Runaways Bleed Ink to Death

di Stray_Ashes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sharp & Chemical - Prologue ***
Capitolo 2: *** Break Free, Sinner ***
Capitolo 3: *** Angels Are Always All So Serious ***



Capitolo 1
*** Sharp & Chemical - Prologue ***


Runaways Bleed Ink
to Death
 
 

1. Sharp & Chemical (Prologue)




Il tempo era un inganno.
Ma questo, la sanno già bene tutti; a Gerard però piaceva ribadirlo, perché era importante ricordarsi di essere ombre che andavano e venivano a seconda del sole e della luce. Le persone dimenticavano di essere fantasmi passeggeri, foglie che vivevano d’estate e morivano d’autunno, neve che cadeva in inverno e si scioglieva in primavera, oppure molto prima.
Dietro non restavano che acqua e scheletri sottili, trasudanti di ricordi che sbiadivano nel tempo.
Il mondo contava i secondi, e quindi i minuti, e poi gli anni, per rendersi lo scorrere delle situazioni, relativamente presenti, calcolabili, semplici, sotto controllo.
L’uomo semplificava le cose perché aveva una mente piccola.
E anche lo spazio, anche quello sembrava un’illusione, la pellicola di una cassetta riavvolta di fretta, che a volte s’inceppa, si accortoccia, si interrompe, e poi riprende a scorrere follemente, confondendo gli occhi ed ingannando la mente.
Gerard lo vedeva fuggire, lo spazio, quello che comprendeva la stelle se sollevava il mento, quello che teneva su la luna come fosse un neo; e quasi ovunque tu andassi, ovunque tu scappassi, come fosse lo sguardo di un quadro suggestivo, il viso pallido e morto della luna ti seguiva. Come un giudice, che giudicava muto senza grazie né condanne.
Sotto al cielo scuro, tra fantasmi di fabbriche, case e muri, in un’infinità confusa di diapositive, fuggiva il mondo della Terra e dell’innegabile Natura; l’uomo ci vagava in mezzo e ci restava appiccicato, come una farfalla su una striscia di miele: restava lì a leccare la sostanza dolce, fino a consumarla, e poi sarebbe stato condannato a morire immobile, impotente, intrappolato, eppure ancora immancabilmente affamato ed insaziabile.
Non c’era miele e non c’era colla che bastasse mai. Non c’era spazio e non c’era risorsa.
Gerard abbassò il mento, premendo la fronte contro il finestrino gelido, e sentii i brividi sgattaiolare in un fremito giù lungo le braccia, sotto le maniche della felpa grigia, fino alle dita affusolate e macchiate di china.
La china. L’inchiostro... Gerard se lo sentiva scorrere nelle vene, nero, intenso, dall’odore chimico e pungente, intriso di immagini e parole, bisognoso di carta su cui essere steso, racchiuso da vene ed arterie ormai simili a punte di pennini. Gerard amava pensare che la sua arte gli entrasse dentro, abbastanza nel profondo da oltrepassare la pelle e strisciargli nel cuore, assecondare la forza dei battiti e correre su fino al cervello, per nutrire i suoi pensieri.
Forse era così davvero, forse era per questo che la sua pelle era pallida, bianca come porcellana, anziché rosata... ma probabilmente no, d’altronde Gerard aveva visto il suo sangue fin troppe volte, ed era sempre stato irrimediabilmente rosso. Uh, il suo era un gran bel rosso, comunque.
Sogghignò, piano, socchiudendo le palpebre e inumidendosi le labbra.
Il cappuccio gli nascondeva il volto dal resto del mondo, ma Gerard sentiva, nel flusso dei suoi pensieri, l’ovattato chiacchiericcio delle persone circondarlo, respirargli sul collo, in quel vagone stretto e sporco che, nella notte, carcassa di metallo su rotaie arrugginite, sballottava pigro e strideva, ferro contro ferro.
Macabro. Truce. Sapeva di città.

Poteva sembrare che Gerard si dimenticasse dell’esistenza del mondo e delle persone, che si perdesse in sé stesso, fissando punti immobili o seguendo il mondo vorticare appena oltre il vetro, ma realtà era che il suo cervello non si spegneva mai, che lo volesse o meno: le sue orecchie sentivano tutto, la sua pelle avvertiva i cambi dell’aria, le sue narici coglievano l’essenza delle persone che gli passavano accanto, e bastava l’aroma sbiadito di vaniglia, o una goccia di colonia, che nella frazione di un istante nella sua mente si creava una piccola storia, per ogni piccolo uomo, a cui generava una privata piccola realtà, e poi Gerard la dimenticava, con la velocità con cui l’aveva pensata.
Ecco: due posti avanti a lui, sedeva un uomo dallo sguardo triste, vecchio, arreso a un’esistenza vuota, lo sguardo di chi si accontenta di una pensione, di qualche ricordo di ieri e visite di nipoti troppo alle prese con la loro vita giovane, troppo giovane per amare davvero un anziano.
Gerard non sarebbe mai invecchiato così. Si ripromise che sarebbe morto, prima, piuttosto.
Chissà cosa pensava l’uomo, mentre risistemava gli occhiali scivolati sul naso e sbadigliava, senza la forza di portarsi la mano a coprire la bocca. Probabilmente, l’uomo, uhm... Mr. Wright, ecco, era stato benestante ma con dei problemi ai denti, e lo confermò lo scintillio dell’oro dentro il suo sbadiglio; il vecchio signore era stato sposato, ma evidentemente la storia era andata a male, a giudicare dalla striscia di pelle chiara dell’anulare sinistro. Forse, aveva litigato con la moglie, la quale gli aveva rotto un vaso sulla testa – mancava una striscia sottile di capelli appena sopra la tempia, come lascito di una cicatrice – e il povero Mr. Wright, aveva dovuto trovare una casa piccola in cui vivere da solo, seguendo i tre figli da lontano e vestendo sempre gli stessi quattro vestiti, dai colori cupi, distaccati, intrisi di vecchie abitudini.
Mr. Wright aspettava di morire di vecchiaia – o d’infarto, chissà, o forse crepacuore – proprio come una volta aspettava di poter timbrare il cartellino, nel ufficio in cui un giorno lavorava.
Quella era un’esistenza vuota.
Oppure no. Forse, al povero Mr. Wright la moglie era morta tanto tempo fa, e lui aveva tenuto i figli, creando piccole copie di sé, e adesso aveva solo molto sonno e molta voglia di tornare a casa, per sorseggiare minestra guardando un programma Tv futile e idiota.
A Gerard, questa seconda opzione parve più plausibile, quindi la tenne come buona. Anche se era un’esistenza vuota tanto quanto lo era prima.
L’ipotetico Mr. Wright si alzò, prese la borsa e uscì dalla carrozza per scendere alla stazione successiva, andando forse verso casa, per rilassarsi, o forse andando verso un bar, per potersi ubriacare.
Fatto stava che Mr.Wright sparì, tornò ad essere un’ombra e Gerard dimenticò la sua storia.

Tutto questo era un buon allenamento, per Gerard, lo aiutava a capire le persone, in modo che non potesse mai diventare come ciò che aveva appena conosciuto. L’esistenza delle persone che studiava, era sempre triste, e piatta. A volte aveva visto persone relativamente felici, ma banali; a volte aveva visto dei suicidi, ma non si era interessato di cercarli sul giornale del mattino, il giorno dopo; e altre volte ancora, Gerard aveva incontrato randagi e fuggitivi come lui. Questi ultimi erano i suoi preferiti, perché difficili da catalogare, da decifrare: c’era sempre una storia diversa dietro, e spesso era tragica, dalle mille sfaccettature. Quelle erano persone che avevano detto basta, un giorno, e si erano tolti dalla testa i piedi della loro stessa vita, alzandosi per iniziare a correre. Questa consapevolezza lo faceva sentire sicuro: nessuno poteva decifrare lui, perché Gerard correva già da tutta la vita.
Lui, quelle rare volte che sollevava lo sguardo ed incrociava gli occhi delle gente, non poteva non chiedersi chi stesse guardando, quale fosse la loro vita.
Si chiedeva se quello appena oltre il colore delle iridi, era dolore vero o se solo l’ombra di un film visto da poco.
Se quella macchia di sale, acqua e mascara sotto le ciglia fosse stata una lacrima, una frazione d’istante prima di salire su quel treno.
Se il sorriso di denti gialli e segnati dal fumo, fosse il sorriso sincero di chi non aveva paura, o quello tirato di chi non sapeva più come arrivare a domani.
Se la voce roca e rovinata di chi gli chiedeva il permesso di sederglisi accanto, era appena sopravvissuta a lunghe grida rabbiose, o a corti tragici litigi.
Si chiedeva se l’odore di alcool nei loro respiri aveva un perché. In genere, sì, l’aveva. Vedeva molti disperati fuggire come lui, su quei treni. Senza dove e senza meta.
Si chiedeva questo, si chiedeva che nome avessero, se avessero un cuore vuoto o pieno, se avessero la mente del sognatore e dell’artista, come lui, se si accorgessero di quanto effimera fosse la vita, di quanto infinite fossero le possibilità che l’Universo non finisse dove finivano i pianeti.
Sì, Gerard si chiedeva questo. Poi ghignava, scuoteva la testa e ricordava che non gliene fregava niente. Le persone erano noiose, con i loro problemi futili, strascichi di cenere e brace, vermi e tarme al loro capezzale, abbastanza fragili da spegnersi appena la vittima moriva. E nessuno avrebbe mai ricordato cosa era successo a quella persona, quali erano state le sue persecuzioni. Ai nati di domani non importava per davvero dei dolori dei morti di ieri.
Questa consapevolezza lo rincuorava, gli ricordava che lui non era importante per nessuno al di fuori di sé stesso, che i suoi problemi inseguivano lui e lui soltanto, come cani da caccia dai denti già sporchi dal sangue di vecchie battaglie; quando Gerard sarebbe morto, il mondo non se ne sarebbe accorto; quando Gerard avrebbe smesso di correre e fuggire, i suoi drammi e i suoi tormenti gli avrebbero assalito da dietro la schiena, schiantandosi come auto contro un muro, attraversandolo gelido come fantasmi, spezzandogli le vertebre ed incrinando le costole, scavando in fondo fino al cuore, per farlo implodere e far schizzare frammenti di vetro tutt’attorno. I suoi tormenti se li sarebbe portati dietro, sotto terra, attraverso l’Inferno, attraverso le fiamme e le pietre, le sabbie e le grida, le lacrime che per lui nessuno avrebbe mai pianto.
Lacrime mai versate erano più crude di quelle sprecate, piante su mattonelle consumate da milioni di passi, o quelle sparse su lapidi di marmo: le lacrime mai versate si portavano dietro la parte fredda, insensibile, indifferente, della sopravvivenza umana, fatta della stessa sostanza dell’aria. Nulla.
Meglio, pensava Gerard, non voleva che qualcuno piangesse per lui, perché portarsi certi pesi sulle spalle mentre si strisciava fino all’Inferno, rischiava di farti inciampare ed incastrarti tra le spine delle rose.

