Hell's Road.

di KH4
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue / Requiem. ***
Capitolo 2: *** Call. ***
Capitolo 3: *** Innocence shots under the sundown. ***
Capitolo 4: *** Welcome to the Rose Noir. ***
Capitolo 5: *** Survey. ***
Capitolo 6: *** Ancient's ruins. ***
Capitolo 7: *** Fortune's tree. ***
Capitolo 8: *** Counterattack. ***
Capitolo 9: *** Hunting Seal. ***
Capitolo 10: *** Un altro passo verso la meta, mille indietro in ricordi e promesse. ***
Capitolo 11: *** Restless souls. ***
Capitolo 12: *** First steps/ Past one. ***
Capitolo 13: *** Stand in the rain/ Past two. ***
Capitolo 14: *** Occhi infernali/ Past three. ***
Capitolo 15: *** Happiness/ Past four. ***
Capitolo 16: *** Black storm. ***
Capitolo 17: *** Separazione. ***
Capitolo 18: *** Territorio nemico. ***
Capitolo 19: *** L'Arca Bianca dalle ali strappate che splende in cielo. ***
Capitolo 20: *** Pedoni che si allineano. ***
Capitolo 21: *** Lusts/ Part One. ***
Capitolo 22: *** Lusts/ Part Two. ***
Capitolo 23: *** Door to... ***
Capitolo 24: *** Sulle orme del tradimento / Part One. ***
Capitolo 25: *** Sulle orme del tradimento / Part Two. ***
Capitolo 26: *** Ricongiunzione. ***
Capitolo 27: *** Chimera. ***



Capitolo 1
*** Prologue / Requiem. ***


00- Requiem









Hell's Road.

00 /  Requiem.

Io lo so…Tu non sei il tipo di persona che si lascia uccidere così facilmente.
Non è nel tuo stile.
Ti è sempre piaciuto essere teatrale in tutto ciò che fai,
essere la svolta di una situazione prossima al fallimento.
Ami essere egocentrico, vanitoso, arrogante, sai di esserlo,
e non ti arrenderesti mai d’innanzi a una morte che non ti renderebbe il giusto onore.
La sceglieresti solo dopo aver guardato a lungo una bella donna e averle sussurrato frasi che avrebbero fatto di te un ricordo prezioso e insostituibile.
Soltanto allora, ne saresti soddisfatto.

Amèlie Chevalier sapeva che sarebbe morta giovane.
Convivere con quel sentore sin dal primo vagito le aveva risparmiato l’inutile crogiolarsi nell’illusione che sarebbe sopravvissuta quanto bastava da vedere il corpo decadere preda del tempo. Una cosa ripugnante, oltretutto. Il suo non era il genere di vita che concedeva grazia, longevità o la prospettiva di un futuro stabile abbastanza da tendergli una mano con la speranza di poterlo afferrare, nonostante la sua mente avesse sempre teso al domani con fare puntigliosamente organizzato. Ciò avrebbe dato un volto a quell’eccessiva scrupolosità, il cieco affidarsi ai propri presentimenti anziché rischiare ed elargire fiducia agli estranei, ma perché negare la propria arroganza, se nemmeno possedeva un motivo per cui vergognarsene?
Tum…
Non aveva mai dato una valida ragione per far credere agli altri che, dietro al suo viso, ci fosse una persona diversa dalla donna cinica ed egocentrica che prediligeva se stessa a chi condivideva il medesimo destino; una simile motivazione non esisteva soltanto per il fatto che mai ne sarebbe esistita una sufficientemente forte dall’impedirle di essere sprezzante, crudelmente disillusa e avvezza alle manie di grandezza. Il rimbombo degli alberi crepitanti sotto le lingue di fuoco e la terra impazzita sembrò dar ragione ai suoi pensieri, con i loro scoppi improvvisi. L’ardere delle sue fiamme baciava l’oscurità e i suoi veli di fumo tossico, colori densi che ne miscelavano gli intenti con ombre sicure, senza intaccarne il carattere di futile vulnerabilità, cupi come la tintura che insanguinava il cielo nero e offuscava il brillare diamantino delle stelle.
Tum…
E’ soffocante, la calura, l’aroma della devastazione e del sangue che infanga il suo orgoglio. E’ l’impotenza che pesa sull’imperfezione umana, nascosta e incancellabile come il peso della pressione esercitata dai gelidi abissi marini. Vorrebbe non dover sentire l’annullarsi del suo corpo, l’affievolirsi di ogni controllo conquistato con la pelle madida di sudore, ora reciso con taglio netto mentre l’opacità avanzava al ritmo cadenzante del sangue gocciolante sul terreno e lo spirito si dibatte ingabbiato; una parte non lo accetta, risoluta, nel rimanere aggrappata all’ultimo filo di coscienza con solo un occhio affacciato sul mondo offuscato da chiazze pallide. Quel suono di indefinita posizione duole a ogni ansito rantolato, combatte con sordità debole eppure ostinata nel dare contro a una forza superiore alla sua.
Tum-Tum…
- Vedo che respirate ancora, Madmoiselle. –
Una luce. La sua intensità, scolpita nel più vivido dei ricordi, riaccese la spaventosa sensazione provata nell’istante in cui quella mano le aveva perforato da parte a parte l’addome, il denso sapore vermiglio del suo sangue mescolato allo smeraldo di agghiacciante familiarità fusosi con un volto altrettanto paralizzante. Non era riuscita neppure a realizzare che la sua coscienza  avesse vagato in un limbo onirico, prima che quella voce inespressiva ne aizzasse i pochi residui di rabbia velenosa ancora circolanti. Il dimenticato le si addossò tutto sulla stessa onda del bruciore che ne punzecchiava il viso selenico, un arcobaleno di flash epilettici e dolori che rievocarono perfino l’agonia provata da quel tocco di indescrivibile insopportabilità presosi l’occhio sinistro. Non reagì al contrapporsi della sua sagoma oscura alle fiamme accecanti, che facevano da sfondo insieme ad alte colonne di fumo e cenere; per la prima volta da quando aveva imparato a sfruttarle, le sue labbra, morbide e dolci, dannatamente invitanti e arroganti quando soleva piegarle in sorrisi maliziosi, giacquero inermi. Scorse solo il tondo scintillio di un piccolo paio di occhiali fissarla intensamente, la calma nei movimenti mentre le si inginocchiava di fianco con il guscio umano appena rindossato.
- Siete una donna testarda. Avrei davvero gradito poter sistemare questa faccenda in un’altra maniera. Suppongo che fosse impossibile sin dal principio. –
 L’accondiscendenza di quella voce le fece voltare la testa dalla parte opposta. Ovunque era un danzare incessante di lingue bollenti, scheletri d’onice che si assottigliavano man mano che i veli di fuoco ne carezzavano i rivestimenti esterni. La figura minuscola, distante, della Rosa Nera, ne rapì il respiro, la visuale traboccante di sentimenti contrastanti dove la rabbia sgorgava a intermittenza ogni qualvolta il pensiero le faceva tendere le dita ustionate verso l’orizzonte.
- In…Inno…ce… -
Cocci di metallo svettavano conficcati nel terreno a una manciata di metri da lei, con il riflesso del fuoco a tremolare sulle superfici taglienti. Basterebbe un attimo, il palmo infilzato in uno solo di quei pezzi, bagnato della sua essenza, per riallacciare il contatto reciso dall’impossibile. L’aroma della sconfitta ne sporcava l’animo, ma la mente ascoltava l’alterigia a discapito di quell’essere che le sospirava gli errori commessi, disquisendo su un desiderio di comprensione che volentieri gli avrebbe sputato in faccia.
Tum-Tum…Tum-Tum…
Era come l’eco sordo di una campana capricciosa che pretendeva di essere udita.
Un ricordo che tenta di svicolare le nebbie dell’incertezza per trascendere l’universo.
Tum-Tum…Tum-Tum…
Un sospiro ne carezzò le labbra impolverate di cenere.
Il suo cuore, ecco di cosa si trattava.
Batti di più, gli chiese, Più forte, ancora. Ti prego.
- Inno…Innocence… -

Komui non aveva idea di come dirmelo.

Ha solo pronunciato il mio nome e lasciato che intuissi il resto.
Dio, non sai quanto avrei voluto ucciderti.

- Ho sempre ritenuto la devozione una delle armi umane più affascinanti e pericolose. – La sagoma chinata di fronte a lei si concesse un secondo per sfilarsi gli occhiali e pulirli meticolosamente – Non dovete pensare che io non capisca la tenacia insita nelle vostre motivazioni: anch’io, come voi, sono rapito da una cieca obbedienza che muove ogni fibra del mio cuore senza che tutte le ragioni mi siano chiare. Eppure, come sono consapevole di non potervi sfuggire, so altrettanto bene che se provassi a oppormi, di per certo finirei col morire per la sua assenza. –
Non starlo a sentire. La mente di Amèlie si focalizzò su quel ritornello, disposta a concedergli tutto lo spazio di cui disponeva fino a traboccare fuori pur di coprire il suono della falsità rifilatale. Le falangi bramavano il potere disperso a pochi metri da lei, una distanza abissalmente minima che pareva non volersi accorciare nonostante l’intento di slogarsi la spalla fosse più che accettabile.  

Le persone che più amavo a questo mondo mi aspettano in un posto dove non mi è ancora concesso raggiungerle.
Un giorno andrò da loro, ma quando lo deciderò io.
Fino ad allora, non lotterò che per me stessa, vivrò per me stessa.
Per non morire vergognosamente e così andare da loro senza rimpianti.

- Inno…Cence! –
Vieni da me, adesso. Non senti che ti sto chiamando?!?
- Non avete idea di quanto ciò mi rammarichi, miss Chevalier, seriamente -, sospirò sconsolato, deponendo il fazzoletto di lino nel taschino e muovendo la testa in segno di negazione – E’ evidente che il vostro attaccamento al Generale Cross vi abbia assoggettato troppo perché io possa dissuadervi: la sua presenza in questa faccenda richiedeva un intervento inevitabile, ma uccidere una così talentuosa Esorcista in tempi tanto fragili…Quale spreco. –
Il braccio destro si levò appena, con il palmo della mano in vista d’innanzi al viso di Amèlie, le iridi tremolanti per l’inondare della lingue arancioni i cui bagliori erano culminati in un’unica e immensa luce.
Tum-tum…Tum-Tum…
- I…Innocen…Innoc… -
Tendeva ancora il braccio ostinatamente quando si ritrovò a grattare con le unghie una pelle dura come il granito, glaciale e appuntita che ne aveva stretto la gola sollevandola da terra. I fuochi tratteggiarono i contorni del suo aguzzino cogliendone l’accartocciarsi del viso deforme, la nuca rada della chioma umana e la pelle rosea che si apprestava a rasentare l’alabastro puro. Il bastardo soffriva. La smorfia era pressoché impercettibile, tuttavia l’odore della carne che sfrigolava vivacemente lasciava intendere un dolore costante – non abbastanza intenso da costringerlo a esalare un solo alito angoscioso, ma ugualmente fastidioso da indirizzare una spiccata disapprovazione verso l’oggetto incastrato fra il suo arto e il collo dell’Esorcista. –
La catenina dorata gli si era attagliata attorno al polso immediatamente, le estremità conficcate nei nervi stringevano con l’intento di voler tranciare l’osso nascosto fra strati di epidermide cristallizzata o qualunque cosa che si avvicinasse a un organo vitale. L’effimero luccicare della pietra si dibatteva quasi al suo interno fosse stato deposto un minuscolo frammento di anima estranea a quella della corvina, inspiegabilmente devoto alla sua incolumità e programmato perché rimanesse integra – un’impressione non poi tanto lontana dalla verità -; la semplicità del gioiello racchiudeva l’ombra di un uomo che si era sempre divertito a catturare i pensieri e i sentimenti di Amèlie, la sua essenza nei rarissimi - se non unici - momenti di debolezza, quando all’alcol si aggiungeva la determinazione di perdere il senno o lei stessa si concedeva un sospiro liberatorio. Non esisteva persona al mondo che ne fosse più consapevole, pericolosamente simile da sapere quanto il fascino avversario potesse trarre un significativo vantaggio da qualunque fenditura incautamente scoperta, ma inquadrare Marian Cross con un solo aggettivo era impossibile anche per Amèlie Chevalier.
E ora che quell’ombra tanto odiata, amata e segretamente rincorsa con il solo intento di sfiorarne l’ampia schiena era divenuta polvere fra le sue mani, anche lei si apprestava a scomparire.
- Non abbiate paura. – Gli occhi carmini mimarono una dolcezza infida nel rivolgerle quella rassicurazione  - Finirà tutto in un attimo. -




Note di fine capitolo:
Prologo risistemato! Il primo passo è compiuto! Non avete idea di quanto volessi farlo, praticamente dall’inizio della pubblicazione della storia stessa. Il primo, nel suo essere conciso, era voluto per esprimere sensazioni istantanee, ma a forza di rileggerlo mi sono auto convinta, per lo stesso sviluppo del mio personaggio, che doveva sistemarlo, come il resto della storia, con piccoli accorgimenti. Per un motivo che ancora devo comprendere, nell’ultimo capitolo le immagini non si vedono (spero di risolvere presto!). Un bacione a tutti quanti!

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Capitolo 2
*** Call. ***


01 / Call.

Hell's Road.

01 / Call.

Allo scoccare dell’una di notte, le uniche luci rimaste accese in tutta la Home appartenevano ai laboratori. Un brusio di cavi elettrici, che alimentavano generatori di funzione troppo conplicata per essere tradotta in parole semplici, si alternava allo ruvido fruscio delle piume d'oca che intingevano inchiostro dal calamaio. Ai piedi di un confine oramai distorto nella forma e nella quantità di tempo scioltasi nell'assidua ripetizione, la Sezione Scientifica dell’Ordine Oscuro era alla fine giunta a raschiare il fondo della propria sanità mentale, seppur qualcuno sospettasse che il suddetto fondo tanto grattato fosse stato già bucato; pareva lampante che nessuno dei poveri disgraziati in camice bianco stesse consapevolmente lavorando per degli straordinari non pagati, ma dopo dodici giorni no stop di lavoro forzato nessuno era più in grado di distinguere la realtà dalla fantasia. Andavano avanti per inerzia, tenuti in piedi da una dieta a base di caffè che, quanto meno, li aiutava a strisciare verso le rispettive scrivanie, con il cervello troppo assuefatto da formule chimiche per fermarsi e domandarsi cosa fosse quella grande palla gialla che ogni tanto vedevano splendere intensamente in cielo.
-
Che sonno… - 
Johnny Jill sbadigliò vistosamente, incurante di coprirsi la bocca con la mano. Le braccia esili erano impegnate a sorreggere una pila di fogli più pesanti del suo stesso corpo perché si dedicassero ad altro, men che meno ricordare il buon senso dell’educazione; la torre traballava al punto che ci aveva pressato contro la faccia incavata dalla stanchezza per impedirle di cadere, cerea e con i grossi occhiali a fondo di bottiglia a scivolargli costantemente dal naso. Finito di assorbire le sue cellule cerebrali, il lavoro aveva puntato direttamente al corpo, di minuta costituzione perfino per quegli abiti fatti a misura e che ora si aprivano in morbide pieghe; la sottigliezza raggiunta dal suo giro vita, dove alla cintura erano stati aggiunti altri tre buchi per evitare che i pantaloni gli scivolassero nei momenti meno opportuni, avrebbe permesso a chiunque di abbracciarlo con un solo dito.
-
Ehi, Tap. Ti ho portato i rapporti degli ultimi sette mesi. – Le mani dello scienziato appoggiarono delicatamente i fogli sul solo angolo di legno libero della scrivania, raggiunta dopo aver arrancato per tutto l’ufficio come se le sue gambe non fossero mai state provviste di muscoli.

Dovette arrampicarvisi sopra per constatare che l’amico fosse lì, chino su un vistoso manuale di ignota materia e con il cappello di lana che permetteva giusto di scorgerne i labbroni scuri, appena socchiusi. Sembrava non averlo neppure sentito.
-
Tap, so che sei impegnato con quel bilancio, ma ti chiedo solo un paio di secondi per firmarmi questi documenti. Per favore -, lo blandì stancamente il ragazzo - Tap? Mi senti? –

La fin troppo perfetta immobilità delle dite salsicciose, dove la matita consunta giaceva quasi del tutto riversa, innescarono il dubbio senza prima varare altre possibili alternative. Johnny allungò il braccio sino alla guancia flaccida del collega, tirandola così forte che, quando la rilasciò, emise un sonoro schiocco ballonzolante che ne accompagnò la caduta a terra del corpo inerme, trascinandosi addosso l’intero lavoro.

-
Caposezione Reever, è crollato anche Tap. – Lo annunciò senza enfasi, un semplice sospiro apatico tipico di chi aveva già vissuto quella scena per sorprendersene con sincera emozione.

Da un punto indefinito dello stanzone, una zazzera castana mosse pigramente la mano, per poi annuire bofonchiando – Lascialo lì. Se ne occuperà la Capoinfermiera.-  

Ventisette collaboratori collassati e tutti per l’aver dato troppo a una ragione scolorita anche nei contorni. Trascesi i limiti di sopportazione umana, non rimaneva che la rassegnazione, costante e statica routine che il pover uomo aveva imparato ad abbracciare semplicemente convivendo giorno e notte con un impacco freddo sulla fronte. Benché torrioni di analisi, referti e rapporti reclamassero la sua attenzione, Reever Wenham trovò la forza per alzarsi dalla propria postazione e udire le sue giunture avvizzite scricchiolare. L’ennesimo documento preso fra le mani richiedeva il bollo del Supervisore.

-  
Johnny, prendi i documenti che hai lì e vieni con me –, ordinò poi al subordinato.

-
D’accordo. –

Una sottile striscia di luce soffusa illuminava il pavimento del corridoio che imboccarono dopo essersi lasciati alle spalle la sterilità futuristica che contrastava con l’arredamento formale degli altri alloggi. Alle porte automatiche si sostituirono cardini cigolanti e gradini irregolari, stanze di confortevole praticità costantemente vivacizzate dal vociare di chi cercava un attimo di riposo. L’ufficio del Supervisore godeva di un isolamento strategico, lontano dagli schiocchi elettronici dei computer e dalle parlantine a cui spesso e volentieri l’orecchio rivolgeva uno spicchio d’attenzione – soprattutto se il nome della sua adoratissima Linalee veniva pronunciato indegnamente -, ma al tempo stesso facile da raggiungere per evenienze improvvise. Bussato alla porta e ricevuto un mugugno come segno di farsi avanti, entrambi si introdussero nella stanza, cullata da un caos comprendente un tappeto cartaceo che sfiorava le loro caviglie, libri accatastati sull’unico divanetto visibile e documenti da cui sporgevano fotografie e schizzi di preoccupanti marchingegni. Il tempo dedicato al lavoro non si poteva paragonare alle ore perse in attività capricciose che marcassero l’insensata iperprotettività per la sorella minore, l’importanza che l'uomo vi attribuiva finiva sempre per ripercuotersi sui suoi subordinati con conseguenze dalla portata disastrosa, seconda solo a tutte le diavolerie progettate per facilitare quel lavoro fagocitante che, a conti fatti, finiva sempre per triplicare sicché mai una volta tali iniziative si erano concluse con successo.
 
Quasi pari a una visione celestiale, Komui Lee era seduto esattamente dove il Caposezione aveva sperato di trovarlo senza il timore di un’imminente punizione divina: ancorato alla sua scrivania con il berretto bianco calcato fra i capelli dalle punte arricciate e la cornetta del telefono tenuta fra la spalla e l’orecchio. Spesse occhiaie nere ne cerchiavano gli occhi scuri dalla pelle sottostante fortemente emaciata. Il sostanzioso fascicolo purpureo che godeva della sua più totale attenzione incuriosì immediatamente il subordinato, che, subito, vi gettò lo sguardo non appena fu abbastanza vicino da leggerne il contenuto. Una calligrafia elegante e leggera - nonostante l’inchiostro avesse il brutto vizio di macchiare anche quando lo scrittore faceva assoluta attenzione ai suoi movimenti -, riempiva le pagine con una particolare firma stampata sull’angolo in basso a destra.
Un bacio vermiglio. Solo una persona poteva essere il mittente di quel plico.
Amèlie? – Il nome uscì dalla bocca del Caposezione unicamente per spezzare il silenzio appena smussato dal fruscio dei loro camici.

-
E’ arrivato giusto una mezzoretta fa. – La testa china di Komui si reclinò all’indietro, appoggiandosi contro lo schienale della poltrona.

Johnny inarcò le sopracciglia, stupito - Strano, la scadenza per la consegna dei rapporti è fra un mese e mezzo. –

-
Infatti, ma questo non è un resoconto delle sue attività. Sembra che abbia scoperto qualcosa sulle recenti attività del Conte –, sospirò il Supervisore, sfilandosi gli occhiali per pulirne le lenti squadrate.

Reever si incuriosì – Di che si tratta? -

-
Spostamenti  di Akuma -, rispose il cinese – Sappiamo che dalla morte del Generale Yeegar la loro produzione è aumentata, ma pare che ultimamente molti abbiano cambiato schema comportamentale, formando numerosi gruppi. -
- Innocence? – Ipotizzò il più giovane. Non era raro che un frammento divino allo stato puro traesse a sé file infinite di quelle macchine grigie.
-
No, ha controllato di persona. – Il castano sfogliò velocemente i fogli già letti dal superiore – Inoltre, i gruppi localizzati, oltre a contare numeri davvero elevati perché sia una semplice caccia al cristallo, puntano tutti la stessa direzione:
Est. –
-
Forse è un ordine del Conte -, azzardò nuovamente il ragazzo, sollevando le spalle.

-  
E’ quello che ha sospettato fin dall’inizio Amèlie, per questo ha deciso di indagare più a fondo -, li delucidò Komui, incrociando le dita e appoggiandovi il mento sopra – Non è riuscita a carpire i dettagli, ma sembra che il Conte del Millennio li stia radunando per un grande evento. –

-  
Di che genere di evento stiamo parlando, Supervisore? – La questione si fece più seria e la stanchezza che pesava sulle viscere di Reever si annullò temporaneamente in un battito d’ali.

Komui tacque per qualche istante, per poi prendere uno dei fogli letti e porgerlo al Caposezione, di modo che potesse farsi un’idea della situazione con i suoi stessi occhi. Ciò che l’uomo lesse, lo lasciò basito e confuso.

Lui è pronto, lui è pronto! A Edo tutto avrà inizio.
Dalle note melodiche della ninna nanna, le ceneri dell’Arca Bianca partoriranno la Nera e le sue ali alte si dispiegheranno alla volta del cielo stellato.

Lui è pronto, lui è pronto! Crepate, Esorcisti, crepate! La vostra ora è scoccata!

Erano le testuali parole pronunciate da un Akuma catturato dalla donna prima che esplodesse. L’euforia impressa si percepiva nonostante fossero state riportate su della comune carta. Reever si astenne dall’esporre un opinione o dal domandare quale fosse il significato celato dietro tanto fermento; la cantilena minacciosa che stoppò il suicidio dei pochi neuroni rimastigli proiettò l’immagine del losco figuro che stava facendo di ogni città, paese e continente il suo personale circo degli orrori. Perfino Johnny evitò di dar voce a teorie che, con tutta probabilità, non potevano trovare sostegno al di fuori delle sue convinzioni: si limitò semplicemente ad osservare il Supervisore nel mentre componeva un numero e aspettava che qualcuno, dall’altro capo, gli rispondesse. Un volta tanto, la fortuna volse a suo favore.
-
Voici la Rose Noire. Comment pouvons-nous répondre à vos souhaits?* – Il timbro rocco e profondo della voce che si udì dall'alto capo della cornetta dava l'impressione di danzare su un terreno inesitente, di sensualità paradisiaca libera di librarsi attorno a un qualche oggetto interessato che si divertiva a osservare, pizzicare.
-
Amèlie? Sono Komui. –

-
Ma guarda un po’…Supervisore, questa sì che è una piacevole sorpresa -, soffiò ancor più morbido quel suono appena ovattato dall'apparecchio - Cominciavo a credere che le nostre conversazioni notturne non fossero più di tuo gradimento. - 
- Questo perché non hai mai tollerato di essere disturbata da questioni che non costringessero le persone a supplicarti in ginocchio –, sorrise lui, memore di quelle parole pronunciate astiosamente durante una conversazione ancor più appuntita.
-
Allora devo dedurre che non ti sono mancata nemmeno un po’? – Si rammaricò la donna - O forse temevi che la tua dolce Linalee potesse scandalizzarsi al pensiero che il suo fratellone faccia cose sconce… –

-
A-Amèlie! –

L’imbarazzo che ne infiammò la pelle fece scattare le gambe di Komui sull’attenti, costringendo Reever e Johnny a far leva sui loro riflessi per impedire che la scrivania si rovesciasse sui loro alluci mentre la risata divertita della donna godeva di quello squittire strappato con facilità a dir poco disumana.

-
Oh, Komui, non avertela a male: oramai dovresti saperlo che la tua pudicizia è un vero toccasana per i miei poveri nervi stressati. – Amèlie giustificò così lo stuzzicare l’uomo nel suo punto più vulnerabile, per poi passare finalmente ad un argomento che non comportasse l’affogare del poveretto in un mare di vergogna – Allora, ha già avvisato gli altri Esorcisti? -  

-
Non ancora. Le squadre sono alla ricerca dei Generali e al momento solo le unità di Nyne e Sokaro hanno risposto alla chiamata. Kanda, Marie e Daisya sono sulle tracce di Froy Tiedoll mentre Lavi, Linalee… –

-
Su quelle di Cross. Lo so -, concluse lei – Mi sorprendi, Komui: mettere in gioco l’illibatezza della tua bella Linalee per costringere quel maniaco a uscire allo scoperto è una strategia che ben si addice alla situazione, ma pensavo che, da quale bravo fratello maggiore sei, avresti fatto l’impensabile per preservare la sua integrità. – Un’altra frecciatina velenosa che vide la morte dipingersi sul volto del cinese,  mentre un’ innocua stilografica – afferrata per puro caso – gli si sbriciolò fra le mani.

Komui Lee non era il genere di uomo che tendesse a trascurare dettagli insignificanti come il quantitativo di armi per la Sezione Finder o il numero di zollette nel proprio caffè, sebbene la stanza adibitagli recitasse un’impressione contrastante a cotanta precisione; il disordine compulsivo sfiorava un livello patologicamente preoccupante, pari, se non superiore, a quella salute che oscillava fra il ricovero immediato e lo sprizzare adrenalina al solo sapere che la sorella si trovava all’Ordine e dunque ben disposta ad allietarne i travagli burocratici con qualche visita. Aveva personalmente stilato la lista con tutti gli Esorcisti e organizzato le unità di recupero in base al grado di idoneità con i Generali da rintracciare, ma al momento di scegliere i membri per la squadra di Marian Cross – team maledetto più delle povere anime mandate a ripescare lo squartatore messicano che rispondeva  al nome di Winters Sokaro –, non aveva potuto fare a meno di ponderare la questione quanto bastava da sentirsi obbligato a costruire un arsenale di Komurin pronti per essere spediti in ogni angolo del globo. L’essenza dell’uomo dai capelli rossi stentava a combaciare con il titolo di cui era stato insignito: ruotava attorno a una serie di aggettivi capricciosi e osceni che ricalcavano con fedeltà quasi al limite della verità umana un carattere avvezzo alla manipolazione e alla noncuranza altrui. Eppure non gli si poteva rimproverare che quella carica da lui sfruttata come un comune accessorio fosse del tutto immeritata: a fare di un comune Esorcista un Generale era la sua simbiosi con l’Innocence e si dava il caso che le abilità di Marian Cross sconfinassero pericolosamente da qualsiasi potere acerbo. Ma nella mente di Komui il tutto si mescolava alla rinfusa sotto i tocchi stanchi delle sue dita che cercavano di placare il pulsare delle tempie; figurarsi sua sorella minore alla mercé di un uomo che scialacquava la sua vita fra vini e donne lo infiammò di adrenalinici propositi omicidi che videro il giovane Johnny Gill supplicare la signorina Amèlie di smetterla prima che il Caposezione Reever fosse costretto a intervenire con dei tranquillanti.

-
Mettendo a parte gli scherzi, ti consiglio di avvisare l’unità di Cross e di ragguagliarla con le informazioni che ti ho spedito. La faccenda è piuttosto seria. – La voce della donna, assunse la fermezza necessario a riallacciare il filo del discorso perso.

L’attenzione del Supervisore riemerse con l’inforcare dei pratici occhiali da vista sul viso ovale - Quanto è grave? –

Dall’altra parte del telefono si udì un leggero mugugno annoiato – Non credo che la questione verta sulla gravità del contesto generale, ma sulla nostra tempistica. Quello che posso dirti è che conosco sufficientemente bene Cross da sapere che i suoi spostamenti seguono sempre una linea precisa: se sta indagando sulla pista di Edo come sospetto, è certo che ci stia lavorando da molto più tempo di noi. –

-
E’ una possibilità. – La fiocca asserzione accompagnò il lento abbandonarsi della nuca contro lo schienale della poltrona.

Il movimento si era ripetuto continuamente, in quelle giornate interminabili, dove il giorno e la notte si fondevano in un interrotto tutt’uno imprigionato nelle mura del castello; la leggera curvatura scavata nella stoffa accoglieva la sua testa affollata di opprimenti preoccupazioni senza lasciar spazio ad alcunché di vagamente piacevole. Non che ci fosse da stare allegri, il Conte del Millennio viveva per elargire soggezione sul futuro già incerto di tutti quanti loro, ma una volta era maledettamente facile perdersi nelle piccolezze della quotidianità. Guardò con rammarico la tazza viola sgargiante che Linalee gli riempiva sempre di caffè, ora fredda e vuota, e subito le palpebre calarono sulla dolcezza scaturita per non dover essere costretto a ricordare l’abominevole discrepanza che li vedeva insieme e al tempo stesso separati per circostanze di ruolo. Il suo posto era
; fra almanacchi e incognite , equazioni e dicerie da soppesare con metro comprendente un’onniscienza che Komui – come spesso asseriva quando il carico di lavoro era sul punto di schiacciarlo -  doveva mendicare da fonti altrui.
Il suo problema era l’indugio che talvolta lo attanagliava nel comporre il numero di Amèlie qualora un ipotetico dubbio si fosse rivelato, agli occhi della donna, una sciocchezza facilmente scaricabile a qualche altro collaboratore: la sua efficienza aveva finito per creare una sorta di dipendenza che il Supervisore tentava di tenere sotto controllo per non oberare le spalle dell’Esorcista più di quanto già non fossero, ma prendere atto che la sola soluzione valida al problema Cross si trovasse dall’alto capo del telefono, non fece altro che spingerlo nell’unica direzione plausibile.

-
Ti chiedo scusa, Amèlie: immagino che avrei dovuto rivolgermi a te fin dall’inizio -, sospirò – Confidavo sul fatto che Allen-kun conoscesse lo schema comportamentale di Cross per poterlo rintracciare, ma… -

-
Allen? – Accigliata, Amèlie raddrizzò la schiena– Un nuovo Esorcista? –

-
Sì, è entrato a far parte dell’Ordine da qualche mese, sotto raccomandazione di Cross in persona. –

-
E’ un suo
allievo? – Komui deglutì al brusco cambiamento che la cordialità della donna assunse. Sicuramente si era sollevata in piedi, calma, ma anche irritata per quella trascuranza che subito non mancò di fargli pesare - E quando avevi intenzione di ragguagliarmi a tal proposito? –
-
Non prendertela con me, non posso mica arrivare da tutte le parti! – Si lagnò lui, gesticolando con le braccia, incurante della propria dignità che definitivamente scemava d’innanzi ai suoi sottoposti, più stanchi che sbigottiti – Komui fa questo, Komui fa quello…Sono chiuso nel mio studio da secoli, incatenato alla scrivania e senza un attimo di...! -

-
Hai finito? – Le labbra vermiglie schioccarono lapidarie e il Supervisore si immobilizzò con la spina dorsale completamente ghiacciata. Perfino il Caposezione Reever e Johnny tacquero con il respiro al limite della percezione uditiva. Nel silenzio contenuto fra le nuda mura di pietra, la soggezione di Amèlie calcava sui loro animi come se fosse stata lì, presente, a bacchettarli con i suoi fini occhi di purissima onice nera – Dove si trova l’unità? –

-
Ah…Da qualche parte in Germania, stando alla loro ultima chiamata. Purtroppo Lavi e Allen-kun si sono separati da Linalee e dal vecchio Bookman: sembra che siano riusciti a trovare un altro compatibile. –

-
Li hai sentiti per telefono? -

-
Sì. –

-  
Perfetto, dammi la loro attuale posizione. Li recupero io. –

-  
Puoi permettertelo? – Komui si pronunciò fermo, ricomponendosi dietro un’espressione di concentrata serietà che ne affilò i lineamenti orientali .
Aveva le sue buone ragioni per porre quella domanda di senso apparentemente inesplicabile, tuttavia non si trattava di qualcosa che potesse ricollegarsi a una salute cagionevole da parte dell’Esorcista. La sua era ordinaria amministrazione, messa in termini pratici; velata dalla consueta nota morbida che sapeva inserire in ogni discorso, si ergeva precisa e ferma anche con l’animo piegato per le perdite tuttora in aumento.

- 
Leggi tutto il rapporto fino in fondo e agisci di conseguenza, Komui -, asserì la donna – Dell’unità Cross mi occuperò io personalmente. Sono rimasta in disparte dalla caccia solo per assicurarmi che le nostre retrovie non fossero vulnerabili, ma non ho intenzione di perdermi la prima di questa grande guerra. O forse ritieni superfluo il mio supporto bellico? –

-
Non mi permetterei mai di dirlo -, giurò lui.

-
Inoltre, sono molto curiosa di conoscere questo Allen di persona -, proseguì lei, attorcigliandosi attorno all’indice il filo della cornetta - Non mi piace che mi si rubi l’esclusiva. – Sottolineò quelle ultime parole come se fosse appena diventata vittima di un sopruso inammissibile, a suo giudizio, di quelli che facilmente sanabili con soluzioni includenti metodi drastici. Eppure, appena insita sotto il tono sommesso, balenò una maliziosità assetata di divertimento.  

-
Io sono sicuro che ti piacerà -, affermò convinto l’uomo.

Spesero i restanti minuti della telefonata a delucidare le rispettive informazioni in uno scambio che alla fine si concluse con l’ultimo indirizzo lasciato a Komui dal piccolo gruppo dipartito; qualunque giro avessero compiuto per arrivare alle di
Miniere di Kirilenko ora aveva meno importanza del fatto che nessuno dei dispersi fosse più riuscito a mettersi in contatto. Posata la cornetta, Amèlie inclinò il mento verso il basso, portandosi la mano rimasta pigramente appoggiata al bracciolo della poltrona vicino alle labbra. La boccata di nicotina che rilasciò dopo una profonda tirata oscillò nella fluttuante penombra prodotta dalle candele del suo alloggio, sgonfiandosi come un palloncino dopo aver esaurito la carica con cui era stata rilasciata. Soppesare il dà farsi ne scopriva gli occhi sensuali opacizzarsi dietro una maschera d’assoluta indifferenza per qualsiasi altra questione o vano sentimentalismo; risolveva tutto in una manciata di secondi, amplificati in secoli nella sua personale realtà che non teneva conto di eventuali intereventi esterni.
Un suo allievo.
Stonava. Cazzo, se stonava! Un allievo maschio entrato a far parte dell’Ordine Oscuro sotto raccomandazione di Cross stesso.
Che diavolo aveva combinato, quel bastardo ingrato? Preferì sospirarci sopra con un'altra boccata di fumo acre prima che il nervoso potesse salire a livelli compromettenti

-
Allez, ma chérie* –, chiamò poi, schiacciando la punta della sigaretta nel posacenere.
I contorni di una figura minuta la affiancarono senza lasciar alcuna scia uditiva dei suoi passi. Aveva ascoltato tutta la conversazione rimanendo sulle sue fino a quell’ordine che non si sarebbe mai permesso di sostituire con una domanda o una spassionata opinione solo per spezzare il prolungarsi del silenzio. Le gentilezze della
Maitresse della Rosa Nera gli erano fin troppo care per giocarsene anche solo uno.
-
Avverti Bernadette di occuparsi degli ospiti e di preparare anche delle stanze. Io devo uscire a caccia. -

Note di fine capitolo.
1*: Qui è la Rosa Nera. Come possiamo soddisfare i vostri desideri? (Francese)

2*: Vieni avanti, tesoro mio (Francese).

Primo capitolo risistemato! Un bacione e un ringraziamento a tutti quanti! So che  può sembrare inutile  sistemare capitoli già postati anzichè metterne di nuovi, ma la verità è che grazie alla mia storia mi sto gradualmente evolvendo e nel rileggere vecchi lavori mi sono  ritrovata a pensare a quanto potrei migliorarli, anche per il bene della trama, con un pò di  pazienza e  dedizione. Amèlie è un personaggio oscuro per un mucchio di ragioni personali  e immagino comprendiate il disagio nel realizzare che  scrivendo, parte  dell'immagine che si crea nella propria mente, va un pò a perdersi in una scrittura che  dopo diverso tempo appare incompleta.  La revisione, graduale e lenta della mia opera, mira a valorizzare  la sua personalità, quindi, a chiunque  piaccia Hell's Road, spero che questo lavoro in più da parte mia venga apprezzato. A presto e un saluto a tutti quanti!

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Capitolo 3
*** Innocence shots under the sundown. ***




Lenalee osservava l’esterno della sua stanza con la mano destra appoggiata al vetro della finestra. Era salita nel pomeriggio, per poi rimanere lì ferma ad aspettare il ritorno di Allen, Lavi e del loro nuovo compagno, finendo per incantarsi e scollegare la mente dalla realtà. Il tramonto aveva un che di suggestivo quel giorno, sembrava particolarmente caldo e i suoi colori in qualche modo erano più intensi, ma neppure l’ammirare lo splendore di un’aurora boreale l’avrebbe distolta da quel vuoto fissare.
Non aveva paura per i suoi amici, erano in gamba e presto li avrebbe rivisti, ma trovarsi sola con i propri pensieri le creava sempre un forte disagio, soprattutto quando non riusciva a liberarsene.

Aveva smesso di avere incubi da molto tempo, ma di recente qualcosa si era mosso, dentro di lei.
Un timore, un’immagine da prima sfocata e poi chiara come la luce del giorno, con colori scuri e dal forte odore metallico. Un ritornello maligno che le mostrava tutto il suo adorato mondo ridotto in fin di vita, a pezzi, con lei impotente e disperata davanti a una luna nera nel mezzo di un cielo pieno di sangue.
Il solo rievocarlo le fece abbassare lo sguardo ametista, dando la schiena al sole e sedendosi sul letto. Timcampi sonnecchiava placidamente sul cuscino a pancia in su e lei ne approfittò per dargli una leggera carezza.

Non voleva che succedesse, né che si materializzasse.

Lo aveva chiesto, pregato, ma quel peso non se ne era mai andato completamente. Stava al suo fianco, in silenzio, invisibile a tutti gli altri tranne che a lei, costretta mestamente a lottarci con sempre più frequenza. Le ricordava quel periodo del suo passato dove tutto ciò che conosceva e amava era scomparso senza che lei ne capisse il perché, le stanze e i corridoi percorsi alla continua ricerca di una via di fuga e i groppi alla gola per tutte le volte che il panico e la solitudine l’avevano assalita.
Un susseguirsi di memorie ed emozioni che l’avevano spaventata fin dall’inizio, colpita e rimessa in piedi per una ragione e un mondo da cui lei voleva soltanto fuggire.
Aveva pianto sulle tombe di chi aveva condiviso il suo stesso destino già molte volte, troppe forse, ma poi si era rialzata, sempre, dolorosamente cosciente che niente li avrebbe riportati in vita.

Vorrei poterti dire che stai semplicemente sognando, che va tutto bene, ma mentirei e questo ti farebbe ancor più male. E’ vero: non possiamo scappare, ne tornare indietro, ma scegliere sì, Lenalee-chan: possiamo scegliere per cosa combattere, difenderlo e viverci insieme fino alla morte. E’ il solo modo che abbiamo per non perdere noi stessi e se anche un giorno dovesse scomparire da questo mondo, finché ne conserveremo il ricordo non smetterà mai di esistere. -

Un nostalgico sorriso si dipinse sulle labbra della bella cinese. Da tempo non vedeva la persona che una volta, anni addietro, le aveva confidato quel segreto e nel ricordarne il volto dolce e al tempo stesso fiero, Lenalee non poté fare a meno di desiderare un altro suo consiglio contro quell’incubo insano. Ma Amèlie era lontana, sempre, in guerra come lei. Per questo non avrebbe fatto la sciocchezza di lasciarsene influenzare: pur di essere forte e salvare i suoi tesori, avrebbe lottato con i Dark Boots che rivestivano le sue gambe anche a costo di gettare via la sua vita. Per quanto orribile e palpabile che fosse, un incubo rimaneva solo un incubo e Lenalee non gli avrebbe concesso neppure una briciola di credibilità, sebbene questo riuscisse a smuovere la sua preoccupazione.

- Lenalee-san? – Qualcuno bussò alla porta della sua stanza.
- Venite pure, Bookman. E’ aperto -, lo invitò cortesemente lei.

Il vecchio Esorcista dagli occhi scuri entrò nella stanza, con le mani unite e coperte dalle lunghe maniche del vestito scuro.

- Volevo solo avvisarvi che è pronta la cena. –
- Oh, grazie mille. Scendo subito. –
- Qualcosa vi turba, Lenalee-san? Oggi vi ho visto molto pensierosa. –
- Oh, io…. –

Era molto difficile sfuggire agli occhi di un anziano signore come l’Esorcista degli aghi. Bookman aveva il dono di leggere, interpretare e sviscerare perfino le persone, scoprendone i più reconditi segreti, ma mai avrebbe permesso che questo suo dono valicasse i limiti imposti dal proprietario stesso. Bookman era Bookman e come ripeteva sempre a quella testa di legno di Lavi – dopo averlo redarguito a suon di schiaffoni - , i segreti di Bookman li può rivelare soltanto Bookman.

- Non è niente. Mi stavo solo chiedendo quando Allen e Lavi torneranno –, rispose infine la ragazza.
- Capisco. Credo che al riguardo, dovremo aspettare un po’ a lungo. Stiamo parlando pur sempre di due mocciosi -, disse l’anziano. La sua ristrettissima gentilezza era riservata solo alla dolce cinese.
- Io non penso -, obbiettò quest’ultima, fiduciosa - Sono certa che a breve arriveranno e che riprenderemo prestissimo il nostro viaggio. -




- Dunque…Se noi siamo qui e andiamo a Nord, dovremmo…. –
- Lavi, stai reggendo la mappa al contrario -, gli fece notare Allen.
- Non è vero, è dritta. E’ solo che c’è poca luce e non riesco a leggere bene i nomi -, si difese il rosso.
- Non accampare scuse. E’ da due ore che giriamo in tondo! E’ evidente che ci siamo persi! –
- Ha parlato l’esperto! – Replicò ancora il compagno, alludendo alla professionalità dell’albino nel perdersi ovunque andasse - So benissimo dove stiamo andando: certo, sarebbe più facile se evitassi di starmi addosso e parlarmi mentre penso. –
- Adesso la colpa sarebbe mia?! –
- Vedi qualcun altro qui in giro che rompe? Rilassati, Allen: dammi cinque secondi e vedrai che ritroverò la strada –, gli assicurò poi, con un sorriso a trentadue denti e il pollice all’insù.
- MA ALLORA LO AMMETTI CHE CI SIAMO PERSI!! – Tuonò il più giovane.

Era tardi. La giornata era sul punto di terminare e pronta a lasciare il posto alla notte.

La luce gialla e arancione del sole filtrava fra le fronde della foresta dei pini, colorando il paesaggio con tonalità piacevoli sia al tatto che alla vista, ma da lontano si udivano già alcuni gufi prepararsi ad uscire dalle loro tane per andare a procurarsi la cena. Non c’era un filo di vento a smuovere le fronde degli alberi e i cespugli, solo il vociare di tre Esorcisti dispersi e senza la benché minima idea di dove andare. Allen, Lavi e Aleister Crowley III, il loro ultimo acquisto, avevano dovuto rinunciare all’idea di raggiungere Lenalee e il vecchio Bookman con il treno, visto che il mezzo aveva contratto un guasto e non c’erano altre linee a disposizione: l’unica soluzione che si era presentata, era quella di scarpinare fino alla metà prestabilita, ma tra attacchi da parte degli Akuma, imprevisti e disastri che solo a tre senza speranza come loro potevano capitare, avevano finito per terminare le scorte, smarrire i bagagli e infine perdersi in quella gigantesca e intricata foresta. Lavi ci aveva provato a risolvere la situazione, ma il punto in cui erano finiti sembrava non essere segnalato dalla mappa e l’occhio di Allen era buono a rilevare Akuma, non esseri umani. Quanto a Crowley, lui nemmeno sapeva che cosa significasse orientarsi, giacché aveva passato tutta la sua vita rinchiuso nel castello di famiglia.

- Ci conviene aspettare domani mattina per proseguire. Ormai è tardi e non sarebbe una buona idea muoverci col buio, invero -, suggerì quest’ultimo, osservando il cielo sopra le loro teste.
- Hai ragione: per stanotte ci accamperemo qua. Vado a cercare un po’ di legno per il fuoco –, disse Allen.
- Vuoi una mano? – Gli chiese Lavi.
- No, grazie. Ne approfitterò anche per essere certo che non ci siano Akuma nei paraggi – declinò cortesemente l’albino.
- Bah! A volte non so essere invidioso o no, di quel tuo occhio –, borbottò il giovane Bookman, incrociando le braccia dietro la testa.

Allen non gli rispose. Era già sparito dalla sua visuale e di quella del rumeno, inoltrandosi fra i tronchi e il fogliame della foresta. Anche se non lo aveva visto in faccia, Lavi fu sicuro del fatto che questo gli avesse sorriso, come faceva sempre in ogni occasione. La cosa gli balzò in testa quasi istintivamente, come se fosse una piccola, ma significativa nota da tenere in considerazione. Un apprendista Bookman non scarta mai niente di quanto ha davanti, a prescindere da cosa sia e nel suo piccolo, Lavi si era ritrovato un po’ a desiderare il potere del portentoso occhio del compagno.

- Ehi, Crowlino, che hai da fare quella faccia? –

L’Esorcista dalle orecchie appuntite fissava davanti a sé, come preda di un pensiero che non trovava pace. Fu strano vederlo con un espressione tanto assortita, perché quando la sua Innocence non era attivata, Crowley era tutt’altro che spaventoso o sanguinario.

- Credo di non aver mai visto niente di più inquietante in tutta la mia vita -, disse all’improvviso quello.
Lavi sollevò le sopracciglia, stupito - Uh? Parli di Allen? In effetti con quei capelli bianchi.… –
- Il suo occhio -, mormorò l’altro - Mette i brividi. –

Sembrava aver letto nei pensieri dell’apprendista Bookman, che chiuse la bocca e tornò a guardare il punto dove aveva visto sparire il compagno.

- Te ne sei accorto anche tu, vero? -, sorrise debolmente il diciottenne – Non si può certo dire che la sua sia un’arma convenzionale, anche se ha i suoi vantaggi… -
- Non credo ne abbia. Di vantaggi, intendo -, lo interruppe il più alto, con il ciuffo bianco che gli ricadeva sul viso – Ma forse è perché lo conosco da poco più di un settimana. Eppure penso, che per quanto Allen lo abbia utilizzato, non ci abbia mai fatto il callo, come dite voi. Anzi… -, continuò tetro – Credo che non potrà mai abituarvisi del tutto. –

Quella era la voce di uno che sapeva bene cosa significasse essere segnato da una croce più grande di esso stesso.
Aleister Crowley III era stato ritenuto un mostro, un vampiro assetato di sangue e di corpi umani. Pericoloso, diverso, e sebbene avesse scoperto la natura di quell’istinto famelico che insorgeva quando i suoi denti fremevano, il disagio per l’essere stato allontanato da tutti gli avrebbe sempre tenuto compagnia nei ricordi, insieme a Eliade e alla consapevolezza di averla distrutta con le proprie mani.

Ma l’occhio di Allen….
Lui poteva vedere le anime degli Akuma.
Sentirle urlare, chiedere aiuto, far sì che la loro angoscia e i loro tormenti coinvolgessero gli altri suoi compagni. Per un esorcista era sufficiente eliminare l’Akuma prima che lui facesse altrettanto con lui, ma scoprire che cosa si nascondesse e manovrasse quel guscio deforme e pieno di armi faceva venire solo voglia di vomitare. Che fosse anche utile per anticipare le mosse degli avversari  era vero, ma Crowley avrebbe fatto volentieri a meno di portarsi a presso una maledizione del genere. E Lavi era dello stesso parere.

- Lo penso anch’io -, concordò il rosso – Nessun umano riuscirebbe a convivere con una cosa simile, mette i brividi. Spesso ci si dimentica che le Bambole del Conte hanno bisogno di un’anima umana per muoversi, quindi nessuno si domanda se soffrano o no per la loro condizione. Ma Allen lo sa sempre, perché può vederle e sentirle, e la cosa non gli è mai pesata perché le capisce. –
- Le capisce? – L’espressione del più alto assomigliava pericolosamente ad un grosso punto interrogativo.
- Ah, già: tu sei stato appena reclutato, Crowlino, quindi non sai tante cose -, si ricordò Lavi, grattandosi la testa – Quando Allen aveva dieci anni, cercò di riportare in vita il padre adottivo facendo un patto con il Conte del Millennio: fu l’anima del suo genitore a lanciare su di lui la maledizione che ha sull’occhio e sempre in quel momento, la sua Innocence si manifestò per la prima volta. -
- Quindi lo ha ucciso –, ne dedusse con logicità il neo arruolato.
- Non aveva scelta, anche se all’inizio non voleva – continuò Lavi - In fondo, non sapeva chi fossero il Conte del Millennio o gli Esorcisti, ma sta di fatto che da allora combatte contro gli Akuma e cerca di porre fine alla loro esistenza unicamente per salvare le anime che sono imprigionate al loro interno. Solo così possono essere libere. Se si autodistruggessero, anche l’anima che ne ha favorito la nascita andrebbe persa. Lui ne è sempre consapevole perché sono loro a chiedergli aiuto e le capisce perché ha tentato di fare di un Akuma una persona a lui cara. Riesce a reggerne il peso perché l’unico mondo che vede è il loro, e sarebbe pronto ad addossarsi colpe non sue… Se anche una sola di loro non trovasse la pace. -




- Bene. Nessun Akuma nei paraggi. –

Dopo aver ispezionato un perimetro che superava i trecento metri, Allen Walker disattivò il proprio occhio maledetto e cominciò a raccogliere la legna per il fuoco. Era stato strano tornare a vedere quel lato del suo mondo che per un po’ di tempo lo aveva abbandonato, ma la lontananza era stata compensata da un incremento di potenza che ora gli permetteva addirittura di ampliare il suo campo d’azione e prevenire gli attacchi nemici. A Lavi non era piaciuta quella novità, glielo aveva letto in faccia fin da subito, ma il lascito di Mana non era un dono come gli altri o per gli altri. Anzi, non aveva niente che lo facesse assomigliare a un dono.

Allora sprofonda, Allen. Sprofonda sempre di più. Giù...Nelle tenebre di questo mondo bianco e nero. -

Nel raccogliere un tocco bitorzoluto, quelle parole gli tornarono alla mente, facendolo riflettere.
Avrebbe mentito a se stesso se avesse detto a qualcuno che il buio toltogli momentaneamente da Road Kamelot non gli era mancato per niente. Si era sentito perso e disarmato, privo di una parte di sé che lo rendeva quello che era. Estraneo perfino al proprio riflesso.
Le aveva sempre viste, le anime degli Akuma, riconosciute a distanza e salvate senza correre il rischio che dei semplici umani venissero coinvolti. Era stato per poco, un’occasione per imparare a muoversi esattamente come facevano gli altri, per tastare l’ansia, ma ora che tutto era nuovamente al proprio posto, che il suo mondo bianco e nero era tornato ad essere completo, non poté che esserne grato. Mana era di nuovo con lui e lo aveva fatto sprofondare ancora di più nelle tenebre, giù, dove la luce del sole non arrivava. La maledizione si era rinforzata, ma andava bene così: il suo legame con quel ricordo dalla consistenza indefinibile era salvo, aveva recuperato quella parte di sé creduta persa per sempre. Questo contava.

Nel calpestare un ramo secco, si ridestò da quel lieve stato di trance dentro cui era caduto, lasciandosi scappare un leggero sorriso: pensare a Mana gli faceva perdere decisamente la cognizione del tempo e dello spazio.

- Sarà meglio tornare in…Uh? –

Un consistente stormo di corvi gracchianti passò sopra la sua testa rapidamente, sfrecciando fra gli alberi e sopra le loro fronde senza neppure entrarci. Stavano fuggendo, e come Allen guardò nella direzione opposta alla loro, il suo occhio prese vita.

- Akuma! –

Lasciò cadere i tocchi di legno e cominciò a correre verso l’accampamento dei compagni. Il manipolo che a breve lo avrebbe raggiunto era più corposo di tutti quelli che avevano affrontato durante l’ultima settimana, ma non ne era del tutto certo. Imbattersi in un gruppo di Akuma non era raro, ma da quando erano partiti per cercare Marian Cross non avevano fatto altro che scontrarsi con piccoli e grandi eserciti che superavano sempre la settantina, e quello che adesso gli stava passando sopra doveva di sicuro contarne più di cento.
Le Bambole del Conte tagliavano l’aria e le chiome degli alberi senza curarsi di eventuali ostacoli. Che avessero deciso di attaccare un villaggio? Chissà perché, ad Allen non diedero questa impressione, ma qualunque fosse la ragione che le stesse spingendo ad andare tanto di fretta, quello non era certo il momento migliore per sedersi e rifletterci sopra.

Ehi, ehi! Guardate laggiù! C’è un Esorcista!- Esclamò un Livello Due, scorgendo Allen.
Cosa? Dov’è?! - Fece un altro – Oh, è vero! E’ vero! E’ proprio un Esorcista! Mangiamocelo!

In una frazione di secondo, l’albino si vide arrivare addosso i due Akuma ad alta velocità, seguiti da altri sei di livello inferiore.

Evocazione! Cross Grave! – Richiamando velocemente la propria Innocence, l’esorcista sferrò il suo colpo a forma di croce sui propri avversari, distruggendoli in perfetta sincronia.
- Allen! Ehi, Allen! – Con perfetto tempismo, Lavi arrivò giusto in tempo per spazzare via col suo martello un altro paio di Akuma scampati al primo attacco – Hai visto che roba? Questo gruppo è il più numeroso, oggi! –
- Lo so. Ma dov’è Crowley? –
- Ah…Lassù – , e indicò con l’indice il cielo.

In mezzo a quello stormo di macchine assassine, una figura nera e fulminea balzava da una parte all’altra come se l’aria fosse stata solida, tranciandola con scie rosse e lucenti.

- Fatevi ammazzare, dannati Akuma! Voglio strapparvi le viscere e bere il vostro sangue fino a ubriacarmi! – Lo si sentì ringhiare, dopo aver staccato di netto la giugulare di un Livello Due – Che fate lì impalati, mocciosi?! Datevi una mossa! – Ordinò poi ai suoi compagni.
- C’è da dire che Crowlino sa essere davvero inquietante, quando si lascia prendere la mano… -, mormorò il giovane Bookman, con il viso diventato violaceo.

Non ci fu il tempo per affermare che fosse un’autentica fortuna avere un personaggio così pittoresco dalla loro parte, perché il resto di quel gruppo demoniaco si fiondò su di loro con l’intenzione di smembrarli e portare le loro Innocence come dono al Conte del Millennio. A ogni esplosione un albero di pino cadeva, seguito da rombi e scosse sorde che si sovrapponevano senza un ordine fisso; c’era il caos più totale, scandito ogni tanto dal sibilo dei proiettili che i Livelli Uno sparavano all’impazzata.

- Che accidenti! Potessi almeno usare il Timbro di Fuoco… -, sbottò Lavi.
- Sì, così poi dovremmo anche preoccuparci di spegnere un incendio, disse Allen.
- Eh eh! Sarebbe un bel…EHI! –
-Preso! -
-Lavi! -
- Tsk! Moccioso petulante! – Sibilò Crowley.

Un Livello Due molto somigliante ad avvoltoio dall’aspetto deformato era arrivato alle spalle del rosso, afferrandolo per la giacca e tirandolo verso l’alto.

-Vacci piano! Mi strozzi! – Si lamentò l’esorcista, dimenandosi.
Ih ih! E’ la prima volta che catturo un Esorcista! Che cosa buffa! -Ridacchiò quello – Però, forse, prima di portarti da Conte del Millennio, dovrei spezzarti le gambe! Per essere sicuro che rimarrai buono!
- Come no! Se qui c’è qualcuno che si ritroverà con le gambe spezzate, sei tu! –

Sul punto di usare il martello, qualcosa colpì violentemente l’Akuma che lo aveva colto di sorpresa. Tutto quello che Lavi percepì prima di cadere di sotto ed essere afferrato per la caviglia da Crowley, fu uno spostamento d’aria. Veloce, sibilante e duro come l’acciaio. Tagliò la testa dell’Akuma in un solo colpo, decapitandolo senza dargli il tempo di capire cosa fosse successo.

- Ehi, ma che…Whoa!! – Allen si spostò giusto in tempo per evitare di fare la stessa fine della Bambola del Conte contro cui stava combattendo.
Hell’s Cut: Fendente Spazzavento!

L’albino udì pronunciare quelle parole, ma senza capire da che direzione venissero. Tutto quello che vide fu una lunga linea verde luminescente tagliare in due l’Akuma, separarlo e farlo esplodere esattamente come quello che aveva catturato Lavi, seguito dalle restanti di primo livello. Se non fosse stato per il fatto che Kanda era stato spedito da tutt’altra parte, Allen avrebbe giurato che a eliminare in un solo colpo gli Akuma fosse stato lui, ma non era possibile; già di loro, quegli attacchi erano diversi da quelli sferrati dallo spadaccino. Simili, ma comunque diversi.

- Fiuu! Che pelo! Grazie, Allen -, sospirò sollevato Lavi, risistemandosi la morbida sciarpa arancione.
- Non sono stato io -, replicò il quindicenne, guardandosi intorno.
- Uh? Allora devi essere stato tu, Crowley. –
- Taci. Tutto quello che è ho fatto, è stato prenderti al volo -, ringhiò l’altro, dandogli le spalle.
- Eh? Ma allora….? -
- Il solito guercino distratto. Non cambi mai, eh, Bunny boy? –

Le teste dei tre Esorcisti scattarono in perfetta sincronia sulla destra, specialmente quella di Lavi, che rizzò le proprie orecchie nel sentirsi chiamare con quel particolare appellativo. Il suo viso non era serio come gli altri, anzi, rasentava quell’idiozia che gli aveva sempre fatto guadagnare una sonora scarica di botte da parte del vecchio Bookman. Dal canto loro, Allen e Crowley, neppure sapevano chi avessero appena individuato, ma non era di certo un Akuma.

Era un umano, una donna. Il gioco di luci e ombre del tramonto era intenso e impediva di cogliere altro: se ne stava seduta su un grosso ramo sporgente, con le gambe accavallate, una mano appoggiata al legno per reggersi e l’altra a tenere una lunga falce dalla lama appuntita e luccicante.

- Chi diavolo è? – Sibilò Crowley, raddrizzandosi.
- Non lo so -, mormorò Allen- Non è un nemico, almeno credo, ma quella falce ha qualcosa di strano -, si ritrovò a pensare nuovamente, socchiudendo gli occhi per cercare di vedere meglio chi fosse la nuova arrivata.

Qualcosa gli suggeriva di non allarmarsi, che non c’era ragione per stare sulla difensiva, ma quando quella balzò giù dal ramo, toccando dolcemente terra, una leggera scossa gli attraversò la spina dorsale. La lama di quella falce era permeata di una luce verdastra e luminescente che si scontrava a forza con quella calda e soffusa del tramonto.

Quel bagliore non sarà mica…? -
- Komui è sempre il solito. Sapete di avermi fatto sudare parecchio?- Domandò quella, avvicinandosi – Fra tutti i posti che potevate scegliere per perdervi, questa foresta era il solo che potevate evitarmi. Se non fosse stato per gli Akuma avrei continuato a fare avanti e indietro come una stupida. -

 Si fermò giusto a sette passi da loro. Il suo volto era coperto parzialmente da una maschera di pizzo nero, una di quelle che si indossavano durante il carnevale. I lunghi capelli neri ondeggiavano a destra e a sinistra debolmente, seguendo i movimenti sinuosi del corpo. Era indubbiamente una donna: se prima Allen poteva avere qualche dubbio a causa della troppa luminosità che l’aveva investita, ora ne era del tutto certo.

- Ritira il tuo braccio e il tuo occhio maledetto, Allen- kun. Non sono una tua nemica -, gli disse cordialmente lei, spostando una ciocca corvina dal torace malamente coperto da uno striminzito e decorato bustino nero.

La bocca dell’inglesino si dischiuse non appena vide la Rose Cross fare capolino sul tessuto.

- Siete un’Esorcista -, mormorò lui – Ma…Come sa il mio nome? –
- Uh? Allen, tu dovresti saperlo bene, no? – Fu la domanda retorica e stupita di Lavi – E’ Amèlie! -
- Chi? – L’espressione stralunato del quindicenne rasentava l’ignoranza più totale.
- Come chi? Amèlie! – Insistette il rosso - No, aspetta…Davvero non la conosci? –
- Non insistere, Bunny boy: io e Allen-kun non abbiamo mai avuto il piacere di conoscerci di persona -, lo fermò lei, avanzando verso di loro – Scemunito o meno, Cross sa sempre come giocare le sue carte. -
- Conosce il maestro? -
- Sì, disgraziatamente -, annuì lei, rivolgendogli un bel sorriso – Ma non è il momento migliore per parlarne. La strada per arrivare alla Rosa Nera è lunga e mi seccherebbe parecchio perdere uno dei quattro treni che dovremo rincorrere. Muoviamoci -, ordinò perentoriamente.
- Rosa Nera? Non l’ho mai sentita nominare, invero –, confessò Crowley. Era tornato ad essere impacciato e pacato.
- E mai la vedrai, se adesso non vi date una mossa. Avanti. –

Non era in vena di spiegazioni, non subito almeno, e a giudicare dalla sua camminata spedita ed elegante, non aveva intenzione di uscire dalla tabella di marcia stilata nella sua mente. Non c’era altra scelta che seguirla senza fiatare e aspettare di arrivare a destinazione, prima di aprire bocca.

- Senti, Lavi, come mai eri tanto sicuro che Allen conoscesse questa fanciulla ? – Domandò di soppiatto il rumeno.
Il rosso tergiversò un attimo, grattandosi la guancia con l’indice - Bè, il fatto è che Amèlie è un po’ diversa da noi altri esorcisti e considerata la comunanza fra lei e Allen, ho pensato che già si conoscessero, tutto qui. –
- Di che comunanza parli? – Allen non comprese dove Lavi volesse andare a parare.
- Marian Cross -, fu la risposta del rosso.
- Ho capito che conosce il maestro. Potresti essere un po’ più specifico? –
- E’ come te, è una sua allieva, anzi no! -, Si corresse velocemente – Lei è l’allieva! -, Affermò poi, con l’indice a mezzo centimetro dal naso dell’albino – Prima del tuo arrivo, Amèlie è stata considerata l’unica Esorcista addestrata ed effettivamente riconosciuta da Marian Cross come sua legittima apprendista, una vera eccezione alla regola! –
- .........Che?!? -
 
 



Note di fine capitolo.
E finalmente il secondo capitolo giunge in porto. Pian pianino le cose cominciano a mettersi in moto anche se i tempi sono quelli che sono e qui chiedo scusa ai lettori se devono aspettare tanto. Amèlie fa finalmente la sua degna comparsa all’interno della storia e si svela già qualcosina di lei: allieva di Cross, nonché una miracolata come Allen, in  quanto avere un maestro come lui equivale a lottare assiduamente per la propria sopravvivenza, tutt’al più se si è una femmina… Ma di questi si parlerà più avanti! Un saluto a tutti quanti! (Spero non ci siano errori!)

 

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Capitolo 4
*** Welcome to the Rose Noir. ***





- Siete pregati di attendere qui qualche istante, signori Esorcisti. -

Dell’élite dell’ Ordine Oscuro, Marian Cross, ex-scienziato e incallito dongiovanni dall’età volutamente tenuta segreta, era il Generale più problematico e impossibile che si fosse mai visto in settemila e passa anni di guerra contro il Conte del Millennio. Allen Walker ne sapeva qualcosa: aveva imparato che con lui bisognava partire dal presupposto che le catastrofi non avevano limiti d’espansione, che il peggio del peggio poteva corrodere la decenza umana e farla sprofondare in un oblio assurdo e senza ritorno. I debiti che gravavano sulle sue spalle servivano a ricordarglielo sempre. Certo, aveva anche dei pregi, altrimenti il ragazzo non gli sarebbe stato tanto legato, ma era difficile ricordare un uomo come il maestro senza tirare in ballo gli innumerevoli traumi da lui causatigli.
Fare a meno del proprio stipendio di esorcista comportava più sacrifici di quanti se ne potessero immaginare e anche quella era una consapevolezza che il povero albino aveva scoperto a sue spese: se c’era una cosa- anzi, tre - a cui il maestro non avrebbe rinunciato neppure sotto tortura, erano la bella vita, il vino e le donne. A ripensare a quanto subito nel corso di quei lunghi quattro anni, Allen non capì come ce l’avesse fatta a non lasciarci le penne, ma di buono c’era che nessun altro, oltre a lui, vantava una conoscenza così vasta sul generale. Almeno, così aveva pensato prima di incontrare quella Esorcista.

Amèlie rappresentava un’incognita bella grossa, una novità su cui l’albino si era ritrovato a rimuginare attentamente durante il tragitto. Marian Cross aveva molte conoscenze che sapeva sfruttare a seconda dell’occasione e delle necessità, ma non aveva mai avuto altri allievi, se non lui. Eppure, a detta di Lavi, Amèlie lo era stata e la cosa lo aveva scioccato abbastanza da fargli cadere la mascella per terra.
Non se lo sarebbe mai aspettato e francamente gli era occorsa quasi una giornata intera per metabolizzare la questione, perché Amèlie era, prima di qualsiasi altra cosa, una donna e il ripensare a quanto quel maniaco del suo mentore piacesse la compagnia della bellezza femminile, aveva lasciato spazio a pensieri che lo avevano fatto diventare blu per lo spavento. Non osava neppure immaginare che razza di segreti inconfessabili si celassero dietro quella storia, però, riflettendoci nuovamente sopra, Allen trovò strano che Cross non avesse menzionato Amèlie neppure una volta, se considerava il fatto che lui non mancava mai di vantarsi delle sue conquiste.

Tutt’al più poi, se la casa di quest’ultima era un posto che anche con la semplice vista, avrebbe soddisfatto in un solo colpo tutti i suoi gusti raffinati e esageratamente costosi…

- Kyaah! Degli Esorcisti! -

La Rosa Nera era una sontuosa villa di campagna situata nel Nord Europa, in un punto indefinito che fungeva da crocevia per le grandi città. Una sorta di palazzo in scala ridotta, elegante, luminoso, raffinato, con ampie stanze, saloni e giardini fioriti che facevano di essa una delle case del piacere più ricercate dall’alta nobiltà. Nessuno sospettava che fosse una copertura per l’Ordine Oscuro, tanto più indipendente e con una serie di entrate così ingenti che le avevano sempre permesso di essere un’organizzazione completamente autonoma. I servizi offerti soddisfacevano le esigenze più capricciose e ambigue che i suoi ospiti potessero richiedere con la cucina, gli spettacoli, la compagnia, l’ambiente stesso e tutta una serie di servigi che richiedevano prenotazioni anticipate, special più se qualche ragazza o ragazzo erano richiesti durante delle feste o dei ricevimenti in città.
Superato il cancello di ferro battuto e passati per un’entrata situata sul retro, Allen, Crowley e Lavi erano stati fatti accomodare temporaneamente in un salottino ben arredato da una graziosa bambina, ma non avevano neppure fatto in tempo a domandarsi quanto tempo avrebbero dovuto aspettare perché Amèlie tornasse da loro, che un gruppetto di seducenti ballerine, curiose e con indosso solo la biancheria intima, aveva fatto irruzione allo loro semplice vista.

- Che meraviglia! Non abbiamo mai avuto degli Esorcisti come ospiti! – Squittì una.
- Dobbiamo assolutamente festeggiare! – Esclamò una seconda.
- Come sei carino! – Una terza si avvicinò a Lavi, attaccandosi al suo collo con slancio - Perché non vieni a giocare con noi? –
- S…S…STRIKE!!!! – Il botto prodotto dal cervello di quest’ultimo fece tremare tutta la magione – VENGO ECCOME!!! –
- INSOMMA, LAVI! DATTI UN CONTEGNO! – Urlò Allen, tirandolo per la sciarpa.
- MA VUOI SCHERZARE?!? E’ DA UNA VITA CHE SOGNO DI VENIRE QUI E HO ANCHE LA FORTUNA DI NON AVERE IL VECCHIO PANDA FRA LE SCATOLE, QUINDI NON TI CI METTERE! –
- E lei che ci dice, bel signore? Di dove è? -

Nonostante se ne fosse rimasto tranquillo e sconcertato nel suo angolino, cercando di non dare nell’occhio, Crowley non fu esentato dalla cattura. A differenza del guercino, che puntualmente mandava a quel paese il suo cervello non appena vedeva una bella ragazza, il suo livello di interazione con gli esseri umani era più educato e ponderato, sebbene non dei più coraggiosi. Considerati i trascorsi, quella forma di vampirismo che lo affliggeva fisicamente e i recenti cambiamenti della sua vita, era normale che gli occorresse un attimo per adeguarsi alle novità…
 …Peccato solo che venire assediato da delle ballerine mezze nude ed essere tirato a forza dentro una spirale colma di domande frenetiche e imbarazzanti, fosse un’esperienza che un timido galantuomo quale era lui non si era mai permesso di sfiorare neppure col singolo pensiero.

- Che curioso ciuffo bianco! –
- Su, non sia timido! Vogliamo soltanto conoscerla! –
- I-I-I-I-I-Io…I-I-Invero...Eliade!!! – Era ufficiale: il rumeno era sul punto di collassare. La sua faccia era più rossa dei capelli di Lavi.
- Whaah! Riprenditi, Crowley! – Allen lo vide crollare a terra con un tonfo sordo.
- Oh, poverino! Cosa ci fai qui tutto solo? –

L’albino sobbalzò vistosamente, per poi girare la testa verso destra. Una ragazza sui diciott’anni, dai lunghi capelli di uno strano color prugna, accuratamente arricciati in morbidi boccoli, lo stava osservando con occhi celesti e un sorriso sulle labbra.

- Ah, veramente io starei aspettando una persona e…... –, farfugliò lui.
- Ehi, ragazze! Guardate qui! Non è un amore?! – Richiamò l’attenzione quella. Se Marian Cross fosse stato presente, poco ma sicuro si sarebbe complimentato con il discepolo per l’immediato successo.
- No, un momento! Io… -
- Insomma, che sta succedendo qui? – Un paio di colpi di mani sconosciute e le ballerine si placarono, allontanandosi dagli Esorcisti e lasciandoli respirare. Due su tre non poterono fare a meno di sospirare con enorme sollievo.
- Amèlie-sama! –
- Si può sapere cosa state combinando? Sbaglio o dovreste essere nei vostri camerini a prepararvi? – Domandò con calma quella.
- Ecco, volevamo conoscere i suoi compagni, Amèlie-sama -, prese la parola una delle ragazze, a nome di tutte – E’ la prima volta che ospitiamo degli Esorcisti... -
- Questo non vi esenta dai vostri compiti – , la fermò prontamente la suddetta, con una nota di rimprovero nella voce - la Rosa Nera apre fra poco e siamo piene di prenotazioni per il teatro: i clienti si aspettano di vedere uno spettacolo degno del nome di questo posto e voi non siete ancora pronte -, constatò nel vederle con solo indosso la biancheria intima.

Le ballerine erano tutte così ben accerchiate attorno alla donna, che Allen non riuscì neppure a vederle la testa.

- Ci…Ci scusi tanto -, la ragazza abbassò la testa, in segno sconsolato.
- Sì, ci scusi tanto -, si unirono in coro le altre.

Seguì un attimo di silenzio. Erano profondamente dispiaciute e l’albino vide sul viso di alcune di queste, piccole briciole di pentimento. Sarebbe intervenuto più che volentieri a giustificarle, sicché non trovava giusto rimproverarle per così poco, ma fu preceduto.

- Non fate quelle facce, so benissimo che eravate curiose -, comprese la donna, addolcita – Ma adesso andate, avanti, o questa sera non vedremo il becco di un quattrino. –
- Sì, signorina. –

Una ad una, le belle ballerine uscirono ordinatamente dalla stanza, con grandissimo e incommensurabile rammarico di Lavi. Se Allen non lo avesse tenuto per il colletto, avrebbe seguito senza esitazione tutte le donzelle fino ai camerini con la scusa di volerle aiutare a stringere a dovere i loro bustini.
La stanza tornò ad essere tranquilla e silenziosa esattamente come prima, con dei lievi rumori di sottofondo provenienti dal dì fuori: ruote di carrozze, nitriti di cavalli e voci indistinte erano percepibili, sottili come l’eco di un fischio, ma ritmiche e sempre più insistenti. La Rosa Nera stava per aprire i cancelli principali e le porte, proprio come aveva affermato la padrona della villa.

- Scusate l’attesa. Spero che le mie ragazze non vi abbiano spupazzato troppo –, si rivolse quest’ultima a loro.
- Tranquilla, Amèlie-chan! Mai ricevuto un benvenuto più bello di questo! – esclamò Lavi, alzando il pollice in su – Anche se non era mica un problema se un paio di ballerine restavano. -
- Non avevo dubbi sul fatto che avessi gradito -, mormorò lei.

Nell’istante in cui si voltò verso di lui, la prima cosa che Allen constatò, era che non portava più la maschera di pizzo nero. Il volto di Amèlie era completamente scoperto, incorniciato da lunghe ciocche color ebano che ricadevano morbidamente sia sulla schiena che sul petto.
Era bella, molto bella, forse dell’età di Miranda. Aveva lineamenti fini e delicati, femminili sotto tutti i punti di vista e due occhi d’onice con ciglia lunghe e folte, velati di un trucco leggero. Le labbra erano dipinte di un rosso tendente allo scarlatto, in perfetta sintonia con il vestito che indossava: un bustino nero molto scollato e senza spalline, seguito da una vaporosa gonna rossa e nera sfilacciata. Se non fosse stato per lo stemma dell’Ordine Oscuro sarebbe stato difficile pensare che quella donna fosse un’Esorcista esattamente come loro, ma la cosa che più lo incuriosiva era il rapporto che la legava al suo maestro e il perché lui non gliene avesse mai parlato. Non gli era sfuggito lo “Scemunito” che la corvina aveva sbuffato prima di trascinarli in una corsa ai treni per arrivare il più velocemente possibile alla villa e voleva saperne di più.

- Allen Walker. – Come sentì pronunciare il suo nome, l’albino si riscosse dai suoi pensieri – Così sei tu, quello che la profezia chiama il Distruttore del Tempo. Io sono Amèlie, Amèlie Chevalier: benvenuto alla Rosa Nera. -
- Grazie. Sono onorato di conoscerla –, disse lui, inchinandosi in segno di saluto. I suoi occhi grigi si legarono a quelli d’onice della corvina, che abbozzò un sorriso compiaciuto.
- Sei più piccolo e educato di quanto mi aspettassi…Mi piace -, continuò lei, avvicinandosi al suo volto, per poi alzargli il mento con la punta dell’indice – Sai…Io ho una vera passione per i ragazzini carini come te -, gli confessò, inclinando il viso - Con un visetto grazioso come il tuo, saresti un accompagnatore davvero perfetto. I miei clienti sborserebbero cifre astronomiche per te. -
- Che cos…Io...!! – Allen avvampò all’istante, allontanandosi.
- Eh eh! Non ti spaventare –, ridacchiò lei – Mi piacciono i piccini, questo non lo nego, ma non li darei mai in pasto a certe bestie che conosco. Li tengo solo per me. –

Per qualche ragione a lui non ancora chiara, la voce di quella donna, il suo viso e ora anche i suoi discorsi, misero Allen in uno stato di così alta suggestione che quasi gli impedì di respirare. C’era qualcosa in lei che la rendeva completamente diversa sia da Lenalee che da Miranda e non era l’età, non soltanto. C’era sicurezza in ogni suo piccolo movimento, una disinvoltura perfino presente nell’intenso scrutare dei suoi occhi: lo osservavano attentamente, senza fretta. La corvina gli si era avvicinata di nuovo, lentamente, appoggiando un palmo della mano sul ginocchio e chinando il busto in avanti.

- Ah! Amèlie-san, che…?! – Allen scattò per la seconda volta sull’attenti, non appena percepì prima la mano di lei sfiorargli la guancia, poi solo il dito indice toccargli la stella marchiata sulla parte sinistra della fronte.
- Rilassati, non ti mangio mica: voglio solo vedere. – Disse quelle parole con voce materna e rassicurante, inchiodandolo a terra con uno sguardo d’onice profondo e intenso.

La gola dell’albino si chiuse ermeticamente, lasciando solo un minuscolo spazietto per l’ossigeno. Un burattino di legno sarebbe stato meno rigido di lui, ma nessuno sano di mente lo avrebbe rimproverato per questo. Il tocco delle dita di Amèlie era delicato, carezzevole, fresco e leggero quasi come la seta. Scorreva sul suo viso con fare scrupoloso e lento, seguito dai suoi occhi neri che si premuravano di non tralasciare nulla indietro. C’era una lieve nota di disagio da parte di Allen, di imbarazzo, per quella situazione che il silenzio tombale della stanza non faceva che accrescere, ma Amèlie non gli avrebbe fatto del male e non gli stava offrendo motivo di dubitare del contrario.
Voleva solo guardare, osservare, capire chi avesse davanti. Marian Cross non era esattamente il tipo capace di prendere sotto la sua ala dei potenziali allievi, ma la presenza di Allen alla Rosa Nera sembrava contraddire la sua piccola sicurezza. C’era lei, ma la questione era totalmente diversa: Cross era stato presente nella sua vita più di quanto fosse stato concesso agli altri, lo conosceva da ben diciassette anni. Un lasso di tempo che aveva indotto molti a pensare che il loro non fosse mai stato il tipico rapporto maestro/allieva che tutti avrebbero potuto credere: poche informazioni note non erano sufficienti a cogliere una storia, e la personalità di Amèlie non aveva mai lasciato fuggire nulla di quanto le apparteneva. Ciò che la univa al generale era suo e di nessun’altro, il che alimentava lo spessore di quelle ambiguità che spesso erano fonte di stupide dicerie campate per aria: il solo fatto che lei fosse una bella donna e che sua madre Rosalie avesse avuto una storia con quell’uomo scatenava sempre un turbinio di voci assurde e insensate, ma la gente che si divertiva a spettegolare era stupida o semplicemente incapace di farsi i fatti propri, dunque immeritevole di essere ascoltata.

Ora come ora, l’unico pensiero della bella corvina era quello di conoscere più a fondo lo scricciolo che gli stava davanti. Aveva un faccino così rigido e imbarazzato che le era difficile non sorridergli.

Questa maledizione ha tutta l’aria di essersi appena fortificata. Deve essere accaduto di recente. – Nel far scorrere il dito indice sui contorni scuri che disegnavano il pentacolo, la corvina socchiuse gli occhi, per poi concentrarsi sulla mano sinistra.

Era scura, raggrinzita e di un colore che tendeva al rosso sporco. Amèlie poggiò le sue dita sul dorso scoperto, scoprendo le irregolarità che lo solcavano, insieme alla croce nera incastonata a forza. A pochi metri da lei e Allen, Lavi e Crowley osservavano la scena con gli occhi sul punto di uscire dalle orbite.

Un tipo parassita, non ci sono dubbi -, continuò a pensare lei, ignorando le facce sconcertate dei due - L’intero braccio è infestato dall’Innocence. Se teniamo conto che quell’idiota non si è fatto sentire per quasi otto anni, significa che deve essersi manifestata precocemente, ma forse la deformazione fisica era già presente….-

Amèlie tornò a guardare dritto negli occhi Allen come per avere la conferma di quanto pensato. Le iridi del ragazzino erano di un curioso grigio dalle brillanti sfumature argentate, perfette per quei bizzarri capelli bianchi che si ritrovava. Un altro effetto della maledizione, fin troppo chiaro. Chiunque ne fosse stato l’autore, aveva voluto che Allen diventasse cosciente di una colpa commessa e che il suo peso lo aiutasse a tenerla sempre bene a mente. Un amaro sorriso si dipinse sulle sue labbra.

Dal tuo visetto spensierato, non si direbbe proprio che tu riesca a vedere un inferno più buio di questo. Ma mi sbaglio, vero, Cross? Lui può, più di tutti noi –, si ritrovò a pensare – Che povero e sfortunato bambino hai raccolto….-
- Amèlie-san, ha finito? – Si azzardò a domandare il giovane.
- …Sì. Adesso si – La donna gli tolse la mano dalla testa che aveva preso inconsciamente ad accarezzare, ma senza mancare di sorridergli – Spero non te la sia presa per questa piccola ispezione, ma in ventidue anni di carriera non avevo mai visto una maledizione vera e propria. –
- Ventidue? Siete un’Esorcista da così tanto? – Domandò stupito l’albino.
- Non te lo aspettavi, eh, Allen? – Si intromise Lavi - Anche se non sembra, la nostra Amèlie-chan è vecchiot…! –

SBAM!!

Era accaduto tutto nel giro di due secondi. Lavi non era neppure arrivato al termine della frase, che la corvina gli era balzata contro, facendolo sprofondare nelle viscere del pavimento con un sinistro da manuale.

- Ahia… Amèlie-shan, io sciavo sciolo… -, biascicò il rosso.
- Per essere un aspirante Bookman hai la memoria piuttosto corta. Quante pugni ti dovrò dare perché tu capisca la lezione? – Sibilò questa, con la pianta del suo piede appoggiata sopra la nuca del più piccolo.
- C-Che incredibile forza, invero… -, mormorò Crowley, più bianco che mai.
- Ma che le è preso?– Allen era sconcertato; cinque secondi prima Amèlie era una persona gentile e adesso sembrava aver perso ogni briciolo d’umanità.
- Voi, laggiù. – La suddetta guardò gli altri due esorcisti con un sinistro luccichio negli occhi che l’albino trovò spaventosamente simile a quello del maestro – Se ci tenete a rimanere vivi e con la testa attaccata al collo, mettetevi bene in testa che in qualità di signorina, apprezzo le buone maniere. Non è un problema che mi si chiami Amèlie-san o che mi venga dato del “Voi”, ci tengo ad essere rispettata, ma vi avverto: il primo idiota che oserà chiamarmi vecchia, strega, signora o definirmi con qualsiasi altro stupido aggettivo, finirà decapitato seduta stante. E’ chiaro il concetto? –
- Sì, cristallino! – Squittirono quelli, impauriti per come l’aura omicida della compagna avesse invaso l’intera stanza.
- Bene. Ora, seguitemi. –




Gli appartamenti privati di Amèlie avrebbero fatto invidia a qualsiasi nobildonna dell’aristocrazia. Vista da davanti, la Rosa Nera appariva di medie dimensioni, ma solamente visitandola dall’interno si poteva capire che era molto più grande di quanto desse a vedere. L’ala di cui si era appropriata la donna era quella più in fondo, distaccata dal resto della magione da un lungo corridoio illuminato da una serie di lumini opache disposti sulle pareti laterali. Allen, Lavi e Crowley non avevano avuto modo di osservare accuratamente ogni singolo angolo che avevano attraversato per arrivare fino a lì, dato che la Rosa Nera aveva aperto le porte ai clienti e si erano dunque ritrovati a passare per dei corridoi secondari, ma la stanza in cui Amèlie li aveva appena condotti era a dir poco mastodontica.

- Entrate, avanti.  Qui staremo un pochettino più a nostro agio. –
Un pochettino?!? – Si ritrovarono a pensare all’unisono i tre.

Un percettibile profumo di rosa e vaniglia li investì non appena la porta bianca alle loro spalle si chiuse silenziosamente. Una quantità ragionevole di candele rosse e bianche erano disposte ordinatamente su mobili di legno lucido e scuro che davano l’aria di essere molto costosi. Il solo vedere quanto grande e vistoso fosse il letto a baldacchino situato in fondo alla stanza, posto su due gradini che lo separavano dal pavimento base, insieme ai pochi quadri appesi alle pareti, i vasi e quei tre lunghi, morbidi e invitanti divani colmi di cuscini, disposti circolarmente attorno a un tavolino, bastò perché Lavi affermasse con assoluta certezza che ogni singolo pezzo presente in quella stanza fosse originale e importato da altri paesi. Fra questi doveva esserci sicuramente anche qualcosa appartenente alla Francia, la patria di Amèlie.

- Accomodatevi pure, fra poco vi verrà servita la cena. Sarete affamati -, continuò la donna nel mentre si slacciava i nastri posteriori del bustino, per poi sparire dietro ad un decorato paravento cinese – Vi avrei portato qui prima, ma ho dovuto sbrigare un paio di faccende. -
- Non si preoccupi, Amèlie-san, anche la stanza di prima andava benissimo -, disse Allen, sedendosi sul divanetto centrale.
- Si, ma non volevo correre rischi. Di questi tempi la prudenza non è mai troppa e non possiamo permetterci il lusso di abbassare la guardia. Oltretutto, ci tenevo a mettermi un po’ più comoda –, e tutti e tre videro il suo bustino venire appoggiato sulla sommità del paravento.

Allen e Crowley ebbero la prontezza di tenere fermo Lavi per entrambe le braccia, in procinto di lanciare un secondo “Strike!”, e porgere lo sguardo altrove. Il paravento non lasciava intravvedere nulla che non fosse l’ombra di Amèlie nel mentre si cambiava e per la loro stessa incolumità, era preferibile evitare altri colpi di testa.
D’un tratto, dalla stessa porta da cui erano entrati, sbucò una minuscola figurina che andò silenziosamente ad affiancarsi al tavolino, sino ad appoggiarvisi sopra tre vassoi argentati, tutti forniti di cibarie molto invitanti. Richiamò l’attenzione dei tre quasi istantaneamente: era la stessa persona che li aveva fatti accomodare nel salottino. Avrà avuto si e no tra gli otto e i dieci anni, a giudicare dalla bassissima statura: vestiva con un completo nero elegante a maniche lunghe, con una gonna vaporosa, adornata di ricami e pizzi, lunga fino al ginocchio, con tanto di guanti e grembiule bianchi, e scarpe con cinturino. Il viso era di una morbida e candida graziosità, appena imporporato di un leggero rossore all’altezza delle guance, sfiorate da una cascata di capelli color nocciola da biondi riflessi e così lunghi da avere le punte attorcigliate in soffici curve ondulate. Affascinanti sotto ogni punto di vista erano gli occhi poi: di un acquamarina brillante e pieno di sfumature smeraldine, con folte ciglia a renderli ancor più ammalianti.

- Vi ho portato la cena, signori Esorcisti. Spero sia di vostro gradimento. – La voce era sottile e leggera, quasi un sussurro.
- Cibo! – Esultò gioioso Allen. Sembravano secoli dall’ultima volta che aveva mangiato qualcosa.
- Ehi, sei la bambina di prima! – Esclamò Lavi – Sai che sei veramente carina? – Le disse, accarezzandole la testa - Come ti chiami? Quanti anni hai? –
- Lavi, non essere insistente: è una fanciullina, invero –, gli disse Crowley a bassa voce.
- Mai dai, Crowlino! Sto solo cercando di fare conoscenza, non le chiedo mica di uscire! Allora… -, e tornò bello pimpante a guardare la piccola – Me lo dici il tuo nome? –
- Pierre -, rispose con tono incredibilmente gelido e seccato.
- Pierre? – Lavi batté gli occhi perplesso – E’ più un nome da maschio che da femmina… -
- Ma io sono un maschio, idiota - , replicò - E ho tredici anni, se proprio ci tieni a saperlo. –

Seguì il silenzio. Un profondo e tombale silenzio che vide le tre differenti espressioni degli Esorcisti tramutare gradualmente sino ad esplodere in un sono e unisono:

- MASCHIO?!?! –

Sembrava impossibile, fuori da ogni logica umana che quella personcina così graziosa, dai lineamenti e soprattutto con abiti al cento per cento femminili fosse un maschio. Crowley era rimasto con occhi e bocca talmente spalancati da non riuscire più a ritirarli, Allen quasi si era strozzato col sandwich che si stava gustando e Lavi…Bè, Lavi era prima sbiancato e poi diventato di un viola funebre da paura.

- No, alt! Fermi tutti! – Si riprese – Tu sei un travestito?!? – Era troppo restio a credere che una così tenera graziosità non appartenesse al gentil sesso.
- Solo perché ho i capelli lunghi e indosso una gonna non significa che sia una femmina –, disse il piccolo – Se non ti basta, guarda qua -, alzata la gonna, fece per tirarsi giù la biancheria.
- ARGH! COSA FAI, SCEMO?!? – Il constatare che c’era quello che teoricamente Lavi aveva presupposto non esserci, lo fece capottare per lo shock.
- Un maschio…Non lo avrei mai immaginato, invero -, ammise Crowley.
- Amèlie-san, ci vuole spiegare? – Domandò Allen.
Da dietro il paravento si sentì un lieve sbuffo - E’ il mio pupillo -, rivelò la corvina, per poi schioccare le dita e chiamare il bambino a sé – Mi prendo cura di lui da sei anni. Non è delizioso? –
- Pupillo?!? – Strabuzzarono acutamente gli esorcisti.
- Sì, pupillo -, ripeté la più grande – E tanto per essere chiari, io non sono una ninfomane, ne una maniaca ne una pervertita -, specificò – Solo mi piacciono i ragazzini carini e adoro vestirli con abiti femminili di tanto in tanto. –

Lo aveva detto come se la cosa non fosse inquietantemente preoccupante.
Era indubbio che la faccenda si stesse facendo sempre più intricata e complessa, ma nessuno dei tre, nel mezzo di quella confusione mentale, seppe domandare altro. Nel mentre Lavi cercava ancora di riprendersi dall’aver fatto il carino con un ragazzino che, fra sé e sé, prima di scoprire la fatidica verità, aveva definito un amore, Allen e Crowley videro il suddetto ricevere istruzioni dalla corvina e ricevere un bel bacio in fronte prima di sparire dietro la porta da cui era comparso, senza neppure salutarli.
Urgeva dirottare i pensieri su un altro argomento prima che i loro cervelli iniziassero seriamente a interrogarsi su che razza di rapporto ci fosse fra la proprietaria della Rosa Nera e il suo giovanissimo discepolo. Nonostante quanto la corvina avesse detto pochi attimi prima, le amorevoli attenzioni che Allen aveva ricevuto pochi minuti prima dalla suddetta lasciavano spazio a non pochi pensieri ambigui….

- Amèlie, se non ricordo male, hai detto che ci stavi cercando da tempo. Come mai? – Domandò tempestivamente Aleister Crowley.
- Per riaccompagnarvi da Lenalee-chan e da Bookman e unirvi al vostro gruppo. Di recente ho spedito dei documenti a Komui sui diversi spostamenti effettuati dagli Akuma. Avrete notato anche voi che sono insolitamente numerosi, no? –
- Sì. Solo oggi abbiamo contato ventisette gruppi con almeno una trentina di Akuma a testa e tutti si stavano dirigendo a est, senza neppure provare ad attaccare gli esseri umani -, asserì Lavi, ripresosi dallo shock e allungando la mano per prendere un sandwich dal vassoio – Un tantinello sospetto. - Addentò quanto agguantato in un solo boccone.
- Più che un tantinello, direi parecchio sospetto -, sopraggiunse Allen, nel prendersi addirittura l’intero vassoio. Poi un pensiero lo colse di sorpresa – La caccia ai Generali non centra nulla con tutto questo, vero? -
- No, non del tutto. L’uccisione di Kevin Yeegar era un’esca studiata per mobilitare tutti gli esorcisti dell’Ordine -, rispose la donna, uscendo da dietro il paravento e andandosi a sedere sul divano posto di fronte a quello dei tre, con solo una vestaglia di raso rosso indosso piena di ricami – Il Conte del Millennio punta a scovare il Cuore e sa che ci stiamo adoperando per raccogliere più frammenti di Innocence possibili: ha colpito volutamente uno dei Generali per indurci a credere che, senza di loro, diminuiranno le nostre possibilità di trovarlo, ma tutto quello che voleva era che uscissimo allo scoperto e partecipassimo ai suoi provini. –
- Provini? –
- Esatto. -

Prima di accoccolarsi meglio contro il morbido schienale del divano, Amèlie aprì una piccola scatolina argentata contenente delle sigarette spesse e color marrone. Senza chiedere se ai tre desse fastidio il fumo, se ne portò una alle labbra, accendendola con fiammifero che abbandonò in un posacenere lì vicino. Un gesto che ad Allen ricordò per la seconda volta il maestro.

- Quella palla di lardo è un irrimediabile e fottuto megalomane -, spiegò poi lei, accavallando le gambe e scoprendole alla luce della candele – Ogni sua mossa fa parte di un preciso copione che segue, scrive e dirige personalmente. Per lui, tutto questo non è che uno spettacolo e al momento noi siamo ancora fermi ai preparativi. Lui sa che siamo in pochi, sa che stiamo cercando di stanarlo e vuole che andiamo da lui. Gli Akuma si stanno spostando ad est perché li sta chiamando a sé e sa che seguiremo questa pista, ma sta comunque facendo di tutto per ridurci di numero perché così vuole. Per questo motivo ha chiamato in campo la famiglia Noah. –

A quel nome, Allen contrasse la mascella, stringendo il pugno del braccio sinistro nel ricordare il volto della sola figura appartenente a quella categoria che avesse mai incontrato: Road Kamelot.
Aveva giocato con lui giusto per avere un’idea di chi fosse l’Esorcista di cui il Conte parlava tanto, per riempire il vuoto creato dalla sua curiosità e poi dileguarsi nel nulla con soddisfazione personale. Un capriccio infantile che aveva fatto conoscere all’albino un altro aspetto di quella guerra millenaria.
I Noah non erano Akuma, ma esseri umani speciali la cui esistenza era parallela a quella del Conte del Millennio e il loro nome indicava un lato oscuro e segreto della storia le cui tracce non erano mai state documentate ufficialmente. Gli apostoli del vero Dio, come li aveva definiti Road stessa. Un nemico dalle mille sorprese.

- Bè, non è che questa sia una novità -, intervenne Lavi, incrociando braccia e gambe – Escludendo quanto Komui ci ha già riferito, diverse unità sono state decimate in circostanze misteriose: sui corpi degli Esorcisti non sono stati riscontrati segni di lotta, ma a tutti mancava il cuore, come se fosse stato tolto. –
- Già, sono stata informata al riguardo -, annuì la donna - E’ probabile che nella ricerca dei Generali, si siano imbattuti in un membro di questo gruppo con un potere specifico e che siano stati sconfitti. Non so quanti di quegli esseri siano in circolazione, non ho mai avuto occasione di incontrarne uno, ma più esorcisti eliminano, più Innocence distruggono. Comunque, non è di loro che dobbiamo occuparci adesso –, disse, cambiando discorso – Ora come ora, è indispensabile riunirci a Lenalee-chan e a Bookman il prima possibile e proseguire a est di qui. Se non sbaglio, anche voi stavate proseguendo in questa direzione prima di perdervi. -
- Sì, l’abbiamo presa in base alla percezione di Timcampi. E’ l’unico che riesca a seguire le tracce del maestro, anche se a grandi linee –, rispose Allen, ricordando che il piccolo golem dorato era rimasto con la cinese.
- Deve esserci sotto qualcosa di molto grosso, se il Conte sta chiamando così tanti Akuma a sé… -, mormorò Crowley, con il mento appoggiato fra l’incavo dell’indice e del pollice – Ma poi, perché proprio a est? –
- Perché là c’è il Giappone o meglio, la città di Edo -, gli rispose la corvina, espirando dalla bocca una leggera nuvola di fumo - E’ là che si trova l’impianto di produzione di massa degli Akuma. –
- Cosa? – Sembrava assurdo, ma l’espressione seria dell’esorcista non dava spazio ad alcuno scherzo.
- Fammi indovinare, Amèlie-chan: queste informazioni le hai ottenute col Sigillo di Verità –, azzardò Lavi.
- Il che? – Allen non capì di cosa stesse parlando il compagno.
- Oh, ma allora la memoria ce l’hai, Bunny Boy –, rise lei – Comunque, la risposta è sì: all’inizio non ne ero sicura, tutto quello che avevo in mano erano solo delle voci quasi del tutto infondate, ma l’aumentare degli Akuma e i loro spostamenti mi hanno insospettito e così mi sono data da fare. Non ho scoperto molto, salvo che il Conte si trova ad Edo e che sta ultimando i preparativi per l’Arca. Non ho idea di che cosa sia, ma so per certo che anche Cross si sta dirigendo laggiù. Se escludiamo gli anni che ha trascorso per allenare Allen-kun, è il generale di cui si hanno meno notizie al momento e quando sono venuta a sapere di Edo, mi è bastato indagare un altro po’ per scoprire che anche lui stava seguendo questa pista già da molto prima di noi. Ha sempre tento d’occhio le azioni del Conte di nascosto, ma solo di recente ha effettuato degli spostamenti significativi, il che significa che sta per succedere qualcosa di grosso. –

Nell’ingoiare l’ennesimo sandwich, Allen si ritrovò inconsciamente ad annuire e ad abbassare lo sguardo. Il maestro non era il tipo che si muoveva al primo segnale di fumo, sapeva distinguere un innocuo fuocherello da un potenziale incendio, ed Edo aveva tutte le potenzialità per essere inserito nel secondo gruppo. L’enigmaticità del Conte del Millennio rappresentava un pericolo più infido di qualsiasi altro male presente al mondo e più si scavava nei suoi strati, più ne emergevano. Era costante come il suo sorriso, sbriciolava qualsiasi sicurezza e speranza erettasi contro d’essa, ma per quante volte la si fronteggiasse, aveva sempre un asso nella manica. Il Conte del Millennio era l’essere più arrogante, crudele e sfacciatamente pazzo che fosse mai esistito, così pienamente consapevole da ridere sopra a ogni stupida paura, e gli Esorcisti lo combattevano per questo. Qualunque cosa fosse quell’Arca che stava ultimando a Edo, andava fermata prima che succedesse l’irreparabile.





Note di fine capitolo:
A passettini arrivo….
Che dire… Amèlie è una gran donna. Particolare ma grande e spero di potermi sbizzarrire ancor di più con lei e tutto il mondo di D Gray Man. Ringrazio tutti i lettori e chi mi recensisce, è sempre bello leggere le opinioni altrui! Spero non ci siano errori; controllare io l’ho controllata, ma dopo un paio di riletture gli occhi mi si incrociano….
A presto, spero!
http://ciril09.deviantart.com/art/new-arrive-353900007    Amèlie senza maschera.

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Capitolo 5
*** Survey. ***





Arrivare in Cina si rivelò più facile del previsto.
Per una volta tanto sembrava che la fortuna girasse dalla parte degli Esorcisti, ben grati di compiere un tratto del loro viaggio senza inutili interruzioni o attacchi improvvisi.
L’unica pecca era il mezzo di trasporto: una volta lasciata la Rosa Nera, Allen, Lavi, Crowley e Amèlie avevano attraversato diverse zone a piedi, per poi prendere un paio di treni, scendere nei pressi di una stazione campata per aria e proseguire nuovamente a piedi. Davanti a loro si stagliava una pianura irregolare e fiorita, seguita in lontananza da alture elevate e rigogliose, con qualche spiazzo attraversato da fiumiciattoli freddi che il sole scaldava tenuamente: Lenalee e Bookman si trovavano esattamente aldilà di quel paesaggio.

- Se continuiamo con questa andatura, entro sera dovremo raggiungere uno dei villaggi che si trovano a circa metà di quella montagna - , disse Lavi, con in mano una cartina, indicando quello che assomigliava a un malformato e piccolo rigonfiamento di terra e erba - Da lì basterà seguire il percorso principale che ne attraversa tutto il fianco. Meno male! Eviteremo di scarpinare fino alla cima -, sospirò sollevato.
- Speriamo solo che il posto sia abitato. Le ultime abitazioni che abbiamo visto erano abbandonate, invero -, ricordò Crowley.

Sin dalla mattina precedente, i quattro avevano contato almeno tre villaggi senza trovarci uno straccio di vita umana: la maggior parte delle case erano fatiscenti, ridotte a muri mezzi crollati e travi di legno divenute marce per via dell’umidità.

- Non è niente di cui stupirsi. Quei luoghi venivano utilizzati esclusivamente da minatori o agricoltori. Qui intorno ci sono molte cave e campi coltivabili ora inutili, ma in passato la gente si stabiliva qui e ci rimaneva fin quando le risorse non si esaurivano o la terra non era più coltivabile - , spiegò la francese, col cappuccio del mantello nero calcato in testa.
- E' ben informata su queste zone, Amèlie-san -, notò Allen.
- Merito di Anita. -
- E chi è? –
- Una mia cara amica, è da lei che stiamo andando -, rivelò lei - Si tratta di una collaboratrice dell’Ordine Oscuro che gestisce un locale simile al mio. Quando ho cominciato a sospettare che Cross stesse seguendo la pista di Edo, le ho telefonato e ho scoperto che prima di partire per il Giappone, è stato il suo amante nell’ultimo anno. -
- Tipico del maestro -, sospirò con faccia funebre l’albino.
- Non sembri molto sorpreso, Allen, invero –, si accorse il rumeno, sollevando un sopracciglio.
- E’ perché lo conosco bene -, continuò l’Esorcista, reprimendo la moltitudine di traumi che quell’uomo gli aveva procurato in quattro anni d’addestramento – Non dando sue notizie all’Ordine Oscuro, il maestro non ha più ricevuto il suo stipendio e di conseguenza è sopravvissuto facendo debiti o diventando l’amante di diverse matrone. A volte, quando non avevamo niente, procuravo io qualcosa col gioco d’azzardo -, raccontò sinteticamente.
- Tu giochi d’azzardo? – Si sorprese la corvina, aggrottando la fronte.
- Dovresti vederlo all’opera, Amèlie-chan! – gli sussurrò Lavi, ancora incredulo per la dimostrazione fattagli la prima volta – E’ un autentico demonio! Un baro di prima categoria! –
- Concordo, invero! – Si unì Crowley, annuendo vigorosamente.

Nel guardare con occhi scettici il viso d’angelo di Allen Walker, Amèlie fu indecisa se stupirsi di quella rivelazione scioccante o pensare che chiunque avesse a che fare con Marian Cross fosse inevitabilmente costretto a sviluppare un lato oscuro che ne permettesse la sopravvivenza.

Quel dannato imbecille maniaco delle sottane…Mai una volta che si comporti da uomo adulto e si assuma le proprie responsabilità… -, pensò lei, nell’appoggiare la fronte contro il palmo della mano.
- Amèlie-san, il suo golem sta emettendo un segnale -, l’avvertì l’albino.
-Cosa? –

Allen aveva ragione: il piccolo aggeggio nero, simile a un minuto pipistrello tondo, era uscito di sua spontanea volontà da una delle tasche della sua vaporosa gonna, vibrando e svolazzandole freneticamente attorno. Qualcuno stava cercando di mettersi in contatto con loro.

- Uhm…Vediamo un po’ chi c’è… - Stabilita la frequenza, il golem proiettò di fronte agli Esorcisti l’immagine nitida di uno studio caotico. Al centro, c’era un uomo con un berretto bianco in testa e quasi sommerso da carte e libri.
- E’ Komui-san! – Lo riconobbe il quindicenne.
- Ehilà, Komui! Come mai questa chiamata? – Lo salutò allegramente Lavi.
- … – Silenzio di tomba dalla parte del Supervisore.
- Ma ci sente? – Domandò Crowley, inarcando il sopracciglio.
- Komui? Oi, Supervisore, mi senti? – Tentò Amèlie.
- … – Di nuovo nessun segnale di vita da parte dell’uomo.

Scambiandosi delle veloci e complici occhiate, i tre Esorcisti, escluso il rumeno confuso – ancora all’oscuro di come si dovesse svegliare il Supervisore -, annuirono per poi accostarsi meglio davanti al golem e pronunciare all’unisono:

- Lenalee si sposa. –

3…2…1…

- LENALEEE!!!!!!!!!!!!!!! – Carte e cartacce esplosero in aria e il fratello maggiore della cinese tornò in vita seduta stante – Oh, ragazzi! Qual buon vento! Come mai questa chiamata improvvisa? – domandò poi, pimpante.
- Ma se ci hai chiamato tu!!! – Strepitarono loro per la seconda volta all’unisono.
- Eh? Ah, sì, sì! Avete ragione! Colpa mia! – Se la rise su quello, ignorando gli sguardi esasperati degli Esorcisti – Il fatto è che ho appena finito di leggere un rapporto riguardante alcuni possibili rilevamenti di Innocence dalle vostre parti e vi ho contattato per un’eventuale spedizione. -
- Impossibile. Conosco bene la morfologia di queste zone, montagne incluse -, replicò immediatamente Amèlie – Se ci fosse stato qualcosa di strano, lo avrei saputo. -
- Questo è vero: anch’io, all’inizio, ho pensato che fosse una falsa pista. Le informazioni raccolte sono per lo più vaghe testimonianze di alcuni viaggiatori e risalgono a diversi anni addietro, ma di recente ci sono arrivate delle segnalazioni riguardo a strani terremoti e avvistamenti sospetti, tutti verificatesi nel medesimo posto e con intervalli regolari. Non abbiamo la certezza assoluta che si tratti dell’Innocence, ma ho pensato che fosse comunque opportuno verificare –, illustrò loro il cinese, sistemandosi gli occhiali con il dito indice della mano destra.
- Bè, mi sembra giusto, tanto più se siamo di strada -, concordò Allen – Quale sarebbe il punto che dobbiamo controllare? –
- Ah, non lo so mica –, se ne usci il Supervisore, facendo le spallucce.
- Cosa? Komui, scherzi, vero? – chiese Lavi allibito.
- No, no, sono serissimo! – Rispose l’uomo, sebbene la sua faccia dicesse l’esatto contrario – I rapporti dicono solo che gli avvistamenti sono stati registrati nei pressi delle montagne che avete davanti, mica indicano il punto preciso –, spiegò lui, come se l’intera faccenda non fosse grave.
- Cioè, ci stai dicendo che dovremo fare su è giù come dei cretini per un frammento di Innocence che forse manco c’è?! – Si irritò Amèlie.
- Esatto! Buona fortuna! -
- Non ti azzardare ad attaccare, dannato….! – E per la seconda volta, Komui stroncò la chiamata.

I quattro Esorcisti rimasero lì, ammutoliti e col golem nero a svolazzare tranquillamente davanti a loro. Il silenzio calato rasentava una certa esasperazione, che si ruppe giusto pochi secondi dopo.

- Detesto quando fa così -, sbuffò la corvina, dandosi una calmata.




Arrivarono al villaggio un secondo prima che scoppiasse un violento acquazzone. Il tempo in montagna era sempre imprevedibile e grossi nubi nere avevano oscurato il cielo e il sole in un battito di ciglia, avvisando l’arrivo della pioggia con rombi di tuoni e soffi di vento violenti. La locanda “Il minatore” era l’unico albergo disponibile, benché assomigliasse più a una baracca mal costruita che a un posto caldo e accogliente, ma il diluvio che imperversava fuori dalle sue finestre aveva ridimensionato di molto le alternative a disposizione degli esorcisti.
La pioggia picchettava pesantemente contro i vetri e rendeva pressoché impossibile vedere quel manipolo di abitazioni dall’aria pericolosamente instabile.
Era buio pesto e le lanterne a olio che penzolavano sopra le poche porte visibili illuminavano scarsamente la strada smussata e sassosa che si apriva in un sentiero tortuoso il cui fondo era inghiottito dall’oscurità. In pratica, di uscire, non se ne parlava neppure da morti.

- Yamn! Meno male che abbiamo trovato un posto dove riposare. Ho così sonno che potrei addormentarmi anche sul pavimento -, proferì Lavi, stiracchiandosi le braccia.
- Già, ma se continua così non potremo muoverci domani, invero. – Crowley indicò la finestra, dove il tempo sembrava essere peggiorato.
- Tranquillo, Crowlino, mi sono informato: l’oste ha detto che temporali del genere sono all’ordine del giorno e che durano poco. Tempo un’oretta e vedremo un bel cielo stellato –, garantì il rosso, appoggiando le braccia incrociate sul bancone e mettendoci poi sopra la testa.
- Se lo dici tu…Dove sono Allen e Amèlie? –
- Al tavolo laggiù, dietro quelle tre pila di piatti. Anche se non si direbbe, Allen è capace di mangiare per l’intera Home e uscirne ancora affamato … -




Quando lo stomaco di Allen Walker reclamava cibo, era molto difficile che riuscisse a sfamarsi con un misero pasto da tre portate. Nessuno avrebbe mai pensato che un fisico mingherlino come il suo fosse capace di svuotare una dispensa grande quanto un magazzino, ma era sempre dai più insospettabili che bisognava aspettarsi l’impossibile. Le pile di piatti spazzolati occupavano quasi tutto il tavolo di legno scuro e avevano attirato l’attenzione dei pochi clienti che erano rimasti: evidentemente non dovevano aver mai visto un ragazzino mangiare così tanto da fare impazzire il cuoco e chiedere pietà. Ma non era il solo a essere guardato a sottecchi…

- Ehi, hai visto quella? –
- Però! Davvero niente male! –
- Ha un davanzale da paura! Io quasi quasi ci provo! -

Da quando avevano messo piede all’interno della locanda, Amèlie era stata squadrata dalla testa ai piedi più volte e ancora c’era qualcuno che la guardava con occhi sfuggenti e piuttosto inebriati dall’alcool. Non ci voleva poi molto a immaginare che tipo di pensieri quegli uomini si stessero facendo nei suoi confronti, ma lei era troppo occupata a fare tutt’altro per prestare attenzione a un’accozzaglia di zoticoni sessisti che non conoscevano la benché minima ombra di galanteria nei confronti di una donna – parole sue -: finito il suo pasto, aveva tirato fuori un corposo libricino nero, una penna d’oca con boccetta d’inchiostro e un pacchetto di fogli sottili e giallastri che tutt’ora leggeva e rileggeva. Il fatto che le cibarie ordinate dal compagno fossero alquanto ingombranti pareva non importarle, tanto era presa a lavorare su quei fogli.

Ad Allen, invece, il suo silenzio non faceva altro che incuriosirlo.

Aveva di fronte a sé l’allieva maggiore di Marian Cross, la persona che – a detta di Lavi -, conosceva meglio di chiunque altro il Generale e contro cui l’uomo stesso, stranamente, preferiva tenersi lontano. Sul perché il maestro non gli avesse mai parlato di lei, Allen aveva già qualche sospetto e parte delle sue ipotesi si ricollegavano non soltanto al carattere della donna, ma anche ad alcuni suoi gusti personali: Amèlie era una donna di polso, decisa e autoritaria, capace di bilanciare la sua inflessibilità con quella gentilezza e quel fare materno che meglio esprimevano il suo saper amare le persone care, ma anche in grado di suscitare terrore se la si chiamava con tutta quella serie di aggettivi che non dovevano essere pronunciati neppure per scherzo. Una persona caparbia, irriverente, con un’essenza demoniaca contro cui perfino quel sadico del suo maestro avrebbe avuto qualche problema. Il solo poi ricordare le sue stanze private fece sì che ancora una volta l’ombra del generale dai capelli rossi gli pesasse sulle spalle: anche lei amava un stile di vita agiato e pieno di comodità ricco e raffinato, ma a differenza del mentore sapeva come procurarselo senza indebitarsi l’anima. La maschera di pizzo nero che portava costantemente sul viso scindeva in due parti la sua identità, alternandole a seconda dell’occasione: era un’Esorcista, ma anche la padrona della Rosa Nera e l’incolumità dei suoi sottoposti dipendeva da quel piccolo pezzo di stoffa che portava quasi sempre indosso.

- Nessuno degli abitanti ci è stato utile nelle ricerche - , la sentì parlare, mentre teneva gli occhi fissi sul libricino e rigirava con una delle mani la goccia di rubino che portava al collo – Degli avvistamenti descritti da Komui non c’è nessun segno e nemmeno di fenomeni che possano ricollegarsi all’Innocence. Spero che Lavi abbia più fortuna col proprietario di questo posto: dovere o meno, trovare una frammento di cristallo divino in luoghi come questi è come cercare un ago in un pagliaio. –
- Stia tranquilla, di solito le segnalazioni di Komui-san sono azzeccate e comunque siamo in anticipo ai tempi prestabiliti -, le garantì il ragazzino, sorridendole – Ma voi cosa state….? –
- Conti -, gli rispose la donna, intuendo la sua domanda – Del nostro caro e adorabile maestro. Immagino che ogni tanto anche tu debba farli, vero, Allen-kun? -

Bastò quella singola parola perché un macigno di oltre dieci tonnellate si schiantasse sulla testa dell’albino e gli ricordasse che nel suo alloggio personale c’era un intero armadio pieno zeppo di carte e ricevute che attendevano solo di rapirlo e svuotargli le tasche.

