Kid B

di Knetgummi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Canarini al microonde - Prologo
NOTA IMPORTANTE: questo prologo è stato scritto un anno e mezzo prima del primo capitolo, pertanto lo stile dello stesso è molto diverso da quello della storia vera e propria. Se il prologo vi fa cacare -- cosa comprensibilissima, dato che sono il primo a non apprezzarlo -- vi invito gentilmente a dare una chance ai capitoli seguenti.
Se vi fanno cacare anche quelli, beh, lasciate pure perdere. Scrivo questo avviso solo per dissociarmi dal me di due anni fa. Odio il me di due anni fa.
Pesce and love.
-Knetgummi



Prologo


C'era una volta una coppia di innamorati.

Giulia, così si chiamava la fanciulla con le farfalle nello stomaco, era la più graziosa figlia di due famosi avvocati della città. Ogni giorno, nella sua cameretta dalle pareti rosa, tra le ore di lezione al classico, i compiti a casa e i serali impegni famigliari – che richiedevano quanti più attenzione, bon-ton e buon gusto nel vestire possibili – perdeva i pomeriggi fantasticando sul suo bel Marco.

Il prode giovine era, anche lui, di buona famiglia, e si capisce, essendo figlio di un celebre medico figlio di un celebre medico figlio di un celebre medico della città. Sua madre, buona donna, non era altro che una nullafacente che aveva perso i migliori anni della sua vita a buttare all'aria il suo futuro, cioè a studiare filosofia all'università; ma pure era di buona famiglia, e così il bel Marco crebbe felice e contento, e mai che gli mancasse qualcosa, anche il più piccolo capriccio di primoeunicogenito.

Si conoscevano da anni per nome, per fama e per sguardi maliziosi scambiati per i corridoi del liceo, ma si conobbero per la prima volta diciottenni, in disco: tra chiome ricciute, musica kitsch e abiti pacchiani con spallacce imbottite come la moda del momento imponeva, così che una normale serata a ballare aveva tutto l'aspetto di una partita di football americano.

“Ehi, quello sulla pista, che ti sta guardando, non è Damiani? Quello che ti fa la corte?”, dissero a Giulia le sue amiche, mentre il gruppetto capeggiato ovviamente dalla ragazza chiacchierava vicino al bancone. Come in un film, Giulia girò la sua testa di capelli biondi e cotonati verso Marco, illuminato dalle strobo e da un raggio di luce blu. E fu amore a prima vista, più o meno.

La giovane piantò in asso le adoranti subordinate e si dedicò alle danze con il suo cavaliere, per tutta la sera e oltre. Si conobbero, si piacquero e così fecero i loro genitori poco dopo, ben felici di quell'unione fiabesca, di bella facciata e ricca sostanza patrimoniale.

Era destino. Quello stesso gruppetto di amiche di Giulia, un po' più mature e tutte agghindate per l'occasione, si trovò ad urlare “Viva gli sposi!” e a tirare riso ai novelli marito e moglie in perlaceo vestito a sirena e abito da cerimonia color panna. Era un 25 giugno sotto un sole cocente, anno 1991.

“Era destino”, dissero tutti, “che due così bei ragazzi finissero per convolare a nozze. Laurea in giurisprudenza lei, in medicina lui, belle famiglie di sani valori, matrimonio in Chiesa come Iddio comanda, amen.”

E furono felici e contenti. Per anni nulla andò mai sbagliato a questi principe e principessa dei nostri giorni che, stretti per mano, guardavano sereni il tramonto del secondo millennio.

Tutto era stato programmato molto prima del 25 giugno, molto prima del giorno in cui si erano incontrati in discoteca, molto prima della loro nascita. Li precedeva una lunga serie di orme continuamente ricalpestate, una strada inerpicantesi tra oscuri luoghi comuni e asfaltata di status quo, piacevole allo sguardo dei novelli sposi e del pubblico. Non è possibile perdersi su un sentiero così sicuro, vi pare? Come sarebbe potuto saltare in mente, a Giulia e Marco, che il fato aveva tirato a sorte, e che la strada sulla quale si sarebbe schiantata una frana sarebbe stata proprio la loro?

Il 16 settembre del 1997 l'ormai signora Damiani andò a dormire, con tutto il suo pancione gonfio di calci di bebé, nella camera da letto nell'angolo a sud-ovest della villa nella bassa bresciana che il marito aveva ereditato dallo zio scapolo. La mattina presto alle quattro precise se ne svegliò piena di dolori dando gomitate al suo sposo. “Meno male che alle quattro di mattina in strada non c'è coda, perché gli Spedali Civili sono abbastanza lontani, e so quanto ci tieni a partorire lì, tesoro – lì dove sei nata tu e dove è nata tua madre e dove è nata tua nonna.”

Era il 17 settembre 1997, ore 10:32, quando un pianto ruppe il brusio nella sala parto. “È andato tutto bene.” Ovvio, cara infermiera sottopagata di un ospedale pubblico, e il motivo non è che è già il secondo parto della signorina. È che non poteva che andare così.

Giulia, provata dal travaglio, prese finalmente in braccio il frutto delle sue fatiche. “Ciao, amore! Sei il bellissimo bimbo della mamma, eh? Sei splendido!”, disse agli occhietti chiusi e ai pugni stretti della sua creatura.

Fu la prima e ultima volta che la bionda e sempre impeccabile Giulia, che non aveva voluto sapere il sesso del nascituro, si riferì al figlio come a un maschio.

E l'infermiera pubblica sottopagata, dal basso delle sue bianche, bucherellate scarpette ortopediche, della divisa azzurrina stinta e lisa e dell'acconciatura spartana tinta fai-da-te: “È una bimba, signora. Una bellissima bimba.”

Perché così doveva andare.





Buon pomeriggio!
Sì, lo so, è la seconda volta che pubblico questa storia. Aveva proprio bisogno di una ventata di aria fresca: qualche revisione, nuove idee e soprattutto un ritorno di quella voglia di scrivere misteriosamente sparita un annetto fa.
Spero proprio che questo prologo vi intrighi. Finora in tutta la mia vita ho ricevuto una singola recensione, e spero di poter sentire almeno un'altra volta ancora lo stesso brivido, considerando che scrivo da poco e per migliorare ho bisogno che qualcuno mi faccia notare i difetti delle mie storie!
Io torno davanti al ventilatore, ragazzi. Buon proseguimento!
- Knet

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I


 

“Oh, Michi, ci sei?”

Nel sentire la voce concitata che lo richiamava dal cellulare e qualche chilometro di distanza, Michele richiuse la bocca che aveva spalancato per la sorpresa. Rimase qualche secondo a fissare l'armadio con le ante spalancate come una voragine, con il cellulare e la telefonata sospesi a qualche centimetro dall'orecchio. Desiderava ardentemente che il fondo di compensato lo inghiottisse e lo portasse in una terra piena di fauni pelosi, dove nevicava sempre e si poteva stare coperti tutto l'anno, senza mostrare curve sospette sotto i vestiti leggeri.

“Ele...”

“Che c'è? Sei vivo? Stai bene?”

“No.” Silenzio, agitazione, disperazione. Non voleva dirlo. Sembrava una frase così stupida. “Mia mamma ha fatto il cambio di stagione all'armadio.”

“E con ciò?”, si sentì rispondere. Scavò disperatamente tra le pareti di compensato, vuotando ogni mensola e spogliando le grucce di maglie e maglioni. Alle sue spalle caddero canottiere con spalline trasparenti, vestiti di lino e pantaloncini orribilmente rosa. E la scatola dei calzini era mezza vuota, due scaffali più in giù di dove se la ricordava. I suoi tesori, che di solito nascondeva dietro quella scatola subito dopo averli tolti – dovendo nasconderli alla sua maledettamente scaltra madre – erano spariti.

Odiava se stesso e la sua poca previsione degli eventi di più a ogni vestito che lanciava sul letto. “E con ciò sono morto, merda. Morto! Sai cos'ho in mano, in questo istante?”

“Pensi che sia così intelligente da indovinarlo, tesoro?”

“Ovviamente no, idiota. Ho in mano un copricostume a righe rosa, Ele! Un maledetto copricostume con la gonna a pieghe! E non trovo il binder che mi ero guadagnato con sangue e sudore”, disse, riferendosi con un termine ben specifico alla canotta contenitiva per appiattire il petto, “né i fazzoletti imbottiti, né niente! Sono morto. Li ha trovati, e a quest'ora saranno in una discarica dall'altra parte del mondo. Sono morto!”

“Uh, porca puttana.”

Per un secondo ci fu preoccupazione da entrambi i capi del filo. Elena era ammutolita, e mentre applicava l'ultimo strato di smalto trasparente sull'alluce destro, seduta sul bordo della sua vasca da bagno, rifletteva su una possibile soluzione.

Non trovandola, se ne uscì con un “Beh...”. Michele odiava quando Elena iniziava un discorso con il suo “Beh...” da donna navigata, come se l'avere due anni e mezzo più di lui l'autorizzasse a dargli consigli di vita. “Se questo ti può tranquillizzare... mia madre, tempo fa, ha trovato il reggiseno che le era misteriosamente sparito dal cassetto. E l'ha trovato nel mio cassetto. E sono ancora qui, con le tette più imbottite di sempre.”

Michele sbuffò, sentendo gli occhi che iniziavano a bruciare. Schifosi ormoni, schifosa sindrome premestruale, perché a me?, non ce la faccio!, fanculo. “La tua non fa testo, cretina, perché è la santa protettrice di tutti i transgender. Mi sorprende che non ti abbia già prestato tutti i vestiti che le stanno stretti...”

“Veramente lo ha già...”

“Ma io che cazzo faccio, ora?”

