H

di Blue_Sephirot
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 ***


Innanzi tutto, non odiatemi: posso spiegare tutto.
Stavo scrivendo il nuovo capitolo della mia fanfiction “La vegeance en rose” quando sono stata colta da un’idea, che ho provveduto a buttare nero su bianco in un pomeriggio – quello di ieri.
Ed eccola qui.
Doveva essere una one-shot, ma la sua lunghezza mi ha convinto a dividerla in tre parti.
E’ una fanfiction senza pretese, scritta per il gusto di buttare giù una storiella, ma spero comunque che vi risulti gradevole.
Tengo inoltre a precisare che, per esigenze di storia, ho deciso di chiamare Boris non come sono abituata a chiamarlo, ossia Kuznetsov, ma ho optato per un’altra versione del suo cognome che mi pare sia altrettanto riconosciuta. Capirete leggendo.
Buona lettura!
-Nastja-

 

 

 

“H”
Cap. 1


 

«Takao, senti…», sussurrò la giovane, prendendo a giocare con una ciocca dei suoi capelli castani.
Due occhi scuri e profondi si fissarono su di lei, in attesa.
Lei, che giocava con quella solita ciocca di capelli laterale, tanto da averla ormai resa naturalmente ondulata.
Lei, che sospirava e si mordeva il labbro inferiore, visibilmente a disagio.
Lei, che allungava la sua mano destra e afferrava Dragoon, immobile a fianco del suo migliore amico, e che iniziava a studiarlo con un’attenzione degna del Prof K.
Un mugugno infastidito da quei comportamenti insoliti e straordinari le fece capire che ormai doveva terminarla, quella frase.
Quella frase che, più aspettava ad uscire, più sembrava scomoda e compromettente senza alcuna ragione effettiva – no, non c’era proprio niente di imbarazzante nelle parole che avrebbe voluto pronunciare; la vergogna che lei sentiva viva al punto da percepirla scorrere lungo la schiena, era dovuta al fatto che lei ne conosceva i motivi scatenanti, ben celati all’interno della sua mente che negli ultimi giorni sembrava aver subìto un trauma.
Voleva davvero pronunciarla, quella frase? Ne era convinta?
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, in fondo, al posto di quello: «Takao, senti, ti vanno i noodles per cena?», ad esempio, e la discussione avrebbe preso tutt’altra piega.
«Allora? Hai visto qualcosa in Dragoon che non ti convince?», la spronò quindi l’amico. «Strano. Voglio dire, non capisci molto dell’ingegneria di un beyblade e il Prof K ha perfezionato Dragoon giusto l’altro giorno in vista della Just..»
«Takao, insegnami a giocare a beyblade, ti prego».

 

Aveva esordito così Hilary Tachibana, in un afoso pomeriggio d’estate nel giardino della casa di Nonno Jay. Impossibile descrivere la prima reazione di Takao, semplicemente perché il campione del mondo non era stato capace di alcuna reazione, fisica o emotiva, per una buona manciata di secondi.
A vederli da fuori, sembravano i protagonisti della scena di un film messo in pausa nell’esatto momento in cui la giovane donzella si abbandona alla sua confessione; e colpo di scena, fermo immagine. Gli occhi di lui incollati sul volto di lei e la bocca aperta; la mano di lei che stringe Dragoon, all’altezza del petto, e il capo un poco inclinato.
Svariati aggettivi sarebbero stati in grado di descrivere quell’attimo, e Takao l’aveva presto realizzato, dal momento che la sua seconda reazione fu quella di sforzarsi di tenere la bocca chiusa – sforzo non indifferente per lui  - per scegliere la risposta migliore a quella singolare richiesta.
Hilary aveva trascorso quei secondi immaginando quali sarebbero potuti essere gli atteggiamenti e le parole del suo amico. Lo conosceva bene, tuttavia in talune straordinarie situazioni, le reazioni di Takao riuscivano ancora a disattendere le sue aspettative per prendere un’altra inaspettata direzione. Il campione era una persona aperta e facilmente leggibile, praticamente per chiunque, ma era anche un ragazzo parecchio istintivo: per quanto ci si potesse vantare di conoscerlo alla perfezione, prevedere le sue mosse in circostanze di estrema difficoltà o di totale sorpresa, risultava possibile solo per un veggente.
Quella, di certo, poteva dirsi una situazione di quelle che lo trasformavano in un cappello magico dal quale sarebbe potuto uscire qualsiasi cosa, e ciò non rendeva facile alla giovane giapponese eleggere la reazione finale più consona a Takao Kinomiya.
L’avrebbe presa in giro?
«Tu con in mano un beyblade?! Ahahahah! Hilary, giocare a beyblade non è come imparare a cucinare il riso, senza contare che tu non sai fare nemmeno quello. Ci vuole tempo, serve costanza! Tu… non ha mai toccato un caricatore in vita tua».
Oppure avrebbe cercato di farla desistere con qualche mezza verità:
«Scusami, Hilary, ma non posso permettermi di accontentarti ora. La Justice 5, gli altri bladers qui con noi, lo stress… Ma non appena…».
Chissà, magari ne sarebbe stato entusiasta e l’avrebbe aiutata, avrebbe accettato con un largo sorriso.
O forse avrebbe solamente riso – o meglio, si sarebbe piegato in due dalle risate e si sarebbe fermato solo per dirle che aveva fame.
Eccole, le più naturali reazioni di Takao Kinomiya: risa sguaiate, prese in giro, battute.
Tuttavia quella volta lo sguardo speranzoso di lei e lo stupore riuscirono a vincerle, permettendo a quel cappello magico di tirar fuori solamente un flebile:
«…perché mai?».

 

Oh, Hilary lo sapeva bene perché, ma di certo non lo avrebbe mai confessato. A nessuno, nemmeno a lui. Averlo confessato a se stessa l’aveva già spinta in un mare di difficoltà e in poche – ma buone! – situazioni scomode, da lei stessa cercate in momenti di poca lucidità mentale e troppa emotività.
«Nulla! Che c’è, non può cominciare a piacermi davvero? Dopo più di due anni che conosco te e gli altri, magari qualcosa mi si è acceso dentro», avrebbe risposto quel pomeriggio, alzando le spalle e sforzandosi di fare il più aperto dei suoi sorrisi. Inutile dire che ciò non corrispondeva affatto a verità, ma l’importante era che Takao ci fosse cascato.
Il vero motivo lo sapeva solo lei, e stava per andare a fargli visita, assieme al suo beyblade nuovo di zecca color arancione che aveva assemblato per lei il Prof K con l’aiuto di Emily e dei pezzi di ricambio della squadra americana – la Dottoressa Judy era stata così gentile da fornirle addirittura un caricatore personalizzato, con una sfavillante lettera “H” glitterata sul manico.

