The Ocean in her Eyes

di Eden_9489
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Lista capitoli:
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** 1.Pain ***
Capitolo 4: *** 2.Ocean, Work and Old Friend ***
Capitolo 5: *** 3.Her ***
Capitolo 6: *** 4. She have her eyes ***
Capitolo 7: *** 5. Damn Universe! ***
Capitolo 8: *** 6. Rewind ***
Capitolo 9: *** 7. Samantha's house ***
Capitolo 10: *** 8. Iron Hearts ***



Capitolo 2
*** Prologo ***


 La luna è così alta in cielo questa sera, tanto lontana, ma ugualmente tanto grande. La sua candida luce illumina la città rendendola ancora più magica. Sento un delicato tocco sulla spalla, mi volto e ad accogliermi i suoi dolci occhi e il suo sorriso. Nonostante siano passati anni non riesco ad abituarmi alla sua straordinaria bellezza, credo che non ci riuscirò mai. Mi colpisce in pieno petto come fosse la prima, è come se, dopo esserci andato a sbattere contro come un cretino in mezzo ai corridoi della scuola, ogni volta la rivedessi stretta in nei suoi jeans e con quegli occhi blu oceano tanto profondi da affogarmi. Ero solo un ragazzino, avevo paura di come mi facesse sentire ma, grazie a lei, capì tutto ciò che c'era da capire sull'amore.  Tende la sua mano verso di me, la stringo forte e tutto magicamente è al proprio posto. Ci incamminiamo verso la macchina, è stata una bella serata, per adesso, con il diploma che si avvicina, le domande per il College e la borsa di studio che potrei non riuscire a prendere, sono abbastanza stressato e ci voleva proprio una serata così. Solo io e lei, a me non basta altro. Imbocco senza pensarci l'Interstate 10 West diretto a Santa Monica.

- Io mi sono divertita, e tu? - la sua voce rompe il silenzio tranquillo che si è creato, purtroppo sono di mio un tipo taciturno, di poche parole, e tutto si accentua quando guido. La guardo di sott'occhio, guarda fuori dal finestrino le luci che passano veloci ed illuminano a tratti la macchina.

- Mi sono divertito anche io - sorrido tra me e me, tenendo gli occhi ben piantati sulla strada. La sento voltarsi verso di me.

- Hai visto che non era poi una così cattiva idea venire qui? - ride soddisfatta incrociando le braccia al petto. Devo ammetterlo, questa volta ha ragione lei. Ero un po' scettico all'inizio, avrei preferito restare a Santa Monica o meglio ancora a casa sul divano a guardare un bel film. Lei però voleva fare qualcosa di diverso e, dopo minuti e minuti di "per favore" e baci ruffiani, l'ho accontentata. Come potrei dire no al suo faccino? Mi è praticamente impossibile.

- Ok, va bene. Los Angeles non è stata una cattiva idea, abbiamo mangiato bene e ci siamo divertiti, è contenta signorina? -  dico in modo ironico.

- Moltissimo! - mi fa la linguaccia ed io le accarezzo il viso. Torna a guardare il finestrino mentre distratta aggroviglia una ciocca di capelli rossi tra le dita, le basta poco per perdersi nel suo mondo. Ho sempre amato i suoi capelli, come qualsiasi parte di lei ovviamente. Quando la conobbi li aveva lunghissimi, erano il mio passatempo preferito, ci passavo ore a giocarci. Ricordo il trauma quando li tagliò sopra le spalle, fortunatamente adesso sono ricresciuti ed io ho potuto riprendere con il mio passatempo. La guardo per qualche secondo, mi capita spesso di fissarla quando non se ne accorge. La guardo e mi sento perso. La guardo e ogni cellula del mio corpo mi spinge a stringerla forte tra le mie braccia e non farla più andar via. Ho bisogno di lei, sempre. Sentire il suo profumo, il suo calore, toccare la sua pelle nuda, bearmi delle sue carezze leggere. Non voglio che torni a casa questa notte, voglio che resti con me.

- I miei non ci sono questa sera, magari potresti dormire da me. Ti va? - forse sono stato un po' precipitoso ma è più forte di me. La prendo di sorpresa, mi guarda qualche secondo incuriosita. Probabilmente si starà domandando cosa mi passa per la testa, ma non c'è niente di malizioso. Ho solo voglia di lei nel modo più innocuo e semplice possibile.

- Si, si potrebbe fare - le sue parole mi prendono alla sprovvista, è la prima volta che dormirebbe da me, di solito, quelle poche volte che abbiamo dormito insieme, è stato sempre a casa sua.  Sorrido raggiante e lei posa la sua mano sulla mia gamba. Lo fa spesso, a me piace, è il suo modo per farsi sentire, per mantenere quel contatto a cui entrambi non riusciamo a rinunciare. Il bisogno di toccarci supera ogni cosa. Passano una decina di minuti in completo silenzio, entrambi persi tra i propri pensieri, ma la sua voce lo rompe ancora una volta.

- Ti amo - due parole. Bastano due parole a farmi tremare così forte da star male.

- Ti amo - mi volto verso di lei e vengo completamente inghiottito dai suoi occhi, tanto profondi da non trovar più via di fuga. Piano si avvicina a me e le nostre labbra si incontrano. Sento il suo sapore, quel sapore che ormai è come una droga per me.

- Logan attento! - Tutto quello che succede dopo è il caos. La macchina con cui andiamo a sbattere. Il testacoda che avviene mentre cerco di riprendere il controllo. Un'altra macchina che ci sbatte addosso. La macchina che cappotta più e più volte. Frammenti di vetro, pezzi di lamiera che finiscono ovunque. Rumori assordanti. Sangue. Dolore. Poi tutto si ferma. Mi ritrovo a testa in giù, un dolore lancinante alla testa e alla gamba destra, il sangue che mi cola sul viso, completamente intorpidito. Mi volto verso di lei, il mio primo pensiero. E' li, ancora accanto a me, immobile. Il viso sfregiato, pieno di sangue.

- I-isabel - cerco di raggiungerla con la mano, voglio toccarla, voglio assicurarmi che sia viva perché l'alternativa che si sta facendo spazio dentro di me non riesco ad accettarla. - Isabel - la chiamo ancora una volta, nessuna risposta. Calde lacrime si mischiano al sangue e piano tutto scivola via da me. La sua immagine, i rumori attorno a me, non sento più niente. C'è solo buio, buio freddo che mi avvolge e mi fa perdere i sensi.
 
La mie palpebre si aprono come molle, i miei occhi fissano il soffitto ammuffito sopra di me. Sono quasi sicuro di poter sentire il dolore, l'odore del sangue e invece niente. Solo silenzio. Volto piano la testa alla mia destra, osservo stranito la sveglia. Segna le sette e mezza. Era solo un sogno, un sogno che a distanza di anni mi tormenta e mi uccide dentro. 

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Ciao a chiunque sia stato così gentile a leggere il prologo della mia storia! Sono molto affezionata a questa storia e per me è preziosissima quindi mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, se vi piace, se ne siete incuriositi. Aspetto i vostri commenti :)  

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Capitolo 3
*** 1.Pain ***


 Sono passati ormai tre anni da quel terribile giorno. 

Purtroppo però, ogni notte, il ricordo di quella sera mi tormenta ed è tutto così reale da fare male, troppo male. Sono stanco, stanco di tutto. 

Più volte ho pensato di andarmene, di andare via e lasciarmi tutto alle spalle, ma non ci riesco. E' come se qualcosa mi tenesse incatenato a questo luogo. Come se ci fosse ancora qualcosa qui chedevo fare, un conto in sospeso da pagare. 

Il problema è che ogni cosa, anche la più piccola mi ricorda lei. 

Per prima cosa l'oceano. 

Mi ricorda i suoi occhi, di quel blu così intenso in cui amavo perdermi e naufragare. 

Quando posso, al crepuscolo, vado sul molo per contemplare la bellezza dell'oceano, per convincermi che lei non se n'è andata davvero, che è ancora qui, che vive in lui e veglia su di me. E' l'unica cosa che mi da conforto, che mi fa tirare avanti, sopravvivere. Come potrei voltarle le spalle, abbandonare tutto questo? Non posso. 

La mia vita da quel giorno è cambiata così tanto. Ogni tanto mi capita di ripensare a quel ragazzo innamorato di tre anni fa, ma è come se rivivessi i ricordi di un altro. Tutto è così lontano e indistinto, un'altra vita vissuta che ormai non mi appartiene più. 

Avevo tanti progetti, tanti sogni nel cassetto ma è fallito tutto. Ogni cosa era legata a lei, il mio futuro era lei. 

Ancora oggi non riesco a credere a come abbia tirato avanti in questi anni, cosa non mi abbia fatto cedere, lasciar andare, porre fine al mio dolore.

 Non so se sono state più le volte in cui ho pensato di farla finita o quelle di andare via, comunque sia non sono riuscito in entrambe le cose. Farla finita farebbe smettere il dolore, la sofferenza certo, ma non posso farle questo. So dentro di me che lei non vorrebbe mai una cosa del genere, non me lo perdonerebbe. 

Mi sento così solo, una solitudine che non riesco a colmare. Non sono riuscito ad avere un'altra ragazza in questi anni, nessuna era abbastanza, nessuna era lontanamente perfetta come lei. Certo sono un uomo, ogni tanto do' sfogo alla mia natura, ma dopo quei pochi secondi di piacere, il vuoto dentro di me si fa più grande.

 Per me è quasi una sofferenza, baciare labbra che non sono le sue, sentire profumi che non si avvicineranno mai lontanamente alla perfezione del suo. E così anche i capelli, la pelle, guardare occhi in cui non vedo niente, in cui non vedo la sua anima.

Sono un parassita, mi sento una persona inutile la maggior parte del tempo. Il primo anno ho anche iniziato a bere, bevevo così tanto da dimenticare persino il mio nome, ma dopo esser finito in ospedale un paio di volte ho deciso di smettere. Ho iniziato a fumare, cosa che lei odiava profondamente, ma adesso fumo molto di rado, una sigaretta ogni tanto, quando ho bisogno di rilassarmi un po'.

Quando non sono a lavoro, sto a casa a trascinarmi da una stanza all'altra. Faccio il cameriere in un ristorante messicano, lo faccio da due anni ormai. Fare il cameriere non è mai stato il mio sogno, ma la paga è buona e poi è sul molo, in questo modo ho l'oceano sempre vicino. Molti odiano il proprio lavoro, io invece non vedo l'ora di andarci, è l'unico modo per non pensare, l'unica cosa che mi separa dal dolore costante che provo dentro di me. 

Non so quanto ancora durerà tutto questo, quanto ancora devo pagare? Quanto tormento, quanta sofferenza? Vorrei tanto strapparmi il cuore dal petto, non provare niente. Vivrò mai senza questo peso enorme, questo dolore lancinante, questo buco nero che mi sta inghiottendo pezzo per pezzo?

Vorrei davvero restare nel tepore del mio letto, ma non posso stare qui un minuto di più. I raggi del sole che giocano sulla parete di fronte a me sono il chiaro segno che è ora di alzarsi. 

Mi trascino in cucina, un piede dopo l'altro, con la lentezza pari a quella di un bradipo. Una volta in cucina preparo il caffè, spero che almeno lui possa movimentare un po' la mia giornata. Mi avvicino alla finestra e scosto un po' la tenda per guardare fuori, di fronte a me la signora Smith cura le piante in giardino. Faccio in modo che non mi veda, anche se, vista la sua tarda età, dubito fortemente che riuscirebbe a vedermi anche se le ballassi davanti. 

 Non che sia una cattiva signora, la conosco da quando sono nato, mi ha fatto da babysitter per anni, solo non sopporto il modo in cui mi guarda. I suoi occhi pieni di comprensione e pena mi fanno solo sentire peggio. Ma è l'unica persona di riferimento che mi è rimasta.

 Abito al secondo piano di un piccolo residence color kiwi sulla Bicknell Ave, è un posto tranquillo, ma oltre alla signora Smith, che abita in una piccola casetta al lato opposto della strada, non posso contare su nessun altro. 

Torno ai fornelli e preparo la caffettiera per il caffè. Mentre aspetto, il mio sguardo si posa sulle piccole tende che coprono le finestre. Le ho sempre odiate, fin da piccolo, come molte cose in casa mia, ma non voglio toglierle, ne cambiare qualcosa in tutta casa. 

E' uno dei pochi ricordi che mi son rimasti di mia madre. E' morta due anni fa, un brutto tumore al seno scoperto troppo tardi. Ha iniziato a marcire dentro anni prima e non ha mai detto niente a nessuno, nonostante si sentisse male, ne nessuno si è mai accorto del suo malessere e nessuno ha potuto fare niente per salvarle la vita. Arrivata al quarto stadio è tutto inutile, chemio, radio, persino l'operazione. Era tutto tropo esteso, aveva metastasi ai polmoni, al cuore.

 Ci sono momenti in cui mi sembra che anche la sua morte sia stata colpa mia. Avevo perso Isabel solo da un anno, ero distrutto, bevevo, come detto prima, ero egoista. Pensavo semplicemente al mio dolore, non esisteva niente e nessuno. E lei era li, sempre costantemente al mio fianco, mi ha coperto con mio padre ogni volta che venne a prendermi in ospedale. Subiva ogni mio capriccio, ogni sfuriata. 

Sono stato così cieco, lei cadeva a pezzi davanti a me, ma io vedevo solo i miei di frammenti. Se solo fossi stato più attento, se solo avessi fatto più caso ai segnali, probabilmente lei sarebbe ancora qui. Ma il mondo è un posto crudele e mi ha portato via anche lei. Mio padre, d'altro canto, ha preso a balzo l'occasione ed è andato via di casa. 

L'ha lasciata morire anche lui, ma in modo più grave. Le sue armi erano l'indifferenza ed il menefreghismo. Più volte mi ripeté che mamma l'amava davvero, ma erano tutte bugie, se l'avesse amata davvero si sarebbe accorto del mostro che aveva dentro di lei e che le stava risucchiando via la vita.

 Adesso vive a New York con la sua nuova compagna. Ci sentiamo raramente e ci vediamo ancora meno. Lui non è mai voluto stare qui, non è mai stato posto per lui, ma mia madre è nata qui ed ha amato questo posto incondizionatamente fino alla sua morte. 

Una volta preso il caffè mi accendo una sigaretta. Faccio il primo tiro, il fumo caldo mi brucia la gola mentre la nicotina mi entra in circolo facendo il suo dovere. Se solo mi vedesse lei, di certo non sarebbe fiera di me. Ma che altro posso fare? Lei non c'è più, niente me la restituirà, devo pur cercare di tirare avanti, vivere con la sua assenza. 

Schiaccio nel posacenere posizionato al centro del tavolo il mozzicone mentre l'ultima nuvola di fumo esce dalla mia bocca. 

La mia prossima tappa è il bagno, mi spoglio completamente e mi butto sotto il getto caldo della doccia. L'acqua calda mi accarezza, si insinua in ogni fessura, come se mi penetrasse oltre la pelle. Resto più del dovuto a bearmi di quel calore. Chiudo gli occhi e alzo il viso in modo che il getto caldo mi arrivi ben diretto. Inevitabilmente è come se mi ritrovassi dentro quella macchina con il sangue caldo a colarmi sugli occhi, ad offuscarmi la vista e subito entro nel panico. Cerco di respirare ma con il caldo asfissiante che si è creato in bagno non ci riesco. Esco dalla doccia a tutta velocità ed apro la porta. Una ventata di aria fresca mi inonda e finalmente prendo ossigeno. 

Respiri profondi e piano il mio cuore smette di galoppare. E' più forte di me, non riesco a fermarle. Da quel giorno continuo ad avare orrende allucinazioni, così tanto reali da farmi vivere dei e veri e proprio attacchi di panico. Fortunatamente adesso so come controllarmi, ma non riesco comunque a farle andare via del tutto. 

E' la mia punizione, credo. 

