How I Met Your Mother

di Nanek
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Enchanted. ***
Capitolo 3: *** Try hard. ***
Capitolo 4: *** Worth. ***
Capitolo 5: *** I miss you. ***
Capitolo 6: *** News. ***
Capitolo 7: *** Tenerife sea. ***
Capitolo 8: *** Drunk. ***
Capitolo 9: *** Impossible. ***
Capitolo 10: *** Can't have you. ***
Capitolo 11: *** Satellites. ***
Capitolo 12: *** Photograph. ***
Capitolo 13: *** Perfect. ***
Capitolo 14: *** Small bump. ***
Capitolo 15: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.
 
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Well let me tell you a story
About a girl and a boy.
 
 
 
E proprio ora che state dormendo vicino a lei, realizzo quanto la mia storia sia così unica, diversa, rara.
E proprio ora che state dormendo, studio ogni vostro dettaglio, studio questa scena, in questa notte di febbraio.
Tu, piccola mia, che dormi a pancia in su con il tuo orsetto che sta per cadere a terra, la coperta ormai che ti copre appena, le mani sempre sui capelli, anche nel sonno.
Quei capelli castani chiari, uguali a quelli della mamma al naturale, quei capelli mossi, boccolosi solo in alcuni punti, che giri con i tuoi indici in continuazione, soprattutto quando hai sonno.
Quegli occhietti chiusi, che mi nascondono lo stesso colore di occhi che ho io, quegli occhi furbi, vispi, che a volte riempi di lacrime perché la mamma non ti lascia giocare con le macchinine di tuo fratello, quegli occhi che mi rivolgi sempre nel tentativo di corrompermi, perché tu sei la mia principessa e io sono il tuo papà, il re della casa, colui che ti porta sempre un po’ troppo in palmo di mano, scatenando anche gelosie.
Ti guardo, piccolina, ti accarezzo le guance appena, per poi rimboccarti le coperte, mettendoti l’orsetto più vicino.
Un bacio sulla fronte, tu che ti muovi appena, come se mi avessi sentito.
E tu, piccolo mio, sempre rannicchiato come la persona al tuo fianco, sempre messi di lato, sempre con quella bocca socchiusa, quel respiro lieve, silenzioso, che non si ode mai.
Tu, piccolo mio, i capelli biondi, lisci, sempre ben preparati, sempre ben alzati in una cresta che mamma ti fa ogni mattina, mamma che ti considera il principino di casa.
Tu che hai i suoi stessi occhi, quel blu che mi ha fatto innamorare, gli stessi occhi, più uguali non potevano essere: la mamma ti ha aspettato con ansia, piccolo mio.
Anche io ti ho aspettato, il mio primogenito con una fossetta come la mia, il primo Hemmings, ma la mamma ti aspettava da tempo, ti voleva come non mai, sei speciale per la mamma, sei il suo bambino, ricordalo sempre.
E tu, amore mio, tu che resti sempre come allora.
Sei sempre rannicchiata sul fianco, sei sempre con la bocca socchiusa e i capelli sul viso.
Te li sposto piano, per paura di svegliarti.
Ti bacio la guancia e non ti muovi, al che sorrido, perché anche adesso il tuo sonno domina su tutto, pure su di me.
E vi guardo, illuminati appena dalla luce sul comodino, vi guardo e sorrido inconsciamente, sorrido e quasi sembro ridicolo, mentre Charlie, sempre il solito e fedele Charlie, è qui che miagola piano, come a chiedermi che mi è preso, perché sto imbambolato davanti a persone che dormono in pace.
Ma guardandovi vedo come ho portato avanti la mia vita, vedo la mia storia, la nostra storia, vedo come tutto non doveva nemmeno succedere, vedo come i pareri delle persone sono andati sfasciandosi giorno dopo giorno.
E mentalmente la sto già raccontando questa storia.
E da sciocco credo sia anche una buona idea prendere un pezzo di carta, una penna, e fingermi come la mamma, piccoli miei, fingermi scrittore e non compositore, fingermi autore di questa storia che chissà se mai vi verrà voglia di conoscere, di leggere.
Io la scrivo lo stesso, forse perché mi sento troppo ispirato, forse perché ora capisco cosa prova la mamma quando dice di dover sfogare su carta –a computer- quello che le frulla in testa.
E pensavo davvero di non riuscire a capirla, io, semplice cantante, semplice chitarrista.
Eppure sono qui, ora, con il foglio già sporcato di nero, con queste righe che riempiono già il tutto, righe che aumenteranno ad ogni secondo, righe che spero voi leggiate un giorno o l’altro.
E pensare che tutti non ci avrebbero scommesso un dollaro su di noi.
E pensare che doveva finire nell’arco di qualche mese.
E pensare che era considerato tutto impossibile.
Perché, dai, chi crede che un cantante famoso possa innamorarsi perdutamente di una fan?
Una tra mille, milioni, una che non la distingui neanche dalla folla, una che è lì e ti sembra uguale a quella accanto, una di quelle che piange, una di quelle che ti urla di ricordare i suoi occhi.
Solo una fan in mezzo ad un mare di volti che cantano le tue canzoni, volti sempre diversi, volti che magari non parlano neanche la tua lingua.
Dai, chi ci crede che questo possa funzionare davvero?
Beh, io e la vostra mamma lo abbiamo fatto.

 



 
 
Note di Nanek
MA DA QUANTO TEMPO!
Neanche una settimana dalla fine di an angel in disguise (credo) e sono nuovamente qui a rompere!
Ringraziate la Jade e la Mary perché hanno insistito molto u.u
Allora allora.
Che cosa posso dirvi di questa storia?
La mia nuova piccolina.
Beh, vi avviso: è BANALE. La trama più banale che potessi scegliere, lo so, non serve che me lo ripetiate voi, è banale e ne sono consapevole ma…
Allora, partendo dal principio: mi mancava scrivere in prima persona, mi mancava scrivere dal punto di vista di Luke e… ho deciso di sperimentare una storia narrata più al passato che al presente, questo esperimento quindi mi ha portato a chiedere aiuto ad una beta ahah quindi speriamo che di errori temporali (per i prossimi capitoli) non ce ne siano, sennò amen insomma, qualche errorino scappa sempre lol
Poi poi poi
Questo prologo è un po’ piccolino, sono solo 750 parole credo, e pensare che doveva essere solo una OS! Invece è una long di 15 capitoli!
Se non si fosse capito, il papà è Luke ahah ma lo avreste comunque scoperto dal prossimo capitolo.
Io… beh, posso solo dire che questa ff, nella sua banalità, ha praticamente davvero tantissime cose che mi riguardano, è nato tutto perché ero in attesa del concerto (LUKE WAS MINE FOR A NIGHT AAAAAAAAAAHUWHDUEHFBUERN), mi sono immaginata qualcosa e pufff! Guardate che scrivo.
Tutto sto casino per dire che: ci tengo molto a questa storia, fine.
Spero di essere puntuale con gli aggiornamenti, in caso perdonatemi le assenze, ma gli esami sono sempre più vicini D:
poi poi poi
Ringraziamo la Marmelade <3 guardate che bello sto banner *-* io mi sciolgo!!
Poi, per eventuali domande, curiosità:
Twitter: @Vanek5SOS
Ask: Nanek 
Facebook (condiviso con Andysmile): Andysmile Nanek Efp DliffordBemmings
Il trailer di questa storia è qui: https://www.youtube.com/watch?v=kLzoGYhAfeE
E… basta, insomma!
Grazie a chi vorrà leggere, a chi vorrà recensire e…. beh, ci vediamo al prossimo aggiornamento!
A presto!
Nanek

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Capitolo 2
*** Enchanted. ***


1. Enchanted
 
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And it was enchanting to meet you
All I can say is I was
enchanted to meet you
 
 
E non mi scorderò mai quel momento, quell’incontro.
Quella ragazza con la frangia, gli occhiali neri, i capelli così biondi che la si poteva notare a chilometri di distanza.
E quegli occhi blu poi, quegli occhi che ti squadrano dall’alto al basso come se avessi qualcosa fuori posto, chi se li scorda?
Sicuramente non io, che mi sono guardato i pantaloni e la camicia nel tentativo di trovare la macchia di pomodoro fresca sul tessuto, dato che ero appena uscito dal ristorante.
Perché la mamma è sempre così, non trovate?
Non lo fa di proposito, non lo fa con cattiveria, ma la prima cosa che fa appena ti incontra è fissarti, è guardarti intensamente, per poi focalizzarsi solo sui tuoi occhi, o sulla tua bocca.
Quella sua mania di leggere le labbra, inizialmente non capivo perché lo facesse, mi sembrava quasi strano, assurdo, bizzarro.
Ma, con il tempo, sono riuscito anche a dare una risposta a questo dubbio.
E quella voce poi.
Quella voce che si è rivolta a me con un tono più alto.
Un accento particolare, un inglese per niente masticato, per niente suo, come se le facesse addirittura schifo usarlo per parlare con me.
E poi, la soluzione più che logica, dato che mi trovavo a Milano.
«Sono italiana, odio l’inglese ma per te parlerei anche turco» e quella confessione detta con quel sorriso, quella confessione che mi ha fatto andare il sangue in faccia: mi sono sentito un po’ spiazzato, un po’ imbarazzato, tanto da abbassare ancora lo sguardo.
«Scusa, non volevo offenderti» e la mamma si scusa sempre, anche quando non dovrebbe.
Quel gesto timido, quella mano che ha spostato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, i nostri occhi di nuovo a fissarsi, i nostri sorrisi timidi, quel cellulare dalla cover gialla a forma di pinguino, quella foto che lei conserva ancora da qualche parte, la prima di una lunga serie.
«Ti piace? Io lo adoro questo pinguino, e adoro il giallo, se non si fosse notato dai capelli e dallo zaino» e io non parlavo, non trovavo il coraggio necessario, non trovavo le parole giuste da dirle.
Lei era solo una fan, era una tra tante, era solo un viso nuovo, un viso che avrei scordato nel giro di cinque minuti.
«Mi chiamo Vanessa, comunque, per quanto possa importare» e ho notato quella nota amara nella sua voce, ho notato quella delusione che ha velato appena quel blu, l’ho notato quel sorriso tirato che mamma fa sempre quando non è felice.
«Posso… Beh, sarò sincera: ho fatto una scommessa» e la mamma non dice mai “no” ad una scommessa «Se ti incontravo… beh, ho giurato di lasciarti il mio numero… non devi farci niente ma… beh, questo è tutto» e quasi balbettavo: chi l’avrebbe mai detto che una così timida fosse anche così… così diretta? Così sicura? Così menefreghista?
«Good girls are bad girls» ha sorriso, mentre mi mettevo quel pezzo di carta in tasca, mentre lei trovava il coraggio necessario a chiedermi un’ultima cosa.
«Un abbraccio, poi me ne vado, lo giuro» e quel suo “lo giuro” l’ho sentito ripetere fino all’esaurimento.
Perché giurare su cose così semplici?
Perché giurare ogni volta?
Perché preoccuparsi così tanto?
Lei era solo una fan, le fan possono chiedere qualsiasi cosa, sono nostre fan e vanno accontentate sempre.
Ho annuito come un idiota, mentre l’accoglievo tra le mie braccia.
La sentivo stringermi, sentivo quel suo profumo avvolgermi piano, quell’aroma che ho scoperto essere il profumo di Justin Bieber, e non potete immaginare quante prese in giro si è guadagnata negli anni.
Ho abbracciato quel corpo esile, ho lasciato che le nostre guance si sfiorassero mano a mano che ci allontanavano piano.
Le ho sorriso, mentre le sue guance si tingevano di rosso, mentre quel sorriso prendeva spazio in quelle labbra, mentre mi salutava piano e si allontanava lontana da me.
E quel foglietto è rimasto nella mia tasca per tutta la durata del concerto.
E mentre cantavo, inutile dire che la cercavo.
Ma perché, poi?
Perché questa fissa?
La verità è che non lo so.
Ho solo tentato, sono solo scappato in macchina a fine concerto, mi sono fatto tre rampe di scale in hotel e mi sono pure reso conto di essere nella stanza sbagliata, quella di Michael e Calum.
Ma avevo troppa fretta.
Mi sono lavato in neanche venti secondi, asciugandomi i capelli alla meglio, spruzzandomi il profumo dello zio Michael di fretta, quel profumo che mi ha pure fatto venire mal di testa.
Ho fissato la mia immagine allo specchio: forse, un matto avrebbe avuto un aspetto migliore del mio.
Ho preso quel foglio.
Ho digitato quei numeri.
Ho aspettato e aspettato.
E, finalmente, di nuovo quella voce.
«Pronto?»
E l’italiano ancora non lo capivo bene, neanche ora, ad essere onesti, ma almeno qualche parola la so dire, anche se voi, marmocchi, mi prendete in giro.
«Vanessa?»
Silenzio.
«Vanessa, sono Luke, sono Luke Hemmings» e io stesso ero spaventato dalla mia voce.
Ero completamente andato, ero completamente impazzito.
«Davvero?» e quell’accento inglese era tornato.
«Sì, sono io. Ci siamo incontrati oggi, dai, hai una cover gialla con il pinguino» la prima cosa che mi sono ricordato.
«Scusa, Luke, puoi ripetere? Scusa, ma non capisco bene l’inglese, scusa, lo giuro non sto fingendo» e non mi sono neanche reso conto di aver parlato come un fulmine.
«Merda, scusami tu! Scusa-» un respiro profondo, velocità ridotta «Ti scrivo un messaggio, okay?».
«Okay, Luke. Mi scrivi un messaggio, ho capito» chiamata terminata.
Ho digitato le prime cose che mi sono venute in mente, avevo le dita che si intrecciavano tra di loro, avevo l’ansia nelle vene.
“Vanessa, sono Luke. Sì, sono Luke, ci siamo visti oggi, hai la cover gialla con il pinguino, giusto? Senti, non so se sei ancora qui in giro, ma… ci provo: ti va di vederci? Solo un’oretta? Mangiamo un gelato, basta che mi dici dove sei”
Inviato.
Senza pensare, senza riflettere, senza dubitare di lei e della sua onestà.
Ho aspettato la bellezza di sei minuti e mezzo, prima di veder lampeggiare il suo numero sullo schermo.
“Io… sono qui in zona, sì. Ma sono con mio padre e… beh, ehm. Dovresti fargli vedere che sei tu, perché… beh, crede tu sia un maniaco… e… beh, ci vediamo al Duomo?”
E io che le ho dato piena fiducia, sono passato per il maniaco di turno.
“Va bene, non preoccuparti, ti capisco. Ci vediamo lì tra… dieci minuti?”
“Sì, Luke, ci vediamo lì”
Beh, bambini miei, ho conosciuto il nonno alla tenera età di diciotto anni –dovevo ancora compiere i diciannove- e dire che sono stato fulminato da un paio di occhi come quelli della mamma… è usare un eufemismo.
Bruciato sul posto, squadrato dall’alto al basso, una stretta di mano che a momenti gliela lasciavo lì.
Il mio inglese incomprensibile, il nonno che non lo parlava –e non lo parla tutt’ora-, la mamma che ha tradotto ogni cosa, per tipo cinque minuti, fino a farmi avere la benedizione per quella misera uscita.
A mezza notte meno dieci ho avuto il consenso.
E a mezza notte e mezzo dovevo portarla in hotel, non un solo minuto di più.
Siamo rimasti soli, la mamma che non ha osato guardarmi in faccia per cinque minuti.
«Scusa, davvero, io… scusa e basta. Mi sento così idiota, ridicola, scusa, davvero» cinque minuti di scuse, mentre io tentavo di inoltrarmi in qualche altro argomento.
Cinque minuti di scuse e poi una conversazione normale.
Ho scoperto tante cose, quella sera.
Ho scoperto che la mamma è più grande di me, di ben tre anni, ho scoperto che studiava lingue all’università, ho scoperto che le lingue dei segni sono diverse da paese a paese, ho scoperto che grazie a me si è innamorata degli Sleeping with Sirens, ho scoperto che ama la cover Iris, ho scoperto l’esistenza di Charlie, ho scoperto che ama scrivere e che scriveva tante –troppe- storie su di me.
«E cosa scrivi di me?»
«No, dai… non chiedermi queste cose, mi vergogno»
«Ma almeno dimmi cosa scrivi, nel senso, come mi descrivi nelle tue storie? Sono cattivo? Sono un Mr. Grey mancato?» e quell’ipotesi l’ha fatta ridere.
«In fin dei conti non mi hai mai conosciuto… vorrei sapere cosa ti immagini»
E lei ci ha pensato un po’, prima di rispondere.
«Ti descrivo come un angelo, come l’unica persona al mondo in grado di amare una come me. Sono una povera illusa, tutta colpa di Nicholas Sparks»
Un sorriso amaro.
«Credi di sbagliare?»
Ho deglutito rumorosamente nel porle quella domanda, come se avessi avuto paura della sua risposta.
«A volte… sì.»
E quella confessione mi ha fatto inciampare sui miei stessi passi.
«Perché?»
E volevo a tutti i costi farle cambiare idea, toglierle quel dubbio dalla testa.
«Beh… dai, Luke, lo so come gira il mondo delle star… tanta fama, tanti soldi, tante persone attorno» esitazione «… tante belle ragazze pronte a farsi avanti» e l’ho vista mordersi il labbro.
«Non lasciare che false voci rovinino quello che pensi di me. Quello che immagini tu è bello, è puro, è…»
«Luke, non serve che ti giustifichi, davvero. Non sono una bambina, spegnerò ventidue candele ad agosto, non ho bisogno del paraocchi, lo giuro»
E quel giuramento è stata la sua prima bugia.
Perché io già capivo.
Già sapevo cosa c’era dentro quella mente, già sapevo cosa rimbalzava da un pensiero e l’altro.
E questo mi è servito a perdere il coraggio di prenderle la mano.
Non l’ho fatto, l’ho rimessa in tasca, ho capito che non era quello il momento.
«Beh, ti è piaciuto il concerto?» ho chiesto, mentre un sorriso compiaciuto si è fatto avanti nel viso della mamma.
«Il concerto… è stato meraviglioso, davvero» ha cominciato così il suo mega discorso su quella data del tour: ha parlato di Ashton, delle parole che ha detto e che l’hanno colpita, stupita; ha parlato di Michael, della sua tinta blu, del suo essere così tenero e simpatico mentre si rivolgeva alla folla; ha parlato di Calum, del suo assolo con il basso, dei suoi sorrisi, della sua voce stupenda…
E poi… ha cominciato a parlare dei maxi schermi.
«Ti giuro, un’impresa a farvi le foto! Venivate male, tipo tutti bianchi, ed ero troppo lontana per farvi foto senza guardare lo schermo!» tutta una polemica inutile, che ascoltavo appena, perché volevo solo… sì, volevo sapere i suoi pensieri su di me.
Ma lei sembrava averlo già capito.
«Non mi hai fatto piangere neanche sta volta, sai? Eppure, quando sono a casa, a volte mi scappa una lacrima su alcune canzoni… ma sta sera, non ho pianto»
«Non capisco se la cosa è un bene o un male»
Una risatina.
«Beh… diciamo che… è un bene. Vuol dire che… beh, insomma, eri lì, davanti a me… ti ho sentito vicino a me, ti ho sentito proteggermi in ogni singola parola»
Le sue dita hanno portato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un sorriso sincero mentre i nostri occhi si incontravano.
«Ho urlato le frasi che volevo dedicarti. Le ho urlate così forte che, anche ora, ho la gola che mi fa male. Mi rendi felice con le tue canzoni, la tua voce, la tua musica. Mi rendi felice, migliore, e sono felice di averti trovato, due anni fa, per caso»
Il cuore mi è balzato in gola.
Le ho sorriso di rimando, mentre mi sentivo quasi più leggero, come se la sua presenza fosse familiare, come se stessi parlando con una persona non troppo distante dalla mia vita, dal mio mondo.
Con la mamma, quella sera, mi sentivo già a casa.
A mezza notte e venticinque, eravamo già all’ingresso del suo hotel.
«Mi dispiace per il gelato, ma abbiamo parlato e parlato» mi sono scusato alla meglio, grattandomi la nuca nervosamente, mentre la mamma si limitava a fissarsi le mani.
«Non importa, Luke. Anche solo parlare con te per un po’ è stato perfetto»
E no, bambini, papà non l’ha proprio lasciata andare via così.
«E se volessi rivederti?»
Mai scandito così bene delle parole in vita mia.
«Luke…»
«Non sto scherzando»
«Non devi sentirti obbligato, io sono solo…»
«Senti, io vorrei rivederti, non ti sto chiedendo se sei una fan o la prima persona ad odiare la mia musica, okay? Ti sto chiedendo questo, di rivederti, puoi solo rispondere?»
«Io… Luke, perché? Cioè, io… sto andando nel pallone»
Perché mamma si lascia sempre influenzare da quello che vede, che legge.
«Sì o no, Vanessa, niente altro» e metterla alle strette mi piace troppo, ancora oggi.
«Sì, Luke. Possiamo rivederci, va bene, ora?»
E la mamma mi ha pure negato un sorriso.
Cioè, nel dire quella frase, ha anche avuto il coraggio di restare seria, davanti ai miei occhi, davanti al mio rossore, al mio sorriso.
La mamma sa essere stronzetta, molto spesso.
Ma la amo, bambini miei, la amo così tanto che non ci sono parole per descrivere quello che provo.
Sta di fatto che in quel momento, mi ha negato un sorriso.
Le ho baciato la guancia a mezzanotte e ventinove.
«Ti scrivo»
«Ti rispondo»
E ringrazio le sue amiche, ringrazio quella scommessa, o starei ancora cercando il suo viso nella folla.
 





Note di Nanek
Una settimana tonda tonda, dono fiera di me!
Primo capitolo, insomma.
Voi non avete idea di quanto sto dannando per sta storia :D
La mia beta mi ucciderà quando arriveremo alla fine LOL
Per chi non lo sapesse e notasse questa malformazione professionale: noi al nord tendiamo a raccontare fatti passai al passato prossimo (come si nota in sta storia) e chiedo scusa se suonerà strano, in qualche modo.
Sono così preoccupata per questa cosa che ho pure cercato in internet una soluzione, e ho trovato scritto:
“Usiamo il passato prossimo per esprimere un'azione compiuta o un accadimento che "lasciano tracce" (come diceva Giacomo Devoto) nel presente. Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di "separato", "staccato", "rimosso"; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica.”
Sì, vi ho appena citato una pagina web sull’uso del passato prossimo/remoto LOL
In sostanza, mi sono affidata a questa citazione per scrivere sta storia, ossia che il passato di Luke e Vanessa viene raccontato con vicinanza e influenza sulla loro vita attuale, spero abbia senso ciò che ho scritto.
Bene, dopo questa mia perla inutile, vi dico solo: GRAZIE.
Grazie a chi ha letto il prologo, grazie alle recensioni super tenere che ho trovato, grazie a chi sta dando una possibilità a questa storia, GRAZIE perché boh… io ci sto mettendo l’anima e… spero davvero di non deludere le vostre aspettative.
Con questo, vi do appuntamento a settimana prossima <3
Se avete domande, o altro, i miei contatti sono sempre questi:
Twitter: @Vanek5SOS
Ask: Nanek 
Facebook (condiviso con Andysmile): Andysmile Nanek Efp DliffordBemmings
Grazie ancora per tutto <3
A presto!
Nanek
 
 

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Capitolo 3
*** Try hard. ***


2. Try hard
 
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She's so out of reach, and I'm finding it hard cause
She makes me feel, makes me feel,
Like I try, like I try, like I'm trying too hard,
Cause I'm not being me, and it's getting me down
She makes me think, makes me think,
That I try, that I try, that I'm trying too hard again
Cause I'm trying too hard again.
 
 
Bambini miei, forse, adesso siete troppo piccoli per capire certe cose, forse non è ancora arrivato quel momento che sia io che mamma tanto temiamo, il momento in cui la vostra vita non sarà più soddisfatta dai giocattoli, dalle corse al campo, dai disegni fatti con gli acquerelli o con i colori a cera.
La vita cambia, ogni anno che passa, la vita propone cose così straordinarie che questi giochi sembreranno briciole ai vostri occhi, la vita vi farà provare emozioni, sentimenti nuovi, che saranno la cosa più bella che proverete dentro.
Tutto questo preambolo degno di una donna, l’ho fatto perché in quel momento esatto, dentro di me è cominciato di nuovo quel vortice che pensavo di aver scordato.
Lo sapete, no? Papà non ha sempre avuto la mamma con sé.
Stupido che sono, è ovvio che ora come ora non lo sapete.
Forse ve lo racconterò un giorno, giusto per farvi capire molte cose, giusto per dare un senso a questa storia improvvisata che ho deciso di scrivere per voi, per darvela quando sarà il momento più adatto.
Quando la leggerete, insomma, capirete molto di più.
Papà non ha sempre avuto mamma con sé: l’ho conosciuta a soli diciotto anni, per caso, in una giornata di sole, di maggio, in una città che non apparteneva a nessuno dei due.
Ma prima di lei, papà è stato con un’altra persona, una certa Aleisha, che mamma nomina sempre con una vena di gelosia immensa, perché lei è stata la prima persona a farmi provare qualcosa di vero, qualcosa di grande nel petto.
Perché quando i giocattoli non servono più, i sentimenti sono una bella consolazione, vediamola così.
E, io, quando ho conosciuto la mamma, non li sentivo così vivi, così veri, da quando Aleisha aveva deciso di chiudere la nostra storia.
Avevo circa sedici anni, e per due anni sono stato privato di certe emozioni.
Certo, la mia vita stava cambiando, la mia vita mi ha dato molto di più: mi ha dato fama, fortuna, mi ha dato la possibilità di girare il mondo come se fosse una cosa ordinaria, ho viaggiato come un folle, ho cantato per milioni di persone, la mia musica era nell’Ipod di molti esseri viventi.
Certo, parlo al singolare, ma in questa avventura lo sapete, no? C’erano anche gli zii Ashton, Calum e Michael, guai a dimenticarsi di loro! Me la farebbero pagare.
Ho provato emozioni forti, come queste, ho avuto paura di esibirmi davanti a cantanti più famosi di me, ho anche stonato, qualche volta, perché l’ansia ha avuto la meglio, ho passato notti insonni tra una festa e l’altra, ho aspettato con ansia i diciotto anni per poter guidare, per poter bere –ma solo in qualche paese.
Il vostro papà ha avuto tanto, forse troppo, dalla vita, eppure, terminata la storia con Aleisha, ho sempre sentito la mancanza di amare qualcuno.
Non è facile, bambini, vivere soli, soli nel senso senza qualcuno pronto ad aspettarti, pronto a chiamarti per preoccuparsi un po’ di te.
Mi mancava qualcosa, mi mancavano quei sentimenti fragili, belli, che gli zii evitavano facilmente, deridendomi per questa mia debolezza.
Ma loro non erano da meno, fidatevi di me.
Siamo fatti per amare, siamo fatti per voler bene a qualcuno, siamo fatti per prenderci cura di quella persona così perfetta per noi.
E, da quella misera uscita con la mamma, in quella notte di maggio, ho sentito quei sentimenti, ormai dimenticati, farsi nuovamente avanti.
Ve ne renderete conto, bambini miei, vi renderete conto subito se vi siete appena cacciati nel guaio più assurdo che è l’amore.
Perché il cuore comincia ad andare a mille, nell’attesa di un messaggio.
Perché se parlare è la cosa più facile al mondo, diventerà un’impresa: la gola secca, la lingua che va dove vuole facendovi storpiare anche un semplice “Ciao”.
Le gambe tremano, si muovono nel tentativo di non cedere e farvi cadere a strapiombo.
Le mani sono fredde anche con quaranta gradi al sole.
Il cervello non connette, non sa mai qual è la scelta più giusta, anche la più semplice sembra arabo o qualche lingua strana.
E io, bambini miei, ero già così.
A solo un mese di distanza da quella passeggiata, io sentivo già i primi sintomi.
Perennemente al cellulare.
Perennemente alla ricerca di un Wi-Fi.
Perennemente a mordermi il labbro.
Perennemente nervoso.
Perennemente con quella faccia da rimbambito che non passava inosservata, tanto che gli zii si divertivano come pazzi a deridermi.
«Hey, Luke, vuoi la pasta con lo zucchero
«Sì, sì, va bene»
Giusto per fare l’esempio: la pasta con lo zucchero me la sono pure mangiata, da provare, figli miei, da provare ad essere completamente fuori di testa per una ragazza, da provare anche la pasta con lo zucchero, magari vi piace.
La mamma… la sentivo praticamente tutti i giorni.
E più i giorni passavano, più la voglia di vederla cresceva.
Ero preso male, bambini miei, ero ossessionato da quella ragazza che aveva dubbi su di me, che scriveva cose belle su di me, nonostante nella sua testa pensasse che mi passassi tipo dieci ragazze a notte.
E, no, figlioli, certi futili errori preferisco evitare di raccontarveli.
Vedetela sotto questo punto di vista: pur di convincerla del contrario, avrei fatto qualsiasi cosa, avrei messo la testa a posto, avrei smesso con le cazzate, sarei maturato di dieci anni solo per essere come lei mi pensava, descriveva, sognava.
Cosa non si fa per una bionda?
Cosa non si fa per la mamma?
Ero pazzo, ero fuori di testa.
E il tour intanto mi uccideva lentamente, tra voli persi, passaporti smarriti e immensi chilometri di terra da attraversare, anche in bus, in caso.
E le ore passavano tra messaggi e qualche occasionale chiamata Skype, chiamate sempre più difficili, dato che gli zii si divertivano a simulare orgasmi o idiozie varie che imbarazzavano me e la mamma.
E la voglia di vederla era tanta.
Quel giorno ero a pochi chilometri da lei, ero a Londra, non ero così lontano, non ero così irraggiungibile, per lei erano pure cominciate le vacanze estive, tutto sembrava urlarmi di fare la cazzata.
Partire e raggiungerla.
Farmi dire il suo indirizzo di casa e presentarmi sotto la sua finestra.
Solo per parlare.
Solo per camminare ancora, vicini.
Magari con il coraggio di prenderle la mano.
Magari con il coraggio di dirle che mi stava mandando completamente fuori di testa.
«E allora vai!» mi ha urlato dietro lo zio Michael «Prendi un volo e vai! Sei uno spacca coglioni, vai e torna domani, possibilmente per le tre, dato che abbiamo il sound check»
E sono partito.
Sono andato in Italia, da solo, senza sapere una parola di italiano, sono partito per Milano, rendendomi conto, solo quando ho prenotato, che la sua città era a quattro ore di macchina da lì.
Mi sono dato dell’idiota, del coglione, tutti i possibili dispregiativi al mondo.
Ho contattato la mamma, ho finto di interessarmi a qualcosa a caso, per poi arrivare al punto.
“Senti ma… tu dove abiti in pratica? Perché mi hai detto che non sei di Milano…”
Due messaggi più tardi avevo anche già prenotato il treno da prendere per arrivare a destinazione.
Sono arrivato alla sua stazione alle quattro del pomeriggio.
Lei, dal suo canto, non voleva credere alle mie parole.
“Non fare l’idiota, non ho voglia di fare un giro a vuoto”
“Ma se ti dico che sono qui, nella tua città, perché non dovresti credermi? Sono qui, dannazione!”
“No, non ti credo. Domani hai un concerto, nessun pazzo partirebbe per venire qui e stare meno di ventiquattro ore”
“Cosa devo fare per convincerti? Mandarti un selfie con la stazione della tua città?”
E non l’avessi mai proposto.
“Sì.”
E la mamma, si sa, è sempre così simpatica.
La foto gliel’ho mandata eccome, con tanto di stazione come sfondo, con tanto di cartelli stradali per convincerla ancora.
Dopo circa dieci minuti, ho ricevuto risposta.
“Sto arrivando.”
Né una faccina, né un “oddio, Luke ma che hai fatto”, neanche un briciolo di stupore, solo quel misero messaggio di due parole e un punto.
E dopo altri venti minuti, l’ho vista venirmi incontro.
«Cosa cazzo ci fai qui?»
«Hai imparato le parolacce in inglese?»
«Perché sei qui? Tu sei folle, sei incredibilmente folle» e io ho preso tutto come un complimento.
Le ho sorriso, avvicinandomi al suo viso, baciandole la guancia e facendola arrossire.
«Sono felice di vederti» le ho sussurrato, mentre lei cominciava a farmi strada verso il centro.
Camminavamo l’uno accanto all’altra, io in silenzio religioso, mentre lei cominciava il suo lungo monologo durato più o meno sull’oretta e mezza.
Gli esami universitari, la tesi da scrivere, l’amore come argomento scelto, nuovi segni in lingua dei segni da mostrarmi, nuovi scleri riguardo al nuovo album degli Sleeping with Sirens, nuove notizie sulla salute di Charlie, la scoperta del tatuaggio che ha dietro al collo, quel gatto stilizzato che piace anche a voi, bambini.
E io l’ho ascoltata come se fosse il libro più interessante da leggere.
Perché mamma ne sa troppe, bambini, anche se lei dice di non valere un soldo bucato.
Ne sa di tutti i colori, e neanche se ne rende conto.
E intanto camminavamo, imboccavamo vicoli di mille tipi, mi mostrava giardini, scuole, affreschi, tutte cose che osservavo per neanche un secondo, perché era lei l’unica cosa che volevo fissare.
Quel giorno si era fatta una treccia di lato, la solita frangia più lunga; indossava una canottiera nera, la gonna lunga e color del corallo.
Non mi sono perso neanche un dettaglio di quel pomeriggio, ero assetato di ricordi da imprimere nella mente, perché chissà quando ci saremo rivisti ancora.
E poi ecco il momento più bello.
Il coraggio di prenderle la mano.
Lasciare che le mie dita scivolassero sulle sue.
Intrecciarle appena, le sue parole interrotte, un balbettio a causa di quel gesto così spontaneo, così voluto.
È rimasta in silenzio per cinque minuti, mentre io ho cominciato a parlarle del tour, delle solite cose noiose che non suonavano interessanti neanche a me: la vita del cantante, la vita con gli altri, i progetti che mi aspettavano, le solite cose ripetitive che lei già sapeva a memoria.
Un vicolo più stretto, la mamma che «Dai, vieni, ti mostro un posto» senza lasciare la presa della mia mano.
Ricordatevi, bambini, che papà non è la mamma, non sono uno scrittore e che quello che sto per descrivere non è neanche paragonabile a ciò che ho visto.
In pratica, era un ponte.
Un ponte tra due palazzoni, un ponte con l’acqua che scorreva piano, silenziosa, tranquilla.
I palazzoni gialli, i balconi verdi, il ponte in legno: un piccolo angolo di paradiso, il silenzio a regnare, un piccolo scorcio di pace.
«Un giorno, dopo aver fatto delle fotocopie, ho preso coraggio e ho attraversato il vicolo, credendo di arrivare chissà dove, e l’ho trovato» ha spiegato lei, mentre io me ne stavo a bocca aperta, incantato, sorpreso da quel piccolo posto «So che non è chissà che ma… credo sia il mio posto preferito» e finalmente l’ho vista sorridere.
E, stupidamente, ho pensato che quello fosse il momento giusto per baciarla.
Papà è un idiota, bambini, qualche volta gli zii hanno ragione, devo ammetterlo.
Perché ho agito da idiota, da coglione, ho agito senza pensare.
L’ho guardata negli occhi, mentre lei mi sorrideva, felice di aver condiviso con me quel posto a lei caro.
Mi sono fatto serio e… cazzata, insomma.
Mi sono avvicinato, veloce come un razzo, e… beh, diciamo che ho fatto in tempo solo a sentire le sue labbra sulle mie, prima di sentire la mano della mamma in piena guancia.
«Cazzo! Quasi potevo scriverlo su un foglio!» ha urlato lei, riportandomi alla realtà.
«Porca puttana, Luke! Ma per chi mi hai preso tu, eh? Per una di quelle troie che ti porti in camera ogni giorno? Io lo sapevo, lo sapevo, cazzo, lo sapevo che non dovevo fidarmi di uno come te! Tu… tu… tu vuoi solo illudermi, vuoi farmi credere che sei diverso, che sei interessato a me, che ti ispiro qualcosa ma, in realtà, a te importa solo di portarmi a letto e poi mandarmi in lista d’attesa, come tutte le altre!»
E, sì, bambini, mamma è riuscita a formulare tutto questo in inglese, come se lo avesse preparato il giorno prima, un monologo ben strutturato, pieno di parolacce da dire nel momento più opportuno, pieno di insulti di ogni tipo che hanno messo ben in chiaro quello che pensava di me: un puttaniere, uno senza cuore, altro che angelo caduto dal cielo.
«Vanessa, aspetta, io… no, dai, per favore, non dire così» e lei stava già camminando lontana da me, imprecando in italiano, credo, perché più le urlavo di fermarsi, più lei urlava parole a me sconosciute, parole pesanti, che evito di riportare qui, così mi risparmio un’altra umiliazione.
Però l’ho seguita, per ben dieci minuti, prima di avere il coraggio di prenderle il braccio.
«Senti, okay, ho sbagliato, ma, porca puttana, tu non sbagli mai? Non volevo sembrare quello che tu pensi, volevo solo… oh, cazzo! Tu mi porti nel tuo posto preferito, abbiamo le mani intrecciate, mi guardi, mi sorridi, posso aver frainteso? Posso aver creduto che anche tu volessi essere baciata? Dio, ma perché sto anche a farmi queste domande?! Sei… sei illogica, sei incomprensibile, lanci l’amo e appena io abbocco molli tutto! Cazzo, tu mi piaci, mi stai mandando fuori di testa, e quello che fai sembra istigazione, sembra voglia di flirtare con me!» e le parole che ho detto… non credo le abbia capite tutte, anche perché ho parlato così velocemente che non mi sono più capito neanche io.
E giù di insulti in italiano, di nuovo.
«Non cercarmi più, io non sarò un altro nome da mettere in lista» e questo l’ho sentito più che bene.
E… niente, bambini miei, posso solo dirvi che ho passato la notte in un hotel, da solo, ad aspettare un messaggio che non è arrivato.
Sono partito il giorno dopo, sono arrivato puntuale alle prove e… basta.
Zio Michael non ha osato fare domande, come se avesse capito.
Ho sbagliato la bellezza di due accordi al concerto.
Ho liberamente detto “cazzo” al microfono quando mi sono reso conto degli errori.
Beh, ho fatto un casino bestiale, volevo solo andarmene a dormire, volevo solo prendere sonno e dimenticare ogni cosa, dimenticare lei, quel posto, quella follia, quella cazzata.
Ma la verità… è che sono stato sveglio fino alle quattro del mattino con il cellulare in mano.
Sintonizzato sulla chat con la mamma.
In attesa di un messaggio che non è arrivato.
E, poi, quel messaggio alla fine l’ho scritto io, messaggio che ha avuto risposta solo il giorno dopo.
“Mi importa così tanto di te che non penso ad altro se non al casino che ho combinato ieri. Ti prego, non volevo fare la figura dell’idiota, volevo solo fare la cosa giusta, dal mio punto di vista. Scusa, ti prego, scusa”
E sapete che cosa mi ha risposto?
“Okay, Luke.”
Per la prima volta, bambini miei, ho mandato a fanculo la mamma, mentalmente.
Ma la mamma è la mamma, no?
E io sono solo un idiota, no?
Avrei dichiarato di avere torto marcio, anche quando non era vero, per lei.
E ricordate sempre questa regola d’oro, bambini: il primo bacio si dà al terzo appuntamento.





 
 
 
Note di Nanek
Sempre più puntualeeeeeeeee <3
Sono fiera di me, almeno con sta storia sono in orario *riferimenti casuali a Tomorrow Never Dies che purtroppo è ferma perché dobbiamo ancora finire di scrivere il capitolo 12 ehm ehm*
Ma parliamo di questa, di storia.
Beh, lo ammetto, Vanessa è un’esagerata cronica :D
Lo so, forse, voi fanciulle, lo avreste baciato eccome Luke sonotantobello Hemmings, però… boh, a me non ispirava mica quel momento.
Certo, il posto preferito, le mani intrecciate, la follia di essere andato a trovarla… sembrava davvero tutto perfetto per un bacio.
E INVESSE.
No, ho deciso di farlo patire, povero Luke: piccolo Hemmo, ti tocca aspettare il terzo appuntamento! Ahah.
Mi dispiace per lui, perché quello che gli ha detto Vanessa è un po’ cattivo e non meritato, tuttavia, date fiducia a questa ragazza, lei… beh, è solo tanto insicura e teme di cadere in sentimenti più grandi di lei.
Solo… beh, vabbè, se volete commentare questa reazione, sarò lieta di leggere le vostre opinioni a riguardo =)
Per il resto, un grazie di cuore a tutte voi che leggete questa storia.
Davvero io… beh, l’ho già detto ma lo ripeto, come trama non è niente di così eclatante ma… boh, avevo voglia di scrivere una storia dove lui è quello famoso e la conosce dopo essere diventato così popolare e non prima, così anche per magari riuscire a farvi “sognare” un po’ di più, dato che è la situazione comune a tutte, no? :D
Con questo chiudo.
Grazie ancora per tutto <3
A presto!
Nanek

 
 
 

 

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Capitolo 4
*** Worth. ***


3. Worth
 
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This is the start of something beautiful
This is the start of something new
You are the one that make me loose it all
You are the start of something new

And I throw it all away
Watch you fall into my arms again
And I throw it all away
Watch you fall, now
You are the earth I will stand on
You are the words I will sing.
 