 

«Vai a trovarlo? E come mai?», chiese Takao stupito, in quell’ennesima mattinata dedicata a sfiancanti allenamenti in vista della Justice 5.
Richiamò Dragoon dalla sfida contro il Driger di Rei, gesto grazie al quale Hilary intuì subito la sua incredulità. Ancora una volta lo aveva stupito. Già, pareva che in quei giorni Hilary fosse una sorpresa dietro l’altra – ma insomma, doveva anche ammettere che da quando era sorta la BEGA, le sorprese erano all’ordine del giorno e arrivavano da ogni dove.
«Sì, vorrei solo… solo vedere come sta», gli aveva risposto l’amica, sorridendo.
«Oh beh, non sto dicendo che fai male, anzi: vorrei andare a fargli visita anch’io. E lo farò presto!», si era poi corretto il campione, probabilmente temendo che la sua domanda fosse risultata scortese.
«Piacerebbe anche a me, Takao», intervenne Rei. «Solo è curioso da parte tua, Hilary: non l’hai mai conosciuto né tantomeno salutato per tutta la durata del torneo».
C’era una luce, negli occhi ambrati del cinese, che la fece sentire sotto interrogatorio. Che fosse più furbo e sveglio di Takao era palese. La faccenda a lui non era del tutto chiara.
Conoscendo Rei, non c’era malizia nei suoi pensieri, ma mera curiosità. La stessa curiosità che avrebbe colto alcuni altri bladers – ma soprattutto le altre bladers -  dopo essere venuti a sapere della sua idea. O meglio, della sua esigenza.
«Vorrei andarci sola», si premurò di chiarire lei. «So che è strano, mi dispiace. Non l’ho mai conosciuto, ma quello che ho visto alla sede della BEGA mi ha scosso e… vorrei vederlo da sola, adesso».
La presenza di tutti gli altri bladers partecipanti all’ultimo torneo ormai terminato, non la stava aiutando affatto: era difficile tenere nascosti i reali motivi dei suoi insoliti comportamenti; tentare di nasconderli ad altre donne, poi, di cui una letteralmente dotata di una sorta di sesto senso felino, era praticamente impossibile.   
«Se lui potesse vederti coi suoi occhi, sono sicura che ti ringrazierebbe per essere passata a fargli visita», le aveva detto sorridendo Mao quella stessa sera strizzandole un occhio.
«Dici che conosce la parola ‘grazie’?», aveva ironizzato la giovane castana, per smorzare la tensione che giocava coi suoi nervi alla sola idea di essere presto al suo fianco.
La cinese scoppiò a ridere.
«E chi lo sa? Magari durante quest’ultimo torneo, l’avrà sentita dire da qualche parte».

 

E ora ingannava la sua mente, Hilary, mentre camminava con passo veloce in direzione dell’ospedale.
Si sentiva agitata e cercava di distrarsi tentando di indovinare chi, fra i bladers ospitati da Nonno Jay, avrebbe potuto intuire il suo segreto – Mao a parte, ovviamente.
“Julia? Beh sì, indubbiamente. Poi… no, Max decisamente no. Forse Emily, e anche Michael, che mi sembra abbastanza perspicace”.
I nomi si susseguivano nella sua mente come prodotti su una lista della spesa, assieme a considerazioni approssimative.
Le interessava davvero quello a cui stava pensando? Assolutamente no.
“Poi c’è Rei che, oddio, forse sì, dubita qualcosa. E vediamo… nah, Takao è un imbranato, di certo no. Il Prof K, invece mh, non saprei”.
Pensieri futili, vaneggiamenti. Tanto inutili quanto efficaci, però, perché era giunta a destinazione senza farsi prendere dal panico.
Panico.
Aveva parlato troppo presto.
Entrò nell’edificio bianco e grigio imponendosi di non titubare e guardando dritto di fronte a sé, annullando all’improvviso ogni pensiero cosciente. Le sue gambe tremavano sugli scalini antecedenti l’entrata, ma non poteva bloccarsi: non voleva tirarsi indietro.
Ormai era lì e sarebbe andata fino in fondo, nonostante il suo cervello stesse già andando in tilt.
Sentiva l’interno del suo cranio come svuotato da un vento ghiacciato, che stava spazzando via ogni cosa e gelando le pareti. Una bufera che mai nella sua giovane vita aveva subìto. Una gelida tempesta che le aveva fatto conoscere la Siberia senza esservi mai stata.

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Capitolo 2
*** Cap. 2 ***


“H”

Cap. 2


 

Una bufera di neve: ecco come aveva definito l’incontro con Yuri.
Definirlo incontro, poi, era un eufemismo: si era trattato di un incrociarsi per caso nei corridoi del beystadium negli Stati Uniti alla prima tappa del campionato.
Hilary sapeva chi era: l’aveva visto in tv durante i gironi di classificazione, Takao le aveva parlato molto di lui:
«Un tipo in gamba, Yuri. Tutto d’un pezzo. Un russo, insomma», le disse sorridendo il suo migliore amico, sistemandosi il berretto, mentre sul televisore scorrevano le immagini dell’incontro fra Yuri e Sergej in Russia. «Può apparire glaciale, ma credo fermamente che sia una brava persona. Devi solo saperlo prendere».
Una descrizione che poteva calzare a pennello anche a Kei, pensò Hilary, ma col proseguire del torneo la castana si accorse ben presto che la superbia di quello Yuri calpestava senza ritegno il taciturno egocentrismo di Hiwatari.
E non si accorse solo di quello, la piccola Hilary, giacché nei giorni a venire, avrebbe compreso che Yuri aveva un perché tutto suo, speciale: longilineo e quasi femminile di aspetto; la fronte sempre corrucciata in qualche smorfia di arroganza o disappunto; il portamento di un soldato sovietico, dai movimenti controllati e fieri. E quegli occhi misteriosi color viola, scurissimi, impossibili da non notare contornati da una pelle così chiara.
Quegli occhi che non si abbassavano al suolo mai e per nessun motivo.
Quelle ametiste scure che non si abbassarono nemmeno su di lei durante il loro primo… incrocio.
E fu quello il momento fatale, il momento durante il quale Yuri Ivanov, senza nemmeno scomodarsi ad abbassare il suo sguardo di ghiaccio su Hilary Tachibana che stava camminando nella sua direzione e che stava per incrociare, le fece assaggiare il clima della Siberia.
Hilary alzò la mano in segno di saluto, ma la voce le morì in gola quando notò che il russo non solo non ricambiò, ma non si degnò nemmeno di sfiorarla con lo sguardo. Yuri le passò di fianco, a poco meno di un metro dal suo corpo, e subito tirò dritto senza dar segnali di avere anche solo notato la presenza di un altro essere umano nel corridoio assieme a lui: il capo alto, le spalle erette, le braccia tese e la bocca serrata; come se non avesse visto nessuno, come se davanti a lui non ci fosse stato altri che un fantasma invisibile.
Yuri Ivanov l’aveva completamente ignorata. Aveva ignorato lei, la sua presenza, la sua esistenza.
Non un cenno col capo o una smorfia, e nemmeno un involontario spostamento delle sue strette pupille verso di lei.
Niente.
Hilary, per lui, era il nulla.
La povera giapponese si ritrovò a pensare che se gli fosse capitato di incrociare un moscerino, probabilmente lo avrebbe degnato di più attenzione, fosse solo per il fastidio che gli avrebbe provocato.
E fu così che la castana rimase pietrificata, con la mano ancora aperta davanti a sé, che guardò come se fosse stata la causa di una colossale figuraccia.
La solita Hilary, quella matura e razionale, l’avrebbe marchiato come un maleducato e avrebbe cercato di non averci mai a che fare; ma quella volta non fu così. Era lei a sentirsi in difetto, come se avesse sbagliato qualcosa accennando quel semplice gesto. Si era sentita mortificata e ferita, e non tanto per il saluto non ricambiato in sé, quanto perché a rifiutare di considerarla era stato lui.
Quella volta, da quel preciso istante che si premurò persino di segnare sul suo calendario, Hilary cominciò a non sentirsi più Hilary.
Aveva incontrato la Siberia con le sue bufere e ne era rimasta vittima immediatamente.
In pochi istanti aveva compreso come potessero sentirsi i beyblade dei suoi avversari quando Yuri sferrava il suo micidiale attacco finale.
I suoi circuiti neuronali vennero istantaneamente congelati, bloccandola e intrappolandola in una strana sensazione di gelo celebrale che le impediva di pensare a qualsiasi cosa che non fosse quel volto dall’aria corrucciata e che la catapultò di uno stato di catatonica ammirazione. Un vento freddo e molesto al profumo di muschio bianco la fece rabbrividire e la portò via con sé. Quella bufera di neve, che con arroganza fece irruzione in ogni angolo del suo corpo e della sua mente, da quel giorno avrebbe preso a farla tremare.
«Un colpo di fulmine», si sarebbe poi detta più volte allo specchio, tirandosi lievi schiaffi sulle guance, nel tentativo di spiegare a se stessa, la razionale Hilary, quello che era accaduto. «Allora deve essere così che ci si sente quando… quando vedi qualcuno che… ti piace».
Perché sì: a lei Yuri piaceva. Piaceva da impazzire. Non c’era altro modo per spiegarlo.
L’aveva visto innumerevoli volte in tv e sui giornali, e aveva sempre pensato che fosse un bel ragazzo, ma niente più; anzi, l’idea di poter provare un briciolo di interesse per lui non si era fatta sentire nemmeno in lontananza. Proprio per questo motivo, Hilary non capiva come mai la sua presenza fisica, quel corpo che casualmente era passato accanto al suo lasciando dietro di sé un delizioso e fresco profumo di muschio bianco, l’avesse colpita con la stessa violenza di un pugno nello stomaco.
«Uno stupido colpo di fulmine adolescenziale, come le ragazzine che si innamorano degli idols senza nemmeno conoscerli», si sarebbe tante volte rimproverata.