Mi avvolgo nell'accappatoio e vado in camera da letto, una volta indossato i boxer, prendo il primo jeans e la prima maglietta che mi capitano. Ritorno in bagno e mi piazzo di fronte allo specchio appannato. Cerco di ripulirlo con le mani. Di fronte a me appare un ragazzo alto a cui gli anni hanno fatto decisamente un brutto scherzo. I capelli color pece spettinati e ancora un po' bagnati mi ricadono sulla fronte non troppo ampia, non riesco mai a domarli, a sistemarli per bene, è come se avessero vita propria. Il naso non è niente di particolare, ereditato da mio padre, e lui, interamente, non è niente di particolare. Gli occhi sono l'unica parte che mi piace di me. Un po' perché mi piace il colore che hanno, un po' perché sono identici a quelli di mia madre. Sono a mandorla, abbastanza grandi, di un colore verde bottiglia. Sembrano due stagni e sono impenetrabili. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima, di solito è così, ma non per quanto riguarda i miei. Solo una persona è riuscita a leggermi dentro, a rompere queste due barriere, a vedere la mia anima e da tre anni a questa parte non è più al mio fianco. Le labbra sono grandi e carnose, altro regalo di mia madre insieme alla pelle olivastra. Il viso è un po' allungato, ma nel complesso diciamo che ho il mio fascino. 

 Mi sciacquo il viso con abbondante acqua fredda e poi tocca ai denti. Una volta pronto torno in camera e metto le scarpe. Prendo le chiavi della moto ed esco di casa, faccio le scale di corsa e in pochi secondi sono fuori. 

 L'aria calda mi si appiccica un po' addosso, saluto con la mano, senza avvicinarmi, la signora Smith ancora intenta a potare le sue adorate piante e monto in sella. Dopo aver distrutto la macchina ho deciso di non volerne più. So che è da stupidi comprarsi una moto, è molto più pericolosa della macchina, ma riesce a farmi sentire un po' meno morto. Anche se mi succedesse qualcosa non avrebbe importanza, non sarebbe una grande perdita per l'umanità.

 Indosso il casco e la moto, una volta accesa, trema sotto di me rumorosa. Vago senza meta per la città balneare, il vento mi solletica le braccia scoperte. So che non ha molto senso vagare per la città, ma è sempre meglio che restare a casa, mi fa sentire come se avessi ancora uno scopo. 

Dopo un po' la moto si ferma e, inevitabilmente, mi trovo di fronte al cimitero. Ci vado tutti i giorni, lo faccio per lei, per non dimenticarla, lei non se lo merita. E lo faccio per mia madre che, oltre me, non ha mai avuto realmente nessun altro. Compro due rose rosse, fresche, profumate, le più belle in mezzo al mucchio. 

Prima mi dirigo da mia madre, sostituisco la rosa di ieri con questa fresca e dopo averle raccontato cosa ho fatto ieri, di come la signora Smith sia stata così premurosa a prepararmi del roast-beef, vado via. 

Raggiungo la tomba di Isabel e mi inginocchio di fronte ad essa. Cambio anche qui la rosa, resto immobile a fissare la sua lapide. La tocco come se da un momento all'altro potesse rompersi, ripasso con il dito ogni incisione come se stessi accarezzando lei, come facevo un tempo. Mi piaceva tracciare con un dito ogni sua forma, con la stessa leggerezza, con la stessa paura che anche lei potesse rompersi, così da imprimere ogni più piccolo suo dettaglio per bene nella mia testa. Ma adesso, ad essere sincero, non riesco più a ricordare niente.

- Perdonami.. - sussurro. Ogni giorno convivo con questi sensi di colpa, ogni giorno vivo con il pensiero che, se quella sera fossimo rimasti a casa, tutto questo non sarebbe successo. Lei sarebbe ancora viva, accanto a me. Tutti i giorni vivo con la consapevolezza che se fossi morto io al posto suo tutto sarebbe diverso. Lei avrebbe continuato ad inseguire i suoi sogni, a vivere una vita piena e felice, anche senza di me.

 Vorrei piangere, sfogarmi, urlare ma non ci riesco. Dopo il giorno in cui mi son reso conto che fosse morta, non ho più versato una lacrima. Ne al funerale, ne dopo. E so che è un male, so che prima o poi scoppierò. Un vulcano che distruggerà tutto dopo aver dormito e covato dolore per anni. Prendo un bel respiro profondo e mi alzo in piedi. Accarezzo ancora un po' la lapide prima di voltargli le spalle e andare via. Una volta tornato sulla moto decido di andare in spiaggia.

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Capitolo 4
*** 2.Ocean, Work and Old Friend ***


Arrivato in spiaggia tolgo le scarpe e i calzini e cammino a piedi nudi. 

La sabbia calda brucia la pianta dei piedi, ma continuo a camminare con calma, passo dopo passo, fino a quando non arrivo alla riva. La spiaggia è già piena di persone, si godono il primo caldo estivo. I raggi del sole iniziano a scaldare anche me, pizzicando la pelle e mi rendo conto di essere ancora vivo. 

Ormai è come se fossi morto, dentro e fuori.

 Sono queste poche sensazioni che mi riportano alla vita, a farmi rendere conto che non ho ancora abbandonato questo mondo.

La brezza mi solletica il viso, si insinua tra i miei capelli rendendoli ancora più indomabili. Respiro a pieni polmoni quell'odore di mare che fin da piccolo mi è sempre piaciuto. Il mio primo ricordo. Ogni volta che penso alla mia infanzia, ai primi anni di vita, l'unica cosa che ricordo è proprio quest'odore, fa parte di me. 

Arrotolo i pantaloni sopra la caviglia e lascio che le onde e la schiuma mi accarezzino i piedi. Il cambio di temperatura mi fa provare piccoli brividi. Fisso gli occhi sull'orizzonte, dove l'oceano è davvero blu, quel blu brillante e intenso, e rivedo la sua anima. Quello stesso colore, quella stessa intensità, quella stessa forza. Non ho mai capito come abbia potuto avere occhi così belli, mai visti in vita mia altri così. 

Ogni tanto mi capita di cercarli tra la folla, stupidamente cerco un po' di sollievo cercandoli intorno a me, ma non li ho mai trovati e non credo li troverò. 

Resto ancora un po' a bearmi di quelle carezze fresche per poi andare a sedermi sulla riva. Mi guardo un po' intorno. E' proprio una bella giornata, una di quelle giornate limpide e serene dove non si vede nemmeno una nuvola in cielo. I miei occhi si posano su un bimbo e sua madre intenti a giocare con la sabbia. Un sorriso mi si allarga sul volto senza nemmeno accorgermene, mi ricordano me e mia madre e quelle lunghe e calde giornate d'estate che passavamo insieme. 

Successivamente si spostano su un gruppetto di ragazze che probabilmente avranno da poco finito la scuola e scendono già in spiaggia per abbronzarsi. Vederle mi riporta al mio ultimo anno, a quanto fossi diverso in quel periodo, quando le mie preoccupazioni variavano da un'insufficienza in chimica ad aver perso una partita a basket. Dopo la sua scomparsa tutto ciò che credevo importante ha perso di valore, son cresciuto troppo in fretta e la malattia di mia madre, arrivata subito dopo, ha contribuito tanto. Ho perso tutto, i miei amici, la mia famiglia, ho perso la serenità. Ho combattuto i miei demoni da solo, senza sconfiggerli purtroppo. 

Distolgo lo sguardo dalle ragazze e inevitabilmente cade su una coppia di anziani sotto un ombrellone. Sono entrambi seduti su delle piccole sedie a sdraio con dei libri in mano. Ogni tanto si sfiorano la mano a vicenda, si lanciano qualche sguardo, si regalano qualche bacio. Una stupida e insensata gelosia mi attanaglia lo stomaco. Ho sempre creduto che l'amore tra me ed Isabel sarebbe durato in eterno, quell'amore puro che ti entra dentro le ossa, ti scorre nelle vene e ti riempie i polmoni. Quel tipo di amore che ognuno cerca, ma che pochi trovano davvero. Io lo avevo e mi è scivolato via dalle mani senza che me ne accorgessi. Quando immaginavo la nostra vita, a distanza di anni, io la immaginavo proprio come questi due anziani, che ancora si guardano con tenerezza e condividono una complicità talmente forte che non può essere capita da estranei. 

Vorrei averle detto queste parole, avrei voluto dirle tante cose che purtroppo non sono uscite dalla mia bocca per paura, vigliaccheria. Non so, forse adesso mi sentirei meglio, o forse, non sarebbe cambiato niente.

 Sposto lo sguardo anche da loro e ritorno a guardare l'oceano e le sue onde, è come una danza, una danza leggera, elegante, pura. Un gabbiano mi vola accanto per poi perdersi sopra le onde. Chissà com'è, volare. Chissà quale senso di libertà ti dona, tagliare l'aria, librarsi oltre le nuvole. Vorrei tanto provare quella libertà, anche solo per qualche secondo, per potermi liberare del peso che porto e che porterò ancora per tanto tempo. 

Un'altra ventata di aria salmastra mi inonda le narici e ancora una volta ricordo tutto ciò che ho perso lungo la mia vita. E' ora di andare, il mio stomaco inizia a brontolare. Metto le scarpe e, una volta in piedi, mi pulisco i jeans pieni di sabbia e ritorno alla mia moto.

Il pomeriggio scorre lento, troppo lento. Ormai non so più come passare il tempo. Guardo la tv, mangio cibo spazzatura, provo a vedermi un film ma dopo due secondi lo tolgo e lo butto via. Mi metto persino a fare le pulizie di casa avanzate. Spolvero ogni scaffale, sistemo il mio armadio, passo l' aspirapolvere ovunque, lavo i vetri di tutte le finestre, ma l'orologio non si muove. Ed è tutti i giorni così, spaventosamente frustrante. 

Dormire è fuori discussione, non voglio svegliarmi terrorizzato anche di pomeriggio, una volta al giorno già basta e avanza.

Certe volte capita che chiama mio padre, sa che sono a casa il pomeriggio. Stiamo un po' al telefono, lui cerca di interessarsi a modo suo. Mi da' consigli su come dovrei vivere la mia vita, mi dice di trasferirmi da lui, andare al College com'era prefissato, ma lui non capisce. Per me non è così semplice lasciare tutto e andare via come lo è stato per lui. Non vuole più metterci piede qui, per il Ringraziamento, o per Natale, Capodanno, Pasqua sono io a dover andare da lui. Ma, naturalmente, non ci vado mai, il viaggio è lungo, mi sfinisce e così passo tutto l'anno da solo.

 Vorrei che mi capisse, che comprendesse quanto io stia male. Vorrei tanto un aiuto da lui, un aiuto vero, non quelle parole messe a caso che mi ripete ogni volta. Ma è inutile, ormai c'ho rinunciato. Gli interessa solo la sua nuova casa, la sua nuova compagna e la vita che sta vivendo lontano da me. 

Un tempo non era così, quando ero piccolo facevamo di tutto insieme. Andavamo a pesca, lavavamo la macchina, andavamo in barca. Poi è cambiato. Prima che morisse la mamma ha iniziato a chiudersi in se stesso, passando tutto il tempo da solo. 

C'erano giorni che andava via la mattina e tornava a notte fonda. Se mia madre non fosse morta, sicuramente avrebbero divorziato. In quel periodo ho odiato mio padre, l'ho odiato davvero tanto. L'odiavo per il male che mi faceva e l'odiavo per il male che faceva a mia madre. Non si può vivere con un uomo così, che sia un padre o un marito. Non so adesso come si comporti con la donna che gli sta affianco, spero almeno che la tratti bene.

Finalmente si fanno le sette, mi preparo ed esco di casa. In pochi minuti sono già al molo. In moto si fa in fretta. Il mio turno inizia alle otto, ma ogni tanto vengo prima così da non perdermi il tramonto. Mi siedo su una panchina e aspetto. Il molo non è tanto affollato, c'è una strana calma, ma non faccio domande.

Anzi, me ne beo lasciando che questa calma mi invada completamente. Più scorrono i minuti e più vengo illuminato dai toni caldi dell'arancio e del rosso del sole, che insieme formano uno spettacolo unico.

Il tramonto, a mio parere, è uno tra quelle poche meraviglie che il mondo ci regala e dovremmo farci più caso, stupirci ogni volta, non darlo per scontato. Per tante cose è così, l'uomo da per scontato, non ci da peso, non si ferma ad osservare, a contemplare ciò che invece è stato creato proprio per questo. Dovremmo goderci molto di più quello che ci sta intorno, emozionarci, viverlo ogni volta come se fosse l'ultima.

- Logan? - ad interrompere i miei pensieri una voce familiare. Mi volto verso quella voce tanto da vedere il mio migliore amico, o almeno lo era un tempo.

- Ehi Jared, è bello vederti - mi sorprende vederlo li, a quanto sapevo era andato a vivere fuori città - Cosa ci fai qui?

- Oh beh, mi son preso una pausa dalla città. Los Angeles è indubbiamente bella, ma troppo caotica! - Los Angeles. Non ho più messo piede li dal giorno dell'incidente. Si siede accanto a me con sguardo incuriosito. - Sei cambiato, ti ho riconosciuto a stento - assume un tono di voce abbastanza serio. Beh, anche lui è cambiato molto. E' più maturo, più adulto. Anche il suo vestiario è diverso. Mi ricordo l'ultimo giorno che lo vidi, è stato subito dopo la cerimonia del diplomi. Ci siamo scambiati un abbraccio silenzioso e poi lui è salito in macchina, verso una vita che io non avrei mai vissuto. Ci volevamo bene noi due, lo conosco dalla prima elementare.

- Sei cambiato anche tu, cosa fai? Lavori? Università? - cerco di sembrare disinvolto, purtroppo non mi riesce bene. Sono nervoso, tanto nervoso. Incontrarlo ha fatto risvegliare in me ricordi che ho sotterrato tanto tempo fa.

- Vado all' UCLA, medicina, ha un ottimo studio di ricerca - mi rivolge un sorriso sincero. Mamma mia che cambiamento, è una sorpresa continua. Tre anni fa non mi sarei mai immaginato un futuro del genere per lui. - Ma parlami di te! Come va? I tuoi?

- Va bene, sto bene. Lavoro e vado avanti - che bugiardo che sei, penso tra me e me. Io non sto bene, niente va bene. - Per quanto riguarda i miei, mia madre è morta due anni fa, mio padre a New York con la sua nuova compagna - le ultime parole mi escono con un insensato senso di ironia. Mi guarda dispiaciuto, non sa cosa dirmi, non lo biasimo, non saprei nemmeno io cosa dire in situazioni del genere.

- Mi dispiace tanto per tua madre, era una donna stupenda. Strano che mia madre non me ne abbia parlato. - posso sentire la tristezza nella sua voce, le voleva bene, era come una seconda mamma per lui. - Per quanto riguarda tuo padre non mi sorprende tanto che non ci sia più, è sempre stato...

- Un po' stronzo - completo la sua frase ed entrambi scoppiamo a ridere. Per un attimo è come se non fosse passato nemmeno un secondo, come se entrambi, seduti su questa panchina, aspettassimo le nostre rispettive fidanzate per uscire e passare una serata tutti insieme. Guardo l'ora sul cellulare, le otto e un quarto, è ora di andare a lavoro. - Adesso scusami ma il lavoro mi chiama.

- Oh si certo vai. - mi sorride. Mi alzo dalla panchina e cammino verso il ristorante. - Logan? - mi volto automaticamente. - Io sto qui per un po' di tempo, vediamoci qualche volta.

- Certo, ci conto - gli sorrido e abbozzo un piccolo saluto con la mano. Ricambia il sorriso, ed insieme a lui sorridono anche i suoi occhi limpidi color ghiaccio. Successivamente ci voltiamo di spalle ed ognuno va per la sua strada.

Quando arrivo al ristorante tutti sono già pronti per l'arrivo dei clienti. Saluto il mio capo, il cuoco e l'altro cameriere che lavora insieme a me. Si chiama Robert, ogni tanto scambiamo qualche parola, ma non siamo amici. Diciamo che non sono un tipo molto socievole, da questo punto di vista assomiglio a mio padre. E' già un po' che lavora qui, l'ultimo arrivato. 

Il mio capo non è un tipo particolarmente paziente, diciamo che al primo sbaglio non si fa problemi a mandarti via a calci nel sedere. Robert è l'ultimo di una lunga serie di ragazzi mandati via. Con me è diverso e mi sento davvero lusingato, lui si fida di me, ormai io so come lavora, cosa vuole, come lo vuole e cosa non vuole, so gestire tutto in modo che nessuno in sala rimanga scontento. 

