L'effetto farfalla

di Sunshiner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** capitolo Due ***
Capitolo 3: *** capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** capitolo Otto ***
Capitolo 9: *** capitolo Nove ***
Capitolo 10: *** capitolo Dieci ***
Capitolo 11: *** capitolo Undici ***
Capitolo 12: *** capitolo Dodici ***
Capitolo 13: *** capitolo Tredici ***
Capitolo 14: *** capitolo Quattordici ***
Capitolo 15: *** capitolo Quindici ***
Capitolo 16: *** capitolo Sedici ***
Capitolo 17: *** capitolo Diciassette ***
Capitolo 18: *** capitolo Diciotto ***
Capitolo 19: *** capitolo Diciannove ***
Capitolo 20: *** capitolo Venti ***
Capitolo 21: *** capitolo Ventuno ***
Capitolo 22: *** capitolo Ventidue ***
Capitolo 23: *** capitolo Ventitre ***
Capitolo 24: *** capitolo Ventiquattro ***
Capitolo 25: *** capitolo Venticinque ***
Capitolo 26: *** capitolo Ventisei ***
Capitolo 27: *** capitolo Ventisette ***
Capitolo 28: *** capitolo Ventotto ***



Capitolo 1
*** capitolo Uno ***


L’Effetto Farfalla


La tensione delle corde contro la pelle. Quel legno dai colori caldi. La musica. Le sue dita che volteggiavano tra gli accordi.

Non poteva aspettare oltre.

Se avesse atteso anche solo un altro minuto, la cosa dentro di lui l’avrebbe fermato, e per sempre. Corse fuori nel vento di novembre, la pioggia fine gli tagliava il viso, il buio nascondeva la sua espressione terrorizzata.


Lui feriva la gente. Manipolava le relazioni, anziché maneggiarle delicatamente. Non sapeva dire l’amore con parole comprensibili.

Lui era infelice e rendeva infelici gli altri con quelle sue verità da rivelare come oracoli. Non era l’uomo adatto. Per nessuno. Non era la persona adatta. Non era nato per il mondo reale, perché nel tentativo costante di sconfiggerne il brutto, l’ingiusto, il grigio, l’errore, aveva finito per caricarsene l’intero peso. Un carico troppo pesante per le spalle di un uomo, quello dell’infelicità.

Era venuto, lo sapeva, il momento di dare un po’ del suo male a qualcuno che l’avrebbe accolto e diviso con lui. Qualcuno che avrebbe scartato la sua inadeguatezza come si fa con un regalo. E dentro vi avrebbe trovato una fiamma vivida come quella del sole all’aurora.

Montò in sella alla sua moto e partì nella pioggia, lasciandosi alle spalle la solitudine che lo inseguiva. Correva via, lontano dai suoi personali fantasmi dolorosi, e sperava, senza saperlo, senza volerci credere, che quella corsa lo portasse verso giornate più limpide, che trasformasse le sue tempeste devastatrici in acquazzoni estivi.

Si scivolava.

Nell’asfalto lucido si riflettevano i lampioni e le insegne, ma era notte fonda e non c’erano auto in giro. Filava veloce nella pioggia, tra incroci e semafori, sulla strada che aveva percorso tante volte, quasi sempre con una diagnosi che gli vorticava nella mente e il brivido che lo stuzzicava poco prima di vedere lei, per rivelarle un’idea nuova, in piedi sulla soglia. Come aveva fatto in quella notte assurdamente diversa dalle altre, quando la consapevolezza di amarla si era conficcata in quella sua mente complicata. Quando aveva condiviso il dolore di lei con un bacio senza spiegazioni. Ed era passato tanto tempo ormai.


Era così coinvolto in uno dei rari e preziosi momenti di irrazionalità della propria vita, che non vide la Land Rover alla sua sinistra tagliare l’incrocio veloce come un lampo.

E fu un lampo. Non sentì neppure l’urto, l’asfalto bagnato...


Si svegliò mentre il primo raggio di sole del mattino penetrava attraverso la fessura di una persiana, nella propria camera da letto. Si svegliò con una fitta nella coscia destra. La fitta.

Erano solo le 7.

Il Vicodin era sul comodino di sinistra. Spense a tastoni la radiosveglia e trovò il tubetto color ambra. Un paio di pillole e una doccia, poi la corsa verso il Princeton Plainsboro, nel pallido sole autunnale che aveva seguito quella notte di pioggia e incubi.


Le porte scorrevoli del Princeton Plainsboro sibilarono e lo lasciarono passare.

– Cosa ti porta qui alle 8? Non arrivi mai prima delle 10. Hai un caso–

– Buon giorno, raggio di sole – e fece per sfuggirle.

Lei lo bloccò vicino all’accettazione, le spalle al banco.

– Maschio, trentacinque anni, è arrivato stanotte al Pronto Soccorso con... –

House cercò di scartare lateralmente.

Lei gli afferrò il braccio sinistro.

– ...con dolori assimilabili all’artrite... –

Lui scartò dall’altro lato. L’ascensore era così vicino.

Maledettamente vicino.

– ...in ogni singola articolazione. –

Si voltò.

– Dammi quella cartella –

Era così bella, quella mattina. Così luminosa, così diversa da quel miraggio tristemente lontano che aveva visto attraverso la pioggia, nel suo incubo.

– Oh, non ancora! –

– Cuddy, la cartella... –

– Beh, forse c’è qualcosa che potresti fare per me, e allora forse...–

Era riuscito a chiamare l’ascensore con la punta del bastone. Adesso lui era dentro e lei fuori. La porta scorrevole stava tra le loro mani che stringevano quel pezzo di cartone blu.

Fece per strapparle la cartella, in un ultimo tentativo: ottenne di avere entrambe con sé nell’ascensore. Le porte si chiusero.

– Il prossimo weekend si terrà il convegno annuale dei Decani di Medicina –

– Bello. Avrai almeno trenta cinquantenni ai tuoi piedi, hai già pensato a come organizzare i turni? –

Tirò la cartella. Lei la trattenne.

– No. Però ho pensato che tu quest’anno hai avuto alcuni casi parecchio interessanti. E serve un tema per il corso di aggiornamento di venerdì sera e sabato mattina –

– Oh, no. –

– Oh, sì... – lei si strinse al petto la cartella.

– Il venerdì sera esco –

– E con chi? –

– Con Wilson –

– Wilson il venerdì sera lo passa alla sala giochi di Pediatria. Da circa otto anni. Pessima idea mentirmi –

– Dammi quella cartella –

– Solo se “il dottor Gregory House presenzierà come relatore al convegno annuale dei Decani di Medicina della East Coast, che quest’anno sarà dedicato alla Diagnostica”. Decidi, devo far preparare i depliant entro mezzogiorno. –

– Donna di malaffare. –

E lei gli porse la cartella, uscendo dall’ascensore con un balzo di soddisfazione e voltandosi a guardarlo con quel sorriso, per poi scappare via al suono del cercapersone.

Era sempre così con lei. Era come litigare col sole per averne un raggio: tu cercavi di strappargli la nuvola e lui la tratteneva, poi finiva che facevate un patto; un po’ di sereno oggi, per un po’ di pioggia domani, o la settimana prossima.

Comunque aveva un caso.


– Buongiorno a tutti. – Gettò la solita giacca di pelle nera sulla sedia più vicina e colpì Kutner. Lanciò il casco a Tredici e lei pensò che era proprio un bastardo. Ma prese il casco quasi al volo: Foreman le gettò uno sguardo sollevato.

La cartella finì sul tavolo di vetro con un fruscio e Taub la aprì.

– Artrite migrante asimmetrica, astenia, perdita di capelli da circa due settimane... –

– Avvelenamento da radiazioni? – Per Kutner, che spuntò dalla giacca di House proprio in quel momento, era una certezza. Si liberò finalmente del giubbotto da moto del suo capo. – Gli avete chiesto dove lavora? –

– Fa il copilota per American Airlines, non è un tecnico di Chernobyl– fece House, cui la vista di Kutner sommerso nella sua giacca provocava ancora un certo risolino.

– Malattia del sonno africana. Magari è stato in quelle zone per lavoro... –

– Vola solo sulle linee nazionali: Boston, Wahington D. C., Miami... – Taub citava dalla cartella.

House intanto vagava pensieroso vicino alla finestra, lanciando ogni tanto uno sguardo al di là della balaustra, verso lo studio di Wilson, dove egli era intento a parlare con una paziente.

– The great imitator... – mormorava e passeggiava, sembrava perso in qualche labirinto mentale. Lo sguardo gli cadde sulla piccola libreria che teneva in studio. Vide un volume verde rilegato in pelle. – La malattia dai mille volti... –

Il team continuava a dibattere sul caso. Foreman stava preparando il caffè e non notò lo sguardo di House cadere su quel libro.

I cercapersone di tutti suonarono in quel preciso istante. Corsero fuori.

Quando l’infermiera, sconcertata, indicò loro la stanza del paziente, videro che era vuota.

Chiamarono Cuddy, che chiamò l’Accettazione, che allertò la Sicurezza. E in un attimo tutti cercavano un signore sui 35, dall’aria affaticata, magro e con chiazze di alopecia.


Chase aspettava Cameron in giardino: era martedì, e certe tradizioni non meritano il sacrificio sull’altare dell’abitudine. Invece della sua bionda principessa, Chase vide un uomo in camice da ospedale accasciarsi sulla panchina, al proprio fianco. Il paziente sembrava molto pensieroso e non disse una parola, restò semplicemente seduto col sole in faccia, gli occhi socchiusi.

– Signore, si sente bene? – dopotutto, erano ormai cinque minuti che l’uomo si trovava in quella posizione. E Chase ignorava che tutto l’ospedale fosse alla ricerca del suo silenzioso vicino. Cominciava, piuttosto, a chiedersi che fine avesse fatto Cameron.

– Signore? Sono un medico, si sente bene? –

L’uomo aveva ancora gli occhi socchiusi, ma sembrava del tutto perso. Chase gli sollecitò le retine con la piccola pila da taschino e capì che il paziente aveva in corso una crisi epilettica.

In quel momento arrivò Cameron, trafelata.

– Ma dove accidenti ti eri cacciato? House ha perso un paziente e tutto l’ospedale lo sta cercando! – Poi vide cosa stava facendo Chase.


In dieci minuti il paziente fu di nuovo in camera, dove Tredici dispose all’infermiera la somministrazione di benzodiazepine per tenere sotto controllo le crisi. Poi si ritrovarono tutti nello studio, con un nuovo sintomo.

– E’ sotto clonazepam, ha avuto un probabile disturbo da assenza e subito dopo una crisi in giardino, mentre era con Chase... – Taub ragguagliò House, l’unico che, ancora sdraiato sulla moquette, aveva beatamente ascoltato del fusion-jazz mentre almeno cinquanta persone cercavano il suo paziente.

– Che ci faceva Chase in giardino? – House si alzò e spense il giradischi.

– Che importa. Il paziente ha avuto una...–

– E’ martedì - Foreman tagliò corto e soddisfece appieno le aspettative di House sul suo conto. Sapeva che avrebbe risposto.

– L’avvelenamento da radiazioni può aver provocato la crisi epilettica. Magari non è la prima volta che gli capita: un’esposizione continuativa e prolungata a radiazioni elettromagnetiche potrebbe aver indotto i sintomi... –

– Kutner, per quanto tempo avrebbe dovuto essere stato esposto alle radiazioni? Riesci a immaginarlo? –

– Beh... la strumentazione di bordo dei velivoli, i vecchi monitor a catodo, magari vive vicino a un ripetitore della tv o all’antenna di una compagnia telefonica... –

– Ma parliamo di avvelenamento! E’ improbabile un’esposizione tanto prolungata... –

Intorno al primario di Diagnostica si era accesa una viva discussione diagnostica. Ma il suo sguardo continuava a posarsi quasi furtivamente sulla libreria.

– Foreman, se non hai un’idea produttiva puoi andare a casa del paziente e verificare se taglia il prato ogni domenica all’ombra di un’antenna telefonica. Portati Taub. –

– Ma se non hai nemmeno ascoltato quello che –

– Vai. –

Foreman e Taub uscirono.

– Se vive vicino ai cavi dell’alta tensione, l’intensità di campo può aver avuto un’azione irritativa sul sistema nervoso centrale... –

– E se fossero state le onde corte? L’alta frequenza provoca effetti termici, per l’assorbimento di radiazioni...però finora non pare averne sofferto –

Mentre Tredici e Kutner discutevano di radiofrequenze e forni a microonde, House andò a vedere il paziente.

Camminava rasente alla parete dell’ala Carnegie. Solo un’occhiata da fuori. Lui era sotto anticonvulsivi, non l’avrebbe nemmeno notato e non ci sarebbe stato alcun bisogno di parlare.

– Ehi. –

Non lei.

Non adesso, almeno.

– Che fai qui in giro? –

Era lei.

– Vado dal mio paziente –

– Non ti credo –

– Ok. – Fece per proseguire.

Lei gli corse di fronte.