 
E passavano i giorni, da quel pessimo incontro, da quella pessima figura fatta con la mamma.
E, vi confesserò una cosa: ero maledettamente triste.
Sì, triste è l’aggettivo più giusto.
Perché, sapete quella sensazione che vi prende il petto, quando credete di aver mandato a puttane tutto? Quando vi sembra che l’altra persona non sia più tanto presa da voi?
Ecco, io mi sentivo esattamente così, nei mesi seguenti a quella pessima figura.
Mi sembrava di perderla ad ogni messaggio, mi sembrava che le parole da dire fossero ormai al capolinea, lei non rispondeva per ore, anche a causa del fuso orario, lei sembrava stanca di me.
Non ci eravamo più chiamati su Skype, non ci eravamo più chiamati al telefono, solo miseri messaggi.
La stavo perdendo, la stavo vedendo sparire sempre di più dalla mia vita.
La distanza, i mille impegni, la mia testa confusa, i suoi impegni di lavoro, il libro che stava tentando di finire per tempo, dato che la mamma voleva partecipare ad un concorso per giovani scrittori, tutto il mondo sembrava volerci dividere.
E io… beh, ero lì.
In quel bus, la chitarra in mano, il viso rivolto verso il finestrino, qualche melodia che riempiva quel vuoto, quel silenzio, mentre nella mia testa c’era un casino assoluto.
Ero lì con il cellulare vicino, sempre in attesa di una risposta, sempre in attesa di un qualcosa a cui rispondere, ma dentro mi sentivo morire.
Non so perché, bambini, non lo so davvero, ma non volevo perderla.
Vi sembra possibile?
Adesso, senza vantarmi troppo, io ero il cantante di una band, una band che stava avendo successo, avevo milioni di ragazze pronte a stare con me, da semplici fan a modelle.
Banale, lo so, il solito cantante che, se potesse, sceglierebbe una figa da paura, con tette enormi e un culo che, wow.
Eppure, io mi sono impuntato sulla mamma.
Un’ossessione.
Una cotta che non voleva andarsene, nonostante il tempo stesse giocando contro di me, nonostante la distanza stesse cercando di azzerare ogni cosa.
Volevo lei, lei e basta.
La cercavo in ogni volto che incontravo, la vedevo da ubriaco, come se avessi le allucinazioni, ogni singola canzone era per lei, per i suoi occhi blu, per il suo sorriso timido, per i suoi monologhi che avrei ascoltato per ore e ore.
Eppure io, Luke Hemmings, non sapevo che fare per tenerla con me.
La stavo lasciando andare senza neanche rendermene conto e l’autunno stava già arrivando da lei, in Italia.
Io avevo compiuto i miei diciannove anni, lei i suoi ventidue, e neanche in queste occasioni avevo avuto modo di rivederla.
Non desideravo altro, lo giuro, desideravo solo lei quel sedici luglio, desideravo trovarla a sorpresa nel tour bus, desideravo vederla comparire dal nulla… ma non è stato così.
E io, poi, quel tre agosto avrei fatto carte false per poter essere da lei, per poterle stare accanto, per poterle portare quel regalo che, alla fine, ho inviato per posta.
Ma non potevo.
Ero in America da un mese, avevo il tour, avevo tappe attaccate, non avrei neanche fatto in tempo a scendere dall’aereo per un saluto: quella distanza era proprio in mezzo alle palle.
E ho sospirato, bambini, ho sospirato e a momenti tiravo la chitarra addosso al finestrino.
Fuori di testa, completamente, perché non c’era soluzione, non c’era via di fuga: bisognava aspettare la fine di settembre, bisognava aspettare la fine del tour in America.
Sarei tornato da lei.
Ma… temevo che lei non sarebbe rimasta lì ad aspettarmi.
E me la ricordo ancora quella conversazione, mi ricordo ancora quelle parole, sono suonate come una supplica, sembravano urlate quelle parole scritte per messaggio.
“Sai a cosa penso?”
“A cosa pensi, Luke?”
“Penso a te, e quando vorrei essere accanto a te. I wish I was beside you”
“Non vale usare parole di canzoni, furbetto”
“Ma è quello che sento”
“Okay, Luke”
E quanto l’ho odiata in questi momenti, perché sembrava non credere ad una singola parola, sembrava schivare i miei sentimenti, i miei pensieri, sembrava volersi solo allontanare dal fuoco.
“Vanessa… io ho bisogno di capire”
“Capire cosa, Luke?”
“Ho la sensazione che tu sia sempre più distante”
“Effettivamente c’è un oceano tra noi”
“Non intendo questo, e lo sai”
“Sì, Luke, lo so”
“E quindi?”
“Perché ti ostini a cercarmi, Luke? Questo è ciò che non capisco io”
“Non ti piaccio più? Ti do fastidio? Ti vedi con qualcun altro?”
E sentivo pure nascere la gelosia, la paura di perderla a causa di un comune mortale che poteva starle sempre accanto.
“Sarei pazza a dire che tu non mi piaci più. No, Luke, non mi vedo con nessuno”
“E allora perché ti sento sempre più lontana?”
“Perché, effettivamente, sto cercando di non farmi prendere troppo”
“Perché lo fai?”
“Perché quando questo finirà, sarò un mucchio di pezzi, distrutta, insieme alle mie illusioni”
E la capivo, la capivo come non mai.
“Siamo in due, allora”
“Luke… per favore. Tu hai il mondo ai tuoi piedi”
“Eppure il mondo non mi serve, dato che ho pensieri e sogni solo per te”
“E sbagli”
“Perché?”
“Perché non valgo la pena, tu sì, vali tanto la pena, e corro il rischio di bruciarmi”
“Se non valessi la pena, quel foglietto con il tuo numero sarebbe insieme a tutti gli altri, ancora nei miei pantaloni”
“Mi stai dicendo che hai le tasche piene di foglietti?”
“Ti sto dicendo che voglio te, non le altre. Ti sto dicendo che sto male al pensiero di non poterti vedere, ti sto dicendo che… cazzo, darei l’anima pur di essere vicino a te”
“Quanto siamo romantici”
“Quanto siamo difficili. Io almeno ammetto i miei sentimenti, non voglio vederti sparire”
E non ho ricevuto risposta per tutto il giorno.
Logorato da quella mancata risposta, logorato per aver confessato a pieno i miei sentimenti ad una persona che, forse, non era neanche così presa, come osava affermare.
Eppure, a mezza notte di quel giorno, il mio cellulare ha vibrato l’arrivo di un messaggio.
“We both fall asleep underneath the same sky”
“Non vale usare le canzoni, Vanessa”
“Sai a cosa penso?”
“A cosa pensi, Vanessa?”
“Penso che… sì, ti vorrei qui, vicino a me”
“Okay, Vanessa”
“Volevo dirti una cosa, prima di darti la buonanotte”
“Ti ascolto, Vanessa”
E per un secondo, ho pensato volesse troncare ogni tipo di contatto.
“Wherever you are, io ti aspetto, sono qui e ti aspetto, lo giuro”
E il sospiro che ho tirato, non lo potete nemmeno immaginare.
Solo con quelle poche parole, ho capito che settembre sarebbe finito presto.
*
Il sei ottobre, alle tre del pomeriggio, l’ho vista aspettarmi in centro città.
I jeans stretti, scuri, il giubbotto più pesante, i capelli lisci che andavano più in basso delle spalle, la frangetta più scura, causa della ricrescita, quegli occhi blu e quel sorriso mi stavano già aspettando.
Ad un passo da lei, l’ho vista avvicinarsi a me, l’ho vista aprire le braccia e l’ho sentita abbracciarmi stretto.
Quante emozioni può dare un abbraccio, bambini, voi magari non lo immaginate neanche.
Ma solo con un abbraccio, ho capito ogni singola cosa che le passava per la testa.
Sentivo la nostalgia, sentivo la sofferenza, sentivo il dolore di quei quattro mesi passati lontani, passati a riempirsi la testa di interrogativi.
Perché la mamma pensa troppo, lo sapete anche voi.
E io, i suoi pensieri, li sentivo tutti.
Che sto facendo?
Perché mi lascio prendere così?
Perché ci credo ancora?
Perché io?
Perché non qualche modella?
Perché insistere?
E lei ha sempre finto di non sentire le mie risposte.
«Sono tornato, e sei tu The only reason» le ho sussurrato, mentre portavo il viso sul suo collo, respirando il suo profumo, sentendola finalmente così vicina a me.
La mamma, poi, con mio grande stupore, mi ha preso la mano e mi ha trascinato ancora per quelle viette che ora conosco bene.
Mi ha portato sulle mura della città, dove è possibile camminare, circondati da alberi, con qualche panchina lungo quel viale, ma voi sapete bene di che parlo.
Abbiamo camminato per un’oretta, abbiamo parlato delle nostre vite, di quello che era successo, di quello che ci eravamo persi l’uno dell’altra.
La mamma mi ha parlato del libro, del poco tempo a disposizione per finirlo, del senso di insoddisfazione nell’aver scelto quella trama, considerata da lei troppo banale, troppo scontata, troppo adolescenziale: ma la mamma ama sottovalutarsi, perché la sua idea a me piaceva da matti.
E poi, è stato il mio turno.
Abbiamo preso posto su una panchina, io che non ho esitato a metterle il braccio attorno alle spalle, mentre i suoi occhi blu andavano ad concentrarsi sulla mia bocca, sulle mie parole…
Perché, bambini, papà non ne sa mica molto in genere, infatti, ho creduto che volesse baciarmi.
Mi fissava le labbra, non si perdeva un solo movimento, quasi le studiava, non mi guardava negli occhi, e qualche dubbio mi era anche nato, tanto che ad un certo punto ho pure osato chiederle «Vuoi un bacio?» notando il suo sopracciglio inarcato.
«Io?»
«Mi fissi la bocca da tipo dieci minuti, quindi, i casi sono due: o ho spinaci tra i denti o tu vuoi baciarmi.»
E per la prima volta, ho sentito il suono della sua risata.
La conoscete la risata della mamma, no?
Esilarante, un’autentica scimmia con il singhiozzo, una risata che fa ridere anche se non vuoi.
Sono scoppiato a ridere con lei, incredulo, quella ragazza non era solo bella e pure con un bel po’ di cervello in quella testa bionda, ma era pure una pagliaccia che sapeva ridere di se stessa e sapeva far ridere pure uno come me.
«Smettiamo di ridere, ho male alle guance» mi ha detto, portandosi le mani sul viso.
Ho annuito, per poi tornare serio, in attesa di una sua risposta.
«No, Luke, non hai spinaci tra i denti e no, Luke, non voglio baciarti. Ho solo un brutto vizio: leggere le labbra delle persone, chiamala malformazione professionale» e credo di averla guardata come se fosse stata l’essere più strano al mondo.
Ma la spiegazione era più che semplice: studiando lingua dei segni, stando a contatto con persone sorde che labializzavano le parole senza emettere suoni, aveva preso l’abitudine di guardare le labbra anche quando parlava con le persone in generale.
Illuso, stupido, ingenuo.
Quella ragazza sapeva tenermi sempre testa, sapeva sempre come spegnermi, senza neanche impegnarsi troppo.
Ho alzato gli occhi al cielo, dato che avevo appena bruciato un’altra possibilità per poterla baciare.
Ma la mamma aveva già capito le mie intenzioni.
Si è alzata in piedi di scatto, incitandomi a seguirla, per andare in un punto non coperto dagli alberi, vicino al muretto in mattoni, illuminato dal sole d’ottobre.
Si è appoggiata con la schiena, io davanti a lei, ad un passo di distanza: il ceffone di quattro mesi prima me lo ricordavo molto bene.
«Ti va di imparare qualcosa in lingua dei segni italiana?» ha esordito così.
«Sì, mi piacerebbe»
«Okay, allora. Cosa vuoi imparare per primissima cosa?»
E quante cose avrei voluto dire, ma che non ho osato far uscire di bocca.
«Io mi chiamo Luke Hemmings, questo» quando si dice “la banalità”.
Ma la mamma ha eseguito il tutto con lentezza, mostrandomi lo spelling delle singole lettere in lingua dei segni, mostrandomi l’ordine delle parole.
E così, sono seguite tipo una decina di frasi idiote.
«Io sono un cantante»
«Io sono bello»
«Io mangio la pizza ogni giorno»
«Mi piace tantissimo suonare la chitarra»
«Mi piace fare sesso quando mamma Liz non c’è»
Da così a peggio, sembravamo due bambini stupidi, che ridevano ancora per le parole come “sesso” “pene” “culo”, ci divertiamo così, io e la mamma.
E in un’altra mezz’ora, ho imparato l’importanza delle espressioni facciali, della labializzazione, e tutte quelle cose che, ora come ora, non ricordo quasi più.
«Tocca a me, ora, ti insegno lo slang australiano» e mi sentivo fiero di quella dote a lei sconosciuta.
E lei rideva, rideva di se stessa, della sua lingua che si incastrava tra i denti, rideva per il suo accento che io semplicemente adoravo, rideva e continuava a ripetere «Non ce la faccio, non ce la faccio» quando in realtà ripeteva tutto alla perfezione.
E io morivo dalla voglia di baciarla, baciare quelle labbra che si arricciavano ad ogni suono.
«Insegnami a dire questa frase: vorrei baciarti» ho pregato tutte le divinità possibili per non ricevere un’altra sberla.
Ma… ho ricevuto un sorriso, in realtà.
Ho guardato le mani della mamma.
L’indice destro indicava il suo petto, per poi indicare me.
La mano destra, poi, diventava quello che lei ha sempre definito “Becco di struzzo”, dove tutte le dita sono distese e unite sui polpastrelli.
Ha portato le dita sulle labbra, per poi portarle verso le mie.
La stessa mano, poi, tornava verso il viso, vicino alla bocca: ha fatto scorrere verso il basso mignolo, anulare, medio e indice, mentre con le labbra diceva “volere”.
Non mi sarei mai ricordato l’intera frase in segni e, ancora una volta, ho agito per gesti.
Mi sono avvicinato, senza pensare allo schiaffo, senza pensare ad un’altra delusione, le ho preso il viso tra le mani e l’ho baciata.
Ho appoggiato le labbra alle sue, ho fatto combaciare i nostri petti, i nostri bacini, ho lasciato che le mani scivolassero sui suoi fianchi.
E sentire le sue mani sulle mie guance, mi ha calmato.
Quello era il momento giusto.
Quello era il momento perfetto.
E non scorderò mai come le nostre bocche si sono cercate, veloci all’inizio, come a voler compensare l’attesa insopportabile che avevamo sulle spalle, per poi rallentare, sempre più gentili, lente, delicate, mentre le nostre lingue si sfioravano per la prima volta, senza fretta, senza troppa foga, mentre il vento tagliava la pelle, mentre il sole tramontava, facendo da sfondo a quel momento che ancora oggi ricordo con il cuore felice.
Quel bacio ha segnato l’inizio di ogni cosa.
Quel bacio ha segnato il via della nostra storia.
E, devo ammetterlo, aspettare che settembre finisse ne è valsa la pena.
La mamma, lei, vale sempre la pena.
 





 
Note di Nanek
Sigh, sti capitoli mi fanno venire sempre un magone assurdo.
“Vale sempre la pena”, ma magari proprio.
Con questa ff mi sto facendo davvero tanto male a volte, anche perché, piccola confessione, a volte metto in Luke vecchi ricordi che fanno sempre piacere ricordare… però, ricordi fatti uscire dalla bocca di Luke… hanno effetti devastanti, perché Luke è Luke e nessun comune mortale potrà mai superarlo :D
Quindi bene insomma, pure oggi la mia dose di masochismo è andata e… questo è il capitolo che vi propongo.
Si sono baciati YEEEEAAAAH
Dopo decenni ce l’hanno fatta anche loro.
Vi ho messo pure un po’ di lingua dei segni italiana, giusto per rendervi partecipi di questo mondo.
E… boh, non so che dire ahah
Spero che questa storia vi piaccia e che questi due personaggi vi stiano simpatici :D
Spero di trovare qualche vostro commento <3 e vi ringrazio sin d’ora anche solo per aver letto <3
Per chi volesse, os su Luke Au!Vampiro:
Daylight
Ci sentiamo presto <3
Nanek
 

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Capitolo 5
*** I miss you. ***


4. I miss you
 
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And I know I shouldn't tell you.
But I just can't stop thinking of you.
Wherever you are. You. Wherever you are.
Every night I almost call you, just to say it always will be you.
Wherever you are.

 
Quel bacio, però, non poteva davvero farmi scordare i miei doveri, obblighi e impegni con la band.
Il giorno seguente sono tornato dagli altri, un sorrisone da ebete stampato in faccia, il cuore pieno di speranza e pace, mentre una zona un po’ al buio, nella mia testa, era già sintonizzata nel canale “distanza”.
Quando sono tornato dagli altri, era il momento di tornare a casa, in Australia, a Sydney.
Quasi dodici ore avanti rispetto all’ora italiana.
Se non sopportavo l’America per quelle sei ore indietro, figuratevi l’Australia.
Non ho mai odiato casa mia così tanto.
Notti passate sveglio, perché dalla mamma era ancora giorno, chiamate Skype che passavo tra uno sbadiglio e l’altro, conversazioni tramite messaggio che terminavano perché prendevo sonno mentre aspettavo risposta.
Un incubo.
Se volete un consiglio, bambini miei, cercate di innamorarvi di una persona vicina a casa, o armatevi di amore puro e illimitato, perché non vi augurerei mai e poi mai una relazione così distante.
Ma per la mamma questo e altro, logicamente.
Penso di non aver mai avuto così tanta pazienza in vita mia, bambini, ve lo giuro.
Ma sapete cos’era la cosa che più mi preoccupava?
Il sabato sera.
Il sabato sera in Italia, mentre a Sydney la mattina stava già per finire.
Il sabato sera in Italia mi mandava fuori di testa, perché lei, logicamente, usciva con le sue amiche e non rispondeva ai miei messaggi.
Ma sapete qual era il problema più grande?
Le discoteche o il semplice fatto che uscisse pure con dei ragazzi.
Gelosia? Non potete immaginare quanta.
Preoccupazione? Eh, quella c’è sempre, anche adesso.
Voglia di prendere un volo e raggiungerla ogni week end? Una volta ho rischiato di prenotare un volo: costava così tanto che mi sono sentito male, una specie di stalker, una specie di ossessionato cronico, ho chiuso la pagina internet con la coscienza pulita.
Ma c’era mancato proprio poco.
Mi ricordo un week end, in particolare, quel week end in cui ho apertamente confessato a tutti gli zii di avere una specie di relazione a distanza con la mamma.
Dire che erano sorpresi è usare un eufemismo.
Cioè, sapevano del bacio, sapevano tutto, più o meno, ma non avrebbero scommesso un soldo bucato su di noi.
Troppo distanti, troppo diversi, troppo surreali.
Le solite baggianate che mi sentivo ripetere in continuazione, baggianate che mi hanno tormentato per molto tempo, soprattutto di notte, che davano origine a quesiti un po’ tristi, un po’ angoscianti.
Ma tutto spariva ad ogni risposta da parte della mamma.
Bastava un messaggio, bastava un “Mi manchi”, bastava davvero così poco e sentivo che neanche un oceano tra di noi ci avrebbe ostacolato.
Ma quel week end, bambini miei, non lo scorderò mai.
E non lo scorderanno mai gli zii.
La mamma mi aveva avvisato, dicendomi di non poter rispondere il giorno dopo, ma non credevo che fosse davvero un silenzio tombale!
Insomma, le avevo mandato un messaggio, appena alzato dal letto.
In Italia era mezza notte, a Sydney erano le otto del mattino, di domenica.
Solo io potevo già essere sveglio a quell’ora, solo per scriverle, solo per vedere come stava, solo per… okay, sì, morivo dalla voglia di farmi gli affari suoi.
È frustrante, bambini, dico davvero, è frustrante non sapere che cosa fa la persona che amate –anche se non l’avevo ancora ammesso- è frustrante essere dall’altra parte del globo quando lei è a divertirsi, quando lei vive in mezzo ad altre persone che potrebbero portartela via con un semplice sorriso.
Non riuscivo a capacitarmi di questa cosa.
Non riuscivo a togliermi quel pensiero fisso dalla mente, me l’ero studiato nei minimi dettagli: lei che vede lui, l’altro, lui che le sorride, lui che si avvicina, lui che “Ti va un drink?” e il gioco è fatto.
Non potete capire quante cose possono cambiare con una semplice domanda, con un semplice invito a bere qualcosa.
Sono questi miseri dettagli a fare la differenza, per quanto possa suonare esilarante e impossibile.
Ma è così, fidatevi di me, fidatevi del vostro papà: basta un nulla per perdere la persona più importante della vostra vita.
E quella mattina credevo di essere impazzito del tutto.
La mamma era tipo sparita.
Non mi ha risposto, neanche dopo un’ora, neanche visualizzato il messaggio, niente, il nulla più totale.
Beh, potete ben immaginare il mio stato.
Ero lì lì per chiamarla fino all’esaurimento.
Ma non ho osato farlo.
Sembrare uno stalker era l’ultima delle mie intenzioni, ma volevo davvero tanto chiamarla.
Sentire la sua voce, sentire che stava andando a casa, sentire che quella dannata ansia che avevo in circolo era inutile.
Ma non l’ho fatto.
Non l’ho chiamata.
Ed è cominciato il mio sclero più totale, tanto che la nonna si è pure preoccupata, soprattutto al vedermi sveglio alle otto di mattina, di domenica, una specie di sorpresa, una specie di presagio che la fine del mondo era vicina.
Ma non avevo voglia di ridere.
Proprio per niente, volevo solo volare in Italia e… e non lo so.
Mi passavo la mano tra i capelli, sospiravo come se stessi tirando un infarto, camminavo avanti e indietro come un pazzo, stavo per fare un buco su quel pavimento, lo giuro.
E, beh, ringraziamo nonna Liz, è stata lei a mandarmi fuori di casa, incitandomi a chiamare gli zii.
Un semplicissimo messaggio che li ha spaventati a morte.
“Urgente: tutti a casa di Michael, subito.”
Inutile ricordare che Michael era… incazzato nero, dato che stava ancora dormendo e ci ha visti irrompere nella sua stanza come dei titani.
Ho tirato su le tapparelle, Calum lo ha strattonato per bene, Ashton gli ha urlato un “Buongiorno” così fastidioso da irritare anche me, mentre Michael ha lasciato scivolare un’imprecazione che… ve la risparmio.
«Cosa cazzo succede, Luke?» ha mormorato Calum, prendendo posto su una sedia.
Io appoggiato contro il muro, Ashton a condividere un pezzo minuscolo di materasso con Michael, ancora stravaccato al massimo con uno sguardo fulmineo, quegli occhi verdi mi hanno trapassato al sentire le mie parole.
«Non risponde al mio messaggio.»
Non l’avessi detto.
La terza guerra mondiale si è scatenata in camera di Michael, a suon di insulti e lamenti di ogni tipo.
«Tu stai male, cazzo»
«Tu non sei a posto, per un fottuto messaggio?!»
«Luke, sei un testa di cazzo, cosa vuoi che sia? Porca puttana, per un messaggio!»
Ma loro non potevano capire.
Ho indossato il mio sguardo da cane bastonato, ho cominciato a sfogarmi come un cucciolo indifeso nella speranza di essere capito almeno un pochino.
«Non tarda mai a rispondere. Non entra nella chat dal pomeriggio. Lì in Italia sono le due passate di notte, e io sono qui e ho paura che le sia successo qualcosa!»
I miei pensieri non facevano una piega, insomma, diciamo che tra i tre sono riuscito a convincere solo Calum e Ashton, mentre Michael… si è lasciato andare ad un monologo lungo mezz'ora circa.
E me le ha dette di tutti i colori.
Che ero un idiota, un coglione, uno stalker, un maniaco, che potevo trovarmene una più vicina, che potevo trovarmene più di una, che lo stavo esaurendo con quei discorsi da emerito coglione, che dovevo lasciarla in pace, che mi stavo solo illudendo, che lei forse voleva solo essere lasciata in pace, che gli facevo venire il mal di testa, che dovevo piantarla, che proprio non capiva cosa cazzo mi avesse detto di così affascinante per avermi ridotto come un cane al guinzaglio.
E io ho ascoltato ogni singola parola.
E io ho sentito di nuovo il peso di quelle domande che odiavo formulare dentro la mia testa.
E se avesse ragione lui? Se lei non fosse davvero così interessata a me? Se volesse solo giocare con me? Se le importasse solo flirtare con un cantante?
Mi stavo logorando da solo.
Inutile dire che sono uscito da casa Clifford un po’ arrabbiato, un po’ deluso, un po’ confuso.
L’unico che ha avuto il coraggio di seguirmi… è stato Calum.
«Michael ha solo tanto sonno»
«Ma se fosse vero quello che dice?»
«Da quando dai ragione a Michael?»
«Ho solo paura di sbagliare»
«Anche se fosse? Tu sei Luke Hemmings, non avrai difficoltà a trovare quella davvero giusta»
«Credi che lei non lo sia? Lo credi anche tu?»
«Luke… io sto solo tentando di…»
«Non ho bisogno di sapere chi si farebbe avanti per sostituirla, lo vedo, Calum, non sono mica cieco: ai concerti, o alle feste, siamo circondati da femmine!»
«E allora qual è il problema?»
«Il problema è che nessuno è, e sarà mai, lei»
Un momento di silenzio.
Non c’erano più parole da dire, solo domande da fare, da fare a me, in particolare.
«E com’è lei, Luke?»
Bambini miei, posso solo dire che neanche tutte le parole di questo mondo potevano –possono- rispondere a pieno a quella domanda.
Cos’ho detto allo zio Cal? Beh, quel poco che riuscivo a capire ed esprimere.
Partendo da una semplice frase, sono arrivato a fare un monologo degno di nota.
«Voglio dimostrarle di essere come lei mi descrive nelle sue storie» la frase più idiota al mondo, il pensiero più cretino che una persona possa pensare, ma io la vedevo così.
È cominciato tutto così, come se fosse la mia missione, il mio destino, renderla felice ed essere esattamente come lei mi voleva.
Una sfida contro me stesso, una sfida contro le opinioni altrui.
Ma, forse, questa era solo una scusa tra le tante, era solo un modo come un altro per non confessare apertamente e chiaramente di essermi innamorato perso di quella ragazza dagli occhi blu che, per scommessa, mi aveva lasciato il suo numero di cellulare e la voglia di rivederla ancora.
Succede e basta, bambini, succede e basta, succede qualcosa dentro, un pulsante che parte da solo e scatta quella voglia.
La voglia di conoscerla, di vederla, di imparare ogni cosa di lei, di fare ogni cosa per poter essere alla sua altezza, la voglia di essere perfetto e basta, senza neanche un’imperfezione, semplicemente come lei sogna, come lei desidera.
Ed è da folli, bambini, fidatevi che è da folli pensare una cosa del genere, perché troppa perfezione soffoca, perché convincersi che la perfezione può far durare qualcosa, è l’errore più grande che si possa fare.
Ma ancora non lo capivo.
Non capivo che la mamma mi avrebbe sempre accettato, in ogni occasione, pregi e difetti, ma c’è voluto del tempo prima che me ne rendessi conto.
Calum, ad ogni modo, ha saputo darmi il consiglio più azzeccato.
Un semplice «Cerca solo di essere te stesso, cerca solo di non incastrarti in qualcosa che magari condividi da solo.»
Parole che mi hanno fatto arrabbiare, per la poca fiducia che riponevano in lei.
Nessuno di loro sembrava convinto, tutti diffidenti, tutti con una smorfia in viso al sentire il suo nome uscirmi di bocca.
Li detestavo per questo, perché loro, poi, sono stati i primi a sbagliare.
Comunque, bambini, la mamma alla fine mi ha risposto, tranquilli.
“Luke, scusa, scusa, scusa. Mille volte scusa! Colpa mia, ho la batteria sotto zero, sono appena tornata a casa, non era mia intenzione non risponderti, lo giuro! Scusami, Luke, sono qui, adesso. Scusami.”
“Hey, tranquilla, non c’è problema. Mentirei se ti dicessi che non mi sono un po’ preoccupato, ma non importa, so benissimo che hai 22 anni e sai cavartela”
E quanto sono bravo a mentire tramite messaggio?
“Ti giuro, non finiva più. Abbiamo giocato a bowling, la bellezza di tre partite, il mio braccio è a terra”
“Ti piace il bowling?”
“Lo amo”
“Anche a me piace, qualche volta con i ragazzi andiamo a giocare. Amo vincere, mi pagano sempre da bere”
“Pure? Furbo sei, Hemmo! Magari un giorno porti anche me, magari sarai tu ad offrirmi una coca cola… o magari io”
“Non ti farei mai pagare in mia presenza”
Inconsciamente ho pure citato una mia canzone.
Just saying?”
“Già, non ti sfugge nulla, neanche a notte fonda”
“È che in macchina ho solo il vostro cd che va sempre, non lo cambio mai”
“Che fan incredibile”
“Già… e, forse, lo faccio per sentirti vicino”
Sì, bambini, la mamma sa pure essere dolce, soprattutto a notte fonda.
“Non te l’ho mai chiesto ma… non credo di sapere quale canzone preferisci, tra le nostre, intendo”
“E se non volessi dirtelo?”
“Devo scoprirlo da solo?”
“Sì, vorrei che lo scoprissi da solo, magari prima di stancarti di me”
E quasi la sentivo la sua voce nel dire quelle parole.
“Come ci si stanca di una come te? Credo di non saperlo”
“Bastano quattro mesi, poi passa, passo in fretta”
“Eppure ti conosco da sei mesi, e… beh, non credo di essermi stancato di te”
“Non credi, ma non ne sei sicuro”
“Non mi sono stancato di te, guarda te se devo stare attento a come scrivo!”
“Parli con una scrittrice, i dettagli contano troppo per me”
“Vero, un punto a te allora. Hai novità da parte della casa editrice?”
“No… ma non importa, ho altre cose da fare, tipo riuscire a finire la specialistica al più presto”
E la mamma cambia sempre discorso quando qualcosa non va proprio.
Perché quel dannato libro a me piaceva da matti, era impossibile non volerlo pubblicare, era magnifico, unico, e io ero tanto di parte.
“Mi manchi, Luke” il suo messaggio arrivato subito dopo tre secondi, prima ancora che rispondessi, un messaggio lungo che racchiudeva ogni sua paura “Mi manchi e… ho paura di perderti. Ti volevo qui con me, al bowling, ti volevo su quella poltrona rossa a guardarmi, ad abbracciarmi a quei pochi strike, ti volevo lì e… mi sono sentita così stupida, mi sono sentita così idiota, perché ho cantato più forte di te mentre guidavo, e… e credo di aver pianto su quelle note, su quelle parole.
Perché ho paura di sbagliare tutto, ho paura di deluderti, ho paura di non essere quello che tu credi.
Ho paura di non essere quella persona meravigliosa che hai in testa tu, perché io sono lontana miglia e miglia dall’essere una persona meravigliosa: sono testarda, sono impulsiva, so essere più acida di un limone, so mandare tutto a puttane perché mi fido di poche persone che si contano su una mano. Dico di essere una persona pacifica, ma in realtà so essere una gran bastarda; sono tutte queste cose e… e tu invece sei… sei solo tu, sei Luke Hemmings e… e io… ho bisogno di te, nonostante tutto, in ogni momento, ovunque tu sia, anche con un oceano in mezzo, anche due; ho bisogno di te, perché… perché mai nessuno mi ha mai guardata come fai tu, perché… perché quello che stiamo facendo, quello che mi fai provare tu… non l’ho mai provato con nessuno. Perché non posso smettere di sentirmi così? Perché mi sento finalmente in pace con me stessa”
E avrei voluto sbandierare ai quattro venti il mio amore per lei.
Lo avrei fatto subito, di getto, un bel tweet in Twitter, una bella confessione per la persona più sorprendente al mondo, la persona che, Dio, avrei dato qualsiasi cosa pure di stringerla un po’.
Logicamente, dopo quel papiro degno di una scrittrice, non avevo la minima idea di cosa risponderle.
Posso solo dirvi che l’ho chiamata, di getto, senza pensare un solo secondo.
L’ho chiamata e… ho cominciato a cantare quella canzone, la canzone che la mamma canta ancora oggi squarcia gola, la canzone che ci siamo in qualche modo presi, la nostra canzone che non ho mai cantato ai concerti, se non solo una volta.
«And I know I shouldn't tell you. But I just can't stop thinking of you. Wherever you are. You. Wherever you are. Every night I almost call you, just to say it always will be you. Wherever you are»
È bastato questo a farla piangere un po’, è bastato sentire la mia voce.
Un mezzo pianto che poi è diventato una risata.
Sì, perché la mamma ride anche quando piange: si è data della stupida, della cretina, mi ha chiesto scusa altre mille volte, prima di lasciarmi finalmente parlare.
«Torno in Europa tra due settimane, torno e sarà tutto diverso, te lo giuro.»
 
 





Note di Nanek
SIGH.
Okay, questo capitolo è così malinconico da far paura.
Non ho molto da dire, se non che ho pochissima voglia di studiare LOL
Non so davvero cosa commentare, non succede qualcosa di troppo divertente, c’è questo messaggio triste, c’è questa canzone che fa pure da sottofondo al trailer, canzone che SIGH mi vien da piangere al pensiero.
Qua fa caldo, da voi?
Io sono in piena sessione estiva, non manca molto alla fine, ma sono già KO in pratica!
Immagino che invece la maggior parte di voi abbia finito la scuola, o la finisce a brevissimo! Beate voi che siete ancora al liceo! Non sapete quanto lo rimpiango a volte :D
e… nulla, insomma.
Grazie di cuore a tutte voi che leggete <3
Grazie davvero, questa ff conta davvero molto per me <3
Ci sentiamo presto!
Nanek

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Capitolo 6
*** News. ***


5. News
 
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I promise you we will make it through
As long as you wait for me
Wait for me
Please save a space for me
Inside your arms
I know it's been long
But darling stay strong for me.
 