Si lanciò sul materasso rimbalzando di pancia tra le coperte, e gettò a terra una gonna a palloncino gialla da sotto il gomito. Sospirò, con il telefono ancora all'orecchio, e sedutosi sul bordo del letto con le spalle alla luce del sole prese a osservarsi allo specchio oblungo vicino alla porta. Ignorò la collana di perline rosa, appesa all'angolo in alto a destra del vetro, riesumata chissà da dove da sua madre; e così fin da subito evitò di guardarsi in faccia, e sorvolò sulla piccola curva orribile delle sue cosce spalmate sul materasso. Si alzò in piedi come un automa, controllando quasi involontariamente se i pantaloni gli sottolineassero i fianchi, o se la maglia gli facesse difetto sul petto fasciato. Prassi giornaliera da fare appena svegliato, appena tornato da scuola, mentre ballava per la sua stanza, la sera durante le sue riflessioni poco realistiche e, soprattutto, prima di uscire.

Lo specchio gli restituì l'immagine di una figura che, se non maschile in un modo convincente, era perlomeno androgina. Il maglione ricadeva sul torace piatto come doveva ricadere e i jeans erano larghi abbastanza da non stringere in posti inopportuni, come i fianchi femminili o il sedere troppo grande. Tutto perfetto, più o meno. Peccato che iniziasse a sentire caldo già nella sua buia e umida cameretta. Fuori dalla finestra, sulla città fumosa, il sole splendeva come non faceva da secoli, asciugando un po' l'umidità dell'inverno appena ritiratosi a vita privata.

“Fa caldo... Cristo, se fa caldo! E non ho vestiti normali che rimpiazzino quelli che ho indosso, cazzo!”, si lamentò debolmente Michele, rabbrividendo nel sentire la sua voce acuirsi per l'isteria che l'aveva colto. Guardò i vestiti nell'armadio. Guardò la porta. I vestiti. Lo specchio. La porta. Lo specchio. I vestiti. “Davvero, che cazzo faccio? Eleonora, aiutami.”

Elena era distratta, e mentre pettinava i capelli rosso fuoco riportava pian piano alla mente la sua adolescenza, corrugando sempre più le sopracciglia. Trattenne un sospiro, poi riprese al volo la leggerezza d'animo. “Crossdressing*?”, azzardò, preparandosi all'esplosione.

Ma Michele era troppo depresso per arrabbiarsi. Si alzò dal letto, si diresse finalmente verso la porta e le rispose: “Fanculo, Ele, solo fanculo. Ci vediamo tra mezz'ora sotto il ponte sul Tamigi.”

“Sotto il ponte sul Tamigi? A Brescia? Ma cosa stai dicendo?”

“Sto semplicemente straparlando. Non so più cosa cazzo dico. È il panico, o meglio, è il mio subconscio che preferirebbe essere a Londra sotto un ponte piuttosto che a Brescia con mia madre. Ciao, ci vediamo dopo davanti al Pinguino. Stesso posto stessa ora, come sempre.” Così dicendo, chiuse la chiamata pestando con violenza il touch screen e, sospirando, aprì la porta e si avviò verso il suo destino.

Pattinò con i calzini a righe sulle mattonelle scure del corridoio, passando dritto come un treno sulle rotaie davanti alla porta spoglia della stanza dei suoi genitori, e sorpassando quella piena di disegni appesi da una vita della camera di suo fratello, notoriamente troppo pigro per darle un aspetto da maturando come si deve. Saltellò con una leggerezza nervosa sul marmo del pianerottolo, diretto al piano di sotto, per poi attorcigliare il suo percorso nella chiocciola formata dalle scale. Nella discesa riuscì a cancellarsi dalla faccia l'espressione nauseata e ad aggiustarsi un sorriso traballante. Non era tipo da saper fingere molto bene, ma l'ansia rende possibile qualsiasi cosa.

Saltò le fughe delle piastrelle, come faceva sempre, per sembrare più naturale; poi guardò nella dispensa se c'era qualcosa da mangiare. Aveva sempre fame, quando doveva fare qualcosa che desiderava ritardare.

Temporeggiò, andò in sala e controllò lo stereo, andò di nuovo in cucina a prendere da bere, temporeggiò ancora, accese e spense la TV, aspettò, mangiò un biscotto, riflettè sulla sua triste esistenza, si chiese perché fosse nato idiota, si chiese perché fosse nato femmina e cresciuto come tale, considerò l'idea di scappare di casa e poi, finalmente, dopo aver bevuto un po' di limonata, si diresse in salotto.

Gli faceva male lo stomaco. Erano mesi che sentiva come un tarlo nelle viscere, e la nausea lo accompagnava da quando la mattina apriva gli occhi impastati, rendendosi conto di dover andare a scuola, a quando a mezzanotte scivolava nel sonno lungo una scia di pensieri sempre più deliranti.

Sua madre era seduta al tavolo con un paio di occhiali sul naso, stava riordinando delle scartoffie in una cartelletta di plastica. L'avvocatessa perfetta, al lavoro anche a casa. Michele ne scorse il profilo impassibile incorniciato dallo spiraglio della porta socchiusa, il naso leggermente aquilino, le sopracciglia spennate per rassomigliare ad ali di gabbiano.

“Ma'?”, esordì dopo qualche passo nel salotto tinteggiato di luce giallognola.

Lei alzò gli occhi. “Dimmi, tesoro.”

“C'è stato un tornado nell'armadio oppure l'hai riordinato tu?”

“Ah, te ne sei accorta, quindi! Strano. Fa un po' troppo caldo per le felpe imbottite, no?”, rise lei, stanca.

“Non fa mai troppo caldo, per me. Che palle, ma'. È sparita un sacco di roba”, buttò lì Michele appoggiandosi allo stipite e mettendo su un broncio stupido.

“Da chi l'hai presa questa finezza, signorina?”, sbuffò sua madre. Storse il naso appuntito e arricciò le labbra in un moto di rimprovero, facendo dondolare i ciuffi biondi che le sfuggivano dallo chignon. Se lo faceva sempre, quello chignon finto-trasandato, da quando la sua parrucchiera glielo aveva consigliato convincendola a suon di “è di tendenza”. A Michele parve sorprendentemente vecchia. Ogni volta che la osservava per appena il tempo sufficiente ad accorgersi davvero del suo aspetto – vedendo di continuo quel volto gli si era come impresso nelle retine, e ormai quasi non lo percepiva più, come se fosse il suo stesso riflesso allo specchio – gli capitava di chiedersi quando di preciso sua madre fosse invecchiata.

Aveva in mente un'immagine di lei giovane, ridente, con la pelle pulita e i capelli appena tinti di rosso, seduta sul divano di casa. La foto mentale aveva un'angolazione strana, come vista dal basso. Probabilmente era un ricordo risalente a quando lui ancora gattonava.

Ogni volta che si soffermava su quel voto accartocciato dalle rughe, le due immagini si scontravano con una violenza che gli dava i brividi. Chissà se lei si era accorta degli anni che passavano, o era stata troppo intenta a mandare avanti la baracca per fermarsi un attimo e lasciarsi raggiungere da spiacevoli riflessioni sul nonsenso dell'invecchiare e poi morire.

Michele si perse nella contemplazione addolorata delle rughette truccate sul suo viso. Sapeva che sua madre sapeva, e lei sapeva che lui sapeva che lei sapeva, e cercava di dissimularlo. I suoi patetici tentativi di somigliare a un ragazzo con i cromosomi XY non potevano esserle sfuggiti, anche se probabilmente li aveva interpretati come gravi sintomi di lesbismo mascolino. E in più ora aveva le prove, aveva capito che l'improvvisa sparizione del seno di sua figlia era dovuta a una sospetta canotta elasticizzata, e le mutande con i fazzoletti appallottolati all'interno non erano meno rivelatrici. Tu sai, pensò Michele, tu devi parlare. Devi dirmi chiaramente che sai. Parlami. Disapprovami. Dimmi quanto sono una bella ragazza, quanto mi stia svalutando facendo quello che sto facendo. Quanto vado contro i precetti del cristianesimo. Quanto sono immorale, amorale, orrendamente nudo di fronte al giudizio delle persone normali. Non ignorarmi. Fai qualcosa. Rompi il ghiaccio. Tu sai.

“Tutto ciò che non ho buttato via, l'ho messo su negli scatoloni dell'armadio. Se cerchi qualcosa che ti serve davvero, lo trovi lì.”

“Ok.”

Suppongo che tu abbia buttato via tutto.

Il binder l'avevo pagato con i tuoi soldi, comunque.

Rifece il percorso al contrario, sempre più nauseato. Tornando a barricarsi nella sua stanzetta dalle pareti lilla, accatastò gli abiti sparsi in giro dove dovevano stare e sistemò un po' la scrivania, guardando una volta ogni tanto fuori dalla finestra. La fila di venti villette Marcolini sull'altro lato della strada – tutte a due piani, tutte bifamiliari, tutte con i muri gialli, tutte con le imposte marroni e tutte con un'auto metallizzata parcheggiata nel cortile di cemento – sembrava a posto. I bambini giocavano nel sole del mattino, le nonne in vestaglie azzurre cercavano di ficcar loro in testa cappelli per ripararli dai raggi e le madri erano da qualche altra parte.

Michele sentì la nausea e la rabbia salirgli per le narici a ogni respiro, come l'odore acre della benzina. Aveva una madre troppo maledettamente intelligente. Non sarebbe dovuta andare così, oh no. In un qualsiasi film – di quelli standard, mandati in onda a ripetizione il sabato sera su Italia 1 alle 21.10, di quelli che dopo trenta volte che sono stati trasmessi finiscono per condizionare i comportamenti della gente – sua madre si sarebbe alzata da quella dannata sedia agitando il sedere e gli avrebbe detto “Michela, Cristo, cosa ho mai fatto perché tu sia cresciuta con queste idee malsane?”, e lui avrebbe avuto un buon motivo per odiarla, per ribellarsi, per fare qualcosa. Sarebbe scappato di casa, con un sacchetto a pois rossi pieno di stronzate appeso a un bastone. E invece no, semplicemente non poteva funzionare così. Era uno stupido con una madre dalla borghese nonchalance.

Voleva così tanto che una piccola, piccolissima, minima scheggia di disapprovazione sfuggisse al contegno di quella donna terribile. Una scheggia grande quanto gli bastava per appiccare un gigantesco rogo di risentimento, prima a malapena soffocato per mancanza di prove nel processo mentale contro la sua famiglia.

