Di come sei entrato nella mia vita

di Bakagheiyama
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ordinario e straordinario ***
Capitolo 2: *** Solo un attimo ***
Capitolo 3: *** Per me ***
Capitolo 4: *** Lui ***
Capitolo 5: *** Io ***
Capitolo 6: *** Certe volte sento come se mi mancasse un pezzo della mia vita ***



Capitolo 1
*** Ordinario e straordinario ***


 

Note di una ragazzina ansiosa ed alquanto esagitata: ma ciao, bellissime personcine del fandom di Haikyu! Questa è la mia primissima storia che pubblico su efp, per cui siate clementi con me e fatemi sapere cosa ve ne pare di questa piccola fanfiction senza pretese. Tengo a specificare, per evitare eventuali fraintendimenti, che Oikawa in questo AU non gioca nell'Aoba Johsai(ma dai?) ma si è iscritto in un altro istituto che sarà citato più avanti. Inoltre, né lui né Kindaichi o Kunimi hanno fatto le medie alla Kitagawa Daiichi, per ragioni che verranno spiegate mano a mano che si procederà con la storia. Grazie per la vostra attenzione, ci vediamo al prossimo capitolo!

Ordinario e straordinario

I can’t fight you anymore
It’s you I’m fighting for
The sea throws rock together
But time leaves us polished stones
We can’t fall any further
If we can’t feel ordinary love
We cannot reach any higher
If we can’t deal with ordinary love

 

Hajime non aveva mai amato la chiusura dei negozi nella sua cittadina, era qualcosa che detestava dal profondo del suo cuore. Figurarsi se poi a chiudere era il suo bar preferito, che frequentava da quando era bambino. Quel piccolo locale era il suo paradiso in terra, il suo riposo dopo i faticosi allenamenti del club di pallavolo, il rimedio alle mille verifiche che si presentavano giorno dopo giorno nella sua infelice vita di studente.
L’annuncio della chiusura gli era stato comunicato da Issei Matsukawa, suo compagno di squadra da tempo immemore, ed era stato seguito da una crisi di panico senza precedenti. Quando il povero Issei aveva provato a calmare Iwaizumi, quest’ultimo non ne aveva proprio voluto sapere.
“La mia vita è finita. Non ho più una ragione per andare avanti! Cosa farò d’ora in poi la mattina, quando mi sveglierò di cattivo umore?! Chi mi servirà con un sorriso gentile il “Frappuccino Sebastian!”?! DIMMI, MATSUKAWA, chi si prenderà cura di me, CHI!?”
Iwaizumi aveva farneticato per quelli che a Issei erano sembrati secoli, senza poter dire nulla di sensato per rassicurare l’amico. Aveva atteso fino alla fine della sfuriata per affermare:”Hey, amico, guarda che aprirà un altro bar al posto di Black Butler!, pare si chiamerà Karasuno & Co. Quindi calmati, il locale rimarrà lo stesso e tu non dovrai dire addio ai tuoi bellissimi ricordi di adolescente felice.”
“Eh?”
 


Il povero Hajime non sapeva che la chiusura del suo bar preferito era solo l’inizio della serie di cambiamenti che si sarebbero verificati nella sua tranquilla vita di adolescente felice.

“Maledizione. Maledizione! Matematica non mi è andata bene neanche questa volta…dovrò andare alle lezione di recupero. Di nuovo!” Yahaba si stava lamentando ancora una volta dei suoi disastrosi risultati scolastici, ma Iwaizumi non stava ascoltando per niente il suo compagno di squadra. Il club di pallavolo del liceo Aoba Johsai aveva appena finito uno degli estenuanti allenamenti estivi e in quel momento erano tutti diretti al Karasuno & CO, il nuovo bar che aveva aperto in centro città.
“Yahaba, taci. Anzi, taci e mettiti a studiare perché sei l’unico alzatore che abbiamo e non puoi permetterti di saltare neanche un allenamento. Chiaro?” Takahiro Hanamaki, il vice capitano della squadra, riprese il suo kohai* al posto del vero capitano che al momento era completamente immerso nei suoi pensieri-o pianeta Black Butler!, come lo chiamavano gli amici di Iwaizumi.
Quest’ultimo era stato nervoso fin dal mattino ed i suoi compagni lo avevano notato anche troppo bene:dopotutto, quel giorno il loro capitano “avrebbe detto addio alla sua infanzia e alla sua ingenuità”-una semicitazione di Issei-
“Siamo arrivati. Ohi,Iwaizumi, riprenditi” il vice capitano diede un violento scossone all’amico di vecchia data mentre arrestava la sua squadra davanti al famigerato locale. Per Hajime fu come una coltellata nella pancia ma molto, molto, molto più dolorosa. Il Black Butler!, nonostante il nome, era un bar molto spazioso e illuminato da colori accesi e tendenti al blu- Hajime sapeva che l’immagine del locale era stata curata dalla moglie del proprietario, una giovane molto graziosa e sempre all’ultima moda-
Questo Karasuno & CO, invece,era proprio come ci si sarebbe aspettato:nero, brutto, piccolo ed angusto. Okay, forse si stava facendo prendere troppo dai sentimentalismi, visto che non era neanche entrato, ma cosa c’era di male? Quel bar aveva preso la sua adorata quotidianità e l’aveva ridotta in tanti piccoli pezzi senza che Hajime potesse fare nulla.
No, sarebbe partito prevenuto in ogni caso.
“Hajime senpai*, non si giudica un libro dalla copertina!”disse timidamente Kindaichi, una ragazzetto del primo anno. Aveva un’adorazione smisurata per Iwaizumi e, se era arrivato a riprendere il suo senpai preferito, probabilmente era ora di darsi un contegno-pensò Hajime.
“Si,si. Io entro” affermò il capitano della squadra. Cosa ci poteva essere di peggio della chiusura del suo locale preferito? Niente!, o almeno così pensava.
Poi varcò la soglia del Karasuno & CO.


La sua prima impressione fu qualcosa come “eh? Come? Perché?”, reazione molto prevedibile da un tipo abituato all’ordinario come Hajime. Il locale era molto più spazioso di quanto apparisse dall’esterno, anche se erano evidenti alcune modifiche nella piantina del bar.
La cassa ed il bancone delle ordinazioni erano state poste proprio davanti l’ingresso,mentre degli schizzi colorati di alcuni menù erano stati attaccati alle pareti, dipinte di una bella tonalità d’arancio. Volgendo lo sguardo a destra del bancone si poteva trovare la sala principale, ampia e illuminata, che sembrava quasi divisa in sezioni:c’era l’angolo rosso con statuette di gatti e gattini, l’angolo bianco e blu con arredo elegante -quasi regale- ed infine l’angolo blu notte con decorazioni di gufi maestosi.
“Il bar Karasuno & CO è troppo, troppo stravagante” fu la seconda impressione di Hajime, sull’orlo del pianto. Dov’era lo stile ottocentesco del ‘Black Butler!’?! Dov’era il clima calmo e tranquillo, la serenità che trasmettevano le pareti dipinte unicamente di un bel blu cielo?
Issei, sospettando un probabile infarto da parte del suo amico, spostò letteralmente Iwaizumi verso il bancone e fece cenno alla squadra di seguirlo.
Evitando per un pelo l’attacco di panico grazie a Matsukawa, e guardandosi ancora meglio intorno, il capitano dell’Aoba Johsai poté definire la sua terza impressione:”Il personale di questo bar è ancora più stravagante del bar stesso”
Anche il resto del team la pensava come Iwaizumi, ed era ben comprensibile:al bancone, infatti, stava un ragazzetto piuttosto basso con uno sguardo vispo ed un ciuffo biondo all’insù che spiccava tra i suoi capelli castani. Accanto a lui c’era un gigante biondo –sul serio, quel ragazzo era troppo alto- con dei grandi occhi annoiati circondati da un paio di grossi occhiali neri.
L’accoppiata era così buffa da far ridere.
Il bar era parzialmente vuoto,tranne che per due anziani signori che si stavano rilassando nell’area Neko –Iwaizumi aveva deciso di chiamarla così ,era praticamente un inno ai gatti- e la fila alla cassa non esisteva, così Takahiro invitò tutta la squadra ad ordinare e a prendere posto.
Iwaizumi avanzò con un timore quasi reverenziale, mosso praticamente solo e soltanto dalle spinte dei suoi compagni. Stava per girarsi e cantarne quattro agli altri giocatori -insomma, aveva quasi diciotto anni e poteva benissimo affrontare le sue paure da solo!- quando la voce squillante del nanetto lo raggiunse.
“Ooh,siete nuovi? Venite ad ordinare, non vi mangiamo mica!” il ragazzo dagli occhi allegri rise sonoramente, distribuendo i menù –variopinti, naturalmente- al club di pallavolo, mentre sussurrava:”Cioè, io non vi mangio, ma Tsukishima sembra così annoiato che potrebbe!” dopodiché, rise di nuovo, dando sonore pacche sulla spalla del povero Tsukishima, che aveva un espressione da “Uccidetemi. Anzi, uccidete lui, per favore”
“Ah, comunque io sono Nishinoya Yuu, e questo gigante annoiato è Tsukishima Kei. Visto che sembrate stanchi, e siete praticamente tantissimi -fate parte di qualche club?- faremo arrivare subito più personale. È una faccenda complicata da spiegare, ma ognuno di voi potrà richiedere il cameriere che preferisce da questo curriculum” Nishinoya lanciò ai ragazzi spaesati un libretto, che Iwaizumi afferrò al volo, ”e quel cameriere lo servirà per quanto il cliente vorrà! Figo, non è vero?Benventuti al Karasuno & CO, gente!” il nanetto concluse il suo monologo con un’ulteriore risata energica, che fece spuntare un ghigno divertito perfino a Tsukishima. 
Iwaizumi, personalmente, voleva urlare a Nishinoya che no, lui non era nuovo, che no, tutta quella storia del cameriere personale non era affatto figa e si, faceva tanto da Maid-caffè!, ma si trattenne. Era un ragazzo amante della calma e, anche se definito da praticamente chiunque come burbero, odiava le parole di troppo ed alzare la voce. Per questo, si mise il ridicolo curriculum sotto braccio e invitò i compagni a prendere posto nella sezione dai colori blu e bianchi, un po’ perché gli ricordavano i colori della sua squadra, un po’ perché era la tonalità che più gli si addiceva:magari Hajime non era elegante, questo si, ma amava i colori chiari e la tranquillità e…
In realtà, quella sezione era di quanto più simile c’era al vecchio stile del Black Butler!, e si doveva accontentare.
Non appena tutta la squadra si fu posizionata in più tavoli –erano davvero tanti, entravano a malapena nella sezione- Hajime aprì il libretto come Elle avrebbe tenuto in mano un telefono(cioè come se fosse ricoperto di sostanze chimico-tossiche) e iniziò a leggere.
“Akaashi Keiji, 16 anni, tende ad essere molto, moolto inespressivo in tutto quello che fa, ma in realtà è un kuundere puccioso. Foto affianco” Hajime spostò lo sguardo a destra della didascalia, dove era attaccata una foto di un ragazzo dall’aria indifferente con dei bei tratti eleganti, circondati da una massa di capelli neri molto disordinati. –Allora è davvero un Maid-caffè al maschile…- pensò Iwaizumi sconsolato, nonostante questo, però, continuò a leggere la descrizione degli altri membri dello staff ai suoi compagni di squadra:se quel bar doveva per forza sostituire il suo adorato Black Butler!, che almeno avesse un buon cameriere, no?
“Kageyama Tobio, 15 anni, uno tsundere affascinante con grossi problemi di egocentrismo e mania del controllo, però se lo trovi di buon umore può essere una compagnia piacevole. Forse”
Hajime continuò così per un buon quarto d’ora, sfogliando una per una tutte le descrizioni dei camerieri. Aveva perfino trovato due o tre ragazze, di cui una lo aveva colpito particolarmente per la bellezza, ma in realtà i curriculum erano così superficiali che non lo avevano smosso neanche un po’. Decise che avrebbe lasciato la bellissima ragazza a Yahaba -se lo meritava, infondo- e optò per Kageyama Tobio, lo tsundere egocentrico:il suo viso gli ispirava simpatia, e sarebbe stato piacevole conoscere qualcuno che veniva descritto come “affetto da mania del controllo”. O così sperava.
“Ohi, Iwaizumi. Hai saltato un ragazzo” Issei, che aveva scelto come cameriere personale un tizio di nome Tetsuro Kuro, indicò un’ultima descrizione in fondo al libretto, sezione completamente dimenticata da Hajime.
“Oh, hai ragione…vediamo, Oikawa Tooru, 17 anni, giovane bellissimo ed ex giocatore di pallavolo che non può più stare in campo, quindi si ritrova costretto a lavorare in questo nuovo locale. Se pensate di riuscire a reggere la sua bellezza accecante, scegliete pure lui come cameriere personale<3” vicino la descrizione c’era l’immagine di un ragazzo indubbiamente bellissimo, con grandi occhi castani e un sorriso che avrebbe fatto invidia ai modelli più famosi del Giappone. A completare il quadretto da dipinto di Giotto c’era un batuffolo di capelli color castano chiaro, e ad Iwaizumi venne la voglia insensata di sfiorare quella massa disordinata per capire se fosse davvero così morbida come sembrava.
“Penso che sceglierò questo pallone gonfiato” decretò Hajime. Non poteva sopportare qualcuno che veniva definito -o si definiva- “bellezza accecante”, inoltre, il fatto che fosse un ex giocatore di pallavolo lo rendeva immediatamente interessante agli occhi del capitano. “Oh oh, il nostro Iwaizumi-sama* finalmente rivela il suo orientamento sessuale! Era ora, Iwaizumi-sama” Takahiro diede il cinque ad Issei, mentre il diretto interessato arrossiva intensamente, borbottando qualcosa come “Idioti! Io non…non è per…oh, senti chi parla!” e assestando un bel pugno sulla povera spalla del vice capitano. Il suo amico d’infanzia, infatti, era fidanzato dal secondo anno con Issei, e nella squadra era ben risaputo:nonostante le difficoltà iniziali, tutti avevano accettato la relazione come qualcosa di normale, compreso Hajime. Anzi, per quest’ultimo, superato lo schock iniziale, erano incominciati i dubbi: ed io? Cosa sono io? Come posso essere definito io? Certo, c’erano state delle ragazze che gli erano piaciute, ma nulla più di cotte passeggere, se n’erano sempre andate via nel giro di un mese o due. Non aveva mai avuto il bisogno carnale di fare cose che per il suoi amici erano praticamente essenziali:baciarsi con una ragazza, fidanzarsi,desiderarsi, fare l’amore. Iwaizumi non era pronto e non pensava lo sarebbe mai stato.
I suoi pensieri furono interrotti ancora una volta dalla voce squillante di Nishinoya Yuu, che chiedeva se tutti avessero scelto il cameriere -o la cameriera-. “Eccovi i menù veri e propri, ed eccovi anche un foglio per ciascuno dove scrivere il vostro nome e il nome della persona che avete scelto! Davvero, è un’idea troppo figa! Quanto vorrei essere un cliente per scegliere Kiyoko-senpai…AH, SE QUALCUNO DI VOI HA SCELTO KIYOKO SENPAI, DEVE TENERSI AD ALMENO UN METRO DI DISTANZA DA LEI, INTESI? Grazie dell’attenzione. Tsukishima tornerà tra poco e ritirerà le vostre richieste, poi vi lasceremo in pace. Eheheh, che figata…” Nishinoya se ne andò fischiettando e saltellando tutto allegro, lasciando spiazzati i poveri ragazzi del Seijou ancora una volta. Iwaizumi si riprese per primo, deciso a scoprire se il suo Frappuccino Sebastian fosse stato replicato decentemente da quel bar/maid-caffè.
“Ordinate, forza! Ho fame e Yahaba deve andare a studiare matematica, quindi sbrigatevi e non fate casino come sempre.”
“Sissignor capitano!”

 
 Quando iniziarono ad arrivare i primi cornetti caldi ripieni di crema pasticcera, i compagni di squadra di Iwaizumi decisero che forse il Karasuno & CO non era poi così male. Tutto quello che avevano ordinato era a dir poco buonissimo, e poi…i camerieri.
Il primo ad essere servito fu Yahaba, che si sciolse all’istante dopo l’arrivo della bellissima ragazza da lui scelta. La cameriera -Kiyoko Shimizu, 17 anni e uno sguardo gelido che avrebbe fatto affondare due volte il Titanic- aveva portato all’alzatore un cornetto appena sfornato pieno di crema -per l’appunto- e aveva trattenuto il ragazzo per un po’. Successivamente le pietanze iniziarono ad arrivare, ed insieme a loro i commenti e le risatine -Issei fece qualche commento sul suo  Kuro,mentre Hanamaki ribatté che Akaashi aveva molto più charme- e Iwaizumi si iniziò a spazientire. Daichi Sawamura, Koushi Sugawara, Morisuke Yaku, Hitoka Yachi… ormai tutti i suoi compagni avevano trovato persone con cui chiacchierare piacevolmente e lui se ne stava ancora a bocca asciutta, aspettando che il famigerato Oikawa Tooru si degnasse di portargli la sua ciambella ed il suo frappuccino.
Si rivolse irritato ad Issei, che nel frattempo battibeccava curiosamente con Kuroo sulla posizione più consona per un centrale nel fare muro. “Secondo me ci si deve spostare contemporaneamente con l’avversario, il muro a lettura funziona quasi semp…oh, Iwaizumi. Kuroo mi ha appena detto che dentro questo locale più o meno tutti giocano o giocavano a pallavolo! Non è una figata ,eh?” esclamò Matsukawa, con gli occhi che brillavano. “Oh, non iniziare anche tu con la storia della figata…” borbottò di risposta Hajime, deciso ad andare contro quel bar fino alla fine. “Voglio solo la mia ciambella…”
In quel momento si sentì toccare la spalla in maniera molto confidenziale, e si girò di scatto perché nessuno, davvero nessuno nella squadra si azzardava a toccare così Iwaizumi. La persona che si ritrovò davanti gli tolse il fiato per qualche secondo di troppo ,e si ritrovò ad annaspare per qualche motivo a lui sconosciuto -si dimenticò perfino delle mani sulle sue spalle:grandi, calde, dal tocco estremamente familiare e allo stesso tempo intruse-.
Oikawa Tooru aveva una bellezza che si poteva definire quasi falsa, un’espressione di felicità sul volto così finta da sembrare quasi autentica e -cavolo ,si- i suoi capelli avevano tutta l’aria di essere fatti del materiale più soffice al mondo. Ma la cosa che colpì di più Hajime fu il sorriso del giovane: così bello, gli ricopriva tutta la parte inferiore del viso e glielo illuminava completamente, come a voler dire “vedi? Non c’è nulla che mi possa far stare male!”
Era un sorriso costruito talmente bene che avrebbe ingannato praticamente chiunque, ma non Hajime:il capitano aveva un talento quasi unico per comprendere le emozioni altrui e, anche se non gli piaceva immischiarsi negli affari delle altre persone per via del suo amore della quotidianità, alcune volte provava il bisogno di aiutare i suoi amici, i suoi compagni, i suoi conoscenti.
“Iwaizumi Hajime! Andremo sicuramente d’accordo, perché a te piacciono le cose belle -a chi non piacciono?- e io, modestamente, lo sono! D’ora in poi ti chiamerò Iwa-chan, perché Iwaizumi è troppo serio, troppo banale!” le mani di Oikawa indugiavano ancora sulle spalle di Hajime, che voleva urlare come un matto per il contatto indesiderato, ma la voce non voleva proprio saperne di uscire. Si dimenticò perfino di far notare al giovane cameriere di essersi praticamente definito una cosa.
Quando finalmente riprese il controllo delle sue corde vocali, riuscì solamente a dire:”Non chiamarmi Iwa-chan”. Poi, con meno gentilezza possibile, si liberò del contatto con Oikawa e gli strappò dalle mani la sua adorata ciambella. Solo allora notò che tra i suoi compagni di squadra era calato il silenzio, probabilmente impauriti dalla reazione del loro capitano a qualcosa di completamente nuovo e imprevedibile come Oikawa Tooru.
Quest’ultimo gonfiò le guance come una bambino a cui avevano tolto una caramella e si sedette accanto ad Hajime con le braccia incrociate al petto. “Iwa-chan ,sei sempre così noioso, tu?”
Il club di pallavolo trattenne il fiato per la seconda volta in due minuti, temendo di dover raccogliere un cadavere di lì a poco. Ma la reazione di Hajime stupì tutti, forse perfino lui stesso.
“Invece tu sei sempre così sorridente, Oikawa?”Iwaizumi andò subito a colpire quello che pensava fosse il punto debole del ragazzo. Sospirò, bevendo finalmente il suo frappuccino:forse perché la ciambella era ottima, forse perché la chiusura del suo bar preferito lo aveva fatto davvero maturare, Hajime si convinse ad intavolare una conversazione seria con quell’individuo particolare.
Convinzione che sfumò miseramente qualche secondo dopo.
“Iwa-chan, dovresti prendere un po’ da me, a dir la verità…fai davvero tanta, tanta paura con quell’espressione addosso! Nessuno ti avvicinerà mai, se continui così!”
  Oikawa mancò per un pelo lo scappellotto di Iwaizumi, tutt’altro che benevolo. L’affermazione di Oikawa era così pateticamente vera -nessuno cercava mai Iwaizumi di sua spontanea volontà, a meno che non si trattasse di Issei o Takahiro- che il capitano del club si sentì, per la prima volta nella sua vita, umiliato. Colpito in pieno ed inesorabilmente affondato.
Maledizione, era stato lui a voler iniziare una conversazione con il cameriere! Certo, non era stato molto gentile, e non aveva neanche intenzione di aiutarlo, però…
Perché? Perché non riusciva a controbattere in nessun modo? Non aveva mai avuto problemi ad esprimersi, prima d’ora, quindi perché si ritrovava senza voce,per due volte in poco tempo per di più?
Perché il ragazzo di fronte a lui continuava a sorridere,nonostante l’affermazione di Hajime?
Incrociò lo sguardo di Oikawa per quella che a lui sembrò un’eternità e improvvisamente capì.
Oikawa Tooru era la prima persona in vita sua a stargli tremendamente sul cazzo.

