Linee Incidenti

di nettie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima. ***
Capitolo 2: *** Parte Seconda. ***



Capitolo 1
*** Parte prima. ***


Questa storia parla di due linee incidenti, e di come, dopo essersi incontrate per la prima e l’ultima volta, abbiano passato tutta la loro vita a rincorrersi invano.

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Era una giornata umida, di quelle dove l’aria sembra a stenti irrespirabile, e l’aria nella grande casa vuota di Isaiah era totalmente piatta – insostenibilmente piatta.

L’uomo vagava per quella villetta spoglia senza una meta precisa; dopo aver fatto più e più volte “su e giù” per le scale, attraversò il corridoio e poi via: dentro in cucina ad osservare il sole tramontare, aldilà della finestra grande, dietro i monti, lasciando spazio a sua sorella Luna. Isaiah odiava la notte, era il momento più orrido e lugubre della giornata. Veniva lasciato da solo con se stesso e, a dirla tutta, lui non si era mai piaciuto poi così tanto. Uscì con passo pigro e trascinato dalla cucina, per poi salire gli scalini lentamente, con passo leggero. Come sempre, si buttò sul grande letto in quella stanza troppo fredda e troppo spoglia per i suoi gusti, e assunse la solita posizione a stella. Gambe e braccia larghe, volto rivolto al soffitto, dove, nell’angolo sinistro, c’era una macchia d’umidità che stagnava lì da un po’ troppo tempo. Stonava molto con il candore del soffitto bianco, e dava un senso di insoddisfazione all’uomo, più del dovuto. Sentiva il gelo penetrargli nelle vene ed attraversare le ossa in profondità, ma fuori era pieno Luglio.

Sospirò dopo essersi riempito d’aria i polmoni, proprio quei polmoni che aveva straziato nel corso degli anni, riempiendo anche quest’ultimi di brutti vizi. Non c’era molto da fare: Isaiah si sentiva solo, e all’alba dei suoi quarant’anni sentiva come di aver sprecato la sua vita a rincorrere sogni impossibili, troppe volte sfiorati con un dito, e poi mai realizzati. Quarant’anni erano pochi, certo, ma per lui un giorno aveva la pesantezza di due. Il terribile freddo che si portava dentro iniziò ad incrementarsi, e lui corrucciò il volto in un’espressione amareggiata. Avrebbe voluto dormire e non pensare, cercare di riposarsi almeno un po’ la mente assai tormentata, ma ogni singolo sforzo risultò vano: non riusciva a prendere sonno. Si rigirò più e più volte nel letto, ma niente servì a qualcosa. Sbadigliò lentamente spalancando la bocca e chiuse gli occhi, portandosi le mani grandi e curate fra i riccioli rossi che avevano sempre caratterizzato il suo aspetto. Si alzò svogliatamente, mentre veniva mangiucchiato poco a poco dalla noia. Proprio quest’ultima, malefica, lo assaliva nei momenti più brutti e nei periodi peggiori. Poggiò di nuovo i piedi scalzi sul pavimento gelido, e una volta alzato si soffermò ad osservare la sua figura riflessa sullo specchio.

Non era mai stato tutta questa bellezza, se non fosse che da giovane sembrava la personificazione del fascino. Alcuni tratti che avevano fatto parte della sua gioventù se li era tenuti stretti, mentre quest’ultima era volata via portandosi con sé un po’ tutto. Ma gli occhi smeraldini erano rimasti, forse erano solo un po’ più stanchi; ma erano lì, incastonati nel suo volto come due pietre preziose. Erano però infossati, quasi scomparivano, e raccontavano della tanta stanchezza che si celava in quell’uomo infelice. Il verde che tanto li caratterizzava s’era scurito, quasi spento, e ora risultavano opachi dalle troppe lacrime piante. Il suo bel volto era diventato così pallido che sembravano scomparse anche le lentiggini sulle guance e il naso, che un tempo lo rendevano tanto particolare. Le labbra carnose sembravano aver perso il loro volume, e i ricci ribelli, che avevano il colore del sole al tramonto, sembravano privi di ogni lucentezza, crespi e ruvidi. Un velo di barba incolta copriva il viso scarno e percorreva la mascella spigolosa. La statura alta e non troppo robusta di Isaiah narrava, a chiunque si fermasse ad osservarlo, di tempi gloriosi dove l’uomo s’era ritrovato con un fisico marmoreo e scolpito a regola d’arte, dove i muscoli appena accennati lo facevano sembrare chissà quanto perfetto. Quel fisico che poi perse tutte le fattezze che lo resero tanto bramato da troppe donne, rendendo Isaiah l’ombra di se stesso. Per un attimo gli parve di scorgere, al posto del suo riflesso sullo specchio, un Isaiah più giovane e più vitale. I tratti androgini del suo non più giovane volto, ora quasi scomparsi, tornarono per un solo attimo a farsi vedere, e l’uomo sentì il proprio cuore mancare un battito. Quanto gli mancavano quei momenti mai più vissuti, quelle fattezze mai più avute, quelle sensazioni che mai più aveva riprovato? Si passò nuovamente una mano sul volto, e diede uno sguardo all’orologio da polso, che era solito portare come fosse una parte integrante di sé. Mancava un quarto d’ora per far sì che fossero le dieci di sera. Erano passati soltanto vent’anni da quando Lazar se n’era andato.

Già, soltanto vent’anni…

Vent’anni che bruciavano come il fuoco e che sembravano quaranta Inverni; il doppio di quelli che lui aveva dovuto sopportare senza il suo amato Lazar. Il suo ricordo era ormai sbiadito e un po’ confuso, ciò faceva sanguinare ulteriormente il cuore di Isaiah. Fece distrattamente i conti; Lazar avrebbe dovuto avere cinquantaquattro anni ed una carriera bella sostanziosa, lì, al nord, con una bella moglie, e forse anche dei figli. Se n’era andato, era questa la verità. Se n’era andato, gli aveva mentito, e quasi ad Isaiah non importava più della loro brutta fine. Quasi, perché nonostante i vent’anni passati, il cuore ancora faticava a metabolizzare. E per un attimo che sembrò un’eternità, Isaiah si sentì tradito.
 