- Dunque, anche a lei… -, cercò di dire il più giovane.
- Mi deve dei soldi, sì. Più di ventisei anni di arretrati, per essere precisi-, affermò la corvina, con un sorriso che non nascose un vistoso segno d’arrabbiatura - Quella sottospecie di faina ha un debito apocalittico con la Rosa Nera sin da quando era sotto la gestione di mia nonna e sono diciassette anni che gli do la caccia per estorcergli ogni singolo centesimo che mi deve, ma questa volta… -, e lì, insieme ai segni e al sorriso, si affiancò una spaventosa aura omicida – Questa volta lo becco. Oh, se lo becco. Che vada pure a chiedere asilo politico all’Inferno: ce lo tirerò fuori a costo di trascinarlo per i capelli. -

E infine, il sospetto divenne certezza, e quasi subito Allen si pentì di aver voluto scoprire il terribile segreto che si celava in quel libricino.
Nel sorriso di Amèlie si leggeva chiaro e tondo un inquietante sadismo pronto a fare in mille pezzettini il maestro, se questo non le avesse dato i soldi che le doveva. Il lato positivo era che sarebbe esploso solo quando avrebbe avuto a portata di tiro il suddetto, quindi, fino ad allora, l’orgoglio e l’educazione l’avrebbero aiutata a mantenere quel comportamento dignitoso e composto che le era stato impartito fin da bambina.

- Comunque sia… -, e si rivolse nuovamente all’albino, portandosi dietro l’orecchio una lunga ciocca nera – Tu non devi preoccuparti, Allen-kun. Non sono tanto crudele da appiopparti questo debito, è una faccenda personale. Hai già i tuoi di cui occuparti, anche se pochi. –
- Pochi? – Il ragazzino quasi rischiò di strozzarsi con un pezzo di bistecca - Con tutto il rispetto, Amèlie-san, i miei debiti sono giganteschi! – Si ritrovò ad obbiettare – Mi faccia vedere a quanto ammonta il suo! –

Non voleva dimostrare nulla di particolare, se non ribadire che la crudeltà del maestro era una croce più grande addirittura di quella di essere un Esorcista capace di vedere le anime degli Akuma e di cui non si sarebbe mai liberato. Amèlie lo capì perfettamente, ma sapeva benissimo che se avesse mostrato all’inglesino la cifra a cui ammontava il debito fino a quel giorno, lo avrebbe ucciso seduta stante.
Stette per dire di no, quando al suo fianco si parò un uomo dagli abiti consunti e dal volto poco curato. I capelli unti gli toccavano le guance disordinatamente e l’intero mento era coperto da uno strato di barba scura e pungente.

- Serve qualcosa? – Domandò Amèlie.
L’uomo sogghignò, lanciando un’occhiata ai suoi compagni rintanati al tavolo in fondo e curiosi di vedere la scena – Io e miei amici ti abbiamo visto entrare insieme a questo moccioso e agli altri due tizi -, disse poi, senza tanti giri di parole e con voce instabile e trascinata.  

Era ubriaco marcio. Il suo alito puzzava di liquori misti e dalla pelle trasudava un odore appiccicaticcio e disgustoso.

- E allora? – Incalzò freddamente l’Esorcista.
- E allora…Ci stavamo chiedendo se fossi disponibile per un…Giretto. Con tutti noi -, riprese, guardando con spudoratezza malcelata la scollatura del suo bustino – Abbiamo messo insieme i soldi e scommesso su chi sarebbe riuscito a convincerti. –
- Ah…E ti sei fatto avanti tu perché sei l’unico che ancora si regge in piedi? – Gli domandò Amèlie, tornando al suo libricino – Fai un favore a entrambi: ritornatene al tuo tavolo. -
- Suvvia, non fare la preziosa. Ti ho detto che ti paghiamo! – Esclamò con insistenza quello – Avanti… -

Era a pochi centimetri dallo stringerle il braccio quando si sentì afferrare e tirare in avanti inaspettatamente. Nello sbattere le ginocchia a terra e il mento sul tavolo, urlò non appena sentì la sua mano venire infilzata da una forchetta e tenuta ferma dalla donna. L’intera sala piombò nel silenzio. Allen era senza parole quanto Lavi e Crowley.

- La mia…La mia man…! – Gemette l’uomo, tenendosi con l’altra quella sanguinante – Tu, brutta stronza…! – Ringhiò, cercando poi di afferrarla.
- Vuoi davvero farlo? Fossi in te abbasserei gli occhi –, gli consigliò candidamente lei.

L’ubriacone si bloccò, sentendo una lieve pressione all’altezza del cavallo dei pantaloni. Amèlie gli stava puntando contro la lama del coltello.

- Sai che…L’interno coscia di un uomo è particolarmente vulnerabile? - Gli rivelò lei, facendo scorrere la punta della lama sulla parte menzionata – Se si colpisce l’arteria femorale nel punto giusto e con la giusta forza, una persona può morire dissanguata in circa sette minuti. Il flusso di sangue è praticamente inarrestabile e il dolore è così insopportabile da rendere questo cortissimo lasso di tempo interminabile. Io faccio ancora fatica a colpire il punto esatto, ma forse chissà…Con te potrei anche centrarlo -, sussurrò poi - Vogliamo provare? –

Negli occhi lucidi e giallognoli dell’uomo brillò un barlume impietrito che si tramutò in altro dolore quando Amèlie gli tolse la forchetta dal dorso della mano e lo scaraventò a terra con un calcio.

- Patetico… -, mormorò la donna.
- Amèlie-san! - Allen si ritrovò a pronunciare il suo nome con un tono incerto, fra lo stupore e il disappunto. Aveva seguito l’intera scena senza neppure avere la possibilità di dire o fare qualcosa al riguardo, cosa di cui si rese conto troppo tardi.
- Lurida cagna, io ti…Argh! – Nel tentativo di inveirle contro, l’ubriaco, ormai lucido, si ritrovò a stringere i denti per come Amèlie gli stava pestando la mano ferita con il piede.

Con movimento fluido e rapido, la corvina estrasse dalla tasca dei suoi pantaloni un piccolo rotolo di banconote tenute insieme da un elastico, che tolse per contare velocemente il denaro. Segnata mentalmente la cifra, tornò a guardare l’uomo: i suoi occhi stavano cercando di fulminarla in tutti i modi possibili.

- Disgustoso e raccapricciante pezzente che non sei altro… -, sibilò successivamente, lanciando via le banconote – Con questi soldi non riusciresti neppure a trovare un medico decente che ti ricucia la mano, come pretendi che possano convincermi a venire con te e con i tuoi amici? – Gli domandò con maggior freddezza – Forse andranno bene a qualcuna così stupida da non avere più alcuna considerazione per se stessa, ma indipendentemente da come siano e cosa fanno, le donne vanno amate e trattate come regine. Vedi di tenerlo bene a mente per le tutte le altre volte che ti rivolgerai a loro come fossero un oggetto. -

Si rimise in piedi senza degnarlo neppure di un ultimo sguardo, voltandosi verso il resto della sala. L’intenzione di godersi una cena senza problemi era sfumata del tutto, ma di andare a scusarsi per quanto capitato era fuori discussione; aveva già lo sguardo di Allen a cui pensare e in tutta onesta, quegli occhi argentati aveva sortito uno strano effetto su Amèlie sin dalla prima volta che li aveva scrutati. Ambigui sotto tutti i punti di vista, di un color nebbia inusuale e quasi anormale.
Realizzò solo due secondi dopo che il braccio di quest’ultimo era trasformato e puntato contro gli altri presenti rintanati al tavolo in fondo, probabilmente decisisi a intervenire.

- Consiglio a tutti quanti voi signori di non disturbarci più. Non siamo qui per cercare guai -, disse schiettamente il quindicenne.

E in un attimo, metà dei clienti levò saggiamente le tende e lasciò i boccali ancora mezzi pieni di liquori e birra.

- Tutto a posto -, bofonchiò Lavi, esibendo un grosso sbadiglio – Bene, Crowlino, possiamo tornarcene a dormire… - E si rimise nella posizione iniziale, accoccolando per bene la testa.

Crowley non poté che girarsi con lui, seppur la sua mente fosse ancora ferma a quanto capitato. Non essendo mai uscito dal castello di famiglia, una rissa in un posto del genere gli era nuova come quasi tutto il restante andirivieni del mondo.
Allen e Amèlie invece erano ancora lì, in piedi, quasi ci fosse qualcosa in sospeso. Se la bella francese dava l’impressione che fosse tutto a posto, con quell’espressione annoiata dal contesto generale, l’albino pareva non essere in grado di esprimere a parole quanto ribolliva pian piano nel suo animo. Simili eventualità non gli erano estranee, anzi, era sempre solito domandarsi se la troppa calma non fosse sospetta. Le intenzioni di quell’uomo erano state chiare fin dall’inizio, più della puzza d’alcool che gli era arrivata fin sotto al naso…

…Eppure, nonostante Amèlie si fosse semplicemente difesa e lui non fosse così stupido da credere che a quel mondo esistesse solo gente buona…Qualcosa, nel comportamento dell’amica, lo aveva infastidito. E il non riuscire a esternarlo davanti a quella stessa persona, lo costrinse a soffocarlo.

- Credo che tu li abbia spaventati più di quanto abbia fatto io con il loro amico -, disse la donna, tornandosi a sedere e sistemando le carte messe da parte – Ma grazie dell’aiuto, Allen-kun. -
- Volevano attaccarvi di spalle e non mi sembrava giusto, tutto qui. E comunque, ora che siete in debito con me, mi farete vedere a quanto ammonta la cifra che vide il maestro -, le disse lui, con quel sorriso dolce e gentile che non nascose affatto il suo lato oscuro e approfittatore.
Alla faccia dell’innocentino.– Amèlie osservò da capo a collo il quindicenne con la rinomata consapevolezza che la capacità di Cross di rovinare chiunque incappasse sul suo cammino era pressoché infallibile.

Ciò che era riportato sul suo prezioso libricino era una serie di numeri equiparabile a tutti i tabù di quel mondo messi insieme, una cifra cresciuta giorno per giorno, che sconfinava a tal punto da risultare disumana anche per il più avido e subdolo degli strozzini.

- Non penso ti convenga. Moriresti. – E lo disse con tutta la serietà di cui era dotata.
- Guardi che non ho mica paura, Amèlie san -, le garantì insistentemente l’albino - Sono sopravvissuto alle angherie del maestro per quattro anni e probabilmente mi porterò nella tomba tutti i debiti che ancora non ho pagato, ma non lo faccio certo per vantarmi quando dico di essere abbastanza forte da reggere qualsiasi colpo che gli riguardi. –

Fra tutte le armi di cui Allen Walker disponeva, il Positivismo forzato era senz’ombra di dubbio la più incrollabile delle sue difese, la barriera per eccellenza che aveva tramutato l’orrore dei debiti del maestro in una solidissima arma capace di respingere qualsiasi altra angheria pronta a piombargli addosso. Niente a quel mondo poteva superare l’immagine dell’armadio della sua stanza e le migliaia di scartoffie stipateci dentro.

- Non a questo, Allen-kun. Fidati -, insistette lei, a sua volta – Non hai il cuore abbastanza forte e francamente mi dispiacerebbe avere un bello scricciolo come te sulla coscienza. -
- Oh, dai! E che sarà mai? – Tornò alla carica l’albino, esibendo tutta la sua candida gentilezza in un sorriso quasi accecante – Per favore… -

Sarebbero potuti andare avanti in eterno, tant’erano testardi a modo loro. Se la cifra non fosse stata tanto astronomica, Amèlie forse non sarebbe stata tanto restia a tenerla per sé, ma era fin troppo cosciente dei danni che avrebbe potuto procurare a un ragazzino sfortunato come Allen Walker. Non che dubitasse della sua forza, ma non le era sfuggito l’improvviso pallore comparso sul già latteo volto dell’albino quando aveva pronunciato per la prima volta la parola “Debiti”.

- E va bene, come preferisci tu… -, decise lei. Se proprio ci teneva a farsi del male da solo… - Ecco qua -, e mostrò al ragazzino un bigliettino con sopra scritta la cifra a cui ammontava il debito fino alla settimana scorsa.

Allen prese il foglietto e lo aprì, per poi cominciare a far scorrere i suoi occhi argentati sugli zeri che lo riempivano. Contò due file, tre, cinque…Dodici…

STOMP!
 
- ALLEN! – Il tonfo prodotto dallo stramazzo al suolo dell’albino aveva fatto tremare l’intera locanda, allertando nuovamente Lavi e Crowley.
- Oi, Allen! Che ti prende?! Ehi, mi senti?! – Esclamò il rosso, scrollandolo per le spalle.
- Z..Zeri…………T-T-Troppi ze………Ri….. –, farfugliò quello più bianco di un lenzuolo.
- Zeri? Che significa, invero? – Domandò il rumeno.
- Lo sapevo che non aveva il cuore abbastanza forte -, sospirò Amèlie, scuotendo debolmente la testa.




- Ehi, voi quattro state cercando informazioni utili? –

Un bambino di circa dieci anni si avvicinò con fare quatto al tavolo dei quattro Esorcisti. Era minuto, con occhi a mandorla e capelli neri molto disordinati. Dava l’aria di uno che si era fatto coraggio dopo tanti attimi di esitazione; tutto il corpicino era rigido e con i pugni stretti lungo i fianchi.

- Dipende da che cosa intendi per “utili”, piccolo - , gli sorrise Lavi.
- Vi ho sentiti fare domande ai clienti e a mio zio su certi fatti strani -, continuò quello imperterrito – Io vi posso aiutare. –
- Ah, si? Sai qualcosa? – Domandò Crowley.
- Certo, io…. –
- Taro! – L’oste, un uomo corpulento e mezzo calvo, arrivò alle spalle del piccolo, dandogli un forte pugno in testa – Non infastidire la clientela con le tue stupidaggini! –
- Ma, zio! E’ importante! Loro possono aiutarci a trovare Lua! – Replicò il bambino tenendosi la testa.
- Lua? E chi è? – Si intromise Amèlie.
- L’altra mia nipote -, le rispose il burbero uomo – Lei e Taro stamattina sono andati a prendere delle erbe medicinali per la madre, ma chissà per quale motivo, si sono divisi…. –
- Io te l’ho detto! – Esclamò il corvino, alzando la voce – Io e Lua abbiamo visto dei mostri e siamo scappati via prima che ci vedessero e ci siamo divisi per depistarli! L’ho aspettata sul sentiero principale, ma lei non si è fatta vedere! –
- Hai detto dei mostri? – Allen guardò i compagni, che parvero aver avuto la sua stessa intuizione: era possibile che le creature viste dal piccino fossero degli Akuma. E se c’erano le Bambole del Conte, forse c’era anche quell’Innocence di cui Komui li aveva informati.
- Non dategli retta, è un moccioso che cerca sempre di stare al centro dell’attenzione -, si scusò il più grande, non prima di aver dato un secondo pugno sulla testa del nipote – La montagna a volte gioca brutti scherzi e sicuramente questa peste si sarà fatta spaventare da un’ombra. –
- E non è preoccupato per sua nipote? Sarà terrorizzata, invero -, disse Crowley.
- Lua? Nah! E’ un soldo di cacio, ma conosce queste montagne come le sue tasche e sicuramente si sarà rifugiata in una grotta per evitare il temporale. Non è la prima volta che sta fuori un’intera notte, domani all’alba la vedrò spuntare dalla porta. –
- Resta il fatto che lei non si stia chiedendo se le sia effettivamente successo qualcosa. Stiamo parlando di una bambina e dopotutto, lei dovrebbe essere quanto meno in pensiero -, incalzò Allen. La noncuranza di quell’uomo gli era a dir poco inaccettabile e il venire squadrato con occhi rimproveranti da un quindicenne, fece sì che quest’ultimo se ne andasse, borbottando qualcosa di incomprensibile.
- Che cordialità che c’è da queste parti… -, se ne uscì Lavi, incrociando le braccia – Mi sa tanto che ci siamo giocati il pernottamento. –
- Sicuramente, ma Allen-kun ha ragione: una bambina così piccola non dovrebbe mai stare fuori al buio da sola, figurarsi con degli Akuma in giro… -, mormorò Amèlie – Taro, dove avete visto tu e Lua quelle creature? – Domandò poi.
- Alle vecchie rovine del castello, sulla cima della montagna. E’ li che crescono le erbe che andiamo a raccogliere di solito. Sono certo che Lua si è nascosta nei suoi paraggi! – Rispose il bambino.
- In tal caso, faremmo meglio a sbrigarci, invero -, consigliò il rumeno – Guardate, fuori ha smesso di piovere. –

Lanciando una veloce occhiata alla finestra dal vetro traballante, fu possibile constatare che l’incessante picchiettare dell’acqua aveva esaurito la sua carica e lasciato il posto a un paesaggio buio, bagnato, sormontato da un cielo blu scuro e una tonda luna pallidissima.

- Bene, un problema in meno, ma con tutta l’umidità che c’è, si alzerà una nebbia da paura e ci vorrà un miracolo per non cadere in qualche precipizio -, asserì il rosso.
- Vi posso accompagnare io! Conosco ogni sentiero e scorciatoia e riesco ad orientarmi benissimo anche con il cattivo tempo! –Si offrì subito Taro entusiasta.
- Non penso sia una buona idea.. -, si mostrò poco convinto Crowley – Amèlie-san, non avevi detto di conoscere queste zone? –
- Sì, ma non mi sono mai spinta fino alla cima delle montagne, sono territori dai mille sentieri e dove ci si può perdere facilmente, quindi non avrei idea di come orientarmi -, rispose la donna.

La faccenda era complicata. La possibile presenza di Akuma avrebbe spiegato i terremoti citati da Komui e reso ancor più fattibile la presenza dell’Innocence, ma lottare con vicino un comune essere umano avrebbe reso più difficile il dà farsi. D’altro canto, nessuno dei quattro aveva la benché minima idea di come raggiungere le presunte rovine senza finire in qualche vicolo cieco o in qualche burrone e gli Akuma non li avrebbero di certo aspettati…

- Non abbiamo altra scelta, dobbiamo muoverci subito -, sentenziò Allen, alzandosi dalla sedia – Coraggio, Taro: facci strada. –




Note di fine capitolo:
Io adoro Komui! Così pazzo e fuori come un balcone! Cosa non farebbe per la sua adoratissima Lenalee-chan ^_^! A ogni modo, comincia la prima saga (piccina, ma pur sempre una saga)! Mi spiace per il ritardo, ma non ho potuto fare altrimenti. Spero che il capitolo possa piacervi e che Amèlie vi stia intrigando. A presto! Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate! 

 

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Capitolo 6
*** Ancient's ruins. ***






- Fate attenzione, signori Esorcisti: da qui il sentiero diventa stretto. Signori Esorcisti?–
- Ahia! Accidenti! –
- Hai sbattuto ancora la fronte, Allen? -
- Si. E’…ARGH! -
- Attento! –
- Insomma! Volete stare fermi?! Così rischiamo di cadere! –
- Non vedo niente! Che fine ha fatto la lanterna?! -

Era notte fonda.
L’ideale per una scampagnata in montagna.

Dopo essersi sfogate per benino, le nubi cariche d’acqua avevano levato le tende per lasciare il posto ad un bellissimo cielo blu scuro, adornato di stelle luminosissime che circondavano la regina luna. Uno spettacolo da lasciare a bocca aperta qualunque viandante, ma completamente invisibile a causa della troppa umidità alzata. Come intuito da Lavi, al termine dell’acquazzone si era alzata una spaventosa nebbia: non si riusciva neppure a vedere un palmo dal naso, tanto era densa, e se non fosse stato per il piccolo Taro, sicuramente il quartetto si sarebbe perso fra i sentieri della montagna o precipitato nel primo burrone capitato a tiro.
Considerata la fatica che stavano compiendo soltanto per rimanere in fila indiana e camminare senza pestarsi i piedi a vicenda, in meno di dieci minuti quel piccino si era rivelato un’autentica benedizione; li guidava con maestria lungo sentieri e scorciatoie che solo i suoi occhi allenati riuscivano a vedere, avvertendoli dei pericoli vari e portandoli sempre più vicini alla vetta. Si muoveva memonicamente, tenendo una mano attaccata alla parete rocciosa e l’altra bel alzata e tesa a tenere un lumino giallastro.

- Siamo quasi arrivati, le rovine sono proprio sopra di noi -, li avvisò ad un certo punto, fermandosi davanti a una parete diagonale e piena di bozzi rocciosi. 
- Questa è l’unica via accessibile? – Domandò Lavi. Da quanto si riusciva a vedere, davanti a loro vi era uno stretto passaggio che nel salire pareva venire inghiottito dalla montagna.
- E’ una scorciatoia. Con la strada principale ci si mette molto di più -, gli rispose lui – Lua deve essere per forza lassù, ne sono sicuro -, asserì poi con decisione. In nessun altro dei posti conosciuti da lui avevano trovato tracce della sorella.
- Allora, non ci resta che andare a… -

Improvvisamente, la terra iniziò a vibrare. Profonde crepe si diramarono sotto i piedi degli Esorcisti e sulla parete davanti a loro, che nel giro di pochissimi istanti fu inondata da un fiume in piena, carico di ciottoli, pietre e polvere. Ma la minaccia più problematica la segnalò Allen: l’occhio sinistro scattò repentinamente, illuminandosi e puntando automaticamente verso l’alto.

- Ci sono degli Akuma lassù -, affermò.
- Aku…Cosa? – Taro li guardò senza capire di che stessero parlando.
- ATTENZIONE! – Urlò Crowley.

Al secondo rombo, la parete rocciosa e quanto c’era sopra si sgretolarono in un sol colpo, trasformandosi in una valanga di dimensioni gigantesche. Allen fece in tempo a prendere il bambino e a spostarsi sulla destra insieme ad Amèlie, prima che le rocce li scaraventassero di sotto. Lavi e Crowley si lanciarono dalla parte opposta.
La frana si riversò verso il basso con una forza che avrebbe potuto facilmente spaccare in due parti la montagna; l’odore della polvere si accentuò a tal punto che per qualche attimo si faticò sia a respirare che a vedere quanto stava accadendo, ma una volta passato il pericolo e con l’eco del crollo scemato nel vuoto, tutto si acquietò.

- C’è mancato poco -, sospirò l’albino, mettendosi seduto e con la testa argentata piena zeppa di polvere – Tutto a posto, Taro?…Taro? –

Allen si guardò intorno, da prima velocemente e poi con accurata attenzione. Scandagliò ogni angolo a lui visibile, girandosi in tutte le direzioni concesse, ma senza trovare nulla: del piccolo non c’era traccia.

- Accidenti! Dove…? -
- Ti consiglio di andarlo a riprendere il più velocemente possibile, Allen-kun –, gli suggerì Amèlie, con tono irremovibile - La situazione è appena precipitata. -
- Cos…? –

Nella foga del momento non ci aveva fatto caso, ma erano stati scoperti.
Sopra le loro teste era calato un buio spaventoso, vivo e informe, che lievitava pigramente in aria con una moltitudine di cannoni ben in vista. Il più che corposo gruppo di Livello Uno era comparso dal nulla, del tutto simile a una nuvola nefasta e priva di espressività: i visi cerei di quelle macchine erano famosi per essere ovali e del tutto vuoti di qualunque forma di sentimento o ego.

- Di male in peggio! – Sibilò il quindicenne.

Il numero era elevato. Fattibile, ma elevato. Una manciata di quelle Bambole non rappresentava un problema di grande spessore, ma Allen si era reso subito conto che il terreno giocava a suo sfavore: non tanto per la fragilità che percepiva sotto la pianta dei suoi piedi, quanto al suo raggio limitato. Lo spazio era quello che era: deforme, scosceso e non del tutto visibile per via delle nebbia. Doveva liberarsi in fretta di quegli Akuma e procedere verso la vetta. Fece per evocare la propria Innocence, ma Amèlie gli afferrò il polso prima ancora che avesse il tempo di sfilarsi il guanto.

- Vai a cercare quel bambino e sua sorella, Allen-kun. A queste simpatiche bamboline ci penso io –, gli disse, superandolo.
- Cosa? Siete sicura? – Le domandò.
- Mi ritieni incapace di badare a un paio di Livello Uno? Guarda che mi offendo -, gli rispose lei, con occhi fermi.
- N-No, no! Certo che no! – Si affrettò a dire - Solo che…! -

Nell’attimo in cui gli Akuma puntarono le loro armi contro di loro, la corvina aprì la sua gonna e diede mostra di una cintura legata alla gamba sinistra: vi era appeso il bastone nero della sua falce, diviso in tre parti uguali. Di Livello Uno ce ne erano in abbondanza, quel tanto che bastava a chiedersi se una sola esorcista ce l’avrebbe fatta a cavarsela da sola, ma Allen non stette lì a discutere ulteriormente se Amèlie fosse in grado o meno di farcela con le proprie forze: Taro era sparito e quelle macchine artificiali non erano le sole presenti. Sopra le loro teste echeggiavano frastuoni e colpi simili ad autentici bombardamenti, che stavano scuotendo le viscere della roccia con forza brutale; se avessero continuato con quel ritmo, l’intera montagna sarebbe crollata come un castello di carte nel giro di un’ora.
Oltretutto, c’era da sperare ardentemente che la piccola Lua fosse viva…

- Faccia attenzione, Amèlie-san -, fu tutto quello che le disse Allen, prima di andarsene e lasciarsi alle spalle il rimbombo dei colpi prodotti dalle Bambole del Conte del Millennio.

Quasi impazienti, gli Akuma avevano dato il via al primo assalto con una raffica mortale di colpi che la francese schivò con un semplice balzo.

- Che irruenza…Sparare così villanamente contro una fanciulla. Il Conte del Millennio non conosce la benché minima importanza dell’educazione –, sospirò la corvina – D’accordo: vorrà dire che ci penserò io. - 

Con gesto fulmineo, l’esorcista lanciò qualcosa in aria, per poi sfilare dalla gamba i tre pezzi del bastone della falce e montarli con memonico gioco di dita.

Andiamo, Lucifer! Evocazione! – L’oggetto lanciato in aria scintillò sinistramente, emettendo un minuscolo bagliore argenteo prima di ricadere verso il basso quasi ce ne fosse attirato.

Una volta che la lama si incastrò alla perfezione col bastone, Amèlie fece roteare l’arma con lo stemma dell’Ordine Oscuro ben inciso al centro della lama, per poi puntarla contro gli Akuma.

- Sotto a chi tocca -, mormorò prima che la seconda raffica le arrivasse addosso.




- Lo vedi? -
- No. Quel bastardo si è mimetizzato ancora, ma è vicino: sento l’odore del suo sangue… –

La cima della montagna era l’unico luogo dove fosse possibile ammirare il cielo stellato e la luna piena.
Le rovine del castello, forse appartenuto a un qualche feudatario d’origine straniera, la dominavano in parte, insieme a tutte le macerie e ai dislivelli scoscesi che rendevano la zona pericolosa per chi non sapesse camminarci.
Lavi e Crowley ci erano arrivati dopo essere miracolosamente scampati a quell’improvvisa valanga di detriti, ma lo scoprire di non essere stati i primi li aveva fatti mettere schiena contro schiena, con l’Innocence sguainata e la guardia bel alzata. L’intera zona era ridotta a un campo di battaglia pieno di fosse e violente scosse che si alternavano con irregolarità. La causa era davanti ad entrambi, ignorati o, molto più probabilmente, non ancora visti. Un gigantesco Akuma di secondo livello stava aprendo incessantemente voragini su voragini: la forma era indescrivibile, molto vicina ad un agglomerato di metalli pesanti e spessi che fungeva da armatura a un interno di cui era visibile solo un enorme occhio posto al centro. Aveva anche delle braccia, se tali potevano chiamarsi: grossi e deformi tentacoli che sbriciolavano la pietra e scavavano in profondità, con un’avidità che però non aveva ancora trovato soddisfazione.

Ma il vero problema era l’altro, il compare: più piccolo, subdolo e dal potere insidioso.

Crowley lo aveva adocchiato fin da subito, con una voglia matta di sbranarlo e ridurlo in cenere. Era un altro Akuma di secondo livello, una sorta di giullare dal lungo naso ceruleo con tanto di abiti sgargianti e cappello pieno di minuscoli campanellini. Non faceva altro che apparire e scomparire sulla testa del più grande, strillando come un forsennato e muovendosi energeticamente lungo la corazza di quest’ultimo.

- E’ testarda! Testarda! Quest’Innocence non ne vuole proprio sapere di farsi trovare e distruggere!– Lo sentirono esclamare ancora, battendo i piedi sul compagno – Dov’è??????
Innocence? Komui ci aveva visto giusto, allora… -, pensò il giovane Bookman.
Vieni fuori, brutta stronza! Lo so che sei qui sotto! – Urlò ancora la Bambola, per poi battere ancora i piedi sulla corazza dell’altro Akuma – Continua a scavare! Continua a scavare o sua eccellenza il Conte ci farà a pezzi!

Altre scosse fecero tremare il suolo già provato, che si riempì di nuove vistose crepe pronte a spaccarsi del tutto.

- Merda! Farà crollare la montagna intera, di questo passo! – Ringhiò Crowley.
- Se davvero l’Innocence si trova da qualche parte sotto terra, sarà difficile recuperarla prima che ci arrivino quei due -, disse velocemente Lavi – A meno che… –
- Ti è venuta in mente qualche idea o devo staccarti il collo? – Lo minacciò il rumeno, guardandolo con occhi assassini.
- Ehi, ehi! Calma, Crowlino, sto riflettendo! – Si giustificò, alzando le mani e ridacchiando.
- Lavi? Crowley? Riuscite a sentirmi? –

Dalla tasca del rosso si mosse qualcosa che uscì senza neppure che il suddetto ci mettesse le mani. Il golem nero datogli da Amèlie prima di lasciare la Rosa Nera dischiuse le minuscole aluccie e iniziò a svolazzare davanti ai due, riproducendo la voce ovattata dell’albino.

- Allen, finalmente! Dove siete finiti tu, Amèlie-chan e il bambino? – Chiese il guercio, mantenendo il tono di voce basso.
- Abbiamo avuto un imprevisto e ci siamo divisi. Taro è scappato e credo si sia rifugiato da qualche parte qui attorno. Voi due dove siete? – Domandò l’amico.
- A circa duecento metri dalle rovine del castello. Ascolta, Komui aveva ragione: c’è un frammento di Innocence e sembra che si trovi sotto terra, ma per il momento i Livello Due non l’hanno ancora trovato -, lo informò rapidamente  il compagno – Penso che stiano cercando dalla parte sbagliata. -
- Hai un’idea di dove possa trovarsi di preciso? –
- E’ solo un’ipotesi, ma credo che dovresti dare una controllata alle rovine. Ho letto che alcuni castelli costruiti durante il Medioevo erano dotati di sotterranei per eventuali attacchi nemici. Da qui non riesco a distinguerne l’architettura, ma un tentativo ce lo possiamo giocare, no? –

Il ragionamento fatto da Lavi non era da buttare. La zona circostante era disastrata e ridotta al peggio del peggio, segno che gli Akuma ci aveva già lavorato sopra. Le rovine versavano nelle stesse condizioni, Allen le vedeva nitidamente, e fu nell’osservarle che notò qualcosa che lo insospettì. Di integro era rimasto ben poco, solo qualche muro, delle colonne e quella che assomigliava a una piccola e incurvata cappella dal tetto fatiscente. Una dissestata scalinata conduceva alla porta di legno scheggiato, insolitamente semichiusa, come se ci fosse appena passato qualcuno…

- Merda! – Sbottò Crowley, dall’altra parte dell’apparecchio.
- Che succede, ragazzi? – Domandò Allen.
- Quell’Akuma a forma di giullare è sparito di nuovo -, ringhiò il rumeno – Non sento neppure l’odore del suo…Dannazione! –
- Crowley?! –
- ESORCISTA!

La comunicazione si interruppe e la voce sogghignante del Livello Due alle spalle di Allen fu l’ultima cosa che l’albino udì prima di riuscire a difendersi dal pugno devastante di quest’ultimo. Venne letteralmente scaraventato contro un cumulo di macerie che gli si riversò addosso e di cui si liberò all’istante con l’Innocence del braccio sinistro. A giusto una trentina di metri da lui, la Bambola rideva sguaiatamente.

- Yuk, yuk, yuk! Volevi fregarmi, schifoso Esorcista? Ti è andata male, io sono un Akuma evoluto! – Esclamò quello, saltellando vittorioso.
- Accidenti… -, borbottò il quindicenne.

Non lo aveva visto arrivare.
Si era ritrovato il suo pugno a cinque centimetri dalla faccia e non ne aveva neppure percepito la presenza. Qualcosa non andava. Istintivamente, Allen si toccò l’occhio attivo per controllarne lo stato. Era integro, perfetto. Botte come quelle mica potevano ferirglielo così a buon mercato…Ma allora perché non era riuscito a intercettare quell’Akuma?
L’anima imprigionata all’interno di quel corpo artificiale era davanti a lui, quindi era assurdo pensare che la vista gli stesse giocando brutti scherzi. Non rimaneva che una sola possibilità….

- Io sono speciale! – Continuò quello, per poi scomparire e ricomparire davanti ad Allen in uno schiocco di dita – Io ho un ego, io sono il Giullare! – Si presentò - Ho il potere di confondermi con l’ambiente e di diventare invisibile! Il tuo brutto occhio non ti può aiutare! Preparati a morire!
- Ah, si? – Sorrise di rimando Allen, alzando il braccio infestato dall’Innocence - Questo si vedrà. -





Nuovo aggiornamento! Cominciano le lotte e spero di riuscire a descriverle quanto basta perché si capiscano i passaggi (in realtà le ho già scritte, ma si tratta più che altro di bozze approssimative). Spero non ci siano errori perché io controllo e ricontrollo ma spesso questi sfuggono al mio occhio. Ce la farà Allen a confrontarsi contro il Livello Due? E Lavi e Crowley? Portate pazienza e nel prossimo capitolo lo saprete ^^. Aspetto di leggere le vostre opinioni, critiche o qualunque cosa che sia. Buona giornata a tutti! Allego qui sotto un disegno di Amèlie con la divisa da esorcista e descrizione! http://ciril09.deviantart.com/art/Exorcist-366043017

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Capitolo 7
*** Fortune's tree. ***





- Dannazione! -
- Occhio, Crowlino! Ne arriva un altro! –

Un fischio lungo e assordante precedette uno scoppio gigantesco che rase al suolo l’ambiente circostante. La solitaria cima della montagna era divenuta un campo di battaglia dove l’eco dei colpi si disperdeva ovunque e i rombi ne scuotevano le viscere interne. Sembrava che l’acquazzone riversatosi ore prima fosse tornato, ma il cielo era limpido e con troppe stelle perché quel frastuono fosse provato da nuove nubi venute a macchiarlo. Come lo starnazzante Akuma vestito da pagliaccio era svanito per andarsi ad avventare su Allen, l’enorme ammasso di metallo rugginoso suo compare aveva aperto il fuoco contro Lavi e Crowley, usciti allo scoperto prima di quanto avessero pianificato. Era grosso e lento, ma ben armato, protetto da una corazza talmente spessa che neppure i feroci denti del rumeno riuscivano a strapparla e masticarla. Non parlava, rideva soltanto: la voce camuffata si alternava alle bombe che lanciava disordinatamente contro i due Esorcisti, costretti comunque a mantenere un’alta distanza per l’ampio raggio d’azione che quei colpi producevano.

- Quel dannato bastardo di un Akuma -, ringhiò furibondo Crowley. I candidi canini fremevano impazziti – Gliela strapperò di dosso, quella lurida armatura! E tu, vedi di prendere la mira con decenza! – Urlò poi a un Lavi poco distante da lui.
- Ci sto provando, che credi?! – Strepitò il rosso, tenendosi con una mano la bandana colorata e l’altra ben stretta al manico scuro del suo martello – Cavolo…Se lo viene a sapere il vecchio, mi uccide! -

Era frustrante. Frustrante e imbarazzante che un singolo Livello Due li stesse facendo sudare fino a quel punto. Quell’agglomerato di metallo e cannoni non aveva neppure una forma omogenea, tuttavia la potenza dei suoi attacchi lasciava percepire che si fosse evoluto da molto tempo e un Akuma consapevole dei propri poteri era più pericoloso di un eccitato neo evoluto. Attaccava all’impazzata per impedire ai due esorcisti di portare a segno qualsiasi colpo avessero in mente e anche se i suoi assalti erano in gran parte casuali, stavano sortendo l’effetto sperato. Una situazione che, oltre a far perdere tempo prezioso, minava pesantemente il già provato terreno di battaglia.

- Se l’Innocence si trova sotto i nostri piedi ed esistono dei sotterranei, dobbiamo impedire a questo bestione di far crollare tutto. Se almeno riuscissimo a sfondare la sua corazza… -, borbottò mentalmente il giovane Bookman.

Ogni schivata era buona per scandagliare il corpo dell’Akuma per trovarvi una qualche falla, ma fino a quel momento il suo analizzare non aveva portato il risultato sperato. Bastava una crepa, un buchetto che lasciasse intravvedere il morbido interno da squarciare e avrebbero risolto il problema in un battito di ciglia.
E quasi neanche farlo apposta, l’occhio smeraldino del rosso capitolò su un particolare che destò in lui un’ideuzza fattibile…

- Ehi, Crowlino -, lo chiamò il ragazzo – Pensi di essere abbastanza forte da farlo capottare? –
- Che razza di domande fai, moccioso? -

Lavi gli sorrise, con quell’espressione furbesca e infantile che lasciava sempre presagire una qualche sua marachella nei confronti dei compagni, ma quello che aveva in mente era un piccolo stratagemma per verificare un’ipotesi che forse poteva portarli in vantaggio. Crowley lo intuì con gli occhi neri luccicanti per l’eccitazione e dopo aver schivato l’ennesima raffica dell’Akuma, ne osservò la base appena visibile per colpa del polverone, ghignando sadicamente nell’immaginarsela non così ben protetta come tutto il resto.

- Se non si fa ammazzare dai lati, lo prenderemo da sotto -, sibilò, leccandosi le labbra, prima di gettarsi contro di lui a velocità inaudita. 




- Corri, bastardo di un Esorcista, corri! Tanto di prendo!!! –

Allen Walker non aveva mai affrontato un Akuma tanto fastidioso e pieno di sé come il Giullare: veloce, con il potere di rendersi invisibile e mimetizzarsi con l’ambiente e deciso a mangiarsi le sue viscere interne mentre era ancora vivo. Un Livello Due con abiti di un viola scuro sganciante, i cui movimenti cominciavano a essere più percepibili al suo occhio sinistro, ma ancora troppo labili perché risultassero completamente anticipabili.

- Cross Grave!
Prendendo il giusto slancio, lo attaccò frontalmente, ricevendo come risposta un proiettile intriso di Dark Matter lanciato dalle sue lunghe mani trasformatesi in canne da fucile.

L’impatto non vide la meglio per nessuno dei due, ma l’Akuma si apprestò subito a indietreggiare e sparire nel nulla.


- Accidenti! Si è reso invisibile un’altra volta! –

Gli occhi argentei di Allen balzarono a destra e a sinistra più e più volte, per poi fermarsi in un unico punto e rimanerci. Inspirò profondamente, cercando di rilassare i muscoli del proprio corpo e di recuperare abbastanza sangue freddo per non farsi cogliere di sorpresa. Era tutta questione di concentrazione, non ci voleva niente, poteva benissimo anticipare gli attacchi della Bambola anche senza il suo occhio maledetto. Lo aveva già fatto, doveva solo mantenere la calma e impedire a quell’essere di distruggere la chiesetta poco distante da lì. La supposizione di Lavi sul fatto che potessero esserci dei sotterranei scavati nella roccia e che l’Innocence da recuperare si trovasse lì sotto era plausibile; inoltre, l’immagine del portone semiaperto l’aveva indotto subito a pensare che Taro vi si fosse addentrato per cercare la sorella. Un motivo più che ragionevole per purificare velocemente quel Livello Due e andare a verificare di persona.

- E’ a destra! – Alzò il braccio al sol udire un passo non suo e uno spostamento d’aria sospettoso. Come a voler dare uno schiaffo, la mano sinistra di Allen colpì il viso dell’Akuma con così tanta forza da farlo volare in alto e poi schiantare contro il suolo a diversi metri da lui.

- T-Tu! Schifoso Esorcista! Come hai fatto a vedermi?!? –  Gli urlò contro quello, col corpo provato dal tocco dell’Innocence.
- Più che vederti, ti ho sentito -, gli rispose Allen, sorridente, tamburellando il dito indice sull’orecchio destro – Sarai anche veloce e capace di renderti invisibile, signor Akuma, ma mi basta aguzzare l’udito per scoprire da quale parte mi attaccherai. – 

Quelle parole fecero sfigurare la già orrenda e incrinata faccia della Bambola in un’espressione che rasentò la più pura delle follie omicide.

- Lurido essere immondo infestato da quella bastarda dell’Innocence -, sibilò rabbiosamente, con le pupille impazzite per quanto assurdi erano i loro movimenti  – Non credere di potermi battere solo perché hai avuto fortuna a colpirmi! Ti strapperò quel brutto braccio che hai e lo porterò a sua eccellenza il Conte insieme a quell’altra Innocence nascosta qui sotto! Anzi... - Esibì un ghigno malefico che allertò l’albino – Credo proprio…CHE INIZIERO’ DA LEI!!!! –

Nell’intuire la volontà dell’Akuma di attaccare la stessa chiesetta che fino a quel momento era stata lasciata in disparte, come se non avesse mai avuto importanza, Allen balzò sopra il suo tetto nel tentativo di fermare l’avversario, libratosi in aria e con le braccia rivolte al cielo. Il proiettile di Dark Matter che si vide arrivare contro era cinque volte più grande del precedente, una sfera nera avvolta da una luce violacea talmente accecante da bruciare gli occhi.

- PARA QUESTO, FOTTUTO ESORCISTA!! –

Il fischio prodotto dal colpo del Giullare era acuto e assordante.
Allen lo parò con la sola Innocence, ritrovandosi a puntare i piedi e a spingere con tutte le sue forze. La pressione ardente esercitata dalla Dark Matter puntellava la superficie della sua arma quasi a volerla avvolgere e disintegrare, di una notevole consistenza che si fece sentire immediatamente anche sulle travi di legno marcio della chiesetta, che a malapena riusciva a stare in piedi da sola. Con i denti stretti per lo sforzo, Allen percepì sotto le suole dei suoi stivali il preoccupante piegare molliccio che stava deformando il tetto; doveva deviare quella sfera prima che i resti dell’edificio crollassero definitivamente, ma un calcolo errato vide le poche tegole rimaste e le assi aprirsi in un buco che gli fece mancare un pavimento.

- Accidenti!!! - 




- Un esplosione? – 

Amèlie Chevalier alzo la testa in direzione della cima della montagna.
Un suono diverso dagli altri era appena sopraggiunto alle sue orecchie con gravità sospettosa. Un sibilo percettibile soltanto a un udito ben sviluppato.
Nel mezzo di quella confusione era risuonato come un’anomalia da cui guardarsi le spalle, ma la bella corvina non poté concedersi il beneficio di rifletterci accuratamente. I Livello Uno non facevano che arrivare numerosi da ogni direzione, armati e ben intenti a non darle tregua, sebbene fossero loro a essere affaticati e in netta difficoltà. Più Lucifer ne abbatteva e più la loro insulsa cocciutaggine – un mero e inconsumabile istinto di saziarsi – s'inspessiva. All’orizzonte, un altro piccolo manipolo nero era già visibile a occhio nudo.
L'affascinante francese alzò gli occhi, infastidita: simili avversari li avrebbe ridotti in cenere con uno schiocco di dita, tant’erano prevedibili e con poteri praticamente riconducibili alla quantità di armi grigie sporgenti dalla superficie rugosa del corpo. Non rappresentavano certo un problema di proporzioni bibliche per esorcisti che, come lei, avevano sviluppato una dimestichezza tale da ridurre quei combattimenti sull’orlo della banalità, ma il continuo crescere di numero di quelle macchine non poteva essere ignorato, non se quelle avessero deciso di spostarsi più alto, dove la situazione era ben più drastica.

E dopotutto,  aveva promesso di occuparsene personalmente e mancare alla parola data non era certo un lusso che si sarebbe concessa senza provare rimpianti.

- Sembra che lassù si stia scatenando il pandemonio: meglio darsi una mossa -, pensò la donna, lanciando una rapida occhiata agli ennesimi rinforzi in arrivo.

Fluidamente, fece roteare la falce fino a rivoltarne la lama alle sue spalle, dove andò a conficcarsi nel viso di un Livello Uno scagliatosi contro per coglierla di sorpresa. Il fiotto vermiglio e denso che fuoriuscì dalla  maschera rotta e cerea del nemico macchiò la lama della falce facendone risplendere la luce divina con inquietanti riflessi.

- Voi proprio non sapete quand’è ora di smetterla di giocare, vero? – Domandò soavemente ai balocchi del Conte del Millennio, mentre la carcassa meccanica appena abbattuta esplodeva nel vuoto sottostante – Questo vostro attaccarmi all’impazzata mi sta sinceramente stancando. Sarebbe più interessante se aveste almeno un ego, ma immagino che sia chiedere troppo data la vostra condizione, giusto? -

La risposta non si fece attendere: anziché attaccarla immediatamente, le macchine si disposero attorno a lei, circondandola e creando un alto muro con i loro corpi sferici e bitorzoluti. Lucifer reagì scintillando vivacemente con i decori della lama a spiccare sotto la luce della luna come diamanti al sole.

- Lo prenderò come un sì -, sbuffò Amèlie, udendo il rumore secco e metallico dei cannoni pronti a sparare. 




- Ma…E’ vivo? – 
- Sì, non vedi che respira? – 
- Ehi, guarda! Si sta riprendendo! Signor Esorcista, mi sente? Signor esorcista? – 
- Ugh… – 

Allen Walker dischiuse la bocca quanto bastava per respirare. La sua coscienza era parecchio intorpidita, riemersa bruscamente da un’immersione troppo duratura e che lo aveva fatto sobbalzare al primo impatto con l’ossigeno. Il corpo rispose in maniera più lenta a quel contatto, ma realizzare che le ossa e i muscoli rispondevano ai suoi comandi, seppur flebilmente, lo aiutò a riacquistare un altro po’ di sensibilità; la testa gli doleva quanto la schiena stessa, vorticava nonostante lui fosse disteso a terra.
Qualcuno lo stava chiamando. Gli era così vicino che non appena si cimentò ad aprire gli occhi tremolanti, le ombre nere si sostituirono quasi subito a due piccole figure colorate dai contorni appena sbiaditi, che lo stavano osservando con fare interrogato e preoccupato.
Distinse grossolanamente due grandi occhi a mandorla scrutarlo da molto vicino. Occhi vagamente familiari che infusero vigore ai suoi argentati.

- T…Taro? – Azzardò con un fiotto d’aria mischiato a povere a scendergli giù nella trachea.
- Meno male, signor Esorcista! Ci hai fatto prendere un bello spavento! – Esclamò il bambino. Era lui per davvero.
- Ci…? – Con un po’ più di forza, Allen spostò la testa verso la seconda figura, regolarizzando il suo respiro.

Una graziosa bambina dai lunghi capelli neri racchiusi in due grosse trecce un po’ sfatte lo stava guardando con un paio di occhi a mandorla identici a quelli di Taro. Il suo viso era indeciso se essere spaventato o preoccupato, ma nonostante le vesti impolverate e lacerate in alcune parti, sembrava non riportare ferite.

- Tu devi essere Lua… -, mormorò il quindicenne, mettendosi seduto – Sono contento che tu stia bene. Eravamo tutti molto preoccupati per te. –
- G-Grazie -, pigolò la bambina, flebilmente – Però anche tu non sei stato da meno. Sei piombato da lassù all’improvviso. –
- Lassù? – L’albino alzò la testa quanto bastava per scorgere un bel buco sopra di lui.

In un attimo, i ricordi dello scontro antecedente gli apparvero nitidi e comprensibili. Aveva cercato di respingere il colpo dell’Akuma e di scagliarlo verso il cielo, ma poi il tetto era crollato e per evitare un danno maggiore, aveva stretto fra le dita della sua mano infestata la sfera di Dark Matter fino a farla scoppiare come un palloncino. Una simile avventatezza gli sarebbe costata la vita, se non fosse stato un tipo parassita e con una corporatura resistente quanto occorreva per farlo sopravvivere a una caduta del genere. Il pavimento doveva essere già instabile di suo, ma dei secondi successivi all’esplosione non rammentava nulla, se non la luce della sfera e il gas velenoso colpirgli violentemente la pelle; la testa gli pulsava abbastanza da fargli intendere che un bel volo se lo era comunque fatto.

- Se non altro, l’ipotesi di Lavi si è rivelata esatta -, pensò, alzandosi in piedi.

Si scrollò dall’uniforme lunga e grande i detriti finitigli addosso.
Lui, Taro e Lua si trovavano in quella che sembrava essere – o che almeno doveva essere stata - un’enorme sala con innumerevoli archi e decori provati dal tempo e dalle macerie che la riempivano. Il lumino che la bambina teneva in mano era forte abbastanza da evidenziarne qualche contorno, diverse crepe che percorrevano irregolarmente le mura e affreschi oramai del tutto irriconoscibili, ma niente, niente di quanto lasciato all’improvviso sembrava spiegare la flora che Allen stesso, insieme ai bambini, stava calpestando.
Se ne era accorto solo in quel momento, non prima, quando era riuscito a mettersi seduto e poi in piedi. Non aveva sbattuto contro la nuda roccia, ma contro un alto e soffice prato verde pieno di fiori rigogliosi e dai vivaci colori, che si espandeva fino alle pareti attraversate e coperte da rampicanti e radici dalle svariate dimensioni.

- Come ha fatto una vegetazione simile a crescere in un posto del genere? Qui non arriva neppure il sole… -, si domandò Allen, sbalordito - A meno che non si tratti… - 

Pensò automaticamente a quanto Lavi aveva riferito loro dopo una breve e disinvolta raccolta d'informazioni all’interno della locanda, giusto qualche attimo dopo che Taro si era presentato. Ogni pezzo mancante del puzzle andò a combaciare con le rientranze vacanti senza intoppi, colmando quesiti e lacune fino a quel momento rimaste in sospeso con un grosso interrogativo sopra.

- Gli strani terremoti che sono stati segnalati all’Ordine Oscuro hanno buone probabilità di essere collegati ad un preciso fenomeno noto solo agli abitanti di qua -, aveva dichiarato Lavi, comodamente sbragato sulla cigolante sedia di legno e le braccia conserte – Stando a sentire quanto sa il proprietario della locanda, fra le rovine del castello situato in cima alla montagna non dovrebbe esserci nulla di rilevante, ma da parecchio tempo Taro e l’altra sua nipote Lua ci vanno e tornano frequentemente con erbe medicinali in abbondanza, cosa insolita visto che questo terreno non può essere coltivato. –

Nessuno di loro aveva ipotizzato che un simile fatto potesse avere un peso effettivo nella loro ricerca, ma non appena Lavi aveva ripreso il discorso, descrivendo accuratamente che le piante mostrategli dal bambino in persona, oltre ad essere esotiche, appartenevano a specie addirittura estinte, i loro sguardi si erano incrociati con un solo e unico pensiero ad accomunarli: Innocence.
Non erano rari i casi in cui un suo frammento fosse fonte di disagi o inspiegabili fenomeni e quella florida vegetazione doveva essere per forza un suo effetto collaterale, altrimenti i Livello Due non si sarebbero dati tanto da fare. Il rimembrare la presenza delle Bambole del Conte del Millennio risvegliò l’occhio rosso e maledetto momentaneamente assopito: il Giullare lo aveva scaraventato lì sotto e forse si era convinto di averlo ucciso, ma non era una buona ragione per abbassare la guardia. Sapeva come lui che l’Innocence aveva il potere di occultarsi per non rivelare la propria presenza e sebbene Allen avesse imparato anche a percepire la presenza degli Akuma senza fare ricorso al suo occhio, non poteva mettere a rischio la vita dei due piccolini. No, doveva trovare il frammento di cristallo divino e portare al sicuro Taro e Lua prima che le scosse prodotte dall’altra creatura facessero crollare tutti i sotterranei.

- Taro, Lua, ascoltatemi molto bene. – Inginocchiatosi davanti ai due piccoli, Allen prese la parola, appoggiando le mani sulle loro spalle esili – Voi conoscete bene questi sotterranei, giusto? –
- Sì, è qui che raccogliamo le erbe e i fiori per la mamma -, rispose la bambina.
- Perfetto. Per caso c’è un posto dove avete notato qualcosa di strano? Qualcosa di ancora più strano di questa vegetazione, intendo –, specificò.
- Strano? Bè… –, tergiversò il piccolo – Forse…Dove c’è l’Albero della Fortuna? -
- L’albero della fortuna? – Ripeté con fare interrogativo Allen.
- Un vecchio albero magico -, spiegò Lua – La mamma ci ha raccontato che una volta, la gente veniva qua a mettere nel suo tronco una moneta d’oro o un oggetto caro, per poi esprimere un desiderio: se la persona era di buon cuore, l’albero lo ricopriva di fortuna per tutta la vita… -
- Se invece la persona era cattiva, allora l’albero gli lanciava contro terribili sciagure -, terminò Taro.
- Interessante. E ditemi, sapete dove si trova, questo albero? –

I due piccini annuirono all’unisono.
Il breve racconto possedeva le esatte fattezze di quelle favole che si raccontavano ai bambini prima di andare a letto, ma senza eventuali mostri pronti a mettere nel sacco i piccoli che non obbedivano ai genitori. Allen non aveva niente fra le mani che potesse aiutarlo a trovare l’Innocence, se non quel fantomatico albero e i due piccini da salvaguardare a costo della sua stessa vita. Non percepiva altro che tremoli ed echi sordi, segnali che lo avvertirono immediatamente che la battaglia in superficie stava proseguendo. Il cuore gli diceva di occuparsi prima dei suoi nuovi amici; lì sotto non erano al sicuro, ma portarli alla luce della luna li avrebbe esposti direttamente a un pericolo ben più grande e lui non era certo il tipo di persona capace di mettere il lavoro al dì sopra delle vite altrui, special modo se si trattava di bambini indifesi. Tuttavia, se anche fosse riuscito a trovare un posto sicuro per Taro e Lua, si sarebbe autocondannato a vagare per quei sotterranei per il resto della sua vita, sicché nel perdersi era un autentico professionista. E l’idea di morire di fame e tramutarsi in uno scheletro indebitato di fatture stratosferiche non lo allettava per niente.

- Va bene -, sentenziò, allertato dal sordo rimbombo di un'esplosione distante – Sarà meglio muoversi, prima che i soffitto ci crolli definitivamente addosso. – 




Note di fine capitolo:
Ben trovati a tutti! Dopo un mese di assenza si torna all’opera con un nuovo aggiornamento. Le lotte continuano e si evolvono, e io non potevo fare a meno di inserire qualche pezzo con Crowley e Lavi, che in coppia sono straordinari. Mi manca quell’unità e le lotte di gruppo viste nei primi volumi, ma senza perdere tempo, annuncio che alla fine di questa saga mancano giusto due capitoli: non è lunga, lo so, ma credetemi, io sono una a cui piace parecchio dilungarsi (come adesso!) e sto provando a mantenere il mio stile, cercando al tempo stesso di essere meno densa, diciamo. Ho cambiato il rating, come qualcuno avrà notato, e la ragione sta che più avanti, ho intenzione di rendere il tono della mia fic, per alcuni suoi aspetti, più crudi e con un linguaggio, in alcuni dialoghi, che meglio sappiano esprimere la vera Amèlie: contorta, senza scrupoli e cattiva quando si arrabbia sul serio anticipo, ma comunque capace di dare e ricevere amore. E’ un personaggio che sto ancora cercando di sviluppare e che voglio svelare passo per passo, mostrandone la forza e la debolezza. Si tratta di una scelta voluta appositamente in quanto la storia è già scritta – almeno nella mia mente - e i toni di D Gray Man non sono dei più morbidi; spero che ciò possa enfatizzare la crudità e il tono duro che cercherò di inserire in alcune parti da me considerate salienti, ma per il momento, godetevi questo capitolo e i prossimi. Chiunque avesse domande da farmi, non esiti a scrivermi, accetto critiche e osservazioni. Un saluto enorme a tutti quelli che mi seguono e recensiscono! Alla prossima!
 

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Capitolo 8
*** Counterattack. ***





- Ten Ban: Raitei Kaiten!* –

Lavi batté il suo martello contro il suolo dopo averlo ingrandito quanto bastava perché dall’attacco ne scaturisse la massima potenza. La sua esuberanza spesso e volentieri si rifletteva nel suo operato di Esorcista, il che dava l’impressione che non fosse una persona seria e attenta ai compiti che gli venivano affidati, ma era solo apparenza, una delle più comuni e lampanti illusioni dentro cui il semplice occhio umano poteva incombere, perché Lavi, a modo suo, sapeva sempre come affrontare le diverse situazioni che gli si paravano davanti.
Il Kanji del Cielo apparve luminoso sotto il Livello Due, la cui corazza fu bersagliata da un concentrato di elettricità diviso in fulmini e saette scintillanti. Il rosso sghignazzò vittorioso, compiaciuto di essere riuscito a mettere a segno un attacco decente: per la prima volta, quell’ammasso di ferro e ruggine, che non aveva fatto altro che sparare senza seguire alcuno schema solo per il piacere di vederli correre, pareva essere in difficoltà, provato dai fulmini lanciatogli contro. Al piccolo guercio era bastato un secondo per agire, un attimo che l’Akuma aveva inconsapevolmente ceduto per dare a lui e a Crowley la possibilità di rimontare alla grande. Il piano era semplice: sfruttare il fatto di essere nettamente più veloci dell’avversario e colpirlo laddove le sue difese non erano così ben compatte. In altre parole, la base.
Il Timbro Celeste gli aveva appena dato modo di constatare che quella parte del corpo in particolare non era protetta come la corazza superiore: era sufficientemente vulnerabile per essere scoperchiata con un solo colpo. Bisognava soltanto ribaltare quel bestione come una tartaruga e il gioco era fatto, ragione per cui Crowley era partito spietatamente all’attacco.

- Vediamo di levare questo fastidioso guscio -, ringhiò una volta avvicinatosi all’Akuma.

Il rumeno ne afferrò con forza le spesse lamiere sporgenti, cominciando a tirare verso l’alto con gli occhi neri rivolti a quello tondo e aperto del Livello Due. Non c’era modo di capire quale sentimento pervadesse la Bambola creata dal Conte del Millennio, ma di sicuro non si aspettava che uno dei due esorcisti riuscisse a sollevarla da terra. Crowley ruggì pesantemente, puntando i piedi e accingendo a ogni singolo grammo di quella forza disumana di cui l’Innocence gli aveva fatto dono, per staccare da terra quell’essere e fargli provare le brezza di un bel volo al chiaro di luna. Con un boato che fece tremare nuovamente la superficie rocciosa, l’Akuma venne ribaltato, privato della possibilità di utilizzare i cannoni fattisi incandescenti per l’incessante sparare. Un ghigno trionfante si dipinse sui volti dei due Esorcisti, nel constatare che l’interno della creatura era esattamente come se lo erano immaginato: scoperto e inerme.

- Diamoci dentro con il contrattacco, Crowlino! – Esclamò il rosso, ingrandendo il martello. 





Incredibile… -

Allen Walker era senza parole. I suoi occhi argentati erano aperti e bloccati su quanto gli si era appena presentato, impossibilitati a esprimere al meglio delle proprie facoltà le sensazioni che lo avevano pervaso dalla punta dei piedi fino a quella dei capelli. Da quand’era entrato a far parte ufficialmente dell’Ordine Oscuro, aveva avuto modo di visitare ogni sorta di luogo, dai più comuni ai più bizzarri, imparando che dietro a ogni stranezza se ne cela una ancora più bislacca.
L’ala raggiunta era, senz’ombra di dubbio, uno dei posti più surreali che gli fosse mai capitato di vedere. Taro e Lua lo avevano guidato con destrezza lungo tutta una serie di corridoi dissestati, attraversando stanze dai muri scoppiati e altri angoli così irriconoscibili da non avere più alcun nome. Era merito di quella rigogliosa e alquanto sorprendente vegetazione che tappezzava con fiori e ogni sorta di ramificazioni, se quei sotterranei non erano ancora crollati; sostenevano quanto rimasto della struttura portante senza alcuno sforzo apparente, resistendo a ogni genere di scossa che lì sotto rimbombava con fare sordo, ma nonostante ciò, non offrivano comunque una valida ragione per prendersela comoda. Non appena l’esorcista aveva messo piede fuori dall’ennesimo corridoio buio e umido, una luce fredda lo aveva investito interamente, spingendolo a coprirsi gli occhi col braccio sinistro. Era inusuale che sottoterra un simile bagliore fosse tanto accecante, ma la prima cosa che Allen vide una volta che gli occhi si furono abituati a quel chiarore, fu un enorme ammasso di cristalli lucenti uniti fra di loro sporgere dal soffitto come fossero un elegante lampadario appuntito. I raggi che emanavano, illuminavano con soffusi fasci bianchi e azzurri quella che assomigliava ad un’enorme piazza chiusa, sommersa quasi interamente dall’acqua cristallina filtrata dalle pareti.

E proprio in fondo a quel laghetto, quasi fosse un’isoletta sé, c’era il tanto decantato Albero della Fortuna, che costrinse l’albino ad alzare la testa e a dischiudere la bocca in un’espressione ebete per la sua spropositata grandezza.

- E’ quello? – Chiese giusto per essere sicuro.
- Sì. Io e Lua abbiamo scoperto questo posto qualche mese fa, mentre esploravamo i corridoi -, spiegò Taro, incrociando le braccia dietro la nuca.
- Vieni, Allen. Te lo facciamo vedere da vicino. – Concitata, la bambina gli strinse la mano, scendendo le scale di granito bianche, per poi salire sulle rocce sporgenti dalla superficie piatta e limpida.

Al quindicenne occorse qualche secondo per ridestarsi e lasciarsi condurre sul percorso improvvisato. Le inusuali iridi grigiastre erano incapacitate a guardare null’altro che non fosse quell’albero grande quanto una vecchia quercia americana; il corpo legnoso principale era un vistoso insieme di tronchi intrecciati fra loro, le cui radici sprofondavano nell’acqua e sporgevano fuori d’essa con le punte grassocce e arricciate. Sempre stando ben attento a dove metteva i piedi, Allen si accorse che la sua folta chioma era di un vedere smeraldino piuttosto brillante, con tanto di fronde che creavano un forte gioco di luci e ombre che dava davvero l’impressione che l’albero fosse magico.
Una volta appoggiati i piedi sulla superficie solida e stabile, che altri non era che un minuscolo e circolare spiazzo d’erba soffice, camminò verso di lui per osservarlo meglio da vicino. Nessun vegetale di quelle dimensioni poteva crescere tanto, anche con un lampadario di minerali lucenti a sostituire il sole. Aveva già percepito qualcosa sin dal primo sguardo, una sensazione familiare, ma troppo effimera perché potesse esprimerci sopra un giudizio sicuro. Soltanto toccandone con la mano deformata la corteccia ruvida e irregolare, avvertì distintamente un formicolio incandescente e pulsante scaturire dal legno e attraversargli l’arto intero.

- L’albero scotta. E’ come se dentro ci scorresse della lava -, pensò nello staccare il palmo della mano e sollevando lo sguardo – Non ci sono dubbi: qui c’è dell’Innocence. Se solo capissi dove, di preciso… - 

Assottigliò lo sguardo concentrato, perdendosi in ipotesi che potessero aiutarlo ad arrivare a una qualche conclusione plausibile. Dietro a tutto quel verde rigoglioso c’era il potere del cristallo divino, che, a quanto pareva, risiedeva nell’albero…

- Oppure che è l’albero stesso –, suppose spontaneamente, strabuzzando subito il viso.

Quest’ultima affermazione gli sembrò totalmente assurda, ma il flusso energetico che aveva sentito scorrere e mescolarsi sotto il proprio palmo inguantato, palpitare, oltre ad appartenere all’Innocence, era così esteso che neppure il riappoggiarci sopra la mano permise ad Allen di localizzarne il preciso punto di emissione. Solo un’ Innocence tipo di parassita avrebbe potuto sprigionare tanta forza e possedere un raggio d’azione ampio come quello, ma, insomma… Si parlava di un albero! Per quanto ne sapeva la sezione scientifica, anzi, L’Ordine Oscuro intero, l’Innocence sceglieva come suoi compatibili le persone, non dei vegetali!
Ma era anche vero…Che molte informazioni riguardanti essa fossero tutt’ora un mistero, il che riammetteva in gara l’ipotesi che quello smisurato albero potesse essere effettivamente un compatibile, compresa la terribile prospettiva di doverlo sradicare a mani nude e trascinarselo a presso come un bagaglio da viaggio.

- No, non esiste. In alcuna maniera -, decretò mentalmente l’albino, scuotendo la testa – E’ molto più probabile che un frammento sia finito in quest’albero e lo abbia fatto crescere col suo potere. Però, c’è da chiedersi come ci sia finito…A meno che...! - Un dettaglio scaturito da uno dei suoi più recenti ricordi gli guizzò in testa, trillando con scampanellio acuto.

Nel suo analizzare non aveva tenuto conto di quanto gli era stato raccontato in precedenza, lo aveva scartato quasi immediatamente senza prenderlo degnamente in considerazione. Strano da dirsi, lui stesso aveva chiesto informazioni su quel posto, se vi fosse qualcosa di prezioso che potesse spiegare il verde cresciuto e nel rammentarlo, si diede dell’idiota. Si voltò verso i bambini con scatto repentino, avvicinandosi a loro nel mentre questi lo guardavano confusamente.

Doveva verificare ancora una volta, per non sbagliare.

- Taro, Lua, la storia che mi avete raccontato prima, quella che la gente infilava nell’albero degli oggetti ed esprimeva un desiderio…Qualcuno lo hai mai fatto? –
I piccoli batterono gli occhi all’unisono, per poi scambiarsi un'occhiata complice – Sì, certo -, rispose poi il bambino, annuendo – Tantissime persone hanno… -

BOOM!

Una fortissima esplosione ruppe un punto indistinto del soffitto, echeggiando nell’intera piazza e scuotendo l’acqua che la riempiva. La sfera violacea di Dark Matter che andò a schiantarsi fra le macerie costrinse Allen ad agire in fretta, gettandosi lontano dall’Albero della Fortuna con Taro e Lua agguantati al volo.

- Tutto bene? – Domandò con i piccoli in braccio e la sua schiena a fare loro da scudo.
- C-Che...Che cos’è stato? – Chiese la bambina, visibilmente spaventata.
- Yuk, yuk, yuk! Ti trovata, bastarda di un’Innocence! –

La risata sogghignante del Giullare suonò come il peggiore campanello d’allarme mai udito fino a quel momento. Allen guardò in alto, in direzione di quell’enorme buco da cui era ora visibile il cielo notturno: l’Akuma era lì, a saltellare sulle punte dei piedi e a battere le mani in aria per il tesoro trovato. Digrignò i denti per come la risata del Livello Due gli suonò tanto fastidiosa e insopportabile. Tutte quelle scosse, alla fine, avevano portato all’esito da questo tanto sperato, ma per l’Esorcista dai capelli candidi, quella era tutt’altro che una buona notizia….

Oh, ma ci sei anche tu, sporco Esorcista! – Esultò quello, puntando le sue sadiche pupille su Allen – E ci sono pure dei cuccioli umani!!! – Squittì gioioso, nel notare con sguardo famelico i due bambini – Bene! Vorrà dire che mi riempirò la pancia per bene, prima di andare da sua eccellenza il Conte! –
- Accidenti! - Il quindicenne fece giusto in tempo a scansarsi, prima che l’Akuma cominciasse a bersagliarlo furiosamente.

Quando le macchine al servizio del Conte del Millennio si lasciavano prendere dalla follia e dalla fame per i corpi umani, tendevano a colpire istericamente qualunque cosa fosse loro d'intralcio, abbandonandosi all’istinto omicida incorporato all’ego sviluppato tramite l’evoluzione: Allen aveva già avuto modo di provare sulla sua pelle quell’esperienza, ringraziando più volte di essere un tipo parassita e non uno d’equipaggiamento, ma questa volta era diverso. In condizioni normali, un nemico di quel calibro lo avrebbe sconfitto con moderata facilità, ma i Livello Due non erano dotati di coscienza per puro caso e quel bastardo aveva trovato il modo perfetto per impedirgli di utilizzare la sua Innocence: bombardarlo di sfere Dark Matter. Se lo teneva sempre ben sotto tiro, non poteva fare altro che correre con i due bambini in braccio, proteggerli a discapito della sua vita, senza avere il tempo di guardarsi intorno e cercare un riparo abbastanza solido per nasconderli.  

- Che c’è, stupido Esorcista? Perché continui a correre?! YUK, YUK, YUK!!! DAI, COMBATTI!!! –

Schivando con fulminea agilità l’incessante pioggia di colpi, Allen lanciò un’occhiata malevola alla Bambola, avvertendo il guanto che copriva la propria Innocence divenire fastidiosamente stretto. La croce dolorosamente incastonata sul dorso della mano sinistra vibrava al richiamo piuttosto esplicito della Dark Matter, una calamita a cui l’albino però stava resistendo, anziché rispondergli come sempre aveva fatto. Era in trappola, un perfetto topolino alla merce del gufo. Il corridoio da cui era venuto era appena crollato e così ben chiusa, la piazza assomigliava a un recinto di pietra dentro cui non poteva far altro che correre circolarmente. Rannicchiati come due fagottini tremolanti fra le sue braccia, Taro e Lua tenevano la testa nascosta e le mani congiunte: la paura circolava nelle loro vene quanto bastava per far impazzire i loro cuoricini e tutto quel bombardare che cercavano di reprimere con le sole mani, non faceva altro che alimentarla.

- Devo uscire da qui sotto al più presto o quell’Akuma finirà per farmi crollare l’intero soffitto addosso! – Pensò animatamente Allen.

Con tutto quel fracasso rumoreggiante, le mura non avrebbero resistito ancora a lungo. L’albino cercò con gli occhi un qualunque spiraglio o crepa che potesse fargli venire la giusta idea, ma la sola apertura fattibile era quella sopra la sua testa, dove il Giullare danzava e rideva per il suo scappare ininterrotto. Strinse i denti, consapevole che non c’era altra scelta a sua disposizione, se non quella di lanciarsi contro il Livello Due a tutta velocità e fare da scudo umano ai due piccolini.

- Tenetevi ben stretti! Adesso usciamo! – Esclamò poco prima di puntare i piedi e balzare verso l’uscita.
- CREPA, ESORCISTA!!! –

L’impatto con i proiettili scagliatigli contro fu inevitabile. Un forte bruciore corrosivo attraversò la pelle di Allen e gli lacerò i fasci muscolari sino a insediarsi nelle sue ossa e bucarle. I polmoni gli si restrinsero pericolosamente, annebbiandogli la vista e rischiando di farlo scivolare. Mancò poco perché vacillasse, tanto percepì il virus dell’Akuma attecchire ai suoi organi vitali e scioglierli come fossero stati messi a mollo nell’acido: le stelle nere che simboleggiavano il contagio gli tempestarono il viso con lo stesso incisivo ardere di tanti marchi bollenti, ma con un ultimo sforzo serbato, riuscì a evadere dalla piazza e a tornare all’aria aperta, sbalzando via addirittura l’avversario.

Rotolò fra le macerie per diversi metri, sino a fermarsi proprio a pochi passi dalle rovine della chiesetta.

- Presto…Andatevi a nascondere -, ansimò una volta messi giù i bambini.
- E tu, Allen?! – Domandò Lua, preoccupata.
- Va tutto bene, non è niente. Adesso, andate. Veloci -, li rassicurò nel mentre si metteva in piedi.

Ogni giuntura del suo corpo scricchiolava e minacciava pericolosamente di sbriciolarsi in tantissimi pezzettini. Le membra interne erano in balia del virus mortale dell’Akuma, sprigionavano un dolore fisico che aumentava col numero di stelle nere che comparivano sulla sua pelle bianca, la cui resistenza non faceva che accrescerne l’intensità. Non c’era modo di scampare alla morte quando si veniva infettati dal virus delle Bambole del Conte del Millennio: era sufficiente un semplice sfregamento, un tocco qualunque perché si venisse condannati a diventare delle statue nere e frangibili anche col più flebile dei sospiri, ma nel pararsi di fronte all’allibito Livello Due, Allen Walker dimostrò come l’essere un compatibile di tipo parassita potesse avere tanti vantaggi quanti erano i suoi svantaggi. L’immunità al veleno era uno di questi.

- Come, come? Perché non sei a terra a contorcerti per il dolore, lurido Esorcista? Perché? – Si stupì il Giullare.
Allen boccheggiò ancora una volta, inghiottendo una copiosa manciata d’ossigeno prima di rispondergli sorridente e col braccio trasformato - Mi dispiace deluderti, ma la mia Innocence mi protegge dal tuo virus -, gli svelò – E ora che siamo soli, possiamo riprendere a combattere senza problemi. –

Di quello stupore che aveva studiato il regredire dell’effetto mortale della Dark Matter non rimase una singola briciola. I muscoli facciali dell’Akuma si mossero involontariamente in spasmi sospettosi, deformandosi e oscurandosi di un alone maligno che mise in mostra i denti aguzzi sporgenti dalle labbra scure.

- Tu…Tu… - La faccia grigiastra del Livello Due si deformò completamente, trasformandosi in un’espressione contorta e impazzita – Ti uccido! Ti uccido! Ti uccido! TI UCCIDO!!!! –

Le fiamme ametiste fumeggianti che avvolgevano l’anima tormentata del Livello Due avvamparono di lingue rosse e nere cariche di dolore e rabbia più dell’urlo che questa scagliò contro Allen, il cui avvertirne le mute preghiere nel viso ridotto all’osso lo trafisse da parte a parte. Stava soffrendo troppo; quell’anima era satura d’ogni sorta di emozione che la costringevano a muoversi contro la sua stessa volontà. Il Giullare partì all’attacco, guidato da un raptus di follia omicida che riluceva nei suoi occhi sanguinanti con un’intensità maggiore a quella precedente. Più un Esorcista opponeva resistenza, più le Bambole del Conte del Millennio erano soggiogate dal desiderio assassino che impediva loro di riflettere lucidamente e quella che si avventò sul quindicenne con tutta la velocità a sua disposizione, aveva decisamente perso il senno.
Allen si gettò sulla destra, per poi caricare il braccio tramutato in cannone e sparare contro l’avversario, che sfortunatamente per lui evitò il contrattacco.

- Dannazione! Non sono ancora disintossicato del tutto! – I tempi di reazione dei suoi muscoli vennero meno al suo appello, seppur oramai non ci fosse più traccia delle stelle nere che poco prima avevano tappezzato ogni centimetro della sua pelle.
- STAVOLTA VEDI DI CREPARE SUL SERIO, FOTTUTO ESORCISTA!!!
- Non così in fretta! – 

Ad appena due metri da Allen, il Livello Due si vide arrivare addosso un pericoloso fendente smeraldino che quasi riuscì a recidergli il collo, seguito da un calcio che invece ne colpì in pieno il viso grigio. Balzò all’indietro seduta stante, diventando invisibile e allontanandosi con la coda fra le gambe.

- E’ scappato via ancora… -
- Tutto a posto, Allen-kun? –

Soltanto nel vedersi tendere una mano, l’Esorcista sollevò il proprio sguardo fino a incontrare quello onice di….

- Amèlie-san, siete voi. –
- Chi altri avrei dovuto essere? – Gli domandò la donna, aiutandolo ad alzarsi – Piuttosto, non pensavo che ti avrei trovato in questo stato pietoso e ancora a combattere. –
- Diciamo che ho avuto qualche impedimento -, si scusò il più giovane.

Si misero schiena contro schiena, con le armi ben alzate e lo sguardo vigile.

- Lo vedi? – Domandò la corvina, a bassa voce.
- Sì, a ore otto, a circa 150 metri da dove ci troviamo. Non lo sottovaluti, Amèlie-san: oltre a essere molto veloce, quel Livello Due può rendersi invisibile. Perfino io ho difficoltà a intercettarlo quand’è in movimento –, la avvisò l’albino.
- Un giocattolino dai poteri insidiosi, eh? – Più che metterla sull’attenti, la notizia parve eccitarla – Bene: vorrà dire che lo rallenterò quanto basta perché tu possa eliminarlo una volta per tutte. Non è il genere di situazione per cui ricorrerei a simili mezzi, ma per te posso anche fare un eccezione -, sogghignò infine, con sorrisetto malizioso.
- D’accordo, purché funzioni. L’anima di quell’Akuma è al limite della sopportazione, presto sarà completamente corrosa dal risentimento. – Nonostante avesse imparato a mascherare la sua palese preoccupazione per quella componente umana bisognosa d’aiuto quanto bastava per non distrarlo troppo dal combattimento, l’imperturbabilità di Allen peccava ancora in durata e resistenza per via di quel suo stesso animo sensibile.
- Tranquillo, Allen-kun: funzionerà -, lo rassicurò lei – Io non faccio mai promesse a vuoto: detesto gli errori. -
- Che cosa avete in mente? -

L’occhiata seducente che Amèlie gli schioccò prima di staccarsi dalla sua schiena, lasciò intuire un’intenzione ben precisa, ma che agli occhi argentati dell’albino apparve soltanto come un’ombra enigmatica dai contorni poco definiti. Cosa mai poteva avere in mente la compagna per facilitargli la purificazione di quel Akuma?

- Ti voglio svelare un piccolo segreto, Allen-kun -, soffiò lei, leccandosi le labbra rosse col bastone della falce a roteare circolarmente – Marian Cross non è il solo Esorcista che sappia destreggiarsi nelle arti magiche. -




Note di fine capitolo:
1*: Timbro Celeste! Rotazione Divina di Tuoni e Fulmini!
Nuovo capitolo! Siamo quasi giunti alla fine di questa prima saga! Avevo anticipato che non sarebbe stata particolarmente lunga: devo dire che sono piuttosto soddisfatta di come questa storia sta procedendo, anche se mi sto complicando la vita per tutti i cambiamenti che sto apportando per renderla più consona alle mie aspettative, specialmente la parte che riguarda Amèlie. Ho deciso di utilizzare la pronuncia giapponese dei nomi di alcuni attacchi, specie quelli dei personaggi ufficiali di D Gray Man in quanto li trovo più adatti della comune pronuncia italiana: è una stupidata, però a volte sono queste piccolezze a fare la differenza! Ringrazio nuovamente tutti i lettori e recensori per seguire questa mia storia! Dopo questo aggiornamento, è possibile che io rallenti un po’ i tempi di pubblicazione, visti gli impegni di adesso; farò il possibile per non farvi attendere troppo e postare come sono riuscita a fare fino ad ora, ma nel caso dovessi assentarmi più del dovuto, sapete perché. Un ringraziamento in particolare a Darkrinoa88, che segue la mia storia e mi ha fatto un disegno di Amèlie che adoro alla follia (avrei voluto metterlo prima, ma quando una ha la testa a viole…)
Ecco il link: http://ciril09.deviantart.com/favourites/56394719#/art/The-Exorcist-388437342?_sid=78ab4a14
Un saluto a tutti voi!

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Capitolo 9
*** Hunting Seal. ***





- Innocence, secondo sprigionamento: hatsudo!* –

La Santa Chiesa non aveva mai visto di buon occhio i cambiamenti. Una visione che non rispecchiava i canoni evangelici o effigi dove si rendeva lode a un uomo sacrificatosi per l’intera umanità difficilmente trovava nella grazia divina che tutto perdonava una possibilità di diffusione e sin dai primi segnali di guerra contro il Conte del Millennio, quel potere che si era fatto carico di diffondere la semplice parola di Dio, l’aveva trasformata in una ragione più che sufficiente per osare. Riporre l’ascia di guerra contro qualunque altro suo avversario al fine di utilizzare ogni espediente valido per ottenere la vittoria e riconoscere la propria impotenza d’innanzi a un’evidenza sempre più schiacciante ne aveva permesso l’ulteriore sopravvivenza, seppur le sue idee ancora si dimostrassero restie ad accettare altre Fedi.
Scienza e Alchimia indicavano lo stesso mondo sotto nomi diversi, avevano sempre primeggiato con la Santa Chiesa per la legittimazione di una visione della realtà che implicava misticismi e artifici, conoscenze bollate come oscure e dunque paragonabili a blasfemie demoniache. Dio scomodato dal suo trono di luce e di suprema incorruttibilità su qualsiasi forma del creato.
Eppure era stato quell’insieme di tecnologie avanzatissime, quei saperi cifrati in lingue perdute e simboli antichi che solo pochissimi esperti riuscivano a spulciare fino alla radice, ad aver concesso a mani umane il dono di plasmare l’Innocence grezza.

Amèlie Chevalier non si era mai definita una specialista nel campo dell’Alchimia, una maga o una strega, ma andava molto orgogliosa dell’essere una rarità in mezzo alla comune massa; escluso il Generale dai capelli rossi, era l’unica Esorcista in grado di praticare simili arti, seppur tutta la sua conoscenza si ricollegasse a due specifici incantesimi e a qualche affascinante studio teorico. Si fondevano col suo armamentario potenziandolo in vie che fin da bambina si era limitata soltanto a immaginare, risuonavano del potere dell’Innocence mischiato alla sua indole amante di perversità sgorganti dallo stesso mondo aggrappato al vile e lucido specchio della falsa speranza.
Allen Walker lo percepì vibrare distintamente, forte, crescere gradualmente, trovando istintivo osservare la falce di Amèlie roteare da una parte all’altra e coglierne le palpitazioni cadenzate. In via del tutto eccezionale, stava per assistere a uno spettacolo senza precedenti, la dimostrazione di quel surplus riservato per le grandi occasioni, e l’esserne così vicino da toccarlo quasi induceva il suo coraggio a indietreggiare. Si lasciò scappare un sussulto quando la francese fece scorrere sul palmo della mano destra la punta della lama, per poi macchiarne la superficie fredda col sangue fuoriuscito dal taglio.


- Svegliati e grida, mia cara e amata amica. - La voce di Amèlie si rivolse alla falce come se questa la stesse ascoltando, dolce, sensuale e maliziosa – Rivestiti del sangue mischiato con la luce dell'eterno immolato e apri la via che condannerà il male al castigo del Serafino Perduto. -

Il silenzio che circondava le rovine s'impregnò di tensione elettrica fuoriuscente dal terreno dismesso.
Il bulbo oculare di Allen scattò repentino, puntando con insistenza verso sinistra e assottigliandone la già stretta pupilla nel captare l’accentuato movimento del Giullare, ancora nascosto e mimetizzato. Non attendeva altro che il momento migliore per attaccarli entrambi, magari di sorpresa come piaceva a certi suoi simili che si dilettavano a sperimentare le meraviglie di una volontà apparentemente libera, ma anche a distanza, l’albino scorse con dispiacere l’anima scheletrica imprigionata nel fiammeggiante involucro violaceo fluttuare in aria e piangere per il male patito.
Solo il bagliore anomalo scaturito da Lucifer lo distrasse. Tornato a guardarla, contò cinque secondi esatti prima di accorgersi che la tipica luce smeraldina del cristallo divino stava mutando colore, assorbendo all’interno del lucido metallo da cui fuoriusciva la macchia e le gocce scarlatte che l’avevano bagnata. Di colpo, alla singola lama se ne aggiunse un’altra, una copia identica in tutto e per tutto all’originale, che costrinse l’ipnotizzato quindicenne a seguirne la comparsa con fiato trattenuto fino a formazione completa. La Rose Cross, brillante e luminosa, comparve al centro di entrambe con eleganti rifiniture circolari a fare da cornice.


- Incredibile, si è trasformata. – Impossibile ignorare l’intensa aura rossa che avvolgeva le lame gemelle.

Era lo stesso calore. La stessa sensazione di smisurata liberazione e di difficile contenimento che lo pervadeva quando evocava col solo pensiero la croce incastonata a viva forza sul dorso della mano sinistra, eppure altrettanto diversa nel suo scorrergli lungo il corpo. Il potere percepito pochi istanti prima pareva aver acquisito nuova forma, una completezza che aveva istigato e ridestato quella parte d’essere della falce di Amèlie fino a quel momento rimasta volutamente assopita. Suscitava brividi sinistri il solo riempirsene gli occhi.

- Che sia stato il maestro a insegnarle tutto ciò? A pensarci bene, lui si destreggia parecchio con la magia; forse le ha trasmesso le basi. – L’aver scoperto che anche la francese era stata una sua allieva offriva basi solide a quell’ipotesi, tuttavia Allen non se la sentì di affermare che una simile destrezza nelle arti occulte fosse unicamente merito dell’uomo. Guardare Amèlie, rifarsi a quel poco che aveva appreso sul suo carattere…

Sicuramente c’era un suo tocco personale.

Improvvisamente, la sua testa fu catturata e fatta girare da una forza invisibile. L’occhio sinistro gli dolse per lo scatto repentino percepito, roteando impazzito per qualche istante prima di illuminarsi e immobilizzarsi nuovamente sulla figura nera cominciata a muoversi verso di loro.


- Amèlie-san, si sta preparando ad attaccare -, la avvertì l’albino, socchiudendo le palpebre e lasciando che il vetrino circolare dell’occhio maledetto ne ampliasse la
grandezza.


- Bene. Quando ci attacca, scansati e lascia fare a me -, gli ordinò.
- Come volete. –

La sua voce ostentava fermezza, ma anche una nota di eccitazione per quanto stava per accadere. Non stava giocando, ne prendendo la cosa alla leggera: tutti gli Akuma - sia di infimo livello o così forti da mettere alla prova ogni sua risorsa -, rimanevano pur sempre delle spietate e mortali macchine assassine, ma Amèlie adorava esibirsi, combattere con un pizzico di vanità e il corpo messo in subbuglio dall'adrenalina che scorreva libera da ogni freno inibitore e ardeva dentro di lei incontrollabile. Certi lussi se li era potuti concedere solo dopo molti anni di fatiche e continue prove che tutt’ora si imponeva, purché la mente prevalesse su qualunque pressione esterna o interna che ne minasse il giudizio, ma l’essere riuscita a creare un proprio stile personale l’aveva ripagata dei molti sacrifici fatti.  

VI SIETE DISTRATTI, ESORCISTI!!!!! – Esattamente come Allen aveva predetto, il Livello Due andò alla carica con un attacco a sorpresa, puntando le sue mani artigliate alle loro gole.

Svelto, l’albino si gettò di lato, mentre la corvina compì un salto mortale all’indietro, scansando la Bambola dall’alto e atterrando alle sue spalle. 
Il Giullare fece giusto in tempo a girarsi e a vedere riflessa nei suoi occhietti microscopici la luce scarlatta di Lucifer, prima di riuscire a scappare lontano ed evitare che le due lame riuscissero a ferirlo seriamente.


Yuk, yuk, yuk!!! Che credevi di fare, stronza Esorcista? Di prendermi?!? Quella tua brutta falce è troppo grossa perché tu riesca a tenere testa alla mia velocità! Yuk, yuk!!! – La derise nuovamente quello, al sicuro e mimetizzato con l’ambiente.
- Accidenti, ci è sfuggito. – Il ragazzino dai capelli bianchi esaminò i dintorni velocemente, riuscendo a cogliere la presenza dell’Akuma a poca distanza da dove lui e Amèlie si trovavano.
Non preoccuparti, Allen-kun: è tutto sotto controllo -, lo rassicurò calma la più grande – Quel buffone ha i secondi contati. -

L’inglesino lanciò un’occhiata perplessa alla donna, cogliendo all’istante l’espressione sul suo viso di porcellana.

Sorrideva. Amèlie stava sorridendo.
Una leggera, ma visibilissima nota di trionfo le dipingeva le labbra piene nel mentre gli occhi traboccavano di soddisfazione personale scoppiata come tante scintille bianche. Al momento dell’assalto, Allen avrebbe potuto quanto meno respingere l’attacco, ma aveva deciso di fidarsi dell’amica e lasciar fare a lei unicamente perché aveva intuito nel suo modo di fare una determinazione rasentante la più dura delle solidità, una sicurezza e una fiducia nelle proprie capacità che avrebbe rassicurato anche la persona più scettica del mondo. Per un istante…Gli era sembrato di vedere l’ombra del maestro congiungersi con quella della donna, tanto il sangue freddo di lei si avvicinava a quello glaciale del generale. Ogni movimento o espressione ne rievocava l’immagine con un’automaticità tale che l’albino non sapeva se spaventarsi o che altro, sicché non era la prima volta che gli capitava di compiere simili paragoni fra Amèlie e il maestro.

L’unica certezza in suo possesso, era che lui e la compagna stavano su due piani completamente diversi. Addestrati dalla stessa persona, ma forgiati da storie ed esperienze diverse. Ciò che collegava Amèlie Chevalier a Marian Cross era radicalmente differente dal rapporto costruito con lui, Allen Walker, durante i quattro anni di addestramento. Ne intuiva una profondità che scavava così a fondo nella vita della donna e del maestro stesso da risultare a dir poco intoccabile da mani estranee. Come si erano conosciuti? Cosa sapeva Amèlie del maestro che lui invece non conosceva? C’erano così tante domande da riempirci interi volumi, ma lui non era al corrente di nulla, se non che il suo pseudo-tutore aveva un debito così apocalittico con la Rosa Nera da averlo quasi portato al cospetto del Creatore.

Il solo pensiero lo fece rinsavire e tornare a concentrarsi sullo scontro.
Il loro contrattacco non era andato a vuoto come sosteneva il Livello Due, ne era sicuro, altrimenti la corvina non avrebbe avuto una ragione vagamente plausibile per sorridere a quella maniera. E seppur ad Allen ancora non fosse chiaro che cosa avesse fatto di preciso e per quale motivo la brillante luce della sua falce fosse diventata scarlatta, confidare nella forza di Amèlie e lavorare come una squadra era un dovere a cui mai si sarebbe sottratto.

Cosa, cosa, Esorcista?! Tu dici che ho i secondi contati?! Non farmi ridere! Ti ho già detto che la tua ridicola falce è troppo grossa per acchiapparmi!!! – La voce dell’Akuma riecheggiò in tutte le direzioni, amplificata dall’altitudine montagnosa.
A quell’insulto, la Chevalier rispose con un sorriso malizioso ancor più marcato - Può anche darsi che la mia falce dia l’impressione di essere un’arma ingombrante… -, cominciò suadente, sollevando il braccio destro e distendendolo in avanti – Ma se a maneggiarla sono io… – Capovolse la mano all’insù, per poi schioccare le dita – Allora la cosa dovrebbe preoccuparti non poco. –
- Uh? Cos…? –

CREAK!

Dal suo angolino ben coperto e protetto, il Giullare udì qualcosa creparsi e aprirsi con rumore secco, seguito da una sensazione mai provata sino a quel momento. Qualcosa si era rotto. Qualcosa di suo, di quel suo corpo evoluto che sapeva occultare alla vista umana. Decisamente ridicolo per essere vero. Quella femmina lo aveva appena sfiorato, la sua schifosa e immonda Innocence non lo aveva colpito per niente. Allora perché il suo scheletro meccanico rimbombava timoroso contro la carne molle? Si guardò da capo a collo, soffermandosi sulle spigolosità di alcuni suoi punti anatomici giusto per una manciata di secondi scarsi, prima di portarsi una delle due mani al viso e vedersela sbriciolare sotto gli occhietti assassini; al perdere le dita, ridotte in cocci, l’allertante suono precedente scivolò in un dolore indescrivibile che cominciò a dilaniarlo dall’interno, espandendosi in tutti i suoi arti con lento e incisivo pulsare.


GHYAAAAA!!!!!!!!! – L’urlo che lanciò fu seguito da un botto proveniente dalle macerie più lontane.

Seppur fosse soltanto una figura nera e non ben definita, Allen riconobbe in quell’essere che rotolava e si dimenava in preda al panico il Livello Due, impazzito e interamente coperto da un'appariscente ramificazione sanguigna che non faceva altro che allargarsi e ricoprirlo sempre di più.

- CHE DIAVOLO E’?!?!? CHE DIAVOLO E’ QUESTA ROBA?!?!?! – Lo si sentì ringhiare – QUANDO…?!?
- Ti ho sfiorato, ricordi? All’avambraccio sinistro –, gli rinfrescò la memoria Amèlie, alzando la voce per farsi sentire – Per l’attivazione di molte arti magiche occorre il contatto fisico con una superficie solida e il mio Sigillo di Caccia non fa eccezioni, ma a me è sufficiente che si tocchi anche soltanto l’aura che Lucifer emana per fare la maga. E uno schiocco di dita –, aggiunse, facendo l’occhiolino all’albino.

Ammutolito com’era, fu tentato di pensare che il suo essere stato attento e in allerta, con la mano sinistra pronta all’evocazione, fossero stati tratti in inganno da una qualche illusione. Allen difficilmente si faceva cogliere di sorpresa o reagiva in ritardo a eventuali colpi bassi, ma tutto ciò che gli riuscì di fare in quel preciso attimo – o meglio, che la sua testa riuscì a fare –, fu il girarsi da Amèlie verso le grida strazianti e cariche di insulti pesanti che il Giullare le stava lanciando contro.
Tornando indietro con la propria mente, rivisse l’attimo in cui il Livello Due li aveva attaccati: la sua mano artigliata tesa verso di loro, lo scatto fulmineo e infine l’affilata falce della francese, permeata da quell’aura color sangue vivo, roteare contro l’Akuma e sfiorarne la parte del corpo citata. I dettagli emersero a galla con spontaneità, favoriti dalla lenta ricostruzione memonica dell’albino e da un ricordo in particolare che gli balzò in testa automaticamente…

- Fammi indovinare, Amèlie-chan: queste informazioni le hai ottenute col Sigillo di Verità. –

Era stato Lavi a dirlo e lui non aveva mai capito a che cosa si fosse effettivamente riferito, ma sicuramente si trattava di qualcosa di pericolosamente vicino a quanto aveva appena assistito.


- E’ tutto tuo, tesoro -, gli disse Amèlie, superandolo – A giudicare dalla lunga assenza di scosse, direi che Bunny Boy e Crowley hanno fatto fuori anche l’altro. Non ci resta che recuperare i piccini e l’Innocence. Si sono rifugiati nella chiesetta, vero? –
- Ah…Penso di sì, ma aspetti un attimo! – La fermò. 
La donna reclinò la testa verso di lui, con ancora alto il suo ammaliante e seducente sorriso – Vuoi sapere come ho fatto, vero? –

Lo scemare in un’espressione palesemente ebete fu una reazione così spontanea da suscitare terrore. O quella donna aveva il potere di anticipare ogni sua mossa oppure il suo viso era un così bel libro aperto da non avere segreti per nessuno.


- E’ molto semplice, Allen-kun: come ti dissi in precedenza, Marian Cross non è il solo Esorcista capace di utilizzare le arti magiche. Quand’ero più piccola, mi insegnò due particolari sigilli per destreggiarmi meglio in battaglia, che in seguito perfezionai, scoprendo di poterne incrementare l’effetto tramite il potere della mia Innocence e viceversa -, raccontò, per poi indicare il Livello Due, oramai esanime – Quell’Akuma ha sperimentato gli effetti del mio Sigillo di Caccia: con un tributo di sangue della mano destra mischiato al potere del cristallo divino, posso marchiare il mio avversario e infettarlo fino a che non è più in grado di muoversi. Un po’ come fa Crowley -, lo aiutò meglio a capire, riferendosi al potere del compagno – Mi segui? –
- Più o meno… - Il passarsi una mano dietro la nuca, mise in bella mostra la sua perplessità.
- Il sangue è il tramite, il vettore con cui evoco il sigillo -, delucidò meglio lei – Lega il mio corpo all’Innocence, ma non a livello sensoriale come per i tipi parassita: mi permette semplicemente di usufruire di una maggiore potenza d’attacco, a patto che io abbia sufficienti requisiti fisici per sopportarne il peso. –
- Volete dire che non potete usarli più volte in combattimento? – Domandò Allen.
- Certo che posso, ma bisogna tenere conto della classe di appartenenza -, gli rispose Amèlie – Ogni sigillo utilizzato implica una connessione col corpo umano che non deve essere presa sottogamba. In breve: se il potere del sigillo è basso, lo sforzo è minimo. Se è alto è il contrario, ma in ambedue i casi questo dipende unicamente da quanto è allenato il fisico e per simili Bambole è sufficiente il mio attuale stato. Ti è tutto chiaro, adesso? –

Allen annuì, più per prassi che per reale comprensione, permettendo così alla compagna di dirigersi verso la chiesetta dal tetto scoperchiato senza che le venissero rivolte altre domande. Parte della sua curiosità era stata saziata, anche se nel smaltirne una, un’altra si era accavallata alla restante e ora stava facendo a gara per impensierirlo quanto bastava da costringerlo a porsi un ordine mentale. Per capire aveva capito, nel suo piccolo era un ragazzo intelligente e giudizioso – anche se sempre più propenso a salvaguardare la vita altrui piuttosto che eseguire un ordine immediato senza pensare alle possibili ripercussioni -, ma avere la possibilità di saggiare il potere che Amèlie deteneva e compararlo al suo, non fece altro che mettere in mostra l’abissale differenza che intercorreva fra entrambi. Gelosia? No di certo: Allen Walker era troppo gentile per cadere in una trappola tanto infantile.

Semplicemente Amèlie Chevalier era diversa da lui, ma quanto doveva ancora bene scoprirlo.




Deve essere qui, da qualche parte… -, borbottò Allen.
- Qui non c’è niente, invero.  Hai trovato qualcosa, Lavi? – Domandò Crowley – Lavi? -
- Zzzzzzz….. – Un lieve, ma ben udibile russare raggiunse le orecchie dell’inglesino e del rumeno, non appena si voltarono in direzione del loro compagno.
- Lavi? –
- Non rompere, Ji-chan…..Altri dieci minuti…. -, lo si sentì brontolare nel sonno, con la testa appiccicata al palmo della mano e il gomito pericolosamente in bilico sulla parte interna del ginocchio. Un rivolo di bava gli colava a lato della bocca.
- Lavi! – Lo chiamò più forte Allen.
- Whaa!!! Basta pugni!!! – Il rosso si rizzò in piedi e finì con lo sbattere la testa contro un massiccio ramo.
- Si è addormentato ancora -, pensarono all’unisono Allen e Crowley, vedendo il suddetto gemere e coprirsi con entrambe le mani il vistoso bernoccolo che cominciava già a intravvedersi.

Lavi sbuffò dolorante, sedendosi pesantemente a gambe incrociate per sistemarsi la bandana colorata che gli teneva su i capelli fulvi. Lo sgobbare non era il suo forte e setacciare centimetro per centimetro un mastodontico albero per recuperare un’Innocence nella maniera più pacifica possibile era uno straordinario che si sarebbe risparmiato volentieri, se si considerava che, ad un certo punto della giornata, il suo cervello chiudeva i battenti e abbandonava il resto del corpo in uno stato catatonico fino a riposo compiuto. Non c’era una sola fibra muscolare che non stesse chiedendo un po’ di tregua da quel tram tram notturno e nonostante la vittoria ottenuta, Lavi era stato costretto a fare appello alle sue ultime forze e a impegnarsi perché non andasse a sbattere la faccia contro ogni ramo appuntito dell’albero.

Il combattimento con il Livello Due corazzato era stato molto più impegnativo del previsto: l’avere un ego intestardiva gli Akuma più degli esseri umani, ma a quel bestione era bastato lo straripante armamentario a sua disposizione per far correre lui e Crowley come dei forsennati. Non un secondo, non un attimo di respiro, ogni istante lasciato al caso li avrebbe portati a morte certa; una Bambola del Conte del Millennio non era un giocattolo che si potesse rompere con un semplice tocco e quel bestione lo aveva dimostrato, tenendoli sufficientemente a distanza e istigando la sete del rumeno fino al limite dell’esasperazione. Soltanto il suo occhio smeraldino aveva fornito a entrambi la base per un contrattacco con i fiocchi: Lavi osservava, raccoglieva, analizzava e metabolizzava quanto gli stava attorno come per riconfermare ancora una volta la tesi che tutto, a quel mondo, in una maniera che soltanto un potenziale Bookman e un Bookman effettivo potevano stabilire, aveva un preciso significato e senso. Salvo rarissime eccezioni.

La logica di Allen si fondava su un credo contro cui la ragione stessa colava a picco quasi istantaneamente e il suo fare tutto il possibile per chi lo circondava implicava dei “Perché?” le cui risposte non sembravano mai essere del tutto esaurienti.
Tra uno sbadiglio e l’altro, il diciottenne sperò con tutto se stesso di incappare in un qualche miracolo che ponesse fine a quella ricerca sì meticolosa, ma fino a quel momento negativa su tutti i fronti.


- Allen! Lavi! Venite! Qui c’è qualcosa! – La voce speranzosa di Crowley chiamò entrambi i ragazzi.

Il rumeno era inginocchiato davanti a una spessa e rigonfia incurvatura della corteccia scura, pericolosamente assomigliante a una cicatrice appena rimarginata. Era diversa dai bitorzoli che il tronco presentava, un'apertura chiusasi con il crescere smisurato di molteplici strati di legno ruvido che, tuttavia, non erano riusciti a cancellare completamente il segno originale. Salvo Amèlie, rimasta in superficie con Taro e Lua, Lavi e Crowley erano i soli scesi con Allen e a conoscenza della sua ipotesi dedotta dalla storia stessa dell’Albero della Fortuna.

- Forse ci siamo -, mormorò il quindicenne, sfiorando con le dita guantate l’irregolarità della linea solcante la corposa parte di corteccia – L’incavo originale dell’albero era un semplice squarcio, ma l’effetto dell’Innocence ne ha guarito ogni ferita, rigenerandone le parti danneggiate. Queste cicatrici sono tutto ciò che ne resta. –
- E tu sei convinto che il frammento che cerchiamo sia dentro uno degli oggetti che la gente soleva mettere dentro al tronco per esaudire il proprio desiderio -, proseguì Lavi, annuendo – Bè, questo spiegherebbe anche l’insensato calore che sprigiona; non ci resta che aprire e controllare di persona! – Esclamò vivacemente.
- Lasciate fare a me, invero. – Appoggiando entrambe le mani sui lati del buco chiuso, Crowley fece pressione sulla corteccia dell’albero spaccandolo, creando un’apertura sufficientemente larga da farci passare un essere umano. Il rumore del legno spezzatosi e accartocciatosi su se stesso riecheggiò per qualche secondo nell’aria, per poi esaurirsi in un eco sordo di corta durata.
- Più di così non mi è possibile, invero: percepisco l’effetto dell’Innocence nascosta qui dentro ostacolarmi. -
- Uhm…L'interno è cavo, ma è buio pesto… -, constatò Lavi, avvicinando il viso e tentando inutilmente di scrutare l’oscurità interna dell’enorme tronco – Allen, vai tu. –
- Cosa? E perché non tu? – Domandò il suddetto.
- Perché io e Crowley siamo troppo grandi per passarci. Invece tu, che sei piccolo e basso, ci entri benissimo. E poi tu non hai problemi a vedere con il buio -, specificò il diciottenne saccente e e con tanto di dito indice ben alzato.
- Non campare scuse: tu hai paura -, lo tanò l’albino, frecciandolo in pieno.

Punto sul vivo, al rosso occorse tutta la sua nonchalance per non dare a vedere che il calarsi in un buco stretto, umido, buio, forse pieno di vermi e altri esseri striscianti e bavosi – con il rischio non escludibile che l’albero si rigenerasse nuovamente -, era una prospettiva da cui preferiva tenersi ben lontano. Sarebbe stato tutto più facile se Crowley avesse creato un’apertura più larga, ma a quanto pareva, l’energia sprigionata dall’Innocence contenuta nel cuore dell’albero rivestiva ogni suo singolo componente – tronco, radici, foglie e fasci legnosi compresi -, rendendolo spesso e resistente quasi quanto una lastra d’acciaio. Potevano distruggerlo, la forza bellica non scarseggiava, ma l’improvvisa comparsa di tutta una serie di buone ragioni volte a ridurre al minimo i danni a quell’albero – in primis, i visini intristiti di Taro e Lua -, avevano spinto i tre Esorcisti a scegliere una strada che accontentasse entrambe le parti e non li facesse passare per i cattivi di turno.

- E va bene! Per evitare di tirarla per le lunghe, non ci resta che una sola cosa da fare! – Affermò risoluto il guercio. 




Que les enfants*…. -, sbuffò Amèlie, scuotendo debolmente la testa, in segno di negazione, nel sentire riecheggiare nell’aria un climax sempre più incisivo di “Sasso, carta, forbici”. 




Note di fine capitolo.
1*: Attivazione.
2*: Che bambini…
Allora, io non conosco il francese, sono negata, ma mi sono detta “perché non provare a caratterizzare Amèlie con la sua stessa lingua?”. Non sarà una cosa continua, diciamo che quando sarà particolarmente arrabbiata o dell’umore giusto, si esibirà nella sua lingua natia. Saranno più che altro sbuffi, ma a volte sono le piccolezze a fare la differenza! Personalmente alcune cose di questo capitolo avrei voluto renderle migliori, ma nel farlo correvo il rischio di dilungarmi veramente troppo e rileggendole, alla fine, sono tornata al punto di partenza. Fra queste c’era la spiegazione del Sigillo di Verità: forse ne metterò una breve descrizione più avanti, chissà, giusto per non lasciare un vuoto!
 

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Capitolo 10
*** Un altro passo verso la meta, mille indietro in ricordi e promesse. ***





- Timcampi, sta buono, su. –

Lenalee Lee non sapeva più che fare. Nonostante il tono della sua voce fosse calmo ed equilibrato, il fine viso era leggermente corrucciato in un’espressione che galleggiava fra il pensieroso e lo spazientito; non era nella sua indole sbottare per una sciocchezza o una situazione che comunque poteva essere risolta con serenità e diplomazia, ma da più di mezz’ora i suoi splendenti occhi color ametista non facevano altro che zigzagare a destra e a sinistra senza mai sostare su di un punto per più di cinque secondi.
Il piccolo Timcampi era insolitamente irrequieto: sbatteva le sue alucce dorate agitatamente, alternando volteggi circolari con veloci perlustrazioni della piazzetta, incapace di aspettare più di quanto avesse già fatto. Sicché Allen non era lì, a prendersene cura era stata la bella cinese, ma in quel momento Lenalee non riusciva proprio a gestirlo, quel piccolo boccino tondo, e a ben riflettere sul perché di quell’insolito comportamento, la ragione poteva essere una soltanto.
La stazione ferroviaria di Guangzhou era vuota e desolata come fosse stata abbandonata da tempo, con la differenza che era pulita, senza muri crepati o consumati dall’umidità del tempo e baciata da caldi raggi soffusi. Una fra le tante, più esterna e piccola rispetto le principali, ma ancora funzionante e adoperata da treni merci di media portata; l’ultimo era arrivato da più di due ore, ma dei tre Esorcisti mancanti all’appello non vi era ancora traccia. L’appuntamento era per quel giorno, in quello spiazzo placido composto solo da un paio di panchine, una fontana vuota e una microscopica casupola di legno che includeva la biglietteria e l’entrata per la stazione, ma oltre alla sedicenne, non c’era nessun altro essere umano.

- Quasi mezzogiorno…Chissà se sono in dirittura d’arrivo? – Si domandò la suddetta.

Nel sentirla, Timcampi le si appoggiò in grembo, alzando la testolina in segno di conforto. Lenalee chinò il capo, esibendosi in uno di quei dolci sorrisi che meglio sapevano mettere in risalto la sua gentilezza e preoccupazione per i compagni.

- Non vedi l’ora di rincontrare Allen-kun, vero? – Gli domandò retoricamente – Anch’io, ma dobbiamo portare pazienza un altro po’ e…Tim, ma… ? –

Come accortosi di un qualche cambiamento che la cinese, al contrario, sembrava non aver percepito, il piccolo golem aveva sollevato appena il corpo tondeggiante, per poi librarsi in aria velocemente e volare con tutte le sue forze verso una stradina dissestata e nascosta dagli alberi.

- Timcampi, aspetta! – 




- Finalmente siamo arrivati. –

La rampa di scale di granito che separava il paese dalla stazione ferroviaria appariva quasi interminabile. Niente di esagerato come le montagne appena superate o di sfiancante come la missione appioppata da Komui - quasi il loro rincorrere il Generale Cross di paese in paese non fosse già estenuante -, ma abbastanza per ricordare agli esorcisti quanto un paio di ore di riposo in più non avrebbe fatto altro che bene al loro fisico tirato. Con un ultimo sforzo da parte delle sue gambe, Allen ne raggiunse la cima col viso leggermente arrossato, prendendosi un attimo per tirare con l’indice il colletto della camicia bianca. Il tepore trasportato dal vento era primaverile, frizzantino per la vicinanza con l’oceano assomigliante a una lunga e spessa striscia blu infinita, ma al tempo stesso cocente per via dell’assoluta limpidezza della giornata, priva di nubi che oscurassero lo splendore del sole. Tutt’altra cosa dall’aria ammuffita e pesantemente stantia che lo aveva costretto a trattenere il fiato per poter recuperare il frammento d’Innocence nascosto nell’Albero della Fortuna – alias, un irriconoscibile e annerito carillon -. Alla fine era toccato a lui l’ingrato compito.

- Qui io non vedo nessuno…Né Lenalee, né Ji-chan. - Lavi osservò i dintorni senza scorgere alcunché di familiare – Eppure il luogo dell’incontro è questo. –
- Mi sembra che qualcosa ci stia venendo incontro, invero -, notò Crowley, aguzzando la vista.
- Dov…? –

STOMP!

Allen ebbe giusto il tempo di girarsi e scorgere un luccichio sfrecciare verso di lui, prima che questo lo colpisse così forte in faccia da farlo cadere all’indietro. Timcampi gli era arrivato addosso a tutta velocità e al ragazzino inglese non era neppure occorso aprire gli occhi e verificare che si trattasse effettivamente del boccino dorato per capire che era proprio lui quel qualcosa che il rumeno aveva adocchiato in lontananza.

- Eh eh! Anch’io sono felice di rivederti, Tim -, ridacchiò il quindicenne, alzandosi in piedi e tenendo vicino alla guancia il piccolo compagno d’avventure – Hai fatto il bravo? –
- Se lui è qui, Lenalee e Ji-chan devono essere vicini -, ipotizzò il rosso, incrociando come di consuetudine le braccia dietro la testa.
- Sì, ma qui non vedo nessuno…Ehi, Tim! –

Da prima così restio da staccarsi da Allen, il tondo esserino si liberò della mano del padroncino e scappò via una seconda volta, sfrecciando alle sue spalle senza fermarsi. Nel seguirne i movimenti con gli occhi argentati, l’albino lo vide andare verso Amèlie e posarsi con leggerezza nel palmo della mano destra teso in avanti.

- Timcampi, quanto tempo -, gli sorrise soave la donna, portandoselo vicino e accarezzandogli la testolina con l’indice dell’altra mano – Ti sei rimpicciolito, vedo. –

Come gli diede un bacio, il golem diventò completamente rosso, per poi iniziare a svolazzarle energicamente attorno emanando sostanziosi sbuffi di vapore.

- Sembrano conoscersi da tempo, invero -, osservò stupito Crowley.
- Bè…Se Amèlie-san è stata allieva del maestro prima di me, è logico che Tim la conosca -, ragionò l’albino, senza però riuscire a nascondere la sorpresa: il suo piccolo amico era diventato completamente bordò!
- Sarà, ma io sono un po’ invidioso -, bofonchiò mogio Lavi, osservando mestamente come quella pallina che manco sapeva spiccicare una parola venisse amorevolmente coccolata.
- Allen-kun! Lavi! Finalmente! – Dal fondo della strada, una figura umana li chiamò ad alta voce. Lenalee correva nella loro direzione col viso raggiante e un lungo soprabito nero che le copriva la divisa da esorcista.
- Lenalee! – Allen fu il primo a salutarla – Che bello rivederti! –
- Sono contenta che siate arrivati: cominciavo ad essere in pensiero -, disse la cinese.
- Abbiamo avuto qualche contrattempo non previsto, niente di grave -, la informò Lavi – Ma Ji-chan dov’è? Non lo vedo. – Si stava guardando parecchio attorno, ma dell’anziano mentore non c’era traccia.
- E’ qui nei paraggi, non preoccuparti. Allora… - I vivaci occhi ametista si spostarono sulla figura pallida e alta del Barone Aleister Crowley III – Tu devi essere… -
- …Uh? Lenalee? Qualcosa non va? –

L’albino le si avvicinò di poco per guardarle il viso, fattosi silenzioso in un sol colpo. L’improvvisa comparsa di quell’espressione paralizzata sul da farsi e la bocca semichiusa non nascondevano lo sconcerto che lui, Lavi e Crowley – spaventato all’idea che potesse essere stato proprio quel suo vampiresco aspetto ad ammutolire la ragazza – colsero immediatamente. Qualcosa alle loro spalle l’aveva ipnotizzata, costretta a mettere da parte tutto ciò che ne aveva promosso il sollievo nel vedere i suoi compagni e concentrarsi unicamente su di essa.
Il nome che seguì quel silenzio calato senza preavviso, pronunciato in un flebile sussurro, rievocò ricordi assopiti che servirono solo a isolare i presenti  e a ingigantire quell’inaspettata sorpresa.

- Amèlie-san…? - 




Anf…Pant…! –

Il respiro mozzato e affaticato di una bambina di sei anni si mischiava ai suoi passi frettolosi e impauriti. Tra scale buie e corridoi stretti, Lenalee Lee correva senza fermarsi o guardarsi indietro, per paura di vedere qualcosa che l’avrebbe sicuramente pietrificata dalla paura. Correva senza sosta, con tutte le forze di cui disponevano le sue gambe, nascoste dallo stropicciato vestitino nero fattole su misura insieme a molti altri. Avrebbe dovuto essere a letto, sotto le coperte, rannicchiata e con le mani strette in due pugnetti per farsi coraggio oppure con i grandi e tristi occhi viola a fissare la luna piena che illuminava il pavimento della sua stanza. Di tutti i posti che quel castello labirintico disponeva, il suo alloggio era quello che meno le creava disagio. Forse perché aveva la possibilità di chiuderlo a chiave….

