Fever pitch

di malpensandoti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1/3 ***
Capitolo 2: *** 2/3 ***
Capitolo 3: *** 3/3 ***



Capitolo 1
*** 1/3 ***


finalmente, dopo un anno intero dall'inizio di questa storia, sono riuscita finalmente a pubblicarla!
è talmente strano che quasi non me ne rendo conto, è stato veramente un progetto senza fine - di cui ovviamente non sono per nulla soddisfatta - nata dopo la visione dei mondiali di calcio 2014, quindi l'estate scorsa!
bando alle ciance, ecco qualche piccola informazione prima di lasciarvi alla lettura:
  • il titolo di questa storia è preso dal libro di nick hornby, che appunto tratta di vicende calcistiche inglesi
  • la premier league non si gioca in inverno ma bensì d'estate, mi sono presa la libertà di cambiare le date per via della trama
  • il young team inglese è praticamente la nostra 'primavera'
  • i personaggi reali citati nella storia, ovvero ben winston, perrie edwards, simon cowell, zayn malik, niall horan, liam payne, louis tomlinson e david beckham non mi appartengono e i fatti di cui sono protagonisti sono completamente inventati
  • david sexton - anche lui citato - è stato un famoso allenatore e calciatore inglese, mentre martin edwards è realmente un dirigente sportivo
  • non sono mai stata a manchester e non sono appassionata di calcio, perdonate le mie imprecisioni per luoghi/funzioni amministrative

che faticaccia! penso di aver concluso però.
la storia è veramente ma veramente lunga - è nata come una one shot e non volevo trasformarla in qualcosa di più sostanzioso, ma mi sono resa conto che devo.
spero di farvi un favore, per lo meno non vi annoierete troppo!
cos'altro dire? questo è il mio primo progetto per quest'estate, spero che ce ne possa essere un secondo, ma purtroppo con il lavoro non riesco a concludere granché! sono fiduciosa <3
un grazie di cuore alle mie splendide beta che si sono premurate di correggere questo malloppo di parole per me, vi sono debitrice a vita!
e un grazie speciale a chi continua a leggermi e a volermi su questo sito. vi voglio tanto bene!
buona lettura!
caterina

 

 



fever pitch
1/3
 
 




Connie cammina piano lungo il corridoio con l'indice della mano sinistra che graffia il pollice a un ritmo costante. Si morde il labbro inferiore e sospira quando arriva davanti all'ultima porta, rigorosamente chiusa. Lancia un'occhiata ai muri che ha intorno, ora completamente privi di tutte le fotografie che un tempo erano appese con orgoglio, i sorrisi dentro le cornici ormai persi nello scantinato.
Le sembrano passati secoli.
249 giorni, invece.
Bussa piano, poi, mordendosi il labbro un'altra volta per via della pelle martoriata delle sue dita.
Inspira. Espira. “Papà?”
Non le risponde nessuno, ovviamente. Da dentro non si sente nient'altro che uno scricchiolio della sedia girevole, segno che per lo meno lui ha guardato verso la porta.
“Papà – Connie deglutisce, alza appena la voce – Papà, c'è del...della pasta, in cucina. Esther ha fatto la torta alle mele, la tua...la tua preferita – non ha intenzione di piangere – Io sto andando da Niall a ripassare, mamma è uscita qualche ora fa. Ci...ci vediamo dopo, okay?”
Le parole le tremano un po', ma questa non è una sorpresa. Connie fa un passo indietro, respirando così forte da sentire l'apnea. Aspetta qualche secondo, una piccola speranza, un qualcosa che le faccia capire che si può andare avanti.
Suo padre non apre la porta.
Lei allora chiude gli occhi – fa molto più male il silenzio – e annuisce, come se lui le avesse risposto.
“D'accordo – sussurra – va bene”
 
 
 
Casa di Niall è semplicemente una topaia, in confronto alla sua, ma Connie ci trascorrerebbe volentieri la vita. Perché si sta bene, in quella villetta a schiera nella periferia di Manchester, perché c'è odore di pane appena sfornato e famiglia. Perché il tavolo del salotto è piccolo e quando Connie si ferma a mangiare, col gomito tocca sempre quello di Niall. Perché Maura è una donna eccezionale, sempre con la parola di conforto e la voce dolce. Perché Niall è sicuramente l'unico amico che abbia mai avuto, perché c'è sempre stato e perché non fa domande, al contrario ascolta, e non è una cosa da tutti.
Casa di Connie potrà avere la piscina sul retro, il giardino verde e immenso, la mansarda, i corridoi infiniti e un Picasso originale, ma non è nient'altro che un mucchio di mobili costosi ed estranei che se ne prendono cura.
Non è mai il giorno delle pulizie, e non c'è nessun Niall che sporca la moquette, né i rimproveri di Maura per i bicchieri lasciati in cucina.
Casa di Connie è caduta nel silenzio, nell'oblio più totale. Sua madre Elsa cerca di far quadrare le cose, le sorride, ringrazia Esther per il cibo, continua a disegnare i suoi vestiti, a prendere gli aerei e a vivere la sua vita.
Forse è andata avanti, oltre. Forse lei ci è riuscita davvero.
Connie è in bilico, invece. Sono passati 249 giorni, abbastanza per rialzarsi, il tempo necessario per inserirsi di nuovo nella routine, cercando di alleviare l'assenza, compensarla con qualcos'altro.
Ma. C'è.
Nonostante non sia qualcosa di fisico, nonostante non si possa vedere, non si possa più percepirne l'odore, la voce, le parole, c'è.
E un giorno forse capirà se questa sia solo una grande fortuna, o solo un altro modo per pensare di avercela fatta, quando in realtà si è semplicemente al punto di partenza.
 
 
~
 
 
Nel settore Colin Bell Stand la gente è molto più silenziosa rispetto alle curve North e South Stand.
Si parla principalmente di soldi e sponsor, di giocatori da comprare e quelli da mandare via. Nessuno che sia vestito di bianco e azzurro, nessuno che urli e canti. Solo uomini in giacca e cravatta e sguardi seri e critici.
In mezzo a tutti questi poi, c'è Niall. L'eccezione.
La sua sciarpa è originale del Manchester United e le sue guance sono tinte di un rosso porpora per via degli schiamazzi con cui incita i calciatori alla vittoria. I suoi occhi blu sono accesi di aspettative come quelli di un bambino.
L'Etihad Stadium è pieno e gigantesco, e da questa posizione, nella tribuna d'onore, Connie si sente ancora più piccola.
Tiene le gambe accavallate e le spalle strette per via del freddo invernale, e tiene il mento alto come le ha insegnato sua madre, mentre guarda la sua squadra pareggiare 1-1 con il Bayern Monaco.
“Non vinceremo mai” dichiara secca, osservando il campo con espressione contrariata.
Niall, di fianco a lei, sbuffa sonoramente e si volta a guardarla. “Non vinceremo mai se ci credi così poco” ribatte, e sembra che tremi da quanta adrenalina circola nel suo corpo.
“Rodger ha perso la palla tre volte – esclama lei allora, testarda come suo padre – e se Payne continua a buttarsi per terra per parare tutti quei tiri rischia seriamente di rompersi il ginocchio un'altra stagione”
Niall rimane in silenzio, arricciando le labbra e tornando a fissare la partita in corso. Tentenna, perché probabilmente sa che Connie ha ragione.
“Si vede che manca Tomlinson” sospira poi, sconsolato.
“Ah, ma ti prego! – la ragazza scuote la testa con energia, aggrottando le sopracciglia – Nessuna squadra al mondo ha bisogno di un fenomeno da baraccone”
La signora seduta di fianco a lei, forse moglie di uno dei finanzieri, le rivolge uno sguardo indignato, chiusa dentro alla sua pelliccia di coniglio.
“Non parlare di Tommo in questa maniera!” la riprende invece Niall, il tono di voce alto, arrabbiato.
“È un bambino, Niall – Connie rotea gli occhi al cielo, proprio non riesce a capire – Insomma, non ha tecnica, non ha un minimo di spirito di squadra, tutto quello che fa è sentirsi superiore a-”
“Parli così perché non ti piace come persona – ribatte l'amico, impassibile – Ma il suo cuore è grande e-”
Grande quanto il suo ego”
“...e se solo tu smettessi di giudicare le persone senza conoscerle, capiresti che c'è dell'altro, oltre a quello che vedi”
Connie scoppia a ridere a quel punto, perché sentire Niall Horan parlare così profondamente è sempre divertente.
“Beh, lo conosco abbastanza, invece – ribatte, saccente – Papà ne parlava di continuo. Lo faceva impazzire
Una folata d'aria gelida la costringe a chiudere gli occhi. Rabbrividisce e si stringe con forza nel giaccone della società, facendo un respiro congelato.
“Sono sempre i migliori a essere i più difficili da gestire – Niall sembra non demordere, perché quando si tratta dei suoi calciatori preferiti la cosa lo tocca particolarmente – Hai mai sentito di qualcuno di così spettacolare da farsi mettere i piedi in testa?”
Connie alza gli occhi al cielo, pronta a ribattere riguardo all'infinità di gente conosciuta che ha un minimo di educazione, ma poi la persona seduta una fila dopo Niall si volta nella loro direzione, interrompendo la conversazione che sta avendo con l'uomo accanto.
“Già, tesoro – la guarda, gli occhi chiari e un sorriso assolutamente bastardo tra le labbra sottili – Ne hai mai sentito parlare?”
C'è qualcuno che ride, poi, e la North Stand che impazzisce per una punizione mancata.
Niall sembra diventare ancora più pallido in volto, mentre le sue guance si arrossano all'inverosimile. Spalanca gli occhi e ammutolisce di colpo, forse smette addirittura di respirare.
Connie invece inarca un sopracciglio, sorpresa, stupita e infastidita.
Louis Tomlinson continua a fissarla con la stessa espressione soddisfatta di quando segna un goal e lo stadio esplode, come se con quell'entrata di scena avesse messo a tacere una persona come Connie.
Il piumino del Manchester United gli fa la spalle più larghe, e quel beanie grigio chiaro gli dà un'aria da adolescente quasi timido se non fosse per il ghigno, lo sguardo strafottente.
Adesso capisce ciò di cui suo padre parlava.
“Tu sei Dio!” esclama Niall, interrompendo lo scambio di sguardi tra i due.
Connie sbuffa e rotea gli occhi al cielo: “Sì, il Dio degli sbruffoni”
Louis fa una faccia indignata, toccandosi il petto platealmente. “Non mi ferire così, bocciolo – la riprende – Potrei seriamente rimanerci male, sai?”
Dal vivo è anche più fastidioso che nelle interviste. La sua voce è meno stridula, e i suoi occhi non così azzurri, ma è comunque irritante a pelle. È una vergogna che sia un giocatore tanto richiesto.
L'uomo di fianco a Louis ride ancora, posandogli una mano sulla spalla, la presa considerevole.
“Signor Tomlinson, ha appena avuto il piacere di conoscere la nostra piccola Connie”
La fa sorridere adesso quel soprannome, le ricorda le giornate in cui suo padre la portava in società, facendola correre per tutti i corridoi e poi nei campi d'allenamento.
“La figlia di Johnson – aggiunge Niall velocemente, allargando gli occhi – Sai, il miglior allenatore che il calcio abbia mai avuto”
Louis la fissa con occhi diversi ora, forse sorpreso di quella scoperta. Connie cerca di restare seria, ma non le piace lo sguardo minuzioso che le rivolge, quasi a studiarla.
“Fortuna che hai preso da quello schianto di tua madre, allora” esclama qualche secondo dopo, e la gente intorno a lui ride più forte.
Connie alza gli occhi al cielo, decide di ignorarlo tornando a guardare la partita.
Louis ride ancora, poi si volta verso il campo e riprende a parlare con l'uomo al suo fianco.
 
 
 
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Elsa appoggia la borsa di Chanel sul bancone della cucina, facendo un sospiro stanco morto. Si sposta dal volto una ciocca di capelli color caramello, mette le mani smaltate sui fianchi larghi e arriccia le labbra scarlatte. “Odio i paparazzi” dichiara, con lo stesso tono di voce di chi ha appena terminato un'infinita giornata di lavoro.
Connie alza gli occhi dal suo libro zuppo di sottolineature e frasi scritte a matita, lanciandole un'occhiata divertita. “Ti hanno di nuovo seguita?” le chiede.
“Oh sì! – sua madre sbuffa arrabbiata, le dita adesso a massaggiarsi le tempie – Non riesco nemmeno a prendere un caffè con le mie amiche! Fortunatamente lunedì sarò così piena d'impegni che questi gran maleducati saranno l'ultimo dei miei problemi”
Elsa è una donna bellissima, sempre truccata alla perfezione e coi talloni perennemente incollati a un paio di tacchi, ma come madre è buffa, quasi impacciata. Capisci di conoscerla alla perfezione solo quando ti fa vedere le due facciate della sua maschera, quel lato materno e premuroso che muta in un atteggiamento ostile e professionale quando si parla di lavoro.
Connie sorride, perché sua madre ha la capacità di spingerla a passi impercettibile fuori dal buio. È forte per entrambe, e per questo non smetterà mai di ringraziarla.
Elsa addolcisce lo sguardo. “Sicura di non voler venire con me? Nemmeno un paio di giorni?” le domanda, forse per l'ennesima volta quel mese.
“Non posso – la figlia risponde subito, inarcando le sopracciglia – Non voglio saltare altri giorni di scuola”
Il tono non deve convincere la donna, che ancora in piedi sospira appena e “Se è per tuo padre-” inizia.
“No, mamma”
“...lui starà bene, nena. Lo sai. Dobbiamo lasciargli il tempo necessario per andare avanti”
“Lo so, lo so – Connie manda giù quel nodo che le impedisce di respirare normalmente – È solo che...è dura”
Elsa le arriva alle spalle, stringendola con dolcezza per poi baciarle i capelli scuri e la fronte struccata. “Mi amor, – mormora, e Connie la conosce abbastanza da sapere che quella è la voce che sostituisce il pianto – andrà tutto bene, vedrai. Il tempo aggiusta tutto”
“Vorrei essere come te, mamá
La sente sorridere contro la propria tempia fredda. “Qualcuno deve pur rimanere in piedi, nena
 
 
 
Per la maggior parte del tempo, Gabriel Johnson rimane chiuso nel suo studio al secondo piano. Esce giusto il minimo per andare in bagno, mangiare e cambiarsi i vestiti. Per il resto, resta fermo a guardare verso la vetrata che si affaccia sul giardino del retro, seduto sulla sedia in pelle girevole.
Non parla con nessuno, quando Connie riesce a scovarlo in uno dei suoi rari momenti fuori da quella porta, lui nemmeno alza gli occhi dalla moquette costosa del corridio.
Suo padre è morto, respira ancora solo perché è un movimento involontario. Ma non esiste, ha smesso di farlo da quando Mannie se n'è andato.
I primi mesi, per Connie sono stati i più duri di tutta la sua vita: era arrivata a quel punto di disperazione in cui perfino ridere la faceva sentire in colpa, quasi come se non ne avesse più avuto il diritto. Passava le giornate silenziose chiusa in camera, a leggere e a piangere per poi tirare su col naso e ricominciare, come un mantra.
Le cose sono andate meglio col passare del tempo, sua madre ha iniziato a bussare più insistentemente alla porta fino a quando Connie non ha trovato la forza e ha capito.
È un processo che non è ancora terminato – dubita ci sia realmente una fine – è un insieme di ferite ancora aperte che non verranno mai ricucite veramente, ma per lo meno sa che Mannie sarebbe orgoglioso di lei.
Ed è proprio vero che ciò che non ti uccide ti rende più forte. Andrà tutto bene, prima o poi.
Perché, alla fine, quante cicatrici possono nascere su uno stesso punto?
 
