Kid B di Knetgummi (/viewuser.php?uid=326753)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Canarini al microonde - Prologo
NOTA IMPORTANTE: questo
prologo è stato scritto un anno e mezzo prima del primo
capitolo, pertanto lo stile dello stesso è molto diverso da
quello della storia vera e propria. Se il prologo vi fa cacare -- cosa
comprensibilissima, dato che sono il primo a non apprezzarlo -- vi
invito gentilmente a dare una chance ai capitoli seguenti.
Se vi fanno cacare
anche quelli, beh, lasciate pure perdere. Scrivo questo avviso solo per
dissociarmi dal me di due anni fa. Odio il me di due anni fa.
Pesce and love.
-Knetgummi
Prologo
C'era una volta una
coppia di innamorati.
Giulia,
così si chiamava la fanciulla con le farfalle nello stomaco,
era
la più graziosa figlia di due famosi avvocati della
città. Ogni giorno, nella sua cameretta dalle pareti rosa,
tra
le ore di lezione al classico, i compiti a casa e i serali
impegni famigliari – che richiedevano quanti più
attenzione, bon-ton e buon gusto nel vestire possibili –
perdeva
i pomeriggi fantasticando sul suo bel Marco.
Il
prode giovine era, anche lui, di buona famiglia, e si capisce, essendo
figlio di un celebre medico figlio di un celebre medico figlio di un
celebre medico della città. Sua madre, buona donna, non era
altro che una nullafacente che aveva perso i migliori anni della sua
vita a buttare all'aria il suo futuro, cioè a studiare
filosofia all'università; ma pure era di buona famiglia, e
così il bel Marco crebbe felice e contento, e mai che gli
mancasse qualcosa, anche il più piccolo capriccio di
primoeunicogenito.
Si
conoscevano da anni per nome, per fama e per sguardi maliziosi
scambiati per i corridoi del liceo, ma si conobbero per la prima volta
diciottenni, in disco: tra chiome ricciute, musica kitsch e abiti
pacchiani con spallacce imbottite come la moda del momento imponeva,
così che una normale serata a ballare aveva tutto l'aspetto
di
una partita di football americano.
“Ehi,
quello sulla pista, che ti sta guardando, non è Damiani?
Quello
che ti fa la corte?”, dissero a Giulia le sue amiche, mentre
il
gruppetto capeggiato ovviamente dalla ragazza chiacchierava vicino al
bancone. Come in un film, Giulia girò la sua testa di
capelli
biondi e cotonati verso Marco, illuminato dalle strobo e da un raggio
di luce blu. E fu amore a prima vista, più o meno.
La
giovane piantò in asso le adoranti subordinate e si
dedicò alle danze con il suo cavaliere, per tutta la sera e
oltre. Si conobbero, si piacquero e così fecero i loro
genitori
poco dopo, ben felici di quell'unione fiabesca, di bella facciata e
ricca sostanza patrimoniale.
Era
destino. Quello stesso gruppetto di amiche di Giulia, un po'
più mature e
tutte agghindate per l'occasione, si trovò ad urlare
“Viva
gli sposi!” e a tirare riso ai novelli marito e moglie in
perlaceo vestito a sirena e abito da cerimonia color panna. Era un 25
giugno sotto un sole cocente, anno 1991.
“Era
destino”, dissero tutti, “che due così
bei ragazzi
finissero per convolare a nozze. Laurea in giurisprudenza lei, in
medicina lui, belle famiglie di sani valori, matrimonio in Chiesa come
Iddio comanda, amen.”
E
furono felici e contenti. Per anni nulla andò mai sbagliato
a
questi principe e principessa dei nostri giorni che, stretti per mano,
guardavano sereni il tramonto del secondo millennio.
Tutto
era stato programmato molto prima del 25 giugno, molto prima del giorno
in cui si erano incontrati in discoteca, molto prima della loro
nascita. Li precedeva una lunga serie di orme continuamente
ricalpestate, una strada inerpicantesi tra oscuri luoghi comuni e
asfaltata di status quo, piacevole allo sguardo dei novelli sposi e del
pubblico. Non è possibile perdersi su un sentiero
così
sicuro, vi
pare? Come sarebbe potuto saltare in mente, a Giulia e Marco, che il
fato aveva tirato a sorte, e che la strada sulla quale si sarebbe
schiantata una frana sarebbe stata proprio la loro?
Il
16 settembre del 1997 l'ormai signora Damiani andò a
dormire, con
tutto il suo pancione gonfio di calci di bebé, nella camera
da
letto
nell'angolo a sud-ovest della villa nella bassa bresciana che il marito
aveva ereditato dallo zio scapolo. La mattina presto alle quattro
precise se
ne svegliò piena di dolori dando gomitate al suo sposo.
“Meno male che alle quattro di mattina in strada non
c'è
coda, perché gli Spedali Civili sono abbastanza lontani, e
so
quanto ci tieni a partorire lì, tesoro –
lì dove
sei nata tu e dove
è nata tua madre e dove è nata tua
nonna.”
Era il 17 settembre
1997, ore 10:32, quando un pianto ruppe il brusio nella sala
parto. “È andato tutto bene.” Ovvio,
cara infermiera
sottopagata di un ospedale pubblico, e il motivo non è che
è già il secondo parto della signorina.
È che non
poteva che andare così.
Giulia,
provata dal travaglio, prese finalmente in braccio il frutto delle sue
fatiche. “Ciao, amore! Sei il bellissimo bimbo della mamma,
eh?
Sei splendido!”, disse agli occhietti chiusi e ai pugni
stretti
della sua creatura.
Fu
la prima e ultima volta che la bionda e sempre impeccabile Giulia, che
non aveva voluto sapere il sesso del nascituro, si riferì al
figlio come a un maschio.
E
l'infermiera pubblica sottopagata, dal basso delle sue bianche,
bucherellate scarpette ortopediche, della divisa azzurrina stinta e
lisa e dell'acconciatura spartana tinta fai-da-te:
“È una
bimba, signora. Una bellissima bimba.”
Perché
così doveva andare.
Buon pomeriggio!
Sì, lo so, è la seconda volta che pubblico questa
storia.
Aveva proprio bisogno di una ventata di aria fresca: qualche revisione,
nuove idee e soprattutto un ritorno di quella voglia di scrivere
misteriosamente sparita un annetto fa.
Spero proprio che questo prologo vi intrighi. Finora in tutta la mia
vita ho ricevuto una singola recensione, e spero di poter sentire
almeno un'altra volta ancora lo stesso brivido, considerando che scrivo
da poco e per migliorare ho bisogno che qualcuno mi faccia notare i
difetti delle mie storie!
Io torno davanti al ventilatore, ragazzi. Buon proseguimento!
- Knet
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Capitolo I
“Oh, Michi, ci
sei?”
Nel sentire la voce
concitata che lo richiamava dal cellulare e qualche chilometro di
distanza, Michele richiuse la bocca che aveva spalancato per la
sorpresa. Rimase qualche secondo a fissare l'armadio con le ante
spalancate come una voragine, con il cellulare e la telefonata sospesi
a qualche centimetro dall'orecchio. Desiderava ardentemente che il
fondo di compensato lo inghiottisse e lo portasse in una terra piena di
fauni pelosi, dove nevicava sempre e si poteva stare coperti tutto
l'anno, senza mostrare curve sospette sotto i vestiti leggeri.
“Ele...”
“Che
c'è? Sei vivo? Stai bene?”
“No.”
Silenzio, agitazione, disperazione. Non voleva dirlo. Sembrava una
frase così stupida. “Mia mamma ha fatto il cambio
di stagione all'armadio.”
“E con
ciò?”, si sentì rispondere.
Scavò disperatamente tra le pareti di compensato, vuotando
ogni mensola e spogliando le grucce di maglie e maglioni. Alle sue
spalle caddero canottiere con spalline trasparenti, vestiti di lino e
pantaloncini orribilmente rosa. E la scatola dei calzini era mezza
vuota, due scaffali più in giù di dove se la
ricordava. I suoi tesori, che di solito nascondeva dietro quella
scatola subito dopo averli tolti – dovendo nasconderli alla
sua maledettamente scaltra madre – erano spariti.
Odiava se stesso e la
sua poca previsione degli eventi di più a ogni vestito che
lanciava sul letto. “E con ciò sono morto, merda.
Morto! Sai cos'ho in mano, in questo istante?”
“Pensi che sia
così intelligente da indovinarlo, tesoro?”
“Ovviamente
no, idiota. Ho in mano un copricostume a righe rosa, Ele! Un maledetto
copricostume con la gonna a pieghe! E non trovo il binder
che mi ero guadagnato con sangue e sudore”, disse,
riferendosi con un termine ben specifico alla canotta contenitiva per
appiattire il petto, “né i fazzoletti imbottiti,
né niente! Sono morto. Li ha trovati, e a quest'ora saranno
in una discarica dall'altra parte del mondo. Sono morto!”
“Uh, porca
puttana.”
Per un secondo ci fu
preoccupazione da entrambi i capi del filo. Elena era ammutolita, e
mentre applicava l'ultimo strato di smalto trasparente sull'alluce
destro, seduta sul bordo della sua vasca da bagno, rifletteva su una
possibile soluzione.
Non trovandola, se ne
uscì con un “Beh...”. Michele odiava
quando Elena iniziava un discorso con il suo
“Beh...” da donna navigata, come se l'avere due
anni e mezzo più di lui l'autorizzasse a dargli consigli di
vita. “Se questo ti può tranquillizzare... mia
madre, tempo fa, ha trovato il reggiseno che le era misteriosamente
sparito dal cassetto. E l'ha trovato nel mio
cassetto. E sono ancora qui, con le tette più imbottite di
sempre.”
Michele
sbuffò, sentendo gli occhi che iniziavano a bruciare. Schifosi
ormoni, schifosa sindrome premestruale, perché a me?, non ce
la faccio!, fanculo. “La tua
non fa testo, cretina, perché è la santa
protettrice di tutti i transgender. Mi sorprende che non ti abbia
già prestato tutti i vestiti che le stanno
stretti...”
“Veramente lo
ha già...”
“Ma io che
cazzo faccio, ora?”
Si lanciò sul
materasso rimbalzando di pancia tra le coperte, e gettò a
terra una gonna a palloncino gialla da sotto il gomito.