No…
Se Lenalee ci rifletteva bene….Niente che appartenesse a quel posto avrebbe mai asciugato le sue lacrime o le avrebbe regalato anche un brevissimo barlume di felicità, ma ciò le sarebbe apparso chiaro anche se avesse avuto la forza di ragionarci sopra. Ecco perché stava scappando.
La destra e la sinistra si confondevano a vicenda, seguite da ogni singolo angolo dell’Ordine Oscuro che, dopo la mezzanotte, diventava pressappoco irriconoscibile. Col cuore in gola e le lacrime agli occhi, la mente della bambina era dominata da un panico irrazionale, fuori misura, che non aveva fatto altro che procurarle violenti attacchi d’ansia sin da quando aveva messo piede lì dentro. Nessuna spiegazione, nessuna risposta: solo tanta fredda indifferenza a guardarla, visi estranei che parlavano di cose a lei sconosciute e la terribile sensazione di oppressione che le comprimeva la minuta gabbia toracica e cresceva di secondo in secondo.
Un incubo continuo, pieno di ombre, luci incolori e nessun volto amico: pretendevano che comprendesse quanto fosse importante essere chiamata al cospetto di Dio ed essere investita del suo potere, ma Lenalee Lee era una bambina troppo piccola e impaurita per abbracciare il volere di un essere che non conosceva e una causa che l’aveva strappata su due piedi da tutto quello che le era caro. 
Voleva solo andare a casa, dal suo Nii-san, che sicuramente era preoccupatissimo per lei.

- Eccovi qua, onorevole Esorcista. –

Stavolta era giunta molto più lontano delle volte precedenti. La piazza circolare aperta alla luna era pervasa da una lieve brezza che le scompigliava i lunghi e lisci capelli corvini; un infinito cielo stellato si espandeva in ogni direzione, di un blu così scuro che soltanto l’osservarne le sfumature riversatesi lì attorno impediva di crederlo tinto di nero. Lenalee si pietrificò all’istante nel vedere due figure fare capolino dalle grandi ombre circolari e pararsi fulmineamente davanti a lei. Quelle eleganti tonache rosse svolazzanti e quelle maschere bianche dai geometrici disegni gialli che la fecero cadere all’indietro per lo spavento aveva già avuto modo di conoscerle, così come aveva già avuto modo di sperimentare sulla sua stessa pelle l’incredibile facilità con la quale riuscivano a riportarla indietro, dove doveva stare.

Dove c’era lui….

- Ancora cerchi di fuggire, Lenalee Lee? -

Lì, al sentire pronunciare il suo nome completo, la bambina prese coscienza dell’errore commesso e del suo effettivo peso.
Quell’uomo alto, dallo sguardo austero e affilato, le braccia sempre incrociate dietro le spalle, era di nuovo davanti a lei, così grande da farla sentire impotente e piccola come una formica.

Malcolm C. Lvellie era un nome auto marchiatosi prepotentemente nella sua giovane memoria fin dal primo giorno trascorso all’interno dell’Ordine Oscuro. Una voce glaciale, di finta gentilezza e disgustosamente ferrea che si trasformava in un sibilo malvagio quando metteva in mostra i denti immacolati per calcare la veridicità di quella realtà da cui puntualmente lei cercava di prendere le distanze.

- C’è del lodevole nella tua perseveranza, lo ammetto, eppure dovresti aver capito che non puoi tornare a casa -, parlò pacatamente l’uomo, avanzando di due passi e lasciando che la luna ne illuminasse l’austero profilo – Perché è questo che vuoi? Andare a casa, giusto? – Si fermò a tre metri esatti da lei, scuotendo debolmente la testa per poi sospirare – Proprio una bambina testarda… - 

Una strana morsa attanagliò il cuoricino scalpitante della cinese, i cui occhi colmi di lacrime ne appannarono la vista. Non riusciva a distogliere lo sguardo o a pensare a qualcosa di confortevole: ogni qualvolta che quell’uomo apriva bocca, la sua testa si appesantiva e vorticava incessantemente, rendendole ancor più impossibile il semplice respirare.


- Stai abusando della mia pazienza, Lenalee -, riprese quello, sempre squadrandola con le scure pupille pericolosamente assomiglianti a due aghi neri - Questi tuoi tentativi di fuga dalla Home non porteranno a niente, se non a un inutile spreco di tempo. Posso capire le tue ragioni, ma… – Lì, per quanto impensabile, le ombre che ne coloravano la retta figura si inspessirono ancor di più - Penso che una punizione un po’ più severa possa aiutarti a capire finalmente i tuoi errori. -  

I Corvi dai volti celati dalle maschere inespressive inclinarono la testa verso il Sovraintendente, per poi tornare fissi su di lei dopo aver colto da parte del superiore un appena visibile cenno fatto con la testa. Di ordini espliciti non ce ne era mai stato alcun bisogno: gente come quella imparava fin dalla nascita a intuire e a scattare al più flebile dei movimenti, a interpretare e a scovare in minimi gesti, volontà e compiti specifici che chiedevano sempre la massima attenzione, ma tutto quel che Lenalee riuscì a scorgere prima di appallottolarsi a terra per la paura, furono dei fluenti movimenti di tessuto rosso circondarla e avvicinarsi pericolosamente a lei.
Al seguito di ciò, accadde qualcosa di indefinito: un’ esplosione contenuta, l’odore dell’aria fredda mista a del fumo e il sordo tonfo di qualcosa respinto brutalmente…Ma nessun dolore. Nessun bruciore, nessun taglio o botta che la esortasse a singhiozzare ancora. Rannicchiata su se stessa, la piccola cercò di rimpicciolirsi più di quanto il suo corpicino già non le avesse concesso, imprigionata dalla mentale convinzione che quelle persone non avessero ancora infierito su di lei, che il tempo fattosi inspiegabilmente più lungo fosse un’illusione dettata dall’ansia che premeva per concederle qualche secondo in più d’attesa. Eppure il tempo passò ancora e lei  era ancora lì, tremolante, ma straordinariamente illesa.

- Per l’amor del cielo…Si potrà fare tanto chiasso a quest’ora indecente? – Sbottò stanca una voce del tutto sconosciuta.

Accartocciata come una pallina di carta, la piccina dischiuse le ciglia imperlate di lacrime e provò ad andare oltre la coltre dei suoi capelli per spiare l’esterno. Faticosamente, distinse a poco più di due passi da lei, una persona mai vista, ai cui piedi giaceva uno dei Corvi presenti, mentre l’altro era in posizione di difesa, con le carte mistiche pronto all’utilizzo. Tale fu lo sgomento da farle dimenticare di riempire i polmoni d’ossigeno: nessuno era in grado di ferire quelle persone, nessuno. Non li conosceva bene, ma dai precedenti tentativi di fuga aveva avuto modo di saggiare un briciolo del loro sinistro potere, giacché aveva provato stupidamente a usare contro di loro quella forza divina che l’aveva scelta senza saperne controllare le smisurate potenzialità.

Lenalee socchiuse gli occhi, per poi riaprirli rapidamente nel cogliere il radicale cambiamento avvenuto sul volto del Sovraintendente Malcom C. Lvellie. Quel che riuscì a intravvedere oltre la patina acquosa che le inumidiva la vista, strizzò il suo cuore fibrillante a tal punto da prosciugarne il sangue contenuto: aveva già constatato quanto l’affilatezza del suo volto potesse inspessirsi, ma mai aveva visto qualcosa di così inquietantemente intenso. Per quanto quell’uomo orribile apparisse imperturbabile e troppo saldo ai suoi principi per mostrare emozioni che richiamassero la simpatia, il suo viso tendeva ad acuminarsi oltre il limite umano consentito quando l’autorità della sua persona veniva apertamente sfidata da un’altra che non era ben disposta a essere sottomessa. Con le sue fughe, Lenalee Lee lo aveva provocato, permettendole di avvicinarsi impercettibilmente a quel suo aspetto senza però incrinarne la perfetta e decorosa maschera di pelle spigolosa votata al più ossessivo dei decori e dei rispetti etici, ma chiunque adesso il Sovraintendente - che tanto le faceva paura - stesse osservando, doveva essere davvero speciale per rendere così visibile tale sdegno.

- Amèlie Chevalier -, lo sentì poi pronunciare a denti stretti, sibilante e  vibrante di ribrezzo, i pugni dietro la schiena sicuramente stretti fino all’inverosimile – La tua predisposizione a comparire nei momenti meno opportuni sta cominciando ad essere piuttosto seccante. –
- Dipende da che cosa intende con momenti inopportuni, signor Sovraintendente: c’è modo e modo per considerare una data faccenda -, replicò spavalda la nuova arrivata, per nulla intimorita da come l’uomo le si fosse rivolto – Per come la vedo io, questa è più che altro una casuale coincidenza -, proseguì tranquillamente lei – D’altro canto, io ero scesa solamente a prendere un bicchiere d’acqua, come mai avrei potuto immaginare che, passando di qui, avrei trovato i vostri Corvi intenti a fare i bulli? Atto piuttosto deplorevole per la loro immagine, oltretutto. –
Un lieve movimento della mascella di Lvellie irrigidì il sorriso forzato che ne seguì – Vedo che hai sempre una spiegazione per tutto…Esattamente come il tuo maestro -, osservò.
- Chissà perché non riesco a sentirlo come un complimento -, fece la finta ignorante lei, sorridente e con gli occhi rivoltati all’insù.

Lenalee non capiva più nulla, dove fosse o con chi. A fatica riusciva a rimanere lì con la mente, a non isolarsi in una bolla dove vigesse la sicurezza più totale e a seguire quella successione di eventi indefinibili. Successe qualcosa, di nuovo. Un che di una rapidità così lesta da non permetterle di proteggersi con le braccia, ma che la scosse a tal punto da rammentarle di essere sveglia e non partecipe di un altro brutto sogno. Basita, vide il secondo Corvo vicino a quella persona postasi a sua difesa, in procinto di utilizzare le carte mistiche sfoderate, ma con qualcosa di affilato e lucente puntato alla gola. Nonostante la discreta vicinanza, la bambina non riuscì a distinguere cosa fosse di preciso quel bagliore grigio lucente guizzato dal nulla e mossosi così repentinamente da assomigliare alla scia di una stella cometa.

- Abbassa quella mano, se non vuoi che te la tagli. O preferisci forse che ti decapiti all’istante? –

Cosa ne seguì, non le fu ben chiaro: udì parole di consistenza contrastante scagliarsi l’una contro l’altra con presuntuoso astio gelido, fruscii rapidi  e il tipico suono secco di suole dure che si allontanano a passi regolari fino a dissolversi completamente. Un susseguirsi di piccolezze aventi un loro ordine specifico che lei prese e ammucchiò con trasandatezza per via delle fitte alla testa che il troppo piangere le stava procurando. La confusione la spintonava da una parte all’altra, vorticava e si divertiva a farla respirare male: era tutto un echeggiare distorto, interamente svuotato di ogni senso possibile a cui si era inconsciamente aggrappata, per poi cadere in chissà quale altra buca nera
Affondò le dita nei capelli, tirandoseli a più non posso e strizzando le palpebre con tutta la sua forza.

Inutile. Tutto quanto era palesemente inutile.
Lenalee Lee non faceva che affogare in continuazione, andava sempre più giù, senza che i suoi tentativi sortissero un qualche effetto concreto in quella risalita disperata la cui cima neppure era visibile. Ci aveva provato, ma arrivata a quel punto, perfino l’ombra della ragione che l’aveva tenuta in piedi sino all’ultimo si era dispersa di sua spontanea volontà e rivolgersi al proprio riflesso sciupato sarebbe stato altrettanto sciocco.


No…Così era troppo…Non poteva farcela più…

- Dove credi di andare? –

Lenalee cacciò l’urlo più acuto che la sua gola poté permettersi quando prese atto della stretta di un paio di mani attorno alla sua esile vita, che la tirarono indietro senza alcuno sforzo. Era scattata senza motivo, a occhi chiusi, unicamente guidata dall’incontrollabile battito impaurito del suo cuore rinsavito, che non faceva altro che urlarle di fuggire vie il più lontano possibile.

- Calmati, va tutto bene! Non ti voglio fare del male! – La sentiva ripetere con voce calma – Guarda che se continui così, va a finire che Lvellie torna qua. -

Ma Lenalee non ascoltava. Graffiava le braccia sostituitesi alle mani che le serravano il bacino con morbida stretta non spezzabile, si dimenava senza controllo, persa nel desiderio di scappare via da quel posto angusto e buio che non assomigliava per nulla alla casa che oramai viveva solo nei suoi ricordi. Di punto in bianco, era stata catapultata in un mondo estraneo al suo, che pretendeva qualcosa che lei nemmeno riusciva a concepire; anche lì ci aveva provato, a capire, perché convinta che così facendo sarebbe potuta tornare a casa, ma realizzare che non c’era nessun’altra casa in cui tornare e stare, se non quella da cui stava cercando di fuggire, era equivalso alla totale disfatta di tutte le sue innocenti speranze.
Un sentimento trasformatosi in incubo vivo che la spingeva a rifiutare la razionalità, a comportarsi come una perfetta marionetta nelle mani del suo stesso subconscio pronto anche a mordere a sangue le braccia che la tenevano ferma e a urlare fino ad accartocciare i polmoni. Se ne lasciò guidare finché non fu il suo stesso fisico a imporle di fermarsi; smise di darle forza e l’abbandonò inerme, col torace che si alzava e abbassava ritmicamente per lo sforzo, la gola arrossata e bruciante per l’aver espanso troppo la sua voce andata ad esaurirsi e quelle due braccia che la cingevano ancora, nonostante vi si fosse accanita contro con le unghie.
Braccia ferite che finalmente cominciarono ad apparirle meno aggressive di come le avesse figurate pochi attimi prima. L’avvolgevano senza essere brutali, calde, facendo aderire la sua schiena a un torace più grande del suo, che la nascondeva dalla luce della luna. Piccole perle scarlatte e lucenti ne macchiavano la pelle rovinata dai rosei graffi e dai morsi inflitti, congiungendosi in scie che si schiantavano al suolo con suono muto, inesistente. Fu la vista del suo stesso operato e l’eco di una ninna nanna priva di parole che fece rinsavire Lenalee, calmatasi e rilassatasi quanto bastava perché quel morbido e gentile suono le donasse un senso di protezione così rassicurante da farla riappropriare del senso della realtà perduto.  

Ci siamo sfogate per bene? –

Un sussulto da parte sua, ed ecco che i suoi tondi occhi color ametista incontrarono quelli neri e tenebrosi della prima persona che le avesse mai sorriso da quand’era stata condotta all’Ordine Oscuro. Lenalee Lee vi si perse dentro automaticamente, la bocchina dischiusa e stregata dall’oscura brillantezza d’ossidiana incorniciata da lunghe ed altrettanto eleganti ciglia. Il cuoricino non scalpitò per la profondità inquietante di quel colore ormai divenuto predominante nella sua vita, al contrario: le tonde iridi violacee passarono ai contorni delle labbra, piegate in un sorriso, le guance nivee, i capelli così scuri da confondersi con la notte, tutto quello che riuscì a cogliere avidamente…Fino ad arrivare a quello stemma che riconobbe unicamente per la decorosa complessità.

Era in braccio a un’Esorcista, così si chiamavano le persone che lo portavano.

- Mi stavo giustappunto chiedendo chi fosse a sfidare la pazienza di Lvellie così apertamente e in piena notte, ma non avrei mai sospettato che si trattasse di un uccellino tanto piccolo –, ridacchiò quella, estraendo dalla tasca della gonna un fazzoletto – Adesso vediamo di darci una ripulita, ti va? –

Lenalee Lee non rispose. Aveva serrato le labbra pallide e stretto i pugni al petto a più non posso, scombussolata dalla presenza e dall’influenza ipnotica che quella ragazza – oltretutto di una bellezza non ignorabile - stava esercitando su di lei con il solo intento di farla sentire al sicuro. Sarebbe bastato un semplice cenno di testa per risponderle, ma deglutire il groppo di saliva accumulatosi in bocca fu il massimo che la bambina poté permettersi; chiunque fosse quella persona venuta in suo aiuto, le impedì di parlare e di reagire con il solo reggerla fra le braccia, permettendole così di scostarle i capelli dal viso e pulirlo dalla polvere finitaci sopra.

- E chi immaginava che sotto tutti questi capelli ci fosse una bambina? E bellina, anche -, sorrise dolcemente quella – Io sono Amèlie, piacere di conoscerti. – 




- Amèlie-san! – 

Lenalee si lanciò verso la più grande con un tale slancio, che quando riuscì ad abbracciarla quasi caddero entrambe all’indietro.
Di tutte le sorprese che quel lungo viaggio avrebbe potuto loro riservare, rivedere una persona cara come Amèlie Chevalier rappresentava per Lenalee Lee una gioia incommensurabile, grande quanto il tornare alla Home e riabbracciare il suo Nii-san ancora una volta. Uno strano calore invase il petto di Allen nel vedere quella scena così carica di emozione; era troppo lontano per scorgere i volti di entrambe, ma nutriva la certezza indiscutibile che quello della sua amica cinese fosse velato di una felicità tanto sincera e pura, da facilitare la venuta di quelle lacrime trattenute unicamente per non apparire debole. Lo riuscì a immaginare fin troppo bene, quel sentimento già sperimentato tanto tempo addietro, a percepirlo sulla sua pelle e sulle ossa soltanto guardando come Lenalee abbracciava la francese e veniva ricambiata. Ci sorrise sopra con il ricordo affettivo di Mana a scaldargli piacevolmente i contorni rossastri del pentacolo maledetto recato sulla parte sinistra del suo volto.




La Casa del Piacere di Anita era una delle più rinomate e ricercate di tutto il Canton. Un locale appariscente, con luci sgargianti e colori sfarzosi che neppure l’arcobaleno e l’aurora boreale potevano eguagliare e, non meno importanti, schiere di affascinanti donne pronte a regalare piacere agli uomini che chiedevano giusto quelle attenzioni che a casa non ricevevano. Pareti, tende, quadri, soprammobili…L’intero arredamento richiamava quello stile tipicamente orientale, velato dal dolce profumo d’incenso floreale e organizzato in un ordine che conteneva l’apparente eccesso in una raffinata sobrietà di cui mai nessun cliente aveva osato lamentarsi. Al pari della Rosa Nera, forniva spettacoli, prestazioni e personale che valeva tutti i costosi prezzi del listino base: la qualità del Dragone Imperiale non era certo paragonabile a quella di una bettola lercia e Anita era una donna fin troppo bella ed elegante perché qualcuno avesse il coraggio di criticare la sua magione.
Gli Esorcisti erano stati condotti al suo cospetto ancor prima che avessero il tempo di spiegare la loro presenza lì, venendo ragguagliati sulle novità inerenti al Generale Cross: il furbastro era già diretto a Edo, come già aveva sospettato Amèlie, ma ciò che aveva sorpreso tutti quanti, era stato l’apprendere che la nave su cui l’uomo viaggiava era stata attaccata nel pieno dell’attraversata.

- Figurarsi se il maestro si lascia mettere i piedi in testa da un paio di Akuma -, borbottò Allen, al solo ripensarci – Quello non muore neppure se lo si ammazza. –
- Lo dici come se la cosa ti scocciasse… -, gli fece notare Lavi, ricordandosi del lato oscuro e sinistro che l’inglesino nascondeva sotto quel viso apparentemente angelico.

L’albino non diede spiegazioni, appoggiando sopra la testa una pezza d’acqua fresca e immergendo il corpo nell’acqua calda fino alle spalle. Lui, Lavi, Crowley e Bookman si stavano godendo un lungo e rilassante bagno termale che Anita aveva offerto sia a loro che alle ragazze, nel mentre si ultimavano i preparativi per il viaggio. La partenza era fissata per quella sera stessa e le poche ore a loro disposizione per rilassarsi sarebbero state le ultime, molto probabilmente. Godere dei benefici di quell’acqua pura e profumata seppe quasi d’obbligo nei confronti del suo fisico, per non parlare del suo umore particolarmente provato. Pensare a Marian Cross lo faceva quasi sempre cadere in uno stato che oscillava fra la disperazione e la rassegnazione e la possibilità effettiva di incontrarlo in Cina – sfumata in meno di ventiquattro ore – aveva messo a dura prova la sua resistenza emotiva: gli incubi scaturiti da determinati momenti dell’apprendistato appestavano i suoi sogni e lo perseguitavano con la stessa efficacia di una maledizione millenaria, un tormento che negli ultimi giorni ne aveva depresso lo spirito sino ad appiattirlo.
Ma credere che si fosse fatto uccidere dagli Akuma…No, non esisteva, era follia allo stato puro. Allen conosceva il maestro sufficientemente da saperne elencare ogni singolo e mostruoso difetto, ma di una cosa era indubbiamente sicuro: Marian Cross non era una persona che si poteva sconfiggere con qualche proiettile andato a segno.

Poco ma sicuro, lì attendeva a Edo.




E’ accaduto all’incirca otto giorni fa: la nave su cui viaggiava Cross-sama è stata assalita dagli Akuma. Non si hanno più sue notizie da allora. –

Ridicolo. Assolutamente ridicolo.
Amèlie Chevalier era restia a trovare altri aggettivi che potessero meglio definire la presunta scomparsa del generale. L’intera faccenda rasentava la più totale delle assurdità, sebbene l’attacco di un gruppo di Akuma fosse sempre qualcosa da non prendere sottogamba. Le Bambole del Conte del Millennio, si sapeva, erano insidiose, ma l’Esorcista in questione non era un novellino alle prime armi, bensì un uomo armato di revolver capace di sparare sei colpi in uno alla velocità della luce e riluttante a morire in un posto che non fosse il letto di una bella donna.
Neppure tutte le macchine al servizio di quella palla di lardo ambulante sarebbero riuscite a mettere in ginocchio un cane arrogante e orgoglioso come l’ex-maestro, figurarsi ucciderlo! E poi, per dirla tutta, se anche si fosse fatto veramente ammazzare – cosa già di per sé impensabile -, la sola persona che avrebbe potuto reclamare lo stramaledetto e sacrosanto diritto di scendere giù negli inferi, massacrare di botte e trascinare il suddetto per i capelli in superficie fino a decapitarlo nuovamente per l’essersi fatto ammazzare come un’idiota, era solo lei!

- Tsk! -
- Di cattivo umore, Amèlie-chan? –

La voce di Anita raggiunse le sue orecchie con suono dolce e tranquillo, accompagnato da un leggero movimento d’acqua calda. Il bagno riservato alle donne era un’enorme sala con piastrelle lucide e perlacee, decorato con statue orientali raffiguranti dragoni e pesci di giada bianca dalle cui bocche uscivano getti d’acqua bollente. La Maitresse della Rosa Nera aveva sempre apprezzato il buon gusto della collega del Dragone Imperiale e la sua scelta di materiali cesellati d’alto valore estetico. Anita era più grande di lei di qualche anno, una collaboratrice dell’Ordine Oscuro che, esattamente come lei, vantava una copertura dalle entrate cospicue sempre necessitanti di attenzioni costanti. La differenza che si frapponeva fra un volgare bordello di bassa lega e una Casa del Piacere non stava unicamente nell’offrire su un piatto d’argento un paio di prostitute, qualche camera con il letto ancora sfatto e un bagno più sudicio delle fogne: lì si trattava di offrire un servizio, di osare.

Il perché la Rosa Nera vantasse una lista di clienti piuttosto influenti nella società era dovuto alla sua capacità di accontentare desideri che la mente umana negava di avere fino a che non era del tutto sicura che nessuno ne sarebbe mai venuto a conoscenza, di offrire il godimento nelle sue forme più appaganti e costose…Uno stile di vita capriccioso e temporaneo dove non c’erano problemi che tenessero. Una volta varcato il grande cancello di ferro, tutto diveniva possibile grazie al semplice denaro contante.
C’era chi, non del tutto soddisfatto dell’esibizione pubblica delle ballerine, ne richiedeva una privata e pagava un ingente extra per servizi di maggiore lusso che comprendevano – fra le molte cose - il farsi imboccare con del filetto di pesce affumicato con fantasia caviale da una delle ragazze, mentre le altre ballavano.
C’era chi, nel soggiornare più di una settimana, chiedeva di essere servito unicamente da una cameriera scelta o richiedesse l’esclusiva compagnia di un’intrattenitrice che lo accompagnasse nel suo giro d’affari.
C’era chi preferiva le attenzioni di un ragazzo anziché di una ragazza nel proprio letto.
C’era chi desiderava che la propria figlia fosse ben preparata per il grande debutto aristocratico e dunque a quel mondo dove un buon partito e una posizione benestante incidevano sul resto della propria vita. E c’era chi, desideroso di godere di privilegi speciali, ambiva alle personali premure della padrona di casa, la cui presenza ai party più in voga e pittoreschi della città era motivo di chiacchiere.
Le esigenze erano molte, ambigue, tutte vincolate dal segreto professionale che quelle mura avevano il saldo compito di tenere per sé; bisognava trattarle con la massima delle attenzioni, ma senza perdere la propria integrità. Una cosa che univa Anita e Amèlie – oltre quel legame d’amicizia fraterna e l’essere diventate donne precocemente -, era l’opinione che nessuno dei loro dipendenti si lasciasse trascinare dalla stupida convinzione che chi vende il proprio corpo sia da rimproverare. A volte era necessario mettere da parte una fetta del proprio orgoglio per proteggere il restante, entrambe lo avevano imparato, essendo loro le leader, ma il rispetto per se stesse…Il rispetto in generale che una persona nutriva per se stessa…

Se un uomo o una donna lo perdeva era come andare alla deriva e rifiutarsi di lottare contro il mare in tempesta. Un comportamento che Amèlie non era mai stata disposta ad accettare nel suo ambiente, così come Anita. Quanto a quegli esempi elencati…Non erano che alcuni dei molteplici desideri che la Rosa Nera trasformava in realtà quando la notte calava e le sue luci scintillavano nella notte. Esempi che anche il Dragone Imperiale provvedeva a concretizzare con servizi esotici e qualità pressoché impeccabili. Tuttavia, Anita non era così sciocca da scordare l’evidenza, quell’abissale differenza che la divideva dalla francese molto più di quanto facessero gli oceani con i continenti.

Lei era una semplice Supporter dell’Ordine Oscuro, Amèlie un’Esorcista.
Lei raccoglieva informazioni e dava rifugio ai membri dell’organizzazione, se necessario; Amèlie invece si era aperta una finestra sulla perversione, la crudeltà e la totale mancanza di scrupoli che inquinava l’essere umano suo artefice, a volte sporcandosi le mani di sangue e silenzi che inghiottiva in notti insonni, osservando con occhi tenebrosi l’ipocrisia della Santa Chiesa dietro cui avrebbe potuto benissimo nascondersi e da cui invece preferiva tenersi distante con altezzosi comportamenti che meglio esprimevano l’indole nobile e battagliera che molti le invidiavano e le criticavano. La caccia ai Broker equivaleva al più innominabile dei tabù e Anita ne evitò l’intavolazione per timore di commettere qualche stupido errore, giacché la contrarietà espressiva della francese pareva volerla pungere per una qualche colpa.
Dischiudendo lei iridi nere, la suddetta incontrò le sue amichevoli e zaffirine, che l’avevano osservata a lungo e in silenzio, ben immaginando quale potesse essere la ragione di tanti sbuffi trattenuti a stento. Anche Lenalee, prima di congedarsi, aveva avuto modo di notare come l’amica avesse perso qualche grammo della sua naturale compostezza; non occorreva essere un luminare per capire che nella mente di Amèlie si erano annidati pensieri omicidi, irritanti ed esasperati, il cui unico punto in comune aveva preso il largo solo per evitare la castrazione.

- Suvvia, non prendertela come qualcosa di personale: sapevi che Cross-sama fosse partito da molto prima che tu e gli altri Esorcisti arrivaste -, cercò di rabbonirla lei.
Un luccichio stizzito guizzò nello sguardo nero della ventiseienne, che si concesse un secondo per sorseggiare il bicchiere di Château d'Yquem, arricciando le labbra all’interno della bocca - Mi credi così sciocca da prendermela per una cosa del genere? Sapevo perfettamente che non avrei trovato quella faina nemmeno pregando -, le rispose, osservando il liquido ambrato ondeggiare nel bicchiere di cristallo. Neppure il sublime contrasto fra acidità e dolcezza di quel vino francese tanto pregiato appianò la sua disapprovazione – Quello che non mi va tanto giù e che non mi sarei mai aspettata, è essere stata pugnalata alle spalle da te –, aggiunse poi.
- Immaginavo che l’avresti detto -, sospirò sorridente la cinese, come se il cruccio torvo di Amèlie non l’avesse colpita – Ma come tu hai le tue buone ragioni per arrabbiarti con me, io ho avuto le mie per non dirti nulla, Chibi-chan. –
Lì mancò poco che il bicchiere scivolasse via dalle mani dell’Esorcista - Je ne sais pas…Qu'est-ce que l'enfer!* – La si sentì sbottare con le guance arrossate per il calore - Ti sarei tanto grata se non mi chiamassi con quello stupido appellativo –, sibilò irritata la corvina, dopo essersi presa una decina di secondi per respirare e al tempo stesso far roteare le pupille nere e assassine sull’amica, fulminandola.
- Eh eh! Scusami: dimentico sempre che non ti piace essere chiamata così -, ridacchiò la più grande – Forse avresti preferito discutere dell’argomento bevendo della tequila, ma ho pensato che un vino costoso del tuo paese natale avrebbe addolcito meglio la pillola. –

 Amèlie non rispose, preferendo non esternare ulteriormente il proprio umore provato e godere dell’intenso aroma del vino offerto. Anita dovette coprirsi con un pugno la bocca per non dare a vedere quanto divertimento avesse suscitato la reazione a stento contenuta della collega. La deliziosa semplicità di quel nomignolo affibbiatole dal Generale aveva ancora il potere di mandare in bestia la francese, nonostante fossero trascorsi diversi anni dall’ultima volta che era stata chiamata a tale modo.

- Te lo ha chiesto lui? Di tacere e tutto il resto? – Le domandò quest’ultima, riprendendo in mano il discorso di prima. Appoggiò il bicchiere sul bordo vasca per evitare di fare danni.
Un altro risolino scappò fuori dalle labbra della cinese involontariamente – Se anche non me lo avesse chiesto, la questione sarebbe rimasta la stessa e lo sai meglio di me. –
- Certo che lo so… -, borbottò l’Esorcista, appoggiando la schiena contro il muro nel tentativo di rilassarsi – Volevo solo verificare di persona il tuo stato d’animo. -
- Cosa? -

Amèlie la ignorò sulle prime, passandosi lungo le braccia, il torace e le spalle l’essenza alla menta mescolata all’acqua calda. In qualità di donna con la testa sulle spalle, sapeva riconoscere il momento della resa e quella conversazione non le avrebbe detto nulla che già non conoscesse, non con Anita che la fronteggiava con quel sorriso. Aveva imparato a conoscerlo in tutto il suo graduale ampliamento, a coglierne le particolarità a seconda delle situazioni: era una sfida persa in partenza, colma di sentimenti che comprendeva e rispettava più di chiunque altro e che facevano risplendere il volto dell’amica di luce incorruttibile.
Ma questa volta non era lei a essere svantaggiata, in stallo o con le spalle al muro, almeno per il momento. Aveva scorto dell’altro, in Anita, di così lampantemente visibile da rendere superfluo qualsiasi rimprovero per cotanta noncuranza. Altro che aveva cercato di nascondere palesemente dietro la dolce cortesia orientale e che invece i suoi occhi blu-zaffiro avevano lasciato trapelare con velo malinconico.

- Mahoja me lo ha detto prima di entrare, ma ho notato subito che avevi qualcosa di strano –, continuò placidamente la francese – Prima che Allen-kun ti rassicurasse sul fatto che Cross non è il tipo d’uomo capace di morire per mano degli Akuma, avevi creduto per davvero che ci avesse rimesso la pelle in quell’attacco, non è vero? –

Non ci fu modo per la Maitresse del Dragone Imperiale di negare l’evidenza. Amèlie conosceva la sua storia e quella di sua madre, entrata a far parte dell’Ordine Oscuro come collaboratrice perché innamoratasi a prima vista del Generale Marian Cross, così come conosceva i suoi sentimenti verso l’uomo, quindi tergiversare o, peggio ancora mentire, sarebbe stato sciocco e insensato. Il suo cuore era spoglio di complessità come lo era stato quello della parente e il rendersi conto di amare quella persona, non le aveva neppure dato il tempo di comprendere razionalmente come fosse stato possibile. Da un giorno all’altro aveva raccolto un’eredità, si era lasciata prendere e trascinare al largo esattamente come era capitato a sua madre, stranamente consenziente e incurante di quello che sarebbe potuto capitarle.

- Non mi è sembrato vero, quando ho ricevuto quella segnalazione -, confessò la più grande, raccogliendo le gambe al petto – Mi aveva detto che il viaggio a Edo avrebbe potuto essere difficoltoso, ma quando ho visto le registrazioni di tutte quelle carcasse di Akuma e i resti della nave…Non so…Ho creduto di morire. Invece, tu e Allen... –, si ritrovò a dire, abbozzando un flebile ed amaro sorriso – Voi due non avete avuto la benché minima esitazione a sostenere che lui fosse vivo, lo conoscete così bene da non avere dubbi sul suo riguardo. La fiducia che nutrite nei suoi confronti mi ha fatto capire quanto fossi stata stupida ad arrendermi così, alle prime armi. Mi sono sentita un po’ immeritevole di tutti i momenti che ho passato insieme a lui, per questo ho deciso che avrei accompagnato tutti quanti voi a Edo personalmente. -

Amèlie la ascoltò in silenzio, cogliendo la determinazione e la sincerità di ogni sua singola parola. Una donna forte e indipendente come Anita, morbida e al tempo stesso armata di una refrattarietà dura come l’acciaio, difficilmente concedeva a occhi estranei di spiare ciò che serbava nel suo animo nascosto da lunghi e raffinati furisode* di seta colorata. Lasciare che il proprio cuore venisse condizionato da un essere di dubbia moralità e di carattere sfiorante la più esasperante delle enigmaticità era stata una sorpresa anche per lei stessa, perfettamente conscia inoltre di quell’attinenza ad amare le donne da cui avrebbe dovuto stare ben lontana. Aveva visto sua madre invaghirsi ingenuamente, ma soltanto covando sentimenti ed emozioni identiche alle sue, calde e pulsanti come il muscolo che le batteva in petto, era giunta a realizzare quanto il suo riflettere su come mantenersi lontana da una simile trappola, in realtà, ce l’avesse fatta finire dentro con più rapidità del previsto.

- Preferirei che non lo facessi -, le consigliò mesta Amèlie - Laggiù c’è l’Inferno e certamente non è posto per gli umani. -
Un flebile sorriso comparve sulla bocca della Supporter – Anche Cross-sama me lo ha detto. –
- Ma tu lo partirai ugualmente -, mormorò l’amica.

Lo avrebbe fatto, ne era sicura, anche se si fosse messa a stilarle tutte le buone ragioni di quel mondo per non cimentarsi in una simile impresa. Un cuore innamorato è cento volte più cocciuto di una testa calda e Amèlie Chevalier ne era pienamente cosciente quanto Anita stessa.

- Quando qui si parlava di Amèlie-chan, la faccia di Cross-sama cambiava sempre: diventava molto strana e ammetto che un pochino ero invidiosa. – Anita confessò quel minuscolo segreto col sorriso sulle labbra  – Io non sono un Esorcista e non posso scendere in prima fila come fai tu, ma mia madre è entrata nell’Ordine Oscuro perché si era innamorata del Generale e voleva essergli d’aiuto, e anch’io desidero tutt’ora fare qualcosa per lui -, proseguì con voce sicura e al tempo stesso gentile - Il credere che fosse morto…Perdere la voglia di vivere…Arrendendomi, ho offeso la fiducia che lui mi ha regalato con quelle parole e mancato di rispetto alla figura di mia madre. Per questa ragione devo partire: sento che devo farlo, soprattutto per me stessa, altrimenti mi porterò questo grosso rimpianto fino alla fine dei miei giorni. Voglio essere forte. – 




Note di fine capitolo:
1*: Non mi…Che accidenti!
2*: Furisode: è un tipo di kimono decorato indossato prevalentemente dalle ragazze fino al loro venticinquesimo anno di età, durante le cerimonia di passaggio di maggiore età di queste ultime o da donne di famiglia non sposate.
Eccomi! Finalmente ho fatto arrivare il gruppo da Anita! Personalmente amo questo personaggio, benché abbia fatto una fugace comparsa nel manga e devo dire che questo capitolo ha visto un mucchio di correzioni e aggiunte proprio per darle una rappresentazione degna del suo nome. Il nome del suo bordello l’ho inventato, ho cercato l’originale, ma non l’ho trovato (non so se sia menzionato o meno da qualche parte), ma sono orgogliosa comunque del nome che ho scelto. Su Lvellie c’è tanto da dire e tutte cose ben poco lusinghiere: sappiate solo che Amèlie e questo tizio alla Hitler si odiano, e più avanti lì farò “scontrare”: d’altro canto, Amèlie, come si definirà più avanti, è una persona che se le si toccano le cose care, può diventare molto cattiva e non essendo addomesticabile riscontra non poche critiche. Qui ho giusto dato un assaggino per spianare il terreno. Sul francese, se qualcuno lo conosce e trova delle incongruenze, chiedo umilmente scusa, ma la mia sapienza si rifà al traduttore, in quanto io non l’ho mai studiato in vita mia! Alla prossima! Spero di non dovervi far attendere molto!

Un ringraziamento speciale a MBCharcoal, autrice di “Unwritten Bonds”, che è stata così carina da farmi un disegno di Amèlie ^^: http://ciril09.deviantart.com/art/Amelie-408206050
E un secondo ringraziamento speciale alla Strega di Ilse, per aver apprezzato la mia One-shot sulla sua vecchia coppia KandaxYuki di Broken Mask ^^.
 
 

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Capitolo 11
*** Restless souls. ***




Il cielo azzurro si stagliava sull’orizzonte come limpido e infinito riflesso dell’oceano sottostante. Non una sola nuvola lo deturpava, quasi le masse biancastre e inconsistenti che lo sporcavano quotidianamente avessero evitato apposta di comparire per non rovinare una così bella giornata.
Lenalee Lee ne ammirava in silenzio l’intoccabilità, col vento che le gettava indietro i lunghi capelli inchiostrati di nero e il sole a colorarli con riflessi smeraldini; il calore sprigionato dai raggi riversanti verso il basso ne solleticava la pelle con piacevole tepore, nonostante il lungo abito nero la coprisse da capo a collo. Non era mai stata una persona con particolari preferenze, temperature comprese: si era sempre adattata alle circostanze per non essere pesante a chi le era accanto, ma nel mezzo di una tranquillità che non respirava più da molti giorni, non poté non ammettere che la brezza frizzantina e salmastra del porto era di gran lunga più salutare di quella assaporata dal finestrino aperto del treno in corsa. Probabilmente tanto sollievo era dato anche dal fatto che finalmente il gruppo era tornato a essere solido e compatto esattamente come quando erano partiti, con la piacevole aggiunta di un’amica che non vedeva da moltissimo tempo: la scesa in campo di Amèlie era stata un’autentica sorpresa e il suo contributo nel rintracciare il generale Cross sarebbe stato senz’altro di grande aiuto, ma agli occhi della sedicenne, tutto sostava su un piano secondario.
Il ritrovarsi era uno dei momenti che più la rincuoravano quando le missioni a loro assegnate si dilungavano addirittura per mesi: l’attesa consumava silenziosamente pensieri speranzosi, mutando i giorni in secoli e mettendo a dura prova anche la più fiduciosa delle caparbietà. Lenalee aveva rafforzato quel suo pregare per le vite altrui nascondendolo dietro al caldo sorriso che meglio esprimeva la sua dolcezza e sebbene ultimamente i suoi sonni facessero di tutto per renderla irrequieta, avrebbe continuato a farsi forza e a mettercela tutta.

Lenalee, eccoti. – Una voce familiare richiamò l’attenzione della cinese, esortandola a voltarsi con velocità superiore alla norma.
- Allen-kun. – Vide l’albino avanzare verso di lei con passo impercettibile, affiancandola senza mai interrompere il contatto visivo - E’ successo qualcosa? –
- No, ma siccome non ti si trovava al Dragone Imperiale, ho pensato di venirti a cercare. Sei sparita da più di un’ora, cosa ci fai qua? –

La premura che il quindicenne dimostrava nei confronti delle persone a lui care fuoriusciva anche quando non vi erano pericoli nei paraggi. Sapeva di riflesso condizionato, qualcosa d'istintivo quanto il suo essere un gentleman.

- Nulla di importante. – Lenalee scosse debolmente la testa - Volevo solo prendere una boccata d’aria. Sai…Ho parlato con Reever-san giusto poco fa, per salutare lui e tutti gli altri, quindi… - I suoi lineamenti si ammorbidirono un poco, velando il viso di una leggera e sfuggevole malinconia.

Allen annuì, comprendendo appieno le sue ragioni ragioni ed evitando così di indagare ulteriormente. Lenalee viveva all’interno dell’Ordine Oscuro fin da quando ne aveva memoria e tutta la sua famiglia era là che aspettava il suo ritorno. La Cina, terra natale sua e di suo fratello, non aveva risvegliato alcun legame affettivo nel suo cuore, nessuna emozione che le riempisse gli occhi di nostalgia. Profumi, sapori e il rapportarsi di lì le erano completamente sconosciuti. L’alto castello costruito sopra un inscalabile picco protetto da nuvole e correnti ostili che si affacciavano sull’immensità del cielo era l’unico posto che potesse chiamare Casa, perché le persone che ci lavoravano, che la lasciavano e poi ci tornavano, rappresentavano quel mondo che lei amava più di qualunque altra cosa esistente, compreso quello in cui lei viveva e che era stata chiamata a proteggere.

- Sono sicuro che ci attendono a braccia aperte e che si stanno impegnando quanto noi -, la rassicurò Allen, sorridente – Da quel poco che so, la Sezione Scientifica non si fa mettere i piedi in testa tanto facilmente e con tuo fratello al comando, credo che non avranno tempo per annoiarsi. –
- E’ vero -, asserì convinta la ragazza, dopo un attimo di esitazione – C’è solo da sperare che non combini qualche guaio: nel suo aiutare, tende sempre a esagerare -, ridacchiò poi.
- Come darti torto… -, mormorò l’albino, blu in viso e con la mano stretta al petto.

Il ricordo traumatico di Komui che gli trapanava il braccio e quello di Komurin che lo apriva come una scatola di sardine per ricucirgli un minuscolo taglio non fecero che rafforzare la promessa di non ferirsi mai più il braccio sinistro. La follia del Supervisore stava a pari merito con il sadismo del maestro, una cosa che mai avrebbe creduto vera fino a quando non l’aveva sperimentata sulla sua stessa pelle, ma in quel minuscolo siparietto di tragica comicità, Allen non poté non notare la radiosità del volto di Lenalee: i delicati lineamenti si congiungevano fra di loro in una luminosità rinata che ne aveva influenzato addirittura la postura, morbida e più rilassata di come la ricordasse.

- Sembri stare molto meglio, Lenalee -, constatò per l'appunto l’amico, rincuorato.
- Uh? – La cinese batté gli occhi color ametista più volte, senza afferrare bene il concetto.
La linea della bocca dell’albino si piegò in un sorriso denotante una minuscola nota di amara preoccupazione – Prima di separarci, mi sei sembrata triste -, confessò successivamente – Ho pensato che fossi ancora arrabbiata con me, però ho avuto come l’impressione che ci fosse qualcos’altro che ti impensieriva, che non ti lasciava in pace, anche se facevi di tutto per non darlo a vedere. Io so che sei una persona forte, Lenalee, ma sappi che se hai bisogno, io ci sono. –

Soltanto in quel frangente, una volta che l’amico ebbe finito di parlare, l’Esorcista si accorse che la sua mano stava stringendo la sua. Era stata lei a cercarla o il contrario? Proprio non lo rammentava, tanto si era lasciata ipnotizzare dalle parole di lui. Così gentile e di buon cuore, Allen riusciva a rincuorare e a sostenere chiunque gli stesse accanto anche soltanto congiungendo le mani e sorridendo con tutta la fiducia di cui disponeva. Una qualità innata che l’aveva colpita sin dal primo istante, avvertendone i benefici effetti scendere lungo il corpo e privarlo d’ogni briciola di rigida dubbiosità. Anche lei aveva sempre mostrato una certa apprensione per le sorti dei propri compagni, ma Allen…Sembrava che in lui quella particolare dote si moltiplicasse esponenzialmente man mano che lo si conosceva, quasi avesse vita propria.


- Come le tenebre che lo circondano, non trovi? - La malignità di quella voce emersa dal nulla le strinse l’anima con artigli pungenti, facendole tremare le pozze ametiste per un lunghissimo istante.
- Lenalee? – Allen corrugò la fronte: gli era parso che la presa della mano della compagna si fosse accentuata – Lenalee, stai bene? –

La ragazza mancò di dargli risposta, oscurando il suo stato d’animo dietro la frangia ordinata.
Come…Come poteva una cosa astratta e senza peso come un sogno esercitare così tanto potere su di lei, sulla sua sicurezza, su quanto la faceva stare in piedi? La forza di respingerlo, la sua volontà, che molte volte aveva contenuto lacrime amare, tendevano a congelarsi davanti al cielo purpureo sorvolato dalla luna nera, che si stagliavano su quel mare dal colore indefinito e dalle cui viscere emergevano rovine a lei così maledette familiari. Non c’era modo di combatterlo. Accettarlo pareva l’unica via accessibile, la sola a disposizione, ma con le dita intrecciate a quelle di Allen e il calore di esse a proteggerla, Lenalee trovò il coraggio di contenerlo ancora una volta e di ricacciarlo indietro.


- Ti ringrazio, Allen-kun, davvero…Sono contenta che tu e gli altri siate tornati -, sussurrò – Mi spiace se ti ho fatto preoccupare, non era mia intenzione; a volte mi ostino così tanto su una cosa che finisco per fare l’esatto contrario e me ne accorgo sempre troppo tardi. Ma adesso sto bene, è tutto apposto. – Tornò a guardarlo del tutto ripresa, sicura di non aver lasciato nessuna ombra fuori in bella vista – Sebbene a Edo ci attenda una dura prova dove metteremo in gioco le nostre vite come non mai, insieme riusciremo senz’altro a tornare tutti a casa. E poi… -, aggiunse, ritrovando il suo completo e luminoso sorriso – Questa volta ci sarà anche Amèlie-san e con lei riusciremo senz’altro a trovare il Generale. -
Allen sorrise di rimando – Mi è parso di capire che voi due siate molto legate. – L’abbraccio a cui aveva assistito in silenzio era stata una più che esauriente manifestazione d’affetto puro sincero, di intensità contagiosa che aveva impregnato l’aria di calda serenità.
Lenalee annui, dolce e pacata come sempre – Che impressione ti ha fatto? –

- Impressione? – Allen si stupì a tale domanda.
- Sì. - La cinese gli si avvicinò, animata dalla sua stessa curiosità – Cosa ne pensi in generale, che opinione ti sei fatto nei suoi riguardi. –
- Ah, ecco…Su due piedi così non è facile… - Il ragazzino rivolse la testa all’insù, incrociando le braccia per ritagliarsi qualche secondo di personale riflessione.

Conosceva Amèlie da pochissimo e nonostante ne immaginasse una vita molto più ricca di quella appurata fino a quel momento, quel poco a cui aveva assistito era stato in grado di sorprenderlo, di far sorgere nella sua mente domande che ancora attendevano chiarimenti approfonditi. Il rimembrare come avesse sistemato quell’ubriacone alla locanda bastava perché stupore, indignazione, incomprensione, tutta una serie di emozioni di consistenza diversa fra loro si mischiassero e gli bloccassero il respiro.

Chi era davvero Amèlie Chevalier?


- Fa paura –, proferì quasi subito. Era stata la prima cosa che venutagli in mente e dovette inghiottire un bel po’ di saliva per poter mandare giù l’orribile immagine del maestro che lo colpiva col martello e tutte le altre diavolerie che gli aveva propinato durante l’addestramento. L’espressione di pura follia omicida che aveva visto spiccare negli occhi di Amèlie era dannatamente simile, se non peggiore, e qualcosa gli diceva che quello altro non era che un magro preludio al vero e proprio spettacolo – Ha polso e carattere, sa quello che vuole e quando vuole, e non è il genere di persona a cui piace essere contraddetta. Ah, già -, rammentò poi - E’ poco incline alle prese in giro. -
- Eh eh! Immagino che Lavi l’abbia chiamata scherzosamente tu-sai-come –, ridacchiò Lenalee, conscia della propensione dell’amico diciottenne a scherzare ingenuamente con fuochi pericolosi –  Che altro? –
- Che altro? Bè… - L’albino gettò il proprio cervello in una disperata caccia su tutto ciò che riguardava la francese.

Non era facile, anche perché aveva fra le mani semplici osservazioni colte per puro caso e inimicarsi Lenalee per aver dipinto male una persona che forse, anzi, senz’ombra di dubbio, considerava come una sorella maggiore, era l’ultima delle sue intenzioni.
Partì dalla Rosa Nera, trovando congeniale ripercorrere il filo degli eventi da un punto di partenza significativo: Amèlie era esigente con il suo staff – aveva avuto modo di constatarlo quando aveva richiamato all’ordine le ballerine -, raffinata, fiera, accattivante, una beltà algida dall’alone inquietantemente sadico e dai gusti molto costosi, il che lasciava intuire un amore sviscerale per il denaro che, a differenza di un certo maestro scriteriato di sua conoscenza, la bella francese si premurava di conservare come acqua nel deserto. Il libricino nero e i foglietti ingialliti esibiti alla locanda nascondenti l’abominevole cifra che Marian Cross stava accumulando negli anni per mancato pagamento gli avevano dimostrato per l’ennesima volta come quell’essere riuscisse ogni volta ad andare ben oltre la decenza umana. C’era altro, frivolezze come il fumo - sebbene non l’avesse mai più vista sfiorare una sigaretta da quando avevano lasciato la sua magione -, l’amore per il proprio bell’aspetto – che teneva controllato almeno tre volte all’ora - e che dire del vino: non amava scarti annaquati o quinte scelte che ne offendessero la lingua.
Evitò di pensare a Pierre non tanto perché lo scoprire che alla donna piacessero i ragazzini fosse stato preoccupante, ma per non cadere nella tentazione di pensare male di lei e a quella sua propensione a vestirli con abiti femminili, cosa che comunque lo portò ad un passo dal baratro dell’ambiguità; a dispetto di quanto aveva visto e constatato, Amèlie non gli aveva dato l’impressione di essere una persona capace di approfittare di innocenti e ripensando a come lo aveva accolto al loro primo incontro, a come lo aveva guardato, si stupì nel non riuscire a rievocare lo sbigottimento di allora o la rigidità che lo aveva paralizzato sul posto quand’ella gli aveva sfiorato delicatamente il viso, l’occhio maledetto e il braccio infestato dall’Innocence. Le pagliuzze argentate dei suoi occhi si addolcirono a tale ricordo, imbarazzate nel vedersi parare nuovamente davanti quel viso di donna adulta che lo sondava con silenziosa dolcezza.


- Allen-kun? – L’espressione di Lenalee si fece incerta. Il compagno si era estraniato dalla realtà circostante.
- E'…Molto gentile. - La voce dell’albino tornò infine a farsi sentire, imponendosi sul letto acquoso delle onde che si infrangevano contro il muro di pietra del porto – La vedi che è autoritaria, dura, a volte fredda per come gestisce certe situazioni… – Nuovamente, l’episodio della locanda tornò a incalzare – Ma sono sicuro che si comporta così perchè tiene alle persone a lei care e vuole che diano il meglio di sé per il loro bene. –

Gli era occorsa un’abbondante dose di buona volontà per impedire alle parole di sfuggire al suo controllo, tremolanti, per come quell’affettività che lo aveva avvolto alla Rosa Nera traboccasse da ogni parte del suo corpo con intensa nostalgia. Anche con la gola chiusa, le labbra pallide minacciavano di aprirsi involontariamente, di reagire, e non per ribadire la scarsa conoscenza nei riguardi di una compagna che, come lui, aveva condiviso l’essere un seguace del Generale Marian Cross.
La verità era che nessuno gli aveva più regalato simili carezze dalla morte di Mana. Le avvertiva tutt’ora, le sottili e calde dita di Amèlie che gli accarezzavano la linea della cicatrice rossa, la guancia, e infine gli trasmettevano rassicurazione con l’intera mano stretta alla sua deforme. Affetto che aveva addolcito spigoli inconoscibili della sua anima logorata, di cui nemmeno sapeva l’esistenza. Non era certo il conoscere i dettagli più intimi di una data persona a renderla amica o meno; per Allen, simili sentimenti e nomi dal significato incolmabile non necessitavano di prove o sicurezze, vivevano di meravigliosi legami a cui lui stesso ancora stava cercando di abituarsi, accogliendo i nuovi con solarità sincera. Speranze che meritavano tutto, sacrifici estremi compresi, che nella fiducia nascevano e morivano. Che quella donna molto più grande di lei fosse più di quanto lui avesse constatato ne era sicuro, ma era una costante della natura umana interrogarsi su qualcosa che suscitava un certo grado di curiosità e, in tutta franchezza, il semplice fatto che la francese fosse stata un’allieva di Marian Cross ben prima di lui, aveva autorizzato il suo cervello a chiedersi di che natura fosse il loro rapporto. Non era per nulla convinto che il tutto si riducesse a quell’innominabile numero che qualche giorno fa lo aveva visto arrivare alle porte del Paradiso, ma prima che lui stesso vi si perdesse dentro, la voce calda di Lenalee fece in tempo a oscurare qualsiasi sua congegnata ipotesi.


- Sì. A grandi linee, lei è fatta così -, confermò lei, socchiudendo lo sguardo e volgendolo all’orizzonte con i codini a oscillarle davanti per il vento alzatosi – Schietta e indomita: le è sempre piaciuto avere il controllo della situazione e l’ultima parola in un diverbio. Ricordo che quando ancora stava alla Home, molti ne invidiavano l’eloquenza e l’eleganza, era l’unica che tenesse testa al Generale Cross; sembrava che nulla potesse spaventarla. Purtroppo non tutti riuscivano ad apprezzarne le qualità. –

Un flebile sospiro fuoriuscì dalle sue labbra dischiuse e la perplessità fece capolino nelle chiare iridi dell’albino quasi chiamata a comando. La sospirata e melodica felicità di una collana impreziosita di ricordi insostituibili si era affiancata a quella sporca e brutta ruggine che macchiava i gioielli e rimaneva anche dopo l’accurata ripulitura.
Intuì qualcosa, Allen, che tenne per sé nel constatare quanto in profondità Lenalee si fosse addentrata nelle proprie memorie, intenzionata a difendere il ricordo della più grande dalle male voci raccolte inevitabilmente.
Doveva molto ad Amèlie, fin troppo. Nel buio e nell’incomprensione che l’avevano circondata e assediata da piccola, aveva trovato l’amore materno tanto anelato dalla sua anima dilaniata dalla paura nell’abbraccio protettivo della francese, la sicurezza grazie al riparo della sua schiena. Le si era aggrappata la mattina stessa che si era risvegliata nel suo letto, vegliata dopo tanta solitudine, con una corona di lacrime a imperlarle le ciglia per lo scoprire che non era stato un sogno come aveva creduto. Da allora, quell’esistenza forzata le era parsa meno lugubre e fredda, ammorbidita da un conforto umano di tempra diamantina, che non temeva quegli spettri di cui lei neppure riusciva a pronunciare il nome. Era forte, Amèlie, sempre, e quand’era lontana, Lenalee aveva una buona ragione per guardare lo spesso e largo portone d’entrata con intenzione diversa dal semplice scappare. Ma non tutti ne ammiravano la caratteriale bellezza come faceva lei; a circondarla c’erano più ombre che mani amiche, crudeli, che lei stessa si era attirata grazie all’inscalfibile indole che non conosceva sottomissione.


- Lenalee…Posso farti una domanda? – La voce di Allen la riportò alla realtà gentilmente, aprendole le porte e indicandole la via senza alcuna brutalità.
- Uh? Oh, ma certo -, si riscosse lei.
- Ecco, tu sei nell’Ordine Oscuro da molti più anni di me, quindi mi chiedevo, visto che conosci bene Amèlie-san, se sapevi spiegarmi che tipo di Esorcista sia. – Imbarazzato, si era grattato la guancia con la punta dell’indice inguantato dall’inizio alla fine della richiesta.
- Come? -
- Sì, bè…Perché non risiede alla Home come tutti gli altri o perché non sia intervenuta subito quando ci è stato affidato l’incarico di cercare il maestro. Dopotutto, anche lei è stata una sua allieva. –
- Capisco -, Lenalee annuì, coscienziosa e attenta quale era sempre - Uhm…E’ un po’ lunga da spiegare, ma ci provo ugualmente. – Andò sedersi su piccolo pilastro dalla punta quadrata a pochi passi dal bordo pietroso, lisciandosi le pieghe del lungo vestito nero – Come avrai avuto ben modo di notare, Amèlie-san gestisce una Casa del Piacere, la Rosa Nera. Fu sua nonna a fondarla, dopo averla vinta grazie a una scommessa e sempre lei ne fece una copertura per favorire la raccolta d’informazioni per l’Ordine Oscuro. Di molte organizzazioni di cui la Home si serve, la Rosa Nera è sempre stata una delle più fruttuose, soprattutto da quando Amèlie-san ne ha preso il comando -, spiegò accuratamente – Sebbene sia un’Esorcista, ha ottenuto un permesso speciale per rimanere fuori dalla sede principale e gestire l’attività come meglio crede: ovviamente svolge anche le nostre stesse missioni, ma il più delle volte riceve…Ordini di altro genere. – 

Fu impossibile per Allen non notare  l’indugio dell’amica.

- Ehm…Perdonami, Lenalee, ma penso di esseri perso -, non nascose l’albino – Che cosa intendi dire con “Ordini di altro genere”? – Parve pigiare un tasto dolente per la cinese perché il suo volto fu solcato da un leggero e sfuggente velo di tristezza.
- E’ la ragione per la quale Amèlie-san è entrata a far parte del gruppo così tardi -, mormorò lei.
Davvero? -Lenalee esitò ancora per qualche attimo – Quando siamo stati assegnati alla ricerca del Generale Cross, Nii-san ha riflettuto sulla possibilità di contattare Amèlie-san immediatamente, ma non l’ha fatto per via del suo da fare con i Broker. –
- Broker? – Era un nome nuovo, mai udito dall’albino, perplesso per come un tale vocabolo seppe inspessire la cupezza emotiva dell’amica.
- Esseri umani che pur di arricchirsi offrono i loro servizi al Conte del Millennio, ricercando possibili tracce di Innocence o…Raccogliendo loro simili per creare nuovi Akuma -, lo delucidò lei, non nascondendo la tristezza che l’argomento suscitava – Non so molto al riguardo, ma…Pare che il loro Modus Operandi ruoti attorno a strani traffici, aste umane e a informazioni inerenti alla sicurezza dell’Ordine Oscuro -, proseguì – Nii-san ultimamente è stato molto occupato anche per questa ragione: da quello che sono riuscita a capire, il Conte ha ampliato il suo raggio d’azione grazie al loro lavoro e molti dei nostri supporter sono stati sbaragliati per questo. La questione sarebbe di competenza dell’Ufficio Centrale, ma quelle persone sono molto astute, sanno come nascondersi e sparire. –
- E qui entra in scena  Amèlie-san, giusto? – Azzardò Allen.
La sedicenne annuì, alzandosi in piedi – La Rosa Nera si è sempre occupata di attività illecite di tale portata, oltre che a raccogliere informazioni utili che ci permettano di tenere sotto controllo gli avvenimenti più salienti della nostra società, ma in questi ultimi anni le azioni dei Broker si sono fatte molto più aggressive e mirate. Di fronte alla gravità del problema, Amèlie-san ha deciso di scendere in prima fila personalmente per sventare possibili fughe di notizie e traffici illegali. Data la sua copertura, le è più facile avvicinarsi a certi ambienti e persone, ma si tratta comunque di un lavoro molto rischioso: i Broker sono gli alleati umani del Conte del Millennio come gli Akuma sono il suo esercito, se non indossasse la maschera o non facesse ricorso alla doppia identità che si è creata qualcuno di entrambe le parti potrebbe riconoscerla. –

Il vento si alzò appena, increspando la superficie d’acqua marina già frastagliata per il suo continuo abbattersi contro le rocce. Il lontano cinguettio dei gabbiani che sorvolavano il porto e si divertivano a volteggiare intorno ai pennoni delle navi si librò in alto fino a raggiungere il sole, svanendo non appena questi si allontanarono ancora di più, verso mete sconosciute. In piedi e con le mani sciolte lungo i fianchi, Allen Walker avrebbe voluto dire qualcosa, ma dopo quanto ascoltato, il silenzio ebbe facilmente la meglio; la nebbia che circondava il profilo di Amèlie Chevalier ora pareva essere meno densa, ma di una contorta trasparenza che ampliò la faglia che la divideva dai restanti Esorcisti. Il disagio di Lenalee era un perfetto specchio di verità insostituibile, una preoccupazione palpabile che l’albino comprese con insolita affinità: ciò che Amèlie compiva al dì fuori del suo ruolo di Esorcista implicava l’agire in un mondo da trattare con onerosa delicatezza, un continuo fare attenzione e a muoversi con passo felpato in zone recondite dove l’animo umano raggiungeva l’apice della sua crudità e malignità. La fiducia non era un dono che potesse dividere o dispensare con chiunque, nemmeno con chi si professava amico da tanto tempo, e forse era proprio quel suo affrontare costantemente il buio delle persone, l’aver imparato precocemente come l’umanità fosse divisa in strati marci, meritevoli o intoccabili, ad averla resa così diretta – per non scendere in termini che Allen preferì tenere per sé -. Tuttavia, l’angoscia che la cinese aveva lasciato trapelare non si riferiva al carattere della donna, ma a quella segretezza garantita unicamente da un singolo pezzo di pizzo nero e da un nome falso appositamente celato anche a lei.

Il ragionamento era semplice, bastava mettere insieme qualche pezzo e sommare il tutto per ottenere una risposta più che plausibile.
La famosità della Rosa Nera era nota in ogni angolo delle attuali società e giacchè la corvina operava sia in ambiti civili e campi infestati di Akuma, se anche solo una persona o una delle Bambole del Conte del Millennio fosse riuscita a riconoscerla, la sua copertura, le vite di cui lei stessa aveva la responsabilità, avrebbero contratto una pericolo mortale. Lenalee era riuscita a venirne al corrente soltanto dopo diversi anni, ma non era un stupida, intuiva già da sé che la riservatezza di Nii-san sugli incarichi speciali di Amèlie implicavano metodi sfocianti anche nelle crude estremità, se necessarie. E il solo pensare a quella sua amica lottare il doppio, macchiarsi le mani e l’animo anche di reati orribili e venire criticata da voci buone solo a parlare, non faceva che inspessirne la tacita preoccupazione.
Da parte sua, Allen potè solo immaginare le terribili conseguenze legate agli innumerevoli rischi a cui la francese si affacciava con amministrazione quotidiana e davanti a tanto sconforto, prendere in mano la situazione e risollevarla fu più che mai doveroso: rivolgendo giusto per qualche istante le iridi argentate verso l’oceano, lasciando pensieri e giudizi sospesi in un vuoto mentale che gli alleggerì il torace, si mise di fronte all’amica, prendendole le mani fra le sue.

Lenalee Lee sussultò, dischiudendo le fini labbra per l’essere stata colta di sorpresa.


- Coraggio, Lenalee, non è da te essere così giù -, le disse, sorridendole – Se Amèlie-san venisse a sapere che ti stai preoccupando per lei,  finirebbe con lo sgridarti. Sai, credo che sia il tipo di persona a cui non piace che si dubiti di lei e se ci vede, sicuramente ci sgriderà. -
- Allen-kun… -
La presa sulle sue mani si accentuò leggermente, infondendole un calore indescrivibile e così piacevole da scendere giù lungo tutto il petto – Te l’ho detto prima, no? So bene che sei una persona forte, ma ci sono io, se mai avessi bisogno. Okay? -

I fili bianchi che componevano la corta chioma solleticarono le guance pallide del ragazzo, arrivando anche a sfiorare la sottile linea rossastra che solcava l’occhio sinistro e ne disegnava poco sopra al sopracciglio il pentacolo maledetto. Nel suo minuto silenzio, dove entrambi gli sguardi erano legati da una forza invisibile, Lenalee si trovò nuovamente faccia a faccia con quell’altruismo che non conosceva limiti o distinzioni: si rifletteva in ogni dove dell’animo di Allen, in ogni sua gestualità brillante di luce propria, che esplodeva in stelle scintillanti di bagliore superiore a quello degli astri invidiosi del cielo notturno. In cuor suo, dal profondo di quel suo Io turbato, sapeva che in una simile condizione pietosa non sarebbe mai potuta essere associata alla Lenalee Lee che tutti conoscevano. Quella ragazza dalle ordinate e morbide code baciate dal sole, sempre pronta a venire in soccorso della Sezione Scientifica con del buon caffe e dei suoi compagni, dal viso fine e la tempra capace di assorbire quanto la vita ancora le riservava…No, il riflesso ondeggiante e frastagliato che scorse sotto di lei non poteva in alcun modo appartenerle, come neppure tutta quell’incertezza e quel dolore.
Lei aveva la più completa fiducia nei suoi compagni, nelle loro capacità e Amèlie non faceva eccezione. Anche se sempre lontana e più vicina al pericolo di quanto già non fosse, non avrebbe mai lasciato che la paura rovinasse l’immagine che aveva di quella persona a cui era tanto riconoscente. E fu proprio nel mezzo di quella tranquillità aleggiante, possedente un che di irreale, che finalmente ricambiò il calore che Allen le stava trasmettendo con le proprie mani, con una presa ancora più accentuata e un delicato sorriso solare che dissipò ogni sua tristezza.


- Grazie, Allen-kun. - 




Mancava poco alla partenza, un’ora e mezza spaccata.
La nave era ormeggiata in porto, una cannoniera robusta, rapida e adatta ad affrontare la maggior parti delle correnti marine che li dividevano dal Giappone.
Anche a velocità spianata, sarebbero occorsi all’incirca cinque giorni prima di arrivare a destinazione. Il guardarla dalla poppa alla prua non fece altro che accrescere il riflettere di Amèlie, comodamente appoggiata coi gomiti sul balcone rivolto verso l’oceano, la maschera di pizzo ben fissa sulla parte superiore del volto truccato e il piccolo Timcampi comodamente appollaiato sulla cima della sua testa. Le mani volte al vuoto giocherellavano con il piccolo astuccio argentato metallizzato, rigirandolo da una parte all'altra col contenuto ben stipato al suo interno. La Maitresse della Rosa Nera lo aprì accarezzando la superficie ruvida delle sigarette riposte ordinatamente, soffermandosi con indecisione su ciascun cilindro dall’odore acre e dolciastro che emanavano.


- Che situazione. – Svuotò il contenuto dell’astuccio nell’aguzza boccuccia del golem dorato, che ne masticò e ingoiò il contenuto gonfiando le guance al massimo della loro espansione.

Tutta quella calma era fin troppo innaturale, un idillio che avrebbe dovuto assorbire e far suo prima che svanisse in una nuvola di fumo e lasciasse spazio a quanto aspettava tutti quanti loro. La superficie cristallina che si stagliava in lungo e in largo era dominata dalla luce pomeridiana del sole, un mezzo cerchio rosso incandescente che dava l’impressione che il pelo dell’acqua fosse coperto da un meraviglioso e luminescente manto dorato. Ma lei avrebbe dovuto aspettare un altro po’ per solcarlo e non lo avrebbe fatto insieme ad Allen e agli altri.

- Amèlie-chan, c’è qualcosa di cui devo parlarti: Cross-sama mi ha lasciato delle indicazioni per te. –
- Cosa? Indicazioni? –

Anita mosse seriamente la testa in segno di affermazione, porgendole una tazza di caffè bollente appena fatto. Delle molte aree riservate all’utilizzo esclusivo della Maitresse del Dragone Imperiale, la saletta orientale era la più bella e sontuosa: un turbinio di rosso e oro primeggianti nelle loro più svariate versioni, decorata con tappeti e arazzi degni di suscitare l’invidia di un collezionista, profumata d’incensi e dal soffitto decorato con dragoni dalla zanne sporgenti. Il mobilio si limitava a ben poco, giusto qualche soprammobile per mettere in mostra vasi o statuette di valore, ma era il piccolo gazebo dal tetto spiovente e dalle colonne di legno rosso lucido a essere stato ciò che Anita aveva sempre definito “Un piccolo, ma più che giustificato capriccio”. Una di quelle frivolezze che le donne ogni tanto si concedevano senza una valida ragione. Amèlie Chevalier, scivolando in quella stanza impreziosita di ogni bene materiale di alta fattura, non aveva minimamente immaginato l’esistenza dei doppi muri che la isolavano dal resto della magione; tuttavia, quando la collega l’aveva pregata di seguirla per poterle parlare in privato, la testa di Cross le era balzata in mente come un riflesso condizionato.

E in quel preciso istante, sorpresa da quella rivelazione, le risultò difficile reputare quella stranezza come una banale e casuale coincidenza.


- Sulla nave che salperà tra qualche ora, saliranno tutti tranne te -, le spiegò la più grande con molta calma – Cross-sama mi ha chiesto di farti partire separatamente dagli altri Esorcisti e che ci avrebbe pensato lui al mezzo di trasporto. Tutto quello che devi fare tu, è farti trovare alla spiaggia della costa a ovest della città alle dieci e mezza di questa sera.-
- Non ti ha riferito nient’altro? –
- Solamente di rispettare l’orario prestabilito e di dargli la precedenza su tutto -, rispose la donna – E’ stato molto categorico al riguardo. –

Su ciò, Amèlie non obiettò. Con le dita a reggere la tazza di caffè, abbassò lo sguardo su di essa e sul fumare ancora visibile che le solleticava il mento. Un cambio di programma inaspettato, niente da dire. Marian Cross puntava sempre sull’inatteso per volgere una situazione a suo favore, non era il tipo di persona che amava i protocolli o seguire piani elaborati ancor prima di essere approvati, ma in tutta sincerità la donna non si sarebbe mai aspettata che quell’uomo le lasciasse addirittura delle istruzioni da seguire. Da un punto di vista strettamente professionale, lo riteneva abbastanza prudente da prendere le dovute misure di sicurezza, eppure nel suo rifletterci attentamente, si soffermò proprio sulla capacità di improvvisare da cui il suo vecchio maestro aveva sempre tratto diversi vantaggi, di adattarsi alla situazione senza mai perdere di vista l’obiettivo principale. Arricciando le labbra struccate, le fece schioccare, inumidendole del sapore del caffè appena bevuto.

- Anita, sai se Cross era a conoscenza del fatto che un’unità di Esorcisti stesse seguendo le sue tracce? -
- Sì, ne è venuto a conoscenza poco prima di partire per il Giappone -, le rispose lei - Ora che mi ci fai pensare, è stato dopo averlo scoperto che mi ha chiesto di riferirti quanto ti ho detto. –
- Capisco... - Amèlie annuì nuovamente, sorseggiando con serietà un altro po’ della bevanda calda e dal forte gusto.

Le informazioni raccolte erano preziose, andavano sistemate seguendo il giusto ordine e nel suo socchiudere le iridi d’onice, la francese rifletté con maggior attenzione di prima: che il Generale le avesse lasciato delle indicazioni e che fosse a conoscenza del fatto che qualcuno della sua stessa fazione fosse sulle sue tracce non potevano essere delle semplici coincidenze, ormai era fin troppo evidente. Sapeva che sarebbe venuta, che prima o poi lei stessa si sarebbe fatta avanti e aveva agito di conseguenza. Forse tutta la sua intera strategia si basava proprio su questo. La sua mente contorta e brillante – oltre il potere spaventoso della sua Innocence - rientrava nella lista delle ragioni per la quale fosse considerato una persona meritevole di ricoprire una carica gerarchica tanto in vista ed escludendo tutti i suoi difetti caratteriali e materiali, Amèlie non si sarebbe mai permessa di sputare sentenze senza prima ricordare quanto sveglio e maledettamente astuto fosse Marian Cross.

Se era giunto a lasciarle simili direttive, doveva sicuramente aver intuito fin dal principio la situazione a Edo oppure…
Che potesse centrare la misteriosa Arca di cui le aveva parlato l’Akuma?


- Dalle note melodiche della ninna nanna, le ceneri dell’Arca Bianca partoriranno la Nera e le sue ali alte si dispiegheranno alla volta del cielo stellato… -, mormorò la corvina pensierosa.
- Che cosa significa, Amèlie-chan? – Anita si sporse avanti, in attesa che il riflettere dell’amica giungesse alla fine.
- E’ una specie di profezia. Riguarda la nascita di qualcosa che ha a che fare con il Conte del Millennio, ma cosa di preciso, non ne ho idea -, le rivelò lei, tamburellandosi l’indice sulle labbra.
- Se ha a che fare con il Conte, si tratterà di qualcosa di molto prezioso, che Cross-sama vorrà usare a suo vantaggio. Oppure che cercherà di distruggere, nel caso venga utilizzata contro di lui -, ipotizzò Anita.
- Non saprei, non è qualcosa su cui mi senta di azzardare inutili teorie. In tal caso, credo che al momento Cross non sia nelle condizioni migliori per muoversi -, asserì con fermezza la collega - Se quest’Arca si trova a Edo e a proteggerla c’è il Conte in persona, non oso immaginare le orde di Akuma che pullulano laggiù, per non parlare della famiglia Noah. Anche per un Generale del suo calibro muoversi in posto così infestato risulterebbe difficile, ma se lo conosco bene, si sarà imboscato da qualche parte, in attesa del momento più propizio per fare la sua mossa. Figurarsi se spreca delle preziose energie per combattimenti inutili. –
- Bè, sai meglio di me che Cross-sama non è il genere di persona che attacca immediatamente e senza essere sicuro di poterlo fare -, le ricordò la padrona di casa, versandosi dell’altro caffè – Quello che non capisco è il perché ti abbia lasciato delle indicazioni del genere: se a Edo la situazione è grave come presupponiamo, farti separare dal resto del gruppo non è una mossa saggia. -
- Lo so, ma cosa pensi che ci stia a fare qua? – Sbuffò Amèlie, sprofodando nel morbido schienale della poltrona – E’ tipico di lui  sfruttare le persone per i propri scopi e io non faccio testo: era sicuro che prima o poi mi sarei unita alle ricerche, ci contava e si è preparato in anticipo. Se vuole che mi separi dagli altri è perché ha già una chiara idea della situazione e di come possa degenerare. Ancora non mi è chiaro il quadro in generale, anzi, brancolo nel buio più totale, ma sta a vedere che mi toccherà fare da esca per qualcosa. - Allungò la mano destra verso il piattino di porcellana pieno di deliziosi dolcetti e se ne portò uno alla bocca, lasciando che il gusto della pastafrolla e del cioccolato fondente amalgamati insieme le ammorbidisse l’umore contrariato.

Parlare di Marian Cross spesso e volentieri sfidava il suo autocontrollo e la sua compostezza in maniera fin troppo incisiva, tanto da ridurla a una bambina sull’orlo dell’esplosione. Di per sé ammetteva di aver sviluppato un linguaggio che a volte scemava nel volgare, se provocata adeguatamente, di essere subdola, orgogliosa, materialista, dispostica e con un pizzico di strabordante narcisismo che non guastava mai, ma almeno lei si sbatteva ventiquattrore su ventiquattro per entrambi i suoi lavori, non era indebitata fino al collo, una sfruttatrice di prima categoria – salvo occasioni -, ne una menefreghista patentata – almeno con la gente a lei cara. –
Andava fiera della sua eleganza, di quel fascino ammaliante che non passava mai inosservato, l’amore per la propria immagine vinceva su qualsiasi provocazione che solleticasse quell’altra facciata di lei rivelatasi a tratti ai compagni, non ancora del tutto svelata nella sua perversità crudele e spaventosa; poteva soprassedere sul fatto di essere stata un po’ influenzata dall’arrogante temperamento del Generale, replicare con sfacciata cattiveria qualsiasi malignità rivoltale, ma resistere al pensiero di trovarsi faccia a faccia con quel ghigno maledetto e sprezzante…Oh, lui scatenava la sua parte peggiore, quel demone cresciuto a pari passo con il suo stesso ego e che non si faceva troppi problemi a competere con chi ne aveva sollecitato a viva voce la creazione.
Era più facile stilarne i difetti che i pregi e non le sarebbe bastato neppure un giorno per arrivare anche solo a un quarto del presunto elenco, ma ad Anita fu sufficiente cogliere ogni singola contrattura del viso di Amèlie per provare quel pizzico di gelosia che spesso l’aveva vista sorridere allo specchio per come le fosse venuto in mente di provare un simile sentimento per una persona tanto amata.


Permettere ad un uomo come Marian Cross di irrompere nella sua vita le aveva riempito il corpo e l’anima di forza e di speranza, esortandola a guardarsi dentro ogni volta che ne aveva il tempo per scoprire una bellezza che mai avrebbe pensato di possedere. I curati fili d’ebano splendevano ordinatamente sotto la luce immacolata della stanza, liscia e fine seta nera che incorniciava altrettanti finissimi lineamenti nivei, enfatizzando gli occhi a mandorla e l’innamorato sorriso che con grande gioia era stato ricambiato più volte da quell’uomo a cui ogni giorno di quel lungo anno aveva servito il sakè mentre gli faceva compagnia. Un cuore facile e gentile come quello di sua madre, riscaldato e gonfiato da un sentimento che aveva dato vita ad un legame così forte da spingerla a incamminarsi su una strada cento volte più difficoltosa di quella che già stava percorrendo, ma anche tristemente consapevole di una realtà dentro cui lei rientrava soltanto come figura secondaria. La sicurezza con cui le parole di Amèlie uscirono fluide dalla sua bocca gliela mostrarono nuovamente, in tutta la sua fredda limpidezza, ma alla Maitresse del Dragone Imperiale non colpì altro che la naturale disinvoltura esibita dalla corvina nell’affrontare un tema tanto spinoso. Nessun dubbio, nessuna esitazione: solo una completa fiducia in un uomo che lei forse neppure poteva dire di conoscere completamente, ma per cui era disposta a dare la vita. Sentirsi piccola, quasi inesistente davanti a una persona come la Chevalier, fu come venire spinti sul ciglio di un burrone e costretti a guardarne l’infinito fondo.


- Adesso mi è chiaro perché Cross-sama ha chiesto a te questo favore e non ad Allen -, sorrise Anita, chiudendo gli occhi e annuendo fra sé e sé.
- Uh? Cosa intendi dire? – Vi era un che nella figura della cinese che in qualche modo la rendeva diversa dal solito. L’aver appoggiato i gomiti sul tavolo, incrociato le dita e appoggiatovi il mento sopra, erano tutti movimenti permeati da un soddisfatto senso di dolcezza gongolante che insospettì Amèlie.
- Tu lo conosci a tal punto da non prendere neppure in considerazione l’eventualità che lui venga sconfitto non perché sai com’è fatto, ma perché hai fiducia nel suo potere, credi in lui incondizionatamente -, le rivelò, dischiudendo le palpebre – Amèlie-chan, io so che cosa ti è successo quando avevi nove anni, prima e negli anni successivi… - Calcò le parole con sentimento perché riuscisse a trasmettere la propria comprensione all’amica - E so anche che non potrò mai capire cosa significhi farsi carico del peso dell’Innocence, ma come donna so riconoscere quando il proprio amore non viene ricambiato. -
- Anita… -
Subito, la donna gli fece cenno con la mano per fermarla – Ovviamente, questo discorso non vale per te. Sappiamo entrambe che  un cuore orgoglioso spesso e volentieri si comporta in un certo modo per nascondere le proprie debolezze e anche se ora lo negherai, quando si parla di Cross-sama, fatichi a non sbuffare come una ciminiera. -
- Questo non è certo un segreto e non ho bisogno di negarlo -, replicò composta Amèlie – E se stai insinuando che sia innamorata di quell’ irrecuperabile ubriacone, ti stai… -
- Sbagliando di grosso? – La intercettò la collega, inclinando la testa sulla sinistra – Ne sei proprio sicura, Amèlie-chan? Te lo chiedo perché, sebbene tu riesca a ingannare le persone altrui, il prenderti cura del ciondolo che ti ha regalato ti tradisce visibilmente, almeno ai miei occhi. -

L’odore dolciastro dell’incenso sprigionato dai bastoncini smise di aleggiare per la stanza non appena il lento bruciare della fiammella ebbe consumato tutti i minuscoli stecchetti sparsi nella stanza. I suoni esterni, neppure il più flebile dei singhiozzi, poteva raggiungere e superare le quattro pareti che imprigionavano in una comodità orientale le due corvine.

Tranne uno, un impercettibile movimento la cui presenza era quasi del tutto irrilevante.
Se lo stava rigirando fra le dita, quel gioiello indicato dal dito affusolato di Anita. Le dita di Amèlie lo rigiravano da una parte all’altra, imprigionato fra i polpastrelli che ne saggiavano le lisce e spigolose facce irregolari. Lo faceva sempre quando pensava o si estraniava dal resto del mondo. Una perfetta goccia di rubino con un minuscola catenella dorata a tenerla attaccata al collo scoperto di Amèlie. Niente di troppo vistoso, semplice, un simbolo che aveva sancito la fine di un periodo colmo di influenze e cambiamenti che avevano contribuito a farne maturare l’esistenza. Accoccolata al suo posto e accortasi troppo tardi di quel suo gesto istintivo, la francese provò per qualche istante la sensazione di stare con le spalle al muro, ma non tentò alcuna ribellione al riguardo. L’intraprendenza di Anita era una qualità che le aveva sempre ammirato: il girare le carte e volgerle a suo favore esibivano tutta una furbizia e un fascino dall’unicità inimitabile, un elegante movimento invisibile che costringeva chiunque a porsi sulla difensiva. Non uno spiraglio libero concedeva, non un solo barlume di luce lasciava filtrare senza prima aver ottenuto quanto desiderava sapere: la Maitresse del Dragone Imperiale aveva molti modi per far parlare una persona, ma certamente non la si poteva reputare una donna subdola o peggio ancora cattiva.

Non era un ruolo che si addicesse a tanta candida gentilezza.


- Cavolo…Devo veramente essere messa male se non riesco a nasconderti una stronzata del genere. E’ così evidente la mia pateticità? – Le concesse infine la collega, incrociando le braccia con sorriso tinto di incredulità per quella sua stessa facile arrendevolezza. A che sarebbe servito perseverare in quella cocciuta ostinazione?
- Non definirei mai l’amore di qualcuno con un aggettivo tanto riduttivo, ma forse ti sentiresti meglio a dirmi cosa provi, quello che senti. Quello che ti dici ogni volta che guardi la tua immagine riflessa allo specchio e quello che pensi non appena la tua mente visualizza il suo volto. –
- Eh eh! Più facile a dirsi che a farsi -, ridacchiò appena Amèlie, per quanto richiestogli, nel mentre si sistemava una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio, ridendo appena per quanto richiestogli.
- Tu provaci -, la esortò dolcemente l’altra.
- Perché? Sai già quello che vuoi sentirti dire. –
- Già, ma tu? –

Ancora una volta, il silenzio tornò a dominare indiscusso sulla scena, appena frastagliato dall’impercettibile respirare delle due donne. Amèlie avrebbe potuto replicare, ma non lo fece. Avrebbe potuto guardarsi intorno, cercare una qualche distrazione e concentrarsi su d’essa, ma non prese neppure in considerazione l’idea di pensarci: sarebbe equivalso ad un affronto che non conosceva alcun tipo di perdono facile, a scappare da se stessa. E da lui. Da quel miscuglio amalgamato di ricordi, sentimenti e cicatrici che aveva inglobato, superato e imparato a gestire seppellendole sotto strati di lavoro, autocontrollo e forza di volontà, da quella persona a cui aveva riconosciuto un’importanza troppo rilevante da risultare cancellabile. Non lo aveva mai negato al suo Io interiore, non da quando aveva perso completamente la capacità di considerarlo solo il suo salvatore e una sorta di maestro che si dilettava più a sparire che a compiere i suoi doveri. Marian Cross le era entrato dentro l’anima senza mai più uscirne completamente. L’Inferno in terra. Il suo Inferno in terra. Il solo sentirne pronunciare il nome sollecitava la sua fermezza a frammentarsi e a disperdersi come petali al vento, dove i colori si riducevano e plasmavano in un’incolta e sanguigna cascata di capelli ondeggianti. Era così automatico da farle venire il nervoso, facilitava la suscettibilità sulla lunga lista di difetti che contribuivano a rendere quell’uomo ciò che sua nonna avrebbe definito con due parole concise: senza speranza. Perché sì, era fin troppo risaputo quanto a Marian Cross piacesse eccedere nei vizi e ancor di più scaricarli su spalle altrui…

Eppure, anche il solo chiederle di fare a meno di domandarsi dove fosse, se stesse bene o se non stesse correndo rischi inutili, l’avrebbe angosciata a tal punto da farla sfigurare per l’ansia. Ormai non poteva più tornare indietro, riavvolgere gli eventi e far sì il legame che la univa indissolubilmente al Generale mutasse in qualcosa di più ridimensionato e definito.

La verità era che aveva già scelto. Con Marian Cross era impossibile avere il pieno controllo delle proprie facoltà mentali e delle proprie emozioni, non costantemente; gli era sufficiente uno sguardo altezzoso per mettere al muro chiunque provasse a fare la medesima cosa con lui e Amèlie ancora peccava in questo. Lo odiava per quel suo riuscire a renderla così schifosamente vulnerabile, per come valicasse quella soglia che si disperdeva in una terra dove lei ancora non sapeva del tutto orientarsi, così come odiava se stessa per la propria debolezza, per il non essere in grado di guardarlo dritto negli occhi dell’anima e ammettere che non le era più possibile essere indifferente. Lo odiava per come l’aveva ridotta, per esserle sempre cento passi davanti e per averla presa e trascinata in mezzo ad un mare in tempesta da cui ora non poteva, ne voleva più uscire. E sempre per ciò, odiava se stessa per non riuscire a non amarlo.
Non c’era stata una sola notte, da quando lui era sparito, dove lei non si fosse specchiata e avesse colto dal suo stesso riflesso una disgustosa e abbondante irragionevolezza dipartita dalla veritiera voce del suo cuore. Si detestava per amare una persona che le aveva sconvolto l’esistenza senza neppure impegnarsi tanto, per come corpo e mente puntualmente la tradissero d’innanzi alla sua presenza non più tanto ignorabile e per l’impossibilità a sottrarsi a quella lotta intestina che vedeva sentimenti morbosi divenire contrastanti, trasformarsi in luce e poi mutare in nuovi sentimenti che andavano a nascondersi dietro il suo orgoglio e le sue più oscure incertezze. Ma come negare che il ribrezzo per la propria persona dipartisse da quell’impellente bisogno di averlo vicino, continuamente, più dell’aria che entrava e usciva dai suoi bronchi? Da quel giorno di tanti anni fa, dove tutto era cominciato, erano trascorsi secoli che si riflettevano nella sua immagine adulta e consapevole di verità raccapriccianti, ma lei era ancora lì, in stallo.

Consumata dalla paura che le risposte future alla sua impazienza sancissero un cambiamento irreversibile in quel rapporto che la univa al Generale, che la cruda coscienziosità della sua ragione, che mai aveva perso occasione di tenerle presente quel rischio, frantumassero il suo desiderio più intimo. Non era pronta, non era forte come desiderava essere ai suoi occhi, non poteva accettarsi così com’era e dunque non poteva essere meritevole di niente. Preferiva combattere ancora e ancora contro quel magone che portava in grembo e che si nutriva della sua essenza, producendo dolore che lei assorbiva senza battere ciglio, a farsi corrodere l’anima da quel sentimento meraviglioso e al tempo stesso distruttivo anche per il resto della vita, se fosse servito a prepararla. Prima o poi quel momento sarebbe arrivato, che fosse stata lei a chiamarlo o che il destino decidesse di metterla alla prova, ma fino ad allora avrebbe pazientato, lottato e stretto a sé quell’Inferno che desiderava e considerava il suo Paradiso. Quella Felicità racchiusa in parole ambite giorno e notte, inconcepibili e inafferrabili con un uomo diverso da lui.




Uno sfuggente luccichio scarlatto strappò Amèlie da quel ricordo fresco e appena impresso nella sua mente. Con movimento lento e meccanico, afferrò delicatamente fra il pollice e l’indice della mano destra il rubino a forma di goccia che portava costantemente al collo, percependo sotto i suoi polpastrelli le minuscole facce lisce che la componevano. Una sua fissa era quella di giocherellarci quando si chiudeva nei suoi pensieri, rigirandolo in ogni angolazione per tempi che a volte si prolungavano per intere ore. Lo stringeva nei giorni di pioggia, guardando l’acqua scendere lungo i vetri e rigarli in attesa che il malumore le passasse. Non l’aveva mai potuta sopportare, tutta quell’acqua che cadeva giù da grosse nuvole cupe e grigie ammassate fra di loro: i suoi cari più amati l’avevano sempre lasciata in giorni come quelli.

E, ironia della sorte, a quel bastardo invece piacevano.


- Se tu volessi la Felicità, dove l’andresti a cercare? -

Guardando il suo prezioso monile con quella domanda ancora aperta come una ferita appena inflitta, un minuscolo sorriso amaro fece capolino all’angolo della sua bocca. La pietra era così scura che sembrava essere stata riempita di sangue; le sfumature rossastre rilucevano di tonalità diverse a seconda della luce solare, accompagnate dalla catenella dorata con cui Amèlie ogni tanto si attorcigliava le dita.
Rosse, scarlatte…Come le sue labbra piene e al tempo stesso sottili e delicate. Come i lunghi capelli del Generale Marian Cross.


- La strada è ancora lunga, vero, Tim? – Il golem si appoggiò delicatamente contro la sua guancia, in un minuto gesto d’affetto e comprensione – Fintanto che sarò una codarda indegna… -
- La vedresti dentro a semplici parole? -

Oramai non si prendeva neppure più la briga di scacciarne il ricordo dalla testa. Era ovunque, dentro e fuori di lei, visibile e imprendibile come il vento che spingeva verso l’oceano, aldilà di quella sottilissima linea gialla che divideva l’acqua dalla luce. Con lo sguardo fisso sul veliero pronto a salpare, Amèlie rievocò la voce di Anita, dolce e soave com’era solita essere. La goccia di rubino scivolò via dalla sua mano e rimbalzò contro la sua pelle, perdendo momentanea importanza d’innanzi a quella confessione ceduta con così tanta spontaneità da farla ridere tuttora.

- Io non ho possibilità, lo so. Tu pensi che ne abbia, Anita, che sia diverso, ma non lo è. Vivere per proteggere ciò che si ama è aggrapparsi a quanto di più bello e idilliaco si possegga per non precipitare nell’oblio. Se vivessimo di sole sicurezze finiremmo per consumare una misera esistenza e questo a me non basta, non più. Io sono masochista, preferisco il dolore al nulla, perché se il solo odiarlo per come riesce a farmi sentire quando sono da sola mi fa impazzire, non averlo mi ucciderebbe. Ho smesso di rifiutarlo non appena l’ho capito. Se dovessi scegliere fra un uomo dabbene e un vecchio zotico alcolizzato che potrebbe passare benissimo per mio padre, io sceglierei come e comunque lo zotico alcolizzato, perché lo conosco, non desidererei null’altro ne lo vorrei anche se fosse per il mio bene -, aveva rivelato con voce blanda, arrendevole. Il petto si gonfiava e sgonfiava con pesantezza, quasi il carico che stava portando all’esterno la sottoponesse a una fatica insostenibile – E’ il solo uomo che sento di amare e odiare più di me stessa, senza incertezze -, aveva ripreso tombale, l’animo ringhiante e in conflitto con l’orgoglio per quei sentimenti immensi e distruttivi – Il solo…Che mi faccia esasperare così tanto, che mi faccia sentire così insicura, debole, viva e capace di ogni cosa, che non potrò mai battere o eguagliare e da cui io voglia sentirmi dire quelle parole. Da un altro non avrebbe senso, ci sputerei sopra immediatamente, ma è questo mio egoistico e insano volere lui  e solo lui a farmi capire ogni giorno quanto ancora io sia lontana da ritenermi pronta. E mi da la nausea il non riuscire a non pensarci. – 




Note di fine capitolo.
E finalmente un capitolo pieno di romanticismo e debolezze svelate a colpi di caffè. Nonostante abbia scritto parecchio, passo più tempo a correggere e ad aggiungere che a portarmi avanti, ma questo capitolo volevo farlo bene, l’ho controllato così tante volte che se dovesse esserci un errore penso che potrei prendere a testate la scrivania. Volevo pubblicare prima delle vacanze di Dicembre e mi sento soddisfatta nell’esserci riuscita perché, davvero, ho il tempo contato a gocce e sono stanca da morire. Il prossimo aggiornamento penso lo farò a Gennaio o magari chissà, potrei farmi venire un colpo di fulmine per una One-shot o cose simili, MA, per chiunque leggesse Hell’s Road, faccio una piccola anticipazione: con il prossimo capitolo comincerò a narrare il passato di Amèlie! E quindi dovrete portare pazienza perché son cattiva e vi voglio tenere sulle spine, uh uh!

 
AUGURO A TUTTI UN FELICISSIMO DICEMBRE E PRIMO GENNAIO!

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Capitolo 12
*** First steps/ Past one. ***





Oh, seigneur...Que la fatigue*… -

Il picco sopra cui era stato eretto l’Ordine Oscuro era ripido, bagnato e liscio come uno specchio. Un enorme masso spigoloso che in estate scottava più dell’acqua bollente e in inverno era quanto di più simile a un’enorme stalattite nera. Rampicarcisi con l’intenzione di arrivare in vetta era un nobile proposito che a metà strada si trasformava in una preghiera rivolta a ogni santo risiedente in cielo perché scongiurasse qualsiasi rischio di sfracellamento al suolo.
Per la piccola Amèlie Chevalier di cinque anni e tre quarti, apprendista Esorcista e a dieci metri dal traguardo, con tanto di cesta di sassi stretta alla schiena, quell’allucinante salita non rappresentava che l'ennesima trovata suicida della persona che ne aveva osservato l’intera scalata con silenti e rapaci occhi d’ossidiana, identici ai suoi se non per quel luccichio inquietante che ne moltiplicava l’atrocità. Mancava poco e le forze rimaste bastavano giustappunto per quegli ultimi minuti di fatica. La gola secca, le mani incandescenti e le spalle indolenzite dal peso delle pietre non sortivano più i rispettivi effetti, tanto ormai ne era assuefatta, e come piantò i palmi, strinse le dita e si diede la spinta finale, non fece in tempo a essere baciata dai caldi raggi del sole che l’ombra di sua nonna, Agatha Chevalier, la nascose alla vista della grande stella e del maestoso cancello della Home.


- Quattro ore e cinquantotto minuti. – La voce della donna, ferrea e limpida, scorrette liscia fra gli ansiti rantolanti della nipote, decretando il risultato contato col grigio cronometro - Non male, ma è migliorabile. Su, scendi e ricomincia. –
- C…Anf…Cosa?! – La bambina nemmeno seppe come riuscì a tirare su il collo e a guardare la parente con sconvolta incredulità. La stanchezza divampava come fuoco ghiacciato sui suoi poveri muscoli tremanti.
- Scendi e ricomincia -, ripeté atona la più grande, armeggiando tranquillamente con l’esile vita di lei, ancora mollemente seduta sui talloni – Non abbiamo tutta la mattinata, Amèlie: c’è un programma da seguire e tu non ne salterai nessuna tappa. –
- Ma non…Starai scherzando, spero! – Esclamò lei, scattando in piedi – Hai idea della fatica che ho fatto a salire?!? –

SBONK!

- Modera i termini, signorinella. Cos’è tutta questa impertinenza? - L’occhiataccia infervorata e le labbra strette che Agatha lanciò con simultaneità sibilante fecero scappare la lingua della nipote nell’angolo più sicuro della sua bocca.

Era un chiaro segnale di pericolo, l’allarme che antecedeva il countdown finale. Non esisteva alcuna forma di indulgenza per chi peccava nell’indispensabile arte dell’Etichetta - così a cuore ad Agatha Chevalier da pretendere un continuo “Voi” alla sua persona -, e non erano mancati veri e propri attentati alla nuca della corvina, che come adesso si teneva la testa dolorante dove già stava spuntando un piccolo bernoccolo. In qualunque posto si trovasse, l’educazione doveva brillare ed essere esibita con delicata disinvoltura, un requisito fondamentale per qualsiasi buona signorina che solesse differenziarsi dalla massa comune e ambire a un proprio titolo personale.

- Je vous demande pardon, Noble Grand-mère*. – Le dovute scuse in perfetto francese erano una prassi sostituitasi al bigotto gonfiare le guance più per salvaguardare la propria testolina che per altro, ma Amèlie non aveva mai sdegnato le proprie origini, seppur conoscesse ben poco della Francia – Però non potete pretendere che io sia più veloce con questa cesta; già solo per scendere ci impiegherò un’eternità -, si lamentò successivamente, dosando la voce quel quanto occorreva per non svuotare del tutto i polmoni ancora in piena ripresa.
- Mais mon petit trésor et naïf *, lo so bene. Perché credi che ti abbia legato la vita con questa corda? – Ciò che si accompagnò a quella melliflua uscita spaventò la piccina più di quanto avrebbero potuto fare tutti gli Akuma presenti al mondo, facendole contorcere le viscere in una strizza che colorò il suo tondo visino di un leggero alone tendente fra il viola e il blu.

Sua nonna stava sorridendo, ma non uno di quei caldi sorrisi rassicuranti da cui ci si poteva aspettare solo intenzioni pacifiche. Era un sorriso maligno, diabolico, dalle oscure e raccapriccianti intenzioni che sempre colpivano lei, bersaglio privilegiato che mai riusciva a scappare in tempo.

- Q-Quale corda?! – Squittì spaventata, ritrovandosi a soccombere sotto quella spaventosità sorridente che a ogni secondo pareva allargarsi e inscurirsi.

Non ci aveva fatto caso, sfibrata com’era non aveva minimamente percepito quella circolare stretta poco al dì sotto della pancia e toccarne la sottile e dura ruvidità servì unicamente a raggelarle il sangue divenuto fuoco liquido durante la disperata scalata.

Due secondi dopo stava già precipitando nel vuoto, spinta dalla mano della nonna e urlando con tutta la voce che credeva esaurita.


- Ti aspetto fra un’ora e mezza in classe e porta i libri di matematica! - Fu l’unica cosa che riuscì a sentirle dire. 




E smettetela di ringhiare, animaux stupides!* –

I cani non erano mai piaciuti ad Amèlie. Ne apprezzava alcune razze, quelle pochissime che conosceva, ma non c’era nulla di bello in un essere a quattro zampe che ringhiava da dietro delle sbarre di ferro e ti guardava come a volerti spolpare fino all’osso. Col tramonto prossimo a lasciare il posto alla sera, le ombre si ingrossavano e sgattaiolavano fuori dagli angoli per annerire intere porzioni di terreno rimaste esposte alla luce del sole, ma non erano che miseri lembi d'insignificante consistenza in confronto all’oscurità scorgibile dalla bocca della foresta che la bambina stava osservando con curiosa attenzione. Più cercava di scorgere le forme degli arbusti grassocci che affondavano le loro radici nel terriccio umido o un qualche recidivo sprazzo d’arancione brillante a guizzare sull’erba scura, più si domandava la ragione per la quale sua nonna l’avesse portata lì e lasciata temporaneamente sola con quell’assordante muta di bestiacce dalla bocca stipata di candide zanne. Considerati i precedenti e considerata la persona, non era certa di voler sapere cosa l’aspettasse e la sua mente si rifiutava categoricamente di proporre ipotesi al riguardo.

- Questa sera avrai la tua prima missione a tempo indeterminato. – Agatha Chevalier fece la sua comparsa dal sentiero che antecedeva la folta radura.
- Cosa? Dite sul serio?- Amèlie si eccitò alla notizia, con gli occhi a brillare per quella meravigliosa novità ritenuta da sempre non ancora alla sua portata – Di che si tratta? Di Innocence, vero? – Domandò concitata.
- Come? Non essere ridicola -, la rimproverò con fermezza stroncante la donna, non mancando di schioccarle un’occhiataccia eloquente – Non sei ancora capace di superare a pieni voti il mio addestramento, figuriamoci se sei pronta per qualcosa come l’Innocence o gli Akuma. Essere Esorcisti non significa sconfiggere nemici su nemici, non serve a nulla se non sei preparata ad affrontare anche l’improbabile: gran parte del successo di una missione si nasconde dietro l’importanza del mantenere il controllo, nel trarre vantaggio da una situazione sfavorevole e dalla metodicità con cui la si affronta, non è con la forza bruta che si combatte il panico o si ha la meglio su certe criticità. –
- Oh…Ho capito. – Fu difficile nascondere la minuscola delusione impostasi freddamente sulla gioia del momento. Amèlie abbassò leggermente il capo, corrucciando le labbra e le sopracciglia per la decisa respinta contro cui si era schiantata senza frenare in tempo.

Ci aveva un po’ sperato che dopo tanto faticare e studiare la nonna le concedesse un’autentica possibilità sul campo, ma se c’era una cosa su cui la tutrice premeva con accentuata severità era il saper placare qualsiasi frettolosità che minasse l’addestramento; glielo aveva ben fatto capire portandola addirittura con sé in una missione di recupero, dove per la prima volta aveva potuto osservare da vicino i nemici da abbattere e sperimentare visivamente la difficoltà nel riuscire a ergersi al dì sopra di un pericolo dieci volte più grande delle proprie potenzialità. Si trattava pur sempre di una guerra, dopotutto, e nonostante il sentirsi ripetere che ancora non era pronta l'amareggiasse con silente frustrazione, Amèlie - proprio perché aveva visto cosa l’attendeva per il resto della sua vita -, non si era mai sottratta agli ordini di Agatha Chevalier.

- Allora…Che tipo di missione intende darmi? – Domandò poi la piccola.
- Survie -, le rispose la donna.
- Survie? – La corvina corrugò la fronte con cipiglio interrogativo. La parola significava “Sopravvivenza”. Ma a cosa doveva sopravvivere esattamente?
- Agire con il pericolo alle calcagna e proteggere la propria incolumità -, la delucidò Agatha, dandole momentaneamente le spalle per poter afferrare un secchio dal cui fondo proveniva un nauseabondo e pungente odore metallico - Come ti ho già spiegato, la forza bruta è del tutto inutile se non vi si applica un po’ strategia: valutare una situazione e sfruttarne i punti deboli sono i primi passi verso la vittoria, ma in battaglia è l’agire in fretta che ti salva la vita. A prescindere ciò che affronterai, sarai sempre chiamata a scelte rapide e fredde, soprattutto in battaglia, dove non c’è spazio per l’esitazione. – 

Amèlie ascoltò il discorso senza pronunciare un solo alito d’ossigeno troppo rumoroso, seguendo ogni movenza cadenzata della parente quasi questa potesse scomparire da un momento all’altro. La sua voce autoritaria, d’adamantina fierezza, scivolava limpida e incisiva nell’atmosfera, emanava una ferrea delicatezza che ipnotizzava e non lasciava tracce dietro di sé. Ogni volta non poteva fare a meno di raddrizzare la schiena e il collo per percepire al meglio quelle sfumature di velata e inimitabile compostezza che brillavano negli occhi della nonna sotto forma di scintillii scoppiettanti, covando in quel suo stesso spiare una vaga invidia per l’acerbità dentro cui lei invece stagnava ancora inerme. Solo il lieve fruscio dell’erba imperlata di rugiada la riportò alla realtà, accorgendosi della presenza della parente a pochi passi da lei, con il secchio ben tenuto fra i palmi delle mani. Il pestilenziale odore le si addossò fino a farle lacrimare gli occhi; se avesse dovuto ipotizzare quale ne fosse la fonte, avrebbe scommesso su un disgustoso mix di carni sanguinolente e mal tritate.


- Da questo punto esatto occorrono tre giorni e mezzo per arrivare alla Home -, le rivelò l’Esorcista – Tutto quello che devi fare è arrivarci; il tuo successo o eventuale fallimento dipenderanno da quanto tempo ci impiegherai e in che stato ci arriverai, chiaro? –
- In che stato? Non cap… -

SPLASH!

Una gelida e fetida ondata liquida la investì da capo a collo, inoltrandosi nella sua gola con una minuscola manciata d’amare gocce. Amèlie tossì e le sputò all’istante, strizzando la faccia per l’orribile fetore che cercò di soffocarla e che con suo sommo orrore la ricopriva interamente, con un color rosso marcio pezzato da grumi nerastri.  


- Ma che…WHAAH!!! MA E’ SANGUE!!! – Strillò la bambina, allargando le braccia e le gambe.
- Sì, di volpe per essere precise. Un modo come un altro per essere certa che i cani ti inseguiranno a dovere. E’ una prova di sopravvivenza, dopotutto -, la ragguagliò con nonchalance Agatha, avvicinatasi nel frattempo al complicato meccanismo collegato alle gabbie delle bestie abbaianti.
- I cani? Quei cani?!? – La bambina si girò di scatto, con i capelli appiccicati alle guance purpuree e gli occhi spalancati. Le dita della nonna erano già strette attorno alla spessa corda che teneva chiuse tutte le grate di ferro – Vuole dire che…! -
- Prendetela! – E le sguinzagliò i cani contro. 




- Anf...Anf...! -
- Avanti, Amèlie! Concentrès!* -
 
I campi d’addestramento di cui disponeva la Home erano così ampi che le voci arrivavano addirittura a rimbombare anche nei corridoi più isolati.
Quella di Agatha Chevalier poi non conosceva limiti: risoluta e decisa, rispecchiava il carattere di una donna che al posto del sangue aveva l’argento vivo nelle vene. Troppo orgogliosa e dura come il marmo perché qualcuno riuscisse a piegarla e la piccola Amèlie aveva già imparato tutto quello che occorreva sapere sul conto di quella persona che altri non era sua nonna. 

Il non sfidarla era la madre di tutte le regole.

Definire Agatha Chevalier un’Esorcista ne sminuiva brutalmente la persona con ridicolaggine offensiva. Poco al dì sopra dei quarant’anni, dai fini lineamenti e dalla forza indiscutibile, così decisa e autoritaria da non avere quasi nulla in comune con la figlia Rosalie, gentile Finder di primo livello, la capostipite della casata delle Chevalier vinceva per imperiosità contro qualsiasi cataclisma naturale e per beltà contro Afrodite in persona. Una fulgida e algida bellezza il cui trionfante segreto stava nell’indole tendente a una perfezione che implicava metodi smisurati e del tutto fuori dagli schemi umani. Era contro quell’aspetto in particolare che Amèlie cercava di sopravvivere sin da quando era stata capace di sviluppare un metro che ne calcolasse a grandi linee la continua espansione.
L’allenamento di quel giorno altro non era che l’ennesima certezza a tal riguardo e benché non ci fosse un solo centimetro del suo corpo che stesse chiedendo tregua, la piccina si astenne dal dare voce alla propria coscienza: gli occhi scuri e affilati della parente non le avrebbero concesso nulla di quanto il suo fisico chiedeva. Resistendo alla tentazione di boccheggiare affannosamente, cercò di tenere la testa dritta e di calibrare il proprio respiro a piccole dosi, ma il bustino di ferro nascosto sotto la maglia nera non faceva altro che renderle difficile il solo provarci: fradicia com’era, le tirava la pelle con fastidio che cominciava a diventare piuttosto doloroso.
 
Non rallentare, continua ad avanzare! – Dal basso, la voce dell’Esorcista le giunse con maggiore autorità, quasi le fosse a fianco anziché al piano terra.
- Fa presto a parlare lei! Ci sono io su questa cavolo di fune! – Sbottò disperata nella mente, con i muscoli che a stento obbedivano alle sue blande suppliche. 

Quante? Quante volte sua nonna era riuscita a stupirla? Quante?
La scalata disperata lungo la parete rocciosa era stata la prima di un’interminabile serie dove la parente la obbligava a ripetere il percorso dopo averla lanciata di sotto senza alcuno scrupolo e con solo una misera corda a evitarne la morte per schianto, ma in confronto alle altre prove quello non era che “Il male minore”. Che dire di quella volta che le aveva sguinzagliato contro una muta intera di cani da caccia dopo averla ricoperta da capo a piede di sangue di volpe? Aveva trascorso cinque giorni a correre, ad arrampicarsi sugli alberi, a saltare nei fossi d’acqua per lavarsi dallo sporco e a sperare che gli orsi in letargo non si unissero all'assalto. O di quando – e quella era stata una disgrazia - sua nonna le aveva cucinato il coniglietto di cui si prendeva cura e lei se ne era accorta solo dopo che aveva finito di mangiarlo. O ancora la settimana prima, a Parigi, quando l’aveva gettata nelle fogne e lasciata in balia dei ratti, gli animali più subdoli e schifosi che il creato avesse mai partorito; era stata data per dispersa due settimane dopo e ritrovata nelle vicinanze dello stesso tombino dentro cui era stata gettata prima che quelle luride pantegane fossero riuscite a rosicchiarle le gambe.
Sessioni di allucinanti e traumatici allenamenti che non conoscevano limiti, implicanti shock che l’avrebbero perseguitata per il resto della sua vita; ore e ore di danza classica con le puntine nelle scarpe, lezioni di Bon Ton scrupolosamente impartite con la frusta e tanto altro meritevole di essere ciacciato a viva forza negli angoli più remoti della memoria. Ecco cosa significava avere come maestra Agatha Chevalier e la sua smisurata vena di inarrestabile sadismo, ma al momento niente di quanto subito poteva superare quelle dannate anguille elettriche che sguazzavano nella piscina dentro cui Amèlie era già caduta almeno un centinaio di volte, venendo così fulminata senza alcuno scrupolo. Il solo pensiero dell’ultimo volo le elettrizzò i tendini provati da quell’esercizio non convenzionale e mancò poco che i libri appoggiati sopra la sua testa oscillassero verso destra.
 
Cadere ancora una volta le sarebbe costato la pelle, ma camminare su una fune con un aggeggio infernale stretto al torace come quel bustino di ferro e con quattro polverosi tomi a pesarle sulla testa era tutto fuorché facile. Velocemente e col favore dei capelli appiccicati al viso, schioccò un’occhiata decisa alla scala di ferro che l’attendeva a poco più di una decina di metri da dove si trovava. Azzardò il primo passo guardandola con ostinazione, traballando per via delle ginocchia stanche, aggiungendo il secondo e poi il terzo con le braccia doloranti e spiegate verso l’esterno. L’oscillazione dei volumi solleticava la sua paura assieme al sibilare sferzante delle serpi, che la guardavano con occhietti ghignanti e i piccoli denti appuntiti rivolti in alto.


- Scordatevelo che i cada anco…Oh…Ah! No, no…WHAAH!!! - 




Non stai andando affatto bene. – 

Secco e duro fu il rimprovero di Agatha Chevalier. Lapidaria come una condanna a morte e piena di pacata frustrazione, quella constatazione giunse alle orecchie di Amèlie non appena fu in grado di udire un suono che non fosse il suo tossicchiante e affannato respiro per l’essere uscita in fretta e furia dalla vasca. Non era nulla di nuovo per lei, men che meno una ferita che potesse incidere sul suo animo innocente e ancora facile alle vulnerabilità esterne; a proteggere quell’emotività che ogni essere umano serbava in piccole o grandi quantità che fossero, vi era la sua stessa caparbietà, la stessa cocciutaggine a non darsi per vinta davanti alle prime difficoltà che ordinavano totale obbedienza.


- Tendi a distrarti e a chinare la testa verso il basso -, riprese la donna, appoggiando le mani sui fianchi - Devi tenere la schiena e la testa dritta, con lo sguardo fisso in avanti e concentrato su ciò che fai. –
- Lo sto facendo, Noble Grand-mère! Giuro! – Esclamò la piccina, col cuore fibrillante e le mani a strizzare la gonna fradicia – Ma come faccio a stare dritta con questo coso addosso?! - E si indicò il bustino semiscoperto – Fa un male cane e i libri pesano tantissimo, a malapena riesco a rimanere in equilibrio! -
- Quel coso ha un nome, Amèlie. Vedi di parlare in maniera adeguata -, la rimproverò una seconda volta Agatha – E comunque, questo è proprio uno degli scopi dell’esercizio: sviluppare l’equilibrio -, la illuminò. La lingua schioccò saccente fra le labbra pitturate e la perfetta chiostra perlacea dei denti – Prima di imparare a maneggiare la tua falce e crearti un tuo stile, devi saper controllare il corpo e rafforzarlo quanto basta perché il peso della tua arma non ti sia d’ostacolo: avere equilibrio significa avere la piena padronanza del proprio fisico e in alcune situazioni è più utile di qualsiasi altra risorsa. Sia in battaglia che in una sala da ballo, il portamento di una donna ne mette in mostra l’eleganza e la leggiadria. I tuoi muscoli sono ancora acerbi e devono essere sviluppati adeguatamente, compresi quelli del collo. – Recuperati i tomi e messi uno sopra l’altro, li ripose nuovamente sulla testa della nipote – Inoltre, una vera Maitresse non ci ricava nulla a fissare il pavimento: gli occhi valgono più di qualsiasi seno prosperoso, ma solo se usati correttamente. Se non vuoi cadere in continuazione nella vasca, devi solo perdere la fissa di guardare in basso. Tutto qui. -
- Lo so, però se non lo faccio non vedo il filo –, borbottò la bambina, gonfiando le guance.
- Non mi sembra di averti detto di farlo -, rammentò atona la più grande, pizzicandole il viso – Tu devi concentrarti, camminare come se sotto di te non ci fosse il vuoto e mantenere il controllo. –
- Sì, però so che c’è, come ci sono pure le anguille e quelle le ho pure sentite, tante volte! – Si ostinò la nipote, additando le bestiacce che nuotavano tranquille nella vasca – Le vedono e non mi piacciono! -
- Bè…Credo che a questo si possa rimediare. -
- Eh? – 

L’aveva fatto ancora. Perfino contro la sua più salda delle promesse, aveva ceduto all’ostinazione e sfidato sua nonna con quella linguaccia che si era già morsa parecchie volte per l’aver commesso lo stesso errore. Il ghigno furbesco che esibì Agatha Chevalier nel mentre trafficava con la tasca del lungo vestito nero non le piacque neanche un po’ e quasi rimpianse di non essere risalita immediatamente sulla fune per un nuovo tentativo. C’era da aspettarsi di tutto quando i ben oliati e lucidi meccanismi della mente subdola di sua nonna si azionavano, sapevano di avvertimento, e quando i suoi occhietti videro la mano della parente riemergere dalla tasca del vestito con un linda benda bianca, intuì di essersela inconsciamente cercata, percependo all’istante lo scorrere del tempo farsi molto più lento.
 