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«Tornerò, te lo prometto.»

 

Sussurrò Lazar sulle labbra di un giovane Isaiah, faccia a faccia l’uno con l’altro. Era una calda notte di Luglio, quel Luglio di vent’anni prima che aveva fatto sognare entrambi. Le stelle brillavano in cielo e lo costellavano in tante, numerose e bellissime, facendo compagnia alla loro amata Luna, che era tonda e piena in tutta la sua maestosità. Le onde del mare s’allungavano verso la giovane coppia, bagnavano i loro piedi scalzi, solleticandoli, e ogni tanto uno schizzo ribelle toccava le caviglie di entrambi. Isaiah osservava il buio orizzonte a dir poco sconvolto, sentiva lo stomaco e il cuore in subbuglio; non era una bella sensazione. Preferiva rimanere in un silenzio religioso, che esprimeva –quasi- alla perfezione tutto il dolore che lo stava pervadendo, improvvisamente. Aveva la testa poggiata sulla spalla robusta di Lazar, il braccio muscoloso di quest’ultimo gli circondava le spalle, e con tanto affetto lo teneva stretto a sé. Dopo le parole di Lazar, non ci fu neanche una parola fra i due per lungo tempo: preferivano parlare con sguardi, carezze e sospiri. Il più piccolo guardava l’orizzonte dinanzi a sé, come fosse sconcertato, e nel mentre si stringeva come un bambino a Lazar, quasi senza accorgersene. Aveva udito più che chiaramente le sue parole, e quest’ultime avevano centrato il suo petto come la più affilata delle lame. Le aveva comprese nel pieno del significato ma in cuor suo non voleva crederci, le orecchie confermavano ciò che aveva sentito, ma l’animo aveva iniziato di già a negarlo con ferocia insistenza.

E non erano passati neanche cinque minuti.

Lazar lo strinse maggiormente a sé e passò una mano fra i suoi ricci rossi e morbidi che posavano scompigliati poco sopra le spalle. Li pettinò con quelle dita lunghe e affusolate che si ritrovava, arricciò le ciocche più e più volte quasi come fosse il suo passatempo ideale. Il Silenzio più totale rimase costante fra i due, fino a quando il bel panorama non venne oscurato da numerose nubi scure, e la luna fece la sua uscita dalla scena. Così, cadde il buio su di loro, e anche il mare sembrava aver smesso di scintillare. Allora Isaiah si ritrovò costretto a puntare i suoi occhi verdi in quelli di Lazar, di un azzurro ipnotizzante quasi trasparente. Il rosso amava quegli occhi chiari forse più di ogni altra cosa al mondo, erano lo specchio della sua anima, due perle chiare dove poteva annegare ed annullare ogni singola sofferenza. Per Isaiah, Lazar era sinonimo di futuro e salvezza – mai avrebbe potuto sbagliarsi di più! Sospirò, e si sentì quasi mancare il fiato quando il biondo lo strinse ancor di più a sé, poggiando la fronte sulla sua. Erano così vicini l’uno all’altro, e nelle loro menti balenò spontaneamente l’idea di scambiarsi un piccolo e fugace bacio: chi se ne sarebbe mai accorto?

Lazar fece per allungarsi ulteriormente verso il più piccolo, sembrava stringerlo a sé ora con fermezza, ora con mani tremanti: era l’emozione che stava prendendo il sopravvento. Era sbagliato: lui per primo sapeva quanto fosse sbagliato, più di tutti gli altri. Si sentiva in colpa nei confronti della donna che ogni volta con sacra dedizione lo aspettava a casa, quella donna graziata dal Fato e che ora aspettava un bambino. E il bambino nel grembo della donna era di Lazar senz’ombra di dubbio, ma Lazar non era nient’altro che un bambino lui stesso, un bambino che a trentaquattro anni ancora si rifiutava di crescere. Quando il biondo si avvicinò maggiormente per sfiorare le labbra del giovane abbracciato a lui, fu Isaiah ad allontanarsi e a scuotere la testa lentamente, in segno di negazione. Certo, aveva avuto giudizio, ma anche lui sentiva un’irrefrenabile voglia di violare le regole.

Non poteva, non potevano.

 

«Tornerai sul serio?»

 

Chiese nuovamente, con il tono di un bambino indifeso che ha paura di perdere ciò che di più caro ha al mondo. Un improvviso rossore si era impadronito delle sue guance già rosee di loro, e teneva lo sguardo basso per l’imbarazzo che scalpitava forte nella cassa toracica. Ma non era imbarazzo puro: era misto ad un forte disagio, mescolato al senso di colpa che sembrava mangiarlo vivo. Era lui il terzo incomodo, e Ruth la donna che aveva avuto la fortuna di ricevere un anello al dito da Lazar, proprio dall’uomo che ora amava lui, Isaiah. Lazar gli prese il mento fra due dita, quasi lo costrinse a guardarlo negli occhi e a sostenere il proprio sguardo. Fu solo quel semplice gesto a far scoppiare nel petto il cuore di Isaiah, che lo guardò a sua volta negli occhi e sfociò in un sorriso enorme e solare. Quel sorriso fece stringere il cuore di Lazar, che disse:  

 

«Ti pare che ti lascio solo? Farò il possibile. Tu aspettami.»

 

E gli occhi di Isaiah, a queste parole, si illuminarono di gioia. Non gli importava affatto se avesse dovuto aspettare dieci mesi o dieci anni; lui lo avrebbe aspettato sempre e comunque. Sentiva che ne valeva davvero la pena, tutto qui. Loro insieme, poi, erano meravigliosi. Il più piccolo continuò a mantenere l’ampio sorriso sulle labbra, e ciò scaturì una forte emozione in Lazar, che sentiva ardere bollente nel torace; partiva dal cuore e pensava si chiamasse “amore”. Lo strinse ancor di più al petto e gli scompigliò i capelli, sfociando in una tenera risata mentre scuoteva appena al capo. In verità, Lazar era confuso e sentiva il cuore spaccato a metà, era tutto un gran disordine: non sapeva affatto come fare. Ma Isaiah pensava che il maggiore fosse serio, fermo nelle sue decisioni: credeva alle sue parole.

