e con il tempo Dhani aveva scoperto che George aveva ragione, ma che sia lui che sua madre avrebbero sentito la sua assenza per tutta la vita.
“George purtroppo è venuto a mancare il 29 novembre del 2001. “ rispose Julian al suo posto, e Dhani glie ne fu grato.
Il maggiore dei Lennon era sempre stato più vicino a Paul che a George, ma si era trovato ad avvicinarsi notevolmente a lui nell’ ultimo periodo della sua vita ed aveva fatto appena in tempo a sfiorare la sua vera essenza con le dita. Nonostante ciò Julian aveva sempre saputo di poter contare su George.L’aveva realizzato quando nel 1985 esordendo era stato una delle prime persone a precipitarsi nel backstage per vederlo esibirsi.
“2001?” la ragazza si mise  a ridere provocando un cipiglio arrabbiato in Dhani “Sei un indovino o mi prendi in giro? E’  il 1° settembre 1968.”
 
( "Va tutto bene, sarà un bel viaggio"  pensava ancora una volta Dhani mentre i suoi polmoni si riempivano dell’aria di una Liverpool anni ’60. Nascondeva il volto dietro un ciuffo dei suoi capelli scuri ed era quasi una supplica silenziosa, una preghiera, una speranza. "Va tutto bene, sarà un bel viaggio" si ripeteva ancora. Andrà tutto bene. Fa' che vada tutto bene.)
 
 
Note
*La famiglia Harrison dopo la morte di George ha fatto causa al suo medico, vincendo. Questo perché una settimana prima del decesso quell’esemplare costrinse George a firmare degli autografi sul letto di morte. Pare che George rispose “Non ricordo più nemmeno come si scrive il più nome”. Questa la spiegazione dietro la riflessione di Dhani.
** Charlotte è il nome della fidanzata di Sean. Hanno una band insieme.
***La frase del biscotto cinese di Dhani non mi appartiene: è di Jim Rohn.
**** La frase del biscotto cinese di Sean è di Paulo Coelho.
******La frase del biscotto cinese di  Julian è anonima e trovata online. Ad ogni modo è importante sapere che non mi appartiene.
 
Note dell’autrice.
Okay, here I am. Ho costruito la scaletta di questa bella storiellina che dovrebbe avere 10 capitolini e dovrebbe basarsi sulle relazioni padre/Figlio fra John/Julian, Sean/John e …Dhani/George. Inizialmente doveva essere basata sui due Lennon. Perché si sono aggiunti Dhani e George? Ma perché io amo Dhani e George, ovviamente. Non sottovalutate l'importanza dei bigliettini nei biscotti cinesi, anyway U.U
La storia è ispirata alla canzone “Make it Home” del gruppo di Dhani Harrison, i Thenewno2. Questo perché ascoltando e leggendo le lyrics e guardando il video ho avuto la fortissima sensazione che in quella canzone Dhani stesse parlando di George (Gli ultimi 16 secondi del video e l’ultima strofa. Io piango tanto, gente. Andate a vederlo e piangete con me.)
Anyway, cercherò di curare al massimo le caratterizzazioni di tutti e tre, a costo di aggiornare una volta ogni mai.
Non so quando avrete il prossimo aggiornamento, probabilmente fine luglio/inizio agosto perché la sottoscritta parte dopodomani e torna il 23 di luglio. 
Vi ringrazio in anticipo per tutte le meravigliose recensioni che mi lascerete, ammesso – e non concesso- che qualcuno arrivi in fondo. Un grazie speciale a leitbeatles che mi ha convinta e a ha fatto in modo che quest’idea vedesse la luce.
 
D.
 

 

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Capitolo 2
*** My father's son ***