Se proprio non riesci a fare a meno di guardare, basterà che tu sia bendata e il gioco è fatto –, disse semplicemente l’Esorcista, annodandole il pezzo di stoffa attorno alla parte superiore del viso.
​- Cosa?!? Ma… - La reazione di quest’ultima non tardò ad arrivare - Ma a malapena arrivo a metà della fune senza benda, così non l’attraverserò mai! –
- Allora questa volta ti consiglio di concentrarti a dovere, altrimenti passerai il resto della giornata a farti abbrustolire dalle anguille. - 




Ahi, ahi! Che male… - 

La sera arrivò con lentezza esasperante, sporcando l’azzurro di un intenso blu inchiostro debolmente illuminato da minuscole stelle incolori.
Amèlie Chevalier gemette ancora una volta, sdraiata nel suo letto e con la coperta che le arrivava fin sotto il collo. Circondata dal buio della stanza, la sua testolina non riusciva a liberarsi del ricordo dell’ultimo allenamento, percependo tutti le fibre di ogni suo arto ridotte in polvere. Già riusciva a immaginarsi con fin troppo realismo le serpi affrontate nel pomeriggio pronte a infestare i suoi sogni insieme a tutte le altre diavolerie precedenti che ogni tanto la costringevano ad alzarsi in piena notte alla ricerca di un bicchiere d’acqua o qualcosa che le facesse tornare il sonno; a volte era veramente arduo non domandarsi se, anziché allenarla, sua nonna non stesse semplicemente verificando fino a che punto la sua tempra fosse decisa a tenerla lontana dalla morte, ma l’essere giunta a fine giornata con ancora la pelle attaccata al corpo non meritò altro che un grande e grato sospiro da parte delle sue labbra pallide. La morbidezza del materasso e il sollievo di non avere più indosso quell’aggeggio metallico la stavano indirizzando verso la lunga dormita che l’attendeva a braccia aperte. I tondi e luminosi occhi neri erano già chiusi, il respiro regolare si udiva a malapena e l’intero appartamento utilizzato da lei e dalla parente era completamente deserto.

Non erano mai state facili le sue giornate, soprattutto da quando era stata scoperta come compatibile dell’Innocence: alle già rigide lezioni di Etichetta, Bon-Ton e di altre materie dai nomi impronunciabili, si erano uniti allenamenti adeguati a prepararla al suo ruolo di Apostola: un paio di anguille assassine e un bustino di ferro erano solo due dei tanti espedienti inventati da sua nonna e non sarebbero stati di certo i più traumatici, di questo Amèlie ne era sicurissima.
Ma andava bene così, era giusto e lei gliela avrebbe fatta vedere, eccome. Qualunque altro lattante avrebbe supplicato pietà, elemosinato briciole di tregua e amnistie, ma Amèlie era una Chevalier esattamente come lo era Agatha; l’orgoglio corroborante più del magma fuso e la testardaggine adamantina che l’aiutava sempre a rialzarsi in piedi un giorno l’avrebbe aiutata a camminare con le sue sole gambe, a essere quel sogno, quell’ambizione di immenso potere per cui era disposta a dimostrare tutto il suo valore. A essere come lei.
 

- Non lo accetto! - 

La porta d’entrata batté rumorosamente contro la parete di pietra, rischiando di infrangersi in molteplici schegge legnose per la forza impressa. La bambina sobbalzò e spalancò all’istante gli occhi, voltando la testa: dalla serratura della porta della sua stanza era ben visibile un debole fascio di luce giallastra che terminava sul pavimento con forma vagamente circolare. Al di là di essa, una voce familiare che non si sarebbe aspettata di sentire così presto, premette sull’emozione che giaceva addormentata nel suo cuore.
 
E’ la mamma! – 

Era lei, senz’ombra di dubbio. L’avrebbe riconosciuta anche in mezzo a una folla assordante, la voce di sua madre non aveva eguali o segreti per lei, che ne era la figlia e dunque ne conosceva ogni timbro gentile, caldo, esprimente un amore di cui le era impossibile saziarsi. Fu proprio per quel minuscolo sapere intimo che la legava alla parente ad acuire la sorpresa successiva. Non c’era pacatezza in quel suono che era entrato con prepotenza nell’appartamento, nessuna traccia di calma o di fine e splendente dignità che ne ricordassero l’incantevole volto sorridente: solo disperazione e incredulità. Mai Amèlie aveva sentito sua madre tanto fuori di sé, così…Non lei, diversa da quella persona che amava con tutta l’anima. Pensò a un errore, a una svista, perché ragione e fede si rifiutarono immediatamente di immaginare sua madre con vesti tanto inadatte, ma l’udire la sua voce rotta e incontrollabile le diede la certezza di non essersi sbagliata.
 
Cerca di calmarti, Rosalie. Amèlie è di là che dorme –, sopraggiunse una voce più calma e ferma.
- Questa è la nonna! Che succede?  

A quel punto, la bambina non resistette più; scostando le coperte, poggiò i piedi nudi per terra, lasciando scivolare lungo le gambe la camicia da notte che con l’orlo arrivava quasi a sfiorare il pavimento. Avvicinandosi quatta quatta alla serratura, ci sbirciò dentro come già aveva fatto molte volte in passato.
Rosalie Chevalier era seduta alla sinistra del tavolo sistemato al centro della stanza, splendida come sempre, gli occhi fissi in avanti e le punte dei capelli a caschetto a solleticarle la pelle del viso, senza nascondere il neo posto all’angolo destro della bocca. Una beltà completamente diversa da nonna Agatha, che con il chignon a imprigionarle la lunga chioma color ebano, salvo due ciocche laterali, i lineamenti fini e lo sguardo fiero, dava mostra di un’indole molto più battagliera. Amèlie non poté fare a meno di sorridere: benché fosse una Finder, sua madre non viveva all’interno dell’Ordine Oscuro e le sue già pochissime visite duravano al massimo una settimana: gli affari della Rosa Nera richiedevano attenzioni e una discrezione che concedevano tutto fuorché straordinarie pause. Forse era venuta per farle una sorpresa, chissà, ma qualunque fosse la ragione specifica, la bambina dovette tapparsi la bocca per evitare di farsi scoprire.
Lo sguardo di sua madre era preoccupato, le mani strette in grembo parevano voler bloccare un’ansia incalzante, ma non era nulla in confronto a quello di sua nonna: un’autentica maschera di rabbia e di indignazione trattenute a stento aveva cacciato via qualunque altra possibile espressione dalla forza più blanda. Era segnale che da lì a poco avrebbe sbattuto malamente in un angolo le buone maniere per lasciare il posto a una belva incapace di guardare in faccia nessuno, insensibile a ogni supplica. Unico freno a impedirle tale trasformazione, era l’affannata implacabilità emotiva della figlia.
 
Calmarmi? Mamma, c’eri anche tu con me! Come pretendi che riesca a calmarmi dopo quello che ho sentito?! – Le domandò quest’ultima – Quell’uomo mi ha parlato come se non fossi al corrente dell’attuale situazione, delle necessità di tutto questo, eppure lo ha visto con i suoi stessi occhi che con simili risultati non si può andare avanti! Dovrebbe importargli… –
- Di cosa? – Le domandò la maggiore, impalandola con un’occhiata schietta – Della vita degli Esorcisti? Del loro bene? Rosalie, non essere ridicola: sai come funzionano le cose qui dentro e a nessuno interessa il nostro benessere: per il Supervisore Baker, per quella schiera di scienziati che manco sanno fare il loro dovere e per quegli stupidi clericali che ancora credono che questo mondo abbia qualche speranza di sopravvivenza, la sola cosa che conta è vincere la guerra contro il Conte del Millennio a qualsiasi costo. -
- Questo non li legittima a trattarvi come carne da macello e a fare lo stesso con altre persone! – Scattò l’altra, alzandosi in piedi. Mancò poco che la sedia cadesse a terra – So molto bene che il Supervisore Baker sta cercando di ottenere il consenso per una serie di esperimenti volti ad appurare le sue teorie riguardo l’Innocence e so altrettanto bene che gli Esorcisti sono pochi e che il Conte del Millennio è un nemico potente, ma non sono disposta ad accettare che tu e mia figlia veniate mandate sul campo di battaglia con la stupida convinzione che siete state scelte per combattere e morire in nome di Dio! – Strepitò quelle parole rimaste troppo a lungo sotto forma di pensieri tormentosi con l’anima grondante di disperazione – Amèlie…Lei non ha nemmeno sei anni… -, riprese più flebilmente, accasciandosi sulla sedia - E quell’uomo pretende di mandarla in missione come se nulla fosse e tu… -
- Io sono grande e vaccinata, Rosalie: la mia situazione è molto diversa -, la liquidò pacata Agatha, afferrando dal fondo di un armadietto di legno una bottiglia di liquore color ocra.
- No che non lo è! Non provare a mentirmi! – Tornò imperiosa la figlia. Mai come in quel momento, Rosalie Chevalier aveva alzato tanto la voce – Credi che non me ne sia accorta? – Incalzò poi - Credi che non sappia che tipo di Innocence sia la pietra che è incastonata nel tuo torace? Credi che sia così sciocca da non sapere che il tuo corpo non riesce più ad assorbirne completamente l’effetto?!? - 

Seguì un silenzio tombale, scandito dal respiro accelerato e affannato della Finder.
Nel buio della sua cameretta, Amèlie represse i sussulti del suo corpo ritirando le labbra all’interno della bocca, socchiudendo gli occhi e infine stringendo la testa fra le spalle, impietrita da quell’atmosfera pesante e acuminata. Che cosa significava che la nonna non riusciva ad assorbire l’effetto dell’Innocence? Era per quello che a volte le sembrava tanto stanca da non reggersi in piedi?
I battiti del suo cuore risuonavano nella minuta cassa toracica con pazzia incontrollabile, tanto che dovette affondare le dita affusolate nella stoffa della camicia da notte per evitare di afferrare il pomello della porta e aprirla.
 

- Ho letto i rapporti dell’ultimo mese e i referti medici: hai partecipato quasi al doppio delle missioni affidateti e i tuoi parametri sono completamente sballati. – La voce di sua madre ruppe la tensione creatasi con ritrovata debolezza, tastante il terreno sopra cui cercava di camminare senza finircene inghiottita. – Posso capire che siamo in un momento delicato, ma quello che mi chiedo è se tu non stia cercando di… - Non riuscì a finire la frase: le parole le morirono in gola.
- Di fare cosa, Rosalie? – Agatha la inchiodò con i suoi occhi neri al tavolo, impedendole di fuggire – Finisci quello che stavi per dire. – 

La giovane donna incespicò, le labbra dischiuse, ma permeate dall’insicurezza che le impediva di giungere a quel punto critico da cui non ci sarebbe più stato ritorno. Chinò la testa, ciondolante: era troppo doloroso per essere esternato con bruta crudità o soffocato nuovamente a discapito di quella poca indennità che ancora proteggeva il suo animo.
 

- Mamma… -  
- Dillo, Rosalie -, le ordinò questa perentoria – Dillo. -
- …Stai forse cercando di suicidarti? – 

Di nuovo silenzio.
La piccola lampadina appesa al soffitto della stanza perse un po’ della sua intensità, producendo un lieve brusio che si disperse come aria calda in mezzo a una tempesta. Le orecchie di Amèlie fischiavano insistentemente, in piena concorrenza con quel suo cuoricino imbizzarrito che le stava facendo girare sempre di più la testa. Della sorpresa provata nel rivedere la mamma dopo tanto tempo non era rimasto neppure un grammo: le parole che l’avevano svegliata, da prima incomprensibili, ora apparivano con luce addirittura troppo abbagliante per una bambina che avrebbe dovuto essere circondata solo da cose belle e rassicuranti.  
Non avrebbe dovuto capire, ma ci era comunque riuscita. Qualcosa le era balzato all’occhio già da tempo, piccoli segnali sospettosi dalla natura misteriosa, che aveva scorto un po’ a caso e un po’ per personale curiosità. I lunghi capelli neri della nonna, ad esempio: a volte da quella liscia distesa color corvo emergevano chiazze d’opacità e fili ingrigiti che ricadevano morti fra le ciocche più in vista. Il viso ovale e giovanile aveva cominciato a perdere elasticità in alcuni suoi angoli, inspessendo gli zigomi e incavandole appena le guance. Lo aveva sempre saputo che sua nonna non era come le altre persone chiamate con tale nome: vecchia, con le ossa sporgenti e tanto fragile da cadere a terra con un semplice respiro di vento. Era una donna giovane, forte, fiera e dallo sguardo irriverente.
 
Tutto ciò che Amèlie era già e desiderava essere.
 
Eppure adesso…
Le persone invecchiavano, era un’ineluttabilità della vita, ma che nel decadimento precoce di sua nonna vi fosse addirittura lo zampino del suo stesso potere…Le sembrava assurdo. Tutte quelle missioni…Tutte le volte che aveva dovuto allenarsi da sola, aspettare alla finestra di vederla arrivare. Davvero sua nonna stava…?
 

- Se anche fosse, e non sto dicendo che lo sia, pensi forse che lo stia facendo solo perché me lo ordina quell’imbecille senza cervello? – Domandò questa, riferendosi al Supervisore Baker.
- No, ma… -, tentò la figlia.
- Tu sei una semplice Finder. Brava, ma solo un Finder -, la rimproverò duramente l’altra - E una madre che spesso si lascia travolgere dalle proprie emozioni e dalla sua stessa impotenza che le impediscono di accettare la realtà che circonda lei e sua figlia -, continuò – Eppure, solo per questo, dovresti aver compreso le mie intenzioni meglio di chiunque altro. - 

Era nell’indole di Agatha Chevalier essere critica e severa quando le persone a lei care o i conoscenti tendevano a fuggire dall’evidenza e a soffocare delle consapevolezze troppo difficili da accettare e gestire. Sua figlia Rosalie era la prima fra tutte, l’unica. Non era mai stata come lei, autoritaria o inflessibile, niente di quanto le apparteneva si era mai riflesso nel carattere della figlia, mite, accondiscendente e con un viso che esprimeva tutto l’amore per chi le era a cuore. Una persona colma di sentimenti e di ingenuità che spesso sembravano sconfinare dalla ragione, di quelle che non perdono mai il sorriso e sanno sempre trovare il lato positivo delle cose.
 
A vederla così angosciata nessuno sarebbe stato in grado di vederne la grande nobiltà d’animo.
 
Agatha poteva, ci riusciva così bene che non le occorrevano certo delle futili motivazioni per sorreggere l’impietosa compostezza. Tutto dipartiva da lei, dal suo ingresso nell’Ordine Oscuro come compatibile, da quei giorni che a volte  scivolavano via come acqua sulla pelle e altre pregavano il tempo affinché andasse più veloce. Il mondo sfarzoso e pieno di balocchi a cui era appartenuta per i primi anni della sua vita era stato sostituito da uno più crudo e tetro, così veritiero e al tempo stesso falso da farle scoprire quanto la natura dell’uomo potesse osare per un determinato scopo. La Guerra Santa contro il Conte del Millennio legittimava azioni e voleri che si intrecciavano senza dar peso alle conseguenze, in nome di una parola sopra cui lei aveva sempre speso una risata per come veniva infarcita di ridicole bastardate che solo uomini smaniosi di potere potevano inventare.
 

- Stai insinuando che non capisco? – Domandò Rosalie. 

La madre le schioccò uno sguardo sottile fugace. Poi, senza neppure versare il whisky nel piccolo bicchierino, prese il collo della bottiglia e ne bevve un lungo sorso a canna, lasciando che il liquido freddo le scendesse in gola e la infiammasse con quel suo retrogusto amaro e bollente.
 
 - 
No. Sto semplicemente dicendo che se non riesci a capire, devi solo accettare -, proseguì la più grande, dopo un profondo sospiro – Chiederti perché proprio tua figlia sia stata scelta dall’Innocence non servirà certo a cambiare quant’è accaduto e a volte è più facile farsi trascinare dagli eventi che combatterli. – 

Parlava con voce udibile e consapevole, riuscendo a trasmettere quanto si annidava nel suo animo perfino ad Amèlie, ancora ancorata al pomello della porta e con l’occhio fisso sul quella parte di stanza che intravvedeva dalla serratura. Nello scorgere le dita fini e lunghe di sua nonna sfiorare quel determinato punto del suo torace, coperto da un pesante scialle, quella notte riaffiorò nella sua memoria automaticamente. Non ricordava come fosse successo, cosa l’avesse spinta ad aprire gli occhi e ad alzarsi, ma la mattina successiva si era svegliata da Hebraska, sulla rampa più alta della sala che la ospitava e con uno dei cubetti di Innocence trasformato nelle sue mani. Il Supervisore Baker era sopraggiunto giusto un quarto d’ora dopo, guardandola compiaciutamente e portandola nel suo ufficio, in attesa che sua nonna e sua madre arrivassero. Ancora adesso ricordava quell’episodio in ogni sua più insignificante o saliente particolarità, ma la voce della nonna la riportò alla realtà prima che potesse evocarne anche solo una, esortandola ad accostarsi ancor di più alla porta per meglio sentirla.
 

- Lei è come me, Rosalie, forse addirittura peggio: l’ho capito fin dal primo momento che l’ho presa in braccio -, mormorò quella, con gli occhi neri velati da una patina opaca frutto del whisky ingerito – Amèlie è una bambina dall’immenso potenziale, con una mente sveglia e ribelle, ma pur sempre una bambina, non un’Esorcista già bella che fatta. Baker parla di missioni, sacrificio, Fede, ma sono solo stronzate: solo perché si è scelti da Dio non significa che si debba morire per lui ora e subito. –
- Ma è quello che stai facendo tu -, la colpì nel vivo la figlia.
- Ti ho già detto che la mia situazione è diversa -, le ripeté Agatha stizzita – E che se non capisci, devi solo accettare, perché è l’unica cosa che anch’io posso fare! - 

Amèlie vide la propria mamma farsi incerta, insicura a parlare. La durezza che traspariva dalla voce della nonna era riuscita a frenare il suo impeto con un solo sguardo.
In realtà, Rosalie Chevalier aveva perfettamente capito cosa sua madre stesse cercando di trasmetterle, era di una chiarezza così cristallina che quasi l’abbagliava. Semplicemente, non riusciva ancora ad accettarla del tutto per via di quella mole emotiva che la rendeva sensibile e facile alla resa.
Agatha Chevalier si concesse un nuovo sospiro, guardando quel che rimaneva del liquore oscillare pigramente all’interno della bottiglia, per poi ingurgitarlo in un solo colpo. Con il carattere che si ritrovava, dava l’impressione che un salotto ben arredato ed elegante in ogni sua particolarità non sarebbe mai stato il suo ambiente naturale, ma a dispetto di quanto le apparenze davano a vedere, nel passato dell’Esorcista quel mondo scintillante e superficiale dove le preoccupazioni odierne non interessavano a nessuno era esistito eccome. Il rumore dei tacchi che risuonavano fra le mura dell’Ordine Oscuro apparteneva a una figura slanciata, dalla tempra d’acciaio e dallo sguardo d’onice inflessibile, che accettava le sfide e le vinceva solo per dimostrare la propria forza di volontà.
 

- Io amo quella piccina alla follia, Rosalie, lo sai bene, e mai avrei voluto che venisse scelta -, riprese l’Esorcista – Ma è successo e non possiamo farci niente, tanto meno fuggire o rimandare l’inevitabile. Ho bene a mente l’attuale situazione, ma di quello che vogliono o pensano quei rincoglioniti ai piani superiori non me ne frega un bel niente. Quello che voglio dare a mia nipote è una possibilità –, rivelò, nonostante il peso dell’alcol cominciasse a sortire un certo effetto sul suo equilibrio – Non saremo sempre qui per lei e fare di quest’incarico l’unica ragione di vita la distruggerebbe ancor prima di scendere in battaglia. E’ forte, caparbia, ma deve esserlo ancora di più, perché se c’è una cosa che non si ottiene facilmente in quest’orrido mondo è la Felicità. Sono pronta a giocarmi la vita sul fatto che quella piccola peste riuscirà a superarmi e a ottenere tutto quello che le passerà per la testa, ma quell’arrogante stronzetto figlio di cagna che guida questa baracca dovrà passare sopra la mia salma prima di mettere le mani addosso ad Amèlie. – 




Note di fine capitolo:
1*: Oh, signore…Che fatica.
2*: Chiedo scusa, Nobile Nonna.
3*: Ma mio piccolo e ingenuo tesoro.
4*: Stupidi animali!
5*: Concentrati!
E sono tornata! Capitolo lunghetto e sudato, ma non ho potuto proprio farne a meno! E’ passato un bel po’, ma non perché non volessi certo aggiornare. Purtroppo questo per me è periodo di esami e il tempo per rilassarmi lo passo a fare tutt’altro che a scrivere, se non c’è ispirazione, ma tranquilli: Hell’s Road proseguirà. Coi capitoli sono parecchio avanti, è la revisione e le aggiunte che mi impegnano di più. Volevo aggiornare giusto perché avevo promesso di pstare qualcosa a Gennaio ^^. Ma arriviamo ad Amèlie e al suo passato: Allen non è stato il solo ad averne passate di tutti i colori, pure Amèlie ha dovuto darsi da fare per non lasciarci la pelle e spero più avanti di poter aggiungere qualche sclero che faccia uscire la pazzia di questa mia bella esorcista. Sì, la nonnina l’ha massacrata per bene ma una donna con tutti gli attribuiti deve pur avere imparato da qualcuno, generale impossibile a parte. Con la viva speranza che non ci siano errori (si spera sempre, poi…) vi auguro un buon anno ancora una volta e ringrazio tutti i miei lettori e recensori per seguirmi, siete dei tesori! Allego qui sotto i disegni di Agatha e Rosalie, per chi volesse vederli:
 
Agatha Chevalier: http://ciril09.deviantart.com/gallery/46131084#/art/Agatha-Chevalier-404893997?_sid=6cffc046
Rosalie Chevalier: http://ciril09.deviantart.com/gallery/46131084#/art/Rosalie-Chevalier-407805166?_sid=50d12536
 
Alla prossima!

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Capitolo 13
*** Stand in the rain/ Past two. ***




L’odore di disinfettante del Reparto Infermieristico era di una leggerezza penetrante tipica dei luoghi sterilizzati, con una fragranza pungente sulla punta. L’intera ala dedita alle cure mediche era situata in un punto isolato dal resto dell’intero castello, quasi strategico, simile a un largo corridoio con entrambi ai lati tutta una serie di porte bianche e numerate, vantanti stanze e sale operatorie grandi quanto i laboratori della Sezione Scientifica.
Quando Amèlie spalancò la grande porta di legno massiccio che separava il corridoio buio dall’area medica, vi si gettò dentro con passo spedito e fiato corto. Era quasi mezzanotte e lei era appena rientrata dalla sua dodicesima missione; la divisa scura, fradicia e appiccicaticcia, aderiva alla sua pelle fredda assieme ai lunghi capelli neri, appesantiti dall’acqua. L’eco dell’acquazzone scoppiato all’improvviso picchiettava contro le mura di pietra esterne e le finestre, rimbombando sordamente nelle aree più nascoste come fosse un piacevole sottofondo musicale. La piccola Chevalier ci era finita sotto proprio pochi attimi prima di varcare la soglia dell’Ordine Oscuro, ritrovandosi così con la gonna, le calze e le scarpe completamente zuppe, ma anziché strizzare gli abiti e andarsi a mettere qualcosa di asciutto, aveva continuato a correre verso l’ala lasciando dietro di sé una scia d’acqua piuttosto evidente.
 
Neppure il tonfo di un’infermiera e il fracasso prodotto dal vassoio che stava portando la strappò da quella fretta che l’aveva fatta marciare a passo spedito fino a quel momento.
 
Mai come in quel periodo traballante le sue visite al Reparto Infermieristico si erano fatte così assidue. Non aveva più segreti per lei, special modo l’ultima area; Terapia Intensiva era un reparto dentro al reparto, la zona che teneva alla larga chiunque con un grosso cartello rosso vietante l’ingresso ai non autorizzati. Nessun apprendista o medico specializzato poteva metterci piede senza il consenso della responsabile, ma come aveva fatto per il portone d’entrata, Amèlie valicò quella soglia proibita con irruenza coraggiosa. Quel permesso che la Capo-infermiera non avrebbe concesso neppure al più illustre dei dottori, lei lo aveva ottenuto dopo un paio di settimane passate davanti alla porta con risoluta cocciutaggine. La strada le si era aperta quasi per magia, sprofondando immediatamente in un gelo lungo e stretto più opprimente di un buco senz’aria, la cui immagine ancora le procurava una sgradevole sensazione al collo. 
Proseguì per circa una quindicina di metri prima di distinguere la delicata e turbata figura di sua madre Rosalie stringersi le braccia in un vano tentativo di contenere la propria rassegnazione, con la testa leggermente abbassata e il grazioso caschetto corvino a solleticarle le guance. La croce d’argento attaccata al rosario composto di perle scarlatte e argentate ondeggiava oltre il suo torace con movimenti appena accentuati. Da quand’erano cominciati i problemi, sua madre aveva prolungato la propria permanenza all’Ordine Oscuro vivendo esclusivamente di dosi abbondanti di caffè pur di passare le notti in bianco, così come lei aveva diviso la sua vita fra missioni, allenamenti e interminabili ore di silenziosa attesa. Anche solo dieci minuti con le mani strette alle sue erano sufficienti perché la lontananza provata venisse scacciata dall’indissolubilità del loro legame. 
Diminuendo la falcata dei suoi passi e con i polmoni a bruciarle in petto, la bambina colse anche la presenza della Capo-infermiera, con la divisa grigia e il grembiule bianco ben stirato indosso, tenuto su da un fiocco stretto dietro la schiena. Si fermò ansimante, stringendo l’apertura della giacca convulsivamente, l’orecchio attento al mormorio delle parole che uscivano dalle loro labbra, puntando lo sguardo su ciò che stava aldilà di entrambe.
 
Amèlie. – Giratasi, sua madre la chiamò, in un debole misto di sorpresa e inestinguibile calore che sempre la rasserenava – Sei arrivata. –
- Ciao, mamma. - 

Non fu sorpresa di vederla lì, davanti a quella porta. Sciupata dalla stanchezza, ogni suo movimento o gesto esprimevano un andare avanti ridotto quasi alla semplice inerzia, vago residuo delle forze consumate e conservate per un ultimo impegno che Amèlie lesse semplicemente osservandone le morbide e sorridenti labbra screpolate. Ci era già entrata, aveva già fatto quello che doveva fare. Il lasciare andare una parte di lei così importante senza che potesse fare più di quanto le fosse stato concesso aveva tentato di martoriarla con dilanianti e interminabili sofferenze sin dal principio, ma Rosalie non se ne era lasciata sopraffare, non più del necessario: era sempre stata un libro aperto ai suoi occhi, buona come solo una figlia poteva considerare e di forza estranea a quelle conosciute, salda interiormente e non mancante di enigmaticità.
 
Mamma… -
- Va tutto bene, tesoro mio -, la rassicurò, accarezzandole la testa bagnata. La frangia non nascose le ciglia bagnate e la pelle arrossata sotto gli occhi - La nonna ti sta aspettando. - 




Un flebile turbinio di Bip elettrici si ripeteva a cadenza regolare nella stanza numero 104 di Terapia Intensiva. Strane macchine metalliche coprivano i muri spogli e lampeggiavano a intermittenza, spiccando nella lieve penombra dove cavi di vario spessore attraversavano il pavimento di pietra liscia e confluivano sotto un enorme tenda di plastica opaca.
 

- Ce l’ho fatta –, fu il primo pensiero di Amèlie, una volta varcata la soglia. 

Ansimava ancora, come un piccolo uccellino intrappolato in una qualche rete e con l’orlo degli abiti a gocciolare. Era entrata molte volte in quella stanza, abbastanza da perderne il conto, ma mai aveva percepito l’atmosfera circostante tanto angosciante, palpabile quel quanto bastava da indurla a pensare che questa potesse assumere una forma propria da sondare in ogni sua bitorzoluta consistenza. Il silenzio regolarmente interrotto dai segnali artificiali si espandeva ovunque, avvolgeva ogni angolo, ogni fessura, inglobando i microscopici granelli di polvere visibili soltanto alla luce del sole.
Monotono. Ecco quale era la perfetta definizione per un quadro tanto spoglio e rigido.
Ma stavolta qualcosa sarebbe cambiato: Amèlie ne era fin troppo cosciente. Liberatasi da quella temporanea dispersione mentale - non appena ebbe udito il debole smorzare del respiratore artificiale pompare ossigeno e rigonfiarsi prima della successiva emissione -, strinse i pugni e, calcando bene i suoi passi, si avvicinò alla tenda plastificata, scostandola con la mano e sparendo al suo interno.
 
Noble Grand-mère, sono io: Amèlie -, si annunciò poi spontaneamente, attendendo cinque secondi esatti prima di avvicinarsi. 

Il letto a baldacchino nascosto dietro il telo contava due materassi e solo per questo Amèlie ogni volta doveva arrampicarvisi sopra con un piccolo salto. A nulla sarebbe servito uno sgabello per poterla agevolare, nessun’altra questione o sciocchezza avrebbe avuto più importanza di sua nonna.
Agatha Chevalier era da sempre stato il suo modello da seguire, la sua ispirazione segreta e ultima meta da superare. Esorcista ineguagliabile e fondatrice della Rosa Nera - copertura che sua madre gestiva tutt’ora e che un giorno avrebbe ereditato lei -, era odiata da molti, amata da un ristretto manipolo e con una discutibile opinione sull’importanza della vita umana; le seconde possibilità andavano a chi dava prova di meritarle, non ad anime irriducibilmente insozzate di avida corruzione o manie di grandezza. Non era mai stato un segreto che quella donna tanto fredda e imperiosa non solesse sprecare tempo ed energie per persone inutili; il già sapere di essere stata chiamata a proteggere un mondo abitato per la maggior parte da feccia assuefatta da desideri narcisistici le faceva venire solo voglia di guardare il vuoto sottostante l’Ordine Oscuro e pregare che nessun’altro venisse a servire la loro causa. Era risoluta, fiera, impietosa, pronta a decisioni che un semplice cuore affetto da acuto sentimentalismo non poteva prendere, ma anche capace di un amore in cui lei stessa credeva, semplice come doveva essere. Il genere di persona ingestibile di cui non si poteva fare a meno. Tutto ciò che Amèlie aveva silenziosamente osservato e aspirato a essere sin da quando aveva compreso i reciproci ruoli per cui entrambe erano state scelte. Ricordava perfettamente la prima volta che l’aveva vista varcare la soglia della Home, dopo aver completato una missione durata all’incirca due settimane: passo deciso, testa alta e sguardo colmo di profonda imperscrutabilità. Sempre composta, di una bellezza inscalfibile, sua nonna lasciava dietro di sé silenzi contemplativi che non osavano mai concretizzarsi in qualcos’altro; aveva sempre saputo come farsi rispettare e detestare, in ogni occasione e con tutti i mezzi di cui era dotata. L’esistenza di lei stessa all’interno dell’Ordine Oscuro partiva proprio dall’ombra di quella donna imbattibile che riusciva ancora a vedere e a sentire viva, seppur l’aspetto attuale non richiamasse quasi più nulla dell’immagine scolpita nella sua memoria.
 
Salve, Noble Grand-mère. – Salita e sedutasi suoi talloni, la piccola salutò la parente. Attese un’altra manciata di secondi uno, il tempo perché questa raccogliesse quel grammo di forza necessario a far vibrare le sue corde vocali.
 - 
Amèlie…Sei tornata… - La voce di Agatha Chevalier fu quanto di più simile a un respiro rauco fuoriuscito male dalle sue labbra screpolate. 

Un paio di Bip elettrici fecero singhiozzare il monitor scuro, scandendo il lento andamento del battito cardiaco appartenente al mucchietto d’ossa e carne sottile dall’irrilevante peso. Del nero profondo dei suoi occhi non era rimasto altro che un misero residuo grigio scuro evanescente, pezzato di sfumature biancastre sempre più invadenti. Per qualunque altro essere umano sarebbe stato pressoché impossibile riconoscere in quella minuscola figura dai lunghi capelli bianchi la slanciata Esorcista francese che combatteva gli Akuma esattamente come tutti gli altri prescelti, ma l’Innocence non era una croce il cui peso potesse essere facilmente nascosto: era una lama a doppio taglio per chiunque se ne legasse, soprattutto per il tipo parassita.
 
Sei bagnata fradicia… -, notò lei.
- E’ colpa dell’acquazzone, fuori ha cominciato a piovere -, rispose la bambina. L’eco dell’acqua era appena percettibile, un suono paragonabile a tantissimi e minuscoli colpetti che si ripetevano a velocità costante.
- Ah… - Agatha sospirò pesantemente, rilassando il corpo sprofondato nella morbidezza del letto - Dimmi…E’ andato…Tutto bene? – 

La corvina annuì immediatamente con piccolo sorriso a illuminarle le labbra rosee, per poi armeggiare con l’interno della casacca. Le mani tremavano più per l’eccitazione che per il gelo assorbito.
 
Guardi, ci sono riuscita: ne ho recuperata una. – Tese le mani in avanti, unite a coppa attorno al minuscolo oggetto, deponendolo delicatamente in quelle della parente. 

L’avevo tenuto stretto a sé per tutto il viaggio, rigirandolo fra le sue dita e saggiandone le spigolosità degli angoli assieme alla straordinaria superficie priva di qualsiasi imperfezione o striatura; una ricompensa inaspettata, sicché le informazioni pertinenti alla missione erano state messe insieme da fonti non del tutto attendibili. Il minuscolo cubetto nero dal bagliore smeraldino brillò vivacemente nelle mani ossute di Agatha Chevalier, accerchiato da due ingranaggi incrociati che ruotavano in sincronia senza mai sfiorarsi. Il tepore che sprigionava a contatto con la sua pelle sembrava quasi umano.
 
Un frammento…Di Innocence. -
- Volevo che fosse la prima a vederla -, le rivelò la nipote – Mi hanno mandato in Turchia a cercarla, da sola. –
Per un attimo, parve che il viso profondamente deturpato e solcato di rughe dell’anziana si fosse irrigidito – Da sola? –
Amèlie annui ancora, un po’ più titubante di prima, ma senza mai interrompere il contatto visivo – L’ho chiesto io. -
 
Era fin troppo cosciente di aver compiuto un azzardo bello e buono, considerati i suoi soli sette anni di vita. Undici missioni erano relativamente poche perché la si mandasse in campo senza nessuno a sostenerla e sua nonna era sempre stata contraria a ciò, ma al dì fuori dei tempi duri e della crisi che il Supervisore Baker cercava di celare con splendidi rapporti e spedizioni compiute senza alcuno sforzo, la corvina aveva perseverato unicamente per arrivare lì, in tempo. Perché di quello oramai non ce ne era più, consumato e perso in giorni che divenivano polvere al solo provare ad afferrarli; a nascondere l’evidenza si ricavava sempre ben poco e considerato il suo ruolo, anche uno scricciolo come lei, che avrebbe dovuto vivere di balocchi e sorrisi, aveva imparato quanto duri, spietati e crudeli potessero essere i perversi meccanismi che muovevano il mondo e le persone che lo abitavano.  
 
Capisco… - Agatha tornò a farsi sentire dopo quello che sembrò un interminabile istante. Il cubetto di Innocence giaceva ancora immobile fra le sue mani.
- Non…Siete arrabbiata? – Azzardò Amèlie.
- No…Arrivati a questo punto, sarebbe inutile… -, le disse semplicemente – Io e te…Siamo fatte della stessa pasta, dello stesso sangue…Avresti varcato la porta della Home con o senza la mia approvazione…Ugh! - Il viso invecchiato a velocità spaventosa si contrasse in una smorfia dolorosa, tirando la pelle spiegazzata e rovinata da macchie scure.
- Nonna?! – Un brivido calcò sulle spalle della bambina spingendola a chinarsi bruscamente in avanti. 

Non era raro che il corpo dell’Esorcista fosse preda di piccoli spasmi o colpi di tosse che le rendessero difficoltoso il respiro già ridotto a una vulnerabilità che ben si accompagnava all’infermità d’ogni singolo arto, ma prima di reagire come aveva imparato a fare, il cuore della piccina perse comunque dei battiti per lo spavento. Con un agile balzo scese dal letto, scostò la grande tenda di plastica e corse a riempire un bicchiere con l’acqua della brocca appoggiata sul grande cassettone messo in fondo, ricordandosi all’ultimo di prendere anche una salvietta in caso d’emergenza. Non c’era cassetto o armadio di quella stanza di cui non ne conoscesse il contenuto.
 
Ecco, nonna, tieni. – Neppure si era accorta di aver messo da parte il “Voi”.

Passando un mano sotto la fragile nuca della parente, la sollevò quanto bastava perché riuscisse a farla bere senza troppa fatica. 
Era come sorreggere della carta bagnata, bulbosa in alcune sue già morbide e spaventose parti; la sottigliezza di quella distesa bianca e filamentosa che scivolava sul cuscino celava con scarsità la riluttante sensazione tattile. L’Innocence non era una forza che si potesse imbrigliare completamente e il possederne un tipo parassita pesava molto più che il maneggiarne una di tipo equipaggiamento: quella di sua nonna, rientrando nella prima categoria, vantava sì un potere di inimitabile prodigio, ma di uguale infamia. Una gemma dai tratti ovali capace di creare barriere, sfere di pura energia, curare i feriti in battaglia e tanto altro ancora. Tutto a discapito della salute di chi la padroneggiava. Risucchiava l’energia vitale con una velocità doppia rispetto a un comune tipo parassita, ecco come funzionava. Agatha Chevalier aveva sempre attinto a tutta la sua forza e a tutta la sua resistenza per non crollare nel momento del bisogno, ma a lungo andare gli effetti collaterali della pietra divina avevano iniziato a pesarle seriamente: più la utilizzava, più linfa vitale questa si prendeva, dilungando i tempi di ripresa e incidendo gravemente sul numero di cellule a sua disposizione per eventuali rigenerazioni. Alla fine il suo corpo non era più stato in grado di smaltire completamente le continue evocazioni, tanto da invecchiare precocemente e rinsecchirsi. Senza neanche aver raggiunto la soglia dei quarantacinque anni, la più grande delle tre Chevalier ora assomigliava a una novantenne prossima al sonno eterno, costretta fra quelle quattro mura dove Amèlie ne aveva gradualmente appreso la sorte.
 
Temo che non ci siamo molto da fare. – L’espressione tetra della Capo-infermiera non tradiva il sincero rammarico per quanto stava riferendo – E’ questione di poco prima che il suo fisico ceda definitivamente: tutte le funzioni vitali sono compromesse e il sistema immunitario è praticamente distrutto. Qualunque terapia sarebbe inutile. –
- Mi dica…Soffrirà? – La domanda di sua madre, pronunciata con una forza d’animo che combatteva ad armi pari col suo stesso dolore.
La donna scosse la testa in segno di negazione – Ogni organo vitale, vasi sanguigni e cuore compreso, sono collegati all’Innocence incastonata nel suo petto. La luce emessa ne indica l’attuale stato di salute: man mano che i bagliori diminuiranno, anche i battiti del suo cuore rallenteranno, fino all’arresto totale. Per lei sarà come addormentarsi, non sentirà nulla.  -
 
Neppure ricordava quante volte avesse rivissuto nella sua mente quella minuscola conversazione, quanta fosse l’ansia che cercava di schiacciare ogni suo minuto tentativo di non cedere alla paura; ci conviveva a fianco resistendo alla tentazione di guardarla in faccia o cedendo stupidamente alle sue insidie. Lo sguardo calò inconsapevolmente sui piccoli tubicini di plastica trasparente attaccati al torace ossuto e semiscoperto di sua nonna. L’Innocence era lì, incastonata poco al dì sopra dell’incavo fra i due seni, con le sembianze di un’elaborata pietra smeraldina che si riflesse con blando luccichio nelle sue iridi nere, circondata da una corona di vene bluastre sporgenti e diramanti da sotto la veste bianca che copriva il resto del corpo.
Mandò giù in gola un groppo amaro a quella vista: si era inspessita ancora, gonfiandosi e allargando le ramificazioni in cerca di altra energia da succhiare. Non c’era modo di tornare indietro per sua nonna, di credere che tutto si sarebbe sistemato; l’aver ottenuto accesso alla stanza numero 104 aveva esagito come prezzo qualcosa che una bambina di sette anni come Amèlie non avrebbe mai dovuto affrontare, una realtà dei fatti così schiacciante da permettere a ogni genere di sentimento di prenderla e inghiottirla nel più oscuro dei baratri, di riempirla e poi svuotarla fino a ottenerne il controllo totale. La sentiva incalzare, la voglia di piangere che teneva in scacco il minuscolo muscolo cardiaco con artigli tanto appuntiti da farlo sanguinare, a stento si tratteneva dal mordersi le labbra o torturarsi le mani, ma per nessuna ragione valida al mondo avrebbe desiderato essere in un altro posto.
 
Va meglio, nonna? – Domandò flebile lei, riappoggiando la testa della parente sul cuscino. 

La donna non rispose.
 

- Nonna…? – Respirava, lo vedeva, seppur il movimento fosse occultato dalle coperte. 
- Amèlie… –, la chiamò poi la più grande.
- S-Sono qui, ditemi –, scattò sull’attenti lei. Era tornata a darle del “Voi”.
La vide incespicare con la lingua, respirando con frammentarietà – Sei spaventata, vero? -
 
Mancò poco perché si facesse scappare un gemito acuto. Amèlie strinse le labbra fra i denti, arricciandole all’interno della bocca fino a quando non ebbe inspirato col naso tutta l’aria che i suoi polmoni potevano contenere. Un altro sforzo per reprimere il pizzicore bruciacchiante che solleticava i suoi occhi e le corde vocali già pronti a tradirla. Non poteva farcela, non così, non davanti a lei. A cosa era servito prendere atto di un simile strazio se poi non vi si riusciva a far fronte? Il colpo che aveva pensato di poter incassare stava esplodendo in tutta la sua essenza distruttiva, scaturita dal suo stesso cuore piangente dolore che pompava sangue a ritmo incontrollabile.
Era ancora una bambina, dopotutto. Inesperta, fragile e tremendamente bisognosa di aggrapparsi al solo affetto a lei conosciuto, capace di amarla incondizionatamente e di accettarla senza riserve per com’era. Solo per quel desiderio assillante affondò il viso congestionato dal freddo nell’incavo della spalla della nonna, accoccolandosi a lei in cerca dell’unico calore che l’Innocence non poteva rubare.
 
Bastò una carezza per farla cominciare a singhiozzare sommessamente.
 

- Va tutto bene, mon petit lutin*. Va tutto bene -, la rassicurò sorridente la più grande, continuando ad accarezzarle la testa - Non devi essere triste, ne spaventarti…E’ solo un altro inizio…Su una strada diversa. Non è un addio. –
- …Non voglio che tu vada via –, pigolò Amèlie con voce rotta. Tirò su col naso, ma senza muovere la testa da dove l’aveva nascosta – N-Non sono pronta…Io… -
- Lo sei… -, le sussurrò ancora la parente – Lo vedo… - 

Al battere le palpebre, scie trasparenti di lacrime salate solcarono le guance arrossate della bambina, mandando in frantumi la maschera di nivea porcellana indossata fino a quel momento. Il desiderio di dirle quanto bene le volesse, quanto ancora desiderava imparare, che si sarebbe presa cura della mamma, a ciò che avrebbe dovuto sobbarcarsi senza che ci fosse lei a indirizzarla come aveva sempre fatto, rimasero incastrati da qualche parte, sostituiti di punto in bianco dal semplice voler stare lì con l’unica persona per cui avrebbe voluto essere motivo d’orgoglio. Era implicito, non aveva bisogno di essere rammentato, entrambe non erano mai state divise da segreti: la loro similitudine scavava in profondità recondite che si saziava di poco, di gesti e sguardi pieni di specifiche intenzionalità racchiudenti un mondo noto solo a loro due.
 
Lì, in quella stanza, lontano da tutto e tutti…
Solo per un po’, per quegli ultimi minuti prima di chiudere gli occhi. Amèlie non chiese che questo, non aveva chiesto altro fin dall’inizio e per tutta la durata di quella corsa sotto la pioggia dirompente che imperversava senza sosta. Arrivare in tempo prima della fine.
 
Ed era stata accontentata.




Non lo devi mai dimenticare, Amèlie. Mai. – 

Il maltempo creatosi a Monaco di Baviera non dava cenno di voler smettere. La pioggia carica di umidità afosa aveva trasformato le strade in autentici fiumi in piena che impedivano a qualunque calesse di girare liberamente. Perfino i treni avevano dovuto chinare la testa e accettare che contro simili intemperie era meglio non scherzare; il rischio di un’incidente doloso era troppo elevato e dopo diverse ore di subbuglio dovute a partenze e arrivi rimandati, la stazione ferroviaria si era svuotata quasi del tutto, lasciando che fossero gli alberghi a gestire il sovraffollamento. 
 
Se non sei in grado di proteggere te stessa, non puoi proteggere chi ti sta attorno. – 

L’assiduo picchiettare della pioggia contro la finestra delle stanzetta era motivo di incanto per Amèlie. Guardare il grigiore stante oltre la lastra di vetro che rifletteva la sua immagine sbiadita e stanca non nascondeva una ragione specifica, così come il rifiutare la comodità del letto incastrato nell’angolo per privilegiare l’incavo della finestra dove si era seduta con le ginocchia al petto e la falce stretta fra le mani. Non aveva mai espresso un particolare interesse per la pioggia, anzi: il solo profumo la infastidiva, lo stesso ammassarsi di nuvole sporche in cielo acuiva quel  nervosismo che negli ultimi mesi l’aveva vista estraniarsi dalla realtà quando aveva un attimo per se stessa.
 
Cammina a testa alta. Sempre. Riempi il tuo cuore di vittorie e sconfitte sulla strada che ti costruisci. - 

Era stato tutto molto rapido, fin troppo. A distanza di otto mesi dalla morte di sua nonna, il vuoto creatosi sapeva ancora di fresco, nonostante l’avesse riempito con ritrovata forza di volontà. Contrastare il lento scivolare del controllo dalle proprie mani era servito unicamente a farle cercare un’ultima volta l’amore della parente, ancora pulsante negli echi delle memorie costruite. Un pezzo di lei era morto, andato lontano da ogni suo desiderio di poterlo riabbracciare o stringere, sfatto, ma non dimenticato; l’affetto era ancora vivo, al sicuro dentro di lei, protetto e rievocato unicamente perché la voce di quella donna tanto ammirata le rimembrasse l’unico insegnamento di intransigente severità a cui aveva deciso di aggrapparsi per perseverare laddove avrebbe contratto più difficoltà.
 
Passo dopo passo, giorno dopo giorno...Tu cadrai e ti rialzerai ancora una volta… - 

Le mancava, terribilmente. La riluttanza per come certe persone non si fossero mai risparmiate ad affermare quanto poco morale fosse aprire le gambe per ogni uomo ricco aveva finito per cristallizzarsi, spegnere ogni fuoco aggressivo e divenire pura indifferenza glaciale. Non erano cattive, solo stupide. Una motivazione più che valida per prediligere la solitudine all’amicizia, oltre al carattere di scarsa elasticità. In quei momenti cupi dove perfino il clima si metteva contro di lei, la sua assenza tornava a pesarle; nell’essere una donna poco propensa agli slanci affettivi, c’erano stati attimi di intimità familiare dove Agatha Chevalier l’aveva coccolata con amore votato al suo bene, protetta da timori e cullata a ogni notte priva di sonno. Ritrovarsi senza quella metà della sua esistenza e accontentarsi di un attaccamento dipendente unicamente dalla sua volontà di mantenerlo in vita avevano rischiato di farle dimenticare il perché in tutti quegli anni non si fosse mai data per vinta d’innanzi alle avversità impostele dalla parente, ma poi se ne era ricordata.
 

- Amèlie? Sei sveglia? – Una voce dietro la porta la chiamò.
La bambina guardò svogliatamente in direzione dell’entrata - Sì. Cosa c’è? – Era il Finder che l’aveva assistita durante la missione.
- Abbiamo ricevuto notizie dalla stazione ferroviaria: le corse dei treni riprenderanno fra una ventina di minuti. Dobbiamo avviarci…Amèlie? -
- Ho sentito –, borbottò lei.​
Perché solo così potrai arrivare in fondo e dire di aver vissuto.  –
 

Quante volte aveva sognato di essere anche solo la metà di quello che sua nonna aveva rappresentato per lei? Non era mai esistito desiderio più importante che essere guardata dalla parente con orgoglio, come una persona degna del suo riconoscimento.
Fece svicolare le ginocchia fuori dall’incavo e si concesse qualche secondo per stiracchiarsi le ginocchia addormentate. La mantellina scura giaceva abbandonata sul letto, insieme alla piccola valigia contenente lo stretto indispensabile. La aprì giusto per tirarne fuori un pettinino e farne scorrere i denti nei capelli per una veloce sistemata.
 
Cammina a testa alta…Sempre. – Flebile, quella frase uscì dalle sue labbra rosate con suono incolore. 

Si guardò allo specchio. La chioma liscia e priva di nodi si era allungata di diversi centimetri, arrivandole quasi al fondo schiena. Aveva spostato la frangetta su un unico lato, lasciando che qualche ciocca le ricadesse in avanti, coprendo parzialmente la Rose Cross cucita sulla giacca. Non li aveva mai portati legati: odiava i nastri o gli elastici, ne tantomeno progettava di accorciarli.
 

- Se non sei in grado di proteggere te stessa, non puoi proteggere chi ti sta attorno -, continuò. 

A forza di pensarle e ripeterle, quelle parole avevano corso il rischio di consumare il proprio significato, ma non vi era altra alternativa per lei di rinvigorire i lineamenti del suo viso se non con quell’incitazione. Era una sfida, una lotta, una provocazione a stare sotto quell’odiata pioggia e a combattere con le sue sole forze anche da sola, a non fuggire dalla sofferenza anche quando il cielo e la terra minacciavano di frantumarsi, a farla sua e a trasformarla in risoluto vigore.
 

- Io e te…Siamo fatte della stessa pasta, dello stesso sangue… -
- Amèlie? Allora? – Il Finder bussò nuovamente, spazientito.
- Sono pronta. – Ma non lo disse rivolta all’uomo che l’attendeva. 

Poteva ancora farcela, a diventare la persona che avrebbe voluto essere per sua nonna e per se stessa.
E lo avrebbe fatto.




Note di fine capitolo:
1*: Mio piccolo demonietto.
E il primo serio sad chap della storia approda. Non negherò che è stato un parto, specie perché ancora adesso mi dà da pensare, ma non saprei come altro descrivere quanto già scritto. Per il solo pensarlo mi sarò immersa nell’ascolta di un triliardo di canzoni malinconiche che mi ispirassero qualche frase in particolare e devo dire che ha funzionato bene con due in particolare: “Healing Soul/Healing Spirits” di D Gray Man e “Stand in the rain” di Superchick.  La prima è un soundtrack che ho cercato come una disperata quanto ho visto l’episodio 62 di D Gray Man, dove c’è Lenalee che combatte contro il Livello Tre (solo per questo ascoltata fino alla nausea) e la seconda invece è stata fonte di ispirazione per l’ultimo tratto perché le parole ben si associano ad Amèlie e al suo carattere, almeno in questa parte dove è una bambina pronta a camminare con le sue gambe. A fatica sono arrivata, ma penso che da ora in poi aggiornerò solo nel weekend, di sabato, salvo che non riesca a farlo in settimana. Un capitolo al mese penso di riuscire a portarlo, ma come sempre devo dare priorità ad altro, quindi siate gentili e comprensivi con me! *sfodera i suoi occhioni da cerbiatto bastonato*. Un megabacione a tutti quelli che mi seguono! Allego qui sotto i due temi musicali citati, a presto!
 
Healing Soul/ Healing Spirits: http://www.youtube.com/watch?v=1CZZQM5JFwY
Stand in the rain: http://www.youtube.com/watch?v=FKlRP3BuTK4
 
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Occhi infernali/ Past three. ***




A nove anni li incontrò entrambi. Tutti e due, nello stesso giorno e circostanza.
Uno scherzo del destino che l’aveva vista abbracciare la morte e la vita come fossero un unico essere ambivalente. Dalla scomparsa della nonna erano passati soltanto due anni, ma lo scontro plurisecolare che infestava con muta voce il mondo affondava le sue radici in un tempo che era ancora ben lontano dall'agognata fine.
Il potere di Dio che sceglieva gli uomini affinché sconfiggessero le tenebre e disfacessero la spirale di luce e ombra splendeva di quel tocco favolistico che esigeva a tutti i costi un finale dove il bene vincesse indiscutibilmente. Un ritornello rivoltante che nascondeva con goffaggine stucchevole capricci clericali dall’animo codardo. A esserci rimasta invischiata ancor prima di nascere, Amèlie aveva imparato quasi subito a guardare oltre lo scintillante velo di enfatica magnificenza: nonostante le stagioni trascorse fossero state molte, il cielo azzurro e le dense cerchie di nuvole che avvolgevano l’Ordine Oscuro non erano mutati. Il mondo andava avanti come al solito: i giorni si ripetevano con la stessa andatura, i fiori nascevano, sbocciavano e appassivano regolarmente e la porta della Home si apriva con la solita rarità.

Era tutto uguale…Tranne lei.

Alle stupide bambole di pezza aveva preferito calze rotte e giochi adulti, dove l’innocenza arrivava ad avere un prezzo tanto esagerato quanto disgustoso per come ci si giocava. Un mondo che poteva rapirti e inghiottirti senza più lasciarti andare se gli si concedeva troppa corda.
Gli uomini erano esseri davvero rivoltanti. Ne esistevano anche fin troppi, inutili, sporchi e col cervello nei testicoli, tanti quanti erano i modi per trattarli, bravi ipocriti che non appena ne avevano l’occasione si divertivano anche con inesperte quattordicenni. La Rosa Nera ben si teneva lontana dal gestire un traffico di minorenni, ma era nelle sue stanze, sul palcoscenico e in ogni sua sontuosa ala che Amèlie aveva saggiato la perversa cupidigia di chi si credeva padrone di una presunta superiorità inimitabile. Alcuni erano degli stupidi, altri dei presuntuosi, altri ancora di una contorta crudeltà da farle ricordare perché non esistesse bestia capace di eguagliarli. Le grandi città ospitavano tuguri malsani e strade dove gemiti e grugniti di contestabile pudore sommesso riempivano ombre vuote insieme al metallico tintinnio di pochi spiccioli che cadevano sull’asfalto e al frettoloso frusciare di vestiti raccattati e sistemati con rapidità. Non si sarebbe data pena a salvare un mondo abitato da simili e sudicie carcasse immonde neppure col rischio di essere punita da Dio in persona; non lo meritavano e non avrebbe provato null’altro che indifferenza d’innanzi alle sofferenze di chi non riteneva meritevole della vita data, ma se poteva trarci un qualche vantaggio, perché non accontentarli?

Li vedeva, a passarsi la lingua sulle labbra o a toccarsi per minimizzare lo stringere dei pantaloni, a mendicare con occhi sporchi un contentino. L’osservarsi allo specchio e rendersi conto del proprio corpo le aveva permesso di comprendere con maggiore lucidità cosa potesse ottenere da simili bestie: tutto dipendeva da quanto lei fosse brava ad accontentarli. Allora poteva soltanto ballare o servire ai loro tavoli, osservare da una discreta distanza come sua madre sottomettesse la loro volontà ai suoi occhi fino a trasformarla in servile accondiscendenza, ma non aveva mai ceduto alla tentazione della fretta.
Come esistenza coscienziosa di un ruolo gravoso aveva stabilito i suoi primi confini e doveri per amore di altrui esistenze a lei care. Lo aveva promesso, dopotutto, ma nel suo tentare di mantenere la parola data, le sue vedute non erano mai andate più in là dei corpi velenosi degli Akuma e delle anime purificate tramite l’Innocence. Non aveva mai realizzato pienamente in cosa fosse stata invischiata, contro chi Dio l’avesse chiamata a combattere.

Fino a quel giorno.




Anf…Pant…Anf… -

Respirava male, con i bronchi inquinati di cenere e sul punto di collassare. L’aria delle pianure era famosa per essere fresca e frizzantina, il perfetto ritratto di una giornata primaverile con tanto di sole alto in cielo, ma quella che si stava infilando a viva forza nella gola di Amèlie era di tutt’altro stampo: appuntita, ghiacciata e dura come il ferro rugginoso. L’ossigeno era contro di lei, scendeva e pretendeva di essere assorbito, ignorando qualsiasi tentativo di ripristinare il controllo che sempre la bambina si premurava di tenere stretto, scontrandosi con le ossa della cassa toracica. Del minuto corpo allenato era rimasto un residuo sgualcito e impolverato macchiato di sangue. Ogni singolo centimetro di pelle tirata era livida, provata da una miriade di esplosioni riversatesi contro di lei alla stessa velocità dei fulmini, stracciata da ferite fresche brucianti più di un mucchio di tizzoni ardenti.

Una bambola immobile, rovinata, supina, ancora viva per quel lento alzarsi e abbassarsi del torace. Il dolore non la infestava, non più. Lo aveva ignorato volutamente per non perdere la ragione e la lucidità, ma una volta scatenatosi l’aveva consumata nel giro di pochi secondi, lasciandosi alle spalle solo sensi martoriati e un’esistenza sul ciglio del buio più assoluto.

La sensazione di venire a meno e di cadere all’indietro incalzava soporifera, ma ancora resisteva, Amèlie, sveglia e pienamente in sé come mai le era capitato di essere.
Sotto un cielo arancione sporco di nuvole nere, il semicerchio incandescente qual'era il sole, stava gradualmente svanendo dietro ad un campo di battaglia frastagliato e massacrato. La piccola Esorcista di appena nove anni era stata mandata in quella zona dopo una missione in Belgio durata una settimana, risultata un fallimento per la completa mancanza di Innocence. Una semplice perlustrazione. Così c’era scritto su uno dei tanti fogli che aveva letto sul treno prima di scendere e mettersi in marcia insieme alla coppia di Finder venuta con lei. Delle testimonianze citavano fenomeni ricollegabili a un possibile frammento di potere divino che, nel caso si fosse rivelato per quello che era, doveva essere recuperato a tutti i costi. La cava situata nella pianura da perlustrare era stata abbandonata da tempo e dai resoconti non pareva possedere nulla di così eclatante da suscitare l’interesse del nemico.

E quello era stato il secondo errore.
Il primo lo aveva realizzato una manciata di minuti dopo, mandando in frantumi l’invisibile cupola di cristallo che l’aveva inconsapevolmente protetta dal più spaventoso degli incubi d’innanzi ai corpi polverizzati dei due adulti che l’avevano aspettata ai limiti della zona indicata.


- Buonasera, signorina Esorcista! -

Le si era presentato affabile, la faccia squadrata e grigia dal largo sorriso con tanto di denti aguzzi attaccati fra loro. Un buffo e grasso essere dagli abiti eleganti colorati con eccentricità, munito di un vistoso cilindro appoggiato sopra le sporgenti orecchie appuntite e un ombrello rosa con l’estremità a forma di zucca in mano. Fino a quando non si vede con i propri occhi chi si deve combattere nessuno può affermare con certezza di conoscere il proprio nemico, Amèlie compresa. Ma lei ne aveva sentito parlare, diverse volte, descritto con quell’aspetto inadatto al ruolo che invece ricopriva da settemila anni.
Non erano gli Akuma il vero nemico da sconfiggere, bensì lui, quella creatura dall’ampio sorriso sinistro che troneggiava su di lei in tutta la sua spropositata mole. Lui, il Conte del Millennio.
Poteva ergersi su migliaia di carcasse meccaniche e continuare ad accumularne sotto i suoi piedi ancora e ancora, combattere con la speranza ad arderle nello spirito, ma finché quello sarebbe rimasto in vita, non ci sarebbe stata alcuna fine per chi doveva addossarsi il peso della Rose Cross.


- Eh eh! Questa sì che è una giornata fortunata! – Amèlie udì la sua voce ancora, divertita e chiara nonostante la bocca immobile e i denti perfettamente serrati – Esco giusto per fare due passi e mi capita per mano una delle pecorelle di quell’odioso Dio e la sua Innocence. Quando si dice il caso… -
- Lero, lero, lero! E’ da parecchio tempo che non ci capitava di assistere alla morte di un’Esorcista! Sarà divertente! - Una risata stridula si accompagnò alla prima con esagerata intensità.

Accartocciata a terra e tremante, la bambina dischiuse le labbra tagliuzzate in un rantolo doloroso, con gli occhi che minacciavano di affogare nelle lacrime. Il mondo sopra di lei era appannato, sul punto di liquefarsi e schiacciarla, trattenuto dalla luce color arcobaleno che il Talisman lanciato all’ultimo emanava flebilmente, sempre più effimera man mano che i secondi passavano. Non sarebbe durato ancora a lungo, il crepitare di preoccupanti scintille giallastre già si stava inoltrando nelle sue orecchie, ma non per questo le sue dita tese al suolo si erano rassegnate. Voleva la sua falce, subito. Stringerne il manico o quel che ne restava per sopperire un’ansia da allontanamento più istintiva che affettiva. Era giusto a un metro da lei, ridotta in tantissimi pezzi metallici privi di vitalità.

Mai, nella sua breve esistenza, era stata in balia di se stessa come in quel momento, di quel potere che il suo corpo e la sua anima avevano scatenato all’unisono e sollecitato da un terrore insano come quello. Perché sì, era terrore ciò che le stava permettendo di essere consapevole di quanto la circondava e le apparteneva, tanto sfibrata e disperata da spingerla a tendere ancora di più le dita verso la preziosa Innocence. Una pura percezione del pericolo che minacciava l’incolumità e inibiva ogni suo più semplice pensiero. Inerme e impossibilitata ad alzarsi, tremava febbricitante, avvertendo distintamente quell’emozione scorrerle nelle vene e ancorarla al suolo nel mentre i mostri ombrosi riunitisi attorno a lei si ingigantivano sempre di più, pronti a saltarle addosso. Provò a puntare i gomiti e a muoversi, sollevando il busto con l’intenzione di mettersi seduta, ma la pioggia di Dark Matter lanciatale contro dai Livello Uno cozzò contro il cubo protettivo sbatacchiandola da una parte all’altra senza alcun ritegno.
L’effetto della barriera mistica stava dando gli ultimi.


- Lero, lero, lero! Cosa pensi di fare, stupida Esorcista? Non lo capisci che sei al capolinea?!? – In un gesto racchiudente il solo grammo di forza accumulato con disperazione, Amèlie sollevò di qualche centimetro la testa giusto per vedere con l’occhio rimasto aperto lo strano ombrello rosa sbraitare e saltellare come un forsennato – Vostra signoria, facciamola fuori noi! -
- Non c’è fretta, Lero: non c’è fretta –, lo rassicurò la grossa e appena offuscata figura del Conte del Millennio, comodamente seduto su uno spuntone di roccia con le gambe corte e tozze a dondolare nel vuoto – Quel Talisman è agli sgoccioli, non durerà ancora a lungo. Aspettiamo che i Livello Uno finiscano il lavoro. -

Era inutile. Per quanto fastidioso che fosse, il suono frastagliato prodotto dalla barriera non la esentava dall’udire quella voce indefinibile, a impedirle di pensare a cosa fosse collegata. Se li sentiva addosso, quegli occhietti dorati, affilati e padroni di una crudeltà inumana capace di strappare l’anima a mani nude. Spaventosi, assolutamente terrificanti. Il terrore la bloccava, vero, ma era lucida, perfettamente. I sensi amplificati, il respiro catarroso…Tutto condotto a uno stato d’elevazione che non conosceva limiti, includente anche i più superflui dei dettagli.

Amèlie percepì le sregolatezze del proprio rantolare, il freddo polveroso della roccia che si scontrava con la sua pelle, i battiti del suo cuore pronto ad esplodere, le disgustose emissioni evaporanti dalle divise dei Finder uccisi dal virus degli Akuma, il sangue che le colava lungo la testa e si incastrava fra i fili d’ebano della sua chioma, per non parlare del nauseante odore ferroso che l’avvolgeva come una nuvola afosa a causa della ferita più grande di tutte: la gamba destra era rotta, mollemente appoggiata sul terreno e con – a coronare il danno – un profondo squarcio che le tagliava la coscia e arrivava fino a metà stinco. Il liquido vermiglio era colato fuori caldo e vivo per un’abbondante mezz’ora prima che la bambina riuscisse a legarsi attorno alla gamba una delle divise dei Finder per evitare il totale dissanguamento.

E intanto, le sue dita continuavano imperterrite a cercare l’Innocence.


- Non voglio morire…Non voglio…! –

Combatteva contro quella prospettiva sempre più dominante con le lacrime e la paura ansimante a offuscarle la vista. Voleva tornare a casa, dalla mamma, l’avrebbe anche chiamata se ne avesse avuta la forza. Voleva svegliarsi e credere che fosse tutto un brutto incubo, ma il Conte del Millennio era bravo in questo, a insinuarsi col solo nome nei cuori umani e ad avvelenarli di sentimenti rasentanti la più fulgida delle disperazioni.
  
E poi successe.

La scarica da parte dei Livello Uno premette su una crepa luminescente più larga delle altre e un’esplosione la scaraventò in alto, dove le nuvole davano l’illusione di poter essere toccate.


- Mam…ma… -

Ricadde fra le macerie con rotto schiocco osseo, indolore per come quello avesse esaurito il suo effetto tempo addietro, ma prima ancora di schiudere le labbra in un flebile sospiro, gli occhi scintillanti del Conte del Millennio balenarono davanti ai suoi. La mano di lui le strinse la giacca lacera per tenerla sospesa da terra, a una distanza così ravvicinata da permetterle di vedere cosa i piccoli e tondi occhiali occultassero. A seguito di quella vista e di quel sibilo sfigurato, puro istinto folle ed omicida, tutto divenne nero.

- Sei pronta a incontrare il tuo Dio, piccola Esorcista? – 




Il dopo che succedette a quegli occhi dorati e colmi di luce sinistra che l’avevano fatta piangere seppe di morte. Certa, indissolubile. La sensazione di essere strappati dalla propria carne l’aveva assalita non appena il cuore le era stato trafitto da parte a parte per il troppo male provocato dalla vicinanza del Conte del Millennio. Calibrare l’ossigeno e combattere contro il proprio respiro per non soffocare era stato agonizzante. Pochi secondi terminati con un buio petroso e pietrificante da cui non sarebbe uscita viva. Di certo un essere come lui ci avrebbe tratto soddisfazione a prendere una vita minuscola come la sua con la semplice paura, ma non era successo. Non ne era sicura del tutto, forse la sua percezione era semplicemente vittima di quanto rimaneva di lei o magari era ancora assurdamente convinta che quanto accaduto fosse stato solo un brutto sogno. Eppure non le sembrava di lievitare per aria.

Il suo respiro…La sensazione di esser distesa sopra qualcosa di morbido e avvoltaci dentro…
Percezioni deboli, basate su un contatto a pelle a dir poco che vago, ma comunque vive quanto bastava perché la sua mente cominciasse a rielaborare qualcosa che la aiutasse a recuperare la lucidità.


- Tienila d’occhio, Tim, e avvertimi se si sveglia. – 

Le parve udire qualcuno, ma il ricordo di un botto assordante aprì una voragine colma d’immagini sfocate nella sua testa che risvegliò con spasmi dolorosi alcune delle sue membra intorpidite.
 
Sua eccellenza il Conte! Sua eccellenza il Conte!!! – La stridula e impazzita voce dell’ombrello con la testa a forma di zucca colpì le sue tempie con l’intensità di un martello.
- Tranquillo, Lero: va tutto bene. – Eccola, la voce del Conte del Millennio, librante in aria come un piuma – E’ solo un’altra sorpresa, anche se sgradita. –
 
Il riconoscere a chi appartenessero quelle voci fece sì che il suo corpicino venisse percorso per intero da un formicolio che calcò su ogni suo fascio muscolare ancora addormentato. Non vide dall’alto, dal basso o da qualunque altra posizione che avrebbe potuto permetterle di osservare il tutto con chiarezza: stava rammentando poco a poco qualcosa a cui grossolanamente doveva aver assistito con l’ultimo grammo di coscienza rimasto acceso prima di scivolare nel sonno, quindi era perfettamente naturale che rivivesse quanto passato in prima fila una seconda volta.
 
Però…Ciò che la basì, oltre quell’anormale tepore che la stava aiutando a riprendersi, fu lo sperimentare, il rivivere anche soltanto con la mente quella sensazione. La frammentata immagine di lei che veniva sbalzata via e il sapore della terra che le scendeva giù in gola non vi si avvicinavano minimamente, e la fredda spigolosità della roccia non era interpellabile neppure al suo guardare dritto negli occhi il Conte del Millennio e sentirne la mano stringerle dolorosamente il torace.
 
Sei una vera peste, caro Crossino malandrino! – Cinguettò il Conte del Millennio, atterrando leggero su un'alta sporgenza Ti si cerca tanto e poi spunti fuori nei momenti meno opportuni! Non è mica divertente, sai? –
- Per me lo è, se serve a farti incazzare –, rispose una voce che Amèlie non aveva mai sentito prima d’ora - Anche se avrei preferito godere della compagnia di una bella donna anziché cincischiare con un grassone col cilindro come te. –
La risata del Conte del Millennio fu forzata e poco divertita – Impertinente come sempre, eh? –
 
Uno spostamento d’aria seguì quella brevissima conversazione e subito vi fu un’altra esplosione che rese il tutto ancora più distorto; la corvina faticava a trattenere il nesso logico che univa tutti quei pezzi disconnessi fra di loro e che aveva raccolto quasi per caso. Eppure quella sensazione era diventata automaticamente il centro del suo universo, il perno attorno cui stava ricostruendo lentamente gli eventi accaduti.
 Era un calore umano che non le suggeriva nulla di familiare, mischiato a una vigorosità scontratasi con la pelle della sua guancia e dal profumo intossicante, trasmettente sicurezza, forza, protezione. Il suono di un cuore dal battito poderoso doveva averla svegliata, perché nel preciso momento in cui riuscì finalmente a dischiudere le palpebre, un rosso sanguigno ondeggiante più intenso del fuoco si sostituì al nero con cui aveva preso tanta confidenza. Un colore pieno e scuro dalla voce arrogante e profonda che fissava con sguardo altrettanto sfrontato e vermiglio quello dorato del Conte del Millennio, il cui sorriso non ne nascondeva l’irritazione furibonda.
 
A quel punto, la coscienza ascese per conto suo, da sola, e Amèlie finalmente aprì i suoi piccoli occhi d’onice.
 
Superata la foschia iniziale, riconobbe l’intero bianco sporco di una tenda tipica dell’equipaggiamento Finder circondarla assieme ad altri oggetti dalla forma e dal colore non ben definiti. Un lumino illuminava l’area quanto bastava per farle intuire che fuori doveva essere sera inoltrata, ma come provò a far leva sugli avambracci e a mettersi seduta, la testa le vorticò così tanto da farla ricadere di peso sul materasso; l’affanno del proprio respiro simboleggiò quella stanchezza che da sdraiata non aveva percepito minimamente, la quasi totale mancanza d’ossigeno nel sangue e di quest’ultimo nelle proprie vene le formicolava lungo i muscoli lattiginosi.
 
Si guardò ancora intorno, accorgendosi con cipiglio dubbioso che quella comune tenda da Finder era un po’ troppo grande e affollata di oggetti inusuali per appartenere a un semplice supporter. L’interno non era bianco come le era sembrato, ma decorato e pieno di mucchi assortiti di gingilli lasciati lì a prendere la polvere: fra essi spiccarono i luccichii scintillanti di bottiglie vuote e il fruscio di carte spagliate mal sistemate. C’era perfino una scrivania, ma era talmente sommersa di ciarpame e vestiti da risultare più utile come poggia-panni che come postazione di lavoro.
Ma la cosa più strana di tutte era senz’altro la strana lucina dorata che ogni tanto le passava davanti. Era piccola e tonda, con un paio di alucce e una coda dalla punta arrotolata; le svolazzava intorno in silenzio, a volte soffermandosi proprio davanti al suo viso. Piegando nuovamente gli avambracci, Amèlie si issò su una seconda volta, alzando il mento di qualche centimetro; barcollò appena, con i capelli che le scivolarono lungo la schiena e la testa vorticante, ma non appena fu sicura di riuscire a reggersi anche senza le mani, raddrizzò la schiena e si mise seduta sui talloni.
 
L’esserino che aveva da prima scambiato per un lumino andò ad appoggiarsi sul bordo del materasso. Era così minuscolo che poteva tranquillamente infilarsi in qualsiasi tasca. La corvina batté le lunghe ciglia più volte, colma di sorpresa che riluceva nei suoi occhi.
 

- Cosa sei, tu? – Domandò lei con vocina rocca. 

Per tutta risposta quello tacque, librandosi nuovamente in aria e dirigendosi verso l’uscita della tenda.
 

- Ah! Asp…Ahi! – 

Un dolore lacerante le attraversò la gamba quando provò ad appoggiarla per alzarsi. Le altre ferite urlarono all’unisono nonostante le medicazioni, colpite con la stessa intensità di un pugno dato all’altezza dello stomaco. Cadde a terra inerme, trascinandosi a presso coperte e cuscini, gemendo con i denti affondati nelle labbra per vecchi ricordi assopiti del tutto ridestati. C’era sempre qualcosa che emergeva per ultimo, frammenti che risvegliavano sensazioni di incommensurabile portata; ci era quasi caduta dentro, in una di quelle voragini, soffocata dal ferreo sapore che tutt’ora pulsava sotto la pelle incrostata.
 

- Datti una calmata, Tim: sai che odio quando mi si mette fretta. – 

L’inconfondibile fruscio della stoffa che viene scostata si accompagnò a quella voce seccata e profonda già udita in precedenza. L’odore accecante e amaro di tabacco puro non tardò a farsi sentire, riempiendo l’abitacolo con aloni grigiastri che si dispiegarono nell’aria arrivando anche all’altezza di Amèlie, che storse il naso e nascose la testa fra le braccia. Non aveva mai sopportato gli odori pungenti e tossì non appena quello le inquinò i polmoni.
 

- E tu mi spieghi dove diavolo vuoi andare? – La voce si fece sentire nuovamente. 

Era di uomo, senz’ombra di dubbio, ma da dietro le ciocche nerine dei capelli la piccina vide ben poco, giusto un paio di piedi a poco più di un passo da dove si trovava. Ebbe giusto il tempo di ipotizzare che dovesse trattarsi dell’effettivo occupante della tenda prima di venire afferrata da sotto le ascelle e tirata su senza alcuno sforzo.
 
Si impietrì di colpo una volta sospesa a mezz’aria.
 
Il rosso scarlatto balenato nei ricordi ondeggiò con movimenti fluenti e soffici davanti ai suoi occhi, inebetiti per come tali memorie astratte avessero assunto tutto d’un colpo fattezze umane, con tanto di abiti dalle rifiniture dorate anziché argentate. La differenza di rango aprì l’ennesimo spiraglio laddove regnavano ancora confusione e incompletezza, aggiungendo un altro dettaglio mancante all’appello, ma nonostante ciò, la persona che la teneva con le gambe penzolanti in aria rappresentava ancora una grossa incognita.
 
La prima cosa che pensò spontaneamente era che fosse alto. Spaventosamente alto. E con un viso che la fece avvampare all’istante.
 
Quel singolo occhio color rubino e gli occhiali dalla montatura sottile non le suggerivano nulla di vagamente familiare, se non un profondo senso d'inquietudine incapace di esprimersi a parole. L’insolita maschera bianca dall’elegante taglio che tracciava un netto confine fra la parte scoperta del volto e quella occultata da essa stessa era tutto fuorché un valido punto di riferimento, così come quel pizzetto del medesimo colore dei capelli e la sigaretta sporgente dalle labbra semichiuse.
 
Sussultò quando vide la linea che divideva quest’ultime allungarsi in un sorriso storto e sprezzante.
 

- Ma chi è…Quest’uomo? – Per una qualche ragione, Amèlie si sentì in piena soggezione d’innanzi a una persona tanto imponente, intimorita e al tempo stesso attratta. 

Non c’era nulla, nulla, in lui, che le ricordasse qualcuno in particolare, un tipo di uomo incontrato o una categoria a cui rifarsi. La sensazione percepita nel sogno misto a realtà provata sulla sua pelle ora pulsava nel suo cuore con vigore rinato, assieme a un inspiegabile e sconfinato senso di vuoto scaturito da quello stesso individuo che la osservava con imperscrutabilità.
 
Era diverso, non seppe in che altro modo descriverlo a se stessa.
 

- Sei proprio un topolino: non pesi niente –, parlò quello, facendola ondeggiare lentamente su e giù nel mentre inclinava la testa a destra con fare indagatorio – Ti è andata bene che fossi nei paraggi: non è roba di tutti i giorni incontrare quel lardone e scamparci. Francamente preferisco salvare le donne che i soldi di cacio, è più nelle mie corde, ma devo ammettere che tu come scricciolo sei parecchio graziosa. – 

Per la seconda volta e sempre senza capirne il perché, Amèlie avvampò, sperando che l’uomo non se ne accorgesse. Questo la fece sedere sul morbido materasso dopo aver terminato la prima parte della lunga ispezione visiva, spostando la sigaretta dall’angolo destro della bocca a quello sinistro. La bambina lasciò che la sua mente corresse sopra alle parole e continuasse a focalizzare la propria attenzione sui gesti dello sconosciuto: “Soldo di cacio” non era un complimento che potesse essere ritenuto degno per la propria personalità, ma era fin troppo lampante che qualsiasi suo tentativo di farsi sentire sarebbe stato eclissato dal suo stesso corpo, fragile e tumefatto.
 

- Ahi! - 

Strizzò la faccia nel non riuscire a trattenere un gemito improvviso quando l’uomo le prese la gamba ferita e cominciò a tastarne l’elasticità con attenti movimenti. Anche a fare piano, ossa, vene, organi e muscoli erano un tutt’uno sofferente per le percosse subite, ma Amèlie arricciò le labbra e imprigionò l’ossigeno in bocca impedendo a qualunque altro alito di fuoriuscire.
 

- Rotta. Di bene in meglio. Mai che ci sia un medico quando serve… -, bofonchiò lui, espirando una grossa nuvola di fumo che la fece tossire. Le diede le spalle per sfilarsi il cappotto decorato, legarsi i capelli e prendere qualcosa dalla scrivania stipata di cianfrusaglie varie – Con queste fasciature non è che si possa fare un granché, figurarsi sistemare un frattura, ma fino alla Home dovrebbero tenere. – Masticò la base della sigaretta inalando qualche grammo di nicotina, che espirò dal naso mentre armeggiava con le bende coprenti la gamba della sua piccola ospite. 

Faceva male, parecchio. Anche con il corpo e l’anima assuefatti da un dolore che aveva smesso di percepire in piena battaglia, entrambi erano tornati a farsi sentire, concedendole intervalli che la costrinsero quasi ad arrampicarsi sugli specchi per quanto forte era il suo desiderio di resistergli. Più tentava e più moli colme di straniamento le si riversavano dentro diramandosi in molteplici direzioni, cosicché i danni fossero più incisivi e molteplici, alimentati dal ricordo del Conte del Millennio e dalla paura che era riuscito a farle provare semplicemente mettendola in ginocchio all’evidenza.
Tremò d’innanzi a quegli occhi orribili, inquietanti e sottili, riempitisi d’ogni genere di male da lui stesso incarnato, che l’avevano inghiottita senza trovare da parte sua alcuna opposizione. Li sentiva pressare ridacchianti sul suo collo come fossero stati lì, dietro di lei.
 

- Ti sei presa un bello spavento, eh, piccola? –
- Uh?! – La bambina sobbalzò, alzando la testa con le mani ancora strette al petto e le spalle chiuse. 

Non poté fare a meno di chiudersi a riccio quando la mano destra dell’uomo si appoggiò sopra la sua testolina, accarezzandone leggermente i capelli d’ebano con un pizzico di gentilezza che tranquillizzò di un poco sia lei che il suo tremore. Era talmente grande che se solo avesse stretto un po’ di più, avrebbe potuto sollevarla senza problemi.
 

- Sta tranquilla. Non è qualcosa per cui debba vergognarti -, la rassicurò, guardandola dritta negli occhi - Quel barile insaccato sa come spaventare la gente, ma tu sei stata brava a resistere fino al mio arrivo e la tua Innocence è riparabile. Se è per i Finder che ti dispiace, sappi che hanno fatto il loro lavoro, come tu hai fatto il tuo. – 

Amèlie non riuscì a non tirare su col naso e a incespicare nelle poche sillabe concessele dalle corde vocali annodate fra loro: aveva superato la soglia di sopportazione, a malapena ce la faceva a reggere. La voglia di piangere era pronta a scoppiare, in attesa, nei suoi occhi brucianti già pericolosamente lucidi e nelle labbra affondate nei denti. Non l’aveva mai più repressa dalla morte della nonna, non c’era mai stata occasione per lei di lasciarsi andare: ai momenti di futile debolezza aveva sempre risposto con cocciutaggine risoluta, ma resistere a quello…
 
Gli occhi del Conte scalzarono prepotenti ogni altra immagine nella sua mente, orribili e con quella risata che non ne voleva sapere di andarsene.
 
Cominciò a singhiozzare sommessamente senza rendersene conto, mandando in frantumi ogni sorta di barriera tenuta in piedi sino a quel momento contro il torace muscoloso di quell’uomo che l’aveva avvicinata a sé con facilità. Un contatto a cui non si oppose e che realizzò solo quando se ne staccò per far respirare il viso congestionato e umido.
 
Fece per asciugarsi le lacrime con la manica della maglia, ma le venne porto un fazzoletto.
 

- Non c’è proprio niente da fare: vedere una donna piangere è sempre un delitto -, sospirò lo sconosciuto. 

Lei non ci fece caso, distratta dal pesante picchiettare delle sue tempie. Superare il limite consentito le stava facendo conoscere conseguenze su conseguenze, compreso il graduale distacco dalla realtà per la troppa stanchezza accumulata. Fu solo perché le si parò davanti al viso, incuriosito, che il tondo boccino d’oro la strappò dall’intricata rete emotiva e memonica dentro cui si stava perdendo, richiamandone l’attenzione col frenetico sbattere delle sue piccole ali dorate.
 

- Lui è Timcampi -, disse l’uomo, indicando con la coda dell’occhio l’esserino – Un golem di mia creazione. -
- Tim..cam..pi. Timcampi. - Scandendo per bene il nome del piccolo golem, Amèlie dispiegò il braccio in avanti e aprì la mano per farcelo entrare. Il boccino colse l’invito seduta stante e le si accoccolò nel palmo fino a lasciarsi avvicinare e accarezzare.
- Allora la voce ce l’hai ancora, piccola. Bene. – Alzatosi dal materasso, l’uomo dai lunghi capelli rossi afferrò una sedia di legno e la trascinò malamente davanti alla corvina, per poi sedervisi sopra pesantemente – Ci vorrà un po’ prima che qualcuno venga a prenderti, quindi che ne dici di fare due chiacchere? Potresti cominciare col dirmi il tuo nome. –
- Ah…Am… - Amèlie dovette inghiottire un paio di volte per bagnare la gola arida – Amèlie. Amèlie Chevalier -, riuscì infine a pronunciare.
- Chevalier? – L’uomo sollevò il sopracciglio, corrugando la fronte – Non sarai mica imparentata con…? –
- MI FACCIA PASSARE SUBITO!!! – 

Il fondo della tenda decorata si aprì di netto, gonfiato e infine diviso a metà come se vi ci si fosse riversato addosso una folata di vento poderosa. Una figura sottile e slanciata si gettò al suo interno fulminea, fiondandosi su Amèlie e stringendola a sé con un abbraccio convulsivo.
 

- Mamma…? – Il profumo di vaniglia e la morbidezza di quel caschetto corvino non potevano che appartenere all’unico familiare capace di trasmetterle serenità e gioia anche col semplice pronunciarne il nome.
- Signora, la prego! – Cercò di fermarla un Finder corsole dietro – Questa tenda è del…! -
- Tesoro mio! Ero così preoccupata! – Esclamò la donna, guardando la figlia da capo a collo con occhi colmi di ansia e le mani appoggiate sulle sue esili spalle – Ma guardati…Sei coperta da capo a collo di bende…! –
- Sto bene, mamma…Davvero -, la rassicurò la piccola, abbozzando il primo sorriso da quando si era risvegliata. 

Sua madre non era come lei; dalle sottili labbra rosee piegate all’insù trasparivano rincuoro e amarezza, dipinte sul suo candido volto al fine di esaltarne la sensibile emotività che lei sola riusciva a suscitare e a scatenare come un fiume in piena. Una conseguenza di quel suo essere Esorcista che Amèlie non desiderava vedere materializzarsi, ragione fondante che la spingeva sempre a dare il meglio di sé come e comunque.  
Aveva fallito, questa volta, il rimpianto per averlo permesso sarebbe potuto costarle molto di più, ma l’abbraccio di sua madre, il conforto che la scaldò e da cui si lasciò avvolgere senza lottare, allontanò quella triste realtà per darle ciò che ogni bambina meritava di ricevere dopo aver fatto un brutto incubo: Amore.


- Signora, per favore! - La voce del Finder rimasto alle sue spalle seppe di supplica – Non possiamo stare qui! Questa tenda appartiene al…G-Generale!
- Generale? – Si stupì Amèlie – E’ un…Generale? -
- Chi? – Rosalie si voltò, confusa e senza comprendere bene l’agitazione del supporter, corso verso un punto imprecisato della tenda dove alcuni mobili si erano inspiegabilmente rovesciati.
- Il tizio che hai appena scaraventato laggiù, mamma -, rivelò la bambina, indicando la forma umana stesa a faccia in giù e semi-sepolta dal mobilio sopra cui Timcampi svolazzava.
- Che cos…OH, SANTO CIELO! – 

La donna si precipitò immediatamente dal malcapitato, inaridendo la gola a forza di scuse. Chiunque conoscesse Rosalie Chevalier sapeva che era una di quelle persone dolci e gentili dalle maniere impeccabilmente delicate, composta in ogni sua movenza e dall’incrollabile pazienza che denotava grande controllo in qualsiasi tipo di situazione, ma come qualunque altra creatura al mondo, anche lei aveva un punto debole e per lei altro non era che la sua adorata figlioletta Amèlie.
Era sufficiente che l’incolumità della piccina valicasse la linea stabilita per ingigantire l’apprensione che Rosalie celava dietro la quieta serenità e l’irruenza con cui aveva fatto letteralmente volare dall’altra parte della tenda un uomo grande il doppio di lei personificava al meglio quella forza capace di smuovere intere catene montuose senza il minimo sforzo. Il dislivello che la divideva dalla figlia le era sempre stato fin troppo chiaro, luminoso a sufficienza perché lo odiasse profondamente; aveva dovuto accettarlo a malincuore, ma ciò non l’avrebbe mai esentata a preoccuparsi ogni qualvolta che il suo cuore di madre reagiva a determinate notizie riguardanti il tesoro a lei più caro.
 

- S-Sono davvero mortificata! – Continuava a ripetere lei, cercando di aiutare l’uomo – Non l’avevo proprio vista! -
- Ve l’avevo detto di aspettare fuori! – Strepitò il Finder accanto a lei, sbiancato per l’aver già intuito le possibili conseguenze della sua disattenzione – Generale, state…? – 

La mano del suddetto premette sulla faccia del supporter con tale forza da scansarselo di dosso e lanciarlo all’indietro. Mai come in quel frangente il povero Finder desiderò trovarsi da tutt’altra parte, perché se c’era una cosa che il diretto superiore odiava da maledetti erano le sorprese o che si entrasse nei suoi alloggi senza esplicito permesso da lui consentito. Lo sbroccare infastidito denotò quanto l’irritazione gli stesse gonfiando le tempie verdastri, imbestialite per come certi sottoposti assillanti non riuscissero ad adempiere a ogni sua semplice richiesta e manco capivano quando fosse il momento di eclissarsi. 

Il Finder di turno aveva già avuto modo di incassare qualche esperienza al riguardo e deglutì pesantemente nell’accorgersi dello scintillio omicida che balenò nel solo occhio visibile del Generale. Scappò via senza emettere fiato per pura paura di aggravare ulteriormente la sua posizione.
 
S…State bene? E’ tutto a posto? – Rosalie si fece avanti ancora una volta, dispiaciuta.
- Non vedo perché non dovrei esserlo -, esordì affabile quello, ripulendosi le spalle dalla polvere - Se c’è qualcuno che qui deve chiedere scusa sono io: a sapere di una visita tanto gradita mi sarei adoperato per sistemare meglio questo alloggio. - La giovialità esibita dall’uomo suscitò in Amèlie un cruccio che corrugò la sua fronte bendata. Com’è che la sua voce era diventata improvvisamente tanto cordiale?
- Oh, non sia ridicolo: l’unica ad avere una colpa qui sono io. – C'era da scommetterci che sua madre non se ne sarebbe accorta – Non avrei dovuto permettermi di entrare a quel modo, è il vostro alloggio dopotutto, ma come ho saputo che mia figlia si trovava qui non ci ho più visto. –
- …Figlia? – Ci fu un attimo di interdizione dove lo sguardo rubino dell’uomo volò prima dalla sua sorridente madre, poi da lei e infine nuovamente su Rosalie.
- Sì, mia figlia Amèlie -, ripeté candida quest’ultima – Non so davvero come ringraziarvi per essersi preso cura di lei. –
- Ordinaria amministrazione, madame -, si riscosse in fretta lui - Immagino che abbiate fatto parecchia strada per arrivare all’accampamento. Perché non…Non…Ma dove accidenti…? – Era sparita, letteralmente, a una velocità a cui il suo unico occhio buono non era riuscito a stare dietro.
- Coraggio, tesoro mio. Ti porto alla Home. – Il Generale si girò giusto in tempo per vedere la donna uscire dalla tenda con in braccio la figlia, lasciandolo nell’angolo a fissare con insistenza il pigro fruscio del pesante tessuto bianco.
- Ma mi ha ignorato? – Si rivolse al piccolo golem dorato quasi sperasse in una risposta, ma tutto ciò a cui si limitò Timcampi fu un leggero atterraggio su una delle sue robuste spalle, dove rimase con le minuscole ali piegate. 




Note di fine capitolo:
Ed eccolo, finalmente, Marian Cross, il demonio dai capelli rossi che ha tanto traumatizzato Allen. Ho solo una cosa da dire prima di perdermi in inutili sproloqui: io amo quest’uomo! Tra i personaggi di D Gray Man è sicuramente quello che più preferisco, il classico tipo che ne sa sempre una più del diavolo e non fa mai niente senza avere una buona ragione, da amare così tanto da volerlo strozzare, come vorrebbe tanto fare Amèlie. Scrivere questa storia mi sta appassionando sempre di più, soprattutto per dove sono arrivata io con la stesura; purtroppo rileggendo i vecchi capitoli ho notato i soliti e stupidi errori di distrazione che saltano fuori dopo decenni (E dire che leggo sempre una decina di volte prima di pubblicare…). A chiunque legga, chiedo scusa per tali mancanze, qualcosina qua e là ho già sistemato, ma appena avrò un po’ più di tempo darò un’occhiata più approfondita, in special modo al prologo: credo che lo sistemerò un po’ ma senza aggiungere particolari dettagli…A presto!!!
 
 
 

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Capitolo 15
*** Happiness/ Past four. ***




- Marian Cross…Marian Cross…Marian Cross…Ancora?!? – 

Inconcepibile. Completamente fuori da ogni schema umano conosciuto e testato. La piccola Amèlie Chevalier ne aveva viste di cose strane in vita sua, molte delle quali sconosciute per l’inesperienza in determinati campi, ma quanto stava leggendo lo capiva perfettamente, ragione per cui non riusciva a non rimanere sbigottita. La mensa dell’Ordine Oscuro era l’area più grande a disposizione dell’intero edificio, seconda solo alle sale degli allenamenti e ai laboratori della Sezione Scientifica; il color crema delle pareti e la luce riflessa dalle finestre dei corridoi visibili oltre il colonnato contribuivano a mantenerla sempre luminosa, bisognosa dell’illuminazione elettrica unicamente di sera.
 
Col sole appena sorto, i lunghi tavoli erano già occupati da Finder ed Esorcisti intenti a fare colazione prima di essere chiamati dal Supervisore Baker per le odierne missioni. Amèlie era seduta in fondo all’ultimo tavolo rivolto al muro di sinistra, il suo angolo preferito, con la gamba destra ingessata e diverse fasciature e cerotti a coprirne le ferite recenti. Dopo averla recuperata sua madre l’aveva riportata alla Home immediatamente e sotto l’ordine della severissima Capo-infermiera era stata messa a riposo forzato fino a tempo indeterminato, ma anche senza rompersi la gamba, incrinarsi cinque costole o procurarsi tanti ematomi da far venire una crisi isterica alla suddetta, la piccola corvina non avrebbe potuto comunque muoversi da lì tanto presto: la sua Innocence era finita in mille pezzi e con tutto il lavoro che gravava sulle spalle della Sezione Scientifica, ce ne sarebbero volute di settimane prima che potesse rivedere la sua falce. Un’occasione perfetta per appurare un minuscolo sospetto venutole in mente quando aveva scoperto il nome del suo salvatore.
 
Frugando in alcune carte che sua madre teneva nella loro stanza, aveva scoperto un corposo plico di fogli pieno di spese e consumazioni effettuate tutte quante alla Rosa Nera, un’infinita serie di fatture chilometriche non saldate e tutte addebitate alla stessa persona che risalivano al giorno stesso dell’apertura della magione. Il nome di quell’uomo era ripetuto sotto qualsiasi servizio da lui richiesto, affiancato dal prezzo, dalla data, e da un rettangolino bianco dove mancava il bollo d’avvenuto pagamento della Rosa Nera.
 

- Assurdo! Non ha neanche versato l’anticipo previsto per il Gold Service! Come si fa a indebitarsi così tanto in un solo giorno? – Si domandò incredula, circondata da tutta quella carta ben ordinata che aveva letto scrupolosamente fin nei minimi dettagli. 

Guardò Timcampi nel mentre mangiucchiava la sua brioche come se potesse risponderle. Si era stupita quando, tre giorni prima, lo aveva incrociato nel corridoio che portava alla biblioteca, quasi la stesse aspettando; da allora era rimasto con lei e benché il tempo trascorso insieme fosse relativamente corto, Amèlie aveva preso a parlargli e a comprenderne il linguaggio muto grazie ai movimenti che questo compiva per farsi ben intendere.
 

- E’ inutile che lo chieda a te -, sospirò.
- Amèlie! Ehi, Amèlie! – Qualcuno alle sue spalle la chiamò allegramente, sgonfiandole le guance per l’umore nero.
- Uh? Marie, sei tu! – Esclamò sorridente lei, riconoscendo il muscoloso profilo maschile che le stava venendo incontro – Ti hanno già dimesso? - 

Noise Marie era l’Esorcista con cui più aveva affinità all’interno dell’Ordine Oscuro. Un ragazzo di soli tre anni in più rispetto ad Amèlie, ma paragonabile ad un piccolo gigante di origini mancesi dall’animo socievole e sempre disponibile per una chiacchierata o un allenamento in coppia. La pelle abbronzata si intonava ai lunghi capelli castani tirati indietro e legati in una coda stretta, che lasciava ben vedere la fronte spaziosa e gli spessi contorni ancora in fase di crescita.
 
Erano solo dei graffi, niente di che. – Il ragazzo le si sedette di fianco col vassoio della colazione in mano – Tu, piuttosto! – E la osservò da capo a collo con sguardo enfatico – Non avrei mai pensato di trovarti conciata in questo stato. E dire che tu sei una che non accetta la sconfitta senza prima averci dato dentro come si deve. – 

Amèlie avrebbe alzato gli occhi al cielo se invece di Marie ci fosse stata una qualunque altra stupida persona che per pura prassi le avesse semplicemente chiesto come stesse. Di quelle ne aveva sopportate fin troppe e mai come in quel momento fu grata dell’esistenza di un’anima buona e solidale come quella del mancese.
Era l’unico compagno che fosse sempre felice di vedere oltre a sua madre, l’unico amico sincero che la conoscesse sufficientemente bene da fronteggiare il suo carattere pungente. Sapeva di non riscuotere le simpatie di molti con la sua indole sprezzante, ma avere l’onore di incontrare il Costruttore in persona e sopravviverci l’aveva trasformata in una piccola miracolata di Dio degna d’ogni genere di attenzione. Un comportamento che l’aveva fatta vomitare dopo i primi dieci minuti di visite sgradite. La compassione era qualcosa che non era mai stata in grado di sopportare, esattamente come sua nonna: entrambe erano nate per essere unicamente loro stesse, orgogliose e troppo fiere per chinare la testa davanti a ridicoli giudizi sputati per puro odio e gelosia.
 
Che diavolo potevano saperne quegli idioti, con i loro melensi sorrisi, di cosa avesse provato? Un beneamato niente, ma Marie era diverso. Non per il suo essere pacifico o che altro: semplicemente per quella dote innata di inquadrare il carattere di una persona e riconoscerne i punti deboli senza però avere il coraggio di infierirci sopra. Sapeva chi era stato a conciarla in quel modo, l’ironia sfoggiata serviva unicamente a nascondere la preoccupazione balenata nelle sue iridi chiare, ma Amèlie vi lesse anche il volerle dare sollievo dalla superflua mole di attenzioni sorbite negli ultimi giorni. Un gesto di cui fu enormemente grata.
 

- Che dire, perfino i migliori hanno i loro momenti di crisi -, se ne uscì lei - Comunque sto bene, anche se non vedo l’ora di togliermi questo coso. – E fece dondolare l’ingessatura fissandola stortamente. La doppia fasciatura era così ingombrante che invece di avere una gamba le sembrava di dover portare in giro un macigno. 

I lineamenti marcati del più grande si sciolsero in uno sbuffo smorzato e divertito, mal trattenuto dalle labbra. Se l’amica aveva la forza di brontolare significava che presto o tardi si sarebbe strappate i medicamenti di dosso anche a costo di sentirle su dalla Capo-infermiera.
 

- Uh? Amèlie, cos’è quello? – Sollevatisi di qualche millimetro, gli occhi nocciolati di Marie notarono la curiosa pallina tonda e dorata che svolazzava vicino al volto della corvina.
- Oh, lui? E’ Timcampi -, rispose lei, guardando l’esserino dorato posarsi sulla sua spalla – E’ il golem del Generale Cross, ma è da alcuni giorni che sta con me. Non è carino? –
- Il Generale Cross? – Si stupì il più grande – E’ qui? –
- Non lo so. – La francese scosse la testa, pensierosa – Senti, Marie: non è che tu sai qualcosa sul suo riguardo? Intendo…Che genere di persona è? – 

Era la domanda a cui stava cercando di dare risposta tramite le fatture della Rosa Nera: a conti fatti non sapeva praticamente nulla dell’uomo che le aveva salvato la vita. La divisa nera ornata di rifiniture e preziosi decori le avevano fatto subito intendere che fosse un individuo avente una carica piuttosto ambita, ma non avrebbe mai pensato che si trattasse addirittura di un Generale, come invece aveva scoperto in quello stesso nefasto giorno. Il nome era riuscito a ottenerlo da una conversazione avuta con un suo collega adulto, ma oltre non era andata.
 
C’erano i suoi ricordi, la sicurezza grossolanamente avvertita quand’era stata sul punto di perdere coscienza, il senso di profonda e abissale differenza che l’aveva assalita nel venir presa in braccio e osservata da capo a collo quasi fosse riuscito a leggerle dentro. Quel sottile velo di gentilezza offertole per farla sentire protetta…
Neppure riuscì a concepire come la semplice impressione lanciatale addosso da quell’uomo si fosse trasformata in un pensiero ossessivo sempre più pressante, che un odore di tabacco pungente, quell’odore, per l’esattezza, le fece storcere il naso.
 

- Tim! Ecco dov’eri andato a cacciarti. – 

Roca e profonda esattamente come la prima volta. Un po’ alterata per come osservò contrariato il piccolo golem nascostosi dietro di lei, ma incisiva su tutta la linea. Amèlie sollevò le pupille nere quanto bastava per osservarne l’intera figura stagliarsi in alto.
 

- Generale Cross. – Marie era stupefatto. Più uniche che rare erano le volte in cui il suddetto solesse farsi vedere nei corridoi della Home e mancò poco perché la forchetta gli sfuggisse di mano. Anche altri presenti si erano voltati a riconoscerne la persona.
- Ma guarda…Mi pareva strano che se ne fosse andato a gironzolare a vuoto -, parlò quello, inclinando la testa con le mani pigiate sui fianchi - Devi piacergli parecchio, Chibi-chan. – Stavolta si riferì a lei. Lo sguardo color rubino turbinò sulla sua testolina con sorriso arrogante.
- Mi chiamo Amèlie -, fu la pronta replica difensiva di lei, al percepire un lieve calore invaderle la pelle del viso. Quello strano nomignolo le aveva colorato le guance malaticce di un vago rossore imbarazzato.
- Grazioso, ma io preferisco Chibi-chan -, ribatté Cross, portandosi alle labbra una sigaretta e accendendola con un grosso accendino dorato – Mi fa piacere che ti abbiano sistemato a dovere. Non è bello che una signorina come te si faccia vedere in giro imbrattata di sangue -, e ammiccò alla gamba ingessata e alle stampelle appoggiate dietro la lunga panca di legno.
- La ringrazio. – Mormorò la sua gratitudine più per prassi che per autentica sincerità. Ci fu qualcosa nel modo in cui piegò la linea della bocca che le punzecchiò i nervi. L’osservarlo sedersi di fronte a lei poi servì solo a inspessire tale sensazione.
- Allora… - Lo vide lisciarsi il pizzetto scarlatto con l’indice della mano – Dov’è la tua bella mammina? –
- Perchè le interessa saperlo? –
- Pura e semplice curiosità, Chibi-chan. Non hai intenzione di dirmelo? -
- Dipende -, rispose lei, incrociando le braccia - Se ha intenzione di pagare i suoi debiti, potrei sforzarmi di ricordare dove l’abbia vista l’ultima volta. Se non è così, non ne ho idea. –
- Uh? Cosa? Che? - Cross corrugò le sopracciglia, aggrottando così la fronte in un cipiglio interrogativo. Reagì come se il significato di quella frase, anzi, di quel verbo sottolineato con tanta premura, gli fosse sconosciuto.
- P-a-g-a-r-e. – Amèlie lo sillabò lentamente, ribadendo l’importanza di ogni singola lettera e mostrandogli le fatture a suo carico – C’è il vostro nome su questi fogli: dovete alla Rosa Nera un mucchio di soldi. –
- Ah, quello… - L’uomo si rilassò, lasciando cadere mollemente il plico cartaceo sul tavolo e issandosi sul naso gli occhiali con la punta dell’indice. Il minuscolo dubbio riuscito ad attirare la sua attenzione scivolò via senza lasciare traccia - Considera il tuo salvataggio come il primo versamento: il resto te lo darò quando avrai compiuto sedici anni. –
- Niente pagamenti in natura, solo contanti. Adesso -, sibilò lapidaria la bambina, raggelando mezza sala, compreso Marie. 

Non gliela avrebbe data vinta, non tanto facilmente. Si guardarono con scintille cariche di risolutezza a brillare nelle loro iridi, squadrandosi silenziosamente e in maniere del tutto differenti per attimi che parvero secoli.
 
Sei una che sa quel che vuole, eh, Chibi-chan? Mi piace -, affermò poi Cross, scioltosi in un’espressione compiaciuta e stuzzicata - Ma non credo tu sia ancora pronta per giocare con me. -
- E chi ha voglia di sprecare tempo con lei? Io no di certo. –
- Oh, questo si vedrà, Chibi-chan -, sghignazzò prima di alzarsi e andarsene – Questo si vedrà. - 

Lo vide sparire dietro il colonnato seguito da Timcampi. Non era il genere di risposta che si sarebbe aspettata di ricevere, non da un Generale dell’Ordine Oscuro le cui presunte credenziali avrebbero dovuto rispecchiare una certa serietà e responsabilità per qualunque faccenda riguardante la propria persona, ma il sorriso sprezzante contro cui Amèlie si ritrovò inconsapevolmente a combattere frantumò qualsiasi tentativo di concepire una conversazione lineare e priva di spigoli. Sembrava lo facesse apposta a stuzzicarla con quell’assurda questione del pagamento e il rispondergli a tono aveva abilmente camuffato il lieve imbarazzo scaturito e l’accaldarsi del proprio sangue in zone compromettenti, guance in primis.
 
Era davvero quello l’uomo che le aveva salvato la vita?




Ah..! C-Cross-san..! - 

Le presenze costanti nella vita sono quelle che finiscono sempre per essere ricordate come le più preziose, le più importanti. Nel caso di Marian Cross, la sua costanza era tutta da collegare all’esasperazione che seppe tirare fuori fin dal primo momento che Amèlie riuscì a inquadrarlo bene dopo giusto una settimana di lunga e scrupolosa analisi. L’ombra appartenente all’uomo riuscita a scuoterla col solo sguardo era stata sostituita da una versione più presuntuosa, piena zeppa di debiti, attaccata al collo di una bottiglia dal costo troppo elevato per il suo portafoglio vuoto e con un ostentato interesse per le donne.
 

- Non è possibile: tutte le sante notti…Non si può andare avanti così! – Borbottò irata la bambina, chiudendosi a riccio nel silenzio notturno del corridoio. 

Quella volta in mensa aveva fatto bene a stare sulla difensiva, le era apparso fin troppo chiaro il doppio fine delle sue domande e l’ultima cosa che voleva era che sua madre diventasse un nome in mezzo a tanti altri. A prescindere da come si muovessero gli ingranaggi del mondo sottostante all’alto picco dov’era nascosta la nera Home, Rosalie Chevalier rimaneva comunque una donna ancora sotto i trent’anni e di un’angelica bellezza che ne decantava tutte le qualità. Chi mai avrebbe pensato che fosse stata sposata – seppur per un brevissimo periodo – e che avesse avuto addirittura una figlia a diciassette anni, esattamente come sua nonna aveva fatto prima di lei?
 
Nessuno, Marian Cross compreso. Il che, invece di fermarlo, sembrava aver sollecitato il suo istinto animalesco.
Furente e con i pugni stretti al cuscino con cui si copriva la testa, la corvina lanciò un’occhiataccia all’orologio da taschino argentato, seduta sulle dure mattonelle scure del pavimento. Era passata l’una di notte e quegli stramaledetti cigolii udibili dall’interno dell’appartamento ancora non davano segno di volerci dare un taglio.
 
Cross-san! – La voce di sua madre all’interno della stanza le fece affondare ancor di più le unghie nel cuscino per la rabbia e il frustrante imbarazzo.
- Gnft!!! – Amèlie dovette mordersi le labbra coi denti per evitare di cadere nella tentazione di sfondare la porta e accoltellare quel maniaco - Questa è la volta buona che mi tocca disinfestare la camera con acqua santa e candeggina -, sibilò a un Timcampi avvolto nelle sue stesse ali sulla sua testa fumante, con i nervi pronti a saltarle. 

Al comprimersi delle molle si alternarono gemiti osceni e palesemente contenuti che ben lasciavano immaginare cosa stesse succedendo dietro la porta di legno solido.
Da una lunga serie di visite inaspettate al loro appartamento si era passati a un livello relazionale più intimo, dove gli ansimi eccitati di sua madre avevano visto Amèlie venire dolcemente depositata fuori dalla sua stessa stanza e costretta a dormire nei posti più disparati dell’Ordine Oscuro giusto anche per l’evitarle di scontrarsi puntualmente con la spudorata nudità del Generale di prima mattina – come già accaduto -.
Neppure l’aggrapparsi ostinatamente a credenziali come il possedere due Innocence, l’essere un brillante scienziato conoscitore di arti antiche e mistiche aveva sortito un qualche particolare effetto, se non alimentare la sua riluttanza d’innanzi a un essere così brillante e al tempo stesso odioso e approfittatrice. Ovviamente non ne aveva fatto una colpa da addossare alla madre. Non le era riuscita di farlo, quasi l’immenso affetto che la legava indissolubilmente a lei fosse così intenso da concretizzarsi in una barriera capace respingere qualsiasi malevolenza che potesse intaccarne la sacra figura; adorava sua madre e le sue premure più di qualunque altra persona conoscesse e nel suo aver aperto la porta a Cross vi aveva letto quella sottile imprevedibilità che bene si accostava all’altrettanta delicata ingenuità.  
 
Rosalie Chevalier aveva sempre brillato per quel candore innocente e gentile che ricordava una bambina capace di stupirsi anche per le più semplici delle meraviglie, una caratteristica che spesso dava l’impressione di sommergere e cancellare la sua presunta maturità d’adulta. Con questo non intendeva affermare che la sua unica parente fosse una sciocca, ma ciò non le impedì comunque di mettere in chiaro alcune cosette con il Generale, esattamente come lui si era preso la briga di fare con lei…
 
Vedila così, Chibi-chan –, aveva esordito la prima volta che l’aveva colto di sorpresa nel letto di sua madre – Certe esigenze non le si riesce a soddisfare neppure con un’ottima bottiglia di Romanee-Conti, per questo ci è stato fatto il dono di amare le belle donne.- 

Tornare da una missione alle prime luci dell’alba e trovarsi in casa un mezzo sconosciuto nudo, intento a fumare e con una coppa di vino a oscillare nel palmo della mano era tutto fuorché un benvenuto degno di essere ricordato, specie per Amèlie, che messa in mezzo a una simile situazione non era per nulla disposta ad accettarne l’inevitabilità senza prima aver detto la sua.
 

- Non sono stupida, so cosa significa “Avere delle esigenze” -, gli si era rivolta lei, secca e decisa, quasi la spudorata nudità di quell’uomo non la imbarazzasse neanche un po’ - Ma solo perché fai sesso con mia madre non significa che i tuoi debiti scompariranno magicamente dalla lista. E tanto per precisare, scordati di spillarle dei soldi: falle le corna e ti taglierò i testicoli. –
- Che caratterino -, ridacchiò lui, scompigliandole i capelli – Rosalie, avevi ragione! E’ un vero amore! – Esclamò poi alla donna, in cucina a preparare il caffè. 

Rivangare con la mente a certi momenti serviva solo a mandarle il sangue al cervello per la rabbia. Se sua signoria pensava di avere a che fare con una bimbetta inconsapevole sulle conseguenze che poteva comportare un rapporto fisico fra un uomo e una donna, comprese indecenti e imbarazzanti implicazioni sessuali che nessun essere sano di mente le avrebbe illustrato prima dei quindici anni si sbagliava di grosso, oh, se si sbagliava! Nove anni o meno, Amèlie era un Chevalier e una delle cose che si imparavano delle Chevalier era la totale incapacità di lasciarsi impressionare o sottomettere. Sua nonna era stata l’esempio vivente per eccellenza che aveva silenziosamente idolatrato fin dalla più tenera età, a prescindere l’indole severa, paranoica, omicida e rasentante la perfezione che tante volta l’aveva vista ad un passo dalla morte sicura. Ritrovare in Marian Cross la stessa energia trascinatrice e di ineffabile carisma - forse in una versione più marcata e meno sinuosa -, l’aveva sorpresa, ma dopo anni oberanti di lezioni che includevano il Bon-ton, la danza classica, la perfetta padronanza della lingua francese, della matematica, del portamento, dell’eleganza e dell’importanza di essere una femmina – comprendenti allenamenti inverosimili volti unicamente a prepararla a qualsiasi evenienza in veste di Esorcista e di futura Maitresse della Rosa Nera –, un uomo di quello stampo non l’avrebbe di certo fatta capitolare.
 
Sfilando dalla tasca della gonna il suo personale taccuino nero, la piuma d’oca e l’inchiostro dalla borsa, aprì il libricino su una pagina vuota e cominciò a scrivere freneticamente con la fronte corrugata da una vistosa rete di gonfie nervature.
 
Danni morali e psicologici -, sibilò, finendo di scrivere il titolo in alto alla pagina – Per tutta questa storia pretendo un minimo di risarcimento! – E cominciò ad annotare le prime cifre. 