 
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La presentazione delle nuove magliette del Manchester United avviene di venerdì sera.
Connie è davvero contenta che continuino a invitarla nonostante suo padre non alleni più la squadra, la fa sentire ancora parte di quell'immensa famiglia. È vero anche che i Johnson possiedono tre quarti della società, ma le piace comunque pensare che la sua partecipazione sia importante anche da un piano affettivo, per così dire.
Sua madre è ancora a Parigi per la Fashion Week, a presentare la nuova collezione autunno/inverno, quella per cui lavora da ormai sei mesi.
Inutile pensare a dove sia suo padre invece, la risposta è banale quanto dolorosa.
Si è infilata un completo firmato Elsa Romero blu elettrico e un paio di tacchi che sua madre le ha consigliato tramite messaggio. Ha sistemato i capelli in una coda alta e s'è truccata infoltendo le ciglia e accentuando il colore olivastro chiaro della sua pelle ereditata dai geni spagnoli.
Niall, al suo fianco, continua a tremare e a sorridere come un bambino. Commenta qualsiasi cosa la presentatrice bionda dica, applaudendo come un matto quando Styles e Payne salgono sul palco come cavie per mostrare al piccolo pubblico la nuova divisa.
Connie non è molto attenta a ciò di cui stanno discutendo, continua a guardarsi intorno con gli occhi seri e a osservare i volti nuovi e conosciuti che hanno fatto parte della sua vita.
A fine presentazione, tutti gli invitati coi dovuti giornalisti si spostano nell'altra sala, dalle luci soffuse e boccali di champagne che circolano su vassoi splendenti.
Connie non beve, ma sua madre le ha sempre detto che per scaricare i nervi è importante tenere le mani occupate, così girovaga con un bicchiere pieno in mano salutando uomini in giacca e cravatta che sorridono e fanno domande un po' tese riguardo suo padre e la famiglia in generale.
La risposta è sempre la stessa: “Stiamo tutti bene”
Niall ha intavolato una conversazione con Ben Winston, il preparatore atletico della squadra, riguardo le ultime due partite e su quanto lo schema nuovo sia efficace. Deve essere leggermente brillo, perché le sue guance irlandesi sono di un rosso acceso, sbarazzino. La camicia bianca di suo padre gli sta larga sulle spalle, l'ha dovuta infilare dentro ai jeans neri per non sembrare più buffo di quello che già non sia.
Connie fa un sorriso leggero verso un fotografo all'angolo della sala che la chiama, senza sbilanciare troppo l'espressione per non risultare sforzata e finta, agguanta con forza la pochette di Michael Kors e fa girare lo champagne dentro al bicchiere nell'altra mano, scuotendo appena la testa per togliersi i capelli dal volto.
Dita leggere si posano sul suo fianco, facendola voltare.
Harry Styles, il difensore ventenne del Manchester United, uno degli ultimi acquisti rubato al Milan, le rivolge un sorriso genuino, che risalta le fossette sul suo volto chiaro e scolpito. Ha i capelli ricci liberi dalle fasce ed elastici che è costretto a portare in campo e indossa un completo elegante che probabilmente s'è scordato di abbottonare sul petto tatuato.
“Connie – esclama, chinandosi dal suo metro e ottanta per sfiorarle la guancia con le labbra scure – Sono contento di vederti”
“Harry, ciao” lei sorride di rimando, gentile.
È stato suo padre a volerlo a tutti i costi in squadra, mentre giocava ancora nel young team del Southampton e aveva l'acne sulle guance da diciassettenne. Lui e Connie si sono conosciuti solo gli ultimi mesi in cui Johnson allenava, diventando quasi amici. Harry è un ragazzo splendido, gentile e competitivo, ma Connie è troppo incasinata per poter gestire altre relazioni interpersonali oltre quelle che già ha.
“Come stai?” le chiede, senza smettere di sorridere.
“Tutto bene, grazie – lei si inumidisce le labbra – E tu?”
Harry apre la bocca per rispondere, poi sposta lo sguardo dietro le spalle dalla ragazza e scoppia a ridere, scuotendo la testa.
Tommo! Sei ubriaco?”
L'attimo dopo, Connie sente chiaramente il corpo tonico di Louis Tomlinson sfiorare il suo, facendola irrigidire appena. Si volta di scatto, assottigliando lo sguardo per la stizza.
Lui indossa una camicia blu abbottonata fino all'ultima asola e un paio di pantaloni che cadono morbidi sulle gambe muscolose. I capelli di quel biondo sporco e scuro sono tirati indietro da passate di gel pesanti, affilando quei lineamenti dritti del volto abbronzato.
“Assolutamente no” risponde, sbattendo le palpebre più volte.
Di nuovo quello sguardo inquisitore, Connie sta iniziando a non sopportarlo.
La sta osservando con occhi altezzosi, celati da una finta curiosità che non fa altro che aumentare il fastidio che sente allo stomaco.
“Guarda un po' chi abbiamo qui – esclama, facendo un passo indietro – Sei Cora, giusto?”
Lei rotea le pupille, stringendo con più forza la pochette firmata. “Connie – lo corregge – E tu sei quello che si è beccato quattro giornate di squalifica perché evidentemente non sa che sputare sugli arbitri è disumano?”
Harry scoppia a ridere in modo imbarazzante, coprendosi la bocca grande con le mani e facendo voltare qualche persona verso la loro direzione.
Louis invece è composto: allarga il sorriso ora sorpreso, accattivante.
“Finalmente qualcuno che ti dà del filo da torcere, Louis – Harry esclama, sbattendo le ciglia un paio di volte – Era ora, stavi diventando davvero insopportabile”
“Ah, ma smettila, Harry! – Louis fa un gesto incurante con la mano e torna a guardare Connie – Ma prego, zuccherino. Continua pure”
Lei per poco non gli rovescia l'intero bicchiere addosso, ma è superiore e non ha tempo da perdere con gente come Tomlinson.
Alza gli occhi al cielo e li punta sulla figura che adesso ha affiancato i due ragazzi, stretta in quel completo di Armani che gli risalta gli occhi grigi.
Clive Walsh ha trentanove anni e in mano l'intera squadra, è il nuovo allenatore del Manchester United ed è bravo, tutto sommato. Ha regole e schemi che farebbero venire la pelle d'oca a Johnson, ma non si può chiedere la luna, adesso.
“Suvvia, Louis. Lascia in pace la signorina Johnson” esclama, posando una mano sulla spalla del calciatore.
Louis si toglie da quella presa l'istante successivo, come se quel contatto gli desse più che fastidio. Ha perso il sorriso e l'espressione serena che gli dipingeva il volto, adesso sembra arrabbiato, scocciato.
“Puoi per favore non dirmi quello che devo fare anche qui?” sibila, teso come un violino.
Connie è sorpresa, perché non pensava che Walsh e Tomlinson non andassero davvero d'accordo. I giornali e i programmi sportivi non fanno che parlarne, ma fin da subito lei aveva creduto fossero semplici storie per ingigantire come al solito la questione.
Invece anche Harry ha smesso di ridere e guarda il suo compagno di squadra con le mani aperte, come se fosse sicuro di dover intervenire.
L'atmosfera è cambiata del tutto e Connie inizia a sentirsi a disagio, di troppo.
Clive non sembra per nulla disturbato da quel tono sprezzante con cui il ragazzo gli si è rivolto, esibisce un sorriso lascivo e scuote appena la testa: “Sempre così scortese, Louis – esclama, poi si concentra sulla ragazza – Non capisco proprio come tuo padre abbia resistito così a lungo senza impazzire
È curioso l'accento che la sua voce dà all'ultima parola, denota una sfumatura scherzosa, strafottente quasi.
Connie stringe con più forza il bicchiere tra le dita e cerca di non pensare a quanto sarebbe grandioso frantumarlo su quella meravigliosa faccia da schiaffi.
“Non azzardarti”
La mano di Harry ha intrappolato il braccio di Louis quando questo ha iniziato ad avanzare, la sua voce è ora un sibilo minaccioso, pieno di rabbia.
“Non azzardarti a nominarlo” ripete , stringendo i pugni, indurendo lo sguardo metallico.
Fa un respiro profondo, che è quello che a Connie manca, si libera dalla presa del difensore e volta le spalle a tutti, seguendo la strada per il bagno.
Di nuovo, Clive è tutto meno che preoccupato. Il suo sorriso non è che un ghigno, i suoi occhi grigi sanno di falso.
“Gli passerà – dichiara poi, serafico – Ora devo proprio tornare ai miei affari, ma è stato un piacere rivederla, signorina Johnson”
Connie fa un sorriso che non coinvolge tutto il resto, è ancora scossa e questo si vede. “Anche per me, Mister Walsh”
Harry la sta guardando, quando rimangono da soli. Ha lo sguardo incerto, quasi imbarazzato per la scena di poco fa.
Connie sbatte appena gli occhi e respira forte, lui invece si schiarisce la voce.
“Louis è cambiato – dice, quasi istintivamente – Voglio dire, è cambiato da quando...da quando tuo padre ha smesso di allenare. È...diverso, molto più irascibile, con Walsh è sempre così, anche agli allenamenti”
Lei annuisce lentamente, cerca di capire dove il ragazzo voglia andare a parare.
“Quello che voglio dirti è...non credere a quello che dice la gente – continua Harry, emozionato – Lui non è come viene descritto dai giornali. O meglio, non realmente. Lui è...c'è molto di più, ecco”
Connie a quel punto gli mostra un sorriso debole, per niente convinto. “Buon proseguimento di serata, Harry”
 
 
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Rivede Louis Tomlinson il sabato successivo, al compleanno di una sua compagna del corso di fisica.
È Niall a costringerla, sua madre non è ancora tornata a Connie odia lasciare suo padre a casa da solo, ma è pur sempre una festa open bar e il suo migliore amico è irlandese: non avrebbe potuto non partecipare neanche se avesse voluto.
La discoteca è grande, a due piani a soppalco dove, in quello superiore, Dana spegne le candeline dei suoi diciotto anni su una torta a più strati.
Niall è ubriaco, ovviamente. Salta da una parte all'altra dei divanetti tirando ginocchiate a gambe nude di ragazze poco vestite o attirando l'attenzione sgradita di qualche ragazzo che lo squadra senza pudore.
Connie non si sta divertendo, ambienti come questi non le piacciono e con l'unica persona con la quale parla ko, è davvero difficile provare a fingere. Ci riesce, però, perché questo è il momento di Dana che l'ha addirittura invitata, non rischierebbe mai di rovinare la festa a nessuno.
Dopo il taglio della torta e il brindisi con vino francese, decide che è giunto il momento per Niall di calmarsi. Lo trascina al piano inferiore quasi con forza, cercando di non cadere dalle Jimmy Choo di sua madre.
La musica è alta, di quel genere che Connie proprio non sopporta, e Niall è così ubriaco da appiccicarsi alla sua schiena in modo disgustoso. La gente balla senza sosta, a occhi chiusi o fissi su altri, spingendosi o ridendo al bancone mentre dal palco il deejay batte le mani tenendo il tempo.
Connie afferra il braccio di Niall e lo conduce verso i bagni maschili, senza badare a chi è appostato nel corridoio e la sta fissando con malizia. No, non scoperà con Niall in un luogo pubblico. Non scoperà con Niall in nessun luogo, a pensarci bene.
I bagni sono grandi, più puliti rispetto a quello che si era immaginata, Connie sbatte completamente il ragazzo contro il muro piastrellato e lo vede accasciarsi al pavimento umidiccio con gli occhi socchiusi e il sorriso sbronzo, mentre borbotta e si lamenta.
La ragazza inumidisce un fazzoletto di carta riciclata e sospira, accovacciandosi sui tacchi davanti alle gambe aperte di Niall.
“Connie, Connie, Connie...” lui canticchia, mentre lei gli rinfresca il volto.
“Almeno ti ricordi del mio nome” la ragazza ribatte, pratica.
Niall spalanca gli occhi rossissimi, facendo uno scatto con la schiena che la fa spaventare.
“Come potrei non ricordarmi! – esclama offeso, trascinando le parole – Tu sei...tu sei Connie!”
“Sta' fermo, stupido” lei sbuffa, bloccandogli le spalle.
È talmente concentrata dal prendersi cura di Niall, che non si accorge che qualcuno dietro di lei sta picchiettando il piede contro le piastrelle del pavimento.
“Bevuto troppo?”
Gli occhi torbidi di Niall si spalancano, così come quelli corrucciati di Connie. Entrambi guardano verso l'entrata, sbattendo le palpebre.
Louis Tomlinson indossa un blazer nero sopra una maglietta bianca e un paio di jeans scuri attillati in grado di evidenziarli all'inverosimile le cosce muscolose da calciatore. Tiene le Vans distanziate tra di loro e un bicchiere di plastica tra le dita, mentre sorride con quella sfumatura divertita che lo rende ancora più detestabile.
“Santo cielo! – è Niall il primo a parlare, strillando come una ragazzina – Louis Tomlinson durante una sbornia colossale! È il fottuto giorno più bello della mia vita!”
Connie sbuffa e gli tira una gomitata, zittendolo. Si rialza in piedi e si sistema le pieghe del vestito bianco che indossa.
Fiorellino, questo è il bagno dei maschi, lo sapevi?” Louis fa un passo avanti e allarga il sorriso, lanciando una breve occhiata verso lo specchio.
“Hai intenzione di chiamare il proprietario per farmi cacciare, allora?” lei ribatte subito, inarcando un sopracciglio destro.
Il giovane fa schioccare la lingua. “Dal momento che sono io il proprietario, per questa volta chiuderò un occhio”
Connie non può fare a meno roteare le pupille e sbuffare.
Come dimenticarsi della vita sfrenata di Louis Tomlinson?
“Non mi sento bene” borbotta Niall a quel punto, aprendo e chiudendo gli occhi in modo spasmodico. Si tocca la fronte sudaticcia e fa respiri profondi, ora pallido come un lenzuolo.
“Credo che debba vomitare” costata Louis, guardandolo timorosamente.
Connie si è già voltata verso il suo migliore amico e già cerca di farlo alzare in piedi, i tacchi rendono tutto più complicato e se lui le vomita sulle scarpe sarà la fine per tutti.
“Perspicace! – commenta, per poi aggiungere subito dopo – Che fai? Mi aiuti o no?”
È sorpresa quando Louis la raggiunge per davvero ed esibisce uno sguardo preoccupato, come se le condizioni di Niall fossero davvero tra i suoi interessi. Afferra le spalle del ragazzo con decisione, alzandolo dal pavimento e conducendolo con un suo braccio attorno al collo verso il primo gabinetto più vicino. L'irlandese si butta di nuovo per terra, le mani ancorate alla ceramica bianca, e vomita.
“E anche oggi ho fatto la mia parte – Louis torna quello di sempre, quello delle riviste e interviste, si strofina le mani con quel sorriso malizioso e le fa l'occhiolino – Buona serata a entrambi”
Dà una pacca amichevole sulla spalla tremante di Niall, ancora chino, ed esce dal bagno.
 
 
 
 
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Connie trascorre più tempo in società che a casa, e paradossalmente il tempo speso tra gli uffici del Manchester United è aumentato da quando suo padre ha smesso di allenare la squadra.
È lei la portavoce delle faccende burocratiche della propria famiglia ora che l'ex mister nemmeno esce dalle mura domestiche.
Si è appena conclusa la riunione con gli sponsor della Nike e lei dovrebbe studiare filosofia, Martin Edwards ha fatto la sua comparsa insieme agli altri dirigenti e Connie è sul punto di andare via.
Attraversa i corridoi a testa alta, camminando col passo felpato di sua madre e quella dolce familiarità che la fa appena arrossire.
È però quando supera la porta del vecchio ufficio di suo padre che si sente pervadere da altri sentimenti, simili ma più forti, devastanti.
Osserva la vetrata che si affaccia su quella stanza arredata dal Mister Johnson e si ferma, improvvisamente a corto di fiato.
Si sedeva spesso sulla poltrona all'angolo, in attesa che suo padre finisse di parlare coi calciatori singolarmente, mentre lei colorava fogli da buttare ed era solo una bambina. Insieme poi guardavano verso i campi dietro la finestra, osservando la preparazione dell'allenamento e gli addetti che sistemavano il prato e gli attrezzi.
Era qualcosa solo di loro, qualcosa che lasciava il mondo intero fuori. E fa male ricordare perché semplicemente di tutto ciò che lei chiamava casa – famiglia – non è rimasto più nulla.
Si schiarisce la gola e si accorge di star piangendo quando sente il fresco sulle guance bollenti, quando le lacrime s'impigliano al mascara e lo trascinano sulla pelle.
“Dolcezza, ti sei persa?”
Alza gli occhi al cielo e poi li chiude al suono di quella voce fastidiosa. Con le dita cerca di eliminare le tracce del suo stato d'animo mentre tira su col naso e si ricompone, si ricostruisce.
I tacchetti su quel pavimento lucido danno l'impressione di una pioggia fitta, Louis Tomlinson si avvicina lentamente e Connie sa per certo che lui stia sorridendo, si capisce dal tono con cui, per l'ennesima volta, si prende gioco di lei.
“Forse cercavi me? – il ragazzo l'affianca appena – Per ringraziarmi di aver salvato la vita al tuo amico, magari? In tal caso, è stato un piac-”
“Oh, ma sta un po' zitto! – Connie si volta di scatto nella sua direzione e lo guarda in quegli occhi che adesso sono sorpresi, basiti – Perché ti risulta così difficile evitare di pensare prima di dire qualcosa? Non puoi semplicemente stare ogni tanto?”
Louis è colpito, molto di più di quanto potesse immaginarsi. Il suo sguardo è perso, come se qualcuno gli avesse appena tolto la terra sotto i piedi. Il suo sorriso è morto, rimane a scoprire quei denti piccoli ma non trasmette nulla se non insicurezza, instabilità.
La guarda e sembra tremare appena, la guarda e osserva i suoi occhi spenti e liquidi, le guance arrossate e la bocca socchiusa, lucida di lip gloss.
È incerta la sua voce mentre “Stavi piangendo?” s'azzarda a chiederle, dopo aver deglutito.
Connie è scontrosa perché ha solo paura di essere derisa di nuovo, perché non lo conosce e non si fida, per questo gli risponde: “T'interessa?” con arroganza, il tono rabbioso.
Louis sbatte le palpebre e deglutisce ancora, stringe le mani a pugno e non sa cosa dire.
Per lei diventa tutto più difficile: dovrebbe essere soddisfatta perché finalmente è riuscita a zittire Louis Tomlinson in persona, eppure.
Eppure dentro il petto ha una scarica brividi che le chiudono i polmoni, i sensi di colpa le fanno venire la pelle d'oca e di nuovo le lacrime agli occhi.
Forse voleva semplicemente essere gentile, forse non è così menefreghista come appare.
“Hai ragione – Louis fa un passo indietro, sorride e blocca il flusso di pensieri dentro la mente di Connie – Non m'interessa”
Non studia filosofia, quando torna a casa.
 