Gerard avrebbe voluto andarsene inosservato, un giorno. Non aveva paura, di morire, ma non aveva fretta, le sue gambe erano ancora forti, i suoi occhi grandi, verdissimi, attenti, la sua mente calcolatrice e veloce, e poteva ancora fuggire lontano, Gerard, lontanissimo, oltre i limiti di cui i muti gli avevano parlato, quelli che i sordi avevano sentito urlare, gli stessi limiti che i ciechi affermavano di aver visto, tinti di rosso, là in fondo alla strada.
Gerard pensava ai mille treni dalle mille destinazioni, città dai mille nomi e dai mille abitanti, dalle mille finestre e le mille milioni di prospettive.
Gerard pensava ai luoghi bui, ai vicoli, alle scappatoie, alle scale, alle strade, i lampioni e i marciapiedi, le opportunità e le possibilità, di perdersi e non tornare mai indietro.
Avrebbe voluto non tornare indietro mai. Avrebbe voluto perdersi guardando il cielo di una città senza nome, in cui la gente non si fermava a guardarlo, a giudicarlo.
Gerard voleva dimenticare i quattro muri grigi intrisi del sapore del fumo e dell’alcool, voleva dimenticare l’infanzia lì racchiusa, lì rinchiusa, una presenza tormentata, che come un fantasma avrebbe continuato per l’eternità a sbattere la fronte contro la stessa parete, senza ricordare come fare a passarci attraverso.
Gerard voleva dimenticare le urla di suo padre, il rumore delle bottiglie che si spezzavano, voleva dimenticare i vomiti mischiate al sangue, voleva dimenticare le botte e i lividi. Voleva dimenticare le porte sbattute con forza.
Gerard voleva dimenticare l’odore acre di sua madre, la sua pelle consumata, straccia, vecchia, voleva dimenticare l’odore dello spirito che le usciva dalla bocca, lo spirito che le aveva cancellato l’anima. Voleva dimenticare le sue mani che tremavano, i suoi momenti di pazzia e di lacrime mischiate al mascara, che colavano, inesorabili, gocce di vetro che cadendo al suolo s’infrangevano, lasciando di sé una pozza lucida... e in quella pozza affogavano le loro vite, a loro volta frammenti di uno specchio gettato al suolo, sul cemento di una strada trafficata.
Gerard voleva dimenticare le lacrime di suo fratello, le mute urla che gli si nascondevano dietro gli occhi, quelle che Gerard aspettava venissero fuori, che si unissero alle sue, perché gridassero insieme contro il mondo: Gerard, da solo, non aveva più voce da sprecare. E suo fratello, taceva.
Gerard voleva dimenticare il casino. Voleva cancellare l’odore. Voleva cancellare le immagini. Voleva eliminare il termine famiglia.
Il casino.
Il casino.
L’Inferno.
La solitudine, assoluta ed assordante, rilassante, temuta ed agognata. Gerard non voleva nessuno, non aveva bisogno di nessuno; e non lo pensava per sembrare forte, Gerard aveva un quoziente intellettivo abbastanza alto da non aver davvero bisogno di nessuno, finché nessuno aveva bisogno di lui. Si era sempre bastato. Per quasi diciotto anni. Gerard era forte, ma era anche effimero, sfuggente.
Era un vagabondo, e fuggiva da solo. Sarebbe sempre fuggito da solo.

Gerard voleva solo perdersi, non tornare mai più indietro, non salire mai più su un treno alla ricerca di una città a caso. Voleva fermarsi in un posto, in cui l’aria gli avrebbe slegato il nodo che sentiva alle budella; e allora forse poi morire.
Lo voleva, ne era quasi certo, eppure tornava sempre indietro, tornava sempre nell’inferno angusto e grigio che era casa sua, nell’Inferno in cui mancava solo il fuoco: sì, si ripromise, un giorno avrebbe acceso quel fiammifero, e avrebbe sentito l’ebbrezza di ridere in faccia a Cerbero e Caronte.
Tornava nel New Jersey, nella città violenta e interessante che odiava e rispettava.
Non sapeva perché... o forse sì?
Forse, Gerard stava solo aspettando che passasse il treno giusto.
E fino a quel momento, doveva respirare l’aria umida della sua stazione.
 
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Una goccia di sangue cadde al suolo, e un’altra con lei.
La stanza era vuota, silenziosa, muta, immobile. Testimone discreto di piccole tragedie.
Sui muri bianchi rimbalzavano respiri veloci, flebili soffi raschianti che gli strisciavano fuori dai polmoni, mentre guardava il sangue cremisi aprirsi in un fiore sul pavimento di marmo.
Frank deglutì brevemente, appoggiato al muro e piegato su sé stesso, le mani sulle ginocchia, la testa e i suoi pensieri altrove, gli occhi socchiusi verso il sangue e le orecchie ad ascoltare grida... le grida di ieri? Le grida di oggi? Già poteva immaginare le grida di domani.
Sorrise amaramente, e dopo aver tossito un ultima volta, si tirò su e lasciò sbattere la nuca contro la parete, la bocca ancora socchiusa alla ricerca di aria.
Odiava la sua salute instabile. Odiava aver dovuto correre in quel modo, ferito e nero per i lividi; la mascella doleva, il campo visivo del suo occhio sinistro era ristretto, le caviglie tremavano come budini e ancora sentiva l’adrenalina accaldargli la pelle.
I capelli scuri gli si erano appiccati alla fronte per il sudore, e Frank si ripromise di correre – no, camminare – a casa non appena si fosse ripreso, perché aveva decisamente bisogno di una doccia. I suoi zii erano a lavorare, poteva entrare tranquillamente dalla porta, senza dover sgattaiolare furtivamente nella finestra del bagno, per non far vedere troppo le macchie di sangue e il labbro spaccato. Era la nota positiva di fare a botte sul retro della scuola, potersela filare senza dare nell’occhio, e quindi avere un pomeriggio libero in più.
Libero da cosa?
Frank non lo sapeva più. Odiava dover stare a scuola, ma odiava non esserci, perché a quel punto era da solo, e quando era solo le colpe tornavano da lui, lo assillavano e tormentavano. Ultimamente, neppure più la musica riusciva a colmare i suoi sensi di vuoto... e solo le ferite aperte, le discussioni accese, la rabbia scaricata nelle risse, gli insulti, fatti da lui e riferiti a lui, gli ricordavano che era ancora vivo.
Frank era da solo. Aveva pensato così di poter essere sicuro,protetto dalle lingue taglienti degli altri, ma non era vero.
Si sentiva perduto, ignorato, e con i giorni che passavano, tutto cominciava a perdere gradualmente senso. E lui stava sempre più male, e si costringeva ad essere sempre più solo.
«Smettila di fare la ragazzina...» mormorò a sé stesso, ora che il respiro gli si era regolarizzato. Lasciò andare un sospiro sonoro, che rimbombò per le pareti abbandonate, e tese le membra per mettersi del tutto in piedi.
Ma le grida ancora gli rimbombavano nelle orecchie, assillanti, spietate, e ogni giorno s’alzavano di tono, e sembravano avere sempre più ragione. Ignorò il falso incoraggiamento che si era dato prima, perché era debole, lo era sempre stato e lo sapeva.
No, non sarebbe andato a casa.
Aveva bisogno di fare visita al cimitero.
Ora, per un motivo. Domani, forse, per un altro.

La verità, era che Frank aveva un disperato bisogno di qualcuno, per ritrovare sé stesso.