Sospirò, con il telefono ancora all'orecchio, e sedutosi sul
bordo del letto con le spalle alla luce del sole prese a osservarsi
allo specchio oblungo vicino alla porta. Ignorò la collana
di perline rosa, appesa all'angolo in alto a destra del vetro,
riesumata chissà da dove da sua madre; e così fin
da subito evitò di guardarsi in faccia, e sorvolò
sulla piccola curva orribile delle sue cosce spalmate sul materasso. Si
alzò in piedi come un automa, controllando quasi
involontariamente se i pantaloni gli sottolineassero i fianchi, o se la
maglia gli facesse difetto sul petto fasciato. Prassi giornaliera da
fare appena svegliato, appena tornato da scuola, mentre ballava per la
sua stanza, la sera durante le sue riflessioni poco realistiche e,
soprattutto, prima di uscire.
Lo specchio gli
restituì l'immagine di una figura che, se non maschile in un
modo convincente, era perlomeno androgina. Il maglione ricadeva sul
torace piatto come doveva ricadere e i jeans erano larghi abbastanza da
non stringere in posti inopportuni, come i fianchi femminili o il
sedere troppo grande. Tutto perfetto, più o meno. Peccato
che iniziasse a sentire caldo già nella sua buia e umida
cameretta. Fuori dalla finestra, sulla città fumosa, il sole
splendeva come non faceva da secoli, asciugando un po'
l'umidità dell'inverno appena ritiratosi a vita privata.
“Fa caldo...
Cristo, se fa caldo! E non ho vestiti normali che
rimpiazzino quelli che ho indosso, cazzo!”, si
lamentò debolmente Michele, rabbrividendo nel sentire la sua
voce acuirsi per l'isteria che l'aveva colto. Guardò i
vestiti nell'armadio. Guardò la porta. I vestiti. Lo
specchio. La porta. Lo specchio. I vestiti. “Davvero, che
cazzo faccio? Eleonora, aiutami.”
Elena era distratta, e
mentre pettinava i capelli rosso fuoco riportava pian piano alla mente
la sua adolescenza, corrugando sempre più le sopracciglia.
Trattenne un sospiro, poi riprese al volo la leggerezza d'animo.
“Crossdressing*?”, azzardò, preparandosi
all'esplosione.
Ma Michele era troppo
depresso per arrabbiarsi. Si alzò dal letto, si diresse
finalmente verso la porta e le rispose: “Fanculo, Ele, solo
fanculo. Ci vediamo tra mezz'ora sotto il ponte sul Tamigi.”
“Sotto il
ponte sul Tamigi? A Brescia? Ma cosa stai dicendo?”
“Sto
semplicemente straparlando. Non so più cosa cazzo dico.
È il panico, o meglio, è il mio subconscio che
preferirebbe essere a Londra sotto un ponte piuttosto che a Brescia con
mia madre. Ciao, ci vediamo dopo davanti al Pinguino. Stesso posto
stessa ora, come sempre.” Così dicendo, chiuse la
chiamata pestando con violenza il touch screen e, sospirando,
aprì la porta e si avviò verso il suo destino.
Pattinò con i
calzini a righe sulle mattonelle scure del corridoio, passando dritto
come un treno sulle rotaie davanti alla porta spoglia della stanza dei
suoi genitori, e sorpassando quella piena di disegni appesi da una vita
della camera di suo fratello, notoriamente troppo pigro per darle un
aspetto da maturando come si deve. Saltellò con una
leggerezza nervosa sul marmo del pianerottolo, diretto al piano di
sotto, per poi attorcigliare il suo percorso nella chiocciola formata
dalle scale. Nella discesa riuscì a cancellarsi dalla faccia
l'espressione nauseata e ad aggiustarsi un sorriso traballante. Non era
tipo da saper fingere molto bene, ma l'ansia rende possibile qualsiasi
cosa.
Saltò le
fughe delle piastrelle, come faceva sempre, per sembrare più
naturale; poi guardò nella dispensa se c'era qualcosa da
mangiare. Aveva sempre fame, quando doveva fare qualcosa che desiderava
ritardare.
Temporeggiò,
andò in sala e controllò lo stereo,
andò di nuovo in cucina a prendere da bere,
temporeggiò ancora, accese e spense la TV,
aspettò, mangiò un biscotto, riflettè
sulla sua triste esistenza, si chiese perché fosse nato
idiota, si chiese perché fosse nato femmina e cresciuto come
tale, considerò l'idea di scappare di casa e poi,
finalmente, dopo aver bevuto un po' di limonata, si diresse in salotto.
Gli faceva male lo
stomaco. Erano mesi che sentiva come un tarlo nelle viscere, e la
nausea lo accompagnava da quando la mattina apriva gli occhi impastati,
rendendosi conto di dover andare a scuola, a quando a mezzanotte
scivolava nel sonno lungo una scia di pensieri sempre più
deliranti.
Sua madre era seduta al
tavolo con un paio di occhiali sul naso, stava riordinando delle
scartoffie in una cartelletta di plastica. L'avvocatessa perfetta, al
lavoro anche a casa. Michele ne scorse il profilo impassibile
incorniciato dallo spiraglio della porta socchiusa, il naso leggermente
aquilino, le sopracciglia spennate per rassomigliare ad ali di gabbiano.
“Ma'?”,
esordì dopo qualche passo nel salotto tinteggiato di luce
giallognola.
Lei alzò gli
occhi. “Dimmi, tesoro.”
“C'è
stato un tornado nell'armadio oppure l'hai riordinato tu?”
“Ah, te ne sei
accorta, quindi! Strano. Fa un po' troppo caldo per le felpe imbottite,
no?”, rise lei, stanca.
“Non fa mai
troppo caldo, per me. Che palle, ma'. È sparita un sacco di
roba”, buttò lì Michele appoggiandosi
allo stipite e mettendo su un broncio stupido.
“Da chi l'hai
presa questa finezza, signorina?”, sbuffò sua
madre. Storse il naso appuntito e arricciò le labbra in un
moto di rimprovero, facendo dondolare i ciuffi biondi che le sfuggivano
dallo chignon. Se lo faceva sempre, quello chignon finto-trasandato, da
quando la sua parrucchiera glielo aveva consigliato convincendola a
suon di “è di tendenza”. A Michele parve
sorprendentemente vecchia. Ogni volta che la osservava per appena il
tempo sufficiente ad accorgersi davvero del suo aspetto –
vedendo di continuo quel volto gli si era come impresso nelle retine, e
ormai quasi non lo percepiva più, come se fosse il suo
stesso riflesso allo specchio – gli capitava di chiedersi
quando di preciso sua madre fosse invecchiata.
Aveva in mente
un'immagine di lei giovane, ridente, con la pelle pulita e i capelli
appena tinti di rosso, seduta sul divano di casa. La foto mentale aveva
un'angolazione strana, come vista dal basso. Probabilmente era un
ricordo risalente a quando lui ancora gattonava.
Ogni volta che si
soffermava su quel voto accartocciato dalle rughe, le due immagini si
scontravano con una violenza che gli dava i brividi. Chissà
se lei si era accorta degli anni che passavano, o era stata troppo
intenta a mandare avanti la baracca per fermarsi un attimo e lasciarsi
raggiungere da spiacevoli riflessioni sul nonsenso dell'invecchiare e
poi morire.
Michele si perse nella
contemplazione addolorata delle rughette truccate sul suo viso. Sapeva
che sua madre sapeva, e lei sapeva che lui sapeva che lei sapeva, e
cercava di dissimularlo. I suoi patetici tentativi di somigliare a un
ragazzo con i cromosomi XY non potevano esserle sfuggiti, anche se
probabilmente li aveva interpretati come gravi sintomi di lesbismo
mascolino. E in più ora aveva le prove, aveva capito che
l'improvvisa sparizione del seno di sua figlia era dovuta a una
sospetta canotta elasticizzata, e le mutande con i fazzoletti
appallottolati all'interno non erano meno rivelatrici. Tu sai,
pensò Michele, tu devi parlare. Devi dirmi
chiaramente che sai. Parlami. Disapprovami. Dimmi quanto sono una bella
ragazza, quanto mi stia svalutando facendo quello che sto facendo.
Quanto vado contro i precetti del cristianesimo. Quanto sono immorale,
amorale, orrendamente nudo di fronte al giudizio delle persone normali.
Non ignorarmi. Fai qualcosa. Rompi il ghiaccio. Tu sai.
“Tutto
ciò che non ho buttato via, l'ho messo su negli scatoloni
dell'armadio. Se cerchi qualcosa che ti serve davvero, lo trovi
lì.”
“Ok.”
Suppongo che
tu abbia buttato via tutto.
Il binder
l'avevo pagato con i tuoi soldi, comunque.
Rifece il percorso al
contrario, sempre più nauseato. Tornando a barricarsi nella
sua stanzetta dalle pareti lilla, accatastò gli abiti sparsi
in giro dove dovevano stare e sistemò un po' la scrivania,
guardando una volta ogni tanto fuori dalla finestra. La fila di venti
villette Marcolini sull'altro lato della strada – tutte a due
piani, tutte bifamiliari, tutte con i muri gialli, tutte con le imposte
marroni e tutte con un'auto metallizzata parcheggiata nel cortile di
cemento – sembrava a posto. I bambini giocavano nel sole del
mattino, le nonne in vestaglie azzurre cercavano di ficcar loro in
testa cappelli per ripararli dai raggi e le madri erano da qualche
altra parte.
Michele sentì
la nausea e la rabbia salirgli per le narici a ogni respiro, come
l'odore acre della benzina. Aveva una madre troppo maledettamente
intelligente. Non sarebbe dovuta andare così, oh no. In un
qualsiasi film – di quelli standard, mandati in onda a
ripetizione il sabato sera su Italia 1 alle 21.10, di quelli che dopo
trenta volte che sono stati trasmessi finiscono per condizionare i
comportamenti della gente – sua madre si sarebbe alzata da
quella dannata sedia agitando il sedere e gli avrebbe detto
“Michela, Cristo, cosa ho mai fatto perché tu sia
cresciuta con queste idee malsane?”, e lui avrebbe avuto un
buon motivo per odiarla, per ribellarsi, per fare qualcosa. Sarebbe
scappato di casa, con un sacchetto a pois rossi pieno di stronzate
appeso a un bastone. E invece no, semplicemente non poteva funzionare
così. Era uno stupido con una madre dalla borghese nonchalance.
Voleva così
tanto che una piccola, piccolissima, minima scheggia di disapprovazione
sfuggisse al contegno di quella donna terribile. Una scheggia grande
quanto gli bastava per appiccare un gigantesco rogo di risentimento,
prima a malapena soffocato per mancanza di prove nel processo mentale
contro la sua famiglia.
