Amnesia

di Harryette
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- The beauty of a thousand stars ***
Capitolo 2: *** 1- Alone in the growd ***
Capitolo 3: *** 2- If you want to do it, you can do it ***
Capitolo 4: *** 3- Come with me ***
Capitolo 5: *** 4- In your world ***
Capitolo 6: *** 5- Night and ghosts ***
Capitolo 7: *** 6- Don't be afraid ***
Capitolo 8: *** 7- I can't find peace ***
Capitolo 9: *** 8- Pieces ***
Capitolo 10: *** 9- I'm alive ***
Capitolo 11: *** 10- If you ever come back ***
Capitolo 12: *** 11- Look at me ***
Capitolo 13: *** 12- Storm ***
Capitolo 14: *** 13- It's all about bravery ***
Capitolo 15: *** 14- Stay in memory ***
Capitolo 16: *** 15- Remember those walls I built? ***
Capitolo 17: *** 16- Say something, I'm giving up on you ***
Capitolo 18: *** 17- Feels like home ***
Capitolo 19: *** 18- No sound but the wind ***
Capitolo 20: *** 19- I need you here ***
Capitolo 21: *** 20- A reason to be happy ***
Capitolo 22: *** 21- 49 ***
Capitolo 23: *** 22- Rome ***
Capitolo 24: *** 23- Titanium ***
Capitolo 25: *** 24- The words I've never told you ***
Capitolo 26: *** 25- Then you come to revive ***
Capitolo 27: *** 26- Into the wild ***
Capitolo 28: *** 27- Turn the light on ***
Capitolo 29: *** 28- Shining ***
Capitolo 30: *** 29- What you're fighting for ***
Capitolo 31: *** 30- 50 ***
Capitolo 32: *** 31- My every road leads to you ***
Capitolo 33: *** Epilogo- It's far from over ***



Capitolo 1
*** Prologo- The beauty of a thousand stars ***


 

A tutti quelli che hanno avuto il coraggio di sperare
e a quelli che lo stanno ancora cercando.
Ricordate che il dolore non dura per sempre, non lasciatevi consumare.
 
Amnesia.
 

|Prologo|
The beauty of a thousand stars
 
Dimenticare è un’arte, questo era tutto quello che aveva imparato della vita in generale. Che dimenticare è un’arte, andare avanti un talento e stringere i denti e sopportare è una qualità. Scordare e lasciarsi alle spalle tutto il resto, ed andare avanti, è qualcosa di stucchevole quasi. E sedersi la notte sulla terrazza e contare le stelle è qualcosa di così malinconico che ti spinge a non voler dimenticare. Non vuoi più dimenticare se, poi, non ti resta niente.
Come se vedere qualcosa che brilla, qualsiasi cosa, ti possa far credere- o ti possa illudere- che esiste ancora qualcos’altro.
Come se sedersi sull’amaca e pensare a qualcosa possa portarti a sperare in qualcosa di diverso.
Consolarsi nelle poesie e autoconvincersi che, sì, c’è ancora qualche cosa per cui vale la pena vivere a questo mondo. ‘Che non è tutto rose e fiori, questo si è ormai capito, ma se davvero per le rose si è disposti a sopportare le spine, allora- magari- un sacrificio si può fare. Uno strappo alla regola, veloce come tirar via un dente o rimuovere un cerotto.
Carl Pearson non pensa alla morte e non ne ha paura, come il novanta percento degli individui tarati presenti sulla faccia della terra. Carl Pearson ha, piuttosto, paura della vita. Di quella vita che comunque devi vivere, distrutto o ferito o sano o felice o triste, perché di certo non ti aspetta e di certo non se ne frega di come ti senti. E’ troppo facile morire, andarsene una volta e per sempre, e condurre in eterno una pseudo-esistenza lontano dai mali del mondo e dai cancri della società. E’ troppo facile sparire e fingere di aver vissuto mentre si sta per morire. Perché nel preciso secondo che separa il morire dall’essere morto, te lo senti e lo capisci che sei stato fortunato nella sfortuna e che morire non è poi così male, se comparato a come hai vissuto.
E così Carl Pearson aveva cominciato a credere alla fisica e alla teoria del ‘’è tutto relativo’’. In effetti sì, è tutto relativo.
Per questo non vuole morire e per questo non vuole dimenticare. E ancora per questo si stende tutte le notti in veranda, e guarda le stelle. William Shakespeare diceva: ‘’non rovinare mai il tuo presente per un passato che non ha futuro’’
Carl Pearson ha iniziato a credere anche a Shakespeare.
 
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C’è solo una cosa che fa più schifo di avere dei genitori che credono che tu abbia una vita perfetta, ed è avere una vita tutt’altro che perfetta.
Adagiare le dita sul pianoforte ed iniziare a suonare qualcosa, qualsiasi cosa, per allontanarsi dal rumore dei pensieri. Per fare qualcosa, qualunque cosa, per sentirsi da un’altra parte, lontana da quelle pareti confettate e quell’intonaco pesante. Ma poggiare le mani esili sui tasti neri del pianoforte a coda non la rende più coraggiosa, perché la parte peggiore non è mai quella nera.
Non è dal buio che bisogna guardarsi le spalle, e questo Margareth Grey lo sa molto bene, ma dalla luce. Il buio ti avvolge, quasi ti consola, ti fa abbandonare ogni certezza ed ogni speranza e- si sa- che senza speranza si tira avanti meglio. La luce ti acceca e ti illude, come ogni essere umano illude, e nel preciso momento in cui un raggio di qualcosa che brilla anche solo un pochino ti entra in un occhio, bhè, allora è proprio la fine.
Ed è risaputo che essere felici e realizzati non è facile, ma è un po’ più difficile quando sei Margareth e particolarmente impossibile quando sei Margareth Grey- si, quella Grey.
E nell’istante in cui ti rendi maledettamente conto che poggiare i piedi sulla ringhiera è stato il gesto più ribelle che tu abbia mai fatto, provi qualcosa di strano alla bocca dello stomaco: è una specie di desiderio.
E quando scopri che cos’è, e quando arrivi a desiderare di fare qualcosa che ti faccia sentire viva, e quando inizi a sperare che quel qualcosa arrivi presto, bhè, sei proprio spacciata.
E Margareth Grey- quella Grey- continua ad essere fermamente convinta che c’è solo una cosa che fa più schifo dell’avere dei genitori che credono tu abbia una vita perfetta, ed è avere una vita di merda. Ma non è arrendevole. Dopo diciassette lunghi anni, getta la spugna ma soltanto per prenderne un’altra.
E forse non saprà mai a memoria la terza declinazione latina, che poi a cosa potrà mai servirle?, forse non saprà mai cos’è una cellula diploide né cos’è quella aploide, e magari non scoprirà mai come si suona la nona sinfonia di Beethoven, e non le interessa comunque, per una volta, le interessa soltanto di quel famoso ‘’e se…’’ che ha accantonato ogni volta.
Perché il piccolo lasso di tempo che separa il credere dall’averci creduto, lei non ha intenzione di lasciarlo vuoto e vacuo. E se serve soffrire e far soffrire per smettere di farlo, al diavolo tutto.
Margareth Grey-proprio quella Grey-  vuole solo dimenticare e andare avanti, con tutte le conseguenze che ‘’portare avanti’’ porta avanti nella sua mente. E se vivere significa solo respirare e soddisfare qualcuno che non è lei, allora sta vivendo bene. Ma se vivere significa soddisfare se stessa e respirare per un motivo, allora sta sbagliando irrimediabilmente da qualche parte.
E adesso, Margareth Grey- non più quella Grey- vuole solo trovare quel motivo.



 
Eccomi FINALMENTE qui!!
Allora, premetto che non vedevo l'ora di postare la storia su Carl, e aspettavo solo il momento più opportuno.
Siccome sono incasinatissima con la scuola, ho preferito avere un bel po di capitoli pronti.
Per ora ho scritto fino al dieci, e posso garantirvi che ce ne saranno delle belle ;)
Mhm, non so cosa dire se non che questo prologo è incomprensibile e palloso, ma - ahimè - non ho saputo far di meglio!
Vi chiedo, quindi, di aspettare il primo capitolo (non arriverà tardi, giurin giurello) per poter giudicare.
Quì non si capisce praticamente niente dei personaggi, anche se - sicuramente- più avanti vi sarà tutto più chiaro.
La storia non verterà solamente su Carl e Margareth, ma ci saranno personaggi secondari abbastanza importanti
che usciranno qualche capitolo più avanti!!
Spero che la storia vi intrighi e, sopra ogni cosa, che non vi deluda.
Io ne sono innamorata (e viva la modestia), e spero di riuscire a farvela apprezzare almeno la metà.
Ci tengo parecchio, forse troppo!
Ci sentiamo prestissimo, vi lascio un bacio enorme xx
Harryette


 


 

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Capitolo 2
*** 1- Alone in the growd ***


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Trailer

|Capitolo primo|
Alone in the growd.

La villa a due piani di Margareth affacciava sulla zona più bella di New York. Era sviluppata in lunghezza, non che in larghezza fosse da meno, di un giallo così delicato da sembrare quasi bianco. 
Non si stupiva che quel colore l’aveva scelto sua madre Celine, che in fatto di eleganza e finezza era la numero uno. Scelta sempre sua quella di far mettere il parquet in tutte le stanze della casa, compresi i corridoi, e di far appendere ai muri delle gigantografie del suo matrimonio o di una Margareth di quattro anni, bambina bionda e sorridente. 
C’era qualche scultura di qualche romano vecchia di mezzo secolo, da qualche parte che Margareth neanche ricordava tanto la casa era grande. Celine era una grande appassionata di storia antica, e nella loro casa c’erano più antichi cimeli inutili che oggetti moderni e all’ultima moda, come la gente si sarebbe aspettata dai Grey.
Il realtà la villa era arredata in stile molto sobrio, questo non lo si poteva non notare di certo.
Le scale che portavano all’ingresso, e che tagliavano in due quadrati perfettamente identici il giardino ben curato, erano di un’antica pietra bianca e pregiata. Margareth non avrebbe mai saputo ricordare il nome, nonostante avesse una buona memoria. Le scale all’interno della casa erano dello stesso tipo, leggermente meno spesse. Comunque, non gli piacevano molto.
La cosa che Margareth Grey odiava più di tutte era svegliarsi la mattina, senza spirito di iniziativa e senza voglia alcuna, ed essere costretta a scendere quelle scale immense ed infinite che l’avrebbero condotta in cucina. 
Le dimensioni di quest’ultima erano ancora un mistero per lei, l’aveva sempre reputata davvero troppo grande per tre persone. 
‘’Buongiorno signorina Grey’’ le rivolse un sorriso Hollie. 
Hollie Roden era un’adorabile donnina magra e con i capelli neri spruzzati di bianco, di appena sessant’anni, che aveva praticamente cresciuto Margareth. Le aveva sempre fatto da balia, e lei aveva sempre pensato che quest’ultima lo fosse, ma svolgeva anche altri lavori. Per esempio si occupava di tenere in ordine la casa, insieme ad altre cinque domestiche di cui non ricordava neanche il nome, ed aveva un rapporto meno professionale con i suoi genitori in confronto alle altre.
Hollie era quasi considerata parte integrante della famiglia, dato che serviva i Grey da quando aveva venti anni. Sin da quando Margareth ne aveva memoria, era Hollie che ritrovava in cucina tutte le mattine a prepararle e servirle la colazione. Era Hollie che la svegliava delicatamente alle sette di ogni giorno, ed era sempre Hollie che la ascoltava e la consigliava.
Hollie era la nonna che Margareth aveva sempre desiderato. Non che non ne avesse, ce n’era ancora una- la mamma di sua mamma-, ma con la donna era diverso. Hollie la trattava come una semplice sedicenne qualunque, e non come la figlia del sindaco della Grande Mela.
A Margareth, una volta ogni tanto, faceva bene essere trattata come una persona normale. Le persone che frequentava, e che i genitori volevano che frequentasse, non lo facevano di certo e se c’era una cosa che la ragazza odiava era quella di essere trattata come una principessa.
Sapeva bene che era il sogno di qualsiasi altra adolescente, ma lei che lo viveva non ci trovava assolutamente niente di bello o appagante. Si sentiva solo circondata da persone che prestavano attenzione unicamente al suo rango sociale e al suo portafogli.
Forse era semplicemente sola in mezzo alla gente.
‘’Buongiorno Hollie’’ le scoccò un sonoro bacio sulla guancia, poggiando una mano esile sulla spalla ossuta della donna.
‘’Come sta oggi?’’ le domandò la domestica, come suo solito.
Margareth sospirò. ‘’Ho mal di testa’’ rispose, sviando la domanda reale. Ma conosceva bene Hollie, e quest’ultima conosceva bene lei. E si capirono entrambe.
Mentre la domestica le faceva strada per raggiungere la tavola di legno di ciliegio e per iniziare a mangiare- come sua madre si raccomandava spesso-, le rivelò un’occhiata perplessa.
‘’La cena di lavoro di suo padre, la settimana scorsa, deve essere stata impegnativa per lei’’ le disse, mentre Margareth prendeva il suo solito posto a tavola e mentre le serviva dei cornetti e delle schiacciatine e delle fette biscottate burro e marmellata e tremila altre cose diverse. 
‘’Al solito’’ evase la ragazzina biondissima, scrollando le spalle. ‘’Se c’è una cosa che detesto è accompagnare mio padre e mia madre a queste stupide cene d’affari’’
Margareth non era una tipa molto estroversa, non lo era mai stata e neanche ci teneva, e probabilmente non si sarebbe sbilanciata così tanto con un’altra delle loro domestiche o con qualche suo amico. Ma si fidava di Hollie, sapeva di potersi sfogare con lei, come aveva sempre fatto. 
Quando era bambina e qualcosa la turbava, non ricordava una sola volta in cui fosse andata dalla mamma- come tutti gli altri bambini. Per lei c’era sempre stata Hollie, l’unica.
Era molto silenziosa da piccola, il padre la richiamava spesso per quello. Con il tempo aveva imparato a sciogliersi, anche per farlo felice, ma una parte di lei era ancora apatica ed ammutolita come quella bambina di anni prima.
‘’Resista’’ le disse Hollie, e lei si sorprese. ‘’A diciotto anni potrà fare quello che vuole, anche andarsene. Sono solo altri due anni’’
Margareth non era sicura di volersene andare. Era sempre cresciuta in una campana di vetro, era difficile immaginare una vita diversa da quella. Ma la stava opprimendo, nel senso letterale del termine. Aveva cominciato a detestare quell’ambiente altolocato, quella gente snob e tutto quello che ne comportava.
Aveva cominciato anche a detestare i suoi genitori, che si ostinavano ad imporle una vita che non le piaceva e che le stava stretta.
A volte, si sentiva soffocare.
Questo, Hollie l’aveva capito anni prima.
Margareth guardò la donna e sorrise, nel modo più sincero che conosceva. Non era il solito sorriso cortese ed educato che l’educatrice le aveva insegnato quando era bambina, e che doveva rivolgere ai colleghi di suo padre e alle persone importanti. Quello non era il suo sorriso vero.
Quello che rivolse ad Hollie lo era, e la donna le accarezzò il viso magro e smunto.
‘’Mangi’’ ed era imperativo.
‘’Non ho fame’’ si alzò dalla tavola Margareth, dopo non aver toccato assolutamente niente. ‘’Dici a mia madre che ho mangiato una fetta biscottata al volo’’
‘’Non mento a sua madre’’ si imbronciò Hollie. ‘’Non quando si parla della sua salute fisica’’
‘’Non è una bugia’’ sogghignò Margareth, mentre si avvicinava al centro della tavola imbandita e terribilmente vuota e prendeva una semplicissima fetta biscottata. ‘’La mangio’’ e la addentò, prendendo il suo zaino preparato accanto alla porta. 
Hollie sospirò come una vecchia madre apprensiva, e sorrise. ‘’I suoi genitori mi hanno detto di riferirle che saranno a casa entro le cinque di oggi pomeriggio’’
Margareth si finse interessata solo per educazione, e ricambiò il sorriso. ‘’Va bene’’ annuì.
‘’Ah’’ si ricordò improvvisamente la domestica, sistemando meglio la sua divisa bianca e nera. ‘’E mi hanno anche detto di dirle che Parigi è bellissima e che sua madre le ha comprato una borsa stupenda’’
Margareth era piena di ‘’borse stupende’’ ma sorrise ancora e annuì di nuovo.
Si mise velocemente lo zaino rosa sulla spalla, e si sistemò la divisa scolastica e i capelli che aveva sempre trovato troppobiondi.
‘’George la aspetta fuori’’ continuò Hollie, riempendola di informazioni abituali. Come se non lo sapesse. Fece un leggero cenno col capo e aprì la porta, varcando la soglia e uscendo fuori da quella sottospecie di prigione.
Il tenue sole di settembre illuminava il cielo di una New York che usciva dal letargo estivo e diventava più trafficata e caotica che mai. Il meteo non aveva preannunciato pioggia, e Margareth ne fu sollevata perché la infastidiva non poco.
Alla fine del suo immenso giardino, mentre Lucas il giardiniere aveva già iniziato a potare le piante e la salutava cordialmente, c’era un’auto nera troppo grande per una sola persona e un guidatore.
Al volante c’era George, fedele autista della famiglia Grey da tempo immemore e spettatore di ogni riflesso di Margareth in quegli specchi.
‘’Buongiorno signorina Grey’’ la sua voce bassa ed autoritaria echeggiò nello spazio della macchina, mentre Margareth nascondeva la fetta biscottata- che non aveva mangiato e non aveva intenzione di farlo- in un fazzoletto e la ficcava in borsa. 
‘’Buongiorno’’ rispose, educata come sempre.
Sarebbe stata una lunga giornata.

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Gwyneth Paltrow aveva frequentato, a suo tempo, il prestigioso collegio Spence School. Ovunque gli venisse fatta pubblicità, in ogni posto si trovasse un cartellone pubblicitario, o chiunque ne parlasse non ometteva quel dettaglio. 
Ed ora, ovviamente, Gwyneth Paltrow non c’era più ma di esempi simili potevano essercene altri mille: la figlia di Brad Pitt frequentava quella scuola, la figlia di Madonna frequentava l’ultimo anno, c’era Lila Grace- figlia di Kate Moss- che frequentava l’ultimo anno delle scuole medie. 
Margareth non si sarebbe sorpresa che vi uscisse anche un lontano parente di Obama. La maggior parte dei ragazzi, invece, erano figli di imprenditori di fama mondiale o di grandi petrolieri o pezzi grossi dell’industria.
Sistemandosi meglio la gonna a balze di un orribile grigio topo e la camicia bianca e profumata con la cravattina abbinata, varcò quel cancello verde e fece il suo solito ingresso nel comprensorio femminile.
Nell’esatto momento in cui mise piede in quella struttura incredibilmente pacchiana ed estrosa, che non le andava molto a genio, qualcuno la stritolò da dietro.
Sapeva benissimo chi fosse anche prima di girarsi, ma si mostrò colta alla sprovvista solo per compiacerla e scoppiò in una risata contagiosa. Le avevano sempre detto che le sue risate lo erano, ma non ci aveva mai creduto più di tanto.
Girandosi, si ritrovò davanti una ragazza che era il suo esatto opposto: mulatta, con dei capelli corvini e ricci fino all’inverosimile e con un sorriso quasi tirato, perché diceva di avere dei brutti denti. 
Robyn Young era la sua migliore amica dai tempi delle scuole medie, che avevano frequentato sempre nello stesso edificio, ed era la persona più estroversa e simpatica che lei avesse mai visto (sì, anche se non sorrideva a 32 denti).
‘’Ciao bionda’’ le strizzò una guancia, mentre Margareth cercava di allontanarsi senza sembrare brusca. Non era un comportamento molto maturo, in effetti. ‘’Ho uno scoop’’
Robyn era anche famosa alla bionda per i suoi scoop, o notizie dell’ultim’ora, o novità incredibili o come preferiva chiamarle ogni volta. ‘’Chi ha avuto un incidente in limousine questa volta?’’ le sorrise Margareth, incrociando le braccia al petto. L’ultima notizia della mora riguardava una cerca Alisha Monroe che aveva avuto un incidente con il suo autista, ed ora era ricoverata in una clinica privata ai confini del mondo. 
Inutile dire che Robyn rincarava la dose e forniva di dettagli inutili- ed inventati, la maggior parte delle volte- ogni storia.
‘’Indovina cos’ha fatto Katerina McMillan’’ sogghignò.
‘’Ehm…’’ balbettai. ‘’Non ha preso in tempo il volo per tornare dalle Bahamas?’’
‘’No’’ sbuffò Robyn. ‘’Cioè, sì, è vero, ma non è questa la notizia bomba’’ 
‘’Me la dici, allora?’’
‘’Si è fatta un tatuaggio’’ sgranò gli occhi la mora. ‘’Sulla pancia’’ aggiunse disgustata, e rabbrividendo molto poco finemente per i suoi soliti standard. In realtà a Margareth non poteva importare di meno di Katerina McMillan così come non poteva importarle di meno di un semplice tatuaggio sulla pancia. Certo, era praticamente una vergogna generale- non solo per la persona in questione, ma anche per la famiglia- che una ragazza (o un ragazzo) si tatuasse a meno di venti anni. Era sempre stato così da quando la bionda ne aveva memoria, e lei era cresciuta fra il disgusto per i piercing e i tatuaggi e la costante pressione a dare il massimo, ad essere il meglio, la prima indiscussa. Rabbrividì anche lei, ma più per una sorta di abitudine e rassegnazione che per altro. 
‘’Squallido’’ disse, e sempre per abitudine ci credeva davvero. Anche se era combattuta, la modalità con la quale aveva convissuto per sedici anni era in netto sopravvento. Margareth non era una persona prevenuta né tantomeno con pregiudizi, era convinta che- se magari avesse conosciuto meglio Katerina- avrebbe potuto scoprire il reale motivo per cui avesse deciso di tatuarsi a sedici anni. Non doveva essere tanto stupido, dopotutto.
‘’Già’’ annuì Robyn. ‘’Avrei voluto essere una mosca per vedere cosa le hanno detto i genitori quando l’hanno scoperto’’
Margareth scosse la testa. Sapeva che quella di Robyn non era cattiveria e neanche malizia, era semplicemente una pura curiosità. 
‘’Dopotutto’’ continuò l’amica. ‘’Non c’è granchè da aspettarsi da genitori medici’’
Robyn però, al contrario della bionda, aveva forti pregiudizi e una fiducia infinita nella famiglia in generale. Per la ragazza, bastava sapere che lavoro facessero due genitori per ricavare il profilo psicologico di una persona. Ed era parecchio restia nei confronti delle famiglie alto-borghesi. Degna figlia di un petroliere, dopotutto.
Margareth non ebbe il tempo di dire nient’altro, anche se molto probabilmente non l’avrebbe contraddetta perché la Robyn contraddetta faceva davvero paura, che suonò la campanella.
Si separarono, essendo in classi diverse, e Robyn l’abbracciò in modo quasi affettuoso.
Le ragazze come lei, come loro, non erano di certo abituate a manifestazioni pubbliche di affetto. Le reputavano scortesi e inopportune, magari anche imbarazzanti in certi casi. Preferivano un bacio sulla guancia, o una semplice stretta di mano. Margareth era contenta perché per Robyn non faceva molta differenza, e la abbracciava anche se il loro abbraccio durava due microsecondi e si sfioravano a malapena.
‘’Ci vediamo all’uscita’’ le disse l’amica. ‘’Devo farti vedere l’ultimo regalo di mio padre’’
‘’A dopo’’ sorrise Margareth, per la centesima volta quel giorno.

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Le Louboutin che Oliver Young aveva regalato a sua figlia, di ritorno da un viaggio di lavoro negli Emirati Arabi, erano l’ottava meraviglia del mondo. Erano un modello nuovissimo, che in America neanche era arrivato di striscio, e Robyn era così estasiata mentre le mostrava che Margareth si sentì quasi felice quanto lei.
‘’Non sono meravigliose?’’ le aveva chiesto, con gli occhi brillantini. ‘’Sì, lo sono’’ aveva annuito Margareth, innamorata di quelle scarpe. E, a mezz’ora quasi dal termine delle lezioni, si alzarono dalla panchina del parco della scuola sulla quale erano sedute, e Robyn sorrise ancora una volta.
‘’Il mio autista è arrivato’’ disse, controllando il suo iphone. I Young erano molto tecnologici, anche i loro domestici probabilmente, e l’autista doveva averle mandato un messaggio. ‘’Vuoi che aspetti con te?’’
Margareth aveva chiesto a George di venire un’ora dopo la fine delle cinque ore scolastiche, verso le due, e mancavano ancora trenta minuti. ‘’Non preoccuparti’’ scosse la testa. ‘’Lo chiamo subito e dico d venirmi a prendere ora. Va pure tranquilla’’
E dopo due minuti scarsi, la bionda si ritrovò da sola nell’atrio di quell’enorme istituto, ormai vuoto. Si ritrovò a pensare che, visto da fuori, poteva quasi sembrare ad un castello. Somigliava parecchio al Duomo di Milano, che lei aveva visto ed adorato.
George le aveva detto che stava arrivando, quindi sarebbe rimasta lì per altri pochi minuti più o meno. Si diresse verso il cancello, con lo zaino rosa ancorato sulle spalle, per farsi trovare già lì quando l’autista sarebbe arrivato. Ma si immobilizzò.
Dinanzi a lei c’era un ragazzo che non aveva mai visto, non che vedesse molti ragazzi anzi solo quelli che le presentavano i genitori, che la fissò immobile. Lo riconobbe quasi immediatamente.
La settimana prima, o forse di più, mentre i suoi genitori erano appena arrivati in Francia, lei era andata a casa di Robyn per studiare e- al ritorno- aveva pensato di fare qualcosa di normale. Qualcosa che le ragazze della sua età facevano di routine. 
Aveva preso la metropolitana. 
Ci aveva messo molto tempo a capire come funzionasse, e aveva chiesto indicazioni ogni due minuti, ma quando era arrivata fuori casa sua si era sentita realizzata ed indipendente per la prima volta.
E quel ragazzo moro dagli occhi azzurrissimi, che la stava fissando ancora, era proprio su quella metro. 
Margareth ricordava benissimo come l’aveva guardata, con lo stesso sguardo che aveva in quel momento, quasi lei gli sembrasse…finta. Uno sguardo assente e altrove, ma pur sempre uno sguardo.
Lei aveva rischiato di cadere dopo una brusca fermata, a cui non era di certo abituata, e lui l’aveva afferrata prontamente, come se stesse aspettando quel momento. E lei, dal canto suo, ricordava ancora la sensazione del suo tocco: le sue mani erano bianche e fredde, quasi gelide, che contrastavano con la pelle bollente della ragazza. E ricordava il suo profumo di fumo e menta, i suoi occhi spettrali e il suo sguardo curioso e sorpreso quando lei si era alzata dalla metro troppo piena per far sedere un’anziana signora. 
‘’Grazie’’ gli aveva detto lei, timida come sempre e in soggezione. ‘’E’ la mia fermata’’ scendendo. Non l’aveva rivisto più, nonostante una piccola parte di lei ci avesse sperato per un po’ di tempo. Ma non sapeva chi fosse, non conosceva il suo nome, e la metropolitana non faceva di certo per lei.
Ed ora era proprio lì, davanti a lei, davanti all’entrata del collegio, mentre la guardava nello stesso identico modo che le sembrava quasi familiare
Si avvicinò a lui, contro ogni previsione e contro la sua stessa logica, e gli poggiò una mano esile sulla spalla. 
Il ragazzo la guardò così da vicino, terrorizzato. Margareth indietreggiò impercettibilmente, cercando di essere cortese. Sembrava quasi che quel ragazzo fosse in un incubo, che lei fosse il suo incubo.
‘’Va tutto bene?’’ domandò, insicura ed apprensiva. ‘’Hai bisogno di una mano? Sei uno nuovo?’’
Magari avrebbe potuto dirgli che quello era un collegio femminile, se lui si fosse dimostrato intenzionato a parlare. 
‘’No’’ rispose bruscamente. Forse troppo. Il poco coraggio che Margareth aveva avuto nel parlargli sfumò a poco a poco.
‘’Ah’’ balbettò imbarazzata. ‘’Comunque stanno per chiudere, dovremmo uscire’’
Le era sembrata la cosa più intelligente e sensata da dire. Uscirono fuori dal cancello con una lentezza quasi esasperante. George sarebbe arrivato da un momento all’altro, e non poteva vederla con un ragazzo.
Non con un ragazzo come lui.
L’avrebbe detto ai suoi genitori, di sicuro.
Il ragazzo davanti a lei era abbastanza alto, indossava un pantalone nero sfilacciato e una canotta dello stesso colore non propriamente elegante. Era una t-shirt a giro maniche, che lasciava scoperte tutte le braccia e gran parte del collo. Al piede aveva delle converse nere, tanto per cambiare, e consunte. I capelli chiari, nel rosso forse, e gli occhi azzurri da star male.
Un piercing gli copriva un sopracciglio, ed era davvero tatuato.
Da così vicino, Margareth poteva distinguere un teschio disegnato sul braccio destro ed una rondine sulla parte sinistra del collo. Una piccola croce sulla guancia, che poteva tranquillamente sembrare un neo. Perfino le sue dita erano coperte da tatuaggi. 
A lei non piacevano, ne aveva paura, e non le erano mai piaciuti. Ma su quel ragazzo le parevano quasi…carini? Non era il termine adatto, ma rendeva l’idea. Era immobile.
‘’Secondo te’’ iniziò, e lei si gelò. ‘’Le paure possono essere sconfitte?’’
Margareth pensò a tutte le volte in cui le avevano detto di non parlare con gli sconosciuti e di non dargli confidenza, ma sembrava che la sua bocca si fosse aperta da sola e che le parole ne fossero uscite fuori senza che potesse accorgersene. 
‘’Suppongo di si’’ balbettò.
Le sembrò quasi che lo sconosciuto volesse sorriderle, ma non lo fece. Si chiese come dovesse essere il suo sorriso, se bello come lui. Non riusciva ad immaginarcelo. Lui, contro ogni previsione, le tese la mano.
‘’Mi chiamo Carl’’ disse, con una voce ancora più roca di prima.
‘’Margareth Grey’’ la strinse lei.
E sorrise per la centunesima volta quel giorno, ma davvero.

 
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Eccomi di nuovo qui :)
Dunque, tanto per cominciare, vorrei ringraziare tutte le meravigliose ragazze che si sono prese la briga 
di recensire il prologo, e che hanno inserito la storia fra le preferite\seguite\ricordate!
Davvero, mi riempite il cuore di gioia!!
Non so se l'ho già fatto, o solo per metà, ma prometto che risponderò a tutte le vostre
belle parole. Grazie per l'affetto che mi dimostrate, sempre e ancora <3
Detto ciò, questo puà essere considerato l'inizio vero e proprio di Amnesia.
Entra in scena, DI GIA', anche Carl, il personaggio maschile.
Ho preferito partire direttamente la loro secondo incontro, non perchè
il fatto della metro non foss importante ma perchè era risalente a tanto tempo prima di questo :)
Chi ha letto Mors Omnia Solvit sa già perchè Carl è fuori il collegio e perchè sembra spaventato.
Per chi non lo sapesse, tranquille che si scoprirà tutto a tempo debito :)
Il carattere dei primi due personaggi verrà chiarito più avanti, per adesso spero di non avervi
deluse e che il capitolo, sebbene di intro, sia stato di vostro gradimento.
ASSICURO che diverranno più interessanti!
Un bacio,e buon fine settimana a tutte xx
Harryette

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Capitolo 3
*** 2- If you want to do it, you can do it ***




| capitolo secondo |
If you want to do it, you can do it
 
‘’Non ho fame’’ decretò, spostando di poco il piatto dal tavolo. Non aveva mai amato i fagioli, soprattutto da quando il padre era andato in fissa con i ristoranti italiani, e fosse cascato il mondo non li avrebbe mai mangiati. Come non avrebbe mangiato il pollo, né i fagiolini né qualsiasi altra cosa le avessero messo davanti.
Celine Grey si pulì le labbra con il solito fazzoletto di lino, e poi la guardò di traverso. Era una donna paradossalmente sospettosa, per qualsiasi gesto di qualsiasi persona, e Margareth la reputava anche abbastanza asfissiante. Solo sulle cose che le interessavano e che riteneva degne di nota, ovviamente. 
‘’Margareth’’ sospirò, lasciando che i suoi perfetti e laccati capelli biondi- di qualche tonalità più scuri di quelli della figlia- si spostassero un minimo. Al collo aveva una collana di perle che, probabilmente, sarebbe servita ad estinguere la fame nel mondo o perlomeno a costruire dei pozzi in Africa. ‘’Sei dimagrita di tre kili dal mese scorso. Non è positivo’’
Sostanzialmente Celine avrebbe potuto utilizzare vocaboli più formali e amichevoli, ma Margareth sapeva bene cosa pensava sua madre e come preferiva comportarsi. Soprattutto quando erano a cena con degli ‘’amici’’, manteneva sempre un certo distacco e un certo autocontrollo. 
Margareth era sottoposta a tre visite mediche mensili, per controllare che stesse bene e che non avesse nessun tipo di problema. Era così da diciassette anni, da quando era nata, e aveva l’impressione che non sarebbe cambiato mai. Il medico la visitava, la pesava, traeva un bilancio generale. E lo riferiva a Celine, che deteneva le redini della vita in quella casa.
Nonostante il padre fosse il sindaco di New York, Celine Grey- ex Gilbert- proveniva da una famiglia che poteva definirsi ancora più ricca di quella di Dan. Era una donna di potere, abituata ad avere tutto sotto controllo e a non farsi sfuggire assolutamente niente. 
Detestava quando il medico di famiglia le diceva che qualcosa, anche la più stupida, non andava. Preferiva di gran lunga uno sbrigativo ‘’tutto a posto’’.
Margareth guardò il contenuto del suo piatto e trattenne un conato. Non aveva fame, non aveva voglia di mangiare, e la paternale che sarebbe arrivata da lì a poco non avrebbe fatto altro che aumentare la sua nausea già abbastanza persistente. ‘’Io mangio’’ disse, flebilmente. Non si sarebbe mai sognata di alzare troppo la voce dinanzi ai suoi genitori, né davanti a quegli ‘’amici’’ che loro si ostinavano a far sentire a loro agio. 
Celine lanciò un’occhiata torba a Dan, il marito, e poi si rivolse ai due coniugi e al loro figlio seduti accanto a lei.
Margareth voleva solo uscire da quel ristorante, che era lussuosissimo e si trovava a cavallo di un fiume, dando una vista sull’acqua meravigliosa. Voleva allontanarsi da quella famiglia con cui erano usciti a cena e che non aveva mai visto, e strapparsi via le ballerine argentate che le stavano uccidendo i piedi.
Ma si limitò a sorridere, quando il figlio dell’altra coppia le regalò un piccolo sorriso. 
La famiglia Andrews era una delle famiglie più influenti di New York. Provenivano dal Texas, da un’antica tenuta a dir poco costosissima, e a quanto pareva erano molto amici dei Grey.
Margareth non li aveva mai visti né sentiti, ma dal grado di confidenza che c’era fra l’imprenditore Jordan Andrews e suo padre poteva dedurre che fossero amici davvero.
Suo padre sembrava quasi rilassato, cosa che non accadeva mai durante le sue cene di lavoro. Evidentemente non era quello il caso.
Il figlio dei coniugi Andrews aveva due anni in più di lei, diciannove, ed era il classico ragazzo perfetto. Ricco, educato, dai capelli corvini e gli occhi di un verde intenso che Margareth non aveva mai visto. Alto, dal fisico asciutto, e anche sostanzialmente simpatico, per le due parole che aveva detto. 
Si chiamava Henry, degno nome di un reale.
‘’Allora, Margareth’’ disse la madre di quest’ultimo, che pareva si chiamasse Anna. ‘’Come stai? E’ da tanto che non ci vediamo’’ aveva un bel sorriso, quella donna. La bionda avrebbe voluto dirle che non la ricordava neanche per sbaglio, ma tacque. Era particolarmente malinconica quella sera, non che di norma non lo fosse sempre ma a volte le veniva davveroda piangere. 
E mentre sorrideva falsamente e ripeteva il solito ‘’bene, grazie. E voi?’’ pensava e capiva che lei, bionda e con gli occhi azzurri e fragile come una bambolina di porcellana, era esattamente il tipo che piangeva. Non era mai stata forte in vita sua. Non aveva mai contraddetto nessuno, per paura e poca cura. Non aveva mai avuto il coraggio di ribellarsi a qualcosa, qualsiasi cosa. Non aveva mai avuto la forza di alzarsi da tavola, durante almeno una delle milioni di cene di lavoro del padre a cui era costretta a partecipare, ed uscire fuori. Si limitava a sorridere, come aveva sempre fatto, e a nascondere sotto labbra e denti tutte le cose che voleva dire. A serrare gli occhi ed impedire alle lacrime di scivolare copiose sulle sue guance.
Ci sarebbe stato tempo per piangere, pensava. Lo faceva quasi tutte le notti. Avrebbe voluto, se non la speranza di poter cambiare vita, che almeno i suoi genitori se ne accorgessero. Insomma, se non se ne accorge un genitore di queste cose chi altro dovrebbe farlo? 
Non l’avevano mai capito, o forse facevano finta di non capire, nonostante lei si rifiutasse di uscire da sola e di mangiare.
Erano ciechi, lei non sapeva più come chiamarli.
E fu nel momento in cui suo padre, evidentemente d’accordo con il padre di Henry, le sorrise in modo satanico e le disse ‘’Maggie, che ne dici di conoscere meglio Henry? Non trovi sia un bel ragazzo?’’ che lei capì e le venne davvero da vomitare.
Henry non era tipicamente brutto, anzi, e lei non lo conosceva. Ma suo padre non poteva davvero credere che lei si sarebbe fidanzata con il primo che piaceva a lui. Conosceva bene Dan, probabilmente meglio di quanto conoscesse se stessa, e sapeva altrettanto bene quello che lui aveva voluto dirle sotto le parole che aveva pronunciato. E Margareth ricordò quel discorso di qualche settimana prima, in salotto, quando i genitori l’avevano sorprendentemente convocata.
‘’Non credi sia ora di allargare gli orizzonti e trovare qualcuno con cui condividere e ricevere un patrimonio?’’ le aveva chiesto suo padre, e Celine era stata più che pronta ad annuire, in segno di consenso. Margareth aveva sviato il discorso, annuendo, convinta che non sarebbe mai stata con qualcuno perché lei non aveva intenzione di ‘’allargare gli orizzonti’’. Non riusciva neanche a badare e soddisfare se stessa, non le serviva qualcun altro di cui preoccuparsi.
Improvvisamente, le fu chiaro il motivo di quella cena fra ‘’amici’’. Schifosamente e completamente chiaro. E sapeva bene che, comunque fosse andata quella serata e qualunque cosa avesse pensato riguardo a quella che pareva una presunta spinta nella vita di Henry, lei non avrebbe mai avuto il coraggio di ribellarsi. Di nuovo sorrise al padre e a Jordan, poi si alzò lentamente dalla sedia. Henry Andrews era esattamente il prototipo di ragazzo ideale che sua madre e suo padre avevano dipinto per lei quella sera di qualche settimana prima: bello, ricco e appartenente ad una famiglia influente. Ereditario di una fortuna grande quasi come la sua. Era quasi logica, la mossa losca dei suoi.
‘’Con permesso’’ sussurrò. ‘’Ho bisogno della toilette’’
La madre le rivolse un cenno, come una specie di permesso, e Anna le sorrise in modo quasi materno. ‘’Vuoi che ti accompagni?’’ le chiese educatamente Henry, senza staccare quelle iridi verdi da lei, palesemente interessato. Per lui, forse, quella mossa escogitata dalle due potenti famiglie non doveva essere tanto cattiva. 
‘’No, ti ringrazio’’ si sforzò di sembrare cordiale Margareth, prima di lasciare la sala e dirigersi a destra.
Avrebbe solo voluto essere come sua madre: intraprendente e decisa. 
Si sentiva schiacciata sotto il peso di una vita che non le piaceva e di una famiglia a cui sentiva di non appartenere. Le sembrava quasi che fosse sott’acqua, sommersa da litri e litri di sale, senza trovare la forza di nuotare e risalire in superficie. Guardava la sua vita dal basso, come fosse stata in una bolla, vedeva le sue decisioni che venivano prese da qualcun altro. Ed era immobile, ancora impotente e ancora fragile, debole e spaventata. 
Entrò in bagno, spazioso ed enorme, e si lavò le mani forsennatamente come se avesse potuto lavare via da lei tutto il resto. Poi alzò il capo e guardò il suo riflesso allo specchio brillante e attorniato da piccole lampadine a led. 
I capelli biondi le ricadevano morbidamente sulle spalle esili, alzati in un leggero chignon che le aveva fatto la sua parrucchiera. Il volto era magro, smunto, e poteva vederlo chiaramente anche lei: era incredibile come la sua immagine fosse cambiata nel giro di due mesi, da quando non si era guardata più allo specchio. Non riusciva a vedere il suo volto, e il quel momento- l’essere lì, a guardarsi- fu quasi una vittoria per lei. 
Gli occhi a mandorla, blu come il cuore degli abissi, sembravano più scuri di molte tonalità da quando aveva avuto modo di vederli l’ultima volta. Non stava piangendo, o avrebbe fatto sciogliere tutto il mascara che la truccatrice le aveva attentamente messo, eppure sembrava che lo stesse facendo. 
Si fece quasi pena.
Era possibile che nessuno, nessuno al mondo, notasse come stava e si rendesse conto dell’ovvio? 
In quel momento come in nessun altro, Margareth trattene a stento le lacrime e venne completamente sopraffatta. Era da due anni che stava così, da due anni che si era resa conto di quanto in realtà odiasse la sua vita. Aveva resistito per 730 lunghissimi ed interminabili giorni, essendo sempre sul punto di crollare ma riuscendo sempre a rimettere insieme i pezzi.
Quella sera, non ce la fece.
Quella sera, come in nessun’altra sera, ebbe solamente voglia di chiudere gli occhi per sempre.
Non c’era nessuno a cui importasse di lei, altrimenti si sarebbe accorto di come stesse veramente. Neanche Robyn, amica di una vita, troppo impegnata con i suoi vestiti Chanel e le sue Louboutin nuove. Non c’era nessuno che l’amava almeno quel poco da tenderle una mano e da aiutarla. Non chiedeva tanto infondo, Margareth. Solo qualcuno che ci fosse, in qualsiasi modo e da qualsiasi luogo.
Sospirò quando si rese conto che si era sempre sentita sola perché, effettivamente, lo era.
 
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Sotto di lei, il fiume argenteo su cui era stato sviluppato il ristorante italiano.
Quella sera tirava vento, a New York, e la corrente dell’acqua scura era così forte che ebbe modo di rendersene conto da sola.
Attorno al ristorante c’era un bellissimo balcone, intagliato con materiali pregiati e dalle magnifiche ringhiere di marmo bianco, intervallate da teste di rose e fiori. Dava la vista ad una città che veniva vista da lontano: la Grande Mela che tutti amavano, che lei aveva amato da bambina e che era diventata una prigione troppo piccola.
Alzò di poco il suo vestito celestino, simile al colore dei suoi occhi e che sua mamma aveva scelto per lei, ed ignorando il dolore procuratole dalle scarpe si arrampicò sulla ringhiera spessa. Era fredda. 
Tutti erano dentro, chi per mangiare chi per pagare, e con il vento che tirava il balcone era completamente vuoto.
Nessuno l’avrebbe vista. 
Lasciò che le gambe magre scivolassero dall’altro lato del precipizio, e prese ad osservare la corrente più da vicino. Non era mai stata determinata né coraggiosa, ma improvvisamente sentì dentro di lei una scarica di adrenalina. Il fiume era pieno di rocce, questo l’aveva studiato anche con l’insegnante privata. Bastava buttarsi, due secondi di caduta libera, e poi direttamente annegata. L’acqua doveva essere gelida, per via del clima, e comunque la corrente era troppo potente perché qualcuno potesse anche solo sperare di sopravvivere. 
Bastava solo un salto, e tutto sarebbe finito. Non ci sarebbero stati più pensieri negativi, non ci sarebbero state più oppressioni, non ci sarebbero più state costrizioni e richiami. Niente di niente. Non si sarebbe più sentita sbagliata, o stupida, o irrispettosa o incontentabile. 
Bastava solamente sporgersi un po’ di più, per smettere di stare male.
E proprio mentre una lacrima salata rigava la guancia di Margareth, perché tanto che importava del mascara se nessuno l’avrebbe più vista, e proprio mentre stava per lanciarsi, qualcosa la interruppe.
La ragazza si chiese come avesse fatto a non sentire la puzza di fumo prima. Qualcuno stava fumando una sigaretta, da qualche parte non esposta a molti sguardi. Non era sola. Qualcuno aveva parlato, e si stava facendo avanti.
‘’Non credi sia da codardi?’’ le chiese quella voce quasi sconosciuta.
E quando il ragazzo raggiunse il lampione più vicino, che distava qualche centimetro da dov’era Margareth, lei capì chi fosse.
Carl. Era così che si chiamava, no? Riconosceva i suoi tatuaggi, la rondine tatuata sul collo e il teschio sul braccio e le scritte sulle dita. Indossava un maglione nero, che si confondeva con il buio della notte, e dei jeans sfilacciati con delle converse che avevano visto momenti migliori. Presa dall’emozione, non si chiese neanche come e perché lui fosse lì. 
Ma i suoi occhi, trasparenti come le onde, brillavano come due fari. 
‘’Cosa?’’ balbettò la bionda, e lui aspirò altro fumo dalla sua sigaretta. Non sembrava scosso da quello che stava vedendo, una ragazza sul parapetto di un balcone in procinto di suicidarsi. Margareth invidiò da subito, senza conoscerlo neppure, la sua forza e la sua calma integra.
‘’Non credi sia da codardi buttarsi giù e lasciare tutti i problemi in sospeso?’’ domandò di nuovo. ‘’Non credi che sarebbe più corretto affrontarli?’’
Quella scena, le pareva di averla anche già vista. 
Margareth sembrava dubbiosa e scossa, punta sul vivo. Improvvisamente la sua idea non le parve più tanto brillante, e cominciò a sentire davvero freddo. Il vestito aveva un corpetto a cuore, che non era per niente clemente con lei.
‘’Non…’’ sussurrò, guardando lontano. ‘’Non ce la faccio ad affrontarli’’
Non lo aveva mai detto a nessuno, se non ad Hollie, ma improvvisamente si sentì meglio. Come se sentisse il bisogno di dirlo a qualcun altro, non alla solita domestica. Come se si sentisse un po’ più leggera, perché se fosse morta almeno qualcuno avrebbe saputo dire perché.
Dicono che i soldi facciano la felicità, le ripeteva Celine. Margareth non era felice, ed era l’unica cosa di cui era certa.
‘’Perché?’’ le domandò Carl, posato e calmo.
‘’Perché sono debole’’ rispose la bionda, con quanta più sincerità avesse in corpo. ‘’E perché a volte vorrei piangere per sempre’’
Carl sporse una mano pallida e tatuata, contrasto fra nero e bianco, e gettò la sigaretta nell’acqua. Questa scivolò giù in tre secondi netti, forse anche qualcosa in meno, e si dissolse nell’acqua. Nonostante fosse solo a metà e ancora incandescente, in modo che fosse più facile vederla, scomparve dalla visuale dei due ragazzi quasi subito.
Margareth si rese così conto di quanto la corrente fosse impetuosa e di quanto l’acqua fosse un nemico mortale.
‘’Puoi scegliere’’ disse Carl, dopo un tempo immemore. 
Margareth non era sicura di voler parlare, perché si sentiva denudata e non aveva mai provato una cosa del genere. Come se si fosse esposta troppo rispetto ai suoi standard, e se ne pentì nel momento stesso.
Ma c’era qualcosa in quel ragazzo che la spinse ad aprire bocca e parlare, benchè lei non degnasse gli sconosciuti- o quasi- neanche di uno sguardo. 
‘’Tra che cosa?’’ chiese, timidamente, ancora in bilico sulla ringhiera e con il vento che le sferzava i capelli.
‘’Puoi scegliere fra il lanciarti’’ continuò il ragazzo, nascondendo le mani nelle tasche del suo jeans, e guardando altrove ‘’e perdere tutto quello che hai, oppure restare e cercare di riparare quello che resta’’. E quelle parole, fuoriuscite dalle sue labbra, sembravano melodia. Margareth si sentì tremendamente fuori posto, ma non si mosse di un millimetro. ‘’Margareth, hai detto che sei debole e che vuoi solamente piangere. Che cosa c’è di sbagliato in questo?’’
Lei non rispose, nonostante lui aspettasse una risposta, perché sostanzialmente non sapeva che cosa dire. Che cosa c’era di sbagliato nell’essere fragile?
‘’Puoi buttarti’’ continuò, freddo ed imperterrito. Sotto la fioca luce di un lampione giallo, a Margareth parve ancora più bello. ‘’Non ti fermerò. Se vuoi farlo, puoi farlo. Ma se ci sono altre cose che vuoi fare, anche soltanto una, puoi fare anche quelle’’ e il ragazzo sospirò, quasi a trovare le parole giuste da dire. ‘’Non credi di meritare una seconda possibilità?’’ concluse. 
E solo in quel momento Margareth staccò gli occhi dal cielo nero di quella sera e li concentrò su Carl. Lui non la stava guardando ma, come se avesse sentito il suo richiamo, voltò il capo. Occhi negli occhi, dopo quasi due settimane dal loro ultimo incontro a scuola.
Le era mancato. Ma come può mancare una persona che neanche si conosce?
Lei continuò a fare silenzio, respirando addirittura più lentamente per non fare rumore. Era passato un po’ di tempo da quando era uscita, e probabilmente i genitori avrebbero iniziato a darle la caccia a breve. Eppure non si mosse, né parlò.
Carl, a sua volta, non aggiunse nient’altro ed aspettò una sua reazione. Se Margareth fosse stata in lui, avrebbe avuto paura che si fosse buttata. Invece il ragazzo tatuato era immobile, quasi fiducioso. Dopo qualche minuto di silenzio, le tese una mano. 
Margareth guardò quella mano chiara e poi, dinanzi a se, il fiume profondo e scuro. Pensò a cosa sarebbe successo quando sarebbe rientrata in quel ristorante, a cosa sarebbe successo il giorno dopo e quello dopo ancora. Se sarebbe mai stata felice, se meritava di esserlo. 
E le tornarono in mente le parole di Carl: ‘’se vuoi farlo, puoi farlo’’. Avrebbe voluto che fosse tutto così facile, come la faceva lui. Glielo faceva quasi credere.
Lo guardò negli occhi un’ultima volta, soppesando la sua scelta. Una scelta che, in realtà, aveva già fatto dal momento in cui lui le aveva dato indirettamente della codarda.
E mentre Carl aspettava una sua reazione con il braccio teso verso di lei e una mano che aspettava di stringerne un’altra, lei guardò la porta d’entrata al ristorante.
Poi spostò di nuovo lo sguardo sul ragazzo, e si sentì quasi forte. Quasi capace di decidere della sua vita, di avere ancora tempo e modo per farlo. 
Margareth prese la sua mano e abbandonò la ringhiera.
E lui, sorprendentemente per entrambi, l’abbracciò.
L’unica cosa che Margareth riuscì a pensare, mentre i suoi piedi avevano toccato di nuovo terra e mentre era avvolta dalle braccia diafane di Carl, fu che forse ci si sentiva così quando c’era speranza.


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Ciao ragazze!!
Chiedo venia per il ritardo, ma ho avuto tanto da fare con la scuola e - tra l'altro - non è un bel periodo ahaha
Però, meglio tardi che mai no? :)
Eccovi il capitolo, spero davvero che vi piaccia!! Sono contenta che siate così entusiaste, e siete davvero gentilissime.
Farvi piacere la storia è il mio obiettivo principale :)
Detto ciò, non credo ci sia parecchio da dire sul capitolo, a parte che viene forse delineato meglio il personaggio di Margareth.
Col senno di poi, dal momento che su word sono arrivata al capitolo dodici, vi dico che questa è una delle mie scene preferite!
Apprezzerei tanto un vostro parere sulla situazione, e sui caratteri dei personaggi in particolare. 
E state pur tranquille, perchè TUTTI i personaggi si evolveranno parecchio nel corso della storia.
Vi lascio con una foto di Margareth, aspettando il prossimo capitolo per mettervi quella di Carl ahahah 
Buon inizio settimana, un bacione enorme! xx
Harryette



kk

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Capitolo 4
*** 3- Come with me ***


 

| Capitolo Terzo |
Come with me.
 
Carl camminava silenzioso nella periferia di New York, lontano dalla folla e da sguardi indiscreti, si trascinava- leggermente stanco- mentre fumava la sua Marlboro.
I marciapiedi erano umidi e deserti, l’aria gelida e il cielo nero come il fumo di una ciminiera. Non si vedevano neanche le stelle, purtroppo per lui. Era come se, quella sera, New York fosse stata avvolta da una cappa di gelo e tristezza. 
Carl era appena uscito dal bar in cui lavorava part-time, giusto per non chiedere a suo padre altri soldi anche per l’affitto della casa. Non che gli mancassero, certo, e non che mancassero neanche a lui, ma voleva almeno provare a cavarsela da solo. Almeno per una volta.
Considerato che il sabato e la domenica non c’era scuola, non era poi così tanto faticoso per lui servire qualche tavolo. La paga era buona, e lui preferiva essere in movimento piuttosto che fermo a pensare. Nel suo appartamento, avrebbe sicuramente pensato.
Ormai aveva diciotto anni, frequentava l’ultimo anno di una normalissima scuola pubblica nella periferia della Grande Mela, eppure non sapeva ancora cosa fare della sua vita. Sua sorella, a Leeds, aveva iniziato a frequentare la facoltà di lettere moderne e pareva aver trovato la sua strada. Il suo migliore amico aveva deciso di tentare con matematica e fisica l’anno successivo, avendo la sua stessa età ma abitando anche lui in Inghilterra. 
Lui non ne aveva la più pallida idea.
Non che la scuola non gli piacesse, anzi andava piuttosto bene. Ma non riusciva neanche più a pensare liberamente, perché c’era qualcosa che ostruiva i suoi pensieri. O meglio, qualcuno.
E mentre camminava per quel vicolo deserto diretto a casa sua, l’immagine opaca di una ragazza biondissima sul bordo di una ringhiera gli ritornò in mente. Da quando l’aveva rivista, due giorni prima, non era più riuscita a togliersela dalla testa. Il suo sguardo così malinconico, i suoi occhi blu che parevano oscurati da qualcosa di più grande di loro, il peso immancabile che le si leggeva sul volto e che gravava sul suo corpo minuto.
Carl si era fatto un sacco di amici lì, da quando si era trasferito dal Bronx, ma nessuno- né maschio né femmina che fosse- era riuscito mai a smuoverlo. Lui c’era sempre per i suoi compagni, anche solo per una birra o un film o un po’ di compagnia, ma con quella ragazza- Margareth Grey- era stato diverso fin dall’inizio. C’era qualcosa in lei che lo portava ad aprire il suo guscio e far crollare le sue difese. Qualcosa che lo spingeva ad abbracciarla, cosa che non aveva ancora mai fatto con nessuno a New York. E pensare che quella sera, al compleanno di Randy, in quel ristorante italiano non ci voleva nemmeno andare. Si era annoiato così tanto, considerato che dentro era anche vietato fumare, che ad un certo punto aveva preferito uscire.
Margareth gli era sembrata una visione.
Aveva la bellezza di un angelo caduto e gli occhi di chi è stanco di lottare ed ha deciso di lasciare semplicemente andare la spugna. 
Carl non si era mai sentito in dovere con nessuno, tranne che con sua sorella Diana e il suo migliore amico di Leeds Zayn. Non aveva mai sentito il bisogno di aiutare qualcuno e di stargli vicino per paura che, durante la sua assenza, avesse potuto commettere lo stesso errore.
E questo lo stava corrodendo dall’interno, come acido muriatico che divora e rosica tutte quante le ossa, pezzo dopo pezzo. Carl non poteva non vederla più. Ma non perché le mancasse o perché sentisse il bisogno di tornare a specchiarsi in quegli occhi, ma perché- per la prima volta dopo tanto tempo- aveva paura.
Paura che, per qualunque motivo e qualsiasi fossero le sue ragioni, Margareth avrebbe potuto affacciarsi di nuovo ad un qualsiasi balcone e buttarsi giù. E non se lo sarebbe mai perdonato. Come in Titanic, si ritrovò a pensare. ‘’Che piega strana che ha preso la mia vita’’ si disse.
Salti tu, salto io. Ci sono troppo dentro.
 
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Margareth non aveva toccato cibo a colazione, e Celine l’aveva sgridata per due minuti contati. Aveva una riunione di lavoro, essendo dirigente comunale. Il padre era tornato così tardi la sera prima, e uscito così presto quella mattina, che la bionda non lo aveva visto nemmeno di sfuggita. Celine era andata via di casa sbattendo la porta, pochi minuti prima che Margareth avesse modo di entrare nella macchina guidata da George ed andare a scuola, blaterando su quanto la figlia fosse ostinata a voler dimagrire.
Celine Grey si era convinta di questo: tutte le adolescenti, a sedici anni, si impongono di non mangiare perché non amano il loro corpo. 
Ennesima prova di quanto, in realtà, non capisse proprio niente. 
Robyn, a scuola, aveva preso a parlare del viaggio in Europa che suo padre le aveva promesso per natale e di quanto fosse elettrizzata all’idea. Sprizzava energia e gioia da tutti i pori. Un po’ Margareth la invidiava. Perché lei non poteva essere come tutte le sue amiche, e amare la sua vita e i privilegi che aveva avuto l’onore di poter possedere? Perché non le poteva bastare quello che aveva, senza sentirsi inadeguata e fuori posto? 
Forse perché pensava troppo ed era troppo intelligente. Le persone intelligenti sono destinate ad essere infelici, si ripeteva, pensano troppo. Forse Celine e Dan non avrebbero dovuto pagarle gli insegnanti privati per imparare quattro lingue né per imparare a suonare cinque strumenti.
Di nuovo, era colpa loro.
‘’Perché si ostinano a volerci far studiare il latino se siamo americane e se è una lingua morta?’’ si lamentò Robyn, mentre estraeva dalla sua cartellina di pelle il suo libro. 
A Margareth piaceva il latino, anche se nessuno lo riteneva importante in America. La affascinava, come tutte le cose che avevano attorno un alone di mistero.
La bionda non rispose, troppo immersa nei suoi pensieri. Non riusciva a rimuovere dalla sua testa la scena che aveva vissuto due giorni prima, degna da film e da premio oscar. Gli occhi di quel ragazzo- Carl- continuavano a vorticarle nella mente come un tornado. Le sembrava che fosse stata un’illusione, qualcuno che era apparso per cinque minuti e poi era scomparso, come un angelo travestito da passante. 
Riusciva ancora ad immaginare, vivido e nitido, il colore dei suoi occhi: trasparenti, come l’acqua nella quale stava per buttarsi e dalla quale lui l’aveva tirata fuori.
Chissà se l’avrebbe mai rivisto, non aveva neanche il suo numero di telefono. Sapeva solo il suo nome, ma New York era immensa e ci sarebbero stati altri tre miliardi di Carl. Non l’aveva neanche mai visto, da quelle parti. Avrebbe fatto di tutto per rivederlo almeno un’altra volta. Ma non perché le piacesse o altro, semplicemente perché si convinse che era tutto quello che cercava e che stava aspettando: qualcosa, in questo caso qualcuno, che la portasse fuori dalla sua routine. Visto che digiunare non aveva riscontrato cause positive, e i suoi genitori la ignoravano più di prima, avrebbe provato con qualcos’altro. 
Carl era esattamente il tipo di persona che Dan e Celine odiavano: tatuato, strambo, ambiguo e vestito di nero quasi sempre. Margareth si convinse che fosse la cosa giusta da fare e si ripromise che l’avrebbe aspettato. Anche se ci avesse messo altre due settimane per farsi rivedere, l’avrebbe aspettato comunque. A meno che non avesse trovato qualcuno di simile, ma ci aveva perso le speranze. E lei, inoltre, aveva bisogno di evadere dalla sua vita e di provare qualcosa di nuovo. Qualcosa di spericolato, e che non aveva mai fatto in vita.
‘’Marge!’’ la richiamò Robyn, e lei uscì violentemente dai suoi pensieri. ‘’Ma mi stai ascoltando? Stai bene?’’
No, avrebbe voluto urlare. Ma sei la mia migliore amica, non lo vedi che non sto bene?
‘’Io…’’iniziò Margareth, trovando da qualche parte il coraggio di parlare. 
‘’Scusa tesoro ma mi sta chiamando la tizia di Prada’’ la interruppe Robyn, tirando fuori dalla borsa il suo iPhone brillante. ‘’Devo rispondere, sarà arrivata la gonna. Ci sentiamo dopo’’ la abbracciò debolmente, e Margareth rimase lì. Ferma ed immobile.

 
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Da quando si era rivista allo specchio dopo giorni, quella sera al ristorante italiano, Margareth aveva cominciato a prenderci di nuovo l’abitudine. Quando era bambina adorava specchiarsi, le cose però- con il tempo- erano un po’ cambiate. 
La campanella che segnava la fine di tutte le lezioni era suonata da dieci minuti buoni, la scuola doveva essere completamente vuota, eppure lei era ancora in quel bagno enorme, profumato e brillante.
Intenta ad osservare il riflesso dinanzi a lei, senza l’ombra di un’emozione negli occhi e senza nessuna voglia di smuovere un arto, non si accorse che la porta della toilette si aprì violentemente.
Margareth si girò di soppiatto. Davanti a lei c’era Camille, la collaboratrice scolastica addetta ai bagni, con una scopa e un secchio strabordante d’acqua in mano. Era una donna rossissima, sia di pelle che di capelli, e che esigeva una dieta ferrea. 
‘’Signorina’’ le disse, con tono dolce. ‘’La campanella è già suonata, devo pulire. Esca, per favore’’
Probabilmente era pagata per essere così cortese, perché non aveva il volto dell’angelo che ostentava di essere, per la quota mensile che versavano i genitori delle ‘’signorine’’ in quella scuola. Margareth annuì, prendendo il suo zaino rosa, e si diresse verso l’uscita. ‘’Mi scusi’’ sussurrò.
I corridoi vuoti le avevano sempre messo tranquillità e calma, ma quella volta non fu affatto così. Tutti quegli armadietti verdi messi l’uno accanto all’altro, quel pavimento perlato e lucido, e tutti quei premi e quei trofei sparsi e appesi al muro non facevano altro che incuterle timore. Sentiva l’eco dei suoi passi. 
Si velocizzò, ed arrivò al portone in un batter d’occhio. 
Quel giorno aveva chiesto a George di non passare a prenderla, perché avrebbe pranzato da Robyn e avrebbero studiato insieme per l’esame imminente di matematica, quindi non c’era nessuno che la stesse aspettando lì fuori. Aveva preferito mentire perché sentiva il bisogno di restare da sola, passeggiare per il parco vicino scuola con le cuffie nelle orecchie e pensare. Pensava molto spesso ma non poteva farne essenzialmente a meno. 
Scese le scale di marmo ad una velocità supersonica, facendo balzare a destra e a manca la gonna della divisa con le balze, e tirò fuori dallo zaino il suo iPhone e i suoi auricolari. Varcò il cancello verde pochi minuti prima che venisse chiuso, e si ritrovò sul marciapiedi. Casa sua era molto lontana, ma avrebbe avuto tutto il tempo per raggiungerla con calma. I suoi genitori le credevano sulla parola, non si sarebbero mai messi a perdere tempo chiamando i genitori di Robyn oppure chiamando lei. Non riceveva una loro chiamata da tempo immemore. Di solito era Hollie che la chiamava per conto loro, o per conto suo e basta.
Stava per inserire le cuffie nelle orecchie, ma fu costretta a fermarsi. Davanti a lei c’era la motocicletta più grande e nerache avesse mai visto, con un fulmine adesivo incollato sul lato destro e che le dava tanto l’aria da moto-dannata. Non aveva mai visto una cosa del genere, e rimase incantata anche per il fortissimo rombo del motore ancora accesso.
Solo che non c’era il padrone. Possibile che l’avesse lasciata accesa e con le chiavi nel cruscotto, e fosse sparito?
Si guardò a destra e a sinistra, ma non c’era nessuno. Alle due del pomeriggio era difficile che passasse qualche macchina da quelle parti raffinate, a meno che non fosse diretta urgentemente a Manhattan. 
E poi sentì il rumore di un cancello che cigolava alle sue spalle, e si voltò. Appoggiato all’angolo delle cancellate, da dove poco prima era uscita lei, c’era Carl. 
Non sapeva bene come classificare le emozioni che la attraversarono in quel momento, né i sentimenti che iniziò a sentire. Erano un misto di aspettativa e gratitudine. O forse impazienza e basta. 
Sorrise, questo lo capì bene anche se non seppe classificare bene il suo sorriso. 
Carl indossava un pantalone stretto e nero, le Dr Martens e una semplice canotta bianca. Era la prima volta che gli vedeva addosso un vestito di quel colore, gli donava.
I capelli chiari erano spettinati dal vento, ma gli donavano anche quelli e non se ne sorprese affatto.
‘’E tu che cosa ci fai qui?’’ gli domandò, incrociando le braccia al petto. Non avrebbe avuto mai scuse, perché quello era un istituto privato femminile il che significava che, a meno che non con conoscesse qualcuna lì dentro (cosa alquanto improbabile), era venuto per lei.
Lui scrollò le spalle. ‘’Sono venuto a vedere come stavi’’ rispose, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Era da un sacco di tempo che qualcuno non si preoccupava in quel modo per lei, né che attraversasse mezza città solo per chiederle come stesse. Era sorpresa, in modo positivo ovviamente.
‘’Come stavo?’’ domandò, infatti, perplessa. Le sembrava strano che qualcuno che conosceva appena, e che poteva tranquillamente reputarla una pazza suicida, fosse interessato a come stesse. ‘’Io?’’
‘’E chi altri, sennò’’ ironizzò lui, non capendo il punto. ‘’Non so niente di te, solo la scuola che frequenti. Quindi sono venuto’’ scosse la testa, come se non capisse perché lei sembrava così sorpresa. Forse non capiva davvero.
‘’Io…’’ balbettò Margareth, imbarazzata. Come avrebbe dovuto comportarsi? Quel ragazzo l’aveva praticamente salvata e aveva visto una parte di lei che non conosceva neanche sua madre. Si sentiva scoperta. ‘’Mi dispiace molto per quello che…si, insomma, per quello che è successo l’altra sera. Non avresti dovuto assistere ad una cosa…del genere’’ prese a torturare una ciocca di capelli biondi.
Lui sorrise. Margareth non l’aveva mai visto neanche sorridere, e le parve bellissimo in tutti i sensi. ‘’Ti stai davvero scusando?’’ le domandò, curioso. 
‘’S-si…’’ sussurrò la bionda. ‘’Non avresti dovuto…sentirti chiamato in causa. Capisco che non avresti sopportato avere una morta sulla coscienza, ma non eri tenuto ad aiutami. Quindi si, mi sto scusando per la situazione, ma ti sto anche ringraziando per la…mano’’ bisbigliò, sorprendendosi che fosse finalmente riuscita ad articolare un discorso di senso compiuto senza troppi ‘’ecco’’ ed ‘’infatti’’. 
Carl continuò a sorridere, avvicinandosi di più a lei, e scosse la testa come fosse rassegnato al carattere della ragazza. ‘’Carl’’ continuò lei, visto che l’altro aveva deciso evidentemente di non proferir parola. ‘’C’è qualcosa che posso fare per…sdebitarmi?’’
Lui sembrò sorpreso, e anche leggermente offeso. ‘’Non devi sdebitarti’’ disse. 
‘’Riformulo la domanda, allora’’ riprese a sorridere Margareth. Si sentiva più a suo agio in quel momento, come se avesse tutto quello che cercava e di cui aveva bisogno in pugno. ‘’C’è qualcosa che posso fare per ringraziarti?’’
Lui parve pensarci a lungo, ci mancava poco che non si vedessero i neuroni della sua testa fabbricare qualcosa velocemente, quando poi prese un casco poggiato al manubrio della moto.
‘’Qualcosa c’è’’ disse, atono.
‘’Dimmi’’
Lui le porse il casco di un nero opaco, con un sogghigno sul volto, ed indicò la sua moto e poi lei. ‘’Vieni con me’’
Margareth lo guardò sconvolta, gli occhi sgranati, mentre lui le tendeva il casco con lo stesso braccio che le aveva teso mentre lei era in procinto di gettarsi in un fiume e morire annegata. La stessa espressione sul volto, metà indifferente- come se non gli importasse la risposta- e metà impaziente, come se non aspettasse altro. Margareth, in quel momento come in nessun altro, lo trovò adorabile.
E ripensò a quanto, in quell’ultimo anno infernale, avesse cercato un modo per sentirsi viva. A quanto avesse aspettato qualcosa che avesse sconvolto la sua vita, e l’avrebbe fatta sentire quasi normale. A quanto avesse atteso di fare qualcosa che nessuno, tantomeno i suoi genitori, si sarebbe mai aspettato facesse. Adesso ce l’aveva davanti, il suo riscatto, la persona che l’avrebbe resa finalmente come voleva essere: ribelle. 
Afferrò il casco nel momento in cui Carl le chiese ‘’allora?’’, e fu perfino capace di fare un sorriso. Era addirittura spuntato fuori da chissà dove un raggio di sole. 
‘’Dove mi porti?’’ domandò, mettendo il casco. 
Lui sogghignò ancora e salì sulla motocicletta, che emise un rombo molto più forte di quelli precedenti, e le fece segno di salire. Con non poca difficoltà, non avendolo mai fatto, Margareth si arrampicò sul pedale e riuscì a salire. Il sedile posteriore della moto era altissimo e distava qualche centimetro da quello anteriore, così si mise sul bordo per non sfiorare la schiena di Carl. Lui si voltò di poco e, capendo il suo essere inesperta e il suo imbarazzo, portò le mani sotto gambe della ragazza e la attirò a se.
Margareth sussultò nel momento in cui il suo petto si scontrò contro la schiena ossuta del ragazzo. Non gli era mai stata così vicina, a parte quando l’aveva abbracciata, e sentì finalmente il suo odore. Era proprio come lo ricordava e come lo aveva sempre immaginato.
‘’Così’’ disse Carl, afferrando le braccia della bionda e legandole attorno al suo busto. ‘’Tieniti a me’’
Margareth si sentiva terribilmente in imbarazzo e terribilmente fuori luogo, ma mai e poi mai si sarebbe mossa o avrebbe cambiato idea. Nel momento il cui Carl mise il piede sul pedale e fece partire la motocicletta, lei fu attraversata da una strana scarica di adrenalina.
‘’Tieniti forte, Grey’’ urlò, per sovrastare il rombo del mezzo. Per la prima volta, Margareth non provò ribrezzo o dolore per il suo cognome. Lui riusciva a renderlo identico a tutti gli altri. ‘’Adesso scoprirai la mia capacità nello sfrecciare’’
E sfrecciò, nel vero senso della parola. Lontano dalla Spence School, lontano da Manhattan e dai quartieri alti, lontano dalla villa dei Grey, lontano da tutti i bagni in cui Margareth aveva pianto e da tutte le classi che aveva detestato e da tutti i posti che non facevano altro che aumentare la sua nausea.
E la sua voce le ritornò nella mente, ‘’tieniti forte, Gray’’, e fu allora che capì. Fu allora che capì che tutto quello che aveva sempre cercato, tutte le ribellioni che non aveva mai avuto il coraggio di commettere, tutti i dispetti ai genitori che non aveva mai fatto, e tutta la sua speranza in qualcosa che avrebbe modificato la sua routine, portavano un nome: Carl. 



 
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Consapevole che il compito di matematica di domani andrà relativamente ( e sicuramente) uno schifo,
ho pensato di rallegrare il morale perlomeno a voi ahahaha
Eccovi il terzo capitolo, spero vivamente che vi piaccia!
Benchè l'abbia scritto parecchio tempo fa, non faccio per niente fatica a ricordare quanto ho penato ahaha
Ed è di una lunghezza spropositata, scusatemi c.c
Spero che, comunque, sia stato piacevole leggerlo! Credo sia abbastanza scorrevole.
Chiedo scusa in anticipo se ci saranno errori di battitura, ma sono stanchissima e non ho avuto voglia
di rileggere. Sono pessima ma, ahimè, dovrete accettarmi così ahaha
Finalmente si inizia a capire un poco in più dei personaggi, e Margareth e Carl 
hanno modo di parlare e confontarsi!
Anche se la storia vi sembrerà un pò lenta adesso, vi chiedo di non demordere! 
Succederanno un sacco di cose, diamoci una possibilià :)
Detto questo, evaporo.
Buon fine settimana e a presto (E GRAZIE!!!) xx
Harryette

Ps: se volete contattarmi, questo è il mio Facebook! : https://www.facebook.com/harryette.efpwriter.3

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Capitolo 5
*** 4- In your world ***



|Capitolo Quarto|
In your world

Carl non sapeva guidare niente, e questo Margareth l’aveva capito dal momento in cui aveva acceso il motore.
Non che lei avesse la patente, i genitori la reputavano ancora troppo ‘’immatura’’ per prenderla nonostante avesse 17 anni, e non che fosse esperta di guide, avendo assistito solamente a quelle di George, ma l’aveva capito e basta.
O, più semplicemente, Carl Pearson andava troppo veloce per i suoi standard. Fatto sta, che mentre era in balia del freddo vento newyorkese, Margareth si sentì morire. Non era mai stata coraggiosa neanche nello stretto significato del termine, se così si può definire il suo essere un’irrimediabile fifona. E le strade di New York, precisamente quelle lontane da Manhattan e da tutti i luoghi che lei aveva sempre frequentato, erano più che scoscese. 
Le venne mal di stomaco.
‘’Potresti andare leggermente più piano?’’ urlò nell’orecchio del ragazzo, a metà viaggio circa, ma questo parve non ascoltarla affatto. Continuò imperterrito la sua corsa, manco avesse un treno da prendere, e acchiappando a pieno tutti i fossi e le buche presenti sull’asfalto duro.
Quando la motocicletta si fermò con un rombo in un piccolo parcheggio grigiastro, lei scese e tirò un sospiro di sollievo. Carl la imitò, sfilandosi il casco nero ad una velocità impressionante, e guardandola interrogativo. 
‘’Vuoi tenertelo per ricordo?’’ le domandò, con un tono che doveva presagire una battuta che a Margareth non fece ridere, indicando il casco rosso che ancora lei aveva in testa. 
Lo sfilò intimidita, e glielo porse.
‘’No, grazie’’ rispose, com’era abituata a fare, ed ebbe la vaga impressione che la sua educazione mettesse Carl a disagio. Come se non avesse il diritto di ironizzare su di lei o sul suo modo diverso di vivere, o come non fosse nella posizione di fare battutine. Era una specie di protezione, quel suo dire sempre ‘’grazie’’ e quel suo dimostrarsi sempre disponibile. Ne fu quasi fiera.
Lui lo afferrò e lo legò al manubrio della moto, facendole segno di seguirlo. Solo il quel momento a Margareth venne un dubbio: aveva fatto bene ad accettare la richiesta imperativa di Carl? Per quel che ne sapeva, poteva anche essere un maniaco o, peggio, un serial killer.
Si ritrovarono in un viale alberato prima ancora che lei potesse darsi, da sola ovviamente, una risposta. Non conosceva quel parco, non credeva neanche di esserci mai stata, eppure le piaceva. Era di media grandezza, molto verde e moltovuoto. Si stupì di se stessa, alle due e mezza del pomeriggio era naturale che la gente mangiasse o si riposasse. 
‘’Dove stiamo andando?’’ osò chiedere, sistemando una ciocca di capelli biondi che era stata scomposta dal vento ferreo.
‘’Da nessuna parte in particolare’’ rispose Carl, asettico ed apatico. Mise le mani lattee nelle tasche della felpa e continuò a camminare senza aggiungere altro. Il viale alberato in cui si trovavano era lunghissimo, e Margareth cominciò seriamente ad avere paura.
‘’Non vuoi uccidermi, giusto?’’ chiese.
Lui fece qualcosa che doveva somigliare molto ad un sogghigno. ‘’Se avessi voluto vederti morta, non credi ti avrei lasciata sul parapetto di quel ristorante?’’
Margareth non rise neanche quella volta, anzi si ritenne mezza offesa. Quel ragazzo bianco e silenzioso non la conosceva, non poteva sapere come si fosse sentita e che cosa avesse passato e perciò non poteva giudicarla né fare battutine sconce. 
Per questo motivo, e perché manco lo conosceva, la bionda tacque e non aggiunse nient’altro. Continuò a camminare, chiedendosi perché Carl le avesse detto di seguirlo, senza proferir parola.
Difatti fu lui a rompere il silenzio.
‘’Ti saresti buttata?’’ le domandò di soppiatto, facendola quasi sobbalzare. Margareth solo allora alzò lo sguardo ed incatenò i suoi occhi azzurri in quelli trasparenti del ragazzo. 
‘’Cosa?’’ sembrò confusa, ma in realtà sapeva benissimo a cosa si stesse riferendo Carl.
‘’Quella sera’’ specificò. ‘’Ti saresti buttata?’’
‘’Io…’’ balbettò la ragazza, senza trovare qualche appiglio o l’ombra di qualcosa da dire. Era sempre così, pensò, un continuo balbettare e cercare scuse a cui tutti credono. ‘’No’’ mentì.
Per i successivi tre minuti nessuno parlò, solo il rumore sordo del vento produceva un qualche suono che allontanava- almeno del minimo indispensabile- l’imbarazzo.
‘’Non ti credo’’ esclamò d’improvviso Carl, e Margareth non ebbe neanche più la forza di sorprendersi. Non si potevano presagire le mosse e le parole del ragazzo, e questo l’aveva capito bene. Prese ad osservare le sue Hogan, quelle che metteva solamente per la scuola, e scalciò un sassolino. Si sentiva troppo esposta, troppo nuda, aveva quasi l’impressione che quel ragazzo etereo riuscisse a vederle attraverso. E non era una cosa positiva, proprio no.
‘’Perché?’’ trovò la forza di domandare. Aveva perfino timore della risposta.
‘’Perché non sembri il tipo da esporsi così tanto per poi tirarsi indietro’’ scrollò le spalle.
‘’Bhè, neanche tu sembri un assassino eppure non so dove stiamo andando e potresti essere sul punto di uccidermi!’’ cercò di risuonare convincente la ragazza, ma sembrò  incerta anche alle sue orecchie. 
‘’Non ti uccido’’ disse solo, e- per qualche arcano e assurdo motivo- Margareth ci credeva. Era come se lo sentisse, come se Carl Pearson ce lo avesse scritto in faccia. Sapeva che era stupido, ma nella stessa misura era anche così e basta.
‘’Carl’’ lo chiamò d’improvviso lei, perché comunque non c’era più spazio per la timidezza o l’incertezza. Quel ragazzo l’aveva vista piangere e sul punto di suicidarsi, il tutto in una sera, e non c’era lato peggiore di lei che potesse vedere. Non poteva prenderla per pazza, dopo quello a cui aveva assistito. Niente esisteva di peggiore di quel che era stata sul punto di fare. ‘’Hai mai desiderato cambiare vita?’’
Non era una domanda a doppi fini o a doppi termini, era semplicemente quello che le era saltato in mente. Ed ogni volta che vedeva Carl, così statico ed inarrivabile, si domandava se ci fosse qualcosa al mondo che avesse la capacità di scalfirlo. Sembrava marmoreo ed impenetrabile, ed in una certa misura lo invidiava. Anche lei avrebbe voluto fregarsene, andare avanti e basta, eppure non c’era mai riuscita. 
Avrebbe tanto voluto sapere qualcosa in più su quel ragazzo.
‘’Ho già cambiato vita una volta’’ evase lui, sempre più distaccato. Non aggiunse neanche un’altra parola, e prese a camminare un po’ più veloce. Margareth fece fatica a tornargli accanto.
La ragazza avrebbe voluto approfondire il discorso, chiedergli scusa se aveva detto qualcosa che poteva averlo urtato o ferito o infastidito, ma non ne ebbe il tempo. Carl si fermò improvvisamente, e lei con lui. 
‘’Voglio presentarti qualcuno’’ le disse, improvvisamente. In un’altra situazione Margareth si sarebbe preoccupata del suo aspetto, si sarebbe informata sulle persone che stava andando a conoscere, o quantomeno sarebbe stata agitata. Era la sua solita routine. Quella volta fu l’esatto inverso. Era tranquilla, calma, e- in qualche modo distorto e stupido- la presenza di Carl la rassicurava. Non era così male come sembrava.
Nel momento in cui smise finalmente di pensare, davanti a lei apparvero due ragazzi. Erano alti, di qualche spanna più di Carl, ed erano spalla a spalla. Uno di loro, il più alto, indossava una canotta nera dei Nirvana e dei jeans neri e sfilacciati. Aveva in mano un iPhone e guardava lo schermo interessato, facendo brillare alla luce del sole il suo septum e il suo piercing al labbro. Aveva un dilatatore che gli allargava il lobo all’inverosimile, e che gli dava un qualcosa di…macabro. Aveva la pelle chiarissima, tuttavia non quanto quella di Carl, che intonava con il colore dei suoi capelli: color platino, addirittura più chiari di quelli di Margareth, e palesemente non naturali. Le sue braccia erano tatuate fino ai limiti del possibile, facendolo somigliare quasi ad un rettile. A primo impatto poteva sembrare bello, ma aveva una vena inquietante che non dava alcun tipo di tranquillità.
L’altro, leggermente più basso e tarchiato, aveva la pelle scurissima e dei capelli corvini che Margareth invidiò quasi. Le sembrò una copia maschile di Robyn, con i capelli scuri tendenti al riccio. Il ragazzo indossava una t-shirt bianca dei Ramones e un jeans chiaro e largo, fin troppo. Gli occhi coperti da un paio di Rayban e le mani nelle tasche del pantalone. La osservava con uno sguardo che era un misto fra il curioso e lo sconvolto, mentre si grattava la nuca e mostrava tutti i tatuaggi del braccio sinistro. Quello destro, stranamente, era pulito.
‘’Ragazzi’’ soffiò Carl, mentre sfilava una sigaretta dal labbro del secondo ragazzo e se la portava alle labbra. ‘’Vi presento Margareth’’ e la indicò, quasi come se ci fosse qualcun altro lì intorno. 
Lei cercò di non arrossire, e si avvicinò per stringere la mano ad entrambi. Iniziò con il ragazzo più basso, che le dava più tranquillità. 
Si presentò come Cameron.
‘’A me sembra di averti già visto’’ disse il ragazzo ambrato.
‘’Io…’’ fece per parlare Margareth, per spiegare che la sua faccia era spesso sui giornali locali e ai convegni importanti, ma Carl la precedette- interrompendola. 
‘’E’ Margareth Grey, la figlia del sindaco’’ ammise, come se fosse la cosa più scontata del mondo e come se stesse rispondendo alla domanda ‘’che ore sono?’’.
Cameron e l’altro ragazzo scoppiarono in una fragorosa risata, il moro addirittura mantenendosi la pancia. ‘’Si, come no!’’ fece eco il biondo. 
‘’In realtà…’’ intervenne Margareth, prendendo ad arrotolarsi convulsamente una ciocca di capelli chiari attorno all’indice. ‘’Sono davvero Margareth Grey’’
I ragazzi smisero di ridere e guardarono sopresi prima lei e poi Carl, con uno sguardo che la bionda non seppe decifrare. ‘’Ma davvero?’’ domandò imbarazzato Cameron. ‘’Quella Grey?’’
Era esattamente il tipo di domanda che Margareth odiava, ma non poteva biasimare il ragazzo. Non perché fosse snob o famosa, ma la figlia del sindaco di New York di certo non era un incontro di tutti i giorni. Non per dei ragazzi particolari come loro, almeno.
‘’Si’’ ammise. ‘’Proprio quella’’.
‘’Cazzo’’ esclamò Cameron, grattandosi goffamente il capo scuro. ‘’Odio quando Carl ha ragione’’
Maggie rise di gusto, perché era impossibile non ridere davanti alla faccia stralunata di quel ragazzo dalla pelle abbronzata e il fisico tonico. Sembrava simpatico.
Poi voltò inevitabilmente lo sguardo verso il biondo, che aveva sentito ridere e dire qualche parola ma non sapeva ancora chi fosse, e lui capì al volo. ‘’Mi chiamo Holland’’ disse. 
‘’E com’è essere la figlia del sindaco?’’ si intromise Cameron, di nuovo, mentre Carl scuoteva il capo e lei non sapeva cosa dire.
‘’Ehm’’ balbettò. ‘’Noioso ma ha i suoi vantaggi’’ ne uscì.
La cosa che Margareth temeva di più era che Carl, essendo i suoi due migliori amici, avesse raccontato ai ragazzi che lei aveva tentato di gettarsi in un lago. Si sentiva in soggezione appunto per questo, e le si attanagliò lo stomaco al pensiero. Pearson sapeva fin troppo di lei.
‘’E quanti anni hai, ragazzina?’’ continuò Cameron. La bionda si sentiva tanto un vetrino sotto al microscopio, o una specie rara di qualche razza esotica.
‘’Hai finito di farle il terzo grado, Cam?’’ la voce di Carl echeggiò nel parco spoglio e verdissimo, facendo ritorno nelle orecchie della ragazza che lo ringraziò mentalmente. ‘’E’ solo una ragazza’’
Margareth rimase profondamente colpita da quella frase. Probabilmente qualche altra ragazza si sarebbe offesa, sentita sminuita e data per scontata, ma era proprio quello che voleva. Essere solo una ragazza.
‘’Ti da fastidio?’’ domandò di soppiatto Cam, guardandola con due occhi dolci a cui Margareth non seppe resistere. Evidentemente prese il suo silenzio per un no, e disse ‘’Oh andiamo Carl, se il solito barboso’’
‘’Barboso?’’ domandò sconcertato Holland. ‘’Che cazzo di parola è?’’
‘’E che cazzo ne so’’ se ne uscì il moro. ‘’Allora Maggie, posso chiamarti Maggie?’’
‘’Ehm, si va bene’’ balbettò confusa la bionda. Non riusciva a seguire la scena.
‘’Quanti anni hai, quindi?’’
‘’Quasi diciassette’’ rispose, guardandosi la punta delle scarpe. ‘’Voi?’’
‘’Io ne ho venti e Land diciotto, eh stronzetto?’’ rispose a sua volta Cameron, guardando l’amico biondissimo al suo fianco e alzandosi sulle punte per scompigliargli il ciuffo platinato. Holland si scansò, sistemandosi i capelli. ‘’Ma non mi toccare, coglione’’ ringhiò, eppure non c’era neanche un pizzico di antipatia o cattiveria o fastidio nella sua voce. Era quasi divertito.
‘’Belle scarpe’’ esclamò improvvisamente Cam, indicando le Hogan di Margareth. Lei si sentì a disagio nella sua divisa scolastica, e nei suoi capelli biondi perfettamente ordinati e nel suo volto così pulito e nella sua pelle così pulita e senza tatuaggi. Infondo le sarebbe piaciuto essere libera come loro. 
‘’Grazie’’ disse, sinceramente e sorridendo. 
‘’Sto pensando di rubartele per pagarci l’affitto, quanto valgono più o meno?’’ continuò imperterrito. 
Margareth divenne paonazza, ma ci pensò Carl- ancora- a tirarla fuori da quella situazione stramba. Cameron era schietto ed aperto, ma la metteva terribilmente in soggezione. 
‘’Ma che cazzo di domande fai?’’ domandò all’amico. 
‘’Tranquillo Carletto, Margareth la lascio a te’’ sogghignò. ‘’Sono felicemente fidanzato, anche se mi sento particolarmente attratto dalle sue scarpe’’
‘’Poi ti domandi ancora perché non trovi lavoro?’’ sputò Holland. ‘’Sei un cazzone, eh’’
‘’Dettagli’’ sbuffò il ventenne. Poi, improvvisamente, il suo telefono vibrò e rispose rapidamente a quello che doveva essere stato un messaggio. ‘’Ragazzi, mi spiace deludervi ma Laurine mi attende. Scappo’’
Margareth ipotizzò che Laurine dovesse essere la famosa fidanzata di cui parlava precedentemente, e si chiese se avesse dovuto dirle che il suo ragazzo voleva tradirla con le sue scarpe.
Ma prima che potesse trovare una risposta, Cam le si avvicinò e le schioccò un bacio veloce sulla guancia morbida. ‘’Alla prossima, quella Grey’’ ironizzò. Scomparve dietro ai cespugli dopo aver dato una pacca sulla spalla a Carl, sussurrando un ‘’ci vediamo stasera’’, e dopo aver tentato di abbracciare Holland. Il simpatico Land, infatti, si era distaccato subito ringhiando un ‘’che gay’’.
Margareth si ritrovò, così, fra Carl- particolarmente silenzioso- e Holland che non ispirava per niente simpatia e ironia. 
‘’Scusalo’’ le disse. ‘’E’ un pochino coglione’’
A Margareth venne da ridere di nuovo, ma sorrise semplicemente. ‘’Mi stanno simpatici quelli un poco coglioni’’
Aveva detto pochissime parolacce in vita sua. Primo perché i genitori si sarebbero arrabbiati tantissimo, e secondo perché neanche a lei piacevano particolarmente. Ma si sentì quasi più libera.
Land le si avvicinò particolarmente, e le poggiò un braccio sulle spalle esili. Lei reagì pietrificandosi, perché non se lo sarebbe mai e poi mai aspettato. Forse non era poi così antipatico.
La avvicinò così tanto a lui, che era altissimo e per cui il volto di lei gli sfiorava esattamente l’incavo del collo, che sentì il suo profumo. Era un misto fra fumo e anice. Piacevole.
‘’Sei carina’’ le disse, mentre Carl li guardava, e lei pietrificò del tutto. Avrebbe voluto urlare un ‘’prego?’’ o meglio un ‘’che cosa?’’, ma non ne ebbe il coraggio. 
Non disse niente, fino al momento in cui Holland la mollò e li salutò entrambi dicendo che tornava a casa. Anche lui disse a Carl che si sarebbero visti quella sera, e la salutò con un bacio sulla guancia come aveva fatto Cam, solo che questo fu leggermente più umido e lungo. 
Una pacca a Carl, e poi sparì.

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Era quasi un’ora che lei e Carl avevano ripreso a camminare per le strade del parco in cui si trovavano, ma Margareth non sentiva il peso del tempo. Si sentiva come una piuma nel vento, e le piaceva.
Si ripromise che avrebbe appuntato quella sensazione nella lista delle cose per cui vivere.
‘’Sono simpatici, i tuoi amici’’ disse poi, quando era silenzio da un paio di minuti. 
‘’Davvero?’’ la guardò stranito. ‘’Li trovi simpatici?’’
‘’Non dovrei?’’
‘’Non sono il tuo tipo’’ scrollò le spalle Carl. ‘’Tutto qui’’.
Margareth si chiese, a quel punto, chi fosse il suo tipo e perché non l’avesse ancora trovato. Eppure quei ragazzi, tutti e tre, le stavano davvero simpatici. Li trovava naturali e spontanei, tre ragazzi che erano esattamente chi volevano essere. Chi erano e basta. Li invidiava, quasi.
‘’Siete liberi’’ disse la bionda. ‘’Vivete facile. Mi piace’’
Carl si irrigidì, questo Margareth potè notarlo anche da lontano. Non parlò fino a quando non raggiunsero la moto, pronti per tornare alle rispettive case. Margareth avrebbe voluto chiedergli che cosa avesse detto di sbagliato, che cosa avesse fatto che l’aveva urtato in quel modo, ma si era quasi abituata. Poche volte quel che diceva non aveva ripercussioni sull’umore di Carl, fin troppo labile e lunatico, e non poteva di certo assillarlo di domande ogni volta che capitava. Era meglio tacere ed aspettare che parlasse lui, in quei casi. 
Mise il casco ed indicò a Carl una strada secondaria e poco trafficata per arrivare in fondo alla sua via, e lasciarla lì. ‘’Non vorrei che qualche domestica, o peggio i miei genitori, ci vedessero’’ e Carl non obbiettò. La accompagnò esattamente dove aveva chiesto lei, a pochi isolati dalla sua enorme villa che sorgeva imponente anche da lì.
Margareth scese dal mezzo un poco goffamente, mentre lui non si mosse, e si sfilò il casco subito, stavolta. Glielo porse e lui lo legò semplicemente al manubrio, mentre lei si sistemava meglio la cartella sulla spalla. Cosa doveva fare adesso? Salutarlo con un bacio o un cenno? Ringraziarlo per la bella giornata? Chiedergli cosa gli frullasse per la testa?
Fu Carl a parlare, nel momento in cui Maggie stava per aprir bocca e salutarlo. ‘’Nessuno è libero’’ sussurrò, riferendosi evidentemente a quello che lei aveva detto poco prima. ‘’Ognuno ha la sua croce, Marge. Nessuno vive facile’’ 
Carl era l’unico che la chiamava Marge, e a lei la cosa piaceva. Ma quello che aveva detto la toccò nel profondo. Lei non aveva intenzione di dire che la loro vita era una passeggiata, non voleva sminuirli, il suo era un semplice complimento. Una giustificazione plausibile sul perché le stessero simpatici i suoi amici. Solo allora si rese conto di quanto si fosse espressa male.
‘’Non intendevo dire questo. A me piacciono i tuoi amici perché osano, perché prendono tutto sul ridere e perché…’’ ma fu interrotta di nuovo dal ragazzo. Quando era agitata tendeva a parlare a sproposito. 
‘’Land ti sminuisce’’ disse solamente, prima di mettere di nuovo in moto la motocicletta e preparandosi a partire. 
‘’Cosa?’’ domandò confusa la bionda, prendendo in mano il suo iPhone che aveva iniziato a vibrare per un messaggio di Robyn. L’avrebbe letto dopo, comunque.
Carl lo guardò e lo prese fra le mani senza chiederglielo, premendo tasti che Margareth non riuscì a vedere e ridandoglielo poco tempo dopo. La ragazza suppose che si fosse mandato un messaggio dal suo telefono, in modo da avere il suo numero, ma non osava sperarci più di tanto. Carl non disse nient’altro, ne spiegò la frase di poco prima.
‘’A presto, Marge’’

 
_______________________­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­_____________________________
 
Osservando il soffitto della sua stanza, Margareth pensò che fosse arrivato il momento di rispondere al messaggio di Robyn di cinque ore prima, in cui blaterava riguardo l’imminenza del suo viaggio in Europa.
Quella sera i suoi genitori erano andati a cena fuori da qualche parte al centro, e Margareth aveva messo in gioco la sua emicrania per restare a casa. Hollie l’aveva obbligata a mangiare qualche pezzetto di pollo, ma per il resto non c’era stato verso.
Non aveva fame.
Prese in mano il suo iPhone, e notò che Robyn le aveva mandato altri due messaggi.
20:00
Da: Robyn
Margareth Elena Grey, hai capito cosa ho detto? MANCANO CENTO GIORNI E ADDIO AMERICA!!



20:30
Da: Robyn
Forse non hai capito cosa ho detto…chiama appena puoi. Baci xx


Margareth rispose velocemente con qualcosa che doveva sembrare entusiasta, giusto per compiacere la sua migliore amica, e bloccò lo schermo.
Voleva solamente dormire.

 
 
01:09
Da: 3457636452
Saresti più carina se mangiassi di più. Carl.
 
 
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Ecco a voi il capitolo :)
Dal momento che vado di fretta, cercherò di essere il più breve e coincisa possibile: il capitolo si intitola 
''In your World'' perchè Margareth viene catapultata - volontariamente, eh - nel mondo di Carl.
Cameron e Holland sono i suoi due migliori amici, dopo Zayn, e vivono tutti e tre insieme!
Vi chiedo solamente di non essere affrettati nei giudizi, perchè tutti e due - e soprattutto Land - avranno un ruolo 
abbastanza importante nella storia. Ovviamente, col tempo, ci sarà l'aggiunta di altri personaggi 
ma questi, in linea di massima, sono i più importanti!
Detto questo, lascio a voi i commenti!! Spero il capitolo vi sia piaciuto, e scusatemi per eventuali errori!
Un bacio enorme, risponderò presto alle vostre recensioni gentilissime. 
Buon sabato sera, a presto. xx
Harryette
Ps: vi lascio con una foto del nostro Carl :)


kk

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Capitolo 6
*** 5- Night and ghosts ***


j
 


|Capitolo Quinto|
Night and ghosts
 

‘’Tu credi che io sia capace di aiutarti?’’
Le labbra di Morgan si allargarono in un dolce sorriso, uno di quelli che tranquillizzavano sempre Margareth e la inducevano a sperare in qualcosa. Non importava cosa fosse, qualcosa le andava più che bene.
‘’Certo’’ sussurrò Morgan. ‘’Io sono convinta che tu sia capace di aiutarmi’’
Margareth annuì, spaventata, e strinse la mano di Morgan quasi convulsamente. Non si sarebbe tirata indietro, nonostante la paura la stesse corrodendo come un tumore e nonostante sentisse che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto.
‘’Maggie?’’
‘’Dimmi’’ sussurrò la bionda.
Morgan sospirò pesantemente, e si sforzò di sorridere di nuovo. ‘’Se l’operazione non dovesse andare bene…’’
‘’Andrà bene’’ la interruppe Margareth. ‘’Sono certa che andrà bene’’
‘’Se non dovesse essere così’’ insistette. ‘’Io non voglio che tu ti senta in colpa. Va bene?’’
Margareth si limitò ad annuire ma non aggiunse altro. Forse avrebbe dovuto farlo, così non avrebbe avuto nessun rimpianto ulteriore.
L’avrebbe fatto volentieri se avesse saputo che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto Morgan.



Si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di sudore e le mani tremanti. Gli occhi color marea erano spalancati per il terrore, la testa aveva iniziato a girarle vorticosamente. Si stese di nuovo.
Margareth si passò due mani sul volto, con fare quasi disperato, alla ricerca di un qualsiasi indizio che le ricordasse che ore erano.
La sveglia segnava le tre e mezza di notte, ma non voleva crederci. Soprattutto, non voleva addormentarsi di nuovo. Ancora una volta, per l’ennesima, Margareth aveva paura. Paura di rifare quell’incubo, paura di rivedere il volto smunto e giallognolo di Morgan, paura di sentire ancora la sua voce distorta. ‘’Se non dovesse essere così, non voglio che tu ti senta in colpa’’ 
Avrebbe tanto voluto avere un poco di sicurezza e autoconvinzione in più per crederci, per farsene una ragione, ma non poteva cambiare. L’aveva appurato e capito, purtroppo, nel corso dei suoi diciassette anni. Avrebbe semplicemente imparato ad accettarsi così.
In un momento di crisi, l’ennesimo, afferrò l’iPhone sul comodino di mogano e lo accese velocemente. Doveva distrarsi, parlare con qualcuno o leggere qualcosa. Agire. 
Fu in quel momento che rispose al messaggio di Carl, arrivato durante la notte del giorno prima e non risposto. Margareth non sapeva bene perché aveva preferito non scrivere niente, forse aveva solamente il timore di non dire la cosa giusta. Carl era terribilmente lunatico, facile alla rabbia che nascondeva dietro un silenzio, e lei non voleva assolutamente dire di nuovo qualcosa di sbagliato.

 
03:48
A: 3457636452

Chi ti dice che non mangio? (:
 
Il messaggio di risposta arrivò pochissimo tempo dopo, e Margareth non potè fare a meno di domandarsi perché Carl fosse sveglio, praticamente, alle quattro del mattino. E perché la rispondesse dopo che lei, inizialmente, non l’aveva fatto.
 
03:55
Da: 3457636452
Vai a dormire, buonanotte.
 
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Quella stessa notte, Holland si guardò allo specchio e maledisse la sua aria perennemente malinconica. Si chiese se ci fosse un medicinale capace di nascondere le occhiaie, oppure di nascondere la stanchezza o anche di coprire la tristezza. Non chiedeva di farla scomparire, lui, ma solo di nasconderla.
Provava a distrarsi giorno e notte, tentava di essere simpatico e socievole, provava a sentirsi parte della società o perlomeno del gruppo.
La cruda verità era che neanche Carl e Cameron, che erano i suoi migliori amici, lo capivano più.
Erano ormai passati cinque anni, pensavano, sarebbe dovuto andare avanti. Era logico, quasi. Purtroppo, non era così per lui.
Avrebbe preferito avere qualsiasi dolore, provare qualsiasi male e sentire ogni tipo di sofferenza, piuttosto che quel persistente senso di vuoto e impotenza. Senso di impotenza che, ne era ormai convinto, l’avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Land, nei momenti di più buio sconforto, ricordava le parole che Carl gli aveva detto l’anno prima- durante il loro primo incontro.
‘’Dimenticare è il primo passo per andare avanti’’ la sua voce gli rimbombava ancora nelle orecchie. ‘’Loro avrebbero voluto così’’
Ma Land non riusciva neanche a immaginare che cosa avrebbero voluto loro, figurarsi metterlo in pratica. Era una cosa troppo grande per lui, lo era sempre stata e le cose non sarebbero di certo cambiate da un giorno all’altro.
E mentre guardava la sua immagine riflessa nello specchio, aprì il cassettino laterale- quello che conosceva fin troppo bene- e ne estrasse quella bustina piena di polvere bianca che era l’unica che sembrasse capirlo.
Era l’unica cosa che sembrava farlo stare bene.
Tirò fuori anche un laccio emostatico e una siringa, e si guardò allo specchio per l’ultima- o forse la prima- volta. 
‘’Ma chi stai diventando?’’ sussurrò fra sé e sé, prima di lasciarsi prendere di nuovo dallo sconforto e riempire la siringa.
La verità, quella che aveva scoperto testata sulla sua stessa pelle, era che non era per niente vero che il tempo rimarginava le ferite. Le rendeva sopportabili, forse, questo sì, ma la sopportazione era per le persone forti. Per le persone che non volevano scomparire come un alone di sporco, per le persone che avevano qualcosa per cui restare ancorate con i piedi per terra, che avevano un motivo per svegliarsi la mattina. La sopportazione era per le persone che avevano qualcuno che gli ricordasse cosa fosse la speranza e quanto fosse bello sperare. 
Land non lo trovava, un motivo per vivere, perché darsi- quindi- questa pena? E mentre si infilava l’ago nella vena martoriata del braccio bianco e sottile, pensò che forse non aveva neanche più senso aspettare di trovare uno scopo. Che forse lo scopo della sua vita era proprio quello, e l’aveva sempre avuto sotto gli occhi senza mai neanche accorgersene.
Le immagini di quella notte di cinque- lunghi e interminabili- anni prima continuavano ad affollargli la mente, rendendogli quasi difficile respirare liberamente. Il rumore di vetri che si infrangono gli rimbombava nelle orecchie piene di buchi e dilatatori, e neanche le cuffie e la musica house sparata a tutto volume riuscivano a distrarlo. 
Le urla, però, erano la parte peggiore.
Land non ricordava un solo momento, nell’arco degli ultimi anni, che non fosse affiancato da quello stridore asettico e stonato. Era la colonna sonora del film horror che viveva fianco a fianco a lui, essendo la sua stessa vita. I suoi demoni, tutti quelli che erano nati e tutti quelli che invece c’erano sempre stati, erano con lui giorno e notte. Sempre.
Non aveva mai pensato profondamente al significato dell’avverbio di tempo ‘’sempre’’, non c’aveva mai nemmeno fatto caso. 
Lo spaventava.
Quella notte, Holland Todd decise che era inutile e deludente continuare a tenere duro. Lasciò semplicemente andare la spugna.
 
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Quella notte, Cameron Kyle si arrabbiò come una belva per la prima volta in vita sua, tanto che gli venne quasi da piangere.
Non piangeva mai, lui. 
Era qualcosa di connaturato, di automatico, come se i suoi occhi neri fossero allergici alla sostanza salinosa delle lacrime. Non ricordava neanche quando avesse pianto per l’ultima volta, quando era bambino di certo. Cam aveva venti anni e la testa di un adolescente, ma sapeva essere maturo.
Glielo aveva detto anche Land, e per diglielo lui doveva proprio essere vero.
E si, forse non riusciva a trovare un lavoro fisso e forse non riusciva a essere meno coglione, ma quelle erano abitudini. 
Non era realmente così, e i suoi amici lo sapevano.
Laurine era davanti a lui, le braccia incrociate al petto e dei lacrimoni immensi nei suoi occhi rossi. Nonostante Cam sapesse che quelle che portava erano solo lentine colorate (di un colore improponibile, ma pur sempre lentine), gli faceva ancora un certo effetto guardarla negli occhi a lungo.
Non era mai stato bravo a leggere le persone, e Laurine- a sua volta- non era mai stata tanto propensa afarsi leggere. Gli occhi marroni della sua ragazza erano già enigmatici di loro, con le lentine rosse non facevano altro che diventare quasi di vetro.
Se non fossero stati lucidi e sul punto di scoppiare, Cameron non avrebbe neanche capito che stesse soffrendo tanto quanto lui.
Laurine McGillan era una normalissima ragazza americana, che di normale aveva ben poco. A partire dai suoi occhi rosso fuoco, a finire con i capelli dello stesso colore e lo smalto di tonalità indefinite diverse per ogni dito.
Non era magra, non le interessava e pareva non farci neanche caso. Non era alta e se ne strafotteva anche di quello, sostanzialmente. Era sensibile, nonostante facesse di tutto per non darlo a vedere, e Cam lo sapeva benissimo. La conosceva da due anni, uno dei quali trascorso nello stesso letto, e ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
E, appunto per questo, sapeva altrettanto bene quanto fosse difficile farla parlare e farle esternare i propri sentimenti. Laurine era un vulcano di energia, sempre in cerca di qualcosa da dire o fare, senza stare mai zitta con quella voce squillante, e costantemente con la sua chitarra sulle spalle. Era capace di tirarla fuori e suonare nei posti più assurdi, perfino fuori una chiesa (sì, una volta l’aveva fatto). 
Era capace di parlare da sola per ore senza fermarsi mai, e senza mettere in imbarazzo nessuno.
Ma quando si trattava di dar voce ai suoi sentimenti, calava il silenzio. E i silenzi di Laurine, Cam li odiava perché non presagivano niente di buono.
Soprattutto se era distrutta alle quattro del mattino, dopo una notte d’inferno passata a litigare e a circumnavigare il vero nocciolo del problema.
‘’Che cazzo stai cercando di dirmi?’’ ringhiò Cameron, che di solito non perdeva mai la pazienza. 
Laurine era strana negli ultimi giorni, se ne era accorto ma aveva preferito tacere. L’aveva giustificata con le scuse più assurde, da ‘’avrà il ciclo’’ a ‘’forse ha litigato con sua madre, come al solito’’.
Ma basta.
Quella notte era stata scostante come non mai, l’aveva allontanato e palesemente evitato. E Laurine non lo evitava mai.
‘’Parla Laurine, Cristo Dio’’
Fu allora che la rossa scoppiò a piangere, coprendosi il volto con le mani callose per via della chitarra. ‘’Mi dispiace’’ singhiozzò.
Cameron non sapeva cosa stesse cercando di dirgli, dove diavolo volesse andare a parare né perché fosse così maledettamente enigmatica. Sperò solo che facesse presto a dirgli cosa cazzo le stava succedendo, perché lui si sentiva morire.
Laurine era sempre stata il suo punto debole, e le cose non sarebbero cambiate neanche fra un miliardo di anni. Quando la guardava, si sentiva perfino il latte alle ginocchia (sì, anche dopo un anno). 
Ed era di Cameron Kyle che si stava parlando.
‘’Io non…ho dimenticato di…’’ balbettò la ragazza. ‘’Non volevo, Dio Santo’’
Lui perse la pazienza. 
Le si avvicinò e la bloccò tra il suo petto e il muro di cemento della stanza di lei, sentendo ancora più vicino il battito irregolare del suo cuore. 
Aveva paura le uscisse fuori dal petto.
Gli pareva quasi di sentire l’odore salato delle lacrime di Laurine, mentre cercava di trattenere disperatamente le proprie.
‘’Ti prego’’ le sussurrò sulle labbra, come fosse una preghiera. ‘’Ti prego, parlami’’
‘’Ho un ritardo’’
 
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Carl guardò il soffitto bianco del Kensi’s. 
Il locale era situato nella periferia di New York, molto più vicino al Bronx di quanto il ragazzo fosse mai stato. Era sviluppato prevalentemente in altezza, su due immensi piani di palle stroboscopiche e musica trafora-timpani che affacciavano su quello che era considerato lo skyline più bello del mondo. Il biglietto d’entrata costava anche più della consumazione, ma non se n’era mai fatto un problema.
Il Kensi’s gli piaceva anche perché aveva i privè, alcune stanze con la musica più bassa e i divanetti di pelle bianca più liberi (per chi stava scoppiando), e i bagni più puliti fra tutti i locali della zona.
Sostanzialmente i locali delle discoteche servivano solamente a vomitare o ad intrattenersi con qualcuno di cui ci si sarebbe scordato il nome, ma ogni tanto a qualcuno veniva il semplice stimolo di andarci e basta.
La barista si chiamava Olivia, e a Carl era sempre stata simpatica. Era la figlia del proprietario, fallita a scuola e quindi reclutata dal padre per lavorare e fare qualcosa della sua vita. Aveva diciannove anni e i capelli più neri dell’universo, così tanto che la pelle sembrava trasparente anche se non lo era. Non era esattamente magra ma non era neanche grassa, e faceva delle battute interessanti.
Carl odiava il suo profumo al gelsomino, ma era piacevole farci due chiacchiere. Olivia era innamorata di lui, e questo lo sapeva bene, così come le sapeva che- sostanzialmente- non c’erano speranze. E non perché fosse brutta o antipatica, anzi, ma semplicemente perché era l’ultima cosa a cui Carl pensava. L’idea di una relazione gli faceva attorcigliare le budella, contorcere lo stomaco in una morsa ferrea. Non era mai stato impegnato seriamente con nessuna, e non avrebbe iniziato a diciotto anni.
Paradossalmente non gli interessava neanche un pò. Non riusciva a gestire se stesso, figurarsi una relazione con una ragazza.
Era fuori discussione, neanche lontanamente in porto.
L’idea di dover dar conto a qualcuno di tutti i suoi continui spostamenti, di tutte le sue mosse e di tutti i suoi pensieri, lo repelleva. 
Come se non avesse già abbastanza cose di cui preoccuparsi.
‘’Il solito’’ disse atono a Olivia, che sorrise appena lo vide ed iniziò a blaterare qualcosa riguardo un cane che era scomparso. Ne aveva cinque, quindi probabilmente si riferiva a se stessa. 
‘’Ecco a te’’ gli porse il suo Cuba Libre. ‘’Come te la passi, Pearson?’’
Il fatto che Olivia avesse, precedentemente, scoperto il suo cognome era alquanto inquietante. E anche la sua richiesta improvvisa su facebook, dopo il loro primo incontro, lo era. Aveva ipotizzato che l’avesse semplicemente cercato fra gli amici di Cam, che conosceva praticamente tutto il locale. La cosa non gli aveva arrecato alcun fastidio, come le domande della bruna, ma lo mettevano un poco in soggezione. 
Carl scrollò le spalle e prese a bere il suo drink lentamente. ‘’Me la cavo’’ rispose. ‘’E tu?’’
‘’Me la cavo anche io’’ sorrise ancora Olivia, mostrando la sua perfetta fila di denti bianchissimi come quelli di un vampiro. ‘’Ho visto Land mentre arrivavo qui’’ continuò. ‘’Mi sembrava…ambiguo’’
‘’Quando mai non lo è?’’ ironizzò Carl, continuando a bere. Si sentì stringere improvvisamente la gola, segno che l’alcool aveva iniziato a circolare nel suo corpo, e le sue guance si colorarono di un leggero color pesca. 
‘’E come…’’ continuò Olivia. ‘’Come va con la scuola? Girano ancora quelle strane voci su di te?’’
Carl si rizzò improvvisamente, e non rispose. La verità era che: sì, circolavano ancora quelle falsissime voci su di lui. Non che le avesse mai smentite, sinceramente non poteva e non se l’era nemmeno sentita. Così, conoscendo la curiosità di Olivia e la sua insistenza, la guardò cupamente e chiese ‘’ti va di ballare?’’
Probabilmente se fosse stata una semplice dipendente non avrebbe potuto muoversi da dietro al bancone, ma essendo la privilegiata figlia del capo annuì contenta. Sembrava felice come una Pasqua, come se avesse aspettato quel momento per troppo a lungo.
Carl le afferrò la mano e scesero in pista, tra decine e decine di corpi sudati e in movimento.
Al ragazzo vennero solamente in mente tutte le cose che dicevano continuamente su di lui, tutte le persone che gli avevano costruito addosso una reputazione non reale, e si sentì stringere lo stomaco peggio di come sarebbe successo con diciotto Cuba Libre. 
La realtà era che lo sapeva benissimo che avrebbe dovuto aiutare Land e non semplicemente coprirlo, addossandosi la colpa delle sue cazzate. Un amico aiuta, no? Il punto era che non sapeva cosa fare per aiutarlo.
E lui rimaneva Carl Pearson, il cattivo ragazzo del Bronx, il figlio di un ex pregiudicato, il che era vero. Era vero ma che fosse drogato, quello, non lo si poteva neanche dire. 
E pensare che voleva solo un minimo di pace.
Le labbra di Olivia erano ormai sulle sue da qualche minuto, quando si diressero verso il privè.
E Carl pensò a quanto sarebbe stato bello poter essere semplicemente se stesso.
 