E Gerard, invece, non aveva bisogno di nessuno, non finché qualcuno non avrebbe avuto bisogno di lui.

Nell’aria densa di gennaio, si sentiva nell’aria un odore acre, intenso, un sapore simile a quello della pioggia, che era umido, selvatico, o forse più affine a quello dell’inchiostro... che era penetrante, chimico e pungente.


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Beh, ecco un nuovo progetto, che spero, davvero spero, di riuscire a portare avanti... poiché il personaggio di Gerard è ispirato a me stessa, se non contiamo il fatto che lui è più forte di me...
Per dire due cose, ci ho pensato su qualche tempo, e... anche se sono arrugginita con le narrazioni, e la cosa che mi viene meglio sono quei viaggi mentali e i rigiri filosofici e psicologici, mi sono buttata in questo progetto sperando nel meglio. Perlomeno, ho già il capitolo 2.
Spero che andando avanti vi piaccia, avrei davvero bisogno di un commento, perché è tutta una cosa nuova... è anche la prima Frerard un po' più "seria", temo, tanto che sono indecisa sul rating... beh, se vorrò scrivere scene rosse per la prima volta, di certo avvertirò.. ditemi voi.

Altra cosa che vorrei mettere in chiaro... la copertina della storia l'ho creata io, montando insieme due miei disegni a penna e aggiustandoli tra tavoleta grafica e Photoshop (eh, Gee aveva i capelli bianchi in partenza) sono abbastanza soddisfata di come è uscita fuori. Se volete vedere i disegni originali, potete fare un salto nella mia pagina di Deviantart, li trovate facilmente.

Considerando che scrivo strano, spero di poter fare un buon lavoro. E spero di innamorarmi davvero, di questa storia. Spero che ve ne innamoriate anche voi, forse, un giorno, se capita.
Grazie mille per l'attenzione,
_StrayAshes_


Keep Running!

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Capitolo 2
*** Break Free, Sinner ***


Eh voilà il capitolo 2... e già sto cominciando ad avere problemi con le narrazioni. Chiedo scusa in partenza, se rimane tutto un gran casino... spero di risolverlo.
Uh, non credo che lo farò per tutti i capitoli, ma.... il capitolo è in parte ispirato a Set The World On Fire, dei Black Veil Brides.

Ha, dicemnticavo... molti concetti in questo capitolo sono ripresi da due delle mie One Shot, quindi, se non le avete ancora lette, vi converrebbe... 
Vi lascio il link: 


-   "The Ghosts of Everyone That Tried To Fly"

- Blasphemy


Buona lettura!







 
2.  Break Free, Sinner

 
Allo scoccare impreciso dell’ora, qualcuno volse gli occhi all’alba, nulla più che un chiarore accennato, rosato e verde-acqua, dipinto a Est sopra l’orizzonte... e segnando così la fine della notte.
Incurante di tutto il mondo e tutti i problemi umani, la mattina il sole abbandonava l’altro viso del mondo e allungava le dita luminose, calde, per scaldare il petto al cielo dell’America.
Da lontano, dal punto oltre l’Universo in cui la mente di Gerard sfoltiva e diradava nebule, quel treno vecchio era invisibile, si fondeva al resto del paesaggio e diventava una macchia in penombra, che pigro e lento il sole provvedeva a colorare, in un meccanismo schematico, costante eppure irregolare. Era invisibile, certo, ma sulle rotaie sballottò e stridette lo stesso, sinistro, e Gerard dovette tornare alla realtà, drizzando la schiena e trattenendo per un attimo il respiro.
Non si era addormentato, non si addormentava mai quando era in viaggio, si era solo semplicemente perso in sé stesso; tuttavia, quella re-immersione nel mondo degli uomini e delle loro parole, lo scosse abbastanza da decidere che era il momento di scendere, in qualunque città si trovasse adesso... e fu lì che si rese conto del perché il treno avesse sballottato: era fermo, al capolinea.
Si sporse in avanti, sfiorando il finestrino con la fronte, e cercò con lo sguardo il cartello che gli avrebbe comunicato il nome della città; lo trovò in fretta, nonostante lo scarso chiarore dell’alba: Hershey, da qualche parte in Pennsylvania. Gerard storse le labbra: aveva un’idea vaga di dove si trovasse sulla cartina, e sapeva che non era troppo lontano dal Jersey e da casa sua, ma si accontentò. Sarebbe andato più lontano, la settimana successiva. E così le settimane a venire.
Per diversi istanti seguì con gli occhi e un’espressione annoiata la gente alzarsi dai loro posti, muoversi scomposta e svogliata, prendere bagagli e fardelli, respirare e scendere dal treno, spintonata da altri fantasmi. E questo, era più o meno il riassunto di ciò che facevano tutti, tutti i giorni. Con o senza treno, in quasi ogni angolo del mondo.
Ci si alzava, poi c’era da respirare, pensare un po’, recuperare i propri piccoli tormenti e allontanarsi dai volti sconosciuti, dai luoghi, gli odori, e tornare nella propria, sobrissima, routine.
A Gerard venne da sorridere, e decise di giocare: si alzò, barcollò un poco su sé stesso, respirò a fondo l’aria umida, da altri già respirata, si fece carico del proprio bagaglio che altro non era se non la sua testa e si avvicinò all’uscita: non c’è che dire, poteva quasi sembrare normale.
D’altronde, nessuno si accorgerebbe davvero troppo della figura slanciata di un ragazzo in una felpa grigia, dallo sguardo di pietra e i capelli neri, anfibi di pelle e pantaloni stretti e scuri: finché resta lontana dal tuo cellulare e il tuo portafogli, di una persona così non ti accorgi nemmeno l’esistenza.
Gerard, dal suo canto, amava essere così.
Nero, grigio, bianco. Colori piatti, passati inosservati.
Era un po’ per questo che Gerard nascondeva gli occhi verdi sotto i cappucci e sotto i capelli; era un colore sporco, magnetico, se lo riconosceva ogni volta allo specchio, ed era anche molto scomodo, perché quello, la gente, restava a guardarlo. E la gente non poteva.
L’anima di Gerard era intima, privata.
 
Si chiese come dovesse essere da fuori, la sua figura piuttosto esile, nella vastità di una stazione vuota, desolante, illuminata gialla a intermittenza dalla luce rotta e ronzante di un lampione. La sua ombra si gettava sfinita dietro le sue spalle, si attaccava alle scarpe e si insinuava tra i dislivelli dei mattoni, fino ad oltrepassare la linea e collassare nella zona buia delle rotaie, che da minuti avevano smesso di vibrare.
Gerard era sceso ed era rimasto fermo, ad assaporare il suono della stazione che di suono non ne aveva alcuno, ora, perché ogni persona era sparita; sembrava abbandonata, congelata nel tempo, malinconica e prossima a morire, se si tralasciava il fatto che viva non lo era mai stata.
Gerard amava quei pochi secondi di vuoto assoluto, a cui facevano da cornice, lontanissimi, lo sgocciolio lento di acqua, il rombo di motori stanchi, una sirena chissà dove nella coltre della notte, il rumore del proprio respiro sulle labbra e il battito regolare del suo cuore nel petto.
Il mondo era una cacofonica bellissima armonia.
Gerard inspirò, espirò, lanciò un’occhiata all’orologio da polso e socchiuse le palpebre: un minuto, e la vita umana sarebbe tornata a esplodere. Sentiva già le rotaie vibrare placidamente per un treno in arrivo, che portava chissà dove, e in meno di niente quel posto sarebbe di nuovo stato gremito e straripo di gente stanca che andava a lavorare.
Gerard si decise a spostarsi prima di vedersi venire addosso un’onda di quelle dimensioni, e allontanandosi ascoltò compiaciuto il battere degli anfibi sul cemento, in quel ritmo regolare che sembrava quasi musica, la cadenza marciante di una parata.
Nel giro di pochi istanti, uscì dalla stazione e si costituì, libero peccatore, alla città di Hershey, che avvolta da luci notturne sembrò quasi tendergli una mano, mostrandogli con l’altra i suoi piccoli segreti.
Hershey era una città senza troppe pretese, classica americana, pulita dove doveva esserlo, di notte viva lì dove serviva, con edifici monumentali alternati ad edifici tutti uguali: l’uomo, nelle sue creazioni, scriveva piccole autobiografie; nessuno più di un artista avrebbe potuto accogliere a braccia aperte quell’affermazione, e si dà il caso che, Gerard, l’inchiostro dell’artista l’avesse anche nelle vene, oltre che sulle dita.
 
Ci si definiva un artista non come ci si definiva idraulico, impiegato, o bidello; ci si definiva artista in alternativa a persona, a essere umano, perché era tutta un’altra cosa, un’altra categoria, e meritava sinonimi e contrari dello stesso calibro.
Se una persona aveva nella propria testa una piccola città, allora un artista aveva incastrato nel cervello un piccolo universo, e poteva essere vestito con i panni di un disegno, con i panni di un racconto, con i panni di una canzone.
Gerard scosse la testa e scacciò i pensieri, perché il tempo, per quanto un’illusione, scivolava via veloce: la notte era già finita, e l’alba aveva il vizio di durare anche meno di un istante.
Si chinò, afferrò una piccola pietra dal terreno e se la infilò nella tasca dei jeans.
 