– Da quando visiti i pazienti? Da quando vai da loro facendo il giro lungo? Da quando cammini contro le pareti? –

– Eviterò di rasentare i muri. A presto – e fece ancora qualche metro, prima di ritrovarsela davanti, di nuovo.

– Foreman e Taub sono appena usciti. So dove li hai mandati: avete una teoria. Quindi non credo che stessi andando dal paziente. Ho bisogno di te nel mio studio, adesso –

– Ah, donna. Sapevo che sarebbe venuto il momento –

– ...per parlare del congresso. Abbiamo un patto, noi –

– Verrò nel pomeriggio, adesso vado dal mio paziente –

– O vieni ora, o vai in clinica. C’è la sala d’aspetto piena. E io non ti credo –

E così, nessuno gli credeva. Andò in clinica.


Foreman lo salvò da una futura madre quasi a termine, che lamentava di aver avuto episodi di nausea durante il primo trimestre.

Vada a casa e prepari la cameretta. Può chiedere qualche consiglio alla dottoressa Cuddy. Mazeltov. –

E uscì, seguendo Foreman.

La destinazione era la stanza del paziente, che presentava un nuovo sintomo.

– Sembra una scottatura –

– Ha come... il segno degli occhiali da sole... –

– Guardate le guance, sembra proprio ustionato –

Era stato in giardino proprio quella mattina. Al sole.

– Ma è novembre, non siamo in spiaggia... –

– Tredici, è foto-sensibile –

– Sono radiazioni elettromagnetiche! Onde corte! E’ stata l’alta frequenza: l’effetto termico da assorbimento... –

Con l’esclamazione soddisfatta di chi ha indovinato, Kutner pose fine alla discussione dei colleghi, mentre House osservava, perplesso, la scena.

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Capitolo 2
*** capitolo Due ***


– ...Se non che non abbiamo trovato nulla a casa del paziente. – Il team entrò nello studio. Foreman e Taub stavano relazionando sull’ispezione.

– Vive fuori casa per la maggior parte dell’anno, e comunque abita nella campagna attorno a Princeton. Possiede un innocuo computer portatile e una televisione a cristalli liquidi. Niente che possa giustificare l’avvelenamento da radiazioni. –

– Eppure presenta tutti i sintomi dell’avvelenamento da onde corte e si è aggiunto l’effetto termico – Kutner teneva alla propria diagnosi.

– Saranno stati i monitor a catodo della cabina di pilotaggio –

– Ma siamo nel 2009, non è possibile che li usino ancora –

– Inutile rimodernare la flotta, aspettano che quella attuale finisca di essere distrutta da Al Qaeda. Curatelo. – House si alzò ed uscì lentamente. Il team discuteva.

– Che ha da stamattina? Sembra che qualcosa lo tormenti –

– Dovremmo chiederci cos’altro lo tormenta, allora. E’ peggio del solito –

– Non è convinto della diagnosi –

– Oppure sta male –

– Taub, da quando lo conosci l’hai mai visto stare bene? –

– Non intendevo dolore fisico –


Il primario di Diagnostica bussò alla porta del primario di Oncologia.

– Buongiorno Jimmy. Ti va di fare due buche prima del cocktail party della moglie del primario di Chirurgia estetica? –

– Buongiorno House. Cosa posso fare per te, dopo aver finito di parlare con il mio paziente? –

– Potremmo andare insieme al green e... –

– Ci vediamo tra mezz’ora, House, nella saletta dei medici –

E così Wilson non aveva tempo. Peccato, sarebbe stata la prima volta che raccontava un sogno a qualcuno. Era così turbato da quell’incubo notturno. C’erano stati attimi in cui ancora sentiva il rombo della moto nelle orecchie e quel brivido strano da qualche parte dietro lo sterno. Secondi irreali in cui si sentiva stranamente trasportato su quella strada, al buio, sotto la pioggia. Era così da quando si era svegliato quella mattina.

E la cosa peggiore era che quella sensazione di incompiuto, di non detto, si riacutizzava ogni volta che vedeva lei. Lei che tratteneva la cartella, lei nell’ascensore, lei nel corridoio dell’ala Carnegie.

Con il caso risolto, non aveva altro a cui pensare che quella visione notturna di se stesso che faceva qualcosa per rimediare alla propria infelicità. E questo era qualcosa in cui non era per nulla esperto. Andare da Cuddy. Per dirle cosa, poi? Solo in un sogno generato dal liquore e dal Vicodin la sua mente aveva potuto concepire una tale assurdità. Si era lasciato turbare da un sogno. Che idiota. Meglio non aver neanche parlato con Wilson.

Queste riflessioni l’avevano portato di fronte alla stanza del suo paziente.

– Salve. Lei ha un avvelenamento da radiazioni elettromagnetiche –

– Salve. Lei non ci crede –

– No. Cosa non ha detto alla mia squadra? –

– Niente, ho detto loro tutto quello che mi hanno chiesto! Sono un copilota di American Airlines, volo sulle tratte nazionali da sempre, il che significa circa dieci anni. Vivo solo nei sobborghi di Princeton: con il mio lavoro non è facile avere dei legami stabili e poi non sono il tipo di persona portata alla socialità. I miei sono morti in un incidente poco dopo il mio brevetto, il mio cibo preferito è la pizza, ascolto i Pink Floyd e non ho animali domestici. Cos’altro vuole sapere? –

House osservava il suo paziente. L’eritema sul viso era notevolmente peggiorato, i capelli restavano sul cuscino, aveva l’aria stravolta. Sembravano radiazioni.

Eppure.

– Da quanto tempo soffre di astenia? –

– Non lo so, non mi sono mai abituato al jet lag, mi danno fastidio anche i fusi orari di poche ore –

– Vola da circa dieci anni, giusto? E ha sempre avvertito il jet lag? –

– Credo...di sì, io... – l’uomo si interruppe. Si portò le braccia al petto e si contorceva per il dolore acuto.

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Capitolo 3
*** capitolo Tre ***


– Nuovo sintomo! – E subito dopo House ingollò diversi milligrammi di Vicodin, un quantitativo non propriamente simile a quello prescrittogli anni prima – Forti dolori al petto. Pronti, via! –

Foreman pensò che solo un caso potesse risollevare l’umore a quel misantropo asociale e drogato. Gli altri pensarono che avesse risolto il problema che lo aveva turbato tutto il giorno. Foreman aveva in parte ragione.

– Potremmo fare un’ecografia per rilevare un’eventuale infiammazione della pleura – Tredici era già sulla porta dello studio, pronta ad uscire.

– L’avvelenamento da radiazioni non causa sierositi. Dobbiamo cercare qualcosa che sia causato dalle radiazioni! –

– Kutner. E’ più probabile, che abbia due malattie diverse contemporaneamente, che la pleurite sia dovuta alle radiazioni, oppure che non sia stato avvelenato da radiazioni di cui non abbiamo trovato la fonte? –

Kutner rinunciò finalmente alla sua idea e ne pianse tra sé e sé il fallimento.

– Fate l’ecografia – House siglò la differenziale.


– Wilson. Alopecia, astenia, artrite, fotosensibilità, sindrome nervosa organica, pleurite. –

– Buon pomeriggio House, anche per me è un piacere vederti, e mi scuso per averti interrotto prima, mentre ti trovavi con il tuo paziente –

– Fa il pilota, soffre il jet lag. Buon pomeriggio anche a te –

– Potrebbe essere cancro –

– Potrebbe. Accidenti, proprio non me l’aspettavo questa, da te! –

– Solo, non mi convince assolutamente quella pleurite. Siete sicuri? – Wilson non aveva colto l’ironia dell’affermazione, ma pensava genuinamente che fosse cancro. Lo pensava sempre.

– Tredici gli sta facendo un’ecografia, dovrebbe tornare a momenti. Ma i dolori indicano pleurite. Wilson... –

– Che c’è? –

– C’è qualcosa che devo dirti. –

– Beh, non importa se stasera non vieni per il poker, faremo domani...–

– No, è che. Niente, torno di là –

Mentre attraversava la soglia dello studio, House vide di nuovo la strada, le gocce sulla visiera del casco, i lampioni accesi che si riflettevano per terra. Si appoggiò allo stipite. Dava le spalle a Wilson.

– House! Stai bene? –

– Io...sì, ho solo bisogno di un caffè. Non ho dormito bene questa notte – House fece per lasciare lo studio. Poi si voltò.

– Qualcosa non va, Wilson. –


Si trovavano entrambi, soli, nella saletta dei medici.

– Mi vuoi dire cosa succede? Arrivi in anticipo, eviti la Cuddy, perdi un paziente e quasi svieni nel mio studio. Quanto Vicodin hai già preso? –

– Wilson, ho sognato che uscivo in moto, questa notte. Per parlare con Cuddy. Non ricordo il resto del sogno, mi sono svegliato e sono venuto qui. E’ da questa mattina che a tratti mi rivedo in modo sotto la pioggia, la gamba mi dà il tormento più del solito, ci sono secondi in cui non so dove mi trovo e per giunta temo di avere un paziente con il Lupus... –

– Ehi, rallenta. Hai sognato che andavi da Cuddy? Finalmente! Dovresti ascoltare di più la tua coscienza –

– E’ stato un incubo. Ma non importa, il problema è che ho dei mancamenti da questa mattina e non so il perché –

– Date le minime quantità di Vicodin che prendi, direi che non c’è assolutamente il rischio di effetti collaterali. Va’ a casa, fai una dormita e domani ti sentirai meglio senza bisogno di un’overdose di Vicodin. La Cuddy ti aspetta per il congresso, forse era un sogno premonitore –

– Già. –

– Già. –

– A presto Wilson. –

– A presto House. –

Wilson si precipitò fuori dalla saletta.

– Ehi! –

House si voltò.

– Ha davvero il Lupus?! –


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Capitolo 4
*** capitolo Quattro ***


– E’ Lupus –

– Non è mai Lupus, House –

– Vada a casa, la chiamiamo noi se insorgono nuovi sintomi –

Foreman e Kutner aspettavano House nello studio.

– Ha davvero la pleurite – entrò Tredici, proprio in quel momento.

– E’ Lupus. Grazie Tredici! – House si era avvicinato allo scaffale dei libri.

– Non possiamo esserne certi finché non c’è interessamento renale e finora gli esami delle urine sono in ordine. E’ presto per una biopsia– Taub gettò un’occhiata all’ecografia.

– Ma con VES e PCR possiamo vedere se siamo sulla strada giusta...– intervenne Tredici.

– Non è detto che la Proteina C Reattiva sia determinante – Foreman sapeva che non era mai Lupus. Mai.

– Ma la VES elevata può darci un’idea. Del resto già l’emocromo ha rilevato l’anemia, che è un sintomo del Lupus... –

–...e di circa 200 altri disturbi, arrotondando per difetto –

– Fategli la PCR e controllate la VES. –


La squadra uscì e House restò solo nello studio. Pochi minuti dopo, si addormentò sulla chaise-longue mentre il giradischi diffondeva nell’aria le note di tromba di Dizzy Gillespie. A Cuddy, che arrivò proprio mentre lui chiudeva gli occhi, sembrò un vagabondo che si prepara alla notte più fredda dell’inverno. La mano destra lasciò cadere un foglio di carta a righe vicino ad una matita che doveva già essere lì da qualche minuto, mentre la stretta della mano sinistra sul bracciolo della poltrona si allentava, e il braccio ricadeva verso la moquette grigia. Cuddy ebbe la folle idea di sdraiarsi accanto a lui ed abbracciarlo stretto, ma alla fine pensò che fosse meglio coprirgli le spalle con la giacca e raccogliere le cose che aveva fatto cadere.

Prese il foglietto ed involontariamente lesse degli appunti scarabocchiati sull’iter diagnostico del Lupus Sistemico Eritematoso. In fondo all’elenco di sintomi e possibili differenziali, c’era una nota: “Appunti per il Congresso dei Decani di Medicina della East Coast, venerdì 13 e sabato 14 novembre 2009. Non fare tardi, metti la cravatta blu.

Cuddy pensò che in fondo non ci sarebbe stato nulla di male se avessero parlato del congresso a casa sua l’indomani sera, sperando che entro quell’ora House avesse risolto il caso. Gli lasciò un post-it: “Grazie dell’aiuto. Ci vediamo domani sera da me per definire i particolari.

E uscì, sentendosi colpevolmente prevenuta, per aver pensato che quel convegno fosse l’ultimo dei pensieri del suo primario di Diagnostica.


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Capitolo 5
*** capitolo Cinque ***



La pioggia.

Quell’odore di benzina e bruciato.

La gamba che pulsava.

Un silenzio mortale, tutto intorno a lui, e la sensazione di non aver fatto qualcosa di importante.

Sapeva di essere ancora nel suo sogno. Ma perché quell’incubo lo perseguitava? Sentì la mano destra gelata e gli sembrò che fosse immersa in un liquido freddo.


– House! La VES è troppo alta, potrebbe davvero essere Lupus! –

Kutner fece irruzione nella stanza, svegliando di soprassalto il suo capo.

