Schegge di vetro

di Elrais
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Centro di Controllo ***
Capitolo 2: *** Adescamento ***
Capitolo 3: *** Aggancio ***
Capitolo 4: *** Tempistiche ***



Capitolo 1
*** Il Centro di Controllo ***


Capitolo I: Il Centro di Controllo


Gli echi si susseguono lungo gli interminabili corridoi immacolati. Sale, uffici, androni candidi e pieni del rimbombare di passi; passi tutti uguali, solo sfalsati nel ritmo.
Mobili bianchi senza un granello di polvere; porte dello stesso colore, tutte rigorosamente chiuse; mura a vetri lucidi e trasparenti, perfettamente in grado di lasciar vedere il mondo di fuori.

Se solo fuori ci fosse qualche mondo da vedere.

Il Palazzo principale del Centro di Controllo è proprio questo: un’enorme costruzione posta in mezzo al nulla, perché il nulla è tutto ciò di cui hanno bisogno i suoi abitanti.
Controllori, così vengono chiamati: creature eteree, il cui unico scopo all’interno dell’Universo è assicurarsi che le Leggi di Natura non vengano infrante. Esseri pallidi, immacolati come il palazzo che abitano; si muovono all’interno di corridoi diritti, aprendo e chiudendo le porte, prendendo documenti, sussurrando a mezza voce.
Gli unici rumori sono gli echi delle loro scarpe nivee sui pavimenti di marmo.
È un andamento confuso, un rincorrersi e ritrovarsi di suoni che sembrano destinati a rimanere confinati lì, nei metri cubi di quell’edificio, correndo in circolo per l’eternità.

Se tu, lettore, avessi potuto sbirciare in questo palazzo circa dodici anni fa, avresti riconosciuto, tra i vari ticchettii, un picchiettare più veloce e più lieve.
Un passo stonato.
Forse avresti seguito questo suono disarmonico, avvicinandoti sempre di più alla sua origine, e avresti visto una creatura esattamente identica alle altre centinaia di Controllori all’interno dell’edificio: stessi capelli candidi e lisci, stessa pelle lattea, stessi occhi vitrei, privi di iridi.
Creatura simile a tutte le altre.
Solo quella leggera stonatura nei suoi passi.
Forse ti saresti avvicinato e avresti udito i passi stonati bloccarsi improvvisamente: avresti visto la creatura fermarsi davanti ad un’alta porta a due battenti – candida quanto il muro – e tentennare, prima di bussare due volte. Avresti osservato la porta aprirsi…
Se vuoi continuare a sbirciare nel passato, lettore, allora permettimi di farti da guida.
 
Dodici anni fa.

Bussò due volte, la porta si aprì.

“Comandate, Signore.”
Dietro una scrivania – immacolata anch’essa, si capisce – era seduta un’altra creatura, gli occhi vitrei fissi su un plico di fogli posto davanti a sé; nulla all’interno dell’asettica stanza lasciava intendere quale fosse il suo grado.
 “Siediti, Sahira. Ho un caso per te.”
Il tono della voce dimostrava l’attitudine al comando. Si sarebbe potuto dire che fosse una voce maschile, se il concetto di uomo o donna avesse un senso, tra i Controllori; se fosse un adulto o un vecchio, invece, sarebbe stato impossibile da definire. Ma questo non importa: la vita eterna di queste creature non conta gli anni.
Il Controllore pose davanti all’essere di nome Sahira il plico di fogli, che frusciò ovattatamente tra le sue mani. Questa scorse velocemente il rapporto sul caso, ponendo alla sua sinistra, l’uno sopra l’altro e senza sgualcirli, i fogli che man mano leggeva.

Il superiore osservava i movimenti fluidi della creatura. “In questo documento sono presenti tutte le informazioni che potrebbero esserti utili; io stesso ti esporrò brevemente la situazione, ma potrai riflettere con calma sul da farsi e decidere se accettare o meno il caso. Ad ogni modo, gradirei mi dessi una risposta entro domani. Se accetterai l’incarico, dovrai tenere sott’occhio i diretti implicati, prima dal Centro di Controllo, poi personalmente. Qualora ci fosse la necessità di infiltrarti all’interno di quel mondo, dovremo cominciare immediatamente le procedure necessarie.” L’uomo prese delle carte da un cassetto alla sua destra. “I nostri laboratori ti forniranno tutto ciò che ti serve: documenti, lenti a contatto, false identità. Dovrai compilare anche tutta la modulistica necessaria. La burocrazia in questi casi è straziante, ma è meglio che ti ci abitui presto.”
Sahira annuì, impassibile, lo sguardo fisso sulle carte davanti a sé: aveva i tratti delicati e le ossa minute. Osservandola, si sarebbe detta una creatura  di vetro, proprio come il Palazzo attorno a lei. Aveva una voce sottile, di quelle che, sulla Terra, hanno le ragazze prima di diventare donne.

“Bene, cominciamo.” Il superiore si appoggiò allo schienale della sedia. “I due mondi in questione sono quello degli Umani e quello degli Shinigami, due pianeti gemelli legati da un vincolo di necessità: infatti, gli Dei della Morte non possono vivere senza gli Umani.”
Sahira alzò lo sguardo dai fogli. “Sì, mi ricordo. Se non sbaglio, gli Shinigami sono creature senza scopo, Dei della Morte che ormai hanno perso da millenni la ragione per cui vivere. Questi Shinigami posseggono un quaderno, chiamato Death Note in inglese, una delle lingue più usate sulla Terra: se su di esso si scrive il nome di una persona della quale si conosce il volto, questa muore.”

“Precisamente.”

Il Controllore donna sentì le membra di vetro rilassarsi, mentre raddrizzava la schiena, rinfrancata. Continuò: “Gli Shinigami utilizzano questo quaderno per sottrarre anni di vita agli Umani; infatti, se non ricordo male, gli Dei della Morte non hanno un’immortalità garantita, come noi Controllori, ma continuano a vivere in eterno uccidendo di tanto in tanto qualche Umano col loro Death Note, e rubandogli la vita. Era questo che intendeva, quando ha detto che i loro mondi sono legati da un vincolo di necessità?”
“Sì, intendevo proprio questo. Tuttavia, nonostante il legame tra queste creature sia forte, gli Umani non hanno idea dell’esistenza degli Shinigami. Non sanno di essere considerati alla stregua di cibo.”
Il superiore si sporse in avanti, allungando la mano verso il dossier posato sul tavolo. “Ma non è sempre così. A volte, capita che un Dio della Morte decida di far cadere il proprio quaderno sul mondo degli Umani, sconvolgendo gli equilibri.”

Aprì il documento: la prima pagina conteneva la foto di un Umano di circa diciassette anni, Light Yagami. “È uno studente modello,” cominciò , “uno dei ragazzi più intelligenti del Giappone. E proprietario del Death Note che uno Shinigami, tal Ryuk, ha deciso di far cadere sulla Terra.”
Sahira aggrottò le sopracciglia, perplessa, ma subito rispianò la fronte. I Controllori non mostrano dubbi, pensò. Tornò a guardare il suo superiore, cercando di assumere un tono neutrale: “Ma non mi risulta che questa sia un’infrazione al regolamento. Le leggi degli Dei della Morte prevedono che questi facciano cadere i propri quaderni sulla Terra, quindi non mi sembra che il Centro di Controllo debba intervenire, in una situazione del genere.”
“Hai ragione. Infatti non è per questo che il caso è arrivato fino a noi.”

Il Controllore donna rimase in silenzio, mascherando la curiosità. Non avrebbe dato modo al suo superiore di rimproverarla, non quella volta. Troppo spesso mostro le mie emozioni, pensò, anche solo l’entusiasmo per un nuovo caso. Devo evitarlo, un buon Controllore resta impassibile.
Stava per aprire nuovamente la bocca per parlare, quando un delicato bussare alla porta la fece voltare: i due battenti si spalancarono, rivelando una figura alta e nota. Capelli nivei, occhi di vetro e portamento sicuro.

Elburn.

Sahira osservò il nuovo arrivato senza mostrare alcuna sorpresa. Tutto ciò che poteva provare era incastrato nella morsa della sua mascella contratta.
“Ho iniziato ad illustrare la situazione a Sahira”, disse il superiore, facendo cenno al nuovo Controllore di sedersi, “tu ne eri già informato, quindi ho pensato di cominciare.”
“Benissimo.”
Voce profonda e priva di inflessione; i tratti perfetti non possedevano alcun elemento di riconoscimento. Una maschera neutra, pensò Sahira. E ciò che si mosse nel suo cuore a quel pensiero era stranamente simile all’invidia.

“A quanto pare, Light Yagami ha deciso di utilizzare il quaderno della morte per estirpare tutti i criminali dal suo mondo” continuò il Controllore più esperto, spostando lo sguardo alternativamente dall’uno all’altro sottoposto, “uccide indiscriminatamente sia quelli che già scontano la loro pena in carcere, sia quelli ancora in libertà; inoltre, ha causato la morte di tutti i delinquenti  tramite attacco cardiaco, tanto che persino nel suo mondo si sono accorti che quelle morti non possono essere una casualità. È nata una specie di leggenda attorno ad un giustiziere che agisce nell’ombra, chiamato Kira dalla popolazione, e che Light Yagami continua ad interpretare facendosi portatore della Giustizia Divina.”

Sahira represse uno sbuffo, contrariata. “Anche qui, non capisco cosa possa fare il Centro di Controllo. Una volta ricevuto il quaderno, l’Umano è libero di utilizzarlo come preferisce, indipendentemente dalla correttezza delle sue azioni: se Light Yagami ha deciso di estirpare il male dal suo mondo in quel modo, noi di certo non possiamo intervenire.”
Il superiore alzò le sopracciglia, facendole desiderare di non aver mai parlato. “Quel che dici è vero, Sahira, ma, di nuovo, non è per questo che il caso è arrivato fino a noi. Ti pregherei di essere meno frettolosa.”
Accanto a lei Elburn taceva, impassibile; Sahira si incassò nelle spalle.

Il Controllore voltò nuovamente pagina, stavolta mostrando la foto di una ragazza giovane e minuta, Misa Amane. “Al momento risulta orfana di entrambi i genitori, che sono stati uccisi da un rapinatore circa un anno fa. Misa si è trasferita nella capitale del Giappone, Tokyo, dopo che tale rapinatore è stato giustiziato da Kira; così, piena di riconoscimento, ha deciso di conoscere questo fantomatico Giustiziere Divino e aiutarlo nel suo piano di purificazione del mondo. Ora cominciamo a entrare nel vivo.” Il superiore si tirò indietro, appoggiandosi nuovamente allo schienale della sedia senza emettere alcun suono; neppure i mobili scricchiolavano, all’interno di quel palazzo. “Misa Amane era già tenuta sotto sorveglianza a seguito della morte di uno Shinigami, Gelos: questo Dio della Morte aveva cominciato ad osservare la ragazza dall’alto del suo mondo e se ne era innamorato.
Una sera, mentre tornava a casa, Misa era stata minacciata da un ubriaco: la fine della vita della giovane era fissata per quel giorno, per opera di quell’uomo. Gelos, allora, aveva scritto il nome del potenziale assassino sul suo Death Note, uccidendolo e salvando la vita della ragazza.”

Ora le cose cominciano a quadrare, pensò Sahira.

“Da qui in poi, Elburn potrà illustrarti la situazione” dichiarò il superiore, facendo un cenno verso il sottoposto.
Questi si volse verso Sahira, guardandola con gli occhi privi di iridi e di qualsiasi calore. Due candidi buchi neri.
“Come sai, una delle Leggi di Natura impone che gli Shinigami non debbano, per nessun motivo, provare sentimenti di affetto nei confronti degli Umani” pronunciò lentamente, la voce inespressiva, “e, qualora utilizzino il loro quaderno per allungare la vita di un Umano per il quale provano simpatia, muoiono. Per gli Dei della Morte, gli Uomini non devono essere altro che serbatoi di anni di vita.”

“Le Leggi di Natura sono in grado di farsi rispettare da sé, in certi casi” mormorò Sahira, senza staccare gli occhi dal collega.

“È vero, infatti lo Shinigami Gelos è morto istantaneamente, trasformandosi in polvere e sabbia. Ma, nonostante la Legge di Natura sia stata vendicata, situazioni del genere implicano che il primo stadio del Centro di Controllo tenga sotto stretta sorveglianza la causa dell’infrazione, in questo caso Misa Amane.” Elburn inclinò leggermente la testa di lato. “Il problema è sorto poco dopo.
Alla morte di Gelos ha assistito una Shinigami femmina, Rem, la quale ha raccolto il quaderno del Dio della Morte e ha iniziato ad osservare Misa Amane dall’alto del suo mondo; quindi è scesa nel mondo degli Umani e ha consegnato il Death Note di Gelos alla ragazza, ritenendo che fosse suo di diritto.”