 
E meno male, bambini miei, che quando sono tornato in Europa non ho avuto la splendida idea di fermarmi in Italia, perché non l’avrei mica trovata la mamma, sapete.
Devo essere sincero, ero intenzionato a fare scalo in Italia, per andare da lei a sorpresa, per poterla abbracciare e consolare per quell’assenza quasi imperdonabile.
Ma… vedete, con gli zii… non era per niente facile, quella situazione.
Forse per colpa mia, anche senza forse, li ho portati ad odiare quella ragazza, inconsapevolmente.
Non mi hanno mai detto chissà cosa, non mi hanno mai vietato di vederla, di sentirla, di chiamarla anche durante i momenti meno opportuni come le prove; lo zio Michael mi aveva pure consigliato lui di raggiungerla, quella volta dello schiaffo, ricordate?
Ecco, però… beh, c’era qualcosa nei loro volti che mi convinceva sempre di più di una cosa: loro odiavano Vanessa.
Non tanto perché era lei, ma più per gli effetti collaterali che mi scatenava ogni cinque secondi.
Passavo dall’essere felice all’essere triste, dalla gioia all’ansia, dalla tranquillità all’esaurimento cronico.
L’ho detto che ero fuori di testa, no?
È che, purtroppo, riversavo tutte le mie paure su di loro, le mie incertezze, le mie inquietudini, e a volte le parole non mi bastavano, tanto che sbagliavo pure sul palco perché troppo distratto dal pensiero di lei.
Lei che, a dire la verità, sembrava non volermi mai cercare per paura di disturbarmi.
Gli zii, quindi, li ho sentiti troppo spesso dire quelle parole, parole che mi hanno portato più volte ad odiarli, a riempirli di insulti, mentre i loro occhi si alzavano al cielo e mi mandavano a fanculo a turno.
«Neanche fosse una principessa»
«Neanche fosse Katy Perry»
«Una comune mortale sta rovinando la nostra quiete»
«Perché non te ne prendi un’altra?»
«Perché ti fissi così tanto?»
«Abbiamo un sacco di cose da fare, ti sembra di avere il tempo per una ragazza?»
«La vedi sì e no dieci giorni al mese»
«Non durerà, ci scommetto quello che vuoi»
E quanto li ho odiati, non potete neanche immaginarlo.
Perché essere così bastardi con me?
Perché non tentare di capirmi?
Perché non fingere di capirmi?
Ero completamente andato per una persona, non è da amici essere felici per questo?
Eppure, non lo erano per niente.
E non li capivo, e meno capivo più li odiavo.
Sta di fatto che, appunto per questi motivi, non ho prenotato un volo diretto per l’Italia, ma per Londra, insieme a loro, loro che mi innervosivano anche con un sospiro e un’alzata di occhi al cielo, solo perché la mamma mi mandava qualche messaggio.
“Vengo presto da te, Vane, te lo prometto”
“Non devi preoccuparti, Luke, davvero, non voglio che tu faccia mille giri per me, hai i tuoi doveri e io li rispetto, davvero.”
Ma ero io quello impaziente di vederla.
Appena ho messo piede in hotel, dopo ventiquattro ore di aereo, mi sono lasciato cadere sul letto e non ho aperto occhio fino alla mattina dopo, come se lo stress per il viaggio, il fatto di non poterla vedere e l’impazienza mi avessero fatto da sonnifero.
Il giorno dopo, verso le undici, mi sono svegliato ancora più nervoso del giorno precedente.
Tanto che ho preso il portafoglio e, senza dire parola a nessuno, me ne sono andato per le strade londinesi a passeggiare, come un comune turista, attorniato ogni cinque secondi dalle fan, fan che non somigliavano per niente alla mamma.
Sospiravo deluso al non trovarla in quei volti, sospiravo e più camminavo più saliva la voglia di stare fuori fino a tarda serata.
Le mie foto con le fan hanno tipo fatto il giro di Twitter per tutto il giorno, i ragazzi hanno concesso qualche selfie appena fuori l’hotel, e qualche fan un po’ folle si era già accampata fuori dall’ingresso.
E tutto ciò comportava ancora meno voglia di tornare lì.
Tuttavia, c’era un qualcosa di strano.
La mamma rispondeva in modo bizzarro ai miei messaggi, e la domanda che mi chiedeva in continuazione era “E adesso dove sei?”
“Sto passeggiando ad Hyde Park, tu?”
“Ah io nulla”
“Sei a casa?”
“Sì, sì, sempre a studiare… ma come mai non rientri in hotel?”
“Perché su Twitter ho visto il casino che c’è già lì fuori”
“Dai… non essere sgarbato”
“Non ho voglia”
“Ma non avevi sonno? Perché non sei rimasto con gli altri? Cosa fai da solo?”
“Perché tutte queste domande?”
“È solo per parlare un po’… sembra che tu sia arrabbiato”
“Forse lo sono”
“Che ti ho fatto?”
“Tu nulla, gli altri… beh, diciamo che Londra non era esattamente la mia meta”
“Non volevo farti litigare con gli altri, mi dispiace”
“Non hai fatto nulla, davvero”
“Quando torni in hotel? Sono quasi le dieci…”
“Sono le 9:15 pm, mamma”
“Hai cenato?”
“Burger King, mamma”
“Che schifo, si vede che non sei mio figlio: McDonald’s tutta la vita!”
“Scusa, mamma”
“Dovresti tornare in hotel, è buio”
“Dovresti smetterla di ripeterlo”
“Dovresti tornare, dato che fuori dal tuo hotel fa freddino, sai, a novembre, a Londra, non ci sono temperature estive”
“…Che?”
“Hai capito bene, Hemmo, sono qua che ti aspetto, da ore”
“Non è divertente come scherzo”
“Vieni a controllare”
“No, mandami un selfie, è più divertente”
E di divertente non c’era proprio nulla, dato che la mamma era davvero lì fuori, armata di giubbotto e berretto, una borsa e il buonsenso di una sciocca.
Ho corso come un emerito coglione.
Sono arrivato da lei dopo un’altra mezz’ora abbondante, sudato, con il fiatone, il senso di colpa addosso e con un’ondata di fan pronte ad urlare appena mi hanno riconosciuto.
Ho sopportato per cinque minuti quel caos.
Poi, ho usato il cervello, inventandomi di dover fare una chiamata urgente che le ha zittite sul momento, mentre mi accecavano con quei dannati flash ad ogni mio passo verso l’ingresso.
Ho chiamato la mamma e la sua voce era quasi un soffio.
«Pronto?»
«Dove sei?»
«Mi sono tolta da quel macello, sono davanti al mio hotel, è esattamente dietro il tuo, più o meno»
«Perché non mi hai aspettato?»
«Beh, ti aspetto tra un’ora, vorrei andare in un posto, se ti va»
«Lasciami l’indirizzo, faccio una doccia e arrivo»
Un’ora.
Non un solo minuto di più.
E, no, non ho detto nulla agli altri ovviamente.
Anzi, pensavano mi fossi già trovato un’altra, loro.
Invece, alle dieci e quarantacinque mi sono presentato sotto quell’hotel a tipo cinque minuti dal mio.
Un hotel a due stelle, una specie di topaia, davvero, ma che la mamma ha voluto prenotare per non pesare su di me, ovviamente.
Ma era anche ovvio che non l’avrei mai lasciata dormire lì, da sola, neanche sotto tortura.
Infatti, sono sceso dal taxi, dirigendomi dentro, notandola uscire dall’ascensore.
L’ho raggiunta, non l’ho degnata di un sorriso, nonostante lei fosse mezza imbambolata e le ho detto di portami in camera sua.
Quell’affermazione suonava peggio di quel che doveva sembrare.
«Che devi fare?»
«Non ti lascio dormire qui, spiacente»
«Ma ho già pagato!»
«Ti rimborserò»
«Dai, Luke»
«Ti sembra il modo? Non avvisare neanche? E pretendi pure di stare qui da sola?»
«Non sono una-» e le ho lasciato un bacio.
Quanto mi era mancata, bambini.
Ma in realtà quel bacio serviva a farla stare zitta, onestamente.
E serviva a rubarle le chiavi della stanza.
Sono entrato velocemente, ho preso tutto quello che aveva tirato fuori –ossia nulla- e ho portato via la valigia.
«Ora possiamo andare» e neanche il tempo di ribattere, perché l’ho baciata di nuovo, e, senza vantarmi troppo, ma sulla mamma credo di avere un potere particolare, soprattutto baciandola.
*
«Dove andiamo, allora, principessa?»
«Al bowling, se non sei stanco»
«Ci porti al bowling» ho detto al taxista, una volta uscito dal mio hotel di nuovo, dopo aver portato dentro la sua valigia ingombrante, mentre la mia mano prendeva quella della mamma, intrecciando le nostre dita, lasciando che parole timide scivolassero pian piano.
«Beh, sorpresa, eccomi qua» ha sussurrato con poco entusiasmo, mentre la facevo sedere sul mio bacino, giusto per rendermi conto davvero di averla tra le braccia dopo giorni e giorni di attesa.
«Perché non me l’hai detto?»
«Perché non volevo farti dividere dagli altri»
«Hai rischiato grosso, io contavo di raggiungerti»
«Lo so, ma Twitter aiuta sempre e… ho avuto fortuna, un volo a pochissimo da prenotare assolutamente, poi in questo hotel ci sono già stata, per una settimana non mi sborsavano, ma tu mi hai già rovinato i piani» mi ha pizzicato la guancia, per poi baciarmi piano, facendomi fremere un po’.
Le mie mani la tenevano stretta, il mio cervello era tra il confuso e la felicità, la baciavo come se fosse una necessità vitale, come se non vedessi l’ora di stare con lei per una settimana, come se dovessi smaltire quei giorni passati lontani, quei giorni in cui ho sempre temuto di perderla.
«Mi sei mancato»
«Mi sei mancata anche tu»
«Bugiardo»
«Sono serio»
«Guarda che ti controllo, ho visto come te la sei spassata alle feste»
«Eppure pensavo solo a te»
«Fingerò di crederti, rock star» e quanti baci che ci siamo dati su quel taxi, mentre le luci di Londra non sembravano minimamente interessanti da guardare, come se tutto il resto fosse stato oscurato, su di noi un primo piano, solo noi due, interessati l’uno agli occhi dell’altra, interessati alle nostre labbra unite, alle nostre mani che si prendevano e si lasciavano per accarezzare i nostri visi, eravamo in una bolla, e neanche gli sguardi indiscreti dell’autista ci hanno bloccato.
Avevamo bisogno l’uno dell’altra.
Io, avevo bisogno di lei, come non mai.
E avrei tanto voluto dirglielo, in quel taxi.
Avrei voluto dirle quanti pensieri le avevo rivolto in quei giorni.
Lo avrei fatto davvero, ma quel sorriso sulle sue labbra ha come cancellato ogni dolore, ogni ferita ancora un po’ aperta, ogni incomprensione che mi aveva logorato per tanto tempo.
E poi, comunque, eravamo finalmente arrivati al bowling.
La mia mano stringeva quella della mamma, la tenevo proprio stretta bambini, e sapete perché?
La mamma voleva pagarmi il bowling.
Dio, quanto l’ho detestata in quel momento.
«Hai pagato il taxi, lasciami pagare il bowling!» quella frase me la ricorderò in eterno.
Io non lascio mai, mai, bambini, una ragazza pagarmi qualcosa.
Eppure con la mamma non c’è stato verso.
Mi ha pure ricattato.
«Se non pago il bowling me ne vado, ti lascio qui da solo.»
Un vero e proprio affronto, tanto che ho deciso di giocare l’ultima carta a disposizione.
«Facciamo così: giochiamocela. Tu paga, ma se vinco io, allora tu accetterai i miei soldi»
«Credi di vincere?»
«Onestamente? Sì.»
E quel sorriso beffardo me lo ricorderò in eterno.
Beh, bambini, lo sapete anche voi… la mamma a bowling è una specie di bomba.
Altro che “L’importante non è vincere”, la mamma quando si parla di bowling manda tutto a puttane, pure la morale manda a puttane, diventa competitiva da far paura, lancia di quei tiri che spesso mi chiedo come faccia a non perderci il braccio.
E io… beh, evidentemente avevo fatto troppo lo sbruffone.
Non ne facevo uno, di strike.
Neanche a pagarlo oro, ero completamente rincoglionito, una mira così da schifo non l’ho mai avuta.
Volevo lasciarla vincere, starete pensando.
Ma a che scopo? Se vinceva lei dovevo rassegnarmi all’idea che una ragazza mi avesse pagato il bowling!
Era in gioco il mio orgoglio maschile.
Ma più tentavo di vincere, più il cielo mandava alla mamma strike su strike.
Mi tenevo le mani tra i capelli.
Umiliato, insomma.
La partita l’ha vinta lei, con tanto di balletto vittorioso davanti agli occhi degli altri.
Lei rideva, rideva come una matta, mentre saltava e cantava sulle note di qualche canzone un po’ storpiata, mentre io mi disperavo come non mai.
«Rassegnati, Hemmo, ho vinto io!» e sembrava una bambina di dieci anni.
Fatto sta che, data la mia faccia sconvolta, la mamma deve aver capito il mio “dramma” interiore.
«Beh… non si offre più da bere al vincitore?»
Ora capite perché la amo, vero?
*
Dopo quella cioccolata calda, io ho avuto la splendida idea di proporle una passeggiata a quasi mezza notte e mezza per il centro di Londra.
La mamma, però, non ha esattamente reagito secondo i miei piani, tanto che prima di uscire dal bowling ha esitato un momento.
«Hai freddo?» mi è venuto da pensare sul momento.
Lei però ha scosso la testa.
«No… è che… Luke io…»
«Devi andare in bagno?» ho inarcato il sopracciglio, le stavo sparando tutte, ma proprio tutte le troiate possibili.
«No, scemo» ha ridacchiato un po’, prima di confessare quel misero particolare che mi stavo proprio scordando «Se ci vedesse qualcuno?»
Eh, bambini, papà se l’era proprio scordato di essere famoso.
Non mi era proprio passato per la testa, come se stare con lei fosse tornare indietro, ai tempi senza flash che ti circondano, senza fan urlanti che ti seguono ovunque, senza essere riconosciuto dal mondo intero: con la mamma ero solo Luke, Luke e basta.
Beh, diciamo che sono rimasto un po’ basito a quelle parole, ma… neanche così tanto, in realtà, dato che era una cosa che volevo da tempo: confessare di essere felice davvero.
«E allora? Un po’ tardi per pensarlo, sai?» ho ridacchiato un po’, perché in quel bowling c’era un po’ di gente, magari qualcuno mi aveva pure riconosciuto e scattato foto a mia insaputa.
«Ma… io… Dio. Se le tue fan lo scoprissero?» e non capivo il motivo di così tanta paura, di così tanta ansia.
«Non ti mangiano mica»
«Non intendo questo, lo sai»
«Sì, okay, ma… ora come ora, è un po’ inutile preoccuparsi, non trovi?»
«Sono una cretina» e dopo aver lasciato scorrere quelle parole, l’ho vista allontanarsi con passo fin troppo frettoloso.
«Vanessa! Ma che cazzo… fermati!» le ho urlato, mentre la mamma cominciava a parlare in italiano da sola, non lasciandomi capire una mezza parola, mentre i nostri passi erano sempre più veloci e mi ritrovavo con il fiato più corto.
L’ho letteralmente rincorsa, per un bel po’ di metri, chiamandola, incitandola a fermarsi, senza prenderle il braccio per paura di un ceffone –sono un po’ fifone, bambini, lo sapete meglio di chiunque altro.
Sta di fatto che, dopo un po’, finalmente si è decisa a fermarsi, elaborando quella frase alla velocità della luce.
«Loro mi odieranno. Esattamente come io avrei odiato qualsiasi persona vicina a te. E, no, non me ne frega un cazzo se tu sei felice o meno, io so come si sentono loro, io lo so!» e quella mano che gesticolava come non mai, quella voce che andava rallentando, mentre mille pensieri si erano già formulati nella sua testa.
Pensieri che mi ha confessato in cinque minuti.
«Mi odieranno, non voglio che mi odino, non ho fatto niente di male. Non mi merito di essere qui, con te, adesso. Loro mi odieranno e io odio essere odiata dalle persone! Odio essere odiata, non mi conoscono neanche! Ma le capisco, le capisco e basta, perché se fossi loro, mi odierei anche io. Perché io sono qui, con te, e loro no, e loro, magari, sono anche meglio di me!» e il suo discorso, dal suo punto di vista, non faceva una piega.
Ma… io sentivo tutt’altra cosa.
Cioè, sì, forse mi dispiaceva per le fan, mi dispiaceva credere che molte di loro se la sarebbero presa con me, mi dispiaceva averle in qualche modo “ferite” perché avevo fatto la mia scelta.
Ma… loro non potevano essere felici per me?
Io amavo, e amo, la vostra mamma.
Non l’avevo ancora ammesso a me stesso, ma le cose stavano così: con lei stavo bene, con lei era tutto cambiato, era tutto diverso.
Possibile che solo io credessi che le fan mi avrebbero appoggiato?
Sta di fatto che, bambini, quella passeggiata in centro a Londra l’abbiamo fatta lo stesso.
Abbiamo camminato l’uno affianco all’altra, per un’ora, senza mai toccarci, parlando di rado, gli sguardi fissi sui nostri passi, l’imbarazzo alle stelle e la voglia di sembrare semplicemente due ragazzi infatuati l’uno dell’altra.
E, poi, il colpo di grazia l’hanno dato le prime ragazze che mi hanno riconosciuto.
«Oddio, Luke! Posso fare una foto con te?»
«Luke! Oddio ma sei tu?»
«Ti prego possiamo abbracciarci?»
E ho soddisfatto ogni singola richiesta, sotto lo sguardo felice della mamma: mi fissava, senza dire parola, mi fissava e sorrideva.
E poi… ho semplicemente deciso di dare fiducia alle mie fan.
Una volta salutate, nonostante i loro occhi fossero ancora puntati contro la mia immagine, mi sono avvicinato alla mamma, le ho preso il viso tra le mani e le ho lasciato un bacio leggero.
La mamma si è un po’ pietrificata, tanto che credo le si sia gelato il sangue, ma ho continuato per la mia strada, portandole un braccio attorno alle spalle, incitandola a continuare a camminare, come se non ci fosse nessun altro se non noi due.
Come se io fossi ancora solo e solamente Luke.
«Sei un coglione»
«Grazie»
«Perché lo hai fatto?»
«Perché mi piaci troppo»
«Ti stavano guardando, ci stanno guardando!»
«Lascia che guardino, allora»
«Luke…»
«Perché devi complicarmi la vita? Io piaccio a te, tu piaci a me, quindi… non c’è niente di sbagliato»
«Ma…»
«Un’altra parola e potrei baciarti, la mia lingua dritta nella tua gola»
«Luke!»
«Ti avevo avvertita, piccola» e l’ho baciata senza pensarci due volte, mentre le mani di lei tentavano di spingermi via, invano.
Abbiamo camminato così, vicini, uniti, non ci siamo separati neanche dopo essere scesi dal taxi, davanti al mio hotel.
Sì, lo ammetto, mamma ha fatto un po’ di resistenza, ma ho intrecciato le mie dita alle sue, sicuro delle mie azioni, dei miei sentimenti e l’ho quasi trascinata dentro l’hotel, salutando qualche fan pazza ancora accampata fuori per aspettare il mio ritorno.
Tra qualche flash e qualche urletto che hanno spaventato la mamma, alla fine siamo riusciti ad entrare, siamo riusciti ad avere ancora una volta la nostra privacy.
E… beh, il giorno dopo il mondo sapeva già di noi.
Ma nulla sembrava turbarmi, come se non vedessi solo l’ora di leggere quelle frasi, come se finalmente mi fossi liberato da quel piccolo segreto.
Luke Hemmings e ragazza misteriosa.”
Luke Hemmings mano nella mano con ragazza misteriosa.”
Luke Hemmings mentre bacia la ragazza misteriosa.”
 
 
 
 
 
Note di Nanek
SONO VIVAAAAAAAAAAAAAA
Sono viva, sono fuori dalla sessione d’esami e sono ancora viva!
Santo cielo, non potete immaginare che giorni d’inferno la scorsa settimana, ve lo lascio solo immaginare!!
Ma sono sopravvissuta, un mega applauso a me e al mio C1/C2  in spagnolo! sta lingua va dritta dritta nel dimenticatoio, col tubo che la studio ancora, vi permetto di fucilarmi se ci ricasco ancora.
Mamma mia, non sapete quanto odio, vi giuro, odio le lingue nella forma più assoluta dopo sti esami: l’ansia era davvero insostenibile.
Ma per fortuna che esiste Nek, e Kellin Quinn e anche Luke, dai <3
Questo capitolo spero vivamente che vi piaccia! Finalmente li hanno visti a sti due!
Qualche parere riguardo le paure di Vanessa? Qualche commento relativo al ragionamento di Luke?
Io aspetto commenti <3
Presto tornerò anche con una OS, tuttavia su Niall Horan, giusto perché mi manca un po’, e tornerò anche con il capitolo a tomorrow never dies, datemi un po’ di tempo per riprendermi e per godermi un po’ l’estate (sempre se la si può definire così) anche perché io avrei una bella Tesi da scrivere, oltre che 300 storie :D
E avrò mille impegni lol tipo settimana prossima che vado in quel di Verona a trovare la CALEIDO <3333 ve la ricordate vero? Beh, spero di sì, anche perché ha aggiornato proprio ieri finalmente <33
Detto questo, evaporo!
Grazie di cuore per ogni cosa <3
A presto!
Nanek

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Capitolo 7
*** Tenerife sea. ***


6. Tenerife sea

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We are surrounded by all of these lies
And people who talk too much
You got the kind of look in your eyes
As if no one knows anything but us.

 
 
“Mi manchi”
“Tu di più”
“Wow”
“Wow?”
“Mi aspettavo una classica risposta alla Vane del tipo: quanto sei mieloso, quanto sei da diabete, oddio mi è uscita una carie. Che succede?”
“Mi manchi e basta. Tanto”
“Che succede, Vane? Ti hanno fatto qualcosa? Vuoi che ti chiami?”
“Che ore sono da te?”
“Non importa l’ora, ti chiamerei in ogni istante. Dimmi cosa succede”
“Non succede nulla”
Ho premuto il tasto verde per chiamarla subito dopo aver ricevuto quel messaggio.
«Perché mi hai chiamata?»
La voce della mamma era lieve, quasi un sussurro, come se non volesse farsi sentire.
«Cosa succede?»
«Nulla, Luke. Quante volte te lo devo ripetere?»
Eppure c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.
«Che ore sono lì, in Italia?»
«Le sette e mezza di mattina, lì? A Los Angeles?»
«Le dieci e mezza di notte. Stai andando all’Università?»
«Sì.»
«Hai guardato le notifiche di Twitter. Potevo scommetterci. Quante volte ti ho detto di non leggere? Vane, a me importa solo-»
«No, Luke. Non ho letto nulla, ormai mi sto anche abituando all’idea di essere osservata dalle ragazzine e di essere un po' detestata. Ma non è quello, lo giuro…»
E io e mamma ormai continuavamo la nostra relazione da mesi, mesi che però non venivano vissuti a dovere, tra i miei impegni con la band e i suoi impegni universitari, tra i miei viaggi da ogni lato del globo e quel maledetto fuso orario che impediva ogni tipo di contatto.
Eppure, facevo di tutto pur di non perderla mai, facevo di tutto pur di starle vicino, anche se eravamo così lontani.
Non avevamo neanche passato il Natale insieme, tanto meno Capodanno, e Febbraio era arrivato senza neanche chiedere, erano passati troppi mesi da quella improvvisata in Inghilterra, erano passati troppi mesi e troppi gossip su di noi.
Foto ovunque, fan allarmate, cose che leggevo per conto mio, articoli che leggeva pure la mamma, senza dirmi nulla, senza chiedermi di fare qualcosa a riguardo.
Perché nonostante i mille pettegolezzi, io non avevo ancora confessato niente.
Cosa c'era da dire?
L'avevo baciata davanti agli occhi delle fan, l'avevo tenuta stretta a me mentre decine di cellulari ci scattavano foto, l'avevo portata dentro al mio hotel: più chiaro di così.
Eppure, mi sentivo un po' in colpa per questo mio comportamento.
La conoscevo da nove mesi, nove mesi passati con lei in testa, con mille pensieri rivolti a lei, con mille preoccupazioni solo e solamente per lei.
Eppure... potevo davvero dire di essere in una relazione?
Ad essere sincero, mi sembrava solo una presa in giro.
Mi detestavo, bambini, mi detestavo, perché mi rendevo conto di non essere presente per lei, mi rendevo conto di essere solo una figura che compariva qualche volta ogni venti giorni, una figura che pretendeva di trovarla lì, ad aspettarmi, anche se passavano quaranta giorni.
Mi sentivo una merda, un autentico stronzo nei suoi confronti, un egoista che non aveva neanche il coraggio di lasciarla andare.
Perché non volevo, bambini, non mi sarei mai perdonato un gesto simile: lasciarla andare avrebbe significato dimostrare quanto poco mi fossi sforzato per far funzionare le cose.
Non me lo sarei mai perdonato.
Avrei fatto di tutto pur di dimostrarle quanto contasse per me, quanto importante fosse per la mia esistenza, quanto importante fosse aver trovato una persona come lei.
Dovevo, quindi, trovare una soluzione, trovare un modo per renderla felice, per renderla parte della mia vita.
L'illuminazione è arrivata in tempo, per fortuna, sempre nel corso di quella chiamata.
«Senti... io... vorrei proporti una cosa»
«Che succede?»
«Parteciperemo ai Brit Awards, tra poco»
«Sì, lo so... ma non voglio che tu...»
«Vieni con me»
«C-cosa?»
«Vieni con me. Sarai mia ospite, ti manderò tutto quello che ti serve. Però, vieni, accetta, vieni con me, resta con me. Ci vediamo così di rado, mi manchi, mi manchi da morire, sei la mia ragazza e ti vedo meno del dovuto. Ti prego, vieni, pagherò tutto.»
Un minuto di silenzio.
Un minuto pieno di panico, di terrore, di fiato sospeso.
Un minuto prima di sentirla ridere appena.
«La tua ragazza?»
E, bambino mio, le donne capiscono solo quello che vogliono, senza offesa, bambina mia.
«Sì, la mia ragazza, qualcosa in contrario?»
«Non posso accettare, Luke. Lo sai, io... non posso, non ti lascerei pagare tutto, però... non posso spendere più di quanto non spenda già, lo sai... io... non posso venire, lo sai»
Il resto di quella conversazione ve lo risparmio, bambini, perché tanto il papà ha sempre fatto di testa sua.
Esattamente una settimana prima dei Brits sono atterrato in Italia.
Esattamente una settimana prima, mi sono presentato a casa della mamma con tanto di vestito elegante in una borsa, comprato appositamente per lei, due biglietti aereo e la voglia di passare almeno una settimana in sua compagnia, prima di trascinarla a forza a Londra, a quell'evento che non scorderò mai.
La fortuna era dalla mia parte, in quei giorni, e me ne rendevo conto man mano che il tempo passava.
Casualmente i nonni erano in vacanza.
Casualmente la mamma era a casa da sola in quei giorni.
Ma quanta casualità, eh?
Eppure, è andata davvero così, infatti, mi sono ritrovato chiuso fuori casa ad aspettarla, occhiali da sole indossati anche con la pioggia, l'ombrello inondato d'acqua, la valigia che pesava più di me e la paura di mandare in rovina quel bel vestito che custodivo come qualche tesoro prezioso.
Ho aspettato la bellezza di... cinque fottutissime ore.
Sotto quel dannato portico ci ho messo le radici e per fortuna che la sua vicina mi ha aperto il portone! Così mi sono riparato dentro, seduto sulle scale, sempre in attesa della mia ragazza preferita.
Ragazza che dopo cinque ore si è fatta viva, sotto un ombrello blu, lo zaino giallo sulle spalle, il giubbotto che la copriva tantissimo e quegli occhi blu che non osavano alzarsi da terra: sembrava in incognito, sembrava solo... triste.
«Buongiorno, principessa!» ho esclamato con il cuore in gola, facendole prendere uno spavento, non appena ha aperto il portone.
Quegli occhi blu mi hanno un po' fulminato in quel momento, prima che quel sorriso la tradisse brutalmente sotto il mio sguardo.
Ha sorriso, bambini, ma quei sorrisi che non si dimenticano mai.
Quel sorriso che esprimeva ogni cosa: le mancavo, mi voleva esattamente lì, l'avevo resa felice anche solo con un saluto, eravamo entrambi nel posto giusto al momento giusto.
E quando ho sentito il tonfo del suo ombrello caduto a terra, me la sono sentita addosso.
Mi ha abbracciato stretto, talmente stretto che a momenti non la riconoscevo, mi ha abbracciato e finalmente mi sono sentito a casa, mi sono sentito come in paradiso, in pace con me stesso.
«Dio... ma sei veramente qui? Sei veramente tu?»
«In carne ed ossa, non sono né una visione, né un angelo, sono io» e la frecciatina lei l'ha colta subito.
«Che ci fai qui?»
«Sono venuto a trovare la mia ragazza, non so se sai dove abita, ma è in questo palazzo, mi sembra al primo piano»
«Ma tu non avevi un evento a cui partecipare?»
«Tra una settimana e, per la precisione, non voglio andarci da solo»
«Luke... ti ho già detto che...»
Non l'ho lasciata finire, non avevo voglia di sentirla ripetere le stesse cose, anche perché alla fine, tra i due, avrei vinto io.
L'ho baciata, lasciando che quel bacio fosse leggermente diverso dagli altri, lasciandole ben intendere che quello era il momento meno adatto alle parole.
L'ho baciata così forte da farle diventare le labbra arrossate, l'ho baciata sul collo, facendola gemere appena, mentre le mie mani vagavano sui suoi fianchi, mentre i nostri bacini combaciavano alla perfezione tanto da farci sussultare.
«Luke... aspetta»
«Dimmi»
«No è che... siamo all'ingresso del condominio e... beh, non so se hai notato ma... qua rimbomba tutto e...»
«Ci sono i tuoi?»
«No»
«No?»
«Sono a casa da sola da tipo due giorni, sono andati in montagna, tornano la settimana prossima»
«Perché non me l'hai detto?»
«Perché... beh, eri a Los Angeles!»
«Sì, ma... insomma, potevi dirmelo»
Silenzio.
Le guance della mamma sempre più rosse.
«Resti qui, fino ai Brits? Tanto... ho un letto in più»
Sorrisi beffardi.
Sapevamo entrambi che un letto per due era più che sufficiente, ma ci piaceva fingerci innocenti e capaci di trattenere gli ormoni, al pensiero mi viene ancora da ridere.
Beh, siamo entrati in casa, questo è importante, ho lasciato la valigia in entrata, ho avuto un brevissimo primo incontro con il caro Charlie, prima di riprendere quello che mamma aveva interrotto.
Ci siamo baciati di nuovo, ancora con più bisogno di prima, ancora con più foga, tanto da avere il fiato corto, tanto da avere le mani tremanti ad ogni singolo gesto, ancora insicuri e dubbiosi su quello che stavamo per fare.
Da parte mia, mi sentivo come ad una specie di esame: ero nervoso mentre le sfilavo i vestiti, ero nervoso e nella mia testa regnava un bel po' di casino.
Mille domande, mille preoccupazioni, forse fin troppo inutili e idiote, ma che il mio cervello si divertiva a creare, solo per creare ancora più scompiglio.
In fin dei conti, non l'avevo vista per mesi, non ci eravamo neanche parlati per cinque minuti: era la cosa giusta fare sesso in quel momento?
Come si sarebbe sentita, lei?
Usata? Amata?
Si sarebbe sentita bene?
Forse non lo voleva?
Forse ricambiava quei baci per compiacermi?
Ma a tutte quelle domande si era aggiunta quella più importante: dove cazzo è il preservativo?
Non ce l'avevo, ovviamente.
E, no, bambini, non era questo il momento per darvi vita.
E da quel pensiero, sono cominciate le comiche.
«Vane...»
«Sì?»
«Non ho il... il preservativo. Prendi la... la pillola?»
«Ehm... no»
«C-come no?»
«No, Luke.»
Quel “no” ha dato vita a molte cose che mamma mi teneva ancora nascoste.
«Non la uso, perché io non ho mai avuto rapporti, semplice» una confessione detta di getto, ma con un tono di voce che lasciava ben intendere che ci fosse molto altro.
Non che la cosa mi avesse scandalizzato, però non me l'aspettavo, tutto qua.
La mamma era un'autentica bomba, bella da morire, un fisico che personalmente trovavo perfetto, nonostante lei non lo capisse, quindi... beh, considerando che mi aveva parlato dei suoi ex, pensavo che uno di quei coglioni fosse arrivato al punto.
Invece no.
E scoprire questa cosa mi ha reso felice.
Egoista da parte mia? Vero, non lo metto in dubbio, ma non sapete che sollievo.
Il solo pensiero di lei con un altro prima di me mi faceva più che rabbrividire, sapere che però lei sarebbe stata solo mia... mi rendeva la persona più importante della sua vita.
Sarei stato io il suo primo.
Sarei stato io il suo ricordo più vivo.
Mi piaceva pensarla così, e mi piace tutt'ora pensare che per lei sono il suo unico e solo.
Tranne per un piccolo errore, ma non è il momento di parlare di questo.
In conclusione, la mamma tra un balbettio e l'altro mi ha spiegato un po' la situazione, mi ricordo i suoi occhi lucidi e le sue mani tremanti mentre si scusava per nulla.
«Scusa per cosa? Non devi scusarti»
«Mi dispiace»
«Quanto sei scema. Non voglio nessuna scusa»
«Scusa perché io non sono come quelle che hai avuto tu» e questa frase, bambini, non potete neanche immaginare quanti casini ha creato tempo dopo.
Sto facendo troppi riferimenti a fatti avvenuti dopo quel giorno, riferimenti a cose di cui vorrei parlarvi più avanti, seguendo il filo conduttore di questa storia.
Quindi, riprendendo il discorso.
Alla fine sono dovuto andare in farmacia, da solo, e fare la mia bella figura di merda con la tipa dietro al bancone: mi ha semplicemente guardato dentro, con quegli occhi grigi, mi ha fissato per tutto il tempo che sono rimasto lì, concludendo il mio acquisto con «Divertiti» e una strizzata d'occhio che mi ha fatto arrossire di brutto.
Quella sera, alla fine ce l'abbiamo fatta.
Abbiamo fatto l'amore per la prima volta.
Vi risparmio ulteriori dettagli, dato che certe cose stanno tra me e la mamma, bambini.
Quello che posso dirvi è che è stata la notte più bella della mia vita.
Mi sentivo diverso, mi sentivo bene con lei.
E, sì, aveva ragione, lei non era neanche paragonabile alle “altre”, ma perché lei era l'emblema della perfezione.
Non mi sono mai sentito così amato da qualcuno, non mi sono mai sentito così completo mentre mi univo a lei, non mi sono mai sentito così preoccupato di ogni mia singola azione, preoccupandomi per lei, per il suo corpo, per il suo piacere, lasciando completamente in disparte il mio.
Potrà sembrare pure banale quello che dico, ma fidatevi che non sempre troverete delle persone che mirano al vostro star bene e non al proprio.
E io mi sentivo così, sentivo il dovere di preoccuparmi solo di lei.
Non dovevo rivolgere pensieri a nessun altro, tanto meno a me stesso, perché nella testa della mamma c'ero solo io.
Ci preoccupavamo a vicenda l'uno dell'altra, con le nostre paure, con i nostri timori, ma con la consapevolezza che mai e poi mai avremmo trovato un'altra persona in grado di amarci così.
Ed è stata proprio quella notte a farmi capire quanto potessi amare davvero, è stata quella notte ad aver un po' sigillato una promessa silenziosa, una promessa destinata a durare in eterno: la promessa di riuscire a non perderci mai, nonostante tutto.
*
«Ripetimi perché ho accettato di venire ai Brits, Luke?»
«Ancora? Ma la vuoi smettere?»
«Io mi vergogno. Poi, questo vestito è troppo corto! E questi tacchi? Ma mi hai visto come cammino? Appena scendo dalla macchina farò una capriola»
«Ti tengo io, dai, non cammini così male»
«Perché i miei genitori mi hanno lasciato venire qui?! Mi risparmiavano una figura di merda davanti agli occhi del mondo»
«Quanto sei scema! Andrà tutto bene, vedrai. Il Red Carpet non è così male: cammini, sorridi e poi entriamo e starai seduta tutta la serata»
«La fai semplice tu, dato che sei la star di turno. Le tue fan urlanti mi odiano, mi odiano pure Michael, Ashton e Calum! Non capisco perché tu mi abbia portata qui»
«I ragazzi non ti odiano, e tanto meno le mie fan, smettila di preoccuparti»
«Posso restare in macchina? Ho mal di pancia...»
«Tu non hai mal di pancia, ti diverti a fare la bambina»
«Tu non puoi sapere se ho mal di pancia o meno»
«Ripetimi quanti anni farai ad agosto? Ventitré? Oppure sette?»
«Smettila, Hemmo. Non sei divertente»
«Bambina capricciosa»
«Hemmo, stai giocando con il fuoco»
«Vuoi un po' di latte dalla tetta della mamma? Piccolina lei»
«Hemmings! Io ti uccido»
«Prova a prendermi, allora» e in quell'istante la macchina si è fermata.
Sono sceso alla velocità della luce, sentendola imprecare contro di me in italiano, facendomi sorridere mentre venivo accecato da troppi flash di macchinette fotografiche a pochi passi da me.
Le ho aperto la porta, porgendole la mano, sentendo come la sua pelle fosse estremamente congelata a confronto con la mia.
Quel vestito blu le stava un incanto, non era per niente troppo corto, era bello, era un po' stretto con dei fiocchi color oro sulla schiena che tracciavano la spina dorsale, le sue gambe scoperte che non erano così bianche come diceva lei, la sua carnagione era perfetta, delicata e mi piaceva da morire.
I capelli sciolti, poi, lisci e perfettamente piastrati, color dell'oro, quella frangetta che ho sistemato con l'indice, prima di perdermi nel blu dei suoi occhi.
Il rossetto scuro, la matita azzurra, era un contrasto perfetto, era lei semplicemente meravigliosa per quell'evento, nonostante mi stesse guardando con sguardo malefico e intimidatorio.
«Andiamo» le ho preso la mano, cominciando la nostra camminata verso l'entrata, chiamati da ogni parte, mentre la presa di lei si stringeva ad ogni passo, ad ogni foto scattata senza preavviso.
«Sono color cadavere. Guarda che bianca che sono. Guarda come mi guardano male, perché mi hai portato qui?» mi ha sussurrato appena, parole che io ho evitato di ascoltare, per il semplice motivo che io, lì con lei, mi sentivo sopra il mondo.
Le fan hanno urlato il mio nome così forte da attirare la mia attenzione, ci siamo pure avvicinati a loro, la mamma rossa in viso, le fan che la fissavano interdette.
Non volevano nulla da lei, e lei lo sapeva benissimo.
«Se volete, vi faccio le foto» si è offerta, ricevendo uno scarso entusiasmo, ricevendo la prima delusione che io non ho colto: il non essere accettata.
Forse, ero solo troppo preso ad essere felice, così felice da non accorgermi che lei stava già un po' soffrendo a causa mia, a causa delle mie fan senza rispetto, a causa della loro gelosia che lei sembrava capire, che sembrava voler giustificare, nonostante facesse male a lei e al suo animo fragile.
Siamo andati dentro mano nella mano, ci siamo seduti insieme agli altri in attesa della proclamazione dei premi.
Ed è stata in quell'occasione che l'ho presentata agli zii.
L'unico che l'ha fatta sentire un po' a suo agio è stato Ashton, con sua grande sorpresa.
Calum e Michael, sembravano solo irritati dalla mia decisione di portarla lì, dalla mia frettolosa scelta di sbandierare ai quattro venti gli affari miei.
L'aver vinto solo un premio su tre ha portato solo al peggio.
Perché quando le persone si mettono in testa un'idea sbagliata su qualcuno, quell'idea comporta a ragionamenti inutili, stupidi, illogici, ma che possono comportare a grandi cambiamenti, a gravi incomprensioni, a gravi litigi che porteranno solo al peggio.
Ma io, bambini, non mi ero ancora reso conto delle nuvole nere che stavano per invadere la mia vita.
Ancora non mi rendevo conto di quanto le cose stessero per cambiare di lì a pochi mesi dopo.
Ancora non mi rendevo conto di come una mia scelta potesse portare a cose tristi da ricordare.
Ancora non me ne rendevo conto, bambini, non me ne rendevo conto, ero troppo preso a stringere la mano della mamma, ero troppo preso ad abbracciarla e a baciarla per la felicità che sentivo dentro: vincere il premio ed averla lì, al mio fianco.
Ancora non me ne rendevo conto.
 



 

Note di Nanek
DI SEREEEEEE NEREEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE
Perché FA MALEEEEE MALEEEEE MALEEEEE DA MORIRE SENZA TEEE T.T
Di ritorno da Verona (di nuovo lol), con ben 4 ore di sonno dopo una serata meravigliosa al concerto di Tiziano Ferro, SONO NUOVAMENTE QUI.
E RINGRAZIO SEMPRE CHI SA PIANGERE DI NOTTE ALLA MIA ETàààààà
No allora, prima di iniziare le mie solite scuse per essere una ritardataria cronica, parliamo di Tiziano Ferro.
Cioè, voi non potete capire, E MAI NESSUNO CAPIRàààà PUOI RIMAAAANEREEEE.
Devo calmarmi, ma quell’uomo mi ha fatto fuori con le seguenti canzoni: Sere Nere, Troppo buono, E fuori è buio, Alla mia età, la Fine, se mi vedevate mi avreste preso per pazza, ma avevo i lacrimoni da morire.
Cioè, non so. Durante Sere nere stavo per urlare “FA MALE DA MORIRE SENZA LUKE” e il resto delle canzoni invece è… boh, ascoltatele, sono troppo per questo mondo, sono troppo belle.
Poi E fuori è buio… quanti ricordi, io non so.
È solo che… CHE QUANDO NON RITORNI ED è Già TARDI E FUORI è BUIO NON C’è UNA SOLUZIONE QUESTA CASA SA DI TE T.T
Comunque, in conclusione a questo sclero, sì, sono qui, sono viva e sono ancora in fibrillazione da ieri sera e e e e udite udite: SONO SOTTO TESI.
Purtroppo i miei ritardi sono anche a causa della tesi da scrivere, tra ff e tesi ormai ho gli occhi che mi si incrociano!!
Chiedo perdono (regalami un sorriso io ti porgo una rosa TIZIANO ESCI DALLA MIA TESTA) e spero di tornare presto, ma vi giuro non ho una briciola di tempo!!
Passando al capitolo: è molto… non lo definirei gioioso.
Okay, c’è la parte sentimentale di Luke che insegna ai suoi figli che trovare qualcuno che si preoccupi per te in ogni momento è difficile e bla bla bla ma… inizio e fine capitolo sono un po’… dubbiosi, non sono tanto sereni.
Qualcuno ha idee su cosa succederà?
Il prossimo capitolo è quello decisivo, preparatevi!
Detto questo, io vorrei pubblicizzare la mia OS su Niall, perché boh, mi piace e… vorrei sapere che ne pensate =) questa è la OS: Night Changes.
E dopo questo, io vi saluto.
Tornerò presto, FORSE di sabato, non questo ma il prossimo, nell’attesa, ascoltatevi ste canzoni di Tiziano che meritano tutte *--------*
Grazie di cuore per ogni cosa <3
Nanek

 
 

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Capitolo 8
*** Drunk. ***


7. Drunk

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I wanna be drunk
when I wake up on the right side of the wrong bed,
And every excuse I made up
Tell you the truth I hate
What didn’t kill me
it never made me stronger at all
Love will scar your makeup lip stick to me
So now I’ll maybe leave back there
I’m sat here wishing I was sober
I know I’ll never hold you like I used to.
 