Mentre metteva in ordine – biro di qua, matite di là, plettri da una parte, fogli dall'altra, libri di scuola il più lontano possibile, diario dove mamma non lo può vedere, computer spento e con password attivata – sentiva chiaramente, pur cercando di ignorarlo, il suo sangue ribollire per la rabbia, e lo stomaco torcersi per la paura, e il caldo andare e venire e lasciarlo con i sudori freddi, e soprattutto le spalle ricadere sulla cassa toracica costringendolo a pompare ogni singolo respiro. Iniziava a sentirsi impotente, debole, arrabbiato, e le penne caddero tutte a terra, e qualche dio, lassù, iniziò a lamentarsi delle offese ricevute. Cercò disperatamente di non rompere nulla, ma decise che la sedia era sacrificabile sull'altare della sua rabbia. Sentì distintamente lo scricchiolio del legno quando la scaraventò contro l'armadio, quello pieno di vestiti carini, e dall'essere arrabbiato passo immediatamente al temere che sua madre avesse sentito il rumore di “cosa-avrà-combinato-quella-ragazzina”. La donna che lo aveva partorito sapeva iniettargli una quantità sproporzionata di ansia ogniqualvolta Michele commetteva, o credeva di commettere, qualcosa che agli occhi di sua madre poteva risultare sbagliato.

A quel punto, stordito tra il sentirsi un idiota e l'avere esaurito tutte le energie con quel solo gesto, si lascio cadere sul letto.

Cercò di dare un'aria tragica a quella patetica situazione facendo un po' l'idiota con se stesso. Santo David, pregò osservando il santino sul muro, quello in cui il Divino era stretto in una tutina paurosamente trash, aiutami tu, che da giovane eri un figo anche vestito da pulzella.

Bowie lo guardò sornione dalla parete, con la chioma di un rosso metallico sparata ovunque. Sembrava suggerirgli cosa fare, squadrandolo benevolo dall'alto con le sue pupille diseguali.

Voleva strappare dalla carta il sorriso sicuro, quasi aggressivo di David e appiccicarselo sulla bocca. Aveva bisogno di un'arma difensiva come quella – perché sì, cazzo, la strada era dannatamente pericolosa, e gli sguardi piovevano come frecce, e la gente caricava frettolosa diretta ben oltre quel povero moccioso armato alla leggera, ma a cui lasciare ferite non costava proprio niente. Sembravano così a posto, all'inizio, mentre camminavano sull'asfalto con espressioni neutre. Eppure avevano tutti la capacità di tirare fuori la loro natura di stronzi inaciditi come un coniglio da un cappello, o magari, dalla loro prospettiva, come un asso dalla manica. Li vedevi sfilare impassibili per le strade – ragazzi con dread e magliette larghe, signore sui trampoli tinte di biondo menopausa, vecchi con occhiali e cappellino, ragazzette con i leggings militari e altre amene figurine da parata funebre – e ti sembravano tutti persone pronte a sorridere in risposta a un tuo saluto e a prestarti aiuto in caso fossi caduto dal marciapiede o in qualche altra situazione spiacevole. E invece, poi, qualcosa andava storto. Ad esempio, poteva capitare di vedere per la strada un barbone che chiedeva l'elemosina, degli africani che confabulavano tra loro in lingua sconosciuta, due ragazzi che si tenevano per mano, e persino qualche mostro dalla voce femminile che si vestiva da uomo e parlava di sé al maschile. Bastavano queste piccole cose, penava Michele, perché qualcuno ferito nella sua integra e ottusa tranquillità da standard si sentisse in diritto di ferire in risposta.

Michele era così perso in queste considerazioni da affondare con lento abbandono nel materasso, come se fosse catrame fresco in cui soffocare tutte le sue debolezze.

Per quanto a volte se ne dimenticasse completamente, lui non somigliava un granché a un bambino vero, per dirla come la direbbe Collodi. Come il suo personaggio, era come un pupazzetto umanoide di legno che aspettava la Fata Turchina – possibilmente in camice bianco e con una specializzazione in endocrinologia – perché lo rendesse reale prescrivendogli il magico testosterone. Poteva indossare gli abiti che indossavano i bambini veri, e parlare e atteggiarsi allo stesso modo, ma in sé sapeva di non poter sembrare uno di loro. E anche il mondo lo sapeva. Il mondo, almeno così percepiva Michele, era il primo in assoluto a vederlo come una tenera, adorabile ragazzina con labbra rosee e soffici capelli ondulati. Mentre lui, prendendosi estremamente sul serio – beh, almeno finché l'insicurezza non prendeva il sopravvento – nel grande schermo del suo cervello vedeva una sola immagine da associare a se stesso, ed era quella di un diciassettenne qualunque, con un accenno di barba e i fianchi stretti.

Forse era quello il punto. Forse – solo per lui o magari, pensò generalizzando irrazionalmente, per la maggior parte delle persone transgender – non era un organico “non sentirsi a proprio agio con il proprio corpo”, ma più un socialmente instillato – ma non meno vero, doloroso e irreversibile – “non rispecchiarsi nell'identità sessuale assegnata alla nascita”, che, vista la semplicioneria dilagante, per la maggior parte delle persone corrispondeva al corpo. E che quindi, per essere cambiata, necessitava anche di una trasformazione fisica, biologica, medica e chirurgica.

Si rese subito conto che queste non potevano che essere che speculazioni. Come poteva essere una cosa esclusivamente psichica? Il suo disagio era soprattutto a livello fisico, e in caso contrario non si sarebbe spiegato il suo orrore alla vista del proprio riflesso allo specchio. Il disagio fisico era l'unico che spiegava la sensazione di essere disincarnato, di essere ficcato e rinchiuso a forza in un ruolo che non gli apparteneva e che ai suoi occhi prendeva forma, in modi misteriosi e primitivi come possono esserlo i meccanismi di associazione della mente umana, nel curvo, morbido corpo avvelenato dagli ormoni sessuali femminili che gli aderiva addosso.

E dire che sosteneva la parità dei sessi e l'ingiustizia e innaturalezza dei ruoli di genere – rifiutava e aveva sempre rifiutato gli stereotipi della donna casalinga, l'uomo macho e ignorante, il rosa e l'azzurro, le damigelle in pericolo e i principi salvatori, le gonne alle une e i pantaloni agli altri. Era da sempre convinto che ognuno fosse libero di fare ciò che preferiva, a patto di non ledere la libertà altrui, ma nessun farmaco sembrava funzionare contro quell'odioso, viscido disagio. Sembrava crescere direttamente dalle viscere, più che dal cervello. Aveva radici troppo profonde per essere sradicato con belle paroline, come un cobra dal cesto di vimini. Non bastava essere convinti che anche le donne potessero portare i pantaloni, fumare, dire le parolacce, andare in palestra, avere i peli e scopare con chi pareva a loro.

La disforia di genere c'era, viscida, organica e primitiva. Michele non sarebbe mai stato a suo agio nell'involucro di una ragazza. Non sarebbe mai riuscito a definirsi una donna che sfuggiva agli stereotipi, perché non sarebbe mai riuscito a definirsi una donna – e basta.

Si alzò faticosamente dal letto. Aveva le membra pesanti, fradice di sconforto.

Il suo corpo non era così male. O perlomeno, si ritrovò a pensare guardandosi allo specchio, dopotutto era un ammasso di carne carino, ben modellato, un figurino fatto per essere ammirato e fischiato dai ragazzi per la strada. Era stato fortunato, per così dire. Se si fosse sentito una donna avrebbe amato profondamente il suo corpo, con tutta probabilità.

La sua immagine cambiò lentamente mentre la guardava, assumendo dimensioni e proporzioni sempre più imponenti. Si trasfigurava: era Pamela Anderson, con le gigantesche tette mal rifatte. Era un idolo femminile preistorico, con grossi fianchi fertili ed enormi seni di pietra. Era una montagna, una gigantessa sdraiata a terra, due tube di Falloppio ambulanti sormontate da ghiandole mammarie sovrasviluppate. Era un mostro con i tacchi e il rossetto – tacchi e rossetto, che allitterazione di cacofonie.

I pantaloncini inguinali azzurro pallido con inserti di pizzo ghignavano ridicoli, in silenzio, sul pavimento dove li aveva scaraventati Michele mezz'ora prima.

Li vide, e qualche lacrima gli rigò le guance. Sarebbe stato costretto ad indossare le bende mediche fino a che non fosse riuscito a procurarsi un nuovo binder – e le bende erano davvero deleterie, a differenza delle canotte, che perlomeno erano state create appositamente per appiattire i toraci dei ragazzi transessuali. Sentire continuamente una stretta alle costole, difficoltà a respirare e la pelle che si tagliava lentamente era orribile. Era qualcosa di profondamente umiliante.

Singhiozzando debolmente, già fradicio di sudore, prese la peggiore e migliore decisione che avrebbe potuto prendere quel giorno. “Niente crossdressing. A costo di crepare di caldo.”

 



*Crossdressing: vestirsi  con abiti del genere opposto. Un crossdresser è una persona, spesso un uomo indifferentemente omo o eterosessuale, che indossa abiti ritenuti del sesso opposto per divertimento o spettacolo (un esempio sono le Drag Queen). I crossdresser non sono quindi da confondere con le persone transessuali, perché non sentono di appartenere al genere opposto a quello assegnato alla nascita. Quando Eleonora dice a Michele di fare crossdressing gli sta suggerendo a malincuore di vestirsi da donna poiché lui, seppur transessuale, è un ragazzo.
Buonasera a tutti, popolo di EFP. Tra una cosa e l'altra sono finalmente riuscito a prendere in mano il PC e  a pubblicare questo primo capitolo, che spero apprezzerete! Vi ho presentato Michele, il nostro eroe; nel prossimo capitolo capirete qualcosa in più di lui e della sua dolce e delicata migliore amica. Ele è una specie di bulldozer. Non a caso è ispirata a una mia amica reale sensibile quanto lei... per fortuna che la mia amica non sa dell'esistenza di questa storia.
Beh, eccovi qui il primo protagonista. Seguite e recensite, gattoni, mi raccomando!
- Knet

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Canarini al microonde - Capitolo II

Capitolo II


 

Le vie del centro erano stranamente gremite di gente. Mentre passeggiava a fianco di Eleonora, con il sottofondo dei suoi tacchi sull'acciottolato e delle sue chiacchiere allegre ad accompagnarlo lungo la strada, iniziò a notare tutti i particolari che gli erano sfuggiti fino a quel momento: scatole di cartone, giornali e borse di plastica erano disseminati un po' ovunque, e i passanti, spesso con bambini attaccati alle gambe, sembravano tutti abbastanza stanchi.