– Ma la PCR non è tanto alterata da indicare una infiammazione: ne sappiamo quanto prima. Con quell’eritema la VES non può che indicare qualcosa. Ma non indica Lupus. –

Entrò Tredici.

– Ho fatto un controllo in più. Dall’elettroforesi delle siero proteine risulta un aumento sensibile delle gamma globuline: è la conferma di un’infiammazione. L’indice dell’albumina però non è indicativo di un interessamento renale. –

Erano le nove del mattino successivo e fuori pioveva. Aveva dormito almeno dodici ore.

– Potevate evitare di stare in laboratorio tutta la notte e dormire, come ho fatto io: è Lupus. –

– Non è ancora detto –

– Quando avete fatto l’ultimo esame delle urine? –

–Quando è arrivato al Pronto Soccorso, ieri mattina – Taub era di turno con Cameron proprio il martedì mattina.

In quel momento si resero conto che non controllavano il catetere dal pomeriggio precedente.

– Un cedimento dei reni non arriva dopo poche ore da un esame delle urine perfetto. – Foreman non credeva al Lupus, e basta.

– Ma il paziente è stato esposto al sole verso mezzogiorno e l’esposizione al sole...–

– ...E’ una delle cause scatenanti o aggravanti il Lupus Sistemico Eritematoso! –

Tredici e Kutner si guardarono: ormai erano entrambi convinti.

– Siete degli incapaci: avete perso una notte a fare controlli non determinanti, dimenticandovi l’unico davvero rilevante per la diagnosi del Lupus. Andate subito a controllare il catetere e se il sacchetto è vuoto dovremo fargli una biopsia renale. Idioti. –

E la squadra corse dal paziente, per constatare che la biopsia renale gli serviva davvero, e che l’eritema era ormai diffuso ovunque, in placche grosse come monete.


– E’ Lupus. –

– ...Il dottor House, più efficace di cento microscopi, diagnostica un caso di Lupus osservando una biopsia renale da tre metri di altezza... –

House e Wilson erano appollaiati sopra la sala operatoria, dove Chase infilava un grosso ago nel fianco destro del copilota di American Airlines Andrew Wright. Osservavano dalla vetrata.

– Sei un cretino. E’ Lupus. –

– Il dottor House, genio della diagnostica, si è dimostrato altresì un romantico latin lover, approfittando di una riunione di lavoro per restare solo con l’amore della sua vita, l’elusiva dottoressa Cuddy... –

– La vuoi smettere di fare l’idiota? Non ho avuto il tempo di andare da lei ieri: la gente muore. –

– Ci andrai? –

– Certo che ci andrò, stasera. –

– House, sii gentile con lei... –

– Cos’è che ti preoccupa, Wilson? Dobbiamo soltanto parlare del maledetto inutile congresso dei Decani –

– Assolutamente. –

In sala operatoria, Taub chiamò al microscopio Chase, che fece un cenno affermativo ad House.

Era Lupus.

In quel momento, House strinse il braccio di Wilson e si appoggiò al vetro. Il bastone cadde per terra con un rumore secco.

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Capitolo 6
*** capitolo Sei ***


– Non muoverti –

– Sono perfettamente immobile, sei tu che non sai fare una risonanza –

– House, se ti muovi non vedo cosa non va –

– Va tutto benissimo, è solo la gamba che fa male e poi ho del sonno arretrato –

– Ma se ieri sei venuto tu a dirmi che qualcosa non andava! Hai dormito più di dodici ore questa notte... non sei nemmeno tornato a casa –

– Wilson, fammi uscire. E’ tutto a posto, davvero –

Wilson fece scorrere il lettino fuori dal grosso magnete ad anello.

– Sembra davvero tutto a posto. Forse è la tua coscienza che è turbata da quel sogno: sai che devi parlare con Cuddy. In fondo anche tu lo vuoi, ma sei così insicuro che...–

– L’eritema sul viso ha quella forma caratteristica, a farfalla... –

– ...che neghi perfino a te stesso di avere bisogno di qualcuno...–

– Il jet lag non era jet lag, ma gli effetti dell’astenia che è stata...–

– Cerca di chiarire le cose questa sera...–

–...l’unico sintomo per dieci anni, fino a qualche giorno fa. –

– Sì, il tuo paziente ha il Lupus. Sembra che abbiamo esorcizzato anche questo fantasma. Ora mi vuoi ascoltare? –

– No. Arrivederci Wilson – e House lasciò la stanza col suo ritmo ineguale.


E così, era fatta.

Il Lupus.

Prese dallo scaffale il libro che l’aveva perseguitato per anni e lo portò a casa.

Pioveva di nuovo.

Si accasciò sul divano di pelle nera, era così stanco.

Il sonno venne in pochi minuti, il libro del Lupus cadde di lato, sul pavimento. La tv mandava bagliori azzurrini e muti, il caminetto scoppiettava; la sera piovosa di novembre copriva Princeton, che lentamente chiudeva fuori dalle case calde gli affari e le preoccupazioni della giornata.

Urla. Porte che sbattevano. Gente spaventata.

Passi che lo schizzavano di fango e acqua sporca.

E poi che freddo faceva... Intorno a sé vedeva solo buio e qualche lampo colorato, qualche saetta blu intermittente. Si sentiva zuppo da capo a piedi, gli pioveva sulla visiera, ormai vedeva solo le gocce confuse, come in un caleidoscopio.

Si svegliò appena dopo l’ora di cena. Doveva andare da Cuddy per preparare la conferenza. Non mangiò nulla.

La moto partì di nuovo nella pioggia fitta dell’autunno.

Il viale alberato accompagnava la sua corsa, di nuovo. Le luci della città apparivano confuse come pennellate di un impressionista: vedeva solo strisce di colori che uscivano dal buio, arancioni e verdi che saltavano fuori dall’oceano nero della notte, come a prendere respiro. Vedeva insegne blu e gialle che si stagliavano verso il cielo come rampe di lancio.

E poi di nuovo quell’allucinazione, più viva e reale che mai.

Era di nuovo nel suo sogno inquietante, volava sull’asfalto che gli scorreva sotto come un nastro di velluto nero. Tagliava la cortina di pioggia che gli si faceva incontro. Pensava a lei. Le corde della chitarra gli bruciavano ancora le dita, nelle orecchie solo quegli accordi lasciati nell’appartamento vuoto, insieme alla sua infelice solitudine.

Sentì un rombo alla propria sinistra e un raggio di luce orizzontale illuminò migliaia di minuscole gocce novembrine.

La Land Rover grigia seguiva quel raggio di luce. Vide i due fari allo xeno che ingigantivano nella foschia. Era veloce. Non si sarebbe fermata. Doveva accelerare, nella speranza di attraversare l’incrocio in tempo? O frenare, rischiando di scivolare sull’asfalto bagnato, prima di tagliare l’incrocio?

Frenò.

L’odore acre della gomma strinata sull’asfalto riempì la notte.

Tutto fu immerso di nuovo nel buio.

Ovunque pozzanghere nere e fanghiglia polverosa, silenzio.

Aveva frenato e la moto si era messa per traverso, aveva roteato come una trottola, per poi accasciarsi di lato. Era rimasto in sella, aggrappato al manubrio, per poi frenare la giravolta con la gamba sinistra. La grossa jeep era sparita, lui era pieno di schizzi e decisamente turbato.

Era la Land Rover del sogno, ne era sicuro. Non ricordava cosa ne fosse stato, quella notte. Si era svegliato senza ricordare se avesse frenato o accelerato. Ed eccola di nuovo. Ma era stata un’allucinazione?

Quel maledetto incubo che non si spiegava.

Ripartì dopo un paio di minuti.

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Capitolo 7
*** capitolo Sette ***



– Ciao –

– Ciao –

– Entra –

– Sì –

Lei chiuse la porta alle sue spalle e gli prese la giacca di pelle nera.

– Vieni di là, è tutto pronto. Bisogna ordinare gli interventi per venerdì sera e preparare la tua relazione per sabato mattina. Ho saputo che il tuo paziente ha il Lupus, Wilson dice che pensavate fossero radiazioni per l’astenia e i capelli e l’eritema e... House, ti senti bene? –

– Assolutamente –

– Wilson dice... –

– Ignora Wilson –

Le toccò il braccio.

– House, che cosa fai? –

Lui la attirò a sé e la strinse forte.

Restarono così, in piedi nel corridoio, per attimi infiniti. Lei assaporava il suo profumo, misto all’odore di pioggia che aveva portato da fuori. Lui affondò il viso nei suoi capelli scuri e morbidi, accarezzandole la testa con una dolcezza di cui non si credeva nemmeno capace.

Fuori, solo il rumore della pioggia contro i vetri delle finestre.


Poche ore dopo, la guardava dormire come una creatura di fantasia, come la ninfa di un dipinto neoclassico, le braccia abbandonate lungo la linea sinuosa del corpo, i riccioli neri che incorniciavano le guance, il lenzuolo bianco mollemente abbandonato ai piedi del letto. Fece per alzarsi e andarsene in silenzio, ma non poteva scioglierla dall’abbraccio senza svegliarla. Restò. E pensava.

Si addormentò, vinto dall’emozione di un sentimento che aveva cancellato dal suo animo stanco.


Case e palazzi, lampioni, alberi, la strada che filava veloce nel buio, la pioggia che sbatteva violenta sul casco.

Di nuovo.

Che senso aveva quella continua visione?

Correva così veloce che pensò di superare la pioggia di novembre.

Perché quel sogno lo perseguitava ogni qualvolta chiudesse gli occhi?

La consueta sensazione di non detto gli attanagliava lo sterno. Era come se stesse ancora correndo da lei.

Cos’era quella fretta di arrivare? Non aveva senso, era andato da lei proprio quella sera. Non c’era più nulla da dire. Aveva ascoltato la propria coscienza malata di infelicità e questa lo perseguitava ancora.

Stava per raggiungere l’incrocio dell’incidente sfiorato. Vide da lontano i fari della Land Rover. Questa volta l’aspettava, non si sarebbe fatto cogliere di sorpresa.

Accelerò per superare l’incrocio prima dell’auto.

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Capitolo 8
*** capitolo Otto ***


Aprì gli occhi.

Una scarica di pioggia gli tagliò il viso. Dov’era il casco?

Era tutto così buio.

Così freddo.

Così bagnato.

Sentiva sotto la propria schiena l’asfalto umido e duro, la mano destra era immersa in una pozzanghera gelata e non riusciva a toglierla da lì. Dov’era la moto?

Cercò di guardarsi intorno, ma un dolore lancinante gli percorse la spina dorsale fino alla nuca.

Provò a chiamare aiuto, ma emise solo un sospiro.

Richiuse gli occhi.


Lei era in casa, quando aveva sentito quel tremendo boato. Poi c’era stato solo silenzio. Era sola, come ogni sera. Il camino acceso, una tazza di tè e un libro, o qualche carteggio dell’ospedale. Ogni sera era così. Ogni sera desiderava di aprire gli occhi e vedere il salotto in disordine, giocattoli sparsi sul tappeto, un bambino che le chiedesse se la cena era pronta. Ogni sera si rendeva conto che la realtà non erano i giochi sul tappeto e il figlio che non aveva.

Ma cos’era stato?

Il silenzio che aveva seguito quel rumore non la convinceva. Prese un impermeabile e uscì nella notte.


Lampi blu.

Grida.

Porte che si aprivano e si richiudevano, voci.

La sua percezione alterata amplificava le sensazioni.

Gli era sembrato di sentire qualcuno toccargli il viso. Era un tocco strano, familiare.

Lei era uscita in strada.

Il viale alberato, spazzato dalla pioggia, era invaso da un odore pungente di gomma bruciata. Non si vedeva quasi nulla.

Inciampò.

Qualcosa le era rotolato tra i piedi.

Raccolse un bastone di noce.

Un casco rovesciato traboccava di pioggia.

La gente popolò la strada buia. Un vociare sommesso e concitato si mescolava al rumore degli scrosci d’acqua tra le foglie degli alberi, gli unici testimoni dell’accaduto. Qualcuno chiamò un’ambulanza.


– Wilson...–

– Lisa, sto per entrare in sala operatoria, è un’urgenza: ti richiamo io –

– Wilson... devi venire adesso –

Arrivò insieme ai soccorsi. Non avrebbe mai immaginato la scena che si trovò davanti. Gente sul marciapiede, la pioggia che rifletteva i lampioni e in mezzo alla strada due persone. Una era stesa a terra, l’altra, inginocchiata al suo fianco, gli stringeva il polso come se volesse trattenerlo e gli accarezzava il viso scostandogli la pioggia dalle guance, dagli occhi, dalle labbra.

Lui aveva gli occhi chiusi.

Lei piangeva, contandogli le pulsazioni. L’aveva coperto con il proprio impermeabile.

E le sue lacrime si mescolavano alla pioggia e cadevano per terra al ritmo del battito.

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Capitolo 9
*** capitolo Nove ***


Era dunque morto.

Di certo faceva un freddo tale, per essere l’aldilà...

