L'Albero della Vita

di Melian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Violate ***
Capitolo 3: *** Sulle coste del Mediterraneo ***
Capitolo 4: *** I Sistri di Hathor ***
Capitolo 5: *** L'Albero della Vita ***
Capitolo 6: *** Il Grande Segreto ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


L'ALBERO DELLA VITA

 

 

 

 

Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte.”
(K.Gibrain)

 

 

 

 

 

*

 

 

PROLOGO

 

 

Gennaio 1806

 

Il suo passo era leggero come quello di un gatto. Sulla colte di neve che aveva ammantato i cortili del maestoso castello, Alexandra lasciava piccole impronte, orme sfuggenti accompagnate dal trillare della sua risata squisitamente fanciullesca.
Il turbine dei capelli biondi e del candido avorio della mantella orlata di pelliccia di visone faceva spuntare il sorriso sui volti dei servi che si affaccendavano nella maison.
Da quando il padrone della tenuta era partito, Alexandra aveva preso la signoria del castello: si respirava un'aria nuova, priva della cupezza che aveva sempre accompagnato la vita di Alphonse di Benavia, sapida di una vitalità tipicamente femminile.
Alexandra, sospesa tra l'adolescenza e l'età adulta, sul confine sottile di una bellezza virginale ancora in boccio e dalle suadenti promesse, conservava il fascino di una creatura ora forte e indipendente, ma infinitamente dolce grazie ai lineamenti delicati e alle labbra che si atteggiavano ad un leggero, adorabile broncio quelle rare volte in cui era contrariata.
Eppure, nessuno dei servi sospettava come dietro al candido sorriso nascondesse la propria più intima natura: quella, cioè, del giovane Vampiro assetato di sangue.
La neofita, trasformata da Alphonse prima che fosse costretto a fuggire per colpa del Demone con cui aveva stretto un patto secoli prima proprio per salvare sua figlia, stava imparando con una moltitudine di difficoltà a disciplinare il bisogno di nutrirsi, scoprendo spesso e volentieri un tormento che non poteva alleviare, se non catturando una preda e uccidendola. Nei momenti in cui si trovava tra la gente giù in città o nelle feste nei saloni dell'alta società, la ragazza era grata al Sangue antico del proprio Creatore che la sosteneva.
Non aveva mai ucciso prima della notte in cui Alphonse l'aveva Abbracciata e trasformata in una Bevitrice di Sangue, dandole in eredità i propri poteri e la propria sapienza. Uccidere le suscitava una sensazione inesplicabile: una parte di lei, la più selvaggia e crudele, godeva del momento in cui la vita della sua preda si spegneva, cullata dal battito del cuore che si fermava; il suo lato ancora aggrappato all'umanità, invece, provava un intenso orrore nel fissare il cadavere riverso ai suoi piedi, con il collo martoriato inclinato in una posizione innaturale e la pelle livida che aveva perso ogni tepore.
Cacciare senza la guida di Alphonse si rivelava complicato: aveva dovuto imparare da sola come adescare le vittime e persino a non spezzarne il collo nella concitazione del pasto prima di dissetarsi Anche liberarsi dei cadaveri non era stato sempre agevole e le era costato molti passi falsi.
Infatti, nella contrada si stava ormai diffondendo la storia della Dama Bianca che si aggirava di notte nei crocicchi per attirare gli ignari viaggiatori e ucciderli, cavandolo loro fino all'ultima goccia di sangue.
Quella diceria, condita da una superstizione galoppante, sarebbe costata troppo ad Alexandra: se qualcuno avesse sospettato di lei, avrebbero potuto attaccare il castello in pieno giorno e dare tutto alle fiamme, distruggendo lei e tutto ciò che apparteneva ad Alphonse.
Eppure, insieme a quel timore, provava un senso di inebriante esaltazione: il sottile gioco delle maschere a cui era stata chiamata la ammaliava e la spronava ad investire tutto il suo intuito e il suo fascino per assicurarsi che mai nessuno nutrisse sospetti sulla sua vera vita.
Quando la sua famiglia umana saliva lungo lo stesso sentiero che si arrampicava sul fianco della collina e raggiungeva il castello dei Benavia, Alexandra si presentava sempre e solo dopo il tramonto, con la scusa dei propri doveri di dama del castello e di moglie. Non aveva confidato ai suoi genitori, tanto meno alle sue sorelle e ai fratelli, che Alphonse era sparito, bensì che fosse fuori per affari.
Per quanto ancora poteva andare avanti quella farsa? Quanto tempo ci avrebbero impiegato a comprendere che lei non invecchiava di un solo giorno dalla notte in cui Alphonse l'aveva fatta sua?
La ragazza si chiedeva cosa avrebbero pensato, se l'avessero mai potuta accettare; più ci rifletteva, più arrivava alla conclusione che nessuno dovesse conoscere il suo segreto.
Se solo Alphonse fosse stato lì... se solo fosse stato con lei!
La vecchia carrozza nera su cui il suo Creatore aveva sempre viaggiato non si era più vista dalla notte di Ognissanti e anche Nuberus, il Demone cacciatore di anime che aveva stretto un mefistofelico patto con Alphonse, era irrintracciabile.
Alexandra avrebbe pagato tutto l'oro del mondo pur di capire cose fosse realmente successo la notte in cui Alphonse le aveva scritto la lettera in cui le confessava tutto ciò che provava e le narrava della sua vita.
Aveva setacciato ogni angolo del castello, leggeva tutti i diari dei viaggi del suo Creatore, eppure non aveva scovato alcun indizio per capire cosa gli fosse realmente accaduto.
Tutti i suoi interrogativi restavano confinati in un triste limbo senza risposte.
Il dono più importante che Alphonse le aveva fatto, comunque, era la piena libertà di essere ciò che desiderava, indipendente e forte. E questo non poteva essere cancellato.

 

Fece un balzello agile, superando lo scalone antistante il portone d'ingresso, e si infilò nell'atrio, dove l'eco dei suoi passi riecheggiò bruscamente.
Il sangue della sua ultima preda le danzava ancora sulle gote, rendendole rosse come quelle di una bambina dopo una corsa mozzafiato. La sublime delizia del formicolio del sangue sottopelle riusciva a dominarla in modo tale che Alexandra si guardava sovente allo specchio, ricercando il più minuto cambiamento della propria immagine.
Scivolò con passo agile lungo il corridoio e raggiunse quello che, un tempo, era stato lo studio di Alphonse: non aveva toccato nulla e tutti i mobili erano rimasti nella medesima disposizione; pennino e calamaio sembravano attendere di essere solo impugnati dal loro proprietario, persino il clavicembalo ambiva ad essere suonato con la maestria spaventosa dei Vampiri.
Però, non appena la giovane aveva messo piede nella sala, la sensazione di non essere sola l'aveva colpita con improvvisa violenza: qualcuno si era seduto sulla poltrona di velluto rosso di Alphonse, sprofondando nell'alto schienale e lasciando le braccia abbandonate sui braccioli.
«Finalmente. Ti stavo aspettando, mia cara».
Con una lieve spinta dei piedi, la poltrona venne voltata quel tanto che bastava a rendere visibile la figura elegante di una donna dai capelli scuri acconciati in una crocchia lassa e fluida, punteggiata d i piccole perle candide. Aveva gli occhi grigi puntati inesorabilmente sulla ragazza colmi di un'antichità pressante, di una ferocia inumana e – assieme – di un languore che solo una creatura conscia del suo enorme fascino e potere avrebbe potuto possedere.
Alexandra si sentì stordita: qualcosa in lei si ribellava e, al tempo stesso, era soggiogata da quella presenza inattesa e sconosciuta che aveva violato con evidente semplicità il suo rifugio.
I suoi sensi non l'avevano ingannata: quella donna era una Vampira. Fece un passo indietro, prudente quanto un giovane lupo davanti all'anziano.
La Vampira le sorrise e, in quel sorriso, vi era un'evidente divertimento che si mescolava ad una dolcezza quasi materna quando le rivelò: «Io sono Violate».


Violate fece scivolare la stola drappeggiata sulle sue spalle fino alla poltrona, mentre si alzava senza fretta. Molto più alta della sua ospite, dovette abbassare il capo pur di incontrarne lo sguardo. Rispetto ad Alexandra, colta nel fiore della giovinezza e con i lineamenti ancora sporcati dalla rotondità dell'adolescenza, Violate appariva una donna altera e matura, dalla silhouette sinuosa e slanciata come la lama di un coltello, inguainata in un aderente abito di velluto nero con un ampio scollo che ne denudava la schiena. Non sarebbero potute essere più diverse l'una dall'altra.
«Capisco perché Alphonse ti ha scelta e ti ha voluto donare il suo Sangue», mormorò la Vampira con voce bassa e morbida, così delicata da apparire una lieve, passeggera increspatura nel silenzio.
Alexandra, invece, non riusciva a mostrare null'altro se non il violento shock di trovarsi dinanzi a quella donna dai modi tanto raffinati e dallo sguardo rapace. Socchiuse le labbra tremanti e cercò di articolare parola, finendo con l'accigliarsi e rimanere in un silenzio pensieroso.
«Mi conosci solo dai racconti di Alphonse, non è così? Non sono venuta qui per nuocerti, bambina mia. Trovo che abbia dello straordinario il fatto che tu sia riuscita a sopravvivere da sola e senza alcun incidente, fino ad ora», aggiunse Violate.
Tese la mano e raccolse una ciocca dei capelli della neofita, sgranandosela tra le dita con delicatezza, tanto da strapparle un inatteso brivido di piacere. Se avesse potuto ancora arrossire, Alexandra lo avrebbe certamente fatto. Di solito, anche con le nobildonne non le era mai mancata la parola e neppure l'abilità di misurarsi con loro a testa alta, ma una profonda, innata soggezione la spingeva ad essere molto più cauta nei confronti di Violate: l'aura emanata dall'Antica era inequivocabile.
«Ho letto di voi in una lettera di Alphonse. Una lettera che mi ha lasciato prima di...»
«Sparire», fu Violate a concludere la frase con tono greve. Si mosse con leggerezza, misurando la stanza a passi languidi fino alla finestra; tirò la spessa tenda damascata e contemplò la valle ai piedi del castello, «pochi mesi fa ho ricevuto anche io una sua lettera. Desiderava che tornassi e mi prendessi cura di te, la sua creatura, il suo amore, perché presagiva il peggio. Non aveva torto, in fondo.»
Alexandra sgranò gli occhi, incredula: «Lui aveva fatto questo, per me? Credevo fosse morto, perduto nella luce dell'alba, ma invece non ne ho trovato le ceneri come avevo temuto. Semplicemente non c'era e, con lui, anche la carrozza su cui viaggiava sempre e nemmeno Nuberus. Voi... voi non sapete dove sia andato?»
«Lo ignoro. Mi aveva parlato di Nuberus e del loro patto, ma quel Demone è stata sempre una figura sfuggente, nei suoi racconti. Come se nemmeno Alphonse ne sapesse davvero abbastanza e si fosse accontentato di grattare la superficie, legando scelleratamente il suo destino a quella di una creatura tanto misteriosa e subdola», rispose allora Violate, voltandosi ad offrire il profilo del proprio volto alla ragazza con la mano destra agganciata al fianco, una violenta pennellata candida contro la stoffa scura. Ci fu un lungo silenzio e, per un solo istante, il suo imperscrutabile volto rivelò una improvvisa ansia, una vulnerabile malinconia, «credo che sia in pericolo.»
«Allora dobbiamo scoprire dov'è. Ma come?» Alexandra ritrovò il proprio spirito pronto e battagliero; si imbronciò mentre fissava la Vampira.
«Sono qui proprio per scoprirlo. Ma abbiamo bisogno di aiuto, perché da sole – malgrado tutto – non possiamo farcela», rivelò Violate e passò accanto ad una libreria, osservando le costine dei diari con i titoli scritti in inchiostro dorato con un elegante ghirigoro.
Quando riconobbe la grafia di Alphonse fu tentata di sfilare uno dei volumi, ma – dopo averlo inclinato – optò per rimetterlo a posto senza aprirlo, come se le costasse troppa fatica.
Alexandra rimase in silenzio ad osservarla e, infine, non riuscì a trattenere la domanda che la ossessionava: «Come fate a sapere che lui è ancora vivo?»
«Il Legame di Sangue che mi lega ad Alphonse», rispose Violate con assoluta certezza, «se fosse stato distrutto, avrei avvertito il Legame spezzarsi irrimediabilmente. Io, invece, lo sento: sento ancora la sua presenza, remota, fioca, ma esistente. Prima che si assottigli questo vincolo e io smetta di percepirlo, dovremo trovarlo. Ma anche tu, se ti concentri davvero, può sentire il filo rosso che vi unisce: il Creatore e la sua creatura sono legati per sempre e potranno percepirsi, se solo lo vogliono. I Legami di Sangue dei Vampiri sono i più forti in assoluto, persino più viscerali di quelli tra gli umani.»
«Io non lo avrei mai creduto..», si giustificò Alexandra, spalancando gli occhi, punta sul vivo. Strinse la stoffa della gonna tra le dita, annichilita da quella nuova rivelazione di cui non aveva avuto alcuna consapevolezza fino a quel momento.
«Non potevi saperlo e dunque non tormentarti. Ora che sono qua ti educherò, proprio come feci con Alphonse», replicò l'Antica e le fece un gesto leggero, indicandole il piccolo sofà accanto alla poltrona su cui tornò ad accomodarsi, «ma, prima di tutto, lascia che ti racconti di me, bambina. Vuoi?»
Alexandra rimase ipnotizzata dalla curva del collo di Violate, dal modo con cui teneva, seducente e inconsapevole, il capo reclinato. Si sorprese a fissare avidamente il reticolo di vene bluastre che spiccavano sotto la pelle candida e che, ai suoi occhi di Vampira, apparivano come rilievi invitanti. Si costrinse a battere le palpebre, scacciando il guizzo cremisi che le aveva colorato la sclera, e annuì.
«Molto bene. Prepara i bagagli, allora: partiremo tra un'ora, prima che arrivi l'alba. Strada facendo ti narrerò parte della mia storia», ordinò Violate in tono pratico.


 

La carrozza era piuttosto spaziosa, ma dall'aspetto discreto, con i finestrini chiusi da scurini e fitte tendine. Il legno della fiancata era percorso da un semplice ornamento floreale dorato e le ruote erano grandi, cambiate di recente. Due bauli formavano il bagaglio delle due dame, ben assicurati da robuste cinghie. Il cocchiere che sedeva a cassetta, reggendo i finimenti dei due cavalli bianchi e il lungo frustino, era vestito in maniera sobria ed elegante: era un uomo sulla quarantina, con i capelli brizzolati e sbarbato.
«Fabien è un brav'uomo: è alle mie dipendenze da quando era solo un giovane garzone. Conosce la mia vera natura e mi è fedele; in cambio, lui non chiede altro che un sorso del mio sangue. Come, del resto, tutti gli umani che mi servono: è così che mi assicuro che non tradiscano sbadatamente i miei segreti», cinguettò Violate nel presentare il proprio servitore ad Alexandra.
La servitù del castello dei Benavia era schierata in due file ai lati dell'ingresso; la cameriera personale di Alexandra, con gli occhi umidi di lacrime trattenute, le consegnò una piccola borsetta a sacca di velluto, sussurrandole: «Buon viaggio, signorina. Fate attenzione e tornate presto.»
Alexandra le sorrise, dandole un colpetto sul dorso della mano, incoraggiante: «Prometto che ti scriverò, Jolie.»
Il maggiordomo richiamò la cameriera all'ordine con un piccolo cenno della mano guantata e si inchinò alle due donne: «Vogliate raccogliere i nostri omaggi, signore. Vi auguriamo un sereno viaggio e vi assicuriamo che il castello sarà gestito con professionalità, fino al vostro ritorno.»
«Grazie mille, Stuart. Conto su di te. A presto!», trillò Alexandra gioviale, prima di salire la scaletta e sedersi sul comodo sedile della carrozza, subito seguita da Violate.
Il valletto chiuse lo sportello e rifilò un cenno al cocchiere che, dando di piglio ai finimenti, fece partire il veicolo.
«Sono rammaricata per la fretta con cui siamo dovute partire, ma non possiamo tardare: ci aspettano ed ogni minuto è prezioso», incalzò ancora Violate, enigmatica. «Fabien sa già dove portarci e ci proteggerà durante il giorno: non avere paura.»
Alexandra non rispose, ma si aggrappò al finestrino e spinse fuori il capo biondo: guardò il cortile del castello, l'ingresso e lo scalone allontanarsi, la servitù ritirarsi e Jolie salutarla con uno sventolare della mano. I suoi capelli biondi si gonfiarono al vento della notte e il solitario grido di un gufo appollaiato su uno degli alberi la fecero corrucciare; gli occhi si posarono sul profilo della cappella del castello, chiusa dall'ultima sua visita a chiunque, se non ai pipistrelli.
Così, mentre la carrozza lasciava le mura del castello e scivolava lungo il sentiero serpeggiante attorno alla collina, Alexandra credette di sentire un nodo di malinconia serrarle la gola, nonostante un Vampiro non potesse provare una sensazione simile. Ma che altro nome dare a quell'emozione provata mentre abbandonava il suo rifugio sicuro e la dimora dove poteva trovare conforto nel ricordo di Alphonse ad ogni angolo?
Violate, invece, era impassibile, incommensurabilmente calma e intrecciò le mani in grembo, osservando direttamente la ragazza: «Non hai mai lasciato queste terre troppo a lungo, me ne rendo conto, ma tornerai presto e, molto probabilmente, sarai persino cresciuta in consapevolezza.»
«Non sopporto questo senso di vuoto che sento nell'abbandonare il castello. Vi prego, raccontatemi di voi: me lo avevevate promesso.»
Violate restò in silenzio a soppesarla. Dopo qualche istante, però, cominciò a parlare.


 

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Capitolo 2
*** Violate ***


CAPITOLO 1 - VIOLATE

 

 

 

“Sono nata a Roma, quando Cesare era nel pieno della sua ascesa. E vidi Roma cambiare nelle mani di quell'uomo che si struggeva dal desiderio di uguagliare Alessandro Magno, conquistatore di gloria imperitura a soli trent'anni.
Non guardarmi con quegli occhi colmi di meraviglia, Alexandra, ti prego.

Lo so, sono vecchia nel Sangue più di quanto, probabilmente, persino Alphonse abbia mai sospettato. Non gli ho mai parlato in questo modo del mio passato: lo faccio con te, in modo che tu comprenda che non devi considerarmi una nemica, ma una donna che ha avuto il tuo stesso anelito alla vita e alla libertà.
Crebbi allo stesso modo di qualsiasi altra ragazza di famiglia aristocratica: mio padre era un Senatore, mia madre invece una patrizia originaria di Napoli; entrambi tenevano al buon nome della famiglia e all'idea di farmi sposare ad un uomo ricco e potente che potesse portarci lustro.
Non c'è molto da dire sulla mia educazione e sulla mia infanzia, perché non accadde nulla di emozionante. Ricordo, inoltre, davvero molto poco di quei giorni passati tra le arieggiate stanze della domusi e i cortili dove troneggiava l'impluviumii, circondato da colonne rastremate di marmo. Mi insegnarono a leggere e scrivere, far di conto, suonare e danzare, nonché a tessere e cantare. Ricordo anche che adoravo leggere le poesie e le tragedie greche e che mio padre aveva scelto uno dei migliori insegnati ateniesi perché imparassi la lingua dell'Ellade.
Fecero di tutto per preservare la mia virtù fino al giorno del matrimonio stabilito con un uomo più vecchio di me di vent'anni che portava il nome di Marcello e conduceva una vita agiata: era il proprietario di numerose botteghe e sedeva in Senato al fianco del mio genitore.
Mi sposai, dunque, a soli quindici anni: la mia vita passò dalle mani di un uomo a quelle di un altro come se fossi una merce e lo sposalizio null'altro che un mero contratto d'affari.
A quel tempo, le donne non erano molto diverse dai sesterzi che potevano passare di borsa in borsa con facilità disarmante a seconda della convenienza del momento.
L'esistenza delle fanciulle romane ruotava attorno agli interessi degli uomini: fidanzarsi, sposarsi, divorziare e ancora risposarsi a seconda degli interessi della propria gensiii, della politica e degli interessi, della legge di turno da approvare o far affossare in Senato. Una vita di abnegazione al volere altrui, per poi restare in ombra in un angolo, ritagliandosi lo spazio appena sufficiente per essere consapevoli d'esistere, di possedere una propria volontà e propri desideri.
Allora le aristocratiche avevano smesso di cardare la lana e attendere i mariti chiusi nelle proprie stanze: se non potevano essere davvero libere, erano divenute libertine. Gli amanti e gli incontri clandestini che si succedevano si perdonavano; le scappatelle e le avventure di cui i mariti venivano a conoscenza erano taciuti come non fossero mai accaduti e i costumi morigerati divenivano solo un orpello da sfoggiare per ravvivare le apparenze in società.
Comunque, il marito che mi era stato imposto era desideroso di poter avere figli maschi a cui poter lasciare le proprie ricchezze e di sfoggiare una donna giovane, casta e morigerata, nei ricevimenti che organizzava nella nostra sfarzosa domus.
Se ero felice? Naturalmente non lo ero, ma il mio ruolo mi imponeva di essere la sposa devota, come prima ero stata la figlia ubbidiente. Mi accontentavo di dirigere i lavori domestici, assegnando ai servi i compiti giornalieri, presiedendo alla preparazione dei pasti e alla filatura della lana, venerando i Lariiv nella loro nicchia nell'atrio della casa.
Ero troppo intelligente – e forse, per mio padre, questo era particolarmente esecrabile – per non comprendere quale fosse il mio ruolo e cosa gli altri si aspettassero da me: dovevo essere la custode di quegli affari che avrebbero garantito al mio genitore e ai miei fratelli ampio appoggio in Senato, una presenza discreta che doveva fare gli interessi della sua gens. Ed ero troppo intelligente anche per non soffrire di questo.
Aspettai con ansia di restare incinta, ma non accadde. Passai giorni prostrata, piangendo al pensiero di essere ripudiata e finire in disgrazia. Tuttavia, Marcello mi sorprese: venne a consolarmi, scostandomi i capelli sfuggiti all'elaborata acconciatura e asciugandomi le lacrime. Non mi disse nulla, rimase semplicemente ad osservarmi in silenzio e mi strinse a sé.
Era un romano pragmatico e senza scrupoli quando si trattava di affari, un ospite eccezionale nei convivi quando intratteneva gli invitati distesi sui triclini e offriva il miglior vino speziato della nostra cantina. Eppure, quell'uomo che avevo sempre considerato duro e implacabile, si era dimostrato capace di essere un marito gentile. Forse, nonostante tutto, provava affetto nei riguardi di quella ragazza che suonava la lira per lui quando tornava dal foro, gli leggeva gli scritti dei filosofi greci e recitava Omero. O, semplicemente, l'alleanza con la mia famiglia gli era troppo utile e comoda per poter essere infranta.
Nei giorni che seguirono non fece più parola di quell'episodio, ma mi spedì assieme alla mia schiava personale a comprare nuove stoffe, gioielli e vasellame, nonché dei preziosi unguenti e trucchi provenienti dall'Egitto. Era chiaro che non voleva divorziare e, quando mi annunciò che avrebbe adottato un talentuoso giovane e lo avrebbe designato come proprio successore, non mi opposi. In cambio, diventai una padrona di casa ancor più diligente e una sposa ancor più premurosa. Lo rispettai sempre, anche quando passava le notti con le sue amanti.
Ci prendevamo cura l'uno dell'altra nel modo discreto e razionale tipico dei romani: senza proclami eclatanti, ma con piccoli gesti pratici e mirati.