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Se c’era una cosa, al mondo, che Margareth aveva capito e appurato nel corso della sua vita era che tutte le cose, belle o brutte che fossero, erano destinate a finire.
Il dolore finisce, la gioia finisce, la spensieratezza ha una fine ed è la stessa che ha anche la tristezza. 
Perfino, e soprattutto, la vita finisce.
Ed era quello, esattamente, il pensiero con cui si svegliò dopo una notte insonne. E mentre indossava la sua solita divisa e si sistemava i capelli biondi con gesti automatici e quasi robotici, si decise.
Uscì da camera sua, ma anziché dirigersi in salone come sempre, alla stregua di domestiche che le facevano continue domande e di Ollie che l’avrebbe costretta a mangiare anche solo qualcosa, imboccò il corridoio opposto. Casa sua era grande, schifosamente ed enormemente gigantesca, e ricordò di quando- da piccole- lei e Morgan si divertissero a nascondersi e a far impazzire le loro povere tate.
La sorella era molto più pestifera di lei quando avevano meno di dieci anni, era l’incubo di tutto il personale privato di casa Grey. E spesso, quasi sempre, si addossava la colpa dei piccoli guai che combinava di tanto in tanto Margareth, beccandosi il doppio delle sgridate e dei richiami paternali. Maggie si era sempre adagiata sugli allori, perché tanto aveva Morgan e andava benissimo così. L’aveva sempre vista come un’eroina, come un modello da seguire. Amava il carattere della sorella, amava la sua vivacità costante e il suo voler sempre fare qualcosa e remare contro alle regole, le piaceva il modo in cui sapeva- e voleva, anche- ribellarsi.
La ammirava soprattutto perché, crescendo e avendo solamente due anni di differenza, aveva imparato a notare delle sfumature nel suo carattere che si differenziavano completamente dal suo: Morgan era un vulcano di idee, si era rifiutata sin dal primo anno di liceo di dover entrare ad Economia come volevano i genitori, perché il suo sogno era frequentare l’accademia d’arte di Parigi. Se ne era innamorata durante una gita scolastica all’estero di una settimana, e diceva sempre a Margareth quanto la Francia fosse da sogno. 
‘’E i francesi, poi!’’ sorrideva, allegra. ‘’Quando entro all’accademia d’arte, ti porto con me’’
Ci sarebbe andata, a Parigi, Margareth. Avrebbe fatto un’eccezione alle regole della sua vita, ci sarebbe andata senza nemmeno pensarci e avrebbe seguito l’unica persona che contava: sua sorella. L’unica persona che la portasse fuori dalla solita routine, che la facesse sentire viva.
Morgan Grey non era come lei, e l’aveva capito a undici anni per la prima volta. Era rivoluzionaria, Maggie era sicura che se fosse vissuta anni prima si sarebbe incatenata fuori qualche fabbrica per l’emancipazione femminile.
Morgan Grey non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, aveva il coraggio di osare e la forza di rifarlo. 
Nonostante i loro genitori si aspettassero tanto, troppo, da lei, essendo la primogenita, Morgan non si era mai scoraggiata. Non si era mai sentita oppressa, non si era mai sentita in gabbia nella sua stessa casa e- soprattutto- nella sua stessa vita, semplicemente perché non lo era mai stata.
Giocava perfino a football, e Margareth ricordava ancora della scissione che si era scatenata in casa Grey quando l’aveva comunicato ai genitori. A fatto compiuto.
‘’Sono entrata nella squadra’’ aveva detto, sempre sorridendo. ‘’La settimana scorsa’’
Ma appunto perché ogni singola cosa finisce, Margareth non si era di certo illusa che potesse durare per sempre. Lo sapeva dall’inizio, come sarebbe andata, e se ne era sempre fatta una ragione.
C’era sempre stata la rassegnazione, negli occhi della sorella, anche mentre organizzava qualche party a sorpresa ed invitava tutta la scuola e anche mentre sorrideva. Perfino mentre, con l’adrenalina a mille, aveva urlato in faccia ai genitori che non voleva stare in un comprensorio femminile privato, e che volevacorrere via- testuali parole- dalla Spence School.
Aveva frequentato un liceo pubblico, dopo scioperi della fame e puntuali scenate serali, con tanto di qualche effetto scenico come due lacrimucce. E non piangeva, Morgan, non piangeva mai.
E lo aveva sempre detto, a Margareth, perché la conosceva fin troppo bene e perché sapeva- era l’unica a sapere- come si sentisse. 
Anche quando non riusciva quasi a parlare, ed era stesa su un letto, così magra da far spavento. Sorrideva e diceva ‘’non permettere mai a nessuno di dirti cosa devi fare, e chi devi essere’’
Avrebbe tanto voluto renderla contenta ed orgogliosa, come era sempre stato il contrario, ma lo sapeva perfino Morgan mentre parlava che non sarebbe mai successo. E questo semplicemente perché Margareth non era come lei e, per quanto si sforzasse, non era lei.
E l’immagine di Morgan che la trascinava con sé nello studio del padre, di nascosto ed in assoluto segreto, le si parava sempre davanti agli occhi. Prendeva un vecchio vinile della collezione del sindaco di New York e lo metteva sul giradischi, che aveva imparato da sola ad usare. Se solo Dan l’avesse scoperto, le avrebbe messe in punizione vita natural durante. 
Il padre era un amante delle collezioni di vinili, ne era praticamente ossessionato, soprattutto di quelli della sua grande passione da adolescente: i Beatles. 
Morgan prendeva sempre quello con la copertina rossa e scorticata, Maggie neanche ne ricordava il nome, ed iniziava a ballare sulle note di ‘’Free as a bird’’.
‘’Questa canzone è la colonna sonora della mia vita’’ diceva. ‘’La dedico a te, Maggie’’
E fu con questi ricordi che le divoravano il cervello, come da due anni a questa parte, che Margareth trovò un coraggio che credeva di non avere. Davanti a lei c’era la porta della stanza di Morgan, che lei chiamava il suo ‘’antro segreto’’. I genitori non ci avevano mai messo piede sotto suo ordine, e a lei era permesso pochissime volte. 
Sapeva che nessuno ci era più entrato, e che i genitori avevano assunto una domestica apposita per pulire quella camera senza toccare assolutamente nulla. Pena: il licenziamento. 
La aprì senza neanche pensarci, mentre nella sua mente suonava ancora ‘’free as a bird’’, come in un pomeriggio di tanti anni prima.

 
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Eccomi qui, con un altro capitolo! 
Ho preferito non farvi aspettare, stavolta, perchè questo è uno dei capitoli che preferisco!
Finalmente inizia ad essere un pò più chiara la vita dei personaggi e il loro carattere, e il loro passato che è molto più presente di quanto pensiate ahahha
Non credo ci sia molto da dire, a parte che gli avvenimenti narrati si svolgono tutti nella STESSA notte.
Da qui, il titolo del capitolo :)
Vi voglio avvisare che, probabilmente, dal prossimo capitolo in poi si entrerà completamente nella storia
e non sto nella pelle per questo, giuro, posterò prima di quanto possiate immaginare ahahah
Vi ringrazio ancora per le belle parole e la gentilezza, siete sempre il TOP del TOP. 
A presto stelle. xx
Harryette

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Capitolo 7
*** 6- Don't be afraid ***


j
 


|Capitolo Sesto|
Don't be afraid
 
‘’Sei un coglione’’
La voce di Land rimbombò nel piccolo locale, facendo ritorno mille volte ancora. Aveva sempre avuto un timbro molto accentuato ed un tono molto alto, Cam spesso gli urlava in faccia di tacere perché ‘’sembri un cantante lirico e ti odio’’.
Quella volta nessuno disse una sola parola, nemmeno Carl che detestava il rumore. Cam, solitamente sempre pronto per qualche battuta per smorzare i toni e per qualche pacca amichevole e serena sulla spalla, taceva e sembrava impegnatissimo ad osservare il fondo della sua birra.
‘’Non lo aiuti, così’’ disse Carl, bevendo un sorso della sua e guardando di sottecchi Holland. Spostò lo sguardo sul moro, ma se ne pentì l’attimo dopo. Sul volto di Cameron, solitamente sempre allegro, c’era qualcosa che neanche lui riusciva ad identificare: un misto di malinconia attorniato da una patina di spessa tristezza, che sembrava quasi insormontabile.
Non seppe cosa dire, se non ‘’Ma è sicuro?’’
Cam scosse la testa, distratto, e ‘’No, oggi fa il test’’ rispose. ‘’Ma dice che il suo ciclo è più puntuale di te’’ indicò Carl, facendo qualcosa di molto simile ad un sogghigno. ‘’E’ un ritardo di dieci giorni, o qualche cazzata del genere’’
‘’Hai appena dato della cazzata a tuo figlio?’’ domandò Land, producendo uno strano rumore nel poggiare il fondo della bottiglia di vetro sul tavolino di legno.
‘’E’ grande quanto un fagiolo’’ aggiunse Cam. ‘’Non è mio figlio, non ancora. Al massimo è un legume’’
‘’Hai appena dato del legume a tuo figlio?’’ insistette il biondo, sgranando gli occhi.
Cam roteò platealmente gli occhi al cielo. ‘’L’unico fagiolo qui, mi sa, che sei tu’’
‘’Mi hai appena dato del fagiolo?’’ Land assunse un finto tono offeso. In realtà Carl sapeva benissimo che stava cercando di assumere la parte che solitamente era di Cameron, e di smorzare quindi la tensione che si era creata. Lo sapeva bene anche Cam, ne era certo, ma sembrò fingere di essere sorpreso.
‘’Smettetela’’ soggiunse Carl, scuotendo la testa. ‘’Non facciamone un processo all’intenzione! Magari non è incinta’’
‘’Magari lo è’’ la voce di Cam era spenta ma tradiva la sua solita allegria. Era impossibile che fosse del tutto cupo, le persone come lui non lo sarebbero stati mai.
‘’Magari no’’ ribatté Carl, alzando al cielo il boccale. ‘’Voglio fare un brindisi’’
‘’Vaffanculo’’ ringhiò Land, alzando gli occhi al cielo. ‘’Devi proprio fare il
socievole quando siamo in crisi? E quando Cam mi ha appena dato del fagiolo?’’
Cam fece per alzare il suo boccale all’aria, cedendo alla sua solita ilarità e dando ragione a Carl- con tanto di schiaffo morale a Holland-, quando si bloccò di colpo col bicchiere a mezz’aria.
Aveva lo sguardo fisso sulla lastra di vetro davanti a se, che faceva da muro principale al bar in cui stavano, e che dava piena vista su una delle strade più trafficate di New York.
‘’Che ti prende, adesso?’’ borbottò Carl, senza voltarsi.
‘’Quella lì’’ indicò un punto impreciso col dito scuro, attraverso il vetro. ‘’Non è la tua amichetta ricca?’’
Carl si girò lentamente, confuso, verso il punto indicato dal moro. ‘’La mia amichetta ricca?’’ chiese, ma nel momento in cui terminò la domanda capì. Aveva completamente dimenticato di avere un’amichetta ricca.
Gli bastò voltarsi completamente per vedere, dall’altro lato della strada, quella che era sicuramente Margareth Grey. Non indossava la divisa scolastica, come l’ultima volta, essendo le cinque del pomeriggio. Aveva una semplice camicetta rosa con quelle che dovevano essere fantasie floreali, ed un jeans che aveva tanto l’aria di essere un timorato di Dio. Stringeva fra le mani una busta abbastanza grande, di qualche marca famosa che non si riusciva a leggere per la lontananza. Era andata sicuramente a fare compere.
‘’Sì’’ rispose a Cam. ‘’E’ lei’’
Margareth era a telefono, di profilo, e probabilmente (sicuramente, anzi), non li aveva notati. Sembrava annoiata, mentre annuiva spesso e diceva qualcosa sporadicamente. Sembrava non avere la forza di staccare la chiamata, e stop.
Tipico di lei, si ritrovò a pensare Carl.
‘’Mi piace anche il suo nuovo modello di scarpe’’ aggiunse Cam, indicandole. ‘’Ma se non si vedono nemmeno!’’ blaterò Land, per il semplice gusto di contraddirlo.
‘’Hai qualche dubbio che non siano belle?’’ rispose piccato il moro. Carl perse il filo del discorso nel momento in cui vide due uomini in giacca e cravatta, tra cui uno con un microfono e un registratore in mano, avvicinarsi progressivamente a lei. Maggie li notò poco dopo e fu colta di sorpresa, perché sobbalzò e attaccò sbrigativamente il cellulare, approfittando del momento.
Carl li vide parlare, mentre lei annuiva cordiale e palesemente imbarazzata e mentre quegli uomini accendevano addirittura una telecamera e un flash che aveva l’aria di essere accecante.
Margareth si guardò intorno confusa e indecisa su cosa fare. Si vedeva che avrebbe tanto voluto essere lasciata in pace, da quelli che dovevano essere giornalisti politici in cerca disperata di notizie su Dan Grey e sui suoi provvedimenti e le sue riforme.
Successe tutto in due minuti.
Mentre Cameron ed Holland continuavano a discutere animatamente e a fare ipotesi su quanto potesse costare complessivamente tutto ciò che la bionda aveva addosso, Carl si alzò di soppiatto dalla sedia e raggiunse velocemente l’uscita del locale.
‘’Quella ragazza porterà solo guai’’ sospirò Land, quando si accorse dell’uscita di scena teatrale dell’amico. ‘’Me lo sento’’
‘’Carl non è affatto il tipo’’ Cam sorseggiò un poco della sua birra, manco fosse prosecco. ‘’Per lui è solo una novità, si stuferà come sempre’’
‘’Vedremo’’ sogghignò il biondo, come uno di chi la sa lunga.
Intanto Carl aveva raggiunto il marciapiede opposto al suo e si stava dirigendo verso la ragazza, che sembrava sentirsi ancora più fuori luogo di prima. In quel momento, a Carl, ricordò terribilmente un uccello in gabbia. Con la capacità di volare, la consapevolezza di poterlo e saperlo fare, ma senza il coraggio di scappare.
La raggiunse in tre secondi.
‘’Corri’’ le sussurrò all’orecchio, dopo la sorpresa iniziale di lei. Le aveva afferrato il polso magro quasi in modo convulso, mentre lei sgranava gli occhi e i giornalisti continuavano imperterriti con le domande.
‘’Cosa ha intenzione di fare suo padre con il presidente della Germania?’’
‘’Cosa?’’ domandò Margareth, fin troppo vicina ad un semi-sconosciuto.
‘’Corri e non parlare’’
Difatti, non parlò. Lo seguì e basta.
 
 
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Avevano corso per l’unico motivo che i due giornalisti avevano preso a seguirli, assetati di scoop e nuove notizie. Nella situazione di crisi generale nel mondo, era ovvio che si attendessero novità a orecchie tese.
A Margareth, non erano mai piaciuti i giornalisti. Forse perché ne aveva sempre avuto un brutto ricordo, forse perché non poteva andare in centro senza che se ne trovasse minimo uno alle calcagna, o più probabilmente perché erano insensibili. Non pensavano a come potesse sentirsi la persona che sommergevano di domande, andavano diritti per la loro strada e basta. Era un lavoro, certo, ma un poco di tatto non avrebbe guastato di certo. I due giornalisti che l’avevano raggiunta quel pomeriggio afoso erano stati molto cordiali, fortunatamente, e – se Margareth avesse saputo qualcosa riguardo i provvedimenti che aveva intenzione di prendere suo padre -  sicuramente non avrebbe esitato a dirglielo.
Quello che dovevano mettersi in testa era che lei non aveva niente a che fare con la vita politica del padre, né voleva averne. Come loro, procedeva per la sua strada e basta.
La presa di Carl si fece più forte quando, da una camminata veloce iniziale, iniziarono a sfrecciare fra le strade enormi e affollate, rischiando di mozzare il braccio a qualcuno e di essere investiti da qualcun altro.
Margareth ebbe un improvviso attacco di caldo, non dovuto solamente al clima. La mano di Carl sembrava volerle bruciare e perforare la carne, e non era una cosa positiva. E quando lui, che era sempre di due passi avanti a lei, frenava o si fermava bruscamente, la distanza che li separava diventava davvero minima.
Ci vollero dieci minuti buoni di corsa per seminare i due giornalisti di cronaca, e altrettanti minuti per assicurarsi che- no- non sarebbero spuntati fuori all’improvviso. Probabilmente si erano persi in una delle tante traverse che Carl aveva imboccato appositamente.
Doveva conoscere molto bene New York, pensò Margareth, eppure non aveva l’accento del posto. Sembrava più un accento di periferia, una cadenza da sud.
‘’Sto per svenire’’ ansimò la ragazza, quando si rese conto di dove si trovava e si rilassò. Era un parcheggio di uno dei tantissimi centri commerciali della zona, pieno zeppo di macchine parcheggiate. C’era stata qualche volta, non era poi tanto lontano dal centro, le parve di aver fatto il doppio della strada.
Carl aveva un leggero fiatone, e la felpa grigia e slabbrata leggermente umida, ma niente di più.
‘’Da quand’è precisamente che sei diventata una star?’’ domandò, sistemandosi i capelli e la maglia. Sembrava ironico, tuttavia Margareth non seppe dirlo con precisione. Era sempre difficile riuscire a decifrare Carl Pearson.
‘’Ma magari!’’ sorrise lei, scuotendosi i capelli e sentendo i polmoni leggermente più leggeri. Non era abituata all’attività fisica, nonostante avesse fatto qualche anno di Golf, e si sentiva peggio che se l’avesse investita un camion a sei ruote. ‘’Volevano sapere di mio padre’’ ammise.
‘’Sì, l’avevo capito’’ continuò Carl. ‘’Dovresti dargli un calcio nelle palle, quando ti infastidiscono’’
Margareth non capì bene il senso di quella frase. Punto primo, perché non credeva che il suo fastidio fosse così visibile da essere notato perfino dal ragazzo. E secondo, perché Carl era davvero diretto.
‘’Secondo te ne sarei capace?’’ la buttò sul ridere.
Carl le si avvicinò, fin troppo. Fu tentata di indietreggiare, non perché non le piacesse la sua vicinanza – anzi- ma perché preferiva una distanza di sicurezza. Non si sentiva…bene, quando Carl Pearson le era troppo vicino. Si sentiva a disagio, più del normale, e le si contorceva lo stomaco in una morsa violenta.
Ma non si mosse, perché si perse negli occhi del ragazzo che aveva di fronte. Aveva sempre pensato che Carl fosse bello, con i capelli che sfumavano nel rossiccio e la pelle diafana, sin dalla prima volta che l’aveva visto. Nonostante non fosse affatto il suo tipo, nonostante avesse fin troppi tatuaggi per i suoi gusti personali, e nonostante non fosse la persona più simpatica e socievole del mondo, non aveva mai messo in dubbio la sua bellezza immane.
Tuttavia, non aveva mai avuto modo di ammirare da vicino- e per bene- i suoi occhi.
Non erano azzurri come aveva pensato al primo impatto. Erano trasparenti, con screziature di verde chiaro attorno all’iride scurissimo a confronto, e con una leggera sfumatura di celeste sui contorni.
Non erano come i suoi, di un semplice blu chiaro. Erano come l’oceano, nonostante fosse scontata era l’unica similitudine che le venne in mente. Lui dovette accorgersi dello sguardo insistente e stupido della ragazza, perché si allontanò leggermente e aggrottò le sopracciglia.
‘’Va tutto bene?’’ le chiese.
‘’Si io…’’ balbettò Margareth, distogliendo lo sguardo in imbarazzo. ‘’Stavo solo…’’ arrancò. ‘’Ecco, stavo solamente pensando che hai degli occhi bellissimi’’
Optò per la verità perché non le venne in mente niente di più intelligente da dire, e nessuna scusa su cui arrancare. Diretta, veloce come strappare un cerotto. Lui non sembrò sorpreso, anzi, sorrise.
Erano poche le volte in cui sorrideva in modo non forzato.
‘’Ti piacciono?’’ domandò, guardandola curioso.
Margareth annuì un po’ troppo energicamente, e ‘’Sono di un bel colore’’ aggiunse.
Carl le si avvicinò ancora, forse più di prima, e sorrise di nuovo. Alzò una mano lattea e spostò una ciocca di capelli biondi dalla fronte di Margareth, che neanche l’aveva notata. Si allontanò di nuovo, e troppo presto, prima di rispondere con un cortese ‘’grazie’’.
Dopo qualche minuto di silenzio, che lui riempì tirando fuori dalla tasca del jeans scuro una sigaretta ed accendendola, si voltò di nuovo verso di lei e ‘’Anche i tuoi non sono niente male’’ sogghignò.
Margareth si sentì, improvvisamente, ancora più a disagio. Non riusciva a capire né classificare il senso di timore e l’accentuata timidezza che aveva ogni volta che Carl la guardava o le parlava. Non che solitamente fosse sfacciata o socievole, ma con lui i suoi soliti tentennamenti parevano amplificarsi all’infinito.
‘’Solo di un semplice azzurro’’ sorrise nervosa, prendendo ad osservare spasmodicamente la punta delle sue scarpe costose. Lui scrollò le spalle ed espirò un’abbondante dose di nicotina.
‘’Ti da fastidio?’’ le domandò, indicando la sigaretta. La risposta era sì, Maggie odiava il fumo e ancor di più il fumo passivo. Detestava quando i suoi vestiti si impregnavano di quell’odore acre, per non parlare di quello che avrebbero pensato e detto i suoi genitori quando se ne sarebbero accorti.
Erano peggio di un segugio, fiutavano ogni singolo odore ed ogni singolo profumo, bello o brutto che fosse.
Tuttavia, non le parve il caso di annuire e – quindi- di fagliela spegnere. Carl doveva avere già un’opinione abbastanza distorta di lei, avendola vista su un parapetto in lacrime e nel suo momento peggiore, non era davvero il caso che infierisse ancora.
Forse era proprio il fatto che il ragazzo l’avesse più o meno ‘’salvata’’, che la portava ad essere ancora più chiusa quando era nei paraggi. Se ne autoconvinse nello stesso momento in cui scosse la testa.
Carl prese ad osservarla di nuovo, con uno sguardo vispo, e poi – improvvisamente – gettò la sigaretta a terra (ancora quasi intera, tra l’altro), e la schiacciò con la punta delle sue converse nere.
‘’Non mi dava fastidio’’ si aizzò subito Maggie, avvicinandosi impercettibilmente.
Carl sghignazzò, o qualcosa di molto simile, prima di scuotere la testa ed uscirsene con un semplice ‘’sei una pessima bugiarda’’
‘’E tu sei veramente un gentiluomo’’ ironizzò lei, prendendo a sorridere, sinceramente più a suo agio. Forse non era così male come pensava.
‘’E’ uno dei miei molteplici pregi’’ si vantò, e Maggie- quella volta- era completamente sicura che stesse scherzando. Glielo riusciva quasi a leggere negli occhi vitrei.
‘’E tra questi c’è anche la modestia, giusto?’’ corse alla riscossa, sistemandosi meglio i capelli biondi. Sentiva i polmoni improvvisamente più leggeri.
‘’Sono la persona più modesta del pianeta’’
‘’Lo noto!’’ rise lei, decidendo di poter osare un pochino di più. ‘’E dimmi un po’, ti diverti a fare l’eroe e salvarmi ogni volta?’’ sorrise, incrociando le braccia al petto.
Carl sembrò sorpreso dalla scioltezza della bionda, prima di allargarsi in un grande sorriso, sincero. ‘’Un po’, effettivamente’’ rispose. ‘’Magari, così, vado in Paradiso’’
Nonostante l’aria fosse ilare e nonostante stessero scherzando, Margareth non potè fare a meno di notare la strana patina di agitazione che attraversò gli occhi di Carl. Fu per un nanosecondo, ma non passò affatto inosservata agli occhi attenti della ragazza.
‘’Allora’’ sorrise. ‘’Sono contenta di essere un tuo riscatto’’
‘’Solo’’ continuò lui, sogghignando. ‘’Non mi diverte vederti nei guai. Quindi cerca di evitarlo, le mie azioni buone posso anche concludersi qui’’
Margareth rise di gusto, e proprio in quel momento notò un guizzo negli occhi trasparenti del ragazzo. Qualcosa come gioia, o forse semplice serenità. Qualcosa che, davvero, non gli aveva mai visto addosso.
‘’Suppongo, quindi, che sia stupido ringraziarti’’ ironizzò la bionda. ‘’Giusto?’’
‘’Giusto’’ Carl le si era avvicinato e le aveva passato una mano veloce fra i capelli chiari, scompigliandoli. ‘’Ti accompagno a casa’’ ammise, indicando l’uscita del parcheggio. ‘’Andiamo, prenderemo una via secondaria’’
Margareth annuì, improvvisamente al settimo cielo.
Anche se avrebbe fatto fermare Carl a qualche isolato dalla sua villa, per non correre il rischio di essere vista, si sentiva comunque stranamente contenta. Credeva di stare antipatica al ragazzo, o quantomeno che la reputasse strana (in senso negativo, si intende), ma quella era stata per lei la prova del nove.
Evidentemente, e fortunatamente, non era così.
Cercò di non pensare al fatto che Carl le si fosse avvicinato e le avesse afferrato la mano, incrociando le loro dita, trascinandola con se.

 
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C’erano giorni, più lunghi ed odiosi di altri, in cui gli era praticamente impossibile alzarsi dal letto.
Erano i giorni in cui la parte più lucida del suo cervello gli suggeriva che doveva smettere, che era meglio così, che c’era qualcosa per cui restare appigliato alla staccionata che era la sua vita.
Giorni che, dopo circa otto ore dall’ultima dose, iniziava a tremare così tanto che gli facevano male anche i denti. Restava sdraiato a pancia sotto sul letto bagnato di sudore – il suo – e continuava a ripetere che andava tutto bene, anche se sapeva perfettamente che non era affatto così.
Giorni, come quello, in cui cercava dentro di sé tutta la forza necessaria per resistere, per sperare, per stringere i molari e sopportare in silenzio quella lenta discesa all’inferno. Giorni in cui si obbligava a non alzarsi dal letto, a non entrare in quel bagno, e a non avere costantemente quel pensiero.
C’erano giorni, come quello, in cui resisteva per quasi undici ore. Giorni in cui cercava di distrarsi, di divertirsi, di non pensarci e basta. In cui chiamava Carl disperato, ‘’per favore, aiutami’’, anche se non serviva a niente.
Puntualmente, ci ricascava.
Avrebbe dovuto saperlo che il tunnel buio nella quale si era deliberatamente infilato non era clemente, e non lo sarebbe stato mai. Avrebbe dovuto capirlo l’anno prima, quando Ulrich gli si era avvicinato – in un vicolo buio – e glielo aveva detto. ‘’Io te la do, ma sappi che non è uno scherzo’’
E il dolore e i pensieri si stoppavano improvvisamente, davvero, nel secondo esatto in cui inseriva l’ago nella vena bluastra e premeva forte l’estremità della siringa.
Nell’esatto istante in cui l’eroina entrava in circolo nel suo corpo, perdeva la concezione temporale: non capiva se le ore fossero minuti, se i minuti secondi o tutto il contrario.
Si sentiva solo e semplicemente bene.
Quel giorno era riuscito a resistere dieci ore, ma non ce l’aveva più fatta. Una parte di lui si detestava per questo, si odiava per essere così inetto e per non riuscire a prendere in mano la sua vita.
La parte nettamente maggiore, invece, pareva quasi volesse sorridergli e battergli il cinque.
La verità era che si stava uccidendo, e lo sapeva fin troppo bene per poter fare qualcosa.
Le immagini nitide di quella notte smettevano di tormentarlo, l’urlo dei suoi genitori non gli faceva più da eco, e i vetri rotti parevano essersi ricomposti improvvisamente.
Cam entrò nell’appartamento che condividevano da quasi un anno, Land aveva sentito chiaramente la chiave girare nella toppa. Avrebbe voluto alzarsi dal letto, sistemare la siringa che giaceva indisturbata sul pavimento (vuota), e fingere che fosse tutto a posto.
Non ce la fece.
Cam salì le scale che portavano al piano superiore, e spalancò la porta socchiusa della sua stanza. ‘’Dio esiste!’’ urlò, esaltato. ‘’Non sai che cosa mi ha detto…’’
Si bloccò improvvisamente, perché non era sciocco e aveva capito molto – fin troppo – bene l’antifona.
Land era semplicemente sdraiato sul materasso, pareva sul punto di addormentarsi, ma la felpa enorme che indossava era tirata su da un braccio. Il punto dell’iniezione era leggermente rosato, e perfettamente visibile. Cam abbassò lo sguardo, nonostante gli facesse male perfino respirare, e notò la siringa. Pareva avesse quasi un radar quando si trattava di Holland, perché aveva capito – sentito – benissimo che lui, in quel momento, non stava bene.
In verità dubitava che ci fosse stato un solo momento nella vita dell’amico in cui si fosse sentito bene, senza ‘’se’’ e senza ‘’ma’’.
Non si mosse, Land aprì gli occhi completamente e prese a fissarlo. Nonostante fosse esaltato ed euforico, ed avesse le pupille dilatate fino all’inverosimile, Cameron potè notare un velo di tristezza coprire il suo volto vitreo.
‘’Mi dispiace’’ sussurrò Land, cercando di coprire un sorriso perverso che si stava facendo strada sulla sua faccia scavata e slavata. Non aveva perso del tutto il buon senso, almeno.
Cam non si mosse neanche allora, e pensò bene alle parole da usare prima di aprire bocca. ‘’Prima che muori per quella merda ti ammazzo io’’ ringhiò, non riuscendo a mascherare tutta la sua rabbia e il suo rancore infinito. Si sentiva esplodere, come fosse un vulcano rimasto in silenzio per troppo tempo. Strinse le mani a pugno fino a conficcare le unghie corte nella carne, pur di non prendere a schiaffi il biondo che aveva di fronte. Si impose di mantenere il suo solito autocontrollo. ‘’Te lo giuro, Holland, ti uccido’’
Dal letto, tuttavia, non arrivò nessuna risposta. Land si alzò, semplicemente, e Cameron ebbe paura si spezzasse. Sembrava rinato perché, era inutile negarlo, quel pomeriggio Cam l’aveva notato benissimo quanto fosse agitato e nervoso.
Si illudeva che stesse lentamente smettendo, che avrebbe potuto farcela, che – dopotutto – c’erano persone che si drogavano da molto più di un anno e c’erano riuscite.
Avrebbe dovuto saperlo che Land non aveva nessun interesse a smettere.
Lo vide mentre si metteva le scarpe, con una strana vitalità che ormai sembrava non appartenergli neanche più, mentre sorrideva.
‘’Ci vediamo dopo’’ esclamò.
‘’Dove vai?’’ sospirò il moro.
‘’Esco’’
Avrebbe voluto dirgli che non c’era alcun bisogno di aver paura della vita, che comunque lui e Carl ci sarebbero stati sempre e comunque e che niente – niente – era insormontabile.
Non parlò, neanche quando sentì il portoncino sbattere. 


 
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Hello :)
E, niente, ho deciso di postare adesso perchè vi ho fatto aspettare più del solito ahahah
Dal momento che oggi è l'anniversario dei miei ho poco tempo, ma spero comunque che il capitolo vi piaccia.
Con questo siamo entrati UFFICIALMENTE nella storia, per questo spero che continuerà a piacervi xx
Dunque, qui entrano meglio in scena anche Cameron e Holland ((che è il mio personaggio preferito))
ma vi dico che dovranno accadere ancora un SACCO di cose ahahah
Ringrazio tutte le ragazze che hanno inserito ''amnesia'' fra le preferite-seguite-ricordate, tutte quelle che
mi tengono fra le autrici prerite e quelle che recensiscono e anche chi legge in silenzio.
SIETE MERAVIGLIOSE!!
Vorrei dilungarmi un pò, ma devo uscire e vado un pochetto di fretta. Buon 8 dicembre, domani, e buona domenica sera.
Kiss xx.
Harryette

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Capitolo 8
*** 7- I can't find peace ***


 
j
 
| Capitolo Settimo |
            I can’t find peace           
 
Carl guardò la sua immagine riflessa nello specchio del bagno, mettendo il vivavoce alla chiamata improvvisa al telefono e prendendo a muovere il ciuffo di capelli che – puntualmente – gli ricadeva sul volto.
‘’Seriamente?’’ la voce metallica del telefono rimbombò fra le mura di quel piccolo bagno. Carl riusciva a sentire Cam e Land litigare dalla cucina, siccome condividevano un appartamento insieme da quasi un anno, tuttavia cercava di non dargli peso.
Non perché non gli interessasse o avesse di meglio a cui pensare, semplicemente perché gli faceva male e basta sapere che due suoi cari amici litigavano così spesso. Ovviamente, per lui, l’unico a portare ragione era proprio Cameron, che non litigava quasi mai a meno che non fosse qualcosa di davvero grave. Land stava sprecando la sua vita, questo lo sapeva e si sentiva in dovere – in quanto amico – di aiutarlo. Stava male anche nel sapere che non poteva, non solo perché era un semplice diciottenne impotente, ma anche perché quel testone di Holland si opponeva fortemente a tutte le sue idee.
‘’Si, Zayn’’ rispose asettico Carl, chiedendosi perché il suo migliore amico dovesse fare sempre così tante domande.
‘’E quindi adesso che si fa?’’ domandò ancora Zayn, dall’altra parte del telefono e del mondo.
‘’Niente’’ scrollò le spalle il rosso, anche se sapeva che l’amico non avrebbe mai potuto vederlo. ‘’Non faccio niente. Mi becco la sospensione e le occhiatacce, e basta’’
La reputazione di cui Carl godeva a scuola non era delle migliori, considerato anche che era arrivato due anni prima e si era integrato pochissimo all’interno dell’istituto. Se non fosse stato per Land, che frequentava alcune lezione insieme a lui, non avrebbe rivolto la parola a nessuno. Ed era buffo quanto fosse contorta, la cosa: l’unica persona che gli era piaciuta subito e che si differenziava da tutti quegli stupidi americani viziati, era stata proprio la persona che lo aveva fatto cadere ancora più in basso. La gente, perfino i professori, non facevano altro che guardarlo strano. Se prima lui non si avvicinava a nessuno per disinteresse e apatia, adesso erano gli altri che non ci tenevano, ad avvicinarsi a lui.
‘’Non è giusto, Lucifero’’ la voce di Zayn si alzò di un’ottava, soprattutto sul soprannome con cui usava chiamarlo quando vivevano ancora insieme, nel Bronx. Era incredibile quanto sembrasse una vita fa, anche se erano passati solo due anni.
‘’Tante cose non sono giuste’’ rispose serio Carl. ‘’Non me ne fotte sostanzialmente un cazzo di quello che pensano di me, lì dentro, quindi passiamo avanti’’
‘’No che non passiamo avanti’’ Zayn era furioso. Odiava quando l’amico si prendeva le colpe di qualcun altro, proteggendolo, proprio come faceva anche con lui quando avevano sei anni o poco più. ‘’Perché non dici a tutti che quella cazzo di droga non era la tua, eh? Perché non vai da quella cogliona della tua preside e le dici che non sai chi ce l’ha messa nel tuo armadietto?’’
Era comprensibile che Zayn non riuscisse a capirlo, principalmente perché non conosceva tutta la storia. Anzi, non la conosceva affatto. Carl era stato accusato di drogarsi a scuola e di spacciare, ma non perché la droga era stata trovata casualmente nel suo armadietto.
E di certo non era stato semplicemente qualcuno di sconosciuto a mettercela, per levarsi dai casini.
Questo, però, non poteva dirlo. Non era giusto rivelare segreti che, almeno in parte, non erano i suoi. Anche se ne era rimasto coinvolto ed intrappolato, questo non significava nulla. Raccontando la sua verità sarebbe stato impossibile, e stupido, tacere sul resto.
Resto che, tra l’altro, non apparteneva alla sua vita.
‘’Come sta Diana?’’ virò l’argomento Carl, come era suo solito. Sapeva che prendendo a parlare di sua sorella, nonché fidanzata secolare di Zayn, l’avrebbe tranquillamente distratto.
E infatti: ‘’bene, rompe come suo solito’’ rispose, e prese a parlare della loro ultima – e furiosa, stando alle notizie – litigata.
‘’Sappi che lo so che hai cambiato argomento apposta’’ finì la chiamata Zayn. ‘’Facciamo finta di niente per ora, ma questa me la spiegherai eh’’

 
 
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Il cielo plumbeo di New York preannunciava una giornata di pioggia e nebbia, come capitava spesso nell’ultimo periodo.
E mentre Hollie sistemava davanti a Margareth le portate più disparate di cibo, Dan Grey la guardava con quello sguardo torvo che l’aveva sempre caratterizzato. Sguardo che rivolgeva solo alle sue figlie, e solo quando c’era qualcosa che non andava per niente.
Celine, mai come allora, se ne stava in silenzio, fingendo che le fettuccine alle carote nel suo piatto fossero diventate la cosa più interessante del pianeta. Dan doveva essere davvero una furia, per indurla a tacere e non proferir parola. Da quando Maggie la conosceva, cioè da sempre, non aveva mai avuto modo di vederla zitta e con la testa bassa.
Era successo solamente due volte: quando Dan aveva scoperto del suo tradimento, perdonato tre mesi dopo, e al funerale di Morgan.
A Margareth, per la prima volta, non venne da piangere. Si aspettava che sarebbe stato così, ma si sorprese di se stessa. Le venne semplicemente da urlare un semplice e coinciso ‘’andatevene affanculo’’.
‘’Quando ho letto quell’articolo, stamattina, per poco non mi strozzavo!’’ il vocione basso e roco del padre fece ritorno contro le pareti, ma lei non sobbalzò come al solito. Stette semplicemente zitta, aspettando pazientemente che la ramanzina finisse, a testa bassa. Tanto Dan era sempre così maledettamente pieno di lavoro e di pensieri, che sarebbe durata poco più di cinque minuti. Come sempre.
A volte, Margareth desiderava una strigliata di ore. Desiderava qualcosa di più di una semplice punizione, di quattro parole taglienti articolate una dopo l’altra, e del silenzio stampa che albergava fra le pareti nei giorni a seguire. Sapeva che ai genitori stesse molto a cuore il suo comportamento e il suo modo di porsi, ma – a quel punto – metteva in dubbio quanto gli potesse stare a cuore lei.
E il volto di Morgan tornò ad affacciarsi nella sua mente e dinanzi ai suoi occhi chiari, tormentandola di dolore ancora una volta. Era triste sapere di essere nata per un motivo, anziché che per amore.
‘’Come ti è venuto in mente, Margareth?’’ domandò deluso Dan, continuando a mangiare la carne in piccole forchettate. La cosa più odiosa era che non urlava, ma era come se le sue parole fossero lame. E il suo volto demoralizzato e sconvolto era probabilmente la cosa peggiore. ‘’Come hai potuto comportarti così? E chi era quel ragazzo, eh? Come conosci gente del genere?’’
Il disprezzo e il profondo odio nella sua voce era palpabile fin troppo bene, purtroppo. Ed era teoricamente vero, Maggie non conosceva quasi niente di Carl né lui le aveva mai detto qualcosa, ma se c’era una sola cosa di cui era fermamente convinta era che non era una cattiva persona. Lei per prima si era spaventata quando l’aveva visto per la prima volta, con la sua pelle marchiata e il suo sguardo scavatore, ma aveva avuto la fortuna di ricredersi. Suo padre, e anche sua madre, probabilmente non l’avrebbero mai avuta, ma non credeva potessero essere tanto retrogradi da avere addirittura dei pregiudizi. Così, per la prima volta da quando era morta Morgan, ‘’Non lo conosci’’ osò rispondere a suo padre. Lui, difatti, rimase colpito dalla situazione ed era palesemente visibile.
‘’Lo stai difendendo, Margareth?’’ sgranò gli occhi.
‘’I giornalisti mi saltano praticamente addosso’’ aggiunse la bionda, determinata dopo tanto tempo. ‘’Non pensi che possa darmi un po’ fastidio?’’
‘’Cosa c’entra questo?’’ la rabbia si stava pian piano facendo sempre più strada sul volto di Dan. ‘’Non ti ho mai detto di rispondere alle loro domande, e puoi evitarli benissimo. Fino ad ora non mi pare te ne fossi mai fatta un problema’’ il tono tagliente non preannunciava niente di buono, e quando Celine alzò lo sguardo Margareth ne ebbe improvvisa conferma.
‘’Non sai quali sono i miei problemi’’ solo quando terminò la frase si rese conto di quello che, effettivamente, aveva appena detto. Era troppo tardi ‘’Carl mi ha solamente aiutata, niente di più’’ aggiunse.
Non avrebbe mai immaginato che quei due giornalisti avrebbero scritto perfino quello, pur di pubblicare qualcosa. Una foto fatta di sfuggita di lei, con il polso stretto nella mano del ragazzo, era sulla prima pagina del New York Times, e non avrebbe potuto fare niente per impedire al padre di leggerlo.
Quella mattina era andato presto in studio, così come sua madre, e non erano tornati per pranzo. Ma non avevano chiamato Hollie per chiederle notizie della figlia, quindi Margareth già da allora aveva capito che – per cena – l’aspettava una bella strigliata. Inoltre, a Carl sembrava non importare. Gli aveva mandato un messaggio scusandosi se, per colpa sua, era finito sul giornale. La sua risposta telegrafica era stata ‘’tranquilla’’
‘’Quello che stai dicendo non fa altro che rendermi ancora più deluso’’ un’altra lama conficcata nel petto alla velocità della luce. ‘’Quel ragazzo è… oh per l’amor di Dio, Margareth, ma seriamente?’’
Quell’ultima affermazione la infastidì particolarmente, per un motivo o per un altro. Forse perché Carl c’era quando stava per farla finita e l’aveva praticamente salvata dal baratro, o forse perché c’era stato più di quanto ci fossero mai stati loro.
E l’aveva capita, o perlomeno aveva provato a farlo. E si sentiva se stessa, libera di poter essere chi voleva, ogni volta che era in sua compagnia. Libera come un uccello.
‘’Siamo nel 2014’’ ringhiò lei. ‘’Esistono i tatuaggi e le sigarette, sai che non è un reato?’’
‘’Adesso basta’’ era stata Celine a prendere la parola, mentre il volto di Dan diventava ceruleo di rabbia. Maggie sapeva benissimo di star sbagliando, sapeva di star esagerando, ma sentiva l’adrenalina scorrerle nelle vene e proprio non riusciva a fermarsi. Neanche volendo. ‘’Margareth fai silenzio’’
Era chiaro quanto la donna non volesse scatenare un’altra crisi familiare, come se la famiglia Grey non fosse già abbastanza a pezzi, ma il tentativo fallì miseramente.
‘’Sto parlando io’’ la interruppe Dan. ‘’Sali in camera tua, Margareth. Sei in punizione’’
‘’E perché? Perché sono scappata con un ragazzo, per cinque minuti, da due stupidi giornalisti?’’ Maggie non lo sapeva dove stata attingendo tutto quel coraggio, ma la situazione non le dispiaceva più. Per tanto tempo era rimasta in silenzio, era arrivato il momento di mettere la parola fine all’omertà.
‘’Perché in questa casa si fa quello che dico io’’ la voce del padre divenne, se possibile, ancora più autoritaria. ‘’E non voglio assolutamente che tu veda di nuovo, fosse anche solo per due secondi, quel ragazzo. Io sono il sindaco, probabilmente l’hai momentaneamente rimosso, e tu sei mia figlia! Abbi la decenza di comportarti da tale’’
Margareth si alzò dalla sedia di legno di ciliegio sulla quale era stata immobile e seduta, producendo uno strano rumore contro il pavimento. Per poco non le cadde il bicchiere di cristallo da mano.
‘’Bene’’ rispose, stanca e di nuovo avvilita. Non importava in che misura combattesse contro il padre o provasse a parlargli, era sempre la stessa storia. Per quanto si ostinasse a farsi valere, Dan si dimostrava sempre più duro e inarrivabile.
Era come sbattere la testa contro un muro nella speranza di romperlo, finendo solo per farsi terribilmente male.
Salì in camera sua e cercò di non piangere.
Non ci riuscì.
Eppure, quella sera, sentì qualcosa di diverso. ‘’Free as a bird’’ dei Beatles le rimbombava nel cranio e nelle orecchie, in un modo quasi fastidioso, e la voce di Morgan si era fatta improvvisamente più insistente.
Non permettere mai a nessun di dirti che cosa devi fare, e chi devi essere.
Forse era perché la sua camera era rimasta esattamente immutata, come in fermo immagine, identica a quando Morgan c’era ancora e dormiva su quel letto e fra quelle lenzuola. Forse perché, lì dentro, il suo odore era molto più forte che sui suoi vestiti o nel bagno che avevano in comune. Forse perché aveva sempre continuato a vivere nel suo cuore, ma in letargo. E si stava finalmente svegliando, trapelando attraverso gli occhi e le parole di Margareth, quasi come se volesse uscire.
Vivere attraverso di lei, come le diceva durante i suoi rari momenti di paura e sconforto.
Fu per questo, come se glielo stesse dicendo Morgan, che Maggie afferrò il telefono ed avviò la chiamata.
Si sentì ancora più libera.
‘’Pronto?’’ rispose al secondo squillo, con una voce leggermente impastata. Probabilmente stava riposando.
‘’Carl mi vieni a prendere?’
 
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Se c’era una cosa che Margareth ricordava più che bene, erano le scappatelle di Morgan. I rispettabili signori Grey le davano il permesso di uscire solamente in venerdì sera, e di tornare a casa entro e non oltre mezzanotte ed un quarto. Negli altri giorni della settimana, quando i due coniugi erano in viaggio di lavoro o a letto, quello era l’esatto orario in cui se la svignava. Non aveva mai detto a Margareth dove andava, se l’era sempre tenuto nascosto come se fosse un immenso segreto. La camera di Margareth aveva il balcone, quella di Morgan una finestra abbastanza larga ma non comoda quanto una ringhiera.
Per Maggie era diventata un’abitudine vederla entrare, tutta euforica, nella sua stanza a mezzanotte passata. Era sempre vestita in modo sobrio, nonostante l’orario improponibile che di certo non suggeriva una serata al ristorante, con la solita e semplice classe che la contraddistingueva. Con i capelli biondi, nel dorato, che brillavano forte alla luce dei raggi tenui della luna e gli occhi chiari tanto simili a specchi.
Dava a Margareth un bacio sulla guancia e, ‘’ci vediamo domattina alle sei’’ le sussurrava. Ed era così contenta in quei momenti, che Maggie non se la sentiva neanche di chiederle dove diavolo stesse andando.
La lasciava uscire sul suo balcone, e la vedeva mentre si arrampicava sull’albero lì vicino e si catapultava giù. La maggior parte delle volte sentiva il motore di una macchina e lo sbattere di una portiera, seguito dal silenzio più tombale.
Lei, pur ammirando la tenacia di Morgan, non aveva mai avuto il coraggio – e nemmeno il modo – di fare una cosa del genere. Quella sera, dopo la risposta telegrafica di Carl, aveva attaccato il telefono e preso a fissare convulsamente la porta di vetro che dava al balcone.
Era combattuta, non completamente sicura di star facendo la cosa giusta. Poteva richiamare Carl e chiedergli di non muoversi di casa, ‘’scusami, ma mi è presa una stupidaggine momentanea’’, ma non aveva la forza di fare neanche quello. Se una parte di lei le urlava di andare a dormire e non rischiare di far imbestialire ancora di più (se possibile) suo padre, l’altra parte – quella che stava iniziando a detestare perché, ormai, onnipresente – le urlava il contrario.
Come se Carl avesse ingranato la marcia per paura che lei potesse rimuginare troppo e cambiare idea, quasi come se la conoscesse da mezza vita, arrivò sotto casa Grey nel giro di due minuti. E a Margareth prese l’ansia. Non solo per la paura che i suoi sentissero il rombo leggero della moto e la scoprissero, ma anche di riparlare con Carl.
Dopo l’avvenimento dei giornalisti non l’aveva più sentito. Non ne aveva semplicemente avuto il coraggio, perché si era sentita intimidita.
Gli occhi del ragazzo ce li aveva ancora incastrati sotto le pupille, quasi come fossero un tatuaggio indelebile, con la loro sfumatura di diamante che non le dava pace.
Non si era mai sentita così per nessuno. Per lei era esistita sempre e solo Morgan, l’unica persona con la quale si sentiva se stessa e con la quale si sentiva libera di essere libera e libera di parlare. Sembrava quasi un eufemismo, ma era la truce realtà.
Non c’era mai stato nessun altro in vita che l’aveva presa in quel modo, che aveva visto il peggio di lei e che si era avvicinato così tanto alle parti più recondite della sua vita dall’apparenza perfetta.
La verità era che viveva in una bolla dalla facciata idilliaca, che non era altro che un disastro mezzo preannunciato. Come aveva fatto a credere di poter resistere senza nessuno e fingendo?
Come aveva anche solo potuto pensare di riuscire ad accontentarsi?
Era ovvio, avrebbe dovuto aspettarselo, che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno capace di scalfire quella patina di vetro ed entrare nel posto in cui era sempre stata sola, dopo la morte di Morgan: il suo mondo. Quello vero, quello che non si leggeva sui giornali e non si diceva nelle interviste, quello in cui piangeva la maggior parte del tempo e si tormentava per quello che restava.
Forse era semplicemente questo il motivo per cui Carl Pearson la intimidiva e la spaventava così tanto: non tanto per il suo essere, quanto per il fatto che fosse capace di scalfire una parete che Maggie aveva sempre considerato insormontabile ed inarrivabile.
E quando il suo iPhone vibrò, ‘’scendi, sono sotto casa tua’’, si sentì lo stomaco spappolarsi in mille piccoli pezzettini insignificante. La gola le si strinse all’improvviso e le venne voglia di correre a riparo sotto le coperte ed ignorarlo.
Non poteva e non l’avrebbe fatto.
Non rispose al messaggio, ma in compenso si infilò il giubbotto di jeans e si affacciò – riducendo al minimo i rumori – al balcone. Carl era esattamente a destra del cancello enorme e bianco sporco, che faceva da portone ad una villa troppo grande e troppo vuota, ed era bellissimo.
Quello era un altro problema che prima o poi avrebbe dovuto risolvere, non poteva rischiare di svenire anche solo guardandolo da lontano.
Aveva un semplice pantalone nero ed abbastanza stretto, che metteva in evidenza le sue gambe sottili ma allo stesso tempo ferree, e una maglia di qualche band, forse dei Nirvana ma non ne era completamente certa. Aveva ancora il casco e ringraziò Dio, perché almeno si stava evitando il suo sguardo. E la paura la assalì ancora di più quando guardò l’albero che Morgan usava per scendere giù, e le salirono le vertigini.
‘’Calma’’ continuava a ripetersi, come un mantra. ‘’Se ce la faceva Morgan, puoi farcela anche tu’’.
Ce la fece, ma per poco non rischiò di rompersi una caviglia. Lei era al primo piano di una villa di quattro, quindi il suolo non era tanto distante da dov’era e l’albero era abbastanza robusto, e non troppo alto.
Sentiva lo sguardo di Carl traforarle la schiena, e avrebbe pagato tutto l’oro che aveva purchè distogliesse lo sguardo.
Non accadde fino a che, scesa e sistematasi la canotta e il cappotto, non lo raggiunse con finta disinvoltura. Cosa avrebbe dovuto dirgli? Lui le avrebbe di sicuro chiesto il motivo della sua assurda richiesta, ma lei che avrebbe mai potuto rispondere? Stavo male e sei stata la prima persona che mi è venuta in mente?
Carl le porse il casco secondario. Non chiese né disse niente, le fece solo cenno di salire.

 
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‘’Non hai freddo?’’ a Carl sembrava un miraggio sentire, finalmente, la voce di Margareth. Quando era andato a prenderla, sorpreso e non dispiaciuto (stranamente) da quella chiamata, non aveva aperto bocca e non aveva insistito perché lo facesse. Per tutto il viaggio aveva sentito le braccia di Maggie stringergli il busto e bruciarglielo, traforare la carne, mentre il vento di mezzanotte di New York sfrecciava sul viso e tra i capelli di entrambi. Margareth era tesa come le corde di un violino, riusciva a sentirlo dal modo in cui lo stringeva o dall’irregolarità con cui respirava. L’aveva capito dal primo momento che l’aveva vista scendere da quell’albero, imbranata in modo quasi adorabile.
Si soprese dei suoi stessi pensieri, assolutamente non da lui, e li scacciò violentemente dalla testa. Margareth era solo qualcuno da aiutare, e lui aveva un disperato bisogno di sentirsi buono per qualcuno. Di sentirsi perdonato da qualcuno per tutte le cose che non riusciva a perdonarsi.
E sapeva che, per Margareth, non era altro che un ragazzo da usare per evadere dalla sua solita routine e fare piccoli dispetti al padre, per attirare la sua attenzione.
Si stavano usando a vicenda ed andava bene così, purchè entrambi – alla fine – riuscissero nel loro intento comune: stare bene.
Carl indossava una semplice canotta verde scurissimo dei Nirvana, che gli lasciava scoperte tutte le braccia e il collo. ‘’No’’ rispose, prendendo ad affacciarsi al belvedere. Non sapendo dove andare né che cosa fare esattamente, aveva preferito non allontanarsi troppo e raggiungere semplicemente lo skyline di New York. Essendo un gelido martedì notte, quella strada secondaria non era per niente trafficata. Aveva parcheggiato la moto e le aveva chiesto di scendere.
Nonostante a Carl New York non piacesse poi tanto, doveva ammettere che il panorama che aveva il privilegio di vedere era eguale a pochi al mondo. Non a caso, la città era piena zeppa di turisti anche a dicembre, e nelle ore più improponibili della giornata.
In realtà aveva leggermente freddo, ma non avrebbe mai ammesso nulla.
Margareth guardava al di là della ringhiera che li divideva dal vuoto quelle case e quei grattacieli immensi e illuminati, come se fosse stata la prima volta. E continuava a non parlare, stretta in un giubbino di jeans che poteva anche essere il più costoso al mondo ma non scaldava un cazzo.
Carl decise di non dire nient’altro. La guardava, avendo distolto lo sguardo dal belvedere già da un po’, e sapeva – sentiva – che lei se ne era accorta, tuttavia non le dava fastidio. Sentiva anche quello.
Non seppe bene quanti minuti, o quarti d’ora, passarono, prima che la bionda si decidesse a parlare. Non aveva una bella cera, era magrissima e sembrava scossa da qualcosa di insormontabile. I capelli biondissimi si confondevano con il nero del cielo stellato e i riflessi delle luci della Grande Mela caotica in lontananza, qualche musica di qualche locale ovattata nella quale si disperse la sua voce acuta e sottile.
Più che in qualsiasi altro momento, allora, a Carl parve tantissimo una bambina indifesa.
Non conosceva niente di lei, eppure aveva capito. Così come aveva capito che c’era qualcos’altro, qualcosa di profondo come gli abissi, da capire.
‘’Parlo francese, italiano e tedesco’’ iniziò, con una voce monocorde ed i capelli sparsi fra frusci di vento. ‘’Ho visitato tutto il mondo tranne l’Arabia e il Giappone. Ho una scuola intera di persone che mi chiamano di pomeriggio, che mi invitano a prendere un caffè oppure ad andare a fare shopping, e perfino i giornalisti alle calcagna’’ sorrise in modo alquanto triste. ‘’Sai qual è la cosa peggiore? Che ho tutto quello che qualsiasi ragazza potrebbe mai volere, eppure sento che non mi resta niente’’ qui la sua voce si inclinò, mostrando un’emozione che aveva cercato di reprimere: malinconia. Era quello ciò che trasmetteva lo sguardo di Margareth, immensa ed incommensurabile malinconia. Un continuo ricercare una pace che pareva scomparsa nel nulla più totale. ‘’E quando mi guardo allo specchio, te lo giuro, vorrei scomparire. Perché non riesco ad essere felice con quello che ho? Perché sento sempre questo…’’ la voce si inclinò di nuovo, ancora più di prima, mentre guardava in basso e i capelli coprivano il suo volto. ‘’Questo maledetto senso di vuoto all’altezza del petto?’’
Carl non disse niente neanche a quel punto, perché era sicuro che Maggie non avesse finito e che, anzi, avesse ancora tante altre cose da aggiungere. Non si sarebbe fermata perché, quella sera, era troppo triste e malinconica per mettersi dei paletti attorno.
Non lo guardò neanche allora ma ‘’Carl’’ lo richiamò, e lui si sarebbe girato senz’altro a guardarla se non lo fosse già stato spudoratamente intento a farlo. ‘’Ma il dolore finisce?’’
Doveva rispondere, a quel punto. La domanda non era retorica, presupponeva l’arrivo di una risposta più o meno coerente. Ma cosa avrebbe mai potuto dirgli lui, che non sapeva manco cos’era, la felicità?
Come avrebbe potuto spiegarle che, no, non finiva?
Sentiva il bisogno di avvicinarsi a lei, ma non si mosse. Aveva paura di spezzarla anche con un solo dito. Non era stupido, l’aveva capito benissimo quanto Margareth si sentisse a disagio quando c’era lui nei paraggi.
Si limitò a portare le mani nelle tasche dei pantaloni, e ‘’Dipende solo da te’’ rispose. ‘’Ci sono tante cose belle per cui vale la pena sopportare tutte quelle dolorose’’
Lei, solo in quel momento, si voltò a guardarlo, come se avesse appena detto qualcosa di magico.
‘’Marge, senti’’ nessuno la chiamava Marge, questo l’aveva capito bene anche lui, ma si sentiva quasi in dovere di differenziarsi dagli altri. ‘’Io non so perché stai così. Non avanzo alcun tipo di diritto sulla tua vita, però… però voglio dirti una cosa’’ riprese fiato e prese a guardare lo skyline. Non riusciva a sostenere lo sguardo della ragazza. ‘’Se c’è una cosa che ho imparato nella mia vita, e a mie spese, è che niente è eterno. Tutto ha una fine, che sia adesso, domani o fra dieci anni. Ma niente finisce se non lo si affronta. Non so cosa ti turba né cosa ti affligge così, ma se non lo affronti non lo distruggi’’
Fu lei ad avvicinarsi a Carl, come una calamita, senza neanche quasi accorgersene. Le mani fredde del ragazzo erano poggiate sulla ringhiera arrugginita, e lei posò la mano destra su quella di Carl. Non la strinse, la sfiorò soltanto, e lui non si mosse di un millimetro.
‘’Credo che ci sia una sottile linea di divisione fra il provare e l’averci provato’’ la voce di Carl sembrava metallica e sentì improvvisamente più freddo. ‘’Sta a te decidere dove vuoi stare’’
Carl si voltò a guardarla, e sentì il cuore rallentare di colpo. Margareth stava piangendo. L’aveva già vista scossa, l’aveva già vista piangere, ma non si era sentito così. Quel così era un sentimento che, in quell’istante, non era in grado di classificare.
Voleva solo che smettesse di piangere in silenzio. Preferiva mille volte le urla alle lacrime, non riusciva proprio a digerirle. Tanto erano rabbia in entrambi i casi, perfino il dolore e la tristezza erano rabbia. Rabbia per non riuscire a cambiare le cose, per la consapevolezza di essere solamente umani e di essere destinati a svanire con un muto grido nel vento.
Se c’era una cosa che Carl aveva sempre pensato, era che la sofferenza – nel senso più stretto del termine – era comune. Nessuno era immune al dolore, grande o piccolo che fosse, e nessuno aveva l’onore e il privilegio di vivere una vita amata e felice.
Si sentiva più compreso quando pensava che, nel momento in cui a lui veniva voglia di urlare e spaccare qualcosa, c’erano altre miliardi di persone sul cosmo che sentivano lo stesso. Milioni di persone che stavano piangendo, disperandosi.
La sofferenza era un effetto collaterale del vivere, bene o male che fosse, ed era universale.
‘’Non permettere mai a nessuno di dirti che cosa devi fare e chi devi essere, Marge’’ aggiunse, e sentì la mano di Margareth perdere il contatto con la sua. Guardandola, gli sembrava ancora più piccola e… terrorizzata.
‘’Che cosa hai appena detto?’’ la voce di lei era flebile quanto la luce della luna quella notte, e Carl – per la prima volta in vita sua – si sentì in imbarazzo.
‘’Perché?’’ rispose con un’altra domanda, ma lei non aggiunse nient’altro. Semplicemente, prima che avesse il tempo di connettere, si ritrovò le braccia di Marge attorno al suo collo, mentre – ancora un po’ imbarazzata – lo stringeva a sé.
Quel suo gesto sapeva di rimpianto, ma aveva qualcosa di dolce. Infinitamente delicato, quasi come lei e i suoi capelli d’oro.
Carl ricambiò l’abbraccio di riflesso, chiedendosi il perché di quell’assurdo comportamento assolutamente non da lei, mentre sentiva il profumo della ragazza entrargli fin dentro i polmoni.
Ricordò di quella volta, in metropolitana, quando l’aveva vista per la prima volta con il suo sguardo educato e posato. Il suo profumo di rose era stata la prima cosa che aveva notato.
Ed era lì, con lui.
Margareth era davvero lì con lui.
Quando si separarono, senza dire un’altra parola, i loro volti erano così vicini che a Carl bastava mezzo millimetro per baciarla. E la sua mente continuava a ripeterglielo, ‘’baciala, baciala, baciala’’, eppure non riusciva a muoversi. Lo sguardo di Margareth lo stava incenerendo.
‘’Ti ringrazio, Carl’’ disse, spezzando il silenzio. ‘’Ti ringrazio dal profondo del mio cuore’’
 
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Okay, eccoci qui!
Premetto che sono in ritardo e che ho pochissimo tempo a disposizione per parlare, 
ormai la mia vita oscilla fra studio matto e disperatissimo e bestemmie varie ed esasperate ahahhaha
Questo è uno dei miei capitoli preferiti, non solo per la storia fine a se stessa quanto per i comportamenti che assumono Carl e Maggie.
Me li sogno perfino di notte, fate voi ahahaha
Per quanto riguarda il padre di Margareth, vi assicuro che lo odierete ancora di più di così! 
E poi la telefonata iniziale, per chi ha letto ''Mors omnia solvit'', davvero non c'è bisogno che la commenti :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e prometto che entro domenica ne posterò un altro <3
Un bacione enorme, all the love.
Harryette
 
 

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Capitolo 9
*** 8- Pieces ***


j
 

| Capitolo Ottavo |
Pieces
 

Hollie doveva aver già aperto la tenda di lino, perché la luce che filtrava attraverso la stanza la stava infastidendo in modo pazzesco.
Si domandava perché anche di domenica le fosse imposto, in un modo o nell’altro, di svegliarsi presto. In casa sua, era praticamente un’eresia svegliarsi più tardi nelle nove, era segno di ozio e nullafacenza. E Margareth, almeno secondo Celice, doveva alzarsi presto in modo da andare, ovviamente in famiglia, in chiesa e dopo studiare.
Yale la stava aspettando, e il solo pensiero che mancasse un solo anno al suo diploma le metteva lo stomaco in subbuglio.
Margareth, della sua infanzia e parte della sua adolescenza, ricordava solamente i libri e i dizionari. Per lei, sin da piccola, era stato quasi automatico essere trasferita e, quindi, vivere nell’ottica di vita che avevano i suoi genitori: se vuoi essere qualcuno, devi studiare. E se non raggiungi il massimo, il picco, il punto più alto fra i punti più alti, sarai destinato ad essere eterno secondo.
Secondo Dan Grey, nessuna delle sue due figlie doveva assolutamente essere seconda a qualcuno.
Per questo motivo, e per morale personale, le aveva sempre iscritte alle migliori scuole private, facendole frequentare ambienti altolocati e professori privati che erano dei grandissimi luminari. Le aveva accontentate per tutto quello che riguardava qualche loro desiderio scolastico o culturale, a volte – addirittura – obbligandole a frequentare le lezioni di musica, dizione e lingua straniera.
Margareth era stata un anno all’estero, in Italia, a Roma. L’Italia le era piaciuta dal primo momento in cui vi ci aveva messo piede, anche se l’idea di quello scambio culturale non la entusiasmava così tanto. La famiglia che l’aveva ospitata era una delle più influenti fra quelle romane, ricordava ancora Christian, il loro unico figlio. Avevano la stessa età all’epoca, quattordici anni compiuti, ed erano sempre andati d’accordo.
Le era dispiaciuto ritornare a casa.
Morgan era stata in Spagna quando ne aveva sedici, di anni, ed era tornata dopo quattro mesi. A detta sua: ‘’trascorrere un anno lì è impossibile, sono esseri assurdi’’. Maggie si era aspettata una reazione simile da un’anti convenzionalista come Morgan, non avrebbe mai ammesso che – in realtà – la Spagna era bellissima ma l’America era casa sua.
Forse era questo un altro motivo per cui Margareth si sentiva stringere fra quattro pareti spesse ed immaginarie, proprio il fatto che non si sentisse a casa. E non solo nella villa Grey, ma anche a New York. Avrebbe dato tutto pur di ritornare a Roma e riabbracciare i Donati.
Ed in quella monotona domenica mattina, alle nove meno un quarto in punto, si alzò dal letto costretta da cause di forza maggiori.
Non fece colazione, le domestiche – compresa Hollie – erano già indaffarate al massimo, e la domenica non c’era nessuno in cucina. Passava tranquillamente inosservata. Fece sparire tre biscotti e un po’ di succo di frutta, in modo da far credere di esserci perlomeno passata, e ritornò in camera sua.
Allo specchio del bagno le apparvero due borse abnormi sotto gli occhi chiari, probabilmente perché quasi non aveva chiuso occhio. Dopo che Carl l’aveva riportata a casa, senza dire una parola in più, aveva dimenticato come si facesse a chiudere gli occhi e dormire in pace.
Non faceva altro che rimuginare su quanto fosse stato dannatamente gentile ad assecondarla, quando qualcun altro l’avrebbe probabilmente mandata a quel paese, e a quanto fossero ammalianti i suoi occhi. Anche al buio, con sole luci lontane ad illuminarle, quelle iridi parevano quasi finte. Era incredibile quanto Carl fosse bello, ai limiti del reale e del possibile, e non se ne facesse neanche il minimo vanto.
E non aveva fatto altro che pensare a quello che le aveva detto, a quella maledetta frase che continuava a tormentarla e a rimbombarle nel cranio, come se fosse amplificata da una marea di casse stereo. Non era possibile, non voleva né poteva crederci, ma era la stessa identica frase che le diceva sempre Morgan.
E il fatto che Carl fosse apparso proprio nel momento in cui Margareth stava per crollare, schiacciata dalla sua mancanza e dall’infelicità, aveva paura di non considerarlo più solamente un caso.
Non credeva nel destino.
Però credeva in Morgan. Credeva che ovunque fosse e qualunque cosa stesse facendo, la stesse guardando con il solito occhio vispo e critico. Credeva che soffrisse quando lei soffriva e sorridesse quando sorrideva, nella stessa misura in cui era fermamente convinta che non se ne stesse a guardare. Morgan Grey non era il tipo da silenzi e mantenimenti dettati dalla voglia di non essere impulsivi.
Non esisteva il destino, ma esisteva un ordine particolare delle cose che era guidato da qualcuno di lontano. Per cui, forse, se Carl Pearson era arrivato proprio quando lei aveva iniziato realmente a desiderare di andarsene, probabilmente niente era accaduto per caso.
 
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L’orologio segnava le undici e mezza della domenica, e – se c’era al mondo una cosa che Holland Todd odiava più del caffè – quella era proprio la domenica.
La odiava senza nessun preciso motivo in particolare, in verità, semplicemente perché la reputava inutile. Un ammasso di ore infinite che ti davano l’illusione di avere un cazzo di minuto di pausa fra il sabato – quasi sempre finito nello sfaso totale – e quello schifo che era il lunedì.
La domenica, per Land, non era altro che la patina opaca di quello che davvero faceva numero nella vita del singolo individuo: una sottospecie di oasi nel deserto, che ti faceva credere che esistesse la clemenza e il relax. E sostanzialmente anche perché la domenica gli portava ancora più dolore degli altri giorni. Ogni volta che credeva di aver raggiunto il picco massimo di dolore, scopriva che era solo un’effimera illusione. Era arrivato all’orrida conclusione che ogni singola cosa non era altro che un’effimera illusione.
Così come non esisteva il dolore massimo, perché ogni cosa ti distruggeva, così non esisteva nessun tipo di grazia.
Perfino la vita era solamente un’effimera illusione di quella che era la morte, ma il punto non era questo: il problema non era nel vivere sapendo di star vivendo una menzogna che portava alla morte, il problema era vivere morendo.
E chi cazzo aveva detto che la morte si sconta vivendo? Ci crepi e basta, non esistono sconti in un mondo che non ti guarda in faccia e in un Dio che non esiste. E la domenica la vedeva anche come grossa bugia: tutta quella gente che andava in chiesa per quell’ora scarsa e non ci ritornava fino alla settimana seguente, che pregava sorridendo e ti augurava la pace. Ma pace di cosa? Perfino la pace è un’illusione della devastazione.
Un’immensa cazzata, tutti perbenisti del cazzo che si sentivano sollevati solo perché, dopo una predica pesante, avevano la sensazione di essere stati perdonati da Cristo.
Non esiste nessun perdono, non esiste nessun perbenista vero e reale, e non esiste nemmeno Cristo.
Per le strade di New York, mentre pensava a questo, il vento gelido gli sferzava la faccia e lo costringeva a nasconderla quanto possibile nel collare del giubbotto verde militare. I jeans che indossava erano fin troppo sfilacciati e avevano senza dubbio visto tempi migliori, ma non gliene importava più di tanto. La gente gli passava accanto senza neanche degnarlo di uno sguardo, tutta vestita nei suoi abiti migliori e tutta indaffarata a pensare a cosa fare in quel giorno di festa, senza lavoro.
Tanti di quei sorrisi finti che ebbe paura gli venisse una carie.
Poveri illusi, che se sanno loro di quello che spetta a tutti gli essere umani.
La cosa che gli faceva più paura, più della morte e più dei ricordi e anche più di se stesso, era l’arrivo di un giorno in cui tutti avrebbero iniziato a soffrire come lui e si sarebbe perso nelle lacrime degli altri.
In un certo senso lo consolava sapere che, mentre lui si sentiva sempre più dilaniato dentro, c’erano persone che vivevano serene e felici. Non che non fosse un’illusione neanche quella, ma nell’attesa di sbattere in faccia alla verità si godevano la vita.
A lui faceva quasi bene vedere la gente spensierata che sfrecciava per le strade, i guidatori mezzi addormentati che – sorridendo – facevano passare i pedoni anche se c’era il rosso, e i bambini che correvano nei miliardi di parchi della Grande Mela. Sentiva che, anche se soffriva, sotto sotto c’era ancora del bene in questo mondo, se le persone si comportavano così.
Ma se tutte si fossero rese conto della menzogna in cui vivevano e fossero diventate improvvisamente tristi anche loro, senza voglia di pensare che tutto passa quando resta assolutamente statico, allora non ci sarebbero stati più sorrisi. Nessuno avrebbe più avuto la forza di sorridere per finta. Ovunque avesse guardato, avrebbe trovato solo dolore e lacrime.
E si sarebbe sentito ancora più male, perché peggio della morte c’era solamente una vita morta.
I Sum 41 cantavano Pieces, le cuffie bianche erano infilate completamente nei timpani e sparate a tutto volume, perché si era stancato di pensare. A volte desiderava solamente essere meno intelligente, e prendere tutto con filosofia.
Non ci riusciva mai.
Fu in quel preciso momento che, quasi per inerzia, si ritrovò davanti ad una chiesa. Una cattedrale, vicino Manhattan, che aveva sempre detestato perché – in quei posti lì – la gente era ancora più perbenista del cazzo. Perché la cattedrale di New York era seconda solamente a quella di Città del Vaticano, e allora – secondo la massa di ignoranti che popolava il mondo – lì Dio c’era di più.
Lui non credeva in nessuna religione e in nessun salvatore del mondo, ma era convinto che – se davvero fosse esistito – Dio, in quella cattedrale, non ci avrebbe mai neanche messo piede.
Quei benestanti spocchiosi che vi ci andavano gli davano la nausea.
Sulla volta della chiesa c’era un’incisione in latino, che provvedeva a renderla ancora più suggestiva di quanto già non fosse per la sua enormità: ex amante alio accenditur alius.
E’ dall’amore di uno, che si accendono gli amori degli altri.
E Land pensò che sarebbe stato bello se Dio fosse esistito veramente. Sarebbe stato rassicurante affidarsi alle mani di qualcuno nei momenti di sconforto e depressione, e sarebbe stato incoraggiante sapere che c’era qualcuno che ti proteggeva quando il dolore era troppo forte.
Il braccio gli bruciava, il freddo non faceva bene ai buchi che lo martoriavano sempre di più e che erano sempre più frequenti, e a lui veniva sonno quasi a tutte le ore.
E si sentì, davanti a quella cattedrale imponente che si scagliava verso l’alto e sembrava voler raggiungere un Cristo nella quale non voleva credere, semplicemente umano.
Il dolore si annullò, come quando si iniettava la solita dose nelle vene bluastre, e sembrò quasi dargli l’illusione di star respirando di nuovo. Chiuse gli occhi e alzò le palpebre al cielo. Il vento sembrava esser divenuto meno freddo, e ebbe l’impressione che tutto attorno a lui si fosse congelato insieme alle rovine della sua vita.
Le macerie che si era sempre visto intorno, e che aveva creato lui stesso, sembrarono smettere per un secondo di schiacciarlo. L’aria era diventata più leggera e meno pastosa, la sensazione di star ingoiando spine ad ogni respiro lo abbandonò di colpo.
Le vene smisero di bruciargli e sentì la droga, che lo componeva ormai come acqua, sfiorarlo e uscire fuori.
Dio, se esisti e se mi stai ascoltando, se ascolti mai qualcuno e se ti interessa qualcosa di noi che non siamo altro che un ammasso di carne ed ossa, ti prego. Ti imploro, aiutami.
E quando riaprì gli occhi, deciso a lasciar perdere e a ritornare nella realtà che lo avvolgeva, la vide.
Appena uscita dalla chiesa, in alto ad una ventina di imponenti scale che conducevano all’entrata della cattedrale, con un pantalone bianco ed una felpa di cachemire gialla, che si confondeva con il colore dei suoi capelli.
Sembrava stanca e sembrava voler sprofondare.
Fu in quel momento che Holland Todd, che non sprecava neanche un secondo della breve vita che gli restava per osservare le persone e cercare di capirle, osservò Margareth Grey e la capì.
E non aveva motivi validi per pensarlo, ma sentiva che Margareth stesse vivendo una vita morta.
 
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Due tacchette: incinta.                 
Una tacchetta: salva.
Quando Laurine gli aveva sbattuto in faccia il test di gravidanza negativo, si era sentito l’uomo più felice dell’intero universo. Anche se non riusciva a trovare un lavoro decente, anche se aveva un amico masochista e un altro proiettato in un altro mondo, anche se sua madre non gli rivolgeva la parola da quasi un anno e anche se tutto sembrava avvicinarsi sempre di più allo scatafascio.
Quando Laurine gli aveva mostrato che non era incita, e non sarebbe diventato padre per un altro bel po’ di tempo, si era sentito l’uomo più felice del mondo.
E l’attimo dopo toccò il suolo con violenza, perso negli occhi lucidi e tristi dell’unica persona che amava più della sua stessa vita.
Laurine non aveva messo le lentine rosse quel giorno, era da un bel po’ che non le metteva più. I capelli, solitamente impeccabili  e del colore del fuoco vivo, parevano più spenti e solcati da una strana – quanto improbabile – riga scura. Cam aveva quasi dimenticato il nero naturale dei capelli di Laurine.
‘’Che c’è?’’ le aveva chiesto, stringendole le spalle robuste con le mani gelide. ‘’Non sei contenta?’’
Laurine scoppiò a piangere, irrefrenabile, singhiozzando e dicendo qualcosa che Cameron non riuscì a capire nonostante gli sforzi. Non si fermava, scuoteva convulsamente la testa e i suoi occhi – nerissimi – sprofondavano sempre di più nell’oblio, trascinando il moro con sé.
Cam la lasciò di colpo, come se le sue spalle calde gli scottassero i palmi delle mani, ed indietreggiò. Non aveva mai visto Laurine piangere in due lunghissimi anni, e adesso capitava addirittura due volte nella stessa settimana.
C’era qualcosa che non andava.
Porca puttana, pensò, ma perché non posso avere un minimo di pace in questo mondo di merda?
Non chiese nient’altro, aspettò che fosse la ragazza a parlare. Era triste, lo era da una settimana, e perfino un cieco l’avrebbe notato. Ma se non era per la gravidanza, allora…
‘’Ti ho mentito’’ ruppe il silenzio, guardando in basso, afflitta. ‘’Ti ho mentito e mi sento un verme’’
‘’Cosa?’’
Cam non seppe dire se quella che uscì dalla sua gola raspa fosse la sua voce o quella di qualcun altro, sapeva solo che il mondo si era improvvisamente fermato ed aveva cominciato a ruotare attorno ad un presentimento orrendo quanto ingombrante.
Forse, semplicemente, se lo sentiva anche prima che Laurine aprisse bocca.
‘’Ti ho tradito’’ disse, improvvisamente fredda come un ghiacciolo, cercando di darsi un contegno e non sprofondare ancora di più giù di quanto non fosse. Di quanto non fossero. ‘’Se fossi stata incinta, quel figlio non sarebbe stato tuo’’
Ancora una volta, Cameron restò in silenzio stampa. Non aveva niente da dire. Laurine, come se non potesse sopportare oltre quel silenzio accusatorio, aggiunse: ‘’Ti amo’’ ed aveva ripreso di nuovo a piangere, più disperata e dilaniata di prima, con il capo fra le mani scolorite. ‘’Ti amo Cameron, te lo giuro’’
E Cam, costantemente in silenzio, voltò le spalle ed uscì da quella casa.
Chiamò Carl, fregandosene che fosse al Kensi’s.
Non rispose.
 
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Victoria baciò Carl per la seconda volta, mentre le luci ad intermittenza della discoteca rendevano i suoi capelli ancora più scuri.
Era bella, Victoria, e nessuno osava pensare il contrario.
Sembrava volesse ammaliare chiunque con quel suo sguardo curioso e quegli occhi da cerbiatta e quei capelli del colore del caramello. Non era tanto per il suo corpo, quanto per il suo volto, che era il desiderio proibito della maggior parte dei maschi del Kensi’s.
E anche Carl lo era, forse per il fascino del misterioso, ma non gliene poteva fregare di meno.
Accarezzò la schiena di Victoria con una mano atrofizzata dal caldo e la sentì rabbrividire. Se c’era una cosa di cui era consapevole, era dell’effetto che era capace di fare.
E non perché lo volesse o lo facesse apposta, semplicemente era così.
‘’Sei bellissimo, Carl’’ gli aveva sussurrato Vicky sulla bocca, mentre accarezzava le rondini tatuate sul collo del ragazzo ed annusava il suo profumo di Cuba Libre e menta. ‘’Sei bellissimo’’
Ma Carl non la stava ascoltando, semplicemente la toccava e lei era immobile, quasi inerte e senza forza di reagire. Così gli lasciò un bacio umido sul collo, ma lui l’allontanò di colpo e la baciò.
Non perché avesse voglia di farlo, ma perché odiava essere toccato sul collo. Non solo gli faceva venire il solletico, ma gli dava enormemente fastidio. Lo considerava un gesto troppo intimo per una scopata da discoteca.
Anche se gli importava meno di zero di tutto e tutti, questo non significava che fosse insensibile o volesse esserlo.
E mentre la lingua di Victoria e la sua erano nel pieno di una lotta feroce, sentì l’iPhone nella sua tasca vibrare.
Non rispose.
La chiamata terminò.
Squillò di nuovo.
Di malavoglia, si staccò dalla ragazza e le fece segno – essendo la musica troppo alta – di aspettare. Lesse il nome di Margareth e, tanto sorpreso quanto stranamente ed inspiegabilmente spaventato da quello che avrebbe potuto dirgli, si allontanò dal centro della pista e raggiunse un luogo più appartato, vicino all’uscita.
Rispose.
‘’Marge’’ nessun ciao, nessun pronto, nessun come va, niente di niente. Solo ed unicamente Marge.
Che poi se non gli aveva detto che nessuno la chiamava così, voleva dire che non le dispiaceva, no?
‘’Carl’’ la voce di Margareth era tesa, riusciva a capirlo anche a kilometri di distanza, ma non era spaventata come l’ultima volta che l’aveva sentita, la sera prima. Non gli stava chiedendo aiuto né l’avrebbe fatto, ne era sicuro. Sembrava agitata più perché dall’altro capo del cellulare c’era lui, che per altro.
Sperò fosse così. Inspiegabilmente, l’idea non gli dispiaceva per niente.
‘’Dimmi’’ l’ultima cosa che il ragazzo voleva era farle credere che non avesse tempo per parlare, ma non potè fare a meno di dirglielo.
‘’Ti disturbo?’’ la voce della bionda era insicura e tenue, come se fosse stesa sul letto a guardare il soffitto dopo ore di torture su se chiamarlo o meno.
‘’No’’ rispose lui, di getto. ‘’No, non mi disturbi’’
Solo dopo aver risposto, gli venne in mente che Victoria – in pista – probabilmente stava cominciando a chiedersi dove diavolo fosse finito.
Non gli importava più di tanto, era una come un’altra.
‘’Volevo solo chiederti…’’ esitò dall’altra parte della città e del telefono. ‘’Si, insomma, volevo solamente chiederti se domani potresti passare fuori la mia scuola’’
Carl rimase sorpreso da quella richiesta, mezza domanda. Margareth non gli sembrava il tipo da una cosa del genere, né il tipo che faceva il primo passo. La apprezzò, perché solo qualche settimana prima non avrebbe neanche avuto il coraggio di premere il tasto ‘’chiama’’.
Ma, prima che potesse rispondere, sentì qualcuno afferrargli il polso. Si girò di colpo, pronto a sferrare un pugno a chiunque avesse osato sfiorarlo, ma si ritrovò il volto sorridente di Victoria di fronte.
‘’Carl’’ disse, urlando un po’ troppo anche se la musica – lì – era tenue. ‘’Torniamo di là, spegni quel telefono’’
E Carl fu sicuro che Margareth avesse sentito quando la sentì fare una specie di tosse, come per darsi un contegno e spezzare l’imbarazzo. ‘’Comincia ad andare’’ disse alla mora, nel tono più arido e freddo che avesse mai usato. Non sapeva spiegarselo, ma improvvisamente la detestava.
Maledetto lui, che l’aveva avvicinata.
Victoria annuì, visibilmente seccata e non abituata ad essere liquidata così, e tornò dentro. Carl sospirò.
‘’Scusami’’ disse. ‘’Comunque…’’
Non ebbe tempo, di nuovo, di aggiungere nient’altro perché Marge lo precedette. ‘’No, scusami tu’’ sembrava dispiaciuta, e imbarazzata al massimo. ‘’Non avrei dovuto chiamare di domenica sera, era ovvio che fossi uscito. Magari ci risentiamo o ci vediamo in giro’’
‘’Marge’’ e Carl non aggiunse nient’altro, la chiamò solamente. E mentre lei stava in silenzio per ascoltare quello che aveva da dirgli, a lui mancarono le parole. Non aveva senso sentirsi in colpa verso una persona che conosceva a stento, né sentirsi in dovere di giustificarsi o altre merdate simili.
Lui non era il tipo.
Né voleva esserlo.
Margareth l’aveva abbagliato con la sua posatezza e la sua educazione, la sua finezza e la sua classe, e il suo sguardo malinconico così simile al suo, due anni prima. Ma era solo una fra tante, come Victoria, come lo era stata Olivia e come lo sarebbero state tutte per un bel po’ di tempo ancora.
‘’Ci vediamo in giro’’ rispose, attaccando.
Ritornò a ballare, e sentì qualcuno trascinarlo nel privè. L’unica cosa che detestava di Victoria era la puzza di fumo che si portava incollata sulla pelle, ma la dimenticò nell’attimo in cui lei si sfilò il vestito.
 
_____________________________________________________
 

Margareth, se avesse potuto, avrebbe sbattuto la testa contro al muro fino a spaccarsela. A nulla era servito un bagno caldo con tanto di sali minerali, i suoi nervi erano ancora tesissimi. Lo sarebbero stati ancora per molto.
E mentre si rigirava nelle coperte di seta, si chiese come diavolo avesse potuto essere così schifosamente stupida.
Da dove le era uscito, di chiamare Carl alle undici della domenica sera? Dove lo aveva trovato il coraggio?
Era davvero stata così convinta che Carl sarebbe stato sempre disponibile per lei?
Solo perché era successo una sera, questo non significava assolutamente nulla. Era stata una stupida avventata, come non lo era mai stata in vita.
Aveva sempre soppesato ogni singola decisione, pensato mille volte prima di agire, e non si era mai fatta fregare dall’impulsività.
Quella era l’unica cosa che, a mala pena, sopportava del suo carattere introverso. E allora perché? Perché si era fatta fregare da un paio di occhi trasparenti?
Si era solo resa ridicola ai suoi occhi, una bambina viziata e capricciosa, e le stava bene. Per Carl lei non era niente, avrebbe anche non potuto rispondere al cellulare. La voce di quella ragazza che lo aveva, maliziosamente tra l’altro, chiamato, le rimbombava nel cranio.
Non doveva neanche rispondere alla sua chiamata cretina, era stato fin troppo gentile e disponibile.
Decise, quella sera, che lei non l’avrebbe cercato più.
Che se davvero, come aveva osato pensare quella mattina, il loro incontro non era stato un caso, allora si sarebbero rincontrati in entrambi i casi.
Non riuscì a dormire neanche quella notte, e si sentiva davvero una mocciosa alle prese con una cotta ridicola e che non sarebbe mai stata ricambiata. Si convinse che il suo interesse per Carl Pearson fosse dovuto solamente al fatto che l’avesse salvata e ci fosse stato per lei nel momento del bisogno, nient’altro. Le sarebbe passata come era sempre successo. Come era accaduto con Christian, con Jake e con altri mille prima di lui.
E nonostante questo, continuava a chiedersi cosa stesse facendo Carl in quel momento.
Preferiva non saperlo.
Pianse di nuovo, nonostante si fosse proposta di non farlo più. Ma stavolta era diverso. Non sapeva neanche perché le lacrime avevano iniziato ad uscire dai suoi occhi, copiose. Preferiva ignorarne il motivo e piangere e basta.
Il cellulare vibrò, e Margareth trovò la forza di prenderlo dal comodino e leggere il messaggio che le era arrivato.
Ci aveva perfino sperato, che stupida.
Da: Robyn
Domani vieni con me eh. Andiamo alla spa, ho bisogno di passare un po’ di tempo con la mia bionda preferita.
Baci xx
 Spense il cellulare. 
 
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Buon Santo Stefano!! <3
Considerate questo capitolo come una specie di regalo, perchè non avevo intenzione di aggiornare prima che
finissero le vacanze di Natale ahhaha Ma, ahimè, non ho saputo resistere!
Vi chiedo solo di aspettare ancora un pochino prima di giudicare Carl o Margareth o Holland, perchè
succederanno ancora tante altre cose e i personaggi non si sono ancora nemmeno trasformati.
Detto questo, spero che abbiate passato una buona Vigilia e un nuon Natale (io si, e avrò preso qualcosa come trecento kili)
e spero che abbiate un buon prosieguo delle feste. Godetevele!!
Ci vediamo l'anno nuovo, BUON ANNO <3
Harryette

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Capitolo 10
*** 9- I'm alive ***


j
 

| Capitolo Nono |
I'm alive

‘’E’ una troia’’
‘’Smettila di ripeterlo, Land’’ lo richiamò Cameron, passandosi le mani sul volto con fare disperato. ‘’Così non mi aiuti proprio per niente’’
Holland si era preso mezzo divano, una birra stretta e sul punto di rovesciarsi sul pavimento e il solito volto sopra pensiero. Carl non era ancora tornato, erano le tre di notte e Cam – dopo aver pianto – aveva bisogno di sfogarsi. Anche se sapeva che Land era strafatto, che avrebbe detto una marea di cose senza senso, non era più riuscito a trattenersi.
Glielo aveva detto, veloce come strappare via un cerotto. Land non aveva detto niente, se non qualche ‘’cazzo’’ un po’ qui e un po’ là, e quando Cameron aveva finito, aveva scosso la testa.
‘’E’ una troia e basta lo stesso’’ aggiunse, stiracchiandosi e poggiando le gambe lunghe su Cameron, sedutogli accanto. ‘’E tu che cosa le hai detto?’’
‘’Un cazzo di niente’’ il moro era furioso. Il dolore, dopo un po’, aveva preso la forma della rabbia più cieca e totalizzante che avesse mai provato. Gli bruciava l’intestino, tanto che se l’era aggrovigliato cercando di dare una motivazione a ciò che Laurine aveva fatto.
‘’Avrei dovuto chiederle perché’’ soggiunse, alzandosi di scatto dal divano e cominciando a girare convulsamente per l’appartamento. ‘’Ma non riuscivo neanche a guardarla in faccia, Cristo Santo. Me ne sono andato e stop’’
Holland avrebbe tanto voluto dirgli qualcosa, se non confortarlo almeno provare ad aiutarlo, ma non gli uscì niente. Cosa avrebbe mai potuto dirli? Mi dispiace che la ragazza che ami ti abbia tradito e si sia anche fatta mettere incinta?
Non avrebbe avuto senso.
Per la prima volta in vita sua, e da quando conosceva il moro, sentì che i ruoli si erano appena invertiti: Cameron sull’orlo di una crisi isterica e un urlo bestiale, e lui steso sul divano a cercare di rimettere insieme i pezzi. Arrivò alla conclusione che l’unica cosa che li fregava, ad entrambi e anche a Carl, era la speranza.
La speranza corrode ed illude, e rende peggiori di prima.
Cam si sentiva, intanto, spogliato dell’unica cosa in cui aveva sempre creduto e dell’unica cosa che considerava imprescindibile ed immutabile in una vita in continuo movimento. Se avesse potuto dare o fare qualsiasi cosa per riuscire a capire dove avesse sbagliato o perché, l’avrebbe data e l’avrebbe fatta.
Doveva per forza aver fatto qualche cazzata per aver indotto Laurine a tradirlo, eppure non riusciva proprio a capire cosa. Soprattutto negli ultimi mesi, anzi, si era sempre comportato divinamente. A parte gli ultimi litigi, non avevano mai avuto altri diverbi.
Roba da sbattere la testa nella lavatrice ed azionarla.
‘’Con chi?’’ gli domandò ad un tratto Land, proprio quando aveva iniziato a credere che sarebbe rimasto in silenzio fino alla fine.
Già. Con chi?
‘’Non voglio nemmeno saperlo’’ ringhiò Cam, reprimendo la voglia di andare da quel tizio – chiunque fosse – e riempirlo di pugni. ‘’Non voglio finire in carcere. Se per caso scopro chi lo spedisco all’inferno a calci in culo’’
E scoppiò a piangere, davanti agli occhi attoniti di un Holland che non sapeva cosa fare. Dov’era Carl quando, entrambi, avevano bisogno di lui?
 
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Margareth detestava la spa.
La cosa che la urtava più di tutte era la sauna e, proprio come se non ci fosse limite al peggio, Robyn aveva intenzione di fare proprio quella. Il centro nella quale erano solite dirigersi insieme almeno una volta al mese era poco lontano dall’Upper East Hide, vicino agli uffici direzionali di Manhattan e agli studi medici e notarili più popolari.
Il Sunset era la spa numero uno dell’intera America, abbastanza probabilmente e considerati i costi inaccessibili perfino per un medio-borghese, e non c’era essere vivente (americano o inglese, si intende) che non desiderasse andarci almeno una volta.
Era sviluppata in altezza, dieci piani di benessere e relax allo stato puro e di profumo di oli e incensi. Il piano delle saune era il terzo e, già quando erano solamente entrate nell’ascensore di vetro, Margareth aveva capito che era proprio la meta della mora. Robyn aveva ancora la divisa scolastica, proprio come lei, ma le donava in una maniera incredibile: Maggie aveva sempre pensato che il grigio e il bianco esaltassero la pelle scura dell’amica, e che il colletto rigato della camicia mettesse ancor di più in bella mostra la folta e riccia chioma della ragazza. Robyn, se fosse stata solamente un tantino più alta, avrebbe potuto tranquillamente passare per una modella.
La sua bellezza era anticonvenzionale, e lo sapeva fin troppo bene. Non era umile, non lo era mai stata, e di certo non si faceva problemi ad ammettere quanto fosse particolare. E, per Robyn Young, particolare era sinonimo di magnificamente bello.
Quando ammetteva che qualcuno, ragazzo o ragazza che fosse, era particolare era ufficialmente entrato nelle sue grazie.
E guai se non eri nelle grazie della Young.
Nessuna delle due si preoccupava per la divisa scolastica perché, essendo clienti abituali e ormai abbonate, avevano un armadietto personale in cui avevano riposto – tempo prima – i loro affetti personali e la biancheria in caso di bisogno.
‘’Per forza sauna?’’ tentò di convincerla Margareth.
‘’Si, Grey’’ sorrise sorniona Robyn. ‘’Non lo sai che la sauna previene le rughe e le imperfezioni?’’
‘’Non abbiamo nessuna delle due cose’’
Nonostante fosse pienamente consapevole di quanto fosse inutile cercare di smuoverla dalle sue idee, Maggie non poteva fare a meno di provarci. Come sempre, dopotutto. E puntualmente…
‘’Smettila, Maggie’’ la voce di Robyn salì di un’ottava, pur non essendo realmente arrabbiata. ‘’Mi ringrazierai quando avrai quarant’anni e sarai perfetta’’
La paura più grande di Robyn Young era invecchiare. Non faceva altro che dirle di quanto si sarebbe odiata da vecchia allo specchio, con la pelle raggrinzita e le zampe di gallina ai lati degli occhi. A volte scoppiava perfino a piangere, esagerata com’era. Aveva iniziato da qualche mese a ricercare i migliori chirurghi plastici della zona, per tenerli sotto controllo e affidare la sua ‘’bellezza eterna’’ nelle loro mani, quando sarebbe stato il momento. Margareth, in quei momenti, avrebbe voluto darle uno schiaffo per collegarla al mondo reale.
‘’Sei strana’’
Robyn, tra tutti i suoi pregi\difetti, aveva la grande capacità di leggerla come un libro aperto. Forse perché si conoscevano da anni, forse perché era brava oppure era lei che era prevedibile. In qualsiasi caso, si sentiva strana davvero. Glielo avrebbe detto, forse, se solo ne avesse saputo il motivo.
Sentiva una specie di macigno all’altezza del seno, che la comprimeva e non le permetteva di respirare facilmente. Come uno strano presentimento, oppure una specie di malinconia repressa.
Stava seriamente iniziando a preoccuparsi da sola. Magari avrebbe dovuto consultare quello che era stato il suo psicologo, dopo la morte di Morgan.
‘’Sono solamente stanca, Roby’’
Non era una bugia, era solo una mezza verità. Era stanca, certo, nessuno non lo sarebbe stato dopo sei lunghe ore chiusa nella Spence School. Eppure sentiva, e sapeva, che non era quello il problema.
Nonostante se ne fosse fatta una ragione, anzi avrebbe dovuto farsela quando aveva deciso di chiamarlo, la voce di Carl le rimbombava ancora nelle orecchie. E la sua vocina testarda continuava a ripeterle quanto fosse stata cretina a chiamarlo o a credere che avesse avuto tempo per parlare con lei, o perfino andare fuori scuola quel giorno.
Si era solamente resa ridicola, e la ragazza di cui aveva sentito la voce poteva essere – anzi, sicuramente era – la fidanzata di Carl. Dopotutto, aveva una vita lui. Che aveva creduto? Un tipo come Carl non passava di certo inosservato, e New York era piena di belle ragazze pronte a provarci. Più sicure e meno paranoiche di lei.
‘’Sicura?’’ Robyn si era fatta più vicina, non perché fosse sinceramente interessata ma semplicemente perché era una ricercatrice di gossip. Per lei, tutto ciò che era sconosciuto era motivo di indagine. Conosceva la vita di quasi tutta la popolazione giovanile della Grande Mela, e non era un eufemismo. La maggior parte della popolazione giovanile della Grande Mela, a sua volta, conosceva lei.
Robyn Young era una specie di divinità, l’amica che tutte avrebbero voluto avere e la ragazza che tutti avrebbero desiderato al loro fianco.
Margareth pensò che, probabilmente, se Robyn fosse stata al suo posto non avrebbe mai permesso a Carl di trattarla così, attaccandole quasi il telefono in faccia. Anzi, non avrebbe mai permesso a Carl di entrare nella sua vita e condizionarla così tanto.
‘’Sicurissima’’ annuì, uscendo dall’ascensore appena aperta e venendo investita da un piacevole profumo di gelsomino.
 
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Holland lo stava guardando con uno sguardo pseudo- supplichevole, trattandosi di un biondo egocentrico.
Cameron era uscito quel pomeriggio dicendo che ‘’aveva da fare’’. Né Carl né tantomeno Land avevano avuto la forza di chiedergli qualcosa. Cam non stava per niente bene, nonostante si ostinasse a voler fare il duro, e soffriva tanto. Carl avrebbe voluto correre da Laurine e urlarle in faccia le peggio parole. Erano amici da quando si era trasferito a New York, la conosceva benissimo, e non avrebbe mai pensato che sarebbe stata capace di fare una cosa del genere. Se c’era qualcosa di cui era fermamente stato sempre sicuro, era che Laurine amasse Cameron tanto quanto lui amava lei.
Anche se non voleva illudersi, quindi, era quasi convinto che ci fosse sicuramente una spiegazione plausibile dietro il comportamento della rossa. Un momento di debolezza, una sbronza, una scommessa, qualsiasi cosa che lo convincesse che non era quella che Land affermava che fosse.
‘’Che troia’’ ringhiò ancora. Nonostante paresse inarrivabile, Carl sapeva benissimo quanto Holland tenesse ai suoi amici, e a Cam in particolare. Avrebbe voluto picchiarla, e probabilmente l’avrebbe fatto se non si fosse trattato di una donna.
‘’La pianti di ripeterlo?’’
‘’Sì, hai ragione Carl’’ si passò una mano sul volto, e fece per alzarsi dal divano ma vi ci ricascò come un sacco. Era diventato magrissimo, quasi la metà dell’anno prima, e non era mai stato grasso, anzi. Agli occhi di Carl, la sua pelle pareva ancora più bianca e lattea di prima, riusciva quasi a vedere le vene che gli attraversavano il braccio sottile.
Distolse lo sguardo.
Preferiva non pensarci.
‘’Però che troia’’ riattaccò Land, con la solita nenia. L’aveva ripetuto, più o meno, mezza marea di volte. Ma Carl non lo stava più seguendo, perso nei suoi pensieri. Spesso gli capitava di estraniarsi dal mondo e lasciare tutto fuori, come se nient’altro importasse.
‘’Come stai, Land?’’ domandò all’improvviso, proprio quando la conversazione sembrava stata chiusa.
‘’Vorrei che mi lasciassi dire la verità’’ solo allora, il biondo, riuscì ad alzarsi dal divano e a raggiungerlo vicino l’isolotto della cucina di mogano. ‘’Andrei domani stesso dalla preside e le direi che quella droga era la mia, e che ti avevo chiesto di nasconderla visto che nel reparto del mio armadietto c’era disinfestazione’’
Land sospirò pesantemente prima di aggiungere: ‘’Le direi che è ingiusto che ti abbiano dato i servizi sociali e dimostrerei a tutti quei coglioni che ti guardano male che non hai fatto proprio niente. Poi li strozzerei uno per uno’’
Carl tirò su un sorriso, ma di più tirati e tristi di quello non ne aveva mai fatti. Carl, dopo che gli avevano trovato cocaina nell’armadietto, era risultato negativo al test anti-droga. Aveva evitato l’espulsione e il riformatorio e se l’era cavata con trenta ore di servizi socialmente utili.
Se avesse detto la verità, o avrebbe lasciato che si scoprisse, Land non sarebbe risultato negativo.
Non poteva permettere che lo sbattessero in qualche istituto di recupero alla cazzo, né che lo espellessero. Stare lontano da loro e da New York era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
‘’Sai che non te lo farò fare’’ rispose. ‘’E se anche lo dicessi, negherei tutto’’
Un altro sospiro da parte del biondo, che ritornò a sedersi – stremato – sul divano.
Si prese la testa fra le mani.
‘’Perché cazzo ti ostini a proteggermi, Pearson’’ e non era una domanda. ‘’Lasciami bruciare nel mio stesso inferno’’
Carl avrebbe voluto raggiungerlo e dargli un cazzotto, ma rimase immobile e strinse a pugno le mani, fino a pungersi la carne.
‘’Non ti lascio bruciare’’ rispose, asettico e telegrafico.
Land sogghignò, prima di stendersi del tutto sul divano blu e prendere a guardare un punto sul soffitto.
‘’Sto morendo, Carl’’ disse, e non era mai stato più serio di così. Neanche quando gli aveva raccontato la tragedia che gli era successa cinque anni prima, che l’aveva portato sull’orlo dell’esasperazione e dell’oblio. Forse fu quello che spaventò Carl ancora di più, la consapevolezza che una luce si stava lentamente spegnendo. Ed era troppo tardi, nessuno avrebbe potuto far niente per rianimarla.
Non se c’era così tanto vento.
‘’Sei tu che vuoi morire’’ e al moro uscì fuori una specie di ringhio felino. Perché se c’era una cosa che aveva sempre detestato era il menefreghismo di Holland Todd, anche quando si trattava della sua stessa vita. Era convinto di giocare perennemente ad un videogioco, ignorando che quella era la cruda e nuda realtà.
‘’I tuoi genitori, se fossero qui, ti lancerebbero dal balcone’’ continuò. ‘’Non ti frega un cazzo di quello che avrebbero voluto loro?! Invece di pensare che ti sono crepati davanti agli occhi, perché non pensi a quando erano vivi?!’’
Erano poche le volte in cui aveva urlato così.
Ricordò di quando, due anni prima, Holland gli avesse chiesto di accompagnarlo a fare un tatuaggio. Carl ci era andato sbuffando e senza troppa voglia, e mentre vedeva le lettere rimanere impresse e stampate sulla pelle dell’amico non aveva pensato a niente.
Solo quando Land gli aveva detto della cocaina e di tutto lo schifo che c’era intorno, aveva capito il significato e il senso di quella frase.

 
Then you come to revive
wait, wait, wait, I’m alive
.
 
Holland non gli rispose, probabilmente era così fatto che non lo aveva neanche sentito. Sembrava un vegetale, c’erano sere in cui non aveva neanche la forza di spiccicare una parola, e si chiudeva in bagno scosso dai conati di vomito.
Non c’era giorno in cui Carl e Cam non si torturassero per cercare un’altra – l’ennesima – via di fuga. E non c’era giorno in cui la trovassero.
‘’Morgan non avrebbe voluto questo’’
Fu solo in quel momento che Land si alzò dal divano, come se avesse preso una scossa elettrica micidiale, e trucidò Carl con lo sguardo.
‘’Non la nominare neanche’’
E Carl pensò a Margareth e a quanto la vita facesse schifo.
 