Mentre metteva in ordine
– biro di qua, matite di là, plettri da una parte,
fogli dall'altra, libri di scuola il più lontano possibile,
diario dove mamma non lo può vedere, computer spento e con
password attivata – sentiva chiaramente, pur cercando di
ignorarlo, il suo sangue ribollire per la rabbia, e lo stomaco torcersi
per la paura, e il caldo andare e venire e lasciarlo con i sudori
freddi, e soprattutto le spalle ricadere sulla cassa toracica
costringendolo a pompare ogni singolo respiro. Iniziava a sentirsi
impotente, debole, arrabbiato, e le penne caddero tutte a terra, e
qualche dio, lassù, iniziò a lamentarsi delle
offese ricevute. Cercò disperatamente di non rompere nulla,
ma decise che la sedia era sacrificabile sull'altare della sua rabbia.
Sentì distintamente lo scricchiolio del legno quando la
scaraventò contro l'armadio, quello pieno di vestiti carini,
e dall'essere arrabbiato passo immediatamente al temere che sua madre
avesse sentito il rumore di
“cosa-avrà-combinato-quella-ragazzina”.
La donna che lo aveva partorito sapeva iniettargli una
quantità sproporzionata di ansia ogniqualvolta Michele
commetteva, o credeva di commettere, qualcosa che agli occhi di sua
madre poteva risultare sbagliato.
A quel punto, stordito
tra il sentirsi un idiota e l'avere esaurito tutte le energie con quel
solo gesto, si lascio cadere sul letto.
Cercò di dare
un'aria tragica a quella patetica situazione facendo un po' l'idiota
con se stesso. Santo David, pregò
osservando il santino sul muro, quello in cui il Divino era stretto in
una tutina paurosamente trash, aiutami tu, che da giovane
eri un figo anche vestito da pulzella.
Bowie lo
guardò sornione dalla parete, con la chioma di un rosso
metallico sparata ovunque. Sembrava suggerirgli cosa fare, squadrandolo
benevolo dall'alto con le sue pupille diseguali.
Voleva strappare dalla
carta il sorriso sicuro, quasi aggressivo di David e appiccicarselo
sulla bocca. Aveva bisogno di un'arma difensiva come quella –
perché sì, cazzo, la strada era dannatamente
pericolosa, e gli sguardi piovevano come frecce, e la gente caricava
frettolosa diretta ben oltre quel povero moccioso armato alla leggera,
ma a cui lasciare ferite non costava proprio niente. Sembravano
così a posto, all'inizio, mentre camminavano sull'asfalto
con espressioni neutre. Eppure avevano tutti la capacità di
tirare fuori la loro natura di stronzi inaciditi come un coniglio da un
cappello, o magari, dalla loro prospettiva, come un asso dalla manica.
Li vedevi sfilare impassibili per le strade – ragazzi con
dread e magliette larghe, signore sui trampoli tinte di biondo
menopausa, vecchi con occhiali e cappellino, ragazzette con i leggings
militari e altre amene figurine da parata funebre – e ti
sembravano tutti persone pronte a sorridere in risposta a un tuo saluto
e a prestarti aiuto in caso fossi caduto dal marciapiede o in qualche
altra situazione spiacevole. E invece, poi, qualcosa andava storto. Ad
esempio, poteva capitare di vedere per la strada un barbone che
chiedeva l'elemosina, degli africani che confabulavano tra loro in
lingua sconosciuta, due ragazzi che si tenevano per mano, e persino
qualche mostro dalla voce femminile che si vestiva da uomo e parlava di
sé al maschile. Bastavano queste piccole cose, penava
Michele, perché qualcuno ferito nella sua integra e ottusa
tranquillità da standard si sentisse in diritto di ferire in
risposta.
Michele era
così perso in queste considerazioni da affondare con lento
abbandono nel materasso, come se fosse catrame fresco in cui soffocare
tutte le sue debolezze.
Per quanto a volte se ne
dimenticasse completamente, lui non somigliava un granché a
un bambino vero, per dirla come la direbbe Collodi. Come il suo
personaggio, era come un pupazzetto umanoide di legno che aspettava la
Fata Turchina – possibilmente in camice bianco e con una
specializzazione in endocrinologia – perché lo
rendesse reale prescrivendogli il magico testosterone. Poteva indossare
gli abiti che indossavano i bambini veri, e parlare e atteggiarsi allo
stesso modo, ma in sé sapeva di non poter sembrare uno di
loro. E anche il mondo lo sapeva. Il mondo, almeno così
percepiva Michele, era il primo in assoluto a vederlo come una tenera,
adorabile ragazzina con labbra rosee e soffici capelli ondulati. Mentre
lui, prendendosi estremamente sul serio – beh, almeno
finché l'insicurezza non prendeva il sopravvento –
nel grande schermo del suo cervello vedeva una sola immagine da
associare a se stesso, ed era quella di un diciassettenne qualunque,
con un accenno di barba e i fianchi stretti.
Forse era quello il
punto. Forse – solo per lui o magari, pensò
generalizzando irrazionalmente, per la maggior parte delle persone
transgender – non era un organico “non sentirsi a
proprio agio con il proprio corpo”, ma più un
socialmente instillato – ma non meno vero, doloroso e
irreversibile – “non rispecchiarsi
nell'identità sessuale assegnata alla nascita”,
che, vista la semplicioneria dilagante, per la maggior parte delle
persone corrispondeva al corpo. E che quindi, per essere cambiata,
necessitava anche di una trasformazione fisica, biologica, medica e
chirurgica.
Si rese subito conto che
queste non potevano che essere che speculazioni. Come poteva essere una
cosa esclusivamente psichica? Il suo disagio era soprattutto a livello
fisico, e in caso contrario non si sarebbe spiegato il suo orrore alla
vista del proprio riflesso allo specchio. Il disagio fisico era l'unico
che spiegava la sensazione di essere disincarnato, di essere ficcato e
rinchiuso a forza in un ruolo che non gli apparteneva e che ai suoi
occhi prendeva forma, in modi misteriosi e primitivi come possono
esserlo i meccanismi di associazione della mente umana, nel curvo,
morbido corpo avvelenato dagli ormoni sessuali femminili che gli
aderiva addosso.
E dire che sosteneva la
parità dei sessi e l'ingiustizia e innaturalezza dei ruoli
di genere – rifiutava e aveva sempre rifiutato gli stereotipi
della donna casalinga, l'uomo macho e ignorante, il rosa e l'azzurro,
le damigelle in pericolo e i principi salvatori, le gonne alle une e i
pantaloni agli altri. Era da sempre convinto che ognuno fosse libero di
fare ciò che preferiva, a patto di non ledere la
libertà altrui, ma nessun farmaco sembrava funzionare contro
quell'odioso, viscido disagio. Sembrava crescere direttamente dalle
viscere, più che dal cervello. Aveva radici troppo profonde
per essere sradicato con belle paroline, come un cobra dal cesto di
vimini. Non bastava essere convinti che anche le donne potessero
portare i pantaloni, fumare, dire le parolacce, andare in palestra,
avere i peli e scopare con chi pareva a loro.
La disforia di genere
c'era, viscida, organica e primitiva. Michele non sarebbe mai stato a
suo agio nell'involucro di una ragazza. Non sarebbe mai riuscito a
definirsi una donna che sfuggiva agli stereotipi, perché non
sarebbe mai riuscito a definirsi una donna – e basta.
Si alzò
faticosamente dal letto. Aveva le membra pesanti, fradice di sconforto.
Il suo corpo non era
così male. O perlomeno, si ritrovò a pensare
guardandosi allo specchio, dopotutto era un ammasso di carne carino,
ben modellato, un figurino fatto per essere ammirato e fischiato dai
ragazzi per la strada. Era stato fortunato, per così dire.
Se si fosse sentito una donna avrebbe amato profondamente il suo corpo,
con tutta probabilità.
La sua immagine
cambiò lentamente mentre la guardava, assumendo dimensioni e
proporzioni sempre più imponenti. Si trasfigurava: era
Pamela Anderson, con le gigantesche tette mal rifatte. Era un idolo
femminile preistorico, con grossi fianchi fertili ed enormi seni di
pietra. Era una montagna, una gigantessa sdraiata a terra, due tube di
Falloppio ambulanti sormontate da ghiandole mammarie sovrasviluppate.
Era un mostro con i tacchi e il rossetto – tacchi
e rossetto, che allitterazione di cacofonie.
I pantaloncini inguinali
azzurro pallido con inserti di pizzo ghignavano ridicoli, in silenzio,
sul pavimento dove li aveva scaraventati Michele mezz'ora prima.
Li vide, e qualche
lacrima gli rigò le guance. Sarebbe stato costretto ad
indossare le bende mediche fino a che non fosse riuscito a procurarsi
un nuovo binder – e le bende erano davvero deleterie, a
differenza delle canotte, che perlomeno erano state create
appositamente per appiattire i toraci dei ragazzi transessuali. Sentire
continuamente una stretta alle costole, difficoltà a
respirare e la pelle che si tagliava lentamente era orribile. Era
qualcosa di profondamente umiliante.
Singhiozzando
debolmente, già fradicio di sudore, prese la peggiore e
migliore decisione che avrebbe potuto prendere quel giorno.
“Niente crossdressing. A costo di crepare di caldo.”
*Crossdressing:
vestirsi con abiti del genere opposto. Un crossdresser
è una persona, spesso un uomo indifferentemente omo o
eterosessuale, che indossa abiti ritenuti del sesso opposto per
divertimento o spettacolo (un esempio sono le Drag Queen). I
crossdresser non sono quindi da confondere con le persone transessuali,
perché non sentono di appartenere al genere opposto a quello
assegnato alla nascita. Quando Eleonora dice a Michele di fare
crossdressing gli
sta suggerendo a malincuore di vestirsi da donna poiché lui,
seppur transessuale, è un ragazzo.
Buonasera a tutti, popolo di EFP. Tra una cosa e l'altra sono
finalmente riuscito a prendere in mano il PC e a pubblicare
questo primo capitolo, che spero apprezzerete! Vi ho presentato
Michele, il nostro eroe; nel prossimo capitolo capirete qualcosa in
più di lui e della sua dolce e delicata migliore amica. Ele
è una specie di bulldozer. Non a caso è ispirata
a una mia amica reale sensibile quanto lei... per fortuna che la mia
amica non sa dell'esistenza di questa storia.