Cosa si sarebbe mai potuto aspettare Isaiah da un uomo di quattordici anni più grande? Un uomo con una famiglia stabile, un lavoro e due figli da sfamare. Ma forse, non era proprio il lavoro del bel professore ad ostacolare la relazione con Isaiah, né tantomeno il pargolo che Dio aveva deciso di donargli, proprio quel Dio in cui Isaiah aveva perso la speranza e la fede. Lazar era un uomo sposato. Era questo ciò che metteva Isaiah nell’ombra, ciò che lo costringeva a vivere immerso nelle tenebre, ma quel sentimento che tanto nutriva per lui non lo faceva lamentare, né tantomeno pensare alla spiacevole condizione. Isaiah aveva vent’anni, tanti sogni nel cassetto e abbondante voglia di vivere. Con Lazar era tremendamente felice: gli bastava sapere questo per auto convincersi a continuare con quella relazione impossibile.

 

«Non scordarti di me.»

 

Sussurrò poi il rosso sulle labbra del biondo, continuando a tenere le labbra piegate in un tenero sorriso che trasudava amore e felicità da tutti i pori. Davvero, non gli importava della partenza di Lazar. Credeva che sarebbe tornato per davvero.

Il maggiore sorrise e baciò il capo di Isaiah, prima di alzarsi e trascinarsi dietro il più piccolo. L’altro, intrecciò in modo totalmente istintivo le proprie dita a quelle di Lazar, e si strinse forte al braccio muscoloso del più grande. Insieme, potevano far invidia al mondo.

Camminarono lungo la riva godendosi l’uno della compagnia dell’altro, sapendo che avevano -purtroppo- le ore contate, e che non avrebbero di certo potuto rivedersi all’istante. Ci sarebbe stata una grandissima distanza a separare Lazar da Isaiah: il minore lo aveva realizzato, ma il cuore non voleva saperne. L’altro, invece, era semplicemente preoccupato di non riuscire a sostenere quella grande bugia e farsi cadere tutto addosso. Appena sarebbe tornato a casa ci sarebbe stata la bella Ruth ad accoglierlo, lei, che pensava fosse andato solo fuori con amici, e suo marito avrebbe fatto finta di niente come da copione. Ma una volta lontano da Isaiah, cosa avrebbe mai fatto Lazar? Cosa sarebbe successo?

Isaiah non se ne preoccupava, si fidava ciecamente di lui e credeva che sarebbe tornato nel giro di qualche anno, che non fosse una cosa tanto per le lunghe.

Ci credeva fermamente.
 

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Ed invece, Lazar, dopo essere andato fra i freddi ghiacci del nord non era più tornato. Il pensiero di aver lasciato Isaiah con un grande punto interrogativo lo torturava ogni giorno, non c’era ora in cui non pensasse a che fine avesse fatto quel ragazzo tanto bello, tanto speciale. Aveva il suo numero di cellulare, era lo stesso ormai da vent’anni e non sapeva se lo avesse cambiato o meno. Passava le ore intere con occhi incollati a quel nome sul display, e si vergognava. Era solo una semplice fila di numeri digitali su uno schermo appannato, ma per lui, quella sequenza di numeri valeva tutto come niente. Certo, avrebbe potuto chiamarlo semplicemente premendo un tasto sullo schermo, ma la paura lo assaliva ogni volta, tirannica ed insistente, sempre di più, sempre di più. Isaiah faceva parte dei momenti più belli del suo passato, e si sentiva un verme ad averlo lasciato così, di punto in bianco, con una promessa di ritorno mai mantenuta. Si era poi fatto una vita, convincendosi giorno dopo giorno d’essere in grado di poterlo dimenticare, fino a quando non si costrinse a farlo diventare solo un lontano ricordo sfocato. Quel ricordo sfocato, però, ritornava più vivido che mai nei suoi sogni, e quando all’uomo capitava di rimanere completamente solo nella stanza. Allora i ricordi riaffioravano uno dopo uno, ed era tanta la colpa che sentiva esplodere nel petto. Quel giovane rimase così un segreto per tanto tempo, e Ruth non seppe mai niente. Lei continuò ad eseguire i suoi doveri da madre e moglie: lì nella fredda Svezia fece anche fortuna sul posto di lavoro, come lei stessa aveva sperato. Era una donna fantastica - Lazar non avrebbe mai potuto non dirlo, passava giorni interi a tessere le sue lodi come meglio gli riusciva: s’era ormai convinto che Ruth fosse sempre stata quello che cercava.

Tutto sembrava andare per il meglio.

Lazar si presentava alle otto in punto dietro la cattedra in una scuola d’alto livello, dove studenti scalmanati si prestavano ad ascoltare incantati le parole dell’uomo; li domava e li rendeva docili come gattini. Anche lui era stato un ragazzo, conosceva quei giovani come le sue stesse tasche, poteva immedesimarsi in loro. Ma, dentro lo stomaco lo accompagnava sempre un nauseante senso di vuoto, ed erano ormai vent’anni che si ritrovava costretto a convivere con quest’intimo e privato dolore. Negava questo dolore, e la negazione stessa lo faceva sentire peggio fino a sentire la testa bollire e il cuore ardere nel petto, martellante, quasi a voler spaccare la cassa toracica. Non poteva parlarne con nessuno perché se ne vergognava incredibilmente tanto, era un suo segreto e se lo portava dietro come la più pesante fra le croci. Cosa avrebbe mai pensato la gente di lui? Quali mai sarebbero state le sue conseguenze? A cinquant’anni passati, Lazar si ritrovava a dover fare lo schiavo di sé stesso. Sapeva che non avrebbe mai potuto continuare così a lungo, ma ogni volta che al ritorno a casa incontrava gli occhi azzurri di suo figlio, diventava tutta un’altra storia. Era un bel giovane senz’ombra di dubbio, dedito allo studio e alla famiglia. Aveva la carnagione ambrata della bella Ruth, e gli occhi d’un azzurro trasparente tale al padre. La chioma mora e mossa scendeva appena sulle spalle, sfiorandogli il collo dalla pelle delicata. La mascella marcata e un fisico tutto d’un pezzo, Raphael ricordava una versione leggermente diversa del padre nel fiore della sua gioventù.