 
Era stato ad ascoltare Oikawa per almeno un altro quarto d’ora prima di decidere che era tempo di ritornare a casa e tappare la bocca a quell’egocentrico. Oikawa egocentrico lo era sicuramente, si, ma c’era qualcos’altro sotto la sua parlantina spedita e sicura. Hajime si era convinto di odiare quel ragazzo conosciuto da appena mezz’ora e si odiava perché voleva conoscerlo di più, di più, di più: voleva letteralmente scoprire il primo essere vivente ad averlo lasciato senza parole, umiliandolo.
Quando fece per alzarsi dalla sedia -dove aveva praticamente costruito una casetta- Tooru smise improvvisamente di parlare e prese Hajime per il polso, cominciando a lagnarsi come un bambino. Lo seguirono a ruota i ragazzi del club di pallavolo, che a quanto pare avevano gradito fin troppo il nuovo bar.
“Iwa-chan, già te ne vai?” Oikawa lo stava di nuovo toccando in quel modo fastidiosamente confidenziale, ma stavolta Iwaizumi allontanò la mano del cameriere di scatto. Non era semplicemente abituato a tutto quel contatto e sapeva di essere stato brusco, tuttavia rimase ugualmente stupito quando notò che Oikawa aveva messo un broncio non indifferente. Scosse la testa qualche secondo dopo, rimproverandosi mentalmente: niente era sicuro, non con il giovane cameriere e le sue emozioni costruite.
Purtroppo, neanche Hajime era in grado di leggere nel pensiero.
“Bakakawa, non posso certo dormire qui” sbraitò il capitano, cercando di essere più rude possibile. Aveva perfino inventato quello stupido -ma geniale, lo doveva ammettere- soprannome per il fastidioso e insistente ragazzo!
Naturalmente, Oikawa non ci cascò.
“Rude! Sei troppo rude, Iwa-chan! Il bar ti è piaciuto, non fai male a nessuno se lo ammetti! Certo che sei così … così tsundere!” pigolò il giovane, schivando a malapena il poderoso pugno di Hajime. Quest’ultimo si diresse a passo spedito verso la cassa, seguito controvoglia dalla sua squadra. “Ritorniamo domani!” affermò Matsukawa rivolto a Kuroo, mentre gli altri salutavano i propri camerieri. Solo Iwaizumi non si girò in direzione di Oikawa, a causa del suo orgoglio ferito: Tooru aveva avuto ragione un’altra volta. Nonostante tutto, il bar gli era piaciuto, semplicemente non voleva ammetterlo a sé stesso. Pagò in fretta e furia per uscire velocemente dal locale -lasciando peraltro indietro il club del Seijou- quando si ritrovò davanti la figura slanciata di Oikawa. Di nuovo. -Uno stalker…- pensò Hajime.
“Iwa-chan, dammi almeno la tua mail!” lo disse con tale nonchalance da indurre Iwaizumi a pensare di non aver sentito bene. “Perché dovrei darti la mia mail, Shittykawa?” rispose il capitano, confuso. Certo, lui era in qualche modo -molto complicato- interessato ad Oikawa, ma un ragazzo come Tooru -praticamente perfetto sotto ogni punto di vista- poteva trovare in Hajime qualcosa di interessante, quando neanche lo stesso Iwaizumi ci riusciva?
“Perché tu vuoi la mia mail, ma sei troppo orgoglioso e timidone per chiederla, quindi ti anticipo!” Oikawa rise, e per la prima volta Hajime riuscì a percepire qualcosa di vero e di reale nella sua risata.
“Fottiti” rispose semplicemente Iwaizumi, dando le spalle al cameriere e dirigendosi verso casa.
“Rude! Rude e volgare, Iwa-chan!”
Quando si fu allontanato abbastanza dal bar e da Oikawa, il ragazzo si fermò di scatto. -Ho dimenticato di chiedergli della pallavolo… - pensò Hajime, girandosi verso la direzione del bar come se si aspettasse di vedere un bellissimo sorriso finto, come se sentisse ancora una bellissima risata completamente vuota.

Tornato a casa, si gettò sotto la doccia per riprendersi da quella giornata infinita. Quando finalmente si mese a letto, notò che il suo telefono aveva preso a vibrare prepotentemente. Con un brutto presentimento, aprì la cartella ‘mail ricevute’, dove c’era scritto ‘5 nuove mail!’. Inutile dire che le aprì tutte in meno di un nanosecondo.
 
-20:35
Da: ALIENkawa
A: Hajime 4.0
Iwa-chan, Makki e Matsun mi hanno dato la tua mail! Yey!
 
-20:36
Da: ALIENkawa
A: Hajime 4.0
Mi hanno detto che domani tornerete al KaraCo! Naturalmente il tuo cameriere sarò di nuovo io. Vero, Iwa-chan?
 
-20:38
Da: ALIENkawa
A: Hajime 4.0
Iwa-chan, mi stai ignorando? Rude!
 
-20:40
Da: ALIENkawa
A: Hajime 4.0
Eddai, Iwa-chan! So che nessuno ti ha mai detto che sei rude, ma davvero non c’è bisogno di prendersela così! Le persone belle e le persone rudi vanno d’accordo tra loro!
 
-20:50
Da: ALIENkawa
A: Hajime 4.0
Rude, Iwa-chan.
 
-20:50
Da: Hajime 4.0
A: ALIENkawa
E spegniti, Trashykawa. Ero sotto la doccia. Domani faremo più tardi, abbiamo allenamento fino alle 5.
 
-20:51
Da: ALIENkawa
A: Hajime 4.0
AWW, Iwa-chan, che tsundere che sei!
 
Iwaizumi non riuscì a trattenere un sorriso. Qualche messaggio prima, Oikawa si era finalmente definito una bella persona e non una cosa bella.
Non che gli importasse, ovvio.

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Capitolo 2
*** Solo un attimo ***


Solo un attimo 

 
 You begin saving the world by saving one person at a time;
all else is grandiose romanticism or politics. 
Charles Bukowski
 
La settimana di Hajime passò senza che il capitano si togliesse la vita, cosa alquanto strana considerando l’umore sempre più instabile del povero ragazzo: la sua vita era stata divisa brutalmente in un ‘prima’ e ‘dopo’.
Prima di Oikawa Tooru e dopo di lui.
Iwaizumi aveva continuato a passare i pomeriggi dentro il KaraCo, con la sua squadra che scalpitava ogni singola volta. Il torneo primaverile si stava avvicinando e il capitano dell’Aoba Johsai voleva aumentare le ore di allenamento, voleva migliorarsi e voleva migliorare la squadra, ma con scarsi risultati. Erano tutti bravi e sapevano giocare anche abbastanza bene, ma al team mancava qualcosa, come una scintilla che facesse divampare l’incendio. Alcune volte Hajime non si sentiva neanche in grado di portare il nome di capitano, di asso, ed anche per questo motivo il numero sulla sua maglia segnava il 4 e non l’1.
Ebbene, in quel periodo perfino le preoccupazioni di Iwaizumi venivano spazzate via come foglie in autunno, tutto perché dopo le ore di pallavolo del club c’era la fatidica tappa al KaraCo.
E questo per Hajime significava solo un’altra preoccupazione che si andava ad aggiungere ai normalissimi problemi della sua normalissima vita quotidiana.
Il lunedì successivo all’apertura del bar, il locale si era già riempito di nuovi clienti, e questo al capitano dava solo un tremendo fastidio: per non parlare poi dello staff che, come sempre, era ogni giorno più allegro del precedente.
E per “staff” Iwaizumi intendeva “Trashykawa”.
Quel ragazzo lo stalkerava come se perseguitarlo fosse una questione d’onore, o, ancora peggio, una scommessa. Una perdita di tempo. Hajime odiava essere preso in giro e ogni volta che Oikawa gli rivolgeva la parola gli sembrava di essere il protagonista scemo di una sciocca commedia. La cosa peggiore di tutte era, però, il fatto di non averne le prove: Oikawa recitava la sua parte troppo bene per essere scoperto.
“Buon pomeriggio, Kuroo!” esclamò come ogni pomeriggio Issei, che si era già posizionato nell’area “Seijou” -come l’avevano iniziata a chiamare i camerieri del bar- aspettando che il suo bel tenebroso si affiancasse a lui, prendendo la sua ordinazione. Hanamaki  lo seguì silenziosamente ( se era infastidito dalla loro amicizia, non lo dava a vedere) e come ogni giorno si posizionò vicino al suo fidanzato, aspettando che Akaashi lo riconoscesse. Iwaizumi era ancora parecchio arrabbiato con i due ragazzi del terzo anno per la  ‘questione mail’ -testuali parole di Matsukawa- ma, come ogni giorno, fece un cenno a Tsukishima e a Noya-san e andò ad affiancarsi ai due amici, aspettando il suo stalker personale.
Ormai la sua routine quotidiana era cambiata drasticamente fino a diventare quello, e piano piano Hajime si stava abituando a Tooru e alla sua presenza invadente, a Tooru e alla sua mania di apparire perfetto, a Tooru e a Tooru e sempre a Tooru.
In quella settimana il bel cameriere aveva occupato inconsciamente i pensieri di Iwaizumi e, se la cosa da una parte recava ad Hajime immenso fastidio, dall’altra non era così sgradita: non era un mistero che Oikawa suscitasse in lui immenso interesse, ormai era chiaro come il sole. Contemporaneamente però c’era qualcosa di -come dire?-  così triste e sbagliato nell’espressione felice di Tooru da fargli venire i brividi, quasi una sorta di repulsione al pensiero di conoscere qualcosa di più sull’ex giocatore di pallavolo. Voleva sapere ma non voleva sapere.
La sua relazione con Tooru era questo: un’immensa contraddizione.
Quel pomeriggio Hajime, assorto com’era da i suoi pensieri, non aveva notato che nella sezione Seijou era seduto un nuovo cliente, un ragazzo bassino dai capelli color carota e la tuta del club di pallavolo del liceo Karasuno. Quando lo notò, Iwaizumi si riprese in un battibaleno: il Karasuno era il liceo formidabile che aveva le potenzialità per battere la Shiratorizawa, la squadra più forte della prefettura! Certo, l’Aoba Johsai non era mai riuscita a passare il secondo giorno delle qualificazioni e Hajime non aveva mai visto giocare né il Karasuno né la Shiratorizawa, ma aveva sentito dire che l’esca e l’alzatore dei corvi erano un combo ai livelli delle nazionali e che la squadra delle aquile vantava il migliore alzatore ed il miglior asso della prefettura.
Il giocatore sembrava sentirsi piuttosto fuori luogo, si agitava e si guardava intorno trasognato, come se aspettasse qualcuno. Hajime, deciso a parlare con un ragazzo che giocava nel Karasuno, si alzò dal suo posto e andò a sedersi vicino al diretto interessato, seguito dagli sguardi di tutti i suoi compagni più uno. Probabilmente il nanetto si spaventò non poco per la figura imponente e per i modi burberi di Iwaizumi -che come sempre nascondeva la sua ammirazione dietro il suo essere rude- perché appena l’asso del Seijou gli rivolse la parola, questi lo anticipò quasi urlando: “C-cosa vuoi, eh? V-vuoi fare a botte?”
Hajime impiegò qualche secondo per capire cosa stava dicendo il rosso, per poi scoppiare a ridere sonoramente. Era così preso da quel piccolo ragazzo da non accorgersi neanche della figura di Oikawa che guardava la scena dal bancone, perforando con lo sguardo la schiena di quel minuscolo giocatore. Dopodiché, Tooru si avviò verso il suo cliente.
*
 
“E così fai il centrale? Devi saltare molto…”
“OH,SI! E poi ho un alzatore fantastico. Lui è kyaah! e fa delle alzate swoosh che mi arrivano direttamente sul palmo della mano e io le schiaccio tipo ghwaaa!” il piccolo centrale Hinata Shoyo stava dialogando allegramente con Hajime, che personalmente trovava il rosso un misto di energia e sincerità pura. Era decisamente il tipo di persona con cui Iwaizumi poteva andare d’accordo, in più, era un ragazzo così facile da leggere! Probabilmente era agli antipodi con Oikawa, che si sforzava così tanto per apparire naturale da auto convincersi. -Giusto, chissà dov’è Shittykawa…- Iwaizumi si accorse solo allora dell’assenza del suo incubo, mentre Hinata continuava a parlare ininterrottamente.
“Parlando del mio alzatore, dovrebbe lavorare qui…” Shoyo si zittì improvvisamente, e Iwaizumi notò un leggero rossore sulle guance del centrale. “Si chiama Kageyama Tob- UO, IL GRANDE RE!” il rosso si bloccò immediatamente, scattando in piedi e mimando un saluto militare che inquietò molto Hajime. Quando poi l’asso sentì l’ormai familiare voce di Oikawa, si ripropose mentalmente di picchiare il cameriere il prima possibile: non solo aveva interrotto la prima conversazione che avesse mai fatto in vita sua con uno sconosciuto - l’esca del Karasuno, per di più!- ma Shoyo gli aveva anche affibbiato uno strano soprannome, qualcosa come il Grande Re, il che significava che al 90% quei due si conoscevano. -Fantastico … - pensò Hajime.
“Chibi-chan, se cerchi Tobio-chan è dentro in cucina, oggi nessuno l’ha richiesto. Daichi e Suga ti faranno sicuramente entrare, se lo chiedi” disse mellifluo Oikawa, strisciando come una serpe dietro Iwaizumi e prendendo una sedia dal tavolo vicino, intenzionato ad intromettersi definitivamente nella conversazione di Hajime e di Hinata. Quest’ultimo, d’altra parte, sembrava nutrire un timore quasi reverenziale per Tooru, guardandolo come si guarda un idolo che si vuole superare.
“H-ho capito, sto andando. Iwaizumi-san, Grande Re, ci vediamo.” Detto questo, si diresse verso il retro del locale camminando come un piccolo robot zoppo, alchè Iwaizumi non poté non trattenere una risata. Quel piccolo uragano gli piaceva, decise.
“Iwa-chan” lo richiamò Oikawa, con il tono lamentoso di chi vuole tutte le attenzioni per sé. Hajime si girò verso il suo interlocutore, deciso a chiedergli come faceva a conoscere quel piccolo rosso e perché era stato chiamato con un soprannome ridicolo come ‘Grande Re’, ma quello che vide lo lasciò senza parole.
Oikawa stava ancora guardando Hinata, seguiva i passi del ragazzo come affascinato e disgustato allo stesso tempo. Il suo viso era un misto di invidia, rammarico, rancore, ma c’era qualcosa di ancora più cattivo nello sguardo che Tooru rivolgeva a Shoyo. Lo stesso sguardo di chi ha perso la felicità e desidera rubarla a qualcun altro.
Quell’espressione, quel viso, le sensazioni che trasmettevano quegli occhi erano così reali, così vere e così spaventose che Hajime credette di vedere per la prima volta Oikawa Tooru.
Fu un attimo, e poi il viso del cameriere si riaprì nel suo solito sorriso costruito, così Iwaizumi pensò di aver sognato la scena. Eppure tutte quelle emozioni erano ancora lì, sul viso di Tooru, sigillate da una maschera di felicità e stupidità e arroganza.
“Iwa-chan, con me non hai mai riso in questo modo. Sei rude solo con chi ti pare e piace, non vale!” cinguettò Oikawa. Probabilmente non pensava che Hajime lo avesse visto in quell’attimo di imprudenza, di nudità. “E poi, perché ti sei messo a parlare con Chibi-chan? Guarda che anche lui ti troverà sicuramente rude! E poi è troppo ingenuo, pft.”
Si, Oikawa indossava una bellissima maschera. E lui voleva scoprire cosa ci fosse sotto.
 

 
Hajime ebbe il piacere  di conoscere il famoso Tobio-chan solo una settimana dopo l’incontro con Hinata. Il  tempo trascorso al KaraCo era sempre più indispensabile nella sua vita quotidiana, e Iwaizumi era troppo preso dalla scuola e dalla pallavolo da notare che perfino la presenza di Oikawa stava diventando parte integrante della sua routine…
Mentre si scervellava su come affrontare l’argomento ‘pallavolo’ con quel lunatico del suo cameriere ecco che era già passata una settimana: il lunedì era arrivato con la quotidiana disperazione che portava agli studenti, e quel giorno i ragazzi del club di pallavolo del Seijou avevano deciso di restare a studiare insieme dopo gli allenamenti e di raggiungere il KaraCo più tardi.
Tutti tranne Hajime, che si era incamminato da solo per la strada verso il bar, ripetendo mentalmente il discorso perfetto da buttare lì a Oikawa non appena ne avesse avuto l’occasione.
Entrò nel bar -completamente vuoto- proprio riflettendo sulle cose che non sapeva di Oikawa Tooru, quando vide il protagonista indiscusso dei suoi pensieri conversare con quello che sembrava il direttore del bar, un uomo sui trent’anni con un’evidente ricrescita bionda. Nella settimana che era appena trascorsa Hajime aveva immagazzinato molte espressioni di Tooru, da quella di assoluta rabbia e disperazione mentre seguiva Hinata con lo sguardo, ai numerosi sorrisi finti e bronci da bambino capriccioso. Quel giorno, però, il cameriere stava discutendo  con il direttore, ed Iwaizumi conobbe un’altra emozione vera su quel bel viso costruito: la gelosia.
Perché era indubbiamente gelosia quella che trasmetteva Oikawa mentre quasi urlava: “Perché dovrebbe prendere il mio posto in quest’orario, direttore Ukai?! No, non voglio neanche stare con lui di turno! È perché lui è più bravo a gestire la cassa? A servire i tavoli?”
Ukai guardava Oikawa come se quella non fosse la prima sfuriata del suo sottoposto, e rispose moderando bene le parole.
“Oikawa, Kageyama non deve prendere il tuo posto, deve soltanto aiutare nell’ora di punta, non dovrete lavorare a stretto contatto e non vi parlerete se non sarà necessario. Eppure ogni volta che lo vedi fuori dal locale o all’inizio del turno conversate normalmente, cosa c’è che non va allora?”
Tooru si passò una mano nei capelli, visibilmente frustrato, mentre farneticava qualcosa che Iwaizumi recepì come “Non voglio lavorare con lui. Non voglio e basta e tu, coach, lo dovresti sapere meglio di chiunque altro!” il cameriere fece appena in tempo a girarsi con l’intenzione di andarsene che incrociò lo sguardo confuso di Hajime, il quale stava ancora cercando di ricordare il volto di Kageyama, il ragazzo che provocava così tanto astio in Oikawa. Poi, come le scene a rallentatore di uno shojo manga scadente, Tooru superò Iwaizumi a passo veloce, proiettandosi verso l’uscita.
E, come in uno shojo manga scadente, Hajime non poté non inseguire il suo incubo fuori dal locale.
Prima di uscire, vide con la coda dell’occhio un ragazzo dai capelli corvini -spuntato dal nulla, peraltro- parlare sommessamente con il direttore Ukai.
La sua espressione era così triste e rammaricata che ad Hajime venne un groppo in gola.
-Quanti segreti ha questo bar?- pensò, prima di darsi all’inseguimento della sua singolare Cenerentola.
 
 *
 
Lo trovò dentro il campetto di calcio proprio dietro il KaraCo, appoggiato con la fronte sul palo della porta. Il posto era completamente vuoto: si sentiva in sottofondo il rumore del vento e dei passerotti che cinguettavano, quasi a voler annunciare la primavera. Hajime non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, ma in realtà amava la fresca brezza primaverile ed il sole tiepido di marzo e il canto dei passeri, quasi a voler rimarcare la differenza tra come appariva e ciò che era.
Non lo avrebbe mai ammesso ad anima viva, no, eppure si avvicinò ad Oikawa esordendo con un “Bella stagione la primavera, uh?” borbottato tra i denti, pentendosene subito dopo. Tooru infatti si girò di scatto verso Iwaizumi, l’espressione rabbiosa e rancorosa di poco prima scomparsa sotto kili di falsità.
“Iwa-chan è un tenerone” disse, ridendo superficialmente. Hajime trovava quel suono orribile, quasi come un urlo raccapricciante che gridava ‘aiuto, salvatemi, uccidetemi’.
“Vuoi finirla di ridere così? Di parlare così? Di comportarti in questa maniera schifosa?” disse invece, rendendosi conto un attimo più tardi di aver sbagliato completamente approccio.
“Maniera schifosa? Iwa-chan, mi offendi! Le persone belle non hanno niente di schifoso! E poi io sono così, se ti sto antipatico potresti anche non corrermi dietro come stai facendo…” Oikawa sorrise di nuovo, mettendo su il suo ghigno migliore.
E fu l’inizio di tutto.
“È questo il problema, Shittykawa! Tu non ti comporti sempre così! Se fossi stato un cretino superficiale e idiota come cerchi di apparire stai pur certo che ti avrei mandato a fare in culo tanto, tanto tempo fa!” lo aggredì Hajime, e finalmente vide apparire una crepa sulla maschera di vetro di Oikawa. Questi sembrò accusare l’affermazione di Hajime, come se fosse stato colpito da qualcosa d’invisibile: qualcosa che non aveva minimamente notato. –Davvero sperava di sembrare sincero?- pensò Hajime, mentre continuava quello che aveva iniziato con un coraggio che non sapeva di possedere.
“Mi fai venire voglia di darti un pugno ogni volta che ridi, che parli, che respiri come se fosse tutto parte di un reality show dove ci sono giudici che ti guardano dall’alto in basso! Siamo nella vita reale, Trashykawa, e se continui a comportarti come un deficiente a cui tutto scivola addosso come se fosse acqua e poi guardare come un assassino un cliente, bhè, la gente si stancherà di te!” Hajime aveva il fiatone proprio come dopo un allenamento estenuante, mentre Tooru stava immobile davanti a lui, come se fosse in bilico sopra il vuoto, e ci fosse solo una mano ad impedire la sua caduta. Hajime aveva pensato e ripensato al cameriere così tante volte che si era perfino rifiutato di accettare il fatto di essersi inesorabilmente affezionato. Con Oikawa però era un prendere o lasciare -Iwaizumi l’aveva capito, sapeva che Tooru poteva prendere tutto e darti niente in cambio-  e così, decise di diventare la mano che sorreggeva Oikawa nel vuoto.
“Sai cosa ti dico, Bakakawa? Che non hai bisogno di fare quei sorrisi finti per piacere alle persone. Anzi, potresti anche sembrare più …interessante… a tutti quelli che ti circondano! Anche a chi stai antipatico… anche chi ti trova antipatico potrebbe trovarti una bella persona…”
Passarono secondi, minuti, ore e secoli e Tooru guardava Hajime con l’espressione confusa e sbigottita di un bambino che scopre che ‘0x1’ fa 0 e non 1. Quando parlò, Iwaizumi tirò un sospiro di sollievo.
“Iwa-chan, ci sono cose che non sai di me… e non credevo che io ti interessassi così tanto da farti notare cose come sorrisi finti o frasi costruite.” Oikawa sorrise malinconico, e ad Hajime venne un tuffo al cuore. Odiava i suoi sorrisi falsi e odiava ancora di più quelli sinceri, perché avevano il potere di fargli quello.
“Io non mi interesso proprio a nessuno! Hai l’attenzione che do a qualunque persona sulla faccia della terra” mentì spudoratamente Hajime. Non era ancora mentalmente pronto ad ammettere di vedere Oikawa al pari di Issei o Takahiro dopo sole tre settimane, perché la cosa gli faceva terribilmente paura.
Ignorò la risposta elusiva di Tooru e la frase ‘ci sono cose che non sai di me’, ci avrebbe pensato la sera, a letto: voleva sapere ad ogni costo la ragione dell’odio di Oikawa verso certi individui, che era anche la ragione per cui lo aveva rincorso fino a quel campetto desolato.
“Iwa-chan, possiamo tornare al locale? Mi dai poche attenzioni decisamente, sto morendo di freddo qui fuori…” riecco Oikawa Tooru il menefreghista, il superficiale.
No, Iwaizumi voleva sapere ad ogni costo cosa c’era che non andava in quel ragazzo. Era la sua mano, dopotutto, che gli impediva di precipitare nel vuoto.
E, senza volerlo, allentò la presa sul polso di Oikawa, facendolo scivolare un po’ più giù…
“Sei tu che sei corso qui fuori senza motivo, Stupikawa. L’altra volta hai guardato Shoyo come se fosse un mostro, e ora ti rifiuti di lavorare con quel tale Kageyama. Cosa c’è che non va in quel ragazzo? Sei un suo senpai, e credo che Kageyama non sia così male”
Ripensandoci, Hajime avrebbe potuto scegliere parole migliori.
Il viso di Oikawa cambiò repentinamente ai nomi dei due ragazzi citati da Hajime. Voltò le spalle al capitano e si incamminò verso il bar.
“Non sono cose che ti riguardano, non crederti così importante Iwa-chan. Sei solo un personaggio tsundere secondario, non sperare di uscire dalla tua banalità solo facendoti gli affari altrui. Sei l’ultimo che mi può venire a fare la predica, dopotutto anche tu non sei quello che mostri disperatamente di essere.”
Iwaizumi lasciò allontanare Oikawa prima di tirare un pugno alla rete da calcio. Già, non poteva fare la predica a nessuno: era solo un ragazzo insicuro di sé con un pessimo carattere ed un pessimo tempismo. All’improvviso, Tooru Oikawa gli faceva paura: aveva l’innata capacità di analizzare le debolezze altrui e usarle a proprio vantaggio. 
Iwaizumi, però, riusciva a distinguere le parole dette con lucidità e quelle utilizzate nei momenti disperati, le frasi non riflettute prima di essere usate. Oikawa gli aveva fatto male come una pugnalata al petto non avrebbe mai potuto fare, ma Iwaizumi sapeva che non era tutto lì. La curiosità verso Tooru aveva superato da tanto tempo la razionalità e la paura di soffrire.
Con un sospiro, si decise a ritornare al KaraCo per farsi perdonare in qualche modo dal cameriere, anche se era stato effettivamente lui ad essere ferito. Scosse la testa, scacciando pensieri negativi e sensi di colpa per parole di troppo.
Avrebbe fatto i conti con i suoi incubi più tardi.
 *
 