Nonostante la mia famiglia vedesse in malo modo il fatto che non riuscissi a concepire e che mi reputassero un fallimento, non osteggiarono il mio matrimonio fin tanto che esso portava un buon tornaconto anche a loro.
I miei fratelli e le mie sorelle, invece, avevano avuto molti figli e io adoravo viziare i miei nipoti e giocare con loro. Mio padre si chiedeva spesso cosa avesse fatto di male perché gli Dei lo avessero punito con una figlia sterile, si tormentava all'idea di un divorzio che avrebbe gettato discredito sulla nostra gens. Così, mi guardava sempre con sospetto, come se fossi colpevole di un efferato delitto. I suoi occhi inquisitori e la smorfia di disapprovazione impressa sulla sua bocca furono il marchio della sua ingombrante presenza, fino alla sua morte.


Sentivo, tuttavia, un vuoto inesplicabile. Non potevo dire di essere davvero soddisfatta, nonostante l'agiatezza in cui vivevo e la rassicurazione dell'affetto di Marcello. Mancava qualcosa che non aveva né nome, né volto.
È strano come possa mancare in modo così potente qualcosa di cui non si conosce nemmeno l'esistenza, vero?
La mia inquietudine non passava con gli anni, anzi si acuiva. Sentivo che il mio corpo si trasformava, lo avvertivo come mai prima d'ora e – per la prima volta – scoprì il conturbante desiderio di comprendere di quali sensazioni fosse capace, di quanta passione potesse farsi carico.
Soffocai quel pensiero, quella scintilla, turbata. Cercai di non pensare a quanto avessi bisogno di provare l'amore autentico di un uomo che mi desiderava e che poteva farmi conoscere l'apice di ogni delizia. Provai a scacciare l'idea di quanto mi sarebbe piaciuto giacere sfinita dopo un selvaggio amplesso, di sentire mani forti avvolgermi i seni e labbra serrate sui capezzoli turgidi. Affogavo la mia sete da sola, quando mi rigiravo nel mio letto in piena notte e facevo vagare le mani sul mio stesso corpo, tremendamente consapevole di ogni più minuto scampolo di pelle e dei brividi che le mie stesse dita mi provocavano.
Marcello non poteva fare nulla per me, da quel punto di vista. Erano passati cinque anni da quando mi ero sposata e a vent'anni desideravo conoscere l'amore e la passione. Tuttavia, il senso di lealtà nei riguardi di mio marito e la gratitudine che provavo per il fatto che non mi avesse scacciata, mi impediva di cercare l'amore autentico e di soddisfare il mio appetito per la vita. Ero giovane, ma detestavo l'idea di tradire l'uomo con cui dividevo il tetto e che mi consentiva di vivere come una vera matrona.
Il mio dissidio non durò molto. Marcello morì nell'autunno del sesto anno di sposalizio e mi lasciò a vivere la mia vita come una donna libera. Non c'era più nessuno che potesse impedirmi di condurre l'esistenza nel modo in cui desideravo. Il mio figliastro, inoltre, non mi procurò alcuna preoccupazione, troppo occupato ad amministrare la sua eredità: trovammo un ottimo accordo e io rimasi nella domus di famiglia, vivendo di rendita.

 

Iniziai a frequentare gli ambienti mondani, stando attenta a che la mia reputazione non ne venisse macchiata. A quel tempo, infatti, le donne troppo colte e troppo libere erano malviste e condannate aspramente, figurarsi le vedove che si concedevano il lusso di comportarsi in maniera sfacciatamente libera: l'epiteto più lusinghiero che potessero sperare di ricevere era sgualdrina.
Tuttavia non mi importava davvero cosa dicessero di me: desideravo soltanto vivere e riguadagnare il tempo perduto.
Fu così che incontrai Clodia Pulcra, la moglie del proconsole Quinto Cecilio Metello Celere: Lesbia, la musa di Catullo.
Come posso descriverla? Era bella, Clodia, di quella bellezza spregiudicata e pericolosa, affatto convenzionale. Una di quelle donne che si desiderano non per la luce che emana – e in lei non ve n'era alcuna – ma per l'indiscutibile fascino della corruzione e della perdizione a cui s'accompagnano. Era di una beltà pericolosa e ricca di fascino perché, sotto sotto, qualsiasi uomo sapeva che gli avrebbe procurato solo guai e pene; una di quelle donne che ambivano a possedere poiché al tempo stesso repellono e attraggono, in un singolare gioco di contrasti, per provare a se stessi e soprattutto agli altri che potevano domare quella Furia famelica che poteva succhiargli tutto il midollo.
Non era questione solo di aspetto esteriore, capisci? Clodia possedeva il passo elegante e famelico di una pantera: qualsiasi cosa toccava, diveniva sua; qualunque uomo volesse sedurre, cadeva ai suoi piedi; qualsiasi ricchezza ambiva, la conquistava. Possedeva una sconvolgente passione, una di quelle passioni fosche che consumano da dentro come un fuoco. Clodia era pericolosa quanto la rosa dal gambo colmo di spine: chiunque tentava di afferrarla, si ritrova ferito per la sua impudenza, eppure non poteva smetterla di ammirarla e ambire ad annusarne il profumo.
A poco a poco, guardandola muoversi con disinvoltura tra un triclinio e l'altro, sorridendo civettuola all'amante di turno e vestita con opulenza, desiderai imitarla, essere come lei.
«Mia cara», mi disse un giorno in cui eravamo al foro a curiosare tra le stoffe pregiate appena arrivate al mercato, «devi essere desiderabile: chiama l'acconciatrice e lascia che ti arricci i capelli; tieni la fronte scoperta, così da mostrare che non v'è solo una ruga sulla tua bella fronte. E truccati, hai degli occhi meravigliosi: dovresti valorizzarli come meritano. Gli uomini sono creature semplici, in fondo.»
E io bevevo le sue parole come se fosse l'ambrosia degli Dei.
Si sparlava molto di lei, le malelingue affermavano che il rapporto con suo fratello non fosse lecito e che vivessero una relazione incestuosa. Quale che fosse la verità, a me non interessava. Ero travolta dalla sua abbagliante e forte personalità: era una donna che capiva il potere come un uomo e ambiva ad esercitarlo senza un uomo interposto tra sé ed esso, dunque doppiamente pericolosa.
Si era alleata con il fratello e, insieme, erano capaci di trasformare tutto ciò a cui s'accostavano: Publio infiammava la folla con le sue orazioni, tanto che s'era fatto adottare da un plebeo per farsi eleggere Tribuno della Plebe, mentre Clodia seduceva gli uomini che potevano essere utili ai suoi scopi e a quelli del fratello, attraversando i saloni come un grazioso uccellino.
Non possiamo stupirci se Catullo se ne innamorò e ne fece il simulacro del suo desidero, innalzandola alla gloria immortale della sua poesia.
Il loro amore fu un incendio indomabile, fatto di slanci spropositati e di silenzi distruttivi. Io lo vivevo di riflesso e ne avevo paura, temevo quell'eccesso in cui si sprofondavano e che mi strappava un brivido di incertezza e infida invidia.
Si consumarono, quei due. L'amore di quell'artista senza requie, e che Cicerone disprezzava chiamandolo con un sorriso beffardo “poeta nuovo”, era cieco e assoluto, colmo di un furore che non avevo mai veduto prima d'ora in nessun uomo. Provai il desiderio di assaporare una simile venerazione, di essere anch'io la dea di un innamorato tanto intenso.
Ma Catullo, per Clodia, era solo un amante come altri e presto se ne stancò. E vennero allora le notti in cui, ubriaco, Catullo bussava come un forsennato alla porta della domus di Clodia e le lanciava le peggiori invettive, implorandola e piangendo contemporaneamente.
Litigavano e poi non potevano fare a meno l'una dell'altra, abbandonandosi ad amplessi travolgenti e alla più cupa dissolutezza. Una relazione tormentata, una sofferenza che Catullo si propinava ostinatamente come un veleno, strappandosi le carni perché la donna di cui si era innamorato per la sua innata libertà non apprezzava le catene che lui voleva legarle ai polsi.
Non ho mai dimenticato una considerazione lucidissima e spietata che la mia scaltra amica mi dedicò una sera, mentre cenavamo sotto ad un pergolato.

«Devi imparare l'arte di ottenere tutto ciò che vuoi dagli uomini, se vuoi sopravvivere in questa foresta selvaggia che è la vita. Devi impararlo non comportandoti come una bambina capricciosa e insicura, ma al contrario lasciandoli credere che siano loro a decidere.»
Mi sorrise, acciuffando un chicco d'uva tra le dita ingioiellate, quando notò il cipiglio pensieroso che si era affacciato sul mio viso.
«Non capisco. Come è possibile riuscirci?»
«Oh, non essere sciocca! Tutto ciò che devi fare è offrire loro la scelta: la scelta fa pensare di detenere la capacità di decidere; in realtà tu non fai altro che far scegliere tra ciò che vuoi. Per esempio desideri passare l'estate fuori Roma? Tutto quello che devi fare è dirgli: “Tesoro, preferisci andare nella baia di Napoli oppure nella campagna dell'Etruriav?”» e mi guardò eloquentemente, sollevando le sottili sopracciglia e sgranando gli occhi espressivi colmi di malizia, «Dunque, lui sceglierà e si sentirà potente per questo; in realtà altro non avrai fatto che ottenere ciò che desideravi comunque. Ora immagina questo applicato a qualsiasi cosa tu possa desiderare e comprenderai quanto grande è il potere che possiamo amministrare, come donne.»
Quel discorso mi rimase dentro, premendo per uscire e ricacciato indietro strenuamente. Temevo e anelavo scoprire quanto brava potessi essere nell'amministrare la potenza del sesso femminile, come quello che era stato delle Dee e della antiche sacerdotesse in tempi remoti.
Il seme in me, comunque, era stato piantato e non avrebbe tardato poi troppo nel dare frutto.
 

Arrivarono ben presto i Vestaliavi.
Mi recavo sempre al tempio di Vesta dove, a piedi scalzi, portavo le offerte alle sacerdotesse e assistevo al rituale dello spegnimento del vecchio fuoco che lasciava il posto a quello nuovo, custodito fino alla festività successiva. Nel tempio non c'era alcuna statua, perché Vesta non poteva essere raffigurata: nessuna effige per la Dea che trovava nella forza e nel calore del fuoco la sua più pura espressione.
La nuova fiamma ardeva senza posa nel cuore del tempio, mentre le Vestali cantavano in cerchio. La superiora dell'ordine reggeva la torcia con cui avrebbe acceso i focolai di tutte le case, rischiarando la notte del segreto della Dea a cui nessun uomo poteva accostarsi.
Io seguivo la processione con un velo bianco calato sui capelli acconciati in modo semplice: una scriminatura centrale e sciolti, ondulati, senza fermagli.
La luce intesa della fiaccola dilagava per le strade: un lungo nastro aranciato che si srotolava a precedere le nostre ombre e le fanciulle consacrate adorne di fiori.
Mi sentivo serena come non lo ero stata da molto e dimentica di tutti i giochi di potere dei patrizi, più simili che mai ad un veleno bevuto a piccole e regolari dosi.
Leggera, camminavo reggendo gigli candidi tra le braccia, mentre il vento faceva frusciare le mie vesti ampie e ariose. Poi, mentre stavo svoltando un angolo, il mio sguardo venne rapito da un'ombra che sgusciava in uno stretto vicolo, saltando sopra il muretto che delimitava un vecchio edificio e scalando il tetto di tegole rosse.
Mi sentivo osservata e rimasi indietro, distaccata rispetto al gruppo che continuava a sfilare in processione. Mi guardai in giro più e più volte, colta da un brivido sottile a metà tra l'allarme e la curiosità. Alla fine, dopo un tempo che mi sembrò infinito, conclusi che non c'era anima viva e mi affrettai a raggiungere le altre donne.
Di colpo, prima che potessi urlare, una mano mi ghermì nel buio e si premette sulla mia bocca. Un cane latrò in lontananza; i canti delle Vestali erano una dolce nenia lontana e i miei gigli caddero per terra, nella polvere, quando annaspai per sfuggire alla cattura. Mi dimenai, scalciai, ma qualcuno mi teneva troppo saldamente e, alla fine, tutto divenne nero, i suoni divennero solo un ronzio distante. Persi i sensi.

 

Quando mi svegliai, ero nuda.
Non riuscivo a capire dove mi trovassi, sapevo solo che – fuori da quella stanza immersa in una densa penombra – non si udiva alcun suono, quasi fossi nell'anticamera dell'Ade, pronta per essere traghettata lungo lo Stige. Eppure, nonostante tutto, il mio giaciglio era un soffice materasso di fiori e la dolce fragranza delle rose bianche mi saturava i sensi: potevo strusciare il polpaccio contro quel letto di petali, allungare le braccia e immergere le dita in quella selva odorosa.
In verità, mi accorsi di essere libera di scendere dal letto e persino di fuggire; eppure non lo feci. La sensazione di panico e di claustrofobia che mi aveva attanagliata nei primi istanti dopo il risveglio, a poco a poco svanì e mi accorsi che i miei occhi si stavano lentamente abituando al buio.
In quel luogo, ad essere sincera, mi sentivo libera. In quel silenzio riuscivo a sentire la voce dei miei pensieri come mai avevo potuto prima di allora nella rumorosa Roma.

Mentre mi ero già abituata alla mia solitudine e alla mia strana prigionia, sentii distintamente lo sfrigolare di stoppini e l'odore acre del fumo: si accesero diverse candele che sbozzarono il profilo severo di pesanti mobili di legno e di un teschio animale poggiato distrattamente in un angolo, a mo' di arredo.
Il mio cuore prese a battere all'impazzata e temetti che potesse davvero balzarmi dal petto: mi sentivo di nuovo osservata, ma non riuscivo a vedere il volto del mio rapitore. Più frugavo gli angoli bui della stanza, più la mia vista si confondeva e mi sembrava di sprofondare in un'illusione.
«Non sarai ma più nuda di così, ai miei occhi.»
Quella voce... quella voce non la dimenticherò mai, nemmeno quando saranno trascorsi altri due millenni. Aveva qualcosa di ultraterreno, di poetico e di struggente, di così dolce e al contempo triste che pareva contenere ogni sentimento umano.
«Vuoi essere libera? Davvero libera?»
Non seppi cosa rispondere. Mi sentivo nuda, di una nudità che trascendeva l'assenza di vesti: ero spogliata in un modo più intimo e viscerale, privata del velo che occultava la mia anima a quegli occhi che mi spiavano incessantemente. Mi sta frugando dentro senza riguardo, persino con un fosco divertimento. Stava giocando con la mia mente, i miei sensi e il mio istinto di sopravvivenza, quell'istinto caparbio che cerca, in ogni modo e luogo, di tenerci a galla.
Non riuscivo a parlare: avevo la gola così secca che mi sembrò impossibile anche respirare. Ero inerme, completamente vinta da quello sguardo che non riuscivo ad individuare, ma che mi teneva inchiodata contro il letto. E, all'improvviso, quel giaciglio mi sembrò il letto di una morta, i fiori l'ultimo omaggio per una defunta prima di consegnarla alla terra.
«Non puoi nascondermi i tuoi pensieri più reconditi: riesco a leggere il fiume delle tue emozioni come se fossero i disegni di un bambino. Dunque, io ti offro la libertà che cerchi: la libertà di essere te stessa, senza artifici, senza repressioni, senza convenzioni. Null'altro che la scelta tra l'essere una preda o un predatore».
«Perché proprio io?», chiesi con una voce che non riconobbi come mia, a metà tra l'atterrito e lo speranzoso.
«Perché, in potenza, sei una predatrice. E sei sola: non hai più nulla da perdere», fu la risposta cinica e pratica che mi giunse, assieme al refolo di una risata sommessa e cupa.
Lentamente, come se l'oscurità si contraesse e si espandesse di nuovo, si materializzò una figura ai piedi del letto. Non capivo se si fosse avvicinata camminando o fosse stata vomitata dal buio. Non ne vidi il volto: chiunque fosse, si divertiva a restare occultato grazie a chissà quale abilità soprannaturale. Quando si avvicinò, le fiammelle delle candele tremarono e si spensero, il fumo si sollevò il larghe, pigre spirali fino a formare un sipario ondeggiante attraverso cui sbucò la sua mano rapace. Mi stava offrendo il palmo.
Lo afferrai senza pensarci su, spinta dall'onda di tutti i desideri che avevo sempre rinchiuso in un angolo del cuore nel tentativo di zittirli: quelle aspirazioni mi spingevano a compiere una pazzia, a fare una scelta scellerata di cui non capivo alcuna implicazione e non intuivo la conclusione.
Fu allora che mi prese. Mi strinse la mano nella sua, fredda e forte, mentre con l'altra risalì la china del mio corpo, sfiorandomi in punta di dita i piedi, le gambe, il ventre e i seni, fino al collo. Rabbrividivo di sconcerto e di piacere ogni volta che mi sfiorava e mi graffiava con le unghie affilate come rasoi. Fu una girandola di sensazioni indescrivibili, di cui ho ancora un ricordo confuso: dove le sue unghie abradevano e incidevano, arrivavano le sue labbra e la sua lingua a portare refrigerio e delizia. Quelle sensazioni sconosciute, veicolate dal sangue che imperlava la mia pelle ad ogni taglio, furono le più intense che abbia mai provato da viva. Quell'uomo senza volto e senza identità solcava il mio corpo come nessun mortale aveva mai potuto, strappandomi un godimento che avevo agognato troppo a lungo da sola.
Abbracciai il suo capo quando si chinò tra le mie gambe e morse il punto delicato in cui la femorale affiorava gonfia e pulsante. Il dolore che si irradiò da quella ferita mi strappò un urlo e il desiderio di fuggire, ma durò che per un battito di ciglia: il sangue fluiva tra me e lui come il macabro filo delle Parche e il piacere che si irradiava in ogni nervo del mio corpo fu paralizzante e scandaloso. Lo lasciai fare, senza domandarmi che razza di creatura fosse: semplicemente avevo smesso di pensare e pormi domande.
Quando fui troppo debole per donargli altro sangue e persino il rossore delle mie guance era scomparso, l'ansito che mi sfuggì dalle labbra fu il segnale che lo indusse a cauterizzare l'emorragia.
Il mio Caronte mi guardò con occhi rossi e vivaci, colmi di un desiderio febbrile.
Io, invece, mi sentivo solo terribilmente debole e il languore con cui mi abbandonavo ammiccava al sonno della morte.
«Adesso inizia il tuo viaggio», mi sussurrò dolcemente e con l'unghia del pollice si procurò un taglio profondo sulla gola.
Un sangue scuro, quasi nero, e denso si raggrumò su quella ferita e io lo fissai a lungo, assettata, con le labbra secche.
Il Vampiro mi sollevò e mi premette contro di sé, il capo contro il suo collo, la bocca contro quella ferita grondante. E bevvi, bevvi con una lentezza estenuante, sporcandomi la bocca e il mento di quel liquido ferruginoso e sublime. Ad ogni sorso, tremavo. Lui mi teneva ostinatamente contro quella fonte e io, gli occhi spalancati e folli, mi aggrappavo a lui con una forza che non sospettavo di possedere, con una voracità tutta nuova.
E mi morse ancora, aprendo una nuova via d'uscita per il mio sangue. Chiuse il cerchio: bevevamo la nostra linfa come fosse stata la coppa nuziale e fummo uniti per sempre come sposi, in un rito che solo dopo compresi fosse il Dono Oscuro, il Battesimo del Sangue.
Non so quanto quell'antico rituale fosse durato: forse pochi momenti, forse ore. So solo che fui troppo esausta del torrente di immagini che il Vampiro mi introdusse con violenza nella mente, ma ancora troppo assetata del suo prelibato nettare oscuro. Si staccò da me e mi lasciò sul mio letto funebre, facendosi scorrere i miei capelli tra le dita.
«Adesso morirai, ma sarà solo la tua parte umana che se ne andrà. Dovrai affrontarlo da sola e solo così, se sopravviverai alla rinascita, avrai la vera forza per camminare nella notte.»
«Naevius!» lo chiamai per la prima volta con il suo nome, quel nome che mi aveva donato nel flusso dei suoi ricordi affastellati nella mia testa e che minacciavano di farla scoppiare.
Non mi rispose, ma sollevò il coperchio di marmo e mi chiuse dentro quel letto che altro non era che un sarcofago.
Mi lasciò sola, ingurgitato dal buio, ad affrontare la morte umana, mentre urlavo di dolore e graffiavo il coperchio con le ultime forze. Il mio cuore non aveva mai battuto l'ultimo colpo, ma il dolore che provai durante la trasformazione era quello di una madre che mette al mondo una creatura: dal mio ventre sterile, partorì me stessa.

 

Non ho intenzione di tediarti con il resoconto dettagliato dei secoli trascorsi fino alle soglie di quest'epoca in cui viviamo, Alexandra. Sarebbe un racconto davvero troppo lungo per il tempo attualmente a nostra disposizione e, in fin dei conti, non hai bisogno di conoscere molto altro di me, per ora.
Basti sapere che, dopo la mia rinascita nel Sangue, lottai con tutta me stessa, con la mia nuova e terribile forza e l'impeto della Sete per potermi liberare di quella tomba. Spezzai il coperchio dopo essermi consumata le unghie e la pelle a forza di graffiarlo e sorsi come una Bevitrice di Sangue, vincendo l'oblio della morte per sempre.
Naevius, intanto, era sparito.
Tornai a casa scarmigliata come una bestia selvatica dopo la prima notte di caccia in cui, come una Furia, uccisi almeno due sfortunati che incontrai per i sobborghi. Mi rinchiusi in casa, terrorizzata dall'arrivo dell'alba e dall'idea che qualcuno dei servi, in pieno giorno, potesse aprire le finestre della mia stanza: mi barricai all'interno del mio appartamento, vinta solo dal sonno che ci cattura quando arriva il giorno.
Non mi presentai in società per un mese abbondante e rifiutai qualsiasi visita, persino quelle di Clodia. Naevius non si fece vivo per tutto il tempo, malgrado riuscissi a sentire la sua presenza furtiva quando uscivo a cercarlo: doveva divertirsi, nel vedermi così sbandata. Ero terrorizzata da me stessa e, allo stesso tempo, mi sentivo forte e libera come mai: nessuno avrebbe mai più potuto decidere per me; non ero più figlia, moglie e matrona romana, ma una predatrice che aveva potere di vita e morte su coloro che incrociava, su qualsiasi uomo avessi voglia di prendere.
Dopo un mese, infine, Naevius si presentò direttamente alla mia domus con un sorriso bonario disegnato sulle labbra sottili. Fu la prima volta in cui riuscì davvero a vederlo in volto: aveva la carnagione olivastra, le palpebre pesanti e una mascella decisa; gli occhi scuri erano accesi da un brillio ferino e autoritario. Tutto, in lui, somigliava al tipico uomo romano d'arme, persino la toga che indossava con disinvoltura e il taglio militare dei capelli.
Mi disse che, siccome ero riuscita a sopravvivere a differenza di molti altri che aveva tentato di trasformare, valeva la pena addestrarmi secondo le antiche tradizione dei Bevitori di Sangue.
Infine, quando fui certa di poter contare su un minimo di autocontrollo, tornai a frequentare i salotti patrizi e feci miei tutti gli insegnamenti di Clodia: abbracciai il suo stile di vita senza alcuna riserva e divenni spregiudicata quanto e forse più di lei. Ma io avevo, dalla mia, la malizia e il fascino del Sangue dei Vampiri, le doti medianiche per circuire chiunque desiderassi e l'assoluta mancanza di scrupoli che soltanto noi possiamo avere, in quanto non siamo limitati da alcuna emozione umana, piuttosto le sublimiamo in qualcosa di più profondo e viscerale.
Fui la donna che avevo sempre desideravo di essere e che Naevius aveva dotato della libertà necessaria e di armi tremende.