Una sorpresa curiosa, fu adocchiare cartine della città e notare foto di un enorme parco divertimenti, tra piscine e metri e metri di montagne russe. Gerard storse il naso; non erano posti che amava, e non affatto adatti al mese di gennaio, senza contare il fatto che, comunque, d’estate, sarebbero stati troppo gremiti di gente.
Per il resto, Hershey era accogliente, anche troppo, e dovette girare a vuoto e a lungo per riuscire a trovare zone in grado di rompere quella diabetica armonia, che era stomachevole e, ai suoi occhi, finta... solo per questioni di abitudini, probabilmente. Era un po’ un’utopia pensare potessero esserci quei tipi di città: bei luoghi e belle immagini, come uscite da un film, un ritratto di serenità per un manifesto anni ’50, piene di verde, di regole, rispetto e sicurezza.
Era solo una facciata esterna, quest’armonia? Poteva essere solo un sorriso disegnato su un volto vuoto? Hershey stessa sembrava una pennellata colorata ed abusiva sopra al volto scarno dell’America, ma Gerard era sicuro che ogni città nascondesse qualcosa, di losco sotto la bellezza, o di bello sotto la sporcizia.
E alla fine li trovò, i quartieri un po’ più malfamati della città, che gli ricordarono un po’  il Jersey, o almeno, alcune delle sue zone più tranquille. Aveva visto luoghi e persone che, qui ad Hershey, non potevano neppure far finta di immaginare.
Più che malfamate, erano strade desolanti, vuote, dai muri consumati e qualche lattina abbandonata. Non era brutto, semplicemente, non era curato, e stonava con l’assoluta pulizia di tutto il resto... Era un po’ come dire ad una donna quanto fosse bella, per poi farle notare con disgusto che aveva le scarpe sporche e consumate.
Era un posto momentaneamente dimenticato, sprecato. A Gerard piacque. Che qualcosa nel suo petto si trovasse in sintonia?
***
Onestamente? Gerard non ricordava molto bene cosa l’avesse portato lì, seduto per terra sul cemento sporco, la schiena appoggiata al muro segnato dal tempo, le braccia abbandonate sulle ginocchia tirate al petto, il labbro inferiore fra i denti e la presenza tranquilla di uno sconosciuto al fianco.
Onestamente? Gerard si sentiva relativamente bene.
«...no, il punto è che le capisco. Se potessi anch’io volerei via al caldo, specie in questi mesi. Fa un bel freddo tra questi muri. Capisci ciò che intendo?» stava dicendo l’uomo.
Gerard annuì piano, alzando il volto verso il cielo grigio e malinconico di Hershey. A lui piaceva gennaio, tuttavia. «Oh sì, capisco»
Ricordava di star camminando per le strade vuote, quando l’uomo, già addossato al muro, gli aveva rivolto una domanda. Era stata una conversazione molto strana.
«Hai da accendere...?»
«No. Io non fumo» aveva risposto tranquillamente Gerard, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
«Già, nemmeno io»
Sì, era stata una conversazione strana.
«Hai qualcosa di forte da bere?»
Gerard aveva scosso la testa, pensando a quanto la gente fosse strana. «No. Non bevo. Ma qualcosa mi dice che “no, nemmeno tu”»
L’uomo aveva storto le labbra.  «Oh, purtroppo invece bevo sì.»
Gerard ricordava di aver sollevato le sopracciglia, pensando che forse avrebbe dovuto andarsene, ma quello che aveva davanti era uno dei soggetti più strani di sempre, probabilmente non avrebbe trovato niente di maggiormente interessante in tutta Hershey.
«Posso essere confuso da questa conversazione?», e Gerard era stato serio, confuso lo era davvero. Era una sensazione strana, a dirla tutta, essere confusi. In genere, teneva tutto quel che poteva sotto controllo, lasciandolo galleggiare nella sua nuvoletta di logica e di filosofia.
«Certamente che puoi, è una delle ultime cose gratis a questo mondo» aveva risposto l’uomo, spazzolandosi pigramente i pantaloni lerci. «Ho solo riconosciuto in te il mio sguardo di tanti anni fa...»
E Gerard aveva piegato di lato la testa.
«..quello di quando cominciai a correre»
E, questa volta, Gerard aveva permesso al cappuccio di scivolargli via dal capo; subito il vento leggero si era impadronito delle ciocche nei suoi capelli neri, muovendole svogliatamente, come fossero sott’acqua. Non aveva paura che quell’uomo lo guardasse negli occhi, perché quella frase che aveva detto sembrava una di quelle che lui stesso era solito pensare. Anche l’uomo aveva gli occhi verdi, e nella penombra dell’alba, Gerard lo notò.
«E adesso...? Non corri più?»
«Fuggire consuma tanta forza e tanta anima, e so che tu lo sai. Un giorno sono inciampato, e non sono più riuscito a correre, ma può succedere, capisci? O si è troppo vecchi, o si è troppo deboli, o si è troppo soli, o ancora troppo inseguiti dal fantasma di qualcuno; si incontra un dislivello e si cade»
E Gerard si era ritrovato seduto al suo fianco, nella posizione in cui era tutt’ora. «E’ per questo che bevi?»
«Bevo perché non so più correre, e ho consumato i gomiti strisciando» aveva detto, facendo spallucce e guardando dritto davanti a sé. «Ciò che mi resta, è aspettare di imparare a volare. Bere mi aiuta un po’»
Gerard aveva abbassato il capo, schermandosi dietro le ciocche scure. «Ma per volare, bisogna trovare un burrone e avere il fegato di gettarsi di sotto. E se non si aprono le ali, sei morto»
«E la cosa ti spaventa?»
«Forse»
«Cadendo persi molte delle mie paure. Le paure facevano ancora parte dell’innocenza infantile, sapevi? E’ quando smetti di avere paura che ti senti entrambi i piedi nella fossa»
Sì, Gerard lo sapeva già, era un ragionamento che aveva fatto, probabilmente in treno, diversi mesi fa. La paura è parte integrante dell’infantilità, per questo gli adulti, adulti non sono: hanno ancora paura e ancora sono infantili.
«Sai qual è il punto?» aveva detto poi Gerard, incrociando le braccia e inumidendosi le labbra seccate dal vento invernale. Aveva solo una felpa, ma non avrebbe mai ammesso a sé stesso di avere freddo. «Se cadi mentre stai correndo, puoi rialzarti, ignorare le ginocchia sbucciate o le caviglie slogate. Fatto sta, che puoi ancora fare qualcosa, puoi ancora spostarsi e respirare aria diversa.
Invece, se si cade tentando di volare, non ci si rialza più. Il mare è pieno di petrolio, e  non si stacca dalle piume.»
L’uomo, dal suo canto, aveva ridacchiato, senza gioia. «Ma ragazzo, volare è libertà. E’ persino la libertà di cadere nel petrolio e soffocare. Lo accetterai quando smetterai di correre»
Gerard aveva sorriso, con amarezza. Con quell’uomo si sentiva simile, e molto diverso. «Non smetterò di correre. E’ una sfida con cui ballo da tutta la vita. E non ho nessuna intenzione di perdere.»
«Non ami perdere?»
«Nemmeno un po’»
E da lì, Gerard ricordava poco, o almeno, non ricordava molto bene come fossero passati a parlare di rondini.
«Bene,» disse l’uomo. «Invidio molto le rondini. Beh, sai, hanno le ali. E loro chiamano casa il calore che sentono tra le piume, e non importa il nome del luogo, o il suo odore, o chi ci abita. Chiamano casa dove stanno bene.»
«Chiamare un posto casa è destabilizzante tanto quanto lo è non averne una»
«Credo che sia così,» annuì d’accordo, il tizio. «Perché il problema, è che gli uomini si legano al posto chiamato “casa” con le catene, e gettano la chiave. Casa dovrebbe essere un qualcosa che è possibile portarsi dietro; magari una persona»
«Le persone tendono a restare indietro» mormorò Gerard, piegando la testa da un lato.
«Può darsi. Ognuno corre a modo suo, ma magari basta decidere un ritmo, per non perdersi. Io la persi, la mia occasione»
Gerard aggrottò le sopracciglia, insicuro. Non aveva bisogno di nessuno da chiamare casa, ma sapeva che gli altri erano diversi da lui, per fortuna, e dalla vita avevano bisogno di cose differenti, rispetto a lui. Per un secondo si immaginò un mondo di tanti sé stesso.. ew. Rabbrividì, perché ce ne erano già troppi anche solo nella sua mente. Girò la testa e sollevò lo sguardo, incontrando quello verde dell’uomo accanto a lui: non doveva avere meno di quarant’anni, la barba era malfatta e con il segno di una cicatrice, gli occhi tristi e infossati, una ruga costante sulla fronte.
Gerard non sarebbe invecchiato così, se lo ripromise ancora. Piuttosto, sarebbe morto prima. Non aveva intenzione di restare accostato ad un muro ad aspettare di volare, o di veder comparire uno degli angeli in cui non credeva.
«Avevi una persona da chiamare casa...?» azzardò, senza spostare lo sguardo da quello dell’altro.
L’uomo sorrise, con nostalgia, malinconia, amarezza; quello era lo sguardo conseguenza di un ricordo che riaffiorava sul pelo dell’acqua, dell’oceano di un’esistenza intera, come un veliero fantasma che la luna richiama su dal fondale, perché interrompa la linea imperfetta dell’orizzonte ed increspi le acque. 
«Io... credo di sì, ma è stato molto tempo fa. Troppo.»
Gerard spostò lo sguardo verso il nulla della strada, stringendo le labbra. «E’ rimasta indietro?»
«La lasciai, indietro»
Gerard non chiese nient’altro, non voleva sapere. Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui entrambi ascoltarono i rumori sommessi della città, che, lontano, si svegliava. Il ragazzo ricordò la quiete immobile della stazione, il lampione rotto, lo sgocciolio dell’acqua... ora, mentre lui parlava nel freddo di un vicolo, la voce degli uomini doveva aver rotto l’impeccabile armonia di quell’attimo di stallo a cui aveva assistito.
«Tu che cosa chiami casa...?»
Gerard rimase immobile, a fissare il vuoto, vuoto che lui vedeva pieno di mille milioni di possibili, improbabili cose. Era sempre così: quando era in moto il suo cervello, lasciava che lo sguardo si perdesse altrove, tra le pieghe del reale e l’irreale.
«Forse, niente. O forse, per me casa è il piccolo Universo che si è preso il 10% del mio cervello quando nacqui» mormorò infine, come se stesse raccontando una battuta triste. Perché sì, la sua ragione era un piccolo Universo, ed era l’unica cosa che lo aiutava davvero a vivere, oltre che l’unica cosa con cui avrebbe dovuto convivere per il resto della sua esistenza: quando se n’era accorto, Gerard si era assicurato di andare abbastanza d’accordo con il proprio cervello, e per ora, non c’erano particolari dissidi.
Passare la vita con chi odi o con cui ti ritrovi a litigare, è un suicidio già in partenza.
Rimasero di nuovo in silenzio a lungo, e il sole sorse sempre più in alto nel cielo, illuminando Hershey in modo delicato, come se davvero gli importasse di non ferirle gli occhi; la luce improvvisa ferisce, il buio ti avvolge e ti fa sentire perso, ma tira solo giochi psicologici, mai davvero fisici.
La luce mette in risalto troppe perfezioni e imperfezioni, e pone troppi limiti alle cose.
Gerard ricordava ancora molto bene il pensiero di Leonardo da Vinci, ed era grato, quindi, alla penombra che il muro alle sue spalle gli offriva.
«Jason» disse improvvisamente la voce al suo fianco.
«Gerard» rispose il ragazzo, appoggiando la nuca al muro e socchiudendo gli occhi, osservando le nuvole spostarsi. «Resterai qua ad aspettare di volare, Jason?»
«Temo proprio di sì»
Gerard annuì piano, e lasciò che le palpebre gli cadessero sulle iridi verdastre.
«E tu continuerai a correre come un randagio?»
Sentì un sorriso increspargli un lato della bocca, con un’arresa allegria. «Temo proprio di sì».
 