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Uscita dalla spa, l’aria fredda dell’America l’aveva accolta nel peggiore dei modi. Era stata colta da spasmi di gelo ogni due minuti, anche mentre l’autista di Robyn la riportava a casa.
La mora non aveva fatto altro che parlare per tutto il tempo di quanto il nuovo taglio di capelli donasse a Kevin McDonald’s, di quanto Elise Jefferson e Malcom Wilson stessero male insieme, e di quanto fosse figo il nuovo arrivato del comprensorio maschile gemellato al loro.
E Robyn non era riuscita a frenarsi. Maggie sapeva che si stava trattenendo solo per sganciare una bomba più grossa, e sapeva che quel momento sarebbe arrivato.
‘’Margareth, ma lo sai tu chi è il tipo che ti ha salvata dai paparazzi?’’ aveva preso a parlare.
‘’Non ci conosciamo quasi per niente’’ si era subito giustificata la bionda, dopotutto dicendo la verità. Verità che le provocava un inspiegabile dispiacere. ‘’Mi ha solo aiutata’’
Robyn non le aveva dato retta. Aveva preso a parlare di quanto odiasse i tipi come lui, di quanto dovesse stare attenta perché voleva solo mettere mani sui suoi soldi, e di quanto il mondo fuori dall’élite di Manhattan facesse schifo.
Stavolta, era stata Margareth che non era riuscita a trattenersi.
‘’Cosa sai di lui?’’
Era una domanda retorica, perché Robyn – sicuramente – sapeva di tutto. Vita morte e miracoli di ogni essere respirante del continente. Difatti riprese di nuovo a parlare a raffica ma, stavolta, Maggie prestò realmente attenzione. ‘’So poco, in verità, perché a quanto dicono è un tipo molto riservato’’ scrollò le spalle. ‘’So che frequenta la statale e che fa l’ultimo anno, che vive in un appartamento con Holland Todd e Cameron Kyle e che ha voti altissimi ma…si, insomma, ha rischiato l’espulsione quest’anno’’
‘’E perché?’’
La curiosità di Maggie era insaziabile, e le dava un certo fastidio il fatto che dovesse sapere quelle cose da altri e che la sua migliore amica – che neanche lo conosceva – sapeva più cose di lei su Carl.
Era abbastanza deprimente.
‘’Dicono che abbiano fatto dei controlli a scuola sua, e che gli abbiano trovato della cocaina dell’armadietto’’ la voce di Robyn era scesa di un paio di tonalità per impedire all’autista impiccione – Charles – di impicciarsi. Era di origini inglesi, e gli inglesi avevano le orecchie lunghe come quelle di Dumbo. O almeno, questa era la teoria della mora. ‘’Lui non ha smentito ma è risultato negativo al test. Quindi niente bocciatura e niente espulsione, solo servizi sociali’’
Margareth non sapeva cosa dire. Se la mascella sarebbe potuta caderle per la sorpresa, sarebbe successo. Non poteva essere. Appunto perché era risultato sano al test, non poteva davvero credere che Carl Pearson fosse un drogato. Era assolutamente fuori discussione.
Si rifiutava anche solo di pensarci.
‘’Non è vero’’ disse, bloccando Robyn che aveva attaccato con le opinioni personali, manco fosse un compito di inglese. ‘’E’ risultato negativo all’anti-droga, quindi il discorso è chiuso’’
‘’Lui e i suoi amici l’avranno manomesso’’ rispose la mora, con una convinzione che la spiazzò. Che fosse vero anche quello? Che avessero imbrogliato per non finire nei guai? ‘’Sono sicura che tutti e tre sono drogati’’
La macchina frenò davanti alla villa dei Grey, ma Margareth non aveva neanche la forza di scendere. Le sbatteva la testa in modo atroce, e sentiva davvero troppo freddo. Quella sauna, sbalzo di temperatura compreso, non le aveva fatto per niente bene.
‘’Maggie’’ la fermò Robyn, proprio quando aveva trovato la forza recondita di balzare via da quella limousine e chiudersi nella sua stanza. ‘’Ti prego, stai lontana da Carl. Non è una brava persona’’
 
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La limousine era partita da un pezzo verso villa Young, eppure Margareth non era entrata in casa. Sapeva che i genitori avrebbero tardato per una riunione e che le domestiche, soprattutto l’apprensiva Hollie, la stavano aspettando. Tuttavia non aveva bussato al videocitofono né aperto il cancello con le sue chiavi personali.
Si era accasciata a terra, sul marciapiedi e contro il muretto che recintava la sua villa, e non si era più mossa. Il freddo aveva iniziato ad abbandonare il suo corpo, intorpidendolo, e non sentiva più niente. Assolutamente nulla.
Improvvisamente la realtà cominciò ad esserle più chiara. Non sapeva niente di Carl, avrebbe continuato a non saperne niente perché era sicura che non l’avrebbe più rivisto, e non poteva difenderlo a spada tratta.
Non era nessuno, nella sua vita, per cui non doveva di certo giustificare una sua azione. Se le voci che giravano su di lui erano vere, non avrebbe potuto farci niente. Se ne sarebbe fatta una ragione, semmai l’avesse scoperto. Eppure le faceva male in fatto di essersi aperta così tanto con una persona che, in realtà e stando alla versione di Robyn, era vacua. Le faceva male che, improvvisamente, fosse uscito dalla sua vita e non ne sapeva spiegare il motivo. Il loro abbraccio scagliato contro lo skyline di New York e quello fuori al ristorante italiano, quando l’aveva salvata nel senso letterale del termine, non la lasciavano in pace.
Le pareva di sentire ancora il suo odore e la pressione della sua mano contro il suo polso, mentre la trascinava via da quei giornalisti serpenti – diventando automaticamente il coraggio che lei non aveva mai avuto.
Ed improvvisamente sentì il rombo di una moto, ma non si mosse. Non alzò lo sguardo neanche quando sentì qualcuno sedersi accanto a lei, perché aveva riconosciuto il profumo molto tempo prima e perché non avrebbe saputo come prenderla.
La spaventava il pensiero di perdersi di nuovo negli occhi di Carl Pearson.
‘’Che ci fai qui fuori?’’ le domandò, come se la discussione telefonica della sera prima non ci fosse mai stata. Era questo che la faceva imbestialire più di tutto: come diavolo faceva ad essere sempre impassibile?
Margareth si alzò, trovando una grinta che non credeva di avere, e spazzò via i residui di asfalto dalla sua gonna di raso. ‘’Niente, stavo per entrare’’ rispose, gelida. In realtà stava bruciando, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di notarlo. Si sentiva molto più Morgan in quei momenti, e le piaceva da morire. La sentiva perfino più vicina.
Anche Carl si alzò, ma solo per appoggiarsi di nuovo al muretto, prendendo a consumarla con lo sguardo. Fortunatamente i lampioni emettevano una luce fioca, e gli occhi del moro erano abbastanza coperti.
Altrimenti, sarebbe stata la fine.
‘’Ci vediamo presto, Carl’’ si sforzò di sorridere per finta e di essere cordiale. Il più naturale possibile, per non fargli capire quanto in verità volesse solo inspiegabilmente abbracciarlo.
Lui continuò a non rispondere né parlare, e lei voltò le spalle e fece per bussare al citofono quando si sentì afferrare un polso. Si voltò quasi subito, tirata quasi con violenza da un Carl troppo vicino.
Avrebbe voluto urlargli in faccia con chi si credeva di avere a che fare, che lei non era a sua disposizione e che non era un giocattolo. Che non si poteva comportare come se non gliene fregasse niente il giorno prima, e venire sotto casa sua – correndo enormi rischi, tra l’altro – il giorno dopo.
Non riuscì a dire niente perché aveva i pensieri annebbiati dallo sguardo del ragazzo e i polmoni pieni del suo profumo, e pareva che la testa fosse disconnessa da qualsiasi altra parte del corpo.
Era proprio così che si sentiva: disconnessa dal mondo.
Carl, però, sembrava più che intenzionato a non dire una parola. Si faceva sempre più vicino, e Maggie sentì suonare un allarme nella sua testa. Lo fermò debolmente con una mano sul petto, nonostante le costasse una fatica enorme, e lo allontanò leggermente.
‘’La tua ragazza lo sa che sei qui?’’ domandò, decisa a non essere un passatempo e decisa soprattutto a mettere le cose in chiaro. Basta giri di parole, basta timidezza se poi finiva col piangere più di quanto già non facesse. Non le serviva questo.
Carl sgranò gli occhi, lo notò benissimo, e sogghignò. Come diavolo faceva a sogghignare in una situazione tragica come quella? Margareth sbuffò sonoramente e ‘’smettila di prendermi in giro, Carl. E lasciami’’ sussurrò, sincera.
Lui non le mollò il polso, ma in compenso ritornò serio. ‘’Victoria non è la mia ragazza’’ disse solo. Tutto qui? Era tutto qui quello che aveva da dirle? Non sapeva se girare i tacchi ed andarsene con la forza, oppure se restare la e farsi altre due risate.
‘’Buon per te’’ rispose, inacidita. Non aveva motivo di essere così scontrosa, perché Carl non le doveva un bel niente, eppure non riusciva ad evitarlo. Andava contro tutti i suoi principi, ma era più potente di loro.
Cercò di divincolarsi dalla presa del ragazzo, ma ancora una volta fu inutile. Era troppo forte per lei.
‘’Mi lasci entrare?’’ domandò, spazientita. ‘’Hollie darà in escandescenza, come minimo’’
‘’Non è nemmeno mia amica’’ continuò Carl, serio. ‘’Victoria non è niente di niente per me’’
Si era avvicinato di nuovo, e ancora una volta Margareth aveva fatto retro front. ‘’Sono felice per te, perché Victoria è proprio un nome cretino’’ sputò.
Carl rise.
Erano davvero poche le volte in cui l’aveva visto ridere, e riuscì solo a pensare che avrebbe dovuto farlo più spesso. Sembrava un angelo, sotto la luce fioca e patinata dei lampioni arancio.
Margareth guardò il cielo blu scuro e notò che, quella sera, le stelle erano ancora più visibili del solito. Si sentì meglio.
Tornò a guardare Carl nel momento in cui riprese a parlare: ‘’Oggi sono venuto fuori la tua scuola’’ disse.
Maggie si bloccò di colpo, e dovette fargli ripetere la frase per essere sicura di quello che aveva sentito. Non poteva crederci, si sentiva svenire.
E Carl era, di nuovo maledizione, troppo vicino!
‘’Sono uscita prima’’ si giustificò. ‘’Dovevo andare alla spa con una mia amica’’
Carl aggrottò le sopracciglia e sorrise. ‘’Certo, la spa. Avrei dovuto aspettarmelo da un tipo come te’’ ironizzò.
‘’Che stai cercando di dirmi?’’ Margareth lo aggredì, indietreggiando di nuovo. Lui si riavvicinò, sogghignando. ‘’Niente’’ sorrise. ‘’Perché indietreggi?’’
‘’Perché sei uno stronzo’’
E Margareth si sentì più libera nel momento esatto in cui glielo disse. Era come se, quella sera, non fosse lei ad agire e parlare. Carl era capace di tirare fuori il peggio di chiunque, probabilmente.
Lui sembrò sorpreso, e difatti ‘’come?’’ domandò.
‘’Sei uno stronzo’’ era meno sicura di prima, ma era pur sempre qualcosa. ‘’Non puoi comportarti come se fossi il tuo giochino personale. Hai idea di quanto mi sia costato chiamarti? E di come mi sia sentita? Tu hai tutte le ragioni del mondo per startene con… Victoria’’ pronunciò quel nome come fosse un insulto. ‘’Non mi devi niente, non so neanche se mi consideri tua amica. Ma potevi essere un po’ più delicato. Io non so come sei tu, ma credo tu abbia capito come sono io. Sbaglio?’’
Dal momento che Carl non accennava a dire nient’altro, Maggie continuò. ‘’Mi sono incazzata così tanto che avrei voluto prenderti a sprangate sui denti! Avresti potuto dire qualunque cosa, ma mi hai praticamente quasi attaccato il telefono in faccia! Ed ora non so con che coraggio vieni qui, e mi dici addirittura che questa Victoria non è niente, e io che dovrei dirti? Tanti auguri, spero ne trovi una con un nome migliore e…’’
Non ebbe il tempo di finire la frase. Presa com’era nel parlare, non aveva avuto modo di notare quanto Carl si fosse avvicinato. Ed ora, la distanza era praticamente assente.
Le mani di Carl erano poggiate sui suoi fianchi esili e li stavano disintegrando fino a ridurli in cenere. Non sentiva più freddo, stava evaporando dal caldo. Le sue mani erano ancora alzate, le braccia mezze tese per il discorso interrotto, e le sue labbra combaciavano con quelle del ragazzo più bello che avesse mai visto.
Improvvisamente le parole di Robyn divennero solo un eco lontano, perché non ci credeva e non ci aveva mai creduto. Se lo sentiva.
Inizialmente credette che Carl non volesse approfondire il bacio, perché si allontanò di qualche millimetro e – sogghignando – le disse ‘’stai un po’ zitta’’. Poi ritornò ad avventarsi sulla sua bocca, e allora Margareth non capì più niente.
Sentiva solo le mani di Carl addosso, il suo sapore in bocca e la spina dorsale che tremava spasmodicamente. Carl lasciò la presa sui suoi fianchi solo per afferrarle le mani – ancora bloccate – e portarle attorno al suo collo.
E si sentì spingere fino a che non avvertì la superficie fredda di un muro premerle contro la schiena, ma poco importava.
Stava baciando Carl Pearson, e si sentiva un’altra persona che viveva in un altro mondo.
Ricordò di quella volta in cui Morgan le chiese di accompagnarla a fare un tatuaggio, di nascosto dai suoi. Ci andò solo dopo un pomeriggio di lagne della sorella, e morì di paura.
Ma quel tatuaggio le piaceva e le era sempre piaciuto, addosso a Morgan sembrava addirittura brillare.
E si ritrovò a ripensarci, senza alcun tipo di tristezza ma solo con un sorriso malinconico:

Then you come to revive
wait, wait, wait, I’m alive
.

Si Morgan, pensò, sono viva. 
 
___________________________________________________

BUON ANNO A TUTTE!!
Spero abbiate passato buone feste e siate state contente :) Io di certo lo sono stata, un mio carissimo amico
è stato da me per un pò e abbiamo passato Capodanno insieme :)
Pronte per il sette settembre e la scuola? ahahahhahaha ((no))
Dunque, eccovi il capitolo. Qualcuna di voi, in una qualche recensione, mi aveva detto che aspettava con ansia e sicurezza
un colpo di scena. Spero questo l'abbia e vi abbia soddisfatte :)
Marge, ormai, senza dubbio tiene a Carl. Si è capito. Le ha solo dato fastidio il suo comportamento a telefono,
dato che è convinta che lui stesse per attaccarle il telefono in faccia ((e lo avesse quasi fatto)). 
Carl è...più complicato, diciamo. Il motivo per cui sembra sempre allontanarsi da Margareth non è la mancanza di interesse.
Diciamo che vorrebbe proteggerla e proteggere un segreto. Vi ho detto anche troppo ahahah
Vi lascio, grazie ancora a tutte! Fatevi sentire <3
A presto xx
Harryette

marge

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Capitolo 11
*** 10- If you ever come back ***


j
 

| Capitolo Decimo |
If you ever come back
 
Quando era bambina, costrinse la tata a portarla al parco giochi pubblico. Margareth non era abituata ai luoghi affollati e aperti, né a stare così a lungo con altri bambini, e inizialmente si pentì – sentendosi un pesce fuor d’acqua. Poi una bambina dai capelli neri e piena di lentiggini le si avvicinò e le tese la mano: ‘’vuoi venire a giocare con me?’’
Con la baby-sitter da lontano, Maggie aveva passato le due ore più divertenti e spensierate di tutta la sua vita. E quando era tornata a casa, anche se i suoi genitori si erano arrabbiati e avevano licenziato la tata prendendone subito un’altra, Margareth si era sentita bene.
Nonostante sapesse che non sarebbe potuto accadere più, continuava a ripercorrere le immagini degli scivoli e delle altalene, di lei e Caren, mentre giocavano e ridevano. Quei ricordi le affollavano il cranio, li sognava perfino di notte, e fu così per quasi tre mesi.
Baciare Carl fu un po’ la stessa cosa.
Si sentì come dodici anni prima, quando aveva obbligato Camilla ad accompagnarla fuori facendole perdere il posto, e quando era stata così bene che aveva sognato quella scena per intere notti.
Proprio come allora, sentiva il suo cervello bruciare tanto che pensava alle labbra fredde del ragazzo sulle sue. Non se lo aspettava, era futile anche dirlo. E quel bacio le era sembrato così vero che non aveva dubitato neanche per un secondo della buona fede di Carl. E si sorprendeva: come un ragazzo così avesse scelto di baciare proprio lei, era un mistero.
Al contrario di come succedeva con la maggior parte delle persone che frequentava, quella volta, Margareth non si sentiva superiore a lui. Sarebbe stato facile e scontato crederlo, ma spiegarlo era pressappoco impossibile. Sentiva che, per prima volta nella sua vita, non era qualcuno a non meritare lei, ma l’inverso.
Carl non le sembrava la cattiva persona che Robyn e mezza New York avevano descritto. Mentre la guardava negli occhi e si avvicinava ancora una volta, Margareth ne ebbe conferma.
Ma prima che lui, senza aggiungere niente, potesse avventarsi di nuovo sulle sue labbra, gli poggiò una mano sul petto. Lui capì e si fermò. ‘’Che c’è?’’ domandò.
‘’E’ vero?’’ chiese, ed era sicura che Carl avesse capito fin troppo bene a cosa lei si riferisse. ‘’Quello che dicono su di te, è vero?’’
Quella domanda l’avrebbe fatta impazzire se non glielo avesse chiesto. Qualunque fosse stata la risposta di Carl, ci avrebbe creduto perché se lo sentiva e perché non sarebbe potuto essere altrimenti.
Ovviamente credeva, e soprattutto sperava, in una risposta negativa. ‘’Cambierebbe qualcosa per te?’’
Non si aspettava che Carl mollasse la presa sui suoi fianchi, pur senza allontanarsi più di tanto, né che i suoi occhi diventassero più scuri. Succedeva solo quando era pensieroso, turbato oppure arrabbiato.
‘’No’’ rispose Margareth, prontamente. Ed era la verità, sarebbe stato da stupidi immaturi negarla. Purtroppo per lei, non sarebbe cambiato. ‘’Non cambierebbe niente per me’’
‘’E allora perché me lo chiedi?’’ la punta di acidità nella voce del ragazzo era palese. Eppure lei non riusciva a dare una spiegazione a quel suo repentino cambio d’umore, come se volesse evitare l’argomento e non parlarne. Chi taceva, acconsentiva. Che fosse stato tutto vero?
‘’Perché crederei a te’’ sovvenne lei, facendo si che le sue guance si tingessero di rosso poco dopo. Non era di certo sua intenzione esporsi così tanto, sembrare sfacciata e apprensiva era l’ultima cosa che avrebbe voluto. ‘’Non a quello che dice la gente’’
Carl si allontanò.
E Margareth non pensava che l’avrebbe mai detto ma, in quel momento, si sentì più sola di quanto era stata negli ultimi due anni. La luce del lampione più vicino a loro due si era allontanata dal volto di Carl, ora riusciva a vedere solamente la felpa grigia e slabbrata e niente di più.
‘’No’’ disse.
Maggie capì che era la risposta che cercava, che – per quanto potesse esserle sembrato dubbioso e pensieroso – il moro le aveva detto la verità. E per quanto potesse essere e sembrarle stupido e avventato, lei ne era sicura. Ne era sempre stata sicura, aveva solo preferito accertarsene.
Tuttavia, non le si avvicinò di nuovo, come se avesse detto qualcosa di sbagliato o come se aspettasse che lei gli facesse qualche altra domanda, magari più invadente e curiosa. Margareth non ne aveva intenzione, in entrambi i casi. A lei bastava la risposta che le aveva dato, fin troppo. Avrebbe voluto dirglielo e forse avrebbe dovuto farlo perché, man mano che scorrevano i minuti, Carl le sembrava sempre più lontano e nuovamente intoccabile. Non riusciva a vedere il suo volto ma era sicura che fosse pensieroso, perso da qualche parte di cui solo lui stesso conosceva l’esistenza. Avrebbe voluto riportarlo indietro.
‘’Carl…’’ iniziò, ma tacque l’attimo dopo. L’impulso, la sua solita paura del silenzio teso, l’avevano spinta a parlare anche se non sapeva cosa dire. Cosa avrebbe dovuto rispondergli? Ti credo? Che cosa se ne faceva lui del fatto che lei gli credeva?
‘’No, aspetta’’ Carl la interruppe e, anche se non si mosse neanche di un altro passo, Margareth lo sentì ancora più distante.
Ritorna qui. Ritorna da me, ti prego.
‘’Scusami’’ disse, spezzando il silenzio che era venuto a crearsi, e Maggie sentì il terreno mancarle sotto ai piedi. Non sapeva neanche per quale diavolo di motivo si sentiva così spezzata, perché le scuse insensate di Carl parvero farle così male.
‘’Per che cosa?’’ gli domandò, reprimendo l’istinto di riavvicinarsi. Avrebbe tanto voluto baciarlo, in quel momento, o quantomeno abbracciarlo. Ma era scesa su di loro una specie di cappa impenetrabile, e stava iniziando a soffocare.
‘’Non avrei dovuto baciarti. Perdonami’’
Forse se l’era sentito dall’inizio, che lui le avrebbe rivolto quelle parole, per quel motivo le faceva male lo stomaco. La dolorosa consapevolezza di aver pensato e immaginato giusto. Per quelli come Carl, essere un minimo interessati a una ragazza come Margareth era davvero un limite in divaricabile. Come aveva fatto anche solo a credere che a lui potesse piacergli un pochino? Erano troppo diversi, questo l’aveva capito benissimo anche lei, eppure ci aveva sperato. Era sempre quella la cosa che la fregava: la speranza. Fin quando non speri in niente, e sei lontano da tutto, neanche la realtà rischia di farti male.
Non disse niente, semplicemente perché non avrebbe saputo cosa dire. Se quello era il pensiero del ragazzo non avrebbe potuto farci niente, non avrebbe cambiato idea neanche se si fosse ricoperta di piercings e tatuaggi. Si allontanò anche lei, più lontana dal lampione e più vicina al cancello di casa, e sospirò. Non avrebbe dovuto farlo, perché Carl se ne accorse chiaramente e alzò lo sguardo.
‘’Carl’’ non era stata lei a parlare. O meglio, sì, era stata proprio lei, ma le parole erano sbucate fuori senza che se ne fosse neanche accorta. La Margareth-ribelle stava uscendo fuori, quella ragazza che non si faceva mettere i piedi in testa e che reagiva. Avrebbe pagato per poter essere sempre così. ‘’Ribadisco: non sono il tuo giocattolino’’
Lame.
Probabilmente, quelle parole, ebbero sul ragazzo lo stesso effetto di mille lame. Carl non si mosse, non fece neanche un altro passo, e a Margareth sembrò che la maschera di indifferenza con la quale era solito coprirsi si fosse sgretolata un pochino.
Il moro la guardava e lei, stavolta, aveva abbandonato ogni intenzione di pensare a qualcosa da dire. Semplicemente aspettò, nel caso almeno lui avesse qualcosa da aggiungere.
Ancora silenzio.
‘’Credo che ci siamo detti tutto’’ terminò la bionda, con una tenacia che era sempre più convinta che non le appartenesse e senza la minima inclinazione nella voce.
Voltò le spalle, diretta in casa, senza neanche pensarci due volte. Non soppesò neanche i sospiri di Carl, che sentiva chiaramente dietro di lei e un po’ più vicino, e neanche desiderò farlo. Si sentiva ferita e, in un certo senso, usata. Non avrebbe aggiunto una parola né fatto un ulteriore passo. Era la seconda volta che qualche gesto del ragazzo la urtava o la infastidiva, quasi dolorosamente, per cui non avrebbe permesso che accadesse di nuovo. Nonostante fosse timida e accondiscendente, non era stupida e sicuramente non era inetta. Non se ne sarebbe stata buona ed in silenzio solo perché un ragazzo bellissimo la chiamava e la baciava quando più gli pareva.
Nonostante Carl la attirasse, come era normale che fosse, e le piacesse non aveva intenzione di essere trattata come uno zerbino.
Carl non la fermò, ma parlò.
‘’Non l’ho mai pensato’’ rispose, riferendosi chiaramente alla sua provocazione di poco prima.
Maggie non si girò neanche quella volta, nonostante avesse smesso di camminare e si fosse fermata. E mentre tirava fuori le chiavi dal pantalone e apriva il cancello imponente, sussurrò: ‘’dimostramelo’’.
E, anche se tre secondi dopo Hollie le spalancò la porta di casa, era sicura che Carl avesse sentito.
Si voltò un’ultima volta, prima di chiudersi il portone alle spalle.
La strada era deserta e ancora più buia di prima.
 
                ________________________________________
 

‘’E’ finita’’
La voce di Cam uscì fuori strozzata e forzata perfino alle sue orecchie. Laurine era davanti a lui, i capelli di nuovo al solito rosso fuoco ma gli occhi sempre più spenti, le braccia incrociate al petto e le lacrime che minacciavano il trucco. Lei l’aveva capito quello stesso pomeriggio, quando – dopo giorni di silenzio tombale – Cam le aveva inviato un messaggio.
‘’Dobbiamo parlare’’
Non c’era neanche un punto a fine frase, freddo come un ghiacciolo. Non c’era stato neanche bisogno di specificare l’ora e il posto, perché con loro due era sempre andata così: ad ogni litigio, e ad ogni ripetizione di quel messaggio nel passato, il posto era casa di Laurine. L’ora indefinita, ma dopo ogni diverbio la ragazza stava sempre troppo male per uscire, e quindi casa sua era sempre disponibile.
Erano le sei e mezza, Cameron non era mai arrivato a quell’ora, e non era neanche entrato.
Era sull’uscio, le sembrava addirittura più magro e la sua pelle scura tendeva al pallore odioso dei malati, e la guardava con occhi carichi di risentimento. Laurine avrebbe pagato oro perché quello sguardo carico di rancore scomparisse dal volto dell’unico ragazzo che avesse mai amato in vita. E vederlo soffrire, forse al pari di quanto stava soffrendo lei, la faceva sentire ancora peggio.
Cam non la guardava neanche negli occhi, di nuovo castani. Il suo sguardo era assente, come sommerso da strati e strati di emozioni, e a lei venne da piangere di nuovo. Erano giorni e giorni che non faceva altro, che non smetteva di pensare a quello che avrebbe dovuto dire a Cameron e a quello che lui avrebbe dovuto dire a lei, e a cosa sarebbe successo poi. Quel momento era arrivato, fortunatamente o sfortunatamente, e lui era davanti a lei. Lo stesso ragazzo che aveva incontrato due anni prima, che non smetteva di fare battute e ridere da solo, che le aveva rallegrato le giornate più buie, quando la mancanza di suo padre e il pessimo rapporto con sua madre non facevano altro che ucciderla un po’ per volta.
Cameron Kyle c’era sempre stato per lei, indipendentemente da tutto e da tutti, e non l’avrebbe sfiorata con un solo dito se lei non si fosse decisa a baciarlo, un giorno di maggio dell’anno prima.
E quello che si ritrovava dinanzi era lo stesso ragazzo di sempre, con due anni in più e qualche esperienza a gravargli sulle spalle, e con uno sguardo che non gli avrebbe associato mai.
Ed era unicamente colpa sua.
E le parole del ragazzo le rimbombavano nella testa – ‘’ è finita’’ – ma neanche la sorprendevano. Sapeva che sarebbe arrivato quel momento, che prima o poi Cam si sarebbe fatto coraggio e avrebbe chiesto di vedersi per lasciarla, solo che c’era una differenza abissale fra il sentirlo e il sentirlo.
Le lacrime, allora, uscirono libere.
Avrebbe voluto chiedergli di restare, di non lasciarla sola, di trovare ancora del buono perché lei era sicura ci fosse. Ma se avesse parlato gli avrebbe fatto ancora più male, l’avrebbe messo ancora più in difficoltà, e si sarebbe comportata solo ed unicamente da ipocrita.
‘’E’ quello che vuoi?’’ trovò la forza di domandargli, perché era sicura che Cam l’amasse ma aveva bisogno di sentire anche quello.
‘’Sì’’
Era atono e tematico, non una singola parola fuori posto o meno monocorde. Laurine si chiese a cosa stesse pensando.
‘’Ti amo’’ e le parole di Cam la sorpresero, fermarono qualche lacrima ma la fecero sentire ancora peggio. ‘’Se è questo quello che ti sta frullando in testa, la risposta è sì. Ti amo. Ma mi stai facendo troppo male’’
‘’Scusami’’
Solo in quel momento Cam trovò la forza di voltare le spalle e di andarsene, e non ci pensò su due volte. Altrimenti l’avrebbe baciata e avrebbe mandato all’aria ogni cosa.

 
Da: Laurine
‘’Ti amo anche io’’
 
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Morgan era stesa sul letto, le gambe all’aria e le mani esili che le mantenevano il volto. Sorrideva.
I capelli biondi stavano finalmente ricrescendo, dopo quel dannato pomeriggio in cui si era stancata di vedersi sempre uguale e li aveva tagliati senza neanche pensarci, e leggere ciocche le finivano sugli occhi. La felpa blu le stava un po’ grande, scendeva su una spalla lasciando intravedere la spallina nera del reggiseno, e il jeans non rendeva tanto agili i suoi movimenti. La finestra aperta faceva entrare in camera una brezza abbastanza fredda, che le aveva quasi gelato i piedi nudi.
Le piaceva il colore di quelle coperte.
‘’Ah’’ sorrise. ‘’Quindi è questo che pensi di me?’’
Per Morgan tutto era uno scherzo, le parole non avevano il peso che normalmente dovevano avere, e il sorriso era qualcosa di imprescindibile.
‘’Sì. Penso che tu sia una spocchiosa ribelle viziata. Vuoi farmene una colpa?’’
Il ragazzo la guardò male, ma Morgan continuò a sorridere imperterrita. Scoppiò in una fragorosa risata quando lui le chiese ‘’cosa cazzo ci trovi di tanto divertente?’’.
‘’Niente’’ rispose. ‘’E’ solo che è un controsenso. Perché mi porti a casa tua se mi odi così tanto?’’
Seppe di aver fatto centro quando Holland, con la sua solita aria altera e superiore e da ‘’so tutto io’’, la guardò senza sapere cosa dire.
‘’Perché mi fanno pena le ragazzine che scappano di casa dopo un litigio con i genitori’’ rispose, continuando a sistemare delle t-shirt nel suo cassetto. ‘’E che, tra l’altro, non sanno dove andare’’
Morgan scosse la testa, sistemandosi meglio sul materasso, e: ‘’Ragazzine che scappano di casa dopo un litigio con i genitori?’’ ripetè, divertita. ‘’Si vede che non mi conosci, Land’’
‘’Mi chiamo Holland’’ ringhiò il biondo ossigenato. ‘’Che cazzo di soprannome è Land?’’
‘’A me piace’’ scrollò le spalle la bionda, prendendo a sorridere di nuovo. ‘’Penso che ti chiamerò così’’
‘’Penso che una volta che uscirai da casa mia non ci rivedremo mai più, Grey’’
Holland continuava a darle le spalle, teso e scosso, come se qualcosa lo turbasse. Morgan avrebbe voluto alzarsi e digli che con lei poteva parlare, che poteva sfogarsi se gli andava, e che a lei non stava affatto antipatico. Anzi, gli era quasi grata per averla aiutata.
‘’Io, invece, penso che se solo fossi meno scorbutico potrei essere interessata a conoscerti’’ ironizzò la ragazza. Holland si girò, a tratti sconvolto dalla sfacciataggine della figlia del sindaco di New York, e la guardò allarmato. ‘’Non sarò mai meno scorbutico, allora’’ rispose, serio.
Morgan scoppiò in un’altra fragorosa risata. ‘’Senti un po’, Land’’ marcò quel soprannome orribile. ‘’Se ti restassero solamente due anni di vita che cosa faresti?’’
Nonostante sorridesse, Holland lesse negli occhi inverosimilmente blu della ragazza un’agghiacciante serietà. Si aspettava una risposta quantomeno coerente.
‘’Vivrei ogni giorno come se fosse l’ultimo’’ rispose, scrollando le spalle. ‘’E direi tutto quello che penso’’
Morgan si alzò dal letto solo in quel momento, i suoi piedi nudi fecero rumore sulle mattonelle fredde. Allora Holland non poteva di certo sapere che il rumore di quei passi l’avrebbe tormentato ogni giorno, e che la voce di Morgan sarebbe via via scomparsa dalle sue orecchie per entrare per sempre nella sua testa.
‘’Land’’ la voce di Morgan era finalmente seria. ‘’Posso darti un bacio?’’

 
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Se c’era una cosa che aveva imparato in generale, era che quando si stava male bastava ricordare che non si era i soli.
Margareth aveva mangiato un cucchiaio di pasta a pranzo e quasi nulla a cena, ma aveva il volto talmente stanco che Hollie la lasciò salire in camera senza obiezioni.
Stesa sul letto, con le gambe all’aria e le mani esili a mantenerle il volto, trattenne un urlo. La felpa blu, che era stata di Morgan, le andava così larga che si vedeva più che chiaramente la spallina nera del reggiseno.
Aveva così tanto sonno da avere la vista annebbiata, eppure non riusciva a chiudere occhio.
Si domandava come fosse possibile assaggiare un angolo di paradiso e il secondo dopo essere spedita nell’inferno. Carl aveva il potere di condizionare ogni sua azione e monopolizzare ogni suo singolo pensiero, e la cosa stava incominciando a starle stretta.
Le mancava anche se avrebbe dovuto odiarlo, si era pentita del suo comportamento stronzo e freddo pur sapendo di aver agito correttamente – almeno per una volta.
Avrebbe voluto avere qualcuno con cui parlarne, anche solo un’amica che non l’avesse giudicata e bannata come fuori di testa. Ricevere il parere di qualcuno di esterno non doveva essere poi tanto male. Avere qualcuno con cui parlare di cose che gli altri non avrebbero mai capito doveva essere abbastanza appagante.
Morgan aveva sempre parlato con lei, anche se aveva una marea di amici e di amiche. Probabilmente anche Margareth le avrebbe detto di Carl e del tornado che sentiva dentro, se solo Morgan ci fosse stata. E quasi certamente Morgan si sarebbe fatta una grossa risata, prima di tornare seria e dispensare consigli e opinioni, e avrebbe detto ‘’sei cotta proprio a puntino’’.
Maggie non le avrebbe dato ragione, avrebbe ribattuto che non era così e che lei era la solita romantica che vedeva l’amore in ogni cosa. Eppure, nel suo cuore, avrebbe saputo che era la pura verità.
Poi Morgan si sarebbe seduta sul parquet e avrebbe detto qualcosa di dannatamente giusto e reale, come sempre, e Margareth non avrebbe potuto far altro che annuire e subire il colpo in silenzio.
Per quel semplice motivo, quella sera, Margareth provò ad immaginare cosa le avrebbe detto la sorella se fosse stata presente. Era sicura che sapesse come si stava sentendo, che la vedesse da qualunque parte si trovasse, ma sentirla sarebbe stata tutta un’altra cosa.
Probabilmente, conoscendola, avrebbe detto qualcosa come: ‘’non fare niente, e aspetta che sia lui a fare qualcosa. Se agisce, vuol dire che quel bacio non era del tutto insensato e che sente qualcosa’’
Margareth dubitava fortemente che fosse così, ma sicuramente avrebbe seguito il consiglio. E fu quello che decise di fare, nonostante il fegato le rodesse e nonostante non riuscisse a far altro che pensare alle parole e al volto di Carl. Era cambiato tutto nel momento in cui lei aveva fatto quella stupida domanda sulla droga a scuola, lo sapeva benissimo, e Carl aveva reagito come se avesse avuto paura che lei avesse potuto scoprire qualcosa. Cosa fosse non lo sapeva, ma sentiva che era qualcosa di grosso. Così come sentiva che Carl Pearson non c’entrava assolutamente niente con quello scandalo, e che tutte le voci che giravano sul suo conto erano completamente false.
Si sfilò le ciabatte e sentì un leggero venticello gelarle i piedi. Ricordò di quando Morgan le diceva che la brezza gelida era quella che più preferiva, perché – ghiacciandola – riusciva a farla sentire viva.

 
And then you come to revive,
wait, wait, wait, I’m alive.

Decise di non chiudere la porta che dava sul balcone e di sentire i piedi diventare man mano più freddi, così come il suo corpo e le sue mani. Sorrise, ma non perché fosse felice.
Solo perché si sentì meno sola, improvvisamente, come se ci fosse qualcuno da qualche parte.
Quel vento sembrava avesse le mani e sembrava la stesse accarezzando, di quelle carezze vere ed affettuose che solo Morgan era capace di dare. E ricordò di quella volta in cui l’aveva abbracciata per strada, all’improvviso. Margareth le aveva chiesto come mai era così affettuosa quel giorno, e Morgan aveva semplicemente detto: ‘’ho deciso di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo’’
Quella frase l’aveva frastornata, perché Morgan non era stata mai una tipa così saggia e perché sapeva di una frase già fatta. Tuttavia sorrise e ricambiò l’abbraccio, mentre la sorella le sussurrava all’orecchio una frase che ricordava come se l’avesse detta ieri.
‘’Se non avrò mai l’occasione di abbracciarti per l’ultima volta, sappi che ho passato tutti i giorni della mia vita facendolo’’
Il telefono di Margareth, in quel preciso istante malinconico, si illuminò rivelando l’arrivo di un messaggio.
Con il vento freddo che le faceva rizzare la schiena, Margareth si alzò. Si diresse prima verso la porta del balcone, spalancandola e facendosi investire da quella brezza in pieno viso.
Chiuse gli occhi, sussurrando a se stessa – e a qualcun altro – un semplice grazie.
Morgan - pensò - se mai dovessi ritornare indietro, ti prometto che farò per te almeno la metà delle cose che tu hai fatto per me.
Poi prese il telefono.

Da: Carl
‘’Scendi, sono sotto casa tua. Per favore’’

______________________________________________


Ciao ragazze :)
Vi parla una ragazza sopravvissuta al primo giorno di scuola, oggi per me, e sopravvissuta
al pagellino!! Un'impresa, insomma ahah Comunque tutto bene a me, spero che per voi sia lo stesso.
So che questo capitolo è leggermente più corto rispetto ai precedenti, ma ho preferito così, perchè
altrimenti sarebbe stato troppo lungo (comprendetemi ahaha).
Non credo che ci sia molto da dire,a parte per Cam. Giuro che piango ogni volta che rileggo il suo pezzo ahah
Non sarà niente di definitivo comunque :)
E il piccolo flashback su Land e Morgan...bhè, spero vi sia piaciuto e spero che si stiano modellando
i personaggi nella vostra testolina <3
Vi lascio perchè devo andare in palestra, un bacio immenso a tutte e per qualsiasi cosa sono qui o su facebook 
(harryette efp)
xxxxxx
Harryette
Ps: Un saluto ENORME alla mia Chiari, che so che sta leggendo e spero sia arrivata fin qui. La 
convincete a postare qualcosa di suo? Magari ascolta voi ;)

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Capitolo 12
*** 11- Look at me ***


j
 

| Capitolo Undicesimo |
Look at me
 
Carl era teso.
Aveva paura che Margareth non sarebbe scesa, non aveva risposto al suo messaggio e non se la sentiva di accusarla. Probabilmente, se fosse stato al suo posto, si sarebbe comportato allo stesso identico modo.
Eppure qualcosa gli diceva che la sua attesa non sarebbe stata vana, che c’era una – seppur minuscola – speranza che Marge scendesse a parlargli.
In realtà non sapeva per quale assurdo motivo le aveva scritto quel messaggio, non sapeva neanche cosa dirle. Aveva agito d’impulso, senza pensarci su neanche un nano secondo.
Avrebbe voluto dirle la verità: che lui non c’entrava nulla con la cocaina, che  stava cercando di proteggere un suo carissimo amico e che lo aveva urtato il fatto che lei avesse subito dato retta alle voci. Nonostante Margareth aveva specificato che avrebbe creduto a lui, il dubbio doveva essersi per forza insinuato nella sua mente, altrimenti non avrebbe proferito parola. La verità era che si sentiva un coglione, e magari lo era stato davvero, ma si era sentito deluso e quasi tradito quando Marge l’aveva guardato con quegli occhi blu carichi di domande e punti interrogativi. Non lo conosceva, certo, eppure Carl aveva confidato nel fatto che lei si fidasse di lui. Era una cosa che non aveva il minimo senso, eppure era statica e non avrebbe potuto cambiare nulla.
Non era pentito di quel bacio, non pensava affatto che non avrebbe dovuto nemmeno avvicinarsi, né tantomeno aveva avuto voglia di scusarsi, ma gli era sembrata la cosa più giusta da fare.
Perché era arrabbiato con lei, che non gli aveva dato peso, e perché aveva pensato che il segreto di Holland fosse in pericolo, e quindi si era sentito in dovere di proteggerlo.
Ma non era pentito di quel bacio.
Quando vide Margareth saltare in terra dall’albero che aveva usato anche una sera precedente, trattenne un sorriso. Si sentiva così sollevato che aveva difficoltà perfino a spigarlo a parole.
La ragazza si ricompose come se non avesse appena fatto un salto di dieci metri, e si diresse verso di lui. Indossava una felpa blu che doveva farle da pigiama e che le stava un po’ larga, quasi non fosse stata sua, e dei semplicissimi jeans. Probabilmente era stata sul punto di mettersi il pigiama, perché aveva i capelli legati e il volto completamente struccato – non che si truccasse poi così tanto.
Non abbassò mai lo sguardo, continuò a fissarla per tutto il tragitto che le serviva per raggiungerlo, anche quando lei – evidentemente – non ce la fece più e prese a guardarsi la punta delle pantofole.
Carl si aspettava che Marge aprisse il cancello di ferro d’entrata e si avvicinasse almeno un minimo a lui, eppure lo sorprese anche quella volta. Aveva le chiavi strette in mano, ma non accennò a muoversi. Erano distanti nemmeno un metro, ma lei continuava a stare dietro le inferriate del cancello possente della villa dei Grey, mentre lui continuava a restare fuori.
Era ancora arrabbiata?
Margareth non accennò a parlare, e non si sentì in dovere di giudicare neanche quello. Prese a scrutarla a lungo, sentendo chiaramente il disagio della ragazza crescere in silenzio sempre di più, e si decise a parlare solo quando lei separò i loro sguardi – nonostante tutto, vicinissimi – e prese a guardarsi attorno.
Si gelava, Margareth aveva avvolto le braccia attorno al busto nella speranza di farsi un poco di caldo, mentre Carl se ne restava impassibile nella sua solita – e sottile, anche – felpa nera.
Maggie represse l’impulso di aprire il cancello ed uscire fuori solo per dargli un ceffone.
E poi, magari, abbracciarlo.
O baciarlo.
Scacciò via quei pensieri inadatti dalla sua mente nel momento in cui Carl si decise, evidentemente, a dirle che cosa ci facevano a mezzanotte e mezza per strada.
‘’Lo sai che non è vero’’ disse solo, e Margareth si sforzò parecchio ma, comunque, non riuscì a comprendere a pieno il senso di quella frase.
Aggrottò le sopracciglia, come faceva sempre anche durante la lezione di matematica, ed evidentemente lui comprese che non aveva capito. Sospirò, si passò una mano sul volto quasi disperatamente, e – quella volta – Margareth avrebbe davvero aperto il cancello per prenderlo a schiaffi se lui non avesse parlato di nuovo.
‘’Dobbiamo parlare attraverso le inferriate?’’ domandò, atono e stranamente a…disagio, forse, ma a Maggie sembrava più che strano. Carl sembrava sempre inarrivabile ed intoccabile, non l’aveva visto sentirsi fuori luogo neanche quando lei era su un parapetto e stava per assistere ad un suicidio.
‘’Sì’’ fu la sua sola ed unica risposta.
Si complimentò mentalmente per il finto autocontrollo.
Carl sospirò di nuovo, stavolta molto più sonoramente, e ‘’non ti reputo un giocattolino’’ esclamò, esasperato. Sembrava quasi che la colpa, improvvisamente, fosse diventata di Margareth che aveva frainteso tutto. ‘’Non…’’ ancora un altro sospiro. ‘’Dio Santo, ma non capisci?’’
Cosa avrebbe dovuto capire?
Margareth se ne restava lì, ferma, cercando di dare un senso logico alle frasi sconnesse di Carl. Le sembrava inverosimile che fosse sotto casa sua, dicendole che non la reputava un passatempo e che non capiva – cosa?
Carl, evidentemente urtato perché lei non accennava a parlare né a collaborare, afferrò con le mani bianche due inferriate del cancello e vi avvicinò il volto, in modo da essere ancora più vicini.
Sembrava quasi una di quelle visite di cortesia nei carceri, ed era alquanto inquietante. Soprattutto se era buio, e soprattutto se Margareth aveva praticamente paura anche della sua ombra.
Si perse negli occhi di Carl, che - nonostante fosse buio – brillavano come due fari.
‘’Se non apri questo cancello, ti giuro che lo distruggo’’ sussurrò. ‘’E non risarcisco i danni’’
Non era rude il suo tono, non era neanche arrabbiato né innervosito. Era quasi supplicante e, anche perché stava morendo di paura dall’altro lato da sola, Margareth trovò la chiave dal mazzo e lo aprì. Il rumore metallico della chiave che scattava nella serratura sembrò rimbombare nell’aria vuota di Manhattan. Avrebbe voluto avere il tempo di osservarlo meglio, di rendersi conto se avesse cambiato vestiti o meno, se puzzasse di alcool o fumo, ma non ne ebbe il tempo.
Nel momento in cui il cancello si spalancò, sentì solamente le mani fredde di Carl sul suo collo e le sue labbra screpolate sulle sue. Avrebbe voluto respingerlo, avrebbe dovuto farlo, ma non ne ebbe la forza e se ne rese conto il secondo dopo che Carl premette per approfondire il bacio.
Non era uguale al primo, esattamente l’inverso.
In quel secondo bacio c’era una specie di urgenza mista alla rabbia di entrambi, perché erano incompatibili e lo sapevano benissimo. Solo che, in quel momento, non contava niente.
Margareth indietreggiò per la sorpresa, prima di portare le sue braccia attorno alla vita del ragazzo per stringerlo a sé. Era quasi qualcosa di automatico, come se le sue ossa e i suoi muscoli agissero autonomamente. Sentì improvvisamente più caldo.
Il cuore rischiava di uscirle fuori dal petto, e – sfortunatamente – era sicura che il ragazzo fosse abbastanza vicino a lei da sentirlo chiaramente.
Il bacio durò relativamente poco, e quando Carl si separò da lei ebbe quasi paura di parlare. Paura di dire qualcos’altro che avrebbe potuto scatenare una seconda discussione, per poi far finire tutto peggio della prima volta.
Non disse niente, non ebbe neanche la forza di guardarlo negli occhi. Semplicemente abbassò per l’ennesima volta lo sguardo.
E Carl fece semplicemente la cosa più semplice e giusta che avrebbe mai potuto fare.
 ‘’Guardami’’ disse, sicuro. Con il suo profumo ad inondarle ancora le narici, Maggie alzò lo sguardo e fece incrociare i loro sguardi. Nonostante Carl fosse più alto di lei, in quel momento, le sembrava particolarmente piccolo.
‘’Dici che ti piacciono i miei occhi’’ continuò lui, imperterrito e continuando a consumarla. ‘’Non sono bravo con le parole, perciò prova a leggerli. Dimmi cosa vedi’’
Spiazzata.
Era esattamente così che Margareth si sentiva. Aveva il terrore di dire qualsiasi cosa, Carl aveva detto e fatto cose così giuste che l’ultima cosa che voleva era rovinare tutto. Continuò a guardarlo negli occhi, aveva già capito ma non disse nulla.
‘’Per favore’’ insistette Carl. ‘’Per favore, parlami’’
E Margareth, stanca, decise di accontentarlo. ‘’Ho paura di te’’ disse tutto d’un fiato, quasi come se le avesse fatto male ancor di più se detto diversamente. E Carl, stavolta, non indietreggiò. Continuò a tenerle le mani gelide sul collo, provocandole brividi non dovuti solo al freddo, e lei continuò a tenere le mani ancorate alla sua vita.
‘’Io sono…’’ sussurrò, decisa a spiegarsi meglio. ‘’Io sono tanto diversa da te. Per me le parole sono importanti, mi affeziono subito e…io non voglio soffrire ancora’’
Forse quella era stata la cosa più sincera che avesse mai detto da quando lei e Carl si conoscevano. E se lui l’avesse mandata al diavolo e se ne fosse andato, dandole della paranoica, non avrebbe rimpianto niente perché era stata se stessa, ed era stata sincera.
Ma il ragazzo, immobile, non si mosse nemmeno allora.
‘’E sei così sicura che ti farò soffrire?’’
‘’Sarebbe inevitabile’’
‘’E non vuoi darmi neanche una possibilità?’’
Fu quella domanda a spiazzarla e sconvolgerla più di tutte. Una possibilità? Davvero gli piaceva? Cercò di mascherare il suo stupore in autocontrollo e ‘’tu la vuoi?’’ domandò.
‘’Fidati’’ le rispose.
‘’Tanto non mi sarei fatta risarcire i danni comunque’’ sorrise.
 
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Si accasciò a terra e vomitò.
Aveva iniziato ad odiare il bagno di casa sua, le sue mattonelle blu asettiche, l’odore di dopobarba che si confondeva con quello del sangue, quello specchio che rifletteva un’immagine che non riconosceva più come sua, né aveva qualche speranza di tornare a farlo.
Lo stomaco era stretto in una morsa violenta, il corpo scosso da tremori inevitabili, mentre una sensazione di tranquillità e calma – quella tanto cercata e desiderata – si faceva pian piano strada sotto la sua pelle.
Si ripulì le labbra con la manica della felpa nera – che forse era di Cam, o forse la sua, manco se lo ricordava – e si alzò da terra.
Le forze erano flebili e effimere, ma le sentiva aumentare sempre di più. Si passò una mano fra i capelli biondo platino e cercò di dargli una forma alquanto decente.
E si guardò allo specchio.
Si sentiva improvvisamente elettrico ed euforico, non riusciva neanche più a ricordare il motivo per cui precedentemente si fosse sentito così triste e malinconico, né il motivo per cui si era ripromesso di non specchiarsi mai più. In quel fugace istante, il suo riflesso gli piacque.
Trovava i suoi capelli particolarmente lucenti, quella mattina, e le occhiaie che lo contraddistinguevano molto meno marcate.
Sorrise, e non gli uscì per niente un sorriso distorto.
Non riusciva a ricordare niente di deprimente o drammatico, la sua mente si era completamente svuotata, come se – vomitando – avesse buttato fuori tutti i mostri che aveva in corpo.
L’unica immagine che era – fortunatamente, si sentiva di dire questa volta – rimasta vivida nella sua testa era quella di una ragazza bionda e sorridente, con una fossetta sulla guancia destra e un maglione slabbrato quasi quanto quello che portava addosso lui in quel momento.
E non aveva nessun ricordo, meno che uno. Un solo ricordo bello e piacevole, che lo portava a sorridere nel modo più genuino possibile. Nessun incidente, nessuna morte, nessun tunnel infinito di depressione e tristezza, e nessun ricordo in cui lui – o qualcuno a cui teneva troppo – piangesse. Solo una sola ed unica memoria piacevole, che lo convinse che – alla fine – c’era ancora qualcosa di buono.
Morgan era seduta su una panchina verde e arrugginita, i capelli erano legati in una coda di cavallo eppure tremendamente scompigliati dal vento di novembre, e si stringeva con le braccia le ginocchia al petto.
‘’Mi piaceresti tanto con i capelli scuri’’ gli aveva detto, sorridendo. Land si era sentito improvvisamente chiamato in causa, nonostante fosse stupidamente distratto da chissà cosa, e si era voltato verso di lei. ‘’Mai’’ aveva detto, serio ma per niente urtato. Normalmente se qualcuno gli avesse consigliato di farsi castano, o quantomeno scuro, se la sarebbe presa a morte, perché non c’era colore che sopportasse di meno.
Né con il quale si vedesse peggio.
Solo che vedendo Morgan che sorrideva, in quell’esatto momento, la sua rabbia era svanita nel nulla. Quasi come se non fosse mai esistita.
Il sorriso di Morgan si era allargato ancora di più, e si era avvicinata a lui – più di prima – seduto sull’altro lato della panchina. Aveva poggiato il capo sulla sua spalla e gli aveva preso la mano, e Holland allora odiava ancora qualsiasi tipo di contatto. Ma non si era mosso.
‘’Mi piaci anche così, non prendertela’’ aveva ironizzato la ragazza.
In quell’istante, nel bagno minuscolo di casa sua, Holland non ricordava più se quello fosse stato il loro primo bacio, o il secondo, o forse il terzo, ma ricordava ancora il sapore delle labbra di Morgan e la sua immensa dolcezza. Ricordava il suo profumo di rose e le sue mani fredde e sottili, come se le avesse sentite solo il giorno prima sul suo corpo.
Fu quel giorno che Holland Todd si rese finalmente conto che, forse, era possibile vivere vivendo solo i ricordi. Non era necessario costruirsi un futuro, o sfruttare a pieno il presente, per essere e sentirsi soddisfatti. Anche ricordare, rivangare il passato e ripeterlo nella propria mente, era un modo per sentirsi vivi. E magari vivere.
Quando il suo cellulare, sul ripiano del lavandino, squillò interruppe improvvisamente i suoi pensieri. Non lesse il nome sullo schermo, rispose e basta. ‘’Sì?’’
‘’Holland ho urgente bisogno di parlare con qualcuno’’ la voce di Laurine suonava rotta e tremante, con una vena di fretta che a Land non scappò. ‘’Ti prego, vieni a casa’’
Non rispose, terminò la chiamata e posò il telefono nella tasca del jeans. Si sciacquò velocemente la faccia e uscì dal bagno, diretto a casa di quella che aveva sempre considerato una sua amica.
La siringa vuota giaceva sul lavandino, e gli pareva che stesse addirittura sorridendo.
Hai vinto, pensò.
 
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Aveva agito senza pensare, parlato come se non fosse lui a regolare le sue parole. Era a casa, rientrato da molto ma senza aver dormito neanche un poco, steso sul letto e con un terribile mal di testa che aveva deciso di non lasciarlo in pace.
Il volto di Margareth tornava a far capolino fra i suoi pensieri, e si sentiva quasi sfinito.
Per la prima volta dopo tanto tempo, si era fatto trascinare dall’istinto ed aveva agito senza pensare a niente, nemmeno – e soprattutto – alle conseguenze.
Margareth l’aveva salutato con un bacio sulla guancia ed era rientrata nella sua villa immensa, forse in quel momento lei si stava torturando come lui. Carl non era pentito di ciò che aveva detto, e se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, avrebbe rifatto esattamente le stesse cose.
Eppure aveva una specie di paura che gli attanagliava l’intestino, e non lo faceva respirare. La paura di non riuscire a gestire la situazione, lui che di relazioni o cose simili non ne sapeva proprio niente. Paura di deludere Margareth, che – alla fine – meritava tutto meno che quello. O forse la sua paura più grande era semplicemente quella di non essere abbastanza per lei, paura che se Marge fosse venuta a conoscenza del suo passato e della sua vita nel Bronx l’avesse lasciato. In tutti i sensi in cui una persona si poteva lasciare. E Carl, anche se sembrava, non era né stronzo né insensibile. Cosa avrebbe dovuto fare, adesso?
E domani?
Prese il suo iPhone e chiamò la prima persona che gli era venuta in mente, e che – era sicuro – ci sarebbe stata anche alle dieci di mattina.
Zayn, nonostante fosse in Inghilterra e quindi ci fosse il fuso orario, rispose al terzo squillo.
‘’Che cazzo è successo, ora?’’
La sua voce era ovattata ed assonnata, probabilmente stava ancora dormendo. Tipico di lui, dopotutto. E Carl trovò le parole giuste per raccontargli tutto dall’inizio, anche se Zayn conosceva di nome Margareth e credeva di conoscere i sentimenti di Carl.
Alla fine del racconto sbuffò e ‘’io lo sapevo’’ disse, soddisfatto.
‘’Si ma ora cosa dovrei fare?’’ Carl non gli aveva mai chiesto nulla del genere, ma Zayn era fidanzato con sua sorella da due anni, e Diana non era la persona più facile del mondo. Qualcosa avrebbe sempre potuto dirgli, e lui non aveva per niente voglia di restare a secco dopo essersi esposto così tanto. Zayn, evidentemente capendo quanto fosse costato all’amico esporre i suoi sentimenti, trovò qualcosa di sensato e coerente da dire.
‘’Tu fai tutto quello che ti dico io’’ sorrise dall’altro lato del mondo.

 
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‘’Mia madre, tre mesi fa, ha portato il suo compagno a vivere da noi’’
La voce di Laurine era, se possibile, ancora più monocorde di come era apparsa ad Holland per telefono.
Casa sua era vuota, quella mattina, ed erano seduti su un semplice divano a due posti color senape. Laurine sembrava distante anni luce, non solo da lui ma da ogni singola cosa, come se fosse costantemente teletrasportata in un altro posto.
Era dimagrita, non aveva lo smalto e Holland era abbastanza sicuro di non averla mai vista senza le unghie di qualche colore improponibile.
Quando Laurine sospirò per la centesima volta, continuando imperterrita a torturarsi le mani, Land prese la parola. ‘’Non devi dirmelo per forza’’ cercò di calmarla, perché era palese che stesse facendo una fatica inumana.
Holland stava cercando di darsi un contegno, di cercare di non tremare e non sorridere senza motivo, però gli risultava più difficile del previsto. I muscoli parevano voler sfuggire al suo controllo, e si odiò come mai prima di allora.
‘’A me quel Thomas non era mai piaciuto’’ continuò Laurine. ‘’Ma vedevo mia madre felice dopo tanto tempo, dopo la morte di mio padre, e io… io non me la sentivo di dirle di cacciarlo via’’ singhiozzò.
Solo in quel momento Land si rese conto che Laurine aveva preso a piangere, in modo così silenzioso e contemporaneamente disperato che gli fece paura. Non l’aveva mai vista così.
‘’Quella sera mia madre mi chiamò e mi disse che sarebbe tornata tardi da lavoro’’ sussurrò, guardandosi la punta dei piedi nudi. ‘’Io preparai la cena per me e Thomas e, dopo, salii in camera’’
A quel punto si bloccò e prese a piangere ancora più forte, coprendosi il volto con le mani e incurvandosi sulle spalle. Holland si avvicinò quasi di riflesso, e la strinse a sé. In un’altra situazione Laurine si sarebbe scollata, ma quella volta restò immobile, continuando a piangere e a singhiozzare. ‘’Shh’’ le sussurrò Land, poggiando il mento sul capo della ragazza. ‘’Va tutto bene, Lau’’
‘’Non sono una stronza’’ parlò a malapena, essendo scossa dai singhiozzi. ‘’Non avrei mai tradito Cameron di mia spontanea volontà. Non mi sarei mai fatta mettere incinta da un altro’’
Ed Holland aveva già capito, eppure sentiva il bisogno che lo dicesse lei. Forse l’avrebbe aiutata a superarlo almeno in parte, o forse no, ma aveva necessità di sentirla parlare. ‘’Cosa ti ha fatto?’’ le chiese, seppur conoscendo già la risposta. ‘’Cosa ti ha fatto questo Thomas?’’
Laurine non ripose alla sua domanda, continuando a piangere, ma Holland sentì chiaramente che si strinse di più a lui, premendo le unghie lunghe nella sua carne.
E lui ricambiò la stretta, pronto a dirle qualcosa – qualsiasi cosa – quando la porta si spalancò.
Voltò lo sguardo, sentendo sotto le sue dita Laurine diventare tesa come la corda di un violino, e lo vide. Un uomo sulla cinquantina, con i capelli neri spruzzati di bianco e un fisico fin troppo asciutto. Indossava un semplice pantalone nero.
‘’Laurine sono a casa e…’’ disse, fermandosi all’improvviso. Davanti a lui Laurine aveva smesso di piangere ma non lo guardava neanche negli occhi, mentre Land si era alzato quasi come se volesse fare da scudo alla ragazza.
‘’E tu chi sei?’’ chiese Thomas, con un tono così fintamente cordiale che ad Holland venne da vomitare davvero.
‘’Piacere, io sono T…’’ iniziò, ma prima che potesse finire la frase si ritrovò violentemente a terra.
Le nocche di Land presero a bruciare quasi subito, mentre la voglia di dargli un altro pugno – ancora più forte del primo – si faceva lentamente strada nel suo corpo.
‘’Io ti ammazzo’’ ringhiò, nello stesso momento in cui Laurine lanciò un urlo.
 
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Cam baciò quella che, probabilmente, doveva chiamarsi Karen per la terza volta. O forse era la quarta?
Le luci ad intermittenza della discoteca gli permettevano di vedere poco o niente, ma le bionde gli erano sempre piaciute particolarmente. Karen, o era Karina?, aveva portato le sue mani piene di anelli dietro il suo collo, stringendolo palesemente di più  a se.
Cam non riusciva a ricordare nulla a parte i cinque cocktail che si era scolato, o forse erano sei?, e a parte quella ragazza che non aveva fatto altro che fissarlo insistentemente appena lui aveva messo piede al Clover con i suoi amici.
La musica rimbombava a volume altissimo nelle sue orecchie, mentre prendeva ad accarezzare i fianchi della bionda della quale – si era arreso – non sarebbe mai riuscito a ricordare il nome.
Si avvicinò ancora di più a lei e la trascinò giù dallo sgabello blu sulla quale era seduta. Non sembrò per niente spaesata.
Cam chiese al barista le chiavi del privè, e – sorridendo – iniziò a camminare verso di esso. La ragazza era fedelmente dietro di lui, mentre sogghignava soddisfatta.
E Cam non si sentì neanche un po’ in colpa.
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Ciao a tutte <3
Dico in anticipo che vado di frettissima, ho ancora da studiare e sono le cinque HAHAHAH 
((ridiamo per non piangere...))
Detto ciò, che ne dite di Marge e Carl? Come credete che andrà a finire? E cosa pensate dei loro comportamenti?
Sono tanto curiosa di conoscere le vostre opinioni :)
Spero abbiate passato un bel fine settimana e spero che passiate una settimana ancora migliore!!
Scusate se mi eclisso così, ma devo davvero andare ahaha
Un bacio, a presto xx
Harryette

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Capitolo 13
*** 12- Storm ***


 
j
 

| Capitolo Dodicesimo |
Storm
 
‘’Come mai sei così allegra oggi?’’ le domandò Robyn, mentre camminavano – in silenzio – per il corridoio, dirette verso l’uscita.
Il lunedì era un giorno relativamente pesante per entrambe, per questo motivo – quando finalmente avevano la possibilità di mettere la testa fuori dall’aula – nessuna delle due aveva la forza e la voglia di parlare.
Tuttavia Margareth si era svegliata dal lato giusto del letto, quella mattina. Aveva sorriso tutto il tempo e non aveva fatto altro che rilasciare cordiali saluti a mezza popolazione dei corridoi scolastici, cosa che non faceva quasi mai per via della sua timidezza.
E anche mentre si dirigeva verso casa, non poteva fare a meno che sorridere lievemente. Robyn, ovviamente, se ne era accorta.
Maggie scrollò le spalle, ritornando seria e fingendo di non conoscere il motivo di tanta leggerezza d’animo. La verità, però, era ben diversa. Lo conosceva eccome, quel motivo, solo che non aveva neanche il coraggio di ammetterlo a se stessa.
L’avrebbe resa immensamente felice poterne parlare con qualcuno, ma sapeva fin troppo bene che Robyn non l’avrebbe mai capita. Anzi, l’avrebbe addirittura criticata e reputata pazza, senza contare che – in qualsiasi momento – sarebbe stata capace di confessare tutto ai rispettabili signori Grey. E quest’ultima, era una cosa che Margareth voleva assolutamente evitare. Non avendo nessun altro di così vicino né tantomeno un tantino più comprensivo, aveva così deciso che avrebbe tenuto tutto per sé. Magari l’avrebbe aiutata a crescere e a credere di più in se stessa.
Così, ‘’niente, sono solo di buon umore’’ rispose.
Robyn non ci credette neanche un po’, perché Margareth la conosceva fin troppo bene e quel cipiglio fra le sopracciglia la raccontava lunga. Tuttavia scrollò le spalle anche lei e riprese a camminare, in silenzio, bramando di tornare a casa e mangiare. Stando a quanto aveva detto, Robyn aveva una fame da lupo perchè non aveva fatto in tempo a fare colazione.
Uscirono dalla Spence School quasi per ultime, ed un flebile raggio di sole le aggredì. A New York il sole c’era pochissime volte, alternato alla nebbia, ma quella mattina il cielo pareva essere abbastanza clemente.
La pelle di Robyn sembrava ancora più mulatta e perfetta alla luce, così come i suoi occhi color caramello. I capelli ricci e scuri non erano l’unica cosa che Maggie aveva sempre invidiato di lei. Robyn sorrise, dando spazio a quella dentatura che lei si ostinava ad odiare pur essendo perfetta, e sospirò. ‘’Che bella giornata’’ aggiunse.
E fu proprio mentre Margareth stava per annuire, che volse lo sguardo dietro al cancello della scuola e vide ciò che aveva sperato di vedere. Anche se non ci aveva messo più di tante speranze.
Carl era sulla sua moto, proprio come un giorno di qualche tempo prima, con le mani salde sui freni. Non l’aveva ancora vista, evidentemente, perché il suo sguardo era rivolto verso la strada davanti. Per quello che Margareth aveva dedotto, avendo quest’ultimo gli occhiali da sole.
Si risvegliò dal suo incanto solamente quando Robyn le lasciò un leggerissimo bacio sulla guancia. ‘’Il mio autista è arrivato’’ le spiegò. ‘’Ci vediamo domani’’
Margareth sorrise con la testa altrove, vedendo l’amica allontanarsi e salire su una limousine bianca e brillante. Tuttavia non ci pensò più di tanto, perché il suo sguardo si era spostato di nuovo sul ragazzo che si trovava ad un kilometro scarso da lei. Le sarebbe bastato scendere le scale di marmo e, con quattro falcate, attraversare la cancellata, per raggiungerlo e salutarlo. Ma rimase immobile perché, proprio quando aveva voltato lo sguardo, aveva notato che lui la stava già fissando.
La stava aspettando.
Il panico entrò in possesso di ogni fibra del suo corpo. Che cosa avrebbe dovuto fare? La situazione peggiorò quando, qualche istante più tardi, si rese conto che dal lato opposto della strada c’era la limousine nera di George.
La stava aspettando anche lui.
Non si mosse di un solo passo, mentre nella sua mente continuavano ad articolarsi pensieri di ogni genere e mentre si domandava perché diamine, quella volta, George non avesse fatto il solito ritardo.
Carl, intanto, continuava a fissarla interrogativo ed ignaro della battaglia che si stava svolgendo nella mente di Maggie, anche se lei ricambiò il sorriso. Se fosse andata con Carl, George l’avrebbe sicuramente vista e l’avrebbe detto ai suoi genitori. Se fosse andata con George, Carl avrebbe pensato sicuramente le cose più assurde e avrebbe creduto che a lei non importasse niente. In quel caso, non avrebbe neanche potuto salutarlo perché George l’avrebbe vista. Avrebbe dovuto semplicemente ignorarlo.
In cuor suo l’aveva sempre saputo che, prima o poi, sarebbe arrivato il momento in cui le ‘’due Margareth’’ sarebbero entrate in collisione, e il risultato non sarebbe stato che una tremenda tempesta. Aveva sempre saputo che le due vite che stava conducendo, quella che la faceva sentire libera e che voleva vivere e quella che la opprimeva e che doveva vivere, si sarebbero scontrate. Solo che sperava non fosse così presto.
Sospirò.
Ricordò le parole di Morgan, che poi erano diventate anche quelle di Carl, e prese una decisione. Quella che non avrebbe sicuramente preso se si fosse trovata in quella situazione solo qualche mese prima.
Prese il cellulare e mandò un messaggio a George, dicendo che sarebbe andata da Robyn, sperando che lui non l’avesse già vista.
Poi scese di corsa le scale, sentendosi ancora più leggera di quanto già non fosse, e raggiunse Carl.
Lui le sorrise e le porse un casco, lo stesso della volta precedente, mentre le faceva segno di salire senza neanche dirle dove erano diretti. Maggie si diede della stupida per tutte le domande che si era fatta su come avrebbe dovuto salutarlo o su cosa avrebbe dovuto dire. Avrebbe dovuto immaginare che, con Carl, non ci sarebbe mai stato posto per le parole né per l’imbarazzo.
 
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Holland, steso sul letto con un singhiozzo fastidiosissimo, aveva preso a guardare il soffitto bianco come se fosse stata la cosa più interessante di sempre.
Per tenere occupate le mani ed evitare di grattarsi fino a graffiarsi la pelle, come gli succedeva sempre più spesso, aveva preso a far girare l’anello attorno all’anulare. Non stava pensando a niente, finalmente, e la cosa non poteva che fargli piacere.
Quando sentì la porta aprirsi e richiudersi, al piano di sotto, non si domandò nemmeno se fosse Carl o Cam. Gli era indifferente, in quel momento. Le nocche erano ancora rosse per i tre pugni che aveva dato a quello stronzo del patrigno di Laurine, fino a che lei non l’aveva fermato e l’aveva obbligato ad uscire, in lacrime. Normalmente non sarebbe uscito oppure, se anche l’avesse fatto, avrebbe preso a torturarsi su cosa avrebbe potuto fare per aiutare l’amica o su cosa stesse facendo lei in quel momento.
Ma, fortunatamente o meno, non stava pensando a niente.
Quando la porta di camera sua si spalancò ebbe la certezza che si trattasse di Cam. Carl, solitamente, non entrava mai nella sua stanza senza preavviso. All’inizio, Land credeva fosse per educazione. Solo dopo aveva capito che Carl, dell’educazione, non poteva fregarsene di meno. Gli avrebbe semplicemente dato fastidio se fosse entrato e avrebbe trovato Holland con una siringa piantata nella vena sporgente, tutto qui.
‘’Si può sapere che cazzo di fine hai fatto?’’ ringhiò il moro. ‘’Ti sei per caso dimenticato che ieri dovevamo andare in discoteca insieme?’’
Holland trattenne la solita risata inopportuna, che non era qualcosa di volontario, e scosse la testa. Quella fu la sua risposta, anche se neanche lui sarebbe riuscito a dargli un senso.
Cameron capì immediatamente, perché si sedette sul letto accanto a lui con un’espressione tutt’altro che amichevole o giocosa.
Un’espressione che Land conosceva ed aveva visto fin troppe volte.
Gli afferrò un polso, che pareva quasi corroso e sottile fino all’inverosimile, e glielo strinse così forte che – nel pieno del suo relax e della sua apatia – Holland non potè fare a meno di spalancare gli occhi.
‘’Sei un coglione’’ urlò Cameron, e Land sarebbe sobbalzato se ne avesse avuto la voglia. Voleva solo dormire, in quel momento, e delle prediche del migliore amico non gliene fregava un cazzo. ‘’Ma dimmi un po’, hai davvero intenzione di ucciderti?’’
Nel profondo, Holland sapeva benissimo che l’unico motivo per cui – nell’ultimo anno – il suo rapporto con Cam si era inclinato tantissimo e per cui litigavano e si prendevano a pugni praticamente sempre, era che Cameron ci teneva. Non si sarebbe fatto – inutilmente, tra l’altro – il sangue amaro con lui, se non ci avesse tenuto almeno un quarto. Non gli avrebbe gridato in faccia le parole peggiori, solo per scuoterlo e riportarlo a galla. E, sopra ogni cosa, se non ci avesse tenuto l’avrebbe lasciato in pace quando Land gli aveva detto che non voleva e non aveva bisogno di essere salvato.
Ed invece era ancora lì, con le pupille scure iniettate di rabbia e il polso del biondo che quasi si stritolava sotto la sua presa ferrea.
‘’Ma vuoi smetterla di farti di quello schifo?’’ ringhiò ancora, cercando una reazione che – sapeva anche lui – non sarebbe arrivata. Quando vide che Holland non aveva intenzione di dire né fare niente, e capì che sarebbe rimasto lì immobile, gli mollò il polso e si alzò dal letto.
Prese a percorrere il perimetro della stanza del ragazzo a grandi passi, mentre si passava le mani sul volto con fare disperato. Holland lo stava guardando impassibile e – in quel momento più che in qualunque altro – si sentì in colpa. Cam soffriva per Laurine ogni singolo secondo, e lui non sapeva far altro che caricarlo ancora di più di dolore.
‘’Smetterei solo per te’’ riuscì a dire, anche se la voce gli uscì fuori più roca del solito. ‘’Se solo potessi, smetterei solo per farti stare meno male’’
Cameron portò lo sguardo su di lui con una lentezza esasperante, mentre lasciava le braccia cadere lungo i fianchi e rimaneva in silenzio. Non si aspettava alcun tipo di reazione, e le parole di Land scalfirono tutti i muri che stava cercando di costruire.
‘’Io non ce la faccio più’’ disse, ancora con rabbia. ‘’Holland, Cristo Dio, mi stai esasperando’’
Land sogghignò, ma era un sogghignò così triste che Cam non riuscì neanche a prendersela. Avrebbe voluto solamente mollargli un pugno sui denti, e l’avrebbe fatto se non avesse saputo che sarebbe stato schifosamente inutile.
‘’Credi che qualcuno, sulla faccia della terra, non abbia problemi?’’ continuò Cameron, sperando che l’amico almeno lo ascoltasse dal momento che non aveva intenzione di aggiungere altro. ‘’Ognuno ha la sua croce, e io non so più in che lingua dirtelo’’ sospirò. ‘’Io mi sento una merda, la persona che più amo al mondo mi ha tradito spudoratamente rischiando di rimanere incinta. Non vedo i miei genitori da cinque anni, perché sono scappato di casa. Non ho più un lavoro e non ho neanche la forza di cercarne un altro, sono stanco. E il mio migliore amico sta morendo davanti ai miei occhi’’ scosse la testa, incenerendolo con lo sguardo. ‘’Eppure non mi ficco nessun tipo di ago nella carne, lo sai questo? Così risolvi i tuoi problemi solo perché crepi’’
Holland parlò per la seconda volta, sorprendendo entrambi. ‘’Mi dispiace’’ disse solo, prima di chiudere gli occhi. Ma Cam sapeva fin troppo bene che, in quell’istante, stava facendo di tutto meno che dormire.
‘’Ti dispiace?’’ sorrise amaramente. ‘’Dispiace anche a me’’ scrollò le spalle, prima di prendere un ultimo respiro. ‘’Mi dispiace che siano morti i tuoi genitori, quella notte, e mi dispiace che credi che sia stata colpa tua. Non guidavi tu la macchina che si è schiantata su di loro, Holland. Solo perché sei stato l’unico a sopravvivere, non vuol dire che tu sia colpevole’’
‘’Avrei potuto fare qualcosa’’ sussurrò, quasi impercettibilmente, ad occhi ancora chiusi. ‘’Avrei potuto urlare quando ho visto i fari di quella macchina che veniva contromano. Papà se ne sarebbe accorto e avrebbe fatto manovra in tempo, anche se si era voltato a prendere la cartina geografica’’
E quella era stata la frase più lunga che Holland avesse mai pronunciato riguardo quella notte di cinque anni prima, la stessa notte che lui si ostinava a coprire e dimenticare. Probabilmente sarebbe stata anche l’ultima.
‘’Non è stata colpa tua’’ ripetè Cam, con molta più sicurezza di prima.
‘’Tu dici?’’ e c’era un sorriso malinconico che increspava le labbra di Land, qualcosa che non passò inosservato al moro.
‘’Lo sai che è così’’ sospirò. ‘’E mi dispiace anche che Morgan sia morta. Mi dispiace che tu ti stia ancora chiedendo perché non ti abbia mai detto che era malata e mi dispiace che Carl si sia interessato proprio a sua sorella’’
Land, questa volta, sorrise in modo quasi divertito e sornione. ‘’Per me, Morgan non conta più niente’’
 
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‘’Mangia’’ ed era imperativo.
Margareth si trovava davanti all’hamburger più grande che avesse mai visto. Spalancò gli occhi nello stesso momento in cui Carl sorrise. ‘’Dovresti vedere la tua faccia in questo momento’’ affermò, addentando il suo panino ancora più grande.
‘’Ma non ce la farò mai a finirlo tutto’’ si lamentò Maggie, guardando con aria supplichevole. ‘’E poi non ho poi così tanta fame’’
Carl roteò gli occhi al cielo e ‘’come fai a non avere fame dopo sei ore chiusa in una scuola opprimente?’’ le domandò.
La timidezza e la soggezione che Margareth aveva provato all’inizio erano scomparse quando erano scesi dalla moto nera e Carl le aveva sorriso. ‘’Sei agitata?’’ le aveva chiesto, leggendoglielo forse negli occhi blu, con un tono leggermente ironico.
‘’C-cosa?’’ aveva balbettato lei, dando praticamente una risposta affermativa indiretta. E Carl aveva sorriso una seconda volta, passandole un braccio attorno alle spalle esili e tirandola verso di se. ‘’Ti metto in soggezione, per caso?’’ le aveva sussurrato fra i capelli biondi, e lei si era sentita avvampare per troppi motivi. Partendo dalla voce roca del ragazzo, per finire con la loro ridicola distanza. Ma aveva cercato di darsi un contegno ed aveva balbettato un ‘’ti piacerebbe’’ che non era risultato comunque credibile.
La realtà era che non la metteva per niente in soggezione da quando aveva imparato a conoscerlo meglio, ma la faceva semplicemente sentire piccola. Era qualcosa che Margareth non era ancora riuscita a classificare, quella strana sensazione che aveva alla bocca dello stomaco ogni volta che erano vicini. Forse era semplicemente qualcosa di nuovo per lei.
Erano andati al McDonald’s solo perché Carl aveva detto che lì c’erano i cibi più calorici del mondo. E che lei era troppo magra. Margareth era stata felice perché si sarebbe sentita meno in imbarazzo fra la gente e perché non avrebbe saputo cosa dire se Carl avesse pensato a qualcosa di più formale.
Ed ora erano seduti l’uno davanti all’altra, con degli hamburger enormi sul vassoio e una quantità sproporzionata di patatine fritte e gelato alla vaniglia. Lo stomaco di Maggie si restrinse al solo guardare tutto quel ben di Dio.
‘’Hai intenzione di contemplarlo per tutto il tempo?’’ domandò Carl, indicando il panino della ragazza.
‘’E’ che…’’ iniziò lei, grattandosi il capo con fare imbarazzato. ‘’Non sono…abituata a tutta questa roba’’
Carl sogghignò proprio come faceva ogni volta che Maggie diceva qualcosa di stupido. E difatti: ‘’Vuoi farmi credere che a casa del sindaco di New York si mangia meno di così?’’ ironizzò.
Margareth sorrisa apertamente e nel modo più sincero che conoscesse, mentre scuoteva la testa. ‘’No, voglio semplicemente dirti che solitamente non mangio a pranzo’’
Lo sguardo di Carl parve diventare più dubbioso o forse più duro, ma comunque non disse né fece niente per confermare quell’ipotesi. Anzi, scrollò le spalle e sorrise. ‘’Non sei a casa tua, adesso’’ rispose, a suo agio. ‘’Sei con me. Quindi mangia’’
Margareth non potè fare a meno di guardarlo estasiata, perché mai nessuno prima di allora aveva preso – apparentemente, almeno – così a cuore la sua salute fisica. Gli regalò un altro sorriso a trentadue denti, giusto perché non avrebbe potuto farne a meno. E anche perché non sapeva cos’altro aggiungere, dato che il commento di Carl era fondato e giusto.
Prese il panino, in panico per la sua enormità, e gli diede un morso. Seppur fosse microscopico, era pur sempre un morso. ‘’E se mi sporco con la maionese?’’ chiese a Carl, spaesata, dal momento che era stata al McDonald’s l’ultima volta quando aveva sette anni. E di nascosto dai genitori.
Carl scosse la testa, esasperato. ‘’Me lo stai chiedendo seriamente?’’ sorrise.
Per evitare che Carl continuasse a guardarla divertito per come aveva scelto di mangiare l’hamburger, e cioè spezzettandolo prima sul vassoio, Margareth decise di distrarlo almeno un minimo.
‘’Allora’’ iniziò, concentrata contemporaneamente a mangiare e ad osservarlo. Quanto poteva essere bello? ‘’In tutto questo tempo, mi hai vista mentre tentavo il suicidio, mi hai tirata fuori dalle grinfie dei giornalisti e ti ho praticamente raccontato cose che non sa nessuno’’ sorrise, cercando di far sembrare stupido tutto quello che aveva appena detto. ‘’Ed io, invece, non so assolutamente niente di te’’
Carl, che aveva già finito il suo hamburger e aveva preso a mangiare di tanto in tanto qualche patatina, la guardò sornione. ‘’Dimmi cosa vuoi sapere’’ rispose, pragmatico.
Perché doveva sempre rendere tutto più complicato?
L’ultima cosa che Maggie voleva era chiedere qualcosa di sbagliato e farlo innervosire, come era già successo precedentemente.
‘’Ti diverti a mettermi in queste situazioni, eh Carl?’’ scherzò.
Lui scrollò le spalle, ma il sorriso divertito che spuntò sul suo volto fu una risposta più che eloquente. Sapendo che non le avrebbe detto niente se lei non avesse chiesto, decise di farsi coraggio ed accettare la sfida.
Mentre si portava un pezzo di panino alle labbra, chiese: ‘’come mai ti sei trasferito a New York?’’
Carl sembrò pensarci un po’ su, prima di rispondere. ‘’Perché non sentivo il Bronx casa mia’’ disse, saggiamente. E a Margareth bastò.
‘’Va bene e…’’ pensò. ‘’I tuoi genitori?’’
Quella domanda parve destabilizzarlo, ma tentò di non perdere il controllo e di trovare una risposta sintetica e coerente. ‘’Mia madre è morta prima ancora che potessi conoscerla, e mio padre è in carcere’’
Tanto prima o poi avrebbe dovuto dirglielo.
Margareth non ne sapeva niente e, ovviamente, oltre che essere dispiaciuta per la domanda sin troppo personale si domandò anche come mai il padre di Carl fosse dietro le sbarre.
Non glielo avrebbe mai chiesto, comunque, perciò si affrettò ad annuire e a fare un’altra domanda. Ma venne interrotta.
‘’Non vuoi sapere perché?’’ le chiese Carl, enigmatico.
Maggie ci pensò. Avrebbe voluto saperlo, e anche molto, ma non voleva assolutamente risultare invadente o prevenuta. Voleva dimostrare a Carl che non era come i genitori e che non aveva alcun tipo di pregiudizio, che credeva che lui fosse una brava persona e che non le importava di nient’altro.
‘’No’’ rispose, semplicemente. ‘’Qual è il tuo colore preferito?’’
 
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Laurine gli era praticamente ad velo d’aria di distanza, eppure non le era mai parsa così lontana.
‘’Perché non me lo hai detto?’’ le domandò Cam, con un groppo alla gola. Quando Laurine aveva aperto la porta e se lo era ritrovato davanti, le era venuta di nuovo quell’odiosa voglia di piangere.
Capì che Holland gli aveva parlato quasi subito, e capì anche che – probabilmente – ne aveva parlato proprio al biondo perché, inconsciamente, sapeva che glielo avrebbe riferito.
‘’Perché mia mamma sembra felice’’ ruppe il silenzio. ‘’E perché tu l’avresti ammazzato di botte senza manco accorgertene’’
‘’Sono ancora in tempo’’ disse prontamente Cameron, anche se non ne aveva per niente voglia. Non in quel momento, almeno.
‘’Anche se ti chiedessi di non farlo?’’ domandò la rossa, guardandosi la punta delle pantofole. Non era mai stata imbarazzata con Cam, neanche all’inizio della loro storia infinita, ma quella situazione era totalmente differente. Non riusciva a guardarlo negli occhi neri, e sapeva che la cosa era reciproca.
‘’Posso…’’ balbettò Cam. Neanche lui era mai risultato insicuro sulle parole che aveva intenzione di pronunciare. ‘’Posso abbracciarti?’’
E solo allora Laurine spalancò la porta e si fiondò fra le sue braccia.
Scoppiò a piangere, mentre lui le accarezzava i capelli in modo quasi doloroso.
 
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Quando Carl accompagnò Margareth a casa erano quasi le otto.
Non la portò precisamente sotto casa sua, sotto richiesta della ragazza, ma a qualche isolato prima.
Neanche a lui avrebbe fatto piacere essere visto dai suoi genitori, comunque. Era qualcosa che preferiva evitare il più a lungo possibile.
Margareth scese dalla motocicletta qualche istante dopo che Carl spense il motore, togliendosi lentamente il casco. Inutile dire che, in quel momento, il suo imbarazzo crebbe fino alle stelle. La sua insicurezza la portava continuamente a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare, cosa avrebbe dovuto dire e come avrebbe dovuto comportarsi.
Si limitò a porgere il casco al ragazzo, che lo legò al freno destro prima di togliere anche il suo.
‘’Grazie’’ disse Maggie, rompendo improvvisamente il silenzio che si era creato. Le parole erano uscite fuori dalle sue labbra senza che se ne potesse neanche rendere conto, in automatico. ‘’Per il pomeriggio e per l’hamburger, anche se ora sento che sto per scoppiare’’ sorrise.
Solo in quel momento Carl scese dalla moto e le si avvicinò. Forse troppo. Tuttavia non la sfiorò neanche con un gito, limitandosi ad osservarla divertito. ‘’Stai sicura che non esplodi per un panino e per le due patatine che hai mangiato’’ scherzò, roteando gli occhi.
Margareth aveva scoperto che il colore preferito di Carl era il blu cobalto, che al sole i suoi occhi diventavano quasi trasparenti – come aveva potuto notare dopo la passeggiata seguente al pranzo -, che odiava la musica pop e che apprezzava molto di più quella techno. Aveva scoperto anche che era allergico alle nocciole, e quindi non sapeva neanche che sapore avesse la nutella, e – cosa che l’aveva sconvolta abbastanza – che leggeva poesie.
Ma non era ancora riuscita a prevedere i suoi movimenti, nonostante lui – con lei – ci riuscisse più che bene.
‘’Grazie lo stesso, comunque’’ sorrise ancora Margareth, stavolta in modo molto cordiale. Non avrebbe voluto lasciarlo: non perché le sarebbe mancato o altro, semplicemente perché con lui si sentiva se stessa.
‘’Di niente’’ ricambiò il sorriso. ‘’Quando vuoi’’
Proprio quando stava per voltarsi, Margareth parlò di nuovo. ‘’Ricordi quello che mi dicesti quella sera, sullo skyline di New York?’’ gli domandò, seria. Forse Carl non l’avrebbe neanche ricordato, perché per lui doveva essere stata una frase come un’altra, ma aveva deciso di tentare ugualmente.
‘’Sì’’ rispose, sorprendendola. ‘’Non permettere mai a nessuno di dirti cosa devi fare e chi devi essere. Giusto?’’
Maggie trattenne un sorriso ed annuì prontamente. ‘’Voglio soltanto prometterti che ci proverò’’ affermò, sicura come mai. Poi sorrise e si avvicinò lentamente a Carl, che era ancora poggiato con la schiena alla moto spenta, lasciandogli un bacio umido sulla guancia. Immediatamente sentì le mani del ragazzo afferrarle delicatamente i fianchi e tenerla più vicina.
Il cuore di Margareth prese a battere così furiosamente che ebbe paura che perfino lui potesse sentirlo ed accorgersene. Maggie, essendo bloccata dalle mani possenti di Carl, poggiò la testa sulla sua spalla e venne investita dal suo odore.
‘’Lo so’’ le sussurrò fra i capelli Carl, continuando a tenerla vicina. ‘’Lo so che ci proverai’’
Visto che, comunque, lui pareva non avere intenzione di lasciarla andare, Margareth lo abbracciò. Carl ricambiò l’abbraccio quasi subito, stringendola ancora più forte. Poi si separò da lei e sorrise. ‘’Buonanotte, Marge’’ le sussurrò, ad un centimetro dalle sue labbra.
Margareth si ritrovò a pregare che la baciasse, perché lei non ne avrebbe mai avuto il coraggio ma lo desiderava come niente al mondo.
Per questo non disse niente, né fece segno di andarsene. Continuò a guardarlo negli occhi, anche se parevano specchi, ad una distanza minima dal suo volto. Fu in quel momento che Carl comprese, o forse aveva capito dall’inizio. Sogghignò brevemente, prima di alzare gli occhi al cielo.
‘’Se vuoi baciarmi, puoi farlo’’ le disse, con aria compiaciuta. Le guance della bionda andarono a fuoco quasi subito, e per nasconderle fu costretta a guardare per terra. Questo almeno fin quando Carl non le portò un dito sotto al mento e le alzò lo sguardo.
‘’Ti sto aspettando’’ ironizzò.
E Margareth lo baciò, quasi automaticamente. 

 
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So che avrei dovuto aggiornare prima, ma questa settimana è stata un ritorno sulla terra ahaha
So che il capitolo non è niente di che, probabilmente è quello che DETESTO di più.
Il punto è che questo è, quindi ci mettiamo l'anima in pace, no? ahahah
Mi dispiace se sembra descritto di fretta, se è un clichè tremendo ma, ahimè, addolciamo la pillola.
L'ultima parte è quella che mi è più a cuore, per il semplice motivo che Margareth - finalmente-
decide di agire!! VIVA LA SFACCIATAGGINE AHAHA
Ora vi lascio e corro a studiare, ricordate che per qualsiasi cosa io sono qui.
Grazie a tutte per le recensioni allo scorso capitolo, le ho lette e mi sono commossa. 
Prometto che risponderò al più presto.
Un bacio ABNORME.
Harryette
 
 

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Capitolo 14
*** 13- It's all about bravery ***


j
 

| Capitolo Tredicesimo |
It's all about bravery


‘’Signorina Margareth’’ la voce di George suonò rindondante, mentre usciva fuori da dietro una colonna del salone, prima che Maggie avesse il tempo di salire le scale e raggiungere la sua stanza. Non lo aveva visto, precedentemente, né sentito, anche perché – alle otto di sera – sarebbe già dovuto essere a casa. ‘’Avrei bisogno di parlarle’’
Margareth sobbalzò, portandosi una mano al petto. ‘’Oddio’’ sospirò. ‘’Mi hai fatto prendere un colpo, George’’
Il corpo dell’autista si avvicinò a quello minuti della ragazza, ancora stretto in un completo elegante costituito da giacca e cravatta. Margareth ricordò di quando, da bambina, paragonasse George ad un pinguino. Le sembravano passati secoli da allora, nonostante si trattasse di poco più di otto anni.
Fu quando vide uno strano cipiglio sul volto dell’autista che ricordò ciò che, presa dall’emozione, aveva dimenticato. George era venuto a prenderla e lei non c’era stata. Gli aveva mandato un messaggio troppo tardi, e c’erano buone probabilità che l’avesse vista. Le si gelò il sangue nelle vene, e quello fu l’unico momento in cui fu felice di sapere che i suoi genitori non erano mai a casa, soprattutto in quel periodo dell’anno. Strinse le mani in pugno, mentre continuavano a sudare e mentre le dita erano diventate praticamente gelate. ‘’Dimmi pure’’ suonò cortese, come sempre, ma il suo cuore perse tre battiti. Forse quattro. E George la conosceva bene, forse perfino più di suo padre, quindi aveva sicuramente capito e intuito quanto fosse in ansia. Che l’avesse già detto ai suoi genitori? Suo padre, stavolta, non sarebbe stato tanto clemente.
George si avvicinò ancora di più a lei, cautamente, con le mani legate dietro la schiena e il volto basso. Dall’alto dei suoi sessantacinque anni, l’autista aveva sempre fatto tenerezza a Margareth e lui – a sua volta – l’aveva sempre considerata come fosse una nipote.
Certo, la sua preferita era sempre stata Morgan e non si era mai neanche curato di nascondere questa sua inclinazione, ma a Maggie non aveva mai dato fastidio. In primis perché era quello che accadeva quasi con tutti coloro che le conoscevano abbastanza bene: Morgan Grey aveva senz’altro più carattere, più polso, più sicurezza. Sapeva, ed aveva sempre saputo, che le persone sicure avevano una marcia in più. Tuttavia, dopo la morte di Morgan, le attenzioni di George si erano rivolte solo a lei.
Si sentì quasi di averlo tradito o, peggio, deluso.
‘’Non sono ancora andato a casa perché non potevo aspettare domani’’ le disse, con la solita pacatezza e il solito rispetto che lo contraddistinguevano. Maggie annuì, convinta che la sua ansia crescesse di minuto in minuto. Sapeva cosa stava per sentire, e la percorse un brivido.
‘’Chi era quel ragazzo?’’
Ed ecco la bomba, sganciata dalla persona che per ultima si sarebbe aspettata che sganciasse. Margareth, incapace di sostenere il suo sguardo, prese a consumare il pavimento.
‘’E’…’’ come avrebbe dovuto definirlo? Cosa avrebbe dovuto dire? ‘’Un mio amico’’
‘’Sa che dovrei dirlo a suo padre?’’
E quella era la seconda domanda che si sarebbe spettata facesse. In realtà, non poteva neanche essere considerata una domanda a tutto tondo perché – infondo – sapeva che lo avrebbe fatto. Nonostante le volesse bene, Margareth dubitava fortemente che sarebbe stato capace di metterla al di sopra del suo lavoro. Alzò il capo e riprese a guardarlo, cercando di non dimostrarsi troppo colpevole. ‘’Lo faresti?’’ domandò, decisa a provarle tutte per salvare lo straccio di rapporto che era rimasto fra lei e i suoi genitori.
George, quella volta e inaspettatamente, sembrò pensieroso. Sin da quando aveva poco più di sette anni, a Maggie era sempre parso la persona più pacata, saggia, e sicura del mondo. Non c’era stato un momento in cui l’avesse visto insicuro o titubante, in cui l’avesse visto preso dal panico o preoccupato. Pareva che sapesse sempre cosa fare e quando farlo, cosa dire e che parole usare. Quella, unica quanto irripetibile, volta non fu così.
‘’Se lo facessi’’ domandò, tentennando. ‘’Cosa succederebbe?’’
Margareth sapeva cosa sarebbe successo se la voce fosse arrivata alle orecchie di Dan Grey, così come era sicura lo sapesse anche lui. Tuttavia, per qualche motivo, voleva sentirlo dire da lei e così decise di accontentarlo.
‘’Succederebbe che non potrei più vederlo’’ scrollò le spalle, fingendosi indifferente ma fallendo miseramente perfino ai suoi stessi occhi. ‘’E litigheremmo’’
George sembrò rimuovere la seconda parte della risposta, e si concentrò solamente sulla prima. ‘’E lei ci tiene a vederlo?’’ chiese. Non era una domanda invadente o impicciona, e questo la ragazza lo sapeva più che bene. Tuttavia si sentì a disagio, e le mani presero a sudare ancora di più.
‘’Sì’’ rispose, secca. Optò per una risposta netta e senza ulteriori giri di parole, e – siccome conosceva George – era sicuro che non le avrebbe chiesto nient’altro.
‘’Se suo padre scoprisse che non glielo ho detto mi licenzierebbe, signorina’’ e c’era insicurezza nella voce dell’uomo più sicuro del mondo. Margareth non si sentì di dire niente, perché non voleva metterlo nella condizione di scegliere come non voleva metterlo in difficoltà. George non era sposato né aveva figli, il lavoro era sempre stato tutta la sua vita ed aveva sempre assorbito gran parte del suo tempo.  Non poteva chiedergli, neanche indirettamente, di rinunciarvi.
‘’La conosco da diciassette anni’’ iniziò, prendendo a guardarla in modo differente. ‘’L’ho vista praticamente nascere e crescere. L’ho accompagnata all’asilo per tre anni, alle elementari per cinque e alle scuole medie per altri tre. Questo è il quinto anno che l’accompagno alle superiori e non l’ho mai vista sorridere come ha sorriso oggi quando l’ha visto’’
A Margareth venne da piangere, ma non perché quel che le aveva detto George fosse vero o meno, ma perché non credeva che se ne fosse accorto. I suoi occhi si inumidirono palesemente, mentre si alzava i capelli in una coda confusa.
‘’Le piace?’’ quella domanda, da parte di George, non se la sarebbe mai aspettata. L’aveva sempre visto come un tipo silenzioso e sulle sue, che si imbarazzava anche solo a parlare di amicizia e affetto. Ma la sua voce era impregnata di così tanto interesse che Margareth rispose con altrettanta sincerità.
‘’Sì’’ rispose.
‘’Non glielo dirò’’ affermò, dopo due minuti di silenzio imbarazzante. ‘’Buonanotte, signorina’’ poi scomparve.
 
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La stazione di polizia di New York era la più grande che Laurine avesse mai visto. Cam aveva avuto, sfortunatamente, modo di vederla precedentemente ma si sorprese anche quella volta.
Non appena misero piede all’interno di essa, un uomo brizzolato ed in divisa li raggiunse, serio. ‘’Ditemi tutto’’ affermò.
‘’Dobbiamo fare una denuncia’’
Ovviamente fu Cameron a parlare perché, anche volendo, Laurine non avrebbe mai avuto il coraggio di aprire bocca né di parlare. Automaticamente lui le prese la mano, intrecciando le loro dita, e facendo una leggera pressione.
Laurine sospirò e si fece coraggio, tentando di trattenere le lacrime.
Nonostante si fosse autoconvinta del contrario, erano bastate poche parole di Cam per convincerla a fare quel passo che tanto aveva negato per amore di sua madre. Laurine aveva, infine, capito che – nonostante desiderasse la felicità di sua madre più di qualunque altra cosa – non sarebbe stato giusto star male per questo. E che, sopra ogni cosa, - e come le aveva detto anche Cameron -, che sua mamma meritava molto di più che Thomas.
Trovando una forza innata, e stringendo ancor di più – se possibile – la mano dell’unica persona che in quel momento voleva accanto, guardò il poliziotto dinanzi a se e quasi sorrise, liberata finalmente di un peso che le opprimeva il petto.
‘’Sono stata violentata’’
 
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Sotto strati e strati di nebbia, Holland camminava per le strade di New York senza una direzione. Aveva la vista annebbiata più del paesaggio nella quale camminava, le mani più fredde del ghiaccio e il cuore ancora peggio. Il cappuccio della felpa, che gli copriva perfino gli occhi, non era capace di dargli il calore necessario e di cui aveva bisogno.
Non gli importava.
Le parole di Cam, dette il giorno prima, continuavano a vorticargli nella testa velocemente.
‘’Mi dispiace che Morgan sia morta, e mi dispiace che Carl si sia interessato a sua sorella’’
La verità era che a lui non dispiaceva. A lui faceva male e basta, gli scavava una voragine nel petto, lo faceva ricredere perché ogni singola volta che pensava di aver toccato il fondo, di aver sofferto il massimo possibile e consentito, si rendeva conto che il baratro era ancora tanto profondo. E gli veniva da piangere, anche se non lo faceva quasi mai e cercava di resistere il più a lungo possibile. La possibilità che Carl potesse davvero provare qualcosa per Margareth lo spaventava, perché sapeva di cosa erano capaci le sorelle Grey. Ma, ancor di più, lo spaventava l’idea che non avrebbe rivisto Morgan mai più. Che non l’avrebbe più sentita ridere, che non avrebbe più sentito il suo profumo e che non avrebbe più sentito le sue mani calde sfiorare delicatamente ma con sicurezza il suo petto.
Morgan non l’avrebbe più chiamato Land, nonostante lui odiasse quel soprannome che aveva inventato ma che era finito sulla bocca di tutti i suoi amici.
E per tutto il tempo, non faceva altro che domandarsi perché. Perché non gli avesse detto che era malata e che gli restavano pochi anni di vita, perché non gli avesse detto in che misura soffrisse ogni singolo secondo, perché non l’avesse reso partecipe di quella stessa sofferenza che provava. Perché non si fosse fidata abbastanza di lui da mettere nelle sue mani la nuda e cruda verità, quella che la avvolgeva quasi fosse una cappa.
Morgan Grey era sempre stata un’enorme incognita per lui. Un’incognita a cui non aveva mai affidato un valore, che non era mai riuscito a decifrare.
E non avrebbe avuto modo per poterlo fare ancora.
E mentre guardava il cielo plumbeo di quel giorno, probabilmente sperando che Morgan lo stesse – in qualche modo – guardando come accadeva nei film romantici, la maledisse.
La maledisse perché lo faceva soffrire quando era in vita, quando gli attaccava il telefono in faccia e gli teneva il muso per giorni, quando lo evitava e quando gli mentiva. Quando si chiudeva in bagno, spalle contro legno, perché ‘’non mi vuoi abbastanza’’
E perché continuava a farlo soffrire anche da morta, anche ora che non parlava più, che non gli attaccava più il telefono in faccia e che non poteva materialmente chiudersi in bagno.
La maledisse perché, nonostante tutto ciò che lei aveva detto e che lui aveva pensato, alla fine era stata lei che non aveva voluto abbastanza lui.
‘’Forse un giorno ti lascerò andare’’ pensò, rabbioso quasi fino all’inverosimile. ‘’Forse un giorno ti raggiungo e ti sbatto io qualche porta in faccia. Perché ti amo ma tu non mi hai mai capito’’
 
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‘’Ci hai litigato?’’ domandò, passandosi distrattamente una mano fra i capelli chiari. Margareth camminò per il cammino acciottolato, scalciando di tanto in tanto qualche pietra, con le braccia incrociate al petto.
Faceva freddo, e la sua felpa era un po’ troppo leggera.
‘’No, non glielo ha detto’’ la voce di Maggie suonò parecchio sollevata. Ancora non poteva credere a ciò che era successo: tutto si sarebbe aspettata, meno che la complicità di George. Il passo di Carl divenne più lento, fino a fermarsi del tutto, mentre si posizionava dinanzi a lei.
‘’Mi stai dicendo che piaccio al tuo autista?’’ ironizzò, visibilmente sorpreso.
Maggie non potè fare a meno di sorridere e alzare gli occhi al cielo. Nonostante l’aria fredda di quel sabato pomeriggio, sentì il suo corpo scaldarsi un pochino.
‘’No’’ sorrise. ‘’Ti sto dicendo che mio padre non ti sbatterà fuori dal continente…Per adesso’’
Carl sogghignò, ma era uno di quei sogghigni che a Maggie piacevano tanto. Sembrava addirittura più leggero del solito, quando non aveva quel cipiglio fra le sopracciglia. Riprese a camminare, scuotendo leggermente la testa. Erano nello stesso identico parco che Margareth aveva riconosciuto essere quello in cui erano andati una delle prime volte. Le sembravano passati anni da quel momento, nonostante si parlasse solo di qualche mese. E, con immenso piacere, sentiva di conoscere il bellissimo ragazzo che si ritrovava di fronte molto meglio.
Carl si voltò a guardarla, sorprendendola mentre lo fissava, e in quel momento fu chiaro che stesse cercando di reprimere l’ennesimo sogghigno. Era incredibile come la prima impressione che desse Carl stonasse con chi era veramente, ennesima dimostrazione di quanto i pregiudizi si rivelassero errati la maggior parte delle volte.
‘’A che pensi?’’ le domandò poco dopo, avendo intuito che lei stava pensando a qualcosa di preciso. Margareth, come si aspettava fosse successo, andò in panico. Non tanto perché Carl le pareva quasi compiaciuto, quanto per il fatto che non poteva dirgli assolutamente a cosa stava pensando. Ed era negata a mentire, glielo si leggeva praticamente in faccia.
Così, non avendo altre strade da percorrere possibile, prese un respiro e si diede una calmata. ‘’Niente’’ tentò, ma risuonò poco convincente perfino alle sue orecchie. Carl, perso il suo sogghigno, aggrottò le sopracciglia e riprese a guardare davanti.
Maggie, a quel punto, si era aspettata che cadesse il silenzio perché – paradossalmente – era quello che succedeva ogni volta che diceva qualcosa che scatenava nella testa del ragazzo pensieri a cui lei non riusciva ad arrivare. Fu Carl a rompere il silenzio, per l’ennesima volta, senza guardarla. La sua voce, però, non uscì fuori arrabbiata o urtata. Quasi…dispiaciuta?
‘’Non voglio metterti nei casini con la tua famiglia’’ disse, con quanta più sincerità potesse. E Margareth se ne accorse, ed apprezzò quel singolo gesto forse più del consentito. Stavolta fu lei a fermarsi, costringendolo a fare lo stesso e a fissarla interrogativo.
Maggie incrociò le braccia al petto, stringendosi nel suo parka, mentre scuoteva la testa quasi divertita. Era davvero quello a cui pensava Carl? La faceva realmente una persona che compiaceva così tanto i suoi genitori?
E soprattutto, le importava così tanto di lei?
‘’Non mi interessa’’ fu l’unica frase sensata che riuscì a dire, colta da un brivido di emozione improvviso, mentre lo guardava senza distogliere lo sguardo. Gli occhi di Carl si sgranarono leggermente, prima di ritornare inespressivi come al solito. Stavolta, però, sogghignò davvero e non si preoccupò di nasconderlo neanche per sbaglio.
‘’Sei seria?’’ le chiese, di nuovo serio ma visibilmente compiaciuto.
A Margareth venne inevitabilmente da sorridere davanti alla, malamente nascosta, insicurezza di quella che credeva una delle persone più inarrivabili del mondo. ‘’Sono serissima’’ rispose, senza esitazione alcuna.
Fu Carl a sorridere, questa volta. Nessun tentativo di nasconderlo, nessun sogghigno simpatico o divertito, e nessuna battutina ironica. Sorrise nel modo più completo e sincero possibile, mentre le si avvicinava di un passo. In quel momento una folata di vento li colpì in pieno volto e una ciocca bionda volò dalla coda che Margareth aveva fatto poco prima. Fu allora che Carl si avvicinò ancora di più, un velo d’aria a separarli, e le portò la ciocca dietro all’orecchio. Nonostante l’avesse sfiorata pochissimo sul collo, nel riportare la mano verso terra, Maggie sentì un brivido non dovuto al freddo e il cuore prendere a batterle all’impazzata nel petto. Non le importava davvero più di nulla, in quel momento. Desiderava solo un contatto con Carl, un qualunque contatto. Non le faceva assolutamente differenza, voleva solamente accarezzare la sua pelle nonostante fosse coperta da un cappotto verde militare. Carl prese a guardarla fin troppo insistentemente, non decidendosi – però – ad annullare del tutto la ridicola distanza che c’era fra di loro. Fu quando Margareth non riuscì più a reggere lo sguardo, ed abbassò i suoi occhi, che sentì il petto di Carl vibrare per una sua evidente risata.
‘’Posso abbracciarti?’’ le domandò, e fu lei a sgranare gli occhi quella volta. Avrebbe voluto semplicemente annuire o abbracciarlo lei stessa, perché la situazione la metteva già abbastanza in imbarazzo, ma le parole uscirono fuori dalle sue labbra prima ancora che potesse rendersene conto.
‘’Puoi fare quello che vuoi’’ rispose, per poi pentirsene un secondo dopo, quando sulle labbra del ragazzo spuntò un ghigno divertito.
‘’Proprio tutto?’’ ironizzò.
Margareth sentì le guance andare a fuoco, perché avrebbe dovuto rendersi conto e cogliere da sola il doppio senso della sua frase. Tuttavia era ormai troppo tardi per ribattere, quindi continuò a tenere lo sguardo basso e simulò una risata tesa.
‘’No’’ rispose. ‘’Proprio tutto no. Ma puoi abbracciarmi, tanto per cominciare’’ sorrise. ‘’Se vuoi’’ si affrettò ad aggiungere, non volendo assolutamente sembrare troppo sicura di se o troppo convinta.
Carl, quella volta, portò un dito sotto il mento della bionda e le alzò il volto. ‘’Continuo a metterti in soggezione, eh?’’ scherzò. ‘’Cosa devo fare per metterti a tuo agio Marge?’’
Le gambe di Maggie divennero improvvisamente molli, non solo perché Carl – dopo un sacco di tempo – l’aveva chiamata Marge, ma anche perché era fin troppo vicino e le aveva praticamente parlato sulle labbra che, tuttavia, si piegarono in un sorriso sincero.
‘’Non sono a disagio’’ rispose, tentando di convincerlo. Era la verità, il problema era che era timida di suo a prescindere.
‘’Sì?’’ si accertò il ragazzo, sempre più vicino.
Margareth, data la scarsa lontananza di Carl, non riuscì più a dire una parola né ad articolare una frase di senso compiuto. Si limitò ad annuire, prima di sentire una mano premerle sulla schiena e spingerla in avanti. In men che non si dica si ritrovò avvolta dalle braccia fredde di Carl e si strinse – in automatico – contro il suo petto, allacciando le braccia sulla vita del moro.
‘’Hai freddo?’’ gli domandò, mentre lui le poggiava il capo sulla testa delicatamente. Era gelido, nonostante Maggie fosse più che sicura che il giubbino che indossava – quella volta, almeno – fosse più che pesante.
Sentì, ancora una volta, il petto del ragazzo vibrare per un sorriso. ‘’No, Marge’’ sussurrò, con una voce roca e bassa che fece accapponare la pelle alla bionda per l’emozione. ‘’Non ho più freddo adesso’’
Margareth non si fermò ad analizzare quella frase, né l’avverbio di tempo che le era subito saltato alle orecchie. Si limitò a stringersi ancora di più a lui, in segno di assenso, mentre gli stringeva la stoffa verde del giubbino. E comunque, nemmeno lei sentiva più freddo.
Questo le bastava, per il momento.
Quando si separarono, dopo un lungo lasso di tempo che – tuttavia – a lei parve troppo breve, lui le regalò probabilmente il sorriso più bello e sereno di sempre. Margareth non l’aveva mai visto sorridere così, nonostante durò poco più di qualche secondo. Era come se, giorno per giorno, conoscesse parti del carattere di Carl Pearson che le erano ancora sconosciute.
Sorrise di rimando, anche se il suo sorriso durò parecchio di più, mentre riprendevano a camminare.
Inizialmente non si levò una parola fra i due, ma il silenzio che era nato non era per niente imbarazzante o pesante, anzi. Probabilmente erano troppo immersi nei loro pensieri per catalogarlo ed etichettarlo, quindi semplicemente si rilassarono.
Quella volta, erano arrivati lì con la macchina di Carl, dal momento che con la moto avrebbero sentito troppo freddo. Carl aveva una Range Rover a cui, da quel che aveva potuto notare Maggie, teneva molto meno della motocicletta. E lo si capiva dal fatto che, tutte le volte che l’aveva vista, la moto era sempre stata lucente e splendida. La macchina nera, invece, - essendo enorme – era semplicemente abbandonata a se stessa. Tuttavia vi era un buon profumo all’interno, buona parte preso da Carl.
Arrivarono all’auto in silenzio e vi salirono nello stesso modo. Quando il ragazzo ingranò la marcia e fece partire il veicolo, Margareth notò un portachiavi appeso allo specchietto che prima non aveva notato. Era una rosa nera, semplice e stilizzata, probabilmente di ferro o metallo. Era piccolissima, forse per questo non aveva avuto modo di vederla precedentemente. Senza paura di risultare invadente o altro, trattandosi solo di un portachiavi, vi avvicinò la mano destra e lo rigirò fra le dita. Gelido come Carl.
Lui, difatti, si voltò a guardarla ma la lasciò fare e non disse nulla.
‘’Che c’è?’’ le domandò infine, quando le sue mani erano ormai ritornate al loro posto. Maggie scosse le spalle e sorrise ancora. Avrebbe rischiato una paralisi facciale se avesse continuato in quel modo.
‘’E’ carino’’ indicò il pendolo con gli occhi. Carl sogghignò per quella che, era sicura, sarebbe stata l’ultima volta. Almeno per quel giorno.
Arrivarono fuori al suo isolato, un po’ distante dalla sua villa per non essere vista, appena qualche minuto più tardi. Lei sospirò, chiaramente non contenta di dover rientrare in quella casa, ma poi si passò una mano fra i capelli distrattamente.
‘’Allora io vado’’ si rivolse a Carl, che aveva ripreso a guardarla ed aveva accostato l’auto. ‘’Grazie mille per il passaggio e la compagnia, ovviamente’’ sorrise, cordiale.
Carl non si mosse, ma annuì leggermente. ‘’Posso farti una domanda?’’ le chiese a bruciapelo, proprio quando lei stava per aprire la portiera. Margareth sembrò confusa, tuttavia non le ci volle molto per balbettare un ‘’certo’’.
‘’Come fai ad essere sempre educata e gentile anche quando sei arrabbiata con il mondo intero?’’
Era la domanda che Maggie si faceva giorno e notte, dandosi sempre la stessa risposta: non conosceva altro modo di comportarsi, e – in larga misura – non aveva e non aveva mai avuto alcuna scelta né alcuna alternativa. Ma quella volta, forse perché fu Carl a porle quella domanda, pensò meglio alla risposta. Parlò anche prima di accorgersi di averlo fatto.
Scrollò le spalle. ‘’Suppongo che sia l’unico modo che io abbia per non sembrare privilegiata’’ sospirò. ‘’Quando sei la figlia del sindaco si aspettano tutti un determinato comportamento da parte tua. E se non lo rispettassi, comunque, passerei per una ragazza ancora più viziata di quanto già non sia’’
Anche se sorrise in modo tirato, Maggie sapeva bene non c’era assolutamente nulla per cui sorridere. Così come sapeva che non era una bella cosa vivere come se si stesse recitando un copione scritto da qualcun altro.
‘’Non sei per niente viziata’’ la voce di Carl era la stessa che aveva usato mentre si stavano abbracciando, bassa e roca. ‘’Credimi, puoi comportarti come vuoi’’
A Margareth il cuore perse tre battiti, perché Carl aveva detto esattamente quello che lei aveva sempre desiderato sentirsi dire. Il suo sorriso, questa volta, fu parecchio più sincero e – automaticamente e senza pensarci – portò la sua mano esile su quella più grande di Carl. Strinse leggermente, mentre lui rimaneva inerme come aveva immaginato.
‘’A me fa piacere essere gentile con te’’ gli disse, nonostante non sapesse se Carl si riferisse proprio a quello con la sua affermazione. Lui sorrise di nuovo, e alzò gli occhi al cielo.
‘’Mi stai dicendo che io non sono gentile con te, per caso?’’ ironizzò, spezzando la cappa di serietà che si era formata poco prima. Maggie alzò le sopracciglia e gli si avvicinò ancora di più. ‘’Al contrario’’ sussurrò, con chissà quale coraggio.
In realtà sapeva benissimo che si era avvicinata troppo, e che – ora e di nuovo – le loro labbra quasi si sfioravano. Tuttavia sembrava quasi attratta da una calamita del polo opposto, per questo non si allontanò.
Vide Carl deglutire, chiaramente sorpreso per la sua reazione di solito opposta. Poi, continuando a guardarla negli occhi, sospirò. ‘’Marge’’ sussurrò, raucamente. ‘’Sei troppo vicina’’
Maggie capì perfettamente il senso velato di quella frase, e perciò non si mosse. Forse Carl non aveva previsto di baciarla quella sera, per non metterla in imbarazzo o affrettare ulteriormente le cose, e lei non gli stava rendendo il compito facile.
Si avvicinò alle labbra di lui ancora di qualche millimetro piccolissimo, prima di fermarsi quando – ormai – bastava mezzo centimetro per baciarsi. ‘’Scusami allora’’ ironizzò lei, per la prima volta durante tutto il tempo, allontanandosi di soppiatto. Mise per la seconda volta la mano sulla portiera per scendere, con un sogghigno presente sulle sue labbra, ma fu bloccata. Sentì la mano fredda di Carl afferrarle il polso e, fermandola dall’andare via, farla voltare con una velocità tale da sembrare quasi violenta.
Si ritrovò, in pochi secondi, alla stessa distanza di poco prima. Solo che quella volta fu colmata subito dallo stesso Carl, che la baciò immediatamente. Dopo pochissimo tempo, Maggie gli lasciò libero accesso alle sue labbra – mentre lui le accarezzava con la lingua il labbro inferiore – sorridendo soddisfatta. ‘’Rettifico’’ sussurrò Carl, fra un bacio e l’altro. ‘’Non sei per niente gentile’’
Quando Margareth, di malavoglia, si separò dal ragazzo lui sospirò. Prima di lasciarla andare, però, Maggie sentì che gli mise qualcosa di freddo fra le mani.
La rosa nera.
 ‘’Tienila tu’’ disse, accendendo di nuovo l’auto. ‘’Buonanotte Marge’’.