Beh, eccovi qui il primo protagonista. Seguite e recensite, gattoni, mi
raccomando!
- Knet
|
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
Canarini al microonde - Capitolo II
Capitolo
II
Le vie del centro erano stranamente
gremite di gente. Mentre passeggiava a fianco di Eleonora, con il
sottofondo dei suoi tacchi sull'acciottolato e delle sue chiacchiere
allegre ad accompagnarlo lungo la strada, iniziò a notare
tutti i particolari che gli erano sfuggiti fino a quel momento: scatole
di cartone, giornali e borse di plastica erano disseminati un po'
ovunque, e i passanti, spesso con bambini attaccati alle gambe,
sembravano tutti abbastanza stanchi.
“Ehi, mi ero dimenticato
che è sabato mattina”, disse interrompendo
improvvisamente la parlantina della sua amica. “Forse siamo
ancora in tempo per beccare le ultime bancarelle del mercato.”
Ele prese il telefono dalla borsa e
guardò l'ora sullo schermo. “Sono le undici e zero
due, e direi proprio che ce la possiamo fare. Spero che la signora che
vende quei fantastici costumi da bagno sia ancora in piazza,
perché ho tutta l'intenzione di svaligiarle il
furgone!”. Strinse il braccio di Michele in un moto di
contentezza, e lui non poté che sorridere e alzare gli occhi
al cielo.
“Che c'è,
lesbicona, non sopporti un frociastro come me?”, lo riprese
Ele agitando una mano. Poi lanciò all'aria una risata
argentina, fin troppo squillante per le orecchie ormai abituate di
Michele.
Eleonora era una ragazza d'acciaio,
che amava scherzare più ancora di quanto amasse spendere.
Era allegra, spavalda, sempre attenta a tutto ciò che
succedeva intorno a lei, e non mancava mai di far notare alle persone
ciò che pensava di loro, sparando parole a mitraglietta su
ogni cosa e persona nel raggio di venti metri.
Michele l'aveva conosciuta quasi
per caso qualche mese prima, grazie a un gruppo su Facebook contro
l'omotransfobia a Brescia. Si erano scambiati qualche messaggio,
avevano riso insieme alle uscite stupide di un conoscente che avevano
in comune e poi erano andati avanti con le loro vite senza contattarsi
molto, fino a che non si erano incontrati dal vivo per la prima volta,
del tutto casualmente. Era stato durante una conferenza sul lavoro
dedicata agli studenti dei licei bresciani, in cui entrambi si erano
ritrovati per colpa delle loro professoresse un po' pedanti. Avevano
riso nel vedersi per la prima volta in faccia senza i filtri di Retrica
e Eleonora, dalle vette del suo metro e settantacinque,
aveva subito fatto notare al suo nuovo amico che nelle foto di Facebook
sembrava più alto. Da quel momento, benché
fossero l'uno l'opposto dell'altra, uno amasse la solitudine e l'altra
le attenzioni altrui, uno preferisse la musica e l'altra i telefilm,
uno fosse un FtM con ancora una piede nell'armadio e l'altra una
combattiva e appariscente donna trans, divennero amici inseparabili.
Più di tutto Eleonora
amava scherzare sulla sua condizione, perché lei era
riuscita a crearsi una corazza indistruttibile, per quanto
graziosamente smaltata a cuoricini e fiorellini. Era riuscita ad essere
così sfrontatamente sicura di se stessa da affrontare uno
dei peggiori tipi di discriminazione – quella rivolta alle
donne transessuali, derise, picchiate, uccise e umiliate ogni giorno e
in ogni parte del mondo – come fosse una sfida, un gioco,
qualcosa che la spronava a dare del suo meglio piuttosto che ad
arrendersi.
Non di rado per strada la sua
figura alta e brillante veniva additata, chiamata sottovoce
“frocio”, “travestito”,
“puttana”, a volte richiamata maleducatamente.
Quando Michele era presente era lui a mettere un grugno ostile, a
rispondere con tono aggressivo. Eleonora, dall'alto delle sue belle
scarpe ticchettanti e della sua superiorità morale,
sorrideva. Lei sorrideva sempre, come avrebbe voluto saper fare anche
Michele; e aveva una decina di sorrisi diversi, uno per ogni stato
d'animo. Quand'era felice socchiudeva gli occhi, quand'era sorpresa li
spalancava creando una “o” leggera con le labbra,
quand'era incazzata sollevava un sopracciglio, sempre quello sinistro.
Il suo migliore amico aveva imparato a riconoscerli tutti, e ad
accettare le sue battute sceme come un segno di assoluta certezza della
propria identità.
L'anziana signora dei costumi si
era stabilita, come ogni sabato della bella stagione, vicino a piazza
del Duomo. Era molto gentile con Eleonora e non aveva mai sbagliato con
i pronomi, dandole sempre del femminile, un po' per sincera accortezza
e un po', pensava Michele, per non perdere una cliente pronta a
spendere senza esitazione.
“Quello nero a pois viene
quindici, quello turchese dieci. Se li prendi entrambi facciamo
ventidue, cara.”
Mentre la ragazza contrattava e
pagava, Michele iniziò a sentire il caldo.
Poco prima le ultime nuvole avevano
abbandonato il cielo, lasciando scoperto il sole abbagliante di
metà maggio. Dopo qualche minuto il maglione verde
già scaldava la mano al tocco, mentre i jeans neri
iniziavano ad appiccicarglisi all'inguine e dietro le ginocchia per
colpa del sudore.
“Spendacciona, avresti
dell'acqua?”, chiese alla sua amica appena quella si fu
allontanata dalla bancarella per venirgli incontro.
Quella rovistò
nell'enorme borsa, ma non parve trovare altro che due pacchetti di
fazzoletti, degli occhiali da sole e le chiavi della macchina.
“Nulla, Michi, mi
dispiace. Hai tanto caldo?”
“Un po'...”
“Dai, maschione, puoi
resistere.” Gli diede una pacca sulla spalla, insultandolo un
po' meno del solito. “Adesso andiamo in piazza e cerchiamo un
bar.”
Si avviarono alla ricerca di
qualcosa da bere mentre Ele si compiaceva dei suoi acquisti, rovistando
continuamente nella borsa di plastica.
Giunti a destinazione, purtroppo
per loro, trovarono ben altro.
In piazza Duomo a Brescia ci sono
due chiese, e sono molto diverse tra loro: il Duomo vecchio
è un edificio tondo in stile romanico, uno dei pochi
sopravvissuti con quella pianta, col muro a mattoni a vista e pochi
fronzoli; il Duomo nuovo invece è in marmo bianco, ha una
facciata in stile barocco e una grande cupola verderame. Uno
è basso, umile, povero, caotico; l'altro è
massiccio e imponente, arrogante nella sua sobrietà.
La loro contrapposizione
architettonica era l'esatta rappresentazione di quella umana, estesa
per tutta la piazza, che si presentò agli occhi di Eleonora
e Michele quando vi misero piede.
“Mi sale il
genocidio.”
“Aspetta un minuto,
com'è che non ne sapevo niente?”, disse Eleonora
mentre faceva scorrere lo sguardo per le file di Sentinelle in Piedi,
diritte e composte all'interno di uno spazio ben recintato da transenne
metalliche. “Di solito quando succedono cose del genere
qualcuno me lo viene a dire! Come posso io
mancare alle contromanifestazioni? Ehi, guarda”, disse,
rivolta a Michele, “questa volta hanno pure la
scorta.”
Oltre le transenne, infatti, vagava
anche qualche poliziotto intento a scrutare tra le file dei
manifestanti dei centri sociali.
Michele era ancora sorpreso per la
scoperta inaspettata, ma non osava guardare in faccia le sentinelle.
La loro organizzazione era nata
proprio nella sua città, quindi c'erano state altre due o
tre manifestazioni; lui era sempre stato presente. La prima volta per
lui era stata come un gioco. Aveva quindici anni, non aveva mai subito
in prima persona l'omofobia né la transfobia ed era stato
trascinato in piazza da amici. Nessuna delle facce delle sentinelle gli
era risultata familiare: aveva riso, cantato, si era unito ai cori di
protesta e alla fine aveva persino ballato con una perfetta
sconosciuta, il tutto in un'aria di festa e ribellione adolescenziale,
sotto gli sguardi seri, da falco, degli organizzatori adulti.
La seconda volta, qualche mese
dopo, era stata appena dopo un litigio con sua mamma. Si era azzardato
a prendere una felpa da ragazzo ai saldi invernali, usando la debole
scusa che nel reparto maschile la roba costava di meno come se la sua
famiglia avesse mai avuto problemi di quel tipo. Sua madre non era
particolarmente fedele agli stereotipi – lavorava, dopo la
maternità aveva affidato i figli a delle babysitter e amava
il fai da te, tanto che quando si erano trasferiti in centro
città aveva curato personalmente mobili, porte e pavimenti,
evitando ovviamente i lavori più pesanti – e
talvolta ne sfuggiva lei stessa, sempre nel limite del socialmente
accettabile. Quella volta in particolare, però,
lasciò cadere un commento che accese in Michele il fuoco
della ribellione.
“Non mi starai mica
diventando lesbica, eh?” gli aveva detto in tono molto
leggero e scherzoso, come per fare una battuta in tono confidenziale.
“Mamma...”
aveva replicato il ragazzo con tono schifato. Odiava quando lo
scambiavano per una donna omosessuale. Gli piacevano le ragazze,
sì, ma in modo totalmente diverso, e il solo pensiero di
farsi toccare in certi modi e in certi posti lo disgustava
profondamente. Per un periodo aveva creduto di esserlo ma, lentamente e
inesorabilmente, aveva iniziato a sentire la parola lesbica
affibbiata a lui come qualcosa di viscido, oltraggioso, fuori posto;
uno sputo sulla sua faccia pura e pulita. “No! E anche se
fosse?”
“Michela, so benissimo
che non lo sei. E lo spero bene.”
A quelle parole lui aveva rizzato
le orecchie come un gatto incazzato. “Come, scusa?”
“Non mi piacciono queste
cose, lo sai. Sono all'antica. Donne e uomini sono fatti per stare
insieme, e se scoprissi che ti piacciono le ragazze o a tuo fratello
gli uomini penserei di aver sbagliato qualcosa nella vostra educazione.