Lazar lo guardava lì, dietro la tavola, consumare la sua colazione prima di dirigersi in facoltà. Era orgoglioso del suo piccolo miracolo, lo stimava e credeva fermamente nelle sue capacità. Accanto alla figura di suo figlio, c’era una donna. Ruth, colei che gli era rimasta accanto per tutto questo tempo, e colei alla quale aveva più e più volte mancato rispetto. Era la donna di sempre con il sorriso di sempre, le labbra carnose dipinte di un rosa antico e le palpebre colorate di un sofisticato marrone. Due rughe si estendevano ai lati della bocca, sul collo e ai lati degli occhi, non facendo comunque venire meno il suo fascino, Era bella, certo, ma Lazar ricordava d’aver visto di meglio, e non in merito a lei. La verità era che il ricordo di Isaiah era vivido e palpabile nel suo animo assai straziato, e la voglia di andarlo a ricercare era tanta, troppa, fosse pure stato in capo al mondo. Palpitava con forza nel petto anche solo la voglia di rivederlo e di alleviare di un po’ i rimorsi che lo stavano tormentando tanto da non farlo dormire. L’ultimo suo sguardo non lo aveva di certo scordato, non aveva scordato la preghiera di quella notte di vent’anni fa, dove Isaiah s’era ritrovato a piangere copiosamente sul suo petto, versando centomila e più lacrime amare che, a detta sua, Lazar non sentiva di meritarsi. Era amore troppo coinvolgente e, a quell’età, aveva preferito fuggire con la sua metà ideale ma non perfetta. Con la sua metà non del tutto congruente, continuando a vivere nella menzogna per anni interi.



[ Angolo Autrice: 

Un grazie di cuore a chi è arrivato a leggere fin qui. Per chi volesse continuare a seguire la vicenda di Lazar ed Isaiah, avverto che la storia avrà solo un altro capitolo della medesima lunghezza, e sarà pubblicato il 16 Agosto. 


-nettie.

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Capitolo 2
*** Parte Seconda. ***


Sembrava impossibile, ed Isaiah non voleva crederci. Il suo Inverno iniziò nel bel mezzo di un lontano Luglio di vent’anni prima, non accennando a tregua alcuna. Erano le nove di mattina, l’aria afosa riempiva i polmoni della gente del posto, ed Isaiah aveva il cuore frantumato in mille pezzi. Era steso nel letto dalle coperte sfatte, e che portavano ancora l’intenso profumo di Lazar. Isaiah se lo sentiva ancora addosso. Sentiva ancora le sue caute mani carezzare la sua pelle nuda ed il suo fiato gelido sul suo collo delicato. Erano passate solo poche ore, e già sapeva che gli sarebbe mancato come l’aria da respirare. Quella stessa notte, per Isaiah fu una grande emozione sentire i rintocchi del pugno di Lazar sulla sua porta d’ingresso; non esitò ad aprirgli, e il maggiore gli si buttò addosso. Poco c’è da aggiungere, poco come le ore da spendere insieme che rimanevano ai due uomini, e non servì nient’altro che un gesto e un sorriso a far travolgere entrambi dalla passione più ardente. Isaiah tenne stretto al cuore quell’unico ricordo rimasto per i vent’anni che vennero a succedere.

E quella, fu la notte prima della dipartita di Lazar, prima che le loro vite si allontanassero per un tempo eternamente indeterminato. Il sole poi era aggiunto insieme all’alba, e il rumore d’un motore in movimento sotto la palazzina di poche anime aveva svegliato Isaiah. Sapeva cosa significava quel rumore, lo sapeva meglio di tutti, e per un attimo sentì il cuore riempirsi di nient’altro se non vuoto e freddo. Si scostò i ricci dal volto e mise alcune ciocche dietro l’orecchio, prima di poggiare i piedi a terra ed incamminarsi verso la finestra, con passo spaventato. La luce del sole accecava violentemente i suoi occhi ancora stanchi, ma non gli poteva importare un bel niente di certi inutili dettagli. Guardò giù, per strada, e vide l’ultima cosa che avrebbe mai voluto vedere. L’automobile di Lazar era lì, in moto, ed il portabagagli era spalancato. La bella Ruth sembrava sistemare alcune cose, valigie, borsoni: era evidente che fosse più che pronta all’imminente partenza. Dopo un po’, sbucò fuori Lazar. I suoi capelli biondi scintillavano sotto il cocente sole estivo, e sembravano fili d’oro ad ornare quel marmoreo viso dagli occhi azzurri. Il cuore di Isaiah saltò un battito: Lazar sembrava ancora più bello del solito, e avrebbe voluto spalancare i vetri della finestra ed urlare il suo nome, ed urlare al mondo quanto lo amasse. Si sarebbe buttato giù senza alcun timore pur di raggiungerlo al più presto prima che partisse, non aveva paura: sapeva che Lazar se ne sarebbe accorto e lo avrebbe preso. Ma era solo pura immaginazione, e gli faceva sanguinare copiosamente il cuore nel petto. La voglia di scendere d’un fiato le scale e buttarsi addosso a Lazar, pregandolo di rimanere, era tanta. Era tanta, già, ma non poteva, e in quel momento si sentiva diviso in due – da solo a lottare con sé stesso. Vide poi Lazar abbracciare Ruth e stringersela forte al petto: si sentì male dal dolore che quel gesto gli aveva inflitto. Si ricordò d’un tratto che Lazar non era stato mai suo, neanche la notte precedente, perché Lazar era un uomo sposato. Lazar apparteneva a Ruth come Ruth apparteneva a Lazar. Faceva male anche questo pensiero, e lo negò a sé stesso.