Capitolo 2
My father, he done told me
 To never, ever hurt no one
 But now I'm sick and mad,
and I been caught red-handed
 And I'm still my father's son”
[Fistful of Mercy, My father’s son]
Dhani, con i suoi capelli corvini e i grandi occhi color cioccolato, non era a conoscenza di tante cose. Non conosceva nemmeno la metà del reticolo di strade che costituiva Liverpool, non sapeva come si giocasse al tiro dell’arco, tantomeno come si suonasse la batteria, né aveva mai  capito come si facesse da bambini a saltare la  corda senza cadere – aveva sempre preferito lo skateboard, finendo però col cadere anche con quello- .
C’erano due o tre cose però che gli avevano insegnato e che sapeva da quando il primo dentino da latte aveva fatto capolino nella sua bocca quando era piccolo. Fra quelle cose ve n’erano due in particolare che gli tornarono alla mente in quel momento. “L’importante è essere qui adesso. Dal passato non torna nulla, Dhani” , usava ripetergli suo padre mentre una ruga d’espressione gli increspava la fronte e qualche capello bianco cominciava a fare intrusione nel suo caschetto nero.
Dal passato non torna nulla, appunto. Allora come diavolo era possibile essere a Liverpool il primo settembre 1968?
Guardò l’aria perplessa di Julian e si trovò a pensare che forse lui sapeva qualcosa, che doveva sapere qualcosa, perché era l’unico che era già in giro in quell’anno  e -
“Non è possibile” prese parola Sean, battendo Dhani sul tempo, mentre un luccichio strano gli illuminava gli occhi. “Come è possibile, Jules?”
“Non ne ho idea” rispose il fratello.
“1968” penso fra sé e sé Julian. Aveva ragione Dhani, quell’anno lo ricordava bene perché era stato probabilmente uno dei più brutti della sua esistenza. Aveva cinque anni ed era stata quella la prima volta che aveva perso suo padre, nonostante già in precedenza non si fosse mai sforzato più di tanto per meritarsi di essere definito così.
Ricordava le lacrime nascoste che cercava di imporsi di non sprecare, le litigate sempre più frequenti di suo padre con sua madre, le porte sbattute e quello sguardo di John, sempre vacuo e indecifrabile, quando si posava su di lui.
E poi ricordava quella volta in cui aveva incontrato quella signora dall’aspetto orientale  e aveva deciso di non aver più bisogno della sua famiglia, ma di potersene costruirne una nuova dall’altra parte dell’oceano, come se la distanza psicologica che vi era sempre stata fra lui, suo figlio e la madre di suo figlio- quella donna a cui un tempo con gli occhi innamorati aveva giurato amore eterno – non bastasse e ci fosse bisogno di girare ulteriormente il coltello nella piaga.
No, il 1968 non era qualcosa che Julian avrebbe voluto rivivere. Anzi, non vedeva l’ora di andarsene.
“E’ pazzesco” commentò Dhani, mentre cercava di dare una spiegazione logica a ciò che era accaduto, senza trovarne.
“Dobbiamo trovare un modo per andare a casa. Al più presto” affermò flebilmente il maggiore dei Lennon.
“Andare a casa?” scattò Sean, fronteggiando il fratello e prendendo vita improvvisamente. “Cosa diavolo stai dicendo, Jules? 1968, hai capito? Sai cosa significa?“
C’erano paura e un’agitazione nuova in quegli occhi scuri così simili ad un altro paio di occhi scuri che Julian aveva odiato per il modo in cui si erano intromessi nella vita di suo padre e nella sua.
Speranza, quella speranza che è un’arma doppio taglio, che ti uccide e contemporaneamente ti mantiene in vita. Speranza, ecco cosa c’era negli occhi di Sean.
“Che i nostri padri sono ancora vivi” affermò pacatamente Dhani, ostentando una calma del tutto innaturale, mentre i due fratelli si giravano verso di lui.
C’era stato un tempo – e Julian lo sapeva  – in cui Sean era stato un bambino e si era divertito ad immaginare  che la morte fosse solo un brutto sogno e  che la sua famiglia era felice, che non fosse costretto a tracciare nell’aria il contorno del volto di suo padre per poi piangere disperatamente perché quelle immagini sembravano sempre più lontane e confuse.
Ma quello era solo un sogno di un bambino di cinque anni che aveva dovuto accorgersi troppo presto di che razza di posto orribile fosse il mondo, e poi vi era la realtà dove la morte non era un brutto sogno e forse era la vita ad esserlo.
“Lo dici così? Come se non ti importasse niente oltre a ripartire in quello stupido aereo per andare a quel fottuto concerto?” attaccò Sean senza mezzi termini, e Julian si frappose fra loro. Era sicuro dell’indole tranquilla di Dhani, un po’ meno di quella di suo fratello.