C'è una sorta di piccola ammirazione che ci unisce che però non viene particolarmente espressa. Una pacca sulla spalla è più che sufficiente per entrambi. Indosso la mia divisa nel piccolo stanzino con il bagno accanto alla cucina che fa da spogliatoio a tutto il personale e aspetto.

Ogni tanto capita che scambio qualche parola con il cuoco, Freddie, quando sono arrivato qui è stato il primo ad accogliermi davvero a braccia aperte. E' il buffone di turno, ma nel suo lavoro è davvero bravo, non si può negare. Le persone iniziano ad arrivare e, dopo un'oretta, il ristorante è quasi pieno e quando è così affollato c'è solo una cosa da fare: Correre. 

Corro avanti e indietro, tanto da non sentirmi più i piedi e le caviglie. Fare il cameriere non è facile, devi restare concentrato, perché se ti distrai combini un pasticcio. I clienti non fanno altro che chiederti cose, lamentarsi risultando anche arroganti. Capitano volte in cui tutto quello che vorresti fare è prenderli a pugni, ma non puoi ovviamente, il cliente ha sempre ragione, è la regola. 

Nonostante ci sia Robert faccio quasi tutto io, prendo le comande, mi metto a completo servizio dei clienti. E' buffo, in questa determinata situazione, riesco davvero a cavarmela con le persone, divento ciò che non sono nella vita vera. 

Un altro Logan che vola tra i tavoli e serve con una disinvoltura quasi innaturale. Ovviamente non è stato subito così, ma ho imparato abbastanza in fretta. Non sembro, ma sono un tipo abbastanza sveglio. 

Dopo ore di corse finalmente finisco il mio turno, sono esausto, tutto quello che voglio è andare a casa e stendermi. Sto per uscire quando il capo mi chiama.

- Logan vieni un attimo - mi avvicino a lui tranquillo e aspetto che continui a parlare. - Ascolta domani mattina c'è un cameriere nuovo e voglio che gli insegni un paio di cose.

- Non credevo prendessimo personale - mi sorprende che abbia assunto un'altra persona, sarebbe davvero un record da parte sua.

- Ho fatto un favore ad un vecchio amico e poi sta iniziando la stagione, inizia ad esserci più gente e poi sia io che tu sappiamo che Robert non è un tipo sveglio - sussurra le ultime parole in modo da non farsi sentire dall'interessato. Non posso fare a meno di ridere, ha perfettamente ragione.

- Ok va bene, quindi domani vengo verso mezzogiorno - gli do una pacca sulla spalla che lui ricambia.

- A domani. - dice sorridendo.

Esco di li, salgo in sella alla mia moto e dopo pochi minuti sono già a casa. Mi spoglio con calma, restando in boxer e mi butto sul letto stanco morto. So che probabilmente gli incubi questa notte verranno a tormentarmi, lo fanno sempre, ma ormai è quasi un'abitudine. Dopotutto però non sono niente in confronto al male che sento tutti i giorni appena apro gli occhi. 

 
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Capitolo 5
*** 3.Her ***


Spengo il rombo del motore e scendo dalla moto per andare a lavoro. 

Devo fare da babysitter oggi.

Mi secca stare dietro ad un principiante che non sa nemmeno tenere tra le mani un piatto, ma non posso oppormi. Il capo vuole così. Non è la prima volta che fa favori ad amici assumendo i figli, ma ogni santa volta dopo una settimana li manda via. E' più forte di lui, le persone distratte lo fanno innervosire tanto. 

Spero solo che non sia duro di comprendonio, ho avuto una nottata difficile. 

Anche questa notte gli incubi sono stati i protagonisti del mio sonno. E' davvero dura. Capita che certe volte sono un po' sfocati, sembrano davvero dei sogni, altre volte, come questa notte, sono così reali da svegliarmi con veri e propri attacchi di panico. Solo che quando mi vengono da sveglio riesco a controllarli, quando però mi sorprendono nel sonno mi ci vuole un po' per calmarmi e di conseguenza sono stato tutta la notte sveglio a fissare il soffitto aspettando che il sole sorgesse.

Il caffè di questa mattina e la sigaretta non mi basteranno. Di solito capita che, quando lavoro a pranzo, mangio al ristorante, ma oggi ero così agitato che mi son messo a cucinare. Cosa straordinaria perché di solito non lo faccio mai.

E' ridicolo, fare le faccende e cucinare riesce a rilassarmi, una perfetta donna di casa! Rido tra me e me, mia madre sarebbe stata fiera, visto che quando ancora era in vita non spostavo il sedere dalla mia stanza nemmeno se ci fosse stato un attacco nucleare! 

Compro al volo un caffè e mi siedo sulla mia solita panchina ad osservare l'oceano. Oggi è più agitato del solito, posso sentire i grandi cavalloni infrangersi contro i pilastri che tengono il molo. Questo però non è un problema anzi, è pieno di surfisti che cavalcano le enormi onde. Ho provato a fare surf, una volta, ahimè con scarsissimi risultati! Non è cosa per me, mentre il mio amico Jared è molto bravo, ai tempi del liceo mi ricordo che saltavamo la scuola per venire qui in spiaggia. 

La maggior parte delle volte lui si divertiva tra le onde ed io lo guardavo un po' dispiaciuto seduto sulla riva. Poi mangiavamo qualcosa e tornavamo a casa in orario. I miei genitori non hanno mai sospettato niente.

 Solo lei lo sapeva ed era anche abbastanza contraria ma mi lasciava libero di scegliere, io per anni ho scelto ogni giorno di amarla.Se fosse qui, di certo la mia scelta non sarebbe diversa. 

Il sole si fa sempre più caldo visto l'orario e inizia a girarmi un po' la testa, anche se non sono sicuro sia tutta colpa del sole. Sono questi i momenti in cui mi sento più solo. Una mancanza che non riesco a colmare con nessun'altra. Vorrei davvero avere una ragazza al mio fianco, farla sentire speciale come facevo con lei. Un'amica a cui raccontare tutto, con cui condividere la mia vita. Un'amante con cui condividere quella passione che ha sempre unito l'essere umano. 

Ma per quanto io mi sforzi non riesco ad avere una ragazza accanto più di mezz'ora, è più forte di me. Nessuna è come lei e per quanto io apprezzi le ragazze, nessuna è abbastanza per me dopo di lei. Così mi ritrovo a consumare notti con perfette sconosciute a cui spezzo il cuore.

E' già qualche settimana che ho smesso, ho deciso di non far più del male a nessuno. Credo che lei voglia che io mi faccia una vita, che mi sistemi, che sia di nuovo felice, ma non credo accetti quello che ho fatto fino ad ora. Ha sempre odiato i ragazzi così. In effetti il mio è stato un ritorno alle origini, anche se una volta il senso di colpa non pesava su di me come un macigno indistruttibile.

Mi divertivo, ero piccolo e stupido, ma, quando la vidi per la prima volta, dentro di me qualcosa esplose. Tutta la mia sicurezza, la mia spavalderia, la mia arroganza, tanti piccoli pezzi spappolati dentro di me. 

All'inizio non lo accettavo mica, mi infastidiva il modo il cui mi faceva sentire. La evitavo e se proprio non potevo evitarla, la ignoravo. E più la evitavo più la desideravo con tutto me stesso. Alla fine cedetti, cambiai per lei, aveva troppo potere su di me. Ne fui altamente felice, lei è stata e sarà sempre colei che mi ha aperto gli occhi e mi ha insegnato ad amare. Gli sarò sempre riconoscente per questo. 

Bevo il mio ultimo sorso di caffè e mi convinco che è ora di alzarmi da quella panchina ed andare a lavorare. Chissà se è una ragazza, la nuova cameriera. Ci manca una figura femminile in quel tugurio di testosterone! E poi mi duole ammetterlo ma le ragazze , o almeno la maggior parte, sono più sveglie di noi uomini.

L'odore appena entrato al ristorante è delizioso, questo è il risultato della cucina di Freddie. Devo essere sincero, non ho mai adorato la cucina messicana ma, quando cominciai a lavorare qui, la cucina di Freddie mi conquistò, adesso mi porto un sacco di avanzi a casa, riscaldati sono ancora più buoni! Faccio un saluto generale e tutti lo ricambiano. Mi avvicino al capo, comodo sulla sua sedia dietro la cassa. Non si smuove mai di li!

- Ehi capo, allora? Il novellino? - Cerco sempre di essere allegro appena metto piede qui dentro. Non voglio che mi vedano giù o tormentato. Non voglio essere compatito per i miei problemi da nessuno, è una cosa che odio.

- Vorrai dire la novellina, beh è in ritardo - Andiamo bene, penso. Almeno il ritardo è bene o male comprensibile. Il capo non sembra preoccupato, conta i suoi soldi con estrema cura, sono il suo unico amore, li ama quasi più di sua moglie.

- Grandioso, allora vado a cambiarmi. - Entro nella piccola stanzetta e mi spoglio con calma. Una volta vestito raggiungo Freddie in cucina. Mi fa sempre ridere e poi quando sono con lui mi fa sempre assaggiare cosa cucina, un po' per essere sicuro che vada bene, un po' perché sa che mi piace la sua cucina. Sento aprirsi la porta e una voce femminile irrompe nel locale. E' arrivata. Sento il mio capo fargli la festa e poi sento chiamare il mio nome. Tocca a me. Una volta uscito dalla cucina mi dirigo verso l'ingresso, davanti a me la ragazza. 

Avete presente come ci si sente quando vi strappano via il cuore dal petto? Beh io è così che mi sento adesso.

Sono come immobilizzato, non riesco a respirare, dentro di me c'è solo silenzio. Come può essere possibile? Mi convinco che a sbagliare sono io, che davanti a me a scrutarmi confusi non ci siano gli occhi di Isabel. 

Ma più li guardo e più loro guardano me, più convincermi diventa difficile. Questo è solo un brutto scherzo, non possono essere i suoi occhi. 

Le mani iniziano a tremarmi, tremarmi così forte che la persona davanti a me se ne accorge e sposta il suo sguardo su di esse. Quel piccolo momento di silenzio è come svanito. 

Dentro di me adesso solo rumore, quel rumore di auto distrutte, di grida e di sirena dell'ambulanza. Tutto dentro la mia testa scoppia, l'odore del sangue diventa insopportabile. 

Continuo a guardare quegli occhi con la speranza che questo sia solo un brutto sogno, un'allucinazione e che adesso spariranno. Ma niente di tutto questo accade, loro sono ancora li e mi stanno uccidendo. 

Cerco di respirare ma non ci riesco, affogo nell'oceano di quelle grandi iridi. Sento che sto per avere una crisi, ma non come le solite, questa volta è più forte, questa volta non so come riuscirò a mandarla via. Il capo dice qualcosa ma non capisco, non capisco più niente. Cerco di distogliere lo sguardo da quegli occhi che adesso sembrano come spaventati. 

Non posso più stare qui dentro, i muri sono come ristretti, l'aria mi soffoca, l'odore del cibo ma fa venire la nausea. Muovo un piede, poi l'altro, una volta che riesco a camminare senza cadere mi precipito fuori. Il sole mi investe, la luce mi acceca, il caldo di certo non mi aiuterà a stare meglio. 

Inizio a correre fino a quando non arrivo al limite del molo, nella parte più esterna. Mi aggrappo alla ringhiera, le mani continuano a tremare e adesso tremano anche le gambe. La brezza leggera che sale dalle onde che si infrangono sotto il molo mi fanno più male che bene. 

Mi ero messo il cuore in pace, mi ero convinto che mai più avrei visto occhi del genere, che la mia sola consolazione era proprio l'enorme massa d'acqua che c'ho davanti. Ma adesso tutto si è sgretolato ed io non so come posso andare avanti quando in quel locale ci sono i suoi occhi. 

E' come se l'Universo mi stesse prendendo in giro. Il senso di colpa non era abbastanza? Non ho sofferto già troppo? Devo subire anche questo? Lavorare tutti i giorni con una perfetta estranea che possiede i suoi occhi? Che senso ha tutto questo? 

Arreso, stanco, mi lascio scivolare a terra, mi porto le ginocchia al petto e ci nascondo la testa. Adesso attorno a me c'è solo buio, ma non dura per molto perché quei due pozzi lucenti appaiono di fronte a me più belli e spaventosi che mai.

 Andate via! Lasciatemi stare! urlo nella mia testa, ma loro non intendono farlo. Al contrario, diventano sempre più vividi e reali. 

Sento che sto uscendo pazzo, completamente pazzo. 

Non so quanto tempo resto in quella posizione, ma ad un tratto una forte scarica elettrica partita dalla mia mano mi attraversa tutto il corpo. Alzo di scatto la testa e mi ritrovo di nuovo quegli occhi davanti, questa volta sono reali. Sono impauriti, confusi, agitati. Cerco per un attimo di guardare il viso della ragazza nella sua complessità. 

Ha dei lunghi capelli color cioccolato che le incorniciano il viso, dritti come spaghetti. La pelle chiara con una spruzzata di lentiggini ad abbellirla. Il naso piccolo e le labbra altrettanto piccole ma carnose. Mi riconcentro di nuovo sugli occhi, sono della stessa tonalità, dello stesso identico colore, un colore che credevo non avrei mai più rivisto, un colore che credevo unico. Più li guardo e più un misto tra paura e curiosità mi pervade. Vorrei parlare, ma non so che dire. La mia mano continua a mandare scariche elettriche sotto il suo tocco. Poso il mio sguardo su di essa e la sua scivola subito via.

- Scusami, va tutto bene? Il capo mi ha detto di accertarmi se stessi bene - la sua voce mi perfora i timpani, nonostante sia poco più di un sussurro. Non posso continuare a stare immobile in questa posizione. Faccio dei lunghi respiri per calmare il mio cuore che galoppa all'impazzata e mi alzo in piedi. Noto subito la grande differenza di altezza, mi arriva a stento alle spalle. Come può una creatura così piccola farmi così tanto male? Continua a scrutarmi con occhi preoccupati, è meglio che mi inventi qualcosa da dire, non voglio che mi prenda per pazzo.

- Oh si tranquilla. Non è nulla di che, sto bene. - la mia voce e il tremore alle gambe però dicono tutto il contrario. Le passo accanto a mi incammino verso il ristorante con lei alle calcagna. Non l'ho per niente convinta ma non dice nulla. Continua a guardarmi di sott'occhi, posso sentirla. Mi passo una mano sulla fronte per asciugarmi un po' di sudore e mi ravvivo i capelli spettinati. Una volta dentro il locale mi rendo davvero conto di quanto sia stato fuori. Ci sono già quattro tavoli occupati e Robert corre avanti e indietro facendo tutto da solo. Mi avvicino alla cassa, il capo è li a fare i suoi conti, ma appena mi sente alza lo sguardo su di me.

- Mi scusi, non mi son sentito molto bene, adesso è tutto apposto. - lui non dice una parola, mi appoggia una mano sulla spalla e ritorna ai suoi conti. Lavoro qui da un po' di tempo ormai, non è la prima volta che mi vengono queste piccole crisi. La prima volta è stato tremendo, mi son piombati tutti addosso cercando di aiutarmi, ma l'aiuto di altre persone fino ad ora non mi è servito a niente, anzi mi fa solo agitare ancora di più. Da quel giorno in poi mi hanno lasciato stare. Vado a prendere il grembiule e mi accorgo di avere ancora la ragazza alle calcagna. Devi insegnarle come si lavora ricordi?

- Allora da questo momento in poi segui me. Ti farò vedere come lavoriamo qui, se hai qualche dubbio chiedi, basta che siano domande sensate non mi far perdere tempo e non starmi tra i piedi. - nella mia testa sembra davvero una frase cortese e gentile, ma dalla sua faccia capisco che non lo è affatto. Le porgo il grembiule e lei lo afferra in malo modo. No, non sono stato affatto gentile.

- Ho già fatto la cameriera, strai tranquillo non mi avrai tra i piedi. - lo indossa in fretta e si lega i lunghi capelli in una coda alta - Comunque il mio nome è Samantha.

- Logan - il tempo di pronunciare il mio nome lei è già in sala. No, decisamente non gli ho fatto una buona impressione. 

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Capitolo 6
*** 4. She have her eyes ***


Non mi è stata tra i piedi nemmeno per mezzo secondo.