 
 
 
 
«Sapete qual è il danno, però...?»            
Il suo era stato un sussurro a fior di labbra, tremolante e stremato.
«E’ che ancora mancate da far male...»
A quello, le lapidi di marmo, sfregiate da polvere e pioggia, risposero mute, e non si mosse nulla. Niente si sarebbe più mosso.
Non c’era nemmeno più il vento di gennaio.
Frank sorrise, con tutta l’amarezza che aveva, e si sentì le lacrime incastrate sulle guance, quelle che aveva pianto poco prima, scivolargli sul labbro e riempirgli di sale il palato. Chinò la testa, lasciando che i capelli neri scivolassero in avanti, coprendogli il volto fino al naso.
Era una scena desolante, quasi patetica, come rubata ad un film dalle pretese tragiche, fallite, messe in atto buttando in ginocchio un ragazzo distrutto, nell’anima e nel corpo, davanti a lapidi scure dai numeri insensati, a fissare foto ingrigite di sorrisi sbiaditi, di lineamenti, voci ed odori che al mondo non esistevano più. Restavano solo i ricordi, ma anche quelli sarebbero morti piano piano.
«Lo so, lo so... non ne potete neanche più di sentirmelo dire, ma è tutto ciò che... ho. Che mi resta. Una manciata di parole da buttare al vento, o in faccia ad un blocco di pietra. E non riesco a capire perché non – non riesco ad avere nient’altro, per cui vivere. I-io vorrei...» la voce gli si ruppe in gola, e Frank dovette deglutire. Ormai, tanto, non aveva più liquidi da sprecare in lacrime.
Ma il dolore era ancora lì, non era come l’acqua, e non evaporava con l’arrivo dell’estate.
Frank si sporse in avanti, e con le dita bianche e sottili sfiorò la foto di suo padre. «E’ ancora colpa mia» e non seppe neanche se lo disse o lo pensò, se lo confessò al vento, che gli portò via le parole, disseminandole altrove, o se lo confidò all’intimità tra sé stesso e il suo peccato. Guardò la foto di sua madre, poco più a fianco, e si morse le labbra in una smorfia tra un sorriso malinconico e un grido trattenuto di dolore.
Aveva già gridato, aveva già gridato tanto.
E non era stato il solo, a farlo. Le grida degli altri lo inseguivano ancor più che le proprie.
Come poteva lui, aver fatto tanto male...?
Ma nel mondo tutti quanti sono capaci a uccidere, e improvvisamente, basta un niente.
Frank lo sapeva.
E aveva voglia di morire.
Cosa ci sarebbe stato di sbagliato? Nulla.
Cosa ci sarebbe stato di tragico? Nulla.
Nessuno poteva più piangere per lui, perché Frank era morto dentro tanto tempo addietro, ed era da solo, adesso, in quel mondo spietato che aveva ancora fame delle lacrime e dei tormenti altrui.
 
Frank si sentì mancare il fiato e si spinse in piedi, allontanandosi dalle lapidi dei suoi genitori, o rischiava di svenire lì, sulla terra brulla, se sprecava le ultime forze che aveva in altra autocommiserazione.
Da quanto tempo non mangiava?
«Buonanotte mamma. Buonanotte, papà»
Cominciò ad camminare a ritroso, senza staccare gli occhi da quei fiori finti o secchi, portati da parenti sconosciuti, trasparenti, invisibili come fantasmi.
Lui non portava fiori. Non l’avrebbe fatto
Si sentiva male, male da poter vomitare fuori l’anima, abbastanza da perdere sangue dagli occhi e buttarsi a terra, racchiudersi su sé stesso, finché non sarebbe morto dissanguato, o per mano dell’inverno, o per carezza della fame.
Aveva ancora una lapide, da andare a trovare, su cui piangere altre scuse e altri distruttivi desideri, e solo allora si sarebbe concesso di tornare nella sua casa vuota... perché sì, sarebbe tornato.
A casa.
Aveva male, aveva male ovunque, ma non poteva abbandonarsi a stupidate, Frank, perché... perché aveva davvero voglia di lasciarsi andare e farle, le cretinate, e faceva bene ad avere paura di sé stesso. Frank si sentiva imprevedibile, oltre che impulsivo. E non voleva scoprire quanto effettivamente era spezzato.
Non puoi contare i centimetri alle crepe, quando queste si aprono all’interno.
 
La lapide di marmo di Julie, sembrava quasi lilla. Frank l’aveva notato subito, anche in mezzo ai pianti, anche mentre svuotava l’anima dalla propria umanità e dal proprio contegno.
Julie amava il lilla, Frank l’aveva sempre odiato. Ed ora era lì,  troneggiava su di lei, e appoggiato sulla terra sfoggiava pomposamente quei riflessi, fissando il ragazzo negli occhi. Nella vita e nella morte, vinceva sempre Julie. Lei, e il suo colore.
E sì, Frank l’aveva amata tanto da star male, anche se le piaceva il lilla, anche se voleva vincere sempre, anche se non stava mai ferma, anche se a volte sembrava bipolare, anche se sputava in faccia alle persone esattamente quello che pensava, del tutto incurante del resto.
L’aveva amata per questo, e per tanto altro.
L’aveva amata anche se l’aveva uccisa lui.
Vedere la sua lapide immobile gli strappava ogni volta le viscere, ma alla fine resisteva, riusciva a lasciare quel luogo e continuare a far finta di essere vivo... ma questa volta, Frank si bloccò: davanti alla lapide color glicine di Julie, riconobbe tre persone. Una alta, di un uomo; una bassa, di una donna; una slanciata, di un ragazzo.
Due piangevano, anime strappate da qualcosa di devastante come lo era la morte, e l’altra... l’altra lo guardava, con grandi occhi di ghiaccio, gli stessi di Julie, ma questa volta carichi di vendette mute, di rabbia, disgusto, disprezzo, odio, incredulità, astio, e tutto questo condensato nello stesso immobile sguardo, tutto questo sommato in un’espressione... vuota.
Il fratello di Julie, lo guardava con occhi vuoti.
Ma Frank ci lesse comunque quello che c’era bisogno di leggere.
“E’ colpa tua.”
Avrebbe mai smesso di soffrire? Di far soffrire?
“Dovevi morire, dovevi morire anche tu. Dovevi morire solo, tu.”
Le gambe tremarono, ed ebbe bisogno di correre.
Correre, per poi fermarsi, e non muoversi mai più.
Scavalcò sassi, attraversò il cemento, inciampò, cadde, perse altro sangue, tossì e sputò, riprese a correre, scompostamente, sentendo dolere le caviglie, ma non ci badò, non si fermò, non finché i polmoni quasi non  esplosero.
Voleva andare via
Voleva andare via
Voleva andare via,
ma non poteva. L’uomo aveva costruito il mondo cosicché quelli come lui non potessero fuggire. Non aveva i soldi, Frank, e non aveva coraggio, perché il mondo era immenso, e non aveva nessuno su cui fare davvero affidamento. Chi sarebbe venuto ad abbracciarlo in un vicolo, o davanti a una stazione, se mai avesse dovuto perdersi? Chi ci sarebbe stato a tergergli una lacrima quando le sue resistenze di carta crollavano, sotto il peso struggente della gravità e dell’atmosfera intera? Chi avrebbe travestito le sue debolezze in forze, in modo da nasconderlo dagli occhi indiscreti del mondo, per poi togliere la maschera, baciare i difetti e trasformarli in qualcosa di bellissimo, nel buio di una stanza?
Nessuno.
Se Frank avesse cominciato a correre davvero, sarebbe morto molto presto... oh, ma allora forse non era poi così male. D’altronde, non era tanto diverso da quello che voleva, ormai.
Frank, però, era stanco marcio di correre, e non ci riusciva più. Sarebbe fuggito anche strisciando, ma non ci riusciva più. Non riusciva più.
E allora, forse, non c’era bisogno di correre.
Forse, per essere liberi, bastava ascoltare il vento, e tentare di volare.
Niente più piedi, niente più gambe, niente più affanni. Forse, bastavano le ali.
 