L’unica risposta che arrivò da Dhani fu il silenzio, perché oh dannazione, Sean non poteva capire che maledetta  arma a doppio taglio potesse essere per lui rivedere suo padre. La cosa che temeva di più e che voleva di più allo stesso tempo. Socchiuse gli occhi, quegli occhi con cui in quel momento gli sembrava di vedere il volto fiero di George, immaginandolo intento a dargli una pacca sulla spalla e a trovare subito un argomento sul quale discutere. Gli parve quasi di sentire l’eco di una risata che forse era quella di un George venticinquenne che lui non aveva mai conosciuto e si girò cercando di capire da dove provenisse, ignaro del fatto che esistesse solo nella sua mente.
“Sento l’assenza di mio padre ogni giorno, Sean. Ma dobbiamo andare a Los Angeles e – “
Non poté finire la frase, perché Sean lo interruppe prontamente.
“E fare finta che questo non sia mai successo? Ti prego, so che non sei così stupido, Dhani.”
“Adesso smettila, Sean” lo riprese Julian, ma sapeva che qualsiasi cosa il suo fratellino si fosse messo in testa non avrebbe cambiato idea e lo capiva anche, proprio come capiva il piccolo Harrison. Dhani era così spaventato dall’idea di poter soffrire di nuovo, di poter perdere George di nuovo, mentre Sean… Sean - proprio come lui - semplicemente non aveva nulla da perdere.
“Non te la renderò più semplice, Harrison.” continuò Sean, prendendo la sua valigia e la custodia della chitarra. “Aspetto questo momento da trentacinque anni, non rinuncerò ad esso né per te né per nessun altro”
Così dicendo fece dietrofront, lasciando Dhani e Julian sol, in uno stato di trance apparente che si interruppe solo quando l’uomo divenne un puntino all’orizzonte.
Che fare, dunque? Non potevano certo ripartire senza Sean. Anche se a Dhani  fosse lontanamente passato per la testa,  Julian non lo avrebbe mai fatto. Doveva violare qualche strana regola del “Codice dei Fratelli”, in fondo. E poi come diavolo sarebbero potuti tornare indietro?
Dhani non aveva controllato, ma era piuttosto sicuro che nessuna biglietteria vendesse biglietti aerei di sola andata per gli anni 2000.
“Perché non l’hai fermato?” chiese all’unico rimasto fra i due Lennon che, in risposta,  gli lanciò un’occhiata carica di pacata consapevolezza e di tenerezza, per poi affermare semplicemente:
“Perché non lo fermi uno come Sean”
Zia Mimi l’aveva sempre detto, in fondo. Nonostante l’impressionante somiglianza fisica fra Julian e John, era Sean con  i suoi modi, le sue movenze ed il suo senso dell’humor a ricordarlo di più.
 Vi era per lui una sorta di pacata rassegnazione nel constatare che se anche avesse provato a fermare Sean avrebbe fallito, proprio come tanti anni prima  le sue lacrime non erano riuscite a fermare suo padre quel giorno che aveva deciso di tagliare lui e sua madre fuori dalla sua vita.
**
La prima voce che l’aveva raggiunto quel giorno raccontava la storia di un uomo e di come il suo sangue avesse macchiato il marciapiede di fronte casa sua – e di come questo si aggrappasse alle mattonelle, nello stesso modo in lui non era riuscito ad aggrapparsi alla vita-.
Mentre camminava per le strade di una  Liverpool che appariva più bizzarra e lontana che mai, Sean non si chiese mai se quello che stava facendo – se rincorrere lo spettro di suo padre in un’epoca in cui il volto di suo figlio sarebbe stato ancora uno fra i tanti – fosse la cosa giusta. Vedeva solo la strada stagliarsi di fronte a lui, il cielo ironicamente limpido per essere a Liverpool, e non aveva più tempo per pensare a quel volto che riempiva di sangue i suoi incubi.
Quando si trovò davanti l’insegna del Cavern, però dovette cominciare  a guardare in faccia la realtà. I Beatles non suonavano lì da anni ormai e chissà in quale parte del mondo si trovavano in quell’esatto momento. Chissà quando sarebbero tornati. Si lasciò andare su una panchina  poco distante, blaterando un “Maledizione” fra i denti. Forse Dhani aveva ragione. Forse si stava illudendo. Forse vi era davvero qualche  divinità nei cieli lo stava punendo per non avere mai creduto nella sua esistenza. Forse –
“Cerchi qualcuno?” chiese una voce, appena dietro di lui.
Esitò prima di girarsi, come scosso da un fremito. Quel timbro e quell’accento di Liverpool inconfondibile. Non si trattava di suo padre, perché una parte di Sean sapeva che avrebbe sempre riconosciuto l’eco del ricordo di quella voce, ormai così lontana del tempo.
“George?” azzardò cautamente.
George si maledisse mentalmente in quel momento. Di lì a poco lo sconosciuto avrebbe cominciato ad urlare in preda ad una crisi isterica  ed addio alla passeggiata tranquilla che aveva programmato di fare, come se fosse mai riuscito a farne una negli ultimi anni. Della sua vita di prima era quella la cosa che più gli mancava. Sembrava essere una specie di applicazione della legge del contrappasso dantesco, come se il prezzo per l’essere amati fosse la totale rinuncia ad ogni attimo della propria vita privata, ad ogni azione che fino a poco tempo prima aveva dato per scontata.