Sahira volse lo sguardo alternativamente da Elburn al superiore. “Questo vuol dire che sulla Terra ci sono ben due Quaderni della Morte. E se Misa Amane voleva aiutare Kira nel suo progetto di purificazione del mondo…”

“Esattamente.” Il Controllore di grado più alto riunì le mani in grembo: mani lunghe, affilate come artigli, dalla pelle quasi trasparente. “Misa, con uno stratagemma e grazie all’aiuto di Rem, è riuscita ad avvicinare Light Yagami e a incontrarlo, proponendogli di unire le loro forze e dichiarandosi, in maniera totalmente inaspettata, innamorata di lui. A quanto pare, il ragazzo all’inizio è stato recalcitrante: non sapeva quanto potersi fidare di lei e come sfruttarla senza che gli creasse problemi. Durante una discussione, Light ha minacciato Misa di morte qualora non avesse fatto quanto lui le avesse ordinato.”
Il superiore fece una pausa; Sahira pendeva dalle sue labbra.
“E allora, Rem si è schierata: se Light avesse anche solo sfiorato Misa, la Shinigami avrebbe scritto sul suo Death Note il nome del ragazzo, uccidendolo.
Sahira trattenne il respiro: quello era il classico caso in cui veniva richiesto l’intervento del secondo stadio del Centro di Controllo, di cui lei faceva parte.

Spesso, come in questo frangente, era possibile prevedere una infrazione delle Leggi di Natura. Non c’era la certezza che Rem avrebbe effettivamente ucciso Light, ma una minaccia bastava per allertare i Controllori, i quali avrebbero cominciato una sorveglianza più stretta.

Il superiore sfogliò di nuovo il dossier, mostrando un’ulteriore foto. “L Lawliet, ventiquattro anni, detective di fama mondiale sulla Terra. Il suo volto ed il suo vero nome non sono conosciuti da nessuno, gli stessi agenti della polizia che hanno collaborato con lui fino ad ora si sono limitati ad eseguire ordini impartiti attraverso un pc. Per la prima volta, nel seguire questo caso, ha deciso di far conoscere la propria identità a poche persone fidate.”
Il Controllore tacque un istante, lo sguardo fisso sulla fotografia. Sahira lo guardò, incuriosita: sembrava che quell’Umano attirasse l’attenzione del suo superiore, cosa decisamente rara. Questi continuò, la voce invariata nella sua atonia: “Orfano, con un quoziente intellettivo straordinariamente alto, è riuscito a restringere il campo degli indiziati fino a Light Yagami, ma non può arrestarlo a causa della mancanza di prove.”

“Mi sembra ovvio che non abbia prove” commentò Sahira, “non può neanche sospettare che dietro quegli omicidi si celi una forza sovrannaturale; senza contare che, stando sempre al rapporto, anche Light Yagami è un ragazzo con un’intelligenza mostruosa, quindi credo sia difficile coglierlo con le mani nel sacco.”

Il superiore si alzò, camminando lentamente attorno al tavolo di vetro. “Non ha prove contro Light, ma ne ha contro Misa.”
I due sottoposti lo osservavano seduti, perfettamente composti, muovendo solo lo sguardo; nessun rumore oltre ai passi che le scarpe del Controllore provocavano battendo contro il pavimento. Senza rendersene conto, Sahira si trovava a sbattere le palpebre quasi al ritmo di quei passi. “Lo stratagemma che Amane ha utilizzato per avvicinarsi a Kira ha lasciato delle tracce e L le ha seguite, arrivando a lei. La ragazza al momento è imprigionata, immobilizzata e bendata e sta venendo interrogata dal detective, il quale non sembra intenzionato ad andare per il sottile pur di farla parlare. Light si ritrova quindi in una situazione scomoda: L è arrivato ad un collegamento che porta a lui e soprattutto alla sua arma mortale. Se dovesse scoprire qualcosa sul Quaderno della Morte, per Kira sarebbe la fine.”
Il superiore si fermò di fronte ai due Controllori, le mani dietro la schiena. “Questo è quanto. Ho chiesto ad Elburn di essere il tuo supervisore, qualora tu decida di accettare il caso, Sahira.”

“Credevo che Elburn fosse già impegnato su un altro fronte…” ribatté lei, forse troppo frettolosamente.

Se il suo tonò stupì il collega, questi non lo dimostrò. “Lo sono, ma se mi venisse ordinato di seguirti, riuscirei a svolgere entrambi i compiti. Ovviamente.”

Sahira si voltò a guardarlo: la fronte liscia, gli occhi vuoti, perfettamente allungati; la bocca incapace di incurvarsi in un sorriso o in una grinza. L’essenza stessa del Centro di Controllo racchiusa in una sola creatura.
Tutto il rancore e l’invidia che i Controllori non dovrebbero provare furono racchiusi in un unico, veloce battito di ciglia. “Non preoccuparti, Elburn. Mi occuperò personalmente di escogitare un piano d’azione e te lo farò avere. Tutto ciò di cui avrò bisogno sarà la tua approvazione, poi mi muoverò da sola.”

“Ne sei sicura?”
Neanche una minima sfumatura di stupore.

“Assolutamente, se il nostro superiore è d’accordo.”
I due si voltarono verso il Controllore di grado maggiore, che aveva assistito in piedi, dietro la scrivania, allo scambio di battute. Questi alzò il mento, guardandoli dall’alto, pensieroso: “In genere, un Controllore che non ha mai lasciato il Palazzo non viene lasciato da solo durante un caso così complesso… Non immaginavo che Sahira avrebbe avanzato una richiesta del genere…”
Fece scorrere velocemente lo sguardo dall’uno all’altra; i due sottoposti non mossero un muscolo.
“D’altronde, Sahira ha dimostrato delle buone capacità e se tu, Elburn, non fossi costretto a seguirla personalmente durante la missione, potresti restare qui e continuare il tuo lavoro… è molto importante che tu termini il compito che ti è stato assegnato.”

“Lo so, Signore” rispose Elburn, “se me lo chiedete, sarò in grado di adempiere ad entrambe le missioni.”

Il superiore riprese a camminare, le mani dietro la schiena. “Forse…” disse piano, “forse, potremmo scegliere una via di mezzo: Elburn controllerà il piano d’azione di Sahira e la terrà d’occhio a distanza, senza seguirla fisicamente in missione. In questo modo, resterà a Palazzo per terminare il suo lavoro, ma Sahira potrà contattarlo in qualsiasi momento.” Si volse verso di loro. “Sì, credo che questa sia la soluzione migliore.”
Elburn annuì e il superiore fece un cenno col capo, segno che il colloquio era terminato. Il Controllore donna fece un rapido inchino in segno di saluto e raccolse i documenti che aveva davanti a sé, uscendo forse un po’ troppo in fretta.

§

Solo quando fu nuovamente nella sua stanza, Sahira riprese a respirare normalmente. Sistemò il plico di fogli sulla sua scrivania e si sedette, posando i gomiti sul tavolo e appoggiando la testa sui palmi delle mani.

Non era mai uscita da quel Palazzo.

Fino ad allora, la sua vita era stata costituita dalla luce abbagliante riflessa sui pavimenti di marmo della struttura, dai vetri limpidi che permettevano di vedere tutto e niente, dagli echi provenienti da altri Controllori come lei. Questo era tutto ciò che conosceva e le stava bene così. Davvero, non desiderava altro.
Tuttavia, sapeva anche che il suo lavoro – la sua ragione di vita, in realtà – prima o poi l’avrebbe portata fuori di lì. Le Leggi di Natura valevano in tutto l’Universo, ed erano davvero un’infinità, tanto che persino i Controllori più esperti a volte si confondevano; per questo doveva acquisire più esperienza possibile, visitando personalmente le varie Terre, conoscendone gli abitanti.
Non poteva permettersi di rimanere indietro nel suo percorso formativo: era nata per diventare un Controllore Principale, una delle cariche più alte all’interno di quel Palazzo e nessuno sfugge al proprio futuro. Tuttavia, era consapevole che le cose si devono guadagnare e questo pensiero le provocava ansia, nonostante il tempo non le mancasse di certo.
Aveva tutta l’eternità per diventare un Controllore Principale e per tutta l’eternità lo sarebbe rimasta. Non aveva motivo di temere lo scorrere degli istanti.
Sorrise tra sé e sé, pensando a quanto fosse buffa questa contraddizione, ma il sorriso fu represso quasi nello stesso momento in cui nacque. I Controllori non ridono, si ricordò. E non sospirano, cosa che invece lei stava per fare aprendo il plico di fogli posato sulla scrivania.
Avrebbe accettato qual caso, senza ombra di dubbio. La sua sfida maggiore, ora, sarebbe stata ideare un piano d’azione impeccabile, che oltrepassasse la fitta rete di controlli di Elburn.

Elburn.

Sahira si prese la testa tra le mani, affondando le dita affusolate tra i capelli sottili. I suoi sentimenti verso il collega passavano alternativamente dalla venerazione all’invidia più sfrenata: ammirava e allo stesso tempo bramava quella assoluta padronanza di sé, il suo essere un pozzo vuoto, senza neanche un po’ d’acqua che rimandasse l’immagine della luna.
Al contrario, il più grande ostacolo che separava Sahira da un avanzamento di carriera era proprio la sua assenza di imperturbabilità: col tempo stava imparando a dominarsi, ma l’espressione del suo volto e il suo tono di voce continuavano a tradirla. Il senso di frustrazione si impadroniva di lei ogni volta che avvertiva i muscoli del suo viso contrarsi, quando non avrebbero dovuto.
Il Controllore chiuse di scatto il plico, che si sparpagliò disordinatamente sulla scrivania, e osservò divertita la forma irregolare che le carte avevano disegnato sul tavolo. Fu solo questione di istanti prima che il suo cuore cominciasse a battere più velocemente: si affrettò a recuperare quei fogli e a porli uno sopra l’altro, facendo combaciare perfettamente gli angoli.

Il disordine non faceva parte della natura dei Controllori, lo sapeva bene. Tutto all’interno del Palazzo doveva essere perfetto, lindo, inappuntabile.
Il Centro di Controllo era la rappresentazione delle Leggi di Natura e Sahira non poteva permettersi di commettere errori così grossolani.
Il Controllore si alzò e si diresse verso uno schermo posto in un angolo della stanza; si accorse che le sue dita tremavano, mentre digitava i tasti per accenderlo, e si impose di calmarsi.

Il primo passo era l’osservazione a distanza.

Quando una pratica passava dal primo al secondo stadio del Centro di Controllo, tramite l’approvazione del rapporto da parte di un Controllore, questi cominciava la sorveglianza personale della situazione attraverso uno schermo puntato direttamente sul mondo in questione.
In alcuni casi, quelli più gravi, in cui c’era un rischio più imminente di infrazione delle Leggi Naturali, questa procedura veniva saltata e il Controllore si infiltrava direttamente in quel dato mondo; fino ad ora, però, Rem non aveva ancora fatto nulla contro Light Yagami, quindi Sahira intendeva tenere la situazione sotto controllo a distanza per un po’, prima di fare qualche passo affrettato.
Ad un tratto arrivò un rumore distorto, Sahira si accorse di stare trattenendo il respiro. Cercò di  concentrarsi su ciò che stava ascoltando e vedendo, mentre le immagini diventavano via via più nitide: un parco, di notte. Il rumore che il Controllore aveva sentito attraverso lo schermo era il frusciare leggero delle foglie sugli alberi.
L’inquadratura si fermò su Light Yagami che, con una felpa scura, si aggirava nel parco senza timore. Accanto a lui vi erano due Shinigami, l’uno tanto scuro quanto l’altro era chiaro. Entrambi innaturalmente alti, tenevano le lunghe ali membranose rattrappite dietro la schiena; uno dei due, quello più scuro, con grandi occhi di fuoco, aveva la bocca deformata in un perenne sorriso.

“E va bene, se mi prometti che ci sarà da divertirsi, lo farò. Ma sappi che mi dovrai delle mele, Light!”

Sahira sfogliò freneticamente il dossier che il suo superiore le aveva fornito, fino a trovare ciò che cercava: lo Shinigami che aveva parlato era Ryuk, quello che aveva dato avvio a tutto facendo cadere un Death Note sulla Terra. Per esclusione, l’altro doveva essere Rem.

“Che hanno intenzione di fare?” bofonchiò Sahira, socchiudendo gli occhi, “e soprattutto, quanti Death Note hanno?”

Infatti, oltre ai Quaderni della Morte personali, che gli Dei della Morte devono possedere obbligatoriamente, i due Shinigami ne avevano altri due in mano. Quello di Ryuk era probabilmente il Death Note che il Dio della Morte aveva fatto cadere nel mondo degli Umani e che Light aveva raccolto, ma quello di Rem? Secondo le leggi degli Shinigami, quel quaderno apparteneva a Misa per diritto di proprietà.

“No, non ci posso credere. Possibile che sia successo nel breve lasso di tempo tra il passaggio del rapporto al secondo stadio e l’inizio della mia supervisione?” si chiese Sahira, corrucciata.

