Quando gli angeli meritano di morire

di MrEvilside
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Colpa del Cielo ***



Capitolo 1
*** Preludio ***


Preludio


Non sapeva dove si trovasse. Lo avevano bendato, braccia e gambe erano inchiodate a una sedia di metallo dallo schienale reclinabile e le ali erano state ripiegate malamente tra schiena e poltrona, bloccate da cinghie robuste, che gli impedivano di aprirle e lo ferivano quando tentava di muoverle.

Sentiva il sangue colare lentamente a terra dai fori nelle braccia, dov'erano stati confitti gli aghi, e le lacrime impregnare la stoffa premuta sugli occhi.

«Non si doveva arrivare a questo» osservò una voce da qualche parte di fronte a lui. Il tono era cupo e glaciale, come congelato da un profondo furore. «Avresti dovuto essere una cavia volontaria. Pensavo che fossi fedele alla causa».

L'angelo prese fiato diverse volte, l'aria che raschiava dolorosamente contro la gola, prima di riuscire a rispondere. «Lurido bastardo». Gli tremavano le braccia, le siringhe affondavano di più nella pelle a ogni spasmo. «Sono stato cieco, ho avuto davvero fiducia in te. Ma adesso mi rendo conto che il tuo intento è puro egoismo. Non meriti il posto che ti abbiamo dato, né la fiducia che ti è stata accordata». Sputò per terra, non sapeva se saliva o anche sangue. «Puoi uccidermi, ma non riuscirai a portare a termine la tua follia».

Per un momento vi fu silenzio. Nessuna delle sue provocazioni venne accolta. Al contrario, il suo interlocutore rimase maledettamente calmo. «Non ho intenzione di farlo. Per la verità, spero che tu sopravviva. Syn, procedi».

Seguì un rumore di passi cadenzati, ma lui sapeva di non essere stato lasciato solo. Nel silenzio e nell'oscurità, continuava a percepire la sua presenza e quella dell'assistente. Aveva provato a parlarle, a convincerla dell'enormità del loro errore, ma Syn si era rifiutata di ascoltarlo: la sua lealtà andava solo al suo superiore. Saperla così vicina e determinata a tradirlo – a tradire un membro della sua stessa specie – era peggio della sofferenza fisica.

"Che cosa ci ha fatti diventare?"

All'improvviso udì un fischio, come una perdita d'aria, una serie di rumori metallici provenienti da dietro di lui e qualcosa che si faceva più vicino, fino a fermarsi al suo fianco. Doveva essere una sorta di strumento meccanico, che iniettò un qualche fluido negli aghi. Attese, fremente, aspettandosi di provare dolore da un istante all'altro.

Ma fu una sofferenza talmente devastante che, pur consapevole dell'arrivo imminente, non riuscì a trattenere un grido lacerante. Tese i muscoli allo spasimo, del tutto incurante dei legacci che sfregavano contro polsi, collo e caviglie. Niente era paragonabile all'iniezione.

Alla fine, però, prosciugò ogni energia, il corpo si rilassò, troppo indebolito per reagire ancora, e la testa era così pesante che fu un sollievo appoggiarla allo schienale e chiudere gli occhi.

La donna digitò rapidamente sulla tastiera del computer, senza mai staccare lo sguardo dal monitor olografico, quindi fissò il corpo accasciato sulla sedia. Solo il petto che si sollevava e abbassava confermava che era ancora in vita. Syn spostò di nuovo l'attenzione sullo schermo e decifrò i dati che vi si susseguivano in tono d'approvazione: «La trasfusione è avvenuta senza alcun problema. Il soggetto ha superato la prima fase con successo».

L'uomo le si avvicinò e si chinò per esaminare a sua volta le file di codici sul desktop. «Ottimo» annuì compiaciuto. «Monitora l'evolversi della situazione e tienimi aggiornato. Passeremo alla fase due appena il siero avrà fatto effetto».

A meno che non si fosse innescata la reazione di rigetto che avrebbe distrutto sia le nuove cellule che il corpo ospitante – com'era accaduto durante ogni altro esperimento. Non lo disse, ma quella minaccia alitava sul collo di entrambi come la spada di Damocle.

Aggirò la scrivania, salì i pochi scalini che conducevano alla piattaforma dove si trovava la sedia di metallo, sopraelevata rispetto al livello del pavimento, e si fermò davanti alla cavia tramortita.

«Non volevo che finisse così, Hevel» sospirò, sebbene lui non potesse udirlo.

Alle sue spalle si levò la voce inquisitoria dell'assistente. «Come l'ha chiamato, signore?»

Lui si riscosse dalla sua contemplazione e si girò per metà, per incrociare lo sguardo di lei con la coda dell'occhio. «Ero sovrappensiero. Adesso puoi andare, Syn».

Lei chinò bruscamente il capo, batté un'altra sequela di comandi sulla tastiera e si allontanò senza una parola. Passando davanti all'uomo svenuto, gli lanciò un'occhiata di sottecchi, ma non indugiò oltre e lasciò il laboratorio.

Rimasto solo, l'uomo si chinò sul volto addormentato e sfiorò quella fronte gelida con la propria, tiepida.

Poggiò le labbra sulle sue, sebbene sapesse che, se Hevel fosse stato davvero in punto di morte, non avrebbe mai accettato il Bacio Ultimo da lui. C'era stato un tempo in cui non avrebbe desiderato quello di nessun altro, ma era soltanto un ricordo dolceamaro. Era stato lui stesso a porvi fine, in nome di un obiettivo ben più grande, che Hevel non aveva voluto condividere.

Aveva compiuto un sacrificio, rinunciando alla persona più importante della sua vita.

In cambio, avrebbe avuto il mondo.

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


Time Is Running Out dei Muse rimbombava graffiante nelle cuffie dell'iPod. Steso supino sul letto, Gabriele dondolava pigramente le gambe oltre il bordo, muoveva appena le labbra per mimare in silenzio le parole della canzone e cuciva insieme due pezzi di finta pelle nera con uno spesso filo azzurro.

Accanto a lui, sopra il piumone verde chiaro, giaceva una scatola aperta: conteneva una parrucca di lunghi capelli color acquamarina, avvolta con cura in un sacchetto di plastica, una serie di catenelle da appendere ai pantaloni, bracciali borchiati, un piccolo contenitore di lenti a contatto colorate, un panciotto di lucida pelle nera e una cravatta a righe nere e blu fluorescente. Il coperchio della scatola era abbandonato sul pavimento, vicino a un paio di stivali neri con zeppe e cinghie.

Sebbene se la cavasse con ago, filo e un po' d'inventiva, non era abbastanza bravo da prepararsi da solo un intero costume. Aveva ordinato la parrucca su eBay e l'aveva acconciata seguendo un tutorial su YouTube; per recuperare il resto, invece, aveva saccheggiato i due negozi di abbigliamento dark della città.

L'unico dettaglio che gli mancava era una croce da appuntare sopra il taschino del panciotto; aveva ottenuto la stoffa da un vecchio giubbotto da motociclista che non gli stava più e il filo da una scatola di materiali per il cucito che apparteneva a sua madre. Per quale motivo, dal momento che lei non sarebbe riuscita a fare neppure un punto croce, Gabriele non ne aveva idea.