Quando aveva anche il più minimo dubbio si è rivolta a Robert. Buffo considerando che è davvero brava. Non capisco perché il capo mi abbia chiesto di starle dietro. Il fatto di essere piccola le da dei vantaggi ovviamente, sfreccia tra i tavoli come se avesse le ali. E' sveglia, attiva, gentile con i clienti. Molto più gentile di quanto non lo sia stata con me. 

C'è da dire che me la son cercata. Al confronto suo sono io il novellino oggi. Sono distratto e quelle due gemme blu non mi aiutano. Ogni volta che incrocio il suo sguardo il mio cuore perde un battito, l'unico neurone che ho nel cervello smette di collaborare e le mie gambe si paralizzano. 

Non riesco ad abituarmi, non credo lo farò mai. 

I clienti dell'ultimo tavolo pagano e vanno via, finalmente è finita. Voglio tornare a casa il più presto possibile, chiudermi dentro e non uscire più da quelle quattro mura. Cosa alquanto impossibile, visto che questa sera sono ancora qui, a morire ogni volta che lei mi guarda. Sfreccio a tutta velocità verso la stanzetta, voglio essere il primo a cambiarmi e andare via, ho bisogno di uscire di qui. Una volta vestito ripiego i miei abiti da lavoro e li metto dentro una busta che posiziono in un angolino. Quando esco vengo fermato dal capo.

- Ascolta Logan, ti do la serata libera.

- Come? Ce la fate senza di me?

- Si certo, Samantha è più brava di quanto mi aspettassi. Ce la caveremo. - E' strano. Il nome detto dalle sue labbra è molto diverso da come lo pronuncia lei. Tra le sue labbra sembra qualcosa di così delicato. Annuisco in segno di assenso e mi da una piccola pacca sulla spalla. Sto per andare via ma sento la risata di Robert e quella di lei, qualcosa mi spinge a girarmi verso di loro. Sono insieme, se la ridono di gusto. E' assurdo che trovi simpatico quell'idiota di Robert, decisamente assurdo.

- Ci vediamo questa sera. - gli fa un piccolo saluto con la mano e poi, la causa di ogni mio problema esce dal locale senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Intanto Robert è arrivato al mio fianco.

- A dopo, Sam. - la saluta con un sorriso da fesso. Uno strano nervosismo si fa spazio dentro di me.

- Sam?

- Si, dagli amici e dai familiari si fa chiamare così. E' carina eh? - mi da una leggera gomitata ed esce dal locale anche lui. 

Carina, solo con chi le conviene a quanto pare. Un pesante sospiro mi esce dalle labbra e vado via anch'io. Raggiungo la mia moto e in pochi minuti eccomi tra le mura di casa. 

Sono contento che questa sera non devo lavorare, per oggi di Sam ne ho avuto abbastanza. Poso le chiavi della moto sul tavolo e vado spedito verso la stanza da letto, ho davvero bisogno di sdraiarmi. Mi butto sul letto a peso morto e chiudo gli occhi. 

Nel buio più totale compaiono coloro che tormentano ogni mio sonno. Non so se siano della mia Isabel o di questa nuova strana ragazza, sono talmente uguali. Mi chiedo come sia possibile. Mi ero così abituato all'idea che fossero perduti per sempre. 

Come farò tutta l'estate? Come farò a sopportare quegli occhi ogni giorno? Come farò a guardarli e non vedere l'amore della mia vita? 

Mi ricorderanno ancora di più ogni giorno quello che ho perso, mi feriranno, mi pugnaleranno il cuore ogni volta. Le mie mani afferrano le lenzuola e le stringo forte, più forte che posso. 

Vorrei urlare, ma non ce la faccio. 

Vorrei piangere, ma non riesco. 

Vorrei andare via, ma non posso. Sono incatenato qui, in questa piccola città, a morire ogni volta che incrocio lo sguardo di Samantha. Se solo la mia Isabel fosse qui, se solo mia madre fosse qui. Sicuramente lei saprebbe come aiutarmi, l'ha sempre fatto quando ho avuto così tanta confusione in testa da scoppiare. E' anche grazie a lei se mi son buttato con Isabel. 

Ricordo bene quel giorno. Ero in camera mia con lo stereo a tutto volume, la musica era un aiuto fondamentale per me, adesso evito di sentirla. In quel preciso caso cercavo di capire cosa fare con quella ragazza che mi aveva scombussolato l'esistenza, capire se provassi qualcosa per lei, se fosse giusto buttarmi. Lei entrò piano, non la sentì nemmeno e si sedette sul letto dove ero ormai sdraiato a pancia in giù da ore, la faccia schiacciata sul cuscino. Se mi concentro riesco a sentire ancora la sua mano tra i miei capelli. Parlammo tanto quel pomeriggio, più di quanto abbiamo mai fatto. Le raccontai tutto di Isabel, di quanto fosse fantastica, ma nello stesso tempo di come mi faceva uscire fuori di testa, di quanto fosse testarda e orgogliosa, ma nello stesso tempo dolce, gentile, altruista. Le raccontai dei suoi sorrisi, dei suoi occhi vispi che non mi permettevano di respirare ogni volta che li posava su di me. La sua risposta a tutto questo?

" Sei spacciato tesoro"  

Aveva ragione, ero davvero spacciato. Mi sussurrò che sarebbe andato tutto bene, che provare tutto questo per una ragazza è il segnale che indica che si è pronti. Che l'amore stava bussando alla mia porta ed io stavo ancora a crogiolarmi tra insicurezze inutili. Mi disse che è normale avere paura, persino lei l'ha avuta, ma è una di quelle paure che devi accogliere a braccia aperte e non devi lasciarla scappare via, perché è proprio questo genere di paura che ti porta a fare i passi più importanti della tua vita. 

Mi raccontò la paura folle che ebbe quando mio padre le chiese di sposarlo, o il giorno del loro matrimonio e la paura che le attanagliava lo stomaco quando rimase incinta di me e, subito dopo, quando mi strinse per la prima tra le braccia, la paura di non essere tagliata a fare la madre, che avrebbe fatto un disastro con me. Poi mi lasciò da solo, un bacio tra i capelli e si chiuse la porta alle spalle. 

E' stata una delle ultime volte in cui ricevetti un consiglio da mia madre. Da quel giorno la mia porta restò chiusa, non ci fu più nessuna carezza, nessun bacio. Ma la mia porta adesso è aperta, ed io aspetto carezze e baci che non avrò mai. Mi sposto su un fianco e, trasportato da dolci ricordi, mi addormento.

Il sangue mi cola sul viso, la testa mi gira forte ma mi concentro solo su di lei, sui suoi occhi chiusi, sul suo viso tumefatto pieno di graffi. Chiamo il suo nome sempre più forte, in un attimo mi ritrovo ad urlare a testa in giù incastrato in una macchina completamente distrutta. Allungo il braccio dolorante verso di lei, ma tutto quello che riesco a sfiorare sono i suoi capelli. Grido e piango così forte da farmi mancare l'aria nei polmoni. Non riesco a credere che sia morta e che ad ucciderla sia stato proprio io. No non lo accetto. Nonostante i dolori atroci in tutto il corpo mi dimeno, urlo, vorrei spaccare tutto quanto. Ma non serve a niente. Sento le forze che piano mi abbandonano e poi affogo nel buio.

In attimo sono di nuovo nella mia stanza, paralizzato dalla paura, una paura che, so per certo, porterò con me per il resto della vita. Un'ombra che mi seguirà ovunque io vada. 

Mi passo una mano sul viso, cerco di fare dei respiri calmi e profondi e piano tutto sembra calmarsi. Silenzio, calma. Una calma che raramente sento addosso. Piano le palpebre iniziano a calare, sono stanco. Non una stanchezza fisica, ma mentale. 

Sto per richiudere gli occhi quando bussano alla porta. Chi mai potrebbe essere a quest'ora? Mi alzo dal letto e con passo pesante raggiungo la porta di casa. Sarà la signora Smith con qualche prelibatezza. La apro senza pensarci troppo su, senza nemmeno domandare chi è. Davanti a me il mio amico Jared, la cosa mi stupisce. Non avrei mai creduto che si facesse vivo così presto, persino venendo a bussare alla mia porta. Sul viso un sorriso timido, i capelli biondi spettinati proprio come i miei.

- Ciao.

- Jared, ciao. Non mi aspettavo una tua visita, vieni entra. - mi sposto e lo faccio entrare in casa. E' un po' intimorito, forse per essere spuntato qui così di sorpresa, o forse perché questa casa porta alla mente troppi ricordi.

- Scusami se sono spuntato qui così, ma mi sentivo solo e l'unico amico che ho sei tu. - la tristezza nella sua voce non è confortante. Ma le sue parole mi rendono felice, so bene cosa vuol dire. Siamo sempre stati solo noi due, insieme contro il mondo. Separarci è stata dura, anche se nessuno dei due l'ha dato a vedere.

- Non dirlo nemmeno per scherzo! Sono davvero felice che tu sia passato! - gli rivolgo un sorriso sincero e lui ricambia. I suoi occhi si illuminano. - Allora dimmi, avevi qualche idea? Vuoi andare da qualche parte, o magari restiamo a casa.

- Beh, è tanto che non mangio un hamburger al Grill - sorride.

Guardo l'orologio appeso al muro, sono le sette e mezza - Andata, sto morendo di fame! - adesso che il mio corpo non è più in tensione sento lo stomaco che mi brontola da morire. Mi sorride ancora.

- Perfetto! - Gli dico di accomodarsi il tempo di rendermi presentabile per uscire, ma resta vicino la porta. Mi precipito in camera, metto le scarpe, mi domo un po' i capelli e sono pronto. Indosso la giacca ed usciamo di casa. 

Solo adesso mi rendo conto del casco che Jared ha sottobraccio. Non sapevo che anche lui avesse una moto. Una volta in sella ci dirigiamo al nostro solito posto. Il nostro amato Grill sul molo vicino al Luna Park, quel posto in cui abbiamo passato tutta la nostra adolescenza e non è cambiato di una virgola. Da quando lui è andato via e Isabel è morta non ci sono più andato, troppi ricordi, ma adesso con lui al mio fianco sento che è diverso. 

Ma non è cambiato solo il locale, mi rendo conto che non siamo cambiati nemmeno noi. Dopo tutto quello che è successo, dopo tutti gli anni passati distanti è come se avessimo di nuovo sedici anni. 

In questo posto, con lui ho vissuto ogni tipo di esperienza. La prima sigaretta, la prima sbornia, la mia prima rissa. I minuti scorrono ed io nemmeno me ne accorgo, ci gustiamo l'hamburger più buono di tutta Santa Monica, ci beviamo una birra dopo l'altra. Scherziamo, ridiamo, finalmente vivo. Dopo anni finalmente, questa sera mi sento diverso, vivo. Saranno le birre ma io davvero questa sera, finalmente, mi sento bene. 

Dopo aver finito di mangiare restiamo seduti al tavolino, il nostro solito tavolino, a parlare. Mi racconta di Los Angeles, della facoltà di medicina, di quanto sia pesante. Ma, per fortuna, ha trovato degli amici li. Mi racconta della sua difficile relazione, della ragazza che lo aspetta a casa. Stanno insieme da quasi tre anni, convivono, ma le cose ultimamente non vanno più bene. Non fanno altro che litigare, urlarsi addosso cose orribili e poi fare pace, ma ogni volta che c'è una nuova lite tutto ritorna. Ogni cosa detta in passato, ogni lite torna a galla ed ogni volta è sempre più dura riuscire a fare pace. Così hanno deciso di stare un po' distanti, per vedere come vanno le cose, per capire se si amano ancora. E' una situazione davvero dura, anche se io non ci sono mai passato. Con Isabel era diverso.

- Io la amo Logan, la amo con tutto me stesso. E' la cosa migliore che mi sia capitata. Ma non so per quale assurdo motivo tutto questo non basta, non è abbastanza. - beve qualche sorso di birra. I suoi occhi si perdono un attimo per poi ritrovare i miei, un sorriso amaro sulle labbra.

- Forse non sei tu il problema, forse è lei - sinceramente non so cosa dirgli, non sono bravo in queste cose, non lo sono mai stato.

- Forse...E tu invece? Hai conosciuto qualche ragazza dopo...beh, dopo Isabel? - sentire il suo nome mi fa per un attimo uscire dal mio piccolo guscio di felicità creatosi questa sera, ma era ovvio che avremmo affrontato questo argomento.

- Ne ho conosciute alcune, ma non è durata nemmeno una settimana. - questa volta sono io a prendere un sorso di birra. - In compenso però, oggi è arrivata una nuova cameriera dove lavoro.

- E' carina? - dice con tono malizioso.

- Beh, non ne ho idea. - mi guarda confuso, effettivamente non sono stato molto preciso con la mia affermazione. - Si insomma è carina, ma diciamo che con me è stata tutto tranne che carina!

- Non ti ha dato confidenza?

- No, cioè si ma non è quello il punto. Diciamo che io non sono stato molto cortese, quindi lei si è comportata di conseguenza con me per tutta la giornata. - mi scruta per qualche istante poi inizia un po' a giocare con la bottiglia di vetro mezza piena.

- Beh tu le piaci, lo sai vero? - Io? Le piaccio? E' sicuramente ubriaco.

- Oh no è il contrario! Quella ragazza non mi sopporta, è offesa. Per tutto il giorno ha fatto come se non esistessi e in più ha fatto la civetta con il mio collega Robert che, diciamolo, non è poi tutto questo granché.

- Oh beh, qui le cose cambiano, non solo tu piace a lei ma lei piace a te! - Ok adesso sta davvero degenerando. - Pensaci Logan, perché lei ti tratterebbe male? Perché farebbe l'offesa se non le importasse nulla? Non ho mica detto che ti ama o roba così! Solo le piaci e il fatto che tu l'abbia trattata male le ha dato fastidio, così ecco che ti ignora, che ti tratta male a sua volta.

- Davvero amico, non so da dove ti escano certe assurdità! - Non può essere come dice lui, ma anche se fosse vero, anche se io le piacessi cosa centra il fatto che lei piaccia a me?

- Sono donne amico, loro sono tutte un'assurdità. - altro sorso di birra per entrambi.

- Si ok, posso anche credere, con un'enorme sforzo, che io posso piacerle, ma come fai a dire che lei piaccia a me? E' ridicolo.

- Logan già il fatto stesso che neghi con quel tuo solito tono di voce che usi quando cerchi di mascherare qualcosa fa capire tutto. E poi il modo in cui hai parlato di lei e del tuo collega. Non ci vuole un genio. - mi sorride divertito ed io sto davvero iniziando ad odiarlo. Me ne sto in silenzio, a riflettere. Penso a questa giornata passata, ripenso al panico appena l'ho vista, ripenso al suo piccolo viso grazioso, all'oceano dei suoi occhi. Forse non ha tanto torto, penso. Poi torno subito in me. Ha super torto.

- Jared, Samantha non mi piace, obbiettivamente sarà anche una ragazza carina ma non in quel senso, insomma... - non riesco a concludere nemmeno la frase. Sospiro rumorosamente e bevo fino all'ultimo sorso di birra rimasta nella bottiglia.

- Cos'ha di così tanto speciale questa ragazza? - altro respiro profondo.

- Ha i suoi occhi. - gli occhi di Jared si posano fissi su di me, cerca di vedermi dentro ma io so, ormai, come mascherare quello che provo. - Sembra assurdo ma è proprio così, ha gli stessi identici occhi di Isabel e questo mi fa diventare completamente matto! - Mi guarda per qualche altro minuto poi finisce anche lui la sua birra e si alza.

- Beh, è ora di andare, si è fatto tardi. - andiamo a pagare il tutto e insieme ci dirigiamo alle nostre moto. Reggiamo entrambi l'alcool molto bene, quindi salgo in sella tranquillo. Non ci salirei se credessi di non poter guidare, non dopo l'incidente. Ci salutiamo con un abbraccio e poi ognuno per la sua strada. Ci vedremo ancora, lo so. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro più di quanto detestiamo ammettere a noi stessi. Mentre mi dirigo verso casa, sul ciglio della strada, illuminata dal faro della moto, vedo una sagoma. Avvicinandomi capisco, dai lunghi capelli, che è una ragazza. Poi si volta verso di me, posso vedere i suoi grandi pozzi blu nel buio. 