L’unico modo in cui Rem avrebbe potuto recuperare il quaderno era inducendo Misa a rinunciare al diritto di proprietà su di esso; inoltre, in tal modo, ella avrebbe perso la memoria e non sarebbe stata d’intralcio a Light. Non avrebbe più potuto rivelare niente su Kira e sul Death Note, neanche volendo.
Sahira cominciò a torturarsi le unghie, ormai completamente dimentica dei suoi tentativi di mascherare le proprie emozioni.
Questa era un’altra infrazione alle regole: un Umano può decidere di rinunciare al Death Note, perdendo conseguentemente tutti i ricordi ad esso collegati, ma allo Shinigami era vietato influenzarlo nella scelta.
“Ormai è lampante, quello Shinigami è fuori controllo” mormorò piano, “rimarrò a guardare il tempo necessario per capire che intenzioni hanno ora che Misa ha perso la memoria, in modo da avere del vantaggio su di loro, dato che presumibilmente ne conoscerò i piani; poi mi introdurrò nel loro mondo.”

Interruppe bruscamente i propri pensieri: Light aveva iniziato a parlare.
Sahira rimase ad ascoltare, sempre più basita. Osservò i tre scambiarsi i Death Note e scrivere su di essi; vide Rem prendere uno dei quaderni e volare via.
Il piano che Light aveva proposto ai due Shinigami per sviare da sé i sospetti di L e contemporaneamente salvare Misa aveva dell’incredibile, doveva ammetterlo. Ma non era questo il punto principale: il suo problema, in quanto Controllore, era la docilità con cui Rem si era piegata agli ordini di Light, solo per salvare la ragazza che in quel momento era imprigionata.
Sahira si alzò in piedi, lo sguardo fisso sullo schermo e le labbra serrate.
Quel caso richiedeva che lei abbandonasse il Palazzo del Centro di Controllo per la prima volta e il più velocemente possibile.

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Capitolo 2
*** Adescamento ***


Capitolo II. Adescamento


Quel mondo era davvero rumoroso.
Sahira sedeva sul letto della stanza d’albergo di cui aveva appena preso possesso e la sua mano si muoveva avanti e indietro sulle lenzuola morbide; la luce del tardo pomeriggio filtrava tramite le tende tirate.
Attraverso le finestre chiuse giungevano i rumori della strada; tendendo l’orecchio, il Controllore poteva divertirsi a riconoscere le origini dei vari suoni: il clacson o il rombo del motore delle automobili, il vociare di un gruppetto di ragazzi, la voce metallica degli altoparlanti.
Era totalmente diverso da ciò a cui era abituata: in questo mondo i suoni avevano sorgenti ben definite, legate all’orecchio di chi ascoltava tramite un filo diretto. Nulla a che vedere con l’eterno rincorrersi degli echi all’interno del Palazzo.

La ragazza si riscosse dalle sue fantasie e si avvicinò alla scrivania in legno. Aveva scelto quell’albergo perché aveva bisogno di essere posizionata al centro di Tokyo e non troppo lontana dalla stazione dei treni, ma all’ultimo si era resa conto che, forse, per gli standard della ragazzina che stava fingendo di essere quell’hotel poteva risultare anche troppo lussuoso: la scrivania era elegante, con degli intagli attorno ai cassetti, e di fronte ad essa erano posizionate due sedie imbottite, ricoperte con un ricercato tessuto damascato; alle pareti, dei quadri rappresentavano vedute di colline verdeggianti. Da quel poco che era riuscita ad imparare sullo stile di vita degli Umani e dei Giapponesi in particolar modo, Sahira decise che quell’albergo era decisamente in stile Occidentale.
Sulla scrivania era posto un computer portatile. Il Controllore  si sedette – notando, senza riuscire a trattenere lo stupore, come i suoi passi venissero attutiti dalla moquette, senza produrre il minimo rumore – e accese il pc.

Era tempo di iniziare a lavorare.

Preparare quel piano le aveva rubato tre giorni, durante i quali si era documentata sulle vite, sulle abitudini e sul modus operandi di L e dei poliziotti che in quel momento lavoravano sotto le sue direttive. Il quartier generale era ristretto, constava di soli sei uomini, e questo aveva agevolato decisamente le sue ricerche.
Il Controllore aveva vagliato diverse alternative: la prima consisteva nell’andare direttamente da Rem e riportarla nel mondo degli Shinigami, dove avrebbe scontato la pena adeguata. Tuttavia, questa strada si era resa ben presto impercorribile: secondo le leggi degli Dei della Morte, lo Shinigami che avesse fatto cadere il Death Note sulla Terra o che lo avesse ceduto ad un Umano doveva restare accanto a questi; ciò stava a significare che Rem sarebbe dovuta rimanere per legge accanto al nuovo possessore del Death Note e Sahira non poteva costringerla a tornare nel suo mondo.
Inoltre, un ulteriore problema si era affacciato alla mente del Controllore: da quel che aveva potuto vedere, sia tramite il rapporto sul caso che attraverso l’osservazione a distanza, quella Shinigami non aveva paura della morte. Era plausibile, quindi, che se Sahira avesse cercato di costringerla con la forza ad allontanarsi da Amane, Rem avrebbe potuto usare il suo quaderno in anticipo, allungando la vita a Misa e uccidendosi di conseguenza.
Per questo il Controllore aveva deciso di seguire una strada indiretta, che l’avrebbe portata vicino a Light e, di conseguenza, la avrebbe avvicinata a Rem: si sarebbe infiltrata all’interno del quartier generale istituito per il caso Kira.
Da lì avrebbe seguito Rem come un’ombra, proteggendo le Leggi di Natura e, allo stesso tempo, cercando di modificare il modo di pensare della Shinigami. La sua presenza doveva essere discreta: il Dio della Morte non doveva immaginare di essere guidato sulla giusta via da un Controllore, o il rischio che reagisse d’istinto sarebbe stato elevato. Inoltre, l’indirizzamento della Shinigami doveva essere il più naturale possibile, senza forzature: lo scopo del Controllore era farle accettare spontaneamente la Legge di Natura, così che, una volta concluso questo caso, Rem non costituisse un pericolo neanche in futuro.

Tuttavia, arrivare fino al quartier generale senza farsi scoprire comportava una serie di problemi collaterali, ai quali in quei tre giorni il Controllore aveva cercato di porre rimedio; alla fine ne era nato un piano, una bozza di azione che era stata presentata ad Elburn.
Sahira ricordò la sensazione di gelo che le aveva percorso le vertebre, mentre gli occhi inespressivi del suo collega vagliavano le carte che lei gli aveva posto davanti, senza trascurare neanche una virgola. Alla fine si era limitato ad annuire e a porle il bracciale argentato che, in quel momento, Sahira portava al polso sinistro.
Sarebbe stata costantemente sotto sorveglianza. Non che la cosa le facesse piacere, ma sapeva che non potevano lasciarla fare completamente di testa sua, tanto più che quello era il suo primo caso al di fuori del Palazzo. Fino a quel momento, comunque, Elburn non aveva avuto motivo di riprenderla: aveva seguito pedissequamente la bozza d’azione che gli aveva presentato e che avrebbe dovuto farla avvicinare al quartier generale senza far insospettire i poliziotti.
Qualora tutto avesse funzionato a dovere, ovvio.
Sahira scacciò il pensiero con decisione e si mise all’opera, cominciando a battere velocemente le dita sulla tastiera.
Venti minuti dopo, visualizzò sullo schermo il file che le interessava: foto e informazioni sui dodici agenti dell’FBI che erano stati inviati in Giappone per investigare sul caso Kira e che il Giustiziere Divino non aveva esitato a far fuori. La perdita di dodici agenti innocenti aveva indotto il ritiro dell’FBI dalle indagini.
Questo file era conservato nei computer di due soli uomini, in quanto documento estremamente riservato: il primo apparteneva al capo dell’FBI, il secondo era quello di Watari, il braccio destro di L.
Sahira, grazie alle istruzioni ricevute dagli addetti dei laboratori del Centro di Controllo, aveva appena forzato la rete di protezione del pc del primo, nonostante tutte le informazioni contenute nel file non le servissero. Le aveva già.

Soddisfatta, si tirò indietro, appoggiandosi allo schienale della sedia e incrociando le braccia sul petto, con gli occhi fissi sul monitor.
Secondo i suoi calcoli, nel giro di un giorno e mezzo, al massimo due, le acque si sarebbero mosse; lei però non poteva attendere con le mani in mano, o in seguito avrebbe sollevato dei sospetti. Chiuse il file e il pc, prese in mano la cornetta del telefono e chiamò la reception. La voce gentile della receptionist le giunse ovattata:
“Salve, mi dica.”
“Salve, sono Annie Sunders, stanza 1472. Avrei bisogno di effettuare una chiamata esterna all’hotel.”
La receptionist, abituata a svolgere impeccabilmente il suo lavoro, non sembrò stupita per l’ingenua richiesta; anzi, quando rispose la sua voce trasudava gentilezza.
“Signorina, non si preoccupi, non c’è alcun bisogno di passare per la reception dell’albergo per effettuare chiamate all’esterno. Basta che lei digiti il prefisso che trova nelle indicazioni accanto al telefono e, dopo, il numero che intende chiamare.”
Sahira sentì il sangue affluirle nelle guance pallide, imbarazzata.
“Capisco. La ringrazio e scusi per il disturbo.”

Riattaccò velocemente. Aveva fatto la figura della stupida.
In quel mondo c’erano tante cose di cui ignorava l’esistenza; pensava di essersi preparata a sufficienza, ma evidentemente non era così.
Per la prima volta, fu sfiorata dal dubbio. In fondo, tre giorni erano pochi.
Si era trattata solo di una telefonata sbagliata, nulla di grave, ma se una sciocchezza del genere avesse compromesso la sua missione, in futuro? Non si sentiva più sicura di ciò che stava facendo.
La vita nel Centro di Controllo era atona e scontata: non era contemplata la presenza di errori o di imprevisti.
Ma qui non sono più nel Palazzo. Devo concentrarmi.
Fece un respiro profondo, poi riprese in mano la cornetta del telefono e compose un altro numero, preceduto dall’apposito prefisso. Il telefono continuò a squillare a vuoto. Riprovò: niente.
Ottimo, pensò il Controllore. Andiamo avanti.
Riprese il telefono e digitò di nuovo il prefisso, stavolta seguito da un numero diverso. Dopo appena due squilli, una voce maschile rispose:
“Pronto?”
“Salve, parlo con Sasuke Misora? Padre di Naomi Misora?”
“Sì… sì, sono io. L’avete trovata?”
L’agitazione dell’uomo era palpabile: Sahira la avvertiva nella sua voce, come se si trasmettesse attraverso i fili dell’apparecchio.
Sentì un improvviso groppo in gola. Quell’uomo non avrebbe avuto notizie di sua figlia, almeno non per il momento; quella telefonata serviva solo a lei, Sahira, per avere delle prove da poter mostrare in seguito. Avrebbe rigirato il coltello nella piaga, soltanto perché il suo piano non andasse in fumo.
Si accorse di aver aperto la bocca per parlare, ma il senso di colpa si era impossessato della sua gola e le impediva di emettere alcun suono. Deglutì.

I Controllori non provano pena o pietà, si disse. Fai il tuo lavoro senza sbagliare.

“Trovata? Cosa intende, signore? Naomi è scomparsa?”
“Lei non è della polizia?”
“No, signore. Il mio nome è Annie Sunders e sono la figlia di Nick Sunders, uno degli agenti dell’FBI che sono stati inviati in Giappone. Mio padre è stato ucciso da Kira.”
Sahira fece una pausa, arrotolandosi il filo del telefono attorno a un dito.
“Ho saputo che anche Raye è morto. Lo conoscevo, lui e mio padre erano amici. È stato grazie a loro che ho conosciuto anche Naomi.”

Il Controllore si morse un labbro, sperando che l’uomo non conoscesse alla perfezione tutti gli amici della figlia e del suo fidanzato.

“So che sua figlia era un ottimo agente dell’FBI, per questo volevo chiederle di aiutarmi a vendicare Raye, mio padre e tutti gli altri agenti innocenti uccisi. Volevo chiederle di aiutarmi a catturare Kira… Ho provato a chiamarla, ma il suo telefono non è raggiungibile.”

Ci fu un attimo di silenzio, interrotto solo dal respiro pesante dell’uomo dall’altra parte del telefono.
Poi questi parlò:
“Mia figlia era in Giappone, assieme a Raye… Era stato incaricato di indagare sul caso Kira, come tuo padre, mentre Naomi lo aveva accompagnato in qualità di civile. Voleva approfittarne per venirci a trovare… ma dopo che lui è morto, non abbiamo più avuto notizie di nostra figlia. Abbiamo denunciato la sua scomparsa, ma ancora niente.”
Sahira avvertiva la delusione e l’amarezza di Misora nel modo in cui strascicava le consonanti e nel tremolio leggero della voce.
L’agitazione aveva lasciato il posto al vuoto dell’attesa.
Il Controllore ebbe la visione di un uomo di circa sessant’anni e di sua moglie – nella sua mente, i due erano straordinariamente simili a Naomi così come l’aveva vista in foto, con capelli e occhi scuri – abbracciati, seduti su un divano in silenzio. Sahira li immaginò in un piccolo appartamento, forse con qualche foto di famiglia appesa alle pareti, intenti ad osservare un telefono posto di fronte a loro. Un telefono che non si decideva a squillare.
Avrebbe voluto dargli conforto in qualche modo, ma non c’era nulla che potesse consolarlo. Lei già conosceva la verità.