Hajime non aveva mai avuto una discussione seria nella sua breve vita, se si volevano escludere le quotidiane litigate con sua madre -perché si impegnava troppo negli allenamenti del club, naturalmente- e per questo non sapeva bene cosa fare per riappacificarsi con qualcuno. Specie se quel qualcuno si chiamava Oikawa Tooru ed era il Grande Re dei lunatici e dei ragazzi falsi.
Il fatto di voler chiarire a tutti costi con Oikawa, Hajime l’aveva incassato come una sconfitta: non poteva ancora credere di provare così tanta curiosità verso un individuo tale da mettere da parte il suo orgoglio. Perché di curiosità si trattava- si ripeteva Iwaizumi nella mente, una specie di preghiera verso sé stesso che pareva divorarlo dall’interno.
Quando finalmente iniziò a realizzare che forse non era il caso di entrare al KaraCo dopo le parole che gli erano state rivolte, che probabilmente così faceva solo la parte dell’indifferente fastidioso, ecco che i suoi piedi lo avevano già condotto dentro il bar, ed ecco che i suoi occhi cercavano già Oikawa. La madre di Iwaizumi gli ripeteva sempre che ‘troppa curiosità uccide’ e Hajime ne stava facendo i conti solo in quel momento.
Cercando di riprendere in mano il controllo dei suoi sentimenti -già feriti brutalmente da Oikawa- notò distrattamente la sua squadra seduta ai soliti tavolo della sezione ‘Seijou’, i soliti camerieri che conversavano tranquillamente con i soliti ragazzi, la solita atmosfera allegra e i soliti piatti serviti.
Ormai tutto quello era la quotidianità di Hajime, e senza Oikawa era come se mancasse qualcosa…
Come se avesse letto i pensieri del capitano, lo strano cameriere sbucò dalla cucina dirigendosi a passo spedito verso Hajime, con un’espressione tra il serio e lo scherzoso. Iwaizumi provò a mormorare qualcosa  -delle scuse? Qualche parola poco gentile per avergli calpestato il cuore di vetro?- ma prima che potesse fare alcunché, Tooru decise che era proprio il caso di gettarsi al collo di Hajime frignando come un bambino.
“Iwa-chaaaaaan, credevo che oggi non venissi più! Non voglio servire nessuno se non ci sei!” e continuando a lagnarsi con frasi sconnesse e senza senso. Ignorando il fastidio crescente provocato dal contatto con Tooru, Iwaizumi sembrò capire a poco a poco ciò che intendeva Oikawa.
“E staccati, Trashykawa, non sono mica morto” Hajime spostò di peso le braccia di Tooru, finendo per guardare il ragazzo che gli stava di fronte. Nei suoi occhi non riusciva a leggere niente, né i capricci da bambino capriccioso né il rammarico e la tristezza che lo avevano caratterizzato fino ad una mezz’ora prima. Erano degli occhi vuoti e, sebbene indubbiamente bellissimi, non riuscì a vedervi nulla se non il vuoto.
E con uno sguardo del genere Oikawa osò sorridere ad Hajime, come a sfidarlo apertamente in una gara che non poteva vincere. Non era nella natura di Iwaizumi rinunciare prima di aver tentato, ma a convincerlo ad accettare la sfida fu quel sorriso.
Un sorriso che, come sempre, era costruito in modo meraviglioso e terribile insieme.
“E comunque,” aggiunse Hajime, per il piacere di avere l’ultima parola, “non sono uno tsundere”. La faccia di Oikawa si aprì nella smorfia di chi aveva già vinto in partenza, quasi a prendersi gioco dell’altro ragazzo, e fece per replicare in una maniera tale da distruggere ancora una volta tutte le certezze di Iwaizumi. Si, Hajime lo sapeva, per questo motivo anticipò Tooru, sussurrando: “Non sono nemmeno un personaggio secondario, Oikawa. Questa non è solo la tua storia, è anche la mia”
Tra i fischi dei ragazzi del Seijou e i sorrisi sornioni degli altri camerieri, solo Oikawa riuscì a capire veramente cosa intendesse Iwaizumi.
E sulla sua maschera comparve la seconda crepa.

Salve, fantastiche personcine del mio fandom preferito <3! Sono puntuale nel pubblicare il capitolo solo per questa volta, non vi preoccupate, il prossimo aggiornamento ci potrà essere tra una settimana come tra due...
Ma bando alle ciance, veniamo al capitolo. E' piuttosto corto per i miei standard, lo so, ma è relativamente di passaggio per l'evoluzione del rapporto tra Oikawa ed Iwa-chan, e già dal prossimo capitolo si chiariranno molte cose. Ringrazio le tre anime pie che hanno recensito il mio scorso capitolo e le 155 visite! Davvero, mi avete reso felicissima. 

Hallo<3

 

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Capitolo 3
*** Per me ***


Salve, fandom di Haikyu! Sono un po' in ritardo, stavolta, causa compiti e allenamenti. Ma sto solo perdendo tempo, quindi, ecco qui il nuovo capitolo, spero vi piaccia! L'ultimo capitolo non ha ricevuto molte recensioni, e mi sto preoccupando che qualcosa non vada nella storia. Se è così, non esitate a lasciare commenti e critiche perchè mi servono tantissimo per migliorare e i buoni consigli sono sempre ben accetti. Vi lascio alla lettura e alla note di fine pagina, e grazie per leggere la mia storia!

 
Per me
 
Cause I'm telling you, you're all I need
I promise you you're all I see
Cause I'm telling you, you're all I need
I'll never leave
So you can drag me through Hell
If it meant I could hold your hand
I will follow you cause I'm under your spell
And you can throw me to the flames
I will follow you, I will follow you
Follow you, Bring me the horizon
 
 
Era molto, molto, molto difficile stare al passo con Oikawa nella sua mirabolante sfida. Sfida che, traparentesi, Iwaizumi aveva accettato per curiosità e per testardaggine, quasi a voler mettere a tacere le voci nella sua testa che urlavano ‘Banale, banale, banale. Inutile, inutile, inutile’. Quando vacillava guardando gli occhi di Tooru, quando il suo cameriere nascondeva la sua rabbia sotto una maschera, quando la distanza tra lui ed Oikawa si accorciava inesorabilmente, Hajime si ripeteva che stava facendo tutto quello solo e soltanto per il suo ego, per la sua stabilità mentale e magari per una mera curiosità, non di certo per il bene di quel ragazzo così triste.
‘Triste’ era l’aggettivo con cui Hajime aveva definito Oikawa, nonostante chiunque con un po’ di sanità mentale avrebbe di certo scommesso che Tooru fosse tutto -allegro, fastidioso, antipatico, arrogante- tranne che triste. Ma Iwaizumi non si fermava alle apparenze, non l’aveva mai fatto: per lui che si riteneva assolutamente banale e comune, il carattere delle persone veniva prima di ogni altra cosa. E dopo tante riflessioni, aveva deciso che Oikawa era triste.
La maledetta sfida era proseguita per più di due mesi, tra frecciatine di Oikawa e scoppi d’ira di Hajime, tra risolini di persone esterne -davvero, Hajime non sapeva più che pesci prendere. Matsukawa e Hanamaki non potevano veramente pensare che si fosse fidanzato con Shittykawa!- i due avevano passato quattro settimane vivendo in simbiosi, tanto che le voci di un imminente fidanzamento si era sparsa in lungo e in largo nel locale.
Voci che furono involontariamente -o forse no- confermate dalla festa che Oikawa aveva dato un mese esatto dopo l’apertura del KaraCo, senza neanche avvisare i colleghi. Quando questi gli chiesero il perché di tutta quella segretezza, Oikawa rispose semplicemente: “Ma è una festa per Iwa-chan, non per il bar!”. Dopodiché aveva guardato Iwaizumi, che si era sentito morire, e aveva mimato con le labbra una frase, per poi sorridere sinceramente. Hajime si era sentito sconfitto per la seconda volta da quell’irritante essere umano, non riuscendo però a nascondere un leggero rossore sul viso. I sorrisi sinceri di Oikawa erano così rari e preziosi da far imbarazzare perfino un cuore di vetro.
Sperando che Oikawa non se ne fosse accorto, Iwaizumi aveva lentamente metabolizzato le parole del cameriere.
Uno a zero per me, Iwa-chan. Sto vincendo io! Aveva sussurrato.
 


 
Durante i due mesi trascorsi con Oikawa, Iwaizumi aveva cercato di utilizzare come scusa la sfida in corso per osservare Oikawa da vicino senza destare sospetti -o false speranze- nell’arrogante cameriere. Certe volte Tooru lo sorprendeva a guardarlo, e lì partivano battutine e insinuazioni, seguite naturalmente da i soliti pugni ‘affettuosi’ di Hajime. O almeno, Oikawa aveva preso a chiamarli così.
Nonostante tutto, Iwaizumi guardava spesso il suo cameriere, più spesso di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere. Aveva anche notato piccoli particolari invisibili ad occhio nudo, microscopici hobby nascosti di Tooru che aveva scoperto grazie alla sua perseveranza.
Oikawa amava i jeans larghi e le felpe comode per lavorare (visto che il KaraCo non aveva divise o grembiuli per il personale) mentre quando usciva dal locale amava mettere in mostra il suo fisico snello con camicie e pantaloni non troppo attillati. Era solito inserire, sopra ogni suo indumento, una piccola spilla raffigurante un alieno, mentre la sua suoneria del cellulare era la colonna sonora di Star Wars. I giorni che accompagnava a casa il cameriere, -solo perché era costretto dallo stesso, ovviamente- notava che sulla finestra di Oikawa erano attaccati alcuni poster su ritrovamenti alieni e sull’esistenza di extraterrestri.
Ma, cosa più importante di tutte, Tooru zoppicava leggermente sulla gamba destra.
Quello era stato il dettaglio più difficile da individuare, celato talmente bene da risultare praticamente inesistente agli occhi di tutti. Però, se Hajime aveva un pregio di cui andava fiero, era la sua testardaggine nel portare a termine ciò che si prefissava, una specie di orgoglio vinciticcio che gli impediva di mollare a metà l’opera. Così, dopo un bel po’ di giorni passati a seguire Oikawa con lo sguardo e altrettanto tempo sprecato a mettere insieme i tasselli del puzzle, Iwaizumi era giunto ad una miracolosa -quanto terribile- conclusione: il ginocchio destro di Oikawa aveva subito qualche intervento di recente -probabilmente al menisco- che gli aveva distrutto la carriera pallavolistica. Dopotutto, nella sua descrizione sul curriculum del bar affermava di non poter più giocare a pallavolo…
Iwaizumi sapeva che quelle erano solo congetture, ma era aveva comunque deciso di seguire quella ‘pista’, proprio come in un film giallo. Quello che non avrebbe mai potuto immaginare, però, era che a schiarirgli le idee sarebbe stato un tornado rosso che di intuito -e tatto- non ne aveva proprio.
 


 
Iwaizumi era così preso da Oikawa che aveva cominciato ad ignorare l’arrivo della primavera, e di conseguenza del torneo primaverile interscolastico. Si era reso conto dell’imminente -e ultimo- torneo solo due settimane prima dall’inizio dello stesso, ed era stato colpito da una brutta depressione: aveva ricominciato ad allenarsi come un matto e a trascinare nei suoi allenamenti forzati l’intera squadra, rinunciando così a raggiungere il KaraCo nel primo pomeriggio per ben quattordici giorni. Nonostante si vedesse lontano un miglio che Hajime stesse per scoppiare dallo stress, Oikawa non mollava la presa sul suo cliente prediletto e continuava ad asfissiarlo con le solite frasi a doppio senso ed i suoi discorsi logorroici.
“Iwa-chan, sei arrivato in ritardo anche oggi!” “Iwa-chan, stai prendendo le distanze da me?” “Iwa-chan, sei così burbero nell’ultimo periodo!”
Iwa-chan, Iwa-chan, Iwa-chan, Iwa-chan.
Se il povero Iwa-chan non era ancora uscito di senno era per la sua nota caparbietà, la quale lo aveva mantenuto sano di mente solo e soltanto perché la sua situazione gli tornava utile per scoprire qualcosa in più sul ginocchio di Oikawa. Quindi si sforzava di non mandarlo a quel paese troppo spesso e di non essere poi così intrattabile, ma il cameriere tirava fuori veramente il peggio di sé quando si trattava di far esaurire le persone.
Persone? No, no: a Oikawa piaceva semplicemente stuzzicare Hajime fino che il capitano non implodeva e scoppiava come un palloncino d’aria calda.
Il giorno prima del torneo Iwaizumi decise di raggiungere il KaraCo presto, come non accadeva da un bel po’: era stanco degli allenamenti extra che la sua coscienza -in preda al rimorso- imponeva al suo corpo ormai sfinito. Le intenzioni per superare finalmente il primo giorno del torneo c’erano tutte, ma dubitava che ce l’avrebbero fatta: la prefettura era piena di squadre talentuose e l’Aoba Johsai rientrava a malapena nelle ‘Best 10’. Entrò nel locale seguito dalla sua squadra, praticamente degli zombie in carne ed ossa. Iwaizumi aveva tutto l’intenzione di andare ad augurare buona fortuna al piccolo Shoyo, certo che la sua squadra avrebbe battuto la Shiratorizawa, quando Oikawa si parò davanti al capitano con un sorriso più tirato del solito. Hajime lo guardò forse con un poco di apprensione in più del dovuto, perché Tooru storse la bocca in una smorfia vittoriosa, non riuscendo però a nascondere l’incertezza nei suoi lineamenti.
Era stato così anche nell’ultimo periodo, come se fosse perseguitato da fantasmi del passato invisibili ad Hajime. Il capitano l’aveva osservato così tante volte da poter fare un ritratto di Tooru ad occhi chiusi, e si sentiva così inutile nel guardare il suo cameriere sforzarsi il doppio per apparire allegro.
Quel giorno era provato come non lo aveva mai visto, e la sua smorfia vittoriosa non lo fece irritare neanche un po’, arrivò perfino a non negare la preoccupazione che provava per Oikawa.
L’istinto di Iwaizumi gli suggeriva di lasciar perdere il malumore di Tooru, certo che avrebbe portato solo guai -ed i guai, per Hajime, significavano solo un ennesimo stravolgimento della sua esistenza- ma dopotutto era da due mesi che Oikawa gli aveva cambiato la vita, le emozioni e le sensazioni, quindi un guaio in più non gli avrebbe fatto perdere la testa.
O almeno così pensava.
“Oikawa, ma almeno sei andato da un dottore? Hai una cera pessima” iniziò Hajime, conservando ancora  abbastanza orgoglio da non ammettere di stare in ansia per il cameriere. Inutile dire che quest’ultimo –anche se visibilmente distrutto psicologicamente!- riuscì a far uscire di testa Iwaizumi.
“Iwa-chan, sei per caso la mia mamma?”
“C-certo che no, idiota! Sono stanco anche io e vorrei che il mio cameriere lavorasse efficientemente” rispose Hajime, girandosi di scatto verso i tavoli. Era talmente occupato a preparare il discorso da introdurre a Oikawa per il fantomatico ginocchio che non vide il piccolo sorriso di Tooru dopo le sue scuse poco credibili.
E, colpa della sua testa tra le nuvole, non vide neanche la piccola figura dietro di lui, finendo per travolgerla.
“OH MIO DIO! Scusami! Ti sei fatto male?!” esclamò il grande tsundere preoccupato. Quando vide che chi aveva travolto era proprio Shoyo, si calmò, anche se di poco.
“Oh, Iwaizumi-san! No, sto bene, sono io che sono un po’ sbadato. Vedi, domani abbiamo la prima partita e…”
“Ti capisco, Shoyo, anche noi giochiamo domani. Però a quanto pare non siamo nello stesso girone, avrei voluto giocare contro di voi” Hajime aiutò il piccolo corvo ad alzarsi da terra, dimenticandosi per un momento di Oikawa. Cominciò a parlare ininterrottamente con il rosso, non facendo caso né al ragazzo dietro di lui, né al corvino che si stava avvicinando a Shoyo. Quando quest’ultimo, però, quando notò la figura di Oikawa dietro Iwaizumi si bloccò di colpo, come se folgorato. Hajime si accorse immediatamente del cambiamento repentino del rosso, e quando si girò verso il suo cameriere per scoprire una volta per tutte i suoi segreti pallavolistici, Shoyo sorprese tutti. Perfino Tobio Kageyama, che si era andato silenziosamente a posizionare dietro il centrale rimase zitto per lo stupore.
“Grande Re, per il tuo ginocchio… ci dispiace. Avrei voluto giocare contro di te ancora, ancora, ancora. Ci dispiace.”
Detto questo, chinò la testa in direzione di un Oikawa completamente ammutolito e stupefatto, incapace di muoversi o parlare. Kageyama, ancora dietro Shoyo, imitò il compagno -erano lacrime, quelle che Iwaizumi intravedeva?- dando il colpo finale a Tooru, che diede le spalle ai tre ragazzi e, senza neanche proferire parola, corse verso le cucine lasciando l’intero staff del KaraCo -che nel frattempo aveva assistito alla scena- completamente ammutolito.
I brusii delle persone incominciarono a rimbombare nel locale, ma Iwaizumi non capiva. Non capiva assolutamente niente di quello che stava succedendo.
Si riprese dalla sua trance solo quando Tobio Kageyama lo scosse tremendamente forte, piantando gli occhi blu cobalto nei suoi.
“Iwaizumi Hajime-san, la prego, segua Oikawa-san. Per favore.” La richiesta del cameriere giunse chiara e limpida alle orecchie di Hajime, che semplicemente acconsentì senza opporsi. Senza se e senza ma. Non pensando a nient’altro che a Tooru, si diresse a passo spedito verso le cucine -che avevano tanto di cartello ‘può entrare solo il personale autorizzato’- girandosi un’ultima volta verso Shoyo e Kageyama.
“Perché voi no?” mimò con le labbra. Shoyo abbassò la testa verso il pavimento.
“Perché non ne abbiamo il diritto” rispose silenziosamente Tobio.
 