Teneva il volto schiacciato contro il vetro e una mano su di esso, gli occhi verdi puntati solo ed unicamente sulla figura lontana dell’uomo che gli aveva ridotto a brandelli il cuore. Una volta che Ruth entrò in macchina, poi, lui chiuse il portabagagli con un colpo secco, e sembrò quasi sospirare. Isaiah aveva battito e respiro sospesi. Arrivò, in seguito, il momento che tanto Isaiah aveva temuto quanto aspettato. Lazar alzò il capo, e gettò lo sguardo alla finestra dell’abitazione di Isaiah. Il bel professore sapeva di aver lasciato un marchio a fuoco sul cuore del giovane, e si sentiva pieno di sensi di colpa. Incontrò il volto roseo del più piccolo, il naso e le guance macchiati di deliziose lentiggini, e rimase a guardarlo per un po’. Era consapevole che anche Isaiah lo stesse guardando, e per un attimo sentì l’impulso di tornare indietro e buttarsi fra le braccia di quel giovane ragazzo. I loro occhi si incrociarono da lontano, ed il più giovane vide Lazar mordersi il labbro e stringere i pugni. Fu un solo unico sguardo che durò pochi attimi, non ci volle molto prima che Isaiah avvertisse calde lacrime percorrere tutto il suo viso. Lazar abbassò lo sguardo facendo un passo indietro verso la macchina, ed Isaiah nascose il viso rigato dalle lacrime dietro la tenda di quella triste camera. Fu così il loro addio, silenzioso com’era nato il loro amore. Isaiah, che ancora teneva la mano sul vetro, guardò malinconico Lazar entrare dentro la macchina ed allontanarsi una volta per tutte, come se niente fra loro due fosse mai successo. Non perse alcun tempo per disperarsi, e diede libero sfogo a tutto il vuoto frustrante che si portava già dentro, a meno di cinque minuti dalla dipartita dell’amato. Sarebbe mai tornato? Lo sperava con tutto il suo cuore.

Si buttò di peso sul materasso dalle lenzuola disordinate, e per un momento, stringendo il cuscino al petto e affondandoci il viso sopra, sentì il profumo di Lazar inondargli i polmoni attraverso le narici: era una sensazione paradisiaca. Ripensò a tutte quelle parole che gli furono dette dal più grande, e sentì il cuore far male. Strinse fra le dita le lenzuola leggere; anche quest’ultime ricordavano tutto di lui, portavano il suo sapore ed avevano lo stesso colore dei suoi occhi. Rotolò più volte fra le coperte a braccia larghe ed occhi chiusi, immaginava di stringere la sua mano e di averlo ancora lì con sé. Poi tornava alla realtà ma il cuore continuava a negare, così cercava d’ingannarsi ancora sperando di sentir bussare alla propria porta, aprire e ritrovarsi quella marmorea figura dinanzi a sé. Non successe mai. Guardò il muro, c’era appesa una bozza di un quadro mai finito che li ritraeva: si ripromise di finirlo al più presto per riportare a galla sensazioni che sembravano già antiche. Così, torturato fra pensieri e lacrime, finì per addormentarsi come un bambino, annegando nei propri brutti incubi. Inchiodò tutti quei ricordi e quel buon profumo al cuore, li rinchiuse in un cassetto e non li fece mai più uscire. Furono loro a svanire nel tempo, sotto cumuli e cumuli di polvere.

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Quella stessa notte, Lazar si alzò mentre la luna troneggiava ancora alta nel cielo e nella casa regnava il silenzio più completo. Aprì gli occhi azzurri e lasciò che si abituassero al buio, fino a quando le forme accanto a lui iniziarono a delinearsi nelle tenebre. Tutto regolare: era nella sua stanza di sempre, quella stanza dalle pareti e dal pavimento in legno, quella stanza calda che per tanto tempo l’aveva riparato dalle intemperie della vita. Accanto a lui, nel letto, era stesa una bella donna che non dimostrava più di cinquant’anni. Era Ruth, sua moglie, che dormiva rannicchiata nell’altro capo del letto, sommersa dal piumone pesante e beata come fosse una bambina. Le guance ambrate risaltavano nella notte, il volto era illuminato dalla fioca luce lunare che penetrava dalle finestre, e le spesse e calde coperte delineavano le forme generose del suo corpo. Lazar la guardò con gli occhi pieni di malinconia, ma gli venne spontaneo abbozzare un sorriso, e lo fece piegando appena gli angoli delle labbra. Era una brava donna, brava tanto quanto bella, ma non era quello che aveva sempre desiderato. Certo, tutti quegli anni carichi di responsabilità gli avevano insegnato ad essere giudizioso, ma quella notte la pura follia si impossessò di lui, ed uno solo era il desiderio che ardeva nel suo petto, svelto e scottante: Isaiah. Non s’era mai scordato di quel giovane tanto bello e curioso, il pensiero suo era sempre presente nella mente di Lazar, e lo accompagnò per anni interi mentre il rimorso cresceva. Non s’era mai scordato dell’ultimo messaggio che il minore gli inviò anni prima, e si era tenuto scritta ogni singola informazione che lo avrebbe portato a casa di Isaiah. Sempre se la casa fosse stata ancora la stessa. Ma Lazar non aveva né timore né paura: dopo vent’anni d’oppressione sentiva il bisogno di fare una pazzia, almeno una, e tornare da quel ragazzo con i capelli rossi, in quella notte nella quale anche le stelle erano coperte da uno spesso strato di nubi, la luna sembrava più lontana che mai, e fuori tutto taceva immerso nel buio.