Ovviamente vi erano quegli aspetti che a lungo andare divenivano sempre più noti, evidenti, perfettamente paralleli ai difetti, seppur in nettissima minoranza. Qualità che sostavano su un piedistallo che costrinse Amèlie a stirarsi il collo e ad aguzzare la vista al meglio delle sue possibilità, tanto erano in alto.
Le occasioni di vedere lavorare Marian Cross si potevano contare tranquillamente sulle dita sicché quella specifica parola rappresentava per lui una sorta di incognita di vaga definizione. Eppure era indubbio, anzi, certo sopra ogni immaginazione, che i suoi doveri di Esorcista si differenziassero non poco da quelli dei suoi colleghi; era stato lui stesso a provarglielo. Ciò non significava che Amèlie avesse rivalutato la sua opinione: quell’uomo aveva pur sempre ammaliato sua madre rendendola la propria amante – l’ attuale, per la precisione –, autorizzandolo a frequentare assiduamente il loro appartamento, la Rosa Nera e a chiederle saltuariamente soldi – altra questione che molto presto avrebbe risolto di prima persona -.

Avere a che fare con la sua esasperante e contorta personalità di essere impossibile minava ogni buon proposito di gentilezza nei suoi confronti, ma a rendere furente la piccola Chevalier non era quel concentrato di lati negativi o l’incancellabile sprezzo: sotto tutta l’accozzaglia di difetti c’era l’immagine di un vero Generale, un uomo che con la più piccola delle dimostrazioni dava sfoggio di una forza unica nel suo genere, abbagliante come il sole ed esercitante su di lei una costante gelosia per la mancata competenza che mai avrebbe potuto eguagliare. Era stupido, sbagliato, farsi condizionare così a buon mercato da un simile profilo, eppure…Non c’era modo per lei di astenersi, di non spiare e raccogliere avidamente ogni briciola di quel potere formidabile e sconfinato che giorno dopo giorno l’attraeva sempre di più, di esserne indifferente come invece voleva dare a vedere.
Se guardando sua nonna aveva sempre desiderato possederne la sicurezza e l’austera beltà, per Marian Cross non provò altro che un intenso desiderio d’emulazione nei confronti di quell’irriducibile potenza capace di mandare in pezzi qualsiasi Akuma con un unico colpo di revolver e di manovrare la salma di una compatibile parassita con la sola mano sinistra.

Occorrevano conoscenze inumane per giostrarsi in simili meandri, una personale rivisitazione del mondo alchemico che solo pochi individui potevano permettersi di compiere. Il divario che la separava anche soltanto dal potere di Judgment era mastodontico, quanto di più simile al confine che divideva il cielo dalla terra, e non poteva esserci distanza più adatta per accrescere la malsana frustrazione di Amèlie, che ribolliva silenziosa e corroborante per lo stare vicina a un tale potere senza avere la possibilità di sfiorarlo, ma ammettere tanta ingiustizia ne avrebbe ferito il puntiglioso orgoglio, un rischio che non era disposta a correre con lui in agguato.
 
Salvo occasioni irripetibili…
 
Un segreto? Di che tipo? –  

Quella mattina vicina a mezzogiorno era stata particolarmente calda, nonostante la stagione invernale. Amèlie, undicenne e infagottata in un maglioncino nero, osservò con cipiglio interrogativo il volto del Generale dai capelli rossi, col libro di Enologia aperto sulle gambe. Una lettura poco consona a una mente così giovane, ma preferibile a qualunque altro testo che non soddisfacesse i particolari gusti di Amèlie, più propensa a farsi una cultura tutta sua che una preconfezionata.
 

- Proibito -, le aveva rivelato quest’ultimo, con l’immancabile sguardo provocatorio - Un piccolo giochino alchemico che implica arti oscure e da cui qualunque scienziato di sana lucidità si terrebbe alla larga. –
- E se è tanto pericoloso, tu perché lo fai? –
- Mi piace essere unico nel mio genere, Chibi-chan. – Di nuovo quel odioso e irritante nomignolo – A essere uno qualunque nel mezzo della calca non ci si ricava niente. E poi perché ne ho le capacità. Non ti alletta? –
- Solo se non è un espediente per ammorbidirmi ed evitare che dica a mia madre di quella sciacquetta a cui hai fatto compagnia -, era stata la composta e stizzita replica della corvina. Gli occhi neri erano affilati più di una lama appena forgiata.
- Quanta diffidenza, Chibi-chan. Pensavo ti avrebbe fatto piacere conoscere qualcosa che nessun’altro sa. – Ammiccò al suo libro di Enologia, ben consapevole dei particolari gusti in fatto di interessi della piccina.
- La mia predisposizione a leggere libri sui vini è puramente personale. E smettila di chiamarmi Chibi-chan: non lo sopporto. –
- Era un sì? –
- Tu…! - Mordersi le labbra e strizzare le palpebre l’aiutò a contenere l’irritazione scaturita dalla vena ingrossata alla base della tempia che solo i capelli lasciati sciolti nascondevano – Ti saluto! –  Chiuse il libro con tonfo secco, imboccando l’uscita dell’aula-studio con il tomo stretto in petto.
- Suvvia, Chibi-chan: sei davvero disposta a perdere una simile occasione? – Le domandò con voce nettamente più alta - Quanti scienziati conosci che sono capaci di modificare un Akuma del Conte del Millennio? -  

Tempo cinque secondi e Amèlie fece dietro front immediato sotto il sorriso trionfale del Generale.
 

- Stai mentendo. –
- E perché dovrei? –
- Perché gli Akuma sono affare del Conte del Millennio: nessuno oltre a lui può fare quello che hai detto -, bisbigliò lei, per paura che qualche casuale passante sentisse tutto.
- Non saperlo fare non significa che sia impossibile farlo, Chibi-chan -, le rispose il rosso – E poi te l’ho detto: a me piace essere unico nel mio genere. Come a te del resto. – 

La colpì nel punto dove ben sapeva di andare a colpo sicuro, una vulnerabilità che scosse la francesina fino in fondo al suo animo dubbioso: l’ambizione. Era sempre stata molto ambiziosa, Amèlie, tremendamente, pronta alla competitività estrema se serviva a permetterle di ottenere qualcosa che le interessava e le unicità rientravano nelle sue preferenze.
Una bugia. Ecco cosa aveva pensato di quella proposta: un bluff succulento che il Generale aveva teso alla sua emotiva ingordigia sempre in ascolto. La razionalità le impedì di credere completamente alle parole dell’uomo, non le riteneva fattibili, ma lo sguardo socchiuso e sanguigno che squadrò da dietro le lenti trasparenti i suoi occhi, alla ricerca dell’ennesimo spiraglio per poterne far vibrare la sicurezza interna, non riluceva di alcuna presa in giro. L’incertezza albergava in Amèlie, che strinse le dita attorno al libro come se questo potesse offrirle un appoggio sicuro.
 
Coraggio, Chibi-chan -, incalzò suadente Cross, afferrandole con la punta del medio e dell’indice una delle sue lunghe lisce ciocche nere – Lo so che sotto sotto muori sempre dalla voglia di vedermi all’opera. – Altra fastidiosa verità che la piccina incassò in silenzio.
- E cosa vorresti in cambio? –
- Dovrei volere qualcosa in cambio? –
- Non provare a farmi credere che sei disposto a condividere qualcosa di tuo senza prima stabilire un prezzo. Ti conosco bene. – Almeno così aveva sempre pensato, prima di sentirsi trafiggere da parte a parte da quella che le parve una lancia infuocata tutta riservata a lei.  

La sua ciocca era ancora tenuta in ostaggio, attorcigliata all’indice dell’uomo, che con semplice gesto la lasciò cadere nel vuoto, per poi sistemargliela dietro l’orecchio.
 
Diciamo soltanto che mi piace da maledetti divertirmi con te. - 

Quella volta si era detestata per l’essersi lasciata attirare così docilmente da quella maledetta voce intrigante che tutto otteneva col minimo sforzo. Non aveva opposto resistenza al suo ultimo tocco, ne era stata succube fino alla fine, in un modo che aveva impedito a qualsiasi sentimento di natura nociva di esplodere. Una sensazione di caotica confusione che stava sperimentando già da troppo tempo, che ne aveva indebolito lo spirito e che l’aveva lasciata a terra senza niente a cui aggrapparsi. L’imprevedibilità di Cross la prendeva e tirava come a volerne testare la resistenza, uno strapazzamento continuo a cui Amèlie aveva sempre risposto a tono, nonostante le molte difficoltà a reprimere l’imporporarsi delle guance. Non c’era modo per definire tutto ciò, quella cosa che la costringeva a una sfida continua per la salvaguardia del suo stesso ego, ma aveva dovuto ammetterlo: quando il Generale le aveva domandato se fosse disposta a condividere con lui un piccolo segreto, si era sentita privilegiata. C’era stato il sospetto, l’esitazione ad accettare, e una riflessione sulle possibili ripercussioni, ma dopo, non prima. La vera ragione di una simile gentilezza non le era mai stata chiara, quell’ambigua risposta era stata sufficiente a tormentarla per diverse notti, ma il pensiero che un tale gesto fosse associabile ad un perdono per averle rubato la madre più volte non le era passato neppure per l’anticamera del cervello. Solo una consapevolezza sviluppata e accertata da prove fondate aveva conservato la sua solidità: Marian Cross non elargiva mai nulla senza aveva in mente qualcosa, ma che fosse stato sincero o meno, ciò non cancellò la gioia che Amèlie serbò per tempo immemore nel suo cuoricino.




Amèlie, cos’hai per fare quella faccia così imbronciata? –
- Nulla. Assolutamente nulla. - 

 I rari momenti di quiete alla Rosa Nera non conoscevano paragoni qualora riuscivano a emergere dalla coltre di instancabile quotidianità lavorativa. Con le porte sempre aperte, era difficile immaginare un solo pomeriggio di pace dentro cui bearsi e assaporarne il dolce silenzio con una squisita fetta di torta al cioccolato accompagnata da una tazza di tè caldo al limone; attimi di estasi inscalfibile, che rinvigorivano l’animo di Amèlie della giusta serenità. Tuttavia quel giorno le era impossibile beneficiare della tanto agognata tranquillità, l’irritazione che ne gonfiava le morbide guance in due pomolotti così rossi da suscitare in Rosalie sia lo stupore che la tenerezza non accennava a diminuire; rammentava vagamente l’ultimo pomeriggio trascorso con la madre, dove aveva potuto godersela senza che i rispettivi doveri interferissero e quella volta avrebbe dovuto ripagare le lunghe attese e fatiche, se solo la sua testolina fosse riuscita a scacciare la maledetta immagine di quella chioma color carminio che le sorrideva sfacciata. Assurdo come ancora si infervorasse per azioni o stupidi gesti ripetuti fino alla nausea, le occasioni per farci l’abitudine erano state parecchie.
 

- Deve essere un nulla veramente grave per non farti mangiare la tua torta preferita -, ipotizzò fintamente Rosalie, notando che la figlia non aveva neppure sfiorato il dolce riposto sul piattino di porcellana che Timcampi stava silenziosamente spazzolando – Posso indovinare? -
- E’ solo Cross -, rispose spiccia la bambina.
- Oh, ma è sempre Cross-san, cara  –, ridacchiò sommessamente la donna, versandosi del tè caldo. 

Fu una fortuna che le dita affusolate di Amèlie fossero compostamente appoggiate in grembo e non sulla tazzina da tè, altrimenti non era sicura della fine che avrebbe fatto. Tergiversare su una simile evidenza sarebbe servito solo a rovinare quelle ore pacifiche, prospettiva che voleva evitare a qualunque costo almeno per quel giorno. Dopo mesi che Cross era entrato a far parte della sua vita – più in quella di sua madre, disgraziatamente -, ancora riusciva ad arrovellarsi i nervi per qualche sua bravata. Perché le fosse così difficoltoso porgerci una pietra sopra e accettarlo riguardava una verità che coinvolgeva il cuore dolce e puro di sua madre, prezioso per Amèlie per quell’amore che non voleva veder ferito e abbandonato.
 

- Proprio non riesci a non odiarlo, eh? – Le domandò la madre, soave.
- Non lo odio, mamma. Solo mi è difficile digerire certi suoi comportamenti -, rispose – Se un uomo è interessato a una donna, non ne corteggia altre solo per ricevere più attenzioni. E’ meschino e irrispettoso, anche se si trattasse di una semplice sceneggiata. –
- Innegabile, ma ciò non toglie che abbia anche degli aspetti positivi: personalmente, lo trovo molto simpatico -, affermò gioviale lei – Sai che non sa ballare? –
- E’ un donnaiolo, mamma, e lo sai –, replicò schietta la figlia.
- E’ un ottimo amatore -, contro ribatté la più grande, continuando a sorridere candidamente.
- E’ pieno zeppo di debiti, beve di prima mattina e fuma come una ciminiera -, rincarò la dose la piccina – Senza contare che è dispotico, arrogante e anche ricattatore. -
- Oh, Timcampi! Sei così grazioso! – Cinguettò zuccherosa Rosalie, carezzando il boccino d’oro – Amèlie, sei certa che Cross non possa costruirne un altro come lui? –
- MAMMA, MA MI STAI ASCOLTANDO?!? – Tuonò con viso assatanato la poveretta.
- Ti ascolto, tesoro, ti ascolto -, le sorrise la madre, accondiscendente – Dunque, se ho capito bene, pensi che Cross-san stia approfittando di me e che nonostante io lo sappia, lo lasci comunque fare, giusto? – Riassunse con sintesi che non mancò di lasciare fuori i punti salienti. -
- No…Non del tutto. – La figlia scosse la testa – Ma in sostanza, sì. - 

Amèlie ritirò le spalle contratte, appoggiandosi completamente allo schienale della sedia e rinunciando a fornire alla parente una risposta infarcita di tanti giramenti di parole. Fintanto che certe insinuazioni rimanevano al sicuro nella propria mente non c’era ragione che il loro contenuto venisse divulgato oppure mal espresso per l’annodarsi delle corde vocali. Il fatto che Rosalie Chevalier fosse perfettamente a conoscenza di quale fosse il punto che stava cercando di illustrarle senza risultare al tempo stesso troppo critica avrebbe dovuto quanto meno facilitarle l’impresa, ma se si fosse permessa di esprimere a parole quello che realmente pensava di quell’uomo avrebbe corso il serio rischio di ferire la persona che più amava a quel mondo, un gesto capriccioso e stupido che non si sarebbe mai perdonata.
 
Rosalie Chevalier non era minimamente paragonabile a nonna Agatha, ma sapeva come il mondo girasse, intuiva quali pensieri si annidassero nella testolina della figlia e per questo sorrideva placidamente, accettandone gli sbuffi senza replicare. Non per stupidità o mera voglia di attaccarsi a un’illusione, ma solo per desiderio di quel sentimento, per quel suo dare che riceveva asimmetricamente e che le bastava per sentirsi riempire di vita. Aveva sofferto, pianto, curato ferite che in segreto ancora sanguinavano al ricordare il primo amore andato perduto o la figura materna da sempre stata il suo cardine, ma anche d’innanzi ai colpi più traumatici, quel sentimento che la rendeva così bella agli occhi della figlia non si era mai spento. Lo splendore che ne lambiva la pelle irradiava il suo profilo di una bellezza quasi etera, forte, dolce e amara come i momenti che l’avevano fatta arrivare fino a lì. La facevano rinascere ogni volta, sotto sembianze che la corvina ammirava tutt’ora.
 
Capisco -, Amèlie la vide annuire lentamente col capo, attorcigliandosi attorno all’indice il rosario di perle d’argento e rubino – Bè, dopotutto, io e la nonna ti abbiamo insegnato l’importanza dell’esprimere la propria opinione purché rispetti l’ambito e il tempo in questione, e da parte mia sarebbe inappropriato sorvolare sulla faccenda solo per mia comodità. –
- Sì, giusto. – Stava andando bene: dandole corda era come se condividesse la sua idea o una parte di essa.
- Tuttavia, Amèlie…Vi sono cose che non possono essere apprese se non con la vita stessa –, proseguì con dolcezza eloquente la più grande, socchiudendo gli occhi dalle lunghe ciglia, per poi riaprirli e puntarli verso di lei – E queste cose a volte sono le più semplici e quindi le più invisibili, tanto si ha la presunzione di possederle. –
- E questo che cosa centra con te e Cross? – 

La piccola Esorcista era incerta sul dove sua madre volesse portarla con quello sguardo penetrante, così differente dal suo benché la pece che li riempiva fosse la stessa. Ogni più minuscolo movimento, a partire dal lento e scandito intrecciare le fini dita nivee minuziosamente curate, era impregnato di un’invidiabile grazia: Rosalie era leggera, una bambola di porcellana delicata ed elegante anche nel sorseggiare il suo tè bollente come la buona Etichetta impartiva alle fanciulle di nobile famiglia. Amèlie ne avrebbe potuto essere il perfetto riflesso se dal suo sguardo non fossero guizzate scintille acerbe di precoce affilatezza.
 

- Dimmi, Amèlie -, riprese sua madre - Tu sei felice? –
- Certamente. – Nessuna esitazione, solo un perfetto controllo della propria voce. 

Era una di quelle domande dove il senso ricercato si credeva inesistente, una dimostrazione di come l’imprevedibilità e il carattere di sua madre a volte cercassero di sondarla e coglierla di sorpresa. Era felice? Non avrebbe dovuto esserlo? Certo, la sua esistenza come Esorcista si riempiva più di ombre che di spiragli di meravigliosa speranza, ma non vi era altra vita per lei se non quella e recepirlo fin dal primo istante le era sempre servito a risaldare il proprio spirito.
 

- E sai cos’è la Felicità? – Seconda domanda che mirava a disorientarla.
- Quello che ti fa star più bene, giusto? -
- In un certo qual senso, ma è sempre difficile definire qualcosa di così sfuggente e ingannevole -, ridacchiò placidamente la donna, appoggiando la guancia al palmo della mano aperta. Le perle del rosario tintinnarono contro il bordo del tavolo - A volte nè si è così coinvolti da non riconoscere più cosa si desideri, ci si fa assuefare dalle sue illusioni senza accorgersene –, proseguì poi, persa in qualche dimensione.
- Non io: io so cosa mi rende felice e non è un'illusione -, asserì la piccola, ridestandola debolmente da quello stato assorto che aveva velato i suoi occhi di sogni piacevoli – Combatto per questo. –
- E ti basta? –
- Non dovrebbe? – Amèlie inarcò le sopracciglia – Mamma, davvero, non capisco dove tu voglia andare a parare: perché pensi che quel che faccio non mi renda felice? Io ti voglio bene, voglio stare con te -, le confessò con più enfasi, affondando le unghie nella tovaglia ricamata – La tua felicità è la mia, perché non dovrebbe essere così? –
- Perché, se così fosse, e non dico che non lo sia, avresti lasciato che Cross-san entrasse a far parte della mia vita così facilmente? Non è forse per amor mio, che hai messo da parte il tuo orgoglio per permettere a un estraneo di rendermi felice? – Le domandò soavemente, alzandosi dalla poltrona – Amèlie, la Felicità che intendo io non è qualcosa che si può condividere: non la sì può ne la sì vuole spartire con nessuno. Ti apparterrà sempre, incondizionatamente, sarà tua come la sua nascita e la sua morte. –
- E Cross è la tua? - 

Lo domandò a bruciapelo, in un puro istinto di conservazione che inconsciamente bramava di non essere in svantaggio, ma quando sua madre le sorrise ancora, piegando le morbide labbra rosee assieme alla fine linea dei suoi occhi neri, la bambina capì. Lo aveva sempre saputo, che il lavoro di sua madre non concedeva spazio a emozioni inutili o intenzioni staccate dal profitto: era pura illusione quella che serviva, una scintillante e delicata finzione che alle prime luci dell’alba terminava. Gli uomini che circondavano Rosalie Chevalier non avevano valore, in lei non lasciavano tracce particolari che la spingessero a provare qualcosa che valicasse il semplice piacere fisico.
 
Era solo lavoro, una parte di lei crudele per come riuscisse a seppellire il proprio cuore al di sotto dell’indifferenza e a sorridere come il più casto degli angeli, ma Amèlie non l’aveva mai odiata per questo: lei, sua nonna…Loro erano questo.
Dietro il minuto orgoglio si celava la promessa fatta in quel giorno di pioggia, il desiderio trasformatosi in arma quando lei e la sua Innocence erano scese per la prima volta in campo, due volontà unite da un patto nato e vincolato da una preghiera incessante. Proteggere gli amati e combattere il destino quale fosse un ulteriore nemico da abbattere, mai lasciarsi sopraffare dagli eventi e continuare a qualunque costo verso una fine che non era neppure definibile tale…
 
Rosalie Chevalier aveva dovuto accettare tristemente una realtà dove non era lei a combattere in prima linea, inghiottendo la riluttante consapevolezza di non poter valicare delimitati confini imposti da tempi remoti.
Ma il suo prezioso tesoro era ancora troppo giovane, troppo inesperto per sapere esattamente cosa desiderasse per se stesso, quale potesse essere la reale ragione che ne muovesse il piccolo cuore nobile.
 
Amèlie, tesoro mio… - Rosalie le si affiancò, in ginocchio, prendendole le mani fra le sue lisce – Nessuno, men che meno io, può impedirti di combattere per proteggere ciò che ami e di crearti la propria strada, ma verrà il giorno dove questo non ti basterà più -, le rivelò – Adesso sei ancora piccola, ma quando sarai più grande, ti guarderai attorno e ad un certo punto desiderai qualcosa unicamente per te stessa. Non la vedrai, ma saprai che esiste, la cercherai intensamente, lotterai con tutte le tue forze e ti rialzerai per continuare e allungare le mani. A volte la amerai, a volte la odierai, ma non potrai mai sottrarti dal desiderio di averla. Quella sarà la tua Felicità. – 






Note di fine capitolo:
E risorge dalle ceneri come una fenice pronta a spiccare il volo! Sì, stavolta il ritardo è colossale, forse epico, ma non ho potuto fare altrimenti; sono stata davvero occupata e lo sono tutt’ora, assediata dagli esami. Con questo capitolo si conclude il passato di Amèlie, dove ho tolto parti che verranno aggiunte più in avanti, giusto per rendere la sua figura più ricca e profonda (eh, sì: non sapete ancora tutto su questa donna), con annessi momenti che sono serviti a renderla quella che è (e qui Cross ha contribuito alla grande). Non mi andava di descrivere in questi unici capitoli il rapporto con il Generale, è qualcosa che verrà scoperto a gradi e che spero verrà apprezzato da tutti quanti voi. Lo stesso vorrei fare con Rosalie, la bella mammina di Amèlie. Ho poi pensato sarebbe stato carino inserire un volto familiare nel suo passato, Marie è un personaggio buono e qui ovviamente ci vedeva ancora; quale anima pia migliore per sopportare il carattere di Amèlie? Rosalie non poteva essere l’unica, con lei almeno Amèlie non deve usare il voi come invece la nonna le impartiva. Ringrazio tutti quanti come sempre e invito a esprimere la vostra opinione sulla storia, qualora vi fosse qualcosa che vorreste sapere o farmi notare. Un bacione! A presto! 

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Capitolo 16
*** Black storm. ***




La marea di ricordi si arrestò al fischio della cannoniera di Anita, pronta a spiegare le vele e a salpare.
Amèlie ritornò a galla dopo tanto rivangare inconscio nei meandri mnemonici della sua mente sollevando gli occhi al librarsi in aria di uno stormo di gabbiani sul lungo orizzonte limpido. Estraniarsi dalla realtà le piaceva quanto avere dei debiti, seppur alcune volte quel semplice atto le addolcisse l’umore appuntito; le bastava prendere fra le dita il prezioso ciondolo perché sprazzi di vita familiare occupassero la sua mente e tutto il resto cessasse di esistere. Ce ne erano molti, troppi a dire la verità, e il suo rimembrare le impediva sempre di sondarli tutti, ma andava bene così; immergersi in anfratti dove non giungeva la luce del presente comportava il rischio fatale di farsi afferrare da rimpianti irrisolti. Se ammirava l’infinità di quella distesa cristallina e ne immaginava le tenebre nascoste laddove erano diretti, la sua proverbiale compostezza colma d’orgoglio, che si rifletteva con lo stesso splendore di un diamante nei suoi occhi d’ossidiana, si affilava all’inverosimile, divenendo la sua forza e il suo scudo più resistente. Da lì in poi nessuno di loro avrebbe più potuto voltarsi o tergiversare: solo andare avanti, seguire la scia dello stesso vento che le sollevava la chioma nera e smuoveva le onde pigre.

Cross era stato la Felicità di sua madre, il suo sole, la sua luna. Lo aveva amato con sentimento enigmatico e profondo, di difficile lettura per Amèlie, nonostante le tracce lasciate fossero tuttora indelebili. Sorrise ancora, con debole sprezzo rivolto alla sua persona: non ci aveva scommesso un solo soldo che lo avrebbe trovato a tracannare sakè ben sapendo che lei stava arrivando, ma gli riconobbe la costanza nell’essere quell’inguaribile bastardo arrogante sempre un passo davanti agli altri.


- Si prospetta una meta complicata –, sbuffò pesantemente, carezzando il piccolo golem appoggiato sopra la sua spalla – E se il tuo padrone è arrivato a pretendere il mio aiuto deve essere veramente disperato. O stupido. -

Un’ipotesi che in realtà nascondeva un piano congeniato di cui l’avvenente francese aveva individuato i tratti generali. Più ci rifletteva sopra, più si convinceva che il suo improvviso coinvolgimento avesse a che fare con la profezia riguardante l’Arca Bianca; di qualunque cosa si trattasse, doveva nascondere col solo nome segreti che per il Conte del Millennio rappresentavano un’inesauribile fonte di potere e giacché si parlava di un’opera del loro nemico atavico, sconosciuta, forse quanto di più spaventoso potesse esserci per tutti quanti loro, riuscire a farsi un’idea chiara sulle sue presunte capacità prima di giungere a Edo era un’intenzione che la francese era decisa a portare a compimento.

- Ma dove si sarà andato a cacciare? -
- Uh? Allen-kun? – 

La testa argentata dell’albino fece capolino sul balcone, venendo subito notata sia da Amèlie che da Timcampi. Con la giacca lunga e decorata dell’Ordine Oscuro sembrava ancor più esile di quanto già non desse a vedere.

- Salve, Amèlie-san –, salutò cortesemente l’inglesino, avanzando verso di lei, per poi notare la presenza dell’amico dorato sulla sua spalla – Tim! Ecco dov’eri! Per un attimo ho creduto che ti fossi fatto mangiare da un altro gatto. –

La muta risposta del boccino si limitò a un semplice volgimento del proprio corpicino tondo verso l’oceano, dando completamente le spalle all’albino.

- Adesso non fare l’offeso –, lo rimbeccò il ragazzo, corrucciando il viso latteo e poggiando le mani ai fianchi.
- Si diverte a fare i capricci, ma solo perché ha il carattere di un bambino -, sorrise composta la corvina, accarezzando con la punta dell’indice la testolina del golem – Dagli dieci minuti e tornerà a sonnecchiare sulla tua testa. –
- Già, presumo che andrà così… -, asserì vacuo lui.

Vedere Timcampi mostrare tanta confidenza a persone che non fossero lui o il maestro non era poi così strano, ma ad Allen non riuscì di concentrarsi sulla capacità dell'esserino di stringere amicizia con chiunque suscitasse in lui un minimo di simpatia. Si stiracchiò le braccia intorpidite dal lungo bagno, optando successivamente per l’andarsi a sedere sulla panca riposta contro il muro rosso e stando ben attento che il suo osservare a sottecchi non venisse colto in flagrante.
Nonostante Amèlie gli desse le spalle e i suoi occhi scrutassero l’oceano, i sensi erano sicuramente attivi, al massimo della loro efficienza, capaci di recepire il più piccolo spiffero che ne sfiorasse la pelle nivea. Ogni suo pensiero era rivolto a Edo e al maestro, esattamente come i suoi. Credere che uno stormo di Akuma fosse riuscito a soggiogare Marian Cross non poteva esistere tant’era ridicola in sé la sola possibilità, eppure con la partenza imminente e la certezza che da lì in avanti ogni singola goccia di serenità si sarebbe estinta al soprassedere di difficoltà mai incontrate prima, perfino lui, Allen Walker, faticava a non intasare la testa con inestricabili crucci interiori. Ma cedere ai timori sarebbe stato altrettanto imperdonabile, non soltanto nei confronti degli altri, ma in primis in sé stesso, nella fiducia che lo esortava a credere che alla fine tutto sarebbe andato per il verso giusto.


- Senti ancora il suo dolore? – La domanda postagli lo rinsavì con lieve sussulto.
- Cosa? –
- L’Akuma delle rovine. – Amèlie si voltò verso di lui, appoggiando gli avambracci sulla ringhiera e la gonna a strisciare sull’orlo del balcone – Durante il combattimento ti sei mostrato preoccupato per la condizione della sua anima. Komui mi ha spiegato che il tuo occhio ti permette di recepire anche i sentimenti che provano oltre che a vederne l’immagine. Era così orribile? –

Non era il genere di quesito da porre per rendere una conversazione più piacevole o scioglierne i gelidi spigoli indotti dal troppo silenzio imbarazzante. Era curiosità, voglia di sapere, scorgere un lato di quella guerra che nessun altro avrebbe mai potuto svelare. Al quindicenne non era mai stato chiesto come fosse vedere oltre la corazza di una Bambola del Conte del Millennio, cosa ci fosse a muoverla; a nessuno scienziato, Esorcista o prete poteva interessare, non era di vitale importanza prendersi a cuore le sofferenze delle anime richiamate dai cari disperati, se con l’Innocence si poteva ridare loro la libertà negata. Per lui la questione convergeva nella direzione opposta, segnata non soltanto dal possedere un occhio rosso e nero armato di una sempre più affinata coscienza acquisita grazie a tutte le continue evoluzioni, ma anche da quella promessa sancita anni addietro che altro non era il cuore d’ogni sua emozione. Mana era lì, con ogni briciola d’affetto donato a legargli l’animo a un’eternità d'indissolubile bene incorruttibile.
Ed era a ciò che Amèlie puntava. Nel suo sguardo penetrante, Allen lesse la sfida lanciatagli a muoverne la fiamma ambiziosa che luccicava con ghigno malizioso; che avesse avuto o meno l’occasione di intravedere lo spirito umano imprigionato nel corpo metallico dell’Akuma, il volerlo spingere ad esprimere a parole come fosse arrivato fin lì, a toccare le radici della sua vita umana, intrecciata a quella degli artifici del Conte del Millennio, era il suo reale scopo.


- Sarebbe scortese da parte mia affermare di averci fatto l’abitudine. – Un esordio che accompagnò con un lieve grattare del dito indice sulla guancia, gesto istintivo quanto l’affabile sorriso con cui era solito presentarsi – E’ un dolore che ti entra dentro e ti gela il respiro quando cerchi di capire perché una persona abbia deciso di fare di un proprio amato un’arma che ne accresce le sofferenze, ma la verità è che dietro a tanta disperazione c’è sempre un amore smisurato che non conosce limiti ed è questo che il Conte del Millennio sfrutta per i suoi scopi. Lo so perché anch’io, nel mio amare quella che è ancora la persona a me più preziosa, ho finito col farle un torto imperdonabile – Si fermò, accertandosi che il rotto salitogli alle corde vocali non lo trasse in inganno per la muta influenza che il viso di Mana esercitava ogni qualvolta ne pronunciava mentalmente il nome - Per me vedere è anche sentire, non è un segreto -, riprese subito – Ed è perché vedo e sento che ho imparato semplicemente ad accettare che, per quanto io mi domandi a cosa tutto ciò possa portare, la sola forza concessami è quella di liberarli dalla loro prigionia con lo stesso dolore che suscitano in me. Era questo che voleva sentirmi dire? –

La sottile e delicata linea della bocca di Amèlie attese tre secondi prima di allungarsi in un sorriso compiaciuto. Lo aveva intuito che quello scricciolo detenesse un senso di responsabilità forzato da eventi maggiori, del tutto inappropriato a un’età così vulnerabile e soggetta a turbamenti emotivi, e a sentirlo esprimere quella porzione del suo Io che probabilmente ancora si incolpava per il male inflitto, la donna ne scorse il fulcro non racchiuso nel pentacolo scavato nella liscia pelle nascosta dai ciuffi bianchi, ma nel cuore innocente e altruista che aveva pianto lacrime e sangue per le troppe ferite. Aveva un certo merito la maledizione inflittagli, ma a rendere Allen unico nel suo genere, trasparente come l’acqua, era il suo essere un lumino splendido e al tempo stesso travagliato di angosce e ideali pronti a richiederne il martirio.

- Sì, è accettabile. Dunque… -, soffiò lei, raddrizzandosi – E’ su questo tuo credo che speri di trovare la Felicità? –
- La…Felicità? – Ripeté Allen, sorpreso.

Amèlie annuì, spostandosi sulla destra, dove il balcone sporgeva maggiormente. Sul volto coperto parzialmente dalla mascherina di pizzo regnava ancora l’immancabile espressione stuzzichevole e ammiccante

- Tu sei nuovo e forse non conosci tutti i membri dell’Ordine Oscuro, ma ti posso assicurare che nessuno di noi combatte per devozione divina. Lenalee si batte giorno dopo giorno per le persone che ama più di questo grande mondo, coltivando la speranza di poter costruire con loro preziosi ricordi. Lavi e Bookman hanno le loro ragioni, così come io ho le mie, ma tu, Allen Walker, che sei così nobile e gentile da provare pietà per gli Akuma quanto per gli esseri umani, a quale tipo di Felicità ambisci con una simile condotta? –

Soddisfatta una richiesta, all’albino se ne presentò un’altra ancor più pretenziosa, che premette su di lui con mani invisibili. Disorientato, finì nuovamente vittima dell’ossidiana lucente incastonata nello sguardo della più grande, vivo, dalle striature provocanti e covanti l’intenzione di voler criticare la risposta datale prima con quella nuova domanda. Nulla avrebbe impedito al ragazzo di nutrire un qualche sospetto riguardo ai presunti scopi conoscitivi che la donna desiderava soddisfare per puro piacere personale, ma un movimento involontario del suo occhio sinistro, armatosi del vetrino circolare e metallico che ampliava il suo raggio d’azione, lo catturò brutalmente, avvertendolo del pericolo proveniente dall’azzurro cielo solcato da un’immensa e ululante nube nera.


- Akuma! –
- Un gran bel comitato di benvenuto. – Amèlie cercò di inquadrarne il numero a grandi linee prima che si disperdessero. Provenivano senz’ombra di dubbio da Edo. – A quanto pare sua signoria il Conte è troppo ansioso di riceverci per aspettare il nostro arrivo. -
- Raggiungiamo gli altri! Presto! – Esclamò l’albino, balzando giù dal balcone. 




A Sir Tyki Mikk impigrirsi faceva male.
Se ne accorgeva quando il corpo tonico non rispondeva ai suoi ordini, diventato troppo dipendente dalle comodità che spartiva equamente con una vita basata sugli stenti. Non esisteva più l’illusorio sogno di vivere anche solo per un giorno come un sultano e ingozzarsi d’ogni privilegio che un titolo e una reggia lussureggiante concedevano; ora poteva farlo quando più gli aggradava, a libera scelta, osservando e sperimentando di prima persona quanto potesse essere divertente e al tempo stesso tedioso un mondo troppo pieno di sé come quello dei ricchi. Gli andava bene se poteva rimpinzarsi di cibi pregiati, letti morbidi o compagnie che includevano entrambi i sessi purché smussassero la sua noia e la riportassero a un livello di contenimento sopportabile, ma arrivava il momento in cui il suo Io chiedeva altro, una contentezza e senso di appagamento che sopperissero i suoi vuoti senza perdere niente di quant’era. La vita del nobile in fondo era divertente, ma quella dello squattrinato vagabondo rasentava la vicinanza a quel suo lato umano, Bianco, che conservava con precisa dedizione. Anche adesso, godersi lo sfrigolante spettacolo di fuoco e fiamme che troneggiavano con lingue inquinanti a diverse centinaia di metri da lui, comodamente sdraiato su un robusto ramo con indosso un costoso vestito di morbida seta nera, altro non era che l’ennesima prova di quella contraddizione vivente quale era Sir Tyki Mikk.

Perché cedere una parte per un'altra quando si poteva trarre soddisfazione da entrambi? Il Piacere funzionava così, lui funzionava così: provava senza mai scegliere. Incarnava un’essenza che nell’aprirgli le porte su più realtà e le loro molteplici meraviglie lo aveva spinto a sostare nel mezzo, senza mai agire veramente. Eppure quella giornata si era rivelata così allettante fin dal primo mattino da indurlo a ponderare attentamente sul da farsi; neanche si era reso conto che del profumo acre della nicotina inspirata dalla sigaretta imprigionata fra le sue labbra cenerine non era rimasta più alcuna traccia.

I volti dei sei Esorcisti spiati grazie alla sua fidata Tease attendevano il proprio giudizio in fila ordinata.

La graziosa cinese dalle morbide code e dal portamento educato era stata la prima a meritarsi il suo sguardo. Un agnellino appetitoso che avrebbe aggiunto volentieri alla lista di giovani vergini svezzate per puro sfizio.
Il guercio dai capelli infuocati era andato in coppia con l’anziano dalla pelle rugosa. Della stirpe Bookman conosceva ben poco, ma era parsa subito evidente la meticolosità dell’anziano in contrasto con l’infantile esuberanza del suo discepolo.
L’anomalo rumeno dalla pelle incavata e le orecchie appuntite non lo aveva nemmeno calcolato. Una repulsione a prima vista indegna di qualsiasi altra valutazione.
La stangona mascherata invece si era meritata un dieci e lode con tanto di fischio di approvazione per gli abbondanti attributi fisici capacissimi di appagare i suoi più sfrenati appetiti sessuali fino allo sfinimento - anche se il suo istinto di conservazione gli aveva caldamente consigliato che da una bellezza sprezzante come quella era bene guardarsi sia spalle che gioielli, giacché doveva sicuramente possedere altre doti nascoste oltre all’esorbitante scollatura all’altezza del seno prosperoso. -

Ma la medaglia d’oro andava all’ultimo della lista, al fiocchetto di neve presentatosi d’innanzi ai suoi occhi in circostanze del tutto casuali: il piccolo baro, Shounen, da lui amorevolmente ribattezzato.
Non era mai stato un segreto che Sir Tyki Mikk fosse di gusti aperti. Essere scelto dal Piacere di Noè e divenirne l’incarnazione aveva ampliato a dismisura ogni angolo del suo ridotto soddisfacimento materiale e carnale, sviluppandone sfumature rasentanti una perversità che sfiorava l’insaziabile malvagità quando le mani gli si bagnavano di sangue d’Esorcista. Era lì che il suo Nero si faceva più sentire, in un godimento che solo Nero e Bianco fusi insieme potevano offrirgli innumerevoli volte. Palpitava tuttora nelle sue viscere nere, in simbiosi con il Noah che era divenuto quasi fosse in astinenza. Colpa dello Shounen. E di quella dannata carta petulante che continuava a dargli il tormento.


- Cancellare nome! Cancellare nomeeeeee! – Cell Roron – la carta in questione - piagnucolò ancora una volta la sua cantilena volteggiando attorno la testa del Noah spazientito - Cancellare Allen Walker dal muroooo! Deleteeeee!!!
- E piantala di rompere, idiota! Sono in pausa! – Borbottò stizzito il portoghese, accavallando le gambe.

A costo di fondersi il cervello, la prossima volta avrebbe imparato a memoria i nomi e i volti di tutti quelli che il Conte del Millennio gli avrebbe ordinato di uccidere; un’altra mezz’ora in compagnia di quella lagna cartacea e anziché lasciarla ai canini di Tease l’avrebbe stracciata in tanti coriandoli. Non era ancora il momento di entrare in scena e accorciare nuovamente la lista affidatagli: il plotone di Akuma provenuto da Edo doveva ancora scatenarsi per bene prima e con Suman Dark divenuto oramai un perfetto Caduto avrebbe guadagnato qualche oretta extra di riposo.

In realtà, se non fosse stato per il copione del Lord, sarebbe sceso da quell’albero e andato a cercare direttamente lo Shounen ignorando tutto il resto. Non aveva scelto il Nero a discapito del Bianco, ne optato il Bianco per rifiutare il Nero: aveva abbracciato entrambi in quanto il Piacere da lui personificato sussisteva unicamente dalla loro esistenza simultanea. E il piccolo Esorcista dai soffici capelli lattei che lo ossessionava col semplice ricordo di quella partita a carte non era desiderato da una singola parte, ma da ambedue, contemporaneamente, in un desiderio famelico e malsano che ringhiava e grattava da dietro le sue ossa.
Le sentiva ansimanti, quelle sensazioni inebrianti che gli irrigidivano il corpo e ne accaldavano i punti strategici: il sangue fattosi bollente, a gonfiare nel cuore catramoso dai battiti rantolanti e vogliosi, la lucidità velata di chiazze offuscanti la ragione…Tutto per un quindicenne esile e grazioso da una scopata e via che forse non era neppure l’Allen Walker che stava cercando. Le dita tremarono per l’eccitazione crescente al solo sentire premere con più forza la coroncina di stigmate cicatrizzata sulla fronte e più s'imponeva quel misero autocontrollo che non reggeva il confronto con lo stringere dei pantaloni all’altezza del cavallo, più il Nero e il Bianco si fondevano in un turbinare di quesiti incontrollabili.

Come sarebbe stato uccidere un così dolce angioletto? Prendere il suo cuoricino da dentro il petto e schiacciarlo fino a farne uscire la vita da quegli occhietti dal colore così inconsueto? Toccarne la pelle sensibile nascosta dall’ingombrante divisa, fargli consumare la voce in gemiti lussuriosi, mangiarne l’anima dopo averne bevuto il sangue….
I brividi che calcarono sulla sua spina dorsale ne resero l’espirare ansioso ancor più rocco.


- Cancellare nome! Cancellare nome! Cancellare nomeeeee! – Strillò ancora una volta Cell Roron – Alleeeeen Walkeeeer! –
- E va bene, ho capito! Ho capito! – Sbuffò il Noah, sputandogli addosso il mozzicone di sigaretta oramai spento.

Saltò giù dall’albero, dandosi una veloce pulita al completo e sistemandosi l’alto cilindro in testa. A giudicare dai botti in lontananza, gli Esorcisti ci stavano andando pesante quanto gli Akuma, ma sarebbe dovuta trascorrere almeno l'intera giornata prima che la calma fosse riuscita a re-imporre il suo dominio. Sospirò, infilandosi i guanti bianchi con accuratezza e lanciando una fugace occhiata al paesaggio sottostante; per quel che aveva da fare, poteva perdere tempo con una lunga camminata o trovando qualcuno da dare in pasto alla sua graziosa farfalla dalle ali viola e nere, pregando che il piccolo Esorcista sopra cui stesse fantasticando fosse l’Allen Walker che doveva uccidere.




Allen-kun! – Lenalee Lee accorse trafelata verso il compagno con la chioma sciolta e libera di volteggiare lungo la schiena.

Il putiferio riversatosi sulla costa aveva allarmato chiunque, lei compresa, che aveva lasciato cadere a terra il sacchetto della spesa non appena si era vista sfrecciare sopra la testa l’indescrivibile moltitudine di Akuma. Scorgervi Allen lì in mezzo dopo che Timcampi le era rimbalzato fra i capelli l’aveva fatta balzare in mezzo allo stormo senza dar tempo alle Bambole del Conte del Millennio di realizzarne la presenza. Scagliatasi contro il Livello Due che aveva preso Allen per le gambe e distruttone la corazza metallica con i Dark Boots, era atterrata insieme all’amico in una zona lontana dalla cittadina, selvaggia, con la sola certezza che Lavi, Bookman e Crowley stessero dando il meglio di loro per proteggere Anita e la nave da quell’attacco inaspettato. Tuttavia, per quanto l’esperienza sul campo le fosse stata utile per imparare che dare troppa confidenza ai prolungati momenti di quiete si rivelava quasi sempre compromettente, nello stringere la mano inguantata dell’albino mentre si guardavano intorno, la mente di Lenalee Lee non riuscì a concepire come un simile cambiamento si fosse verificato tanto all’improvviso. Per non parlare dell’anomalia aleggiante e percepibile che col solo ringhiare innalzava foglie morte rinchiudendole in vortici concentrici…


- Stai bene, Allen-kun? – Gli domandò lei, trafelata.
- Sì, grazie: mi hai salvato -, le fu riconoscente il ragazzo – Se non fosse stato per te, mi sarei schiantato. –

Un nuovo boato echeggiò nel cielo, uno stridio che appiattì le chiome degli alberi e aprì la roccia con fendenti invisibili. La zona circostante emergeva da una boscaglia fitta e costellata di sentieri inagibili, uno spuntone soprastante a un crepaccio dal fondo stretto e buio. Messisi in ginocchio per non cadere, i due Esorcisti alzarono il mento, dove il cielo plumbeo, fattosi rosso, rimbombò di bagliori sinistri appena visibili dalla massa di nubi e polvere attorno a cui gli Akuma continuavano a volteggiare pazientemente. Lenalee assottigliò le palpebre, aguzzando la vista al cogliere dei contorni grotteschi fare capolino grazie agli aloni di luce smeraldina emanati a cadenza irregolare.

- Sembra esserci qualcosa lì dentro. Di grande e…Deformato. – Tentò di descrivere –  Ma da qui non si riesce a vedere niente. -
- Di qualunque cosa si tratti, non è un Akuma -, asserì Allen - Il mio occhio non reagisce se glielo punto contro, eppure… –
- Cosa? Allen-kun? – La ragazza volse lo sguardo violaceo verso il compagno, trovandolo indeciso, quasi intimorito dal gorgogliare silente che quello spettacolo elargiva spropositatamente.
- Non la percepisci, Lenalee? – Le domandò flebile e grave, come impossibilitato a sradicare le iridi chiare – Questa sensazione di dolore e ira che galleggia nell’aria…I boati che risuonano a intermittenza…Non assomigliano a urla cariche di vendetta? –

La cinese sussultò, stringendosi le mani agli avambracci. Come non avvertirlo? Nel vento aleggiava un profumo amaro, angoscia pura e dirompente che rigettava le sue grida contro la terra e il cielo, radicandone l’intensità nelle orecchie di chi le udiva fino a costruirvi un legame empatico che lasciava spazio a un nauseante senso di soffocamento. Odio, vendetta, rabbia…Figurarono nelle mente di Lenalee Lee con perfetta nitidezza, impedendole di reprimere il bruciare degli occhi per il sopraggiungere delle lacrime. Cosa poteva mai celarsi dietro quelle nubi di così furente da coinvolgerla emotivamente fino a quel punto?
A un’altra percossa seguì un fascio di luce accecante che spazzò via i balocchi del Conte del Millennio, scuotendo le viscere terrose e aprendo le fila a nuovi artifici in procinto di attaccare.

Fu lì, quando quel bagliore devastante e inusuale raggiunse l’apice del suo consumare, spazzando via il suo scudo d’aria sporca, che Lenalee lo vide.
Un corpo tozzo e deforme, un addome abnorme e incavato dalla pelle color morte che galleggiava circondato da una patina luminescente simile allo smeraldo dell’Innocence, ma permeato di un gelo che le squarciò il torace nell’accorgersi di quella rientranza del pettorale destro dove, minuscolo, sporgeva metà corpo umano, nudo e lucido.


- S…Suman…? –
Chi? – Allen si voltò verso l’amica, ipnotizzata e con le iridi sbarrate sulla rientranza carnosa che risplendeva di fiamme opache.
- Suman… - Ripeté lei, flebile – No…Come…? –
- Lenalee, che ti succede? Tu sai cos’è? Lenalee! –

A niente valsero le domande dell’albino e la sua preoccupazione. Lenalee Lee a stento si teneva dritta, ciondolante, gli arti intirizziti e deturpati da differenti tagli che le avevano anche stracciato l’abito nero. Vacuità d'indefinibile consistenza occultò il dolce brillare dei suoi occhi, allontanatisi da appigli sicuri e confortevoli per sprofondare in quel passato pieno di ombre e dolori mai rivelati. Non poteva comprendere, Allen, quali angosciosi traumi la sua amica avesse dovuto sopportare, la solitudine e le perdite che ancora vivevano segretamente, ma l’urlo che lei cacciò pochi istanti dopo, tenendosi la testa come fosse sul punto di rompersi dall’interno, lo fece agire tempestivamente; la circondò con le proprie braccia, sentendola vibrare senza controllo e ansimare con la bocca spalancata.

- Lenalee, per favore! Cerca di calmarti! –Il frastuono si era acquietato, affievolito e ridotto a un sordo svolazzare di uccelli che fuggivano alti in cielo e si lanciavano lontano dai loro nidi.
- I…I Caduti… - pronunciò affranta l’Esorcista. Lacrime calde le bagnarono il viso, rigandolo di umide scie trasparenti.
- Di cosa stai parlando? – Le domandò lui.
- Persone scelte dalla Chiesa che falliscono la sincronizzazione con l’Innocence -, mormorò lei – Anime obbligate a diventare Esorcisti…Che sprofondano nel buio. –

Parlò senza essere realmente presente con lo spirito, disorientata, le mani a premere sul viso congestionato e affondato nei fili d’ossidiana. Tanti giorni, mesi, anni, ad allenarsi per non cedere più a cotante paure e ora ne era nuovamente succube. Altre stille salate s'infransero sulle sue guance pallide allo svelare quell’orrore assistito da piccina, a quel volto dal sorriso debole che le aveva dato l’ultimo addio prima di diventare un guscio vuoto per mano del potere a cui lei invece si era legata senza conseguenze.
Il vento picchiettò contro le loro pelli ululando al suono delle grida e dei fuochi che scoppiettavano in lontananza con scie dense di fumo, ma nelle orecchie della cinese risuonava solo l’indifferenza di quelle voci insoddisfatte che avevano preso la vita di quel povero ragazzo, straziandola fino a gettarla nel dimenticatoio insieme a tutte le altre precedenti. Allen ascoltava e recepiva attonito; il vessillo sacro cucito sulla sua divisa era macchiato di sangue che avrebbe pensato di veder versare solo dalla parte del nemico. Perché una così macabra oscenità nei confronti della vita umana? Perché tanta insistenza d’innanzi all’ineluttabilità dei fatti? Darsi risposta gli fu impedito dall’echeggiare gracchiante degli Akuma volteggianti in aria. Le Bambole del Conte del Millennio fremevano ansiose.


- Lo dobbiamo aiutare… -
- Lenalee? – 

La fanciulla sospirò profondamente, acquietatasi e con il petto a vibrare regolarmente. Sollevò il capo per guardare il compagno come fosse stata una bambina disperata, dalle ametiste annacquate e supplichevoli, eppure armate di un’ultima e persistente scintilla speranzosa.

- Allen-kun, ti prego! Andiamo da Suman! – Esclamò con più forza, affondando le dita livide nella stoffa scura della sua giacca – E’ uno di noi e ha bisogno del nostro aiuto! –
- Non pensateci nemmeno. –

La lapidaria presenza di una terza voce schiacciò i loro animi alla vista di un paio di occhi neri e glaciali che si ritrovarono a fissare all’unisono.

- Amèlie-san… - Fu la fanciulla a pronunciarne il nome.

La donna avanzò verso di loro ancheggiando. La lama di Lucifer emanava riflessi lucenti di puro potere salvifico già entrato in azione. La maschera di pizzo nero le copriva il volto ovale e perfetto da cui trasparì lo stesso gelo udito nelle sue parole, prive di soffi morbidi e caldi.

- Per quelli come lui non c’è mai niente da fare, salvo che il processo di degradazione sia agli stadi iniziali e allora si possa amputare un arto che non sia la testa -, spiegò lei con precisa meticolosità, muovendo le labbra sanguigne e scoccando ai due giovani una severità affilata che riservò per qualche secondo anche all’abominio bianco che fluttuava a buona distanza da loro – Ma considerato l’aspetto che ha assunto e il livello corrosivo dell’Innocence, ormai è questione di poche ore prima che muoia. -
- Quelli come lui? – L’albino corrugò la fronte, insospettito – Intende un…? -
- No!!! –

Improvvisamente, Allen si sentì più leggero. Tenere stretto a sé la sedicenne e condividerne il malessere anche dal semplice punto di vista fisico aveva contribuito a creare un intreccio alla cui base stava un tepore scaturito da entrambi, una tenue nuvola di protezione che gli aveva permesso di raccogliere i cocci del cuore martoriato di Lenalee. Vederla allontanarsi da lui come strappata da una forza superiore, incespicare nei Dark Boots potenziati e artigliare le spalle di quella che considerava più di una sorella maggiore, con la disperazione a incidere su ogni suo minuscolo gesto, gli fece capire quanto poco sapesse di quella gentile ragazza sempre pronta a preoccuparsi degli altri prima di se stessa. Era stata vittima e spettatrice impotente di tragicità esattamente come lui, soggetta a una condanna da cui cercava di trarre il buono in ogni occasione; la brutalità li aveva tratti a sé e lanciati in quella lotta intestinale in modi e tempi diversi, ma alla fine Lenalee Lee si era fatta coraggio, armatasi di una forza di volontà di cui Allen aveva preso coscienza sin dal primo incontro. Una leggiadra eleganza appartenente solo a lei, che trasformava in acciaio e bagnava d'irreprimibile speranza quando le ombre avanzavano inesorabili.

- Non può essere! E’ impossibile! – La voce di lei si levò alta e imperiosa, sull’orlo di cedere al panico – Suman…Io ho visto un Caduto, so cos’è! Lui non è stato costretto a sincronizzarsi forzatamente con l’Innocence, lui non ha fallito! E’ un compatibile, uno di noi! –
- Lenalee. – Ad Amèlie bastò pronunciare il nome della più giovane per stroncarne la risolutezza – Lui ci ha traditi.

Qualcosa nel petto di entrambi i giovani si ruppe, più in Lenalee che in Allen, dimenandosi per uscire dall’angusto spazio dentro cui era stato relegato. L’argento e il ciclamino che colorava i loro occhi si allargò, con le bocche socchiuse a respirare spicchi d'ossigeno pungente che scivolava in correnti antiorarie. Le mani della giovane persero ogni forza, lasciandosi mollemente cadere ai fianchi, barcollando all’indietro per qualche istante prima che il compagno le desse sostegno; l’afferrò per le spalle delicatamente, una presa confortevole e solida che le impedì di far cozzare a terra le ginocchia.

- Come sarebbe a dire che Suman ci ha traditi?!? – Strepitò l’inglesino.
- Ora come ora non ho il tempo per spiegarvi i dettagli -, sospirò Amèlie, avanzando verso il ciglio del burrone - Ma vi basti sapere che dietro le recenti morti avvenute negli ultimi mesi di Finder ed Esorcisti a opera dei Noah, c’è la forte possibilità che possa esserci la sua collaborazione. -

Lenalee sussultò impaurita, scossa da brividi che calcarono su tale rivelazione con nota dolente.

- Non perdiamo tempo -, tagliò corto la donna, richiamandone l’attenzione- A breve quell’affare lancerà un altro attacco e con l’Innocence fuori controllo è impossibile prevedere quanto grande sarà il suo raggio d’azione. L’unico modo per abbatterlo è aspettare che il processo di degradazione termini e l’Innocence si normalizzi, ma visti i tempi stretti, un attacco esterno ben piazzato dovrebbe essere sufficiente. – Voltatasi verso di loro, si incamminò in direzione del sentiero scuro che dava sul fondo della foresta – Voi due pensate a distruggerlo. Io mi occuperò… -
- No. -

Ad appena pochi passi dalla radura, Amèlie arrestò la sua andatura, contando fino a tre per essere sicura di aver udito bene.

- Come, prego? – Voltatasi a guardare Allen, trovò l’obiezione, la sfida e la pura contrarietà a illuminarne le pagliuzze identiche a tanti frammenti di stelle che impreziosivano il grigio dei suoi occhi.
- Ho detto di no. – Il quindicenne si alzò in piedi, serafico – Non ho intenzione di abbandonare un mio compagno, tanto meno distruggerlo. –
- Oh, cielo…Quasi dimenticavo con chi ho a che fare -, ridacchiò la più grande flebilmente, alzando gli occhi all’insù e chiudendoli, per poi abbassare la testa e muoverla in un debole cenno negativo – Non sono stata chiara abbastanza, Allen-kun? Quello ci ha venduti al nemico. –
- Ma non possiamo esserne sicuri, deve essergli successo qualcosa! – Obbiettò il ragazzo.
- E saresti pronto ad anteporre ciò a tutte le vite che ha già stroncato e che sta per stroncare mentre noi stiamo qui a perdere tempo? Commovente, se non fosse che stiamo parlando di carne morta.

Di lì per giù Lenalee non capì cosa successe. La mente oscillava fra realtà e ricordi, su un equilibrio precoce che precipitò nella prima sponda non appena colse nel viso di Allen una furia sopraggiunta senza alcun preavviso, un fiotto incandescente che lo spinse a scagliarsi contro la corvina che lo rigettò ai suoi piedi con un destro in piena bocca.

- Allen-kun! – Stavolta fu lei a trarlo a sé, controllandogli la guancia arrossata.
- Ma guarda…E io che credevo fossi un cucciolo ben educato -, si finse sorpresa la donna, ignorando lo sguardo incredulo con cui Lenalee la fissò basita - A quanto pare Cross non ha lavorato come si deve con te. - La Chevalier proruppe profonda e col volto avvolto da un’ombra minacciosa e infastidita che ne avvolse i lineamenti visibilmente oltraggiati per la replica ricevuta.

Odiava essere contraddetta, sentirsi rispedire indietro gli ordini impartiti e Allen, all’osservarla con quell’aura austera a pizzicargli la pelle, la bocca impregnata di sangue e la mascella a scricchiolare, s'inquietò, avvertendo le proprie ossa sfrigolare per lo scatto iracondo ancora vibrante nelle sue vene.
A lei non importava di Suman. Ogni fibra del suo essere, a partire dalla sicura postura, era restio a cimentarsi in azioni che non fossero quella da lei ordinata. La sua vita, la ragione della sua trasformazione, tutto quel connubio di sensazioni che martellavano l’atmosfera e la piegavano al suo volere…Per lei non rappresentavano alcuna importanza, se non un impiccio sgradito di cui sbarazzarsi, al contrario di lui che invece voleva carpirne la sofferenza e l’incontrollabilità fiammeggiante. Non gli era sfuggito lo sguardo lanciatole a Suman. Un disgusto snervante ben espresso nel chiaro desiderio di disfarsi del problema il prima possibile.

Stava sostenendo un combattimento con una maschera di pura e inestricabile spietatezza, uno spirito di ghiaccio che non lasciò spazio ad alcun tipo di emozione nello schiacciare a terra il suo, nutrendolo di una rabbia che strinse i suoi muscoli in una morsa opprimente. Simili confronti non erano estranei all’albino inglese, il suo stesso maestro aveva sempre agito secondo un metro privo di mezze misure, diretto e deciso perché in altri sorgessero spontanee domande sulla sua presunta umanità, implicando sacrifici la cui crudeltà vide guizzare nel sensuale profilo di Amèlie Chevalier, pronta a fare quello che lui non si sarebbe mai permesso di compiere anche se fosse stato costretto. Una consapevolezza che accrebbe il suo disappunto inasprendolo di nuova e corroborante impotenza.


- Mon pauvre petit chardonneret de fou*. Così armato di buone propositi e così…Ridicolo. -, Amèlie troneggiò con soffio sibilante e divertito, inginocchiandosi di fronte a lui ed alzandogli il mento con il dito indice. Un alone di tenebre setose ne accarezzava i delicati tratti femminili, vorticando nel suo sguardo beffardo pieno di rimprovero – Sei cresciuto con la convinzione che non esista niente di più abominevole che vedere un’anima strappata dal Paradiso e imprigionata in una macchina tozza e omicida, ma credimi quando ti dico che l’Innocence a cui fai tanto affidamento sarebbe pronta a strapparti la vita qualora tu mostrassi il benché minimo segno di ripensamento. Se non mi credi, dai un’altra occhiata a Suman. –

La rabbia tornò a crescere e a pompare fiotti di sangue a dismisura, tirando i fasci del suo corpo con la supplicante richiesta di uscire ed esplodere, ma ancora una volta Allen non reagì, lasciando ricadere la testa in basso una volta che la francese lo ebbe lasciato andare, con i denti affondati nelle labbra pallide. Il suo animo era regredito a un’ingenuità spaventosa, a quella debolezza che il maestro gli aveva sempre rimproverato e anziché sostenere la battaglia con occhi puri e carichi di sincera determinazione, pronti a costi inimmaginabili per non vivere nel rimpianto, l’Esorcista maledetto tacque.

La sua era e sempre sarebbe stata un’esistenza tormentata, buona, gentile, che voleva solo lenire il male perché altri non ne sperimentassero le atrocità, non così stupida da non pensare agli innocenti che in quel frangente stava scappando dal Caduto per salvarsi la vita, eppure cieca abbastanza da non aver mai ipotizzato che un potere prodigioso come quello dell’Innocence potesse chiedere molto più che una malformazione fisica.
Quand’ebbe il coraggio di levare il viso amaro da sotto la corta chioma lattea, la roccia sotto i suoi palmi cozzò in sfrigolii stridenti, tremando ancora e con le nubi a tuonare senza che vi fossero lampi a frastagliarne l’illusoria sofficità. Suman Dark era lì, indossante quelle fattezze simbolo di condanna ed eterna dannazione.


- Sì, Allen-kun. – Lo sguardo nero e privo di compassione di Amèlie Chevalier parlò chiaro - Quella è la punizione per chiunque tradisca l’Innocence.

Udì quelle parole colpirlo alla bocca dello stomaco e lasciarci un senso di nausea che gli fece storcere la bocca per il disgusto. E intanto le urla, gli echi sospinti dal vento e dalle ceneri che ingrigivano il cielo aumentavano, premevano sulle sue tempie in attesa che lui scegliesse cosa fare, chi andare ad aiutare.

- E’ sempre scioccante, non trovi? Quando desideri aiutare tutti e uscirne indenne…Una fantasia bambinesca. Questa è una guerra, Allen, mettitelo bene in testa -, ordinò ferrea la donna, senza alcun onorifico ad addolcirne il nome – Abbiamo degli obblighi nei confronti di questo mondo e delle persone che ci abitano, obblighi che implicano anche scegliere il male minore e voltare le spalle a pochi per salvarne migliaia. Ora, Suman sta rigettando il potere dell’Innocence e la sua anima all’interno di esso; presto il suo corpo si disintegrerà, ma non prima di essersi sfogato per bene. Visto che tu sei così nobile d’animo da mettere a repentaglio non solo la tua vita, ma anche quella di altre persone, puoi decidere se andare a salvare quanto rimane di quel reietto o regalargli una morte rapida e recuperare la sua Innocence prima che lo facciano gli Akuma. La scelta è tua. – 




Note di fine capitolo.
1*: Povero il mio piccolo e sciocco cardellino.
E anche questa parte è arrivata in porto! Ho dovuto modificarla un bel po’ prima di essere soddisfatta, come sempre del resto, ma finalmente possiamo dare inizio ad altre battaglie. L’introduzione di Suman Dark seppur breve, è necessaria, soprattutto per dare mostra di un lato del carattere di Amèlie discutibile agli occhi di Allen. (Eh, si, lei è cattiva: è tutto fuorché una santa) Con questa storia ho deciso di puntare il mio impegno su un Oc che sa essere spietato anche davanti a certe situazioni che richiedono appunto scelte rapide e fredde. Personalmente ho amato la storia di Suman, seppur corta, perché tutto quello che voleva era di poter tornare dalla sua piccina e il fatto che l’Innocence punisca in maniera così devastante chi è compatibile è davvero terribile. Potrei aver tralasciato qualcosa, ma come sempre io do metà di quello che voi vi aspettate per approfondirlo più in avanti, non mi piace per niente buttare tutto in un capitolo. Spero non ci siano errori e che la mia storia stia piacendo a quelli che la stanno leggendo; penso che salterò l’aggiornamento di Agosto, ma non sono sicura; al massimo ci si vede a settembre. Io intanto manda tanti bacioni a tutti quanti e auguro buone vacanze!!

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Capitolo 17
*** Separazione. ***




- Mettetevi tutti al riparo! Veloci! –

La situazione era critica. Il celeste di quell’innocua mattinata aveva subito un ribaltamento mostruoso, dagli odori pungenti che ne lasciavano trasparire l’intensa crudità. Lavi ne aveva visti parecchi di Akuma da quand’era entrato a far parte dell’Ordine, ma una simile orda superava tutti i magri gruppetti affrontati in precedenza. Sfrecciavano frenetici sopra la sua testa e quella degli altri umani senza degnarli di un solo sguardo, così di fretta da fargli intuire l’anomalia già osservata e registrata dal mentore.

- Non si comportano come a loro solito. Sembrano attratti da qualcosa -, asserì l’anziano Bookman, insospettito.
- Laggiù c’è qualcosa che brucia! – Dall’alto del pennone della nave, Crowley puntò i suoi canini verso la zona montuosa stante alle spalle della cittadina.
Un fluente manto rosso tingeva il cielo con macchie arancioni e grigie sospinte verso l’alto, dove un tetto di fumo si era accumulato rabbioso. Le minuscole e nere sagome degli uccelli scappavano alla rinfusa, al contrario delle Bambole del Conte del Millennio che invece volteggiavano in aria come falene attratte dalla luce.


- Non è un comune incendio. – Lavi strinse le dita attorno al martello e ne ingrandì le dimensioni per respingere i nemici - Che accidenti sta succedendo laggiù? - 




Sono già arrivati qui. -

Un subbuglio incontenibile aveva invaso i villaggi ai piedi. Scintille di panico ne disperdevano gli abitanti in ogni dove, le menti offuscate dal desiderio di fuggire da una minaccia prossima a prendersi tutto senza chiedere. L’unica reazione possibile che Amèlie colse con la lama di Lucifer conficcata nell’ennesima Bambola esorcizzata.
I rintocchi di un campanile si fecero largo fra le grida e i botti che si accumulavano a dismisura. Il centro abitato sottostante gli occhi della Chevalier non era che un puntino civilizzato in mezzo alla natura orientale, ma purché contasse un numero di persone soddisfacenti, agli Akuma andava più che bene: nonostante si fosse lasciata alle spalle una scia di carcasse sufficientemente massiccia da solleticare il loro ego sensibile al pericolo, questi proseguivano la loro opera di distruzione senza temere l’incontrollabilità del Caduto, sempre più vicino alla valle.


- Abbandonate il villaggio immediatamente se non volete morire! Sbrigatevi!!! – Piovuta al centro della piazza insieme a un Livello Due schiacciato sotto i suoi piedi, la francese sollevò la testa con autorità che raggelò i presenti.

Non c’era anima che non stesse correndo su un filo tirato, di un’esilità a stento tenuta in piedi e che al minimo tocco si sarebbe disfatta senza più tornare quella di un tempo. Suman Dark si stava avvicinando, l’eco del suo corpo spezzava l’aria con boato sottile e raccapricciante, carico di tutto il rancore non sprigionato. Una ragione più che valida per Amèlie di buttarsi contro quel fiume che seguì la sua concisa direttiva senza fare troppe storie.
Una Caduta rappresentava in sé un pericolo spesso sfociante in un delirio caotico, se le radici non venivano tranciate sin dai primi segnali; abbuonarsi l’odio e il dissenso di Allen e Lenalee era stata un’aggiunta di quel già sgradito trambusto, una nota fastidiosa che, tuttavia, non aveva lasciato alcun segno di pentimento nella coscienza della corvina, riluttante a porre rimedio con scuse o dispiaceri che non sentiva necessarie. La fanciulla cresciuta sotto la sua ala non era estranea ai quegli avvenimenti, al male che l’Ordine in sé celava alle sue basi; era stato il rifiuto di sopportarlo ancora, inerme, ad averne fatto crollare la mente già provata in tenera età, e benché la donna si fosse adoperata negli anni seguenti a rafforzarne l’animo anche con severi rimproveri, onde l’evitarle ulteriori emotività distruttive, Lenalee ancora peccava a domare la sua emotività. Indurirsi col rischio di perdere la propria accondiscenza non era un prezzo accettabile ai suoi canoni, ogni attaccamento da lei coltivato non era che una lama a doppio taglio che ancora stava imparando a gestire, esattamente come Allen Walker.

La visione fugace dei suoi occhi argentati, risoluti e che l’avevano sfidata con ostinazione incredula, balenò nella sua mente per pochissimi istanti. Con quel buonismo incapace di accettare sacrifici che includessero vite altrui, avrebbe incassato un numero maggiore di batoste rispetto a quello previsto per gli altri Esorcisti e sebbene a lui non importasse di caricarsi ulteriori pesi sulle spalle, niente escludeva che un giorno quella stessa nobiltà ne avrebbe deteriorato i puri propositi alla base della sua forza interiore, isolandolo fra le pareti di una ristretta realtà che soltanto ai suoi occhi avrebbe conservato un vago senso di giustizia.




Iiih!!! Ma perché deve succedere questo ad Hatsu-chan?! Perché? Perché? PERCHE’?!? –

Hatsue confidava parecchio nel destino. Non era qualcosa scoperto da molto, anzi, doveva solo ringraziare quella sua miracolosa evoluzione se le era stato concesso di godere appieno delle beltà di un proprio ego; credere spasmodicamente nell’esistenza di un disegno universale dove tutto fosse già stato scritto era un modo come un altro per avere il pieno controllo. Controllo su cosa, poi, era superfluo, considerata la sua propensione al melodramma e al pessimismo acuto non appena la situazione precipitava. Anche in quel preciso istante non riuscì a fare altro che a frignare con le unghie piantate nel tronco legnoso di quell’albero da cui tanto volentieri si sarebbe fatta inglobare.

- Lo sapeva! Hatsu-chan sapeva che sarebbe finita male! Avrebbe dovuto chiedere il cambio a Sachiko-chan! – Piagnucolò disperata, senza staccare gli occhi azzurrini dal pericolo incombente.

Gli Akuma l’avevano circondata. Un numero magro, inconsistente, in confronto a quello che aveva sorvolato l’oceano e da cui si era tenuta ben a distanza. Quelli che erano stati i suoi fratelli adesso percepivano in lei l’insolito addolcimento che aveva permesso l’insurrezione completa della coscienza umana incorporata allo scheletro di metallo scuro, un più ampio senso di leggerezza ottenuto a discapito di quel briciolo di prestanza che, nel suo evaporare, l’aveva vista sprecare inutilmente quasi tutti i poteri a sua disposizione per paura di venire scoperta non appena avesse messo piede fuori dal Giappone. Tutto per colpa della sua goffaggine, anzi, no! La colpa andava alla sua propensione ad attirarsi addosso tutte le sfortune del mondo! Per cercare la persona che era stata incaricata di trovare aveva rastrellato tutti i centri abitati cercando di passare inosservata, col risultato di venire scoperta su due piedi per l’essersi concessa un attimo di pausa, abbandonando momentaneamente la forma umana. Come Livello Due equivaleva a un penoso scarto d’ultima categoria, dagli ingranaggi tanto bacati da farla rimanere lì impalata mentre i suoi compari prendevano con tutta calma la mira; francamente non capiva perché fosse stata scelta proprio lei per quell’accidente di compito che era destinata a non portare a termine, quando Sachiko-chan e Kawamura-san sarebbero state molto più idonee.

L’udire lo scatto secco dei cannoni pronti a sparare, seguito dalle battute pesanti che alcuni Livello Due le dedicarono come addio, la fece accucciare a terra con le mani affondate nei capelli pagliericci chiusi in un’acconciatura morbida e vaporosa.


- E’ la fine! La fine! La fine! LA FINEEE!!! Uggiolò mentalmente.

I secondi spesi freneticamente nell’attesa di essere carbonizzata e trasformata in cenere trascorsero così lentamente che ad un certo punto Hatsue li reputò decisamente troppo lunghi. Fattasi prendere dalla disperazione e dal dramma capitatole, l’unico suono giunto alle sue orecchie altro non fu che la propria voce impossibilitata a non descrivere le molteplici disgrazie che il Generale Cross le aveva abbonato nell’appiopparle quell’incarico tanto indecoroso. La catena di esplosioni simultanee non la destò fino a quando la carcassa rugginosa di un Livello Uno non le cadde a mezzo metro di distanza, facendola saltare all’indietro non appena questa esplose.

- Bene. Questi dovevano essere gli ultimi. –

Hatsue rizzò le orecchie in aria d’innanzi a quella voce nuova, matura e del tutto priva di echi doppi che ne deformavano il timbro. Un brivido vistoso le attraversò l’involucro di pelle liscia coperta dallo yukata* rosso non appena gli occhi – finalmente degnatisi di aprirsi – scorsero quel luccichio smeraldino inquietante che in tutti quanti loro suscitava solo sensazioni vomitevoli.

- Innocence.La parola stessa si prese la briga di stamparsi nella sua mente quasi avesse avuto una sua volontà.

Neppure ci fece tanto caso, interessata a vedere chi ne fosse la compatibile, strabuzzando le pupille fino a farle uscire dalle orbite quando mise tutto ben a fuoco. La descrizione fornitale per identificare la persona ricercata si limitava a specifici oggetti che qualunque essere con un minimo di cervello avrebbe riconosciuto a prima vista: un’Innocence a forma di falce, una mascherina di pizzo nero e, ultimo ma non meno importante, un nomignolo corto e facile da pronunciare giusto per andare sul sicuro. Non restava che verificare.

- C…Chibi-chan? – Pigolò la parolina magica con sussurro basso, così lieve da dar indurla a credere di non essere stata udita, ma quando quella donna voltò la testa nella sua direzione, con smorfia visibilmente irritata, Hatsue pianse dalla gioia per essere stata finalmente baciata dalla fortuna. 




La nave di Anita era sul punto di essere ridotta a un colabrodo galleggiante. Il caos scatenatosi dall’inaspettata comparsa di tutti quegli Akuma aveva raggiunto proporzioni preoccupanti, limiti tenuti strenuamente in piedi da sforzi titanici volti a non demordere. Il peso dei Talisman pigiava sui muscoli delle sue braccia mettendone a dura prova il respiro e l’equilibrio precario che le sue gambe s'imponevano categoricamente per non cedere alle scosse che scoperchiavano il ponte principale.


- Non fateli colpire l’albero maestro per nessun motivo: mantenete le posizioni! –Gli ordini impartiti a voce alta e forzata per la gola raschiata non mancarono di esprimere l’autorità guadagnatasi a piccoli passi, ma d’innanzi al continuo stridere metallico che si alternava a fiotti esplosivi di accecante calore, era impossibile elevarsi al dì sopra di cotanta frenesia senza lasciarsene un po’ influenzare.

Gli Akuma erano davvero degli esseri abominevoli. Lo stare nelle retrovie non comportava necessariamente il confronto con essi, forse qualche avvistamento di natura sospetta, ma mai uno schieramento in prima linea. Ovviamente la Maitresse del Dragone Imperiale aveva sempre preferito prevenire l’incombere di qualsiasi sorpresa; con i tempi che correvano e l’abilità delle Bambole del Conte del Millennio di camuffarsi in umani, la prudenza non era mai troppa, special modo per quelli come lei, semplici sostenitori che non potevano eguagliare i poteri bellici offerti dall’Innocence. Lanciando una veloce occhiata al cielo, parzialmente imbrunitosi, Anita realizzò che stavano combattendo da più di sei ore, senza sosta. Il corpo contratto e sudato era concentrato a non demordere, a resistere perfino all’infrangersi delle onde che il mare mosso stava infliggendo allo scafo della sua cannoniera. Sarebbe finita, prima o poi; inammissibile era il pensiero di una sconfitta dopo l’aver ritrovato la fiducia in se stessa e la voglia di mettersi definitivamente in gioco per quell’uomo che si era portata via il suo cuore.

Barcollò fino a far cozzare le ginocchia sulle assi di legno ancora inchiodate, quando una scossa diversa da qualunque altro colpo respinto attraversò la terra, la nave e il mare in un tuttuno condensato. Nella sua brevità congelò gli animi sino a spingerne le teste a guardare verso le montagne, dove i bagliori dell’atmosfera sanguigna culminarono in un singolo punto.


- La luce laggiù sta diventando sempre più debole. Forse Allen, Amèlie-san e Lenalee ce l’hanno fatta. – Majoha le si affiancò con la sua mole imponente, sovrastando la sua minuta figura.
- Me lo auguro, ma al momento non possiamo fare altro che salvare quanto resta della nave -, replicò la cinese pacata, gli zaffiri brillanti di determinazione motivata a soddisfare le priorità – La chiglia è ancora intatta e tale deve rimanere fino alla fine: non possiamo permetterci ritardi di alcun genere. -

Il semplice credere, aggrapparsi a ciò che prima non era neppure riuscita a concepire, nonostante la mola affettiva per Marian Cross superasse di molto il banale rapporto fra una Maitresse come lei e un cliente come lui, aveva riacceso una speranza non del tutto priva di amarezza. Che cosa lesse nel mezzo di quella spirale violenta, imparagonabile a quanto attendeva tutti quanti a loro a Edo, le apparve astratto, un vago ed abnorme senso di terrificante inadeguatezza nei confronti di quella realtà che non l’avrebbe mai accettata completamente. Ma aspirare a quel desiderio che la giostrava con sentimenti e azioni non aventi una risposta che affondasse nella logica umana, le bastò per spingersi laddove il suo animo le suggeriva di andare per non piangere con inutili pesi. Là, dove lui le aveva detto di non arrivare per timore che non potesse più venirla a trovare.




Amèlie Chevalier ricordava molto bene la prima volta che aveva osservato Cross modificare un Akuma. Era stato in grado di attirarne l’attenzione istigando il suo volersi differenziare con un’unicità di cui andava particolarmente orgoglioso, una strategia semplice ancora fumante d'indignazione. L’aver ceduto senza mostrare un minimo di resistenza ardeva ancora di risentimento nei suoi stessi confronti, ma in quel frangente la sua testolina aveva focalizzato tutte le sue capacità cognitive sull’imperdibile possibilità di essere partecipe a qualcosa cui nessun’altro avrebbe mai potuto assistere, un richiamo irresistibile che le aveva fatto mordere la lingua per non essere stata capace di rifiutare.




I sotterranei della Home - il primo piano che li componeva perlopiù -, era composto da sale riservate alla Sezione Scientifica, comprendenti anche la grande reti di canali acquatici e l’obitorio. Fra archi di pietra, lastre d’acciaio e aria costantemente sterilizzata, il silenzio tombale e la bassa temperatura della sala dove venivano conservati in buste di plastica corpi tumefatti di Finder ed Esorcisti, comprimevano qualsiasi forma di sentimento che sfiorasse la positività anche solo per puro caso. Osservandone il mobilio squadrato e la lucidità scaturita dal grigio metallico predominante, Amèlie si concesse un attimo ancora per riflettere; il dubbio di una possibile ripercussione a suo carico non l’abbandonava, mettere da parte lo scetticismo e prendere per veritiero l’onore concessole richiedeva molto di più di un banale accesso all’obitorio. Insomma…Quante volte Cross aveva deliberatamente provato a darsela a gambe quando i creditori lo scovavano? Quante donne aveva circuito, nonostante ci fosse sempre stata lei a ricordargli di sua madre? Quante?
Il solo porsi simili domande le fece passare la voglia di rispondersi. A due anni dalla sua comparsa, Marian Cross aveva messo a dura prova la sua tenacia, sfidandola, provocandola, a volte cercando di lasciarla in balia di creditori, paesani armati di forconi o soldati schizzati, pur di salvarsi la pelle. Oh, sì: ci aveva provato, tante volte, e lei non si era fatta scrupoli a elevarsi alla sua disumanità per rendergli pan per focaccia, affinando un sadismo capace di tappezzare un’intera città di manifesti che lo ritraevano come un approfittatore squattrinato o di inscenare commediole andate a buon fine grazie alle sue doti d’attrice doppiogiochista validamente supportate anche dal suo aspetto di dolce bambina. Tutte vittorie ottenute con il peggio di sé plasmato da continui perfezionamenti, che a volte aveva addirittura complottato con quello scriteriato stabilendone un’impensabile quanto genuina complicità. Allacciatasi la mascherina protettiva e indossato i guanti di plastica, avanzò lentamente, calibrando il peso dei propri passi e fermandosi giusto a un passo dietro all’uomo. Intravide parte della sagoma riposta poco sopra la sua testa, grossa e bitorzoluta, emanare un calore nauseante. Aspettare era l’unica sua attività, al momento: il tintinnante armeggiare di Cross stabiliva un confine che non poteva ancora superare. I capelli rossi legati in una coda bassa, gli occhiali inforcati sul naso e le mani che esibivano abili un controllo preciso e meticoloso, non lasciavano spazio alla trascuratezza.


- Puoi avvicinarti. – Un semplice cenno con la testa e il permesso di avanzare divenne concreto.

Amèlie annuì muta, azzerando la distanza che la separava dalla lastra d’acciaio e salendo sopra il piccolo sgabello preparatole. Quel tavolo con le ruote sembrava essere stato costruito apposta per metterla in difficoltà, ma una volta salita, il problema non sussistette più. La carcassa del Livello Due in piena putrefazione scivolò davanti ai suoi occhi con la bocca spalancata e la lingua srotolata sulla sinistra. La cassa toracica era letteralmente esplosa dall’interno, aprendo le costole ora rivolte in alto; gli occhietti tondi brillavano di opaca lucentezza a causa della lampada attaccata al soffitto. Puzzava di frattaglie collose andate a male, riscaldate a temperatura eccessiva, tanto l’umido fumo evaporante dallo squarcio appannava la lastra sopra di cui era adagiata. Disgusto a parte per quelle carni mollicce, l’apparato meccanico nascosto sotto fu più digeribile: Amèlie non se ne intendeva di simili macchinari, ma d’innanzi a quello scheletro nero così assomigliante a quello umano, che riluceva insieme a altre componenti organiche plastificate e spente, nutrì un primo e irresistibile interesse.

- E’ strano che non si sia ancora disciolto o trasformato in polvere -, notò lei per prima cosa - Ha ancora l’anima? –
- Sì, ed è un vero miracolo -, le rispose Cross, masticando la sigaretta incastrata nell’angolo sinistro della bocca – E’ difficile andarci piano con certe calzette, ma io mi sono limitato a fondergli gli organi interni. Anche conciato in questo stato, l’anima è ancora attaccata a questo corpo e l’Akuma continua a vivere in uno stato di morte apparente. Se così non fosse, l’istinto omicida lo farebbe balzare in piedi in due secondi. –
- E’ vivo? – La bambina guardò torva la carcassa, percependo le sue interiora rivoltarsi in un moto di nausea crescente – E come? –
- Con quelli. – Il Generale fece schioccare il guanto di lattice sporco, indicandole con l’indice degli strani segni tracciati sugli arti ingrossati del Livello Due.

Era una sequenza di linee svolazzanti che si ripetevano in gruppi da tre, scritte col sangue e formanti una lunga catena che sormontava le parti principali del corpo della Bambola, base del collo compresa.

- Sigilli? – Azzardò la corvina.
- Non me ne faccio niente di un mucchietto di polvere: per modificare un Akuma mi serve che sia vivo o in fin di vita. Morto no -, fu la risposta di lui.
- Sarà, ma se cerca di saltarmi addosso, userò il tuo capoccione come scudo. - Si parlava pure di un Akuma, in fondo. E con Lucifer in camera sua non ci teneva a sporcarsi d'interiora e budella gelatinose.
- Tranquilla: così conciato non riuscirebbe nemmeno a muovere mezzo dito –, sghignazzò il rosso.

Non appena le mani di quest’ultimo affondarono nelle viscere appiccicose e bagnate della macchina, la corvina serrò le dita al bordo del tavolo e roteò gli occhi all’insù per distrarsi dalle ginocchia ammollitesi che minacciavano di farla cadere per terra. La puzza soffocante delle carni mischiato alle ultime esalazioni di gas mortale sopprimeva il preferibile sapore ferroso del sangue, che tante volte aveva percepito colarle anche da insulsi taglietti. Era praticamente impossibile credere che in quell’accozzaglia di ferro e tessuti organici vi fosse ancora un briciolo di vita, a partire dagli immobili bulbi oculari che sporgevano vistosamente dalle cavità. Eppure Amèlie la sentì, la stilla di dolorosa costrizione che incatenava l’anima umana richiamata dall’Aldilà che aveva contribuito alla nascita dell’Akuma. Flebile, un languido sospiro esalato coi polmoni sul punto di collassare, ma presente. 


- Dai un’occhiata, Chibi-chan. Cosa vedi? – Cross la invitò ad avvicinarsi ancora di più, a guardare fra i muscoli rossastri che le sue dita tenevano allargati.

Tiratasi indietro la chioma liscia e color ebano, la bambina sporse il viso sulla voragine scavata nel torace del Livello Due. Rinnovò il suo disgusto per quel putridume che cominciava a tappezzarsi di macchie nere e viola, ponendovi contro l’appena sviluppato irrobustimento del suo stomaco. Davvero, concepire che quell’essere fosse ancora vivo era decisamente difficile. Amèlie scrutò il fondo dello squarcio circolare, dove lo scheletro d’ossidiana dava sfoggio di ingranaggi monocromatici. Fra questi, ne spiccò uno in particolare, che la vide inclinare la testa e corrugare la fronte; la posizione esatta del cuore le era sempre stata ben nota grazie al battere che diveniva incessante quando il corpo impazziva per la fatica, così come per la sua forma e la grandezza. Quel che la incuriosì era tutto fuorché un cuore ordinario, anzi: non aveva proprio niente che gli si avvicinasse.

- C’è una lastra di metallo con dei simboli disposti a spirale che si muovono in senso orario-, rispose infine, ipnotizzata dal movimento concentrico che quelle scritte di debole luminescenza ametista compivano. Sarà stata grande quasi quanto un foglio di carta, dura come il diamante e di un onice la cui brillantezza si differenziava dallo scheletro artificiale - E’ il suo cuore? –
- Il suo Hard Disk, in termini tecnici -, specificò Cross – Gli Akuma sono capaci di evolversi e di sviluppare un ego che consente loro di provare emozioni umane grazie all’anima immortale che le muove, ma in sostanza sono delle macchine modificabili con tanto di Scatola Nera a contenere tutto quello che le riguardano. –
- Ancora non mi hai spiegato che cosa intendi per “Modificare”. - Non ci era arrivata, nonostante stesse cominciando a farsi un’idea chiara di quella piatta lastra che tuttora sondava rapita.
- Li vedi i simboli? La spirale alchemica oraria indica che le sue funzioni sono ancora attive, compreso l’impulso omicida e l’anima stessa dell’Akuma. - L’uomo picchiettò la punta dell’indice contro la superficie liscia dell’Hard Disk - Si tratta di un incantesimo che il Conte del Millennio utilizza per consentire la crescita delle sue macchine e difenderne la matrice di Dark Matter. Se si vuole giocare a fare lo stregone bisogna saper operare nei punti giusti e questa lastra è ciò che ci interessa, ma sfortunatamente la magia nera operata da quella palla di lardo è impenetrabile a qualsiasi tipo d'invasione alchemica e questo impedisce di resettare l’intero sistema operativo. -
- Quindi non si potrebbe fare niente? –
- Teoricamente sì, ma niente ci vieta di ingannare l’incantesimo. –
- Uh? –

Il sesto senso di Amèlie si allertò alla vista dell’inconfondibile sinistrosità che fece capolino nell’occhio scarlatto dell’uomo sotto forma di spudorata consapevolezza nelle proprie parole e capacità. Fu l’unica motivazione che la spinse ad acconsentire alla successiva richiesta del Generale, ovvero tenere aperte le viscere di quella cosa con le sue mani, di modo che potesse lavorare senza ostacoli. Reprimendo i brividi d’orrido scatenati dall’avvertire distintamente i propri palmi inguantati sprofondare in quelle carni umide, Amèlie trattenne il fiato e si concentrò sulla lastra sopra di cui Cross pose la mano pochi attimi dopo. Lo sentì pronunciare qualcosa, sibili incomprensibili che neppure osservando i movimenti veloci delle sue labbra riuscì a decifrare. Poi, l’imprevedibile: da sotto la manica arrotolata dell’uomo comparvero delle linee alchemiche, simboli rossi che scesero lungo l’avambraccio riversandosi sulla lastra che, di colpo, s'ingrigì. La spirale oraria smise di girare, perdendo di colpo la tonalità violacea e passando a una completamente diversa: bianca splendente. Contando tre secondi esatti, la sequenza di simboli alchemici ricominciò a roteare circolarmente con la stessa velocità di prima, ma in senso antiorario.


- Cross, cosa…Whaah! – Amèlie saltò letteralmente indietro, stringendo le braccia intorno al collo dell’uomo per lo spavento.

Il corpo dell’Akuma aveva iniziato a muoversi, da prima con lievi tremolii e poi vittima di spasmi violenti che rischiarono di farlo cadere dal tavolo. Le ossa meccaniche aperte stridettero, piegandosi lentamente ad arco e allungandosi fino a fondersi con le rispettive controparti, in parallelo ai tessuti organici. Neppur staccando gli occhi dal Livello Due, Amèlie non capì come, di punto in bianco, il buco dentro di cui aveva guardato fino a pochi secondi prima si fosse richiuso, senza lasciare la benché minima traccia sulla corazza appuntita.

- Spaventata, Chibi-chan? – La prese in giro il Generale.
- Potevi anche avvertirmi, ci stavo per rimettere la mano! – Esclamò lei, fulminandolo con contrarietà – Si può sapere che cosa gli hai fatto? –
- Ho solo rabbonito il suo istinto omicida. Sta a guardare. -




Il risultato lo vedeva tuttora e avrebbe di gran lunga preferito decapitare un altro centinaio di macchine assassine piuttosto che essere partecipe di quella sceneggiata. Gli Akuma modificati davano mostra di un grado emotivo disgustosamente sensibile a qualsiasi offesa e ritrovarsene uno lì, in Cina, che oltre ad averne attirato l’attenzione col nome che più la faceva imbestialire, le si era lanciato addosso con l’intento di abbracciarla e sporcarle il vestito di moccio, poteva significare solo una cosa: problemi.
Hatsue non brillava per il contegno – fra le molte cose – e beccarsi l’ustionante lama di Lucifer in pieno viso per l’aver ordito quell’assalto che non voleva essere altro che un’esagerata esternazione d’affetto per la sua salvatrice – assumendo le sue mostruose fattezze di macchina volta allo sterminio – servì solo a ricordarle inettitudine in qualsiasi campo decidesse dei gettarsi.


- Che male! Che male! Che maleee! – Il Livello Due si lagnò con la guancia incrinata, rotolando a terra per il dolore – Perché Chibi-chan ha attaccato Hatsu-chan?! Io…IIIIH!!! – Neanche a volerlo, la Bambola del Conte del Millennio si ritrovò a grattare la superficie legnosa dello stesso albero contro cui si era appiccicata alcuni attimi prima, blu per la paura che l’istinto omicida rosso e nero trasudò dalla slanciata figura di Amèlie con saette fulminanti.
- Non chiamarmi con quel nome. Lo odio –, sibilò gelida, puntandole la punta della falce a un millimetro dalla gola. Un paio di grosse corna appuntite resero la minaccia ancor più incisiva.
- IIIH!!!! CHIEDO PERDONO, PERDONISSIMO!!! MA CROSS-SAMA MI HA DETTO CHE QUESTO ERA L’UNICO MODO PER ESSERE CERTA CHE FOSTE VOI L’ESORCISTA CHE DEVO ACCOMPAGNARE A EDO!!! –
- Cross? – Amèlie ritirò la falce, permettendo al suo viso di riacquistare la fiera e giusta compostezza di sempre – Dunque all’appuntamento stabilito per stasera, ti saresti dovuto presentare tu? –
- Dovuta! Il corpo che mi ospita è quello di una femmina! – La corresse l’Akuma, mostrandole orgogliosa le sue fattezze umane – La sottoscritta Hatsue, detta Hatsu-chan, è stata personalmente incaricata dal Generale Marian Cross di farvi da scorta fino a Edo; purtroppo è dovuta arrivare in anticipo per complicanze inattese e quindi è venuta a cercarvi per partire subito. La situazione laggiù è diventata davvero grave! –
- Che genere di complicanze? – Indagò la francese.
- Hatsu-chan non ha il permesso di parlarne fino a quando non saremo arrivate a Edo: ordini del Generale! – Recitò questa, piatta e imperterrita.
- Che vada al Diavolo: esigo un minimo di informazioni -, sentenziò eloquente la donna, incrociando le braccia sotto il prosperoso seno.
- Ma Hatsu-chan non può! – Strepitò all’istante la bionda, agitando le braccia Ha ricevuto delle direttive che deve rispettare come tutti gli altri e… -
- E dovrebbe fregarmene qualcosa?!? –
- IHHH!!! UN ONI!!!*

All’aura omicida e alle corna si erano aggiunte unghie aguzze e un viso da demone ghignante con tanto di occhi spiritici poco propenso ad ascoltare le futili ragioni di una carcassa imbottita quale era quell’ochetta di Akuma.

- Non mi interessa cosa ti abbia detto di fare quel imbecille: tu qui rispondi alle mie direttive senza fare storie, altrimenti ti lascio a marcire nel primo buco che riesco a trovare. -

Hatsue rabbrividì da capo a collo, il colletto dello yukata stretto nel pugno dell’Esorcista e l’esoscheletro tartassato da scaglie di ghiaccio pietroso che le fecero temere per la sua incolumità. Non poté che arrendersi, la faccia di quella donna era talmente spaventosa che ancora un po’ la sua anima avrebbe alzato i tacchi senza essere neppure purificata dall’Innocence. Il povero Akuma odiava qualsiasi tipo di pressione psicologica che potesse minare la sua già precaria serenità emotiva e quando la sentiva incalzare, finiva per tergiversare, incespicando con le parole e giocherellando con le morbide dita curate che il suo guscio umano possedeva, fino ad attorcigliarsele nervosamente fra le ciocche ondulate della chioma dorata. In cuor suo, avrebbe preferito che gli ordini fossero stati rispettati, ma l’irremovibile e fredda eloquenza che le trasmise la donna semplicemente tenendola a poco più di due centimetri dal suo viso, fece sì che squittisse come un topolino impaurito.

Sigh! Va bene -, uggiolò sconsolata – Ma una cosa, una sola. –
- Voglio sapere dell’Arca che si trova a Edo -, ordinò imperterrita la Chevalier, lasciandola andare - E’ quella che spinge voi Akuma a volare in massa verso il Giappone? -

Il Livello Due strabuzzò gli occhi azzurri, rischiando che la mascella le si schiantasse a terra per la sorpresa. Come faceva quell’Esorcista a sapere dell’Arca Bianca? Era un segreto segretissimo, nessuno doveva essere al corrente della sua ubicazione, tanto meno della sua leggendaria esistenza!

- E voi come…?! –
- Rispondi. -
- Ah…Ecco…Sì. E’ così. -
- E immagino che Cross debba farci qualcosa, giusto? –
- No! No! No! No! Strepitò l’Akuma, puntando l’indice a un millimetro dal viso di Amèlie - Una sola domanda, niente di più! Se volete sapere come stanno le cose, dovete seguirmi senza fare storie! C-Cioè, dovresti, ecco, farmi la gentilezza di rispettare le indicazioni date.
- Tsk! Qui manipulateur habituel*. -

Tipico di lui giocarle un simile smacco. Nella sua spregiudicata arroganza, Cross giostrava vite e oggetti perché rispondessero al suo volere anche senza che questi ne fossero pienamente consapevoli. Un mettere con le spalle al muro che non lasciava altra via che quella ordita da lui, a prescindere dall’andatura di altre vicende. Poteva considerarsi fortunata, Amèlie: con Hatsue, le sarebbe stato evitato di muoversi totalmente all’oscuro, ma ciò non toglieva che ancora non conosceva la ragione per la quale il Generale volesse farla viaggiare separatamente dagli altri suoi compagni. Se poi, osservando il Livello Due con le palpebre assottigliate e il mento rivolto verso il basso, rammentava il divieto di aggiornarla sull’attuale situazione sino a meta stabilita, le domande non potevano che aumentare…

- Cerchi di capire, Amèlie-sama -, tentò nuovamente l’Akuma Hatsu-chan non si sarebbe mai mossa prima del dovuto se la situazione a Edo non fosse cambiata tanto, ma sua eccellenza il Conte del Millennio ha accelerato i tempi e Cross-sama si è ritrovato costretto a stravolgere tutti i suoi piani: se lei si attarda sarà un bel guaio, il Generale ha davvero bisogno che lei arrivi negli orari prestabiliti.
- Lo so, non c’è bisogno che me lo ripeti. -

Metterle fretta non era mai stato un buon modo per facilitarle il ragionamento. Camminò avanti e indietro, isolandosi mentalmente dall’ambiente intriso d’ogni sorta di frastuono. Tralasciando la goffaggine e l’ansia smisurata con cui quella Bambola le si era presentata, la faccenda si era scissa in due metà di egual peso: ora che aveva l’assoluta certezza che fosse l’Arca a spingere gli Akuma verso il Giappone, ad Amèlie riuscì facile a figurarsela come l’oggetto di lavoro di Marian Cross. Tuttavia, tralasciando le grosse lacune che minavano pesantemente il suo costruire una valida ipotesi sul perché tanto interesse nei confronti di uno strumento così caro al Conte del Millennio, vi era anche l’attuale situazione in Cina; l’attacco a sorpresa era ancora in atto, la conta delle macchine continuava ad allargarsi quanto i fuochi delle loro armi, senza contare poi Suman Dark. Porre fine a quel guazzabuglio prima che qualcos’altro si abbattesse con sgradita inattesa era più che mai doveroso.
Alla leggera carezza di un debole sospiro ventoso che smosse i fini e lucenti fili neri della sua chioma, Amèlie volse velocemente la coda dell’occhio alle sue spalle, senza dischiudere le labbra rosse o abbandonare l’attuale postura.

Un misto di fumo e cenere le passò sotto il naso, residuati di languida luminescenza smeraldina appartenenti al Caduto Suman Dark. L’abnorme corpo tozzo giaceva fra le sue stesse fiamme corrosive senza che toccasse terra, oscillando fra le pieghe del tramonto con le angoscianti urla affievolite dal troppo accanirsi sul mondo che egli stesso aveva rinnegato.


- Quei due hanno voluto fare di testa loro. – Amèlie non poté nascondere il proprio dissenso per la scelta compiuta da Allen e Lenalee. Se anche fossero riusciti a far rinsavire l’ego di Suman, non vi erano possibilità concrete che questo tornasse tale e quale a prima - Grandioso! – Sbottò poi stizzita. Il golem nero in suo possesso non riusciva a mettersi in contatto con Lavi o Allen, tanto la ricezione era disturbata.
- Amèlie-sama? – Hatsue si fece avanti timorosa, non osando insistere su quanto aveva già detto e ridetto fino a sciogliersi la lingua.
- Il luogo dell’appuntamento rimane quello stabilito in precedenza, giusto? La spiaggia della costa a ovest della città? – Domandò a bruciapelo.
- Sì, ce n'è solo una e…WHAAH! DOVE VA?!? – L’Akuma fece in tempo a raggiungere la bella francese prima che la lasciasse da sola in quello spiazzo disseminato di esplosioni.
- Hai detto che dobbiamo sbrigarci, no? Allora muoviti e stai al passo: non mi va di fare da balia a un Bambola che ha paura della sua stessa ombra. – Non mancarono serietà e concisione nella risposta di Amèlie.
- COSA?!? NO, ASPETTI! NON LASCI SOLA HATSU-CHAN! – 




Note di fine capitolo.
1* Yukata: è un indumento estivo tradizionale giapponese. Viene indossato principalmente durante gli spettacoli pirotecnici, alle feste bon-odori e ad altri eventi estivi.
2 Oni: creature appartenenti all’arte giapponese, meglio conosciuti come demoni. http://it.wikipedia.org/wiki/Oni_(folclore)#mediaviewer/File:Pink_oni_Noh_mask.jpg
3*: Il solito manipolatore.
Eccomi qui, con il nuovo aggiornamento. Anche questa volta ci ho messo un po’, oramai sta diventando un’abitudine, ma non posso fare altrimenti. Il tempo che impiego a scrivere un nuovo capitolo (più a trovare e parole con cui scriverlo, per altro) e quello usato per correggere e modificare sono così contati che devo impiegare ogni minuto libero a mia disposizione, ma passiamo al capitolo: da qui in poi le vicende saranno distaccate dagli avvenimenti che si sono verificati nel manga, infatti Amèlie, staccandosi dal gruppo, avrà il suo ben da fare per andare incontro a quello scellerato di Cross che, tanto per cambiare, le ha complicato la vita mandandole come aiuto un Akuma soggetto a crisi mistiche. Prima di salutarvi, ringrazio la mia fedelissima amica di DA, Darkrinoa88 (Erica) per lo stupendo disegno di Amèlie e dell’altra mia Oc di One piece Sayuri!! http://ciril09.deviantart.com/favourites/42840821/Sayuri#/art/Bonded-Destinies-462259839?_sid=7b4cbf07
A presto!

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Capitolo 18
*** Territorio nemico. ***




Diventare Bookman è scegliere la neutralità. La mano che scrive la storia e l’occhio che tutto registra. Il privilegio di una stirpe insaziabile di informazioni, libera di spostarsi in ogni campo e scegliere di restarne al margine per il solo assorbire la matrice conoscitiva e trasformarla in un dato con tanto di numero di classificazione.

La iena silente delle guerre.

A Lavi non interessava quante volte, a quell’appellativo, si fossero susseguiti ribrezzo o distanza, sebbene quel titolo fosse ancora lontano dall’essere completamente suo, ma ciò non cancellava il lento scolorirsi della sua anima. Lavi non era Lavi, dopotutto. Era solo un nome come tanti altri, il quarantanovesimo di una lunga serie di precedenti imparati e incarnati senza troppe complicazioni, con una punta di esasperata allegria per essere riconoscibile sotto una luce di falso calore. Di certo, era un abito più simpatico di Deak; l’ideale per inscenare al meglio il tenero buffone con la battuta sempre pronta e calarsi nelle vicende che intarsiavano la sottile rete di speranza e follia della più grande guerra che il mondo avesse mai conosciuto, anche se ormai era diventato talmente bravo a fare il giocherellone che, se non fosse stato attento, vi si sarebbe perso dentro.
La storia era conoscenza, la conoscenza era potere. Niente che avesse bisogno di farciture sentimentali o sbavature variopinte che privilegiassero una parte anziché un’altra. Doveva essere piatta, dettagliata, concisa, assolutamente neutrale. Come chi la scriveva.
Che importava avere un cuore? Era buono solo per calpestare la terra, un prezzo che i primi Bookman avevano ritenuto più che sacrificabile per le registrazioni future, ma come Lavi sapeva che quella strada era costellata d’empietà per qualsiasi forma umana, sapeva altrettanto bene che quando quel suo organo rosso, grande quanto un pugno, cominciava a battere forsennatamente, era perché ancora faticava ad abbandonarsi all’indifferenza. Si lasciava influenzare, incapace di tranciare una linea di confine che dividesse quel che doveva ignorare da quanto invece doveva catalogare, un errore che non mancava di marcare l’incoerenza sulle posizioni acquisite, se davvero ambiva a essere il nuovo Bookman, ma più Lenalee ansimava tremante, le mani strette attorno al suo braccio e la disperazione a singhiozzare sulle guance fredde, più realizzò dolorosamente che c’era una ragione valida se la storia pretendeva il totale discernimento dei sentimenti da ogni singola trucidità che ne macchiava il continuo scorrere.

La devozione si pagava sempre con sacrifici dolorosi e necessari.


- Lo abbiamo cercato per tutta la notte, fino a quando non abbiamo trovato Timcampi che ci ha mostrato le registrazioni. Purtroppo…Siamo arrivati tardi. Lui non c’era già più. -

Troppa amarezza nelle parole, almeno per quegli standard compromessi dall’ineluttabilità degli avvenimenti. Chiudersi nel silenzio era una scelta che nemmeno aveva preso in considerazione, sicché, riferire un fatto con le dovute specificazioni, era comunque un modo come un altro per registrare. Avevano lottato incessantemente fino al sorgere del sole, allo stremo, senza mai abbassare la testa; la guerra ne implicava l’esistenza con un obbligo che gli uomini assolvevano perché convinti che così dovesse essere – altrimenti non avrebbe avuto senso definirla guerra? - e nel sorvolare la zona montuosa con la sedicenne, che neppure aveva la forza di scostarsi i capelli sciolti dal viso, la terribile prospettiva di trovarsi faccia a faccia con una delle sue più spietate conseguenze era divenuta concreta con l’improvvisa scomparsa di Allen in una piccola boscaglia di bambù, dove un’enorme chiazza rossa dispersa sull’erba aveva testimoniato l’inimmaginabile. La ferita scottava, dolore apertosi uno squarcio profondo con repentinità tale da vedere tutti quanti loro incapaci di credere che Allen, di forza superiore a qualsiasi avversità paratagli davanti, fosse svanito nel buio della notte con solo la luna a udirne gli ultimi respiri.

- Se siete preoccupati per le condizioni di Walker-san, non dovete temere: è vivo. – L’arrivo di Samo Han Wong, collaboratore della sede dell’Asia, aveva ridato gioia a una sconvolta Lenalee e a tutti quanti loro, gettandoli poi nuovamente a terra nel doverli informare che le devastanti condizioni del loro compagno implicavano perfino la perdita della sua Innocence.
- E Amèlie-san? Lei l’avete trovata, invero? – Crowley era stato il secondo a parlare, intavolando il secondo argomento fonte di altra preoccupazione.

La francese era svanita nel nulla, inghiottita chissà dove e senza lasciare la benché minima traccia di sé. Il pensiero che anche a lei fosse toccata la stessa malaugurata sorte di Allen aveva sfiorato i cuori e le menti dei restanti Esorcisti con spinosa angoscia; sarebbe stato troppo dilaniante vedersi sottrarre così due compagni senza neppure avere la possibilità di riprenderseli.

- Lei sta bene. Ne sono certa. – Anita parlò eloquentemente, attirando l’attenzione su di sé – Poco prima dell’attacco, le ho riferito alcune direttive lasciate da Cross-sama in persona, che la esortavano a raggiungere il Giappone separatamente da tutti voi: se non l’avete trovata durante la ricognizione, molto probabilmente è già in viaggio. –
- Direttive? Amèlie-chan non ci ha detto niente! – Esclamò Lavi, visibilmente sorpreso.
- Non ce n'è stato il tempo e comunque Cross-sama aveva richiesto espressamente che la questione non venisse divulgata a persone al dì fuori di lei -, proseguì la Maitresse del Dragone Imperiale.
- Se il Generale ha lasciato istruzioni ad Amèlie-san, doveva essere al corrente che stessimo seguendo le sue tracce e che lei si fosse unita a noi. – Bookman fece udire la sua voce con ragionamento atono e di pulita lucidità.
- E’ esatto -, annuì Anita.

Il vento e l’acqua sferzarono all’unisono contro la superficie legnosa e robusta della nave, maciullata nonostante la strenua difesa ne avesse impedito l’inabissamento.
Lavi lanciò una rapida occhiata al suo mentore, sondandone la rugosità appena abbronzata, per poi soffermarsi sul trucco nero che ne appesantiva i piccoli occhi indagatori. Inutili i tentativi volti a cogliere in quelle iridi scure delle possibili sfumature emotive; Bookman era imperscrutabile anche al suo occhio per tutta una serie di valide ragioni che si rifacevano all’abissale differenza d’esperienza sul campo. Cosa pensasse era facile intuirlo, la piega presa dai recenti eventi si era permeata di una confusione generale che aveva colpito tutti quanti loro con impatti di diversa intensità. Lenalee ne era la più consumata, attanagliata da un presentimento contro il quale aveva lanciato preghiere affinché quell’alba dal profumo primaverile non nascondesse sorprese spiacevoli. Malconcia, la mente vagava in un banco di pensieri offuscati da aghi avvelenati di sofferenza, che ne percorrevano gli arti fino alle caviglie; c’era quasi da credere che il destino si divertisse a prenderla in giro, a farla inciampare in una continua disgrazia soltanto pero costringerne la fragilità nascosta nell’intimo a tornare a galla.


- Non perderti d’animo, Lenalee: stanno entrambi bene. – Il rosso le si inginocchiò di fronte, in un coraggioso e sincero tentativo di vederla reagire – Allen ha la testa troppo dura per lasciarsi vincere dallo sconforto; non mi stupirei affatto se stesse già cercando di riappropriarsi della sua Innocence e Amèlie-chan si auto-proibirebbe di morire prima di aver massacrato con le sue mani il Generale Cross. Li rivedremo prestissimo. –

Fu come fischiare sul ciglio di un deserto con l’assurda convinzione di farlo arrivare dall’altra parte forte e chiaro. Penetrare il silenzio eretto dalla ragazza con rincuoro sincero non le avrebbe facilitato accettare quella lontana speranza; il bel viso segnato dalle irregolari scie d’acqua salata che ne avevano attraversato le guance sporche e le labbra secche non mostravano segni di vitalità. Timcampi la osservava seduto sulle sue ginocchia, aspettando una qualche reazione diversa dall’immutabile osservare un punto indefinito.
Quante? Quante volte aveva già pianto la precoce scomparsa di molti suoi compagni in passato – luminosi frammenti del suo amato mondo -, alzatasi e ripreso a respirare col desiderio incandescente riflesso nelle iridi ametiste di non lasciarsi condizionare dall’ennesima ferita inferta? Quante?
Lavi aveva registrato il loro primo e puramente casuale scambio di sguardi con la rinnovata consapevolezza di dover solo interpretare il ruolo di compagno, non esserlo. Ma, forse, in fondo, il suo mentore aveva ragione nel definirlo un moccioso che faceva ancora fatica a contenersi.




Avere una forte propensione per la teatralità implicava gusti ed esigenze che talvolta, dalla comune specificità, sfociavano in un’ossessione accontentabile solo su larga scala. Il Giappone, come palcoscenico, era sicuramente il meglio che si potesse chiedere per una spettacolare anteprima mondiale, la più rara delle bellezze orientali racchiusa in distese d’alberi di ciliegio fiorenti sotto una luna perennemente piena. Sul Conte del Millennio si potevano raccontare dicerie e fandonie colorate delle più indicibili assurdità, ma che fosse una creatura modesta era rasentava la più pura delle oscenità. Non aveva senso pianificare ogni passaggio in largo anticipo per poi lanciarsi in uno spettacolo scadente, buono soltanto a sollevare un polverone di mediocre consistenza, la megalomania pretendeva sfarzosità e impatti scenici che si imprimessero nel cuore degli spettatori con lo stesso dolore di un paletto conficcato nell’occhio; altrimenti, perché darsi tanta premura per mantenere intatto anche il più minuscolo filo d’erba cresciuto in quella terra sottostante al suo dominio da tempo immemore, compresi i confini abbandonati e le coste piene di salsedine?

La baia di Sagami ne era piena, un recinto di rocce bagnate e aperte su un minuscolo spiraglio da cui si potevano scorgere gli scuri contorni del villaggio di Kamamura, avvolto in un silenzio spettrale del tutto insensibile al placido suono delle onde. Al riparo da occhi che avrebbero potuto renderle ancora più scomoda l’attuale situazione, Amèlie sondò la ridotta porzione di civiltà a lei visibile inspirando dal naso il più silenziosamente possibile; la puzza di pericolo fuori norma infestava la superficie nera delle pietre rendendo ancor più incredibile il fatto che lei e Hatsue fossero riuscite a mettere piede sulla costa dopo tre giorni di viaggio. Il Livello Due affibbiatole era di un’incapacità che faceva venire il latte alle ginocchia, peccava in qualsiasi cosa si cimentasse semplicemente ricamandoci sopra problemi ansiolitici che allargava con paure infantili e goffaggine smisurata. Un peso che era costretta a portarsi dietro con stress crescente.
Delle nullità, la Maitresse della Rosa Nera ne aveva sempre fatto volentieri a meno, abituata com’era a standard elevati e a imporseli come criteri di vita e considerata la disarmante facilità con cui Hatsue era stato scoperta in Cina, le crisi di panico e la sua totale mancanza di poteri – salvo il volo alla velocità della luce -, non vi avrebbe fatto affidamento neppure se si fosse ritrovata a combattere a mani nude contro un Noah. Tuttavia, far prevalere la frustrazione per un Akuma tanto incompetente in territorio nemico, non era il genere di lusso che si sarebbe concessa con languida condiscendenza. Il flebile scrosciare delle onde armonizzava la bellezza della serenità notturna, priva di luci che non fossero gli opachi riverberi della luna. Calma piatta, totale, che si contrapponeva alla quasi soffocante presenza maligna che aleggiava lì attorno, nascosta.


- Sua eccellenza il Conte ha preso possesso del Giappone molti secoli orsono ed allora è popolato unicamente di Akuma di livello elevatissimo -, bisbigliò Hatsue, le mani artigliate alle spalle scoperte della corvina e gli occhi azzurrini tremolanti rivolti al villaggio – Il problema è che siamo diventati troppi e quelli come Hatsu-chan vengono mangiati facilmente per lasciare spazio alla classe dominante. Poi, ora che i preparativi sono quasi ultimati… - La creatura si portò le mani alla testa, raggomitolandosi impaurita e mormorando parole incomprensibili.
- Quali preparativi? Ti dispiacerebbe delucidarmi su quanto sta accadendo? – La francese aggrottò la fronte, ma senza voltarsi. Cominciava a non sopportare più quel venire fatta muovere come una marionetta.
- Non…Non qui -, cincischiò balbettante la bionda, toccandosi agitatamente con le mani il corpo – Hatsu-chan ha ricevuto istruzioni precise che deve seguire alla lettera, non può sbagliare, se solo…Whaah! Ma Dov’è? Dov’è l’ha messa Hatsu-chan?! Dove?!? Senza farà perdere Amèlie-sama e non c’è più tanto tempo!!!
- Grandioso, altre crisi mistiche… - Nemmeno la stava guardando, che Amèlie inspirò nuovamente per non cedere a tentazioni omicide.