“Devi…devi avermi scambiato per qualcun altro” balbettò, affrettandosi a dileguarsi.
Peccato che Julian avesse ragione su una cosa: Non si ferma uno come Sean, ma forse più genericamente, non si ferma un uomo che ha davanti l’opportunità di realizzare un qualcosa a cui ambiva da una vita. Si parò davanti a George, sfruttando il fatto di essere veloce a livello mentale e sperando in un colpo di fortuna.
“Mio cugino. Sto cercando mio cugino”
Era la prima cosa che gli era venuta in mente e Sean era terrorizzato dall’idea di cadere in fallo in qualche punto. Sperò con tutto il cuore di non doversi rimangiare quella frase, che tuttavia non sembrava aver colpito per nulla  George che stava tirando dritto sulla sua strada.
“Buona fortuna, allora” ribatté, sempre rimanendo sul chi va là e chiedendosi perché non potesse uscire di casa senza incontrare il matto di turno.
“Mio cugino John Lennon. Forse tu puoi aiutarmi”
Non era la prima volta che qualcuno se ne usciva con un’ assurdità del genere davanti a George, che in genere ne rideva. Ma non quella volta.
 C’era qualcosa, qualcosa di stranamente intimo nel modo in cui quell’uomo pronunciava il nome di una delle personalità più influenti sulla faccia della terra. Come se lasciandolo scivolare fra le labbra e i denti sancisse anche il suo diritto su ogni frammento di quell’uomo, su tutto il bene e il male  che, anni prima, George aveva intravisto dietro quella corazza di troppo ostentata indifferenza.
 “Un Lennon dall’accento americano” ironizzò allora il beatle, mantenendosi scettico e diffidente.
Sean cercò di sostenere lo sguardo di George, che non era certo uno stupido. Non poteva perdere quella possibilità, doveva suonare più convinto possibile.
“La sorella di suo padre, E*…” annaspò un attimo, alla ricerca di quel nome di una zia che aveva visto poco e niente in un periodo ormai lontano. Quell’attimo bastò a fare alzare un sopracciglio a George che continuava a guardarsi intorno, terrorizzato dall’idea che qualcuno potesse riconoscerlo. “ Mia madre è emigrata in America. Io sono nato lì.”
George esitò, indeciso sul da farsi. Magari a John sarebbe piaciuto conoscere questo cugino. O magari no. Magari avrebbe mandato al diavolo quell’uomo e pure lui stesso per averglielo fatto incontrare. Non voleva certo creare ulteriori tensioni. Come se fra le manie di protagonismo  del “duo compositivo”, Paul che aveva deciso di autoproclamarsi leader, Yoko che era una presenza costante e pressante, ci fosse giusto bisogno del cugino americano a complicare ulteriormente le cose.
“E’ qualcosa che non mi riguarda e di cui devi  occuparti con John, non con me” rispose infine, facendo ciò che gli imponeva la sua indole riservata e riprendendo per la sua strada.
Peccato che non ci fosse nulla di più pericoloso di un uomo determinato, e Sean in quel momento era l’uomo più determinato del mondo. Decise di mettere in atto il piano B – un piano improvvisato e che  non avrebbe mai voluto attuare -. Sorpassò nuovamente George, questa volta con più decisione.
“Adesso mi porti da John” affermò, senza ammettere repliche.
“Oppure?” sfidò quello che – per paradosso- era il più giovane dei due in quel momento.
George si stava innervosendo. Poteva sentire addosso gli sguardi dei passanti e sapeva che non mancava molto al momento in cui qualcuno l’avrebbe riconosciuto. E - suo malgrado – questo lo sapeva anche Sean.
“Oppure mi metto ad urlare di star conversando con uno dei Beatles”
Conosceva l’amore di George per i suoi fan, ma sapeva anche del modo in cui era terrorizzato dalle folle e di quanto la fama potesse farlo soffrire talvolta, e quella era la sua ultima ed unica ultima possibilità. Avrebbe rivisto suo padre, costasse quel che costasse.
“Sai” gli disse George, lanciando un sospiro di sdegno. “Ora sono sicuro che tu sia un Lennon”
Questa affermazione dovette aver lasciato interdetto Sean, perché quando si svegliò da quegli istanti di torpore, George lo stava osservando con un cipiglio ironico. Fra tutti  gli schizzati che gli capitavano fra le mani, doveva beccare anche il presunto cugino di John?
“Perché?” inquisì lui, sospettoso.
“Perché sei proprio un bastardo” rispose, facendo cenno di seguirlo con il capo.
Sean aprì la bocca per rispondere, ma non emise alcun suono ed improvvisamente si sentì incapace di rispondere con una carica di sarcasmo pari a quella di George.
Ma in fondo non ve ne n’era bisogno: era fatta.
 