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Partiamo dal presupposto che NON avrei dovuto aggiornare ancora,
ma siete state così dolci e così gentili nelle recensioni del capitolo precedente ((e il cd di Marco Mengoni mi ha anche
addolcita, diciamocelo)) che non ho POTUTO resistere!!!
Questo capitolo mi piace molto di più di quello precedente, anche perchè comincia ad emergere di più il personaggio di George
che è realmente ispirato ad una persona che conosco ahahah
Spero sia piaciuto anche a voi! E c'è stata la famosissima ''riappacificazione'' di Cam e Laurine, anche se
non hanno mai smesso di stare insieme per davvero. Su Holland preferisco non dire niente...
E la parte finale la lascio commentare a voi, stelline :)
Un bacione e grazie per TUTTO xx
H.
Ps: QUI c'è il mio facebook e QUI il mio ask, per qualunque cosa. In basso una foto di Holland e una delle sorelle Grey ((marge è quella stesa)) xx
land


marge e morgan


 

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Capitolo 15
*** 14- Stay in memory ***


j
 

| Capitolo Quattordicesimo |
Stay in memory
 
 

‘’Cosa?’’ la voce di Morgan si incrinò, palesando la sua ansia e la sua agitazione. Nello stesso momento in cui sgranò leggermente gli occhi, questi ultimi si riempirono di lacrime.
Le mani presero a sudare, e a nulla valsero i tentativi di mantenere la calma. Cercò, in ogni modo possibile, di non piangere e di resistere. Holland, davanti a lei, continuava a guardarla – evidentemente fingendo di non aver fatto caso a cosa stava scatenando nel corpo della ragazza – con le braccia incrociate al petto e una maschera sul volto.
‘’Mi hai sentito’’ le disse, cercando di contenere la durezza della sua voce. Non riusciva a concepire né a dare una spiegazione alla reazione esagerata della ragazza. Gli venne da urlare.
Morgan si allontanò ancora di più da lui, ed – in quel preciso istante – ogni centimetro che li divideva sempre di più parve diventare miglia. Un oceano invisibile era posto fra di loro, ed era stato solo ed unicamente volere di Morgan. Sembrava sempre più sconvolta.
‘’Non è possibile’’ singhiozzò. ‘’Non può essere’’
‘’E perché?’’ testò il terreno Holland. Non riusciva proprio a capirla, le sembrava avvolta da strati e strati di ghiaccio. Li avrebbe rotti tutti con un calcio, se solo fosse servito a qualcosa.
‘’Non puoi esserti innamorato di me, Holland’’ e lei non lo chiamava quasi mai con il suo nome per intero. Land si gelò sul posto, ripensando alle parole che erano appena uscite dalla bocca della bionda. Cosa?
‘’Sei ubriaca?’’
Glielo domandò con il tono più duro che avesse mai usato, almeno con lei. Non aveva mai avuto il coraggio di dimostrarsi scorbutico o rude nei confronti della ragazza, perché le aveva sempre trasmesso un senso di tranquillità. Lo stesso senso di calma che solo sua madre, in vita, aveva saputo scatenare in lui. Forse era per quello che non aveva mai avuto la forza di trattarla male o dimostrarsi eccessivamente freddo.
‘’No’’ lei gli rispose con un tono che, di gelido, non aveva proprio niente. Pareva felice da un lato, che Holland le avesse confessato i suoi sentimenti. Eppure si vedeva chiaramente che c’era qualcosa che la bloccava in una specie di limbo invarcabile. Land avrebbe rotto anche quello, se solo avesse saputo come fare. ‘’Tu mi devi stare lontano’’ sussurrò, come se neanche lei lo volesse. A Holland pareva che Morgan gli stesse dicendo una cosa con la bocca, ma che con lo sguardo gli dicesse l’esatto contrario. Sembrava, dai suoi occhi blu scuro, che lo stesse quasi pregando di non ascoltarla.
‘’Che cosa stai dicendo, Morgan?’’
‘’Soffriresti’’ rispose, pragmatica. ‘’Ti prego, stammi lontano’’
Ad Holland girò la testa vorticosamente, perché un secondo prima si stavano baciando sul suo letto e quello dopo lei parlava insensatamente.
‘’Mi stai lasciando?’’ le chiese, sempre più freddo e sempre più lontano. Tra di loro, in quei pochi passi sulle mattonelle color sabbia, pareva che ci fossero chilometri oceanici. Nessuno dei due, quella volta, fu abbastanza coraggioso da colmarli.
Morgan uscì di casa e pianse.

 
A distanza di due anni da quel momento, che sembrava avvenuto quasi in un altro mondo e con persone differenti, Holland capì. Quel giorno era il 10 febbraio del 2012 ed era stata l’ultima volta in cui aveva visto Morgan Grey. Dopo due mesi era morta. E solo ed unicamente allora lui aveva scoperto che lei l’aveva saputo dall’inizio.
Sempre.
 
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Il corridoio che portava allo studio di suo padre le sembrava infinito.
Mentre lo percorreva in tutta la sua lunghezza, Margareth non poteva fare a meno di chiedersi perché avesse voluto vederla alle dieci e mezza di sera, quando solitamente lavorava ancora. Le era già sembrato abbastanza strano a cena, ma aveva preferito non farci caso. In mente, pensava a tutto quello che aveva fatto e che avrebbe potuto essere motivo di rimprovero. A meno che George non gli avesse raccontato di Carl, cosa improbabile, non le pareva di aver fatto nulla di male.
Mentre, ai suoi lati, si alternavano quadri di pittori famosi di cui lei ignorava l’esistenza e sculture ancora più dubbie ed incerte, si ritrovò davanti alla porta lignea dello studio di suo padre.
Lo stesso studio nel quale lei e Morgan non potevano entrare da bambine – anche se lo facevano di nascosto – e lo stesso studio in cui lei era entrata pochissime volte da tre anni a quella parte. Sospirò e prese un respiro profondo, perché la testa aveva preso a girarle in modo quasi insopportabile. La sola idea di ricevere un qualsiasi tipo di richiamo da parte di suo padre, visto che doveva essere accaduto qualcosa di importante per permetterle di varcare quella porta, le stringeva lo stomaco in una morsa. Non solo perché non sapeva dove avrebbe trovato la forza – e la voglia – di controbattere, ma anche perché avrebbe solo voluto chiudere gli occhi e dormire.
Bussò senza pensarci troppo, perché le stavano iniziando a frizzare le braccia e le mani erano diventati due pezzi di ghiaccio.
Il rumore secco delle sue nocche contro il legno – quel toc toc assordante – le parve la musica del patibolo. Sembrò addirittura rimbombare in tutto il corridoio e arrivare anche al piano di sopra.
‘’Avanti’’
La voce roca di suo padre l’aveva sempre terrorizzata da bambina, e le cose erano cambiate di poco. Lui non aveva mai alzato un dito contro di lei o contro sua sorella, non si era mai permesso di sfiorarle (neanche per una carezza, si intende), ma Maggie avrebbe preferito uno schiaffo in pieno volto piuttosto che la voce bassa e rancorosa che usava per richiamarle. Le ricordava di essere un disastro, di aver sbagliato rovinosamente qualcosa e di non avere speranze di sistemare la situazione. Era sempre stato quello il punto principale del suo rapporto con Dan Grey: lui non perdonava. Di qualsiasi errore si trattasse, di qualsiasi litigio e di qualsiasi incomprensione, lui sarebbe rimasto sempre lì a rinfacciarglielo.
Forse era quello che bruciava più di qualsiasi altra cosa, più del sale sulle ferite.
Aprì la porta lentamente, non solo per timore ma anche per stanchezza, e se la richiuse alle spalle ancora più piano. Rimase ferma lì, ad osservarlo dietro la sua scrivania in mogano – con l’immancabile camicia bianca e la solita cravatta grigio topo – mentre leggeva corrugato un qualche documento. Le braccia leggermente divaricate sul bordo della superficie, gli occhi piccoli e studiosi e le sopracciglia aggrottate. I capelli spruzzati di bianco, più di quello che Margareth ricordava, e come un peso a schiacciargli le spalle. Lei non disse niente, fu Dan ad alzare improvvisamente lo sguardo e a guardarla. Dietro di lui, l’immensa libreria con miliardi di libri di diritto e di qualsiasi genere pareva farsi sempre più avanti, per schiacciarli. Perfino lui pareva a disagio. E pareva, per la prima volta, infinitamente stanco. Se solo fossero stati più in confidenza, se Maggie non fosse stata così timorosa e tentennante, avrebbe potuto chiedergli che cosa c’era che non andava. Perché sembrava invecchiato di dieci anni, nonostante ne avesse a stento cinquantacinque. Tacque.
Lo studio di suo padre era sempre stata la stanza più buia dell’enorme villa, ma – in quel momento – ringraziò la luce poco potente. Non avrebbe retto ad avere la piena visuale dei suoi occhi grigi e stanchi.
‘’Vieni, Margareth’’ disse lui, con la solita voce posata e monocorde. ‘’Siediti’’ le indicò la sedia posta dinanzi alla sua scrivania e alla sua poltrona. Si avvicinò come se stesse andando alla forca, con un’ansia che cresceva sempre di più nel petto e diventava – mano a mano – sempre più insopportabile.
Si sedette e ringraziò il cielo, perché non ce l’avrebbe sicuramente fatta a restare in piedi, di fronte all’uomo che temeva di più al mondo. In quell’istante, l’imbarazzo che aveva provato con Carl le parve niente.
Non chiese per quale motivo avesse voluto vederla, perché – nel momento in cui si sedette – prese subito la parola.
‘’Ti ho chiesto di venire’’ iniziò, guardandola a lungo. ‘’Perché domani è il 10 aprile’’
Margareth trattenne le lacrime, come se fossero state sempre lì e stessero aspettando solo il momento giusto per uscire, e sospirò. Non l’aveva dimenticato, era l’unica cosa a cui pensava ogni singolo giorno ed ogni singola notte. Solo che non ne aveva mai parlato con i suoi genitori, tantomeno con suo padre, e non così direttamente. Non l’avevano mai neanche più nominata da quando era morta, due infiniti e lunghissimi anni prima.
La colse di sorpresa.
‘’Lo so’’ rispose Maggie, sfinita. ‘’E…?’’
Non voleva sembrare di fretta o scortese, ma sentiva che l’aria – in quella stanza – stesse diminuendo pian piano, e si sentiva soffocare. Morire lentamente, per ogni sguardo ed ogni parola detta.
‘’Domani, io e tua madre abbiamo deciso di fare una specie di funzione commemorativa’’ rispose, e Margareth si chiese come diavolo facesse a restare impassibile anche mentre parlava di sua figlia morta. ‘’Alle undici casa nostra sarà aperta per tutti quelli che vorranno ricordarla. Tua madre ha già parlato con un planner’’
La bionda si alzò velocemente dalla sedia, tanto che prese a vorticarle la testa in modo fin troppo violento. ‘’Va bene’’ disse, sul punto di piangere seriamente. ‘’Sarò pronta per le undici, allora’’
Non si dissero nient’altro, perché sarebbe stato fin troppo imbarazzante e fin troppo strano. Margareth si voltò, semplicemente, ed uscì da quello studio asettico ed asfissiante.
Il percorso a ritroso neanche ricordava di averlo fatto. Quando i suoi occhi smisero di essere appannati dalle lacrime e quando il velo di malinconia che li ricopriva si assottigliò un minimo, si ritrovò stesa sul suo letto. Il soffitto di camera sua era stato il punto in cui aveva guardato più spesso nel corso di quasi diciotto anni, l’aveva sempre aiutata a tranquillizzarsi e quantomeno provare a dormire. Quella sera, neanche quel vecchio metodo funzionò. E, nonostante sapesse che se ne sarebbe pentita subito dopo, fece l’unica cosa che le parve opportuna in quel momento.
Prese l’iPhone e compose quel numero che ormai aveva imparato a memoria.
Sperò che non rispondesse, perché improvvisamente le era presa una fifa pazzesca e si era resa conto di star facendo una cosa del tutto insensata. Eppure Carl rispose al quinto squillo, nonostante fossero quasi le undici di sera e – probabilmente – l’aveva presa per pazza.
‘’Marge?’’ la sua voce era roca, segno che era – probabilmente – sul punto di addormentarsi. ‘’Stai bene?’’
‘’Aiutami’’
 
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Laurine si svegliò di colpo, nel cuore della notte, sudata ed ansimante. I capelli rossi, ormai quasi come prima, le si erano appiccicati sulla fronte e sentiva di star ancora tremando.
Ispirò ed espirò per circa cinque volte, prima di tornare a respirare regolarmente.
‘’Lau?’’ la voce di Cameron che – accanto a lei – stava dormendo beatamente fino a tre minuti prima, la tranquillizzò. ‘’Che cosa c’è?’’ le domandò, alzandosi e poggiando la schiena contro la spalliera del letto, accanto a lei. Laurine si sentiva meglio ogni volta che lui le era accanto, ma era consapevole del fatto che quella situazione sarebbe dovuta finire. Nonostante sapesse bene che Cam era disposto ad aspettarla anche per anni, non poteva continuare ad avere paura che qualcuno la sfiorasse ed a tirarsi indietro anche quando quel qualcuno era il ragazzo che amava di più al mondo. E avrebbe dovuto smetterla di chiedergli di dormire con lei perché aveva paura, nonostante sapesse che a lui facesse più piacere che altro. E anche di svegliarsi nel cuore della notte per quel maledetto incubo che non le lasciava tregua.
Lei non rispose, ma si avvicinò a Cam e si strinse forte a lui. Portò la testa nell’incavo del suo collo e ne ispirò il profumo, quello che avrebbe riconosciuto ovunque e che era diventato la colonna sonora della sua vita. ‘’Hai fatto di nuovo quell’incubo?’’ continuò lui, ricordandole della volta in cui lei gli aveva raccontato di quante volte sognasse Thomas e si svegliasse terrorizzata più di prima. L’uomo era in carcere, sua madre pareva essersene fatta una ragione e pareva anche non odiarla, eppure lei continuava ad essere bloccata fra fiamme che le bruciavano le ossa e gli disintegravano gli organi interni.
‘’Mi ami?’’ domandò a Cameron, e – anche se era tutto completamente buio perché erano da poco scoccate le quattro di notte – potè giurare di sentirlo alzare gli occhi al cielo.
‘’Più di qualsiasi altra cosa, lo sai’’ rispose lui, stringendola ancora più forte. Laurine gli sembrava così piccola ed indifesa, in quei casi, che l’avrebbe tenuta incatenata a se per tutta la vita. Aveva deciso, dopo notti e notti di torture mentali, di non dirle niente riguardo quella notte in discoteca. Non era andato fino in fondo, era uscito dal privè cinque minuti dopo esserci entrato. L’avrebbe solo appesantita, e Laurine non aveva bisogno di altri motivi per rattristarsi o soffrire. E poi, comunque, aveva pensato a lei sempre. Soprattutto in quel momento. Il fatto che lei non si facesse più toccare come prima, che fosse distante la maggior parte delle volte, e che temesse il contatto in generale, non facevano altro che fargliela amare ancora di più. Perché Laurine, da lui, si lasciava abbracciare e baciare ed accarezzare, e per il momento andava più che bene così.
‘’Anche io’’ sussurrò la rossa, aggrappandosi alla maglietta del suo pigiama. ‘’Tantissimo’’
E poi lo baciò.
 
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Quando Carl, dopo averla sentita singhiozzare, le aveva detto ‘’sto arrivando’’ Margareth aveva dovuto chiedergli di ripetere.
E mentre si arrampicava sull’albero su cui era solita arrampicarsi Morgan, e scendeva nel suo giardino, non potè fare a meno che pensare a quanto era cambiata la sua vita nel corso di pochi mesi. A quanto si sentisse quasi più leggera nel sapere che, lì fuori, c’era qualcuno a cui importava un minimo di come stesse.
Carl era arrivato a piedi, per non fare ulteriore rumore, e la aspettava fuori le cancellate dell’abnorme entrata di casa Grey. Margareth tirò fuori le chiavi e, velocemente, lo fece entrare. Lui era lento nei movimenti, anche mentre varcava la soglia e la raggiungeva nel giardino sul retro, come se fosse troppo impegnato a studiarla. Margareth, dal canto suo, non aveva avuto tempo di dirgli nulla per telefono dal momento che si era precipitato lì.
Incrociò le braccia al petto per sentir meno freddo, mentre Carl – stretto nel suo chiodo di pelle nera – pareva sul punto di scuoterla per farla parlare. Margareth sapeva, e sentiva, che lui stesse pazientemente aspettando che fosse lei a parlare in modo da non forzarla.
Eppure parlò dopo quasi un’infinità.
‘’Non c’era bisogno che venissi’’ gli disse, gentilmente. ‘’Mi dispiace che tu…stia prendendo freddo adesso’’
Si sentì una stupida, perché non era giusto che riversasse ogni singola volta i suoi problemi e le sue preoccupazioni sulle spalle di Carl. Perché era logico e palese che anche lui avesse i suoi problemi da affrontare e i suoi mostri da distruggere, e lei non poteva essere tanto egoista da aspettare che lui venisse sotto casa sua ogni volta che si sentiva sopraffatta dalla nostalgia. Cosa avrebbe potuto dirgli, poi? Sto male perché mi manca mia sorella? Perché Dan è più il mio sindaco che mio padre?
‘’Se mi chiami mentre piangi è ovvio che mi preoccupo’’
La risposta di Carl fu così immediata e semplice che le ci volle un po’ per capire cosa era opportuno dire. Sospirò e ‘’Scusami’’ sussurrò. Sembravano lontani chilometri, mentre li dividevano due miseri passi d’uomo. Si sentiva in colpa, perché se avesse saputo che Carl sarebbe corso da lei non l’avrebbe mai chiamato. Perché erano le undici e mezza, ed lui sarebbe dovuto anche andare a scuola il giorno dopo, e faceva freddo, e Manhattan sembrava una città fuori dal mondo. Le luci che intravedeva da lontano e i grattacieli che illuminavano quella notte erano lontani ma sufficienti perché potesse vedere il volto di Carl. Era stanco. Indossava una felpa bianca e slabbrata, che metteva ancora più in risalto il pallore della sua pelle e il nero dei suoi numerosi tatuaggi, ed un semplice pantalone della tuta- forse indossato all’ultimo minuto. Stavolta i capelli non erano sistemati in alcun modo, ma semplicemente mossi dal vento e dalla mano che continuava a passarvi all’interno.
Carl sembrò scosso dalle sue scuse, e le si avvicinò all’improvviso, quando Margareth era ormai convinta che non si sarebbe più mosso di lì.
‘’Mi dici perché piangi?’’ le chiese, in modo quasi dolce.
Maggie si sentì in dovere di dirglielo perché l’aveva fatto arrivare fin lì e glielo doveva, perché era il minimo. Sospirò ancora una volta e prese a guardare la punta delle sue ballerine. La percorse un brivido ma finse di non averci fatto caso.
‘’Tu hai una sorella, Carl?’’ iniziò, tentennando.
‘’Sì’’ rispose lui, visibilmente curioso.
‘’Anche io ce l’avevo’’ sorrise amaramente. ‘’Due anni fa è morta. E’ nata con una malattia degenerativa delle ossa e apparentemente non c’era nessun donatore che avrebbe potuto aiutarla. Fu per questo che i miei decisero di fare un altro figlio’’ cercò di trattenere le lacrime, ancora. ‘’Io sono nata per salvare mia sorella, i miei genitori non mi hanno mai voluta realmente’’ a quel punto smise anche di tentare, e le lacrime cominciarono a scivolarle giù per le guance. ‘’E non ci sono riuscita’’
‘’Marge…’’ tentò di prendere la parola Carl, ma lei lo interruppe alzando una semplice mano.
‘’Fammi finire’’ sussurrò. ‘’Per favore’’
Carl tacque, deciso a non interromperla più fino a che non avesse finito di raccontare.
‘’E’ morta il 10 aprile di due anni fa, di notte. Era in ospedale con le tutrici, noi eravamo a casa a dormire. Sapevamo che non c’era niente più da fare, che il mio midollo osseo e le mie trasfusioni non sarebbero bastate più, eppure io vivevo nella convinzione che lei fosse…’’ prese un respiro profondo, cercando di contenere le lacrime. ‘’Non era neanche pensabile, per me, un giorno in cui non ci sarebbe più stata. Continuavo a ripetermi che Morgan era sempre stata la persona più forte che avessi mai avuto l’onore di conoscere, che non si sarebbe fatta mai schiacciare dalla sua malattia. Me lo diceva anche lei’’ sorrise amaramente, ancora una volta e con il cuore che perdeva un paio di battiti ad ogni ricordo. ‘’Quando i miei genitori mi dissero che non c’era stato più niente da fare, non piansi neanche. Non ricordo cosa pensai, però i miei occhi rimasero asciutti per una settimana intera. Non avevo la forza neanche per pensare’’ si passò le mani sul volto, mentre Carl continuava ad ascoltarla in silenzio. ‘’E tutt’ora mi sento come se…come se mi mancasse un pezzo. Come se stessi vivendo una vita che non mi appartiene, perché Morgan era l’unica persona che mi faceva sentire a casa mia. Mi sento così tanto sola, a volte, che avrei voglia di ritornare indietro solo per buttarmi in quel fiume’’
Non c’era bisogno che aggiungesse altro, non c’era bisogno che dicesse che il giorno seguente sarebbe stato l’anniversario della morte di Morgan né quanto lo odiasse, perché lesse negli occhi di Carl che l’aveva capito. Lo dedusse dal suo silenzio, dai suoi sospiri pesanti, dal suo sguardo preoccupato.
Si avvicinò ancora di più a lei e le prese il volto fra le mani. Adagiò la sua fronte contro quella della ragazza, e Margareth si sentì finalmente capace di respirare per bene nonostante le lacrime continuassero a scivolare giù silenziose.
‘’Non è stata colpa tua’’ le sussurrò, ad un centimetro dalle sue labbra. Margareth parve quasi crederci. ‘’E i tuoi genitori ti vogliono bene. Ogni genitore vuole bene al proprio figlio, Marge. So che ti sei sentita così per tanto tempo, ma non sei più sola. Hai capito?’’
A Maggie venne da sorridere, e non riuscì a fermare quel minuscolo arricciarsi di labbra. ‘’Grazie’’ sussurrò anche lei. ‘’Non saprei che cosa fare senza di te’’
Forse non avrebbe dovuto dirglielo, ma in quel momento non le importava proprio niente. Si sentiva così bene, allora come non mai, che non pensò neanche al peso di quelle parole. Perché erano la semplice verità, e voleva che Carl capisse e sapesse quanto la stava aiutando. Voleva ringraziarlo nel modo più sincero e genuino possibile.
Carl non rispose, si limitò ad annullare la distanza fra di loro e a lasciarle un delicato bacio sulle labbra. Durò un solo secondo, mentre le mani del ragazzo erano ancora sulle guance fredde di Margareth e mentre erano ancora vicinissimi.
Eppure dagli occhi della bionda continuavano a sgorgare lacrime. Lacrime che, però, non erano malinconiche o tristi. Non solo. Erano lacrime di gioia, perché le sensazioni che stava provando non sapeva neanche che esistessero. E avrebbe solo voluto ringraziare Morgan, perché sentiva che lei c’entrava qualcosa, perché ne era convinta.
Carl, dal canto suo, non le disse che lui aveva conosciuto Morgan perché era la ragazza di cui Land era innamorato. Non gli parve semplicemente il momento.
‘’Non piangere’’ le disse solo.
‘’Non piango’’ sorrise lei.
 
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Holland stava fissando il parco che si stendeva dinanzi a lui. Un’immensa distesa d’erba verde, sotto un cielo così azzurro che sembrava non appartenere neanche all’America che aveva conosciuto da quando era nato. Da lontano, sdraiato sul cofano della sua auto, poteva vedere i bambini rincorrersi e giocare e le mamme ad osservarli da lontano. Gli erano sempre piaciuti i bambini, ricordava di quanto gli piacesse passare del tempo con i suoi cugini.
C’era già andato qualche volta, in quel parco, con loro. Eppure l’unico ricordo vivido e nitido che aveva legato a quel posto non riguardava nessun bambino e nessun cugino. C’era Morgan, sdraiata sull’erba con un libro sulle gambe incrociate e i capelli biondi legati in malo modo. C’era Morgan che sorrideva, perché finalmente Heatcliff aveva dichiarato il suo amore a Cathrine. C’era il suo tatuaggio che brillava alla luce del sole tenue di dicembre, e c’era lui che era lì vicino ad osservarla. Sorrideva, o forse no, mentre le chiedeva cosa ci trovasse di bello in Cime Tempestose. C’era Morgan che lo prendeva in giro e gli diceva che non sapeva leggerlo nel verso giusto, e che un giorno glielo avrebbe insegnato. E c’era quel Natale di una vita prima, quando lei gli aveva regalato una copia di Cime Tempestose e l’aveva obbligato a leggerlo. C’era la sua dedica sulla prima pagina, ormai sbiadita dal tempo e dalle lacrime, che pareva divorare tutto il resto.
 
‘’Di qualsiasi cosa siano fatte le anime,
di certo la sua e la mia sono simili.’’
Morgan xx.


C’era lei, su quell’erba vivida, che gli chiedeva perché avesse deciso di lasciarsi andare. Riusciva quasi ad immaginarsela, mentre lo richiamava perché stava buttando all’aria gli anni più belli della sua vita. Riusciva a sentirla mentre restava delusa dal suo comportamento, perché non era quello l’Holland di cui si era innamorata.
E allora perché non mi hai neanche detto addio, amore mio?


 
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Buonasera gente :)
Qualcuna di voi, in uno dei capitoli precedenti, mi ha scritto che sarebbe stato carino inserire
delle scene della vita ''passata'' di Morgan e Holland, e così ho deciso di accontentarla! 
Quello iniziale è un piccolo ricordo del ragazzo, ma ce ne saranno tanti altri, non temete :)
Inoltre, terrei a chiarire la cosa: Morgan NON aveva detto a Holland di essere malata. Lui l'ha scoperto due mesi dopo la 
rottura, perchè essendo la figlia del sindaco ci sono stati funerali onorevoli e bla bla bla
Il motivo per cui Morgan non ha svelato nulla lo saprete più avanti!!
Poi... non credo ci sia molto da dire sullo sfogo di Margareth, in realtà, anche perchè penso che
tutte sapevate che sarebbe avvenuto prima o poi. Sarebbe stato inevitabile, inoltre almeno adesso
sapete meglio voi - e anche Carl - come si sente lei a riguardo!
Non vi nascondo che non guarirà dal dolore presto, ma Carl l'aiuterà parecchio in questo :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e vi lascio un bacione. Grazie per le belle parole che spendete per me,
sono preziosissime. Non sapete neanche quanto <3
Avendovi già allegato una foto di Carl, Marge, Morgan e Holland, eccovi una foto di Cameron :))
Harryette


cam

 

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Capitolo 16
*** 15- Remember those walls I built? ***


j
 

| Capitolo Quindicesimo |
Remember those walls I built?


La casa, enorme, era così piena che – probabilmente – non ci sarebbe stato posto neanche per un’altra persona. Margareth, vestita di nero già dalle dieci meno un quarto di quella mattina, se ne stava in un angolo – accanto alla scultura preferita di sua madre Celine – con le braccia incrociate e lo sguardo indagatore. Aveva visto più persone sconosciute che quelle che, effettivamente, conosceva anche solo di vista. Gente che era entrata in casa Grey con le lacrime agli occhi e le mani tremanti, abbracciando Dan e Celine e facendogli ancora le più ‘’sentite condoglianze’’. Alcuni neanche l’avevano salutata, probabilmente perché non ricordavano neanche che Morgan avesse avuto una sorella minore. Ammesso che ricordassero chi fosse Morgan, ovviamente.
E nel suo angolino isolato e semi-nascosto, Maggie rimaneva sempre più allibita dall’ipocrisia di quelle persone: le stesse con la quale era cresciuta, i protagonisti di tutte le storie e i pettegolezzi che le erano stati raccontati, coloro che erano anche al funerale anni prima, ma che non sapevano niente di Morgan Grey.
Il loro, era solamente un modo per apparire caritatevoli ed interessanti agli occhi del sindaco di una delle capitali del mondo conosciuto. Non sapevano niente, né di Morgan, né dei Grey, né tantomeno gli interessava che le cose cambiassero. E, tra tutte le cose che detestava, le lacrime di coccodrillo avevano il primo posto per Margareth. Si chiese come diavolo avesse fatto a stare e sentir parlare di quella gente per quasi diciotto anni, e scosse il capo. Era stata davvero così cieca? Così presa dal voler soddisfare i suoi genitori da perdere di vista cosa voleva lei? Aveva davvero pensato che alla famiglia Adams, o alla famiglia Clarke o perfino alla famiglia Andrews, avrebbe potuto interessare qualcosa che non fosse prestigio o autoaffermazione?
Improvvisamente, lo stesso mondo che aveva sempre considerato stretto e troppo diverso da lei, le parve assolutamente assurdo ed invivibile.
Strinse fra le mani il suo calice di champagne, lo stesso che i camerieri si premuravano di portare dovunque sui loro vassoi d’argento, e sospirò pesantemente. Era quasi mezzogiorno, e la celebrazione commemorativa non era ancora neanche incominciata. Il vescovo, invitato appositamente per l’occasione, pareva fosse imbottigliato nel traffico di primo pomeriggio. Il vestito nero, spezzato in vita e più morbido sulle gambe, sembrava addirittura stringere Margareth in una morsa violenta. Proprio quando si domandò se fosse stato troppo scortese salire in camera sua, e esattamente quando si rispose che sicuramente nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, sentì una voce conosciuta alle sue spalle.
‘’Come mai te ne stai qui da sola?’’
E voltandosi, proprio come aveva immaginato qualche secondo prima, si ritrovò davanti il volto sorridente e composto di quello che era sicura che fosse Henry Andrews, il figlio di uno dei più cari amici di suo padre nonché ragazzo perfetto secondo i suoi genitori. Era da parecchio tempo che non lo vedeva, precisamente da quella sera al ristorante italiano. Henry aveva i capelli più chiari rispetto alla prima volta, gli occhi dello stesso verde bottiglia, ma le pareva quasi più muscoloso. Era stretto in uno smoking che, si vedeva chiaramente, aveva iniziato a maledire già tempo prima. Anche lui, così come la bionda, stringeva fra le mani un calice di champagne ma – al contrario di lei – il suo era quasi vuoto.
Margareth cercò di dedicargli un sorriso almeno in parte sincero e sentito, anche se non seppe mai se fallì o meno. Guardò il pavimento laminato, perché per qualche motivo arcano non riusciva a reggere lo sguardo del ragazzo. Sembrava scrutarla semplicemente un po’ troppo.
‘’Non sono dell’umore giusto per stare fra la gente’’ scosse le spalle, rispondendo alla sua domanda. Henry dovette pensare che fosse una frecciatina o qualcosa del genere, perché portò goffamente le mani in avanti – rischiando di far rovesciare lo champagne – scusandosi.
‘’Scusami, Margareth, io non intendevo affatto dire che non ti interessi di questa cosa. Dopotutto era…è tua sorella, e…insomma io…’’
A Maggie venne da ridere sinceramente, per la prima volta da quella notte, per i buffi modi di fare di Henry e per il suo immenso imbarazzo. Non credeva che mai qualcuno avrebbe potuto essere in soggezione di fronte a lei, visto che era sempre stato il contrario.
‘’Henry’’ lo interruppe, sorridendo per bene e poggiandogli una mano sul braccio per fermarlo. ‘’Stai tranquillo. Semplicemente non mi va di sentire persone che parlano di industrie e politica’’
Il ragazzo sembrò davvero tranquillizzarsi alle parole della bionda, tanto che tutti i suoi muscoli si distesero improvvisamente. Le regalò il sorriso più sincero che possedeva, prima di scuotere la testa e scusarsi una seconda volta. E poi ‘’mi dispiace davvero tanto per Morgan’’ le disse, sinceramente e profondamente e amabilmente.
Maggie rimase impietrita, non tanto per quello che le aveva detto in per sé quanto per il fatto che Henry era stato il primo – in quella villa immensa – a dire qualcosa a lei. Certo, aveva ricevuto delle condoglianze, ma erano di circostanza e l’avrebbe capito chiunque. Invece le sembrò che in quelle di Henry Andrews, anche se erano state finemente velate, ci fosse quella sincerità e quell’interesse che non aveva ancora sentito da nessuna parte. Anche questa volta, allora, non potè impedire la nascita di un sorriso reale.
‘’Dispiace anche a me’’ gli rispose, dolcemente. ‘’Grazie’’
A quel punto, era convinta che lui avrebbe girato le spalle e se ne sarebbe andato. Ed invece, a discapito della sua immaginazione, Henry rimase lì davanti a lei. Si passò una mano nei capelli dorati, improvvisamente di nuovo in agitazione, e poi la osservò.
‘’Penso che…’’ iniziò, timidamente ed educatamente. ‘’Si, insomma, io sono fermamente convinto che – adesso – Morgan stia molto meglio. Sai, senza sofferenze e senza alcun tipo di pensiero. Non deve essere facile vivere per morire’’
Maggie non ci aveva mai pensato, e si sorprese quando il significato di quel semplice pensiero le arrivò alla mente veloce come un tornado. Morgan aveva passato gli ultimi mesi della sua vita in una camera d’ospedale, lamentandosi per l’immobilità e soffrendo in silenzio per dei dolori che non erano neanche lontanamente immaginabili. Se anche fosse stata viva, in quel momento e lì, non sarebbe mai cambiato niente. La consapevolezza che, in quel momento, Morgan fosse felice e spensierata rincuorò parecchio Margareth. Non doveva essere per niente facile vivere per morire.
‘’Hai ragione’’ disse, di getto. ‘’Hai completamente e pienamente ragione, Henry. Credo… credo di essere anche io fermamente convinta che adesso stia molto meglio’’
Il ragazzo parve salire al settimo cielo, nel rendersi conto che – probabilmente – aveva appena aiutato una ragazza in un momento difficile. Stavolta fu lui a poggiarle una mano delicata sulla spalla, e a stringerla lievemente quando Margareth sussultò per la sorpresa.
‘’Passa una buona mattinata allora, Maggie’’ le sorrise, chiamandola per la prima volta in quel modo e sottolineando un grado di confidenza che la bionda non aveva neanche preso in considerazione. Le si avvicinò e le scoccò un leggero bacio sulla guancia, e allora Margareth avvampò.
‘’Spero di sentirti presto’’ continuò Henry, facendo per allontanarsi. Maggie si sentì solamente di regalargli un sorriso prima che scomparisse fra la folla. E prima che le si parasse davanti l’ultima persona che credeva di vedere.
‘’Holland Todd?’’ sussurrò.
 
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‘’Quindi, adesso, è tutto a posto?’’ domandò Carl.
Cam parve risvegliarsi dal suo stato comatoso, aprendo gli occhi e sistemandosi meglio sul divano scomodo e fin troppo piccolo per due persone. Accanto a lui, sistemata sul suo petto, c’era Laurine che dormiva profondamente dopo notti e notti di insonnia e incubi. Che aveva condiviso anche Cameron, ovviamente per non lasciarla sola, e quindi un po’ di riposo era esattamente quello che gli ci voleva. Era consapevole che fossero quasi l’una del mattino e che Laurine non avrebbe dovuto essere lì, ma quando aveva bussato quella mattina – quando Carl era già andato a scuola – Cam non aveva saputo e non aveva potuto dirle di no. L’aveva fatta salire, e non biasimava l’amico. Di certo rientrare a casa per pranzare, e trovare due persone sul divano – che erano appena uscite da una crisi, tra l’altro – non era propriamente regolare.
‘’Shh’’ lo zittì Cam, per non svegliare Laurine. Si alzò lentamente, quasi come se avesse avuto paura di romperla, e si infilò la prima maglietta che trovò sulla spallina del divano blu. ‘’Abbassa la voce’’
‘’Ah bhè’’ sussurrò Carl. ‘’Non è una bambina, Cam’’
‘’Che coglione’’ borbottò Cameron, facendo segno all’amico di raggiungerlo sulla terrazza. Era abbastanza grande, considerate le dimensioni modeste del loro appartamento in centro, ed era stata la sede delle migliori fumate e discussioni della storia. ‘’Non dorme da giorni, lasciala stare’’
Carl sembrò ricordarsi improvvisamente di tutta la situazione precedente, e scrollò le spalle. ‘’Scusa’’ disse, atono. ‘’Sono contento che le cose tra voi si siano sistemate’’
‘’Più o meno’’ Cameron non riuscì a trattenere un sorriso. Nonostante Laurine avesse paura di essere toccata, ancora, pian piano gli stava permettendo di avvicinarsi, di nuovo. L’avrebbe ringraziata a vita. ‘’E comunque, anche io. Ora che quel figlio di puttana è finalmente in galera, spero per lui che non esca mai più’’
‘’Pensa a lei, ora’’ lo interruppe Carl, accendendosi la solita sigaretta. ‘’E’ passata’’
Cameron rilassò i muscoli a quell’affermazione, resosi conto che – effettivamente – era davvero finita.
I secondi di silenzio, ben presto, divennero minuti. Fin quando, almeno, Cam non si decise a parlare. ‘’Chiederesti alla tua fidanzata se è disposta a regalarmi le sue scarpe?’’
Carl avrebbe riso, molto probabilmente, se Cam non l’avesse chiamata in quel modo assurdo. Si limitò a scuotere la testa, esasperato, e ‘’Che tipo di problema hai, tu?’’ gli chiese.
Cam sogghignò e gli diede una pacca sulla spalla tutt’altro che leggera. ‘’Coglione!’’ ringhiò Carl, preso alla sprovvista. Cameron, tuttavia, parve non ascoltarlo. Prese a parlare quasi da solo, non lasciando a Carl neanche il tempo di controbattere.
‘’Sai, ieri ero al bar e leggevo il giornale e…’’
‘’Sai leggere?’’
‘’Stai zitto, Pearson. Comunque, stavo leggendo il New York Times e c’era la classifica delle dieci ragazze americane più sexy’’
‘’Interessante, Cam’’ sbadigliò il moro.
‘’A parte quei fantasmini delle figlie di Obama, sai chi c’era al quarto posto?’’
‘’Tu?’’ la domanda di Carl, Cameron non dovette neanche sentirla perché si rispose da solo dopo due secondi.
‘’Margareth Grey!’’ quasi urlò. ‘’C’era scritto qualcosa sulla sua innocenza e la sua educazione, e su quanto fossero sexy. Tu che dici?’’
Per quanto sorpreso, a Carl non avrebbe potuto importare di meno di quello che si diceva su uno stupido giornale. A prescindere se quelle cose erano condivise anche da lui, o meno. E proprio perché non accennava a dare una risposta, Cameron riprese a parlare. ‘’In effetti, dobbiamo ammettere che con la sua faccina, secondo me, sotto sotto sarebbe…’’
‘’Taci, cretino’’
Cameron scoppiò a ridere per il tono burbero che Carl aveva usato, quasi come se stesse richiamando un figlio o un fratello minore. Scosse la testa e ‘’lo sapevo, quella ragazzina ti ha fottuto il cervello’’ lo prese in giro.
‘’Non mi ha fottuto nessun cervello’’ ringhiò il moro. ‘’Forse le sue scarpe lo hanno fottuto a te’’
‘’Non mi pare di averlo mai negato’’
L’occhiolino di Cameron era la cosa che Carl detestava di più al mondo. Alzò gli occhi al cielo proprio quando glielo fece e ‘’perché non vai a dormire con la tua ragazza e mi lasci in pace?’’
 
 
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Margareth era sicura di aver visto Land, anche se questo era – improvvisamente – scomparso fra la folla. Si era allontanata dall’ombra della scultura solo per cercarlo. Si era fatta spazio fra le persone a furia di ‘’mi scusi’’, ‘’permesso’’ e ‘’mi perdoni un secondo ’’. Aveva rivoltato la parte della casa adibita per quella cerimonia da cima a fondo, e – proprio nel momento in cui il vescovo aveva fatto il suo ingresso nella villa dei Grey - Maggie aveva guardato il cielo fuori dalla finestra ed aveva notato una figura bionda in giardino. Nonostante sapesse che la cerimonia stava per iniziare, e sarebbe dovuta essere in prima fila con i suoi genitori, si diresse verso la veranda ed uscì fuori.
L’aria fresca le sferzò il volto, e rabbrividì stretta nel suo vestito nero e fin troppo leggero. Quello che, sicuramente, doveva essere Land era seduto per terra, lo sguardo rivolto verso il cielo ed i capelli disordinati per via del vento. Era incurvato, e la sua t-shirt nera e il suo pantalone stretto erano fin troppo riconoscibili, perché diversi dall’abbigliamento comune.
Maggie, ormai divorata dalla curiosità del perché fosse lì uno dei migliori amici di Carl, si avvicinò lentamente e si sedette accanto a lui. Land l’aveva già sentita arrivare, per questo non si sorprese più di tanto quando Margareth fece il suo ingresso. Non aveva intenzione di parlare, per cui aspettò che fosse lei a porgli qualche domanda. Cosa che, sicuramente, sarebbe accaduta da lì a poco.
‘’Che ci fai qui?’’ domandò, infatti, poco dopo. Eppure non sembrava eccessivamente incuriosita, urtata o arrabbiata. Fu allora che Land si rese conto che, quindi, Carl non le aveva raccontato ancora niente. Ne fu sollevato, e ringraziò mentalmente la riservatezza dell’amico su questioni non sue.
‘’Io conoscevo molto bene tua sorella’’
Probabilmente, così, le fece solamente sorgere ancora più dubbi, perché le sopracciglia di Margareth si aggrottarono visibilmente. ‘’Cosa?’’ domandò, allibita e senza neanche premurarsi di nascondere la sua sorpresa.
Land annuì e basta.
‘’Ci siamo conosciuti tre anni fa’’ rispose, mentre la mascella di Maggie sembrava essere attirata sempre più verso il basso. ‘’I miei genitori erano morti da due anni, ormai, ma io ero ancora fin troppo scosso. Mi ha…aiutato, credo. E’ stata la prima persona con cui mi sono sfogato’’
Margareth non l’avrebbe immaginato mai neanche lontanamente. Certo, non aveva mai avuto modo di conoscere le persone che Morgan frequentava né tantomeno i suoi amici, ma che uno di quelli fosse Land fu una notizia sconvolgente. Sgranò gli occhi e cercò di calmarsi. Dopotutto Morgan era una ragazza estroversa e socievole, era ovvio che si fosse fatta conoscere da mezza New York.
‘’Mi dispiace’’ disse Maggie. ‘’Per…si, per i tuoi genitori’’
Le parve che Land sorridesse, ma prima che potesse accertarsene lui sospirò. ‘’Io sono ancora innamorato di lei’’ disse, e a Margareth cadde il mondo addosso. Cosa aveva appena detto?
‘’Voi due eravate…?’’ non aveva neanche la forza di chiederlo per intero. Le sembrava semplicemente impossibile che Holland e Morgan fossero stati insieme. Era una coincidenza fin troppo malvagia.
‘’Si, ma non credo lei mi abbia mai amato’’ la interruppe il ragazzo, continuando a guardare il più lontano possibile da lei. ‘’O, almeno, non me lo ha mai detto’’
Margareth avrebbe voluto e dovuto arrabbiarsi, perché lui non glielo aveva detto e perché si era comportato come se non fosse mai successo niente. Eppure, in quel momento e con quel tono, Land le fece così tanta tenerezza che non ci riuscì. Avrebbe voluto fargli qualche domanda, cercare di capire più a fondo, ma chiese la cosa più scontata di tutte.
‘’Come vi siete conosciuti?’’
‘’Per caso’’ rispose Land, pragmatico. ‘’Lei aveva appena litigato con i suoi genitori e credo fosse scappata di casa. Era seduta fuori il mio portoncino perché stava piovendo. Tutto qui’’
Ma per Maggie non era per niente tutto lì. Le era stata appena rivelata l’ultima cosa a cui avrebbe mai pensato e non riusciva neanche ad immagazzinarla. Scosse la testa e si passò due mani sul volto, con fare disperato. ‘’Io…sono sconvolta, credo’’ sussurrò.
‘’Avrei dovuto dirtelo quando ti ho conosciuta’’ ammise Land. ‘’Ma non è una cosa di cui parlo volentieri’’
‘’Va bene’’ sospirò Maggie. ‘’E perché non ti ho mai visto in ospedale? Se dici di essere stato innamorato di lei, perché non c’eri quando stava male?’’
Nonostante non volesse, la sua voce uscì fuori saccente e seccata. Il punto era che neanche Margareth parlava tanto volentieri della sorella morta, tutto lì.
E, sopra ogni cosa, non a tre anni dalla sua morte.
‘’Perché non lo sapevo’’ rispose rudemente il biondo. ‘’Lei mi ha lasciato due mesi prima di morire. Io non sapevo niente della sua malattia, né del suo tempo, né nient’altro. A distanza di tre anni, mi rendo conto che non ho mai saputo niente di lei’’
Margareth trattenne le lacrime. Non solo perché l’argomento ‘’Morgan’’ era ancora tabù per lei, ma anche perché il tono con la quale Holland aveva parlato le aveva messo i brividi. C’era così tanta malinconia e così tanto rimpianto nella sua voce, che a Maggie parve quasi di sentirlo sulla sua pelle. Si rese conto, in quel momento più che in qualunque altro, che non era stata e non era ancora allora l’unica a soffrire per la morte di Morgan. Che le vere persone che tenevano a lei e che avevano pianto per giorni quando era andata via, in realtà non erano in quella casa e non indossavano collane di perle né nessun tipo di rolex. E, dopotutto, si rese conto che neanche lei aveva mai saputo qualcosa di Morgan. Che sarebbe rimasta un segreto agli altri per sempre. Che non ci sarebbe stato più nessun altro al mondo che avrebbe provato a buttare giù i muri che si era costruita attorno. Così come nessuno avrebbe potuto buttare giù i muri di Holland Todd, che – allora – le parvero così possenti e visibili che le misero paura.
‘’Se te l’avesse detto’’ domandò Marge. ‘’Ci saresti stato?’’
‘’Sì’’
Forse fu il fatto che Holland rispose senza neanche pensarci un secondo, che portò Margareth a credere realmente alle sue parole. O forse furono i suoi occhi, così cupi e lontani che sembrava stessero guardando il paesaggio di una galassia lontana anni luce. E Margareth, improvvisamente, si sentì in dovere di confortarlo.
‘’A lei non piaceva apparire debole’’ sussurrò, perché le faceva male anche ripeterlo. ‘’Pensa che non voleva che nessuno andasse a trovarla in ospedale, a parte me e i nostri genitori. Odiava vedersi così, ed odiava che la vedessero così gli altri. Non era quello il ricordo che voleva lasciare di se’’ sospirò, gli occhi ormai appannati dalle lacrime. ‘’Aveva fatto perfino togliere lo specchio dal bagno. Io non so cosa provava mia sorella nei tuoi confronti, Holland, ma so per certo che non ti ha allontanato perché non le interessasse. Voleva semplicemente che la ricordassi per quella che era e non per come sarebbe diventata’’
Fu in quel momento che Land poggiò una mano sul ginocchio della ragazza, e lo strinse leggermente. ‘’Mi manca’’ soffiò, e la sua voce parve dissolversi con il vento.
‘’Manca anche a me’’ e, senza neanche averci pensato, la mano di Maggie era su quella di Holland ed esercitava una piccola pressione.
‘’Margareth?’’ chiese il biondo, dopo minuti e minuti di silenzio.
‘’Mhm?’’
‘’Non fare lo stesso errore che abbiamo fatto io e Morgan’’ disse, con quanta più sincerità possibile. ‘’Con Carl, intendo. Non lasciare che i vostri mondi diversi vi dividano. Non permetterlo’’
Margareth non sapeva se Carl conoscesse quella storia o meno, e il pensiero che ne fosse al corrente e non glielo avesse detto le fece un po’ male. Tuttavia si sforzò di sorridere e ‘’non lo permetterò’’ disse. ‘’Adesso andiamo via di qui. Ti va?’’
Land sorrise.
 
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La casa di Holland, Cameron e Carl era di medie dimensioni e molto più ordinata di come Margareth se l’era immaginata. Dal momento che si gelava, e per strada avrebbero potuto riconoscerla, Maggie e Land avevano optato per andare a casa del ragazzo. Era arredata in stile molto minimalista, e anche abbastanza moderno, per sua sorpresa. Tuttavia, non ebbe il tempo materiale di pensarci più di tanto, perché Land sogghignò.
‘’Stai tranquilla’’ disse. ‘’Non esce neanche con le cannonate dalla sua stanza. Puoi andare da lui, se vuoi’’
Holland aveva catalogato subito la sua agitazione, e lei gli fu grata per questo. Parve pensarci un po’, anche se – nella sua mente – si era già fatta strada una risposta precisa. E anche una domanda.
‘’Ti dispiace?’’ gli chiese, educatamene.
‘’No, anzi’’ le sorrise Holland. ‘’Vai pure. Terza stanza a destra’’
Maggie gli sorrise ancora una volta, prima di addentrarsi in un corridoio lungo e dalle pareti fin troppo gialle. Chi aveva scelto quel colore doveva avere davvero poco gusto, o doveva essere leggermente daltonico.
Quando inquadrò la stanza, fu sicura che fosse la porta giusta perché era l’unica da cui fuoriusciva una luce. Respirò più volte, prima di bussare in modo delicato.
‘’Cam non rompermi il cazzo’’ fu la secca risposta di Carl. Margareth pensò che, probabilmente, per reagire così stesse facendo qualcosa di importante. Tuttavia decise di dirgli almeno che non era Cameron.
‘’Ehm’’ balbettò. ‘’Carl, sono Maggie. Sono venuta con Land. Scusami se ti disturbo, io…’’
Non ebbe il tempo di finire la frase, perché la porta si aprì improvvisamente rivelando un Carl in tuta grigia e con i capelli più spettinati che gli avesse mai visto. Trattenne un sorriso.
‘’Sei venuta con Land?’’ domandò il moro, allibito.
‘’So tutto’’ rispose Margareth, scrollando le spalle. ‘’Era alla funzione a casa mia e abbiamo deciso di filarcela. Perché non me lo hai mai detto?’’
Carl, dal canto suo, le spalancò la porta e la fece entrare del tutto. La stanza era esattamente come si era aspettata che fosse: semplice, con un letto ad una piazza e mezza ancora sfatto, una scrivania, un armadio, una porta che dava probabilmente al bagno, e foglie e vestiti sparsi un po’ ovunque. E, sul letto, un vecchio libro aperto.
‘’Perché non sapevo se ad Holland avrebbe fatto piacere o meno’’
‘’Era mia sorella, però’’ la voce di Maggie uscì fuori piccata e seccata.
‘’Lo so’’ ammise Carl. ‘’Mi dispiace’’
Margareth sospirò e si passò le mani fra i capelli sciolti e biondissimi. Non avrebbe voluto innervosirsi, ma l’atteggiamento statico e quasi menefreghista di Carl la stavano urtando seriamente. Contò fino a dieci per tre volte.
‘’Io ho pianto davanti a te’’ disse, riaprendo gli occhi e osservandolo. ‘’Ti ho raccontato di Morgan e di come mi sentissi. Come hai fatto a non dirmi niente? Non avresti dovuto fare per forza il nome di Holland, perlomeno informarmi’’
Stavolta fu Carl a prendere tempo prima di rispondere. ‘’Non la reputavo una cosa da dirti in quel momento, tutto qui’’ rispose, sempre più freddo e monocorde. La verità era che Carl non poteva chiudersi in se stesso e trattare male il mondo ogni volta che gli veniva detto qualcosa che non gli piaceva. Era ingiusto e immaturo.
‘’Tutto qui?’’ domandò Margareth. ‘’Non ti capisco’’
‘’Possiamo evitare di litigare per qualcosa che non ci riguarda?’’ ringhiò Carl, visibilmente al limite.
Fu con quella frase che la pazienza di Maggie traballò del tutto.
‘’Tutto quello che riguarda mia sorella riguarda anche me!’’ esclamò, stanca. ‘’Oh Signore, ma davvero pensi che non mi interessi del ragazzo con cui stava? Davvero pensi che me ne importi così poco della sua vita?’’
Carl si allontanò da lei di scatto e prese ad osservare fuori dalla finestra. ‘’Evidentemente si, dal momento che non conosci neanche le persone con cui se la faceva’’ ringhiò, innervosito.
A Margareth quella frase, detta il giorno in cui erano tre anni che sua sorella non c’era più, fece un male cane. Probabilmente in un’altra situazione avrebbe reputato stupido quel litigio, avrebbe chiesto scusa e si sarebbe risolto tutto. Ma quel giorno non ce la fece.
‘’Vaffanculo’’ gli disse, prima di uscire di camera sua sbattendo la porta. Come aveva previsto e immaginato, Carl non le corse dietro.


 
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Quanto può essere schifoso questo ritardo?
Lo so, vi prego perdonatemi, è solo che in questa settimana ho REALMENTE perso il lume della ragione.
Nella vita di una persona ci sono periodi infiniti in cui non succede un cazzo, e poi - PUFF - improvvisamente
c'è un vero e proprio accalcamento!
Comunque spero di essermi fatta perdonare con il capitolo, e spero che voi abbiate passato una settimana
più tranquilla della mia <3
Dunque vi avevo accennato che con Carl non bisognava star tranquille, e difatti...
Ha reagito malissimo con una Maggie che voleva solo una calma e semplice spiegazione.
Ovviamente c'è un perchè! Secondo voi, cosa potrebbe essergli successo? Sono curiosa :)
Per quanto riguarda Henry... bhè, diciamo che è meglio TENERLO A MENTE.
Ora scappo a mangiare, vi lascio un bacio enorme  ((con la promessa di postare presto una foto di Laurine, 
che sto ancora cercando ahahah))
Harryette


 

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Capitolo 17
*** 16- Say something, I'm giving up on you ***


j
 

|Capitolo Sedicesimo|
Say something, I'm giving up on you
 
 
Quando Margareth era ritornata a casa la cerimonia era ormai finita. Sull’uscio della porta c’erano i suoi genitori, visibilmente affranti, mentre salutavano tutti gli ospiti e li scortavano fuori. Nessuno fece caso a lei, mentre si confondeva fra la mischia e rientrava in casa. Avrebbe potuto dire che non ce l’aveva fatta a sentire il sermone ed era corsa in camera sua, non aveva dato così nell’occhio mentre scappava via. Probabilmente anche i suoi genitori ci avrebbero creduto, dopotutto non le prestavano mai più di tanta attenzione. Le foto di Morgan appese nelle cornici sui muri, e la sua gigantografia attorniata da fiori appesa alle spalle del piccolo palco allestito per il vescovo, la sommersero manco fossero acqua.
Si sentì, in quel momento più che in quelli precedenti, mancare davvero l’aria. Ed in più, come se non provasse già abbastanza dolore e non fosse straziata a sufficienza, le parole taglienti e quasi cattive di Carl le echeggiavano nella mente amplificate mille volte. Avrebbe tanto voluto dare una giustificazione valida al suo comportamento freddo e scostante, ma – nonostante si sforzasse – non riusciva a trovarla.
La verità era che lui sapeva fin troppo bene che giorno fosse, poteva intuire come lei stesse, e il suo intervento antipatico era stato completamente fuori luogo. Per questo, Margareth non si pentì di aver lasciato la sua stanza con un ‘’vaffanculo’’ e neanche di aver sbattuto la porta. Carl c’era sempre stato per lei quando ne aveva avuto bisogno, ma quella volta non aveva bisogno di una mano ma solamente di qualche parola di conforto. Non negò a se stessa, come avrebbe invece fatto qualche tempo prima, che l’avrebbe fatta sentire meglio anche un suo abbraccio. Aveva fatto, per lei, cose ben più grandi di un semplice gesto d’affetto, per cui non riusciva proprio a vedere quale fosse stato il suo problema. Le era sembrato di essere quasi un peso, in quell’istante, nonostante lui l’avesse invitata nella sua stanza. La sua era stata una semplice domanda, solo la curiosità di sapere per quale motivo Carl non le aveva detto la verità, non aveva mai avuto intenzione di attaccarlo o di litigare. Non era neanche in vena.
Sospirò per la millesima volta – quel giorno -, prima di decidere che sarebbe andata davvero nella sua stanza. L’ultima cosa di cui aveva bisogno, in quel giorno che era iniziato male e sarebbe finito anche peggio, era incontrare gente che – ormai – le stava altamente antipatica e leggere sui loro volti sorrisi forzati e sentire frasi di circostanza.
Tuttavia, sulle scale che stava salendo, c’era una figura familiare che la fermò. George, che era stato nella parte della casa adibita per il personale tutto il tempo, la stava osservando e le si avvicinò con passo felpato. L’autista era un tipo di poche parole, che parlava solamente quando era strettamente necessario, per cui Margareth fu certa al cento per cento che stesse per dirle qualcosa.
Lo raggiunse, annullando del tutto i metri che li separavano. La casa era ormai quasi vuota, si sentivano le voci dei suoi genitori e del resto degli invitati dall’altra parte del salone enorme. In un gesto più dettato dall’imbarazzo assurdo che dal freddo, Maggie avvolse le braccia attorno al busto. Voleva solamente tornare a dormire.
Aspettò pazientemente che George iniziasse a parlare, sapendo che l’avrebbe fatto di sicuro dopo aver cercato – nella sua mente – le parole adatte e dopo averle trovate.
‘’Signorina Grey’’ iniziò, in modo abbastanza formale. ‘’Lei sa che io non mi permetterei mai di infierire nella sua vita, ma ho pensato molto e…’’ sospirò, in imbarazzo. ‘’Anche se non lo dirò a nessuno, e soprattutto per questo, io mi sento in dovere di esprimerle la mia opinione su quel ragazzo’’
Alle ultime due parole di George Margareth sobbalzò. Le sue orecchie si aprirono, improvvisamente interessate. George le aveva detto che avrebbe mantenuto il segreto, e lo conosceva abbastanza bene da non dubitarne neanche per un secondo, per cui – a malincuore – capiva che probabilmente volesse darle qualche avvertimento.
‘’Dimmi’’ lo incoraggiò.
‘’So che questo non è il luogo adatto ma…’’
Maggie non aveva mai visto George a disagio, le era sempre sembrato un uomo costantemente d’un pezzo. Cercò, in qualche modo, di smorzare il suo imbarazzo. ‘’Stai tranquillo’’ cercò di sorridere. ‘’Ti ascolto’’
L’autista sospirò, per poi incominciare dal principio. ‘’Io capisco che a lei piaccia, e questo si vede. Ma io, così come probabilmente farebbero i suoi genitori e le sue amiche, penso che non sia…adatto’’
Margareth iniziò a pensare di mettersi subito a dormire solo per far finire presto quella giornata assolutamente schifosa. Si chiese se avesse qualche specie di calamita per le disgrazie e i complessi. L’ultima cosa che voleva e che le serviva, in quel momento, era qualcuno che mettesse in dubbio il suo pseudo-rapporto con Carl Pearson.
‘’Come mai?’’ domandò, scossa.
Sapeva che George era un uomo molto oggettivo e razionale, non le avrebbe mai detto qualcosa di cui non era sicuro al cento per cento e a cui non aveva pensato.
‘’Non che non sia un bravo ragazzo’’ si affrettò a dire, anche se non pareva particolarmente convinto. ‘’Solo che è troppo diverso da lei e dal suo mondo. Non crede che sia rischioso mettere in discussione il suo rapporto con i suoi genitori in questo modo? Signorina, seppur non sarà oggi, lo verranno comunque a sapere. Lei è sicura che questo ragazzo meriti che lei rinunci a tutto? E’ sicura che questo ragazzo ne valga la pena?’’
Nonostante sapesse che George non aveva pronunciato quelle parole per cattiveria né per malizia, comunque si sentì quasi male. L’uomo aveva solamente cercato di aiutarla e di darle un consiglio, magari ignorando di aver piantato un grosso dubbio nella sua testa. Perché la risposta era che, no, non era sicura che Carl ne valesse la pena. Non dopo quello che era successo quel pomeriggio, dopo il modo seccato con cui l’aveva trattata nonostante sapesse che fosse un giorno particolare. Probabilmente se Carl avesse assunto un comportamento anche solo un po’ diverso, non avrebbe pensato neanche un secondo a rispondere di sì. Il punto era che, purtroppo, non ne era più così sicura.
‘’Io…’’ sospirò, ed optò per la nuda e cruda verità. ‘’Io non lo so’’
‘’Ci pensi’’ le ripose l’uomo brizzolato. ‘’Ricordi che niente e nessuno viene prima della sua felicità. E’ sicura che questo ragazzo sia capace di renderla felice?’’
Ne era sicura?
 
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‘’Si può sapere che cosa diavolo le hai detto? E’ corsa via sconvolta’’
Holland piombò nella stanza di Carl nell’esatto momento in cui Margareth era andata via sbattendo il portoncino principale. Aveva imparato a conoscerla, e doveva essere sicuramente successo qualcosa che l’aveva scossa parecchio per portarla ad andare via da sola, rifiutando qualsiasi passaggio.
Carl, che era steso sul letto con il suo libro di Emily Dickinson fra le mani, alzò il suo sguardo vitreo e a Land venne voglia di sganciargli un pugno. Sembrava così tranquillo che iniziò a domandarsi se, al contrario  di come gli era sempre sembrato fino ad allora, Carl fosse davvero interessato a Margareth.
‘’Non ero l’unico ad essere elettrico’’ si giustificò, come se gettare metà della colpa sulle spalle della ragazza avesse potuto farlo sentire meglio.
‘’Ma che significa?’’ ringhiò Holland, urtato dal menefreghismo dell’amico. Era da quella mattina presto che si comportava in modo strano, e sapeva che gli era successo qualcosa anche se non glielo avrebbe mai chiesto, ma non credeva fosse arrivato anche al punto di prendersela con Maggie. ‘’Posso sapere che cazzo ti prende?’’
‘’Vuoi saperlo davvero?’’ ringhiò Carl, alzandosi di colpo dal letto e lanciando il libro da qualche parte sul materasso. Si avvicinò così tanto ad Holland che il ragazzo pensò volesse fare a botte. Tuttavia Carl non accennò ad alzare neanche una singola mano, per cui decise di rispondere.
‘’Sì’’ quasi urlò.
‘’C’è che mi ha chiamato la preside della scuola e mi hanno espulso per colpa tua’’ e lo disse con una cattiveria così forze che ad Holland venne mal di denti. Nonostante sapesse che Carl era stato coinvolto in un giro di droga di cui neanche sapeva niente, e che aveva finto di conoscere solo per sbrogliarlo dai casini, lui non glielo aveva mai rinfacciato.
Non c’era stato giorno, da allora, in cui Land non si era sentito uno stronzo egoista. Perché sapeva che Carl era andato via dal Bronx per ricominciare da zero, ed invece aveva trovato solo altri problemi. Però il ragazzo lo aveva sempre tranquillizzato, dicendogli che era pulitissimo e che sarebbe risultato sempre negativo al test anti-droga. Quindi per quale motivo era stato espulso?
‘’Perché?’’ chiese, cauto.
Carl sembrò infuriarsi ancora di più, prima di passarsi una mano fra i capelli con fare disperato. ‘’Perché, anche se sono risultato negativo al test, la preside del cazzo pensa che non sia giusto e sicuro che continui a girare per la scuola’’
C’era malinconia nella voce di Carl, innanzitutto perché a lui la scuola era sempre piaciuta. Era un modo per svagarsi, per non pensare a niente. Holland ricordò di quell’unica volta, quell’anno, in cui Carl gli aveva chiesto un consiglio sull’università. Anche se fingeva di non saperlo, Land sapeva fin troppo bene quanto la fedina penale di Carl fosse – ormai – sporca. Per colpa sua. E che avrebbe dovuto rinunciare a Yale e a qualsiasi altra università prestigiosa a cui aveva pensato prima.
‘’Questo è l’ultimo anno’’ continuò Carl. ‘’Non posso permettermi di essere espulso. Capisci?’’
‘’Sì’’ la risposta di Land fu immediata. ‘’Capisco fin troppo bene’’
E fu quando prese il cappotto, deciso ad andare a scuola e parlare personalmente con la preside per dirle tutta la verità, che Carl lo afferrò rudemente per un braccio e lo strattonò. Holland aveva ormai perso una decina di chili, le sue occhiaie erano sempre più prominenti e il biondo dei suoi capelli pareva essersi spento insieme al colore vivo della sua pelle lattea, per cui – fin troppo debole – rischiò quasi di cadere.
‘’Dove stai andando, adesso?’’ gli domandò Carl, apparentemente più calmo.
‘’A scuola’’ rispose il biondo. ‘’Questa farsa è durata anche troppo’’
‘’E che cosa dirai? Se risulti positivo al test cacciano via te e ti faranno una multa incredibile. Lo sai?’’
‘’Non me ne frega niente della scuola’’ rispose Holland, trovando la forza di strapparsi dalla stretta ferrea del moro. ‘’E troverò il modo di pagare quella multa’’
‘’Come?’’ la voce di Carl era piena di ansia, come se sapesse che Land si stava cacciando in un casino più grande di lui. ‘’Se non la paghi ti mandano in riformatorio, coglione’’
L’ultima cosa che Land desiderava era morire nella stanza asettica di un riformatorio. Eppure, in quell’istante e con gli occhi trasparenti di Carl davanti, neanche quel pensiero orrendo riuscì a fermarlo. Si avvicinò ancora alla porta e ‘’ti ho detto che troverò un modo’’ ringhiò. ‘’E’ ora che tutto questo finisca’’
Carl non se la sentì di fermarlo, non per l’espulsione e neanche per la reputazione ma semplicemente perché pensò che così – magari – Holland avrebbe smesso di sentirsi in colpa per una scelta che non era stata sua ed una bugia che non aveva raccontato lui.
E prima di uscire dalla sua stanza lo sentì dire ‘’parla con Margareth, però. Lei non c’entra niente’’
 
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Come aveva immaginato, nessuno aveva fatto caso alla sua scappatella. Dopo che la casa si fu svuotata, e dopo aver salutato giusto i parenti più stretti e chiesto il permesso ai suoi genitori, era salita in camera sua e vi era rimasta fino a tarda sera.
Nonostante avesse il telefono accanto a lei, aveva ormai abbandonato da tempo – per non dire che non aveva mai avuto – la speranza che vibrasse. Ormai ogni pensiero aveva lasciato la sua mente, anche mentre studiava inglese e matematica, e si era fatto spazio dentro lei il vuoto più totale. In quell’istante voleva solamente essere lì, sul suo letto ad una piazza e mezza, ad osservare il soffitto bianco senza pensare a niente.
Stranamente, quando villa Grey era ormai ritornata vuota ed insonorizzata come sempre, aveva sentito come un peso in meno nel petto. Quella giornata stava per finire, erano ormai le dieci di sera, e non poteva chiedere di meglio. Desiderava solo l’alba di un giorno nuovo, sperando che sarebbe stato meglio di quello precedente. Inizialmente aveva pensato alle parole terribilmente realiste del suo autista, ma non aveva trovato risposta a nessuna delle sue domande per cui – alla fine – aveva lasciato perdere.
Holland le aveva mandato un messaggio, visto che si erano scambiati i numeri nel breve viaggio verso casa sua per le ‘’emergenze’’ – e lei aveva risposto alla sua domanda in modo breve e sintetico.
Sto bene J
Ovviamente non stava bene, ma c’erano stati momenti in cui era stata peggio. Il momento in cui aveva saputo che a Morgan restavano due anni di vita, il momento in cui aveva scoperto che le sue trasfusioni non sarebbero servite più a niente, il momento in cui aveva capito che i suoi genitori l’avevano concepita solo per salvare la loro primogenita, il momento in cui Morgan era morta e le lacrime di sua madre quando glielo aveva detto. Il momento in cui si era sentita così sola che aveva cercato la pace in un fiume, una mano gelida che l’aveva tirata fuori dal tunnel.
La verità era che aveva davvero creduto che Carl fosse stata una benedizione di sua sorella, un segno di Morgan per farle capire che c’erano ancora tante cose belle da fare in vita. Aveva davvero creduto al suo interesse, e le era ancora difficile perfino metterlo in discussione. Purtroppo però, insieme alle parole belle che lui le aveva rivolto, c’erano anche le parole brutte e reali di George. Le sembrava che avesse dato vita alle sue paure più profonde, quelle che non aveva neanche mai ammesso a se stessa.
Ne valeva seriamente la pena?
Lei non si era mai buttata a capofitto in niente, non aveva mai agito senza pensare e basta, aveva sempre soppesato ogni singola cosa ed ogni singola parola. Aveva odiato la sua vita proprio per quello, per quella monotonia e quella tristezza che le alteravano la persona stessa. Eppure, in quel momento, desiderò solo tornare a qualche mese prima. Carl era diventato un altro pensiero, da aggiungere alla montagna di pensieri che aveva già di suo. Era diventato proprio quello che voleva evitare che diventasse.
E il fatto che non fosse più sicura neanche del suo interesse non poteva portarla a niente di buono. Se davvero Carl ne fosse valsa la pena allora non avrebbe dovuto neanche pensare il contrario. Avrebbe dovuto essere sicura e senza nessun dubbio. Il solo fatto che ci stesse pensando le metteva ansia.
Forse era lei ad essere troppo complicata per una relazione.
Si lasciò del tempo per riflettere, ma rinunciò anche quella volta. Si addormentò con il cellulare ancora al suo fianco, senza che si illuminasse neanche una volta.
 
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La campanella della fine delle lezioni suonò all’improvviso. Margareth tirò un sospiro di sollievo perché quel giorno, per aver perso tempo dalla preside, la Anderson non aveva avuto tempo di interrogare.
Non che non avesse fatto i compiti di matematica o che non fosse stata brava, semplicemente non le andava nel modo più assoluto. Robyn parve essere allegra per qualche altro motivo, quando uscì dalla sua classe e raggiunse la bionda. Le passo una mano scura e profumata sulle spalle e le lasciò una carezza prima di allontanarsi di nuovo. Margareth le sorrise solo perché, durante quella settimana, era stata praticamente un vegetale con le gambe. Nonostante Robyn non le avesse chiesto niente, probabilmente credendo che stesse così per la cerimonia commemorativa della settimana precedente, non avrebbe accettato altri cenni col capo anzichè parole vere e proprie.
Parve soddisfatta quando sentì, finalmente, la voce di Margareth non alterata da nessun sentimento negativo.
‘’Come stai, bionda?’’ le domandò, sinceramente interessata. Maggie sorrise ancora una volta e scrollò le spalle. ‘’Bene, tu?’’ rispose. In realtà, al contrario di quello che poteva pensare la sua migliore amica, Margareth non stava così per i tre anni della morte di sua sorella. Ad un certo punto, quando una persona viene a mancare per così tanto tempo, cominci ad abituarti di più alla sua assenza. Il motivo per cui Maggie sembrava, ed effettivamente era, intrattabile in quel periodo era un altro.
Era da una settimana che lei e Carl non si scambiavano neanche una parola. Dall’ultima volta, nel suo appartamento, Margareth non l’aveva più visto. Certo, per i primi tre giorni aveva sperato di rivederlo – magari fuori scuola con la moto, anche se si gelava in quel periodo -, ma poi aveva perso le speranze già al quarto. Al quinto si era praticamente rassegnata ed era ritornata ad essere quasi come prima. Al sesto aveva preferito fingere di avere mal di testa e restare a casa a dormire, e al settimo aveva sorriso. Robyn le diede un delicato bacio sulla guancia, per qualcosa che Margareth neanche ricordava di aver detto, mentre si dirigevano verso l’uscita.
Maggie, però, non giudicava Carl: come aveva avuto dei dubbi e dei pensieri lei, nulla avrebbe potuto impedire a lui di averne. Alla fine, ormai era quasi sicura che fossero giunti alla stessa conclusione. Lei non avrebbe mai trovato il coraggio di chiedergli di vedersi per chiarire, e lui probabilmente non ne avrebbe trovato la voglia.
Le venne da piangere al solo pensiero, ma era stanca di nascondersi dalla realtà e di evitare la verità. Per una volta sola nella sua vita non avrebbe avuto nessun rimpianto, perché avrebbe fatto esattamente quello che si aspettava fosse giusto fare.
E in quel momento l’unica cosa che pensava fosse necessaria era andare avanti. Nonostante Carl le mancasse come l’aria, per quanto poteva essere smielato e assurdo, avrebbe voltato pagina comunque. Avrebbe continuato a vivere nel dubbio di come sarebbe stato, ma non sarebbe ritornata indietro. A Carl non importava di lei, non come a lei importava di lui almeno, e quella settimana ne era stata la prova. Se ci avesse tenuto sarebbe andato da lei anche solo per trattarla di nuovo male.
Margareth sentiva il cuore un po’ più pesante ogni volta che pensava che probabilmente non l’avrebbe più rivisto, e le veniva da urlare, ma non si sarebbe mai buttata giù. Non di nuovo. Non dopo che era stato proprio lui ad aiutarla, inconsapevolmente, ad alzarsi.
Salutò Robyn e salì nella sua limousine, diretta a casa. George doveva aver intuito del cambiamento nella sua vita, perché non aveva più riaperto l’argomento. Il resto della giornata trascorse in modo relativamente tranquillo, fra compiti e iPod, e quella sera – come poche sere prima di allora – Margareth si stese sul letto e pianse.
Non conosceva a fondo il motivo per cui lo stesse facendo, in verità. Probabilmente perché era da una lunga settimana che non lo faceva, o forse perché le apparvero davanti agli occhi tutti i messaggi che si era scambiata con Holland. E quel ‘’Carl è proprio un coglione’’ che le aveva scritto quella mattina, anzicchè il solito buongiorno, le pizzicava le pupille come fosse un ago. Si era sicuramente affezionata troppo, come le era sempre successo d’altronde, ma sentiva che c’era qualcosa di diverso quella volta. Che il rapporto che aveva con Carl andava ben oltre il semplice affetto, ed era arrivata l’ora che lo ammettesse. Nonostante il modo in cui si era comportato negli ultimi giorni, Maggie non poteva dire che non c’era mai stato per lei. Carl era corso a casa sua ogni volta che lei ne aveva avuto bisogno, anche quando non glielo aveva chiesto. L’aveva salvata, letteralmente e non, ben più di una volta – nonostante non la conoscesse nemmeno. Ed il modo in cui l’aveva guardata quella volta in cui se l’era ritrovata fuori al cancello, il modo in cui i suoi occhi trasparenti avevano luccicato un secondo prima che la baciasse, le rendevano davvero difficile pensare che per lui non fosse mai contato niente.
Perfino il modo in cui le aveva afferrato la mano nei momenti più banali, come se non ci avesse neanche pensato e fosse stato un gesto automatico, la soffocava. Come poteva essere stato, per lui, solo uno scherzo?
Nonostante una parte di lei si fosse ormai arresa all’assenza e al disinteresse di Carl, un’altra parte continuava a non metterlo in discussione. Forse fu perché la sera la rendeva più coraggiosa, o forse perché la curiosità di sapere la verità la divorò del tutto, o forse perché le mancava troppo la sua voce, che afferrò l’iPhone e compose il suo numero a memoria.
Se ne pentì nel momento esatto in cui lo avvicinò all’orecchio, ma non staccò la chiamata come aveva fatto nei giorni precedenti. Se non avesse risposto, non ci avrebbe neanche riprovato. Se, invece, lo avesse fatto avrebbe saputo – e chiesto – la verità. Si sarebbe messa l’anima in pace.
Al settimo squillo si era ormai arresa e aveva perfino staccato il microfono dall’orecchio per chiudere la chiamata, quando sentì l’avviso che la chiamata era stata accettata. Tuttavia dall’altro lato ci fu silenzio. Carl probabilmente aveva letto il suo nome e sapeva chi fosse, per cui non sentì l’esigenza di fare domande.
Margareth avvicinò di nuovo il telefono all’orecchio e sospirò. Decise di parlare prima che fosse stato lui a farle qualche domanda, prima che avesse anche solo il tempo di pensare perché diavolo lo stesse chiamando dopo tutto quel tempo.
‘’Ascolta’’ iniziò, tutto d’un fiato. ‘’Fammi parlare senza interrompermi, e poi ti giuro che ti lascio in pace. Non sentirai più la mia voce e neanche il mio nome’’
Dall’altra parte ci fu ancora silenzio, così decise di iniziare approfittandone. ‘’Ci ho pensato. Ci ho pensato praticamente tutta la settimana e non ho concluso proprio niente. Credevo di essere riuscita ad andare avanti ma non è così, e me ne sono resa conto stasera. Per questo voglio dirti tutto quello che provo, visto che – quasi sicuramente – non ne avrò più l’occasione. Non voglio che ci capiti quello che è capitato a Morgan e Holland. Gli ho promesso che non avrei permesso ai nostri due mondi di separarci, e farò qualsiasi cosa per non farlo accadere. Anche se probabilmente non servirà a niente, perché credo tu abbia già fatto la tua scelta, io voglio dirti ogni cosa. Avevi ragione quella sera quando mi dicesti che farla finita è da codardi. Anzi, penso che avevi ragione su ogni singola cosa che mi hai detto. Mi hai salvato e non potrei negarlo neanche volendo, per questo essere sincera è il minimo che possa fare. Quando ti ho conosciuto ho avuto paura di te, lo sai? Ho capito subito che avresti rivoltato ogni cosa, ed io ero troppo triste e confusa per impedirtelo. Quando ci siamo rivisti la volta dopo, e quella dopo ancora e tutte le altre volte di seguito, io ho capito che sarebbe stato comunque inevitabile. L’ho saputo nel momento in cui ti ho guardato negli occhi, nel parcheggio di quel centro commerciale, che niente sarebbe stato più lo stesso. Io non so cosa provi tu, ma ogni volta che mi sei vicino mi sento di volare. Sembrerà stupido, ma per diciassette anni della mia vita mi sono sentita pesante come una petroliera. Ancorata al suolo, con i piedi di piombo incastrati in una vita che non mi piaceva. Tu sei…’’ sospirò e decise di smettere di trattenere le lacrime. ‘’Sei stato come una boccata d’aria fresca. Stavo soffocando e nessuno riusciva a capirlo. Mi dispiace se qualche volta sono stata egoista o sulle mie, mi dispiace di averti coinvolto in qualcosa di cui – evidentemente – non ti interessa, e mi dispiace anche dirti queste cose perché ho paura che ti facciano solamente arrabbiare. Solo che non posso più tenermele dentro, perché sono stanca di essere qualcuno che non sono. Me lo hai detto tu, ti ricordi? Non permettere mai a nessuno di decidere che devi fare e chi devi essere’’
Ci fu un silenzio imbarazzante, prima che la bionda decidesse di riprendere e concludere il discorso. ‘’Questa sono io. Sono Margareth, la stessa persona che era affacciata sul balcone di quel ristorante italiano e la stessa persona a cui hai detto che, andandosene, si rinuncia non solo alle cose brutte ma anche a quelle belle. Sono contenta di averti dato ascolto, perché – io – l’ho trovata una cosa bella. E scusami, davvero perdonami, perché io sono innamorata di te e non so neanche perché te lo sto dicendo adesso’’
Smise di parlare solo perché ebbe paura che i singhiozzi sarebbero diventati troppo udibili. Maledisse la sua sensibilità e la sua propensione alle lacrime, avrebbe tanto voluto essere come Morgan.
Dall’altra parte ci fu, ancora una volta, silenzio. Le parve di udire un sospiro, ma non ne era proprio sicura.
‘’Ho finito’’ disse. ‘’Mi dispiace per l’ora, adesso credo che…’’
Stavolta, però, lui la interruppe. Le parve di non sentire quella voce da quasi una vita e si sentì in balia di mille sentimenti contrastanti. ‘’Stai piangendo?’’ le domandò, dal nulla.
Margareth tirò su con il naso e annuì, prima di rendersi conto che lui non avrebbe comunque potuto vederla. ‘’Cambierebbe qualcosa?’’ chiese.
‘’Non piangere’’
Le parve fin troppo dolce, per uno come lui, il tono che utilizzò. Maggie sospirò ancora una volta e le sfuggì un singhiozzo. ‘’Marge, non piangere’’ la voce di Carl fu, se possibile, ancora più dolce della prima volta.
‘’Perché?’’ gli chiese.
‘’Scendi’’


 
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Dire che è una giornata di merda è dire poco.
Sono così giù che non penso neanche di essere in grado di dire qualcosa di
sensato o decente, quindi mi arrendo in partenza ahaha
Spero solamente che il capitolo vi piaccia e che vi sia un pò più chiara la situazione
di Carl. Vi garantisco che non è stronzo come sembra
o almeno non così tanto :)
Vi lascio e corro in palestra a scaricarmi, vi auguro di passare giorni sereni.
Non ci si rende conto di quanto sia importante la serenità fino a che 
non la si perde d'occhio. Ma, come dice Benigni, magari la felicità
si scorderà di voi. Ma voi non scordate mai la felicità.
Vi lascio con questo augurio, e un bacio.
Buon fine settimana <3
Harryette

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Capitolo 18
*** 17- Feels like home ***


j
 

|Capitolo Diciassettesimo|
Feels like home
 

La macchina di Carl, nera e opaca, era parcheggiata già fuori la villa dei Grey quando Margareth scese, grazie al solito albero.
Si domandò se, per caso e in opzione remota, Carl non fosse stato sotto casa sua dall’inizio della chiamata. Le sembrava impossibile fosse arrivato così presto, ma forse ci aveva messo più del previsto a scendere di casa di nascosto.
Carl non accennò a scendere dall’abitacolo, neanche quando la vide e continuò a fissarla per quelle che parvero ore, così Margareth si fece coraggio. L’aveva chiamato e gli aveva detto cose che aveva sempre negato perfino – e soprattutto – a se stessa, e non era il caso di imbarazzarsi per una macchina. Con un sospiro, aprì la portiera e si sedette al posto del passeggero.
Carl era accanto a lei, le loro spalle non si sfioravano per qualche centimetro, e il suo solito odore le entrò nelle narici portandola a perdere quasi tutti i pensieri. Dovette passare un po’ prima che scuotesse la testa e ritornasse in sé. Ovviamente, non si era aspettata e non aveva neanche sperato che Carl sarebbe stato il primo a parlare, lo conosceva troppo bene. E, difatti, lui rimase zitto e continuò a guardare la strada davanti a se. Si era voltato a guardarla solo una volta, da quando erano lì dentro. La Range Rover era grande e spaziosa, ma a Margareth sembrava che mancasse ossigeno e si restringesse di secondo in secondo.
Cercò di farsi piccola fra la portiera e il freno a mano, e di attirare meno attenzione possibile. Carl, comunque, parve non accorgersene. Era ancora intento a guardare diritto davanti a se, come se fosse concentrato mentre vedeva la cosa più interessante del mondo.
Margareth iniziò ad essere ancora più agitata e più impaziente. Non che si fosse aspettata che lui le avesse confessato di ricambiare i suoi sentimenti, ovviamente, ma non era preparata ad una reazione del genere. Aveva predetto ed era stata convinta che ci sarebbe stato un silenzio iniziale, forse lungo ma non abbastanza da farla sentire di nuovo a disagio, e che sarebbe stato poi rotto in un modo o nell’altro. Quasi sicuramente da lei.
Tuttavia sembrava che le parole, che erano uscite fuori così facilmente e quasi per inerzia a telefono, le si fossero bloccate in gola. E fossero, successivamente, scomparse del tutto. Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fosse giusto commentare o fare. Era bloccata, Carl pareva non accorgersene o fingere che non fosse così, mentre si vedeva chiaramente che non aveva intenzione di iniziare una conversazione.
Ad un certo punto, dopo quelle che a Maggie parvero ore, iniziò a convincersi del fatto che – quasi sicuramente – quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe visto.
Di nuovo e per sempre.
Era ormai lampante quanto lui non provasse le stesse cose che provava lei, chiaro come il sole, anche perché – in qualche modo – Margareth era convinta che se non fosse stato così glielo avrebbe letto negli occhi. Le iridi trasparenti di Carl Pearson erano assolutamente gelide ed inespressive.
Era davvero la fine.
Le parole di George tornarono a fare capolino nella sua mente: ‘’è sicura che ne valga la pena?’’
La risposta era di fronte a lei ma Maggie si stava rifiutando di vederla e soprattutto di accettarla.
Proprio quando il silenzio stava diventando realmente troppo opprimente, il motore della macchina emise un rombo e partì. Solo qualche settimana prima sarebbe stata paralizzata dalla paura che si accorgessero che non era nel suo letto, una domestica o suo padre, ma quella notte non le importava di niente. Voleva solo andare via, ritornare sotto le sue coperte di lana e fingere che non avesse mai conosciuto nessun ragazzo tatuato. Le venne improvvisamente da piangere, ma pizzicò l’interno della guancia con così tanta forza che le lacrime ritornarono indietro. Con in bocca il sapore amaro del sangue chiese ‘’dove stiamo andando?’’
Le sembrava quasi impossibile che avesse articolato una frase di senso compiuto. E che ci fosse stato un suono, abituata ormai al silenzio pesante. Carl non si voltò verso di lei neanche quella volta e inizialmente non aprì bocca. Margareth si voltò verso il suo finestrino e prese a guardare fuori, per cercare di capire dove fossero esattamente. Tuttavia Carl correva davvero troppo veloce, era buio, era stanca e alla fine rinunciò. Poggiò la fronte sul vetro gelido, umido, e chiuse gli occhi. Non voleva più pensare a niente.
Come aveva immaginato, non ottenne nessuna risposta. Carl sembrava intenzionato a non accendere neanche la radio, come aveva fatto qualche volta precedentemente.
Quando la macchina si fermò, senza neanche cercare di capire dove fosse, Margareth aprì la portiera e si fiondò fuori con una velocità impressionante. L’aria gelida della notte le sferzò il viso e si strinse nel suo cappotto bianco. Si maledisse per non aver messo un capello, perché il vento era così forte che non riusciva a tener fermi i capelli. Rinunciò anche a quello.
Quando si guardò intorno riconobbe il posto quasi immediatamente: lo skyline di New York. L’ultima volta che ci era stata era stata proprio con Carl, la sera in cui le aveva detto quella frase che l’aveva tormentata per giorni. Sembrava passata una vita. Le venne da piangere di nuovo.
Si morse la guancia di nuovo.
Sentì sbattere un’altra portiera, segno che anche Carl doveva essere sceso dalla Range Rover. Era di spalle, non aveva intenzione di voltarsi e non aveva intenzione di piangere né di pentirsi. Non aveva voglia di rimpiangere la chiamata che gli aveva fatto, aveva già troppe cose da rimproverarsi. Almeno non poteva dire di non essere stata sincera.
Si incamminò verso la ringhiera e la afferrò con forza, prima che le sue mani diventassero gelide. Margareth osservò i grattacieli, le torri e le case abnormi di Manhattan, le loro luci, le loro luminarie, le loro decorazioni. Vide ville su ville, le parve perfino di distinguere la sua, case su case e giardini su giardini. Forse fu allora che sentì di essere nel posto sbagliato. Fu allora che si convinse, con certezza, che New York non era e non era mai stata casa sua. Neanche quando Morgan era viva.
Mai.
Si perse così tanto a guardare quel panorama, meraviglioso quanto malinconico, che non si accorse neanche che Carl l’aveva raggiunta. Era di nuovo accanto a lei, ma – stavolta – le loro spalle si sfioravano. Quasi appositamente. Maggie desiderò spostarsi ma non ebbe la forza di dar voce a quel suo pensiero. Rimase immobile, mentre il profumo di Carl si mischiava col vento potente e le graffiava le guance.
Sentì che lui si voltò a guardarla, ma non si mosse neanche allora. Quando Carl sospirò sentì che stava per dire qualcosa ed attese.
‘’Quando sono arrivato qui, due anni fa’’ iniziò, tornando a guardare New York da lontano, come una meteora. ‘’Avevo paura di aver commesso uno sbaglio. Questa città mi ha sempre…fatto male’’ sospirò, come ad ingoiare un ricordo dimenticato in una parte remota del suo cervello. ‘’Me ne convinsi anche quando mi iscrissi a scuola e trovai un appartamento. Holland e Cameron mi hanno aiutato’’
Margareth fremette al nome del biondo. Le sembrava ancora assordo ed impossibile che avesse conosciuto e amato sua sorella. Le vennero i brividi e tremò, ma cercò di nasconderlo.
‘’Land è un tossicodipendente, Marge. La droga che hanno trovato nel mio armadietto, e di cui tanto si parla, era la sua’’
Margareth non si sorprese, inaspettatamente. Aveva sin dall’inizio letto negli occhi di Holland qualcosa di strano, aveva visto qualche filo rotto e qualche ponte crollato. Le dispiacque dal profondo dell’anima, ma si impose di trattenere ancora una volta le lacrime. Si chiese se Morgan l’avesse mai saputo e, se no, cosa pensasse allora.
‘’Perché me lo stai dicendo?’’ domandò, con curiosità e coraggio. Carl non era mai stato propenso o intenzionato a raccontargli qualcosa di se. Perché farlo in quel momento?
‘’Perché sono stanco di tutti questi segreti’’
Margareth annuì e pensò. Non era sorpresa neanche da quello che le aveva detto. ‘’L’ho sempre saputo, comunque’’ sussurrò.
Sperò che Carl non l’avesse sentita, ma non fu così. ‘’Cosa?’’ le chiese, tornando a guardarla.
‘’L’ho sempre saputo che non era la tua’’ chiarì, imbarazzata e guardando lontano. ‘’Lo sentivo, credo’’
Carl sorrise brevemente. Margareth non lo vide, ma sentì perfino quello.
‘’Non ho detto la verità solamente perché, se avessero fatto il test ad Holland, sarebbe risultato positivo’’ spiegò, e Maggie fu sicura di sentire una vena di tristezza nella sua voce.
Poi cambiò discorso, quasi come se non volesse parlarne.
‘’Non è vero niente di ciò che hai sentito su di me’’ riprese. ‘’Vengo dal Bronx. Mio padre, Peter, è in galera. E’ un uomo buono, e sta pagando per cose che è stato obbligato a fare. Si è costituito da solo, anche se aveva la possibilità di scappare, e non ce l’ho con lui neanche un poco. Questo sono io’’ calcò la prima parola. ‘’Non quello che descrivono gli altri’’
‘’Cosa ha fatto tuo padre?’’
Carl non sembrò preso alla sprovvista né restio, come era sempre stato fino a quel momento. Quella sera pareva volersi aprire completamente.
‘’Era in un clan’’ rispose, telegrafico. ‘’Un clan che apparteneva a mio nonno, che lo ha obbligato a continuare. Si chiamava Dark Roses’’
Margareth sentì una leggera malinconia nella sua voce, come se stesse raccontando vecchi tempi ormai andati. Gli brillavano gli occhi. Non lo aveva mai visto così.
‘’E’ stata la mia unica famiglia per tanti anni’’ si giustificò quasi le avesse letto nel pensiero. ‘’La mia casa. Mio fratello’’
Tanta nostalgia.
‘’Credevo avessi solo una sorella’’ sussurrò Maggie, come se avesse paura di interrompere il flusso dei suoi ricordi.
‘’Infatti’’ concordò Carl, con un mezzo sorriso sulle labbra. ‘’Sto parlando del mio migliore amico. Siamo cresciuti insieme’’
‘’Ti mancano?’’
La domanda di Margareth su precisa ed improvvisa, se ne sorprese perfino lei. Di norma non lo avrebbe chiesto, perché sapeva quanto avrebbe potuto fargli male e non voleva rigirare il coltello nella piaga. Ma non era riuscita a trattenersi. Lo sguardo di Carl mentre parlava, così calmo eppure con una tempesta negli occhi, l’aveva spinta a parlare senza nemmeno rendersene conto.
‘’Mi sono mancati per un sacco di tempo’’ ermetico come sempre.
‘’Adesso ti mancano?’’
Carl la guardò con un’intensità che non si sarebbe mai aspettata. Non conoscendolo e soprattutto non in quella situazione. Le sue pupille azzurrissime parevano essersi sciolte.
Ora sembravano essere fuoco.
‘’No’’ rispose, serafico, mentre continuava a consumarla. ‘’Adesso no’’
Margareth gli regalò un sorriso di conforto, e si sorprese di essere stata sincera e di non aver finto. Era come se tutto quello che Carl e il suo carattere le avessero fatto passare fosse passato in secondo piano. Si detestava per essere passata oltre così facilmente.
‘’Dimmi che cosa vuoi sapere’’ le disse, rompendo il silenzio che si era creato di nuovo. Maggie sussultò. Cosa le aveva appena detto?
‘’Come?’’ sgranò gli occhi. Carl era sempre stato così riservato ed ermetico che si sorprese così tanto che le mani iniziarono a tremarle. Perché si stava comportando così? Perché l’aveva portata lì, in un posto in cui erano già stati?
‘’Una volta mi hai detto che non sapevi niente di me’’ scrollò le spalle, indifferente. ‘’Chiedimi quello che vuoi. Ti rispondo’’
Rabbrividì ancora una volta.
Stava perdendo il filo, non riusciva a capirlo. Le stava dicendo che le avrebbe raccontato tutto, ogni singola cosa che desiderava sapere. Poco tempo prima avrebbe colto l’occasione al volo. In quel momento, invece, si sentì un’egoista anche solo a pensarlo. Carl le aveva detto già tanto, più di quanto sperasse. Si era aperto nonostante lei gli avesse confessato di essere innamorata a telefono, nonostante non si sentissero né vedessero da una settimana, e non le andava di approfittare di un suo momento di debolezza in quel modo.
‘’Non voglio sapere più niente’’ disse, fin troppo dolcemente. ‘’Basta. Va bene così’’ sorrise leggermente.
Carl sembrò essere preso alla sprovvista da quella sua risposta. Si aspettava sicuramente dieci domande una dopo l’altra, a raffica. E Margareth moriva davvero dalla voglia di fargliele, ma si trattenne.
‘’Perché?’’ le chiese.
‘’Perché, a volte, è un bene che i ricordi restino chiusi nel cassetto in cui li abbiamo nascosti’’ rispose. ‘’Basta così’’
Carl la guardò con così tanto affetto che si domandò se stesse sbagliando e stesse immaginando ogni cosa. Cosa aveva detto di tanto eccezionale da portarlo a guardarla così? Non aveva mai visto quello sguardo.
‘’Grazie’’ le rispose, semplicemente e sentitamente.
Fu in quell’istante che una folata di vento più fredda delle altre le sparpagliò i capelli, e tremò. Non riuscì a nasconderlo, essendo stata presa alla sprovvista. ‘’Hai freddo?’’ le domandò Carl.
‘’Hai mai notato che è come se rivivessimo sempre le stesse situazioni?’’ ironizzò lei, cambiando discorso. ‘’Ogni volta che litighiamo tu, con una pazienza enorme, vieni sotto casa mia. O veniamo qui. E io ho sempre freddo e tu sempre quel cappotto sottile. Vuoi prendere la bronchite?’’
Carl sorrise, per davvero quella volta. Le si avvicinò così tanto che il cuore prese a pulsarle forsennatamente nel petto. Le passò una mano fra i capelli, rendendoli ancora più aggrovigliati di prima, e sogghignò.
‘’E, ogni volta, io ti ripeto che non ho freddo’’ rispose. ‘’Non mi pare di aver avuto ancora la bronchite’’
Stavolta fu Maggie a sorridere. ‘’Aspetta e vedrai’’ ammise.
Ci fu un attimo di silenzio prima che Carl riprendesse a parlare. Margareth aveva già capito che, probabilmente, non era ancora arrivato al nocciolo della questione.
‘’L’ultima volta che siamo stati qui avrei tanto voluto fare una cosa’’ riprese. ‘’Solo che mi sono fermato’’
‘’E perché?’’
Il cuore aveva perso ormai una decina di battiti e le gambe erano diventate come gelatina. Carl si faceva sempre più vicino mentre parlava ed il suo odore era diventato insopportabile.
‘’Perché non sapevo come avresti potuto reagire tu’’ diretto e sincero.
Ormai li dividevano pochi centimetri, forse millimetri. Se alzava lo sguardo trovava il volto di Carl qualche spanna sopra il suo, con i suoi occhi trasparenti e meravigliosi. Se lo abbassava aveva il naso che sfiorava l’incavo del suo collo, e lì il profumo era fin troppo forte. Guardò il pavimento, ma perfino i loro piedi erano troppo vicini. Alla fine poggiò la fronte sulla sua spalla e chiuse gli occhi.
‘’Solo che adesso lo so’’
La voce di Carl le sembrava l’unico suono degno di essere sentito. Sentì la mano fredda del ragazzo poggiarsi leggermente sul suo fianco, fino a stringerlo quasi con paura. Quando Carl poggiò la testa nell’incavo del suo collo, lei alzò la sua e scattò come una molla.
Stava surriscaldando.
La strinse così forte a se che credette di morire soffocata. Sentiva il respiro di Carl sul suo collo, i suoi capelli che le solleticavano la guancia, ma non si mosse. ‘’Che stai facendo?’’ gli chiese.
Non si mosse nemmeno lui.
‘’Perdonami’’ sussurrò vicino al suo orecchio, ancora avvinghiato a lei come fosse una questione di vita o di morte. ‘’Perdonami, Marge’’
‘’P-per cosa?’’ balbettò, imbarazzata. Si stava sforzando di capirlo, ma non riusciva a trovare una via d’uscita in quel labirinto di pensieri e ipotesi.
‘’Non sai quante volte sono venuto sotto casa tua o ho provato a chiamarti’’ continuò, stringendola ancora più forte e respirando il suo profumo. ‘’Non ne ho mai avuto il coraggio. Ho pensato che saresti stata meglio senza di me’’
Le ci volle relativamente poco per capire che si stava riferendo alla settimana che avevano passato comportandosi praticamente da estranei.
Fu solo allora che ricambiò l’abbraccio e lo strinse ancora più forte, se possibile.
‘’Perché lo hai pensato?’’ gli chiese.
‘’Perché apparteniamo a due mondi completamente diversi’’ rispose lui. ‘’Perché non voglio che tu vada contro il tuo autista, contro la tua famiglia, contro casa tua e…’’
‘’Non è casa mia’’ lo interruppe. ‘’Quella non è casa mia’’
Continuavano ad essere abbracciati e Maggie non aveva più freddo. Improvvisamente trovò la risposta alla domanda di George. ‘’Per me ne vali la pena’’ gli sussurrò.
Se Carl avrebbe potuto stringerla più di quanto stesse già facendo l’avrebbe fatto. Le unghie di Margareth erano conficcate nella sua carne, tanto si stavano stringendo. Carl lasciò un bacio sul collo a Maggie, ma non si allontanò neanche di un millimetro.
‘’Pensi davvero quello che mi hai detto a telefono?’’
Margareth sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto far chiarezza sulle sue parole. Sapeva benissimo, oramai, cosa provava e per chi. Il problema era solo dirlo. Se Carl l’avesse guardata negli occhi, probabilmente, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Ma, dal momento che non lo vedeva, prese forza.
‘’Sì’’ rispose, sicura. ‘’Lo penso davvero’’
‘’Me lo ridici?’’
Tremò di nuovo, ma non per il freddo. Carl aveva iniziato a lasciarle baci umidi sul collo, e la sua pancia stava scoppiando. Capì che il ragazzo non si riferiva a tutta la conversazione, ma solamente al punto più importante.
‘’Mi vergogno’’ disse, con tutta la sincerità di cui era capace. Carl sorrise ironicamente, prima di riprendere a baciarla.
‘’Hai avuto più coraggio di me’’ le disse. ‘’Se non mi avessi chiamato tu non so quando ci saremmo rivisti. Dimmelo di nuovo’’
Era vero. Non era tanto codarda, allora. Non era poi così debole e timida. Voleva dimostrargli che era cambiata, che stava crescendo e che avrebbe smesso di comportarsi come una bambina viziata.
Margareth prese un profondo respiro e conficcò ancora di più le sue unghie nel giubbotto di jeans del ragazzo.
‘’Io…’’ cercò e trovò sicurezza. ‘’Mi sono innamorata, credo’’
‘’Credi?’’ lo sentì sorridere sulla sua pelle.
‘’Ne sono sicura’’
I baci di Carl divennero meno delicati. Era come se parlassero, ma Margareth era troppo intontita per decifrarli. Aveva un dubbio troppo grande, che la stava divorando. ‘’Quindi’’ domandò. ‘’Non sei arrabbiato?’’
Stavolta Carl scoppiò a ridere e a lei scoppiò il cuore e basta.
‘’Stai scherzando?’’ rispose. ‘’Perché dovrei?’’
‘’Non lo so’’ sussurrò la bionda. ‘’A chiunque darebbe fastidio che qualcuno provi dei sentimenti a senso unico, credo. Non lo so, non sono mai stata in queste situazioni’’
Stava arrancando ed era in difficoltà. Non sapeva cosa rispondergli. Non sapeva come esprimersi, perché erano così vicini che non esisteva distanza minore. Era in tilt.
Stavolta Carl si staccò leggermente da lei e la guardò negli occhi vitrei. ‘’Senso unico?’’ esclamò. ‘’E chi te lo dice che siano a senso unico?’’
Sarebbe probabilmente svenuta se non fosse stata aggrappata alle sue spalle. ‘’Perché non me lo dici tu?’’ da qualsiasi parte le fosse uscita quella frase, si congratulò con lei stessa mentalmente.
‘’Vuoi sentirti dire che mi sono innamorato di te?’’ ironizzò Carl.
‘’Solo se lo pensi’’
Quasi non sembrava lei a parlare.
‘’Vuoi sapere una cosa, Marge?’’
‘’Cosa?’’
‘’Benedico Randy e il suo dannato compleanno ogni giorno’’ sussurrò. Ancora una volta, pareva parlasse russo anziché inglese.
‘’Chi diavolo è Randy?’’
‘’Al ristorante italiano, quella sera, c’ero andato perché era il suo compleanno. Non volevo nemmeno, pensa un po’’’ sorrise amaramente. Margareth ricordava bene quella sera e ricordava bene il ristorante italiano. Ricordava anche la mano tesa di Carl. Ricordava di come l’avesse salvata. ‘’Mi hai detto che non ti saresti buttata comunque. Ora ti rifaccio la domanda. Marge, quella sera, ti saresti buttata?’’
Non riusciva a capire perché a Carl interessasse tanto quel momento. Le faceva male ricordare.
‘’Sì’’ rispose. ‘’Penso che se non ci fossi stato tu mi sarei…’’
‘’C’ero’’ la interruppe, quasi come se non volesse pensare ad un’altra ipotesi. ‘’E ci sono anche adesso. Mi senti?’’
‘’Ti sento’’
Era una risposta sufficiente.
 
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Il soffitto prese a girare vorticosamente, e dovette sedersi sul bordo del letto per riprendere fiato. Si sentiva così debole che una folata di vento più forte delle altre, proveniente dalla finestra aperta poiché non aveva avuto la forza di alzarsi e chiuderla, avrebbe potuto gettarlo facilmente a terra.
Holland si sentiva strano.
Era un sentimento di cui era esperto, ma quella sera si sentì quasi più pesante del solito. A niente era servita la sua abituale iniezione di eroina perché, sorprendentemente, si sentiva peggio di prima. Non gli era mai capitato, in 365 lunghi e terribili giorni, e fu colto impreparato. La verità era che era troppo debole e codardo per prendere di petto il dolore, per affrontarlo a testa alta e anche solo per sperare di uscirne vincente. Era una battaglia che non era e non era mai stato interessato a combattere, figurarsi a vincere. La settimana prima, proprio come aveva affermato, era andato dalla preside dell’istituto che ormai non era più suo e aveva confessato tutta la verità. Non gli avevano creduto, inizialmente – ‘’lo fa solo per difendere il suo amico?’’ – però il test antidroga aveva rivelato l’esatto contrario.
Aveva raccontato tutto, perfino il motivo per cui non si era fatto avanti nel corso di quei mesi infernali e perfino il motivo per cui Carl aveva deciso di addossarsi tutta la colpa. La preside Jones si era incupita, al racconto triste e deprimente del biondo. Forse era stata più clemente di quel che aveva pensato, ma Land questo non poteva certamente saperlo. Era stato espulso quasi subito, e se l’aspettava, ma la doccia fredda reale era arrivata dopo. Cinquemila dollari di cauzione non li aveva messi in conto. Nonostante Carl l’avesse messo in guardia riguardo l’evenienza, scaturita dalla positività del suo test, Holland si era autoconvinto che avrebbe dovuto pagare una cifra nettamente inferiore. Aveva mille dollari conservati per il viaggio dei suoi sogni, quello a Parigi, che aveva abbandonato ormai da tempo immemore. Normalmente li avrebbe usati insieme a quelli che riusciva a guadagnare in giro per comprare la polvere, ma quella volta era diverso. Li aveva tenuti al sicuro da se stesso e dalla sua ossessione per una settimana intera, nonostante il suo stipendio stesse iniziando a scarseggiare. Gli avevano dato dieci giorni per reperire il denaro necessario, altrimenti l’avrebbero sbattuto in riformatorio. Se Holland non fosse stato maggiorenne probabilmente ci sarebbe andato subito, senza nessuna possibilità di rivalsa. Non aveva chiesto denaro a nessuno dei suoi amici, nonostante sapesse che Carl non fosse poi così povero per via dei soldi sporchi che si era fatto il padre e aveva diviso fra i figli, né loro gli avevano chiesto altro.
‘’Ho tutto sotto controllo’’
La verità era che sperava di morire prima dello scadere di quei dieci giorni, prima che il vicepreside e il rappresentante d’istituto fossero piombati a casa sua per riscuotere il denaro. Aveva una quantità così spropositata di eroina nelle vene, che l’aveva portato a tremori e vomiti continui, che si chiedeva come diavolo facessero 50 chili di carne ed ossa a resistere all’oblio.
La testa prese a girargli di nuovo e si stese completamente sul letto. Finse di non pensare al fatto che la droga stesse per finire, così come i soldi che aveva guadagnato quel mese. Che presto ne avrebbe avuto di nuovo bisogno, pur non potendosela permettere affatto. Finse di non pensare al fatto che, solo qualche mese prima, la quantità che aveva ormai consumato gli sarebbe bastata per un mese intero.
‘’Ho tutto sotto controllo’’
Si chiese, in quel momento incredibilmente forte, cosa avrebbe pensato Morgan di lui se solo fosse stata presente.
Morgan che aveva condiviso tutta la sua breve vita con un dolore che lui, probabilmente, non riusciva neanche ad immaginare, eppure non gli aveva mai fatto dubitare niente. In due anni, Morgan non aveva mai detto o fatto nulla per cui lui potesse dubitare della sua salute. Certo, si truccava pesantemente ed era sempre pigra, ma aveva un sorriso tatuato sulle labbra che bloccava qualsiasi dubbio negativo.
Morgan che era morta da sola, in una stanza d’ospedale, perché non voleva che nessuno dormisse con lei come se ‘’fosse malata’’. Chissà a cosa aveva pensato un minuto prima di chiudere gli occhi sapendo di non poterli più riaprire.
Morgan che aveva riso dal primo momento in cui l’aveva vista, quel pomeriggio sotto il portone di casa sua, fino all’ultimo. Pregò che, nei mesi che avevano passato lontani, almeno lei fosse riuscita a dimenticarlo ed andare avanti.
Si chiese che cosa gli avrebbe detto se fosse stata lì.
‘’Alzati da quel letto, trova quei soldi e riprendi in mano la tua esistenza. Non stai morendo. Non sei morto con me, sopravvivi alla tua vita e vivrai di nuovo’’.
Quel pomeriggio, dopo un anno ed otto mesi, Holland Todd sentì lacrime salate solcare le sue guance. Non le fermò e chiuse gli occhi.
‘’Non voglio vivere in un mondo dove non esisti’’

 


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Buonasera ragazze <3
Eccovi il capitolo ed il tanto atteso incontro tra Margareth e Carl ahahah
Detto fra noi, spero vi piaccia perchè è IN ASSOLUTO una delle mie scene preferite!
So che Carl può sembrare un pò freddo e distante, ma vi assicuro che non lo fa per cattiveria o disinteresse.
E' semplicemente così caratterialmente, c'è poco da fare :)
Da questo capitolo in poi c'è una vera e propria crescita di Margareth, spero la apprezziate!
La parte di Holland non doveva esserci, ma ho pensato di aggiungerla perchè - ahimè - sono FIN TROPPO
legata a questo personaggio. Mi è nel cuore, per un motivo o per un altro, spero di riuscire a trasmetterlo anche a voi <3
Detto questo, vi lascio con una foto di Marge!
A presto, e UN ENORME GRAZIE per le bellissime recensioni ((che leggo sempre!!))
Harryette


lll

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Capitolo 19
*** 18- No sound but the wind ***


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|Capitolo Diciottesimo|
No sound but the wind
 
 
Quando Margareth uscì da scuola Robyn la teneva a braccetto. Le stava raccontando qualcosa di parecchio importante, o almeno così sembrava dal suo modo di gesticolare e scuotere la testa e ridere, ma Maggie aveva la testa altrove. Nonostante volesse un gran bene a Robyn, era anche pienamente consapevole che – quasi sempre – ciò che diceva non la toccava più di tanto. E poi era troppo occupata a rimuginare, come suo solito, su ciò che era accaduto solo la sera prima.
Dopo quel ‘’ti sento’’ si erano scambiati pochissime altre parole: lei era stata impegnata a soppesarlo, come faceva con ogni parola del moro, e Carl – probabilmente – si era perso nei suoi stessi pensieri. L’aveva riportata a casa quindici minuti dopo – sì, li aveva contati – e l’aveva salutata con un bacio sulle labbra. Una pressione minima, quasi assente, da farle credere di esserselo immaginata. Sembrava averla sfiorata, più che baciata. Eppure l’odore che aveva addosso, e che di sicuro non era il suo poiché maschile, le confermava che non aveva sognato proprio niente.
L’ultima prova della realtà di quegli avvenimenti arrivò trenta minuti e mezzo dopo. Era quasi l’una e mezza e l’iPhone di Margareth si era illuminato. Lei, dal canto suo, non riusciva a prendere sonno. Si era alzata e aveva afferrato il cellulare convinta che fosse qualche notifica inutile di Facebook, eppure aveva dovuto ricredersi anche allora.
Era balzata giù dal letto convulsamente, senza nemmeno un motivo, quando aveva letto il nome del mittente.