 
Iwaizumi non aveva mai pensato di essere un individuo appartenente alla categoria ‘secchione’, più semplicemente amava definirsi rispettoso delle regole. Il suo motto era, ‘Se ci sono delle leggi che vietano un’azione o un comportamento, devono servire per forza a qualcosa! I legislatori non sono mica stupidi!’ e non si stancava mai di ripeterlo ai suoi kohai ribelli. In particolare, Hajime riservava per Yahaba e per il nuovo arrivato del club di pallavolo Kyotani -uno strano ragazzo che assomigliava vagamente ad un cane con la rabbia- le sue migliori perle di saggezza sull’importanza dell’ordine e della buona disciplina. Così, giorno dopo giorno, intorno ad Iwaizumi si era formata l’etichetta di ‘noioso’, ‘banale’, quasi a voler riconfermare i peggiori incubi del capitano.
Quando oltrepassò la porta delle cucine, ignorando bellamente il cartello dove si vietava l’accesso a chiunque se non al personale, Iwaizumi capì quanto Oikawa Tooru avesse avuto un effetto devastante su di lui. ‘Devastante’ era la parola giusta: nessuno prima di allora era stato in grado di entrare nel cuore di Hajime tanto da farlo preoccupare per qualcuno che non fosse lui stesso o un parente stretto, figurarsi spazzare via tutte le convinzioni che il ragazzo aveva avuto fino a quel momento! Ancora una volta, Iwaizumi ebbe paura del mistero vivente che era Oikawa, un mistero velato da inganni, falsità, arroganza e tristezza. In quello stesso istante Hajime realizzò anche un’altra cosa, forse perfino più spaventosa della prima: il capitano avrebbe avuto tutte le ragioni per lasciare stare ‘il caso Tooru’, perché nonostante la sua testardaggine, Iwaizumi stava soffrendo per il suo rapporto con il cameriere. Le sue frecciatine, le sue verità, la sua recita e i suoi finiti sorrisi lo colpivano come non avrebbe mai voluto ammettere, come non avrebbe mai ammesso ad anima viva.
E qui Hajime ebbe un’illuminazione spaventosamente grande e terribile, causa di brividi e tremori: Iwaizumi non voleva  lasciare da solo il cameriere, non poteva e non doveva.
“Fin dove ha affondato Oikawa le sue radici, dentro di me?” pensò Hajime, mentre si guardava intorno confuso. Quelle erano le cucine del KaraCo, se lo avesse visto qualcuno avrebbe passato veri e propri guai!
Il luogo dove si trovava era praticamente immenso, con pareti dipinte di bianco e macchinari metallici che riempivano la stanza, e che producevano un calore insopportabile ma alla stesso tempo un profumo delizioso. Il ragazzo oltrepassò il primo bancone, facendosi scudo con le enormi macchine. Era entrato nelle cucine per inseguire Oikawa, e poi? Non sapeva assolutamente né dove andare, né dove si fosse nascosto Shittykawa! In più, il personale non lo avrebbe dovuto scoprire, altrimenti…
“Iwaizumi-san? Che ci fai qui?” una voce pacata sorprese il capitano del Seijou alle spalle, facendolo sobbalzare. Inesorabilmente scoperto, Hajime si girò verso il suo interlocutore, che si dimostrò essere Daichi Sawamura, il responsabile dello staff nonché capo cameriere.
“Fantastico” pensò Iwaizumi, maledicendo la sua fortuna inesistente e desiderando ardentemente di dare un pugno a quell’idiota di Bakakawa. Subito dopo però, ripensò alle parole di Shoyo e di Kageyama e dell’espressione assente sul viso di Oikawa, e si sentì maledettamente in colpa per aver pensato di picchiare Tooru anche in un momento del genere.
Oh, ma anche no! Oikawa si meritava tutti quei pugni e anche altro!
“Sawamura-san, ehm, ecco, vedi… io… Oikawa…” Hajime riuscì a balbettare poche frasi sconnesse, ma Daichi sembrò capire immediatamente la strana situazione, e con un sorriso indicò la seconda porta a destra delle cucine.
“Oh, questo locale è immenso, abbiamo anche parecchi sgabuzzini. Se cerchi Oikawa-san, l’ho visto correre qualche secondo fa verso il ripostiglio da cui stavo uscendo, lo puoi raggiungere passando per quella porta”
Dopo diversi secondi di sbigottimento, Hajime gridò un “Grazie, grazie mille!” al capo cameriere, dirigendosi velocemente verso l’entrata indicata da Sawamura e ringraziando l’universo per la gentilezza e la comprensione dello stesso.
Nel correre per lo stretto corridoio che portava al ripostiglio, Iwaizumi ebbe un improvviso dejà-vù.
Si sentiva ancora una volta come il protagonista di uno scadente manga shojo.
*

Arrivò davanti alla porta dello sgabuzzino in tempo record, considerando il lunghissimo -e angusto- corridoio che univa quella stanzetta isolata al locale vero e proprio. Indeciso sul da farsi, Iwaizumi pensò che, forse, sarebbe stato meglio bussare prima di irrompere nel ripostiglio, perché Oibakawa era fuggito via da una conversazione per la prima volta da quando lo conosceva e questo non era per niente un buon segno. Poi però Hajime realizzò che bussando avrebbe solo dato il tempo al cameriere di ricostruire la sua espressione facciale ed i suoi sentimenti, e a quel punto il povero capitano non avrebbe cavato un ragno dal buco.
E Iwaizumi avrebbe perso di nuovo.
“Shittykawa! Sei qui, vero?” l’egoismo di Hajime ebbe la meglio sulla sua discrezione per la prima volta in diciassette anni di vita. Spinto anche da una dose massiccia di curiosità, Iwaizumi fece irruzione nello sgabuzzino aprendo la porta di scatto, trovando solo una stanzetta minuscola senza finestre e priva di luce. Avvolto dal buio, Iwaizumi ci mise cinque secondi buoni per riconoscere, accasciata alla parete centrale, una figura che si teneva le gambe al petto, scossa da tremendi singhiozzi. Quando Hajime provò ad avvicinarsi, Oikawa alzò immediatamente la testa verso l’intruso, cercando di mascherare ancora una volta le sue emozioni.
Quella volta però Tooru era senza difese, senza barriere e senza maschere, e stava piangendo.
“Iwa-chan…” mormorò, e Hajime pensò che nonostante tutto Oikawa si stava ancora aggrappando a quel ridicolo soprannome. 
“Oikawa” rispose semplicemente il capitano, sillabando il nome di Tooru allo stesso modo in cui avrebbe detto “Sono qui”, “Non me ne andrò”.
Tooru Oikawa sorrise e cominciò a parlare.
 



Rieccoci di nuovo! Scusate, questo capitolo mi è uscito particolarmente breve e l'ho anche lasciato in sospeso...(non uccidetemi, io vi amo!). Il prossimo sarà un lungo flashback di Oikawa, quindi vi abituerete anche al punto di vista del nostro capitano preferito, ehehe *inserire qui risata malvagia*
Comunque, volevo un parere da voi lettori: sto pensando di intervallare i capitoli con spin off delle coppie che più vi piacciono, come per esempio la KuroKen, la Daisuga e la BokuAka, (si, includiamoci anche la Tsukkiyama e la AsaNoya). Insomma, non ho molto tempo e sono indecisa su quale coppia lavorare, voi quale leggereste con più voglia? Mi affido a voi!
Halloo<3

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Capitolo 4
*** Lui ***


Lui
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Catullo, Carme 5


 