“E’ terribile… Mi dispiace averla disturbata inutilmente, signor Misora. Spero…” Sahira si costrinse a pronunciare quelle parole, “spero che Naomi torni presto a casa. Da parte mia, proverò a rintracciarla in qualche modo.”
“Ti ringrazio. Io e mia moglie stiamo aspettando. Arrivederci, Annie. Ah, un’ultima cosa…”
“Mi dica.”
“Mi dispiace molto per tuo padre. Non lo conoscevo, ma sono sicuro che era un agente valido ed è morto eseguendo impeccabilmente il suo lavoro. Sii fiera di lui.”
Per la seconda volta nel corso di quella telefonata, Sahira si ritrovò ad aprire la bocca a vuoto. Strinse le labbra, cercando di non dar peso all’immotivato senso di colpa che aveva ricominciato ad attanagliarla. Neanche l’avesse uccisa lei, quella ragazza.
“Grazie. Grazie, signor Misora. Sì, lo sono… sono molto orgogliosa di lui. È sempre stato un padre esemplare e… voglio assolutamente spedire sulla forca chiunque lo abbia ucciso in maniera così indegna…”
“Stai tranquilla, lo so. Non c’è bisogno di parole, se avessi la forza o le capacità farei la stessa identica cosa. Purtroppo sono solo un vecchio e tutto ciò che posso fare è attendere che qualcuno mi dica che fine ha fatto la mia bambina.”
Sahira poteva sentirsela in bocca, l’amarezza di quelle parole.
“Allora a presto, Annie.”
“A presto, signor Misora. La ringrazio di tutto.”

Finalmente, Sahira posò il telefono. Quella era stata la parte più facile del piano, eppure l’aveva psicologicamente devastata.
I Controllori non si occupano dei sentimenti, non familiarizzano con gli esseri che devono supervisionare. Non essendosi mai allontanata dal Palazzo, Sahira non aveva dimestichezza con il dolore, l’agonia o la morte.
“Non pensavo fosse così”, mormorò buttandosi a peso morto sul letto. La voce dell’uomo continuava a rimbombarle nelle orecchie. “Non ne avevo proprio idea.”

§

Sahira trascorse una notte agitata, ma l’indomani mattina aveva recuperato forza e determinazione; sarebbe stata una missione lunga e non poteva assolutamente permettersi di farsi abbattere dal dolore di un Umano del quale non avrebbe più saputo nulla.
Ed io vorrei diventare un Controllore Principale? pensò sarcastica, mentre si tirava sulla testa il cappuccio della felpa e scendeva in strada.
Ma, nonostante l’animo in subbuglio, quello che si ritrovò davanti agli occhi la distrasse immediatamente: le strade di quella città erano un tripudio di colori e suoni. Già il giorno prima era rimasta incantata dal caos, dal disordine delle persone che si confondevano le une con le altre, dai colori accesi dei vestiti che indossavano. Da dove veniva lei, il Palazzo del Centro di Controllo era l’unica costruzione esistente: in quella città, invece, case e grattacieli si sfidavano l’un l’altro a toccare le nuvole, petto contro petto, togliendo aria e respiro alle creature che camminavano ai loro piedi. Costringevano le persone a guardarli, attirando l’attenzione con scritte colorate e pubblicità abbaglianti.
Sahira si era portata una mano al petto, aspettandosi di sentire quella familiare agitazione che le provocavano gli echi del Palazzo del Centro di Controllo, ma il suo cuore era rimasto straordinariamente tranquillo.

Si confuse per le strade, in mezzo alle migliaia di altre persone che affollavano il centro di Tokyo il mercoledì mattina e lo sguardo le cadde sulla vetrina di un negozio, non tanto per gli oggetti esposti, quanto per il riflesso che vi vide: la ragazza che vi si stava specchiando aveva corti capelli castani e occhi neri.
Niente a che vedere con i capelli nivei e le iridi vitree dei Controllori.
La carnagione era stata scurita un po’ – esseri pallidi come gli abitanti del Centro di Controllo non esistono sulla Terra – ma era stata scelta una tonalità più chiara rispetto a quella delle persone giapponesi. In fondo, Annie Sunders era americana.
Era stata una precauzione necessaria, sia per la sua copertura in quanto Umana, sia per l’effettiva realizzazione del piano, e Sahira si era rimirata per dieci minuti buoni nel bagno dell’albergo, toccandosi i capelli che le ricadevano sulla fronte.  Eppure ancora non riusciva a capacitarsi che quella figura corrispondesse alla sua.

Si costrinse a distogliere lo sguardo dalla sua immagine riflessa e deviò in un bar: era una struttura abbastanza grande, con un bancone dietro il quale lavoravano tre persone contemporaneamente. Sahira si guardò intorno, affascinata, osservando la merce in vendita e le bevande che, invece, gli avventori portavano ai tavoli. C’erano persone di ogni tipo: alcune erano vestite formalmente, altre indossavano indumenti leggeri; chiacchieravano animatamente, alcune ridevano.
Era un luogo di pausa e di aggregazione. Non c’erano posti del genere, nel Centro di Controllo: le varie creature lavoravano in solitudine, parlando solo se necessario.
Una coppia passò accanto al Controllore portando in mano delle tazze e l’aroma della bevanda che gli Umani chiamano caffè la investì immediatamente: Sahira decise di assaggiarlo, nonostante gli esseri come lei non avessero bisogno di mangiare. D’altro canto, sarebbe dovuta rimanere lì dentro per un po’, quindi avrebbe comunque dovuto consumare qualcosa.
Si avvicinò al bancone e ne ordinò una tazza grande, di quelle comunemente definite “all’americana”, e si sedette ad un tavolino dal quale poteva tenere d’occhio l’entrata del locale.

Non si aspettava che ci fossero novità in così breve tempo, ma non poteva neanche rischiare di farsi trovare impreparata: aprì una cartina della regione del Kanto e cominciò a studiarla attentamente, lanciando comunque di tanto in tanto delle occhiate attente alla gente che entrava nel bar.
Dunque, Naomi Misora è sicuramente partita da Tokyo, pensò il Controllore, osservando la cartina: quella regione era per lo più composta da pianura, ma verso l’entroterra si ergevano dei gruppi montuosi. Grazie ai monitor del Centro di Controllo so dov’è, ma dovrò fornire delle spiegazioni convincenti sul come io sia arrivata fino a lei. Le stazioni dei treni sono videosorvegliate, ma non posso richiedere i nastri, dato che non faccio parte della polizia. Però posso rubarli.

La ragazza bevve un sorso di caffè e storse la bocca: quella roba era davvero amara. Vide che alcuni Umani la riempivano con altre sostanze, come latte o zucchero, e decise di imitarli, pensando che il sapore non sarebbe potuto peggiorare di molto.
Effettivamente, il miscuglio di latte, caffè e dolcificante non era affatto male.
Sahira mandò giù un altro sorso, poi appoggiò la testa alla mano.

Dovrò restare qui almeno un’ora, pensò svogliatamente, mi sembra un tempo ragionevole per mettere su un piano. D’altronde, io so già cosa fare, ma Annie Sunders no: se voglio dare l’impressione di naturalezza non posso muovermi troppo velocemente.

Allungò la mano per portarsi alla bocca la tazza di caffè, ma quello che vide la fece restare per un istante con il braccio a mezz’aria: era entrato un uomo sulla trentina, alto, con i capelli corti e mento e mascella squadrati. Si guardò intorno con aria tranquilla, avvicinandosi al bancone; dopo aver preso una tazza di caffè si sedette ad un tavolo e aprì un giornale davanti a lui.
Sahira terminò il gesto iniziato e distolse con naturalezza lo sguardo dall’uomo, concentrandosi sulla mappa e sul suo caffellatte.
Tutto secondo i suoi piani.
Per un paio di minuti fissò la cartina senza realmente vederla, cercando di trattenere un sorriso soddisfatto. Non avrebbe mai creduto che quegli Umani potessero muoversi così velocemente, ma non c’erano dubbi: tra tutti, lui era esattamente quello che si aspettava.

Sahira continuò a studiare la sua cartina, sorseggiando il caffellatte e ordinando in seguito dei dolcetti di riso pressato, che scelse a causa del loro colore candido; ogni tanto lanciava un’occhiata distratta all’uomo, il quale sembrava leggere il giornale senza alcuna preoccupazione. Quando pensò che fosse trascorso un ragionevole lasso di tempo, il Controllore – che ormai agli occhi degli Umani era una semplice ragazza, solo un po’ troppo bassa per la sua età – si alzò e fece per tornare all’interno del suo albergo.
Si fermò nella hall e la receptionist le sorrise, dolce come il miele. Per qualche istante Sahira rimase incantata a fissare le labbra della donna, dipinte di rosso acceso.
“Posso aiutarla?”
“Sì, in effetti. Potrebbe, cortesemente, fornirmi una mappa della città e indicarmi i maggiori luoghi d’interesse?” Sahira storse la bocca, in segno di scuse. “Purtroppo ho perso quella che mi ha dato stamattina…”
“Non c’è alcun problema.” Il sorriso della donna non si era attenuato di un millimetro. Si chinò per prendere le cartine da dentro un cassetto e, attraverso uno dei vetri, Sahira notò l’uomo dall’altra parte della strada, seminascosto da un cartellone pubblicitario: aveva in mano un taccuino, sembrava stesse prendendo nota del nome dell’hotel.
Bastava così, ora poteva esserne sicura.
“In effetti, ripensandoci credo che la cartina non mi serva più.” Sorrise alla receptionist, che era in quel momento stava spianando la piccola mappa sul tavolo. “Mi scusi per il disturbo.”
Le voltò le spalle e tornò nella sua stanza, sentendosi vagamente in colpa per aver fatto perdere tempo a quella donna mentre lavorava. Ma non era il caso di perdersi in pensieri inutili: si tolse con decisione la felpa e cominciò a prepararsi per quella sera. Finora, il suo piano non aveva avuto intoppi.

§
 
Sahira rientrò in albergo alle tre del mattino. Il guardiano notturno era intento a versarsi una tazza di tè e le fece un cenno distratto col capo;  lei si affrettò a rientrare nella sua stanza, gettando in un angolo lo zaino che aveva portato con sé.

Era stanca ed eccitata al tempo stesso.  Si chinò sullo zaino e ne estrasse i vestiti con i quali si era recata alla stazione centrale, la parrucca e gli occhiali. In un trolley nascosto in un vicolo vicino all’albergo erano accumulati alla rinfusa i video delle telecamere di sorveglianza che era riuscita a sottrarre.
Il piano che aveva messo in pratica era relativamente semplice e non aveva avuto grosse difficoltà nell’attuarlo.
I video di sorveglianza che le interessavano erano tenuti sotto chiave nel centralino della stazione; nel pomeriggio era uscita e aveva comprato una ventina di VHS, con i quali sostituire quelli veri.
In genere i video di sorveglianza non erano considerati un bene da proteggere, quindi, una volta eluso il guardiano, non c’era motivo di pensare che potessero esserci altri mezzi di controllo, a parte le telecamere. Riguardo a quelle, non aveva ragione di credere che le registrazioni di quella sera sarebbero state visionate a breve, dato che non si sarebbero subito accorti della mancanza dei VHS originali; d’altra parte, anche qualora ciò fosse avvenuto, il suo travestimento avrebbe sviato la polizia per un po’.
Certo, prima o poi sarebbero arrivati a Annie Sunders, ma per allora contava di essere già sparita dalla circolazione. Aveva solo bisogno di un po’ di tempo.