 
 
 
~
 
 
 
 
Suo padre compie cinquant'anni.
Elsa cerca di farlo uscire da quella dannata stanza almeno sei volte, quando si decide a far passare da sotto la porta un piccolo post-it colorato e uscire di casa in direzione di Londra, con quel sorriso dispiaciuto e pieno di sensi di colpa.
Connie sottolinea frasi su frasi tra le pagine di Baudelaire e continua a mangiare indisturbata la macedonia che Esther ha preparato quella stessa domenica mattina, cercando di zittire il silenzio insolito per una giornata così importante.
In soggiorno ci sono centinaia di fiori e lettere da parte dei fans, auguri e ringraziamenti per un uomo che uomo non è più. Non è più nulla, non è rimasto niente.
Lei volta pagina e il campanello di casa suona, facendola sobbalzare con la forchetta a mezz'aria. All'inizio non capisce, non collega – è passato così tanto dall'ultima volta che qualcuno ha fatto loro visita – poi il rumore si ripete e lei si guarda intorno, cercando con gli occhi Esther, per poi ricordarsi che è domenica e lei di domenica pomeriggio non lavora.
Appoggia il libro sul tavolo della cucina e si alza in piedi, arrivando all'ingresso principale con la stessa andatura di qualcuno che ha appena sentito un rumore macabro, inquietante.
Il loro citofono ha un codice che serve a tenere lontani curiosi e tifosi, senza le cifre esatte nessuno è in grado suonare. Per questo Connie è così confusa.
Dallo schermo accanto alla porta, in bianco e nero, è la faccia di Louis Tomlinson quella che compare, sorridente e spensierata come un ospite atteso.
“Che accidenti vuoi?” Connie risponde al citofono, stizzita come ogni volta che si parla di lui.
“Mi fai entrare, pulcino? – è la risposta melliflua che riceve – Il mio autista arriva tra un'ora, non ho molto tempo”
“Ti conviene andare via, Louis” la sua voce si è fatta quasi disperata adesso, mentre lancia un'occhiata verso le scale con il terrore – o la speranza – di sentire qualche rumore dal piano di sopra.
“Non me ne vado finché non mi lasci entrare” Louis dice, inflessibile.
“Davvero, Louis-”
“Sono molto testardo, sai? – lui la interrompe – Potrei suonare per giorni interi”
Connie sospira forte, inceppando la connessione con l'esterno. Mentirebbe se dicesse che la sua presenza non le abbia fatto piacere, perché nonostante tutto, Louis è lì per suo padre, non l'ha lasciato solo.
Lo lascia entrare, aprendo il cancello con uno scatto metallico fino a sentire attutiti i rumori automatici dal giardino.
Lo osserva camminare sul lungo viale di ciottoli con il mento alzato e la camminata lenta, studiata come se fosse il padrone del mondo. Le mani in tasca e gli occhi fieri lo rendono ancora più impenetrabile, calmo.
Connie lo aspetta sotto al portico con le braccia incrociate e il volto corrucciato, impaurito.
È una situazione che la sta lentamente destabilizzando, rendendola sempre più confusa e indecisa.
Non sa cosa diavolo aspettarsi perché Louis è un punto di domanda, un'azione inaspettata tutte le volte.
Per lo meno, non sembra arrabbiato. È già qualcosa.
Fiore! – la saluta, salendo i gradini del porticato – Sono felice che tu mi abbia aperto. Ma, detto sinceramente, la prossima volta evita quella pagliacciata da bambina capricciosa. Fa freddo da queste parti, te l'hanno mai detto?”
Lei rotea gli occhi al cielo e già si pente di averlo fatto entrare. È sempre il solito sbruffone, non può cambiare.
“Perché continui a non chiamarmi col mio nome? E perché sei venuto qui? Non avevi nessuno con cui condividere le tue battute da youtuber mancato?”
Louis accenna un sorriso storto, guardandosi intorno e spostando il peso dalla punta al retro delle sue Vans a scacchi, poi torna a guardarla con occhi quasi affettuosi che lei non capisce.
“Non ti piacciono i miei soprannomi, miele? – le domanda, il tono ingenuo – A ogni modo, sono venuto qui perché mi mancavi. Non sei felice di rivedermi?”
“Louis...”
“In realtà stavo pensando a un soprannome unico, solo per te. Devo ancora trovarlo, però”
“Louis...”
“Che ne dici di gattina?”
“Louis”
Lo vede sospirare sommessamente, arrendevole e in cerca di parole. Si passa le dita tra i capelli arruffati e inclina appena la testa nel guardarla, mentre le chiede: “Lui è in casa?”
“Lui è sempre in casa” ribatte Connie subito, prima che possa rendersene conto.
Louis è serio adesso, talmente serio da farle perdere il filo della conversazione. Come può cambiare umore da un momento all'altro tutte le volte?
“Cosa vuoi dire?” le chiede, qualche istante dopo.
Connie geme frustrata, passandosi i palmi delle mani su tutto il volto pallido ed esausto. “Dovresti andartene, Louis. Dico sul serio”
Il ragazzo le dà le spalle, fissa il giardino verde, immenso. Sta...è come se tremasse, in qualche modo. Il suo corpo è teso e le sue mani bianche, di marmo, quasi a cercare disperatamente di non fare qualcosa, come se lo stato di freddezza totale riuscisse a mascherare la potenza di ciò che quella stessa carne comprime.
“Non è giusto – mormora, ma è un sussurro che Connie non riesce praticamente a cogliere. Si ripete, più a voce più alta stavolta – Non è giusto. Non è giusto per niente”
Sembra che parli da solo, la ragazza dietro di lui fosse è uno spettatore esterno. È un tono spezzato, quello che Louis usa.
Connie è senza parole, la bocca aperta per non dire niente.
“Ci ho messo quasi un anno a...trovare le palle per venire da lui. E tu ora mi stai cacciando e non è giusto”
Le sue dita tremanti corrono a coprirgli il volto e spazzare dagli occhi quella tristezza liquida, facendogli arrossare le guance e lo sguardo. Quando torna a guardarla, Connie quasi sobbalza nel vederlo così disperato, rotto.
“Mi dispiace – gli dice stupidamente, deglutendo – Non...non è colpa tua. Davvero”
Louis non le risponde, guarda la pavimentazione del portico e non c'è alcuna traccia di quel ragazzo che qualche minuto prima stava attraversando il giardino col sorriso fiero, gli occhi vispi.
Louis è grigio, arreso. Ed è triste, sì. Nonostante tutto, è triste.
Così “Vuoi sentire una storia, Louis?” gli domanda Connie, col tono dolce, per un bambino che ha appena finito di piangere.
Lui alza gli occhi diffidenti, poi annuisce appena ed è come arrendersi insieme.
 
 
~
 
 
C'è un detto che dice: “Ti auguro di morire prima dei tuoi figli”.
Emmanuél ha appena fatto ventidue anni e nella vita non ha niente in mente, se non suonare la chitarra. Studia beni artistici e culturali e ha già trovato casa per quando finirà quell'università che gli piace tanto, appena fuori Parigi. Per ora vive a Londra, ogni settimana prende il treno in business class e torna a casa dalla sua famiglia, a Manchester.
È uno di quei ragazzi spigliati e belli da morire, con la pelle olivastra grazie a sua madre e il sorriso carismatico e bianco che fa in modo che la gente gli voglia bene per così poco.
Nonostante il ruolo importante che riveste suo padre nel mondo del calcio, lo sport è probabilmente la cosa che più lo annoia al mondo. Non lo sopporta, davvero, e odia litigare con il suo vecchio per questo. Preferisce l'arte, la musica, la bellezza di un dipinto o di un museo.
Il suo pittore preferito? Ovviamente Pablo Picasso.
Nonostante tutto, ama la sua famiglia. Senza non avrebbe le possibilità economiche che possiede per viaggiare, per conoscere e studiare un mondo intero. Senza non avrebbe il sostegno, le spalle coperte e la sicurezza di non essere da solo. Senza, forse, non sarebbe la persona meravigliosa che è adesso.
Litiga spesso con sua sorella minore, ma sono quei bisticci fatti col sorriso sulle labbra, quelli che si risolvono con qualche occhiata a tavola o uno scambio di idee appena più profondo. Litiga più che altro con suo padre, ma questo perché Gabriel è protettivo, vuole sapere che ovunque il suo Mannie sia, sarà in buone mani. Con sua madre Elsa invece è praticamente impossibile litigare, è troppo buffa e dolce come madre da pensare di anche solo di provarci, ad arrabbiarsi con lei.
Emmanuél Johnson ha appena compiuto ventidue anni ed è in ritardo, ha perso l'ultimo treno per Manchester e sta usando la macchina del suo compagno di stanza.
C'è buio pesto e lui è arrabbiato, tanto arrabbiato. Sa di essere veramente in ritardo, ma ciò non toglie il fatto che la sfuriata che suo padre ha appena finito di fargli per telefono gli abbia fatto ribollire il sangue. Si calmerà da lì a qualche minuto, perché è fatto così.
All'Ethiad Stadium Gabriel sta guardando la sua squadra giocare contro il Barcelona ed è talmente infuriato con suo figlio che quasi non vede la rimonta del Manchester United finché la North Stand non esplode in un boato pauroso.
Miglia più distanti, nemmeno Mannie percepisce la lancetta rossa sfiorare i 200 km/h finché non sente le gomme dell'auto slittare.
Muore sul colpo.
Il Manchester United vince 2-1.
C'è un detto che dice: “Ti auguro di morire prima dei tuoi figli”.
Connie ora sa cosa vuol dire.
Come puoi pensare di conviverci? Come puoi pensare di non uscire fuori di testa ogni volta che qualcuno tocca quelle crepe che hai addosso? Come fai? Come ci riesci?
Emmanuél è morto, nessuno glielo ridarà più indietro, nessuno abiterà più la casa fuori Parigi, nessuno le tirerà più i capelli o parlerà del Messico con gli stessi occhi scintillanti.
Suo fratello è morto, e morto lo è anche suo padre. Ha smesso di vivere quella stessa sera, crogiolato dai sensi di colpa, dalla disperazione. Ha dato le dimissioni senza neanche un comunicato stampa e l'ultima volta che ha lasciato la loro casa è stato per i funerali, rigorosamente privati per cercare di tenere fuori i giornali.
La gente guarda Connie con rammarico, come un cane bastonato sul ciglio della strada. L'unica persona vera è Niall, la spalla che ha morso tante volte quando il pianto ha avuto la meglio.
La verità è che sta andando avanti, piano piano ma ci sta riuscendo.
Sua madre si è rifugiata nel lavoro, in ciò che più le dà soddisfazione, e forse può sembrare un po' insensibile, brusca, ma Connie capisce il motivo di quello stacanovismo e soprattutto lo rispetta.
Capisce anche la depressione di suo padre, in fondo. Ha perso un figlio ed è come perdere un braccio, sentirselo strappar senza anestesia. Il problema sai qual è? Che Mannie sarebbe impazzito a sapere di suo padre ridotto così. E questo, Connie non riesce a sopportarlo.
Sarebbero potuti andare avanti insieme, stretti, fragili ma forti.
E invece Gabriel ha deciso di morire.
E invece Connie ora non ha più un padre.
 
 
~
 
 
Quando Connie finisce di parlare, ha già pianto tre volte.
Si asciuga le palpebre con i pollici e guarda in alto, verso il soffitto di quella saletta chiusa e appartata.
“Non dici nulla?” esala, sbattendo gli occhi.
“Non so cosa dire”
Fa una risata buffa, tira su col naso. “Dovevo proprio piangere, per farti stare zitto?”
Louis si schiarisce la voce e si muove nervosamente sulla sedia del bar. Il suo caffè macchiato si è raffreddato, non si è nemmeno bagnato le labbra.
“Io lo sapevo – mormora, qualche istante dopo – Di...di Emmanuél”
“Certo che lo sapevi – ribatte subito Connie – Chi non lo sapeva? È stato l'argomento più discusso per un mese intero, prima che la figlia di Kim Kardashian iniziasse a camminare, ovvio”
Louis annuisce, ancora scosso. Si passa le mani tra i capelli e sbatte le palpebre più volte, come per riprendersi. La guarda negli occhi poi, e tra le sue pupille allargate c'è solo tanta tristezza, niente di malizioso, niente del ragazzo che sputa agli arbitri e litiga coi paparazzi.
“Perché me lo hai raccontato?”
Connie sorride a quella domanda, sentendo le iridi secche, irritate. All'inizio se l'è fatta anche lei quella domanda, poi ha visto il cambiamento repentino di Louis mentre parlava della depressione di Gabriel e ha capito.
“Perché sei l'unica persona che è venuta a trovarlo, oggi – risponde, scrollando le spalle e picchiettando le dita sulla tazza in ceramica del suo caffè americano – Perché sei il primo da...da sempre”
Le labbra sottili del ragazzo si piegano in una smorfia infastidita mentre “La gente fa schifo” sbuffa.
“Strano. Dicevo lo stesso di te”
Poi le sorride, ma è un sorriso sorpreso, ha un che di soddisfatto. Inclina la testa. “E adesso?” chiede.
Connie non gli lascerà mai questa soddisfazione. Dopotutto lui è ancora Louis Tomlinson, glielo rinfaccerebbe per il resto della vita.
“Pensi seriamente che abbia cambiato idea? Indossi Vans a scacchi!”
La risata del ragazzo è spontanea quanto liberatoria, uccide l'espressione incerta che gli si era formata sul volto.
Connie lo guarda e si sorprende perché c'è tanta bellezza dentro Louis che quasi si sente stupida per non averlo notato prima.
Forse lui pensa la stessa cosa: sono molto bravi a nascondersi entrambi, sì.
 
 
 
 
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Niall intasa la loro chat di Whatsapp con almeno quindici foto di lei e Louis seduti nello stesso tavolo da cui si è alzata qualche ora prima.
Sono immagini fatte da fotografi esperti, da lontano per non dare nell'occhio. Connie riesce a distinguere con attenzione lo sguardo serio che Louis le ha dedicato durante tutto il suo racconto. Hanno immortalato anche le sue lacrime amare, il modo in cui cercava di nascondersi dietro le mani e il modo in cui si è persa nelle parole e nell'attenzione che lui le ha rivolto.
From: Niall H
Cos'è successo?????????? Perché stavi piangendo??????? Devo odiarlo???? Lo sai che è il mio preferito!!!!”
Connie si aggiusta i capelli sul divano e sorride: il suo migliore amico è sempre così melodrammatico.
L'articolo sul Daily Mirror Online arriva verso sera, quando ha finito di rassicurare il ragazzo e sua madre via telefono. Il titolo fa scalpore, si parla di un'ipotetica dichiarazione d'amore, di altri incontri clandestini e argomentazioni del tutto infondati delle quali si prenderanno cura gli avvocati di famiglia.
Suo padre è ancora al piano di sopra, lontano, in silenzio.
Per la prima volta però, Connie riesce a dormire tranquilla.
(E chi lo avrebbe mai detto? È grazie a Louis)
 
 
 
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Le giornate di squalifica di Louis Tomlinson sono finite, Connie lo osserva dalle vetrate della società sentendosi patetica, impacciata.
La quadra sta avendo un'amichevole con il youth team e tutti sembrano divertirsi, perfino Walsh dalla panchina ha un sorriso sulle labbra sottili.
Louis è raggiante, nel vero senso della parola. È come se quelle settimane lontano dai suoi compagni e dal clima del campo sportivo gli avessero messo in corpo tutta quella voglia di giocare che sembrava essere scomparsa da un po'.
“Bello, vero?”
Connie si spaventa, emette un suono sorpreso e si volta, osservando il volto cordiale di Ben Winston che le fa cenno verso il campo dall'altra parte del vetro di quel lungo corridoio. Gli sorride gentilmente e annuisce. Sì, è bello.
“Louis trascina le persone – le dice l'uomo, nel tono di voce qualcosa che somiglia all'orgoglio – Ha questa capacità di...di farle felici, mi spiego? Insomma, guardalo. Sembra un bambino nel campetto dietro casa. Eppure è il terzo calciatore più pagato al mondo, ha ventun anni ed è bravo. Una brava persona, intendo. Faceva impazzire tuo padre, letteralmente, ma lo adorava. Si adoravano a vicenda”
Connie non sa perché Ben gli stia dicendo quelle cose, osserva Louis correre da una parte all'altra del prato e pensa a quanto lei abbia avuto bisogno di tempo per credere a quelle parole.
Non sa cosa rispondere, deglutisce e sorride al suo riflesso chiaro sul vetro.
“Quindi.... – Ben ora si schiarisce la voce e sembra molto più incerto – Uscite insieme?”
Cosa? – Connie spalanca gli occhi e si volta di scatto – No!”
L'uomo sorride alle sue guance rosse e alza i palmi grandi delle mani: “Domanda impertinente, scusami”
“Non è impertinente – lei scuote la testa – Semplicemente non usciamo insieme”
Ben incrocia le braccia al petto e “Peccato – mormora – Adesso devo tornare in campo. È sempre un piacere vederti qui, mi ricordi i bei tempi, quando c'era ancora tuo padre”
Rimasta sola, Connie torna a guardare fuori. Louis è fermo al centro del campo mentre gli altri con le borracce bevono e si bagnano i capelli. Ha lo sguardo divertito verso la vetrata trasparente.
Si sorridono a vicenda.
 
 
 
Quella domenica il Manchester United vince 2-1 contro il Southampton, Harry Styles saluta con un abbraccio i suoi vecchi compagni di squadra e Connie e Niall guardano la partita dal divano di casa Horan, con una birra in mano e Bobby che dalla poltrona impreca contro il televisore vecchio. Sorride, però, quando Louis Tomlinson segna il goal decisivo al settantesimo minuto.
È il clima perfetto, quel lontano ricordo di famiglia che riaffiora tra i nervi e piega gli occhi.
Connie appoggia la testa sulla spalla spigolosa di Niall e per un attimo è come se Emmanuél le stesse ridendo nell'orecchio.
 