 

I miei lunghi anni sono stati fonte di insegnamento, come anche di tormento e di profondo appagamento.
Ho visitato un'infinità di provincie romane, fermandomi nelle città più belle, dalla Spagna alla Bretagna, passando per l'Egitto e le isole del mar Egeo, fino a Bisanzio ed Antiochia.
Quando Roma decadeva, io fiorivo e vedevo la rovina del mondo che tutti pensavano sarebbe rimasto sempre uguale. Naevius non resistette al triste destino che aveva travolto la nostra amata città e una notte, dopo avermi consegnato i suoi ultimi insegnamenti e le sue ricchezze, attese l'alba passeggiando per l'antico foro, consumandosi come una torcia nel trionfo del sole che si levava indifferente. In un certo senso, comprendevo il motivo del suo gesto: anche io pensavo che, dopo la caduta di Roma, nulla avesse più senso e che il mondo fosse destinato a soccombere nell'ignoranza e nelle guerre. Così, in quei giorni in cui mi ritirai in un lungo torpore e sognai i fasti di un'epoca che non sarebbe più tornata.
Eppure mi svegliai. Quando l'ondata dei Goti e dei Visigoti si placò e, al posto delle magnifiche domus in marmo bianco, sorsero castelli. L'Urbe non era più il centro del mondo e le sue genti, dal sangue mischiato a quello dei barbari che l'avevano incendiata, non avevano memoria dell'epoca gloriosa della Repubblica.
Ho attraversato il Medioevo e la sua cupezza solo per vedere la dolcezza dei colori e delle forme di Giotto, per ascoltare l'eco delle gesta di Artù e dei suoi cavalieri dalla Bretagna e l'ascesa dell'impero carolingio. E ho dormito, viaggiando continuamente, in mausolei e sarcofagi nelle catacombe cristiane o tra le rovine degli antichi templi pagani, persino nei modesti cimiteri dimenticati nelle periferie dei paesini sperduti.
Decisi di riaffacciarmi completamente al mondo quando in Italia nacquero i Comuni e le Repubbliche Marinare. Ho sempre vissuto come una dama raffinata, poiché altra esistenza non ho conosciuto e non saprei concepire. Dunque ho amato lo sfarzo della Venezia dei Dogi e l'intrigo alla corte dei Papi a Roma, nonché i bei marmi di Ravenna.
Negli anni ho comprato ricche magioni dove ho dato le feste più interessanti, come facevo con Clodia negli anni della nostra perduta giovinezza. Vi radunavo mortali e Vampiri che avevo conosciuto nei miei viaggi, donne fameliche e uomini senza scrupoli con il dono innato al vizio e alla depravazione, ma anche dotati di una vasta cultura e di solido potere. Mi sono sempre assicurata di questo abbinamento, nei miei conoscenti: potere e intelligenza, poiché è ciò che rende una creatura affascinante e degna di essere piegata da quelli come noi.
A quei consessi, io svelavo il segreto della mia eterna giovinezza, certa che preservassero il segreto: troppo affari in ballo, troppo da perdere per poter fare rivelazioni tanto scottanti ad estranei.
Dal piccolo nucleo di fidi che erano all'inizio, divennero un nutrito consesso di letterati e artisti, avidi uomini d'affari e cupidi amanti di cui facevo da mecenate.
Ho cercato, semplicemente, di far rivivere i salotti patrizi in ricche magioni ornate dalle stoffe e dalle statue dell'epoca antica: la Roma mia e di Clodia riviveva in quegli incontri.
Fu così che conobbi Alphonse: ad una semplice, banale festa.
Era il 1400, il secolo dell'Umanesimo, e Alphonse era la quintessenza di quell'epoca: l'uomo al centro del mondo, artefice del proprio destino. Era spregiudicato e libero, senza freni e quasi senza morale... se non una tutta sua, declinata per assecondare i suoi vizi e i suoi desideri. Era colto, affascinante e divertente, loquace e intelligente, ironico e tagliente: un ragazzo magnetico, un po' troppo collerico in certi frangenti e troppo disilluso per i suoi giovani anni, ma colmo di una passione che cercava solo di essere alimentata e incanalata per poter esplodere in meraviglie.
Mi invaghii di lui e lo legai a me, attraverso il Sangue, ma non ne feci mai uno schiavo della mia volontà, non gli imposi mai un comando: lasciai che vivesse il Legame nella sua pienezza, assaporandone il dolce giogo e anelando l'ora dei nostri incontri segreti.
Fu una passione travolgente, fu la passione per cui avevo ammirato la relazione di Clodia e del suo poeta: Alphonse è stato il mio Catullo. Non c'è altro modo per descrivere con pochi, efficaci pennellate il senso della nostra storia. Tra tutti gli uomini che ho conquistato e legato a me, lui è stato l'eletto, il mio orgoglio e il mio diletto figlio. Come lui ha trovato te, io trovai lui.
Tutto ciò che devi sapere del giorno in cui ha ricevuto il Dono Oscuro te lo ha raccontato lui stesso, eppure mi permetto di aggiungere qualche particolare. Scelsi il giorno del suo genetliaco in modo tale che coincidesse con la sua seconda rinascita volutamente, anche se non gli confidai la mia intenzione. Diede la sua festa sotto mio consiglio, in modo che godesse – per l'ultima volta – di tutto ciò che l'umanità potesse offrirgli. Lo avevo addestrato a lungo per quel momento, temprato nella mente e nel corpo in modo che potesse affrontare la transizione anche se non ne era cosciente. Gli avevo sussurrato, nel sommesso e segreto linguaggio del Sangue Oscuro, tutti i segreti che il suo cuore potesse concepire.
Così, rinacque, figlio del mio desiderio e della mia volontà.


Adesso, però, sento che l'alba è vicina. Smettiamo di parlare del passato, bambina mia.
Vieni qui, vicino a me. Sì, così, stringiti a me e sarai al sicuro: quando ci sveglieremo, saremo solo a metà del nostro viaggio.










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Note:

 

iDomus - per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Domus

iiImpluvium – per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Impluvium

iiiGens- per approndimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Gens

vEtruria – per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Etruria

viVestalia – per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Vestalia

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Capitolo 3
*** Sulle coste del Mediterraneo ***


CAPITOLO 2 – SULLE COSTE DEL MEDITERRANEO

 

 

 

Non appena Fabien schiuse lo sportello della carrozza, vide le due donne abbracciate teneramente: gli sembrò di contemplare una madre stretta alla propria figlia, non fossero state così diverse tra loro per aspetto e portamento.
Il tramonto era giunto poco prima e Violate era già sveglia, ma cullava Alexandra ancora preda del sonno diurno da cui stava lentamente riprendendo: assomigliava più che mai ad una bambina in quei frangenti, così fragile e delicata, dalle fattezze angeliche, con la boccuccia rossa socchiusa.
«Siamo arrivate?», chiese immediatamente Alexandra, battendo le palpebre un paio di volte e rimettendosi dritta.
Dopo giorni di viaggio, interrotto solo per brevi soste durante le quali le due Vampire andavano a caccia per le campagne d'Italia, avevano finalmente raggiunto il Regno di Napoli, dove governava Ferdinando IV di Borbone, benché i difficili rapporti con la Francia e Bonaparte non garantissero la solidità del suo trono.
Napoli, comunque, era una splendida dama la cui vista rinfrancava l'uomo più rude: la baia abbracciava il mare e le isole di Ischia, Capri e Procida; il Vesuvio era un gigante silenzioso e raramente brontolava: vegliava come un antico titano sulla terra che era nata dalla sirena Partenope all'epoca dei miti.
Le dolci brezze, mitigate dal mare, non erano gelide nonostante l'inverno inoltrato e si poteva godere della vista degli splendidi palazzi stuccati e colorati e della larghe vie, eredità dell'architettura greca con gli immensi decumani che spaccavano la città in punti strategici, aprendosi poi in un dedalo di viuzze dove si sentiva parlare il dialetto, lo spagnolo, il francese e il russo con una disinvoltura assoluta.
Alle spalle del Palazzo Reale con la sua facciata rossa e le finestre scure, il molo di San Vincenzo e quello di Beverello si gettavano sul mare, simili a lingue di terra che – solitarie – l'acqua aveva deciso di risparmiare.
Era lì che la carrozza si era fermata, mentre i pescatori avevano appena iniziato il loro lavoro, raggruppando le redini e scartando quelle strappate, e le pigre barchette blu beccheggiavano, assieme alle lanterne scosse dal vento che spirava dal largo: anche d'inverno dovevano pescare e la notte si preannunciava difficile.
«Siamo a Napoli, al porto. Dobbiamo raggiungere il nostro nuovo mezzo di trasporto», spiegò Violate.
Fabien scaricò il bagaglio assieme ad un paio di assonnati garzoni con la faccia da scugnizzo, a cui il cocchiere allungò qualche moneta solo dopo che ebbero portato tutto davanti alla passerella di una nave. Alexandra fissò i colli dei due ragazzi con un che di bramoso, soffermandosi in particolare sul colletto della camiciola sgualcita di qualità scadente che sfregava contro la pelle, arrossandola.
«Saliamo», la spronò Violate, sospingendola con un tocco deciso lungo la passerella dell'imbarcazione, salutando il servo: «Fabien, sei congedato per adesso. Ti manderò una lettera quando saremo di ritorno».
Il cocchiere si inchinò e, dopo essersi assicurato che i bauli delle due Vampire fossero stati portati nella cabina più adatta ad ospitarle, si allontanò a passo lento.
Le due donne, invece, salirono a bordo e i marinai lanciarono loro un'occhiata sgarbata e sospettosa. Avevano facce abbronzate e scavate dalle rughe della fatica, dal sole e dal sale, nonché da vecchie cicatrici, tuttavia non rivolsero loro alcuna parola. Solo uno dei più vecchi sgomitò il compagno che stava aiutando a sistemare le cime, mormorandogli: «Le donne a bordo portano sempre sfortuna, speriamo che non si facciano vedere per tutto il viaggio».
L'altro, con una grossa cicatrice sul dorso della mano destra, gli grugnì: «Ignorale e non lagnarti: ci pagano bene e conta solo questo».
Violate li fissò per pochi istanti: alla luce del timido spicchio di luna che si ergeva in cielo, la sua pelle candida sembrava d'alabastro e i suoi occhi iridescenti come quelli di un felino, inquietanti. La fugace vista di un sorriso enigmatico e sordido e di quello sguardo dissuase i due rudi mariani dall'accennare altri commenti, restandosene smarriti con il capo chino.
Alexandra era impressionata e, quando furono abbastanza lontane dai due uomini, chiese: «Come hai fatto?»
«Esperienza: la nostra mente può creare fugaci visioni, donare piccoli impulsi a quelle più deboli e suggestionabili. Non sanno chi e cosa siamo e dovremo fare attenzione. Il nostro ospite ci attende di già», replicò Violate, raggiungendo la cabina a poppa.
Un giovinetto che non doveva avere più di quindici anni, con le guance ancora imberbi, attendeva nervosamente e sobbalzò appena le due Vampire lo raggiunsero. Aveva grandi occhi scuri che sgranò, sollevando il mento nell'osservare confusamente Violate per prima e subito dopo Alexandra.
«Il mio signore vi attende, benvenute», balbettò timidamente e aprì la porta, accompagnandole nell'ampia saletta dove troneggiava un tavolino, un letto su di un lato e un sofà da quello opposto, oltre che qualche mobile ingombro di mappe, bussole e cannocchiali.
L'ambiente era lussuoso, di un gusto fortemente russo miscelato a uno più tipicamente veneziano.
Il padrone della nave era seduto al suo scrittoio, su una sedia laccata d'oro e dall'imbottitura di velluto rosso. Si alzò ad accogliere le due donne, allargando le braccia in un ideale abbraccio, vestito con sfarzosi calzoni attillati e stivali lucidi, una camicia con polsini ampi fermati da gemelli, un gilet e un giacca.
«Ben arrivate, mie adorate. Accomodatevi, leveremo subito l'ancora», le avvertì con voce bassa e baritonale, dal forte accento russo. Fece un cenno al ragazzo, risoluto: «Emile, di' al capitano che siamo proti a salpare».
«Larion, notizie da parte di Sanakht e Demetrius?», Violate non perse tempo e si sfilò il mantello, accostandosi all'altro Vampiro solo per posargli un civettuolo bacio all'angolo delle labbra.
Alexandra si tolse il soprabito, lasciandosi cadere sul sofà, evidentemente confusa. «Voi siete Larion?», mormorò sorpresa con un fil di voce.
«Sì, mi è arrivata una lettera ieri e vorrei mostrarvela. Prima, però, voglio conoscere la figlia di Alphonse...», Larion lasciò la frase in sospeso per Violate, colma di sottintesi, mentre si accostava ad Alexandra, inginocchiandosi accanto a lei.
Le offrì la mano e lei, dopo un istante di titubanza, pose la propria in quella di lui.
«Sei come ti descriveva Alphonse e, forse, non destinata all'eterna notte dei Bevitori di Sangue, con questo viso e questi capelli d'oro, mia cara», la blandì, sfiorandole la pelle in un galante baciamano e fissandola di sottecchi, con una malizia palpabile.
Le rigirò dolcemente il polso e vi affondò i denti aguzzi senza darle il tempo di accorgersene e reagire, lacerando la pelle candida e il reticolo spento di vene bluastre.
Alexandra emise un gemito di sorpresa, inclinandosi verso Larion con gli occhi sgranati pennellati di languida ferocia e le labbra tremanti. Intrufolò la mano sottile tra i capelli biondi di Larion, un biondo così algido da sembrare bianco, e glieli strinse con forza, logorata dal desiderio di trattenerlo e allontanarlo allo stesso tempo.
Larion accolse la prima stilla di quel Sangue giovane con un singulto liquido e trasse Alexandra a sé con la mano libera, facendola scivolare contro il proprio corpo.
La smania della Vampira si tramutò nell'urgente morsa delle sue dita contro la schiena del russo e nel morso al suo collo, a scavare oltre la scorza della pelle compatta e dura, così diversa dalla sua, così levigata dal tempo.
I cancelli della realtà si dilatarono; i suoni, i colori e le forme, tutto venne diluito nelle torbide spirali del sangue. I due Vampiri, avvinti in un abbraccio che non aveva nulla di umano, percorsero insieme i sentieri dei ricordi e delle visioni reciproche, offrendo ciascuno la propria mente all'altro.
Con lentezza estenuante, in un punto indefinito della mente di Larion, fiorirono le immagini evocate dal sangue di Alexandra, una corolla di ricordi che si schiudeva docile alla sua conoscenza.
Vide la neve e il castello dei Benavia arroccato sulla collina, a dominare il borgo in cui erano ormai sorti palazzi signorili e luminosi di fine Settecento, con i loro stucchi e dorature. La risata argentina di Alexandra tintinnava tra i candidi fiocchi come una miriade di campanelle d'argento, mentre attraversava la campagna innevata e si affacciava alle finestre chiuse su stanze in cui dormivano, sereni, i figli dei fattori. La vedeva, padrona della notte, aprire con ingegnosa facilità le imposte e intrufolarsi nelle camere con passo leggero, accostarsi ai letti dove ragazzi che avevano poco più della sua età stavano raggomitolati nelle coperte. Provò un insano piacere nello spiare la furtività della ragazza nel chinarsi a sfiorare le fronti calde con le dita gelate, nel posare un bacio sulle guance imberbi e provocare nelle sue prede il fremito virile e inconsapevole tipico dell'adolescenza.
“Ragazzini, sceglie dei ragazzini”, pensò Larion con un gemito di eccitazione, senza smettere di far propri quegli stralci di esistenza
L'Alexandra che stava osservando era china sul letto della propria vittima che, tra il sonno e la veglia, la osservava battendo le palpebre, la bocca impastata, mormorando: “Tu sei un angelo?”.
E poi la Vampira lo cullava contro il proprio seno, bevendo di quell'anima ingenua a cui occhi non poteva essere altro che un angelo di Dio, con quei capelli biondi e ondulati dalla scriminatura centrale, la pelle bianca come la neve che fioccava fuori dalla finestra e la seducente morbidezza delle labbra voraci.
Infine, la stanza piombò nel buio e la finestra dei ricordi si chiuse di botto: Larion si ritrovò catapultato indietro, oltre il paesaggio innevato, mentre le campanelle d'argento suonavano assieme al vento di dicembre...
Alexandra lo strinse tremando come se fosse stata percorsa e beveva tutto il sangue antico che Larion le stava offrendo, trattenendolo e graffiandolo con le unghie conficcate contro la sua nuca e la sua schiena.
Senza alcun controllo sui ricordi che l'Antico aveva ghermito, rimase intontita dinanzi alla visione che, invece, le venne regalata: Alphonse. E ancora: Larion e Alphonse attraversavano San Pietroburgo come due signori immortali, ebbri e potenti. Il Palazzo d'Inverno sorrideva al proprio riflesso sul fiume Neva, mentre le rapide figure alte e maestose dei Vampiri sfilavano tra la gente a velocità inaudita, come se i fiocchi di neve e gli umani si muovessero al rallentatore e il tempo si fosse congelato.
La ragazza riaprì di scatto gli occhi, imbambolata, appena Larion la trasse indietro e la riaccomodò sul sofà, elidendo con la curva del pollice il rivolo di sangue che le macchiava il mento e le labbra, e disegnandone languidamente il profilo.
«Considero Alphonse un amico prezioso: volevo mostrartelo», ammise in tono basso, prima di alzare gli occhi su Violate, rimasta ad osservare la scena con un che di malinconico.
Larion si rimise in piedi e raggiunse lo scrittoio. Da un cofanetto di legno laccato, trasse una busta che consegnò all'Antica: «La lettera di Sanakht di cui ti avevo parlato poco fa».
Violate osservò con occhio clinico la busta ancora intatta, la ceralacca ancora intonsa e socchiuse gli occhi: «Leggila ad alta voce per noi».
Larion, allora, si sedette sul divanetto con disinvoltura, affondando la schiena contro la spalliera imbottita; accavallò le gambe e staccò il timbro di cera, spiegando poi i fogli contenuti nella busta con massima cura.

 

Quando questa lettera sarà arrivata a Napoli, conto che siate già tutti insieme e abbiate provveduto a partire immediatamente.
Ciò che vi racconto, infatti, sono notizie piuttosto particolari: occorre la vostra immediata presenza, poiché – se si indugiasse oltre – potrebbe essere troppo tardi.

Non avrei mai creduto di mettere piede nella mia amata Kemet – l'Egitto, come lo chiamano i profani – in quest'epoca e scoprire tanti profondi turbamenti dell'armonia celeste che un tempo, quando i Faraoni sedevano sul trono del potere, sarebbe stati combattuti e scacciati.
Al tempo in cui la mia gente vide l'invasione degli Hyksos probabilmente non immaginava che Maat sarebbe stata nuovamente minacciata dal mondo che voi chiamate “moderno”. Eppure è accaduto e qui, ad Alessandria, si stanno sanando ferite profonde di una guerra che ha visto ergersi come vincitore un mortale che porta il nome di Mehmet Ali, dopo che Ottomani e Francesi si erano disputati il diritto di governare negli anni passati.

In momenti come questo rimpiango di essermi destato dal sonno e di aver richiamato Alphonse perché mi liberasse dalla mia sepoltura: avevo scelto l'oblio, alla consapevolezza che l'antica Kemet e le civiltà che erano fiorite sul Mediterraneo si erano imbarbarite e tutto fosse caduto in rovina.
Ma è per Alphonse che sono qua e, dunque, sopporterò la vista desolata del porto di questa città e l'assenza del suo antico Faro che si ergeva, secoli prima, orgoglioso sul suo isolotto, emblema di luce per i marinai, ma anche per i sapienti.

Indagando assieme a Demetrius e scandagliando le menti degli uomini che abbiamo incrociato, comunque, abbiamo potuto rubare piccoli indizi della presenza di Alphonse: molti hanno visto la carrozza nera su cui viaggia, il cavallo instancabile che sembra venire dalle viscere del Duat, il cocchiere vestito da un mantello e da un cappuccio sotto cui si rivela un volto pallido, da albino. Non c'è dubbio che il nostro amico sia stato in questa città e, con lui, vi era il Demone.
Ma quegli umani erano troppo confusi, i loro ricordi troppo sfuggenti, la varietà di lingue con cui si esprimevano quasi esagerata e, dunque, abbiamo ricercato la presenza di altri Bevitori di Sangue per continuare la nostra cerca.
Demetrius ha scovato un piccola congrega di giovani allo sbando che si riunivano tra le rovine dei templi che, secoli prima, avevo visto coperti di meravigliosi affreschi. Il gruppetto sparuto voleva fuggire alla vista del greco, ma lui è riuscito a convincerli a dargli ascolto e ha fatto parecchie domande, a cui ha ricevuto risposte essenziali e timorose. Secondo questi giovani, infatti, la voce potente di Alphonse avrebbe reclamato notizie sull'Albero della Vita e dell'antica Biblioteca di Alessandria, aveva inoltre invitato chiunque ad incontrarlo, se avesse potuto offrirgli chiari indizi.
Mi è stato subito chiaro che Alphonse abbia lasciato da parte la prudenza e abbia fatto tuonare il proprio richiamo incurante di poter attirarsi le attenzioni umane sbagliate per un fine che ancora non conosco. Probabilmente, sta cercando di giungere alla fonte del potere dei Vampiri, alle radici della nostra storia e di comprendere l'origine della nostra razza: in passato ne era chiaramente affascinato e, forse, questa fantasia è divenuta la sua ossessione adesso. Forse, se gli avessi parlato più chiaramente quando ci siamo conosciuti, se gli avessi offerto le risposte che cercava quando me le porse, non saremmo giunti a questo punto.
Magari, il Demone che lo accompagna ha il suo personale tornaconto in questa faccenda, dato che il Marchio che li lega è ancora, evidentemente, apposto.
Potrei fare molte congetture, ma tali rimarrebbero. Ad esempio che Nuberus, temendo che Alphonse potesse davvero immolarsi al sole pur di proteggere Alexandra e annullare il loro Patto, l'abbia spinto a gettarsi in questa folle cerca. E, forse, Alphonse avrebbe potuto persino accettare, pur di tenere il Demone lontano dalla residenza dei Benavia. O potrebbe essere vero l'esatto opposto.
Comunque, qualsiasi sia la vera risposta, tutti gli indizi confermano che è ancora in città, ma i miei poteri medianici non riescono comunque a rintracciarlo, come se fosse stato risucchiato chissà dove.
Demetrius ed io continueremo a setacciare ogni strada e palazzo, ci spingeremo fino al deserto e alle antiche tombe, ma vi aspettiamo comunque il più presto possibile.