Il trolley era stato nascosto in un magazzino poco utilizzato, a qualche isolato di distanza dall’hotel. Il travestimento usato durante il furto non la rendeva immediatamente riconoscibile come Annie Sunders, ma se si fosse presentata alle tre di notte in albergo con quella stessa valigia – così voluminosa – avrebbe immediatamente attirato i sospetti su di lei.
Perciò sarebbe andata a recuperare i video a più riprese nel suo nascondiglio. Certo, qualcuno avrebbe potuto trovarli nel frattempo, ma non c’era nulla di prezioso: una vecchia valigia con dentro dei nastri registrati non era considerabile un bottino appetibile.
Sahira si buttò sul letto e si girò su un fianco, raggomitolandosi in posizione fetale.
I nastri che aveva rubato erano davvero parecchi e si chiese, ragionevolmente, quanto tempo avrebbe potuto impiegarci a visionarli tutti. Probabilmente cinque giorni, notti incluse.
Il pensiero di dover rimanere rinchiusa in quella camera d’albergo per cinque giorni a visionare cassette era sconfortante, ma non poteva fare altrimenti: in seguito, e sperava tra non molto tempo, avrebbe dovuto mostrare delle prove. Quelle prove andavano procurate sistematicamente.
Questo pensiero la riportò con la mente all’uomo che aveva visto nel bar quella stessa mattina: l’aveva seguita anche quella notte. Non appena era uscita dall’hotel, aveva avvertito la presenza del pedinatore a un centinaio di passi di distanza;  tra l’altro, questi l’aveva vista rubare i VHS senza intervenire, segno che gli ordini impartitigli erano solo quelli di monitorare la situazione.
Non c’erano dubbi, il contatto era avvenuto, ma non era ancora certa di poter prevedere tutte le loro mosse. La ragazza scosse la testa, infastidita: scervellarsi adesso non l’avrebbe portata da nessuna parte.
Ormai non poteva far altro che attenersi al suo piano e sperare di aver calcolato tutto alla perfezione.




Angolo autrice

Ciao a chiunque sia arrivato fin qui! Non mi sono presentata nel primo capitolo, quindi ho pensato di rimediare adesso: questa è la prima long che scrivo in questo fandom e temo ne uscirà davvero una cosa strana. XD Lo so, vi starete chiedendo: "Ma non è una storia su Death Note? Dove sono tutti?" Ci sono, ci sono, non vi preoccupate... anzi, in realtà uno dei personaggi è già arrivato. ;)
Alla prossima e ancora un grazie a chiunque abbia letto!
Elrais

 

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Capitolo 3
*** Aggancio ***


Capitolo III: Aggancio

 

Recuperare le cassette dal loro nascondiglio aveva richiesto più tempo del previsto.
Sahira era uscita ogni giorno dall’albergo portando con sé un grosso zaino, ma il non poter andare via e tornare troppo frequentemente l’aveva indotta a ridurre gli spostamenti a due al giorno.

Alla fine era riuscita a recuperare tutto, ma aveva la sensazione che il tempo le sfuggisse di mano.

Raggomitolata su una delle sedie della sua stanza, visionava il decimo video sgranocchiando quelli che nel mondo degli Umani vengono chiamati biscotti al cioccolato: li aveva scoperti da un paio di giorni e non riusciva più a farne a meno, senza contare che alleviavano la monotonia delle ore.
Si stropicciò gli occhi stanchi e riprese a guardare il monitor, osservando il viavai delle persone che affollavano la stazione centrale di Tokyo in quel giorno di inizio gennaio.
“Chissà dove va tutta quella gente” si chiese, mordicchiando un biscotto, “con tutti quei treni e tutto questo mondo. Potrebbero arrivare ovunque e da nessuna parte. Non è come da noi… anche volendo, anche uscendo dal Palazzo, fuori non c’è granché.”
Mandò giù il biscotto con un sorso di caffellatte.
“Forse, l’unico vantaggio dell’uscire dal Palazzo è non sentire più quei dannati echi. Almeno il vuoto non fa rumore.”

Ormai era passata una settimana da quando aveva rubato i nastri alla stazione, e aveva impiegato tre giorni a portarli tutti nella sua stanza; questo era il quarto giorno di visione delle cassette, ma ancora nulla. Sahira cominciò a chiedersi se non avesse perso qualche VHS lungo il tragitto.
Si alzò e andò alla finestra, stiracchiandosi, osservando il solito caos: un enorme edificio, alto almeno una ventina di piani, era sovrastato da un maxischermo che riportava il TG del giorno. Kira aveva ripreso ad uccidere, ormai. Sahira si chiese cosa stesse pensando L in quel momento, se avesse qualche idea a proposito della strana sequenza di eventi atta a depistarlo.
Ma no, non può neanche immaginare cosa stia succedendo. Starà brancolando nel buio, pensò il Controllore, lo sguardo fisso su un gruppo di persone che, svariati metri sotto di lei, attraversava la strada.
Il pensiero del detective la riportò con la mente al suo piano e aguzzò lo sguardo, cercando di individuare il suo pedinatore: normalmente sarebbe stato impossibile notarlo, soprattutto a quella distanza, ma i Controllori hanno una vista eccellente. Sahira lo trovò in pochi istanti, seduto in un locale di fronte all’entrata principale del suo albergo.
Per quanto ancora l’avrebbe seguita? Doveva muoversi.
Tornò a visionare le cassette con rinnovata urgenza, senza staccare gli occhi, quasi non chiudendo le palpebre. Gli unici rumori all’interno della stanza erano il rullio del videoregistratore e lo sgranocchiare di Sahira, che aveva ripreso a masticare i biscotti quasi con violenza.
E poi, dopo circa quattro ore, la vide.
Capelli scuri, lunghi fino alle spalle, frangia che arrivava a coprirle gli occhi; una giacca di pelle nera e pantaloni stretti. Sembrava straordinariamente attenta a non farsi inquadrare in viso, tanto che un occhio poco attento non l’avrebbe riconosciuta; ma era lei, senza ombra di dubbio.
Sahira la osservò avviarsi verso la biglietteria e la seguì con lo sguardo mentre si allontanava; prese mentalmente nota della direzione che la donna stava seguendo e cambiò VHS, inserendone un altro dello stesso giorno, ma proveniente da un’altra telecamera.
Ed eccola di nuovo sullo schermo: il Controllore la vide aspettare un treno sulla banchina, salire sul treno, scomparire.
Sahira sorrise, soddisfatta. Ora, finalmente, poteva dare il via alla parte successiva del suo piano.

 

§


Una ragazza bassa, con capelli castani e occhi scuri, sedeva composta all’interno dello scompartimento del treno, le mani poggiate in grembo; se un passante o una avventore l’avesse guardata, avrebbe notato solo una ragazzina dalle fattezze occidentali accompagnata da una valigia più grande di lei. Forse le avrebbe sorriso o le avrebbe rivolto un cenno di saluto, sedendolesi di fronte; ma di certo non avrebbe mai immaginato che quella fanciulla poco appariscente, in realtà, non avesse nulla di umano.

Sahira appoggiò la fronte al vetro, sentendolo freddo contro la pelle; da qualche giorno, ormai, la pianura del Kanto aveva lasciato il posto alla montagna, cambiamento che il Controllore aveva accolto con meraviglia. Le punte rocciose si stagliavano in alto, sembravano volessero pungere il cielo; qua e là, gli occhi attenti della creatura potevano scorgere dei piccoli paesi, incastonati nelle valli o sui fianchi delle montagne. Le case, gli alberi, l’erba della pianura, tutto correva ad una velocità forsennata: ormai Sahira si era abituata all’andatura del treno e al rumore del passaggio sulle rotaie, ma i primi tempi sedeva rigida, senza osare guardar fuori, trovando innaturale il movimento apparente di ciò che, invece, dovrebbe restar fermo.
Erano passati dieci giorni da quando aveva cominciato quel lungo viaggio, salendo su un treno che portava nella stessa direzione di quello preso da Naomi Misora circa cinque mesi prima, e in questo lasso di tempo era scesa in ogni singola fermata, cercando in lungo e in largo, rivoltando come un guanto i piccoli paesi in cui si era trovata a passare; aveva interrogato chiunque le capitasse a tiro, mostrando una foto, facendo domande, ma nulla.

Non che si aspettasse qualcosa di diverso, in realtà. O, almeno, non fino a quel giorno.

Scese alla stazione di un paesino identico a tutti gli altri, trascinandosi dietro una valigia colma di vestiti e videocassette: aveva intenzione di liberarsene, tenendo solo quelle che riprendevano Naomi, ma ci aveva ripensato. Avrebbe portato tutto con sé, poi sarebbero stati gli agenti a decidere cosa farne.
Si guardò intorno, notando oggetti che aveva visto in tutte le stazioni e che le erano diventati familiari: un orologio sulla banchina, il tabellone degli arrivi, una piccola biglietteria. Ma stavolta ebbe un fremito d’eccitazione.
Si voltò per assicurarsi che l’uomo fosse ancora dietro di lei e lo vide scendere dal treno qualche istante dopo.
Sahira si avviò verso la strada principale del paese, guardandosi intorno: non notava nulla di particolare, nulla di diverso, eppure era certa che lei fosse lì. Per un attimo prese in considerazione la possibilità che qualcosa andasse storto e sentì chiaramente il suo stomaco attorcigliarsi per l’ansia.
Quella ricerca stava durando più del previsto e da quasi venti giorni, ormai, non aveva notizie certe di Light e di Rem.
Basandosi su quanto aveva ascoltato durante la supervisione a distanza, poteva più o meno immaginare a che punto fossero arrivati del loro piano; il problema serio era che tale piano poteva non funzionare e la strategia d’azione di Sahira si basava sulla correttezza delle previsioni di Light.
La possibilità che entrambi i disegni crollassero al primo intoppo come un castello di carte era elevata e aumentava col passare del tempo.

Il Controllore affrettò il passo, dirigendosi verso un piccolo locale, che sembrava il ritrovo principale del paese. Si guardò intorno: era un posto ristretto, povero, ma pulito.
Un uomo era dietro il bancone circondato da una griglia, su cui stava cuocendo del cibo; maneggiava con abilità degli arnesi simili a delle piccole pale, con le quali staccava dalla griglia le pietanze che venivano cotte. L’aria era calda e satura di odori. Sahira inspirò a fondo, ma non riuscì a riconoscere gli ingredienti del cibo: non era ancora abbastanza esperta.
L’uomo le sorrise, continuando ad occuparsi della cottura delle vivande, e Sahira rispose con un cenno del capo; oltre a lui c’erano altre quattro persone e il Controllore si indirizzò decisa verso quello che le sembrava l’Umano più anziano.
“Salve, signore”, mormorò non appena fu a portata d’udito, “mi spiace disturbarla, ma sto cercando una persona. Potrei farle qualche domanda?”
L’uomo la squadrò perplesso, lanciando un’occhiata all’amico seduto accanto a lui. I nuovi arrivati non erano ben visti in quel piccolo posto sperduto in mezzo alle montagne.
Incurante dell’espressione ostile che le era appena stata rivolta, il Controllore tirò fuori la foto: l’uomo la prese in mano, riluttante, e l’avvicinò agli occhi miopi.
“Se lei l’avesse vista, mi sarebbe davvero di grande aiuto.”
L’anziano squadrò per un po’ l’immagine che aveva davanti, con le sopracciglia aggrottate. Poi la sua fronte si spianò: “Ma certo! Ecco chi è! Lì per lì non riuscivo a ricordare, anche se aveva un viso familiare.”
Porse la foto all’uomo seduto accanto a lui, battendola sul tavolo.
“La riconosci?” gli chiese, ignorando completamente Sahira, la quale attendeva impazientemente in piedi di fronte a loro, “è la figlia di Sasuke!”
“Ecco!” bofonchiò l’altro, annuendo, “sì, certo. Beh, l’ultima volta che l’abbiamo vista da queste parti era una poco più che una bambinetta, è ovvio che non riuscissi a riconoscerla. Ma sicuramente è Naomi, ora che me lo dici non ci sono dubbi.”
Sahira avvertì un fremito lungo la schiena.
“Quindi, non la vedete da anni? Non è passata da queste parti, di recente?”
“No, ragazzina, mi dispiace. Questo paese è piccolo, se fosse arrivata ce ne saremmo sicuramente accorti.” L’uomo che per primo aveva guardato la foto mandò giù un sorso di sakè. “La conosciamo solo perché suo padre è originario di questo paesino sperduto e quando era più piccola veniva spesso qui con i genitori. Sono parecchi anni però che non si vedono più, la casa di famiglia è praticamente abbandonata.”
La ragazza deglutì.
“Ah, così la famiglia possiede ancora una casa? Potrebbe dirmi dove si trova?”
L’uomo la guardò di sbieco, aggrottando le sopracciglia. “E a che ti serve saperlo? Ti ho detto che qui non è venuta, altrimenti l’avremmo vista.” Squadrò nuovamente Sahira da capo a piedi, mentre l’espressione diffidente riprendeva a dipingersi sul suo viso. “Non vorrai mica andare a rubare in casa d’altri, vero?”
Sahira sorrise gentilmente, intuendo che non era il caso di forzare troppo la mano. “Ha ragione, signore. Se non l’avete vista è assolutamente improbabile che sia da queste parti. La ringrazio infinitamente per l’aiuto.”
Prese la foto e, dopo aver salutato con un veloce inchino, si avviò verso l’uscita del locale.