E bruciava dappertutto. Che dolore insopportabile. Ci sarebbe voluto un po’ di Vicodin, sì, ci sarebbe proprio voluto.

E così aveva decifrato l’enigma del suo sogno. Peccato solo per il caso di Lupus, alla fine era stato un’allucinazione. Tutto era stato un’allucinazione... quella Land Rover l’aveva colpito la prima volta e da allora era morto.

Era morto.

Quindi non aveva patteggiato con Cuddy sul congresso.

E non si era perso il paziente.

Pensò ad un libro degli anni ‘50 di Alan Turing: “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”.

Pensò ad una conferenza di Lorenz del ‘79. Lui era al primo anno di Medicina. Chiedeva Lorenz: “Può il batter d'ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”

Si poteva morire in un viale alberato, accelerando per superare un incrocio.

Si poteva, schivando un’auto con una frenata acrobatica, andare da Cuddy e prenderla per un braccio. E farci l’amore. E magari essere anche felici, chissà.

Essere felici.

Pensò che fosse indicativo che le uniche tre ore felici della sua vita le avesse vissute in un’allucinazione.

Sorrise mestamente, pensando alla farfalla che l’eritema del Lupus disegnava sul viso del suo paziente.

L’effetto farfalla. Era debitore di quella breve pace dell’animo ad un particolare, la miniatura di un attimo, un secondo alterato in decenni di vita. Una frenata, una giravolta. Ed era stato felice.

Era indeciso.

Non a tutti in fondo era dato di vedere cosa sarebbe potuto accadere, se avessero frenato.

Ma perché torturare un uomo con la visione di una felicità illusoria? Non c’era nessuno, dall’altra parte. Nessuno. Non era razionale aspettarsi qualcosa di ulteriore, tanto meno lo sarebbe stato aspettarsi qualcosa di cattivo, che ti mostrasse la tua donna addormentata sul tuo braccio, per poi ricordarti che non era successo per davvero.

Era solo chimica.

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Capitolo 10
*** capitolo Dieci ***


Si era calmata anche la pioggia, per unire il silenzio del cielo al silenzio della scena che si svolgeva su quella piccola parte di Terra immersa nella notte.

Lei osservava come da una finestra lontana. Sentiva ancora la forma del suo viso stanco sotto le dita bagnate; l’aveva custodito per attimi infiniti nell’attesa dei soccorsi, senza poterlo abbracciare o rassicurare. Le sue carezze disperate erano scivolate su quel viso assente, sugli occhi chiusi, sulle sue labbra, sulla fronte solcata.

Era ipnotizzata dalle intermittenze blu e rosse che illuminavano ritmicamente la scena, nella sua mente i pensieri vorticavano come le foglie che avevano riempito il viale in quelle settimane autunnali.

L’aveva lasciato nelle mani dei soccorritori e le imbracature, la tavola spinale, il collare le sembravano trappole che tenevano prigioniero quello spirito libero, che tarpavano quelle ali che sapevano volare così in alto.

– Lisa. Vieni, vieni qui –

Wilson la cinse dolcemente per le spalle e la attirò a sé.

– Dobbiamo andare al Princeton Plainsboro. Lisa. Guardami –

– Wilson... –

– Andrà tutto bene. Glielo dobbiamo –

– Mio dio... –

– Lisa, devi venire con me. Sono pronti per partire –

– Io non so cosa devo fare... –

– Dobbiamo portarlo via al più presto, è già intubato. –

Lei si lasciò scivolare tra le braccia dell’amico e pianse.


– Dottor Wilson, dottoressa Cuddy, siamo pronti –

Un attimo dopo erano entrambi sull’ambulanza che correva per le vie di Princeton a sirene spiegate.

– Battito? –

– 130 –

– Pressione sistolica? –

– 100 –

– Wilson, è instabile! –

– Fate preparare il pronto soccorso per un rx torace e bacino immediato –

– La saturazione è a 91: è in ipossia... – Cuddy cercava di ritrovare il controllo di sé nei numeri infelici che lampeggiavano sui monitor.

– House. –

– House... –

Aprì gli occhi per un secondo interminabile e poterono leggere tutto il dolore e l’abbandono che vi galleggiavano dentro.

– Greg. Chi sono io? Ricordi qualcosa? –


Era Jimmy. Che aria spaventata aveva. E chi c’era con lui? Perché non riusciva a fare un solo movimento? Che strana cosa la morte.

“Ehi Wilson, certo che so chi sono. Sono morto, sai? Non è come credevo... magari potremmo organizzare un poker.”

– Non risponde... –

“Ma cosa dici? W-i-l-s-o-n! Mi ricevi?”

– House. House, sono io. Sono Lisa... Andrà tutto bene, non avere paura... –

Ecco chi c’era con Wilson. L’aveva vista solo ora che si era chinata su di lui. Dio, com’era bella.

“Ehi, raggio di sole. Mi dispiace per le ore di clinica. Addebita il conto a Chase: venderà il panfilo. O a Foreman...”

– Nessun feedback. –

“Ma siete impazziti?! Ero morto anche ieri, eppure ci si poteva almeno parlare...”

– Stimolo doloroso... –

“Che state combinando?”

– Nessuna reazione –

L’ambulanza si fermò di fronte all’ingresso del pronto soccorso.

– Non avere paura... –

Era la sua voce. Sembrava terrorizzata. Non era per nulla convincente, in effetti.

– Resta con noi. Guardami: resta con noi. –

Wilson lo fissava dritto negli occhi, mentre correvano verso l’entrata.

Lui riabbassò le palpebre.


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Capitolo 11
*** capitolo Undici ***


– Cameron! Presto, rx bacino e torace e TAC encefalo con

proiezioni C1-C2 e C7-T1 –

– Wilson? ma non eri in sala oper... –

Cameron vide House immobilizzato sulla tavola spinale, gli occhi chiusi.

Cuddy sembrava aver recuperato un po’ di autocontrollo, ma stringeva la manica della camicia di Wilson, mentre le infermiere portavano via il paziente per gli esami.

– Incidente in moto, non sappiamo se siano stati coinvolti altri veicoli. Scarsa responsività ai richiami, mentre non risponde a nessuno stimolo motorio. Potrebbe esserci una lesione midollare, ci sono tutti i segni dello shock spinale. –

– Vado a chiamare la squadra. –

E Cameron corse al telefono, per nascondere le lacrime che iniziavano a bruciarle gli occhi.


– Lisa, stai bene? –

– Sì. –

– Bene. Sai che potrebbe avere una lesione del midollo spinale? Lisa? Guardami, per favore... –

Lei guardava ossessivamente fuori dalle finestre del proprio studio, nel buio della notte. Non sarebbe riuscita a sopportare il peso di quella consapevolezza, se qualcuno avesse visto i suoi occhi lucidi.

– Dobbiamo aspettare la TAC, non possiamo dirlo con certezza... –

– Dobbiamo solo sperare che la lesione non sia troppo alta. –

– Ma non c’è riduzione della frequenza cardiaca e non ha altri segni di lesione... –

– Ascoltami: questo non è un mistero medico. House ha avuto un terribile incidente, ha subito uno shock spinale, ha battuto la base del collo contro il marciapiedi. E’ questo che è successo. Non c’è niente da indagare, Lisa. Ti prego, cerca di restare lucida. Avrà bisogno di noi due... avrà bisogno di te. –

– Non è possibile –

– Temo di sì, invece –

– Wilson, qualcosa non torna... –


In quel momento entrarono Taub e Kutner.

– Ha una compressione midollare all’altezza della quinta vertebra cervicale – Kutner guardava fisso a terra.

– E’ in shock spinale. –

Wilson si accasciò sulla sedia più vicina.

– Chiamate Chase per l’intervento di decompressione del midollo cervicale. Voglio anche Foreman in sala operatoria. Preparatelo per l’anestesia, ci vediamo in sala tra un attimo. –

Taub e Kutner corsero fuori.

Cuddy, appoggiata con entrambe le mani alla scrivania di pino scuro, fissava Wilson. Nel suo sguardo, lo stato più puro e cristallino di un terrore totale.


Il latte macchiato fumante le scottò le labbra.

Stringeva il bicchiere di plastica con entrambe le mani, gli occhi fissi a terra, seduta in sala d’aspetto. La mente vagava tra il passato e il futuro.

Cosa ci faceva House, in moto, nella sua via? Non aveva avuto casi quella settimana, non c’erano permessi da strappare con un patteggio, diagnosi da discutere, procedure da difendere. Non era sicura di voler sapere perché lui fosse di fronte a casa sua a quell’ora. La risposta che in un altro momento l’avrebbe resa felice, ora le attanagliava il petto in una morsa strettissima.

Un trauma spinale.

La compressione del midollo cervicale.

Quell’asfalto duro come roccia, la velocità, il salto e la caduta.

Sapeva che cosa comportava una lesione mielica.

Avrebbe dovuto dirglielo lei, con Wilson. Chi altro poteva?

Provò a convincersi di essere in un incubo.

– Coraggio. – Cameron la richiamò alla realtà.

Si sedette al suo fianco e l’abbracciò stretta.

– Avrà bisogno di te... –

Quella dannata frase. Anche Wilson la ripeteva in continuazione. Avrebbe avuto bisogno di tutti. E probabilmente non avrebbe voluto nessuno intorno.

Come al solito.

Solo che stavolta non sarebbe stato possibile lasciarlo solo.

Chase uscì dalla sala operatoria. Lo bloccarono appena fuori dalla porta.

– Abbiamo tolto i frammenti ossei dal midollo compresso e installato una placca nel massiccio articolare interessato. La lesione è instabile, al momento presenta una paresi totale dei quattro arti, ma non possiamo essere sicuri che sia permanente, prima di almeno sei settimane. Potrebbe recuperare qualche riflesso, ma prima deve rientrare lo shock spinale. Mi dispiace tanto... –

Chase lasciò le due donne sulla porta della sala operatoria con l’aria di un chirurgo indaffarato.

Non appena girò l’angolo, però, si fermò, la schiena appoggiata alla parete. Aveva staccato dal midollo cervicale ogni singolo, minuscolo frammento osseo. Aveva ricomposto quello che poteva. Aveva anche pensato che il danno potesse non essere definitivo... ma chi poteva dirlo? La probabilità andava contro ogni speranza e la speranza non aiuta la prognosi in un caso del genere.

Chase si lasciò scivolare lungo la parete. Si sentì terribilmente triste. Dispiaciuto. Arrabbiato. Con House e la maledetta moto, con la strada, l’asfalto e il marciapiedi, con il buio serale, con la foschia di novembre.

Da solo nel corridoio, seduto per terra, con ancora indosso il camice operatorio sporco di quel dannato sangue, Chase pregò il suo Dio.


In quegli stessi minuti, Tredici, Kutner, Taub, Cameron e Foreman erano assiepati dietro il vetro della stanza di terapia intensiva, in cui Cuddy e Wilson vegliavano House.

Niente puzzle questa volta. La certezza di ciò che Chase aveva visto in sala operatoria escludeva quel gruppo di medici dal lavoro che meglio conoscevano, dal mistero diagnostico.


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Capitolo 12
*** capitolo Dodici ***


Oh, sì. Andava decisamente, decisamente meglio.

Ora la morte era parecchio più sopportabile.

Pensò di essere finalmente pronto a dissolversi in miliardi di atomi: probabilmente stava finendo la follia chimica del suo cervello, il canto del cigno.

Niente più dolore.

Uno stato di grazia che aveva perduto troppo tempo prima, per potersene ricordare.

Pensò che il quadro sarebbe stato perfetto, se avesse avuto anche un po’ di musica, prima di andarsene per sempre. Magari, sforzandosi...

Magari, pensando intensamente...

Ehi.

Che scherzo era?

Di nuovo Jimmy. Dormiva su una poltrona del Princeton Plainsboro, coperto dalla sua solita giacca marrone. Di sicuro stava vegliando qualche paziente dei suoi, i soliti fortunati.

Non era Jimmy che voleva! No, doveva pensare al suo pianoforte...

Santo cielo.

Strano come uno pensa ai pianoforti e gli appaiono donne.

“Pianoforti e prostitute” gli aveva detto Cameron una volta. Parlava del suo tempo libero.

Questa donna in particolare gli dava le spalle. Guardava fuori: le luci di Princeton che iniziavano a spegnersi lasciavano lentamente spazio al sole che stava sorgendo.

Un raggio di luce improvviso la colpì e si voltò di scatto.

Era lei.

Raggio di sole.

Pensò che quel cervello malato gli stava giocando dei tiri parecchio divertenti, prima che si salutassero per sempre. Un po’ banali, a dire il vero.

E poi, da dove veniva quel tepore? E tutta quella dannata luce, non si poteva stare in pace neanche da morti. Aveva chiesto solo un po’ di musica. Si era sforzato per averla e tutto quello che otteneva era Jimmy addormentato e Raggio di sole neanche vagamente nuda.

A meno che.

Un momento.

Era sole appena sfornato, quello. Calore e luce.

Era mattina.

Mattina.