Sul finire della canzone, qualcosa di scuro e pesante invase il suo campo visivo e quasi lo fece pungere con l'ago.

Identificato l'oggetto volante come un'innocua felpa, il ragazzo si drizzò a sedere, si tolse gli auricolari, spinse da parte l'iPod spento, l'ago e la croce ancora incompleta e rifilò un'occhiataccia al colpevole sulla soglia della camera. «Ehi. Che ci fai qui?»

«Passavo» fu la replica noncurante del ragazzo di fronte a lui. Abbozzò un sorriso sardonico e allargò le braccia con la faccia da schiaffi di uno che stia spiegando un'ovvietà a un bambino stupido. «Sai com'è, vivo dall'altra parte della strada».

Claudio era il suo vicino di casa e miglior amico da sempre. Era stato lui a iniziarlo alla cultura fumettistica giapponese, quando Gabriele era ancora un bambino di terza elementare, mentre l'altro ragazzo era già un navigato alunno di prima media, ormai alle soglie della pubertà.

Alto e allampanato, portava i capelli castano scuro tagliati molto corti, a spazzola, e dietro le lenti spesse degli occhiali da vista aveva acuti occhi verde muschio.

L'intruso indicò la scatola con un cenno del mento. «Tiro a indovinare: Rosiel di Angel Sanctuary

«Ho pensato a una versione gothic» precisò Gabriele, con un indice sollevato. «Per la prossima fiera di manga».

«Dovresti uscire più spesso, lo sai?» suggerì l'amico, senza celare il proprio sarcasmo. «Tanto per non sembrare troppo complessato».

«E tu dovresti farti di più i fatti tuoi» gli fece eco Gabriele in tono piatto, mentre insinuava la testa nella felpa viola che l'amico gli aveva lanciato e che gli nascondeva un sogghigno. Di qualche taglia troppo grande, si afflosciava mollemente su di lui e dal colletto troppo largo spuntava l'orlo della maglietta nera che portava sotto.

«Allora, come va il tuo libro? Quante righe mancano per arrivare a pagina sessantatré?» domandò poi, con aria di falsa innocenza. Strisciò verso il bordo del letto e indossò un paio di Converse a quadri viola e neri, che si stringevano ai lati e si allungavano alle estremità e facevano sembrare i suoi piedi ancora più grandi di quanto già non fossero. "Scarpe da clown", le definiva scherzoso suo padre.

Claudio contorse un angolo della bocca in una mezza smorfia. «Sei dolce come acido solforico» lo accusò, sardonico, puntò le mani sui fianchi e ammiccò verso la porta. «Muoviti, prima che mi passi la voglia di portarti in fumetteria e costringerti a un po' di sana vita sociale».

Da più di un mese non riusciva a uscire da un blocco dello scrittore alquanto traumatico e diventava piuttosto irritabile alla più insignificante menzione del suo romanzo, ostinatamente incompiuto.

Gabriele inarcò un sopracciglio, in un muto siamo pari, ma suo malgrado la prospettiva del negozio di fumetti aveva risvegliato il suo interesse. «E se io non volessi una vita sociale?» obiettò, anche se stava già chinandosi sul coperchio della scatola. «Magari mi bastano il computer e l'iPod per sopravvivere felice e appagato».

«Sì, come un eremita new age» ribatté Claudio, caustico, e risero entrambi.

Gabriele ripose il costume nell'armadio, prese il cellulare dalla scrivania e lo precedette fuori dalla stanza, la prima del corridoio del primo piano. Dalla cima delle scale avvertì ad alta voce sua madre che sarebbero usciti e scese senza aspettare una replica.

Parlavano di rado e le loro poche conversazioni gravitavano sterili intorno al suo andamento scolastico, oppure evolvevano in aspre discussioni.

Lei e il padre, che adesso viveva fuori città per lavoro, avevano divorziato quando Gabriele era ancora bambino e qualche anno più tardi Clarissa aveva trovato un nuovo compagno. Non era tanto la relazione a infastidirlo, in realtà era felice che lei avesse superato il matrimonio deragliato e il suo secondo marito gli piaceva, ma non le aveva perdonato d'essere venuto a saperlo soltanto per caso, una tarda sera dei suoi otto anni, bussando alla porta della sua camera da letto dopo essere stato svegliato da un incubo.

La rampa di scale si affacciava su un piccolo ingresso, che comunicava a destra e a sinistra con la cucina e il soggiorno. Passando davanti alle due stanze, Gabriele lanciò un'occhiata di sfuggita all'interno, ma erano entrambe vuote. Forse sua madre era in camera, oppure in bagno. Non era nemmeno sicuro che avesse sentito il suo avvertimento, ma aveva fatto entrare Claudio, quindi non si sarebbe sorpresa se anche non li avesse trovati in casa. Esitò ancora un momento, combattuto, poi rintanò le mani nelle tasche e infilò la porta d'ingresso.

La bifamiliare dove abitava con Clarissa e il compagno era sul ciglio di un quartiere alla periferia della città, non lontano da una vecchia chiesa. Le altre case della loro sponda erano simili l'una all'altra, anonime e regolari, con esterni verniciati di bianco o vaniglia, giardini curati e tetti di tegole rossicce, tinteggiati d'argento da qualche sporadico pannello solare.

Il versante opposto della strada proponeva invece una fila di condomini di tre piani, ognuno dei quali differiva dal vicino solo per il colore e la fantasie delle colonnine in ferro battuto dei muretti.

La sua famiglia possedeva un cortile modesto, tagliato in due da un vialetto e cinto da alte siepi che offrivano al giardino una certa intimità, per compensare il fatto che a separare l'edificio dalla carreggiata c'era solo mezzo metro di marciapiede.

Dario, il compagno della madre, tagliava l'erba ogni due settimane – ci teneva che non fosse mai più alta di una manciata di centimetri – e si occupava dei vasi di fiori esotici dalle decorazioni più stravaganti, che fiancheggiavano il vialetto. Il prato era invaso da fiori campestri, margherite, viole, campanule e nontiscordardimé, e in primavera era infestato di api e farfalle.

Ora, in autunno inoltrato, l'erba era ingiallita, le punte tristi degli steli si piegavano all'ingiù, e i pochi fiori rimasti parevano sparute ciocche di capelli sulla testa di un uomo con la calvizie.

Gabriele seguì l'amico attraverso il cortile e chiuse il cancello dietro di sé. Il meccanismo scattò con un familiare squittio metallico.

Salirono sulla vecchia Punto di Claudio, parcheggiata lungo il marciapiede, e il suo proprietario dovette fare diversi tentativi prima di riuscire ad avviare il motore, che si attivò senza mancare di far notare sonoramente il proprio risentimento.

La fumetteria più vicina era in una tranquilla area urbana ai margini del centro della città, non troppo distante dal cuore pulsante della metropoli e al tempo stesso protetta dal trambusto e dallo smog. Nei dintorni c'erano un grande parco, sempre affollato di bambini con i nonni e adulti che facevano jogging, e una gelateria che una lavagna appesa alla porta giurava vendesse solo gelato artigianale al cento percento.

Il negozio era al pianterreno di un condominio grigio chiaro, largo e tozzo, dal tetto piatto.

