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Autore: _Sarah_Hemmings_    24/03/2016    0 recensioni
Whatever: Letteralmente "qualunque cosa". Whatever era Luke Hemmings. Qualunque cosa può essere buona o cattiva. Lui era la seconda.
"Te ne stai andando ancora! Fanculo Hemmings, ti odio" urlai con tutta la rabbia che avevo. A passo svelto mi raggiunse, mi prese per le spalle e mi spinse violentemente contro il muro freddo e scrostato facendo aderire il suo corpo al mio. La mascella serrata, il fiato corto, negli occhi la tempesta nera e buia; le sue mani premevano energicamente sulle mie spalle. Emanava rabbia e odio. Era pronto ad esplodere, come un ordigno distruggendo tutto ciò che avesse attorno. Me.
"Ora mia ammazza" pensai.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Sogniamo sempre di lasciare tutto, prendere le nostre cose e andarcene, far perdere ogni traccia di noi e ricominciare tutto dall'inizio.

Questo è quello che avevo deciso di fare io, scappare per non fare più ritorno.

Era stato facile, mio cugino viveva da qualche anno in un sobborgo alla periferia di Sydney, in un palazzo solo per studenti, credevo che fosse la scelta migliore, forse lo era stata, per il momento.

I tre edifici che si stagliavano davanti a me erano tre, disposti a formare un cortile interno con un lato aperto. Non era tenuti particolarmente bene, lo si notava dalle parti di intonaco che si scrostavano per l'umidità ma, per il prezzo offerto dai proprietari, andava più che bene.

Entrando nell'edificio B, come da istruzioni di mio cugino, sentii subito odore di chiuso e polvere. Ritirate le chiavi nella cassetta della posta salii quattro piani di scale per arrivare alla stanza numero 16.

Entrai con un po' di fatica, la chiave era maledettamente dura e la porta di legno scricchiolava come se potesse rompersi da un momento all'altro.

C'erano due letti, due scrivanie, due armadi, un bagno, una finestra con un piccolo balcone che dava sul cortile centrale e un piccolo vano che ospitava una cucina di dubbio funzionamento.

Dopo qualche ora avevo iniziato silenziosamente a mettere in ordine le mie cose quando, aprendosi la porta con un tonfo «Finalmente sei qui, Shine!» sentii esclamare alle mie spalle. Era lui, la sua voce era inconfondibile.

Ashton Irwin, mio cugino, era caratterizzato perlopiù da una risata senza paragoni, da una mente prevalentemente incline al male, anche perversa sotto certi aspetti, e dall'essere maniacalmente introspettivo.

«Sono qui» proferii semplicemente osservandolo annullare la distanza tra noi per stringermi in un abbraccio.

«Vedo che hai già iniziato a mettere in ordine, ottimo. Vedi di essere pronta per questa sera che ti porto fuori prima dell'inizio delle lezioni domani» disse mentre posava una borsa della spesa sulla scrivania vicino al balcone.

Non potevi dirgli di no, ad Ashton. Quando decideva qualcosa era così e basta e, se qualche condizione esterna non glielo permetteva, lui trovata sempre il modo di riuscirci. Era testardo, come me, le cose dovevano andare come voleva lui. Con l'unica differenza che lui riusciva a imporre il suo volere con una certa calma, io no.

Ruvida, spigolosa e scostante, questa ero io.

«Va bene, ma non iniziare a dare ordini o ti prendo a pugni già da subito» risposi quasi con un tono divertito. Il mio temperamento veniva sempre fuori, ma non con lui.

Mio cugino è sempre stato quella parte della mia personalità che qualcuno, lassù, si è dimenticato di incorporarmi, quel pezzo di me che, staccato dal mio corpo faceva un male cane ma che, standomi vicino, riparava tutte le ferite. Un fratello che mi ero scelta, in un certo senso, il sangue era comunque lo stesso, e non mentiva.

Eravamo identici in tutto e per tutto, quasi come se davvero si fossero dimenticati di assemblarci insieme.

Una risata uscì dalle sue labbra riempiendo la stanza, l'avrei riconosciuta tra mille. Quando Ashton rideva tutto intorno sembrava prendere vita e colore. Avrebbe potuto ridere in un cimitero e sarebbe sembrato meno buio, perché c'era lui ad illuminarlo.

«Ti presento vecchi amici» disse posando la spesa dentro al frigo ingiallito.

Io lo sapevo, che Ashton di vecchi amici non ne aveva, aveva lasciato tutto nella nostra vecchia città, due anni prima. Avevo sentito che lo aveva raggiunto un ragazzo con cui giocava a calcio. Andava in un'altra scuola ma il suo volto lo ricordavo, l'avevo sempre visto di sfuggita quindi, di "vecchi amici", c'ero solo io.

«Giochi a calcio anche qui?» chiesi mettendo la valigia vuota sotto al letto

Girandosi verso di me, un sorriso gli spuntò sulle labbra e «Oh, no. Ho giocato per il primo anno, poi non si guadagnava abbastanza ed ho lasciato perdere» concluse, abbassando un po' il tono sulle ultime parole.