“Ehi, mi ero dimenticato che è sabato mattina”, disse interrompendo improvvisamente la parlantina della sua amica. “Forse siamo ancora in tempo per beccare le ultime bancarelle del mercato.”

Ele prese il telefono dalla borsa e guardò l'ora sullo schermo. “Sono le undici e zero due, e direi proprio che ce la possiamo fare. Spero che la signora che vende quei fantastici costumi da bagno sia ancora in piazza, perché ho tutta l'intenzione di svaligiarle il furgone!”. Strinse il braccio di Michele in un moto di contentezza, e lui non poté che sorridere e alzare gli occhi al cielo.

“Che c'è, lesbicona, non sopporti un frociastro come me?”, lo riprese Ele agitando una mano. Poi lanciò all'aria una risata argentina, fin troppo squillante per le orecchie ormai abituate di Michele.

Eleonora era una ragazza d'acciaio, che amava scherzare più ancora di quanto amasse spendere. Era allegra, spavalda, sempre attenta a tutto ciò che succedeva intorno a lei, e non mancava mai di far notare alle persone ciò che pensava di loro, sparando parole a mitraglietta su ogni cosa e persona nel raggio di venti metri.

Michele l'aveva conosciuta quasi per caso qualche mese prima, grazie a un gruppo su Facebook contro l'omotransfobia a Brescia. Si erano scambiati qualche messaggio, avevano riso insieme alle uscite stupide di un conoscente che avevano in comune e poi erano andati avanti con le loro vite senza contattarsi molto, fino a che non si erano incontrati dal vivo per la prima volta, del tutto casualmente. Era stato durante una conferenza sul lavoro dedicata agli studenti dei licei bresciani, in cui entrambi si erano ritrovati per colpa delle loro professoresse un po' pedanti. Avevano riso nel vedersi per la prima volta in faccia senza i filtri di Retrica e Eleonora, dalle vette del suo metro e settantacinque, aveva subito fatto notare al suo nuovo amico che nelle foto di Facebook sembrava più alto. Da quel momento, benché fossero l'uno l'opposto dell'altra, uno amasse la solitudine e l'altra le attenzioni altrui, uno preferisse la musica e l'altra i telefilm, uno fosse un FtM con ancora una piede nell'armadio e l'altra una combattiva e appariscente donna trans, divennero amici inseparabili.

Più di tutto Eleonora amava scherzare sulla sua condizione, perché lei era riuscita a crearsi una corazza indistruttibile, per quanto graziosamente smaltata a cuoricini e fiorellini. Era riuscita ad essere così sfrontatamente sicura di se stessa da affrontare uno dei peggiori tipi di discriminazione – quella rivolta alle donne transessuali, derise, picchiate, uccise e umiliate ogni giorno e in ogni parte del mondo – come fosse una sfida, un gioco, qualcosa che la spronava a dare del suo meglio piuttosto che ad arrendersi.

Non di rado per strada la sua figura alta e brillante veniva additata, chiamata sottovoce “frocio”, “travestito”, “puttana”, a volte richiamata maleducatamente. Quando Michele era presente era lui a mettere un grugno ostile, a rispondere con tono aggressivo. Eleonora, dall'alto delle sue belle scarpe ticchettanti e della sua superiorità morale, sorrideva. Lei sorrideva sempre, come avrebbe voluto saper fare anche Michele; e aveva una decina di sorrisi diversi, uno per ogni stato d'animo. Quand'era felice socchiudeva gli occhi, quand'era sorpresa li spalancava creando una “o” leggera con le labbra, quand'era incazzata sollevava un sopracciglio, sempre quello sinistro. Il suo migliore amico aveva imparato a riconoscerli tutti, e ad accettare le sue battute sceme come un segno di assoluta certezza della propria identità.

L'anziana signora dei costumi si era stabilita, come ogni sabato della bella stagione, vicino a piazza del Duomo. Era molto gentile con Eleonora e non aveva mai sbagliato con i pronomi, dandole sempre del femminile, un po' per sincera accortezza e un po', pensava Michele, per non perdere una cliente pronta a spendere senza esitazione.

“Quello nero a pois viene quindici, quello turchese dieci. Se li prendi entrambi facciamo ventidue, cara.”

Mentre la ragazza contrattava e pagava, Michele iniziò a sentire il caldo.

Poco prima le ultime nuvole avevano abbandonato il cielo, lasciando scoperto il sole abbagliante di metà maggio. Dopo qualche minuto il maglione verde già scaldava la mano al tocco, mentre i jeans neri iniziavano ad appiccicarglisi all'inguine e dietro le ginocchia per colpa del sudore.

“Spendacciona, avresti dell'acqua?”, chiese alla sua amica appena quella si fu allontanata dalla bancarella per venirgli incontro.

Quella rovistò nell'enorme borsa, ma non parve trovare altro che due pacchetti di fazzoletti, degli occhiali da sole e le chiavi della macchina.

“Nulla, Michi, mi dispiace. Hai tanto caldo?”

“Un po'...”

“Dai, maschione, puoi resistere.” Gli diede una pacca sulla spalla, insultandolo un po' meno del solito. “Adesso andiamo in piazza e cerchiamo un bar.”

Si avviarono alla ricerca di qualcosa da bere mentre Ele si compiaceva dei suoi acquisti, rovistando continuamente nella borsa di plastica.

Giunti a destinazione, purtroppo per loro, trovarono ben altro.

In piazza Duomo a Brescia ci sono due chiese, e sono molto diverse tra loro: il Duomo vecchio è un edificio tondo in stile romanico, uno dei pochi sopravvissuti con quella pianta, col muro a mattoni a vista e pochi fronzoli; il Duomo nuovo invece è in marmo bianco, ha una facciata in stile barocco e una grande cupola verderame. Uno è basso, umile, povero, caotico; l'altro è massiccio e imponente, arrogante nella sua sobrietà.

La loro contrapposizione architettonica era l'esatta rappresentazione di quella umana, estesa per tutta la piazza, che si presentò agli occhi di Eleonora e Michele quando vi misero piede.

“Mi sale il genocidio.”

“Aspetta un minuto, com'è che non ne sapevo niente?”, disse Eleonora mentre faceva scorrere lo sguardo per le file di Sentinelle in Piedi, diritte e composte all'interno di uno spazio ben recintato da transenne metalliche. “Di solito quando succedono cose del genere qualcuno me lo viene a dire! Come posso io mancare alle contromanifestazioni? Ehi, guarda”, disse, rivolta a Michele, “questa volta hanno pure la scorta.”

Oltre le transenne, infatti, vagava anche qualche poliziotto intento a scrutare tra le file dei manifestanti dei centri sociali.

Michele era ancora sorpreso per la scoperta inaspettata, ma non osava guardare in faccia le sentinelle.

La loro organizzazione era nata proprio nella sua città, quindi c'erano state altre due o tre manifestazioni; lui era sempre stato presente. La prima volta per lui era stata come un gioco. Aveva quindici anni, non aveva mai subito in prima persona l'omofobia né la transfobia ed era stato trascinato in piazza da amici. Nessuna delle facce delle sentinelle gli era risultata familiare: aveva riso, cantato, si era unito ai cori di protesta e alla fine aveva persino ballato con una perfetta sconosciuta, il tutto in un'aria di festa e ribellione adolescenziale, sotto gli sguardi seri, da falco, degli organizzatori adulti.

La seconda volta, qualche mese dopo, era stata appena dopo un litigio con sua mamma. Si era azzardato a prendere una felpa da ragazzo ai saldi invernali, usando la debole scusa che nel reparto maschile la roba costava di meno come se la sua famiglia avesse mai avuto problemi di quel tipo. Sua madre non era particolarmente fedele agli stereotipi – lavorava, dopo la maternità aveva affidato i figli a delle babysitter e amava il fai da te, tanto che quando si erano trasferiti in centro città aveva curato personalmente mobili, porte e pavimenti, evitando ovviamente i lavori più pesanti – e talvolta ne sfuggiva lei stessa, sempre nel limite del socialmente accettabile. Quella volta in particolare, però, lasciò cadere un commento che accese in Michele il fuoco della ribellione.

“Non mi starai mica diventando lesbica, eh?” gli aveva detto in tono molto leggero e scherzoso, come per fare una battuta in tono confidenziale.

“Mamma...” aveva replicato il ragazzo con tono schifato. Odiava quando lo scambiavano per una donna omosessuale. Gli piacevano le ragazze, sì, ma in modo totalmente diverso, e il solo pensiero di farsi toccare in certi modi e in certi posti lo disgustava profondamente. Per un periodo aveva creduto di esserlo ma, lentamente e inesorabilmente, aveva iniziato a sentire la parola lesbica affibbiata a lui come qualcosa di viscido, oltraggioso, fuori posto; uno sputo sulla sua faccia pura e pulita. “No! E anche se fosse?”

“Michela, so benissimo che non lo sei. E lo spero bene.”

A quelle parole lui aveva rizzato le orecchie come un gatto incazzato. “Come, scusa?”

“Non mi piacciono queste cose, lo sai. Sono all'antica. Donne e uomini sono fatti per stare insieme, e se scoprissi che ti piacciono le ragazze o a tuo fratello gli uomini penserei di aver sbagliato qualcosa nella vostra educazione. Amerei avere dei nipotini... e poi tra lesbiche non si può nemmeno avere rapporti sessuali. Non capisco proprio queste persone, cerco solo di vivere e lasciar vivere. Tranquilla, tesoro, non volevo offenderti.” Concluse la cascata di parole confuse tendendo una mano verso il figlio, come per accarezzargli i capelli.