Come se già non avessero toccato il fondo…

Sarebbe stato tutto molto più semplice se avesse potuto tagliarle la testa e abbandonarne il corpo in mezzo agli spuntoni, ma a prescindere dalla nefasta utilità che la costringeva a portarsela dietro, il suo stesso ego l’avrebbe frustata psicologicamente con lo spettro di sua nonna per l’essere venuta a meno al portamento nobiliare e contenuto che dava lustro alla sua immagine di donna aristocratica. Già troppe volte si era lasciata influenzare dagli eventi, soprattutto perché implicavano quel caso disperato meglio conosciuto come Marian Cross che aveva pensato bene di complicarle ulteriormente la vita addossandole quella piattola demoniaca; settantadue ore di volo in mezzo al mare erano state più che sufficienti a portare la sua pazienza ad un passo fuori dalla soglia di sopportazione, già messa a dura prova dal suo non digerire le attraversate su una massa d’acqua così smisuratamente infinita. Hatsue parlava troppo, si agitava più del dovuto e forse l’unico motivo che poteva aver spinto Cross a rabbonirne l’istinto omicida era per il suo guscio da umana prosperosa e bionda con cui chissà quanti idioti senza cervello aveva abbindolato.
D’innanzi a tanto chiassoso vociare, gli occhi neri dell’Esorcista schioccarono furenti, per poi allertarsi all’udire un fruscio sospetto.


Ah! Meno male! Eccola qui! – Hatsue esultò, sventolando in aria un grosso quadrato di carta malamente ripiegato – Tutto a posto, Amè…!

La vocina concitata di Hatsue morì soffocata in gola non appena la corvina le si avventò sopra con la mano a tapparle la bocca, trascinandola di peso a una paio di metri più a sinistra; con la luna a illuminare la costa, gli angoli per nascondersi erano pressappoco più che una decina, solchi neri fra le rocce dove anche il più flebile dei movimenti ne avrebbe minato l’immobilità. Adocchiatone uno, la francese ci spinse dentro l’Akuma schiacciandolo sul fondo ruvido e spigoloso, senza mai togliergli la mano dalla bocca, per poi entrare a sua volta all’interno del riparo così denso di buio da far dissolvere pure i contorni dei loro corpi. Non dovette attendere molto prima che nel mezzo del cielo stellato apparissero due profili di seria inquietudine.

- Cazzo! Due Livello Tre! –

La fisionomia sottile e robusta di quelle creature non aveva niente a che vedere con la grossolanità dei corpi inferiori che vantavano perfino colori sgargianti e arti malformati. Erano nemici rari, con occhi di svariate dimensioni a fiammeggiare all’impazzata, di coscienza più fine rispetto a qualunque assassino umano.
La zona circostante traboccava della loro presenza, il loro stesso potere sgorgava dalla corazza d’acciaio con fluida riluttanza per il non potersi esternare pienamente; con i battiti cardiaci rallentati perché la propria presenza umana fosse impercettibile, Amèlie studiò il loro librarsi in aria concentrandosi sui denti aguzzi esibiti in un ampio ghigno trasudante di malignità.


Fanno parte del gruppo di ricognizione. – Hatsue era impaurita, la voce squillante rimpicciolita a un sussurro bassissimo nonostante la mano della corvina le tappasse ancora la bocca – F-Forse hanno sentito Hatsu-chan… -
Forse? – Con tutto il chiasso che aveva fatto per trovare uno stupido pezzo di carta, erano fortunate a non essere già state scovate.

Uno scontro era fuori discussione quanto il mettersi a fare dell’ironia su un così palpabile pericolo di morte, non se si doveva passare inosservati in pieno territorio nemico. Agguerrita, l’Esorcista spiò l’avversario più vicino alla loro posizione e il suo compare continuare a sorvolare la zona girandoci in tondo.

- Non sono soli. - Fu una certezza che travalicò il tremore fisico di Hatsue e s'impose con irremovibilità solida.

Non li vedeva, ma la Dark Matter che tingeva di spietatezza l’ossigeno frizzantino non lasciava dubbi; tanta densità non era ricollegabile a due creature come quelle, seppur di estrema violenza. Ce ne erano molti altri, unità che in segreto attendevano un loro sbaglio, e anche considerato quanto fossero fattibili per una come lei, Amèlie non era così sfacciatamente orgogliosa da mandare all’aria una missione e rischiare la disfatta totale solo per dimostrare che poteva batterli senza l’aiuto dei compagni. Un profilo basso era la scelta migliore.

- Hatsue, dobbiamo spostarci -, si rivolse all’Akuma, che la guardò con gli occhi blu aperti e lucidi – C’è il rischio che ci scoprano, se rimaniamo qui troppo a lungo. –

Anche parlare più del necessario comportava un serio pericolo e nell’inchiodare l’Akuma con tanta concisione, sperò che il presunto spirito di autoconservazione che accompagnava l’insaziabile fame delle Bambole del Conte del Millennio permettesse alla macchina modificata di fronte a lei di recepire cosa stesse cercando di dirle.




La cannoniera sfrecciava in mezzo all’acqua bluastra lasciandosi alle spalle una spuma bianca di microscopiche bollicine; il vapore umido reso visibile dal continuo consumo di carbone riempiva la sala macchine fino alla scala, dove una porta metallica sigillava il tutto lasciando giusto che un tondo oblò desse aria a chi ci lavorava. Con il mare e un clima tanto piatto da sembrare quasi senza vita, viaggiare a vele spiegate dava l’impressione di spiccare il volo e lanciarsi in una corsa verso le stelle più irraggiungibili. Una sensazione di assoluta libertà che riempiva il cuore di Anita di incontaminata e coinvolgente serenità, un tepore che Lenalee percepiva nel gentile tocco delle mani della donna, impegnate a spazzolare le capricciose ciocche di quella sua chioma irrimediabilmente rovinata.

Eppure vi era altro.
Una comunanza, il sapere di aver fatto la cosa giusta, auto-costringendosi ad aggrapparsi all’ombra di persone amate e lottando per continuare a credere in una possibilità più simile a un sogno. I segni di quella disperazione calatale addosso c’erano ancora, lisce cicatrici ormai curate da rinnovata determinazione: dell’acquosità che aveva sciolto il viola ametista delle sue iridi e arrossato la pelle nivea era rimasta un’esigua traccia, leggere pieghe raggrinzite a tirarle i punti più sensibili del viso. Il resto – muscoli tesi, tirati, membra sfibrate per l’aver preteso troppo da un corpo già psicologicamente martoriato -, era il risultato di una battaglia cruenta che ne aveva forzato i limiti fino allo stremo.


- Lenalee-chan? – Il tintinnio del pettine che viene appoggiato sul tavolo da lavoro fece rinsavire la fanciulla con le mani a stringere nel tessuto dei pantaloni. Ogni attimo era buono perché il fisico si rilassasse senza che lei ne fosse conscia, prova del fatto che quello smaltire gli effetti dello sprigionamento forzato dell’Innocence la stava guarendo lentamente.
- Sì? Cosa c’è? –Voltandosi, trovò il sorriso di Anita guardarla amorevolmente – Non riesci a non pensare ad Allen, vero? –

Un singulto fuggì dalle labbra della giovane con sobbalzo involontario, svegliando il piccolo Timcampi dal pisolino pomeridiano rimediato standole in grembo.


- Non è necessario che tu dica qualcosa, comprendo bene i tuoi sentimenti . proseguì la maggiore – E’ sempre difficile credere quando non si hanno garanzie o tutto sembra andarti contro, ma è proprio perché abbiamo fiducia in quelle persone, seppur lontane, che riusciamo a essere noi stesse. –

Dirlo sembrava così facile a dispetto di provarci. Lenalee avrebbe voluto poterlo esprimere quel pensiero, ma era riuscita a combatterci scegliendo di credere esattamente come Anita aveva fatto con il Generale Cross. Non le rimaneva che questo dopo Eshi, dopo quel duello mortale da cui era uscita pagando un prezzo debilitante per l’averci donato tutta se stessa: i disegni concentrici e circolari impressi sulle gambe non le arrecavano alcun fastidio – forse complice l’effetto del Time Record di Miranda -, ma toccarli le dava l’impressione di non avere più alcuna empatia con la sua Innocence, con quel potere che aveva imparato a conoscere, domare e a usare.
Sembrava…Trattarla da estranea, da un certo punto di vista, ma per quanto l’dea che il suo legame col cristallo si fosse ridotto a uno stadio larvale, il cuore non era mai stato tanto gonfio di caldo sollievo. Aveva reagito.


- Lenalee-chan, avrei bisogno che tu mi facessi un favore. – La Maitresse del Dragone si era allontanata temporaneamente da lei per trafficare con la scrivania, prendendovi qualcosa che porse alla giovane con entrambe le mani.
- Una lettera? – La ragazza la prese senza pensarci, voltandola per osservarne entrambi i lati. Non c’era scritto nulla.
- E’ per Amèlie-chan. L’ho scritta in appena mezz’ora -, le spiegò la donna, sedendosi sull’ampio letto – Non sono mai stata brava a riportare nero su bianco i miei pensieri, probabilmente perché non mi sono mai impegnata a darvi un ordine sensato, ma a volte capita di avere la giusta motivazione e di riuscire anche in qualcosa in cui si è negato. Più proseguivo, più le parole venivano da sole, come se ci fosse stato qualcuno accanto a me a dettarmele. Buffo, no? –
- Oh…No, no di certo -, si affrettò a rispondere l’Esorcista – Solo non capisco perché vogliate che sia io a consegnargliela: potrete farlo voi di persona quando la rincontreremo. -

Anita scosse blandamente la testa, socchiudendo gli occhi zaffirini con un altro debole sorriso a illuminarne le labbra velate da un trucco chiaro. La mano destra che affondava col palmo sul morbido materasso tremava ancora per l’incredibile operato compiuto, l’inchiostro e la penna d’oca riposti sullo scrittoio avevano lavorato la carta ruvida riempiendola di un segreto serbato dentro di sé in un lasso di tempo non quantificabile, svelato nel giro di pochi attimi. Tra gli scricchiolii legnosi, l’impercettibile vibrare del vetro della finestra e il profumo del tè alla vaniglia diventato freddo, l’anima le si era aperta spontaneamente, di getto, priva di paura, di esitazioni, sincera come il suggerimento stilato con calligrafia elegante e svolazzante.

Apporci la propria firma l’aveva svuotata da una fibrillazione che l’avrebbe consumata con la stessa intensità di un rimpianto, se soltanto avesse deciso di tenerla per sé o di modificarne il contenuto. Così invece era perfetta, giusta.  
Sarebbe stata odiata, altroché, ma non nutriva dubbi sul fatto che, se la mittente fosse stata al suo posto, avrebbe fatto la medesima cosa.


- Preferirei la tenessi tu -, ribadì - Se lo facessi io, finirei col strapparla o non dargliela. - 




La fiocca luce del lumino di carta illuminava la stretta galleria delle miniere di Kamamura, intricata e abbandonata nel pieno della costruzione come le sue gemelle; l’aria stantia si accompagnava a fitti strati di polvere e ragnatele cresciuti su attrezzi gettati alla rinfusa in qualche angolo, lampade consumate, corde rovinate e carrelli rovesciati di fianco a rotaie per facilitare il trasporto merci.
Tutto intatto, abbandonato e mai più toccato. Salvo forse il puzzo di chiuso e la disgustosa vista di abiti lerci lasciati a marcire nel fango, la desolazione infestava quel groviglio di cunicoli con l’ombra di echi insinuatisi in fessure rivolte all’esterno.


Di qua, Amèlie-sama. – Hatsue allungò il dito indice verso una rientranza sulla destra, un altro corridoio tortuoso dentro cui inoltrarsi.
- Sei sicura che sia la direzione giusta? Vaghiamo qui sotto da almeno una giornata e mezzo… –
- Hatsu-chan ne è sicura. Lo dice anche la cartina -, confermò l’Akuma, mostrandole un enorme riquadro di carta tracciato da linee colorate – Era previsto fin dall’inizio che attraversassimo le miniere di Kamamura: la strada principale è troppo trafficata e di posti per nascondersi non ce ne sono. L’unico problema è che questo complesso non ha gallerie che taglino dritto come la via in superficie, sono dispersive, quindi ci metteremo molto più tempo ad arrivare al villaggio.
- Villaggio? – Amèlie corrugò la fronte, perplessa – Edo non è una città? –
- Sì, ma il nostro punto di incontro non è Edo -, le rivelò il Livello Due – Per ora dobbiamo solo sbrigarci a uscire da qui sotto nel minor tempo possibile; anche se sua eccellenza il Conte non è ancora arrivato, tutti gli Akuma sono in allerta per via di Cross-sama.
- Mi sembra il minimo… - Pollice e indice sfiorarono il ciondolo che portava al collo con tanta dedizione.

Una così ferrata ricognizione sulla costa non poteva che avere una ragione più plausibile della semplice coincidenza e l’Esorcista lo aveva intuito osservando attentamente il fin troppo lento sostare di quei due Livello Tre sopra le loro teste. Pensava all’Arca Bianca, sempre, quasi il suo istinto la ricollegasse automaticamente a qualsiasi domanda inerente a tanta criticità, ma c’era qualcosa nelle intenzioni del Generale che ancora tendeva a sfuggire dalla sua comprensione. Non conoscendone le funzioni, poteva ipotizzare che l’uomo volesse distruggerla in base al grande valore affettivo e strumentale che la legava al Conte, forse si trattava del famoso impianto di produzione di massa degli Akuma…

Dunque, vediamo… - Hatsue sollevò la mano reggente la lampada per avvicinarla alla cartina, di modo da illuminarne il percorso da seguire con più nitidezza – Se noi siamo qui, a questo punto dovremmo girare a sinistra e… -

Alzati gli occhi celesti, la carta giallognola scivolò via dalle sue dita planando dolcemente a terra; stessa sorte toccò a Hatsue, che col fondoschiena produsse un tonfo molto più rumoroso. Buona a lamentarsi d’ogni piccolezza, sarebbe scoppiata nell’ennesimo piagnucolio insopportabile, se soltanto fosse riuscita a sbloccare la mascella paralizzata per la paura; le gambe avevano ceduto sotto l’improvviso aumento di peso non appena nel semibuio aleggiante aveva fatto capolino niente di meno che una sogghignante sagoma metallica appartenente a uno dei Livello Tre a cui lei e Amèlie erano sfuggite circa tre ore prima.

Che gradita sorpresa…Un Livello Due tutto solo. – I denti della creatura cozzarono con schiocco compiaciuto – Che ci fai qua?
- Ah! I-I-Io… - In un gesto disperato, Hatsue volse la testa alle sue spalle, sbiancando nel realizzare che a occupare la galleria c’erano soltanto lei e l’Akuma di livello superiore – Kyaaa!!! Non c’è! Non c’è! NON C’E’!!! -
- Allora? – Incalzò minaccioso il Livello Tre, pestandole con forza lo yukata rosso, di modo che non potesse arretrare.
- Ha, Ha…Hatsu-chan s-si è persa! – Balbettò – H-Ha dimenticato l-la strada per Edo ed è f-finita qui…! -

Era nei guai, sapeva di esserlo e di non avere alcuna possibilità di reggere il confronto con la mostruosità che troneggiava su di lei. La gerarchia e il rigore con cui tutti quanti loro venivano costruiti, partiva dal semplicissimo presupposto che, più umani uccidevano e più accorciavano la distanza che li separava dall’agognata evoluzione, ma niente vietava di cibarsi a vicenda quando lo spazio cominciava a farsi stretto. La fame non la si colmava mai con qualche pasto di magra consistenza, finire divorato da un proprio simile era il terrore più grande che una macchina di discreta decenza potesse temere oltre l’Innocence o il Conte del Millennio in persona.
Hatsue si sentì mancare violentemente quando gli innumerevoli occhietti maligni di quell’essere la sondarono con luce sinistra nelle pupille iniettate di liquido vermiglio.


Hai qualcosa di strano… -, sibilò l’Akuma, inarcando la schiena in avanti.

Il Livello Due tacque, le viscere interne stritolate e sul punto di esplodere per la paura che pompava gli organi d’ansiti frenetici. Occultare la sua natura rabbonita d’innanzi a un suo pari non chiedeva nulla di straordinario, se non una maggiore attenzione alla spiccata percezione che ogni Akuma conservava assieme ai molti altri istinti primitivi, ma con un Livello Tre cambiava tutto.

E fu l’ampliarsi di quell’aguzza chiostra grigiastra, che Hatsue capì di essere finita con entrambi i piedi nella fossa.


- Ho capito…Sei uno di quegli Akuma modificati dal Generale che Jusdebi-sama sta cercando -, ghignò vittorioso, passandosi la lunga e appuntita lingua sull’arcata bassa della bocca.
- H-H-Hatsu-chan non sa niente! Niente di niente di nientissimo!!! – Per quanto strattonasse la stoffa dell’abito per liberarsi, il piede del Livello Tre non accennava a muoversi.
- Ah…Non è rilevante, per me.

Hatsue continuò a tirare incondizionatamente. Non avrebbe risolto niente strattonando il vestito con la forza delle sole dita: al cospetto di quel Livello Tre, lei era solo un piccolo spuntino per placare la fame o, nel peggiore dei casi, un pulviscolo da dilaniare per puro sadismo personale.

- Perché Amèlie-sama ha lasciato sola Hatsu-chan?!? Perché se n’è andata via?!? Piagnucolò mentalmente, la vista annacquata da enormi lacrimoni.

Gli artigli metallici volti alla sua giugulare esercitavano una sorta di ipnosi che le impediva addirittura di ordinare alle proprie palpebre di chiudersi o anche soltanto di rendersi conto di cosa successe nei tre secondi successivi. L’immobile piega della bocca che obbligava il Livello Tre a mantenere statico il glaciale ghigno non si spezzò neppure al frantumarsi della sua corazza, trapassata da parte a parte da una lama ricurva emanante una luce smeraldina. La guardò giusto un paio di secondi prima che questa salisse e lo tagliasse in due metà uguali, riducendolo in cenere con muto botto.

- Appena in tempo, eh, Hatsue? –
- A...A-Amèlie-sama? – Il viso coperto dalla mascherina di pizzo nero venne illuminato dal riverbero di Lucifer, ancora attiva – Da dove…Come…?
- La rientranza dietro di te. – La donna indicò un’apertura visibile soltanto a una distanza molto ravvicinata – Ho percepito in tempo la presenza di quel Livello Tre e mi sono nascosta fino al momento propizio: considerato dove ci troviamo, ho dovuto puntare tutto sul fattore sorpresa. –
- P-Puntare? C-Cioè avreste usato Hatsu-chan…COME ESCA?!? – Indignata, la bionda si gonfiò fino a riassumere le sue fattezze originali, strillando inviperita a due centimetri esatti dal naso di Amèlie - COME AVETE POTUTO FARE UNA COSA SIMILE AD HATSU-CHAN?!?
- Levati dalla mia faccia, imbecille! – Bastò un manrovescio della donna per togliersi di dosso la Bambola del Conte del Millennio – Detesto che del lerciume mi si avvicini, soprattutto se tanto irriconoscente! Ti vorrei far notare che siamo in pieno territorio nemico e un Livello Tre è l’ultima cosa che ci serve per peggiorare la situazione. O preferivi essere sbranata? -

- Questo mai! - Obbiettò l’Akuma, rotolandosi a terra - I Livello Tre sono terribili, terribilissimi! Hatsu-chan ha ancora i brividi!!! –
- Allora smettila con i piagnistei e datti un contegno -, intimò la corvina, lisciandosi le pieghe del vestito - A parte il fatto che ti ho salvato unicamente perché mi servi, questo Akuma era giù alla spiaggia; forse non sarà l’unico che rischieremo di incontrare, quindi ci conviene tenere un profilo basso e…Ma che hai adesso, si può sapere? –

Le grandi pozze azzurre di Hatsue, fattesi tonde e lucide, erano tornate a riempirsi di lacrime, accompagnate da singulti ebeti e smorzati. Tanta ridicola sensibilità da parte di un trabiccolo ferruginoso rincarò il fastidio che Amèlie nutriva nei suoi confronti, con una nota di disgusto particolare per come quell’affare la stesse guardando con una tale ossessività da forare il confine che proteggeva il suo sacro e inviolabile spazio vitale.

- Ascolta, se è ancora per prima… -
- Lei ha detto che mi avrebbe salvato come e comunque… -, pigolò il Livello Due – Questo significa che, nonostante tutto Chibi-chan non è un’insensibile, VUOLE BENE AD HATSU-CHAN!!! –

SBONK!

- Ho detto profilo basso, idiota! – La redarguì violenta la francese, il pugno destro a fumare per il colpo sferrato sulla capoccia dell’Akuma e la voce tenuta bassa per la propria salvaguardia personale – E non chiamarmi con quello stupido nomignolo o la prossima volta lascerò che qualcuno ti divori! – 




Note di fine capitolo:
E di nuovo risorgo! Non sapete che fatica arrivare in fondo al capitolo dopo averlo stravolto dall’inizio alla fine e intanto scrivere il seguito cercando di mantenere un buon distacco con i capitoli già scritti. Fortunatamente, ho a mio carico dei capitoli già pronti, ma quando ne pubblico uno poi mi dico che non devo pubblicare il prossimo se non ho finito quello che ho iniziato (o quanto meno essere arrivata a un punto vicino alla fine). Prima di salutarvi, ringrazio la dolcissima Momoko-chan per il seguirmi assiduamente e per l’apprezzare la mia Amèlie con recensioni che ogni volta mi fanno gongolare dall’orgoglio! Ragazza, tu si che mi fai felice! Incito anche gli altri lettori a farmi sapere cosa ne pensano, ovviamente non è un obbligo, ma ogni tanto mi chiedo se la storia venga apprezzata o se ci siano cose che devo cambiare e di cui non mi accorgo. Un bacione a tutti!

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Capitolo 19
*** L'Arca Bianca dalle ali strappate che splende in cielo. ***




Come previsto, l’attraversamento delle miniere di Kamamura richiese più tempo di quello calcolato. Due giorni, per l’esattezza, quarantotto ore drasticamente allargatesi a causa della presenza sempre più ingombrante degli Akuma. Il cuore del Giappone fremeva di un’eccitazione stanca di essere trattenuta, le viscere traboccavano di veleno pronto allo scoppio decisivo. Mancava davvero poco.   

Amèlie e Hatsue riemersero in superficie con la luna alta in cielo e l’aria frizzantina della tarda notte a sanare i loro polmoni da tutta l’umidità inalata. I cunicoli percorsi a lume di candela  avevano reso quelle ore un travaglio peggiore di quanto potesse sembrare per il solo fatto che le vie si assomigliavano a tal punto da essere indistinguibili; non erano mancati ripensamenti e momenti dove, davanti a un crocevia non segnato dalla mappa, la frustrazione fosse salita con sbuffo esasperato. Unica fortuna riservata, era stato il non incrociare nessun’altro Livello Tre oltre a quello eliminato. Elegante, la francese si diede una spolverata agli abiti, passandosi una mano dietro al collo per  scrollarsi la chioma inchiostrata di nero e lasciarla ondulare morbidamente sulla schiena nuda. Una piccola foresta di canne di bambù incorniciava un sentierino dismesso, dove si intravvedevano stracci di muri appartenenti ad abitazioni, indubbiamente abbandonate come quelle notate nei pressi della spiaggia.


- Questi sono…Akuma? – Da lontano, un sinistro stridere metallico giunse con aliti di vento temperato. La somiglianza con i sibili disumani delle Bambole del Conte del Millennio era ineccepibile, un’impronta uditiva inconfondibile che diveniva sempre più forte – Sembrano parecchio irrequieti. -
- E’ sua…Sua eccellenza il Conte… -

La voce mozzata di Hatsue giunse alle spalle di Amèlie come richiamo affannato a un problema cominciatosi a manifestare qualche ora prima. Il Livello Due modificato da Marian Cross era seduto per terra, le unghie piantate nel terreno per non cadere a causa del peso della schiena ingobbita. I capelli dorati penzolavano in avanti, nascondendone il viso sudato e tirato. Affaticata per quel prosciugamento di forze improvviso, aveva dato prova di grande resistenza non crollando prima di uscire dalla labirintica miniera, ma Amèlie ebbe i suoi buoni motivi per sondare l’involucro di carne umana che nascondeva la macchina omicida con fondato distacco emotivo e la falce sguainata. Per costrutti artificiali del genere non poteva esserci alcuna forma d’affetto da parte sua, pur con un dispositivo di blocco che ne enfatizzava l’umana coscienza. Gli Akuma erano Akuma e la modifica alchemica operata dal Generale era un semplice espediente temporaneo per avvantaggiarsi sul nemico.

Ci chiama, A-Amèlie-sama…Ci sta chiamando –, ansimò il Livello Due, mostrando il viso ingrigito, sulla cui fronte spiccava un pentacolo, nero come il petrolio riversatosi negli occhi dalle pupille luccicanti di un rosso febbrile – Qui sopra…I-Il segnale è più forte…Lui e la famiglia Noah…N-Non manca molto. -
- Risparmia il fiato per contrastare la reazione di rigetto alla modifica alchemica -, obbiettò l’Esorcista, chinatasi per tirarla su col braccio – La nostra meta è poco più avanti, no? –
- Sì, il…Il villaggio -, annuì Hatsue – C’è una casa…E’ sicura… -
- Bene, allora non perdiamo tempo. - 




Il manipolo d’abitazioni raggiunto giaceva in un sonno catatonico alternato dal cozzare tintinnante delle spesse armature dei Livello Tre, che si aggiravano senza meta nelle strade dissestate. Tetti spioventi e porte scorrevoli caratterizzavano quelle case riempitesi di polvere e ragnatele, dove gli Akuma attendevano con l’elmo lucido e la criniera dai capelli svolazzanti il segnale a loro rivolto, imbrigliandone l’essere che li avrebbe fatti convergere in un solo e unico punto appena distinguibile nell’oscurità.
Edo era appena visibile, con le sagome scure degli imponenti edifici a fare da sfondo a un cielo dalle angoscianti tonalità spettrali, ma l’Arca Bianca ne indicava l’esatta ubicazione spiccando sulla cima del palazzo più alto. La struttura quadrata era irradiata da una candida e ipnotica luminescenza, spiata segretamente da Amèlie con occhi stentanti a credere che, cotanto splendore, fosse frutto del più grande male incarnato che il mondo avesse mai conosciuto. Il suo valore affettivo si poteva intuire dal ronzio emanato dai miliardi di punti neri che le volteggiavano attorno con famelica fibrillazione: tanti Akuma riuniti in un unico punto facevano passare la voglia di rimanere lì un solo secondo in più e neppure se la situazione l’avesse richiesto, Amèlie avrebbe scelto la battaglia anziché la ritirata.

Cauta, si inginocchiò vicino alla porta, sbirciando l’esterno tramite un minuscolo spiraglio, con la mano a premere sul pavimento di legno per attivare il Talisman d’occultamento. Criticità a parte, fuori tutto taceva, le macchine assassine vagabondavano con le lingua appuntite a bagnare i canini zannuti. La loro presenza sbordava dai confini terreni del Paese del Sol Levante quasi questo non riuscisse più a contenerne il numero sempre più crescente, istigate dal richiamo del loro padrone pronto a riaprirne le porte dopo secoli di reclusione voluta.


- Bene, non sembrano averci percepito. -  Amèlie si voltò verso Hatsue; a giudicare dal respiro regolarizzato, il segnale emesso dall’atavico avversario doveva essersi attenuato. 

La casa dentro cui si erano rifugiate, era logora e spoglia come tutte le altre; per raggiungerla avevano attraversato l’interno di altre abitazioni, sgattaiolando in alcuni vicoli appena agibili per non perdersi in inutili giri lunghi. Il tatami era di un verde sporco seriamente provato dall’abbandono, con un caminetto al centro pieno di mucchietti di cenere grigia sparsa attorno. Richiudendo la porta scorrevole senza emettere alcun rumore, la donna si avvicinò tetra all’Akuma, rannicchiata nell’angolo a destra, con la schiena appoggiata al muro. Fisico e psiche mentale sostavano in un ripristino lento, la pelle era perforata parzialmente da appuntite spigolosità ferruginose fuoriuscenti come ossa rotte anche dalla chioma bionda. Difficile dire per quanto ancora avrebbe conservato le sue sembianze umane. Poco, forse mezz’ora; il grigiore corporeo persisteva come la fame e l’impulso omicida rabboniti e una semplice Kekkai non le avrebbe nascoste a lungo dai poteri percettivi dei Livello Tre.

Come Hatsue tirò indietro la testa, per poggiare la nuca al muro, le condizioni del suo viso parlarono per lei. Una piccola ragnatela di crepe le deturpava il setto nasale estendendosi alle guance, con gli zigomi e i lineamenti in generale orribilmente ingrossati. I suoi occhi, rossi e neri, catturarono uno sfuggente barlume argenteo che ne stimolò l’apertura completa.


La può anche mettere via -, respirò profondamente l’Akuma, per nulla impaurito dalla punta di Lucifer a pochi centimetri dalla sua carotide – Hatsu-chan non ha intenzione di cedere fino a che non avrà portato a termine il suo compito.
- Sarà meglio per te -, replicò fredda l’Esorcista, sedendosi di fronte a lei – Non prenderla sul personale, ma una tua improvvisa dipartita non giocherebbe a mio favore, quindi vedi di impiegare il poco tempo che ti rimane per spiegarmi una volta per tutte cos’ha in mente Cross. –
- D…D’accordo, è giusto. -

Teneva la voce bassa per non far celare la propria presenza oltre le consunte pareti della casa. Anche con i Talisman a loro difesa, la pressione e l’infido potere della Dark Matter puntellava la schiena di Amèlie con aghi d’aria appuntita, il folle ardore messo da parte dall’innato autocontrollo ne era istigato dal malefico soffiare. 

Quattro anni fa, Cross-sama ha ricevuto l’ordine diretto dal Papa di trovare l’impianto di produzione di noi Akuma. Aveva già qualche sospetto su Edo, ma solo dopo aver appurato le sue teorie…Anf…Ne ha avuta l’assoluta certezza -, raccontò piano Hatsue – L’Arca di sua eccellenza il Conte ne è la custode, è un mezzo prodigioso che da secoli viene utilizzato dal Lord e dalla famiglia Noah come quartier generale: ha il potere di spostarsi in ogni dove…A seconda del desiderio di chi la manovra, tuttavia, date le circostanze, non vi è altro modo per accedervi se non dai varchi principali e con i nobili Noah a presidiarla, il…Il Generale ha dovuto pazientare a lungo prima di riuscire a infiltrarsi fra le file nemiche senza destare sospetti. -  
- Ecco dove stava il collegamento -, mormorò fra sé e sé Amelìe.

Finalmente la nebbia cominciò a diramarsi sui nodi cruciali di quell’intricata faccenda. L’impianto di produzione degli Akuma non rappresentava altro che una delle molte forme di illimitato potere di cui il Conte del Millennio si serviva per concretizzare l’avvento del Ragnarok. La più conosciuta e la più preziosa, ma la corvina si sorprese comunque nello scoprire che l’ordine fosse addirittura partito dal Papa in persona; le informazioni raccolte durante l’ultimo anno si erano rifatte a quella struttura quadrata galleggiante in aria e all’impianto che ora sapeva essere nascosto al suo interno, insieme ad altri particolari che aveva mescolato e posto in ordini diversi al fine di trovare un adeguato senso, ma non aveva mai osato supporre infondate teorie riguardo le intenzioni del Generale, nonostante fossero ben poche le cose che un Esorcista potesse fare con un impianto di produzione per gli Akuma.
Una sua distruzione era l’ipotesi più ovvia; avrebbe significato la prima vittoria significativa a discapito del Conte del Millennio, tuttavia, a prescindere dalle difficoltà che il Generale poteva aver contratto soltanto per inoltrarsi nel cuore del Giappone, Amèlie corrugò la fronte, dubbiosa.
Mancava qualcosa, un vuoto di ignota comprensione balzatole in mente giorni prima e riesumato con maggior curiosità a carico. La  lenta e studiata attenzione di Cross nell’insinuarsi fra i ranghi nemici, il lasciarle delle direttive con tanto di guida, il recente agire corrispondente a un delicato frangente in procinto di schiarirsi del tutto…
Non erano coincidenze da prendere singolarmente, ma vere e proprie pianificazioni che si congiungevano e vertevano in un’unica direzione cominciante ad avere un senso logico, una preparazione curata nei minimi dettagli che le apparve sempre più fattibile al ricordare le parole di quell’Akuma interrogato prima che partisse insieme ad Allen e agli altri.

Il vascello millenario era la risposta a ogni suo quesito, l’oggetto chiave a cui ruotavano attorno tutte le tematiche irrisolte e le intenzioni del Conte del Millennio.


- Hatsue, spiegami solo una cosa. - L’Esorcista le si accostò meglio – Hai detto che l’impianto di produzione è nascosto sull’Arca Bianca, ma quella scatola sta per essere distrutta, giusto? –
- Cos…M-Ma è un progetto segretissimo! Come…? – Lo sconcerto fece sì che il Livello Due sobbalzasse, rischiando di farla parlare con voce più alta del necessario.
- Tutti questi Akuma non sono qui per l’Arca che si vede da qui e nemmeno i preparativi che hai accennato alla spiaggia. Ti stavi riferendo a un'altra Arca, non è così? Un’Arca Nera -, incalzò Amèlie – Per quale ragione il Conte del Millennio dovrebbe disfarsi di un mezzo tanto utile per sostituirlo con un altro? –
- Ma perché è maledetta, Amèlie-sama! Maledetta! – Squittì Hatsue, scattando in avanti con tutte le forze perdute ritrovate.
- Maledetta? – Il Livello Due annuì energicamente alla sua confusione, come mossa da un sentimento intriso di timore ed eccitazione – Cosa intendi dire? –
- Che non si può più muovere! – Le rispose l’Akuma – Prima ho detto che si poteva accedere all’interno dell’Arca Bianca soltanto dai varchi principali anche per questo: quella scatola non è più in grado di solcare i cieli, può aprire le sue porte soltanto fra i confini di questa terra! E’ rotta, Amèlie-sama! Rotta, rottissima!
- E il Conte non la può riparare? –
- Non…Non è così semplice -, balbettò Hatsue, alzandosi in piedi e stringendosi i pugni in petto.
- Almeno saprai dirmi chi è stato. –
- C-Chi è stato chi? – Tremò l’Akuma.
- A maledire l’Arca Bianca -, borbottò spazientita la corvina – Qualcuno deve pur.... –
- IIIH!!! NON LO CHIEDA! NON LO CHIEDA! NON LO CHIEDAAA!!! – La bionda si prostrò fulminea ai piedi della francese, più agitata che mai – E’ PROIBITO, PROIBITISSIMO! E’ UNA COSA CHE RIGUARDA SUA ECCELLENZA IL CONTE E QUEL NOAH!!!
- Quel Noah? – Amèlie stranì, socchiudendo le labbra rosse – E’ stato un Noah a maledire l’Arca Bianca? –
- IIIH!!! – L’Akuma strepitò con più disperazione dopo aver trascorso tre secondi a dar mostra della sua ebete stupidità con viso raggelato – NON DEVE CHIEDERE, NON DEVE!!! PERCHE’ HA COSTRETTO HATSU-CHAN A PARLARE?!? PERC…?!?

SBONK!

O-Ok…Hatsu-chan parlerà, ahia… -

Se Amèlie non si fosse decisa a sedare la sua irrequieta e isterica guida con un sinistro di primo ordine, avrebbe finito per impazzire dal mal di testa. Ringraziò la sua buona stella che i Livello Tre e qualunque altra mostruosità non si fossero accorti di nulla: l’eccessiva quantità di polvere che inzuppava il tatami le pungeva gli occhi con leggero prurito al naso e più che mai, in quel frangente, aveva bisogno di rielaborare quanto riferitole senza futili distrazioni.
L’Arca Bianca continuava a galleggiare in cielo come fosse una seconda luna dalle dimensioni drasticamente ridotte, mirarne i contorni quadrati e l’abbagliante splendore le accalorò il corpo di immediata attrattiva devota alla natura enigmatica che affondava le sue radici in una storia ancor più intricata: Noah.
 Attorno a quel nome era eretto un autentico banco di nebbia oscura, secoli d’antico mistero che proteggevano ciascun membro di quella famiglia alleata del Conte del Millennio con ermetico silenzio, pronta ad accompagnarlo sino alla realizzazione dei tre leggendari Giorni di Tenebra.
Chi mai avrebbe immaginato che da tanta abnegazione potesse nascere un sentimento sfociante nel tradimento? Un Noah che malediceva l’Arca Bianca tanto cara al Conte del Millennio, costringendolo addirittura a costruirne una seconda…
Non riusciva a figurarlo, Amèlie, il potere, la ragione, che avevano comportato lo spezzarsi di un’unione così inscalfibile, ma bramava scoprire tutti i particolari anche torchiando Hatsue fino al pianto.

L’Akuma in questione tirò su col naso piagnucolando mugugni incomprensibili, acciambellata a terra con le dita a giocherellare con la stoffa dello yukata in muto tentativo di ricomporsi. Accidenti a lei e alla sua boccaccia larga! Perché non riusciva mai ad accorgersi in tempo delle cavolate che commetteva?!? Ore e ore sprecate a raccomandarsi di non svelare per nessun motivo al mondo quella faccenda e in meno di cinque minuti aveva mandato tutto all’aria!
Affranta, nascose il capo con un broncio ancor più disperato. Ormai il danno era fatto, tirarsi indietro non era fattibile, tuttalpiù che, se ci avesse provato, la cosa le sarebbe costata un altro pugno e la sua povera testa ne aveva sopportate anche troppe di percosse.


E’ successo molto prima che Hatsu-chan venisse costruita -, iniziò lei, incespicando con la lingua – Più di trent’anni fa, sull’Arca Bianca, accadde qualcosa di orribile, che ne ha incrinato l’equilibrio armonico. C’era un Noah a quel tempo…Mai visto, mai comparso nelle generazioni passate dei Tredici Agnelli, un..Quattordicesimo. Lui…Tentò di uccidere sua eccellenza il Conte. – Hatsue dovette rivelarlo tutto ad un fiato, tant’era forte il tremore che le faceva vibrare le corde vocali - Nessuno, neppure Hatsu-chan conosce il perché: i Noah proteggono sua eccellenza il Conte, gli sono legati da secoli, ma lui ci provò e…E fallì. Non potendo restare, fuggì via, ma prima di farlo, maledisse la scatola bloccandola proprio sopra Edo, cosicché nessuno potesse seguirlo. Da lì in poi…Non c’è stato giorno dove il Conte non l’abbia cercato, ma quel Noah non si lasciò mai catturare. – Il Livello Due deglutì pesantemente, con la bocca impastata di saliva – Uccise quasi tutti i membri della famiglia Noah precedente prima che sua eccellenza il Conte riuscisse a fermarlo, ma…Sfortunatamente, quello morì senza sciogliere l’incantesimo dell’Arca Bianca. -

Di nuovo, cadde il silenzio, giusto smorzato dal respirare copioso di Hatsue avente le labbra asciutte, le iridi rossastre velate d’inquietudine nell’osservare Amèlie, ritta, con le braccia conserte e il ciondolo di rubino a roteare fra le dita inguantate. La donna aveva ascoltato tutto, recepito ogni sillaba con il nome di quella famiglia a rifletterle su viso fine di malizioso interesse; se pochi attimi prima non era apparsa sufficientemente attratta da quella questione, ora era pronta anche giocare carte false per saperne di più.

Un Noah traditore. Le parvero secoli dall’’ultima volta che avesse messo le mani su qualcosa di tanto appetibile. Nella sua mente, la microscopica composizione di due parole apparentemente inconciliabili le colò incandescente lungo tutto il corpo, un’eccitazione portatrice di segreti sconosciuti che andavano oltre i campi di battaglia e si insinuavano nelle file più intime del nemico; non avrebbe potuto chiedere di meglio, quella lacerazione nascosta agli occhi dell’universo intero celava senz’altro molto più di quanto già intendesse da sé e nemmeno stette a chiedersi se Cross fosse al corrente di un tale retroscena. Sicuramente era più informato di lei.


- Un Noah comparso nella generazione precedente che tenta di uccidere quel lardone sorridente e strappa le ali alla sua preziosa creatura. A quanto pare non è stata una gran perdita di tempo venire qui. – Nuove domande scalzarono le precedenti, trascinate da una che fece da regina a tutte le altre – Come si chiamava questo Noah? –
- C-Cosa? – Hatsue sobbalzò nuovamente, nascondendo timorosa la testa nell’incavo delle spalle.
- Il nome -, ripeté Amèlie, avvicinandosi col volto a quello dell’Akuma – Doveva pur averne uno, no? Voglio saperlo. –
- IIH…!!! – L’Esorcista agguantò repentina il Livello Due prima che si lasciasse andare in una seconda sceneggiata melodrammatica spinta all’estremo – Non ci chieda anche questo, Amèlie-sama! Non chieda una cosa simile ad Hatsu-chan! – La supplicò la bionda, dopo che le fu tolta la mano dalla bocca – Questa cosa è davvero proibitissima, più proibita del proibito di prima! Tabù! Nessuno conosce il nome di quello là e nessuno deve saperlo! Perfino sua eccellenza il Conte lo ha cancellato dalla sua memoria! Tutto quello che rimane di quel tizio è l’Arca Bianca, ma fra un po’ anche quella cesserà di esistere.
- E io ancora non ne capisco la ragione -, borbottò stizzita la donna – Perché costruirne una seconda invece di sciogliere l’incantesimo di quella attuale? Se il Conte l’ha costruita, può anche ripararla. –
- Ve…Ve l’ho detto prima: non è così semplice. - Il respiro dell’Akuma si indebolì, affaticandosi sospettosamente – Ogni nobile Noah nasce con una qualifica specifica che lo rende unico nel suo genere, una…Una natura scaturita dalla Memory contro cui perfino sua eccellenza il Conte non può interferire. Il Noah traditore era un Suonatore, come il Lord e Road-sama, ma l’incantesimo lanciato all’Arca Bianca è frutto esclusivo della sua Memory. Le Memory…Sono ciò che trasformano un essere umano in un Noah, Soltanto…S-Soltanto lui o la persona in cui è andata a impiantarsi la sua Memory possono sciogliere l’incantesimo ed è per questo che sua eccellenza il Conte ha costruito un nuovo veliero; ora che questo è pronto, non resta che scaricare i dati per completare…Ah!

L’accasciarsi al suolo di Hatsue corrispose al repentino quanto agile movimento del corpo di Amèlie, voltosi in direzione della porta scorrevole sul cui tessuto giallastro si stavano allungando minacciosi ombre sogghignanti.

- Ci hanno individuato. – Fu l’unico pensiero che la sua mente produsse prima di guardarsi attorno per capire se l’intera abitazione era stata circondata.

La Kekkai cartacea aveva quasi esaurito del tutto il suo effetto; una manciata scarsa di minuti e il tetto e le pareti sarebbero state aperte con mollezza, riducendo l’interno a un cumulo di cemento polverizzato.

- In piedi, Hatsue: ce ne andiamo. – La francese agguantò per un braccio l’Akuma, sollevandola di peso la donna. L’improvviso crollo del Livello Due non poteva che essere opera della trasmissione a lungo raggio del Conte: evidentemente stava lanciando l’ultimo appello ai suoi balocchi meccanici.
- N-No…Non c’è tempo. Ormai… -

Lo sentiva, crescente e corrosivo come acido caldo. Il guscio di tessuti, nervature e ossa aveva sopportato troppo e il cominciare a ingrossarsi sotto il semplice yukata fece sì che Amèlie mollasse la presa e si armasse della falce con entrambe le mani. Hatsue tossì, sporcandosi labbra e denti di liquido nero che sputò con rantolo gutturale; barcollò col viso solcato da un sorriso ampissimo, pieno di denti aguzzi sporgenti dalle labbra. La mano cenerina, quell’unica non ancora del tutto priva di lineamenti umani, si tese a fatica in avanti, schiudendo le sottili dita e porgendo un foglio di carta accuratamente piegato, conservato fino al dato utilizzo. La Maitresse della Rosa Nere lo afferrò rapida, creando un contatto temporaneo fra la sua pelle tiepida e quella gelida del Livello Due, prossimo al congelamento totale non appena anche l’ultimo briciolo di coscienza ancora restio a venire inghiottito nell’oblio si fosse esaurito.

- A breve…Tutto il materiale conservato nell’Arca Bianca verrà trasferito nell’Arca Nera, con un Download che caricherà per ultimo l’impianto di produzione. Cross-sama aspetterà fino ad allora per agire, prima…Non potrebbe. Lei deve…S-Salire sull’Arca -, ansimò faticosamente, inspirando forte dal naso – Esca dalla finestra -, e fece cenno con la testa all’apertura alle sue spalle – Vada dritto fino a che non troverà uno spiazzo…L-Lì c’è l’ultimo Gate aperto. Dentro...Dovrà fare attenzione: ogni volta che il Download scaricherà un’area della scatola, q-questa si distruggerà, f-fino alla completa distruzione… -

Rumori di mani artigliate che schiacciavano le mura molli della casa si levarono attorno a loro con la stessa intensità dello scricchiolare delle vecchie travi legnose. Il piccolo riquadro alle spalle di Hatsue dava sulla foresta di canne di bambù, il cui fruscio non era minimamente distinguibile con l’avanzare metallico e ferruginoso aleggiante. Era questione di secondi, sia per una cosa che per l’altra: la fame dei Livello Tre a incalzare con ringhi sibillini e quella del Livello Due istigata dall’argentea Rose Cross ricamata sul suo bustino. Amèlie dubitò che avessero percepito entrambe, ma ciò non toglieva che dovesse andarsene senza far intuire loro la sua direzione di fuga. Un’esca era l’unica maniera per guadagnare un po’ di tempo e quasi le avesse letto nella mente, Hatsue si rizzò al meglio delle sue possibilità.


Eh eh… Nonostante la confusione e gli imprevisti, alla fine il piano di Cross-sama andrà a buon fine, anche se Hatsu-chan avrebbe preferito morire diversamente. Venire mangiati dai propri simili…O esplodere…E’ spaventoso… - Non nascose la paura per quel destino, probabilmente il più orribile che un Akuma armato di ego potesse concepire – Speriamo che almeno Sachiko-chan ce la faccia… -

Fu con quell’ultima nota speranzosa rivolta a una persona del tutto sconosciuta, che il tempo a loro disposizione si azzerò. Avrebbe potuto fare qualcosa, Amèlie, forse darle quel riposo eterno che Allen le avrebbe regalato senza alcuna esitazione, anche a costo di mettere a repentaglio il proprio anonimato. Quell’albino dal cuore irrimediabilmente buono e compassionevole si sarebbe spremuto le meningi per cercare una soluzione che accontentasse entrambe le parti, tutto, pur di non vedere sacrificare ingiustamente un’anima tormentata, ma tanta accondiscendenza non avrebbe mai trovato alcuno spiraglio aperto nel cinismo della Chevalier.
Qualcuno doveva pur prendersi carico delle priorità e lei lo aveva sempre fatto, preferendo addossarsi il dissenso altrui piuttosto che venire meno ai suoi principi.
L’aveva già respinta una volta, l’ingenuità speranzosa di quello scricciolo, con parole crudeli e veritiere, e la respinse nuovamente dando le spalle al grido disumano e terrorizzato di Hatsue, maciullata violentemente dai denti dei suoi superiori, che ne strapparono il tozzo e grasso corpo spigoloso in parti diseguali, senza che vi fosse un grammo di rimpianto a velarle il viso.




Avanti, vediamo di sbrigarci: è quasi ora.

Il gracchiante suono di una voce anomala si levò bassa da un minuscolo spiazzo di terra solitaria immersa nella fitta vegetazione di bambù. Un gruppetto di Skull si sgranchì le gambe con gli ampi cappotti dai bordi in pelliccia a mostrarne i piedi lunghi e neri, componendo una perfetta fila indiana dopo aver pazientato a lungo che l’entrata dell’Arca Bianca fosse finalmente agibile. Il Gate fece capolino nello spiazzo con una sottile linea bianca apparsa da nulla, aprendosi da ambedue le parti fino a creare un varco dai lati squadrati e di calda luminosità, senza mostrare l’interno. Amèlie Chevalier osservò da prima gli esseri dal cranio del tutto privo di carnosità, nero e di resistenza visibilmente superiore alla norma. Non erano Akuma, questo lo appurò quasi subito, ma le dita affilate e le mandibole piegate lasciarono intendere una natura maligna da non prendere sottogamba.

Nascosta fra le canne, l’oscurità ne agevolava la mimetizzazione. Inginocchiata, osservò con respiro rallentato ogni movimento, rimanendo in allerta anche qualora qualcosa le fosse arrivato da dietro. Tese la testa in avanti di qualche millimetro, accostando l’orecchio per aguzzare l’udito e interpretare quel borbottare in una lingua che le fosse comprensibile.


- Dovremo essere cauti -, avvisò il primo della fila, voltatosi verso i suoi compagni - Sua eccellenza il Conte conta che il Download scarichi il contenuto dell’Arca Bianca in quella Nera il più velocemente possibile, ma fino ad allora la custodia dell’Uovo è di nostra competenza.
- Pensi che sia per la presenza di quel Generale qui in Giappone che il Lord del Millennio ha rafforzato le file degli Akuma? – Domandò un secondo.

Amèlie, corrugò la fronte; dunque il Conte del Millennio era al corrente delle intenzioni di Cross…
L’Uovo di cui parlavano, doveva trattarsi dell’impianto di produzione degli Akuma.


Sì, ha buone ragioni di credere che voglia mettere le mani sulla matrice di Dark Matter, ma non c’è di che preoccuparsi -, ridacchiò beffardo lo Skull, con i pendenti dorati a dondolare dalle orecchie appuntite - Il prezioso Uovo del Lord del Millennio è protetto da una barriera mistica impenetrabile. Se anche riuscisse a salire sull’Arca Bianca, quell’Esorcista non ci potrebbe fare niente e finirà per con lo sparire insieme a essa. Adesso, muoviamoci. -

Una ad una, le creature iniziarono a entrare nel Gate, sparendo all’interno del bagliore emanato. Man mano che il numero diminuiva, Amèlie accorciava la distanza che la separava dall’entrata dell’Arca, tastando il terreno in punta di piedi e cercando di non incappare in qualche ramoscello o spazio che avrebbe fruttato un qualche rumore sospetto. Con la mascherina di pizzo a coprirle la parte superiore del viso, non aveva occhi che per quella porta che si rifletteva nell’onice delle sue iridi con bagliore fremente. Hatsue era stata chiara: doveva entrare nell’Arca Bianca. Per fare cosa ancora lo ignorava, ma entrata in perfetta simbiosi con l’armoniosa quiete della foresta, vi sorpassò sopra con noncuranza. Un passo alla volta, senza aver fretta di agire e con i riflessi pronti a ogni evenienza.

A circa una decina di metri dal Gate, proprio ai margini della sua copertura, la corvina si fermò, scaldando la pianta dei piedi per l’imminente scatto. Una manciata esigua di secondi per scivolare con rapidità e fluente impalpabilità verso il portale prima che si richiudesse; una questione di tempistica che cercò di calcolare a mente lucida senza per questo lasciarsi influenzare dalla pressante attesa sempre più estenuante.Qualunque cosa fossero quei mostri, si muovevano con una pigrizia nelle gambe che avrebbe fatto sbuffare chiunque.
A est si percepiva odore di battaglia, un flebile rimbombo che scuoteva le foglie sottili sporcandole di leggero olezzo polveroso. Edo si stava tingendo di luci contrastanti, svegliandosi dal sonno durato oltre un secolo, con le stelle in cielo ad accoglierne i fuochi e la terra a macchiarsi di sangue catramoso e detriti. Un pensiero di Amèlie andò ai ragazzi: Allen, Lenalee, Lavi…Che fossero laggiù, le loro vite erano affidate unicamente a loro stessi.

Attenta, appoggiò le punta delle dita sul terreno umido, inarcando la schiena in avanti. Era quasi fatta.


- E adesso che succede? – L’arcata superiore dei denti morse le labbra della francese, con le sopracciglia inarcate per l’insensatezza a cui si ritrovò ad assistere.

La fila si era ridotta a una sola di quei mostri, ma questo, ad un passo dal Gate, gli aveva dato le spalle, senza che la fretta dei suoi simili gli fosse. Un comportamento insolito, che rallentò il già bassissimo respirare di Amèlie, quando colse la direzione di quella testa ossea e compatta.

Stava puntando le sue orbite vuote verso di lei.

Perse qualche battito, ma, imperturbabile, rimase perfettamente immobile, calma, nascosta fra le ombre. In un primo momento avrebbe pensato che fosse tutta una sua impressione, ma ora, nel sondare quelle piccole cavità scuro, fu certa che stesse contraccambiando lo sguardo. E la cosa, anziché farle precipitare l’animo in una pozza di panico – cosa comunque impossibile, per lei - risvegliò un fastidioso astio che le montò in groppa con pizzicore irritante.
Chiuse gli occhi per cinque secondi contati non ritenendo saggio compiere alcun movimento, ma i suoi nervi erano stati istigati con un famigliarità istintiva che palpitava con ronzante trillo che aveva semplicemente del pazzesco; non aveva idea di che cosa fosse quella creatura e desiderava tranciargli la testa più di qualunque altra cosa.

- Cosa diavolo…? – Non ci avrebbe creduto se non l’avesse visto e non poté rimanere basita per questo.

Quell’affare le aveva appena ammiccato, fatto l’occhiolino con sogghignante naturalezza. Il sospetto si fece strada in lei nonostante la riluttanza ad ammettere che potesse esserci una remota possibilità a quello che, per pochi istanti, le era balzato in testa. Non poteva essere, era impossibile: tanto viaggiare senza mai fermarsi le aveva fatto accumulare troppa stanchezza che non era più abituata a percepire come un peso, forse stava saltando a conclusioni troppo affrettate…

Perché quell’infido bastardo non poteva essere veramente davanti a lei come nulla fosse...


- Col cavolo che può essere! Lo è eccome!!! -

Ma con i nervi sollecitati in una maniera che da anni non provava, il suo intuito di donna esplose inevitabile, infiammandole il corpo di adrenalinico furore a tal punto da farla lanciare con foga verso il Gate. Certo che quello scellerato di uomo poteva guardarla con fare suadente pur camuffato da scheletro vivente, il suo inconscio lo aveva riconosciuto dal semplice ammiccarle tant’era diventato abile a smascherarlo da ogni suo trucco congeniato. Quell’immagine odiata, esasperante, fonte indiscussa di problemi e crisi interiori placabili soltanto con un abbondante bicchiere di vino - o meglio ancora di tequila fresca di produzione -, si era imposta con prepotenza d’innanzi agli occhi della sua mente con automaticità propria, soltanto una persona al mondo avrebbe potuto farsi riconoscere da lei in tale maniera, insinuarsi nella sua testa con rapidità fastidiosa e darle il tormento col solo nome.

- Non pensare di potermi sfuggire, fils de pute*!E si lanciò a braccia aperte nel Gate. 




Note di fine capitolo.
1*: Figlio di buona donna (usiamo una forma più elegante, al momento).
E anche questa è fatta. Ormai penso che riuscirò ad aggiornare una volta al mese, il che può andarmi anche bene, visto che progredisco lentamente. La povera Hatsue ha avuto vita breve, purtroppo – pace all’anima sua -, ma il suo ruolo lo ha fatto, svelando una storiella interessante su un certo Quattordicesimo che Amèlie cercherà di approfondire durante la sua permanenza sull’Arca (che non sarà affatto tranquilla, uh uh!). Ce la farà a uscire viva la bella francese e a prendere a sassate il maestro che tutte vorrebbero avere? A me, perlomeno, non dispiacerebbe, debiti e traumi a parte^^. Auguro a tutti quanti voi un buon Natale e Capodanno!
 

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Capitolo 20
*** Pedoni che si allineano. ***




- Argh...Un moment, je suis éveillé. Ce coup...* -

Amèlie Chevalier riprese i sensi con la stessa fastidiosa e impastata sonnolenza che le si addossava quando la sua dieta a base di caffè e tequila cominciava ad esaurire il duplice effetto sedante. Una sorta di dopo sbornia coronata dall’impellenza di una dormita andante oltre i cinque giorni, dove ogni accesso alle sue stanze era punito con torture impronunciabili: tonnellate di pasticche alla menta sostituivano l’amato liquore per coprire l’alito pesante e sopperire l’acidità puntualmente salita alle stelle per uno stress tanto produttivo quanto devastante per il suo stomaco. Il lavoro alla Rosa Nera era corroborante e incessante, c’erano mesi dove le ore di sonno non si riuscivano a quantificare e il cibo diveniva un optional di superflua importanza, ma arrivare anche a bere formaldeide e sfiorare la psicosi per guidare un gruppo di suadenti prostitute includenti anche fanciulli di fisica appetibilità erano sacrifici di male minore se comparati al rischio di perdere la reputazione, prestigio o – peggio ancora – soddisfacenti entrate che ne rabbonissero lo spirito.

In quell’intervallo che precedette il completo risveglio della sua coscienza intorpidita, la francese aveva creduto per qualche istante di trovarsi immersa nelle comodità della Rosa Nera, tuttavia la strana sensazione che qualcosa le stesse rimbalzando più e più volte sulla testa – e non era il bernoccolo procuratosi con lo schianto appena rammentato -, fecero sì che mettesse a fuoco la vista da dietro la maschera di pizzo, girasse il viso all’insù e scoprisse di non essere sola.


- Tim? E tu da dove sbuchi? – La corvina puntò mani e gomiti a terra per issarsi e mettersi così seduta.

Il tenero boccino planò leggiadramente fra le pieghe della gonna. 
Era lui, in carne e ossa, con tanto di alucce, coda dalla punta arrotolata e zampine paffute. L’esatto contrario di un certo individuo scapestrato a cui preferì non rivolgere pensieri sfioranti l’omicidio. Non aveva nemmeno senso guardarsi in giro e verificare se effettivamente fosse l’unico essere umano: non appena il Gate si era richiuso alle sue spalle, aveva cominciato a scivolare lungo un tortuoso tunnel immerso nel buio più assoluto, conclusosi con un muro di granito che ancora faceva sentire la sua presenza sull’addome. Sbuffò sarcasticamente divertita: sarebbe stato fin troppo facile riuscire ad agguantarlo al primo colpo e a ben ricordare, niente con quel tipo poteva dirsi fattibile.

- Di tutte le cose o le persone che potevo incontrare, tu eri quello meno quotato. – Alzatasi in piedi e con il piccolo golem posato su una delle spalle, batté le mani sugli abiti e i guanti – Ma forse non sono l’unica a cui Cross ha dato delle direttive, per qualunque pantomima abbia in mente. Allora…Così sarebbe questa la famosa l’Arca Bianca. - Pronunciò il nome con una solennità piena di scetticismo, le sopracciglia inarcate per la delusione e le mani pressate sui fianchi ancheggianti.

Si aspettava di meglio, qualcosa di più sofisticato e ricco, che ne testimoniasse l’appartenenza esclusiva alla Famiglia Noah. Invece nulla: la realtà nemmeno si avvicinava a un immagine di dignitosa decenza, lo squallore stava provvedendo a cancellarne i tratti già evanescenti, sostituendola con pareti spoglie, di uno scadente color topo. Il corridoio dentro cui era finita si allungava con due rispettivi fondi interminabili, illuminato da file parallele di lampade impolverate a cui espresse la propria disapprovazione arricciando il naso.
Fu da quello di sinistra che, all’improvviso, giunse un lieve vibrare del pavimento, l’eco di un rimbombo molto lontano, percepibile sin da sotto la pianta dei piedi e da orecchie allenate a captare anche i più inutili sospiri. La francese gettò l’ossidiana esente da futili striature dei suoi occhi, carica di severità, verso quel buio astratto, quasi a volerlo squarciare con il pensiero


- Questo deve essere il Download di cui ha parlato Hatsue -, ricordò mentalmente, le dita impegnate a rigirare fra i polpastrelli la superficie irregolare della goccia di rubino appesa al collo - A giudicare dalla durata e dall’intensità della scossa, dovrebbe essere ancora distante da questa parte dell’Arca, ma sarà meglio procedere alla svelta. –

Difficile dimenticare di trovarsi su un vascello prossimo alla distruzione totale. L’esiguità del tempo opprimeva la libertà di riflettere con tranquillità, forgiava l’ansia di un martellio incontrollabile, soprattutto in posto come quello, di labirintica inconoscibilità, ma che si trattasse di minuti, secondi o forse di ore, la Maitresse della Rosa Nera non aveva la benché minima intenzione di farsi condizionare dal decadimento in atto o sedersi e aspettare di verificare personalmente cosa le sarebbe potuto succedere.
A dispetto dell’impellente urgenza, si concesse ancora un attimo per colmare una minuta nota di curiosità riservata a un dettaglio lasciato in sospeso; ripescando dalla tasca della gonna il foglio datole da Hatsue, lo aprì, battendo le ciglia finte non appena ebbe fatto scorrere per lungo e per largo gli occhi truccati su ogni centimetro di quella superficie spiegazzata.


- Il tuo padrone ha proprio deciso di farsi linciare da me, questa volta –, soffiò pacata a Timcampi, sportosi dalla spalla per sbirciare.

Strani graffiti e linee intrecciate fra loro apparentemente insignificanti erano tutto ciò che era stato riportato sul foglio consegnatole in fretta e furia. Simboli Alchemici. Dell’alfabeto studiato in passato riscontrò qualche comunanza, sebbene quei disegni, oltre che a esserle del tutto estranei, avevano l’aria di appartenere ad un’Alchimia di altro livello, se non addirittura maggiormente complessa di quella duramente appresa.

- Tre file orizzontali contanti quattro simboli ciascuno, ma disposti in ordine diverso. Tre file… - Il mormorio concentrato e pensieroso di Amèlie, quasi ipnotizzato da quello schema il cui senso era lì, davanti a lei, ma occultato di ironica invisibilità, la isolò dall’eco del Download imminente e da ogni altra sensazione fisica o psicologica che potesse distrarla.

I Simboli Alchemici non venivano mai disegnati senza un messaggio da decifrare o un preciso significato e quella grafia che lei aveva riconosciuto con una punta di disappunto per l’ostentata e sfacciata eleganza non faceva eccezione. Tuttavia, più li osservava e più non trovava modo di abbattere il muro che respingeva il suo tentativo di decifrarli, non vi era un solo collegamento che andasse oltre la convinzione che si trattasse di un linguaggio maledettamente elaborato. Provò allora a concentrarsi sulla struttura in generale, sperando di ricavarvi un qualche indizio. Se Cross gliel’aveva fatta recapitare, significava che aveva le capacità per decifrarne l’utilizzo.

- Tre file orizzontali contanti quattro simboli ciascuno, ma disposti in ordine diverso… - Gli archi e le linee tracciate componevano simboli il cui ordine diversificato destò una sensazione di famigliarità che, per quei esigui secondi di profonda riflessione, si divertì a sfuggirle. 

Aveva già avuto a che fare con qualcosa del genere, in più occasioni, e una volta acceduto ai meandri della sua memoria, annuì colma di calda e orgogliosa soddisfazione con le labbra rosse vittoriose.

- Chiavi Alchemiche. Tre file orizzontali contanti quattro simboli ciascuno, ma disposti in ordine diverso. – Come aveva fatto a non arrivarci prima?

Ricontrollò nuovamente per pura scrupolosità, ma senza che quei disegni suscitassero nuovi dubbi o domande su eventuali segreti non colti. Nelle sue mani giaceva un mezzo inusuale e incomprensibile ai comuni occhi mortali, ma qualsiasi affare riguardante l’Alchimia era nato per essere avvolto nel mistero, coperto da strati di enigmi che ne proteggessero il contenuto vulnerabile alle intemperie. Le Chiavi Alchemiche erano soltanto un altro pezzo da aggiungere al quadro generale, ma il loro scopo le rendeva dei mezzi di utilità ricollegabile alla presenza dell’Uovo sull’Arca Bianca ed era il loro specifico potenziale ad aver animato Amèlie. La faccenda si stava facendo sempre più interessante.

- Resta solo la direzione da prendere. – Con cipiglio corrucciato, lanciò un’occhiata sul fondo di destra, dove era visibile non un bivio, ma più corridoi identici fra loro districarsi nell’oscurità attenuata dalla luce artificiale – Se avessi un’idea del tempo che mi rimane a disposizione prima che il Download scarichi le restanti aree… -

Era l’unico problema, il più premente che in quel momento volesse risolvere. Neanche a esprimere a parole i propri pensieri, Timcampi le venne aiuto, attirando la sua attenzione svolazzandole davanti agli occhi e volteggiando verso la direzione osservata.

- Vuoi che ti segua? – Il golem annuì con un vigoroso cenno affermativo. Cross gli aveva per davvero lasciato delle direttive, tanta sicurezza non poteva essere unicamente frutto del minuto boccino – D’accordo: continuiamo a fare come vuole lui -, sospirò lei. Una cosa in più o una cosa in meno da tenere in conto, oramai, non faceva differenza. 




Road Kamelot era particolarmente allegra quel giorno. Il trotterellare infantilmente in testa al gruppetto esprimeva un’eccitazione bambinesca all’apice della sua fioritura, di inespugnabile perfezione. A ogni piccolo balzo, la gonnellina striminzita svolazzava da una parte all’altra con il picchettare delle scarpe alte a segnare un ritmo cadenzato, seguito a pari passo dalle punte nere di quei suoi capelli poco femminili, acconciati come un cespuglio spinoso pieno di sfumature bluastre che, insolitamente, riusciva ad accostarsi ai pizzi e merletti con cui la bambina soleva abbellirsi.


- Ehi, Road! Ci spieghi che cavolo hai da essere così frenetica? –
- Già! Dillo anche a noi! Jusdebi deve sapere! Ih! –

Jusdero e Debit furono i primi a parlare in mezzo a quel fin troppo prolungato silenzio scandito solamente dai loro passi di peso e andatura irregolare. Da gemelli chiassosi amanti del Punk e della matita sotto gli occhi, le loro lingue e mani si muovevano come se a comandarli fosse stato un unico cervello, un’unica volontà scissa in due corpi acerbi comunque uniti da un’attrazione che li spingeva a muoversi in sincronia, qualunque cosa dovessero fare. La pistola nero di Jusdero – riconoscibile per gli splendidi Golden Hair di cui era gelosissimo e la bocca quasi del tutto cucita da spesso filo nero - era puntata al viso di Debit, decisamente più scazzato e insanamente schizzato per chiunque volesse stabilire chi fra i due fosse quello più problematico.

Road si voltò verso di loro piroettando leggera, il largo e maligno sorriso impregnato di una radiosità da far invidia al sole estivo. La pelle di un pallido rosato contrastava quella dei suoi parenti, la coroncina di stigmate incisa sulla fronte nascosta dietro l’aspetto umano con iridi oceaniche guizzanti di scura densità.


- A-l-l-e-n W-a-l-k-e-r. – Scandì quel nome amato con le labbra di modo che il suono fosse più pulito che mai, l’indice della mano destra rivolto in avanti e che scendeva a ogni sillaba pronunciata.
- Eh? – I gemelli sbatterono gli occhi truccati due volte esatte, ingobbiti e così visivamente ebeti da non riuscire a spiccicare parola. Tornare a fissare Road fu l’unico gesto consentito da corpo e mente.
- Sta per arrivare! – Esclamò quella, imperterrita – Lui e i suoi amici! Mi devo preparare, non posso certo presentarmi così! – Corrucciata, si indicò l’abito sfarzoso, dalle balze improvvisamente inadatte all’evento di grande portata da lei decantato.
- E chi diavolo sarebbe? – Sbottò Debit, grattandosi la nuca con la canna della pistola.
- L’Esorcista che Tyki ha mancato di uccidere -, proruppe atona Lulubell.

Il Portoghese, penultimo in quella fila disomogenea, non si sprecò neppure di degnare alla suddetta una sola frecciata iraconda, esasperatamente conscio che per battere la gelida imperscrutabilità della sorella Lussuria sarebbe occorso molto più di una banale occhiataccia.

- Esorcista?!? - L’ennesimo strillo dei Noah portatori del Legame pigiò duramente sulle sue orecchie e su quel filo di nervosismo che perfino il profumo agrodolce della sigaretta non stava appianando a dovere - Quindi tu e questo falso elegantone qua ci avreste fatto salire su questa carretta per uno sporco Esorcista?!? –
- Vi ricordo che siete stati voi a insistere per venire, anziché cercare quel tale, Cross -, puntualizzò l'uomo.
- Zitto, tu! Sono dettagli insignificanti! – Starnazzò il moro, cercando di tirargli un calcio.
- Abbiamo tentato di battere quel bastardo tre volte e quando siamo tornati al suo covo per dargli il colpo di grazia era già sparito! Ih! – Lo seguì a ruota il biondo.
- Il Lord del Millennio sospetta che voglia fare qualcosa con la scatola, per questo siamo saliti anche noi! Prima o poi dovrà pur farsi vivo, quindi non farci la predica su come lavoriamo! Gli unici a bigiare qui siete tu e Dolcetto! –

Le parole lanciate a voce alta coinvolsero il fondo della fila, ma senza riscuotere una particolare reazione. Una enorme e muscolosa massa nera con indosso un cappotto marrone impolverato si era esentata dal parlare fino a quel momento per pura scelta personale, fissando il monotono paesaggio davanti a sé con occhi vuoti e la bocca impegnata a bagnarsi il palato con la solita dose giornaliera di zuccheri. All’Ira non interessava nulla che non fosse buono e dolce come i lecca-lecca che consumava con avida lentezza per assaporarne gli aromi e i coloranti, raggiungendo il culmine quando ne ingoiava intere manciate mischiate alla sua saliva. Lo sbuffo gutturale, una sorta di sibilo ringhioso per quel nomignolo scherzoso e privo di sapore, lo costrinse ad allontanare il bastoncino bianco dalle grandi e inumidite labbra per un’unica puntualizzazione sulla sua persona.

- E’ Skin Boric, non Dolcetto -, precisò con voce carnosa, staccando l’ultimo pezzo del dolciume con i denti seghettati e masticandolo fra i molari.
- Come ti pare, stupido pelato -, se ne fregò Debit – Tanto, in fatto di compiti mancati, è Tyki-pon quello che è messo peggio! -
- Ih! Già! Come fa un Esorcista morto a tornare in vita? Mica gli avevi strappato l’Innocence e fatto un buco nel cuore? – Lo derise Jusdero.
- Così avevo fatto. – Gli occhi dorati vagarono da soli verso il basso, dubbiosi come l’irritante cruccio che imprigionava ogni suo pensiero.

Lo aveva ucciso quella volta, ne era sicuro. La piccola mascella sibilante di Tease che spezzava la cassa toracica e infine inghiottiva un abbondante pezzo di carne rossa pulsante con i dentini appuntiti, il profumo del sangue sgorgato sotto la luce della luna e lo scintillio dell’ennesima vita strappata per dovere e desiderio mescolato insieme, spirata in un battito di ciglia…
Una sequenza di eventi vibranti, nel loro raccapricciante appagamento, assaporati e assorbiti con il petto eccitato nel giro di secondi esauritisi troppo precocemente. Lo aveva ucciso, Allen Walker, lo Shounen grazioso che tanto gli aveva assillato gli ormoni, ingarbugliandogli inconsciamente il Bianco e il Nero da lui tenuti divisi per vizio e capriccio, che aveva costretto lui, il Piacere in persona, a sottostare a un inesprimibile quanto doloroso desiderio di febbrile soddisfazione. Inconcepibile come un essere umano, un nemico che neppure conosceva e per cui mai avrebbe potuto provare un interesse diverso da quello della carne, fosse riuscito a turbarlo al punto da riesumare rimpianti finiti per stringergli il basso ventre con morsa accusatoria.

La resa facile non era mai andata giù a Sir Tyki Mikk e Allen Walker…Oh, avrebbe potuto fare di tutto a quel delizioso piccino. Magari gonfiarne le labbra di baci mentre ne spingeva il corpo minuto fra le ceneri di Suman Dark, con la divisa grande il doppio che facilitava l’avanzata delle sue mani. Lo avrebbe scartato lentamente, dalla giacca fino alla pelle pallida, saggiandone piccole porzioni e continuando a scendere verso il basso senza tener conto dei continui ordini di fermarsi sempre più affannati, spingendo ancora e ancora il palmo sulla stoffa umida con la fermezza che diveniva supplica. Il modo migliore per distruggere un’anima innocente, sporcarla di una vergogna intrisa di infimo piacere che soprassedeva alla ragione, inoltrandosi fra le sue più minuscole fessure. Lo vedeva, lo immaginava, così inerme da essere plasmato a ogni spinta bisognosa, le dita aggrovigliate fra i capelli lattei e il calore della pelle che si infiammava di gemiti ubriacanti i sensi; macchiato dentro e fuori, col privilegio finale di vedersi privare il cuore da lui stesso in persona, il guanto che si infangava di sangue mentre il suo spirito si infrangeva definitivamente nell’oblio.  
Invece aveva scelto diversamente, premiandone il coraggio con una fine altrettanto agonizzante e rubandogli quel bottone d’argento che custodiva gelosamente nella tasca della giacca come ricordo simbolico di quella scelta fatta. Eppure aveva fallito e il Nero e il Bianco erano tornati a ringhiarne all’unisono, a vibrare in un tutt’uno di indecifrabile frustrazione che gli stava rendendo difficile mantenere la solita noncuranza. Non finiva una sigaretta che ne cominciava un’altra e con i gemelli a rincarare la dose sulla sua inettitudine o a starnazzare su quanto la loro presunta preda si divertisse a farli correre da un paese all’altro, quell’unico pacchetto rimastogli sarebbe durato molto meno del previsto.

Ma il vero problema era Road. L’unico membro della famiglia la cui affinità col Conte del Millennio vantava un’intensità non esente da segreti e verità superiore a quella che tutti quanti loro, messi insieme, potevano affermare di possedere. Il Sogno di colorata infantilità e sadismo malizioso capace di sminuzzare e torturare qualunque spirito umano decidesse di imprigionare dentro di sé era il peggior avversario che potesse capitare a qualunque malaugurato; in confronto allo spaziare in dimensioni dove si poteva giocare con la mente di una persona fino a svuotarla d’ogni vitalità o imbottirla di follia, il suo potere di scelta aveva del ridicolo.
Allo scontrarsi con il blu notte dei suoi occhi, Tyki evitò apposta di notare come la piccola linea che divideva le labbra della bambina si fosse incurvata all’insù; trascorrendoci diverso tempo insieme aveva osservato e imparato che la spregiudicatezza della nipote non conosceva limiti. La sua mente contava più occhi e orecchie di qualunque altro lì dentro.


- Fumarti tutte quelle sigarette non accelererà il tempo, sai? Allen non è neanche vicino alla torre. – Nonostante il fracasso sollevato da Jusdero e Debit alle loro spalle, l’osservazione di Road arrivò forte e chiara.
- Parli come se fossi io quello che vuole correre a farsi bello per quell’Esorcista -, le fece notare lui.
- E tu ti comporti come se la sua resurrezione non ti abbia eccitato -, fu la pronta e ghignante replica della bambina  – Se neghi piacere al Piacere quale tu sei, finirai con il distruggerti da solo, Tyki -, gli sussurrò poi a bassa voce rimproverante, prima di girarsi e riprendere a trotterellare allegramente.

Il gruppo proseguì imperterrito senza risentire dell’abbandono dell’uomo, fermatosi e con un’importanza pari ad un’ombra quasi del tutto illuminata dal sole. La piccola e bruciante luce arancione che corrodeva la sigaretta aveva smesso di consumare il tabacco rinchiuso nella striscia di carta. Lo sbuffò che il Noah vi riversò dentro la riaccese fino al massimo delle sue possibilità, accartocciando il contenuto e lasciando che un'altra minuscola porzione dei suoi polmoni già inquinati si annerisse.
A giocare al comune essere umano ci aveva sempre tratto vantaggi e divertimenti che nella loro semplicità materiale ne sottolineavano anche la gradevole temporaneità, un vizioso egoismo a cui il Piacere si era aggrappato per prendere tempo. Tempo che aveva speso per non perdere nulla di quello che aveva da sempre posseduto e ciò che il destino gli aveva concesso. Tempo che aveva gestito bene…

Stupidate.

Lo sapeva, ancor prima di vedere riflesso nello specchio l’immagine bianca e sogghignante di un essere dalle forme vagamente umanoidi, che volere tutto portava a non avere niente, e che a fuggire o a rifiutare il proprio Io si finiva con l’andare in mille pezzi. A Tyki Mikk gli esseri umani erano sempre piaciuti, lo era stato anche lui per quei primi ventotto anni di vita, ma arrivato a quel punto, col Nero e il Bianco che ne comprimevano la coscienza, una scelta doveva farla.
E per farla, l’aveva fatta, proprio quando aveva constatato con i suoi stessi occhi che la vita scorreva ancora nelle vene di Allen Walker, così come la sua Innocence.
Lì, ogni forma, sensazione ed emozione, erano andate a collidere, esplose in un cielo di luce riversatosi in un oceano catramoso nel cui profondità aveva iniziato a scalpitare una volontà unica, famelica al solo constatare che il cuoricino del piccolo Esorcista fosse sfuggito alla trappola ordita. Una felicità malsana rimasta addormentata fin troppo a lungo, che gli infuocò le mani allo stringere con forza il freddo argento del bottone che nascondeva nella tasca della giacca. Non era desiderio carnale, pazzia o superficiale d’astinenza. Era Noah. Il Bianco soppiantato dal Nero lindo e sporco.
Quella natura fatta sua gradualmente, con abitudini e interessi sfociati in vaghi sensi di déjà-vu tenutisi ben lontani dal modificarne la personalità, limitandosi a un’espansione sensoriale che aveva incluso bisogni e fami sempre più assetate.
Leggendo il nome sul retro dell’ornamento rubato, Tyki Mikk si sentì ribollire le viscere come quando aveva saggiato gli strati muscolari dell’albino e fattone mangiare la carne pulsante a Tease. Se lo sterminio era qualcosa che bisognava attuare con la giusta motivazione, stavolta avrebbe distrutto l’Innocence del bel principino dei bari definitivamente, a modo suo, per poi stringergli le mani attorno al morbido collo e prendersi il suo ultimo alito di respiro con un romantico e mortale bacio d’addio.




Non avrai esagerato? – La voce di Lulubell spezzò il silenzio con bassa e inespressiva tonalità vocale appena percettibile.

Dei Noah lì presenti, nessuno più di lei impersonava quel sottile quanto spesso confine che divideva il mondo reale dal personale pensiero. Interpretare l’indecifrabilità aleggiante nelle pozze dorate quali erano i suoi occhi felini o scorgere una qualsivoglia forma di vago sorriso sulle labbra lucide, sempre piegate in una linea leggermente ricurva verso il basso, non era affare che concernesse alle persone di frivola mentalità: la Lussuria si mostrava con beltà delicata e sinuosa, degna del desiderio che suscitava negli animi imperfetti e ignari della sua letalità, fedele alla famiglia e a chi stava alla sua testa, ma non così indifferente alle problematiche di quei suoi fratelli così diversi e uguali a lei, il cui legame li univa sotto l’obiettivo di distruggere quel mondo già rotto di per suo. La condotta di Tyki era moralmente indecente sotto ogni punto di vista, di una turpe noncuranza la cui evidenza, però, fintanto che non ostacolava i piani del Lord del Millennio, non era mai stata motivo di interesse personale. Pertanto, l’osservare di sottecchi come il ritorno dall’aldilà di un ragazzino ne avesse sconvolto l’esistenza, si era rivelato utile al fine di constatare che dopotutto, esisteva sempre qualcosa meritevole di attenzione.

- Con Tyki? No. - La risposta di Road giunse dopo attimi che parvero secoli, gettata al vento quasi la vistosa collana gotica con cui stava giocherellando avesse più rilevanza – E’ sveglio, sa come funzionano le cose, solo che fino a d’ora ha esitato sul come affrontarle: a essere il Piacere di Noah si corre il rischio di banalizzare quello che si ha e si vorrebbe per il troppo possederlo, per questo ha sempre evitato di prendere una posizione in merito al suo potere. Ma la verità è che si è accorto che quanto ha adesso non lo appaga per niente -, pigolò con malignità sibillina e saccente la bambina – E questo perché ha finalmente trovato qualcuno che gli piace a tal punto da volerlo uccidere con tutto se stesso. –
- Cheee?!? Chi è che piace a quel barbone? – La testa scandalizzata e disgustata di Debit fece capolino in avanti dopo che il suo orecchio ebbe finito di captare quella conversazione tanto riservata che, per rigore di logica, doveva essere origliata.
- L’Esorcista di Road, l’allievo di quel dannato di Cross! Tyki-pon vuole portarselo a letto! Ih! – Squittì Jusdero.
- L’ho sentito, scemo! – Il moro tirò con forza un’ondulata ciocca dei Golden Hair appartenente all’altra sua metà, senza mancare di puntagli la pistola sotto il mento – Cavoli suoi se è tanto scorbutico perché non l’ha ammazzato a dovere o perché non l’ha scopato, ma che non si azzardi a rubarci la preda solo per alleviare l’astinenza! Quel bastardo strafottente di Cross è affare esclusivo di Debit!!! – Dichiarò il Noah.
- E di Jusdero! Insieme siamo Jusdebi! Ih! – Gli si affiancò il secondo.
- Come preferite. –

L’asserire accondiscendente di Lulubell si fece largo fra le indoli strepitanti e mal controllate del Legame, avanzando verso il primo corridoio di sinistra con passo leggero e ticchettante. Jusdebi non aveva mai brillato per il proprio Bon-Ton o l’educazione in generale, i pranzi di famiglia degeneravano in irrefrenabili baraonde ancor prima che tutti gli ospiti arrivassero, ma alla Lussuria premeva occuparsi di questioni più inerenti alla sua presenza sull’Arca Bianca, anziché dilungarsi su quanto i due adolescenti, sia da uniti che da separati, fossero incontenibili.

- Certe volte io quella proprio non la capisco… -, bofonchiò Debit, affondando le mani nella grande giacca nera.
- Uh? Ehi, Road! Dove se ne va Lulu-chan? – Domandò Jusdero. L’antenna volteggiava a destra e a sinistra con luminosità intermittente.

Erano rimasti in tre, su uno dei piani non ancora caricati e distrutti del Download in corso. Skin Boric era svanito dopo pochi attimi che Tyki era rimasto indietro, inghiottito da una rampa di scale che conduceva verso le ultime zone sane della cittadella in superficie. Nessuno di loro avrebbe dovuto trovarsi lì o, peggio ancora, dividersi e giocare come se quel vascello potesse ancora serbare una qualche utilità. In qualità di primi Risvegliati dopo trentacinque anni di mancanza, un minimo di accortezza per le loro vite era doveroso soprattutto con la famiglia ancora incompleta, ma niente vietava di impiegare il proprio tempo con azioni costruttive atte a rendere l’attesa meno tediosa. Come spulciare le già esigue file degli Esorcisti.

- A spuntare la lista degli invitati -, dichiarò la bambina, volteggiando in  punta di piedi - Ci sono decisamente un po’ troppi imbucati al nostro party. - 




Hell’s Cut: Ballata della Ghigliottina! –

Due passi compiuti con leggiadra eleganza e l’Innocence avvolta nel suo tipico splendore smeraldino aprirono la strada a uno scatto repentino. Un filo sottile avvolse le cinque teste degli ultimi Livello Tre rimasti con direzione retta; gli elmi lucidi degli Akuma si staccarono dai corpi allo schioccare delle dita di Amèlie, riempiendo la stanza di esplosioni concentrate che scemarono nel giro di pochi secondi, cospargendo il pavimento di cenere grigia e resti di armature appuntite.

- E…Sor…Ci…Sta… - Un’ultima testa inesplosa biascicò il suo ruolo con la lingua srotolata fuori dalla bocca.
- Che spreco… - La francese calciò il cranio appuntito ammirando l’operato appena compiuto con la maliziosità a illuminarle gli occhi – Che senso ha costruire delle Bambole e regalare loro un’anima se poi non la sfruttano nemmeno per inchinarsi d’innanzi alla mia bellezza? -

Non c’era niente come le decapitazioni multiple che riuscisse a ravvivarle il corpo di adrenalinico e impagabile piacere. Quegli stermini simultanei sconfinavano da ogni senso fisico concepito, erano l’apoteosi per il suo ego narcisista che raggiungeva l’estasi quando si ritrovava circondata da centinaia di nemici pronti a essere giostrati con una mortale combinazione di Alchimia e Innocence. Trovare qualche esemplare di Livello Tre così stupido da pensare di poterla fermare non aveva neanche valso la pena di attivare il secondo sprigionamento di Lucifer o il Sigillo di Caccia, ma considerata la costretta inattività per intrufolarsi nell’Arca Bianca, Amèlie non aveva potuto che gioire d’eccitazione nel vedersi concedere la possibilità di sfogarsi un po’. Quella scatola era di un’immensità paurosa, un labirinto di stanze, corridoi e scale che si snodavano in combinazioni complesse e infinite. Porte su porte che avrebbero fatto perdere l’orientamento a chiunque, tuttavia il problema non pareva sussistere per il piccolo Timcampi, che, distante da lei solo mezzo metro, svolazzava tranquillamente e si fermava solo per assicurarsi che lei gli fosse dietro. Un comportamento fin troppo sicuro di sé, per l’istinto indagatore della donna, la mente già attiva con gli ingranaggi a muoverne le riflessioni per dare un fondo ragionevole a quella stranezza sempre più evidente.

Come poteva dimostrare una dimestichezza tale in un posto mai visitato? Se anche fosse stato Cross a fornirgli una qualche mappa che poi aveva provveduto a memorizzare nella sua sconfinata memoria, ciò non eliminava la domanda, anzi, ne incrementava le dimensioni, inducendola automaticamente a domandarsi come il Generale fosse venuto a conoscenza della planimetria dell’Arca Bianca. Poteva aver ottenuto quelle informazioni in molti modi, le risorse non gli mancavano, se si teneva conto del tempo speso a Edo prima di entrare definitivamente in azione. Con un Akuma modificato, per esempio.
Eppure il suo sesto senso le impediva di crederci, di affidarsi completamente a quell’ipotesi e ritenerla possibile. Il planare di Timcampi ostentava una naturalezza priva di incertezze, un’emotività umana e nostalgica a cui mancava soltanto la parola per espandersi in tutta la sua evidenza. Oltretutto, se lui era lì…C’era la possibilità che anche Allen e gli altri lo fossero o che comunque si trovassero in territorio nemico.


- A cos’è che miri realmente, Cross? – Le dita afferrarono la goccia di rubino appesa al collo, le palpebre socchiuse e l’ossidiana degli occhi persa nella serietà dei suoi stessi pensieri mentre camminava.

A quella delicata missione affidata al Generale non riusciva a non affiancare un doppio fine nascosto, forse più redditizio dell’impianto di produzione degli Akuma, e lei ci era finita dentro in veste di pedina, il ruolo che più di tutti doveva ingoiare a viva forza per non compromettere l’esito finale. Nessuna improvvisazione: soltanto una strategia di gioco con tanto di alternative che ne impedivano il fallimento, uno schema che rispecchiava l’illeggibile mentalità di quell’uomo che muoveva fili invisibili di inconsapevoli marionette. Non potevi dirti sicura di una cosa che subito se ne affiancava una seconda, sfaldando così il lavoro compiuto in precedenza: ecco cosa significava avere a che fare con Marian Cross, fra le tante altre definizioni. L’imprevedibilità richiedeva prontezza di riflessi e adattamento, ma più che altro rassegnazione a discernere il giusto dall’impossibile. Lo aveva scelto come maestro anche per quello. Sì, scelto, non accettato, ed entrambi erano coscienti che trattarla come un qualunque altro pupazzo di carne avrebbe significato abbuonarsi un’ira senza fine. L’unica cosa da sperare, era che il troppo sakè sbevazzato a scrocco non glielo avesse fatto dimenticare.

- Aumentiamo il passo, Tim –, ordinò sbrigativa. L’eco del Download che sbriciolava le stanze avanzava, scandendo il poco tempo a disposizione con il dovere di usare ogni secondo rimasto senza superficialità.

Dalla camminata spedita si passò a una leggera corsetta che li vide attraversare in pochi minuti un sotterraneo traboccante di umidità, scuro e dal soffitto disseminato di tubi ferruginosi. Getti di vapore fischiante fuoriuscivano dalle loro fenditure, gocciolanti acqua disseminata a chiazze sul pavimento scoperchiato da piastrelle rotte. L’ennesima rampa di scale comparve davanti a loro dopo metri e metri di svolte fra cisterne dalle forme cilindriche e passaggi al limite della ristrettezza, illuminata da una luce incolore di provenienza sconosciuta dove, in cima, era situata l’uscita: un ampio quanto inaspettato portone di legno marrone. Esageratamente elaborato per condurre ad un altro sudicio sgabuzzino di pietra ruvida. Amèlie ne fissò i pomoli dorati percependo la densità dell’ambiente mutare, indurirsi e affilarsi con strascichi taglienti.

- C’è qualcuno. –

La distanza che la separava dai pomoli dorati era minuscola, un riquadro di mattonelle a scacchiera dove, sotto la linea bassa e orizzontale delle ante, si dispiegava un’aria ghiacciata che puntellò la pelle della francese come fosse stata carezzata da tanti piccoli aghi di pino. Dalle caviglie salì fino alle ginocchia, avvolgendole il busto e le braccia con armata e sospettosa vitalità, un falso tocco di velluto diverso da quello vuoto e senz’anima di una comune folata di vento: aveva un corpo concreto, come il suo, una fonte che la aspettava dall’altra parte e non era un Akuma.
Lucifer stessa scintillò, schioccando guardinga e condividendo i sentimenti della sua padrona, che risaldò la presa sul manico nero della falce. Perfino Timcampi se ne era accorto, correndo subito a nascondersi fra i capelli dell’Esorcista e avvolgendovisi con le alucce per scaldarsi.


- Tranquillo, Tim. Me ne occupo io. – Lo accarezzò con premura, rilassando i muscoli del corpo con un profondo respiro nel mentre le dita e il palmo della mano destra andavano a chiudersi lentamente sul metallo dorato di uno dei pomoli.La porta si aprì con cigolio tirato e il resto di quell’aria rigida e agghiacciante, tipica degli inverni che solevano negare la venuta del sole con cortine di nuvole nevose, la inondò disperdendosi quasi immediatamente alle sue spalle. La pelle scoperta risentì dell’abbassamento repentino accapponandosi all’istante, assieme al fiato caldo esalato dalle labbra, condensatosi in un unico sbuffo di peso inconsistente.

- Finalmente sei arrivata. – La accolse una voce di delicatezza flemmatica e immediatamente l’ampiezza e la particolarità della stanza si materializzarono dal nulla.

Specchi. Numerose file di grandi e limpide lastre tutte identiche fra loro tappezzavano le pareti in penombra della stanza chiusa a cupola; un rivestimento di lucida trasparenza che la luce del grosso lampadario di cristallo appeso al soffitto lasciava intravvedere con scarsità, ricadendo a cono nel centro della sala.
Seduta in mezzo al circolare fascio di luce, ad un piccolo tavolino occupato da una bottiglia vuota e con un piattino in mano, vi era una donna. Bellissima, disgraziatamente; il primo aggettivo venutole in mente alla vista di quell’ovale ostentante la tipica bellezza che, conscia o meno, oltraggiava la sua. Pericolosa, il secondo. Il pregiato tailleur nero le fasciava il corpo snello mettendone in risalto ogni curva perfetta, fine e aggraziata come i lineamenti delle dita affusolate che reggevano il cucchiaino e del viso cenerino dove, seminascosti da una frangetta di seta scura, spiccavano due gemme dorate che le si rivolsero con fredda indifferenza.
Non ne aveva mai incontrato uno, la loro personalità si nascondeva dietro banchi di nebbia che lasciavano intravedere giusto una scia di poteri superanti la cognizione umana, ma ben immaginando cosa segnasse la fronte di quella donna, nascosta dalla chioma legata che un grazioso fiocco lilla faceva ricadere elegantemente fino al fondo schiena, un solo nome si impresse a viva forza nella mente di Amèlie: Noah.


- Sei un’Esorcista molto più potente di quelli che il maestro ha intrappolato nei piani superiori -, declamò quest’ultima, portandosi il cucchiaino alle labbra e sorseggiando dalla posata argentata quello che pareva latte. - Hai addirittura eliminato i Livello Tre che avevo posto a guardia di quest’area e arrivata sino a qui senza alcuna fatica. –Non c’era colore nella sua voce, stupore, delusione o curiosità.

Piatto, il suo timbro vocale si espandeva inespressivo e acuminato. Non una sola nota di sorpresa deturpò la compostezza della francese, la cui mente corse ai compagni lasciati in Cina sostandoci giusto un paio di miseri secondi. Il tempo a sua disposizione non includeva quesiti o riflessioni rivelatrici e tutta la sua attenzione la stava volutamente rivolgendo alla prima Noah incontrata dopo orde infinite di macchine squilibrate, scandagliandone e fronteggiandone l’aura di disinibita sinistrosità.


- Con il Download in corso, questa scatola vivrà al massimo per un altro paio d’ore -, le rivelò la nemica, poggiando il piattino e il cucchiaino sul tavolino, per poi tamponarsi la bocca con un tovagliolo bianco – E considerando la tua volontaria intrusione, presumo che tu sia qui per conto di quel Generale che infastidisce tanto il maestro. -
- Uhm…Può darsi che sia così…Oppure che non sia così -, giocò Amèlie maliziosa, ma senza alcuna scherzosità nel tono – Io so soltanto che non si dovrebbe mai mandare dei bambini a fare il lavoro di una donna, come tu sei qua per non farmi passare. -
- Precisamente. –

Con uno schiocco di dita, la porta d’entrata fu inghiottita dal muro, lasciando soltanto uno spazio vuoto e bianco al suo posto. Rimase solo l’uscita, alle spalle dell’avversaria.

- Qualunque cosa tu e quel Generale abbiate in mente, è di ostacolo all’agire del Lord del Millennio e come Noah, questo per me non è accettabile -, asserì questa, alzandosi in piedi – Ma considerata la tua bravura nell’arrivare qui, forse potrei concederti una morte rapida. -   
- Quale onore… - Amèlie evocò l’Innocence sibilando profondamente – Sempre ammesso e concesso che non ti tagli prima la testa. – 




Note di fine capitolo:
1*: Argh...Un attimo, sono sveglia. Che botta...
E risorge dalla tomba ancora una volta. Siamo ufficialmente entrati nella saga dell’Arca, una delle più belle e piena di rivelazioni, ma io, ovviamente la trascriverò a modo mio e apro subito le danze con un Tyki Mikk che vorrebbe stuprarsi il piccolo Allen per quant’è carino e un combattimento fra donne. Ok, la prima cosa non avverrà, ma una piccola parentesi su quanto questo Noah sia complessato nel suo non scegliere ci stava e lo yaoi mi ha parecchio influenzato. Quanto al secondo punto, quale avversario migliore per la Lussuria se non la mia Amèlie, che di lussuria ne sa più della Noah scelta? Finalmente potrò dare mostra di qualche altra capacità bellica della mia Esorcista e spero di rendere la vicenda il più coinvolgente possibile. Amèlie ci va pesante sempre comunque, ma con una donna bella quanto lei vi lascio immaginare cosa potrebbe fare per mantenere il suo primato. Mando a tutti i lettori e recensori un enorme bacione (al solito, spero non ci siano errori!). Alla prossima!

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Capitolo 21
*** Lusts/ Part One. ***


Il suo nome era Lulubell, Noah della Lussuria.
Un’informazione strappata per puro caso dalle stesse labbra rosate della suddetta, un sospiro inespressivo che svelava con grazia mortale l’affinato istinto omicida, scintillante nella fredda penombra dell’enorme stanza adornata di specchi.

Balzi, colpi e sferzate scuotevano violentemente l’aria, coinvolgendola in una danza di bagliori frettolosi che si incrociavano e scioglievano con secchi schiocchi di frusta. Alle sue spalle, uno strascico di vetri si infrangeva contro il pavimento ad ogni nuovo scoppio, perdendo pezzi che rimanevano a terra inermi.
Si era presentava da sola, quella Noah, più per prassi che per vivo interesse personale, ma schivandone gli assalti, Amèlie non mancò di interrompere il contatto visivo che fin dall’inizio aveva intrecciato con la sua sfidante. Le sante stigmate spiccavano sotto l’ordinata frangia come un diadema di spine scure, una coroncina semplice e perfetta che non lasciava spazio al grezzo desiderio di morte che ossessionava gli Akuma. Una gemma era tale perché curata nei minimi dettagli, lisciata in ogni sua molteplice superficie fino alla completa sparizione d’ogni traccia rocciosa che l’aveva nascosta, e non era un caso che la Lussuria avesse scelto di accostarsi a un viso di così fine oscurità come quello di Lulubell. Dietro la pelle cenerina e le iridi ocra non vi era nient’altro che l’evidenza: movimenti sinuosi e serpenteschi, di delicata ingannevolezza come i lineamenti del perfetto ovale che la sfidava in bellezza. Una malignità lesta e di raffinata scaltrezza mentale, pacata e silenziosa più delle ombre che ne fasciavano morbidamente il corpo leggiadro.

Doveva sfigurarla. Non poteva esserci maniera che attenuasse l’insopportabilità di uno splendore non suo, la frustrazione ne accresceva il desiderio di aggredirla con Lucifer e renderla irriconoscibile agli occhi del suo padrone e maestro il Conte del Millennio, ma non era ancora tempo per lei di abbandonarsi al calore perverso della frenesia, l’orgoglio stratificato vinceva su qualunque frecciata che ne deturpasse la maschera di pacata neutralità.
Disincastrò la punta della falce dal pavimento per schivare in tempo una poderosa frustata. L’impronta lasciata sbriciolò il marmo a pochi metri da lei, sollevando un piccolo polverone; un fugace movimento sulla destra l’avvertì del pericolo imminente, ma anziché girarsi nella direzione percepita si voltò verso l’opposta; la lama affondò dritta nel palmo d’acciaio di una mano che ne strinse gli affilati contorni senza ferirsi.


- Cosa? – 

Le dita scure della Noah pressarono per superare l’apparente sottigliezza dell’Innocence e arrivare al suo collo; il loro profumo metallico fuoriusciva invisibile dalle fessure curve del pugno, incredibilmente denso da confondere i sensi con una sola delle sue fluttuanti strisce. Uno sfrigolio dal puzzo bruciacchiato fece capolino fra le rispettive armi, pronto a schiarire di un acceso arancione il metallo già surriscaldato, e Amèlie dovette ringraziare nuovamente i suoi sensi per l’imminente pericolo: quella insolita, carnosa e spessa frusta grigiastra che aveva schivato fino a quel momento – e da cui si era tenuta a debita distanza appositamente per accettarsi della sua reale concretezza - giunse dal basso con l’intento di colpirla sotto il mento, tentativo che venne vanificato da un calcio che ella stessa sfoderò con forza vigorosa contro la Noah.
Lulubell arretrò sbilanciata, sul punto di perdere l’equilibrio, ma pur col busto inclinato e le braccia volte verso l’alto, scattò in avanti felinamente, la mano sinistra rivestita del metallo lucido che con tanta arroganza aveva stretto la sua falce, e la destra trasmutata nella lunga frusta. Non c’era spazio per pensieri o parole superflue che ne avrebbero sicuramente rovinato la magistrale intensità, non si trattava di una disputa necessitante di descrizioni approfondite: purezza e incisività giostravano quell’intreccio di silenzi e sguardi impassibili non lasciando trasparire alcun torpore.
Un nuovo contatto e alla catena di terremoti iniziati se ne aggiunse un altro, con l’infrangersi tintinnante di altri specchi dai riflessi più bianchi della luce a precipitare verso il suolo. Il lazzo della Lussuria scattò per primo schioccando fragorosamente, all’unisono con il sibilo di Lucifer che incontrò a mezz’aria, ma qualcosa andò storto: invece di tranciarlo, l’Innocence lo attraversò senza lasciargli alcun segno.


- Di bene in meglio! –Un’altra sgradita sorpresa che si conquistò una sua smorfia prima dell’inevitabile seguito.

Rapida, Lulubell, le assestò un destro in pieno viso, mettendola in ginocchio con il pericoloso scricchiolio delle sue ossa a rimbombarle nelle orecchie e il bruciare della guancia. Il dolore esplose all’istante, un calore umido e pulsante, annebbiante i sensi le si raggrumò sotto i denti con amaro sapore ferroso misto a saliva; Amèlie lo sputò assieme a una grande quantità d’aria ansimante, saldando spasmodicamente la presa sul bastone di Lucifer. Non era caduta a terra solo perché ne aveva piantato la base ben a terra e l’ombra che si addossò alla sua pelle l’avvertì che la Lussuria era restia a vederla in piedi. La Noah fece per calare la frusta sulla sua schiena, ma stavolta fu lei a sfruttare l’elemento sorpresa: all’ultimo e con una rapidità disarmante, roteò su se stessa e le inflisse un calcio in pieno torace, sbalzandola via con una forza che la costrinse a stringersi le costole con entrambe le braccia.


- Allora ci avevo visto giusto –, furono le prime parole dell’Esorcista, passandosi il pollice inguantato sul rivolo di sangue che colava dall’angolo della sua bocca.

Rilassò appena i muscoli di modo da raddrizzare la schiena, senza affanno a pesarle sui polmoni e Timcampi che fedelmente ne seguiva ogni movimento.
Lo scontro era iniziato da trenta minuti e da trenta minuti nessuno dei suoi attacchi era andato a segno come sperato. I falli le bruciavano non poco, quando qualcosa non andava nel verso prescelto, ma i preliminari richiedevano una cospicua dose di granelli temporali perché l’atto principale fosse eseguito senza strascichi erronei. Entrambe si erano prese il tempo di studiarsi, attaccandosi a vicenda e saggiando le rispettive potenzialità come certe che non sarebbe bastato un semplice colpo ben assestato a sancire la vittoria; le mosse prendevano vita ancor prima di essere eseguite, riempiendo la stanza di disegni astratti, archi d’aria smeraldina e violetta con lo scricchiolare vetroso degli specchi ridotti a polvere incolore in sottofondo. Un qualunque artificio progettato dal Conte del Millennio non avrebbe mai potuto eccitare le fibre muscolari di Amèlie perché ne assorbissero l’essenza con foga ben più affamata di quella sempre provata per gli Akuma, spingere a elaborare il pensiero in movimento per non ritrovarsi con le spalle al muro.
Ma doveva stare attenta, essere cauta, perché esattamente come aveva immaginato, al dì fuori dei riflessi fulminei, la famiglia Noah vantava poteri innaturali e la Lussuria ne era un cardine incomparabile a un qualunque e debole filo di lana comune. La frusta carnosa dal plumbeo colorito era stata il primo indizio. A prescindere dal caos scatenato attorno ai loro corpi e dal gelo crescente che ne condensava l’ossigeno in nuvolette informi, gli occhi di Amèlie l’avevano seguita in ogni suo lento fluire, cogliendone la base all’altezza del polso: era il suo braccio. 

Fosse stato quello il peggio, ad Amèlie sarebbe bastato contrastare la Lussuria con i sortilegi più macabri che la sua Innocence potesse sortire, ma a quella prima verità se ne era aggiunta una seconda più problematica e che rischiava di far scivolare lontano ogni possibilità di trionfo.   


- Ogni Noah si differenzia da un altro per i propri poteri, un’abilità specifica che lo rende unico: la tua è la trasformazione, puoi modificare la fisionomia del tuo corpo, ma non si tratta di qualcosa che si ferma unicamente all’aspetto -, proseguì l’Esorcista, fronteggiando con la sua serietà glaciale l’espressione atona dell’avversaria – Hai anche la capacità di manipolarne la densità a tuo piacimento. -

La guancia colpita dolette al ricordo di quella consapevolezza, il sangue infiammato sotto l’epidermide pulsava di lividi che ne avrebbero presto deturpato la nivea tonalità. L’arto allungato contro cui aveva combattuto in un susseguirsi di scambi precisi aveva modificato la sua consistenza sotto il suo stesso sguardo, diventando d’acqua. Lucifer lo aveva trapassato da parte a parte lasciandolo indenne, ma il dubbio spiccato in alcuni frangenti era divenuto verità ineluttabile nel ricevere il primo e diretto contatto con l’altra mano della Lussuria. La mascella risentiva ancora del pugno calato sullo zigomo miracolosamente scampato alla rottura, uno schiaffo di peso pari a quello di una spranga metallica quasi riuscito a spezzarle il collo.

- Hai occhio, te lo concedo -, mormorò delicata Lulubell, rimessasi appena in piedi - Ma sapere di cosa sono capace non ti aiuterà comunque a superare questa stanza. –

Una violenta scossa attraversò da parte a parte l’area tartassata dal duello. La cupola della stanza fremette e la luce ricadente nel centro della stanza tintinnò per alcuni secondi prima che il lampadario di cristallo si schiantasse al suolo, spargendo i suoi ninnoli ovunque. Timcampi sollevò la testolina allarmato, svolazzando a pochi millimetri dalla spalla destra di Amèlie cercando di trasmetterle la sua stessa agitazione.

- Lo so, Tim -, mormorò piatta l’Esorcista – Non abbiamo molto tempo prima che il Download scarichi anche quest’area dell’Arca. –

Il medesimo pensiero attraversò anche la mente di Lulubell. Lo sguardo felino si levò in direzione del soffitto, contemplandolo con riflessivo silenzio. Il tempo incalzava sulle loro teste come a volerle costringere a prendere una determinata posizione, ma entrambe erano donne riluttanti a farsi controllare da una frivolezza come il panico. Lo avevano capito che nessuna delle due era facile alle provocazioni, che la loro corazza fosse intrisa della più incrollabile delle imperturbabilità; non avevano occhi che per loro stesse, per quel minuscolo e raffinato desiderio di riuscire a scalfirsi per sancire la supremazia che elevava le loro abilità ad un livello completamente diverso da quelli immaginati.

La Noah abbassò il mento, rilassando le spalle - A quanto sembra, non possiamo permetterci altre distrazioni. Meglio così. –

Con un suo schiocco di dita, gli specchi rimasti intatti si staccarono dalle pareti, animandosi e galleggiando fra le pieghe dell’aria gelida; un semplice gesto del medesimo indice che aveva ordinato il loro distacco iniziò a farli roteare con movimento orario sempre più crescente. La Noah scomparve in mezzo alle loro ombre sibilanti, veloci e amalgamate in una circolarità nera dai riflessi trasparenti che schioccava leggere frustate aerose al loro esterno. L’interno era un occhio muto e piatto senza alcuna via d’uscita, ma Amèlie non si fece ingannare: inspirò ed espirò a fondo, appiattendo i sensi per ampliarli e rilassando i muscoli roventi. La Lussuria non era un avversario che amasse arrendersi o si lasciasse trasportare dall’istinto. Strategia, ecco la parola che le si confaceva. Era ancora lì con lei, mimetizzata e dall’aura ridotta a un blando sospiro appositamente per cogliere un’occasione, un cenno di guardia scoperta per attaccarla di sorpresa.


- Eccola! – Non dovette neppure aspettare in eterno prima di avvertire un sibilare sferzante giungere da destra e poi un secondo rivoltole alle spalle.

La corvina schivò il primo con una ruota all’indietro e respinse il successivo con Lucifer a fare da scudo alla sua spina dorsale, riuscendo a cogliere con la coda dell’occhio il lazzo carnoso sgattaiolare furtivamente nel moto rotatorio degli specchi. Inutile cercarlo con gli occhi: la velocità delle lastre di vetro creava un muro difensivo che permetteva alla Noah di attaccare più volte senza che la sua posizione venisse rilevata e forzare i propri sensi a seguire quell’elevata velocità sarebbe stata solo una perdita di concentrazione, cosa che non poteva permettersi con un’avversaria del genere. Fece giusto in tempo a captare un sospettoso fruscio dalla sua sinistra prima di scattare e udire il frusciare vorticante dell’aria intensificarsi e soprassedere al fragoroso creparsi delle pareti. Lo spazio a sua disposizione si stava restringendo.

- Una mutaforma con il potere di modificare la densità del proprio corpo -, riepilogò, balzando da una parte dell’area – Come velocità e forza fisica ci equivaliamo, uno scontro diretto finirebbe solo per prolungare questa parità. L’unica possibilità che ho per sopraffarla, è riuscire a coglierla di sorpresa quanto basta da non darle il tempo di trasformarsi. Da solido a liquido. Mi chiedo se… -

Piroettando a mezz’aria fra l’incessante pioggia di specchi che le riempiva le orecchie da interminabili minuti, atterrò con un solo piede e il busto inclinato in avanti nuovamente al centro della stanza, iniziando a roteare su di sé e tenendo l’altra gamba sollevata dietro le spalle.

- Hell’s cut: Guidance Funeral! –Un’infinita serie di mezzelune smeraldine si abbatté in ogni angolo della stanza, tartassandolo con il vivo intento di sbriciolarlo in polvere.

Il soffitto e le mura che lo sostenevano minacciarono di crollare sotto il loro stesso peso, incapaci di sopportare tutti quei colpi che andavano ben oltre la loro solidità. Occorse un solo attimo perché la luce divina venisse riflessa dagli specchi e inondasse l’area bruciando le iridi della Lussuria, costretta a coprirsi il viso con le braccia per l’intensità accecante che l’avvolse, un esiguo pugno di secondi con la gola a mugugnare per quell’insopportabilità prima che percepisse il pericolo addossarsi a lei e ne comprimesse i movimenti.


- Questa donna è diversa. -

Agì all’ultimo, un movimento spinto dall’ombra che le aveva già sfiorato la pelle della carotide aprendola con taglio netto, ma non abbastanza profondo da reciderla. Tra gli Apostoli del vero Dio, non vi era cuore più vivo per la Lussuria che la cieca obbedienza per il Conte del Millennio, una fiducia profondamente ricambiata dai successi ottenuti…
Eppure…Pur non fosse nuova a schermaglie contro i loro nemici atavici, pur essendo riuscita a intuire il pericolo imminente e a non farsene investire totalmente, soltanto ritrovandosi a così stretto contatto con quell’ondata di Innocence divampante, Lulubell prese atto di come non le fosse mai capitato di partecipare a uno scontro tanto acceso. La mano tamponò la ferita al collo con il sangue nero che colava lungo la spalla, inzuppandone il vestito e filtrando fra le dita strette. Ansimò distorcendo la morbidezza delle sue labbra in un rantolo sofferto, il bruciore pulsante della carne lacerata che picchiava contro le falangi e i polpastrelli. L’Innocence era pericolosa, il male da estirpare, ma anche una pietra grezza senza il proprio alleato umano. Osservarne la vita effimera spezzarsi in mezzo alla confusione che antecedeva di poco la paura delle morte, succedeva al consueto osservare minuziosamente il proprio avversario, carpirlo e tagliarne i legamenti articolari per immobilizzarlo a terra. Ma quell’Esorcista…

Solidificò il lazzo in una dura lama appuntita, che cozzò contro quella incurvata della falce.
Con lei la solita ritualità aveva contratto solo anomalie: si era fatta strada nei piani più bassi dell’Arca Bianca fronteggiando dei Livello Tre senza mostrare alcun cedimento o timore, scartando emozioni vaghe a favore di uno spirito di tenebrosa imperiosità che si radicasse nel profondo dei suoi occhi dorati. Era diversa. Non per il celare l’identità velluti decorati di pietre sgargianti, non per la superiorità impellicciata di aristocraticità. L’ineluttabilità di quella verità che espresse senza una qualche nota emotiva a esprimerne il minimo stupore colò ruvida lungo la sua schiena diramandosi in sottili filamenti appuntiti.


- Questa donna è decisa a uccidermi. – Lo spingere le rispettive lame l’una verso l’altra avvicinò i loro volti, le rispettive iridi a fronteggiarsi senza sputare veleno.

Freddo. Nero come una notte senza stelle. Lo sguardo dell’Esorcista era lo specchio scuro del suo, acqua buia di gelida cristallinità nel suo non lasciar spazio ad alcun tipo di luce. Induceva gli ignari a volerla cercare, convinti di poterla riesumare dagli anfratti più nascosti. Rasentavano un’impassibilità a lei ben nota e posseduta, respingente qualsiasi scrupolosità o esitazione che scoperchiava la sicurezza dei suoi compagni per disperderne l’orientamento. Soltanto un pizzico di malsana soddisfazione differenziava i loro animi lussuriosi, una follia di velata dolcezza, capace di valicare i confini e passare sopra qualunque proibizione umana infarcita di illusorie speranze senza che il rimorso ne imbrigliasse le rispettive coscienze. I loro corpi parlavano, si scambiavano scoccate e stilettate precise, ma niente poté soppiantare la certezza di Lulubell che quegli occhi, fossero la reale natura della sua avversaria.


- Maestro…Quale Dio misericordioso concede le sue mani a un anima più affine al Demonio pur di vincere, se non il Demonio stesso? – Non riuscì a non domandarselo, a non pensare all’angelicità del cristallo divino come a uno specchio per le allodole, così abbagliante da nascondere la furia protetta dalla fragile porcellana del suo nome. Le lame si staccarono senza aver trovato modo di spezzare il pari respingersi. Non importava che si desse risposta. Quell’Esorcista andava comunque uccisa e subito.

- Ora che non hai più un posto per giocare a nascondino, cosa pensi di inventarti? – Le domandò quest’ultima.

A dispetto del comportamento mantenuto fino a quel momento, Lulubell scostò delicatamente con il dorso della mano la lunga coda corvina ricadutale sul petto. Sorrideva. Per la prima volta, le sue labbra erano piegate in una smorfia quanto più vicina a un sorriso di disinibita sicurezza.