Le potevi decifrare, le espressioni sul viso di Ashton o almeno, potevi provarci, ma mai avresti capito che cosa gli passasse davvero per le testa. Lui, al contrario, era in grado di scavarti dentro e capire ogni minima cosa di te. Questo un po' lo odiavo, ma non glielo avrei mai detto.

La sera stessa, dopo aver consumato in camera la cena cucinata incredibilmente da Ashton, mi portò fuori a vedere cosa ci fosse intorno agli appartamenti.

Ero stanca, ma era così tanto che non passavo del tempo con mio cugino che lo avrei seguito anche tutta la notte.

Anche il nostro modo di camminare era uguale, trascinando quasi le suole delle scarpe sull'asfalto, come se stare in piedi e camminare fosse un peso insostenibile. Eravamo sul marciapiede in una strada illuminata da lampioni esageratamente gialli. Stavamo andando al Phantom, un locale frequentato praticamente solo dagli studenti del borgo lì intorno.

Tra una sigaretta e l'altra «Allora, stronzetta» cominciò. Mi aveva sempre chiamata così, non gli avrei dato contro, aveva ragione.

«Che cazzo vuoi» gli risposi sorridendo ma con una nota di acidità. Iniziare le frasi con "allora", per Ashton, equivaleva al farti un'analisi a raggi x per capire cosa ci fosse nella tua testa. Ti entrava dentro e si piazzava lì, al centro, aspettando insistentemente qualche segno di cedimento.

«Mi chiedevo solo perché non fossi venuta subito con me, ma mi abbia raggiunto dopo due anni» rispose con fare ovvio facendo spallucce. Di ovvio non c'era proprio niente.

Quello che invece mi chiedevo io, era perché fossero sempre necessarie spiegazioni.

«Mi andava» risposi semplicemente, lanciando la sigaretta spenta in un tombino a lato della strada

Il nostro legame era così, sapeva quando era il momento per parlare e quando no, quando era il momento di smetterla e lasciarmi perdere o quando insistere. Lo sapeva ma, come d'altro canto sapevo io, era terribilmente ostinato, uno stronzo patentato.

«Shine, non mi prendere per il culo» proferì in tono serio «Una come te non decide e basta. Una come te pensa, ragiona, non fa mai niente per caso» concluse, quasi più per convincere sé stesso del fatto che avesse fatto centro.

«Ora non mi va»

La discussione era chiusa, ed Ashton se ne era fatto una ragione, perché mise le mani in tasca e continuò a camminare guardando avanti, con la sua camminata svogliata ma allo stesso tempo fiera, intimidatoria.

Pochi minuti dopo ci ritrovammo davanti al locale, moderno, pieno di vetrate e gente all'interno che ballava sul ritmo di una musica che, dall'esterno, era ovattata. Le luci blu e viola giravano e ti finivano in faccia accecandoti per un secondo.

Non mi erano mai piaciuti i locali affollati, o i locali in generale, ma mio cugino mi aveva assicurato che ci saremmo seduti in un tavolo, separato dalla ressa, con questi suoi amici.

Mi prese per mano e mi trascinò in mezzo alla pista, facendosi spazio per arrivare ad una rampa di scale che portava al piano superiore del locale. Ogni due passi mi sbatteva contro la schiena di qualcuno e quel contatto di faceva rabbrividire, portandomi a stringere ancora di più la mano di Ashton che, istintivamente, piegò il braccio facendomi avvicinare a lui e proteggermi da quella ressa di persone.

Salimmo le scale e ci dirigemmo verso un tavolo nell'angolo destro della sala, dove un gruppo di ragazzi facevano cenno ad Ashton.

«Ce l'hai fatta amico» esclamò un ragazzo dai capelli rossi fuoco

«Abbiamo mangiato tardi» rispose mio cugino mentre ci sedevamo da un lato del tavolo

«Lei è Shine, ma già lo sapete» esclamò Ashton prendendo il menù dei cocktail.

Il ragazzo dai capelli rossi mi guardò e «Cavolo, sapevo che tu ed Ash vi somigliaste, ma sei la sua versione con i capelli neri lunghi e gli occhi verdi!», ridendo tra sé e sé

Non era il primo che ce lo diceva, fin da piccoli ci avevano sempre scambiati per gemelli, andavamo in giro rigorosamente insieme, se non c'era uno non c'era neanche l'altro.