 


~
 

 

Liam Payne, il portiere più giovane che la nazionale inglese abbia mai avuto, compie ventidue anni quel sei dicembre. Fa una festa nel suo attico del centro,
invita amici e conoscenti stretti e Connie.
Sua madre è tornata a casa da qualche giorno e sembra molto più energica e frizzante di quando è partita, è stata a lei a consigliarle quella jumpsuit nera che adesso indossa sopra ai sandali col tacco dello stesso colore.
Niall non c'è, ma stranamente si sta divertendo, molto di più di quanto si aspettasse. Con un bicchiere di Don Perignon in mano, Connie girovaga per quel lussuoso appartamento col soppalco intavolando brevi conversazioni con radiofonici famosi, calciatori e presentatori televisivi.
A metà serata si fa indicare il bagno dal sorriso dolce di Harry Styles e si rinfresca i polsi davanti allo specchio ovale, controllando l'ombretto rosa e il rossetto nude.
Dentro il bagno c'è silenzio, i colori sono freddi e c'è odore di lavanda e asciugamani puliti. Lei fa un respiro profondo e controlla l'orario sul telefono, prima di rimetterlo in tasca: il suo autista arriverà tra un'ora esatta.
Quando apre la porta, per poco non si scontra con una camicia bianca firmata, rischiando di rovinarla di fondotinta. Alza gli occhi truccati e Louis è lì appoggiato allo stipite che la sta guardando con uno sguardo compiaciuto e le labbra sottili arricciate in un sorriso.
È la prima volta che si incontrano dal compleanno di suo padre e la prima cosa a cui lei pensa è a quanto sia bello con quell'espressione di beatitudine sul volto spigoloso.
“Buonasera, mon cheri” la saluta, garbatamente.
“Louis – esclama lei, non può fare a meno di sorridere – Ciao”
Lui si passa la mano sopra ai capelli pieni di gel in un gesto plateale e poi indica con la testa dietro le sue spalle, “Facciamo un giro? Le feste di Payne mi annoiano sempre” la invita, rimettendosi in piedi.
È disinvolto come sempre, ma ha perso quella strafottenza che le ha sempre fatto stringere i denti: è solo Louis, bello e bastardo ma reale.
Connie annuisce lentamente e si lascia condurre lungo il corridoio buio, mentre dal salone qualcuno stappa un'altra bottiglia.
Quando entrano in una stanza da letto dallo stile minimale, la ragazza tentenna appena e “Non stiamo per fare sesso, vero?” domanda, con la voce insicura.
Louis si volta di scatto, poi scoppia a ridere sul tappeto nero. “Piccola mia, – esclama – per chi diavolo mi hai preso? Ovviamente non stiamo per fare sesso. Volevo solo farti vedere una cosa”
Improvvisamente, Connie si sente stupida e in imbarazzo. Arrossisce e abbassa il capo, stringendo le labbra: ovviamente non stanno per fare sesso, cosa accidenti stava pensando? Si sente più leggera in qualche modo, molto più sicura di restare in una stanza da letto sola con un uomo. Eppure, eppure...
“Vieni a vedere” la voce di Louis interrompe il flusso dei suoi pensieri contrapposti, lei sbatte le palpebre e lo vede aprire la finestra automatica. Lo segue fuori cercando di non inciampare sul tappeto e subito si stringe nelle spalle: fa un freddo cane e la sua pelliccia è nel guardaroba dell'ingresso.
Louis pare accorgersene subito perché si sfila il giubbotto dell'Adidas blu sopra alla camicia e glielo appoggia delicatamente sulle spalle, facendole un sorriso compiaciuto.
“Che galantuomo” commenta Connie e si guarda intorno.
“Sono un uomo pieno di risorse, ormai dovresti saperlo”
Si vede tutto il centro di Manchester, la ruota panoramica bianca, il River Irwell e le luci gialle della vita notturna. Dà una scarica di adrenalina pazzesca, Connie chiude gli occhi e respira forte.
“Bello, vero? – sente la voce di Louis dire – Nonostante tutto, Panye ha buon occhio per quanto riguarda le proprietà. Dovresti vedere la casa a Cannes, lascia senza parole”
“È una vista strana, non ci sono abituata – riflette poi lei, con le pupille meravigliate – Io vivo praticamente in campagna...lì è tutto molto più tranquillo”
E non c'è mai nessuno con cui condividere queste piccole cose, vorrebbe aggiungere. O per lo meno, non più.
Louis annuisce piano, le si avvicina e si appoggia coi gomiti al ferro bianco del balcone. La piega che prende il suo sguardo è seria, riflessiva. Il freddo gli fa arrossire le guance e gli indurisce il volto, ora sembra pensare a qualcosa d'importante e per un attimo Connie si chiede se lui sia ancora consapevole della sua presenza. Poi il ragazzo si gira e “Sei bellissima, stasera” le dice.
È...pazzesco. Louis è pazzesco. Riesce a cambiare stato d'animo da un momento all'altro, scherza e lancia frecciatine senza sosta e poi parla in questo modo, con una naturalezza che è disarmante, come se fosse fatto apposta per spiazzare le persone.
“Cosa?” è tutto ciò che Connie riesce a ribattere, stupidamente.
Il ragazzo accenna un sorriso, scrolla le spalle coperte dal tessuto della maglietta nera e “Ti ho detto che se bellissima, stasera – ripete pazientemente – Che c'è, coniglietta? Sei diventata sorda? Ti faccio quest'effetto?”
Lei alza gli occhi al cielo scuro e incrocia le braccia senza far cadere la felpa ancora posata sulle sue spalle strette: “Sai, sto cominciando a odiare questi soprannomi”
Louis ride stavolta, scopre i denti dritti e bianchi e inclina appena la testa, osservandola con una strana luce negli occhi azzurri. “Hai ragione – concorda, parlando piano – Ma non ho ancora trovato quello che più ti s'addice”
“Che ne dici di Connie?”
Nah. È scontato”
“Beh, è il mio nome”
Louis fa una cosa strana a quel punto: la fronteggia senza smettere di sorridere, con quell'espressione genuina sul volto che sembra così lontana da quella che ha avuto solo qualche istante prima. Le scosta una ciocca di capelli scuri dal volto e le sfiora la guancia coi polpastrelli, facendola smettere di respirare per qualche istante.
Si sente persa, Connie, talmente persa che all'improvviso quel balcone risulta così alto da sentire le vertigini sotto pelle. Ha paura perché è passato così tanto dall'ultima volta che qualcuno l'ha toccata con tanta delicatezza, l'ha guardata con quello sguardo da far tremare le ginocchia. E si sente viva, perché semplicemente sente ancora qualcosa, capisce che c'è altro oltre a un vuoto che non si rimarginerà mai più.
C'è Louis che piano passa le sue dita leggere come il vento sulla sua pelle, c'è il suo sorriso estasiato come se fosse davanti a qualcosa di bello veramente, per cui valga la pena. C'è questa sensazione di precipitare sulla città che l'ha cresciuta come una figlia, c'è questo tremolio interiore che fa bruciare le guance e gli occhi.
“Sei bellissima, stasera” ripete Louis, la voce che è diventata un soffio.
“Grazie” sussurra Connie piano, ed è un grazie pieno di parole che non si possono ancora dire.

 

 

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Capitolo 2
*** 2/3 ***


so che avevo detto che sarebbero state due parti, ma purtroppo la cosa si sta facendo più lunga del previsto e francamente c'erano troppe cose nella seconda, perciò ho aggiunto un terzo capitolo così da rendere la lettura a voi più piacevole e la stesura più tranquilla alla sottoscritta.
sono molto contenta che l'inizio vi abbia incuriosito e spero che con questa seconda parte le cose vadano anche meglio!
se avete voglia, posso creare una playlist su 8tracks con le canzoni che hanno ispirato questa storia, fatemelo sapere!
vi mando un bacio grande e spero di rivedervi presto!
caterina


 




fever pitch
2/3
 



 
 
Niall finisce il suo panino come se fosse il primo dopo un lungo digiuno. Ha comunque la decenza di pulirsi la bocca piena di salsa col fazzoletto, prima di parlare. Beve un lungo sorso di Coke e poi “Peccato – esclama dal nulla – Mi mancherà far credere alla gente di essere il tuo ragazzo”
Connie ha il pollo infilzato dalla forchetta a mezz'aria, si guarda intorno nella mensa rumorosa della scuola e non capisce. Sta parlando con lei?
“Non fare quella faccia, Connie – ribatte subito il suo migliore amico, colpendosi il petto forte come se non riuscisse a mandare giù quel mostro di panino che ha appena divorato – Sono un ragazzo, ma non sono stupido. L'intera Inghilterra è convinta che io sia il tuo fidanzato, quello che porti ovunque. Adesso che c'è Louis-”
“Adesso che c'è chi?”
“Oh, non fare la finta tonta! – Niall ride, come per prenderla in giro – Quello che c'è stato a casa del Portiere-Payne è solo l'inizio”
“L'inizio della tua malattia mentale, Niall – Connie scuote la testa con esasperazione e appoggia il gomito sul tavolo rettangolare che è ormai la loro postazione – Non è successo nulla. Siamo solo due persone normali che stanno imparando a conoscersi”
Il ragazzo sbatte le ciglia chiarissime e incrocia le braccia sulla camicia bianca della divisa: “E ti sembra poco? Due mesi fa non potevi neanche vederlo! Gli hai dato un'opportunità, hai pianto davanti a lui. Questo lo consideri nulla?”
“Odio quando fai così” sbuffa Connie dopo qualche secondo di silenzio, irritata da tutta quella verità affilata.
Niall ride divertito e “Tu odi quando ho ragione – ribatte, mellifluo – Sei fortunata però, non capita quasi mai”
 
 
 
 
Il telefono collegato alla sua Range Rover nera squilla tra i sedili in pelle scura, facendo abbassare in automatico Girs Just Wanna Have Fun di Cyndi Lauper. Connie sobbalza e smette di battere le mani sul volante, si schiarisce la voce e clicca sul tasto dello schermo della radio, senza individuare il numero che la sta chiamando.
“Pronto?” risponde, fermandosi all'ennesimo semaforo.
Ecco perché odia andare a scuola in macchina, è esasperante Manchester alle quattro e mezza di pomeriggio.
Nena, mi amor! – si sente subito all'interno dell'auto – Còmo estas?”
“Louis? – esclama, con gli occhi spalancati e la voce incredula – Chi diavolo ti ha dato il mio numero?”
Non è assolutamente arrabbiata, certo. È solo sorpresa. Contenta, anche.
“Quell'incantevole donna di tua madre, nena – spiega il ragazzo con voce orgogliosa, il sorriso che affiora tra le vocali – Che si è anche lasciata sfuggire questa meraviglia di soprannome. L'ho googlato, sai? 'Nena'. Vuol dire-”
“Vuol dire 'piccola' in spagnolo, lo so, Louis – lo interrompe, scuotendo la testa e ricominciando a guidare – Sono per metà spagnola, ricordi?”
“Giusto, giusto”
Connie riesce finalmente a imboccare la strada per la campagna senza ulteriori interruzioni, si morde il labbro con forza e pensa a qualcosa di giusto da dire. Dio, da quanto è diventata così taciturna?
“Hai chiamato a casa mia?” domanda quindi, stupidamente.
“Mh mh. Pensavo di trovarti lì, invece mi ha risposto tua madre. Mi ha detto che eri a scuola e cazzo, non credevo fossi così piccola da andare ancora al liceo! Pensavo studiassi all'università o cazzate simili”
“Università o cazzate simili – lei ripete lentamente – Hai una bella considerazione dell'ordinamento scolastico”
Louis scoppia a ridere: “Oh, andiamo! Sono stato cacciato da tre licei per cattiva condotta eppure guadagno più di tutti i miei professori. Insieme. Direi che è un buon traguardo, no?”
“Come vuoi tu”
Connie non la pensa così, non è stata educata in questo modo. Tuttavia non ha voglia di discutere, non ha voglia di lanciare altre frecciatine. Vuole solo sentirlo parlare.
“Stai guidando? Devo richiamarti?” Louis domanda qualche istante dopo, più seriamente.
“No, tranquillo. Dimmi”
La strada è quasi deserta se non per le solite macchine grosse e costose come la sua che ingombrano tutto l'asfalto. Lui tace per diversi secondi e Connie dentro di sé pensa alla sfumatura dei suoi occhi mentre cerca le parole, al modo in cui le sue labbra sottili si increspano, così come la fronte alta.
“Giovedì sera. C’è una cena di beneficenza al Conference Centre. Ti andrebbe di venirci?”
“Come un appuntamento?”
“Scommetto che non vedevi l’ora – allude maliziosamente, facendola sbuffare forte – A ogni modo, puoi vederlo come un appuntamento o come un grosso aiuto a favore del Terzo Mondo”
“Devo pensarci” gli risponde allora Connie, accelerando appena.
I denti pungono il labbro inferiore e i suoi pensieri le stanno facendo perdere la concentrazione.
“Che c’è, sole? Hai paura di farti vedere in giro di nuovo con me? Con il cattivo ragazzo?” Louis scherza, ma il tono che usa nasconde una traccia di rabbia accesa.
“Sono una donna impegnata, a differenza tua – si difende Connie prontamente – Devo controllare la mia agenda”
Lo sente ridere sommessamente. Sorride a sua volta.
“Fammi sapere però – dice ancora Louis – Non vorrei ritrovarmi a chiederlo a mia madre. O peggio, ad Harry”
La ragazza ride, avvista da lontano la siepe alta che circonda casa sua e inizia a rallentare piano.
“Non hai una schiera di ragazze che muoiono per te? Che razza di calciatore sei?” lo provoca.
“Io ho occhi solo per te, nena” soffia lui dolcemente, prima di riagganciare all’improvviso e lasciarla sola a sorridere e arrossire.
 
 
~
 
 
 
Ovviamente partecipa.
Elsa è talmente orgogliosa di lei da avere le lacrime agli occhi. Le fa indossare uno degli ultimi completi della sua collezione ancora non in vendita e si premura di contattare i suoi truccatori e parrucchieri di fiducia.
“Sono proprio orgogliosa di te, mi amor” continua a dirle, che è un po’ come: “Stai andando avanti. Ci stai riuscendo”
L’auto di Louis arriva alle sei in punto, facendole tremare le ginocchia fasciate da un paio di pantaloni dritti e neri che si fermano appena sopra il tacco dodici dello stesso colore.
Louis indossa un completo blu metallizzato con una camicia bianca dalle ultime asole sbottonate. Dai sedili posteriori dell’Audi la osserva con un sorriso indecifrabile per qualche secondo, finché Connie non sbatte la portiera, si siede e “Beh?” sbotta, leggermente a disagio.
Il ragazzo si morde la nocca dell'indice, la macchina prende a muoversi e lui ridacchia appena: “Sai una cosa, nena? Tu mi stupisci sempre di più”
Connie respira forte e ringrazia lo strato di blush che ha sulle guance che impedisce al suo rossore naturale di mostrarsi. Invece aggrotta le sopracciglia e “Perché mi sono vestita elegante per una serata di beneficenza? Anche tu sei elegante ma non c’è bisogno di meravigliarsi così tanto”
Louis alza gli occhi al cielo, si passa una mano tra i capelli liberi dal gel e sorride scuotendo la testa. “Lascia perdere – le dice – Siete donne. Non potete capirle certe cose”
Connie invece sbuffa, ma decide di mordersi la lingua, è troppo nervosa e sa che parole sbagliate, in momenti come questi, potrebbero rovinare la situazione.
“Domani vai a scuola?”
“Come scusa?”
“Andiamo, nena! – esclama Louis esasperato – Non rendere le cose ancora più imbarazzanti”
Lei non riesce a trattenersi: si copre la bocca e scoppia a ridere forte. “Tu sei imbarazzato?”
Il ragazzo rotea gli occhi resi grigi dalle luci artificiali, si appoggia con la fronte al finestrino e “Donne – sospira sconsolato – Non capirete mai
 
 
 
 
Finiscono seduti insieme a Zayn Malik, il cantante r’n‘b che passa sempre in radio, e Simon Cowell, il produttore discografico che sua madre Elsa odia come giudice di X-Factor.
La serata è tipicamente noiosa, ma Louis ha il potere straordinario di farla ridere con uno sguardo. Continua a muoversi sulla sedia con insistenza, come se non aspettasse altro che saltare su quel tavolo costosamente apparecchiato e animare i continui monologhi che dal piccolo palco allestito continuano ad arrivare tramite microfono.
Connie mangia tutto ciò che le viene servito nonostante il suo disprezzo per la carne al sangue: sua madre le ha insegnato anche a non lasciare nulla, specie alle cene di beneficenza.
Louis si scioglie con l’andare avanti dei minuti, mormora battutine che fanno ridere i loro commensali con le rispettive compagne e Connie alza appena gli occhi al cielo e si sorprende nel ritrovarsi e “Scusatelo – dire – è un bambino”
Si sorprende perché ne sente quasi la necessità, come una donna che si scusa per i comportamenti infantili del proprio uomo, con il sorriso sulle labbra di chi ha già scelto di scusarsi per molte altre volte ancora.
Quel pensiero le scalda il cuore e fa anche tanta paura.
Il pancione della moglie di Cowell è più che visibile sotto al suo vestito pervinca lungo fino ai piedi, lei continua a ridere a bassa voce con Simon e insieme sembrano felici nonostante il monologo che sta andando avanti ormai da qualche minuto.
Zayn Malik e la sua compagna – Connie crede si chiami Perrie, ma non è del tutto sicura – invece sono molto più contenuti. O meglio, lui lo è. Lei non fa altro che ridere alle battute stupide di Louis e a elogiare Zayn.
“È stato scoperto mentre faceva un graffito, non è pazzesco? – ha esclamato a un certo punto – Voglio dire, quale persona al mondo infrange la legge fischiettando per poi firmare un contratto discografico?”
Concluso un lungo applauso, il telefono di Connie vibra accanto al suo piatto.
È Niall.
Tu e Tommo avete appena fatto impazzire tutti i giornali del Regno Unito! Gran bel vestito!”
“Quel biondino…”
Lei alza la testa di scatto, Louis la sta guardando con le sopracciglia inarcate e l’espressione incerta. La stava spiando?
“Quel biondino – le ripete – è il tuo, uhm, ragazzo?”
“Certo che no – esclama Connie – Siamo solo amici”
Louis arriccia le labbra e annuisce lentamente, senza aggiungere altro.
Perrie, intanto, si allunga verso l’orecchio bucato di Zayn e “Credevo che loro due stessero insieme!” mormora, concitata.
 