 - Che ne dici di questo? –

Cosa avesse in mente, Amèlie non lo comprese, se non lasciando che quelle parole prendessero forma sotto i suoi occhi, senza che si intromettesse. La testa della Lussuria si abbondonò mollemente sul petto pieno, le braccia a penzolare molleggianti, prive di mobilità. Nel buio e freddo silenzio della stanza disseminata di vetri appuntiti, il corpo slanciato si lasciò cadere in avanti, picchiando gomiti e ginocchia a terra e lanciando un ringhio grottesco verso l’alto, con le braccia a gonfiarsi e a ricoprirsi di una solida compattezza dalle zanne lucide. Amèlie poté intravvedere la sagoma umana deformarsi pezzo per pezzo, perdere la delicatezza degli arti a favore di ingrossamenti che indurirono la pelle e la sollevarono dall’interno sotto il crescente tremore fisico della Noah; qualsiasi tratto umano lasciò il posto a una fisionomia nuova, ammantata da una corazza di scaglie nere che la ricoprirono interamente, espandendone l’addome e gli arti principali per dotarli di unghie aguzze che sbriciolarono in sabbia il terreno sottostante. Una lunga coda ondeggiò sinuosa contro la parete in fondo, facendo capolino assieme agli immancabili occhi dorati ora quattro volte più grandi del normale, così luminosi da mettere in risalto la pupilla a forma d’ago che spiccava al centro.

- Un drago. Lasciamo a desiderare, in fatto di originalità. – La vista della testa coronata da corna rivolte all’indietro e dei canini sporgenti oltre le labbra enormi non la spaventò – Mi auguro per te che quelle scaglie non diano solo l’aria di essere dure -, le sussurrò prima di attivare il secondo sprigionamento di Lucifer.




Il piccolo chiostro ombroso adibito alla custodia dell’impianto di produzione degli Akuma si nascondeva fra le pieghe cementate dell’Arca Bianca senza alcun corridoio che conducesse alla sua porta. Le illusioni orchestrate dagli Skull messi a sua difesa compensavano la loro inettitudine nei combattimenti fisici, benché un semplice colpo di pistola fosse inefficace contro la massiccia mole dei loro corpi, ma i ridicoli giochini gesticolati dalle loro dita scheletriche non potevano ingannare chi praticava l’Alchimia ancora prima della loro creazione; gli era occorso meno di un minuto per riversare a terra l’esigua scorta della preziosa reliquia custodita nella silenziosa sala. L’Uovo tanto caro al Conte del Millennio luccicava di un caldo e pulsante bagliore soporifero davanti all’occhio vermiglio che lo osservava imperscrutabile, avvertendo la scaltrezza che lo distanziava di un metro esatto dal poterlo toccare con flemmatico brusio. Un personaggio sempre abituato a tenere nascosto nella manica un asso pronto a ribaltare le carte in gioco non lasciava al caso gli ultimi passaggi di un piano organizzato nei minimi dettagli.

Camminò in mezzo alle carcasse corrose degli Skull grattandosi la testa dai capricciosi ciuffi che gli ricadevano oltre le spalle larghe: il crepitare delle carni grasse innalzava fiamme bluastre dalle punte schiarenti il soffitto. Una barriera mistica era il tipo di impiccio che lo costringeva ad arretrare e trovare un’alternativa che non dilungasse i tempi d’azione, ma pur masticando l’Alchimia con la stessa naturalezza con cui riconosceva l’eccellenza dalla scarsità, i simboli che sfrigolarono di luce tremola al suo lanciare contro uno dei cadaveri verso l’Uovo, lasciarono intendere un meccanismo abile e studiato per rendergli l’esistenza complicata.

 - Eh eh! E’ inutile che ci provi. – In un punto indefinito della stanza si levò una risata rocca, impastata per la gola piena di liquido nerastro che usciva copiosa dalla bocca – Il nostro padrone è stato furbo…Cought! Lui è pratico delle Arti Nere…Sin dalla nascita di questo mondo… -

Un calcio violentò fece rotolare la testa dello Skull, d’appuntito e ghignante sorriso, ai piedi dell’Uovo luminescente. L’unico rimasto con abbastanza fiato per ridere in faccia all’intruso che li aveva colti alla sprovvista senza offrire loro il tempo per reagire, un cranio tenuto in piedi da un minuscolo residuo di magia sul punto di dissolversi. Dalle orbite vuote lo vide muovere le dita e bisbigliare incantesimi dalle labbra appena sfiorate dalla maschera spezzata che ne copriva metà volto. La creatura si lasciò andare all’ultima risata, incurante della suola che premeva con forza sulla rientranza piena di scricchiolanti fratture.


- Eh eh…Eh eh! Rassegnati, stupido! Questo impianto arriverà al Conte del Millennio come e comunque! La barriera del nostro padrone si scioglierà unicamente quando l’Uovo dovrà essere caricato sul nuovo vascello e neppure con i tuoi insulsi trucchetti potrai impedirlo! Ho capito chi sei… -, sibilò ancor più maligno – Ma è troppo tardi…TROPPO TARDI…!!! –

Il piede affondò definitivamente nel cranio, sfasciandolo con scricchiolio trasmutato in fine sabbia. Il gracchiare della mandibola dai denti appuntiti era servito solamente a ribadire l’assoluto fastidio per i rumori eccessivi, armoniosi come uno stormo di corvi in un pieno pomeriggio autunnale e nebbioso. Fece strisciare la suola dello stivale contro il pavimento, picchiettandone poi la punta per pulirne il cuoio dalla polverina cadutaci sopra. Non poteva fare nulla lì, la sola forma dei simboli turbinanti in catene aspirali fungeva da avvertimento per qualsiasi tentativo attuo a scardinarli dalla loro posizione e sacrificare le proprie mani, con la lingua sciolta per l’impastarsi di parole proibite, non era il genere di prezzo che avrebbe pagato per strappare la vittoria dalle mani avversarie.
Rimaneva soltanto il colpo di scena, per nulla improvvisato, studiato nelle specificità perché ne elogiasse l’entrata in scena col giusto grado. Gli elementi erano stati raccolti e posizionati, avviatisi a un incastro pronto a riesumare un rancore dal sapore aspro, dall’impronta più densa di quella che lasciava un frutto marcio in bocca. Per destino e necessita combinati in un sarcastico intreccio, l’esistenza di quella stanza segreta sarebbe dovuta rimanere tacita e sconosciuta agli occhi avversari, creduta morta, ma la sua fatalità propendeva a gocciolare da ogni altra alternativa, incapace di aggirare i tranelli alchemici del Conte del Millennio. Andava fatto.

Si lasciò alle spalle l’artificio colmo di Dark Matter, sigillandone la stanza con la mano che accarezzò il varco d’entrata sino a richiuderlo con un muro immacolato, privo d’ogni impronta del suo passaggio. L’illuminazione fiocca del corridoio ricordava i lumini dei colombari, sempre a un passo dallo spegnersi e affogare nella deleteria immobilità che arrugginiva perfino il già consumato metallo delle lanternine. Il meccanismo che turbinò nella sua mente ne fece infocare gli occhiali con un semplice tocco dell’indice. Essere in due posti contemporaneamente fuoriusciva dalle sue abilità e quando in mezzo venivano messe non una, ma due chiavi, la tempistica esigeva una persona per ciascuna di esse. Della seconda se ne sarebbe occupato personalmente, ma solo dopo che la prima fosse stata sbloccata. Un lavoretto affidato a mani familiari che non l’avrebbero deluso.

- Vedi di fare in fretta, Chibi-chan. Siamo alle strette. -




Note fine capitolo:
Bene, siamo arrivati in porto. Non senza difficoltà, ma posso ritenermi soddisfatta per l’ancora acceso interesse a pubblicare questa storia. Lutst è stato il titolo più adatto da mettere per questa prima parte del combattimento, Lulubell come personaggio mi intriga sebbene non sia fra i miei preferiti, ma per Amèlie è l’avversaria perfetta, essendo lei stessa un’essenza lussuriosa ma con qualche nota sadica e maliziosa a renderla più pericolosa e disinibita di quanto già la gente pensi. Auguro a tutti quanti una Buona Pasqua! (spero come sempre che non ci siano errori!).

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Capitolo 22
*** Lusts/ Part Two. ***




La frenesia incalzava a ritmo scatenato. I rimbombi contenuti dalle pareti vibravano all’esterno della stanza, lasciando trasparire un’immagine grossolana della confusione creata dallo smeraldo e dall’ametista dei rispettivi poteri contrapposti, turbinanti in morse mortali prive d’ogni trattenimento. Lulubell e Amèlie apparivano più simili che mai, avversarie perfette e ironicamente destinate a combattersi con il dovere di non slacciarsi dal rispettivo desiderio di sopraffazione; un’insolita affinità legava il loro agire a eleganti maschere comportamentali, alte e imperscrutabili per non lasciar al caso alcuna disdicevole debolezza. Pochi minuti consumati a confrontarsi visivamente erano occorsi a renderle coscienti di una sola certezza: nessuna si sarebbe mai sottomessa al potere dell’altra e a prescindere da quanto quella donna si stesse dimostrando ardua da ferire, per Amèlie Chevalier era più contemplabile uscire da quello scontro con un braccio rotto che fuggire senza prima aver avuto impresso il proprio marchio a quell'altezzosa carogna. La mente insidiosa della Noah era l’arma contro cui doveva difendersi maggiormente; tesseva reticolati di trame malefiche in grado di ribaltare le carte in tavola al minimo spiraglio di possibilità concesso. La sua evidente voglia di chiudere in fretta quello scontro non affondava le radici in una qualche mancanza di pazienza; l’aver plasmato le sinuose fattezze per il gusto di metterle i bastoni fra le ruote denotava l’intenzione di marcare la stessa differenza che la francese voleva trasmetterle a suon di falciate. Pur ammettendo che la pelle squamosa della Lussuria glielo permettesse.

- Hell’s Cut: Fendente spazzavento! – Cinque mezzelune smeraldine si abbatterono contro il corpo rettile della Noah, che rizzò le scaglie d’onice senza uscire ferita o provata dal dolore sotto la sempre più affilata espressione della corvina.
- Tutta qui la tua forza, Esorcista? Mi era parso che valessi molto di più -, la denigrò Lulubell. La voce gutturale riuscì a far trasparire ugualmente quella sprezzante pacatezza riflessa perfino nei ampi occhi giallognoli.

Amèlie tacque, lasciando che le tenebre delle sue iridi mantenessero l'innata placidità; un semplice sollevarsi del proprio animo vi si sarebbe riflesso con guizzo rubino e le sue emozioni non dovevano influenzare la lingua con qualche parola utile soltanto a ridicolizzarla. Il protrarsi di quella difesa costrittiva le si stava attorcigliando attorno gli arti con muto fastidio, spine invisibili puntellavano i muscoli perché reagisse insieme alle zampette di Timcampi, saldate sulla spalla sinistra e col corpicino tondo a fissare il pericolo più prossimo a minacciarne l’incolumità.

- Calmo, Tim. Calmo. – La presenza del tenero boccino l’accompagnava in ogni azione, salto e contrattacco, una piccola ombra sempre affiancante la sua nonostante la pervadente paura a farne vibrare spasmodicamente le alucce.

La forma assunta dalla Lussuria richiamava le antiche leggende orientali, popolate da mostri venerati per il loro danzare nei cieli e il feroce aspetto a nasconderne una mistificata saggezza chiave della loro immortalità. La pelliccia di scaglie lucide ricopriva la testa decorata con corna di nero acciaio sino alla coda e i denti d’avorio sogghignavano in attesa di squarciare la sua carne.
Lucifer al secondo livello d’evocazione non era abbastanza potente per scalfire quel guscio di pece ostico farci qualcosa, la lurida bastarda l’aveva calcolato bene, ma anche lei sapeva fare i conti e il ben ventre gonfio che Lulubell strusciava a terra sembrava supplicare di essere colpito con tutta la potenza della sua Innocence.


- Proviamo -, si decise – Hell’s…! -
- Non te lo lascerò fare! –La Noah scattò in avanti violenta e rapida, spalancando le fauci e sbriciolando il già tartassato pavimento con le zampe squamose.
- Cazzo! E’ veloce! –

Amèlie schivò l’assalto spostandosi sulla sinistra, accorgendosi all’ultimo del colpo di coda schioccato per infilzarle la schiena; vi antepose l'Innocence evitando l'impatto, venendo giusto sospinta all’indietro bruscamente. Il suo sesto senso l'allarmò ancor prima che avesse sollevato il collo: un’ombra dai giganteschi occhi giallastri calò su di lei, l’alito caldo le solleticò la pelle a una distanza di terrificante vicinanza. Agì d’istinto, raddrizzando la falce e infilandola a forza nella bocca della Lussuria, bloccandone le fauci aguzze.
I denti morsero l’Innocence cercando di strapparla come fosse stata carta straccia buona solo a essere buttata via, spingendo la mascella scricchiolante verso il basso.


- D’accordo. Potrei anche ammettere che si sta impegnando parecchio a non farmi vincere. - Il dolore che paralizzò l’avambraccio sinistro della Maitresse della Rosa Nera, perforato da un paio di canini nel mezzo delle articolazioni, esplose pochi attimi dopo, giusto il tempo perché l’impulso arrivasse ai nervi e fosse trasmesso dove l’epidermide e gli strati interni erano stati lacerati.

Morse il labbro inferiore accartocciando il viso di porcellana mentre il masticare della Lussuria persisteva senza però piegare la lama ricurva incastratasi nella sua bocca. Il manico di Lucifer tremava, ma le braccia di Amèlie saldarono la resistenza senza arretrare; non cercò di convincersi della presunta astrattezza della ferita o di ignorare il profumo dal colore vermiglio che le solleticava il naso, ma di rimanere padrona di se stessa d’innanzi al turbinare della tensione, ammantatasi al suo corpo per acuire ogni stimolo e percezione. La scia di sangue nero sgorgata dal foro colò rovente fino al guanto, sporcando con contorni rossastri il bianco perfetto dei canini ricercanti un contatto più profondo.

- Notevole. - La voce di Lulubell giunse flebile, senza che le mascelle si piegassero per pronunciarla.

Stava spingendo senza dar peso al fastidio dell’Innocence a stretto contatto con la sua bocca, ma l’aver anche forato il pavimento con gli artigli non le permetteva ugualmente di avere la meglio sull’avversaria.

- Cos’altro vuole fare, adesso? – Da dietro il pizzo decorato della maschera, l’istinto di Amèlie si fece guardingo.

Una goccia di malizia appuntì l’ago serpentino dell’avversaria, illuminandone le screziature attorno di blandi bagliori. Il corpo della Chevalier si spostò assieme al collo della Noah senza che lei lo volesse, lento, con movimento forzato per via dei piedi puntati a terra, fino a fermarsi ad un paio di metri da dov’era prima. Ghignò nel prendere atto quanto quel punto apparente fosse, in realtà, di vitale rilevanza per entrambe.


- A quanto pare siamo pronte a tutto, eh? –

La porta d’uscita si trovava a circa una quindicina di metri dalle sue spalle, le ante intarsiate ed eccessivamente eleganti per un sotterraneo pieno di tubi e valvole rugginose. L’unica via di salvezza sua e di Lulubell, per quanto immaginava, ma primariamente sua; realizzare la follia concepita dalla Noah ne indurì il sorriso scarlatto, esibendo la fila di perle nascosta sotto. La sfera di Dark Matter fece capolino sul fondo delle sue fauci zannute, dispiegando fastidiosi fasci luminosi filtranti da entrambe le arcate dentali. Un colpo di quella portata e qualunque cosa si fosse ritrovata sul suo cammino – compresa lei, la sua Innocence e la dannata porta che doveva rimanere intatta -, sarebbe finita in polvere.
Lulubell godette per la piccola soddisfazione aggiudicatasi con tanto azzardo: giocare d’astuzia ne faceva respirare l’essenza di benefico sollievo in ogni anfratto non ancora conosciuto. Sentirla scorrere le ricordò il districare dalle sue dita i fili di lana viola, la pazienza impiegata in un gioco che i suoi irrequieti fratelli snobbavano perché privo di qualsiasi senso o divertimento. In realtà occorreva soltanto essere elastici e mirare oltre all’obiettivo senza farsi condizionare dal tempo – seppur al momento non fosse una variabile da ignorare -. Ben poca importanza aveva il destino di quella scatola rotta: l’onta la macchiava dall’interno senza che la sua memoria riuscisse risalire all’origine, ma al maestro non occorreva più e a lei non servivano ulteriori motivazioni per facilitargli il compito. Non poteva permettere che un’Esorcista tanto seccante li ostacolasse a così pochi passi dal successo.


- Rassegnati: qualunque scelta tu decida di compiere, ti porterà comunque alla morte -, declamò nell’osservare l’umana preda della sua superiorità.
- Umpf! Non sei abbastanza presuntuosa per riuscire a liberarti di me, fidati. -

Di nuovo quell’espressione. Il ghiaccio nero che si animava e stritolava il mondo intero, col gusto per l’omicidio a bagnarne le labbra turgide. A Lulubell piacque ancor meno della prima volta che quei due pozzi neri senz’anima l’avevano squadrata da vicino. Troppe volte li aveva fronteggiati durante il combattimento, sostenuti nella loro imperscrutabile indifferenza e mai le era successo che un Apostolo riuscisse a toccarla laddove Noah adesso si contorceva, bisbigliandole di estirpare quello sgradito presentimento di natura indefinita. L’amaro scottare interno delle guance esplose in un incendio bagnato da benzina fresca, avvolgendo le radici nascoste sotto le gengive rosee che ne innalzò il ribollire orgoglioso. Non c’era modo che riuscisse a vedere cosa le stesse spingendo in gola la Dark Matter evocata e continuò a spingere in avanti nel tentativo di spezzare la resistenza dell’Esorcista mentre l’Innocence innalzava la sua sincronia a un livello più elevato.   

- Vediamo se hai il fegato di rimetterci la pelle –, la schernì l’Esorcista, sfrontata e malignamente sorridente.

Non occorse chissà quale complicato ragionamento all’avvenente Noah per capire cosa sarebbe successo da lì a pochi secondi: un concentrato di Dark Matter che si scontrava con uno di Innocence a una distanza così ravvicinata avrebbe comportato l’esplosione immediata dell’intero piano sotterraneo dell’Arca Bianca. Pur di garantire al maestro la massima libertà di movimento sarebbe stata pronta a qualunque prezzo, ma che finisse vittima di un volere non proprio scatenò l’ego di Noah fusosi col suo. L’entità unica e completa quale era ora si rifiutò di accettarlo e le ferite traboccanti di puro rancore per quel Dio circondato di falsa luce, la cui antica vittoria non era mai stata dimenticata, pulsarono all’unisono. Non ebbe scelta che riassorbire la Dark Matter creata, ammorbidendo il puntare di tutte e quattro le zampe; Amèlie rischiò di sbilanciarsi, un’occasione per la nemica di schiaffeggiarla che fallì non appena l’Esorcista spinse il peso del corpo all’indietro in un movimento apparentemente scoordinato, roteando su se stessa per squarciarle il palmo dell’intera zampa con un taglio mostrante i tessuti carnosi.
La Lussuria lasciò correre, gettandosi in un attacco più feroce e letale, ma all’ultimo si bloccò indietreggiando con il grosso busto appena sollevato. La vide solo in quel momento, maledettamente splendente e sporca del sangue nero che gocciolava sul pavimento. La doppia lama di quella falce espandeva un potere che ne fece sembrare la versione antecedente una pietra grezza mal lavorata. Gli archi dalle punte arricciolate dell’energia emanata sprigionavano un’affilatezza da tagliare perfino un diamante in due perfette metà, ma era al suo manto scaglioso che mirava.
Trepidante di staccarne ogni singolo pezzo per così lasciare vulnerabile il morbido ventre, la Maitresse del Rosa Nera si lanciò in avanti, sulla scia di quei pochissimi secondi di vantaggio che non si sarebbero più ripresentati. La base del robusto collo scopriva una buona parte dell’addome perfetta per trasformare un minuscolo spiraglio nell’occasione che aveva bramato a lungo.


- Non è confondendoti con le ombre che riuscirai a colpirmi! –Lulubell balzò indietro per schivare il doppio fendente verticale pronto aprirle il collo robusto, ma soltanto appoggiando le zampe posteriori sul pavimento si accorse dell’inganno.

Di reale, le lame schivate possedevano soltanto un evanescente contorno che si disperse nel gelo della sala, niente di letale come quelle che invece le fecero perdere l’equilibrio, scoprendone il ventre verso l’alto.  


- Dannazione! –
- Hell’s Gun: Zanne d’Ombra!* -

La vide troppo tardi e le piombò dall’alto impalandola senza pieta, godendo dello sciogliersi della tensione allacciata al farsi strada della falce in mezzo alla cuore tenero che la sua corazza era esentata dal proteggere. Durò talmente poco da strappare ad Amèlie perfino il diritto di compiacersene.
Atterrò in piedi sul duro e tagliente tappeto vetroso col proprio respiro a far capolino fuori dalla  bocca, in nuvolette di candida condensa. A ogni minuto la temperatura di quel posto si abbassava di qualche grado, ma che fosse studiato o casuale, lei non vi badava affatto: lo strato adrenalinico che ne avvolgeva il corpo produceva un calore dipendente dalla sua volontà che non teneva conto del gelo puntiglioso e del suo abito scollato.


- E adesso dov’è andata? –Al suo fianco, Timcampi si guardò intorno per esserle d’aiuto, non raccogliendo altro che un fin troppo angosciante silenzio.

Solo la presenza fisica di Amèlie ne smussava la superficie di liscia astrattezza, la frustrazione che si domandava come un corpo gigantesco come quello della Lussuria si fosse disgregato in polvere incolore, corso a nascondersi negli angoli più bui della stanza sotto i suoi occhi. Non l’aveva uccisa, figurarsi. Di occasioni per pavoneggiarsi contro nemici nettamente inferiori e riempirsi l’animo di finta modestia ce ne erano state molte, ma non per ciò si era mai concesso il lusso di perdere il senso della realtà. Lei era ancora lì, la sua anima o qualunque cosa ne fosse rimasta, amalgamata con il ghiaccio sospirante solidificatosi.


- L’ho colpita, ne sono sicura, e a meno che non si destreggi con arti illusorie, deve aver… -  

Tu-tum!

L’eco sordo del cuore schiantatosi contro la sua cassa toracica le fece sputare il respiro all’improvviso con le unghie della mano strette al petto.


- Cos…? –

Tu-tum!

Di nuovo quel colpo, più forte del precedente, stavolta seguito da un formicolio paralizzante che le risalì lungo il corpo insieme a vampate di asfissiante calore. Cadde in ginocchio, con le dita strette attorno al manico di Lucifer e le altre pigiate attorno al collo mentre soffocava per la trachea chiusa, tossendo sangue fresco da una ferita interna apertasi misteriosamente. Timcampi le si parò davanti spaventato, ma le movenze allertate che lo allontanarono non giunsero del tutto incomprensibili agli occhi di Amèlie; non era lei che stava forzando le sue ginocchia a sedersi, a contrarre i muscoli tremanti per gettare lontano l’Innocence.


- Il mio corpo… Non risponde… Ai miei comandi… -. Annaspò con la vista annebbiata, la bocca macchiata di liquido ematico che ne ostruiva le vie respiratorie e la sensazione che una bomba le fosse esplosa a un centimetro dalla testa a fischiarle nelle orecchie – Che diavolo succede?! –
- Se ci tieni, posso mostrartelo io. –

Le fu impossibile non sgranare gli occhi nel riconoscere in quella vuota e delicata voce sovrappostasi al suo pensiero Lulubell. Inutile cercarla con gli occhi: non vi era nessuno lì vicino che non fosse lei stessa, le mani affondate fra i cocci di vetro e i capelli afflosciati  in avanti. Da una qualche parte della sua ancora lucida coscienza si disse che non poteva essere come l’istinto le aveva appena suggerito, che era impossibile, ma quando il dolore si trasferì alla sua fronte, tagliandola da una tempia all’altra, bastò perché il suo frammentato riflesso prodotto dai vetri rotti desse fuoco allo sgomento.
L'ovale rotto in mille cocci contro cui si ritrovò a combattere interiormente esprimeva una nitidezza inattaccabile dalla paralisi che ne stava inibendo gradualmente gli arti. L’ombra sporca e spezzata dagli specchi in frantumi la ritraeva solo in parte, dal busto in su, con la pelle ingrigita a macchia d’olio, il viso rigato di liquido scuro sgorgato da una corona di stigmate nasciture apertesi con forza e gli occhi di un oro inquietante dalle iridi aguzze.


- Tu, dannata… Chi ti ha dato il permesso di nasconderti nel mio corpo…?!? -, ringhiò ansimante, concentrando i suoi sforzi sul non lasciar cadere Lucifer a terra.
- Nella tua mente, nei tuoi occhi, nelle tue gambe…Non c’è parte che non mi appartenga ora. La voce della Lussuria rimbombò ancora nella sua testa – Giacché avevi colto la natura del mio potere, avresti dovuto immaginare che fossi capace di scomporre il mio corpo anche a livello gassoso. –

Tu-tum!

L’odiato formicolare avvolse il braccio armato di Amèlie, addormentandone le dita nonostante le falangi lottassero strenuamente contro lo stridere scricchiolante delle loro stesse ossa per non darla vita a quel volere estraneo deciso a separarla dalla sua Innocence. La vicinanza spingeva la Noah a perpetrare la sua insistenza non senza difficoltà, benché il gioco lo stesse conducendo lei.


Non mi era mai capitato di dover arrivare a questo punto per battere un’Esorcista: nonostante abbia il pieno controllo sul suo fisico, la volontà di questa donna mi impedisce di agire liberamente. Fusasi con il fisico della francese, la sua mente della Noah aveva comunque la facoltà di estraniarsi dalla sua – Devo farla fuori è andarmene di qui prima che il Download raggiunga questo posto. –

Acuì la presa attraverso i reticolati venosi attorcigliati attorno alle ossa, bloccando il flusso interno per farlo scoppiare 

Puoi opporti quanto vuoi, ma è solo questione di secondi prima che riesca a separarti dalla tua Innocence -, la avvertì Lulubell. Due dita su cinque erano in procinto di aprirsi – Sia chiaro: non mi sono mai piaciuti i lavori frettolosi, ma considerata la situazione non posso perdere altro tempo con te. -
- Bene, siamo in due. – Amèlie afferrò anche con l'altra mano il manico di Lucifer, girandone la lama orizzontalmente. Si concesse un attimo di respiro per combattere lo stordimento mosso da quello sforzo mai risultato tanto disumano.
- Pensi di ottenere qualcosa, posticipando l’inevitabile? La Noah serietà della Noah fu a dir poco derisoria – Anche con cento mani a disposizione, il tuo corpo è in mio potere: condividiamo la stessa sorte.
- Allora è il caso che ti mostri cosa significhi! -

E accadde senza che avesse il tempo di comprendere quelle parole. Carezzata dalla sua stessa sicurezza, si era lasciata trasportare da una vittoria che solo lei aveva già visto come  sua, un errore infantile che le apparve tale soltanto al percepire quell'anomalia brancarne la forma che più di tutte le aveva sempre garantito l'invulnerabilità. Invasa prepotentemente da un suono sibillino antecedente l'aprirsi della carne d'innanzi a un oggetto appuntito, sentì il dolore circoncidere in un unico punto che non focalizzò, convogliandovi una bolla di calore pronta a riversarsi al suo esterno. Le palpitazioni impaurite ne animarono i sensi e la lucidità per svegliarla giunsero impaurite ai suoi sensi Infliggerlo Quando le prime palpitazioni impaurite ne animarono i sensi, riallacciandola alla realtà, Lulubell si mirò come se il corpo posseduto fosse il suo.

E a conti fatti, lo era.
La punta ingrossata della falce era conficcata a viva forza nel fianco sinistro dell’Esorcista, il fianco che lei condivideva insieme alla vita che aveva creduto ben stretta nel suo pugno.


- Cos… Che stai facendo?!?
Una risata sadica e sommessa si levò da sotto i lunghi capelli neri – Tu cosa credi? –

Amèlie estrasse la lama dalla ferita senza trovare alcuna opposizione. L'intenzione era chiara e la Noah non  aspettò che fosse il suo istinto a suggerirle di abbandonare la presa prima che le costasse più di quanto avesse previsto; richiamato tutto il suo essere, risalì la gola dell’avversaria fuoriuscendo dalla sua bocca in un densa nuvola color carbone che si rannicchiò dalla parte opposta della stanza. Il corpo sfibrato riassunse le sue curve affusolate, mezzo disteso sul fianco sinistro, l’ego ringhiante un odio insopportabile quanto la macchia scura che ne imbrattava il fianco di dolorose fitte e sotto cui si nascondeva una lacerazione profonda, grande quanto quella che l’avversaria si era inflitta.


- Assurdo… Si è colpita con l’Innocence per costringermi ad abbandonare il suo corpo e ho perfino risentito del suo potere. – Morse le labbra nere per trattenere un fitta bruciante che le risalì lungo lo stomaco, schioccando le iridi dorate infuocate d’astio verso l’avversaria, seduta sui talloni con una mano piantata sul pavimento e la testa china in avanti.

Un lungo silenzio divideva i loro rochi ansiti, una barriera trasparente fatta d’aria e ombre bluastre che permisero a Lulubell di sondare a sottecchi la figura di fronte a lei.
Si era infilzata senza alcuna esitazione, era stata pronta a morire per trascinarla con lei. Dava i brividi e non ebbe modo di staccarsi di dosso quell’orribile sensazione che tanto la fece sentire umana, disgustosamente vulnerabile. 
Notando la discreta pozza scura e gocciolante che si stava creando ai piedi dell’avversaria, deglutì l’ossigeno per regolarizzare i respiri. La partita era ancora aperta.

- Anche se siamo ferite e debilitate, ha perso più sangue di me. Così conciata non dovrebbe essere in grado di reggersi in piedi, mentre io posso ancora fare qualcosa. -

Piegò le ginocchia per levarsi in piedi e quasi ricadde a terra per la scossa che colpì la stanza. Il tempo perso in quella lotta aveva superato la soglia consentita, il Download era imminente. Con l’Esorcista provata da quelle condizioni tanto precarie c’era solo da approfittarne e Lulubell non aveva intenzione di rimanere lì un solo minuto di più. A fatica, levò il braccio destro in avanti per poterlo trasmutare ma anziché modellarsi alle sembianze della lancia immaginata, i tessuti interni e i nervi cominciarono a indurirsi, intaccando i fasci muscolari e lo scheletro che bruciarono la pelle della Noah come se un coltello ci stesse disegnando sopra.

- Cosa… Diavolo…?! –  Dall’arto si diffuse al corpo interno, incatenato da una forza non sua che la sbatté a terra. Brillanti spirali concentriche fecero capolino sotto i suoi occhi febbricitanti, intarsiando l’epidermide di simboli sprigionanti un rosso vermiglio accecante, Scavavano lentamente, ne avvertiva addirittura l’incurvarsi sotto i vestiti, estendersi e moltiplicarsi fin sotto il cuoio capelluto.
- Ma questi…! –
- Ti ho presa. –Il sussurro cantilenante e smaliziato di Amèlie le giunse all’orecchio poco prima che venisse colpita da un suo pugno in pieno viso; rotolò all’indietro sino a sbattere violentemente contro la parete ghiacciata.  
- Che cosa hai fatto…? – La Lussuria annaspò vistosamente, sputando saliva e polvere senza emettere nessuno dei gemiti repressi in gola.
- Oh... Ti ho fatto male? Devi scusarmi… E’ che non ho mai sopportato che qualcuno possa superarmi in bellezza. - La francese si finse dispiaciuta – Basta che veda un viso carino e perdo letteralmente la testa. -
- CHE COSA HAI FATTO?!? –  Ruggì iraconda la donna. Non c’era più modo che contenesse il rampare di emozioni sovracaricate dall’impotenza generata dall’agonia fisica che ne imperlava la fronte nervature.
- Suvvia, non è così difficile da capire: tu sei una Noah e io un’Esorcista. Tu hai i tuoi poteri e io i miei  -, le rispose soave, strappando un pezzo della gonna per stringerlo con forza attorno alla ferita – Dovevo solo aspettare il momento propizio per utilizzarli. –
- Cosa…Vuoi dire che…? –

Non volle crederci, si rifiutò di farlo, perché non poteva esistere che si fosse lasciata manovrare senza tener conto del più insignificante dei sotterfugi. Nelle sue mani caute erano sempre passati compiti di fragile manutenzione, ordini che sempre avevano preteso una cura che il Conte del Millennio, in lei, trovava senza il bisogno di rassicurazioni, ma attirata dal colore insolito della doppia falce brandita da quella dannata, si rese conto della falla aperta da lei stessa, l'attenzione venuta a mancare proprio nelle criticità che più osservava per costruire i suoi contrattacchi. Allo smeraldo si era sostituito uno scarlatto di fiammeggiante aggressività; le lingue serpeggiavano attorno alle lame riempitesi di spirali concentriche appartenenti senza alcun dubbio a una qualche Alchimia. Come i simboli sbocciati sulla sua pelle.

- Lo hai detto tu stessa, no? Che avrei dovuto immaginare che potevi addirittura scomporti a livello gassoso e infatti l’ho sospettato fin da quando ho capito quale fosse la natura del tuo potere. – Amèlie avanzò verso di lei, una folle arroganza ne allargava le labbra, che si guadagnarono l’ennesima stilettata di rancore - Tu sei troppo scaltra per lasciarti avvicinare facilmente e non avrei mai potuto coglierti di sorpresa senza che ti sentissi sicura di avermi in pugno. –
- Quindi… Hai puntato tutto sulla possibilità che potessi trasformarmi in aria e… Possederti… - Lulubell tossì e il rantolo della sua voce si cosparse sul pavimento con sangue scuro come la pece – Eri perfino disposta a ucciderti… Per non farmi vincere… -
- Tu avresti fatto altrettanto. -

Un verità che affondava le mani nella sua più intima dedizione rivolta al maestro, spintasi in quello scontro oltre ogni limite ora dall’inutile valore. Tornare al suo cospetto in condizioni di così vergognosa umiliazione l’avrebbe ferita indelebilmente nell’anima più del morire per mano nemica, ugualmente inaccettabile; se fosse almeno riuscita a scegliere di sua spontanea volontà la propria fine vi avrebbe posto al centro il senso d’appartenenza alla causa del maestro, la loro causa. Invece era a terra, con l’orgoglio preda dei viticci della frustrazione e il corpo divenuto una gabbia per la sua voglia di rivalsa che ansimava per la prima volta vendetta.
Attaccò con la visuale infastidita dai capelli sciolti, ma, sollevato il busto, il braccio destro le fu afferrato e torto ancor prima che avesse il tempo di serrare le dita in un pugno decente. Il fragore delle ossa spezzatesi la scaraventò nuovamente a terra, in ginocchio mentre la paralisi magica le ostacolava il respirare.


- Quasi mi dispiace, sai? Se fossi stata un po’ meno bella mi saresti stata anche simpatica, ma attentare all’incolumità del mio viso…Pessima scelta. – Amèlie scosse la testa, passando l’indice sul contorno affilato di Lucifer – A quanto pare il mio Sigillo di Caccia non riesce a reprimere del tutto i tuoi movimenti, ma sembra ostacolare le tue abilità di trasformista ed è una cosa per cui ti devo ringraziare: non sprigionerebbe un effetto tanto potente, se non avessi cercato di possedermi. In ogni caso… La tua testa è mia –, e passandosi la lingua sulle labbra, sibilando perversamente, si preparò a reclamare il suo premio, quando un boato fece esplodere la parete dove prima era collocata la porta d’entrata.

Le due donne si ritrovarono divise da una massa di detriti caduti dal soffitto, sfondando il pavimento mentre il cemento delle mura ghiacciate si staccava a più pezzi alla volta, sbriciolato in una miriade di esagoni che confluivano nel buco nero del Download.

- Cazzo! Tim! –Il boccino le sfrecciò davanti, indicandole la porta d’uscita affacciata su una luce biancastra che poteva condurre ovunque – ed era sempre meglio che rimanere lì  -.

Cosa spinse le due corvine a guardarsi, distanziate, nessuna delle due lo seppe, ma entrambe scattarono simultaneamente verso il varco prima di rimanere definitivamente prigioniere dell’area, saltando all’unisono senza preoccuparsi di null’altro che non fosse la loro vita.




Note di fine capitolo.
1*: piccola spiegazione sull’Innocence di Amèlie: quando è al primo stadio, i sui attacchi prendono il nome di “Hell’s cut”, mentre al secondo stadio, con due lame, divengono “Hell’s gun”. Quando Amèlie utilizza l’Alchimia, il colore della falce, da verde passa al rosso, ed è qualcosa che utilizza soltanto dal secondo in stadio in poi. Piccolo spoiler: Amèlie può raggiungere fino a tre stadi di potenziamento, di cui l’ultimo la porta alla sua massima percentuale di sincronizzazione. D’accordo, penso di essere in ritardo mostruoso (coscienza: lo sei!). Chiedo umilmente scusa a tutti quanti, seriamente, non era mia intenzione farvi aspettare così tanto, ma sapete come funziona: il tempo, lo studio, la pigrizia, la stanchezza, le solite cose che non dovrei sempre elencare e che finisco per ripetere. Passando a cose più allegre…Direi che questo capitolo non era come l’ho concepito in origine, pieno di bozze e parole in sospeso, quindi ho finito per rivoluzionarlo su tutto, salvo i nome degli attacchi: in verità avrei voluto trovare qualcosa di più originale, ma cercare di farli combaciare con il carattere della protagonista non è facile come speravo. Penso di aver fatto parlare Lulubell più di quanto la si sia vista fare nell’anime o nel manga, ma personalmente mi è sempre piaciuta come personaggio (non quanto quei casinisti dei gemelli Noah, ma ne apprezzo il fascino). Sperando di poter aggiornare più velocemente, cosa che non garantisco ma proverò a fare, auguro a tutti buone vacanze! Un bacione!

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Capitolo 23
*** Door to... ***




Note: E…Sono tornata, sorpresa! (Io stessa me ne stupisco). Mi spiace essere rimasta assente tanto a lungo, ma non ho potuto fare altrimenti: fra impegni vari, ero molto indecisa se ricominciare da dove mi ero fermata o riscrivere la storia in una versione più accurata (progetto che ancora mi ronza per la testa). Ammetto di non aver ancora scritto il capitolo finale di questa storia, sono bloccata sul medesimo punto di tre e passa mesi fa, ma la notizia che la Hoshino ha ripreso la pubblicazione e il mio recente acquisto dell’ultimo volumetto italiano mi hanno spinta seriamente a riprendere in mano la situazione. E’ possibile che risistemerò tutti i capitoli senza però modificare in profondità la trama e al tempo stesso proseguire con la storia, almeno questo è il mio intento, se riuscirò a installare un programma decente (e a imparare a usarlo). Prima di lasciarvi al capitolo, avviso che qui voleranno un po’ di termini volgari e ci tenevo a mettere le note qui solo per anticiparvelo. Detto ciò, buona lettura!
 

Hell’s Road. 

 23: Door to…

 
La stanza vibrava del suo ansimare febbricitante, accarezzata da un’ombrosità sfumata dal chiarore di tenui lumini galleggianti in aria. Decine di lingue giallastre avvolgevano minute fiammelle elettriche, sferzando verso il soffitto piatto assieme al rimbombante strascicare del silenzio imperlato di una fatica incapace di trovare pace. La povertà di quelle mura ben si confaceva alla rabbia di Lulubell, il desiderio di scorrere calda e liquida fra i suoi anfratti non trovava ostacoli che potessero intensificare quel crescendo eccessivo che ne faceva affondare le unghie nere nei braccioli della poltrona. La fredda pelle di cuoio rosso abbracciava la sua nudità, il corpo perfetto e lucido di un sudore mai concepito come realizzabile, ancora tinto della delicata cenere di indescrivibile vanto personale. Il controllo annaspava fra le sponde dell’oblio sensibile a sentimenti che la mente tentava di zittire, dominare per porre sollievo al ritmo del dolore martellante che le ferite trasmettevano ai suoi sensi ottenebrati di ricordi freschi. Nessuno specchio avrebbe riflesso al meglio dei suoi occhi lo scempio che ne maciullava gli arti magri, l’esibizione aperta dei suoi strati muscolari alla mercé di spirali concentriche lasciatale come ringraziamento, così disgustosamente simili a quelli dei comuni umani, quegli stessi fantocci per cui non nutriva null’altro che apatia, pura indifferenza benché le risultasse fastidiosamente difficile cancellarne la presunta appartenenza. Appoggiò la nuca spoglia del nastrino viola inspirando profondamente. Non doveva temere più alcunché, il suo istinto di conservazione l’aveva ricondotta in alloggi sicuri, lontani dalla battaglia, ma alla scelta razionale era corrisposto il rimpianto di aver dovuto abbandonare il posto al fianco del maestro, pertanto poco importava se il suo rigenerarsi non avrebbe contratto difficoltà o impicci da parte di intrusioni esterne. Ciò nonostante, il dolore perseverava su una strada che ne stava impegnando tutta l’anima a resistere con le mascelle serrate e la bocca piegata in un’angolatura forzata. Tutto per colpa di quella donna. Il volto di alabastro dalle labbra tempestate di rubini ne ossessionava le ossa con martellii alternati dallo sfrigolare della pelle tranciata, odorante di carne bruciata, la sua carne, scavata e piegata in strati zampillanti di sangue grumoso. Ringhiò in preda alla rabbia nell’alzare l’avambraccio mentre la pelle tirava verso il gomito e i simboli impressi vi si attorcigliavano intorno a ogni cenno di movimento.
- MALEDETTA! – Le quattro pareti della stanza si incurvarono pericolosamente alla scarica di essenza nera che fiammeggiò negli occhi giallastri della Lussuria, acuminati e sinistri.
Mai nessuno aveva dimostrato di poterle infliggere un’agonia di quella portata, di fisicità arrivata a insidiarsi nell’orgoglio per la precisione con cui era stata abilmente scoccata. Fra i tendini lacerati, gli organi fibrillanti e i succhi gastrici del corpo pressato dall’effetto di quelle catene scarlatte, Lustor urlò ancora, la Memory divenuta un tutt’uno con lei gemeva sibili di vendetta che colmassero il vuoto lasciato da quell’innaturale follia prima che il gusto della rovina assaporata divenisse indelebile. Guardare all’indulgenza come fosse una fessura esposta troppo a lungo, ne fece contrarre le vertebre spezzate di una verità scioccamente presa sottogamba; l’aveva sottovalutata perché, nonostante le sue parole, si era lasciata crogiolare dall’ingenua convinzione che fosse come tutti gli altri e ora che quella sicurezza era stata abbattuta laddove i suoi poteri erano sempre intervenuti, il ricordo l’avrebbe perseguitata senza mai poter sperare nella sua completa cicatrizzazione. Riempiendo nuovamente i polmoni, trattenne l’aria e arricciò le labbra fino a sbiancarle. Fra note acute di dolore che giurò di restituire a quell’anima risonante alla sua, fredda e inespressiva, percepì finalmente l’assottigliarsi delle spirali concentriche, il loro dissolversi dal corpo libero di essere sciolto dalla forzata tensione. Il sonno non tardò molto a sopraffarne lo spirito con dolce nenia. I pensieri fiacchi di lucidità non potevano trarre sufficiente forza a sé per ruminare nuovi rancori. Ciò che le occorreva era altro, distante da tanta nocività. Una piccola condensa di calda anidride carbonica fece capolino dalle sue labbra sottili e le sante stigmate che ne coronavano la fronte lasciarono il posto a una carnagione più luminosa; ancor prima che il colore dei suoi capelli tornasse a brillare di luce solare e le palpebre calassero sulle iridi zaffirine, la marea onirica trascinò Lulubell nella sua dimensione di piacevole beatitudine, coricandone i sensi lontano da tutto.


Allen Walker avanzò sui luminosi scalini galleggianti senza chiedersi quanto ancora mancasse alla fine o se quella spirale dalla geometria contrastante le comuni leggi della fisica possedesse realmente un qualche punto di arrivo. Una concentrazione profonda ne contraeva il viso gentile, spartito fra l’avanzare imperterrito e il sostenere Lenalee, dalla mano ben salda alla sua e impegnata a mantenere un passo che non desse peso al vacillare delle sue gambe. La massa oleosa di colori cupi che scivolava dall’immaginario soffitto della torre cilindrica non consentiva alcuna misurazione del tempo e dello spazio, una qualche posizione dei piani ignoti lasciatisi alle spalle o che ancora dovevano visitare prima di giungere a destinazione; lo scheletro magico dell’Arca Bianca nascondeva tutte le sue più recenti scheggiature con una quiete intervallata dai loro respiri, provati dalle ferite nascoste sotto gli abiti sporchi di sangue e polvere. Potevano essere a meno di un metro dall’uscita oppure a nemmeno un quarto del cammino, ciò non avrebbe cancellato il fatto che quell’avanzata stesse mettendo a dura prova il credere che tutti quanti loro sarebbero tornati da chi li attendeva a braccia aperte.
- Allen-kun, va tutto bene? – Un sussulto fece rizzare la testa del ragazzino, al sentire una mano appoggiarsi alla propria spalla. L’Esorcista bianco si voltò velocemente, troppo, e subito dovette confrontarsi col crucio diversificato che i suoi compagni, la cinese per prima, gli stavano rivolgendo.
- Cosa c’è, Lenalee? Sei stanca? Vuoi che ti porti in groppa? – Si preoccupò lui.
- No, non preoccuparti: ce la faccio a camminare -, lo rassicurò – E’ solo che… -
- Ti stiamo chiamando da almeno cinque minuti abbondanti –, lo rimbeccò Lavi, pizzicandogli la guancia con ghigno pestifero – Guarda che tenere per mano Lenalee non ti autorizza a fare pensieri sconci su di lei! –
- Lavi! – La ragazza alzò la voce con il volto sbocciato in un rosso fluorescente, ritirando il pugno usato per colpire il viso dell’amico con quella potenza sviluppata a tempo di record e che compensava la mancanza dei suoi Dark Boots.
- Ahiaaaa! Lenalee, io scherzavo! – Piagnucolò il poveretto, tenendosi la parte colpita – Era per sdrammatizzare! –
- Se ti sentisse Bookman… -, fu il sospiro del quindicenne, mentre un attonito Chaoji seguiva il tutto da una ragguardevole distanza di sicurezza.
- Allora è una fortuna che non ci sia -, bofonchiò il rosso – Ma, scherzi a parte, che cos’hai? Sembravi completamente perso fra le nuvole. –
- Ah, io…Non saprei: è…Eh eh! E’ strano. – Rise flebilmente, dal profondo di quella sensazione criptica che ne accalorava il petto nascosto dalla pelle nera della divisa – E’ che questo posto, le stanze che abbiamo superato…Per qualche istante mi hanno suscitato, ecco, come dire…Familiarità.
- Cosa intendi dire? – Stavolta Chaoji si fece sentire, incuriosito.
Un qualche chiarimento, seppur vago, avrebbe fatto piacere anche ad Allen: cosa stesse succedendo dentro di lui ne agitava l’interiorità senza offrirgli la possibilità di scoprirne le molteplici tonalità, un chiarore che gli desse modo di spiegarsi il perché di quel tumulto che ne rapiva i battiti a manciate, inghiottendoli per lasciarsi così alle spalle la stessa sensazione che si provava quando l’inaspettato coglieva di sorpresa l’animo umano, ma più delicata e intrecciata a un’insolita dolcezza. Era un sentimento antico, labile e usurato dal tempo trascorso, uno scampanellio percettibile solo alle sue orecchie. Gli occhi di luna argentea vagavano senza uno schema preciso lungo tutto il vuoto scheletrico che li circondava, in cerca di una ridondanza che acuisse quell’impressione e le attribuisse dei tratti leggeri. Non sapeva dove fosse, come e perché avesse deciso di fiorire lì, ma per una ragione estranea alla sua comprensione, quel luogo, per cui sarebbe stato naturale provare sospetto o diffidenza, mai visto e visitato, evocava in lui un’ombrosa nostalgia, melodica e che, fra tutte le possibili similitudini, combaciava perfettamente al calore di Mana quando gli stringeva la mano.
- Mi sa tanto che sto perdendo la testa! – Prima ancora che lo scorrere dei suoi pensieri lo trascinasse verso memorie intoccabili, Allen allontanò ogni pericolo di preoccupazione dei propri compagni con una risata derisoria rivolta a se stesso – Stiamo vagando qui dentro da quelle che ci sembrano delle ore e la tensione sta mettendo a dura prova tutti quanti noi. Continuiamo? -


- FIGLIA DI PUTTANA! –
Timcampi era un golem che sapeva riconoscere il pericolo ancor prima che il presentimento divenisse certezza e in quel momento avrebbe desiderato essere da qualunque altra parte purché non fosse il medesimo angolino che grattava freneticamente con le tozze zampine. Una qualunque dimensione caotica o sul punto di dissolversi sarebbe stata un’alternativa ben più allettante del dover rimanere a portata di una mortalità capace di inorridirne i sensi al punto da classificare come quisquiglie tutti i suoi precedenti sbriciolamenti. Pezzo dopo pezzo, il degrado dell’Arca Bianca proseguiva verso il nucleo ancora intatto, bramoso di eroderlo una volta disossato il rivestimento, ma la sua rilevanza era stata messa da parte nel momento stesso in cui Amèlie Chevalier si era scoperta suscettibile ad attacchi di ira acuta, scatti che scioglievano le catene imbroglianti la bestia nascosta fra le sontuose pieghe dell’indole elegante e le conferivano una voce più isterica dell’assecondante e malsana crudeltà priva di scrupoli umani che giaceva fra le arsure tenebrose della sua anima. Contrastarla non era fra le scelte più sagge o coraggiose, ma soltanto suicide e quanto più premeva al piccolo boccino, schiacciato contro la parete opposta a piangere col terrore a colorarlo di un blu elettrico, era che gli occhi ardenti di fiamme oscure della francese non indirizzassero le loro mani verso le sue alucce.
- Il mio viso! Il mio bellissimo e inestimabile viso! – Il tuono iracondo fuoriuscito dalla gola della corvina rimbombò nel corridoio – Come ha osato, quella stronza immonda…! – La mano destra scaraventò il vetrino circolare dello specchietto contro il muro che le stava di fronte, spaccandosi in più parti fra ansiti incandescenti.
Amèlie aveva visto troppo e la sua sopportazione si era rifiutata di mantenere un controllo già lodevole per l’essere giunto fino a quel punto senza scivolare nell’istintività. Tanto oltraggio alla sua femminilità meritava di essere ricambiato con macabri ringraziamenti e le promesse suggellate da una Chevalier vantavano lo stesso peso della morte stessa. La Noah avrebbe pagato, come e quando erano dettagli di pertinenza temporale, ma una volta di nuovo una di fronte all’altra, la Maitresse della Rosa Nera avrebbe dato il meglio di sé per scorticarle dal delicato visino l’amata apatia. Un alone violetto le copriva la guancia destra accaldata, seguita da qualche taglietto – di cui uno sul labbro inferiore sbavato – e dall’ombretto nero impiastricciato di mascara. La maschera di pizzo nero non aveva neppure una scucitura, grazie al cielo, ma una sola nota positiva non poteva minimamente compensare al danno subito al vestito, strappato per fasciarsi il braccio e il fianco, e sul pregio di cui era più orgogliosa. Il solo sentire la sua lunga, preziosa e naturalissima chioma d’onice in disordine rischiò di scatenarle l’ennesima crisi di nervi.
- Cretino! Stupido! DEFICIENTE! Mandarmi a destra e a manca come se fossi una marionetta! – Sibilò – Lui e i suoi cavolo di piani…E io, idiota, che gli vado dietro..! - Affondò le dita in ogni tasca del vaporoso vestito solo per chiuderle in due pugni serrati prima di incorrere nel rischio di strapparne le cuciture interne.
L’adirata ondata nociva salitale in gola si ammansì al proverbiale ripristino del proprio temperamento, sfilatole dal viso con la sola consapevolezza che la colpa di tanto ardire si riallacciava sempre e solo a lui, Cross. L’immagine scolpita di quel sorriso arrogante ne intorpidiva la pazienza senza che altri riuscissero a replicarne gli effetti; combatteva contro quella dipendenza patologica da anni, l’aveva accettata per quello che era piuttosto che ossessionarsi inutilmente, ma rimaneva ugualmente assurdo come il solo pensare a lui la riducesse a parlare da sola e a non liberarsi dell’influenza sottointesa. La sua unica speranza era che su quel trabiccolo ci fosse qualcosa di vagamente prezioso da prendersi come personale ricompensa per i servigi che quel disgraziato sicuramente non le avrebbe mai pagato. Quando le mani tornarono a trafficare nelle stoffa scura, Amèlie strinse il manico di una piccola spazzola che si portava sempre dietro per ogni evenienza, insieme a un armamentario che comprendeva una maschera di riserva. L’ennesimo nervo scoppiò con lo stesso botto di un piccolo petardo quando vide che l’oggetto, oltre a non avere la testa, era sporco dei trucchi mischiatisi durante il combattimento.
- Pure la spazzola… – La mano frantumò quel che ne restava, mentre nuovi brividi calcavano sugli arti slanciati e Timcampi ridefiniva i confini di distanza.
L’avrebbe fatta a pezzi, la piccola e lurida Lussuria, oh, se lo avrebbe fatto! L’odio e la frustrazione per non averle tagliato la testa senza prima essersi divertita a sfigurarla un po’ tornò a canticchiare imperiosa e rovente, ma anziché scagliarsi in aria si affievolì gradualmente, sino a dissolversi nella cognizione che il suo ghigno sadico sarebbe rimasto nel cuore dell’avversaria per il simpatico regalino alchemico fattole poco prima dell’irruzione del Download.
- Goditi questo dolore, stronzetta, assapora la sua leggerezza. La prossima volta mi supplicherai in ginocchio di concederti una morte rapida. -
Un flebile sospiro e la schiena nuda della francese si abbandonò contro la parete spoglia del muro grigio. Il palmo sinistro si chiuse a coppa contro la fronte nell’avvertire un leggero capogiro offuscargli la vista.
- Un giorno all’altro finirò sul serio con il perdere la testa, Tim -, pronunciò esausta al piccolo boccino, appollaiatosi immediatamente sulla sua spalla, scordatosi della paura provata.
Poi, lesta, afferrò la parte inferiore della gonna e la strappò in più parti, ricavandone altri stracci improvvisati. Sotto le pezze imbevute di sangue, percepiva il calore pungente delle ferite incrostare l’epidermide scoperta, ma tendini e organi rispondevano ai leggeri movimenti delle dita e dei respiri calibrati. Uno dei tanti trucchetti che sua nonna le aveva insegnato quand’era un'apprendista, in vista di un futuro dove la cura esclusiva della propria persona sarebbe diventata una priorità indispensabile alla sopravvivenza. Niente che non avesse già assaggiato con la polvere a ingozzarle la trachea o le gambe cementate al terreno per una stanchezza mortale. Sì issò sui piedi soltanto all’affievolirsi del lieve cerchio alla testa che ne condizionava lo stomaco con un forte senso di nausea. Quattro passi contati e si ritrovò di fronte a un’enorme porta: le effigi dorate placcate sulla superficie scura disegnavano complessi arabeschi smussati a causa di alcuni pezzi di metallo mancanti. Amèlie la spalancò con entrambi i palmi. Un forte odore di legno consunto e cera di candela caduta sul pavimento solleticò le sue narici con nota bruciacchiante. Il discendere dall’alto di una luce più intensa di quella delle fiaccole sotterranee la costrinse a proteggersi gli occhi, battendoli un paio di volte prima di abituarvisi: uno sfavillante lampadario di cristallo illuminava con i suoi ninnoli impolverati la più sontuosa e aristocratica sala da ballo che si fosse mai presentata al cospetto della donna, con un’immensità perfettamente in grado di rasentare l’infinito. Lunghezza e larghezza spingevano le pareti così lontano da ridurre gli antichi mosaici dipinti a delle comuni macchie, ipotetiche raffigurazioni che si arrampicavano verso il soffitto chiuso a cupola e al tempo stesso svanivano dietro l’ombra del labirinto di scaffali colmi di tomi voluminosi che si districavano in ogni direzione.
- Deve essere una biblioteca o qualcosa che le si avvicina. Curioso che si trovi nei piani bassi dell’Arca. – Scesi i gradini che separavano la piattaforma di granito dal pavimento, Amèlie si inoltrò fra gli alti mobili, guardinga dal dare confidenza all’arcaico potere che avvertiva cullato dall’atmosfera soffusa e delicata di quell’intricato crocevia di legno e carta.
Volti demoniaci scolpiti nella pietra sporgevano dagli scaffali con i riverberi arancioni delle candele nascoste fra le dita aguzze a tracciarne i grotteschi lineamenti. La sinistrosità con cui la fissavano dava l’impressione che la vita potesse carezzarle da un momento all’altro, ma la corvina se ne sarebbe occupata soltanto se i suoi sensi le avessero trasmesso un qualche vago motivo di preoccupazione. La dimestichezza di Timcampi nel muoversi fra gli spazi stretti senza ostentare la benché minima esitazione sventolava nell’incomprensione totale come un piccolo faro in mezzo alla tempesta. Troppa era la sicurezza con cui planava fluido fra le rientranze che separavano i mobili l’uno dall’altro perché fosse frutto della memorizzazione di una qualche planimetria del posto; non un cenno di indecisione lo obbligava a sorvolare fra gli anfratti di quel luogo rimasto intoccato, ma la sua vastità non impedì certo alla Maitresse della Rosa Nera di constatarne le precarie condizioni di abbandono. Riccioli di polvere turbinavano lenti sotto la luce del lampadario, appezzando l’aria con il suo respiro pungente e gli scaffali ingrigiti dal suo ammassarsi fra pergamene e copertine contrassegnate da piccole placchette d’oro. Le dita inguantate vinsero il disgusto suscitato dalle leggere tele di ragnatele che filavano fra i volumi sistemati alla rinfusa solo per avere un’idea del loro contenuto.
- “Guida alla Materia Oscura, Anatomia dei peccati umani, Come imbottigliare un’anima dopo la morte”…Questi non sono semplici rudimenti di Magia Nera. – Dovette afferrare con il pollice e l’indice ogni singola pagina dei tomi estratti per evitare che la carta essiccata le si sbriciolasse nei palmi.
I trattati scritti in lingua antica si conquistarono la sua antipatia non appena realizzò che le sue conoscenze non potevano svelarne neppure il sommario, ma d’altro canto sbirciare negli affari del Conte del Millennio non era poi quell’attrattiva per cui valesse la pena mettere a rischio la propria incolumità. Non aveva scordato perché fosse lì e chi ce l’avesse mandata, ne aveva permesso che la casualità si inserisse nel contesto. Anche se flebile, un legame c’era e il muto esortare di Timcampi a seguirla incrementava sospetti impensabili. Che fosse già stato lì? Come? Quando? Le solite domande per cui non ci poteva mai essere una risposta al primo colpo. La cera delle candele lasciate a illuminare le biforcazioni toccava il pavimento a scacchiera senza che il lumino nascosto nell’incavo si esaurisse, ogni singolo pulviscolo di sporcizia si arrotolava libero da ogni tocco umano che ne avrebbe solo arrestato la crescita. Eppure c’erano troppe lacune, troppe inconsistenze, il presentimento che ci fosse di più, in quel posto destinato all’oblio, spingeva contro il suo raziocinio, scavando nel profondo dei sensi nel tentativo di farne vacillare l’imperscrutabilità.
- Cross vuole mettere le mani sull’Uovo prima che tutti i dati dell’Arca Bianca vengano scaricati su quella Nera. – La mente di Amèlie lavorava sulle informazioni passo dopo passo, costruendo un ordine semplice man mano che il quadro assumeva tinte più riconoscibili mentre seguiva la scia del boccino – E’ evidente che ha impiegato il tempo trascorso a Edo nel tentativo di intrufolarvisi senza che la sua presenza venisse rilevata, ma ha potuto riuscirci soltanto ora che sta per essere distrutta, tuttavia… - I suoi pensieri andarono alle creature dal cranio scheletrico incrociate al varco d’entrata e alla sghignazzante sicurezza delle loro voci riguardanti la protezione dell’Uovo.
La platealità del Conte del Millennio non abbandonava mai il fianco della scrupolosità, ogni scena era studiata perché a eventuali intoppi corrispondessero contromosse finalizzate a non corrompere l’evolversi della storia, per tale ragione Amèlie diffidava dall’esternare un’eccessiva confidenza con quel sapere allettante, ma pur sempre non suo; lo aveva imparato affiancando il Generale, inspirando il suo umore contrito quando rimaneva senza sigarette e fidandosi più del suo istinto che di qualche consiglio fornito sulla scia del dubbio. Quella biblioteca parlava, sì, un linguaggio composto di sospiri criptici nascosto fra gli scaffali, ma non sarebbe stato affatto un azzardo ipotizzare che la sua presenza fosse stata richiesta proprio per quell’enigmaticità; dopotutto, nessun’altro, oltre a lei, conosceva il corretto funzionamento delle Chiavi Alchemiche.
- Per quanto ancora hai intenzione di farmi camminare? – Il picchiettare dei suoi tacchi vertiginosi si arrestò davanti all’ennesimo scaffale dalle mensole marce, senza alcun pregio particolare che lo differenziasse dagli altri.
Timcampi si era appoggiato esattamente nella rientranza centrale, permeandosi dalla punta delle ali a quella della coda arrotolata di un tenue bagliore biancastro che si estese all’interno del mobile non appena la donna gli fu di fronte. Convergendo nel mezzo, la luce assunse una triplice forma circolare contrassegnata da sottili linee e insoliti simboli. I cerchi che affiancavano il centrale erano appena più grandi, roteanti in senso antiorario a differenza del primo; andava nel verso opposto e molto più lentamente, ma tutti e tre riproducevano a scatti irregolari lo stesso schiocco che emetteva un lucchetto invisibile, che smaterializzò la libreria e lasciò il posto a un passaggio nero e senza fondo.
- D’accordo: hai la mia attenzione -, proferì Amèlie, rimasta in silenzio per tutto il tempo. Non c’era vitalità nella sua voce o sorpresa.
Nessuna traccia di smarrimento per quel passaggio rettangolare e verticale da cui spirava aria tutt’altro che leggera, se non un ricordo che la spinse a frugare nelle tasche della gonna e a prendere in mano l’oggetto balenatole in mente al solo riconoscere i caratteri comparsi sullo scaffale. Le labbra si arricciarono. I simboli con cui erano state trascritte le Chiavi Alchemiche riportate sul foglietto spiegazzato e quelli appena osservati appartenevano allo stesso alfabeto, alla stessa lingua, ad un’Alchimia nettamente più intricata di quella che lei praticava, illeggibile come la persona per la quale si trovava lì e che volentieri avrebbe strangolato con la stessa forza con cui accartocciò il foglietto fra le sue dita. Se l’obiettivo era il prezioso Uovo del Conte del Millennio, era logico pensare che il suo ruolo dovesse unicamente agevolare la riuscita del piano senza che quel bastardo si sporcasse troppo le mani. Affondò con forza risoluta lo sguardo nell’oscurità del passaggio che si apprestava a varcare. La puzza di chiuso e stantio era nauseante, un vuoto dentro cui si correva il rischio di morire soffocati. Quell’ala doveva essere rimasta chiusa più della biblioteca, tuttalpiù se l’unica chiave per aprirla era Timcampi stesso. Una nota su cui avrebbe riflettuto attentamente non appena fosse riuscita a rispondere ad alcune delle molte domande rimaste in sospeso.
 

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Capitolo 24
*** Sulle orme del tradimento / Part One. ***


Sulle orme del tradimento


ameliè maschera

Hell’s Road.

24 / Sulle orme del tradimento.

Il fetore che si respirava era nauseante, una calura insopportabile che riduceva il semplice inspirare a una minuscola serie di singhiozzi soffocati dal palmo della mano premuto con forza sulla bocca. L’anidride carbonica scoperchiata bruciava gli occhi di Amèlie, la stantia oscurità smorzata dalla flebile luce emanata da Timcampi arretrava all’avanzare dei suoi passi cauti a ogni singolo rumore vagamente sospetto; un tale fetore non lo aveva mai sperimentato neppure quando sua nonna l’aveva spedita a calci nelle paludi di Vasyugan, in Russia, dove la noncuranza dei suoi movimenti aveva permesso al pantano e al gelo siberiano di inghiottirla e risputarla come fosse stato un boccone di peli mal digerito. Fra quel ricordo e l’attuale sporcizia che turbinava in tanti riccioli incolori, il punzecchiare della polvere arrotolatasi nei polmoni e il cerchio che ne tormentava le tempie sapevano quasi di balsamo, per il suo povero olfatto. Le dita inguantate tranciavano intere tende di ragnatele man mano che si inoltrava nel lungo rettangolo buio, l’onnisciente sensazione di starsi allontanando sempre di più dal mondo che conosceva ne caricava la spina dorsale di presentimenti poco chiari, eppure tutti accomunati dall’essere silenziosamente intensi, nella loro intermittenza. Il brillante alone giallastro emesso dal tenero boccino schiariva la sua miseria con il solo gesto di accostarne le tenebre contro le pareti ammobiliate. Della passata esteticità rimanevano pezzi grossolani, chiodi sporgenti, dipinti scoloriti e assi sbriciolate che accompagnavano cocci anneriti di oggetti scagliati contro il pavimento. Non caduti, gettati. Colpiti da un’irruenza la cui essenza vibrò sotto i polpastrelli della francese, mentre sfiorava delicatamente gli opachi cristalli di un lampadario infrantosi su un cassettone miracolosamente rimasto in piedi. 
- Che succede? – Amèlie distolse l’attenzione sul caos aleggiante per poterla riporre su Timcampi, svolazzatole vivacemente davanti al viso.
Un’enorme specchio sbarrava loro il passaggio occupando tutto lo spazio presente e dalla sommità prigioniera fra tenebre penzolanti dal soffitto. L’anomala lucidità messa in risalto dal corpino luminescente del golem dorato regalò alla donna un’ingloriosa immagine di sé, malconcia, sospettosa dal dare confidenza a qualcosa che per anni era rimasto celato a occhi indiscreti e al tempo stesso forte nel saper essere stata mandata lì per un motivo che, forse, comprendeva più di quanto fosse stato previsto. L’estrema limpidezza della lastra aveva rifiutato ogni genere di corrosione e ornamenti, abbracciando una semplicità che oscurava la ragione per cui fosse stata piazzata lì. Tuttavia, la ragione c’era e increspò le labbra di Amèlie nell’instante in cui fece combaciare il palmo destro con la superficie cristallina, avvertendo una calda elettricità solleticarle l’epidermide coperta dalla stoffa. Dove c'è una chiave c'è una serratura. E dove c'è una serratura c'è una porta.
Parole incomprensibili vennero poi sussurrate al vetro e la successiva reazione ne allargò gli occhi d’onice d’arrogante soddisfazione. Un debole luce violacea pulsò a intermittenza lungo tutta la sua superficie, concentrandosi da prima al centro e poi spartendosi ai rispettivi lati in parti uguali.
-  
L’Alchimia è cosa per pochi, Chibi-chan, e un cervello fuori dalla norma non sempre è il suo requisito fondamentale. -
L’infamia di Marian Cross non si era mai fatta scrupoli nel minimizzare il potenziale delle persone affinché la loro utilità fosse pari a quella di un paio di marionette facilmente malleabili alle sue dita incuranti dei pensieri altrui. Con lei, le comunanze erano giunte a un numero dannatamente vicino al suo, troppo, perché potesse anche soltanto ignorare il suo temperamento egocentrico, l’ambizione smisurata, il cinismo e la cieca devozione volta unicamente alla propria realizzazione. Per questo le aveva offerto la possibilità di vantare i suoi stessi mezzi, interessato a scoprire fino a che punto quella bambina d’acciaio, di cruda moralità, potesse trasformare un comune desiderio in autentico potere. Decisa, Amèlie estrasse dalla tasca destra della gonna il foglietto datole dal piccolo golem dorato. Le Chiavi Alchemiche non erano materia adatta a dei sempliciotti incapaci di manipolarne senza la corretta preparazione: perché il concetto fosse chiaro ai meno esperti, equivalevano a una combinazione per aprire una determinata cassaforte, con la differenza che, se si inserivano i simboli nell’ordine sbagliato – o si dosava male la potenza -, si correva il rischio di convivere per il resto della vista con un paio di arti in meno. E ciò accadeva solo nei migliori casi. Occorrevano impeccabili capacità di controllo e una profonda conoscenza del linguaggio antico per districare gli enigmi e i segreti che l’Alchimia proteggeva, un equilibrio mentale e fisico rasentate una finezza priva di qualsiasi tremolio. L’orgoglio della Chevalier e la costante aspirazione nel volersi differenziare dalla massa l’aveva spinta ad attingere dalla sua ambizione tutto l’impegno necessario per eccellere in quella sfida disseminata di ostacoli e sacrifici fusisi in un trionfo che subito si era consumato d’innanzi al suo volere di più, alla consapevolezza di poter assimilare più potere e dare vita a qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto rubarle o copiarle.
Come era accaduto allora, la gloria si dissolse in pochi istanti, ridimensionandosi fino a evaporare nel nulla. Tre file orizzontali composte da quattro simboli ciascuno, ma disposti in ordine diverso. Lo schema era di tipo basilare, ma la scrittura non si ricollegava ad alcun alfabeto a lei noto, i caratteri avevano tutti i requisiti per appartenere a una lingua nata con il mondo, così squisitamente congeniata da impedirle di trovare un solo riscontro con le lettere attuali. Il medesimo impiccio vedeva implicati anche i simboli comparsi sullo specchio, dopo che la luce irradiata da esso, nel dividersi, aveva acquisito una forma visibilmente più definita. Erano gli stessi di quelli trascritti sul pezzetto di carta, disposti in modo tale da comporre un perfetto quadrato inaccessibile a chiunque non ne conoscesse la reale funzione.
-
Le combinazioni trascritte sono tre, quindi si tratta di una Triplice Porta Alchemica… -, pensierosa, fece scorrere le dita sui contorni di un simbolo qualunque, schioccando poi le iridi assottigliate in direzione di Timcampi, il quale le si accoccolò sulla sua spalla in cerca di carezze – Ma anche disponendo di una vasta conoscenza alchemica, nessuno avrebbe mai potuto aprire il passaggio segreto della libreria senza il tuo aiuto. Dico bene, mon petit*? Ecco perché quel dannato ti ha lasciato a me.
Non ci fu risposta da parte della creaturina, se non un muto sguardo che ricambiò quello scuro della donna solo per una manciata di secondi, prima di ostentare un’indifferenza tradita dal sottile tremolio del suo stesso corpicino. Cosa frullasse in quella testolina, che di infantile aveva tutto, Amèlie preferì delegarlo in un angolo della mente, concentrandosi sullo specchio. Conviveva ormai con la sensazione che tutte le risposte fossero intrecciate a quel luogo e l’esuberanza di Timcampi nel celare il proprio coinvolgimento ne macchiava i tentativi di errori impazienza. Con la prima sequenza ben a fuoco, la Maitresse della Rosa Nera toccò con le punte dell’indice e del medio il simbolo in alto a sinistra, trascinandolo al centro del riquadro. Seguì quello in basso a destra, poi quello a sinistra, e infine l’ultimo in alto a destra.
-  
גילה* –, ordinò dopo aver appoggiato il palmo nuovamente al centro, ruotando il polso di novanta gradi a destra.
All’illuminarsi dei quattro caratteri sovrapposti, l’immagine di lei riflessa allo specchio si distorse, mischiando contorni e colori fino a indietreggiare di un metro e solidificarsi nuovamente, con i quattro simboli pronti a essere disposti in un nuovo ordine. Inserite le due combinazioni successive, al congiungere l’ultimo disegno, lo specchio produsse un scintillio violento, che lo infiammò da capo a collo di cupe lingue violacee, divampanti aria bollente. Comparve per pochi istanti, inaspettato e dai contorni bianchi.

 

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Un blasone articolato, dalla grandezza uguale a due mani messe insieme, strappò da Amèlie un’espressione corrucciata, che ne osservò il lento avvolgersi fra i veli roventi fino a scomparire nel vuoto, lasciando la via libera. Sul fondo nero e dall’eco gorgogliante mostruosità impensabili, un chiarore minuscolo quanto un granello di sabbia la invitò ad avanzare. Un’uscita o, molto più probabilmente, l’epicentro di tutta l’assurda faccenda. Compì giusto un passo prima che un fiotto d’aria ne solleticasse la schiena nuda con dita gelide e pungenti, marcando una presenza incorporea già percepita in precedenza, ma rimasta a osservare i suoi progressi svettando giusto un briciolo di vitalità malsana a incupirne l’animo.
- Tsk! Non mi stupirei affatto se questo tugurio infernale includesse anche gli spiriti –, rimbrottò fra sé e sé, scrollando la lunga chioma prima di avanzare.
 Il suo buon gusto si rifiutava di apprezzare anche solo un centimetro di quel postaccio, sgradevole da qualsiasi prospettiva lo si esaminasse. Lo slungarsi del punticino fissato in un porta da cui fuoriusciva un’ombrosità tinta di contorni bluastri e un pavimento a scacchiera concentrò i suoi passi su una linea retta che si arrestò ad appena una decina di passi dalla sua soglia. Su entrambe le pareti, arcuate in una mezzaluna panciuta, erano appesi dei quadri, tutta della stessa dimensione.
Amèlie ci avrebbe anche sorvolato sopra, se soltanto
l’accanimento con cui le teste dei rispettivi soggetti non l’avessero indotta a supporre che una simile opera non poteva essere stata casuale. L’essenza della follia evaporava dai segni raffreddatisi, i colori essiccatisi in briciole cenerine per volere di colpi insofferenti. Gli strappi che sollevò per constatare il sudiciume delle tele orribilmente sfilacciate appartenevano a mani premuratesi di calcare bene a fondo affinché l’irragionevole furia scatenata contro quei volti non si esaurisse mai. Era ancora percepibile, un sottile calore insito fra i pezzi delle cornici che penzolavano verso il basso, ferite divenute fredde cicatrici; lo spettro iracondo che l’aveva accompagnata silente per tutto il tempo, aveva raggiunto l’apice in quel punto, aggredendo lo spazio con impietosa animalità, i visi di quelle persone d’identità irriconoscibile e i nomi incisi su una placchetta d’oro fusa insieme al legno decorativo. Le unghie avevano graffiato via il nome senza preoccuparsi di scorticarsi la pelle fino all’osso; i polpastrelli della donna ne tracciarono i solchi scavati nel metallo, con piccole macchie scure colate dai bordi sfregiati.  
-  
Tried…Feedra…Bondom… - La corvina potè leggerne solo alcuni, mentre ne teneva a mente il numero – Uno…Cinque…Dodici… -
Il conto si arrestò bruscamente, lasciando un vuoto identico a quello che segnava la parete sinistra dopo l’ultimo dipinto. L’intonaco non dava segno di essere mai stato impalata da chiodi o deturpato da eventuali contorni disegnati dalla sporcizia che si depositava alla base dei quadri. Niente che lasciasse intuire la presenza di un altro quadro che avrebbe dovuto trovarsi lì.
-
Dodici dipinti…Qui i conti non tornano. - Amelìe pose la mano sinistra sul fianco, sbuffando pesantemente a occhi chiusi prima di spalancarli e schioccare l’ennesimo sguardo furente alle tenebre rannicchiatesi attorno al chiarore circolare che Timcampi emetteva attorno a lei, innocenti nel loro silenzio - Oh, sì: davvero molto divertente. – 
Un altro sospiro di aria ghiacciata le aveva alitato contro, stavolta all’altezza delle spalle. Un soffio delicato come l’irriverenza di una risata gongolante
Mancava soltanto che si lasciasse dallo spettro di qualche Noah morto dalla troppa noia per completare in bellezza quell’interminabile notte, ma un minimo di comprensione l’avrebbe pretesa chiunque: salire sull’Arca Bianca – vascello personale del più grande male contro cui il mondo si fosse ritrovato a fare i conti – e frugare fra l’intimità dei suoi segreti avrebbe messo a dura prova i nervi del più fermo degli uomini e, sotto lo spesso strato di nivea passività, quelli di Amèlie fremevano in un unico fascio pronto a scoppiettare al minimo segno di cedimento. A ogni tentativo di districare la matassa capitatale fra le mani era costretta a ritornare sui suoi passi, ad aggiungere o addirittura cancellare quel poco che riusciva ad estrapolare fra mille difficoltà. Davanti a lei c’erano dodici quadri, dodici, e sicché quei nomi non potevano che appartenere alle tredici essenze maligne nemiche dell’Ordine Oscuro, i conti non tornavano. Tuttavia, la cosa più giusta da pensare era chi, fra i Noah ritratti, mancasse all’appello.
-  
Dovevi nutrire parecchio risentimento nei loro confronti per non sopportarne nemmeno la vista, chiunque tu fossi… -
Non le restava altro da fare che proseguire e augurarsi di riesumare qualcosa che valesse tutti i rischi corsi - il che includeva anche la meravigliosa prospettiva della testaccia rossa di Sua Megalomania Marian Cross sotto la suola del suo stivale mentre lo strangolava con la frusta del Generale Cloud Nyne perché facesse ammenda di tutte le bravate compiute. -. 
Varcò la soglia sondando immediatamente l’ambiente con il dito arricciato in una ciocca d’ebano, il volto inclinato su di un lato e l’altra mano impegnata a sorreggere il gomito opposto.

In aria. Ecco la definizione perfetta per quella stanza dal soffitto a cupola, dove un’innaturale luce azzurrina ne irradiava il centro con un fascio a forma di cono. Non un singolo centimetro era stato risparmiato dalla violenza assaggiata nel corridoio: carte, libri, candelabri, cassetti…Qualunque cosa giaceva fuori posto o a pezzi sul pavimento, scoperto giusto per dare mostra di un tappeto ormai irrecuperabile.
-  
Per la miseria…Che diavolo è passato qui? – Amèlie dovette letteralmente calciare i cumoli di disordine per crearsi un passaggio.
La forma circolare della stanza ricordava uno studio di modeste dimensioni, con un’unica libreria a coprirne le pareti. Il materiale, riverso a terra, accerchiava una scrivania d’acero verso cui Amèlie puntò direttamente senza offrire a Timcampi il tempo di svolazzarci sopra. La sua inconsueta integrità ne aveva destato la curiosità quanto il contenuto ammucchiato sulla sinistra, in un polverosa piramide sporca di cera. Il tavolo da lavoro è sempre il primo posto dove cercare o quanto meno per capire cosa cercare.
Tutto, attorno a lei, gridava all’artificiosità di quel disordine scoperchiato dopo secoli di isolamento, esigeva attenzione per i livelli stratificati che nascondevano ricordi proibiti, una voce che tentava di divincolarsi fra le nebbie del tempo. L’avvertì come non mai, vivida e strusciante contro la sua carotide scoperta. La sensazione di non essere sola, di essere in qualche modo osservata, spiata in ogni sua mossa. Nauseante, ma pur sempre un’illusione di purezza smontabile, l’insensato frutto di una forte soggezione scaturita da un posto ricolmo di odio e risentimento che ancora crepitava flebilmente, rilucente fra volumi consunti, cartacce e i fogli pieni di cancellature che traboccavano perfino dalla bocca dello splendido camino di marmo, un onorevole tributo allo stile barocco tristemente degradatosi insieme al divanetto cardinalizio dalle spigolose imbottiture. Cominciò a rovistare fra il ciarpame, ossessivamente cosciente che le intenzioni di Cross nei suoi riguardi fosse più mirate di quanto il suo fare contorto desse a vedere, passando successivamente al mobile. Doveva soltanto capire dove lui la volesse indirizzare, cosa dovesse cercare in mezzo a tante pagine di latino e formule chimiche. Non occorse che una mezzoretta scarsa prima che le sue nocche riscontrassero un vuoto dietro l’ultimo cassetto. Tolto il fondo, le dita di Amèlie frugarono in un piccolo scompartimento segreto, da cui estrasse un taccuino di pelle nera dai bordi dorati, tenuto chiuso da un laccio di pelle ben stretto.
- Genesis Niger. Noah, Saecularis Legatum* -, lesse attentamente. Nel far scattare la fibbia, lo aprì con delicatezza, rivelando un contenuto ingiallito e straordinariamente leggibile: il lavoro personale di un ricercatore.

In origine ci fu il Ragnarok. Caos partorito da Caos. 
I Tomi delle Notti Illuni narrano non di uno, ma di Tredici Agnelli recanti corone di stigmate sulle fronti, divenuti padri e madri degli uomini all’acquietarsi del cielo e della terra. Al Primo, Adam, i restanti dodici avevano promesso amore e fedeltà, speranza di risorgere per vincere il Cuore che lo aveva costretto alla resa e per questo confidarono nell’intera umanità, loro progenie, e nei loro geni, affinché una nuova famiglia sorgesse a suo fianco e lo aiutasse.
 
Le antiche scritture e i testi conservati nella biblioteca parlano chiaro: Adam è il Conte del Millennio. E’ il Primo, capostipite della famiglia Noah, un nome diventato anche mio, seppur in circostanze del tutto inaspettate. Il segreto che si cela dietro la sua storia è nascosto nella Memory, quanto di più vicino ci sia a un potere in grado di far ascendere un semplice essere umano a un Dio in terra. In veste di discendente di uno dei dodici, ciascun uomo è un potenziale Noah, ma è la Memory in sé che sceglie in chi risvegliarsi.  

     -  Dunque è così che stanno le cose… – Amèlie leccò la punta del dito indice inguantato per proseguire, balzando da una pagina all’altra nell’atto di estrapolarne il succo. Il tempo per lo studio minuzioso lo avrebbe riservato una volta uscita di lì. Arrivata a poco meno della metà, profondi segni di cancellatura velocizzarono la prima lettura, portandola a un ultimo lungo appunto.

Con la morte di un Noah, alla Memory occorre un po’ di tempo perché origini un nuovo depositario. 
Una volta impiantatasi nel soggetto più idoneo, ne invade gradualmente il corpo e la mente attraverso un processo di durata variabile a seconda della resistenza fisica e psicologica del prescelto. L’ego umano viene in qualche modo assuefatto dai poteri della Memory, seppur la personalità apparentemente non ne risenta: la Memory non contiene i ricordi o lo spirito del Noah precedente, ma può reagire a percezioni già sperimentate in passato, scatenando una sorta di nostalgia. La pulsione nei confronti degli Esorcisti e il dovere secolare di affiancare il Conte del Millennio rappresentano obblighi inscindibili che la Memory protegge e trasmette a ogni nuova generazione. Tuttavia, è bene ricordare che le Memory Noah sono diverse fra loro e quindi può esserci il rischio della totale sottomissione, in caso questa sia particolarmente violenta, ma fortuna vuole che questo non sia il mio caso. Sono nuovo, diverso dagli altri, anche se il guardarmi allo specchio mi ricorda le similitudini che mi legano indissolubilmente a questa famiglia. Rimarrà qualcosa di me alla fine? Vorrei poter dire di non saperlo, ma ho commesso lo stupido errore di spingermi laddove non ero sufficientemente pronto. Ciò nonostante, non ho motivo di preoccuparmi di loro: questa stanza è sicura, neppure il Conte è al corrente della sua esistenza. Solo conoscendo le Password della Triplice Porta Alchemica è possibile accedervi, ma se anche riuscissero a carpirle, non potrebbero fare nulla senza la chiave che sblocca il passaggio segreto nella biblioteca. Timcampi obbedisce solamente a me.

 - Qu'est-ce…?* - Le dita di Amèlie ammorbidirono la presa sul taccuino, lasciandolo flettere verso il basso mentre il mento si levava con gesto meccanico. Timcampi rispose alla sua espressione stranita svolazzando a poco più di un metro da lei, ignaro o forse consapevole del significato di quelle parole, della soddisfazione reclamante su di lui una possessione che per la francese fu semplicemente inconcepibile, in quanto il golem dorato era una creazione esclusiva di Marian Cross. Tuttavia, il suo non fu che un pensiero successivo al contorcersi delle proprie viscere.

Sono nuovo, diverso dagli altri.

La frase svettò di brillante risolutezza, parole scritte con l’anima, vive e intense esattamente come l’ombra che le danzava attorno, amara e imperlata di un furore risvegliatosi all’apertura di quel luogo tanto caro e segreto. Poteva davvero essere? Non che non lo avesse ipotizzato, ma non si era mai permessa di affermarlo senza una prova effettiva a supportarne le ipotesi. Ora, invece, era così assurdamente reale, da indurla a ridere incredula e al tempo stesso estasiata per la meravigliosa indefinibilità che l’intera situazione aveva appena assunto. Immaginò le sue mani grigie distruggere ogni traccia di sé, gli occhi d’ocra saettare mentre le unghie affondavano nei volti di coloro a cui si era dovuto legare con costrizione, aggredendo il solo angolo sicuro a sua disposizione perché diventasse un guscio senz’anima, non dando peso alla fretta e alla sapienza che pochi resti messi insieme potevano sortire.
Ora, Marian Cross non si avvicinava minimamente all’essere un buon esempio di virtù e moralità, ma nell’essere un uomo di mondo aveva imparato a inquadrare le persone e i loro interessi, a leggere fra le righe dei loro sentimenti come se avesse effettivamente il potere di scandagliarne le menti. Dio non volesse che lei, Amèlie Chevalier, fosse una di quelle sciacquette scostumate che il suddetto fedifrago frequentava in mancanza di donne passionali pronte a essere ammaliate dal suo fascino; un miserabile contentino per i suoi incommensurabili servigi non poteva appagare la raffinatezza dei suoi gusti o segnare una riga sulle migliaia di fatture che ancora attendevano il dovuto pagamento, aveva sempre preteso dagli altri e da se stessa prezzi inagibili a comuni esseri umani e lui lo sapeva, eccome se lo sapeva.

Ecco perchè le aveva regalato la stanza segreta del Quattordicesimo.

 

Note di fine capitolo:

 1*: Piccolo mio (Francese).
2*Rivelati (Ebraico).
3*: Genesi Nera. Noah, l’eredità secolare  (Latino).
4*: Che cosa…? (Francese).
Salve…Come andiamo? Ormai posso affermare in tutta sicurezza di aver abbracciato la filosofia del “ aggiorno quando me ne ricordo”. Odiatemi pure, penso di meritarmelo dopo questo epocale ritardo, ma spero ugualmente che la mia rivisitazione della saga dell’Arca vi stia piacendo. Si incomincia a intravvedere qualcosa, seppur piccolo e confusionario, ma il bello di D Gray Man è che le cose non sono mai come sembrano: il tempo di scoprire qualcosa di assolutamente impensabile e subito ne salta fuori un’altra ancor più assurda e il tutto condito da un generale alone di mistero che, nello svelare un pezzettino di storia, fa sorgere nuovi quesiti che devono attendere secoli prima di essere risolti. La faccenda del Quattordicesimo non ha poi bisogno di essere spiegata, il suo fascino è ineccepibile, quanto ad Amèlie, ho deciso di mettere in risalto qualche sua capacità alchemica per marcare la sua presenza lì ancor più necessaria. Ho intenzione di evidenziarle ancora più avanti, questo è certo, ma ogni tanto è giusto dare spazio alle qualità che rendono i personaggi tali. Ora, prima di lasciarvi, ci tenevo a informare, anche se lo avrete notato, che ho pubblicato il primo capitolo di “Chimera”, uno spin off di Hell’s Road dedicato a Pierre. Fino a qui non gli è stata dedicata molta attenzione, ma più avanti comparirà, seppur per breve tempo; la ragione di questa piccola parentesi è che mi frullava da tempo di scrivere sul suo legame con Amèlie, rasentante un rapporto servo-padrona piuttosto particolare. Se mi mettessi a descriverlo qui, nei minimi particolari, correrei il rischio di non finire più. Un saluto a tutti quanti, a presto!!!

 

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Capitolo 25
*** Sulle orme del tradimento / Part Two. ***


Sulle orme del tradimento (parte 2)



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Hell’s Road.


25 / Sulle orme del tradimento.


Dopo essere andata alla deriva fra le pieghe del cielo notturno, l’Arca Bianca aveva cessato ogni movimento, limitandosi a galleggiare immobile mentre il corpo si disperdeva in milioni di frammenti grandi quanto le tante stelle in cielo. Nei pochi anfratti che ne tenevano ancora unito il cuore, Amèlie si muoveva completamente ricoperta di polvere; una velo di ragnatele ne annodava la lunga chioma in ciocche arricciate, scendenti ai lati del viso selenico, dove gli occhi ancor più neri schioccavano stilettate di indescrivibile ardore. Un qualsiasi commento ai suoi abiti malmessi o alle esigue tracce di rossetto incastrate fra i raggrinzimenti delle labbra le sarebbe scivolato via senza possibilità di attecchire; le sue mani si articolavano rapide in un oceano di carte e parole dal filo logico spezzato, a tratti fuorviante e inutile per il suo scopo.
La stanza del Quattordicesimo. Il solo suono disuniva la sua acidità per lo sporco e il dovere morale di scostarselo con la stessa imperatività di un mantra. Nell’infilarsi il taccuino nero in tasca, si era guardata attorno per una manciata di secondi scarsi prima di sostituire il pesante silenzio con un incessante fruscio cartaceo. Doveva sapere di più. Automatico, una priorità da colmare prima che il tempo a sua disposizione non la obbligasse a fuggire per mettersi in salvo. Se c’era la più remota possibilità di carpire anche solo un briciolo di tutta quella faccenda, non l’avrebbe sprecata a contemplare le pareti nella più inutile delle incredulità. Sfogliato un altro plico di appunti per un tempo inferiore ai venti secondi, lo lanciò via svogliatamente - come aveva fatto per tutti gli altri precedenti -, scattando in piedi; Timcampi sobbalzò appena, indietreggiando di qualche centimetro, ma finì per immobilizzarsi non appena lei lo incatenò con la sola forza dello sguardo. Intuiva il suo coinvolgimento, di qualunque natura essa fosse, e pretendeva conoscerne il ruolo.
- Tiiim. – Suadente, ne canticchiò il nome, scoprendo il collo nudo non appena inclinò la testa di lato.
Immediatamente, il boccino reagì come un bambino colto con le mani incastrate nel barattolo dei biscotti: scosse il corpo prima a destra e poi a sinistra, in un costante movimento impacciato che cercò di cancellare la visuale di quello sguardo ferino e della sua intenzione di smontarlo pezzo per pezzo qualora fosse stato necessario. L’anomala connessione del golem dorato a quella particolare ala dell’Arca Bianca incalzava imperterrita nella testa laboriosa della francese senza riuscire a trarre al dì fuori di lui un’ulteriore radice comune. Timcampi apparteneva al Generale Cross, esattamente come ciascun oggetto presente in quella stanza era stato di proprietà del Quattordicesimo. Ciò nonostante, il dubbio ne increspava la convinzione con fatti di incontestabile verità e domande di cognizione logica sfioranti l’assurdo.
- D’accordo: adesso basta con le stronzate. –
Le linee appuntite di Lucifer balenarono minacciose contro i fogli sollevatisi per aria. Quel gelido solleticare dava l’impressione di volersi burlare di lei, costretta a puntare la base della falce al pavimento per placare il forte capogiro che la investì. Alla sua anima innervosita rodeva che la stanchezza cominciasse a farsi sentire con le palpitazioni delle ferite a bruciare sotto le fasciature improvvisate, ma il vantaggio della solitudine era la totale assenza di occhi e mani che reputassero la sua debolezza come una valida ragione per aiutarla; sapeva di peccare in efficienza quando la sua testa era compressa in un cerchio di metallo che ne stringeva le viti contro le tempie e niente avrebbe potuto farle saltare i nervi più di quei fugaci contatti che ne pizzicavano la pelle scoperta, ma mai Amèlie Chevalier si era messa nella posizione di elemosinare aiuto e mai avrebbe contraccambiato eventuali gentilezze nei sui confronti con parole che sempre sostistuiva con il suo essere pronta a tornare in gioco come se nulla fosse accaduto. Indipendente, forte, orgogliosa. L'idea di dipendere dagli altri o di essere debole la repelleva al punto da ritenere più fattibile uccidersi con le proprie mani che lasciare una tale gioia ai suoi avversari. Ritrasse la falce soltanto dopo aver scrutato ogni angolo presente, focalizzando la propria attenzione su Timcampi, che aveva atteso di essere osservato prima di scomparire nella parete di sinistra, in un antro di cui la corvina svelò l’illusione non appena fu sufficientemente vicina da cogliere il semplice gioco d’incastro che i muri creavano. Un vistoso letto a baldacchino dominava la stanzetta con tendaggi e lenzuola dai sottili fili argentati, usati per cucire un intricato motivo sulla stoffa blu notte. La Maitresse della Rosa Nera si lasciò sfuggire un grugnito al ripensare quanto le mancasse il suo giaciglio, unica comodità che potesse addolcirne i muscoli atrofizzati.
Fra le pieghe impolverate scorse un piccolo bozzolo agitarsi.
- Tim? -
Le ali sporgevano luminose da sotto le lenzuola, dove la guancia paffuta strusciava in cerca di un calore estinto che l’Esorcista gli regalò con una carezza sulla tonda testolina; lo conosceva da troppi anni per affermare che non fosse in grado di comportarsi come un essere umano, ma il rammarico che espresse la lasciò semplicemente interdetta.
- Non sforzarti, stupidino –, mormorò all’accorgersi delle luminose gocce trasparenti che, in un coraggioso sforzo, il piccoletto cercava di trattenere.
Che la faccenda fosse più grande di lei lo aveva tenuto da conto sin dal principio, ma l’assurdo crocevia di nodi e legami impostosi le stava chiedendo di plasmare qualsiasi improbabilità in ipotesi, di scorgere nell’impensabile una finestra di valide possibilità. O rogne, nel comune linguaggio sboccato. Perché era di rogne che si trattava, in fondo; nessun’altra accozzaglia di snervanti proporzioni ne avrebbe obbligato i neuroni a non impazzire per il continuo martellare della testa. Fu in quel momento, lasciando vagare gli occhi lungo le linee delle lenzuola, che la mano corse ad afferrare un'inusualità che ne aveva fatto aggrottare la fronte. Sporgeva appena, quasi mimetizzato fra le sottili arricciature di ruvido argento, ma nel tastarlo Amèlie riconobbe il metallo di un pendente. 

Il ricordo è l’unico paradiso dal quale non possiamo essere cacciati.* 
K. D. Campbell.

Così recitavano le parole marchiate a fuoco sul ruvido ciondolo di quella lunga catenina dorata sfilata da sotto il copriletto sfatto. E neanche a voler complicare ulteriormente la questione, sull'altra faccia svettava un blasone identico a quello scorto nel corridoio precedente la stanza segreta. 
- Adesso che hai da agitarti? –
Espirando l’aria malsana del posto, piegò il collo, richiamata dalle movenze del boccino, riscosso dal suo triste torpore per cimentarsi in qualcosa che la francese non riuscì a spiegarsi: tirava, spingeva, si muoveva a destra e a sinistra, il tutto condito da un’inusuale trepidazione che però pareva sapere esattamente cosa cercare. Quando finalmente ebbe finito di rovistare, sbucò fuori con la boccuccia impegnata a reggere un consunto libro grande il quadruplo di lui. Il gancio di chiusura stipava un contenuto dismesso e profondamente danneggiato; angoli di fogli bruciacchiati sporgevano senza il benché minimo senso dell’ordine. Nessun titolo, nessuna firma o segno esterno che non fosse il lieve puzzo di pelle morbida che ne aveva consumato l'eleganza. 
- Era suo? – Domandò al golem dorato, intento a scuotere il corpicino tondeggiante per ripulirsi grossolanamente dalla polvere – Era del Quattordicesimo? –
Timcampi tacque, fissandole il viso con quell’insistente immobilità rassomigliante una chiara sollecitazione al darsi una risposta da sola. Instillato il dubbio, non rimaneva che trovare conferma a quella connessione, munita di più ramificazioni di quante Amèlie potesse stimare e che per una maniaca estremista del controllo quale era lei, possedere era l’unica maniera per non rimetterci il senno.
Notò immediatamente la dissomiglianza che contraddistingueva le pagine ruvide del taccuino a quelle di carta velina tastando il cuoio pesante della copertina, celante una contenuto per la maggior parte tramutato in cenere. Il poco rimasto rischiò di scivolarle in grembo, un esiguo malloppo di indefinitia utilità.
- Una data che risale a più di trent’anni fa e una seconda calligrafia -, scoprì la donna nel dare una lettura approssimativa del contenuto – Mi dirai tu quello che voglio sapere? –

Agosto.
Quanti giorni sono trascorsi? A malapena sono consapevole di essere io, sempre che lo sia…
E’ difficile dirlo quando ti svegli senza esserti reso conto di dove ti sei addormentato,
dopo che il dolore ha terminato di estraniarti dal tuo corpo.
Il mondo scorre, vive…Mentre io sono appena padrone di me stesso.
Lui starà bene? E’ la sola cosa che mi preoccupa.

Dicembre.
Sto scivolando…Sempre di più…
Fa così male…Così male…Che non riesco a respingere l’impressione di stare soffocando nel mio sangue.
Posso vederlo agitarsi all’interno dello specchio mentre mi trasmette con la sua folle pazienza una resa che riflette tutta la mia inettitudine.

Giugno.
Niente di quanto mi è sempre stato caro pare essere rimasto lo stesso.
Il sole brucia...Tutte le sensazioni impresse nei pochi istanti trascorsi sotto la sua luce sono annichilite nella solitudine dei miei respiri.

La verità è che come esistenza sono sempre stato piuttosto labile e non credo di aver mai fatto nulla per dimostrare il contrario: soltanto la tua vicinanza colmava il mio disorientamento.
Dimmi, Neah, adesso che non è più così…Riusciresti ancora a volermi bene?


Amèlie proseguì nella lettura scoprendo con forte disappunto che enormi macchie di inchiostro essiccato ricoprivano gli scritti già tartassati da violente cancellature. Tutto materiale pressoché irrecuperabile, a cui si aggiungevano ulteriori riquadri di carta sopra cui si era formato una spessa crosta scura, sebbene per quegli ultimi sussistesse una possibilità di recupero più alta delle altre. Il meccanismo che teneva ben in moto la sua mente volò verso un futuro progettato per i piccoli obiettivi che ordinatamente stilò a seconda delle priorità: capire chi fosse l’autore di quelle parole visibilmente intrise di una paura che ne aveva storpiato la calligrafia rientrava fra quelle, oltre al primo nome significativo. L’unica certezza in suo possesso era che il crescente timore trascritto in ogni riga non appartenesse a chi aveva scritto la dedica nella pagina iniziale, ne al Quattordicesimo. Non si trattava di una semplice questione calligrafica, ma di due caratteri diametralmente nati per essere l’uno l’opposto dell’altro.

Ottobre.
Tu e io ci siamo sempre comportati come se il mondo attorno a noi non potesse esistere senza che fossimo insieme.
Ho sempre cercato di raggiungerti, in qualunque momento, in qualunque posto;
il solo calpestare la tua ombra mi rassicurava, come se, di punto in bianco, fossi ritornato in possesso di una parte di me che credevo perduta.
Adesso riesco a capire il perché.
Quando scorgo il mio viso nel vetro posso vedere la ragione nascosta dietro il desiderio di rimanerti a fianco e il pensiero che tu condivida questa sorte mi terrorizza più di tutti i miei incubi.
Devi fuggire, Neah. Ovunque tu ti trovi in questo momento e qualunque siano le tue intenzioni, non guardarti mai indietro.
Niente mi conforterebbe più del saperti al sicuro, in un posto dove le mie mani non potranno mai trovarti.


- Che altro c’è? -
Un sinistro luccichio sfilò scintillante sull’ultima pagina rimasta. La francese sollevò il mento riuscendo ad adocchiarne la flebile scia violacea assottigliarsi dietro una tenda di velluto rosso; con il resto dello scritto illeggibile, chiuse il tomo con tutta la delicatezza necessaria a impedirle di ritrovarsi fra le mani più brandelli di carta di quanti ne avesse trovati all’inizio. La rapidità con cui scese dal letto e divise il piccolo sipario spiegò una rientranza cullata dalla penombra che le restituì un’immagine straordinariamente luminosa. Uno specchio incastonato nella parete in fondo ne catturò ogni movenza mentre gli si avvicinava con l’eco dei tacchi a misurarne la distanza.
Da perfetta amante della propria immagine, la grandezza di quella lastra poteva compiacere l’ego di Amèlie e molto altro che al momento non le occorresse esternare, ma fermatasi a pugno di metri, le viscere nel suo stomaco si contorsero in una morsa quasi dolorosa. La conoscenza era un dono da curare costantemente e il prezzo per il suo ottenimento consisteva nel rincorrerla per tutta la vita. La tenebrosità nei suoi occhi rifiutò quel compromesso nel preciso istante in cui concepì che il suo sbirciare l’avrebbe costretta a giocare fino alla fine. Era veramente pronta a gettarsi in un caccia ossessiva di tale portata? C’era il fondato pericolo di perdersi in qualcosa di molto più mostruoso dei comuni Akuma e il confine che divideva la curiosità dall’ossessione propendeva ad assottigliarsi facilmente. La grande copia di sé, mirata troppe volte nelle ultime ore, le diede inspiegabilmente fastidio e non per le abrasioni e i tagli che le dita avevano toccato per saggiarne la profondità. Le dava l'impressione di cogliere parti destinate a rimanere tacite per un bene superiore, odiosi difetti basati sulla convinzione che l’uomo in sé fosse una creatura a più strati, lei compresa.
Decise di non pensarci. Non le occorreva sapere, non ora, anzi, mai; se davvero non avesse voluto correre rischi avrebbe mandato a quel paese tutta la questione ancora prima di mettere piede a Edo. E quanto alla sua immagine troppo nitida...Non era lei a doverla a temere, ma tutti gli altri.
L’unica necessità da colmare si focalizzava sul gioiello che sfilò con abile colpo di falce dall'elaborata cornice di pietra, fra arricciature che ne avviluppavano la superficie vetrosa senza scalfirla. Il Globo Alchemico planò nel palmo della sua mano sferzando un viola d’oscurità luminescente; constare che al suo interno si agitavano bianchi simboli appartenenti a un alfabeto moderno fece quasi credere ad Amèlie che, forse, un minimo di misericordia era stato messo da parte per la sua anima dannata. Lo girò fra le dita studiandone il colore frastagliato da lampi azzurrini; la dimensione poco più grande di un golem da ricezione le suggerì che si trattava soltanto di mezzo incantesimo. L’altro pezzo doveva essere stato nascosto altrove, ma era proprio la locazione che insospettì la francese. Il Globo Alchemico funzionava esattamente come una Chiave Alchemica: lo si usava per aprire una porta e la sua maggiore utilità stava nel poter essere scomposto in più parti, per tutelare maggiormente qualsiasi segreto dovesse proteggere. Ma in quel caso occorreva che i pezzi fossero a portata di mano o che ci fossero più persone nei posti dove i frammenti erano stati nascosti, perché l’unica maniera di aprire una porta segreta con un Globo Alchemico diviso era ricomporne la catena di simboli: una volta riordinato il primo pezzo, si avevano a malapena sette secondi per fissare l’altro e così fino alla ricostruzione completa, concludente con lo sbloccare del meccanismo che proteggeva.
- Allora è per questo che ti servivo… - Ed espresse il suo personale giudizio con un suono derisorio misto al disprezzo, che fuoriuscì dalle sue labbra mentre articolava il polso in un movimento morbido e circolare -  דיסק שעתוק*. –
Una morbida sferetta di luce rossa si accumulò nel palmo orizzontale della francese, diramando un paio di linee che si intrecciarono e chiusero in due cerchi paralleli soprastanti le dita ritte. Simboli alchemici identici a quelli racchiusi nel gemella violetta fecero la loro comparsa uno a uno, posandosi ad altezze diverse sulle linee create fino a comporre un disco ovale di rotazione oraria che Amèlie, una volta completo, sovrappose alla sfera scura, facendola lievitare al suo interno. L’ordine originale non sembrava essere stato trascritto in base a una combinazione personale, quindi non restava altro che risistemare la catena seguendo quello alfabetico.
- רְצוּעָה*. – Sfiorati i simboli impressi sul disco, questi si infiltrarono nel palmo di Amèlie che, pigiato l’ultimo, chiuse la mano in un pugno solido.
Il filamento bianco che scivolò nel Globo Alchemico una volta che la mano si fu riaperta ne agitò il contenuto acquoso, mescolandone freneticamente il contenuto; la catena iniziò a ricomporsi lentamente, dalla coda alla punta, attorcigliandosi in una spirale che si immobilizzò nel centro una volta completata anche la testa. All’udirsi di un eco sordo, uno schiocco metallico penzolante da qualche soffitto distante, il vetro liscio della sfera si riempì macchie opache, scricchiolando fino a diventare una comune pietra.
- Così dovrebbe andare. –
E avrebbe sospirato soddisfatta di ciò, se una violenta scossa non ne avesse innalzato il pavimento sotto i suoi piedi. Il fianco ferito incontrò l’abbraccio del muro e un gemito strozzato espresse tutto il furore della Maitresse della Rosa Nera per l’odiosa improvvisata.
- Dannazione! Tim! Tim!!! – Si lanciò fuori dalla stanza con il rombo di migliaia di petardi a fischiarle nelle orecchie, esplodendo con l’apertura di un cratere minaccioso che iniziò a rincorrerla.
Per miracolo riuscì a schivare uno scaffale pronto a travolgerla non appena fu ritornata nella grande sala, infestata dall’assordante rumoreggiare del Download. L’uscita, lontana quanto bastava per rendere la traversata ancor più incalzante, balenò nella sua visuale fra cascate di detriti e violente fiaccolate dagli accecanti bagliori, con la scia dorata della coda di Timcampi che già aveva varcato la soglia senza aspettarla. Voltarsi o soltanto creare la giusta strada nella propria mente avrebbero richiesto secondi di cui l’istinto poteva fare a meno; la distruzione della stanza imperversava in una concatenazione dagli sbocchi che inghiottì l’entrata gorgogliando affamata. Le gambe di Amèlie si mossero prima di qualsiasi altro imminente disastro verso il fondo sprigionante quella salvezza che aveva tutta l’intenzione di afferrare, ma ad un passo dal raggiungere la corta rampa di scale il pavimento le risucchiò una gamba in una profonda crepatura.
- Vogliamo scherzare?!? – Ruggì.
Non ebbe nemmeno il tempo di evocare Lucifer per liberarsi dell’impiccio con uno dei suoi devastanti colpi: il Download la raggiunse, con ormai la biblioteca quasi del tutto terminata e cinque scaffali duri come l’acciaio che la seppellirono viva.





Note di fine capitolo:

1*: Aneddoto di Jean Paul.
2*: Disco di trascrizione (Ebraico).
3* Legamento (Ebraico).
Dunque, rieccoci. Cosa dire…Ho praticamente riscritto questo capitolo due o tre volte prima che fosse quantomeno decente. La verità è che venendo a conoscenza degli ultimi sviluppi di D Gray Man (che ho adorato con tutta me stessa), non ho potuto fare a meno di ritoccare parti che avevo lasciato in sospeso, arrivando anche a riscriverle completamente; a chiunque non seguisse la storia del manga (i suoi recenti sviluppi, intendo), avverto che in futuro, forse, potrebbero esserci degli spoiler, se già non ce ne sono; uno dei motivi del mio incommensurabile ritardo è proprio il desiderio di dire “ma non dire”, svelando un pezzettino per volta la trama, ma senza svelare tutto il mistero subito. Con cià non intendo dire che si verrà a sapere tutto, preciso sin da ora. La mia storia è centrata su Amèlie, che, dopo trascinata per mezzo mondo e fatto combattere fino allo sfinimento dei suoi nervi, ho amorevolmente seppellito sotto cinque tonnetale di scaffali mentre Timcampi se ne andava via senza preoccuparsi di lei ^^. Il suo destino sarà svelato la prossima volta. A presto!

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Capitolo 26
*** Ricongiunzione. ***


ricongiunzione

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26 / Ricongiunzione.

Al dì la della notte, il crepuscolo avanzava sfilacciandone il manto criptico e profondo con raggi di flebile visibilità. Che fosse lenta o incalzante, la danza che avvinghiava l’intera esistenza non poteva fare a meno dell’essere ripetitiva, disgustosamente costante nel ripiegare sulle ovvietà che scandivano il tempo in giorni, mesi e anni. Il concetto di vita racchiuso in un fatale connubio con la propria tediosità; il susseguirsi delle albe e dei tramonti produceva più conforto del spremerne l’essenza sino all’ultima goccia.
- Sembra che ce l’abbiano fatta. -
Road Kamelot flesse i piedi scalzi, fissando il soffitto col viso cenerino stretto nella consueta espressione indecifrabile che ne corazzava i pensieri; la malevole dipendenza dai dolci ne stava impegnando la lingua a consumare un leccalecca particolarmente zuccherato, attività scandita da intervalli irregolari dove mirava il dolce con fare guardingo, per poi riprendere il lappare fra i morbidi cuscini della poltrona rosata. Vegliare su Tyki Mikk e Jusdebi senza poter pizzicarne le guance ne faceva roteare le iridi cerulee in continuazione, annoiate per come la sua stessa pigrizia e il silenzio aleggiante fossero riusciti a imporsi su una qualunque altra possibile alternativa, ma a prescindere dalla tediosità che ne intorpidiva il corpo magro e scoperto quel tanto che bastava da indurre chiunque a domandarsi se in lei esistesse un minimo senso del pudore, Road avrebbe come e comunque scelto di rimpinzarsi di dolcetti piuttosto che mettere il naso fuori dalla porta.
L’Arca Bianca si era salvata. Dalle ceneri crepitanti il suo destino scritto si era levato un canto pregno di ricordi torbidi e sfregi mai completamente rimarginati. Avida, ingoiò un sostanzioso groppo di saliva. Il dispiegarsi delle sue ali al seguito della melodia le era giunto sottoforma di invocazione, un blando brivido in confronto al fremito che le aveva artigliato la spina dorsale con l’intento di spezzargliela. Il cuore ancora le batteva con ansito basito e nella quiete soffusa della stanza concedeva ai pensieri dilaganti una voce potente: al Conte del Millennio non rimanevano che l’antico rancore pronto a scorrere in fiotti aurici e l’affronto appena subito da condividere con il resto della Famiglia, ma neppure a lui, che affondava i piedi in quella terra da oltre settemila anni, era concesso immaginare cosa in Road Kamelot invece si era manifestato. Lo avevano percepito attecchire in entrambi, in tempi diversi, rimasti in attesa e con la coscienza pronta a riprendere quanto lasciato in sospeso. Eppure, anche se erano i soli rimasti della vecchia generazione, solo la mente del Sogno si era conservata illibata, nelle ferite; serbava la lucidità necessaria a sopportare la vista di quel volto senza che il proprio ego oscillasse fra fermento e pazzia, nascondendosi dietro un corpo di bambina immortale che altro non era che la perfetta incarnazione di quello che lei era diventata da oltre trent’anni. Un’illusione serafica, dal sorriso fanciullesco e malizioso, pieno di segreti.
Un nuovo sguardo sui fratelli la fece raddrizzare, chinandosi appena in avanti con le mani premute sui cuscini e la corta chioma appuntita a solleticarle le spalle nude. Jusdero e Debit dormivano insieme, malamente avvinghiati e con le coperte gonfie e bitorzolute; il primo era accoccolato al petto del secondo, che col braccio ne avvolgeva le spalle con fare protettivo. Non davano affatto l’impressione di essere due inguaribili casinisti buoni solo a spararsi a vicenda. Indubbiamente, era Tyki quello messo peggio. Il corpo cicatrizzato e avvolto da morbide bende riposava placido in un profondo sonno senza sogni. Avrebbero dormito a lungo, ma, una volta coscienti, avrebbero realizzato l’accaduto e i conseguenti sforzi attuati che ne avevano permesso la sopravvivenza. Noah non perdonava, nè si lasciava sopraffare: combatteva, emergeva, più iracondo se occorreva, ma non cedeva.