Già, ragazzo. Lui se lo ricordava come un ragazzo, ma non sapeva come fosse diventato, e soprattutto chi. Non avrebbe mai potuto prevedere la reazione di Isaiah quando se lo sarebbe ritrovato davanti dopo vent’anni. Aveva paura d’esser stato dimenticato dall’unica persona amata in quegli amari e grami cinquant’anni, e non sapeva a cos’altro andava incontro. Lui manteneva stretto al cuore e alla mente il ricordo di un giovane e vitale Isaiah, non dell’uomo stanco e burbero che era diventato, ma come avrebbe mai potuto saperlo?

Scacciò ogni tipo di pensiero che lo facesse anche solo esitare di poco, e, dando un’ultima carezza al viso di sua moglie dalla pelle morbida, si alzò tentando di fare il minimo rumore possibile. Poggiò i piedi sul pavimento gelido e rabbrividì appena, sentiva il vento battere contro la finestra quasi come fosse un rimprovero alle sue peccaminose azioni. Aveva il respiro sospeso, e non solo: lui stesso si sentiva sospeso su di un filo, prossimo alla caduta. Mosse alcuni passi verso l’armadio e lo aprì senza fare il minimo rumore. Tirò fuori uno zaino un po’ usurato, e buttò dentro quest’ultimo beni di prima necessità: documenti, e vestiti. Non gli serviva nient’altro. Poi calzò le sue scarpe e allacciò i lacci con cura in modo da non farli sciogliere. Aveva pianificato già da un po’ di tornare per un certo periodo in Francia, e la negazione datagli dalla moglie, solo poche ore prima di dormire, lo aveva fatto andare su tutte le furie: ora nel suo stomaco ribolliva acido che ne bucava le pareti.  Salutò la bella donna con un ultimo sguardo, niente di più, e infilandosi il cappotto si mise lo zaino in spalla. Si sentiva un verme, ma aveva bisogno di raggiungere quella libertà tanto agognata che portava – e aveva sempre portato – il nome di Isaiah. L’aveva capito solo in quel momento, che follia.

Ebbene sì, Lazar era folle, un folle che correva contro l’irraggiungibile sogno della felicità. Era determinato; l’avrebbe ottenuta. Uscì dalla stanza camminando sulle punte dei piedi, ma prima di chiudersi in modo definitivo la porta d’ingresso alle spalle, passò in camera del figlio. Tutto taceva nel silenzio della notte, e il giovane Rapahel era lì, sotto le coperte, a dormire nel suo letto. Lazar sentì una morsa stringergli il cuore nel petto: come avrebbe mai potuto abbandonare Raphael? O forse, suo figlio avrebbe semplicemente capito? Capito il bisogno del padre, certo, ma come avrebbe mai potuto capire senza conoscere il bisogno? La verità era che né Ruth né Raphael conoscevano Lazar, nonostante fossero le persone più legate a lui. Lazar conosceva a stento se stesso, come potevano gli altri analizzare il suo complesso animo?

Rimase poggiato con la spalla allo stipite della porta mentre sentiva il cuore farsi piccolo piccolo nel petto, quasi a scomparire. Il giovane dormiva avvolto fra calde e morbide coperte, il suo respiro mozzato da un lieve russare che fece sorridere in modo alquanto tenero Lazar. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi a lui, era troppa la paura di svegliarlo o anche solo disturbare il suo sonno, seppur profondo. Era suo figlio, solo in quel momento lo capiva davvero, ed era la creatura più bella del mondo. Avrebbe voluto portarlo con sé, ma ormai non era più un bambino di cinque anni: lì in Svezia aveva una vita, e Lazar non poteva renderlo privo della sua autonomia. Si morse il labbro e strinse appena gli occhi, socchiudendoli in due mezzelune. I capelli ricci e scuri di Raphael brillavano al buio, e Lazar avrebbe voluto vedere i propri occhi in quelli del figlio ancora una volta – quelle due perle che tanto somigliavano alle sue. Trattenne un sospiro gonfiando il petto, che bruciava intensamente, bruciava di dolore con il cuore che martellava al suo interno. Restò per ancora qualche minuto a contemplare la visione del proprio figlio, poi, decise che era il momento di andare. Sperò con tutto se stesso nella comprensione di Raphael, lui, che era l’unico motivo per cui era ancora in vita, e uno dei motivi per cui aveva deciso di partire e scomparire nel nulla. L’aveva cresciuto, il gioco era fatto. Era diventato grande, bello e in forze – Lazar non era più presente come una volta nella vita di Raphael. L’uomo sperò ancora una volta che Raphael non ne soffrisse la mancanza, e dopo questi ultimi pensieri, si legò bene alcuni ricordi al petto: il sorriso della donna che gli era stata accanto e che aveva illuso per interi anni; e gli occhi del figlio tanto amato che aveva la stessa luce negli occhi di quando il padre era solo un giovane scalmanato. Sperò poi nella felicità del giovane Raphael e nella sua buona stella, e immerso nel silenzio mosse i primi passi verso la porta d’ingresso. La aprì delicatamente e se la richiuse alle spalle, coprendosi poi il capo con il cappuccio foderato in pelliccia. Prese la sua motocicletta e camminò con lei nel gelo scandinavo; poi, quando fu abbastanza lontano da quella che era stata per tanto tempo casa sua, accese il motore e scappò via, verso il primo volo diretto in Francia.

Nel frattempo, Ruth s’era alzata, e vedendo le coperte sfatte al posto di suo marito, capì che le sue più grandi paure s’erano realizzate. Ad una donna non sfugge niente, mai, né tantomeno a Ruth. Non ne capiva ancora il motivo, e probabilmente non lo capì mai, ma conosceva Lazar. Se aveva deciso di fare qualcosa, era perché ci aveva pensato a lungo e bene: una ragione c’era, non importava quale fosse. Lo guardò allontanarsi in silenzio da dietro la tenda, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. Non disse niente, ma quando lo vide scomparire al buio orizzonte iniziò a piangere. Calde lacrime iniziarono a solcare il suo viso, goccia dopo goccia, e non c’è niente più straziante del pianto d’una donna delusa e confusa, quei lamenti che ti dilaniano l’anima. Lei, però, non si sentì tradita, si sentì semplicemente confusa, tanto. Non era colpa sua, non era colpa di nessuno dei due, eppure sentiva in cuor suo di essere molto vicina alla soluzione. Rimase a guardare fuori dalla finestra fino alle prime luci dell’alba, non si stancò mai di vegliare per un improbabile ed improvviso ritorno di Lazar.