 
 
Il parco del palazzo del Conference Centre è in stile strettamente francese, le scalinate di pietra s’affacciano direttamente sulla fontana ovale e grazie al silenzio della sera si riescono a sentire le cicale che in mezzo al prato riempiono il silenzio.
Connie si è seduta sul corrimano che affianca la gradinata, ha le gambe incrociate e un sorriso stanco ma sincero.
La cena non è ancora terminata, ma al quinto bicchiere di vino italiano, Louis ha detto di aver bisogno aria fresca e lei ne ha semplicemente approfittato per sgranchirsi le gambe.
“Raccontami qualcosa”
Gira la testa per osservare il ragazzo appoggiarsi con il gomito sulla pietra, come per mettersi comodo.
“Su cosa?” gli domanda.
Lui scrolla le spalle e grazie alla luce che proviene dall’interno, i suoi lineamenti sembrano ancora più scolpiti. “Su di te”
Connie non capisce il perché di quella richiesta, eppure acconsente lo stesso: anche Niall quando beve inizia a chiedere quel genere di cose.
“Dunque – inizia, con un sorriso – Mi chiamo Connie Estela Marìa Johnson e ho quasi diciannove anni. Sono nata a Barcellona per volere di mia madre e prima di trasferirsi in Inghilterra, la mia famiglia ha vissuto a Milano”
Louis fa un verso schifato: “Quegli stronzi degli italiani…Sai, mio nonno non ha mai perdonato Johnson per aver accettato di allenare il Milan. Fortunatamente ha ritrovato la diritta via
Connie ride appena, poi continua: “Mia madre è una stilista di fama mondiale, fino a dodici anni mi ha fatto prendere lezioni di portamento. A cinque anni mi ha portata per la prima volta sulla passerella della New York Fashion Week e da allora mi ha sempre educata a far vedere il lato migliore di me. Non ho problemi a stare davanti a centinaia di fotografi ma odio i test di matematica, mi fanno letteralmente venire le crisi di panico. Non mi lamento, comunque. Ho conosciuto tanti miei coetanei molto più famosi della mia famiglia e ogni giorno ringrazio Dio solo sa cosa per non essere così viziata e povera. Non mi piace guidare, odio guidare. Lo faccio solo quando sono arrabbiata o in ritardo, ma non sono quasi mai in ritardo, mia madre dice che è una delle cose peggiori che si possa fare. Il mio colore preferito è il bianco e vorrei fare l’università a Boston e studiare letteratura latina e greca. Sono un metro e sessantacinque e appesa alla mia camera c’è una foto di una me quindicenne al fianco di Cristiano Ronaldo”
“Sì – Louis ride – Anche nella mia”
Anche Connie scoppia a ridere, prende fiato e strizza gli occhi. È leggera, spensierata, il clima del viaggio in macchina è completamente dimenticato da entrambi.
“Tocca a te” gli dice poi, nella voce la speranza che lui riesca ad aprirsi nello stesso modo.
Louis non sembra pensarla così, si sposta i capelli dalla fronte e si morde il sorriso in modo accattivante. Si avvicina lentamente, senza smettere di guardarla. Non si definiscono i colori, ma il suo sguardo ha comunque il potere di spaventarla. Appena appena.
“Qualc0sa su di me? – borbotta – Beh, penso che tu sia molto bella, stasera”
Il petto s’infiamma, Nars copre il rossore alle guance e Connie fa finta di niente, di certo non gli dice quanto le faccia piacere saperlo. È abituata, in qualche modo, ai complimenti. Ma lui è Louis, no? E glielo ha già detto e forse lo pensa davvero.
“L’alcool ti dà veramente alla testa” ridacchia, scuotendo la testa.
Lui si stropiccia gli occhi e fa un respiro profondo, drizzando le spalle. “Già, forse hai ragione” mugugna, tornando a guardarla.
“Vuoi che chiami qualcuno? – la mano di Connie corre in modo involontario sul suo volto freddo – Sei sicuro di stare bene?”
A quel punto, non ha nemmeno il tempo materiale di assimilare quel contatto che le labbra di Louis stanno divorando le sue con un’insistenza destabilizzante. Le sue mani le stanno stringendo forte il viso e la sua bocca scava con desiderio, alla ricerca di una risposta che arriva qualche secondo dopo, quando Connie scopre di desiderarlo con la stessa disperazione con cui Louis la sta baciando, la stessa intensità.
Le sue dita si aggrappano al tessuto costoso del blazer nero, tremando per l’emozione.
Da quanto non si sentiva così assurdamente in bilico? Così esposta, così nuda? Da quanto tempo non veniva toccata con tanta foga, non sentiva quella tempesta dentro?
Louis le respira addosso e sa di alcool pregiato e pensieri fusi, annebbiati dai brividi. Sorridono denti contro denti, vicini che quasi si uccidono a vicenda.
Connie è felice.
“Scusa per la giacca”
Louis le ride sulla guancia, poi gliela bacia.
E dannazione!, aveva ragione Niall.
 
 
Quando torna a casa, con il rossetto ormai cancellato del tutto e le labbra gonfie di dolcezza, Connie bussa piano allo studio di suo padre.
“Buonanotte, papà. Ti voglio bene”
 

~
 
 
L’ultima riunione sul tema della Premier League è il giorno dopo, alle quattro di pomeriggio.
Connie scarabocchia fiori sul fascicolo di fogli che ha davanti, seduta a quell’immensa tavolata di legno sulla sedia che un tempo occupava suo padre. Non interviene, non fa alcun tipo di domande. Lascia che Walsh parli a gran voce affiancato da Ben Winston e gli altri dirigenti sportivi.
In realtà non sta nemmeno ascoltando, non è il giorno adatto per preoccuparsi di quel genere di cose: ha dormito poco perché il sorriso troppo grande le impediva di riposare come avrebbe voluto e i pensieri quasi sbattevano tra una parte all’altra del suo cervello, senza sosta.
Adesso, con indosso i vestiti di riserva che lascia sempre in macchina, si sente una bambina in mezzo a tanti adulti dalle parole impronunciabili e progetti difficili. È come esiliata, non è più la portavoce ufficiale della sua famiglia, è semplicemente una ragazzina come non era da tempo.
E sono panni che nonostante tutto ancora le stanno e le stanno bene.
Cerca di non pensare al fatto che Louis sia due piani di ascensore sotto di lei ma non ci riesce, perché è così: lui è lì da qualche parte ad allenarsi, e magari ha pure il suo stesso sorriso imbarazzato ed emozionato, magari ha pure le stesse occhiaie e le stesse parole nella testa.
“Signorina Johnson – Walsh quasi la fa balzare sulla sedia, nel rivolgersi a lei all’improvviso – Avrebbe qualcosa da aggiungere?”
Connie passa dall’arrossire per i ricordi all’arrossire vistosamente nel ritrovarsi tutto il tavolo concentrato su di lei. Non ha la minima idea di ciò che è stato detto nell’ultima ora.
Cerca di farsi venire in mente le tante raccomandazioni che sua madre Elsa le ha fatto nel corso degli anni, quindi si schiarisce la voce, raddrizza le spalle e sorride in modo gentile nel rispondere: “Oggi è proprio una bella giornata, non trova?”
Con questo, si conclude ufficialmente la riunione. Tutta la sala ride e applaude, la gente inizia a uscire dalla stanza a piccoli gruppetti e Walsh sorride in modo serafico, senza aggiungere nient’altro.
Connie saluta cordialmente visi conosciuti e poi esce dalla stanza, camminando tra i lunghi corridoi della società in modo veloce, senza smettere di sorridere.
Al piano terra ci sono alcuni ragazzini del young team che, sulle poltroncine della reception, sbattono i tacchetti delle Nike sul pavimento, producendo un rumore ricco di nervosismo. Quando la vedono uscire dall’ascensore, arrossiscono e abbassano la testa di scatto, riconoscendola.
Sono molto buffi e in più Connie è di buon umore, fa loro un sorriso grandissimo e “Buon pomeriggio!” esclama, sorpassandoli. Si ferma giusto il tempo di andare in bagno per rinfrescarsi e poi esce.
Trova un sole freddo all'esterno, il cielo leggermente annuvolato e l’odore di prato appena tagliato.
Ben Winston sta facendo fare una partita a metà campo e la squadra sembra tesa, in qualche modo agitata. Connie si ferma accanto alla panchina a bordo campo e non capisce cosa stia succedendo, il perché di quegli sguardi così seri.
Ben, le braccia incrociate e le gambe aperte, le rivolge un cenno gentile e poi “Coraggio, Harry! – urla, facendola sobbalzare – Muovi un po’ quei piedi, cazzo!”
“Questa non ci voleva” sospira Sexton, uno dei preparatori tecnici, al suo fianco.
“Tomlinson è il capitano, il cuore della squadra – mormora Ben, come una cosa negativa – Se gioca male lui, anche gli altri fanno di conseguenza”
A questo punto, le sopracciglia di Connie si aggrottano duramente mentre con lo sguardo cerca verso il campo quel viso vispo che stanotte non l’ha fatta dormire.
Louis indossa una pettorina arancione fluorescente ed è sudato, ricurvo su se stesso con le mani ancorate alle ginocchia. Respira affannosamente e ha gli occhi distratti, che vagano da una parte all’altra del campo in attesa di capire cosa e come fare. Non si muove però, rimane ancorato al prato umidiccio come se qualcosa lo tenesse incollato. È strano vederlo così e Connie proprio non capisce: Louis è fastidioso, soprattutto durante gli allenamenti. Gli piace stare al centro dell’attenzione, prendere in giro i suoi compagni e vincere, adesso sembra semplicemente stanco e quasi arrabbiato.
Tomlinson! – l’urlo di Walsh le fa sbattere gli occhi e lei torna a guardare verso la panchina, dove l’allenatore è appena arrivato con la sua espressione rabbiosa e l’impermeabile della società sopra al completo elegante – Vuoi che ti porti un caffè intanto che ti riposi? Muoviti, cazzo! Fa' qualcosa!”
“Fanculo” si legge tra le labbra di Louis, mentre lui si toglie velocemente la pettorina e la scaglia per terra. Cammina in mezzo al campo senza nemmeno preoccuparsi di scontrarsi con i suoi compagni e si dirige verso gli spogliatoi senza ascoltare i richiami concitati di Winston.
“È una testa di cazzo, Ben – Walsh alza una mano nella sua direzione, bloccandolo – Non ne vale neanche la pena”
Poi richiama la squadra e ordina dieci giri di campo.
 
 
 
Mezz’ora dopo, Connie è ancora arrabbiata.
Picchietta con impazienza l’anfibio sul pavimento del corridoio ed è arrabbiata, sì, esattamente come quando si è congedata con Walsh e ha cercato di arrivare agli spogliatoi senza passare dalle porte che si affacciano sul campo. Il che è stato veramente troppo semplice.
Con le braccia incrociate e i denti che morsicano il labbro inferiore, aspetta impaziente che Louis esca dallo spogliatoio ancora vuoto. Vuole capire e forse ritrovare la stessa persona che solo la sera prima l’ha baciata così forte da renderla felice, da farla sentire importante non per il nome ma per i gesti, le parole, per tutto quello che ha fatto marcire dentro e che adesso piano piano fiorisce.
Louis esce diversi minuti più tardi, col borsone sulla spalla destra e gli occhi rossi da doccia bollente. Ha i capelli ancora umidi e profuma di bagnoschiuma sportivo, quell’odore dolciastro che sembra l’unica cosa capace di farla stare in piedi. Questo perché lui non si premura nemmeno di alzare gli occhi dal pavimento lucido nel superarla; la schiva velocemente, quasi a non volerla nemmeno vedere.
Connie però non ci rimane male – o meglio, ci rimane male, sì, ma lo capisce perché è arrabbiato e quando si è arrabbiati si scappa sempre – e lo segue, lo chiama “Louis!” e gli blocca il polso che non sorregge il borsone, bloccandolo.
Non ci rimane male neanche quando lui le scansa la mano, fermandosi con uno sbuffo seccato. Ha per lo meno la decenza di voltarsi e fronteggiarla e i suoi occhi sono solo ghiaccio, tanto da farla pentire all’istante di essere lì.
“Che diavolo vuoi? – le dice – Perché sei qui? Volevi tirarmi su il morale, mh? Hai pensato che siccome ci siamo baciati ora siamo una coppia o una stronzata simile? Che puoi venire a consolarmi come una brava fidanzatina? Non trovi sia patetica la cosa? Voglio dire, non abbiamo neanche scopato! Un po’ affrettato tutto questo amore, sì? Anche se forse non hai tutti i torti, voglio dire, non avremmo mai scopato. Sei probabilmente la persona più frigida che abbia mai conosciuto. Perché no-”
Il rumore è così forte che Connie quasi pensa di avergli rotto la mandibola, mentre la sua mano sbatte contro la guancia di Louis, zittendolo all’istante. È una fortuna che il colpo faccia tanto rumore comunque, o si sentirebbero i pezzi di Connie che si frantumano al suolo.
“Sei un figlio di puttana, lo sai?” singhiozza dalla rabbia.
Louis, la guancia rossa e il viso girato, sorride verso il muro decorato di stemmi e fotografie, si ricompone lentamente e “Sì – conferma – me lo hanno detto un paio di volte”
Connie non aggiunge altro, è troppo elegante per permettersi di fare scenate. È lei quella che ora lo supera, è lei quella che ora scappa.
 
 
 
Non c’è niente di peggio che piangere per chi non se lo merita.
Questo Niall non lo dice, non lo farebbe mai. Ascolta piano i suoi sussurri, le stringe forte le mani e i capelli, le bacia dolce le guance.
Tutta la notte.
 
 
~
 
 
“Odio gli uomini”
“Grazie”
“Odio gli uomini tranne gli irlandesi”
“Sai, ho letto da qualche parte che Tomlinson ha parenti a Dublino…”
“Odio anche gli irlandesi”
Niall ride, alza gli occhi dal libro di letteratura inglese e guarda Connie che tiene le mani in grembo e lo sguardo fisso sul soffitto blu di quella camera da letto piccola. Le chiede: “Va meglio?”
La sua migliore amica gonfia il petto e le guance, poi si stiracchia la schiena e “Direi di sì – risponde – Anche se Shakespeare non è d’aiuto”
Niall storce appena le labbra, pensando. “Questo è il tuo problema” sbotta poi, dandosi una spinta con la sedia girevole della sua scrivania.
Connie punta i gomiti sul materasso e alza la schiena per guardarlo meglio, aggrottando la fronte perplessa: “Cosa? Shakespeare?”
Il ragazzo scuote la testa e sorride: “No, non Shakespeare, stupida. Dicevo questo. Tutto questo. Tu corri, sempre. Hai vissuto la tua vita correndo come un razzo, senza preoccuparti di vivere davvero. Non guardarmi così! Sto cercando di fare un discorso serio! Cazzo, il ragazzo di cui ti stavi innamorando ti ha detto che voleva praticamente portarti a letto solo ieri eppure…eppure guardati! Stai studiando Shakespeare, mi hai portato perfino un cheeseburger!”
“Mi stai dicendo che vivo la mia vita correndo perché ti porto da mangiare?”
“Non è questo il punto! – esclama Niall frustrato, balza in piedi e si passa le mani tra i capelli – Quello che sto cercando di dirti è che non ti fermi a…ad assaporare i momenti. Voglio dire, dovresti disperarti, piangere, mangiare gelato e urlare per almeno una settimana, invece sei qui come se nulla fosse. Questo è il tuo problema”
“Quindi dovrei stare male?”
“Quindi dovresti emozionarti, sentire per davvero. E se ciò significa stare male, allora sì, dovresti”
Non la sta rimproverando – sarebbe una scena comica se così fosse, la sta semplicemente aiutando, come un amico, un fratello maggiore. Niall ha semplicemente ragione e Connie questo lo sa bene.
Il fatto è che correre la tiene in vita, se si fermasse solo un attimo probabilmente finirebbe come suo padre e ciò non deve succedere. Non deve succedere.
“Mettiamo che io stia effettivamente piangendo – borbotta poi, inclinando appena la testa – Cosa potrei fare, per stare meglio?”
Il sorriso di Niall è spaventosamente inquietante mentre risponde: “Sbronzarti, mi sembra ovvio”
“Stai scherzando?”
Lei si siede a gambe incrociate e controlla velocemente l’orario col telefono appoggiato al materasso.
Sono quasi le sei e questo significa che tra meno di un’ora lo United giocherà contro l’Arsenal e sarà la prima partita che lei non seguirà da…da sempre.
“Perché dovrei scherzare?” ribatte subito il ragazzo ancora in piedi, come punto da uno spillo.
“Perché tu sei Niall Horan”
“Non si scherza su cose serie come le sbronze – sospira, come se fosse deluso – Ma, a ogni modo, è questo l’unico rimedio per la sofferenza che non stai attraversando”
Connie ci pensa qualche istante, giusto il tempo per capire chi diavolo ha voluto che Niall Horan diventasse il suo migliore amico. Poi sospira e scuote la testa con un sorriso, mormorando: “So che me ne pentirò amaramente, ma forse hai ragione”
 