 

Sanakht”

 

 

 

Rimasero tutti e tre in silenzio, a fissare un punto indistinto della cabina, indifferenti al rollio e al beccheggio della nave.
Larion ricacciò i fogli nella busta, infilandola in una tasca interna della propria giacca. Guardò Violate con le braccia conserte al petto così forte che appariva sul punto di infrangersi.
«Sono venuto da San Pietroburgo fin qua non appena mi hai avvertito di quanto accaduto e ho setacciato l'Italia in lungo e largo: di Alphonse non c'era traccia, se non la fugace visione tra i ricordi della gente comune e dei marinai di Napoli. Demetrius si era imbarcato per l'Egitto tempo fa, per incontrare Sanakht per primo. Dunque, il nostro compito non si rivela comunque più semplice, nonostante queste notizie».
La donna annuì impercettibilmente: «Se nemmeno loro due sono riusciti a trovarlo, allora è d'obbligo pensare che Alphonse sia in un luogo che non appartiene a questo mondo. Il Demone non avrebbe infatti potuto portarlo con sé, nella dimensione da cui proviene, perché pagasse il suo debito?»
«Pare che sia stata tutta colpa mia?»
I due Vampiri, interrotti, si voltarono all'unisono verso Alexandra, che se ne stava immobile con l'espressione corrucciata.
«Non ti consento di fare del vittimismo, ragazza», la interruppe prontamente Violate, sciogliendo l'intreccio delle braccia e assumendo un piglio severo, rigoroso, «Prima o poi, il Marchio Demoniaco avrebbe richiesto di essere evaso. Un Patto con un Demone è un affare pericoloso da sempre. Alphonse non sapeva a cosa andava incontro la notte in cui si legò a Nuberus: l'atto di che lo portò a quel legame nacque per il terrore del fuoco e nulla di buono poteva venirne da un patto sancito in tal modo, indipendentemente da te. Concentriamoci, piuttosto, su ciò che è davvero importante e sui pochi indizi su cui possiamo davvero contare per rintracciarlo».
La ragazza serrò le mani contro le ginocchia, prima di ritrovare un guizzo di novella determinazione e interloquire: «Non comprendo una cosa: cos'è l'Albero della Vita?»
Larion e Violate si scambiarono uno sguardo.
«Questo, in realtà, non lo so», ammise il russo, «dobbiamo attendere la fine del nostro viaggio per chiederlo direttamente a Sanakht».

 

Il mare era come una donna: seducente, ammaliante, dal profumo che faceva girare la testa, ma parimenti insidiosa e volubile. E conto il mare infuriato dovevano combattere i marinai che governavano le vele dell'imbarcazione sospinta da venti impetuosi che minacciavano di strapparle e condannare al naufragio tutti.
Il capitano tuonava ordini in uno stretto dialetto napoletano, gridando fino a coprire l'urlio del vento e bestemmiando contro i sottoposti troppo lenti, con la faccia congestionata grondante acqua.
La nave si inclinava paurosamente ora da un lato, ora dall'altro, e il legno dello scafo scricchiolava e gemeva come fosse sul punto di spezzarsi. Le cime tese minacciavano di saltare, far crollare i pennoni e di gettare tutti fuori bordo.
«Non si vede niente! Stiamo andando alla deriva!», urlava la vedetta al timoniere che tentava di evitare il naufragio ad ogni costo con manovre ardite.
In mezzo al crocicchio di onde e alla pioggia battente, una lampada dondolò, cadde sul ponte e si infranse, precipitando la ciurma nel buio. Le coste italiane erano troppo lontane, ma quelle africane erano ad un tiro di schioppo, non fosse per il disorientamento in cui erano scivolati tutti.
La violenza dei fulmini si rovesciava dal cielo con un fragore tale da dare l'impressione che mostri spaventosi stessero emergendo dalle profondità del Mediterraneo.
All'interno della cabina, Larion ed Alexandra ebbero l'impressione che una qualche entità facesse di tutto per ostacolarne il viaggio e si chiesero come avrebbero potuto affrontare l'alba se la nave fosse stata sventrata e rovesciata.
Mentre i marinai correvano sul ponte come un sol uomo e un paio di mozzi si affannavano per tentare di riaccendere le lampade zuppe, una figura alta e maestosa si levò a sfidare la tempesta e le nuvole brontolanti. Avanzò con passo leggero, silenzio e sinuoso; come se non fosse di questo mondo, era indifferente al rollio intenso della nave e raggiunse la prua e li stette, ritta come una polena, splendida come una sirena avvolta in bianche e fluide vestiti che la pioggia le incollava al corpo. I capelli scuri e lunghissimi garrivano al vento, annodandosi e disfacendosi come se avessero avuto una vita propria. Gli occhi fendevano il buio e le intemperie, superavano qualsiasi ostacolo, persino la nebbia fumante che saliva dal mare. Allungò il braccio, volgendosi al capitano e al timoniere ad indicare la via dritta verso la meta, la luce del faro che vinceva la tenebra, ammaliandole del proprio potere perché abbandonassero la paura e il timore e obbedissero alle sue mute indicazioni.
Qualcuno, tra i marinai, si fermò a contemplarla con gli occhi lucidi, quasi fossero dinanzi alla visione di una santa, mormorando: «La Madonna dei Mari è venuta a salvarci! Santa Vergine Maria!»
Ma lì, su quel vascello, non c'erano sante, né Madonne: Violate, sulla prua coi piedi nudi e le spalle dritte, era l'essere più vicina ad una dea che potesse dominare gli eventi e condurre tutti alla salvezza.
Alle prime luci dell'alba, mentre il cielo si tingeva di un timido rosa e dopo lunghi giorni di navigazione, il vascello raggiunse il porto di Alessandria.

 

 

 

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Capitolo 4
*** I Sistri di Hathor ***


CAPITOLO 3 – I SISTRI DI HATHOR

 

 

 

L'antico porto di epoca ellenistica era sta completamente smantellato e, al suo posto, restava una struttura essenziale, con moli da ricostruire.
Sull'isola prospiciente la baia non si ergeva più il grandioso Faro che, all'epoca di Tolomeo, era stato l'edificio più alto al mondo. Nel 1300, infatti, un violento terremoto lo aveva raso al suolo: una delle sette meraviglie del mondo antico era collassata su se stessa e le sue macerie erano state usate per costruire altro, come per esempio un fortino voluto dal Sultano Quaitbay.
Ai piedi dell'enorme basamento tolemaico rimasto come l'ultimo tizzone della vetusta costruzione, non erano rimasti che edifici rosi dal mare e dal vento del deserto, spogliati di qualsivoglia magnificenza per colpa delle guerre che vi si erano combattute. Ricacciati indietro i francesi, Mehmet Ali stava riprendendo le fila del governo e cercando di risanare il paese dalle sue numerose cicatrici.
Sanakht non riusciva a sentirsi a suo agio in quel mondo che ormai gli era estraneo.
L'Egitto dei grandi Faraoni non esisteva più: i templi erano stati abbandonati, le tombe depredate e le grandi Piramidi si ergevano solitarie e ignorate, gobbe sulla spina dorsale del deserto prive dell'originario rivestimento calcareo bianco che, nei secoli passati, le facevano risplendere per miglia quando il sole vi picchiava contro.
Vestito con una tunica berbera di un blu intenso, preferiva coprirsi il volto con un lembo del turbante che gli avvolgeva il capo, mentre attraversava le strade dove i mercanti stavano rapidamente radunando le proprie merci e chiudendo le botteghe. Non aveva bisogno davvero di coprirsi, perché – dopo la lunga indigenza del suo sonno – ormai la sua pelle era tornata tonica e piacevole come quella di un tempo, di una piacevole sfumatura brunita dove risaltavano le naturali rughe dell'età che il Sangue Oscuro non aveva potuto del tutto cancellare. Le cure di Alphonse anni prima lo avevano aiutato a guarire e a trovare una nuova motivazione per aggirarsi nel mondo. Dunque, doveva a quello che chiamava paternamente “ragazzo” una mano per tirarlo fuori dai guai.
Muovendosi al fianco di Demetrius, si infilò in un vicolo dove si trovava una taverna non molto distante dal porto. Avrebbero atteso lì l'arrivo degli altri Vampiri, certi che fossero ormai piuttosto vicini.
Il suo compagno gli toccò un braccio, guidandolo verso uno dei tavoli più appartati, oltre il serrato chiacchiericcio di un gruppo di arabi alle prese con una partita a dadi e il passaggio delle giovani ragazze che il locandiere sfruttava come prostitute nelle piccole stanzette del piano superiore.
In quel turbine di vita, i due Antichi sembravano fuori contesto in maniera disarmante: compassati, distaccati e silenziosi, potevano passare certamente inosservati, ma anche attrarsi sguardi furtivi e sospettosi.
Demetrius aveva però i modi raffinati e pacati di un greco dell'Atene classica e sedeva composto con le spalle rivolte alla finestra, evitando il riflesso delle lampade che pendevano dal soffitto così che non si notasse troppo il riflesso metallico dei suoi occhi o il candore marmoreo della sua pelle. Con il naso leggermente aquilino e i capelli ben pettinati e tagliati, la barba ben acconciata, non sembrava avere alcuna fretta: silenzioso e discreto per natura, gli riusciva più facile sondare gli altri con lo sguardo che armarsi di parole. Nessuno avrebbe mai creduto che potesse essere un efferato predatore, quando si abbandonava alla caccia. Così, quando parlò, il suo tono era grave e le parole poche e ben mirate: «Questo crogiolo di umanità stuzzica la Sete. Eppure vedo che non ti senti a tuo agio.»
«L'Egitto non è più la patria che ricordavo. La lasciai con il tormento dei cambiamenti in cui era scivolato e l'ho trovato completamente trasfigurato. Qui mi sento fuori posto e, forse, i vecchi che dormono ancora da qualche parte sotto le sabbie sono più fortunati di me nel non sapere come la Terra degli Dei sia stata rimodellata dalle mire dell'uomo.»
«Alessandria ha ancora il profumo dell'antica sapienza. Cercando, si possono ancora trovare i particolari che la resero magnifica agli occhi di chi vi arrivava per la prima volta, tanto da farla rivaleggiare con Tebe e Menfi», lo consolò Demetrius.
Sanakht aveva gli occhi coperti da un velo di struggente malinconia: «Nell'ora che precede l'alba, il sole sbozza ancora un'aura dorata attorno agli obelischi e alle pareti dei santuari diroccati. Forse, nell'intimità delle salmastre acque del Nilo e nel frusciare della sabbia rossa del deserto tra le dita, si può davvero sentire l'eco del passato. In fondo, il falco sacro vola ancora lungo l'orizzonte e l'ibis immerge ancora le zampe nel limo. Ma Maat, la Giustizia e l'Equilibrio cosmico, è stata violata.»
«L'uomo moderno spesso non ha riguardo del passato: il suo più grande difetto. Ma non spetta a noi insegnare ai mortali questa lezione, purtroppo. Hai ancora contatti con le vecchie confraternite?», argomentò il greco in tono basso, con una stretta logica.
«La maggior parte sono disperse: con la guerra che c'è stata, i Vampiri non si sentivano più al sicuro e sono emigrati altrove; probabilmente la maggior parte sono rimasti nel Vecchio Continente, ma non mi stupirei che i più giovani abbiano fatto scalo nelle Americhe. Possibile anche che molti siano periti e ora non vive più nessuno che ricorda la nostra storia», ribatte Sanakht in tono paziente, «alcuni, i più antichi, si sono ritirati nelle viscere delle antiche tombe a dormire il sonno degli immortali, come feci io fino a qualche anno fa. Tuttavia, prima di questo, l'ultimo custode della Casa della Vitai del tempio di Osiride di Alessandria mi consegnò un antico papiro: in esso vi erano scritte antiche formule di benedizione e di scongiuro, ma anche le indicazioni per ritrovare l'ingresso alla Biblioteca. Attualmente, l'entrata si trova nel basamento dell'antico Faro.»
Demetrius rimase in silenzio, interdetto. Di colpo, però, come se un discobolo si fosse mosso dal suo piedistallo, si allungò in avanti, oltre il tavolo, facendogli notare: «Ma la Biblioteca di Alessandria è stata distrutta!»
Qualche avventore si voltò di scatto verso i due, fissandoli in tralice come, prima di ritornare ai propri affari.
Sanakht non tradì alcuna vena di impazienza o costernazione davanti alle parole dell'amico. Si limitò ad intrecciare le dita delle mani davanti al viso e a guardarlo intensamente: «Hai ragione, la Biblioteca è stata distrutta», si prese un lungo attimo di silenzio, come se cercasse le parole giuste per continuare il discorso: «Tuttavia, quanti si erano affannati a riempirne le sale di ogni sapere non volevano che tutto venisse perduto. Quindi, quando i primi incendi minacciarono di ingoiare tutti i rotoli e i volumi, le tavolette e i cocci, iniziarono in gran segreto dei lavori per salvare le opere più importanti e preziose, in modo da tramandarle alle generazioni future. La Biblioteca di Alessandria è stata l'erede di tutte le Case della Vita che erano annesse ai tempi all'epoca dei grandi Faraoni: ogni testo era sacro e importante, latore della verità e dell'illuminazione divina e doveva essere conservato. I geroglifici, le Parole di Potere, erano la lingua più adatta allo scopo e tutti i rituali, gli incantesimi, i rimedi erano trascritti in tale linguaggio.»
«Esiste davvero un luogo in cui esistono ancora queste opere quindi?»
«Sì, esiste. E furono gli antichi Bevitori di Sangue egiziani a volere che venisse creato: con le proprie arti e i propri poteri, misero nel cuore degli umani che servivano nella Biblioteca il desiderio di salvarla. Così grandi tomi e papiri furono copiati e conservati. Infine, quando arrivarono gli arabi e rasero tutto al suolo, l'ultimo Custode creò con il proprio potere preternaturale un luogo dove celare il frutto di anni di lavoro e stipare la conoscenza del mondo antico, sottraendola alle mani dei predoni ignoranti», spiegò Sanakht e, per la prima volta, la sua voce sembrò pervasa da uno strano tremito.
Il greco rimase a rimuginare a lungo su quel racconto, puntando lo sguardo vacuo su una delle prostitute sedute su una seggiola: osservò le mani sottili decorate da un intricato hennè, le vesti colorate e le graziose scarpette di stoffa. Si umetto furtivamente le labbra.
Finalmente, si decise a congetturare: «Ammettiamo, dunque, che esista ancora il luogo di cui parli. Come facciamo ad essere sicuri che sia ancora in piedi e che non sia stato trafugato? E, sopratutto, cosa c'entra con Alphonse di Benavia?»
Sanakht abbassò le mani intrecciate e chiuse per un istante gli occhi: «Non è stato distrutto, perché non si trova esattamente in un luogo fisico. Ed è lì che si trova anche l'Albero della Vita che Alphonse stava cercando: quando è arrivato qui, mi aveva lasciato un messaggio perché lo raggiungessi, ma se non ne avvertiamo la presenza e non lo abbiamo trovato in nessun altra città lungo il Delta, allora deve aver raggiunto la Biblioteca assieme al Demone prima del nostro arrivo.»
Demetrius rimase impietrito e la linea delle sue labbra divenne sottile e dritta, la sua espressione inesplicabile. Con un movimento fluido, si rialzò e si avvicinò alla graziosa donna su cui aveva messo gli occhi: le offrì cavallerescamente il palmo della mano, con lo sguardo che gli brillava di desiderio.

 

Un paio di notti dopo, i due Bevitori di Sangue erano in attesa sulla banchina, ad osservare la nave attraccata al molo su cui viaggiavano Violate, Larion e Alexandra, ritardati da una violenta tempesta che si era abbattuta lontano dalla costa. I tre Vampiri erano rimasti sulla nave durante il giorno, mentre all'equipaggio era stata accordata la libera uscita e una prima parte del pagamento che avevano provveduto a spendere nelle bettole tra alcool e prostitute.
Indifferente alle tensioni atmosferiche dell'inverno che toccavano il continente africano in modo diverso rispetto all'Italia, ad Alessandria la notte era limpida, con un vento secco che spirava dal nord.
Non appena misero piede a terra, Larion scattò alla volta di Demetrius, cingendolo in un abbraccio colmo di venerazione e di una lascivia palpabile. Con il capo affondato contro la spalla del suo Creatore, il russo sembrava aver perso di colpo tutto il suo charme, a favore di una tenerezza possessiva.
«Ragazzo mio, benarrivato. La vostra imbarcazione deve aver visto la furia del mare», gli mormorò Demetrius, accarezzandogli i capelli biondi con un tocco affatto ruvido.
«Ha visto tempi migliori, ma noi – grazie a Violate – siamo sani e salvi e l'equipaggio umano non ha perso uomini preziosi», rispose Larion in tono sommesso, facendo un cenno alle due donne e riservandosi l'onore di fare le dovute presentazioni.
In quel consesso, Alexandra si sentiva quasi fuori posto: era non solo la novizia delle Notti Eterne, ma anche dall'aspetto più giovane e fanciullesco tra tutti e poco comprendeva delle sfumature dei rapporti che legava ciascuno di loro. Rimase in silenzio, ricacciando indietro persino il violento spasmo della Sete.
Violate, però, se ne accorse: «Dovremo rimandare i convenevoli. La bambina ha bisogno di nutrirsi e, a dire il vero, dopo il lungo viaggio e la dieta forzata, anche tutti noi.»
Si mossero dunque rapidi, dividendosi. Sanakht preferì cacciare da solo, con i modi calmi e riflessivi che gli occorrevano per scegliere la preda giusta tra i soldati del sultano che pattugliavano le vie. Larion e Demetrius si diressero in uno dei quartieri risparmiati dai tafferugli civili: volevano scegliersi un paio di giovinetti. Violate, invece, accompagnò Alexandra in un'agile scalata dei tetti bassi e piatti delle case, intrufolandosi con lei in una stanza dove dormiva una giovane coppia di sposi. Le insegnò l'arte di nutrirsi senza uccidere.
«Non c'è bisogno di prosciugare le tue vittime, né di essere brutale nel mordere: puoi prendere il necessario per preservare la vita di entrambi. E puoi creare, in quell'attimo, le sensazioni e le visioni più straordinarie per avvincere la tua vittima e rendere il ricordo del tuo passaggio un sogno piacevole», la istruì, prima di condurla via dalla stanza, di nuovo sui tetti.

 

Il rifugio allestito da Sanakht si trovava nei sobborghi della città, in uno dei quartieri forse più poveri. Si trattava di una vecchia cantina interrata, nulla che promettesse comodità, ma la certezza del buio anche durante il giorno era innegabile.
Quando furono tutti seduti su un cuscini variopinti disposti su un vecchio tappeto, si squadrarono lungamente.
«Devi raccontarci tutto, Sanakht. È giunto il momento, non credi? Me lo devi, in fondo. Non ho alcun legame con Alphonse, eppure sono qui per te e Larion che mi avete chiesto di aiutarvi a trovarlo. Tuttavia, abbiamo il diritto di conoscere i particolari di questa vicenda e anche a te farà bene parlarne: sento che c'è ancora qualcosa che di tormenta», Demetrius fu il primo a prendere la parola, riferendo agli altri tre – in breve – anche della sorte della Biblioteca di Alessandria.
«A te non ho mai potuto nascondere nulla, da quando ci incontrammo in Grecia secoli fa», interloquì Sanakht con le labbra piegate in un sorriso disincantato, guardando tutti gli altri in rapida successione, «ebbene, dovete sapere che non sono stato davvero del tutto onesto con Alphonse, rispetto a quello che gli raccontai quando fui suo ospite. Grossomodo, gli spiegai come sono divenuto un Bevitore di Sangue, gli ho riferito parole molto fumose circa la nostra origine e me ne sono andato, sperando che questo bastasse a placare la sua sete di conoscenza per il suo bene. Quel che, in realtà, non gli ho detto è la verità, la verità che io stesso ho scoperto grazie a Userhat, quando gli rubai il Sangue Oscuro. Anzitutto, dovete sapere che, quando me ne andai dalla casa di Alphonse alle prime luci dell'alba, corsi come solo noi possiamo fare: raggiunsi un riparo di fortuna, cedendo al sonno fino al tramonto. Presi poi la prima nave per la Grecia, così da raggiungere Demetrius: Alphonse mi aveva riferito che era stato Larion – tramite consiglio di Demetrius – a fargli il mio nome, dunque sapevo che Demetrius era ancora vivo e desideravo incontrarlo.»
«E sotto all'acropoli di Atene ci siamo incontrati, come secoli prima, già. Ma, Sanakht, tu sai come sono nati i Vampiri, non è così?», chiede Demetrius in tono piatto, senza che una qualsiasi particolare emozione si palesasse sul suo viso.
Sanakht lo guardo di sbieco, allargando le mani poggiate sulle ginocchia in segno di resa: «Avrei dovuto mettertene a parte, ma non potevo farlo. Ti chiedo di perdonarmi.»
Il greco gli fece un cenno misurato, senza biasimo. Violate non tradì alcuna emozione, mentre Larion aggrottò la fronte e Alexandra si allungò, in ascolto.
Fu allora che l'egizio chiuse gli occhi e iniziò a raccontare.