Sai, Iwa-chan, da piccolo ero un bambino bellissimo. Però molti pensavano che oltre ad essere bello, fossi anche molto, molto debole. Tra quei ‘molti’ c’era anche  -e soprattutto- mia madre, che evitava sempre di farmi giocare con gli altri bambini, di farmi divertire e godere gli anni della mia prima infanzia. Con il tempo ho imparato a capire che quell’eccessiva protezione nei miei confronti era solo un modo per dimostrarmi il suo affetto, ma credo che ancora adesso provi risentimento verso di lei per avermi negato anni che avrei dovuto ricordare come ‘i bei tempi di quando ero bambino’. Di quel periodo ricordo solo le angherie delle mie sorelle più grandi, i castelli di sabbia costruiti da solo al parco giochi, e i regali sempre abbondanti di mia madre, con cui giocavo da solo nella mia cameretta. Ecco, ricordo bene il senso di solitudine che mi attanagliava nonostante avessi solo sei o sette anni, e ricordo ancora meglio il mio desiderio di trovare qualcuno con cui condividere tutto quello che facevo. Dopotutto, chi mai si sarebbe rifiutato di fare amicizia con un bel bambino come me? Domanda retorica, scusa, Iwa-chan. Se avessi avuto la possibilità di giocare e divertirmi come tutti i miei coetanei, probabilmente sarei diventato popolarissimo anche in seconda elementare.
Avevo appena cominciato la terza elementare quando dei bambini di quinta mi picchiarono fuori i cancelli della scuola. Oh, no! Non fare quella faccia spaventosa, Iwa-chan! Mi fecero solo qualche livido e un occhio nero, niente di serio. C’è da stupirsi solo del fatto che sfregiarono impudentemente il mio bel faccino, e perché? Non l’ho mai capito. Ancora oggi mi domando la causa di quell’aggressione, magari, ripensandoci, ero davvero un bambino fragile che poteva essere benissimo preda facile di bulletti mal cresciuti. Ah! Ma devo ringraziare quelle canaglie. Quando tornai a casa con la faccia gonfia e il corpo viola, mia madre si spaventò talmente tanto che arrivò a vietarmi di andare a scuola. Io mi opposi con la ferocia di un bambino di otto anni a cui togli l’unico contatto che ha con i suoi coetanei, così io e mia madre arrivammo ad un accordo: lei mi avrebbe lasciato andare a scuola e io avrei aderito ad un club scolastico sportivo per rafforzare il mio corpo e per farmi degli amici che mi avrebbero protetto. Non so perché scelsi la pallavolo, a dire il vero come sport non era granché popolare nella mia vecchia scuola elementare… probabilmente mi piaceva l’idea di uno sport in cui la palla volava, passava da giocatore in giocatore e cadeva dalla parte del meno forte. Durante quel periodo di ‘isolamento’ avevo sviluppato una passione sfrenata per il fantascientifico e -no, Iwa-chan, non sono rimasto bambino. Gli alieni non sono per bambini- probabilmente vedevo la pallavolo come uno sport magico, quasi mistico. Così, mi iscrissi al club e decisi che sarei diventato talmente bravo da poter battere perfino gli extraterrestri!
Okay, okay, sto romanzando parecchio. In realtà, i primi tempi furono terrificanti, un inferno in terra! Immagina un bellissimo e purissimo bambino di otto anni, appena stato picchiato da bulletti più grandi che si aggirano ancora per la scuola, prendere parte di un club sportivo all’inizio del terzo anno di scuola elementare. Il gruppo-squadra si era già formato e dovetti faticare tanto per farmi accettare dai mocciosetti -le bambine mi vollero subito bene, pft! I piccolini erano tutti gelosi- ma alla fine riuscii a diventare loro amico, e, sorprendentemente, la pallavolo fu la mia nuova passione. Neanche mia madre credeva ai suoi occhi: io, magrolino e troppo basso per la mia età, che non avevo mai fatto neanche 50 metri di corsa, mi ero appassionato ad uno sport in cui ci si muoveva e si sudava! Fino alla fine delle elementari non avevo un ruolo fisso, tutti gli allenatori lodavano il mio impegno e la mia bravura nel capire i compagni di squadra, ma nessuno mi aveva mai assegnato una posizione…
Io però avevo già i miei grandi progetti per il futuro: volevo alzare. Anche a undici anni compiuti, quando tutti pensavano solo a schiacciare perché ‘faceva figo’, io pensavo che il vero figo in mezzo al campo fosse chi passava la palla allo schiacciatore perfettamente anche con una ricezione pessima, perché per me era il palleggiatore a condurre la squadra alla vittoria. Quando racimolai il coraggio per dire agli allenatori quello che volevo, era arrivato l’ultimo anno delle elementari e l’ultimo torneo del mini volley. Non ricordo molto bene la reazione dei coach, del resto, i miei ricordi delle elementari sono piuttosto confusi. Quello che però mi è rimasto impresso nella mente è stata la mia ultima partita della sesta elementare*, la prima giocata come alzatore. Alla fine vincemmo, e intorno a me sentivo solo grida e urla dei genitori e una parola, ripetuta all’infinito sugli spalti: “Bravo! Bravo! Bravo!”. Fu in quel momento che pensai, ‘Accipicchia, questo ruolo fa veramente per me. Lo amo!’.
L’anno successivo, varie raccomandazioni e un buon impegno nello studio mi permisero di accedere ad una delle scuole medie più forti della prefettura, puoi immaginare la mia felicità quando arrivò la lettera di ammissione a casa! Nonostante avessi raggiunto il mio obiettivo, però, nella mia famiglia nessuno si preoccupava di me o dei miei sogni che stavo realizzando a passi incerti e decisi. È quasi un ossimoro, vero? Ma quella era la mia realtà ad undici anni: mio padre, che era sempre via per lavoro, aveva chiesto il divorzio da mia madre perché aveva trovato una bella russa in Europa e aveva perso la testa per lei,* e la mia genitrice aveva messo da parte il dolore per occuparsi della famiglia e trovarsi un nuovo lavoro. Inoltre, in quello stesso lasso di tempo la maggiore delle mie sorelle annunciò improvvisamente di essere incinta e che sarebbe andata a vivere con il suo compagno nei dintorni della prefettura, e sparì da un giorno all’altro. Quindi, ricapitolando, quando alle porte c’era l’inizio delle medie e la realizzazione del mio sogno pallavolistico, mio padre si mise con la prima sgualdrina di turno in Europa lasciando mia madre a badare a tre figli, di cui una si era volatilizzata nel nulla dopo aver ammesso di essere rimasta incinta del primo idiota di turno. Fantastico, no?
Per mia fortuna, sono sempre stato un bambino piuttosto deciso e tenace -tenace, non testardo, Iwa-chan- e riuscii a superare brillantemente i primi test scritti e orali della scuola media. Nel frattempo, mi ero iscritto al club di pallavolo e aspettavo impazientemente l’inizio degli allenamenti. Quando programmarono la prima riunione per i nuovi iscritti, quasi non impazzii dalla gioia. Erano settimane che non giocavo a pallavolo e l’idea di essere in una squadra forte, dove ognuno aveva il suo ruolo, mi eccitava da morire. Non mi preoccupavo neanche più di tanto di essere piccolo, di avere dei senpai più grandi e più forti di me che sicuramente avrebbero preso il mio posto da titolare. Pensavo di essere il migliore alzatore della prefettura della mia età, dopotutto, era quello che mi ripetevano tutti! Con queste convinzioni, arrivai alla prima riunione del club con 20 minuti d’anticipo. Credevo di essere l’unico, fuori la palestra, e invece ebbi la sfortuna di incontrare lui.
Perfino a quasi dodici anni,* lui aveva un volto privo di espressione, dei lineamenti regali e uno sguardo freddo come il ghiaccio. Lo iniziai ad odiare dal momento in cui mi guardò con aria di sufficienza, distogliendo gli occhi subito dopo, come se io non valessi la pena di essere squadrato da lui. Ricordo che mi avvicinai a lui quasi per ripicca verso quell’essere insensibile, volevo fargli male, o almeno farlo smuovere. Mi parai di fronte a lui -era già molto più alto di me, il bastardo- e gli dissi: “Buon pomeriggio, signor Ghiacciolo. Sono Oikawa Tooru, e sono venuto in questa squadra per diventare titolare e vincere. E tu?”. In risposta ebbi solo un lieve sospiro da quel pezzo di marmo, poi parole dette a spezzoni.
“In che ruolo giochi?”
“Ti ho chiesto il nome. Oppure vuoi che ti continui a chiamare signor Ghiacciolo? Guarda che io non avrei niente in contrario, è un nomignolo cos’ carin…”
“Wing Spiker? Middle Blocker? Non sei alto, potresti fare anche il libero.” Quel ragazzo così indifferente mi stava ignorando, e mi stava imponendo brutalmente il suo filo del discorso. Avevo quasi dodici anni, lui era un mio coetaneo, ma probabilmente la sapeva molto più lunga di me. Io avevo dalla mia parte solo un orgoglio smisurato e una grande passione, lui aveva dalla sua un mio nemico naturale: la capacità di ignorare una persona come il sottoscritto. Pensai -e penso- che quel bambino dovesse essere o troppo intelligente o troppo stupido per parlarmi così, inoltre, mi aveva offeso, dandomi del basso e dello schiacciatore qualunque. Ah! Gliel’avrei fatta pagare, eccome, se gliel’avrei fatta pagare! Decisi che gli avrei fatto ritirare tutto quello che aveva appena detto, anzi, mi fissai come nuovo obbiettivo quello di far provare un’emozione a quel viso regale e distaccato.
“Sono un alzatore” risposi, “E alzo la palla solo a chi giudico degno di fare punto. Se conquisterai la mia fiducia, io ti farò delle alzate talmente perfette che ogni tuo attacco andrà a segno.” Non so perché, ma avevo dato per scontato che quello spocchioso fosse uno schiacciatore laterale. Forse un asso. Emanava quel genere di aura.
Mi guardò come in trance per quelli che mi sembrarono secoli, poi posò lo sguardo su di me come se mi vedesse per la prima volta. Si avvicinò fino a sovrastarmi e, guardandomi dall’alto in basso, disse solo: “Allora alza per me, Oikawa. Sii mio e portami alla vittoria.”
Avevo quasi dodici anni e non capivo le sue parole, non capivo cosa significassero per lui. Non capivo cosa pensasse quel ragazzo dal nome sconosciuto, non capivo perché avessi paura di lui e non capivo neanche perché ne fossi completamente attratto allo stesso tempo. Riuscii solo ad annuire e a firmare l’inizio della fine della mia carriera pallavolistica.
*
All’inizio, se devo essere sincero, credevo che lui fosse sì bravo, ma, come dire, acerbo. Perfino a dodici anni avevo notato in lui lo sguardo orgoglioso e fiero di chi non ammette altre verità se non la propria, e se in questo potevamo essere uguali, divergevamo in una sola cosa: io avevo bisogno degli altri per essere sicuro della mia superiorità, lui no. Non ne aveva bisogno perché sapeva e basta di essere il migliore. E per quanto mi costi ammetterlo, era il migliore… lo è sempre stato, da quando lo conosco.
Iniziammo in panchina, tutti e due. Dopotutto, la squadra era una delle migliori della prefettura, imbattuta da anni, ed i titolari erano bravissimi. Nel periodo successivo all’apertura del club, decisi che sarei riuscito a diventare titolare entro un anno, ed iniziai ad allenarmi fino a tardo pomeriggio, rimanendo dopo gli allenamenti. A casa la situazione era migliorata, una volta al mese mia sorella maggiore ci scriveva per farci sapere che stava bene, e mia madre aveva trovato un lavoro fisso e ben pagato. Nonostante questo, però, nessuno si era ancora reso conto che stavo sacrificando molte ore di studio per allenarmi, così decisi di approfittarne e fare finta di niente. Continuai ad allenarmi continuamente fino alla fine dell’anno, facendo nottate assurde per recuperare le ore di studio perse, alterando così le mie abitudini. Quanto dovevo essere sciupato, in quel periodo! Che brutti tempi, solo al ricordo mi vengono i brividi… credo però che sia grazie a quel periodo che sono diventato quello che vedi ora, Iwa-chan. Gli allenamenti extra mi portarono avanti agli altri primini ed ero molto sicuro che l’anno successivo sarei diventato alzatore titolare. Insomma, i coach mi elogiavano sempre e quelli del secondo anno mi avevano già iniziato a guardare malissimo, così, nell’ultimo periodo dell’anno iniziai ad allenarmi ancora di più, ancora di più. C’erano solo tre cose che guastavano i miei allenamenti fuori dal club: il fatto che lui fosse già stato inserito tra i titolari, che lui non avesse bisogno delle mie alzate per fare punto, e che lui restasse ad allenarsi con me ogni giorno. Sopportai la sua presenza sgradevole per quasi un anno, senza fare domande, poi, alla vigilia dell’ultima partita dei senpai del terzo anno, lo snob decise di ignorare volutamente la barriera di silenzio che avevo eretto tra di noi. Forse mi sentivo inferiore, rispetto a lui… forse ho sempre avuto l’abitudine di sentirmi inferiore a chi è più bravo di me, Hajime… ma è logico, no? È normale sentirsi inferiore a chi è dotato per natura, rispetto a chi, come me, ha dovuto sudare e allenarsi e sacrificare molte cose per raggiungere il loro livello…
Ma torniamo al momento cruciale in cui lui mi rivolge la parola nei miei allenamenti extra. Mi si avvicinò mentre cercavo di battere a jump float*, e semplicemente disse: “Batteresti meglio a salto rotante*”, poi, senza che io gli chiedessi niente, mi mostrò i passi della battuta. “Scusa, la jump float è più efficace di una salto rotante, se fatta bene, o la Vostra Signoria afferma il contrario?” dissi piccato.
“La jump float non ti si addice” rispose semplicemente lui. Senza disprezzo né malizia, si era limitato ad esporre i fatti secondo il suo punto di vista. “La jump float è per i deboli che hanno bisogno di un movimento improvviso della palla e una svista dell’avversario per fare punto. Per riuscire a controllare la float rotante ci vuole forza, impegno e bravura.”
Non so perché, ma le sue parole mi lusingarono. Provai un improvviso moto di gioia nel costatare che quel prodigio della schiacciata, così impassibile e indifferente, mi avesse fatto quello che di più simile ci fosse ad un complimento. Forse per dimostrare qualcosa sia a me stesso che a lui, o forse per una perversa ostinazione a non deluderlo, iniziai ad esercitarmi anche sul nuovo tipo di battuta alla fine di ogni allenamento. I primi tempi non passava una palla dall’altro lato del campo, e io iniziai a credere che fosse impossibile per me andare oltre quel livello. Proprio alla fine dell’anno mi ritrovai a fronteggiare un numero assurdo di insufficienze da recuperare unite alla depressione per non riuscire ad eseguire la float rotante come si deve. Ad ogni mia battuta che non passava, inoltre, sentivo il suo sguardo severo ed impassibile su di me, come a ricalcare il fatto che no, non riuscivo a battere come lui sperava e che sì, lo stavo deludendo alla grande. Ma credo che fu proprio questo suo atteggiamento a spronarmi a non mollare: finii l’anno con tutte sufficienze, promettendo a mia madre -che, nel frattempo, si era trovata un nuovo compagno e aveva dimenticato del tutto di avere dei figli- che l’anno seguente avrei fatto di meglio, e chiesi di potermi iscrivere ad un campus sportivo durante le due settimane che mi separavano dal nuovo anno scolastico, per mettere a punto la mia battuta ed allenarmi ancora. Allo studio ci avrei pensato quando avrei ricominciato la scuola, decisi, e così passai le mie esigue vacanze a rincorrere l’approvazione di quello snob del cazzo. Bello, vero? Purtroppo non avevo ancora la percezione di quello che stavo facendo, cioè seguire letteralmente come un cagnolino il sogno di essere apprezzato da un prodigio come lui. Ho già detto che al tempo, e forse anche per parecchi anni da allora, mi servivano gli elogi delle persone attorno a me per sentirmi sicuro, e forse anche felice. Amavo essere elogiato. All’inizio del secondo anno iniziai però a capire che non sempre una persona ti fa i complimenti perché pensa davvero quello che dice, anzi, al contrario:  gli apprezzamenti e le belle considerazioni che tutti facevano su di me erano falsi, magari celati da uno spesso strato di invidia, di rabbia verso quel Tooru Oikawa che aveva appena iniziato il secondo anno ed era già titolare di una squadra fortissima. Già, all’inizio della scuola, quando avevo appena 12 anni, i coach mi permisero di giocare insieme a quel team e di non scaldare solo la panchina: mi trovai subito benissimo con i miei nuovi compagni di squadra e senpai, nonostante sapessi che altri ragazzi, aspiranti palleggiatori più grandi di me, mi odiavano cordialmente. Anche all’epoca presi la loro invidia come una ragione per andare sempre, sempre più avanti, nonostante questo significasse lasciare gli altri indietro: a quanto pare, gli insulti non mi hanno mai scalfito ed ho finito per considerarli normale amministrazione.
Se c’era un solo punto interrogativo nella mia vita, arrivato al secondo anno, era perché i senpai se la prendessero con me per avergli rubato il posto in squadra e non con lui, il ragazzo snob e indifferente che al primo anno si era guadagnato il titolo di ‘asso’. Lo compresi durante i mesi successivi all’inizio della scuola: io mi facevo notare, con la mia parlantina sciolta ed il mio desiderio palese di superare gli altri. Credo che anche allora il mio io interiore gridasse ‘Hey, voi, guardatemi! Guardatemi diventare sempre più bravo, fino a quando non vi supererò tutti!’ mentre il suo io interiore non lasciava trapelare i suoi sentimenti, mai. A me piaceva apparire -ma dai, Iwa-chan, con questo bel faccino faccio solo un favore alla gente!- mentre lui non aveva bisogno di farsi notare. La sua presenza bastava da sola: era di quasi un mese più piccolo di me, eppure il bastardo cresceva a occhio giorno dopo giorno, mentre io, che spiccavo più per il carattere che per altro, mi ero bloccato ad un misero metro e sessanta. Il mio piccolo problema d’altezza, unito all’insoddisfazione per non essere ancora riuscito a eseguire una salto rotante decente, mischiata a sua volta allo studio frenetico e alla pressione di essere titolare e di dover far schiacciare lui, rischiarono di farmi scoppiare il cervello poco prima delle vacanze estive. Poi venne il caldo, il mio compleanno, altri allenamenti estivi ed il ritorno a scuola: magicamente, a tredici anni appena compiuti iniziai a crescere a dismisura e a maturare. Non so esattamente cosa cambiò in me in sole sei settimane, sta di fatto che tornai alla mia routine scolastica deciso a migliorare ancora di più. Senza prestare molta attenzione ai miei cambiamenti fisici e psicologici, furono i compagni intorno a me a farmi notare di essere diventato una persona completamente diversa: mi ero allungato, e i miei continui allenamenti mi avevano ripagato con un fisico asciutto e da atleta, i miei lineamenti del volto avevano perso quella dolcezza che apparteneva ai bambini per diventare più adulti, più attraenti -sì, Iwa-chan, perché io sono attraente-  e le ragazze avevano cominciato a notarmi. Avevo finalmente attirato l’attenzione di tutti, quell’attenzione per cui solo due mesi prima scalpitavo e sgomitavo, per poi capire che non era tutto questo granché. Certo, era bello stare sotto i riflettori, e mi sentivo bene in mezzo a molta gente, ma sviluppai un forte senso di noia per le persone troppo adoranti, troppo attaccate alla figura che mi ero creato intorno. Quello che tutti ammiravano era solo un bel ragazzo, decisi, non ero io. Perciò, iniziai a fingere di provare dei sentimenti quando dei sentimenti li provavo davvero, solo, erano molto diversi da quelli che gli altri volevano vedere: imparai anche che ero davvero bravissimo a imitare sensazioni ed emozioni e soprattutto sorrisi, così, continuai con quella bellissima recita. Nessuno notò il mio cambiamento, dopotutto, non avevo amici degni di questo nome, e in quel periodo non mi preoccupavo di cose futili e stupide come le amicizie o gli amori adolescenziali. Cos’era, innanzitutto, l’amore? Era amore, quello delle ragazzine che sbavavano dietro di me? Era amore, quello che vedevo nei corridoi della scuola, mentre maniaci pervertiti facevano i dolci con le loro ragazze occasionali, solo per infilare le mani sotto le gonne e le maglie? No, non lo capivo proprio. Eppure in quell’anno riuscii a completare la mia salto rotante, riuscii a ricevere i complimenti dei coach quando vincemmo il torneo interscolastico, riuscii perfino a mantenere una buona media scolastica. E fu proprio alla fine di quell’anno, quando perdemmo sì alle nazionali, ma giocando benissimo, che lui mi iniziò a guardare diversamente. No, ‘diversamente’ è un eufemismo: lui prese a fissarmi ogni minuto che stavamo insieme, ogni allenamento extra che facevamo, ogni istante della sua esistenza sembrava volto alla mia contemplazione. Lo notarono tutti e, se da una parte lo capisco -come farebbe una persona a non guardarmi? Insomma, sono io!- dall’altra non l’ho mai capito e mai lo capirò. Ancora adesso vedo quei lineamenti freddi e distaccati che rimangono tali mentre mi guardano, solo, si tingono di una sfumatura più complessa di ammirazione e di possessione. Forse mi ammirava davvero, a modo suo, forse, in un angoletto recondito della sua perversa mente, voleva davvero possedermi, in tutti i sensi che questa parola potesse significare. Non l’ho mai capito e non lo capirò mai, forse è per questo che ho sempre avuto un po’ paura di lui: avevo il terrore di scoprire che sotto quei lineamenti duri e freddi non si celasse nessun interesse per me, niente di niente, solo vuoto. O forse, avevo paura del contrario.
Finì anche il secondo anno e intanto ero diventato zio di un bambino che aveva già compiuto tre anno. La maggiore delle mie sorelle era infatti ritornata a casa sana e salva con un bambino tra le braccia, una bella notte di gennaio, dicendo che il suo compagno era sparito chissà dove e lei non poteva badare ad un figlio da sola. Così, la mia famiglia si allargò di nuovo, e dovetti passare le vacanze di primavera dietro ad un mocciosetto iperattivo invece di allenarmi in vista del mio ultimo anno di scuole medie. L’aveva chiamato Takeru, mia sorella.
Il terzo anno si prospettava tutto rose e fiori, e infatti, cominciò alla grande: il fan club di Tooru Oikawa si era allargato ulteriormente, la mia battuta andava sempre meglio, lo studio era diventato il mio più grande amico e la scelta del liceo si faceva sempre più vicina. Passati i primi mesi, le vacanze estive arrivarono troppo velocemente, io compii quattordici anni e decisi che sarei entrato nel liceo dello stesso plesso della mia scuola media, considerato il più forte in assoluto nella prefettura. Naturalmente, anche lui si iscrisse nello stesso liceo, e insieme ci preparammo all’ultimo torneo delle medie. La parola ‘insieme’, in quel periodo, ci descriveva perfettamente: mangiavamo insieme a mensa, ci allenavamo insieme, ritornavamo insieme a casa. Non so quando né perché ma lui diventò la mia routine quotidiana, e mio malgrado, iniziai ad apprezzare i suoi silenzi, il suo orgoglio e il suo essere sempre se stesso. Lo ammiravo, sì, essendo lui il mio opposto, ma non avevo ancora capito che quando mi guardava, nei suoi occhi non c’ero io, ma lui stesso. Pensandoci ora, credo che mi vedesse più o meno come un trampolino di lancio, il mezzo che gli avrebbe permesso di diventare grande e potente più di quanto non lo fosse già. Niente più di un oggetto creato allo scopo di esaltarlo e glorificarlo. Il fatto che io provassi dei sentimenti, per lui non era altro che un ostacolo molto interessante.
No, non mi rendevo conto di quanto distorti fossero i suoi sentimenti. Non me ne sono mai reso conto, neanche adesso…
Oh, ma torniamo alle medie, le medie.
Il nostro ultimo torneo arrivò in fretta, insieme a marzo e ai miei progetti per il futuro. Anche se ricordo quel periodo con aggettivi come ‘stancante’, ‘inferno’ e ‘voglio morire qui in santa pace ora e subito’, riuscii a cavarmela negli esami di fine anno, alzando la mia media così da garantirmi l’entrata al liceo anche senza raccomandazione, e contemporaneamente triplicai i miei allenamenti extra. In squadra ormai ero il Senpai, e anche se non mi avevano eletto capitano -quel bastardo mi aveva rubato letteralmente il titolo-si vedeva che ero la colonna portante del team. Tooru è in giornata? Benissimo, anche il nostro Asso lo sarà. Oh, vorrei battere in salto come fa Tooru! Tooru riceverà il premio per il miglior alzatore della prefettura, ormai è certo! Chi mai potrebbe competere con Tooru? Tooru! Tooru! Tooru!
Più o meno erano questi i pensieri dei miei compagni di squadra. Non avevamo mai perso una partita prima d’ora e credevamo che saremmo andati alle nazionali e si, questa volta avremmo vinto! La prima partita del torneo fu di una facilità incredibile, la seconda anche: superammo il primo giorno con tranquillità ed io mi sentivo invincibile. Capisco solo ora quanto fossi stupido neanche tre anni fa: credevo che la squadra più forte fosse quella con l’alzatore e lo schiacciatore più forte, nient’altro importava, e io mi sentivo il più forte accanto a lui. Poi venne la prima partita della seconda giornata, venne un altro avversario e venne un’altra vittoria, così, diedi per scontato che anche l’ultima squadra del secondo giorno fosse abbastanza debole. ‘Kitagawa Daiichi’ recitava un cartellone, l’avevo già sentita, era la mia seconda opzione quando dovevo scegliere che scuola media prendere. Era un mio rifiuto, un mio scarto, e nonostante questo, durante la partita mi sentii addosso una pressione assurdamente alta. Mi rifiutavo di credere che fosse ansia, che fosse paura di sbagliare o di vedere un alzatore bravo quanto me dall’altra parte, no, dopotutto il palleggiatore avversario era un mediocre, come tutti gli altri. Proprio quando pensavo di non aver nulla da temere, l’alzatore dell’altra squadra fu sostituito da quello che sembrava essere una matricola alle prime armi, un ragazzetto che di pallavolo non sapeva nulla. Era già abbastanza alto, si, con dei lineamenti freddi e allo stesso tempo intensi, due occhi blu chiusi in un’espressione di disgusto e concentrazione.
No, quanto mi sbagliavo sul conto di Tobio.
All’inizio lui non notò il piccolo prodigio dall’altro lato del campo, preso com’era dalle mie alzate più incerte del solito. Quando, dopo due o tre azioni giocate, capì che c’era finalmente qualcuno in grado di superarmi per talento e per determinazione, non mi guardò più per il resto della partita.
I suoi occhi erano per Tobio. Tobio, che a soli undici anni sapeva creare legami, sapeva indirizzare la palla in un punto qualsiasi del campo, sapeva murare e sapeva difendere. Il suo potenziale era infinito, e dedussi che quel concentrato di genialità era partito in panchina solo per far onore al suo senpai mediocre. Nel momento esatto in cui realizzai che, se avessi scelto la Kitagawa Daiichi, mi sarei ritrovato a competere con il piccolo genio che era Tobio, capii che probabilmente in quel caso non sarei più riuscito a giocare a pallavolo. Non ce l’avrei fatta, senza qualcuno al mio fianco, senza una persona che mi spronasse ad andare avanti non per scopi personali ma per il semplice motivo di tenere a me come amico.
Nonostante i miei pensieri, le mie emozioni e il mio umore instabile, vidi chiaramente e fin da subito il più grande punto debole di Tobio. Aveva undici anni e giocava magnificamente, avrebbe avuto una carriera brillante, se solo non fosse stato per l’egoismo con cui gestiva il pallone. Probabilmente in quella partita non diede affatto il peggio di sé, perché a giocare con lui erano tutti senpai, ma intuii che il piccolo grande Tobio giocava da solo contro di noi. Non avrebbe mai trovato qualcuno talmente stupido da farlo ragionare, ah! Qualcuno che si sarebbe fidato di lui a tal punto da mettere in secondo piano l’egoismo delle sue alzate. O almeno, credevo che una persona del genere non potesse esistere.
Quando compresi che quello stesso egoismo di Tobio avrebbe solo rovinato gli equilibri della sua squadra, mettendo in ombra il suo talento, fui talmente felice che ripresi a giocare comce al mio solito, se non meglio. Giusto, pensai, chi se ne importa se ho un piccolo genio di tre anni più piccolo alle calcagna! Io ho Ushi… io ho lui, lui, che ha bisogno di me per vincere, per giocare! Nel momento esatto in cui formulai questi pensieri era appena finito il primo set, 1-0 per noi. Mi voltai verso di lui, certo che stesse ricambiando il mio sguardo, ma i suoi occhi vedevano solo Tobio, erano solo per Tobio. Lo guardai mangiare con lo sguardo il piccolo genio e ignorarmi completamente, come se fossi stato un telefono nuovo di un modello già superato da anni. Devi sapere, Iwa-chan, che sono molto orgoglioso, e ricordo benissimo il dolore che provai alla sensazione che lui mi avesse messo da parte in così poco tempo. Non si trattava del fatto che fosse proprio lui ad abbandonarmi così, moralmente, quanto più del fatto che mi fossi illuso per tre anni di essere il migliore, di poter superare tutti, quando già un bambino era molto più avanti di me…
Provai un’insensata voglio di gridare in faccia a quel bastardo di un asso che no, quel ragazzino non avrebbe mai potuto soddisfarlo, perché erano due egocentrici e non sarebbero mai andati d’accordo, ma fui frenato da un’emozione che, al tempo, non riconobbi. Ora lo so e lo posso dire con certezza: oltre alla rabbia, oltre all’amarezza e alla delusione, c’era della gelosia nel mio risentimento, e tanto tanto tanto odio. Il desiderio di farla pagare a quel ragazzo che per tre anni mi aveva spinto a distruggermi di allenamenti e a migliorare sempre di più, per stare al passo con il suo talento. Non volevo perdere contro di lui.
Lasciai correre il fatto che per tutto il set non mi avesse più guardato come al solito, ignorai il risentimento che bruciava nel mio petto e il disprezzo per il piccolo alzatore che, in una sola ora, era riuscito a far crollare parte delle mie certezze costruite con tanta fatica.
Vincemmo anche il secondo set, andando avanti nel girone. Finita la partita mi ritirai da solo negli spogliatoi, precedendo la squadra e tuffandomi sotto la doccia, uscendo solo quando non sentii più l’irritante chiacchiericcio dei miei compagni. Uscii grondante d’acqua e tutto infreddolito, ricordando solo in quel momento di aver dimenticato l’asciugamano ed il cambio nella stanza adiacente a quella delle docce. Convinto di essere solo, facendo attenzione a non fare rumor- Hey, Iwa-chan, non ridere! Ero completamente nudo in una palestra sconosciuta! Stavo dicendo, uscii dalla stanza fiondandomi a cercare il mio zaino, che trovai dopo attimi di agonia. Quando ero sul punto di rivestirmi, sentii uno sguardo freddo perforarmi la schiena e notai che lui era entrato negli spogliatoi chissà da quanto- e mi stava fissando. Probabilmente non avrei dovuto sentirmi bene, a sapere che l’oggetto delle sue attenzioni ero di nuovo io e non il piccolo genio, ma sì, mi sentii bene. Sentii anche crescere dentro di me, per la seconda volta, il bisogno di fare del male a quell’individuo, che aveva saputo abbattere le mie difese come nessuno era mai riuscito a fare. Finii di infilarmi i pantaloni con una lentezza che avrebbe dovuto infastidirlo, ma che ebbe il solo risultato di irritare me stesso. Non feci in tempo a mettere la maglia, però, che lui accorciò la distanza che ci separava con due grandi falcate, e si portò al mio fianco. “Oikawa” disse solo, guardandomi dall’alto della sua posizione privilegiata, gli occhi inespressivi come al solito, la mascella contratta.
“Mi sto cambiando, come vedi” riuscii solo a sillabare, mentre una folata di vento dalla porta aperta mi fece rabbrividire. Cercai di infilarmi la tuta, per sfuggire a quel freddo gelido di marzo così strano e così crudele. Nello stesso tempo lui mi bloccò i polsi, impedendomi qualsiasi movimento, e mi spinse a sé con un gesto brusco. Ancora una volta mi ritrovai a pensare alla nostra differenza di forza, che mi impediva di ribellarmi anche solo minimamente: lui mi sovrastava in tutto e per tutto, e non riuscii a liberarmi neppure quando incominciò ad avvicinare lentamente il suo viso al mio. Forse mi sono affidato troppo a lui, riflettei, quando premette le sue labbra con forza sulle mie, rubandomi il mio primo bacio. In quel preciso istante pensai, e lo ricordo ancora, che non era un problema il fatto che lui fosse un ragazzo, semplicemente avevo già capito da tempo che il mio interesse verso le persone dipendeva non tanto dal sesso quanto dal loro carattere, da quanto potevano essere interessanti secondo il mio punto di vista. Poi pensai che il vero problema era che stesse succedendo tutto in fretta, contro la mia volontà, e soprattutto con lui. Quando schiusi la bocca per lasciarlo entrare, lui stesso sembrò quasi provare un’emozione umana simile alla confusione, spingendo la sua lingua contro la mia e lasciandomi tracce di saliva ai lati delle labbra. Non sapeva baciare, Ushijima, e all’improvviso ricordai il nostro primo incontro, le sue parole ‘Sii mio’ e mi chiesi stupidamente se era quello che intendeva, dopotutto. Poi mi presi in giro da solo, mentalmente, perché a dodici anni ero un bambino e l’unico interesse che lui poteva avere nei miei confronti riguardava la pallavolo, e nient’altro. Stanco del suo muoversi e muoversi e muoversi dentro di me gli morsi il labbro abbastanza forte da farlo sobbalzare improvvisamente, mentre si allontanava e portava una mano alla bocca che stava iniziando a sanguinare.
Sorrisi vittorioso, ignorando la sgradevole sensazione che mi stava attorcigliando lo stomaco. Lo vidi guardarmi per la seconda volta con un’espressione diversa dall’indifferenza, un misto tra incredulità e soddisfazione. Feci quello che, negli ultimi tempi, mi era venuto sempre più naturale fino a diventare un’abitudine: nascosi il mio disgusto, il mio tormento e la mia rabbia inespressa dietro una facciata di arroganza, e ringraziai mentalmente proprio Ushijima per avermi insegnato a costruire una maschera così perfetta. Se si accorse della mia finzione, non lo diede a vedere, avvicinandosi di nuovo a me, stavolta con passi lenti e misurati. Avevo di nuovo freddo, e lui se ne accorse, inarcando un sopracciglio come a voler dire ‘soffri per così poco? Sei così debole’. Sorrisi di nuovo, stavolta con disprezzo, che era esattamente la stessa emozione che stavo provando in quel momento. Lasciai che lui mi raggiungesse di nuovo, lasciai che il suo respiro si fondesse con il mio mentre le sue mani vagavano sui miei fianchi nudi, sulla mia pelle, sulla mia schiena. Rabbrividii, e non per il freddo, quando lui cercò distrattamente di carezzarmi il viso, riuscendo però solo a graffiarmi le guance con il suo tocco ruvido. Nonostante sapessi che ero io quello in vantaggio, stavolta, che ero io a poter distogliere lo sguardo in qualsiasi momento, non riuscivo ancora ad alzare il capo ed incontrare i suoi occhi. Forse, pensai, mi sono affidato troppo a lui, in un certo senso. Credevo che fosse lui a dover affidarsi alle mie alzate per fare punto, e invece era proprio il contrario, ero io che gli donavo spontaneamente le mie palle migliori per segnare con sicurezza, perché lui segnava per me, e solo per me…
“Oikawa, la prima volta che ti ho visto avevo dodici anni. Ti chiesi di essere mio e tu annuisti. Ora te lo richiedo, in un modo diverso. Oikawa, sii mio, nel campo e fuori dal campo”
I suoi occhi freddi trasmettevano sicurezza, quello non era lo sguardo di chi si aspettava un rifiuto. Cercai di convincermi che no, non stavo accettando la sua dichiarazione mascherata perché dipendevo da lui, e neanche perché ero attratto da quell’ammasso di muscoli e indifferenza. Stavo accettando per la mia vendetta, perché avrei vinto la nostra sfida, mi convinsi.
Avevo quasi quindici anni, e sapevo che iniziare una relazione con Ushijima mi avrebbe comportato solo problemi e scocciature. Sapevo che lui avrebbe guardato altrove ogni qual volta si fosse presentata una persona con un talento maggiore del mio, eppure, qualcosa mi spinse a scuotere la testa in un segno affermativo, come a ricalcare la mia dipendenza dalla sua persona.
Non mi perdonerò mai per questo.

 

 
 
*sesta elementare: le elementari in Giappone durano sei anni
*aveva perso la testa per lei: mi sono completamente inventata il divorzio. Scusatemi! Solo che questa fantomatica separazione mi è utile ai fini della trama, è dalla sua situazione familiare che Tooru inizia ad interessarsi anche al sesso maschile, quasi più del femminile, ritenendo la femmina in generale quasi un’approfittatrice (prendetevela con suo padre, non con me!)
*quasi dodici anni: l’anno scolastico in Giappone inizia ad aprile e finisce a marzo, tenete presente che Oikawa è nato il 20 luglio e le elementari durano 6 anni: se i miei calcoli sono esatti, nel periodo della prima media avrebbe dovuto avere 11 anni e mezzo.
*jump float: la battuta a salto float di Yamaguchi, per chi non s’intendesse di pallavolo
*salto rotante: abbreviazione per salto float rotante, la battuta di Oikawa





Mi sono fatta aspettare ma ecco qui il nuovo capitolo della fanfiction, che come preannunciato è un flashback di Oikawa -non ancora completato perchè stava diventando enorme. Poi vi annoio! 
Spero di riuscire a pubblicare presto la seconda parte del flashback, quella che ricopre i tre anni del liceo, e spero che nel frattempo non mi odiate per come sto facendo evolvere la storia. Io odio la UshiOi, sul serio!
Coomunque, per quanto riguarda gli spin-off, ho deciso di raccoglierli in una storia collegata a questa, così si eviteranno impicci e imbrogli *inserire qui citazione Manzoniana*
Che dire, grazie alle quasi 400 visite e a coloro che recensiscono, mi date la forza per continuare a scrivere sui nostri amati idioti!

 

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Capitolo 5
*** Io ***


Sono finalmente riuscita ad aggiornare! Scusate, ma il mio computer ha deciso di prendersi una vacanza alle Hawaii e si è definitivamente rotto. Detto questo, ecco a voi la conclusione del flashback di Oikulo, spero vi piaccia! Sono contentissima delle vostre recensioni e regalo all'istante un pandacorno a tutte le bravissime personcine che hanno inserito la storia tra le preferite, seguite o ricordate. Mi rendete felice ^.^
Io

Piansi, piansi tutte le mie lacrime
e poi smisi di piangere.
-Re: zero kara hajimeru isekai sekaitsu

 
Due settimane più tardi l’episodio delle docce, iniziai a frequentare il liceo che avevo scelto. A dir la verità, avevo immaginato la mia entrata trionfale in quell’istituto come una scalata verso il successo, inutile dire che in quei giorni il mio cervello era andato in vacanza su Marte con gli alieni. Mentre il suddetto cervello si faceva un’aperitivo extraterreste, io ero alle prese con il fatto di essermi fidanzato con un ragazzo, e per ragazzo s’intende Ushijima, e per Ushijima s’intende Ushijima. Può non sembrare, lo so, ma era la mia prima relazione con un essere vivente, ed il fatto che codesto essere fosse del mio stesso sesso non mi aiutava per niente! In un primo momento, mi concentrai più che altro sulla reazione che le persone intorno a me avrebbero avuto, su come avrebbe reagito il mio fan club, su come l’opinione che tutti avevano di me sarebbe cambiata drasticamente, perché molti pensano che essere gay o bisex sia strano- allora anche io ero strano! Nei primi mesi del liceo ero uno sconosciuto per la maggior parte degli studenti, così le mie preoccupazioni andarono ad affievolirsi mano a mano che passavano i giorni, certo che Ushijima non avrebbe mai fatto qualcosa di così stupido come prendermi per mano e baciarmi davanti la scuola –non sarebbe stato nemmeno da lui, a pensarci bene-. Io e lui ci iscrivemmo subito al club di pallavolo e se per diventare titolare alle medie avevo impiegato un anno, per diventare titolare al liceo impiegai due mesi esatti. Il tempo di far capire all’allenatore che i miei senpai non potevano competere con me, e che nessuno di loro sapeva tirare fuori il meglio del nuovo asso, Ushijima.