Nessuno poteva anche solo lontanamente immaginare quanto Hilary detestasse tutte quelle ragazzine che s’innamoravano di un’immagine: le considerava stupide, superficiali, delle perfette oche. Che disdetta sapere che ora la stupida oca superficiale era lei - e forse Daichi aveva ragione, quando la prendeva in giro.
Eppure sentiva di non poterci far nulla. Più cercava di riprendere il suo autocontrollo, ripetendo frasi a se stessa allo specchio e invocando la sua paventata maturità, più si ritrovava alla fine a dover ammettere che la situazione peggiorava giorno dopo giorno.
Non perdeva nemmeno un incontro della NeoBorg e se ne stava appollaiata sugli spalti col cuore palpitante ad osservarlo in ogni sua movenza, trovandolo così diverso dagli energumeni dei compagni di squadra, così raffinato in quel corpo ed elegante nelle sue posture. Camminava ripetutamente avanti e indietro per i corridoi di ogni beystadium, sperando in un secondo incrocio più fortunato. Si appostava accanto ai distributori automatici di bevande, perché caspita, prima o poi sarebbe venuta sete anche a lui e sarebbe venuto a prendersi una bottiglia d’acqua. Negli hotel passava più tempo nella hall che in camera sua, ma tutto quello che ottenne fu di vederlo passare assieme a Kei a metri e metri di distanza per pochi secondi, prima di sparire all’interno dell’ascensore. Sembrava che i membri della squadra russa non avessero altra vita all’infuori delle battaglie di beyblade: una volta terminati gli incontri, si dileguavano, assieme alle sue occasioni di venire nuovamente ignorata dal loro capitano.
Aveva trascorso tutte le giornate del torneo a temere il suo sguardo ma a cercarlo al contempo, disperatamente, anche in mezzo alla folla, proprio come una ragazzina fanatica ammira il suo idol esibirsi sul palcoscenico di fronte a lei e lo segue con lo sguardo, nella speranza che lui le rivolga una sola occhiata insignificante grazie però alla quale si possa accorgere della sua presenza.
E fu così che Hilary Tachibana si rese conto che Yuri Ivanov aveva tutte le caratteristiche in regola per essere una sorta di idolo per lei, la prima delle quali era l’irraggiungibilità.
Beandosi del sogno di potergli un giorno rivolgere la parola e di stupirlo, si procurò addirittura un manuale di lingua russa, che studiava ogni giorno avidamente, e che una bella mattina Daichi scoprì e sventolò per tutto lo spogliatoio della BBA Revolution, scatenando domande imbarazzanti e frecciatine. Takao arrivò persino a pensare che fosse invaghita di Kei, come aveva da sempre sospettato, e la poverina dovette sorbirsi un lungo interrogatorio da parte del suo amico, che si propose anche di aiutarla a coronare il suo sogno d’amore.
Dati i suoi comportamenti fuori dalla norma, i suoi compagni spesso le chiedevano se ci fosse qualche problema, ma lei continuava  scuotere il capo e a sorridere, ben consapevole di star alimentando chissà quali dubbi.
La cosa peggiore, però, era che Hilary aveva cominciato a sentirsi maledettamente stupida, perché niente, da parte di Yuri, poteva anche solo lontanamente appoggiare le sue fantasie e le sue speranze, nemmeno un atteggiamento involontario o uno sguardo posato su di lei per sbaglio.


Tutta quella distanza a cui lei disperatamente cercava di porre rimedio, non fece che trasformare la sua cotta in una vera e propria ossessione.
Ed era in virtù di quell’ossessione che ora appoggiava una mano tremolante – quella stessa mano che l’aveva fatta sentire mortificata giorni prima - sul bancone della reception di quell’ospedale di Tokyo, in attesa che la gentile signorina dietro di esso si apprestasse a informarla del numero della camera in cui era ricoverato Yuri Ivanov.
«Sono una sua carissima amica», si sarebbe premurata di puntualizzare, «vorrei molto poterlo vedere, la ringrazio».
Ripensò alle parole di Rei: “non l’hai mai conosciuto né tantomeno salutato per tutta la durata del torneo”.
Certo che non l’aveva mai conosciuto. Certo che non l’aveva mai salutato.
Ma avrebbe tanto voluto farlo.
Non l’aveva mai conosciuto perché non ne aveva mai avuto il coraggio; non aveva mai trovato la forza e l’intraprendenza per tendergli la mano, guardarlo negli occhi e presentarsi. Perché farlo? Per lui, Hilary non era una ragazza degna delle sue attenzioni e del suo interesse, nemmeno come conoscente eventuale, e i suoi atteggiamenti non lasciavano spazio ad alcun dubbio.