Di nuovo.

– Ehi. –

Wilson gettò di lato la giacca, Cuddy corse al suo fianco.

– House! –

Lei gli afferrò la mano e se la portò al petto.

Non poté pensare a un risveglio migliore: affondare la mano nelle tette di Cuddy... whoa.

Non sentì nulla.

Ricordò la corsa in moto, l’auto lanciata a tutta velocità, il volo e la caduta.

– Greg. Non avere paura, siamo qui con te. Mi riconosci? –

– Dio ti ringrazio... –

Wilson e Cuddy lo fissavano, terrorizzati.

– Ehi, Wilson, datti una ripulita... e da quando il Decano di Medicina ha un amico immaginario? Pensavo fosse appannaggio dell’Australiano

Chase era appena entrato.

– Come ti senti? –

Altre occhiaie, altra espressione stravolta.

– Bene. Vattene, non capisco quello che dici, comunque. –

Chase lo fissava.

Anche Cuddy e Wilson lo fissavano.

Fuori, il sole era definitivamente spuntato su Princeton.

Lei si sedette al bordo del letto. Gli teneva sempre la mano.

– Hai avuto un terribile incidente con la moto. Non avevi il casco allacciato, è volato via nella caduta. Hai sbattuto contro il marciapiedi: hai subito un trauma spinale. –

Silenzio.

– Chase ti ha operato nella notte. C’era una compressione del midollo ad altezza C5, l’intervento è riuscito: il midollo è decompresso. House... non lo sappiamo con assoluta certezza, ma è probabile che la paralisi sia permanente – Cuddy si voltò di scatto per nascondere le lacrime che non riusciva più a trattenere.

Ecco perché non sentiva dolore. Non sentiva e basta.

Chiuse gli occhi di nuovo.

Cercava di proteggere se stesso da quegli sguardi e cercava di proteggere le persone che amava dal provocare loro il dolore di vedere il suo.

Pensò che se fosse morto, sarebbe stato tutto incredibilmente più semplice. Per tutti.


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Capitolo 13
*** capitolo Tredici ***


CHAPTER 13.

Erano ancora abbracciati, nel corridoio dipinto di giallo.

Nessuno parlava, si poteva udire solo il caminetto che scoppiettava nella stanza accanto e la pioggia che batteva sui vetri delle finestre.

Lui la stringeva come si può fare con un raggio di sole, per non farselo sfuggire, per godere del suo calore e della sua luce abbastanza da sentirsi crescere qualche sparuto fiore solitario, in quell’anima sempre deserta e spazzata dal vento.

Non voleva farle male, ma sapeva che sarebbe successo. Il sole è infelice quando brilla sui luoghi desolati. Il sole vuole prati e laghi per alimentarne la vita e spiagge bianche per riflettersi nel mare, non splende volentieri, sugli altopiani brulli.

Che idiozia venire qui proprio stasera. Perché non la lasciava in pace una volta per tutte?

Fece per staccarsi da lei.

La sua presa lo richiamò.

Adesso era lei che lo teneva stretto a sé.

Si lasciò scivolare tra le sue braccia, il viso affondato nel morbido maglione. Sentiva il suo seno alzarsi e abbassarsi sotto quella lana chiara, si accorse delle lacrime che la bagnavano: le sue.

Caddero inginocchiati sul pavimento di legno. Lei gli teneva la testa in grembo come si fa con un bimbo che vuole dormire.

Iniziò a spogliarlo.

Lentamente.


Aprì gli occhi.

– House... –

– Scusami, non devo essere una compagnia piacevole. Ma tu sei un’infermiera noiosa. Non mi addormenterei, se tu potessi, non so... –

– House...–

Cuddy lo fissava.

Erano soli nella stanza.

– Hai appena avuto un’allucinazione. –

Grandioso.

Così ora anche lei sapeva.



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Capitolo 14
*** capitolo Quattordici ***


Era solo un'allucinazione.

Era venuto per me...

– Lisa, House è ancora sotto shock: non puoi risalire ad un'esperienza reale da un'allucinazione.

– E allora cosa ci faceva fuori da casa mia, di sera, senza un caso da discutere?

Io... io non lo so. Non lo so davvero.

– Ehi. Come sta? – Foreman li raggiunse in quel momento al bar dell ospedale.

Si comporta come al solito: insensibile e un po' stronzo.

Fisicamente?

Chase tiene sotto controllo il dolore dello shock spinale, ha ricominciato a respirare da solo, la pressione si è stabilizzata.

Foreman si sedette accanto a Cuddy, che fino a quel momento aveva lasciato parlare Wilson.

Tu come stai?

Io... bene. Ho chiesto a Cameron una mano in ufficio, visto che ho io il caso...

Lisa, non c’è nessun caso. Forse dovresti staccare un po’ , ti farebbe bene.

Foreman ha ragione. Vai a casa, riposa qualche ora. Io vado da lui.

Wilson si allontanò, sfiorando la spalla dell amica.

Vado anch'io. Riferisco le notizie alla squadra. Ciao, Lisa.– E Foreman fece per andarsene.

Foreman! Aspetta. – Cuddy gli corse dietro e lo bloccò sulla porta a vetri.

Che c’è?

House ha avuto un'allucinazione, poco fa.


Accidenti. Come aveva potuto essere così imprudente? Le allucinazioni sono un fatto estremamente privato, soprattutto se coinvolgono donne di cui si è innamorati. Che cosa aveva capito lei? Che cosa aveva sentito? Si ripropose di essere estremamente rude, da quel momento in poi. Meglio evitare il rischio di peggiorare la situazione con confidenze imprudenti.

Teneva gli occhi ostentatamente chiusi.

C'era Wilson, lì fuori. L’aveva capito dal profumo al muschio bianco della felpa McGill. Quella grigia e informe che Jimmy possedeva da un secolo. La indossava spesso, quando era triste. Quando pensava ad Amber, di solito... Lei gliela prendeva sempre, quando vivevano insieme. Era un po' di tempo che Wilson non girava con quella cosa addosso. Povero Jimmy. Un bel casino anche per lui.

Lo sentì sospirare profondamente, poi la poltrona scricchiolò. Si era seduto e di sicuro lo stava osservando. Pensò di raccontargli la propria disperazione... Poi lo sentì soffiarsi il naso e decise di continuare a fingere di dormire.


Cuddy e Foreman erano nello studio di House.

Un’allucinazione?

Sì, mentre ero con lui. E possibile che sia tutto dovuto all’incidente? –

Ha avuto un trauma cranico piuttosto forte, le allucinazioni potrebbero essere una conseguenza. –

A cos’altro potrebbero essere dovute?

Beh, sinceramente io non vedo alcuna causa che valga la pena indagare. Dovremmo ripetere la risonanza per ricontrollare l’entità del trauma cranico. Non mi sembrava così esteso, ieri notte.

Non abbastanza da provocare allucinazioni?

No.

Foreman uscì di corsa dallo studio, in cerca della squadra.

Cuddy restò sola nel sancta sanctorum del suo primario di Diagnostica.

Vide la palla rossa; vide il libro del Lupus infilato con cura nel piccolo scaffale; vide il giradischi Sota, quel costoso oggetto che era costato ad House quattro settimane di clinica, anni prima. Le sembrarono secoli. Stacy l’aveva lasciato da poco. Lui si aggirava per l’ospedale con il suo bastone nuovo e sembrava fuori dal mondo, ancora più del solito. C’erano giorni in cui restava semplicemente chiuso nel suo studio a sfogliare cartelle di casi che non avrebbe preso, ascoltando i suoi 45 giri con il Sota.

House. Pago il primario di Diagnostica più famoso degli Stati Uniti perché passi interi pomeriggi sdraiato sulla moquette del mio ospedale ad ascoltare musica?

Non ho casi.

Hai sei files sulla scrivania. Scegli.

Il primo ha un auto-immune. Fai fare il test: ci vorrà meno di una settimana per rimandarlo a casa. Il secondo ha una sindrome paraneoplastica. Fagli fare una risonanza e spediscilo da Wilson. La terza non ha l’assicurazione sanitaria e le ho già prenotato un check-up completo. Il quarto e il quinto non hanno niente. Sono arrivati insieme, hanno le braccia piene di lividi e nessuno viene a trovarli. Droga. Mandali al piano di sopra. La sesta ha la sifilide: non ha voluto fare il test.

Cuddy si era sentita annientata.

Adesso potresti voltarti, offrirmi l’incantevole panorama del tuo didietro e attraversare quella porta, prima che inizi The season of the Witch ?

Certo che no. Alzati e scendi in clinica, o il giradischi sparisce entro sera.

Questo è un ricatto.

Certo che lo è. Niente casi ancora per un mese e tieni il giradischi, ma le mattine le passerai in clinica. Avanti.

Lui si era alzato e l’aveva seguita.

Il giradischi Sota era rimasto al suo posto per altri nove anni.


Cuddy mise un disco sul piatto.

Le note di un pianoforte blues riempirono la stanza.

Risentiva le sue parole, durante l’allucinazione. La chiamava Lisa, le sussurrava cose carine. Non poteva essere.

Si era scusato per l’ora, aveva pianto e sospirato...

In quell allucinazione era stato da lei, ne era certa.

Era da lei che stava andando, prima dell'incidente.

Era lei che amava.

Non riuscì a riprendere la palla, che sbatté contro il pavimento e rotolò fuori, nel corridoio. Lei colpì il vetro ricamato di pioggia col pugno chiuso, poi vi appoggiò la fronte e, scossa da un brivido, al contatto con la finestra, pianse a lungo.

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Capitolo 15
*** capitolo Quindici ***


Erano a letto. Insieme.

I vestiti abbandonati nel corridoio, il fuoco che languiva nel camino, mandando i suoi ultimi bagliori, la pioggia che rigava le finestre.

Dobbiamo ancora scrivere il discorso di apertura... –

Lo so.

Si baciarono.

Cosa dirai?

Che il Decano di Medicina fa l’amore come una cheerleader indiavolata.

Non fare l’idiota.

Lui le passava le labbra sul collo, delicatamente.

Profumi di sole.

Lei gli accarezzò il viso: lesse nel blu del suo sguardo stanco un barlume di felicità che non vi aveva mai notato.

Parlavo del discorso al congresso...

Anch'io.

Sul serio, di cosa parlerai?

– Il mio paziente ha il lupus: parlerò di lui e del suo jet lag frainteso. Notizia bomba per i businessmen... –

House.

Sì, Cuddy.

Siamo impazziti entrambi?

Io mi sono divertito. Dovremmo rifarlo.

Ti amo.


Dannazione. Era successo di nuovo.

Jimmy era in piedi, al suo fianco. Gli occhi sbarrati, lo fissava con uno stupore immenso.

House, ti senti bene?

Certo che sì. Mai stato meglio. E senza Vicodin.

No, è che... Beh, hai appena fatto l’amore con Cuddy.

Lasciami almeno sognare, perdio.

Era un'allucinazione.

Era un sogno. –

– Era un'allucinazione. L’ EEG non mente e ti abbiamo messo gli elettrodi mentre dormivi. Foreman vuole accertarsi dell'entità del trauma cranico.

Beh, almeno questa volta lei non era nella stanza.

Wilson...

Sì?

Tieni la bocca chiusa su questa storia.

Senza rispondere, Wilson uscì attraverso la porta a vetri.


I traumi spinali non danno allucinazioni. Era impossibile. Poteva essere stato il trauma cranico, ma aveva ricevuto il colpo principale alla base del collo. La testa era stata interessata solo marginalmente, non poteva esserci un ematoma tale da provocare allucinazioni, e in più non aveva battuto la testa nel punto giusto. Pensò allo shock psicofisico dell incidente. Ma gli parve un’ipotesi campata per aria, una giustificazione a posteriori.

Quelle allucinazioni avevano un altra ragione.

Ma quale?

Non ricordava nulla di preciso, del giorno dell incidente. Nella sua mente c’erano solo la corsa in moto, la Land Rover e quella strana giornata che aveva vissuto mentre era incosciente.

La prima delle allucinazioni. Sopraggiunta istantaneamente...

Ma prima, cosa aveva fatto?

Era partito da casa?

Era partito dall ospedale?

Ricordava solo che aveva avuto bisogno di lei. Senza mediazioni, senza compromessi. Era partito per andare da lei. Ma da dove? E cosa l’aveva spinto fuori nella pioggia?

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Capitolo 16
*** capitolo Sedici ***



Povero piccolo.

Lo guardava dormire dalla vetrata della stanza, immobile. Gli occhi chiusi, a nascondere il cielo che c'era dentro, le braccia inerti, abbandonate lungo il corpo. Il petto che si alzava e si abbassava pianissimo al ritmo del respiro ancora faticoso. L'EEG emetteva suoni regolari, a cui si univa il monitor dei parametri vitali. Quel concerto la angosciava dal profondo, rendendo ancora più tragico il silenzio di quel corpo abbandonato dalla scintilla del movimento.

Povero piccolo.