Amerei avere dei nipotini... e poi tra lesbiche non si può
nemmeno avere rapporti sessuali. Non capisco proprio queste persone,
cerco solo di vivere e lasciar vivere. Tranquilla, tesoro, non volevo
offenderti.” Concluse la cascata di parole confuse tendendo
una mano verso il figlio, come per accarezzargli i capelli.
Questi la evitò proprio
come sua madre aveva ignorato l'indignazione dipinta sul suo viso.
Calcò la mano, cosciente di eccedere nei suoi ragionamenti
infantili ma troppo arrabbiato per preoccuparsene. “Secondo
me sono solo cazzate. È la Chiesa che vi mette in testa
queste cose.”
Sua madre non poté
più ignorarlo, e di lì a poco iniziarono a
discutere seriamente e poi a litigare. La donna, per evitare il
discorso omosessualità, lo accusò di essere un
ingrato che non riconosceva alla sua famiglia e alla società
tutto ciò che da loro gli era stato dato. Le accuse erano
plausibili e veritiere, dato che il ragazzo aveva dimostrato
più di una volta di non apprezzare particolarmente
l'educazione vecchio stile che gli era stata impartita, ma Michele
riuscì benissimo a percepire il rimbombo delle silenti
affermazioni discriminatorie di poco prima.
Da quel momento, un po' per ripicca
e un po' per necessità di esprimersi, iniziò a
vestire quasi del tutto al maschile. Il discorso venne sepolto per
sempre sotto una coltre di ostile indifferenza.
Pochi giorni dopo ci fu la seconda
manifestazione delle Sentinelle. Michele partì per la
città con lo slancio di qualche mese prima, poi, con
sgomento, sentendo ancora l'eco sottile delle parole di sua madre,
scoprì un viso conosciuto tra quelle schiere.
Era suo zio Sandro, il suo
preferito. Quello con cui giocava a nascondino da piccolo, quello che
lo faceva sempre ridere, quello che gli aveva regalato la sua prima
PlayStation a dieci anni; lo stesso che una volta, tanti anni prima,
aveva fatto spaventare a morte una sua compagna di classe antipatica
dicendole che se avesse continuato a prendere in giro Michele l'avrebbe
fatta arrestare dalla polizia; lo stesso che lo difendeva sempre dai
rimproveri severi dei suoi genitori. Qualche volta da lui si era
sentito dire aveva di comportarsi arsi da femmina e di non fare il
maschiaccio, ma mai avrebbe pensato che discorsi così
leggeri e relativamente innocui derivassero da un'ideologia.
Non era un suo zio naturale,
bensì un amico d'infanzia di suo padre; ciononostante era
stato una figura importante della sua infanzia, e scoprirlo
lì, al fianco di sua moglie e degli altri manifestanti, con
il grosso naso conficcato tra le pagine di Ivanhoe
– un romanzo probabilmente scelto secondo il criterio casuale
delle sentinelle – aveva rincarato il colpo infertogli da sua
madre poco tempo prima. Invece di cantare e ballare, quella seconda
volta se ne andò silenzioso come un fantasma dalla piazza
gelida. La sua vita da quel giorno sarebbe stata per sempre divisa a
metà: da una parte c'erano i tempi facili e felici di quando
non aveva nulla da nascondere, dall'altra l'ignoto, la paura delle
reazioni altrui quando avessero scoperto che in lui c'era qualcosa che
non andava. E così sua madre, suo padre, suo zio e
chissà quanti altri, da quel momento, poterono esistere per
lui solo nella mezza vita della finzione.
Iniziò a sentirsi sempre
più distaccato dalla sua famiglia, spaventato dall'idea che
potessero scoprirlo. Sentì, per la prima volta, il peso
dell'essere diverso.
“Ma guarda chi
c'è! Ehi, coso, ti lascio un attimo da solo. Vado dalla Lu,
che è tanto che non la vedo.”
Il ticchettio sempre più
lontano dei passi di Ele lo riportò alla realtà.
Erano passati mesi, ma ancora non si azzardava ad alzare il capo
accaldato per guardare in faccia i manifestanti. Non ne aveva
più timore, non si sentiva più smarrito all'idea
di essere estraneo alla sua stessa famiglia. Era, però,
rimasta nel suo cuore una vaga tristezza, una malinconia che lo
spingeva a non volerne sapere di più, un istinto di
conservazione di tutti i bei ricordi che aveva di quando ancora era un
bambino con la testa bella vuota e una sola vita, ancora tutta intera.
Aveva sempre più caldo.
Volse lo sguardo alla folla allegra e colorata dall'altro lato delle
transenne, e si rese conto di avere la vista appannata.
Un paio di sue compagne di scuola
stavano chiacchierando con un ragazzo altissimo e occhialuto, mentre un
uomo sulla trentina, suo conoscente, distribuiva volantini e schizzava
da un lato all'altro della piazza per aggiustare bandiere arcobaleno,
parlare con tutti quelli che incontrava sulla sua strada e intonare
cori di tanto in tanto. Non sembravano esserci altre sue conoscenze, ma
sul momento non gli interessava.
Decise di avvicinarsi a Marco
– si ricordò quello che probabilmente era il suo
nome – sperando di attaccare bottone e distrarsi
finché non fosse tornata Ele. Aveva lasciato il portafoglio
nella sua borsa, e con quello ogni speranza di procurarsi da bere.
Lentamente i forti raggi del sole,
che di primo mattino lo avevano ringalluzzito con la prospettiva di una
giornata di vacanza da scuola da passare sotto il primo cielo blu
dell'anno, divennero una tortura. Aveva la sensazione che ogni parte di
lui stesse per collassare su se stessa e sciogliersi. La fronte era
imperlata di sudore, i vestiti umidi gli aderivano alla pelle, le bende
sul petto iniziavano a bruciare come fuoco e con tutta
probabilità gli avevano già inciso un solco nella
pelle sottile del torace, stringendogli le costole come una serpe
tagliente.
Non aveva più pensieri
per la testa. Voleva solo rinfrescarsi, parlare con qualcuno e tornare
a casa a studiare o a strimpellare qualche canzone in solitudine. Era
già stanco, nonostante fossero le undici e mezza. Non era da
lui.
Poco lontano brillava l'insegna
metallica di una gelateria, e si chiese da dove arrivasse la luce che
le permetteva di proiettare quel riflesso intermittente.
Alzò lo sguardo verso il tetto dell'edificio e
lì, ritta nei raggi perpendicolari del sole, una bandiera
oscillava debolmente, a tratti ombreggiando l'insegna e a tratti
illuminandola. Sotto quella silente bandiera blu ogni cosa cambiava
colore a seconda dei suoi volubili movimenti. L'insegna –
bianca, grigia, bianca – un anziano signore seduto a un
tavolo – abbronzato, pallido, abbronzato – i
tavolini di plastica – rosa, rossi, rosa, rossi. Michele
vedeva solo i colori di quello spettacolo mediocre, le linee le aveva
lavate via il sole col sudore che gli imperlava le ciglia.
Si rese conto all'improvviso di
essersi fermato a metà strada tra l'accesso alla piazza e la
folla. Non sapeva dove fosse diretto prima di fermarsi. Sentiva solo
caldo. Chiamò ad alta voce Eleonora, ma nessuno rispose.
Nel frattempo una macchia grigia e
nerastra era entrata nel suo campo visivo, e ora gli galleggiava
davanti perfettamente immobile.
Stette ferma per un po' a debita
distanza, ma dopo un lasso di tempo indeterminato iniziò ad
avvicinarglisi oscillando. Poggiava su un lungo corpo e aveva occhi e
bocca.
“Stavo per chiederti se
volessi un volantino su, ehm, Nascita e morte del DDL
Scalfarotto, solo che non mi sembri del tutto a
posto.”
Era un ragazzo forse poco
più grande di lui che portava degli occhiali leggeri, tondi,
grandi e argentati, che gli ingrandivano gli occhi chiari. Michele si
convinse di stare guardando un film in bianco e nero quando si accorse
che la macchia grigia che prima gli galleggiava nel campo visivo erano
i suoi capelli. Non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto rispondergli.
“Cosa?” Che
strana voce aveva, quel ragazzo. “Ehi... se hai biascicato
qualcosa non ho capito. Puoi ripetere, per favore?”
“Non credo di non
molto... sentirmi troppo bene. Sto andando a fuoco”,
articolò finalmente Michele.
“Ti senti male?”
“No, cioè
sì, ma non riesco a capire.”
Le sopracciglia dritte e scure
– non erano grigie – dello sconosciuto si
affossarono al centro, formando due bellissimi sorrisi preoccupati. A
Michele uscì di gola un risolino a quella strana visione.
“Sei qui con qualcuno,
ehm...?” Indugiò sul nome.
“Eleonora. Michele, io mi
chiamo così.”
Il giovane senza nome si
girò e lanciò un grido cantilenante:
“Eleono-raaa. Chiunque tu sia vieni qui da
Michele.” Poi si voltò di nuovo verso il ragazzo,
finendo di arrotolarsi le maniche della camicia fino a sopra i gomiti
giusto in tempo per sorreggerlo, perché era inciampato sui
suoi stessi piedi cercando di scorgere Ele oltre le spalle dello
sconosciuto.
“Cazzo, cazzo. Ti sei
preso un bel colpo di calore, Mick. Ti dispiace se ti chiamo
così? No, vero? Vieni qui, stai alla mia destra, ti porto un
po' all'ombra”, disse questi con una parlantina a
metà tra il nervoso e il divertito. Per Michele quella voce
profonda e bizzarramente modulata fu poco rassicurante, ma la
situazione comica sembrò riagganciarlo alla
realtà.
Lo sconosciuto si spostò
una ciocca di capelli dalla fronte con delle lunghe dita pallide e la
aggiustò indietro facendoci scorrere le unghie tonde.
Camminava veloce, sorreggendo l'infermo su un fianco e cercando aiuto
con lo sguardo e qualche cenno della mano.
Michele quasi non si era reso conto
del suo braccio snello intorno alle spalle e si ritrovò dal
nulla a fissargli le mani, grandi pianure bianche solcate da vene
verdastre in rilievo, a nord quattro montagne arrossate, intirizzite
come d'inverno, a sud una valle tra le sporgenze ossute del polso.
Realizzò di essere in
stato confusionale e che probabilmente, se non fosse tornato
immediatamente da quel luogo silente e misterioso, sarebbe passato per
via diretta dalle valli della mano sconosciuta all'ospedale
più vicino.