 
**
Trovare un piccolo albergo dove fermarsi per quel soggiorno a scadenza indeterminata negli anni ’60 non era stato difficile per Dhani e Julian. Nella reception dell’albergo, una sala non troppo lussuosa ma nemmeno squallida, in cui vi era  un grazioso vaso di fiori, aveva dato loro il benvenuto una ragazza con i capelli neri raccolti in uno chignon, che li aveva squadrati. Doveva probabilmente aver pensato “Somigliano a…”, ma - con grande gioia di Dhani – si era limitata ad un sorriso gentile. Avevano affittato due camere, una per Sean e Julian e una per il giovane Harrison. In quest’ultima si trovavano i due in quel momento.
Lo sguardo di Julian si fermò su una foto che Dhani aveva già posto sul comodino e che lo ritraeva da piccolo, mentre sonnecchiava e suo padre lo teneva stretto, coprendolo con una coperta.
L’uomo non poté fare a meno di rabbrividire davanti all’assurda normalità di quella scena, in cui un ex beatle - una star internazionale - aveva più l’aspetto di un padre che rimboccava le coperte al proprio figlio stringendolo a sé, preoccupandosi che non prendesse freddo e non cadesse, incurante del fatto che non sarebbe stato certo il freddo o una caduta ad ucciderlo.
C’era stato un tempo in cui anche suo padre aveva fatto lo stesso (“Julian, mettiti il giubbotto se esci” o “Jules, fai attenzione o potresti cadere”), ma aveva smesso ben prima che lui potesse decidere da solo se poteva mettere o meno il giubbotto quando usciva in giardino. C’era qualcosa nel guardare quella foto che lo faceva sentire un intruso, come se non avesse nessun diritto di essere lì, a spiare nella loro intimità.
“La porto sempre dietro quando vado in giro con la band oppure in Islanda, con Sola*” affermò timidamente  e nervosamente il bambino ritratto nella foto, che ormai aveva l’aspetto di un uomo. “Sai, dà l’idea che nulla sia..”
La voce di Dhani si incrinò, quasi rotta dall’emozione, in crisi come ogni volta che cercava le parole per descrivere suo padre.  
“Cambiato” affermò Julian, abbozzando un sorriso dolce, distogliendo  finalmente lo sguardo e posandolo  su Dhani, nonostante fosse ancora lontano anni luce da quel pianeta.
Improvvisamente gli sembrava tutto lontano e faticoso e c’era una parte di lui che voleva solo arrendersi e smettere di scappare, cercarlo e chiedergli perché, provare a capire con gli occhi di adesso, proprio come gli aveva suggerito quel bigliettino del biscotto cinese.
(Per anni non aveva fatto altro che  viaggiare e visitare paesi che non gli ricordassero le promesse mai mantenute di quell’uomo, ma lui era sempre lì, ad ogni angolo di strada, ad ogni svolta e ad ogni piazza; la sua voce era lì ad accompagnarlo di fronte alla scoperta di ogni meraviglia che il mondo avesse ad offrirgli, ogni paesaggio che gli ricordava che lui e sua madre non c’erano più, ma c’era ancora speranza, c’era ancora vita, c’era ancora qualcosa per cui valesse la pena.)
“Tuo padre era un uomo buono, Dhan” affermò poi, riemergendo da quell’abisso senza fine. “E tu un bambino fortunato.”
“Era una delle persone più complicate e semplici che io abbia mai conosciuto. Sto ancora imparando da lui.” affermò, stringendosi le spalle imbarazzato.
Era difficile descrivere George. Quel genitore che riusciva ad arrabbiarsi con lui se strappava una fogliolina da uno dei suoi alberi, ma che lo invitava quotidianamente a stare a casa con lui  e a non andare a scuola.
“Dhani?” Julian si aggiustò i capelli, un po’ indeciso sul porre o meno quella domanda e sul come porla. “Posso farti una domanda?”
Il piccolo Harrison si stropicciò gli occhi con aria stanca e solo in quel momento Julian si accorse di quanto Dhani apparisse abbattuto e perfino più vecchio in quel momento. Lo vide sforzarsi di fare un cenno affermativo.
“Siamo nel 1968. Questa mattina saresti potuto andare con Sean alla sua ricerca, corrergli incontro e abbracciarlo. Perché non l’hai fatto?”
Si accorse del sorriso triste che balenò sulle labbra del giovane Harrison, fermandosi lì e non raggiungendo mai gli occhi. Ci mise qualche secondo prima di dargli una risposta, tanto che Julian pensò che non sarebbe arrivata.
“Perché non rimarremo  negli anni ’60 per sempre, Jules. E io non posso perderlo un’altra volta. Non lo sopporterei.”
Fu in quel momento che forse Dhani capì.
Pensò a Sean. Era troppo piccolo per ricordare il modo in cui suo padre rideva quando lo vedeva camminare verso di lui. Troppo piccolo per ricordare quando si metteva al piano prendendolo in braccio, dicendo che un giorno - che non sarebbe mai arrivato - avrebbe insegnato anche a lui comesuonare e diventare una grande rock star.
E Julian. Grande abbastanza per ricordare, ma troppo lontano, troppo poco consapevole di tutto ciò che aveva perso, di tutto ciò che gli era stato negato. Non avrebbe mai avuto l’onore di presentare una fidanzata a suo padre. Non avrebbe mai atteso con ansia un giudizio di suo padre su come aveva suonato. Non  avrebbe mai sorriso, sentendosi dire da lui che aveva un talento naturale nella musica.
Non avrebbero mai capito di aver perso una delle figure – non il grande John Lennon, ma semplicemente un padre - più  importanti sulla faccia della terra. Non avrebbero mai saputo quanto quella perdita lo aveva logorato poco alla volta, ogni giorno.
 