Gli appartamenti del piano superiore vantavano dei piccoli terrazzi affollati dalle piante, alcune delle quali erano rampicanti e avevano conquistato buona parte della facciata.

Un'insegna al neon intermittente sormontava l'entrata e battezzava romanticamente la fumetteria Nero su bianco; in vetrina erano esposti i poster, i pupazzi e le action figures più grandi, che all'interno avrebbero occupato troppo spazio. Spazio che comunque non avrebbero trovato nel piccolo locale ingombro: un basso tavolino rettangolare, dove venivano accumulati i nuovi arrivi, divideva in due sia l'ambiente che la merce; sul lato destro, diversi scaffali allineati lungo le pareti sfoggiavano pile di testate americane e fumetti italiani ed europei, mentre a sinistra altrettanta mobilia ospitava invece file di manga di ogni genere.

Cataste meno ordinate di fumetti e manga di seconda mano, pupazzetti, spille, bustine di carte collezionabili e portachiavi erano affastellati sul bancone in fondo alla stanza, vicino alla cassa ricoperta di adesivi di gruppi rock. Dietro il mobile, sui cinque ripiani di un armadio trasparente erano esposte delle action figures di varie dimensioni. Una delle ante di vetro, di solito sigillate, era spalancata e il titolare, con le spalle rivolte all'entrata, sistemava nello scomparto più alto un modellino di Miku dei Vocaloid.

La statuetta era alta una quindicina di centimetri, portava un succinto abitino nero dalla scollatura generosa e brandiva un microfono dello stesso colore vicino alle labbra, mentre l'altra mano era poggiata sul fianco. Il proprietario emise un verso di disapprovazione e distese il braccio snodabile verso l'esterno, quindi, soddisfatto, richiuse l'anta e diede due giri di chiave.

Quando si voltò, i suoi occhi nocciola, sgranati per la sorpresa, apparirono ancora più grandi dietro le lenti rotonde degli occhiali alla Harry Potter. «Ehi, ragazzi» li salutò in tono familiare ed esibì un ampio sorriso di benvenuto. «Non vi avevo sentiti arrivare».

Era il prototipo del ventenne nerd, goffo e allampanato, occhiali compresi, ma era anche piuttosto carino: aveva un volto dai lineamenti puliti e regolari, sbarbato con cura e incorniciato dai capelli castani, che raccoglieva sempre in un codino, e un fisico asciutto dai muscoli robusti, nonostante avesse detto loro di aver smesso di praticare taekwondo da diversi anni.

Indossava un paio di jeans e una t-shirt bianca con una stampa dei Vendicatori che risaltava la carnagione caffellatte. Sarebbe stata troppo leggera per affrontare il clima rigido d'autunno inoltrato, ma all'interno del negozio la temperatura era molto più clemente.

Per qualche motivo Gabriele si chiese se fosse sincero; non era la prima volta che aveva l'impressione che li accogliesse con uno stupore eccessivo, posticcio, come se in realtà li stesse aspettando. Paranoico, si rimproverò tra sé. "Non siamo mica in un film di spionaggio". Ad alta voce invece disse: «Ehi, Luka. Come va?»

Il negoziante si strinse nelle spalle con noncuranza. «Il solito. Posso fare qualcosa per voi?»

«Per me sì». Claudio si fece avanti, accostandosi al bancone, e puntò il pollice all'indietro verso il suo accompagnatore con aria di superiorità. «Il vegetale è qui perché sono stato abbastanza magnanimo da decidere di non abbandonarlo alla sua triste vita da vegetale».

Gabriele lanciò un'occhiata implorante al cielo. «Mi piaceva quella triste vita».

Da dietro il banco provenne la risatina divertita di Luka, che si era rannicchiato per frugare in alcuni cassetti. Poco dopo riemerse, vittorioso, e mostrò a Claudio il frutto della sua ricerca: una pila di manga dove aveva appiccicato un post-it con il nome del cliente scarabocchiato sopra in una calligrafia indecifrabile.

«Sono arrivati la settimana scorsa e ho pensato di metterteli da parte come al solito» spiegò, raddrizzò gli occhiali sul naso e prese una busta di plastica dal mucchio caotico accanto alla cassa.

L'ordine meticoloso in cui teneva la merce aveva un che di maniacale, per certi versi inquietante; quello con cui si preoccupava del resto, al contrario, non poteva neppure essere definito «ordine», quanto piuttosto l'ostinato tentativo di ottenere l'effetto opposto.

Claudio si piegò sui dorsi dei volumi e si assicurò che fossero tutti quelli che cercava. L'ampiezza del suo sogghigno compiaciuto non lasciava adito a dubbi. «Sai che potrei sposarti?»

Poco lontano, in equilibrio sulle punte dei piedi per leggere i titoli degli arretrati disposti sugli scaffali più alti, Gabriele finse una plateale indignazione, ma non distolse l'attenzione dalla sua occupazione. «Mi tradisci così, alla luce del sole? Con lui?»

«Non avevo capito che la monogamia fosse un obbligo, quando ho acconsentito al matrimonio!» chiocciò Claudio in tono scandalizzato.

Con la coda dell'occhio, Gabriele vide l'amico porgere una banconota al negoziante in cambio di una sporta ricolma e lasciò perdere la propria spedizione ricognitiva, che si stava rivelando improduttiva.

Aveva già una replica sagace sulla punta della lingua, ma le parole assunsero il sapore acre del marcio quando si girò verso l'uscita.

Impietrito, fissò attraverso il vetro della finestra la figura in piedi in mezzo alla via, che ricambiò il suo sguardo dalle profondità di tenebra di due iridi nere incastonate in un viso magro e pallido, androgino. Il resto del corpo era infagottato in un lungo impermeabile scuro, troppo ampio per la sua figura sottile, troppo pesante per la stagione ancora mite.

Gabriele l'avrebbe bollata come semplice coincidenza, non fosse stato per l'intensità di quegli occhi e per l'assoluta certezza che lo stavano scrutando da prima che lui ne notasse il proprietario. Aspettò che quello spostasse l'attenzione altrove, ma non accadde.

Di secondo in secondo quello sguardo pareva farsi sempre più ossessivo e penetrante, si insinuava sotto la sua pelle e gli congelava il cuore, riempiva il suo cervello di tossine di paura. Il tempo si dilatò, il chiacchiericcio di Claudio e Luka si attutì e infine fu escluso dalle sue percezioni. Nel suo mondo rimasero soltanto lui e il misterioso sconosciuto.

Trasalì al contatto improvviso della mano di Claudio con la sua spalla e precipitò brutalmente nella realtà.

«Ehilà, Bella Addormentata?»

Gabriele batté le palpebre, come un cervo accecato dai fari di un'auto, e a fatica registrò che la macchia indistinta che gli svolazzava di fronte era il palmo dell'amico e quello che aveva scambiato per una cacofonia senza senso era in realtà un suo commento ironico.

Senza rispondergli, guardò ancora fuori dalla finestra, ma non c'era più nessuno che somigliasse all'uomo strano con il cappotto scuro. Un gruppetto di ragazzini in skateboard sfrecciò davanti alla fumetteria, un ragazzo e una ragazza camminavano mano nella mano e ridevano di qualcosa, un anziano donnone strizzato in un abito rosa chiaro passeggiava con il nipotino di pochi anni, che cavalcava entusiasta un triciclo azzurro e bianco.