E' Samantha.  

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Capitolo 7
*** 5. Damn Universe! ***


E' un dato di fatto, l'Universo ce l'ha con me.

Quante probabilità avrebbero potuto esserci di incontrare di notte, in mezzo alla strada deserta, l'unica persona che, dopo anni, non so come e non so perché, è riuscita a fermarmi il cuore? Rallento e piano mi accosto accanto a lei. Mi guarda sorpresa, ma il suo sguardo è ancora un po' duro, un po' offeso. Spengo la moto e lei si ferma di fronte a me, solo il silenzio, noi e il faro della moto ad illuminare il buio intorno a noi.

- Credevo fossi un maniaco - ha le braccia strette al petto. Cominciamo bene.

- Ciao anche a te - cerco di guardarla in viso il meno possibile. - Per tua fortuna non lo sono.

- Credimi, avrei preferito lo fossi! - nemmeno lei, per fortuna, mi guarda troppo in viso. Questa ragazza è proprio uno zuccherino!

- Sempre molto gentile vedo - gli rivolgo un sorriso finto e lei lo ricambia.

- Mi son dovuta adattare. - si, adesso è sicuro. Ce l'ha ancora con me. Non so cosa dire, come comportarmi. Fa un lungo sospiro e poi mi volta le spalle. - Adesso scusami ma devo andare.

- Sei matta, dove credi di andare a quest'ora di notte tutta da sola? - Si volta di nuovo verso di me spazientita.

- Io sarei quella matta? - i suoi occhi incrociano i miei e dei brividi mi attraversano la schiena. - Non sono io quella che è scappata a gambe levate! Non sono io quella che pronuncia frasi del tipo "Non starmi tra i piedi" ed evita le persone appena conosciute che volevano solo essere gentili, senza alcun motivo o spiegazione! - In un primo momento vorrei ridere, davvero è così buffa. Continua a gesticolare e ha imitato la mia voce in modo troppo divertente. Però resto serio, ridere la farebbe solo arrabbiare di più.

- Ascolta mi dispiace ok? E' stata una brutta giornata. Non volevo trattarti male, solo che nella mia testa è tutto un casino da parecchio tempo e mi capita di coinvolgere le persone che mi stanno accanto certe volte. - Lei non sa, non sa la confusione, il panico, il rimorso e il dolore che mi porto dentro ogni giorno. E non dovrà mai saperlo.

- Beh, questo ti servirà da lezione. - incrocia di nuovo le braccia al petto e senza dire parola di più si allontana. Che rabbia! Le ho chiesto scusa! Cos'altro devo fare? Mettermi in ginocchio e baciarle i piedi? Resto immobile ad osservare la sua sagoma che si allontana, i suoi lunghi capelli oscillano morbidi sulle spalle. Non posso farla andare a casa da sola. Riaccendo la moto e la raggiungo, ma continua ad ignorarmi.

- Samantha per favore fermati!

- Perché? Perché dovrei? - pianta i piedi a terra, mi guarda, io affogo.

- Non voglio che vai a casa tutta da sola, è tardi. Mi sono fermato per darti un passaggio. Vedilo come un modo per farmi perdonare. - Lo voglio davvero, cioè non riesco a lasciarla sola in mezzo alla strada e andarmene, anche se vorrei. Fa scivolare le braccia lungo i fianchi e un sospiro rassegnato gli scappa dalle labbra.

- Ok, va bene. Ma non farti strane idee. - sorrido divertito e un piccolo sorriso, che dura solo un secondo, compare anche sulle sue labbra. Si avvicina ed io le do il mio casco e la mia giacca. Mi guarda con aria interrogativa.

- Fa freddo sulla moto. - mi scruta per qualche istante, come se volesse leggermi dentro, ma per fortuna non ci riesce. Indossa giacca e casco e sale sulla moto. Sento il suo corpo appoggiato al mio, gambe contro gambe, busto contro busto. Le sue mani si aggrappano timidamente alla mia maglietta. Altri brividi si fanno spazio sulla mia pelle. 

Tutto il tragitto lo passiamo in silenzio, mi dice solo quale strada devo prendere, in quale direzione devo svoltare. Mi rendo conto che non abita molto lontano da casa mia. In pochi minuti siamo sulla 9th St, di fronte ad una piccola casa azzurrina con attorno un piccolo giardino. Scende dalla moto e si toglie il casco. Si ravviva un po' i capelli che le ricadono sul viso spettinati. 

Vorrei tanto sistemarglieli un po', toccarli per sentire la loro morbidezza tra le dita...Ma che diavolo ti prende? Devo assolutamente andare a casa. Le prendo il casco dalle mani stando attento a non sfiorarle le dita.

- Allora...ci vediamo domani. - i suoi occhi cercano i miei ma questa volta non li troveranno.

- A domani. - Indosso il casco, metto in moto e sfreccio a tutta velocità verso casa. Devo allontanarmi da lei, ne va della mia sanità mentale.

***

Non è stata una bella notte, non lo è mai. Ormai sto perdendo le speranze. Samantha non ha fatto altro che complicare le cose. Ovviamente indirettamente, ma sento che mi farà impazzire. Devo chiuderla con lei. Non so se "chiuderla" è proprio il termine giusto ma devo allontanarla. Più starà distante da me, meno soffriremo entrambi. 

Mi verso un po' di caffè in una tazza e vado a sedermi sul divano accendendo la tv. Faccio zapping tra i canali finché non becco un telefilm carino. Purtroppo la mia mente si perde tra altri pensieri, e, in un attimo, la televisione scompare. 

Il mio cervello ricostruisce la serata di ieri in ogni particolare. Lei, il suo corpo contro il mio, i suoi capelli di seta. Cosa mi sta succedendo? Sono così confuso, così stanco. All'improvviso mi rendo conto che lei ha ancora la mia giacca. Mi maledico da solo, sono troppo distratto! Adesso mi tocca andare a prenderla! Potrei anche aspettare che me la porti a lavoro, ma qualcosa dentro di me mi spinge a voler andare da lei. 

Spengo la televisione e mi preparo per uscire. Monto sulla moto mentre cerco di convincermi mentalmente che andare da lei è una bruttissima idea, ma senza accorgermene faccio esattamente la stessa strada della sera prima e, in pochi minuti, sono di fronte casa sua. Continuo a ripetermi che sto facendo un grosso sbaglio ma, allo stesso tempo, mi guardo allo specchietto della moto per sistemarmi un po' i capelli. 

E' ufficiale, non ho più il controllo del mio corpo! 

Il cancelletto che chiude il giardinetto della casa è aperto, lo supero e in pochi passi arrivo di fronte la porta, il mio dito è già poggiato sul campanello ma sento solo silenzio. Sono completamente bloccato, paralizzato, che diamine! Mi allontano ed inizio a fare avanti e indietro sulle mattonelle di cotto che formano un vialetto al centro del giardino, cerco di calmarmi, faccio respiri profondi. 

Forza Logan, sei qui ormai, non fare il cagasotto! Suona quel dannato campanello! 

Finalmente suono. La porta si apre dopo pochi secondi. Di fronte a me però non trovo la persona che mi aspettavo di vedere. Un uomo passati i quaranta mi scruta in silenzio. Ci osserviamo, ci studiamo, in lui riconosco molti tratti di Samantha e allora capisco che deve essere il padre. Il silenzio sta diventando imbarazzante così decido di aprire bocca.

- Buongiorno, non volevo disturbarla. Samantha è in casa? - prima di chiamare sua figlia mi squadra ancora per qualche secondo. Successivamente la chiama e si allontana. Quando è Samantha a sbucare sulla soglia di casa il mio cuore inizia ad accelerare. Stupido cuore smettila! Perfetto, adesso parlo anche con i miei organi, siamo alla frutta!

- Logan che ci fai qui? - cerco di fare il disinvolto, e, soprattutto, di non guardarla dritta in viso.

- Sono venuto per la giacca, ieri l'ho dimenticata.

- Oh giusto, beh te l'avrei portata a lavoro, sai non sono mica una mangiatrice di giacche! - la sua battuta mi fa sorridere, ha ragione, cosa mi è preso? Quanto vorrei che mia madre fosse qui per mettere ordine nella mia testa.

- Mi trovavo nei paraggi - Ma quanto sei bugiardo? Lei sorride, come se potesse leggermi nella mente. Sarebbe abbastanza preoccupante se potesse, anche se dubito capirebbe il caos che ho dentro il cervello.

- Beh, non stare fuori, entra. Io vado a prenderla è nella mia stanza. - aspetta che io entri e poi chiude la porta. Avrei preferito non entrare ma mi sembrava abbastanza scortese. Resto comunque vicino la porta e mi guardo intorno. E' una bella casa, anche se non c'è quel tocco femminile che di solito hanno tantissime case, come ha ancora la mia, nonostante mia madre non ci sia più. Riesco ad intravedere il padre che in silenzio legge il giornale e beve una tazza di caffè in cucina. Attaccate alle pareti e messe sulle mensole ci sono solo foto di Samantha da sola o con suo padre. Mi avvicino per guardarle meglio. 

La mia attenzione viene rapita da una piccola foto incorniciata dove la protagonista è una piccola Samantha di quattro anni circa sulla spiaggia, mentre fa un castello di sabbia. Quei due oceani splendenti brillano più che mai. Ha i capelli corti sulle spalle e un costume intero a quadretti. Sul viso un sorriso che non le ho mai visto, probabilmente perché è uno di quei sorrisi che si riservano solo alle persone speciali. Automaticamente sorrido anche io.

- Eccomi - la sua voce mi fa saltare in aria, lei ride e mi porge la giacca. Senza rendermene conto le nostre dita si toccano e quella sensazione elettrica sentita ieri, quando mi ha toccato la mano, ritorna più forte che mai. 

Ritiro velocemente la mano e senza nemmeno dire una parola apro la porta ed esco di casa. Indosso la giacca e, senza voltarmi mai indietro, metto in moto e sfreccio via. 

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Capitolo 8
*** 6. Rewind ***


Cosa sto facendo? Che mi prende? La moto mangia l'asfalto con voracità, corro, corro più veloce che posso. Mi allontano da lei e, inutilmente, cerco di allontanarmi da tutte quelle sensazioni a cui non so dare un nome, ma loro mi seguono. Mi perseguitano. 

Inizia a fare caldo, troppo caldo. Arrivato al cimitero mi fermo e posteggio la moto sotto un albero all'ombra, in modo che il sole non la scaldi, è già troppo calda e non è un bene per le moto. Mi levo il casco, la giacca e vado a comprare le rose rosse, le due più belle, come al solito. Piccole goccioline di sudore scivolano lungo il mio viso e lungo la mia schiena sotto la maglietta, ma le ignoro. 

Vado prima da mia madre, sostituisco la rosa appassita con quella fresca. Dio quanto mi manca. Ricordo ancora il modo in cui mi guardava durante le ultime ore della sua vita. Sapevamo entrambi che da li a poco sarebbe finita e lei mi guardava con uno sguardo quasi mortificato. Come a chiudere scusa, come se si sentisse in colpa, io la guardavo allo stesso modo. Non ho mai capito perché mi guardasse in quel modo, non era mica colpa sua se quel terribile mostro che aveva dentro le stava mangiando il cuore pezzo per pezzo. Ma lei sapeva benissimo perché io cercassi il suo perdono con gli occhi. Mi sentivo in colpa, terribilmente. Come già detto, pensavo solo a me stesso e il fatto che si sia ammalata, il fatto che avrei potuto perdere anche lei, mi ha solo fatto sentire peggio. Mi sono completamente abbandonato. Sono stato un codardo, sono fuggito quando lei aveva più bisogno di me e quando me ne sono reso conto è stato troppo tardi. Per questo la guardavo mortificato, sconfitto, pregandola con lo sguardo di perdonarmi. Sono stato un figlio terribile, egoista. Mi sentivo una vera merda, ma lei era ancora li, stanca, gelida, quasi privata della vita e mi accarezzava il viso con dolcezza. L'ha sempre fatto quando da bambino piangevo o mi sentivo in colpa per qualcosa, mi accarezzava il viso. Se mi concentro posso ancora sentirla la sua mano fredda e fragile sulla mia guancia. Ricordo di aver preso quella scheletrica mano tra le mie e che gliela baciai mentre la lacrime mi rigavano il viso, poi andai a casa. Mi spinse lei ad andare, io non volevo lasciarla sola, ma lei non voleva che la vedessi morire. Poco dopo che arrivai a casa, ci chiamarono dall'ospedale per dirci che se n'era andata. 

Quel giorno sono morto per la seconda volta non morendo davvero. Leggo il suo nome scritto sulla lapide "Grace Lily Moore". Pochissime persone conoscevano il suo secondo nome, per tutti lei era solo Grace, tranne per me. Mi divertivo a chiamarla Lily, anche davanti ad altre persone, si infuriava da morire. Do' un ultimo sguardo a quel marmo bianco per poi passare ad un altro pezzo di pietra, forse ancora più doloroso.

Cambio anche a lei la rosa, quella fresca sprigiona un profumo delizioso. Mi inginocchio di fronte alla lapide e mi abbandono. Un po' come faccio sempre. Solo che questa volta è diverso. Sono arrabbiato. Lo so è assurdo ma sono arrabbiato con lei. E' infantile, è da pazzo cronico ma non riesco a non dare la colpa a lei se adesso una ragazza con i suoi occhi è entrata di prepotenza nella mia vita.

 E' una specie di scherzo Isabel? penso infuriato. E' un tuo strano modo per dirmi che devo smetterla di amarti? Perché sai che non posso farlo. In questo modo mi torturi e basta. 

Mi avvicino e piano poso la fronte sulla pietra liscia. In questo modo rendi ancora più vivido il ricordo che ho di te. Forse credevi che donarle i tuoi occhi mi aiutasse, ma invece mi distrugge Isabel. Mi uccide, quasi quanto il senso di colpa. 

Me ne sto li, l'odore della rosa nelle narici e sono furioso. 

Maledizione Isabel! Maledizione! Vorrei urlare, urlare forte, così forte da risvegliare ogni singola persona morta che si trova in questo cimitero. 

Ma a che servirebbe? 

Urlare? 

Ho urlato tanto da quando Isabel è morta e non mi ha mai dato sollievo. Eppure è stata lei a darmi questo consiglio, quando ancora eravamo solo amici, più o meno. Era appena arrivato l'inverno, ero andato al molo dopo aver litigato con mio padre. Ero arrabbiato da morire e lei era li. Da sola, seduta su una panchina a guardare le onde infrangersi sulla riva. Mi sedetti accanto a lei e, dopo essere stati in silenzio per un tempo interminabile, mi chiese cosa c'era che non andava. Lei mi conosceva già, lei sapeva già leggermi dentro. Le raccontai tutto e lei mi disse che in quei casi la cosa migliore era sfogarsi, buttare fuori tutto. E ci sono due modi per farlo, piangere o urlare. Ovviamente non avrei mai e poi mai pianto di fronte a lei. Così andammo nella parte più estrema del molo e iniziammo ad urlare. Gridare così forte da far male la gola. Funzionò. Fu un giorno speciale, il nostro primo e vero contatto. Creammo una certa intimità tra di noi in quel momento, un segreto che tenemmo per noi sempre. Non ho mai potuto sapere quale fosse la ragione per cui lei gridasse, in quel momento non importava e nemmeno adesso. 

Solo che adesso urlare non serve a niente, è inutile senza di lei. Tocco piano la lapide con la mano.

- Tu mi stai mettendo alla prova Isabel. Mi stai mettendo alla prova ed io sto fallendo. Cosa devo fare? - sussurro. 

Questa vita senza di lei è una vera schifezza. Mi lascio andare sull'erba, senza forze. La faccia verso il sole, le braccia dritte lungo il corpo, la sua pietra di fianco a me. Chiudo gli occhi ed inizio a respirare profondamente. Inspiro ed espiro. Inspiro ed espiro. Se non sentissi il mio cuore battere forte e giovane nel mio petto giurerei di stare per morire. La sensazione credo sia quella, inquietudine, gelo nonostante in questo momento faccia un caldo infernale, senso di abbandono. Ho appena preso la decisione di restare così per sempre quando il cellulare inizia a squillare. Lo prendo dalla tasca dei jeans e lo porto all'orecchio.

- Pronto? - non guardo nemmeno chi sia.