Questi la evitò proprio come sua madre aveva ignorato l'indignazione dipinta sul suo viso. Calcò la mano, cosciente di eccedere nei suoi ragionamenti infantili ma troppo arrabbiato per preoccuparsene. “Secondo me sono solo cazzate. È la Chiesa che vi mette in testa queste cose.”

Sua madre non poté più ignorarlo, e di lì a poco iniziarono a discutere seriamente e poi a litigare. La donna, per evitare il discorso omosessualità, lo accusò di essere un ingrato che non riconosceva alla sua famiglia e alla società tutto ciò che da loro gli era stato dato. Le accuse erano plausibili e veritiere, dato che il ragazzo aveva dimostrato più di una volta di non apprezzare particolarmente l'educazione vecchio stile che gli era stata impartita, ma Michele riuscì benissimo a percepire il rimbombo delle silenti affermazioni discriminatorie di poco prima.

Da quel momento, un po' per ripicca e un po' per necessità di esprimersi, iniziò a vestire quasi del tutto al maschile. Il discorso venne sepolto per sempre sotto una coltre di ostile indifferenza.

Pochi giorni dopo ci fu la seconda manifestazione delle Sentinelle. Michele partì per la città con lo slancio di qualche mese prima, poi, con sgomento, sentendo ancora l'eco sottile delle parole di sua madre, scoprì un viso conosciuto tra quelle schiere.

Era suo zio Sandro, il suo preferito. Quello con cui giocava a nascondino da piccolo, quello che lo faceva sempre ridere, quello che gli aveva regalato la sua prima PlayStation a dieci anni; lo stesso che una volta, tanti anni prima, aveva fatto spaventare a morte una sua compagna di classe antipatica dicendole che se avesse continuato a prendere in giro Michele l'avrebbe fatta arrestare dalla polizia; lo stesso che lo difendeva sempre dai rimproveri severi dei suoi genitori. Qualche volta da lui si era sentito dire aveva di comportarsi arsi da femmina e di non fare il maschiaccio, ma mai avrebbe pensato che discorsi così leggeri e relativamente innocui derivassero da un'ideologia.

Non era un suo zio naturale, bensì un amico d'infanzia di suo padre; ciononostante era stato una figura importante della sua infanzia, e scoprirlo lì, al fianco di sua moglie e degli altri manifestanti, con il grosso naso conficcato tra le pagine di Ivanhoe – un romanzo probabilmente scelto secondo il criterio casuale delle sentinelle – aveva rincarato il colpo infertogli da sua madre poco tempo prima. Invece di cantare e ballare, quella seconda volta se ne andò silenzioso come un fantasma dalla piazza gelida. La sua vita da quel giorno sarebbe stata per sempre divisa a metà: da una parte c'erano i tempi facili e felici di quando non aveva nulla da nascondere, dall'altra l'ignoto, la paura delle reazioni altrui quando avessero scoperto che in lui c'era qualcosa che non andava. E così sua madre, suo padre, suo zio e chissà quanti altri, da quel momento, poterono esistere per lui solo nella mezza vita della finzione.

Iniziò a sentirsi sempre più distaccato dalla sua famiglia, spaventato dall'idea che potessero scoprirlo. Sentì, per la prima volta, il peso dell'essere diverso.

“Ma guarda chi c'è! Ehi, coso, ti lascio un attimo da solo. Vado dalla Lu, che è tanto che non la vedo.”

Il ticchettio sempre più lontano dei passi di Ele lo riportò alla realtà. Erano passati mesi, ma ancora non si azzardava ad alzare il capo accaldato per guardare in faccia i manifestanti. Non ne aveva più timore, non si sentiva più smarrito all'idea di essere estraneo alla sua stessa famiglia. Era, però, rimasta nel suo cuore una vaga tristezza, una malinconia che lo spingeva a non volerne sapere di più, un istinto di conservazione di tutti i bei ricordi che aveva di quando ancora era un bambino con la testa bella vuota e una sola vita, ancora tutta intera.

Aveva sempre più caldo. Volse lo sguardo alla folla allegra e colorata dall'altro lato delle transenne, e si rese conto di avere la vista appannata.

Un paio di sue compagne di scuola stavano chiacchierando con un ragazzo altissimo e occhialuto, mentre un uomo sulla trentina, suo conoscente, distribuiva volantini e schizzava da un lato all'altro della piazza per aggiustare bandiere arcobaleno, parlare con tutti quelli che incontrava sulla sua strada e intonare cori di tanto in tanto. Non sembravano esserci altre sue conoscenze, ma sul momento non gli interessava.

Decise di avvicinarsi a Marco – si ricordò quello che probabilmente era il suo nome – sperando di attaccare bottone e distrarsi finché non fosse tornata Ele. Aveva lasciato il portafoglio nella sua borsa, e con quello ogni speranza di procurarsi da bere.

Lentamente i forti raggi del sole, che di primo mattino lo avevano ringalluzzito con la prospettiva di una giornata di vacanza da scuola da passare sotto il primo cielo blu dell'anno, divennero una tortura. Aveva la sensazione che ogni parte di lui stesse per collassare su se stessa e sciogliersi. La fronte era imperlata di sudore, i vestiti umidi gli aderivano alla pelle, le bende sul petto iniziavano a bruciare come fuoco e con tutta probabilità gli avevano già inciso un solco nella pelle sottile del torace, stringendogli le costole come una serpe tagliente.

Non aveva più pensieri per la testa. Voleva solo rinfrescarsi, parlare con qualcuno e tornare a casa a studiare o a strimpellare qualche canzone in solitudine. Era già stanco, nonostante fossero le undici e mezza. Non era da lui.

Poco lontano brillava l'insegna metallica di una gelateria, e si chiese da dove arrivasse la luce che le permetteva di proiettare quel riflesso intermittente. Alzò lo sguardo verso il tetto dell'edificio e lì, ritta nei raggi perpendicolari del sole, una bandiera oscillava debolmente, a tratti ombreggiando l'insegna e a tratti illuminandola. Sotto quella silente bandiera blu ogni cosa cambiava colore a seconda dei suoi volubili movimenti. L'insegna – bianca, grigia, bianca – un anziano signore seduto a un tavolo – abbronzato, pallido, abbronzato – i tavolini di plastica – rosa, rossi, rosa, rossi. Michele vedeva solo i colori di quello spettacolo mediocre, le linee le aveva lavate via il sole col sudore che gli imperlava le ciglia.

Si rese conto all'improvviso di essersi fermato a metà strada tra l'accesso alla piazza e la folla. Non sapeva dove fosse diretto prima di fermarsi. Sentiva solo caldo. Chiamò ad alta voce Eleonora, ma nessuno rispose.

Nel frattempo una macchia grigia e nerastra era entrata nel suo campo visivo, e ora gli galleggiava davanti perfettamente immobile.

Stette ferma per un po' a debita distanza, ma dopo un lasso di tempo indeterminato iniziò ad avvicinarglisi oscillando. Poggiava su un lungo corpo e aveva occhi e bocca.

“Stavo per chiederti se volessi un volantino su, ehm, Nascita e morte del DDL Scalfarotto, solo che non mi sembri del tutto a posto.”

Era un ragazzo forse poco più grande di lui che portava degli occhiali leggeri, tondi, grandi e argentati, che gli ingrandivano gli occhi chiari. Michele si convinse di stare guardando un film in bianco e nero quando si accorse che la macchia grigia che prima gli galleggiava nel campo visivo erano i suoi capelli. Non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto rispondergli.

“Cosa?” Che strana voce aveva, quel ragazzo. “Ehi... se hai biascicato qualcosa non ho capito. Puoi ripetere, per favore?”

“Non credo di non molto... sentirmi troppo bene. Sto andando a fuoco”, articolò finalmente Michele.

“Ti senti male?”

“No, cioè sì, ma non riesco a capire.”

Le sopracciglia dritte e scure – non erano grigie – dello sconosciuto si affossarono al centro, formando due bellissimi sorrisi preoccupati. A Michele uscì di gola un risolino a quella strana visione.

“Sei qui con qualcuno, ehm...?” Indugiò sul nome.

“Eleonora. Michele, io mi chiamo così.”

Il giovane senza nome si girò e lanciò un grido cantilenante: “Eleono-raaa. Chiunque tu sia vieni qui da Michele.” Poi si voltò di nuovo verso il ragazzo, finendo di arrotolarsi le maniche della camicia fino a sopra i gomiti giusto in tempo per sorreggerlo, perché era inciampato sui suoi stessi piedi cercando di scorgere Ele oltre le spalle dello sconosciuto.

“Cazzo, cazzo. Ti sei preso un bel colpo di calore, Mick. Ti dispiace se ti chiamo così? No, vero? Vieni qui, stai alla mia destra, ti porto un po' all'ombra”, disse questi con una parlantina a metà tra il nervoso e il divertito. Per Michele quella voce profonda e bizzarramente modulata fu poco rassicurante, ma la situazione comica sembrò riagganciarlo alla realtà.

Lo sconosciuto si spostò una ciocca di capelli dalla fronte con delle lunghe dita pallide e la aggiustò indietro facendoci scorrere le unghie tonde. Camminava veloce, sorreggendo l'infermo su un fianco e cercando aiuto con lo sguardo e qualche cenno della mano.

Michele quasi non si era reso conto del suo braccio snello intorno alle spalle e si ritrovò dal nulla a fissargli le mani, grandi pianure bianche solcate da vene verdastre in rilievo, a nord quattro montagne arrossate, intirizzite come d'inverno, a sud una valle tra le sporgenze ossute del polso.

Realizzò di essere in stato confusionale e che probabilmente, se non fosse tornato immediatamente da quel luogo silente e misterioso, sarebbe passato per via diretta dalle valli della mano sconosciuta all'ospedale più vicino.

“Mia madre...”, mormorò confusamente, sentendo insinuarsi nello stomaco l'ansia che accompagnava quel nome da sempre.