 
Da: Carl
‘’Vai a dormire, lo so che sei sveglia. E smetti di pensare’’
 
Aveva sorriso, risposto e si era addormentata. Finalmente.
Ed ora, mentre usciva con la sua migliore amica dalla sua scuola, lo vide. Le sembrò passata una vita dall’ultima volta che se l’era ritrovato fuori scuola. La moto era sempre la stessa, i due caschi uguale, e anche lui – non poteva essere cambiato in un giorno. Eppure a Margareth parve un’altra persona.
Le sembrava che la sua pelle brillasse.
Non appena la vide, dopo che lei vide lui, sorrise lententamente e sottilmente. Le ragazze, appena uscite da scuola e dirette a casa, non facevano altro che sfilargli accanto e osservarlo con curiosità mista a disappunto. Nonostate tutti i tatuaggi, in parte coperti ma di cui le conosceva l’esistenza, nessuna di loro avrebbe mai potuto mettere in dubbio la sua bellezza.
Margareth sorrise di rimando. Nessun altro li attorno rientrava nel suo campo visivo, c’erano solamente Carl e la sua felpa bianca. Non l’aveva mai visto vestito di bianco. Le ricordava un angelo, con quegli occhi che non avevano mai smesso un attimo di sorprenderla per la loro trasparenza.
Robyn si accorse delle occhiate dei due, perché lanciò alla bionda una guardata perplessa. Maggie era sicura che George, in una limousine non poi così lontana da dov’era lei, stesse facendo lo stesso.
Eppure scese le scale di corsa e lo raggiunse, in così poco tempo che si chiese se avesse corso una maratona o meno. Gli arrivò vicino e sorrise ancora di più. ‘’Ciao’’ disse, sinceramente felice.
Carl sembrò non sorpreso di tutto il suo entusiasmo, anzi, addirittura divertito. Il sogghigno nella quale si era trasformato il suo sorriso di poco prima ne era la prova. Le passò una mano veloce sulla testa, scompigliandole i capelli raccolti in una crocchia perfetta, e ‘’ciao’’ rispose.
Robyn fu dietro di lei in un istante, e non ebbe modo di dire al ragazzo nient’altro. Non avrebbe voluto che i due si incontrassero mai, non per paura o vergogna o altro, semplicemente perché aveva sempre pensato che – se fosse successa una cosa del genere – non sarebbe andata a finire bene. Robyn non era come lei, era esattamente l’opposto.
Tuttavia le era praticamente di fianco, mentre studiava Carl in modo quasi fastidioso, e una strana cappa di tensione e imbarazzo scese su di loro. Per romperla, quasi terrorizzata dall’idea di un altro minuto tombale, Margareth si fece coraggio e si finse contenta.
‘’Robyn’’ sorrise falsamente. ‘’Questo è Carl. Carl, Robyn’’
Fu Carl a tendere per primo la mano e a dire ‘’piacere’’, visto che – sicuramente – l’amica riccia non si sarebbe mai decisa a farlo di sua spontanea volontà. Fu addirittura riluttante nel prendergli la mano. E Margareth aveva anche preferito presentarlo con il suo nome proprio, anzicchè con qualche etichetta…
‘’Quel Carl?’’ chiese Robyn, pungente. ‘’Sei Carl Pearson?’’
Il realtà sapeva benissimo chi fosse, perché sicuramente conosceva il suo volto. Maggie avrebbe voluto dare un pugno alla sua amica per quella domanda assurda, cattiva, ed inopportuna. Prima che potesse prendere lei la parola, per portare Carl lontano dalle grinfie della Young – come se si sentisse in dovere di proteggerlo -, lui parlò.
‘’Voi ricchi fate sempre così tante domande?’’ ironizzò, cattivo il doppio di Robyn. Lei parve sorpresa della risposta saccente, presa in contropiede, così come Maggie. Aveva evidentemente sottovalutato la capacità dialettica di Carl. Non aveva mai avuto bisogno della sua protezione, e non ne avrebbe avuto neanche quella volta.
‘’Non tutte siamo come Margareth’’ la voce di Robyn suonò assurdamente irritata. E Margareth sobbalzò. Cosa aveva appena detto?
Prima che potesse, di nuovo, provare a parlare per risponderle a tono, Carl la anticipò per la seconda volta.
‘’Già’’ sospirò. ‘’Pensa tu che sfortuna’’
Maggie non riuscì a trattenere un sorriso. L’aveva appena difesa nel modo più elegante e mirato che avesse mai sentito. Carl non aveva assolutamente bisogno di lei, semmai era il contrario. Come sempre.
Robyn gli riservò un’occhiata glaciale, ma non aggiunse nient’altro. Semplicemente guardò Maggie e la salutò freddamente, per poi scomparire fra le limousine e le Maserati.
Margareth solo allora prese a guardare per bene Carl, ancora un sorriso sulle labbra. Scosse la testa subito dopo. ‘’Mi dispiace per Robyn’’ sospirò. ‘’Giuro che non fa sempre così’’
‘’Davvero?’’ ironizzò Carl.
‘’No’’
Il ragazzo scoppiò in una fragorosa risata, prima di attirarla a se e lasciarle un delicato bacio sulla fronte. ‘’Va bene, sotto sotto non è così male’’
‘’Davvero?’’ strabuzzò gli occhi la bionda.
‘’No’’
Margareth sorrise ancora una volta e ‘’grazie per avermi difesa’’ disse, prontamente. ‘’Sei stato grandioso’’
‘’Di niente’’ le rispose, mettendosi in testa il casco. Le porse l’altro, ma Margareth esitò ad accettare. Sapeva che George la stesse guardando, sarebbe dovuta andare da lui e chiedergli di fingere che fosse da Robyn? E lui l’avrebbe fatto o l’avrebbe costretta a tornare a casa? Pensò che, a fatto compiuto, non avrebbe potuto fare niente. Si voltò verso il posto occupato di solito dalla sua macchina, e la trovò esattamente lì. I vetri erano oscurati e spessissimi, quindi non riuscì a vedere all’interno, ma lanciò un’occhiata di intesa al posto del guidatore. Sapeva che George l’avrebbe vista e avrebbe capito. Magari gli avrebbe mandato un messaggio dopo.
Afferrò il casco e salì sulla moto con molta più disinvoltura rispetto alla prima volta. ‘’Dove andiamo?’’ chiese.
‘’A casa mia’’ rispose il ragazzo. ‘’Voglio farti vedere una cosa’’
 
_________________________________
 

Camera di Carl era esattamente come la ricordava, non le sembrava cambiato assolutamente niente.
Non che fosse passato così tanto tempo, ma – di solito – le stanze personali tendono a cambiare spesso, soprattutto se di un ragazzo. Margareth notò una cosa che, la volta precedente, non aveva notato: un poster degli Oasis sulla parete destra, esattamente accanto all’armadio.
‘’Ti piacciono gli Oasis?’’ gli chiese, appena finito di guardarsi attorno. Carl annuì in silenzio, e aggiunse ‘’molto’’.
‘’Anche a Morgan piacevano’’ sorrise Maggie, senza – sorprendentemente – parecchia malinconia come succedeva quasi sempre. ‘’Ha provato a farmi ascoltare qualche canzone, qualche volta, ma non credo siano il mio stile’’
‘’Lo immaginavo’’
Carl non le fece altre domande, non le disse il solito ‘’mi dispiace tanto’’ che usciva fuori ogni volta che nominava la sorella morta, non sembrò scosso né affranto per lei. Semplicemente si comportò come se Maggie stesse parlando di una persona che avrebbe potuto tranquillamente vedere il giorno dopo. Forse fu proprio quella reazione che la spinse a parlare e dirgli quello che, ormai, pensava da tempo.
‘’Lo sai, credo che gli saresti piaciuto tanto’’ ammise, tornando a guardarsi intorno. ‘’Non nello stesso modo in cui piaci a me, ma gli saresti piaciuto abbastanza’’
Mentre era di spalle sentì le braccia di Carl stringerla da dietro, fino a portare la testa nell’incavo del suo collo. Il cuore di Maggie prese a battere all’impazzata, fino a che il momento non fu interrotto da una canzone partita all’improvviso. Aveva poggiato una mano sulla scrivania, senza rendersi conto che sopra c’era un piccolo telecomando. Probabilmente aveva acceso lo stereo. Sobbalzò ma, siccome Carl pareva non averci fatto caso, ritornò tranquilla. Partì una canzone che conosceva: No sound but the wind, di Editors.
Si sentì improvvisamente in imbarazzo. Carl era vicinissimo a lei, la stringeva forte, ma non muoveva un arto. ‘’E’ la mia canzone preferita’’ le disse, all’improvviso. ‘’Vieni’’
La fece accomodare sul bordo del letto ad una piazza e mezzo e scomparve sotto al letto. ‘’Cosa diavolo fai?’’ chiese, divertita, lei.
‘’Sto cercando una cosa’’
Quando Carl si alzò, dopo poco tempo, aveva in mano un album. La canzone preferita del ragazzo continuava a rimbombare nelle pareti della stanza, mettendola subito a suo agio. Era una canzone bellissima.
‘’Che cos’è?’’ gli domandò.
‘’Voglio farti vedere com’ero da piccolo’’
‘’Cosa? Davvero?’’ dire che era sorpresa sarebbe stata un eufemismo, eppure aveva imparato che non si poteva mai stare tranquilli con Carl Pearson.
‘’Non sono tante ed avevo già sei anni, però non le ho mai fatte vedere a nessuno. Per questo erano nascoste’’ quella era stata la frase più lunga che Carl le aveva detto durate tutta la giornata.
Sorrise a quell’affermazione, non avrebbe potuto farne a meno.
‘’Quindi sono la prima?’’ chiese ancora. Carl non rispose, aprendo l’album impolverato, ma il suo silenzio era una risposta più che eloquente.
Sì.
La prima foto lo raffigurava seduto su un divano di pelle rossa, in un salone enorme che – di sicuro – non apparteneva a quella casa. Maggie sapeva che era del Bronx, quindi probabilmente era lì. Era parecchio imbronciato, aveva le labbra sporche di quella che sembrava marmellata ed un calzoncino blu e che gli lasciava scoperte le gambe sottili. I capelli erano molto più rossi di quanto li avesse in quel momento, ma gli occhi non erano cambiati di una sola sfumatura. Margareth si perse a guardarli, tanto che dimenticò che quello stesso bambino – un po’ più cresciuto – le era seduto esattamente affianco. ‘’E’ incredibile’’ sussurrò. ‘’I tuoi occhi sono impressionanti’’
Carl sorrise probabilmente, ma non si girò verso di lui per accertarsene. Era catturata da quella fotografia. ‘’Avevo sette anni e mezzo’’ le spiegò. ‘’Ero nel Bronx, a casa mia’’
Margareth lo sapeva già, ma annuì lo stesso. Intanto la canzone si dirigeva verso la fine. Poi Margareth notò delle piccole bende bianche adesive, nel braccio interno del bambino. ‘’Cosa ti eri fatto?’’ gli domandò, indicandole. Carl divenne teso improvvisamente e lei si detestò per aver fatto quella domanda stupida. Tuttavia, dopo aver sospirato un paio di volte, ‘’sono stato ferito in una sparatoria’’ le spiegò.
A Margareth venne da piangere. Le sembrava così crudele che un bambino avesse dovuto assistere ad una faida, che avesse dovuto rimanere marchiato eternamente da ferite che non erano dipese da lui. Avrebbe voluto conoscerlo già allora solo per aiutarlo.
‘’Mi dispiace’’ sussurrò, cercando di trattenere le lacrime. Si chiese come facessero le persone come Robyn a giudicare Carl senza sapere assolutamente nulla. Non doveva essere facile per lui.
‘’Non fa niente’’ le sorrise, spostandole il volto e portandola a guardarlo. Forse fu allora che si rese conto degli occhi lucidi della bionda. ‘’No’’ sussurrò, portandole la fronte contro la sua. ‘’No, no, no, non piangere. Non piangere per me’’
Maggie sapeva che gli faceva male ricordare quel momento. Le sembrò che la ferita che portava sulle braccia si fosse riaperta di nuovo. Non pianse, sorrise e scosse lievemente il capo. ‘’Vai avanti’’ gli sussurrò, e lui girò la pagina.
C’era lui, ragazzino e bello da star male, con una canotta dei Ramones e un jeans sfilacciato già da allora. Era con un uomo alto, leggermente biondo e dal volto squadrato. Gli sembrò simpatico.
‘’Qui avevo quattordici anni’’ le disse. ‘’E l’uomo con me si chiamava Gabriel. Era un amico di famiglia, diciamo così’’
‘’Faceva parte del clan, non è così?’’
‘’Si, faceva parte del clan’’
Eppure c’era una vena di tristezza nella voce di Carl. Tristezza, non mancanza o nostalgia. ‘’E’ morto tre anni fa’’ le disse, di soppiatto. ‘’E’ stato sparato’’
Margareth non sapeva più cosa dire. Aveva improvvisamente capito perché Carl non avesse mai mostrato quell’album a qualcuno. C’era fin troppo dolore all’interno.
‘’Eravate bellissimi entrambi, comunque’’ gli disse sinceramente. ‘’Io a quattordici anni ero un ranocchio, tu sembri uscito da una rivista di moda’’ ironizzò, per smorzare la tensione.
E infatti, Carl si sciolse in un sorriso. ‘’Grazie’’ le rispose. Non c’era bisogno di nessuna modestia, nessun ‘’non è affatto vero’’, perché era vero e lo sapeva bene.
La prossima foto era la più bella di tutte.
Era stata scattata a tradimento, evidentemente, perché c’era un Carl annoiato – intento a leggere quello che, dalla copertina, le sembrava Harry Potter –seduto sullo stesso, identico, divano della foto precedente. Evidentemente non riusciva a concentrarsi nella lettura, perché c’era qualcun altro accanto a lui. Dall’altro lato del divano era seduto, o meglio sdraiato completamente, un ragazzo dalla pelle olivastra e i capelli più neri che avesse mai visto, così come i suoi stessi occhi. Anche lui era ricoperto di tatuaggi, aveva una maglietta nera e i pantaloni della tuta, mentre stringeva un joystick e guardava un punto fisso, probabilmente dove si trovava la televisione. Aveva il volto contrito, stava perdendo.
Era bello quanto Carl, anche se lei non sarebbe mai stata obiettiva.
‘’Lui è Zayn’’ le spiegò il moro. ‘’Il mio migliore amico’’
‘’Wow’’ fu l’unica cosa che si sentì in grado di dire. Carl e Zayn, in quella foto come sicuramente nella realtà, sembravano due modelli. Le ricordarono una foto dei nuovi capi maschili di Burberry che Robyn le aveva mostrato tempo prima.
Carl sogghignò e prese a guardarla fin troppo profondamente. Così tanto che, ad un certo punto, Maggie non fu più in grado di reggere quegli occhi cangianti e spostò lo sguardo. La bellezza di Carl era disarmante. Una bellezza totalizzante e furiosa, che brillava. 
‘’Smettila di guardarmi così’’ gli disse, improvvisamente. Il ragazzo aveva anche smesso di sfogliare l’album, e lei si sentiva completamente nuda davanti al suo sguardo indagatore.
‘’Così come?’’
Carl le sembrava addirittura divertito. Lo stava facendo apposta, ormai ne era quasi sicura.
‘’Come se fossi un alieno’’ ironizzò lei, decisa a smorzare di nuovo la tensione. ‘’Si può sapere a che pensi?’’
Carl scosse il capo, sorridendo, esasperato. ‘’Quanto sei stupida’’
Probabilmente Maggie gli avrebbe risposto qualcosa di intelligente, si sarebbe sforzata di trovarlo perlomeno, se non avesse suonato il citofono. Carl sbuffò e ‘’Land starà dormendo’’ esclamò, alzandosi. ‘’Vado ad aprire, sarà Cam. Aspettami’’
Scomparve poco dopo.
Margareth si alzò dal bordo del letto dove era stata seduta per tutto quel tempo, e prese a guardarsi meglio in giro. Con gli occhi di Carl puntati su di lei non aveva potuto incamerare tutti i particolari di quella camera, cosa che aveva intenzione e voleva fare.
Si avvicinò al comodino del letto, attirata non tanto dall’iPhone che giaceva accanto alla lampada ma da un libro, al cui centro era riposto un segnalibro nero, segno che Carl lo stava probabilmente ancora leggendo. Lo prese in mano, le sembrò addirittura ancora caldo, come se fosse stato tenuto in mano solo poco prima.
Lesse il titolo e l’autore: Paul Eluard, Poesia interrotta.
Era un libro di poesie. Lo aprì, titubante, esattamente dove Carl aveva lasciato il segno, e lesse. Intanto la canzone era finita, ma non riusciva a sentire più niente.
 
Ti guardo e il sole cresce.
 
Ti guardo e il sole cresce
Presto ricoprirà la nostra giornata
Svegliati cuore e colori in mente
Per dissipare le pene della notte
 
Ti guardo tutto è spoglio
Fuori le barche hanno poca acqua
Bisogna dire tutto con poche parole
Il mare è freddo senza amore
 
E' l'inizio del mondo
Le onde culleranno il cielo
E tu vieni cullata dalle tue lenzuola
Tiri il sonno verso di te
 
Svegliati che io segua le tue tracce
Ho un corpo per attenderti per seguirti
Dalle porte dell'alba alle porte dell'ombra
Un corpo per passare la mia vita ad amarti
Un corpo per sognare al di fuori del tuo sonno
 
Rimase ferma, il libricino ancora stretto fra le mani, riflettendo su ogni singola parola. Sapeva che a Carl piacesse leggere poesie, ma quella sfiorava un senso così profondo che neanche lei riuscì a coglierlo completamente. Si chiese se lui, quella poesia, l’avesse capita tutta.
Tuttavia non ebbe tempo di pensare ad altro, perché sentì delle voci straniere in cucina e dei passi lungo il corridoio. Posò il libro, cercando di riporlo esattamente come lo aveva trovato, e si avvicinò alla porta pochi secondi prima che si aprisse. Carl aveva uno sguardo funereo che non gli aveva mai visto prima.
‘’Che è successo?’’ gli domandò, improvvisamente spaventata. Carl inizialmente non disse nient’altro, poi rinsavì all’improvviso. ‘’Vai a svegliare Holland e digli che c’è il vicepreside della scuola che ha bisogno di vederlo. Digli di rendersi presentabile. Io cerco di distrarlo’’
Margareth non capì ma non fece domande, anche perché non le sembrava il caso. La camera di Land la trovò quasi subito, dopo aver aperto prima la porta del bagno, e si imbattè in un Holland che – a dispetto di tutti loro – era sveglio e abbastanza presentabile.
‘’Ciao Maggie’’ le disse, senza neanche l’ombra di un sorriso. Margareth l’aveva visto poco tempo prima, eppure le sembrò ancora più pallido e ancora più magro. La confessione di Carl, la consapevolezza di cosa lo stava distruggendo in quel modo, cominciarono a farle bruciare lo stomaco. Non riusciva più a guardare negli occhi del biondo senza ripensare a sua sorella. Aveva fatto tanto per abituarsi alla mancanza di Morgan, per pensarci di meno, e – proprio quando pareva essere sulla buona strada per riuscirci – appariva Holland e le diceva di essere ancora innamorato di sua sorella.
Probabilmente lui capì dal volto della ragazza cosa stesse pensando, e anche che avesse delle novità del tutto non piacevoli. ‘’E’ successo qualcosa?’’ insistette.
‘’C’è il vicepreside della tua scuola, di sotto con Carl’’ rispose lei, cercando di sembrare quanto minimo consapevole di ciò che stava dicendo. Anche se non era così, ovviamente. ‘’Vuole vederti’’
Margareth non trovò le parole giuste per descrivere l’espressione che assunse il volto di Land in quel momento. Si passò una mano sul volto e sibilò un semplicissimo e direttissimo ‘’cazzo’’. Poi, inaspettatamente, le prese la mano e la avvicinò di più a se. Margareth era tesa come la corda di un violino, il volto di Holland a pochi centimetri dal suo, ma non riuscì a trovare la forza di allontanarsi. Non perché stesse bene, ma perché c’era così tanto dolore e così tanta paura negli occhi di Land che non ne ebbe il coraggio.
‘’Ascolta’’ sussurrò, tenendola ancora bloccata per il polso magro. ‘’Credo che mi porteranno via, per cui sei la mia unica possibilità’’
Maggie non riusciva a capire una sola delle parole che aveva pronunciato, le sembravano accozzate senza alcun senso. Tuttavia, ancora una volta, tacque e decise di farlo finire. ‘’Ti sto affidando la mia vita’’ insistette lui. ‘’Per favore, sei l’unica che può aiutarmi, Carl e Cameron non lo farebbero mai’’
‘’Ma che cosa stai dicendo?’’
Holland la lasciò ma non accennò ad indietreggiare. Anzi, rimase lì, immobile. La guardò a lungo, e poi ‘’Non voglio morire in un letto sterile di un riformatorio’’ spiegò. Margareth aveva iniziato a capire, anche perché Carl le aveva accennato di una certa cauzione. Ma perché? Perché lo stava dicendo proprio a lei? Cosa avrebbe mai potuto fare?
Fu in quel momento, come risposta, che Land le mostrò qualcosa. Un biglietto di sola andata per Tokyo. Per Tokyo? Dall’altra parte del mondo?
‘’Ma…’’ cercò di ribattere e chiedere lei, ma fu interrotta.
‘’Scendi e digli che non ci sono’’ esclamò. ‘’Vai giù e menti. Digli che sono scappato. Fallo per me’’
‘’Holland io non sto capendo…’’ balbettò Margareth. Land le faceva quasi pena, ma cosa avrebbe potuto fare? Mentire al vicepreside? Mentire a Carl? Lasciare che Holland scappasse e morisse in Giappone?
‘’Margareth’’ ed era perentorio. ‘’Ti sto implorando, aiutami’’
Tuttavia, prima che Holland prendesse il silenzio della bionda come un sì e prima che avesse modo di scavalcare la finestra e correre via, la porta della sua camera si spalancò. Maggie vide le lacrime formarsi immediatamente negli occhi di Holland e non riuscì a fermare le sue. Si voltò: Carl era dietro un uomo brizzolato, in giacca e cravatta, una cartellina di cuoio fra le mani. Impettito, distante, senza misericordia. Carl sospirò e ‘’il signor Martens andava di fretta ed ha preferito salire’’ ringhiò, visibilmente non d’accordo.
Margareth, spinta dall’abitudine e dall’educazione, si sporse verso di lui e gli tese la mano. ‘’Margareth Grey’’ disse, anche se non ce ne sarebbe stato comunque bisogno. L’uomo sembrava averla già riconosciuta dall’inizio. Le strinse la mano e le sorrise, in modo pessimo ma almeno si era sforzato. ‘’Sono il professor Martens, vicepreside della Churchill High School’’ si gonfiò. Maggie si chiese che motivo avesse.
Poi l’uomo, improvvisamente, smise di fissarla. Ormai aveva preso ad osservare in modo convulso Holland, ancora dall’altro lato della stanza, con un paio di occhi neri inquietanti e terrieri. Prima che potesse anche solo chiedersi dove fosse, Carl fu al fianco di Margareth. Anche la sua espressione non era delle migliori. Sicuramente notò gli occhi lucidi della bionda, dettati dalla situazione, perché le afferrò la mano e le sussurrò ‘’non è niente’’. Maggie sapeva che, invece, era tutto meno che niente. Se lo sentiva. E il discorso supplichevole che le aveva fatto Land poco prima non la aiutava. Si incolpò mentalmente, perché – se solo fosse stata più veloce ad accettare – Holland sarebbe stato già fuori da quella prigione.
‘’Holland Todd’’ affermò il prof Martens, dopo quelle che le parvero ore. ‘’Sa già cosa sono venuto a fare, suppongo, quindi non tiriamola troppo per le lunghe. Per entrambi’’
L’uomo era immensamente tranquillo, alla fine stava solamente svolgendo il suo lavoro. Holland uguale. Le spalle rilassate, i muscoli tutt’altro che tesi, le palpebre molli, le labbra dischiuse. Sembrava un mare d’estate.
Eppure ‘’Non ho i cinquemila dollari della cauzione, professore’’ disse, tranquillamente. ‘’Faccia quello che ritiene più opportuno’’
A Carl mancò l’aria, e Margareth lo notò. Non sembrava, tuttavia, sorpreso. Probabilmente aveva saputo dall’inizio l’impossibilità della cosa. Eppure assunse un’espressione ancora più afflitta di quella precedente. Il signor Martens sembrò, per un secondo, nel pallone, come se non avesse saputo che dire. E poi parlò.
‘’Venga con me in centrale, allora’’ atono, rispose. ‘’Dal momento che è maggiorenne ha avuto l’occasione di evitare il riformatorio. Ma non posso fare niente per lei, ora’’
Il prof tirò fuori dalla cartellina un documento. Margareth non riusciva a leggervi sopra, ma ipotizzò che fosse qualche contratto importante. ‘’Firmi’’ disse l’uomo al biondo, porgendogli anche una penna di legno. Land non tentennò neanche quando raccolse gli oggetti e si appoggiò alla scrivania, anzi. Il tempo parve fermarsi. La punta della penna, nelle mani di Holland, che scendeva con una lentezza esasperante sul foglio. Una sola firma e non ci sarebbe stato più niente da fare.
Maggie, improvvisamente, ripensò alle parole del biondo di qualche minuto prima: ‘’non voglio morire in un letto sterile di un riformatorio’’.
Poi, in automatico, pensò a Morgan.
Che cosa avrebbe fatto lei?
Si sentiva quasi in dovere di proteggere Holland, dal momento che era palese quanto lui non ne fosse più capace, come se lo dovesse a sua sorella. Ormai era più che convinta di quello che sarebbe successo se, al suo posto e in quella stanza scura, ci fosse stata un’altra Grey.
‘’Aspetta’’ urlò, all’improvviso. Sei paia di occhi si voltarono a fissarla e la mano di Carl lasciò la sua. La penna era di nuovo lontana dal foglio. Lei si allontanò dal muro e si avvicinò al prof Martens, fino a che non gli fu abbastanza attaccata. Poi, con un movimento fin troppo fluido per ciò che sentiva dentro, si sfilò l’unica cosa che aveva addosso: un anello d’oro. O meglio, l’anello d’oro.  Fu sicura che Holland lo riconobbe, perché impallidì ancora di più. Le parve più in ansia in quel momento che quando era convinto di star per essere sbattuto in un ospedale.
Era l’anello di Morgan, il suo preferito. L’unico gioiello che Maggie non si era mai rifiutata di togliere e aveva sempre portato, da tre anni a quella parte. Lo strinse in un pugno per l’ultima volta, prima di allungarlo all’uomo sulla cinquantina.
‘’Questo vale almeno settemila dollari’’ disse, sicura. ‘’Può farlo valutare, se non mi crede, ma le do la mia parola. Se ne vada, adesso’’
La penna che Land stringeva fra le mani cadde a terra. A raccoglierla fu il professore, insieme al documento, riponendo tutto in cartella. ‘’Le credo, signorina’’ rispose, afferrandolo. Il suo cognome portava dei vantaggi, allora. ‘’Mi saluti suo padre, arrivederci’’
E scomparve. Che uomo strano. Sembrava addirittura terrorizzato da lei e da suo padre. Quando la porta si chiuse, e i passi nel corridoio scomparvero – visto che nessuno di loro aveva accennato ad accompagnare l’uomo alla porta -, calò il silenzio. Fu Carl a parlare.
‘’Marge senti…’’ iniziò.
‘’No, fermo’’ lo interruppe lei. Non gli avrebbe permesso di farla sentire in colpa o in torto, perché era sicura della validità del suo gesto. ‘’L’anello era di Morgan e lei lo avrebbe dato al vicepreside. Lo so io, lo sai tu e lo sa anche Holland. Quindi io non ho fatto niente’’
Il silenzio calò di nuovo.
Lei, tombale, prese il telefono e compose il numero di George. Aveva pensato che, forse, Carl e Holland avevano bisogno di un po’ di tempo da soli, per parlare. Inoltre non voleva scomodare il moro, che l’aveva già presa da scuola. Si maledisse per non avere ancora una patente.
‘’Che stai facendo?’’ le chiese Carl.
Land pareva ammutolito, perso nei suoi pensieri. Assente.
‘’Chiamo George e gli dico di venire’’ rispose Margareth.
‘’Ti accompagno io’’
‘’No’’ sospirò Maggie.
‘’Marge…’’
‘’Tu e Holland avete bisogno di parlare’’ gli spiegò. ‘’Noi ci vediamo domani’’
Carl si perse ad osservarla e probabilmente si convinse di ciò che gli aveva appena detto. Aveva giusto una dozzina di cose da dire a quel coglione del suo amico.
‘’Grazie’’ le sussurrò, avvicinandosi. ‘’A domani allora’’
La cosa che rincuorò Maggie fu che la salutò con un fugace bacio sulle labbra. Non l’aveva mai fatto. Lei gli sorrise e rispose a George.
Quando terminò la chiamata, dopo avergli dato le giuste indicazioni per andare a prendere, si voltò verso Holland.
‘’Land’’ disse, dolcemente, avvicinandosi a lui e poggiandogli una mano sulla spalla. ‘’Riposati, ci sentiamo domani’’
Era troppo sconvolto perfino per risponderle.
 
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Quella notte, Holland Todd non chiuse occhio.
Rimase sveglio, fissando il soffitto o le mattonelle del pavimento, e si sforzò di non piangere.
Ci riuscì.
Avrebbe voluto correre da Margareth in quel momento, abbracciarla e ringraziarla mille volte per ciò che aveva fatto. Perché lo aveva salvato, perché era stato anche meglio del suo assurdo viaggio a Tokyo, perché era stata pronta e sicura. Perché aveva sfidato Carl, che avrebbe potuto non essere d’accordo, aveva seguito ciò che aveva sentito.
La realtà era che l’aveva sempre sottovalutata. Margareth Grey era molto più forte di quanto credesse lui e di quanto credesse perfino lei. Carl glielo aveva sempre detto, dall’inizio.
Eppure non fece niente, non le inviò neanche un messaggio.
Perché pensava ad una sola persona. Perché gli faceva bruciare l’intestino, accartocciare la gola, graffiare le nocche, squarciare i polmoni, spappolare il fegato, scomparire i reni, scuoiare la pelle, la consapevolezza che Morgan l’aveva salvato anche da morta. Di nuovo. 

 
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Eccovi il capitolo :)
Tralasciando il fatto che sono stanchissima, spero vivamente che vi piaccia!!
Anzi, vi consiglio di ascoltare NO SOUND BUT THE WIND, che è una canzone assolutamente meravigliosa
e merita davvero tantissimo :)
Poi...che ne pensate del gesto di Margareth? Finalmente sembra aver ripreso in mano la sua vita.
Inoltre la poesia che legge tenetela bene in mente, perchè
farà presto un altro ingresso eheheheh
E' una poesia bellissima, rileggetela concentrati solo su essa e ve ne renderete conto <3
Ora scappo, che domani ho un compito di italiano e rischio di addormentarmi sul dizionario...
Bacissimi xx
Harryette

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Capitolo 20
*** 19- I need you here ***


j
 

|Capitolo Diciannovesimo|
I need you here
 

Margareth si spostò una ciocca di capelli biondi dal volto, George la guardava recalcitrante. Era da giorni che si comportava in quel modo: sembrava sempre sul punto di dire qualcosa, ma mai capace di aprire realmente la bocca. Maggie era appena uscita da scuola e lo sguardo di George le aveva messo paura. Lui era l’unico a conoscere la verità, a parte Robyn che l’aveva intuita e l’aveva – ovviamente – criticata.
‘’Signorina’’ iniziò, forse realmente sul punto di dirle cosa non andava. Cos’era cambiato? E se avesse deciso di dire la verità ai suoi genitori, cosa avrebbe fatto? Avrebbe avuto il coraggio di mettersi contro Celine e Dan e schierarsi dalla parte di Carl? Purtroppo, per quanto si sforzasse di annullarli, i soliti dubbi erano sempre presenti e persistenti nella sua mente. Le sembrava così assurdo tutto quello che stava vivendo, così irreale e surreale che restava ancorata di sua spontanea volontà a terra per paura di volare. Avrebbe voluto urlare a Carl che aveva e aveva sempre avuto le vertigini.
Vai un po’ più piano, non respiro.
‘’Dimmi’’ lo incitò, decisa a sapere cosa non andava. Non ne poteva più di quell’attesa, era un’afflizione. Sapeva, in cuor suo, che non poteva tremare ogni volta che George la guardava o le diceva qualcosa, per paura che spifferasse tutto. Non poteva vivere nello spavento, era qualcosa che andava oltre e ben più lontano delle sue capacità e del suo limite di sopportazione.
‘’Ieri suo padre ha voluto parlarmi’’ dice, e Margareth è sicura di sentire un pugnale affilato lacerarle lo stomaco e trapanare la pelle.
Le manca il fiato.
Ha paura.
‘’E…?’’
‘’Mi ha chiesto se sapessi cosa le sta succedendo’’ ammise, continuando a guidare. Maggie si rese conto che, in ogni suo ricordo, George era sempre al volante, proprio dinanzi a lei ma distante anni luce. ‘’La trova un po’ strana e diffidente, ultimamente. Esce spesso’’
Suo padre non era uno stupido, Margareth lo sapeva bene, anche se era completamente assorbito dal suo lavoro. Aveva digiunato per giorni e mangiato come un criceto per settimane, e lui non se ne era mai accorto. Eppure aveva notato una cosa che, effettivamente, era reale e ne era consapevole. Come avesse fatto era un mistero, suppose che controllasse le sue entrate e le sue uscite dalle milioni di telecamere presenti all’interno e all’esterno della villa sproporzionata.
Si sentì sollevata, perché era sicura che George non gli avesse detto nulla – non prima di parlarne con lei – e perché, dopotutto, Dan non avrebbe potuto sospettare di Carl. Non l’avrebbe neanche mai potuto immaginare.
‘’E tu cosa gli hai detto?’’ si informò, visibilmente meno tesa.
George le rivolse un’occhiata ambigua attraverso lo specchietto, prima di ritornare ad immergersi sulla strada di fronte a se. Sospirò, e Margareth si agitò di nuovo. Non poteva rischiare un infarto ogni volta.
‘’Niente, che non sapevo niente’’ rispose. ‘’Margareth…’’ sussurrò, e non l’aveva chiamata mai per nome. ‘’Lei è consapevole che questa…cosa non può andare avanti ancora a lungo?’’
Lo sapeva ed era la cosa che la spaventava più di tutte.
Lo sapeva e, al solo pensiero di un giorno in cui i due mondi che si era a fatica costruita avrebbero colliso, rabbrividiva. Ci doveva essere qualcosa, qualunque cosa, che avrebbe potuto fare senza rincorrere il peggio. Doveva esistere qualcosa di meno masochista, qualcosa che le concedesse un periodo un po’ più lungo di pace.
Non aveva mai vissuto prima una cosa simile, ma sapeva benissimo come avrebbe reagito suo padre, supportato sicuramente da Celine. George, da impiegato, non avrebbe potuto difenderla. Hollie non l’avrebbe fatto. Carl non poteva, Holland aveva abbastanza gatte da pelare di suo. Morgan non c’era. Era così che sarebbe andata, quindi. Avrebbe dovuto affrontare la rabbia di Dan da sola, con sua madre che – come sempre – le avrebbe voltato le spalle reticente, il riflesso di un dubbio sul volto. E poi non avrebbe avuto scelta: non rivedrai Carl mai più.
E’ questo che voglio?
‘’Non so che fare’’ si lasciò sfuggire. Non si sarebbe mai sfogata con George, l’avrebbe solamente coinvolto di più, eppure non era riuscita a trattenersi. Le mancava qualcuno con cui parlare e con cui piangere. Non l’avrebbe mai detto a Carl, si sarebbe sentito in colpa, se lo sentiva.
George non rispose, neanche quando a Maggie venne un’idea e ‘’volta a sinistra’’ ordinò. ‘’Ho bisogno che menti per me un’ultima volta, George’’ si scusò. ‘’Prometto che metterò fine a questa storia il prima possibile’’
 
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Carl, la sera prima, le aveva detto che – dopo scuola – sarebbe andato direttamente a lavoro, in quel piccolo bar di periferia in cui lei non era mai entrata.
Per questo bussò alla porta del suo appartamento con una sicurezza che sentiva non le appartenesse, e sperava con tutta l’anima di non aver preso un granchio.
Cam le aprì la porta al secondo squillo, con una faccia assonnata e i capelli neri sparsi un po’ ovunque.
Si sentì in colpa, perché avrebbe dovuto avvisare prima di piombare in casa come una furia. Tuttavia Cameron le sorrise quasi subito, non appena la riconobbe, e parte dei suoi muscoli ritornarono rilassati. Non si era mai fermata a scrutarlo, forse perché l’aveva visto pochissime volte e non ne aveva mai avuto né il modo né il tempo, eppure in quel momento le sembrò assurdo il fatto che non lo avesse notato prima: la bellezza di Cam era una bellezza sfiorita e poi rinata, qualcosa che non era legato al bello in se o allo splendore fine a se stesso ma che andava oltre. Oggettivamente Carl e Holland erano fisicamente più belli, eppure Cameron aveva qualcosa che ai due mancava: negli occhi aveva una fiamma, qualcosa che lo stava incendiando e che lo incendiava da tanto tempo. Una pelle ambrata che lei avrebbe solo potuto sognare, non come quella liscia di Carl o quella di porcellana di Land. Nelle pupille nere, Cameron aveva un sentimento che non aveva mai visto prima: un misto d’amore e ammirazione, forse. Era innamorato, perché quegli occhi non sarebbero potuti appartenere a nessun altro. Improvvisamente a Maggie venne in mente della prima volta in cui l’aveva incontrato, quando aveva nominato una presumibile fidanzata. Ricambiò il sorriso, e si chiese se Holland avesse avuto lo stesso sguardo – anni prima – quando era con Morgan.
‘’Scusami tanto per essere piombata qui all’improvviso, ma…’’
Non ebbe il tempo di finire la frase, perché si ritrovò stretta fra le braccia muscolose e possenti del ragazzo. La stava abbracciando? Impacciata, Margareth ricambiò l’abbraccio con il solito imbarazzo che la distingueva, chiedendosi cosa diavolo fosse appena successo.
Quando si separarono, doveva avere un punto interrogativo in fronte perché Cameron scoppiò a ridere. ‘’Giuro che non sono un maniaco’’ le disse. ‘’Entra’’
Lei obbedì, sorpresa. Per quello che ne sapeva, Cameron avrebbe potuto tranquillamente essere una delle persone più espansive ed affettuose del mondo, eppur era toccata dal suo gesto.
‘’Era un modo per ringraziarti’’ esclamò, come se le avesse appena letto nel pensiero.
‘’Per cosa?’’
Cameron si incupì, come se un’ombra avesse mangiato una parte della fiammella che ardeva come lampo nei suoi occhi. ‘’Per quello che hai fatto con Holland’’ rispose, pesantemente. ‘’Se non fosse stato per te adesso non sarebbe qui’’
Cam era sensibilmente sollevato, eppure qualcosa spezzava la sua gioia.
‘’Non è stato niente’’ sorrise Maggie. ‘’Davvero, l’ho fatto con piacere’’
‘’Carl non c’è’’ inaspettatamente aveva cambiato discorso, convinta che fosse lì per vedere quello che era…il suo cosa? Aveva paura perfino a dirlo, come avrebbe fatto ad affrontarlo?
‘’No, in realtà ero venuta per Land’’ disse, con una sfumatura rosea sulle guance. Non c’era motivo di imbarazzarsi, eppure le era risultato inevitabile. Avrebbe voluto aggiungere che nessuno meglio di lei sapeva gli orari e gli impegni di Carl Pearson, che aveva segnato meticolosamente nell’agenda della sua testa, ma si trattenne.
Cameron sembrò inizialmente sorpreso, poi le indicò la porta della stanza. ‘’Magari riesci ad aiutarlo’’ sospirò con speranza. ‘’E’ da giorni che non esce da quella camera. Forse il sangue delle Grey lo aiuterebbe’’ ironizzò, ma non rise nessuno dei due. Margareth non si premurò neanche di salutarlo, voltò le spalle e raggiunse la suddetta stanza.
La aprì senza bussare: le era sempre stato insegnato a comportarsi in un certo modo, seguire un copione di regole già scritto, ma sembrava averlo dimenticato da quando aveva messo piede in quella casa. La frase di Cameron tornava a trapanarle il cervello, perché sapeva che Morgan non avrebbe mai permesso che gli succedesse quello. Era come se si sentisse in dovere di salvare quello che avrebbe voluto (ed avrebbe salvato) lei, di proteggere quello che avrebbe protetto, quasi come fosse ancora presente.
Holland era un vegetale, nel senso letterale del termine.
Era sdraiato su un letto, che sembrava ancora più minuscolo con una figura così esile all’interno, con le coperte di filo – si chiese come facesse a non gelare – che lo coprivano fino alle guance. Le dita ossee che spuntavano fuori dall’orlo del piumone, con delle unghie del tutto inesistenti. Le occhiaie sotto i suoi occhi, comunque sempre state presenti, in quel momento le parvero così scure che ebbe paura che fosse morto senza che nessuno se ne fosse accorto. Era immobile.
Gli si avvicinò velocissimo, con il cuore che le martellava nel petto ad una velocità disarmante: fa che sia vivo. Land respirava, così piano che non si muoveva neanche la coperta, ma respirava. E respirò di nuovo anche Margareth. Senza essersene nemmeno accorta gli si era seduta accanto, anche se dubitava che lui se ne fosse accorto. Aveva ancora gli occhi chiusi, come se non fosse mai entrato nessuno. Non l’aveva sentita?
Improvvisamente i suoi problemi, il motivo principale per cui era corsa lì, le parvero inutili e stupidi. Parlare con Holland, chiedergli un consiglio – a lui, che aveva vissuto la stessa cosa con una persona differente – riguardo Carl e la situazione, si era rivelata la mossa più egoista che avesse mai fatto. Come se non avesse saputo in che condizioni fosse il biondo, lo aveva dimenticato per un solo momento.
Holland mugugnò qualcosa, e lei ebbe la certezza che sapesse.
Il volto di Land era graffiato, a tratti scannato a sangue, piccole croste rossastre si erano formate ai lati del naso e attorno al perimetro del volto chiaro, pallido. I capelli erano sempre biondi, ma tendevano al bianco. A Maggie venne da piangere, e pensò che – anche se l’avesse fatto – Holland non avrebbe avuto la forza di capirlo.
Si domandò come potesse essere peggiorato in pochi giorni, dall’ultima volta che l’aveva visto nella stessa stanza, e non trovò una risposta. Forse Morgan avrebbe saputo cosa fare e cosa stava affrontando, si sarebbe documentata, avrebbe letto libri e avrebbe chiesto a trentamila dottori senza paura di essere scoperta da Dan e Celine Grey. Lei avrebbe voluto farlo, ma non sapeva neanche da dove cominciare.
‘’Land’’ iniziò, sussurrando e decidendosi a smettere di tacere. ‘’Land, sono Margareth’’
Sembrava quasi che non volesse che la sentisse, tanto che lo disse a bassa voce. Eppure non era quello il motivo: non voleva traforargli l’orecchio con una voce troppo elevata, non sapeva quanto fosse in grado di sopportare.
Dopo cinque minuti buoni si convinse che lui non l’avrebbe sentita comunque, né tantomeno riconosciuta. Non aveva neanche la forza di aprire gli occhi, come avrebbe fatto a parlare?
Quando la mano gelida del biondo sfiorò la sua dovette ricredersi. Non le strinse la mano, adagiò semplicemente la sua sopra, senza neanche premere i polpastrelli. Era una risposta.
Aprì gli occhi all’improvviso e Maggie sussultò.
Non perché l’avesse presa alla sprovvista, ma perché avrebbe pagato pur di non vedere quello sguardo. Gli occhi chiari di Holland erano stati mangiati da una pupilla nera enorme, che occupava tutto il perimetro disponibile. Perfino il contorno bianco le sembrava più piccolo.
Non c’era niente in quegli occhi ed era la sensazione più brutta che avesse mai provato. Non le sembravano neanche lucidi, reali. Vivi.
Si chiese cosa avrebbe fatto Morgan. Immaginò Carl al posto di Holland, immaginò i suoi occhi meravigliosi mangiati da uno sbaglio mortale, immaginò tutte le sue ombre triplicarsi e diventare draghi ruggenti, belve assetate di vita. Immaginò Carl con il volto sfregiato e graffiato profondamente, per un prurito che non gli dava pace neanche allora. Fu in quel momento che si avvicinò a Holland e poggiò la testa sulla sua spalla, delicatamente, e fu lei a stringergli la mano. Per la prima volta in vita sua fu felice che la sorella fosse morta, perché si stava risparmiando uno spettacolo malinconico e triste e ingiusto.
‘’Grazie’’
Quasi ebbe paura di essersi immaginata la voce di Land, di essersi immaginata una reazione. Eppure c’era stata, era stato reale, era lì e aveva parlato. Aveva capito subito a quale momento si stesse riferendo, lo riviveva ogni notte nei suoi incubi. Quella penna l’avrebbe tormentata per sempre.
‘’Di niente’’ sussurrò, reprimendo un sorriso.
Il silenzio calò per così tanto tempo che quando Holland riprese la parola a Maggie fischiarono le orecchie. ‘’Ti sei innamorata?’’
Non aveva bisogno che specificasse il soggetto, perché l’aveva capito sin dalla prima particella pronominale. Con il cuore bagnato ‘’Si’’ rispose, sincera. ‘’Sì, mi sono innamorata’’
Holland trovò la forza di sorridere, per un nanosecondo che le si presentò a rallentatore. ‘’Lo sapevo’’ soffiò. ‘’Lo sapevo sin dall’inizio’’
‘’Lo so’’ continuò a stringere la sua mano.
‘’Anche lui’’ sospirò, stanco e affannato. ‘’Solo che non te lo dirà mai’’
‘’Non importa, io…’’
Non ebbe modo di finire la frase, perché Land la interruppe e lei tacque. ‘’Lasciami morire’’ flebile e lento, uno strazio. Uno sterminio di sentimenti, una doccia gelida. ‘’Ti prego, convinci Carl e Cameron a finirla con il metadone’’ ansimò. ‘’Lasciatemi morire’’
Carl le aveva detto dell’intenzione che aveva, insieme a Cameron. Improvvisamente lo stato di Holland, comatoso e dolorante, le fu molto più chiaro.
‘’Holland’’ soffiò, ma era troppo tardi. Come se Land avesse recuperato tutta l’energia del mondo in un secondo, con una presa ferrea e una forza impressionante le bloccò il polso e la tenne ferma sul letto. Le sue pupille erano scomparse completamente, le croste tremavano sotto il suo muoversi frenetico, ed era in trappola.
‘’Holland lasciami’’ ansimò, sinceramente spaventata. ‘’Mi stai facendo male’’
Eppure lui non sembrava ascoltarla.
La voce che gli uscì fuori non la riconobbe nemmeno.
‘’Margareth’’ ringhiò. ‘’Devi comprarmi la roba. Devi farlo, è un ordine. Solo tu mi puoi aiutare’’
‘’Non sai cosa stai dicendo’’ tremò.
‘’Ti dirò io come fare’’ continuò. ‘’Oh, andiamo Margareth. Morgan l’avrebbe fatto, mi avrebbe dato una mano. Vuoi deluderla?’’
Maggie sapeva che Holland stava dicendo una marea di stronzate, eppure non riuscì a reagire come avrebbe voluto. Lui aveva scelto le parole giuste, l’aveva immobilizzata, aveva toccato il suo punto più debole e aveva colpito. Fece per lanciare un urlo e chiamare Cameron, quando la mano del biondo si parò sulle sue labbra.
‘’Non fare la stronza’’ bramò, accecato da qualcosa che lei neanche poteva, né voleva, immaginare. ‘’Non urlare, zitta’’
Margareth mugolò ma fu inutile, non avrebbe mai sentito nessuno. Sperò che Cameron si rendesse conto del tempo e venisse a cercarla.
Lei si sentiva soffocare, l’aria che le mancava. Quando Holland le chiese se l’avrebbe aiutato lei scosse la testa. Fu in quel momento che sentì due mani chiudersi attorno alla sua gola e stringere. Sapeva che Land era fuori di se, stravolto dall’astinenza, completamente estraniato dal mondo. Non riusciva ad avercela con lui neanche mentre la stava soffocando, perché rivedeva nei resti dei suoi occhi pezzi di Morgan in lacrime. Sarebbe stato sempre così? Sarebbe stata sempre soggetta al suo ricordo, sempre seconda, sempre condizionata?
Il suo volto iniziò a bruciarle, la gola raschiava ad ogni respiro, forse perse i sensi. Eppure riusciva ancora a vedere il volto etereo di Holland, il soffitto sterile della stanza, la puzza di medicinale e vomito e sudore e lacrime e sofferenza.
Successe in un attimo, le arrivò una voce lontana alle orecchie – ‘’l’hai lasciata sola con lui? Ma sei impazzito?’’ – e poi si sentì volare. Improvvisamente ansimò, boccheggiò violentemente, ma riprese a respirare.
Holland non era più su di lei, era libera. Si alzò dal letto con difficoltà, la testa che le vorticava, mentre ritornava stabile. Si portò una mano sul collo, bruciava.
Carl era davanti a lei, seduto su Land mentre lo teneva per il colletto del pigiama e lo sbatteva ripetutamente a terra. ‘’Stronzo’’ ringhiava, con dolore. Margareth non aveva mai sentito un litigio dispiaciuto, una voce arrabbiata e ubriaca di dispiacere. Carl lo stava scuotendo, ma – anche mentre lo insultava – non sembrava odiarlo. ‘’Non la toccare mai più, neanche con un dito. Chiaro?’’
Holland non reagiva più, era ritornato in uno stato di dormiveglia, eppure Carl continuava a muoverlo e scuoterlo. Fu Margareth che parlò. ‘’Carl’’ sussurrò, scossa, provata, triste. Spaventata.
Lui parve non sentirla e ‘’Carl!’’ esclamò più forte.
Solo allora lui si voltò verso di lei, continuando a tener fermo un Holland che non avrebbe potuto più far male a nessuno. Anche il moro aveva uno sguardo che lei non aveva mai visto: terrorizzato. Furioso.
‘’Per favore’’ sussurrò Maggie. ‘’Lascialo stare’’
Non aveva mai visto Carl perdere il controllo, men che meno con uno dei suoi amici, e desiderò essere ovunque meno che lì. Il suo guardo era appannato, la ascoltava ma non provava nemmeno a sentirla, era solo attraversato da una rabbia feroce. Maggie ebbe seriamente paura che potesse fare qualcosa di stupido contro qualcuno che, ormai, non poteva più difendersi.
‘’Ti prego’’ rincarò la dose, sperando che ritornasse ad essere il Carl di cui si era innamorata. Non era quello il suo sguardo, non erano quelli gli occhi che tanto ammirava. ‘’Vieni qui’’
Non la ascoltò.
Si avventò su Land, stavolta mollandogli addirittura un pugno sul volto. ‘’Io ti ammazzo’’ ringhiò Carl. ‘’Ti giuro che ti uccido io. Ti strangolo’’
Margareth non aveva mai sentito neanche quel tono di voce.
Una lacrima scorse sulla sua guancia, fu inevitabile e nemmeno cercò di nasconderla o di spazzarla via. ‘’Torna da me’’ disse, amareggiata, provando un’ultima volta. Singhiozzò e Carl si voltò. Non la guardò ma la vide. Si fermò e Margareth continuò imperterrita. ‘’Ho bisogno di te vicino a me. Ti scongiuro Carl, vieni qui’’
Dopo un ultimo spintone, si alzò da terra e lasciò andare il corpo inerme di Holland. Quando la guardò aveva gli occhi trasparenti di sempre. Si avvicinò e la trascinò fuori da quella camera.
Margareth ebbe solo il tempo di sentire un Cameron dispiaciuto che le diceva qualcosa di simile a ‘’credevo fosse stordito dal metadone, scusami Maggie’’, prima di ritrovarsi catapultata sulla moto di Carl, sfrecciando fra strade sconosciute.
 
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Carl aveva sfrecciato ad una velocità assurda per le strade di New York per quella che le era sembrata più o meno un’ora. Non chiese né disse niente durante tutto il tempo, limitandosi a stringersi spaventata alla sua schiena, perché aveva l’impressione che il ragazzo volesse sfogarsi.
Quando si fermò bruscamente e Margareth scese le sembrò un miraggio, la terra ferma ed immobile.
Per la fretta, Carl non aveva neanche indossato il casco, quindi – quando lei lo tolse – si limitò a poggiarlo da qualche parte.
Non era mai stata lì, non avrebbe neanche mai immaginato che esistesse un posto del genere in America.
Era nel centro di una distesa d’erba illimitata, apparentemente, contornata da radi fiori, la cui crescita era bloccata dal freddo rigido di quel periodo. Non c’era un’anima, non c’era una casa né una qualsiasi costruzione. Era qualcosa che Maggie non aveva mai avuto modo di vedere. Certo, l’aveva immaginato – uno spiazzato verde ed enorme – e ne aveva letti tanti nei libri, ma non vi era mai stata proprio in mezzo.
Ebbe la sensazione che non fosse la prima volta lì per Carl. Forse era solito andarci quando era parecchio arrabbiato, cosa che le sembrò plausibile e diede per vera.
Margareth non aveva intenzione di dire una parola, anche se stava iniziando a detestare quel silenzio, fino a che non avesse parlato lui per primo.
Il collo continuava a bruciarle, non gli aveva manco dato uno sguardo allo specchio né applicato una qualsiasi crema, ma non era nulla in confronto alla distanza di Carl.
Infatti lui aveva iniziato a camminare in tondo, sempre più lontano da lei, esasperato e apparentemente tormentato da qualcosa. Quando la guardò era così rabbioso che lei rabbrividì.
Il ricordo di Holland che la aggrediva era ancora troppo fresco nella sua mente, il ricordo di Carl preso da una morsa di furia incontrollabile le scavava ancora troppo la pelle perché riuscisse a trovare il coraggio – e la voglia – di trattenere le lacrime.
In silenzio, le lasciò scorrere. Di nuovo, detestandosi.
‘’Si può sapere che cazzo ti è saltato in mente?’’ la aggredì Carl, con una tale potenza che lei sussultò. ‘’Ma sei impazzita? Cosa diavolo ci facevi a casa mia?’’
Il tono con cui pronunciò quelle parole, probabilmente, la ferirono più dei suoi occhi ibernati. Sembrava gliene stesse facendo una colpa?
‘’Io…’’ balbettò.
‘’Io un cazzo!’’ la interruppe Carl, passandosi due mani fra i capelli. ‘’Ma ti rendi conto di cosa è appena successo? Si può sapere perché non hai urlato subito e perché non ti sei alzata appena ti ha agguantata?! C’è bisogno che ti faccia un disegnino?! Lo capisci che in questo mondo, nel mondo reale, le persone impazziscono?!’’
In fondo Margareth sapeva che, se non si fosse soffermata a pensare e soppesare le parole di Holland su Morgan, avrebbe potuto alzarsi facilmente. Sapeva che Carl aveva immaginato che Land l’avesse immobilizzata in qualche modo, conosceva l’amico e conosceva anche lei.
Holland era realmente impazzito, e lei era stata una stupida.
‘’Carl…’’
‘’No, niente Carl’’ la bloccò ancora, allontanandosi. In tutti i sensi. ‘’Non devi fare sempre tutto quello che ti dice la testa. Non ti devi fidare solo perché è mio amico o perché era il fidanzato di tua sorella! Holland non è più quel ragazzo! Ha rischiato di strozzarti, Cristo Santo!’’
Se solo le avesse dato modo, Margareth gli avrebbe almeno spiegato il vero motivo per cui era nel suo appartamento. Solo che Carl sembrava così immerso nella sua critica verso il mondo che neanche la vedeva.
‘’L’ha fatto apposta’’ ammise, amaramente e rabbiosamente. ‘’Ti voleva portare via. L’ha fatto apposta’’
‘’Cosa stai…?’’
Carl la bloccò solo con lo sguardo gelido, che parve sciogliersi un po’ quando notò le sue lacrime. ‘’Voleva portarti via da me, perché lui non ha più Morgan. E’ da una settimana che delira su questo. Voleva ucciderti seriamente, porca puttana, lo capisci? Lui non vuole che io ti abbia e lui non abbia più tua sorella, ha completamente perso il senno’’
Forse fu la fiamma di dolore negli occhi di Carl che la fece crollare. Non si preoccupò più di mascherare le sue lacrime né di trattenere un altro solo singhiozzo. Abbassò il volto e pianse, quasi urlò.
Fu solo allora che Carl le si avvicinò.
Sentì le sue mani fredde sulle spalle, oltre il suo cappotto, ma non si alzò a vederlo. Lui, dal canto suo, non glielo chiese. ‘’Oggi George mi ha detto che papà ha capito che qualcosa non va’’ soffiò, d’improvviso, approfittando di quella calma apparente. ‘’Io… non so perché sono andata da Holland. Ho pensato che avesse passato le stesse cose con mia sorella, che avrebbe potuto darmi un consiglio. Ho paura’’ singhiozzò, sincera.
‘’Di cosa?’’ era più calmo, ammorbidito dal sale che le usciva dagli occhi.
‘’Ho paura di cosa potrebbe fare mio padre se lo scoprisse’’ sussurrò. ‘’Ho paura di cosa potrebbe fare a te. Di cosa potrei fare io a me stessa’’ si asciugò una lacrima con la manica della divisa. ‘’Ho disperatamente bisogno di te. Non posso perderti adesso che ti ho trovato’’
Probabilmente se non fosse stata psicologicamente stressata non avrebbe mai detto neanche una di quelle parole, eppure in quell’istante non riuscì a pentirsene. Carl non disse nulla, le sue mani bloccate sulle sue spalle, tanto che temette di aver peggiorato solo la situazione.
‘’Ma sei reale?’’ chiese, più a se stesso che a lei, all’improvviso. Le sue mani, dalle spalle di Marge, salirono sul suo collo, fermandosi a metà fra l’incavo e il contorno delle guance. Coi i pollici raccolse qualche lacrima, prima di poggiare la sua fronte contro quella di lei.
‘’Che significa?’’ ingenuamente gli chiese.
‘’Significa che non accadrà niente di quello che hai detto’’ rispose, respirandole sulla punta del naso. ‘’Non mi perderai’’
‘’Davvero?’’
Margareth aveva sempre dato tantissima importanza alle parole, ci aveva sempre creduto, ma aveva bisogno di certezze. Aveva bisogno di sapere quanto ne valesse la pena. Fin dove sarebbe stato giusto arrivare.
Avrebbe dovuto immaginare che Carl non avrebbe mai risposto apertamente a nessuna delle sue domande.
‘’Quando sono tornato e Cam mi ha detto che eri con Holland’’ raccontò. ‘’Ho ripensato a quello su cui lui delirava di notte. Ho avuta così tanta paura che non ho capito più niente. Scusami se ti ho spaventata’’
‘’Mi hai salvata’’ calcò le parole, sottolineandole. ‘’Ancora’’
Carl non le rispose, ma lei sentì le sue labbra premere sul suo collo e lasciarle dei baci così leggeri e delicati da essere perfino poco percepibili. Probabilmente doveva avere un segno rosso lì, o comunque qualcosa che ricordasse cosa era successo poco tempo prima, perché Carl non riusciva a distogliervi gli occhi.
‘’Non me lo sarei mai perdonato’’ sussurrò, finalmente vicino a lei in tutti i sensi. ‘’Se ti fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonato’’
‘’Ma alla fine non…’’
Non ebbe il tempo di finire la frase neanche quella volta, perché le labbra di Carl premettero con insistenza contro le sue e lei lo lasciò fare, ancorandosi alle sue spalle.
Fu in quel momento che, per la prima volta, pensò che forse si stesse ancorando anche a qualcos’altro.

 
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Eccomi quì, seppur con un pò di ritardo :)
Non c'è molto da dire su questo capitolo, ma vorrei chiarire due cose ((che mi sono state chieste o dette 
in messaggi e\o recensioni e vi ringrazio in anticipo))
1 - Non ho mai detto che Land muore. Sembrate tutte ESTREMAMENTE terrorizzate ahaha
2 - Qualcuna di voi, anche su ask, mi ha chiesto quando Margareth e Carl andranno un po ''oltre'':
adesso, ovviamente non è quello il fine della storia. E, sempre ovviamente, CI SARA' quella scena.
Non vi garantisco che sia scritta bene, ma ho già provveduto :) 
Vi chiedo solo di portare un pò di pazienza, tutto deve fare il suo corso e ci sono ancora un paio di
cosette che devono accadere... se proprio volete sapere, visto che sono buona perchè
TRA POCO VADO A LONDRA, vi dico che sarete accontentate nel capitolo 24 :)
Ora vi lascio un bacione, buon weekend <3
Harryette

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Capitolo 21
*** 20- A reason to be happy ***


 
j
 

|Capitolo Ventesimo|
A reason to be happy
 
 
Il viaggio di ritorno fu silenzioso, di quel silenzio che Margareth provò a spezzare pur non riuscendoci.
Carl aveva assunto la stessa, identica, espressione che aveva avuto all’andata: crucciato, pensieroso, distante in modo doloroso e crudele. Maggie avrebbe voluto fare qualcosa, sapere perlomeno cosa fare, ma non aveva la minima idea del punto da cui cominciare. La verità era che, nonostante si fosse temporaneamente illusa del contrario, non conosceva bene Carl e non avrebbe potuto aiutarlo neanche volendo.
Dubitava fortemente che il motivo del suo astio fosse lei, perché era stata sicura – fino all’attimo prima – che avessero chiarito. Evidentemente c’era qualcos’altro che non le aveva detto e che lo stava lentamente logorando. All’andata il viaggio le era sembrato addirittura la metà, tanto che quando arrivò all’isolato prima di casa sua – il solito – tirò un sospiro di sollievo. Si rese conto che andarsene in quel momento, salutando normalmente, sarebbe stato ipocrita, ma non sapeva cosa avrebbe potuto aggiungere. Quale fosse il problema, quali tasti doveva toccare e quali doveva invece lasciare impolverati. Era terrorizzata dall’idea di infastidirlo dicendo qualcosa di sbagliato, di portarlo ancora di più all’esasperazione.
Carl Pearson era sempre stato complicato, non lo aveva mai nascosto a se stessa e non si era mai convinta del contrario, eppure – in quel momento più di tutti gli altri precedenti – si rese conto che era così difficile che forse non ci sarebbe riuscita. Si era illusa di aver scalfito in parte la sua armatura, un piccolo spiraglio, una crepa da cui entrava la luce e che avrebbe usato per scavare ancora di più. E invece niente, non aveva capito niente. Non lo aveva capito per niente.
Il suo mutismo le dava sui nervi, come tutte le altre volte, eppure c’era qualcosa di diverso nell’aria: forse era solamente rassegnazione. Fu in quel momento che Margareth si rassegnò: non sarebbe mai riuscita a comprenderlo, poteva fasciarsi la testa mille volte per le botte e non sarebbe cambiato assolutamente niente. Se davvero qualcos’altro lo affliggeva, perché non glielo aveva detto? Perché non gliene parlava?
Non poteva pretendere che lei se ne stesse in silenzio, facendo finta di nulla, quando era chiaro come il sole che c’era qualcosa che non andava. L’auto si fermò, ma Margareth non accennò ad aprire la portiera e scendere. Carl, a sua volta, non si aspettava che lo facesse. Continuò a guardare la strada di fronte a se, consumando l’asfalto bollente, anche se il motore era spento.
Maggie stava aspettando che parlasse e – anche se non l’aveva detto ad alta voce – era sicura che lui l’avesse capita benissimo.
Avrebbe potuto cacciarla, se glielo avesse chiesto sarebbe rientrata a casa, ma sapevano entrambi che non sarebbe successo. I minuti passarono lenti e tesi, mentre Margareth sentiva l’aria dell’abitacolo diminuire sempre di più ad ogni respiro.
‘’Da quando ci siamo incontrati’’ sussultò, nel sentire la voce bassa, seria e roca del moro. ‘’Non ci sono state altro che tragedie e incomprensioni. E’ una montagna russa’’
Non era una domanda o una frase che attendeva una risposta, era un’affermazione nuda e cruda. ‘’Io le odio, le giostre’’ aggiunse, mentre Margareth cercava di dare un senso a quello che stava dicendo.
‘’Che vuol dire?’’ soffiò, perché non le stava piacendo per niente la piega che stava prendendo la faccenda. Perché le mancava l’aria, quella volta nel senso letterale del termine.
‘’Per colpa mia hai rischiato di morire’’ disse, a se stesso. ‘’Possibile che tu non te ne renda conto?’’
‘’Certo che me ne rendo conto!’’ sbottò, esasperata, lei. ‘’E parli di Holland come se fosse un mostro! Sono viva, cos’altro c’è da aggiungere? Perché diavolo ti tormenti così?’’
L’occhiata che le riservò, dopo quello che le era parso un tempo illimitato, fu così gelida che sentì il sangue bloccarsi nelle vene, il cuore pompare più lentamente. ‘’Siamo diversi in tutto’’ continuò Carl, con una voce così posata che la fece irritare ancora di più. Avrebbe voluto solo piangere ma, allora come allora, non gli avrebbe mai dato quella soddisfazione. Era davvero quello ciò che voleva? Vedere fin dove era disposta a spingersi e quanto era disposta a sopportare?
‘’Ma cosa stai cercando di dirmi?’’
‘’Che non voglio che tu rinunci a niente’’ e calcò quell’avverbio. ‘’Soprattutto e specialmente, non per colpa mia’’
Margareth gelò. Non solo Carl aveva dato voce a tutti i suoi timori, ma gli aveva prestato la voce che più desiderava sentire. ‘’Non capisci un cazzo’’ ringhiò, con le lacrime negli occhi azzurri e i capelli biondi che le si appiccicavano al volto. Non le importava della parolaccia, non le importava del mascara che si stava inevitabilmente sciogliendo sotto il peso delle sue lacrime, non le importava se avesse pensato che fosse una bambina viziata. ‘’Io non ho niente a cui rinunciare perché non ho niente’’ calcò anche lei lo stesso avverbio di poco prima. ‘’Non posso rinunciare a qualcosa che non esiste’’ prese un sospiro così pesante che Carl aprì di poco il finestrino, comprendendo che realmente non riusciva a respirare. Aveva i polmoni bloccati. ‘’Io sono inn…’’ si rese conto di cosa stava ripetendo, per l’ennesima volta, e si passò una mano nei capelli con fare disperato. ‘’Oh, andiamo, devi farmelo ripetere ogni volta?’’
Non ne fu sicura, ma vide un piccolo sogghigno colorare il volto plumbeo di Carl. Quando la guardò, di nuovo, il suo volto era ritornato lo stesso di sempre: il volto che tanto le piaceva, che non la metteva in soggezione e che non la mandava in crisi.
‘’E’ proprio per questo che voglio che tu sia felice’’
Margareth voleva baciarlo.
Solo quello.
Si trattenne solo perché stavano discutendo e non ne avrebbe avuto la forza. ‘’Non sono mai stata più felice di adesso’’ esclamò, sincera. ‘’Non mi sono mai sentita a casa come ora. Come con te. Non so più come fartelo capire’’
‘’Lo so’’ sospirò Carl, prendendole inaspettatamente la mano ed incrociando le loro dita. ‘’E’ per questo che ho paura’’
‘’Paura di cosa?’’
Ancora una volta, l’ennesima, Carl ritornò a guardare davanti a se e ignorò la domanda. Bastava tirare in ballo le sue paure e i suoi timori e si richiudeva nel solito guscio di indifferenza impenetrabile. Ma quella volta sarebbe stato diverso. Margareth voleva che fosse diverso.
Forse la voce le uscì fuori più strascicata e roca del normale, ma parlò ugualmente con fierezza: ‘’Se non mi dici che cosa ti spaventa, non ti posso aiutare. Ti prego, non chiuderti in te stesso, Carl. Non lasciarmi fuori’’
Le piacque pensare che il suo tentativo funzionò e che, per quel motivo, lui si girò e le parlò a cuore aperto. ‘’Io non sono sicuro di essere in grado di darti quello che meriti’’ sussurrò, distante. ‘’Adesso stai bene, ma domani? Io non sono fatto per queste cose, Marge. Vengo da un posto dove la gente viene sparata ogni giorno, io stesso so come usare una pistola. Non ho progetti per il futuro, non ho genitori, mia sorella è a ore ed ore da me, il mio migliore amico sta morendo e l’altro non fa che urlare per la disperazione. E, in più, i tuoi genitori mi odieranno esattamente come il tuo autista e Robyn’’ terminò l’elenco. ‘’Che cosa potrei mai darti?’’
Margareth pianse ma non se ne rese conto fino a che lui non le spazzò due lacrime via dal viso. ‘’Non voglio niente’’ gli rispose, sicura ma tradita dalla sua voce spezzata. ‘’Voglio solo stare con te’’
‘’E poi?’’
Sembrava divertirsi a riempirle la testa di dubbi, di domande, di timori che sapeva fossero leciti ma a cui aveva sempre preferito non pensare. Eppure, anche se non lo dimostrava apertamente, Maggie sapeva e sentiva quanto ci stesse male anche lui. Quanto fosse difficile e duro farle quelle domande. Allora davvero voleva vedere fino a che punto era disposta a spingersi.
‘’So cosa stai cercando di fare’’ gli disse, fra le ultime lacrime. ‘’Stai cercando di spaventarmi, vero? Vuoi vedere se ci tengo, se sono disposta a perdere ogni cosa’’
‘’Io voglio solo che tu sia convinta delle tue scelte’’ la sua naturalezza mischiata ad un dolore acuto la sconvolse. Aveva dei dubbi. Aveva paura che lei cambiasse idea.
Non gli rispose a parole, preferì dimostrarglielo.
Si alzò a fatica dal suo sediolino e gli salì in braccio, lasciando cadere una cambia su ognuno dei due lati e bloccandogli il bacino. Erano così vicini che sarebbe bastato un movimento minimo perché le loro bocce si sfiorassero, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a farlo. Margareth comprendeva e non giudicava i dubbi di Carl, la sua paura di un cambiamento o di deluderla, ma non era disposta a tollerarli.
Gli lasciò un bacio leggerissimo sul collo, ma bastò quello perché lui portasse le mani sui suoi fianchi e la tenesse ferma. ‘’Cosa stai facendo?’’ le chiese, sussurrando.
Margareth non aveva mai sentito quel tipo di voce in vita sua: bassa, tremante, vacillante e desiderosa di qualcosa di più. Eppure sembrava sempre voler mantenere una distanza di sicurezza, come se avesse avuto paura che non sarebbe più stato capace di tornare indietro.
‘’Sono convinta della mia scelta’’ gli lasciò un altro bacio, dall’altro lato del collo sottile. ‘’Credo in te’’ un altro un po’ più su. ‘’Mi fido di te’’ uno dietro l’orecchio, le mani di Carl sempre più strette sui suoi fianchi magri. ‘’Sono innamorata di te’’ gli lasciò l’ultimo bacio a fior di labbra, allontanandosi il giusto per respirare. ‘’Non mi deluderai’’ lo rassicurò, mentre lo vide guardarla in un modo nuovo e completamente meraviglioso. ‘’Sei il motivo per cui confido ancora in qualcosa. Sei la mia stella, Carl, ma davvero non te ne accorgi? Non li vedi i miei occhi?’’
Sarebbe stato un paradosso non riuscire a vederli, perché li divideva un sottilissimo strato d’aria. Carl la baciò con così tanta passione che rischiò di spezzarle la schiena, mentre il suo solito profumo le penetrava le narici, i vestiti, la pelle diafana e le ossa ammaccate. Non seppe dire con precisione quanti furono i loro baci, intervallati da momenti di semplice respiro l’uno nella bocca dell’altro, o da piccoli morsi che Carl le lasciava sul collo e che rischiavano seriamente di farla impazzire.
I finestrini della macchina si erano appannati, segno della differenza di temperatura fra l’interno e l’esterno.
‘’La notte’’ irruppe Carl. ‘’Non riesco a dormire. Non faccio altro che immaginarti sul quella ringhiera, di fronte al fiume. Mi stai tormentando’’
‘’Mi dispiace. Non avrei voluto che assistessi a quella scena’’
‘’No’’ la interruppe. ‘’Salvarti è stata la cosa migliore che abbia mai fatto’’
Probabilmente non avrebbe mai ammesso di essere innamorato di lei ad alta voce, ma – sinceramente – non poteva importarle di meno. Glielo leggeva negli occhi cristallini, tutto quello che provava e che le avrebbe detto se avesse avuto la voce giusta per farlo.
Le andava bene così.
Stavolta non avrebbe avuto più paura.
 
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L’astinenza era così forte che pensò di uccidersi.
C’erano tanti modi per farlo, infondo, anche in una stanza mezza vuota. Anche se Cam era di sotto con Laurine, sicuramente deprimendosi perché si sentiva inutile. Se avesse avuto la testa a posto per capirci qualcosa, Holland si sarebbe sentito tremendamente in colpa.
La testa, però, era così confusa e la vista così annebbiata che barcollò e cadde quando provò a scendere dal letto.
Sentiva di star impazzendo.
Era camera sua, quella, oppure la camera di Carl? O forse di Cameron? O una stanza vuota per gli ospiti? Avevano una stanza per gli ospiti? Da quando? Il tanfo, però, riusciva a sentirlo ancora. Era insopportabile. Odore di vomito, di sudore e di dolore uniti in un mix allucinante.
Fu quando riuscì a rimettersi in piedi che la vide: una luce bianchissima, in fondo al corridoio. O alla porta. C’era un corridoio nella camera?
Era così forte che riusciva ad oscurare e confondere tutto quanto il resto, ed era meravigliosa. Successe in un secondo, quando le si avvicinò un po’ di più. Era a casa sua, ecco perché non aveva riconosciuto la stanza! Era nella casa dov’era cresciuto, nella casa dei suoi genitori. Sentiva la radio accesa, una musica dolce che proveniva dal fondo del corridoio, dove c’era la cucina. Era ‘’Always on my mind’’ di Elvis Presley, il cantante preferito di sua madre da quando ne aveva memoria.
Le parole della canzone si disperdevano nell’aria, nella luce giallina tipica del suo corridoio, mentre la voce di sua madre – che armeggiava qualcosa in cucina, perché era accompagnata da uno scodellare rumoroso ma rilassante – si univa a quella del cantante.
Si avvicinò alla cucina, verso la fine del corridoio, e vi si affacciò: sua madre era lì, il vestito giallo che aveva l’ultima volta che l’aveva vista, i capelli mori raccolti nella solita treccia confusa. Si voltò non appena sentì dei passi. Sorrise.
Era bellissima.
‘’Holly’’ lo chiamò, col nomignolo che era solita affibbiargli quando aveva cinque anni e che era rimasto tale negli anni, nonostante le proteste non sempre gentili del figlio. ‘’Finalmente! Sempre il solito dormiglione’’
Holland abbassò lo sguardo, con l’intenzione di guardarsi, ma non vide il suo corpo. Come se fosse una proiezione, un’ombra, ma era troppo sereno e felice per farci caso. Non sentiva più l’astinenza, non sentiva più alcun tipo di dolore, niente di niente. Non ricordava neanche più la sua vecchia vita. La tavola rotonda con il mensale verde, sempre presente in ogni suo ricordo, era esattamente dove era sempre stata: la casa che aveva abbandonato era tornata come prima, come se non fosse mai diventata disabitata.
Era imbandita di ogni tipo di cornetto, ogni tipo di marmellata e crostata, un cappuccino pieno e altri due finiti. La solita rosa rossa al centro.
‘’Io e tuo padre abbiamo fatto colazione un’ora fa’’ sorrise sua madre. ‘’Ora è dovuto correre a lavoro, ma torna per pranzo! Sto facendo le lasagne, il tuo piatto preferito. Sei contento?’’
Holland si avvicinò lentamente alla tavola e si sedette su una sedia. Sorrise. Sorrise tanto e bene. Sua madre prese a parlare di quello che aveva detto la sua migliore amica, Lesli, l’ultima volta che si erano viste. Aveva sempre parlato troppo, e Land aveva sempre finto di ascoltare. Quella volta, però, l’ascoltò davvero. Gli sembrava di non sentire la sua voce da una vita.
Intanto, mentre finiva il suo cornetto e beveva il suo cappuccino, il campanello suonò e sobbalzò. ‘’E’ solo il campanello, sciocchino!’’ ironizzò sua madre, alzandosi per andare ad aprire.
Non capì chi fosse, neanche ci fece caso, ma sentì sua madre esultare ed esclamare un dolcissimo ‘’Buongiorno, tesoro!!’’
Poi, dal nulla, sua madre riapparve in cucina con un sorriso da un orecchio all’altro. ‘’Guarda un po’ chi è venuta a trovarci!’’
Una ragazza bionda fece il suo ingresso: indossava il solito jeans strappato sulle ginocchia e una camicia bianca che le conferiva l’aria altera che aveva sempre ostentato. Morgan. Morgan era davanti a lui, stretta in un abbraccio improvviso della madre, mentre sorrideva serena e senza alcuna occhiaia sotto gli occhi chiari.
Si avvicinò a lui e gli lasciò un leggero bacio sulle labbra. ‘’Buongiorno, amore mio’’
Holland non riuscì a trattenersi. Si alzò dalla sedia e la strinse forte, così tanto che ebbe paura potesse scomparire. Ma era lì, era ancora lì, l’unica persona che avesse mai amato veramente.
‘’Sei viva’’ si lasciò sfuggire, mentre immergeva il volto tra i suoi capelli d’oro e sentiva il loro odore di fragola. Lo stesso di sempre. ‘’Sei viva’’
Morgan rise, scuotendo la testa, mentre sua madre fingeva di essere impegnata ai fornelli e di non vederli. ‘’Ma certo che sono viva’’ ironizzò. ‘’Lo shopping con tua madre, ieri, non è stato così male’’ gli fece l’occhiolino.
Holland pensò che fosse morto.
Che quello fosse il paradiso.
Fu felice, come non lo era da anni, mentre la canzone di Elvis continuava a rimbombare fra le mura di casa sua e il profumo delle lasagne di sua mamma gli riempiva il cuore di amore.
Morgan era davanti a lui, che muoveva la testa a ritmo di musica, gli si avvicinava e gli cantava all’orecchio: ‘’you’ll always on my mind’’ sorridendo.
‘’Ti amo’’ le sussurrò, a canzone finita.
Morgan sorrise ancora ma non rispose. Il suo volto divenne improvvisamente sempre più bianco, gli occhi più neri, i capelli bianchi. Divenne così debole che cadde a terra, senza produrre alcun rumore. Holland urlò il nome di sua madre, ma quella continuava a cucinare indisturbata, cantando, come se nessuno la stesse chiamando. Non riusciva a toccare nessuna delle due, sembrava fossero fatte di aria.
Morgan divenne cenere.
Davanti ai suoi occhi, si accasciò e si strinse su se stessa, urlando. Scomparve nel giro di due secondi. E quando Holland si voltò, non c’era più neanche sua madre. La cucina era vuota, esattamente come l’aveva lasciata prima di metterla in vendita. Nessun tavolo, nessuna tovaglia verde, nessuna musica e nessun odore di lasagne.
Sentì il braccio bruciare, qualcosa penetrargli la pelle. Eroina? Cocaina? Gli andava bene qualsiasi cosa.
Era a terra, sul pavimento di quella che credeva fosse la sua stanza – quella reale - , e Cam era sopra di lui. Lo rimise a letto, gli conficcò un altro ago nella vena.
Metadone, penicillina, sonniferi, calmanti. Che differenza faceva ormai?

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 Margareth si mise a letto con il cuore pieno di gioia.
Non si era mai sentita così leggera in vita sua, così sicura, così dipendente da qualcuno. Non riusciva a pensare più a niente, i suoi pensieri erano completamente offuscati dall’immagine di una persona che non le dava pace. Che cosa aveva fatto di tanto grande da meritare una cosa simile? Perché?
Accanto a lei giaceva il libro di Morgan, quello che leggeva in ospedale e non aveva mai continuato. Era sempre stato chiuso in camera sua, al sicuro, ma quella sera Marge aveva avuto voglia di prenderlo e portarlo nel suo mondo. Grazie a Carl, riusciva a dare uno sguardo al passato senza piangere o rimanerne scottata.
Si sentiva in pace con se stessa, per la prima volta dopo tanto tempo. Nonostante il rapporto con i suoi non fosse dei migliori, nonostante avesse paura del giudizio di George e di Robyn, nonostante avesse milioni di dubbi, non era mai stata così tranquilla.
Sentiva che niente sarebbe stato insormontabile.
Sentiva che si stava staccando, a poco a poco, dal ricordo bruciante di sua sorella. Sentiva che stava smettendo di vivere nella sua ombra, anche dopo la sua morte. Che si stava separando dalla sua figura, dal suo sorriso, dalle sue parole.
Morgan sarebbe stata fiera di lei.
Lei stessa lo era.
Prese la copia di Cime Tempestose di Morgan, l’ultimo oggetto che aveva toccato – quella notte, ripondendolo sul comodino accanto al letto dell’ospedale con il segno a metà, nonostante l’avesse letto milioni di volte – , e se lo portò vicino al naso.
L’odore di pagine vecchie e carta era mischiato all’odore di fragola che aveva sempre avuto sua sorella. Avrebbe voluto creare un profumo che riprendesse quell’esatta fragranza.
In quel momento non le venne più da piangere, come sarebbe successo solo qualche settimana prima se avesse cercato e preso quel libro dalla libreria di Morgan.
Anzi, sorrise.
L’avrebbe letto anche lei di nuovo, una seconda volta, e sarebbe partita dal punto in cui si era fermata la sorella. Pagina 190. A fare da segnalibro c’era un piccolo pezzo di carta bianca, abbastanza spesso per scriversi sopra. Aprì il libro e tolse il segnaposto.
Ma si bloccò.
Era una lettera.
Con il fiato in gola, il cuore fra le costole e i polmoni affannati – di nuovo - , la voltò per leggere mittente e destinatario. Non sapeva spiegarselo, ma in un certo senso se lo sentiva.
Sul retro della piccola busta bianca, che aveva sempre creduto fosse un semplice foglio, spiccava una piccola scritta. La scrittura tondeggiante di Morgan le saltò subito agli occhi.
L’avrebbe riconosciuta tra mille.
Le ripassarono dinanzi agli occhi tutti i post-it che era solita lasciarle la mattina prima di andare a scuola – ‘’sorridi, che sei più bella’’ ‘’l’interrogazione di matematica andrà bene come sempre’’ ‘’manda mamma e papà a fanculo da parte mia’’ – e tutte le dediche che era solita farle, imbrattandole ogni singolo libro – ‘’alla sorella più bionda e sociopatica di tutte, con affetto’’ ‘’esci di casa, cazzo!!!!’’ ‘’ti voglio bene, viva la fantasia’’.
Quella volta era un po’ diverso.
Chiamò Carl all’instante, decisa a non nascondergli più niente e a chiedergli consiglio per tutto. Se non voleva che lui si chiudesse nel suo mondo, lei doveva essere la prima ad evitare di farlo.
‘’Marge?’’ la risposta fu immediata.
‘’Tranquillo’’ gli disse, reprimendo un sorriso. La sua voce preoccupata e sull’allerta era comprensibile, dopo tutte le volte che lo aveva chiamato disperata nel cuore della notte. ‘’Ho bisogno del tuo aiuto. Ho trovato una cosa e devo consegnarla’’
 
‘’Ad Holland, con tutto l’amore del mondo.’’
Morgan

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Se siete arrivate fin qui vi faccio sante ahahah
Vi avviso che, da questo momento in poi, la storia ((sia di Margareth e Carl che in complesso
generale)) prenderà una piega un pochino più seria. Spero che non vi dispiaccia :)
Per chi mi ha chiesto di Laurine e Cameron...il fine della storia è quello di 
descrivere la vita di questi ragazzi fino a che si calma, diciamo. Laurine e Cam hanno
superato, bene o male, il loro momento di stallo. Per cui ho preferito virare l'attenzione ai personaggi rimasti :)
Ovviamente usciranno altre volte, solo meno da protagonisti! Ahimè, voglio troppo bene
ad ogni mio singolo personaggio per emarginarlo ahaha
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e - per chi si fosse interessato - il mio viaggio
a Londra è andato BENISSIMO. E' la mia città, punto <3.
Ora vi saluto e vado a correre! Un bacione immenso :)
Harryette

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Capitolo 22
*** 21- 49 ***


j
 

|Capitolo Ventunesimo|
49
 

La stanza di Holland puzzava di disinfettante e di morte.
Non appena Margareth vi mise piede strinse la mano di Carl un po’ più forte. Probabilmente lui capì il motivo di quel gesto, perché si avvicinò ancora di più a lei, tanto che Maggie sentiva il suo respiro sopra la sua tempia.
‘’Land’’ lo chiamò Carl, con la voce fredda con cui – solitamente – si rivolgeva a quasi tutti. Anche a lei, all’inizio, tanto che era stata portata a considerarlo impenetrabile. Probabilmente lo era ancora, e lo sarebbe stato sempre, ma era un po’ più vicino. Non solo perché le loro spalle erano incollate, no. ‘’Sei sveglio?’’
Carl non lo aveva perdonato, glielo si leggeva nei tratti duri del volto e nella voce impastata, neanche se era in condizioni inumane. Solo il piccolo rigonfiamento sotto le coperte attestava la presenza fisica di qualcuno, altrimenti Margareth avrebbe addirittura creduto che la stanza fosse vuota. Era identica a come l’aveva lasciata l’ultima volta, buia e con le tapparelle rigorosamente abbassate. Solo un piccolo abat-jour dava all’ambiente un colore dorato. Holland non rispose ma si mosse, e la risposta fu interpretata da entrambi come un no. La lettera che stringeva nell’altra mano, quella che non era incollata a Carl, le stava ustionando la pelle. La sentiva quasi palpitare, battere, schiamazzare, come se fosse stata nascosta per troppo tempo e non vedesse l’ora di essere finalmente letta dall’effettivo destinatario. Margareth non sapeva come Holland avrebbe potuto reagire, cosa avrebbe potuto pensare, se le avesse creduto sin da subito, se avesse capito. In cuor suo, silenziosamente, sperava che la leggesse da solo, in privato, senza di loro o – peggio – senza che qualcuno la leggesse per lui.
Le sue preghiere furono effettivamente esaudite. Sicuramente Carl aveva già parlato con Land e l’aveva informato dell’esistenza di una lettera nascosta in un libro, che Morgan avrebbe probabilmente voluto mandargli ma non ne aveva avuto il tempo, perché Holland si alzò a sedere dopo quasi una vita. Era scheletrico, latteo, e sul collo spuntavano delle vene prominenti simili a serpentelli blu scuro. Gli occhi pareva non averceli neanche più e Margareth ebbe paura, i ricordi dell’ultima volta che si erano visti tornarono a tormentarle la mente e a monopolizzarle i pensieri. Chiuse per un attimo gli occhi e inspirò ed espirò.
‘’Ci sono io’’ le sussurrò Carl, nell’esatto momento in cui si decise a riassumere il controllo di se stessa e smetterla di pensare. Sapeva che Holland era una brava persona, sapeva che poteva fidarsi di lui, ma quello che aveva di fronte non era lo stesso ragazzo che aveva conosciuto settimane prima. Era un’ombra di se stesso, il riflesso storpiato e deformato di qualcosa che era stato e che non era più.
Ancora una volta, Land si limitò a far scorrere lo sguardo da Carl alla bionda con un’espressione vitrea ed indecifrabile sul volto, prima di sospirare. Margareth non credeva nemmeno che sentisse più il dolore o qualsiasi altro tipo di sentimento o emozione, tanto era distante e finto. La sua figura rasentava l’invisibile, e non solo per la magrezza o per le ossa delle spalle che spaccavano la pelle sottile e bianca. Non c’era.
Poi, proprio quando stava per abbandonare la lettera sul comodino e scappare via, lui la vide. Non la guardò, come faceva con ogni entità di quella stanza spoglia, ma la vide.
Maggie non lo conosceva bene e quindi non poteva essere sicura, ma pensò che – se solo ne avesse avuto la forza e la capacità – sarebbe scoppiato a piangere in quel preciso momento. La sua ipotesi secondo la quale Holland non sentisse dolore si frantumò davanti ai suoi occhi azzurri: in quello sguardo c’era così tanta sofferenza che, per un solo secondo, le parve di vederla materializzarsi e smettere di essere intelligibile.
Durò un secondo, eppure Carl se ne accorse: si posizionò davanti a Maggie, coprendo il suo corpo per metà, mentre continuava a tenerle la mano. Lo sguardo truce che aveva sul volto era identico a quello dell’ultima volta fra quelle quattro mura.
Fu in quel momento che Land parlò, sussurrando flebile, con una voce stravolta e completamente diversa da come Margareth stessa la ricordava.
‘’Non le faccio niente’’ soffiò, e le sue parole si dispersero nell’aria dopo pochi secondi.
Margareth lo sapeva, lo sentiva.
‘’Non mi interessa’’ rispose Carl, pratico. ‘’Non la devi nemmeno guardare’’
‘’Mi dispiace, Margareth’’ continuò il biondo, debolmente, cercando il suo sguardo. Si guardarono per un secondo, prima che Maggie lo abbassasse, intimidita. ‘’Non volevo farti del male’’
Margareth pensò che era stata l’astinenza a parlare ed agire, e probabilmente lo era anche in quel momento, solo che Land stava cercando di controllarla. I tremori e l’ansia, però, palesavano perfino il suo sforzo. Ma durò poco, il comando e l’autocontrollo.
Holland prese ad agitarsi sul materasso, quasi rischiando di spezzarsi in due, poco prima di lanciare un urlo allucinante che attraversò tutti i muri e rimbombò nel mondo.
Fu Margareth a saltare per la sorpresa e la paura e ad avvicinarsi ad Holland per cercare di calmarlo. Fu un gesto automatico, non premeditato, e ne avrebbe sicuramente pagato le conseguenze se Carl non l’avesse trattenuta e spinta di nuovo indietro. ‘’Ora smette’’ le disse, mentre le grida di Land si confondevano con l’aria. ‘’Ogni tanto capita’’
Maggie si chiese come facesse Carl a restare così calmo, se fosse solo una maschera o un reale aspetto del suo carattere.
Difatti, dopo pochi secondi, Holland tornò a stendersi di nuovo supino, esausto e sudato. Poi alzò di nuovo lo sguardo, atopico come lo era stato all’inizio ed apatico come sempre. La guardò di nuovo, mentre a Margareth girava improvvisamente la testa, ma in modo diverso.
In un modo che lei non aveva mai visto e, a giudicare dalla stretta improvvisamente possessiva di Carl attorno al suo fianco, neanche lui. Non sembrava più lo sguardo di un drogato, o lo sguardo indifferente del Land menefreghista, o lo sguardo struggente di Holland Todd che muore di dolore e dispiacere.
Era diverso, molto più che indecifrabile.
Poi sorrise, improvvisamente. Land era sempre stato bello, lo era anche mentre moriva, eppure c’era qualcosa di sbagliato e perverso in quel sorriso più simile ad una smorfia contratta. Sembrava che il suo volto non fosse più abituato ad una risata e la respingesse, rendendola quasi inquietante.
‘’Amore mio’’ disse, la voce identica a quella dell’Holland che Margareth aveva conosciuto. Sembrava tornato indietro, sembrava felice. ‘’Vieni, finalmente’’
Piangeva?
Stava davvero piangendo?
Margareth non si mosse, ancorata a Carl, nonostante sapesse si riferisse a lei. Voleva solo andarsene, perché aveva già capito cosa stava succedendo. ‘’Morgan, vieni da me’’
Holland allargò le braccia scheletriche, continuando a consumarla con lo sguardo e a terrorizzarla implicitamente, fino a che non fu Carl a interrompere tutto. Prese la lettera dalle mani della ragazza, pronunciando un chiaro ‘’adesso basta’’, e la poggiò sul comodino.
‘’Leggila quando ritorni umano’’ gli disse, ringhiando. Eppure non c’era tutto l’odio di cui erano intrise le sue parole, negli occhi di Carl. C’era solo dispiacere, sofferenza nel vedere Holland soffrire così nonostante tutto, consapevolezza di essere stato parte della decisione di tenerlo chiuso in quella stanza fino a che non ne sarebbe uscito.
Il medico, qualche giorno prima, aveva detto che – comunque – ne sarebbe uscito, ma non vivo. Che non c’era più niente da fare, perfino riprendere a drogarsi avrebbe portato ad una morte ancora più prematura. Tanto valeva rassegnarsi.
La afferrò per un polso e la trascinò fuori, sbattendo la porta.
 
_________________________________________
 
Caro Land,
So che probabilmente mi detesterai per averti chiamato in questo modo perfino in una lettera deprimente, ma non ne posso proprio fare a meno. Il pensiero di essere l’unica a chiamarti Land è, forse, l’unico motivo per cui non ti chiamo per intero. Ti ho guardato tanto, soprattutto quando neanche lo immaginavi, e sono finalmente arrivata ad una conclusione: era così che doveva andare.
Quando hai confessato di amarmi non sai quanto ho dovuto lottare per non risponderti come avrei voluto. Ho tirato un profondo sospiro e ho pensato a te. La realtà è che ho sempre pensato solamente a te, e forse è stato proprio quello l’errore. Quando ti ho incontrato per la prima volta, la primissima cosa che ho pensato è stata: quanto è bello. Sicuramente ne sei consapevole, così come io sono consapevole di non essere stata né la prima ad accorgersene né tantomeno la prima a dirtelo. Eri tanto biondo, tanto misterioso, tanto affascinante e – sopra qualsiasi altra cosa – tanto distante. Quando ti ho guardato negli occhi chiari quasi quanto il cielo, ho letto nelle tue pupille lo stesso stato di paura e d’ansia che rivedevo nelle mie ogni mattina prima di nasconderlo. Ho visto chiaramente tutti i muri che ti eri costruito attorno, tutte le speranze che avevi abbandonato: mi pareva di sentire, addirittura, le voci dei fantasmi del tuo passato che ritornavano solo per ricordarti che eri solo. Che lo eri, lo sapevo e lo sentivo per certo. Mi hai guardato per un secondo, eppure ho desiderato ardentemente di baciarti. Mi sembrava davvero scortese ed affrettato chiedertelo, eppure non ho potuto farne a meno. Ovviamente, non mi hai baciata e io ho riso. La verità è che volevo piangere. E’ stato quello il momento a cui ho pensato quando mi hai detto ‘’ti amo’’. In quell’istante avrei pagato per un tuo bacio, e quattro mesi più tardi mi stavi dicendo che mi amavi e io stavo scappando.
La settimana lontana da te è stata più lunghi dei tre anni che ho vissuto prima di incontrarti. Ripensandoci, l’unico momento che ricordo di quel lungo lasso di tempo sono le mie vacanze. Non c’è, invece, cosa che non ricordi dei giorni in cui tu non c’eri e non c’ero neanche io.
So che hai pensato, e magari penserai ancora per molto, che il motivo per cui sono andata via era perché non ricambiavo i tuoi sentimenti: non è così. Io ti ho amato probabilmente dal primo giorno in cui ti ho visto, o in cui tu hai visto me, sotto il portico di casa tua per proteggermi dalla pioggia. Sai qual è stata la cosa più buffa di tutte? Che mi è sempre piaciuto camminare sotto la pioggia. L’acqua nei vestiti e sulla pelle mi faceva sentire viva. Eppure quel giorno, neanche poi tanto più freddo degli altri, ho sentito il bisogno di proteggermi.
Forse era destino, o forse no, non so se crederci e non so neanche se tu ci credi perché non ho avuto mai modo di dirti queste cose. Non ho voluto aver modo di farlo. Sono chiusa da una settimana in una stanza d’ospedale, sette lunghissimi giorni in cui ho sentito ogni singolo suono dell’universo eppure nella mia testa c’è ancora soltanto la tua voce – ti amo - , so che potrei morire anche domani – e sinceramente ne sarei anche felice – e l’unica cosa che mi demolisce è che non ho rimpianti.
Se ne avessi anche solo uno potrei torturarmi per ore e, alla fine e vicina ad una morte certa, per mettere la mia anima in pace, avrei la scusa di rivederti per l’ultima volta. Anche se significherebbe strapparmi le flebo e i tubi che mi tengono in vita, e venire da te e fingere che vada tutto bene. Ancora una volta.
Ma non mi viene in mente neanche una cosa, perfino ora che sento la morte scorrermi nelle vene e trasformare il mio sangue in acqua, che vorrei cambiare. Non una parola, non una situazione, non una sola delle cose che ti ho detto e che mi hai fatto provare. Non trovo niente, neanche la cosa più insignificante di tutte, in te che possa portarmi ad odiarti. Sei sempre stato così giusto e così vicino che non riesco a trovare un solo modo per allontanarti, perfino ora che sei lontano. L’infermiera è appena entrata, in quella sua divisa bianca e sterile, mi ha iniettato qualcosa nelle vene, l’ennesima, e mi ha sorriso – stai tranquilla – . Quanto lo odio il suo sorriso. Quanto odio il sorriso di ogni singola persona che entra in questa stanza e mi rivolge parole stupide e di circostanza, non puoi neanche immaginarlo. O forse sì. Credo che se tu fossi stato qui, se ti avessi permesso di essere qui adesso sapendo che ci saresti comunque stato, non avresti sorriso neanche una volta. Forse non avresti detto una sola parola, o forse mi avresti guardato e ‘’sembri stanca’’ avresti sussurrato. Non avresti pianto, non come mia sorella o mia madre di sicuro, ma non saresti uscito neanche per andare a prendere un caffè – la scusa che usano tutti per scappare da qui dentro non appena il tanfo di morte diventa un po’ più forte e un po’ più insopportabile. Mi avresti stretto la mano? Ce l’avresti fatta?
Sì.
Forse.
Adesso non lo so.
Ieri mi hanno somministrato una dose mi morfina miscelata con la penicillina e qualche altra sostanza-bomba dal nome impronunciabile, perché il dolore era davvero diventato insopportabile. Sentivo le ossa piegarsi sotto il peso del sottile strato di pelle che mi è rimasto addosso, ed ho desiderato – e provato forse, non ricordo – a strapparmela. La medicina mi ha stordita così tanto che, dicono, ho dormito per sedici ore senza lamentarmi nel sonno neanche una volta. Non ricordavo più niente, avevo dimenticato il volto dei miei genitori, di Hollie, di George, di Margareth, di tutti i miei amici e di tutte le persone che conoscevo un minimo. Non riuscivo a rivedere neanche il tuo viso, nella mia mente distorta e confusa, ma il tuo nome non l’avevo dimenticato.
Lo ripetevo per paura che scivolasse via assieme alla mia vita.
Holland, Holland, Holland. Amore mio.
Dove sei adesso? A che cosa stai pensando? Mi odi?
Forse Carl ti avrà detto che sono andata in Francia, come gli ho supplicato di fare, e forse ci hai creduto. Sicuramente. Non c’è giorno in cui non mi chieda se mi senti. Se, in qualche modo inspiegabile e profondo, tu capisca che non sono a Sevres, che non sto ridendo e che non sono felice. Che sono a dieci chilometri scarsi da dove sei tu, dieci minuti in macchina e quindici a piedi correndo, e che mi sembra che ci divida l’oceano.
Lo senti che sto morendo?
Sembra che tutta la pioggia che sia caduta nel giorno in cui ti ho incontrato sia diventata ghiaccio e ci abbia diviso. Non voglio più attraversare il muro che si è formato. Sono troppo stanca. Non voglio più attraversare un muro diverso da quelli che avevi attorno tu.
Ti ho lasciato per evitare che il mio ghiaccio gelasse anche te, e non me ne pento neanche adesso che so di star morendo. Ti ho lasciato perché non volevo che tu iniziassi ad amarmi davvero, sapendo di essere ricambiato, e rimanessi intrappolato nella mia ragnatela. Non volevo che tu soffrissi, non di più di quanto tu stia soffrendo adesso.
Sono nata e cresciuta con la convinzione di avere solo pochi anni di vita. Margareth mi ha salvato la prima volta quando nemmeno parlava e io avevo due anni appena. Ha continuato a salvarmi per diciotto lunghi ed estenuanti anni, contro la sua paura degli aghi e il suo terrore per la mia morte, e – nonostante questo – io ho sempre saputo di dover morire. Forse è stata questa consapevolezza a rendermi coraggiosa, a sfidare i miei genitori e la mia classe sociale e il mio mondo. Forse è stato perché sapevo di avere poco tempo che ho fatto tutto quello che desideravo fare.
Una volta, quando ti chiesi che cosa avresti fatto se ti fossero rimasti solo pochi anni di vita, mi rispondesti che avresti vissuto ogni giorno come se fosse stato l’ultimo. Forse è per questo che sono rimasta viva per diciotto anni, seppur soffrendo. Per incontrarti e sentirmi dire che ogni giorno può contare a qualcosa, se riusciamo a vedere il buono della vita. Per rendermi conto, di malavoglia, che – pur non sapendo neanche della mia malattia – tu mi abbia salvato più volte di Margareth.
Non ho rimpianti neanche su come ho vissuto, e – soprattutto – per chi l’ho fatto. Non ti ho salutato, non ti ho detto addio e non ti ho baciato neanche per l’ultima volta (e di questo me ne pento), eppure voglio che tu sappia che ho passato ogni minuto dei giorni che mi restavano guardandoti e salutandoti. Ogni bacio che ti ho dato, ogni ‘’ti amo’’ che ho pensato e trattenuto, ogni carezza che ti ho regalato anche mentre dormivi, sono stati il mio addio. Non ho mai pianto per la mia malattia, neanche quando ero ragazzina e neanche una volta. Non avrei sopportato che avresti pianto tu, o che avresti anche solo trattenuto le lacrime per non farmi male.
Tutt’ora penso che sia stato meglio così.
La mia unica paura, e giuro che poi firmo e smetto, è che tu non sia abbastanza forte da affrontare anche questa. Che tu non riesca a guardare in faccia una morte ulteriore a quella dei tuoi genitori.
Non posso garantirti di poter fare qualcosa per questo, ma posso prometterti – qui ed adesso – che non mi arrenderò fino a che non troverò una soluzione. La cosa di cui non dovrai mai dubitare, anche se dovessi odiarmi o bruciare questi fogli, è che – qualsiasi cosa accada e dovunque sarai – non sarai mai solo.
Mai più.
Mi dispiace. Questa è l’unica cosa che mi resta da dirti. Ti chiedo scusa per averti fatto innamorare di me, ti chiedo scusa per essermi innamorata di te, ti chiedo scusa per averti allontanato e per aver continuato a tenerti incatenato alla mia pelle. Perdonami.
E scusa, se non ci sono più.
Trova dentro di te la forza, sono certa che ce l’hai nascosta da qualche parte. Io, dal canto mio, ti difenderò da ogni incubo e da ogni sofferenza. Per quello che posso e potrò fare. Ti prego, non deludermi.
Una volta, tanto tempo fa, ho letto una frase che diceva: se non puoi essere il poeta, allora sii la poesia.
Sii la poesia, Land. Sii la poesia e niente e nessuno potrà mai ferirti. Io sto piangendo e credo sia ora di smetterla. Salutami Carl e Cameron e digli che li ringrazio.
Ti amo anche io.

 
Con speranza, finalmente
Morgan Grey

 
______________________________________
 
 
Carl era steso sul suo letto, a pochi passi dalla stanza di Holland e molto meno arrabbiato, con un braccio dietro il capo e Margareth stretta dall’altra parte. L’aveva vista così sconvolta che aveva deciso che sarebbe stato meglio se si fosse calmata, prima di riportarla a casa.
I capelli biondissimi di lei erano sparsi sul suo cuscino, la sua guancia sul suo petto, il suo profumo speziato nelle narici e sotto la pelle, pelle contro pelle. Mentre le sfiorava ripetutamente il braccio sottile, davanti e indietro e indietro ed avanti, lei respirava sempre più tranquillamente.
‘’Quanti tatuaggi hai?’’
La sua domanda improvvisa lo sorprese e lo fece leggermente sobbalzare. Sogghignò per la sua curiosità, che cercava tanto di nascondere inutilmente, mentre continuava ad accarezzarla.
‘’Quarantanove’’
‘’Oh mio Dio’’ sobbalzò Margareth, alzando la schiena e guardandolo negli occhi. ‘’Hai cinquanta tatuaggi?’’
‘’No’’ sorrise lui, spettinandosi i capelli. ‘’Ne manca uno ai cinquanta’’
‘’Oh mio Dio’’ scosse la testa la ragazza. ‘’Hai più tatuaggi che pelle! Ed hanno tutti un significato?’’
‘’La maggior parte’’
‘’Oh mio Dio’’
Carl scoppiò a ridere. ‘’Smettila!’’ esclamò.
Margareth si mise a sedere, incrociando le gambe, particolarmente presa dall’argomento. Anche se, probabilmente, era un modo per distrarre la mente e staccare la spina a Carl non poteva importare di meno. Gli piaceva la Marge spensierata e sorridente.
‘’E, sentiamo, li ricordi tutti?’’ gli sorrise, ironica, credendo che davvero non se li ricordasse tutti.
‘’Tranne quelli che ho fatto da ubriaco a Las Vegas, si’’
La faccia che fece la bionda era da fotografia: il sorriso si spense sulle sue labbra e gli occhi sgranarono quasi subito. Carl scoppiò a ridere per la seconda volta, avvicinandosi a lei e passandole una mano distratta fra i capelli. ‘’Sto scherzando’’ la tranquillizzò.
‘’Che cretino!’’
‘’Li ricordo tutti’’ rispose alla sua domanda, seriamente quella volta. Margareth lo guardò scettica: non aveva mai dubitato dell’intelligenza del ragazzo, anche perché sapeva bene quante poesie leggesse, ma ricordarsi il posto e il significato di 49 tatuaggi era un discorso diverso.
‘’E perché non ne fai un altro, così arrivi a 50?’’ chiese ancora.
‘’Perché deve avere un significato’’ rispose, pragmatico. ‘’Quando avrò qualcosa da ricordare, ricordami di prenotare una seduta’’
‘’E qual è il tuo preferito?’’ indagò, sinceramente incuriosita e anche convinta di prenderlo in contropiede.
Carl scrollò le spalle.
‘’Oh, andiamo’’ insistette. ‘’Se davvero li ricordi tutti, ce l’avrai un preferito no?’’
‘’In realtà no’’
‘’Non ti credo’’
E improvvisamente, dal bel mezzo del nulla, Carl sogghignò e si sfilò il maglione bianco.
‘’Scegli tu’’ le disse.
Non aveva nient’altro sotto, né una t-shirt né tantomeno una canotta. Era a petto nudo, asciutto, davanti a lei. La pelle completamente ricoperta di tatuaggi, grandi piccoli e piccolissimi, tanti come non ne aveva mai visti. Si era sempre limitata ad osservargli quelli sul collo e sulle braccia, ma aveva sempre ignorato l’esistenza di quelli che gli fasciavano tutto il busto e tutta la schiena.
Riusciva a riconoscerne qualcuno, quelli che le saltavano subito agli occhi: la rondine sul collo, il dragone colorato di verde e di rosso sulla schiena, il teschio messicano sull’avambraccio, la croce sul petto e un incisione rossa sull’altro braccio. Una scritta sulla clavicola, ‘’amor omnia solvit’’, che riconobbe come latino. Una rosa nera, bellissima ed eterea come non ne aveva mai vista una, che spiccava esattamente sopra il cuore. Senza pensarci, allungò la mano e la sfiorò lentamente. Probabilmente aveva le dita fredde, perché Carl rabbrividì pur non muovendosi di un centrimetro.
‘’Questo mi piace tanto’’ gli disse, continuando ad ammirare le sfumature di quel tatuaggio. Poi, però, fu un altro il tatuaggio che attirò la sua attenzione. All’interno del braccio, esattamente sotto la rosa nera, c’era una frase piccola e stilizzata che riconobbe subito.
 
Dalle porte dell'alba alle porte dell'ombra
Un corpo per passare la mia vita ad amarti
Un corpo per sognare al di fuori del tuo sonno
 
Era la stessa poesia che aveva letto quel pomeriggio, aprendo il libro di Carl dove aveva messo il segno. E la sensazione che provò fu sempre la stessa: rabbrividì per la bellezza e la profondità di quelle parole, incise fin sotto la carne. Margareth aveva sempre reputato infantili i tatuaggi, quantomeno quelli enormi e senza senso, e non li aveva mai visti bene su nessuno. Si ritrovò a pensare che Carl brillava con quell’inchiostro addosso, come una stella.
Sfiorò anche quello, premendo di più le dita sulla pelle calda, quasi a voler arrivare a quelle parole per davvero.
‘’Assolutamente questo’’ affermò, senza neanche pensarci.
‘’Conosci questa poesia?’’
Carl non sembrava sorpreso più di tanto, forse perché pensava che – nella sua scuola – si studiasse ogni cosa possibile al mondo, o forse perché la reputava intelligente e profonda quanto lui.
La realtà era che Carl si nascondeva dietro il suo muro di vetro e dietro i suoi inarrivabili 49 tatuaggi, uno meno alla metà di 100, ma aveva una sensibilità quasi pari alla sua.
‘’Più o meno’’
Carl la attirò a se e la abbracciò, silenzioso come sempre, la sua pelle bollente che si fondeva con i vestiti di Margareth fino a darle l’impressione che si stessero sciogliendo.
‘’Allora facciamo che ho trovato il mio tatuaggio preferito’’ le sorrise. ‘’Vale?’’