L’unico problema era che la giovane Hilary aveva a sua volta acquisito le caratteristiche di ogni ragazzina fanatica, tra cui l’incoscienza.
Non poteva tollerare l’indifferenza totale del russo. Non poteva sopportare che quel torneo sarebbe finito senza che lei potesse avere la possibilità di incrociare il suo sguardo o di sentire una sola parola uscire da quelle labbra rivolta a lei. Proprio come una fan, avrebbe creato lei una qualsiasi occasione.
Un pomeriggio si era ritrovata a passeggiare per i corridoi in preda alla sua malsana compulsione, fino a che non si ritrovò davanti proprio allo spogliatoio della NeoBorg.
Fu un attimo.
Annebbiata dal desiderio e colta da un’adrenalina inaudita, i suoi piedi si mossero da soli ed avanzarono. Si fermò a pochi passi dalla porta e udì delle voci provenire dall’altra parte di essa: erano lì, probabilmente al completo.
Come se qualcun altro dall’alto avesse mosso i fili del suo corpo, alla stregua di un burattinaio, alzò la sua mano destra in un pugno e bussò, mentre il suo respiro si faceva più affannato.
Quando la porta si aprì, la povera Hilary ormai stava ansimando come se avesse appena finito di correre, ma il fiato le mancò del tutto quando le sue narici vennero sorprese da quel profumo di muschio bianco che ormai le sembrava addirittura di percepire di notte nei suoi sogni.
Solo in quel momento si svegliò dalla sua catalessi.
La giapponese alzò il capo e finalmente, dopo averlo tanto agognato per giorni, incontrò quello sguardo glaciale.
Che cosa aveva fatto?
Il peso della sua avventatezza le piombò addosso come un macigno gigantesco, specie quando realizzò di essere stata così istintiva da non aver nemmeno pensato ad una frase di circostanza da dire o una scusa con la quale potersi difendere. Se ne stava lì, tremante e ansimante sulla soglia dello spogliatoio della NeoBorg e di fronte a niente meno che al suo idolo Yuri Ivanov, che la squadrava indispettito e silente, mentre con la coda dell’occhio intravedeva gli altri russi seduti attorno ad un tavolo guardarla incuriositi e un po’ seccati, Kei compreso.
Si sentì piccola, infinitamente piccola. Infinitamente stupida.
Si ritenne sotto accusa, colpita da quegli sguardi che percepiva come appartenenti a quelli dei membri di una giuria che in quel processo le stava ponendo la sua stessa domanda: Hilary, che cosa hai fatto?
Di nuovo, quella bufera di neve la travolse in tutta la sua violenza, quando Yuri perseverò nel suo silenzio e si limitò a socchiudere gli occhi e a guardarla più intensamente, quasi trafiggendola – segnale palese che stava per perdere la pazienza ed era forse più scocciato degli altri per quella inaspettata interruzione.
Che cosa stava facendo?
«E’ che io… scusate, io… Ho sbagliato spogliatoio, io volevo andare… altrove, da… dagli All Starz e da Max…», aveva sbiasciato, gesticolando come una studentessa che si era dimenticata la lezione che avrebbe dovuto studiare e sapere – e Hilary era del tutto nuova a quel tipo di sensazione.
Sudava freddo, le gambe stavano per cedere, e fu costretta a spostare il suo sguardo da Yuri a un punto indefinito del pavimento, perché i suoi occhi su di lei e quella grottesca situazione le stavano facendo gelare il sangue nelle vene; tuttavia fu subito costretta a tornare a guardare il suo bello in volto quando lui ghignò, seguito a ruota dagli altri suoi compagni.
Non una parola, solo un suo dito indice coperto dai guanti che le indicava una “B” su sfondo arancione attaccata alla porta: lo stemma della sua squadra.
Alla povera ragazzina sembrò di sprofondare. Non ebbe più il coraggio di dire altro: aveva fatto la figura della svampita, presa com’era dal suo desiderio che le aveva fatto del tutto dimenticare che su ogni porta degli spogliatoi veniva sempre appeso un cartello che indicava la squadra alla quale il locale sarebbe stato destinato. Non solo: pochi attimi prima, fu proprio grazie a quello stemma sulla porta che riconobbe lo spogliatoio della NeoBorg, e si chiese come avesse fatto a rimuovere quel dettaglio rilevante e di conseguenza a dire forse l’unica scusa che l’avrebbe umiliata.
Si inchinò per scusarsi e si voltò, trattenendo a stento qualche lacrima che voleva palesarsi e che avrebbe solamente peggiorato la situazione, mentre l’oggetto dei suoi desideri si chiudeva la porta alle spalle e chiedeva ai compagni di squadra dove fossero rimasti con la discussione, proprio come se non fosse accaduto nulla e nessuno fosse venuto a bussare alla loro porta.
Hilary si era nuovamente mortificata con le sue stesse mani, in tutti i sensi.
Aveva fatto male, quello sguardo; avrebbe almeno sperato in una banale domanda come “ciao, serve qualcosa?”; sarebbe bastato un segnale di apertura nei suoi confronti, seppur di breve durata, per non farla sentire completamente uno schifo e indurla a vergognarsi di se stessa e della sua stupida idea per i successivi giorni.
L’elemento però ancora più importante, risultante da quell’evento, fu il rifiuto: Hilary era stata ufficialmente rifiutata, perché da quel momento il totale disinteresse di Yuri Ivanov nei suoi confronti fu una palese certezza.

La vecchia razionale Hilary si sarebbe rassegnata a quel punto, ma invece lei passò giorni a chiedersi cosa mai avesse di sbagliato per non riuscire a destare nemmeno un briciolo di interesse in nessuno, e a tormentarsi per risultare così poco particolare esteticamente ed essere incapace di sfruttare la sua intelligenza per avvicinare Yuri. La sua autostima, da sempre molto alta, era stata minata e avrebbe rischiato di distruggersi.
Invano ogni mattina si specchiava nella camera del suo hotel e si truccava di tutto punto per risultare più appetente: il suo riflesso le ripeteva di continuo che non era abbastanza bella, abbastanza speciale, abbastanza attraente; non era abbastanza niente, non per un ragazzo come Yuri.
Aveva perso il conto delle notti trascorse supina sul suo letto singolo, con gli occhi semichiusi e la mente incapace di prendere sonno, troppo impegnata a desiderare di avere almeno il fisico scolpito e slanciato di Julia o i capelli lunghi e bizzarri di Mao. Provava invidia per le ragazze del torneo ed era arrivata al punto di vedere chiunque più bella di lei, persino l’occhialuta nerd della squadra americana, Emily.
Si sentiva in competizione con ogni singola donna del pianeta, persino con una fantomatica femmina moscovita che Hilary immaginò che stesse aspettando in Russia il ritorno del suo amato. Non aveva mai avuto particolari indizi riguardo ad un’ipotetica fidanzata o amante non presente al torneo, ma aveva immaginato che Yuri potesse avere una donna al suo fianco – a Hilary pareva difficile che un ragazzo così bello e affascinante fosse solo, a prescindere dal suo particolare carattere, e le bastava osservare le decine di ragazze sugli spalti vicino a lei adorare il bel rosso per capire che Yuri non avrebbe certamente avuto difficoltà ad avere una compagna.
Hilary era gelosa di lei, di una donna che non solo non aveva mai visto, ma che neppure sarebbe potuta esistere. Se la immaginava bella all’inverosimile: bionda con gli occhi chiari, alta e formosa, disinibita e intraprendente – insomma, il contrario di lei. Dipingeva quell’immagine nella sua mente basandosi sulle figure delle gaijin nordiche che vedeva spesso passeggiare per le strade di Tokyo, con l’unica differenza che quella gaijin moscovita era molto più bella e carismatica di tutte quelle viste in vita sua.
Hilary la temeva come si teme un rivale imbattibile, e l’unico motivo per cui non indagò mai a riguardo, era che in fondo preferiva non sapere – nessuno pareva conoscere la vita privata dei membri della NeoBorg, ma un’eventuale conferma l’avrebbe semplicemente straziata.

Mentre accarezzava adesso il materasso candido davanti a lei, si ritrovò a pensare che almeno, alla soglia di quella porta, era riuscita ad avere il suo sguardo tutto per lei e che in fondo avrebbe dato qualsiasi cosa per averlo su di sé in tutto il suo gelo ancora una sola volta.
Guardò gli occhi chiusi del ragazzo che le aveva fatto perdere il senno della ragione. Lui non poteva vederla né accorgersi della sua presenza, eppure la giapponese si sentiva comunque osservata e giudicata, come se Yuri fosse in grado di vederla lo stesso attraverso le palpebre calate e si stesse prendendo gioco di lei e della sua goffaggine.
Arrivare al capezzale di quel letto le aveva richiesto molto coraggio e un passo svelto lungo l’asettico corridoio dell’ospedale, nella perenne ansia di poter cedere all’ultimo e tornare subito indietro di corsa. Era giunta al suo fianco senza nemmeno accorgersene troppo e ora, mentre inalava quel solito profumo di muschio bianco stavolta misto a quello del disinfettante, si sentì esattamente come quel giorno in cui ebbe la geniale idea di farsi prendere per una rimbambita.
Che cosa aveva fatto?
Attorno a lei regnava un silenzio surreale, interrotto solamente dal bip ripetuto ad intervalli regolari di un macchinario; la camera era completamente bianca, come le lenzuola dei letti e il pigiama di Yuri; il sole filtrava dalla finestra completamente aperta donando all’ambiente un aspetto paradossalmente tutt’altro che rassicurante, che ricordava l’aldilà che si vedeva nei film. Era come se lei e Yuri fossero stati catapultati in un’altra dimensione, in cui non erano più chi erano sempre stati abituati ad essere, ma solo due semplici anime svestite della loro personalità e dei loro ruoli.
Tutto era simile a un sogno.
Specialmente perché Hilary Tachibana non poteva credere di essere al fianco di Yuri Ivanov in simili circostanze.
Rimase lì, imbambolata, faticando a respirare, così agitata da sentirsi percorrere il corpo da leggere scosse elettriche.
Provava pietà per quel corpo straziato e arreso, che si faceva così fatica a credere che appartenesse proprio a quel forte e orgoglioso capitano russo.