 
«Vanessa! Finalmente sei arrivata!»
E quel saluto non l’avevo neanche sentito.
Erano passati cinque mesi, bambini, cinque mesi dai Brits, cinque mesi da quella serata, cinque mesi che oserei definire “normali”.
Io e la mamma continuavamo la nostra relazione da ormai un anno.
O meglio, era ormai un anno che la conoscevo, da quel lontano 9 maggio del 2015, e sinceramente non ho mai dato una data di inizio alla nostra relazione, non ho mai pensato di chiederle di stare con me, come se per me fosse cominciato tutto quando i nostri occhi si sono incontrati.
Lei, poi, non sembrava neanche preoccupata di questo piccolo dettaglio, per lei io ero il suo ragazzo e lei era la mia ragazza, ormai lo sapevano tutti, il mondo intero ne era al corrente, non c’era bisogno di mettere le cose più in chiaro di così.
L’unica cosa di cui ero certo, era che il giorno 10 di ogni mese era il nostro momento, una sorta di promemoria di noi due, il numero dieci ce lo siamo preso come nostro e di nessun altro, e sembrava bastare, o almeno lo credevo davvero.
Non so, bambini, questo capitolo della nostra storia è un po’ l’introduzione alla catastrofe che stava per devastarci davvero tanto, un’introduzione ad una serie di incomprensioni, di silenzi, parole nascoste, che non riuscivo proprio a captare, perché la mamma si teneva tutto dentro, non facendomi mai mancare i suoi sorrisi e il suo amore per me, sopportando l’odio degli altri, sopportando la distanza e la solitudine, facendomi credere che tutto stesse andando solo a gonfie vele.
Quanto ero sciocco, anzi, coglione a pensarlo.
E il tutto è successo esattamente cinque mesi dopo quell’evento, cinque mesi dopo i British Awards, per la precisione il 7 luglio 2016, il giorno del compleanno dello zio Ashton che, a grande sorpresa, aveva deciso di dare una festa mozzafiato nel centro di Londra, in un locale fighissimo che era davvero da invidia.
Lo zio Ashton, bambini, a differenza degli altri zii, ci teneva davvero alla mia relazione con la mamma, infatti, pur di farci stare insieme almeno cinque giorni di seguito, mi aveva fatto una sorpresa in anticipo per il mio compleanno: aveva invitato lei e le sue amiche alla sua festa di compleanno, aveva pagato loro l’hotel dove alloggiavamo pure noi e aveva fatto trovare un taxi pronto a condurle fino a quel posto.
Lo zio Ashton aveva fatto davvero un ottimo lavoro.
Sospiro, bambini, sto davvero sospirando a ricordare quella sera perché… beh, è andata davvero nel peggiore dei modi.
Me ne stavo lì, seduto su una sedia, quella sera.
Messaggiavo con la mamma, ignaro del suo arrivo, logicamente, ero circondato da ragazze mai viste ma che Ashton “conosceva” anche solo di vista, invitate che pure Calum ha chiamato e che, chiaramente, volevano solo farsi uno famoso: la banalità della gente.
Ero lì e… beh, mamma era arrivata.
Dopo aver salutato Ashton, ha fatto una corsetta verso di me, con i tacchi alti che a momenti la facevano cadere a terra, ma ha resistito, è riuscita nel suo intento, mettendosi davanti a me e tossendo appena per farsi sentire.
Ho alzato lo sguardo e sono rimasto a bocca aperta.
«Sorpresa!» ha esclamato proprio un secondo prima che la musica partisse a manetta, assordandomi e mandandomi ancora più in confusione.
Non potevo crederci, era proprio lì, davanti a me, in quel vestito lungo, verde acqua, i capelli sciolti e i soliti occhi blu che nascondevano lacrime versate a mia insaputa.
Era lì, davanti a me, mi sorrideva e io vedevo solo perfezione in quel sorriso, vedevo solo l’effetto che le facevo, la felicità che ero sicuro di darle, anche se non era davvero sufficiente.
Non mi rendevo conto di molte cose, bambini, cose che solo tempo dopo ho realizzato, cose che rimpiango davvero tanto, cose che la mamma ha saputo perdonare, perché lei tende a non perdonare mai, ma io… io ero la sua eccezione.
L’ho abbracciata, bambini, l’ho abbracciata e l’ho baciata.
Non la baciavo da quattro settimane, se non di più, ormai mi ero pure stufato di ricordare a me stesso quanti giorni mi tenevano distante da lei, mi ero stancato del mio lavoro, della distanza, dell’impossibilità di vederla ogni giorno, dei miei mille impegni, di tutto quello che comportava a stare a mille miglia l’uno dall’altra.
Mi ero stancato, sì.
Eppure… ho solo commesso errori.
Quella sera mi ha presentato le sue amiche, mi ha presentato le zie Giada e Mary, elettrizzate come non mai per essere alla festa più invidiata da milioni di fan: una festa in un locale meraviglioso per festeggiare niente meno che Ashton Irwin.
Mi hanno stretto la mano, mi hanno sorriso emozionate, per poi cominciare a guardarsi attorno: una mirava a salutare Michael, l’altra Ashton, dovevano assolutamente parlare con loro, dimostrare che pure loro potevano lasciare un numero di cellulare su un foglietto e sperare nel miracolo.
Inutile dire che quella tattica funziona, insomma, visti i risultati, non vi pare?
Ad ogni modo, sono anche scappate subito per lasciare me e la mamma soli, almeno un po’.
Ci siamo appartati, ci siamo presi una stanzetta meno chiassosa, dove la musica non sovrastava le nostre voci, dove le nostre effusioni restavano per noi, senza troppi disturbi.
Era una stanzetta piuttosto piccola, le luci basse, solo un divanetto e un tavolino a riempirla e poi noi, seduti con i nostri drink in mano, e noi due con sempre troppe cose da dire.
«Luke… io devo dirti una cosa»
«Ti ascolto»
E volavano baci sul collo, baci vogliosi, baci che bruciavano la pelle.
«Sai che l’anno scorso ho partecipato ad un concorso per giovani scrittori, no?»
«Certo»
«Beh… io… non lo so come sia successo, lo giuro! Ma, all’Università, un mio amico è riuscito a… boh, io non lo so come ha fatto! Ma una casa editrice è interessata al mio libro!» e l’entusiasmo nella sua voce sembrava così strano, come se quella fosse l’unica cosa bella successa in quei mesi, come se non ci fosse altro di bello, come se… io la stessi distruggendo.
«Dici davvero?! Oh, cazzo! Vane è meraviglioso!» ed ero contento davvero, ero davvero fiero di lei, del suo talento, della sua voglia di non arrendersi, del suo impegno costante: ero fiero di lei e basta.
«Sì! Luke… io non posso crederci! Ti giuro, me l’ha detto ieri e… e… non vedevo l’ora di dirtelo» e, forse, solo in quell’istante ho notato uno strano luccichio, ho notato qualcosa di strano in quegli occhi blu, come se le lacrime fossero lì lì per tradirla.
Ma non ho potuto fare domande, perché la mamma si era già gettata tra le mie braccia, avvicinando le labbra alle mie, baciandomi con foga, con necessità, baciandomi come se stesse cercando di dirmi qualcosa, qualcosa che però non capivo.
Credevo fosse gioia.
Credevo fosse felicità.
Credevo fosse qualcosa di bello.
Le mie mani le accarezzavano la schiena, scendevano piano, lentamente, come se dovessi godere di ogni singolo istante, di ogni singolo momento lì con lei.
Beh, sì, bambini, mamma e papà se la stavano prendendo un po’ troppo comoda in quel divanetto, bisogna ammetterlo.
Ma, non temete, neanche in quel momento vi abbiamo dato vita perché, giusto per farci prendere un colpo, in quell’istante in cui mamma si era appena messa seduta sul mio bacino, qualcuno ha aperto la porta.
E niente meno che lo zio Calum, con un ghigno disgustato, a squadrarci dall’alto al basso, bruciandoci sul posto, facendo salire il rossore sulle guance di mamma, dato che sembrava particolarmente concentrato su di lei, sul suo vestito alzato, sulla spallina abbassata, sul segno violaceo che ben si notava sul collo.
«Calum!» ho esclamato io, mentre mamma, piena di vergogna, tentava di allontanarsi, nonostante io la stessi tenendo stretta, vicina a me «Che vuoi?» ho continuato, inarcando il sopracciglio: che aveva da guardare? Perché restare lì a fissarci? Mai visto una coppia? Mai visto il suo migliore amico intento a limonare in santa pace?
«Sei qui, allora» ha cominciato a dire, facendomi sorridere divertito, solo un attimo prima di cominciare il disastro «E sei ancora con questa troia, noto» e quella parola sembrava detta apposta per essere capita perfettamente pure dalla mamma.
Mi si è gelato il sangue al sentirlo dire quelle parole.
La mamma, invece, non ha osato dire nulla, mentre si alzava in piedi e scappava via, prima che io potessi dire qualcosa, senza che io potessi fermarla.
Ha chiuso la porta, sbattendola forte, lasciandomi solo con lo zio Calum, ancora intento a guardarmi serio, ancora intento a proseguire quella lite che ha portato solo a giorni da dimenticare.
«C'è qualcosa che devi dirmi, Calum? Oltre ad insultare gratuitamente la mia ragazza?» e vi giuro che ho tentato di mantenere la calma.
Un ghigno divertito da parte sua.
«La tua ragazza, dici? Quella troietta la consideri davvero la tua ragazza?»
«Potresti, cortesemente, andare al punto? Che ti ha fatto per meritarsi tutto questo? Non riesco proprio a capire»
«Ti ha cambiato, Luke. Ti ha cambiato in peggio»
«In base a cosa lo pensi?»
«Ma lo vedi, Luke? Lo vedi come sei preso? Non ti rendi neanche conto di come sei diverso, di come quella puttana ti abbia completamente rimbambito!»
«Ma cosa stai dicendo, Calum? Ma come puoi pensare una cosa simile di lei? Lei mi rende felice, Calum, lei è... è speciale»
E non l'avessi detto.
Da quel momento, ho come dato il via a milioni di segreti nascosti, ho dato il via a Calum di raccontare ogni cosa che vedeva, che sentiva, ogni singolo pensiero che mi aveva sempre tenuto nascosto fino al momento del limite massimo di sopportazione.
«Tu non fai altro che vivere per lei, Luke! Tu... tu... a te non te ne frega più un cazzo di noi! Della nostra musica, delle nostre canzoni, dei nostri impegni, del nostro sogno! Te ne stai tutto il giorno al cellulare o su quel cazzo di Skype, sempre alla ricerca di un fottuto Wi-Fi perché devi sentirla, devi vederla, non riesci neanche a respirare se lei non risponde ai tuoi messaggi! Quella puttana è la nostra rovina! È la rovina di tutta la band, dei nostri progetti, dei nostri mille piani ancora da vivere! Lei... hai deciso di sbandierarla ai quattro venti, facendoti fotografare mentre le ficcavi la lingua in bocca, ti sei fatto sempre vedere, senza preoccuparti di nulla! Senza preoccuparti del fatto che le fan si siano sentite offese, ferite, abbandonate, ti sei preoccupato solo di te stesso, solo di lei, di quella stronza!»
«Calum... ma cosa cazzo stai dicendo?!»
«Dico che, da quando ti frequenti con quella lì, abbiamo vinto solo uno schifoso premio ai Brits su ben tre nomine! Dico che, da quando ti fingi pure innamorato di quella lì, non ti interessa più un cazzo del tuo mondo, della musica, di quello che ti rende davvero felice! Non ti importa nulla di noi, dei tuoi amici!»
«Stai blaterando, quello che dici è solo frutto della tua stupida gelosia!»
«Se quello che dici è vero: da quanto tempo io e te non parliamo? Da quanto tempo non ci beviamo una cazzo di birra insieme mentre guardiamo la partita? Da quanto cazzo di tempo non andiamo in discoteca a divertirci con le prime che passano? Da quanto tempo non hai una conversazione con me che duri più di due fottutissimi minuti?!»
E, in quel momento, ho commesso l'errore di dargli ragione.
«Calum...»
«Tu non fai altro che spaccarti il culo per lei. Non fai altro che pensare a lei, a quanto sia bella, unica, perfetta, a quanto ti faccia stare bene, lasciando che ti porti via da noi, dal tuo vero mondo, dai tuoi amici, dalla tua vita, cazzo!»
«Calum.... io...»
«Ti rendi conto di quello che fai? Ti rendi conto che stai allontanando chi ti vuole bene per una persona che vedi sì e no quattro volte al mese? Ma ti sembra una relazione questa, Luke?! Ti sembra un rapporto?!»
Silenzio.
E il mio cervello... mi ha fatto credere che avesse ragione.
Come potevo considerare quella storia una relazione? Come potevo considerarmi felicemente fidanzato con una persona che non vedevo mai?
Ma, soprattutto, come potevo non accorgermi di come stavo cambiando per lei?
Lei che, poi, chi era?
Chi era lei di così importante? Chi era lei, se non una tra mille? Se non... una qualunque? Una facilmente rimpiazzabile?
Lei era solo... lo svago di qualche giorno al mese, quella che aspettavo con ansia, con mille timori per paura di vederla andare via; come ho potuto aver scelto lei, quando potevo davvero prenderne molte altre e senza complicarmi la vita a tal punto? Come ho potuto scegliere lei, lei che mi teneva solo lontano dalla mia vera vita?
Papà, bambini, era solo un coglione, un coglione di neanche vent'anni, un coglione che non avrebbe mai dovuto meritare il perdono della mamma, non dopo la scelta che ho preso in quel momento.
«Calum... io... mi dispiace» e ho scelto lui, ho scelto le sue idee, ho scelto senza ascoltare me stesso, senza ascoltare quella parte di me che voleva soltanto essere innamorato di quella ragazza dagli occhi blu «Hai ragione, Calum. Io... mi dispiace.»
Quello che ho deciso di fare subito dopo... è stato solo come segnare l'inizio di una discesa, una discesa che avrebbe solo sconvolto la mia vita e quella della mamma.
Siamo usciti da quella stanza con un sorriso complice.
Ho finto di non vedere la mamma per l'intera serata.
Lei... aveva sentito tutto, lei... si era preoccupata per me.
Ed io... avevo scelto gli amici, il mio mondo, la mia musica, scordandomi in fretta di lei.
Per tutta la serata, con quegli occhi blu puntati contro, ho bevuto fino a non capire più nulla.
Ho bevuto tanto, troppo.
Ridevo, sembravo un emerito idiota.
La testa che mi faceva già male, mi girava tutto, ma ridevo e ridevo, ed ero fuori controllo.
Calum mi trascinava da un'invitata all'altra come se volesse distruggere definitivamente il mio rapporto con la mamma, come se lei non meritasse neanche di essere lì presente, come se lei fosse solo la stronza che cercava di trascinarmi lontano dai miei migliori amici.
Non ricordo quello che ho combinato di preciso, bambini.
Ero talmente ubriaco che ricordo solo piccoli tratti di quella sera.
Ricordo le risate, ricordo gli alcolici, ricordo la musica alta e corpi che si strusciavano sul mio.
Ricordo, però, la mamma davanti ai miei occhi.
«Luke...»
«Che vuoi?»
«Noi... io e le altre... e pure Michael e Ashton... volevamo andare in hotel... sono quasi le quattro»
«E... la cosa dovrebbe interessarmi?»
«Sei ubriaco, Luke... non sai neanche reggerti in piedi, ti prego, vieni con noi»
Ricordo di aver sentito lo sguardo di Calum su di me.
Ricordo di averlo guardato.
Ricordo di aver riso.
«Senti, Vanessa, la strada la sai, le gambe le hai, usa quella testa bionda e incamminati, non sei super intelligente tu? Non vai pure all'Università? Bene, allora vai. Lo so io quando è ora di andare in hotel, non ho bisogno di una baby sitter»
«Luke... io...»
«Ancora qua sei? Ma te ne vuoi andare? Io sono in compagnia»
Il resto della serata non me lo ricordo proprio.
So per certo di essermi svegliato in hotel.
So per certo di aver avuto un mal di testa bestiale.
Non ricordavo nulla, tanto che è stato Michael a raccontarmi tutto.
Della sbronza, delle ragazze, delle risate, della mamma a fissarmi.
Mi sono vergognato come non mai.
Inutile è stata la corsa fino alla camera 316, la camera dove la mamma, Giada e Mary dovevano restare per cinque giorni.
Inutile, perché quando ho aperto la porta, non ho trovato nessuno.
I letti intatti, gli armadi vuoti, la finestra chiusa.
La mamma se n'era andata.
Ed era stata tutta colpa mia.

 
 
 
 
Note di Nanek
HEEEEEEEEEEEEEEEEEEY
Chi si merita il linciaggio per tutto questo devastante capitolo?
Io direi Calum comunque, non io U.U
È stato difficile scegliere la iena tra i 3 rimanenti, solo che: Ashton è stronzo in So out of reach quindi l’ho risparmiato, Michael è stronzo in No Heroes Allowed e quindi l’ho risparmiato… indovinate chi restava? Caluuuuuuuum.
Purtroppo doveva andare così, era tutto troppo perfetto per andare avanti, non trovate?
Già. Non so cosa dire sinceramente, perché… beh i capitoli che seguiranno saranno un po’… beh, preparate i fazzoletti e le imprecazioni contro di me ^^
Vi ringrazio come sempre per ogni cosa <3
Ci vediamo appena posso! Sono piena di cose da fare/da scrivere/da studiare, ma cerco di non farvi aspettare troppo dai!!
Io… ve la pubblicizzo di nuovo, dato che è lì e nell’attesa se volete leggerla non si muove: OS su Niall Horan Night Changes.
A presto <3
Nanek

 
 

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Capitolo 9
*** Impossible. ***


8. Impossible
 
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And now when all is done
There is nothing to say
You have gone and so effortlessly
You have won
You can go ahead tell them
Tell them all I know now
Shout it from the roof tops
Write it on the sky line
All we had is gone now
Tell them I was happy
And my heart is broken
All my scars are open
Tell them what I hoped would be
Impossible, impossible.


 
 
 *qui Nanek che vi parla! leggete le note a fine capitolo, sono importanti*

 
 
Sapete una cosa, bambini?
Quando si ha appena vent’anni, noi maschi abbiamo ancora la testa dei ragazzetti di quindici.
Perché ve lo dico?
Perché quello che ho fatto è l’esempio lampante.
Avevo mandato a puttane la mia relazione nell’arco di una serata, una relazione cominciata un anno prima, una relazione difficile, piena di sofferenza e di paure, una relazione che, se dovevo farla finire così, tanto valeva non cominciarla neanche, non trovate?
Da quella sera, bambini, che avreste fatto voi?
Chiaramente, avreste chiamato la mamma, avreste chiesto scusa, avreste preso il primo volo per l’Italia, per raggiungerla, per strisciare ai suoi piedi e implorare perdono, vero?
Beh, bambini, posso dirvi solo che adesso, ripensando a quello che ho fatto in realtà, mi sento sempre più coglione.
Perché io non l’ho chiamata, la mamma.
Perché io, stupido ventenne, non l’ho contattata, non ho cercato il suo perdono, non ho cercato di chiarire le cose, non ho voluto avere le palle di affrontarla, lasciando solo che Calum e i suoi discorsi mi riempissero la testa.
Colpa di Calum?
No, bambini, era solo colpa mia e del mio essere così idiota.
Avevo deciso, nell’arco di una mezz’ora, di mandare tutto a puttane.
Per cosa, poi?
Per la vita da single, la vita da rock star, la vita passata tra discoteche, sigarette, alcool e ragazze troppo facili che non aspettavano altro che mettermi la lingua in gola.
Ed io, bambini, avevo considerato questa merda la mia vita.
Avevo deciso che era la mia strada, avevo deciso che la mamma era solo un modo per impedirmi di sfruttare a pieno quello che la vita mi stava offrendo, avevo scelto tutte queste stronzate piuttosto che ascoltare quello che volevo davvero, nel profondo.
Mentivo pure a me stesso, quando Calum mi chiedeva «Ti diverti?»
Mentivo, perché in realtà provavo disgusto, provavo un certo senso di colpa verso la mamma, verso quella parte di me che aveva fatto di tutto pur di starle accanto.
Mi sono distrutto, bambini, mi sono lasciato tutto alle spalle solo per… non lo so neanche io.
Comunque, da quella festa dello zio Ash, ho lasciato passare un mese intero.
Un mese pieno di sbronze, pieno di testa dolorante e vuoti di memoria, un mese pieno di ragazze di ogni tipo che mi sorridevano, mi accarezzavano e io non capivo nulla, tanto che, una volta, credo pure di aver vomitato di brutto sulle scarpe di una di loro.
Non concludevo mai nulla, a parole di Calum, ero sempre troppo ubriaco per riuscire a fare sesso, ero sempre così confuso, ero sempre così… ossessionato da quella parte di me che tenevo nascosto di giorno.
Perché di giorno credevo davvero di odiare la mamma.
Di giorno mi convincevo che, per colpa sua, avevo mandato a puttane i miei impegni, la mia passione per la musica, i miei amici, la mia vita così piena di avventure ancora da vivere.
Lo pensavo davvero, non so neanche con che coraggio formulavo questi pensieri.
Forse, lo sguardo felice di Calum, mi convinceva di aver fatto la scelta più giusta.
Forse, vedere il mio amico felice, mi convinceva che il vero Luke Hemmings era tornato al mondo, rinato, ancora più figo di prima.
Eppure, bastava un po’ d’alcool e la verità veniva fuori.
Mi mancava la mamma.
Mi mancava e io ero solo un idiota.
Mi mancava e lo dicevo ad ogni ragazza che ci provava con me.
Mi mancava e provavo disgusto a essere baciato da altre persone.
Sì, bambini, io… io credo di essermi baciato più di qualche ragazza, alle feste.
E… beh, io provo vergogna ad ammetterlo.
Mi dispiace così tanto.
Cosa posso dire?
Posso solo tentare di giustificarmi.
Ero ubriaco, non capivo bene, erano azioni così improvvise, ero andato e non avevo troppo cervello in funzione.
Grazie al cielo, non avevo forze per fare sesso, almeno un briciolo di dignità per me stesso l’ho tenuto.
Però… sì, sono volati baci a persone sbagliate.
E solo quelli, per mia fortuna.
E per fortuna che la mamma ha saputo perdonarmi, tempo dopo.
Tuttavia, da ubriaco la cercavo, di questo ero più che sicuro.
Alle ragazze che incontravo… non chiedevo neanche il nome.
Loro non erano Vanessa.
Loro non erano Vane.
Ho un ricordo, bambini, un ricordo di quel 4 agosto 2016.
Vi suona familiare questa data, vero?
Il giorno dopo del compleanno della mamma, il suo ventitreesimo compleanno.
Quella notte ero ad una festa, lo zio Calum sapeva sempre come imbucarmi in ogni locale pieno di gente e di divertimento, lo zio Cal è sempre stato un po’ così, festaiolo, allegro, voglioso di divertirsi fino allo stremo.
E anche in quell’occasione ero ubriaco.
Però mi ricordo, bambini, mi ricordo cos’ho combinato.
Era notte, saranno state le due, forse le due e mezza… e mi pareva di aver visto la mamma.
Cosa impossibile, dato che mi trovato in Spagna.
Ma, vi giuro, mi è sembrato di vederla, una specie di visione, una visione che mi è costata una caduta libera da un gradino.
L’ho come vista uscire dal locale ed, io, goffamente, ho seguito quell’illusione.
L’ho seguita, fino a sentire il vento freddo sulla pelle.
La vedevo, lì davanti a me, con un vestito azzurro chiaro, leggero, mosso appena da quell’aria fastidiosa, era scalza, i capelli raccolti in una coda.
«Vane…» ho provato pure a chiamarla, ma è durato tutto così poco.
Sono stato accecato da un flash, niente meno che un paparazzo che mi ha sentito parlare da solo, mentre la mano destra era come indirizzata verso quella figura che non c’era più.
Ho imprecato contro di lui, ho cominciato a camminare barcollando, ho cominciato a capire che giorno fosse e che cosa mi ero scordato.
Non l’avevo chiamata.
Non le avevo fatto gli auguri per il suo compleanno, che era il giorno prima.
Da stupido, bambini, ho avuto la malsana idea di chiamarla a notte fonda.
«Pronto?»
«Tanti auguri, Vanessa!»
«Ma che cazzo…»
«Sono Luke Robert Hemmings! Ti ricordi di me, vero? Perché io mi ricordo chi sei, sai?» una risata da parte mia.
«Luke… Luke, cosa vuoi?»
«Farti gli auguri!»
«Un po’ in ritardo, non credi?»
«Non essere pignola, il 3 agosto è finito da solo tre ore!»
«Luke, stai bene?»
«Mai stato meglio, sai? Mi diverto»
«E perché mi hai chiamato, allora?»
«Perché volevo farti gli auguri! Tu non me li hai neanche fatti, cattivona. Lo sai che era il mio compleanno il 16 luglio, ho compiuto vent’anni!»
«Lo so, Luke»
«Beh, non mi ringrazi? Ti ho chiamato!»
«Luke, metti giù, per favore»
«Sei una cattivona»
«E tu sei ubriaco, come sempre»
«Hey! Io non sono sempre ubriaco»
«Ah no? E cosa bevi alle feste? Acqua?»
«Bevo una cosa trasparente, ma non è acqua» e mi credevo pure simpatico.
«Luke… qui è notte»
«Anche qui è notte, sono in Spagna!»
«Io… stavo dormendo»
«Non sei felice che ti ho chiamato? Mi sei apparsa come una visione, sai? Mi assilli sempre»
«Non era mia intenzione assillarti, Luke»
«Ho mal di testa»
«Okay, Luke»
«Non sembri felice di parlare con me» e la mamma ha trovato il coraggio di agganciare.
Mi ha chiuso la conversazione, ha spento il telefono e i miei tentativi di richiamarla sono andati a puttane.
Lo zio Calum mi ha trovato su una panchina, appena fuori dal locale, intento a canticchiare “Everything I didn’t say” mentre guardavo il cielo, mentre qualche volta il nome “Vanessa” veniva urlato più forte.
Per la prima volta, da ubriaco, ho pianto pensando alla mamma.
*
Il giorno dopo, mi sono svegliato verso mezzogiorno.
Il solito mal di testa, il cuscino per terra, i vestiti della sera prima ancora addosso.
Sul comodino dell’Hotel, una pastiglia e un post it dello zio Calum.
“Ieri sera hai chiamato Vanessa, da ubriaco. Sta mattina ha chiamato lei, vedi tu. Cal”
E, bambini, quello era solo l’inizio della chiamata più brutta della mia esistenza.
«Ciao»
«Se osi chiamarmi ancora, Hemmings, io non so cosa combino. Sei uno stronzo!»
«Scusa, ero solo…»
«Ubriaco! Ecco cos’eri! Sei sempre ubriaco, in questo ultimo mese sei più andato che sobrio!»
«Ti chiedo scusa, non volevo importunarti…»
«Sei solo un coglione, Hemmings! Sei solo una testa di cazzo! Vaffanculo, Luke, vaffanculo, perché mi hai fatto preoccupare quando dovrei solo riempirti di insulti per quello che hai fatto!»
«Vanessa… andiamo, adesso, cerchiamo di essere civili»
«Essere cosa?! Civili? Vuoi essere civile, Luke? Bene, allora, civilmente, grazie sai, per aver troncato la nostra relazione senza neanche avere le palle di dirmelo in faccia!»
«Hai bisogno di una delega per essere lasciata? Scusa, non credevo di avere a che fare con una principessa»
«Sei un fottuto bastardo»
«E tu ti comporti come una bambina»
«E tu non sei il Luke che per un anno mi ha voluto bene»
«Forse quel Luke non esiste»
«Forse tu ti lasci influenzare solo dalle stronzate che dice il tuo amico Calum, senza ragionare con il tuo cervello»
«Calum mi ha solo aiutato a capire quanto tu fossi nociva alla mia vita, alla band, a tutto quello che mi riguarda»
«Ma ti senti, Luke? Lo senti quello che dici?»
«Ci sento forte e chiaro, e sono pure sobrio»
La mamma non ha osato continuare.
Ha messo giù.
Sono rimasto in silenzio per cinque minuti.
Minuti nei quali risentivo la mia voce mentre la accusava di essere la causa del mio cambiamento.
Ero irriconoscibile.
Non ero io a parlare, non ero io, quello.
Eppure, il coraggio di chiamare di nuovo lo ha avuto lei.
«Lascia che mi tolga almeno un peso, Luke»
«Se non ci impieghi troppo…»
Un sospiro.
«Mi dispiace, Luke.»
«C-cosa?»
«Scusa, se ho creduto di contare qualcosa per te. Scusa, Luke, dovevo capirlo da subito che per te non ero altro che un altro gioco da usare, consumare e poi buttare via. Scusa, Luke, perché, all’inizio della nostra relazione, io credevo di essere solo una qualunque per te, credevo che ti saresti stancato di me dopo una settimana, se non due. All’inizio ho fatto di tutto pur di non lasciare che i miei sentimenti prendessero il controllo, perché sapevo di non poter essere così importante come mi dicevi tu. Ci ho provato a starti lontana, ci ho provato a non affezionarmi a te, ma tu insistevi, tu mi cercavi, tu mi aspettavi con ansia, con impazienza e… ho lasciato che quello che già provavo venisse fuori del tutto…»
Un singhiozzo.
Il mio petto stretto.
Mi sono seduto sul letto, come senza forze.
Ed eccolo lì, quel senso di colpa.
«Io volevo solo renderti felice, Luke. Io non volevo rovinare la tua carriera, io non volevo renderti la vita difficile, io non volevo neanche essere vista dagli altri in tua presenza! Cazzo.»
Le lacrime.
«Io… io non volevo essere “la ragazza di Luke Hemmings”, io non volevo venire ai Brits, io non volevo essere fotografata con te, io non volevo essere odiata dalle tue fan, io non volevo tutto questo, io volevo –voglio- la mia vita, come prima. Essere una faccia tra tante, essere una ragazza normale che va al cinema con gli amici senza finire su Twitter, senza la paura che qualcuno faccia foto per poi sbandierarle a tutte quelle ragazzine piene di gelosia e rabbia»
Le mie mani che tremavano.
«Io non volevo. Ma tu l’hai fatto. Senza consultarmi, senza chiedermi il permesso, tu hai scelto per entrambi, hai scelto per me, buttandomi in pasto all’odio, alla gente cattiva, alle fan isteriche che non mi hanno risparmiato neanche una parolaccia. Tu mi hai buttato dentro l’inferno e io non ho mai avuto la forza di dirtelo perché…»
E in quel momento ero sicuro di odiarmi.
«Perché mi sono innamorata di te. L’errore più grande della mia vita»
Silenzio.
Un silenzio durato un minuto, prima che la tortura continuasse ancora.
«Non volevo dirti quanto soffrivo. Non volevo dirti quanti insulti o minacce ricevevo, non volevo farti sentire in colpa per quello che mi avevi fatto, non volevo, perché con te stavo bene, perché quando c’eri tu, qui con me, il resto non esisteva, resettavo tutto. Eri perdonato perché tu sei Luke Hemmings, e solo il cielo sa quanto ti ho desiderato, quanto ti ho aspettato, quanto mi sono illusa, dato che io sono solo una stupida fan, senza niente di speciale, senza niente di unico»
«Vane…»
La mia voce era un sibilo.
«Ogni volta che ti vedevo, credevo valesse la pena sacrificare la mia vita da ragazza “normale” per te. Mi sono chiesta molte volte se tu valessi la pena, ho passato notti insonni a domandarmelo, ho passato intere serate con le amiche a discuterne. E, sì, io mi dicevo che valevi la pena, tu valevi ogni cosa e io, forse, ero solo una sciocca, perché ancora dubitavo di te»
«Ti prego…»
«La verità, però, è che a te non ti importava così tanto di me. Lo hai dimostrato, lasciandomi senza neanche affrontarmi, dando retta ad un tuo amico che, in realtà, tanto amico non è, dato che ti ha solo convinto che io sia la causa dei vostri insuccessi. Come se io potessi veramente fare la differenza! Le vostre fan vi amano, fidanzati o single, le vostre vere fan vi amano»
«Io non…»
«Tu mi accusi di averti rovinato la carriera, la vita. Ma non ti sei mai chiesto quante volte io mi sia trovata sola ad affrontare la mia di vita? Ti sei mai chiesto perché ho smesso di andare all’Università? Ti sei mai chiesto perché non mi hanno più vista in nessun locale con le mie amiche? Ti sei mai chiesto perché ho cancellato tutti i miei profili in Internet? Rispondimi.»
«… No…»
Ho deglutito rumorosamente.
«Perché mettevo te davanti a tutto. Non potevo continuare l’Università, perché non sapevo quale sarebbe stato il mio futuro: ero confusa, ero piena di pensieri di ogni tipo, non sapevo con chi parlarne, non sapevo con chi confidarmi, stavo solo andando nel caos più totale; io speravo di trovare in te un appoggio, speravo di poter far luce sui miei dubbi, sulle mie paure, speravo tu mi potessi aiutare, speravo davvero di trovare una soluzione o una consolazione ma… più ti guardavo, più mi sentivo egoista a parlartene. Tu stavi vivendo il tuo sogno, cosa poteva importarti della mia vita? Dei miei di sogni? Dei miei progetti? Non osavo distoglierti dai tuoi impegni, non osavo rendere tristi e complicati i nostri incontri con le mie paranoie, perché tu facevi sforzi enormi per stare con me e… io volevo solo renderti felice. Non sono più andata in alcuni locali perché avevo paura di essere riconosciuta, avevo paura che si creassero nuove chiacchiere sbagliate sul mio conto, chiacchiere che avrebbero rovinato la tua immagine. Io ho messo te, davanti a tutto, io ho messo te e solo te davanti alla mia stessa vita»
Mi sono sentito rabbrividire al sentire quelle parole.
Mi sono sentito fuori dal mondo, come se per tutto quel tempo fossi stato solo in una bolla, isolato dai suoi problemi, concentrato solo su noi due, sui miei impegni, sul mio viaggio.
Mi sono sentito in colpa per non esserle stato vicino.
«Io non ti ho chiesto questo. Non ti ho mai chiesto di rinunciare a te stessa, io… io non volevo questo»
«Lo so, Luke. Eppure, io pensavo di fare la cosa giusta per te»
E quel silenzio l’ho odiato.
Quel silenzio era un “addio” ancora da sussurrare.
Un addio che, in quel momento, non volevo.
Eppure, non ho avuto il coraggio di evitarlo.
«Non chiamarmi più, Luke. Neanche da ubriaco. Non chiamarmi, non cercare di contattarmi. Stammi lontano, non ferirmi più di quanto tu non abbia già fatto»
«Vane… io…»
«Goditi la tua vita, rock star. Stai solo attento a non lasciare incinta troppa gente.»
La mamma ha riattaccato proprio così.
In quello stesso istante, è pure entrato lo zio Calum in camera mia.
Mi ha osato chiedere come stavo.
Ed, io, falsamente felice, ho osato anche rispondere «Bene, mi sono finalmente tolto una palla al piede»
Quello che non sapevo, bambini, era che di lì a poco mi sarei pentito amaramente della mia scelta.
Mi sarei pentito di tutto.
Ed ho rischiato di credere che fosse troppo tardi per tornare indietro.

 
 



 

Note di Nanek
EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEH
FEEEEEEELING LIKE 22!!!
Sono ufficialmente più grande anche di Ashton adesso ahahah
e pensare che questo capitolo è ambientato tra un anno, e pure in sti giorni qui!!
Beh, che dite? Lo uccidiamo Luke?
No dai... piccolo lui, ha solo... un po' di segatura in testa!!
Lasciamogli un po' di tempo dai.
Ioooooooooooooo ho un mini annuncio, ma credo che lo abbiate già intuito dalle note di tomorrow never dies (se leggete sta ff), ma lo ripeto: PURTROPPO per me, ho un esame ultra vicino, l'ultimo per la precisione, ed è DAVVERO molto importante e decisivo.
Oltre a questo, PARTO vado finalmente in vacanza, che ho le gambe cadaveriche, più luminose di Michael, e mi godrò un po' di riposo, dato che è tutta l'estate che ho 3000 impegni.
Inoltre, PACKBELL, ossia il mio adorato PC, sta male, oggi sono qui ad aggiornare per miracolo, ma appena ho finito qui lo riporto da quel nerd che non so che gli abbia fatto: insomma, il mio computer sta facendo scherzetti, ha bisogno di essere aggiustato, e non posso usarlo per un pochetto.
Tutto ciò per dire che: questa ff NON verrà aggiornata fino al 22 AGOSTO, e lo so che mi starete già linciando perché vi lascio con Luke e Vanessa divisi, ma anche se aggiornassi... la situazione sarebbe più o meno sempre questa, ci vorrà un po' prima che le cose tornino serene, e qua lo spoiler è scivolato in pieno.
Quindi, io vi ringrazio per la comprensione, confido in voi e nella vostra pazienza.
Grazie come sempre per tutto quello che fate per questa ff <3
Ci vediamo dopo il 22 agosto, nell'attesa, sappiate che c'è sempre quella OS su Niall nel mio profilo.
A “presto”
Nanek

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Capitolo 10
*** Can't have you. ***


9. Can't have you

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I miss those blue eyes
How you kiss me at night
I miss the way we sleep
Like there's no sunrise
Like the taste of your smile
I miss the way we breathe.
But I never told you
What I should have said
No, I never told you
I just held it in.
And now I miss everything about you
I can't believe it, I still want you
After all the things we've been through
I miss everything about you.
 
 
 