 
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Innanzitutto, buon mezzo-inizio di settimana :)
Spero che abbiate passato un buon weekend. Io ho speso il sabato sera dal parrucchiere a distruggere
i miei capelli e a scattare selfies molto compromettenti, quindi spero vi sia andata meglio ahah
Detto questo, FINALMENTE ecco il famoso ''modo'' di Morgan per far sentire
la sua presenza ad Holland. Un Holland che, a dir la verità, sta peggiorando sempre di più la sua condizione e 
sta sempre più male :(
E poi la parte finale, che ha dato anche il nome al capitolo, non so proprio da dove sia uscita fuori ahah
Volevo scrivere, per una volta, una scena calma fra Maggie e Carl ahahha Preparatevi ad una
tempesta già dal prossimo capitolo ehehhe
Fino al 24, almeno ;)))))))
Ora scappo a mangiare, un bacione! E sappiate che, anche se non sempre rispondo, leggo ogni vostra
recensione e VI AMO.
Harryette

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Capitolo 23
*** 22- Rome ***


j
 

|Capitolo Ventiduesimo|
Rome

Cam gli era davanti, il volto imperlato di sudore e i capelli disordinati. La sua mano premeva sul materasso umido, non avendo il coraggio di farsi un po’ più avanti e stringere quella di Holland, e i suoi occhi avrebbero tanto preferito non vedere.
Non c’era stata sera, da quando avevano deciso di chiuderlo in quella stanza asettica, in cui non era stato almeno due minuti con lui. Nonostante Laurine glielo ripetesse in continuazione – ‘’guarda che, se lo vedi, stai solo peggio’’ – aveva sempre deciso di non ascoltarla, e lei non aveva obiettato.
Land era il suo migliore amico da quando ne aveva memoria, e avrebbe mentito spudoratamente se avesse detto che non gli veniva da piangere ogni qualvolta che lo vedeva. Non lo faceva mai, però: primo, perché Holland non avrebbe assolutamente capito, e secondo, perché sarebbe stato soltanto un immenso spreco.
Gli parlava, a volte, anche se probabilmente lui nemmeno lo ascoltava.
Aveva costantemente quella lettera stretta in mano, da due giorni, come se avesse avuto paura che qualcuno avrebbe potuto portargliela via. Cameron non l’aveva letta, ma sapeva che cosa conteneva.
La odiava.
Odiava Morgan e tutto quello che le era stato intorno. Se avesse potuto, avrebbe fatto sparire dal mondo perfino il suo ricordo. Non era giusto che Holland soffrisse anche per lei, dopo essersi leggermente ripreso dall’incidente dei suoi genitori di cinque anni prima. Un ragazzo di appena diciannove anni non poteva assolutamente reggere tutta quella pressione, non lo giudicava per la situazione in cui era. Probabilmente l’avrebbe fatto anche lui.
‘’Land’’ lo chiamò, squotendo leggermente il piumone enorme sotto la quale era nascosto. Sospirò poco dopo, perché aveva sempre saputo che non avrebbe risposto a prescindere. Non se la sentiva neanche di giudicarlo.
Passarono venti minuti, o forse qualcosa di più, quando capì che sarebbe stato inutile, per l’ennesima volta: si alzò e afferrò il giubbotto dalla sedia su cui l’aveva poggiato, pronto ad andare da Laurine. Forse lei, come sempre, avrebbe saputo come consolarlo.
Ma fu bloccato da una voce, così flebile ed effimera che si domandò se l’avesse davvero sentita o se fosse stato tutto frutto della sua immaginazione. Si voltò e se ne accertò. Holland era sveglio, debole, e lo guardava.
‘’Aspetta’’ disse.
Cam tornò indietro.
‘’Dimmi’’ cercò di suonare il più tranquillo possibile, senza farsi spaventare dalla pelle diafana e dagli occhi languidi dell’amico.
‘’Mi dispiace’’ ansimò, stanco. ‘’Mi dispiace per tutto. Non meritavate questo, né tu e né Carl. Scusati anche con lui’’
‘’Perché stai dicendo questo, adesso?’’
Non gli piaceva per niente l’inclinazione che aveva preso la voce di Holland, era qualcosa che non poteva sopportare. Troppo rimpianto.
‘’Perché è così che deve andare’’ rispose. ‘’E vi ringrazio entrambi’’ sospirò e riprese fiato. ‘’Comunque vada’’
Cam stava iniziando a spaventarsi seriamente. Holland non era mai stato un tipo sentimentale, un tipo da ‘’grazie’’ e ‘’scusa’’, e la cosa gli metteva paura.
‘’Non farlo’’ lo interruppe, improvvisamente. ‘’Non farlo, Land. Non dire addio proprio adesso’’
Holland sorrise, e quello era un dato di fatto. Un sorriso triste ma sincero, che proveniva da un cuore che perfino Cam credeva non possedesse più. Il sorriso dello stesso ragazzo che gli aveva dato del fagiolo tanto tempo prima, della stessa persona che lo accompagnava dal tatuatore ogni volta e dello stesso essere umano che aveva aiutato la sua fidanzata in quella che sembrava un’altra vita.
Sorrise e sembrò rinascere un’altra volta, senza più ricordi taglienti e memorie dolorose, senza più lo stesso cipiglio fra le sopracciglia. Semplicemente e magnificamente Holland Todd, il miglior amico di sempre.
Non l’Holland schiavo di una polvere bianca, non l’Holland pensoso e solo. L’Holland vivo.
‘’Non è un addio’’ rispose, dopo un po’ di tempo. ‘’Abbracciami’’
Cam obbedì e lo strinse. La cosa che lo colpì più di tutte quante le altre fu che Land lo fece ancora più forte.
 
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‘’Margareth’’
La porta della sua camera si spalancò, mentre lei era impegnata a provare a fare di nuovo un esercizio di matematica che proprio non voleva saperne di tornare.
Celine Grey fece il suo magnifico ingresso nella stanza, il tailleur dorato e perfetto a fasciarle il corpo slanciato e magro – frutto di tanta palestra e tanti massaggi e tanti trattamenti. Il suo profumo, lo stesso che aveva da diciassette anni, traforò le narici di Maggie e la portò ad alzare il capo, riverente. Sua madre, d’altronde, non la intimoriva certo quanto suo padre, anzi. Quando lui non era presente, sembrava addirittura una donna umana e pensante e non condizionata dai pensieri di qualcuno che riteneva evidentemente superiore. Margareth si era sempre chiesta come avessero fatto a sposarsi e come diavolo facessero ad amarsi, ed era arrivata alla conclusione che non lo facevano. Vivano insieme, lavoravano insieme, viaggiavano – rigorosamente per lavoro – insieme, a volte si sorridevano, ma non erano uniti. Insieme senza essere insieme, era possibile?
Il fatto che Celine fosse entrata in camera sua alle cinque del pomeriggio la allarmò leggermente, ma scosse la testa e scacciò ogni pensiero negativo. Sicuramente voleva informarla di qualche nuovo appuntamento dalla parrucchiera o dall’estetista, non ci sarebbe stato di che preoccuparsi.
‘’Mamma’’ disse, chiudendo il libro e voltandosi completamente verso di lei. ‘’E’ successo qualcosa?’’
Il suo finto interesse era reso meno palese dal fatto che la madre sembrava non guardarla, ma piuttosto essere impegnata a fare una radiografia a distanza di tutta la sua camera. Come se non la conoscesse, d’altronde, visto che l’aveva arredata lei più e più volte!
Quando tornò a fissarla si riscosse: le avevano sempre detto che era la fotocopia sputata di sua mamma, che era davvero una bella donna anche a cinquant’anni, ma non ci aveva mai creduto troppo. Forse perché non si sentiva uguale a lei in niente, distante anni luce dalla sua persona quanto dal suo carattere. In quel momento, con la luce della lampada sulla scrivania e la luce dei raggi del sole che filtravano dalla finestra, le somigliava quasi in tutto: solo gli occhi, azzurri i suoi e neri quelli di Celine, le ricordavano che aveva ancora diciassette anni e non il triplo. O quasi.
‘’Ho una notizia meravigliosa, Maggie!’’ le sorrise per la prima volta, quel giorno. Margareth si preparò all’arrivo di una nuova borsa o alla sua nuova promozione, come se non fosse anche la moglie del sindaco di New York, o –peggio – a qualcosa che la riguardava. Come lezioni di una nuova lingua, nonostante ne parlasse già tre, o lezioni di un nuovo strumento, nonostante ne suonasse già quattro.
Si finse interessata solo per compiacerla, ma – probabilmente – neanche ci riuscì per bene.
‘’Cosa?’’ chiese.
‘’Ho sentito i Donati, stamattina!’’ esclamò, entusiasta. I Donati? E perché avrebbe dovuto avere contatti con la sua famiglia affidataria italiana? Aveva fatto quello scambio culturale quasi quattro anni prima, quando Morgan era ancora viva, perché tirarlo fuori in quel momento?
Le erano sempre stati simpatici, i Donati, così come Roma e così come l’Italia. Per mesi, dopo la morte di sua sorella, aveva desiderato che la chiamassero e chiedessero ai suoi genitori di mandarla lì per un po’ (cosa mai successa), per cambiare aria.
Ogni tanto scambiava qualche email con Emanuele, il loro unico figlio, ma sempre formali o comunque distaccate. Non ci pensava neanche più, che avesse avuto una cotta stratosferica per lui per quasi due anni e che aveva pianto come una disperata quando l’anno all’estero era finito ed era dovuta ritornare nella Grande Mela. Non aveva mai avuto il coraggio di farsi avanti o lanciare qualche segnale, anche perché Emanuele era sempre stato un tipo così allegro ed espansivo che avrebbe sicuramente frainteso tutto per amicizia. Per lui era naturale abbracciare o sorridere alle persone, non ci avrebbe trovato nulla di strano, se l’avesse fatto lei. Così aveva deciso di non fare nulla, di aspettare: magari era destino, magari davvero lui si sarebbe accorto di lei. Ma i mesi passavano, l’anno si avvicinava al termine, il suo italiano era quasi perfetto, ed Emanuele restava assolutamente fermo. Non un passo avanti, non un solo progresso, e aveva comunque continuato a sperarci. Circa due mesi prima del suo ritorno in America lui si era fidanzato e aveva portato la ragazza a casa sua, perché la conoscessero. Ovviamente, oltre ai suoi genitori, era stata costretta a prendere parte a quella cena e a conoscerla anche lei. Una tipica ragazza italiana: formosa, scura di occhi e di capelli, dalla carnagione olivastra e il sorriso – decorato da un apparecchio colorato – sempre presente sul volto. Ricordava ancora la sua voce, il suo nome, Elena, e la sua simpatia e loquacità. Esattamente il suo opposto.
Era ripartita, sessanta giorni più tardi, con il cuore a pezzi ma un sorriso tirato sul volto. ‘’Prometto che non ci perderemo’’ le aveva detto Emanuele, davanti ai suoi genitori, all’aeroporto. ‘’E poi potrai venire a trovarci quando vuoi’’
Si erano persi.
Ed ora, sua madre aveva risentito i Donati?
‘’Come mai, mamma?’’
‘’Ci tenevano a sapere come stavi’’ le sorrise apertamente. In effetti, Anna e Renato Donati si erano sempre dimostrati molto affezionati a lei: chiamavano a casa sua almeno una volta al mese, di solito a metà, per chiederle come stesse o per scambiare due chiacchiere con i suoi genitori, dato che anche loro parlavano italiano. Non come lei, ovviamente, ma se la cavavano comunque. Non si sorprese, perciò, nel sentire quelle parole. Era stata la solita chiamata di cortesia, anche se leggermente in anticipo. Ma perché glielo aveva detto dopo e non glieli aveva passati, come sempre quando non rispondeva direttamente lei o una domestica che la chiamava?
‘’Era la signora Anna’’ continuò imperterrita la donna, visibilmente contenta. ‘’Mi ha chiesto come stavi, ovviamente, e poi se ti andava di andare a stare da loro per un po’. Gli manchi tanto!’’
Cosa?
‘’In che…’’ balbettò Margareth. ‘’In che senso, stare un po’ da loro? Ho scuola’’
Era una scusa e lo sapeva. La sua era una scuola privata, avrebbe potuto recuperare tranquillamente e – come se non fosse bastato – le scuole appoggiavano gli scambi culturali fornendo addirittura corsi di potenziamento al ritorno. Sperava che sua madre la conoscesse così poco, sia lei che la scuola, da non dubitare di nulla.
Il cuore rischiò di uscirle dal petto e strapparle la carne, quando capì che non sarebbe stato così facile.
‘’Non dire sciocchezze! Parleremo io e tuo padre con la preside, come sempre abbiamo fatto!’’ esclamò. ‘’Ho pensato che ti avrebbe fatto bene cambiare aria, anche dopo la commemorazione dei tre anni di tua sorella, no? Sarebbe una bella opportunità per rilassarsi, e potresti perfezionare il tuo italiano’’
Lo sapeva, e sentiva, che non era quello il punto. Non solo perché aveva nominato Morgan – seppur non con il nome -, e non lo faceva mai, ma anche perché continuava a parlare a flotta.
‘’Il mio italiano è già perfetto’’ rispose, tagliente, ma Celine parve non ascoltarla nemmeno.
‘’Non si smette mai di imparare’’ la trucidò con lo sguardo. ‘’E poi, lo sai bene che tuo padre si è convinto che nascondi qualcosa. Dice che ti comporti in modo strano, non da te. Forse è meglio se vai via per un po’, no? Solo qualche mese’’
Qualche mese?!
Cercò di non farsi prendere dal panico e di mantenere la calma. Se si fosse dimostrata agitata, sua madre avrebbe capito che Dan aveva ragione. Doveva respirare e rispondere normalmente.
‘’Quindi mi stai praticamente cacciando di casa?’’ piccò.
Celine fu presa alla sprovvista da quella domanda, principalmente perché Margareth non si era mai esposta tanto né si era mai permessa di contraddirla in qualche modo, seppur velato. ‘’Sei mia figlia’’ ringhiò, spazientita. ‘’Come puoi pensare a questo? Lo faccio per te’’
‘’Per me?’’
Si ripeteva mentalmente di ritornare seduta e calmarsi, che trattare male sua madre non era una mossa intelligente né proficua ma solamente stupida, che avrebbe potuto parlarle comunque civilmente e avrebbe avuto anche più occasioni di farle cambiare idea. E invece non riusciva semplicemente a fermarsi.
‘’Non lo fai per me, non te ne è mai importato niente e mai te ne importerà!’’ urlò quasi, in preda allo spavento. Ritornare a Roma per qualche mese, lontana dalla sua vita e da tutto quello che stava provando a ricostruire. Proprio allora che pareva essere a buon punto per riuscirci, proprio quando stava trovando – e aveva quasi trovato – un equilibrio.
Proprio ora che aveva trovato Carl.
‘’Lo fai solo per compiacere papà e lo sappiamo tutte e due’’ continuò, cattiva. ‘’Perché sei convinta anche tu che nasconda qualcosa e speri che, mandandomi dall’altra parte del mondo, le cose cambino. Non è così’’ calcò le ultime parole, come a voler convincere anche se stessa. ‘’Io non voglio andarmene, non adesso!’’
Stava per piangere e se ne rese conto troppo tardi. Celine era immobile, vitrea e statuaria, davanti a lei. Neanche scossa o scalfita un minimo, come se non avesse parlato nessuno fino a pochi secondi prima. La guardò truce prima di dire: ‘’Ripeto, lo faccio per te. Parti la settimana prossima, ho mandato George ad avvisare il nostro pilota’’
Poi uscì dalla camera, sbattendo la porta.


 
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Aveva avuto solo il tempo di afferrare il parka verde e uscire di casa, ignorando i richiami di Hollie e di qualche altro domestico che neanche si era preoccupata di riconoscere.
Aveva quasi rotto il cancello, tanto aveva avuto foga nell’aprirlo e nello balzare fuori trafelata, e poi aveva preso a correre. Voleva andare fuori da Manhattan, uscire da quella parte ricca e corrotta di New York e ritornare nella parte che contava.
Il vento le sferzava le guance e le faceva volare i capelli biondi, ma non si scompose neanche un poco. Continuò a correre, incurante della gente che spintonava o dei segnali che non rispettava o delle macchine che avevano rischiato più volte di investirla, senza nemmeno una meta precisa. Correva e piangeva, ma aveva l’impressione che le lacrime gelassero – per il freddo e il vento – prima di attraversarle le guance, perché neanche le percepiva.
Roma.
Di nuovo Roma, di nuovo i Donati, di nuovo Emanuele e – probabilmente – di nuovo Elena. Di nuovo il Colosseo, le piazze, i monumenti, i turisti in pieno centro e ad ogni ora del giorno e della notte. Di nuovo lontana chilometri e chilometri, con il telefono come unico ricordo della realtà che aveva sempre vissuto. Quattro anni prima era stata contenta di partire, anche incoraggiata da Morgan, perché non aveva niente che la trattenesse ma tutto che la facesse soffrire e sentire fuori posto.
A distanza di centinaia di giorni, qualcosa a cui teneva ce l’aveva – qualcosa che la facesse soffrire anche, perché era del parere che una vita priva di sofferenze fosse una vita utopica – ma era costretta a ripartire.
Che curiosa la vita! Ti distrugge e poi, quando sembra averti dato tutte le carte giuste per vincere almeno una partita, te le strappa improvvisamente. Ti accorgi che è stato sempre tutto inutile dall’inizio, che la battaglia l’avevi uguale persa in partenza.
Alzò gli occhi al cielo plumbeo e pieno di nuvoloni, che prospettavano di certo un temporale pazzesco, e si fermò solo nel momento in cui raggiunse uno dei tanti ponti di New York. Non sapeva neanche su quale fiume – o lago – desse, in realtà, e non le importava.
Erano le sei passate, la gente le passava accanto senza vederla realmente, così si bloccò e si sedette a terra, con la schiena poggiata contro il parapetto del ponte di pietra. Fortunatamente, in quella zona, era vietato il transito delle auto, perché altrimenti non avrebbe neanche avuto il buon senso di spostarsi e salvarsi la pelle.
Quando iniziò a piovere neanche si sorprese, perché lo sapeva. Non sapeva quanto tempo era passato: minuti, forse ore. Si bagnò completamente, mentre la gente per strada si diradava sempre di più, e i capelli biondi divennero mille volte più scuri.
Non si spostò neanche allora, forse pianse ma non riusciva più a distinguere la pioggia dalle lacrime e lasciò stare. Ancora.
Le vennero in mente tutte le cose che aveva detto e che le aveva detto Carl, tutti i progressi che aveva fatto solo grazie a lui e che aveva fatto con lui. Si domandò se fosse stato il tipo da relazione a distanza, se avesse retto qualche mese così lontano da lei.
Se l’avesse aspettata, se ci avesse almeno provato.
Si chiese se avesse mai visto Holland parlarle o sorriderle, anche solo per l’ultima volta. Se l’avesse visto morire. Se avesse sentito Morgan attraverso di lui per una sola volta, se l’avesse mai sentito parlarle di lei e farle conoscere una parte della sorella che non aveva mai conosciuto in prima persona. Non aveva tempo: una settimana era davvero troppo poco.


‘’Non credi sia da codardi buttarsi giù e lasciare tutti i problemi in sospeso?’’ domandò di nuovo. ‘’Non credi che sarebbe più corretto affrontarli?’’
Quella scena, le pareva di averla anche già vista.
Margareth sembrava dubbiosa e scossa, punta sul vivo. Improvvisamente la sua idea non le parve più tanto brillante, e cominciò a sentire davvero freddo. Il vestito aveva un corpetto a cuore, che non era per niente clemente con lei.
‘’Non…’’ sussurrò, guardando lontano. ‘’Non ce la faccio ad affrontarli’’
Non lo aveva mai detto a nessuno, se non ad Hollie, ma improvvisamente si sentì meglio. Come se sentisse il bisogno di dirlo a qualcun altro, non alla solita domestica. Come se si sentisse un po’ più leggera, perché se fosse morta almeno qualcuno avrebbe saputo dire perché.
Dicono che i soldi facciano la felicità, le ripeteva Celine. Margareth non era felice, ed era l’unica cosa di cui era certa.
‘’Perché?’’ le domandò Carl, posato e calmo.
‘’Perché sono debole’’ rispose la bionda, con quanta più sincerità avesse in corpo. ‘’E perché a volte vorrei piangere per sempre’’



Si sentiva esattamente così anche in quel momento, nonostante avesse cercato di convincersi di essere cresciuta: perché sono debole e perché a volte vorrei piangere per sempre.
Solo che, quella volta, non c’era Carl vicino a lei. Nessuno le avrebbe detto niente, perché nessuna delle persone che per lei contavano sapeva qualcosa. Era sola, esattamente come all’inizio, quando aveva cercato di uccidersi. Non aveva scelta perché, ancora una volta, aveva capito di essere succube dei suoi genitori e non essere capace di ribellarsi.
Sapeva che qualche mese, nella mente di Celine, aveva lo stesso peso di qualche anno: perché non le importava.
Si sentì debole come mai prima di allora, come non le era mai successo prima. Avrebbe potuto urlare, scalpitare, ribellarsi al regime di casa Grey – come aveva fatto Morgan per cambiare scuola e per entrare nella squadra di football – ma non ci sarebbe mai riuscita.
Forse fu l’impotenza e la consapevolezza di essere, effettivamente, impotente a far traboccare il vaso.
Davvero non aveva potere decisionale, nella sua stessa vita? Davvero era così che doveva andare e così che doveva finire? Con un biglietto, per il momento, di sola andata per l’Italia?


‘’E’ che…’’ iniziò lei, grattandosi il capo con fare imbarazzato. ‘’Non sono…abituata a tutta questa roba’’
Carl sogghignò proprio come faceva ogni volta che Maggie diceva qualcosa di stupido. E difatti: ‘’Vuoi farmi credere che a casa del sindaco di New York si mangia meno di così?’’ ironizzò.
Margareth sorrisa apertamente e nel modo più sincero che conoscesse, mentre scuoteva la testa. ‘’No, voglio semplicemente dirti che solitamente non mangio a pranzo’’
Lo sguardo di Carl parve diventare più dubbioso o forse più duro, ma comunque non disse né fece niente per confermare quell’ipotesi. Anzi, scrollò le spalle e sorrise. ‘’Non sei a casa tua, adesso’’ rispose, a suo agio. ‘’Sei con me. Quindi mangia’’

 
Sei con me.
Le aveva detto proprio così: sei con me.
Ma in quali altri casi? Quando non sarebbero più stati al McDonald’s seduti uno dinanzi all’altro, quando lui non sarebbe potuto più correre sotto casa sua ad ogni problema, quando non avrebbe più sentito il vento della sua motocicletta e il suo petto contro la sua schiena, sarebbe stato con lei uguale? In che misura?
La verità era che Margareth aveva bisogno, e aveva sempre avuto bisogno, di certezze e costanti nella sua vita. Era in equilibrio fino a due ore prima, ed ora era in caduta libera.
Non sapeva e non avrebbe potuto sapere cosa sarebbe successo in futuro, ed era spaventata. Era spaventata per tanti motivi.
 
‘’Perdonami’’ sussurrò vicino al suo orecchio, ancora avvinghiato a lei come fosse una questione di vita o di morte. ‘’Perdonami, Marge’’
‘’P-per cosa?’’ balbettò, imbarazzata. Si stava sforzando di capirlo, ma non riusciva a trovare una via d’uscita in quel labirinto di pensieri e ipotesi.
‘’Non sai quante volte sono venuto sotto casa tua o ho provato a chiamarti’’ continuò, stringendola ancora più forte e respirando il suo profumo. ‘’Non ne ho mai avuto il coraggio. Ho pensato che saresti stata meglio senza di me’’
Le ci volle relativamente poco per capire che si stava riferendo alla settimana che avevano passato comportandosi praticamente da estranei.
Fu solo allora che ricambiò l’abbraccio e lo strinse ancora più forte, se possibile.
‘’Perché lo hai pensato?’’ gli chiese.
‘’Perché apparteniamo a due mondi completamente diversi’’ rispose lui. ‘’Perché non voglio che tu vada contro il tuo autista, contro la tua famiglia, contro casa tua e…’’
‘’Non è casa mia’’ lo interruppe. ‘’Quella non è casa mia’’



 
Perché apparteniamo a due mondi completamente diversi.
Era incredibile come avesse saputo cosa sarebbe accaduto anche prima di lei. Era sempre stato più avanti, se ne rese conto in quel preciso istante. Ma allora, qual era casa sua?
Cosa contava davvero?
Proprio quando aveva iniziato ad abituarsi allo scrosciare della pioggia contro la sua pelle, sentì che qualcuno poneva su di lei un ombrello rosso e le si sedeva accanto. Voltò lo sguardo, spaventata e anche un po’ speranzosa, ma si trovò dinanzi ad una ragazza che non aveva mai visto.
‘’Non serve deprimersi’’ le disse con voce dolce. Melodiosa. ‘’Qualunque cosa ti sia successa, non vale la pena prendersi una broncopolmonite’’
Margareth sorrise tra le lacrime, cautamente. Per quel che ne sapeva, avrebbe potuto anche avere a che fare con una serial killer che l’avrebbe uccisa proprio con quell’ombrello rosso.
Non le importava neanche di quello.
La ragazza era alta e riccia, perché i suoi capelli – fortunatamente – non si erano bagnati neanche un po’. Non riusciva a vedere bene il colore dei suoi occhi, perchè era molto più buio di quando era uscita e di quanto ricordasse. Solo che le trasmetteva un forte senso di familiarità e tranquillità. Stringeva fra le mani un iPhone, ma sembrava averlo quasi dimenticato quando le sorrise. Un sorriso che la portò a sperare di nuovo, quasi per magia. Era bellissima, e non avrebbe potuto negarlo neanche volendo.
‘’Mi dispiace’’ le disse, con voce rotta, Margareth. ‘’Grazie per avermi risvegliata dal coma’’
Pensò di buttarla sul ridere perché non voleva sembrarle una povera ragazzina piagnucolona. Anche perché, se quella ragazza era nativa di New York, aveva sicuramente collegato e l’aveva riconosciuta.
‘’Di niente’’ le sorrise ancora, alzandosi e tendendole una mano. Maggie la afferrò senza la minima esitazione e la seguì, alzandosi e restando sotto il suo ombrello. ‘’Fossi in te, correrei a casa ad asciugarmi’’ le fece l’occhiolino, indicando un auto parcheggiata in fondo alla strada. ‘’Se vuoi, ti accompagno’’
‘’Sei gentile’’ le sorrise Maggie, sinceramente. In effetti, rendendosi conto di dov’era finita, capì di essere molto distante da casa sua. Nonostante sapesse che quella ragazza era un’estranea e una completa sconosciuta, il solo pensiero di tutta quella strada le fece venire le vertigini. ‘’Grazie, se per te non è un problema’’
La riccia sfilò le chiavi dell’auto dalla tasca dei jeans e sorrise ancora. ‘’Nessun tipo di problema…?’’ fece per chiedere il nome.
Maggie le tese la mano, contenta che non l’avesse riconosciuta. Evidentemente doveva essere davvero messa male, per non somigliare neanche a se stessa.
‘’Piacere’’ cercò di suonare amichevole. ‘’Margareth’’
La mora ricambiò sia la stretta che il sorriso. ‘’Diana’’ 


 
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Ciao a tutte carissime :)
Voglio iniziare questa recensione con un ENORME GRAZIE per tutte le persone che seguono 
''Amnesia'', lettrici silenzione e non. Siete davvero dei tesori, leggervi mi fa sempre sorridere una marea!!
Passando poi al capitolo.,. siccome è  un capitolo un pò forte  e che POTREBBE portare
qualche cambiamento alla storia, vi chiedo di non TRARRE CONCLUSIONI AFFRETTATE,
soprattutto sul ''presunto'' viaggio di Marge. E vi ho già detto troppo ;)
Detto questo, sono contenta che la lettera di Morgan vi sia piaciuta. E, no, non è stato facile nemmeno
per me scriverla ahahah a volte mi chiedo perchè l'abbia fatta morire :(
Bhè, che dire, se Land trarrà speranze dalla lettera SOLO IL TEMPO CE LO SAPRA' DIRE :)
E poi, lettrici di Mors Omnia Solvit, vi dice niente il personaggio che punta alla fine???? :)))
Bacissimi xx
Harryette


PS: Ho postato una piccola os su Zayn e Diana, un missing moment, lo trovate QUI.

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Capitolo 24
*** 23- Titanium ***


 
 
j
 

|Capitolo Ventitreesimo|
Titanium

Carl era in tuta e un enorme felpa grigia gli fasciava le spalle magre. Aveva le braccia incrociate al petto ed un’aria assente, gli occhi di chi guardava ma non vedeva nulla.
‘’Cosa hai detto?’’ chiese, per accertarsi di qualcosa che apparteneva effettivamente alla realtà. Margareth era davanti a lui e non lo stava osservando, semplicemente perché non ne aveva la forza. Lo sapeva che era una situazione delicata, lo sapeva che l’avrebbe destabilizzato e sapeva anche che avrebbe reagito così. Non si era mai aspettata comprensione da Carl.
Eppure non aveva avuto il coraggio di farsi accompagnare dalla ragazza conosciuta per strada, che aveva detto poi chiamarsi Diana, direttamente a casa del ragazzo. Era ritornata a casa sua, disinteressandosi per la prima volta di se qualcuno la vedesse o meno, e si era rintanata nella sua stanza per tutta la notte.
Aveva pensato.
Aveva cercato il coraggio di correre nella stanza dei suoi genitori, di sbattere i piedi sul pavimento, e di opporsi a quella partenza forzata e del tutto senza senso. Non era arrivata ad una soluzione in entrambi i casi: ogni volta che era stata tentata di raggiungere Celine e Dan era stata bloccata dall’immagine e dal pensiero di Morgan. Non voleva deludere i suoi genitori, non ora che era rimasta la loro unica figlia. Forse era stato quel fardello, appesantito fino all’inverosimile, che l’aveva spinta a raggiungere Carl il giorno dopo. Si era fatta accompagnare a scuola, come sempre, e – quando era stata lontana da sguardi indiscreti e approfittando della momentanea assenza di Robyn – si era voltata ed aveva imboccato quella strada che aveva imparato a conoscere. Le ci erano voluti quindici minuti buoni di camminata veloce per arrivare al palazzo in cemento armato che cercava, e altri dieci per trovare il coraggio di bussare.
Venti lunghissimi ed insostenibili minuti per dire a Carl ogni cosa, dalla sua precedente partenza a quella che le era stata imposta. Non gli aveva raccontato della corsa del giorno prima, perché avrebbe preferito cancellarla dalla sua memoria e basta. E perché l’avrebbe considerata più bambina che mai.
Le sembrò ingiusto, che proprio quando parevano aver trovato un equilibrio – insieme – qualcosa di inevitabile si contrapponeva fra di loro. Si sforzò di non piangere, quando cercò le parole giuste per rispondergli.
‘’Non ho avuto scelta’’ sussurrò, con lo sguardo basso. La cucina di Carl non le era mai sembrata così stretta ed asfissiante. ‘’Mi dispiace tanto, io…’’
‘’Ti dispiace?’’ Lo sapeva bene, che si sarebbe arrabbiato. ‘’Porca troia, vai dall’altra parte del mondo e ti dispiace? Davvero?’’
Carl era altrove, esattamente come le prime volte che si erano visti. Questo la riportò indietro nel tempo, in un momento in cui non sapeva decifrarlo e gli sembrava la versione di latino più difficile della sua vita. I suoi occhi cristallini erano proiettati in una dimensione dove c’era solo ira, e tutto meno che lei. La perforava con lo sguardo, ma si sentiva invisibile alle sue iridi stanche. Ed inoltre aveva notato la distanza di sicurezza che aveva frapposto fra di loro, decorata addirittura da un tavolo. Sarebbero bastati a stento quindici passi per annullarla del tutto, eppure non si mosse nessuno dei due.
A Maggie, quella distanza, sembrò quella fra l’Italia e l’America.
‘’Non è colpa mia’’ rispose, decisa a smetterla di lasciarsi intimorire dallo sguardo gelido di Carl e di reagire. Sarebbe apparsa ancora più piccola, ai suoi occhi, se avesse taciuto per tutto il tempo. Il moro si passò una mano esasperata sul volto, allontanandosi ancora di più. Margareth sentì improvvisamente ancora più freddo.
‘’No?’’ ringhiò, di spalle. Carl non urlò né alzò la tonalità della voce nemmeno in quel momento, e forse fu proprio quello che la ferì più di tutto il resto. Sapeva che Carl non era il tipo da scenate o sgridate inutili, ma quella calma le sembrò dettata dal disinteresse.
Sembrava indifferente.
Fu quello che la rese isterica e la fece reagire. ‘’Mi stai ferendo in questo modo per qualcosa che ha deciso mia madre? Lo so benissimo dov’è l’Italia! Non ti sto dicendo che non tornerò più, ti sto chiedendo solo di esserci quando lo farò. E invece tu mi stai punendo come se me ne stessi andando per sempre!’’
Era almeno coerente quello che aveva detto? Tuttavia riuscì a scuotere Carl, perché si voltò di scatto verso di lei. Molto più distante e arrabbiato di prima. Scosse la testa e scoppiò in una risata nervosa, che scomparve pochissimo tempo dopo.
‘’Non riesci proprio a capire quale sia il punto, vero?’’
‘’Spiegamelo!’’
Solo in quel momento il ragazzo le si avvicinò un po’ di più, finalmente, restando però sempre dietro al tavolo di marmo. Poggiò i pugni su di esso e sospirò, quasi come se stesse realmente avendo a che fare con una bambina stupida. Margareth si era aspettata una reazione negativa, ma aveva sperato in un qualche tipo di conforto da parte di Carl, anche minimo. Certo, non che accettasse tutto con indifferenza, ma – dal momento che era lei quella che sarebbe stata catapultata in un altro continente – credeva che avrebbe almeno provato ad aiutarla. Forse riponeva troppa fiducia in Carl. Forse avrebbe dovuto cominciare a mettere in conto che avrebbe potuto deluderla, che era umano esattamente come tutti gli altri.
‘’Per me puoi andare anche in Congo a fare volontariato, Margareth, non è questo il punto’’ soffiò, chiamandola di nuovo per nome dopo una vita. ‘’Il punto è che credevo che fossi cresciuta, ed invece sei ancora una ragazzina’’
Gli occhi di Maggie si riempirono all’istante di lacrime, anche se Carl non aveva neanche iniziato il discorso. Possibile che covasse così tanto rancore nei suoi confronti? Che fosse così tanto arrabbiato?
‘’Avresti dovuto parlare con i tuoi genitori, farti valere. Far valere la tua opinione! Ma porca miseria, è la tua vita!’’ espirò ed inspirò a lungo, prima di continuare. ‘’Credevo avessi capito che se vuoi fare una cosa, puoi farla. Credevo avessi smesso di fare quello che ti dicono di fare, e – soprattutto – credevo avessi capito che non è giusto vivere una vita pilotata’’
A quel punto le lacrime iniziarono a scendere copiose sul suo volto, perché – nonostante le stesse facendo male – sapeva benissimo che Carl aveva perfettamente ragione. Anche lei si era illusa di essere cambiata, di essere cresciuta, di aver preso ad assomigliare almeno un po’ a Morgan. Gli occhi di Carl non erano più apatici e lontani, ma fin troppi vicini e fin troppo accusatori. Così tanto che Maggie iniziò a preferire il suo sguardo disumano e irraggiungibile.
‘’Immagino che non sia così’’ sussurrò, cercando di trattenere i singhiozzi e cercando di guardare tutto meno che le pupille di Carl. ‘’Immagino che non possa cambiare’’
‘’No, Margareth, non vuoi cambiare’’ ringhiò. ‘’E’ diverso’’
Lei alzò lo sguardo solo allora, facendo scontrare i loro occhi così chiari ma così pieni di emozioni contrastanti: anche in quel momento, arrabbiato e su un altro pianeta, Margareth non riusciva a non trovarlo magnifico in ogni centimetro di pelle. Non riusciva a smettere di pregare perché la distanza tra loro si annullasse, non riusciva ad essere meno innamorata.
‘’Io ho provato a cambiare’’ rispose, risoluta. ‘’Ho provato a cambiare per te, ma non ci riesco. Non riesco a dare contro a mia madre, io…’’
‘’Non è per me che devi farlo’’ la interruppe, brusco. ‘’Non devi provare a cambiare per me, ma per te stessa. Questa è la tua vita, non la mia’’
Quella fu la frase che le fece più male, arrivando perfino a lacerarle il cuore e ridurlo in mille pezzettini. Il tono freddo con cui l’aveva pronunciata era nulla in confronto al dolore che sentì nel sentir nominare quei due aggettivi possessivi così diversi. Le fece malissimo perché Carl aveva un taglio sul braccio, che si era procurato cadendo dalla moto in quella settimana, e lei sentiva addosso il suo sangue. Sentiva il dolore al suo posto, l’aveva sentito dall’inizio, e sentiva il suo sapore nella bocca. E lui li aveva divisi brutalmente con una semplice ed unica frase.
Questa è la tua vita, non la mia.
‘’Quindi non ti importa che parto?’’ domandò, calmandosi.
Per la prima volta, Carl era riuscito davvero a farla sentire una ragazzina.
‘’A te da solo fastidio il fatto che non abbia reagito?’’
‘’A me dà fastidio il fatto che tu stia dalla parte delle persone che ti hanno portata sulla ringhiera di un ristorante’’ esclamò, cattivo.
‘’Io non sono dalla parte di nessuno’’
‘’E’ proprio questo il problema!’’ quella fu la prima volta che Margareth lo sentì alzare la voce, e sobbalzò. ‘’Dovresti essere dalla tua parte’’
Margareth smise di piangere e si asciugò le lacrime che le si stavano seccando sulle guance. Era sfinita, non riusciva più a pensare né a parlare in modo coerente. Lo sguardo e le frasi di Carl la rendevano ancora più debole di quanto già non fosse. La consapevolezza che avesse ragione, poi, la rendeva solamente ancora più triste.
‘’E tu?’’ gli chiese. ‘’Tu sei dalla mia parte?’’
Carl sembrò sorpreso dalla sua domanda. ‘’Sono dalla parte della Margareth che è salita in moto con me senza paura’’ rispose, apatico. ‘’Sono dalla parte della Margareth che ha afferrato la mia mano ed è scesa da quel parapetto, della Margareth che ha sfidato il suo autista e l’ha reso un complice e della Margareth che ha regalato l’anello di sua sorella per salvare un amico senza pensarci due volte’’ sospirò. ‘’Non sono dalla parte della Margareth che accetta tutto senza obiezioni, mi dispiace’’
Non la guardò negli occhi neanche una volta, mentre pronunciava quelle parole taglienti e affilate come lame sottili. Perforarono la carne di Maggie mille volte, spingendola quasi a piangere di nuovo.
Si vietò di farlo.
Poi, da qualche parte, trovò il coraggio di porgli quella domanda che la stava divorando viva da quando aveva iniziato a guardarla come se desiderasse che scomparisse dalla faccia della terra. ‘’Mi stai lasciando?’’
Carl voltò le spalle e sospirò pesantemente, ancora una volta. Non la guardò neanche quando le rispose, in modo sempre più scostante e deluso.
Era deluso e lei non riusciva a biasimarlo.
‘’Torna a scuola, Margareth’’ soffiò, stanco. E poi si chiuse in camera sua, lasciandola da sola in una cucina improvvisamente fin troppo grande.
 
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Non aveva mangiato.
L’entusiasmo di Hollie di quelle ultime settimane, nel constatare che avesse preso un po’ di chili perché ripreso a fare pasti regolari, sfumò in una giornata. Tante cose erano sfumate in quella giornata, dopotutto.
Erano le otto passate di sera, Maggie aveva appena finito di studiare – nonostante ci fosse riuscita pochissimo, perché la concentrazione la abbandonava ogni due minuti – e si era stesa sul suo letto. Era incredibile quanto si sentisse di nuovo al punto di partenza, come se non fosse mai cambiato né successo niente.
Come aveva immaginato, Carl non si era fatto sentire per tutto il giorno. Né un messaggio, né una chiamata, né alcun tipo di notifica. Scomparso nel nulla, senza neanche accertarsi che fosse tornata a casa sana e salva. Cosa alquanto stupida da pensare, ma almeno avrebbe potuto essere una scusa plausibile per sentirla.
Ovviamente ed effettivamente, non voleva sentirla.
Margareth non sapeva per quando era programmato il giorno della sua partenza, ma temeva che non mancasse poi molto, soprattutto per l’insistenza di Celine anche nel ricordarglielo a cena. Tanto che era esaltata non aveva neanche notato che il piatto di Margareth era stato portato via ancora pieno di cibo italiano (strano scherzo del destino). Era salita in camera ancor prima del dolce, dicendo che aveva davvero tanto da studiare per la verifica del giorno dopo. Non avevano fatto poi tante domande, come sempre.
Dopo aver rimuginato a lungo, senza arrivare a nessuna conclusione effettiva, si era sentita così sola che aveva dovuto trattenere le lacrime.
Nonostante Robyn l’avesse bombardata di messaggi, anche perché si era assentata a scuola, si sentiva esattamente come qualche mese prima. Estranea al mondo, distante da ogni persona a cui teneva. Inoltre, il fatto che Carl non le avesse mai confessato di essere innamorato di lei – cosa che Maggie aveva fatto, invece, più e più volte – le accese una lampadina oscura in testa.
Forse non gliene importava niente, era solo un modo per passare il tempo e sentirsi meno solo. Forse era così dilaniato dalla fine imminente di Holland che aveva sentito il bisogno di aggrapparsi a qualcun altro, anche perché – da quanto le aveva raccontato – la sua famiglia era lontana e suo padre dietro le sbarre.
Non voleva crederci, la Margareth di solo una settimana prima non l’avrebbe mai fatto, eppure non riusciva a spiegarsi in qualche altro modo la reazione che aveva avuto. Avrebbe preferito che le urlasse contro di tutto e di più, che la facesse piangere a suon di insulti, piuttosto che il suo silenzio stanco e le sue parole taglienti e indifferenti.
Ogni volta che credeva di essersi avvicinata di più a Carl, puntualmente, veniva brutalmente smentita.
Irraggiungibile.
Le venne mal di testa a furia di pensare, così decise semplicemente di smettere. Chiuse gli occhi ed immaginò un mondo in cui lei era figlia di due semplici genitori che si amavano e che la amavano, e che la supportavano e sopportavano in tutti i sensi. Immaginò un mondo in cui, in quei casi, c’era sua sorella maggiore ad asciugarle le lacrime e a dirle che ogni cosa finiva, anche il dolore. Un mondo diverso, in cui Carl era steso affianco a lei e la stringeva forte.
Un mondo in cui era fatta di titanio e non di carta.
Un mondo in cui lei era la Margareth di cui Carl si sarebbe innamorato.
Semplicemente se stessa ma diversa da lei.

 
02:03 Da: Carl
Non partire Marge
 
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Holland si voltò sul fianco destro per la terza volta, incapace di prendere sonno.
Non riusciva a pensare, annebbiato come se fosse stato avvolto da una spessa coltre di nebbia, eppure non riusciva a trovare una dimensione onirica che fosse capace di avvolgerlo. Le parole di Cam continuavano a ronzargli nelle orecchie: non dire addio.
Come avrebbe potuto non dirlo?
Dove avrebbe mai potuto trovare la forza e la convinzione per non farlo?
I giorni avevano preso ad alternarsi veloci da fin troppo tempo, facendogli perdere il conto delle ore e dei minuti, ed iniziava a domandarsi quando sarebbe finita. Non sapeva se ciò che era successo con Margareth, quell’orrenda aggressione, fosse stata frutto della sua immaginazione o fosse accaduta davvero.
Si vergognava di se stesso, non riusciva più a riconoscere la persona che era diventata.
Sentiva la sabbia all’interno della clessidra che era la sua vita scorrere sempre di più, e si pregustava il momento in cui sarebbe stato finalmente libero.
Libero dai ricordi graffianti, libero dal dolore. Avrebbe liberato anche Cam e Carl, perché sapeva benissimo di essere stato nient’altro che un peso e sperava che – scomparendo – avrebbe potuto rendergli le cose un po’ più facili. Avrebbe voluto anche cercare e trovare le parole giuste da rivolgere ai suoi migliori amici, a quelle persone che non si erano arrese neanche quando l’aveva fatto perfino lui, per esprimere tutta la gratitudine e tutto l’affetto che provava nei loro confronti. Nonostante si fosse rassegnato all’idea che, evidentemente, era proprio così che doveva andare, in un attimo – uno dei pochi di lucidità – si chiese cosa sarebbe successo se avesse avuto più coraggio e se le cose fossero andate diversamente.
Se fosse stato capace di trovare di nuovo l’amore, di aggrapparsi con le unghie e con i denti a qualcosa che non fossero memorie sbiadite, se fosse riuscito a voltare pagina.
Magari a quell’ora sarebbe stato da qualsiasi altra parte, e non a morire in un letto freddo e sudato.
Le ritornò alla mente una scena di tantissimo tempo prima, o almeno così gli sembrava, addirittura anni: Morgan era stesa sul suo letto, nuda sotto le coperte di flanella grigie, e lui le era accanto e le teneva un braccio ancorato sulle spalle.
Sentiva ancora, a distanza di anni, il calore della sua guancia contro il suo petto e del suo respiro caldo sulla pelle. ‘’Come stai?’’ le aveva chiesto, e lei aveva sorriso.
‘’Bene’’ aveva risposto.
Si chiese come avesse fatto, perfino in quel momento cruciale, a non rendersi conto del suo malessere. E anche come avesse fatto la stessa Morgan a nasconderlo a lui con una maestria quasi incredibile. ‘’Tu?’’
Aveva sorriso anche lui. ‘’Se stai bene tu sto bene anche io’’
Solo in quel momento si rese conto di quanto quella frase fosse stata lontana dalla realtà. Se ciò che aveva detto fosse stato reale, non sarebbe stato bene. Né in quel momento e né in nessun altro. Eppure il pensiero di Morgan non riusciva più a rattristarlo, anzi.
Gli dava così tanta speranza e lo rendeva così quieto che avrebbe desiderato pensarla per sempre. Sto vedendo a prenderti.
 
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‘’Cosa stai dicendo, Margareth?’’
Sua madre la guardava stranita, dall’altra parte della tavola e con il lampadario di cristallo ad illuminarle gli occhi azzurri e furibondi. Maggie non era mai stata così felice dell’assenza momentanea di suo padre per un affare di lavoro, ma sapeva bene che nemmeno con sua madre c’era da stare tranquilli.
Il tailleur bianco perla della donna, infatti, sembrava essere diventato nero proprio come il suo umore. Le aveva chiesto di ripetere la frase per due volte, e quella era stata la terza.
Margareth si era sentita intimorita la prima volta, di meno la seconda ed ora era pronta per fronteggiarla senza alcuna paura. Ci aveva pensato per tutta la notte ed era giunta alla conclusione che, precedentemente, aveva scartato a priori.
La voce di Carl le era ritornata in mente ad ogni gesto e ad ogni parola, impedendole di ragionare lucidamente e peggiorata da quel messaggio alla quale non aveva avuto il coraggio di rispondere. Voleva prima accertarsi del ribaltamento della situazione e poi, solo successivamente, dirglielo. Non aveva affatto intenzione di deluderlo o illuderlo una seconda volta.
‘’Hai sentito’’ le rispose, cercando di rendere il timbro della sua voce il più sicuro ed inflessibile possibile. ‘’Non ho intenzione di andare a Roma’’
Celine le riservò un’altra occhiata gelida, ancora peggiore della prima. Forse era sempre stata così convinta del suo potere decisionale che non aveva neanche mai preso in considerazione l’idea che Margareth avrebbe potuto ribellarsi.
Entrambi i suoi genitori l’avevano sempre descritta come l’opposto di Morgan, magari perché era anche più comodo e semplice pensarlo, e avevano finito per farlo credere anche a lei.
A me dà fastidio il fatto che tu stia dalla parte delle persone che ti hanno portata sulla ringhiera di un ristorante.
Dava fastidio anche a lei, e si maledisse per essere stata così stupida e cieca da non averlo notato prima. Mossi dalla consapevolezza che lei avrebbe sempre detto sì e si sarebbe sempre dimostrata d’accordo, Dan e Celine Grey avevano finito per cancellarle ed oscurarle completamente la personalità.
Non permettere mai a nessuno di dirti cosa devi fare e chi devi essere.
‘’Che significa che non hai intenzione di andare a Roma, scusami?’’
Sua madre usava un tono professionale e rigido e formale perfino quando parlava con lei, isolata nella cucina di casa sua e senza nemmeno un domestico attorno. Come poteva permettere che una donna di ghiaccio ed un uomo di pietra condizionassero a tal punto il suo destino e la sua vita?
‘’Significa esattamente questo’’ replicò, ovvia, Maggie. ‘’Significa che resto a New York e non vado in Italia, né per qualche mese né per qualche giorno’’
Si sorprese della sua sicurezza, perché – per via dello sguardo sempre più arrabbiato e deluso di sua madre – aveva cominciato a tremare all’interno della carne. Il cuore rischiava di uscire fuori dalla cassa toracica, mentre il pensiero di Carl tornava ad affacciarsi nella sua mente e non la lasciava neanche libera di respirare in pace.
‘’E questo chi lo dice?’’ ed eccola, la voce autoritaria e perentoria di sua mamma.
‘’Lo dico io’’
La risata di Celine fu tutto meno che una risata naturale o sentita, sfociava addirittura nell’isterico. Non osava avvicinarsi a sua figlia neanche di un passo, quasi come se temesse di essere contagiata dalla sua stessa schizofrenia.
Per la prima volta in assoluto, Maggie notò nello sguardo vigile di sua mamma una vena di dubbio e addirittura di paura: allora era consapevole del fatto che Margareth non fosse poi così debole e accondiscendente.
Forse perfino Celine Grey, che aveva sempre dato a tutti l’impressione di essere di titanio, perfino quando non aveva versato una sola lacrima o si era scomposta al funerale di sua figlia, sotto sotto era di carta.
‘’E’ per quel ragazzo?’’ ringhiò sua madre. ‘’E’ per lui, non è così?’’
Solo allora Margareth si permise di vacillare. Era impossibile che George l’avesse tradita senza neanche avvisarla, per cui la risposta doveva essere sicuramente un’altra: sua madre l’aveva scoperto, e forse l’aveva fatto anche suo padre.
Improvvisamente la sua partenza imminente e tutta la fretta le apparvero molto più chiare e ancora più subdole. Quasi come se fosse una bambina, un pacco da allontanare momentaneamente.
Gelò.
E poi cosa avrebbe potuto dire? Negare?
‘’Come lo sai?’’ optò per raggirare il discorso.
Celine si concesse un’altra risata nervosa, prima di scuotere il capo e rischiare di rovinare il suo chignon perfetto. ‘’Tuo padre ti trovava strana e io ho pensato bene di provare a capire’’ spiegò, tranquillamente. ‘’Non ho dovuto fare molto, in realtà, solamente chiedere a Robyn’’
Se fosse stata ancora sensibile e raggiungibile da qualsiasi emozione, si sarebbe sicuramente infuriata. Prima con sua madre, che si ricordava di lei solo quando a Dan non stavano bene le sue azioni, e poi con Robyn.
Nonostante quest’ultima non sapesse che la storia con Carl fosse segreta, avrebbe potuto facilmente immaginarlo. Si sentì tradita dalle persone più vicine che aveva, e incentivata ancora di più a farsi valere. Non avrebbe lasciato l’unica persona che si era dimostrata gentile nei suoi confronti e che aveva sempre creduto in lei. Che l’aveva sempre rispettata, prima come persona e poi come una Grey.
‘’Mi fa piacere sapere che non hai avuto neanche per un secondo l’intenzione di parlarne con me!’’ esclamò.
‘’Oh andiamo, Margareth, me l’avresti detto per caso?’’
No.
Ovviamente non glielo avrebbe detto, però sarebbe stato diverso. Magari si sarebbe sentita un pochino meglio e un pochino meno sola.
‘’Devi smetterla di vedere quel ragazzo, prima che tuo padre venga a saperlo’’
Quindi non glielo aveva detto.
Stranamente quella rivelazione non le fece alcun effetto né le permise di tirare un sospiro di sollievo. Anzi, magari se Dan l’avesse scoperto si sarebbe sentita anche più libera e meno oppressa. ‘’Non è la persona adatta a te’’
‘’E chi sarebbe la persona adatta a me, mamma?’’ sbottò, senza più freni inibitori. ‘’Qualcuno come Henry Andrews o Emanuele Donati? Qualcuno che tu e papà conoscete dalla nascita e che abbia un patrimonio come il nostro? Tu speri che io faccia come te, giusto? Che sposi il primo milionario che mi fa un complimento e faccia figli e esca a prendere il thè ogni pomeriggio e mi iscriva al club del libro e bla bla bla!’’ sospirò. ‘’Io non ho intenzione di stare con qualcuno che non amo solo per compiacere te e papà. Non ho intenzione di diventare come te, frivola e gelida come un ghiacciolo! Costretta a vivere una vita che ama solo per i soldi, vicino ad un uomo che non la guarda neanche di notte!’’
Non ricordava che sua madre le si fosse avvicinata, non ci aveva fatto caso, né ricordava qualche altra volta – in passato – in cui le avesse dato uno schiaffo. Quello che si ritrovò premuto sulla guancia quella volta non le fece quasi niente, se paragonato a tutto quello che aveva patito dalla morte di Morgan.
Anzi, le fece quasi piacere.
Finalmente si erano svegliate entrambe. Nonostante le pensasse tutte, non aveva mai avuto intenzione di sbattere quelle cose in faccia a Celine, solo che non era più riuscita a fermarsi.
‘’Non permetterti mai più’’ calcò gli avverbi di tempo. ‘’Di dirmi una cosa del genere. Sono stata chiara?’’
‘’Sì’’ annuì Maggie. ‘’Ma sono stata chiara anche io. E non scomodarti, stasera chiamerò personalmente la signora Donati per disdire il mio viaggio’’
Afferrò il parka poggiato su una sedia lì vicino e guardò per l’ultima volta sua madre, ancora scossa da tutta quella discussione proprio come lei.
‘’Dove vai adesso?’’ le chiese, sempre col tono spinoso che la distingueva.
Margareth cercò di ricordare un qualsiasi momento del suo passato in cui sua madre le avesse rivolto parole dolci o morbide, o addirittura le avesse riservato qualche gesto affettuoso e tiepido. Gelata. Si rivide in lei, a cinquant’anni, con i capelli tinti di biondo e gli occhi azzurri e stanchi. L’avrebbe impedito.
Sarebbe stata dalla sua stessa parte, quella volta. E per sempre.
‘’Vado da Carl’’

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L’aveva aperta Cam, ma era stata così presa dal raggiungere la sua stanza che non ricordava nemmeno se l’avesse salutato per bene o cosa si fossero detti. D’altra parte, però, era sicura che Cameron non avesse infierito né le avesse chiesto niente. Perfino lui sembrava stanco e provato. Aveva spalancato la porta della camera di Carl senza neanche bussare, dimenticando l’educazione ed il rispetto per la privacy.
Probabilmente sarebbe stato ancora arrabbiato, anche per quel messaggio inviato a notte fonda e rimasto senza risposta, ma non le poteva importare di meno.
Lui era seduto sul letto e leggeva un libro, che Maggie neanche si premurò di riconoscere. Non alzò nemmeno lo sguardo e disse: ‘’Cam quante cazzo di volte devo ripeterti che…’’
Lei tossì e lui, finalmente, la vide e si interruppe.
Che non si aspettava di ritrovarsela lì fu palese agli occhi di tutti e due, perché rimase immobile e in silenzio per un tempo indefinito e frustrante. Poi sospirò, resosi conto che stava davvero accadendo e non era frutto della sua immaginazione, ma continuò a non dire una parola.
Come si era aspettata.
Però, in compenso, mise un segnalibro fra le pagine gialle del libro e lo poggiò sul comodino accanto a lui, continuando a squadrarla impassibile. Margareth avrebbe voluto abbassare lo sguardo o sfuggire dal suo, ma decise di rimanere immobile perché aveva un bel po’ di cose da dimostrargli.
‘’Marge senti…’’ iniziò lui, sorprendendola. Forse in un altro momento le avrebbe fatto piacere quella presa di parola improvvisa, ma non allora.
‘’No, senti tu’’ lo interruppe. ‘’Hai ragione. Avevi ragione e io ci ho pensato tutta la notte, anche dopo il tuo messaggio’’
‘’A cui non hai risposto, però’’ piccò, urtato.
‘’Perché ti sto rispondendo adesso’’ continuò imperterrita la bionda. ‘’Oggi ho visto mia madre e io non voglio diventare come lei. Non voglio accontentare gli altri e star male con me stessa, non riuscirei a perdonarmelo. Non dopo aver provato tutto quello che ho provato’’
Si fermò perché non sapeva come andare avanti. C’erano parole giuste da usare in quei casi? Mentre il ragazzo di cui eri innamorata ti guardava incuriosito e atopico?
‘’Non parto’’ decise di togliere il dente e togliere anche il dolore. ‘’Ho parlato con mia madre e mi sono opposta. Non parto più’’
Carl ritornò a New York, nella sua stanza e davanti a lei mentre si alzava, solo in quel preciso istante. ‘’Davvero?’’ strabuzzò gli occhi.
Margareth si avvicinò di altri due passi, facendo sfiorare i loro corpi e sentendo la sua pelle riempirsi di brividi. ‘’Sì’’ sussurrò, a pochi centimetri dalle sue labbra. ‘’Davvero’’
Carl poggiò le mani fredde e tatuate sulle sue guance e sorrise lentamente e leggermente, mentre faceva scontrare le loro fronti. ‘’Grazie’’ le disse semplicemente.
Forse fu quella semplice parola a portarla oltre, a spingerla a desiderare di più. Non sapeva se Carl fosse seriamente innamorata di lei, forse avrebbe potuto capirlo solo dopo, eppure in quel momento lo desiderò così tanto che sentì male alle ossa. Non aveva mai provato niente di simile. L’aveva sentito distante anni luce per due giorni, che erano durati due anni luce, ed ora che lo aveva a pochi centimetri voleva sentirlo senza nessun tipo di distanza. Lo guardò negli occhi, percependo e leggendovi all’interno quel desiderio che Carl non aveva mai nascosto, e si sentì sicura come poche altre volte. Era tutto quello che voleva, sentirlo completamente e senza niente in mezzo. Nemmeno sua madre, nemmeno un qualsiasi tavolo.
‘’Che c’è?’’ domandò spaesato Carl, leggendo nei suoi occhi la battaglia che si stava svolgendo nel suo cuore.
A me dà fastidio il fatto che tu stia dalla parte delle persone che ti hanno portata sulla ringhiera di un ristorante.
Ora sapeva da che parte era e da che parte aveva sempre voluto essere. Lo guardò ancora e rispose dopo qualche minuto. ‘’Fai l’amore con me’’


 
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Per motivi di sonno e di computer fisso lentissimo e estenuante 
((il pc è MORTO IERI E VOGLIO MORIRE))
sono costretta a liquidarvi con poche parole :(
Però, comunque, non c'è molto da dire sul capitolo a parte una Margareth di FUOCO
e un Holland distrutto e un Carl distrutto uguale, anche se non sembra, e...
PRONTE PER IL PROSSIMO CAPITOLO? <3
Grazie di tutto, come sempre.
Harryette
 

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Capitolo 25
*** 24- The words I've never told you ***


j
 

|Capitolo Ventiquattresimo|
The words I've never told you


Le sopracciglia di Carl si aggrottarono visibilmente e prese a guardarla interrogativo. Non si aspettava quella richiesta, sussurrata quasi come un ordine, ma sembrava ancora più sorpreso dalla sicurezza che Margareth aveva ostentato.
‘’Cosa?’’ domandò.
Maggie, per la prima volta senza alcun dubbio, riuscì a leggere negli occhi di Carl. Nonostante le avesse fatto quella domanda così poco retorica, riusciva a capire quanto lui sperasse in una rassicurazione. O almeno era quello che lei vedeva con gli occhi appannati da un desiderio che le attanagliava lo stomaco. Anche se miscelato alla paura e all’incertezza, era il sentimento più bello che avesse mai sentito in vita sua.
Non sapendo come muoversi, decise di restare ferma. ‘’Mi vuoi?’’
A quel punto decise che non avrebbe più avuto alcun freno inibitore. La paura che aveva provato quel pomeriggio di perdere Carl l’aveva portata ad una conclusione, e aveva capito. Forse non era pronta, ma lo sarebbe mai stata? Si allontanò dal ragazzo leggermente, per dargli tempo di pensare e rispondere lucidamente. Lei, ad esempio, non riusciva mai a razionalizzare quando lui le era troppo vicino.
‘’Che domanda è?’’
La voce di Carl uscì più roca e greve del solito e rabbrividì. Non credeva avrebbe mai provato quel fascio di sensazioni, né che avrebbe potuto sentire freddo pungente quando lui le era a pochi centimetri di distanza, ma comunque troppo lontano.
Neanche allora riusciva a pensare.
‘’Rispondi’’ sussurrò. ‘’Lo devo sapere perché io non…’’
‘’E’ ovvio’’ rimarcò, distante. ‘’Ti voglio dalla prima volta che ti ho vista’’ sospirò, come se fosse realmente sotto sforzo. ‘’Però non devi farlo solo perché sono arrabbiato, non è così che si risolvono le cose’’
Nonostante cercasse di isolarsi nel suo mondo e allontanarsi metaforicamente da quella stanza, Margareth potè vedere chiaramente ogni suo tentativo fallire. C’era troppo dentro.
‘’Sei arrabbiato?’’ chiese. ‘’Ancora?’’
‘’Non sono arrabbiato con te’’ la tranquillizzò, pur probabilmente non volendo. ‘’Sono arrabbiato con la situazione’’
Margareth sospirò, avendo improvvisamente perso ogni brivido. Come diavolo faceva a bloccarla anche quando era sicurissima delle sue mosse e dei suoi pensieri? Come diavolo riusciva a farla sempre sentire così piccola?
‘’Ma non parto!’’ esclamò. ‘’Sono qui’’
‘’Sei qui adesso’’ ammise Carl, con una vena di rassegnazione nella voce. Lo sguardo che le riservò la fece gelare sul posto. Non lo aveva mai visto. Era un misto di paura e diffidenza, quasi come se cercasse disperatamente di allontanarsi pur non riuscendoci. ‘’Io non posso…’’ sospirò rumorosamente. ‘’Non voglio aver paura che tu scompaia da un giorno all’altro perché te lo chiede qualcuno’’
Sapeva, infondo, che quello era il problema di base. Purtroppo non se la sentiva neanche di condannarlo, perché avrebbe pensato la stessa cosa se fosse stata dall’altro lato. Non riusciva, però, a comprendere a fondo la paura di Carl. Paura che se ne andasse? O di qualcos’altro?
‘’Carl’’ sussurrò. ‘’Io non posso assicurarti che sarò sempre qui. Però posso prometterti che tornerò comunque’’
Non aveva parole per rassicurarlo, perché lei stessa non sapeva cosa sarebbe successo dopo la scenata che aveva fatto a sua madre. Avrebbero potuto mandarla in Alaska, obbligandola, e lei cosa avrebbe potuto fare in quel caso? Eppure quella distanza poco voluta da entrambi le faceva così male che si chiese se avesse dovuto davvero andarsene.
Sospirò per l’ultima volta, perché senz’altro ci aveva provato. Forse avrebbe solo dovuto lasciare a Carl un po’ più di tempo per pensare, per assimilare, per decidere la mossa migliore da fare. Forse mancava solamente a lei.
Eppure, proprio quando fece per voltare le spalle e dire che l’avrebbe chiamato quella sera, la sua voce la bloccò.
‘’Vieni qui’’ le disse.
Margareth si voltò e lo vide per davvero, così bello ed etereo da farle quasi male. I suoi occhi trasparenti e meravigliosi erano coperti da un velo di qualcosa che non riuscì ad identificare, mentre lui le tendeva la mano e lei la afferrava. Proprio come la prima volta, quando lei era dall’altro lato di una ringhiera e lui la portava dentro. Forse anche dentro alla vita, dopo tanto tempo.
Quando Carl la avvicinò, facendo scontrare i loro petti, sentì la stessa identica scarica di adrenalina che aveva avvertito all’inizio. Si limitò a guardarlo negli occhi, da vicino, per quello che le parve tempo infinito. Fu lui a parlare, mentre portava le mani fredde di nuovo sul collo di lei e poggiava le labbra accanto al suo orecchio.
‘’Ho solo paura di perderti’’ sussurrò, come se si stesse scusando.
Un brivido percorse tutta la lunghezza della sua schiena, e non potè far altro che chiedersi se era così che ci si sentiva quando si amava qualcuno. Lei non l’aveva mai provato prima, eppure era proprio come aveva letto nei libri e visto nei film. Quella voglia di annullarsi per l’altra persona, quel desiderio di diventare una cosa sola e sfumare qualsiasi altro contorno.
Fu Margareth a lasciargli un leggero bacio sulle labbra e poi, staccandosi da queste solamente di qualche millimetro, a dirgli: ‘’Non mi perderai’’
Carl la baciò solamente allora, in un modo che non aveva mai usato prima. Sembrava quasi che le stesse succhiando via ogni singolo pezzo di anima. In realtà anche Margareth aveva paura di perderlo, sempre così sfuggente ed inafferrabile, però non glielo disse.
Portò le mani nei capelli di Carl, tirandoli leggermente verso l’alto e facendolo mugolare leggermente. Quando il bacio divenne più profondo, Maggie sentì le dita fredde di Carl sollevarle la camicia bianca e premere sulla pelle della sua schiena. Anche se non fu una pressione considerevole, sentì le sue impronte cicatrizzarsi. Sapeva che, se fossero andati realmente oltre, non sarebbe più stata capace di dimenticarlo comunque sarebbero andate le cose. Ed era esattamente quello che voleva, comunque sarebbero andate le cose.
Non lo fermò quando gliela sfilò completamente, nonostante lui l’avesse osservata innumerevoli volte come a chiederle il permesso. Tuttavia l’imbarazzo di trovarsi di fronte a Carl in reggiseno nero la avvolse lentamente, e forse fu proprio in quel momento che il ragazzo notò quanto stesse arrossendo. Poggiò le labbra sulla sua guancia, le dita ancora affondate nella sua carne, e sorrise leggermente. In un chiaro tentativo di calmarla e rassicurarla, parlò con una voce che lei non aveva mai sentito prima. Le sembrava quasi impossibile che qualcuno, e non una persona a caso ma proprio Carl, potesse desiderarla così tanto.
‘’Sei meravigliosa, Marge’’ sussurrò.
Nonostante fossero parole di circostanza, Margareth si sentì più sicura e ricambiò il sorriso. In un impeto di audacia, riuscì addirittura a raggiungere l’orlo della felpa di Carl e a sfilargliela via. Ancora una volta, i suoi innumerevoli tatuaggi le si presentarono dinanzi agli occhi e lei fu catturata da ogni singolo oggetto di inchiostro che gli marcava a vita la pelle. Si avvicinò alla rosa nera che emergeva dalla scapola e gliela fiorò con le labbra, baciandola leggermente poco dopo. Fu solo in quel momento che, forse perché scattato al suo interno un meccanismo su cui era inesperta, Carl la spinse delicatamente sul letto, cercando di rendere i suoi stessi movimenti più tenui possibili. Margareth l’aveva notato sin dall’inizio, e non poteva far altro che apprezzare il gesto: il fatto che Carl cercasse di essere delicato e non rude era qualcosa che, seppur fosse da poco, le scaldava il cuore.
Lui si posizionò sopra di lei, facendo pressione sulle braccia in modo da non pesarle, e prese a baciarle languidamente il collo. Maggie perse completamente il lume della ragione e ogni freno inibitore.
Era .
Carl Pearson era lì, sopra di lei, senza maglia e splendente, e non potè fare a meno di sorridere e aggrapparsi alle sue spalle, spingendolo più in basso. Allacciò le gambe attorno al suo bacino: lo aveva stretto così vicino che riusciva quasi a sentire il suo cuore battere, e sperò non fosse qualcosa di reciproco perché il suo stava battendo in modo vergognoso. Successe tutto in un attimo: Carl cambiò la direzione dei suoi baci bagnati, cominciando a dirigerli verso il basso. Margareth lo sentiva sulle spalle, sul seno, sulla pancia, su ogni singolo centimetro di pelle. Fu allora che seppe con certezza che non l’avrebbe rimosso più tanto facilmente.
Non riusciva a smettere di muoversi o sospirare per un secondo, nonostante Carl le tenesse i polsi bloccati e stretti nelle sue mani gelide, e sentiva caldo. Così caldo che desiderò che il ragazzo le togliesse presto anche i pantaloni, di un caldo che non aveva mai sentito o provato in vita sua.
Sentì Carl fermo sul suo ombelico, mentre continuava a baciarlo e a leccarlo, e – assurdamente – le mancò.
‘’Carl’’ soffiò, poco tempo dopo. Lui alzò lo sguardo e incatenò le loro iridi, continuando a graffiarla con il suo fiato sullo stomaco. ‘’Baciami’’
Lui non se lo fece ripetere due volte.
Le lasciò i polsi e si avventò sulle sue labbra, in modo molto più veloce e passionale del bacio precedente, prendendo a morderle di tanto in tanto. Margareth avvolse il suo collo con le mani calde, tenendo ancora le gambe intrecciate attorno al suo bacino, e lo avvicinò ancora di più.
‘’Sei gelido’’ ansimò, perché lo era realmente. Freddissimo, l’esatto opposto di come si sentiva lei, nonostante non facesse così tanto freddo. Sentì il rumore di un grugnito nel petto di Carl, prima che lui facesse scontrare le loro fronti e le accarezzasse i capelli con una mano.
Quando Carl rispose, disse qualcosa che non aveva niente a che fare con la sua affermazione precedente. Una domanda, probabilmente retorica e senza alcun punto interrogativo, che le scavò la pelle.
‘’Che cosa mi stai facendo’’ sussurrò, dandole un altro bacio e poi un altro ancora.
Le sue mani presero a scendere più in basso, mentre contemporaneamente afferrava il lenzuolo del letto e lo portava sopra di loro oscurando tutto il contorno. Come se ce ne fosse realmente stato bisogno.
Le mani raggiunsero in breve il bottone dei jeans di Margareth, eppure non si mossero. Rimasero lì, immobili sul suo grembo, mentre le lasciava un bacio dietro l’orecchio sinistro e mentre Margareth accarezzava e ripercorreva con le dita tutti i tatuaggi che aveva sulla schiena lattea.
Se Maggie fosse stata in sé e avesse avuto la forza di parlare, gli avrebbe probabilmente chiesto perché si fosse fermato.
Lui la guardò in quel momento, a pochi millimetri di distanza, e le accarezzò una guancia con la punta del naso.
‘’Carl’’ le sussurrò lei, stringendolo più forte. Sentì come se fosse il suo turno di rassicurarlo, quello. ‘’Vai avanti, ti prego’’
Sapeva e sentiva che Carl non sarebbe riuscito a trattenersi, nemmeno volendo. Lo leggeva nei suoi occhi liquidi e nei sue gesti delicati, in un modo nuovo e del tutto incredibile. Margareth non sentì più il peso del mondo o la delusione o qualunque altro tipo di tristezza nel momento in cui Carl le sbottonò il jeans chiaro e le accarezzò sottilmente la pelle mentre glielo sfilava. Lei, dopo avergli facilitato il lavoro e dopo averlo rimosso del tutto, lo vide chiaramente fermarsi ad osservarla, vicino e finalmente più caldo. non ebbe più dubbi sul fatto che Carl fosse innamorato di lei, perché lesse nelle sue iridi chiare le stesse emozioni che notava allo specchio nelle sue e che aveva visto, tempo prima, in quelle di Cameron.
Dopo averlo fatto vagare a lungo sul suo corpo magro, Carl puntò il suo sguardo nei gli occhi di Margareth. Non disse niente, non ammise assolutamente nulla, non una parola uscì fuori dalla sua bocca, eppure Margareth capì comunque.
Allacciò di nuovo le gambe chiare attorno al bacino del ragazzo, spingendolo più in basso e più vicino a lei, e baciandogli delicatamente la punta del naso. Carl sembrava in stato di stasi. ‘’Che c’è?’’ gli chiese, mentre continuava a lasciargli baci sul petto e su ogni singolo tatuaggio. Sentì il cuore di Carl battere, sicuramente meno del suo ma sicuramente anche più veloce del normale.
‘’Niente’’ le rispose, dopo così tanto tempo e così tante carezze e così tanti baci che Maggie aveva addirittura dimenticato la domanda. ‘’Niente’’ ripetè. Carl, in quel preciso istante, le sembrò addirittura debole.
Sembrava immobilizzato, perso in qualche pensiero ma – sicuramente e fortunatamente – ancora nel suo stesso mondo. Eppure non le dispiacque quel suo sembrare fragile e dubbioso, anzi, le diede addirittura la forza che stava cercando.
In un impeto di audacia e approfittando del momento, lo spinse sull’altra parte del letto e si poggiò sopra di lui. Per tutto il tempo non separò i loro sguardi, occhi fissi negli occhi, azzurro e trasparente, e lo vide prima sorprendersi e poi fare leggermente per sorridere. Le teneva i fianchi stretti in una morsa, come se avesse avuto paura che fosse andata via, mentre Margareth percorreva con le labbra il contorno dei suoi molteplici tatuaggi e gli carezzava le braccia. Fu quando la sua scia scese leggermente più in basso che li vide.
Due cicatrici bianche, e apparentemente anche profonde, gli solcavano tutto l’interno dell’avambraccio. Si chiese come diavolo avesse fatto a non notarle prima, forse troppo presa a pensarlo da un’altra parte o a focalizzarsi sul suo volto e i suoi occhi.
Non volendo, si bloccò di colpo e Carl capì. Margareth ricordò di quel pomeriggio, nella stessa identica stanza, in cui lui le aveva mostrato una foto e le aveva detto che era stato ferito in una sparatoria. Lo guardò negli occhi immediatamente dopo e lo trovò a fissarla già da molto prima, probabilmente, e le sembrò…addolorato?
‘’Sono…’’ sussurrò la bionda. ‘’Sono le cicatrici della sparatoria?’’
Non aveva bisogno di una risposta, ma preferì chiedere personalmente a lui. Dal modo in cui il suo volto di incupì dedusse che la risposta fosse senz’altro positiva. Avrebbe tanto voluto conoscere le dinamiche della situazione, avrebbe voluto sapere cosa fosse successo precisamente e avrebbe davvero desiderato che Carl provasse ad aprirsi e a confidarsi con lei. Di certo non l’avrebbe mai forzato, però l’avrebbe aiutata a capirlo e a salvarlo per una volta anche lei.
Anche se non aveva ricevuto una risposta, l’altra mano di Carl fece ancora più pressione sul fianco e Maggie decise che – almeno per quella volta – l’avrebbe aiutato pur non sapendo quale fosse la ragione del suo dolore.
Lentamente e con timore, prese entrambe le mani di Carl fra le sue e se le portò alle labbra. Lui, nonostante avesse temuto il contrario, non oppose resistenza e, anzi, emise un suono profondo e gutturale. Iniziò dalle punte delle dita, baciandole leggermente, per poi scendere sulle mani e percorrendo tutta l’arcata superiore dell’avambraccio. Sentì il ragazzo irrigidirsi nel momento in cui si diresse all’interno, proprio verso quelle cicatrici che tanto temeva. E che ora temeva anche lei.
Le baciò, o meglio carezzò, con le labbra, senza mai allontanarle di un millimetro da quella pelle che sapeva così tanto di lui. E lo sentì rilassarsi quando ripetè il tutto una seconda volta, dall’altro braccio. I graffi argentati e visibili erano più ruvidi e duri in confronto al resto della pelle, eppure lei si ritrovò ad amarli allo stesso modo. Avrebbe voluto dirgli che quelle cicatrici avevano contribuito a renderlo la persona (meravigliosa) che era, che non dovevano essere viste come il ricordo indelebile di qualcosa che era stato ma come il ricordo indelebile di qualcosa che l’aveva portato ad essere. Ma il fiato le morì in gola, perché Carl si divincolò dalla sua presa e ritornò a sovrastarla con il suo corpo. E poi la baciò, ancora una volta e ancora più violentemente di prima, mentre lasciava scorrere le sue mani dappertutto e le lasciava – scherzo del destino – segni indelebili ovunque.
Fu in quel frangente che, senza che lei neanche se ne accorgesse, le sganciò il reggiseno nero e lo gettò da qualche parte indefinita della stanza.
Al contrario di come aveva pensato all’inizio, Margareth non si sentì in imbarazzo neanche un po’. Non sarebbe stato possibile. Non con Carl che la guardava in quel modo, come se fosse l’unica cosa degna di attenzione al mondo.
Le mani di Maggie erano ferme fra i capelli del moro, mentre se lo sentiva addosso e praticamente dappertutto, e mentre abbandonava definitivamente ogni freno e si lasciava trasportare dalla corrente. Pensò che, forse o magari, Carl l’aveva sempre guardata in quel modo ma era solamente stato sempre molto bravo a nasconderlo. Le sembrò impossibile che tutto il desiderio che aveva negli occhi fosse nato dal nulla.
Fu lei a sbottonargli i pantaloni, perché trovò ingiusto che lei fosse nuda – fatta eccezione per gli slip – e lui ancora mezzo vestito. Carl, dal canto suo, le evitò l’imbarazzo di sfilargli il jeans perché lo fece personalmente in un secondo, gettando da qualche parte anche quello e ritornando sopra di lei. Che non fosse più capace di aspettare lo capì perfino lei, ma non potè far altro che essere d’accordo. Stava andando letteralmente a fuoco.
Nonostante avesse una paura allucinante, sapeva anche che non si sarebbe tirata indietro per niente al mondo. Avrebbe voluto dire a Carl tantissime cose, alcune fin troppo smielate e dolci, ma non ne avrebbe comunque avuto il fiato. Il modo in cui Carl aveva preso a muoversi sopra di lei le fece perdere completamente il senno, scollegare qualsiasi neurone.
Si morse il labbro a sangue pur di non ansimare troppo rumorosamente o, peggio, parlare a voce troppo alta. Carl, invece, sembrava controllarsi parecchio bene: aveva il respiro pesante, ma le labbra erano incollate alla sua attaccatura dei capelli e le lambivano la pelle.
Le mani di Maggie, dai capelli del ragazzo si ancorarono alle sue spalle e lo spinsero un poco più giù. Fu allora che Carl grugnì, sospirando e forse sudando. Sussurrò il suo nome quattro volte.
‘’Marge’’
Sempre in procinto di dire qualcosa ma senza mai farlo.
Maggie non aveva mai provato nessuna di quelle sensazioni, si sentiva bruciare e non avrebbe resistito tanto a lungo. Aveva paura di non riuscire a reggere quel bagaglio di emozioni così grande, di fare qualcosa di sbagliato o – peggio – di aver dato un’impressione sbagliata. Si affrettò a spiegare, perché – effettivamente – la sua insistenza sarebbe potuta facilmente essere fraintesa.
‘’Carl’’ trovò il fiato di sussurrare. ‘’Io non ho mai…’’
Ma fu interrotta dalla voce roca e bassa del ragazzo, ancora una volta e come sempre. ‘’Se l’avessi già fatto mi sarei incazzato’’
Sorrise a quelle parole, lasciandogli un casto bacio sulla guancia come incitamento a continuare.
Ma Carl la guardò di nuovo negli occhi, questa volta molto più profondamente delle precedenti, e le disse: ‘’Sei sicura?’’ le chiese.
La sua voce suonò, sicuramente non volendo, molto preoccupata. Margareth non avrebbe più potuto negarlo: a Carl importava, e anche parecchio. Non riuscì a restare ferma nel risentire di nuovo la sua voce così incredibilmente dolce e vicina, e sollevò il bacino per avvicinarlo al suo. Carl, in quel momento, abbassò il capo e poggiò la fronte sulla spalla della ragazza, sospirando. ‘’Non ti muovere, per favore’’ ansimò.
Non gli sarebbe di certo dispiaciuto se non fosse stato in attesa di una risposta, ovviamente. Risposta che, scontata, non tardò comunque ad arrivare.
‘’Sento che…’’ ansimò a sua volta anche lei. ‘’Sento come se ogni istante della mia vita avesse dovuto portare a questo’’
Carl allora non si trattenne più, né fece altre domande o altre richieste. Si limitò ad allontanarsi un secondo (secondo in cui si sentì fin troppo sola), per poi ritornare l’attimo dopo. Le poggiò le mani ancora abbastanza fredde sulle guance, avvicinando ancora di più i loro volti. Erano ormai sudati entrambi.
‘’Se ti faccio male dimmelo’’ soffiò, ad un millimetro dalla sua bocca. Margareth annuì veloce. ‘’Marge, ti prego’’
‘’Lo farò’’ rispose. ‘’Lo farò, però sono io che prego te adesso’’
Maggie iniziò a tremare in quel momento, e Carl se ne accorse. Si fermò proprio prima di accontentarla e accontentarsi, guardandola ancora una volta negli occhi e avvicinando le labbra al suo collo. ‘’Che c’è?’’
Già.
Che c’era?
Aveva paura, ma era qualcosa che andava oltre il semplice contatto fisico. Non aveva dubbi sull’interesse di Carl, eppure non potè fare a meno di chiedersi cosa avrebbe fatto se lui, per un motivo o per un altro, fosse andato via. Cosa sarebbe successo, in quel caso?
Forse lui capì la direzione dei suoi pensieri, perché intrecciò le dita di entrambe le loro mani e le portò accanto alla testa della bionda. Con il capo ancora nascosto nell’incavo del collo di Margareth, sospirò.
‘’Che c’è, amore mio?’’ chiese di nuovo, prendendo a succhiarle leggermente e sempre delicatamente la pelle. Forse su quell’amore mio detto sottovoce che la fece sciogliere del tutto.
‘’Niente’’ rispose, sorridendo per quanto ne fosse in grado. ‘’Vieni più vicino’’
Carl la baciò ancora una volta prima di cogliere il significato allegorico delle sue parole e riposizionarsi per bene sopra di lei.
Le loro dita restarono intrecciate e poi Margareth non capì più niente.
Sentì solamente un dolore atroce e lancinante che sembrava volerla spezzare a metà, tanto che strinse le mani di Carl ancora di più fino a conficcargli le unghie nella carne.
Strizzò gli occhi, serrandoli e cercando di trattenere le lacrime. Non aveva mai provato così tanto dolore e così tanto piacere insieme in vita sua. Sentì Carl irrigidirsi ed immobilizzarsi immediatamente.
‘’No’’ sussurrò, vicino alle sue labbra. ‘’No, no, per favore Marge, guardami’’
Lei aprì gli occhi solamente per lui, ma accadde esattamente quello che aveva temuto. Una lacrima solitaria le solcò la guancia e si fermò sul suo mento: solo una singola lacrima, che Carl notò e baciò l’istante dopo.
‘’Non piangere’’ le disse, di nuovo, accarezzandole il volto con la fronte e solleticandoglielo con i capelli. ‘’Se vuoi io…’’
‘’No’’ lo anticipò lei, trovando fra il dolore la forza di parlare. ‘’Non andare. Non andare, resta con me’’
Le venne da piangere.
‘’Resterei sempre con te’’ le rispose prontamente Carl. ‘’Lo sai questo, vero?’’
Margareth annuì, non capace di dire qualsiasi altra parola. Pian piano, però, sentì il dolore alleviarsi sempre di più e diventare più sopportabile. Era come se il suo corpo si stesse lentamente abituando a quello di Carl, vi si stesse adattando e si stesse modificando solo per lui.
Le loro mani sempre strette assieme le sentiva sull’orlo della combustione. Carl dovette sentire o quantomeno capire quanto il dolore fosse diminuito ed iniziò a muoversi leggermente, pur avendole chiesto il permesso con gli occhi. E solo allora Margareth si rese conto di quanto fosse incredibile.
Quanto fosse incredibile non riconoscere i contorni, veder sfumare tutto quanto il resto, non capire dove finisse lei e dove cominciasse lui.
Si sentì al posto giusto e nel momento giusto.
Sussurrò il nome di Carl e lo sentì stringerla, perché le sembrava assurdo che stesse accadendo veramente. Solo qualche mese prima non l’avrebbe mai neanche pensato, convinta che non ci fosse spazio per lei in quel mondo.
Si sbagliava, si era sempre sbagliata.
La voce di Carl, la prima volta che si erano visti, le ritornò alla mente.
Se vuoi farlo, puoi farlo.
Forse avrebbe dovuto ringraziarlo per tutte le cose che le aveva detto ed insegnato e per tutte le volte che si era semplicemente limitato ad esserci, eppure sentiva che lui lo sapesse già.
Però, dopo un po’, ‘’Grazie’’ gli sussurrò. ‘’Grazie, Carl’’
‘’Per cosa?’’
Lui era ancora dentro di lei, muovendosi più veloce di prima ma sempre delicatamente, e le loro dita erano ancora intrecciate.
‘’Per tante cose’’ ansimò la bionda.
‘’Prego’’ sorrise. ‘’Grazie a te’’
E poi tutto terminò in un oceano di stelle.
Ti amo, pensò. Ti amo veramente.


                                                                           
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Il sole filtrò dalle tendine e Margareth aprì lentamente gli occhi.
Le ci volle un po’ per rendersi realmente conto di dove fosse e perché, tanto era intontita. Con una mano si stropicciò gli occhi azzurri e sbadigliò silenziosamente, prima di collegare e voltare lo sguardo alla sua destra. Carl dormiva accanto a lei, con la guancia poggiata delicatamente sul cuscino e un braccio che percorreva il suo fianco. L’altro era poggiato sulle spalle di Maggie, senza fare neanche un minimo di pressione. Non ce ne sarebbe stato bisogno, era lì e sarebbe rimasta.
Mentre lo osservava dormire, Margareth decise di cedere ad una tentazione che aveva avuto sin dalla prima volta che si erano visti: con il dito percorse il perimetro del volto di Carl, per accertarsi che fosse reale. Che esistesse e che, soprattutto, fosse lì accanto a lei.
Lo sentiva respirare, alzare piano il petto e poi abbassarlo, sentiva il peso della sua mano sul fianco e il suo profumo, vedeva i tatuaggi sul suo petto nudo – così poco distante da lei – e non riuscì a fermarsi. Si avvicinò e lo baciò forte. Lui, al contrario di ciò che aveva pensato, reagì immediatamente dischiudendo le labbra e lasciando entrare la sua lingua. La sua mano si strinse un po’ di più sul fianco di Margareth, avvicinandola in modo che potesse sentirlo.
Solo quando si separarono, Maggie potè sorridere alla vista del sopracciglio aggrottato e confuso di Carl. ‘’Buongiorno’’ gli disse, spettinandogli i capelli. ‘’Come stai?’’
Carl non le rispose.
Semplicemente si avventò su di lei, sovrastandola con il suo peso e sfilandole di nuovo il reggiseno.

 

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Ecco finalmente il capitolo tanto atteso ((ed è ritornato anche il mio AMATO pc, grazie papy ahah))
Premetto che non è stato AFFATTO facile scriverlo, non tanto per la scena in per sè quanto per la situazione.
Mi spiego meglio: per me Carl e Margareth sono praticamente REALI, di carne e carta, e mi sono imbarazzata da sola ahahha
Ho modificato circa tremila volte ogni parola, e sono giunta alla conclusione che - alla fine - non c'è
un modo giusto o un modo sbagliato per descrivere questa scena. Nel senso, ho capito che la mia paura di
risultare volgare o banale era del tutto infondata, perchè - almeno chi ha seguito attentamente la storia - credo che abbia capito come
sono fatti Marge e Carl. Per cui, stavolta, non c'è bisogno di molte parole!
Spero, ovviamente, che il capitolo vi sia piaciuto. Mi sono sforzata tanto e mi farebbe DAVVERO PIACERE sapere
cosa ne pensate. Fatevi avanti, non mordo giuro :)
Ora vado a morire dato che sono uccisa di raffreddore e domani ho un compito di greco molto simile ad una spina nel piede.
Vi lascio con una foto della mamma di Marge, giusto per spaventarvi ahahah
Un bacionissimo <3
Harryette


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Capitolo 26
*** 25- Then you come to revive ***


j
 

|Capitolo Venticinquesimo|
Then you come to revive
 

 Ad Holland Todd


Quando Margareth ricevette la telefonata di Cameron aveva appena finito di litigare con i suoi genitori a tavola e si era chiusa in camera sua, come sempre. Da quando avevano saputo che non era ritornata a casa quella notte il loro rapporto si era rotto del tutto. Non le avevano mai chiesto niente né rinfacciato nulla, ma l’astio e la profonda delusione che Maggie trovava ogni volta nei loro occhi era abbastanza chiara. Nonostante gli avesse detto di aver dormito da Robyn, e nonostante quest’ultima avesse mentito per farsi perdonare per aver fatto la spia precedentemente, Dan e Celine sembravano tutto meno che convinti. Le sue uscite erano diminuite tantissimo, nell’ultimo periodo, escludendo quelle segrete o fatte con la complicità di George.
Margareth sentì nel sonno il telefono squillare e, rispondendo, si autoconvinse che Carl volesse solamente vederla. Era già successa precedentemente una cosa simile, in più era il suo numero. La voce di Cam dall’altro lato del telefono l’aveva messa subito in agitazione, anche perché conosceva bene la situazione.
Non c’era giorno in cui Carl non le parlasse di Holland, di quanto stesse sempre peggio, di quanto delirasse di continuo e avesse completamente perso il senno. Di quando il medico, impietosito, avesse detto a lui e a Cameron che non c’era assolutamente più niente da fare. Per l’ennesima volta.
La seconda cosa a cui Margareth aveva pensato, quando Cameron l’aveva salutata sottilmente, era che fosse successo qualcosa. La terza non riuscì a partorirla, perché ebbe la conferma del pensiero peggiore che avesse fatto.
‘’Land’’ sussurrò solo Cam. Ma fu sufficiente per entrambi.
Si rivestì, staccando la chiamata, alla velocità della luce. Cam le aveva detto che erano in ospedale, o almeno le era parso di capire che le avesse detto in quel modo, ed in quell’istante non le importava quanto distasse l’ospedale da casa sua e cosa avrebbero potuto pensare i suoi genitori se l’avessero scoperta. Indossò i pantaloni della tuta che usava per la scuola e il primo maglione che le capitò sott’occhio. E poi, poco prima di afferrare il suo cappotto ed uscire dal balcone, agì senza pensare. Corse in camera di Morgan, quella che non aveva aperto per un’infinità di tempo e che aveva improvvisamente preso a mancarle, e afferrò il giubbotto che era solita indossare sua sorella. A tratti sentiva ancora il suo odore.
Margareth non sapeva ancora che Holland Todd fosse già morto quando saltò dall’albero vicino camera sua e prese a correre, in direzione dell’ospedale.

 
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Cameron le corse incontro non appena fece il suo ingresso nel corridoio, dopo aver chiesto informazioni ad una receptionist fin troppo stanca e scorbutica. L’odore di disinfettante e morte le penetrò nelle narici, riportandola ad un momento di tanti anni prima. Nel momento in cui sentì le braccia possenti di Cam stringerla fino a toglierle il respiro, la sua vista si annebbiò e quel ricordo le affogò la mente nonostante fosse l’una e mezza di notte.


Corse a perdifiato per il corridoio, senza sentire una singola particella di ossigeno entrarle in gola e darle un minimo di sollievo. Quel reparto non le era mai sembrato così lungo e così asettico.
Sentiva i tacchi a spillo di sua madre risuonare sul pavimento, mentre correva dietro di lei, e le scarpe nere di suo padre fare lo stesso. Ansimò dieci volte, senza rendersi conto di quante lacrime avessero iniziato a scendere sulle sue guance, prima di fermarsi di fronte la stanza numero trentaquattro.
Un’infermiera la fermò per un polso prima che potesse aprire la porta. Margareth si divincolò da quella stretta anoressica un secondo più tardi, urlando qualcosa.
‘’Morgan’’ sussurrò, mentre la puzza di disinfettante e di cibo stantio le traforava le narici e la mente, regalandole un ricordo che non avrebbe mai più dimenticato.

 
‘’Che succede?’’ chiese, flebilmente, quando Cameron la divincolò dal suo abbraccio malinconico. In realtà l’aveva capito dall’aria e l’aveva letto sulle pareti, cosa fosse successo, ma sperava di sbagliarsi.
Non di nuovo.
Cameron stava piangendo. Margareth riconobbe il suo tipo di lacrime, esattamente le stesse che aveva pianto lei tre anni prima. Esattamente le stesse che aveva preso a piangere allora. Si portò una mano alla bocca, cercando di trattenere qualsiasi altro suono che non fossero singhiozzi. Fu in quel momento che si avvicinò a lei una ragazza bassa e dai capelli rossi, che affiancò Cameron e gli strinse immediatamente la mano. L’eyeliner che portava era praticamente scomparso e le guance erano solcate da profonde righe di quello che sembrava rimmel sciolto. Doveva essere Laurine, non c’era altra spiegazione.
Nessuno di loro tre parlò per quelle che parvero ore. Laurine stava stringendo Cameron così forte che Maggie ebbe paura che si spezzasse, mentre lui guardava un punto fisso sulla parete e continuava a piangere in silenzio.
‘’La cosa che mi fa più male’’ disse all’improvviso Cameron, proprio quando Margareth aveva quasi imparato a gestire le lacrime. ‘’E’ che non ci siano i suoi genitori qui, a piangere con noi’’
In quel momento Laurine urlò.
Un urlo matto e terrificante, che rimbombò fra le pareti asettiche e silenziose dell’ospedale e tornò indietro mille volte. Non era un urlo di ribellione o un urlo di rabbia, era semplicemente un urlo disperato. Un grido al mondo, sempre così grande ed indifferente, sempre così irraggiungibile e stanco. Si inginocchiò a terra e pianse ancora più forte, davanti agli occhi bagnati di Margareth e davanti a quelli stanchi di Cameron. Le infermiere di turno parvero quasi non accorgersene, dopotutto dovevano essere abituate alla morte, no?
Davanti quella scena disperata, a Margareth risultò impossibile non pensare a Morgan. Cosa avrebbe fatto se fosse stata lì? Cosa avrebbe detto? Le sembrava impossibile immaginare la sorella in lacrime, disperata come lo era stata lei o come lo erano Laurine e Cameron in quel momento, eppure era convinta che era esattamente quello il modo in cui sarebbe apparsa.
La immaginò accanto a se, cercando di trattenere inutilmente le lacrime e le grida, mentre le stringeva forte la mano. Morgan doveva essere lì, in quel momento. Era lì, da qualche parte.
Che stesse piangendo non ne era sicura, però c’era. Forse avrebbe potuto stare finalmente insieme a Holland, proprio come Romeo e Giulietta o Paolo e Francesca.
Si allontanò da Cam e Laurine perché notò una figura da lontano. Corse verso Carl, incurvato davanti la figura di un medico che continuava a parlargli. Chiaramente non stava capendo una parola, nonostante annuisse di tanto in tanto. A Margareth sembrò aver corso per chilometri interi quando lo raggiunse. Il dottore la guardò interrogativo, soffermandosi sulla mano che Maggie aveva incrociato con quella di Carl, prima di riprendere a parlare.
‘’Mi dispiace’’ disse, sinceramente scosso.


L’orologio segnava le due.
Margareth era seduta fra Celine e Dan, ma non li sentiva nemmeno respirare. Aveva immaginato che si fossero seduti vicini e si fossero stretti la mano o dati forza a vicenda in qualche modo, almeno per quella volta. Non era stato così, i minuti sembravano passare sempre più lentamente e la camera numero trentaquattro restava ermeticamente chiusa.
Quando un dottore uscì da essa, finalmente, solo lei scattò in piedi. Lo sguardo di sua madre era completamente perso, suo padre aveva gli occhi chiusi. Nessuno di loro aveva le guance bagnate, ma erano spezzati in modo ancor peggiore.
Il dottor Hooke le si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. Margareth non aveva nessuno accanto che le stringesse la mano e avrebbe tanto voluto che fosse il contrario.
‘’Mi dispiace’’ le disse il medico, sinceramente scosso.



L’orologio segnava le due anche in quel momento.
Margareth una mano da stringere ce l’aveva, ma – al contrario di quel che aveva pensato – sentiva lo stesso dolore.
‘’Non abbiamo potuto fare niente’’ continuò il medico, di fronte all’apatia di Carl – immobile – e alle lacrime della bionda. ‘’Se può farvi stare meglio, era tranquillo. Non ha sentito niente’’
‘’Certo che non ha sentito niente, grandi figli di puttana’’ la voce di Carl le arrivò alle orecchie ovattata e completamente differente. Era la stessa voce che aveva usato quel pomeriggio contro lo stesso Holland, quando l’aveva aggredita e lui l’aveva allontanato. ‘’L’avete sedato come un animale. Era quello che volevate, no?’’
Carl, in quell’istante, le lasciò la mano e si avvicinò un po’ di più al medico. Quest’ultimo non sembrava scosso o sorpreso, probabilmente anche lui doveva essersi abituato alla morte. Doveva avere una sessantina di anni, di esperienze simili ne aveva sentite e provate a centinaia.
‘’Ascolta ragazzo…’’ iniziò, calmissimo.
‘’Non ascolto niente’’ incalzò Carl, senza alzare di una tonalità la voce ma risultando sempre gelido e cattivo. ‘’Ci avete chiesto di tenerlo lontano da quella porcheria e l’abbiamo fatto. Ce l’avete fatto ammazzare’’


‘’Ci avete detto di fare un altro figlio in modo da aiutarla e salvarla’’ pianse Celine, avvicinandosi disperatamente al dottor Hooke e afferrandogli il colletto del camice bianco. ‘’Ce l’avete fatta ammazzare’’


‘’Capisco che lei sia addolorato’’ rispose il dottore, allontanandosi con la sua cartellina e il suo tanfo di morte. ‘’Ma non è stata colpa di nessuno. Questa è la conseguenza della droga, la conseguenza del cambiamento degli equilibri. Sono desolato’’
Carl non rispose e il dottore se ne andò. Margareth si sentì improvvisamente stanca e debole, il disinfettante che le scorreva nelle vene e la voce del dottore che le risuonava nelle orecchie.
Ora del decesso: 02:00 p.m.
Un’infermiera le passò accanto e, vedendola incantata e scossa, le si avvicinò cordialmente e le poggiò una mano calda sulla fronte. ‘’Signorina, lei ha la febbre. Vuole prendere qualcosa?’’ chiese, gentilmente.
Margareth non si scomodò neanche a voltare il viso e guardarla. Scosse la testa, guardandosi intorno e notando che Carl fosse sparito. ‘’No, grazie. Sto bene così’’ sussurrò, allontanandosi.


Un medico che non conosceva le si avvicinò, mentre continuava a piangere e singhiozzare dopo quelle che erano state ore.
Le fece qualche domanda, e Margareth non si premurò di rispondere nemmeno ad una di quelle. Poi le poggiò una mano, dopo aver rimosso il guanto in lattice, sulla fronte bollente.
‘’Lei ha la febbre’’ le disse il dottore, alzandosi e tirando fuori dal camice una pillola. ‘’La prenda’’
Maggie scosse la testa, con la vista appannata e il cuore fermo. ‘’No grazie, sto bene così’’ sussurrò, allontanandosi.

 
La seconda volta che fece il corridoio cominciò a preoccuparsi. Era quasi un’ora che cercava Carl, apparentemente scomparso nel nulla, mentre Cameron e Laurine restavano seduti immobili sulle sedie di plastica tipiche degli ospedali. Avrebbe chiesto a loro se l’avessero visto se solo le avessero risposto. Sentiva le ginocchia diventare latte e le gambe tremare, mentre ripercorreva per la terza volta quel maledetto corridoio e cercava di non pensare alle fitte di dolore alla testa o ai giramenti che la prendevano all’improvviso e ad intervalli irregolari.
Non aveva voglia di camminare, avrebbe solo voluto sedersi e piangere – di nuovo – fino a che non si sarebbe sentita più leggera di qualche chilo. Ma non riusciva a star ferma sapendo che Carl era solo da qualche parte, soffrendo sicuramente più di lei. Sentì improvvisamente freddo, di quel freddo che non aveva sentito mentre correva a perdifiato verso l’ospedale o mentre parlava con il dottore o mentre stringeva la mano immobile e vitrea di Carl. Non aveva ricambiato la sua stretta, eppure non ci aveva fatto nemmeno caso. Passò di fianco a miliardi di dottori e miliardi di infermiere, miliardi di persone sedute fisse su sedie spettatrici di dolore e piangenti, sotto miliardi di sguardi curiosi e addolorati e indiscreti e compassionevoli. Avrebbe voluto piangere di nuovo, ma le risultò impossibile.
 
Piangi, si ripetè. Piangi, piangi, piangi.
Piangi, tua sorella è appena morta.
Margareth non pianse.
Rimase seduta a terra, con la schiena poggiata contro le mattonelle fredde del bagno di un ospedale che aveva preso ad odiare, fissando i tubi incrostati del rubinetto sporco di calcare. Immobile.
Piangi, ordinò a se stessa, sei un’insensibile.
Sentiva la voce di sua madre, li fuori da qualche parte, che la chiamava disperatamente. Però sentiva le gambe molli e la testa gonfia e non riusciva ad alzarsi neanche volendo. Non voleva andare via dall’ospedale, non voleva ritornare in una casa sterile dove non c’era e non ci sarebbe più stata sua sorella, non voleva ritornare alla sua vita senza la sua vita.
Il telefono accanto a lei suonò per la quinta volta in tre minuti, il nome di suo padre illuminò lo schermo e lei ignorò di nuovo la chiamata. Sentiva che le sue braccia non obbedissero più ai suoi comandi, che il cervello si fosse disconnesso da qualsiasi altra parte del corpo. Immaginò, in un impeto di lucidità, come sarebbe stata la sua vita da quel momento in poi.
Vide solo buio.

 
Margareth non avrebbe permesso a Carl di piangere e soffrire da solo.
Nonostante si sentisse stanca e sfinita, sul punto di una crisi isterica e una crisi di pianto insieme, non si fermò nemmeno per un minuto. Controllato per la quarta volta tutto il primo piano, salì al secondo senza neanche pensarci per un secondo. Non le importava delle persone che la guardavano male quando lei urlava il nome del ragazzo, non le importava di apparire irrispettosa del dolore altrui, non le importava correre spintonando infermiere e dottori. Erano tutte sfumature dello stesso dolore: lei che correva per non pensare, Laurine che urlava per non piangere, Cameron che la stringeva per non morire, Carl che scompariva per non sentire. Holland che moriva per non vivere.
Il rumore delle sue scarpe da ginnastica contro mattonelle sporche e grigie dell’ospedale le ricordava che c’era.
Le pareva quasi di sentire ancora la voce di Holland, il suo tocco sulla pelle e le sue mani sul collo.
Non riesco a respirare.
Il secondo piano era più piccolo del primo ma ugualmente vuoto. Erano passate tre ore dalle due di notte, dall’ora del decesso, ma non era cambiato assolutamente niente. Margareth era convinta di sentire ancora le urla di Laurine e le lacrime di Cam, la voce roca e atona di Carl che inveiva contro il dottore di turno, cercando di riportare indietro una persona che ormai era fin troppo avanti.
Pensò che, infondo, non aveva neanche avuto il tempo di riparlare per l’ultima volta con Holland. L’aveva rivisto pochissime volte, sentito ancora meno. Non aveva neanche una sua foto, un suo regalo, un qualcosa che testimoniasse che l’aveva conosciuto per davvero. Riusciva a riviverlo solo attraverso i ricordi di Cameron e Carl, solo attraverso il suo ricordo di Morgan, che non riusciva più ad immaginare senza lui al suo fianco.
Ricordò, mentre continuava a correre e a cercare, di quell’unica volta in cui aveva visto il suo cellulare. Land le aveva sorriso e aveva scosso la testa, mentre lei aspettava che Carl uscisse dalla sua stanza. Nel lettore musicale Holland aveva solamente una canzone. ‘’E’ la mia preferita’’ le aveva risposto, quando Maggie gli aveva chiesto il perché. Non ci aveva fatto neanche tanto caso, in quel momento, ed aveva sorriso come sempre.
In quel momento le note di quella canzone le affollarono il cervello, diventando la colonna sonora della sua ricerca disperata di qualcuno che non voleva evidentemente essere trovato.

Oh, you can’t hear me cry
See my dreams all die
From where you’re standing
On your own
 
Il terzo ed ultimo piano si rivelò più triste e vuoto di tutti quanti gli altri.
Superati i reparti di oncologia ed oncologia infantile e quello di neurologia, si ritrovò di fronte ad una vetrata che dava su un balcone.
Quando Maggie cercò di uscire fuori fu bloccata da un portantino vestito di blu, che le afferrò un polso e – poco cordialmente – le disse che era vietato l’accesso ai non autorizzati.
Erano quasi le sei del mattino, fra poco i suoi genitori si sarebbero svegliati, e Carl era distante nel vero senso della parola. Rassegnata, decise di prendere l’ascensore e ritornare al primo piano. Non sapeva se avrebbe ritrovato Laurine e Cameron, per cui si preparò psicologicamente per un’altra lunga camminata verso casa sua.

 
It’s so quiet here and I feel so cold
This house no longer
Feels like home

 
Fu quando entrò in ascensore, però, che notò che c’era un quarto piano. Aveva dato per scontato che fossero solamente tre, così come ricordava, ma si era evidentemente sbagliata. Premette il numero 4, sperando con tutta se stessa di non fare un altro buco nell’acqua.
Cominciarono a prenderle le vertigini, nonostante non ne avesse mai sofferto più di tanto, e la testa era diventata praticamente impossibile da reggere. Quando le porte scorrevoli si aprirono si ritrovò su un piano quasi completamente chiuso, solo ad eccezioni di pochi corridoi – come quello che dava a pediatria o psichiatria. Dovevano averlo aperto da poco, oppure ristrutturato.
Uscì dall’ascensore e lo vide.
Holland, biondo come non era da tantissimo tempo e molto meno magro, esattamente dinanzi a lei. Stava sorridendo. Margareth si stropicciò gli occhi tre volte, eppure quella figura continuava ad essere lì, ferma ed immobile. Sentì i battiti del cuore aumentarle a dismisura, fino a divenire praticamente impossibili da reggere. Non riuscì a muoversi, neanche quando vide Holland allungare il braccio e la mano verso qualcosa che non riusciva a vedere. Dopo pochi secondi, accanto alla figura di Land c’era l’ultima persona che avrebbe pensato di vedere.
Morgan Grey stava sorridendo anche lei, mentre stringeva il braccio del biondo e poggiava la guancia morbida sulla sua spalla. Margareth pianse, forse, e si convinse che quello che stava vedendo non fosse assolutamente possibile.
Eppure Morgan le sembrava così reale, con i capelli dorati e gli occhi chiari ed una camicia blu e bianca che non le aveva mai visto addosso. I jeans neri le fasciavano le gambe magre e le mani sembravano proprio le sue, sottili e arcuate, ancorate al corpo di Holland. Il tatuaggio che aveva fatto sulla scapola era visibile attraverso il tessuto trasparente dell’indumento, così giusto e così familiare.

Then you come to revive
Wait, wait, wait, I’m alive.
 
Margareth fece per avvicinarsi, eppure non ci riuscì.
Rimase immobile quando vide Morgan lanciarle un bacio, la stessa cosa che aveva sempre fatto da quando erano bambine e che aveva continuato a fare anche durante gli ultimi giorni. Maggie non sapeva se credere o meno a ciò che stava vedendo, eppure decise di farlo. Decise di credere che sua sorella fosse finalmente lì con lei e che lei potesse anche vederla, decise di crederla sorridente e con la persona che amava. E decise di credere anche ad Holland, mentre le alzava una mano e la salutava muovendo solamente la punta delle dita.
Erano così brillanti e lucenti, entrambi, che le ridiedero quel po’ di tranquillità e quel po’ di calma di cui aveva bisogno per continuare a respirare. Decise anche che sarebbe stato esattamente quello l’ultimo ricordo che avrebbe avuto di Holland Todd, e non quello in cui era sottile come un chiodo e con i capelli bianchi e sotto strati di coperte e delusioni.
Eppure, anche se solamente un mese prima avrebbe pagato pur di rivedere sua sorella e si sarebbe persa nel suo sguardo finchè avrebbe potuto, quella volta sorrise ad entrambi e gli voltò le spalle.
Forse era la febbre che la faceva delirare, eppure – non appena svoltò in un corridoio vuoto e asettico anche più degli altri – lo trovò.
Carl aveva la schiena poggiata alle mattonelle fredde e le gambe lungo il pavimento gelido. Lassù evidentemente non avevano azionato i condizionatori d’aria calda, perché sembrava di essere in Siberia.
Margareth si avvicinò lentamente a lui e, nonostante fosse sicura che l’avesse sentita, non alzò lo sguardo. Continuava ad avere il capo poggiato al muro e puntato in alto, gli occhi chiusi e le guance asciutte.
Maggie si sedette accanto a lui, cercando di non rabbrividire e non svenire per l’acuto mal di testa.
Il piacere di essersi finalmente fermata e di essere finalmente seduta la pervase, tranquillizzandola ancora un altro poco.
Non disse niente semplicemente perché non avrebbe saputo cosa dire. Perché nonostante avesse vissuto una situazione analoga non aveva avuto accanto a se nessuno, per cui non avrebbe saputo da chi prendere ispirazione. Decise di fare la cosa più naturale del mondo, e poggiò la testa sulla spalla del ragazzo. Nonostante l’avesse sentito irrigidirsi, Carl non si mosse e restò fermo. Immobile esattamente come il tempo, che – anche quella volta – pareva essersi cristallizzato.


‘’Margareth’’ esclamò Celine, l’ansia che scivolava via dal suo corpo. Quella fu l’unica volta in cui l’abbracciò. ‘’Finalmente. Ma dov’eri finita?’’
Maggie non rispose nemmeno allora, non ricambiò l’abbraccio aspettato da anni e non si mosse. Sua madre le poggiò il capo sulla spalla per un secondo, singhiozzò e poi si rialzò. Più forte di prima, come sempre, il volto naturale sembrava non essere mai stato trafitto dalle lacrime amare.
‘’Andiamo a casa’’ le disse, il più dolcemente possibile.
Quale casa?

 
Non seppe quanto tempo fosse passato. Potevano essere stati due minuti come potevano essere state due ore o due giorni, Carl era sempre immobile e lei sempre più intontita.
La febbre doveva esserle salita perché Carl riuscì a percepire il calore attraverso la felpa sottile che indossava, e parlò per la prima volta.
‘’Hai la febbre’’ disse, continuando a guardare diritto davanti a se. ‘’Dovresti ritornare a casa. Cameron è ancora di sotto, ti darà un passaggio lui’’
Non le sembrò Carl Pearson quello che le stava parlando.
La sua voce era completamente alienata, così come il suo volto pallido. Se fino ad allora l’aveva considerato distante ed inarrivabile, evidentemente non aveva mai avuto a che fare con quel Carl.
Tuttavia non ci pensò più di tanto e non gliene fece una colpa, perché di certo non si era aspettata che reagisse nel migliore dei modi dopo la morte del suo migliore amico. Dopotutto chi meglio di lei, che non aveva parlato per una settimana, avrebbe potuto capirlo?
‘’E tu?’’ gli rispose, cercando di risultare amichevole e non impietosita. Sarebbe stata l’ultima cosa di cui avrebbe avuto bisogno.
Neanche il quel momento Carl puntò lo sguardo su di lei. ‘’Non importa’’ disse.
‘’A me importa’’
Carl scosse la testa leggermente, stropicciandosi il volto con le mani fredde. ‘’Marge senti…’’ iniziò, stanco. ‘’Ho bisogno di stare da solo’’
Sapeva che glielo avrebbe detto, presto o tardi. Ci aveva anche messo troppo. Sapeva come si sentiva, conosceva bene quelle sensazioni. Quello che lui non sapeva, però, era che – anche se l’avesse accontentato – non sarebbe cambiato assolutamente niente. Non l’avrebbe lasciato da solo, di quello ne era sicura.
‘’So come ti senti’’ spiegò. ‘’E non ti lascio’’
‘’Dovresti’’
‘’E perché?’’
‘’Perché potrei dire qualcosa di cattivo’’
‘’Saprei che non lo pensi davvero’’
Carl sospirò per l’ennesima volta, continuando a non guardarla negli occhi e a fissare un punto lontano. Si allontanò leggermente, e Margareth sollevò la testa e rinunciò a poggiarla sulla sua spalla. Cercò di non dar peso a quel gesto, di non restarci male. Cerco di non pensare a Holland, a quello che aveva creduto di vedere prima, perché non doveva assolutamente piangere di fronte Carl.
‘’Vai via, Margareth’’ la implorò, stanco e lontano. ‘’Per favore, vai via’’
Margareth non l’avrebbe mai fatto, ma qualcosa nella voce di Carl le insinuò nella mente il dubbio reale che magari per lui potesse essere meglio così. Che forse non tutte le persone affrontano un lutto allo stesso modo.
Che l’avrebbe solo odiata, se avesse continuato a combattere.
‘’Sei…’’ balbettò. ‘’Sei sicuro?’’
Carl non le rispose ma interpretò il silenzio come un sì. Si alzò a fatica dal pavimento, mantenendosi al muro per via dei continui giramenti di testa che non le lasciavano pace. Di tutti i giorni in cui avrebbe potuto prendere la febbre aveva scelto proprio il peggiore in assoluto.
A malincuore, voltò le spalle a Carl e si diresse di nuovo verso l’ascensore.
Osservò il posto in cui, poco tempo prima, aveva visto quelli che dovevano essere per forza due fantasmi.
Sono morti, si ripetè. Sono morti.
In quel punto, allora, non c’era più nessuno.
Si guardò in giro, per quel piano isolato e fuori dal mondo, e fu in quel momento che – probabilmente – si rese davvero conto del fatto che Holland Todd non ci fosse più.
Pensò che, dopotutto, l’essere umano in generale tende sempre a dare per scontata la vita. Dà per scontate un sacco di cose, e capisce il loro valore solo una volta che sono scomparse per sempre. Forse la cosa che le fece più male, proprio come i pensieri di tre anni prima, fu la consapevolezza che non avrebbe più rivisto Land per tutta la vita. Ed era un sacco di tempo. Le solite frasi di circostanza – ‘’starà meglio adesso’’, ‘’ora sarà libero’’ – sembrarono aiutarla ma non più di tanto.
Chiusa in un ascensore claustrofobico, sperò davvero che Holland stesse meglio allora. Che realmente non avesse sentito dolore. Che avesse rivisto i suoi genitori e Morgan, proprio come aveva immaginato.
Che avesse imparato a splendere, almeno in quella circostanza, e che stesse sorridendo. Che aiutasse i suoi amici. Che aiutasse Carl, solo sull’ultimo piano di un ospedale deserto e pesante, con lo sguardo perso sul muro e le gambe gelate.
Aveva sempre pensato, dopotutto, che la morte fosse più difficile per i vivi. Per i rimanenti. Per i sopravvissuti. Avrebbe voluto dare la colpa a qualcuno per la morte di Holland, ma – al contrario che con Morgan – non seppe chi incolpare. Land si era cacciato da solo in quel baratro, proprio come lei – quella sera – al ristorante italiano. Solo che lui non aveva avuto nessuno a tirarlo fuori.
Si sarebbe fatto salvare, poi?
Decise di lasciarlo andare. Decise che fosse più giusto così, che meritasse che ciò accadesse. Forse, con il tempo, ci sarebbero riusciti anche Cameron e Carl e Laurine. Decise di lasciare andare anche Morgan, perché l’aveva trattenuta per troppo tempo.
Siete liberi.
 
