Whatever

di _Sarah_Hemmings_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Old bonds ***
Capitolo 2: *** 02. Signs ***
Capitolo 3: *** 03. Stop ***
Capitolo 4: *** 04. Bruises ***



Capitolo 1
*** 01. Old bonds ***


Sogniamo sempre di lasciare tutto, prendere le nostre cose e andarcene, far perdere ogni traccia di noi e ricominciare tutto dall'inizio.

Questo è quello che avevo deciso di fare io, scappare per non fare più ritorno.

Era stato facile, mio cugino viveva da qualche anno in un sobborgo alla periferia di Sydney, in un palazzo solo per studenti, credevo che fosse la scelta migliore, forse lo era stata, per il momento.

I tre edifici che si stagliavano davanti a me erano tre, disposti a formare un cortile interno con un lato aperto. Non era tenuti particolarmente bene, lo si notava dalle parti di intonaco che si scrostavano per l'umidità ma, per il prezzo offerto dai proprietari, andava più che bene.

Entrando nell'edificio B, come da istruzioni di mio cugino, sentii subito odore di chiuso e polvere. Ritirate le chiavi nella cassetta della posta salii quattro piani di scale per arrivare alla stanza numero 16.

Entrai con un po' di fatica, la chiave era maledettamente dura e la porta di legno scricchiolava come se potesse rompersi da un momento all'altro.

C'erano due letti, due scrivanie, due armadi, un bagno, una finestra con un piccolo balcone che dava sul cortile centrale e un piccolo vano che ospitava una cucina di dubbio funzionamento.

Dopo qualche ora avevo iniziato silenziosamente a mettere in ordine le mie cose quando, aprendosi la porta con un tonfo «Finalmente sei qui, Shine!» sentii esclamare alle mie spalle. Era lui, la sua voce era inconfondibile.

Ashton Irwin, mio cugino, era caratterizzato perlopiù da una risata senza paragoni, da una mente prevalentemente incline al male, anche perversa sotto certi aspetti, e dall'essere maniacalmente introspettivo.

«Sono qui» proferii semplicemente osservandolo annullare la distanza tra noi per stringermi in un abbraccio.

«Vedo che hai già iniziato a mettere in ordine, ottimo. Vedi di essere pronta per questa sera che ti porto fuori prima dell'inizio delle lezioni domani» disse mentre posava una borsa della spesa sulla scrivania vicino al balcone.

Non potevi dirgli di no, ad Ashton. Quando decideva qualcosa era così e basta e, se qualche condizione esterna non glielo permetteva, lui trovata sempre il modo di riuscirci. Era testardo, come me, le cose dovevano andare come voleva lui. Con l'unica differenza che lui riusciva a imporre il suo volere con una certa calma, io no.

Ruvida, spigolosa e scostante, questa ero io.

«Va bene, ma non iniziare a dare ordini o ti prendo a pugni già da subito» risposi quasi con un tono divertito. Il mio temperamento veniva sempre fuori, ma non con lui.

Mio cugino è sempre stato quella parte della mia personalità che qualcuno, lassù, si è dimenticato di incorporarmi, quel pezzo di me che, staccato dal mio corpo faceva un male cane ma che, standomi vicino, riparava tutte le ferite. Un fratello che mi ero scelta, in un certo senso, il sangue era comunque lo stesso, e non mentiva.

Eravamo identici in tutto e per tutto, quasi come se davvero si fossero dimenticati di assemblarci insieme.

Una risata uscì dalle sue labbra riempiendo la stanza, l'avrei riconosciuta tra mille. Quando Ashton rideva tutto intorno sembrava prendere vita e colore. Avrebbe potuto ridere in un cimitero e sarebbe sembrato meno buio, perché c'era lui ad illuminarlo.

«Ti presento vecchi amici» disse posando la spesa dentro al frigo ingiallito.

Io lo sapevo, che Ashton di vecchi amici non ne aveva, aveva lasciato tutto nella nostra vecchia città, due anni prima. Avevo sentito che lo aveva raggiunto un ragazzo con cui giocava a calcio. Andava in un'altra scuola ma il suo volto lo ricordavo, l'avevo sempre visto di sfuggita quindi, di "vecchi amici", c'ero solo io.

«Giochi a calcio anche qui?» chiesi mettendo la valigia vuota sotto al letto

Girandosi verso di me, un sorriso gli spuntò sulle labbra e «Oh, no. Ho giocato per il primo anno, poi non si guadagnava abbastanza ed ho lasciato perdere» concluse, abbassando un po' il tono sulle ultime parole.

Le potevi decifrare, le espressioni sul viso di Ashton o almeno, potevi provarci, ma mai avresti capito che cosa gli passasse davvero per le testa. Lui, al contrario, era in grado di scavarti dentro e capire ogni minima cosa di te. Questo un po' lo odiavo, ma non glielo avrei mai detto.

La sera stessa, dopo aver consumato in camera la cena cucinata incredibilmente da Ashton, mi portò fuori a vedere cosa ci fosse intorno agli appartamenti.

Ero stanca, ma era così tanto che non passavo del tempo con mio cugino che lo avrei seguito anche tutta la notte.

Anche il nostro modo di camminare era uguale, trascinando quasi le suole delle scarpe sull'asfalto, come se stare in piedi e camminare fosse un peso insostenibile. Eravamo sul marciapiede in una strada illuminata da lampioni esageratamente gialli. Stavamo andando al Phantom, un locale frequentato praticamente solo dagli studenti del borgo lì intorno.

Tra una sigaretta e l'altra «Allora, stronzetta» cominciò. Mi aveva sempre chiamata così, non gli avrei dato contro, aveva ragione.

«Che cazzo vuoi» gli risposi sorridendo ma con una nota di acidità. Iniziare le frasi con "allora", per Ashton, equivaleva al farti un'analisi a raggi x per capire cosa ci fosse nella tua testa. Ti entrava dentro e si piazzava lì, al centro, aspettando insistentemente qualche segno di cedimento.

«Mi chiedevo solo perché non fossi venuta subito con me, ma mi abbia raggiunto dopo due anni» rispose con fare ovvio facendo spallucce. Di ovvio non c'era proprio niente.

Quello che invece mi chiedevo io, era perché fossero sempre necessarie spiegazioni.

«Mi andava» risposi semplicemente, lanciando la sigaretta spenta in un tombino a lato della strada

Il nostro legame era così, sapeva quando era il momento per parlare e quando no, quando era il momento di smetterla e lasciarmi perdere o quando insistere. Lo sapeva ma, come d'altro canto sapevo io, era terribilmente ostinato, uno stronzo patentato.

«Shine, non mi prendere per il culo» proferì in tono serio «Una come te non decide e basta. Una come te pensa, ragiona, non fa mai niente per caso» concluse, quasi più per convincere sé stesso del fatto che avesse fatto centro.

«Ora non mi va»

La discussione era chiusa, ed Ashton se ne era fatto una ragione, perché mise le mani in tasca e continuò a camminare guardando avanti, con la sua camminata svogliata ma allo stesso tempo fiera, intimidatoria.

Pochi minuti dopo ci ritrovammo davanti al locale, moderno, pieno di vetrate e gente all'interno che ballava sul ritmo di una musica che, dall'esterno, era ovattata. Le luci blu e viola giravano e ti finivano in faccia accecandoti per un secondo.