 
 
 
Quindi si ubriaca.
Guida con Niall accanto fino al Venus, si incipria per l’ennesima volta il naso allo specchietto retrovisore e sfoggia l’espressione più pacata che riesce a trovare. Non devono nemmeno fare la fila per entrare perché Fred, il buttafuori, è stata la guardia del corpo di sua madre dopo il piccolo incidente in macchina dovuto ai paparazzi, a Los Angeles. Brutta storie le stiliste.
Quando la vede, le fa un sorriso grande e Connie si sente appena più tranquilla mentre passa sotto la sua ascella e inizia a percorrere il piccolo corridoio prima della cassa.
Il Venus è probabilmente il locale più costoso e famoso di Manchester ma non è questo l’importante, no. Quello che conta veramente sono i liquori dai nomi stranissimi che Niall continua a ordinare e quei gusti diversissimi che passano sotto al suo palato e bruciano da morire. A Connie non piace bere così come odia l’odore del fumo, ma si fida di Niall e in più, la nuova prospettiva con cui vede quell’orrenda situazione non è così male.
Quindi sì, si ubriaca.
È la prima volta che succede e forse è anche per via dello stomaco vuoto, ma capita e lei adesso non è nelle condizioni di rifletterci più di tanto.
È stranamente goffa, si appoggia all’avambraccio di Niall che ora ride, impreca e alza gli occhi al cielo. Connie si guarda intorno e scoppia a ridere a intervalli irregolari, guadagnandosi occhiate dalla gente a cui sbatte contro.
La musica è assordante e il locale ora pieno di persone vestite elegantemente, perfino Niall ha indossato una camicia azzurra. Non è di certo il posto migliore per prendersi la sbronza del secolo, ma Connie ha raggiunto lo stato mentale in cui non le importa assolutamente di niente, nemmeno delle ipotetiche persone che potrebbero fotografarla o filmarla. Si sente bene, con le ginocchia molli e i pensieri annebbiati. Non c’è dolore, non c’è il vuoto che morde.
“Andiamo fuori a prendere un po’ d’aria, ti va?” le dice Niall all’orecchio, sorreggendola per i fianchi dopo aver sceso malamente le scale.
Connie scuote la testa e si morde le labbra come una bambina, guardandolo negli occhi e ridendo. Le piace quel gioco, la fa sentire piccola piccola.
Niall alza gli occhi al cielo ma sorride, la stringe più forte e l’accompagna fuori senza fretta. Si invertono i ruoli e lei, nella sua euforia, riesce a capire perché il suo migliore amico ami così tanto bere: è leggera, così leggera che le sembra di volare.
Niall la porta verso la macchina, aprendola da lontano. Connie ha voglia di correre e lo fa, raggiunge la portiera del guidatore e ride, ride fortissimo. Entra, si siede, appoggia la testa e stringe il volante e ride.
“Posto sbagliato, signorina” dice Niall con un sorriso, appoggiandosi contro la vettura nera.
Lei strizza le pupille e s’imbroncia all’improvviso, con l’espressione serissima borbotta: “Tu non guiderai la mia macchina”
“Vorrà dire che prenderemo un taxi” ribatte il ragazzo tranquillamente.
“Io non prendo taxi
“Un autobus, magari”
Connie non ha mai preso mezzi pubblici in tutta la sua vita, le fa ridere anche solo il pensiero. Infatti ride. “Quanto sei sciocco” esclama, scandendo bene le parole e accompagnandole con cenni brevi del capo.
“Io sono sempre sciocco – ribatte Niall in modo saccente – Sei tu che sei ubriaca”
Le fa ridere il suono della parola ‘ubriaca’, infatti ride. Scoppia a ridere anche più forte di prima, arricciando il naso come una bambina. Chiude gli occhi contro il volante scomodo e si dimentica perfino di respirare.
Sente il sospiro esasperato di Niall che “Cazzo – impreca tra i denti, per poi aggiungere – Finalmente” e farla incuriosire.
“Ci sono problemi?”
Anche ‘problemi’ ha un suono che la diverte, Connie spalanca gli occhi e ghigna in modo quasi spaventoso, senza controllo. Forse la fa ridere perché a pronunciarla è Louis Tomlinson, che ora affianca Niall con quella disinvoltura bastarda che l’ha sempre mandata fuori di testa e che invece ora semplicemente appare come qualcosa su cui scherzare.
Con i suoi vestiti scuri e fuori stagione, la sta osservando con un cipiglio incuriosito, come se si fosse imbattuto in una scena del genere giusto per caso.
Problemi, problemi. Sì, è decisamente divertente.
Tu hai dei problemi, Louis Tomlinson!” lo accusa, le sopracciglia aggrottate e l’indice della mano puntato verso la sua figura.
Lui non risponde subito, la osserva per qualche istante e poi, come se lei non avesse detto nulla, si rivolge a Niall. “Gran bella sbronza” commenta, scrollando le spalle.
“Sì, amico. Puoi dirlo forte – risponde subito l’altro, poi spalanca gli occhi e si corregge – Voglio dire, non amico. Insomma, non mi permetterei mai di chiamarti ‘amico’, chiaro no? Cioè, non voglio sembrare presuntuoso o cosa, tu sei Tomlinson e io-”
“Niall – Louis lo interrompe, sorridendo – Calmati e respira. Va bene?”
L’irlandese gonfia le guance rossissime e annuisce velocemente. Quindi l’altro si china sulle ginocchia e richiama l’attenzione di Connie, che ora lo guarda con gli occhi spalancati inverosimilmente, muta come un pesce. Osserva con minuziosa attenzione tutti i movimenti del ragazzo, che sorride in modo tenero, accarezzandole il braccio e poi la gamba. Sembra volerla rassicurare, anche mentre “Va tutto bene?” le domanda, il tono dolce.
Connie non capisce, non sul serio. Louis ha un potere straordinario, sembra tenerla in pugno come la peggiore delle prede. È completamente incantata sul suo volto, sulle sue mani leggere, le dita come piuma.
“Problemi” sputa fuori di colpo, e di certo non ha lo stesso suono di quando a dirlo è la voce di Louis, che ora la sta osservando dal basso con gli occhi azzurrissimi e sereni. Non c’è traccia del ragazzo che solo il giorno prima le ha frantumato il cuore.
“Perché non ti siedi nell’altro sedile così possiamo riportarti a casa?” le chiede, inarcando le sopracciglia.
Di riflesso Connie stringe forte il volante, il volto tirato dalla rabbia. “Guido io, voglio guidare io” s’impunta.
Louis scuote lentamente la testa, con la mano si ferma all’altezza del suo ginocchio. “No, bambolina – risponde – Non puoi guidare in queste condizioni”
“Invece ! – scatta Connie, spalancando gli occhi e guardando i suoi in modo spaventosamente serio – Io guido. Guido e poi mi schianto, sì. Lo faccio” e preme sull’acceleratore per enfatizzare il concetto.
Non succede nulla ovviamente, ma il ragazzo sospira e lancia un’occhiata a Niall, in piedi con le braccia incrociate.
“Perché vorresti fare una cosa del genere, nena?” torna a domandarle.
Sedersi deve averle fatto venire sonno, un sonno che quasi risucchia. Connie sbadiglia e si lascia andare come un peso morto contro Louis, che ha i riflessi d'atleta e riesce a prenderla in tempo prima che si sbilanci troppo. Le fa appoggiare la testa sulla sua spalla mentre piano le accarezza i capelli e la sente dire: “Forse così mio padre si accorgerebbe di me”
 
 
 
 
~
 
 
Superfluo dire che non ricordi nulla della sera prima, quando quella mattina apre gli occhi.
Non crede nemmeno di essere nel suo letto, è troppo duro e largo per pensare di essere nella sua camera.
Connie alza le palpebre lentamente, sbadigliando e stiracchiando le ossa sotto quel piumone nero ormai caldo. Ecco!, piumone nero: decisamente non è a casa sua.
Non ha neanche il tempo materiale per iniziare a preoccuparsi che dalla porta dipinta di bianco entra prima un vassoio blu e poi Louis, il quale cammina scalzo sulla moquette crema e che ha i pantaloni della tuta troppo lunghi che s’infilano sotto ai talloni. Quando la vede con gli occhi quasi aperti, sorride in modo furbo, ma sembra contento lo stesso.
“Bella Addormentata – l’apostrofa, appoggiando il vassoio sul comodino basso – Dormito bene?”
Connie è troppo stanca e confusa, ma sa che comunque qualcosa dentro di lei è scattato, non appena l’ha riconosciuto. Vorrebbe non essere così felice di vederlo lì, a prendersi cura di lei, ma sarebbe una bugia e sua madre dice sempre che le bugie dette male non hanno lealtà.
Si strofina gli occhi e con orrore sente il mascara prudere da morire, si volta sotto il piumone e “Quale dei Sette Nani sei, tu?” gli domanda, la voce che sa di sbronza.
Lo vede alzare gli occhi al cielo con aria esasperata mentre scuote appena la testa e si siede sul letto, accanto alle sue ginocchia.
“Lascerò passare quest’orrenda battuta sulla mia altezza perché i Sette Nani non hanno niente a che fare con la Bella Addormentata – è Connie ora che rotea gli occhi – In più, sono comunque più alto di te”
Louis è così bello e semplice da togliere il fiato, letteralmente. Anche qui, con addosso una stupida felpa sportiva e i capelli in disordine, riesce a sembrare la persona più affascinante che lei abbia mai incontrato. Deve esserci qualcosa nel suo sangue, tra quelle vene scurissime che s’intravedono sotto la pelle delicata, qualcosa capace di farlo vibrare, vi farlo splendere.
Lei respira forte, stanca morta. Si gira di fianco e chiude gli occhi contro il cuscino come per rimettersi a dormire, eppure domanda: “Cos’è successo?”
Sente la mano di Louis delineare le sue gambe sopra al piumone, quando lui risponde.
“Ieri sera l’intera squadra ha festeggiato la vittoria al Venus – racconta – Beh, tutti tranne Payne. Lui è troppo sfigato per rinunciare agli appuntamenti con le ragazze. A ogni modo, a metà serata, Harry è venuto da me e mi ha detto di averti vista insieme al tuo amico biondino, ma nella confusione non ho capito nulla. In realtà credevo che fosse lui a stare male, ma quando sono uscito mi sono dovuto ricredere. Cazzo!, micetta, ti piace proprio bere, eh?”
Connie, rossa d’imbarazzo, emette un grugnito e tace.
Louis sorride, continua: “Ti sei addormentata tre minuti dopo, così ho pagato a Niall un taxi e gli ho detto di avvisare tua madre che saresti stata fuori a dormire e ho guidato la tua macchina fino a casa mia, dove sei adesso”
Le ci vuole un po’ per metabolizzare effettivamente la cosa. Da una parte si sente male al pensiero di essersi ridicolizzata così tanto davanti a lui, dall’altra parte invece è lusingata da quella premura: Louis si interessa, tiene a lei.
“Che gentiluomo” commenta, per sdrammatizzare i suoi pensieri che inevitabilmente stanno prendendo quella piega.
Louis emette uno sbuffo divertito, ma i suoi occhi sono seri, liquidi come l’oceano. “Sì, beh. Non avrei mai potuto lasciarti in quelle condizioni. Tuo padre non me lo avrebbe mai perdonato”
Tac. La goccia che il vaso lo fa esplodere. Il sorriso di Connie s’inclina vertiginosamente perché è suo padre, suo padre, sempre suo padre. Certo, le è venuto in soccorso perché suo padre non glielo avrebbe mai perdonato, cosa diavolo stava pensando? Che potesse interessarsi a lei per altro? Per qualcosa di più concreto, sincero?
“Grazie” gli risponde, la voce che si è fatta un soffio.
Si stringe nelle spalle, accucciandosi in modo protettivo, poi chiude gli occhi e le ossa paiono pesare più di prima. Le sembra quasi di essersi addormentata di nuovo quando sente Louis sospirare e dire: “Lo sai che non intendevo quello”
“E cosa intendevi dire?” le viene spontaneo chiedere, la bocca ancora impastata di sonno.
“Che anche io ho dei principi – le risponde e dal tono che usa, sembra che la stia accusando di dire l’esatto contrario – Tuo padre non mi avrebbe mai perdonato, ma io non me lo sarei mai perdonato. Non sono un mostro, non sono il menefreghista di cui la gente ama parlare sui giornali o durante le news sportive”
Il Louis che le si presenta davanti è quello che ha sempre cercato: si sta aprendo, si sta mostrando con tutta la rabbia che ha addosso.
“Ti ricordi una delle prime cose che mi hai detto? Alla presentazione delle nuove magliette, te lo ricordi? Hai detto "disumano". Come una cazzo di bestia. Sai perché ho sputato addosso a quell’arbitro, Connie? Ha dato della puttana a mia madre. Capito? Quattro giornate di squalifica perché un figlio di cane ha insultato mia madre. Non è buffo? Ah, e ti ricordi la famosa notte di fuoco con le tre modelle? Io neanche c’ero, a quella dannata festa! Per non parlare di quanto io sia ‘indisciplinato, rozzo e arrogante’ in campo. Come se fosse colpa mia se la persona che mi allena è un bastardo incompetente del cazzo”
È un riflesso: Connie gli cerca la mano e gliela stringe forte. Il mondo dagli occhi di Louis sembra ribaltato da quanto diverso. Di certo non è un santo, questo è ormai risaputo. Ma è buono, in fondo. Difende ciò che ama con i denti, fino allo sfinimento.
Si mette seduta con la testa che ancora gira, fronteggiandolo. Sembra pieno di rabbia spenta, chiusa dentro a gabbie insonorizzate che circolano insieme al sangue tenendolo in vita.
“Per questo sei venuto a cercarmi? – vuole sapere – Perché hai dei principi?”
Louis gonfia il petto, la guarda negli occhi: “Per questo. Per chiederti scusa. Perché semplicemente non potevo non farlo. Non arrivati a questo punto”
Da questo punto infatti, non si torna più indietro.
 
 
 
~
 
 
È una storia comune.
Louis ha appena finito il settimo anno di scuola e non ha mai conosciuto suo padre, sua madre Johannah di tanto in tanto sbircia da dietro le tende bianche del loro piccolo trilocale in periferia e dallo sguardo che fa sembra qualche secondo speranzosa di vederlo sul marciapiede sempre pieno di rifiuti. Passa subito però, in un attimo è già affranta come sempre.
Sua sorella Rae ha diciotto mesi meno di lui e condividono il letto a castello come la Russia e l’America un tempo condividevano la pace: lui le fa trovare scarafaggi finti sotto al cuscino e lei gli appiccica la Big Babool sul pigiama.
Da grande Louis – capelli ancora a scodella – diventerà famoso. Come Beckham che dribla sul suo muro.
E le insegnanti lo sanno bene che quando si mette in testa una cosa, quella è.
Il suo primo stipendio calcistico lo riceve all’età di quindici anni, in una di quelle società per giovani campioni a cui è stato iscritto dopo essere stato scoperto a una partita di scuola.
Rae diventa sempre più scorbutica però sua madre ha smesso di guardare fuori dalla finestra e non ha più l’aria affranta. Louis non capisce bene, pensa: forse suo padre sta tornando.
E – bisogna perdonarlo – è solo un ragazzino a cui non è stato ancora insegnato a fare l’uomo. Non ha figure di riferimento se non il nonno con l’apparecchio all’orecchio destro e lo zio strambo che vedono solo a Natale.
Sugli spalti piccoli del campo in cui la domenica gioca, ci sono sempre tanti padri orgogliosi e lui invidia i suoi compagni perché anche lui vorrebbe rendere fiero un padre nella stessa maniera.
A sedici anni e mezzo è già nel young team dello United e incontra perfino David Beckham negli spogliatoi, durante una partita giocata in casa. L’uomo gli dice: “Andrai lontano”
Effettivamente, Louis va. Non ha nemmeno compiuto diciott’anni quando l’Aston Villa lo chiama a giocare in prima squadra. Louis non si monta troppo la testa, non è quello il suo scopo. Lui ama giocare a calcio, ama quello sport e quel lavoro, gli viene naturale essere bravo.
Com’era cominciata? È una storia comune.
Il padre che ritorna dopo che il figlio è finalmente qualcuno.
Se lo ritrova davanti casa una mattina d’autunno. Louis ha diciannove anni, Vincent quarantasette.
Inventa quelle scuse di merda che solo un uomo che non ha voluto una famiglia può dire, e Louis ci crede perché solo un ragazzo che vuole un padre può farlo.
Johannah non lo perdona, non vuole neanche parlare con l’ex compagno, Rae è troppo presa dal primo anno di Fashion alla UAL per voler intraprendere una cosa del genere. Invece Louis, lui sì che vuole finalmente essere il figlio di un padre.
Vincent è goffo, simpatico, amichevole e megalomane, dice una marea di stronzate ma le dice bene, con quel tono e quella voce che poi irrimediabilmente sembrano vere.
Abita a Liverpool, ma viene sempre a vederlo allo stadio e sempre passano il weekend insieme, come padre e figlio.
Di tanto in tanto, Johannah prova a intervenire, a dire che è semplicemente una brutta persona. E Louis s’incazza, s’incazza parecchio.
È una storia comune.
Vincent gli chiede in lacrime cinquantamila sterline tre giorni prima di Natale. Deve dargli a delle persone o queste persone gli faranno del male.
Louis gli fa un generoso regalo e gli dice di sparire, gli dice che per lui è come aver perso il padre un’altra volta.
Il resto non lo racconta, non è importante. Ciò che bisogna sapere adesso è quanto lui faccia fatica a credere alle persone.
Non vuole essere ferito un’altra volta, non vuole andare in campo e avere quella sensazione di vertigini che parte dalla gola secca, quel dolore lancinante che prende anche il cuore.
E sai cosa fa, quando avverte i primi sintomi? Quando vede di essersi sporto troppo? Quando capisce di essere in trappola?
È una storia comune.
Attacca.
 