Morgan raggiunse Holland e strinse la sua vita fra le braccia, poggiando il capo sul retro del suo collo e baciandogli una spalla. Poi l’altra. E poi il collo, sempre più lentamente e sempre più dolcemente.
Holland poggiò le mani su quelle della ragazza, con una leggera pressione e cercò di respingerle. Al secondo tentativo fallito, si arrese. 
‘’Morgan’’ disse, piano. ‘’Non si risolve sempre tutto così’’
‘’Lo so’’ sussurrò la ragazza, fra un bacio e l’altro. ‘’Ma mi manchi ora’’
Holland si voltò solo in quel momento, afferrando i polsi della ragazza e poggiandoli al muro. Solo in quel momento notò di quanto gli occhi di Morgan fossero lucidi.
‘’Che c’è?’’ domandò, spaventato. Non l’aveva mai vista piangere, né tantomeno così esposta e così debole.
Morgan sorrise per tranquillizzarlo, e – anche tra le lacrime – Land continuò a pensare che quello fosse il sorriso più bello che avesse mai visto.
‘’Mi prometti che, qualunque cosa accada, non ti dimenticherai mai di me?’’ gli chiese, improvvisamente, e continuando a sorridere e a guardargli il tatuaggio sulla scapola.
‘’Perché mi fai questa domanda?’’
‘’Perché ho bisogno di conoscere la risposta’’
Holland non si chiese che significato nascosto potesse avere quella richiesta, anche perché dava ovviamente per scontata la risposta.
‘’Te lo prometto’’ disse. ‘’Qualsiasi cosa accada non mi dimenticherò mai di te’’

 
_________________________________________________________


Non credo ci sia bisogno di aggiungere niente a questo capitolo, se non un ''è cose che doveva andare''.
Era così che l'avevo pensata la storia, all'inizio, ed era a QUESTO che le azione come
quelle che ha fatto Holland portano. Spero che almeno sia una lezione di vita, perchè difficilmente si esce dal tunnel della droga 
e si muore anche e soprattutto di astinenza.
Ci tengo solo a sottolineare che Carl e Cameron sono i migliori amici di Holland e STANNO SOFFRENDO tantissimo.
Si capirà meglio nei prossimi capitoli, che posterò a breve, promesso.
Per quanto riguarda la parte di Margareth: datele tempo, vi assicuro che sarà di grande aiuto.
Anche perchè lei, tutte quelle cose, le ha già vissute. Spero si sia capito che le parti scritte in corsivo sono dei flashbacks
che riportano alla morte di Morgan. Vi lascio una foto di quest'ultima e Holland, nei tempi d'oro ahahha
Vi bacio <3

Harryette


 

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Capitolo 27
*** 26- Into the wild ***


j
 

|Capitolo Ventiseiesimo|
Into the wild

 Arrivata a casa, la prima cosa che Margareth vide era il volto deluso e amareggiato di suo padre. Dopo, quando allargò il campo visivo, notò la figura di sua madre, rilegata e seminascosta in un angolo. Dan Grey aveva le braccia incrociate al petto ed uno strano cipiglio fra le sopracciglia. A Maggie sembrò, per la prima volta, umano e umanamente triste.
Posò lentamente le chiavi nella ceneriera accanto alla porta e appese il giubbino – non suo, ma che passò comunque inosservato – all’appendiabiti. Pregò con tutta se stessa di riuscire a fingere, per una volta, e di dare seriamente un’impressione tranquilla e posata. Insomma, se non aveva effettivamente fatto niente di male, perché avrebbe dovuto agitarsi?
Sapeva bene che erano le sette passate di mattina, che sarebbe arrivata tardi a scuola se non si fosse data una mossa, e che – se non fosse stato per la caccia al tesoro di Carl – sarebbe tornata in tempo.
Nonostante Cameron le avesse offerto un passaggio, le era sembrato ancora troppo scosso e dilaniato. Aveva pensato che, forse, aveva bisogno di passare un po’ di tempo da solo con Laurine. Dopotutto condividevano lo stesso tipo di dolore e lo stesso tipo di perdita. Anche Margareth voleva bene ad Holland, probabilmente il doppio del normale perché si sentiva in dovere di amarlo anche da parte di sua sorella, eppure era consapevole del fatto che il suo dispiacere immenso non fosse paragonabile al loro. A quello di Carl.
Aveva semplicemente ritenuto più giusto lasciarli tutti e tre insieme, sperando si fossero sorretti a vicenda. Dopotutto, se era arrivata a piedi ci sarebbe anche ritornata. La febbre, però, non le aveva dato pace. Anzi, probabilmente si era anche alzata, perché sentiva la testa esplodere ed aveva freddo nonostante avesse corso. Non aveva sperato di farla franca, l’aveva capito già quando era seduta accanto a Carl un’ora prima, quindi non fu colta più di tanto di sorpresa.
‘’Ciao’’ disse, ma se ne pentì l’istante immediatamente successivo. Dan le riservò un’occhiata gelida, che da troppo tempo non la sfiorava. Maggie aveva sempre preferito il rimprovero all’indifferenza, ma stava iniziando a ricredersi. In più, non si sentiva forte abbastanza da reggere una conversazione con i suoi genitori. Voleva solo sotterrarsi sotto le coperte e dormire, prendere qualcosa per il mal di testa e chiudere gli occhi una volta per tutte.
‘’Margareth’’ come si era aspettata, fu suo padre ad iniziare il discorso. ‘’Di grazia, posso sapere dove diavolo sei stata tutta la notte?’’
Sapeva che ci erano passati sopra già una volta, sorprendentemente, e perché era riuscita a cucire una scusa in tempo. Non avrebbe potuto coinvolgere di nuovo Robyn, non sarebbe stato minimamente credibile. Ma come avrebbe potuto spiegargli che non era come stavano pensando? Che era stata davvero un’emergenza?
‘’Non è come sembra’’ balbettò, in preda ad un giramento di testa. Si resse al tavolino che aveva accanto, così tanto da far diventare le nocche bianche, e sospirò. Solo qualche altro minuto e sarebbe andata in camera.
‘’E allora com’è?’’
Suo padre aveva già tratto le sue conclusioni e, quando accadeva una cosa del genere, non c’era alcun modo di farlo virare. In più, Margareth si sentiva così debole che non avrebbe mai avuto la forza necessaria per litigare. Ma era troppo chiedere un poco di pace?
‘’Un amico è stato male’’ rispose, cercando quantomeno di dire una mezza verità. ‘’Mi hanno chiamata stanotte e sono corsa in ospedale’’
Era assurda, messa in quel modo, e ne era consapevole. Tuttavia non avrebbe mai potuto raccontare ai suoi genitori che il ragazzo in questione era stato il fidanzato di Morgan e che fosse morto di astinenza.
Morto.
Le era ancora estraneo, quel suono, alle orecchie.
‘’A piedi?’’ chiese scettico suo padre, mentre Celine restava in religioso silenzio. Come sempre, davanti a lui.
Maggie scrollò le spalle ed annuì. ‘’Ho la febbre’’ sospirò. ‘’E sono stanca. Possiamo parlarne stasera? Penso che salterò scuola, oggi’’
‘’Ti aspetti che ti creda?’’
Sapeva anche che le avrebbe fatto quella domanda, ma aveva sperato di esser riuscita a fargliela rimandare. Sentiva le tempie pulsare sempre più violentemente, il naso era ormai completamente tappato e gli occhi le facevano strani scherzi. In più, le palpebre le si chiudevano praticamente da sole. Era sicura che dalla sua faccia si capisse benissimo quanto stesse veramente male, ma evidentemente per suo padre era più importante discutere.
‘’E’ la verità, papà’’ soffiò, esasperata e sfiancata. ‘’Puoi chiedere all’ospedale, se ti fa stare più tranquillo’’
Voleva troncare la discussione il più in fretta possibile. Insomma, non l’avrebbe davvero fatto, no? Non era restio a fidarsi di lei fino a quel punto, no?
‘’E chi era, questo amico?’’
Ebbe la conferma matematica, in quel momento, che sua madre non avesse aperto bocca su Carl Pearson. La apprezzò dopo tanto tempo, per quello. Le aveva evitato un altro irreparabile problema da risolvere.
‘’Holland Todd’’ disse, con un nodo alla gola e la bile che gliela raschiava. ‘’Si chiamava Holland Todd’’
La malinconia con cui pronunciò quel nome dovette, se non convincere, per lo meno sedare la sete di notizie di Dan. E anche la sua faccia malata. Con una scrollata di spalle afferrò la solita cartellina di pelle e fece segno alla moglie di uscire. ‘’Ne riparliamo stasera’’
Non disse nient’altro. Si avviò verso la porta d’ingresso che Maggie aveva varcato poco tempo prima e se la richiuse alle spalle. Celine, che l’avrebbe raggiunto entro poco, si avvicinò alla figlia e le poggiò una mano smaltata di rosso sulla fronte.
‘’Sei bollente’’ sgranò gli occhi. ‘’Vai a letto, dirò ad Hollie di prepararti una camomilla’’
‘’Va bene’’
Margareth si allontanò dalla mano calda della madre, dirigendosi verso le scale che portavano al piano delle camere, quando la voce di Celine la bloccò. ‘’E’ successo qualcosa a Carl?’’ chiese, fredda apparentemente ma fin troppo interessata. Glielo stava davvero chiedendo?
‘’No’’ sospirò Maggie. Era di spalle, e sua madre anche, per cui non si stavano guardando negli occhi. Forse così sarebbe stato più facile. ‘’Lui sta male, però. Era uno dei suoi migliori amici’’
‘’E…’’ balbettò. Balbettare? Celine stava davvero balbettando in presenza di sua figlia? Non c’era limite all’assurdo. ‘’Questo ragazzo è morto, giusto?’’
‘’Sì’’ amaramente rispose la bionda.
Sentì i tacchi di sua madre sul pavimento, per cui suppose che il loro discorso normale fosse concluso e lei stesse andando a lavorare. Eppure, ancora una volta, fu bloccata.
‘’Margareth?’’
‘’Sì?’’
Celine sospirò ancora una volta, come se non fosse per niente sicura di ciò che stava per dire. Eppure parlò. ‘’Forse dovresti stare con lui’’ ammise, colpevole. ‘’Non deve essere facile’’
Maggie potè giurare di sentire una nota di malinconia nella voce di sua madre che non aveva mai sentito prima. Le stava dicendo che avrebbe dovuto passare più tempo con Carl? La stava autorizzando?
‘’Ma lui ha detto che vuole stare solo’’
Non si sarebbe aperta in quel modo, in altre circostanze. Solo che necessitava di un consiglio, di qualcuno con cui parlare e che le dicesse che cosa fare. Sentiva di non potercela fare sempre da sola. Forse sua madre non era la persona adatta, ma si era dimostrata – almeno fino a quel momento – sicuramente la più propensa.
‘’E tu lo lasci solo?’’
Non ebbe il tempo di rispondere, probabilmente la donna non si aspettava neanche una risposta. Semplicemente uscì di casa e lasciò Margareth persa nei suoi pensieri intricati.
Ed io lo lascio solo?
 
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La febbre, la mattina successiva, era scesa a trentasette e mezzo.
Era sicuramente meglio del trentanove che aveva solo la sera prima e del trentotto che le era durato tutta la notte.
Cameron l’aveva chiamata tre volte prima che lei, imbottita di medicinali e coperte, sentisse il cellulare dimenticato da qualche parte. Ritrovarlo non era stato facile ed aveva perso anche la quarta chiamata, ma in compenso l’aveva richiamato preoccupata.
Una voce fin troppo spenta per somigliare vagamente a quella sempre allegra di Cameron Kyle l’aveva informata che quel pomeriggio ci sarebbero stati i funerali.
In realtà non credeva che Holland fosse stato mai cattolico o anglicano, però aveva apprezzato il gesto e aveva detto a Cam che avrebbe fatto il possibile per andarci, date le sue condizioni di salute precarie.
E poi, proprio quando stava per staccare la chiamata e tornare a dormire e ripensare, Cameron aveva sussurrato la frase per la quale – allora – era vestita di nero e pronta a raggiungere la St. Patrick’s Church.
‘’Vieni, per favore. Carl ha bisogno di te’’
Aveva preferito non pensarci, nel corso di quel giorno e mezzo. Aveva mandato a Carl un centinaio di messaggi e l’aveva perfino chiamato tre volte, ma in entrambi i casi era stato tutto inutile. Completamente irraggiungibile, in tutti i sensi. Così, nonostante le parole disinteressate di sua madre, aveva deciso di lasciargli i suoi spazi. Forse era semplicemente quello di cui aveva bisogno, dopotutto non poteva certo imporgli la sua presenza.
Eppure, quella frase petulante e sussurrata di Cameron Kyle l’aveva spinta a prendere un antibiotico e ad avvisare George di prendere la macchina.
Aveva messo l’unico vestito nero che aveva, e che aveva sempre avuto, lasciando i capelli biondi morbidi sulle spalle e indossando delle scarpe eleganti ma comode. Si guardò allo specchio, perfino con lo stesso abito, e non potè fare a meno di ripensare ai funerali di sua sorella.
Lei non aveva davvero idea di quanto potesse essere estremamente complicata la vita.
Alle due e mezza era già pronta e sull’attenti, più tranquilla per la momentanea assenza dei suoi genitori, nonostante la cerimonia fosse stata fissata per le tre. In quell’arco di tempo, pensò che – forse – era in quel modo che sarebbe dovuta andare.
Dopotutto, Romeo e Giulietta non li avrebbe ricordati nessuno se non fossero morti.
Ricordò una delle ultime frasi che le aveva rivolto Holland, con la tristezza tatuata nelle pupille e le vene che premevano contro la pelle: ‘’Lasciatemi morire’’.
Hai vinto.

 
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La chiesa Margareth la conosceva già, solo che non ci era mai entrata.
Le volte settecentesche la attraversavano su ambedue i lati, su di esse spiccavano fregi e dipinti dall’aria vagamente inquietante e le cappelle – chiaramente visibili ad ovest ed est – avevano al centro qualche quadro prospettico ed allucinante.
Nonostante fosse inizialmente in anticipo, Margareth – poco prima delle tre – aveva dovuto fare i conti con la febbre che aveva deciso di salire di nuovo. Arrivata a trentotto e mezzo, ed essendosene resa conto, aveva preferito tenerlo nascosto e chiudersi in bagno per prendere un'altra pillola. Non poteva permettersi di essere intontita dall’influenza, non in quella situazione e non con Carl.
Quando entrò in chiesa il prete aveva già preso posto, davanti un leggio contenente il Vangelo e ad un microfono, ed aveva appena iniziato a parlare. La chiesa, contrariamente a quanto si fosse aspettata, era quasi completamente piena: molti volti li conosceva, altri un po’ di meno, altri assolutamente per niente. Alcuni avevano gli occhi lucidi, altri consumavano il pavimento, altri ancora guardavano l’ora al cellulare.
Decise di sedersi sull’ultima panca, lontano da occhi indiscreti e curiosi, cercando di individuare con lo sguardo le persone che stava cercando disperatamente.
‘’Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo’’
‘’Amen’’
Cameron era davanti a tutti, sulla prima panca di legno, e stringeva la mano di una Laurine nera e cupa. Entrambi erano vestiti di scuro, la ragazza particolarmente, e guardavano il prete come se avessero potuto davvero vederci Holland Todd.
La sua bara spiccava al centro della navata, decorata da una ghirlanda di fiori bianchi e foglie di un verde spento: era di un legno chiaro, molto più chiaro rispetto a quello che ricordava avessero scelto per Morgan, ma molto meno lucido. Sembrava quasi voler far male con lo sguardo tanto era tozzo e poco flessuoso. Eppure, al centro, vi era applicata lo stesso tipo di targhetta dorata che era stata posizionata sulla bara di sua sorella. Piccola, quadrangolare e dagli angoli smussati, inchiodata ai lati da piccolissime viti. Diceva:

‘’Seppur morirò nelle tenebre
risorgerò in piena luce.
Ho amato troppo le stelle per aver paura della notte’’
 
Non era aperta, al contrario di come avevano deciso i suoi genitori per Morgan. A distanza di tempo, Maggie pensò che avessero preso quella decisone macabra unicamente perché non volevano ancora dire addio al suo volto. Fu grata a Laurine, Cameron, Carl, o chiunque altro avesse scelto di chiuderla e risparmiare – a lei e a tutti gli altri presenti – quell’ulteriore ed inutile strazio. Era già stato difficile vedere il volto di Land da vivo, nell’ultimo periodo.
Non riuscì a vedere Carl, nonostante avesse cercato in tutti i modi di aguzzare la vista e osservare oltre le teste che aveva davanti. La chiesa non era troppo grande, avrebbe dovuto individuarlo subito. Fu in quell’istante che, vedendo un posto libero accanto a Cam, decise che se non era riuscita a trovarlo – magari – lui avrebbe potuto trovare più facilmente lei. Si fece spazio fra la gente, cercando di non interrompere la lettura del Vangelo del parroco, ed arrivò a destinazione.
Si sedette, incrociando lo sguardo di Laurine e cercando di regalarle un sorriso di rassicurazione abbastanza pietoso, e poi guardò davanti a sé. Nonostante sentisse lo sguardo di Cameron bruciarle la carne, cercò di concentrarsi sulle parole del prete e di non distrarsi né di pensare a Carl.
‘’Non c’è’’ disse ad un tratto Cam, facendola sobbalzare.
‘’Cosa?’’
Solo in quell’istante si voltò e lo guardò negli occhi scuri: seppur stesse visibilmente meglio di quella sera, lo trovò addirittura dimagrito. Possibile? Possibile che le sembrava che tutti stessero cambiando alla velocità della luce?
Era stato così anche per lei?
‘’Non è voluto venire’’ sussurrò il moro, sconfitto. ‘’Holland non era cattolico, quella del funerale è stata un’idea di Laurine. E di molti altri suoi amici. Pensavamo di… insomma di…’’
Non disse altro, ma Maggie capì.
Volevano solamente ufficializzare il loro saluto ad un migliore amico, avere l’anima in pace e il cuore un pizzico più leggero. Dopotutto neanche Morgan era mai stata cattolica, eppure le avevano organizzato addirittura una commemorazione.
Strinse automaticamente la mano del ragazzo, in un gesto inconsulto. Se c’era qualcuno, in quel momento, che avrebbe potuto capirlo a pieno quel qualcuno era solamente lei. Inoltre, si sentiva un po’ parte di quel dolore e di quella commozione. Anche se per breve tempo, per cause di forza maggiore, Land era stato anche suo amico. Era stata la persona che aveva amato sua sorella più del dicibile, e che – era sicura – sua sorella avesse amato allo stesso modo. Come avrebbe potuto cicatrizzare il dispiacere?
Cameron strinse la sua mano, nonostante avesse già l’altra fra quella della sua ragazza, quasi subito.
Per tutto il resto della predica Margareth non potè fare a meno di pensare a Carl. Allora davvero non era venuto, non l’aveva visto perché – effettivamente – non c’era. Ma perché? Aveva realmente voluto difendere fino a questo punto la religione di Holland? Aveva così tante domande che le frullavano nella testa che ebbe l’impressione che le salisse nuovamente la febbre. Si chiese dove avrebbe potuto essere in quel momento Carl, cosa avrebbe mai potuto fare. E si chiese anche perché si ostinasse ad alienarsi dal resto del mondo e a chiudersi in se stesso proprio quando aveva più bisogno di qualcuno.
‘’Holland gli aveva detto che voleva che lo facesse lui, il discorso’’ soffiò di nuovo Cameron, nel suo orecchio. ‘’E lui non c’è’’
Se ne avesse avuto la forza, Maggie sarebbe scoppiata a piangere. Forse, se solo non fosse andata via e fosse rimasta con Carl, l’avrebbe convinto a venire e il problema non ci sarebbe stato. Avrebbe indirettamente realizzato l’ultimo desiderio di Land, avrebbe finalmente potuto fare qualcosa di concreto per lui.
‘’Ora’’ disse dolcemente il prete, ricomponendosi. ‘’Se qualcuno vuole condividere il proprio ricordo di Holland Todd con tutti noi può venire sull’altare’’
Ci fu un attimo di imbarazzante silenzio, in cui tutti i volti dei presenti si voltarono verso le prime panche. Solitamente erano lì che si trovavano i cari del defunto, che – sempre solitamente – si erano già organizzati precedentemente. Margareth sentì milioni di occhi che le bucavano la schiena, e – a sua volta – volse il suo sguardo verso Cameron. Lui fissava un punto fisso sull’altare, stringendo convulsamente le mani di due ragazze fin troppo differenti, mentre pensava. Sospirò dopo un tempo infinito e le mollò entrambe, facendo leva sulle ginocchia ed alzandosi.
Non avrebbe mai permesso che il suo migliore amico non avesse un discorso di commiato, avesse dovuto improvvisare per ore.
‘’Vado’’ sussurrò, a nessuna di loro in particolare. In quel momento, senza più niente in mezzo, Laurine si avvicinò a Margareth e – piangente – le poggiò pesantemente una testa sulla spalla ossuta. ‘’Sei uguale a lei’’ singhiozzò fra le lacrime. ‘’Identiche’’
Margareth capì immediatamente a chi la rossa si riferisse, ma non commentò. Si limitò ad avvolgerle le spalle con un braccio e ad accarezzarla leggermente, per cercare di darle un minimo di conforto.
Vide Cam che, lentamente, fece per avviarsi verso le poche scale che l’avrebbero condotto sul pulpito. E poi si bloccò.
Immediatamente tutte le teste si voltarono verso la porta d’entrata, spalancata e dalla quale filtrava qualche raggio di sole. Marge e Laurine furono le ultime due a girarsi, perché troppo distratte dalla faccia interrogativa del parroco e quella sorpresa di Cameron.
Carl Pearson era sull’uscio della porta, un alone di luce ad avvolgergli i contorni e le braccia lunghe lungo i fianchi. Non aveva nessun tipo di cappotto, non era vestito di nero: aveva un jeans strappato sulle ginocchia e sicuramente non nuovo e una canotta bianca. Le braccia tatuate contrastavano con la sua pelle pallida e con il chiarore della sua t-shirt e i capelli che parevano quasi più scuri. Nonostante sfiorasse l’assurdo, Margareth fu sicura di riuscire a vedere i suoi occhi prima di qualsiasi altra cosa anche da lontano: trasparenti come sempre, distanti come sempre, alienati quanto basta per sentirsi fuori dal mondo per un po’. Con tutto quel dolore addosso e quella malinconia ad impregnargli perfino i vestiti, le parve ancora più bello.
Un angelo dannato.
Lucifero.
Percorse a passo svelto la navata della chiesa, proprio come se fosse uno sposo e la sua futura moglie lo stesse attendendo all’altare. Solo che non c’era una sposa, c’era una bara. Carl passò accanto ad Holland senza nemmeno voltarsi, diretto unicamente verso il leggio e il pulpito. Si fermò per un secondo vicino Cam, ancora fermo lì, giusto per il tempo di poggiargli una mano sulla spalla. Poi salì sull’altare e, sospirando, si rivolse al pubblico.
‘’Io’’ rispose in ritardo. ‘’Io ho qualcosa da dire’’
Il prete fece un minuscolo segno con il capo, come a dargli il permesso di parlare. Come se Carl ne avesse mai avuto bisogno.
Fu allora, proprio quando Margareth sentì Cameron sedersi di nuovo accanto a lei e separarla da Laurine, che Carl la guardò. Forse l’aveva già guardata all’inizio, ma in quel momento la vide.
A Margareth piacque pensare che iniziò il discorso con un minuto di ritardo perché si perse nei suoi occhi, proprio come successe a lei. Poi lui, dopo una guardata indecifrabile, voltò lo sguardo ed iniziò a parlare.
Non guardò mai nessuno per tutta la durata della filippica, forse un punto fisso sulla parete che aveva di fronte. Intervallò il suo discorso con sospiri, a volte fin troppo pesanti, a volte impercettibili. Margareth li contò tutti. Avrebbe voluto alzarsi e raggiungerlo, unicamente per abbracciarlo e proteggerlo da qualcosa che non conosceva nemmeno lei. Avrebbe voluto solo aiutarlo, ma non sapeva neanche da dove cominciare.
Non si sentì mai impotente come quel giorno.
‘’Ho pensato tanto a cosa dire, stanotte’’ disse Carl. ‘’Probabilmente sono anche arrivato ad una conclusione, solo che adesso non ricordo più niente. Non sono fatto per le parole, non avrei mai fatto questa cosa di mia spontanea volontà, però l’avevo promesso e io mantengo le mie promesse. A dir la verità non sarei neanche venuto se non avessi dovuto farlo, e penso si sia capito. Non dirò le solite frasi di circostanza, non loderò Holland Todd dicendo che è stato un ragazzo onesto ed educato, né che è stato un ragazzo modello e pulito. La verità, quella che solitamente ai funerali non si dice per ipocrisia, è che Holland Todd era il coglione più grande sulla faccia della terra’’
Nonostante la faccia allarmata del prete, nessuno – né tantomeno lui – interruppe il monologo. Doveva averne sentite veramente tante.
‘’E’ stato l’artefice della sua stessa rovina, si è gettato consapevolmente in un tunnel dalla quale, sempre consapevolmente, sapeva che non sarebbe mai più uscito. Negli ultimi mesi l’ho odiato così tanto che avrei preferito spararlo piuttosto che vederlo morire. Ho cercato di tirarlo fuori, ci abbiamo provato tutti, ma Holland aveva deciso di restare impantanato in quello schifo fino alla fine. Non starò qui a parlare del suo passato, o dei motivi per la quale ha deciso di scomparire. Non voglio parlare dell’Holland distrutto degli ultimi tempi, perché sono il primo a detestare quella persona. Voglio parlare, piuttosto, dell’Holland della quale si sono innamorate la metà delle ragazze chiuse in questa chiesa, quello affabile ed ironico. Land è sempre stato stronzo, è sempre stato egoista e dispettoso. Non è un modello da seguire, evitiamo le puttanate e saltiamo la parte in cui lo innalzo a qualcuno che non è. Però era una brava persona. Una volta una persona mi disse che non sappiamo niente dell’amore se non che è amore e basta e che non ci sono spiegazioni e giustificazioni, quando si ama una persona. ( cap. 25 mos ) ‘’ e Margareth ebbe l’impressione che, in quel momento, avesse guardato qualcuno verso gli ultimi spalti. ‘’E’ la verità. Per cui non pretendo di parlare dell’amore che io, così come ognuno di noi a modo proprio, provava verso Land. Mi limiterò a dire ad Holland che mi dispiace solamente di non aver fatto abbastanza, tutto qui’’
E poi uscì fuori.
Via, di nuovo.
 
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Margareth corse fuori, fregandosene dell’occhiata cattiva del prete o di qualunque altra occhiata presente in quell’ambiente fin troppo claustrofobico. Come aveva sperato, e immaginato, Carl era seduto sulle scale di pietra fredda che davano alla chiesa, le braccia incrociate attorno alle ginocchia. Soffiava vento, forse aveva freddo.
Maggie, senza pensare, si sfilò la giacca e gliela poggiò delicatamente sulle spalle. Ancora una volta Carl non si mosse, ma alzò lo sguardo e la guardò finalmente negli occhi.
Poco importava che, all’interno, il parroco stesse finendo la messa.
‘’Hai fatto un bel discorso’’ iniziò, parlando sinceramente. ‘’Magari io avrei detto qualche parolaccia in meno, però mi è davvero piaciuto’’ sorrise.
Doveva sforzarsi di essere positiva ed ottimista, almeno lei. Carl non aveva certo bisogno di altro carico di tristezza o malinconia.
Lui scrollò le spalle. ‘’Grazie’’ disse, continuando a guardarla. Era la prima volta da quando Holland era morto che non distoglieva subito lo sguardo dai suoi occhi, non che si fossero visti poi tanto da allora.
Fu lei a farlo, perché non riusciva più a reggere – né tantomeno a leggere – i suoi occhi cristallini. Così guardò il cielo, chiaro e poco nuvoloso rispetto a tutti quanti gli altri giorni. Non si sentiva in imbarazzo, eppure sapeva che avrebbe dovuto dire lei qualcosa per spezzare il silenzio. Ma cosa avrebbe mai potuto dire?
Inaspettatamente, fu lui a prendere parola.
‘’Mi dispiace’’ sussurrò, poggiando per pochi secondi la fronte sulla sua spalla. ‘’Mi dispiace che tu debba star dietro al mio umore’’
‘’Ma è quello che voglio’’ esclamò sicura lei. ‘’Non voglio lasciarti solo in questo momento’’
Lo sentì sospirare un po’ più sonoramente, sempre troppo distante fisicamente da lei. Perché non le si avvicinava? Perché non poggiava la fronte sulla sua spalla e la lasciava lì per sempre?
‘’Io non dovrei permettertelo’’ disse, scoraggiato. ‘’Sapendo quello che è successo con Morgan, io non…’’
‘’E’ diverso’’ lo interruppe Maggie, capendo bene dove volesse andare a parare.
Carl non disse nient’altro. Semplicemente, all’improvviso, si alzò e scese uno scalino. ‘’Forse dovrei tornare a casa’’ spiegò.
Margareth non seppe identificare il vuoto che sentì nella pancia in quel momento. Avrebbe voluto fermarlo, ma non ne aveva neanche la forza. Si sentiva ancora più fiacca e debole del solito, come se il discorso con Carl non avesse fatto altro che indebolirla.
E poi, improvvisamente, sentì una voce maschile che li interruppe.
‘’Tu non vai da nessuna parte, Lucifero’’
Chi?

 
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Buonasera a tutte c:
Inizio col chiedere scusa per il ritardo, ma ho avuto il pc scollegato per un pò di tempo!
Dunque, parto subito a chiarire alcuni punti del pezzo...
1- Chi di voi ha già letto Mors Omnia Solvit, sa benissimo CHI SIA il ragazzo che ha chiamato Carl ''Lucifero''.
Scleriamo insieme? AHAHAHHAHAHA
2- Il funerale...è stato straziante scriverlo e penso che per voi sia stato straziante leggerlo. Avrei potuto slittarlo,
dire che Holland non ne voleva uno o semplicemente raccontarlo per sommi capi. Ma non me la sentivo.
Era troppo importante per me! Spero vi sia piaciuto (sì, anche l'entrata di Carl alla Hollywood) :)
3 (e ultimo, giuro)- vorrei che vi soffermaste un pochino sulla figura di Margareth.
Spero sia CHIARO e VISIBILE il modo in cui sta crescendo interiormente. E' una cosa importante!
Detto ciò, vi ringrazio ancora tantissimo e vi saluto. Alla prossima xx
Harryette

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Capitolo 28
*** 27- Turn the light on ***


j
 

| Capitolo Ventisettesimo |
Turn the light on
 

Carl si fermò improvvisamente, piegato alla voce autoritaria di un ragazzo che Margareth pensò di aver già visto: la sua pelle ambrata non le era nuova, tantomeno i suoi occhi scuri e il taglio spigoloso del viso. Il corpo magro, avvolto e stretto in una felpa nera e un pantalone del medesimo colore, non si mosse di un centimetro. Né tantomeno Carl gli rivolse una delle sue occhiate indagatrici e contrariate, che riservava a chiunque osasse dargli ordini.
Il ragazzo dai capelli corvini e rasati ai lati, tenuti sciolti e disordinati, si avvicinò di qualche passo. La guardò, ma fu per un secondo, dopodiché tornò a concentrarsi sulla figura di Carl Pearson.
Com’è che l’aveva chiamato? Lucifero?
‘’Non penso sia la mossa più giusta di tutte andarsene adesso’’ rincarò la dose, con le mani infilate nelle tasche larghe del pantalone e il volto che era l’emblema della tranquillità.
Maggie pregò che fosse nella posizione giusta per dettare quell’ordine, perché tutto avrebbe voluto meno che Carl cominciasse a fare a botte al funerale di uno dei suoi migliori amici.
Eppure, dal volto statico ed apatico di Carl non potè far altro che riconfermare la sua ipotesi: dovevano conoscersi davvero, perché il moro non si tese né obiettò.
Carl si limitò ad osservare lo sconosciuto con la sua tipica indifferenza, come se non fosse stato minimamente scosso dalle sue parole né dal suo ordine perentorio, le mani posizionate allo stesso modo nelle tasche del jeans e il petto all’infuori.
Il ragazzo, vedendo che il moro non aveva intenzione di reagire, si voltò verso Margareth e le sorrise. La ragazza non potè fare a meno di notare la differenza d’espressione che lo sconosciuto aveva assunto nel giro di tre secondi: le sembrò quasi cordiale.
Le tese una mano scura, sulla quale spiccavano due anelli placcati di quello che doveva essere argento, e si rivolse a lei. ‘’Tu devi essere Margareth, piacere. Zayn Malik’’
Pur afferrando la sua mano e ricambiando la stretta, per pura educazione, si attuò nella mente della bionda un processo di collegamenti e alberi genealogici. Improvvisamente il ricordo di lei e Carl stesi sul letto di quest’ultimo, con un album fra le mani e molto meno dolore da trasportare, le bucò la mente.
‘’Quel Zayn Malik?’’ si lasciò sfuggire, pensando ad alta voce.
Separate le loro mani, Zayn sogghignò. E, Dio!, quel sogghigno era così simile a quello di Carl. Fu sostanzialmente per quello che quando il ragazzo parlò, Maggie non si sorprese più di tanto. Era proprio quel Zayn Malik, il migliore amico di infanzia di Carl e colui con la quale aveva condiviso la casa nel Bronx.
‘’Dipende da quanti Zayn Malik conosci’’ le disse, scuotendo la testa. ‘’E tu sei proprio come mi ero immaginato’’
Il fatto che Carl fosse spettatore silenzioso di quella scena la metteva in agitazione: era evidente che fosse stato lui a parlargli di lei, altrimenti non avrebbe proprio saputo spiegarselo. Per cui, qual era la cosa migliore da dire?
‘’E tu, invece, sei proprio identico a come ti avevo visto’’ gli sorrise, vittoriosa. Nonostante non fosse il momento né il luogo adatto, le piaceva la schiettezza di Zayn. Aprezzava anche la sua leggerezza e la sua semplicità.
Fu solo allora che quest’ultimo si rivolse a Carl, con un’espressione sorpresa tatuata sul volto. ‘’Ti prego, non dirmi che le hai mostrato quell’album’’
E Carl sorrise.
Per la prima volta da giorni, Margareth lo vide distendere le labbra e lasciarsi un poco andare. Il dolore e il dispiacere erano sempre lì, insieme anche ai loro, ma le sembrò più luminoso. Ringraziò Zayn mentalmente, per essere riuscito in quello in cui lei aveva tristemente fallito.
Zayn prese quel sorriso come un sì, evidentemente, perché: ‘’Oh ma, andiamo, solo perché tu sei fotogienico questo non vuol dire che mi debba sputtanare ai quattro venti’’
Era perfino più bello, ai suoi occhi, Zayn. Era palese che si conoscessero praticamente da sempre, perché sapeva come prendere il moro e cosa dirgli. Conosceva tutto quello che lei ignorava e che la spaventava a morte, ogni giorno di più.
‘’Marge non è i quattro venti’’ mimò le virgolette Carl. ‘’Stai tranquillo’’
‘’Ah, questo lo so bene’’
Margareth non riuscì a comprendere il significato di nessuna delle due frasi, quasi come se stessero parlando in un’altra lingua. Eppure sorrise: erano fuori una chiesa, mentre avrebbero dovuto essere dentro e seguire la parte finale della messa, con un loro amico chiuso in una bara claustrofobica, eppure sorrise.
Improvvisamente, però, su di loro cadde di nuovo la consapevolezza di quanto era successo e il peso di quanto stava ancora succedendo.
‘’Entri?’’ domandò Zayn a a Carl, indicando la chiesa con il capo bruno.
‘’Non credo sia una buona idea’’
‘’Io invece credo che Diana ti staccherà le palle a morsi se non muovi il culo’’
Margareth sapeva anche chi fosse, quella Diana, eppure non parlò. Non l’aveva mai vista, eppure era consapevole del fatto che la sorella maggiore di Carl avesse parecchia voce in capitolo. Perfino il suo nome sembrava gridarlo: lasciate ogni speranza, o voi che entrate.
‘’Dovresti ascoltarlo’’ si intromise nella conversazione, guardando Carl ma indicando Zayn. Non aveva detto neanche una parola da quando si erano presentati, ma sembrava non essercene nemmeno bisogno. Anche se fossero stati zitti, il loro rumore avrebbe riempito ogni buco di silenzio. Margareth non seppe definire quel rapporto, se non con imprinting.
Complementari.
 Carl la consumò con lo sguardo nel frangente di tempo fra il pensare e l’aver pensato, e poi fece la cosa più semplice di tutte.
Con un cenno rivolto a qualcuno dei due, o forse ad entrambi, afferrò la mano di Margareth e li trascinò in chiesa.
Non la lasciò fino alla fine della celebrazione.
 
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La casa di Carl era vuota.
Cameron, almeno a detta sua, era dalla morte di Land che non ci metteva piede. Si era riappacificato con i suoi genitori, probabilmente perché loro gli avevano chiesto scusa per ogni pressione e ogni aspettativa delusa. Sembrava aver capito cosa fare e come farlo per andare avanti, per superare Holland Todd, per voltare pagina o cambiare libro – qual dir si voglia.
O, almeno, era quello che le aveva detto Carl in auto mentre si dirigeva verso il suo appartamento.
Non aveva parlato di lui neanche per sbaglio, né tantomeno accennato alla sua salute o ai suoi sentimenti. Aveva guardato dritto la strada di fronte a se, qualche volta aveva poggiato il palmo della mano fredda sulla coscia di Margareth, e poi basta.
Eppure Maggie non lo sentiva distante, non quella volta. Lo sentiva incredibilmente vicino ma anche incredibilmente umano. Per tutto quel tempo l’aveva sempre visto come un pilastro incrollabile, un punto di riferimento, qualcuno che ci sarebbe stato sempre nel momento del bisogno. Non aveva mai considerato il fatto che avrebbe potuto essere stato lui ad aver avuto bisogno di qualcuno. Che, magari, anche lui avrebbe potuto crollare. Sanguinare. Soffrire.
Carl era scappato fuori tre secondi prima della fine della messa, afferrandola per un polso e trascinandola con sé. Nonostante avesse ricevuto una chiamata furiosa da quella che aveva supposto essere la sorella, la sua espressione non era cambiata di una virgola.
‘’Voglio solo andare a casa’’ le aveva detto.
E lei aveva probabilmente annuito.
L’appartamento di Carl, Cam e Land, e che era ormai solo del primo, era esattamente uguale a sempre. Perfino la camera di Holland, quella in fondo al corridoio, sembrava aver conservato il suo aspetto usuale. Margareth la prese come la dimostrazione che, alla fine dei conti, la morte cambia qualcosa all’interno della vita ma l’involucro resta sempre lo stesso.
‘’Come ti senti?’’ chiese a Carl, che le dava le spalle ed armeggiava alla cucina.
‘’Lo vuoi anche tu un po’ di thè?’’ le chiese di rimando.
‘’Voglio sapere come stai’’
Margareth non era mai stata tanto imperativa.
Carl si girò verso di lei, abbandonando acqua zucchero ed infusi, e con un paio di falcate le si avvicinò. I suoi occhi erano spenti.
‘’Come credi che stia?’’ le domandò, visibilmente irritato e assurdamente scontroso. Maggie preferì quasi l’indifferenza a quel tono di voce, che la fece tanto sentire sbagliata e in torto. Era così assurdo per lui capire che c’erano delle persone a cui interessava sapere cosa sentisse? Come stesse? Cosa gli passasse per la testa? Carl non aveva perso le cattive vecchie abitudini: chiudersi in se stesso alla minima difficoltà, alla minima folata di vento. Ma quella volta Margareth non aveva intenzione di lasciarlo scorrere, a costo di doverlo trattenere con le unghie e con i denti. Aveva aspettato, gli aveva concesso del tempo perché nessuno meglio di lei avrebbe potuto comprenderlo. Ma il tempo era scaduto, la sabbia della clessidra era finita ed era arrivata l’ora di capovolgerla ed iniziare un nuovo conto alla rovescia. Per se stessi e per chi era attorno.
‘’Te lo sto chiedendo’’ rispose, perciò, con la massima flemma. Incrociò le braccia al petto in attesa della prossima frase del moro, fingendosi tranquilla. Frase che non arrivò.
Carl si voltò sospirando e fece semplicemente per andare di nuovo vicino la cucina, a prepararsi quel maledettissimo thè. Fu, però, bloccato dalla voce della bionda.
‘’Ma porca miseria’’ esclamò. ‘’Carl ti prego, ti prego, dimmi qualcosa! Urla e trattami male se ti fa piacere, ma non restare in silenzio adesso. Non ti fa bene, non è naturale! Tenersi tutto dentro fa solo aumentare il dolore, non ti porterà mai da nessuna parte! Io vorrei che tu…’’
‘’Cosa?’’ urlò lui, di rimando, voltandosi di nuovo verso di lei. ‘’Tu vorresti cosa, Margareth? Che mi sedessi su una sedia di fronte a te e ti raccontassi tutto quello che mi passa per la testa? Che mi sfogassi da bravo fidanzatino e ti rendessi partecipe dei miei dolori? Bhè, mi dispiace, ma io non sono così e se non ti va bene puoi anche andartene’’
‘’Riduci sempre tutto a questo, tu’’ ringhiò lei, cercando di non far capire quanto male le avessero fatto le sue parole e quanto si domandasse cosa intendeva Carl con il verbo andarsene. ‘’Ti poni sempre i soliti limiti: io non sono così, io non dico così, io non faccio così. E poi? Guardami, Carl, e poi?’’
Carl sbattè con forza un pugno sul tavolo di legno e Margareth sobbalzò.
‘’Non siamo tutti perfetti come te, Margareth’’ urlò, esasperato. ‘’Non tutti abbiamo due genitori ricchi che ci aspettano a casa, non tutti parliamo tre lingue e suoniamo sei strumenti e non tutti abbiamo futuro! Le persone sono persone, porca troia, e tu non puoi pretendere di essere sempre sopra tutti e di sparare sentenze come se non…’’
‘’Io volevo uccidermi!’’ le grida di Marge, quella volta, superarono quelle del ragazzo, che si bloccò. ‘’Se quella notte ero su quella ringhiera è perché non sono perfetta! Stiamo davvero parlando di questo? Io non sto sparando sentenze, voglio soltanto aiutarti! Si fa così quando si è innamorati ma evidentemente tu non puoi saperlo!’’
Carl tacque.
Si limitò ad avvicinarsi un po’ di più, ma rimase in religioso silenzio. A Margareth bruciava la gola e esplodeva il cuore: sarebbe stato ipocrita dire che quelle parole, seppur sapeva esser state dettate dal dolore e dalla rabbia, non l’avevano ferita.
Sospirò ed afferrò la borsa che le era caduta a terra. ‘’E, per la cronaca, io non ho mai avanzato la pretesa di essere l’unica con cui devi sfogarti. A me basta che tu lo faccia, non importa con chi. Ma lasciamo perdere’’
Si diresse verso la porta, con la speranza di essere fermata ma anche con la consapevolezza che probabilmente non sarebbe successo. E difatti quando afferrò la maniglia se ne convinse.
Era stanca di litigare, stanca di vedere Carl soffrire in silenzio senza dire una parola, stanca di dover sempre alzare la voce e combattere per strappargli qualcosa dalla bocca. Era esasperata, e non avrebbe dovuto sentirsi così: non era sano, non era giusto e non era neanche piacevole.
Aveva lasciato la cerimonia senza farselo ripetere due volte, aveva perso l’occasione di conoscere la sorella di Carl e aveva fatto brutta figura con Cam e Laurine: era sparita. E tutto perché si era autoconvinta che, quella, sarebbe stata la volta buona. Che Carl avesse voluto portarla a casa sua per parlare, finalmente.
Avrebbe voluto aiutarlo ma, di nuovo, non sapeva cosa gli stesse passando per la testa e cosa avrebbe dovuto fare per dargli un minimo di sollievo: chiuso in barricate di ferro e piombo, Carl Pearson sembrava intenzionato a mantenere il silenzio.
Silenzio che ruppe pochi secondi dopo, l’esatto istante prima che Margareth varcasse l’uscio.
‘’Non è vero’’ disse, sicuro e lineare.
Lei si voltò verso di lui con la porta ancora mezza aperta, i capelli biondi che sicuramente erano aggrovigliati e gli occhi che, sempre sicuramente, erano lucidi.
Maledizione.
‘’Cosa?’’ domandò, quasi sussurrando.
Carl le si avvicinò, quella volta molto di più delle precedenti, e allungò la mano. Forse per sfiorarla, per afferrare la sua, ma la riabbassò poco tempo dopo e poi sospirò.
Si passò le mani sul volto con fare quasi disperato, prima di chiudere la porta alle spalle di Margareth e parlare.
‘’Sei la ragazza più testarda che io abbia mai conosciuto’’ disse. ‘’E quella troppo vulnerabile, troppo moderata e fin troppo corretta in assoluto. Lo so che sono difficile e so anche che sei arrabbiata e che ho detto una marea di cazzate’’ ripassò le mani sul volto. ‘’Però non devi…tu non puoi mettere in dubbio anche quello che provo per te’’
‘’E cosa provi per me?’’
Era arrabbiata anche mentre gli faceva quella domanda scomoda. Non si era mai preoccupata di classificare i sentimenti di Carl nei suoi confronti, non aveva mai preteso che glieli svelasse né tantomeno chiesto apertamente qualcosa. Solo poche ore prima si sarebbe imbarazzata da morire di fronte quella domanda, in quel momento – invece – era solo rabbiosa.
Carl non rispose.
Poco tempo prima l’avrebbe giustificato, pensando che non sarebbe mai stato capace di dar voce ai suoi sentimenti. Ma non era quello il momento: in quell’istante, a prescindere, avrebbe dovuto sforzarsi di farsi capire in qualche modo. Avrebbe dovuto almeno provare. Quella volta non bastava.
Margareth sospirò ancora una volta, vietandosi di far scendere una sola delle sue lacrime. Prese un respiro profondo e tornò a voltargli le spalle, decisa ad andare via perché le stava seriamente mancando l’aria.
‘’Io credo di amarti’’
Era stato Carl a parlare e a fermarla dall’andar via, ancora una volta. Margareth si immobilizzò, richiudendo da sola la porta in automatico. Non aveva il coraggio di voltarsi di nuovo e guardarlo negli occhi azzurri, perché era ancora sconvolta.
‘’Come?’’ sussurrò, pensando. L’aveva davvero detto?
Erano le mani di Carl quelle che sentì posarsi sui suoi fianchi qualche secondo più tardi, senza stringere né fare pressione. Eppure sentì quei lembi di pelle andare a fuoco insieme alle sue guance e alla sua testa. Implodeva.
Il fiato di Carl le accarezzò l’incavo del collo, leggero come se ci avesse passato sopra una piuma bianca. Il suo profumo le arrivò diritto alle narici, come ogni singola volta, mandandola in tilt.
Cosa?
‘’Credo…’’ poi si interruppe e riprese poco dopo. ‘’Anzi no, sono sicuro di amarti’’
Le mani di Margareth raggiunsero le sue in meno di un nanosecondo, poggiandosi sopra in una piccola carezza. Avrebbe voluto dire qualcosa ma la voce sembrava averla abbandonata per sempre.
‘’E sei l’unica persona con la quale mi sfogherei, se riuscissi a farlo. Lo so che mi capisci anche quando sto zitto, e so anche che sto zitto tantissime volte. Anche quando dovrei parlare. Mi dispiace ma io non posso cambiare, e non perché non sappia come si fa ma perché non ci riesco. E’ più forte di me, non riesco a combatterlo. E l’ultima cosa che voglio al mondo è ferirti o farti andare in crisi, anche se è esattamente quello che succede ogni volta. Però, ti prego, non dubitare mai di…’’
‘’Stai un po’ zitto e mi baci?’’
Quello fu il bacio più triste di tutti: Carl era vicinissimo a lei, in tutti i sensi, e lei lo era altrettanto, ma aleggiava su di loro una cappa di malinconia che non si sarebbe dispersa facilmente. Era consapevole che sarebbe stata dura lasciare andare Holland, consapevole che lei ci aveva messo tre anni, ma era anche sicura che Carl ci sarebbe riuscito. E l’avrebbe fatto perché lui, al contrario della Margareth sedicenne di tre anni prima, aveva qualcuno accanto.
‘’Me lo ripeti?’’ gli chiese, fra un bacio e l’altro. Il divano era sempre più vicino ad ogni passo che Carl la spingeva a fare, le sue mani ovunque, e loro già una cosa sola.
‘’Ti amo’’ sussurrò sulle sue labbra, e poi sul suo collo e sulle sue clavicole e sulle sue spalle. ‘’Ti amo Marge, ti amo’’
Faceva tutto un altro effetto.
‘’Anche io ti amo’’ gli sorrise, carezzandogli la nuca e tirandogli leggermente i capelli bruni, mentre lui la sdraiava delicatamente sul divano in pelle e lei rabbrividiva per le sue mani fredde sulla pancia nuda. ‘’Tanto’’
E Carl sorrise. Di nuovo.
Ma per merito suo.
 
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‘’Penso che debba restare un po’ da solo’’
La voce di Zayn echeggiò nell’abitacolo, sovrastando una canzone di Eminem che stavano dando alla radio. Il ragazzo stava guidando più lentamente del solito, in confronto ai suoi standard, ma Diana finse di non accorgersene. Era chiaro che fosse preoccupato dalla scomparsa di Carl ed era normale che si tormentasse, che volesse almeno provare a stargli vicino. Ma qualcosa le disse che non ci sarebbe stato bisogno di lui.
‘’Non è solo’’ ironizzò, incrociando le braccia al petto ed accavallando le gambe. ‘’Lo sai meglio di me con chi è a quest’ora’’
I capelli di Diana erano ancora più ricci del solito, perché li aveva torturati senza sosta durante tutta la messa. Nonostante lei e Zayn, che abitavano in Inghilterra, avessero visto Holland solo un paio di volte, Carl gli aveva parlato così tanto di lui che sembrava ad entrambi di averlo conosciuto.
Siccome erano dovuti venire a New York per motivi urgenti ed improrogabili, non se l’erano sentita di non andare al funerale e far finta di niente. Lo stesso Zayn, che odiava quelle celebrazioni e che era tutto meno che cattolico, aveva premuto perché ci andassero.
E Diana confermò la sua ipotesi iniziale: era proprio come lo ricordava lei. Uno strazio.
‘’Magari Margareth riesce a farlo parlare’’ disse il moro, più a se stesso che a lei. E Diana si trattenne davvero dal ridere, perché Zayn sapeva essere così ingenuo a volte.
‘’Vuoi dirmi che pensi seriamente che stiano parlando?’’ domandò, scuotendo la testa. ‘’Adesso? Come minimo saranno sul primo piano orizzontale che…’’
‘’Ma non ti fa schifo immaginare tuo fratello che scopa?’’ sgranò gli occhi Zayn, continuando ad osservare la strada.
‘’Perchè dovrebbe, scusa?’’ scrollò le spalle la ragazza. ‘’Anche io e te scopiamo’’
‘’Lo so, ci sono anche io quando succede’’ la derise Zayn, accennando al solito sogghigno. ‘’Comunque, tu pensi che sia il caso di dargli adesso la partecipazione?’’ le chiese, diventando improvvisamente serio. Era la stessa domanda che Diana si poneva da quando aveva saputo della morte di Holland Todd: di certo non era il periodo migliore per suo fratello, ma mancavano ancora tre mesi al matrimonio e loro sarebbero dovuti andar via.
‘’Ripartiamo domani pomeriggio’’ rispose. ‘’Se non glielo diamo oggi o domani non glielo daremo più, Zayn. Dobbiamo farlo, è anche il testimone!’’
‘’Si, però non credi che…’’
‘’Sia inopportuno?’’ lo anticipò, perché ormai dicevano frasi in due tanto avevano imparato a conoscersi bene. ‘’Sì, credo che sia tremendamente inopportuno. Ma anche tremendamente inevitabile’’
‘’Quanto sei estrema’’
Diana gli diede una pacca scherzosa sulla spalla, fingendosi offesa. ‘’Guarda che possiamo eliminare il problema dalla radice, se vuoi. Annulliamo tutto e…’’
‘’Quanto la fai lunga, Pearson!’’ scoppiò a ridere Zayn. ‘’Ti ho mai detto che ti amo anche se sei così?’’
‘’Così come, scusa?’’
‘’Gliela portiamo domani, questa benedetta partecipazione. Tanto ora sarà impegnato, no?’’

 
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Carl era sveglio e non sapeva neanche che cazzo di ore erano.
Marge dormiva con la testa poggiata sul suo petto ed i capelli biondi sparsi un po’ ovunque, bella come non l’aveva mai vista.
Si perse ad osservarla come se fosse stata una vera e propria opera d’arte, lì, ad un passo scarso da lui.
La luce spenta non lo aiutava a decifrarne e decodificarne tutti i tratti, ma conosceva a memoria il suo volto ed avrebbe anche indovinato le coordinate esatte dei suoi nei.
E poi…
‘’Sei sveglio?’’
La sua voce assonnata era, probabilmente, il suono migliore che avesse sentito da anni.
Ma esisti?
‘’Accendi la luce’’ le sussurrò, dato che aveva l’interruttore dalla sua parte e le sarebbe bastato allungare il braccio per illuminare tutto.
‘’Perché?’’ domandò, invece, sbadigliando.
‘’Perché non riesco a vederti bene, Margareth’’ sorrise lui, sorpreso dall’improvvisa curiosità della ragazza così presto. Lei obbedì poco tempo dopo, accedendo la luce e chiudendo gli occhi per la poca abitudine. Non poteva ancora credere di averglielo detto, né che fosse stata una tale liberazione. Nonostante avesse il sospetto di amarla da un po’ di tempo, solo quel pomeriggio aveva avuto chiaro dinanzi a sé cosa dire.
‘’Come ti senti?’’ le chiese, mentre Marge si riposizionava sul suo fianco.
‘’Mhm’’ mugolò, chiudendo di nuovo gli occhi.
In quei momenti le pareva addirittura più piccola del solito, così indifesa e stanca.
‘’Mhm non è una risposta’’ le pizzicò il fianco, senza ottenere nessun movimento in risposta.
‘’Bene’’ disse poi, alla fine. ‘’Molto bene. E tu?’’
‘’Quando ho conosciuto Holland avevo diciassette anni’’ rispose, sorprendendola a pieno e prendendo a giocare con una ciocca dei suoi capelli chiari. ‘’Era l’unico che mi si era avvicinato il primo giorno di scuola, quando mi ero appena trasferito dal Bronx. E anche adesso sono convinto che l’abbia fatto perché aveva capito che eravamo più simili di quanto mi piace ammettere’’
‘’Non devi…’’
Ma lui la interruppe, pur sapendo cosa stava per dire.
‘’Quando mi ha detto che lui e il suo amico cercavano un coinquilino mi ha tolto un peso dal cuore, letteralmente. Ero in albergo in quel periodo, alla ricerca di una casa, e Holland mi aveva praticamente salvato. Accettai senza neanche vedere prima l’appartamento né l’altro coinquilino. Sentivo che era giusto così. Sono stato il primo a rendersi conto della droga e di tutta la merda che era intorno a Land, forse perché Cameron non ha mai avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà. Da dove vengo io, li riconoscono dalla faccia – e neanche dagli occhi – i drogati. Mi era bastato parlargli una volta e guardargli il braccio subito dopo, per accertarmene. E’ stata una doccia gelata’’
Carl si interruppe per qualche secondo, come se i ricordi l’avessero improvvisamente avvolto – esattamente come una doccia gelata – e gli avessero sottratto ogni molecola di ossigeno.
‘’Cameron ha fatto il possibile per tirarlo fuori, ma io ho fatto l’impossibile. Nella mia vita ho visto morire così tante persone di overdose e di astinenza che non mi faceva neanche più effetto. Cam ha sempre sperato, sempre cercato di vedere il lato buono, perché ‘magari si riprende’. Io lo sapevo dall’inizio, che non sarebbe andata bene, eppure non glielo ho detto. Non l’ho detto a nessuno dei due, non quando eravamo ancora in tempo. Ho lasciato scorrere perché ero troppo spaventato dall’ammetterlo a voce alta. Se avessi capito prima che avevo ragione e che sarebbe andata esattamente come tutte le altre volte, forse avrei potuto salvarlo. Forse adesso sarebbe ancora vivo’’
Margareth non pianse nonostante fosse tentata di farlo, perché Carl non aveva bisogno di quello. Ancora una volta, stringendolo di più a sé e facendogli poggiare la testa sul petto, si rese conto di quanto fosse umano. Di quanto senso di colpa covasse dentro e di quanti rimorsi lo stessero avvelenando.
‘’Quando il dottore ci ha detto che era troppo tardi e che non c’era più niente da fare, Land era già imbottito di metadone ed io mi sentivo peggio di lui. Avrei potuto evitare a lui e a noi tutto quel calvario, solo costringendolo subito ad ascoltarmi e chiudendolo in quella stanza senza polvere dall’inizio. Ed invece ho aspettato. Nelle sue ultime settimane l’ho trattato malissimo. Lo odiavo perché si era gettato consapevolmente in un pozzo senza fondo, e perché sentivo che mi stava trascinando con lui. Lo odio ancora perché è morto e mi ha lasciato solo un senso di colpa atroce’’
Stava piangendo.
Non aveva emesso nessun rumore e nessun tipo di singhiozzo, ma Margareth sentì una lacrima bagnarle la pelle e lo vide. Gli occhi vitrei e trasparenti di Carl erano umidi, gli angoli pieni di acqua e le guance bagnate. Lo vide spezzarsi davanti ai suoi occhi, e pregò ogni singolo Dio di darle il coraggio e la forza necessari per rimetterlo insieme.
‘’Non è stata colpa tua’’ iniziò. ‘’E non lo dico perché è una frase già fatta, lo dico perché lo penso veramente. Non è stata colpa tua, e questo lo sapeva perfino Holland. Non puoi addossarti la responsabilità di una morte solo perché non hai dato voce ai tuoi cattivi presentimenti dall’inizio, non è giusto. E’ stato Land a sceglierlo, Carl, solo e soltanto lui. E tu e Cam avete fatto tutto quello che era in vostro potere per aiutarlo. Ti sei fatto in quattro più di una volta, e non c’è bisogno che te lo dica io. Ti sei addossato la colpa di cose in cui non c’entravi niente solo per proteggerlo, te lo sei dimenticato? Ci hai provato ed hai fallito, ma fallire è inevitabile a volte. Siamo umani. Neanche tu puoi salvare chi non vuole essere salvato’’
Carl parlò dopo un tempo che le parve interminabile, con le lacrime che si erano seccate sulle guance e gli occhi asciutti di nuovo.
‘’Quella notte, in ospedale, non volevo che te andassi’’ disse.
‘’Tanto non me ne vado più’’


 
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FINALMENTE, starete dicendo!
Eh bhè, avete ragione. In mia discolpa posso dire che sono stata dai miei parenti e amici
giù in Campania, e non avevo con me nè pc nè chiavetta :(
Ad ogni modo, spero di essermi fatta perdonare. FINALMENTE, ancora, Carl ha confessato i suoi sentimenti.
Ce l'abbiamo fatta ahahah
Che ne dite? Inoltre, per chi non li conoscesse, spero vi siano piaciuti Diana e Zayn. Vi assicuro che sono 
anche meglio di cosi ahahah ora vi lascio un bacio, e buon fine settimana <3
Harryette

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Capitolo 29
*** 28- Shining ***


j
 

| Capitolo Ventottesimo |
Shining


Quando squillò quello che doveva essere il campanello, Margareth rischiò di far cadere la tazza di thè dalle mani per la sorpresa. Era così immersa nei suoi pensieri che quel suono fastidioso l’aveva addirittura spaventata.
Sentiva lo scroscio dell’acqua della doccia nella stanza accanto, segno che Carl stesse ancora facendo la doccia. Insicura sul da farsi, agì di impulso pensando che fosse Cam. Magari era venuto a prendere un po’ di cose da portare da Laurine, per il trasferimento effettivo. Una parte di Maggie, egoisticamente, sperava che cambiasse idea: non era tranquilla all’idea che Carl avrebbe dovuto vivere da solo, pagare l’affitto da solo, tornare a casa e non trovare il solito casino che le descriveva – e che, a volte, sentiva – per telefono. Tuttavia la parte razionale di lei era profondamente ancorata alla realtà: era matematicamente impossibile che Cameron decidesse di lasciare da sola Laurine, dopo quello che aveva passato e che stava passando assieme a lui. E riusciva anche a comprenderlo, perché avrebbe agito allo stesso modo. Si vedeva lontano un miglio quando Cam tenesse a quella ragazza rossa, di qualche anno più grande, ed era innegabile a prescindere. Anche quando ne parlava o la nominava per sbaglio era palese che fosse completamente partito per la tangenziale. Gli brillavano gli occhi, anche quando si arrabbiava con lei o di lei, in un modo che Margareth non aveva mai visto prima.
Lo stesso, identico, brilluccichio che aveva Holland nelle iridi quando ricordava sua sorella.
Quando aprì la porta, però, non fu il volto definito di Cameron Kyle che si ritrovò davanti.
Una ragazza alta e slanciata, dai lunghi capelli ricci e scuri, le era di fronte: gli occhi chiarissimi, simili come mai a quelli di Carl, e una felpa azzurra da uomo. Le gambe erano fasciate da un pantalone nero e strappato per metà, tanto che si domandò come facesse a non morire congelata. Non aveva un filo di trucco, ma non sarebbe servito comunque: con la pelle di porcellana, sembrava risplendere di luce propria. Perfino le DMs ai suoi piedi avevano assunto una sfumatura particolare, tutto fuori che banale.
E, dopo pochissimo, Margareth la riconobbe.
Era la stessa ragazza che l’aveva soccorsa quando era completamente fradicia e distrutta per l’imminente partenza per l’Italia. Le sue parole le rimbombarono nel cranio: qualunque cosa ti sia successa, non vale la pena prendersi una broncopolmonite.
Com’è, che si chiamava?
Tuttavia, Maggie fu sicura che anche lei l’avesse riconosciuta a sua volta quando sgranò gli occhi e diede un leggero pugno sul braccio del ragazzo che le era accanto: Zayn Malik.
Fu in quel momento che Margareth si rese conto di quanto fosse presente quel ragazzo nella vita di Carl, seppur abitando in un altro continente. L’Inghilterra era distante dall’America, Leeds e New York erano due mondi completamente differenti, eppure sentiva che non contasse assolutamente niente per loro. Improvvisamente comprese le parole di Carl di tanto tempo prima, quando l’aveva chiamato fratello, quando le aveva detto che erano cresciuti insieme, che erano sempre stati l’uno al fianco dell’altro. Non conosceva bene i motivi per cui avevano deciso di lasciare il Bronx e dividersi in quel modo, ma – in quel momento – si rese conto di quanto meritassero di essere stimati. Di quanto lei stessa li stimasse.
E poi fu la voce di quella ragazza che interruppe i suoi pensieri, dal momento che era ancora con la porta per metà aperta e li stava fissando in modo quasi fastidioso. E aveva anche dei capelli pessimi.
‘’Non ci credo’’ esclamò la mora. ‘’Sei…o mio Dio, sei quella Margareth? Margareth Grey?’’
Maggie si trovò in seria difficoltà, perché la riccia ricordava anche il suo nome e lei non riusciva a riportare alla mente il suo. Sentì la risata attutita di Zayn, mentre le guardava contemporaneamente con fare perplesso, e si ridestò.
‘’Tu…’’ balbettò, resasi conto di indossare solamente una felpa nera e slabbrata di Carl. Ma con tutti i momenti della terra, dovevano piombare lì proprio in quel momento? ‘’Tu sei la sorella di Carl?’’
Perlomeno i suoi neuroni avevano ripreso a funzionare.
E mentre le due ragazze continuavano a fissarsi con fare allibito, Zayn passò una mano davanti agli occhi azzurri della sua ragazza senza cambiare assolutamente niente. ‘’Ma vi conoscete già?’’ domandò infine.
‘’Che coincidenza assurda’’ sussurrò la ragazza riccia, scuotendo la testa, più a se stessa che a loro.
Allora era Diana.
Diana Pearson.
Margareth non ebbe modo di aggiungere nient’altro, perché sentì una mano – calda, finalmente – poggiarsi sul suo fianco e il fiato di Carl riscaldarle l’incavo del collo e sussurrarle: ‘’Chi è?’’
Già, forse avrebbe dovuto farli entrare in effetti.
Fu Zayn che pensò di rispondere a quella domanda. ‘’Non ho capito che cazzo sta succedendo, secondo me ci nascondono qualcosa’’
Aggiunto anche lo sguardo curioso e il cipiglio di Carl, Margareth agì. Aprì la porta dell’appartamento e fece cenno ai due ragazzi di entrare, manco fosse a casa sua. Carl, ovviamente, non se ne dispiacque ed arretrò in attesa di un chiarimento. Che, comunque, non tardò ad arrivare perché – dal poco che aveva capito – Diana era molto più spigliata e loquace di lei.
Solo che Margareth tremò.
La sua corsa sul ponte, le sue lacrime, la sua disperazione, erano sempre stati qualcosa che lei aveva deciso di nascondere a Carl per paura che la considerasse ancora più immatura. E Diana, nel raccontare il perché del loro precedente incontro, non avrebbe potuto slittare sulla cosa. Quindi Maggie si limitò a sospirare leggermente, credendo che nessuno l’avrebbe sentita, e a prepararsi allo sguardo curioso di Carl.
Evidentemente, però, qualcuno sentì quel sospiro. E capì.
‘’Ci siamo incontrate al supermercato la settimana scorsa’’ rispose prontamente Diana, senza far dubitare neanche per un secondo che fosse la pura e autentica verità. ‘’Non riuscivo a trovare il reparto dei dolci e Margareth è stata così gentile da indicarmelo’’
Certo, era credibile. O meglio, lo sarebbe stato se…
‘’E da quando vai a fare tu la spesa?’’ le domandò Carl con un mezzo sorriso.
‘’Ehm…’’ si incartò. ‘’Ogni tanto mi piace, mi rilassa’’
Era una stupida.
‘’E dove sono le cose dolci che hai comprato? Perché ieri avevo chiesto se c’erano dei…’’ iniziò Zayn, fintamente urtato, riferendosi a Diana. Fu lei a stroncare la sua frase sul nascere. ‘’Non ho intenzione di dormire con un obeso, Zayn’’
In verità, Zayn era la persona più magra e sottile che Margareth avesse mai visto nella vita. Difatti scoppiò a ridere poco dopo, seguito dai fratelli Pearson e – infine – da lei. Diana le era simpatica, come lo era stata dall’inizio, e non negò a se stessa che le sarebbe piaciuto tantissimo approfondire la conoscenza. La considerava una ragazza molto simile a Morgan, almeno all’apparenza, e sentiva che sarebbero sicuramente andate d’accordo. Il gesto che aveva fatto, poi, – pur essendo semplicissimo – le aveva solo confermato un’idea che aveva in mente da un po’: era grandiosa. Un vulcano.
Mimò un ‘grazie’ con le labbra quando incrociarono gli sguardi, e Diana le fece velocemente un occhiolino accompagnato da un mezzo sorriso. Sì, sarebbero sicuramente andate d’accordo.
 
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Diana aveva insistito per portarla a casa personalmente. Quelli erano i momenti imbarazzanti in cui Margareth rimpiangeva di non avere ancora la patente. Dopo un invito per un matrimonio – quello di Diana e Zayn – che l’aveva spiazzata (ma mai quanto aveva spiazzato Carl) e che era stato esteso perfino a lei le sembrava il momento meno opportuno per chiedere un passaggio. ‘’Davvero, saremmo felicissimi se venissi’’ le aveva detto Zayn e Carl le aveva poggiato seduta stante una mano sulla coscia. Aveva detto che ci avrebbe pensato, perché non voleva assolutamente essere di troppo. In realtà, era un sì. Non si sarebbe persa Diana vestita da sposa per niente al mondo, soprattutto perché lei e il suo futuro marito avevano preso a litigare per il colore dell’abito. Diana era fermamente convinta che il bianco la ingrassasse, nonostante fosse un chiodo verticale, e che un abito azzurro – intonato ai suoi occhi, tra l’altro – sarebbe stato più adatto. E Zayn lo voleva rosa pallido, perché ‘’una fata turchina non la sposo’’.
Quando lei si era alzata dicendo che avrebbe chiamato un taxi perché si era fatto tardi, o George in alternativa, Diana aveva colto la palla al balzo ed aveva praticamente impedito a Carl di prendere la sua macchina. ‘’L’accompagno io, cose fra donne’’ aveva esclamato.
Ed ora erano lì, nella Mini Cooper di Diana Pearson dopo essersi incontrate per caso tempo prima, a parlare come se si conoscessero da una vita. Diana era la persona più espansiva e divertente che Margareth avesse mai conosciuto, ed aveva il potere di metterla a suo agio. Non era una cosa che capitava spesso. Le stava parlando delle bomboniere, della decisione di sposarsi in un gazebo all’aperto, del fatto che lei e Zayn non fossero d’accordo su una cosa mentre inveiva contro di lui perché ‘’non può fare come tutti i ragazzi di questo mondo e lasciar fare a me?’’
Tuttavia Margareth era convinta che, la partecipazione di Zayn, non facesse altro che piacere alla diretta interessata.
Erano quasi arrivate alla villa dei Grey, sotto indicazioni di Maggie, quando il discorso dirottò improvvisamente. La bionda avrebbe imparato a sue spese quanti pochi scrupoli si facesse Diana Pearson nel cambiare discorsi o nel fare domande. Inopportune o meno, si intende.
‘’Quanto lo ami da 1 a 10?’’ domandò a bruciapelo. Non sembrava la solita sorella maggiore possessiva che fa raccomandazioni del tipo ‘non farlo soffrire o ti spezzo le gambe’, anzi. Sembrava fidarsi ciecamente di Carl e delle sue scelte, addirittura prendeva in simpatia tutte le persone che aveva preso in simpatia lui, lo prendeva in giro con quel giusto pizzico di affetto che trapelava sempre e comunque. Forse fu per questa prima impressione che aveva avuto di lei, che Margareth si scompose al sentir pronunciare quella domanda dal nulla assoluto. La cosa strana fu che non si imbarazzò neanche un po’, come sarebbe successo prima, ma – anzi – si prese un momento per riflettere e pensare alla risposta in tutta tranquillità. Nonostante sapesse bene che stesse parlando con la sorella del suo ragazzo, e solo poco tempo prima questo l’avrebbe fatta andare in panico, cercò di essere sincera e diplomatica.
‘’Penso di…’’ iniziò.
‘’Non devi pensarci, Maggie’’ le sorrise, nonostante l’avesse brutalmente interrotta. Neanche allora la bionda sentì di andare in panico. Le veniva così naturale parlare con Diana – sì, anche di quel genere di cose – che neanche le venne in mente.
‘’Sarebbe scontato se dicessi 10, vero?’’
Diana sorrise di sbieco, lo stesso sorriso che Margareth aveva visto sulle labbra di Carl una marea di volte, mentre continuava a guidare e guardare la strada di fronte a sé. ‘’Un po’’’ rispose. ‘’Ma l’avevo già capito’’
‘’E’ così evidente?’’
Diana scosse la testa, come se avesse appena sentito un’assurdità. ‘’Non mi riferivo a te, mi riferivo a lui’’ spiegò. ‘’Però anche tu non scherzi, eh. E lo dimostra il fatto che non vuoi che lui sappia che hai pianto, quella sera’’
Simpatica, vitale e anche perspicace. Agli occhi di Margareth, in quell’istante, Diana apparve come un essere umano privo di debolezze. La domanda era: era davvero così come voleva sembrare? Sentiva che solo Zayn conoscesse la risposta a quel quesito.
‘’Ti riferivi a lui?’’ domandò, sorpresa, con la sua villa che si intravedeva in lontananza. ‘’In che senso?’’
Diana scrollò le spalle. ‘’Niente di che, solo che conosco mio fratello’’ affermò. ‘’E lo capisco dal suo sguardo, se tiene a qualcosa o meno. E, che tu ci creda o no, l’ho osservato e ho visto come guarda te’’
‘’E come mi guarda?’’
Erano poche le persone che conoscevano realmente Carl Pearson, e questo Margareth l’aveva appurato sin dall’inizio. Non credeva di rientrare in quella stretta categoria di gente, ma sentiva che Carl le stava lentamente dando il permesso e le stesse permettendo di conoscere sempre qualcosa in più di lui. Però non aveva intenzione di lasciarsi scappare l’opportunità di parlare con qualcuno che era entrato, da tempo, nel suo mondo.
‘’C’è davvero bisogno che te lo dica?’’ chiese Diana. Era la versione femminile di Carl anche nelle cose che diceva, c’era poco da fare. ‘’Come se non ci fosse altro, comunque. So che sembra banale, anzi è banale, ma penso che quando le persone nei libri o nei film parlano di occhi che brillano non mentano’’
Margareth ne sapeva qualcosa, di occhi che brillavano. Ne aveva visti a sufficienza, e il pensiero che le iridi trasparenti di Carl potessero splendere ancora di più nel pensarla le scaldò il cuore.
‘’Grazie’’ disse a Diana, e non solo perché erano arrivate a destinazione per merito suo. ‘’E anche i tuoi occhi brillano quando lo guardi, comunque’’ le sussurrò, quasi come fosse un segreto. Dopotutto, in fin dei conti, non era poi tanto sorprendente il matrimonio di Diana e Zayn. Se non si fossero sposati loro, non si sarebbe potuto sposare più nessuno.
‘’Lo so’’ le rispose, lasciandole un bacio delicato sulla guancia. ‘’E ne sono fiera’’
 
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Holland le camminava accanto, le loro braccia si sfioravano di tanto in tanto mandandole continui brividi sulla schiena. Aveva uno skinny jeans nero – di quelli che lei adorava – e una felpa della Yale University (anche se dubitava che ci fosse mai stato di persona). Non le parve mai tanto bello quanto in quel pomeriggio, con il sole che gli illuminava i contorni e lo faceva sembrare ancora più biondo ed altero.
Land non l’aveva guardata per tutto il tempo, nonostante stesse parlando più del solito, e aveva lo sguardo fisso davanti a se. E allora Morgan si sistemò i capelli in balia del leggero vento primaverile e sorrise. ‘’Qual è il tuo sogno, Holland?’’ gli chiese. Lui la guardò interrogativo, prima di pensarci e rispondere poco dopo.
Scrollò le spalle e: ‘’Non lo so’’ rispose. ‘’Mi piacerebbe studiare filosofia e poi chissà’’
Morgan lo immaginava, perché aveva immagazzinato ogni singola notizia su di lui e aveva costruito il suo profilo perfetto nella sua testa. Così gli afferrò il braccio e vi si aggrappò, proprio come una bambina, incapace di stargli così lontano. ‘’Io vorrei diventare una musicista. Mi piacerebbe vivere in simbiosi con la mia chitarra’’
Era un sogno stupido, uno di quelli che tiri fuori quando non sai che cosa dire o quando hai sei anni e vedi il mondo arcobaleno. Eppure, nonostante non l’avesse mai confessato a nessuno per paura di risultare illusa o immatura, Morgan aveva parlato anche prima di pensarci. Le riusciva così facile parlare con Land che neanche aveva il tempo di ponderare la situazione.
‘’Puoi farlo, se vuoi’’ le rispose, non scostandosi.
‘’Non penso di averne il tempo materiale’’ gli sorrise, stringendosi di più al suo braccio e annusando il suo profumo sulla felpa grigia.
‘’Hai una vita davanti’’
‘’Già’’ sospirò lei, e poi gli sorrise ancora anche se aveva il sole diritto negli occhi chiari. ‘’Dovrei riprendere a scrivere canzoni, per incominciare’’
‘’Scrivile’’
‘’Le scrivo solamente quando mi succede qualcosa di importante e negativo. Penso sia un blocco mentale’’
E lo sguardo di Holland, quello incuriosito da lei, dalla sua persona, non se lo sarebbe dimenticato mai.

 
 
 23:40
Da: Carl
A: Marge
Grazie per quello che mi hai detto stanotte, comunque



 
23:41
Da: Marge
A: Carl
Non devi ringraziarmi, lo pensavo davvero xx


 
23:42
Da: Carl
A: Marge
A proposito, sai dirmi perché mia sorella al ritorno ha iniziato a blaterare
qualcosa sui miei occhi?
 
Margareth trattenne un sorriso fra le coperte, stretta nella felpa di Carl che aveva finto di dimenticare di togliere. Rettificò: Diana Pearson era una grande.
Eppure sembrava che le sorprese non volessero proprio esaurirsi, in quella giornata. Oltre l’arrivo improvviso di due persone così importarti per Carl nella sua vita, anche un’altra persona bussò alla porta della sua camera quella sera. Nonostante non fosse ancora entrato nessuno, Margareth aveva riconosciuto addirittura il rumore delle nocche sul legno della porta: Celine. La silenziosa e temutissima Celine Grey, ex Gilbert, era fuori la sua stanza e le stava chiedendo il permesso per entrare. Era una cosa che non succedeva spesso. Maggie aspettò qualche secondo, giusto per rendersi conto del fatto che fosse proprio lei. Non poteva sbagliarsi. Difatti, non sentendo alcuna risposta dalla bionda, sua madre parlò. ‘’Margareth, posso entrare?’’
Non parlava con i suoi genitori da qualche giorno, si era limitata a far presenza alle cene di sera e a dare il buongiorno la mattina. Non ricordava neanche di aver fatto qualcosa di sbagliato – ancora – per cui non riuscì proprio a spiegarsi il motivo di quella visita. Ebbe paura per un millesimale di secondo, sua madre era come Iris, la messaggera degli Dei: quando la cercava portava solo cattive notizie.
‘’Si mamma, entra’’ troncò i suoi pensieri, decidendo di affrontare immediatamente la situazione e prenderla di petto.
Mise in blocco l’iPhone e lo poggiò sul comodino accanto al letto, fissando la porta e guardandola mentre si apriva lentamente, come segno d’educazione. Sapeva bene – aveva imparato a sue spese e a spese di Morgan, anche – quanto i suoi genitori odiassero vedere e parlare con le loro figlie mentre quelle avevano fra le mani un cellulare, anche se spento. Non era mai riuscita a spiegarsi la rigidità dei suoi, Margareth, e col tempo ci aveva rinunciato. Aveva dato la colpa\merito ai soldi, alle tante ricchezze che possedevano e si erano comunque sudati, al loro immenso patrimonio e al fatto che evidentemente erano stati educati proprio in quel modo. Nei momenti peggiori, quando sentiva di starli odiando troppo, si ripeteva come un mantra che non era colpa loro. Non era colpa né di Dan né di Celine, se erano diventati di pietra e rigidi come un blocco di marmo. Era colpa della situazione, si diceva, hanno troppo da perdere. E alla fine avevano finito per perdere entrambe le loro figlie, senza neanche accorgersene. Avevano finito per non piangere al funerale della loro primogenita e per non notare quanto Margareth non mangiasse e diventasse sempre più magra.
Sua madre entrò lentamente nella stanza illuminata solo dall’abat-jour, chiudendosi piano la porta alle spalle. Non indossava il solito tailleur beige o nero, ma un pantalone scuro e una camicia di lino bianco o forse color crema: da quando la conosceva, Maggie aveva visto sua madre indossare un pantalone e vestirsi meno elegantemente solamente quando erano corsi in ospedale da Morgan. L’ultima volta. Non era neanche truccata, da quel che poteva vedere nella luce aranciata, e aveva sciolto i capelli biondi sempre tenuti alti in pettinature complicatissime.
Non sembrava lei.
Si avvicinò al letto sul quale Margareth era poggiata e si sedette sul bordo, come sue solito. Certe abitudini erano pur sempre dure a morire, dopotutto. Dal modo in cui Celine aveva preso a torturarsi le ginocchia, cosa che aveva fatto pochissime volte nella sua vita, Margareth intuì che fosse nervosa. E la cosa, oltre che allarmarla, cominciò seriamente a sorprenderla e a lasciarla basita.
‘’Cos’ho fatto stavolta?’’ ruppe il silenzio, notando che sua madre non aveva evidentemente intenzione di prendere presto la parola. E lei aveva sonno e, in più, non aveva voglia di litigare.
‘’Margareth, ascolta’’ iniziò Celine, guardando il pavimento ed evitando sapientemente lo sguardo della figlia. ‘’So che io e te non abbiamo mai avuto un buon rapporto e lo capisco. Insomma, non posso farci più niente ormai e tu non dimenticheresti comunque. Però sono pur sempre tua madre’’
‘’E…?’’ la incitò Maggie, curiosa.
‘’E, proprio perché sono e sarò sempre tua madre, ci tenevo comunque a dirti che…’’ prese un respiro profondo e la guardò finalmente negli occhi azzurri. Sembrava imbarazzata, dispiaciuta. ‘’Stavo andando a dormire, oggi è stata una giornata pesante, però mi sono resa conto che mi sarebbe aspettata un’altra notte insonne se non mi fossi tolta questo peso dallo stomaco’’
‘’Un’altra?’’
Margareth non aveva intenzione di lasciarsi sfuggire una sola parola di quello che le stava dicendo sua madre. Le sembrava un inizio e un discorso del tutto nuovi e voleva darle la possibilità di parlare. Sapeva bene quanto fosse di natura silenziosa sua mamma, di quanto tendesse ad esprimere tutto con gli occhi o con lo sguardo, e di quanto le risultasse difficile parlare a lungo. Non aveva neanche voluto pronunciare lei il discorso di commiato al funerale di Morgan, dopotutto. Per cui decise di darle tempo.
‘’E’ da un po’ che non dormo bene, Margareth’’ disse, atopica.
‘’Un po’ quanto?’’
‘’Circa da quando è morta Morgan’’
Tralasciando i tre anni che erano passati da quel momento, Margareth non potè fare a meno di notare che – da allora – era la prima volta che sua madre parlava di Morgan. La prima volta che la nominava e le affiancava l’aggettivo ‘morta’, dopo lunghissimi anni. Le venne mal di stomaco.
‘’E’ un sacco di tempo, mamma’’ soffiò. Non ricordava di averla mai vista così fragile, apparentemente almeno, e così scoperta. Non aveva mai dubitato della fede e della bontà di sua mamma, non aveva mai messo in discussione il fatto che aiutasse tantissime associazioni di volontariato in Africa e che spesso donasse addirittura il sangue. Però le erano sempre parse cose che faceva con fatica, con forza, quasi come se volesse solo far parlare bene di se. Per la prima volta, quella sera, Maggie pensò che forse si era sempre sbagliata. La donna che aveva davanti in quel momento, proprio quella senza tailleur e senza crocchia, le sembrò la persona più umana che avesse mai visto.
‘’Lo so. Eppure mi sono decisa a venirti a parlare solamente adesso. Pensa tu che stupida’’ sorrise amaramente, prima di riprendere il discorso pregandola con gli occhi di non interromperla. Margareth capì e tacque.
‘’Volevo solo che tu sapessi che non sono arrabbiata con te’’ iniziò. ‘’Non sono offesa, non ho perso fiducia nei tuoi confronti, non contrasto le tue scelte anche se so bene che sembra che sia così. Quando mi hai detto tutte quelle cose, l’altra volta, e quando hai detto che non saresti mai voluta diventare un ghiacciolo come me, che non avresti voluto un marito che non ti ascolta, io ho…’’
‘’Non volevo dire così’’ la interruppe Margareth. ‘’Non intendevo dire che…’’
‘’No, Maggie, invece avevi ragione’’ disse, scuotendo la testa ed avvicinandosi di più alla figlia. ‘’Avevi ragione su ogni singola parola che hai detto. E sai cosa? Neanche io voglio che tu diventi come me. Non me lo perdonerei mai, e non lo perdonerei mai neanche a te. Ed era proprio questo quello che volevo dirti. E, soprattutto, ci tenevo a chiarire una cosa: nonostante non abbia fatto niente per fartelo capire, non mi hai deluso’’
Fu quella la frase che la spiazzò più di tutto quanto quel discorso senza fondo e senza senso. Non se lo aspettava, forse, perché non replicò nonostante nella sua testa si affacciassero domande ed esclamazioni di tutti i tipi.
Perché adesso? Perché farmi patire per tre anni?
‘’Io sono…’’ Celine sospirò pesantemente ancora una volta. ‘’Sono fiera della donna che sei diventata. E so che adesso stai pensando che io sia ubriaca, ma ti posso assicurare che ti sto osservando da tanto tempo e adesso ne sono sicura. Sono orgogliosa di te e, sopra ogni cosa, ti stimo. Sei una delle persone che stimo di più e sei mia figlia e di certo non sono stata io a farti diventare così. Solo questo, credo’’
Margareth stava piangendo e non se ne rese nemmeno conto fino a che non sentì le dita sottili di Celine spazzarle via una lacrima. Sorrise dolcemente, come non aveva mai fatto, e Margareth la vide. Vide una donna spezzata, che viveva una vita che detestava e che si era costruita attorno una corazza impenetrabile per nascondere le sue cicatrici.
‘’Lo sai? Quando avevo più o meno la tua età avevo conosciuto un ragazzo, il figlio del mio giardiniere, che viveva di nascosto col padre nella riserva. Il giorno in cui lo scoprii mi pregò, supplicò, di non dirlo ai miei genitori altrimenti suo padre avrebbe perso il lavoro e li avrebbero mandati via. Mi disse che li avevano sfrattati dopo la morte di sua mamma, perché non riuscivano a pagare la casa con il solo salario del padre. Io non dissi niente eppure, non sapevo neanche perché, cominciai a raggiungerlo di nascosto ogni giorno. Avevo poco più di dieci anni, ero un membro della ricca famiglia dei Gilbert, eppure non riuscivo a fare a meno di giocare con un bambino un po’ più grande che aveva le mani perennemente sporche di terra. O fango, a volte. Siamo cresciuti insieme, spalla a spalla’’
‘’E poi?’’ domandò Margareth. Non aveva mai saputo niente della vita di sua madre prima che sposasse Dan Grey, non gliela aveva mai raccontata. Non l’aveva mai raccontata a nessuno, probabilmente.
Celine scrollò le spalle e sorrise un po’, un sorriso così triste e così malinconico che Maggie si chiese se il rimpianto avesse un volto. Probabilmente era quello di sua madre, in quel momento. ‘’E poi niente’’ rispose. ‘’Io ero sempre più bionda e lui sempre più bello e sono arrivata al punto di non ritorno. Ci siamo arrivati insieme. Ero innamorata persa e, nonostante siano passati più di venti anni, riesco ancora a ricordare quella sensazione. Riesco a ricordare il mio sguardo, il brillare dei miei occhi, perché lo rivedo nei tuoi ogni mattina’’
‘’E com’è andata a finire?’’
‘’Allo stesso modo di tutte le storie fra ricchi e poveri del mondo. Forse era un’epoca diversa o forse sarà per sempre così, non lo so. So solo che ci fu la crisi bancaria del ’90 e la società di mio padre andò in recessione. Crisi, la chiamano adesso. Ed io, figlia unica e viziata, avevo due scelte: vedere mio padre perdere tutto quello per cui aveva faticato una vita intera, oppure sposare un ragazzo che mi faceva la corte a quei tempi. E se adesso tu sei qui, puoi immaginare cosa abbia scelto alla fine’’
Sorrise ancora ma non c’era niente di rilassato nel volto di sua mamma. Maggie aveva smesso di piangere ma non riuscì a sentire una fitta al petto, anche solo nell’immaginare lei prendere una decisione simile.
‘’Non l’hai più rivisto, questo ragazzo?’’
‘’Non ho più voluto rivederlo perché mi avrebbe fatto troppo male’’ spiegò. ‘’Però non ho mai smesso di interessarmi alla sua vita, di accertarmi che stesse bene, neanche dopo che siete nate tu e Morgan. Mi documentavo di nascosto, da lontano. Lui si è trasferito nell’Oregon poco dopo il mio matrimonio, so che è riuscito a diventare un dottore – proprio come voleva suo padre – e che si è sposato qualche anno dopo la laurea. E poi, una volta appurato questo, ho deciso semplicemente di lasciarlo andare. Era una persona in gamba, ero sicura che si sarebbe realizzato nella vita’’
‘’Non mi dirai mai il suo nome, vero?’’
Solo in quel momento si rese conto degli occhi palesemente lucidi di sua mamma, a pochi centimetri da lei. Era una vita che non la vedeva piangere. ‘’E’ morto l’anno scorso’’ sussurrò, come se le facesse troppo male dirlo a voce alta. ‘’Leucemia. Non sai  quanto ho pregato e quanti soldi ho devoluto all’ospedale che lo curava, però era evidentemente così che doveva andare. Sta bene anche adesso’’
Maggie non sapeva che dire, non sapeva se esistesse qualcosa di giusto da dire in quei casi o se avesse dovuto semplicemente star zitta.
Optò per la cosa più scontata.
‘’Ti manca?’’
‘’Mi è sempre mancato’’ le rispose subito, passandole una mano fra i capelli biondi. ‘’Però ho pur sempre il suo ricordo. Margareth non ti ho dato molti insegnamenti costruttivi nella vita, a parte farti insegnare quattro lingue e tre strumenti, però voglio che tu sappia che – alla fine – è proprio questa la cosa più importante di tutte. Per quanto una persona sia fondamentale nella nostra vita, per quanto noi possiamo amarla e volere a tutti i costi il suo bene, ci sarà sempre qualcosa che modificherà ogni equilibrio. Per questo bisogna vivere ogni momento, cogliere la fugacità di ogni minuto e tenerla custodita qui’’ le toccò il cuore, oltre il tessuto del pigiama. ‘’Io ho tanti ricordi di lui. Ricordi belli e ricordi brutti, ma ci sono giorni in cui mi basta ricordarmi anche solo il suo volto. E anche con Morgan è la stessa cosa: io me la ricordo sempre così bella, proprio come avrei voluto essere io da ragazza. Come sarei stata se avessi lottato per me, per lui, per la vita che desideravo. Non passa giorno senza che mi domandi che cosa sarebbe successo se avessi preso una decisione diversa, se avessi inseguito i miei sogni. Ci sarebbero state meno lacrime e meno rimpianti ma poi penso che forse non ci sareste state nemmeno voi. E perciò voglio che tu sappia che fin quando sarai capace di pensare ad cosa, avrai sempre ogni possibilità di realizzarla. E, soprattutto, voglio insegnarti – stasera – una cosa che ho capito e imparato dopo vent’anni. Non importa quanto ti spingi lontano o quanto corri, non riuscirai mai a scappare da quello che hai dentro e non riuscirai mai a lasciarti alle spalle le persone che hai nel cuore. Tu e Morgan siete la cosa più bella di tutta la mia vita e perdonami se non te l’ho mai detto prima. Perdonami se ti ho lasciata andare, se ho lasciato andare lei, se mi sono arresa e ho creduto di poter scappare. Ti chiedo scusa, adesso e un po’ in ritardo, per non essere stata né una madre e né un’amica. Potrai mai perdonarmi?’’
Margareth la abbracciò così forte che ebbe paura di spezzarla. Piansero l’una sulla spalla dell’altra, eppure non c’era niente che avrebbe cambiato in quel momento. ‘’Ti perdono’’ le sussurrò. ‘’Ti avevo già perdonata’’
Celine ricambiò l’abbraccio.
 
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Morgan accordò le corde della sua chitarra, quella a cui da bambina aveva incollato gli adesivi dei cartoni animati più ridicoli, e trattenne le lacrime. Aveva litigato in modo così furioso con Holland, qualche ora prima, che non avrebbe saputo determinare se, le sue, sarebbero state lacrime di dolore o di rabbia.
Quando si rese conto che, comunque, non sarebbe riuscita a suonare una sola nota, ripose la chitarra nella custodia e sbuffò. Non ebbe il tempo di piangere per davvero, perché il suo iPhone le segnò una notifica: un nuovo messaggio. E sapeva anche chi fosse il mittente.

 
21:17
Da: Holland
A: Morgan
Non dirmi che stai scrivendo una canzone

 
22:09
Da: Holland
A: Morgan
Ti prego


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Sono di corsissima che devo correre a ballare.
Vi lascio questo capitolo e spero che vi piaccia con tutto il mio cuore :)
E, soprattutto, vorrei dirvi che la storia NON è su Zayn Malik. C'è unicamente perchè è una specie di sequel
di una fanfiction su di lui!!
E, inoltre, che i flashback su Morgan e Holland non finiranno qui <3
Un bacione e GRAZIE.
Harryette

 

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Capitolo 30
*** 29- What you're fighting for ***


j
 

| Capitolo Ventinovesimo |
What you're fighting for

‘’Sai’’ Zayn incrociò le braccia al petto, guardandolo di sottecchi. ‘’Non riesco proprio ad immaginarla mentre…si, insomma, hai capito’’ scosse la testa. ‘’Sembra così innocente. Dici che è colpa di quei capelli biondi? O degli occhi azzurri? Oppure…?’’
‘’Ma ti senti quando parli?’’ lo interruppe Carl, mentre posava i libri di scuola sulla libreria ed accendeva la playstation. ‘’Non capisco il senso del tuo discorso’’
‘’Il senso è che è chiaro che l’avete fatto, tu e Margareth’’ spiegò il moro, iniziando a prendere posto sul divano. ‘’Riesco ad immaginare te, ma lei…’’
‘’Ah e così mi immagini mentre scopo?’’ la voce di Carl uscì fuori divertita. ‘’Esilarante, Malik. Che delusione che sei’’
‘’Stai zitto e prendi il joystick’’
Iniziarono una partita di Fifa proprio come tanto tempo fa, in una casa più grande e più lontana e con un divano rosso. Zayn, però, non aveva affatto modificato né migliorato il suo modo di giocare: Carl prevedeva le sue mosse anche prima che lui stesso le pensasse.
Vinse tre partite di fila.
‘’Non vale’’ brontolò Zayn. Neanche quello era cambiato, a quanto pareva. ‘’Voglio la rivincita’’
‘’Ti ho già dato due rivincite’’ si alzò Carl, stiracchiandosi. ‘’Perché invece di immaginare me mentre scopo non vai in camera da mia sorella?’’
‘’Perché il matrimonio la sta rendendo isterica’’
Carl non ne aveva alcun dubbio. Conosceva bene Diana, conosceva il suo modo di approcciarsi alle novità, conosceva il suo terrore degli sbagli, conosceva l’ansia di cui era composto tutto quanto il suo sangue. E conosceva tutte le sue reazioni riguardo Zayn Malik che, anche a distanza di anni, le faceva sempre lo stesso effetto.
‘’E dimmi un po’, Lucifero, com’è la bambolina bionda? Si, insomma, oltre l’aspetto esteriore intendo’’
‘’E’ esattamente come la vedi’’ scrollò le spalle. ‘’E continuo a non capire il senso del tuo discorso’’
‘’Va bene, allora… Quando si inciampa in problemi di comprensione, la miglior risposta è sempre la matematica’’ sorrise, come se la sapesse lunga. E forse era così. ‘’Quanto le dai da uno a dieci?’’
‘’Tu hai seriamente bisogno di Diana’’
Zayn scoppiò a ridere e Carl lo seguì poco dopo. Nonostante la partenza del suo migliore amico e sua sorella fosse fissata per quello stesso pomeriggio, si sentiva così rilassato che stentava quasi a crederci. Era grato che fossero corsi in suo aiuto proprio nel momento in cui, inconsapevolmente, ne aveva più bisogno.
Poi Zayn si fece improvvisamente più serio, avvicinandosi. ‘’Deve proprio averti fatto perdere la testa’’ ironizzò.
‘’Forse’’ Carl scrollò le spalle, perché sarebbero potuti anche passare altri mille anni ma non avrebbe mai imparato ad aprirsi. Neanche con Zayn.
‘’Chi l’avrebbe mai detto?’’ continuò il moro. ‘’E io che pensavo che Carl Pearson sarebbe stato l’eterno inarrivabile del Bronx’’
‘’Lo pensavo anche io di te’’ sogghignò Carl. ‘’Fino a qualche anno fa, ovviamente’’
‘’Ci pensi mai a quanto è cambiata la nostra vita? Mi sembra ieri che correvamo nel parco di fronte casa per giocare a calcio, ed ora…io sto per sposarmi, tu sei follemente innamorato e…’’
‘’Ah lo sapevo che il matrimonio ti avrebbe fatto diventare saggio e paranoico, prima o poi’’ morzò l’atmosfera Carl. ‘’E non ho mai detto di essere follemente innamorato’’
Lo era?
‘’A volte’’ continuò Zayn, prendendo a guardare fuori dalla finestra. Faceva così anche quando al suo posto c’era un balcone, quello di casa loro. Si perdeva, osservava il cielo e non si rendeva neanche più conto di dove fosse. ‘’A volte mi domando come sarebbe stata la nostra vita se non fosse arrivata Diana nel Bronx, se non ce l’avessi portata’’ sospirò. ‘’Probabilmente saremmo diventati come Peter* e probabilmente tu non saresti neanche qui adesso’’
‘’Perché mi stai dicendo così, ora?’’
Zayn scrollò le spalle e ritornò a guardarlo. ‘’Perché sei come un fratello per me e non posso fare a meno di condividere con te le mie paure. Neanche se ci separa un continente’’
‘’E di cosa hai paura? Non vuoi più sposarti?’’
Carl conosceva già la risposta prima che Zayn rispondesse, l’aveva intuita dalla sfumatura cerulea che avevano preso i suoi occhi. ‘’E’ l’unica cosa di cui sono convinto’’
‘’E allora cosa c’è?’’
‘’Solo… se non ci riuscissi? A renderla felice, intendo. Se non fossi all’altezza?’’
Zayn era sempre stato duro di natura, non si era mai piegato. Eppure Carl poteva giurare di non aver mai sentito una voce provenire da lui più insicura. Fu in quel momento che si sentì immensamente fortunato ad averlo, ancora di più delle altre volte. ‘’Diana ti ama, Zayn. E tu ami lei. Il matrimonio è solo una fiscalità, una dimostrazione, ma tutto sarà esattamente come è ora e come è sempre stato fino ad ora. Non riusciresti mai a renderla infelice, e non perché tu sia all’altezza ma perché non devi esserlo’’
Zayn sorrise, finalmente, e gli diede una calorosa pacca sulla spalla. ‘’Grazie, Lucifero’’ disse. ‘’Ora vado a vedere come sta la mia futura moglie. O meglio, vado a vedere chi è l’ultima wedding planner con cui ha litigato’’
Zayn voltò le spalle e si diresse verso la camera che era stata di Cam, che momentaneamente condivideva con Diana. Eppure prima che potesse aprire la porta, si fermò perché Carl rispose alla sua domanda.
‘’E, comunque, direi dieci. E i capelli biondi mi eccitano’’
 
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‘’Vorrei presentarti a mia madre’’
Il cucchiaio che Carl aveva stretto fra le mani rimase fermo a mezz’aria, i suoi occhi trasparenti erano sgranati immediatamente. Aveva preso a fissarla come se gli avesse appena detto che sarebbe scoppiata la Terza Guerra Mondiale da lì a tre quarti d’ora. Margareth sorrise, perché non l’aveva mai visto così terrorizzato. La divertiva pensare a quanto Carl, proprio lo stesso Carl che sembrava non essere spaventato da niente e nessuno, si piegasse di fronte anche al solo nome di Celine Grey.
Maggie non gli aveva ancora raccontato il discorso che avevano fatto qualche sera prima, lo custodiva gelosamente nel suo cuore: non le sembrava che fosse vero. Il suo corpo si era alleggerito di circa una tonnellata alla consapevolezza che aveva qualcuno dalla sua parte.
‘’Stai delirando?’’
Carl sperava con tutta la sua anima che stesse scherzando, che scoppiasse a ridere a minuti dandogli una pacca sulla spalla. Ma non successe. Margareth guardò la tagliata di carne che aveva davanti e poi gli spaghetti italiani nel piatto di Carl, e poi sorrise così tanto che gli fu tutto chiaro: era serissima, riusciva a leggerglielo negli occhi azzurri.
‘’Ma…’’ sgranò ancora gli occhi. ‘’Mi ucciderà come minimo. Come puoi pensare che tua madre voglia…?’’
‘’Sono io che voglio’’ lo interruppe lei. Sembrava così decisa che, per un solo istante, anche i dubbi di Carl si diramarono. Per poi ritornare subito nel ricordo di quando aveva cercato di spedire sua figlia a Roma per allontanarla da lui. ‘’Lei è…diversa da come immaginavo. E sarebbe sicuramente contenta di incontrarti’’
‘’Sei ubriaca.’’
Non era una domanda, stava diventando sempre di più una certezza. Non ci potevano essere altre spiegazioni: contenta di incontrarlo? E in quale universo? Aveva capito che non proveniva da una famiglia di magnati o imprenditori? Sapeva che aveva 49 tatuaggi?
‘’Io e mia madre abbiamo parlato prima che Zayn partisse’’ rispose Maggie, scrollando le spalle, con tutta la calma del mondo mentre addentava un pezzo di carne. ‘’Ci siamo chiarite. Ora, credo, è tutto a posto. Vorrei dimostrarle realmente che l’ho perdonata, che mi fido di lei’’
‘’E ti fidi?’’
‘’Sì’’
Carl non si fidava. Era sempre stato dubitante di natura, ma con i Grey utilizzava ancora più incertezza del solito. Non si sarebbe mai fidato di una donna come Celine, neanche se Margareth l’avesse perdonata mille volte. Non la trovava una donna leale e sincera, non le diceva assolutamente niente di buono. Era prevenuto, sicuramente, ma il suo sesto senso non sbagliava mai: insomma, perché recuperare il rapporto con una figlia così tardi?
Tuttavia Marge sembrava così rilassata e contenta, finalmente senza alcun cipiglio fra le sopracciglia pensose, che non reputò quello né il luogo né il momento giusto per parlarne e per esporle i suoi dubbi. Infondati, sperò.
‘’E quando dovremmo incontrarci?’’
Margareth era fiera di lui. Fiera ed orgogliosa della risposta che aveva dato, senza ripensamenti, senza domande e senza esitazioni. Forse non era convinto al cento per cento, ma stava nascondendoglielo alla grande. Allungò una mano sul tavolo di legno del ristorante, allora, e afferrò quella del ragazzo. Una carezza minima, ma non la mosse. Sorrise ancora una volta. ‘’Grazie’’ rispose. ‘’E’ davvero importante per me’’
Carl voltò la sua mano con il palmo rivolto verso l’alto, e strinse la sua fra le dita. Non sorrise ma fu come se lo facesse perché i muscoli del suo volto si rilassarono sempre più velocemente, fino ad apparire completamente piatti. ‘’Fammi sapere se devo indossare il giubbotto antiproiettile, però.’’
Marge scoppiò a ridere, tornando a mangiare la sua carne e scuotendo la testa, borbottando un ‘’melodrammatico’’.
‘’La settimana prossima è il mio compleanno, di giovedì’’ disse all’improvviso Maggie, dopo che era caduto il silenzio per alcuni minuti. ‘’Solitamente non festeggio mai con i miei amici da quando…sai, da quando non c’è Morgan. Però questa potrebbe essere un’occasione d’oro, anche perché giovedì mio padre sarà da qualche parte in Danimarca per questioni burocratiche. Sei ufficialmente invitato alla mia festa’’ gli fece l’occhiolino. Non l’aveva mai vista così contenta. ‘’E lo è anche mia madre, ovviamente.’’
‘’Quando pensavi di dirmi che fosse il tuo compleanno? Il giorno prima?’’ Carl non era seccato, era solo…strano. Non c’aveva mai pensato, ma era veramente strano il fatto che ci fosse qualcosa che non conosceva ancora di Margareth Grey. Ed era la cosa più banale di tutte: il giorno del suo compleanno. Sapeva che avrebbe fatto diciotto anni, che in molti paesi Europei era qualcosa di importantissimo, e sapeva che – comunque – sarebbe stata una festa semplice e degna di lei. Ma ci sarebbe stata sua madre, e questo stava a significare solamente una cosa: la fine.
‘’Carl’’ lo richiamò Marge, poiché era particolarmente silenzioso a pranzo. ‘’Non dirmi che sei in ansia già da ora, te ne prego’’ lo prese in giro.
La faceva facile, lei.
‘’No che non sono in ansia’’ ringhiò, addentando una forchettata di spaghetti. ‘’E’ solo che…insomma, sei sicura?’’
Carl non balbettava mai né inclinava la voce, e non lo fece neanche quella volta anche se dovette trattenersi a stento. Continuava a non fidarsi di Celine Grey…e se avesse detto qualcosa? Se, peggio, avesse fatto qualcosa?
Avrebbe tanto voluto che Zayn, al ritorno al suo appartamento, fosse stato lì come in quei pochi giorni. Però Zayn e Diana erano partiti quattro giorni prima, erano ritornati alla loro vita a Leeds e alla preparazione del loro matrimonio, e non poteva di certo pretendere il contrario. Avrebbe potuto chiamarlo, certo, ma non sarebbe mai stata la stessa cosa. Cercò di non pensarci: ogni volta che si rincontravano in qualche modo, la separazione era sempre più dolorosa fino a diventare insopportabile.
‘’Sono sicurissima’’
Quelle parole ebbero un effetto calmante su di lui.
‘’Allora mi preparo alla battaglia’’ scherzò, alzando gli occhi trasparenti al cielo. ‘’Che la fortuna sia a mio favore’’
Fu in quell’istante che Margareth, incurante delle altre persone presenti al ristorante, si alzò dalla sua sedia – di fronte a quella del ragazzo – e gli si avvicinò. Si sedette sulle sue gambe sotto il suo sguardo sconvolto e dubbioso, e sotto quello di tutti i presenti anche, e gli lasciò un bacio umido sulle labbra. Nonostante avessero voluto entrambi approfondirlo, sapevano che quello non era il luogo adatto. Però Carl sentì chiaramente, oltre che le mani fredde di lei sul suo collo, la lingua accarezzargli il labbro inferiore. Poggiò le mani sulle sue cosce e, dopo essersi separati, il capo sulla spalla della ragazza. Riusciva a sentire il suo cuore battere da sotto la camicetta bianca che aveva, forte come mai prima di allora. Certe cose non sarebbero cambiate mai.
‘’E questo per che cos’era?’’ le chiese, continuando a tenere la testa nell’incavo del suo collo e a sentire il suo odore di vaniglia.
Margareth si separò lentamente da lui e lo guardò negli occhi. Sogghignò leggermente, proprio come era solito fare lui. Gli sembrò di guardarsi allo specchio. Stavano passando davvero troppo tempo insieme.
‘’Per ricordarti per che cosa stai combattendo.’’ rispose con una scrollata di spalle. Non c’era giorno in cui non riusciva a sorprenderlo: anche solo con un semplice gesto, con una singola frase, con una carezza leggermente diversa dalle altre.
‘’Allora ammetti che sia una battaglia’’
‘’Ammetto che vale la pena vincere’’
 
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Erano le sei e mezza di un giovedì che sembrava non voler terminare mai. In realtà, Margareth aveva tanto preso in giro Carl – la settimana prima – ma aveva finito per essere più in ansia di lui. E i dubbi, come sempre nei momenti meno opportuni, avevano preso ad attanagliarle lo stomaco.
E se avesse sbagliato tutto? Quali sarebbero state le conseguenze? Se sua madre davvero non aveva interesse a conoscerlo? Cosa avrebbe fatto?
Approfittando dell’assenza di suo padre, aveva detto a Celine di voler organizzare – dopo tanto tempo dall’ultima volta – una festa di compleanno. La mamma era stata molto felice di sentirglielo dire, sorprendentemente. Dopotutto, in tre anni l’aveva sempre incitata a farla. Ma, considerato che nell’ultima foto dell’ultima festa c’era ancora Morgan Grey accanto a lei, non se l’era mai sentita. Non le aveva detto che ci sarebbe stato anche Carl, insieme a quasi mezza Spence School, ma aveva il presentimento che l’avesse intuito. Insomma, era quasi ovvio no?
Non era la paura che non piacesse a lei e ai suoi amici ad attanagliarle lo stomaco, perché non avrebbe potuto dare meno conto alla faccenda. Era il sentirlo in imbarazzo, il metterlo dentro una situazione scomoda e spiacevole. Margareth era pienamente consapevole del fatto che Carl Pearson non sarebbe mai stato un amico di famiglia o un amico dei suoi ‘’amici’’, ma aveva il terrore maledetto che l’avesse coinvolto in una cosa più grande di lui.
Celine Grey, personalmente perché le vecchie abitudini sono ben dure a morire, aveva organizzato il diciottesimo al Libertine, uno dei locali più in voga e più grande di tutta New York. Maggie aveva cercato di dire a sua madre che non avrebbe voluto una cosa troppo in grande, che le bastava anche l’immenso giardino di casa loro, ma Celine si era dimostrata così contenta e così entusiasta di organizzare una festa per una delle sue figlie – di nuovo – che non aveva saputo dirle di no. Né tantomeno di rallentare o fermarsi. E così, alle sei e mezza del pomeriggio, quando tutti i preparativi erano ormai quasi giunti a conclusione, Margareth si convinse: anzi, si scoprì essere contenta che sua mamma avesse organizzato tutto. Innanzitutto, perché sarebbe di certo stata una festa perfetta. E poi perché sperava di averle dato almeno una gioia, così facendo. Pregò che fosse così.
La festa, due ore e mezza più tardi, si dimostrò davvero perfetta come Maggie aveva ipotizzato. Il Libertine, che era famoso fra gli americani per le sue pareti azzurro cielo, era stato riempito di margherite di qualsiasi dimensione: grandi, medie, piccole, perfino boccioli. In ogni angolo blu, in ogni pizzo di carta da parati celestiale c’era una margherita a ricordarle chi era: dall’alto pendeva un lampadario di cristalli che non aveva mai visto, dall’aria così altera da metterle quasi paura. Uno stand enorme era stato allestito alla sua sinistra, accanto al bancone per gli alcolici, e strabordava di stuzzichini, tartine e cibi rustici di tutti i tipi. Alla sua destra, invece, c’era un tavolo rotondo così pieno di dolci che sentì i chili di troppo prendere già spazio nel suo corpo. E al centro, proprio in mezzo, c’era la sua torta di compleanno. Proprio come l’aveva sempre desiderata da bambina: bianca, farcita di crema e panna, e con una rondine di zucchero che spiccava il volo sul terzo ed ultimo piano. Il secondo piano del locale, invece, era stato adibito a discoteca: una palla caleidoscopica occupava ed illuminava tutta la sala, le luci azzurre erano molto soffuse e Margareth fu assalita dall’alto volume della musica. Era più piccola di quella inferiore, ma era già gremita di gente: sua mamma la accompagnò alla fine della pista da ballo, dove c’era un piccolo tavolo di legno. Pieno di pacchetti regali.
DEPOSITARE I REGALI QUI
Recitava un piccolo cartello anteriore.
Non credeva neanche di aver invitato così tanta gente. Evidentemente sua madre doveva averci messo il suo zampino smaltato. Eppure Margareth si sentì così serena e così felice, per una volta nella sua vita senza altri pensieri, che la abbracciò forte. Durò pochissimi secondi, il tempo di sussurrare un ‘’grazie’’, quando venne tirata da un paio di mani irruente che conosceva molto bene. Robyn era davanti a lei, indossava un abito verde che intonava con il colore scuro della sua pelle e delle scarpe nere vertiginose. Era così bella e così a suo agio che il sorriso che le riservò fu pieno di meraviglia. Robyn la strinse forte a se, sussurrandole più volte ‘’Auguri Maggie’’, e Margareth ricambiò volentieri l’abbraccio. Profumava di narcisi.
Quando si separarono, Robyn – con la sua capigliatura riccia – le indicò un punto indefinito della sala. ‘’Vieni con me, ci sono un sacco di persone che vogliono farti gli auguri’’ urlò sulla musica, esaltata. Margareth lanciò uno sguardo a sua madre, accanto a lei nel suo tailleur color crema, che le sorrise dolcemente come a volerle dare il permesso di allontanarsi. Maggie seguì, così, la sua amica. E da quel momento in poi perse il conto di quanti abbracci ricevette, di quanti baci sulle guance, di quanti auguri, quante pacche delicate sulla spalla, quante carezze sui capelli biondi e lisci lasciati sciolti. Non sapeva dire quanto tempo fosse passato, forse qualche ora. Non aveva un orologio a portata di mano. Si guardò intorno, alla ricerca di una sola persona che – ancora una volta – non fu in grado di trovare. Fece per chiamarlo al cellulare, ma qualcun altro richiese la sua attenzione e fu costretta a rimandare.
Rihanna cantava nelle casse la sua ultima hit, tutti e 150 ragazzi invitati avevano occupato la sala a ballavano a ritmo di musica. Alcuni erano al piano inferiore a bere o mangiare, salivano con un bicchiere di roba strana in mano e ridevano un po’ più forte. Aveva ballato con Robyn, con alcune sue amiche, con qualche ragazzo troppo insistente che l’aveva quasi obbligata, ed ora era poggiata allo stand del punch al piano terra, con un bicchiere in mano. Sorrise a qualcuno e salutò qualcun altro, dando continue occhiate alla porta d’ingresso. Che si aprì tante volte, ma non fece entrare mai la persona che stava aspettando. Non poteva essersene dimenticato. Possibile che gli fosse successo qualcosa?
Afferrò il telefonino dalla pochette ma non ebbe il tempo di avviare la chiamata perché una mano si poggiò delicatamente sulla spalla ossuta lasciata scoperta dal tubino bianco dallo scollo a barca. Si girò speranzosa, ritrovandosi davanti solo Henry Andrews. Era in smoking, come la maggior parte degli invitati di sesso maschile, ma non aveva nessuna cravatta. Era la prima volta che lo vedeva senza, e non aveva neanche le prime asole della camicia abbottonate. Sorrise in modo rilassato e le lasciò un bacio sulla guancia, un po’ troppo prolungato, prima di farle gli auguri e porgerle una bustina di un azzurro oltreoceano che conosceva molto bene. Erano soliti, nel loro ambiente, regali del genere.
‘’Ti chiedo scusa per il ritardo, Maggie’’ le disse. ‘’Ma sono stato indeciso fino all’ultimo.’’
Margareth sorrise sinceramente contenta, e lo ringraziò con una carezza sulla mano nel prendere la bustina Tiffany. ‘’Ti ringrazio’’ rispose. ‘’Sei stato davvero carino’’
Se ci fosse stata sua madre, accanto a lei, avrebbe ridato la bustina ad Henry e gli avrebbe detto di metterla insieme a tutti gli altri regali. Che sua figlia l’avrebbe aperta insieme al resto alla fine della festa. Ma Maggie non si sentì in grado di fare una cosa del genere, di trattarlo in quel modo, considerato anche che non era impegnata al momento.
Per cui, afferrò il regalo e lo aprì con delicatezza, come le aveva insegnato a fare Morgan anni prima quando lei era solita strappare ogni cosa. Aprì anche la scatolina blu e nera all’interno: era un bracciale d’argento, semplicissimo e fine all’inverosimile, proprio come quelli che piacevano a lei. Aveva un ciondolo al centro, una piccola M con un diamante all’estremità della gamba. Brillava anche senza luci forti, anche senza sole. Come aveva fatto Henry ad indovinare i suoi gusti esatti quando la conosceva appena?
‘’Io…’’ balbettò, imbarazzata, guardandolo. ‘’Non so cosa dire. E’ prodigioso, non dovevi…’’
‘’Mi ha fatto piacere’’ la interruppe lui, con il solito sorriso smagliante dipinto sul volto. ‘’Te lo meriti. Buon compleanno’’
Margareth decise di non aggiungere nient’altro, rilassò le spalle e si aprì nell’ennesimo sorriso. Lo abbracciò senza neanche pensarci, le venne quasi naturale. Henry ricambiò il suo abbraccio, era delicato come poche persone che aveva conosciuto, e poi – una volta separati – le sfilò il bracciale dalle mani e glielo allacciò al polso. Misura perfetta.
‘’Mi concedi un ballo?’’ le chiese all’improvviso. Maggie rimase un attimo impietrita: stava aspettando una persona, non voleva allontanarsi dalla porta d’entrata. Poi però si disse che, quando fosse arrivato, l’avrebbe comunque riconosciuto. Afferrò la mano che Henry Andrews le stava porgendo e lo scortò al piano superiore.
‘’Però non so ballare’’ gli confessò, una volta al centro della pista. Sentì chiaramente la mano di Henry ancorarsi sulla sua schiena scoperta dal vestito e tirarla leggermente a se. ‘’Segui me’’ disse.
 