Quindi era finita, bambini.
Era finita e avevo fatto tutto da solo.
Mi ero impuntato per così tanto tempo su una fan che, alla fine, avevo scelto la strada più sbagliata per allontanarmi da lei.
Avevo fatto una grande cazzata, quella volta.
Avevo fatto una grande cazzata e… mi sentivo colpevole per ogni cosa.
Ero l’unico meritevole di rimproveri, ero l’unico da punire, da etichettare come stronzo, coglione e insensibile.
Non solo per averla lasciata, ma per tutte le parole che mamma non mi aveva mai detto e che, finalmente, era riuscita a liberare.
Everything I didn’t say.
Come se quella canzone l’avessi scritta per quel momento così freddo, difficile.
La mamma teneva dentro di sé cose che neanche lontanamente potevo immaginare.
Mi sembrava fosse tutto bello, tutto tranquillo, tutto normale: la nostra relazione che dava problemi –ma si sapeva già-, il suo libro che veniva preso in considerazione da una casa editrice, la felicità nei suoi occhi che mi pareva di vedere… non era altro che un errore.
Perché lei soffriva, a causa mia.
Soffriva perché, per colpa mia, aveva perso la sua vita, la sua quotidianità, il suo essere una ragazza qualunque.
Ed io non ne sapevo nulla.
Io non credevo che… non credevo che facesse tutte quelle cose per me, per la mia immagine.
Io… su un punto aveva più che ragione: io non mi fermavo mai a chiedermi il perché di molti cambiamenti.
L’Università, la sua scelta di fermarsi, di non continuare, non mi sono mai chiesto perché, semplicemente, pensavo che fosse stufa di studiare, a ventitré anni non si ha più quella voglia che si può avere prima; credevo volesse trovarsi un lavoro, credevo volesse entrare nel mondo vero, quello senza libri e insegnanti, quello dove la vita si respira e non si studia, dove la vita è un continuo esame e non solo durante le sessioni invernali o estive.
Credevo, sì, credevo fosse stata una scelta presa da questo punto di vista.
Non mi sarei mai aspettato una confessione del genere, non mi sarei mai aspettato che lei fosse insicura riguardo al suo futuro: la mamma ha sempre quello sguardo fiero, deciso, sembra sempre sapere ciò che vuole… eppure, mi sbagliavo, mi sbagliavo da morire.
Chissà quante volte aveva avuto il desiderio di confessarmi quel segreto.
Chissà quante volte aveva contato fino a dieci per potermene parlare, per poi rinunciare e rimandare ad un altro giorno.
Chissà quante volte mi aveva guardato nella speranza che io capissi qualcosa, solo guardandola negli occhi.
Stupido, idiota, egoista.
Perché la mamma aveva ragione, perché la mamma doveva solo stare lontana chilometri da uno come me, uno che si preoccupa solo per se stesso e mai per gli altri: io non avevo pensato alle conseguenze che ci sarebbero state una volta usciti allo scoperto.
Non ci avevo pensato, avevo agito d’istinto, avevo solo considerato la mia pace e la mia tranquillità: non volevo fare le cose di nascosto, non volevo girare in incognito quando potevo svelare la verità, non volevo complicarmi ancora di più la vita, senza considerare la possibilità che avrei complicato la vita della mamma.
Solo per me, aveva smesso di andare in locali troppo appariscenti.
Solo per me, si era tolta da ogni social network.
Solo per me, aveva deciso di rendersi invisibile pur di apparire la ragazza perfetta e meritevole di stare con uno come me.
Lei aveva fatto tutte queste cose per noi, per la nostra relazione, per la mia immagine.
Ed io… io l’avevo lasciata.
L’avevo lasciata, la sera stessa che lei mi aveva raggiunto per stare con me, ubriacandomi e strusciandomi su ragazze che neanche conoscevo, tutto questo sotto i suoi occhi.
Occhi blu che, ancora una volta, non avevano osato versare una lacrima, non avevano osato guardarmi con rabbia e odio, come se il mio comportamento fosse più che giustificato.
Come se Luke Hemmings potesse fare davvero quello che vuole, perché è una rock star, perché, si sa, con uno come lui non si può durare per sempre.
La mamma mi aveva dato il meglio di lei, mi aveva dato ogni cosa, mi aveva dato fiducia, aveva cercato di essere la persona perfetta che meritava di stare con uno come.
Dalla nostra ultima chiamata, quel 4 agosto 2016, ho cominciato il periodo più buio di sempre.
Ho mandato a quel paese tutto.
Discoteche, locali, alcool, ragazze, mal di testa.
Ho mandato a quel paese pure Calum, il suo sorriso che si vedeva solo alle feste e mai quando ne avevo più bisogno.
Ho mandato a quel paese pure il mio lavoro, la mia carriera, la musica, e ci è mancato davvero poco che mandassi a quel paese pure la mia fidata chitarra.
Tutto questo, perché?
Perché mi sono reso conto mesi dopo di essere cambiato.
Non ero cambiato per la mamma.
Non ero cambiato quando stavo con lei.
Io ero cambiato da quando l’avevo lasciata.
Con lei io ero me stesso, con lei la musica aveva senso, le canzoni che cantavo avevano il blu dei suoi occhi, il giallo che lei ama, il biondo dei suoi capelli, il rosso delle sue guance arrossate per un mio bacio.
Tutto aveva senso, quando stavo con lei.
Ma, ora, lei non c’era più, lei non faceva più parte della mia vita, del mio mondo.
E tutto era cambiato.
Io ero cambiato.
E mi sono odiato a morte per essermi reso conto troppo tardi del mio errore.
Le canzoni che cantavo mi facevano solo stare male, le canzoni tristi non avevano più neanche un briciolo di speranza, di positività futura, le mie canzoni erano la tortura più viva che potessi sentire, perché le cantavo io, perché le avevo scritte io.
Senza la mamma ero perso.
Lost boy.
Senza la mamma io non avevo più nulla per cui essere felice.
Avrei tanto voluto che le parole di Amnesia diventassero reali.
L’ho desiderato tanto, ogni notte, ogni momento di silenzio, solo con i miei pensieri.
Il colpo di grazia, bambini, è arrivato a Natale 2016.
Perché neanche a Natale ero felice, neanche a Natale avevo voglia di stare in compagnia.
A Natale ero sul divano a casa dei nonni, quella sera tardi, quando tutti stavano già dormendo.
E quella stessa notte, ho scoperto l’esistenza di qualcosa di più doloroso di quello che già vivevo.
Facebook.
Ad Ashton Irwin piace una foto.
Un profilo Facebook che era stato riattivato.
Una foto che ho guardato per cinque minuti, senza fiato.
La foto era della mamma.
Nella foto… c’era la mamma.
La mamma, i capelli lunghi, biondi, la solita frangetta, i soliti occhiali, i soliti occhi blu.
Un sorriso, un sorriso che mi mancava da tempo, un sorriso che non ero io a provocarlo.
Accanto a lei, un ragazzo.
Un ragazzo dai capelli castani, ricci, gli occhi azzurri e le labbra troppo attaccate alla guancia della mamma.
Sopra la foto, una scritta “I need your love to guide me back home. When I'm with you, I'm never alone”.
Un colpo al cuore.
Never be.
Ricordi di ogni tipo davanti ai miei occhi.
Un commento sotto, il ragazzo in questione che rispondeva con un cuore e qualche parola in italiano che non capivo.
Il panico.
L’ansia.
La rabbia.
Non ho chiuso occhio quella notte.
Dovevo farlo, dovevo tentare di riprendermela, dovevo correre indietro, anche se ormai, era davvero troppo tardi.
Dovevo riprendermi quello che mi rendeva felice, dovevo trascinarla via dalle braccia di un altro.
*
E l’ho chiamata davvero, bambini.
Esattamente due giorni dopo.
Esattamente dopo due giorni di intensa riflessione sul da farsi.
Ho elaborato un discorso degno di uno scrittore, degno di Shakespeare, degno di ogni romantico possibile ed immaginabile.
Ho controllato l’orario, ho controllato di avere tutto sotto controllo.
Dalla mamma erano le quattro del pomeriggio, a Sydney l’una di notte.
Tuttavia, non mi aspettavo di sentire una voce a me sconosciuta dall’altra parte del cellulare.
«Cosa cazzo vuoi ancora?!»
«Vane?»
«No, stupido faccia da culo! Non sono la Vane, sono Mary!»
«Mary…»
«E qui al rapporto c’è anche Giada! Che cazzo vuoi, stronzo?!»
«Sicuramente non parlare con voi due, dato che ho chiamato Vanessa, non voi»
«E chi ti dice che tu abbia ancora il diritto di chiamarla? Il suo numero dovresti cancellarlo! Brutto stronzo»
«Voglio parlare con lei, se permettete»
«No, non ti permettiamo di romperle ancora i coglioni dopo il tuo comportamento!»
«Sentite, senza che vi offendiate troppo: fatevi gli affari vostri e passatemela»
«Cosa vuoi ancora da lei? Vuoi ripeterle che non state più insieme? Guarda che l’ha capito sai, ed è andata oltre!»
«Per favore, passatele il telefono»
«No! Anche perché non può rispondere, siamo tutte dalla parrucchiera per tagliarci i capelli per Capodanno»
«C-come?»
«Hai capito benissimo»
«Pure lei li taglia?»
«Sì, e allora?»
«Passatele il telefono, cazzo! Fatevi i cazzi vostri!»
Ma, forse, essere così volgare non era la scelta migliore, infatti, hanno riattaccato.
Ho aspettato due minuti per calmarmi.
Due minuti per pensare a lei, dal parrucchiere, lei che si voleva tagliare quei capelli così lunghi, quei capelli che ci aveva impiegato anni a farli diventare così.
Quei capelli che… mi hanno scatenato ricordi troppo forti, mi hanno aperto ferite senza preoccuparsi del mio dolore.
Due minuti dopo, l’ho richiamata.
Ci ha impiegato un po’ prima di rispondere.
«Pronto?»
«Dimmi di no»
«L-Luke?»
«Hai già tagliato i capelli?»
«Ma cosa stai dicendo?»
«Vane, non tagliare i capelli»
«Luke, sei ubriaco»
«Ti giuro di no»
«Allora stai male di tuo, il che è anche peggio»
«Non tagliare i capelli»
«Cosa te ne frega a te, scusa?»
«Lo so, lo so sembra una cretinata, ma non tagliarli»
«Carino da parte tua chiamarmi per darmi consigli da parrucchiere ma, sai, io faccio quello che mi pare»
«Come puoi tagliarli? Non ti ricordi? Non ti ricordi quando passavo le dita tra i tuoi capelli? Ti ricordi quando li prendevo e ci giocavo, dopo aver fatto l’amore con te?»
«Tu stai male»
«Non tagliarli, Vane, non tagliarli per cercare di dimenticarmi»
«Io ti ho già dimenticato»
«E allora perché vuoi tagliarli?»
«Luke, mai sentito parlare di “aria di cambiamenti”?»
«Eppure mi hai sempre detto di odiare i cambiamenti, mi hai sempre detto di aver paura dei cambiamenti»
Silenzio.
«Non tagliarli, Vane. Vorrò sempre giocare con i tuoi capelli, vorrò sempre averli tra le dita dopo aver fatto l’amore con te»
«Luke, io e te non ci vedremo mai più»
«Lo sai che non è vero»
Ancora silenzio.
Un sospiro.
Una voce che ha confessato lieve quelle parole.
«Forse, voglio tagliarli perché… Non voglio che qualcun altro ci giochi come facevi tu»
E ha riattaccato, senza darmi il tempo di rispondere.
*
Sapete cos’ho fatto, bambini?
Ho agito nuovamente come un idiota, come un illuso.
Il primo volo per l’Italia.
L’arrivo lì per la sera del 31 dicembre 2016.
Gli zii Ashton e Michael che, anche se non me l’avevano detto, erano esattamente dove si trovava la mamma, dato che loro avevano da tenere saldi i rapporti con le zie Mary e Giada.
Sono atterrato e… li ho chiamati.
Mi sono fatto dire il nome del locale, mi sono fatto dire a che ora sarebbero arrivati, mi sono fatto dare tutte le informazioni possibili, omettendo il fatto di essere pure io in Italia.
Omettendo gli auguri di buon anno, dato che a Sydney la mezza notte era scoccata da un po’.
«Luke ma… sei fuori a festeggiare?»
«Certo, sono con… con Jack e Ben»
«E dove?»
«Ehm… devo andare, mi chiamano» che grande attore che è il vostro papà, bambini.
Alle undici e un quarto, ero già lì, ero già all’entrata di quel locale, non c’era nessuno, erano già tutti dentro da tempo, gli unici che sarebbero arrivati dopo cena erano coloro che stavo aspettando.
Non un solo minuto di più da aspettare, ho riconosciuto la voce di Michael a metri di distanza, quel gruppetto abbastanza numeroso che avanzava piano, senza fretta, tra risate e urletti, tra parole mezze in italiano e mezze in inglese.
C’era Michael, ovviamente vicino ad una ragazza dai capelli rasati dai lati con solo il ciuffo a coprirle un po’ il viso, un ciuffo blu, nuovo, appena fatto, una ragazza dal vestito nero, scollato davanti, i tacchi alti, camminava vicina allo zio Michael e gli rivolgeva un sorrisone unico.
Niente meno che la zia Giada, insomma, in tutta la sua unicità.
E, poi, come non riconoscere la risata di Ashton?
Lo zio Ashton era già brillo, ne ero più che sicuro, rideva troppo forte, mentre la ragazza al suo fianco gli teneva timidamente la mano: capelli a caschetto, color mogano, il viso timido e un sorriso nascosto, mentre sfoggiava un vestito scuro e delle scarpe vertiginose, quella sera non riusciva proprio ad essere cattiva nei confronti di Ashton, quella sera, la zia Mary, era troppo emozionata, dato che stava camminando con Ashton Irwin, mano nella mano, lui che le aveva prestato la sua giacca e stavano andando ad una festa insieme, festa che avrebbe portato a qualcosa di nuovo.
E, poi, per ultimi, le due persone che temevo di notare.
La luce del lampione sembrava farlo di proposito, vedevo perfettamente ogni cosa.
Quel ragazzo alto, i capelli ricci, castani, una camicia scura, i jeans stretti, il braccio attorno alle spalle di quella ragazza accanto a lui.
Ragazza dai lunghi capelli biondi, la solita frangetta, i soliti occhiali, in un vestito che riconoscevo alla perfezione, dato che era il vestito blu dei Brits, un vestito coperto da un giubbotto in jeans, fino troppo grande per essere suo.
Camminava lenta, quasi reggendosi al ragazzo al suo fianco, camminava bene su quei tacchi, camminava con un sorriso timido che mai avevo conosciuto, camminava con lo sguardo un po’ perso, mentre Ashton le rivolgeva la parola.
«Vane! Ma quindi possono entrare pure loro alla festa?»
«Ashy boy, non siamo in America, la maggiore età per bere, qui in Italia, è diciotto anni»
«Vane girl, che sfiga però! Era divertente fingersi sobri io e te, potevamo salvare il mondo!»
«Ashy boy, mi sa che sta sera avrai ben altro a cui pensare, sai?»
«Vane girl, zitta! Mi rovini sempre i piani!» e una risatina generale ha riempito l’aria, mentre la zia Mary sprofondava nel rossore.
Avanzavano, fino ad arrivare alla mia postazione, davanti all’entrata.
Non vi dico, bambini, le facce stupite di tutti quanti al vedermi lì.
«Oh, cazzo…»
«Quella birra mi fa avere le allucinazioni»
«No, Michael, è davvero lui»
«Ma come è possibile?»
«Vane girl, respira»
«Ma che vi prende? Vane?»
«Lui è…»
E a quel punto sono intervenuto.
«Luke Hemmings, piacere di conoscerti» un sorriso bastardo in volto, una stretta di mano con il nemico, mentre gli occhi di tutti mi fulminavano.
Poi, mi sono rivolto all’unica persona che mi importava davvero.
«Possiamo parlare?»
E posso scommettere di averla vista sorridere, nonostante si sforzasse di non farlo.
Ha semplicemente annuito, facendo cenno agli altri di andare dentro, dicendo di non preoccuparsi, lasciando che quel testa di cazzo le baciasse le labbra sotto i miei occhi.
Vendetta.
Vendetta pura, la sentivo dentro.
Una volta rimasti soli le parole che mi ero preparato… erano come sparite completamente dalla mia testa.
Succede sempre così, bambini, più cerchi di formulare un discorso perfetto, più questo verrà automaticamente cancellato dal tuo cervello quando è il momento di dirlo.
«Quindi, Michael e Ashton stanno con le tue amiche?» ho esordito così, facendola sorridere.
«Pensavo lo sapessi»
«In realtà… è da un po’ che non parliamo di relazioni»
«Troppo impegnato con Calum? Lui non ha di questi pensieri»
«Già. Calum tenta sempre e solo di farci vivere a pieno le nostre possibilità»
«Premuroso, non trovi?»
«Stanno insieme da molto?»
«In realtà… la stanno tirando un po’ per le lunghe»
«Dai, raccontami, mi sono fatto un viaggio lunghissimo, non mi va di tornare a casa senza una mezza novità»
Un altro sorriso.
La mamma ha iniziato a camminare, lontana dall’ingresso, verso un muretto poco distante, illuminato dalla luce del lampione.
Si è seduta lì, facendo attenzione a non farsi male, si è portata la borsetta sulle gambe e ne ha estratto un pacchetto di sigarette, porgendomelo.
«Ne vuoi una?»
«Da quando fumi?»
«Sono di Giada, qualche volta gliene chiedo una, è solo per… parlare»
Ha portato una sigaretta alle labbra, labbra colorate di quel rossetto scuro che ricordavo benissimo.
L’ha accesa sotto i miei occhi e pure mentre fumava, la trovavo bellissima.
Ho fumato una sigaretta, sedendole accanto, ascoltandola per la prima volta dopo mesi, ascoltando davvero le sue parole su Giada e Mary, guardandola e arrossendo un po’ al vederla gesticolare con quella sigaretta in mano.
Amavo ancora guardala, osservarla in quei gesti così semplici, amavo stare lì, accanto a lei, mentre la mia testa si riempiva delle sue parole, della sua voce che cambiava di tono a seconda quell’argomento, della sua risata quando certi ricordi la divertivano, dei suoi occhi blu che poche volte trovavano il coraggio di guardare i miei.
«Quindi… Giada è ancora un po’ titubante, lei è fatta così, tende a non farsi mille castelli, tende a non farsi prendere troppo. Però, Michael è Michael, lo sa anche lei. Lui non è uno a caso, lui è… quello che lei vuole. Non solo per qualche notte, per qualche pomiciata o per saziare l’astinenza da sesso. Michael è sempre stato speciale per lei, lei lo sa. Però… non sa ancora come ammetterlo»
Un sospiro.
Gli occhi verso il cielo.
Il fumo che si disperdeva nell’aria fredda.
Un brivido visibile sulle sue gambe.
Le ho dato il mio giubbotto, restando in felpa.
«Mettilo sulle gambe, o ti geli»
«E tu?»
«Io… parlami di Ashton»
Una risatina.
«Lui e Mary devono ancora baciarsi. Mi sa che lo faranno questa sera, a mezza notte. Lei… lui… sembrano entrambi spaventati dai loro sentimenti, non so perché»
«Ashton ha lasciato…»
«Lo so, Mary l’ha messo subito in chiaro di non voler essere la terza incomoda di nessuno. Ha persino già detto di non voler essere un nome su una lista»
«Ad Ashton spaventano le relazioni serie, lui… boh, teme di restare ferito»
«Lui è Ashton Irwin, non dovrebbe averle queste paure»
«Ashton è più fragile di quanto sembri, quel sorriso che si mette ogni mattina non è sempre un sorriso di gioia. Ha sofferto tanto, in passato»
«Credo che Mary lo sappia. Forse, è per questo che prendono le cose con calma, senza fretta, senza commettere errori»
In queste parole ho sentito una frecciatina, ho sentito come si stesse riferendo a noi, a me, alle scelte fatte senza consultarla, a tutti i casini che ho combinato, a come ho mandato tutto a puttane.
Ho sospirato, cercando di non farmi andare di traverso il fumo appena aspirato.
Ha sospirato pure lei, spostandosi una ciocca di capelli.
«Non li hai tagliati, alla fine»
E la mamma ha sorriso, spegnendo la sigaretta e gettandola a terra.
«Già, il mio ragazzo è rimasto sorpreso, dato che voleva vedermi con i capelli corti»
«Quello lì non capisce»
«Perché, tu capisci?»
«Se li avessi tagliati, avrei visto sparire i miei ricordi»
«I tuoi ricordi sono già stati cancellati, Luke»
«Non farmi ridere»
Ho buttato la sigaretta a terra.
Mi sono alzato, posizionandomi davanti a lei, avvicinandomi così tanto da aver sentito il cuore in gola, sentendo solo in quel momento la nostalgia farsi più viva, più forte.
Era passato davvero troppo tempo dall’ultima volta in cui i nostri respiri si erano mescolati tra loro.
Ho portato una mano sulla sua guancia.
L’ho accarezzata piano, lenta, fino a scivolare sul suo orecchio, fino a toccare quei capelli che mi mancavano come non mai.
Ne ho preso un ciuffo, l’ho intrecciato tra le mie dita, come fai tu, bambina mia, quando hai sonno e ti isoli dal mondo.
«Lui, quello lì, ci ha mai giocato con i tuoi capelli? Credo di no, dato che non vedeva l’ora di vederli corti, tagliati»
«Lui sa darmi amore, cosa mi importa dei miei capelli?»
«Dopo aver fatto sesso con te, ti canticchia qualche canzone? Ti canta Never be, come facevo io?»
«Luke… lui non è te»
«Rispondimi»
«No, Luke, non mi canta canzoni dopo aver fatto l’amore con me»
«Fare l’amore: quello lì lo usi solo per il sesso, lo sai bene anche tu che il vostro non è amore»
«Neanche con te lo era»
«Come puoi negare? Come puoi mentire a me?»
«Forse, mi piaceva solo fare sesso e, per giunta, lo facevo con una rock star: eccitante, davvero»
«Sei una stronza»
«Non ti meriti altro da me, non dopo quello che mi hai fatto»
«Sono qui adesso. Sono qui per riaverti»
«Forse è troppo tardi, non credi? Sei in ritardo di cinque mesi, io ero lì per te cinque mesi fa. Adesso non lo sono più»
«E allora perché tieni a mente di quanto sono in ritardo? Perché mi stai aspettando»
«Sei un presuntuoso, Hemmings»
«E tu sei mia»
Una mossa azzardata.
Le mie mani sui suoi fianchi.
Le gambe di lei attorno al mio bacino.
Le mie labbra sulle sue.
Un bacio pieno di rabbia.
La passione che bruciava.
Le nostre lingue che si cercavano con troppa impazienza.
Le mani di lei sui miei capelli.
Credevo davvero di riaverla.
Credevo davvero che quel bacio segnasse un nuovo inizio.
Mi sbagliavo di grosso.
Non appena ci siamo divisi, la mamma mi ha tirato uno schiaffo.
Un ceffone che non scorderò mai, più forte del primo che mi aveva dato.
Un ceffone pieno di odio.
Un ceffone che le ha riempito gli occhi di lacrime.
L’ho sentita spingermi via.
L’ho vista allontanarsi da quel muretto.
«Sei un fottuto stronzo!»
La sua voce spezzata dai singhiozzi.
Il mio tentativo di avvicinarmi di nuovo.
Il suo sfogo che feriva più di una lama.
«Sei un bastardo! Sei un emerito figlio di puttana!»
«Vane… ti prego»
«Lui mi ama! Lui mi ama davvero! Lui non mi lascia perché il suo amichetto crede che io sia una minaccia per la sua immagine! Lui non mi lascia per andare a scopare con tutte le troie che passano sotto tiro!»
«Vane io non ho mai…»
«Le ho viste tutte le tue foto, le vedo tutte quelle ragazze con cui passi le serate, a suon di musica, alcool e “baci passionali”, io vedo tutto, Luke, perché tu mi dai il tormento e mi fai ancora pensare a te!»
«Non ho scopato con nessuna di loro, cazzo! Perché non ti fidi di me? Perché non capisci che sono qui proprio perché sei tu il mio pensiero fisso? Cazzo, Vane, ma ti pare che ho fatto questo lungo viaggio solo per te? Solo per implorare il tuo perdono? Solo perché mi manchi da morire?»
Singhiozzi troppo rumorosi.
«Lui mi ama davvero. Lui me l’ha sussurrato, dopo aver fatto l’amore con me»
E in quelle parole non capivo quello che voleva.
Non capivo che due semplici parole, forse, sarebbero bastate.
«Lui mi ha aiutato, lui mi ha consolato, lui stava lavorando quando mi ha visto, quel giorno. Stavo piangendo, ero seduta al tavolino del bar dove lavora, e stavo piangendo»
Occhi bassi.
«Vane…»
«Piangevo per l’ennesima foto tua in discoteca, attorniato da ragazze troppo belle, ragazze con cui non posso neanche lontanamente competere. Piangevo e lui è venuto lì, non ha pensato al suo lavoro, non ha pensato al capo che sarebbe potuto tornare da un momento all’altro: lui è venuto lì, si è seduto con me, si è preoccupato per me, nonostante fossi solo una sua compagna di Università»
Una stretta al cuore.
La consapevolezza che, forse, esisteva davvero qualcuno in grado di renderla davvero felice, qualcuno migliore di me.
«Mi ha dato un fazzoletto, mi ha offerto un gelato, mi ha chiesto scusa per essere stato invadente, ma: “Non potevo stare a guardarti senza fare nulla, in fin dei conti, siamo amici, no?” anche se ci vedevamo solo ad una lezione a settimana»
Ho deglutito a fatica.
«Mi ha consolata, ha saputo farmi sorridere un po’»
Lacrime silenziose hanno cominciato a farsi sentire pure ai miei occhi.
«Lui mi ha aiutata, è lui che mi ha portata dalla casa editrice perfetta per me, è grazie a lui se il mio libro, forse, verrà finalmente pubblicato. È grazie a lui se ho avuto il coraggio di riprendere gli studi, studi che avevo lasciato per te. È grazie a lui se sono riuscita a lasciar stare le novità su Luke Hemmings, concentrandomi su altro: sugli amici, sulle feste, sul quanto sia bello vivere anche senza di te»
Lo sguardo della mamma si è alzato oltre la mia figura.
Mi sono girato, rendendomi conto che quella discussione era sotto gli occhi di tutto il gruppetto: Ashton, Michael, Giada, Mary e pure quello stronzo.
Lui, in particolare, sembrava compiaciuto da quelle parole.
«Andrea mi ha aiutato, Luke. Lui, forse, non giocherà con i miei capelli, come facevi tu. Lui, forse, non potrà mai eguagliare quello che ho provato per te. Ma lui c’è, c’è adesso. E io… io ci sono per lui»
L’ho vista allontanarsi piano.
Camminava malamente su quei tacchi, verso la figura di Andrea, già pronto ad accoglierla tra le sue braccia.
Quelle parole le ho lasciate scivolare a voce troppo alta.
«Ti amo!»
Una confessione che l’ha fatta voltare.
Una confessione che suonava come l’ultimo modo per riportarla da me.
Una confessione che l’ha fatta solo rattristare ancora di più, lasciando che due lacrime calde le solcassero le guance.
Andrea, logicamente, non ha esitato a portarle il braccio attorno alle spalle, un sorriso vittorioso in volto, gli occhi di sfida puntati sui miei.
Mi stava letteralmente sfottendo.
Solo con uno sguardo, ho colto la sua felicità nell’aver vinto contro di me.
Il problema, però, era che io non capivo più niente.
Preso dalla gelosia, dalla rabbia, dall’odio contro me stesso, ho lasciato che il tutto avvenisse senza ragionarci un po’.
Ancora una volta ho agito da egoista.
Ho agito per istinto.
Non volevo lasciarla andare.
Non volevo che lei fosse felice con lui.
Ero io quello che lei voleva, ero io e lo sapeva anche la mamma, nonostante continuasse a mentire a se stessa.
«Che cazzo hai da ridere?»
Tutti si sono voltati, bloccati sul posto, già pronti al peggio che stava per arrivare.
«Vai a casa, Luke, qui non c’è posto per te»
Non l’avesse mai detto, quel testa di cazzo.
«Cosa credi, Andrea? Credi di aver vinto? Ti sbagli di grosso»
Una risatina da parte sua, un’alzata di occhi al cielo.
«Lei mi ama, si stancherà presto di te. Sei solo il suo giocattolo per fare un po’ di sesso»
Andrea ha lasciato la presa sulla mamma.
Il sorrisetto se l’era tolto di dosso.
«Ma come ti permetti ancora?! Sei solo un coglione!»
«È inutile che giochi al cavaliere che salva la ragazza dalla tristezza. Lei vorrà sempre e solo me»
«Mi sa che sogni troppo, Luke, lei sta bene con me»
Un passo avanti.
Gli occhi terrorizzati degli altri.
Commenti che tentavano di smorzare la tensione.
Commenti che non stavo neanche ad ascoltare.
«Tu dici? Lascia che ti dica una cosa, allora: sta così bene con te, che non ha esitato un solo secondo a baciarmi, esattamente dieci minuti fa, su quel muretto lì. Se ti avvicini, noterai sicuramente il segno del suo rossetto sulla mia bocca»
Effettivamente, Andrea si è avvicinato, bambini, ma non per verificare il fatto.
Mi ha tirato un pugno in pieno viso.
Mi ha fatto barcollare, prima di tirarmene un altro.
Mancava davvero poco a farmi cadere e a prendermi a pugni di santa ragione.
Ma… ovviamente c’erano gli altri.
Michael e Ashton non hanno esitato a togliermelo di dosso.
La mamma non ha esitato ad urlare e ad insultarci entrambi.
Non ha difeso me, ma neanche lui, un po’ di ragione, quindi, ce l’avevo: la mamma non aveva smesso di pensare a me.
Tuttavia, le parole che mi ha urlato, mi hanno fatto raggelare il sangue.
«Non farti più vedere»
Parole dette con rabbia, con odio, per poi andarsene, verso la macchina, seguita a ruota da Mary, Giada e Andrea, lasciandomi solo con Michael e Ashton.
E la mezza notte scoccava in quel momento.
Il 2017 aveva inizio, proprio in quel momento.
Purtroppo, però, dentro di me sentivo di essere davvero giunto alla fine.
Non mi avrebbe mai perdonato, lo ammettevo a me stesso, mentre gli zii mi riempivano di insulti per aver rovinato la serata, per aver fatto il coglione, per aver agito senza pensare, per aver mandato tutto a puttane, bruciando quella piccola possibilità di tornare insieme a lei.
Non mi avrebbe mai perdonato, lo sentivo dentro, bambini.
Eppure, il destino ha voluto concederci un’altra possibilità.
Ma se me l’avessero detto in quel momento… non ci avrei mai creduto.

 
 


 
 
Note di Nanek
SONO UFFICIALMENTE UNA LAUREANDAAAAAAAAAAA
Sclerate con me, anche se so che mi meriterei calci e pugni per il ritardo.
Ma sclerate con me.
Ho fatto l’ultimo esame e l’ho FOTTUTAMENTE PASSATOOOOOOO
Mi laureo.
Ma vi rendete conto?
Mi laureooooooooooooo
E Luke è uno stronzo in questo capitolo.
Già, da prendere a pedate.
E Vanessa che sta con un certo Andrea? Vi piacciono come coppia o lo brucereste vivo per lasciare il posto a Luke? Ahahah
Che domande banali che faccio.
Però… Luke si merita un po’ di sofferenza, poco da fare.
Io… non mi dilungo, sono in ritardo e devo fare un sacco di cose…
Per farmi perdonare ve le dico:
  1. Devo scrivere il capitolo 17 di Tomorrow never dies, che domani io e Jade aggiorniamo.
  2. Devo finire il capitolo uno di una cosetta nata da poco, una storia che ha come personaggi…. Punk 5sos! Con la collaborazione di Niall e Zayn :D ma di questa ff ne parliamo tra qualche mese.
  3. Devo finire il capitolo 13 di How I met your mother
  4. Se riesco, finire una long di due capitoli che avevo iniziato ma che ora è abbandonata lì ahahah
Beh, ho un bel po’ da scrivere, come potete notare :D spero di fare la vostra felicità!
Scappo, grazie di tutto quello che fate per questa storia <3
A presto ;)
Nanek

 
 

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Capitolo 11
*** Satellites. ***


10. Satellites
 
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Anche se i miracoli non vengono più bene come allora
come veri acrobati romantici siamo ancora qui
Oltre la libertà con il meglio di noi
nonostante ogni difficoltà
Io ricomincerei.
Per il vuoto che resta
se vai via anche solo un attimo
i biglietti che lasci sul frigorifero.
Tu nell’imbarazzo generale
che sai sempre cosa dire
e senza neanche farmelo capire
ti preoccupi per me
Per l’amore che fai
per i giorni che dai
per la luce che solo tu hai
Io ricomincerei
dimmi che tu ci sei
e io ricomincerei.
 
 
Da quel Capodanno disastroso, ho dovuto aspettare la bellezza di tre mesi prima di vedere quelle novità.
Era il 31 marzo 2017, quando, in un momento di noia, stavo scorrendo l’home di Facebook, notando che lo zio Ashton aveva commentato più di un post sul profilo della mamma.
“Forse, l’Università non è più cosa mia” c’era scritto, e sotto tanti commenti con faccine tristi, tra cui un commento di Ashton: “Non abbatterti, non sentirti una fallita, perché non lo sei, puoi sempre ricominciare. Ce la farai, ne sono sicuro”.
La mamma aveva nuovamente dubbi riguardo l’Università e, io, ero venuto a saperlo tramite un post di Facebook.
L’altro commento, era relativo alla sua situazione sentimentale, perché da “impegnata” era passata a “single” e, pure in questo, c’era un commento di Ashton, come se lo avesse fatto di proposito, come per farmi comparire nell’Home quelle due notizie così poco piacevoli.
“Te lo trovo io un fidanzato, ho tanti amici single!” scriveva Ashton, seguito a ruota da commenti poco gentili da parte di Mary o Giada.
“Ashton, piantala”
“Ashton, i tuoi amici sono teste di cazzo”
E quasi me le sentivo addosso quelle frecciatine.
In quei mesi, non sapevo esattamente cosa pensare, dentro la mia testa.
Il tour era finito, gli impegni si erano placati un po’ e, io, passavo il tempo a casa, nella mia Sydney, tra un pensiero e l’altro.
Facebook, Twitter erano le cose che controllavo più spesso, controllavo i profili che la mamma aveva riattivato, ma sempre con poco successo, dato che li rendeva privati e accessibili a poche persone.
Mi ero fatto dare la password da Ashton, per potermi fare gli affari suoi con il profilo di lui e, ogni volta, era un colpo al cuore.
Quell’Andrea sapeva benissimo come farmi andare fuori di testa.
Da quel Capodanno, il profilo Facebook della mamma si era riempito di foto di loro due, delle loro mani, della loro settimana bianca in montagna, delle loro passeggiate, dei loro week end in giro per città sempre diverse; foto scattate pure all’Università, tra libri, carte, appunti, lezioni noiose… sembrava tutto fatto per farmi imbestialire, per farmi capire che io, nella vita della mamma, non c’ero più, non c’entravo più, non c’era più posto neanche per i miei ricordi.
E io credevo davvero che lei fosse felice.
La guardavo, in quelle foto, la guardavo sorridere, la guardavo mentre appoggiava le labbra su quelle di lui, mi sentivo la rabbia crescere e la voglia di combinare un altro casino, anche peggiore di quello di Capodanno: avevo una voglia di farle ricordare come eravamo noi che non potete neanche immaginare, bambini.
Mi mancava, ma questo lo avete capito già.
Ma mi mancava davvero tanto.
Mi sentivo così idiota, così stupido, per aver allontanato una persona così importante per me.
Senza impegni con la band, poi, la sofferenza si faceva sentire anche più forte del solito.
La sognavo, molto spesso.
Sognavo che quell’incubo era solo un lontano ricordo.
Sognavo le nostre mani intrecciate, sognavo il suo posto preferito, sognavo la sua risata e i baci che volevo sentire davvero sulla mia pelle.
Soffrivo, ma lo facevo in silenzio.
Non cercavo la compassione di nessuno, non cercavo di essere capito, di aprirmi, di sfogarmi, perché sapevo benissimo di aver creato quel casino con le mie stesse mani.
A che serviva piangere?
A che serviva perdere ancora fiato parlando di lei?
Non volevo proprio parlarne, neanche con gli zii, neanche con Ashton che sembrava essere piuttosto affezionato a lei, a “Vane girl”, l’unico della mia band a chiedermi ancora «Ma ci pensi a lei?» nella speranza di farmi cedere, nella speranza di sentirmi dire «Sì, Ashton, ogni giorno», risposta che non davo mai, che non osavo lasciar scivolar via.
Ero intenzionato a lasciarla stare.
Ero intenzionato a guardarla mentre un altro la trattava come io non avevo fatto.
Eppure, leggere di lei e Andrea, finalmente divisi, mi aveva sorpreso.
Non era felice, quindi?
Quei sorrisi non erano sinceri, quindi?
Quegli occhi blu nascondevano ancora i miei ricordi, quindi?
Avevo così tanti dubbi, così tante domande da fare, eppure, non ho osato parlarne con nessuno.
Tuttavia, lo zio Michael non ha potuto tenere la bocca chiusa per altro tempo.
E quel discorso non lo dimenticherò mai, non dimenticherò mai quel 7 maggio 2017.
Eravamo a Milano, eravamo nuovamente in Italia, eravamo a San Siro per una partita privata con alcuni calciatori italiani, la stessa esperienza del 2015, la stessa esperienza che Calum non vedeva l’ora di rivivere.
Me lo ricordo bene, lo zio Michael, mi ricorderò sempre quella pallonata che mi ha tirato in faccia, facendo scoppiare a ridere tutti i presenti.
Michael, non è mai stato una grande promessa del calcio, si sa, ma che mi tirasse una pallonata in faccia, non me lo sarei mai aspettato.
Stordito dal colpo, il dolore al naso non me lo scorderò mai, il sangue che scendeva piano ha fatto preoccupare il mio amico dai capelli neri, il quale, sempre ridendo come un dannato, mi ha porto la mano, incitandomi a seguirlo nei bagni, giusto per rinfrescarmi la faccia.
«Bel tiro, Clifford» gli ho detto prima di bagnarmi con l’acqua fredda, mentre lui si passava una mano tra i capelli.
«Non era mia intenzione! Ma, porca puttana, non l’hai vista la palla?! Ho pure urlato il tuo nome» ed effettivamente era più che vero.
Era colpa mia, non sua, ero io che sembravo perso, isolato dal mondo, con trecento pensieri che nessuno sapeva decifrare.
«Va bene, Mike, non serve che ti scusi» ho bisbigliato, asciugandomi il viso, mentre lui prendeva posto a sedere, sospirando a fondo, come se fosse incerto sulle cose da dire.
«Da dove comincio?» ha esordito così, facendomi inarcare il sopracciglio.
«Che?»
«Mi sa che dobbiamo parlare» ha detto chiaramente, guardandomi fisso negli occhi, l’aria seria che mi ha spaventato un po’, tanto da farmi ipotizzare l’assurdo.
«Hai messo incinta Giada?» e l’ho visto diventare ancora più cadaverico.
«Ma sei scemo?! No, Luke, no! Cazzo, non è proprio il momento!» un po’ di rossore a tradirlo sulle guance: mi stavo perdendo qualcosa?
Da quanto tempo non parlavo più con Michael o Ashton?
Loro due, in particolare, dato che erano i due ancora “impegnati” con delle ragazze.
«C’è qualcosa che devi dirmi?» ho chiesto curioso, un sorrisone a trentadue denti, uno sguardo quasi malizioso, ansioso di sapere quali novità mi fossi perso in quei mesi.
«Cominciamo dal principio, allora»
«Sono tutto orecchie»
«Sei un coglione, Hemmings» e quella partenza mi ha preso un po’ in contropiede.
«Che ho fatto?!»
«Per colpa tua e delle tue bellissime idee, sia io che Ashton, dopo Capodanno… abbiamo rischiato di non vedere più Mary e Giada» e quell’accusa mi suonava tremendamente sbagliata: che cosa mi ero perso? Che era successo dopo Capodanno?
Beh, bambini miei, avevo messo nei casini pure gli zii.
Giada e Mary, dopo la mia bravata di Capodanno, avevano il sospetto che Ashton e Michael sapessero ogni cosa sul mio piano di “sabotare il Capodanno di Andrea e Vanessa”, li avevano accusati di essere dei coglioni, dei sostenitori di un bastardo –ossia io- che non meritava più niente dalla loro amica.
Li avevano accusati ed avevano deciso di allontanarsi da entrambi, anche se in modi diversi.
Michael e Giada non si erano visti, né sentiti per un bel po’, da parte di lei regnava il silenzio tombale: non una chiamata, non un messaggio, ma foto e foto con altri ragazzi che non erano Michael, Giada non voleva più avere niente a che fare con una persona come lui, una persona che non capiva quanto Vanessa stesse soffrendo a causa mia, una persona non meritevole del suo tempo.
Michael e Giada, per colpa mia, non si erano più rivolti la parola per quasi due mesi.
Mary e Ashton, invece, avevano zoppicato un bel po’.
Lei non avrebbe mai trovato il coraggio di lasciarlo andare, troppo innamorata di Ashton, troppo sicura dei suoi sentimenti per lui, però, non era stato facile per lei.
Non riusciva più a fidarsi così tanto, non riusciva più a guardarlo solo con occhi sognanti, perché il ricordo di Vanessa in lacrime, quella notte di Capodanno, era più vivo che mai.
Tuttavia, Mary alla fine aveva voluto credere alle parole di Ashton, aveva voluto credere ai suoi occhi sinceri, occhi che non avrebbero mai mentito su una cosa simile: Ashton, in qualche modo, si era affezionato a Vanessa, si era affezionato a lei e non avrebbe mai fatto qualcosa per ferirla, tanto meno aiutare me, dato che avevo liberamente scelto di mandare a puttane la nostra relazione.
Mary, quindi, convinta di questo, aveva saputo andare avanti, aveva saputo riconoscere la verità dalla menzogna, aveva saputo chiedere scusa ad Ashton ed ammettere di aver sbagliato.
Giada, dal canto suo, ci aveva impiegato quasi due mesi a capire che, forse, ma proprio forse, quel tizio dai capelli colorati non poteva aver fatto un torto simile a lei e a Vanessa; ci aveva impiegato più tempo di Mary, ma, alla fine, aveva saputo guardare con lucidità i fatti, aveva saputo confessare a se stessa che… Michael è Michael, e lei non sarebbe mai riuscita a toglierselo di mezzo.
Per colpa mia, quindi, in quei mesi, i miei amici avevano passato momenti di puro sconforto: momenti che io non conoscevo, di cui ignoravo l’esistenza, momenti che li avevano portati pure ad odiarmi –questo lo so pure io-, momenti di pura rabbia che non avevano mai osato condividere con me, la causa principale dei loro problemi.
«Ma… ora…» ho balbettato alla fine di quel racconto.
«Ora stiamo bene, siamo tutti e quattro salvi, diciamola così: Giada e Mary sono in tribuna, se non le avessi notate»
«Dio. Io non so… non so cosa dire, mi dispiace, Michael io… io non volevo mettervi nei casini»
«Ormai è andata, Luke»
«Perché non me l’avete detto? Io potevo fare qualcosa!»
«Tipo cosa? Ingigantire ancora di più quel disastro? Sei un combina guai, Hemmings»
Silenzio.
Il mio sguardo verso il pavimento.
«Non volevo, mi dispiace. Io…»
«Lo so, tu volevi solo riprenderti Vanessa, lo sappiamo tutti. Ci ha… parlato della vostra conversazione, tempo dopo»
«Io non volevo ferirla. Io… io ho solo… Calum, lui, sembrava così ferito» e quel discorso cominciava a prendere forma.
«Parliamo di questo, allora, Luke»
«Non c’è così tanto da dire, Michael: Calum mi ha aperto gli occhi su cose che… che mi erano davvero sfuggite di mano»
«Tuttavia, consigliarti di riappacificare i rapporti solo dopo aver lasciato la tua ragazza, non fa di lui una persona… gentile, ecco» la mano destra di Mike che gesticolava, come alla ricerca delle parole più giuste, prima di sganciare quella confessione «Anche a me e ad Ashton ha detto di lasciare Giada e Mary» confessione che mi ha lasciato più che stupito, confessione che mi ha fatto rendere conto di quanto poco fegato avessi.
«Solo che, noi, abbiamo deciso di mandarlo a fanculo, cosa che tu non hai fatto» un sorrisetto furbo, una risatina non contagiosa.
Il quel momento mi sono sentito il ragazzo più coglione sulla faccia della terra.
Loro non hanno dato retta alle parole di Calum, loro hanno dato importanza a loro stessi, alla loro vita, gli hanno fatto capire cosa contasse davvero per loro, gli hanno fatto capire che non sarebbe stato lui a cambiare le loro idee o i loro pensieri: Calum, se fosse stato davvero un buon amico, avrebbe dovuto accettare ogni scelta, non importavano le conseguenze o gli effetti negativi.
«Quindi io sono un coglione e voi delle brave persone» ho sussurrato piano, passandomi la mano tra i capelli, sospirando rammaricato per l’errore commesso, errore che ha portato solo tanta sofferenza.
Michael si è limitato ad annuire, senza sorridere, senza battutine taglienti, semplicemente ha annuito, dicendomi inoltre che «Abbiamo deciso di uscire allo scoperto con le fan. Calum non ha avuto molto da dire in proposito. Ma non è colpa nostra se lui non riesce a trovare quella che fa al caso suo» facendomi mordere il labbro dal nervoso.
Ho appoggiato le spalle al muro, completamente senza parole.
Ci sono stati tipo cinque minuti di puro silenzio, tra sguardi persi nel vuoto e sospiri sempre più profondi.
Quel silenzio tombale, è stato interrotto dall’arrivo di Giada che, spalancando la porta, ha lasciato che la sua voce rimbombasse per bene «Clifford, sei uno sfigato! Pure le pallonate in faccia a chi gioca in squadra con te? Sei negato» i suoi insulti hanno provocato una risatina più che divertita, risatina che ha portato Michael ad alzarsi in piedi di scatto, raggiungendola e fissandola con fare diabolico.
«Miss super sportiva, voglio proprio vederti giocare a calcio» un bacio rubato sotto i miei occhi.
Occhi che ho alzato al cielo, mentre la voce di Giada suonava più che irritata dalle moine di Michael, soprattutto in presenza di altre persone.
«Clifford, vai in campo che stanno tutti aspettando te, vi abbiamo dato per dispersi!» un colpetto sulla spalla, un’occhiata d’intesa.
Michael ha annuito lievemente, prima di lasciarmi solo con la sua ragazza.
Ho avuto il coraggio necessario a guardarla, ma quelle iridi verdi mi hanno come bruciato sul posto: Giada ha sempre avuto uno sguardo più che chiaro, a seconda della situazione.
E, ne sono certo, lei, in quel momento, mi odiava.
Odiava quello che avevo fatto alla mamma, odiava vederla soffrire a causa mia, odiava la mia faccia da culo, la faccia di chi crede di poter tornare indietro quando più gli pare, la faccia da sberle di chi non si meriterebbe neanche la prima chance.
«Ciao, Giada»
«Luke»
Un saluto freddo, come i suoi occhi, come la sua espressione, mentre si sistemava i capelli blu, ormai sbiaditi.
«Sarai felice, Luke: ha troncato con Andrea, spero tu abbia l’anima in pace, adesso»
«Quello lì non valeva neanche un minuto del suo tempo»
«Quello lì era in grado di farla stare bene»
«Almeno con me non fingeva di essere felice»
«Ti credi così superiore, Luke? Perché vali meno di zero, giusto per chiarirti le idee» e stava per andarsene ma, il mio istinto, ha agito per me, toccandole la spalla, bloccandola facilmente, mentre i nostri occhi si scontravano si nuovo.
«Tu non sai un cazzo di me, né di noi due insieme. Tu non puoi neanche lontanamente immaginare come ci si sente ad aver commesso un’enorme cazzata»
«Io non voglio più vederla piangere per colpa di un coglione come te. Non si merita quello che le hai fatto»
«Ho chiesto scusa un milione di volte. Sono il primo a dire di aver fatto un’enorme cazzata»
«E tu credi che chiedere scusa possa bastare? Lo credi davvero?»
Ho scosso la testa.
«No, non basta. Ed è per questo che a Capodanno ho cercato di rimediare»
«Tentativo fallito, Hemmings»
«Quello lì la distraeva dai suo veri pensieri. Lei mi ama, lei prova ancora qualcosa per me»
Giada si è scostata dalla mia presa, fissandomi ancora, lasciando che uno strano sorrisetto prendesse posto in quelle labbra rosse fuoco.
«Lo credi davvero?»
E dentro di me, la risposta era “no”: no, non lo credevo davvero, non lo credevo più da Capodanno.
Ma la mia voce ha emesso la parola sbagliata.
«Sì, lei prova ancora qualcosa per me. Io provo qualcosa per lei»
Il sorrisetto di Giada non ha lasciato le sue labbra.
Ha fatto un passo verso l’uscita.
Ho sospirato, ormai conscio che nulla avrebbe potuto cambiare le cose.
Ho abbassato lo sguardo, per poi sentire quelle parole.
«10 Maggio, Milano. Sleeping With Sirens in concerto. Ti conviene chiamare Kellin, Luke. Hai l’ultima carta da giocare.»
*
E meno male, bambini miei, che su Kellin Quinn ho potuto contare davvero.
Lui era davvero entusiasta della mia idea, per niente scocciato del colpo di scena che avevo in mente, lieto di aiutarmi e, giusto per saldare il debito, gli dovevo almeno tre birre.
Quella sera, a Milano, in quello stesso Forum dove mi ero esibito due anni prima, l’atmosfera era familiare ai miei occhi.
Nascosto dietro al backstage, guardavo le persone entrare un po’ alla volta, guardavo le ragazze del prato correre per assicurarsi il primo posto davanti al palco, speravo davvero di scorgere la mamma tra quelle tante teste di capelli dai colori più che vari.
Ma lei non c’era, non la vedevo.
Le otto e quarantacinque scoccate.
Il Forum pieno, la loro prima tappa italiana, sold out.
Allo spegnersi delle luci, un boato di urla ha rimbombato dentro al mio petto, la figura di Kellin al centro del palco.
Era tutto così familiare, da farmi quasi strano: non erano per me quelle urla, quelle mani al cielo, quelle voci che cantavano a squarciagola, faceva davvero strano stare dietro al palco.
Kellin, poi, saltava come un pazzo.
Saltava, si sistemava quel ciuffo di capelli che gli copriva sempre gli occhi, urlava e ringraziava il suo pubblico, un pubblico più che entusiasta delle loro esibizioni, delle luci di mille colori che riempivano l’atmosfera, dei primi piani dei maxi schermi che aiutavano le persone più lontane.
Era tutto così familiare, così bello, che mi stava venendo voglia di andare lì con loro, a suonare, a saltare, a far emozionare tutte quelle persone con gli occhi concentrati e con mille cellulari tra le mani, mentre le loro voci seguivano le canzoni e la musica degli Sleeping With Sirens.
E sulle note di Satellites, posso affermare, bambini, quasi di essermi commosso.
So here we are
We're waiting for a fall
And on the radio they're calling on satellites
Like they're going to save us all
So here we are
I guess I'm praying after all
We're calling all, calling all satellites
This is a wake up call.