«Gabe, ma dormi in piedi?» insistette Claudio, brioso solo in parte. «Da quanto tempo è che non esci dalla tua stanza, così, a scopo informativo?»

E all'improvviso Gabriele lo sentì.

Quella che alla vista dell'uomo con l'impermeabile era stata soltanto una vaga, incomprensibile sensazione di turbamento in un secondo si abbatté su di lui con l'impeto burrascoso dell'oceano in tempesta.

Era vicino. Non più fuori, ma dentro il negozio.

Sconvolto da quella cosa appena esplosa dentro di lui, si voltò di scatto.

Claudio era dietro di lui, gli teneva ancora la mano sulla spalla e la tracolla rigonfia tradiva la posizione della busta degli acquisti. Alla cassa, Luka gli restituì lo sguardo, il sorriso scherzoso cristallizzato sulle labbra.

Poi c'era lo sconosciuto, in piedi accanto a Claudio come se fosse sempre stato lì, che lo scrutava con quei suoi occhi simili a voragini senza emozione. Il suo corpo era ricoperto da un'impalpabile membrana biancoazzurra che emanava un tenue chiarore, quasi invisibile alla luce del tardo pomeriggio, e impugnava una daga sulla cui lama danzavano fiamme di un lucore minaccioso, disegnando immagini di sangue e morte.

Quando l'uomo si mosse, preciso e fulmineo, tutto ciò che lo sguardo di Gabriele riuscì a catturare fu il luccichio intorno a una mano – non quella che brandiva l'arma, si rese conto con estremo sollievo – che scattava in avanti e il volto di Claudio che si contraeva in una smorfia di dolore e sgomento mentre il suo aggressore piantava il braccio nel suo corpo fin quasi al gomito, al di sopra dei reni, lo piegava come per afferrare qualcosa e lo estraeva con lo schiocco lugubre di un chirurgo che sfilava un bisturi dal corpo del paziente.

Di colpo il mondo si svuotò di ogni suono, odore e colore.

Sprofondato in quel limbo di chi non ha ancora realizzato di essere disperato, dove la sofferenza non attacca subito, ma si apposta nell'oscurità e ghermisce la vittima senza alcun preavviso, Gabriele spalancò la bocca, ma, se ne uscì un lamento, non riuscì a sentirlo. Fissava rapito il suo migliore amico che barcollava in avanti, crollava in ginocchio e si accasciava su un fianco. Fissava la sua felpa nera con il fungo bianco e verde di Super Mario, nel punto in cui stoffa e carne avrebbero dovuto essere squarciate e invece non c'era neppure uno strappo.

Notò appena Luka che scavalcava il bancone, il viso una maschera d'acciaio e furia che non gli aveva mai visto.

Il negoziante si avventò sul misterioso aggressore, lo afferrò per le spalle e lo strattonò all'indietro, lontano dalla sua vittima.

Quello si divincolò e provò a colpirlo, ma Luka gli bloccò le braccia lungo i fianchi e lo scaraventò contro uno degli scaffali. Sbilanciato dall'urto, il mobile si inclinò pericolosamente in avanti, perse l'equilibrio e rovinò addosso allo sconosciuto. Questi però fu più svelto e si gettò sul suo avversario, mulinando la spada nell'aria come se volesse tagliare anche quella.

Fu come se qualcuno avesse fatto ripartire una pellicola: il tonfo dello scaffale e il frusciare dei fumetti che si sparpagliavano a terra martellarono i timpani di Gabriele, l'odore del metallo gli pizzicò le narici e le tinte vivaci dello scontro e dell'amico riverso a terra gli ferirono la vista.

Il ragazzo si accovacciò accanto a Claudio, lo scrollò e lo aiutò a tirarsi a sedere. O meglio, poiché non dava alcun segno di vita, lo sollevò di peso da terra e lo adagiò con la schiena contro una scaffalatura.

Claudio era pallido e respirava a fatica, rumorosamente, come se qualcosa gli ostruisse la gola. Perlomeno respirava, si sforzò di consolarsi Gabriele, e non c'era traccia di sangue. Quando però provò a scuoterlo di nuovo, emise un mugolio lamentoso che gli fece accapponare la pelle.

"Svegliati", sbottò tra sé, ma non osò parlare ad alta voce per non attirare attenzioni indesiderate. "Dio mio, svegliati..."

Prese una decisione in fretta, caricò il braccio all'indietro e gli sferrò uno schiaffo sulla guancia con l'urgenza dettata dalla paura. Questa volta ottenne che l'amico sollevasse le palpebre sugli occhi rovesciati all'indietro, segnale che non era ancora del tutto cosciente, e dopo un altro strattone riuscì a indurlo a riaversi.

Claudio aveva lo sguardo annebbiato dal torpore e contrasse la mascella in una smorfia quando tentò di raddrizzarsi. «Che diavolo...?»

Gabriele lo tacitò con un cenno e un'occhiataccia, si passò un suo braccio intorno alle spalle e insieme si trascinarono in piedi aggrappandosi alle mensole dello scaffale. Alla vista del combattimento – i colpi si susseguivano così svelti da ambo le parti che non si capiva chi fosse in vantaggio – Claudio divenne ancora più bianco, strinse i denti per ingollare il dolore e seguì Gabriele verso l'uscita alla massima velocità che le gambe molli gli consentivano.

Arrivarono a poche decine di centimetri dalla porta e Gabriele stava già tendendo una mano verso la maniglia, quando l'aria fischiò dietro di loro e li paralizzò sul posto.

In un secondo che parve in contemporanea interminabile e troppo rapido, con la coda dell'occhio Gabriele colse una saetta azzurrina e percepì lo spostamento d'aria investirgli la schiena. L'attimo passò e la daga penetrò fino all'elsa nella cornice della porta, quindi si sciolse come fosse fatta di burro e si lasciò dietro solo una pioggia di scintille innocue.

Mentre spintonava Claudio oltre l'uscio, Gabriele si guardò indietro un'ultima volta e scoprì che entrambi i contendenti luccicavano di quella cortina bluastra e lottavano con furia a mani nude, poiché Luka stava costringendo l'avversario a un corpo a corpo serrato per impedirgli di sfoderare ancora la spada.

I loro sguardi si incontrarono per un istante da sopra la spalla dell'assalitore con l'impermeabile, quello del titolare denso di nubi furiose, quello di Gabriele sconcertato e terrorizzato, e l'uomo lo incalzò duramente: «Vattene!»

«Gabe?» intervenne anche Claudio, la voce fievole, simile a un filo sul punto di spezzarsi.

Fu quella debolezza inquietante a risvegliarlo. Senza indugiare oltre, si richiuse la porta alle spalle e trasportò l'amico fino alla Punto, per fortuna parcheggiata poco distante.

Non c'era nessuno in giro cui chiedere aiuto; a quell'ora erano aperti i locali e le boutique del centro, che richiamavano sia visitatori sia residenti appena usciti dal lavoro. D'altra parte, se anche si fossero imbattuti in qualcuno, meditò Gabriele, come avrebbe potuto spiegare che erano stati attaccati da un individuo che emanava luce? Nel migliore dei casi sarebbero stati presi per due ragazzini in vena di scherzi.