Non mi erano mai piaciuti i locali affollati, o i locali in generale, ma mio cugino mi aveva assicurato che ci saremmo seduti in un tavolo, separato dalla ressa, con questi suoi amici.

Mi prese per mano e mi trascinò in mezzo alla pista, facendosi spazio per arrivare ad una rampa di scale che portava al piano superiore del locale. Ogni due passi mi sbatteva contro la schiena di qualcuno e quel contatto di faceva rabbrividire, portandomi a stringere ancora di più la mano di Ashton che, istintivamente, piegò il braccio facendomi avvicinare a lui e proteggermi da quella ressa di persone.

Salimmo le scale e ci dirigemmo verso un tavolo nell'angolo destro della sala, dove un gruppo di ragazzi facevano cenno ad Ashton.

«Ce l'hai fatta amico» esclamò un ragazzo dai capelli rossi fuoco

«Abbiamo mangiato tardi» rispose mio cugino mentre ci sedevamo da un lato del tavolo

«Lei è Shine, ma già lo sapete» esclamò Ashton prendendo il menù dei cocktail.

Il ragazzo dai capelli rossi mi guardò e «Cavolo, sapevo che tu ed Ash vi somigliaste, ma sei la sua versione con i capelli neri lunghi e gli occhi verdi!», ridendo tra sé e sé

Non era il primo che ce lo diceva, fin da piccoli ci avevano sempre scambiati per gemelli, andavamo in giro rigorosamente insieme, se non c'era uno non c'era neanche l'altro.

«Ecco, lui è Michael, ci conosciamo da tanto tempo» si intromise Ashton

Io, quel tanto tempo, non sapevo cosa volesse dire. Ero stata nella vita di Ashton per diciotto anni, e questo Michael non lo conoscevo proprio, probabilmente non era neanche della nostra città. Mi stavo chiedendo che cosa fosse cambiato in Ashton in questi due anni di lontananza, chi fossero questi amici che prima non aveva

«Io sono Calum» mi sorrise il ragazzo alla mia destra, moro con gli occhi scuri come la notte. Era il ragazzo che giocava a calcio con mio cugino, me lo ricordavo ma non ci eravamo mai presentati

Un ragazzo solo, rimase in silenzio, seduto a capotavola, opposto a me. Guardava insistentemente il suo telefono ed era come se intorno a lui non stesse accadendo niente. La luce del cellulare gli illuminava leggermente il volto nella penombra del locale, ma non ne distinsi bene i lineamenti fino a che «Lui, invece, è Luke» lo presentò il ragazzo dai capelli rossi, dandogli una gomitata sulla spalla

Il ragazzo alzò lo sguardo dall'oggetto che catturava la sua attenzione. Capelli biondi, occhi che, in confronto ai miei, sembravano le onde del mare che sbattevano contro le rocce.

Uno sguardo lungo, secondi che mi parvero minuti. Sembrava volesse entrarmi dentro talmente aveva lo sguardo fisso. Non li mollai, i suoi occhi.

Un cenno del capo, di questo mi degnò, poi ritornò a guardare il suo telefono come se nulla fosse.

Dopo aver ordinato da bere i ragazzi parlavano tra di loro prevalentemente di musica e dell'inizio della scuola il giorno successivo. Stavano pianificando di stare fuori fino a tardi, o almeno credo, perché tutta la mia attenzione era concentrata sul ragazzo seduto opposto a me, ancora con lo sguardo sul cellulare.

Ogni tanto prendeva il bicchiere e beveva un sorso dalla cannuccia, senza alzare gli occhi, con movimenti meccanici.

Non riuscivo a decifrarlo e questo mi dava enormemente fastidio. L'indifferenza, quella non mi andava giù, rimaneva bloccata alla bocca dello stomaco. Fastidiosa, fu l'unica parola che mi permise di descrivere la sua presenza

«Hai finito?» sentii improvvisamente uscire dalle sue labbra. Un tono secco.

Probabilmente lo avevo sentito solo io, perché nessuno dei tre ragazzi sembrò girarsi o essersi reso conto che il biondo aveva parlato.

«Come scusami» un'affermazione più che una domanda, la mia.

«Ti ho chiesto se hai finito di guardarmi» rimbeccò bloccando lo schermo del telefono, mettendoselo in tasca e alzando lentamente la testa, incastonando i suoi occhi azzurri nei miei.

Un nodo alla gola per quel tono saccente e spocchioso. Aveva la faccia di uno che prenderesti a schiaffi, talmente ha un atteggiamento odioso. Impassibile in viso ma con le sopracciglia alzate, con aria di sfida.

«Ti fossi presentato sarebbe stato educato» risposi di getto, acida

«Perdonami, se non ti ho prestato tutte le mie attenzioni» disse con un cenno della testa, prendendo poi un pacchetto di sigarette e tirandone fuori una. Se la mise tra le labbra e continuò a guardarmi. Stava aspettando una mia risposta, lo stronzo.

Il mio cuore iniziò a battere così forte che pareva volesse uscire dalla cassa toracica, sentivo il battito nelle orecchie. Conoscevo bene quella sensazione, mi stavano saltando i nervi.

Gli feci il dito medio e «Vai al diavolo» sorrisi un istante, un fugace sorriso di scherno, per poi tornare seria.

Luke scosse leggermente la testa, con un sorrisetto fastidiosamente beffardo, poi si alzò e «A domani ragazzi» disse allontanandosi da tavolo.

Tutti lo salutarono, come se non si fossero resi conto del nostro scambio di parole.

Io rimasi con la testa girata a fissarlo andare verso le scale, scendere e dirigersi all'uscita del locale.

«Tutto bene?» mi chiese Ashton. Mi conosceva troppo bene, come sé stesso, per non accorgersi dello sguardo inceneritore che avevo in quel momento

«Sì, tutto bene» mi girai verso di lui «Hai un amico che è proprio uno stronzo» constatai

«Lascialo perdere» disse solo sottovoce

«Se ha il tuo stesso carattere se lo sbrana, a Luke» constatò Michael mentre prendeva l'ultimo sorso dal suo cocktail

«No, lui la farebbe uscire fuori di testa per quanto è stronzo»

Parlavano tra di loro come se non fossi lì. Ancora con la scarica di adrenalina che mi percorreva il corpo. Litigare mi veniva bene, non che fosse un vanto, ma ero così testarda che avrei vinto qualunque discussione.

«È arrogante» conclusi finendo anche io il contenuto dolciastro del mio bicchiere

A me bastava una scintilla per innescare un casino. L'odio era ciò che mi caratterizzava, non potevo farci niente, così ci ero nata. Difficile cambiare qualcosa di innato e questo, Ashton, lo sapeva meglio di me. Crescendo lui aveva mitigato questo atteggiamento di ostilità nei confronti di qualunque persona, aveva imparato a odiare quando era giusto e a calmarsi quando necessario.

E lo fece anche per me, poggiandomi una mano sul polso, facendolo smettere di tremare.

Lo sapevo riconoscere, io, uno da cui stare lontana. Luke era uno di quelli.

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Capitolo 2
*** 02. Signs ***


«Shine! Svegliati cazzo, Shine!»

Mi sentivo scuotere dalle spalle e, aprendo gli occhi di colpo, mi ritrovai davanti Ashton pallido e spaventato.

«Che cazzo ti strilli» chiesi scocciata mettendomi a sedere

«Eri in apnea cretina, non respiravi. Pensavo non ti succedesse più» rispose serio alzandosi dal letto e andando in cucina.