- Amico dove sei? Il capo è nero, qui c'è un casino, abbiamo bisogno di te! - Merda. Adesso sono guai!

- Arrivo Robert sono per strada - cosa non del tutto vera, ma non mi va di dirgli che sono steso in un cimitero ad aspettare inutilmente di morire. Non abbiamo tutta questa confidenza io e lui. Chiudo la chiamata e mi metto a sedere. Aspetto che il mal di testa passi e poi vado alla moto.

In pochi minuti sono al ristorante, Robert e Samantha corrono di qua e di la, è un dato di fatto, questo locale senza di me è perso. Il capo è seduto al solito posto, ma con un'espressione abbastanza paurosa. A lui farebbe bene urlare un po', troppa rabbia repressa. Ci scambiano un'occhiata, cerco di fare gli occhi da cucciolo dispiaciuto meglio che posso e vado a cambiarmi. Freddie esulta appena mi vede, come Robert, l'unica che è impassibile è lei. Non mi guarda nemmeno in faccia. E' di nuovo arrabbiata. Non la biasimo visto il modo in cui sono scappato da casa sua.

- Logan questi vanno al tavolo cinque, veloce! Samantha tu prendi quelli del tavolo uno! - Mi passa affianco come un carro armato facendomi quasi cadere, mi stupisco di quanta forza abbia una ragazza così minuta. Quando esce dalla cucina prendo i piatti e la seguo a ruota. Per tutto il servizio non fa altro che evitarmi, come se avessi la peste. Sono confuso, non è questo quello che volevo? Non dovevo essere io a chiuderla con lei? Allora perché il fatto che non mi eviti mi da terribilmente fastidio? Certo, adesso la penso diversamente da questa mattina, se lei è qui ci deve essere un motivo. Ed io voglio scoprirlo. Stando bene attento a non espormi troppo, ma devo sapere. 

A servizio finito, sistemiamo tutti i tavoli per la sera, cerco di parlare ma fa finta di non sentirmi. Ma io non mi arrendo.

- Samantha mi passi le posate?

- Robert gli dai le posate per favore? - tiene gli occhi piantati sul bicchiere che sta asciugando.

- Io sto parlando con te non con Robert - nessuna risposta. Robert da suo canto mi guarda confuso.

- Qualcosa non va Sam?

-Ben detto Rob qualcosa non va Sam? - calco con la voce il suo nome, questo attira la sua attenzione. I suoi occhi si piantano dentro i miei ed io mi ritrovo in mezzo alla tempesta.

- Chiedilo al signor lunatico qui se c'è qualcosa che non va! - sbatte il bicchiere sul tavolo e ne prende un altro da asciugare.

- Logan ma che le hai fatto? - Non ha il tono eccessivamente minaccioso, ma comunque non importerebbe. Il mio metro e ottantacinque è nettamente superiore al suo metro e settantatre.

- Niente Robert, non ho fatto niente - Avrei fatto meglio a stare zitto. Samantha mi fulmina in un modo da far paura. Mi rendo conto che la mia altezza contro la sua è del tutto inutile!

- Niente?! Sei serio?! Ma che diavolo hai nel cervello?! - posa il bicchiere sul tavolo e mi si avvicina pericolosamente. - Questo qui è pazzo Robert! Deve far pace con il cervello!

- Ehi io sono ancora qui! - brutta, bruttissima mossa aprire ancora la bocca. E' come se gettassi benzina sul fuoco.

- Purtroppo ti vedo brutto cretino che non sei altro! - getta la pezza sul tavolo e si porta le dita alle tempie - Me ne vado, continua tu visto che sei arrivato in ritardo, non ce la faccio più a vedere la tua stupida faccia. - mi volta le spalle e va via. Robert mi guarda con rimprovero, che odio. Prendo le posate in mano ma un secondo dopo sono già fuori dal locale a rincorrerla. Sto sbagliando tutto, e sto continuando a sbagliare. Ha ragione quando dice che devo far pace con il cervello. Fosse semplice, lei non sa cosa c'è nella mia testa. Riesco a raggiungerla facilmente, un mio passo è tre dei suoi.

- Samantha! - non si ferma, anzi affretta il passo. - Samantha aspetta! - si ferma, mi piazzo davanti a lei, ma non mi lascia parlare.

- Si può sapere che vuoi? Cosa vuoi da me? - si avvicina alla ringhiera e riserva il suo sguardo esclusivamente alle onde. La raggiungo, mi metto di fianco a lei, la mano aggrappata alla ringhiera.

- Io non voglio niente è sol..

- Allora lasciami in pace Logan! - i nostri occhi si scontrano di nuovo, come al ristorante. Le gambe iniziano a tremare. Non riesco a sostenere il suo sguardo e questo mi fa incazzare. Stiamo per qualche minuto in silenzio. Lei con i suoi occhi puntati su di me, io che guardo le mie scarpe come uno stupido.

- Volevo solo chiederti scusa, sono un cretino. - cautamente alzo lo sguardo e noto che il suo si è leggermente addolcito.

- Si sei un cretino. Perché ti comporti così con me? Un minuto prima è tutto ok, il minuto dopo non mi rivolgi la parola, mi eviti, non mi guardi nemmeno in faccia. - Non l'ho mai vista dal suo punto di vista, ma adesso capisco che sto sbagliando. Ho due possibilità, chiuderla o tentare di stabilire un equilibrio.

- Mi dispiace, davvero Samantha sono serio. Lo so che il mio comportamento è strano ma te l'ho detto ieri sera, non è un periodo facile per me questo. Ma voglio rimediare. Lavoriamo insieme adesso e voglio che ci sia un clima sereno. Quindi ricominciamo d'accapo ti va? - sorrido, uno di quei sorrisi appena accennati. In realtà del ristorante mi interessa poco, io voglio conoscerla. Voglio provarci. Nel caso le cose vadano male allora taglierò i ponti.

- Va bene, questa è l'ultima possibilità che ti do' - cerca di sembrare fredda ma un piccolo sorriso scappa anche a lei. Con naturalezza libera i suoi capelli dall'elastico, le ricadono sulle spalle, sul seno. Brillano al sole e le mie gambe ricominciano a tremare. Mi aggrappo meglio alla ringhiera, ho paura di cadere. Si passa una mano tra quella seta lucente. - Allora, visto che dobbiamo ricominciare, piacere. Io sono Samantha, ma puoi chiamarmi Sam. - mi porge la mano, le labbra inarcate in un sorriso mai visto sul suo viso.

- Piacere Sam io sono Logan - le sorrido di rimando e stringo la sua mano. Ce l'ha calda, piccola e soffice, Solo adesso mi accorgo che le sue unghie sono smaltate di nero.

- Io devo andare a casa, non ho mangiato. Vuoi venire con me? - Per la seconda volta in un giorno mi ritroverei a casa della ragazza che mi sta rovinando la vita. E' una pessima idea. Pessima, pessima, pessima. Eppure una piccolissima parte del mio cervello sta urlando a gran voce di accettare. Non ascolto mai quella vocina, sono una persona che pensa razionalmente, non prende decisioni azzardate, almeno fino ad ora.

- Si, va bene. Nemmeno io ho mangiato ad essere sincero. Vieni la moto è di la - sto per fare il primo passo quando mi ferma. Le sue dita attorno al mio polso.

- No, voglio andare a piedi, voglio camminare un po' - lascia la presa e mi guarda aspettando una risposta.

- Non ti è bastato fare avanti e indietro per il ristorante? - le mie parole la fanno ridere, mi fa no con la testa. Sono un po' indeciso, c'è un po' di strada e il sole è ancora forte.

- Dai andiamo! E' una bella giornata e poi camminare fa bene! - Sorride ancora. Come posso dirle di no?

- Ok va bene! Andiamo! Ma sappi che se ti verrà un malore io non ti porterò sulle spalle! - scoppiamo entrambi a ridere e ci incamminiamo fianco a fianco.

- Un cavaliere di altri tempi a quanto vedo! - mi da una piccola pacca sul braccio. Faccio spallucce, non voglio risponderle, ho paura di dire qualcosa di sbagliato e non voglio rovinare questo piccolo momento sereno tra di noi. Fino ad ora ce ne sono stati molto pochi, di momenti sereni. 

Camminiamo, camminiamo tanto e senza dire una parola. Io non so che dirle e lei credo la stessa cosa. Dopotutto siamo ancora due estranei. Ogni tanto ci guardiamo e scappa qualche sorriso, ogni tanto mi ricordo di camminare più lentamente perché come ho detto prima un mio passo è tre dei suoi e la lascio indietro. 

Ogni tanto traballiamo e ci scontriamo, io non sono un asso in fatto di equilibro e nemmeno lei a quanto vedo, ondeggiamo entrambi. Ad Isabel dava un fastidio tremendo questo mio dondolare, quando le andavo addosso al novanta percento le pestavo un piede! Con lei è diverso, come se quasi le piacesse scontrarsi con me. Passo dopo passo finalmente siamo arrivati di fronte casa sua ed io ho già l'ansia alle stelle. A noi due, casa di Samantha, non mi fai paura! 

Non solo parlo con i miei organi e sento voci nella testa che non dovrebbero esserci, adesso parlo anche alle case. 

Di bene in meglio, Logan, di bene in meglio.

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Capitolo 9
*** 7. Samantha's house ***


Sono fermo sulla soglia di casa, nello stesso identico posto dov'ero questa mattina. La vocina nella mia testa urla terrorizzata, sa che, se entrerò in questa casa, tutto cambierà. Ha paura, una paura atroce. 

Intanto, mentre nella mia testa ci sono gridi disperati, Samantha apre la porta ed entra, posa le chiavi di casa, la borsa e poco dopo scompare dalla mia vista. Osservo la casa da fuori, vedo la cucina in lontananza, le foto appese al muro e messe sulle mensole. In un angolo ci sono due poltroncine che questa mattina non avevo visto, sopra una di esse la borsa di Samantha. Dopo qualche minuto rispunta dal nulla, si è cambiata. 

Indossa un pantaloncino di jeans ed una canottiera. Mi sento un po' scombussolato, non l'ho mai vista tanto scoperta e mi stupisco di quanto mi piaccia il suo fisico. E' di bassa statura, ma ogni sua parte è perfetta. Le gambe snelle e sode, la vita piccola e sottile, il seno rotondo e pieno, il fondoschiena a pallina ben definito. La guardo ed è come se fosse per la prima volta. Non l'avevo mai vista davvero. Non è più la paura a tenermi paralizzato sulla soglia, è lei. Sono come imbambolato. Mi si avvicina sorridente.

- Che ci fai ancora sulla porta entra dai - si mette vicino la porta, aspettando che entri per chiuderla. Pochi passi e sono dentro. Ci sono dentro fino al collo. - Mi sono messa comoda, spero che non ti dispiaccia - dispiacermi? Come potrebbe. La situazione è quella che è, ma io sono pur sempre un uomo e lei una donna.

- Assolutamente - mi sorride timida ed io ricambio. Mi fa segno di seguirla ed è quello che faccio, anche se ancora "spaventato" fino ad arrivare in cucina. Per un attimo mi soffermo sull'ambiente intorno a me. Non è molto grande, ma accogliente. Una di quelle tipiche cucine classiche di legno, un tavolo rettangolare anch'esso di legno in mezzo alla stanza. E' di nuovo lei a distrarmi.

- Vuoi un panino? O magari faccio qualcos'altro - è di fronte al frigo, leggermente piegata in avanti ed io devo assolutamente uscire da quella stanza.

- Un panino va benissimo - dico a voce un po' troppo alta in preda ad una crisi di quelle mondiali.

- Perfetto, accomodati di là il tempo che preparo tutto. - Dio grazie. La cucina comunica con il salotto, nettamente più grande e luminoso. Mi accorgo solo adesso che è anche comunicante con l'entrata. 

Mi siedo sul divano a due piazze che c'è di fronte alla tv. Sto li, in silenzio, e per la prima volta gran parte di me è d'accordo con la vocina che urla di scappare via. Corri! Va via di li! Scappa il più veloce che puoi!Vorrei tanto, ma non posso. Ho giurato a me stesso che ci avrei provato, che non mi sarei più comportato da coglione e così deve essere. 

Non avevo messo in conto però che lei è una ragazza molto attraente fisicamente ed io un ragazzo che è solo da troppo tempo. Sono stato così impegnato a stare male che non mi son reso conto di come lei non fosse solo un corpo che possiede gli occhi dell'amore della mia vita.

- Logan preferisci dell'acqua o vuoi una coca? - la sua voce mi fa sobbalzare.

- L'acqua va benissimo grazie - Pochi secondi dopo fa capolino in salotto, i due piatti in una mano e le due bottigliette d'acqua nell'altra. Scatto come una molla per aiutarla.

- Oh non c'è bisogno, sono una cameriera ricordi? - sorrido e lei mi segue. Ci sediamo sul divano uno accanto all'altra, ne troppo distanti, ne troppo vicini. Le bottigliette sul tavolino di fronte a noi, i piatti in grembo. - Spero che ti piaccia il panino - mi piacerà sicuro, insomma io mangio tutto. 

 Prende l'elastico che ha al polso e si lega i capelli in una coda di cavallo lasciando il viso completamente scoperto. Ha le guance un po' arrossate a causa del sole, mentre il resto del viso è candido puntellato di lentiggini. Sembra un po' un folletto, il naso all'insù, le orecchie piccole, gli occhi grandi. Mi guarda ed io le sorrido ancora. Diamo il primo morso insieme. Davvero buono. Mi stupisco di quanto sia buono, forse perché finalmente mi rendo conto di avere fame sul serio. C'è prosciutto, insalata, pomodoro e senape.

- E' molto buono Samantha - ancora sorrisi. Il mio sguardo passa dalle sua labbra alle sue gambe che sono quello che sono e improvvisamente fa caldo. Ritorno sul mio panino e do qualche altro morso.

- Grazie mille, vuoi vedere un po' di tv? - annuisco, la televisione mi sembra una buona distrazione. Fa zapping con il telecomando, ma non c'è niente che piaccia a nessuno fino a quando non becchiamo i Simpson.

- Quando ero più piccolo li amavo, li amo tutt'ora, ma diciamo che guardo molta meno televisione. - lei si volta verso di me, i nostri occhi si incontrano. Improvvisamente parlare mi sembra così difficile.

- Anche a me piace molto. Come mai? - Continua a fissarmi, due oceani limpidi e curiosi.

- Come mai cosa?

- Come mai guardi meno televisione? I tuoi non vogliono? - Magari fosse quello il problema, magari fosse quello.

- No ehm.. - poso il panino sul piatto e bevo un sorso d'acqua per pulirmi la bocca. - Io abito da solo. Quindi mi tocca pulire, cucinare e poi c'è il lavoro. E quando torno a casa sono stanco per guardare la tv.

- Wow, deve essere una figata abitare da soli! - da un altro morso al suo panino ed io non posso far a meno di trattenere le risate. Mi guarda imbarazzata e poi sorride anche lei.

- Cosa c'è?

- Una figata? Sei seria? Da dove ti escono certi vocaboli, quanti anni hai scusa? - scoppio a ridere e lei inizia a darmi piccole botte sul braccio.

- Non c'è niente di male a dire figata! Ho diciotto anni qual è il tuo problema? - le mie risate diventano una tosse fastidiosa. Mi son affogato con la mia saliva. Diciotto anni? Non ci credo, non può essere?

- Mi stai prendendo in giro? - dalle sue braccia incrociate al petto e il suo sguardo minaccioso credo proprio di no. - Oddio hai davvero diciotto anni?

- Si, ho diciotto anni, perché la cosa ti sconvolge tanto? - questa volta è lei che ride ed io la seguo a ruota.

- Perché...perché credevo fossi più grande! Ma vai ancora a scuola? - questa volta ha uno sguardo che non riesco proprio ad interpretare. Dio non ci credo, mi sto facendo rovinare la vita da una ragazzina! Colei che è diventata il tormento della mia esistenza è una ragazzina. Non dico che io sia un uomo vissuto, però credevo che almeno avesse la mia età.

- Sorvolando sul fatto che mi stai dando della vecchia, visto che non dimostro la mia età, mi sono diplomata quest'anno, comunque, ritornando a te, come mai vivi da solo? I tuoi dove sono? - Eccola la, sapevo che prima o poi questa domanda sarebbe arrivata. Decido di finire quel poco di panino che era rimasto nel piatto, un altro sorso d'acqua e rispondo.