Cercò di sopprimere il fastidio che provava e si concentrò sul suo piano: non avrebbe certo lasciato che venti giorni di ricerche venissero mandati all’aria dalla diffidenza di quell’uomo, ma d’altro canto non poteva neanche sembrare eccessivamente di fretta, altrimenti avrebbe aumentato i sospetti. A questo punto, inoltre, doveva sbrigarsi e trovare qualcuno che le desse le informazioni che le servivano prima che quel tizio e il suo amico uscissero dal locale: se avessero messo in giro la voce che una ragazza era interessata a conoscere l’ubicazione della casa dei Misora, ottenerne l’indirizzo sarebbe stato più difficile.
Erano parecchio diffidenti, in quel paesino.
Tornò velocemente sulla strada principale, alla ricerca di qualcuno relativamente in avanti con l’età a cui chiedere informazioni, confidando che le persone più anziane fossero anche più attaccate ai vecchi abitanti del luogo, come i Misora.
E fece centro.
La donna sulla settantina alla quale si avvicinò aveva un fare gentile e una grossa sporta della spesa al braccio, che Sahira si offrì gentilmente di portarle; dopo la morte del marito viveva da sola, in una casa piena di foto di una ragazza di circa venticinque anni, con i capelli e occhi scuri: sua nipote, come il Controllore ebbe modo di apprendere a seguito di un dettagliato resoconto sugli studi della ragazza, che al momento si trovava all’estero per lavoro. Tra un elogio e l’altro, Sahira riuscì anche ad ottenere l’indirizzo dell’abitazione dei Misora e le indicazioni per arrivarci.
Dopo aver mangiato svariati dolci, bevuto due tazze di tè e rifiutatane una terza, e soprattutto dopo essersi complimentata a più riprese per l’intelligenza della nipote della donna, il Controllore riuscì ad uscire dalla casa della sua informatrice.

La strada che portava verso casa dei Misora era sterrata e malmessa: più volte il Controllore rischiò di inciampare in sassi e in radici, e le ruote del trolley che si portava dietro continuavano ad incagliarsi. L’anziana donna con cui aveva parlato – o che, per meglio dire, aveva monologato fino a quel momento, sfruttando Sahira come pubblico – le aveva spiegato che al termine di quella via non c’erano altre costruzioni, oltre a quella della famiglia di Naomi; inoltre quella casa era disabitata da anni ormai, quindi nessuno aveva sentito l’esigenza di richiedere che la strada venisse rimessa in sesto.
L’edificio in questione era una grande villa poco fuori l’abitato, molto diversa dalle abitazioni semplici che costituivano il paese. Sahira aveva appreso che i Misora erano tra le famiglie più ricche di quella zona e questo spiegava i timori, tutto sommato fondati, riguardo la presenza di eventuali ladri interessati agli oggetti contenuti nella dimora.
Ma c’era un altro particolare che agli abitanti del villaggio era sfuggito: la casa era abbastanza lontana rispetto alle altre abitazioni, e questo, unito alla innata intelligenza di Naomi, l’avrebbe tenuta lontana da occhi indiscreti, qualora non avesse voluto farsi vedere.

Ormai era sera, un vento fresco si era alzato dai monti e Sahira rabbrividì, forse per il freddo, forse per l’eccitazione. I suoi piedi poggiavano piano sulla terra, sollevando mute nuvolette di polvere; l’unico rumore era il fruscio delle foglie. Persino i passi dietro di lei erano silenziosi, nonostante Sahira ne avvertisse distintamente la presenza.
La ragazza si avvicinò alla costruzione sentendosi il cuore in gola: la casa sembrava disabitata, proprio come avevano detto gli abitanti del villaggio. Tutt’intorno ad essa c’era un piccolo giardino in stile giapponese, con un laghetto artificiale e un piccolo fiumiciattolo. L’acqua scorreva lentamente, infondendo una sensazione di quiete che mal si sposava con l’aspetto ormai decadente dell’edificio.
Il Controllore suonò il campanello. Una volta. Due volte. Tre volte.
“Naomi, sei in casa?” La voce le uscì straordinariamente roca. “Sono Annie, Annie Sunders! Ti ricordi di me? Naomi?”
Nessuna risposta. Sahira alzò lo sguardo, scrutando l’abitazione. Non vedo antifurti, pensò la creatura, dovrei riuscire ad entrare facilmente. Altrimenti dovrò trovare un modo… non mi basta essere arrivata solo fino all’uscio.
Lasciò la valigia davanti all’entrata e cominciò a girare intorno alla dimora, spiando dalle finestre. Pensò, e quell’idea la face sorridere nonostante la situazione, che probabilmente la sua carriera come Controllore sarebbe stata intaccata da un’accusa di furto.

Si portò sul lato più nascosto dell’edificio e il sorriso le morì sulle labbra non appena alzò lo sguardo verso una finestra scardinata del primo piano: non poteva vederne l’interno, ma dal soffitto pendeva inequivocabilmente una corda.
La corda era tesa, portata verso il terreno da qualcosa di pesante.

Ci siamo.
La creatura rimase per qualche istante a fissare quella corda, soddisfatta. Le sue previsioni erano giuste, era riuscita ad arrivare fin lì. Respirò a fondo, riflettendo freneticamente: doveva riuscire ad avvicinarsi a quella corda e a ciò che vi era legato.
Si voltò di colpo, individuando uno degli alberi del giardino: era alto, anche se non molto vicino all’abitazione. Non l’avrebbe aiutata ad entrare dalla finestra, ma almeno sarebbe stato sufficiente per poter vedere dentro.
Cominciò ad arrampicarsi, il tronco umido e ruvido sotto la sua pelle; ogni sforzo per salire le mozzava il respiro. Arrivò all’altezza della finestra e chiamò di nuovo, stavolta a bassa voce. Guardò dentro, eccitata alla prospettiva che il suo piano stesse per giungere al termine, ma la verità è che non era abbastanza preparata.

Sahira non aveva mai sentito l’odore della morte; non ne aveva mai visto l’aspetto, lei, destinata all’incorruttibilità del corpo.
Non ne aveva mai sentito il rumore, ronzio incessante di migliaia di mosche ancora vive, che si cibano di ciò che resta.

Non cadde solo perché aveva iniziato a stringersi al tronco spasmodicamente, tremando da capo a piedi, attraversata da brividi di caldo e freddo.
Scese faticosamente dall’albero e si chinò verso terra, rimettendo quel poco che aveva mangiato nelle ultime due ore, mentre i singhiozzi la scuotevano ripetutamente, fuori controllo; si asciugò gli occhi con la manica della maglietta, osservando stupita il liquido umido che le colava sulle guance e che veniva assorbito dalla stoffa. Aveva appena imparato che anche i Controllori piangono.
“Aiuto!” urlò, la bocca ancora impastata, “aiuto!”
Provò ad alzarsi, ma inciampò nei suoi stessi piedi, spossata. Si accasciò contro l’albero, priva di forze, consapevole che per non mandare in fumo il suo piano, nonostante le pessime condizioni, l’unica cosa che avrebbe potuto fare era continuare ad urlare.
“Ho bisogno di aiuto! Una donna è morta…”
I suoi singhiozzi erano così rumorosi che quasi non si accorse dei passi che le si stavano avvicinando; poco dopo, la luce della luna fu oscurata dall’ombra di un uomo, chino su di lei.
“Cosa c’è? Stai bene?”
Sahira lo guardò per qualche istante senza riconoscerlo, poi mise a fuoco un volto noto. La ragazza provò a deglutire, nonostante la bocca amara e la gola in fiamme.
“Naomi… Naomi Misora è lì dentro…”
L’uomo si voltò verso la casa, seguendo lo sguardo di Sahira, che puntava verso la finestra. E vide la corda.
“Aspettami qui, torno immediatamente.”
L’uomo si avviò verso l’entrata principale e qualche minuto dopo Sahira sentì il rumore di una porta sfondata, seguito da quello di passi veloci che salivano delle scale di legno.

 Ho quasi mandato tutto all’aria, pensò il Controllore furiosamente, ancora semi sdraiata contro l’albero, mi sono fatta prendere da un attacco di panico. Fortunatamente così la scenata è stata più verosimile, ma una perdita di controllo di questo tipo mi può far saltare la copertura.

Sahira si alzò, sorreggendosi al tronco freddo, le gambe che tremavano ancora; si costrinse ad avanzare verso la porta principale, che trovò scardinata verso l’interno.
La casa era silenziosa e buia, l’odore di chiuso quasi palpabile; la ragazza si diresse verso la scala di legno che l’uomo aveva percorso poco prima e, sostenendosi al corrimano impolverato, arrivò al piano superiore.
Ad ogni gradino, un piccolo tuffo al cuore. Ma non poteva permettersi altri errori.
Si immobilizzò, in ascolto: da una porta aperta proveniva, flebile, la voce dell’uomo che l’aveva soccorsa e pedinata fino a quel giorno. Stava parlando al telefono con qualcuno, quasi mormorando.
Il Controllore si avvicinò senza far rumore, appiattendosi contro il muro.

“... sì, la ragazza è di sotto, si è sentita male quando ha visto il cadavere.”

L’uomo mugolò qualcosa in segno di assenso, ascoltando attentamente ciò che qualcuno stava gli dicendo dall’altra parte del telefono. Sahira si sporse quel tanto che bastava per permetterle di guardare dentro: il suo pedinatore si aggirava attorno al cadavere, frugandolo con le mani coperte da guanti di lattice, che evidentemente aveva portato con sé per tutto quel tempo. Teneva il telefono nell’incavo della spalla, bloccato con la testa ripiegata.

“Non ha documenti con sé” disse infine, “per il riconoscimento dovremo aspettare la scientifica.”

Ci fu un attimo di silenzio, mentre l’individuo ascoltava ciò che gli veniva ordinato. Dal telefono proveniva un indistinto brusio.

“Certo, capisco. Meglio che questa morte venga tenuta separata dal caso Kira.”

Dall’altra parte del cellulare qualcuno riprese a parlare, ma l’uomo non lo stava più ascoltando: si era immobilizzato al contatto con la sua schiena di quella che aveva riconosciuto essere una canna di pistola. Non aveva neanche provato a girarsi.

“Non riattaccare. Non chiudere la conversazione o sei morto.”

Il rumore secco della sicura che scattava sottolineò il concetto.

“Passami il telefono, lentamente e senza voltarti.”

L’uomo esitò, poi ruotò il braccio destro in modo da passare il cellulare alla persona dietro di lui; Sahira si sporse per afferrarlo, premendogli ancora più a fondo la pistola nella schiena. Ora che era abbastanza vicina, poteva sentire distintamente la voce dall’altra parte dell’apparecchio chiedere se andasse tutto bene.
Un sorriso tirato le si dipinse sul viso, mentre, con un movimento che le sembrò durare anni, si portava il telefono all’orecchio. Quando parlò, la voce non le parve neanche la sua.

“Ciao, L.”



Angolo autrice

Eccomi di nuovo!! Ebbene sì, dopo tre capitoli il contatto è avvenuto... scommetto che ormai avevate perso le speranze XD Un grazie enorme a chiunque sia arrivato fin qui :)
Elrais

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Capitolo 4
*** Tempistiche ***


Capitolo IV: Tempistiche

Per l’ennesima volta in quegli undici giorni, Sahira si trovava seduta nello scompartimento di un treno; la differenza, però, era che stavolta l’uomo che l’aveva pedinata fino a quel momento sedeva di fronte a lei, lanciandole occhiate furtive.
Non che la ragazza lo biasimasse, non doveva essere una bella esperienza trovarsi una pistola puntata alla schiena.
In effetti, la sua situazione attuale non era molto migliore: il poliziotto aveva ricevuto l’ordine di scortarla di nuovo fino a Tokyo e, nonostante al momento non la stesse minacciando fisicamente, aveva comunque l’autorizzazione a difendersi qualora Sahira – o meglio, Annie – avesse compiuto qualsiasi mossa sospetta; inoltre, lei gli aveva spontaneamente consegnato la sua pistola, quindi al momento era disarmata. Si sentiva decisamente in posizione di inferiorità e aveva ben presto deciso che quella sensazione non le piaceva affatto.
Chiuse gli occhi e reclinò la testa all’indietro, ripensando alla conversazione telefonica avuta con L appena poche ore prima.
 
“Ciao, L.”

Il detective era rimasto spiazzato per una frazione di secondo scarsa, dimostrando una rapidità di reazione sorprendente. Per essere un uomo che era appena stato scovato nonostante le varie precauzioni e che si ritrovava con un collaboratore minacciato di morte, si era dimostrato straordinariamente calmo.

“Annie Sunders, immagino.”

Sahira ne riconobbe la voce, che aveva ascoltato più volte durante l’osservazione a distanza: atona e priva di inflessioni.  Era un modo di parlare inconfondibile.

“Posso sapere cosa vuoi?”

Il Controllore aveva deglutito, cercando di mantenere fermo il tono della voce. “Vorrei solo parlare con te del caso Kira, niente di più.”

C’era stato un istante di silenzio dall’altra parte.
“Stai tenendo il mio collega in ostaggio.” Era un’affermazione, non le stava chiedendo conferma.

“Sì, il tuo collega al momento ha una pistola puntata contro. So che tu non puoi vedermi, ma ti prometto che, nell’istante stesso in cui accetterai di ascoltarmi, abbasserò l’arma e la consegnerò a lui.”