Al contrario, Claudio era tutto meno che gioviale. Esalò un sospiro di sollievo quando poté sedersi di nuovo in auto e gli lanciò un'occhiata attraverso gli occhi socchiusi mentre Gabriele aggirava la vettura e saliva al posto dell'autista.

«Okay» borbottò Gabriele, rivolto a entrambi, frugò nella tracolla dell'amico, estrasse la chiave e la infilò nel cruscotto. «Okay, va tutto bene. Ti porto a casa. Subito».

«Gabe...» Il suo nome, pronunciato in quel mormorio patetico, gli strinse il cuore. «Che cosa mi succede...?»

«Starai bene» rispose e si augurò che fosse vero, grato di avere la scusa della guida per non dover assistere allo spettacolo pietoso della sua sofferenza. «Ti giuro che starai bene. Ti sto portando a casa».

Più si allontanavano dalla fumetteria, più l'assurda sensazione di conoscere con precisione la posizione del loro assalitore si affievoliva, finché a un certo punto smise di avvertirla.

Negli orari di punta, il tragitto fino al loro quartiere poteva durare anche quaranta minuti; in quel periodo morto impiegarono meno della metà.

Claudio viveva con i genitori al terzo piano del condominio al capo opposto della via rispetto alla bifamiliare di Gabriele. Lui scovò a tastoni il telecomando del cancello elettrico nel vano oggetti e parcheggiò la macchina in uno dei box dietro l'edificio.

Claudio si era addormentato, la testa ciondolava sul petto e il respiro era tornato alla normalità. Questa volta fu sufficiente un pizzicotto sul braccio per ridestarlo da quello che doveva essere stato un riposo ristoratore piuttosto che il sonno mortale di poco prima. Il ragazzo batté le palpebre, smarrito, e si sistemò gli occhiali storti con le dita tremanti. «Dove... dove siamo?»

«A casa. Ce la fai a camminare?» Gabriele scese dalla vettura, aprì la portiera per lui e si offrì come sostegno per raggiungere la porta di servizio in fondo al box.

Claudio era ancora malfermo sulle gambe e doveva addossare all'amico gran parte del proprio peso, ma le sue guance avevano ripreso colore e sembrava più confuso che ferito. Il che era un sollievo in più di un senso, considerato che Gabriele non avrebbe saputo come spiegare a sua madre perché lo avesse riportato a casa in stato comatoso.

Ebbe la fugace immagine mentale di se stesso che affrontava la donna incollerita. "Salve, signora. Se si stesse domandando perché suo figlio è ridotto così, bé, è colpa di un tipo luccicante con una daga blu". Non avrebbe funzionato.

A metà del corridoio mal illuminato che portava agli ascensori, Claudio si agitò e articolò a fatica una domanda con la bocca impastata: «Che cosa... che cosa mi hanno fatto?»

Gabriele rimase senza parole, perplesso quanto lui. L'amico dovette fraintendere quel silenzio, perché si dimenò ancora di più e parve sul punto di insistere, ma un movimento troppo brusco gli scaricò nello stomaco una staffilata di dolore che gli tolse tutto il fiato e l'energia per parlare e non ebbe altra scelta se non convogliare la poca forza che gli rimaneva nel solo sforzo di andare avanti.

Sua madre, Teresa, era una donna bassa e corpulenta, sul cui volto rubicondo, bruciato dal sole e segnato da una sottile ragnatela di rughe in perpetua espansione, era scritta la storia delle sue origini campagnole. Era sola nell'appartamento – Antonio, il marito, lavorava come camionista e rientrava a tarda notte, oppure si tratteneva fuori casa anche per diversi giorni di seguito – e li accolse sulla soglia con indosso una rustica vestaglia da casa decorata da un motivo di fiori di campo.

Claudio dovette aguzzare la vista per riconoscerla. Una delle lenti degli occhiali era solcata da un graffio spesso che per poco non l'aveva spaccata in due, l'altra aveva un angolo sbeccato, anche se non altrettanto in profondità. «Ah. Ciao, mamma» mugugnò, quasi fosse sorpreso di vederla.

Se fosse stato lui a rientrare in quelle condizioni, pensò Gabriele, Clarissa avrebbe rischiato un colpo apoplettico e una crisi isterica nello stesso tempo.

Irrobustita dall'infanzia faticosa come prima di cinque fratelli in una famiglia contadina, Teresa impietrì, corrugò la fronte e si spostò dall'uscio senza dire nulla. I due arrancarono nell'ingresso angusto – ancora più stretto a causa del cassettone con le foto di famiglia – la donna richiuse il battente alle loro spalle e Gabriele fece sedere Claudio sul divano del soggiorno.

Era il locale più grande e arioso della casa e comunicava con tutte le altre stanze. Oltre al sofà di stoffa rossiccia c'erano due poltroncine, una sedia a dondolo, un basso tavolino in legno chiaro, un televisore e alcune mensole su cui vecchie edizioni ingiallite dei classici erano schierate dietro una profusione di statuine in vetro soffiato raffiguranti animali esotici di ogni parte del mondo. C'erano persino uno scorpione, una gazzella e un ornitorinco, con il becco schiacciato e le corte zampette sgraziate. Erano una passione della padrona di casa: quando un suo conoscente andava in vacanza all'estero, se ne faceva regalare una come souvenir.

Claudio si abbandonò contro lo schienale del sofà e trasse un lungo sospiro liberatorio. Gabriele era in piedi vicino a lui, sua madre prese posto dal lato opposto e indicò all'ospite di fare lo stesso.

«Che cosa è successo?» chiese la donna, la voce ruvida di una quercia matura tesa per la preoccupazione, gli occhi azzurri incredibilmente fermi e intensi che scorrevano con lentezza dall'uno all'altro.

Gabriele si schiarì la voce, radunò le parole necessarie alla replica – anche se non sapeva neppure lui quale sarebbe stata – ma Claudio fu il primo a ribattere: «Non lo so, mamma. Stavamo andando in fumetteria...» Si sfilò gli occhiali dal naso e con la mano libera si massaggiò le palpebre pesanti. «E poi mi sono sentito male e sono caduto. Ho avuto tipo un capogiro. Non mi ricordo nient'altro».

Gabriele si rimangiò quello che stava per dire e rimase in silenzio sotto l'esame inquisitorio di Teresa, interrogandosi su quanto effettivamente l'amico ricordasse e quanto, invece, avesse rimosso per la sua inconcepibile assurdità.

In entrambi i casi era una porzione fondamentale dell'aggressione. Non era da escludere che Claudio non stesse mentendo, ma riferendo quel che davvero era convinto di aver visto.

"Io allora cosa ho visto? E se me lo fossi immaginato?"

L'ipotesi lo fece sentire disperatamente solo, un pazzo in un mondo di sani che si illude siano tutti gli altri a essere dalla parte del torto.