 

***

 

 

“Avete potuto leggere, immagino, dai diari di Alphonse di come ci incontrammo e di cosa gli raccontai circa la mia rinascita, quindi non mi dilungherò molto su di essa.
All'epoca, ero un sacerdote di Amon, uno dei più esperti e potenti: a quarant'anni ero divenuto un fine conoscitore di tutti i rituali ed ero stato designato come successore del Sommo Sacerdote, una volta che egli avesse raggiunto Osiride come Giusto di Voceii.
Fu per questo che ero stato inviato a scongiurare l'ira e il dolore degli avi in una mastaba violata dai ladri: avrei dovuto assicurarmi che la mummia del defunto fosse integra, ristabilire l'integrità delle offerte così che l'energia vivificante continuasse a circolare nella tomba e risigillare l'antica porta. Tuttavia, ciò che trovai lì dentro fu quello che sarebbe divenuto, volente o nolente, il mio Creatore: Userhat dormiva, come qualsiasi altro Vampiro durante il giorno.
Passai ore e ore in quella tomba, raccogliendo tutto ciò che restava del corredo funebre e un'infinità di rotoli di papiri, che lessi. Quello che vi trovai, erano oscuri segreti di un mondo che agli esseri umani non era dato scoprire o comprendere, una sapienza ancor più occulta di quella insegnata agli iniziati nelle Case della Vita annesse ai templi.
Quello che accadde, lo avete letto nelle memorie di Alphonseiii: venni preso dalla smania di possedere quel sapere e il tempo per poterlo fare mio, quindi legai Useraht con catene potenti, usando tutta la Magia che avevo imparato negli anni di sacerdozio, e gli rubai il Sangue, trasformandomi in un Vampiro senza nemmeno chiedergli il consenso. Fuggii quando si levò all'ora del tramonto e mi vide: aveva intenzione di distruggermi e le sue maledizioni e l'urlo gutturale che mi lanciò mentre scappavo riecheggiarono tra le pareti di pietra istoriate di geroglifici, atterrendomi. Cacciai, preda della paura che potesse liberarsi dalle catene e raggiungermi, ghermendo un beduino che si era distaccato dalla sua carovana in una piccola oasi nel deserto. Portai con me tutti i rotoli di papiro che riuscii a sottrarre e mi nascosi nel tempio di Amon, tormentato dalla Sete e da una vertigine che mi opprimeva il petto: come avrei potuto nascondere la mia natura ai miei confratelli? Come avrei potuto prendere parte ai riti del mattino? Avrei dovuto uccidere la mia stessa gente per poter vivere e il pensiero mi tormentava.
Così, dopo poco tempo, decisi di lasciare Kemet e non tornarvi fino a che non avessi compreso come sopravvivere. Eppure, la notte in cui partii, sentii la presenza di Userhat che scandagliava la provincia alla mia ricerca e temetti che potesse raggiungermi prima che prendessi il largo.
Alla fine, raggiunsi le coste dell'Asia Minore: allora la città di Troia era ricca e potente e gli Achei non vi avevano ancora portato la guerra. Le sue alte mura e le Porte Scee rilucevano al lume delle stelle, le selve attorno allo Scamandro offrivano dolci pendii per rifugiarsi: vissi lì, spiando le ancelle che lavavano i panni al fiume, i pastori che radunavano le pecore, i sacerdoti che offrivano sacrifici ad Apollo. Pensai che potessi stabilirmi là per lunghi anni, imparando a conoscere i miei poteri e le mie capacità, prima di tornare a casa.
Tuttavia, in una notte senza luna, Userhat piombò sul mio rifugio e mi afferrò per il collo: i suoi occhi scintillavano di una fredda collera e la sua voce era un ringhio sommesso. Mi parlò nella lingua egizia, con un'inflessione e un dialetto che avrei detto quasi manieristico, certamente appartenente al bagaglio di sapere di un sacerdote.
«Hai creduto di potermi sfuggire, traditore della mia e della tua razza, ma io ti ho trovato e, adesso, ti distruggerò», mi promise e lo avrebbe sicuramente fatto se non mi fossi opposto strenuamente.
Non fu un'opposizione di forze, perché lui era nettamente più potente di me ed io sembravo un omino di terracotta nelle mani di un bambino.
«Ti prego», gli dissi, «non farlo! Sono null'altro che un esule in terra straniera, il mio cuore anela la vista del Grande Fiume e dei tempi degli Dei della Vita. Non sapevo cosa stavo facendo, non sapevo di aver infranto delle leggi così sacre: io volevo solo avere la conoscenza che c'era nella tua tomba e apprendere segreti e arti che, da umano, non avrei mai potuto svelare.»
«L'ignoranza con cui hai compiuto un atto sacro è la cosa forse più intollerabile. Dammi un solo motivo per cui non debba staccarti la testa, lasciarla rotolare fuori da questa grotta e goderne la vista mentre diventa cenere», ingiunse il Vampiro, trattenendomi in modo tanto saldo che sentì le ossa delle spalle scricchiolare sinistramente.
«Sarò il tuo allievo e ti servirò fino a che avrò ripagato il debito contratto con la tua schiatta, che adesso è anche la mia!», esclamai con impeto e le mani sollevate in segno di resa, i polsi offerti in cenno di sottomissione.
Userhat mi guardò con i suoi occhi incavati. Aveva un viso vagamente allungato e una bocca carnosa; sembrava avere un'espressione perennemente stanca. Lentamente, mi posò a terra e scoprii che mi aveva sollevato di parecchio in un sol gesto. Non smise di studiarmi mentre si sedeva sulla roccia nuda nella posizione tipica degli scribi.
«Il mio allievo...», ripeté con tono basso, «tu chiedi forse troppo. Sei stato un sacerdote, nella tua vita, ma quello che dovresti affrontare adesso è un addestramento che potrebbe rivelarsi un fallimento, laddove tu non potresti essere portato e io avrei sprecato il mio tempo.»
«Hai tutta l'eternità davanti e il tempo che impiegheresti per capire se valgo la pena o meno è pari ad un battito di ciglia, per te», mormorai in tono fermo, con un'ostinazione che mi rendeva insensatamente audace.
Sarei potuto e dovuto fuggire, ma tutto ciò che avevo bramato quando avevo scelto il mio destino si era materializzato lì, davanti a me, nella forma di Userhat che mi guardava in un ostinato silenzio pieno di dubbi.

 

Alla fine, si convinse a farmi la possibilità di provare ad essere un valido studente e di forgiarmi per divenire suo erede. Tornammo a Kemet e accettai senza riserve tutte le condizioni e il duro lavoro che mi impose senza alcuna velleità di ribellione.
Ero abituato alla disciplina e al rigore, la mia mente, il mio corpo e il mio spirito erano stati temprati grazie al sacerdozio, ma Userhat non mi fece mai sconti e mi mostrò, senza alcuna esclusione, tutte le debolezze della nostra razza facendomele assaporare direttamente sulla pelle. Conobbi il dolore che causa il fuoco e quello del sole, la sofferenza delle ustioni che impiegano lungi giorni per poter guarire e infinite infusioni di sangue; imparai cosa sono la privazione e la pazzia della Sete non soddisfatta e riconobbi il verso gemente e furioso della Belva che tutti noi serbiamo nelle viscere e che è nella nostra carne.
Ma mi insegnò molto altro e appresi le Discipline del Sangue che mi consentirono di indagare e manipolare la mente altrui, domare il fuoco stesso, i venti e gli animali, e molte altre ancora. Arricchì le mie conoscenze magiche con altri riti: divinai attraverso il sangue, osservando il passato e, se lo desideravo, spingendo la mia vista verso altre terre, lontane dell'Egitto.
Poi, quando furono passati molti anni e molte generazioni di uomini mortali, Userhat – che mai mi aveva rivolto lodi o encomi – una notte mi prese da parte e mi portò nuovamente nella sua mastaba.
I gradini di pietra scricchiolavano sotto i nostri piedi e gli affreschi sulle pareti sembravano stranamente vivi quando la luce della lampada ad olio li lambiva: la lenta processione di uccelli che si levavano in volo disegnati in colori sgargianti, in quegli istanti, mi sembrava tremendamente reale.
«Sanakht», mi disse, «come ormai sai, in Egitto esistono molte congreghe di Bevitori di Sangue riunite attorno ai sacerdoti più anziani. Io, un tempo, appartenevo ad una di esse e me ne distaccai per assolvere al compito che mi fu affidato. Il segreto che custodiamo deve restare sempre celato ai profani e ai mortali, in modo che Maativ non venga irrimediabilmente compromessa. Il nostro mondo e quello umano sono connessi, come qualsiasi entità nella grande Terra Nera, a creare l'armonia degli opposti che si complimentano: ma né il nostro mondo, né il loro deve prevalere. Noi siamo i loro pastori e dobbiamo guidarli restando nell'ombra, senza influenzarne le scelte e la storia, perché siamo ciò che è più vicino agli Dei possa esservi. Non sprecare il tuo Sangue, che è anche il mio e ti ha donato i tuoi plurimi talenti; scegli i tuoi seguaci tra gli umani che ritieni davvero meritevoli e mantieni i nostri segreti ad ogni costo», dopo una lunga pausa si mosse verso il sarcofago in cui era solito riposare al levar del sole. Fece scorrere un pannello di legno e ne trasse un cofanetto d'alabastro, prima di riprendere la parola: «Da questa notte tu camminerai da solo: non ho più nulla da insegnarti e ciò che ancora devi apprendere lo scoprirai secondo i tuoi tempi e la tua propria saggezza. Ma prima di concludere il mio passaggio su questo mondo e cercare la misericordia del Tribunale di Osiride, desidero lasciarti le ultime istruzioni: tu farai la mia volontà, poiché sei il mio erede.»
Mi pose nelle mani il cofanetto e mi indicò una cassa di legno finemente lavorata e cesellata, un lavoro da mastro artigiano.
«Nella cassa ci sono rotoli di papiro tra i più antichi, preziosi e occulti, nonché amuleti e oggetti che ti saranno utili in futuro per i rituali. Ma qui, in questo cofanetto, c'è il tesoro più prezioso: sono strumenti musicali quali nessuno, mortale o Bevitore di Sangue che sia, ha mai creato l'uguale e mai potrebbe udire. Il loro suono è puro come il primo raggio di sole dell'alba e più chiaro dello squillo di trombe dell'esercito del Faraone. Sono i Sistri di Hathorv e la loro musica incanta i cuori e calma gli animi più nefasti, persino le bestie feroci, poiché li fece Hathor stessa e li consacrò quando posò il piede sulla prima collina che nacque dal Nunvi, le acque primordiali. Da allora, a loro immagine e somiglianza, sono stati realizzati molti altri strumenti e la melodia che è capace di evocare la magia di Hathor è tramandata solo tra le sacerdotesse della Dea. Custodiscili: sono gli unici che possono placare la fiera che protegge l'Albero della Vita da cui tutti noi dipendiamo, uomini e immortali. Attento ai seguaci di Sethvii: molte congreghe sono desiderose di sovvertire gli equilibri e imporre il dominio sugli uomini con la forza e il terrore. Nessuno di loro deve mai scoprire le radici dell'Albero, tanto meno arrivare ai Sistri.»”

 

***

 

 

Sanakht si interruppe e aprì gli occhi, abbandonando i suoi ricordi. Si accorse che tutti, persino Demetrius, pendevano dalle sue labbra.
«Cosa accadde poi?», incalzò Alexandra, impaziente.
«Userhat mi aveva designato suo erede con quel lungo discorso che aveva riempito tutta la notte. Mi consigliò di mettermi in contatto con le confraternite dei Vampiri sparse per tutte le province dell'Egitto, in modo che sapessero che vi era un nuovo custode dei Sistri di Hathor. Infine, quando sentimmo l'alba giungere, mi intimò di restare nella mastaba. Lui invece uscì ad affrontare il sole, passeggiando tranquillamente sulle sabbie che andavano arroventandosi. Dopo centinaia di anni, Userhat ritrovò il piacere di osservare il sole sorgere e ne salutò l'ascesa con le braccia sollevate. Fu così che ebbe fine la sua esistenza e le sue ceneri se le portò via il ghibli. Aveva assolto al suo compito, trovato e addestrato in me un sostituto adeguato per preservare il suo segreto e scelse di essere sgravato dalla fatica dell'esistenza. Non lo biasimo, ad essere sincero», concluse Sanakht con voce sommessa e pacata.
«Dunque, sei in possesso dei Sistri di Hathor e, se ho ben capito, servono per raggiungere il luogo dove si trova l'Albero dellaVita, che è l'antica Biblioteca di Alessandria», riassunse Violate pensierosamente.
L'egizio annuì: «Giusto, tranne per una cosa: i Sistri li ho nascosti presso l'ultima congrega di Vampiri antichi ancora esistente qui ad Alessandria, confidando che sarebbero stati al sicuro grazie a potenti incantesimi di protezione, prima di scegliere il Torpore. Dobbiamo recuperarli o Alphonse finirà divorato da una potenza che non può domare.»
«E l'Albero della Vita?», volle sapere Larion.
Sanakht non ne rivelò il segreto e tutti e quattro i Vampiri rimasero ammutoliti.

 







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Note:

 

iCasa della Vita – approfondimenti: http://www.anticoegitto.net/casavita.htm

iiGli Antichi Egizi credevano che i morti, presentandosi dinanzi al Tribunale di Osiride composto da molteplici divinità chiamate a giudicarlo, dovessero rendere conto di tutte le proprie imprese compiute in vita. Chi superava la prova della pesatura del cuore e rispondeva con sincerità alle domande del Tribunale, veniva definito Colui che in vita è stato retto, ovvero giusto di voce ossia colui che non ha mentito (o anche giustificato).

iiiSanakht compare per la prima volta nella storia “L'Eco del Sangue”: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3030158 e nella one shot “Sominum”: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2974049

iv Maat -Era la dea della giustizia e della verità, rappresentava l’ordine cosmico a cui tutti, compreso il Faraone, dovevano attenersi. Presiedeva alla pesatura del cuore dei defunti, e disponeva la sua Piuma sulla sua Bilancia: su un piatto era posata la Piuma della Verità, sull’altro piatto veniva posto il cuore del defunto; se il cuore del morto risultava più pesante della Piuma di Maat, allora esso veniva dato in pasto alla Divoratrice di Anime, che ne divorava il cuore, il corpo e il Ka, in modo che il defunto non potesse tornare a nuova vita; se invece il cuore del morto risultava più leggero della Piuma, allora Osiride apriva al defunto le porte del paradiso.

Il Faraone era chiamato Meri-Maat, ovvero Prediletto di Maat, in quanto doveva essere il garante dell’ordine universale.

v Hathor - Patrona di Afroditopolis e Dendera, era raffigurata come una vacca, e il suo emblema era il sistro. Dea dell’amore, della musica e della danza, rappresentava anche la volta celeste ed era ritenuta la nutrice del Faraone.

vi Nun - Divinità primigenia, massa liquida da cui Atum-Ra venne ad essere. Compare oltre che nei miti legati alla creazione, anche in quelli della distruzione del genere umano.

vii Seth - Il tempio più importante di questo dio si trovava ad Ombos. Seth era l’incarnazione del male, il dio della siccità, del cattivo tempo, degli stranieri e della distruzione e, nel Nuovo Regno, protettore dell’esercito. Difficile identificare l’animale con cui veniva raffigurata la sua testa, una via di mezzo tra un cane e un asino, è il fratello e l’uccisore di Osiride.

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Capitolo 5
*** L'Albero della Vita ***


CAPITOLO 4 – L'ALBERO DELLA VITA

 

 

 

Il mondo visto dai suoi occhi possedeva sfumature uniche e particolari, perché Nuberus riusciva a vedere le anime di tutti coloro che incontrava. Come tremolanti fuochi fatui, lui ne trovava il nucleo radicato nei corpi e sapeva come strapparlo per poterlo divorare: le anime erano il suo nutrimento ed era capace di attendere anche anni pur di coltivarne una degna di essere un pasto luculliano.
Di che materiale fosse fatta la cappa che gli fluiva sulle ampie spalle era difficile a dirsi a prima vista, la verità era che tutto ciò che gli apparteneva non era altro che infinitesima parte della sua essenza, un prolungamento del suo essere, una gigantesca rete in cui catturava le anime prima del pasto.

Da dove venisse e quando fosse venuto in essere, nemmeno lui aveva preciso ricordo e sentore. Sapeva di esistere da secoli, forse da quando il mondo stesso era iniziato, così come gli spiriti, gli Dei e qualsiasi altra creatura sovrannaturale. Esisteva nel mondo tangibile e, contemporaneamente, nella dimensione inferica dove le legioni dei Demoni governavano indisturbate. Vagava tra i mondi, con la fame a ricordargli di dover avvicinare e circuire gli umani dalla mente più debole, di deviare e tentare chiunque si dimostrasse una preda allettante.
Dopo i lunghi secoli trascorsi in viaggio con Alphonse di Benavia, il Demone aveva assaporato molteplici anime appartenenti a uomini e donne, giovani e vecchi, scoprendo come ciascuna avesse un sapore proprio e una profondità tutta sua. Non c'erano anime che si somigliassero, benché alcune fossero più banali di altre e portassero solo sollievo momentaneo al suo appetito.
Comunque, di pasto in pasto, era diventato forte e tangibile, il suo potere si era accresciuto e, anche se rassomigliava sempre ad un albino con quella pelle bianca e gli occhi azzurri, quasi vitrei, poteva dirsi perfettamente incarnato nel mondo umano. E tutto grazie alla Sete di Alphonse: il Vampiro beveva il sangue delle vittime e lui ne prendeva il resto prima che morissero.
All'inizio, quando lo aveva incontrato in un monastero dove Alphose aveva ucciso la donna che Nuberus, con consumata pazienza, aveva tentato di deviare al proprio volere, gli aveva apposto il Marchio per mera vendetta, solo per dileggiarlo e rinfacciargli – con la sua sola presenza – la debolezza della sua carne.i
Non pensava che sarebbero mai andati molto lontano nei loro viaggi, ma Alphonse si era rivelato molto più resistente di quanto immaginasse: era stato un mortale dalla vita dissoluta e priva di scrupoli, un cinico orgoglioso dei propri peccati e della propria blasfemia nei confronti di tutto ciò che gli altri ritenevano sacro e da Vampiro non era stato da meno.
Nuberus si divertiva sempre a punzecchiarlo, escogitando sottili battute per irritarlo e ricordargli quanto, in fondo, fossero simili.
Quando Alphonse aveva conosciuto Alexandra, però, si erano messi in moto dei meccanismi che il Demone non aveva previsto. La ragazza era riuscita ad evocare qualcosa che sia lui che Alphonse credevano morto e sepolto: l'umanità del Vampiro. Lei si era rivelata un piccolo ostacolo, una variabile disdicevole nei suoi disegni; inizialmente non l'aveva tenuta da conto, anche se Alphonse l'aveva notata subito e aveva iniziato a frequentarla.
Nuberus sapeva che non era altro che uno dei tanti capricci a cui dava sfogo il suo accolito e che il Vampiro desiderava solo gloriarsi di una nuova conquista, di aver pervertito un'altra creatura destinata, altrimenti, ad un'esistenza di luce. Glielo aveva lasciato fare con indubbio gusto perverso, osservando in silenzio il dipanarsi di quella trama che sembra essere uguale a tante altre: Alphonse presto si sarebbe stancato, l'avrebbe uccisa e sarebbe passato ad altro. Eppure non era stato così.
Con il succedersi dei mesi, apparve chiaro che il Vampiro si era affezionato a quella creatura in apparenza così fragile e così estranea alle brutture del mondo. Forse era stata proprio la fresca ingenuità di Alexandra a renderla così diversa agli occhi di Alphonse, o magari si era trattata di una strana alchimia tra i due. Aveva scoperto che Alphonse aveva cercato nel volto di ogni donna che nei suoi lunghi anni aveva sedotto e umiliato, o peggio ancora uccisa, proprio Alexandra, ovvero un essere del tutto differente da se stesso, che non gli cedesse con la facilità con cui si addenta un chicco d'uva e lo si spreme, e che – in definitiva – gli restituiva un riflesso nitido delle sue mancanze e della sua anima fosca, senza però muovergli alcuna alcuna o pretesa. Alexandra, insomma, accettava Alphonse per quello che era.
Quella ragazza non aveva, a conti fatti, nulla di davvero speciale, per Nuberus. Il fatto che per Alphonse significasse così tanto e che volesse tenersela stretta come un innamorato, lo indusse a richiedere il saldo dei lunghi anni del loro patto: l'anima della fanciulla. Con essa poteva chiudere l'antica contesa e Nuberus avrebbe liberato Alphonse del Marchio e se ne sarebbe andato, pago della fruttuosa storia a cui aveva preso parte, viaggiando per l'Europa in lungo e largo a bordo della sua nera carrozza. Probabilmente, il duca di Benavia non si aspettava quell'epilogo, quella sorta di tradimento, ma Nuberus badava solo al proprio scopo e tornaconto.
Il rifiuto di Alphonse, il loro violento alterco, la rapida decisione del Vampiro di rendere Alexandra una Bevitrice di Sangue a sua immagine, però, avevano reso vane le sue aspettative.
La cosa più disdicevole di aver a che fare con i Vampiri, infatti, era l'impossibilità di strappare loro l'anima: era legata in modo troppo radicato alla carne tramite le pastoie del Sangue Oscuro, esseri sovrannaturali destinati a vivere assieme carnalmente e spiritualmente ogni evento, notte dopo notte.
Non solo, ma Alphonse voleva anche liberarsi del Marchio bruciandosi al sole: in tal modo, Nuberus sarebbe rimasto in un limbo dove non avrebbe potuto rescindere più il patto con il Vampiro, né trasmigrare su qualsiasi altro piano dell'esistenza, tanto meno tornare nei suoi domini se il Marchio fosse stato ancora impresso e non ci fosse stata nessuna riscossione del premio finale.

Nuberus, allora, aveva dovuto prendere la situazione in pugno: aveva trascinato Alphonse nella carrozza prima che finisse bruciato e lo aveva condotto via, ad una velocità inaudita, tenendolo come prigioniero all'interno dell'abitacolo. Per quanto il Vampiro fosse scatenato, la carrozza – che era forgiata con materiali ultraterreni e il cui cavallo era abitato da uno spirito antico – resistette.
Alla fine, Alphonse passò a più miti consigli.

«Portami in Egitto: voglio incontrare Sanakht. So che è ancora vivo. Lui ha le risposte che servono», ingiunse al Demone con voce roca.
«Per quale motivo dovrei accontentarti?»
«Voglio ancora trovare l'origine della mia specie. Sono sicuro che ci sarà il modo per scoprire come slegare l'anima di un Vampiro dal suo corpo: ti darò la mia, così tu avrai il tuo bottino e te ne andrai. Non toccherai né Alexandra, né chiunque altro... non attraverso di me. Sono stanco, Nuberus», ammise Alphonse in tono monocorde, anche se i suoi occhi azzurri puntati sul Demone ardevano di furia.
Nuberus ci aveva messo qualche istante a rispondere, soppesando la richiesta e le sue implicazioni: «E sia. Non ho nulla da perdere e nemmeno tu. Ma, Alphonse, tu non cercherai di immolarti al sole o al fuoco o in qualsivoglia altro modo: il Marchio che ci lega mi permette di conoscere i tuoi propositi e di sventarli», lo avvertì.
«E anche io posso conoscere i tuoi», gli ricordò sinistramente il Vampiro.
Erano partiti, avevano affrontato un lungo viaggio e si ritrovano alle soglie del mistero che, però, restava beffardamente oltre la presa delle loro mani.
Mentre si aggirava tra le enormi stanze ariose di un'antica biblioteca, sospesa in una dimensione sulla soglia tra il mondo umano e l'ignoto, il Demone scrutò Alphonse al suo fianco, mormorandogli con scherno: «Non hai la più pallida idea di quello che stai cercando e dove andare, non è vero?»