Perché aspettavo con ansia il mio momento.
Aspettavo la decisione finale: una caduta definitiva o un nuovo inizio?
Come se stessi davvero pregando, in quel momento, pregando per essere salvato.
Speravo davvero in una seconda possibilità.
Non me la meritavo, e lo sapevo.
Però… io lo desideravo davvero, desideravo davvero essere salvato per l’ultima volta.
A fine canzone, il mio cuore batteva all’impazzata.
Le persone urlavano, mille cellulari al cielo che illuminavano il tutto, Kellin che sembrava aver indossato il suo sorriso più bello per quell’istante.
L’istante in cui avrebbe dato il via alla mia ultima carta da giocare.
«Ciao, Milano!» ha urlato, un accento tutto suo che ha scatenato urla ancora più forti, mentre lui, con la mano, gesticolava un modo per far calmare la folla.
«Cercherò di essere più chiaro possibile, perché quello che sto per fare è importante, okay?» domande dalla risposta futile: la folla era già in fibrillazione, gli occhi curiosi di tutti puntati su di lui.
«Allora, chiedo: c’è qui dentro una ragazza di nome Vanessa? Ripeto: Vanessa» ma quel nome, per quando fosse poco comune, catturava l’attenzione di troppe ragazze.
«Facciamo così: se siete bionde e vi chiamate Vanessa, dite “Io”!» ma ancora troppe voci rispondevano, le fan non sono mica sciocche: tutte volevano essere colei che stava chiamando.
Kellin ha sorriso, sussurrando quel «Siete troppo furbe» che ha fatto ridacchiare l’intero Forum.
L’ultima possibilità, era mostrare sul maxi schermo una foto della mamma.
«Per piacere, la foto, così la troviamo» e non appena quell'immagine è comparsa sullo schermo, le persone hanno cominciato a cercare tra di loro quel viso: i capelli biondi, gli occhiali neri, la pelle chiara, tutti a cercare quel viso, quel viso che non sembrava volersi far vedere davvero.
Solo per un istante ho pensato che Giada mi avesse preso in giro.
Ma la mia preoccupazione è andata svanendo, non appena il brusio di voci ha cominciato ad urlare «Vanessa è qua! È qua! È lei!» voci che hanno catturato l’attenzione, fino a diventare udibili anche a Kellin che, sorridendo soddisfatto, si è affrettato ad avvisare la sicurezza «Fatela salire qui» confessione che ha scatenato un ulteriore boato.
La mamma è salita sul palco con una timidezza assurda.
Dopo cinque mesi da Capodanno, finalmente la rivedevo: i pantaloni scuri, una maglietta grigia con Paperina, i capelli biondi raccolti in una coda, i soliti occhiali, il solito sorriso, la solita ragazza che non ha mai lasciato i miei pensieri.
Kellin l’ha accolta con tanto di abbraccio, abbraccio che l’ha fatta arrossire e mezza svenire sul posto, le guance diventate rosse d’un colpo, il sorriso sempre più grande, mentre lui la portava verso il centro del palco, dove tre sedie erano già pronte ad accoglierli.
Su una di queste, c’era una chitarra.
«Siediti pure, Vanessa» parlava piano, cercava di metterla a suo agio, notando quanto si stesse mordendo le labbra dal nervoso.
«Non avere paura, è tutto okay, non ti faccio suonare, promesso!» un sorriso da parte di entrambi.
«Sei qui per un motivo preciso, sai?» il sopracciglio inarcato della mamma «Un mio amico mi ha dato la tua foto, ed è lui che ha organizzato questa cosetta, per te» un occhiolino sufficiente a far urlare le fan.
«La prossima canzone è una cover che conoscete bene, una cover che, però, deve servire a fare una cosa» ha cominciato a spiegare a tutti, mentre la mamma si muoveva nervosamente sulla sedia «Serve a vedere se una storia è davvero andata persa o se… c’è ancora una piccola possibilità» un sorriso, lo sguardo di Kellin verso il backstage «Dai, Luke, vieni a suonare “Iris” per tutti noi ma, principalmente, per l’unica ragione che ti ha portato qui.»
Sentire il mio nome mi ha fatto perdere un battito.
Sono entrato con una velocità tale da non dare neanche il tempo alla mamma di metabolizzare il tutto.
L’ho vista sgranare gli occhi alla mia apparizione, l’ho vista mordersi l’interno della guancia con fare nervoso, ho visto come ha abbassato gli occhi al vedermi seduto con la chitarra in mano, mentre più di mille persone urlavano entusiaste per il mio arrivo e per la canzone appena introdotta.
Kellin ha guardato me, lasciandomi cominciare con quegli accordi che avevo imparato circa tre giorni prima, Kellin ha sorriso, al vedere che, almeno, mamma non aveva avuto il coraggio di scappare via, lasciando che le note di quella canzone riempissero l’atmosfera, lasciando che la voce di Kellin la avvolgesse leggera, dolce, mentre io provavo vergogna a sostenere il suo sguardo.
Quella canzone era il mio modo di scusarmi, ancora una volta.
Quella canzone, suonata per lei, cantata per lei da Kellin, era il mio modo per farle capire quanto mi mancasse, quanto mi fossi pentito del mio errore, quanto fossi a pezzi perché lei non era più parte della mia vita.
Intorno a me, le luci basse, solo noi tre illuminati, mentre puntini bianchi macchiavano le tenebre di quel posto.
Ho alzato gli occhi solo restare incantato da quello spettacolo.
Ho alzato gli occhi perché mi sentivo osservato da due occhi blu.
Mi stava guardando, stava guardando come suonavo quella canzone a lei cara, quella canzone che sembrava essere un pezzo di lei, un pezzo del suo cuore, della sua vita, una canzone che io non le avevo mai cantato o suonato, canzone che lei amava –e ama tuttora- solo se accompagnata dalla voce di Kellin.
Mi stava guardando con le lacrime a solcarle piano il viso.
Si mordeva il labbro, mentre la mano di Kellin le accarezzava piano la spalla, per poi lasciarle un abbraccio stretto, un abbraccio che l’ha fatta piangere un po’ di più, mentre il ritornello di quella canzone riempiva i nostri petti.
Quella canzone era per noi, per la nostra storia, per il nostro amore non vissuto a pieno.
Quella canzone era per lei, quelle lacrime calde che non hanno abbandonato il suo viso neanche un istante, mentre Kellin si allontanava dalla nostra posizione per avvicinarsi al suo pubblico.
Cantavo, ma senza emettere suoni.
Cantavo, ma lei aspettava qualcos’altro da me.
E io, in quel momento, lo sapevo.
«Ti amo» le ho sussurrato sull’assolo finale di Kellin.
«Mi dispiace così tanto» coperto dalle urla, la canzone terminata, la mamma che si è asciugata in fretta le lacrime con il palmo della mano.
Kellin si è girato verso di noi, ci ha guardato, eravamo in piedi l’uno davanti all’altra.
Mi sono voltato verso di lui, raggiungendolo, mentre mi ringraziava per l’improvvisata «Luke Hemmings dei 5 Seconds of Summer! Grazie, Hemmo!» per poi bisbigliare di andare nel backstage.
*
Beh, bambini, diciamo che non sapevo esattamente da che parte guardare, in quel momento, quando io e la mamma ci siamo ritrovati nuovamente l'uno di fronte all'altra, per la precisione fuori dal Forum, in una di quelle terrazze in alto, raggiunte su suggerimento di lei, dato che nel backstage rimbombava troppo la musica del concerto.
Eravamo lì, fuori, l'uno davanti all'altra, dopo tanto tempo.
La mamma con quella maglietta a maniche corte che tentava di nascondere i brividi del freddo, il mio nervosismo visibile, dato che non potevo neanche offrirle un giubbotto, dato che pure io ero in maglietta leggera, in quel momento; i nostri occhi poco coraggiosi, i piedi che non riuscivano a stare fermi, la consapevolezza che quello che doveva parlare fossi io.
«Hai presente quando... non desideri altro che tornare indietro e cancellare qualcosa di sbagliato che hai fatto?» ho cominciato così il mio breve monologo, breve perché io con le parole non ci so tanto fare, breve perché sapevo benissimo che ogni cosa sarebbe suonata come banale e ripetitiva, la classica confessione d'amore che si vede nei film, prima che lei lo perdoni, il solito monologo che tutti sanno fare e che non è mai originale.
Ho cominciato così, prima di confessarle ogni cosa, prima di dirle quanto fossi dispiaciuto, quanto fossi perso senza di lei, quanto avrei voluto cancellare Calum e le sue parole, quanto avrei voluto scordare quella stupida parte di me che mi ha portato a commettere errori su errori.
E la mamma, a quelle parole, non osava neanche guardarmi.
«Lo so che è tardi» ho cominciato la mia conclusione «Lo so che sono passati mesi, lo so che i sentimenti passano, lo so che i ricordi sbiadiscono ma... io volevo dirtelo, volevi dirti che mi dispiace, volevo dirti che mi dispiace davvero non averti più nella mia vita. Volevo solo dirti che... ti amo, e che mi dispiace non avertelo detto quando avevi bisogno di sentirlo. Volevo dirti che mi dispiace, perché non ho sentito i tuoi pensieri confusi. Volevo dirti che... so di essere un grande coglione e di non meritare nulla da te, però...» e qui mi sentivo cadere nella banalità più totale, tanto che ho troncato il discorso, lasciandolo in sospeso, gesticolando con la mano e balbettando parole che lei sicuramente non ha colto, tanto che il suo sguardo perso si era finalmente alzato verso il mio.
«Scusa, io... ho sbagliato, non dovevo essere qui, scusami» ho detto velocemente, facendo segno di andarmene, trattenuto, però, dalla sua voce.
«Luke...» ho deglutito al sentire il mio nome.
Mi sono girato, lentamente, pronto a tutto: a un possibile schiaffo, anche due, a una crisi isterica, a un monologo di ore sul mio essere altamente coglione, un calcio in culo, tutto il possibile e immaginabile.
Eppure, me la sono trovata tra le braccia.
L'ho sentita mentre mi stringeva forte il petto, l'ho sentita cominciare a singhiozzare piano, quasi in silenzio, perché mamma odia piangere, bambini, lo sapete, no? Lei odia piangere, lei odia le lacrime, lei odia gli occhi rossi e il petto che sobbalza ad ogni singhiozzo.
Lei odia piangere e, quando lo fa, è silenziosa, è fragile, vuole dire che è davvero al limite della sopportazione, vuol dire che è ferita davvero.
Le ho accarezzato la schiena, non trovando il coraggio di parlare.
Le ho accarezzato la schiena, in attesa di qualcos'altro, di un segno, di un qualcosa da dire.
Mi sono sentito orribile, quando quegli occhi blu hanno finalmente guardato i miei: occhi blu, un po' gonfi, lucidi, bagnati da lacrime che versava per me, per uno stupido come me, per un cretino che non ha saputo fare la scelta giusta, per un ragazzetto che non ha saputo far valere le proprie idee.
Mi sentivo altamente colpevole.
Da sfondo a quella situazione, si mettevano di mezzo gli Sleeping With Sirens: niente meno che “Sorry”, niente meno che la canzone più adatta a quel momento.
I've been thinking lately about you and me,
And all the questions left unanswered,
How it all could be.
And I hope you know,
You never left my head,
And if I ever let you down,
I'm sorry.

«Sarei pazzo a dire che tu non sei più niente per me. Sarei folle a dire che i tuoi ricordi e quello che provo per te sono svaniti. Sei sempre nella mia testa e, credimi, anche da ubriaco ti vedevo in posti assurdi, credimi, il tuo pensiero non mi ha mai lasciato. Mi dispiace, perché so benissimo di averti deluso»
I see you around here lately,
You smile brighter than you should.
And me I've been so lonely,
I'm glad you're doing good.
'Cause I can't forget,
The way it used to be,

And if I ever let you down,
Well I'm sorry.

«Non sbagliavi, Luke» ha poi preso parola lei, con un po' di coraggio «Non ero... felice. Mi convincevo di essere felice con qualcuno diverso da te. Ma... allora perché avevo le lacrime agli occhi prima di addormentarmi?» un sorriso.
Le mie mani sul suo viso, le ho asciugato quelle lacrime calde, quel sorriso non si nascondeva più.
No, I can't let you go.
And you know that you can take all of me,
I swear I will be better than before,
So sing it back.

«Non credo di essere pronto a lasciarti andare, non credo sia questa la fine che voglio per noi due» ho sibilato, la mia voce era quasi inudibile, le mani di lei che mi toccavano la schiena senza nessuna intenzione di lasciare la presa.
I'm sorry for the things I've done,
Things I've done.
I'm sorry for the man I was,
And how I treated you.

«Mi dispiace per ogni cosa, mi dispiace davvero tanto. Non sarei qui, ancora, ad assillarti, se non mi importasse di te... io voglio solo-»
L'ho vista alzarsi un po'.
Ho visto le sue braccia cingermi il collo.
Ho sentito le sue labbra appoggiarsi alle mie, interrompendo le mie parole, le mie scuse.
Sembrava quasi surreale.
Il cuore mi batteva forte, stupito anche lui, evidentemente, mentre le mie mani prendevano il controllo senza che me ne rendessi conto, stringendola forte, tirandola più vicina, fino a sollevarla da terra.
Mi ha perdonato così, senza aggiungere parole.
Mi ha perdonato, mettendo da parte rabbia e risentimento nei miei confronti.
Mi ha perdonato tempo prima o, almeno, così mi ha confessato in quei baci, dicendomi che, purtroppo per lei, non sarebbe durato a lungo l'odio nei miei confronti.
Mi ha perdonato così, sussurrandomi che, sotto sotto, lei mi stava aspettando ancora, anche dopo il casino di Capodanno: lei mi avrebbe aspettato sempre.
Le ho promesso che nulla si sarebbe più messo in mezzo a noi.
Le ho promesso che non l'avrei più delusa.
Le ho fatto così tante promesse che, ora come ora, mi sento felice, perché le ho mantenute tutte.
E mentre gli Sleeping With Sirens salutavano il loro pubblico, la mamma mi accarezzava il viso, si avvicinava piano, fermandosi a pochi centimetri dalle mie labbra, sussurrandomi quelle ultime parole, prima di baciarmi di nuovo.
«Ti amo anche io, Hemmo.»




 
Note di Nanek
IO RICOMINCEREEEEEEEEEEEEEEEEEEI
E IO RICOMINCEREEEEEEEEEEEI
DIMMI CHE TU CI SEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEI
E IO RICOMINCEREI, IO RICOMINCEREI
TI RICONOSCEREIIIIIIIIIII.
Beh, non potevo mica tralasciare Nek, dopo aver coinvolto pure Kellin Quinn in sta storia!!!
Sì, per chi non lo sapesse, la canzone a inizio capitolo è di Nek, nuovo singolo, “io ricomincerei” (ma va? Lol) canzone che boh, a me fa sciogliere e che in sto capitolo ci casca a pennello, direi.
MA ANCHE IO VOGLIO GLI SWS IN ITALIA T.T
Voi no? io li voglio, voglio Kellin che canta live Iris, voglio Kellin QUINN DANNAZIONEEEE
Mi calmo.
Perché VOGLIO PURE LUKE CHE MI ORGANIZZA TUTTA STA COSA E MI FA ANDARE SUL PALCO E LUI SUONA IRIS E KELLIN LA CANTA.
Mi sono fatta del male a scrivere sto capitolo.
Nek + Luke + Kellin = perché sono ancora viva. Mi sa che sono un angelo, non posso essere sopravvissuta a tanto.
Tutto è bene quel che finisce bene comunque.
Luke ce l’ha fatta alla fine, e direi che dopo tutta sta mega sorpresa ci mancava anche altro che lei dicesse di NO!!!! l’avrei uccisa io stessa u.u
Bene bene bene.
Io spero che questo capitolo vi faccia perdonare il mio ritardo lol
Ma, posso anche indirizzarvi ad un’altra mini mini long che sto scrivendo e se volete leggere è lì? Si intitola Fly Away ed è nel mio profilo, nuova di zecca, per chi non sa cosa leggere ed è curioso.
Detto ciò, io scappo che devo andare avanti a scrivere altre cosette ;)
Grazie di tutto, come sempre <3
Siamo QUASI alla fine di sta storia. Contando prologo ed Epilogo, mancano 4 capitoli alla fine T.T già sento le lacrime.
A presto <3
Nanek
 

 

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Capitolo 12
*** Photograph. ***


11. Photograph
 
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We keep this love in a photograph
We made these memories for ourselves
Where our eyes are never closing
Hearts are never broken
Times forever frozen still
So you can keep me
Inside the pocket
Of your ripped jeans
Holdin' me closer
'Til our eyes meet
You won't ever be alone
Wait for me to come home

 
 
«Luke, giurami solennemente che la prossima volta mi porti un interprete»
«Vane, non ti serve l’interprete per parlare con i miei genitori, te la cavi bene»
«Me la cavo bene, dici? Non so se hai presente, ma dovevano ripetermi le stesse cose tre volte!»
«Ma è solo perché non si rendono conto di parlare veloce, tu parli la loro lingua, loro credono che puoi capirli»
«Che figure di merda, non mi sono mai sentita così»
«Vane, è andata benissimo. Ti adorano, dico davvero»
«Tua mamma mi ha uccisa con quegli occhi»
«Mia mamma ti trova adorabile. Dirle poi che hai finito l’Università e che sai una marea di lingue l’ha conquistata, fidati di me, aveva le lacrime agli occhi a momenti»
«Lacrime di disperazione perché il suo bambino sta con una più grande che nella vita non sa cosa fare e lavora in una misera cartoleria, dato che il libro che ha scritto è orribile e non ha avuto neanche una briciola di successo»
Questa conversazione, bambini, l’abbiamo avuta sul letto di camera mia, a Sydney, esattamente dieci mesi dopo quel concerto: dieci mesi dopo io ho presentato la mamma ai nonni e agli zii Ben e Jack, dopo aver subito la stessa tortura un mesetto prima.
Siamo partiti per Sydney e l’ho finalmente presentata alla mia famiglia.
Dire che sono rimasti felicemente sorpresi è usare un eufemismo, l’hanno davvero accolta bene, nonostante la mamma tenda ancora oggi a negare; è stata per loro una piacevole sorpresa, l’hanno trovata un po’ timida, poi si è lasciata andare e ha cominciato a parlare di lei, della sua vita, dell’Università, balbettando un po’ per il suo inglese, che tanto odia usare, ma rendendosi buffa, facendoli ridere a volte.
Quel primo incontro è stato un successo ma, lei, a fine serata, era completamente in paranoia, come potete leggere dalla nostra conversazione.
Eravamo distesi sul letto, lei appoggiata al mio petto, mentre si lamentava delle sue figuracce e del suo accento così stupido, mentre io passavo la mano tra i suoi capelli che, lo aveva fatto davvero, si era tagliata mesi prima.
«Sai cosa?» ho chiesto mentre avvolgevo una ciocca al mio indice.
«Dimmi, Luke»
«Prima che tagliassi i capelli ero un po’ dubbioso»
«Non so se hai presente le lunghe telefonate per scegliere un taglio adatto…» un risata.
«Come dimenticare “Luke, come li taglio? E se mi pento? E se non mi stanno?”» imitavo la sua voce, ricordo ancora oggi quelle telefonate, la sua crisi esistenziale dipendeva da un taglio di capelli.
Taglio che, però, lasciava un po’ perplesso anche me.
Non l’avevo mai vista, né immaginata, con i capelli corti, da sotto il collo, ero abituato a vederla con i capelli lunghi, dal seno, biondi, o raccolti con il caldo, ma mai con un taglio così deciso.
Devo ammettere che la sua scelta mi incuriosiva e un po’ di incertezza ce l’avevo pure io ma… quando è uscita dalla parrucchiera, ed io ero appena arrivato lì fuori in macchina, credo mi si sia aperta la bocca dallo stupore, tanto che mi ero pure alzato gli occhiali da sole per guadarla meglio: quel taglio era stupendo, le stava benissimo, i miei troppi complimenti l’hanno fatta diventare rossa come un peperone.
«Stai tentando di dirmi che sei ancora dubbioso riguardo i miei capelli?»
«In realtà volevo dirti che… non riesco a toglierti gli occhi di dosso» e lei ha alzato lo sguardo al cielo.
«Che vuoi, Hemmings? È un po’ di tempo che dopo un complimento mi chiedi qualcosa…»
«Bugiarda, non ti chiedo mai niente!»
«Eppure ho questa sensazione, dato che non mi sei ancora saltato addosso» e, in effetti, c’era davvero qualcosa che mi stava ossessionando da qualche settimana, c’era ancora un problema irrisolto e che, in tutti quei mesi, non si era ancora sistemato, un problema banale, forse, ma che coinvolgeva comunque una delle persone più importanti della mia vita.
«È da un po’ che ci penso, in effetti» ho cominciato titubante, sentendo il suo sguardo puntato sul mio, sentendo il suo corpo che si toglieva dal mio petto per sedersi davanti a me, a gambe incrociate.
L’ho imitata, mettendomi composto, sospirando a fondo, mentre mi passavo la mano tra i capelli con fare nervoso «Lo so che… che quello che sto per dire potrebbe irritarti, e lo so che siamo a casa dei miei genitori e che ti sto mettendo quasi in trappola dato che, se ti incazzi, non hai via di scampo ma…» blateravo, senza ricevere neanche un misero suono da parte di lei, il suo sguardo confuso e glaciale bastava più delle parole.
Mi sono preso il labbro tra i denti, prima di avere il coraggio di sputare il rospo «Tu e Calum non vi rivolgete la parola da quando… beh, da quando ti… ti… beh, hai capito. Ogni volta che ci vediamo lui non si presenta, e se vi incrociate non vi salutate neanche…» confessare quelle parole ad alta voce mi ha fatto capire quanto grande fosse la mia richiesta.
«Sai com’è, una persona che mi considera una troia non è esattamente nella lista delle mie persone preferite. Tu lo sai come sono fatta io: ti sto sulle palle? Bene, è reciproco, non tenterò di leccarti il culo per compiacerti. Non si è neanche mai scusato con me» e dalla sua voce capivo che si stava già innervosendo: le mani a pugno, lo sguardo serio, si mordicchiava l’interno della guancia, continuando a fissarmi con aria quasi di sfida.
«Lo so che quello che ti sto per chiedere è… è da stupido. Lo so che tra i due è lui il coglione, io… non voglio costringerti a farlo ma… lui è pur sempre il mio migliore amico. Con lui ho iniziato un sogno che mi ha portato fino a qui, io… io odio questa situazione perché voi due siete tra le persone più importanti che ho e… mi dispiace che ci sia astio tra di voi» non sono riuscito a guardarla mentre lo dicevo, ho preferito abbassare la testa, in attesa di essere linciato o preso a pugni a suon di imprecazioni in italiano.
Ci sono stati diversi secondi di silenzio.
E, poi, l’unica cosa che ho sentito è stato un sospiro e un «Okay, Luke» parole che hanno fatto incrociare di nuovo i nostri sguardi: la mamma era ancora seria, non convinta di quello che aveva appena detto, si mordeva il labbro, mentre cercava il modo più civile per rivolgersi a me.
«Non posso garantirti che lui cambierà idea, Luke. Non si può piacere a tutti, neanche se fossi la persona più buona al mondo. Lui mi odia, lo sai. Però, se questo può renderti un po’ felice… ci provo: lo saluterò, gli chiederò come sta, mi fingerò interessata alla sua vita, se questo significa darti un po’ di pace» e, bambini, voi sapete benissimo quanto le sia costato promettermi quelle parole: la mamma tende a non dimenticare chi le fa un torto, la mamma tende a non perdonare le persone che non fanno niente per farla stare bene, la mamma ha perdonato me e i miei errori solo dopo mesi, solo con il concerto degli Sleeping With Sirens, solo perché nessuno si era mai messo così tanto in gioco per lei pur di essere perdonato, la mamma, in tutta la sua vita, ha perdonato solo i miei errori.
«Solo perché sei tu, perché sei speciale e perché… sì, ti amo, anche» mi ripeteva – e mi ripete ancora oggi- quando le chiedevo perché avesse deciso di perdonarmi.
Quello che le ho chiesto quella notte, era davvero l’impossibile ma, lei, per me, lo avrebbe fatto: avrebbe messo da parte l’orgoglio, avrebbe provato a piacere al mio migliore amico, solo per vedermi il sorriso in faccia.
L’ho abbracciata forte al sentirla dire quelle parole, l’ho trascinata con me sul cuscino, riempiendole il viso di baci, di «Grazie» e «Ti amo» ripetuti fin troppe volte: non poteva neanche lontanamente immaginare quanto mi rendesse felice.
La mamma non si rende mai conto quanto mi abbia reso felice, in tutti questi anni.
Dice di essere fortunata ad avere uno come me, che la ama per quello che è, si ritiene fortunata perché nessuno l’ha mai amata così.
Ma la verità è che quello fortunato, sono solo io.
*
Quella mattina la luce di un sole timido mi ha svegliato, puntando giusto ai miei occhi.
La mamma dormiva ancora, girata sul fianco verso di me, le mani vicino al viso, i capelli che le coprivano gli occhi chiusi e le labbra un po’ aperte, rilassata e per niente disturbata dalle prime luci del mattino.
L’ho guardata dormire per un paio di minuti, accarezzandole le braccia, spostandole la frangia dagli occhi, giocando a tracciare i contorni del suo viso, prima di lasciarle un bacio sulla fronte e alzandomi piano, lentamente, evitando di svegliarla.
L’orologio in cucina segnava le nove e mezza del mattino.
Orario piuttosto insolito, sicuramente assurdo trattandosi di me, tanto che gli occhi dei presenti mi hanno squadrato dall’alto al basso, come se avessero visto una specie di fantasma: nonna Liz e lo zio Jack erano seduti a tavola, intenti a fare colazione mentre la televisione a basso volume dava qualche programma idiota degno dello zio.
«Buongiorno, Luke»
«Sembra quasi incredibile vederti sveglio a quest’ora. Hai dormito male?»
Ho scosso la testa negativamente, prendendo posto a capotavola, stiracchiandomi un po’ e stropicciandomi gli occhi, ancora un po’ socchiusi e rossi.
«No, il sole mi ha disturbato, tutto qua» ho spiegato alla meglio, mentre la nonna mi porgeva la tazza e il latte.
«Vanessa dorme?»
«Sì, lei si sveglierà tra decenni, è un ghiro mancato» ho sorriso, per poi cominciare a fissarli entrambi «Beh… posso essere diretto?» e questa domanda li ha colti un po’ alla sprovvista.
«Tutto bene?»
«Ho dimenticato il preservativo in camera tua?» e al sentire questa domanda ho inarcato il sopracciglio, fulminando lo zio.
«Tu cosa, Jack?!» il mio tono di voce si è alzato un po’ troppo, tanto che nonna si è pure messa a farmi cenno di non urlare, portandosi l’indice alla bocca, mentre l’altro idiota si dava alle pazze risate.
«Scherzavo, Luke, dai, sono tuo fratello e non hai ancora capito quando scherzo?»
«Sei un idiota» un sospiro «Comunque, beh, quindi… voi… vi piace? Vanessa, intendo» e il mio sguardo si è proiettato sulla nonna, intenta a prendere posto vicino a me, mentre le prime prese in giro avevano inizio.
«Che dolce, vuoi la approvazione di mamma?»
«Mi sembra di ricordare che pure tu l’hai cercata»
«Sì, come no. Cucciolo Lukey» e risate a non finire, mentre la nonna elaborava quel che è stato un semplicissimo verdetto.
«A me piace, è carina, ti rende felice, si dà da fare. Mi dispiace per il suo libro, forse dovevi aiutarla tu, Luke» sentenza che non faceva una piega: ma come spiegare che la mamma era più cocciuta di un mulo? Come spiegare che dalla mia fama non voleva niente?
Ho fatto spallucce, balbettando qualche parola, gesticolando con le mani, concludendo con un «Non posso fare niente se lei mi proibisce di aiutarla»
E non l’avessi detto.
Bambino mio, le donne non le capirai mai, ti avviso.
Da quel momento, è cominciata una filippica durata più di dieci minuti: la nonna consigliava di agire d’istinto, di non ascoltarla, ha cominciato pure a fare citazioni improbabili che sicuramente aveva letto su Tumblr del tipo “Se lei ti dice di no, vuol dire sì”, frasi che al solo sentirle -e dalla nonna poi!- mi facevano rabbrividire.
Ero letteralmente sconvolto.
«Prendi il libro e fatti paparazzare mentre lo leggi»
«Mamma, ma sei fuori?»
«Pensaci: le tue fan si incuriosiscono, notano il titolo, vogliono leggerlo, lo richiedono e il gioco è fatto! Possibile che tu non abbia nulla in quella testa?»
«Sì, okay, ma… non vorrei morire perché Vanessa…»
«Vanessa si aspetta una mano da parte tua! È il minimo che potresti fare dopo quello che le hai fatto passare»
«E tu come diamine fai a…»
«Luke, non sono una mamma qualunque. Io sono Liz Hemmings! So tutto, io sono ovunque»
«Mamma… mi fai paura»
«Dovresti averne, in effetti» e quella risatina diabolica mi fa ancora rabbrividire: la nonna, quella mattina, doveva aver scambiato l’acqua per qualcosa di più forte, non era in sé, anche se la sua idea non era affatto male.
Sta di fatto che dopo quel consiglio si è ritirata a fare delle commissioni, lasciando me e lo zio Jack increduli e soli: quello che mi sarebbe aspettato non lo avrei mai immaginato.
«Ma… che le è preso a mamma?»
«Boh, è euforica»
«Per qualche evento in particolare?»
Un sorriso rassegnato.
«È felice per te, stupido. Non sai quanto fosse agitata»
«Per Vanessa?»
«Beh, è pur sempre la tua prima ragazza ufficiale che porti a casa… Aleisha non conta, avevi dieci anni» e un’altra risata che rimbombava.
«Hey! Non avevo dieci anni ma quindici!»
«Fatto sta che… questa relazione… è seria, no?» il tono di voce cambiato, lo sguardo serio, tanto che ho evitato di mettere cereali in bocca per paura di soffocarmi per quello che lo zio mi stava per chiedere.
«Sì, diciamo che… sì, lo è… tra tira e molla sono quasi tre anni da quando l’ho conosciuta quindi… direi che sì, lo è, decisamente» ho deglutito a vuoto «Perché? Cosa c’entra con mamma?»
«No, vabbè, nulla di che… solo… beh, era emozionata. Sai, storia seria, hai pure chiamato Kellin Quinn per farti perdonare, diciamo che… beh, mamma voleva essere sicura che… fosse davvero una bella persona colei che ti porterà via di qui» e in quella confessione c’era qualcosa che mi sfuggiva, tanto che ho inarcato il sopracciglio, fissando lo zio Jack a lungo, in attesa di un chiarimento.
Quello che tentava di spiegarmi era che, in famiglia, tutti si aspettavano una possibile convivenza con la mamma. Tutti, tranne me, logicamente.
Dovevo ancora compiere ventidue anni, la mamma ne aveva ancora ventiquattro, era decisamente troppo presto per parlare di convivenza, di cose più grandi di noi, cose che non erano neanche nei nostri pensieri più nascosti: ci eravamo appena riappacificati, ci eravamo appena messi insieme di nuovo, da dieci mesi, come pensare a una cosa simile?
Certo, forse con il tempo ci avremmo fatto caso… ma non in quel preciso istante.
Eppure, in casa Hemmings iniziavano già i primi preparativi.
«Jack, devi dire alla mamma che non è proprio il caso di preoccuparsi ora»
«Beh, le basi per una convivenza ci sono»
«Ma quali basi, Jack?! Siamo troppo giovani, abbiamo ricominciato da poco a essere felici insieme. Poi io ho la band, i tour, la mia carriera. Vanessa deve ancora iniziare a vivere i suoi sogni, la convivenza non è nei suoi pensieri»
«Chi te lo dice? Ha pur sempre quasi venticinque anni»
«Ancora ventiquattro, per favore»
«Perché ho come la sensazione che ti stia… tirando indietro?»
«Ma perché non è un argomento che… beh, non ci ho pensato. Non l’ho proprio mai pensato, è tutto così… in grande» e blateravo, perché quella discussione mi stava mandando in confusione.
«Dovresti cominciare a preoccuparti, invece. Arriveranno in fretta i venticinque, pure per te. Il tour rallenterà e tu starai ancora pensando se vivere in Italia o a Sydney» e al sentire quelle parole mi si è raggelato il sangue.
Italia o Australia.
Chi l’avrebbe mai detto che avrei dovuto scegliere un altro paese? Sicuramente non io, io che ho sempre creduto di passare il resto dei miei giorni nella mia amata Sydney; non io che, di fronte ad un’altra scelta, mi sentivo schiacciato dal peso dell’ansia.
«Io… non so cosa dire» ho balbettato, prima di sentire un rumore di passi dietro di me: la mamma si era svegliata.
«Buongiorno a tutti» ha esordito, sedendosi vicina a me, notando il mio sguardo perso e il viso un po’ stravolto, ma non osando fare domande.
*
Quella sera, i pensieri rivolti a quella discussione non sembravano volermi lasciare in pace.
Eravamo in discoteca, io, la mamma e Calum, soli noi tre.
La mamma aveva iniziato il suo piano “non farsi odiare da Calum Hood” con risultati un po’ scarsi, dato che lo zio non la degnava di uno sguardo, facendomi innervosire fin troppo, al punto che l’ho trascinata dall’altra parte del locale per starcene da soli.
Con tutti i pensieri che avevo, Calum era l’ultima cosa a cui volevo pensare, in quel momento lo avrei volentieri mandato a quel paese, dato che non si sforzava neanche un po’ a farsi piacere la mamma.
Ero nervoso, bambini, nervoso e inquieto: la musica, la birra, niente sembrava darmi pace, i mille dubbi mi martellavano in testa senza pietà, la mamma tentava di distrarmi trascinandomi a ballare, ma non c’era rimedio.
Dopo a mala pena due ore lì dentro, ho sentito la sua mano avvolgersi alla mia.
«Ti va… una passeggiata?» una richiesta così semplice, una richiesta che ho colto al volo, come se fosse l’unica soluzione.
Ho scritto a Calum che saremo tornati a piedi a casa, per poi avvolgere le spalle della mamma e condurla fuori, sospirando a fondo non appena l’aria fredda ci ha avvolti.
«Mi fa strano credere che qui, a marzo, sia autunno. Da noi iniziano le belle giornate»
«Già»
«Guarda che, se vuoi, possiamo andare con Calum in qualche locale più tranquillo»
«No»
«Ho… fatto qualcosa che non dovevo?»
«No, tranquilla»
«Perché corri, allora?»
«Non corro. Cammino»
E la mamma si stava un po’ arrabbiando, tanto che si è bloccata sul posto, non osando fare passi in più.
«Che c’è, Vane?»
«Forse dovrei chiedertelo io»
«Sei tu che ti sei fermata»
«Sei tu che… sei… strano, da sta mattina. Non capisco che ti è successo, sei taciturno, più del solito, sei scontroso e, giusto per dirla tutta, è da quando mi sono alzata che non mi degni di un bacio» la sua espressione imbronciata, le mani intrecciate al petto: un sorriso a tradirmi, un sorriso che ha contagiato anche lei.
Mi sono avvicinato nel vano tentativo di baciarla, ma la mamma si è spostata, appoggiando le mani al mio petto «Dimmi che c’è, ti prego» ha sussurrato, mentre sospiravo, cercando le parole adatte da dire.
«Ho parlato con Jack, sta mattina»
Le ho raccontato di quella conversazione.
Le ho detto, sinceramente, che non credevo di dover già affrontare un simile argomento come la convivenza.
Le ho detto che, a mio parere, eravamo troppo giovani per pensarci, ma che Jack mi aveva messo un’ansia assurda, come se dall’oggi al domani diventassimo quarantenni in cerca di casa.
Mamma sorrideva, annuendo e dandomi ragione, fino a diventare seria alla domanda «Tu ci vivresti qui, in Australia?» e calando in un silenzio tombale.
Si mordeva il labbro, camminando al mio fianco senza dire nulla, per poi fermarsi di nuovo e guardarmi con occhi tristi, mentre confessava i suoi pensieri «Io… Luke…. Io… io non… ti prego perdonami ma…» un sospiro «No, Luke, io non vorrei vivere qui. Non lo dico solo perché sono attaccata al mio paese, all’Italia, alla mia famiglia. Luke, io… mi vedresti qui? A lavorare? Io? Io che so a mala pena capire i tuoi genitori quando mi parlano?»
«Lo sai che con il mio lavoro non dovresti-»
«Non osare dirlo. Io non farò la mantenuta, neanche tra un milione di anni. Io dalla tua fama-»
«Non vuoi nulla, lo so»
«Esatto»
Di nuovo silenzio tra noi.
Occhi puntati per terra.
Poi, la voce tremante della mamma «Quindi, ci stiamo lasciando?» e al sentire quella domanda, ho sentito lo stomaco chiudersi di nuovo, ho sentito il cuore cominciare a battere all’impazzata, ho sentito la paura di perderla di nuovo farsi avanti, paura ancora più grande dell’ultima volta che l’avevo provata.
Ero davvero sicuro di volerla lasciare per questo? Per l’Australia?
In fin dei conti, lei non aveva torto: io giravo il mondo, facevo un lavoro che mi portava ovunque, dove facevo le cose che più mi soddisfacevano, che più mi appartenevano… non sarebbe stato da egoista privarla dei suoi sogni? Non sarebbe stato ingiusto costringerla a vivere in una terra non sua, lontana dalla sua famiglia nei miei giorni di assenza, circondata da persone che parlavano una lingua non sua, facendo un lavoro che avrebbe rimpianto per sempre?
Ero davvero disposto a farle questo? A lei che aveva sempre dimostrato di voler fare qualsiasi cosa pur di rendermi felice? A lei che non aveva mai perdonato gli errori di molti, ma i miei li ha cancellati per amore? A lei che avrebbe messo se stessa in secondo piano per me, in ogni occasione, se non in questa eccezione?
Ero davvero sicuro di trovare un’altra persona come lei?
«Non ti lascerei andare per nessuna ragione al mondo»
«Luke… io non-» l’ho abbracciata, avvolgendola piano.
«Per te, farei qualsiasi cosa. Te lo giuro»
«Non sei costretto, Luke… io non voglio portarti via da nessuno»
Le ho preso il viso tra le mani, gli occhi blu che lasciavano scivolare delle lacrime.
Ho baciato le sue guance, sorridendole felice per la decisione che avevo già preso da tempo, senza rendermene conto.
«Sei la persona più importante che io abbia mai incontrato, per te io verrei a vivere anche in capo al mondo. Sono sicuro, Vane, te lo giuro, non piangere, ti prego» e l’ho sentita appoggiare le labbra alle mie.
«Sei una persona meravigliosa, pinguino»
«Lo sei anche tu, più di quanto immagini. Ed è per questo che, parlando con mamma Liz, ho deciso di aiutarti con il libro!»
«Luke, ne abbiamo già parlato!»
«E io ho parlato con la mia mamma, dice che tu inconsciamente vuoi il mio aiuto, quindi lo farò: voglio una stampa del libro, mi farò paparazzare mentre lo leggo e il gioco è fatto»
«Luke… è un romanzo d’amore…»
«Sempre detto di essere un romantico. Ora, se permetti, velocizziamo il passo, ho voglia di fare le coccole prima di dormire» le nostre mani intrecciate, i nostri sorrisi nuovamente riconquistati, una questione che sembrava così irrisolvibile andava sgretolandosi ad ogni bacio rubato.
«Grazie, Luke» l’ho sentita sussurrare quella notte, sul mio letto, mentre mi accarezzava il viso lentamente «grazie di amarmi così tanto.»
 




 
Note di Nanek
Avete presente quando vi sentite felici e continuate a sorridere?
O quando vi rendete conto che esiste una persona sempre in grado di farvi sperare, a tirarvi su in ogni situazione?
Beh, io mi sento esattamente così da due giorni: mercoledì sera sono stata al concerto di Nek, e non potete immaginare che vuol dire averlo ad un palmo dalla faccia, averlo davanti agli occhi: gli vedevo i sudori scendere, gli vedevo quel sorriso perfetto, vedevo quell’azzurro dei suoi occhi che tanto amo e che non smetterò mai di amare così tanto.
Ce l’avevo davanti PORCA QUELLA PUTTANA. E ho pianto, e io lo amo, e mancava poco che gli toccassi la mano quando si è sporto in avanti.
Io sono su una nuvola, sono la persona più felice del mondo.
E, il colpo di grazia: ho messo una foto che gli ho fatto in twitter, taggandolo. E lui che ha fatto? L’ha vista e l’ha messa nel suo instagram. VI RENDETE CONTO????
Sono morta. Sono morta e resuscitata un milione di volte.
Ed eccomi qui, insomma. A condividere qui con voi questo e a spiegare che, se sono qui, in questa storia, è grazie anche a lui.
Grazie a Mary e Jade, perché hanno messo del loro per farmi tornare <3
Grazie a Niall, che un po’ mi ha distratto, facendomi sfornare OS che pubblicherò a breve.
Ma il grazie più grande va a Nek, va alla sua musica che mi ha fatto sperare, che mi ha fatto tornare, che mi ha fatto capire di nuovo che lui ci sarà sempre a rialzarmi, lui ci sarà sempre per ispirarmi, per scrivere storie… per trovare il coraggio di postare.
Perché avevo bisogno di coraggio, avevo bisogno di una spinta e lui è stato decisivo.
Sono tornata, insomma. Sono tornata e sta volta la finisco sta storia. Ho pure scritto l’ultimo capitolo, manca solo l’epilogo, ed è conclusa, una volta per tutte.
Sono tornata, e sta volta basta ritardi: finirò il più presto possibile, anche per buttarmi in altri intrecci dato che, ormai, sto Luke e sta Vanessa stanno un po’ annoiando, o no? Bisogna cambiare aria… non mi state lanciando pomodori o padelle, vero? LOL
Queste note sono fin troppo corpose, non mi dilungo.
Solo, GRAZIE, grazie davvero per avermi aspettato. Grazie per tutto, perché sono tornata anche per voi <3
Ci sentiamo ultra presto!
Nanek

 

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Capitolo 13
*** Perfect. ***


12. Perfect

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I want to breathe you in like your vapour
I want to be the one you remember
I want to feel your love like the weather
All over me, all over me.
 