“Mia madre...”,
mormorò confusamente, sentendo insinuarsi nello stomaco
l'ansia che accompagnava quel nome da sempre.
Lo sconosciuto dai capelli grigi lo
guardò di sbieco, rinchiudendosi in una sorta di guscio
lontano e cambiando radicalmente atteggiamento. “Tua mamma?
Vuoi... tua madre?”, gli chiese, quasi nauseato, mentre si
sedevano all'ombra di un portico.
Michele si lasciò cadere
di schiena sul pavimento. “Ah... è
fresco...” La nebbia che aveva nel cervello sembrò
diradarsi a quel contatto. Riprese a sentire gli arti come parte del
suo corpo e il peso dei suoi vestiti umidi sulle ossa, mentre lasciava
che avvenisse lo scambio termico tra lui e la pietra del pavimento.
Si soffermò per la prima
volta a guardare il ragazzo che l'aveva portato all'ombra, che faceva
gesti inconsulti in direzione della piazza come per richiamare
qualcuno. Aveva un profilo strano, ossuto e pallido, con degli zigomi
alti e un naso leggermente aquilino, molto maschile. Doveva avere poco
meno di vent'anni, anche se sembrava più vecchio per molti
tratti. Forse andava in quinta, o all'università,
considerando com'era vestito: pantaloni grigi dal taglio formale,
camicia bianca e scarpe nere che Michele avrebbe considerato da
vecchio, perché era la prima volta che le vedeva su un suo
quasi coetaneo. L'unico tocco di colore nella sua figura allampanata
erano gli occhi azzurro slavato, anche quelli tendenti al grigio, e i
bottoni della camicia che splendevano di un verde brillante.
Aveva un modo teatrale di
gesticolare, sembrava serbare una sorta di imbarazzo sociale temperato
da un comportamento e un aspetto fuori luogo, che attiravano
l'attenzione come una risata a un funerale. L'aveva aiutato, ma
sembrava dai suoi movimenti e dai suoi sguardi che, avendolo fatto come
preso da un impulso infantile, se ne fosse pentito subito dopo e
volesse semplicemente tornare a starsene per i fatti suoi. Da
amichevole era diventato freddo e poi di nuovo caldo, o almeno tiepido,
tralasciando completamente il fatto che la salute di una persona fosse
in pericolo. Non sembrava davvero preoccupato per lui, quanto
più incuriosito.
Si ricordò della domanda
che gli era stata posta e guardò profondamente negli occhi
il ragazzo seduto al suo fianco, che ora lo osservava dall'alto,
riuscendo finalmente a ragionare con lucidità nonostante
un'impercettibile punta di vermiglio gli stesse colorando le guance e
il naso. “Veramente voglio solo tenerla lontana da me. E non
voglio che veda Eleonora, perché non passerebbe come ragazza
di nascita, sai, non prende ancora ormoni. È
transessuale”, disse freddamente, incespicando un po'.
Le sopracciglia folte dell'altro si
incurvarono verso l'alto dalla sorpresa, stavolta formando due smorfie
tristi. Sorrise beffardo incurvando le labbra chiare e sottili.
“Che c'è, i tuoi non sanno che sei gay?”
La domanda colpì Michele
come una secchiata d'acqua in faccia.
Se prima si sentiva in imbarazzo
per la situazione ridicola – si era fatto trascinare da un
perfetto sconosciuto, perdipiù strano, in giro per una
piazza affollata biascicando cose senza senso e inciampando sui suoi
stessi piedi – ora era del tutto sconvolto da quel tizio.
Iniziava a sembrargli un pizzico inquietante, come se avesse qualcosa
di sbagliato nel cervello. Nessuna persona sana di mente, fino a quel
giorno, si era posta domande riguardo al suo sesso biologico senza
saltarne fuori con la brillante idea che lui fosse una femmina. Era
triste, ma almeno gli risparmiava spiegazioni riguardo alla sua
situazione se le cose si mettevano male.
“Come, scusa?”
“Ah, non sei gaio? Chiedo
perdono. Dovrò mandare il mio gay radar in riparazione.
Pensavo che la propria omosessualità fosse l'unico motivo
capace di spingere un ragazzetto della tua età a manifestare
contro le Sentinelle in Culo.”
“Cosa?!”,
esclamò Michele stizzito. Il tipo occhialuto aveva proferito
quelle parole con una sicurezza assoluta e un tono scherzoso, quasi
ostentatamente da frocio, che gli stavano iniziando a dare sui nervi.
Odiava che gli si desse del bambino, anche se si sentiva lusingato per
essere stato scambiato per un ragazzo bio. “Senti, sono etero
e ho diciassette anni. Se ti sembro più piccolo è
perché ho... insomma, sono trans. Si può dire che
ho dei problemi ormonali, ecco.”
“Ehi, ehi.
Calmo”, disse il ragazzo grigio alzando le mani.
Cambiò di nuovo atteggiamento come se stesse recitando
diversi ruoli in un copione, e da sornione divenne serio e affabile.
“Voleva essere un complimento. Se fossi stato un tredicenne
etero e cisgender che protesta contro l'omofobia avresti meritato tanto
di cappello.”
Wow, sa cosa significa
cisgender, pensò Michele.
“Comunque mi chiamo
Valentino, Vale per i pigri. Non dico 'piacere di conoscerti'
perché sarebbe assai ipocrita. Cioè, da dire,
come frase. Presentarsi non è conoscersi.”
I due si diedero la mano,
guardandosi negli occhi, stringendo uno il palmo umido dell'altro. Si
sorrisero sinceramente.
“Michele... ma te l'ho
già detto. La lista dei soprannomi sarebbe troppo lunga da
snocciolare.”
Mentre parlava lo stordimento
tornò a farsi sentire, lieve ma insistente, accompagnato da
un martellare sordo nella scatola cranica. Giusto in tempo per l'arrivo
di un getto d'acqua che lo colpì in piena fronte.
“Oh, mio Dio, Michele!
Cos'è successo? Come stai?” Ele era arrivata in
quel momento correndo trafelata, armeggiando con una bottiglia che
agitava come un'arma da fuoco. “Vi ho visti da
laggiù... scusa il ritardo, ho preso l'acqua che ti serviva
pensando di farti un favore e invece eri quaggiù disteso e
stavi chissà come! Mi dispiace... oh, mi dispiace,
Michi!” e si profuse in mille attenzioni, tastando i polsi e
la fronte dell'amico senza dargli il tempo di reagire.
“Colpo di calore. Sembra
stare meglio”, dichiarò lapidario Vale,
placidamente disteso a terra sui gomiti immacolati, una gamba piegata.
A Michele non piacevano le persone che rispondevano al posto suo, ma in
questo caso lo lasciò fare. Non pareva volergli togliere le
parole di bocca per farlo sembrare uno stupido, come faceva di solito
la gente. “Era in mezzo alla piazza in stato confusionale e
nel distendersi all'ombra è tornato lucido. Deve bere, stare
al fresco e direi anche cambiarsi”, continuò,
guardando Michele come accorgendosi in quel momento degli abiti troppo
pesanti.
“Oh, no no! Lui deve
andare in ospedale, adesso!”
“Tu sei pazza”,
si spaventò Michele, quasi sputando l'ultimo sorso d'acqua.
“No, no. In ospedale chiamerebbero i miei, e se dico alla
vecchia che mi ha portato qui un'amica me ne viene a chiedere nome,
cognome e stato civile. Non voglio che pensi che ho amici
strani.” Vide con la coda dell'occhio lo sguardo sorpreso e
divertito di Valentino e decise di raddrizzare il tiro, anche se
Eleonora aveva capito benissimo cosa intendesse.
“Cioè, già ha trovato il binder e tutto
il resto, non ho sbatta di doverle dire ogni volta con chi esco
perché teme che brutte compagnie mi confondano sessualmente
ancora di più.”
“Potremmo chiamare
un'ambulanza”, disse Eleonora trastullandosi nervosamente una
ciocca di capelli fiammanti, allungando poi una mano nella borsa per
prendere il telefono.
“No, non se ne parla
neanche. Me ne starò qui.”
“Sentite, io avrei
un'idea”, li interruppe Valentino alzandosi e spolverandosi i
pantaloni, dandosi grandi pacche sulle cosce. Eleonora sembrava
divertirlo. Guardò Michele sospirando, gli occhi azzurri gli
brillavano di nuovo come davanti a un bello spettacolo comico.
“Sono qui con degli amici dall'aspetto eterissimo. Uno ha una
macchina, una patente e un debito con me, quindi ti potremmo dare un
passaggio.” Guardò Michele, che sul suo volto vide
solo un enorme sorriso incosciente. “Che ne dici,
Mick?”
Buon pomeriggio a tutti.
Sono finalmente riuscito a trovare un tempo d'aggiornamento decente, e
il ritmo sembra essere bisettimanale... spero proprio di riuscire a
mantenerlo. I miei capitoli per ora si aggirano tra le 3500 e le 4500
parole, quindi dovrei scrivere più o meno tra le 2/350
parole al giorno. Poche, dite? Beh, io sono pigro, non scrivo mica
tutti
i giorni :P Per fortuna quando mi ci metto di brutto riesco a buttarne
giù 700/1000.
Ed ecco che Vale entra in scena. Ve lo aspettavate diverso? E INVECE E'
COSI'! Muahah. Ho i miei gusti, capitemi. Spero che abbiate
comunque apprezzato la sua comparsa e che non vi siate annoiati con la
storia famigliare di Michele (che è necessaria
perché... beh, insomma, saprete).
Ne approfitto per ringraziare tienimiancora
per le recensioni alla storia, più i tre gentilissimi utenti
che l'hanno preferita e i sette che la seguono! Non mi aspettavo che
avesse un gran seguito, ma vedo che siete interessati e ne sono felice.
♥
Che dire? Ci sentiamo tra due giorni con l'aggiornamento del Simposio.
See ya!
PS per il mio
ragazzo: amore, so che stai leggendo. Sai come potresti
rendermi davvero felice? Lasciandomi una recensione qui e non via
WhatsApp. Fai il bravo, dai C: Ti amoooh :*
- Knet
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Canarini al microonde - Capitolo III
Capitolo III
Le esatte parole che
pensò Michele quando vide il cosiddetto amico eterissimo di
Valentino furono “questo mi prende per il culo”.
