Alexitimia

di GabrielleWinchester
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alexitimia ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2- L'emozione non ha voce... ***



Capitolo 1
*** Alexitimia ***


Buon pomeriggio a tutti,
ispirandomi a una storia di cronaca, ecco a voi "Alexitimia", la storia di una donna che non riesce a esprimere le proprie emozioni, neanche nel giorno più bello della sua vita, ovvero la nascita di sua figlia Angelika. Questa storia è un piccolo esperimento che ho voluto provare a fare e chiedo umilmente scusa se eventualmente vi dovesse annoiare. Da parte mia ringrazio di tutto cuore tutti coloro che la leggono e la leggeranno, tutti coloro che la recensiscono e la recensiranno, tutti coloro che mettono e metteranno le mie storie tra le seguite, ricordate, preferite e da recensire e tutti coloro che mi hanno messo e mi metteranno come propria autrice preferita. Buona lettura :-)
Ps: Oggi l'editor di Efp mi ha fatto leggermente impazzire u.u

                                                      Alexitimia
Signora, ecco il suo bambino”
Con un sorriso raggiante, una giovane infermiera appoggiò al seno il mio bambino ma io non provai nulla. Era una femmina, una bambina dal pianto tenace e volitivo, una piccola creatura che già sapeva che cosa voleva dalla vita. Tutte le altre mamme mi guardarono sconvolte, non una lacrima, non un sorriso aveva scalfito il mio volto, ero rimasta impassibile come se mi avesse detto “Oggi è sereno ma portati l’ombrello”
“Guarda quella lì” disse la mia vicina di letto con un ghigno alla sua dirimpettaia “Sicuramente finirà che ucciderà la bambina, non appena uscirà da qui”
“Hai ragione Clarissa” rispose l’altra, mentre faceva fare il ruttino al suo bambino “I suoi occhi sembrano due palle di vetro, mi mette i brividi”
Inghiottii un’imprecazione e mi ostinai a guardare il soffitto, mentre la piccola Angelika continuava a mangiare. Avrei voluto piangere e mandarle a quel paese ma quello che mi sentivo di fare era guardare il soffitto e basta. Non sapevano nulla di me e molto spesso ciò che non si conosceva e non si comprendeva, finiva per diventare un qualcosa da temere. Ero sempre stata così, ogni avvenimento che mi era capitato nella vita non aveva suscitato in me nessuna emozione, niente risa di gioia o pianti disperati, solo una faccia da poker, tanto che tutti nel mio quartiere mi soprannominavano “Emma, faccia da Jolly”.
Ero affetta da Alexitimia, letteralmente “mancanza di parole per le emozioni”, emozioni che io sapevo di avere, ne avevo la piena consapevolezza, ma che non riuscivo a esprimerle a pieno con la voce, lasciando che la fredda scrittura lo facesse al posto mio. Perfino nel giorno del mio matrimonio, fallito miseramente qualche anno dopo a causa della mia sindrome, avevo detto un “Sì” talmente monocorde, che il prete si era girato verso di me e mi aveva domandato “Emma, ne sei proprio sicura di sposare Thomas?”
Appoggiai la bocca sulla testa della mia piccolina e Angelika mi aveva guardato con i suoi piccoli occhi blu, quel blu incerto che l’accomunava a tutti gli altri, e avrei voluto ridere e strapazzarmela di baci e coccole ma non ci riuscivo. Ignorando le occhiatacce delle mie compagne di stanza, d’improvviso presi una penna dal comodino e incominciai a scrivere un piccolo pensierino “Le mie emozioni sono incastonate tra la mente e il cuore, tra la mente e le corde vocali, afone ma piene di un amore incommensurabile”
Arrotolai il pensierino e glielo misi nella sua piccola mano. Angelika smise di succhiare il latte e mi guardò. Nel suo sguardo c’era tutta la saggezza dei neonati, quella saggezza che si perdeva nella crescita e si recuperava a un passo dalla morte.
“Piccola mia, questo è l’unico modo per esprimere le mie emozioni. Non abbandonarmi pure tu”
Come se avesse capito il mio problema, Angelika strinse forte il pugno, chiuse gli occhi un attimo e dopo sbadigliò, un suo modo di dirmi che non dovevo avere paura, che lei non mi avrebbe mollato e che saremmo state alleate per tutta la vita. E io per la prima volta sentii di essere amata e di non essere giudicata.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2- L'emozione non ha voce... ***