Già, Lazar. Quell’uomo che già stava volando su un aereo, lontano dalla realtà e immerso nei ricordi che lentamente si facevano sempre più vicini. Chiuse gli occhi e si sentì libero di respirare.

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Isaiah, dopo aver navigato ancora una volta nei propri sbiaditi ricordi, si addormentò di sasso sul materasso morbido ed accogliente. Era Estate, già, ma continuava a sentire freddo: sentiva d’aver bisogno d’un paio di braccia grandi a stringerlo ed esorcizzare ogni suo male; ma solo quelle di Lazar avevano quel potere così prezioso del quale l’uomo sentiva il bisogno. Poi si svegliò presto, alle prime luci dell’alba. Aprì pigramente gli occhi, accorgendosi suo malgrado d’essersi addormentato vestito, con la camicia nera appena sbottonata. Sbadigliò pigramente e si portò un cuscino sul volto, a coprire quei raggi che tanto gli disturbavano il riposo.

Ma in fondo, non erano veramente i raggi ad irritarlo, ma i tanti ricordi che, semplicemente, non riusciva a ricordare come un tempo. Lo irritava l’ombra di quest’ultimi, lo irritava l’ombra di lui e Lazar. Si chiese per la milionesima volta che fine avesse mai potuto fare, e la risposta stavolta arrivò al cuore colpendolo dritto come una freccia: s’era scordato di lui. Cosa avrebbe mai potuto aspettarsi, dopo tutto, da un uomo adulto e sposato?

Per la prima volta in quarant’anni si sentì viscidamente usato, e si sentì sporco. Certo, la sua vita aveva avuto un lungo continuo anche senza Lazar, ma la Vita, quella vera con la V maiuscola, non aveva mai avuto un inizio. Sentì improvvisamente d’aver vissuto a vuoto, e non capì il senso di rimanere a galleggiare nel nulla più totale, in balia delle sue confuse emozioni e sciape sensazioni. Ricordò l’ultimo messaggio scritto a Lazar, diciott’anni prima: lo annunciava dell’acquisto di una nuova casa, e speranzoso, aveva allegato l’indirizzo nella speranza che un giorno il maggiore sarebbe venuto a trovarlo. Si sentì un perfetto illuso, per giunta con tutte le carte in regola per esserlo più di tutti gli illusi messi insieme. Ed era questa sua lotta interiore a farlo stare male, il continuo conflitto tra cuore e mente, quel conflitto che durava da ormai vent’anni e per il quale mai aveva desiderato aiuto da esterni.

Isaiah e Lazar erano una cosa sola, lo erano stati per poco e breve tempo, perché il rosso avrebbe dovuto esporre a gente estranea tutto quello che era stato loro, suo e di Lazar? Isaiah non aveva bisogno d’aiuto. Isaiah aveva bisogno di Lazar.

E se Lazar fosse cambiato? Isaiah dubitava che si trattasse dell’uomo di sempre, quel giovane scaltro che gli aveva fatto perdere la testa. Erano cambiati, certo, è naturale, ma non erano cambiati insieme. Ciò rendeva Isaiah terribilmente confuso, continuava a chiedersi se ne valesse davvero la pena piangere su una cosa passata, e continuava a non riuscire a darsi una risposta.  

Passata mezz’ora inerme su quel letto, quando i raggi del sole finalmente lo toccarono scaldandogli il corpo, Isaiah decise di alzarsi. Scese le scale come tutte le mattine, ma invece d’andare al lavoro dietro quell’odiosa cattedra, rimase a casa: era Domenica. Lui, non aveva nessuno con cui trascorrerla, se non se stesso, e quanto doleva questa condizione?

Passò per la cucina dopo aver attraversato il corridoio, e si avvicinò alla macchinetta del caffè. La accese, inserì una cialda e aspettò la sua piccola pozione si preparasse da sola. Poi poggiò la tazzina bollente sul tavolo, e si mise seduto dietro questo, su una sedia intrecciata in vimini. Osservò il sole sorgere all’orizzonte e farsi alto nel cielo limpido, mentre sorseggiava la tazza di caffè bollente. Allungò le gambe sotto il tavolo e provò a rilassarsi invano. Gli occhi vitrei e il volto inespressivo: sentiva il cuore in subbuglio e avrebbe tanto voluto strapparselo dal petto.

Poche ore dopo, decise di uscire a prendere una boccata d’aria; sperava tanto gli avrebbe fatto bene. Così si cambiò i vestiti, si pettinò con cura i capelli mandando le ciocche indietro, e provò a rendersi presentabile almeno un po’. Si guardò allo specchio e inarcò un sopracciglio, sistemandosi appena il colletto della camicia. Allacciò i primi due bottoni, poi fece una smorfia e preferì lasciarli slacciati: gli dava un senso di libertà.

Prese il portafogli e si buttò le chiavi di casa in tasca, poi si chiuse la porta d’ingresso alle spalle, con un grande colpo secco. Iniziò a respirare l’aria del mare limpido e gli sembrò quasi di sentire le onde sbattere contro gli scogli fin lì. Sorrise di sbieco piegando gli angoli delle labbra, ed iniziò a muovere i primi passi verso la bella costa di Nizza. Scese in strada, e vide un gran movimento ovunque. Si sentì solo, ma non volle farci caso e lo negò a se stesso; mise quella spiacevole sensazione sopra il mucchio di emozioni che aveva accartocciato e buttato in un angolo. Iniziò a passeggiare lentamente e senza nessuna fretta, dopotutto nessuno gli correva dietro, il sole splendeva alto e voleva godersi quella bella giornata. Magari, se solo avesse potuto, senza pensieri. Camminò senza meta per lungo tempo, noncurante del rischio di perdere la strada – non ne aveva alcuna paura. Conosceva quella città come le sue tasche, e lì, il suo senso dell’orientamento era straordinariamente acuto.