Avevo sempre avuto incubi che si ripercuotevano nella realtà, facendomi svegliare in un bagno di sudore o con il fiato corto. Da bambina mi dicevano che fosse l'ansia per qualcosa.

Dopo essermi ripresa andai in bagno a fare una doccia e, nel rigoroso silenzio che regnava tra me e Ashton la mattina, ci trascinammo fino a scuola.

Non avevamo mai avuto voglia di andarci, sapevamo solo che era giusto farlo, ma in realtà non ci importava molto del futuro, non volevamo nemmeno pensarci. Con tutto lo schifo che era il presente, vivere in un futuro incerto, era deleterio.

La Borton non era molto lontana dagli appartamenti, ci si arrivava a piedi. Il giardino di cemento era già pieno di studenti. Ashton mi accompagnò in segreteria a ritirare i miei orari e, con una certa rabbia, scoprii di non essere in classe con lui

«Non sarai con me ma ci sarà Calum a controllare che tu non uccida nessuno» mi rassicurò ridendo. Non trovavo la cosa rassicurante, ad essere sincera. Io avevo bisogno di Ashton e lui di me.

Mi scortò fino ad un corridoio lungo al cui inizio vi era il moro. Scambiarono due chiacchiere svogliate, era pur sempre mattina. Mi lasciò andare in classe con Calum con cui, sinceramente, non avevo voglia di parlare ma «Come te la cavi con la letteratura?» chiese. Una domanda di circostanza  totalmente a caso, giusto per fare conversazione.

Prima di rispondere lo guardai attentamente. Le gambe fasciate da jeans neri, una maglietta grigia, lo sguardo fisso in avanti, come se evitasse di proposito il contatto con me. Non gli davo nemmeno torto, mio cugino doveva avergli raccontato quanto fossi terribile e, in fin dei conti, non mi dispiaceva incutere soggezione in qualcuno.

La mascella serrata in attesa della mia risposta, che tardava ad arrivare. Forse si era pentito di avermi fatto la domanda.

«Mi piace molto, ma non ho mai voglia di prestare attenzione alle spiegazioni» risposi con sincerità, un po' sperando di concludere la conversazione. Infatti, dopo un suo breve cenno del capo, non parlammo più fino a quando entrammo nella nostra classe.

Erano rimasti liberi solo tre banchi, due vicini in penultima fila e uno singolo proprio davanti a questi ultimi. Avrei tanto voluto sedermi da sola per crogiolarmi un po' nei miei pensieri ma «Conosco quella faccia, è identica a quella di Ashton. Mi ha detto di tenerti d'occhio, quindi ci sediamo vicini in penultima fila» disse Calum con un tono a metà tra il divertito e il canzonatorio.

Non avvertii, però, alcuna malizia o cattiveria nella sua voce. Era una semplice constatazione, un voler rispettare gli ordini di mio cugino che, con tutta probabilità, lo aveva minacciato di prenderlo a botte se avessi combinato casini in sua assenza.

Mi uscì una risposta decisamente acida, ma sul limite di una piccola risata «Va bene, baby sitter». Una risposta naturale, semplice, che celava un po' di astio ma anche un po' di divertimento. Una nota di sarcasmo per il fatto che Ashton non si fidasse minimamente di lasciarmi da sola in una situazione del genere, nuova e, potenzialmente, una polveriera. Tante persone, chiuse insieme, in una stanza.

Rise scuotendo leggermente la testa mentre prendevamo posto nei due banchi scelti.

L'ingresso della professoressa in aula non fu niente di sorprendente. Aveva l'aria svogliata, assonnata anche lei, come se lì non ci volesse neanche stare.

Iniziò a fare l'appello, un cognome dopo l'altro. «Hood» e il moro di fianco a me diede la sua presenza.

«Hemmings» pronunciò soffermandosi un po' più del dovuto su quel cognome, alzando poi lo sguardo verso la classe.

«Presente» una voce proveniente dal corridoio mi indusse ad alzare lo sguardo dal blocco di fogli che avevo davanti. Con una calma maniacale, Luke, spuntò dalla porta con una sigaretta spenta in una mano e l'altra aggrappata alla tracolla di una borsa. Un sorrisetto fastidioso.

«Ci degna della sua presenza oggi, Hemmings. Quale onore» gli disse sarcastica la professoressa

Lui, strafottente le rivolse un sorriso e di diresse verso l'unico banco libero, quello davanti al mio.

«Irwin»

«Presente» risposi con noncuranza, gli occhi inchiodati alla figura di Luke.

«Lei assomiglia molto ad un ragazzo di un'altra classe, forse avete anche lo stesso cognome» disse la professoressa tirandosi un po' giù gli occhiali per scrutarmi il viso

«Siamo cugini» risposi semplicemente. Lei fece un cenno di assenso con la testa e proseguì con l'appello. Si vedeva, non gliene importava niente.

Il biondo si sedette con calma, si girò verso Calum e «Oggi a pranzo mangiamo nel cortile sul retro»

Il moro annuì e Luke si girò a guardarmi. Di nuovo quegli occhi azzurri, puri, che mi fissavano. Sentivo il gelo dentro, quella sensazione di freddo che parte dal collo e scende lungo tutta la schiena accompagnato da un brivido.

«Bhe?» fui solo in grado di dirgli, mi stava già facendo saltare i nervi di prima mattina, con quel viso da schiaffi

«Fastidioso eh?» rispose lui, mordendosi il piercing al labbro. E' come quando senti quell'irrefrenabile voglia di dare fastidio alle persone, sai che una cosa le fa arrabbiare e la fai di proposito.

Ruotai gli occhi verso l'alto respirando per darmi una calmata. Di solito la mattina non avevo voglia nemmeno di parlare, ma in quel momento era tutto diverso, avrei tanto voluto far sparire quel fottuto biondo da davanti a me, disintegrarlo.

Calum sussurrò un «Ashton ha detto di non uccidere nessuno, almeno per ora» concluse ridacchiando

Non potei fare a meno di accennare un mezzo sorriso e lasciar sbollire il nervoso. Calum era gentile, aveva già provato a rendere la situazione meno pesante.

All'ora di pranzo la campanella suonò e Ashton era già ad aspettarci fuori dalla porta. Luke disse solo «Vi aspetto fuori insieme a Michael» allontanandosi a grandi passi. Sapevo che in quel "vi" fossi compresa anche io.

Prendemmo il nostro vassoio dalla mensa e mi portarono sul retro della scuola, dove erano stati allestiti alcuni tavoli per far mangiare fuori gli studenti durante la bella stagione. Arrivati al tavolo trovammo solo Michael, non che la cosa mi dispiacesse. Speravo che il biondo avesse cambiato idea e non ci fosse.

Iniziammo a mangiare e scambiare qualche parola quando, da lontano, vidi Luke uscire da una porta e dirigersi verso di noi. Come stesse sfilando molti si girarono ad osservarlo. Era fastidiosa tutta l'attenzione che le persone prestavano a quel ragazzo.

Una volta seduto al nostro tavolo decisi di ignorarlo, non avrebbe ottenuto altre attenzioni da me. Lo sguardo, però, ogni tanto tornava su quel viso. Rideva, Luke rideva tranquillamente.