“Non posso verificare in nessun modo che lo farai” aveva ribattuto l’altro seccamente, “anche se tu mi facessi parlare con lui, potresti costringerlo a mentire sotto minaccia.”

La ragazza stava per rispondere, cercando di calibrare le parole, ma la voce del detective l’aveva anticipata: “D’altronde, immagino di non poter fare altro che fidarmi. L’unica cosa che so per certo è che tu stai minacciando il poliziotto che ho inviato a pedinarti e, se non dovessi ascoltarti, la sua vita sarebbe ancora più in pericolo di quanto già non sia.” Aveva fatto una pausa, lasciando che quelle parole galleggiassero nell’aria. “Indipendentemente dal fatto che tu abbassi l’arma oppure no, l’unica cosa che posso fare al momento è prestarti ascolto.”

Il Controllore aveva inspirato lentamente, poi aveva fatto esattamente quel che aveva promesso: in quel momento il detective non poteva vederla, ma in seguito il poliziotto avrebbe confermato le sue azioni. E lei aveva bisogno della loro fiducia.
Aveva abbassato l’arma e l’aveva spinta contro una delle mani dell’uomo, che, ancora di spalle, l’aveva afferrata saldamente. Poi si era voltato a guardare in faccia la ragazza.

“Sunders? Ci sei?” Seppure il momento di silenzio aveva inquietato L, la voce questi non lo aveva tradito in nessun modo. “Parla pure, ti sto ascoltando.”

“Mio padre è stato ucciso da Kira.”

Non erano queste le parole del discorso che Sahira aveva provato e riprovato nella sua testa in quei giorni, ma le erano venute spontaneamente alle labbra. Si era rannicchiata in un angolo, sedendosi sul pavimento impolverato, le ginocchia ripiegate contro il petto. “Ma immagino che questo tu già lo sappia. Tutto quello che ho fatto fino ad oggi…”

“Sì”, l’aveva interrotta il detective, “lo so. Era abbastanza chiaro che fosse questo a spingerti ad agire.”

“No, non lo sai.” La bocca della ragazza si era distorta in quello che poteva essere un sorriso amaro. “O almeno, non completamente. Non puoi sapere cosa si prova quando qualcuno che ami viene ucciso, e le persone che dovrebbero vendicarlo, che dovrebbero difenderci, si tirano indietro.”

“Ti stai riferendo al ritiro dell’FBI dalle indagini?”

“Ovvio che sì!” Sahira non aveva intenzione di rispondere così veementemente, ma non era riuscita a controllarsi. “Hanno detto che il sacrificio degli agenti era stato troppo grande e che si sarebbero tirati indietro. Ma allora chi li avrebbe vendicati? La polizia giapponese, che se la fa addosso perché Kira potrebbe ammazzarli da un momento all’altro?”

Il Controllore era balzato in piedi, in preda all’agitazione, cominciando a percorrere la stanza a lunghe falcate. Il poliziotto la seguiva furtivo con lo sguardo. “La verità è che quegli uomini non erano abbastanza… motivati. Non avevano perso niente, non avevano rinunciato a nessuno. Al contrario di me. Al contrario di chi ha visto i propri cari morire per mano di quell’assassino.”

“E così, hai deciso di rintracciare familiari e amici degli agenti dell’FBI che sono stati uccisi da Kira, come tuo padre” completò il detective. “È per questo che hai rubato il file contenente le informazioni sugli agenti coinvolti nel caso, giusto?”

Sahira si era fermata di fronte ad una cassapanca in legno. Per la prima volta si era guardata intorno, cercando di ignorare il cadavere di Naomi, posto in mezzo alla camera: quella stanza sembrava essere adibita a sala da pranzo. Il tavolo era stato spostato di lato, per permettere all’ex agente dell’FBI di impiccarsi.
Il Controllore, spinto da chissà quale necessità, aveva preso in mano una foto incorniciata: un uomo e una donna, con una bimba in braccio. Sahira non sapeva quanti anni potesse avere quella bambina – non era ancora brava ad identificare l’età degli esseri umani – ma era indubbiamente molto piccola. Era rimasta per qualche secondo a guardare l’immagine, affascinata. 

“Sunders?”
La voce atona del ragazzo l’aveva riportata velocemente alla realtà. “Tutto bene?”

“Sì. Sì, certo.” Sahira aveva rimesso frettolosamente la fotografia al suo posto. “Ho rubato quel file, cercando di non lasciare tracce… beh, mi pare evidente di non esserci riuscita, dato che mi avete rintracciata.”

A quel punto, aveva dovuto trattenere un sorrisetto: riuscire ad entrare nel pc del capo dell’FBI e contemporaneamente lasciare un segno abbastanza chiaro da poter essere triangolata era stata la parte dell’adescamento che le aveva dato più soddisfazione. Gli addetti del laboratorio del Centro di Controllo erano rimasti perplessi, quando Sahira aveva spiegato loro cosa aveva intenzione di fare.
“In genere, quando si hackera il pc di un umano si cerca di non lasciare tracce. Tu, invece… tu vuoi che noi ti insegniamo come entrare in un computer, rubare il file e quindi essere trovata?” aveva chiesto uno di loro. Sahira aveva dovuto spiegargli il suo piano nei minimi dettagli, prima di ricevere le informazioni necessarie.

“Ad ogni modo, ho scoperto che tra gli agenti uccisi c’era anche Raye Penber, un amico di papà” aveva continuato la creatura, al telefono. “Lui e la sua fidanzata, Naomi, erano venuti spesso a casa nostra, e così avevo imparato a conoscerli entrambi. Sapevo che anche Naomi era stato un ottimo agente dell’FBI, così ho deciso di provare a rintracciarla… ero sicura che si sarebbe messa sulle tracce di Kira, volevo chiederle di fare squadra. Ma non sono riuscita a trovarla.”
Il ricordo della telefonata con Sosuke Misora era riaffiorato alla mente e lo sguardo era tornato, istintivamente, alla fotografia di famiglia. “Non sono riuscita a contattarla… ho chiamato a casa sua, dai suoi genitori, e il padre mi ha detto che non sapevano nulla su di lei da mesi, ormai.” Con orrore, si era accorta di avere nuovamente gli occhi lucidi. “Lì per lì non sapevo cosa fare… mi sembrava strano che fosse scomparsa nel nulla. Ho pensato che si fosse allontanata per dare la caccia a Kira senza dare nell’occhio, così mi sono messa sulle sue tracce: da quello che tu, L, hai detto in tv nel dicembre scorso, Kira dovrebbe trovarsi in Giappone. Questo mi ha fatto pensare che anche Naomi non si fosse allontanata dalla nazione, perciò ho messo momentaneamente da parte gli aeroporti e mi sono concentrata sulla stazione dei treni.”
Un respiro profondo, ad occhi chiusi. Con l’indice disegnava ghirigori sul dorso della cassapanca impolverata. “Ho pensato che la ricerca di Kira avrebbe potuto costringerla a spostarsi, in fondo non è detto che lui si trovi proprio a Tokyo; se poi non avessi trovato nulla in quella direzione, avrei ripreso a cercarla all’interno della città. Mi sembrava un buon modo per stabilire i confini, piuttosto che cominciare a scandagliare una metropoli così grande da sola senza avere la certezza che lei fosse qui.”

“Così hai rubato i nastri delle videocamere di sorveglianza della stazione…”

“Sì, e quella sera mi sono accorta di essere pedinata.” Sahira aveva lanciato un’occhiata veloce al poliziotto accanto a lei, che nell’udire quella frase aveva sobbalzato. “In realtà, non me ne sarei mai accorta se non avessi visto quest’ uomo anche quella stessa mattina, in un bar. Lì per lì mi sono spaventata, ma poi ho pensato che doveva essere un poliziotto legato al quartier generale giapponese per il caso Kira… se avevo davvero lasciato qualche traccia, era probabile che l’FBI avesse avvertito la polizia giapponese che qualcuno stava cercando di ottenere informazioni riguardo agli agenti uccisi.”

Il Controllore aveva fatto una pausa, aspettandosi qualche domanda, ma L non sembrava intenzionato a parlare; dal telefono era pervenuto solo un ticchettio sommesso, che Sahira non era riuscita ad identificare. Così aveva ripreso: “Tra i nastri rubati ne ho trovati alcuni che inquadrano Naomi alla stazione e tramite quelli ho scoperto in che direzione fosse andata. Così ho preso quello stesso treno e sono scesa in ogni fermata, cercando in ogni paesino… e sono arrivata qui.”

Il ronzio delle mosche le aveva ricordato cosa avesse trovato, al termine del suo viaggio.
“Capisco.”

A quel punto, Sahira aveva storto la bocca in una smorfia: quello che l’aveva infastidita non era tanto l’assenza di interazione da parte di L, quanto il fatto che il detective avesse inequivocabilmente parlato con la bocca piena. E anche il rumore che la ragazza aveva sentito prima, ora aveva capito di cosa si trattasse: un cucchiaino che sbatteva contro una tazzina, forse di ceramica o di porcellana.
Lei gli stava raccontando la storia della sua vita – certo, non proprio della sua, ma questo il detective non poteva saperlo – e lui si godeva uno spuntino? Sapeva che quella era una caratteristica dell’investigatore, ma in quel momento non poteva negare di esserne seccata. “Vuoi… vuoi farmi qualche domanda?”

Il detective aveva deglutito, mandando giù il boccone con qualche sorso di una bibita che, per ovvi motivi, il Controllore non era riuscito a riconoscere. “In effetti, qualcosa che vorrei chiederti ci sarebbe: hai continuato a cercare Naomi Misora nonostante avessi capito di essere pedinata dal quartier generale. Qual era il tuo piano? Non mi sembra che tu abbia cercato di depistare il mio agente in alcun modo.”

 “Beh, fondamentalmente avevo preso in considerazione due possibilità, e la seconda si basava proprio sul presupposto che voi continuaste a pedinarmi”, aveva risposto la ragazza, cercando di non dare a vedere che si aspettava quel genere di domanda. “Se avessi trovato Naomi viva, le avrei semplicemente spiegato la mia situazione. Confidavo nel fatto che lei, intelligente com’era e con la sua esperienza, avrebbe trovato un modo di volgere la cosa a nostro vantaggio. Se invece avessi scoperto che le era accaduto qualcosa… beh, avrei sfruttato il mio stesso pedinatore per ottenere un contatto col quartier generale.”

Dietro di lei l’agente si era mosso, a disagio. Sahira si era voltata nuovamente a guardarlo e aveva notato che l’uomo stava stringendo saldamente la pistola in pugno, nonostante non gliela stesse puntando contro.

“Mi sembra un piano rischioso” commentò L, “ posso chiederti in che modo avevi intenzione di farti portare al quartier generale? Inoltre,” e qui la voce del ragazzo fece una pausa quasi impercettibile, “non puoi avere la certezza che quello con cui stai parlando sia davvero L.”

Stavolta, Sahira non era riuscita a non ridacchiare. “Hai ragione, era un piano rischioso, perché se avessi semplicemente preso in ostaggio il tuo collega, costringendolo sotto minaccia a telefonarti o a portarmi al quartier generale, avrebbe potuto ingannarmi in qualche modo e avvertirti in segreto su quanto stava succedendo. È per questo che ho aspettato…”

“…che fosse lui a chiamare.”

“Esattamente.” Il Controllore aveva aspettato che quelle parole si imprimessero per bene nella mente dell’uomo dall’altro capo del telefono. “Se questo poliziotto era davvero implicato nel caso Kira, allora, per prima cosa, ancor prima di avvertire il resto della polizia, avrebbe chiamato colui che al momento è a capo delle indagini. La prima persona che avrebbe avvertito sarebbe stato sicuramente L, che ad oggi è il suo diretto superiore. Tutto ciò che dovevo fare era non farmi sfuggire quel collegamento.”

Sahira aveva taciuto, trattenendo il respiro: all’orecchio, dall’altra parte del telefono, le era arrivato una specie di sbuffo, che non era riuscita a decifrare.
“In definitiva, ora che siamo arrivati a questo punto, suppongo che tu voglia essere introdotta all’interno del quartier generale e coinvolta nelle indagini.”

Il Controllore sorrise impercettibilmente. “Ti sbagli.”

“Prego?”

Sentire una sfumatura di stupore, anche solo minima, in quella voce priva di inflessioni, era stata un’infusione di autostima. “Ti sbagli, L. È vero, voglio partecipare alle indagini, ma non mi interessa essere introdotta nel quartier generale. Non voglio neanche sapere dove sia collocato! E, soprattutto, non mi interessa vederti in faccia.”
Sahira respirò profondamente. “Voglio solo esservi d’aiuto. So che la tua identità è segreta e lo rispetto. Ti ripeto: non voglio vederti in volto, né sapere dove lavori. Sappi, però, che sono disposta a tutto per risolvere questo caso e obbedirò ciecamente a qualsiasi tuo ordine.”