Eppure l'immagine dell'uomo con l'impermeabile era troppo vivida nella sua memoria per essere falsa: il chiarore azzurrino, la daga che gli soffiava all'orecchio una ninnananna di supplizi, gli occhi infossati, tondi e lucenti come pietre preziose, il duello furioso con Luka – scene che avevano affondato le loro radici ricurve nel suo cuore ed erano entrate a far parte di lui, che lo volesse o meno.

"No", decise, l'eco della voce di Luka che gli urlava "vattene!" ancora all'orecchio. "È tutto reale". Un brivido, parto collettivo di paura, eccitazione e meraviglia saettò lungo braccia e gambe, dandogli la pelle d'oca, si intrufolò in lui simile a una droga presa per endovena e scavò senza sosta fino a carpirgli il cuore. "Oh mio Dio. La magia esiste. E un mago ha provato a uccidermi. Oh mio Dio".

Adesso che il pericolo era venuto meno, ebbro della gioia di essere ancora vivo, non era sicuro di essere più angosciato o eccitato. In realtà non era più sicuro di niente; la sua sola, traballante certezza era che anche Luka sapeva com'erano andate davvero le cose.

Doveva chiamarlo, rifletté, e assicurarsi che stesse bene; forse l'uomo sarebbe stato in grado di fornirgli anche le spiegazioni di cui aveva bisogno. Doveva farlo appena arrivato a casa.

Era talmente assorto nel flusso dei suoi pensieri da rendersi conto che qualcuno lo stava chiamando per nome soltanto al secondo tentativo. Batté confusamente le palpebre e si accorse mortificato che madre e figlio lo squadravano, l'una con una certa tenerezza che le ammorbidiva i lineamenti scolpiti, l'altro con un cipiglio corrucciato.

Prima che potesse scusarsi, Teresa appoggiò una grande mano grassoccia sul suo braccio e gli diede una serie di colpetti incoraggianti. «Grazie per non avermelo lasciato sul bordo della strada, Gabe. Devi esserti preso un bello spavento, ma non è la prima volta che gli viene un'emicrania. Glielo ripeto sempre, di non stare troppo davanti al computer, ma secondo te mi ascolta mai?»

Rifilò al figlio un'occhiataccia di biasimo ironico, quindi si alzò e si diresse a lenti passi strascicati verso la cucina. «Preparo un po' di tisana al miele per tutti e due e domani tu e io andiamo al pronto soccorso, Cla. Avrai avuto un calo di zuccheri».

«Non è per il computer!» Quella che avrebbe dovuto essere un'esclamazione esasperata era a malapena classificabile come un rantolo sommesso, che a stento si trascinava oltre la soglia di decibel minima perché Gabriele lo sentisse.

Claudio riprovò, le sue reni ringhiarono la loro disapprovazione e lo costrinsero a capitolare. Il ragazzo reclinò il capo all'indietro e chiuse gli occhi.

«Un maniaco ha cercato di ucciderci con una spada» sibilò, ora a voce volutamente molto bassa. «Dio, Gabe... Era una spada, e scintillava. Credo che mi abbia colpito, ma non... non con quell'affare, vero?»

Gabriele quasi si strozzò per lo stupore; aprì e richiuse la bocca diverse volte con l'espressione spaesata e istupidita di un pesce saltato fuori

dall'acquario per errore, oppure di un internato dimesso all'improvviso dal manicomio con tante scuse e una stretta di mano da parte del direttore. "È tutto vero. Oh mio Dio".

Mentre scuoteva con calma il capo, fu investito dal caldo tepore del conforto e sentì il curioso quanto inquietante impulso di abbandonarsi a una risata liberatoria.

«No» assicurò in un sussurro impercettibile, quasi temesse che la realtà potesse sfilacciarsi al pari di un nodo male annodato, se si fosse arrischiato a parlare troppo forte. «No, non ha usato quell'affare».

Di colpo Claudio scaricò tutto il proprio considerevole peso sul sofà con lo stesso scatto repentino con cui la corda di un arco si allenta, scoccata la freccia. La tensione accumulata nell'ultima ora si sciolse all'improvviso e lo lasciò svuotato e ansante.

«Grazie a Dio» commentò, pieno dell'ingenuo stupore infantile di chi abbia appena realizzato quanto sia stato fortunato. «Grazie a Dio».

Teresa tornò con due tazze di tisana da cui si levavano volute di fumo profumato. A Gabriele non piaceva granché, ma accettò comunque la propria e accolse con piacere il calore gradevole della bevanda che colava lungo la gola e si raccoglieva nel ventre.

Finita la tazza, la mise sul tavolino, ringraziò e si raccomandò perché Claudio gli telefonasse il giorno successivo, quando fosse tornato dalla visita medica, quindi lasciò l'appartamento.

Non incontrò nessuno fino all'ingresso del palazzo e anche per strada non si vedeva alcuna auto, se non le poche parcheggiate lungo i muretti intorno alle abitazioni. Del resto ormai annottava presto, tutti dovevano essere già a casa a godersi la cena e il tepore dei termosifoni.

Fuori, invece, il gelo autunnale e l'oscurità dettavano legge e le uniche pozze di luce erano le aureole dei lampioni, tra cui diversi erano fuori uso. Gabriele si calò il cappuccio sul viso, ficcò le mani in tasca e consumò a grandi falcate veloci la breve distanza che lo separava da casa, impaziente di sottrarsi al freddo e alle ombre, dalle quali aveva il terrore di veder emergere l'uomo con il cappotto nero.

La macchina di sua madre non c'era. Lei la posteggiava sempre accanto al cancello d'ingresso perché le piaceva averla a portata di mano e la sua assenza risvegliò nel ragazzo la paura che aveva provato in fumetteria.

Mentre tastava la tasca posteriore dei jeans alla ricerca della chiave, gli sovvenne che quella sera Clarissa aveva il turno di notte in ospedale. Dario non sarebbe tornato prima di qualche giorno per un viaggio di lavoro. Doveva essere un talento di sua madre, affezionarsi solo a uomini con ritmi professionali tanto serrati.

Nello stesso istante in cui gli venne in mente, si rese conto di aver trattenuto il fiato, lo rilasciò con lentezza e inspirò di nuovo a fondo per placare anche il battito febbrile del cuore. "Okay, calma. Quel tipo non sa dove abito e di sicuro non è riuscito a inseguirci. Luka gli avrà dato una bella ripassata".

Aveva visto troppi film di Jackie Chan per dubitare di chi praticava le arti marziali, per quanto esile potesse apparirne il fisico. Aveva anche assistito in prima persona alla fluida sicurezza con cui il negoziante aveva reagito agli assalti del suo avversario, come se stesse ballando una danza di cui conosceva a memoria ogni singolo passo.

Ci sapeva fare, doveva essersela cavata per forza. Aveva bisogno di ripetersi quel mantra all'infinito per convincersi che ci credeva.

Clarissa gli aveva lasciato la cena da scaldare nel microonde e un post-it dov'era appuntato il tempo di cottura, sebbene Gabriele fosse abituato a cenare da solo fin da bambino. "Forse è da lei che ho preso questa paranoia isterica".

Invece di fermarsi, puntò dritto in camera e rovistò negli armadi, sopra la scrivania e sulla scaffalatura alta fino al soffitto, dove teneva fumetti e romanzi.