Una visione le attraversò la mente: di lì ad un anno, lei sarebbe stata ancora tra quei corridoi, avrebbe ancora infuso la vita a quell'ospedale di cui era la madre. Ma ci sarebbe stato anche lui? Pensò a quel futuro prossimo, ma ancora pieno di interrogativi: non poteva lasciarlo tornare a casa senza strappargli la promessa che un lunedì mattina avrebbe attraversato ancora le porte scorrevoli del Princeton. La squadra non l'avrebbe abbandonato, avrebbe potuto fare il suo lavoro come sempre aveva fatto: insultare i pazienti, insultare i colleghi, insultare lei e salvare qualche decina di vite all'anno. Wilson sarebbe stato sempre al suo fianco, lei avrebbe cercato di aiutarlo senza invadere la sua complicata interiorità... Non avrebbe mai parlato di quell'allucinazione, della sera dell'incidente. Non l'avrebbe turbato con i propri desideri egoistici, dopo che la sua vita si era così tragicamente complicata. Ci sarebbe stata sempre, per lui. Ma non doveva permettere che si rinchiudesse nel silenzio del proprio appartamento, a fissare un pianoforte che non poteva suonare.

Lui continuava a dormire profondamente.

Pensò che non gli avrebbe fatto alcun male, e che avrebbe potuto dirgli addio e votarsi a lui per sempre, ad un tempo.

Entrò nella stanza e tirò le tendine. Si sedette al suo fianco.

Gli passò la mano tra i capelli. Gli accarezzò il viso, come aveva fatto la sera dell'incidente. Avvicinò le labbra alla sua fronte e la sfiorò. Chiuse gli occhi e lo baciò delicatamente.

Nei secondi interminabili di quel bacio rubato al sonno, giurò a se stessa che da quel momento sarebbe stata il suo angelo custode e disse addio all'amore.


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Capitolo 17
*** capitolo Diciassette ***



– Non posso credere che sia successo. –

– Pioveva. –

– Lo so. E' che era già così infelice. E' assurdo. –

– Sai benissimo come guida la moto. Hai provato, no? –

– Sì, ma... io... –

– Non piangere tesoro. Vedrai che le cose andranno a posto. –

– Niente andrà a posto. –

– Lo aiuteremo noi. –

– Non ci vorrà. –

Chase abbracciò Cameron e restarono immobili, infreddoliti dal vento che tirava sulla terrazza del Princeton. Nemmeno lui credeva a se stesso, quando aveva rassicurato lei. Nei suoi occhi vorticavano ancora i frammenti di vertebra conficcati nel midollo. La schiena ancora gli dava il tormento, dopo le ore che aveva passato, chino sul suo ex capo che rischiava di morire ad un suo minimo movimento sbagliato.

La compressione del midollo era ben visibile, anche se il trauma non era nettamente definibile. Da questo punto di vista, pensò che forse, rientrando lo shock spinale, si sarebbe potuto recuperare qualcosa.

Ma questo discorso con se stesso l'aveva già fatto, seduto con la schiena al muro e il camice sporco.

Concentrò tutto il suo essere sul profumo di lei, sui suoi capelli e sulle loro mani che si stringevano.

Tornarono a casa in silenzio e quella sera restarono a lungo sul divano, persi ciascuno nei propri ricordi di un tempo che riuscivano chiaramente a giudicare felice solo adesso, che non sarebbe più ritornato.


In quelle ore, dall'altra parte della città, nel piccolo bar dove tante volte Chase e Cameron si erano ritrovati con Foreman, quest'ultimo sedeva in compagnia dei suoi attuali colleghi. Ed anche lui, silenziosamente, tornava con la memoria ai ritrovi di qualche anno prima.


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Capitolo 18
*** capitolo Diciotto ***



– Questa è un'allucinazione. –

– Assolutamente. Conoscendoti, pensavo ci arrivassi prima. –

– Allora perché mi perseguiti? –

– Per mostrarti quello che perderai. –

– L'ho già perso. –

– Non è detto. –

Erano ancora a letto. Il camino si era spento e giacevano nel buio.

– Tu non mi vorresti mai, nella vita vera. –

– Nella vita vera, tu non saresti a letto con me. –

– Stai scherzando? Erano secoli che aspettavo questo momento. –

– Non è vero. Erano secoli che stavi solo e covavi la tua disperazione. Erano secoli che non avevi il coraggio di una parola di affetto sincero. Il mio sedere, le mie tette, i giochini con il puntatore laser, il sabotaggio dei miei appuntamenti... –

Lui tacque. Non era del tutto sbagliato il suo punto di vista.

– Non mi hai mai capito. –

– Allora com'è che sei venuto qui stasera? –

– E' quello che vorrei sapere anch'io. –

– Dovresti sforzarti di ricordare. –

– Avevo bisogno di te. Accidenti. Fuori mi avranno sentito. Prega che sia solo in camera. –

– Avevi bisogno di me? –

– Sì. –

– Ed era la prima volta? –

– No... –

– Allora perché sei uscito proprio questa sera? –

– Io non lo so... –

– Pensaci. –

– Io... io... ero a casa mia. Da solo. E fuori pioveva. Stavo suonando la chitarra... E la gamba... la gamba mi stava uccidendo. –

– E...? –

– E... ho preso il Vicodin... –

– Questo lo immaginavo. Quindi sei venuto solo per merito di un oppiaceo che ti ha dato lo sballo. –

– No... Cuddy, ti prego. –

– Sforzati di ricordare, allora. –

– Ho pensato a te. Ho pensato che fossi sola... e probabilmente guardavi il salotto vuoto. E ho pensato... niente. –

– Cosa hai pensato? –

– Io... ho pensato che magari potevamo stare un po' insieme. –

Lei non gli rispose. Tutto cominciava a svanire lentamente. Sperò di non trovare nessuno in quella dannata stanza.


Aprì gli occhi.

Nella penombra si distingueva la poltrona vuota di Jimmy con la sua giacca abbandonata su un bracciolo. Le tendine erano chiuse, si sentiva il vento fuori, su Princeton.

E c'era lei.

Dormiva. Curva sul suo letto, si era finalmente abbandonata al sonno, la mano destra sul suo braccio e la sinistra a cingergli l'addome. Doveva avere pianto: le lacrime gli avevano bagnato la mano sinistra, su cui lei aveva poggiato il viso prima di addormentarsi. Assorbì il calore di quelle guance calde e umide di pianto. In tutta quella disgrazia, non gli importava la piega che la propria vita aveva preso: quello che lo gettava in una tristezza infinita era la disperazione dipinta sul viso della donna che amava.

Sfilò la mano da sotto il viso di lei e le accarezzò i capelli.

In quel momento, entrò Wilson e lo guardò, gli occhi sbarrati.

Si rese conto di quello che era successo.


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Capitolo 19
*** capitolo Diciannove ***


– Sia ringraziato il Cielo. –

– Chase aveva ragione, lo shock sta rientrando. Potrà almeno suonare il dannato piano e scolarsi il suo scotch. –

– Perché sei così cinico? –

– Non sono cinico, Lisa. –

– No, ma gli somigli pericolosamente e vorrei capire il perché. –

– Perché non ci sta raccontando tutto. –

– Cosa intendi dire? –

– Dico che non mi convince la sua reazione. –

Cuddy non rispose.

– Gli abbiamo detto che ha perso l'uso di braccia e gambe per sempre: tutto quello che lui ha detto da quel momento sono le battutacce che faceva anche prima. –

– Lo conosci. Tiene tutto dentro. –

– Questa volta non dovrebbe: rischiamo di perderlo per sempre, se non si apre con noi. –

– Lo so. –

Cuddy si passò le mani tra i capelli, sospirando, e si appoggiò alla parete dello studio di Wilson. Lui si alzò e andò ad abbracciarla.


– Dove eravamo rimasti? –

– Non ho voglia di parlare con te. Ricominciamo quello che stavamo facendo prima... –

– Devi capire. –

– Che cosa? –

– Cosa ti ha dato il coraggio che non hai mai avuto. –

– Non c'è niente da capire. Volevo vederti. –

– Anche altre volte, ma non hai mai fatto il passo decisivo. –

– Sei noiosa. –

– Guarda. –

Lo scenario cambiò improvvisamente. Cuddy e House erano in piedi, nell'appartamento di lui. Fuori, un crepuscolo autunnale si intuiva dietro le nuvole gonfie di pioggia.

– Fa dannatamente freddo qui dentro. –

– E' perché siamo avvolti nel lenzuolo di casa mia. –

– Capisco. –

Lei sorrise.

Dal salotto proveniva il suono di una chitarra. Camminarono, avvolti nel lenzuolo, lungo il corridoio.

House suonava, seduto sul divano di pelle. L'aria profondamente assorta, un bicchiere vuoto sul tavolino, la boccetta vuota del Vicodin rovesciata vicino ad un libro.

– Che allucinazione sofisticata. Vedo me stesso. –

– Mi sottovalutavi? –

– Certo che no. –

– Bene. –

House seduto sul divano alzò gli occhi, ignaro della coppia che gli stava di fronte. Fissava qualcosa dietro le loro spalle, in alto. Lasciò la chitarra e si strinse la coscia destra con le mani. Credettero di vedere delle lacrime di dolore rigargli le guance.

– Oh, mio Dio... –

– Cominci a capire? –

– Io... non ricordavo di... –

– Zitto. Guarda. –

House si alzò a fatica. Prese qualcosa da un ripostiglio. Sembrava...

– Non lo fare... –

– Non puoi cambiare le cose. Non puoi cambiare quello che sei. –


I cercapersone impazzirono nelle tasche di Wilson e Cuddy, che si precipitarono verso la Terapia Intensiva.


– House! –

L'ECG si riempì di picchi irregolari.

– Cuddy... –

– Presto, un carrello emergenze qui! – Wilson uscì in cerca dell'infermiera di guardia.

– Non avere paura, ce la farai... –

– Le...allucinazioni... –

– Wilson! Dove ti sei cacciato! Sta per entrare in arresto cardiaco! – Cuddy corse alla porta.

House ansimava come mai nella sua vita, cercando la forza di parlare.

"Non lasciarmi. Ti prego. Fammi rivedere il tuo viso e poi vi lascerò in pace...tutti..."

Cuddy si voltò verso House, poi verso la porta, poi di nuovo verso House.

– Non era il trauma cranico... – Stava per finire il fiato. Doveva sbrigarsi.

– Ma cosa dici! – Cuddy si chiese dove diavolo erano finiti.

– Mi dispiace... io... ti... –

Mentre Wilson e l'infermiera portavano il defibrillatore, House chiuse gli occhi e i picchi impazziti dell'ECG ricaddero su una linea retta, emettendo un suono continuo.


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Capitolo 20
*** capitolo Venti ***


– No... – Wilson si bloccò sulla soglia della stanza, incapace di muovere un passo. No... non poteva essere. Non così, non questa volta.

– Wilson! Per amor di dio! – Cuddy gli strappò le manopole del defibrillatore e si gettò su House, aprendogli il camice per scoprirgli il petto, mentre impediva alla disperazione di prendere il sopravvento.

Applicò il gel alle piastre.

– Carica a 200 joule! – Il sibilo della pressione attraversò la stanza.

– Libera! –

L'ECG continuava la sua corsa rettilinea.

– Carica a 300! –

Un altro sibilo.

– Libera! –

Quel dannato ritmo sinusale.

– 360! –

Wilson era impietrito, ancora fermo sulla soglia.

– Libera! –

Niente.

– Dannazione, House! – Cuddy tolse le piastre.

Il breve minuto di rianimazione cardio-polmonare le sembrò un'eternità. Spinse con tutta se stessa: tutto il suo essere era concentrato nelle proprie mani incrociate, che non gli avrebbero permesso di scappare ancora e per sempre.

Era così che si riportavano in vita le persone. Due soffi di aria nella bocca tenuta aperta e trenta spinte sul petto, le mani incrociate sopra lo sterno. E poi le preghiere silenziose, una per ogni spinta. E la paura, un fiotto di paura dal sapore aspro che le inondava i polmoni ogni volta che le loro labbra si staccavano.

– Wilson! Che cosa succede? – La squadra era arrivata di corsa, insieme a Cameron e Chase. Videro la scena che si stava svolgendo nella stanza e capirono all'istante.

– Era in fibrillazione ventricolare, è andato in arresto. Non ha risposto ai primi tre shock. –

Cuddy caricò di nuovo il defibrillatore.

– Libera! –

Stava trascorrendo troppo tempo. Ogni minuto che passava senza ripristinare il ritmo sinusale significava dieci possibilità in meno su cento di salvare il paziente. Come mai le era capitato, le scorrevano davanti le immagini degli anni dell'università. I libri su cui aveva letto queste cose, le pagine con le figure che spiegavano la CPR prendevano vita nei suoi occhi velati di lacrime.

Caricò a 300.

Rivide loro due, studenti.

Non puoi farmi questo!

Scaricò.

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Capitolo 21
*** capitolo Ventuno ***



Camminava. Era solo.