Ushijima. Inizialmente, non sapevo come approcciarmi nei suoi confronti, dopotutto, era lui che mi aveva fatto una dichiarazione dura e imbarazzante ed ero io che avevo accettato i suoi sentimenti per vendetta! Sempre che lui potesse provare sentimenti, ovvio. Fu nel periodo del mio primo anno di liceo che iniziai a maturare il presentimento che Ushijima non fosse del tutto umano: certo, era indifferente e distaccato come pochi, ma nei suoi occhi non riuscivo a leggere altro che sensazioni mute e vuote e sorde e mi faceva paura pensare che anche io, alle volte, potevo apparire così. I miei propositi di vendetta non erano cambiati, volevo ancora fargli male come due mesi prima, ma contemporaneamente volevo vedere nel suo sguardo lo stesso stupore di quando, dopo la partita contro la Kitagawa Daiichi, lo avevo morso rispondendo al suo bacio. Se fosse orgoglio, curiosità o voglia di vincere una sfida muta –o forse tutt’e tre- non me lo saprò mai spiegare, sta di fatto che il comportamento di Ushijima nei miei confronti non cambiò di una virgola, se non nel modo in cui mi guardava.
Non c’era stupore o interesse, solo curiosità crudele e freddamente calcolata.

Non vedendo nel suo comportamento nessuna trasformazione degna di nota, mi arrangiai di conseguenza, certo che lui non fosse più esperto di me nelle relazioni sentimentali. I mesi passarono in fretta, si creò ben presto un altro fan club di Tooru, e solo quando arrivarono le vacanze estive mi resi conto che di lì a poco avrei compiuto 15 anni. Il giorno del mio compleanno, passato in giro per la città con alcune ragazze del fan club, mi arrivò una breve mail da Ushijima, con scritto un semplice e telegrafico “Auguri”, niente di più e niente di meno. Probabilmente non mi aspettavo per niente quel messaggio, o forse lo aspettavo troppo, perché rimasi a guardare imbambolato lo schermo del cellulare per secoli, quasi a volermi risvegliare da un sogno irrealistico. Perché rimasi così sconvolto all’idea di un Ushijima che si ricordava del mio compleanno? In teoria, era il mio ragazzo, e c’erano leggi non scritte che stabilivano che il compleanno perfetto dovesse essere passato in compagnia della propria dolce metà, in realtà, io non ci avevo neanche pensato. Decisi di essere rimasto sconvolto dal suo messaggio perché lui non era né dolce né gentile né si ricordava di cose futili come un compleanno, ergo, doveva essere malato o/e forse provava davvero dei sentimenti.
Io, un povero illuso.

Quando arrivò il suo compleanno ricambiai gli auguri, con una mail piena di faccine e cuoricini. Ritornai a scuola parecchio confuso, ma non al punto da non notare che Ushijima era rimasto lo stesso di sempre. Ricominciò la nostra routine quotidiana, ostacolata solamente da un piccolo imprevisto –si era sparsa una certa voce, per i corridoi della scuola, una voce che confermava l’interresse di Tooru Oikawa per entrambi i sessi, ragazzi, state attenti! Da chi fosse partita la diceria, questo non si sapeva. Ma quella diceria mi riportò indietro di quattro mesi, alle mie preoccupazioni e ai miei tormenti. Tutto d’un tratto le persone cominciarono a notare la mia simbiosi con Ushijima, i miei tratti del viso delicati –come un fiore in primavera, Iwa-chan! Togliti quell’espressione, fai paura!- e le mie lunghe ciglia, la mia assenza di interesse verso le dolci fanciulle del Tooru fan club e, più di tutto, si accorsero dell’assenza di una mia presunta ragazza. Ora, non confondiamo le cose: non è che le ragazze mi facessero schifo, anzi, avevo capito di essere bisex già da un po’ di tempo. Ma questo non significava affatto che provavo interesse per qualsiasi uomo, donna, ragazzo o ragazza che fosse nel giro di due metri! Nel periodo natalizio non c’era persona che, quando passavo per i corridoi, non sussurrasse pettegolezzi e cattiverie.

C’erano anche le invasate che prendevano a guardarmi con adorazione mistica quando mi vedevano con Ushijima, e quelle che, al mio passaggio, farneticavanocose sul Boy’s Love e sulle ship. La situazione poteva essere anche comica, se non fossi stato preoccupato per la mia reputazione sul campo di pallavolo. Io ero quello paranoico, quello le cui certezze si stavano lentamente sfaldando, la cui persona si stava perdendo nelle profondità dei pregiudizi, Ushijima era quello calmo e indifferente e distaccato ed efficiente come al solito: nonostante i miei cali nelle partite, dovuti agli sguardi dei miei compagni di squadra, lui faceva punto. Sempre e comunque.

Finita la scuola, feci un riassunto breve del mio primo anno del liceo: tutti, nel mio istituto, pensavano a me come una puttana pansessuale, stavo facendo schifo negli allenamenti ed eravamo arrivati sì alle nazionali, ma a causa mia avevamo perso i quarti di finale. Una disfatta totale. Come se non bastasse, Ushijima non dava segni di vita o preoccupazione e io abbracciai persino l’idea di chiudere tutto quello che poteva essere stato tra noi. Niente contatti fisici, niente prese di posizione o discorsi sull’argomento: io e Ushijima, per un anno, avevamo giocato ai fidanzati per ragioni totalmente diverse e infantili, con la conseguenza di aver scatenato dicerie in tutta la scuola. Subito dopo aver formulato questo pensiero, mi feci schifo da solo. I giudizi degli altri erano diventati così importanti per me, da scavalcare anche il mio orgoglio? Ero diventato un burattino nelle mani delle persone? Ero diventato quello? No! Sarei riuscito a riscattare la mia preziosa reputazione, in qualche modo ce l’avrei fatta. Ero diverso? Ero strano? Decisi che non mi sarebbe importato se i ragazzi mi avessero invidiato, insultato o  se le ragazze non mi avessero più guardato. Amavo gli elogi, le lusinghe ma amavo di più il mio orgoglio, mi piacevo, e non sarei cambiato per delle voci di corridoio.
Arrivò il secondo anno e capii che la mia maschera di vetro stava diventando di ferro.

Se devo essere sincero, del secondo anno ricordo poco e niente. No, Iwa-chan, non perché sono chiaramente tardo, ma perché fu un anno di transizione, dove le mie emozioni si stabilizzarono e con loro anche la situazione che si era venuta a creare a scuola. All’inizio dell’anno ero piuttosto agitato, nonostante la mia determinazione nel rimettere tutte le cose al loro posto e nel farmi di nuovo rispettare. E non mi aiutava nemmeno Ushijima che, è inutile ripeterlo ancora, era vivo quanto un’ameba. Davvero, i primi mesi del secondo anno passarono senza che le dicerie sul nostro conto si affievolissero e lui rimaneva calmo, tranquillo- forse annoiato. Avevo l’orrenda sensazione che il mio malessere lo annoiasse, come se si aspettasse da me sempre qualcosa in più, di più, di più. Qualcosa che probabilmente non gli ho mai dato.
Gradualmente, riiniziai ad uscire con le ragazze del Tooru fan club, gruppo che non si era affatto sciolto- come avrebbe potuto? Tooru è sempre Tooru. Nessuna di quelle liceali mi guardava male, o disgustata, o arrabbiata: così, giunsi all’inevitabile conclusione che le ragazze avessero una mentalità più aperta dei ragazzi, e che non sarei mai riuscito a farmi amicizie maschili. No, no, non era per mancanza di autostima o di coraggio o altro, semplicemente, i ragazzi normali erano parecchio chiusi nei miei confronti già da prima della fuga di informazioni- figurarsi dopo. Non valeva veramente la pena di sprecare del mio tempo per creare un legame con degli scimmioni, a tutti i ragazzi continuavo a preferire Ushijima(e questo era un bell’insulto, per loro).
Iniziando ad uscire con una quantità ingente di ragazze, le voci cominciarono a farsi vaghe, a spegnersi. Andarono ad attaccarsi ad altri ragazzi o ragazze, lasciando me in pace. Verso la metà di giugno, tutto ritornò tranquillo, e mi piace pensare che fosse stato tutto merito mio, solo mio, mio e del mio orgoglio. Ushijima, in quel periodo, cambiò di nuovo il suo modo di guardarmi.
Non più curiosità e basta, ma bensì curiosità nelle mie piccole vittorie personali, come se, di nascosto, stesse raccogliendo informazioni su di me per poi sbattermele in faccia e farmi vedere i punti in cui ero più debole e quelli in cui ero più forte. Mi trattava come un Pokémon, il bastardo.

Compii sedici anni in compagnia della squadra di pallavolo, delle ragazze della scuola e di amici. No, Iwa-chan, io non avevo amici, specialmente amici maschi. Solo, per una volta non mi opposi alle richieste delle ragazze del fan club, che volevano disperatamente fare una festa per i miei sedici anni. Lasciai a loro il compito di dare gli inviti e di trovare un posto dove tenere il compleanno, io avrei provveduto in qualche modo al cibo. Mia madre era così contenta del suo figlioletto che, per la prima volta, voleva fare una vera e propria festa, che preparò torte e pizze in quantità industriale. Mia madre non l’ho mai capita, proprio come Ushijima. E non penso che avrò più l’occasione per capirla.

Sta di fatto che al mio sedicesimo compleanno partecipò praticamente tutto il mio liceo, e sorprendentemente mi divertii un mondo. C’era anche Ushijima, certo, che per una volta mi sembrò meno indifferente e rigido del solito, soprattutto quando mi iniziarono a far bere litri e litri di alcool preso chissà dove. È insano e sbagliato, lo so anche senza che tu me lo dica, Iwa-chan. Ma era la mia prima festa, non avevo mai bevuto un goccio di alcool ed avevo sedici anni! Ora, il problema è che non ricordo bene cosa successe quella nott- NO IWA-CHAN NON FARE QUELLA FACCIA! SONO VERGINE E NON MI STAVO RIFERENDO A QUELLO! Nessuno mi stuprò, se è questo che ti preoccupa. Si, sono ancora vergine, e ora smetti di fare quella faccia imbambolata e confusa, per chi mi hai preso? Ora, stavo dicendo, ho ricordi molto vaghi di quella notte, cose come ballare, ridere, vomitare, e ancora ballare. Ushijima restò al mio fianco tutto il tempo, insieme a facce e volti mai visti prima. Mi sentii per la prima volta dentro un gruppo che non fosse formato solo da me e da Ushijima, e tutto questo grazie a me. Ai miei sforzi.

Solo la mattina dopo iniziai a ragionare come si deve, e a rendermi conto che il ‘gruppo’ che si era creato intorno a me era tutt’altro che vero –metà squadra di pallavolo(vedasi:la panchina) mi odiava, l’altra metà mi guardava con diffidenza appena fuori dal campo. Le ragazze mi seguivano perché ero bello, perché sembravo simpatico, perché si facevano la loro idea su di me e si aspettavano che io diventassi magicamente il ragazzo dei loro sogni. I ragazzi seguivano le ragazze, e nonostante mi odiassero cordialmente, volevano avere la mia amicizia per poi avere quella delle ragazze. Patetici.

Anche io ero patetico. Tutto quello che mi ero costruito intorno era effimero e fragile e inesistente. Io ero una specie di specchio delle persone, e nessuno tranne il sottoscritto conosceva il vero Tooru. E questo equivaleva a dire che il vero Tooru non esisteva.
È per questo che mi attaccai disperatamente all’unica persona che conoscesse almeno un quarto del vero me: Ushijima. Forse lui lo scambiò per amore, forse per vendetta, ma sta di fatto che avevo da tempo dimenticato la mia vendetta e volevo solo ritrovare me stesso. E se ritrovare me stesso significava conoscere meglio il bastardo e farsi conoscere meglio, bhè, che alternative avevo?
Quell’anno non riuscimmo ad arrivare ai nazionali. Non ricordo neanche la squadra che ci sconfisse, pensa, qualcosa come Wakunan, ma non ne sono sicuro. Erano meno forti di noi, questo è certo, ma più o meno al secondo set ebbi un malore in mezzo al campo. Niente di serio, mi diagnosticarono solo stanchezza cronica e un bel po’ di sonno arretrato. Inoltre, mi consigliarono di diminuire gli allenamenti settimanali, perché le mie articolazioni- braccia, ginocchia, caviglie- ne stavano risentendo troppo.
Non capii quanto grave fosse la situazione fino al terzo anno. Adesso…ora come ora… vorrei aver dato ascolto ai medici. Non sai quanto… eh? No, cosa dici, non sto piangendo. Ti prego, non toccarmi, Iwa-chan. Sto bene, davvero.

Per colpa mia perdemmo la partita che ci avrebbe permesso di andare in nazionale. Per me e Ushijima il tempo stava scadendo, e l’anno successivo sarebbe stato il nostro ultimo anno di liceo. Misi da parte il senso di colpa, i pensieri sulla mia inutile e breve vita, accantonai perfino i consigli dei medici e, appena finito il secondo anno, iniziai ad allenarmi con il ritmo di tre anni prima.
Volevo in qualche modo farmi perdonare, si, ma avevo anche altro per la testa. All’inizio del terzo anno mi ricordai del piccolo genio della Kitagawa Daiichi, che, stando ai miei calcoli, in quel periodo avrebbe dovuto avere circa quindici anni: ergo, avrebbe dovuto iniziare il liceo e avrebbe dovuto giocare in qualche squadra molto forte. Avevo sentito della sconfitta eclatante della sua squadra all’ultimo torneo interscolastico delle medie, e questo mi riempiva di una felicità assurda. Forse fu proprio per quella sconfitta, ma Tobio non venne accettato dal nostro liceo. Che goduria! O almeno, era quello che pensavo.

All’inizio della scuola, noi senpai del terzo anno decidemmo di impegnarci in due tornei: quello autunnale, come allenamento e pratica, e quello interscolastico primaverile, come torneo finale. Passò la primavera, poi l’estate, compii diciassette anni e non cambiò nulla. Mi fecero un’altra festa e io feci buon viso a cattivo gioco, troppo occupato a pensare alla pallavolo per rendermi conto di quanto facesse schifo la gente di cui mi ero circondato. In tutto questo, io e Ushijima eravamo ancora platonicamente fidanzati. Pazzesco, eh? Era arrivato settembre e l’unico bacio che ci eravamo scambiati era stato due anni e mezzo prima. Io stesso evitavo ogni contatto fisico, mi faceva alquanto schifo l’idea che lui si appropriasse di nuovo delle mie labbra, ma era Ushijima stesso che non aveva bisogno di me. O forse, del mio corpo, perché io e lui eravamo praticamente sempre insieme e alle volte ci fermavamo a dormire a casa dell’altro, magari la sera prima di una partita importante. Non ricordo da chi fosse partita l’idea, sul serio, ma lui non mi toccò mai. Neanche per sbaglio.

Quindi, ricapitolando, il torneo autunnale era alle porte e io non ero pronto a partecipare al mio penultimo torneo. Come sempre, però, il tempo se ne fotte delle mie esigenze, e come per magia mi ritrovai in mezzo ad una campo di pallavolo prima che avessi il tempo di protestare.
Vincemmo la prima partita, la seconda, e alla terza credevamo che avremmo tutti gli scontri, approdando alle nazionali perfino prima del torneo primaverile. Il nostro terzo incontro era con il Karasuno, una squdra mai sentita prima. Davo già la vittoria per scontata.

*

Quella mattina arrivammo in perfetto orario, come sempre, e come sempre ci preparammo per giocare al meglio delle nostre forze. Certo, era vero che ormai sottovalutavo l'avversario, ma ciò non significava non giocare al massimo delle mie capacità. Dovevo ancora dimostrare ad Ushijima che ero io, io e solo io il miglior alzatore della prefettura. Quando raggiungemmo il campo di gioco, mi tornò in mente l'immagine di Tobio, il piccolo kohai che non era stato ammesso nel mio liceo. Non l'avevamo ancora incontrato in nessuna squadra sconfitta fino a quel momento, inoltre, avevo un bruttissimo presentimento al riguardo. Non è che sentissi un qualche complesso d'inferiorità nei suoi confronti- assolutamente no, cosa vai a pensare, Iwa-chan. Avevo paura, questo sì. Paura che Ushijima potesse farmi male un'altra volta, nonostante per tre anni avessi cercato di non illudermi. Avevo accettato la mia dipendenza dall'asso, questo mi sembrava un pegno sufficiente per non soffrire più. Appena si presentò l'altra squadra, il mio brutto presentimento si avverò.

Tobio era dall'altra parte del campo, dall'altra parte della rete, e non mi aveva ancora notato, stava palleggiando in coppia con un ragazzo molto basso. Ushijima lo intercettò subito, invece, e fu velocissimo a riconoscere in quel ragazzo il bambino di tre anni prima. Era cresciuto, il piccolo Tobio. Ormai raggiungeva benissimo il metro e ottanta, e con i suoi capelli corvini e quegli occhi color del mare spiccava perfino in una squadra strana come quella del Karasuno. I suoi movimenti erano più fluidi, più tranquilli, meno dispotici. Passai tutto il riscaldamento ad osservare quel ragazzo sbocciato in appena tre anni. Lui però non mi notava, era come preso totalmente dal suo compagno. Quel nanetto dalla capigliatura impossibile era solo il primo degli strambi, in quella squadra: c'era il gigante biondo, il teppista dai capelli lunghi ed il teppista rasato, il nano iperattivo con la maglia da libero e due tizi che sembravano una madre e un padre fin troppo indaffarati. Poi un tipo alquanto autistico, un ragazzetto con le lentiggini che ad intervalli stava ad urlare "Tsukki!", un allenatore biondo tinto ed un professore normalissimo e molto confuso.

C'era anche una bellissima manager che tutti i miei compagni di squadra stavano fissando, ma lasciai stare quest'ultima- preso com'ero dall'osservare il piccolo Tobio. A fine riscaldamento parve notarmi, e si inchinò con la faccia più buffa che avessi mai visto. Il nanetto accanto a lui sembrò a dir poco sconvolto dal gesto di Tobio, e finì per scoppiare a ridere, mentre l'alzatore gli bisbigliava qualcosa, urlando a tratti "Hinata boke, Hinata ao*!" Al che il piccolo gamberetto si girò confuso verso di me, mentre Ushijima guardava la scena con un pizzico di ritrovata curiosità. Hinata, così doveva chiamarsi il nano, urlò dal nulla qualcosa come "Ma quindi lui è il Grande Re! UOOO! GWAAAH! VOGLIO BATTERLO!" ricevendo un pugno ben assestato da Tobio-chan. La scena era così comica, così intima che provai invidia. Invidia per quei due ragazzi, che sembravano così affiatati, così uniti. Mi immaginai il piccolo Hinata a schiacciare, poi scossi la testa. No, quei due non erano come me e Ushijima. Non potevano essere come me e Ushijima: Hinata era troppo basso per schiacciare, troppo spensierato per essere l'asso. Probabilmente era l'alzatore di riserva, pensai, mentre la comicità della scenetta appena conclusa si dileguava, facendo spazio all'ansia da prestazione che così poche volte mi aveva raggiunto. Il soprannome di Hinata mi risuonava nelle orecchie come una nenia demoniaca, aggiungendosi alle altre voci che proprio in quel momento avevano deciso di iniziare a parlare.

"Grande Re! Grande Re! Tooru, Tooru! Oikawa, sii mio. Tooru, sei il migliore! Il miglior alzatore della prefettura. Nessuno è come lui" Nel bel mezzo della mia pazzia, speravo che Tobio venisse messo in panchina, per fare posto al suo povero senpai, alzatore mediocre. Mediocre come erano tutti gli alzatori messi a suo confronto. Inoltre, ricordavo benissimo il suo egoismo, la sua mania nel giocare da solo. Un re solitario che nessuno avrebbe seguito. E invece Tobio partì titolare, insieme al piccolo Hinata, che giocava nella posizione del centrale. Credevo che, se in quella partita Tobio si fosse sbarazzato del suo egoismo, io sarei sprofondato nell'abisso della disperazione per ragioni puramente psicologiche e mie, solo mie. E invece a portarmi sul fondo fu proprio Ushijima. Io ero il miglior alzatore della prefettura perché riuscivo a tirare fuori il meglio della mia squadra. Non ero un genio, né un talento, ma solamente un ragazzo che si era impegnato oltre le proprie forza fisiche per riuscire ad essere degno del suo asso. Ushijima invece non si era mai impegnato come me.

Era alto, forte, ed aveva una tecnica che io non sarei mai riuscito ad ottenere. Lui voleva solo un alzatore che non deludesse le sue altissime aspettative, e mi aveva designato personalmente per questo ruolo. Forse non mi aveva capito affatto. Forse, come io non ho mai capito lui, lui non ha mai capito me: io desideravo dei complimenti, e non delle lusinghe blande, per quelle bastava l'opinione pubblica. Io volevo qualcuno al mio fianco che non cercasse sempre il meglio da me, o almeno, non lo cercasse nella maniera in cui lo cercava lui. Freddo, distaccato, crudele e a tratti sadico. Quando, per la prima volta, faticammo per vincere il primo set, Ushijima mi guardò diversamente. Mi accorsi che no, questa volta non mi guardava diversamente per Tobio, ma per me, perché io non riuscivo ad alzargli le palle perfette, perché vedendo la veloce di Tobio e Hinata- una veloce incredibile, ai confini dell'umano- si era accorto che io non avrei mai saputa palleggiare così. Si accorse finalmente che nonostante tutto io non ero un genio.