 
 
~
 


 
Sente il suo cuore battere a ritmo regolare, sotto il suo orecchio.
Louis ha il respiro leggero e le mani bollenti, le sente contro la pelle delle braccia e del fianco e ciò la tranquillizza. Connie ha il volto che coincide con l’incavo del suo mento e non vorrebbe essere da nessun’altra parte, ne è sicura.
Lui smette di parlare con la stessa voce con cui ha iniziato a farlo, come se non stesse raccontando di qualcosa di tanto importante da lasciargli i lividi addosso, come se fosse abituato a coprirli quotidianamente.
Stanno avvinghiati sotto il piumone, con la colazione ormai fredda appoggiata al comodino e gli strati di vestiti addosso che non coprono lo stesso quell’essere nudi nella medesima maniera.
Connie gli accarezza il volto con le dita leggere, tracciandogli il profilo della mascella per poi sentire la pelle tendersi sopra le vene del collo, fino alla clavicola.
“Mi hai chiamata Connie – mormora – Non lo avevi mai fatto”
Louis china la testa in modo tale da guardarla, osservare con curiosità i suoi grandi occhi e scuri, come quelli di suo padre. La mano gli corre ad accarezzarle il viso olivastro mentre accenna un sorriso che è solo dolce, intimo come quel momento.
Non c'è alcun bisogno di dire altro.
 
 
 
Louis non smette di dire il suo nome.
Per esempio, quel pomeriggio, mentre fanno l'amore con il piumone accartocciato ai piedi del letto, lo ripete respirando a bocca aperta, contro la sua guancia calda e l'orecchio tappato dall'emozione.
È un sussurro dettato dalla passione, dai brividi lungo la schiena e le mani di Connie che gli stringono i fianchi bianchi.
Connie, Connie, Connie...
Fuori c'è il sole, Manchester sembra un'altra cosa.
Non interessa a nessuno.
 
 
~
 

 
Quella sera, quando Connie torna a casa, si concede di fermarsi davanti all'ufficio di suo padre, in fondo al corridoio.
Appoggia la fronte contro la superficie dalla porta e sospira forte, sorridendo lievemente. È strano provare quel tipo di emozioni davanti a qualcosa che solo giorni prima l'avrebbe annientata un'altra volta.
“Sono qui papà. Sono sempre qui”
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** 3/3 ***


non ho molto da aggiungere, questa è decisamente la parte più angst/importante di tutte!
grazie di cuore per avere pazienza come sempre!
vi adoro!
un baaaaaaaaaaaaaaacione immenso,
caterina
 




fever pitch
3/3



 
 
Louis entra ufficialmente nella sua vita con l'ufficializzazione del loro rapporto, la settimana successiva.
Niente comunicati stampa o cose del genere, basta semplicemente un bacio negli spogliatoi di Manchester UnitedNewcastle, a fine partita dopo un 1 a 0.
Il Daily Mirror si sente in dovere di dire la propria, ovviamente. Li paragona ai nuovi Posh and Becks, elogiando la bravura di Connie nell'aiutare Louis a 'uscire dal tunnel'. Il che, pensandoci bene, non è del tutto falso.
Si sono aiutati a vicenda.
Vanno a cena con Elsa quasi obbligati da quest'ultima, che per tutta la serata non fa che guardare la figlia con una strana luce negli occhi verdi, come se fosse tremendamente fiera di lei.
È così.
 
 
 
~
 

 
“...Insomma, è strano, no? Voglio dire. Louis. Louis Tomlinson. Louis Tomlinson ed io abbiamo una relazione, non è divertente? Solo qualche mese fa lo avrei ritenuto un cretino e adesso...beh, è ancora un cretino, ma-”
“Ma è il tuo cretino, giusto?” la interrompe Niall, alzando gli occhi dal paio di scarpe che si sta infilando.
La sua migliore amica in risposta arriccia le labbra e incrocia le braccia al petto, guardando fuori dalla vetrina di Foot Locker. “Se la vuoi mettere sotto il punto di vista di uno parecchio sfigato, allora sì”
Niall si alza in piedi e rotea le pupille, senza commentare. Cammina verso lo specchio appeso alla parete e gira su se stesso un paio di volte, l'espressione tesa.
“Queste?”
“Sono esattamente uguali a quelle che hai provato venti minuti fa” esclama Connie, il tono esasperato.
Il ragazzo fa schioccare la lingua e le dita, poi scuote la testa con un sorriso buffo: “No, mia piccola sbadatella. Queste hanno i lacci bianchi
La sua migliore amica gonfia il petto e impreca a bassa voce: lei odia fare shopping, specialmente se è qualcosa che richiede più di dieci minuti. Non sopporta stare chiusa dentro un negozio per secoli a decidere cosa prendere, è noioso e irritante.
Lo è ancora di più quando con lei c'è Niall, la persona più indecisa del pianeta.
“Vuoi provare anche quelle completamente nere?” il commesso gli chiede, vedendolo in difficoltà.
“No, non vuole” risponde Connie prontamente, osservando con un certo disgusto quelle righe monotone della divisa da lavoro.
Niall non sembra neanche averla in nota quando “Volentieri, grazie” sorride all'uomo, che si congeda subito.
“Basta, io me ne vado” dichiara lei allora, rimettendosi sulle spalle lo zaino di scuola lasciato sul divanetto rosso.
Afferra prima il telefono nella tasca, però: ancora nessuna risposta da parte di Louis.
“Ferma! – Niall quasi urla, agitato – Perché te ne stai andando?”
Indossa ancora le scarpe che si è provato ed è buffo poiché sta cercando disperatamente di non avvicinarsi troppo alle porte d'uscita per evitare che scatti l'allarme. Ha il volto arrossato da qualcosa molto simile alla paura.
“Perché sono ore che siamo chiusi qui dentro, Niall – ribatte Connie, spalancando gli occhi – Ti sei provato almeno sedici paia di scarpe e tutte uguali! Devo andare a casa e fin-”
No! – il suo migliore amico l'afferra per le spalle con lo sguardo angosciato, tenendola stretta – Non puoi andare a casa! Voglio...voglio dire, non puoi andare! Tu sei. Sei la mia migliore amica, Connie! Dovresti supportarmi”
Io ti supporto – scandisce seccamente la ragazza, liberandosi da quella presa con uno strattone – Non supporto il tuo essere così indeciso, però”
“Devi aiutarmi. Me lo devi” le dice quindi lui, gli occhi sgranati e chiarissimi.
La sua voce è piccola, come quella di un bambino ferito.
“Non giocare quella carta, Niall”
“Sei la mia migliore amica, Connie – mormora, come se neanche l'avesse sentita – Ho bisogno di te”
“Sei uno sfigato”
Tu! Tu dovresti sostenermi, aiutarmi in qualsiasi difficoltà! Invece ti stai arrendendo come una codarda e – si blocca con la vibrazione del suo telefono nella tasca della divisa. Afferra il Samsung dallo schermo rotto e legge presumibilmente il messaggio appena ricevuto. Quando torna a guardare Connie, l'espressione che aveva solo pochi secondi prima è come scomparsa – Sai una cosa? Vai pure a casa. Compro queste” e ora il suo tono è semplicemente Niall, il solito ragazzo di sempre.
“Tu. Sei. Pazzo” scandisce Connie, impietrita.
Deve ricordarsi sempre di quanto gli uomini della sua vita siano lunatici o non ne uscirà viva.
Neanche farlo apposta, l'altro si fa sentire l'attimo successivo. Il suo telefono vibra tra le sue dita.
Buon pomeriggio a te, girasole. X”
 
 
 
L'appartamento di Louis è molto più piccolo e privato di quello di Payne. Ricorda molto la sua persona, perché è pieno zeppo di oggetti contrastanti: Louis non ha di certo buon occhio per queste cose, ma a Connie piace lo stesso, così come adora l'abitazione semplice degli Horan.
Elsa non permetterebbe mai l'accostamento di un vaso persiano accanto a una lampada cinese, Louis invece le mostra entrambi con orgoglio, spiegandole che provengono dai viaggi fatti con la nazionale inglese.
Poi si accomodano nella cucina che s'affaccia sul soggiorno grande, sulla tavola già apparecchiata nel più semplice dei modi. Louis sembra impacciato: continua a studiare le sue espressioni in attesa e Connie gli risponde con dei sorrisi di rassicurazione e le guance calde per via dell'atmosfera.
Si guardano con quegli occhi da amanti inesperti, ridendo piano senza dire nulla, con la consapevolezza di star pensando alle stesse cose, magari con parole differenti.
“Cosa hai fatto oggi?” le domanda a un certo punto, con un sorriso strano.
Connie forse non lo nota – o fa finta di non notarlo – e “Scuola – risponde in modo indifferente – Poi ho accompagnato Niall a comprare un paio di scarpe”
Gli occhi di Louis s'accendono di consapevolezza, le chiede: “Ah sì? È stato divertente?”
“No, è stato... – lei si blocca e aggrotta le sopracciglia, percepisce le guance arrossarsi ancora – Perché diavolo mi stai guardando così?”
Louis sbatte le palpebre, con quella odiosa faccia da schiaffi innocente. “Pardon?”
“Non funziona con me, Tomlinson – Connie schiocca la lingua e scuote la testa – Il tuo muso da bambino può rimorchiare una ragazza in discoteca, non di certo quella che hai davanti”
Lui si schiarisce la voce e “Miele – mormora – Non solo questo muso da bambino potrebbe rimorchiarti, ma potrebbe senz'altro farti perdutamente innamorare”
A quel punto, Connie sa che dovrebbe ridere. Lo sguardo ilare di Louis glielo suggerisce, il suo corpo glielo suggerisce. Eppure non ci riesce e quello che fa è una misera risatina di petto, le labbra subito morsicate dall'ansia e il volto che all'improvviso impallidisce.
Lo sente ridere e ancora non sa se sia perché non vuole metterla in imbarazzo o perché semplicemente non gli interessa.
“Ah, ma allora l'ha già fatto!” esclama Louis, pieno d'orgoglio.
Gli arriva il tovagliolo di stoffa dritto nei denti. Ride più forte.
Poi però la bacia.
 

 
 
~

 
 
 
Esther le ha letto l'oroscopo, stamattina.
Con il suo accento latino, molto più marcato di quello di Elsa, le ha preparato la colazione continuando a mormorare: “Deve essere forte oggi, señorita. Deve essere forte”
Connie non crede negli oroscopi, non crede nemmeno nel karma o in Dio. Crede nei fatti, perché solo di quelli ti puoi fidare.
Quindi quando quel pomeriggio la sua Range Rover affonda le ruote nel parcheggio interno della società, lei capisce subito che sì, quel giorno deve essere forte. D'altronde siamo nel bel mezzo della Premier League, non potrebbe essere altrimenti.
Tra i corridoi degli uffici c'è un via vai discreto di persone, un continuo spostarsi e parlare a bassa voce che Connie ancora non capisce. Controlla per l'ultima volta la piega dei suoi jeans neri e procede spedita verso le ascensori, salutando con un sorriso gentile la ragazza alla reception, che spalanca gli occhi e ricambia con un certo timore.
Dall'interno dell'ascensore non ancora aperto, Connie riesce a distinguere in modo leggero il tono di voce potente di Sexton che “È quasi un miracolo!” esclama.
Lei fa un passo indietro, non capisce. Le porte le si aprono davanti, i suoi occhi si riempiono di giacche e cravatte e poi tutto si fa confuso, astratto. Percepisce le dita tremare, il respiro bloccarsi sulla lingua, la sensazione destabilizzante del vuoto e della paura.
“Papà”
Gabriel è al centro della cabina, circondato da vecchi colleghi. Indossa una polo firmata e un paio di pantaloni larghi, in netto contrasto con gli abiti costosi degli uomini che per anni sono stati il suo braccio destro.
È...è suo padre, suo padre. È smagrito, qualche ruga più vecchio ma è lui, non c'è alcun dubbio. Le sue guance sono lisce, pallide come quelle di un tempo e i suoi occhi sembrano più scuri, intensi. La guardano e subito si spalancano per la sorpresa, si fanno colpevoli mentre il mondo continua a girare senza sosta.
Connie ha le vertigini e quello è suo padre.
“Papà” balbetta, per l'ennesima volta.
“Connie” lui risponde, spiazzato.
Accentua il tono ripetendo il suo nome poi, quando la vede dargli le spalle e iniziare a correre tra chi non capisce.
 
 
 
 
Ha iniziato a piovere piano, quando raggiunge l'uscita, spedita verso la macchina.
È una pioggia così leggera da sembrare aria bagnata, Connie stringe con rabbia i denti e si costringe a non voltarsi.
È così furiosa da sentire i polsi tremare per la forza con cui le sue mani sono chiuse, ha il respiro rotto e milioni di parole che la persona dietro di lei non si merita di sentire.
“Connie, ci dobbiamo calmare”
Fa ridere sentire la sua voce. Ha un che di divertente, di quella simpatia bastarda da far venire i brividi alle ginocchia. Vorrebbe disperatamente piangere, invece continua a camminare veloce finché non riesce a scorgere la sua macchina in mezzo alle altre.
“Connie, adesso basta”
“Non ti meriti niente!”
Non si era ancora resa conto di quanto Gabriel le fosse vicino fino a quel momento: si volta di scatto e quasi gli sbatte contro, poi lo spinge lontano e respira a bocca aperta, come un animale in fuga.
“Non ti meriti niente! – esclama ancora, la voce che si spezza – Tu pensi di poter tornare così dal nulla dopo tutto questo tempo e dirmi solo 'basta'? Non ti meriti niente”
“Mi dispiace”
“Non è abbastanza!”
Se non altro, suo padre ha la decenza di stare zitto, adesso. China appena la testa in modo colpevole e gli occhi gli si incurvano di dolore, pentiti.
Ha sofferto tanto, Gabriel, e dentro di sé, Connie sa di star sbagliando. Non vorrebbe realmente urlargli contro quella rabbia, non senza sentirsi in colpa. È solo sorpresa, in un modo che ancora non riesce a comprendere del tutto: non si aspettava un ritorno fulmineo alla vita di tutti i giorni, non lo voleva.
Non è giusto, non è giusto.
Il suono dei tacchetti sul cemento è ciò che precede l'arrivo di Louis, alle spalle dell'uomo ancora in silenzio. Ha gli occhi blu tinti di preoccupazione e la bocca socchiusa, come se fosse pronto per intervenire. Indossa la divisa d'allenamento completamente bianca e sembra del tutto incurante del fatto che le sue scarpe da trecentoventi sterline si stiano irrimediabilmente distruggendo sull'asfalto.
“Tu ci hai abbandonate – Connie adesso piange, dignitosamente senza singhiozzi – Tu sei morto quella sera. E adesso ti presenti come se niente fosse successo?”
Lo sguardo di Gabriel s'illumina di consapevolezza: ha capito.
“Sai che non così, Connie” mormora, aprendo le mani.
Smettila! – lei urla, gli va più vicino solo per spingerlo ancora e dentro di sé percepisce il panico fiorire tra il sangue – Smettila di parlare così! Smettila di fare finta di niente!”
Le sue mani smaltate iniziano a tremare in modo impercettibile, piano piano, come un terremoto in lontananza.
Gabriel subisce nonostante la differenza sostanziale di fisico, nonostante lei sia così fragile in questo momento da poter essere disintegrata senza il minimo sforzo.
E c'è di nuovo quel senso di vuoto, di confusione totale, di una paura che ingloba l'aria, tutto.
“Connie – la voce di Louis è come ovattata – Devi calmarti”
Lei respira a pieni i polmoni e sbatte gli occhi, sentendo una lacrima solleticarle il mento.
Sembra che non abbia più niente da dire, Gabriel sfrutta quel momento di silenzio e fa un passo avanti. “Ascolta, Louis è venuto da me ieri e-”
Non lo lascia neanche finire, semplicemente s'infila in macchina e parte.
 