Mi chiesi come potesse essere così allegro e spensierato un ragazzo che, dopo averci parlato due volte, aveva solo sputato veleno dalla bocca. Quegli occhi glaciali che mi avevano guardata, impassibili, ora erano resi piccoli dal sorriso sul suo volto.

Finito il primo giorno di scuola tornai a casa insieme a Calum, perché Ashton aveva ancora un'ora di lezione e poi doveva andare al lavoro. Che lavoro facesse, non me lo aveva detto.

«Non sapevo avessi lo stesso cognome di Ashton» attaccò il moro mettendosi le mani in tasca. Non mi guardava ancora, mentre parlava.

Un po' me la aspettavo, questa affermazione. Ashton doveva avergli raccontato che mia madre e suo padre erano fratelli, quindi il cognome Irwin non era quello di mio padre.

«L'ho cambiato qualche anno fa. Allen non mi è mai piaciuto» risposi portandomi una sigaretta alla bocca

«Shine Allen. Shine Irwin» cantilenò un paio di volte «Sì, Irwin suona decisamente meglio» concluse soddisfatto della sua affermazione

Gli sorrisi, sinceramente.

Non riuscivo a vedere una goccia di cattiveria, in quel ragazzo. L'unica cosa buia che gli apparteneva era il colore degli occhi, nient'altro, nessuna malizia, nessun odio. Solo semplicità.

Finalmente il moro si girò a guardarmi e si mise a ridere, portando anche me a fare lo stesso

«Ecco, ora la vedo, la luce» disse

Lo guardai inclinando la testa di lato, soppesando le sue parole, poi capii. «Il tuo nome» continuò infatti

Storcendo il naso «Non è il nome che più si addice ad una persona come me» mi sentii di dirgli

Ironico come mi fosse stato dato il nome "Shine", quando di luce, intorno a me non ce n'era neanche ad accendere un fiammifero. Sarebbe stato inghiottito dal buio che ero io stessa.

Avevo sempre trovato divertente il fatto che il mio nome stonasse così tanto con quella che ero io. Mai niente poteva essere così diverso da quello che ero e da quello che mi sentivo di essere.

Shine: luce.

 

Arrivata nell'appartamento mi sedetti sul letto, accendendo la piccola televisione come sottofondo.

Avevo tanta voglia di urlare, di far uscire quello che c'era nella mia testa. Pensavo, pensavo incessantemente fino a farmi scoppiare il cervello e, forse, me lo meritavo. Non riuscivo a stare nemmeno un secondo senza pensare. Mi sfinivo da sola e, per smettere di pensare, mi addormentai sul letto si Ashton, stringendo il cuscino con il suo profumo.

Era sicuramente notte perché la stanza era illuminata solo dai lampioni del cortile. Delle chiavi si infilarono nella serratura e, con il solito tonfo, la porta si spalancò. Entrò mio cugino, cercando di non fare ulteriore rumore per non svegliarmi, ma già lo ero.

E lo guardavo fisso, se ne era accorto, era troppo tardi per girarsi.

Attraverso la poca luce vedevo gli occhi ambrati di Ashton, la mascella contratta, il viso di uno che invece di dimostrare diciotto anni ne dimostrava almeno cinquanta. Occhiaie profonde, pelle pallida, capelli disordinati, un borsone in spalla.

Si vedeva benissimo anche al buio, il livido viola che da metà collo di estendeva sulla spalla scomparendo sotto la maglietta nera che portava.

Pietrificato davanti a me non smetteva di guardarmi, aspettando una mia sfuriata.

Non arrivò, mi tolsi di dosso le coperte e mi diressi in cucina, a prendere del ghiaccio dal frigo per poi piazzarmi davanti a lui, spingerlo a sedersi sul letto proprio per spalla livida. Una smorfia di dolore si dipinse sul suo volto, ma cercò di trattenerla. Gli poggiai il ghiaccio sopra, quasi con rabbia. Silenzio, nient'altro c'era in quella stanza. Solo noi che ci guardavamo. Un silenzio assordante.

E glielo dissi con gli occhi, che niente era cambiato, che eravamo sempre gli stessi, che quando ci nasci, in un modo, alla fine, ci muori anche.

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Capitolo 3
*** 03. Stop ***


Perché parlarne ancora, io già lo sapevo che qualcuno aveva preso a botte Ashton. Il perché o il chi, ancora, mi sfuggiva. É terribilmente fastidioso non sapere le cose.

Forse lo ero solo perché Ashton sarebbe dovuto essere al lavoro, e non rientrare in piena notte. Forse perché non ci parlammo più fino al mattino seguente, fino a quando varcammo i cancelli della Borton. 

Forse lo ero perché mio cugino mi aveva sempre raccontato ogni cosa.

«Ci vediamo a pranzo» disse solo, accennandomi un sorriso e girandosi per andare nella parte opposta alla  mia

Quella mattina aleggiava un'aria strana, anzi, io sentivo un'aria strana, nessun'altro, a parte me, sembrava percepirla. Nemmeno Calum che mi aspettava già al posto del giorno prima e «Non mi scappi» sorrise. Mi chiesi come facesse quel ragazzo a sorridere sempre, a dare fiori anche quando qualcuno gli dava spade.

Continuavo a pensare allo sguardo pietrificato di Ashton, ed io che non distoglievo gli occhi un secondo, come due animali in attesa della prima mossa dell'altro. Solo che in quel caso mio cugino era quello indifeso che aspettava l'attacco di quello feroce, io.

Non era una caratteristica che si addiceva ad Ashton, l'essere indifeso, impaurito.

E poi quel livido viola e rosso alla base del collo. Mi mandava fuori di testa pensare che qualcuno gliele avesse date in quel modo. La motivazione, ecco cosa volevo. Ashton aveva sempre fatto a botte, la cosa non mi stupiva. Ma il punto in cui aveva l'ematoma era da brividi, esattamente tra il collo e la spalla, un punto preciso.

 

«Guarda che se non ti alzi a pranzo mangi col culo sul pavimento» 

Alzai lo sguardo dal quaderno che avevo davanti osservando come Luke Hemmings fosse in piedi davanti a me e mi guardasse serio, nessuna emozione, nessun sorrisetto, niente.

Mi guardava e basta, non capivo che cosa si aspettasse, se una risposta o il silenzio.

Per tutta la mattinata avevo ignorato la sua presenza davanti a me, anche quando veniva interpellato dai professori. Era seccante come sapesse ogni cosa, non sembrava nemmeno prestare troppa attenzione alle lezioni, eppure aveva sempre la risposta giusta.

«Grazie del consiglio» dissi cercando di stare il più calma possibile. Guardai Calum che, vicino alla porta, parlava con il professore di fisica ed ogni tanto mi lanciava uno sguardo. Stava aspettando che mi alzassi e teneva sotto controllo la situazione. Si aspettava che sbottassi contro Luke, probabilmente. 

Luke era ancora lì in piedi davanti a me. Mi stava aspettando, lo capii quando si riposizionò meglio la borsa sulla spalla e spostò il peso da una gamba all'altra. Luke aspettava che mi alzassi per andare a pranzo con loro.

L'espressione sul mio viso cambiò all'istante. Da neutra si trasformò in qualcosa di confuso, quasi diffidente.

«Allora?» incalzò ancora lui. Adesso aveva di nuovo quel mezzo sorrisetto stampato sulle labbra. Quello fastidioso, che ti fa prudere le mani, perché sai che ti sta prendendo in giro.