L’illustrissimo Bak Chang amava molto il suo lavoro, tanto da marinarlo e andare a zonzo ogni qualvolta le scartoffie del suo ufficio superavano la soglia della consentita fattibilità. Impossibile rammentare quante volte si fosse perso nella sua stessa sede, imboscatosi in qualche scantinato a mangiucchiare dolcetti di riso o a contemplare le foto di Lenalee Lee che gli sarebbero costate il linciaggio istantaneo se un certo Supervisore ne fosse venuto a conoscenza, ma nessuno più della piccola Four fu tanto grato al lavoro arretrato come quella sera sul tardi. Il Guardiano Mistico sghignazzò maligna, ansiosa, e con giusto uno spuntino fra le mani per meglio godersi la ferocia dello spettacolo. Mal equipaggiata di freni che dessero un limite alla sua lingua irascibile, aveva sempre privilegiato liti di portata indeterminata, autentiche perle dove il furore umano esplodeva in tutte le sue forme più contorte e imprevedibili. La sede dell’Asia vantava una monotonia che lasciava crescere libere le ragnatele in ogni dove e una ventata d’aria sferzante come quella era paragonabile a un segno divino giunto per spezzare la noia.
Sebbene fosse uno spirito artificiale, nel corso dei secoli si era molto divertita ad apprendere le abitudini umane e il sonno, fra questi, era un rituale di ozioso piacere per quei dì che non aveva voglia di fare nulla al dì fuori del rimanere nella sua personale dimensione. Giacché l’affrontare un Livello Tre le era quasi costato la vita, nessuno – neppure quell’oca squinternata di Bak Chang che tanto si divertiva a tirare matta -, si era permesso di infastidirla, ma il vociare dell’intera Sede, impazzita di punto in bianco ad un’ora di inumana indecenza, l’aveva obbligata a marciare con una falcata poco decorosa alle fattezze femminili che gli striminziti abitini lilla coprivano miseramente. Il pestare la regale testa dello sfaticato a capo di quella mandria di idioti passò in ultimo piano non tanto per lo scoprire uno nugolo di Esorcisti comparsi dal buco di luce bianca sopra cui l’equipe aveva tessuto trattati di fantomatiche teorie senza mai arrivare a nulla di fatto, quanto l’arrivare giusto in tempo per godersi il più spettacolare calcio volante che avesse mai sfondato la faccia del Generale Cross, dopo che questi aveva schivato uno scaffale e una falce saettati fuori dal portale luminoso.
- A…Amèlie-san! -
Four vide quella che, dalle foto sbirciate, doveva essere Lenalee, portarsi le mani alla bocca frastornata. Allen Walker invece rimase semplicemente incastrato fra l’essere scioccato e l’inorridito, per come quel tizio fosse finito fra scatoloni e trecce di fili elettrici lasciate scoperte.
- L’ha preso…Ha preso in pieno il Maestro... -, lo si sentì biascicare pietrificato.
La donna ignorò il totale delle loro reazioni avanzando a falcate decise e zoppicanti verso il malcapitato. Perfino la piccola scaricatrice di porto si unì alla tensione condita di multiple espressioni e macchinari singhiozzanti segnali elettrici, ma il suo silenzio era un parto esclusivo della propria curiosità nel voler rimanere a crogiolare comoda mentre si godeva l’accavallarsi degli eventi: seppur sprovvista di prove, giurò a sé stessa che sul viso di quella tipa scarmigliata da capo a collo vi fosse dipinta la morte in persona.
- Vogliate scusare l’irruenza, Maestro, ma ho pensato che un’entrata ad effetto vi avrebbe fatto desistere dalla fuga -, rantolò furente la corvina, tirando il suddetto su per il colletto - Tu. Io. Conti. Adesso! -
- Che piacere rivederti, Chibi-chan -, la salutò l’uomo gioviale, incurante del volo compiuto e sollevando una mano in segno di saluto - Cominciavo a preoccuparmi, sai? -
- Davvero? Da come cercavi di allontanarti mi era parso che volessi dileguarti ancora. –
- E perdere così la possibilità di dirti che sei a dir poco stupenda? Così mi ferisci, Chibi-chan.
Il fragore del destro di Chibi-chan, abbattutosi sulla capoccia dell’uomo, fece tremare il pavimento del laboratorio fumando per l’incisività utilizzata. Il suo eco accartocciato si prolungò sino agli angoli impolverati dei piani superiori. Neppure le ferite riportare con lo scontro di Lulubell sortivano un qualche effetto narcotico sull’Esorcista, assuefatta da eccessivo dosaggio d’adrenalina che ne pompava a mille gli organi in funzione. Dal sangue essiccatosi sotto le fasciature di emergenza si intravvedevano appena delle striature che scemavano in chiazze scure.
- Sono perfettamente consapevole di essere sublime. – E ciò bastò per far ammutolire tutti i presenti, già sull’attenti per la mortale glacialità di quella lingua serpentina - Ma siccome Sua Altezza ha la zucca dura, vedrò di mettere le cose in chiaro: non ho alcun interesse su come sfrutti le persone e l’unica ragione valida per cui mi sono trascinata dietro quello scaffale è stato per ricordarti che io non sono una di quelle persone, ne tutte le altre. Se ho assecondato il tuo insulso senso di irresponsabilità è solo ed esclusivamente perché sei tu a essere in debito con me e dovresti solo prostrarti ai miei piedi per tutti i soldi che mi devi, per non parlare di come ti sono venuta magnanimamente incontro. Tralasciando gli Akuma, ho dovuto sorvolare un intero oceano sorbendomi le lagne della tua schifosa guida, vedermela con una stronza che ha avuto l’ardire di sfidarmi e questo prima di finire quasi soffocata da mezza tonnellata di libri dopo essere stata mollata di punto in bianco, ma quello che più mi fa ribollire dalla rabbia è la tua assoluta noncuranza per le conseguenze! Guarda com’è conciato il mio viso! E vogliamo parlare dei vestiti?!? Questi erano i miei stivali preferiti! Tutte queste cose sono indispensabili per la mia immagine e tu ci sei passato sopra infischiandotene! Hai almeno una vaga idea di quanto tutto questo ti costerà?!? –
- Posso dire in mia difesa che…? –
- SILENCE!* – Ancor prima di lasciarlo terminare, un secondo pugno risuonò nel laboratorio, incutendo nuovo terrore nei presenti, lungi dal mettere il dito in quella che a stento poteva definirsi una piacevole conversazione. Quando poi Amèlie fece schioccare l’ovale malconcio verso di loro, ogni singulto fu trattenuto spontaneamente per evitare un qualsivoglia attecchimento all’irascibilità che saettò gelida oltre la spalla di Allen, dove Timcampi la spiava impaurito. A te penserò più tardi, trasmetteva l’onice luccicante di vendetta e ciò bastò a far tremare il piccolo boccino.
- Mamma mia. E pensare che sa essere ancor più terrificante di così… – La testa rossa vicino a Lenalee pigolò inorridita, stentando a sostenere con i propri occhi un simile massacro.
- Il Maestro…Sta picchiando il Maestro...! – Allen sembrava aver perso la capacità di intendere e di volere nel constatare che esisteva qualcuno realmente capace di infierire sul Generale senza mostrare alcun tipo di remora.
Seppur le identità e i conseguenti legami le fossero ignoti, Four si dilettò nell’osservare il protrarsi della scenetta gongolando vispa, sorvolando tranquillamente sulle unghie di Bak Chang che, vigliaccamente accucciato dietro la sua schiena, affondavano nelle spalle nude. Se soltanto avesse avuto qualcosa da accompagnare al pacchetto di patatine che giusto aveva appena aperto…
- Suvvia, Chibi-chan –, la blandì il Generale, con quello sguardo impudico che si era conquistato favori e cuori di centinaia di donne, quasi non avesse risentito delle botte che invece ben sventolavano sulla sua testa - Non avrai davvero pensato che abbia richiesto i tuoi preziosi servigi senza una valida ragione? –
- Me ne sono fatta un’idea mentre strisciavo sotto un quintale di macerie, ma sono comunque ansiosa di ascoltare la tua versione -, sibilò – E piantala di chiamarmi in quel modo assurdo! –
Un barlume di maligna euforia animo gli occhi di Four - Ih ih! Adesso lo uccide!
- Oh, riflettici attentamente, Chibi-chan. – Con la parte superiore dei piedi, l’uomo si diede la spinta per sostenersi con le proprie gambe, rimanendo tuttavia ostaggio di Amèlie, che non accennava a lasciargli il colletto della divisa - Ero solo, in una terra popolata da Akuma e con scarsissime probabilità di successo: la mia condizione non mi consentiva certamente di fornirti il quadro completo della situazione, per questo ho confidato sul tuo spirito di prontezza. Pensi davvero che per un computo tanto delicato avrei potuto chiedere aiuto a quegli inetti laggiù? – E indicò con la testa i due ragazzi corrucciati, escludendo Lenalee, la cui intuizione su quale strategia il Generale stesse cercando di applicare si concretizzò con il chiudersi degli occhi mentre un profondo sospiro ne solleticava le labbra sottili.
Osservare Amèlie Chevalier, in quelle poche occasioni dove gli impegni le concedevano di sostare alla Home per un periodo vagamente più lungo dei consueti, le aveva insegnato che ciascuna persona nasceva con un quantitativo di pregi e difetti di proporzioni differenti a seconda del carattere. Che la Maitresse della Rosa Nera difettasse di modestia non era poi quel gran segreto per cui valesse la pena stupirsi, così come il compiacerne l’ego vanitoso o il tesserne le lodi anche a costo di farsi cadere la lingua per lo sforzo risultassero essere due maniere particolarmente efficaci per sollecitarne l’attenzione. Da che ricordava, Marian Cross doveva la sua lunga lista di amanti anche al suo saper usare le parole, dosandone il contenuto emotivo sulla base di una tempistica scandita da gesti altrettanto misurati a seconda delle vicissitudini, ma per Amèlie sarebbe stato impensabile cadere in una così stucchevole maglia di trame. Lei sapeva chi aveva davanti e cosa aspettarsi, e nel confrontarsi con un’immagine dalla consistenza simile alla sua, si ergeva in tutto il suo carattere per marcare la propria identità. Nessuno era mai in grado di contraddirla o, peggio ancora, di interromperla in ciò. Al cogliere le mani inguantate del Generale afferrare con rapida delicatezza quelle della francese – non azzardandosi a interrompere il contatto visivo che le sue iridi sanguigne detenevano con quelle della sua ex-allieva -, Lenalee inghiottì un sostanzioso groppo di saliva e rimase in attesa.
- Mi serviva qualcuno di eccezionale. Qualcuno di capace. – Il viso dai lineamenti marcati tagliò di qualche millimetro la distanza che divideva il suo pizzetto rosso dalle labbra scolorite della donna – Qualcuno con competenze e abilità simili alle mie, che agisse fuori dagli schemi. Imprevedibile, brillante, qualcuno di cui mi potessi di fidare ciecamente. E tu, mia cara…Tu eri esattamente la persona che faceva per me. A chi meglio della mia bellissima, indomita, e sottolineo preferita allieva, avrei potuto affidare la riuscita di un mio piano? –
Cadde il silenzio, la tensione spezzata giusto dal fluire elettrico che attraversava i grossi cavi dei computer e il croccante masticare di Four. Il minuto esserino se ne fregava se l’affondare della sua mano nel pacchetto di patatine fosse troppo rumoroso, un simile accartocciare di plastica non avrebbe impedito a quella stangona dalle prosperose forme di trasformare definitivamente l’accettabile massacro in una sanguinolenta carneficina. Cosa che il Guardino Mistico sperava ardentemente di vedere materializzato, a prescindere dal trauma psicologico che avrebbe incitato tutti i presenti a riflettere molto attentamente prima di far imbestialire quella tipa…
- MA FAMMI IL PIACEREEE! –
E che la fece squittire con le braccia al cielo all’udire il celestiale sinistro che quest’ultima sfoderò per far sprofondare l’uomo nel cemento armato.

Tornare alla Home dopo tanto tempo fu come riappropriarsi di sensazioni e movenze annichilitesi per mancanza di pratica. La familiarità delle mura scure, con gli immensi saloni e le guglie spettrali, dall’esercitare un’iniziale inquietudine era passata a esprimere un calore rassomigliante quello che si provava stendendo le mani davanti al focolare di una casa accogliente. Era recente, quell’aria aleggiante di rassicurante morbidezza, un toccasana alla fredda indifferenza ancora percepibile in certi angoli, da bocche che a volte non riuscivano a tenere freno la propria lingua, ma nella deliziosa speranza che essa si protraesse più a lungo, il Supervisore Komui già era consapevole che l’idillio altro non era che un limbo antecedente i futuri tempi nefasti. Lo studio sommerso dal consueto disordine di materiale generico denotava il suo essere un po’ trasandato e pigro che ben si confaceva al volto sciupato e solcato da profonde occhiaie che gli occhiali squadrati minimizzavano blandamente. Dal ritorno delle Unità erano trascorse appena tre settimane – che per una serie di vicissitudini legate all’inoperosità del tempo, riunioni e scartoffie varie, equivalevano a molto di più -; con il mento appoggiato al dorso della mano e il ciuffo inchiostrato di riflessi elettrici a sfiorargli la guancia pallida, il cinese aveva già somministrato più di un centinaio di direttive a ciascun reparto che potesse fornire un utile sostegno all’analisi dell’Uovo recuperato e all’Arca Bianca ora sospesa sopra la cima della Home. Le dita della mano libera sfogliavano un plico di fogli il cui leggero frusciare si alternava al respiro pressoché inesistente, con gli occhi blu carichi di attenzione per ogni singola parola scritta sopra. Coglierlo nel profondo della concentrazione contribuiva a plasmare una versione inconsueta di quell’uomo tanto eccentrico, ma nessuno della Sezione Scientifica avrebbe mai smentito l’esistenza della professionalità di Komui Lee. Vibrava di un’umanità forte del desiderio di non lasciar cadere gli Esorcisti nel baratro dell’oggettività.
- Allora, Supervisore? – Dal divanetto stante di fronte alla scrivania, Amèlie fece oscillare il bicchiere di tequila che teneva fra le punta delle dita prima a destra e poi a sinistra, in un sinuoso movimento a cui concesse un paio di secondi prima di portarsi il calice alle labbra.
- E’ un rapporto notevole, non potevo aspettarmi niente di meglio da te. – Komui sollevò la testa sorridendole amichevolmente, mentre appoggiava sul tavolo il resoconto ricevuto prima che la donna si unisse al gruppo di sua sorella. Con la mole arretrata di scartoffie non era stato in grado di leggerlo accuratamente, vedendolo così approfittare della momentanea presenza dell’Esorcista francese per ottenere una versione più diretta delle sue attività – Ma mi domando se tu non ti stia calando un po’ troppo nei panni dell’assassina. –
- Se preferivi che quei Broker continuassero a inscenare la morte dei loro pazienti solo per rivenderli al mercato nero, non avevi che da chiedere: mi sarei limitata a riferirgli che ciò andava contro la morale di Nostro Signore -, ironizzò lei, crudele, sorseggiando il liquore con le guance imporporate di un vago rossore – Anziché preoccuparti di come gestisco la feccia, non vedo una valida ragione per cui tu debba trattenerti nel fare pressione ai piani superiori affinché mi diano una percentuale degna del mio operato: la paga d’Esorcista è una vera miseria. –
- Perché? Hai problemi con il tuo locale? – Domandò incuriosito l’uomo.
- No, ma si dia il caso che sia una donna con parecchie esigenze -, gli rammentò – E amo i soldi, quindi ne voglio di più. -
Sospirare profondamente non avrebbe attecchito in alcun modo alla cocciutaggine che la donna vestiva e non c’era modo per la coscienza di Komui di interferire con le convinzioni forgiate da una vita che lui non poteva permettersi il lusso di conoscere. La schietta incontentabilità di Amèlie lasciava intendere che fosse una donna incapricciata, di vanità egocentrica che rinnegava le comuni pulsazioni emotive per cingerne una manciata contorta di forma astratta, ma di sostanza pregna a sufficienza della sua irremovibilità perché la consistenza ne calcasse i gesti le parole; era quel suo tener conto unicamente sé stessa – affinato o ereditato che fosse – ad acuirne l’arroganza che pungeva nel profondo chi non sopportava giudizi colpevoli, il tagliente cinismo che si ritagliava la propria indipendenza come la flessuosa nuvola di fumo acre che assaporava la libertà nell’essere espirata, ma a ben pensare, quale uomo non avrebbe sorvolato su tali difetti pur di avvicinarsi? La sua era una bellezza terrificante. La mirò accavallare le gambe, scrutando con le palpebre socchiuse il bicchiere di tequila, dove i cubetti di ghiaccio grattavano con gli angoli contro il vetro spesso. Il pizzo nero – leggero da rasentare la trasparenza - aderiva al corpo come una seconda pelle, scoprendo una scollatura alle spalle e al seno superate soltanto dagli spacchi laterali che le arrivavano quasi ai fianchi. Anche nella Home, la maschera rimaneva una costante improrogabile. Era quel tipo di persona che non offriva l’occasione di farsi capire, forse perché quello che c’era da capire non era affare di nessuno al di fuori di lei. Ciò che mostrava senza veli e ingente presunzione si intrecciava nei gambi spinosi del suo carattere, salvo poi usarlo spregiudicatamente per distanziare chiunque provasse a domandarsi cosa realmente si celasse dietro l’astrusità del suo ovale perfetto, di pelle chiara come la luna virginea. A nulla erano valsi gli sbraiti della Capo Infermiera quando aveva abbandonato il letto benché sotto le bende si celassero ruvide abrasioni ora di un liscio rosea in procinto di svanire senza lasciare segni controproducenti. Eppure, Komui Lee non ce la faceva proprio a non preoccuparsi, anche se si trattava di lei, un demonio adulto e vaccinato dalle mani sporche di sangue il cui unico interesse era la propria persona; perché, nel profondo, il cuore colmo di magnanima indulgenza le riconosceva meriti sinceri, una severità nell’affrontare la sua vita di Esorcista da far trapelare ugualmente il proprio desiderio di seguirla secondo le sue regole.
- Potresti approfittare della sospensione delle missioni per riposarti qui alla Home -, buttò lì il Supervisore – Giusto il tempo di verificare se la tua Innocence abbia bisogno di riparazioni. –
- Il che richiederebbe giorni, se non mesi, considerando il fatto che siete tutti occupati ad analizzare l’Arca e l’Uovo in vista dell’arrivo di Lvellie -, replicò con altrettanta casualità volontaria Amèlie, lo sguardo annoiato, rivolto al soffitto - Hai un modo curioso di esternare la tua preoccupazione nei miei confronti: pensavo l’avessi capito che sia per me che per lui è meglio non condividere lo stesso tetto. –
- La mia era solo una gentile offerta e poi non puoi avere la certezza che verrà lui e non qualcun altro a discutere della faccenda -, intese chiarire il cinese.
- Oh, ti prego, Komui! Sappiamo entrambi che l’Ufficio Centrale non spedirà qui un investigatore fresco di promozione per presidiare il meeting. – Sbuffando languidamente, si sollevò in piedi. Le sue gambe nude svettarono allo scoperto per qualche millisecondo - Abbiamo fra le mani la matrice con cui il Conte del Millennio crea i corpi magici degli Akuma e il vascello che ha utilizzato per spostarsi in ogni dove, senza contare il coinvolgimento dell’adorabile Allen-kun nel recupero di quest’ultimo. –
- Ragione in più per averti qui. - Komui si chinò in avanti, intrecciando le dita con i gomiti appoggiati sulla scrivania, la consueta posizione con cui affrontava ogni sfida odierna – Avendo lavorato sotto specifiche direttive impartite da Marian Cross sei coinvolta nel recupero dell’Arca Bianca, pertanto c’è la forte possibilità che tu venga convocata davanti a una commissione per esporre i fatti avvenuti. –
- E tu, oltre alla scarpinata fino a Roma, vorresti evitare che questa commissione  -, e fece il segno delle virgolette – Non si trasformi in plotone giudiziario pronto a farmi la pelle. - 
- Ti prego, Amèlie. – L’uomo si impuntò, non preoccupandosi di nascondere l’apprensione segretamente covata – In questa faccenda ci sono troppi interrogativi perché l’incontro verta soltanto sul futuro utilizzo dell’Arca e dell’Uovo, e il Sovraintendente Lvellie non è certo un uomo che sappia accontentarsi delle generalità. –
- Insinui forse che stia nascondendo qualcosa? – Indagò la donna, soave.
- Sto solo dicendo che ti conosco e vorrei evitarti dei guai -, obbiettò il cinese - Se sei in possesso di qualche informazione che non è stata stilata nel rapporto, sarebbe saggio rendermene partecipe. La questione è seria. –
- Ovvio che lo sia, altrimenti non saremmo qui a discuterne -, concordò lei, ancheggiando in direzione della porta - Ma per quanto riguarda me, vanto una situazione nettamente diversa da quella di Allen-kun e se anche così non fosse, ho già dimostrato alle autorità che è meglio per tutti avermi come amica invece che come nemica, e non mi riferisco soltanto alla mia indispensabilità. –
Avvolse la mano attorno la maniglia d’ottone della porta, voltandosi un’ultima volta verso il Supervisore, visibilmente sconfitto e al tempo stesso frustrato dall’idea che in qualche maniera lei, ancora una volta, fosse riuscita a spuntarla.
- Pensa a intercedere per Allen-kun anziché per me. Mammina sa badare a se stessa. –

La calca che attraversava la mensa scalpicciava irrequieta, districandosi in un via vai continuo e mal assortito di gente indaffarata. Con l’accumularsi di mattine e sere talvolta pieni di vuoti monotoni, quel luogo solitamente popolato da poche teste era stato costretto ad accantonare il profondo conforto che sapeva regalare per venire incontro a una trazione in larga espansione, riverbero agitato da sfaccettature coltivate dall’incessante suono del sospetto, occludente il piacere dei cibi di Jerry a lungo mendicato mentre ci si accontentava di spiluccare razioni stantie. Il cattivo tempo che corrodeva le forti mura del castello contribuiva a ingozzare gli spifferi polverosi di un’ombra cupa e lugubre che arricciava la sua chioma in ogni dove nel maniero, saltellando da una bocca all’altra con solo un nome a punzecchiarne le lingue. L’improvvisa notorietà di Allen Walker diramava viticci avvelenati dal dubbio che, fra le loro fin troppe esigue file, si fosse impiantato un seme scomodo, se non inquietante. Il trapelare della riservatezza aveva concesso il privilegio di infarcire informazioni la cui assurdità non era poi così impensabile come i meno informati sostenevano. Per ragioni oscure, l’Arca Bianca si era lasciata manovrare dai suoi desideri senza che l’operato della Sezione Scientifica riuscisse a replicare la meccanica del comando o a comprendere l’artificio insito alla base di quel legame che non sarebbe mai dovuto esistere. Doveva esserci sicuramente una spiegazione, ma la natura stessa di quel potere – da ritenersi spaventoso nelle mani di un bambino di appena quindici anni -, si limitava a far filtrare nell’atmosfera circostante una sottile inquietudine che fendeva l’aria, così satura di tensione da poter essere tagliata con un coltello.
- Un’atmosfera da brivido. - Bak Chang storse il naso, infastidito, voltandosi verso il suo pasto con la forchetta a giocherellare fra le dita – A saperlo sarei rimasto in sede... –
- Nessuno ti trattiene, signor Direttore di filiale -, lo punzecchiò Lavi, con la guancia premuta al dorso della mano – Se non sbaglio, Komui ha detto che potevi tornartene a casa, vista la tua inutilità. –
- Bada come parli, moccioso: dovreste ringraziarmi in ginocchio che io sia qua a offrirvi il mio contributo -, replicò altezzoso il biondo.
- Parlano tutti di Allen-kun… -, pigolò Miranda, espirando con la mano stretta in petto. Il suddetto si trovava al loro stesso tavolo, poco più distante, con Lenalee a fargli compagnia e un centinaio di piatti che continuavano ad accumularsi ininterrottamente.
- Sono solo voci di corridoio, niente che sia stato ufficialmente confermato -, cercò di rassicurarla Marie – E’ la presenza dell’Uovo del Conte del Millennio a renderli così irrequieti. –
- Me lo auguro. Allen-kun n-non è certo un nemico… - Affermò titubante la donna.
Eppure nessuno, al momento, si sentiva in grado di redigere giudizi sull’accaduto. La frenesia da ricollegarsi agli artefatti sopra cui la Sezione Scientifica stava lavorando ininterrottamente giorno e notte bastava a rendere noti future problematiche. L’Uovo, in particolare, suscitava il fascino dell’ignoto, con la sua luce bianca pulsante di battiti sordi. L’atteggiamento dei presenti era incline al tenere basse le proprie opinioni, ma non abbastanza perché rimanessero silenti e non contribuissero a ingigantire i grattacapi che pressavano l’accoglienza della Home. Lo stesso Marie non poteva dirsi completamente sicuro sull’avvenire che li attendeva, specie su quello di Amèlie, ma ricamare una parentesi sulla sua amica di infanzia lo costrinse quasi immediatamente a richiuderla con sbuffo divertito: lo avrebbe linciato vivo, se le avesse rivolto una qualche critica sul suo operato o un’eventuale preoccupazione per qualunque fantomatica confabulazione da lei ordita. Era molto meglio confidare nel fatto che sapesse sempre cosa fare e quando agire piuttosto che incorrere nel suo caratteraccio.
Anche Bookman non aveva mancato di cogliere i dettagli essenziali della trama in atto: gli occhi scuri valutavano tutt’ora la spigolosità e le precauzioni adottate, che giusto individuò scivolare fra la calca con movenze serpentine; l’andatura decisa e cadenzata grazie alle quali si mischiavano ai civili li avrebbero traditi soltanto se nel loro portamento fosse mancata l’impronta di un rigore ligio al totale rinnegamento della propria vita. La presenza dei Corvi non era un segno da cui si potessero trarre positività, significava soltanto che l’Ufficio Centrale era organizzato in modo tale che ogni evenienza venisse misurata con le giuste precauzioni. Seguendo l’ormai istintivo osservarsi attorno, Lavi, insieme al mentore, ne aveva contati circa una decina aggirarsi per l’Ordine, non mancando di sondarli col pensiero che le cose stessero mutando rapidamente. Ma mai grande fu la sua sorpresa nello scorgere un’ulteriore anomalia in mezzo a tanti camici bianchi e divise impeccabili.
- Pierre? –
- Come dici, Lavi? – Domandò Miranda.
- Il pupillo di Amèlie-san -, rispose frettolosamente lui, alzandosi in piedi per adocchiarlo nuovamente.
Stavolta lo vide per intero. La chioma castana fluttuava fra onde di morbidi boccoli, vantando una riconoscibilità unicamente superata dai lineamenti ambigui e la lingua affilata come la lama di una spada. Ricadeva lungo la schiena, schioccando a destra e sinistra fra riflessi caramellati, con le ciocche più corte a ricadergli sulle guance rosee. Gli occhi, diamanti d’acquamarina dai riverberi smeraldini, tingevano la sua espressione della medesima freddezza con cui gli aveva rivelato di essere un maschio. A ben guardarlo, il rosso ritenne una fortuna averlo notato per puro caso: la semplice camicia a maniche lunghe – bordata di merletti sopra ogni dire - e i calzoncini neri muniti di bretelle scure costituivano un abbigliamento insolitamente sobrio, normale, per un bambino abituato a portare capi molto più eccentrici. Lo seguì finché non svanì inghiottito dal crocevia di gente che affollava le entrate della mensa.
- E’ lui, non posso sbagliarmi -, affermò, tornandosi a sedere – Amèlie-san deve averlo fatto venire dalla Rosa Nera. Chissà per quale motivo… –
- Ci hai mai parlato? – Gli domandò a bruciapelo Bookman.
- Soltanto una volta e per poco. Perché ti interessa? –
Carpire le emozioni dell’anziano Esorcista, dietro le innumerevole pieghe rugose accumulatesi negli anni passati, era un’impresa che soltanto uno spirito predisposto alla completa abnegazione poteva adempiere; la spessa pittura nera che copriva la pelle raggrinzita acuiva l’intenso scrutare, dalle palpebre discinte e permeate dal bisogno di creare un evento e incorniciarlo con sotto un nome per identificarlo. Lavi conosceva bene quel puntare un obiettivo e sviscerarne le informazioni più nascoste e intuì l’interesse dell’anziano nel coglierne il perenne cruccio stampato sul viso, impegnato a cercare qualcosa nei meandri della mente e che stava sfuggendo dalle sue dita appuntite.

- Quel moccioso nasconde qualcosa. –

L’opinione fattasi di primo acchito su quel posto si orientò su una delle poche sicurezze immutate lungo quei sei anni di nuova vita: lui odiava gli esseri umani. Per Pierre rimaneva una costante che soprassedeva la sua appartenenza alla medesima razza, preferendo ritenersi un ramo più isolato dagli altri, e dopo quattro giorni di permanenza presso la Home aveva preferito le proprie elucubrazioni allo sperimentare inutili interazioni sociali.  Dacché aveva ricevuto l’ordine, si era messo in viaggio con il solo scopo di arrivare all’Ordine Oscuro secondo i tempi stabiliti: le direttive della signorina Amèlie erano state concise e sebbene la ragione della sua presenza gli fosse ancora sconosciuta, il clima di cocente apprensione aveva favorito il delinearsi di una situazione semplice da comprendere. Stava per accadere qualcosa e la sua padrona lo aveva chiamato per impostare una macchinazione pronta a entrare in funzione al momento propizio. I documenti sondati assieme a lei a discapito delle ore di sonno li avevano sospinti gradualmente alla ricostruzione di una vicenda la cui natura – ai suoi occhi incomprensibile - si era manifestata a quelli della donna sotto una luce totalmente diversa. Cosa fosse riuscita a estrapolare da quei documenti rimaneva un’incognita di cui preferiva non venire a conoscenza per motivi legati alla presenza dei Corvi, ma per un singolo istante aveva colto lo sconcerto balenare sul suo viso di porcellana mentre chiudeva il diario e lo faceva sparire dalla sua visuale; nel suo silenzioso pensare, Pierre ipotizzò che fosse qualcosa con cui la sua padrona aveva già avuto a che fare.
Ne aveva la certezza come se avesse potuto stringerla forte fra le proprie dita e con in gioco l’onore della Maitresse della Rosa Nera e la propria reputazione, il bambino si era sin da subito astenuto dal lesinare sulle proprie abilità che, a conti fatti, gli avevano fatto guadagnare un grosso anticipo sui tempi d’arrivo all’Ordine Oscuro e – maggiormente più importante - un cenno d’approvazione da parte della donna a cui rispondeva incondizionatamente; ma, sempre per amore di quella figura per cui nutriva una morbosa devozione, doveva perseverare nella rinnegazione di qualsiasi palpito velenifero ed evitare ogni sorta di comportamento deplorevole che potesse svantaggiare entrambi. Cosa di per sé facile, se gli impiccioni si tenevano bene a distanza.
Allontanatosi dalla mensa, l’odore di Chiesa si scatenò in un vomitevole olezzo che ne solleticò gli anfratti reconditi dell’animo. Quel tipo non aveva fatto altro che puntargli gli occhi contro la nuca, curandosi appena di mantenere una distanza che, disgraziatamente, non compensava a sufficienza la sua mancanza di discrezione.
- Che cosa vuoi? – Fermatosi in mezzo al corridoio, Pierre si voltò.
La nuca rasata, gli occhiali a fascia e l’abito preciso nelle pieghe si insinuavano in veste di dettagli insignificanti. Se ne stava lì, a fissarlo impietrito, e nel subire passivamente quel fastidio, il pupillo di Amèlie Chevalier non intravide il tremolare dell’inesperienza, ma di un vissuto gli riconosceva un crimine imperdonabile nei confronti della vita umana. Bastò quel sussurro sconnesso e la pistola stretta nella mano destra dell’ufficiale perché lo strappo si ingigantisse in una voragine e il tempo si riavvolgesse precipitosamente.
- Tu…Eri alla villa…Sei la Bestia di Erkenwald*. -

Un lampo. Le nubi tuonarono bagliori rombanti, rami scintillanti che dilatavano un tessuto d’aria carico di litri d’acqua delineanti contorni indefiniti. La torre ovest della Home svettava senza bandiere o effigi a decorarla; il pavimento esagonale, lastricato di nero, con i soli quattro pilastri appuntiti e nessuna ringhiera a recintarlo, era tutto quel vi si poteva trovare sulla sua cima, solcata dal vibrare dell’Arca Bianca che giaceva dormiente fra i flutti del maltempo. Il pianto del cielo tartassava le piastrelle lucide della piattaforma scivolando lungo le guglie consumate, dando l’impressione che il vuoto sottostante fosse veramente senza fine, un abisso buio dove anche quella sinfonia che aumentava e diminuiva d’intensità cadeva in un muto pentimento. Quel suono gutturale, Amèlie lo odiava. E non si trattava di un odio lanciato alla rinfusa, una grossa parola incautamente mal utilizzata per enfatizzare un minuscolo fastidio. La forma malleabile e l’aspetto incolore che esplodeva in miliardi di schegge al momento dello schianto scarnavano il sentimento nascosto sotto l’epidermide con l’astrusa abilità di impiastricciare il presente con il passato e, al suo insistente grattare, la donna rispondeva con un chiudersi impenetrabile che lasciava spazio a un silenzio irragionevole. Troppo profondo, troppo intenso, troppo freddo da toccare, eppure vivo e presente da lasciarne trasparire la lucidità da cui era stato generato. La sensibilità di dubbia appartenenza era solita rimanere isolata nel gelo delle proprie convinzioni, sciogliendosi appena in sospiri frustrati e schiocchi di lingua stizziti; niente di dirompente, semplici frammenti che davano prova che sotto il suo crudele giocare, Amèlie Chevalier viveva di battiti umani. Contati, controllati, addirittura velati d’irriverenza per nascondere qualcosa di maledettamente vulnerabile, ma pur sempre umani. Il profumo dell’umidità soleva preannunciare l’arrivo di giorni impetuosi, ogni barlume di ragionevolezza si annullava nell’apatia del suo viso; la vista e il contatto schiudevano intimità violate dalla maschera più beffarda del destino, il concatenarsi di incidenze fattesi disdicevoli che tornavano a punzecchiarla all’incalzare delle nuvole cupe sopra il cielo azzurro. In quei giorni l’insolenza diveniva più spinosa, intoccabile, blindata in un mondo dove lo sprezzo delle sue labbra e dei suoi gesti sapeva come e dove ferire chi ingenuamente le mostrava confidenza. Autenticamente intrattabile da qualsiasi angolatura si cercasse di inquadrarla, per implicito desiderio bramava una solitudine maggiore e nell’isolarsi aveva trovato il massiccio torrione rifuggente dall’essere un luogo signorile e asciutto.
- E’ un mondo così buio e cattivo da far paura a chi lo guarda troppo a lungo. –
Allungò la mano aperta sotto la pioggia, stringendo la stoffa del palmo aperto in un pugno stretto.
Non aveva senso attribuire a tanta liquidità incolore un significato opposto, il suo cuore era riluttante a considerare quel requiem malinconico con sentimento diverso dal disprezzo, mentre suonava con voce ritmica dolori passati, concentrandoli nell’unico rabbioso rimpianto che si portava dentro, quasi fosse da sempre stato scritto che lei e la pioggia dovessero vivere un eterno rapporto conflittuale. Non lavava via ferite o sciacquava le mani dal sangue incrostato fra i polpastrelli; anneriva l’umore portando a galla qualcosa che aveva accettato perché non vi poteva essere ulteriore soluzione e non si trattava di prezzi pagati con fredda indifferenza per un'altra briciola di potere da conquistare. Forse un avvertimento o, ancor più calzante, una maledizione. Sul ciglio della torre, il volto abbassato, le braccia conserte e le palpebre dalle lunghe ciglia scure calate sul mondo intero, erano permeati di una solennità che avrebbero portato chiunque a credere nell’esistenza di un legame inscindibile fra lei e quel Dio che l’aveva designata come sua ancella in quella battaglia, ma come l’acqua che scorreva libera giù dal cielo, l’impressione era temporanea. L’abito nero aderiva al corpo bagnato e lucido, la pelle candida solcata da scie fredde che tracciavano archi fra le curve e gli angoli scoperti del corpo, dove i capelli, sfilacciati, erano adornati di perline trasparenti. Ricadevano lungo la schiena disegnando lucenti arabeschi d’onice. Odiava la pioggia, sì, ogni parte congestionata dal liquido gelo respingeva tutte le sfumature attribuite dall’uomo, ma capitava che, a volte, Amèlie cercasse di coglierne l’anima, fra veli oscuri che adombravano la notte; partiva col picchiettare frenetico che si abbatteva sulla sua pelle, inspirando nei polmoni l’umidità che s’innalzava dal basso e saggiando il muro invisibile che il suono in sé elevava tutt’intorno, per poi tornare al punto di partenza, con l’orgoglio smussato d’angoscia per le persone a lei care che l’avevano lasciata in giorni come quelli. Anita si era aggiunta ad esse senza che lei, nell’istante in cui Lenalee le aveva consegnato la lettera, ne rimanesse particolarmente sorpresa. La lettera che stringeva fra le dita ingioiellate di gocce era un lascito dagli angoli svolazzanti e l’inchiostro sbavato.

Cara Amèlie.
Mi dispiace. So che scusarsi non è il modo migliore per cominciare una lettera, ma nella mia attuale posizione sento di doverti molte cose, le stesse che non ti ho detto prima che ci separassimo, e che in queste poche righe sono sicura non riuscirò a riferirti. Perché abbia preso in mano la penna proprio ora, lo devo al fatto che tu, come me, conosci l’importanza di vivere per se stessi: anche quando tutto ci rema contro, è in noi che dobbiamo confidare per continuare a guardare avanti come abbiamo sempre fatto. Arriva un momento nella vita dove si è costretti a dimostrare la forza delle proprie scelte ed è ciò che ho fatto. Ho lasciato un marchio. Tu hai sempre saputo cosa rappresentasse Cross-sama per me, ma incontrarti un’ultima volta mi ha fatto capire quanto in realtà non fossi sincera con me stessa. Te lo dissi anche allora, ricordi? Che ero un pochino gelosa di te…
Mi sarebbe piaciuto provare, comprendere, almeno un po’, l’intima profondità che vi unisce. Anche senza vedervi insieme, la presenza di Cross-sama al mio fianco è stata sufficiente affinché anche tu fossi lì con noi; il tuo volto si accompagnava ai miei dubbi, pensarti quando l’uomo di cui mi ero ripromessa di non innamorarmi mai si chiudeva nella sua imperscrutabilità, diveniva così automatico da indurmi ad odiarti e di questo ti chiedo ancora una volta perdono. La verità è che per tutto questo tempo non ho fatto altro che auto-ingannarmi, perché sapevo di non essere la persona più adatta a interpretare il suo carattere enigmatico. No. Credo sia più saggio affermare che non sono mai stata designata a essere la persona più idonea a scoprire chi egli realmente sia e forse, da qualche dentro di te, nutri il mio stesso timore: l’ho capito guardandoti negli occhi, da come ti difendi strenuamente dalla sua immagine quando ti si avvicina troppo seppur in te viga il desiderio di spingerti più in là, eppure nessun altro potrebbe convivere con questo sentimento nato per distruggere l’anima. Diversamente da me, tu, Amelìe, vuoi fronteggiarlo, puoi: sei un soldato, combatti e splendi con lo stesso vigore di un fulmine che taglia l’oscurità.
Ora, so di averlo già chiesto a Lenalee-chan, e francamente ancora mi domando perché quel giorno non lo chiesi a te; può darsi che mi odierai quando questa lettera ti verrà recapitata – conoscendoti, mi maledirai più per le scuse che per altro! -, eppure, Amèlie, io… Adesso sono felice. Ho scelto e ho lasciato il mio marchio su questo tratto di strada, trovando la Felicità che credevo ormai perduta. Ed è con questa stessa Felicità, che ti chiedo di prenderti cura di Cross-sama anche per me. Magari le parole di una morta non ti saranno di alcuna utilità per quel che ti riserberà il futuro, ma lui confida in te più al pari di se stesso. E come tu hai bisogno di lui, lui ha bisogno di te. Io non potrò più farlo, ma non me ne rammarico: se a vegliare sulla sua sorte ci sarà una persona folle quanto lui, posso anche sprofondare serenamente in questo grande oceano che ho deciso di solcare insieme ai tuoi compagni Esorcisti. E chissà, forse…Anzi, no: sono certa che un giorno, troverai la Felicità che tanto silenziosamente brami con tutto il cuore, con o senza l’uomo che entrambe abbiamo deciso di seguire per tutta la vita. Quindi non ti arrendere, Amèlie: vai avanti, fino alla fine.

Con amore,
Anita.

- Almeno una di noi è riuscita a ottenere quella che voleva, eh, Anita-chan? – Un sorriso d’amaro sollievo le piegò le labbra, ma nessuna lacrima si infranse al suolo - Repose en paix, mon ami.*
La fiammella bluastra dell’accendino si allargò con piccole lingue guizzanti d’arancione schiusesi in petali roventi che avvolsero la carta bagnata. I riverberi illuminarono l’ovale niveo congestionato, immobile d’innanzi ai fugaci schiocchi ambrati: il cuore di Anita, in tutto il suo ingenuo splendore, racchiuso in parole che avevano finito per essere inghiottite dall’acqua come era successo a lei, planò dolcemente a terra in caldi pezzetti sparpagliati sottoforma di cenere luminosa.
- Ti prenderai un malanno con tutta questa pioggia. –
Il suo non era mai stato un amore sciocco o puerile, l’infantile sogno di un’adolescente di trovare il principe azzurro. Il suo non era amore e basta. Che qualcosa avesse finito per crearsi fra loro era un fatto finito per essere accettato, ma nulla da cui trarre una positività in grado di celare la disgustosa immorale con la quale aveva saputo scavare tanto in profondità.

- E’ un mondo così buio e cattivo da far paura a chi lo guarda troppo a lungo. Ma è anche il mondo dove tu vivi e io inseguo la tua ombra. 
Nel doverlo affrontare, Amèlie lo reputava alla stregua di una dipendenza malata e contorta per il non riuscire a distaccarsene. Non poteva, non completamente, non senza motivazione, non senza scelta. Il suo non era amore, ma a ben guardare quella convinzione era un espediente per impedire a quell’uomo e alla sua voce sensuale di trasformarsi in un connotato con cui la si potesse identificare. Amore o non amore, a nessuno che non fosse lei stessa avrebbe concesso di interferire sul suo modo di vivere e sulla sua identità.
- Stavo solo cercando di capire cosa tu ci trovassi di così bello nell’acqua che cade dal cielo. –
- Curioso: avrei giurato che stessi piangendo. –
- E offendere la memoria di un’amica caduta? Tanto vale che mi sforzi di piangere la morte di persone che nemmeno conosco. 
Crescendo Amèlie aveva sviluppato la personale convinzione che le lacrime fossero motivo d’offesa anziché d’elogio per i propri amati. L’unica volta dove aveva ceduto, non le era rimasto null’altro da fare che ignorare il resto: allora piangere per sua nonna si era spiegato in un oceano di pulsazioni nervose culminate in singulti che avevano voluto essere la risposta fisica a un dolore già in circolo, ma con l’accumularsi degli anni e l’indurirsi del cinismo, era giunta a pensare che piangere fosse la maniera più infame per criticare la scelta di una persona e il cordoglio della perdita un’effige inviolabile, il cui delicato raffreddarsi del corpo doveva essere libero di consumare la propria ragione di esistere e infine perdere la propria concretezza. A dodici anni, l’ultimo viticcio che teneva insieme la sua piccola famiglia si era spezzato e il languore gradualmente apertosi man mano che i giorni scorrevano, l’avevano come avvertita. Una settimana prima della scomparsa, sua madre era partita per una missione insieme all’Esorcista assegnatole. Varcato il portone, l’aveva salutata sotto la prima pioggia di Novembre. Mirarne il materno sorriso trasformarsi in una chiazza indistinta aveva istantaneamente rafforzato il sentore che non sarebbe più tornata a casa.
Cross astenne la replica per prolungare il muto osservare rivolto alla donna che dava mostra della propria schiena; dritta e con le spalle puntellate dall’acqua, seppe per istinto cosa gli occhi d’ossidiana più bui dell’universo ingioiellato di stelle stessero penetrando e non avrebbe mostrato sorpresa qualora avesse colto la notte ritrarsi intimorita. L’abito scuro si fondeva con la bianca carnagione in un’unica pelle definita dagli elaborati arabeschi intarsiati assieme al pizzo. Nella fissità dei muscoli si intravvedeva unicamente l’impossibilità a criptarne l’animo, l’invito secco e scontroso a non avanzare in quel ristretto spazio dove le ombre traboccavano brillanti. Dacché la conosceva, il Generale aveva sempre avuto a sua disposizione la prova di quanto la risolutezza della francese fosse più di un mero velo dipinto sul suo viso, l’incostanza non era certamente il genere di difetto che le si potesse attribuire. Entrambi avevano la loro maniera di lottare contro il grigiore che li circondava, e seppur del diplomatico rapporto fra e Maestro ed ex-allieva fosse rimasto esclusivamente il nome, sussisteva ancora una simbiosi per quel sapersi intendere fra bestie inimitabili benché fossero passati degli anni dal loro ultimo incontro.
- Mi devi un mucchio di spiegazioni, Cross. – Amèlie non esitò a prenderlo di petto, senza concedere tergiversazioni mentre si voltava verso di lui con la goccia di rubino a schioccare un fugace scintillio.
- Come a tutti, Chibi-chan -, le disse – E, supponendo che tu non voglia metterti in coda insieme agli altri, salterei i convenevoli per passare direttamente ai fatti. –
- Questo tuo slancio di generosità nei miei confronti non ti farà ottenere uno sconto sui miei servizi -, lo avvisò - Costosi sono e costosi rimangono. Troppo perché uno squattrinato come te possa richiederli. –
- In vista della posta in gioco, sono sicuro che farai una piccola eccezione –, asserì l’uomo.
- Allora, mi auguro che la questione abbia a che fare con il Quattordicesimo o sul fatto che Allen-kun sia un Noah, altrimenti dubito che potrebbe interessarmi. -
Non fu necessario guardarsi negli occhi per capire se le loro parole nascondessero una qualche falsità o fossero il limpido specchio delle loro reciproche consapevolezze; fatto sta che nulla impedì al Generale di sollevare le sopracciglia e stupirsi almeno un poco. Che quell’argomento venisse a galla era prevedibile, l’Arca Bianca celava una storia ricca di oscuri segreti che avrebbe intrigato anche la mente più restia ad accarezzarne le perversità e mai Amèlie avrebbe ignorato qualcosa capace di stuzzicarne l’interesse. Soltanto, non si aspettava che giungesse a quella verità così presto, a una velocità che l’aveva sinceramente sorpreso, con gli occhi corallini intenti a tracciare le curve del suo corpo semi illuminato dalla pioggia. 
- Ho costretto Hatsue a informarmi sui fatti accaduti più di trentacinque anni fa –, proseguì la corvina, ancheggiando intorno all’uomo con la catenina ad attorcigliarsi lungo l’indice sinistro - L’Arca Bianca, il Noah traditore…Ogni cosa. Compresa la funzione delle Memory. Ciascuna di essa necessita di un corpo ospitante per poter rinascere a vita nuova, che, una volta compiuta, trasforma l’umano scelto in un nuovo Noah. La maledizione dell’Arca Bianca non poteva essere rotta che dallo stesso Noah che l’ha lanciata o da qualcuno che ne avesse ereditato i poteri, quindi un nuovo prescelto, e considerando che Allen-kun è riuscito dove perfino il Conte ha fallito, senza neppure sapere come ce l’abbia fatta… -
Dal tono di voce traspariva una sicurezza sui fatti in possesso che dava molto a pensare su quanto ella, in realtà, sapesse. Ma fra le righe e nella stessa spavalderia con cui calcava i passi si poteva respirare la contrarietà per l’essere stata usata come una pedina, un affronto al proprio orgoglio appena alleggerito dall’implicita pretesa che mosse istantaneamente contro il Generale. Ciò che aveva fugacemente scorto nella stanza del Quattordicesimo non faceva che alimentare il forte sospetto che dietro a un tale alone denso di apparente inspiegabilità ci fosse uno dei molti volti deturpati della Guerra Santa, forse uno dei più inverosimili. Qualora glielo avesse domandato, Cross non si sarebbe sottratto dalla discussione; come non si era preoccupato di un eventuale fallimento del suo piano, non si lasciò toccare dal timore che eventuali ripercussioni a lui destinate finissero per essere indirizzate contro Amèlie. Lo aveva sorpreso, senz’ombra di dubbio, ma cos’altro avrebbe potuto aspettarsi da lei? L’aveva addestrata lui, era un’opera sua, lui l’aveva mandata là dentro e sarebbe stato a dir poco ridicolo tentare di liquidarla con risposte preconfezionate o discorsi lasciati a metà. Le Chevalier non erano donne che si potessero raggirare e da quel dato di fatto insorgeva l’unica nota dissonante sopra cui era stato costretto a chiudere gli occhi: quanto sapeva?
- Non ti si riesce a nascondere nulla, eh, Chibi-chan? – Ridacchiò lui.
- Ho subito sospettato delle tue sporche intenzioni sin da quando Allen-kun si è presentato come un tuo allievo. Tu non prendi allievi, maschi, oltretutto -, lo accusò gelidamente, appesantendo la mano sulla propria fermezza affinché il mittente attorno a cui camminava capisse la totale assenza di ironia - Se fosse stato un qualunque compatibile lo avresti spedito dritto all’Ordine Oscuro, mentre invece te ne se preso cura per quattro anni senza dire niente a nessuno. O, forse, sono di più, chi lo sa… - L’asprezza si sciolse in un sorriso morbido, languido e sensuale. A quel punto, Amèlie si fermò di fronte all’uomo. Le dita affusolate ne risalirono lentamente il torace, artigliando le preziose perle d’argento e rubino che componevano il rosario lasciatogli da Rosalie Chevalier in persona. La croce penzolava appena verso il basso - Certo, potrebbe esserci una spiegazione alternativa, ma il punto è che…Io so chi sei, mio caro e presuntuoso Generale Marian Cross –, soffiò la corvina suadente, carezzando le guance ruvide. Un movimento delicato e rapido fece sì che gli occhiali sottili dalla montatura squadrata finissero per essergli sfilati – E giacchè so che con te nulla è mai come appare, sono quasi sicura che tu sia vincolato a questa faccenda del Quattordicesimo più di quanto pensi di farmi credere e che voglia usufruire del mio aiuto senza rendermi completamente partecipe del tuo legame con il piccolo Noah bianco. –
- E’ forse gelosia quella che sento? – Roco, Cross fece scorrere il dito indice sulla schiena bagnata e scoperta della corvina – Mi sembra di aver già detto che sei tu la mia preferita. –
- Abbi la compiacenza di toglierti il rosario di mia madre quando elargisci simili scempiaggini -, borbottò stizzita, tornando a guardare l’orizzonte buio. Per la seconda volta la rotellina dell’accendino scattò e la microscopica fiammella accese la cartina portatasi alle labbra rosse. 
L’attenuarsi della pioggia ridimensionò il picchiettio incessante a una fredda carezza dal suono soffuso. Sull’onda dei brividi che ne impalarono la spina dorsale, Amèlie affiancò lo stringere dei suoi guanti alla microscopica parte di sé impregnata di una sensazione che combatté con il disgusto; anche col viso a esternare un’impassibilità radicatasi in terreno sincero, determinate emozioni finivano per scolpirsi nella memoria, tinte delle sfumature più irascibili che l’umore umano potesse far fiorire. Ciascun ricordo con inciso sopra il volto di quell’uomo si attorcigliava attorno al suo essere donna, sfidandone tutti i nervi e scoprendone i pochi destinati all’immortale vulnerabilità, ma quale fosse la molla che faceva sbocciare dal nulla l’orribile consapevolezza di non potergli essere completamente indifferente, aveva la faccia tosta di estromettere le peculiarità più fattibili, come gli occhi penetranti, il colore irriverente dei fili carmini che ardevano sospinti dal vento, le mani grandi o l’arcuarsi della bocca quando esibiva i suoi maliziosi sorrisi. L’insieme di tutto si era rivelato l’unica risposta fattibile: un tutto contorto, indefinito, all’apparenza squadrato e in realtà abile nel riempire vuoti col semplice porsi ovunque nei confronti di una persona, dentro e fuori. Un particolare ascendente impossibile da disperdere in più parti, fra loro pericolose da toccare, ancor più mortali se fuse in un’unica e infinita verità inossidabile elevatasi a ossessione insopprimibile, lenta, spietata per il riuscire a tenerla legata senza che potesse opporvisi con valide motivazioni; marcava sulla sua unica vulnerabilità, impegnandosi a spezzettare il controllo di cui aveva fottutamente bisogno, che doveva applicare, possedere per essere quella che era, per controbilanciare la distruzione psicologica che cresceva contraria al raziocinio, pur sapendo che sarebbe sempre esistita la possibilità che lui ribaltasse le carte in tavola e la lasciasse scoperta.
Quante volte, da bambina, il suo corpo aveva tradito i suoi intenti? Quante volte l’osservarlo era scivolato in un’ inconscio proliferare di domande inspiegabili? Chi diavolo era l’uomo entrato nella sua vita? La risposta non era altro che il congiungimento di fugaci momenti, tocchi, strascichi di parole e, talvolta, persino l’ombra che turbinava sotto il riflesso giallo del sole contro il muro; un dito che tracciava sulla sua pelle un arco rovente fomentandole una stretta al basso ventre, una banale carezza ai capelli di seta nera o un’occhiata intensa al seno che il bustino di pizzo decorato malcelava…
Ma come Marian Cross si era sempre dilettato a essere una fiamma danzante nella nebbia, Amèlie aveva imparato ad amare se stessa al di sopra di ogni altro e, sull’onda di quel acquifero addolcirsi, a sapersi destreggiare con l’inganno erano coloro che sapevano vestirlo rimembrando l’importanza primaria di salvaguardare esclusivamente la propria persona.

1*: Silenzio (Francese).
2*: Il nome è un collegamento al piccolo spin off di Hell’s Road che tratta di Pierre e di come si sia unito ad Amèlie: “Chimera”.
3*: Riposa in pace, amica mia (Francese).
E…Sono qui, di nuovo, dopo un’infinità di tempo che non sto qua a calcolare! Oramai non posso farci più nulla: scrivere mi manca, ma quando non hai tempo e ispirazione – seppur il desiderio ci sia -, non sai mai cosa può uscire oltre a una voglia che si consuma nel giro di due secondi. Questo è stato un capitolo lungo e rivisto in via di sviluppi futuri. So che alcune cose paiono non chiare, quindi dirò solo una cosa: Amèlie ha già letto i documenti che si è portata dall’Arca – lo scrivo anche nel capitolo, ma ci tengo a essere chiara – e ha scoperto altre novità. La sua fiducia in Cross e l’eventuale alleanza dipenderanno da come il caro Generale saprà gestire la situazione. Come sempre, mi auguro che non ci siano errori; mando un bacione a tutti coloro che mi seguono. Alla prossima!

 

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Capitolo 27
*** Chimera. ***


Chimera per Hell's Road.

Logo Hell's Road.

 

Hell's Road.
27 / Chimera.

Il legno di quercia che si apre dall’interno e i cardini d’acciaio pensati al suo sostegno bastarono a schiantare la quiete mattiniera contro la parete di grigia roccia stante al dì la dell’entrata. Il botto fu così forte che lasciò intendere un qualche accapigliamento eruttato nella peggior maniera che si potesse ideare, una direzione unilaterale che spinse le teste di molti a curiosare mentre le schegge volavano e, a una situazione già opprimente, si aggiungeva un’ulteriore implicazione. I tavoli sulla sinistra strisciarono sotto la sferzata di un getto ventoso che si abbatté contro il soffitto, buttando il cibo per terra. Un pugno aveva sancito l’inizio di tutto, veloce e con un impatto che aveva mancato il suo bersaglio. 
Pierre atterrò lontano dalla folla raggruppatasi in massa, leggiadro per come i suoi piedi non emisero il benché minimo cigolio nell’adagiarsi sul pavimento. La gestione del peso corporeo basava il suo intero lavoro sul corretto bilanciamento di energie chimiche e spirituali, la parola che assumeva concretezza per mezzo di una forma e un contenuto; l’inconscio mimare un’ombra, elegante e inesistente nello scivolare fluida laddove perfino la luce giungeva accecante, da abilità si era evoluta in abitudine. Persino l'ondeggiare della camicia merlata rifletté quell’intento concretizzatosi in prerogativa.
Non aveva mai amato dare mostra di sé e se lo aveva fatto – e lo aveva fatto -, gli occhi umani rimanevano comunque troppo lenti per comprendere cosa si nascondesse veramente dietro un fruscìo improvviso di cui giusto si coglieva la parvenza; tuttavia, trovarsi nella posizione di doversi difendere quando l’ira soffiava sui nervi più fragili, lo costringeva a serrare i pugni e a resistere, a impegnarsi in una linea mirata al banale schivare.
La vita prima della Rosa Nera accompagnava il suo presente con cicatrici orribili da vedere e dolori intorpiditi; ricordi sudici, vergognosi, che filtravano nella sua intimità simulando la lenta metodicità di una goccia d’acqua insinuatasi fra anfratti rocciosi. Un nuotare controcorrente, un fuggire, un chinare il capo, un serrare l’anima satura di odio per quel padre che decantava i loro poteri e al tempo stesso aveva saputo solo condurli all’umiliazione. Infine c'era il sangue, la sua dolce follia, ma in merito a ciò preferì non andare oltre al lisciore della pelle rimarginatasi in macchie pallide. Nell’impossibilità di strapparsi dal petto ogni sensazione pertinente agli strascichi veleniferi che talvolta traboccavano ribelli, non gli era rimasto altro da fare che azzerarsi e prendere in mano la sua esistenza – non una parte, tutta - solo per conferirle un senso, fra passi incerti e il timore di perdere l’equilibrio. Afferrare il male acciambellato fra le sue carni e mirarlo dall’esterno, quasi non gli fosse mai appartenuto, lo aveva stranito, eppure se non si troverebbe al fianco di Amèlie Chevalier se quel dì non avesse scelto di stringere la mano che lei gli aveva porto. Quella sottile venatura biancastra che ricordava lo spezzarsi del ghiaccio sotto il sole del primo mattino, la sua sopportabilità nei confronti del genere umano – suscettibile al benché minimo incauto sfiorare -, si spezzò nel buio silenzioso marcato dalla sua inespressività non appena l’ufficiale che gli era andato contro arcuò la bocca per sputare parole ributtanti nei confronti della donna dai lunghi capelli neri.
- Rimangiatelo. -
Il Corvo a cui strinse il colletto aveva il collo reclinato all’indietro, la bocca zuppa di sangue e gli arti esplosi in un dolore scricchiolante che gli impediva perfino di muovere le dita. Gli altri due, accorsi in aiuto, li stava calpestando senza curarsi se ancora respirassero, osservati da un quarto raggomitolato a terra con la mano a premere sul naso rotto. Il potere ustionava la sua pelle originando segni concentrici che ne tappezzavano ogni lembo scoperto con il colore del sangue raggrumato, riflettente un fiocco bagliore cremisi che scoppiettò di scintille luminose una volta che le arricciature gli decorarono le guance; defluiva dal suo corpo godendosi la libertà sciolta dall'incatenamento ordito dalla propria volontà, ma mancando di convergere in qualunque forma di piacere che ne ammorbidisse l’ego. Odiava le persone, tanto, intensamente, perché non poteva dimenticare quello che gli avevano fatto, come lo avevano usato, ma pur con l’animo tagliuzzato che sanguinava a ogni incauto sfioramento, la rabbia incalzante sulla scia di provocanti sibili insisteva nello scrollare devastante dell’impulso sostituitosi all’indifferenza; sbiadirne i contorni aveva richiesto uno sforzo ancora impensabile, plasmando una frontiera che isolasse lo spazio al centro del suo universo, dove Amèlie Chevalier dominava indisturbata. Eppure vi erano volte, dove il riverbero dello specchio riusciva a racchiudere la vastità delle tenebre in un unico spicchio e quella cosa senza nome che ballonzolava fra le schegge mnemoniche cominciava a sorridergli con amabile sprezzo, costringendolo semplicemente a reagire senza opporsi come invece avrebbe dovuto.
Una volta che accadeva e non vi era modo di tornare indietro, il resto si annullava nell’ignoranza.
- Sto aspettando. - All’ennesimo sibilo, le iridi oscillanti fra lo smeraldo e l’acquosità del cielo si indurirono, lasciando trasparire una pazienza pressoché empia.
- Fottiti, mostriciattolo! - L’astio con cui il Corvo decretò la sua sentenza lo fece volare contro il muro più vicino dopo che il bambino gli ebbe fracassato le costole con un gancio allo stomaco.
Stupido. Se l’era cercata. Esattamente come gli altri due che rantolavano sotto le suole delle sue scarpe e quell’altro che stava cercando di strisciare in mezzo alla folla.
- Vai da qualche parte? - Pierre gli fu addosso in due secondi, pestandogli i genitali con violenta decisione.
- Ehi, ehi! Ragazzino! Vedi di darci un taglio! -
Le mani di due Finder gli artigliarono le spalle cercando di farlo voltare. Abbandonarono ogni tentativo al puzzo di carne bruciata che ne rivelò i palmi ustionati.
- Un fuoco fatuo creato dal nulla. -
Bookman slittò fra la calca senza dover essere costretto a spingere per sgusciare in avanti.
I Corvi non godevano di buona simpatia, la loro presenza all’Ordine Oscuro apriva un preludio di tempi travagliati, ma gli occhi cerchiati dell’anziano a stento davano importanza alle condizioni dei suddetti. Quel bambino lo aveva insospettito fin dal principio e i marchi apparsi sui suoi arti narravano di una storia seppellita sotto le basi della Chiesa per l’essere diventata un pericolo al suo potere.
- Pierre, adesso basta. Così peggiori solo la tua situazione. - Allen si fece avanti, calmo, ma mantenendo una distanza che non esortasse il più piccolo a reagire bruscamente.
- Vuoi unirti a loro? - La domanda era un caldo invito ad andarsene.
- Sono Corvi, Pierre -, tentò di farlo ragionare Lavi, nonostante fosse incredulo davanti al fatto che dei membri dell’unità d’élite dell’Ufficio Centrale fossero stati ridotti in quello stato in meno di un battito di ciglia - E’ gente contro cui è meglio non avere a che fare. -
- E’ feccia che ha osato dare della puttana ad Amèlie-sama -, replicò lui, gelido.
- F-Fate attenzione! - Squittì Miranda.
La situazione era prossima a degenerare completamente. Pierre compì due passi in avanti, apparentemente barcollando con il peso dell’intero corpo a premergli sulla schiena e uno sguardo che scosse l’apprendista Bookman fin nelle viscere attorcigliate nello stomaco. Una totale assenza d’emozioni, la più pura e perfetta mancanza d’esitazione imperlava quel visetto dai lineamenti ambigui senza che parole inutili stessero a descriverne le specificità.
Improvvisamente, un battito di mani si librò pacato in aria.
Mormorii sbigottiti e timorosi accompagnarono l’avanzata dal nulla di un uomo che colpì per l’arcigna affilatezza del volto e il distinto portamento. I capelli di bionda cenere, tirati all’indietro, lasciavano scoperta una nuca squadrata a cui si abbinavano lineamenti altrettanto marcati, dalla spigolosa pelle pallida armata di due aghi neri che perforavano le minuscole sfere glaciali. Un singolo gesto da parte sua e l’appena udibile picchiettare dei suoi calzari di cuoio lucidati a mano si impose fra le ampie mura; perfino l’impeccabile giacca bordeaux, ornata di bottoni dorati, nobilitava un sentore pungente. Ci fu un istante dove l’azzurro gelido dei suoi occhi si accorsero della presenza di Allen, e allora il Generale Bambino avvertì su di sé un'attenzione sgradevole, per come quel rapido sondarlo da capo a piedi cercasse, inspiegabilmente, di spogliarlo della sua carne maledetta. Conviveva con la stranezza del suo aspetto abbastanza da sapere di non poter passare inosservato, eppure la sinistrosità rivoltagli si mostrò audace nel segnare un confine fra la sua intensità e la diffidenza con cui veniva verbalmente trattato; se migliaia di giudizi estranei fallivano nel demoralizzarlo, con quello dovette assecondare l’improvvisa necessità di frantumare il contatto in corso.
- S- Sovrintendente…Lvellie? -
- Cosa c’è, Lenalee? -
Le mani della ragazza si strinsero in un tremito che riallacciò il circolo di paure irrisolte da cui si era estraniata solo parzialmente. Il buio divorò la tenue luce delle confortanti pareti della mensa, rivoli di catrame zampillanti in gocce d’olio bollente che sporcarono la pietra nuda fino a inzupparla col fondo traboccante di orribili ricordi che riaprirono in Lenalee un’unica grande cicatrice d’innanzi al passaggio di quell’uomo freddo e ordinato che, più di chiunque altro, ne aveva tartassata l’innocenza fino a farle perdere la ragione.
- Accidenti! Ci mancava pure lui! - Lavi imprecò mentalmente, stringendo le spalle dell’amica con il braccio.
- Lo conoscete? - Domandò Allen.
Il rosso annui mesto - Malcom C Lvellie. E’ un esponente dell’Ufficio Centrale -, gli bisbigliò - Se hanno mandato lui, significa che l’Ufficio Centrale intende prendere direttamente in mano la faccenda. -
Un qualunque estraneo avrebbe giudicato la calma di quella camminata come una metodica ponderazione della propria influenza e non avrebbe sbagliato ad azzardare che al nuovo arrivato piacesse un tale clima di muto scombussolamento. Le mani serrate a pugno dietro la schiena e l’ombra vigilata da un subordinato vestito all’eguale maniera, più giovane, ma dal volto trasparente un’imperturbabilità pressoché inconcepibile a chi viveva di emozioni calde, elevavano un portamento che ne proiettava la persona a una platea inconsciamente consapevole di dover rimanere al suo posto. L’arrestarsi della sua falcata coincise con lo schiocco omicida che Pierre gli rivolse mentre la mano lasciava cadere il corpo del Corvo malmenato. Possedeva ancora lucidità a sufficienza per intuire che davanti a sé non aveva un burattino, ma un burattinaio, e la cosa non poté che indurirne le nocche pallide.
- Rasiel Arthurian Vamblasset Gremory XIII. - Quel che apparve come un sorriso maldicente, si allargò da sotto i baffi stretti - Finalmente ho il piacere di incontrarti da cosciente. -
Il suo nome. Il suo vero nome. Da giorni tramutatisi in anni, il suo suono proibito non aveva più arrochito la voce delle persone. Inutile dire che si trattava di una delicatezza che Pierre aveva sempre cercato di maneggiare placando il timore di vedersela sgretolare fra le mani, ma le reminescenze sopite, associate al volto che lo squadrò beffardo, si fusero in una mistura che culminarono in un nuovo accesso di ira bollente.
- Chi diavolo sei per conoscere il mio clan? -
- Ragazzino, bada a come ti rivolgi al Sovrintendente -, gli intimò il giovane di fianco all’alto ufficiale scattò.  
- E’ tutto sotto controllo, Ispettore Link: l’irriverenza di questa bestiolina mi è cosa già nota -, lo rassicurò pacato il superiore - Dalla costanza della sua padrona nel non riconoscere un’autorità al dì fuori della propria non potevo aspettarmi nulla di meno. -
- Lo prenderò come un complimento. -
Dall’ala destra della sala mensa, fece la sua entrata Amèlie Chevalier, una mano appoggiata al fianco, splendida e senza alcun sorriso che mettesse in risalto l’immancabile sensualità soddisfatta che la contraddistingueva.
- Di bene in meglio: adesso sono presenti entrambi! -

Ora più che mai la piega assunta dalla mattinata pareva essersi arcuata in un’angolatura irreversibile, ma soltanto nella testa di Lavi e di chi era al corrente della pericolosità manifestatasi, il pandemonio vero e proprio scalciava impazzito. La famiglia Lvellie rivestiva una posizione di prestigiosa ambiguità all’interno della Chiesa, una costante nella storia di quel conflitto millenario che, nel suo dare e ricevere, aveva eretto attorno ai suoi membri veridiche fortezze di inoppugnabile mistero. Confrontarsi con l’immagine di facoltosa e fredda austerità, che ben simboleggiava la ferma intenzione della Chiesa a vincere quella guerra a tutti i costi, significava doversi confrontare con guai intricati e le probabilità di uscirne indenni danzavano pericolosamente vicine allo zero. Ma come la fama dell’esponente maggiore del casato era circoscritta a pochi eletti che giusto sapevano pronunciarne il nome correttamente, più pubbliche si affermavano le controversie legate alla Maitresse della Rosa Nera. Frenetica era l’elettricità dei dissapori innescati per mezzo di incontri sporadici, nei quali ambedue le parti si erano fatte un’idea sul perché fossero indispensabili nei loro campi; tuttavia, l’origine da cui si diramava quell’attrito spaventoso pareva allacciarsi unicamente all’incompatibilità di due personalità abituate a imporre il proprio potere anziché vederlo costantemente ostacolato. Nell’attimo in cui il profilo marcato e appuntito dell’uomo si palesò nella sua mente, il raziocinio di Amèlie scattò felino e nell'intrecciarsi dei loro sguardi in un unico filo che sfrigolava pericolosamente su una roccia appuntita, non nutrì altro che l’assoluta convinzione che la sua entrata in scena fosse tutto fuorché una assurda casualità.
- Madame Chevalier, quale onore -, la salutò con garbo l’Ispettore - Mi erano giunte voci sul fatto che si trovasse all’Ordine, ma considerata la poca vostra attinenza a mostrarvi al comune pubblico, ammetto di essere stato piuttosto diffidente al riguardo. -
- Un atteggiamento più che giustificato, Sovrintendente -, annuì Amèlie - D’altro canto, ero convinta di avere più tempo per prepararmi al nostro incontro. E’ una novità saperla incline a frequentare luoghi di bassa leva come le mense. -
- Potrei affermare lo stesso di voi. Lo zelo con il quale vi sbattete incessantemente per la causa vi rende davvero difficile da reperire -, replicò sferzante l’uomo, calcando sul verbo con affilata malignità celata - Ma non soffermiamoci su queste piccolezze: avremo tutto il tempo per discutere del ruolo da lei ricoperto nella missione. Oh, e non dimentichiamoci dell’increscioso screzio del suo animaletto selvatico. - Gli aghi neri dell’ufficiale si addossarono sul bambino, che rispose con eguale gelido ardore.
- Non vedo cosa ci sia da chiarire: Pierre si è semplicemente difeso -, affermò soave lei. La mano corse a vezzeggiare i boccoli del suo protetto - E’ la lingua mordace dei vostri Corvi a peccare di educazione. -
- S-Sovraintendente! - Un ansito buttato fuori con grido soffocato si levò prepotente. Il Corvo sopravvissuto all’assalto fissò il bambino in questione come se davanti a sé non vedesse altro che un’indescrivibile mostruosità - E’ una Chimera! Quel mostriciattolo è una fottuta Chimera! -
- Silenzio. - Col piede destro, la Maitresse della Rosa Nero gli calpestò la cassa toracica, smorzandone l’ossigeno sputacchiante in gola.
- Lurida…! - Le labbra del giovane si bagnarono di saliva mista a sangue, sporcando la chiostra di denti stretti in un ringhio che rivolse sia donna che alla creatura amabilmente accoccolata al suo fianco; l'apatico disinteresse nel non concepire l’oltraggio perpetrato ai danni del nome che portava lo schiaffeggiò echeggiando divertito. Il moccioso sarebbe stato il primo a pagare per la presunzione ostentata, anche se avesse dovuto rimetterci le braccia a furia di scaricargli addosso tutti gli incantesimi in suo possesso.
- Edward, rimani al tuo posto. - Le caviglie erano pronte a dargli il giusto slancio quando il superiore, con un lieve cenno del capo appuntito, gli ordinò di desistere.
- Ma, signore! Perché?!? -
- Perché, vedi… - La lingua di Amèlie soffiò dolce, languida come il suo chinarsi sul volto del Corvo - All’ultima persona che si è permessa di mettere le mani addosso a una mia proprietà, ho fatto scoprire che la morte è la gioia più grande dopo la vita, se messa a confronto con l’umiliazione. -
Non mentiva. Allen se ne accorse, con il gelo liquiefattosi ad attorcigliarsi attorno le membra celate dall’epidermide emaciata. Non ebbe idea del perché si afferrò il braccio infestato, accorgendosi nuovamente di quanto solida e scarna fosse la corazza che ne proteggeva le falangi, ma stringerlo lo aiutò a rimanere con i piedi per terra, dove doveva stare. Il sibilare lanciatogli contro da voci indistinte ora era tutto riversato sulla Maitresse della Rosa Nera, trasbordava copioso in un’unica direzione che, tuttavia, non dava l’impressione di sortire il benché minimo condizionamento; l’ovale di bianca porcellana della Chevalier era visibilmente più seccato dal dover perdere tempo con quella persona proveniente dall’Ufficio Centrale che dalle opinioni negative che la gente continuava ad aggiungere.
- E saresti pronto ad anteporre ciò a tutte le vite che ha già stroncato e che sta per stroncare mentre noi stiamo qui a perdere tempo? Commovente, se non fosse che stiamo parlando di carne morta. -
Il cuore si perse in ansiti dolorosi al rievocare lo sprazzo subito in silenzio, la rabbia covata per una considerazione della vita scevra di ogni importanza che non la riguardava personalmente. Per il suo animo era inconcepibile trascurare esistenze che si potevano salvare, ancor meno infierirvi pervaso da un qualche sadismo indelicato; ora più che mai, fermentava in lui un amore abbastanza cieco da essere quasi indecente, nel caricarsi tutti i pesi del mondo senza preoccuparsi se un tale quantitativo alla fine lo avrebbe annientato. Ma l’increspatura di quelle labbra di buio vermiglio avevano saputo afferrarlo interamente sin dal primo momento e farlo sentire miseramente piccolo nelle sue inossidabili convinzioni. Ad Amèlie l’umanità interessava quel tanto che le permetteva da ricavarci un profitto, la dissimulazione era un’arte illusoria che, aveva compreso, riservava alla sua clientela per addolcirne le mani quando tentavano di serrarsi attorno al portafoglio, ma nel mondo reale epurava il tergiversare con un’imposizione dei fatti che non dava voce a soluzioni alternative.
Il dare già per spacciato Suman Dark era stato un piccolo assaggio che non abbisognava di nuove dimostrazioni, insensibile al destino dei propri compagni, ma che fosse detentrice di una brutalità anche capace di osare…
No. Se non fosse stato cosciente di trovarsi in un luogo con tante persone, si sarebbe preso a pugni la testa pur di scacciare quell’orribile pensiero. A pochi passi da lui c’era Lenalee e l’immagine che gli aveva calorosamente confidato minacciava di essiccarsi ancor prima che la sua bocca esalasse un qualunque pensiero incompatibile all’opinione della cinese. Poteva vederlo da sé, trattenendo a stento la paura che ne pizzicava la curva delle spalle mentre il frammento screziato di un tutto a lei forse non definito come credeva si incastonava in un altro più appuntito, eppure Allen era inspiegabilmente certo che Lenalee sapesse meglio di chiunque altro chi Amèlie veramente fosse. Soltanto, gli sarebbe piaciuto comprendere la natura del fantasma che ne possedeva le unghie affondate nel leggero tessuto dell’abito; una loro distrazione e avrebbero ferito la pelle della ragazza.
- Lenalee? -
Cercò un contatto e, accostandosi al fianco libero, intercettò la paura sortita dalla presenza dell’ufficiale; scivolava indisturbata fra barriere inesistenti, sbriciolando l’affabile sorriso che Allen aveva sempre trovato delizioso su Lenalee, tanto da impedirgli di essere giù di corda. Evidentemente il circolare di ferite ancora in via di guarigione bastava perché quel dipinto a cui si era abituato, dolce e gentile, lasciasse il posto a qualcosa che conosceva profondamente e nel cogliere la premura di Lavi, il piccolo albino non si sentì in diritto di pretendere nulla: in fatto di reticenza non vi poteva essere migliore esempio di lui. Mana viveva del suo affetto morboso e parlarne avrebbe fatto riaffiorare l’orrore di cui si era macchiato. 
Ingoiando il groppo salitogli in gola, la sua mente tornò dall’angolo appartato dentro cui si era rifugiato: le iridi nere della Maitresse della Rosa Nera governavano imperiose la situazione, perfette, senza striature a smussarne il colore spettrale. Se, fino ad ora, leggerle l’anima era stato impossibile, tutto ciò che in quella frazione di secondo trapelò da quegli specchi d’acqua tetra, fu la tentazione di mettere in chiaro quanto poco ci avrebbe messo a dare una dimostrazione pratica delle sue intenzioni più raccapriccianti.
- Fai il bravo cagnolino: resta al tuo posto -, la sentirono suggerire al Corvo, sogghignando divertita - Non vorrai  certo che il tuo sangue finisca per sporcarmi il vestito. -

- E’ uno scherzo. Uno Scherzo! Non può essere altrimenti! -
Dalle labbra di Bak Chang si levò un tremolio denso di sgomento che quasi rischiò di fargli urlare il rauco gemito strozzato. Credere in un fatto rientrava a far parte di un modo di vivere che necessitava di prove o azioni divenute memorie sedimentate in una lista dove gli spazi liberi si trovavano quando qualcosa valeva la pena di essere ricordata. Ironia della sorte, le spine più astiose da sradicare si rivelavano essere quelle sospinte al margine, cattive e il cui solo tocco sollecitava un frettoloso rientro al centro, dove l’alito vitale vibrava di serenità. Non voleva dar peso a quanto accolto involontariamente, ma dubitava che ripeterselo in continuazione avrebbe distorto la realtà e fattolo svegliare nel suo letto con il sollievo di aver solo sognato.
- Ji-chan, come la pensi al riguardo? - Domandò Lavi - C’è davvero la possibilità che Pierre sia effettivamente una Chimera? -
- Se non sai darti una risposta da solo è evidente che non hai studiato i fatti come avresti dovuto. - La risposta fu modulata perché suonasse come un rimprovero atono. Bookman non aveva tolto gli occhi di dosso dal bambino per tutta la durata della conversazione e il non volgere il capo rugoso in direzione del pupillo divenne una seconda stilettata che il rosso incassò abbassando il mento.
- Di qualunque cosa si tratti nello specifico, sembra coinvolgere Amèlie e l’Ispettore mandato dall’Ufficio Centrale -, dedusse Marie, la mano appoggiata alle cuffie per sintonizzarsi su una frequenza sprovvista del brusio di sottofondo.
- Scusate…Qualcuno potrebbe spiegarmi cosa sono queste Chimere? - Domandò coraggiosamente Miranda.
- Si tratta di Ibridi. -, le rispose Lavi - Esseri creati attraverso l’incrocio di due o più specie d’animale per mezzo di un processo alchemico. Nei testi antichi sono descritti come bestie mitologiche di cui temere l’ira, ma nel caso di Pierre si fa riferimento a qualcosa di molto più...Blasfemo. -
- Che intendi dire? -
Sgombrata la mensa di tutti i personaggi che avevano contribuito a bloccare la digestione delle colazioni abbondanti di Jerry, quanto rimaneva si giocava sulla voglia di non ritornare sull’argomento e le schegge dell’ampia porta di legno ancora accatastata ai piedi del muro. Lenalee aveva potuto finalmente rinsavire, vezzeggiata da un buon tè portole per sciogliere gli ultimi residui di angoscia che Lvellie le aveva scatenato ancor prima che potesse contrastarla con armi adatte.
- Intende dire che a quel nome ne è associato un altro che la Chiesa ha cancellato ad appena pochi anni dalla nascita dell’Ordine Oscuro, dopo aver inutilmente tentato di sfruttarne le potenzialità. Un autentico tabù -, proferì Bak, il volto velato da una sottile patina di lucente sudore e le braccia fermamente incrociate. Dallo scattare nervoso della bocca, l’oscillazione incontrollata continuava a esternare la sua profonda inquietudine - Con Chimera, la Chiesa fa riferimento a un soggetto umano il cui corpo è stato utilizzato come terreno di coltivazione per sigilli che ne potenziassero le capacità fisiche e conferire loro poteri soprannaturali. -
- Non capisco come ciò possa essere considerato come qualcosa di proibito… -, ammise Allen, in difficoltà nel comprendere la rigidità che il Direttore dell’Asia faticava a contenere, nonostante la postura tesa desse mostra dell’evidente ticchettare che ne sfrigolava le giunture principali.
La manciata di anni trascorsi con il Generale Cross gli avevano permesso di affacciarsi a materie di realtà fattibile solo nei libri, ma al tempo la sua mente vacillava fra il prendere confidenza con la propria croce e affinarla affinchè il senso della sua esistenza fosse conforme ai suoi desideri per dare corda ad altro; il lascito del primo impatto aveva strappato le sue molli percezioni dalla fugace gioia di una prospettiva di vita accanto a Mana e fare dei propri passi una strada sicura su cui proseguire non lo aveva mai spaventato tanto. L’impegno di Cross si era concentrato sul spronarlo ad afferrare l’ineluttabilità del mondo spoglio di superficiali veli - e anche a salvare la sua vita di stupido discemolo emotivo buono solo a commettere errori -, ma fra gli alti e i bassi della loro convivenza, in quel poco che Allen aveva carpito dell’uomo che chiamava Maestro rientrava l’utilità intricata delle sue arti alchemiche; forse, proprio per il non essere mai stato in grado di esplicarne la meccanica, non poteva minimamente immaginarne le molteplici applicazioni.
- Non è tanto quello che sono, ma la storia che c’è dietro, la famiglia progenitrice a esserlo -, asserì l’asiatico - Proverò a spiegarmi meglio. -
Per quel che gli concerneva, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Accidenti alla sua smania di mettere il naso in affari più grandi di lui! Perché diavolo non era rimasto nella sua sede, dove il nulla era assicurato ventiquattrore su ventiquattro? Rimpianse di non avere le braccia appiccicate alla sua adorata scrivania di misero Direttore di filiale, sommersa di scartoffie, moduli da firmare e minacce da parte dei subordinati che sicuramente gli stavano augurando di morire soffocato. Perfino gli isterismi di Four l’avrebbero rincuorato più del doversi calare nel ruolo di infausto cicerone.  
- Di base, il corpo umano è sostenuto da un delicato equilibrio fra forze fisiche, psicologiche, chimiche e spirituali, tutte finalizzate al suo sostentamento, e i sigilli racchiudono un potere in grado di destabilizzare questo bilanciamento. Il limite massimo di sigilli che una persona può tatuarsi è di due, massimo tre, e devono obbligatoriamente appartenere alla stessa classe, ma se si cerca di mischiare due sigilli di ordine differente o di innestarne un numero elevato, scatenano un rigetto come nell’incompatibilità dell’Innocence. Una delle priorità della Chiesa, fin dai primi anni di vita dell’Ordine Oscuro, è stata di avvalersi dei migliori alchimisti per infoltire le file del suo esercito; a quell’epoca non c’era nulla di sicuro, l’Alchimia stessa era ancora un campo da esplorare, ma le esigenze non permettevano tempi di sperimentazione a lunga durata e le Alte Sfere, seppur restie, sono state costrette a scendere a dei compromessi. -
Si concesse un secondo per sorseggiare il suo caffè, freddo, mentre tutto attorno si intonava un coro di stoviglie che venivano lavate e riordinate a seconda dell’uso. La trepidazione spiccava negli occhi di chi lo ascoltava, ballando sulle labbra dischiuse, in attesa che proseguisse.
- L’Ordine Oscuro è stato fondato da famiglie specializzate in tutti i campi che potessero offrire supporto bellico alla Guerra Santa e ricercando gli elementi migliori, la Chiesa ebbe a che fare con i Gremory. Non si sapeva quasi nulla su loro conto, tranne per la notorietà costruitasi grazie alla protezione che offrivano ai monarchi di terre straniere in cambio di prestigio, denaro e immunità. Tutti i suoi membri, a partire dal Capoclan, erano individui dotati di abilità straordinarie, addirittura capaci di sostituire un intero esercito. Considerate le scarse risorse a disposizione di quell’epoca, per non parlare della totale assenza di materiale innovativo da immettere in validi progetti, la Chiesa non ci avrebbe pensato due volte a chiederne l’appoggio, ma quel che la spinse ad escluderla dal progetto fu il tipo di Alchimia che quell’uomo e i suoi familiari praticavano: non c’era testo o libro che ne trattasse, la magia in questione era, oltre che sconosciuta, potente e pericolosa, il che spinse molti a supporre addirittura che ci fosse una correlazione con il Conte del Millennio. In realtà si scoprì che non era così, ma il potere dei Gremory affondava in radici troppo oscure e la Chiesa aveva di che occuparsi per intraprendere un’altra guerra intestina. Da parte sua, quell’alchimista non mostrò interesse a voler prendere parte alla realizzazione dell’Ordine Oscuro, pertanto la faccenda si concluse con un nulla di fatto. Ovviamente, la Chiesa fu costretta a rivedere la sua decisione. -
- Quindi avanzò un’alleanza -, ne dedusse Marie.
- Non aveva altra scelta. A prescindere dalla sua natura, la famiglia Gremory ha contribuito a ristrutturare totalmente la nostra attuale conoscenza alchemica, ma mantenendo per sè quel sapere che ancora oggi non sappiamo replicare -, sospirò il biondo - Vedete, i Corvi hanno tatuati sulle braccia dei Sigilli di Agevolazione, che consentono utilizzare le Carte Mistiche sopra cui è scritto il Kanji dell’elemento di cui vogliono servirsi: basta pronunciare la formula perché il tatuaggio reagisca alla scritta sulla carta e si può usufruire dell’incantesimo, ma il numero di sigilli e di elementi rimangono comunque limitati per prevenire eventuali ritorsioni metaboliche. Le Chimere invece sfruttavano una tipologia di sigilli che aggira entrambi gli ostacoli e il fatto che l’Alchimia alla base di questi marchi rispondesse esclusivamente alla struttura fisica dei membri della famiglia, al loro sangue, rendeva impossibile la sua replicazione. In sé, una Chimera non era che un armamentario alchemico e questo bastava per andare contro a qualsiasi legge alchemica scritta. Centinaia di scienziati, gli stessi padri fondatori della Home, hanno speso la loro vita cercando di trovare una scappatoia ai vincoli corporei e alla meccanica classica dei sigilli; il Capostipite dei Gremory è riuscito dove ancora oggi noi falliamo, il suo è un lavoro che parte dalle basi dell’Alchimia e fiorisce in un parto assolutamente innovativo. Nessuno al dì fuori della sua famiglia si è mai beato di quelle abilità. La Chiesa ha più volte tentato di carpire il segreto di quei corpi, ma una volta realizzato che l’Alchimia dei Gremory era stata concepita per rispondere unicamente al sangue del clan, stipulò con la famiglia un accordo di reciproco profitto per dare vita a una generazione nata fra Chimere purosangue e membri scelti dalla essa stessa."
- Con dei bei matrimoni combinati -, si infilò Lavi, ironicamente gioviale.
Bak annuì - La cosa parve funzionare; i nuovi nati furono denominati Chimere Incrociate e potevano sopportare il peso dei sigilli, seppur in numero minore, ma la prestanze rimanevano comunque superiori a quelle di un Corvo qualunque. I problemi nacquero dopo. - L’incarnato cereo si abbandonò a un colore terreo, gli occhi bagnati di una raccapricciante gravità che raggrumò la nausea accartocciatasi nello stomaco - Nei primi anni di vita, le Chimere Incrociate erano pressoché perfette, operanti al 100%, ma con l’adolescenza alcune cominciarono a mostrare forti segni di squilibrio mentale e malformazioni fisiche in seguito ad un uso spropositato dei sigilli. Fu…Un autentico orrore: ragazzini che, di punto in bianco, perdevano la ragione per le continue alterazioni, consumati lentamente dal rigetto e se non morivano per mano della loro natura finivano per suicidarsi in preda alla pazzia. Considerato il grande successo iniziale, nessuno aveva immaginato che le trasformazioni metaboliche innescate dal passaggio da un corpo bambino a uno adulto potessero rivelarsi tanto distruttive per le nuove generazioni. Ovviamente, chi aveva consentito a questo progetto, non aveva tenuto conto che forgiare delle Chimere con del sangue misto potesse rivelarsi tanto fatale. -
- S-Stai dicendo che il Capofamiglia non aveva ipotizzato quest’eventualità? - Stavolta fu Miranda a parlare.
- E chi l’ha nominato? - Un amalgamato di nervosismo e ilarità allargò la bocca di Bak - No, quell’uomo ebbe l’accortezza di tenersi lontano da una simile atrocità perché era conscio che la Chiesa avrebbe avanzato l’idea delle unioni con esterni. Sfortunatamente, la famiglia era molto grande, con clan minori, e fu un membro di questi, insieme a un piccolo gruppo ristretto di Chimere, a offrire la propria collaborazione in merito a tale sperimentazione. Inoltre, per assicurarsi un ulteriore appoggio, quella stessa persona consegnò alla Chiesa la formula per il Sigillo di Sottomissione. -
- Cosa sarebbe? - domandò Allen. Il numero di vocaboli complicati stava superando la sua soglia di comprensione.
- Un incantesimo di vincolo eterno, scioglibile soltanto con la morte. Veniva applicato all’altezza del cuore delle Chimere dalla persona che doveva proteggere e servire. Una volta tatuato, la Chimera è totalmente vincolata al suo padrone; pur con la volontà capace di esprimere la propria opinione, rimaneva schiava del sigillo, che la obbligava a obbedire ciecamente a qualsiasi ordine impostogli dalla persona designata. Comunque, una volta che tutte le sperimentazioni vennero alla luce, I Gremory si mossero per sciogliere l’accordo stipulato con la Chiesa, ma senza immaginare che questa avesse già pianificato la sua strategia: sicché la maggior parte delle Chimere Incrociate era stata impiegata a Roma e ai danni procurati nei vari incidenti si associò l’impossibilità di replicare la loro Alchimia, la Chiesa giudicò il potere delle Chimere troppo pericoloso per sussistere al dì fuori della sua influenza e ne ordinò l’immediata cancellazione. -
Che ci fosse un’irrisoria possibilità che quell’ultima parte si discostasse dall'esteriorità, orientava la sua percentuale attorno a un nulla più acuto dell’apice insopportabile raggiunto da chi era costretto semplicemente a stanziare nella bolla forgiata dalle pareti ad arco della mensa. Ciascun presente si ritrovò a esprimere la propria incredulità fra cromie di svariata intensità, chi più scioccato – come i giovani Allen, Lenalee e Miranda, atoni nel loro smunto pallore - e chi meno stupito da una scelta tanto radicale. Dalla sua, Bak aveva letto soltanto fascicoli inzaccherati di inchiostro rosso, ma come allora, la smorfia di frustrazione che ne fece affondare i denti nel labbro arrivò vicinissima a spaccarglielo. I potenti non amavano chi minacciava la loro tediosa quotidianità, tremavano d’innanzi a quella prospettiva e reagivano con un’aggressività gonfia d’adamantina intolleranza. Il segreto delle Chimere non era altro che un’arte alchemica forgiata dal sangue dei Gremory e per i Gremory; l’incapacità di averle per sé aveva mosso l’assurda accusa che queste, per il trattamento ricevuto, potessero offrire i loro servigi al Conte del Millennio, un’eventualità che la paura della Chiesa aveva sventato alla radice in una sola notte, con la convinzione che nessuno dovesse permettersi larghi atti di presunzione nei suoi confronti. I dettagli sullo sterminio non erano mai stati resi noti, Bak Chang ci tenne a sottolinearlo bene; importava soltanto l’estinzione d’ogni effimero alito associato al suo nome, impronunciabile. Eppure, da anni, nell’ombra di vicoli sudici e grandi città in via di modernizzazione, inconsueti sibili trasportati dagli echi del vento vociferavano l’esistenza di un piccolo gruppo discendente dai pochi membri salvatisi durante la notte dello sterminio, fuggiti all’estero per trovare nell’aristocrazia non assoggettata all’influenza della Chiesa uno spiraglio di pace. 
Il Direttore della Sede Asiatica deglutì madido di sudore prima di riprendere il discorso - Circa sei anni fa si è verificato uno scandalo dove è stato scoperto il coinvolgimento del Direttore dell'Ufficio Centrale in un traffico di esseri umani. Pubblicamente non è mai stato noto, ma sembra che il suo arresto sia coinciso con un'incidente che avrebbe coinvolto per l'appunto una Chimera su cui era riuscito a mettere le mani. Nessuno ha mai seriamente preso in considerazione l’idea che tutto il clan fosse scomparso in un’unica notte, anche con le centinaia di fonti attendibili che confermano il contrario: avevano le conoscenze e i mezzi per garantirsi una vita nell’anonimato, lontano dal mandato di morte sul campo approvato dalla Chiesa, però... - L’onda di caoticità tornò a indurirne il tono - Come diavolo è possibile che la Chevalier ne abbia addirittura una in custodia?!? Il mandato è ancora attivo e non esiste che la Chiesa abbia fatto un’eccezione! -
- Può darsi, però…Bak-san, lei ha detto che questa famiglia era vasta, con casate minori. E’ possibile che Pierre appartenga a una di queste e quindi che non disponga dei poteri ricercati dalla Chiesa -, ipotizzò Lenalee.
- La faccenda non cambia -, insistette il suddetto, con la pelle del pollice incastrata fra i denti - La linea di sangue principale era indiscutibilmente la più potente, ma anche la più difficile da contrastare, mentre la minore vantava un potere più ridimensionato e pertanto maggiormente malleabile. Non c’era maniera che disponessero degli stessi privilegi del ramo dominante. Ciò nonostante, si trattava ugualmente di creature uniche e la Chiesa avrebbe fatto il possibile per ricavarci qualcosa. -
- Ma il fatto che stia con Amèlie-san significa che forse non è pericoloso come si dice -, titubò Miranda - M-Marie, tu non ne sapevi nulla? -
- No, è una novità anche per me. - Il mancese non mentiva. La decina di anni d’amicizia con la francese si palesarono in un’esigua manciata di briciole d’innanzi alla lontananza solidificatasi in routine.
- Lo abbiamo pensato anche noi, fino a quando non abbiamo visto i sigilli -, subentrò a quel punto Lavi, incrociando dietro la testa scarlatta le braccia - Sono comparsi per una manciata scarsa di secondi, ma ho visto con chiarezza la rete di marchi che gli ha tappezzato il corpo: il piccoletto ha più di 85 sigilli sul suo corpo. -
- E a come Amèlie-san e il Sovrintendente Lvellie si sono parlati, è probabile che la Chimera coinvolta nello scandalo sia proprio Pierre -, terminò Bookman.

Talvolta Pierre Chevalier viveva l’impressione di essere regredito al bruco che era quando rispondeva ancora al nome di Rasiel Arthurian Vamblasset Gremory XIII. Dalla sua trasformazione, un impegno assunto per la propria maturazione era stato conoscere Amèlie Chevalier sotto ogni contorta sfaccettatura che ne rendeva la presenza pressoché inscindibile dal disinteresse. Come il cielo azzurro che muta senza preavviso in una tempesta dolosa, il carattere cangiante orbitava in una dimensione a sé stante, magnificamente piena di una personalità che di criptico possedeva tutto, se non quella fedeltà nei confronti di sé stessa che non lasciava trasparire alcunché di lontanamente simile al bisogno di relazionarsi indissolubilmente agli altri. A lei andava bene così perché così aveva scelto. Il solo quantificare una volontà tanto impervia scatenava in Pierre brividi violenti. E poterla affiancare era un privilegio che si accontentava di lasciarsi schiantare contro le alte scogliere mentre la tempesta innalzava la sua collera oltre il Paradiso. Perché questo era Amèlie: un’isola immobile in mezzo una burrasca. Forte, sicura, audace nella solitudine che la isolava dai suoi simili, la rosa che con la sua fermezza d’animo sfidava l’inflessibile inverno uscendone con i petali lucidi di diamanti. Con quella luce di tenebra che ne imperlava l'aura gli era entrato dentro per poi fossilizzarsi in un’immagine da cui non poteva più separarsi. Bloccato, il suo primo pensiero andò all’errore commesso ed ebbe l’accortezza di non muovere le sue motivazioni. La passività era una delle strategie più affini al disappunto della Chevalier e il fatto che fosse lui a doverla subire inspessì il grumo vivido piantatosi nel petto minuto. L’avrebbe ben rifiutata se a un simile peso si fosse sostituito il dolore fisico di uno schiaffo, ma la Maitresse della Rosa Nera era abile nel tenere appeso a un filo il suo animo e Pierre non poteva obbiettarle nulla. Era stato lui a reagire.
- Non mi aspettavo tanta volubilità da parte tua. -
Eccolo, il rimprovero che cala vellutato e preciso sul suo cuore, tagliandolo in due metà identiche. Nel corso degli anni si era palesato in forme accomunate dallo scopo di aiutarlo a migliorarsi, consumando passi e stringendo le mani graffiate in pugni che diventavano sempre più orgogliosi; ma avrebbe dovuto prevedere che, fuori dalle mura rassicuranti della Rosa Nera, le demotivanti verità addossatesi ancor prima dei suoi vagiti sarebbero tornate per lui. Pierre tacque ancora, fisso nel tempo e nello spazio che lo ferivano con il loro pigro intrecciarsi sull’onda del fresco profumo di ginseng e guarana che gli solleticava scherzoso il naso. Percepiva la presenza di Amèlie stanziarsi vicinissima a lui, convergere nella superba forma dei lineamenti impreziositi dalla chioma d’acqua nera che più di una volta aveva avuto l’ardire di carezzare con manine tremolanti. La bianca vestaglia di raso trasparente sfiorava le cosce lattee aprendosi impudente sulle spalle nude e sul seno. Inspirò lentamente, mentre le lunga ciglia calavano in un attimo di raccoglimento. Aveva sbagliato, sì, intestardirsi sul contrario non sarebbe servito a nulla, perché si era lasciato influenzare dalle malelingue senza riflettere lucidamente. E ora doveva pagare il prezzo delle sue azioni sconsiderate.
- Sono mortificato. - Non osò sollevare il mento, sebbene conoscesse l’opinione della francese sul tenere alta la testa in qualsiasi situazione.
Pensò automaticamente al cipiglio che ne induriva la fronte non appena si accorgeva che qualcosa non era stato predisposto come da lei ordinato, ci condiva l’intero ambiente con quell'impercettibile gestualità; eppure non aveva mai trovato nessuno – lui compreso – che fosse stato capace di ignorarla. Le pulsazioni inciampavano lungo i nervi e sulla scia del sentimento che ne annegava l’esistenza, Pierre si ritrovò intossicato dal caldo e soffice profumo che soffiò dai petali tumidi e rossi della Maitresse della Rosa Nera.
- Le parole possono scindere l’infinito soltanto quando restano parole. E’ dandogli loro un corpo che le vincoli alla mortalità, ma che siano fatte di aria o di roccia non restano che parole, dopotutto. E le parole si possono ignorare, giusto? -
- Sì. -
Udì il fruscio di una pagina che veniva voltata e l’essere consapevole, con acredine certezza, che l’attenzione della padrona, rivolta nei suoi riguardi, consisteva in una qualunque briciola dispersa nella sabbia, affondò la lama rigirandola più e più volte. La natura manipolatrice dell’Esorcista giostrava i sentimenti altrui per i personali obiettivi e privarlo del suo sguardo altro non era che una chiara dimostrazione di quanto plagiato fosse il suo animo nel desiderare che lei gli regalasse una qualunque occhiata. Forse, però, era meglio che quella passività si protrasse un altro po’, perché scarse erano le chance di competere con il potere penetrante degli occhi d’onice della francese, ma già l’ombra del suo indice gli aveva fatto cenno di avvicinarsi e prima di rammentare che la mente della Maitresse della Rosa Nera viveva intessuta in una ragnatela di illusioni partorite per il solo piacere di adempiere ai suoi obiettivi – quali che fossero -, si ritrovò adagiato sulle sue gambe.
- Ho bisogno di sapere che farai tutto quello che ti ordinerò, mon bien-aimè*. Compreso rimanere al tuo posto, senza fare domande; le persone con cui abbiamo a che fare sono pronte a qualsiasi cosa per sostenere la loro causa. Se ti ho voluto in prima linea con me è perché sei il solo che possa garantirmi maggiore mobilità. Lo capisci, vero? -
- Certamente, Amèlie-sama. -
E Pierre lo comprendeva per davvero, al dì fuori dei riflessi meccanici che tendevano a non avere un senso dietro il loro attuarsi, soprassedendo anche sull’essere escluso dai contenuti di materia oscura sopra cui la donna non faceva che spendere ogni energia libera. Da qualche parte nel corridoio, l’eco del pendolo scoccò l’una e il tempo trascorso in ginocchio, in mezzo a una stanza che il crepuscolo aveva incendiato di fiamme soffuse, si annichilì a un nulla di fatto, inesistente.
- C’è da dire, comunque…Che a una donna come me fa sempre piacere che il suo cucciolo preferito sia sempre pronto a difenderne l’onore -, proseguì melliflua. Pierre arrossì non appena avvertì le dita nivee della maestra attrarlo a sé e tracciare affettuosamente linee invisibili sul suo viso - E su questo fronte posso reputarmi più che soddisfatta. -
Non esistette maniera di concepire l’influenza del sorriso compiaciuto che ne increspò le labbra vermiglie. Qualsiasi attenzione da parte di Amèlie Chevalier lo spogliava d’ogni maschera di gelida indifferenza rivolta al mondo intero, riducendolo a un esserino vulnerabile all’imbarazzo che avrebbe anche detestato, ma sostenere l’Esorcista che si stava divertendo a inanellargli i capelli rifletteva la scelta di voler vedere fino a che punto potesse arrivare da sé. Sì, avventarsi sui Corvi era stata un’azione deplorevole per l’immagine di entrambi, un colpo doloroso all’orgoglio che tanto dipendeva dalla considerazione che la donna nutriva nei suoi confronti, ma ciò non toglieva che quella feccia immonda avesse avuto l’ardire di sparlare della persona a cui doveva tutto. La signorina Amèlie, la sua salvatrice, l’unica che fosse riuscita a conquistarsi la sua fiducia dopo averlo tirato fuori da un oceano di ferrose tenebre che ne aveva carpito il cuore con la paura e la disperazione, la prima e sola con il potere di placarlo e farlo rinsavire dalla bestia con cui condivideva il corpo.
- Mi aspetto maggiore autocontrollo da parte tua. - Alzatogli il mento con l’indice, lo costrinse a un confronto pressoché spietato - Ho totale fiducia nelle tue doti e so che non mi deluderai, perché tu non vuoi che io sia arrabbiata con te. Non ho forse ragione, Rasiel? -
Il castano annuì energicamente, troppo in fretta per quel bambino calcolatore e riflessivo che in fondo era.
- Excellent, mon petit* - E non mancò di premiarlo con un bacio a fior di labbra - Allora, descrivimi la situazione. -
Pierre annuì, ma prima ancora di parlare, scese dalle gambe della corvina per riempirle un calice scintillante di vino, confidando che da lì a qualche minuto sarebbe occorso. Dopodiché si portò alle sue spalle e con la mano munita di un pettine, cominciò a far scorrere fra i denti appuntiti fili di ciocche luminose. A ogni premura, la cascata di capelli scivolava morbida sulla schiena “E’ come sospettava lei: i Corvi hanno messo sotto sorveglianza tutti i canali di comunicazione con l’esterno e la Sezione Scientifica per le analisi che riguardano l’Arca Bianca e L’Uovo. Niente può entrare o uscire senza un controllo approfondito. -
L’appena corrugarsi della fronte denotò un fastidio già tenuto da conto. In fondo, da Malcom C Lvellie non ci si poteva aspettare che un efferato senso per il dovere. Riunire il Consiglio composto dai Leader di tutte le sedi minori dell’Ordine Oscuro non era stata altro che una ridicola pantomima inscenata giusto per dare la parvenza che i protocolli burocratici sortissero ancora una qualche importanza; era giunto al loro cospetto con decisioni prese, posizioni irremovibili e intenzioni altrettanto chiare. Sfruttare l’Arca Bianca e le potenzialità della matrice per i corpi magici degli Akuma a loro vantaggio aveva vinto su qualsiasi tentativo di posticipare i progetti già autorizzati dal Santo Padre, ma erano state le vicende susseguitesi per il loro recupero ad aver visto Komui impiegare ogni strategia possibile per porre alternative meno inflessibili: Allen Walker si era guadagnato l’attenzione di occhi critici per la propria Innocence somigliante alla spada del Conte del Millennio e lo stretto coinvolgimento nel successo di una missione tanto pericolosa aveva contribuito solamente a inspessire l’alone di fulgido sospetto che ne minimizzava l’indole caritatevole. Era nella delicatezza di simili momenti che le crepature si arcuavano, concedendo al panico di capovolgere sentimenti candidi per colorarli di tonalità anguste; il Supervisore aveva troppo a cuore l’incolumità degli Esorcisti perché venissero trattati alla stregua di oggetti da adoperare oltre i loro limiti, tuttavia, la sorpresa più infausta era stata riservata a Marian Cross e alla sua sfrontatezza di spiegare all’aria discorsi utili a non delineare alcunché. In una misura sibillina al cui calare sprezzante nella sala aveva scosso l’intero Universo, Lvellie aveva scoperchiato la faccenda del Quattordicesimo piantando paletti solidi in tutta una serie di accuse inattaccabili. Se l’Ufficio Centrale era al corrente delle macchinazioni passate del Noah traditore, lo era anche la Chiesa. Amèlie dovette digerire la constatazione con una tonificante boccata di tabacco bruciato concessasi prima di riprendere in mano le proprie elucubrazioni; nella sua misera posizione di complice – così era stata valutata dalla riunione generale – la sua libertà di movimento si poneva limitata per ragioni trapunte dalla presunzione di Lvellie nel conoscerne l’indole affine ai sotterfugi e  benchè ciò determinasse un prolungamento dei suoi piani originari, questi erano già entrati in azione.
- Amèlie-sama? - Pierre si schiarì la voce, sporgendosi appena per cogliere il tipo d’espressione che faceva capolino da dietro i filamenti di tabacco evaporato in arricciature spumose.
La donna pestò la sigaretta nel posacenere, sciacquandosi la lingua impastata con il vino versato nel calice posato appena pochi millimetri più in là - Attieniti a quanto abbiamo stabilito, mon petit*. Quale che sia la circostanza. -
Nel sollevarsi in piedi, un luccichio metallico destò l’interesse della Chimera; dalla tasca sinistra della vestaglia si intravvedeva quella che identificò come la catenella argentata di un rosario. Le perle di luna grigia e scarlatte vibravano di un intenso riverbero e con la premura adoperata da Amèlie nel sfilarlo per così adornarsi il collo, concedendosi un attimo per stringerne la croce d’argento, Pierre non lasciò spazio ad alcuna perplessità che offuscasse la certezza che quel gioiello fosse per davvero il prezioso rosario donato al Generale Marian Cross in un tempo non concessogli di conoscere nei dettagli. Perché ne era ritornata in possesso?

- Che cos’ha combinato? -
Anche quel giorno, nella stanza di Komui trionfava il disordine. Come non ci si potesse perdersi rimaneva un mistero legato alla remotissima ipotesi che, ogni tanto, il Supervisore si degnava di sedersi alla scrivania a lavorare come gli altri poveri reietti ormai rassegnati alla prospettiva di dover morire senza aver mai goduto di una vacanza degna di tale nome estranei. Gli piaceva prendere le cose alla larga, girarci intorno, buttarle allegramente sul piatto spiazzando chi poi doveva mangiarci, sapendo di non avere altra scelta; non che durante quei giorni frenetici non fosse stato tentato di bigiare, ma era stato proprio per amore dei suoi adorati sottoposti – che lo avrebbero preso a scudisciate vivo, qualora avesse osato mollarli al loro vile destino -, e per la complicanza del periodo in sé, che aveva reputato saggio prendere in mano la situazione e ridimensionare i cumuli cartacei che minacciavano di cadergli in testa. Tutto per racimolare abbastanza concentrazione e dunque pensare a come re-impostare un clima respirabile, impresa tutt’altro che facile senza il buon caffè di Lenalee a dargli la spinta. Invano si crogiolava nel sapore dei ricordi felici, guardando il segno circolare lasciato dalla tazza sul legno della scrivania, ma ancora una volta lo depose delicatamente da parte per focalizzarsi sull’attuale impiccio che occupava il suo divano. Rapportarsi con quel tizio metteva in gioco lo stesso impegno adottato nell’estrapolare il senso da un quadro astratto. Un’impresa da rimetterci il senno per le troppe testate.
- Romanee Conti invecchiato di trent’anni. - La voce roca e beffarda del suo ospite sogghignò alla vista dell’etichetta segnata da scritte rosse e svolazzanti - Quei fessi dell’Ufficio Centrale non hanno idea del guaio in cui si sono cacciati. Peccato solo di non poterlo bere in compagnia… -
- Non penso sia tanto grave, se confrontato a quello dentro cui è invischiato lei -, sospirò il Supervisore, fisso nel completare formule chimiche già andate oltre la metà pagina.
- Questo perché non sai cosa significhi dovere un favore a una bella donna. -
Marian Cross era comodamente sdraiato sul divanetto del suo studio, una gamba alzata e l’altra distesa, il collo della bottiglia di vino a ondeggiare fra dita. Sortiva un certo effetto ritrovarselo fra i piedi dopo tanto tempo passato a cercarlo in ogni angolo remoto della terra e nessuno nutriva dubbi sul fatto che la sua permanenza si sarebbe esaurita nell’istante in cui i suoi interessi avrebbero ripreso a girare, distruggendo la strada che bruciava sotto i suoi passi, ma benché la forte propensione a levare le tende turbinava minacciosa, Komui non aveva dato, ne dava tuttora, mostra di alcuna preoccupazione: almeno su quel fronte, confidava ciecamente sulla prontezza di Amèlie nel raccattarlo con la giusta dose di calci volanti. Quella donna era l’unico essere che se ne fregava delle ripercussioni diaboliche di cui era capace il Generale e per il bene di chi le stava attorno, era consigliabile non mettere naso nelle questioni che coinvolgevano l’uomo dai capelli carmini. Ma per il Supervisore l’osservare col cuore equivaleva a fomentare legami umani di cui aveva bisogno per protrarre il desiderio di proteggere i suoi ragazzi, e Amèlie non faceva testo. Inforcando gli occhiali con l’indice, sospirò nuovamente, non volendo neppure figurare l’orribile umore con cui era stato impresso il livido che tanto evidenziava la guancia del rosso.
- Avanti, che le ha detto per farla arrabbiare tanto? - Lo sollecitò bonario il cinese, posando la piuma d’oca.
- Sai perché mi piacciono le donne, Komui? - Gli domandò invece quello, dopo aver deglutito l’ennesimo sorso tracannato sdegnosamente - Perché sanno amare. Non nel senso di affezionarsi o provare simpatia, no: parlo di amare come se da ciò dipendesse la loro stessa vita. Qualche idiota è convinto che siano le creature più insaziabili di questo mondo, ma è solo perché non vogliono avere a che fare con la semplicità. L’amore…E’ complicato. Diavolo, se lo è! - Sbottò, protraendo il lungo fissare il poco liquore rimasto, con le iridi scarlatte tinte della vana speranza di vederlo magicamente riempire la bottiglia - E loro vogliono che sia così perché altrimenti non rifletterebbe la passione che le anima. Se si rifiutassero di averci a che fare, probabilmente si abbruttirebbero e credimi se ti dico che al loro cuore non piace mostrarsi sconfitto. -
- Questo vale anche per Amèlie? -
Un leggero martellio di sottofondo, proveniente dai piani bassi, si levò flebile insieme ad altri suoni elettrici di eco vibrante. C’era fermento, nei laboratori, ma niente di lontanamente capace di smorzare la placidità di cui Cross si avvalse per cincischiare con le labbra corrucciate, le iridi vermiglie fisse sul vetro scuro della bottiglia. Un sospiro si elevò sovrano, uno sbuffo rassegnato che accompagnò un sorriso indeciso fra l’ilarità o l’arresa dell’uomo che condivideva con lui quelle mura. Certe persone non le capiva, Komui: o forse le capiva e preferiva che le loro motivazioni non fosse deturpate da punzecchianti suggerimenti. A volte bisognava lasciar correre, permettere agli altri di proteggersi con difese in realtà buone solo ad arrecare maggiori sofferenze, l’importante era che sapessero a chi rivolgersi qualora la strada fosse diventata troppo buia per distinguere una direzione dall’altra. Sfortunatamente per lui, l’illeggibilità di Cross armava di scempio il suo essere ancor più criptico e il dare Allen in pasto alle sentinelle dell’Ufficio Centrale non aiutava la buona volontà di Komui a coglierne l’intento segreto – ammesso e concesso che ne serbasse anche soltanto l’ombra -.
Per quanto concerneva Amèlie…
Di lei non avrebbe voluto preoccuparsi al punto da darsi l’impressione che la fiducia riposta nella sua forza fosse di misera evanescenza, solo non poté fare a meno di annaspare al pensiero che quella cosa – preferì non attribuirle alcun nome al solo scopo di evitare un suo catastrofico concretizzarsi – aveva tutte le credenziali per degenerare in qualsiasi direzione decidesse di indirizzarsi. Si trattava pur sempre di Amèlie. Amèlie e Cross insieme! E, buon Dio, qualcosa doveva essere capitato perché non esisteva nessun'altra mano, oltre a quella della francese, in grado di lasciare segni tanto devastanti su una sola parte del corpo.
La mancanza del prezioso rosario che il Generale soleva accompagnare al soprabito nero gli era caduta sotto gli occhi assonnati non appena quello aveva fatto sfoggio della propria guancia livida di un viola appariscente, subito prima di territorializzare il suo divano senza avanzare domande di cortesia al riguardo.
- Non è per qualcosa che ho detto o fatto quello, ma per come lascio intendere le cose. - Lo sentì pronunciare e al Supervisore non mancò di cogliere l’ombra cosparsasi sul volto del suo ospite - Facciamo delle nostre fantasie una realtà a tutti gli effetti, ma quando siedi allo stesso tavolo per tanto tempo, e con le stesse persone, ti accorgi che non puoi più smettere di chiederti cosa sia reale e cosa falso. -
E da lì in poi, il suono della sua voce fu coperto dall’allarme generale.

Note di fine capitolo:
1*: Mio adorato (Francese).
2*: Eccellente, piccolo mio (Francese).
3* Piccolo mio (Francese).
E vidi la luce in fondo al tunnel! Non sapevo più come sistemare questo capitolo - lungo e intricato per i motivi che si possono trarre benissimo dal contenuto - e ho dovuto togliere un evento cruciale per non incasinarmi più di quanto già lo sia. Il suddetto evento verrà svelato più avanti e darà prova di quanto Amèlie abbia scoperto e le sue intenzioni sulla faccenda del Quattordicesimo. Qui ho voluto dare rilievo a Pierre, creando il tanto sospirato aggancio con il suo speciale spin-off. Grazie anche a “Perle di un filo ingarbugliato”, spero di farvelo conoscere ancora meglio, fra momenti seri e comici giusto per smorzare l’atmosfera cupa tipica di questo manga.  Mando a tutti quanti un bacione! A presto!

 

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