Di fronte a quella lacerante scena, non poté fare a meno di ripensare a quel giorno della sfida contro Garland: mentre, ferito e ridotto al suo limite, sbiascicava un lungo discorso tra le braccia di Takao, l’aveva avuto vicino, disteso davanti a lei. Nonostante la giapponese fosse ben consapevole che non fosse proprio la situazione giusta per pensare a quella tempesta che si agitava dentro di lei dall’inizio del torneo, dovette ammettere che utilizzò egoisticamente la scusa del suo malessere fisico per chinarsi di fianco a lui, sfiorarlo, inspirare ancora il suo profumo di muschio bianco. Se lo ricordava bene, Hilary: aveva desiderato di essere Takao, di essere lei a sorreggerlo, ma non appena notò con dispiacere che nemmeno in quella occasione Yuri la degnava di un mezzo sguardo, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e dovette faticare parecchio per non piangere. Tutte le speranze che aveva sentito tornare ad urlare dentro di lei, quando se lo era inaspettatamente ritrovato davanti al parco assieme agli altri suoi compagni di squadra, le tirarono uno schiaffo e si rivelarono per ciò che erano veramente: demoni che giocavano con la sua mente e cibo per bambine illuse.
Dopo la fine del campionato mondiale, Hilary aveva temuto di non rivederlo mai più. L’aveva seguito con lo sguardo fino all’ultimo minuto mentre, fisicamente provato, abbandonava lo stadio giapponese assieme alla sua squadra. Aveva ammirato ancora quelle sue spalle erette e quel portamento fiero, mentre si allontanava da lei e da tutti: era deluso, sicuramente amareggiato, ma non lo avrebbe mai dato a vedere. Non si era nemmeno avvicinato a Takao per complimentarsi della sua terza vittoria consecutiva, sembrava addirittura essersi dimenticato di Kei; si era chiuso in un adirato silenzio e aveva voltato le spalle a tutti per sparire chissà dove. L’aveva masochisticamente immaginato prendere il primo aereo per Mosca e tornare tra le braccia della sua bella immaginaria.
Hilary aveva adorato quell’immagine di spalle, l’aveva studiata in ogni minimo dettaglio per imprimersela al meglio nella mente e poterla riprodurre nei successivi giorni, durante i quali si era tormentata chiedendosi ogni sera cosa Yuri stesse facendo, in cosa consistesse la sua vita al di là del beyblade, come trascorresse le sue giornate e soprattutto le sue serate – e, inutile ripeterlo, finiva sempre col pensare che fosse con la sua bella moscovita bionda e slanciata o con qualche altra donna altrettanto bellissima.
Il lume della ragione stava per abbandonarla del tutto, quando disse ai suoi genitori che avrebbe voluto visitare Mosca l’autunno successivo, adducendo come scusa lo studio della lingua che improvvisamente era diventato di vitale importanza per il suo futuro e la sua cultura; folle idea che tuttavia abbandonò immediatamente: non aveva alcun senso andare nella città di Yuri senza non solo sapere dove andarlo a pescare, ma senza nemmeno un appiglio che le permettesse di pensare che lui provasse piacere nel rivederla. Al freddo, inoltre, sola e lontana da casa, le sue sofferenze si sarebbero fatte più pungenti.
Lei non aspettava altro che l’ennesimo torneo di beyblade: guardava tutti i giorni i telegiornali sportivi nell’attesa che il presidente Daitenji annunciasse un nuovo campionato o dei nuovi incontri amichevoli. Hilary non faceva altro che attendere, constatando che non era affatto vero che la distanza fisica ed il tempo che scorreva inesorabilmente, potessero aiutare un cuore dolente – sempre che di cuore si potesse parlare, perché quella aveva tutte le carte in regola per continuare ad essere definita come una prepotente ossessione.
E poi, il miracolo. La sorpresa. La prova che qualcuno, lassù, doveva aver percepito il suo tormento e avesse voluto aiutarla.
Yuri Ivanov era a Tokyo, in quel parco, assieme a lei: si era precipitato in Giappone dopo aver saputo della disfatta della BBA e l’insediamento al suo posto della BEGA. Hilary non aveva ben chiaro quali affari i NeoBorg potessero avere con quel Vorvov, non ci stava capendo molto, ma che importava? Yuri era lì, il resto non esisteva più.
Il cuore della giovane mancò di un battito non appena udì quella voce e si voltò.
E un secondo battito si rifiutò di rispondere all’appello quando Yuri, di fronte alla squadra dei vecchi Blade Breakers quasi al completo, salutò solamente Takao e a lui solamente rivolse la parola, ignorandola ancora.