 
Sembra quasi impossibile credere che da quella notte, esattamente quattro anni dopo, siamo entrati in quella che ora è casa nostra.
Era il 5 settembre 2022, avevamo ventisei e ventinove anni, stavamo entrando a capofitto in quel che era il mondo degli “adulti”, dove l’università, i libri, gli esami erano solo un vago ricordo, dove le tue preoccupazioni per il futuro non erano più così vive, così laceranti, così tristi da notare nelle lacrime che lasciavi scivolare sulle guance qualche volta, quando non riuscivi a tenerti per te un po’ di delusione.
Non c’era più spazio per quelle preoccupazioni, non c’era più spazio per i sogni infranti, c’era solo il momento giusto per sognare in grande.
Quel libro alla fine ha avuto quello che meritava, mia mamma non aveva tutti i torti: è bastato un paparazzo, è bastato far fare il giro del globo a quella foto e il titolo di quel libro era già sulla curiosità generale. Ti stupivi pure tu di quanto una semplice foto potesse fare tanta pubblicità.
Non dimenticherò mai la tua chiamata, le tue lacrime di gioia, la tua sorpresa, perché quella che era –è- la tua grande passione, ti stava dando la possibilità di farti conoscere oltre le quattro mura di casa, oltre ad un semplice sito di storie: il tuo talento meritava di andare un po’ più in là.
E lo so che, leggendo queste righe, dici che non ti meriti nulla, che non sei così talentuosa ma, se permetti, io sono il marito di un’autrice che ha pur sempre firmato copie in alcune librerie e, dato che tu non ci riesci, lascia a me il compito di vantarmi per quello che sei, per quello che vali, lascia a me quella sensazione di sentire l’orgoglio riempirmi il petto, lascia a me quello che tu nascondi con la modestia, lasciamelo respirare, perché non sono mai stato così fiero di te.
La cartoleria ha perso una grande lavoratrice, ma tu non potevi restare, lo sapevano tutti che destino ti spettava, anche se ci è voluto più di un anno di attesa e di sconforto.
Alla fine quella biblioteca in centro ti ha contattata, e ti giuro che non c’entro, anche se lo pensi spesso, ma ti giuro che non ho fatto nulla, non ho pagato nessuno, non ho preso a botte nessuno: ti hanno cercata, ti hanno voluta, essere autrice di un libro conosciuto da diverse persone, ti ha solo aperto mille porte.
E lo so che sono stato fotografato con il tuo libro in mano, lo so. Ma non credi che, forse, quello che c’era stampato valesse la pena? Non credi che quella storia valesse la pena di essere letta? A volte mi chiedo perché continui a non ammettere che, diamine, quella storia è frutto di una mente geniale, la mente di mia moglie.
Esattamente quattro anni dopo quella notte, io e te abbiamo varcato la porta di casa nostra.
Nella tua amata Italia, nella tua amata città, in quella piccola periferia che ti consente ancora oggi di andare a lavoro in bicicletta, in quella che ora è la tua amata biblioteca.
Sappi che non rimpiango di averti seguito, anche se molto spesso te lo domandi, ma tu di domande te ne fai fin troppe. Non rimpiango questa scelta, anche se, devo ammetterlo, l'italiano è la lingua più difficile al mondo. Ma meno male che l'inglese è la lingua del turismo ed ho evitato di perdermi per il centro, le prime volte che camminavo da solo, cercando la biblioteca per poterti venire a prendere. Non ho mai rimpianto nulla, perché il sorriso che trovavo ogni giorno era la cosa più soddisfacente al mondo.
Casa nostra, un appartamento piuttosto grande, all'ultimo piano, dal salotto spazioso, la cucina arredata dalle nostre mamme, un corridoio lunghissimo che portava alle camere e al bagno.
Le terrazze enormi, dove già ti immaginavi noi due a cena, dove ti immaginavi delle feste, dove ti immaginavi Charlie a dormire beato sopra un tavolino... dove ti immaginavi i nostri figli.
Casa nostra era -è- fatta apposta per noi, come se fosse stata lei a sceglierci, la prima volta che l'abbiamo vista vuota, i muri bianchi, l'odore di vuoto.
Ma era perfetta per noi.
Non scorderò mai quei pomeriggi a colorare le pareti, non scorderò mai i tuoi scherzi idioti, sporcandomi la schiena con il pennello pieno di colore giallo; non scorderò mai gli interi pomeriggi passati all’IKEA con Mary e Ashton, alla ricerca dei mobili ideali; non scorderò mai quando Giada e Michael sono venuti a trovarci e noi eravamo ancora sul materasso, in salotto, sotto un misero lenzuolo completamente nudi, le risate imbarazzate e le corse a cambiarci.
Ha preso forma un po' alla volta, casa nostra: ha cominciato a riempirsi di colori accesi, colori che rispecchiavano noi due, come la nostra camera metà blu e metà gialla; ha cominciato a riempirsi di foto nostre, solo qualche quadro in entrata; ha cominciato a riempirsi di mobili e di regali da parte dei nostri amici e parenti.
Casa nostra è davvero... calda.
Accogliente, non eccessivamente grande; quando sono a casa, quando siamo a casa, io mi scordo di essere dall'altra parte del mondo, mi scordo di non essere a Sydney, perché tu ora sei la mia Casa, la mia famiglia.
Avevo il mio lavoro, sparivo in tour sempre un po' più di rado con il passare del tempo, tu avevi la tua biblioteca e lavoravi sodo, le nostre vite si intrecciavano alla perfezione, non potevamo chiedere di meglio.
Capitava -ma capita anche ora- di litigare per una scemenza, per una gelosia futile, per sfogare un po' di tensione: eppure non mi hai mai fatto dormire sul divano.
Litigavamo, tu mi insultavi in italiano -e sappi che ora ho capito cosa vuol dire “stronzo”- io balbettavo quando non capivo le tue parole, ma a notte fonda, ti raggiungevo a letto.
Non osavo toccarti, a volte, per paura di un ceffone o, semplicemente, perché mi andava di essere cercato da te: restavo girato di lato, gli occhi aperti nel buio, in attesa.
Poi ti sentivo.
Sentivo le tue mani accarezzarmi le spalle, sentivo la tua voce sussurrare il mio nome, sentivo quel “mi dispiace” che mi portava a voltarmi, un sorriso già in volto, nascosto dalle tenebre.
«Non volevo darti dello-»
«Stronzo?» e già ridevi per la mia pronuncia.
«Non volevo. Io... oggi è stata una giornataccia, ma non avrei dovuto prendermela con te» e le tue mani passavano sul mio viso, attente, leggere, mentre ti stringevi a me piano piano, lasciandoti abbracciare.
«Sei perdonata, micina» e quel nomignolo prometteva sempre cose interessanti, ma tu fingevi anche di essere innocente e sbalordita davanti alle mie richieste.
«Hemmings! Ti stai approfittando del momento!»
«Michael dice che il sesso dopo un litigio sia-»
«Perché devi sempre ascoltare Michael? Non puoi ascoltare Ashton, qualche volta?»
«Ashton dice che dovrei legarti al letto»
«Vedrò di informare Mary a riguardo»
«Vuoi davvero condannare Ashton?»
«Mi diverto a fare la cattiva»
«Meow. La micina si arrabbia... mi piace» e già ti baciavo il collo, mordendolo piano, sentendoti ridere, sentendo le tue labbra sfiorarmi la pelle.
Ed è proprio su quel letto, più di un anno dopo il nostro ingresso in casa, che ho deciso di chiederti di sposarmi.
 
Era una domenica di dicembre e avevamo appena finito di addobbare casa nostra, era il nostro secondo Natale in quella casa: l'albero di due metri in salotto, illuminato da mille luci colorate, il presepe su un mobile accanto, candele rosse e addobbi natalizi a non finire.
E poi tu, con il sorriso di una bambina che non vedeva l'ora che fosse Natale.
Te ne stavi seduta sul tappeto, ad ammirare le luci con occhi sognanti, ti ho guardata con il sopracciglio inarcato, come se stessi cercando il punto che stavi fissando da diversi minuti.
Poi, dal nulla, ti sei mossa, distendendoti per terra a pancia in su, mettendo la testa sotto l'albero, facendomi davvero credere che il tuo cervello se ne fosse andato completamente.
«Che stai facendo?»
«Guardo l'albero da sotto»
«Perché?»
E pure Charlie ti è venuto vicino, incuriosito dai tuoi gesti.
«Perché sono strana»
«Non ho mai avuto dubbi su questo»
«Vieni a vedere dai, è bello, ci sono le luci» e muovevi la mano per incitarmi a seguirti.
E meno male che nessuno ha bussato alla porta: un ragazzo e una ragazza con la testa sotto l'albero mentre il gatto li osservava con un punto interrogativo rosso sopra la testa.
«Non trovi sia bellissimo?»
«Già, sembra l'albero di Natale dei film»
«La nostra storia è un film, un film che lascia tutti senza parole»
«Mi piace il nostro film» ti ho preso la mano «Mi piace che ci sia tu in questo film» e ti sei voltata verso di me, avvicinandoti, baciandomi piano.
Eppure, nella tasca del mio giubbotto, c'era quella scatoletta blu in attesa di essere aperta sotto i tuoi occhi, scatoletta che non trovavo il coraggio di prendere, come se temessi di rovinare pure quella scena del nostro film.
Ho passato l'intera giornata a chiedermi quale fosse il momento più opportuno, ho passato minuti a fissare il giubbotto, mordendomi il labbro con fare nervoso.
Verso le undici di sera, però, la tua voce mi ha richiamato.
«C'è qualcosa che non va? Mi sembri nervoso» e mi sentivo arrossire, perché non ti sfuggiva nulla di me: eravamo due libri aperti l'uno per l'altra, bastava un nulla a captare cosa non andava per il verso giusto, bastava davvero poco a far capire che qualcosa ci turbava.
Non rimpiangerò mai di averti scelto, perché sembri l'unica persona al mondo in grado di capirmi così bene.
«Devo... parlarti» mi mordevo il labbro, conscio che quelle parole ti avrebbero solo spaventato: l'ho letto nei tuoi occhi, l'ho notato nel suo sospiro, mentre sedevi sul nostro letto a gambe incrociate.
«È successo qualcosa? I tuoi genitori non vogliono venire in Italia questo Natale? Ci sono problemi con la band? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» non eri spaventata, eri terrorizzata.
Ho sorriso a tutte quelle domande, sedendomi davanti a te, prendendoti le mani nelle mie, sussurrandoti di calmarti e di non pensare al peggio.
«Vorrei solo... beh, è una bella cosa, non avere paura»
«Ho il cuore a duemila»
«Non avere paura, io... torno subito»
«Ma dove vai? Sei in pigiama»
«Aspettami qui» e ti mettevo ancora più confusione in testa, mentre lo stereo riproduceva quella canzone che era entrata, grazie a Mary, nella lista delle “nostre canzoni”: la voce di Ed Sheeran, le note di Tenerife Sea riempivano casa nostra, lievemente, calde, rendendo il tutto come me l'ero immaginato una notte, mentre tu dormivi e mi perdevo in mille pensieri riguardo a noi due.
Sono tornato con quella scatoletta tra le mani, notando come i tuoi occhi si sono spalancati di stupore.
«Dio... io...» e ho portato l'indice all'altezza della bocca, come segno per farti stare in silenzio.
Ti sei presa il cuscino, stringendolo al petto, coprendoti la faccia come se l'entusiasmo fosse troppo evidente: non potevi sbagliarti su quello che stavo per fare, non c'era alcun dubbio su quello che ti avrei chiesto.
«Vane... però... sarebbe carino se ci guardassimo» ti ho rimproverata, dato che mi ero appena inginocchiato davanti a una persona con un cuscino davanti alla faccia.
Ho riso a quel rimprovero, sentendoti ridere a tua volta, lasciando che questo dettaglio caratterizzasse pure questa scena di noi due, sempre i soliti diversi, sempre i soliti scemi, sempre i soliti, io e te.
«Non voglio rovinare la sorpresa che ti farò prima del fatidico “sì”, perché mi sono preparato delle promesse... che neanche Nicholas Sparks! Quindi, scusa, se sarò breve e scusa se sono in pigiama ma è tutto il giorno che cerco il momento adatto»
«Sei bello anche in pigiama, posso assicurartelo» e sono arrossito.
«Vanessa, Vane... vuoi sposarmi?»
Should this be the last thing I see
I want you to know it's enough for me
'Cause all that you are is all that I'll ever need
I'm so in love, so in love.

Ed Sheeran cantava giusto a pennello quelle parole, mentre aprivo quella scatoletta, facendo vedere quella fede d'oro ai tuoi occhi.
E ti sei portata ancora una volta le mani sul viso, coprendoti gli occhi, poi solo la bocca, lasciandomi lì, impalato, per fin troppi secondi.
Ti sei alzata di scatto, raggiungendomi fin troppo velocemente, tanto che quell'abbraccio ci ha fatti finire per terra: io a pancia in su, tu sopra di me, attaccata come un koala al mio corpo, mentre mi baciavi il viso, sussurrando ad ogni bacio «Sì, Luke, sì!» e lasciandoti scappare qualche commento che ancora oggi definisci “da fan isterica”, tipo “Diventerò la signora Hemmings e non è un sogno!”, facendomi ridere, mentre ti stringevo a me, portando le mani sulla tua schiena, sotto lo sguardo sempre più confuso di Charlie che, poverino, vederci sul pavimento così spesso non era mai successo.
*
Un'altra cosa che non scorderò mai, è quando ti ho vista avanzare verso di me, all'altare di quella piccola chiesa vicina al mare.
La prima delle due cerimonie che abbiamo celebrato, dato che tu volevi che mi sposassi anche nella mia amata Sydney; ma quella prima cerimonia in Italia... è stata la cerimonia.
Non scorderò mai come le mie mani hanno cominciato a tremare, mentre ti vedevo avanzare verso di me, con tuo padre che ti reggeva in piedi -o tu reggevi lui?- come se potessi svenire da un momento all'altro; non scorderò mai come il fiato mi sia venuto a mancare nel vederti così bella in quel vestito giallo, così insolito, che mi ha stupito davvero, nel vederti sorridere mentre mi rivolgevi lo sguardo.
Ho sentito la tua voce tremare a quel «Ciao» sussurrato una volta vicini, ho sentito la scossa mentre le mie labbra sfioravano la tua guancia, prima che il tutto cominciasse, prima che diventassimo ufficialmente marito e moglie.
Le tue promesse sono state le cose più romantiche che io abbia mai sentito: mescolate al tuo lato simpatico, soprattutto quando hai detto «Il mio lato da fangirl è morto per la troppa felicità, dato che mi stai sposando», parole che hanno fatto ridere tutti i presenti, che hanno fatto ridere entrambi.
Parole che non scorderò mai. Parole di canzoni, di libri, parole che hai messo insieme tu, da brava scrittrice che sei, in grado di far emozionare chiunque.
E poi è stato il mio turno.
Non scorderò mai i tuoi occhi blu, mentre estraevo dalla tasca della giacca le mie promesse.
Non scorderò mai il tuo stupore, come se non ci volessi credere, come se ti stessi sognando tutto.
Non hai idea di quanto tempo ci abbia perso per quelle promesse, non hai idea di quanto Calum, Michael e Ashton mi abbiano mandato a quel paese, prima di trovare l'idea geniale, prima di trovare la via da prendere per scriverle.
«Non starò ad elencare le ovvie ragioni per cui ho deciso di sposarti, come il ricordarti quanto tu sia meravigliosa ai miei occhi, come il ricordarti che quello che provo per te è ineguagliabile» e ho deglutito, mentre le mani tentavano di tenere ben saldo quel pezzo di carta «Mi sono domandato spesso, scrivendo queste promesse, quale potesse essere il motivo per cui ti ho scelta, scegliendo di condividere con te il resto della mia vita. Beh, ancora una volta la mia musica è riuscita a darmi la risposta. Non voglio elencare What I like about you, perché sono certo che annoierei i presenti, perché io, di te, amo tutto, anche quelli che tu definisci difetti, e te lo ripeterò Over and over. Quando ti ho vista, per la prima volta, non avrei mai creduto che fossi una persona così Unpredictable, una persona che mi ha fatto provare di tutto, Try hard, prima di avere la sua fiducia. Tu eri decisamente Out of my limit, ma alla fine mi sono ritrovato Wrapped around your finger e pure un po' Disconnected dal resto del mondo quando pensavo a te. Sappiamo entrambi che per colpa mia ti ho fatto passare momenti da Heartbreak girl e Invisible, momenti in cui una Voodoo doll nei miei confronti l'avresti anche usata, Just saying. Ma sono stati proprio questi momenti che mi hanno fatto capire quanto tu contassi per me, perché senza di te ero un Lost boy, Lost in reality, con l'anima in Broken pieces, con un Jet black heart che ripeteva I miss you. Pure in quei momenti distanti eri tu il mio pensiero fisso, anche se tu non ci credi sempre alle mie parole, ma posso assicurarti che volevo essere Beside you, anche quando tu mi odiavi, anche quando eravamo Close as strangers. Ho rivisto la Daylight quando mi hai perdonato, a quel concerto di ormai anni fa, quando hai deciso che io, per te, ero The only reason, lasciando che un'Amnesia scacciasse via quei momenti di buio tra di noi. Quando sono con te, mi sembra di Fly away, quando sono in tour, non vedo l'ora di prendere la Long way home per tornare da te» ho ripreso un po' di fiato, dato che ho letto il tutto con il cuore in gola, ho preso fiato e ti ho guardato, ho sorriso a quell'espressione quasi sconvolta.
«Queste promesse sono lunghe, ma spero di averti fatto capire il perché ti ho scelta. Tu sei nella cosa più cara che ho, la cosa che ci ha fatti incontrare, che ci ha unito: tu sei nella mia musica, nelle mie canzoni, nei titoli che ho creato, negli accordi che ho suonato davanti a milioni di persone, ma con la tua immagine nella testa. Scusa, se non le ho elencate tutte, scusa se mi sono perso per strada qualcuna di queste, ma tu sei ovunque, sei in Vapor, in Never be che non smetterò mai di cantarti, sei la mia Good girl che è andata ad innamorarsi di uno come me. Queste promesse sono Everything I didn't say, perché mai ti ho parlato di noi usando le mie canzoni tutte insieme. Ed ora, concludendo il tutto, prometto di amarti fino alla fine dei nostri giorni, prometto di starti vicino, prometto di saperti asciugare le lacrime che solcheranno il tuo viso...» e ti sei morsa il labbro a quelle ultime parole «Wherever you are, io ti amerò sempre» e ti ho vista portare le braccia attorno al mio collo, velocemente, sotto l'applauso generale, senza neanche aspettare il «Può baciare la sposa», hai appoggiato le labbra alle mie e mi hai stretto forte, lasciando che pure io ti avvolgessi.
Eravamo finalmente sposati.
Ero -sono- Wrapped around your finger, metaforicamente parlando di quell'anello che non toglieresti mai dal tuo anulare sinistro.
Lo stesso vale per te, legata a me da quella fede che non tolgo per nessuna ragione al mondo.
Ma sapevamo di essere già uniti dal primo istante in cui, i nostri occhi, si sono incrociati la prima volta.
*
«Giada la vuoi smettere di correre?! Santo Dio, sei incinta! E di due gemelli! I miei gemelli Clifford!»
«Michael, smettila di fare il noioso, voglio mangiare! Ho voglia di... fragole! Cazzo! Ho le voglie per colpa dei tuoi amati gemelli Clifford! Io lo sapevo che mi fregavi, sei uno stronzo!»
«Giada, lo so che sono gli ormoni, ma non puoi trattenere gli insulti nella tua testa?! Ti ho detto di non correre!» ma la zia Giada ha continuato per la sua strada, bambini.
La festa dopo la cerimonia tenutasi in spiaggia è stata un successo, e un sollievo per tutte le donne con i tacchi, dato che eravamo letteralmente in mezzo alla sabbia.
La zia Giada era incinta di circa quattro mesi, bambini, dei due cuginetti che conoscete bene: la piccola Daenerys Arya Ridley e il piccolo Nathan Andrea, che cominciavano già a farla impazzire ancora prima di nascere.
Le scene avvenute a quella festa sono tra i ricordi più esilaranti: lo zio Michael che le diceva di non correre e, più lo faceva, più la zia correva, e non era neanche ubriaca! Correva alla ricerca di fragole, cioccolata, pure di kebab -ma quello mancava-, correva in riva all'acqua perché diceva di avere i piedi gonfi e affermava di non entrare più nella scarpe a spillo, lo zio Michael che temeva sempre di vederla cadere, tanto che tra i capelli rossi appena tinti ne spuntavano già di bianchi dall'ansia.
Erano -sono- sempre stati così, gli zii: due anime compatibili, che dovevano solo trovarsi per rendersi conto che in due, arrivare alla fine dei giorni, è più divertente e salutare.
Per l'occasione, si sono presentati con due tinte nuove: lo zio Michael rosso fuoco, l'ho visto arrivare a metri di distanza, in vestito elegante e nero, con la camicia bianca, e questa chioma color semaforo; la zia, invece, nonostante le lamentele dello zio perché «Sei incinta! Non devi tingerti! I miei bambini!», è arrivata con i capelli color melanzana, viola, abbinati ad un vestito dello stesso colore, scollato così tanto da far partire il cervello allo zio.
Non a caso, li abbiamo pure trovati a imboscarsi verso fine serata ma, bambini, certe cose le saprete quando avrete minimo diciotto anni.
«Mary, perché hai del vino in mano?!»
«Ashton, perché vuoi scatenare il peggio di me?»
«Metti giù quel vino, subito»
«Fottiti»
«Mettilo giù, Mariachiara!»
Lo zio Ashton e la zia Mary, quel giorno, avevano una notiziona da farci sapere, notiziona che però, non trovavano il momento adatto per confessarla a tutti.
Si sono messi -come sempre- a litigare come due bestie, tra insulti di ogni tipo e minacce esagerate tipiche di loro due.
Il clou della litigata l'hanno raggiunto quando la zia stava per sorseggiare del vino, catturando l'attenzione di tutti.
Con lo sguardo dei presenti addosso, Mary ha abbassato gli occhi, rossissima in viso, mentre lo zio Ashton le prendeva la mano, sospirando, tossendo un po' nervoso.
«Forse c'è qualcosa che dobbiamo dirvi» ha annunciato poi, cercando qualcosa dal portafoglio.
Quando la mamma ha riconosciuto l'oggetto che lo zio ha estratto, l'ho sentita stringermi la mano.
Era un'ecografia.
«Diventerò papà!» ha annunciato Ashton con un sorriso troppo grande e con una lacrima a solcargli la guancia, lacrima che ha spaventato la zia Mary, tanto che si è affrettata a stringerlo forte.
«Sì, e io divento mamma, insomma. C'è un piccolo -o una piccola- Irwin in arrivo» ha continuato, mentre lo zio non riusciva a placare l'emozione.
Li abbiamo abbracciati, presi dalla felicità e dall'incredulità di quella notizia; e, sì, bambini, Andrew Seven stava per arrivare.
«Un piccolo Ashy boy, o una piccola Mary, non so cosa decidere» ha confessato la mamma.
«Magari sono due gemelli!» ha provato la zia Giada, ricevendo uno sguardo fulmineo da Mary.
«No, Giada, è uno solo, per fortuna. Ti ricordo che io ho già un bambino in casa, ed è colui che sta piangendo adesso» ha sorriso, mentre con la mano gli accarezzava i capelli ricci.
«Quindi ora mancano solo Luke e Vanessa, e Calum! Ma lui è un caso perso» ha aggiunto lo zio Michael, facendo sbiancare Calum a quell'affermazione.
«Per l'amor del cielo! Sono troppo giovane!» ha risposto, per poi allontanarsi a prendere altro vino, giusto per dimenticare quelle parole appena entrate nella sua testa.
E in mezzo a queste novità, la festa è andata avanti, tra balli, lenti, io e gli zii che abbiamo pure suonato qualcosa per l'occasione, facendo impazzire la mamma e le zie.
Tra brindisi, chiarimenti e nuovi desideri.
«A Vanessa e Luke, perché da poco ho capito quanto ho sbagliato in passato. Mi dispiace, Vanessa, spero che con il tempo potremmo riaggiustare quello che ho rovinato» le parole di Calum, un abbraccio inaspettato, lo stupore di tutti i presenti.
«Ai Lune, che sono gli unici sposati nel nostro gruppetto, bravi! Siete le persone più coraggiose che io conosca!» una Giada ancora convinta che il matrimonio non faccia per lei...
«A Luke e Vane girl, trattami bene la mia sorellina acquisita!» un Ashton commosso.
«Ai piccioncini più dolci che io abbia mai visto. Ho tipo tre carie per colpa vostra» il solito Michael.
Ed infine, la zia Mary.
«Ai Lune, e guardate che io aspetto i piccoli Hemmings, voglio diventare zia, Charlie ormai è grande!»

 
 




Note di Nanek
Pure in anticipoooooooooooooooooooo
Ditelo che sono brava, ma d’altronde HO FINITO DI SCRIVERE PURE L’EPILOGOOOOO
Cioè, sono o non sono un razzo?
In pratica basta postare e ho finito TUTTO.
Che brava che sono, sono davvero fiera di me U.U
E poi, ragazze… CHI VA A VERONA IL 13 MAGGIO!??!?!?!?!?!
UN MEGA APPLAUSO ALLA MARY CHE HA GARANTITO A ME E ALLA JADE DI ESSERE Lì QUEL GIORNOOOOOOOOO
Madonna, sclero troppo, sclero MALE.
Io la Jade e quei 4 fagioli!! *----------------*
In bocca al lupo a tutte coloro che prenderanno domani il biglietto <3
Spero che questo capitolo vi piaccia, insomma. È un mix di cose belle, mi ha emozionato molto rileggerle a distanza di giorni dalla prima stesura. E spero si sia capito che la parte iniziale è Luke che parla a sua moglie, a Vanessa T.T poi parla ai bambini dai nomi ancora sconosciuti ahahah qualcuno vuoi dare suggerimenti? :D
Le promesse poi… spero vi piacciano davvero, non sapete che fatica mettere insieme tutto!!
E quando le chiede di sposarla… boh, io sto male.
E LE ZIE JADE E MARY CHE INIZIANO CON I PARGOLI.
Vi conviene fare una lista belle mie, perché vedrete quanti bambini arrivano ;)
Ma lo scoprirete la prossima volta :D
Grazie per tutto quello che fate <3
A presto <3
Nanek

 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Small bump. ***


13. Small bump

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Voglio entrarti dentro l'anima,
e che sia con questa musica,
per lasciarti l'impronta di un segno che non va più via,
e sapere,
di restare,
indelebile come nessuno ha mai fatto con te.
 
 

«Luke. Luke? Che stai facendo?» la voce di lei entra nella sua mente, rimbomba sempre più chiara, fino a quando lui non apre gli occhi, mettendo a fuoco l’immagine di lei lì davanti: lei con gli occhiali indossati, lei che è china su di lui, così vicina da riuscire a notare i suoi occhi stanchi, come se si fosse appena svegliata.
Lui la guarda, sorridendole appena, sentendosi il corpo pesante, tanto che sente il bisogno di stiracchiarsi, ricordandosi solo in questo momento l’intera situazione: lui stava scrivendo, lui stava scrivendo la lunga lettera destinata ai suoi figli, lui stava scrivendo del loro matrimonio.
Ma non si è reso conto del tempo che passava, scorreva veloce ad ogni parola, ad ogni fatto: l’orologio, infatti, segna le tre del mattino.
«Mi sono addormentato» si giustifica, sempre sorridendole, quasi divertito da quell’affermazione, mentre allunga il braccio sulla mano di lei, trascinandola più vicina a lui, lasciando che quella piccola sporgenza sul suo ventre gli vada a due centimetri dal naso: perché non sono solo loro due ad essere svegli in quel momento.
«La piccola di casa fa i capricci?» domanda, accarezzandole la pancia, aspettando un qualcosa che non tarda a farsi sentire, facendolo sorridere ancora, pieno di stupore «Ciao anche a te, piccolina mia» saluta quella creatura che ancora non ha mai visto davvero, se non tramite uno schermo, la saluta appoggiando le labbra, lasciando un bacio leggero che, però, fa intrecciare le braccia sul petto a lei, lei che lo sta guardando.
«Sono qui anche io, tesoro» mette quasi un broncio, mentre lui alza gli occhi su di lei.
«Non è carino essere gelosa di tua figlia» la rimprovera, quella frase che le ripete sempre e che la fa sbuffare, che la fa rispondere con «Io sono gelosa di tutte quante, lo sai» riferendosi ad episodi ormai fin troppo lontani, ricordi che lui ha appena scritto su quei fogli volanti.
Fogli che catturano l’attenzione di lei.
«Che stavi facendo? Una tesi di laurea?» lo prende in giro, rubando un foglio, dove è riuscita a scorgere il suo nome tra quelle numerose parole.
Legge quasi velocemente, per timore che lui possa strapparglielo dalle mani, ma Luke non sembra affatto spaventato, tanto che la incita a sedersi sulle sue gambe, mentre lei continua a leggere, mentre lui ne approfitta per baciarle il collo, mentre con le mani le accarezza il ventre.
«Che cosa significa tutto questo?» chiede incredula, leggendo un po’ ad alta voce dei passaggi, cercando altri fogli, cercando un nesso in tutto quel casino, dato che Luke non ha ancora perso il vizio di essere un disorganizzato cronico.
Legge di lei. Legge di loro. Legge del loro primo bacio. Della loro prima volta. Del concerto degli Sleeping with Sirens. Dei paparazzi. Di quando si sono lasciati. Di Andrea. Di quando si sono trasferiti. Legge e non le sfugge quel “bambini” fin troppo frequente. Legge e solo su un foglio il tutto è indirizzato a lei, lei e basta.
«Ho… beh, mi sono improvvisato scrittore» balbetta lui, baciandole la spalla «Ho letteralmente scritto la nostra storia, per i nostri figli, per un futuro, quando saranno tutti e tre in grado di leggere e di capire… certe cose»
«Direi che prima dei trent’anni non leggeranno mai tutto questo. Guarda quante parolacce…»
«Danno enfasi, amore!»
«Sì, hai ragione» lei ha lo sguardo perso, lei cerca di mettere un po’ in ordine, seguendo una linea temporale, intuendo, però, che qualcosa manca.
«Mancano… loro» aggiunge subito Luke «Mancano gli episodi di… beh, quando hai scoperto della loro esistenza» e lei si spaventa subito.
«Non vorrai mica ricordare alla nostra bambina che-»
«Che ti sei messa a piangere, disperata, perché eri incinta? Beh, sì, però avrei tralasciato qualche dettaglio»
«Così ha un motivo in più per odiarmi»
«Nostra figlia non ti odia. Ha appena tre anni!»
«Ha lo stesso sguardo che avevi tu, quella notte, a Capodanno, quando c’era Andrea» e lui ride.
«Ce l’ha con tutti»
«Mai con te»
«Sono il super papà, è logico amarmi. Ma, in compenso, nostro figlio mi odia»
«Nostro figlio è troppo buono per odiare qualcuno, assomiglia a te per questo»
«Eppure ha due occhi blu che mi fulminano quando faccio il verso del pinguino!» e lei alza gli occhi al cielo.
«Il verso del pinguino… poi ti chiedi perché Calum ti ha nominato in rubrica come “Persona strana”» ride anche lei, mentre lui si vendica, mordendole un po’ la pelle.
La mano di lei, poi, prende la penna e un nuovo foglio, bianco.
Ci scrive dei nomi, nomi che lui riconosce fin troppo bene.
Lei lo sta incitando a finire quella lunga lettera, lo sta incitando a finirla insieme a lei.
*
Filippo Hemmings.
Sai, bambino mio, la mamma ed io abbiamo saputo del tuo arrivo, niente meno che in luna di miele, nella magica Santorini.
Siamo partiti piuttosto tardi, dato che, solitamente, si parte subito dopo il matrimonio; noi, invece, soliti diversi, abbiamo dovuto tardare di quasi un mese, a causa di scioperi, voli cancellati e vari problemi che ci facevano sempre tardare il tutto.
Siamo partiti, quindi, a luglio, il mese più caldo che potesse esserci, il mese perfetto per goderci al meglio quell’isola.
Non staremo qui ad annoiarti con i ricordi di tutti gli episodi più assurdi, che magari conosci già: tipo io che mi sentivo a disagio sopra ad un asino perché ho le gambe troppo lunghe, tipo la mamma che ha scambiato la camera e si è trovata davanti agli occhi un omone in perizoma che l’ha fulminata perché aveva interrotto un momento particolare. Non staremo ad annoiarti con le cose da femmine che piacciono solo alla mamma e alle tue sorelle, tipo le lunghe passeggiate in riva al mare in quelle serate che avrei passato a dormire di sasso; o tipo le mille foto che mamma ha scattato pure ai pavimenti, perché fin troppo entusiasta; o tutte le volte che mamma mi ha messo la protezione perché il sole picchiava più del dovuto e diventavo un omino bianco.
Tralasciamo tutto questo, parliamo invece della gioia provata quel giorno, l’ultimo giorno di vacanza, giorno in cui la mamma si è rinchiusa in bagno per un’ora, senza farmi sapere niente, dicendomi che aveva solo una leggera nausea. Nausea che, però, mi ha spaventato, dato che è rimasta in quel bagno per troppo tempo.
Poi, però, quando è uscita, quando ha aperto la porta, mi sono alzato dal letto velocemente, di scatto, per trovarmi davanti agli occhi la mamma con in mano qualcosa che non avevo notato.
Un test, insomma.
Anzi, tre test, ad essere sinceri.
Tre test di gravidanza, tutti e tre positivi.
Lo so che quello che sto per dire farà di me una femminuccia, ma sono crollato sul letto, le gambe hanno ceduto, mi sono seduto e mi sono sentito impallidire.
Mamma, chiaramente, si è super preoccupata, tanto che mi ha fatto mangiare tre bustine di zucchero, facendomi stendere, mentre io cercavo di dire qualcosa, cercavo di esprimere la mia gioia che mi stava un po’ destabilizzando.
Poi, però, mi sono ripreso, non sono mica così floscio! Mi sono ripreso e l’ho riempita di baci, cominciando già ad accarezzarle la pancia ancora per niente visibile, cominciando a dare di matto dall’emozione del momento.
Abbiamo pure consultato un medico, che ha confermato il tuo arrivo, ma abbiamo voluto aspettare di tornare a casa, essere nuovamente certi, prima di informare mezzo mondo di tale avvenimento.
Ho informato pure le mie fan, ancora una volta, volevo renderle partecipi di questo avvenimento così bello, così unico, così incredibile: sarei diventato papà.
Non potevi, poi, essere già più perfetto di così: la mamma ti voleva, voleva un maschio, a tutti i costi, non oso immaginare che sarebbe successo se una delle tue sorelle fosse nata per prima! Ma tu eri già buono, eri già pronto a renderla felice.
Un maschio, lo abbiamo visto tutti in quello schermo, lo abbiamo visto tutti pure in quelle ecografie che hanno fatto il giro del mondo: un bambino, nessun dubbio.
Crescevi sotto lo sguardo vigile della mamma, crescevi e lei ti parlava in tutte le lingue che conosceva: ti parlava sempre e costantemente, tanto che all’inizio credevo si riferisse a me quando diceva «Amore», «Tesoro», invece quei nomignoli erano riservati solo a te.
Geloso? Beh, insomma, diciamo che mi stavi rubando un po’ l’attenzione della mia donna. Ma quando ti sentivo scalciare al mio tocco, quando ti muovevi al sentire la mia voce, pure quella leggera gelosia spariva, inghiottita nel buio, perché non vedevo l’ora di averti tra le mie braccia, non vedevo l’ora di essere il tuo papà.
La scelta del tuo nome è stata una cosa molto semplice: la mamma sceglieva, per il suo bambino avrebbe dato un nome italiano, uno soltanto, il nome di colui che lei chiama ancora oggi “idolo”, che no, non sono io, ma quel cantante italiano dal nome strano, quel Nek che è riuscito pure ad entrare nella nostra famiglia: ti saresti chiamato Filippo, semplicemente, Filippo come quel tipo, Filippo come numerosi Re, principi, Filippo e nessun soprannome ammesso o la mamma avrebbe sbranato qualcuno. Filippo Hemmings, nella tua semplicità ed unicità.
Quando sei nato, poi, ho visto nei tuoi occhi un po’ spaventati, lo stesso sguardo della mamma.
Ti ho preso tra le braccia per la prima volta in quell’ospedale, ti ho tenuto stretto per paura di vederti scivolare. Ti ho parlato, chiamandoti, semplicemente. Tu hai volto lo sguardo verso di me e io vedevo la mamma.
Crescendo, poi, ho solo avuto la conferma: un bambino biondo, le labbra carnose, le fossette, un bambino buono e calmo, non come i piccoli Clifford, insomma.
La prima volta che hai chiamato «Mamma», sei riuscito a farla piangere più di chiunque altro dall’emozione: più di Ghost, di Titanic, di un concerto di Nek, più di una canzone che le ho dedicato, sei riuscito a farla piangere così tanto che ha singhiozzato per un bel po’.
Quando, invece, hai chiamato «Papà» sono stato più stabile, dato che ero davanti agli zii Michael e Calum, mi sono trattenuto dal piangere o dallo svenire, ho semplicemente sentito il cuore il gola, mentre il sangue circolava a stento e le mani mi diventavano gelide.
Mi hai chiamato mentre ti tenevo in braccio, mi hai chiamato e avevi l’indice puntato contro qualcosa: contro una televisione di un negozio, una televisione accesa, in vetrina, dove io e gli zii stavamo cantando uno dei nostri tanti singoli: ci hai riconosciuto subito, mi hai chiamato per dirmelo, e pure gli zii si sono emozionati un po’ al ricordo di quei tempi ormai fin troppo lontani.
Fisicamente, comunque, sei uguale a me, o quasi. Caratterialmente, nonna Liz è orgogliosa di annunciare che sei un Hemmings allo stato puro, dato che sei timido, gentile, e hai già cominciato a fissare le mie chitarre, preoccupando la mamma che non ti vorrebbe mai vedere famoso e in giro per il mondo tra un tour e l’altro. Ma chissà cosa ti riserva il futuro, bambino mio.
Però… hai solo una cosa che mi stupisce ogni volta che i nostri sguardi si incrociano: due occhi blu, grandi. Due occhi blu che mi ricordano sempre quelli della persona che ho incontrato per caso, in una via di Milano. Gli stessi occhi che ho visto piangere, sorridere, emozionarsi, arrabbiarsi. Gli stessi occhi che non smetterei mai di guardare, riuscendo sempre a stupirmi ogni giorno, non appena li vedo, non appena si incrociano con il mio sguardo. Quegli occhi che diventano più chiari con il sole, che diventano più scuri con la notte, con la pioggia, quel colore che neanche i pastelli riuscirebbero ad imitare, che neanche mille paragoni riuscirebbero a rendere davvero.
Gli stessi occhi di quella persona che ho amato e che amo, ancora oggi, come il primo giorno.
 