Intorno a lui c'era il buio, un buio penetrante e freddo in ci si era sentito cadere progressivamente, da quando era iniziata la fibrillazione ventricolare. E adesso ci era immerso. Nessun suono, nessuna di quelle famose luci che avrebbe dovuto vedere.

Non poteva lasciarli senza la risposta.

Non si sarebbero dati pace.

O forse era lui che non voleva andare da nessuna parte. Forse era lui che aveva paura, che si sentiva così solo da non avere neanche il coraggio di morire.

E le immagini vennero.


Vide un bambino seduto per terra in una stanzetta dalle mura intonacate. C'erano libri, tanti libri. Il bambino fissava la finestra chiusa e sembrava volesse attraversarla. Ma restava seduto e si asciugava le lacrime col dorso della mano.

Tuo padre non ti perdonerà mai...


Sei un ingrato!


Senza cena...


Ma come ti è venuto in mente?


Vattene nella tua stanza...


Le voci riecheggiavano nella sua testa. Sentiva i brividi corrergli lungo la schiena, aveva davanti agli occhi suo padre che lo fissava con uno sguardo denso di delusione e rabbia.


Gregory, vieni qui. Hai fatto il miglior compito di matematica della classe, potresti spiegare ai tuoi compagni il terzo esercizio?

Il ragazzino timido all'ultimo banco si alzò incerto e andò alla lavagna.


Gregory, dove pensa di andare per il college? Le metteremo a disposizione uno scritto a nome di tutti i docenti per favorire la sua ammissione alla migliore scuola che soddisferà le sue aspirazioni.

C'era un giovane uomo con i jeans strappati e la maglietta dei Pink Floyd seduto di fronte a un signore anziano.


Era più grande adesso, ma i jeans e la maglietta erano gli stessi.

Signor House, questo testo di nefrologia soddisferà sicuramente le sue curiosità: può tenerlo finché vuole... Ha già pensato alla tesi di laurea?


Ora era in un grande atrio, con un uomo elegante che gli porgeva un foglio.

Signor House, mi piacerebbe averla nel mio corso di Specializzazione...


La Johns Hopkins University è fiera di conferire al suo più meritevole figlio la laurea di Dottore in Medicina...

In un prato pieno di persone una fila di giovani in toga e tocco ritirava una pergamena. Uno di loro riceveva un abbraccio dal Decano, tra gli applausi.


Un caloroso benvenuto ai dottorandi del nuovo anno accademico della Michigan University...


Ciao, sono Lisa. Posso aiutarti?

Una ragazza più giovane, i ricci scompigliati e gli occhi chiari, parlava con il ragazzo alto e magro che si aggirava sperduto con i suoi quaderni.


Lisa.


E così il film della sua vita era arrivato a questo punto. Lisa.

Lisa che brillava come una stella nella folla di studenti, Lisa al suo primo internato in ospedale, Lisa che studia per la tesi in Endocrinologia, Lisa invidiata per i suoi voti, ammirata per la sua bellezza, rispettata per i suoi modi gentili.

Lisa e il ragazzo che parlano insieme seduti in un prato, che ballano ad una festa, che una notte giocano a fare l'amore e poi non ne parleranno mai più.

Lisa che diventa la prima donna Decano di Medicina e la seconda più giovane degli Stati Uniti.


Non puoi farmi questo!


Cadde l'oscurità, di nuovo. Chi aveva parlato? Quella voce non faceva parte della sua visione. Veniva da un punto lontano, un minuscolo bagliore che si poteva scorgere fissando dritto davanti a sé.

Un lampo di luce, una scossa.


Il corpo inerte sobbalzò sul letto.

L'onda ebbe un picco.

Poi ricadde.


–Maledizione! House, ti prego!–

Cuddy caricò a 360.

–Lisa...è... è finita.– Wilson si avvicinò al defibrillatore per scaricarlo, mentre un dolore opprimente gli attanagliava la gola e le lacrime gli bruciavano gli occhi.

– Wilson, no... –

– Dobbiamo dichiarare l'ora del decesso. –

– Libera! –

Wilson balzò di lato, colto di sorpresa.

Le piastre sul petto di House ebbero un sussulto.

Cuddy le teneva come se ne andasse della propria vita e fissava l'ECG con gli occhi spalancati, come a pregare il monitor di darle un segno.

La linea verde si alzò. La nota continua si interruppe.

Un suono intermittente riempì la stanza, mentre i segni sullo schermo disegnavano un ritmo regolare.

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Capitolo 22
*** capitolo Ventidue ***



– Ritmo sinusale ristabilito. Battito regolare. – Le piastre, ormai scariche, scivolarono sul lenzuolo.

L'emozione di quei minuti si riversò in lei, come un fiume caldo e denso.

Le mani gelide cominciavano a riassorbire calore e il sangue le affluiva al viso pallido, donandogli finalmente una tonalità rosea.

Incapace di proferire parola, gli appoggiò la mano destra sul petto, come ad accarezzare quel cuore che aveva riportato alla vita, riscaldandolo con la propria.

Wilson la tenne a lungo stretta a sé, mentre il loro pianto silenzioso si mescolava e i segni lucidi sui loro visi si incrociavano, come i sentieri di due fratelli nelle avversità della vita.


La cappella era stranamente vuota, eccetto per una figura inginocchiata in ultima fila, il camice da chirurgo, una mascherina abbandonata al suo fianco e le mani giunte, la testa china, l'aria concentrata.

Cameron si avvicinò silenziosa, si sedette a fianco dell'uomo che pregava e gli cinse le spalle. Gli avvicinò le labbra all'orecchio.

– Ce l'ha fatta. – Sussurrò.

Chase si voltò e sorrise. Lei gli appoggiò la testa sul petto e chiuse gli occhi, mentre lui la cullava, gli occhi fissi al crocifisso appeso in alto sopra l'altare, illuminato dai colori accesi delle vetrate.

Era scivolato via quando la prima serie di scariche non aveva dato esiti. Era come se qualcosa l'avesse richiamato a un bisogno atavico e irrazionale. La preghiera pura, senza richieste e senza patti, l'aveva attirato alla cappella e lì si era inginocchiato per ascoltare il suo dio.


Foreman li raggiunse nella cappella e si fermò al centro della navata. Alzò gli occhi verso il crocifisso e restò a lungo fermo a fissarlo, incapace di un ringraziamento che da troppi anni non gli fioriva più sulle labbra.

Vide Chase e Cameron abbracciati nella penombra, notò lo sguardo del collega che accarezzava quell'uomo appeso a una croce, con il sorriso di un'essenza tormentata, ma fiduciosa in una volontà superiore.

Sentì di aver perso l'abitudine alla fiducia, la capacità di affidarsi a un'essenza superiore a tutto. Stancamente, uscì dalla chiesa, per non disturbare chi ancora riusciva a leggere i segni di un libro che, per lui, aveva perso i propri colori. Trovò Tredici ad attenderlo in fondo al corridoio e si avviarono, mano nella mano, verso l'uscita.

Tornarono a casa in silenzio e quella notte dormirono con la luce accesa, abbracciati.


– Credi che si risveglierà? –

Taub e Kutner erano gli unici rimasti in Terapia Intensiva.

– E' in coma post arresto. Il cervello è rimasto senza ossigeno per del tempo. Se si fosse ripreso alla prima scossa le speranze sarebbero migliori. –

– Ma Cuddy ha insistito con le scariche. Sono stati solo pochi minuti. –

– Già. –

– Già. –

– Speriamo. –

– Sì, speriamo. –


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Capitolo 23
*** capitolo Ventitre ***



– Wilson. – Era Cuddy, affacciata alla porta dello studio, gli abiti stropicciati del giorno prima, i capelli raccolti con un elastico, il viso stanco.

Wilson alzò gli occhi dalle carte che stava consultando. Era stato inutile convincerla a tornare a casa, così a dormire ci era andato lui, ed ora cercava di riordinare i pensieri con l'aiuto del proprio lavoro di ogni giorno, aspettando che l'uomo che giaceva in Terapia Intensiva aprisse gli occhi.

Non appena la vide in piedi sulla soglia, capì perché era venuta.

– Wilson, dobbiamo parlare. –

Anche lui ci aveva pensato tutta la notte.

Si alzò e la seguì.

Lo studio di House era come ogni giorno: ingombro di carteggi, illuminato dai raggi del sole mattutino, il computer acceso e il tavolo di vetro occupato dalle cartelle dei pazienti. Mancava solo l'anima di quel luogo.

In compenso, la squadra li aspettava in silenzio, le espressioni serie.

Cuddy precedette Wilson all'interno dello studio e prese il pennarello nero.

– Allucinazioni, fibrillazione ventricolare e arresto. Idee? –

– Potrebbe essere droga, o alcool. –

– L'effetto dell'alcool si sarebbe già esaurito... –

– Il tox screen rivelava solo il dannato Vicodin. –

Cuddy camminava intorno al tavolo stringendo il pennarello.

Nello studio cadde il silenzio.

– Potrebbe essere la Sindrome di Cushing. –

Tutti si voltarono verso Wilson, che era rimasto in silenzio fino a quel momento.

– Un quadro conclamato e non diagnosticato in precedenza spiegherebbe la psicosi e la fibrillazione... –

– Ma non presenta gonfiore al volto... –

– Potrebbe avere delle ecchimosi, però. –

Il dibattito si era acceso.

– Ha avuto un incidente, ce ne sono ovunque. –

– Non è detto che siano solo per l'incidente... –

– Qualcuno ha controllato i livelli di ACTH? –

– No, è arrivato in codice rosso per shock spinale. –

Cuddy uscì di corsa.


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Capitolo 24
*** capitolo Ventiquattro ***



Erano soli nella stanza.

Lei gli si avvicinò piano, guardandolo dormire profondamente, mentre le macchine ticchettavano e risuonavano.

Gli scoprì le braccia forti, sognando un giorno in cui l'avrebbero stretta in un abbraccio, e passò le dita lungo gli avambracci.

Gli voltò i palmi delle mani e mentre li osservava vi depositò un bacio silenzioso, poi li lasciò ricadere sul lenzuolo immacolato.

Tirò indietro la coperta e gli scoprì le gambe. Una morsa gelata le strinse il cuore alla vista della cicatrice sulla coscia destra. Risentì nelle proprie mani il foglio firmato da Stacy, il bisturi freddo, il sangue dell'uomo che entrambe avevano tacitamente condannato, nel tentativo di salvarlo. Accarezzò la ferita e percorse con lo sguardo l'intera gamba, poi passò all'altra.

Gli slacciò delicatamente il camice, accarezzando quel petto che si sollevava pianissimo. L'addome era pieno di striature rossastre e segni violacei.

Potevano essere i segni del Cushing.

Riallacciò il camice e lo coprì di nuovo, poi uscì, voltandosi a guardarlo, prima di allontanarsi.


– Presenta ecchimosi diffuse sul tronco. Dobbiamo fare lo screening per il Cushing: 1 mg/h di desametasone endovena in infusione continua per 7 ore. Andate. –

La squadra uscì. Cuddy restò sola con Wilson.

– Sei sicura di avere visto bene? –

– Sono un'endocrinologa. –

– E lui ha avuto un incidente: è pieno di lividi. –

– Wilson. – Cuddy si avvicinò all'amico, mettendolo con le spalle al muro. – Dobbiamo scoprire cosa non va. Voglio essere con lui quando si sveglierà, e dirgli che abbiamo la risposta e che tutto andrà bene. Voglio tenergli la mano e rassicurarlo che abbiamo fatto il possibile per lui. Io... io glielo devo. –

Si voltò di scatto e si passò il dorso della mano sulle guance per asciugare il pianto che le aveva improvvisamente inumidite.

Wilson restò in silenzio. Era stata sua l'idea del Cushing. Non poteva ritrattare, ma temeva che stessero prendendo un grosso abbaglio.

– Se non risponde al desametasone dovremo fare una risonanza per cercare un tumore surrenalico o un adenoma ipofisario. –

– Già. –


Mentre il sole di mezzogiorno riscaldava la mattina di novembre, House dormiva nel suo letto in Terapia Intensiva.

La donna che amava, seduta da sola sulla terrazza dell'ospedale, respirava l'aria frizzante e rifletteva sulla piega che le loro vite avevano improvvisamente preso, mentre il suo migliore amico visitava i propri pazienti e regalava loro i sorrisi che non riusciva a regalare a se stesso.

Chase operava appendici e ricuciva incisioni toraciche, mentre Cameron fluttuava tra i letti del Pronto Soccorso dispensando consigli e medicinali, aiutata da Kutner, di turno con lei.

Foreman, nello spogliatoio, leggeva una vecchia Bibbia che teneva da anni nell'armadietto, mentre Taub faceva la stessa cosa nella sinagoga del quartiere ebraico.

In quelle ore, Tredici telefonava a suo padre, che non sentiva da quando si era laureata ed era venuta a Princeton.

Tutto il resto del mondo, ignaro dell'evento che aveva colpito questo gruppo di persone, correva veloce per le strade e dentro e fuori le case e gli uffici.