Buon pomeriggio a tutti,
accettando il buon consiglio di una carissima amica, ho deciso di ampliare la storia con un nuovo capitolo, un capitolo dove Emma discuterà con Thomas, un capitolo sui pensieri di questa donna affetta da Alexitimia. Secondo e ultimo capitolo di questo esperimento un po' bislacco, il quale spero che piacerà e sono pronta a ricevere vagonate di critiche, qualora vi dovesse annoiare ^_^ Chiedo scusa per eventuali errori sparsi nel capitolo ^_^ Ringrazio di cuore tutti coloro che la leggono e la leggeranno, tutti coloro che la recensiscono e la recensiranno, tutti coloro che mettono e metteranno le mie storie tra le seguite, le preferite, le ricordate e da recensire e tutti coloro che mi hanno messo e mi metteranno come autrice preferita :-) Buona lettura :-))

 
                                                                                                                            Capitolo 2- L’emozione non ha voce…
 
“Io non ce la faccio più a sopportarti. Io mi sono messo con un robot, non con un essere umano”
Io lo avevo fissato apatica, mentre ero seduta sul divano, dopo un estenuante pranzo in cui si era lamentato del triplo turno che svolgeva nella libreria di famiglia, lui che esprimeva troppo bene i suoi sentimenti e le sue traboccanti emozioni, a differenza mia.
 “Speravo che, dopo la nascita della piccolina, tu saresti cambiata! Che illuso sono stato! Ho sprecato solo tempo e  pazienza”
Dopo l’uscita dall’ospedale, lo avevo trovato raggiante, appoggiato con nonchalance allo sportello della sua macchina nuova di zecca, il sorriso ampio di chi era contento di avere avuto un figlio, convinto come tutti che quel miracolo della vita avrebbe sbloccato la mia freddezza e mi avrebbe resa uguale a tutti quanti. Povero illuso! Quel giorno mi aveva promesso di starmi accanto, che la sindrome non ci avrebbe impedito di stare insieme, ma era tutta una balla colossale, lui non sarebbe mai stato in grado di mantenere quella promessa.
Erano passati circa sei anni da quell’incontro, anni in cui aveva cercato di fare l’impossibile per cercare di strapparmi un’emozione, un accenno di sorriso o una lacrima birichina, ma dall’Alexitimia non si guariva, al massimo ci si conviveva o meglio la si sopportava. E sentirlo urlare che ero un robot, che non meritava di stare con una come me, mi faceva stare male, poiché avevo piena consapevolezza dei miei sentimenti e mi sentivo senza via d’uscita, un lungo grido afono che rompeva i miei pensieri e non mi faceva dormire la notte. Pensava davvero che io non avevo fatto nulla per cercare di guarire da questa cosa che intasava il mio cuore e mi impediva di essere vitale come tutti gli altri? Ero andata da innumerevoli medici, prima di tutto da un psicologo, il quale aveva ipotizzato di un possibile blocco mentale da parte mia per un evento traumatico dell’infanzia e dopo, al mio diniego su questa cosa, da un neurologo a cui avevo supplicato di aprirmi il cranio e cercare la fonte del mio problema. Lui stava leggendo il referto medico di un ragazzo affetto da epilessia a cui era stato impiantato nel cervello l’ultima novità in campo medico, ovvero il peacemaker cranico, un congegno che fermava gli attacchi epilettici sul nascere e dopo mi aveva guardato tra il serio e il faceto “Signorina, io non sono mica l’allegro chirurgo”
“Dottore mi deve aiutare” avevo detto arrabbiata ma con il tono monocorde “Sono stufa di questa situazione!”
“Io posso capire..”
Io avevo gettato un portapenne a terra, il mio cuore pieno di rabbia e tristezza e la mia faccia granitica. Sulla porta era comparsa un’infermiera allertata dal trambusto che avevo provocato e il medico l’aveva rassicurata con un gesto della mano “Tutto a posto Evelyn, può andare. La signorina è un po’ nervosa ma adesso si calma. Non è vero?”
Avevo annuito bruscamente e dopo che l’infermiera se ne era andata, avevo appoggiato i palmi sulla scrivania e lo avevo supplicato “Dottore, io non ce la faccio più a essere considerata la sfinge della situazione, la Soulless Sam della famiglia, voglio per una volta ridere e scherzare, andare a letto per le troppe lacrime o le troppa risa e svegliarmi con un mal di testa simile alla sbronza, voglio essere un essere umano. Mi prometta che con i suoi colleghi cercherete di trovare una cura”
Vedendo la mia urgenza, lui si era alzato dalla sedia e mi aveva rassicurato, stringendomi la mano “Glielo prometto