Era alto, molto alto, e
per tutta la lunghezza del suo corpo non c'era nemmeno una singola
particella che potesse scorrere davanti agli occhi inquisitori dei suoi
senza destare sospetti. Portava pantaloni aderenti, una maglia
improponibile a stampa batik arcobaleno e un paio di Converse viola,
che dovevano essere di un numero tra il 45 e il 50 ed erano
perfettamente in tinta con la sua macchina, parcheggiata poco distante.
Era anche biondo e Michi
si stupì di constatare, guardando i peli delle braccia e non
le sopracciglia, perché era girato di spalle, che fosse
biondo naturale. I suoi erano profondamente convinti che i ragazzi che
si tingevano fossero tutti gay, e non voleva insospettirli ancora di
più. Non che la capigliatura importasse molto, in quel
quadretto omosessuale.
“Eccoci qui.
Lui è Adrian, il mio autista rumeno”, disse
Valentino una volta che ebbe guidato Eleonora e Michele fuori dalla
piazza, in una viuzza laterale dov'era radunato un gruppetto di
manifestanti multicolore. Vale indicò il gigante biondo, che
si voltò e sorrise, guardandolo poi negli occhi senza
aspettarsi spiegazioni.
“Ah, eccoti.
Pensavo fossi sparito con chissà chi. Ehm...
ciao!”, salutò con un vocione inaspettato.
“Amici di Vale? Vi devo portare da qualche parte,
vero?”
Oh mio Dio,
pensò Michele, non può essere vero.
Deve togliersi quegli occhiali ridicoli.
“Beh, non
tutti e tre. La ragazza è automunita”, gli rispose
Valentino. Poi fece un ampio gesto con le braccia come a voler
circondare una situazione troppo grande e complessa e
scrollò le spalle, guardando Michele. “Su, su,
presentatevi. Fate amicizia, da bravi.”
Adrian obbedì
immediatamente, porgendo la mano a Eleonora e facendole un ampio,
bianco sorriso. Sollevò gli occhiali da sole, tondi e rosa
come il peggiore degli incubi di Michele, per donarle uno sguardo
ammaliatore. “Io sono Adrian, piacere di
conoscerti.”
Michele si
girò verso Vale, mosso dalla curiosità che la
conversazione di poco prima aveva acceso in lui. Il tipo con i capelli
grigi gli aveva messo in moto qualcosa nello stomaco, una sorta di
ansia di fondo, un'insicurezza data da qualche emanazione di quello
strano personaggio. Era così sicuro di sé,
così interessante, eppure non riusciva a capire
né chi fosse oltre la recitazione sfacciata né
cosa lo agitasse tanto di lui. Voleva sapere, voleva capire, voleva
vedere fino a che punto potesse dire di combaciare con quello
sconosciuto. Ormai da qualche tempo aveva sviluppato la teoria,
più inconscia che intellettuale, che i rapporti tra le
persone fossero regolati dalla ricerca di sé nell'altro.
Voltandosi non si
sorprese di notare gli occhi al cielo di Valentino, reazione alle
parole di Adrian che qualche minuto prima, con il suo muto assenso,
aveva definito ipocrite. Si aspettava un simile moto di
disapprovazione, benché scherzoso; la teatralità
di Valentino doveva per forza nutrirsi di qualche copione, e a Michele
quello sembrava familiare. Senza preavviso alcuno, come fossero amici
di lunga data, i due si scambiarono uno sguardo d'intesa caldo e
complice, lungo abbastanza da sciogliere una tensione di cui fino a un
momento prima non si era accorto dell'esistenza.
Nel giro di un secondo
Adrian si era già rivolto verso di lui, lasciando Eleonora
boccheggiante di fronte a tanta figaggine, mentre Vale aveva distolto
lo sguardo e ripreso a guardare il suo amico ondeggiando sulle lunghe
gambe.
“Adrian,
piacere. Ma... cos'è quella roba che hai in testa? Hai la
febbre?”
Michele si
tastò la fronte, ricordandosi solo in quel momento del
fazzoletto bagnato con cui Ele l'aveva costretto a tamponarsi la fronte
e che fino a quel momento era rimasto legato intorno al capo,
scaldandosi fino a perdere tutta la sua utilità.
“Ehm... no. Mi
sono sentito male per il caldo.” Sulle ultime parole, quando
Adrian portò in avanti il lungo braccio flettendone i
muscoli per scacciare un insetto, soffocò in un conato
d'invidia. Occhiali e scarpe esclusi, si ritrovava davanti al tipo
d'uomo che lo faceva piangere la sera, prendendosi a pugni le cosce
fino a non sentirle più e sognando di avere un corpo forte,
maschile, solido come quello che aveva davanti agli occhi in quel
momento, così tangibile da dare la nausea.
Oltre ad essere alto e
snello aveva un bel viso sorridente, sopracciglia dritte sugli occhi
nocciola e un innocentissimo paio di fossette incastrate tra le
lentiggini. Era affascinante, bello in modo molto semplice e pulito, e
anche se aveva i modi e le movenze di chi è ben consapevole
del proprio aspetto non dava, di primo acchito, l'impressione d'essere
arrogante.
Nonostante l'invidia,
qualcosa nell'allegria di Adrian salvò il suo umore prima
che precipitasse. “Mi chiamo Michele, comunque.”
Il suo interlocutore non
sembrò stupito. Cazzo, sono passato anche con
lui. Oggi è il mio giorno fortunato. “In
che senso sei stato male? Oddio, povero.”
“Nulla di
grave, un colpo di calore. Ora sto meglio... mi fa solo un po' male la
testa.”
“Se dire cose
senza senso non è nulla di grave...” Valentino
ridacchiava a fianco di Adrian, tenendo un braccio sulla sua spalla
nonostante fosse più basso di lui di qualche centimetro.
Erano completamente diversi, ma sembravano in gran sintonia, e una
volta ogni tanto si scambiavano qualche sguardo ridente.
Chissà da quanto si conoscevano. “Lo ammetto, un
po' mi ha fatto impressione”, disse rivolto più ad
Adrian che a Michele. Il suo amico biondo, di rimando, gli sorrise in
modo strano.
“Beh, non
sembravi proprio tanto sconvolto”, replicò
Michele, notando il tono vagamente derisorio dell'altro.
Cercò di non dare a vedere quanto fosse piccato dal suo
comportamento e dalla situazione umiliante.
Ele non lo
aiutò nei suoi intenti, portandosi le mani alla bocca in un
gesto esagerato, da fumetto, solo senza un GASP! scritto accanto.
“Veramente dicevi cose senza senso? Oh Gesù, mi
dispiace tanto! Non dovevo lasciarti da solo... mi dispiace mi dispiace
mi dispiace!”
Gli andò
vicino e tento di abbracciarlo, gesto che lui eluse prendendole le mani
tra le sue in una stizza controllata. “Eleonora, ti prego,
tranquilla. Non dire queste cose. Non è che se tu ci fossi
stata mi avresti salvato... da cosa, poi?” Sospirò
lasciando la presa. “Sto bene. Non capisco perché
tu insista per farmi andare in ospedale. Anzi, guarda, ho cambiato
idea. Non ci vado più, mi sono rotto le palle. E non sono il
tipo da scroccare passaggi per niente.”
“No, no, ci
devi andare!”
“Concordo con
lei. Non sei un peso, caro, mi piace conoscere gente nuova. E poi devo
portare a casa una ragazza che vive vicino al Sant'Anna.”
Ele sembrò
confortata dal fatto che Adrian fosse d'accordo con lei.
“Eddai, Michi! Fallo per me. Mi sento troppo in
colpa.”
“Non me la
sento, Ele.”
“Guarda che
non devi obbligatoriamente chiamare i tuoi, eh.”
“Ok,
però mio padre al pronto soccorso del Sant'Anna ci lavora.
Mi sentirei una merda se dovessi dirti di sparire per non
insospettirlo.”
“Me ne frega
zero! So che sei figlio di Satana e Belzebù, mica mi
offendo.”
Michele
ridacchiò e rifletté qualche secondo. La
possibilità di trovare suo padre era infima, dato che il
pronto soccorso vedeva entrare e uscire dalle sue porte qualche
migliaio di persone ogni giorno.
“Ok, dai, ti
faccio questo favore. Magari mi danno anche qualcosa per il mal di
testa.”
“Bravo
ragazzo”, disse Valentino, che fino a poco prima si era
tenuto in disparte. “Anche mia madre lavora al Sant'Anna,
è un'infermiera.”
“Davvero? Mio
padre è un chirurgo. Ricuce quelli che arrivano
lì d'urgenza, persone che hanno fatto incidenti e
quant'altro. Cose sanguinose.” Secondo me
è per questo che è uno schizzato,
aggiunse mentalmente.
Valentino lo
guardò per la prima volta con autentica
curiosità. Fino a quel momento aveva assunto l'atteggiamento
noncurante di chi è poco interessato alle altre persone e
alle situazioni estranee a sé, ad eccezione che con Adrian,
a cui erano dedicati battute e sguardi allusivi intenzionati a farlo
ridere. Ora che aveva scoperto qualcosa di più su Michele
invece aveva rizzato le orecchie, e a giudicare dallo sguardo neutro e
assorto che gli rivolse stava macinando qualche pensiero in testa, come
se fosse diventato tutto ad un tratto un soggetto degno di nota.
Più lo
guardava, meno questo Vale gli sembrava decifrabile. Dall'abbigliamento
temeva fosse un hipster, ma non ne era sicuro; gli hipster di solito
gli stavano sulle palle dal primo sguardo.
“Allora,
c'è una microscopica probabilità di farci dare un
passaggio per casa o devo perdere le speranze?”
Una ragazza riccia e
minuta spuntò dalla calca reggendo un borsone pieno di roba
– bandiere, cartelloni, volantini e una cassa altoparlante.
Si accompagnava a una coetanea col capo chino sul cellulare, alta,
zainomunita e rossa di capelli, che nella distrazione le
urtò una spalla facendole volare via qualche
dépliant.
“Cazzo, Edith,
potresti avere la decenza di aiutarmi invece di stare su
Whatsapp!”
Edith? A
Michele quel nome era familiare.
“Non rompere,
sto cercando di scrivere a Fede.”
“Non mi
interessa! Raccogli quei fogli e dammi una mano!”
Poi la ricciolina
posò la borsa a terra e si precipitò ad
abbracciare Adrian, volandogli al collo come un passerotto.
“Adrian bello! Ti sei divertito oggi? Scusa se non sono stata
molto presente, ho avuto parecchio da fare.”
“Tranquilla,
Dani, vivo anche senza te che mi ronzi intorno. Guarda caso spunti
giusto in tempo per scroccare un passaggio, eh?”