Nel secondo set, per la prima volta mi urlò contro. "Oikawa, puoi fare di più" mi disse, le parole che gli scivolavano strette tra i denti, mentre i nostri compagni di squadra trattenevano il respiro e mi guardavano spaventati. Reon, Satori, perfino Eita in panchina mi osservavano con uno sguardo che trasudava pena.
Pena. Commiserazione. Ero davvero così patetico? Mi ero illuso di essere forte perché dipendevo da qualcuno più forte di me. Mi ero costruito una maschera di ferro senza sapere che il ferro può essere sciolto dal fuoco. Parlando per metafore, il fuoco era Ushijima. E Ushijima mi stava bruciando, lentamente e inesorabilmente, dentro e fuori il campo, fino a ridurmi a quello. Un giocatore un po' deboluccio che dipendeva dal suo asso, privo di qualsiasi volontà e forza. Ero diventato davvero bravo a crearmi maschere su maschere per nascondere i miei sentimenti, così, semplicemente ignorai le lacrime che volevano uscire fuori prepotentemente nel bel mezzo della partita, e mi intestardii a sorridere. Mi sentivo stanco, esausto, ma cercai di coprire tutto il campo, di non far cadere neanche una palla, di alzare le palle perfette per ognuno. In un primo momento, notai solo che la mia vista stava davvero peggiorando, e che le mie braccia erano più pesanti del solito. Ma più guardavo la faccia sprezzante di Ushijima più mi convincevo a continuare a giocare, negavo il mio malessere con una naturalezza quasi inquietante. Poi arrivò l'ennesimo turno di Tobio in battuta. Il piccolo Tobio batteva proprio come me: certo, la sua tecnica non era lontanamente potente come la mia, ma era forte. Tobio era forte. Tobio era un talento. Ushijima era un talento. Io no.

Riuscì a battere su Reon, che mandò la palla in aria, ma con una traiettoria totalmente sbagliata. Prima che il mio cervello potesse protestare, le mie gambe si mossero istintivamente verso il pallone, che era volato vicino al muro dei tifosi. Mi allungai il possibile per raggiungere il percorso della palla, e proprio nel momento in cui la raggiunsi, andai a sbattere contro la parete. Mi accorsi solo dopo di essere inciampato nelle panchine mentre correvo, e mi ritrovai vicino al muro con il ginocchio in un'angolazione completamente sbagliata. Era storto. Non era normale. Era tutto così sbagliato.
Il dolore venne dopo. Poi svenni.
*
Ehm, in teoria, potrei anche fermarmi qui. Dopotutto, credo tu abbia già intuito il seguito. Ma te lo racconto lo stesso. Dopo quella partita, il mio ginocchio destro riportò gravi lesioni. Rottura del menisco mediale. Mi dovettero operare, e mi vietarono di giocare per due anni. Anche se avessi voluto ricominciare con la pallavolo, non ci sarei riuscito: camminavo a stento. Capii che la mia carriera pallavolistica era praticamente finita. Anche riprendendo a giocare, nessuna università mi avrebbe dato una borsa di studio se non potevano vedermi sul campo. Tutti i miei allenamenti, tutti i miei sacrifici, tutte le mie vittorie, avevo fatto tutto per niente. Mi ero allenato così tanto per essere all'altezza di Ushijima e avevo finito per distruggermi. I miei compagni di squadra vennero a trovarmi, dopo l'operazione. Mi fecero sapere che Eita aveva preso il mio posto in partita dopo la mia caduta, e che erano arrivati in nazionale. Avevano perso in semifinale, ma erano comunque contenti dei risultati. Ushijima non venne mai a trovarmi nel periodo successivo all'operazione. Dopo che fui dimesso dall'ospedale, feci sapere al mio coach che, volente o nolente, non potevo continuare a giocare.

Lui sembrò realmente dispiaciuto, ma alla fine accettò la mia assenza come imprescindibile e incominciò ad allenare Eita come titolare per il torneo primaverile. Non riuscii ad essere felice per lui. Veramente, non riuscii ad essere più felice, punto e basta. Sono passati più di quattro mesi, e non riesco ancora a saltare a rete senza provare dolore, e non parlo solo di dolore fisico. Non vedo Ushijima da allora, nè ci siamo sentiti per mail. Forse lui la considera una forma di rispetto, un po' come per i caduti in guerra con onore. Io evito lui e lui evita me, tutto quello che siamo stati -o non siamo stati- è finito con la mia carriera pallavolistica. In fondo sapevo benissimo che il solo interesse che aveva Ushijima nei miei confronti si limitava all'ambito pallavolistico, eppure, ancora non riesco a sopportare l'idea di non essere mai stato per lui niente più che un oggetto. Era stata l'unica persona che avevo veramente sentito vicina in tutta la mia vita. L'unica persona che conosceva una parte delle mie paure. L'unica persona che non voleva compiacermi, l'unica che non aveva paura di me.

Girano voci, nel mio liceo, che vedono Ushijima impegnato in una nuova relazione con Eita, l'alzatore che mi ha rimpiazzato. Non mi importa nulla di quest'ultima notizia, sorprendentemente. Eita mi fa solo molta pena, quasi quanta io ne faccio a lui.
Qualche settimana dopo la partita, mi arrivò uno strano invito su Facebook da parte di un café che avrebbe aperto a breve nella nostra prefettura. L'idea di aprire un bar dove avrebbero potuto partecipare tutti i giocatori di pallavolo era stata dell'ex allenatore del Karasuno, Ukai senior, e il vicecapitano del Karasuno aveva avuto la brillante idea di invitarmi a far parte dello staff. Pensai che tutta la squadra aveva avuto pena di me, forse i giocatori si erano persino sentiti in colpa. Non mi chiesi neanche come fossero riusciti a rintracciarmi su Facebook, accettai e basta. Dopotutto, non avevo niente da fare.
Così, ecco la storia di come Tooru Oikawa è entrato a far parte dello staff del KaraCo. Non so che guadagno tu possa ricavare dal mio passato, Iwa-chan, perché io stesso non so che insegnamento trarne. Ho imparato, forse, solo una cosa, e devo ringraziare Ushijima per questo. Per quanto una persona si possa sforzare, non può rendere qualcuno ciò che non è.



*Boke, ao: insulti che in giappone vogliono significare 'stupido, idiota'


Eccoci qui. Scusate eventuali errori di battitura e incongruenze con i font, ma come vi ho già detto è solo colpa del mio computer. Spero che questo capitolo vi abbia soddisfatto, perchè d'ora in poi riprenderò il punto di vista di Iwa-chan, e sarà lui stesso a prendere in mano l'iniziativa! Su, incoraggiatelo, che è timido 

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Capitolo 6
*** Certe volte sento come se mi mancasse un pezzo della mia vita ***


Certe volte sento come se mi mancasse un pezzo della mia vita

 
I feel like I'm always searching for something, for someone.
-Your name



 
Hajime non si accorse di star trattenendo il fiato finché non ebbe l’urgenza di ricominciare a respirare. Tutti quei misteri che erano Oikawa, che lo formavano e che lo tormentavano – i sorrisi, il volto, i gesti – erano stati improvvisamente risolti, come fossero fili intrecciati tra loro in un gomitolo fittissimo. I pezzi del puzzle si erano incastrati per formare una storia ed Iwaizumi voleva scoppiare a piangere.
La sua perfezione, i suoi atteggiamenti, il suo dolore, le sue scuse – perché Oikawa trovava una scusa per tutti i suoi difetti, schermandosi dietro ad un velo di bugie a cui non credeva più neanche lui stesso. O forse, non ci aveva mai creduto. Ma Tooru puntava ad essere il migliore, e non poteva – non voleva togliersi quella sottile maschera che si portava dietro con tanto orgoglio e disperazione. Aveva deformato la sua intera personalità in modo da assecondare gli altri, e di conseguenza il suo immenso ego.
L’unica cosa che Iwaizumi poté fare fu tirare un bel pugno in testa al ragazzo che era raggomitolato vicino al muro in posizione fetale, il suo solito sorriso arrogante a contrastare le lacrime che scendevano copiose sul bel volto. Dopotutto, pensò Hajime, lui non conosceva altri metodi per consolare le persone.
 
“Rude! Rude, Iwa-chan, perché?!” uggiolò ferito l’ex alzatore, che nel frattempo aveva ricostruito la sua persona e ostentava uno sguardo fiero e per niente ferito. Si stava comportando proprio come se non fosse successo nulla, come se non avesse raccontato la sua vita proprio ad Hajime, il ragazzo più banale e noioso sulla faccia della terra. Si comportava come se non avesse ammesso di aver baciato quel ragazzo, Ushijima, di essere stato con lui e di aver sofferto anche per causa sua. Si ritrovò improvvisamente a pensare a quel prodigio della pallavolo, colui che aveva tanto interessato Tooru, il ragazzo che gli appariva complicato anche più di Oikawa. Con un sussulto si accorse che Ushijima era il tipo di persona che lui non avrebbe mai potuto essere: calmo, riflessivo, un talento, interessante, risoluto. Provò un misto di rispetto ed invidia per quell’essere così perfetto e, per la prima volta in vita sua, provò il desiderio di nascondersi da qualche parte e piangere, piangere, piangere, finché le sue lacrime non avessero avuto un senso. Da quando aveva conosciuto Oikawa la sua vita era stata piena di prime volte.
 
Oikawa. Si voltò di scatto verso la persona che, piano piano, si era rialzata da terra e ora stava di fronte a lui, cercando di asciugarsi le ultime lacrime sul volto. Con un’iniziativa che stupì lui stesso, Hajime tese una mano verso il viso di Tooru, tentando di stropicciare gli occhi al compagno con un gesto maldestro. Anche Tooru parve abbastanza sorpreso, perché i suoi lineamenti si aprirono in un’espressione di stupore e incredulità, una delle poche reazione vere che Hajime avesse mai visto in lui. Iwaizumi fu intenerito da quel viso bellissimo: non bello nel senso di attraente, perché Tooru era attraente di suo, ma bello come un viso che dopo il pianto riesce ad apparire luminoso. Forte. Fu solo un attimo, però, ed Iwaizumi ritrasse la mano rapidamente così come l’aveva tesa, rimproverandosi mentalmente. Diede le spalle ad Oikawa e si incamminò verso la porta, sentendo lo sguardo del ragazzo sulla sua schiena. Prima di uscire, si bloccò sull’uscio, incerto su cosa dire.
 
“Oikawa, io penso che tu abbia ragione. Non puoi cambiare una persona e trasformarla a tuo piacimento, semplicemente non è possibile” Hajime sentì Tooru trattenere il fiato, “ma penso anche che le persone creino dei legami, si affezionino alle altre proprio perché queste non cambieranno mai. Che te ne fai dell’amicizia di una persona che non ti accetta per come sei? Alla fin fine, sono le stesse persone che cambiano per gli altri, per vendetta, per amicizia o… per amore. Quindi, tu sei tu. Sei Oikawa. Non dovresti cambiare in base a ciò che vogliono gli altri, ma in base a ciò che vuoi tu.”
Il silenzio aleggiò nell’aria per qualche istante. ‘Forse ho parlato troppo’, pensò Hajime, e fece per andarsene, quando un sussurro lo immobilizzò sul posto.
“Tu… non sei per niente banale. Non lo sei.”
Hajime si decise ad uscire da quella stanzetta che tutto ad un tratto si era fatta troppo stretta per lui. Senza aggiungere altro, si ritrovò a correre per i corridoi del KaraCo come se stesse scappando da un mostro.

 


Non vide Oikawa fino a che la sua squadra non venne eliminata al torneo. Per la prima volta in tre anni, Hajime vide l’Aoba Johsai, la sua Aoba Johsai, arrivare al secondo giorno, e perdere ai quarti di finale. Non riuscirono a superare il muro del Dateko, nonostante fossero ben motivati e con l’umore alle stelle. Hajime credeva anche di sapere il perché: mentre giocava, vedeva Oikawa dappertutto. Lo vedeva in un’alzata perfetta, in una battuta micidiale, in un sorriso sfrontato dell’avversario e nel sudore che inondava Iwaizumi quando schiacciava con tutta la sua forza e faceva punto. Diagonale, parallela, pallonetto, appoggio, battuta, difesa, ricezione: Hajime si era sentito importante per la sua squadra, forse per la prima volta in vita sua, e si era sentito un capitano degno di questo nome.
 
 Quando il terzo set finì 25-23 per il Dateko, e Iwaizumi alzò la testa verso gli spalti da perdente, trovò i suoi compagni di scuola ad applaudirlo, insieme a professori, anziani signori mai incontrati e vecchiette del suo quartiere. Non pianse, non ne trovò il motivo: l’unica cosa che gli venne in mente fu qualcosa come ‘Aah, vorrei che Oikawa avesse alzato per me almeno una volta’. Non si stupì nemmeno che il suo primo pensiero dopo una partita fosse Tooru: aveva imparato a convivere con la presenza costante di quest’ultimo nella sua vita e nella sua mente, ormai. Per un attimo aveva intravisto degli occhi color cioccolato e si era ritrovato a sperare con tutto il cuore che Oikawa fosse lì, a guardarlo, e a tirarlo su di morale con le sue battute squallide ed il suo ego immenso. Iwaizumi non riuscì a vedere nient’altro, perché i suoi compagni lo trascinarono negli spogliati prima che potesse riconoscere il suo alzatore preferito.
 
“Stasera si beve! Annunciò Takahiro prendendo Issei per le mani e imitando con lui due passi di samba.
“BANZAII” rispose in coro la squadra, apparentemente non abbattuta dalla sconfitta subìta. Si erano così abituati alle sconfitte che avevano dimenticato il dolce piacere della vittoria, e del divertimento che comportava giocare a pallavolo, pensò Iwaizumi. Sorrise tra sé e sé, pensando che questo spirito avrebbe fatto bene ai ragazzi del secondo e primo anno, e si ripromise che l’anno seguente sarebbe tornato a vedere qualche loro partita. Il suo sorriso venne intercettato dai suoi compagni di squadra, che ammutolirono tutto d’un colpo e rivolsero gli sguardi al loro capitano. “Dis-cor-so” mimò Takahiro con le labbra, facendo l’occhiolino ad Iwaizumi, che nel frattempo era arrossito completamente, quasi a fare il cosplay di un pomodoro. Si schiarì la voce, chiaramente in imbarazzo.
 
“Ehm… allora… prima di iniziare questo stupido discorso, volevo far sapere a tutti che sono contento di aver giocato con voi in questo mio ultimo torneo come liceale” Iwaizumi fece una piccola pausa, conscio di star dicendo solo mezza verità: in realtà, c’era anche un’altra persona con cui avrebbe voluto giocare prima di finire il liceo. “Noi, la squadra con zero speranze, i ‘sono bravi, ma non troppo’, abbiamo superato tutti i muri di fronte a noi e abbiamo dimostrato di essere molto più che un team abituato alla sconfitta. La colpa per quest’ultima sconfitta è, maggiormente, mia per non avervi fatto allenare di più,” e qui Hajime fu ricoperto di fischi da parte dei suoi compagni, “ma ora sento finalmente di potervelo dire.” Il capitano guardò uno per uno i membri della sua squadra: erano tutti sudaticci, affannati e con uno sguardo rivolto prevalentemente verso il basso, non riuscendo ad alzare gli occhi. “Lo so benissimo. So che non importa quanto tu ti sia impegnato o quanto abbia giocato bene, la sconfitta è pur sempre sconfitta. Brucia, rode, ti irrita e ti fa venire da piangere, ti provoca sensi di colpa e ti fa sentire assolutamente impotente, debole, ti fa venir voglia di smettere di giocare.” Iwaizumi poteva sentire benissimo i versi frustrati dei suoi compagni e amici, alcuni erano perfino sull’orlo delle lacrime. ‘Per quanto volessero nascondere la propria rabbia e impotenza, sono pur sempre giocatori’ pensò il capitano, sentendo quell’emozione così sgradita e familiare salirgli su per la gola. Anche lui non era immune alla sconfitta, ma ignorò i suoi pensieri e continuò a parlare.
“Nonostante questo, è la sconfitta che fa la forza di un giocatore. Senza aver fallito non si può migliorare, giusto? E sono sicuro che d’ora in poi voi migliorerete tanto, tantissimo, e farete vedere al mondo che l’Aoba Johsai è molto più di una squadra mediocre!” Iwaizumi terminò il suo discorso quasi urlando, rivolgendo un ultimo sguardo a Takahiro e ad Issei. I suoi due amici d’infanzia avevano gli occhi lucidi, e senza nessuna esitazione si inchinarono di fronte ad Hajime nel tipico saluto giapponese*.
 
“Arigatou, Captain!” esclamarono in coro, seguiti da tutti i membri del Seijo. Uno dopo l’altro, tutti i ragazzi presenti nello spogliatoio si inchinarono, alcuni tirando su con il naso, altri gridando “CAPTAINNN”, altri ancora, come Kindaichi o Yahaba, piangendo senza ritegno. Iwaizumi si sentì così meravigliato da non riuscire a dire niente per qualche secondo: non si aspettava di certo una prova di gratitudine tanto grande. E, quando riuscì finalmente a riacquisire la parola, non allontanò da sé l’attenzione con qualche frase burbera alla Hajime, né sbuffò sonoramente come era solito fare. Semplicemente, il suo volto si aprì in un sorriso grandissimo e senza nessun tipo di finzione o dissimulazione, sentendosi veramente grato per tutto. Ripensò alle sue sconfitte nel corso degli anni, alle notti insonni e alle crisi di nervi, ad Oikawa e al KaraCo e ad Ushijima e alla pallavolo e decise che tutto quello che aveva fatto fino a quel momento ne era decisamente valso la pena.
 
Quando i ragazzi alzarono finalmente gli occhi sul loro capitano, lo trovarono a piangere e sorridere allo stesso tempo, con un’espressione radiosa in viso mai vista prima d’allora. Il silenzio aleggiò nell’aria per qualche altro istante, poi scoppiò il putiferio.
Mentre Kindaichi arrossiva violentemente, e Kunimi gli dava due pacche d’incoraggiamento sulla schiena, Takahiro si portò una mano alla bocca con fare stupefatto e balbettò qualcosa come “Ooh, qui ci starebbe bene un ‘s-s-senpai’”, contemporaneamente con Issei che esclamò un “Oikawa-kun ha fatto miracoli. Aah, l’amore”. Tra crolli di nervi, frasi sconnesse e pianti isterici Iwaizumi non ebbe neanche il tempo di picchiare sonoramente Hanamaki e Matsukawa che un tornado rosso lo travolse, letteralmente.
“Shoyo? Ma cosa ci fai qui? E poi, puoi davvero entrare…?” esclamò Hajime, mentre si scrollava di dosso il piccolo uragano. Shoyo non diede segni di volersi allontanare, anzi, iniziò a parlare a macchinetta nel suo modo buffo e parecchio strano. “Iwaizumi-san, sei stato BAAAM! Fantastico! Facevi PWAAAH, ed ogni palla che toccavi era una SWAAAM, così WOOOOM, davvero davvero davvero incredibile!” mentre Shoyo parlava, tutti i giocatori del Seijo guardavano la scenetta comica con un’espressione scioccata. Nell’aria aleggiavano parecchie domande esistenziali, come ‘È davvero Iwaizumi la persona che prima sorride facendo innamorare mezza squadra e poi si fa abbracciare senza problemi dal cameriere del KaraCo?!” e “Perché Shoyo ha la divisa del Karasuno?!”
Intanto il piccolo centrale continuava a parlare. “Oh, oh, e non è tutto! Tutti i membri del bar sono venuti a vedere la tua partita, eravamo così emozionati di vederti giocare! RAGAZZI, NON FATE I TIMIDONI, IWAIZUMI-SAN STAVA ANCHE SORRIDENDO! È DI BUON UMORE!”
A quelle parole Iwaizumi perse qualche anno della sua vita. Tutti significava tutti tutti e tutti tutti significava proprio tutti…
 
I suoi pensieri volti al suicidio immediato furono interrotti da una fiumana di gente che, come in una lenta processione, entrò nello spogliatoio in fila indiana. Ad aprire la fila c’era Daichi, che, con un sorriso di scuse, prese Shoyo per la collottola della divisa e lo rimise in riga. “Iwaizumi-san, mi scuso per questo tornado ma tra più o meno mezz’ora dobbiamo giocare e Shoyo ci teneva così tanto a vedervi che non ho saputo dire di no…” presto Daichi fu affiancato da Sugawara, Asahi, Nishinoya, Tanaka, Tsukishima, Yamaguchi, Ennoshita, e perfino dai ragazzi del Nekoma e del Fukurodani. “EHI EHI EHI! Le nostre qualificazioni iniziamo dopodomani, quindi siamo venuti a fare un salto!” esclamò a gran voce Bokuto, seguito da Akaashi e Kuroo, Lev, Kenma e Yaku, così da riempire completamente una stanza abbastanza grande. Per ultimo entrò Kageyama, che si fiondò vicino a Shoyo con un “salve” borbottato a bassa voce, mentre Iwaizumi si guardava intorno in cerca dell’ultimo membro mancate. Quando non vide entrare più nessuno, tirò un sospiro, non sapendo dire se fosse di sollievo o di tristezza.
“Scusate davvero l’intromissione! Volevamo dirvi che avete giocato benissimo, davvero. Saremmo davvero molto felici se un giorno di questi potessimo giocare un’amichevole contro di voi” dichiarò Sugawara, affabile e gentile come sempre. Il suo sorriso rassicurante fece rilassare immediatamente tutti i membri del Seijo, mentre Kuroo e Bokuto esclamavano in contemporanea: “Naturalmente questa amichevole comprende anche le nostre squadre, oh oh oh”. Una sonora risata si diffuse tra tutti i ragazzi, e Iwaizumi sorrise di nuovo. “Se continuo così, mi verranno le rughe per i troppi sorrisi” pensò distrattamente Hajime, mentre batteva le mani per richiamare all’ordine i ragazzi. Tanto valeva comportarsi da capitano fino all’ultimo, pensò.
“Grazie, Suga-san, Daichi, Shoyo, e tutti quelli che sono venuti oggi. Ehm, vediamo, prima Takahiro aveva proposto una bevuta stasera per festeggiare la nostra sconfitta, e visto che siete qui ed ogni giorno i miei ragazzi vengono a darvi fastidio al bar, che ne dite di venire con noi?” Iwaizumi sorrise cordialmente a tutti i presenti, sentendo la bocca quasi staccarsi per quell’espressione inusuale, mentre partiva un caloroso applauso come approvazione alla sua idea. Il capitano stava giusto per informare gli altri sull’ora dell’appuntamento, quando una voce estremamente familiare e irritante mandò in corto circuito il suo cervello e lo privò del dono della parola.
 