«Ecco, lui è Michael, ci conosciamo da tanto tempo» si intromise Ashton

Io, quel tanto tempo, non sapevo cosa volesse dire. Ero stata nella vita di Ashton per diciotto anni, e questo Michael non lo conoscevo proprio, probabilmente non era neanche della nostra città. Mi stavo chiedendo che cosa fosse cambiato in Ashton in questi due anni di lontananza, chi fossero questi amici che prima non aveva

«Io sono Calum» mi sorrise il ragazzo alla mia destra, moro con gli occhi scuri come la notte. Era il ragazzo che giocava a calcio con mio cugino, me lo ricordavo ma non ci eravamo mai presentati

Un ragazzo solo, rimase in silenzio, seduto a capotavola, opposto a me. Guardava insistentemente il suo telefono ed era come se intorno a lui non stesse accadendo niente. La luce del cellulare gli illuminava leggermente il volto nella penombra del locale, ma non ne distinsi bene i lineamenti fino a che «Lui, invece, è Luke» lo presentò il ragazzo dai capelli rossi, dandogli una gomitata sulla spalla

Il ragazzo alzò lo sguardo dall'oggetto che catturava la sua attenzione. Capelli biondi, occhi che, in confronto ai miei, sembravano le onde del mare che sbattevano contro le rocce.

Uno sguardo lungo, secondi che mi parvero minuti. Sembrava volesse entrarmi dentro talmente aveva lo sguardo fisso. Non li mollai, i suoi occhi.

Un cenno del capo, di questo mi degnò, poi ritornò a guardare il suo telefono come se nulla fosse.

Dopo aver ordinato da bere i ragazzi parlavano tra di loro prevalentemente di musica e dell'inizio della scuola il giorno successivo. Stavano pianificando di stare fuori fino a tardi, o almeno credo, perché tutta la mia attenzione era concentrata sul ragazzo seduto opposto a me, ancora con lo sguardo sul cellulare.

Ogni tanto prendeva il bicchiere e beveva un sorso dalla cannuccia, senza alzare gli occhi, con movimenti meccanici.

Non riuscivo a decifrarlo e questo mi dava enormemente fastidio. L'indifferenza, quella non mi andava giù, rimaneva bloccata alla bocca dello stomaco. Fastidiosa, fu l'unica parola che mi permise di descrivere la sua presenza

«Hai finito?» sentii improvvisamente uscire dalle sue labbra. Un tono secco.

Probabilmente lo avevo sentito solo io, perché nessuno dei tre ragazzi sembrò girarsi o essersi reso conto che il biondo aveva parlato.

«Come scusami» un'affermazione più che una domanda, la mia.

«Ti ho chiesto se hai finito di guardarmi» rimbeccò bloccando lo schermo del telefono, mettendoselo in tasca e alzando lentamente la testa, incastonando i suoi occhi azzurri nei miei.

Un nodo alla gola per quel tono saccente e spocchioso. Aveva la faccia di uno che prenderesti a schiaffi, talmente ha un atteggiamento odioso. Impassibile in viso ma con le sopracciglia alzate, con aria di sfida.

«Ti fossi presentato sarebbe stato educato» risposi di getto, acida

«Perdonami, se non ti ho prestato tutte le mie attenzioni» disse con un cenno della testa, prendendo poi un pacchetto di sigarette e tirandone fuori una. Se la mise tra le labbra e continuò a guardarmi. Stava aspettando una mia risposta, lo stronzo.

Il mio cuore iniziò a battere così forte che pareva volesse uscire dalla cassa toracica, sentivo il battito nelle orecchie. Conoscevo bene quella sensazione, mi stavano saltando i nervi.

Gli feci il dito medio e «Vai al diavolo» sorrisi un istante, un fugace sorriso di scherno, per poi tornare seria.

Luke scosse leggermente la testa, con un sorrisetto fastidiosamente beffardo, poi si alzò e «A domani ragazzi» disse allontanandosi da tavolo.

Tutti lo salutarono, come se non si fossero resi conto del nostro scambio di parole.

Io rimasi con la testa girata a fissarlo andare verso le scale, scendere e dirigersi all'uscita del locale.

«Tutto bene?» mi chiese Ashton. Mi conosceva troppo bene, come sé stesso, per non accorgersi dello sguardo inceneritore che avevo in quel momento

«Sì, tutto bene» mi girai verso di lui «Hai un amico che è proprio uno stronzo» constatai

«Lascialo perdere» disse solo sottovoce

«Se ha il tuo stesso carattere se lo sbrana, a Luke» constatò Michael mentre prendeva l'ultimo sorso dal suo cocktail

«No, lui la farebbe uscire fuori di testa per quanto è stronzo»

Parlavano tra di loro come se non fossi lì. Ancora con la scarica di adrenalina che mi percorreva il corpo. Litigare mi veniva bene, non che fosse un vanto, ma ero così testarda che avrei vinto qualunque discussione.

«È arrogante» conclusi finendo anche io il contenuto dolciastro del mio bicchiere

A me bastava una scintilla per innescare un casino. L'odio era ciò che mi caratterizzava, non potevo farci niente, così ci ero nata. Difficile cambiare qualcosa di innato e questo, Ashton, lo sapeva meglio di me. Crescendo lui aveva mitigato questo atteggiamento di ostilità nei confronti di qualunque persona, aveva imparato a odiare quando era giusto e a calmarsi quando necessario.

E lo fece anche per me, poggiandomi una mano sul polso, facendolo smettere di tremare.

Lo sapevo riconoscere, io, uno da cui stare lontana. Luke era uno di quelli.

   
 
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