Lo sconosciuto dai capelli grigi lo guardò di sbieco, rinchiudendosi in una sorta di guscio lontano e cambiando radicalmente atteggiamento. “Tua mamma? Vuoi... tua madre?”, gli chiese, quasi nauseato, mentre si sedevano all'ombra di un portico.

Michele si lasciò cadere di schiena sul pavimento. “Ah... è fresco...” La nebbia che aveva nel cervello sembrò diradarsi a quel contatto. Riprese a sentire gli arti come parte del suo corpo e il peso dei suoi vestiti umidi sulle ossa, mentre lasciava che avvenisse lo scambio termico tra lui e la pietra del pavimento.

Si soffermò per la prima volta a guardare il ragazzo che l'aveva portato all'ombra, che faceva gesti inconsulti in direzione della piazza come per richiamare qualcuno. Aveva un profilo strano, ossuto e pallido, con degli zigomi alti e un naso leggermente aquilino, molto maschile. Doveva avere poco meno di vent'anni, anche se sembrava più vecchio per molti tratti. Forse andava in quinta, o all'università, considerando com'era vestito: pantaloni grigi dal taglio formale, camicia bianca e scarpe nere che Michele avrebbe considerato da vecchio, perché era la prima volta che le vedeva su un suo quasi coetaneo. L'unico tocco di colore nella sua figura allampanata erano gli occhi azzurro slavato, anche quelli tendenti al grigio, e i bottoni della camicia che splendevano di un verde brillante.

Aveva un modo teatrale di gesticolare, sembrava serbare una sorta di imbarazzo sociale temperato da un comportamento e un aspetto fuori luogo, che attiravano l'attenzione come una risata a un funerale. L'aveva aiutato, ma sembrava dai suoi movimenti e dai suoi sguardi che, avendolo fatto come preso da un impulso infantile, se ne fosse pentito subito dopo e volesse semplicemente tornare a starsene per i fatti suoi. Da amichevole era diventato freddo e poi di nuovo caldo, o almeno tiepido, tralasciando completamente il fatto che la salute di una persona fosse in pericolo. Non sembrava davvero preoccupato per lui, quanto più incuriosito.

Si ricordò della domanda che gli era stata posta e guardò profondamente negli occhi il ragazzo seduto al suo fianco, che ora lo osservava dall'alto, riuscendo finalmente a ragionare con lucidità nonostante un'impercettibile punta di vermiglio gli stesse colorando le guance e il naso. “Veramente voglio solo tenerla lontana da me. E non voglio che veda Eleonora, perché non passerebbe come ragazza di nascita, sai, non prende ancora ormoni. È transessuale”, disse freddamente, incespicando un po'.

Le sopracciglia folte dell'altro si incurvarono verso l'alto dalla sorpresa, stavolta formando due smorfie tristi. Sorrise beffardo incurvando le labbra chiare e sottili. “Che c'è, i tuoi non sanno che sei gay?”

La domanda colpì Michele come una secchiata d'acqua in faccia.

Se prima si sentiva in imbarazzo per la situazione ridicola – si era fatto trascinare da un perfetto sconosciuto, perdipiù strano, in giro per una piazza affollata biascicando cose senza senso e inciampando sui suoi stessi piedi – ora era del tutto sconvolto da quel tizio. Iniziava a sembrargli un pizzico inquietante, come se avesse qualcosa di sbagliato nel cervello. Nessuna persona sana di mente, fino a quel giorno, si era posta domande riguardo al suo sesso biologico senza saltarne fuori con la brillante idea che lui fosse una femmina. Era triste, ma almeno gli risparmiava spiegazioni riguardo alla sua situazione se le cose si mettevano male.

“Come, scusa?”

“Ah, non sei gaio? Chiedo perdono. Dovrò mandare il mio gay radar in riparazione. Pensavo che la propria omosessualità fosse l'unico motivo capace di spingere un ragazzetto della tua età a manifestare contro le Sentinelle in Culo.”

Cosa?!”, esclamò Michele stizzito. Il tipo occhialuto aveva proferito quelle parole con una sicurezza assoluta e un tono scherzoso, quasi ostentatamente da frocio, che gli stavano iniziando a dare sui nervi. Odiava che gli si desse del bambino, anche se si sentiva lusingato per essere stato scambiato per un ragazzo bio. “Senti, sono etero e ho diciassette anni. Se ti sembro più piccolo è perché ho... insomma, sono trans. Si può dire che ho dei problemi ormonali, ecco.”

“Ehi, ehi. Calmo”, disse il ragazzo grigio alzando le mani. Cambiò di nuovo atteggiamento come se stesse recitando diversi ruoli in un copione, e da sornione divenne serio e affabile. “Voleva essere un complimento. Se fossi stato un tredicenne etero e cisgender che protesta contro l'omofobia avresti meritato tanto di cappello.”

Wow, sa cosa significa cisgender, pensò Michele.

“Comunque mi chiamo Valentino, Vale per i pigri. Non dico 'piacere di conoscerti' perché sarebbe assai ipocrita. Cioè, da dire, come frase. Presentarsi non è conoscersi.”

I due si diedero la mano, guardandosi negli occhi, stringendo uno il palmo umido dell'altro. Si sorrisero sinceramente.

“Michele... ma te l'ho già detto. La lista dei soprannomi sarebbe troppo lunga da snocciolare.”

Mentre parlava lo stordimento tornò a farsi sentire, lieve ma insistente, accompagnato da un martellare sordo nella scatola cranica. Giusto in tempo per l'arrivo di un getto d'acqua che lo colpì in piena fronte.

“Oh, mio Dio, Michele! Cos'è successo? Come stai?” Ele era arrivata in quel momento correndo trafelata, armeggiando con una bottiglia che agitava come un'arma da fuoco. “Vi ho visti da laggiù... scusa il ritardo, ho preso l'acqua che ti serviva pensando di farti un favore e invece eri quaggiù disteso e stavi chissà come! Mi dispiace... oh, mi dispiace, Michi!” e si profuse in mille attenzioni, tastando i polsi e la fronte dell'amico senza dargli il tempo di reagire.

“Colpo di calore. Sembra stare meglio”, dichiarò lapidario Vale, placidamente disteso a terra sui gomiti immacolati, una gamba piegata. A Michele non piacevano le persone che rispondevano al posto suo, ma in questo caso lo lasciò fare. Non pareva volergli togliere le parole di bocca per farlo sembrare uno stupido, come faceva di solito la gente. “Era in mezzo alla piazza in stato confusionale e nel distendersi all'ombra è tornato lucido. Deve bere, stare al fresco e direi anche cambiarsi”, continuò, guardando Michele come accorgendosi in quel momento degli abiti troppo pesanti.

“Oh, no no! Lui deve andare in ospedale, adesso!”

“Tu sei pazza”, si spaventò Michele, quasi sputando l'ultimo sorso d'acqua. “No, no. In ospedale chiamerebbero i miei, e se dico alla vecchia che mi ha portato qui un'amica me ne viene a chiedere nome, cognome e stato civile. Non voglio che pensi che ho amici strani.” Vide con la coda dell'occhio lo sguardo sorpreso e divertito di Valentino e decise di raddrizzare il tiro, anche se Eleonora aveva capito benissimo cosa intendesse. “Cioè, già ha trovato il binder e tutto il resto, non ho sbatta di doverle dire ogni volta con chi esco perché teme che brutte compagnie mi confondano sessualmente ancora di più.”

“Potremmo chiamare un'ambulanza”, disse Eleonora trastullandosi nervosamente una ciocca di capelli fiammanti, allungando poi una mano nella borsa per prendere il telefono.

“No, non se ne parla neanche. Me ne starò qui.”

“Sentite, io avrei un'idea”, li interruppe Valentino alzandosi e spolverandosi i pantaloni, dandosi grandi pacche sulle cosce. Eleonora sembrava divertirlo. Guardò Michele sospirando, gli occhi azzurri gli brillavano di nuovo come davanti a un bello spettacolo comico. “Sono qui con degli amici dall'aspetto eterissimo. Uno ha una macchina, una patente e un debito con me, quindi ti potremmo dare un passaggio.” Guardò Michele, che sul suo volto vide solo un enorme sorriso incosciente. “Che ne dici, Mick?”





Buon pomeriggio a tutti.
Sono finalmente riuscito a trovare un tempo d'aggiornamento decente, e il ritmo sembra essere bisettimanale... spero proprio di riuscire a mantenerlo. I miei capitoli per ora si aggirano tra le 3500 e le 4500 parole, quindi dovrei scrivere più o meno tra le 2/350 parole al giorno. Poche, dite? Beh, io sono pigro, non scrivo mica tutti i giorni :P Per fortuna quando mi ci metto di brutto riesco a buttarne giù 700/1000.
Ed ecco che Vale entra in scena. Ve lo aspettavate diverso? E INVECE E' COSI'! Muahah. Ho i miei gusti, capitemi. Spero che abbiate comunque apprezzato la sua comparsa e che non vi siate annoiati con la storia famigliare di Michele (che è necessaria perché... beh, insomma, saprete).
Ne approfitto per ringraziare tienimiancora per le recensioni alla storia, più i tre gentilissimi utenti che l'hanno preferita e i sette che la seguono! Non mi aspettavo che avesse un gran seguito, ma vedo che siete interessati e ne sono felice. ♥
Che dire? Ci sentiamo tra due giorni con l'aggiornamento del Simposio. See ya!
PS per il mio ragazzo: amore, so che stai leggendo. Sai come potresti rendermi davvero felice? Lasciandomi una recensione qui e non via WhatsApp. Fai il bravo, dai C: Ti amoooh :*
- Knet

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Canarini al microonde - Capitolo III

Capitolo III



Le esatte parole che pensò Michele quando vide il cosiddetto amico eterissimo di Valentino furono “questo mi prende per il culo”.