Come in molte fumetterie nelle grandi città, anche Nero su bianco dispensava biglietti da visita e card per gli sconti, con l'indirizzo e il numero di telefono; poiché lui era un cliente abituale, Luka aveva smesso di consegnarglieli da anni, ma da qualche parte doveva averne per forza almeno uno.

Finalmente la rinvenne, tra le pagine di un corposo volume di fantascienza – una tessera che garantiva il venti percento di sconto su tutta la merce, scaduta nel 2008 e dimenticata da chissà quanto nelle vesti di segnalibro.

Aveva gli angoli sgualciti e l'inchiostro sbiadito, ma i dati che gli servivano erano ancora leggibili e funzionanti, dal momento che il negozio non aveva mai cambiato né il numero né l'indirizzo. In realtà, Nero su bianco e il suo titolare erano stati sempre uguali, anno dopo anno. Gli sembrava persino che Luka non fosse mai invecchiato, anche se era impossibile.

Tornato al pianterreno, scalzò il cordless dalla sua nicchia, immise il numero e accostò l'apparecchio al viso. La linea era libera e il telefono emetteva la sua solita nenia di squilli monotoni.

Dondolandosi inquieto sulle gambe, il ragazzo riempì gli intervalli tra un tu-tu e l'altro di mozziconi di pensieri, tenuti insieme solo dalla necessità di spezzare il silenzio e allontanare la tensione: forse aveva già chiuso, però abitava al piano di sopra e spesso si tratteneva in negozio anche a cena, approfittandone per leggere qualche fumetto; oppure aveva chiamato la polizia e allora qualcuno avrebbe risposto di sicuro, ma Gabriele dubitava che le forze dell'ordine potessero risolvere un caso simile e sospettava che Luka fosse della sua stessa idea; o forse, semplicemente, non poteva alzare la cornetta, non più – Gabriele degnò quella supposizione di meno di due secondi di vita.

Alla fine la litania del cordless tacque, rimpiazzata dalla registrazione metallica della segreteria telefonica; il ragazzo scostò il ricevitore ronzante dall'orecchio e lo fissò con un cruccio stonato rispetto all'allegra voce disincarnata di Luka che si scusava di non essere in casa.

Il bip dopo il quale avrebbe dovuto lasciare un messaggio, però, fu coperto dal suo cellulare che attaccava Hell's Bells degli AC/DC al massimo volume consentito dalle impostazioni dell'apparecchio.

Gabriele sobbalzò, rimise il telefono di casa al suo posto e controllò il display del proprio. Le cifre che campeggiavano sullo schermo appartenevano a un numero di cellulare sconosciuto.

Le sue dita si librarono sopra il touch screen, si contrassero per un secondo, esitanti, poi l'indice sfiorò il simbolo verde per accettare la chiamata e il ragazzo schiacciò l'apparecchio contro la conca dell'orecchio. «Pronto?»

«Gabriele? Dove sei?»

Luka. "Come fa ad avere il mio numero?"

A giudicare dalla voce, stava bene, ma il suo tono era concitato. Nemmeno Gabriele voleva perdere tempo in inutili convenevoli. «Sono a casa mia. Ho appena riportato Claudio dai suoi. Che cosa sta...»

«Ottimo» lo interruppe brusco il suo interlocutore «allora resta dove sei. Non uscire, non far entrare nessuno e non tornare da Claudio. Siamo intesi?»

La sua veemenza lo prese alla sprovvista: non riusciva a conciliare l'immagine mite e docile del fumettaro nerd con quella autoritaria, quasi militaresca, che gli si presentava ora. Del resto, non riusciva a conciliarla neppure con quella del guerriero che aveva steso il maniaco con la daga nemmeno un'ora prima.

«Che significa?» Gabriele aggrottò la fronte, entrò in cucina e scostò la tenda per sbirciare fuori dalla finestra, verso il condominio di Claudio, ma le tenebre erano troppo fitte e dovette rinunciare. «Lui è in pericolo? Cosa succede?»

Ci fu una pausa. Il ragazzo udì un rumore in sottofondo, gli ricordava un ringhio sommesso. Finalmente Luka si decise a rispondere, prima di farlo impazzire: «È una storia molto lunga e non c'è tempo di spiegare. Tu fa' come ti ho detto, va bene? Ci penso io al tuo amico. Sto andando da lui proprio ora, lo proteggerò. Starà bene, te lo prometto, ma tu devi giurarmi che non ci raggiungerai per nessuna ragione, né lo farai entrare da te. È chiaro?»

Nel silenzio che seguì, carico di attesa, Gabriele capì cosa fosse quel suono insistente: il motore di un'auto. Con Luka, Claudio sarebbe stato molto più al sicuro che con lui, che, armato di bastone, avrebbe avuto più probabilità di menomarsi piuttosto di difendere qualcuno.

Gabriele annuì tra sé, salvo poi ricordare che il suo interlocutore non poteva vederlo. «Sì, va bene» assentì a voce alta «resto qui, ma fammi sapere qualcosa, okay?»

«Aspetta che sia io a richiamare» si raccomandò ancora Luka, ora con fare più conciliante che allarmato. Il ragazzo agguantò il cellulare con entrambe le mani, come a volersi aggrappare a quelle parole rassicuranti. «Dopo risponderò a tutte le tue domande. Ciao, Gabe».

La linea divenne muta e l'apparecchio inutile. Gabriele lo appoggiò al centro del tavolo da pranzo rettangolare, dove avrebbe potuto afferrarlo in pochi secondi, e non gli restò che mettere nel microonde una cotoletta che non riusciva a trovare la voglia di mandar giù.

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Capitolo 3
*** Colpa del Cielo ***