 

Alphonse camminava con il passo risoluto di un generale lungo un ampio corridoio di pietra, attraversando immense porte squadrate da architravi di marmo, sostenuti da colonne rastremate dai capitelli a forma di fior di loto dipinte in colori vivaci.La luce che penetrava dagli alti finestroni, ricavati nelle pareti di spessi blocchi di pietra, aveva qualcosa di innaturale: avrebbe dovuto bruciarlo, ma invero non gli aveva procurato alcun danno. Soffici teli di lino usati a mo' di tende si levavano al soffio del vento caldo del deserto e i granelli di sabbia dorata che il Ghibli trasportava vorticavano e scivolano sul pavimento lastricato.
Il Vampiro non rispose a Nuberus, ma si limitò a rifilargli un'occhiata inespressiva e inquietante e ad avanzare risoluto.
Erano ore o forse giorni, non sapeva dirlo con certezza, che si aggirava attraverso quelle vaste sale e i cortili, all'ombra degli immensi colonnati, gli affreschi dove i volti benevoli e secolari delle divinità egizie gli sorridevano, le nicchie colme di papiri arrotolati accatastati con cura l'uno sull'altro. La Biblioteca di Alessandria era una selva di sapere, ma anche un luogo dove spazio e tempo sembravano non avere più alcuna consistenza.
Alphonse non riusciva a capire dove fosse finito, dopo aver attraversato il passaggio ai piedi dei resti dell'antico Faro. Tutto aveva pensato, tranne di trovarsi catapultato secoli addietro, sospeso da qualche parte tra i veli della realtà.
L'eco dei suoi passi e quelli di Nuberus erano l'unico suono che si potesse udire e riecheggiava in secchi rintocchi ovunque.
Matematica, letteratura, astrologia e astronomia, metallurgia, agricoltura, medicina e alchimia, tutto questo e ancor di più gli passava sotto gli occhi e la sua mente, in febbrile movimento, registrava con voracità ogni particolare. Si era fatto scorrere tra le mani tremanti centinaia di rotoli, li aveva svolti con cura beandosi dello scricchiolare dolce del papiro, li aveva sfiorati soffermandosi sulle file ordinate dei geroglifici, quindi era passato a contemplare il greco antico e persino il latino, l'assiro, il babilonese e centinaia di altre lingue morte, che nessuna bocca avrebbe mai più potuto pronunciare.
Aveva desiderato restare lì per sempre, ma poi la presenza di Nuberus gli aveva ricordato che aveva uno scopo e che non poteva indugiare oltre.
Ciononostante, dove fosse e cosa fosse davvero il cosiddetto Albero della Vita che qualcuno gli aveva così impunemente nominato, Alphonse non lo sapeva.
E sì, stava girando a vuoto, senza una meta... la Biblioteca non sembrava avere una fine. Qualche forza aliena deviava il suo cammino, lo spingeva lontano dalle celle più nascoste, dal suo cuore più antico e pulsante.
Il suo pensiero andò ad Alexandra e Violate, persino a Larion e Sanakht. Nessuno, a parte l'egiziano, poteva sapere dove fosse e, ad ogni modo, nessuno lo avrebbe mai più trovato, là dentro.
Forse non sarebbe riuscito a ottenere ciò che cercava, né a svelare il segreto dell'origine della sua razza, tanto meno ad uscire da quel luogo, ma una cosa era certa: con sé, avrebbe trattenuto anche Nuberus.
«Non ho più intenzione di toccare la tua innamorata, Alphonse. Dimentica il tuo rancore», fece Nuberus con un sussurro insinuante e malizioso, vagamente canzonante, indovinando i suoi pensieri.
Alphonse poggiò una mano su uno degli affreschi: era un campo di grano biondo che i contadini stavano per mietere con lame ricurve, sotto un cielo azzurro dai colori vibranti.
«Mi pare ovvio, vuoi me e poi tornare a casa. Mi chiedo perché tu non possa semplicemente revocare il Marchio.»
«Bisogna pagarne il riscatto: un'anima di valore pari a quella per cui venne apposto», rispose Nuberus.
Alphonse non disse più nulla e continuò a camminare, infilandosi dentro una stanza più piccola: scrittoi, leggii, panche e scaffali colmi dell'occorrente per la scrittura, dai supporti in argilla come tavolette, ai fogli di papiro intonsi. Fece il giro della camera e tornò su i suoi passi.
Il viso di Alexandra gli apparve tra i ricordi, assieme ad un cocente rimpianto. Avrebbe desiderato essere al castello, seduto davanti al clavicembalo, suonando assieme a lei uno spartito allegro.
Quella ragazza così giovane lo aveva strappato dal torpore dei sensi e delle emozioni dopo secoli di aridità.

Baba Yaga, in Russia, glielo aveva predetto: avrebbe trovato la persona più importante e l'avrebbe persa. Una maledizione in piena regola che si era puntualmente abbattuta con ferocia su di lui.
Se era iniziato solo come un gioco, con l'intento di comprendere il motivo bizzarro per cui lei lo aveva attratto al punto tale da spingerlo a corteggiarla, dopo poco Alphonse si era anche reso conto che non aveva alcuna voglia di giocare con l'esistenza della fanciulla. I suoi modi lo rapivano senza un motivo apparente, ma solo perché appartenevano a lei: come sorrideva, inclinando il capo; come camminava trattenendo un grazioso parasole tra le mani; la disinvoltura con cui si lanciava in una moltitudine di discorsi e sapeva dare prova di un brillante eloquio... per una volta, Alphonse si era sentito attratto dalla sostanza, più che dell'apparenza di una donna.

Semplicemente, era venuto il tempo che accadesse e che un mortale riuscisse ad imporsi laddove nessuno prima era mai giunto. Era stato così con Violate per lui e Alexandra si insinuava nella sua esistenza nel medesimo modo. Forse, Alphonse aveva raggiunto una sorta di maturità dei sensi, un'educazione sentimentale – se così si può dire per un Vampiro – dopo quattrocento anni di esistenza. Buffo.
Improvvisamente, nonostante fosse perso in quelle riflessioni, avvertì distintamente una presenza che prima non aveva percepito. Qualcuno lo stava spiando.
Un ringhio sommesso serpeggiò tra le pietre della Biblioteca e l'ombra sinuosa di una fiera ingigantì sui muri.

 

***

 

Sanakht bussava con forza contro lo stipite di una vecchia mastaba interrata nel deserto, poco fuori i confini di Alessandria. Il timido scintillare delle stelle accompagnava il gruppo di Vampiri giunto sulle soglie di quella Dimora dell'Eternità: i rovi coprivano completamente la porta di quell'edificio diroccato, si erano aggrappati al granito eroso e sbeccato dal vento e dalla sabbia come dita rapaci.
Quando la lastra si schiuse con un sommesso scricchiolare di pietra, il guizzo avido e malevolo di due occhi scuri dardeggiò sui Vampiri, studiandoseli con diffidenza e nequizia.

«Chi siete?»
«Apri immediatamente! Sono Sanakht e ho lasciato qualcosa alla congrega anni e anni fa: la rivoglio!»
Il Bevitore di Sangue dietro l'uscio fissò il suo conterraneo con evidente sorpresa e nervosismo, oltre la coltre di diffidenza. Scostò la porta e li lasciò entrare nella bassa anticamera istoriata di geroglifici. Era un egiziano magrissimo, col volto scavato e rugoso, il naso pronunciato e gobbo; vestiva allo stesso modo in cui doveva esserlo stato centinaia di anni prima, con un gonnellino di lino pieghettato, sandali di fibra di papiro e una collana d'oro e lapislazzuli. Alle braccia, però, portava lunghe bende.
«Sanakht? Bentornato! Non ricordo più quand'è stata la tua ultima visita», interloquì il capo della congrega con un tono mellifluo e lo sguardo inquieto, «se avessi saputo che ci avresti onorato della tua visita, ti avrei preparato la giusta accoglienza. Chi sono loro?»
Sanakht non fece una piega, limitandosi a mormorare: «Miei diletti amici. Il resto della congregazione, Sobek?»
Sobek serrò le mascelle, strisciando contro il muro della mastaba nel tentativo di precedere tutti gli altri man mano che scendevano lungo la tortuosa scala che portava alle camere interrate.
«Che delizioso bocconcino», mormorò fissando Alexandra e leccandosi furtivamente le labbra secche, «Comunque, gli altri sono a caccia. Torneranno prima dell'alba», replicò evasivo, riservando a Demetrius, Violate e Larion uno sguardo più sottilmente ostile.
Aveva modi untuosi e l'aria sgradevole, come se nascondesse qualcosa oltre la sua vuota cortesia: Alexandra lo aveva avvertito subito, sopratutto quando Sobek l'aveva sfiorata durante il tragitto, strappandole un senso di inquietudine.
«Non mi piace», confidò la ragazza in un sussurro.
Violate annuì: «Nemmeno a me, ma ce ne andremo presto.»
«Se Naso Gobbo osa farci qualche scherzo, saremo in cinque contro uno», ribadì Larion con maggior praticità e il sorriso suadente di chi non ha nulla di cui preoccuparsi «In ogni caso, non temere, mademoiselle Alexandra: ti proteggerò io», chiosò divertito.
Raggiunsero un'ampia stanza dov'erano sistemati diversi mobili e dei sarcofagi, nella foggia di quelli usati dai sacerdoti e dignitari dell'Antico Egitto. Sanakht li osservò con cura: erano tutti aperti e al loro interno c'era un pesante strato di polvere. Accigliato, non disse nulla a Sobek che si affaticava a radunare numerosi fogli e a farfugliare qualcosa che suonava come un resoconto degli accadimenti della congrega.
«Non sono qui per farti recitare a memoria gli annali, mi occorre semplicemente prendere il cofanetto di alabastro che avevo lasciato», lo interruppe Sanakht, aggirando il tavolo dalle gambe a forma di zampa di leone e avvicinandosi al muro in cui era incassata una nicchia.
Sobek balbettò qualche scusa e cercò di trattenerlo, prima a parole, quindi con il cenno implorante delle mani bendate.
Non appena Sanakht osservò il sigillo di protezione che lui stesso aveva apposto alla lastra di pietra che occludeva la nicchia, si accorse subito che esso era stato infranto. Si voltò come una belva verso Sobek e, nei suoi occhi, il Sangue Oscuro tinse la sclera, presagendo nulla di buono.
«Cos'hai fatto, Sobek?! Avete infranto il sigillo! Dov'è la scatola di alabastro?!», tuonò e la sua voce riecheggiò nella stanza illuminata dai bracieri.
Immediatamente, Demetrius accorse alle spalle di Sobek che, arretrando, gli finì addosso. Il greco lo afferrò, infilandogli le unghie nella carne senza curarsi di dosare la propria incommensurabile forza.
Violate e Larion chiusero le due vie di fuga della stanza: una era la porta per cui erano venuti, l'altra una seconda apertura verso un'altra saletta attigua. Alexandra, intanto, si sporse – in punta di piedi – oltre il bordo dei sarcofaghi: erano dieci e in tutti, tranne quello contrassegnato con il nome di Sobek, vide una forma vagamente umanoide fatta di quella che era cenere, non già polvere.
«Sono tutti... morti! Qui c'erano dei Vampiri!», esclamò la giovane e si sorprese di udire l'eco atterrita della sua voce.
Sanakht avanzò di un altro passo e la sua figura sembrava quella di un gigante di pietra che si fosse risvegliato di colpo, preda di una furia ancestrale: «Parla, adesso!»
Sobek lo fissò con gli occhi sgranati e vitrei, stretto nella morsa di Demetrius che, silenzioso e inclemente, non gli lasciava via di uscita. Allora, iniziò a balbettare: «Dalla tua ultima visita erano passati troppi anni e... e... pensavo che tu...»
«Che fossi morto?», gli chiese Sanakht con un ringhio gutturale, afferrandolo per il collo e sollevandolo di peso.
Sobek sembrò arrotolarsi attorno al suo braccio, piagnucoloso e implorante: «Sì, sì, è vero, che fossi morto! Volevo solo vedere cosa c'era nella scatola, solo questo! Ma loro... loro me lo volevano impedire e volevano scacciarmi. Così li ho uccisi, tutti!»
«Miserabile! Dov'è il cofanetto?», proseguì Sanakht e strinse la presa, contraendo le dita contro la gola dell'altro Vampiro con forza, tanto da strappargli un gemito di dolore e ledere la pelle.
«Nel mio sarcofago! Giuro, non ho toccato nulla, mai più! Ti prego, perdonami!», implorò Sobek, stringendo le mano contro il braccio del suo aguzzino.
Sanakht lo fissò con un odio velenosissimo e la sua bocca si deformò quando mostrò le zanne affilate: «Hai distrutto l'ultima congrega per le tue stolte mire, hai profanato un giuramento per la tua avidità: non meriti di continuare ad esistere.»
Con una spaventosa pressione, il Bevitore di Sangue stritolò la gola di Sobek: le sue dita penetrarono nella carne, aprendo grandi squarci sanguinolenti e pulsanti da cui il sangue sprizzò in copiosi ruscelli. Con il collo così deturpato, la testa di Sobek era legata al corpo che si contorceva solo da qualche brandello di pelle, brandello che si smosse quando lui cercò di emettere suono, senza riuscirci.
Fu Demetrius a dargli il colpo di grazia, staccando il corpo dal capo e gettandolo sul pavimento, dove si formò una pozza vischiosa di Sangue Oscuro che eruttava dall'estremità mutilata. Dopo brevi istanti di agonia, Sobek divenne un mucchio di cenere annerita.
«Un traditore e un bugiardo», commentò Larion in tono atono, per niente toccato dallo spettacolo a cui aveva assistito.
«La scatola di alabastro è qui: su questo era stato sincero», replicò Alexandra, scossa. Teneva il cofanetto tra le mani come se fosse un tesoro inestimabile.
Sanakht aprì il coperchio, sincerandosi che i Sistri di Hathor fossero integri e al loro posto, dunque radunò tutti e li condusse nuovamente all'esterno.
Nel mettere piede sulla sabbia e lasciandosi quel rifugio alle spalle, Violate indugiò pochi attimi. Socchiuse gli occhi e, richiamando in un rapido impulso tutto il potere delle sua mente, fece crollare l'ingresso della mastaba, eclissandone per sempre ogni traccia.

 

 

 

***

 

«C'è qualcuno.»
«O qualcosa», obiettò Nuberus, rifilando ad Alphonse uno sguardo vacuo.

Il Vampiro rimase in silenzio, i sensi tesi.
Il ringhio appena udito ancora riecheggiava nella Biblioteca di Alessandria e la sagoma di un grosso felino si era rapidamente allontanata, inglobata dalle ombre dei muri e dai bracieri.
Ma un predatore non ne teme un altro e, dunque, Alphonse marciò deciso a scoprire chi fosse l'animale che lo aveva spiato e gli aveva dato un chiaro avviso della sua presenza marcando platealmente il territorio. Eppure, per quanto la cercasse, la belva sembrava davvero scomparsa, inghiottita nel dedalo di corridoi e da un silenzio innaturale.
«Ci stiamo avvicinando al cuore della Biblioteca», disse Nuberus, camminando accanto al Vampiro col mantello nero che frusciava sommessamente.
Era vero. Superando un arco a volta, si ritrovarono entrambi in una sala dal soffitto altissimo, dove la luce filtrava dal tetto attraverso un gioco di specchi di bronzo e rimbalzava dolcemente sulle pareti su cui erano dipinte le figure enigmatiche delle divinità egizie sedute dinanzi alla bilancia spiegata da Maat. Su uno dei piatti, Anubis, il dio dalla testa di sciacallo, aveva posto il vaso canopo contenente il cuore del defunto, sull'altro piatto Maat, la dea dal copricapo a foggia di piuma, stava sistemando una penna bianca, accingendosi alla pesatura.
Tuttavia, benché quelle rappresentazioni tratte dal Libro dei Morti fossero incredibilmente vivide e coinvolgenti, non erano la cosa più straordinaria della sala.
Dinanzi ad Alphonse e Nuberus, infatti, si stagliava un enorme albero, il cui tronco si innalzava come una colonna e i cui rami si aprivano, frondosi, verso il cielo, piegandosi quando toccavano il soffitto. Le foglie sembravano stillare una rugiada dorata e tutta la corteccia era percorsa da tremule vene di verde e d'oro, come se un'energia segreta corresse nel suo midollo assieme alla linfa. Le radici si infilavano ben oltre le lastre di pietra che sparivano per lasciare il posto ad un morbido colle coperto d'erba.
«L'Albero della Vita», esalò Alphonse con un guizzo di bramosia.
Fece un passo verso l'acacia, ma Nuberus lo trattenne, allungando il braccio per sbarragli il cammino.
«Non avere fretta! Osserva: ci sono dei guardiani. Questo luogo è protetto e l'albero non indifeso.»
Alphonse, allora, guardò con più attenzione e scorse quattro statue raffiguranti leoni alati poste ai punti cardinali: formavano una barriera invisibile che proteggeva la pianta e, infatti, su quella barriera la luce si infrangeva, creando ampie ombre e profondi chiaroscuri.
«Non posso rinunciare ora che sono ad un passo dalla meta! L'Albero nasconde il segreto della mia razza. Deve esserci qualcosa nascosto tra i suoi rami o magari nella terra in cui è piantato», il Vampiro analizzò la situazione, raffreddando la passione violenta che lo animava con difficoltà e temporeggiando.
«Prima dobbiamo liberarci dei quattro guardiani, poi passeremo al resto», concluse Nuberus e si diresse verso le quattro statue, puntando quella a sud che gli era più vicina, «occupati di quella a nord: è probabile che i punti cardinali opposti siano connessi.»
Alphonse si liberò della lunga giacca e si scorciò le maniche della camicia. Non appena si accostò alla scultura posizionata a nord, però, un ruggito violento come il rombo di un tuono fece tremare l'intera sala.
Una leonessa enorme dagli occhi verdi come smeraldi, colmi di una collera focosa, balzò nella stanza, snudando le zanne in una smorfia che ne aggricciò le labbra. Il pelo color ocra sembrava spruzzato d'oro, la sinuosa coda saettava nell'aria nervosamente, le zampe premettero per terra a darle l'agio di un nuovo balzo ad artigli sguainati ai danni di Alphonse. Gli piombò addosso e lo atterrò, infilzandogli la pelle con artigli di bronzo. Avvicinò il muso alla testa del Vampiro e avrebbe potuto staccargliela con un solo morso, se Alphonse non avesse reagito prontamente, spingendo via l'animale con tutta la potenza di cui era dotato.
Intanto, Nuberus pose le mani sulla statua e cercò di infrangerla o, almeno, spostarla. Non ottenne alcun risultato: la scultura non si mosse e, anzi, i suoi occhi fatti di diorite presero a brillare sinistramente. Il leone alato, vibrando, sembrò prendere lentamente vita e, con lui, gli altri tre. La pietra dei loro corpi si crepò e, d'un tratto, quattro sfingi schiusero le ali ripiegate sul dorso, lanciando un richiamo profondo e acuto.
Nuberus indietreggiò, sollevando il mantello e facendolo roteare come se fosse stata una frusta infuocata per cercare di allontanare le creature che, lentamente, lo circondarono.
«Ci distruggeranno. Sono troppo potenti!», urlò Alphonse, sfuggendo ad una zampata della leonessa per un soffio e solo perché era appena balzato su un basamento di granito.
«Voi non andrete oltre. Sarete ridotti a brandelli e giudicati dal Tribunale di Osiride. Infine, nulla di voi resterà, nemmeno il ricordo dei vostri nomi», fu la voce ferina della leonessa a levarsi, mentre muoveva fluide e sinuose falcate, girando attorno ad Alphonse. Lo fissò con gli occhi di giada e diede in una risata tonante e selvaggia.
«Chi sei?!», pretese Alphonse, acquattato come una belva, i canini irti oltre le labbra socchiuse e il corpo coperto di ferite sanguinanti che lottavano per rimarginarsi.
La leonessa continuò a volteggiare attorno a lui, leccandosi i baffi nell'annusare l'odore del sangue. Sembrava inebriata da quel profumo e dalla violenza stessa della battaglia e con voce cavernosa rivelò: «Io sono Colei Che È Potente, io sono la terribile fiera dal soffio di fuoco, io sono colei che porta la guerra e la malattia. Io sono Sekhmet, la Possente, l'Occhio di Ra che tutto vede e arde i suoi nemici. Sono la guardiana dell'Albero di Osiride e tu, infimo ladro, conoscerai la mia collera!»
Alphonse rimase inchiodato dallo sguardo di Sekhmetii e riconobbe la radice del potere divino in quella terribile fiera. Tuttavia, non fuggì, né indietreggiò, ma tentò di superarla nella corsa, facendo ricorso a tutti i suoi poteri e alla propria velocità. Appigliandosi ad ogni colonna e asperità nelle pareti, si arrampicò con agilità, saltando di basamento in basamento nel tentativo di raggiungere l'Albero della Vita.
Sekhmet ne seguiva i movimenti dal basso, correndo e sprizzando fiamme dove gli artigli stridevano contro i pavimento e, con la fronte corrucciata, diede in un potente ruggito che fece crollare Alphonse per terra, costretto a premersi le mani contro le orecchie. Soffiando dalle narici allargate, la Dea richiamò il calore bruciante del vento del deserto e del sole stesso; quell'alito infuocato spirò, bollente, a lambire il Vampiro.
Alphonse urlò di dolore, mentre i suoi capelli scuri minacciavano di incendiarsi, i vestiti fumavano e la sua pelle sembrava sul punto di sollevarsi in bolle ustionanti.
Ma Nuberus accorse e, calado sul Vampiro il proprio mantello, lo avvolse nel gelo sovrannaturale di quella enorme rete cosmica che, nella fodera interna, si rivelava una fitta trama intessuta di anime stipate che fecero da scudo ad entrambi.
Il soffio rovente della leonessa surriscaldò l'aria e infranse diverse statuine di terracotta.
Le quattro Sfingi, intanto, erano ritornate ai loro posti e ringhiavano, flesse sulle zampe, scongiurando che chiunque si accostasse alla sacra acacia.
Sekhmet frustò l'aria con la coda, inarcando il flessuoso dorso nel fissare i suoi due avversari. Non era paga di quello scontro, non si sarebbe fermata fino a che avesse distrutto gli invasori.
Avanzò e sovrastò Nuberus, giganteggiando su di lui con tutta la propria mole e la sua ombra danzante divenne immensa. Il Demone dovette reagire nell'unico modo che conosceva: si fece intangibile e il suo mantello cadde, vuoto, come un cencio. Ricomparve dopo pochi attimi, crollando nella vasca che correva lungo la parete ovest della sala, sotto scacco dalla sfinge che vagliava quel punto cardinale.
Allora la Dea Leonessa affondò gli artigli nel petto di Alphonse e il Sangue Oscurò sgorgò, bagnandole le zampe; fece scattare il capo in avanti, le mascelle schiuse, a portare il suo mortifero morso.
Alphonse incastrò le mani contro il muso che lo avrebbe dilaniato e cercò di trattenere la belva, con le braccia tese che tremavano per la violenta pressione. Ma non poteva rivaleggiare con quella potenza e, lentamente, Sekhmet calò sempre più si di lui, facendogli piegare le braccia sotto la propria spinta. Il Vampiro avvertì l'alito infuocato lambirgli la faccia ancora una volta e dilatò gli occhi nello sforzo di non soccombere, mentre il Sangue defluiva dal suo corpo ad ogni lacerazione e graffio. Schiacciato dal peso della leonessa, non riuscì a muoversi e chiuse gli occhi. Per un momento solo, Alphonse si arrese all'evidenza della distruzione imminente, ma ogni fibra del suo essere si ribellava: lui voleva continuare a vivere.
Improvvisamente, il suono tintinnante e scosciante di una musica mai udita prima si fece strada nella sala, facendo tremolare la superficie della vasca d'acqua che occupava un lato della sala e su cui galleggiavano ninfee. Suoni profondi, ritmici, che ricordavano un assolo di voci sommesse in preghiera, si innalzarono man mano, in un crescendo colmo di bellezza struggente.

 

«Io sono la Donna.
Maat è nel mio corpo:
smeraldi e cristalli per i suoi mesi.
Io sono la Donna.
io rovescio i mostri distruttori.
Coloro che sono nelle tenebre
mi adorano e sorgono in me,
coprendo il loro volto: guardatemi!»iii

 

 

Il canto si aggiunse alla melodia che per sette volte riprese il suo ritmo, crescendo e poi discendendo simile al palpitare di ali di falco. E per sette volte la strofa venne ripetuta.
Di colpo, Sekhmet si immobilizzò, volgendo le terga ad Alphonse, catturata dal suono intenso e malinconico del sistro Sekhem, il cui suono era capace di disperdere la sofferenze e le tenebre, nonché placare la Leonessa.