Era alto, molto alto, e per tutta la lunghezza del suo corpo non c'era nemmeno una singola particella che potesse scorrere davanti agli occhi inquisitori dei suoi senza destare sospetti. Portava pantaloni aderenti, una maglia improponibile a stampa batik arcobaleno e un paio di Converse viola, che dovevano essere di un numero tra il 45 e il 50 ed erano perfettamente in tinta con la sua macchina, parcheggiata poco distante.

Era anche biondo e Michi si stupì di constatare, guardando i peli delle braccia e non le sopracciglia, perché era girato di spalle, che fosse biondo naturale. I suoi erano profondamente convinti che i ragazzi che si tingevano fossero tutti gay, e non voleva insospettirli ancora di più. Non che la capigliatura importasse molto, in quel quadretto omosessuale.

“Eccoci qui. Lui è Adrian, il mio autista rumeno”, disse Valentino una volta che ebbe guidato Eleonora e Michele fuori dalla piazza, in una viuzza laterale dov'era radunato un gruppetto di manifestanti multicolore. Vale indicò il gigante biondo, che si voltò e sorrise, guardandolo poi negli occhi senza aspettarsi spiegazioni.

“Ah, eccoti. Pensavo fossi sparito con chissà chi. Ehm... ciao!”, salutò con un vocione inaspettato. “Amici di Vale? Vi devo portare da qualche parte, vero?”

Oh mio Dio, pensò Michele, non può essere vero. Deve togliersi quegli occhiali ridicoli.

“Beh, non tutti e tre. La ragazza è automunita”, gli rispose Valentino. Poi fece un ampio gesto con le braccia come a voler circondare una situazione troppo grande e complessa e scrollò le spalle, guardando Michele. “Su, su, presentatevi. Fate amicizia, da bravi.”

Adrian obbedì immediatamente, porgendo la mano a Eleonora e facendole un ampio, bianco sorriso. Sollevò gli occhiali da sole, tondi e rosa come il peggiore degli incubi di Michele, per donarle uno sguardo ammaliatore. “Io sono Adrian, piacere di conoscerti.”

Michele si girò verso Vale, mosso dalla curiosità che la conversazione di poco prima aveva acceso in lui. Il tipo con i capelli grigi gli aveva messo in moto qualcosa nello stomaco, una sorta di ansia di fondo, un'insicurezza data da qualche emanazione di quello strano personaggio. Era così sicuro di sé, così interessante, eppure non riusciva a capire né chi fosse oltre la recitazione sfacciata né cosa lo agitasse tanto di lui. Voleva sapere, voleva capire, voleva vedere fino a che punto potesse dire di combaciare con quello sconosciuto. Ormai da qualche tempo aveva sviluppato la teoria, più inconscia che intellettuale, che i rapporti tra le persone fossero regolati dalla ricerca di sé nell'altro.

Voltandosi non si sorprese di notare gli occhi al cielo di Valentino, reazione alle parole di Adrian che qualche minuto prima, con il suo muto assenso, aveva definito ipocrite. Si aspettava un simile moto di disapprovazione, benché scherzoso; la teatralità di Valentino doveva per forza nutrirsi di qualche copione, e a Michele quello sembrava familiare. Senza preavviso alcuno, come fossero amici di lunga data, i due si scambiarono uno sguardo d'intesa caldo e complice, lungo abbastanza da sciogliere una tensione di cui fino a un momento prima non si era accorto dell'esistenza.

Nel giro di un secondo Adrian si era già rivolto verso di lui, lasciando Eleonora boccheggiante di fronte a tanta figaggine, mentre Vale aveva distolto lo sguardo e ripreso a guardare il suo amico ondeggiando sulle lunghe gambe.

“Adrian, piacere. Ma... cos'è quella roba che hai in testa? Hai la febbre?”

Michele si tastò la fronte, ricordandosi solo in quel momento del fazzoletto bagnato con cui Ele l'aveva costretto a tamponarsi la fronte e che fino a quel momento era rimasto legato intorno al capo, scaldandosi fino a perdere tutta la sua utilità.

“Ehm... no. Mi sono sentito male per il caldo.” Sulle ultime parole, quando Adrian portò in avanti il lungo braccio flettendone i muscoli per scacciare un insetto, soffocò in un conato d'invidia. Occhiali e scarpe esclusi, si ritrovava davanti al tipo d'uomo che lo faceva piangere la sera, prendendosi a pugni le cosce fino a non sentirle più e sognando di avere un corpo forte, maschile, solido come quello che aveva davanti agli occhi in quel momento, così tangibile da dare la nausea.

Oltre ad essere alto e snello aveva un bel viso sorridente, sopracciglia dritte sugli occhi nocciola e un innocentissimo paio di fossette incastrate tra le lentiggini. Era affascinante, bello in modo molto semplice e pulito, e anche se aveva i modi e le movenze di chi è ben consapevole del proprio aspetto non dava, di primo acchito, l'impressione d'essere arrogante.

Nonostante l'invidia, qualcosa nell'allegria di Adrian salvò il suo umore prima che precipitasse. “Mi chiamo Michele, comunque.”

Il suo interlocutore non sembrò stupito. Cazzo, sono passato anche con lui. Oggi è il mio giorno fortunato. “In che senso sei stato male? Oddio, povero.”

“Nulla di grave, un colpo di calore. Ora sto meglio... mi fa solo un po' male la testa.”

“Se dire cose senza senso non è nulla di grave...” Valentino ridacchiava a fianco di Adrian, tenendo un braccio sulla sua spalla nonostante fosse più basso di lui di qualche centimetro. Erano completamente diversi, ma sembravano in gran sintonia, e una volta ogni tanto si scambiavano qualche sguardo ridente. Chissà da quanto si conoscevano. “Lo ammetto, un po' mi ha fatto impressione”, disse rivolto più ad Adrian che a Michele. Il suo amico biondo, di rimando, gli sorrise in modo strano.

“Beh, non sembravi proprio tanto sconvolto”, replicò Michele, notando il tono vagamente derisorio dell'altro. Cercò di non dare a vedere quanto fosse piccato dal suo comportamento e dalla situazione umiliante.

Ele non lo aiutò nei suoi intenti, portandosi le mani alla bocca in un gesto esagerato, da fumetto, solo senza un GASP! scritto accanto. “Veramente dicevi cose senza senso? Oh Gesù, mi dispiace tanto! Non dovevo lasciarti da solo... mi dispiace mi dispiace mi dispiace!”

Gli andò vicino e tento di abbracciarlo, gesto che lui eluse prendendole le mani tra le sue in una stizza controllata. “Eleonora, ti prego, tranquilla. Non dire queste cose. Non è che se tu ci fossi stata mi avresti salvato... da cosa, poi?” Sospirò lasciando la presa. “Sto bene. Non capisco perché tu insista per farmi andare in ospedale. Anzi, guarda, ho cambiato idea. Non ci vado più, mi sono rotto le palle. E non sono il tipo da scroccare passaggi per niente.”

“No, no, ci devi andare!”

“Concordo con lei. Non sei un peso, caro, mi piace conoscere gente nuova. E poi devo portare a casa una ragazza che vive vicino al Sant'Anna.”

Ele sembrò confortata dal fatto che Adrian fosse d'accordo con lei. “Eddai, Michi! Fallo per me. Mi sento troppo in colpa.”

“Non me la sento, Ele.”

“Guarda che non devi obbligatoriamente chiamare i tuoi, eh.”

“Ok, però mio padre al pronto soccorso del Sant'Anna ci lavora. Mi sentirei una merda se dovessi dirti di sparire per non insospettirlo.”

“Me ne frega zero! So che sei figlio di Satana e Belzebù, mica mi offendo.”

Michele ridacchiò e rifletté qualche secondo. La possibilità di trovare suo padre era infima, dato che il pronto soccorso vedeva entrare e uscire dalle sue porte qualche migliaio di persone ogni giorno.

“Ok, dai, ti faccio questo favore. Magari mi danno anche qualcosa per il mal di testa.”

“Bravo ragazzo”, disse Valentino, che fino a poco prima si era tenuto in disparte. “Anche mia madre lavora al Sant'Anna, è un'infermiera.”

“Davvero? Mio padre è un chirurgo. Ricuce quelli che arrivano lì d'urgenza, persone che hanno fatto incidenti e quant'altro. Cose sanguinose.” Secondo me è per questo che è uno schizzato, aggiunse mentalmente.

Valentino lo guardò per la prima volta con autentica curiosità. Fino a quel momento aveva assunto l'atteggiamento noncurante di chi è poco interessato alle altre persone e alle situazioni estranee a sé, ad eccezione che con Adrian, a cui erano dedicati battute e sguardi allusivi intenzionati a farlo ridere. Ora che aveva scoperto qualcosa di più su Michele invece aveva rizzato le orecchie, e a giudicare dallo sguardo neutro e assorto che gli rivolse stava macinando qualche pensiero in testa, come se fosse diventato tutto ad un tratto un soggetto degno di nota.

Più lo guardava, meno questo Vale gli sembrava decifrabile. Dall'abbigliamento temeva fosse un hipster, ma non ne era sicuro; gli hipster di solito gli stavano sulle palle dal primo sguardo.

“Allora, c'è una microscopica probabilità di farci dare un passaggio per casa o devo perdere le speranze?”

Una ragazza riccia e minuta spuntò dalla calca reggendo un borsone pieno di roba – bandiere, cartelloni, volantini e una cassa altoparlante. Si accompagnava a una coetanea col capo chino sul cellulare, alta, zainomunita e rossa di capelli, che nella distrazione le urtò una spalla facendole volare via qualche dépliant.

“Cazzo, Edith, potresti avere la decenza di aiutarmi invece di stare su Whatsapp!”

Edith? A Michele quel nome era familiare.

“Non rompere, sto cercando di scrivere a Fede.”

“Non mi interessa! Raccogli quei fogli e dammi una mano!”

Poi la ricciolina posò la borsa a terra e si precipitò ad abbracciare Adrian, volandogli al collo come un passerotto. “Adrian bello! Ti sei divertito oggi? Scusa se non sono stata molto presente, ho avuto parecchio da fare.”

“Tranquilla, Dani, vivo anche senza te che mi ronzi intorno. Guarda caso spunti giusto in tempo per scroccare un passaggio, eh?”