Mi alzai in fretta e girai gli occhi al cielo. Una risata soffocata uscì dalle sue labbra, seguendomi poi verso Calum e dirigendoci tutti e tre in mensa. Non riuscivo a stare zitta, sentivo lo sguardo di Luke addosso, che mi graffiava la pelle e rideva, mentre lo faceva. Quella sensazione di qualcuno che vuole darti fastidio e sa di starci riuscendo.

«Ma tu sei sempre così fastidioso?» gli chiesi con tutta calma di cui ero capace. Volevo staccare le unghie che sentivo graffiarmi lo stomaco e far si che ferissero lui.

Calum quasi sussultò per quella mia domanda, colto alla sprovvista. 

«Quasi sempre» rispose il biondo stringendo un po' gli occhi, dai quali comunque l'azzurro non scompariva. Rimaneva lì, a ricordarti quanto facessero schifo gli altri colori se confrontati con quello. Non colsi la provocazione, non quella volta.

Al tavolo mi sedetti vicino ad Ashton che aveva preso un vassoio anche per me. «Com'è andata oggi?» chiese allegro, come fosse tutto normale

Avrei voluto chiedergli come diavolo facesse a far finta che la notte prima fosse tornato in camera con un livido enorme e la faccia di uno che sta più di là che di qua. Avrei voluto chiedergli anche chi fosse stato e perché. Ma ogni cosa ha il suo momento, e quello non era adatto così «Niente di che» risposi facendo spallucce. 

Involontariamente il mio sguardo corse fino a Luke, che stava parlando con Michael.

«Non vi sarete stuzzicati ancora» chiese

«No, sono stati bravi, Shine soprattutto» si intromise Calum facendomi l'occhiolino e allentando la tensione che si stava creando tra me ed Ashton

Ci conoscevamo troppo bene per sapere che la questione della notte precedente non fosse chiusa, prima o poi lo avrei fatto parlare, a costo di prenderlo a pugni io stessa. Anche Calum avvertì la situazione e per questo iniziò a parlare dell'uscita con la classe che avremmo dovuto fare all'inizio della settimana successiva.

Io, che quella mattina non avevo prestato la minima attenzione, presa a pensare a quel coglione di mio cugino, quella parte non l'avevo sentita. A quanto pare saremmo dovuti andare una giornata a vedere una mostra in un museo, anche se non avevo sentito né il tipo di mostra né il nome del museo.

Finendo di mangiare non potei fare a meno di guardare il biondo, seduto a debita distanza da me, che si lanciava chicchi d'uva con Michael cercando di fare centro l'uno nella bocca dell'altro. Una situazione quasi normale. Non se l'unica parte che avevo conosciuto di Luke era quella acida ma, dal canto mio, lo ero di più.

Per il secondo giorno consecutivo mi cibai dei dettagli di quel ragazzo così strano, indecifrabile. Volevo trovare una falla, nel comportamento, qualcosa che lo facesse crollare. Una crepa attraverso cui mi sarei infilata solo per dargli fastidio per poi scappare e guardarlo sanguinare.

Mi colpiva un pugno allo stomaco per la presunzione con cui si poneva al mondo e, al tempo stesso, un pugno alla testa per la confusione che mi trasmetteva. Il miscuglio tra queste due sensazioni dava come risultato un nervoso perenne che mi faceva tremare le gambe sotto al tavolo. 

Ho sempre pensato che io ed Ashton potessimo essere una persona sola e nulla sarebbe cambiato, eravamo uno la copia dell'altro, una simbiosi perfetta e letale. Senza nemmeno guardare nella mia direzione, preso a guardare Luke e Michael lanciarsi l'uva, mi mise una mano sul ginocchio, facendolo smettere di muoversi. Lo strinse per un attimo, facendomi sentire il calore della sua mano sul ginocchio scoperto dai miei jeans strappati. Lo strinse per assicurarsi che andasse tutto bene perché, se c'era lui con me, andava tutto bene.

 

Quella sera l'idea migliore che ci venne in mente fu quella di uscire dopo cena, andare a prendere qualche bottiglia di alcolici al supermercato più vicino e sperare di non stare troppo male.

«Era un po' che non lo facevamo!» disse Ashton ancora con il fiatone a causa delle scale, cercando di aprirle la porta con la spalla. Rideva come un matto ed era impossibile non andargli dietro. La sua risata era pura. limpida, sincera. Quando Ashton rideva tutto sembrava fermarsi ed ogni cosa acquistava colore.

«Hai ragione» risi a mia volta posando alcune bottiglie sulle scrivanie

Io lo sapevo, che bere troppo era rischioso. Quando l'alcol ti circola in corpo non ti rendi conto né di quello che fai né di quello che dici. Ogni cosa sembra bianca o nera: O ridi per ogni singola cosa o piangi per ogni singola cosa, non c'è una via di mezzo.

Seduti su quel pavimento freddo e probabilmente sporco, avevamo perso il contro dei bicchieri che avevamo buttato giù. Ashton mi raccontava della gente strana con cui andava in classe, Michael compreso. Diceva che era un folle, che un giorno era arrivato a scuola con i capelli fuxia lamentandosi del fatto che la tinta sarebbe dovuta essere rossa, che la cosa divertente era che quel rosa non andava più via e gli avevano affibbiato i nomi più improponibili.

Mi raccontava che Calum sapeva suonare il basso ed ogni tanto stava a suonare tutta la notte mentre lui e Michael intonavano canzoni che non esistevano. Oppure che appena arrivato qui, dopo una settimana di scuola, era finito in presidenza perché aveva fatto a botte con un ragazzo, e nemmeno si ricordava il motivo.

Erano pezzi della sua vita che io mi ero persa, non c'ero stata e volevo a tutti i costi ricomporre il puzzle. Volevo sapere come avesse fatto senza di me per due anni, perché io, senza di lui, ero solo peggiorata.

E' proprio come quando perdi qualcosa, continui a pensarci fino al mal di testa. Poi, un giorno, lo ritrovi e sembra che tutto il tempo passato senza quel qualcosa non sia mai esistito, concentri tutte le tue energie per recuperare il tempo perso. Per me era così con Ashton. Quando aveva decido di andarsene era come se mi avessero strappato un pezzo di carne dal fianco e continuasse a sanguinare, facendo ogni giorno sempre più male.

Io lo sapevo, che nella nuova città si era fatto una vita, che rideva, scherzava, faceva casini anche senza di me, ma sapevo che anche la sua ferita sanguinava e gli faceva male. Ci pensavo sempre, a come stesse qua, a cosa stesse facendo in un determinato momento. Un po' mi dava fastidio, che andasse avanti senza di me.

Eravamo così legati che quasi faceva male, sentivi le corde che stringevano e, quando ci allontanavamo, facevano male, perché non si spezzavano mai, tiravano e laceravano, e basta.