 
 
Elsa è di spalle, quando Connie entra in cucina. Si volta nel sentirla arrivare e non si accorge del volto arrossato dal pianto.
Nena – la saluta, con un sorriso costoso – Sei tornata presto. Esther ha fatto i biscotti al burro, quelli che ti piacciono tanto”
“Mamma...”
“Ci ha messo anche il cioccolato – la voce della donna s'inclina appena, in modo comunque percettibile - Sono più calorici del solito”
“Mamma” Connie ora singhiozza, le tremano le spalle mentre vede quelle di sua madre incurvarsi.
La sente che sospira a bocca aperta, come in cerca di aria. Probabilmente sta sbattendo forte gli occhi nella speranza di non piangere.
“Lo so” mormora semplicemente, e adesso il tono è liquido, scivola sulle consonanti senza pronunciarle realmente.
Ed è strano sentirla così fragile, perché Elsa non è mai stata una persona particolarmente emotiva. Non ha mai ceduto ai sentimenti, non si scompone di fronte a nulla. È fatta così, Gabriel la chiamava 'donna di ghiaccio' con un sorriso sulle labbra, una caratteristica di lei che gli aveva fatto perdere la testa.
E più che strano, Connie si ritrova a pensare, è distruttivo. È come vedere crollare i ponti, i muri creati apposta per essere sicuri di non cadere, come sentire – ancora, ancora, sempre – sulla propria pelle il dolore lancinante di chi non può più tornare, quella sensazione d'impotenza di fronte a qualcosa che cessa d'esistere, di fronte alla consapevolezza che non ci saranno altri giorni in cui crescere insieme, altre parole, altri sguardi e altre sensazioni. Non c'è più nulla e il nulla è proprio lì, a distruggere le persone forti come Elsa, che ora trema e guarda fuori, verso la finestra e il mondo che gli ha portato via un figlio.
“Mi manca – Connie piange, fissa il soffitto – Vorrei che non mi mancasse, ma mi manca. Sempre”
“Sempre – sua madre ripete, senza ancora voltarsi – Così tanto che certe volte vorresti morire, così tanto da arrivare a sperare che tuo marito rimanga chiuso in quella stanza ancora, per paura di non riuscire a guardarlo negli occhi, perché credi sia la soluzione migliore. Così tanto da non riuscire a respirare”
Connie si asciuga il volto coi polsi azzurri, si lascia scappare un singhiozzo dalle labbra morsicate e sbatte le ciglia lunghe e bagnate. “Perché non smette? Perché non smette di fare così male?”
Elsa abbassa la testa e la volta appena, concedendole uno squarcio del suo profilo elegante. Fa un piccolo sorriso triste, con gli occhi spenti e la voce ora ferma, di nuovo contenuta: “Non smette mai – risponde semplicemente – Non per davvero. Ma va bene, sai? Il dolore, intendo. Imparerai a conviverci. È ciò che ti ha lasciato, è ciò che serve per non dimenticarlo. Tuo padre lo ha capito, Connie. Ora tocca a te”
 

 
~
 
 
Niall porta il gelato, quello al caramello salato che piace tanto a tutti e due.
Connie gli sorride riconoscente e lo lascia accomodarsi tra le pieghe del piumone, lasciandogli lo spazio necessario per sfilarsi le scarpe e stendersi accanto a lei. Fa passare il braccio bianco dietro il suo collo e “Scusa se ci ho messo così tanto – le dice – L'autobus non arrivava”
“Non fa nulla” lei risponde, la voce bassa.
Le luci bianche che pendono dagli scaffali pieni di libri sono le uniche fonti di luci presenti in quella stanza dalla moquette crema, rendono l'atmosfera tranquilla, rilassante, nulla a che vedere con le lacrime che macchiano i cuscini sul letto dietro le loro schiene.
“Ti ricordi la famosa serata al Venus?” esordisce Niall, dopo qualche minuto di silenzio.
“Onestamente? Non mi ricordo nulla di quella serata. Se non il mal di testa da sbronza colossale”
(e le mani di Louis dentro al suo letto sul mio corpo)
“Io lo sapevo – mormora lui, nel tono accentato una piccola traccia di sensi di colpa – Sapevo che Louis fosse lì. Uno dei miei compagni di fisica mi aveva mandato un messaggio, lui lavora lì part-time”
Connie non accenna a staccarsi dall'abbraccio, rimane immobile a guardare lo schermo grande del computer appoggiato sulla scrivania, vuoto.
“Perché?” gli chiede, senza tono.
“Perché avevi bisogno di lui, e perché era giusto così”
Lei gli si stringe contro a quel punto, seppellendo le guance fredde contro l'accogliente incavo del suo collo e chiudendo gli occhi.
“Sapevi anche che sarebbe andato a parlare con mio padre, giusto? – gli domanda – Per questo mi hai costretto ad accompagnarti, per questo hai esitato così tanto. Non volevi che tornassi a casa”
Lo sente annuire velocemente, muoversi appena. “Mi ha scritto quella stessa notte, dal tuo cellulare. Mi ha detto che stavi bene e mi ha chiesto se poteva salvarsi il mio numero. Credo di aver pianto un po'”
Connie ride e gli fa il solletico col respiro ora calmo, lento.
Niall aggiunge: “Credo anche che abbia deciso in quel momento. Di parlare con tuo padre, intendo”
Lei non risponde a quel punto, preferendo di gran lunga quel silenzio placido della sua stanza. Si sente meglio, più leggera, ha ancora gli occhi che bruciano ed è stanca, ma non è sola e questo è ciò che conta.
Per l'ennesima volta quel giorno, si chiede cosa abbia potuto far scattare così tanto suo padre al punto di farlo tornare in vita dopo così tanto tempo.
È arrabbiata sì, ma non con Louis, con Gabriel e tanto meno con Niall. È furiosa con se stessa, per non essere stata abbastanza, per non essere stata in grado di prendere in mano la situazione e aiutare suo padre a resistere, a non arrendersi.
“Devi parlare con Louis – è ciò che Niall dice, rompendo la catena dei suoi pensieri – È preoccupato per te”
“Siete diventati migliori amici o qualcosa del genere?”
Il ragazzo ridacchia, le bacia la fronte: “Beh, l'autobus non arrivava...”
 
 
 
Louis ha in mano una delle tazzine cinesi di sua madre, quando Connie entra in salotto. Elsa è a gambe accavallate sulla poltrona e sul suo volto non compare nemmeno una piccola macchia di dolore: è di nuovo quella di sempre.
“Per la cronaca – mormora Niall all'orecchio della sua migliore amica, prima di superarla – Louis guida molto meglio di te”
Poi si annuncia con un sorriso, facendo in modo che sia la donna che il calciatore si voltino verso l'entrata.
Connie è agitata, molto più di quanto si aspettasse. Vedere Louis le ha sempre, in qualche modo, scatenato qualcosa addosso, dentro. All'inizio non era che fastidio, ribrezzo perfino. Con l'andare avanti – con lo scoprirsi, spogliarsi – tutto ha preso una forma diversa, più armoniosa, meno rigida.
Ora qualcosa brucia, qualcosa sotto i polmoni strilla di un sentimento caldo, che ti consuma.
Si guardano negli occhi e lui sembra leggere in quelli di lei solo tanta tristezza. Sembra fargli male.
“È stato come sempre un piacere, Elsa – sta dicendo intanto Niall, baciando le guance della donna – Mi piace come ha arredato il giardino. Verrò a rompere anche questo gazebo”
Elsa ride e gli accarezza goffamente il braccio, “Quando vuoi”
Il ragazzo si volta verso Louis a quel punto e “Vogliamo andare?” gli domanda, le guance che assumono una sfumatura appena più scura.
Quello annuisce velocemente e appoggia la tazza sul tavolino di legno davanti alle sue ginocchia, alzandosi in piedi e pulendosi i palmi delle mani sui jeans neri. Si schiarisce la voce e “Grazie, signora Johnson” mormora.
Elsa fa un sorriso riconoscente: “Grazie a te, Louis”
Niall si è già infilato la giacca quando “Viene anche Connie – dichiara, per poi guardarla – Giusto?”
Lei trema, sospira.
Annuisce.
 
 
~

 
 
“Non sono arrabbiata con te, se questo è quello che pensi”
Louis guida decisamente meglio di lei.
Hanno lasciato la via di Niall da qualche minuto, persi nel traffico pomeridiano di Manchester.
Connie sta torturando la manica del suo cappotto blu, cercando di apparire solo distratta. Louis guida con il braccio destro dritto e la mano sinistra che non smette di accarezzare il cambio.
È la prima cosa che si dicono da quando Niall ha sbattuto la portiera posteriore di quella BMW Series 1.
Le lancia un'occhiata incerta per poi tornare con gli occhi blu fissi sulla strada e mormorare: “No?”
Connie si schiarisce la voce e guarda fuori. “No. Voglio dire, non più”
“Volevo dirtelo”
“No, non volevi”
Louis sospira e annuisce appena. “No, non volevo farlo”
Lo avrebbe fatto. Se lui avesse davvero voluto dirle le sue intenzioni, lo avrebbe fatto. Esattamente come l'ha baciata alla serata di beneficenza, esattamente come hanno fatto l'amore.
Connie non è arrabbiata perché ha capito. Vuole solo che lui glielo racconti.
C'è un altro tipo di silenzio adesso, quello fatto dalle persone come Louis, quelle che parlano tanto ma dicono sempre poco, quelle che sanno come ferire per non essere ferite.
Ci mette un po' a trovare le parole, ma quando torna a parlare, sono semplicemente le più adatte.
“Era l'unico che avesse mai creduto in me. Intendo in me come persona. Gli allenatori che hanno fatto parte del mio percorso calcistico mi hanno sempre visto come l'indisciplinato a cui Dio aveva regalato un paio di piedi magici, lo stronzo che voleva vincere e voleva farlo da solo. Ma non li biasimo, sai? Era quello che la gente sapeva di me. Non c'era bisogno che sapessero altro”
S'interrompe per riprendere fiato, con le labbra sottili socchiuse dall'emozione e la voce che vacilla appena. Non piangerà, è solo la novità di essere vulnerabile, la sensazione di cadere a occhi chiusi sperando che qualcuno sia abbastanza forte da sorreggerti.
“Con tuo padre è stato diverso. Di tanto in tanto mi chiamava a parlare noi due da soli, nel suo studio. Mi chiedeva perché fossi di cattivo umore, perché avessi quel muso così serio, se stavo bene, se avevo bisogno d'aiuto. E sai una cosa? Non accennava mai agli allenamenti. Voglio dire, era chiaro che mi vedesse strano in campo, ma non c'è mai stata una volta in cui in quello studio lui abbia accennato al calcio. Voleva sapere come stessi io, non i miei piedi, non il mio corpo. Io. Certe volte era talmente presente da farsi odiare. Gli urlavo contro, mi prendevo gioco di lui, facevo finta che fosse solo uno dei tanti stronzi che non avevano capito nulla. E sai cosa faceva, allora? Mi lasciava il mio spazio, il tempo per capire quanto in realtà lo stronzo fossi solo io. È...è probabilmente la figura più paterna che abbia mai avuto nella mia vita e quando ho saputo delle dimissioni ho cercato in tutti i modi di dimenticarlo, di tornare la persona orrenda che ero prima di lui. Ci sono riuscito, eh?”
“Non dire così” sussurra Connie, con gli occhi tristi.
Louis sbuffa una risata amara, scuotendo leggermente la testa. Si tocca il labbro inferiore con le dita e accelera un poco.
“A ogni modo – riprende poi – Io non ho fatto nulla per farlo uscire da quella stanza. Sono effettivamente andato a parlarci, sì. Ma solo grazie a te. Grazie all'amore che prova nei tuoi confronti e lasciami finire, Connie. Ti sto dicendo la verità. Tu forse non te lo ricordi, ma al Venus, quella sera, tu hai detto una cosa. Una cosa che mi...mi ha fatto rabbrividire e mi ha letteralmente mandato fuori di testa. La tua mente è arrivata a pensare che morendo, saresti riuscita a riavere indietro tuo padre. Capisci? So cosa stavi passando e non...non riuscivo a sopportarlo. Tuo padre neanche, bisognava semplicemente farglielo capire”
No, non ricorda di averlo detto. Connie ricorda di averlo pensato però, diverse volte, per diversi giorni. Non si è mai spinta troppo oltre i pensieri però, non ne ha mai avuto il coraggio e dubita di riuscirci in generale, ma il sapere che nonostante tutto Louis si sia così preoccupato per lei è abbastanza da farla bruciare tutta. Si sente così stupida per essersi comportata come una bambina capricciosa ed egoista, e si vergogna per aver provato quella gelosia infantile tipica dei fratelli nei confronti dei genitori: suo padre non preferisce di certo Louis, ma aveva comunque bisogno di lui. Proprio come lei.
Manchester è ferma nel traffico dei semafori lunghi e i bambini in divisa che corrono sulle strisce, Connie guarda fuori dal finestrino e ha le guance in fiamme dall'imbarazzo dei suoi stessi pensieri.
“Se devi fare qualcos'altro, puoi lasciarmi qui e prendo un taxi” mormora, e sa tanto di 'puoi lasciarmi' e basta.
Louis nemmeno la guarda mentre “Non se ne parla neanche” risponde.
Non se ne parla neanche.
 
 
 
 
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Connie sta facendo finta di leggere quando suo padre si chiude piano la porta della stanza dietro di sé.
Indossa gli stessi abiti di quel pomeriggio e la medesima espressione colpevole, gli occhi piegati come se ciò che provasse fosse un dolore fisico.
Lei non sa se sia pronta o meno per quel confronto, non ha voglia di rifletterci su. Si sistema semplicemente sul letto e chiude il libro, appoggiandoselo in grembo.
È strano vederlo fare gli stessi movimenti, sedersi nella medesima postura sul materasso e accavallare le dita tra altre dita come se non ci avesse pianto contro per un anno intero.
Ovviamente Gabriel non parla, sarebbe troppo semplice. Si limita a respirare piano e fissare la parete davanti a lui, come per studiarsi le parole scritte nella sua testa.
Alla fine è Connie quella che si fa sentire per prima, con la voce priva di forze, piena di paure.
“Ci sei riuscito?” gli domanda.
Suo padre si volta verso di lei, osservandola grazie alle piccole luci accese.
“Sei riuscito a stare bene?” ripete allora la ragazza, deglutendo poi con forza.
Le labbra di Gabriel si aprono all'istante come per rispondere, non esce alcun suono però. Scuote la testa e sospira, socchiudendo gli occhi.
“Non te lo insegnano – mormora, schiarendosi la voce – Voglio dire, non è una materia di studio, non c'è una specializzazione, nessun preparatore in grado di prepararti davvero. Non ti insegnano a superare la morte di un figlio, giusto? E io non sto bene, non ho ancora imparato dopo tutto questo tempo. Devo...devo abituarmi. Forse non ci crederai, ma ho sofferto più oggi che in tutti questi mesi”
Il suo indice traccia le pieghe del piumone, creando sentieri in cui gli occhi di Connie possano annegare: è così difficile sentirlo parlare.
“Prima era molto più semplice – continua l'uomo, dopo qualche secondo – Non esisteva altro che il dolore, l'apatia più totale, il vuoto. Oggi ho capito che c'è dell'altro, che il mondo è andato avanti, che io devo andare avanti con lui. E fa paura”
Il tono di Connie è quello di una bambina spaventata: “Lo so”
“Tu e tua madre siete tutto ciò che mi rimane – dice ancora Gabriel, guardandola – E mi dispiace avervi messe da parte per così tanto tempo. Ma Manny è... - la sua voce trema a quel nome – Manny è qui, da qualche parte, e sarebbe fiero di te. Proprio come lo sono io”
Connie vorrebbe dire altro, questo è certo, ma le lacrime sono troppe e i singhiozzi troppo forti.
Piange tra le braccia che l'hanno cresciuta.
Forse davvero non stanno ancora bene, ma stanno meglio e per oggi questo basta.
 
 
 
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“Mi sarebbe piaciuto fartelo conoscere. Era una persona splendida”
Connie fissa quel pezzo di marmo con lo sguardo indecifrabile e i capelli che il vento sta facendo danzare sul suo volto. La foto di Emmanuel è appena un po' sbiadita, giusto quel minimo indispensabile per non farle scordare il conteggio dei giorni.
Il piccolo mazzo di fiori che tiene tra le mani appassirà da lì a qualche ora per via del freddo, lei sospira forte e sente il petto riempirsi d'aria gelata.
“Beh, non credo sarei potuto piacergli. Non finché vado a letto con la sua sorellina, per lo meno”
Poi ride esasperata, perché Louis ha il potere di tranquillizzarla ed essere un emerito imbecille nello stesso momento.
Lui l'affianca, circondandole la vita con il braccio mentre lei gli si stringe contro, arricciandosi e appoggiando le labbra sul suo collo.
“Non era un tipo geloso – riflette – Più che altro, forse si sarebbe arrabbiato perché sapeva che meritassi di meglio”
Ouch – mormora il ragazzo – Questa era veramente cattiva. Ti avverto, bambina, smettila subito o dovrò prendere dei seri provvedimenti”
Connie infila la mano dentro la tasca calda del giubbotto di Louis, abbracciandolo. Non gli risponde, sospira e sbatte gli occhi.
“Mi sembra passato così tanto tempo – dice – Eppure è come se fosse ieri”
“Sarà sempre così – risponde Louis, il tono rammaricato – Un giorno sono cento passi avanti, quello dopo duecento indietro. L'importante è restare in piedi”
Connie chiude gli occhi contro la pelle profumata di lui, scrollando le spalle. “Come se fosse facile” si lascia sfuggire a bassa voce.
Louis però la sente perché la presa sui suoi fianchi si fa più forte. “Come se io non fossi qui” ribatte.
È una promessa che sa di futuro.
Connie lascerà i fiori sul prato congelato, sfiorando appena il volto sorridente di suo fratello.
Il vento poi trascinerà via i petali chiari e sarà come il respiro di chi non se ne è mai andato.
Di chi, nonostante tutto, è ancora qui.

 


 
 

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