Questo doveva essere il colpo di grazia: secondo i suoi calcoli, tutto ciò avrebbe dovuto accordarle la fiducia del quartier generale. In fondo, la storia di una ragazza che vuole vendicare il padre era più che credibile e tutte le sue azioni potevano essere comprovate: aveva preso un aereo dall’America per arrivare in Giappone a seguito della morte degli agenti; i tabulati telefonici della sua stanza d’albergo avrebbero confermato i suoi contatti con la famiglia Misora; dall’incursione alla stazione per rubare i VHS in poi, tutte le sue mosse erano state seguite passo passo dal suo pedinatore; infine, il suo totale disinteresse per l’identità di L e dei poliziotti che lavoravano con lui avrebbe dovuto allontanare da lei qualsiasi sospetto. Tutto giocava a suo favore, o quantomeno così lei sperava.

Tuttavia, la risposta di L non era arrivata subito.
“E così, sei disposta a tutto per risolvere questo caso, dico bene? E ti fidi ciecamente di me?”

Quella frase riassumeva il discorso di Annie Sunders in poche parole, eppure Sahira aveva esitato. “Sì... sì, certo, è quello che ho detto: farò qualsiasi cosa mi ordinerai, per risolvere questo caso.”

Di nuovo, il rumore di un cucchiaino contro una tazzina in ceramica. “Molto bene. Allora, direi di iniziare subito: passami il mio collega, per favore. Fai esattamente tutto quello che lui ti ordinerà, sono stato chiaro? Se farai quanto ti ho detto, avrai presto mie notizie.”

Sahira riaprì gli occhi, tornando a guardare fuori dal finestrino: la fine della conversazione con L l’aveva lasciata con l’amaro in bocca e con una spiacevole sensazione di disagio. Apparentemente tutto era andato secondo i suoi piani, ma l’atteggiamento che il detective aveva assunto all’ultimo le aveva dato l’impressione di aver perso il suo iniziale vantaggio. Si chiese che tipo di piano L avesse potuto escogitare in così poco tempo.
L’agente davanti a lei la osservava; ormai erano su quel treno da circa quattro ore e nessuno dei due aveva aperto bocca. Il Controllore, con imbarazzo, si rese conto di sentirsi vagamente in colpa.

“Senta, per quel che vale, non avrei sparato.”

Sahira parlò continuando a guardare fuori dal finestrino, senza spiegarsi quel disagio. “Non avevo intenzione di farle del male, ma avevo assolutamente bisogno di parlare con…” si guardò intorno, assicurandosi che nessuno stesse ascoltando “sì, beh, con chi è a capo delle indagini.”
L’uomo sembrò stupito, ma non rispose. La ragazza non capì se gli fosse stato ordinato di non parlare o se fosse solo un tipo particolarmente silenzioso.
Volse lo sguardo verso di lui: il suo vero nome era Kanzo Mogi. Dalle sue ricerche aveva scoperto che L, convinto che Kira avesse bisogno di un volto e un nome per uccidere, aveva fornito ai suoi collaboratori dei documenti falsi nel tentativo di proteggerli; e, infatti, il tesserino che Mogi le aveva mostrato portava un altro nome. Ma questo Annie Sunders non poteva neanche sospettarlo.

Il treno rallentò, segno che stavano per rientrare nella stazione di Tokyo: il viaggio era quasi terminato. Avendo preso un diretto  – e non uno dei treni regionali che fermano in ogni paesino, come quello su cui Sahira era stata costretta a salire durante la ricerca di Naomi – il ritorno era stato molto più breve dell’andata.
Mogi le fece un cenno col capo e Sahira provò una fitta d’ansia nell’alzarsi. Non aveva la più pallida idea di quali fossero le intenzioni dei poliziotti e le probabilità che volessero in realtà arrestarla erano relativamente alte. Però, al momento, erano veramente in pochi ad indagare su Kira, e questo pensiero la tranquillizzò: le forze del quartier generale erano davvero scarse e la sua speranza era che anche il contributo di una ragazzina non potesse essere trascurato. Tutto sommato, aveva dimostrato di essere in grado di infiltrarsi nel pc del capo dell’FBI, rubare documenti importati, travestirsi e rintracciare Naomi Misora.
In effetti, quel piano aveva il doppio scopo di contattare L e di mettere in luce le proprie qualità, così che da una parte lui potesse fidarsi e dall’altra ritenesse utile la sua collaborazione nelle indagini. L’unico problema, rifletté Sahira, stringendo spasmodicamente la maniglia del trolley, è che non riesco a capire se il detective abbia abboccato all’amo oppure no.

Docilmente, la ragazza si lasciò condurre dall’agente fino al centro della città, stavolta senza prestare troppa attenzione alla vita che la circondava. Aveva altro a cui pensare.
L’uomo si fermò di fronte all’entrata di un grattacielo completamente a vetri: sembravano degli uffici, o comunque qualcosa di diverso da delle abitazioni. Le finestre avevano un colore scuro, che rendeva impossibile guardare all’interno.
Per un istante Sahira ripensò al Palazzo del Centro di Controllo e, se possibile, la sua ansia crebbe ulteriormente.

L’agente le fece cenno di entrare e lei proseguì, guardandosi intorno: all’ingresso non c’era anima viva, sembrava che il palazzo fosse completamente disabitato. Fece qualche passo in avanti, ascoltando le porte automatiche chiudersi dietro di lei.
Su un tavolo che sembrava quello di una reception era posato un pc portatile, acceso; Mogi le fece cenno di sedersi e la ragazza obbedì, senza lasciare la valigia. Il trolley era diventata un’ancora di salvezza, alla quale si aggrappava freneticamente; le nocche delle mani le erano diventate bianche.

Sul monitor del computer comparve una L nera, in stile gotico su sfondo bianco, e la voce del detective le giunse chiara:
“Ciao, Annie. Ti ho fatta portare qui perché volevo parlare con calma, in un posto in cui potessi sorvegliare le tue mosse. Spero non ti dispiaccia.”

“Affatto.” Sahira lanciò un’occhiata di fronte a sé e notò una piccola telecamera posta sull’incavo della finestra. Dovevano essercene altre, lì intorno. Ecco cosa intende con “sorvegliare le mie mosse”. “Dimmi pure.”
 
“Beh, tu hai detto di fidarti di me, ma io non ho mai affermato che la cosa fosse reciproca” rispose il detective con semplicità. “Di fatto, in realtà c’è un piccolo dettaglio che non mi convince.”

Sahira sentì una goccia di sudore scivolarle lungo il collo. Non era possibile. Semplicemente, non era possibile. Aveva controllato tutto alla perfezione, non c’era nulla lasciato al caso. Cosa poteva aver indotto il ragazzo a non fidarsi?

“Vedi”, continuò il giovane, scandendo lentamente le parole, “il primo punto che mi ha lasciato perplesso è stato il fatto che tu prima sia venuta in Giappone e poi abbia iniziato a cercare Naomi. A rigor di logica, sarebbe stato più sensato che tu rubassi il file mentre ti trovavi ancora in America; avresti scoperto che Naomi Misora aveva accompagnato il suo fidanzato qui e, a quel punto, avrebbe avuto senso prendere un aereo per il Giappone.”

Il ragionamento del ragazzo non faceva una piega, ma Sahira sapeva che non avrebbe potuto comportarsi così, se voleva essere trovata in fretta: in quel modo, avrebbero dovuto triangolare la sua posizione in America, seguirla fino in aeroporto e assicurarsi che stesse effettivamente andando in Giappone. Lei avrebbe dovuto lasciare molte più prove del suo passaggio, rischiando tra l’altro di essere arrestata su suolo americano prima di riuscire a partire; ma soprattutto non poteva avere la certezza che l’FBI avrebbe seguito le sue mosse, dato che si erano ritirati dalle indagini. Rubando il file direttamente in Giappone, invece, sarebbe stata troppo lontana dall’America per essere arrestata da loro ed era improbabile che il capo dell’FBI decidesse di mandare di nuovo degli agenti su suolo nipponico; a quel punto, era molto più probabile che si limitasse ad avvertire la polizia giapponese che qualcuno si stava interessando al caso Kira, richiedendone l’arresto e, in seguito, il trasferimento in America per essere processato per aver rubato dei documenti riservati.

“Ma questo non è un indizio a tuo carico” continuò L, perso nel suo ragionamento. “D’altronde, è plausibile che la morte di tuo padre ti abbia sconvolta a tal punto da agire d’istinto: potresti esserti mossa per cercare Kira da sola e aver deciso di fare squadra con qualcun altro solo in un secondo momento. Inoltre, tu sei americana e sei arrivata qui dopo la morte degli agenti dell’FBI, mentre io ho sempre pensato che Kira sia giapponese, o quantomeno si trovi in Giappone. Non ho alcun indizio contro di te, così come non motivo di sospettare che tu sia Kira.”

“Mi fa piacere.” Il tono della ragazza era più caustico di quanto non avesse voluto. “Allora potresti spiegarmi cos’altro c’è che non ti convince?”

“Te lo spiego subito. Ciò che non mi torna è una questione di…” il ragazzo fece una pausa, quasi a cercare il termine adatto, “… di tempistiche.”

“Tempistiche?”

“Precisamente. Vedi, ultimamente ho imprigionato due dei miei principali indiziati: ho fondati motivi di credere che queste due persone siano rispettivamente il primo e il secondo Kira. Nonostante ciò, però, le morti dei criminali non sono cessate.”

Beh, almeno so a che punto del piano di Light siamo arrivati, pensò la ragazza. Evidentemente  ha chiesto a L di essere imprigionato, e Rem ha trovato qualcuno a cui far usare il quaderno. Quantomeno non ho perso troppo tempo.

“A questo punto, sono indotto a credere che qualcun altro stia usando il potere di Kira” continuò L, “e che quindi questo potere possa essere trasferito da persona a persona. E proprio mentre i miei maggiori sospettati sono imprigionati e quindi il potere omicida di Kira viene esercitato da qualcun altro, compare dal nulla una ragazza che vuole unirsi alle indagini. Normalmente non avrei avuto alcun motivo per sospettare di te, ma questa è una coincidenza che non posso permettermi di ignorare.”

“Ma allora potrebbe essere chiunque!” sbottò Sahira, ora completamente infuriata. “Se il fatto che io sia americana e che non fossi qui quando gli omicidi sono iniziati non è più un alibi, allora chiunque al mondo potrebbe essere Kira. Anche i tuoi stessi colleghi del quartier generale!”

“È vero, ma loro sono qui da prima che il potere di Kira passasse a qualcun altro, per questo non ho motivi validi per sospettare di loro. Tu invece… tu stai cercando di unirti a noi proprio in un momento particolarmente delicato.” Fece una pausa, in cui sembrò stesse bevendo qualcosa. “Ritengo ci sia il 3% di probabilità che tu fossi già a conoscenza di questa situazione. La percentuale è indubbiamente bassa… ma non è nulla.”

Il Controllore respirò a fondo, cercando una soluzione.
Non le era passato per la mente che quella variazione improvvisa nel modus operandi di Kira, coincidendo con il suo contatto col quartier generale, avrebbe potuto allarmare il detective. Era stata un’ingenua: sapeva perfettamente che il piano di Light era proprio quello di sviare da sé i sospetti di L facendo uccidere i criminali a qualcun altro, quindi questa virata nelle indagini era prevista già da tempo. Solo, non aveva avuto la giusta visione d’insieme.

“Ho capito. Quindi? Cosa hai intenzione di fare? Vuoi imprigionare anche me?”

“Tecnicamente, imprigionarti sarebbe una violazione enorme dei tuoi diritti. I reati che hai commesso finora giustificherebbero un arresto, ma non il tipo di prigionia che infliggo ai miei sospettati…”

“Ma, in definitiva, se voglio partecipare alle indagini non ho altra scelta” mormorò Sahira. “E hai bisogno che io ti chieda spontaneamente di essere imprigionata per sviare da me qualsiasi tipo di sospetto, perché tu, di tuo, non potresti spingerti a tanto.”

E così sei disposta a tutto per risolvere questo caso, dico bene? E ti fidi ciecamente di me?
La creatura serrò la mascella, infastidita: l’aveva incastrata, nulla da eccepire.

“D’accordo, L. Imprigionami. Vedrai con i tuoi occhi che sono innocente… dopodiché spero che mi darai anche la possibilità di dimostrarti che posso esserti utile nelle indagini.”

“Immaginavo avresti risposto così.” La voce tranquilla del detective urtò ulteriormente i nervi tesi della ragazza. “Ho già predisposto tutto.”

I Controllori non provano rabbia, né alcuna emozione violenta, pensò Sahira mentre Mogi le ammanettava i polsi. Quando prenderò a schiaffi questo ragazzino, dovrò trovare una scusa più che convincente da dare ad Elburn.

 



Angolo autrice
Dopo una lunga assenza, eccomi di nuovo! Con questo capitolo inizia il collegamento vero e proprio col quartier generale e ho inserito una parte della caterva di spiegazioni che avevo omesso precedentemente per poter dare più spazio all'azione.
Come sempre, grazie a chiunque sia arrivato fin qui <3
A presto!
Elrais

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