«Quindi hai davvero rigato la macchina a Jake?» quasi strillò mio cugino masticando una caramella gommosa

«Aveva così rotto il cazzo, con la storia che senza di te ero persa che dopo quell'episodio ha iniziato a cambiare strada quando mi vedeva. Sapeva che fossi stata io ma non ha mai detto niente a nessuno» feci spallucce «Te l'ho detto, senza te a starmi dietro ho fatto solo casini»

«Anche io» disse, quasi lasciando la frase in sospeso. Voleva aggiungere qualcosa, ancora con la bocca aperta, incerto. Respirò e diventò subito serio. Parlava già piano per l'alcol, aveva gli occhi lucidi e la punta del naso rosso. Era decisamente ubriaco ma ancora capiva quel che diceva perché «Ma ho imparato a controllarlo, il casino che c'è dentro di me, tu no. » si tirò a sedere meglio, si passò una mano sul volto diventato improvvisamente stanco. Lo vedevi, quanto facesse fatica a spiccicare una frase di senso compiuto, ma era la più semplice verità, quello che diceva

Iniziai a conficcare le unghie nei palmi delle mani. Ashton era così tagliente, come un coltello che ti si conficca tra le costole e inizia a girare, andando sempre più in profondità, fino a farti sanguinare, a farti urlare basta per farlo smettere. «Lo so» fui solo in grado di rispondere, il cuore mi martellava nel petto, fino alle orecchie, il fiato corto

«Puoi andare dappertutto, ma non ti allontani da quello che hai dentro»

«Smettila» mi alzai di scatto per allontanarmi e andare sul balcone a respirare un po' di aria fredda, in quella camera non si respirava più. La testa prese a girarmi vorticosamente e dovette scuotere la testa per qualche secondo prima di riprendermi. Avevo decisamente bevuto troppo.

«Tutto bene?» chiese mio cugino alzandosi a sua volta 

«Sì, prendo una boccata d'aria». Fuori, in maniche corte, sentivo la pelle bruciarmi e il calore avvampare fino alla testa. Era sempre stato bravo ad entrare nelle persone, era anche divertente, quando faceva crollare gli altri, non quando lo faceva con me.

Mi ci potevo arrabbiare, con lui, ma non sarebbe durata molto. Era l'unica parte di me stessa che non riuscivo ad odiare. Certi legami non li spieghi, sono così e basta.

Mentre respiravo quell'aria gelida e iniziavo a calmarmi sentii bussare alla porta e «Chi cazzo rompe le palle» imprecò mio cugino uscendo dalla cucina e andando a vedere chi fosse

«Fate festa e non ci invitate?» la voce di Michael

«Abbiamo portato le patatine e altre schifezze!» esclamò Calum sventolando le buste di patatine che facevano rumore

Rientrai in fretta e mi ritrovai davanti il moro che tentava di aprire una busta, Michael che usciva dalla cucina con una birra in mano, Ashton che mi guardava facendo spallucce.

E Luke. Luke seduto sul mio letto con in mano una birra e stretta tra le dita una sigaretta spenta.

Si girarono tutti a guardarmi e «Come foste a casa vostra» esclamai, ricevendo un sorriso da Calum con la bocca già piena di patatine e il rosso che alzava la bottiglia di birra come per brindare.

Avevo ancora la pelle delle braccia che pizzicava dal freddo della sera e il naso che iniziava a colare a causa dello sbalzo termico con la stanza calda.

Guardai ancora una volta Luke, sempre seduto sul mio letto, come se niente fosse. Parlava con Ashton, mostrava le fossette ai lati della bocca, mordeva il piercing che aveva al labbro. Gesti normali.

Presi un bicchiere e ci versai il contenuto della prima bottiglia che mi ritrovai tra le mani e «Vacci piano Shine, hai bevuto abbastanza» Ashton che si preoccupava sempre per me. Era fratello, mamma, amico e papà, tutti insieme. La sua sbornia era passata in un istante per essere sicuro di poter controllare me.

Mi sedetti sul letto di mio cugino iniziando a trangugiare quel liquore amarognolo, guardando Luke

«Ti dispiace?» sbuffai irritata, facendogli cenno di spostarsi dal letto su cui era seduto

Non avevo dubbi che bere così tanto fosse una pessima idea, soprattutto se intorno c'era una persona che mi dava sui nervi come il biondo.

Si girò a guardarmi interrompendo la conversazione con mio cugino. Che cosa avesse da guardare sempre le persone in quel modo, non lo sapevo. I suoi occhi diventarono più scuri, passando dal mare calmo al mare in tempesta nell'arco di pochi secondi. Socchiuse leggermente gli occhi, creando delle rughette ai lati di essi. Sembrava che con quello sguardo, in realtà, mi stesse uccidendo con le sue mani.

«Sì mi dispiace, Shine» e fece scivolare il mio nome tra i denti, pronunciandolo lentamente, come per assaporarlo prima di ingoiare il veleno che portava con sé

Infastidita ancora di più dalle sue parole finii in fretta il contenuto del mio bicchiere e «Se odioso». Biascicai un po' quelle parole, con un tono di voce un po' troppo alto. L'alcol mi bruciava nello stomaco e sentivo le parole in gola come un fiume in piena «Te ne stai lì con quel tuo sorrisetto sarcastico a prendere in giro tutti, ma chi credi di essere? Chi sei, Luke Hemmings?» buttando a terra il bicchiere di plastica che avevo accartocciato tra le mani

«E tu? Che invece stai lì a sputare odio su chiunque, Shine?» ripeteva il mio nome per rimarcare il concetto. Aveva capito che mi dava fastidio sentire il mio nome pronunciato da lui.

Non mi resi nemmeno conto dello scatto che feci in avanti per spintonarlo dalle spalle fino a che non sentii due mani che conoscevo molto bene prendermi da sotto le ascelle e tirarmi su dal pavimento su cui ero finita con le ginocchia. Luke non si era mosso di un millimetro, era ancora fermo sul mio letto con le spalle dritte e mi guardava, serio. Avevo sentito per un secondo la sua muscolatura al di sotto della felpa. Era molto più forte di quanto pensassi, ma quel contatto - non contatto mi fece rabbrividire

«Hai bevuto troppo, Shine». Lo sapevo, che avevo bevuto troppo, ma sapevo anche che ciò che avevo detto lo pensavo veramente. Ero un turbine di emozioni in quel momento e l'unica cosa in grado di calmarmi furono le braccia di Ashton che mi cinsero le spalle e mi strinsero a sé, con il viso sul suo petto.

Calum e Michael guardavano la scena in totale silenzio, probabilmente consapevoli che la cugina del loro amico fosse una matta da legare. Una dannata senza speranza, perché l'inferno era vuoto ed tutti i diavoli erano lì. Io ero lì.

Luke si alzò dal letto ed entrò in cucina, mentre Ashton mi mise sotto le coperte del suo letto. Il biondo uscì poco dopo dallo stanzino con in mano una bottiglia d'acqua fredda e un bicchiere di succo d'arancia e «Dalle questi, falle bere tanta acqua, domani mattina sentirà meno i postumi della sbornia» disse a mio cugino consegnandoglieli

Avrei voluto chiedergli, che cazzo gli prendesse a Luke, che prima era fuoco pronto a bruciarmi e poi si preoccupava di come potessi stare il giorno dopo. Si riaccomodò con tutta tranquillità sul mio letto e iniziò a parlare a bassa voce con Michael.

Il riccio mi porse la bottiglia d'acqua che svuotai per metà. Non mi ero resa nemmeno conto di quanto avessi la gola secca. Dopo l'alcol, l'acqua ti sembra la cosa più buona che possa esistere. Presi un sorso di succo mentre sentivo le palpebre pesanti.

Ashton mi diede un bacio sulla fronte e «Ora dormi, Shine»

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Capitolo 4
*** 04. Bruises ***


La mattina seguente riuscii a non vomitare l'anima per tutto lo schifo che avevo ingerito la sera prima. Dentro di me sapevo che, forse, era anche merito di Luke, ma ammettere che quel ragazzo mi avesse aiutata mi faceva venire l'orticaria.