- Mia madre è morta due anni fa, mio padre invece è a New York con la sua nuova compagna, se n'è andato subito dopo i funerali. - vedo il suo viso cambiare espressione, quasi mi sento in colpa per averle detto queste cose, perché adesso sul suo viso c'è tristezza e imbarazzo.

- Oh, allora credo che il termine figata non c'entri proprio niente - sussurro un piccolo "no". Con lentezza infinita posa il suo piatto con l'ultimo pezzetto di panino sul tavolino e si sposta in modo da guardarmi dritto in faccia, le gambe strette al petto, la schiena appoggiata al bracciolo del divano. - Com'è successo?

- Un tumore, un brutto tumore al seno, le covava dentro da parecchio tempo, non abbiamo potuto fare niente. Mio padre dal canto suo era come se non aspettasse altro, subito dopo i funerali è andato a New York mentre io son rimasto qui.

- Mi dispiace tanto Logan, se avessi saputo non ti avrei mai..

- Non fa niente Samantha, ormai sono abituato a rispondere a queste domande e poi evitare di dirle non farà andare via il dolore. - le sorrido e lei, senza staccare gli occhi dai miei, allunga una mano e la posa sul mio braccio. Quel piccolo tocco mi fa stare bene, mi serviva. Quando si raccontano cose del genere, una piccola pacca sulla spalla, una carezza, ti fanno sentire meglio. Ti fanno sentire compreso. Sposto il mio sguardo alla televisione, non riesco a sopportare i suoi occhi troppo a lungo, è un male ancora troppo grande. Cala il silenzio. Lei finisce il suo panino mentre io guardo la tv senza guardarla davvero. Le mie dita tamburellano sul bracciolo del divano indistintamente creando una piccola melodia quasi inudibile. Capita quando sono nervoso, inizio a tamburellare dappertutto.

- Ma non hai nessuno qui? Parenti? Amici? - la sua voce mi fa sobbalzare, ma non mi fido a guardarla. Continuo a tenere lo sguardo fisso sulla tv.

- No, qui non ho nessuno, se non contiamo la signora Smith, era la mia babysitter quando ero piccolo e si prende ancora cura di me. Ma per il resto mia madre era figlia unica e i miei nonni sono morti quando ero piccolo. Tutti i miei parenti sono a New York ma non ho rapporti con loro da molto tempo. Per quanto riguarda gli amici, i pochi che avevo sono andati tutti via - Se non contiamo Jared, ma Jared andrà via. - Ma basta parlare di me, parlami un po' di te Samantha! - finalmente mi volto a guardarla e mi stupisco di come ogni volta io la veda sempre più bella. Perché, nonostante tutto, non posso negare la sua bellezza. Sarebbe come negare che questo divano su cui siamo seduti sia bianco, o come negare che il cielo è azzurro sopra le nostre teste.

- Chiamami Sam! - prende i piatti vuoti e li porta in cucina. Mentre si allontana il mio sguardo irrimediabilmente cade sul suo fondoschiena perfetto. Sono proprio nei guai!

- Va bene, Sam, parlami di te! Non ti avevo mai vista prima - sento rumore d'acqua, probabilmente sta lavando i piatti.

- Beh io non sono di qui, cioè si lo sono ma non ci ho abitato molto. I miei genitori hanno divorziato quando avevo tre anni ed io sono andata con mia madre - sento l'acqua chiudersi e dopo pochi minuti ritorna a sedersi di fronte a me.

- Mi dispiace, cioè è una situazione brutta. Anche se avevo notato che la presenza di una donna manca da molto in questa casa. - è un sollievo, preferirei così anche a casa mia. Purtroppo però la presenza di mia madre è ancora dolorosamente forte.

- Figurati, io son cresciuta così. Mia madre è di Los Angeles, io abito li. Quando ero piccola venivo qui solo una settimana di agosto quasi ogni anno. La maggior parte delle volte vedevo mio papà in città. - Los Angeles, questa città mi perseguita. Senza che me ne accorga le immagini dell'incidente mi corrono davanti, ma riesco a mandarle via.

- Da quanto tempo è che non venivi qui?

- Da anni. L'ultima volta che ho passato l'estate qui avevo 13 anni. Poi mio padre e mia madre hanno avuto una brutta lite e così non mi ha più permesso di venire qui. Per anni ho combattuto con mia madre, ma mi son detta che una volta finita la scuola io sarei tornata per stare con il mio papà! Ed eccomi qui - sorride, ma ha una strana luce negli occhi. Una luce che non riesco proprio a capire, la conosco ancora troppo poco per leggerle dentro.

- Eccoti qui...e quanto resterai ancora? - giusto a titolo informativo insomma. Avrei voluto chiederle: Quanto ancora hai intenzione di incasinare la mia vita? Ma non mi sembrava una cosa carina da dire, anche se la verità.

- Verso la fine di agosto andrò via, tornerò a casa. Già al solo pensiero mi sento male, mia madre proprio non la reggo! - Bene, dovrò soffrire per due mesetti circa. Ci riuscirò? Non lo so proprio. Ad un tratto mi sento come scoraggiato. Mi sento come un piccolo ed insignificante scalatore dilettante che si prepara a scalare il monte Everest e sa già in partenza che non ce la farà mai. A distrarmi dalle mie crisi esistenziali proprio lei. - Ti senti bene Logan?

- Eh?

- Stai bene? Ad un tratto ti sei ammutolito - cerco di riprendermi il meglio che posso.

- Si sto bene scusa, ero solo sovrappensiero - le sorrido e lei ricambia ma non sembra molto convinta, devo avere proprio una brutta cera. Non voglio che pensi che è colpa sua se sto così, anche se effettivamente lo è, così cerco di animare un po' la conversazione. - Allora non può essere tutto qui! Avrai qualche oscuro segreto o qualche mania da raccontarmi, insomma dimmi di te!

- Ok mi hai scoperta - mi guarda con occhi vispi e un sorrisetto divertito sulle labbra - In realtà sono un vampiro! - scoppiamo a ridere entrambi! - Che dirti? Uhm...la mia migliore amica si chiama Amanda, da piccola avevo un cane, un Labrador, che si chiamava Bruce, era tutto nero e mi ricordava Batman, che io ho sempre adorato! Sono molto brava a disegnare e mi piace la musica. Non ho un gruppo preferito ma una tra le mie canzoni preferite è "Pieces" dei Red. Che altro? Non mi viene niente in mente.

- Anche io ero un fan di Batman, lo sono tutt'ora! - ride e ancora una volta mi ritrovo a pensare a quanto sia bella. Una bellezza semplice, naturale. - Ce l'hai il ragazzo? - la domanda parte così, senza che nemmeno me ne accorga. Ma adesso che l'ho detta vorrei rimangiarmela! Sono cose private dopotutto, non avrei dovuto chiederle niente! Magari pensa che io adesso sia interessato. Lo sono? Non ne ho idea.

- L'avevo, fino a qualche mese fa, ma adesso è andato a finire tra le cose della mia vita da dimenticare.

- Come mai? Se mi è consentito chiedere - Ovvio che non mi è consentito chiedere, ma io che faccio? Chiedo lo stesso! Sei un'impiccione Logan! La voce nella mia testa ha ragione questa volta.

- Diciamo solo che non era la persona che credevo di conoscere. - un sorriso triste le compare sul volto, non l'avevo mai visto. Per la prima volta nei suoi occhi noto della sofferenza e questo mi uccide. Non so, magari perché a soffrire vedo gli occhi di Isabel o forse perché vedere una creatura bella come lei soffrire farebbe stare male chiunque.

- Beh, non conosco questo tizio, ma credo che sia proprio uno stupido. Solo uno del genere si farebbe scappare una ragazza come te. - Il mio cervello ormai va a ruota libera, non riesco nemmeno a controllare le parole che mi escono di bocca, le dico e basta e la cosa inizia a preoccuparmi.

- Sei gentile - i suoi occhi riprendono un po' di vita ed anch'io. E' proprio vero, molte volte la nostra felicità è misteriosamente legata alla felicità delle persone che ci stanno accanto. Più quei due fari riacquistano luce, più dentro di me cresce un qualcosa che non mi so spiegare. Fa male ma, allo stesso tempo, è terribilmente dolce.

- Sono sincero - la sua mano torna a posarsi delicata sul mio braccio per pochi secondi. Era così tanto che non provavo così tante emozioni diverse in una volta che è come se fosse la prima.

- E tu? Ce l'hai la ragazza? - Le parole di Samantha mi feriscono, sono come una spada, una spada piantata in pieno petto. Quel piccolo momento di tranquillità e serenità che si era creato intorno a noi si è infranto in mille pezzi. Sono di nuovo catapultato nella realtà del dolore. Dovevo aspettarmi questa domanda, dovevo, e invece non c'ho pensato nemmeno per un secondo. Che stupido sono stato.

- No. Non ce l'ho. - sono gelido e lei se ne accorge. Non posso farci niente, è come se ogni organo del mio corpo stia appassendo, stia morendo dall'interno. Ho lo sguardo fisso sulla televisione, non posso più guardarla, non ce la faccio. - Sarebbe meglio se andassimo, dobbiamo ancora sistemare il ristorante per questa sera. Do un'occhiata all'orologio appeso al muro e lo fa anche lei.

- Oh, si. Forse è meglio. - si alza dal divano, prende le bottigliette d'acqua e sparisce. Sto sbagliando di nuovo. Non dovrei trattarla male. E' così difficile per la miseria! Odio tutto questo, odio me stesso, odio sentirmi così e odio Samantha, anche se non dovrei.

Non so quanto tempo resto con gli occhi puntati sullo schermo. A risvegliarmi dal mio trans è proprio lei, vestita di tutto punto, la borsa appesa al suo braccio e un'espressione indecifrabile sul viso. 

E' il momento di andare. Con fatica mi alzo dal divano, sono stato in quella posizione così a lungo che ogni muscolo del mio corpo è intorpidito. Cammina in silenzio ed io la seguo. Una volta fuori i raggi del sole mi inondano, ma non riesco a sentire nemmeno il loro calore. 

Ci incamminiamo in silenzio, l'unico rumore proviene dalle nostre scarpe che si consumano sull'asfalto. Ogni tanto passa una macchina o un motorino e per pochi secondi non mi sento da solo. Stiamo a distanza, nessuno scontro, niente di niente, solo vuoto. Non mi importa più se un mio passo è tre dei suoi, cammino e basta. 

Ma perché deve essere tutto così difficile? Stava andando tutto così bene, io mi sentivo bene, adesso è tutto uno schifo. Come rimediare? Perché devo rimediare, mi ha dato l'ultima possibilità e la sto sprecando. A distanza di tre anni non sono ancora in grado di parlare della morte di Isabel senza morire anche io. Dovrei dirle la verità, lei è stata sincera con me. 

No, non ce la faccio. Non posso. 

E' una cosa troppo personale, troppo mia, troppo legata alla mia anima, non posso dirla ad una ragazza che conosco solo da due giorni. E poi anche lei è stata molto vaga riguardo al suo ex. Questa è una scusa bella e buona Logan! E' vero, è una scusa. Il piccolo Logan nella mia testa inizia a stancarmi adesso! Ha ragione purtroppo e questa cosa mi da tremendamente fastidio! Sono così frustrato, vorrei avere molto più controllo delle mie emozioni, invece vanno a ruota libera, fanno quello che vogliono, è sempre stato così. Mi faccio completamente sopraffare, condizionare. 

La ruota panoramica del Pacific Park si fa sempre più grande, finalmente stiamo arrivando, non ce la faccio più ne a camminare, ne a stare in silenzio. Di solito il ritorno sembra sempre più corto, più veloce, a me invece sta sembrando una maledetta eternità. Mi volto un secondo per vedere a che punto è Sam, non è tanto distante da me, tiene la testa bassa, gli occhi sulla strada e si tortura le dita delle mani. Mi fermo per far in modo che mi raggiunga.

- Tutto bene? - le dico appena è al mio fianco. Restiamo fermi, immobili, come due statue.

- Forse dovrei fartela io questa domanda non credi? - la sua voce è completamente priva di emozione. Niente. Il nulla più assoluto. Gli occhi fissi sul nulla.

- Hai ragione, scusami. E' che non mi andava di parlarne - le do' un'altra occhiata veloce, noto che continua a torturarsi le mani.

- Potevi benissimo dirlo, potevi dire "Samantha non mi va di parlarne" - fa un passo, poi un altro e di punto in bianco stiamo di nuovo camminando. - Io non avrei insistito.

- Lo so, mi dispiace.

- Ok.

- Però non voglio che tu adesso ce l'abbia con me.

- Non ce l'ho con te.

- Bene.

- Bene - Sono cavolate, lei ce l'ha con me ovviamente, ma decido di non ribattere. Per adesso va bene così.

Pochi minuti dopo finalmente siamo al ristorante. Robert è già dentro che sistema i tavoli, ci dice qualcosa, sembra arrabbiato ma non riesco a capirlo, sono completamente immerso nel mio mondo e così anche lei. Vado negli spogliatoi e mi metto la divisa. C'è un piccolo specchio nel bagno per i dipendenti, è macchiato, ma riesco comunque a vedere i miei occhi stanchi. 

Nonostante di solito siano di un verde stagno, adesso sembrano più due pozze di fango. Faccio due lunghi respiri e poi ritorno in sala, ritorno da lei. Spero solo che questa sera, lavorare, non sia così difficile. 

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Capitolo 10
*** 8. Iron Hearts ***


Le mie preoccupazioni erano infondate, in parte. In un modo o nell'altro la serata è andata bene.Certo, quella poca confidenza che si era creata, i complimenti, le occhiate, i sorrisi, è tutto andato via. Due macchine, due macchine che si parlano se è necessario, due macchine che collaborano discretamente solo per la buona riuscita del servizio. 

Questo siamo. Forse lei è un po' più macchina di me. 

Ogni tanto gli occhi cadevano su di lei quando era distratta. Adesso so che quando è concentrata arriccia le labbra, o che, quando prende i piatti in cucina, prima di uscire in sala, si ferma un secondo, fa un lungo respiro e poi riparte. Mi son fatto tradire dal mio cuore non interamente meccanico solo una volta. 

Era in difficoltà con un cliente, uno di quelli che passano la loro esistenza a far uscire pazzi i camerieri. Non è semplice lavorare con queste persone e il suo stato d'animo, a causa di quello che è successo, era sicuramente già bello che andato. Così mi son intromesso e ho risolto il problema. 

Da parte sua ho ricevuto solo un "grazie" sussurrato. Ma mi basta, è più di quanto immaginassi. E' un cedimento, sangue e carne in mezzo a tutto quel metallo. Lei è più brava di me però, a nasconderlo. 

Lo era anche Isabel. Io non riesco a portare una lite per troppo tempo o non parlare con le persone a cui tengo davvero. Isabel lo sapeva e me lo faceva apposta. Si chiudeva, non mi parlava più, facendomi impazzire. Perché io, dopo una lite, volevo solo stringerla a me più forte che potevo. Sono sempre stato una persona abbastanza orgogliosa, ma non quando c'entrava lei. Mi era umanamente impossibile. Anche quando ero io ad aver ragione, andavo da lei e le chiedevo scusa. Non per la ragione, ma per aver urlato, per essere stato sgarbato. Perché purtroppo sono anche questo quando mi arrabbio. 

Urlo, dico cose che non penso e faccio del male. Lei all'inizio faceva la sostenuta, non mi guardava, non voleva essere toccata. Ma io insistevo, l'abbracciavo forte e lei piano, piano si abbandonava a me, alle mie braccia e tutto tornava al proprio posto. Non abbiamo mai litigato in modo irreparabile, tutto si è sempre risolto entro una giornata, ma, quasi ogni volta, finivamo per fare l'amore. 

Ed era più intenso, era più forte. Sono andato a letto con tante, forse troppe ragazze, ma nessuna, ne prima ne dopo, sapeva fare l'amore come Isabel. Era viscerale, era come se ogni organo del mio corpo venisse messo sottosopra. Non era solo una questione di piacere, il piacere non cambia, è come ci si arriva al piacere. Tutto quello che si prova nel mentre, non alla fine. Mi illudo che prima o poi troverò qualcuno come lei, qualcuno che mi faccia provare quel senso di dolce smarrimento, che mi impedisca quasi di respirare, ma non credo che la troverò mai.