Solo quando raggiunse uno stato di completo rilassamento, gli sembrò che ci fosse qualcosa a non andare. In lontananza, scorgeva un uomo camminare con passo svelto, che gli mise non poca insicurezza addosso. Un brivido gli percorse la schiena, e mise a fuoco la vista, ma lui era ancora troppo lontano per esser visto bene. Isaiah scosse la testa e alzò il polso per controllare l’orario sull’orologio: mancavano cinque minuti alle dieci.

Passo dopo passo, entrambi gli uomini si fecero più vicini, ed Isaiah iniziò ad avvertire un’irritante sensazione che scombussolava il suo stomaco, facendolo ritorcere su se stesso. Quando furono abbastanza vicini l’uno all’altro, osservò l’uomo con la coda dell’occhio per non farsi notare. Era alto, e aveva dei capelli leggermente mossi, d’un biondo sbiadito ed ingrigito ai lati. Sembrava li tenesse legati in un disordinato codino dietro la nuca, ed una ciocca ribelle era sfuggita alla presa dell’elastico. Qualche ruga solcava il suo volto, ai lati degli occhi e alla bocca, poi qualche piega sulla fronte. Aveva il fiato corto, sembrava avesse quasi esaurito tutte le sue forze. Il fisico era sfatto, forse sotto quella camicia a maniche lunghe nascondeva un po’ di pancia lasciata andare a se stessa. Gli venne spontaneo pensare quale razza di pazzo si sarebbe mai messo una camicia a maniche lunghe in pieno Luglio, ma cercò di non fare smorfie strane per nascondere i suoi pensieri. Quasi si vergognò per il solo fatto di star analizzando da capo a piedi un perfetto sconosciuto, ma ormai iniziare gli era quasi venuto spontaneo. Camminava parallelo a lui, nella sua direzione, e aveva le spalle molto larghe. Aveva la mascella spigolosa e ben marcata, il naso sembrava grande ma straordinariamente dritto, e le labbra erano secche e fini. Un pizzetto curato ornava il mento, mentre un velo di barba incolta fra il biondo e il grigiastro stonava di gran lunga con la cura del suo viso. Le sopracciglia non erano troppo folte, e nell’insieme, dava l’idea d’essere un uomo curato. Portava uno zaino che gli pendeva da una spalla, nero, e non era troppo pieno. S’avvicinarono, e Isaiah venne colto da un’improvvisa agitazione.

Le loro mani si avvicinarono, si sfiorarono appena l’una con l’altra, e scoppiò una piccola scintilla fra i due, che immerse i loro cuori in una meravigliosa nostalgia. Le dita sembrarono intrecciarsi per un attimo, ma fu solo una loro triste impressione. Non si guardarono neanche in faccia, semplicemente, si passarono accanto nella più totale indifferenza. S’erano incontrati pur non incontrandosi veramente, e la cosa aprì una grande ferita nel cuore di Lazar quando, pochi minuti dopo, capì il perché del suo battito così accelerato. Quell’ossessione per Isaiah diventata così tirannica era ormai al limite del possibile: l’aveva ritrovato e aveva avuto il coraggio di non accorgersene. Isaiah era già dall’altro lato della strada, sul marciapiede opposto, che camminava come se non si fosse accorto di niente.

Lazar si fermò. Si fermò, e in quel momento gli passò tutta la sua vita davanti gli occhi d’un azzurro velato – poi, sentì come se stesse bruciando vivo, e sentì la spontanea voglia di gridare, forte, gridare a tutti quanto fosse inutile la sua esistenza. Ma non lo fece, no, e cercò in tutti i modi di mantenere il controllo. Un grande freddo gli entrò nello stomaco, passando per le vene e poi fin dentro le ossa. Era lì, paralizzato in mezzo alla gente che gli passava di fianco dandogli brusche spallate, come se non esistesse. Isaiah aveva già svoltato l’angolo, ma non rincorrerlo non avrebbe mai portato a niente di buono. Ormai lui continuava la sua passeggiata senza meta, beato, come se nulla fosse mai successo. Ma li aveva incontrati anche lui, quei due occhi che un tempo gli mettevano tanta suggestione, e capì che il Lazar del quale era stato innamorato per vent’anni era scomparso. Ora era un altro uomo, un’altra persona totalmente diversa – l’avrebbe dovuto accettare, prima o poi.

Lazar, tuttavia, non fece mai in tempo a tornare a casa. Il suo cuore, troppo debole ed emozionato dal brutto accaduto, lo abbandonò a metà viaggio. Non soffrì, né si lamentò: vide gli occhi azzurri di suo figlio e il sorriso luminoso di sua moglie. Poi, i ricci rossi di Isaiah. Cadde a terra, ma nessuno fece in tempo a soccorrerlo per via del maledetto fato che, ahimè, aveva deciso la triste sorte dell’uomo. Era una vita impossibile, e finì in modo degno. Si rimpianse solo tante di quelle cose che nessuno riuscirebbe mai ad elencarle tutte, se non nel giro di venti Inverni. Isaiah non seppe mai niente, e rimase all’oscuro della morte del suo primo ed unico amore. Un amore iniziato, così come finito. Un amore durato un eterno attimo, un attimo che fece male come una spada dritta nel petto. Ma nessuno dei due avrebbe mai potuto deviare ciò che era già scritto; s’erano incontrati una volta, e se la sarebbero dovuta far bastare. Come due linee incidenti, che nel loro triste corso collidono, per poi separarsi e non rincontrarsi mai più.

 

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