A scuola non ero intenzionata, ancora più del solito, a spiccicare parola con qualcuno, a maggior ragione che Calum quella mattina non c'era. "Indigestione" aveva detto Ashton. Non mi stupiva, con tutte le schifezze che aveva mangiato la sera prima in camera nostra.

Chissà perché quel giorno, con il mal di testa che mi martellava e il sonno che mi incideva due occhiaie viola sotto agli occhi, Luke, entrando in classe si sedette vicino a me. Senza dire niente, prese posto e iniziò a smanettare con il suo telefono.

Io non avevo la minima voglia di parlare, ancora meno di litigare, ero uno straccio. Mi chiesi che cosa ci fosse realmente dietro quel ragazzo così strano, era amico di mio cugino in fondo, qualcosa avrebbero dovuto avere in comune. Ma come per Ashton non riuscivo a decifrare quello che gli passasse per la testa. Come quando giri i canali in televisione e ti ritrovi un film già iniziato i cui dialoghi non avevano un senso, perché ti eri perso tutta la parte precedente. Luke era il film già cominciato.

«Prego, per ieri sera» sospirò lui girandosi verso di me «L'aspetto non è dei migliori, ma almeno sei in piedi» concluse scrutandomi il volto

Avevo un aspetto orribile, questo lo sapevo, sentirmelo dire da uno stronzo come lui era tutt'altra faccenda. Ma ero talmente stanca, scocciata che «Bhe, grazie» biascicai posando poi la testa sul banco usando il mio stesso braccio come cuscino.

Non mi resi nemmeno conto di averlo ringraziato fino a che «Ma allora sai parlare anche senza insultare» proferì lui, alzando le sopracciglia e tirando fuori un mezzo sorriso

«Ne sei capace anche tu, a quanto vedo» con gli occhi ancora chiusi. Sentivo il suo sguardo addosso, è una sensazione strana, quando ti senti osservato. Sei come in bilico, non sai se girarti e osservare chi ti guarda o fare finta di niente.

Aprii gli occhi, per ritrovarmi i suoi azzurri, cristallini che mi guardavano «La rabbia è come il fiato, Shine. Se la trattieni troppo muori soffocato, se la butti troppo fuori rimani senza respiro»

Che cosa ne sapeva lui, della rabbia, di cosa provoca nelle persone. Quella rabbia che ti corrode dentro, che ti fa venire mal di stomaco, che ti fa chiudere la gola. Quella che ti fa irrigidire, che ti porta a diventare l'ombra di te stesso. E tu ci provi, a tenerla dentro, ma più la tieni più stai male. Però, quando la tiri fuori distruggi indistintamente tutto quello che hai intorno

«E tu cosa ne sai» abbassai la voce, il professore era entrato in classe e stava già iniziando a spiegare, incurante di fare l'appello

«Lo so. Ci somigliamo più di quanto credi» 

Io non credo proprio, gli avrei risposto. Un brivido mi percorse la schiena. Non gliela avrei data vinta.

La cosa che più mi lasciava senza fiato era la tranquillità con cui mi stava parlando in quel momento, una tranquillità che non faceva parte del Luke Hemmings con cui avevo avuto a che fare negli ultimi giorni. Cercavo di raccogliere le parole nel casino che era la mia testa dolorante, confusa da quei modi di fare così diversi e così distanti tra loro.

Sembrava soddisfatto dall'avermi lasciata senza parole e, quell'espressione sul suo viso, riportò indietro il Luke che era stato nei giorni passati

«Sembri psicopatico, cambi modi di fare, atteggiamenti ed espressioni nell'arco di qualche secondo. Cos'hai che non va» dissi alzando piano la testa dal banco

Fece spallucce e «Adattamento» rispose «In questo modo alcuni animali riesco a sopravvivere anche in habitat che non gli appartengono, si adattano e sopravvivono» concluse girando poi la testa e facendo finta di scrivere sui fogli davanti a lui quello che c'era scritto sulla lavagna

Pensai che era vero, ognuno di noi impara ad adattarsi a ciò che ha intorno, impara a sopravvivere. E se non ci riesci? Muori.

 

Camminavo abbastanza spedita verso gli appartamenti, ma appena fuori dal cancello della Borton «Shine, aspetta» mi girai e mi ritrovai Luke di fronte «Ashton ha detto che ha da fare e torna tardi e ha chiesto se ti accompagnassi in camera» disse quasi sbuffando.

«Che idea del cazzo» gli risposi. Non capivo come mio cugino potesse avere avuto un'idea così stupida, come potesse davvero credere che io e Luke potessimo camminare uno di fianco all'altro come se niente fosse, come se la sera prima non avessi cercato di mettergli le mani addosso

«Guarda che nemmeno a me va a genio la cosa, ma gli devo un favore» disse posizionandosi una sigaretta tra le labbra e porgendomi il pacchetto pieno. Ne presi una, quasi stupita da quel gesto.

«Se non mi parli abbiamo risolto ogni problema» sorridendo con la sigaretta tra le labbra. Imitavo il suo sorriso spocchioso e se ne accorse, perché una breve risata uscì dalle sue labbra

Il mal di testa continuava a tormentarmi e, come se non bastasse, mi chiedevo che cosa avesse da fare Ashton, perché non poteva portarmi con lui. Quando abitavamo nella nostra città non c'era un posto dove andasse senza di me, sempre insieme. 

Sono questi i momenti in cui ti rendi conto che le cose cambiano, le persone cambiano. Ti rendi conto che cose che fino a del tempo prima erano impensabili, assurde, folli, ora erano reali e mai ti saresti aspettato una cosa del genere. Fa anche male, sapere che le persone cambiano e vanno avanti e forse tu, invece, rimani ancorato al passato. Senza nessuna volontà di andare avanti, vivendo in esso.

Sentivo il cuore che iniziava a battermi più forte e il respiro farsi corto. Ashton era sempre più lontano e me ne stavo rendendo conto solo adesso, che era più vicino che negli ultimi due anni, dove la vicinanza era data da chiamate e messaggi. Con quelli niente sembrava cambiare.

Ma ora ero sulla strada di una casa che non era la mia, con un ragazzo che non era Ashton.

Eravamo davanti ai tre edifici, stavamo attraversando il cortile interno e iniziai a respirare più affannosamente. Rallentai il passo sperando di non uscire di testa.

Luke se ne accorse e si fermò anche lui, mi guardava cercando di capire cosa stesse succedendo. Ma cosa ne vuoi sapere, tu, cosa te ne frega degli altri avrei voluto dirgli se avessi avuto abbastanza aria nei polmoni per farlo

Vedevo dei puntini neri vorticare davanti ai miei occhi, mi piegai con le mani sulle ginocchia stringendo il tessuto dei miei jeans, i capelli scuri mi ricadevano su tutto il viso. Il respiro sempre più corto, il cuore che martella nel petto come se volesse uscire, le orecchie tappate e sensazione di gelo e calore insieme. L'attacco di panico stava peggiorando.

Improvvisamente sentii due mani posarsi sulle mie spalle e spingermi a sedermi per terra. Luke si era avvicinato silenziosamente, mi aveva fatto sedere sul marciapiede e, con una mano sotto il mio mento mi tirò su il viso facendo incontrare i miei occhi verdi con i suoi. Cercai di  guardare altrove. Respiravo a fatica, mi sentivo vulnerabile. 