Alzò una mano, titubante.
Yuri era addormentato, inerme davanti a lei.
Non capiva cosa fosse quella soggezione che, come un pesante fardello, gravava sulle sue spalle e sul suo petto; tuttavia era un’emozione molto forte, che quasi pareva suggerirle di non osare nemmeno sfiorarlo con le sue falangi, perché lei non ne era degna né autorizzata.
E se si fosse svegliato?
Il cuore della piccola Hilary batteva all’impazzata.
Avrebbe voluto piangere, mentre la sua mano alzata, che non voleva ascoltare il suo cervello e agiva di sua spontanea volontà nel tentativo di non farsi sfuggire quell’occasione, cominciava ad avanzare verso quel corpo sul letto, immobile. Sentiva un enorme dispiacere crescere al centro del suo petto, dovuto all’empatia e alla paura che forse il suo bel russo sarebbe anche potuto non svegliarsi mai più, nonostante le parole confortanti dei medici che il signor Daitenji aveva riferito ai suoi amici. Una stringente sofferenza, dovuta ai rimpianti e ai rifiuti, l’attanagliava; la frustrazione di non essere mai stata nessuno e di non poterlo mai essere, la divorava.
Provava anche lei un immenso dolore alla vista di quelle ferite che rovinavano la sua pelle nivea, che sembrava così liscia e delicata – troppo, per appartenere ad un russo arrogante e violento. E più la guardava, più pensava che no, non poteva rinunciare. Non più. Voleva sentirla sotto le sue dita, quella pelle; voleva verificare se l’occhio la stava ingannando o meno.
Voleva avere la prova tattile che il bellissimo Yuri Ivanov esisteva davvero, era un essere umano, una persona in carne ed ossa, proprio come lei. Hilary aveva come l’idea che quel contatto l’avrebbe aiutata ad abbassare il suo idolo ad una dimensione umana. Non poteva inoltre negare un mero folle desiderio di sentirlo, niente più e niente meno.
La sua mano arrivò a pochi millimetri dalla guancia di Yuri, che ancora non si muoveva.
Hilary inspirò profondamente, ma a scatti, a causa dell’agitazione.
Si sentiva in difetto; una ladra di carezze e attenzioni; una violatrice del corpo di Ivanov.
Dei brividi le percorsero l’avambraccio, mentre, stando attenta a non toccargli il grosso cerotto che gli ricopriva quasi metà guancia, gli fu così vicina da percepire il freddo di quella bufera che l’aveva sconvolta. Ora avrebbe affondato le mani in quella morbida neve e nessuno glielo avrebbe impedito. Ancora pochi millimetri e finalmente avrebbe percorso quei lineamenti così delicati con le sue dita, si sarebbe abbandonata a quel vento gelido al profumo di muschio bianco, avrebbe assaporato…
«Hilary…»
Una voce che giunse improvvisa da dietro di lei la fece raggelare ancora più di quanto l’imminente contatto con la pelle di Yuri avrebbe potuto fare.
Hilary ritrasse immediatamente la mano che stava per permetterle di dar sfogo al suo desiderio e la portò al suo petto, sentendosi come una delinquente colta in flagrante. Sperò con tutte le sue forze che il suo esile corpo avesse nascosto ciò che, davanti a lei, stava per succedere.
Si voltò lentamente, temendo fino all’ultimo secondo di incrociare lo sguardo del nuovo arrivato, che constatò starla fissando con la sua solita aria da bambino.
«Takao, che ci fai qui?», farfugliò la ragazza, quando incontrò quelle iridi color cioccolato appartenenti a due occhi spalancati ma tremendamente ingenui, che avevano rischiato di farla innamorare anni addietro.
Il capitano della BBA, che se ne stava appoggiato allo stipite della porta di quella camera, teneva nella sua mano sinistra un Wolborg ridotto in pessime condizioni.
«Non era mia intenzione disturbarti», cominciò lui, abbassando lo sguardo imbarazzato, come se avesse d’un tratto intuito tutto. «Mi sono solo ricordato che dovevo restituirgli il suo bey, così…».
S’interruppe, senza un motivo ben preciso, nell’attesa di una risposta da parte della sua amica.
Hilary aveva ben compreso che Takao non aveva mentito: di rado Takao mentiva e, quando lo faceva, glielo si leggeva chiaro e tondo in faccia. Non era quello il caso.
«Tranquillo, Takao», si premurò di calmarlo lei, «Non mi hai affatto disturbato. Anzi, stavo per andarmene».
Takao mentiva di rado, mentre Hilary negli ultimi giorni era una menzogna dietro l’altra.
La castana tornò a guardare Yuri, non riuscendo veramente a maledire Takao per l’interruzione. La colpa, Hilary, la diede al destino: sì, perché sembrava che qualcuno, lassù, forse lo stesso che aveva voluto farli incontrare nuovamente dopo la fine del torneo, ora le stesse impedendo di esaudire un suo piccolo desiderio e si stesse prendendo gioco di lei. Ciò, in fondo, coincideva con quel che Hilary aveva sempre pensato di quel Dio di cui aveva sempre sentito parlare: un essere burlone, che si beffa degli uomini e delle loro vicissitudini.
Takao si affiancò in poche rapide falcate a lei e depose Wolborg sul cuscino, accanto al viso di Yuri.
«Hai dato il massimo, amico», bisbigliò. «So che combatterai ancora al nostro fianco».
La giovane nipponica non poté fare a meno di adorare il suo migliore amico: era una persona meravigliosa, Takao. Lui brillava di luce propria e voleva bene a tutti. Tante volte si era chiesta come mai non si fosse innamorata di lui, invece che di Ivanov. Takao la prendeva in giro, detestava la sua cucina e la considerava spesso un peso, ma con lui sarebbe stato tutto più facile.
Hilary fissò quegli occhi scuri, così caldi ma così tristi, fissi sul volto di Yuri, e decise di imitarli con i suoi, mentre con una mano entrava in una delle tasche della sua giacchetta e afferrava il suo beyblade americano nuovo di zecca. Lo estrasse, decisa, e Takao prese immediatamente a fissarlo.
«E’ proprio un bel beyblade! Il disco d’attacco…»
«Sai, Takao», lo interruppe lei, dando prova di non aver prestato la minima attenzione alle sue poche parole, tanto era presa dai suoi stessi pensieri. «Vorrei tanto poterlo sfidare, al suo risveglio. Vorrei tanto poter disputare un incontro contro Yuri. Ci tengo tanto».
Disse quelle frasi tutto d’un fiato, non premurandosi delle reazioni che avrebbe potuto suscitare.
La verità era che aveva deciso di imparare a giocare a beyblade per non passare più inosservata agli occhi di Yuri. Aveva capito poco di lui, durante i giorni del torneo, ma era almeno arrivata alla conclusione che, forse, una delle ragioni per la quale lui non la degnava di uno sguardo era che, semplicemente, lei non era una blader. A Yuri interessavano il beyblade, le sfide, gli incontri, gli avversari, e nient’altro. Se anche lei avesse giocato a beyblade, se anche lei fosse stata un membro attivo della BBA Revolution, forse lui avrebbe quanto meno preso in considerazione la sua esistenza.
E così aveva pensato bene di diventarla, una blader. Forse era tardi, o forse no. Almeno un tentativo lo avrebbe fatto. Un tentativo, per potersi presentare davanti a lui al successivo torneo e dire che avrebbe combattuto lei contro di lui, o almeno per proporgli una sfida amichevole. E finalmente Yuri Ivanov si sarebbe accorto di lei.