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‘’Ascoltami bene, Carl’’ la voce di Celine Grey era rilassata più del normale, quella sera. Non appena aveva visto un ragazzo tatuato e più casual degli altri varcare la soglia del Libertine l’aveva riconosciuto immediatamente. Gli aveva garbatamente chiesto di seguirla nel giardino esterno del locale, dove c’erano i gazebi pieni di fiaccole e fiori profumati, una cascata dritto di fronte a loro, ed aveva iniziato a parlare. Carl non sembrava ansioso o nervoso, anzi perfino fin troppo tranquillo. Quanta flemma doveva possedere quel ragazzo per restare così impassibile perfino di fronte a lei? ‘’Io non ho niente contro di te né contro la tua relazione con mia figlia. So che può sembrarti strano, ma ti assicuro che non è così. Da madre, voglio solamente che Margareth sia felice e che non soffra, perché ha già sofferto abbastanza. Non credi anche tu?’’
‘’Certo’’ perfino la sua risposta fu diretta. Non aveva paura di guardarla negli occhi, come la maggior parte della popolazione mondiale, perché era esattamente quello che stava facendo sin dall’inizio. Ammirevole.
‘’Per cui, adesso, ti giuro che non interferirò mai più nella vostra storia. Che vi lascerò vivere in pace e cercherò di convincere anche Dan a lascarvelo fare. Però ho bisogno di sapere una cosa importante, ed esigo che tu sia sincero con me’’
Carl non rispose a quella seconda affermazione, ma annuì impercettibilmente. Così Celine prese un respiro e: ‘’Non so cosa tu provi per mia figlia, ma io la conosco e perciò so bene cosa prova lei. Per cui ti supplico, ti imploro, di lasciarla. Se non ricambi i suoi sentimenti, se non la ami quanto lei ama te, se non credi di riuscire a farcela, allora lasciala adesso prima che sia troppo tardi. Non ho mai chiesto favori a nessuno, ma rivolgo a te questa preghiera: non distruggermela, ti prego’’
Carl la guardò senza rispondere, senza muoversi, senza dare segni di vita. Celine non abbassava lo sguardo e, per principio, non lo faceva neanche lui. Era una specie di guerra di sguardi e di occhi vitrei. E poi, alla fine, rilassò le spalle e si voltò a guardare un gazebo qualsiasi.
Ma non sentì di aver perso.
‘’Signora Grey…’’
‘’Celine’’ lo corresse. Basta formalità.
‘’Celine, non lascerò andare sua figlia. Non esiste in nessun mondo una cosa del genere. E non solo perché sono innamorato di lei, ma anche perché sono innamorato della persona che mi fa essere. Non la distruggerei mai’’
Celine sorrise e, quella, fu la prima volta che lo fece sinceramente a qualcuno che non fosse membro della sua famiglia. Si avvicinò a Carl, ruppe la tipica distanza di sicurezza, e gli poggiò una mano sulla spalla. Il ragazzo non indietreggiò ma sprizzò sorpresa da ogni poro. Divenne rigido come un pezzo di legno.
Allora non sei inarrivabile.
‘’Sono contenta per voi’’ disse. ‘’Sono dalla vostra parte.’’
 
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Quando sua madre le aveva chiesto, con un sorriso malizioso che la diceva lunga, di uscire fuori in giardino, Margareth aveva pensato che la stesse prendendo in giro. Poi aveva iniziato a fare pressione – ‘’sbrigati!’’ – e allora aveva afferrato la mantellina di velo trasparente e aveva obbedito. Erano le undici passate, una luna piena brillava apertamente in cielo e illuminava il giardino anche senza l’aiuto dei lampioni. La cascata del Libertine le si stagliò davanti in tutta la sua maestosità, con delle bocche di pesci dalla quale spuntavano getti d’acqua limpida. E di fianco, dinanzi ad uno dei gazebi fioriti, c’era lui.
Carl indossava un pantalone nero ed una camicia bianca, il completo più elegante che gli avesse mai visto addosso: anche se le maniche erano arrotolate sugli avambracci e lasciavano scoperti i tatuaggi, così come quelli della gola e di metà petto, sembrava un principe. I capelli castani, tendenti al rossiccio, erano spinti in giro dal vento. Eppure non c’era niente che avrebbe cambiato in quella scena. Carl dovette avvertire la sua presenza, in alto alla rampa di scale di marmo che la separava dal giardino vero e proprio, perché si voltò subito dopo. Prima di sorridere leggermente, si permise di osservarla dal basso, come in una sfilata. Margareth indossava un vestito semplice, bianco, che metteva in mostra le sue poche curve, scollato sulla schiena e sulle spalle. Non aveva messo i tacchi, però le i sandali dorati che aveva le conferivano un’aria quasi eterea. E la collana di diamanti la rendeva una regina. Scese le scale con una lentezza esasperante e, a pochi gradini dalla fine, afferrò la mano che Carl le aveva offerto. Le lasciò un bacio sulla guancia, che Maggie sperò non finisse mai, prima di intrecciare le loro dita e guardarla per bene negli occhi.
‘’Sei bellissima’’ disse con così tanta sincerità che la spiazzò. ‘’La persona più bella che abbia mai visto in tutta la mia vita’’
Margareth sorrise e gli strinse un po’ di più la mano, ricambiando il suo sguardo. ''Grazie’’ sussurrò, felice. Le era bastato semplicemente vederlo per dimenticare qualsiasi altra cosa, perfino il fatto che – probabilmente – aveva già incontrato sua madre. ‘’Anche tu’’
‘’Scusami se ho fatto tardi’’ iniziò, immediatamente. ‘’E’ solo che… non lo so, in realtà, perché ho fatto tardi. Suppongo avessi un po’ paura’’ lo disse con una difficoltà palese. Per Carl era difficilissimo ammettere di provare sentimenti negativi come il timore o la paura. Maggie non potè smettere di sorridere.
‘’Quindi lo ammetti’’ ironizzò, lasciandogli un bacio leggero sul mento. Carl grugnì e poi sospirò e poi: ‘’Vuoi proprio sentirmelo dire, vero?’’
‘’Non importa’’ lo accarezzò. ‘’Che sei venuto tardi, intendo. L’importante è che sei qui con me adesso’’
Carl sorrise ancora una volta prima di accarezzarle una guancia con il palmo della mano. ‘’Ho paura perfino di toccarti, stasera’’ alzò gli occhi al cielo, come a voler richiamare se stesso.
‘’Perché?’’
‘’Perché non mi sembri reale, Marge’’ rispose con naturalezza. ‘’Non mi sembra possibile. Solo qualche mese fa avrei reputato impossibile venire al Libertine, tenere la mano ad una ragazza di cui sono innamorato, essere così felice che…’’ sospirò, quasi innervosito, non riuscendo a trovare le parole. Preferì, quindi, dimostrarglielo con i fatti. Si avvicinò a lei e le poggiò entrambe le mani fredde sul collo, sentendo la morbidezza del suoi capelli biondi. Poi la baciò.
Sei reale.
Margareth si sentì sul punto di commuoversi: non c’era giorno in cui Carl non riuscisse a sorprenderla. Non c’era giorno in cui non si rendesse conto di non riuscire ad amarlo di meno. Era possibile amare qualcuno così tanto da morire per lui? Perché l’avrebbe fatto. Mille volte. Trafitta da mille lame.
Tu vivi.
‘’Ti ho fatto un regalo ma l’ho tenuto in tasca’’ disse, fronte contro fronte. ‘’Non volevo metterlo insieme agli altri’’
‘’Non dovevi’’ gli sorrise. ‘’Che cos’è?’’
Era l’unico regalo, fra tutti, di cui le importasse veramente.
Carl cercò qualcosa nella tasca larga del pantalone e poi ne estrasse un diario. Un diario piccolo, di pelle marrone con una molla nera a tenerlo chiuso. Sembrava pieno zeppo di fogli, ma quello che attirò l’attenzione di Margareth fu il più grande, che sovrastava tutti gli altri. Non riusciva a leggervi nulla.
‘’Non l’ho mai detto a nessuno’’ iniziò Carl, scrollando le spalle. ‘’Scrivo poesie da quando avevo più o meno 14 anni. Su ogni aspetto del reale, in verità, ma in particolar modo sulle persone. Non mi piace che qualcuno le legga, neanche Zayn l’ha mai fatto, ho tenuto questo diario nascosto per…tanto tempo’’ sogghignò, come a ricordarsi di qualcosa. ‘’Voglio regalarlo a te, così potrai anche continuarlo se vorrai. C’è tutta la mia adolescenza, tutta la mia vita, dentro. Te la regalo’’
Margareth aveva gli occhi lucidi. Per la gioia. Nel momento in cui afferrò quel quadernino sentì chiaramente una scarica di energia attraversarle le vene e rendere tutto quasi dorato. Non se lo sarebbe mai aspettato, non da una persona chiusa come Carl, non così.
‘’Lo custodirò per te’’ disse con il cuore in mano. ‘’Te lo prometto’’
‘’So che lo farai’’ sorrise lui, divertito. ‘’Ma il regalo, in particolare, è il foglio più grande che c’è dentro. E’ una poesia’’
Non riusciva a capire. Non erano tutte poesie, oltre che pensieri? Non c’erano tanti fogli? Carl lesse il punto interrogativo sul suo volto e le carezzò la testa, come esasperato. ‘’E’ una poesia che ho scritto per te’’
‘’Vuoi farmi piangere per forza, stasera?’’ ironizzò Marge, perché sentiva di star per implodere. ‘’Posso leggerla adesso?’’
‘’Se vuoi’’
Maggie non se lo fece ripetere due volte. Delicatamente sfilò il foglio più grande, quello che era saltato subito ai suoi occhi, e lo aprì. Il titolo, scritto in stampatello, la colpì subito.
Amnesia.
Lo guardò solo per un attimo, prima di iniziare a leggere quelle poche righe. Sentiva che, alla fine, sarebbe finita in lacrime comunque.

Se tu fossi vento
Diventerei tempesta
Per portarti lontano dove non esistono nuvole

 
Se tu fossi sole
Diventerei vetro
Per brillare della tua luce anche quando piove

 
Se tu fossi buio
Diventerei ombra
Per vederti anche quando non mi vedo

 
 
Se tu fossi ricordo
Diventerei presente
Per portati dove non esiste amnesia
 
‘’Ti amo.’’

 
___________________________________________________

Come al solito, devo correre perchè ho un sonno della madonna!
Voglio solo dire, su questo capitolo, che lo stavo aspettando DALL'INIZIO della storia hahaha
Spero vi piaccia, e spero vi piaccia anche la poesia. Non mi sembrava carino nè corretto
copiare qualche poesia da internet e rendere Carl l'autore, così - povere voi - mi è toccato scriverla ahahha
So di non essere una poetessa, probabilmente la modificherò, ma abbiate pieta :((((
Spero abbiate PER SEMPRE cambiato opinione su Celine Grey. Volevo, inoltre, avvisare che mancano pochissimi capitoli alla fine.
Circa 3, compreso l'epilogo. NON PENSIAMOCI AAAHHAHAHA
Grazie per tutto l'affetto che mi dimostrate, vi voglio bene. <3
Harryette

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Capitolo 31
*** 30- 50 ***


j
 

| Capitolo Trentesimo |
50


Dan Grey la guardava dall’alto in basso, come aveva sempre fatto dall’alba dei tempi e come non avrebbe smesso di fare mai. Aveva i capelli più bianchi dell’ultima volta, prima che partisse per la Danimarca, e delle rughe marcate sotto gli occhi. Fu in quel momento che Margareth pensò che, dopotutto, non dovesse essere così facile gestire un intero Paese e avere così tante responsabilità sulle spalle.
Celine gli era accanto, stretta nel suo tailleur scuro, e non proferiva parola. Tutta via Maggie sapeva bene da che parte fosse sua madre e, almeno per una volta, poteva tirare un sospiro di sollievo. Dopo la sua festa aveva passato il giorno antecedente al ritorno di suo padre pensando a se avesse dovuto parlargli. Era stata Celine a consigliarle di farlo, anche perché prima o poi sarebbe venuto tutto a galla e sarebbe stato solo peggio. In più, Maggie non se la sentiva più di nascondere Carl.
Non dopo quella poesia – Amnesia – e non dopo che il suo diario segreto era custodito gelosamente sotto il suo cuscino. Non dopo che le aveva implicitamente consegnato una parte di se e che lei aveva fatto esplicitamente lo stesso. L’aveva ammesso velocemente, ad altissima voce in modo da evitare di ripeterlo, senza esitazione nel timbro vocale e mentre ostentava una personalità che non credeva le sarebbe mai appartenuta.
Dan non rispose, la guardò come sue solito – il cipiglio aggrottato sulla fronte, lo smoking che sembra improvvisamente troppo stretto e la cravatta che sembra scoppiare per quanto si siano ingrossate le sue vene sul collo – e poi sospirò.
Un semplice sospiro che valse anche più di mille parole.
Era sempre stato quello il problema alla base del loro rapporto: lui non comunicava mai se non per richiamarle qualcosa, lei non gli parlava mai se non per dirgli qualcosa per cui l’avrebbe richiamata. Era un circolo vizioso, una catena, un movimento rotatorio e circolare infinito. E Margareth era stanca dello sguardo accusatore e deluso di suo padre, era stanca di sentirti limitata perché arrivava perfino ad immaginarselo ad occhi aperti, era stanca di fingere di essere la figlia perfetta – quella che lui tanto desiderava – quando era chiaro che non fosse così.
L’attimo seguente fu lei a prendere la parola, a sorpresa di se stessa.
‘’So che non approvi’’ affermò, sicura, alzandosi da tavola e poggiando il tovagliolo avorio sulla superfice lignea. ‘’Però non posso farci niente. Non questa volta, purtroppo, perché non voglio. Non voglio più rinunciare a niente per far felice te. Sembra che…non vada mai bene nulla di quello che faccio.’’
Era uno sfogo privato, nel suo piccolo Margareth si sentì alleggerita. Basta bugie, basta scuse, basta parole campate in aria. L’assoluta ed unica verità, senza mezze misure né mezzi termini.
Dan rispose quasi immediatamente, la sua voce era stanca come se fosse sottoposta ad uno sforzo immane, quasi sfibrata. ‘’Non è vero che non mi sta bene niente di quello che fai, non dire fandonie. Io voglio soltanto il tuo bene. Sei tu che prendi sempre le decisioni sbagliate’’
Tipico di suo padre, rigirare la frittata e far magicamente ricadere la colpa su di lei. Per anni Maggie si era sentita sotto pressione, sottovalutata, sotto tono. Per anni aveva vissuto nell’ombra di Morgan, nel continuo terrore di deludere suo padre, di deludere la sua famiglia, di infangare il suo prestigioso cognome. Ricordò di quando, da bambina, con la tata, imparava ad usare le posate d’argento: da sinistra a destra, quelle per il caviale, la pasta, la carne, il pesce, la frutta, il dolce.
Quando sono mai stata me stessa?
‘’Non sta a te decidere se le mie scelte sono giuste e sbagliate’’ era stata la rabbia a prendere parola, ad occupare ogni centimetro del suo corpo. Solo qualche tempo prima, non si sarebbe sognata mai di rispondere a suo padre con quel tono saccente. ‘’Ho diciotto anni, questa è la mia vita. Non ti ho mai mancato di rispetto, non ho mai fatto qualcosa di disonorevole, sono sempre stata presente a tutte le feste programmate e a tutte le tue stupide cene di lavoro. Non ho mai detto una singola parola, mi sono fatta pettinare i capelli e scegliere i vestiti e truccare, mi sono fatta pilotare, soltanto per compiacerti. E non è mai stato abbastanza. Sono esausta di navigare controcorrente, di cercare di accontentare qualcuno di incontentabile, di sentirmi costantemente ferita ed inadatta. Ora mi sento bene, finalmente, e non ti lascerò rovinare anche questo, mi dispiace.’’
Dan sgranò gli occhi, perfino la sua corazza impenetrabile di indifferenza si ruppe. La guardò esattamente allo stesso modo in cui guardò Morgan quando gli disse di voler andare – di esigere di andare – alla scuola pubblica. Gli occhi azzurri, gli stessi che aveva anche lei, erano vitrei ed incolore, eppure c’era qualcosa nel suo volto grazie al quale Maggie riuscì a leggerlo: non era arrabbiato, non era neanche deluso. Proprio come quella volte di tanti anni prima, in una casa che non sembrava nemmeno più la stessa, era sorpreso. Sgradevolmente sorpreso. Dan si rese conto in quell’esatto istante che, purtroppo, si era avverato il suo peggior incubo: non aveva più niente sotto mano, tutto stava sfuggendo al suo controllo. La lontananza di sua moglie, la distanza di sua figlia, il lavoro pesante. Ogni cosa.
Sospirò per l’ennesima volta, poi si alzò.
Margareth si convinse che volesse avvicinarsi per darle un sonoro schiaffo: suo padre non aveva mai alzato un dito sulle sue figlie, neanche da bambine e anche perché era sempre impegnato, però quello sarebbe stato il momento giusto. Anche Celine dovette pensare la stessa cosa, perché scattò anche lei in piedi e raggiunse suo marito. Gli poggiò le mani curate sulle spalle, era teso come le corde di un violino. ‘’Calmati’’ sussurrò.
Per cui furono sorprese entrambe nello scoprire che, semplicemente, si fosse alzato per andarsene. Uscì dal salone velocemente come vi era entrato, con l’andatura storta ed ingobbita di chi ha troppi pensieri per la testa e troppe responsabilità fra le mani. Si rintanò nel suo studio, come tutte le volte e come sempre, lasciandole sole.
Celine guardò Margareth, ancora immobile al suo posto, e la raggiunse con due falcate veloci. Fu lei, stavolta, la persona a cui poggiò le mani sulle spalle. Maggie era sicuramente meno tesa di suo padre, ma non riusciva ad articolare parola. L’aveva sconvolto al punto da metterlo a tacere?
‘’E’ arrabbiato?’’ domandò ingenuamente alla madre, perché se c’era qualcuno al mondo che conoscesse Dan Grey meglio di chiunque altro, quello era sua madre. Tuttavia neanche lei riuscì a trovare una risposta coerente.
‘’Io…non lo so’’ ansimò. ‘’Penso che abbia bisogno di restare da solo.’’
Margareth si voltò meglio verso sua madre: neanche il suo volto appariva tanto sereno, i capelli biondi tendevano ormai al grigio, eppure aveva una strana luce negli occhi. Un brillio che non le aveva mai visto prima. Preferì non indagare e non aggiungere nient’altro.
‘’Sì, forse hai ragione’’ rispose, scrollando le spalle. ‘’Io vorrei davvero che andasse d’accordo con Carl, ma credo sia matematicamente impossibile. Vero?’’
Celine le sorrise teneramente, come non aveva mai fatto quando era bambina, come se le avesse appena posto la domanda più sciocca del mondo. ‘’Anche io credo che sia matematicamente impossibile, però – a volte – il destino ci sorprende.’’
Margareth dubitava seriamente che nel suo destino suo padre e Carl Stymest – l’amore della sua vita – giocassero a carte insieme e bevessero brandy, dubitava perfino che si  parlassero senza far scoppiare una guerra fredda. Non se la sentiva di sbarrare tutte le possibilità, ma era solo realista. Tuttavia dedicò a sua madre un sorriso tutto particolare, perché l’aveva rincuorata dopo una vita. Aveva dimenticato – forse non aveva mai saputo – quanto sapessero essere confortanti le parole di una madre.
‘’Grazie’’ le sussurrò, anche se l’avrebbe urlato al mondo.
Grazie per essere ritornata da me, grazie per essere qui, per essere finalmente al mio fianco, per non farmi sentire più sola. Grazie, mamma.
‘’Di niente, tesoro’’ le rispose lei. ‘’Di niente.’’
 
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Cameron afferrò la tazza di cappuccino fumante che la cameriera gli aveva gentilmente portato, rischiando di ustionarsi una mano. Laurine scoppiò in una risata liberatoria per la goffaggine del suo fidanzato, che non sarebbe cambiata mai in vita.
Aveva tinto di nuovo i capelli di rosso, un rosso più tenue rispetto a quello dei primi tempi ma che gli copriva totalmente la ricrescita castana. Non indossava più le lenti a contatto amaranto, aveva deciso di lasciar respirare anche i suoi occhi. Ora erano color castagna, gli stessi di sempre, gli stessi con la quale era cresciuta e che l’avevano vista soggetto di una vita.
Cameron le aveva detto che la preferiva così, soprattutto ora che aveva tolto anche il piercing alla lingua, ma non sapeva in che misura fosse vero. Era palese che il ragazzo cercasse di farla sentire meglio, di risollevarla, di darle qualche sorriso. Era l’unico che ci riuscita.
I ricordi legati ad Holland, suo amico da una vita, torturavano entrambi. Non ne parlavano quasi mai, con Carl ancor meno, però sentivano tutti e tre quella strana presenza che alleggiava sulle loro teste. A volte, a Laurine, sembrava addirittura di sentire la scia lasciata dal profumo di Land, quell’odore acre e piacevole che aveva dato per scontato troppe volte. A volte le capitava di voltarsi di scatto, sicura di vederlo spuntare da qualche vicolo con una sigaretta fra le dita e i capelli platino e gli occhi brillanti. Cam non le parlava mai di lui, non faceva neanche il suo nome, ma c’erano giorni in cui Laurine riusciva a leggerglielo a caratteri cubitali sul volto. Avrebbe voluto aiutarlo, o almeno provarci, come lui provava con lei, ma non ne aveva le forze fisiche. Le faceva perfino male un innocuo ricordo, come avrebbe potuto fare i conti con l’assenza?
La cameriera li lasciò soli con un sorriso cordiale stampato sul volto. Starbucks era poco affollato, quel pomeriggio, forse perché l’estate stava per finire e il clima aveva smesso di essere troppo clemente. Era da quella mattina che una fitta pioggia scrosciava dal cielo, cadevano goccioloni enormi che sembravano voler bucare l’asfalto, e un nuvolone nero era fermo su New York City come fosse una cappa.
Laurine aveva sempre amato NY. Aveva sempre amato l’America in tutte quante le sue sfaccettature, perfino per il clima rigido invernale. Eppure quell’anno sentiva che qualcosa fosse cambiato: aveva l’impressione che il tempo volesse prendersi gioco di lei – di loro – diventando ancora più nero del loro umore. Avrebbe voluto un raggio di sole, anche solo per illudersi. Guardò fuori le vetrate trasparenti che davano sulla strada trafficata e piena di taxi e semafori, e un flashback la investì come un camion. Lei, Cameron, Carl ed Holland seduti allo stesso posto, due anni prima, quando Carl era ancora inesperto del posto e quando tutto quello che gli era successo nell’ultimo periodo era un periodo lontano come i meteoriti.
Ridevano, nei suoi ricordi, tutti insieme.
‘’A cosa stai pensando?’’ Cameron interruppe il flusso dei suoi pensieri, mentre osservava la cioccolata calda che la ragazza aveva ordinato ancora piena e quasi fredda. Lo capiva subito, Cam, quando Laurine si perdeva nel suo mondo e nei suoi pensieri. Era qualcosa di automatico.
E, proprio come qualcosa di automatico, Laurine gli disse la verità.
‘’Ti ricordi quando, due anni fa, eravamo nello stesso posto a sorseggiare le stesse bevande?’’
Non aveva bisogno di fare nomi, Laurine capì all’istante che Cam aveva capito. Erano pochissime le cose che sfuggivano a Cameron Kyle, anche se voleva sforzarsi di risultare simpatico e tonto. Era acuto come un falco, vigile come un’aquila.
‘’Certo che mi ricordo’’ rispose, con un sorriso nostalgico sulle labbra. Fu allora che Laurine si rese conto del fatto che mai – mai – qualcuno avrebbe potuto sentire la mancanza di Holland Todd più di quanto la sentisse Cameron. E non perché gli volesse più bene degli altri o altro, semplicemente perché avevano uno di quei legami – di quei pochi legami – che non si possono spiegare neanche in dieci vite consecutive. ‘’Perché ci stavi pensando?’’
Si aspettava una domanda del genere, per cui non dovette neanche ponderare più di tanto sulla risposta. Scrollò le spalle e: ‘’Mi manca.’’
Cameron sapeva bene quanto Land mancasse a Laurine, perché la conosceva come le sue tasche tanto quanto lei conosceva lui. E si ritrovò a ridere fra se e se per la situazione esilarante: il ragazzo che odiava il mondo più di chiunque altro, era quello che il mondo più amava. Era impossibile non voler bene ad Holland Todd, non legarcisi un minimo, non pregare per il suo bene e per la sua salute. Perché Land ce l’aveva scritto negli occhi chiari sin dal primo giorno, fin dal primo respiro, che fosse oltre anche prima di morire.
‘’Manca anche a me’’ le rispose serafico Cameron, afferrandole la mano con le unghie laccate di nero sul tavolino di legno. Laurine gliela strinse così forte che temette che gli bloccasse la circolazione, ma non fiatò né si mosse. ‘’Però sono fiducioso.’’
Cameron non si faceva scalfire mai, neanche quando rischiava di cadere in pezzi. Trovava sempre il modo per rimettersi insieme da solo, senza chiedere niente nemmeno a lei, senza far trapelare il minimo sforzo. Se c’era una persona, al mondo, a cui Laurine avrebbe voluto assomigliare un minimo quella era Cameron Kyle. Ed era così onorata di amarlo e di essere amata da lui che non riusciva neanche a dirglielo.
‘’Fiducioso…in che senso?’’ aveva bisogno di sentirlo parlare.
Cam sorrise, come quelle volte in cui era sicuro di avere fra le mani una battuta impressionante che avrebbe fatto ridere tutti, come chi la sa lunga e sa di saperla lunga.
‘’Credi davvero che ci siamo sbarazzati di Holland Todd, il rompi coglioni per eccellenza, così facilmente?’’ le domandò, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. E proprio come tutte quante le altre cose più naturali del mondo, Laurine non potè fare a meno di seguire il suo sorriso e stringergli ancora di più la mano. Temette di fargliela andare in cancrena.
‘’Hai ragione’’ sussurrò. ‘’Non ci sbarazzeremo mai di lui, temo’’
Cam scoppiò a ridere sinceramente e genuinamente, facendo comparire una deliziosa fossetta all’angolo della guancia destra. ‘’Hai afferrato il concetto, tesoro’’
Laurine ringraziò ogni Dio del mondo, di ogni singola religione, per aver fatto nascere una persona come Cameron. E ringraziò che fosse la sua persona.
 
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Oggi sono venuto a New York per la prima volta, ed è molto più grande di quel che pensavo.
Non appena ci ho messo piede, mi è saltato alla mente un aforisma di Bukowski: ‘’la gente si aggrappava ciecamente a tutto quello che trovava: comunismo, macrobiotica, zen, surf, ballo, ipnotismo, terapie di gruppo, orge, ciclismo, erbe aromatiche, cattolicesimo, sollevamento pesi, viaggi, solitudine, dieta vegetariana, India, pittura, scultura, composizione, direzione d'orchestra, campeggio, yoga, copula, gioco d'azzardo, alcool, ozio, gelato allo yoghurt, Beethoven, Bach, Budda, Cristo, meditazione trascendentale, succo di carota, suicidio, vestiti fatti a mano, viaggi aerei, New York City, e poi tutte queste cose sfumavano e non restava niente. La gente doveva trovare qualcosa da fare mentre aspettava di morire. Era bello avere una scelta: Io l'avevo fatta da un pezzo la mia scelta.’’
Anche io ho fatto da un pezzo la mia scelta. E non me ne pento. Mentre dormo in hotel, nell’attesa di cercare un appartamento, e guardo i grattacieli da lontano, mi rendo conto che è stata proprio la scelta giusta.
Ho sempre detto a Diana di non aver nessuna paura, a parte quella che avevo per le pistole e che ho superato per necessità. Ho mentito.
Le ho mentito.
Ho paura, una paura fottuta, dei rimpianti. Perché non voglio rimpiangere niente e anche perché non credo che sopravvivrei con il rimorso che mi divora dall’interno. Per cui, regola da ora in poi: no medicine for regret, no regret.
Spero solo, con tutta la mia anima, che New York mi riservi qualcosa di positivo. Che mi porti luce.

 
Lascia sempre vagare la fantasia,
È sempre altrove il piacere:
E si scioglie, solo a toccarlo, dolce,
Come le bolle quando la pioggia picchia;
Lasciala quindi vagare, lei, l’alata,
Per il pensiero che davanti ancor le si stende;
Spalanca la porta alla gabbia della mente,
E, vedrai, si lancerà volando verso il cielo.
-John Keats
 
Carl Pearson
 
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La macchina di Carl profumava di pino. Doveva aver comprato uno di quei portachiavi profumati, perché l’odore delle sigarette era praticamente scomparso. Margareth, sul sedile accanto a quello del guidatore, lo guardava mentre – concentrato – teneva ferme le mani sul manubrio e sogghignava sotto i baffi.
‘’Non mi dirai dove stiamo andando, quindi?’’ si accertò lei.
Carl scosse la testa, come un bambino. ‘’Neanche per idea, quindi risparmia il fiato e non fare domande.’’
Era così leggero, quel giorno, che Margareth non se la sentì di chiedere qualcos’altro e nemmeno di dirgli della discussione che aveva avuto con suo padre la sera prima. Voleva godersi gli ultimi giorni d’estate prima degli esami, voleva godersi Carl, voleva godersi quella serenità tanto inseguita e mai avuta.
‘’Va bene’’ scrollò le spalle. ‘’Per oggi ti faccio vincere.’’
Carl sorrise guardando sulla strada e, Margareth lo notò, quando avvicinò la mano al freno sfiorò la sua gamba. Oltre il jeans, lo sentì forte e chiaro, e lo sentì perfino trattenersi qualche attimo in più.
‘’Come stai?’’ gli domandò lui, con una naturalezza disarmante, mentre Margareth afferrava il cellulare che aveva trillato per un messaggio. Vide Carl aggrottare le sopracciglia, prima di cambiare radicalmente domanda. ‘’Chi è?’’ il tono era completamente differente rispetto alla domanda precedente. E Maggie sorrise vittoriosa, perché non riusciva proprio ad immaginarsi un Carl geloso. E così, imprudentemente, decise che avrebbe voluto vederlo.
‘’Nessuno di importante’’ rispose, bloccando l’iPhone e tornando a guardarlo. ‘’Comunque sto bene, e tu?’’ sorrise.
Le sopracciglia di Carl si aggrottarono ancora di più e, quando si voltò verso di lei per una frazione di secondo, Maggie potè chiaramente vedere quel cipiglio infastidito che lo contraddistingueva.
‘’Non cambiare discorso, Marge’’ disse, serio. ‘’Chi era? Quell’idiota di Henry Andrews o qualche altro…?’’
Margareth gli aveva raccontato di Henry, tralasciando il dettaglio che i suoi genitori avevano sempre stravisto per lui e la sua famiglia, ma come qualcosa di non importante. Di secondario. E credeva che anche Carl l’avesse vista come una cosa futile, che avesse addirittura dimenticato il nome del ragazzo. Ed invece…
Sorrise ancora più ampiamente. ‘’Non è idiota’’ lo difese, divertita, scuotendo la testa.
‘’Non è idiota?’’ le fece eco Carl, continuando a guidare la sua Range Rover indisturbato. ‘’Per favore, credevo avessi gusti migliori.’’
Margareth cercò di trattenere una sonora risata e la domanda tipica ‘’tipo te?’’, invece si contenne e disse solamente: ‘’Non è questione di gusti, è questione di essere obiettivi’’
‘’E va bene’’ la interruppe bruscamente il moro. ‘’Allora salutamelo, quando gli rispondi.’’
Era così divertente vederlo fare l’offeso che Margareth non riuscì più a trattenere una risata e scoppiò fragorosamente a ridere. ‘’Te lo saluto quando lo vedo, al limite, perché non era lui. Era solo Robyn’’
Le sembrò che la faccia di Carl si rilassasse insieme ai suoi muscoli, prima di vederlo scuotere la testa come rassegnato. ‘’Non è divertente, Marge’’
‘’Oh sì che è divertente, invece’’
‘’E poi quando dovresti vederlo, scusa?’’
Era tipico di Carl Pearson poggiare il piede sull’acceleratore quando si innervosiva o si irritava, e difatti stavano correndo tantissimo. Fu in quel momento che Margareth decise che, come dimostrazione di gelosia, poteva bastare. Era più che sufficiente.
‘’Mai’’ sorrise, poggiando la mano sulla sua gamba. ‘’Non hai bisogno di essere geloso.’’
‘’Non sono geloso’’
Tipico di Carl anche negare l’evidenza, proprio come quando era terrorizzato dall’incontrare sua madre. ‘’Come vuoi’’ gli diede corda Maggie. ‘’Non ne hai bisogno comunque, ricordalo nel prossimo futuro.’’
Carl parcheggiò il secondo più tardi, si slacciò la cintura di sicurezza e si voltò completamente. Da quando si erano visti, quel pomeriggio, non si erano ancora guardati per bene. Carl aveva una t-shirt nera con la scritta Vans bianca e i pantaloni scuri, sembrava non sentire il freddo di quella giornata. Ed era sempre perfetto, comunque ed ovunque.
‘’Siamo arrivati’’ le disse. Margareth ebbe il sentore che fosse ancora offeso, e così pensò bene di rimediare prima di scendere dall’auto ed andare ovunque volesse lui. Si sedette sulle sue gambe, proprio come qualche tempo prima, nonostante fossero ormai cambiate un bel po’ di cose, e gli poggiò le mani fredde sul collo bianco. Dopo di che fece scontrare le loro fronti, ce l’aveva ad un palmo dal volto.
Cercò di non surriscaldare, perché Carl Pearson le avrebbe fatto sempre lo stesso – identico – effetto.
‘’Hai ragione quando dici che ho gusti migliori’’ scherzò vicino alle sue labbra, mentre lo sentiva irrigidirsi sempre di più e mentre sentiva le sue mani ancorarsi sui suoi fianchi magri. ‘’Infatti non mi manca proprio niente, non hai bisogno di fare questi pensieri. Anche se non li fai. Non avrebbe senso, no? Lo sai che…’’
Carl sembrava aver paura, spesse volte, che lei pronunciasse quelle due paroline che gli aveva detto pochissime volte. Difatti la interruppe anche in quel momento, dandole un delicato bacio sulla punta del naso e sorridendo. ‘’Lo so, anche io. Ma resti comunque la persona meno divertente sulla faccia della terra’’ le fece l’occhiolino, ritornato quello di sempre. ‘’E ora scendiamo? Abbiamo un appuntamento’’
Margareth ubbidì senza fare altre domande, sentendo Carl afferrare la sua mano non appena misero piede sull’asfalto ed intrecciare le loro dita. Erano in un parcheggio enorme e rettangolare, che le ricordava tremendamente uno dei posti in cui erano stati insieme una delle prime volte. Sulla sinistra c’erano una serie di edifici enormi, che suppose fossero fabbriche, avendo riconosciuto la zona industriale di una frazione di New York, e sulla destra un piccolo negozio con un cartellone fluorescente che recitava Candice.
Ed era proprio il posto verso cui si stavano dirigendo. Il parcheggio, essendo appena le quattro del pomeriggio, era quasi vuoto, così come l’interno del negozio, che si rivelò essere addirittura più grande di quel che si era aspettata. Ed aveva capito, finalmente, dov’erano: un studio per tatuaggi. C’era una signora sulla cinquantina, magrissima e con i capelli di un rosa abbagliante, dietro quello che doveva essere un bancone nero ma che era sommerso dalle riviste di tatuaggi indù o all’henné. Quando il campanellino sulla porta suonò, segnando il nostro ingresso, la donna – piena di piercing sparsi per il volto, tra l’altro – alzò la testa e le sue labbra colorate di rosa si allargarono in un sorriso. Lo stesso che era nato su quelle di Carl.
Non si alzò dalla sua postazione, ma portò le braccia in avanti come ad invitarli ad avvicinarsi. Cosa che fecero.
‘’Carl!’’ esclamò sorpresa, con un sorriso a trentadue denti tatuato in faccia. ‘’Da quanto tempo, bambino! Come stai?’’
La sala d’attesa, quella in cui si trovavano, era piccola ma molto confortevole. Era piena di calendari di uomini tatuati appesi alle pareti e di disegni fatti a mano davvero validi, qualche volta c’era qualche quadro impressionista e un orologio proprio di fronte a Maggie.
Un separé divideva quella stanza da un’altra, che Margareth suppose essere quella dove ci si marchiava la pelle.
‘’Sto bene, Candy, grazie.’’
Continuò a stringerle la mano anche mentre parlava con la donna stramba e si dilungava in chiacchiere di circostanza. Fino a che la tipa con i capelli colorati non spostò il suo sguardo proprio su di lei e poi sulle loro mani intrecciate e poi, di nuovo, su di lei: sorrise ancor di più. Aveva due occhi del colore del carbone.
‘’Tu chi saresti?’’ aveva una tale curiosità nella voce che a Marge ricordò quelle vecchie pettegole che trovava nei paesini del Connecticut. Aspettò che Carl la introducesse, ma siccome ci mise troppo – come suo solito – prese la parola da sola.
‘’Margareth Grey’’ si avvicinò al bancone, tendendole la mano. ‘’Piacere’’
‘’Candice Truman’’ la afferrò. ‘’Ma chiamami Candy, altrimenti mi fai sentire vecchia.’’
Margareth le sorrise prima di ritornare il suo posto. Carl afferrò di nuovo la sua mano ed una sensazione di calore le si estese per tutto il corpo. ‘’E’ la mia fidanzata, te ne ho parlato l’ultima volta’’ aggiunse, sorprendentemente. Il cuore di Maggie si gonfiò fino a diventare sei volte più grande.
‘’Ah è lei, allora! Che carina che sei, proprio come ti avevo sempre immaginata. Devi essere un colonnello per aver messo in riga questo coglione!’’
Maggie scoppiò in una risata liberatoria e per niente nervosa. Tutto l’imbarazzo era improvvisamente svanito, Candy le sembrava una persona simpatica. Doveva avere, più o meno, gli stessi anni di sua madre.
‘’In realtà non credo proprio di essere un colonnello’’ rispose. ‘’Mi dispiace sfasarle un mito’’
‘’Dammi del tu, zuccherino, altrimenti mi seppellisco stasera!’’
‘’Oh ma magari! Potrei seppellirti io, Madame’’ esclamò una voce maschile e roca esterna. Maggie voltò lo sguardo. Dal separè era uscito un uomo alto quasi il doppio di lei, muscoloso come pochi anche se aveva una pancia prorompente, e i lunghi capelli castani. La barba gli copriva quasi tutto il volto, ma non sembrava un brutto uomo. Teneva in mano l’affare per fare i tatuaggi, i guanti in lattice che gli avvolgevano le mani enormi.
‘’Sta’ zitto Steve, mi fai sempre fare brutte figure!’’ lo richiamò Candy, prima di guardare Maggie e sorridere di nuovo, cordiale. ‘’Lui è mio marito, il secondo padrone di questo posto e…’’
‘’Primo padrone’’
‘’Sta’ zitto’’ lo interruppe di nuovo. Non era cattiveria. Era amore. ‘’Dicevo, Maggie, che è un po’ tonto. Non farci troppo caso. Ad ogni modo, Carl, qual buon vento ti riporta qui?’’
Era chiaro che ci fosse andato innumerevoli volte.
Quarantanove volte.
Bastò una semplice occhiata a Steve, che capì tutto immediatamente. Lo fece accomodare, con qualche battuta, oltre il separè, dove c’era un lettino – che le ricordò terribilmente quello dei dottori – e tanti di quegli affari e di quei colori che si perse.
Carl sapeva già dove andare e come muoversi, Steve si era già seduto ed aveva cambiato i guanti. ‘’Cosa facciamo, stavolta? Cinquanta è un numero importante’’ ironizzò. Ricordava addirittura il numero dei suoi tatuaggi?
Carl sorrise, prima di sfilarsi la maglietta ed indicare il punto – uno dei pochi ancora puliti – dove voleva farlo. Esattamente in prossimità del cuore, non proprio in quel posto ma abbastanza vicino. Per Margareth, che aveva paura perfino di un prelievo, era allucinante anche restare a guardare.
Strinse i denti e non disse nient’altro.
‘’Una frase.’’
Margareth vide solo l’ago pungere la pelle, lei che voltava lo sguardo, piccole gocce di sangue che uscivano fuori man mano, ovatta sporca, lei che afferrava la mano di Carl. Lui che, sorridendo, le sussurrava di no quando lei gli chiedeva se gli faccesse male.
Gli faceva male.
E poi, prima che potesse anche solo rendersene conto, la scritta fu completa e spiccò sul petto di Carl – più brillante di tutti quanti gli altri tatuaggi – come l’insegna luminosa dello stesso negozio in cui si trovavano.
 
If you want to do it, you can do it.
 
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SCUSATE SCUSATE SCUSATE per il ritardo, giuro che ho pensato mille volte di scrivere
(visto che sono finiti i capitoli già scritti prima) ma Maggio, a scuola, è TREMENDO e non ho mai avuto modo.
Questo è solo un capitolo di passaggio, comunque, per definire alcune situazioni, tipo quella di Cam e Laurine
e Margareth e suo padre. A metà, spero ve ne siate rese conto, c'è una delle prime pagine
del diario che Carl ha dato a Margareth nel capitolo precedente. Ce ne saranno poche altre, credo, più che diario
è una specie di flusso di pensieri e poesie alla cazzo di cane ahahha
E, dal prossimo, entreranno in scena per l'ultima volta *rullo di tamburi*
Morgan ed Holland. Quanto mi mancano :(((( Volevo, inoltre, approfittare di questo tempo prima che inizi Game of Thrones (lol)
per ringraziarvi di cuore TUTTE, silenziose e non. Siete fin troppo buone e gentili con me e siete il motivo per cui, appena ho un'oretta libera,
mi pianto davanti al pc e mi obbligo a scrivere. Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento.
Alla prossima, buon proseguimento dell'ultima settimana d'inferno.
Ed in bocca al lupo per chi ha la maturità. FORZAAAAAAA
Harryette

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Capitolo 32
*** 31- My every road leads to you ***


j
 

| Capitolo Trentesimo |
My every road leads to you
 

La spalla di Carl sfiorava leggermente quella di Margareth ad ogni movimento che compiva, anche e soprattutto involontariamente. Maggie non aveva mai avuto modo di vedere Carl vestito in modo davvero elegante, quello stile che contraddistingueva le cerimonie e gli eventi importanti e imperdibili. Eppure, come aveva già precedentemente immaginato, sfiorava l’incredibile.
Si domandò se esistesse qualcosa, al mondo, che riuscisse a stonare con Carl Pearson, e la risposta – ad ogni modo – fu comunque scontata.
No.
Aveva una camicia di lino bianco a fasciargli il corpo asciutto, senza nessuna cravatta. Si era presentato a casa sua, quella mattina, addirittura con un chiodo di pelle nera al posto della solita giacca.
Non poteva dire di averlo mai visto con qualcosa addosso che non fosse un jeans, o un jeans un po’ più classico e senza le solite strappature, ma Carl quella mattina l’aveva anche piacevolmente sorpresa: indossava un pantalone di stoffa nero, abbastanza stretto ma che gli donava in modo assurdo. Ai suoi occhi sembrava uno di quegli impresari della Grande Mela che aveva avuto modo di conoscere anche da vicino.
Lei aveva optato per qualcosa di fine ma non troppo esagerato, anche perché aveva una paura terribile di sentirsi a disagio o di essere discorde col resto degli invitati: aveva un tubino rosa carne, che si confondeva con la sua carnagione chiara, senza fronzoli né decorazioni. Aveva deciso di spezzare la monocromia con una collana di perle nere, dello stesso colore delle scarpe vertiginose che – sapeva – l’avrebbero fatta imprecare e dannare prima della fine della giornata. I capelli li aveva lasciati sciolti, biondi e liberi, mentre le accarezzavano le spalle.
L’unico accorgimento, sotto consiglio di Hollie e di sua madre, fu quello di aggiungere una piccola fascia nera che glieli alzasse dalla fronte. Quasi non si era truccata, ma l’effetto nature era quello che voleva.
Non era nemmeno lontanamente paragonabile a Carl.
Margareth non gli aveva detto quanto stesse bene, e non perché ne fosse imbarazzata o altro, ma semplicemente perché non avevano avuto tempo. Carl, le aveva detto, era stato indeciso fino all’ultimo minuto sulla camicia da mettere (cose da non crederci) ed erano in terribile ritardo.
Il tipico traffico delle dieci di New York si smentì solamente quel giorno, stranamente, e a Maggie piacque pensare che fosse stato una specie di aiuto dal cielo. Erano arrivati in una chiesetta alla periferia di NYC con soli otto minuti di ritardo, un record considerata l’ora in cui si erano degnati di partire da Manhattan.
Carl, durante il viaggio in auto, non aveva staccato per un secondo le mani dal manubrio e non aveva allentato nemmeno la presa.
Non l’avrebbe ammesso mai, ma Margareth capì benissimo che era in ansia: dopotutto, era pur sempre il matrimonio della sua unica sorella. E del suo migliore amico. Doveva essere un grosso carico di emozioni, che – non essendo mai espresse dal sottoscritto – finivano per ingigantirsi ancora di più.
‘’E quindi Zayn l’ha convinta?’’ gli aveva chiesto lei, per cercare anche di distrarlo.
‘’Alla fine sì, direi di sì’’ le aveva risposto lui. Margareth aveva creduto fino all’ultimo minuto che gli sarebbe toccato prendere un aereo, perché era sempre stata convinta che Zayn e Diana avrebbero celebrato il loro matrimonio a Leeds o quantomeno in Inghilterra. Ed invece, una settimana prima, Carl le aveva detto che Zayn – alla fine – era riuscito a convincerla a farlo in America. Dopotutto, il suo sangue di americano – provenendo anche lui dal Bronx – non si era assopito.
A Maggie fu difficile immaginare una Diana reticente.
‘’Però ha pagato personalmente il viaggio a tutti i parenti inglesi di Diana’’ aveva aggiunto il ragazzo, con un sogghigno sul volto.
‘’Equo’’ aveva scrollato le spalle Margareth.
La chiesa era stata addobbata in modo sobrio ma assolutamente meraviglioso. Il colore principale era il bianco, ma un po’ ovunque spiccavano anche particolari di un giallo tenue, quasi bordò. Tutta la navata principale era stata decorata con un tappeto dello stesso giallo gentile, che correva elegantemente fino all’altare, e su ambo i lati c’erano bellissimi giochi di fiori degni del fioraio migliore di tutti i tempi.
Ma la cosa che colpì maggiormente Margareth, più di tutte quante le altre e anche più dei piccoli fiorellini posti addirittura su ogni panca per gli invitati, fu la decorazione sull’altare.
Oltre alle due piccole colonne di sinistra e di destra, sulla quale erano posti enormi mazzi di tulipani bianchi, tutto il recintato era stato addobbato con piccole candele gialle che regalavano al posto un’aria familiare e profumavano l’ambiente.
E, mentre si recavano al loro posto – dal momento che c’erano dei segnaposti che indicavano la predisposizione –, Margareth vide Zayn. Si avvicinò all’altare e si poggiò ad una delle due piccole colonne, prendendo a consumare la porta d’entrata.
Stava morendo d’ansia, ed era visibile anche a chilometri di distanza.
Ed era meraviglioso.
Indossava un completo bianco, che lo faceva sembrare ancora più magro ed irraggiungibile di quanto già non fosse, ed una camicia nero inchiostro che spuntava fuori dalla giacca. Neanche lui aveva cravatte, l’unico accessorio molto elegante erano le scarpe di pelle scura, leggermente a punta e decorate con strani ghirigori. E, la cosa che Margareth non potè far a meno di notare, si mostrò in tutta la sua magnificenza: una rosa nera nel taschino della giacca.
Maggie notò che anche Carl aveva preso ad osservare il moro, con l’unica differenza che Zayn – come fosse stato chiamato da una falena – voltò lo sguardo e lo incatenò a quello dell’amico.
Margareth si sentì quasi un intrusa e fece per voltare lo sguardo, ma i due furono più veloci di lei: dopo un leggero sorriso di Carl seguito da uno un po’ più teso di Zayn, i due tornarono a guardare cose diverse.
Zayn l’entrata, sperando probabilmente di vedere presto la donna con la quale aveva scelto di passare il resto della sua vita, e Carl si voltò verso di lei.
Non aveva ancora detto nulla da quando erano scesi dalla macchina e avevano messo piede nella chiesa ormai gremita di gente, tutta sconosciuta o quasi agli occhi di Margareth.
Si avvicinò al suo orecchio, per non rompere il silenzio del luogo. Maggie sentì il suo fiato caldo sul collo e si domandò come facesse Carl a farle sempre lo stesso effetto.
‘’Mi credi se ti dico che non ho mai visto Zayn più impalato di oggi?’’ le sussurrò all’orecchio, facendola sorridere e scuotere la testa.
‘’Vorrei vedere te’’ lo scimmiottò.
Carl sogghignò, il solito sogghigno che non sarebbe cambiato mai, e poi ritornò a volgere lo sguardo davanti senza però allontanarsi.
‘’Non riuscirai mai a mettermi l’anello al dito, Margareth Grey’’ la prese in giro, facendole l’occhiolino.
E lei ricambiò con la stessa moneta.
Era anche questa una delle cose che aveva imparato da quando stava con Carl, il saper rispondere a qualcosa di pungente con qualcosa di altrettanto pungente, il saper testare e tenere testa. La Margareth di prima, la Margareth di Morgan, non sarebbe mai riuscita a farlo.
‘’Nemmeno tu, Carl Pearson’’ sorrise. ‘’Non illuderti’’
Eppure dovettero interrompersi perché il portone di legno massiccio principale si aprì con una violenza quasi atroce, e un grosso fascio di luce entrò nella chiesa illuminando ancor di più i volti di tutti i presenti. Ed il volto di Zayn, vitreo.
Dall’organo posto al piano superiore dell’altare e dal coro che lo affiancava, si diffuse una musica dolce che Maggie riconobbe come la classica marcia nuziale. Forse con qualche differenza e qualche cambiamento coraggioso, ma pur sempre una marcia nuziale.
E tutti, compresi lei e Carl, si voltarono in direzione dell’entrata per vedere il meraviglioso spettacolo che lei immaginava sarebbe avvenuto di lì a poco. Si sentì emozionata anche lei, insieme ai parenti e a Zayn e agli amici stretti e al ragazzo che amava.
Era sempre stata troppo sensibile.
Cercò di non pensare al fatto che fossero praticamente sulla prima panca della chiesa, perché Carl – ad inizio cerimonia – avrebbe dovuto fare il testimone, e che era sotto la vista possibile di tutti. Ringraziò il signore per essersi truccata poco.
Strinse fra le mani la sua pochette nera e sospirò, poi sorrise alla vista di quello che aveva già visto nella sua mente.
Una ragazza dai capelli viola sistemati in un’acconciatura difficilissima quanto bellissima, precedeva la sposa con passo lento e felpato: il vestito giallino che indossava, con un corpetto a cuore tempestato di piccoli diamanti e che scendeva morbido sulle sue gambe fino alle caviglie, creava un mix simpatico con i capelli.
Stringeva in mano un mazzo di margherite, mentre camminava con le spalle dritte e un sorriso sul volto rivolto verso Zayn. Era la damigella, Diana gliene aveva parlato qualche volta.
E subito dopo di lei, eccola.
Margareth non credeva di aver mai visto una sposa più bella, una donna più bella, di Diana Pearson in tutta la sua vita. Ed era stata ad innumerevoli matrimoni, uno più sfarzoso dell’altro.
Diana indossava un abito bianco e lungo: le maniche erano lunghe ed erano di velo trasparente, sulle spalle c’erano dei piccoli ricci che la rendevano ancora più eterea, che scendevano sul seno fino a chiudervisi sotto. Dall’interno emergeva un corpetto di raso bianco, decorato in pizzo, a forma di cuore, che le lasciava scoperte le clavicole. Nessuna collana decorava il suo collo perché splendeva di luce propria.
In vita, a stile impero, una cintura di raso decorata con un disegno di foglie dorate spezzava la continuità dell’abito e lo faceva scendere morbido sulle gambe esili e lunghe.
Sotto il sottile strato di velo bianco della gonna, ce n’era un altro di pizzo che fuoriusciva dallo spacco destro e toccava terra. E, nonostante fosse leggermente visibile il body di pizzo, rimaneva la cosa più di classe che esistesse al mondo. Stringeva un mazzo di rose nere.
I capelli erano stati allisciati e raccolti in un semplicissimo chignon dietro la nuca, mettendo in risalto il suo volto gentile e gli occhi chiarissimi.
Gli stessi occhi di Carl.
Gli stessi occhi che, ora, accanto a lei erano lucidi. Margareth sorrise leggermente fra sé e sé, perché non aveva mai visto Carl (quasi) piangere di gioia.
‘’Tua sorella è bellissima’’ gli sussurrò all’orecchio.
Come te.
Carl non rispose ma, senza distogliere gli occhi dalla sposa, le dedicò un piccolo sorriso. Un sorriso felice. Quasi quanto quello che attraversò il volto di Zayn quando vide Diana.
Ed accanto a lei, c’era un uomo.
Nonostante Maggie sapesse che il padre di Carl e Diana – Peter Pearson – fosse in prigione da anni, capì immediatamente chi fosse l’uomo accanto a lei. Proprio lui.
Neanche volendo avrebbe potuto negare la somiglianza, la sicurezza nel camminare, lo sguardo preciso ed attento. E neanche volendo avrebbe potuto negare la somiglianza assurda dei loro occhi trasparenti.
Ecco da chi avevano preso.
Non si chiese come avesse fatto ad essere lì, neanche lo domandò e subito dopo dimenticò di averlo anche pensato: era una giornata troppo importante per le domande. Peter indossava uno smoking nero che gli fasciava il corpo robusto, ed una camicia dello stesso colore con una cravatta scura. Sembrava qualcuno di importante.
Ed era felice, commosso, gli occhi lucidi li avrebbe notati chiunque.
Carl le afferrò la mano nell’istante in cui Zayn afferrò quella di Diana, arrivata all’altare, e in cui Peter si fece da parte, sedendosi accanto ad una donna che Margareth sentì di aver già visto. Aveva un volto così conosciuto che si sorprese di come non avesse fatto a capirlo prima: stretta in un vestito rosso e con i capelli neri legati in una coda di cavallo, la madre di Diana piangeva disperatamente con un fazzoletto stretto fra le mani. Peter le poggiò una mano sulla spalla e, nonostante sapesse che tra i due non scorresse buon sangue da quando Peter l’aveva lasciata ed aveva sposato la mamma di Carl, notò quanto alla donna avesse fatto piacere quel gesto. Si tranquillizzò.
Margareth trattenne un sorriso tenero.
Prima che potesse anche accorgersene, Carl le si avvicinò e le scoccò un piccolissimo bacio sulla guancia prima di avviarsi verso l’altare. La testimone di Diana era una ragazzina bassa e dai crespi ricci dorati, che aveva lasciato sciolti sulle spalle, stretta in un vestito verde acqua a palloncino che la faceva sembrare anche leggermente più alta per via delle zeppe altissime.
Maggie non l’aveva mai vista – ovviamente – né tantomeno ne aveva mai sentito parlare, ma i suoi occhi neri e le sue spalle morbide le fecero capire che dovesse essere proprio una brava ragazza.
Il suo volto rotondo e pulito le suggeriva l’immagine di una ragazza studiosa che aveva degli obiettivi e che si impegnava enormemente per perseguirli. E il sorriso gentile sulle sue labbra completò il quadro: chiunque lei fosse, era felice quasi come tutti quanti loro.
La cerimonia non fu lunga, Diana non lasciò nemmeno per un secondo la mano calda e scura di Zayn e – quando arrivò il momento delle promesse a vicenda – espose una voce ancora più agitata di quella del ragazzo.
Margareth non era mai riuscita ad immaginare Diana Pearson che parlava con una voce insicura e rotta dall’ansia, era semplicemente una idea che non l’aveva nemmeno mai sfiorata. Come se alla ragazza riccia dagli occhi di ghiaccio fosse impossibile spezzarsi o cadere, proprio ciò che pensava di Carl le prime volte in cui l’aveva visto e quando aveva imparato a conoscerlo. La stessa cosa che, inevitabilmente, aveva pensato di Peter Pearson.
Arrivò in quel momento alla conclusione che aveva sbagliato tutto sin dall’inizio, che aveva errato nei calcoli, che si era adagiata sugli allori e aveva commesso lo sbaglio più grande di tutti: si era affidata all’apparenza. Aveva visto la superficie e aveva dato per scontato che fosse allo stesso modo anche la polpa interiore.
I Pearson non erano affatto indistruttibili, non erano affatto inarrivabili, non erano fatti di ferro né di cemento armato, non nascondevano l’indifferenza e l’apatia dietro la patina trasparente dei loro occhi.
Anzi.
Avevano un mondo, dietro gli occhi di cristallo, un mondo enorme e bellissimo, un mondo dove valeva la pena vivere e piangere e sorridere e morire. Pensò che, infondo, era proprio stata fortunata ad averli incontrati. Ad aver avuto il modo – e l’onore – di conoscerli, di studiarli, di poterli ammirare da vicino come fossero statue Elleniche. Somigliavano tanto a delle linee curve disegnate sulla superficie di un foglio bianco, apparentemente senza un senso eppure belle ed armoniose da vedere. E la verità, quella celata e sorprendente, del vero significato che nascondono.
Nessuno è indistruttibile, nessuno è inarrivabile, nessuno è fatto di ferro o di cemento armato, nessuno può nascondere indifferenza e apatia dietro la patina dei propri occhi, semplicemente perché non esistono. Semplicemente perché tutti – nessuno escluso – crollano. Si spezzano. Si feriscono. Semplicemente perché il peso delle parole non solo dipende da chi le dice ma anche da quanto potere gli si dà.
Se non lascio entrare niente, niente mi distruggerà.
E poi arriva quel qualcuno, quella persona che – non importa il tempo, non importa le difficoltà, non importano gli sguardi altrove né le parole taglienti – ti penetra, ti entra dentro senza muovere un solo passo da fuori, che riesce a vederti per quello che sei, che non si spaventa. Che impara ad amarti e ti insegna a farlo a tua volta, e allora a cosa serve proteggersi se non si ha più paura di essere distrutti?
Ci sono sguardi fatti di tutte quelle parole non dette, sguardi fatti per bruciare come fuoco benevolo, sguardi che ti scavano dentro davanti a tutti e tu puoi solo restare a guardare, inerme: sguardi come quello che Zayn rivolse a Diana l’istante dopo il suo ‘’lo voglio’’ a malapena sussurrato, sguardi che – lo capisci – significano che davvero lo vuoi.
E poi c’erano le lacrime della mamma di Diana che ritornarono pian piano a far capolino sul suo volto magro, il mento altero rivolto verso l’alto di Peter Pearson in una voluta posa da duro, Carl che stringeva le mani in pugno per cercare di controllare le emozioni (ancora una volta, ancora per sempre), la damigella vestita di giallo che sorrideva a centodue denti sotto la sua zazzera di capelli viola, c’erano gli applausi delle centinaia di persone invitate che Margareth si era voltata per guardare, c’erano i tacchi alti che non importa se fanno male, non importa nient’altro.
C’era una luce anomala che fuoriusciva da una delle finestre arcuate sull’altura della cupola, una luce giallognola che illuminava la chiesa ancor più di prima, che sembrava voler prendere parte all’euforia generale. Margareth, per un istante, un solo misero istante, ebbe l’impressione di vedere un’altra persona vestita di bianco, un altro ragazzo accanto a lei all’altare, con i capelli biondissimi che brillavano sotto quella luce dorata e familiare. Morgan scomparve ancor prima che potesse battere le sopracciglia per accertarsi della veridicità di quel che aveva appena visto, la sposa aveva i capelli castani ed era più alta, lo sposo era l’esatto opposto di quel che era stato – e che era – Holland Todd.
Maggie scosse la testa e cercò di ignorare la consapevolezza che era la seconda volta che li immaginava così, sorridenti, spensierati, felici.
E poi, come in un’esplosione di mille fuochi e mille stelle e mille meteore e supernove, Zayn e Diana si baciarono.
Vi dichiaro marito e moglie.
 
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Holland indossava una felpa slabbrata dei Doors e i pantaloncini che metteva quando faceva basket. I capelli biondi erano sparsi un po’ ovunque, diretti in tutte le direzioni e in nessuna allo stesso momento, e lo facevano sembrare più piccolo dei suoi diciotto anni.
Morgan camminava accanto a lui, ogni tanto le loro braccia si sfioravano ma il tessuto della sua felpa nera e di quella rosa della ragazza era troppo spesso perché potessero sentirsi realmente. Morgan aveva stampata sul volto la stessa espressione di quando Land l’aveva conosciuta: un misto di infelicità e pretesa, un insieme di ‘’vaffanculo’’ e ‘’portami via lontano.’’
Non la conosceva ancora bene, Morgan, eppure aveva ben immaginato il suo essere e la sua essenza: tipica ragazza ricca alla ricerca del brivido, tipica aristocratica che vuol toccare il fondo per provare l’ebrezza di risalire e ritornare a prendere il thè alle cinque del pomeriggio con le amiche alto-borghesi. Eppure c’era qualcosa in quella ragazza, qualcosa a cui non riusciva a dare un nome e che non riusciva ad indentificare, che lo spingeva verso di lei ogni volta che tentava di allontanarsene.
Holland non era mai stato un ragazzo impulsivo né tantomeno un ragazzo preso da qualcosa, affrontava tutto con il tipico disinteresse che lo contraddistingueva e rispondeva con le solite frasi saccenti che dimostravano quanto poco tenesse a tutto ciò che aveva attorno.
Non aveva mai avuto una relazione seria, non la cercava, non aveva bisogno di costanti perché la sua bussola non aveva il Nord.
Eppure Morgan Grey lo stava scombussolando.
‘’So già a cosa stai pensando’’ lo distrasse dai suoi pensieri, lei, incrociando le braccia al petto. Nessuno sapeva a cosa pensasse. Nessuno aveva la pretesa anche solo di insinuarlo. Coraggiosa, la ragazza. ‘’Povera ragazzina ricca, vorrei proprio vedere come se la caverebbe se avesse un affitto sulle spalle e una vita da portare avanti.’’
Era esattamente quello a cui stava pensando. Fu piacevolmente sorpreso, alzò un sopracciglio e sogghignò. ‘’Non pensi che tu sia la prima a pensarlo, se ti dimostri così sicura che sia ciò a cui sto pensando io?’’
Morgan lo guardò dubbiosa, prima di ritornare a consumare l’asfalto della strada. ‘’Non sono come tu pensi che io sia’’ disse, dopo un tempo che parve infinito.
‘’E allora come sei?’’
Holland non aveva intenzione di fare quella domanda ad alta voce, era semplicemente qualcosa a cui aveva pensato nella frazione di un secondo e che non era riuscito a trattenere.
Morgan si voltò di nuovo verso di lui, i capelli biondi ad incorniciarle il volto latteo e gli occhi di chi cercava di vedere oltre. Poi scrollò le spalle, ignorando bellamente la domanda. Fu in quel momento che Land capì che, probabilmente, nemmeno lei sapeva come fosse né tantomeno chi fosse. E allora pensò che, dopotutto, poteva permettersi di sbilanciarsi per una volta.
‘’Qual è la tua più grande paura, Morgan Grey?’’ le chiese a bruciapelo.
La ragazzina bionda continuò a camminare allo stesso passo, non si voltò di nuovo per guardarlo, ma rispose alla domanda quasi subito. Come se l’avesse posta a se stessa altre mille volta, prima di quel momento, perché la sua voce uscì fuori sicura e senza la minima presenza di esitazione.
‘’Ho paura di morire’’ rispose.
‘’Bhè, tutti dobbiamo morire’’ la scimmiottò Land. ‘’Fa parte del naturale corso delle cose.’’
‘’Ho paura di quello che succederebbe dopo la mia morte’’ continuò Morgan, come se lui non avesse detto assolutamente niente. ‘’E, sopra ogni cosa, ho paura di non riuscire a dare alle persone un bel ricordo di me.’’
‘’E’ una paura stupida’’ non lo disse con cattiveria, Land, diede solamente voce ai suoi pensieri. Per lui era qualcosa di assurdo e inconcludente aver paura della morte, perché era il fine stesso della vita, come in un cerchio che deve chiudersi per essere completo e per avere un senso.
‘’E tu? Qual è la tua più grande paura, Holland Todd?’’
Aveva una buona capacità di cambiare discorso, la mocciosa, questo occorreva ammetterlo.

‘’Io ho paura del tempo’’
‘’E’ una paura stupida’’
‘’Questo è uno dei motivi per cui io e te non andremo mai d’accordo, ragazzina.’’

 
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La sera era scesa sulle loro teste, le stelle in cielo sembravano voler brillare ancora di più per partecipare in qualche modo alla festa. Il ristorante che Diana – e Zayn, si fa per dire – avevano scelto, dava su un lago artificiale che era calmo come una tavola, era attorniato da un giardino immenso dove erano stati disposti i gazebi bianchi e gialli e che era stato recintato con dei lampioni eleganti. Margareth non aveva avuto mai il minimo dubbio, conoscendo i gusti di Diana, anche dal magnifico secondo abito da sposa che aveva indossato. Corto fin sopra le ginocchia, di un bianco lucente e decorato da tutti i tipi di merletti e di pizzi presenti sul mercato.
In uno dei pochi momenti in cui era stata libera e si era avvicinata al suo tavolo per scambiare due parole, Diana le aveva detto che proveniva direttamente da Venezia.
Le erano state presentate la damigella, Violet, un’amica dell’università di Diana che si sarebbe laureata a breve, e la testimone, Samantha, che invece aveva conosciuto nella scuola dove aveva iniziato ad insegnare inglese. Le ragazze, amiche anche tra di loro, si erano subito dimostrate gentili e simpatiche, l’avevano messa subito a suo agio. E non era una cosa facile, dopotutto.
Aveva conosciuto Lana, la mamma di Diana e la matrigna di Carl, che l’aveva abbracciata pur non conoscendola per niente e le aveva sussurrato parole dolci all’orecchio. Aveva ancora gli occhi lucidi, nonostante fosse sera inoltrata e sua figlia fosse già sposata da un pezzo.
Aveva conosciuto, personalmente da Carl, il famosissimo Peter Pearson. Pur non essendo stato di molte parole, le aveva stretto calorosamente la mano e aveva tentato di sorriderle nel modo meno invadente del mondo. Le aveva fatto pochissime domande, al contrario di tutti quanti gli altri, e poi aveva guardato Carl a lungo. Aveva sorriso anche a lui, dandogli una leggera pacca sulla spalla. Maggie capì che, probabilmente, voleva significare molto più di quel che sembrò a lei.
Aveva conosciuto una trafila di parenti e di amici che Zayn e Diana avevano tenuto a presentarle, per farla sentire ‘’parte di una strana famiglia allargata.’’
I parenti che appartenevano anche a Carl erano pochissimi, in netta minoranza, quindi lui era rimasto zitto per gran parte del tempo. Al tavolo, poi, erano stati posizionati vicino una coppia di zii inglesi di Diana che – oltre ad avere una parlantina esagerata e quasi incomprensibile – erano stati in silenzio giusto il tempo di un boccone. E Margareth, che per educazione annuiva e prestava attenzione ai loro discorsi infiniti, si era ritrovata imbottigliata nelle loro chiacchiere.
Zia Lucille e zio Edward sembravano volerle raccontare sessant’anni di vita cadauno.
Fu quando l’orologio le segnò le nove in punto che, con lo stomaco pieno e un atroce mal di testa, mentre Lucy continuava a raccontarle qualcosa a proposito di suo figlio trasferito in Cina, Carl si alzò ed – educatamente – si diresse verso le ringhiere che davano sul laghetto.
E lei, a suon di ‘’con permesso’’, si alzò dal suo posto e lo raggiunse.
Vicino all’acqua il clima era meno clemente, tanto che si pentì di non aver portato il suo cardigan nero con sé. Individuò Carl quasi immediatamente, con le braccia poggiate sulla ringhiera grigia e un’espressione di serenità sul volto. La camicia bianca non si era spiegazzata nemmeno un po’, incredibilmente, e i pantaloni gli stavano ancor meglio di prima. Silenziosamente, Margareth gli si affiancò ed imitò la sua posizione. Prese a guardare l’acqua dinanzi a lei anche quando sentì gli occhi di Carl bruciarle il corpo, e poi sorrise senza voltarsi.
‘’Perché sorridi?’’ le chiese immediatamente lui. Solo allora Maggie si voltò verso di lui e poggiò una delle sue mani su quella fredda di Carl.
‘’E’ curioso che tutto sia iniziato con dell’acqua ed una ringhiera e tutto finisca esattamente allo stesso modo.’’
Carl sorrise e le si avvicinò, passandole un braccio attorno alle spalle. Non fu solo per il freddo che Margareth rabbrividì, ma le piacque pensare così. ‘’Hai fatto innamorare tutti gli invitati, non ti ho parlato per un secondo oggi’’ la prese in giro, pizzicandole leggermente una spalla.
‘’Tu puoi parlarmi sempre, però’’ sorrise lei.
Sentì le labbra di Carl fermarsi sulla sua tempia nonostante il bacio fosse finito, sentì il suo respiro, il ritmo veloce del suo cuore al di sotto della camicia, e poi guardò l’immensa distesa d’acqua trasparente che aveva davanti. Trasparente come gli occhi di Carl, limpida come il suo carattere, fresca come la sua personalità, avvolgente come tutto quello che faceva, avvenente come tutto quel che diceva. Vicina, immobile ma pur sempre presente.
‘’Ti amo, Margareth’’ le sussurrò lui, estemporaneo come sempre seppur immensamente giusto.
Immensamente amore mio.
Fu in quel momento che vide le stelle brillare ancora di più, tutte quante allineate sopra la sua testa, la stella polare prima di tutte, che con il loro bagliore rendevano il mondo un posto da vivere. Come Carl Pearson, che aveva reso il suo mondo un posto da vivere.
Pensò che, dopotutto, non avrebbe mai trovato le parole giuste per ringraziarlo. Che nessuna dichiarazione e nessun discorso sarebbero mai stati capaci di esprimere a parole tutto quello che sentiva, tutta la gratitudine che provava, tutta la leggerezza che lui aveva portato nel suo animo senza alleggerire di un minimo il suo. Pensò che Carl lo sapesse, che glielo leggesse negli occhi quella sera e che l’avrebbe letto negli stessi occhi tutte le sere a venire, che non ci fosse bisogno dei paroloni o dei ‘’ti amo’’, ‘che tanto lo sapeva bene quello.
Pensò che non esistesse il destino ma che, invece, esistesse qualcosa al di sopra di loro, qualcuno al di sopra della vita stessa, che decidesse e comandasse e facesse accadere tutte le cose. Pensò che Morgan, quella sera, non dovesse essere poi così tanto lontana, che Holland – insieme a lei – li stesse guardando.
Ti dedico tutta la felicità che sto provando adesso, sorellina, ti dedico tutta la gioia che proverò in futuro e ti ringrazio per essere esistita e per continuare ad esistere nel mio cuore. E penso che esista un posto, da qualche parte ed in qualche tempo, in cui le nostre strade si incroceranno ancora una volta, in cui potrò vederti in tutto il tuo splendore per quella che sei, in cui mi renderò conto – finalmente – che tutte le strade della mia vita, alla fine, mi hanno sempre portato a te.
Pensò che la vita è solo vita, che se ami realmente una persona tutto il resto perde importanza.
Perde importanza il tempo, perde importanza la morte, perde importanza la distanza, l’oblio, il buio. Una volta aveva letto che ovunque sei, ovunque vai, sei sempre ad un millimetro dal mio cuore.
E forse lei sarebbe stata per sempre una bambina viziata, forse Carl l'avrebbe riparata o forse l'avrebbe lasciata rotta e difettosa, così com’era, con i suoi difetti ed i suoi capricci, pur amandola lo stesso. O forse sarebbe cresciuta, maturata, sarebbe diventata la persona che Morgan non aveva avuto modo di diventare, che Holland non aveva voluto essere.
In quella notte in cui le stelle sembravano cantare e sorridere con loro, tutta la tristezza e tutto il dolore e tutte le notti insonni e tutte le lacrime silenziose sparirono in una brezza leggera.
Portate via dal vento, lontano, dove il buio non può e non fa più paura.


 
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SCUSATE SCUSATE SCUSATE. 
So benissimo di essere in ritardo allucinante, ma l'estate mi ha completamente assorbita e 
sono stata a Napoli fino alla settimana scorsa. 
Comunque eccovi qui L'ULTIMO CAPITOLO di Amnesia, prima dell'epilogo...
Evito i sermoni e le filippiche e i pianti perchè li riservo al prossimo capitolo...
Anzi, mi dileguo subito. Spero vi piaccia.
Grazie, come sempre, di e per tutto <3
Harryette

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Capitolo 33
*** Epilogo- It's far from over ***


 
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| Epilogo |
It's far from over
 
A te


Margareth sentì, dal fondo della sua stanza, i passi di qualcuno che si avvicinava progressivamente sempre di più. Probabilmente era Hollie che era venuta ad avvisarla di scendere per il pranzo o sua madre che voleva semplicemente fare due chiacchiere ed evadere dal castello di cristallo che aveva voluto costruirsi.
Ma, quando bussarono alla porta e lei disse il fatidico ‘avanti’, si rese conto di quanto tutte e due quelle sue previsioni fossero profondamente sbagliate.
Dan Grey, con i capelli più bianchi rispetto all’ultima volta che l’aveva visto, prima che partisse per la Danimarca, era di fronte a lei. Il solito completo gessato ed elegante, la solita cravatta Hermès, i soliti gemelli appuntati sulla giacca. Più rughe, forse, ma lo stesso identico volto che l’aveva cresciuta e l’aveva terrorizzata.
Suo padre era sempre stato un bell’uomo, indubbiamente l’età aveva fatto la sua parte ma il fascino dell’irraggiungibile ventenne ricco ed in carriera non l’aveva abbandonato. Lo stesso fascino che l’aveva portato lì dov’era, nonostante la forte famiglia agiata alle spalle, e che aveva messo un anello di brillanti al dito di sua madre.
Eppure, Margareth se ne rese conto, c’era qualcosa che era da sempre mancata sul volto di Dan: un sorriso sincero. Uno di quei sorrisi brillanti che esplodono all’improvviso e che contagiano tutto il resto, quei sorrisi spontanei che sono dati spesso per scontati ma che valgono oro colato. Suo padre non aveva mai sorriso, o almeno non davanti a lei, né tantomeno si era dimostrato di buon umore o particolarmente allegro durante una giornata sì. Probabilmente non l’aveva nemmeno mai avuta, una giornata sì.
E non entrava nella sua stanza dalla morte di Morgan, anni prima, per cui fu inevitabile che una brezza d’ansia le attraversasse la spina dorsale. E la paura che qualche notizia potesse rovinare la sua giornata e potesse scombussolare l’equilibrio precario su cui viveva, la travolse.
‘’Papà’’ disse, non alzandosi dal letto ma mettendosi più comoda.
Dan non le rispose. Dall’alto dei suoi occhi chiari e dei suoi capelli brizzolati, infilò le mani nelle tasche dei suoi pantaloni di cachemire e le si avvicinò, chiudendo la porta.
Maggie si allarmò ancora di più.
‘’E’ successo qualcosa?’’ domandò apprensiva, cercando di non trarre conclusioni affrettate. Suo padre era sempre stato il primo e l’unico uomo capace di farla sentire a disagio in casa sua e di gettarla in un limbo di panico. Non tanto per il suo aspetto, ben curato e ben tenuto, quanto per il fatto che ogni volta che le parlasse sembrava aver pronto qualcosa in grado di ferirla.
‘’Sono solo passato a salutarti, sono appena tornato’’
Maggie sapeva che era dovuto correre e restare in Danimarca per un po’, per le stesse questioni burocratiche che precedentemente l’avevano spinto in giro per il mondo. Eppure, al rientro dai suoi viaggi, mai era entrato in camera sua per salutarla.
Pensò di usare la carta della cortesia, quella che proprio i suoi genitori le avevano affidato. ‘’Bentornato’’ sorrise, tesa. ‘’Sarei venuta a salutarti io a pranzo’’ aggiunse.
C’era qualcosa che non tornava.
Dan le fece un cenno teso col capo, prima di fare un passo indietro ed appoggiarsi alla scrivania. Qualcosa diceva a Maggie che la discussione era appena cominciata, e lei aveva voglia zero di litigare di prima mattina.
‘’Margareth, ascolta’’ iniziò lui, non curante del fatto che lei stesse ascoltando da tantissimo tempo. ‘’Ieri mi ha chiamato il dottor Broome.’’
Il dottor Broome?
Non sentiva parlare di lui da anni, da quando Morgan vi si recava una volta a settimana per tenersi sotto controllo. Le era sempre stato simpatico quell’uomo, nelle poche volte che aveva accompagnato sua sorella. Un arzillo sessantenne con i capelli bianchi e la barba ispida che era capace di fare un prelievo anche alla persona meno predisposta del mondo. Eppure era convinta che la sua famiglia ed Edgar Broome non avessero più niente a che fare dalla morte di sua sorella.
Era stato il suo medico curante, dopotutto.
‘’E perché?’’ gli domandò, allora.
‘’Mi ha detto che recentemente sono stati scoperti altri tre casi molto simili a quello di tua sorella’’ non dice il suo nome, pensò la bionda, tipico. ‘’La malattia è sempre considerata abbastanza rara, ma adesso che ci sono più possibilità di studiarla attivamente lui pensa che…si, insomma, pensa che possa essere trovata una specie di cura.’’
Margareth rabbrividì.
Forse un tempo si sarebbe arrabbiata con il mondo, o magari con Dio, perché reputava immensamente ingiusto che a sua sorella quella cura fosse stata negata perché aveva avuto la sfortuna di ammalarsi prima delle altre. In quel momento invece, con sua grande sorpresa, non provò rabbia e nemmeno rancore. L’unico sentimento che invase il suo cuore fu sollievo.
Sollievo non solo perché a qualcun altro, forse, sarebbe stato risparmiato il calvario che era toccato a lei e alla sua famiglia, ma anche perché sapeva che era uno dei desideri più grandi di Morgan.
Ricordava benissimo tutte le parole che la sorella diceva ai medici e alle infermiere, tutte le sue ricerche, tutti i libri che si faceva spedire da tutte le parti del mondo e che leggeva con un dizionario di inglese accanto, tutti gli appelli che aveva fatto anonimamente alla sanità e alle associazioni del Find a cure.
Ed ora, a distanza di tempo, Maggie riuscì a figurarsi davanti agli occhi quello che sicuramente Morgan doveva aver pensato nel momento in cui aveva realizzato di star per morire.
Che la mia morte non sia vana.
Che la tua morte non sia vana.
‘’Sono…contenta, credo’’ disse, cauta, a suo padre. ‘’La medicina sta facendo progressi, è confortante’’
‘’Non è questo quello che volevo dirti, Margareth’’ sospirò suo padre, come se avesse ancora un enorme macigno che gli premeva sul petto. E allora lei tornò a tendersi e ad allarmarsi. ‘’C’è una cosa che non sai riguardo tua sorella, una cosa che io e Celine abbiamo preferito non dirti…era da un po’ che pensavo che avessi il diritto di sapere, la telefonata del dottor Broome l’ho vista come una specie di segno. Non credo in queste cose, e lo sai bene, ma penso ancora che tu abbia il diritto di sapere. E credo che, ora come ora, tu sia in grado di accettare la notizia ed elaborarla.’’
‘’Vai al punto, per favore.’’
Non era mai stata così in ansia, principalmente perché suo padre non aveva parlato mai in privato con lei di Morgan.
‘’E’ stata Morgan a staccarsi il respiratore e i lavaggi’’ ansimò, come se gli costasse fatica perfino ricordare. ‘’I medici non se ne sono accorti perché li riattivava nel momento in cui li vedeva entrare, per poi rimuoverli subito dopo. Il dottor Broome, al tempo, mi disse che se lei non l’avesse fatto avrebbe potuto resistere molto di più. Non saprei dirti di quanto ma…’’
Margareth alzò una mano per interromperlo e lui si fermò. Quando era agitato, suo papà iniziava a parlare senza sosta. E lei aveva bisogno di silenzio.
‘’Mi stai’’ sussurrò. ‘’Mi stai dicendo che si è uccisa?’’
‘’No’’ rispose. ‘’Ti sto dicendo che avrebbe potuto vivere un po’ più a lungo. Sappiamo entrambi che sarebbe finito tutto allo stesso modo, ma il finale non l’ha scelto il caso o il destino. L’ha scelto Morgan.’’
‘’L’hai chiamata per nome’’ Margareth non si rese conto di avere le lacrime agli occhi fino a che suo padre non le si avvicinò e si sedette accanto a lei. ‘’Era da anni che non lo facevi.’’
Suo padre non rispose e non si mosse, eppure lei notò chiaramente un’ulteriore ruga solcare il suo volto stanco. Non cercò contatto, non dimostrò segni di cedimento, i suoi occhi non si inumidirono neanche per un secondo, eppure Margareth riuscì a respirare tutto il suo dolore.
Aveva sempre dato per scontato il suo dispiacere per primo, poi aveva imparato a conoscere anche quello struggente di sua madre, ma non si era mai fermata a pensare all’uomo che aveva davanti.
Dan Grey, apparentemente indistruttibile, un infallibile politico, una risposta tagliente sempre pronta e una stretta di mano sempre forte e sicura. Proprio come Morgan.
Tutti crollano, tutti soffrono, tutti subiscono in silenzio i colpi che la vita manda, tutti respirano a rantoli, tutti si nascondono dietro patine di finzione, dietro una vita che sembra perfetta, dietro una famiglia che sembra insolubile, dietro un lavoro sicuro e una casa di quattro piani.
Dall’esterno, pensò Maggie, erano sempre apparsi come la famiglia ideale, quella che si vede in televisione, quella dove si parla a tavola dei problemi e dove si ricordano a memoria compleanni e feste comandate. Una famiglia ricca ed unita, una casa a Manhattan, una servitù a disposizione, un futuro assicurato e già scritto per generazioni. Una famiglia che era rimasta unita anche dopo la morte della primogenita, che andava a messa la domenica insieme e cenava e pranzava con puntualità.
E poi guardò suo padre più da vicino, da vicino come non l’aveva mai visto, e si rese conto di quanto le apparenze ingannassero.
Si rese conto di quante crepe e quante cicatrici potessero essere nascoste magnificamente dietro una parvenza di ostentata quotidianità. Come se andare in chiesa e andare a scuola fosse sinonimo di rinascita.
E quando Margareth osservò meglio suo padre, quel giorno, capì che non ci sarebbe stata nessuna rinascita. Non per lui, non per sua madre. Non ci sarebbe stata nemmeno per lei se non fosse stato per Carl.
Avrebbe voluto avvicinarsi a suo padre, almeno poggiargli una mano sulla spalla, ma non se la sentiva. Non quando non l’aveva mai fatto.
‘’Papà’’ ritornò a parlare, attirando di nuovo la sua attenzione. ‘’Non hai paura di dimenticarla? Di dimenticare il suo volto o la sua voce?’’
Non ne avevano mai parlato. Non avrebbe nemmeno mai pensato che sarebbe successo, prima o poi. E suo padre le sembrò senza protezioni e senza difese per la prima volta, fragile e volubile.
Come lei all’inizio, e conosceva quell’opprimente sensazione di impotenza.
‘’Non c’è giorno in cui non smetta di pensarci per paura che accada’’ rispose. ‘’E mi dispiace anche per te, Margareth. Non deve essere stato facile’’
‘’Non sarà mai facile’’ si avvicinò un po’ di più. ‘’Però penso che ne valga la pena. Morgan avrebbe voluto così’’
Suo padre si alzò e si sistemò il pantalone da pieghe inesistenti, prima si ritornare ad indossare la sua maschera e dirigersi verso la porta.
Prima di andar via, però, si fermò di spalle e disse esattamente quello che Maggie pensava non avrebbe mai detto.
‘’Morgan sarebbe stata fiera di te.’’
Anche io sono fiero di te.
 
 
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Carl le accarezzò la spalla nuda e poi il seno, inondando di baci tutto quanto il suo collo. L’altra mano era ancora ancorata sul suo fianco, stretta come se fosse una questione di vita o di morte, mentre le loro gambe erano intrecciate in modo indissolubile.
 
Holland le accarezzò il fianco, per poi risalire sul braccio e sulla spalla e finire sull’incavo del suo collo. Morgan era nuda ed immobile sotto di lui, gli occhi azzurri chiusi e la bocca ancorata sul petto bianco del ragazzo.

Sentiva il suo profumo, quell’odore che aveva imparato ad amare e che aveva dato senso anche ai giorni più insensati, sentiva i suoi capelli con sfumature rosse accarezzarle la pelle sensibile e solleticarle l’incavo del collo, lo sentiva muoversi sempre più velocemente. E poi sentiva lei, con le gambe attorno alla sua vita, con le mani sulle sue spalle e le unghie nella carne, mentre baciava ogni centimetro del suo volto.
 
Holland non si era mai spinto dentro di lei così, prima di quel momento. Non aveva mai avuto un odore così pungente, così presente, come se volesse marchiarle anche la pelle come un animale. I capelli biondi ossigenati le graffiavano la spalla mentre lei afferrava e stringeva in un pugno il copriletto di filo bianco. Lo sentiva lì, lì ed ora, nelle ossa e nella carne, che la apriva e la rendeva qualcosa di immateriale.

Carl la penetrò poco tempo dopo, in modo così delicato che quasi all’inizio non se ne accorse. Era la prima volta che si dimostrava così sensibile e delicato, e Maggie sapeva anche perché. L’aveva chiamato, proprio come aveva sempre fatto dall’inizio, stavolta senza piagnistei, e gli aveva detto che aveva bisogno di lui. Che Morgan aveva deciso spontaneamente di stroncare prima la sua vita e che lei aveva bisogno di lui.
 
Forse Holland sentiva che quella sarebbe stata l’ultima volta, perché spinse dentro di lei con una forza che non aveva mai utilizzato prima. Morgan non sentì dolore, forse perché era così dilaniata e graffiata che tutto il resto, inevitabilmente, avrebbe perso senso. L’aveva chiamato, proprio come aveva sempre fatto dall’inizio, ovviamente senza piagnistei, e gli aveva detto che aveva bisogno di lui. Che, anche se lui non lo sapeva e non glielo aveva chiesto, aveva appena deciso di allontanarlo ed aveva bisogno di lui.

E Carl era arrivato a casa sua, aveva chiuso la porta a chiave dietro di se, si era voltato verso di lei e si era avvicinato silenziosamente. Margareth era seduta ai piedi del letto, ancora il pigiama a coprirla e i capelli legati in malo modo, lui le aveva preso la mano e l’aveva fatta alzare.
Margareth non era così stupida da credere che Carl non avesse notato gli occhi gonfi, perché fino a poco prima era stata chiusa in un mutismo e in qualche lacrima, ma apprezzò il fatto che non ne fece parole né le chiese altro. Sapeva che glielo avrebbe detto lei, non appena la situazione fosse migliorata.
E allora le aveva sciolto i capelli e aveva passato una mano al loro interno, in modo così lento che Margareth dovette trattenersi dal saltarsi addosso solo perché non ne aveva la forza materiale. Si era avvicinato alle sue labbra ma non le aveva baciate. Aveva sussurrato sopra di esse qualcosa che Maggie non riuscì a capire, e poi lentamente le aveva lasciato un bacio sull’angolo della sua bocca.
‘’Fai l’amore con me, Marge.’’

Holland le aveva sfilato la maglietta gialla non appena si era chiuso la porta della stanza di Morgan dietro di se. Non le aveva chiesto niente, non aveva fatto riferimento al suo volto palesemente triste e palesemente sconvolto, non l’aveva assillata nonostante sapesse che si stesse comportando in modo strano da fin troppo tempo. Morgan aveva sentito la sua presa ferrea sul polso e il suo fiato sulla guancia, ma non si era fermata. Si era lasciata guidare ed aveva agito come fosse una bambola di porcellana.
Land aveva passato una mano callosa fra i suoi capelli, a lei non era sfuggito il fatto che avesse sostato per un po’ sulla nuca.
E poi le aveva lasciato un bacio sull’angolo della bocca.
‘’Fai l’amore con me, Morgan.’’

 
E quando si stese accanto a lei, appagato e completo, e la attirò a sé, Margareth sentì il suo cuore battere sotto il leggero strato di pelle tatuata che lo copriva.
Era ancora più stanca di prima, ma si rese conto che era proprio di quello che aveva bisogno. Non si premurò di coprirsi meglio con il lenzuolo o di rimettersi almeno il reggiseno, come aveva sempre fatto all’inizio, perché semplicemente non le importava. E non le importava nemmeno che Hollie e le altre domestiche fossero in giro per casa, che sua madre o suo padre potessero rientrare da un momento all’altro, che qualcuno avesse potuto sentire le sue urla.
‘’Morgan aveva staccato i lavaggi e il respiratore’’ disse di soppiatto, mentre Carl le passava una mano sul braccio. Su e giù, su e giù. ‘’Si è uccisa.’’
Non lo disse con la voce rotta o con tristezza palpabile. Non riusciva a capire come si sentisse, ma di certo non era la stessa tristezza che l’aveva avvolta all’inizio. Qualcosa era cambiato, dentro e fuori di lei, e riusciva a riconoscerlo solo allora che aveva scoperto la cosa alla quale non avrebbe mai pensato al mondo. Carl si irrigidì, lo sentì chiaramente, eppure non temette neppure per un attimo che potesse dirle qualcosa di sbagliato.
Dopotutto, era e rimaneva un poeta. Uno scrittore. Nonostante fosse un ossimoro, e fosse silenzioso come pochi, aveva la capacità di gestire e usare le parole in modo sempre corretto.
Forse era una qualità delle persone come lui, di quelle che riuscivano a scrivere pagine e pagine di pensieri poetici anche su una semplice mela, di quelle che trovavano arte anche nelle cose più semplici e di quelle che avevano la capacità di creare un mondo dove tutto girava secondo le loro condizioni. Un mondo dove non esiste ciò che odiano e dove vince ciò che vogliono far vincere loro.

Holland non le aveva mai detto di amarla e lei non l’aveva mai fatto a sua volta. Nonostante Morgan si premurasse di nascondere bene i suoi sentimenti era convinta che fosse palese il suo imbarazzante innamoramento. Fu in quel momento, quando Holland si stese nudo accanto a lei e le avvolse un braccio attorno alle spalle, che si rese conto che per lui era esattamente lo stesso.
La cosa la spaventò terribilmente, ma si disse che – dal momento che aveva deciso di troncare – avrebbe almeno potuto avere la soddisfazione di essere arrivata al suo cuore e la consapevolezza di avergli perlomeno lasciato qualcosa.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, invece chiuse gli occhi e finse di essersi addormentata. Non aveva mai circuito alcun problema, aveva sempre affrontato a testa alta qualsiasi tipo di situazione, eppure Holland Todd aveva il potere di renderla la ragazzina più intimidita e spaventata del mondo. Che lo amava, lo sapeva già da qualche tempo, o perlomeno ne aveva un fondato sospetto. In quel momento, accertatasi dell’autenticità dei suoi sentimenti, si sentì soffocare. Per un secondo, le venne meno il coraggio di lasciarlo andare. Per il suo bene, per la sua salute, per il suo futuro.
Vivi.

 
‘’Mi dispiace’’ rispose, dopo un po’. ‘’E’ normale che tu ci stia male, ma io credo che avrei fatto la stessa cosa.’’
‘’Come?’’ si sollevò di poco per osservarlo meglio, facendo ricadere ciocche di capelli biondi sul volto.
‘’Morgan sapeva che sarebbe morta, come lo sapevate anche voi. Tu hai sempre pensato al dolore di chi resta dopo la morte ma mai al dolore di chi effettivamente muore. Ed è comprensibile. Però la persona che ha sofferto di più in tutta questa storia è stata Morgan, ed è anche la persona che adesso sta meglio. Ha sbagliato sicuramente modo, ma senti di biasimarla perché voleva liberare voi da un peso e lei da un’agonia?’’
‘’Morgan non era un peso, per noi’’
‘’Neanche Holland lo era per noi, eppure ha vissuto gli ultimi mesi credendolo fermamente. Non puoi dire ad un malato terminale di non essere un peso e pretendere che ti creda, perché lui resta il malato terminale e tu resti una persona che respira e respirerà ancora un po’ di tempo prima di smettere. Non credi anche tu?’’
Sì, lo credeva.
Non giustificava Morgan per la scelta che aveva preso, non giustificava i suoi genitori per averglielo nascosto per così tanto tempo, non giustificava nemmeno se stessa per non averlo capito prima. Però la compativa, li compativa e si compativa.
E pensava di meritarsi un periodo di pausa dai rimorsi e dalle paure.
Margareth si voltò verso di lui e gli lasciò un leggero bacio a fior di labbra. ‘’Hai ragione’’ sussurrò nel suo collo. ‘’Mi fa male adesso, me ne farà per sempre, però adesso Morgan sta bene. Ed io sto bene.’’
 
Holland si addormentò davvero poco tempo dopo, con un braccio ancora attorno alle sue spalle e la testa di Morgan sul petto. Fu solo allora che la bionda aprì lentamente gli occhi e li riabituò alla rada luce della sera che filtrava dalla sua finestra.
Lo vide dormire così, profondamente, con la guancia affondata nel suo cuscino e i capelli biondi sparsi ovunque. Lo vide dormire senza una sola paura a fluttuargli sulla testa, appagato e apparentemente sereno. Gli si avvicinò lentamente e gli lasciò un delicato bacio sulla tempia.
‘’Mi dispiace, amore mio’’ sussurrò sulla sua pelle. ‘’Mi dispiace tanto.’’
Solo allora, dopo anni, Morgan Grey si permise di piangere. Silenziosamente e poco, ma quelle che solcarono le sue guance scarne erano proprio lacrime salate. Lacrime non solo di dolore, non più.
Non aveva mai temuto la morte.
Sin da bambina, conoscendo la sua malattia degenerativa, era cresciuta con la convinzione e la paura di poter morire da un momento all’altro. Fino a qualche mese prima, avrebbe riso di fronte all’ennesima analisi andata male del dottor Broome. Non aveva mai tenuto davvero alla sua vita, l’aveva sempre vista come qualcosa di passeggero e fuggente.
E invece Holland Todd era lì, accanto a lei, presente e vero, e le stava ricordando che cosa si sarebbe persa. Tutte le sue mattine, tutte le altre volte che avrebbe dormito così, tutti i suoi risvegli.
Se tu non sei la vita, la vita non esiste.
‘’Ti amo’’ sussurrò sulla sua spalla. ‘’Ti amo da morire.’’
E represse un sorriso per la comicità della frase.

 
Sentì la presa sui suoi fianchi di Carl diventare più stretta, prima che baciasse la sua tempia. ‘’Sei incredibile’’ ironizzò.
‘’E tu sei la mia vita, quindi adesso siamo pari’’ gli diede una leggera gomitata sul fianco. Rimasero così, in silenzio per alcuni secondi prima che Carl prendesse di nuovo la parola.
‘’Mi piacerebbe farti conoscere meglio mio padre, qualche volta’’
Non l’aveva detto tanto per dire, l’aveva detto perché ne era convinto. Marge ne fu onorata, anche se non aveva ancora capito bene le dinamiche della famiglia Pearson e di Peter. Sapeva che era agli arresti domiciliari per buona condotta, o qualcosa del genere, e sapeva il motivo per cui si era costituito. Non le era mai parsa una persona malvagia, non aveva pregiudizi. E se aveva cresciuto un figlio come Carl, qualcosa di buono in lui doveva esserci per forza. Margareth tracciò il contorno di quello che era diventato il suo tatuaggio di Carl preferito – If you want to do it, you can do it – mentre rispondeva.
‘’Mi farebbe molto piacere conoscerlo’’ sorrise sinceramente.
‘’Non sei restia o…spaventata?’’
‘’Avrei motivo di esserlo?’’
‘’No, però…’’
‘’Allora non vedo perché dovrei. E’ il padre del ragazzo che amo, ha cresciuto il ragazzo che amo e l’ha fatto diventare la persona che è. E che amo. Quindi mi farebbe piacere conoscerlo’’

Morgan accarezzò il tatuaggio di Holland – Then you come to revive, wait, wait, wait, I’m alive – e si asciugò le lacrime.
L’stante immediatamente successivo, Land aprì lentamente gli occhi e sorrise. ‘’Che stai facendo?’’
La mano di Morgan era ancora ferma sul tatuaggio, così si sforzò di sorridere e la allontanò. Toccò il suo, da sotto le coperte, di nascosto. ‘’Niente, non riuscivo più a dormire’’
Sentì la presa di Land diventare più ferrea, mentre lo avvicinava a lei.
‘’Io avrei qualche idea in mente per passare il tempo.’’
E Morgan sorrise di nuovo, più sinceramente.

 
Carl non rispose niente di rimando ma, come faceva sempre, si fece capire benissimo attraverso dei semplici gesti. Semplicemente le alzò una gamba e la avvolse attorno al suo bacino, prima di avvicinarsi e baciarla. C’era quasi violenza, una certa urgenza, in quel bacio, a cui Maggie rispose immediatamente attirandolo ancora più vicino a se.
‘’Ti amo anche io’’
E dall’altro lato della città, in una casa un po’ più piccola, Laurine aveva appena detto la stessa cosa a Cameron Kyle e Robyn Young aveva appena vinto una borsa di studio.
 
 
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Otto mesi dopo
 
 
Margareth uscì dal cimitero.
L’aria di Ottobre si era fatta più pesante e pungente, e l’aveva costretta ad indossare un parka scuro. I capelli le erano diventati più scuri per via dell’assenza del sole, ma avevano conservato il loro colore chiaro. Li coprì con un capello di lana, perché a New York era impossibile non sentire freddo. Tra poco si sarebbe diplomata, e l’ansia per quel giorno si univa ad una fame incontenibile.
Si avvolse le braccia attorno al corpo, e si voltò alla sua destra sorridendo.
‘’Io opto per il Burger King.’’
‘’Non ci credo. Va bene che dovevi riprendere peso, Maggie, ma così rasenti l’impossibile’’ la voce di sua madre avrebbe voluto risultare intimidatoria ma uscì fuori solamente divertita.
‘’Una volta ogni tanto non fa niente, offro io.’’
‘’Ah bhè, allora non possiamo lasciarci scappare l’occasione’’ sghignazzò Celine, prima di voltarsi dall’altra parte. ‘’Dan tu hai qualche appuntamento di lavoro?’’
‘’No, ci sono’’ rispose suo padre, riponendo il Blackberry nella tasca del pantalone di lino. ‘’Però offro io.’’
Margareth sbuffò ma accettò di buon grado, mentre attraversavano le strisce pedonali e si lasciavano il cimitero alle spalle. Non avrebbe mai pensato di ritornare a far visita a sua sorella con i suoi genitori, fino a qualche tempo prima sarebbe stato qualcosa di assolutamente impossibile. E non avrebbe mai pensato che l’avessero aspettata in disparte, mentre riponeva anche delle piccole peonie scure sulla tomba di Holland Todd.
Non aveva pianto come le altre volte.
Non solo la presenza – reale – dei suoi genitori le aveva dato forza, ma anche l’aver finalmente ritrovato se stessa. L’essere il riflesso giusto. L’essere viva.
Si voltò verso di loro quando si accorse di averli seminati, e li vide parlare tra di loro con una leggerezza forzata ma anche nuova. Erano ancora lungi dall’essere una coppia felicemente sposata, ma ci stavano lavorando. Ed erano ritornati a parlare davvero.
Sorrise prima di voltare le spalle e continuare a camminare, decisa a dargli un po’ di tempo per loro lontani dal lavoro. La domenica si erano sempre limitati ad andare in chiesa insieme, da buoni cristiani, e a tornare a casa per poi chiudersi nelle rispettive stanze e rivedersi nel mutismo del pranzo. Da qualche settimana a quella parte, qualcosa era cambiato. Dopo la messa, la tappa da Morgan era obbligatoria. A volte andavano a prendere un caffè o a fare un brance, niente di troppo sofisticato.
E tutte le volte Margareth era dietro – o davanti – a loro.
Sentì la leggera risata di sua madre e si domandò cosa avesse detto di tanto divertente un tipo come Dan Grey per portarla a tanto. Preferì non interferire. E poi, in quel momento, il suo iPhone si illuminò e le segnalò l’arrivo di un sms.
Sorrise ancor prima di aprirlo e leggerne il contenuto.
 
Da: Carl <3
Mi è arrivata una lettera da Yale
 
E poi, subito dopo, in perfetto stile da Carl Pearson, un successivo.
 
Da: Carl <3
Mi hanno preso
 
Marge sorrise così tanto, in quel momento, che per poco non le venne una paralisi alla mascella.
‘’Mamma, papà, stasera festeggiamo’’ si girò verso di loro, urlando ed agitandosi. ‘’E’ stato ammesso!’’
Se tu non sei la vita, la vita non esiste.
 

Accadono cose che sono come domande,
passa un minuto oppure anni,
e poi la vita risponde.

- Alessandro Baricco
 
 
 
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E' finita.
Mi fa stranissimo dirlo, considerato che ho iniziato questa storia quasi per scherzo.
E' sempre stata importante per me, lo sarà sempre, mi sono affezionata ai personaggi come non avrei
dovuto fare. Ho vissuto con loro, sofferto con loro e gioito con loro.
Non voglio farla lunga, non voglio scrivere uno spazio autrice più lungo del capitolo e strappalacrime perchè
- come penso sappiate - sarei in grado di farlo. Semplicemente, non voglio.
Voglio che la vostra attenzione si focalizzi ancora per un pò sulla fine di QUESTA storia, che è anche parte
della MIA storia personale. C'è un pezzo di me, come in tutto quello che scrivo, come in Margareth e in Morgan.
L'unica cosa che mi sento in dovere di dire, e di sperare, è di avervi trasmesso qualcosa.
Non voglio peccare di presunzione, non voglio credere che questa sia la vostra originale preferita o che l'abbiate amata,
mi basta solo sapere che - dopo aver letto l'ultima riga - vi siate fermate per un secondo e abbiate pensato.
Prima di essere una storia d'amore e una storia di passione, è una storia di CRESCITA. E non parlo
solamente di crescita esteriore, ovviamente. 
Trovo superfluo perfino ringraziarvi, perchè ormai sapete bene di essere parte integrante della mia vita.
Voglio solamente augurarvi il meglio dalla vita, da questo momento in poi, e spero che troviate nel vostro percorso
tutto quello di cui avrete bisogno e che vi renda felici.
E vi auguro anche di crescere dentro, proprio come Margareth e come Carl, e di imparare che prima di tutto
conta vivere. Esistere ed esserci. E voi ci siete ed esistete, indi per cui contate.
Sicuramente contate per me.
E vi lascio con un ritorno al titolo dell'epilogo: vi assicuro, vi prometto, siamo lontane dalla fine.
Con immensa gratitudine
Harryette

 

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