“Pensi sempre male. Cazzo, scusami!” La ragazza era ridiscesa in un balzo atterrando su un piede dell'amico, che aveva emesso un lamento di dolore. “Te lo giuro, ho finito ora di raccogliere la roba. Non arrivo a farti compagnia solo per farmi riportare a casa.”

“Ti credo, ti credo. Il piede mi serve per frenare, però.”

La rossa Edith, nel frattempo, aveva rimesso nel borsone i dépliant volati via e aveva riposto il cellulare. Si guardava intorno annoiata, facendo un cenno con la mano ogni tanto a persone che la salutavano.

“Ciao, ragazzi!”, salutò caldamente Adrian e Vale una volta che Dani si fu defilata.

Michele ebbe qualche secondo per riconoscere quelle membra allungate. Erano molto diverse da come se le ricordava, rese dagli anni più affusolate di come apparivano nei suoi ricordi, ma quando la osservò in viso i suoi grandi occhi verdi non gli lasciarono dubbi.

Prima ancora che potesse richiamare la sua attenzione fu lei ad alzare la testa, notarlo lì in piedi e emettere un grande strillo.

“MICHI!”


 


 


 

Le sopracciglia di Edith avevano sempre avuto una forma particolare, accentuatasi col crescere della ragazza; scendevano austere e spesse sugli occhi e verso l'esterno curvavano dolcemente verso il basso, in contrasto con le labbra sottili con gli angoli sempre all'insù.

Mentre i due amici chiacchieravano nella Panda sovraffollata di Adrian, gli scatti espressivi di quelle sopracciglia cullarono Michele tra risate e ricordi d'infanzia, vissuti con quella che era stata la sua storica migliore amica dal primo giorno di scuola prima elementare.

Lui e Edith avevano sempre frequentato la stessa classe, dalle elementari alle medie, e avevano sempre abitato nella stessa via; entrambi provenivano da famiglie benestanti ed entrambi erano nati con un certo spirito da ribelli combinaguai. Tra loro c'era stata la classica amicizia tra bambini con caratteri e vissuti molto simili, partita da una litigata per finire in associazione a delinquere: tutte le punizioni inflitte dagli insegnanti, le lamentele sulle regole imposte dai genitori e le risse tra compagni di classe le avevano vissute fianco a fianco, facendo a botte di tanto in tanto ma sempre stimandosi a vicenda. Per lui Edith, che quand'erano bambini tutti chiamavano Eddi, era un'amica e una complice, di cui ammirava la spavalderia e l'irruenza, tanto diversi dalla sua ritrosia. Lei era quella che lo spingeva a ribellarsi alla sua famiglia e alla scuola – con disastrose conseguenze, sì, ma tanta soddisfazione; gli aveva fatto conoscere i Green Day e la musica house in prima media, coi primi bagliori della ribellione adolescenziale, e l'aveva incitato a prendere in mano il basso elettrico per formare una band. Il progetto della band era poi andato in fumo, mentre la passione per il basso a Michi era rimasta.

L'aveva spesso calmata dopo i litigi con i suoi genitori, quando la rabbia non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. In poche cose differivano, e una era l'attitudine il proprio ceto sociale: Edith era convinta che i suoi genitori fossero dei bigotti a causa della loro mentalità borghese, e da ragazzina, quando litigava con loro, ribadiva sempre quanto le facesse schifo l'ipocrisia dei suoi famigliari. Un giorno suo padre, un imprenditore di una certa importanza, si stancò e decise, visto che “il modo in cui portava a casa i soldi la disgustava tanto”, di non concederle più alcun lusso. Niente paghetta, niente videogiochi e niente abiti costosi; minacciò di mandarla in collegio se non si fosse calmata.

Michele le fece un gran discorso filosofico per cercare di calmarla, perché secondo lui non si diventa stronzi essendo ricchi e cattolici, un po' lo si nasce. Di certo crescere in ambienti ultraconservatori non aiuta, ma “se tutti quelli nati in famiglie abbastanza ricche sono stronzi in automatico”, le disse, “vuol dire che noi siamo stati adottati”. Cercava di capire i suoi genitori, apprezzando tutte le cose che gli avevano dato – la bella casa, tanti vestiti, playstation e l'agognato Fender Jazz Bass – e per cui avevano lavorato sodo; non credeva che la sua famiglia fosse poi tanto diversa da quella di molti suoi amici. Mal sopportava di dover curare la sua reputazione, mentendo su tutto e dovendo dare l'immagine di una ragazzina perfetta ed educata, ma era un fastidio che riuscì a tollerare fino a una certa età.

Michele si era pure invaghito di Edith, in terza elementare. Dalla timidezza non gliel'aveva mai detto e la faccenda era finita per sempre inscatolata nella sua soffitta mentale, nell'angolino buio e polveroso delle cose imbarazzanti. Ricordandosi di quella cotta, in seconda media, si era reso pienamente conto del fatto che gli piacessero le ragazze.

Dopo la prima superiore i genitori di Edith, che avevano iniziato a viaggiare molto per lavoro, decisero di affidare la giovane scalmanata e il fratellino alle cure dei nonni. Edith partì per la Svizzera. L'ultima volta che lei e Michele si videro fu una calda sera di luglio, infestata dalle zanzare. Presero un gelato, chiacchierarono come al solito e il giorno dopo, senza preavviso, lei lo chiamò piangendo dal treno. “Sto andando in Svizzera, Michi. Odio quei due stronzi.”

Non si videro più. Durante i primi mesi di lontananza si sentirono tutti i giorni su Facebook, poi poco alla volta i contatti si diradarono fino a sparire del tutto, dispersi nei duecento chilometri che li separavano.

E ora Edith era lì, senza più le guance paffute e la lunga treccia di un tempo, ma con un taglio corto, grandi occhiali da sole e il cipiglio deciso di una donna forte. Era cresciuta.

Michi la guardava con gli occhi spalancati, sorridendole felice. Malgrado l'imbarazzo e il sottile velo di distanza, Edith era sempre la stessa. Tutte le sue movenze gli riportarono all'improvviso alla mente i ricordi più disparati, dall'odore della mensa alle elementari ai pigri pomeriggi preadolescenziali passati a masticare cicche e atteggiarsi a emo.

“Ma quando sei tornata? Perché non mi hai cercato prima?”

“Sono qui da settembre, mi hanno rispedita a Brescia perché mia madre ha cambiato lavoro. Non viaggia più tanto, quindi ora ha tempo per prendersi cura di me e Andrea, che ora va alle medie... è diventato uno scassaminchia, sai?”

Michele ridacchiò. Il fratello minore di Eddi gli era sempre stato simpatico. “Che scuola fai?”

“Lo scientifico. Sono in classe con lei”, disse indicando la ragazza di nome Dani, seduta alla sua destra, “e Vale va in quinta nella stessa scuola.”

“Vale? Vale cosa?”, chiese l'interessato, girandosi verso di loro dal sedile del passeggero.

“Dicevo a Michi che andiamo a scuola insieme. Sai che eravamo migliori amiche quand'eravamo piccole? Era da anni che non ci vedevamo.”

L'abitacolo si fece silenzioso come dopo una pessima battuta, dopodiché Valentino, facendo finta di nulla, riprese a chiacchierare con Adrian ad alta voce.

“Eddi, mi sono dimenticato di dirti una cosa importante.” Michi aveva storto la faccia in un'espressione di imbarazzo, sentendo lo stomaco torcersi come un panno bagnato.

“Che c'è?”

Sputò fuori tutto il coraggio che aveva, ignorando la tensione. “Sono trans. È una storia lunga da spiegare ora, comunque sappi che sono un ragazzo, ecco tutto. Mi faccio dare del maschile da un annetto circa e tutti quelli che mi conoscono fuori dalla famiglia mi chiamano Michele.”

Ci fu qualche istante di silenzio in cui Michi mise su un cipiglio duro, un muro su cui far schiantare il biasimo di Eddi nel caso si fosse manifestato.

Lei, infatti, aggrottò la fronte per qualche secondo. Lo guardò negli occhi, imperscrutabile, per un lasso di tempo in cui Michele potè solo tacere, guardare altrove e lasciare che un velo di sudore gli appiccicasse la maglia alla schiena.

“Perché non me l'hai detto prima?! Mi hai fatto fare una figura di merda.”

La sua amica d'infanzia gli sorrideva con candore, facendolo sentire un completo imbecille. Di cosa si preoccupava, alla fine? Ogni anno sempre più persone aprivano la mente alle diversità sessuali, non aveva senso prendersi un coccolone ogni volta che confessava a qualcuno di essere transgender. I suoi compagni di classe non avevano reagito nel migliore dei modi, era vero, continuando a dargli del femminile e guardandolo allarmati se si azzardava a posare innocentemente gli occhi su di una ragazza, ma non l'avevano nemmeno insultato o picchiato. E ora la sua amica l'aveva accettato come nulla fosse.

Scoppiò a ridere, sentendosi in colpa per aver sospettato dell'apertura di vedute di Eddi.

“Sei sempre il solito.”

 


Buonasera, gentili lettori.
Il capitolo di oggi, in realtà, l'ho finito un paio di settimane fa, ma ho avuto tempo di metterlo online  solo oggi causa scuola e stanchezze varie.
Non ho molto da aggiungere, se non: vi vedo, lettori silenziosi! So che una quindicina di persone segue la storia e qualcuno l'ha addirittura messa tra i preferiti, ma non vedo molti commenti... vi prego, recensite. Non è che se non lo fate non continuo la storia, no, non sono il tipo da ricattare la gente in questo modo e in ogni caso ho intenzione di finire la storia a prescindere dal suo seguito. Però... ecco, le recensioni mi renderebbero felice e scrivo più volentieri se so che qualcuno attende aggiornamenti e si è appassionato alla fic. Quindi, please, lasciate un piccolo commento! E ricordate che sottolineando i miei punti di forza e -- soprattutto -- i miei errori mi aiutate molto ad alzare il livello della storia.
Passate una buona serata, folks.
- Knet

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