L’unico appunto che a Hilary era sfuggito di mente era che, per diventare abile come Yuri, a lei ci sarebbero voluti anni, forse decenni.
Lei, disputare un incontro con Yuri, il temibile capitano della NeoBorg? Lei, che non riusciva nemmeno a far compiere una traiettoria ben definita al suo beyblade? Quel russo l’avrebbe letteralmente disintegrata nel giro di qualche secondo, deridendola.
Di bugie Hilary ne aveva dette tante, ma quella che le era appena scivolata dalle labbra, era difficilmente credibile, persino per uno come Takao. E troppo tardi si accorse di quanto l’aveva sparata grossa.
Si sentì afferrare per lo stesso polso col quale stava reggendo Tinkerbell, il suo nuovo beyblade, appunto. Aveva deciso di chiamarlo così perché Tinkerbell era da sempre stato uno dei suoi personaggi preferiti del mondo della fiabe che sua mamma le raccontava da piccola; e si vedeva molto, lei, nel personaggio della fatina permalosa, isterica e gelosa.
«Hilary, guardami».
Avvertì la voce di Takao chiamarla, così ferma da costringerla a voltarsi verso di lui senza opporre alcuna resistenza, lasciando perdere i tratti così belli del viso di Yuri. Incontrò quelle soliti iridi color cioccolato che parevano essere ancora più scure del solito, tanto erano severe, e rabbrividì, come poche volte era rabbrividita davanti al suo migliore amico, il quale, solenne e senza staccare per un solo secondo le sue pupille da quelle della ragazza, dichiarò: «Lascia perdere».
Quelle poche parole fecero eco nella mente della giovane ossessionata, un eco così forte da non permetterle di replicare. Erano un ammonimento, chiaro e deciso, tuttavia molto ambiguo.
A cosa si stava riferendo il suo migliore amico?
Poche volte lo aveva visto così severo: l’espressione che aveva assunto ricordava quella che Hilary gli aveva visto dipinta in volto quando comparve sulla soglia dello spogliatoio della loro squadra subito dopo aver incontrato Kei con i NeoBorg, alla prima data del torneo; l’unica differenza era che questa volta non vi era rabbia o delusione, ma qualcosa di simile a preoccupazione e apprensione.
Era strano vedere Takao così, troppo strano, tanto che la castana non riuscì a sostenere per molto lo sguardo che tornò a posarsi sul suo beyblade arancione, che ora stringeva davanti a sé all’altezza dello stomaco.
Possibile che quell’imbranato di Takao avesse capito tutto? Di averla sparata grossa lo sapeva e di certo chiunque avrebbe capito che si trattava di una bugia, ma c’era davvero qualcosa in quella sua affermazione che poteva smascherarla? La sua voce lasciva l’aveva tradita e fatta uscire allo scoperto? O magari, più presumibilmente, il suo migliore amico ci era cascato e ora le stava fraternamente consigliando di evitare di essere umiliata da Yuri in un prematuro incontro di beyblade: quel “lascia perdere”, in realtà, si riferiva all’ipotetica sfida - con molta probabilità, inoltre, il pensiero che avesse potuto riferirsi ad altro era imputabile solamente al timore dell’ennesima figuraccia e alla sua coda di paglia. Conoscendo Takao, Hilary avrebbe optato per quest’ultima opzione, ma già diverse volte si era sbagliata sulle sue reazioni tipo, perciò non era più certa di niente. Del resto, non era più certa nemmeno di chi fosse lei.
«Ti aspetto al piano terra», sussurrò il campione del mondo, sistemandosi il berretto sulla testa in quello che negli anni era diventato un gesto automatico ma che spesso assumeva le sembianze di un tic nervoso riservato ai momenti di tensione. «Poi, se ti va, andiamo a mangiarci un hamburger al locale texano qui sotto, che ne dici? Mi è venuta una fame..!»
Hilary sorrise, mentre col capo annuiva senza però voltarsi verso di lui. Aveva capito che il suo amico cercava solo di alleggerire l’atmosfera che si era creata tornando ad essere all’improvviso il solito buontempone, anche se non avrebbe mai messo in dubbio che, nonostante la colazione abbondante, avesse di nuovo fame. In quella proposta, Hilary vide la volontà di Takao di starle vicino, di farla pensare ad altro e staccare la mente da ciò che stavano osservando in quell’ospedale, e in quel momento come non mai si sentì, a suo modo, di amarlo.
«Oh no, ora vengo subito con te. Dammi solo un attimo».
Hilary sorrise tristemente, arresa una volta per tutte.
Afferrò una biro rossa che giaceva dimenticata da qualche infermiere sul comodino del suo bel russo malconcio e l’avvicinò al suo beyblade, sotto gli occhi curiosi di Takao che, pur non capendo nulla di ciò che lei potesse avere in mente, decise di tacere per una volta nella sua vita.
Sospirò e poi finalmente si decise.
Con un movimento rapido, ma stando bene attenta a fare un buon lavoro, scrisse una “H” nella zona circolare del bit-chip – nel suo caso, era uno spazio vuoto di un giallo molto pallido, dal momento che lei non possedeva un bit-power e quindi nessuna immagine primeggiava al centro del suo beyblade. Hilary, scrivendo l’iniziale del suo nome, si stava metaforicamente mettendo dentro la sua trottola, che avrebbe custodito parte della sua energia, della sua anima, della sua essenza. Dopodiché, posò la biro dove l’aveva trovata e, senza dire una parola, mise il suo Tinkerbell sul cuscino di Yuri, di fianco a Wolborg.
Chissà se il bel capitano avrebbe mai ricollegato quell’iniziale al nome che da sempre aveva ignorato. Hilary pensò che fosse del tutto impossibile, ma un briciolo di speranza voleva tenerselo stretto. Dopotutto a lei bastava che lui tenesse quel beyblade con sé, per sempre.
Guardò ancora una volta Yuri. E ancora una volta, studiò ogni suo lineamento, ogni sua ruga d’espressione, ogni sfumatura della sua pelle e dei suoi capelli spettinati. Fissò quegli occhi chiusi e poi subito quella bocca poco carnosa e raffinata, che anche in quelle condizioni sembrava mantenere una sorta di broncio, come se il forte capitano della NeoBorg si stesse maledicendo nel sonno profondo per il dover rimanere sdraiato su di un letto senza poter fare più nulla. Ammirò il suo corpo sotto le lenzuola e ne seguì ogni curva.
Hilary lo studiò come quella volta in cui temette di perderlo di vista per sempre.
E questa volta, ebbe ragione di farlo, perché da quel giorno Hilary non lo rivide mai più.
Yuri Ivanov, l’orgoglioso e tenace capitano della NeoBorg, rimase per la piccola giapponese ciò che era sempre stato: un idolo. Hilary non sarebbe mai riuscita a toccarlo, a parlargli, a renderlo davvero consapevole della sua esistenza. E, pensò lei, forse alla fine era giusto così, perché il Fato le aveva sempre suggerito che, come ogni idolo che si rispetti, Yuri doveva essere e rimanere irraggiungibile e intoccabile.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 ***