Luka non era mai di buon umore prima del caffè.
Quelli che precedevano il rito mattutino erano i momenti meno indicati per rivolgergli la parola: nel migliore dei casi rispondeva a monosillabi, nel peggiore emetteva dei grugniti animaleschi per esprimere la propria disapprovazione. Persino Jezebeth, che di solito non si faceva scrupoli a litigare con nessuno, aveva l’accortezza di mantenersi a debita distanza.
Strappato senza pietà al sonno dal trillo insistente della sveglia, Luka si vendicò con una manata, che la mandò a schiantarsi sul pavimento. Il suo squillo si interruppe a metà, come il respiro di un uomo ucciso da un colpo di pistola.
Luka provò un senso di macabra soddisfazione, ma durò poco, per essere sostituito dalla consapevolezza che doveva alzarsi e dal bisogno impellente della dose quotidiana di caffeina.
Borbottando tra sé, si tirò su a sedere, cercò le ciabatte a tentoni con i piedi e afferrò gli occhiali sul comodino. Dopo averli inforcati, si alzò dal letto e si trascinò nel piccolo bagno di fronte alla camera da letto.
L’acqua fresca sul viso lo fece sentire un po’ più umano, anche se la mancanza di carburante gli provocava ancora un’acuta sofferenza.
Lo specchio appeso sopra il lavandino gli restituì l’immagine desolante di un giovane soldato appena rientrato da una battaglia: occhi pesti, infossati in una trincea di occhiaie; pelle tirata sugli zigomi e intorno alla bocca; e i capelli, infine, simili a un folto cespuglio in pieno autunno. Si sforzò di dare una parvenza di ordine a quella matassa aggrovigliata con un elastico, ripromettendosi di tentare di nuovo di pettinarsi una volta che le sue condizioni psicofisiche fossero migliorate.
L’appartamento era molto silenzioso, la cucina ancora al buio, le persiane serrate. Luka premette l’interruttore della luce e accese la macchina del caffè. Il familiare ronzio dell’apparecchio gli dipinse sul volto la morbidezza del sollievo alla prospettiva della bevanda calda presto nello stomaco.
La serenità, però, fu passeggera.
Non era rimasta neppure una capsula per il caffè. Era sparita persino la scatola, gelosamente conservata in una delle credenze.
Luka fissò il ripiano vuoto per un tempo interminabile, inebetito.
Non riusciva a credere di essersi dimenticato di controllare lo stato delle sue scorte. Si lasciò ricadere su una delle sedie intorno al tavolo accostato al muro e si passò stancamente le mani sul volto.
Appollaiato all’altro capo del tavolino, le gambe raccolte al petto, i piedi scalzi sul bordo della sedia, come se fosse sul punto di spiccare un balzo, Jezebeth l’aveva osservato dacché aveva fatto il suo ingresso in cucina, anche se l’angelo non aveva neppure notato la sua presenza, troppo assorbito dal proprio obiettivo.
Il demone trovava ridicolo che un essere sovrannaturale sprofondasse in un simile abisso di oscurità per un motivo tanto triviale, ma si astenne dal farlo notare ad alta voce.
Non che temesse di esprimere le proprie opinioni; semplicemente, preferiva rimandarle a quando Luka fosse rinsavito abbastanza da dargli ascolto. Se l’angelo lo avesse assalito, avrebbero attirato l’attenzione degli altri condomini e la loro copertura sarebbe finita a farsi benedire.
“Benedire”, ripeté tra sé il demone, sardonico. “Esilarante.”
Per quanto potesse divertirlo assistere alla distruzione psicologica di un angelo, dopo un po’ l’immobilità e il silenzio di Luka, rotto solo dai loro respiri, lo fecero spazientire, così azzardò un circospetto: «Ehi?»
Il collo dell’angelo si torse come una frusta e il suo sguardo schizzò verso quello del demone. Gli occhi, dietro le lenti, apparivano più grandi del solito, poiché la pupilla si era dilatata fin quasi a inglobare cornea e iride. Sul viso provato dal sonno sortiva un effetto ancora più inquietante, ma l’unica reazione di Jezebeth fu inarcare un sopracciglio con aria di sfida, anche se dovette trattenersi dall’assumere una posizione difensiva.
Luka emise qualcosa che non poteva qualificarsi come una frase. Dal momento che il demone non rispondeva, riprovò e questa volta riuscì ad articolare un’affermazione più intelligibile: «È finito il caffè».
Per sottolineare il concetto, spinse verso di lui la scatola vuota.
Jezebeth si impose di non cedere. Solo perché il Patto lo obbligava a sperimentare le emozioni dell’angelo come se gli appartenessero non significava che dovesse assecondare i suoi capricci. Il legame si rivelava utile in battaglia, nient’altro.
Trascorse qualche attimo di silenzio.
Jezebeth incrociò le braccia al petto.
Luka si massaggiò la pelle sotto gli occhi ed emise un brontolio da anima in pena.
Jezebeth lanciò un’occhiata infuriata al soffitto, come se fosse colpa del Cielo se a lui era toccato un angelo così patetico. In effetti, lo era.
Alla fine scattò in piedi e afferrò la giacca di jeans che pendeva dallo schienale della sedia. La indossò distrattamente sopra la t-shirt nera e si avviò a grandi passi verso la porta.
Perplesso, Luka si sporse per seguire i suoi movimenti e biascicò, incerto: «Jez...?»
Ma il demone sollevò una mano per metterlo a tacere. Chiuse le dita a pugno, eccetto l’indice, che rimase a mezz’aria, ammonitore. «Non dire una parola» sillabò Jezebeth, prima di lasciare l’appartamento e sbattere la porta dietro di sé.
Pochi minuti più tardi era già di ritorno, a passo pesante, così come se n’era andato, il viso corrucciato e lo sguardo di chi è irritato dal mondo in generale. Quest’ultimo, comunque, non era proprio una novità. Sottobraccio teneva un pacchetto, che gettò sul tavolo con calcolata indifferenza.
Il contenitore atterrò davanti a Luka, che per un lungo momento riuscì solo a contemplarlo come se fosse un miracolo.
«Adesso sbrigati» gli ingiunse il demone in un ibrido tra un ordine e un ringhio, appena l’angelo spostò l’attenzione su di lui. «Se fai tardi al lavoro, la gente potrebbe farsi delle domande e poi il direttore accuserà anche me». Pronunciò quel pronome con particolare veemenza. «E io non ho alcuna intenzione di sorbirmi i suoi piagnistei per le tue cazzate. È chiaro?»
Quello che era chiaro era che Luka non aveva ascoltato una sola parola del suo sfogo. Lo guardava a occhi sgranati, ma il suo stato d’animo era indefinibile. Quando si alzò dalla sedia e si mosse verso di lui, d’istinto Jezebeth si preparò ad affrontare un’aggressione. Invece l’angelo gli gettò le braccia al collo, gesto che lo spiazzò molto più di un qualsiasi attacco.
Rigido come una statua, non ebbe alcuna reazione finché non fu Luka a ritrarsi con un ampio sorriso. Fece per aprire bocca, ma l’indice del demone troncò il suo commento sul nascere.
«Non. Una. Parola».
Docile, l’angelo annuì e si dedicò al proprio caffè, senza smettere quel sorriso fastidioso, mentre Jezebeth monitorava le sue azioni per assicurarsi che non perdesse altro tempo.
Il demone si era ormai arreso all’evidenza: l’ascendente del Patto su di lui era troppo potente perché potesse opporvisi. Ciononostante, però, non riusciva neppure ad accettare del tutto di sentirsi così protettivo nei confronti di un angelo, una creatura che avrebbe dovuto considerare la propria nemesi.
Con la spalla addossata allo stipite della porta e lo sguardo dardeggiante sulla figura di Luka, il demone rievocò il giorno in cui l’angelo gli aveva proposto il Patto.
“Potrebbe essere di grande vantaggio per entrambi,” aveva fatto notare.
“Un grande vantaggio,” gli aveva fatto eco Jezebeth, beffardo, “oppure una gran seccatura.”
Quando però l’angelo gli aveva dimostrato di avere ragione, salvandogli la vita la prima volta, il demone aveva dovuto ritrattare la “gran seccatura”. Del resto, a oggi non era ancora morto, per cui doveva riconoscere, almeno tra sé, che Luka non era il peggior angelo con cui avrebbe potuto ritrovarsi a collaborare.

Nota dell'autore:

Grazie mille per essere arrivati fin qui, per aver votato o anche solo letto!

Se sono riuscita a incuriosirvi con questo estratto, potete trovare il romanzo a questo link: http://www.lacaravellaeditrice.it/il-mare/241-quando-gli-angeli-meritano-di-morire-9788868271664.html

Fatemi sapere cosa ne pensate! (:

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