Frank sentiva caldo, e assaporava già il sapore dolceamaro dell’Inferno, il sudore scorrere sulla pelle diafana dei suoi demoni, e sfrigolare cadendo fra le fiamme.
Gli angeli erano sempre tutti così seri. Il diavolo, invece, l’avrebbe accolto col sorriso.
Ehy, mamma, papà... fa freddo al cimitero? 





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Non ho molto da dire, in realtà, se non che anche il capitolo 3 ce l'ìho già, ma ho già una specie di blocco... solo perché non riesco a farmi piacere il mio metodo di narrazione. Non sapete che palle di sensazione sia.. oppure sì?
Beh, come al solito vi bacerei per un parere, una critica o un commento, ee.... beh, questo è quanto. 
Se riesco, spero di tenere un aggiornamento regolare di una settimana, massimo due.. se vado oltre le due, significa che ho un blocco con la storia, o che sono morta, o che mi hanno abbandonato da qualche parte senza internet. 

Comunque, per adesso Gee me lo immagino un po' così, e per spiegarvi il così, vi metto uno dei miei disegni (un po' vecchiotto ormai).. certo, nella storia ha quasi 18 anni, ma diciamo che ne dimostra qualcuno di più. Insomma, avete capito.. o almeno spero. 
Ed eccolo qua (non sapete che parto, la giacca): 






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Capitolo 3
*** Angels Are Always All So Serious ***













 

3. Angels Are Always All So Serious



 
Respirare l’aria umida ed usata della stazione del New Jersey fu strano, sgradevole e famigliare. Era buffo come Gerard riuscisse a legare insieme certi termini.
Era partito il pomeriggio del 13 Gennaio, e ora erano le cinque e trenta del 15: l’ennesima notte che se ne andava, per dare posto all’alba. Era stato via relativamente poco, ma l’inverno non perdonava molto spesso chi stava in giro troppo a lungo.
Aveva speso a Hershey un po’ di tempo, poi si era deciso a prendere un treno per tornare indietro; non c’era molto da vedere, e la notte era stata fredda per davvero. Le chiacchiere con Jason, almeno, l’aveva di distratto.
Non poté non chiedersi dove fosse l’uomo adesso. Certo, probabilmente era ancora addosso allo stesso muro, ma... se lo chiese, non perché gli importasse, ma perché faceva fatica a capire come qualcuno potesse vivere senza correre più, senza muoversi, senza vedere posti nuovi, senza respirare arie diverse. Per lui, era quasi inconcepibile.
Si era alzato da quel vicolo quando si era accorto che Jason dormiva, e si era anche chiesto se, nel sonno, sognasse di poter volare, anche se sapeva che Jason, con volare, intendeva varie cose, ben diverse dall’avere le ali di un volatile per gestire le correnti.
Però si era divertito a immaginarselo volare.
Si era chiesto cosa sognassero le persone che non correvano, quelle che si limitavano a guardare ed aspettare.
Certo, Gerard sognava poco, ma perché dormiva poco e basta... quindi, si chiese cosa sognassero gli altri fuggitivi come lui.
Si chiese cosa sognassero coloro che aspettavano di volare.
Si chiese che sognassero le persone normali, quelle comuni, banali, quelle che non correvano e non aspettavano: quei tipi di persone, nel suo cervello, Gerard se li figurava come coloro che giravano su sé stessi, in tondo, come un cane che si insegue  la coda: era una scena molto patetica. Fatto stava, che non vedevano mai niente di davvero nuovo, e tutto ciò che ottenevano, era un capogiro ogni tanto.
Si chiese come facessero a non accorgersi di quanto la loro esistenza fosse vuota.
Si chiedeva molte cose molto spesso, Gerard.
Si chiese perché lo facesse... oh, ecco; appunto.
 
Di notte le stazioni erano tutte inaspettatamente belle, di giorno invece non erano un granché. La luce bigia del sole di gennaio le illuminava con nostalgica tristezza, rendendole grigie, un po’ scarne... la gente ci veniva, ci gettava in mezzo qualche ricordo, qualche bottiglia usata, qualche bacio rubato, qualche omicidio, qualche cartaccia, qualche grido, qualche pianto, poi prendeva il treno e andava via. E la stazione rimaneva lì, grigia, triste ed usata, come una prostituta, in attesa che venisse un nuovo viaggiatore, che sporcasse la sua panchina, che prendesse il treno ed andasse via anche lui.
Gerard amava il grigio, ma così era desolante.
D’altronde, questo era il New Jersey.
Di notte, la stazione ai suoi occhi prendeva altre tonalità... per via della luce dei lampioni diventava giallina, di quel colore che sapeva di vecchi fogli di carta, preambolo di tante fantasiose promesse; quell’illuminazione pacifica, eppure inquietante, che aveva il sapore del tempo che passava al ritmo delle pesanti ore notturne, le stesse ore che la gente passava a dormire, al sicuro in una stanza.
Tutto questo, era poi avvolto dal buio, e i rumori lontani, senza volto né materia, arrivavano amplificati, inquietanti per alcuni, rilassanti per altri.
Di notte, la stazione sembrava un po’ meno una prostituta.. a Gerard ricordava più una vecchia scrittrice di storie, intenta a raccogliere i ricordi che i pochi viaggiatori notturni dimenticavano in giro, per poi collezionarli tra le proprie pagine e memorie. Non era usata dai viaggiatori, sembrava più che fosse viceversa, che fosse la stazione, ad usarli.
La luce gialla e il buio le davano un profilo più vissuto, più autorevole, più forte.
Ma, tutto questo, era solo un gran viaggio mentale di Gerard, che conosceva troppo bene la stazione del Jersey, e gli piaceva darle un volto che variava dalla notte al giorno, pur di assecondare le proprie sensazioni.
Dare volti e storie alle cose, era divertente tanto quanto darli alle persone, ma c’erano molti più indizi su cui spaziare. D’altronde, ogni cosa nel mondo era una spugna zuppa e straripante di esperienze passate, perché quasi ogni respiro ed ogni movimento lasciava un minuscolo segno, e Gerard lo coglieva.
 
Per qualche ragione, le ore della notte scorrevano veloci, scivolavano come burro sul sapone, e poi ti accorgevi come tutto, la mattina, cominciasse a rallentare; dalle sei in poi, ogni minuto pesava come granito. Probabilmente, era un lascito dei giorni in cui doveva andare a scuola, in quell’edificio un po’ angusto, straripante di ormoni, ragazzine e ragazzini, cervelli piccoli e cervelli grandi, ma vuoti. Se avesse potuto prendere il posto di uno dei professori, avrebbe anche potuto costruirsi un piccolo esercito personale; non parlava spesso, Gerard, ma era bravo a farlo, quando aveva le  idee.
Da poco, per fortuna, Gerard non era più costretto a frequentarla, non di mattina almeno: solo di pomeriggio, ed era una gran cosa, abbastanza grande da farlo acconsentire ad usare quelle ore preziose del suo tempo.
Ovviamente, il tutto era legato all’arte.
 