Alphonse, riverso con le spalle al suolo, girò la testa, schiacciando la guancia contro il pavimento reso viscido del suo sangue, sangue che gli inzaccherava il volto, rigandogli la guancia a partire dalla tempia. Sulla soglia della frenesia, di cedere al richiamo della Bestia che anelava solo la sopravvivenza, vide diverse sagome avanzare come in processione.
Alla testa del gruppo, c'era qualcuno che impugnava due sistri, agitandoli con reverenza.
«La musica di Hathor plachi la tua giusta ira, oh potentissima Sekhmet! Ti offro la beltà della musica del sistro Sekhem, che rallegra gli animi e scaccia ogni dolore e il potere del sistro Sechechet, simbolo di gioia e protezione del naos del tempio e dei quattro punti cardinali di cui la Vacca Celeste è custode!», intonò la voce possente di un uomo dal forte accento egiziano.
Alphonse dilatò le pupille e lo riconobbe: Sanakht. Sì, era indubbiamente Sanakht che impugnava quei misteriosi strumenti musicali, il primo con un manico costituito da una testa di Hathor con le corna di vacca del suo copricapo che si allungavano a creare la forma ansata del corpo dello strumento; l'altro aveva il manico a forma di naos contenente un cobra ureo.
«Sanakht?», chiamò Alphonse con voce incerta e distorta. Non ebbe risposta. Aveva perso troppo sangue e giacque immobile, gli occhi spalancati e vitrei, le membra irrigidite. Rapidamente, la pelle si tese sulle ossa come se si stesse disseccando. Non aveva più nemmeno la forza di sfogare la frustrazione della Sete.
L'egiziano avanzò, continuando a suonare e offrendosi alla vista di Sekhmet che lo seguì, docilmente. Giunto alla vasca, si incise il polso e lasciò colare il Sangue Oscuro nell'acqua, tingendola di cremisi.
La Dea Leonessa si accostò a lappare, balzando nella vasca: il mito si ripeteva, come quando Thot l'aveva fatta ubriacare e ammansire offrendole birra rossa.
Lentamente, gli suoi occhi verdi di Sekhmet divennero grandi e dolci, il suo corpo rimpicciolì, divenendo quello flessuoso un gatto che, con dolente eleganza, sfilò fino all'Albero della Vita, richiamando con uno gnaulio le quattro sfingi guardiane, che si tramutarono nuovamente in pietra. Bastet si acciambellò tra i rami dell'acacia, osservando tutti dall'altro con espressione ora benevola.

 






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Note:
 

iIl racconto è riportato in “Letter to Alexandra”: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2886889

ii Sekmet - Era chiamata “Signora Rossa” e “Donna potente”, il suo tempio più importante sorgeva a Rehesu. Era allo stesso tempo una dea vendicatrice e feroce, invocata contro i nemici e contro i demoni, e una dea benevola, patrona della medicina. E’ rappresentata come una donna dalla testa di leonessa ed è indissolubilmente legata alla dea Bastet, nella quale si sarebbe trasformata una volta plzcata la sua ira.

iii Tratto dal Libro dei Morti - Capitolo LXXX, Inno ad Hathor

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Capitolo 6
*** Il Grande Segreto ***


CAPITOLO 5 – Il GRANDE SEGRETO

 

 

Alexandra osservò quel repentino cambiamento di Sekhmet con una nota di fanciullesco stupore. Seguì con uno sguardo incuriosito la gatta dagli occhi verdi che s'accoccolava soddisfatta, prima di cercare la sagoma tanto amata del suo Creatore. Appena lo vide immobile, però, trattenne un gemito di orrore e corse verso di lui, chiamandolo a voce alta: «Alphonse!»
A quel punto, mentre la ragazza si inginocchiava e gli prendeva il volto tra le mani, sporcandosi del suo sangue, tutti realizzarono quanto accaduto.
Larion si chinò verso Alexandra, afferrandola gentilmente per le spalle e scostandola: «Andrà tutto bene, non disperare. Non è morto.»
Alexandra cercò lo sguardo di Violate in muta conferma.
La donna le annuì e le spiegò: «È stato quasi del tutto dissanguato, tuttavia c'è ancora scintilla di vita, in lui. È scivolato nel torpore, perché privi del sangue non possiamo continuare a muoverci. La sua mente è ancora lì, intrappolata dalle pastoie del corpo. Dovremo dargli da bere.»
Sanakht e Demetrius rimasero in disparte, osservando l'enorme acacia e i suoi quattro guardiani alati, mentre Larion e Violate si mordevano i polsi e lasciavano colare un lungo, denso filo di Sangue tra le labbra socchiuse di Alphonse.
Un rivolo carminio sfuggì all'angolo della sua bocca, ma i sorsi più corposi vennero sorbiti dal corpo eterno che, con una lentezza snervante, riprendeva a funzionare, rimarginando le profonde ferite delle artigliate. Dapprima, Alphonse mosse solo gli occhi, roteandoli, rapidi guizzi nervosi sui volti dei suoi amici, quindi piegò le dita delle mani e, infine, si rialzò come se corde invisibili lo avessero appena issato. Afferrando il braccio di Violate con una violenza inconsulta e tutta l'urgenza della Sete, bevve dal suo polso, prima di leccarle la ferita come un lupo affamato. Quando la fame venne saziata, i suoi occhi tornarono limpidi.
«Violate...», la chiamò Alphonse in un sussurro incredulo.
La Vampira gli sorrise e si sporse a posargli un bacio sulla bocca, mormorandogli a fiori di labbra: «Ti ho trovato, figlio mio. Bentornato.»
«Alphonse, ce l'hai messa tutta per seminarci, vero? Mi sono dovuto disturbare a scendere dal mio trono, dai ghiacci di San Pietroburgo alle sabbie dell'Egitto. Non ti pare che mi tu debba un favore, adesso?» Larion si fece avanti con i suoi modi disinvolti da aristocratico e abbracciò l'amico con forza. Sollevò i brandelli dei vestiti di Alphonse e aggiunse con un sorrisetto tagliente: «Suvvia, guarda in che modo barbaro sei conciato...»
«Larion, sei sempre il solito principe viziato. E direi che siamo pari, adesso. Ma come avete fatto ad arrivare fin qui? E...», Alphonse lasciò la frase in sospeso: aveva scorto la figura minuta e delicata di Alexandra. Non riuscì più a parlare e camminò pesantemente, come in sogno, verso di lei, rimasta silenziosamente in disparte. «Alexandra...», esalò in tono stupefatto e spalancò le braccia.
Lei, dapprima immobile quanto la statua di un cherubino, gli corse incontro e gli si gettò al collo, stringendolo con tutte le forze che possedeva.
«Amore mio, mia piccola Alexandra...», le bisbigliò all'orecchio, blandendola e sollevandola tanto da averne il giovane viso contro il suo, i capelli biondi e fluenti mescolati ai suoi bruni, l'odore del suo sangue giovane che si mischiava a quello antico, armonizzandosi nella stessa nota familiare.
«Alphonse, temevo che non ti avrei rivisto! Ti ho aspettato per tutto questo tempo e ora non voglio che mi lasci più sola, mai più!», reclamò accorata Alexandra, sporcandogli il bavero della camicia con le proprie lacrime sanguigne.
«Tu sei la mia opera perfetta, nata dal mio Sangue: non sarai mai sola, così come non lo sono mai stato io», la rassicurò il duca di Benavia, accarezzandole i capelli.
«Che scena commovente...», li interruppe Nuberus, avanzando dal fondo della sala.
Il suo volto albino era inespressivo e, se aveva penato durante lo scontro, questo lo si capiva esclusivamente dalla luce maggiormente smorzata dei suoi occhi blu e mefistofelici.
Agli sguardi freddi e ostili, il Demone non sembrò fare caso, limitandosi a rassicurare: «È stato Alphonse a volersi cacciare in quest'avventura, non guardate me.»
«Allora, ragazzo, sei pronto per le risposte che cercavi? Dopotutto ciò che è accaduto, ti devo la verità.» Fu Sanakht a mettere fino al momento di silenzio infido che era calato sull'assemblea, voltandosi verso Alphonse principalmente, ma rivolto anche a tutti gli altri.
Sollevò i Sistri di Hathor e fece tintinnare il loro suono ancora una volta: la barriera che proteggeva l'Albero della Vita vibrò e si schiuse come un velo, permettendo a tutti di accostarsi all'acacia su cui il fulgore dell'oro correva in riccioli tra tronco e foglie.
Alphonse mise giù Alexandra e, insieme agli altri, si accostò alla pianta, osservandone l'ampia chioma in un silenzio meditativo. Non volle mettere fretta all'egiziano che stava riponendo nella loro scatola i Sistri di Hathor; Demetrius la tenne stretta sotto il braccio, come un tesoro.
«La verità che pochi tra quelli della nostra razza possono conoscere è racchiusa in quest'albero e nel colle su cui si erge. Questa è la Tomba di Osiride!», rivelò Sanakht, levando le braccia con in un gesto di rispettoso saluto, «Un tempo, essa si trovava nei sacri recinti del tempio di Abido, sorto proprio sulla collina primordiale e dove Osiridei fu sepolto quando Seth, suo fratello, lo uccise. Il suo sarcofago, abbandonato sulle acque del Nilo, venne trattenuto dalle radici di un'acacia e, da allora, essa è la pianta sacra del Dio. Quando l'epoca delle grandi dinastie faraoniche volse alla fine, i sapienti vollero proteggere il colle e l'acacia e, dunque, li trapiantarono nel cuore della Biblioteca di Alessandria, in una dimensione inaccessibile ai mortali e dove ora ci troviamo. Qui, sotto quest'erba verde, Osiride ancora riposa e l'acacia affonda le radici nel suo petto: così si compie l'alchimia della Grande Opera perseguita dal mio popolo, dove la vita e la morte fanno parte di un solo grande ciclo di rinnovamento perenne. Osiride è il Dio delle messi, il Dio della resurrezione, il Dio dei morti. Il seme piantato sotto terra, infatti, deve morire per poter germogliare: questo è il principio alchemico del mondo.»
Sanakht fece una lunga pausa e poggiò la mano contro la corteccia dell'Albero, serrando gli occhi. Alphonse lo imitò, senza paura, rivelando: «Avverto un'energia potente sotto le dita.»
L'egizio gli annuì e riprese: «Anno dopo anno, Osiride deve resuscitare, perché gli equilibri del mondo restino intatti. Ahimè, con la perdita dei sacerdoti e del loro sapere, i riti osiriani non vengono più celebrati e rimane solo questo luogo a vegliare sul riposto del grande Dio. Ma egli deve restare protetto, perché noi possiamo continuare a vivere. Il sangue di Osiride è il sangue di ogni Vampiro, pur nella sua infinitesima parte.»
«Com'è possibile?», Alphonse era incredulo e guardò Sanakht come se fosse stato uno scherzo: «E perché non hai voluto rivelarmi tutto questo quando ci incontrammo la prima volta?»
«Per il tuo bene e quello della nostra razza, ragazzo. Nessuno di voi dovrà farne parola con chicchessia. Il rischio è che forzino l'ingresso occulto della Biblioteca e provino ad impadronirsi dell'Albero, nonché di Osiride. Nelle mani sbagliate, tutto questo potrà solo nuocerci», gli spiegò severamente l'egiziano, prima di aggiungere: «Quando Seth uccise Osiride per impadronirsi del trono d'Egitto, ne tagliò il cadavere e sparpagliò i pezzi per tutte le province di Kemet, in modo che nessuno potesse trovarle e riportare i vita il suo odiato fratello. Tuttavia, Iside si accinse alla grande cerca e, poco a poco, riassemblò il corpo del suo sposo, avvolgendolo in strette bende e donandogli il proprio alito di vita, concependo Horus, il Dio Falco. Intanto, Seth, venuto a sapere del viaggio di Iside, radunò in un vaso il sangue e le linfe di Osiride e le rubò. Osiride, avvolto nelle bende di lino come una mummia, con la pelle verde come le giovani messi, impugnò il Pastorale e il Flagello e fondò il Tribunale degli Dei nella Sala della Giustizia: divenne il giudice dei morti e il dio della resurrezione, nonché dell'agricoltura. Dalle sue aule sotterranee, garantì l'inondazione del Nilo e la crescita del grano. Non essendo riuscito nel proprio intento e per vendicarsi dell'ennesimo affronto, prima che Horus piombasse a muovergli guerra, Seth mischiò il proprio sangue a quello di suo fratello e lo fece bere ai più valenti tra i suoi seguaci.»
Tutti erano ammutoliti davanti al racconto che si snodava fin dagli albori della civiltà e non riuscirono a staccare gli occhi dall'acacia, né ad interrompere Sanakht.
«Quegli uomini e quelle donne scelti da Seth, dopo aver bevuto il sangue degli Dei, subirono una brusca metamorfosi. Poiché erano solo dei mortali, non poterono sopportare l'immenso potere e il bruciore che quelle linfe sante portarono nei loro corpi: preda di violenti spasmi, sperimentarono la morte del corpo. Eppure, prima che il loro cuore battesse l'ultimo rintocco, proprio quel sangue divino impedì loro di morire davvero, cristallizzandoli tra morte e vita e spalancandogli le porte dell'immortalità, partecipi del dono delle divinità di cui avevano bevuto. Grande era la loro forza, immensi i loro poteri, ma Osiride si accorse di quanto Seth aveva operato e comandò che le anime di quelle creature rimanessero legate alla loro carne per sempre, sì che il tempo avrebbe permesso loro di sperimentare parimenti gioie e dolori con indicibile acutezza, condannandoli ad errare sulla terra senza poter raggiungere il Tribunale degli Dei come decorso naturale avrebbe voluto. Anche Ra, guidando il vascello del sole, si avvide di quanto accaduto e, ritenendola una blasfemia, maledisse quegli esseri e li rese vulnerabili alla luce del sole e al fuoco, sì che ne avessero per sempre paura e la fuggissero, bruciando se avessero osato sfidarlo uscendo allo scoperto di giorno. Seth, invece, se ne avvalse come guerrieri e li dotò della capacità di muoversi veloci come il vento del deserto di cui era signore e di essere una cosa sola con le tenebre della notte. Eppure, poiché quelle creature erano nate dal sangue degli Dei, per sempre si nutrirono del sangue dei viventi per sopravvivere e chiamarono se stessi Bevitori di Sangue.»
«Questo è il Grande Segreto della nostra razza», concluse gravemente Demetrius quando Sanakht non volle più continuare a parlare.
Alphonse rimase fermo, il capo chino e la fronte premuta contro l'acacia. Dopo qualche istante cercò gli occhi dell'egiziano in maniera eloquente, quindi, quelli di Bastet che ancora vegliava e, appena vi lesse l'approvazione, staccò un pezzo di corteccia dell'acacia.
Immediatamente, da quella piccola ferita del legno, sgorgò una linfa rossa e densa; la pianta gli cedette solo quel piccolo dono, prima di tornare integra.
«Ti serve una di queste?» Nuberus gli allungò un'ampolla vuota, raccolta da uno degli scaffali scavati nelle pareti.
Nella boccetta, allora, Alphonse raccolse la linfa dell'Albero della Vita: il Sangue di Osiride.

 

«Torniamo indietro, adesso», sancì Demetrius, avvolgendo le spalle di Larion con il braccio e cedendo a Sanakht il prezioso cofanetto d'alabastro.
«Sì, voglio tornare all'esterno e vedere il cielo stellato della baia di Alessandria, sentire il vento sulla pelle e l'odore degli umani di mille etnie mescolarsi e inebriare i miei sensi», confessò Alphonse.
Trattenne per mano Alexandra, porgendo anche il braccio libero a Violate, cavallerescamente.
“Che strano trio”, pensò Larion con un sorriso languido sulle labbra.
Nuberus si mosse assieme a loro, silenzioso e discreto, mormorando: «Mi sembra chiaro che, nonostante tutto, il vostro segreto non ha offerto la chiave per riscattarti dal nostro Patto, Alphonse.»
«E cosa intendi fare, allora?», si schermò il duca di Benavia.
«Semplice: dovrai trovare l'anima adatta a rescindere il Contratto e il Marchio. Fino ad allora, resterò con te», ribatté il Demone ostentando un'esemplare noncuranza, superando il terzetto e imboccando il corridoio.
«Speravo di poter godere della pace del mio castello, assieme alla mia... famiglia», replicò tagliente il Vampiro.
«Spiacente di averti deluso, allora. Tuttavia, guarda il lato positivo: non abbiamo alcuna fretta e potrai oziare nella tua tenuta, giocando all'innamorato fin quando avrai voglia. Poi ripartiremo e cercheremo l'anima perfetta, per il sollazzo di entrambi», concluse Nuberus con un fosco sorriso, mentre dispiegava il suo mantello e se lo gettava di nuovo sulle spalle.
«Mai stringere accordi con i Demoni: avrei dovuto metterti in guardia», mormorò Violate qualche istante dopo, irritata.
«Non fartene una colpa, tu non c'entri. Ero giovane e le circostanze poco favorevoli. Troverò la soluzione, ma su una cosa Nuberus ha ragione: c'è tempo. Lasciate che sia felice di trascorrerlo assieme a voi, mie adorate.»
Violate parve dubbiosa, ma non disse nulla.
«Resta con noi, Violate, te ne prego. Non potrei sperare in una famiglia migliore: ho il mio Alphonse e te, un'amica e una madre nel Sangue. Insegnatemi tutto ciò che potete: voglio divenire una Vampira saggia e forte», chiese Alexandra con un sorriso fulgido.
Violate capitolò, acconsentendo.
Solo Sanakht rimase indietro. Ultimo a restare nella sala, era anche il più restio ad abbandonarla. Ancora fermo ai piedi dell'Albero della Vita, si sedette nella tipica posa degli scribi sull'erba, annunciando: «Io resto qua, almeno per qualche tempo. Anelo a ritrovare l'antica sapienza e le visioni del mio Egitto così come sono scolpite nella mia memoria. Tornerò nel mondo esterno presto, ma sento che ora il mio posto è qui, a vegliare sulla Tomba di Osiride.»
Demetrius lo guardò a lungo negli occhi e, infine, annuì: «Così sia, vecchio amico. Prepara un posto anche per me: quando il mondo degli uomini farà troppo rumore per le mie orecchie, saprò che questo è un luogo di pace dove rifugiarmi. Addio.»
Alphonse indugiò a lungo, quindi si portò la mano al cuore e chinò il capo.
«Va', figliolo. Ho da offrirti lo stesso consiglio che ti diedi anni fa: vivi la tua esistenza come sempre fatto, con la medesima passione e disincanto, anelando alla lucida saggezza del tempo.»
Fu così che lasciarono Sanakht a guardia del Grande Segreto dei Vampiri.
Dopo un lungo peregrinare per gli immensi saloni della Biblioteca di Alessandria, giunsero a varcare il confine tra i mondi e si ritrovarono ai piedi del basamento su cui sorgeva un tempo il Faro.
Sull'isoletta prospiciente la baia, la luna scintillava come il sorriso di Hathor nei cieli iperborei.



 

 

 

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Note:
 

i Osiride - Dio della città di Busiride (Abido), viene considerato il primo Faraone d’Egitto. Era il figlio di Geb che affidò a lui il comando sull’Egitto. Fu sposo di Iside e padre di Horus. Venne però assassinato dal fratello Seth, che ne ridusse il corpo a pezzi che sparse in tutto l’Egitto, fino a quando Iside non ne ricompose le membra; divenne quindi sovrano dell’Aldilà e siede nella Sala della Giustizia dove è giudice supremo. Era il dio della vegetazione e dell’agricoltura, e per questo veniva rappresentato come mummia dalla pelle verde, con in mano pastorale e flagello, simboli del potere faraonico, e con delle piante che gli germogliavano dalle membra.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

Marzo 1806

 

 

 

Se dovessi descrivere i miei pensieri nell'ora in cui lasciai Sanakht all'interno della Biblioteca, probabilmente non ne caverei molto.
Ho deciso di raccogliere questa storia in uno dei miei diari proprio nel tentativo di fare ordine tra quelle idee confuse. Ho anche scoperto che ad Alexandra piace l'abitudine che ho di appuntare tutto dei miei viaggi e si diletta a sfogliare i miei memoriali.
Era un groviglio di pensieri troppo confuso, dove si intrecciavano diversi motivi: da un lato, la soverchiante eccitazione di aver scoperto il segreto dell'Albero della Vita, dall'altro la gioia di aver ritrovato Alexandra e Violate; per ultimo, la malinconia dell'arrivederci di Sanakht era giunta come il classico fulmine a ciel sereno.
Ma lo comprendevo, l'egiziano. In un mondo che stava rapidamente mutando, lui aveva trovato la sua piccola oasi di pace ed era giusto che la conservasse. D'altronde, era ciò che desideravo ardentemente anche io.
Noi tutti, comunque, prestammo giuramento sul nostro stesso Sangue Tenebroso che non avremmo mai condiviso il Grande Segreto con estranei. Persino Nuberus venne vincolato a quell'accordo, benché avesse dimostrato – in fin dei conti – uno scarso interesse per la rivelazione sulle origini dei Vampiri. Ma di Nuberus e dei suoi reali pensieri so sempre poco, se non quello che lui stesso ha voluto rivelarmi negli anni o che abbia compreso da solo nell'averlo accanto.
Quando lasciammo la Biblioteca, il mondo dei mortali non mi era mai parso così vivido come in quell'ora, con i suoi colori vibranti e le ombre plastiche, lo sciabordio delle onde e le lampare, le risate brusche dei marinai ubriachi che caracollavano fuori dalle bettole.
Alessandria d'Egitto era una città sospesa. Prometteva di proiettarsi nel futuro, ma ammiccava irrimediabilmente ad un passato che era nelle sue ossa, che l'aveva forgiata fin da quando Alessandro Magno aveva voluto fondarla nel bel mezzo del deserto fulminato dall'ispirazione. Chissà se quel condottiero tanto ardimentoso aveva immaginato le conseguenze della sua decisione.
Passeggiare tra le sue strade poco dopo il tramonto in compagnia delle mie donne, soffermarsi ai bazar per comprare spezie profumate o stoffe pregiate, osservare Alexandra volteggiare mentre provava un grazioso cappellino, mi fece sentire... vivo.
Per un Vampiro, la vita e la morte hanno chiavi di lettura assai diverse rispetto a quelle dei mortali e, forse, proprio perché viaggiamo come funamboli tra di esse, possiamo guardarle oggettivamente, sfiorarle e decidere di danzare con entrambe, senza snobbare l'una o l'altra.