Gaia Charlie Iris Hemmings.
Devi sapere, bambina mia –nostra-, che quando abbiamo scoperto del tuo arrivo, eravamo a casa degli zii Mary ed Ashton, in compagnia anche della famiglia Clifford e dello zio Calum.
Una cena normalissima dopo tanto tempo senza vederci: tuo fratello Filippo giocava con Andrew e Nathan, mentre la piccola Daenerys, in compagnia del piccolo Noah, ultimo arrivato in casa Clifford, se ne stavano in disparte a fissare la piccola nuova arrivata in famiglia: Evelyn Blue Iris Irwin, per gioia di papà Ashton che tanto voleva una principessa da coccolare.
La fissavano così tanto da scatenare discorsi particolari a cena, tra una birra e l’altra. Ma quella sera, qualcosa di nuovo stava per arrivare, stavi per essere nominata tu e… beh, non eravamo i soli ad avere diverse novità.
Quella sera, letteralmente, comparivano bambini ovunque.
La zia Giada, ormai al sesto mese inoltrato, in dolce attesa di Nash, ha preso parola per prima, mentre guardava con invidia chi poteva bere qualcosa di alcolico per sballarsi un po’: ha sfoggiato il sorriso più bello, prima di battere con il coltello sul bicchiere, come a voler l’attenzione di tutti quanti.
«Ho un annuncio!» ha esclamato con gli occhi carichi di gioia, mentre tutti noi alzavamo lo sguardo verso di lei e Michael, alzatosi in piedi pure lui, intento a stringerle la mano, sempre fin troppo emozionato.
«Come ben sapete, famiglia Clifford è sempre molto… numerosa» ha cominciato così, indicando i tre bambini presenti e indicando poi il suo ventre, per poi lanciare uno sguardo fulmineo a Michael «Chissà perché è così numerosa» ha commentato, facendoci ridere: tutta colpa di Michael, chiaro!
«Tuttavia, io e Michael… abbiamo pensato di… allargarla ulteriormente. Lo so, siamo due pazzi ma… insomma, è una cosa che abbiamo sempre desiderato entrambi e… ora è… successo!» e li abbiamo guardati tutti con occhi curiosi.
«Beh, siamo i nuovi Brangelina!» ha scherzato lo zio Michael «Però noi siamo… Made, molto più facile»
«Mi state… confondendo» ha ammesso la zia Mary, inarcando il sopracciglio, per poi sobbalzare d’un colpo: la zia Giada si è lasciata scappare un urlo fin troppo entusiasta.
«Abbiamo adottato un bambino! Arriverà da noi tra tre settimane! Si chiamerà Jalil Michael Junior Clifford e… Dio, potrei saltare di gioia!» ma lo zio non ha permesso nessun salto, già preoccupato per il piccolo Nash.
«Oddio, Giada!» ha esultato Mary, poi anche la tua mamma, solo… con meno entusiasmo.
L’hanno abbracciata, le hanno baciato le guance, mentre Calum ridacchiava per i numerosi nomi affibbiati a quel bambino.
Critiche che, però, non hanno smosso di una virgola lo zio Michael, troppo intento a controllare le lacrime: emozionato come pochi, felice come pochi, lo zio non l’avevamo mai visto così.
Per lui crearsi una famiglia –numerosa- era la cosa più importante al mondo, perché, come ripeteva sempre «Sono figlio unico, è normale volere una famiglia bella grande.»
Frase che, però, una persona in quella stanza non condivideva a pieno.
La mamma, in effetti, anche lei figlia unica, non era troppo dispiaciuta del suo unico figlio.
Il suo sguardo perso non è passato inosservato, infatti.
«Vane ma… hai visto un fantasma?»
«Ti vedo un po’ pallida in effetti»
«Ma stai male?» e quelle domande non hanno che peggiorato quella leggera tranquillità.
Quella sera io e la mamma avevamo litigato di brutto, una cosa più che normale, solo che non capivo il motivo della sua ira contro di me: aveva cominciato ad insultarmi senza motivo, aveva cominciato ad urlare e a sbattere le porte, se facevo domande rischiavo di vedermi volare addosso oggetti di ogni tipo.
Non capivo che avessi sbagliato, non lo capivo e la questione mi aveva un po’ infastidito, perché una cosa che odio è il non sapere perché qualcuno ce l’abbia a morte con me.
Avevamo fatto buon viso entrambi, per non rovinare la serata a nessuno, solo che, dopo quell’annuncio, qualcosa in lei deve essere scoppiato del tutto: si è ammutolita d’un tratto, la vedevamo un po’ troppo pallida, si mordeva il labbro con nervosismo, è cambiata da un minuto all’altro.
Quando però le ho sfiorato la gamba, è partita in quarta.
«Lasciami stare!» ha urlato, alzandosi dalla sedia e precipitandosi in bagno, chiudendosi dentro senza dare spiegazioni a nessuno.
Io, seduto a tavola con l’animo in pace, ho fatto spallucce alle numerose domande da parte dei presenti.
«Non so che cos’ha. È così da quando sono tornato a casa questo pomeriggio» e non l’avessi detto.
«E ti sembra il momento adatto per disinteressarti?!»
«Hemmings, ti interessi anche quando va al bagno, non ti sembra questo il momento più opportuno?!»
«Sei un testa di cazzo, chissà che le hai fatto!»
«Non l’ho mai vista così» e giù di insulti e colpe che non avevo.
Le zie sono andate subito in suo soccorso, lasciandomi solo con i mariti perfetti –tranne Calum, completamente perso con la bottiglia di birra.
«Come mai questo… tutto questo?»
«Ti ho detto che non lo so, Ashton»
«Non è… normale, però»
«Avrà il ciclo» ho ipotizzato.
«E diventa così? Non credevo…»
«Che ne so, saranno ormoni diversi» ho continuato a fare il menefreghista, anche se dentro stavo morendo dal senso di colpa: cosa poteva averla scossa a tal punto? La mamma non mi aveva mai trattato così, voleva sempre chiarire, mettere in chiaro le cose… cos’era successo per portarla a tanto?
«Forza, andiamo a vedere come sta» mi ha suggerito Michael, alzandosi e facendomi strada.
A qualche passo dalla porta, ci siamo semplicemente messi ad origliare, come i ragazzini.
Ma l’unica cosa che siamo riusciti a sentire, è stata la confessione finale.
«Sono incinta. Aspetto un altro bambino» confessione che mi ha fatto andare il cuore in gola.
«Ma… è meraviglioso, Vane!»
«Appunto! Vane, è una bellissima notizia!»
«No! Cazzo!» la voce della mamma più acuta del solito «Non è una bella notizia. Voi lo sapete, lo sapete che non voglio altri figli! Voi lo sapete che… che non sono in grado!» e questa parte di lei non la conoscevo: certo, mi ero sempre chiesto come mai la mamma non volesse altri figli, ne avevamo parlato spesso, ne avevamo pure discusso, ma lei non aveva mai detto apertamente il perché.
«Se poi non do ad entrambi lo stesso affetto? Se poi uno dei due si sentisse più trascurato e fa pazzie? Se poi avessi la preferenza per quello più debole e l’altro si sentisse sempre di meno? Non voglio che qualcuno soffra, non voglio correre questo rischio. Ma sono incinta, cazzo! Sono incinta e ho paura di non essere una brava mamma, ho paura che Luke noti qualcosa di sbagliato in me, ho paura di sbagliare, ho paura… di tutto quello che potrebbe succedere» e la zia Giada stava già cominciando a dirle che era una sciocca a pensare certe cose e che, allora, cosa doveva dire lei? Lei che i figli non li voleva nemmeno?
Ma non l’ho lasciata finire il suo discorso, perché ho preferito farmi vedere, puntando i miei occhi su quegli occhi blu, arrossati, gonfi, pieni di lacrime che non sembravano voler fermarsi.
Ho abbracciato la mamma e le ho lasciato tanti di quei baci che credo se li ricordi pure adesso. Le ho baciato ogni singola lacrima, ricordandole quanto fosse importante per me, quanto fosse una persona meravigliosa, quanto fosse una mamma meravigliosa.
L’ho abbracciata, cercando di allontanarla dalle sue paure, dicendole che ci sarei stato in ogni momento, rassicurandola che i nostri figli non avrebbero mai sofferto, in alcuno modo, non lo avrei mai permesso. La mia famiglia era la mia prima preoccupazione, e lei ne faceva parte.
«Ma se poi-»
«Ma niente, Vane, ma non ci devi pensare nemmeno a queste cose. Dio, io… io… un altro bambino, potrei avere un altro calo di zuccheri» ho ironizzato, vedendola sorridere un po’.
Ci siamo stretti per minuti interminabili, prima che lei recuperasse il fiato, prima che lei trovasse il coraggio di tornare dagli altri, stringendomi la mano.
L’annuncio, però, l’ho fatto io «Diventerò papà pure io! E speriamo sia femmina!» tuo fratello Filippo non ha minimamente ascoltato questo annuncio, troppo preso dalle macchinine, ma posso assicurarti, bambina mia, che tutti gli zii erano più che felici del tuo arrivo. Gli zii, e anche noi.
A concludere quel giro di confessioni, però, mancava ancora qualcuno.
Lo zio Calum ha preso parola per ultimo, finendo la birra come a voler dimenticare quello che stava per confessare, poi ha riso, di gusto, facendo passare l’attenzione su di lui.
«Ve la ricordate quella figa pazzesca che ho conosciuto diversi mesi fa al night club? Quella che “Hey sono una spogliarellista mica una puttana!”» e lo zio Ashton a momenti gli lanciava un calzino in bocca perché «Le parolacce, Calum» rimprovero che gli ha fatto alzare gli occhi al cielo, prima di guardarci tutti, come a cercare intesa nei nostri occhi.
«Sì, come dimenticare, sei finito su diversi giornali» ha commentato lo zio Michael, incitandolo ad andare avanti.
Lo zio Calum, bambina mia, è… letteralmente scoppiato a piangere e a ridere nello stesso istante: una scena strana e incredibile, lo zio che piange, lacrime a fiumi, mentre dalla sua bocca uscivano risate piuttosto rumorose e spaventose.
I bambini lì presenti si sono pure spaventati, tanto che li abbiamo mandati a giocare in camera, mentre Ashton portava Evelyn a dormire in camera sua.
Eravamo tutti parecchio sconvolti, perché non capivamo il motivo di tale reazione. Ma, poi, la bomba l’ha sganciata di getto, sconvolgendoci ancora di più.
«Quella puttana mi ha lasciato due bambini fuori da casa mia! Due bambini e un foglietto con scritto “Qualcosa non ha funzionato”. Qualcosa non ha funzionato! Ma porca troia! Ha lasciato due bambini fuori da casa mia così, neanche nel Medioevo, cazzo!» e la situazione è poi peggiorata del tutto «E sono miei, sono miei tutti e due! Lo dice il test, lo dice il cento per cento di compatibilità, sono i miei figli.»
La bomba dello zio Calum è esplosa, devastandoci del tutto.
Lui disperato, senza la minima idea sul da farsi, le lacrime che lo prendevano come un vortice, la voglia di bere per dimenticare la realtà: non l’avevamo mai visto così disperato.
«Come faccio a prendermi cura di loro? Come faccio a crescerli? Come faccio ad essere un buon padre? Adesso sono con mia madre ma lei non può essere sempre presente per me!» e la mamma gli è andata accanto, come se lo capisse perfettamente, passandogli fazzoletti e cercando di rassicurarlo in tutti i modi possibili.
La zia Giada ha cercato di distrarlo, ha cercato di fargli parlare di altro, tipo calcio, o discoteche, o cose che allo zio piacciono sempre, ma ogni cosa sembrava inutile, era completamente fuori di sé.
Dopo più di un’ora a disperarsi, dopo un breve silenzio tra tutti noi, lo zio Ashton se n’è uscito con una delle sue.
«Come li vuoi chiamare i tuoi bambini?» domanda che gli ha fatto ricevere una gomitata dalla zia, domanda che, in realtà, si è rivelata un buon discorso.
«Devo trovare dei nomi» si è come illuminato, come se quell’idea gli piacesse, come se, in fin dei conti, i suoi figli fossero già la cosa più importante della sua vita.
Alla fine, per quei poveri piccoli, i nomi più assurdi sono stati scelti: Chris William Hood, in onore di Chris Brown, ovviamente, e Megan Katy Rihanna Beyoncé Jennifer Hood, in onore di Megan Fox, Katy Perry, Rihanna, Beyoncé e Jennifer Lopez, in onore di tutte le donne che hanno sempre riempito il cellulare dello zio Calum.
Il tuo nome, invece, per quanto impossibile da credere, lo ha scelto sempre la mamma: Gaia Charlie Iris. Gaia perché è il nome della sorella che ha sempre desiderato, Gaia perché già ti immaginava allegra, solare, una bambina che avrebbe sempre messo il sorriso, pure nei momenti più tristi; Charlie in onore del gatto che lei non cambierebbe con nessuno al mondo, e non prendertela, bambina mia, non vederla come un insulto: Charlie, la mamma, come ben sai, ce l’ha tatuato, e non l’ha fatto tanto per, quella palla di pelo è stata la sua felicità più vera, è stato il regalo più bello che potessero farle; ti chiami come lui perché, anche se può non sembrare, hai dato anche tu, alla mamma, quella felicità immensa che le serviva; e Iris, infine, come la canzone che ci ha fatti nuovamente tornare insieme, come la canzone che mi ha permesso di arrivare dove sono ora, quella canzone che ci ha uniti più di prima, in un momento così difficile e quasi irrecuperabile. Iris, perché anche quando ho scoperto del tuo arrivo, la mamma si stava già allontanando con le sue paure, con le sue paranoie infondate: Iris, perché anche quella sera, a casa degli zii, tu ci hai unito ancora di più.
 
Antea Daphne Lune Hemmings.
Tu, invece, piccola mia, devi ancora mostrarti agli occhi del mondo.
Ti sento, ti sentiamo, anche adesso, che scalci un po’ e sembri fare le capriole nella pancia della mamma. Sei sveglia, ed è notte fonda, piccola furbetta.
Lo zio Calum ha già deciso che mi farai dannare, perché se tua sorella Gaia Charlie Iris mi somiglia fisicamente ma caratterialmente è la mamma, tu devi essere, per forza di cose, fisicamente uguale alla mamma ma con la personalità del papà.
Lo zio Calum ha voluto sottolineare il fatto che sarai una festaiola, che ti vedrò correre tra una discoteca e l’altra, accompagnata da quel piccolo teppistello di Nash Clifford e i due gemelli Hood, due terremoti, a bere birra con la piccola di casa Clifford, nata appena un mese fa: Roxanne Hell Kawaii Clifford, già il nome è un programma, non oso immaginare quando avrete l’età per andare in tutti i locali possibili, non oso immaginare che combinerai…
Spero vivamente che tu prenda il carattere pacifico e pigro della mamma –che in questo momento mi ha appena tirato un pizzicotto.
Ma per fortuna lo zio Ashton sa sempre come rassicurarmi: la zia Mary, infatti, è pure lei in dolce attesa, la più piccola di tutta la famiglia: Apple Coralie Irwin, un’altra principessa per la felicità dello zio, un’altra crisi di nervi da parte della zia che “Irwin, te lo taglio”, ma anche lei ha già gli occhi lucidi ad immaginare il suo arrivo.
Sarete il trio delle più piccoline: tu, Apple e Roxanne, sarete il trio che ricorderà il trio Mary, Giada e Vanessa, è un pensiero che abbiamo avuto tutti, sarà forse un segno?
 Lo vedremo quando sarete tutte e tre insieme, tra qualche mese.
A differenza di tua sorella, scoprire del tuo arrivo è stato più tranquillo, diciamo.
Semplicemente, sta volta, sono stato io coraggioso: sarà che mi piace troppo sentirmi chiamare “papà”, sarà che Gaia Charlie aveva già reclamato una sorellina, ma ho chiesto, apertamente, alla mamma, un’altra principessa.
Purtroppo, la sua prima risposta è stato un “no” secco e gelido, un no che mi ha un po’ rattristato, dato che io stavo già lavorando ai nomi da scegliere.
Una sera, seduti sul letto, prima di dormire, ho riprovato, ho giocato il mio jolly.
«Io però la voglio lo stesso, un’altra bambina»
«Luke, non è detto che nasca una bambina. Magari nasce un maschietto, ci hai pensato?» la mamma sapeva come smontare i miei sogni.
«Nah, il destino sa che a te basta Filippo»
«Quanto sei idiota, Hemmo»
«Lasciati convincere, per favore»
«Luke, non so se hai già scordato il pianto di cinque minuti fa di tua figlia perché voleva dormire con noi»
«Ha paura, è normale»
«Buonanotte, Hemmings» mi ha liquidato così, mettendosi di lato e fingendo di dormire ma, in realtà, stava solo aspettando il mio discorsetto.
«Antea Daphne Lune» ho detto, cominciando così il tutto.
«Antea, lo ammetto: l’ho sentito in giro. Ma ho letto che significa fiore! Mi piace come suona, mi piace dirlo, poi è particolare, quasi strano: è adatto ad una Hemmings» e la mamma non si è mossa, per niente convinta.
Ho sospirato.
«Daphne, perché ho scoperto che la mitologia è davvero bella. Mi piace da morire la storia di Daphne e Apollo» e a quel punto l’ho sentita brontolare.
«Non so se hai ben capito la situazione di quei due, Hemmo: Daphne non lo ama, si fa trasformare in alloro e Apollo raggiunge un livello di friendzone che neanche Piton in Harry Potter! È una storia triste, è tragica, è il lato più brutto dell’amore» e qua stavo perdendo punti a non finire.
«Lo so…» ho ammesso «Però non credi che sia bello avere una storia celata nel proprio nome? Tu ti vanti tantissimo su questo» perché la mamma, lo scoprirai presto bambina mia, tende a ripetere fino all’esaurimento la presunta storia riguardo al suo nome: “Vanessa” è stato creato da Jonathan Swift. Questo tipo aveva una relazione con una certa Esther Vanhomrigh e, per darle un soprannome, aveva preso dal cognome “Van” e aggiunto “Es” dal nome Esther, creando poi il nome della mamma: questa storia me l’ha raccontata tantissime volte.
«E poi, per mettere i puntini sulle “i”: questa Vanessa era l’amante di un uomo sposato. Lui l’ha pure lasciata, è morta giovane, ha sofferto, ti sembra una bella storia la tua?» l’ho ripresa, sentendola sbuffare e replicare.
«Vabbè, ma quella si chiamava Esther, non Vanessa! Vanessa era un nome in codice»
«Il nome in codice di un’amante» e da lì non ha più replicato, stavo recuperando punti.
Il colpo di grazia, poi, gliel’ho dato con l’ultimo nome scelto.
«Luke unito a June, dà Lune» ho detto «Ma anche Luke unito a Vane, dà Lune» la mamma si è mossa nervosamente: perché questi nomi, June, Lune, sono nomi che lei conosce molto bene, sono nomi di personaggi che lei ha usato quando scriveva di me.
«Quindi, darei a nostra figlia un nome che ha un po’ di me e un po’ di te, insieme. Esattamente come hai scritto tu molti anni fa» ed ero sicuro che la voglia di uccidermi stava crescendo: uno dei tanti divieti in assoluto era che non leggessi mai le sue storie, mai e poi mai. Che, poi, erano tutte in italiano, non ci avrei mai perso tempo… ma quando la curiosità chiama, papà chiama pure un interprete.
«Però questa Lune non finisce con Calum. Neanche per sogno» e mi sono fermato o avrei rischiato la morte certa: stavo apertamente parlando delle storie che ha creato prima di conoscermi, storie che mi ha sempre tenuto nascosto, forse per vergogna, forse per imbarazzo, e io stavo andando un po’ oltre il limite.
Sono rimasto in silenzio, distendendomi vicino a lei, cercando di farla girare dalla mia parte, per poterle accarezzare il viso.
«Vorrei, poi, che questa bambina avesse gli occhi come Filippo: grandi e blu, che mi ricordano sempre qualcuno» ho sorriso, tracciandone i contorni con l’indice «Poi basta nasini alla Hemmings, voglio un naso come il tuo, con questa leggera gobbetta che tu tendi sempre a descrivere come una montagna. Ma, in realtà, non si nota nemmeno» un bacio sulla punta di quel naso «Poi i capelli… basta biondi: voglio il tuo colore, il tuo castano chiaro, i tuoi capelli mossi, che sono belli anche senza tinte, anche se a te non piacciono» le mie dita a giocare tra quei ciuffi, spostandone dietro il suo orecchio «E voglio queste labbra, questo sorriso, questo viso. Voglio tutto questo su un’altra creatura, voglio una copia quasi perfetta della donna che ho scelto» e la mamma ha abbassato lo sguardo: stavo vincendo, avevo fatto strike.
«Però, possibilmente, con un caratterino più… equilibrato. Gaia Charlie fa già abbastanza in fatto di testardaggine e occhi fulminei» ho scherzato, augurandoti di avere una personalità gentile, dolce, più fragile di tua sorella, più insicura, più... più come me: facile da convincere, di poche certezze, di poca grinta, un carattere più aperto verso gli altri e meno a se stesso, l’esatto contrario di tua sorella.
In modo tale che lei possa sempre essere la tua ancora, il tuo punto di riferimento, insieme a tuo fratello.
«Antea Daphne Lune Hemmings, quindi»
«Sì»
«E se Gaia è gelosa? Se Filippo è geloso?»
«Non avranno da preoccuparsi: ho un cuore grande, vorrò bene a tutti loro allo stesso modo, sempre. Te lo giuro» e la mamma stava solo prendendo tempo, perché anche lei aveva già deciso di accoglierti nella nostra famiglia.
Hai rischiato di chiamarti con una sfilza di nomi maschili italiani, bambina mia, tutti scelti dalla mamma: nomi che aumentavano ogni giorno di più, in vista dell’ecografia, nomi che non mi ricordo neanche più, nomi che ho cancellato nello stesso istante in cui abbiamo scoperto che saresti stata tu, saresti stata una bambina, saresti stata Antea Daphne Lune Hemmings.
E, da parte di tutti noi, non vediamo l’ora di vederti per la prima volta.

 
 




Note di Nanek
PENULTIMO CAPITOLO.
Anzi, ULTIMO, perché il prossimo è l’EPILOGO.
Ma siamo alla fine insomma, manca un niente ed è finito tutto.
Questo capitolo… quanto mi ha fatto dannare, tutti sti nomi, sti significati, queste scelte ben dettagliate.
E pure i pargoli Hemmings hanno un nome.
Ri-elenchiamoli dai ahah:
  1. Filippo Hemmings
  2. Gaia Charlie Iris Hemmings
  3. Antea Daphne Lune Hemmings.
Ma come avete notato… pure le altre coppie si danno da fare!
Famiglia Irwin (Tutti questi nomi li ha scelti la Mary, ciao Maryleeen <3):
  1. Andrew Seven Irwin
  2. Evelyn Blue Iris Irwin
  3. Apple Coralie Irwin.
Ma parliamo dei nuovi Brangelina HAAHAHAH
Famiglia Clifford (Tutti questi nomi sono stati scelti dalla Giada, ciao Jade <3):
  1. Nathan Andrea Clifford
  2. Daenerys Ridley Arya Clifford
  3. Noah Alexander Clifford
  4. Nash Logan Kian Clifford
  5. Jalil Michael Junior Clifford
  6. Roxanne Hell Kawaii Clifford
MA PURE CALUM HA DEI BAMBINI! Il nostro piccolo kiwi ha trovato due gemelli fuori dalla porta… sarà un padre single adorabile, già me lo vedo :3 cucciolino!
Famiglia Hood:
  1. Chris William Hood
  2. Megan Katy Rihanna Beyoncé Jennifer Hood (povera bambina HAHAAH)
Bene, insomma. Una bella ciurma di marmocchi qua, eh!
Tutti felici nelle loro case, tutti pieni di pannolini e ciucci sparsi in giro, tutti felici e contenti, insomma.
Però… non è ancora finita qui!
L’epilogo è pronto, basta postarlo.
È un epilogo…. Beh, che spero vi piaccia perché… beh, è qualcosa di particolare, o almeno spero, è qualcosa che racchiude tutto il senso di questa storia.
Un grazie di cuore a chi è riuscito ad arrivare fino a qui, data la lunghezza di questo capitolo, è eterno!
Grazie di cuore se siete ancora qui a leggere questa storia <3
Io torno presto, con il gran finale!
Nel mentre, se volete, ho pubblicato una mini long con AU!Punk Luke: Vapor
Ci sentiamo presto <3
Nanek

 
 

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Capitolo 15
*** Epilogo. ***


Epilogo.
 
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Spogliati di tutte le tristezze con un bel sorriso,
lascia stare l'ombra d'incertezza quando hai già deciso,
e sposta l'obbiettivo sempre avanti,
ci vuole forza soprattutto in quei momenti,
perché se guardi meglio oltre il limite di ogni orgoglio,
c'è di più.
Verrà il tempo per farti amare,
e per distrarti e commuoverti,
verrà il tempo ci puoi giurare,
se credi, se credi!
e ancora,
verrà il tempo di camminare,
a cielo aperto ed immergerti,
di tutto quel che ti fa star bene,
se credi, se credi!


 
 
 
«Squadra Hemmings, siete pronti?!» urla Luke, già pronto alla porta d’ingresso: il giaccone pesante, la sciarpa di lana e l’immancabile cappello rubato a Calum ancora molti anni fa.
Dal corridoio, avanzano uno alla volta.
La prima a comparire è Gaia Charlie: due trecce bionde piuttosto lunghe che scendono dal cappello viola, intenta a sistemarsi la sciarpa troppo lunga e scomoda, gli occhi bassi, quegli occhi azzurri come il cielo, seri e piuttosto arrabbiati, le manine intente a sistemare quell’impiccio, stringe i denti, prima di lasciarsi andare a una lamentela.
«Papà, io non ci riesco! Non voglio la sciarpa!» alza lo sguardo su di lui, lasciando incrociare i loro occhi così uguali, accelerando il passo, lui già pronto a chinarsi, a darle una mano.
«Ma come siamo belle con le trecce» le fa un complimento, vedendola sorridere compiaciuta. Le sistema la sciarpa alla meglio, aiutandola poi con i guanti, stampandole un bacio sulla fronte «Principessa, è sistemata, alla perfezione» le fa l’occhiolino, mentre lei si volta verso il corridoio, in attesa, cercando con lo sguardo qualcuno.
«Filippo! Veloce!» urla infatti, sentendo dei passi arrivare più velocemente: la figura del piccolo Hemmings si fa vedere subito, quasi affaticato, mentre si sistema il cappellino nero nei capelli biondi.
Quegli occhi blu guardano sua sorella, quel sorriso che mette in mostra le fossette, le si avvicina con passo spedito «Sono pronto!» le prende la mano «Oggi devi correre, Gaia! O perdiamo contro Chris e Megan!» la incita, mentre lei annuisce, lasciando che l’adrenalina le vada già in circolo, pronta a vincere.
«Li facciamo fuori tutti!» esclama, catturando l’attenzione di Luke.
«Abbiamo una pinguina agguerrita, oggi» sorride divertito, ma lo sguardo minaccioso di sua figlia lo destabilizza un po’.
«Papà, io sono una super leonessa, non una pinguina!»
«Ma i leoni hanno freddo con la neve, i pinguini sono più forti!» protesta Luke, mettendosi al pari di una bambina.
Lei, però, sembra pensarci su, guardando poi Filippo.
«Tu cosa sei?» e Luke nota l’aria confusa di suo figlio, intento a pensare a tutti gli animali che vivono in mezzo alla neve: quello che li spetta è una battaglia a palle di neve con i piccoli Clifford, Irwin e Hood, una guerra di vitale importanza.
«Sono un orso polare!» annuncia soddisfatto della sua scelta, cominciando a fare versi piuttosto rumorosi.
«Io non voglio essere un orso» si lamenta Gaia, mettendo il broncio, l’aria triste, ma suo fratello sembra volerla aiutare.
«Tu sei la leonessa della neve! Tutta bianca, con i tuoi poteri non sentirai freddo!» e Luke si stupisce per l’inventiva, notando come sua figlia cambi espressione: il sorriso torna, l’entusiasmo si impossessa di lei, la voglia di “farli fuori tutti” che le riempie il petto.
«E chi sarà la mia pinguina?!» interviene ancora una volta Luke, fingendo un broncio che, però, non sembra sfiorare minimamente i due figli lì presenti, tanto che Filippo lo liquida subito con un «Antea può fare la pinguina, tanto non gioca, è troppo piccola» frase che mette a tacere suo padre, mentre dal corridoio si fanno finalmente vedere le ultime due, le ritardatarie.
«Mamma, veloce!» la richiama Gaia Charlie, trascinando Filippo fuori dalla porta, posizionandosi davanti all’ascensore.
«La pinguina di papà!» Luke si lascia scappare un commento fin troppo acuto, prendendo tra le braccia quella bambina di appena un anno, intenta a godersi il suo ciuccio, ma che ride non appena lui la prende con sé.
Antea lo guarda, ha gli occhi blu come suo fratello, come sua mamma, ha capelli castani che lui si affretta a coprire con un cappellino: Calum non aveva sbagliato, mesi prima, a dire che sarebbe stata identica a Vanessa, tanto che la cosa preoccupa Luke, già con mille pensieri rivolti alla sua adolescenza già designata come “l’adolescenza di una ribelle, farà trio con Apple e Roxanne”.
«Bene, abbiamo un orso polare, una leonessa della neve, una pinguina in giallo, un papà pinguino niente male e pure la mamma gattina. Che bella squadra» commenta Luke, mentre Vanessa saluta Charlie che dorme sul divano, accarezzandogli le orecchie, per poi uscire tutti, chiudendo la porta dietro le loro spalle.
«Lo zoo è nulla in confronto» gli risponde Vanessa, intenta a sistemarsi i capelli, abbottonandosi il giubbotto «Luke ricordiamoci il passeggino» dice meccanicamente, mentre lui la fa passare dentro l’ascensore.
«È già tutto in macchina, micina» e le lascia un bacio rubato sulle labbra, davanti gli occhi disgustati dei loro figli, mentre la piccola Antea fa versi di lamentela, dato che il suo papà non la sta calcolando.
«Papà ma tu giochi vero?»
«Certo, Filippo! Devo riempire lo zio Michael di neve anche dentro le mutande!»
«Sì! Papà sei troppo forte»
«Però voi dovete aiutarmi, lo zio Calum sa come farmi cadere»
«Gli lanciamo la neve, così non ti attacca!» e la conversazione su possibili strategie di guerra dura per tutto il tragitto in macchina, fino all’arrivo a quel campetto, dove la famiglia Clifford e la famiglia Irwin li stanno già aspettando.
La famiglia Hood, come sempre, arriva venti minuti dopo.
E Vanessa, seduta con Antea in braccio, vicino a Mary e Giada, lo guarda giocare con i suoi figli.
Lo guarda giocare, lo guarda correre come un pazzo con Gaia in groppa.
Lo guarda sussurrare qualcosa all’orecchio di suo figlio.
Lo guarda arrivare vicino a loro per poter salutare la sua piccola Antea e per rubare un bacio porta fortuna a lei, lei che alza gli occhi al cielo al vederlo sempre così bambino, così felice, così sempre pieno di quella voglia di essere felice ogni giorno, con lei, con la sua famiglia.
*
«Quindi… manca solo un pezzo finale a questa storia»
Sono le undici e mezza, quando Vanessa entra in camera, trovando Luke sotto le coperte, intento a rileggere quella storia. Ancora in forze, a quanto sembra, nonostante la giornata piuttosto impegnativa, dato che ha praticamente portato a casa tutta la neve del parco: quando i bambini si mettono d’impegno, riescono davvero ad essere delle macchine da guerra.
«Già. Ma… so già che voglio scrivere» le sorride, baciandola piano, lasciando che si accoccoli a lui, sentendo le mani fredde di sua moglie sfiorargli la pelle.
«Sono una micina curiosa» ammicca, baciandogli la mandibola.
Lui sorride, rispondendo a quei baci, lasciando un po’ di spazio anche a loro due, lasciando che i loro corpi si intreccino.
Si baciano intensamente, cercando di non fare rumore, dato che i piccoli Hemmings dormono.
Si baciano, si sfiorano, riconoscendo l’uno il corpo dell’altra, riconoscendo quel profumo di loro due, lasciando che dalle loro labbra vengano sussurrate parole che solo loro due possono dirsi, confessarsi, ogni volta come se fosse la prima.
Restano abbracciati, guardandosi negli occhi, sono seri in viso, mentre la mano di Luke continua ad accarezzarle le guance, i capelli, tracciando il contorno di quel viso che ha visto cambiare sotto i suoi occhi.
Le bacia le labbra, ancora una volta, prima che lei chieda ancora una volta le sue intenzioni: vuole addormentarsi sentendo la parte finale di quella storia, vuole addormentarsi sognando la loro storia, il loro passato insieme, vuole sognare ancora il loro primo bacio, con il cielo di ottobre.
«In realtà so che vuoi ricordarti i ceffoni che mi hai dato, furbetta» la prende in giro, ma lei sembra intenzionata a non lasciarsi provocare, troppo catturata dai suoi occhi che le sorridono, troppo curiosa di sapere cosa gli passa per la testa, capace di istigarlo di nuovo pur di sapere tutto, pur di farlo cedere.
Luke sospira, lasciando che quelle parole scivolino via piano, lente, lasciando che quel discorso entri nella mente di lei, discorso interrotto da qualche lacrima, da qualche bacio, da qualche abbraccio improvviso, discorso che i loro figli leggeranno prima o poi, discorso che spera davvero serva a trasmettere loro qualcosa di davvero importante.
*
Quando vi sentirete persi, confusi, come se tutto fosse solo un lungo tunnel buio, senza il minimo spiraglio di luce, sarà lì che troverete qualcuno pronto a salvarvi.
Non ci crederete mai alle mie parole, in quel momento.
Mi darete dello sciocco, dell’eterno innamorato, del fortunato ad aver trovato una ragazza come la mamma.
Non ci crederete mai alle mie parole, in quel momento e lo capisco, perché neanche io ci avrei mai creduto di avere una seconda possibilità per cambiare in meglio la mia vita.
Ma lasciate che queste parole restino in un piccolo spazio della vostra testa, del vostro cuore. Lasciate che ci sia sempre questa piccola briciola dentro di voi, pronta a farsi sentire quando ci sarà solo il buio, lasciate che questa vocina ci sia, sempre e comunque.
Perché presto o tardi, quella vocina diventerà una voce chiara, forte, che vi guiderà, che vi salverà, che vi farà vedere davvero una luce di speranza.
C’è per tutti, bambini miei, c’è per tutti a questo mondo, anche se sembra impossibile, anche se con tempi diversi: arriverà in ritardo di anni, arriverà fin troppo in anticipo, arriverà quando sarete allo stremo, ma arriverà, per tutti voi.
Verrà il tempo in cui avrete la fortuna di poter condividere qualsiasi cosa con qualcuno.
Verrà il tempo in cui troverete una persona pronta a stare con voi sempre, una persona che non deve essere per forza il vostro specchio, perché non è divertente se vi somiglia troppo, è più bello che sia diversa, almeno un po’, almeno per poter condividere idee nuove, magari migliori delle vostre, magari in grado di farvi vedere il mondo da altre prospettive.
Arriverà una persona in grado di farvi accettare ogni cosa di voi, del vostro corpo, della vostra personalità, quella persona impazzirà per i vostri difetti, impazzirà per le vostre idee strane, surreali, sciocche, ma impazzirà per voi, senza stancarsi mai.
Arriverà per tutti, bambini miei, anche quando non crederete più a nulla. Arriverà, basta solo alzare gli occhi al momento più giusto, quando sentirete il bisogno di guardare oltre il vostro naso, quando avrete semplicemente voglia di farlo: avverrà tutto con la stessa semplicità con la quale respirate, camminate, senza neanche rendervene conto.
Arriverà per tutti, arriverà per voi, anche in modo diverso.
C’è chi trova la felicità di vivere insieme ad un’altra persona, c'è chi non riesce a salvarsi da solo; c'è chi, in momenti di buio, trova conforto e speranza in un gatto, un cane, in un coniglio: un cucciolo in grado di far sentire il calore di un amore diverso, unico, raro, un cucciolo in grado di salvare pure l'anima più disperata.
Ma c’è anche chi trova la felicità di vivere solo con se stesso, c'è chi ha solo bisogno di capire quanto sia forte da potersi rialzare senza il bisogno di mani diverse dalle proprie.
Non è un male, bambini miei, non è un male credere di potercela fare da soli: l’importante è sentirselo dentro, l’importante è scegliere quello che fa stare bene noi stessi, nessun altro.
Non importa quello che penseremo io e la mamma, non importa quello che penseranno i vostri stessi fratelli/sorelle, non importa neanche quello che pensano i vostri migliori amici.
Scegliete quello che sta meglio a voi, scegliete la vita che più vi piace, che più vi rende felici: soli, o con qualcuno. Il resto non conta, il resto ve lo create voi, perché potete fare qualsiasi cosa, pure andare sulla Luna.
Potete scegliere di camminare stringendo la mano di qualcuno, potete scegliere di camminare affiancati da un cucciolo a quattro zampe, ma potete anche scegliere di camminare da soli e di riuscire comunque a stupirvi del mondo, della vita, nella sua quotidianità.
Potete scegliere, non fate mai scegliere gli altri, perché avrete solo un cammino da percorrere, e non vale la pena sprecarlo, non vale la pena farlo disegnare agli altri.
Siete gli artisti della vostra vita, siete in grado di poter tracciare la strada che volete, siete in grado di scegliere la colonna sonora che più fa per voi.
La mamma ha sempre avuto una musica leggera, a tratti quasi pazza, tipo un vortice, piena di speranza, una musica dove parole rassicuranti entravano nella sua anima, una musica che avrebbe tanto voluto condividere con qualcuno. Le nostre strade si sono incrociate, si sono allontanate per un po’, per poi tornare più unite di prima.
Le nostre musiche si sono completate, trovando nuove melodie, già pronte a nascere, come se fosse già tutto scritto.
Io e la mamma abbiamo avuto questo, dalla vita.
Noi possiamo solo essere un esempio tra mille, un esempio di vita che potrebbe piacervi, o forse anche no. Forse siamo troppo romantici per voi, forse siamo troppo innamorati e con troppi cuori rosa a riempire le nostre iridi.
Forse, preferite qualcosa di diverso da quello che siamo, forse vi piace di più la vita dello zio Calum, o quella degli zii Michael e Ashton, noi non vi trascineremo mai a compiere i nostri stessi passi.
I vostri passi saranno sempre vostri e basta, che siano passi di chi cammina da solo, che siano passi che sono affiancati da altri: sono vostri e basta.
Cadrete, perché non è vita senza cadute.
Cadrete e cadrete sulle vostre ginocchia, fino anche a crollare del tutto, sentendo un male dentro da non sentirvi quasi vivi.
Ma vi rialzerete, anche se in quel momento non lo crederete possibile. Vi rialzerete, forse a fatica, forse velocemente, forse con le ferite troppo aperte, ma vi rialzerete, perché tutti si rialzano, prima o poi.
Vi rialzerete da soli, o vi aiuteranno a farlo, ma voi siete i primi a volerlo.
Siete voi quello che contate per prima cosa, se non credete in voi, niente e nessuno potrà farlo.
Siete voi l’importante, siete voi che potete muovere il mondo, solo se lo vorrete davvero, solo se sarete in grado di lasciare un piccolo spazio a quella vocina, dentro la vostra testa.
Io e la mamma crediamo in voi.
Ricordatelo sempre, anche quando ci arrabbiamo, anche quando ci odierete, anche quando andrete via di casa, ma noi crediamo in voi, in ogni vostra scelta.
Saremo lì, quando cadrete, saremo lì fino a quando sarà possibile, ma saremo lì sempre, anche quando non vi sembrerà più così.
Siete i nostri figli, siete la cosa più bella che ci sia mai capitata, oltre a noi due insieme. Siete la cosa più strabiliante, siete il motivo per cui ci meravigliamo sempre e ancora della vita.
Vogliamo bene ad ognuno di voi, allo stesso modo, senza più e senza meno, siete tutti e tre sullo stesso gradino di importanza: quello più alto, quello che da lì non si può più andare oltre, e questo non cambierà mai.
Seguite i vostri sogni, bambini miei, seguiteli e non lasciateveli mai scappare: nessun sogno vivo rimarrà inappagato, non smettete mai di crederci davvero, perché io sono il chiaro esempio che, da una piccola stanza di Sydney, con quelle casse rosa, un ragazzo è potuto arrivare così in alto, con la sua musica cantata davanti a milioni di persone, con la sua musica che rimbomba ancora nelle cuffiette di qualcuno.
Non smettete mai di crederci, non smetteteci mai per davvero, neanche quando tutto sembra monotono e privo di senso: ci sarà sempre un dettaglio che potrà cambiare la vostra vita, ci sarà sempre, basta solo guardare più a fondo.
Io e la mamma saremo sempre i vostri più grandi sostenitori, anche se farete cose che magari non condividiamo, ma saremo lì, nonostante tutto.
Saremo sempre lì, bambini miei, saremo sempre lì ad appoggiare i nostri figli.
Non dimenticatevi mai di sognare, non dimenticatevi mai di perdervi in pensieri immaginari, non siate mai schiavi della ragione, come dice sempre la mamma: l’isola che non c’è è importante, non deve essere sempre –ed esageratamente- presente, ma non deve neanche sparire del tutto dalla vostra vita, deve essere sempre lì, a farvi sperare che qualcosa di perfetto per voi arriverà sempre, semplicemente, senza troppi programmi.
Vi vogliamo bene, bambini, ve ne vorremo sempre tanto.
E con questa storia di noi, speriamo di avervi trasmesso qualcosa, speriamo di avervi fatto capire qualcosa che considererete davvero importante per voi, per la vita che vorrete davvero, per la vita che non vi toglierà il sorriso.
Con tutto l’amore che abbiamo dentro per voi,

Papà Luke, Mamma Vane.



 
THE END
 








Note di Nanek
Ed è finita pure lei.
È finita pure questa storia, e mi sa che se mi dilungo troppo piango.
È finita, e io sono ufficialmente laureata.
È finita, e non mi sembra vero.
Spero davvero che vi piaccia questo epilogo, spero davvero che, soprattutto la parte finale, vi faccia sorridere e vi dia un po’ di… boh, forza? Coraggio? Fiducia? Perché questo era l’intento.
Perdo solo due parole per dirvi una cosa un po’ meno bella: Vapor, non so quante di voi la stiano seguendo ma… non so quanto durerà nel mio profilo, se la vedete sparire… è perché la cancello.
È un periodo un po’ strano, questo.
Sono piena di impegni, sono piena di cose da fare e lo scrivere sta un po’ perdendo colpi: non ho voglia, non ho ispirazione, mi sembra di scrivere solo scemenze… è un periodo dove mi sto perdendo tanto in persone un po’ più reali e presenti… ve l’ho detto che sono innamorata, no? ecco, una persona reale effettivamente mi sta facendo perdere via.
Mi sto un po’ lasciando travolgere da quel poco di vita sociale che ho e… non so se Vapor la continuerò, non lo credo proprio.
Ci tenevo a scusarmi, per chi la sta leggendo. Vi chiedo scusa, e spero un po’ nella vostra comprensione.
Per il resto, GRAZIE di cuore a chi ha seguito questa storia fino alla fine. Grazie per aver creduto in questi personaggi, grazie per non averli abbandonati. Grazie davvero per ogni singola cosa, non so davvero come esprimere la mia gratitudine.
Grazie a Mary e Jade, mie grandi sostenitrici che mi hanno aiutato a continuare questa ff, quando era sospesa <3 grazie Mary ancora per il bellissimo banner <3 ma grazie ad entrambe per aver betato ogni singolo capitolo <3 vi voglio un bene immenso <3
Grazie a tutte voi che leggete in silenzio, grazie a chi ha lasciato qualche recensione, grazie alle preferite/ricordate/seguite, grazie davvero di cuore <3
Grazie a Nek, come sempre, per avermi ispirato tantissimo, perché in questa storia, traboccano i valori che lui esprime sempre nelle sue canzoni <3
Grazie davvero, ci sentiremo, forse presto, forse più in là, ma ci sentiremo <3
Nanek
 

 

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