“Pensi sempre
male. Cazzo, scusami!” La ragazza era ridiscesa in un balzo
atterrando su un piede dell'amico, che aveva emesso un lamento di
dolore. “Te lo giuro, ho finito ora di raccogliere la roba.
Non arrivo a farti compagnia solo per farmi riportare a casa.”
“Ti credo, ti
credo. Il piede mi serve per frenare, però.”
La rossa Edith, nel
frattempo, aveva rimesso nel borsone i dépliant volati via e
aveva riposto il cellulare. Si guardava intorno annoiata, facendo un
cenno con la mano ogni tanto a persone che la salutavano.
“Ciao,
ragazzi!”, salutò caldamente Adrian e Vale una
volta che Dani si fu defilata.
Michele ebbe qualche
secondo per riconoscere quelle membra allungate. Erano molto diverse da
come se le ricordava, rese dagli anni più affusolate di come
apparivano nei suoi ricordi, ma quando la osservò in viso i
suoi grandi occhi verdi non gli lasciarono dubbi.
Prima ancora che potesse
richiamare la sua attenzione fu lei ad alzare la testa, notarlo
lì in piedi e emettere un grande strillo.
“MICHI!”
Le sopracciglia di Edith
avevano sempre avuto una forma particolare, accentuatasi col crescere
della ragazza; scendevano austere e spesse sugli occhi e verso
l'esterno curvavano dolcemente verso il basso, in contrasto con le
labbra sottili con gli angoli sempre all'insù.
Mentre i due amici
chiacchieravano nella Panda sovraffollata di Adrian, gli scatti
espressivi di quelle sopracciglia cullarono Michele tra risate e
ricordi d'infanzia, vissuti con quella che era stata la sua storica
migliore amica dal primo giorno di scuola prima elementare.
Lui e Edith avevano
sempre frequentato la stessa classe, dalle elementari alle medie, e
avevano sempre abitato nella stessa via; entrambi provenivano da
famiglie benestanti ed entrambi erano nati con un certo spirito da
ribelli combinaguai. Tra loro c'era stata la classica amicizia tra
bambini con caratteri e vissuti molto simili, partita da una litigata
per finire in associazione a delinquere: tutte le punizioni inflitte
dagli insegnanti, le lamentele sulle regole imposte dai genitori e le
risse tra compagni di classe le avevano vissute fianco a fianco,
facendo a botte di tanto in tanto ma sempre stimandosi a vicenda. Per
lui Edith, che quand'erano bambini tutti chiamavano Eddi, era un'amica
e una complice, di cui ammirava la spavalderia e l'irruenza, tanto
diversi dalla sua ritrosia. Lei era quella che lo spingeva a ribellarsi
alla sua famiglia e alla scuola – con disastrose conseguenze,
sì, ma tanta soddisfazione; gli aveva fatto conoscere i
Green Day e la musica house in prima media, coi primi bagliori della
ribellione adolescenziale, e l'aveva incitato a prendere in mano il
basso elettrico per formare una band. Il progetto della band era poi
andato in fumo, mentre la passione per il basso a Michi era rimasta.
L'aveva spesso calmata
dopo i litigi con i suoi genitori, quando la rabbia non avrebbe fatto
altro che peggiorare la situazione. In poche cose differivano, e una
era l'attitudine il proprio ceto sociale: Edith era convinta che i suoi
genitori fossero dei bigotti a causa della loro mentalità
borghese, e da ragazzina, quando litigava con loro, ribadiva sempre
quanto le facesse schifo l'ipocrisia dei suoi famigliari. Un giorno suo
padre, un imprenditore di una certa importanza, si stancò e
decise, visto che “il modo in cui portava a casa i soldi la
disgustava tanto”, di non concederle più alcun
lusso. Niente paghetta, niente videogiochi e niente abiti costosi;
minacciò di mandarla in collegio se non si fosse calmata.
Michele le fece un gran
discorso filosofico per cercare di calmarla, perché secondo
lui non si diventa stronzi essendo ricchi e cattolici, un po' lo si
nasce. Di certo crescere in ambienti ultraconservatori non aiuta, ma
“se tutti quelli nati in famiglie abbastanza ricche sono
stronzi in automatico”, le disse, “vuol dire che
noi siamo stati adottati”. Cercava di capire i suoi genitori,
apprezzando tutte le cose che gli avevano dato – la bella
casa, tanti vestiti, playstation e l'agognato Fender Jazz Bass
– e per cui avevano lavorato sodo; non credeva che la sua
famiglia fosse poi tanto diversa da quella di molti suoi amici. Mal
sopportava di dover curare la sua reputazione, mentendo su tutto e
dovendo dare l'immagine di una ragazzina perfetta ed educata, ma era un
fastidio che riuscì a tollerare fino a una certa
età.
Michele si era pure
invaghito di Edith, in terza elementare. Dalla timidezza non
gliel'aveva mai detto e la faccenda era finita per sempre inscatolata
nella sua soffitta mentale, nell'angolino buio e polveroso delle cose
imbarazzanti. Ricordandosi di quella cotta, in seconda media, si era
reso pienamente conto del fatto che gli piacessero le ragazze.
Dopo la prima superiore
i genitori di Edith, che avevano iniziato a viaggiare molto per lavoro,
decisero di affidare la giovane scalmanata e il fratellino alle cure
dei nonni. Edith partì per la Svizzera. L'ultima volta che
lei e Michele si videro fu una calda sera di luglio, infestata dalle
zanzare. Presero un gelato, chiacchierarono come al solito e il giorno
dopo, senza preavviso, lei lo chiamò piangendo dal treno.
“Sto andando in Svizzera, Michi. Odio quei due
stronzi.”
Non si videro
più. Durante i primi mesi di lontananza si sentirono tutti i
giorni su Facebook, poi poco alla volta i contatti si diradarono fino a
sparire del tutto, dispersi nei duecento chilometri che li separavano.
E ora Edith era
lì, senza più le guance paffute e la lunga
treccia di un tempo, ma con un taglio corto, grandi occhiali da sole e
il cipiglio deciso di una donna forte. Era cresciuta.
Michi la guardava con
gli occhi spalancati, sorridendole felice. Malgrado l'imbarazzo e il
sottile velo di distanza, Edith era sempre la stessa. Tutte le sue
movenze gli riportarono all'improvviso alla mente i ricordi
più disparati, dall'odore della mensa alle elementari ai
pigri pomeriggi preadolescenziali passati a masticare cicche e
atteggiarsi a emo.
“Ma quando sei
tornata? Perché non mi hai cercato prima?”
“Sono qui da
settembre, mi hanno rispedita a Brescia perché mia madre ha
cambiato lavoro. Non viaggia più tanto, quindi ora ha tempo
per prendersi cura di me e Andrea, che ora va alle medie...
è diventato uno scassaminchia, sai?”
Michele
ridacchiò. Il fratello minore di Eddi gli era sempre stato
simpatico. “Che scuola fai?”
“Lo
scientifico. Sono in classe con lei”, disse indicando la
ragazza di nome Dani, seduta alla sua destra, “e Vale va in
quinta nella stessa scuola.”
“Vale? Vale
cosa?”, chiese l'interessato, girandosi verso di loro dal
sedile del passeggero.
“Dicevo a
Michi che andiamo a scuola insieme. Sai che eravamo migliori amiche
quand'eravamo piccole? Era da anni che non ci vedevamo.”
L'abitacolo si fece
silenzioso come dopo una pessima battuta, dopodiché
Valentino, facendo finta di nulla, riprese a chiacchierare con Adrian
ad alta voce.
“Eddi, mi sono
dimenticato di dirti una cosa importante.” Michi aveva storto
la faccia in un'espressione di imbarazzo, sentendo lo stomaco torcersi
come un panno bagnato.
“Che
c'è?”
Sputò fuori
tutto il coraggio che aveva, ignorando la tensione. “Sono
trans. È una storia lunga da spiegare ora, comunque sappi
che sono un ragazzo, ecco tutto. Mi faccio dare del maschile da un
annetto circa e tutti quelli che mi conoscono fuori dalla famiglia mi
chiamano Michele.”
Ci fu qualche istante di
silenzio in cui Michi mise su un cipiglio duro, un muro su cui far
schiantare il biasimo di Eddi nel caso si fosse manifestato.
Lei, infatti,
aggrottò la fronte per qualche secondo. Lo guardò
negli occhi, imperscrutabile, per un lasso di tempo in cui Michele
potè solo tacere, guardare altrove e lasciare che un velo di
sudore gli appiccicasse la maglia alla schiena.
“Perché
non me l'hai detto prima?! Mi hai fatto fare una figura di
merda.”
La sua amica d'infanzia
gli sorrideva con candore, facendolo sentire un completo imbecille. Di
cosa si preoccupava, alla fine? Ogni anno sempre più persone
aprivano la mente alle diversità sessuali, non aveva senso
prendersi un coccolone ogni volta che confessava a qualcuno di essere
transgender. I suoi compagni di classe non avevano reagito nel migliore
dei modi, era vero, continuando a dargli del femminile e guardandolo
allarmati se si azzardava a posare innocentemente gli occhi su di una
ragazza, ma non l'avevano nemmeno insultato o picchiato. E ora la sua
amica l'aveva accettato come nulla fosse.
Scoppiò a
ridere, sentendosi in colpa per aver sospettato dell'apertura di vedute
di Eddi.
“Sei sempre il
solito.”
Buonasera, gentili
lettori.
Il capitolo di oggi, in realtà, l'ho finito un paio di
settimane fa, ma ho avuto tempo di metterlo online solo oggi
causa scuola e stanchezze varie.
Non ho molto da aggiungere, se non: vi vedo, lettori silenziosi! So che
una quindicina di persone segue la storia e qualcuno l'ha addirittura
messa tra i preferiti, ma non vedo molti commenti... vi prego, recensite.
Non è che se non lo fate non continuo la storia, no, non
sono il tipo da ricattare la gente in questo modo e in ogni caso ho
intenzione di finire la storia a prescindere dal suo seguito.
Però... ecco, le recensioni mi renderebbero felice e scrivo
più volentieri se so che qualcuno attende aggiornamenti e si
è appassionato alla fic. Quindi, please, lasciate un piccolo
commento! E ricordate che sottolineando i miei punti di forza e --
soprattutto -- i miei errori mi aiutate molto ad alzare il livello
della storia.
Passate una buona serata, folks.
- Knet
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