Il viaggio di ritorno, comunque, non fu come quello di andata.
L'andata, infatti, fu un tragitto pieno di amarezza e rimpianti, dettato dall'urgenza di deviare la mannaia del destino dalle cose a me più care: non me lo godetti. E uccisi, in quelle notti precipitose, con ferocia e rabbia, lasciandomi dietro scie di cadaveri e d'orrore.
La partenza era stata approntata in tutta fretta e non avevo una meta precisa, tanto meno un itinerario prestabilito.
Avevo deciso di attendere la venuta dell'alba nella cappella della mia famiglia, distendendomi a dormire tra le tombe che ospitavano i miei genitori e i miei avi. Avevo lasciato per Alexandra una lunga lettera, l'intero castello e una fiala con il mio sangue, così che potesse vantare un ultimo ricordo di me. Ero davvero persuaso dall'idea che, distruggendomi, Nuberus sarebbe finito con me.
Il Demone, però, lo scoprì appena i primi raggi del sole filtrarono dalle finestre a mosaico colorate e lambì la mia pelle e io tentavo di non assecondare il mio istinto alla fuga. Mi prese di peso, gettandomi al buio della carrozza e partì, scortandomi lontano dal castello. Tentai di fuggire, ma la carrozza era come dotata di vita propria e mi fu impossibile lasciarla per giorni. Quando Nuberus si decise ad aprire lo sportello e farmi uscire per permettermi di cacciare, eravamo ben lontani dalla mia città. Eravamo a Roma.
Vagai tra le strade di quella città alla ricerca di idee e risposte, ma non riuscivo ad essere lucido e sfogavo tutta la mia frustrazione sulle prede che incrociavo per le strade, tra tagliagola e ubriaconi.
La prostituta che incontrai la terza sera che vagavo senza meta lungo il Tevere era abbigliata con un corsetto e una gonna a balze di qualità scadente. Mi sorrise come se fosse stata la più pura tra le donne e non badai al fatto che fosse pesantemente truccata o alla volgarità della sua scollatura; ignorai persino la sottile disperazione sul fondo del suo sguardo.
«Siete davvero un bel giovane. Potrei allietare la vostra notte, se lo volte, signore.», mi richiamò con la voce arrochita e un sorriso di circostanza sulle labbra sporche di rossetto.
«Davvero, tesoro? Credi di riuscire ad accendere in me il fuoco della passione?», le risposi con un che di cinico, inchiodandola sul posto con uno sguardo tagliente.
«Sì, posso fare tutto ciò che volete», concesse lei.
La sua disponibilità mi irritava, per quanto comprendessi che non fosse che frutto del bisogno di lavorare e che non poteva certo essere schizzinosa. Tuttavia, mi appariva incredibilmente volgare quell'ostentazione della sessualità priva della più piccola seduzione e magia della conquista.
«Eccoti una moneta d'oro, mia cara. Adesso lascia che ti prenda», risposi prontamente, posandole una moneta nel palmo.
Mi sorrise, incredula, rigirandosi il denaro tra le dita che poi cadde, tintinnando tra i sampietrini appena le sfiorai la guancia con le dita. La trassi a me,con un gesto imperativo e urgente, mentre la sottile malia dei Vampiri abbatté ogni sua riserva. Non avevo voglia di indugiare o di giocare, volevo solo bere e ucciderla, sbarazzarmi di lei e mettere fine alla sua vita infelice.
Quella pelle che aveva conosciuto ogni oltraggio e ogni vergogna non riusciva a scaldarmi mentre posavo la bocca contro il suo collo. In quegli attimi, quella creatura senza nobiltà e aspirazioni, conosceva tra le mie braccia il brivido di un piacere insano, molto più oscuro dei peccati che altri uomini avevano sfogato su di lei in passato.
Il mio morso, però, fu talmente brutale da staccare un pezzo di carne dalla sua gola e far zampillare il sangue in un improvviso fiotto. E lei urlò di dolore, le sue grida riecheggiarono nel vicolo e svegliarono un cane che rispose con un furioso abbaiare e richiamando l'attenzione delle guardie che pattugliavano i quartieri.
Bevvi tutto il suo sangue in un colpo solo, senza godere davvero di quella comunione e rifiutando di vedere gli stralci di ricordi che la mente di quella donna mi lasciava scorgere.
Contrariato e in tutta fretta, mi staccai e la lasciai crollare per terra: aveva gli occhi sbarrati, le labbra socchiuse in un ultimo anelito di orrore, ma le sue membra erano fredde e il cuore aveva ceduto di schianto. Coi riccioli scuri che, dalla crocchia sfatta, si allargavano in una pozzanghera in cui era immerso il viso, la abbandonai lì senza degnarla della più miseria cura, mentre le guardie accorrevano.

 

Mi sentivo come un pazzo, in trappola. Non potevo tornare a casa e non sapevo dove altro andare.
Infine, una notte, seduto sulle merlature di Castel Sant'Angelo a scrutare le carrozze che attraversavano la strada in lontananza e le signore nelle loro stole ai tavoli dei caffè, decisi di riprendere il viaggio che avevo iniziato anni prima e di dare un senso al mio ramingare.
Mi restava pur sempre tentare di scoprire da dove fossimo venuti noi Vampiri. Così, proposi a Nuberus di andare in Egitto, a cercare Sanakht. Sapevo che era tornato lì, mi aveva scritto brevi lettere per dirmi che era vivo ed era partito per quella meta qualche anno prima. Quindi, ci imbarcammo a Napoli e raggiunsi Alessadria d'Egitto: chiesi all'egizio di raggiungermi lì.
Vagai a lungo nel deserto, al limite della città, facendomi scorrere la sabbia tra le dita e beandomi del calore che rilasciava. Era un modo per ricordarmi del sole, di sperimentarne l'eco in tutta sicurezza.
Scoprii ben presto che, come nelle altre città in cui mi ero fermato in passato, giovani Vampiri mi seguivano e mi spiavano.
Incontrai uno sparuto gruppo di Bevitori di Sangue e li interrogai, desideroso di scoprire qualche indizio sulla nostra storia. Timorosi, non volevano rispondermi e solo dopo molta insistenza da parte mia mi condussero dal loro capo. Era un Vampiro da poco più di trent'anni, vestito con abiti dalla foggia tipicamente orientale e che mi accolse tra le rovine di un antico tempio vegliato da sfingi dal capo spezzato e dalle colonne rovinate.
«Benvenuto, straniero. Io sono Hapi. Cos'è che cerchi?»
«Risposte», iniziai con un pizzico di ironia.
Hapi mi sorrise e mi indicò un vecchio sgabello sgangherato: «Hai spirito, qualità rara. Dunque, fai le tue domande e, se sarà in mio potere, ti risponderò.»
«Cosa sai della storia della nostra razza? L'Egitto è un mondo antico, la culla della civiltà, per molti versi. Non vi sono forse notizie che corrano di bocca in bocca in queste terre?»
Hapi rimase seduto in silenzio, le braccia abbandonate sui braccioli di legno, lo sguardo fisso su un punto indistinto: «Il mio Creatore mi aveva raccontato di certe dicerie, ma non saprei davvero cosa fosse o meno vero. Prima di gettarsi nel fuoco, mi aveva parlato di una vecchia leggenda, quella dell'Albero della Vita. Pare che abbia a che fare con noi, ma sembra che – appunto – sia solo una vecchia storia, probabilmente null'altro che una favola dei tempi antichi. Non saprei dirti molto altro. Ma perché ti interessa?»
Rimasi ad ascoltarlo profondamente colpito da quelle poche e rade informazioni che, però, costituivano il primo gradino di quella cerca. Dunque, esisteva una leggenda e un cosiddetto “Albero della Vita”, ma Hapi non ne sapeva nulla di più: mi accorsi che la sua ignoranza era sincera.
«Mi importa per un motivo molto semplice: voglio sapere chi siamo, a cosa devo essere grato per quello che sono. Non mi piace accontentarmi di vivere il mio dono, voglio indagarlo», gli rivelai con sincerità.
Hapi annuì, come convinto da quell'argomentazione e fece un cenno ad uno dei suoi Vampiri che mi portò una scatola di legno scuro. Aprendola, trovai un vecchio rotolo di papiro che sembrava sul punto di sbriciolarsi.
«Puoi prenderlo. Io non so leggerlo: è scritto in geroglifico e ormai nessuno più sa parlarlo, tanto meno leggerlo qui. Il mio Creatore ci aveva scritto alcuni appunti delle sue memorie. Può darsi che, se trovi il modo di decifrare il messaggio, tu possa trovare le risposte che cerchi.»
Ringrazi Hapi e me ne andai, portandomi il rotolo. Mi chiesi come avrei potuto fare a tradurlo e l'entusiasmo che avevo covato all'inizio sfumò. Fu Nuberus ad offrirmi la soluzione. Tornando alla carrozza, gli mostrai il papiro e lui, con una disinvoltura assurda, mi sorrise.
«Posso tradurtelo io, Alphonse. Non c'è nulla di più semplice.»
«Tu conosci l'egiziano antico?», chiesi incredulo.
«Io conosco tutte le lingue dei mortali, anche quelle di cui non c'è più alcuna traccia sulla faccia della Terra. Esisto da che esiste l'uomo e ho avuto parecchio tempo per apprendere tutte le sue favelle», si limitò a spiegarmi come niente fosse.
La notte seguente, mi svegliai al pensiero di conoscere il contenuto del papiro e Nuberus, divertendosi a tenermi sulle spine, non fece altro che dilatare l'attesa. Alla fine, mi lesse il messaggio: «C'è scritto che l'Albero della Vita è custodito nella Biblioteca di Alessandria.»
«Cosa?! Assurdo, quella biblioteca è andata distrutta secoli fa!», obiettai, scuotendo il capo.
«Non ho finito. Hai troppa fretta, come al solito», mi apostrofò e continuo a spiegarmi, trattenendo il papiro con delicatezza tra le dita. Mi riferì che era firmato da un Vampiro che si chiamava Sarenput che aveva contribuito a trasportare tutti i volumi occulti nella nuova Biblioteca prima che venisse distrutta e che essa si trovava in un passaggio magico a cui si accedeva dal basamento del Faro.
Fu così che venni a conoscenza di quel segreto che Hapi, nella sua ignoranza, non sapeva di custodire. Il suo Creatore doveva essere molto antico ed era un vero peccato che avesse scelto di distruggersi. Non avevo nulla da perdere e seguii quell'unico indizio a mia disposizione. Grazie alle istruzioni del papiro, trovai il passaggio ed entrai nella Biblioteca. Fu come una violenta scossa: tutto quel sapere mi lasciò stordito, senza fiato. Ma cosa cercavo davvero, non lo sapevo.
Il resto della storia è stata già narrata nelle pagine precedenti, così come me l'hanno riportata i miei amici.


Nel compiere la traversata che mi riportò a casa, invece, assaporai la dolcezza del rollio della nave, lo schiaffo del vento contro le vele e la salsedine che si incrostava sui vestiti e i capelli. Mentre tutti erano riuniti nella cabina di Larion ad ascoltare le sue vecchie storie che riusciva a raccontare con l'abilità di un istrione, io avevo preso l'abitudine di trascorrere le notti sulla prua del vascello, in piedi sulla polena dalle fogge di meravigliosa sirena, con le cime avvolte attorno al polso solo per sentirne il ruvido contatto, mentre mi sporgevo a fissare la tavola cupa del mare.
Allora, mentre i marinai sonnecchiavano pigramente sul pontile e i timonieri si davano il cambio per riposare, io trovavo pace nel mare d'inverno che cantava al mio orecchio con le voci dei marosi e dei gabbiani, nel Mediterraneo che baciava le coste e ci si insinuava, scavando le sue forme meravigliose.
A Napoli salutammo Larion e Demetrius. Lasciarli mi crucciò molto, ma Larion aveva il forte desiderio di tornare alla sua signoria in Russia e io non ebbi cuore di trattenerlo. Gli ripromisi che sarei andato a trovarlo, un giorno o l'altro, assieme a Violate e Alexandra, che si era molto affezionata. Ci salutammo con un braccio e una pacca sulla spalla, come se fossimo stati fratelli. Demetrius, il greco che parlava solo quando ne aveva motivo ma sapeva sedurre con il fascino di un oratore nell'agorà, andò con suo figlio, lasciandomi in pegno parole colme di rispetto, che ricambiai assicurandogli la mia lealtà e la mia ospitalità se fosse mai tornato da San Pietroburgo.
Quanto a me, Alexandra e Violate, decidemmo di restare a Napoli.
Nel Regno di Napoli la gente era sempre allegra, anche quando aveva fame e non c'era abbastanza farina per infornare il pane per tutti. La fibra dei napoletani era degna di nota e di invidia. Le giovinette vestivano con graziose gonne colorate a balze e grembiulini, gli uomini con calzoni larghi e le loro voci squillanti si confondevano tra le strade e le osterie dove si intonavano canzoni d'amore al suono vibrante del mandolino.
Una sera decidemmo di raggiungere Posillipo, attraversando le abbaglianti strade bianche a bordo della carrozza condotta da Nuberus. Io avevo indossato comodi abiti signorili, con una lunga giacca nera e la cravatta che si infilava sotto ad uno stretto gilet; con i capelli raccolti in una bassa coda, avevo persino le mani guantate e un bastone da passeggio. Violate vestiva di velluto nero e seta argentata, con la fronte cinta da belle perle e ricordava la candida Selene dei miti. Alexandra, invece, vestiva di bianco, perché era il colore che più amava e che le stava d'incanto: rassomigliava ad una ninfa dipinta dal Botticelli.
Il litorale s'apriva sulla vista dei Campi Flegrei e di capo Miseno, costruiti della stessa pietra vulcanica del Vesuvio. Arroccato sul mare in cui la sua facciata seicentesca si specchiava, sorgeva Palazzo Donn'Anna, con le sue arcate e finestroni che intrappolavano le ombre e le luci tremolanti e, privi di imposte, si specchiavano nel mare come occhi senz'anima. Là, da quasi quattrocento anni, si ergeva mai finito come una rocca foggiata dai flutti; la sua pietra grigia diveniva nera nel buio della sera, gli scalini erano livellati dal mare sciabordante che si infilava nei cortili e il cui suono riecheggiava fin nell'intimo delle sue stanze. Era una vista malinconica, il trionfo del barocco napoletano che si inchinava al mare.
«Le leggende raccontano che la regina Giovanna d'Angiò incontrasse i suoi amanti in questo palazzo: erano tutti prestanti pescatori e che, all'alba, ella faceva giustiziare, gettandoli in mare dalla stanza più alta», raccontai alle mie due fanciulle, facendo un lieve cenno ad una delle finestre da cui promanava la luce di una lampada, conferendo alla facciata qualcosa di ultraterreno, «Altri, invece, raccontano che donna Anna Carafa dava grandi feste nei suoi saloni. Una sera, sua nipote Mercedes de las Torres durante una rappresentazione teatrale baciò l'amante di Donn'Anna. Si sa solo che ella, dopo qualche tempo, scomparve misteriosamente. Si vocifera che, nelle notti di luna piena, Mercedes torni ad aggirarsi tra le scale e i corridoi del Palazzo e che, ogni tanto, quando il mare si infila sotto i portici ululando, si possano sentire le voci dei pescatori precipitati e morti annegati.»
«Oh, Alphonse, non dirai sul serio?», mi chiese Alexandra, deliziata da quelle leggende.
Nuberus, però, sogghignò, mormorando: «Di fantasmi ne vedo molti, in effetti».
Ma il tono enigmatico con cui fece quella considerazione lasciò un'ombra di mistero sulla veridicità dell'asserzione.
Dopo quella vacanza napoletana, mi lasciai alle spalle i teatri dove avevo visto recitare le opere della Commedia dell'Arte di Goldoni, la maschera nera dal naso adunco di Pulcinella e le danze popolari al suono dei tamburini.


 

A bordo della carrozza nera che mi aveva accompagnato in lungo e in largo nel corso di quattrocento anni, tornammo alla tenuta dei Benavia. Ritrovai il mio castello e le mie stanze, la mia biblioteca che – al pensiero di quella di Alessandria – sembrava troppo piccola e troppo vuota.
La sera, mentre l'ultima neve sporcava i tetti, Violate suonava il clavicembalo per noi e spesso Alexandra cantava per accompagnarla.
Poi uscivamo a caccia e nessuno poteva resistere al nostro passaggio. Adoravo restare in disparte ad osservare le due donne che si aggiravano ai crocicchi e fermavano gli incauti viaggiatori: somigliavano a due splendide Madonne dipinte da Raffaello e potevano essere scambiate effettivamente per madre e figlia.
Con loro, avevo ritrovato la mia felicità, un senso di profonda soddisfazione, il pieno appetito per l'esistenza.
La linfa dell'Albero della Vita, ovvero il Sangue di Osiride, la portai sempre con me, come una sorta di talismano. Molte volte, mentre l'alba spuntava e il sonno dei Vampiri scivolava sulle mie membra, io mi addormentavo contemplando quella fialetta con la netta impressione che il liquido si muovesse, sciabordando e raggrumandosi come dotato di vita propria.
Il Grande Segreto della nostra specie non ha modificato il mio modo di affrontare le notti eterne, né il modo con cui mi accosto alla sacra coppa del sangue, l'unica libagione di cui esiste la perenne abbondanza. Naturalmente, il sapere come siano nati i Vampiri e del retaggio divino che ciascuno di noi possiede, mi ha fornito una dimensione nuova della nostra storia e la voglia di scoprirne di più: ho un pezzo dell'immenso mosaico, ma – anche se è un tassello fondamentale – ne mancano molti altri per completare l'opera.
Avrei potuto abbandonarmi all'idea di essere la creatura più vicina agli Dei a camminare in mezzo ai mortali ostentandolo, chiedendo di essere adorato ovunque al mio passaggio, ma... non sarebbe poi tanto divertente, perché dalle divinità ci si aspetta la perfezione, l'onnipresenza e l'onniscienza e io, nonostante tutto, sono solo un errante in cerca di risposte, di nuove avventure e sensazioni.
Sono avido di sensazioni, tutto il mio mondo è fatto di sensi. Trovo che non ci sia nessuna chiave di lettura più profonda e forte dell'esistenza che quella delle parole mute scritte dall'incresparsi della pelle, dal respiro ansante e dal cuore che accelera in preda alla vertigine.
In fondo, non mi sento un Dio, per quanto la definizione sarebbe così calzante per il mio ego. Forse potrei considerare Dei che camminano Sanakht, Demetrius e Violate, i Vampiri più antichi che abbia fin'ora conosciuto, ma persino loro stessi rifuggono questo epiteto, così come rifuggono l'idea ripugnante di divenire simili a statue di pietra da incensare nei templi.
Se i mortali devono proprio adorarci, che lo facciano nel segreto dei nostri incontri, nell'afflato del nostro Bacio Oscuro, mentre mesciamo la coppa sacra della loro vita con le nostre labbra.

 

 

Alphonse di Benavia

 

 

 

 

 

 

 

 

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NOTE DELL'AUTRICE

 

 

Eccomi giunta alla fine. Ancora non ci credo. Guardo la mia ultima “fatica” e mi chiedo come abbia fatto a concludere questa storia in tempo per consegnarla ai contest per cui l'ho scritta.

Se sono soddisfatta? Beh, non credo che nessuno sia mai soddisfatto fino in fondo, posso solo dire che ho tentato di dare il massimo e scrivere una storia quanto meno all'altezza. Avrei potuto fare qualcosa di meglio, magari, non so... ci tengo semplicemente ad aver tentato di creare un sequel ai miei due precedenti racconti di questa serie nata praticamente per caso, “Letter to Alexandra” e “L'Eco del Sangue”. Tutti i Vampiri qui apparsi, infatti, sono personaggio che hanno già avuto il loro ruolo nelle altre vicende: ho tentato comunque di riprenderne i tratti e renderli personaggi comprensibili anche senza aver letto le altre storie e spero di esserci riuscita.

Ho voluto in qualche modo rispondere ai diversi interrogativi nati con i finali aperti delle due storie già pubblicate, ma ho lasciato anche ampio spazio per innestare, volendolo, diversi racconti da sviluppare a parte, nel passato come nel futuro di Alphonse.

Mi piaceva trovare una risposta significativa alla domanda su come siano nati i Vampiri e non potevo esimermi dal darne una chiave di lettura egizia. La leggenda di Osiride, Iside e Seth (così come i vari riferimenti mitologici) è autentica, ciò che io ho romanzato riguarda, appunto, il ratto del sangue di Osiride da parte di Seth con cui ha mischiato il proprio per darlo ai suoi seguaci, i primi Vampiri. Credo che sia stata una buona soluzione, quanto meno è di mio gusto. :P

 

Stavolta, benché abbia deciso di mantenere l'impianto con un prologo e un epilogo, la storia si snoda su una scelta stilistica differente rispetto alle altre due storie della serie: il racconto è, infatti, per la maggior parte in terza persona, con l'innesto di narrazioni in prima persona laddove ho ritenuto necessario approfondire un certo personaggio (per esempio il racconto di Violate o di Sanakht) o dare voce per risolvere certe parti maggiormente oscure (come nell'epilogo in cui è Alphonse a prendere la parola). Tuttavia, ho tentato di spaziare molto con i point of view dei vari personaggi e mantenere uno stile adatto all'ambientazione, ai personaggi e al periodo storico trattato.

A proposito di periodo storico, tutto ciò che trovate nella storia ha ovviamente dei riferimenti che mi sono premunita di cercare, per dare ovviamente corpo e verosimiglianza dell'ambientazione stessa, compresi i vari personaggi storici o eventi citati. A tal scopo, ho provveduto ad aggiungere delle note esplicative che possano costituire aiuto e approfondimento, per chi volesse cimentarsi.

 

Passando al resto, ecco la carrellata di contest indetti sul forum di EFP a cui la storia è iscritta, con i miei ringraziamenti agli organizzatori per avermi dato l'ispirazione adeguata.

 

 

- “The melancholy spirit”, indetto da Yuko Chan, con il prompt: http://it.tinypic.com/view.php?pic=2ld9m6d&s=8

Anche se a questo contest non ho potuto più partecipare perché non sono riuscita a terminare la storia per tempo, è grazie all'immagine che mi è venuta l'idea dell'Albero della Vita.

 

 

- “Frammenti di mondi”, indetto da Elsker e Lutea Eos, con il pacchetto:

 

Tenné

Città: Alessandria d’Egitto → naturalmente, Alessandria è la città dove si svolgono i fatti importanti dell'intera storia, il fulcro – con il suo bagaglio di antichità e segreti – dove si snoda la vicenda.

Genere: Thriller → non avendo mai scritto storie di questo genere, ho cercato di fare del mio meglio nel tenere un ritmo quanto meno più serrato e dotato di suspance.

Terzo elemento: un misterioso strumento musicale → ho scelto, in questo caso, i Sistri di Hathor. Esistevano veramente, avevano precisamente i nomi e le funzioni descritte nella storia.

 

 

- “The Ancient Tales”, indetto da Tsunade e InoChan con il pacchetto:

 

Classe -> azzurro: Vampiro → è una storia di Vampiri, su questo almeno non ci piove XD

Situazione -> Drago: "I rovi coprivano completamente la porta di quell'edificio diroccato." → ho scelto di usare questa situazione nella scena in cui Sanakht torna a reclamare i Sistri di Hathor, una scena significativa.

Immagine -> http://fc07.deviantart.net/fs70/i/2011/327/b/0/dreamer_by_erina-d4h3e5i.jpg → l'immagine mi ha ispirato la scena della trasformazione in Vampira di Violate, molto suggestiva.

 

 

 

Non saprei che altro aggiungere, sarà il caldo micidiale, non saprei. XD

Ringrazio comunque chi passerà a leggere e, magari, vorrà lasciare il suo parere.

 

 

A presto,

 

 

Melian

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