Gerard si inumidì le labbra e prese a far ondeggiare la gamba, lasciata a penzoloni giù dal muro, pur di muovere qualcosa ed ignorare il freddo. Non sarebbe tornato a casa, per nessuna ragione; tanto Mikey era in scuola, e non c’era niente ad aspettarlo fra i muri di quella casa. Niente di degno, perlomeno.
Gerard preferì osservare, da sotto le palpebre socchiuse, i raggi timidi del sole filtrare tra le fronde e disegnare sul terreno disegni e composizioni di macchie, informi e irregolari, che sparivano e tornavano a seconda delle nuvole che solcavano il cielo.
Quando si decise ad alzarsi dal muretto vicino alla scuola, le gambe lo portarono in mezzo alla foresta, e dalla foresta, fino al fiume, dove si recava tutte le settimane, non appena tornava da uno dei viaggi: il fiume era largo qualche metro, ricco di sassi, dislivelli, cascatelle, profondo in alcuni punti e sottile e innocuo in altri. Il fiume allungava infinito le dita, si portava avidamente via le foglie, i loro insetti, la terra, le pietre, le cortecce, i semi, i fiori, i ricordi e i sorrisi della gente, gli odori delle cose e gli animali, e portava tutto questo altrove, lo disseminava per il mare o a marcire sulle spiagge.
Il fiume affascinava Gerard... a volte ci si immergeva dentro, nelle sue acque freddissime, nella speranza che potesse capire i suoi pensieri e dirgli che non sarebbero rimasti sprecati, che qualcuno un giorno li avrebbe raccolti, e gli piaceva pensare che il fiume potesse provvedere a scriverli su un foglio, per chiuderli in una bottiglia da affidare al mare. Immaginava un marinaio che trovava la bottiglia, l’apriva e, invece di leggerci il fatidico “aiuto!”, ci trovava una “aiutati!”... aiutati, e comincia a correre.
A gennaio, comunque, Gerard sapeva non fosse una buona idea bagnarsi, quindi si fermò sulle sue sponde, lasciando che gli anfibi affondassero di qualche millimetro nel fango. Si guardò intorno: vuoto, sicuro, silenzio. Affondò la mano nella tasca dei jeans, e trovare la consistenza grezza della pietra raccolta fuori dalla stazione di Hershey, gli fece nascere un sorriso storto tra le labbra. Raccoglierle era un’abitudine, ma poi si dimenticava di assicurarsi di non perderle. Era successo una volta soltanto, per fortuna, ed era dovuto tornare indietro: era stato in giro per l’America quasi una settimana intera, in quel periodo, ed era stata una sensazione quasi meravigliosa, anche se al tempo ancora doveva andare a scuola e la sua scomparsa improvvisa aveva scatenato un gran macello.
Gerard osservò la pietra scura, posata sopra la pelle chiara del suo palmo, e poi spostò lo sguardo sul fiume. «Beh, buon viaggio, Hershey» mormorò, lanciando quindi il sasso da qualche parte nell’acqua, perché si posasse tra i sassi di tante altre città, e perché venisse un giorno portato via dalla corrente.  
Sospirò, e fece risalire lo sguardo lungo il fiume, adocchiando da lontano il ponte che, incorniciato da tutti i faggi e le betulle della foresta, lo attraversava... e allora la notò, la figura esile, instabile, fremente e terrorizzata, che si teneva male oltre la ringhiera del ponte, a un passo dal vuoto, a un passo dal fiume, dalla morte e dal mare.
Gerard sospirò ancora e spinse in avanti le labbra, in una smorfia seccata, molleggiandosi sui talloni. Non era la prima volta, o altrimenti, diamine, quello non sarebbe stato il ponte “degli ultimi sospiri”, come l’avevano soprannominato gli abitanti del posto. Che luogo migliore, per morire? Una foresta tranquilla, di foglie chiare, di acqua limpida e ribelle, dove nessuno sarebbe venuto a disturbare il corso, l’ultimo, dei tuoi pensieri tormentati.
Lì ci venivano le persone che a forza di girare in tondo inseguendosi la coda, sbattevano la testa contro uno spigolo e cadevano scompostamente a terra, con un gran mal di testa e qualche lacrima, e si accorgevano di quanto tempo avevano sprecato, e di come fosse troppo tardi; a quel punto, strisciavano fino al bordo e si lasciavano morire.
Era la fine insulsa per un’esistenza insulsa, coerente a sé stessa.
Aguzzando la vista, la figura diventò un ragazzo giovane, ma quei tipi di tormenti non avevano un età.
Gerard notò i suoi occhi grandi, spalancati enormi perché si specchiassero nell’acqua, perdendosi nei suoi riflessi così tanto allettanti. Li notò grandi, vuoti eppure pieni.
Gerard distolse lo sguardo. Non sarebbe intervenuto, non ne sarebbe valsa la pena, quell’anima avrebbe trovato un altro ponte per morire, e non voleva avvicinarsi a quel baratro d’oblio.
Ma erano occhi così grandi... ed erano... spenti, eppure non neri e morti come quelli che già aveva visto lasciarsi cadere, arrendersi, dare vittoria alla loro stessa vita, o meglio, alla loro stessa morte. Ma Gerard aveva imparato a non giudicare.
Il ragazzo aveva un’anima grigia, sotto quegli occhi grandi, lontani.
E Gerard amava, il grigio.
Il suo sguardo si spostò nuovamente in alto, alla ricerca di quel colore spento, molto simile a quello del cielo, e non lo distolse più.

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Frank aveva definitivamente finito le lacrime. Certo, aveva ancora male ovunque, male alle gambe, ai polmoni e all’anima, ma non piangeva più. Adesso, abbandonato alle tentazioni della sua anima strappata, aveva in viso asciutto, scolorito come quello di un morto, ed era intento a guardare in giù, verso il fiume, verso i risucchi violenti e gorgoglianti dell’acqua, le pietre che andavano e venivano sotto e sopra il pelo dell’acqua, arrotondate e letali.
Com’era finito lì?
Forse, pensò Frank, era meglio morire con un colpo secco alla nuca, o alla tempia, che aspettare di morire affogando, ma ora che aveva deciso di mettere fine ai suoi pensieri, ora che era in bilico in piedi sul quel ponte, ora che aspettava che qualcuno gli strappasse via anche l’anima, non aveva più alcun potere, e sarebbe stato il fato, o forse solo il caso, a decidere per lui.
Suicidio.
Era una parola così strana, tagliente e aspra al solo farsela scivolare sulla lingua, con troppe i mescolate ai suoni melliflui eppure acidi della s e la c; un termine banale di otto caratteri, ma mille milioni di domande e risposte, forze e debolezze, lì appena sotto l’inchiostro. Era impressionante come una parola tanto misera potesse contenere questo, e potesse bastare a esprimere una vita di sensazioni tutte sbagliate, che non erano andate a parare da nessuna parte, che erano rimaste sprecate e abbandonate a ridosso di un muro di graffiti scoloriti.
Sarebbe stato interessante scoprire con che criterio ci si accorgeva delle vite vissute giuste, e le vite vissute sbagliate, e perché una di queste avesse accolto a braccia aperte una parola con tutti quei significati.
Suicidio. Su. Dio. Io.
Era qualcosa di semplice che diveniva complicato, per poi tornare alla realtà e ridiventare una reale, cruda, complicata semplicità.
Cosa sarebbe bastato?
Solo un salto.
E un salto sarebbe bastato, per volare?
La vita non gli aveva mai davvero sorriso, e Frank sapeva che non avrebbe aperto in tempo le ali, e che sarebbe morto nel tentativo. Ma era okay, andava bene così, perché anche volando non sarebbe mai riuscito a scappare a sufficienza da sé stesso, né tanto meno dalle urla folli che grattavano e allargavano le sue crepe interiori.
Frank bramava quel silenzio, quel silenzio assoluto che già riusciva a cogliere in mezzo ai risucchi del’acqua... lo sentiva proprio lì, tentatore molesto di patetiche tragedie, risalire dal fondale e accarezzare il pelo dell’acqua con la punta delle dita, facendo seducentemente segno di seguirlo, perché all’inizio farà freddo, ma poi ci sarà silenzio, e quindi pace.
O forse, poi, ci sarà l’Inferno, ma quello probabilmente se lo meritava.
E comunque, all’Inferno, sarebbe stato troppo occupato a urlare per poter sentire qualcuno urlare a lui.
Ma era meglio, era meglio così.
 
Si spostò ancora un po’ di più sul bordo, le dita ancora avvinghiate al metallo gelido e arrugginito della ringhiera del ponte. Era freddo, e la ruggine pizzicava la sua pelle... quindi, lo mollò.
Bastava solo un salto.
Sto per morire.
Il suggerimento della sua mente lo fece deglutire, ma ricordare dove fosse lo calmò... ricordò quando ci veniva da bambino, con i suoi genitori, passandoci ore. Ricordò quando giocava nell’acqua, quando suo padre scherzosamente lo inseguiva, su per i sassi e in mezzo alle acque più basse, anche a costo di bagnarsi i pantaloni da lavoro. A lui non importava, diceva, perché voleva godersi qui e l’ora, con le persone che amava, nei luoghi che amava, e quindi al diavolo il lavoro e i pantaloni.
Linda! Linda! Vieni a vedere, ho trovato un granchietto che parla!» Frank ricordava suo padre urlare quella frase, quando lo catturava e lo capovolgeva per farlo dondolare, e ricordava chiaramente le risa cristalline di sua madre, che si copriva la bocca con il libro che fino a poco prima stava leggendo; a sua madre piacevano i libri d’avventura e di fantasia, proprio come ai ragazzi, e non si stancava mai di quelle storie.
Frank non si stancava mai di sentirla raccontarle.
Se si concentrava, sentiva ancora il rimbombo delle loro voci, rimbalzare sulle rocce e tornare a lui, incurante del tempo che era passato, che passava e che passerà.
Ora, questo posto Frank lo vedeva così vuoto... così vuoto da scavare ancora un po’ di più nella sua anima; non c’erano risa, non c’erano schiamazzi, non c’erano scherzi, non c’erano baci, ma solo e soltanto il gorgoglio veloce e irregolare del fiume. Esasperante e primordiale.
I suoi genitori non avrebbero potuto tornarci mai più, ma... ora come ora, Frank sperò di poterci rimanere per sempre.
Tanto, pensava, ci sarebbero voluti un sacco di giorni prima che qualcuno si accorgesse che mancava, e altrettanti prima che qualcuno si rendesse davvero conto che poteva essere morto, e ancora di più prima che qualcuno capisse dove, aveva deciso di morire. E quel giorno, probabilmente, il fiume avrebbe già provveduto ad affidare il suo cadavere al mare.
 