“H”

Cap. 3


 

Il sole batteva forte sulle vetrate dell’aeroporto di Tokyo. Quell’estate giapponese non dava un attimo di tregua e ciò rendeva ancora più ardua l’attesa di quel volo che tanto era stato agognato nei giorni precedenti.
Nulla da dire contro il Giappone in sé, ma nessuno di loro sarebbe rientrato sostenendo di avere un bel ricordo di quella permanenza nella Terra del Sol Levante.
Lì erano stati prima di tutto sconfitti nella finale del mondiale di beyblade, che fino a quel momento era stata l’unica loro ragione di vita; a Tokyo, Vorkov aveva deciso di dare il via al suo nuovo piano con la BEGA e di inaugurare lo stadio principale della sede umiliando in diretta nazionale il loro capitano, Yuri, che si era ritrovato catapultato in un incontro in cui aveva seriamente rischiato la vita; avevano poi fatto tutti e tre un giro all’ospedale, che per Ivanov si era trasformato in un ricovero maledettamente lungo, e infine, come ciliegina sulla torta, il lupo della steppa  aveva mostrato i canini aguzzi e minacciato i medici di sbranare ogni singolo componente della sì gentile e ospitale, ma anche rumorosa e molesta famiglia dei Kinomiya, se non gli avessero permesso di salire sul primo volo diretto a Mosca. Perché no, Yuri non aveva la minima intenzione di essere ospitato da Takao per il periodo dei controlli post ricovero, come non aveva la minima intenzione di essere ospitato da nessuno, pena un drastico abbassamento della sua soglia di sopportazione e la conseguente integrità fisica di coloro che si sarebbero malauguratamente trovati attorno a lui. Sergej, il pacato mediatore del gruppo, promise perciò ai medici curanti che il loro leader si sarebbe sottoposto ai dovuti controlli in Russia; ritirò la sua cartella clinica e corse dal presidente Daitenji a prenotare quel volo che, più passavano i minuti, più diventava indispensabile per la loro sopravvivenza.
Nessuno di loro amava Mosca, teatro di orrori e oscurità, ma in quegli istanti rientrarvi era tutto ciò che desideravano.
«Oh, dannazione! E la chiamano aria condizionata, questa qui?! Si muore di caldo, cazzo!»
Meno male che c’era Boris che, con le sue continue imprecazioni e i suoi modi grezzi, rompeva il silenzio tombale in cui Yuri e Sergej si erano chiusi durante l’attesa, l’uno per non sprecare le poche preziose energie rimaste dopo aver sudato ogni liquido del suo corpo, l’altro perché era ancora troppo stordito e amareggiato da quanto accaduto. La sconfitta definitiva di quel bastardo di Vorkov sarebbe dovuta bastare, se non a rallegrarlo, almeno a tranquillizzarlo, e certamente poteva ritenersi soddisfatto; tuttavia i retroscena erano stati molto pesanti e sofferti: gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per digerire e metabolizzare tutto.
«Ma sì, cosa cazzo mi aspetto da un popolo che mangia con due bastoncini? Come diavolo si fa a pensare di mangiare con quei cosi lì?! Non potevano fare come tutte le persone normali del resto del mondo che…».
«Boris, chiudi quella fogna».
Il platinato rimase con la bocca aperta e delle parole morte in gola; con espressione corrucciata, guardava un Sergej esasperato e sfinito che, tenendosi il capo fra le grosse mani, gli aveva appena intimato di tacere. Il gigante dei NeoBorg raramente si lasciava andare ad ordini così perentori. Quando succedeva, comunque, era meglio per tutti obbedire.
Boris tirò verso di sé il suo borsone e subito dopo vi appoggiò sopra i piedi, con modi tanto aggraziati da far voltare i presenti vicino a loro, anch’essi in attesa. Ovviamente il ragazzo dagli occhi smeraldini non commentò col suo classico “che cazzo vogliono?” solo perché, a quel punto, doveva ammettere di temere almeno un po’ l’ira del suo enorme compagno.
Per la gioia di Sergej, che sopportava le lamentele di Boris su qualsiasi cosa o evento sin dalla prima mattina, finalmente calò il silenzio fra quei tre ragazzi russi che emanavano sofferenza e sfinimento da ogni poro della pelle. Tutti e tre abbandonati su delle scomode sedie di fronte al gate che presto si sarebbe aperto per accoglierli sul loro adorato aereo, i loro borsoni a terra come il loro umore, le mani che ora giocavano con la cerniera di un cappotto e ora venivano passate sulla nuca per asciugare il sudore che grondava copioso.
Un paio di mani, invece, si mosse all’improvviso con un intento preciso. Yuri sgranò d’un tratto i suoi occhi spenti e iniziò a rovistare freneticamente nelle tasche della sua giacca bianca e arancione. In quella sinistra trovò l’oggetto che stava cercando e subito lo afferrò e se lo portò davanti agli occhi, per poi mostrarlo al compagno sbuffante dai capelli grigi di fianco a lui.
«Oh, Borja, non ti ho ancora ringraziato per questo», disse con un tono di voce che suonava quasi dolce, ma che in verità era in gran parte il risultato della stanchezza psicologica. «Oserei dire che è stato molto carino da parte tua», concluse infine, lanciando un’occhiata beffarda e sarcastica ad un Boris più che mai confuso e basito, sulla cui faccia si stava già alzando un sopracciglio.
«Eh? Ma cos…»
Nella mani di Yuri veniva continuamente rigirato un beyblade color arancione, che sembrava proprio essere nuovo di pacca.
«Non so chi ti abbia detto dei gravissimi danni che ha subìto Wolborg nella sfida contro Garland, ma non importa. Procurarmi un altro beyblade per ogni evenienza è stato… carino, da parte tua. Accettalo».
«Yura, ma che cazzo stai dicendo?!» fu l’unica risposta che Boris riuscì a dargli, scandendo bene ogni singola parola.
«Avanti, Borja, non essere timido, anche se so che certi discorsi non fanno per te» lo canzonò il capitano, ghignando come ai vecchi tempi, e quindi proseguire continuando a rigirare quel beyblade arancione fra le mani e senza attendere ulteriori reazioni: «Devo dire che è un ottimo beyblade, assemblato con componenti all’avanguardia difficilmente reperibili sul mercato. Non so come tu abbia fatto ad averlo. Credo che lo smonterò e utilizzerò qualche pezzo per i ricambi di Wol...»
«Yuri, cazzo, aspetta un momento!», lo interruppe al limite della pazienza il suo interlocutore, facendo voltare Sergej già pronto con l’ennesimo ordine di tacere che però trattenne all’ultimo, quando vide gli occhi di Yuri fissare interrogativi e scocciati quelli verdi di Boris, in cerca di spiegazioni che non tardarono affatto ad arrivare: «Credimi, Yura, non so di cosa tu stia parlando. Devi averla battuta per bene, la testa».
Il rosso scosse il capo e sorrise un poco, prima di allungare il nuovo beyblade in direzione del compagno argenteo e indicargli con il dito una “H” scritta in rosso nella zona del bit-chip.
«Ripeto: avanti, Borja, o meglio Huznestov. Non essere timido».
Ci vollero pochissimi secondi perché Boris, dopo aver sgranato gli occhi, scoppiasse in una fragorosa risata che, per la seconda volta, fece voltare i presenti attorno a loro. Qualche gomitata da parte di Sergej lo costrinse a rinsavire, ma fu molto difficile per lui, che aveva già le lacrime agli occhi.
«No no no, fammi capire: pensi che io ti abbia fatto un regalo che per di più possa sostituire il tuo Wolborg? Io?!», chiese con fare quasi da donna isterica, agitando le braccia a destra e a manca. «Avanti tu, Yura! Io non c’entro un bel niente con quell’affare! Ti pare poi che potessi scegliere un colore tanto di merda?! Senza offesa per la tua giacca, s’intende, eh».
Rise ancora per un po’, mentre Yuri ritraeva la sua mano, indeciso se essere offeso o se passare direttamente alla fase in cui prendeva a farsi domande su domande per tentare di capire cosa ci fosse dietro a quel beyblade, senza perdere tempo.
Ricominciò a girarselo fra le mani, ad osservarlo bene, senza più dire una sola parola. Proprio non riusciva a venirne a capo.
«Magari ti è stato lasciato dalla squadra americana o dal ragazzino che fa il tecnico nella squadra di Takao, data la sua peculiarità. Non è un pezzo da negozio, è studiato», ipotizzò Sergej, pacato come suo solito, suggerendo in effetti l’ipotesi che sembrava essere più plausibile.
Tuttavia di una mera ipotesi si trattava, e certamente Yuri mai avrebbe contattato Takao per avere delle conferme – era ancora troppo presto per i suoi nervi per sostenere un terzo grado in perfetto stile chiacchierone-Kinomiya, e poi, francamente, non gli importava molto di quelle conferme.
«Ma perché mai lasciarmelo? Perché avrebbero dovuto farlo?», chiese a se stesso ma ad alta voce.
«E chi lo sa?», ribatté subito Boris alzando le spalle strafottente, «mi sembra che sul vocabolario questa roba qui si chiami gentilezza, o carineria… bah. E poi lo sai ‘sti giapponesi come sono fatti».
Yuri lo fulminò con lo sguardo e digrignò il denti.
«A ripesarci, non puoi essere stato tu, dunque. No di certo», sussurrò, ottenendo di risposta un’altra odiosa alzata di spalle, che lo convinse a smetterla di dar retta a quel caprone che aveva seduto di fianco, perché tanto un discorso sensato non glielo avrebbe mai tirato fuori.
Riprese a fissare quel beyblade, silente.
“H”.
Quella lettera era l’enigma più grande. Istintivamente aveva pensato che significasse “Huznestov”, ma era appena stato smentito. Forse semplicemente si trattava di un “H” in alfabeto cirillico, anche se questo, a dire il vero, non risolveva un bel niente, e inoltre dovette scartare subito quella ipotesi, dal momento che gli allegri giapponesi e compagnia non conoscevano quell’alfabeto. Si trattava perciò indubbiamente di una lettera dell’alfabeto latino.
“H”.
Scritta a biro sul bit-chip, quindi non poteva essere una lettera priva di senso, messa lì a caso.
“H”.
Se non era Huznestov, chi o cosa poteva essere? Che cosa caspita stava a significare?
“H”.
Scritta a biro con inchiostro rosso sul bit-chip di un bey arancione dalle squisite fattezze tecniche, degne di un professionista che col beyblade ci sapeva fare, e lasciato al suo fianco nel silenzio.
Rosso e arancione.
«Ma certo!», esclamò all’improvviso, stringendo l’oggetto così forte nella sua mano da provocarsi dolore fisico.
Boris e Sergej si voltarono verso il loro capitano all’unisono, rimanendo quasi scioccati da quegli occhi ametista che si erano fatti lucidi. Yuri fremeva lievemente, la sua bocca si era piegata in un sorriso sereno e sincero; era probabilmente ovunque, con la sua mente, magari sulle nuvole, ma di certo non lì con loro.
Ed in effetti, Yuri con la sua mente era uscito dall’aeroporto e si trovava ora sotto il sole cocente di Tokyo, che lo guardava dall’alto proprio come quella persona sulla cima di un’alta roccia aveva guardato lui, pochi giorni addietro, mentre gli regalava la sua attenzione e un suo debole sorriso. Quel sole prepotente e scottante, proprio come il suo fuoco, che i colori di quel beyblade volevano ricordargli: arancione e rosso, i colori delle fiamme della sua passione e della sua grinta; i colori dell’anima del suo stesso beyblade.
Lo sapeva, Yuri. In fondo, nel suo cuore, lo aveva sempre saputo.
“H”.
“H” di fuoco, di fiamme, di passione.
Avvicinò la mano che stringeva fino allo spasmo quello che era appena diventato un oggetto preziosissimo al suo cuore, sentendosi finalmente sollevato dalla sua agonia e dalle sue battaglie, perché lui c’era.
«Hiwatari».

 

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