Ero pure arrivata a compiere il gesto estremo, ero salita all’ultimo piano di un edificio abbandonato, in un giorno in cui lui era in viaggio per fissare un incontro con un’importante autore di best-seller e la piccolina stava giocando con i cuginetti, decisa a farla finita, decisa di liberare il mondo da quel peso morto che mi consideravo di essere ed ero stata salvata da un barbone, il quale  convinto di essere la reincarnazione di Gesù Cristo mi aveva impartito la sua benedizione, promettendomi un Paradiso in cui sarei stata contenta e avrei potuto esprimere a pieno le mie emozioni. Quel giorno non sapevo se avessi dovuto picchiarlo o baciarlo, nel dubbio lo avevo ringraziato e gli avevo regalato qualche soldo per mangiare, soldi che lui aveva rifiutato con la seguente dichiarazione “I gesti buoni non devono essere ricompensati con i soldi”
“Ho fatto di tutto per compiacerti, di tutto e tu hai sempre risposto con quella solita espressione da pesce lesso. È frustrante, è come guardare il muro e parlare con esso”
“Ti ho scritto innumerevoli lettere in cui ho espresso le mie…”
Lui si era avvicinato a me, sorridendo, un sorriso non di gioia ma di rabbia “Non me ne frega niente delle lettere, le lettere sono vuote, le lettere non sorridono e non piangono, le lettere le può scrivere un robot. Io ho bisogno di una donna che ricambia le mie emozioni e non un pesce lesso antropomorfo! ”
A quelle parole gli avevo mollato un ceffone talmente forte da farlo sbattere contro il tavolo della cucina e la nostra piccolina si era fermata a guardarci, spaventata da quello che stava succedendo. Dal canto suo, si era messo a correre per la casa a cercare il suo smartphone.
“Non litigate, per favore”
“Pensi che a me faccia piacere tutto questo?” gli avevo domandato glaciale, fermandolo nella sua folle corsa di prendere i suoi effetti personali e costringendolo a guardarmi negli occhi “Pensi che a me piaccia? Brutto stronzo egoista che non sei altro, pensi solo a te stesso”
“Che vita darai alla bambina Emma?” mi aveva urlato contro, il volto paonazzo, il volto di una persona che aveva tentato di combattere una battaglia fallimentare e adesso stava gettando la spugna “Ogni volta che Angelika farà qualcosa per smuoverti, tu rimarrai impassibile e prima o poi tutto questo ti si ritorcerà contro. Pensavo di essere forte, di poter superare questa cosa, ma non ci riesco. Quasi quasi avrei preferito che tu avessi il cancro piuttosto che questa sindrome”
A quelle parole avevo abbassato la testa e avevo fissato il pavimento. Lui si era fermato, si era morso il labbro e aveva detto in tono contrito “Non volevo Emma, scusami..”
Io lo avevo fermato con un gesto brusco della mano, il cuore dolorante. Tra tutte le cose che poteva dirmi, il cancro era l’ultima cosa e non pensavo che sarebbe arrivato a tanto.
“Volevi e lo hai fatto. Quella è la porta, vattene. Mi auguro che tu possa trovare una donna vera e non una patetica imitazione!”
Lui aveva preso la valigia e si era diretto verso l’uscita, il silenzio come l’ultimo addio. Non appena la porta si era rinchiusa alle mie spalle, io mi ero rannicchiata per terra, convinta di meritare la solitudine e non la compagnia della gente. Ad un certo punto la mia piccolina si era alzata e si era seduta accanto a me e mi aveva stretto la mano. L’avevo guardata e lei mi aveva rivolto un sorriso caloroso.
“Ti voglio bene”
Con quel gesto, avevo capito di non essere sola e che lei ci sarebbe stata fino alla fine, l’unica persona in grado di mantenere quella promessa.
“Ti voglio bene anche io, amore mio”
“Papà, tornerà?” mi aveva domandato, il tono di chi sapeva già la risposta. Era una bambina troppo intelligente per potere accettare una bugia da parte mia.
Avevo scosso la testa e mi ero limitata a baciarle la testa. Angelika si era allontanata, si era inginocchiata stile Cavaliere Templare e mi aveva promesso “Io non ti abbandonerò mai!”
Poi mi ero alzata e insieme a lei avevo guardato il sole nascere, con l’incognita di sapere se qualcun altro sarebbe entrato nella mia vita ma con la certezza che la mia piccola combattente sarebbe stata al mio fianco.
E dall’autoradio di una macchina che passava di lì, avevo sentito “Io non so parlare d’amore, l’emozione non ha voce…”
Certe volte, il destino era davvero un gran bastardo, avevo pensato ridendo, e dopo ero rientrata a casa con una raggiante Angelika e con l’intenzione di fare una teglia di biscotti.

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