***

Sono di nuovo davanti a quel piccolo specchio come qualche ora prima. Occhi ancora più stanchi, ma con la consapevolezza che tra qualche minuto sarò a casa mia. Mi vesto in fretta, poso la divisa e mi incammino verso l'uscita. Recupero il cellulare dentro la tasca dei jeans. Diciamo che ce l'ho proprio per figura! Non è ultimo modello, non ci si naviga in rete, anche perché io sono estraneo a qualsiasi cosa c'entri con internet. Non lo uso mai, non chiamo mai nessuno, ne mando messaggi. A chi potrei mandarli? L'unico che mi contatta, ogni tanto è mio padre e infatti c'è solo un suo messaggio.

"Ho bisogno di parlarti..ho chiamato a casa pomeriggio ma non c'eri. Fatti sentire"

Che vorrà mai? Lui mi cerca esclusivamente quando vuole qualcosa o per convincermi, inutilmente, a farmi andare via da questa città e raggiungerlo li. Anche stesso, come potrei andare a vivere da lui? Insieme alla sua compagna e ai suoi due figli? Non voglio vivere con degli estranei. Saluto tutti in modo molto veloce e finalmente metto piede fuori dal locale. 

La brezza leggera mi fa stare un po' meglio. Sono ancora concentrato sul mio cellulare dell'età della pietra quando sento qualcuno chiamarmi.

- Logan! - alzo la testa e mi ritrovo Jared davanti tutto sorridente.

- Ehi amico! - lascio scivolare il pezzo d'antiquariato di nuovo in tasca e mi fermo per salutarlo. Quasi contemporaneamente qualcuno mi sbatte dietro e quasi perdo l'equilibro. - Ma che... - mi volto e di fronte a me, con il sedere per terra, ci trovo Samantha.

- Scusami andavo di fretta e non ti ho proprio visto - cerca di rialzarsi così senza pensarci le porgo la mano.

- Tranquilla, è colpa mia, mi sono fermato di colpo - prende la mia mano, dopo un attimo di esitazione, e la tiro su.

- Beh, la prossima volta metti la freccia o qualsiasi altra cosa insomma! - sorride ed io la seguo a ruota. Finalmente un sorriso, finalmente un segno.

- Si, la prossima volta provvederò - restiamo in silenzio a guardarci un po' imbarazzati. Lei è così strana, questa mattina mi avrebbe letteralmente mangiato dalla rabbia, adesso trasuda timidezza da ogni poro. Sento dei colpi di tosse, mi volto e vedo Jared abbastanza basito.- Oh che stupido! Samantha ti presento il mio amico Jared. Jared, Samantha.

- Molto piacere, chiamami Sam - gli porge la mano e lui la stringe con un sorrisino in viso che non mi convince per niente.

- Beh mi avevi detto che era carina Logan, ma non credevo a questi livelli! - Ecco. Io lo sapevo. Può essere diventato un uomo, potrà anche diventare un dottore, ma quando si tratta di mettermi in imbarazzo è sempre il solito ragazzino dispettoso.

- Gli hai parlato di me? - mi domanda Samantha con occhi sorpresi.

- Oh si mi ha parlato di te - risponde Jared con il suo solito ghigno fastidioso sul viso.

- Davvero? E cosa ti ha mai detto? - ormai è come se io non ci fossi nemmeno più!

- Oh solo cose belle Sam, solo cose belle! - sorridono entrambi e poi quasi contemporaneamente si voltano a guardarmi mentre io vorrei solo buttarmi nell'oceano.

- Coma mai sei qui Jared? - domando infastidito, lui lo sa e se la ride di gusto! Che amico infame.

- Stavo venendo da te, volevo dirti che la prossima settimana la mia ragazza viene a farmi visita e volevo portarla al Pacific Park e mi piacerebbe che ci fossi anche tu. Le ho parlato tanto di te, le piacerebbe conoscerti.

- Non eravate in pausa?

- Si beh stiamo facendo una pausa nella pausa! Mi manca e voglio rivederla e per lei è lo stesso per cui - si stringe un po' nelle spalle, sotto, sotto anche lui è un romanticone.

- Certo amico per me non c'è nessun problema, conta su di me - gli sorrido sincero e mi da una grande pacca sulla spalla, un buon modo per dirmi grazie.

- E tu? Ci vieni con noi? - Jared si rivolge di nuovo a Samantha che a sua volta mi guarda come se volesse chiedermi il permesso. Una parte di me non la vorrebbe, insomma devo già stare con lei a lavoro, passare altro tempo insieme mi sembra superfluo e dannoso per me. Ma l'alternativa sarebbe fare da palo ad una coppia che non si vede da settimane. Le sorrido in segno di assenso. Lei si volta verso Jared e gli regala uno dei suoi migliori sorrisi.

- Ci vengo volentieri! - si porta una ciocca di capelli dietro l'orecchio lasciando il viso un po' più scoperto. E' buio, ma riesco lo stesso a vedere i suoi lineamenti dolci. - Adesso vado si è fatto tardi e mio padre mi aspetta. Jared è stato un piacere conoscerti - si stringono di nuovo la mano.

- Anche per me Sam.

- A domani Logan - questa volta si volta verso di me e mi posa un secondo la piccola mano sul braccio. E' incredibile, ogni volta che mi tocca non posso fare a meno di sentire scariche elettriche per tutto il corpo.

- A domani - la vedo allontanarsi piano, i capelli che le svolazzano sulla schiena. Mi esce un lungo sospiro dalle labbra, quasi come se fosse liberatorio. Sono felice che quel gelo che si era creato tra noi sia andato via. Che la carne abbia preso il posto del metallo freddo. Mi volto verso Jared che mi guarda con una faccia che è tutto un programma. - Non dire niente.

- E chi voleva parlare?

- So che lo vuoi!

- Aspetto il tuo permesso. - scuoto la testa, è incorreggibile. Continua a starmi di fronte con lo sguardo di chi vuole dire mille cose.

- Hai tre minuti, sputa il rospo! - scoppiamo a ridere entrambi.

- Due cose. Primo, carina? Carina Logan?! E' stupenda, non carina! La insulti definendola carina! Secondo, è cotta di te. Te l'ho detto ieri e te lo ripeto oggi dopo averla vista. E' cotta di te. - Balle, sono solo balle. Lei non è cotta di me, non dopo il modo in cui l'ho trattata.

- Fratello non sai quello che dici, oggi è stato un disastro peggio di ieri. Io davvero non so come comportarmi. - Proprio non lo so.

- Lo so che è difficile Logan. E' vero a primo impatto i suoi occhi fanno paura, ma ti do un consiglio. Sii solo te stesso. Non perdere tempo a pensare cosa dire o come comportarti. Sii te stesso e vedrai che le cose andranno bene. - so dentro di me che ha ragione, ma non è semplice. Mi avvicino e gli do' un piccolo abbraccio veloce, uno di quei quasi abbracci che si regalano gli uomini troppo duri per scambiarsi veri gesti di affetto.

- Adesso vado anche io, ci sentiamo amico.

- Ci sentiamo e fai il bravo! - sorrido e mi allontano a passo lento. Raggiungo la mia moto e in pochi minuti sono a casa. Al buio, quando entro, la prima cosa che vedo è la lucina che mi informa che ci sono tre messaggi in segreteria. Sono sicuramente da parte di mio padre, ma decido di ignorarli. Anche se è strano, non è mai stato così insistente. 

Sono così stanco, raggiungo la stanza da letto quasi strisciando. Mi spoglio piano e una volta in boxer mi trascino sul letto. Pochi minuti e scivolo in un sonno profondo, per la prima volta, senza incubi.

***

E passata una settimana da quel giorno, il giorno in cui il mio sonno è stato sereno, il giorno in cui sono andato a casa di Samantha, il giorno in cui ho deciso di provarci e le cose vanno bene, diciamo. 

E' stata lunga come settimana, pesante no, ma molto lunga. Lavoro, cimitero, Samantha. Queste le tre cose principali che hanno animato la mia settimana. C'è stato parecchio lavoro, ho fatto doppi turni, combattuto con clienti che avrei voluto prendere a pugni, sopportato Robert più del dovuto. E il lavoro, ovviamente, è collegato a Samantha. Le cose tra noi due si sono un po' sistemate, abbiamo trovato una stabilità. Almeno io ho tentato di avercela, ma lei è così..così...non lo so. 

Non so un bel niente da quando c'è lei! Insomma ho cercato di essere professionale, di avere un rapporto solo lavorativo e di tanto in tanto scambiare qualche parola giusto per armonizzare il tutto. "Come stai oggi?", "Fa caldo vero?", "Passa una buona serata", insomma roba così.

All'inizio sembrava funzionare ma io sono io e lei è quello che è e mi ritrovavo a farle qualche complimento di troppo senza accorgermene o a toccarla. Una mano sulla spalla, sul fianco, due giorni fa come un emerito cretino le ho sistemato un ciuffo fuori posto. Subito dopo averlo fatto siamo scappati via in direzioni opposte e mai più calcolati per tutta la serata. E' capitato che inconsciamente le offrissi un passaggio a casa che lei ha saggiamente sempre rifiutato. 

Sono un deficiente, lo sono e non mi vergogno ad ammetterlo. E' che sono così impulsivo, faccio le cose senza pensarci, come se non avessi il controllo del mio cervello. Tante volte questo mi ha causato dei problemi. Solo in qualche occasione ho fatto centro, come quando ho baciato Isabel per la prima volta. 

Era già un po' che uscivamo insieme, avevamo superato la fase del non sopportarci a vicenda. Avevamo parlato e ci eravamo detti ciò che provavamo. Eravamo stufi di farci la guerra, ma di morire dentro ogni volta che ci guardavamo negli occhi. Così abbiamo deciso di provarci. Ricordo perfettamente quel giorno. Era un martedì mattina. Eravamo nel cortile dietro la scuola, aspettavamo che suonasse la campanella. Lei mi parlava di come secondo il suo parere i vestiti a vita alta sarebbero di nuovo andate di moda, insomma cose da ragazze, ed io l'ascoltavo attento. Le sue labbra avrebbero anche potuto parlare di omicidi e pestilenze, io ci avrei fatto attenzione comunque. Facevo attenzione a qualsiasi cosa la riguardasse. 

Ricordo il modo adorabile in cui arricciava il naso per i primi sintomi del raffreddore, ricordo i capelli un po' spettinati che le andavano davanti al viso e quegli occhi che mi facevano tremare il cuore. E più la guardavo, più le prestavo attenzione, più nella mia testa mi dicevo che dovevo baciarla. Era un bisogno fisico, io avevo bisogno di toccarla, di stringere il suo viso tra le mani e darle un bacio. Quando la campanella suonò mi dissi "adesso o mai più" , non volevo perdere quell'occasione, non avrei resistito oltre e così lo feci. Le avvolsi il viso tra le mani e la baciai. 

Ci rimase di sasso, non fece niente, ne mi respinse ne mi assecondò, ma non mi importava. Ricordo che dopo averla baciata la guardai per qualche secondo e poi la lasciai li. Ci rimase tanto che fece tardi a lezione. Mi evitò per tutto il giorno, credevo davvero di aver fatto una cavolata, che magari non me ne sarei dovuto andare ma nella mia testa malata, il bacio, rappresentava ciò che volevo, lei, e l'andarmene via rappresentava il lasciarle la scelta. 

Non facevo altro che ripetermi che ero stato uno stupido ma, all'uscita, capì che non avrei potuto fare cosa migliore. Lei mi aspettava proprio accanto al portone, le braccia incrociate al petto e un'espressione seria sul viso. Pensai che volesse picchiarmi! Ne era più che capace! Invece rimase impassibile fino a che non le fui proprio davanti. Io non sapevo che dire, ero nel panico, ma durò poco, perché nel momento esatto in cui stavo per aprire bocca per scusarmi, mi si gettò addosso e mi baciò con una passione e un desiderio che non dimenticherò mai. Poi si allontanò un po', tanto da guardami negli occhi e mi sussurrò "Ti voglio anche io". 

Fu allora che mi resi conto di quanto riuscisse a capirmi, a leggermi dentro. Fu l'unica oltre mia madre. Le ho parlato molto in questi giorni, solo io e la sua lapide. E' triste, ma parlare con lei mi aiuta.

Come una settimana fa sono ancora una volta nel bagno davanti a quello specchio. Mi sono appena cambiato dopo il servizio del pranzo e tra qualche minuto dovrò andare di la e dire al capo che questa sera ne io, ne Samantha ci saremo ed ho paura. Sono un maledetto idiota. Ho avuto una settimana e mi ritrovo a dirglielo solo ora. 

Il problema è che abbandonarlo, non venire per il servizio serale, è come mandare a monte una serata. Perché che Robert riesca a cavarsela da solo è da escludere e trovare dei camerieri per un servizio lo stesso giorno è quasi impossibile. Per cui si, sono agitato, ho paura che si arrabbi, è tremendo quando lo fa. 

Ma è una cosa che va fatta, abbandonare Jared non è una cosa che voglio fare, anche se, parlando onestamente ho ancora più paura di passare così tanto tempo con Samantha. Esco in sala e cerco di individuare il capo. E' seduto al suo solito posto, mentre sorseggia un goccio di liquore. Faccio un bel respiro e mi avvicino.

- Devo chiederle un favore - alza gli occhi su di me.

- Dimmi ragazzo - vorrei scappare via, non scherzo vorrei proprio fuggire, trasferirmi in un altro paese, ma devo fare l'uomo! O almeno devo provarci.

- So bene che non le piacerà affatto quello che sto per dirle, ma questo pomeriggio io e Samantha dobbiamo uscire e non credo che riusciremo ad essere presenti per il servizio serale. - bomba sganciata. Lo guardo e resto perplesso. Mi aspetto che esplodi, che urli, invece scoppia a ridere.

- Tu e Samantha?

- Esatto signore - mi sudano i palmi delle mani, maledetta agitazione.

- Caspita solo una settimana fa si sentiva la vostra lite fin fuori il locale, adesso uscite insieme? Avete per caso un appuntamento? - non ci credo. Uno strano calore mi sale su dalla punta dai piedi fino ai capelli e mi rendo conti di essere rosso come un peperone.

- Ma no capo! Che ha capito! E'- è un'uscita di gruppo ecco. Visto che è nuova le faccio conoscere persone, la faccio ambientare ecco! - non so che dirgli, che figura.

- Oh beh in questo caso è una bella idea, uscite e divertitevi - mi fa un cenno con la mano per liquidarmi ma io resto per la seconda volta perplesso.

- E' sicuro che non sia un problema signore? Perché non avere due camerieri per cen...

- Logan, ragazzo, nessun problema. Chiamerò mia moglie, ce la caveremo. Tu pensa solo a divertirti, sarebbe forse la prima volta - quanto ha ragione. Non credevo che potesse reagire così, ma ne sono felice.

- Grazie signore - fa un piccolo sbuffo e ritorna al suo liquore. Esco di corsa dal locale, prendo la moto e in pochi minuti sono a casa. Fra ben due ore dobbiamo vederci di fronte all'entrata del Pacific Park al molo. Mangio qualcosa veloce e mi butto sotto la doccia per mandare via il cattivo odore di mangiare che ti impregna i vestiti quando lavori in un ristorante. Una volta finita la doccia vado in camera per decidere che indossare. Di solito non faccio caso a queste cose, indosso quello che mi capita, ma oggi è diverso, c'è la fidanzata di Jared e voglio fare bella figura. Si, certo, la fidanzata di Jared. Logan sei un bugiardo! E' vero, forse un po' lo sono, ma la motivazione principale è quella. Una parte di me però, inutile negarlo, vuole fare bella figura anche con Samantha. E' stupido, ma è così. 

Opto per una camicia che lascio un po' sbottonata e dei jeans scuri. Ritorno in bagno per sistemarmi i capelli indomabili. Mi sporco le mani di cera e cerco di dargli un senso, mi ci vuole un po' ma alla fine sono abbastanza soddisfatto del risultato. Sono in anticipo, manca ancora mezz'ora all'appuntamento ma decido di mettere le scarpe e uscire, aspetterò li. 

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