 
 
 
Note dell’autrice.
Ciao! Sarei da prendere a calci per la puntualità. “Aggiornerò a fine luglio” o “Per il compleanno di Dhani”…non credetemi mai più.
 Anche questo capitolo avrebbe dovuto contenere altre tre scene – una dell’incontro fra John e Sean, una fra Sean e Julian e una fra Dhani e Sean – che non sono state tagliate, ma che verranno inserite nel capitolo successive perché sennò aggiornavo il 22 agosto… dell’anno prossimo.
Questo capitolo fa piuttosto schifo e non succede nulla di rilevante, lo so, ma voglio rimanere sul piano introspettivo e mentale, più che sui grandi colpi di scena,  ma….Vi ringrazio per le recensioni e i continui incoraggiamenti. Voglio pubblicare qualcosa su Dhani e George anche se non so quando – potrebbe essere fra un’ora come fra un anno -.
P.S: Buon compleanno al mio nano preferito con 22 giorni di ritardo <3 Ecco un video che ho fatto per lui – Dhani, se non lo avete capito – per il suo compleanno: https://www.youtube.com/watch?v=eD6_Qb_qz48
P.P.S:  Sean Lennon mi ha risposto su twitter tipo 8-9 volte mi ha anche suggerito parte del mio nick su twitter (la parte che mi ha suggerito è Dark Horse). Una volta gli ho chiesto di descrivermi George con una parola, e lui mi ha detto solo “Era George”. Non c’è altra parola per descriverlo, probabilmente. Se qualcuno vuole seguirmi o chiedermi qualcosa su twitter:  https://twitter.com/weissschwarz9
Un bacione e alla prossima. P.P.P.S: Se avete preferenze per qualcuno in particolare dentro alla FF, sarei curiosa di sapere chi :-)
D.

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