Le gocce cadevano lente attraverso il tubicino sottile e trasparente, fin dentro le vene tormentate di House.

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Capitolo 25
*** capitolo Venticinque ***



– Non è Cushing. –

Cuddy e Wilson, che bevevano un tè nello studio di quest'ultimo, si voltarono verso la porta a vetri, che si era spalancata all'improvviso: c'erano Kutner e Tredici.

– Avete le analisi? – Wilson corse loro incontro e prese la cartella blu.

– La risposta al desametasone non è risolutiva, se fosse Cushing i livelli sarebbero almeno oltre 200. –

– Dev'esserci qualcos'altro... dobbiamo vedere il surrene in risonanza magnetica. O l'ipofisi... –

Wilson si lasciò scivolare sulla poltrona vicino alla finestra. Vedeva di sbieco lo studio di House, vuoto.

Se non era Cushing doveva essere un tumore della ghiandola surrenale o un adenoma ipofisario. Sentì da qualche parte vicino alla bocca dello stomaco un vuoto d'aria improvviso e gli sembrò di precipitare da un'altezza vertiginosa.

Fronteggiava questo genere di notizie ogni giorno., dava sentenze di morte a persone di ogni genere, età o sesso.

Sapeva che il Caso non sceglieva: nei suoi occhi si riflettevano i visi della gente che aveva curato anche solo perché lasciasse la vita in pace e senza soffrire più di quanto fosse umano e dignitoso.

Solo adesso si rendeva conto di quanto fosse diverso cercare la morte dentro il tuo migliore amico.

– Preparatelo per la risonanza, io arrivo subito. –

E con queste parole, liberate in un sussurro, Wilson uscì dallo studio.

Cuddy lo seguì di corsa, ma non fece in tempo ad uscire in corridoio: l'aveva già perso di vista.


– Non posso crederci. – Kutner entrò nella stanza di House, seguito da Tredici.

– Che morirà? Non sappiamo a che stadio si trova. Potrebbe... –

– Ha avuto un arresto cardiaco, ha l'addome segnato di viola e le allucinazioni. A che stadio pensi che sia? – Taub era entrato in quel momento, e dietro le sue parole dure si poté cogliere un tremore della voce.

– L'incidente prima, e ora questo. Sembra uno scherzo. –

– Ha avuto l'incidente perché aveva le allucinazioni, ha avuto le allucinazioni perché qualcosa non funziona e così anche per la fibrillazione ventricolare. Il qualcosa di cui parliamo è un probabile tumore dell'ipofisi o del surrene, che spiegherebbe i lividi sull'addome. –

– E tu non lo trovi assurdo? –

– Lo trovo possibile. –

Con queste parole, Taub pose fine alla conversazione, mentre Tredici pensava alle categorie di "assurdo" e "possibile", cercando di applicarle alle vite segnate dal destino, e in particolare alla propria.


Il telefono suonava libero, ma nessuno rispondeva.

"Wilson, accidenti."

Cuddy riattaccò il telefono e afferrò il cappotto. Un attimo dopo la porta scorrevole del Princeton Plainsboro si era chiusa dietro di lei.

Lo trovò seduto sui gradini dell'ingresso del civico 221/B, la testa tra le mani.

– Oh, James. –

Si sedette vicino a lui e gli cinse le spalle. Restarono qualche minuto in silenzio, seduti sul marmo gelido, mentre la gente sfilava lungo la strada senza accorgersi di loro.

– Jimmy. –

Lui sollevò la testa e la guardò mentre il sole le disegnava ciocche ramate tra i capelli corvini. Pensò che di loro due quella forte per davvero era lei. House aveva detto bene: lui non sopportava che la morte potesse scegliere senza ragione e preavviso e per questo si era costretto a vederla ogni giorno negli altri, per crollare, poi, quando questa lo colpiva da vicino. House aveva ragione. House aveva sempre ragione.

Si alzò.

– Dobbiamo andare, lo so. –

Ora erano entrambi in piedi di fronte alla porta dell'appartamento. Scesero gli scalini insieme, lentamente, consci di avviarsi, finalmente, verso la verità.


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Capitolo 26
*** capitolo Ventisei ***



E così l'aveva trovato, finalmente. Cuddy vedeva gli occhi del suo amico velarsi di tristezza ogni volta che i loro sguardi si incrociavano. Pensò alla solitudine di Jimmy, alla sua battaglia quotidiana e segreta contro la crudele casualità della vita, che prima gli aveva tolto Amber e adesso cercava di privarlo del suo migliore amico.

Probabilmente, in quel momento, la squadra stava iniettando il contrasto. Il Princeton era a dieci minuti da lì. Pensò che avrebbero potuto prendersi ancora qualche attimo di solitudine. Fu allora che entrambi si fermarono davanti alla finestra del salotto, che dava sulla via.

Guardarci dentro faceva quasi male al cuore. Il pianoforte aperto con un bicchiere vuoto appoggiato sopra, i libri, in parte sparpagliati sul tappeto, in parte occhieggianti dagli scaffali della libreria di pino. Il divano di pelle nera con la chitarra appoggiata sul bracciolo, che sembrava riposare nel silenzio della casa vuota.

Il tavolino di cristallo, ingombro, di fronte al caminetto.

Il tavolino.

– Wilson... –


Un attimo dopo erano nell'atrio. La porta era stata lasciata aperta, come se il padrone di casa si fosse premurato di non mettere in difficoltà eventuali visitatori.

Cuddy corse dentro per prima. Quel luogo parlava al suo spirito più di mille parole. Si respirava la solitudine, si vedeva la cultura di un intelletto fine, si potevano ancora sentire le note di un musicista sensibile.

Mentre i suoi occhi si riabituavano alla penombra dell'interno, calpestò qualcosa.

In quel momento la raggiunse anche Wilson.

– Lisa, cosa fai? La squadra ci starà aspettando. Sono stato un idiota a sparire... –

Mentre finiva la frase, la vide, immobile al centro del salotto, gli occhi spalancati a fissare quello che teneva in mano.

Una siringa.

– Oddio... –

Sul tavolino pieno di libri, dischi e flaconi di Vicodin vuoti, c'era...

– Wilson, chiamali. Annulla la risonanza. –


Mentre Cuddy e Wilson si precipitavano nella stanza di House, questi aprì gli occhi.


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Capitolo 27
*** capitolo Ventisette ***



Restarono immobili sulla soglia per alcuni secondi.

Lui, lo sguardo ancora velato dall'incoscienza, cercava di sintonizzarsi sul mondo reale leggendolo nei due visi che più gli erano familiari.

Cuddy mosse qualche passo lento e incerto verso il letto.

– House... –

Si sedette piano sul lenzuolo bianco e, tenendogli la mano come se ne andasse della propria vita, gli posò il capo sul petto, incapace di dire altro e sopraffatta dall'emozione.

Lui sollevò a fatica il braccio libero e la strinse a sé, in un gesto reso maldestro tanto dagli aghi e dai tubi, quanto dal suo non esserne avvezzo.

– Mi dispiace. Mi dispiace tanto. –

Wilson uscì senza fare rumore.


– Wilson, cosa sta succedendo? Eravamo pronti... – Foreman e gli altri lo attendevano nel corridoio.

– Non c'è nessuna malattia del surrene. –

Gli sguardi interrogativi parlavano da sé.

– E' stata un'overdose di ketamina endovena. Deve averla presa insieme ad alcool e Vicodin, che hanno mascherato il test tossicologico. Spiega tutto: le allucinazioni, sopraggiunte da subito e che hanno provocato l'incidente, la fibrillazione ventricolare e l'arresto cardiaco anche dopo diverse ore per il concorso di alcool e oppiacei che hanno prolungato l'effetto. I lividi erano dovuti alla caduta: nient'altro che ematomi da urto. E la paralisi... –

In quel momento arrivò Chase, sfiancato dalla corsa.

– Wilson! – Vide la squadra ancora colpita dalla rivelazione e capì.

– Cos'ha preso? –

– Ketamina endovena. –

Chase restò in silenzio per alcuni secondi.

– L'overdose da ketamina, se abbinata ad alcol e altre sostanze, provoca insensibilità diffusa agli arti e paralisi. –

Tutti si voltarono verso di lui. Wilson lo guardò negli occhi. Lo sapeva. House aveva abbracciato Cuddy perché stava finendo l'effetto della ketamina.

Il trauma spinale era instabile. L'insensibilità data dalla ketamina aveva peggiorato la situazione. Forse, con il tempo e la riabilitazione, avrebbe potuto muovere qualche passo.

Ma per il momento, i pensieri di tutti loro erano per lui, vivo.


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Capitolo 28
*** capitolo Ventotto ***



– Ciao. –

Wilson entrò nella stanza. La luce vi si riversava dentro dalla finestra che dava sul giardino dell'ospedale e inondava le pareti immacolate di una tonalità solare.

House sedeva nel letto, sostenuto da un paio di grossi cuscini: con un libro aperto e diverse cartelle sparse sul lenzuolo, giocherellava con una penna stilografica. Alzò lo sguardo verso il suo amico.

– Ehi. –

Si scrutarono.

Ognuno dei due cercava di decifrare i sentimenti dell'altro ogni volta che si vedevano, da quando House si era svegliato. Ciascuno cercava nell'altro i segni di una normalità che lentamente si faceva strada nelle loro vite, dopo la tempesta che li aveva investiti. Era gennaio.

– Come stai? –

– Ho un caso. E altri tre in coda. –

– Lo so. –

– Ti va una boccata d'aria? –

– Sì. –

Wilson aiutò l'amico a tirarsi su e gli prese la giacca.


Un paio di minuti dopo, sbuffavano vapore nell'aria fredda di gennaio e lasciavano che il debole calore di quell'abbacinante sole invernale riscaldasse i loro visi.

Non parlavano.

Wilson osservava il suo amico mentre scivolava attraverso i viali del parco, ipnotizzato dalle mani che passavano e ripassavano agilmente sulle guide metalliche delle ruote. Sembrava che quella sedia a rotelle fosse una parte di lui, più ancora di quanto lo fosse stato il bastone. Wilson non era sicuro che House fosse felice. Ma chi è felice, del resto? Non credeva che le persone potessero cambiare, ma vedeva negli occhi celesti dell'amico qualcosa che prima non vi aveva mai scorto. Era come un lampo che improvvisamente gli passava nello sguardo mentre parlavano, mentre pranzavano al bar, mentre la sera giocavano a poker nella stanza di House.

Era sollievo.

Un sollievo che non aveva nulla di metafisico.

Un sollievo reale, concreto, terreno.

House non provava più dolore.

Il Caso, scagliandosi su di lui, gli aveva mostrato spiragli nuovi di cielo.

E neanche House parlava, mentre filava veloce tra panche e fontanelle, costeggiando il fiume. Pensava esattamente a ciò che passava in quel momento per la testa di Wilson. Pensava alla serie di coincidenze che l'avevano portato a girare per il parco su una sedia a rotelle, mentre il suo migliore amico lo osservava in silenzio. E non poteva fare a meno di guardare il cielo e prendere lunghi respiri, e mentre inspirava godersi l'assenza della fitta terribile alla coscia, che per anni era stata la persecuzione di quell'atto così naturale per tutti gli altri.

E poi, improvvisamente, pensò a lei.

Ogni notte, dal giorno in cui si era svegliato, lei era stata con lui. Ogni notte, quando lui chiudeva gli occhi, entrava piano nella stanza buia e silenziosa e si sedeva al suo fianco, vegliandone il sonno fino a che non si addormentava anche lei. Per poi sparire, silenziosamente come era venuta, allo spuntare dell'alba, e ripresentarsi da lui durante la giornata per proporgli un caso o discuterlo con lui e la squadra, e contrattare e patteggiare e insultarsi e ritrattare. Come sempre. Come prima.

Come se il giorno e la notte fossero separati da una cortina che li rendeva impenetrabili l'uno all'altra.

Lui sapeva.

Non aveva mai aperto gli occhi, ma sentiva il suo profumo cambiare l'atmosfera della stanza, il suo respiro cullare i suoni della notte, il suo calore circondare il buio in un abbraccio. E poi, quando la sentiva alzarsi piano, apriva gli occhi in una fessura sottile, e mentre vi lasciava penetrare il primo raggio di sole di ogni mattina, la osservava andare via in una luce ambrata.

Erano ritornati in vista dell'ingresso. Wilson sembrò leggere la mente dell'amico.

– Cosa farai con lei? –

House tacque.

In quel momento, la videro. Non si era accorta di loro due e, in piedi davanti alla porta scorrevole, guardava all'esterno, l'aria persa in pensieri difficili, la fronte appoggiata al vetro. Sembrava così sola.

– Non lo so. –

Wilson si allontanò, le mani in tasca, l'aria pensierosa.

House si avviò verso l'ingresso del Princeton Plainsboro.

Era felice? Non lo sapeva. Ma chi poteva dirsi tale, senza mentire anche a se stesso?

E quando lo sguardo di lei incrociò il suo attraverso il cristallo, un raro sorriso illuminò gli occhi di House.


*** The End ***



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