Senza dire niente Luke premette più forte le dita sul mio mento per spingermi a guardarlo. Quegli occhi mi fecero venire ancora di più la pelle d'oca, la testa continuava a girarmi. Iniziò a respirare rumorosamente, inspirando ed espirando l'aria, imponendomi di seguire il suo respiro dal ritmo più lento.

Mi guardava a cercava di far assecondare la mia respirazione alla sua. Non so quanto tempo andammo avanti così, ma piano piano iniziai a respirare meglio e il cuore smise di lacerarmi il petto.

Mi sembrava fossero passate delle ore e non solo pochi minuti, la stanchezza che ti porta un attacco di panico te la puoi solo immaginare, ti sembra di aver camminato per chilometri.

Mi prese per le spalle e mi aiutò ad alzarmi continuando a stare in silenzio. Non volevo parlasse, ma il silenzio a volte fa più rumore. Ti spacca i timpani perché iniziano a fare rumore i tuoi pensieri. Faceva schifo stare male, soprattutto davanti ad altre persone, soprattutto davanti a uno come Luke che, ci avrei giurato, avrebbe preferito lasciarmi lì in mezzo a crepare.

Invece mi portò in camera, mi prese le chiavi dallo zaino e aprì la porta non senza fatica. Lanciò il mio zaino e la sua borsa in un angolo, prese dell'acqua dalla cucina e mi porse il mio telefono «Chiama Ashton» disse, senza nessuna espressione sul volto.

«No» risposi immediatamente. Guardavo la sua mano che stringeva il telefono. Era piena di piccoli taglietti, alcuni freschi, alcuni vecchi che ormai avevano lasciato delle cicatrici lattee sulla sua pelle già chiara. Le nocche erano rosse e sbucciate.

«Chiamalo e digli di tornare, o lo chiamo io» disse lanciando il telefono sul letto di fianco a me. Poi si appoggiò alla scrivania e si passo una mano tra i capelli biondi, come se quello stanco fosse lui

«Ti ho detto di no» Era già abbastanza avere avuto una crisi davanti a lui

«Non lo sa che hai attacchi di panico, non è vero?» il tono di chi sapeva già la risposta

«Non sono affari tuoi, Luke» sputai acida. La vulnerabilità non era una mia caratteristica, mai mostrarsi deboli davanti agli altri. In un mondo così stronzo appena mostri una crepa ci si infilano dentro e ti devastano.

«La prossima volta ti lascerò rimanerci secca sul marciapiede allora» rispose seccato

«Bene» risposi sorseggiando l'acqua

«Hai bisogno di altro?» chiese dirigendosi verso la porta afferrando la sua borsa

Io non ci volevo stare da sola, non volevo ritornasse un altro attacco di panico mentre ero da sola, ma non glielo dissi a Luke. Orgogliosa fino al midollo, avrei sputato sangue piuttosto che scoprirmi

«No» non lo ringraziai nemmeno. A quelli come lui, se dai anche una minima soddisfazione, se gli fai capire che avevi bisogno di loro è finita. Ti hanno in pugno. «Non dirlo, ad Ashton» mi uscii dalle labbra secche mentre mi distruggevo le nocche graffiandomele con le unghie. Forse mi aveva già in pugno

Il biondo lasciò la porta mezza aperta con la mano appoggiata alla maniglia, mi guardò, un piccolo sbuffo lasciò la sua bocca, seguito da un sorrisetto amaro e «Quando torna digli di chiamarmi» e si chiuse la porta alle spalle

 

Quando Ashton rientrò io avevo già fatto cena ed ero sul balcone a fumarmi una sigaretta. Sentii solo la porta cigolare, chiudersi e poi il rumore delle doghe del letto che scricchiolavano sotto il peso di mio cugino.

Rientrai ed era già sotto le coperte, mi dava le spalle. «Dove cazzo sei stato tutto questo tempo» perché, forse, la cosa che più odiavo non era non sapere dove fosse stato, ma che mi avesse lasciata da sola

«In giro, ora sono stanco, lasciami stare» per lui la conversazione era finita lì. 

Gli andai vicino e lo presi per le spalle, facendolo girare verso di me. Credevo di avere il diritto di sapere con quale faccia tosta mi avesse lasciata da sola tutto il giorno, con chi fosse stato, dove.

La sua espressione dura non cambiò di un millimetro quando io aggrottai le sopracciglia guardando quegli occhi ambrati e verdi, così simili ai miei, spiccare in mezzo ad livido scuro che gli incorniciava l'occhio destro. Il sopracciglio aveva un taglio profondo con del sangue rappreso.

«Che cazzo hai fatto» mi uscì solo, la rabbia che cresceva dentro mi spezzava, lo stomaco faceva male, quasi da farmi piegare in due

«Niente, vado a lavarmi» disse cercando di alzarsi dal letto. Una smorfia di dolore gli incupì il volto e «Togliti la maglia, Ashton» gli ordinai seria

«No» rispose sostenendo il mio sguardo. Lo sapeva, lo stronzo, che avevo capito

«Togliti quella cazzo di maglia» gli intimai ancora una volta alzando il tono di voce

E se la tolse con una lentezza assurda, perché gli faceva un male cane, perché aveva il petto ricoperto di graffi di un rosso vivo e l'addome pieno di macchie viola, rosse e gialle, vecchie contusioni.

Mi venne da vomitare, a guardare quel corpo giovane così martoriato, sentivo che avrei potuto rigettare fuori tutta la cena.

«Chi è stato» gli chiesi tra i denti, cercando di trattenermi dall'urlare per liberare i polmoni da quel peso che mi schiacciava il petto

Non mi rispose, si rinchiuse nel silenzio che spacca mille vetri e te li conficca nella pelle, facendoti capire che non sono affari tuoi, che non ti devi impicciare nei problemi degli altri. Ma i problemi di Ashton erano i miei, e mi sentivo in diritto di appropriarmene.

Era la seconda volta, che tornava in camera con il corpo segnato, ma voleva continuare ad ignorare la cosa. E come una brava stronza presi ancora del ghiaccio, della crema e del disinfettante e iniziai a mettere a posto il danno. Ferirsi per poi farsi medicare, questo fanno le persone. A quelli come noi hanno insegnato a leccarci le ferite da soli, solo io e mio cugino, ce le medicavano a vicenda

Ashton ogni tanto faceva delle smorfie di dolore, il disinfettante bruciava ed io glielo premevo ancora più forte sui graffi «Mi fai male così» sibilò tra i denti

«Te lo meriti» gli risposi continuando a passargli il cotone sul petto. Ed era vero, se lo meritava il dolore che gli procuravo io.

Ci eravamo curati molte ferite, nel corso degli anni. Quando mi ruppi il labbro cadendo dalla bici o quando mi sbucciai le ginocchia fino alla carne scavalcando il muretto del manicomio abbandonato. Quando lui fece a botte con un ragazzo alle medie avendo la peggio, o quando cademmo insieme dal motorino.

Ma mai, ci curammo le ferite del cuore, perché quelle non si rimarginano.

Era come se quella persona lì davanti fosse sconosciuta, perché con quella pelle così distrutta mi stava sbattendo in faccia il cambiamento, non era più mio cugino Ashton, era solo Ashton e basta.

 

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