“Bevuta? Stasera? E aspettami per le uscite in grande stile, Iwa-chaaaan. Non vorrai liberarti di me?” Oikawa entrò nello spogliatoio in un silenzio quasi tombale, incatenando subito i suoi occhi a quelli di un Iwaizumi alquanto confuso e frastornato. Per alcuni secondi si sentirono solo le cicale frinire e gli uccellini cantare, poi Shoyo ruppe il silenzio con la sua parlantina veloce.
“Grande Re, Grande Re, dov’eri finito?” chiese il rosso, mimando una ‘O’ con le labbra. Tutti si irrigidirono all’istante, tutti tranne Oikawa e Iwaizumi – che al momento era impegnato a ricordarsi il suo nome-. Poi, d’un tratto, Hajime vide Oikawa sorridere, un sorriso se non vero, quantomeno reale. “Stavo salutando i miei vecchi compagni di squadra. E ora, vogliamo continuare il nostro discorso sulla bevuta? Tra poco i corvetti dovranno giocare.”
Iwaizumi non capì se, con quella frase, Oikawa volesse mettere una pietra sul suo passato oppure perdonarsi, ma sentì di essere improvvisamente felice. Per lui, per Tooru, per il Karasuno, che presto avrebbe vinto le finali e sarebbe arrivato alle nazionali, per i suoi compagni di squadra e per i suoi kohai, che l’anno successivo avrebbero avuto magari una maggiore affluenza di iscritti al club. Si sentì così felice che, stupendo perfino se stesso, si avvicinò ad Oikawa e scoppiò a ridere, cingendo le spalle del ragazzo più alto con un braccio e strattonandolo tutto. Aveva sempre odiato il contatto fisico con chiunque, specialmente se si trattava di Oikawa, e questo il barista lo sapeva bene. Per una volta, fu Tooru a rimanere senza parole, mentre Iwaizumi continuava a ridere come se niente e nessuno potesse portargli via tutta quella felicità.
“Benissimo! Allora ci vediamo tutti alle 10 davanti questa palestra, e prenotiamo per il locale qui vicino, quello dietro l’angolo. Va bene per tutti?” gli altri ragazzi, superato lo shock per l’allegria di Hajime, annuirono vigorosamente, facendosi trasportare dall’euforia del capitano.
 
Quando i ragazzi del Karasuno ebbero raggiunto il campo da gioco, liberando finalmente lo spogliatoio, Iwaizumi tirò un sospiro di sollievo, buttandosi di peso su una delle panche disponibili. I suoi kohai si erano fiondati nelle docce, impazienti di vedere il Karasuno giocare e di prepararsi per la serata. Nella stanza principale erano rimasti solo Hajime, Takahiro, Issei e Oikawa, che stava giusto andando a sedersi sugli spalti per vedere i suoi colleghi giocare. Si alzò dalla panca in un gesto teatrale, stiracchiandosi a dovere, e lanciò un’occhiata di traverso al ragazzo seduto affianco a lui. “Ci si vede stasera, Iwa-chan” Oikawa si diresse verso la porta, magari aspettandosi un’altra sorpresa da parte di Iwaizumi. Quest’ultimo, però, aveva esaurito sia iniziativa che assenza di pudore, e rimase come bloccato sulla sua panca. “Oikawa!” riuscì a sillabare, proprio quando Tooru stava uscendo dalla stanza. “G-g-grashie” borbottò infine, sentendosi un completo idiota e maledicendo tutta la sua sfrontatezza di qualche minuto prima, che si era come volatilizzata nel nulla. Il suo goffo tentativo di scuse, però, fece ridere gli occhi di Oikawa, che si illuminarono di colpo. Il ragazzo annuì con la testa, e uscì dalla stanza canticchiando qualcosa come ‘I used to rule the worlddo…’
In quel momento, Iwaizumi decise. Niente più maschere, niente più finzioni, e se questo avesse comportato prendere piena coscienza dei suoi sentimenti, bè, Hajime non si sarebbe tirato indietro. Almeno, così si ripeteva.
Perciò, quando sentì Hanamaki fare la sua solita battutina velata “E prendetevi una stanza…” non rispose. Restò immobile, con la testa rivolta verso il soffitto e gli occhi socchiusi, quasi a smaltire i residui di stanchezza degli ultimi giorni. Issei lo guardò attentamente per qualche secondo, poi, con serietà, disse solo: “L’amore fa miracoli.”
Iwaizumi non ribatté neanche questa volta.
 
*
Naturalmente, il Karasuno vinse la partita. Il giorno dopo la squadra dei corvi si sarebbe scontrata contro il DateKo, e Hajime sarebbe stato lì, sugli spalti, a tifare e urlare per Shoyo, Tobio e per gli altri membri del KaraCo. Prima della partita, però, ci sarebbe stato un altro piccolo ostacolo da superare: quella sera.
Passò metà del pomeriggio a spulciare il suo intero armadio per trovare qualcosa da mettere, e l’altra metà a decidere cosa potesse andare bene per una serata tra amici. “Amici, compagni di squadra, altri amici e persone moleste” aggiunse tra sé e sé, cambiandosi d’abito per l’ennesima volta. Aveva provato praticamente tutti i suoi vestiti a disposizione, e nel frattempo l’ora dell’appuntamento si avvicinava come una condanna a morte. Era tutto, tutto, tutto inutile: Iwaizumi non aveva mai amato spendere del tempo per vestirsi decentemente e non aveva mai creduto che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe sentito la necessità di farlo. Hajime si sentiva umiliato, terribilmente umiliato e arrabbiato mentre scartava maglie su maglie davanti allo specchio della sua camera, proprio come una ragazzina al suo primo appuntamento.
Dov’è finita tutta la mia determinazione? Si chiese Hajime, scagliando l’ennesima povera camicia sul suo letto. Sospirando, cercò di rimettere in ordine la sua stanza (ed il suo cervello) pensando e ripensando a cosa avrebbe potuto indossare per quella stramaledetta serata.
E quando ormai tutte le sue speranze erano state schiacciate dalla disperazione e dal pessimismo, li trovò. Anzi, furono loro a trovare lui.
“Andrà bene così?” si domandò, mentre uno strano pensiero si faceva spazio nella sua mente. Arrossì violentemente, sperando che anni di pallavolo e sopportazione lo aiutassero in quell’impresa.
Ce la farò sicuramente, pensò.
Forse. Probabilmente. Speriamo.
 
*
 
Era talmente nervoso che si presentò venti minuti prima dell’appuntamento, arrivando nel luogo prestabilito senza rendersi conto del netto anticipo. Rimase così, vicino ad un palo della luce, per un tempo che gli sembrò infinito, pensando e ripensando ai suoi piani per la serata. Si era perfino scritto una scaletta, a casa, per evitare che l’ansia gli facesse dimenticare qualche particolare fondamentale per la vittoria, e alla fine aveva lasciato quello stesso foglietto sulla sua scrivania. Aveva dato la maggior parte della colpa al suo abbigliamento assolutamente scomodo che lo stava torturando da un po’, come se non bastasse la prospettiva disastrosa della serata nel caso in cui Iwaizumi avesse sbagliato qualcosa.
Hajime era sempre stato un tipo ansioso, ma non si era mai sentito così indifeso e soggetto alle paranoie. Si era maledetto mentalmente per la sua sbadataggine, ed aveva iniziato a recitare l’incriminata scaletta a mente, come una preghiera ad un qualche dio benevolo.
 
‘Punto uno: non.devi.assolutamente.bere. Hajime Iwaizumi, sai di non reggere bene l’alcool e se ti lasci abbindolare da un sake* tutti i tuoi sforzi andranno perduti per niente! Punto due: non farti prendere dall’ansia, o dal panico. Parla lentamente e scandisci le parole, così da non dover ripetere le frasi imbarazzanti due volte. Punto tre: non ti lasciare sfuggire niente di inappropriato o troppo personale, o sconvolgente, altrimenti Crappykawa lo userà contro di te. Ci scommetto i suoi poster su Star Wars.’
Finito il suo soliloquio, vide delle figure spuntare dall’ombra e avvicinarsi lentamente alla palestra: Hajime si staccò dal palo della luce, ormai suo compagno fidato, e fece un sospiro di sollievo quando riconobbe Shoyo, Tobio e il resto del Karasuno. Sorrise, ringraziando per il tempismo del gamberetto e della squadra dei miracoli, mentre un po’ delle sue preoccupazioni svanivano davanti all’espressione allegra di Shoyo.
“Iwaizumi-saaan!” gridò quest’ultimo, ricevendo un pugno ben assestato da Kageyama. Iwaizumi scoppiò a ridere, seguito a ruota dai membri del Karasuno – tutti, eccetto Kei. Kei stava immobile vicino a Yamaguchi, e sospirava sonoramente, mentre Tadashi lo guardava come un cieco guarda per la prima volta il tramonto. Iwaizumi si ritrovò a sorridere senza volerlo, facendo segretamente il tifo per quel ragazzo timido e così riservato, chiedendosi se anche lui un giorno avrebbe avuto qualcuno che lo guardasse così.
 
A distoglierlo dai suoi pensieri furono i fischi di Takahiro e Issei, che nel frattempo erano spuntati alle spalle del povero Hajime. Gli saltarono addosso come se fosse un avversario di box da mandare al tappeto, ma Iwaizumi riuscì a tenerli entrambi prima che il trio crollasse dolorosamente a terra.
“Idioti! Cos…” il capitano non fece neanche in tempo a finire la frase, che i due suoi amici d’infanzia iniziarono a dare voce ai loro pensieri.
“Haajime! Come mai tutto ad un tratto ti vesti bene?” cinguettò Takahiro. “Stai m-e-r-a-v-i-g-l-i-o-s-a-m-e-n-t-e! Sembri un modello di una rivista! Guarda quei muscoli messi in risalto dalla camicia!” aggiunse Issei.
A loro, si unirono i cori insistenti dei suoi compagni di squadra e quelli del Karasuno, che a quanto pare avevano trovato un argomento abbastanza interessante da trattare.
“Hanno ragione! Iwaizumi-san, stai benissimo così! Sembri perfino più alto, tipo qualcosa come UAAAA!”
“I-i-i-waizumi-senpai! S-s-stai benissimo!”
“Ohi, Iwaizumi, per chi ti sei messo così stasera, eh?”
“OOOH, RYUU! Hai ragione! Iwaizumi-san. C’è qualche ragione dietro al tuo cambiamento improvviso?”
“Hajiimee, fammi toccare i muscoli!”
“Iwaizumi, facciamo una gara a braccio di ferro!”
“Iwaizumi-senpai, ma tu non odiavi i pantaloni stretti? Se non sbaglio, avevi anche detto di detestare quelli color beige…”
“FINITELA TUTTI, GRAZIE!” sbottò il diretto interessato, vedendo che anche il Nekoma ed il Fukurodani si erano aggiunti alla battaglia per commentare il suo abbigliamento. Si mise una mano sulla faccia, sospirando. ‘Lo sapevo’, pensò, ‘lo sapevo che vestirmi così sarebbe stato un enorme, scocciante casino! Non sono a mio agio e, dopotutto, sembro stran-’ fece appena in tempo ad alzare lo sguardo, tra tutte le risate contagiose degli altri ragazzi, per vedere un paio di bellissimi occhi castani che lo stavano fissando. Ebbe l’impressione di arrossire fino alla punta delle orecchie, fino a qualunque parte del corpo che potesse arrossire. Distolse lo sguardo, concentrandosi sulla risata di Shoyo e sul sorrisino soddisfatto che pareva avere Kageyama mentre fissava il piccolo centrale. Ad Hajime tornò il sorriso, mentre pensava alle piccole cotte dei giocatori del Karasuno. Sperò con tutto il suo cuore che Tobio potesse, un giorno, trasmettere i suoi sentimenti al piccolo Shoyo, rendendosi conto in un secondo momento che anche lui doveva trasmettere qualcosa a qualcuno. Alzò di nuovo lo sguardo, in cerca del suo bersaglio, non accorgendosi del fatto che da predatore era diventato preda.
Si rese conto della brutta situazione in cui si era andato a cacciare solo quando un paio di braccia forti e muscolose, ma allo stesso tempo lunghe e flessuose, lo abbracciarono da dietro, bloccando ogni suo possibile movimento.
E bloccando anche il movimento del suo cuore.
 
“Iiiwa-chan! Cos’è questo cambiamento improvviso? Ah, ma ti sta davvero bene! Dico sul serio, non capisco perché non hai mai messo in mostra tutto questo ben di dio…” Oikawa fece scivolare pericolosamente le mani lungo i pettorali di Hajime, provocando al capitano un qualche migliaio di brividi e due infarti.
“Shittykawa, toccami ancora e ti cambio i connotati di cui vai tanto fiero” Iwaizumi si irrigidì, maledicendo le sue maniere rudi e il suo tilt al sistema nervoso. Ma probabilmente Oikawa non si aspettava nessun cambiamento significativo nelle sue maniere, o lo preferiva così com’era, perché scoppiò a ridere melodrammaticamente.
“Va bene, va bene, ragazzi! Iniziamo ad avviarci per raggiungere il locale!” gridò Daichi, sovrastando le altre voci che si zittirono all’istante. Soddisfatto del suo operato, Sawamura si incamminò verso il locale dove erano diretti, un po’ più a sud della palestra,  poco prima della casa di Oikawa.
Iwaizumi fece per muoversi, ma venne bloccato preventivamente dal sopracitato Tooru, che si attaccò al suo fianco, sovrastandolo dai suoi 185 centimentri.
E mentre tutte le squadre si allontanavano, lasciando i due indietro, vide distrattamente Takahiro fargli un occhiolino. Dopo l’accettazione dei suoi sentimenti ed emozioni, o, come la chiamava Hajime, ‘la dura e incredibile ma sopportabile verità’ ogni tocco di Oikawa, ogni sua parola, ogni suo gesto era una stilettata al cuore.
Tooru, da rispettabile esper, si strinse un po’ di più al fianco di Hajime, ridacchiando sonoramente.
Iwaizumi rabbrividì.
 
*
Oikawa Tooru era quel tipo di persona scaltra che otteneva sempre tutto ciò che si prefissava. Nonostante la sua vita non fosse stata delle più facili, aveva sempre avuto qualche obbiettivo che l’aveva fatto andare avanti, e avanti, e ancora avanti, fino al raggiungimento di tutti i suoi desideri. Certo, il suo corpo aveva pagato le spese della sua testardaggine, ma Oikawa si poteva definire soddisfatto della sua tenacia. Oltre alla tenacia, era stato dotato di un viso fantastico, un corpo atletico e un carattere affascinante, e per tutti questi motivi Oikawa aveva imparato a non mollare mai la presa sui suoi obbiettivi. Si era sempre immaginato come un predatore che si avventa voracemente sulla preda, ed escluso Ushijima, le sue prende erano sempre cadute ai suoi piedi.
 
Poi era arrivato Hajime e aveva trovato un avversario peggiore perfino di Ushijima: Hajime era testardo, sempre arrabbiato, e inconsapevole di quanto fosse bello. La bellezza di Hajime era qualcosa di completamente opposto a quella di Tooru: se Oikawa aveva quella bellezza eterea e ammaliante di un fiore velenoso, Hajime era una quercia maestosa che vinceva su tutto, su tutti, anche sull’immensità del cielo. Oikawa vedeva gli sguardi che le ragazze rivolgevano al suo Iwa-chan, e vedeva anche quelli dei ragazzi, e non capiva perché fosse così interessato alle attenzioni che la gente rivolgeva a qualcuno che non fosse lui medesimo. O perché giorno dopo giorno, aveva scoperto di non poter fare più a meno della presenza di Iwaizumi: al bar, dopo il suo turno, mentre facevano la strada insieme, ormai ruotava tutto intorno alla presenza di Iwa-chan. Non aveva mai avuto una relazione così importante con nessuno, tranne che… con Ushijima. E quando aveva realizzato cosa significasse tutto quello per lui, aveva avuto paura: una paura irrazionale e terribile, un enorme dejà-vù che l’aveva completamente annichilito. Poi, dopo la crisi, aveva capito che il suo rapporto con Iwa-chan era completamente diverso da quello con Ushijima: quando era con Iwaizumi, aveva come l’impressione di ritrovare un tassello mancante della sua esistenza, una persona che, in una vita parallela, gli sarebbe stato affianco in tutto e per tutti, fino alla fine dei giorni.
 
Il suo Iwaizumi era, però, praticamente impossibile da conquistare, ammaliare o accattivare: perciò, era diventato la preda di Oikawa. E quando aveva saputo della serata al ristorante, Tooru aveva gioito come mai prima d’ora: era la sua occasione perfetta per far cadere finalmente Iwa-chan ai suoi piedi.
O almeno, così pensava prima di vedere Iwaizumi in camicia sportiva e pantaloni stretti.
“Oikawa, e mollami” inveì per l’ennesima volta la sua malcapitata preda, cercando chiaramente di nascondere l’imbarazzo. Oikawa ridacchiò, pensando a quanto fosse carino Hajime quando fingeva di essere arrabbiato per nasconderel’imbarazzo.
“Rude, Iwa-chan! Ti ho sempre toccato così e non mi hai mai detto niente!” Oikawa schivò per un soffio il poderoso pugno di Hajime, diretto alla sua testa. Si girò intorno, capendo il perché del nervosismo del ragazzo: gli altri ragazzi erano andati avanti in cerca del ristorante, lasciando loro indietro e, soprattutto, soli. Sorrise, grato agli artefici di quella buona azione, sicuro che dietro il piccolo aiuto ci fossero Hanamaki e Matsukawa. Lui, in ogni caso, sapeva l’ubicazione del ristorante – dopotutto, era situato vicino casa sua- e nessuno si sarebbe preoccupato se lui ed Iwa-chan avessero fatto solo un po’ di ritardo.
 
“Iwa-chan, mi sarebbe piaciuto vederti giocare contro il Karasuno” disse improvvisamente Oikawa. Certo, i suoi piani malefici comprendevano il capire innanzitutto cosa era quel ragazzo scontroso per lui, e poi, se necessario, avventarsi sulla sua preda. Non era da lui desiderare così fortemente qualcosa o qualcuno, ma Iwaizumi gli aveva donato tantissime prime volte: aveva raccontato di Ushijima a qualcuno per la prima volta, aveva pianto senza freni per la prima volta, era stato capito e ascoltato per la prima volta, si era sentito libero dalle catene del suo passato per la prima volta- tanto da andare a vedere i suoi ex compagni di squadra giocare e vincere, vincere, vincere.
In quel momento, però, il suo Iwa-chan aveva appena perso la sua ultima partita da liceale. Sapeva quanto potesse essere amara e devastante quel tipo di sconfitta e, per la prima volta, diede spazio ai desideri di un’altra persona invece che ai suoi.
Sentì Iwaizumi irrigidirsi al suo fianco, e si sentì un po’ in colpa. ‘Forse non avrei dovuto parlare della pallavolo subito dopo la sua ultima partita…’ pensò, ma dopo pochi secondi Iwaizumi si rilassò completamente, ed il suo viso si aprì un piccolo accenno di sorriso. Oikawa perse due o tre battiti, ma, essendo molto bravo a non lasciar trapelare le emozioni, Iwaizumi non si accorse di niente.
“Anche io avrei voluto continuare a giocare, fino a sconfiggere il Karasuno, o la squadra di Ushijima. Avrei voluto provare le stesse tue emozioni sul campo, sentire che tu avevi giocato con e contro quelle squadre, come me. Ma sono davvero, davvero felice di aver giocato con i miei compagni, oggi, credendo fino all’ultimo che avremmo potuto vincere. Credo che, prima di incontrarti, mi fossi ormai rassegnato a perdere, perdere, perdere, e che nel mio futuro ci fosse solo la sconfitta. Non so come tu abbia fatto a convincermi del contrario, ma a quanto pare ci sei riuscito. Per questo ti devo ringraziare. Ho davvero solo un rammarico, per oggi…” Oikawa deglutì, cercando di riprendere in mano la situazione. No, no, no, no, no, lui non si sarebbe trasformato da predatore a preda, di nuovo.
“Quale?” chiese semplicemente. Iwaizumi sbuffò, distogliendo lo sguardo.
“Avrei voluto schiacciare su una tua alzata almeno una volta.” Il tempo di assimilare la frase di Iwaizumi, che Oikawa si bloccò di colpo. Erano arrivati.
 
“Su, Bakakawa, è questo il posto, no?” Iwaizumi cercò con lo sguardo i suoi compagni di classe, dentro il locale. Questi gli fecero segno di entrare, mentre Oikawa stava ancora cercando di assimilare le parole dell’altro.
“Shittykawa, guarda che ti lasciamo fuori la saletta privata, eh” Iwaizumi gli sventolò una mano davanti al viso, e Oikawa trasalì di colpo. ‘Ohi, Tooru!?’ Si rimproverò mentalmente. ‘Ricordati il piano, la preda, il predatore e il piano… preda? Tooru!’
Non era assolutamente da lui confondersi e andare in tilt così. Si diede platealmente uno schiaffo in faccia – piano, però, per non rovinare il suo bellissimo viso- davanti ad un Iwaizumi alquanto sconvolto. ‘Non bastano due paroline dolci per confondere Oikawa Tooru!” si disse, e poi si sforzò di sorridere allegramente.
 
“Rude, troppo rude, Iwa-chan… sei tu quello che non si muove” e con quest’ultima palese bugia, prese Hajme per mano, entrando con nochalance dentro la saletta privata, con i fischi dei vari ragazzi in sottofondo. Prima che Iwaizumi potesse protestare, andò dritto in fondo alla tavolata, e fece sedere Hajime proprio accanto a sé. Si rese conto troppo tardi delle persone che stavano sedute vicino a loro: a destra, Tobio-chan e il piccolo uragano rosso, a sinistra, quel gattaccio di Kuroo insieme a Tsukishima, Bokuto, Kenma e Yamaguchi. Poco più in là  Mattsun sorrise sornione ad Oikawa, mentre Makki gli fece l’occhiolino.
‘Non bastano delle persone estremamente fastidiose ed intrattabili a fermare Oikawa Tooru!’ si disse di nuovo, certo che quella serata sarebbe stata più impegnativa del previsto. 

 


Non so davvero come scusarmi per, ehm, i tre mesi di ritardo. Il fatto è che in estate mi era completamente sparita l'ispirazione, (riapparsa magicamente agli inizi di ottobre) ed eccomi qui, con il sesto capitolo. Spero che vi piaccia, e spero che apprezzerete anche il piccolo pezzo in terza perona dal punto di vista di Oikawa: mi è servito soprattutto a chiarire che l'ansia di Iwaizumi corrisponde esattamente a quella del nostro Tooru, ma mi sono divertita tanto a scrivere dal suo punto di vista anche perchè, *coff coff* io e Oikawa siamo davvero agli antipodi come persone, e non so se sono riuscita a trasmettervi tutta la bellezza di questo personaggio.
In ogni caso, grazie per essere qui a leggere la mia storia, e grazie per tutte le recensioni e per i vostri apprezzamenti! Siete la ragione per cui non mi stancherò mai di scrivere di questi pulcini <3
ORA RITORNO A VEDERE LA TERZA STAGIONE DI HAIKYU E SEMI EITA, ADIOS

 

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