Prese un respiro, si inumidì le labbra secche, strinse gli occhi e li riaprì: li voleva vedere avvicinarsi, il fiume e i suo segreti.
Addio. pensò, perché almeno un addio se lo meritava, anche se nessuno avrebbe potuto rispondergli, o agitare una mano e sorridergli, rassicurandolo con “ehy, ci si vede dall’altra parte”.
Adesso, un salto, lo stesso salto che compiva da bambino per saltare dalla roccia fino alle braccia di suo padre. Era semplice.
Un salto.
E quindi uno...
Due...
Tr-...
«Io non lo farei.»
 
Frank sbarrò gli occhi e si irrigidì, smise persino di tremare, o respirare, perché tutto al suo interno era diventato pietra e ghiaccio; a quel punto, con la potenza di una sberla il suo cervello si rese conto di quanto fosse in bilico sul vuoto, instabile e succube al cambiare del vento, e con uno stravolgente moto di terrore tornò a serrare i pugni sul metallo alle sue spalle. La sensazione di ritrovato equilibrio fu abbastanza piacevole da mandargli un capogiro e offuscarli per un attimo la vista.
«L’acqua lì sotto è fredda, te lo dico io»
Ancora quella voce. Cristo.
Frank, senza sapere bene come reagire a quell’assurdità, voltò di scatto la testa: lì sui ciottoli del ponte, a qualche metro da lui, c’era un ragazzo, che con un sorriso storto e un po’ beffardo lo guardava, le mani nelle tasche dei jeans scuri mentre si molleggiava sugli anfibi.
Frank temette di essere stato folgorato. Nel senso, una volta un fulmine gli era caduto piuttosto vicino, e la scarica elettrica se l’era sentita vibrare sulla pelle, e una volta aveva messo erroneamente la mano nella presa: la sensazione, ora, era diversa ma simile.
Ebbe l’impressione che il tempo si fermasse, o meglio, desiderò che lo facesse, purché permettesse a Frank di rimanere in quello stato di stallo, ad osservare le ciocche nere dello sconosciuto muoversi a ritmo con i soffi del vento, a seguire la linea perfetta dei suoi occhi, troppo lontani e troppo ristretti per vederne il colore, e a studiarne i lineamenti morbidi interrotti dalle sopracciglia scure e corrucciate... solo quell’occhiata bastò a farlo sentire rapito, lasciato col cuore in gola in uno spicchio di spazio fuori dal tempo, mentre contemplava le sensazioni che uno solo dei suoi sguardi silenziosamente esprimeva.
Poteva essere frutto della sua fantasia, oppure chissà, il suo angelo custode.
Ma, fanculo, se era il suo angelo custode avrebbe potuto fare qualcosa molto prima, perché oramai c’era molto poco da salvare, o da custodire. E non importava quanto quella persona – se una persona era – fosse affascinante, enigmatica e, beh, invitante. Perché sì, nella frazione di un istante Frank aveva provato il desiderio di sentire sotto le dita quei capelli, sentire che odore avesse la sua pelle porcellana, e soprattutto vedere di che colore fossero i suoi occhi.
Sentire il suo calore sulla pelle, perché Frank aveva il disperato bisogno di qualcuno, di sentire il loro cuore battere al ritmo con il suo.
Ricordava ancora, quello di Julie.
Ma era tardi, ormai.
E dopo questo pensiero, Frank sentì risalirgli la gola anche un’arrendevole irritazione: voleva essere lasciato solo, anche nell’ultimo giorno della sua vita. E invece ora gli sconosciuti si prendevano la briga di rompere - con frasi idiote - l’intimo addio a sé stesso.
Che ironia.
«Vai via» sibilò a denti stretti, forse più rabbiosamente di quanto intendesse, tornando a puntare lo sguardo in avanti, non verso il fiume, ma verso la linea irregolare che divideva la foresta dal cielo.
Il ragazzo non rispose, e Frank tentò con tutto sé stesso di ignorare il rumore dei suoi passi e dei suoi movimenti, ma la cosa divenne pressoché impossibile quando qualcuno si appoggiò alla ringhiera, e si trasformò in impensabile, quando Frank si vide il corpo dello sconosciuto pericolosamente vicino, mentre questi scavalcava il metallo e ci appoggiava contro la schiena, sistemandosi in piedi proprio accanto a Frank, con un nulla di distanza dal nulla stesso.
Frank sbarrò ancora di più gli occhi, vedendolo così vicino al bordo, e sentendo formicolargli nelle membra l’istinto di allungare un braccio per assicurarsi che l’altro ragazzo non cadesse.
E invece non fecero niente, rimasero lì, muti, tra il ponte e il fiume, a guardare in avanti e sentire il rumore dei propri respiri.
Frank era confuso, e ovviamente non capiva perché questo tizio se ne stesse lì, accanto a lui, con il rischio di cadere, senza dire niente e senza nessuna espressione in viso: non sorrideva più, guardava in avanti e la sua espressione non comunicava assolutamente niente.
«...e io lo so, che è quel tipo di freddo che se cadi ti arriva fino all’anima».
Era serio, impassibile... fermo, immobile, una statua bellissima che Frank ebbe il coraggio di osservare solo con la coda dell’occhio, nonostante fosse lì accanto a lui. A malapena comprese ciò che disse.
Non seppe quanti minuti passarono, ma Frank se li sentì scivolare addosso, e per una volta nella sua vita, rimasero muti, silenziosi, come desiderava fossero sempre: niente più grida.  E non stava facendo proprio nulla di diverso dal solito, se non fissare lo stesso punto che il ragazzo misterioso accanto a lui fissava, o inspirare l’aria fresca di gennaio intrisa dall’odore delle foglie e dell’acqua; la città non arrivava a rompere quella splendida selvatica armonia.
Fu con la forza di uno schiaffo che Frank boccheggiò, realizzando all’improvviso che, se quello sconosciuto non fosse spuntato all’improvviso,proprio adesso, proprio mentre seguiva il volteggiare di una foglia gialla screziata di rosso, il suo corpo avrebbe potuto essere lì sotto, sul fiume, a perdere sangue sopra i sassi.
Morto.
La foglia si posò sull’acqua, e lì rimase, in balia della corrente.
All’improvviso, ebbe paura.
Paura dell’ignoto, perché non sapeva dove, prima del mare, il fiume andasse, e non sapeva cosa davvero lo aspettasse, dopo, perché non era sicuro né del silenzio né dell’Inferno.
Si girò di scatto, e poté catturare i lineamenti del profilo del ragazzo con un solo, deciso, chiarissimo sguardo.
Il ragazzo aveva gli occhi verdi.
Ed era bellissimo. Ed era serio, insofferente, e non comunicava niente, ma Frank decise di vestirlo con i colori della speranza, e ci si aggrappò con tutto sé stesso, anche se sapeva quanto fosse sbagliato.
Probabilmente, non l’avrebbe neanche rivisto mai più.
 
Frank ricordò sé stesso e il proprio pensiero: gli angeli erano sempre tutti così seri. Il diavolo, invece, l’avrebbe accolto col sorriso.
Ma i sorrisi mentivano, e ora come ora, onestamente, Frank non avrebbe voluto altro dalla vita se non osservare quell’angelo che sulla Terra aveva perso le ali, quell’angelo che con un espressione vuota osservava il niente, trovandoci il tutto. 




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Ed eccoci qui, anche se un po' in ritardo... Il punto, è che sono davvero esausta e stanca di qualunque e in qualunque aspetto della vita. Tutti gli anni è sempre un cattivo periodo questo, mi sale l'ansia già solo a febbraio. 
Uhm... fatemi sapere pareri per questo capitolo, se sono lenta o se corro troppo, se si capsice qualcosa o se secondo voi, è una scena stupida (sai com'è, non ho mai provato a fermare il suicidio di qualcuno, che ne so cosa funziona cosa no ._.

E ho bisogno di una vacanza, una vacanze lunga, che non devo nemmeno darmi lo stress di organizzare. 

Ah, e sì, sono abbastanza verme da aver fatto cominciare tutto questo il 13 Gennaio, alias il mio compleanno. Così, per sentirmela vicina.
Comunque... ho già un blocco, sulla scrittura in generale, lo stesso blocco che già sto gestendo con l'arte, ma è lì... ho voglia di scrivere ma non mi piace ciò che esce, nemmeno un po'. Quindi, spero di riuscire a scrivere il capitolo 4, prima o poi, ma non so dare date certe. 
Chiedo già scusa, per evenienza, spero di riuscire a caricare in un tempo decente.
Bye,
_Ashes

 

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