Il Custode

di Vavi_14
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** August/September ***
Capitolo 2: *** September/October ***



Capitolo 1
*** August/September ***


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August/September









 
 
15 Agosto. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 11:30. Jungkook.

Non è ancora arrivata l’ora di pranzo e mi hanno già imbottito di psicofarmaci. Questa roba non fa altro che narcotizzarmi e basta. Ogni singola cellula del mio corpo è come assopita, immobile e incatenata in una morsa che inibisce ogni impulso vitale.
Loro sono spariti, quelle dannate pasticche blu devono averli spaventati: almeno il mio cervello potrà riposare in pace senza dover udire le loro voci fastidiose. Spesso cerco di ignorarle, seguendo i consigli dei medici, e a volte ho come la sensazione di essermi abituato alla loro presenza. Eppure quel verme schifoso continua ad urlarmi contro tutte le notti, senza darmi tregua, ed è inutile ripetersi che prima o poi si stancherà e che la mia mente lo cancellerà esattamente come lo ha creato, perché tutto ciò che desidero in quei momenti è massacrarlo di botte fino a vederlo strisciare a terra e chiedere perdono.
No, razza di bastardo, non avrai mai il mio perdono. Non dopo quello che hai fatto alla mia famiglia.
L’ultima volta ci sono andato molto vicino, ma gli infermieri mi hanno fermato prima che potessi dargli il colpo di grazia. La mano mi fa ancora male, eppure non è niente in confronto all’inebriante sensazione di avergli finalmente restituito il dolore che lui procurò a me, seppur in minima parte.
La notte dopo però era di nuovo lì, al bordo del letto, e mi fissava con quei suoi occhietti vacui che avevano sempre preteso di giudicare senza mai prendersi la briga di chiedere.
«Hai ucciso mia madre. L’hai uccisa».
Glielo ripetevo tutte le volte, ma non avevo mai ricevuto nessuna risposta da parte sua. Non un cenno di diniego né uno di assenso, niente. Solo urla, urla disumane, così come quando, quella notte di un anno fa, aveva aggredito mia madre, lasciandola a terra in preda a mille singhiozzi, con l’animo distrutto. Dopo la morte di papà, aveva promesso a tutti che si sarebbe preso cura di noi, di me e della mamma, perché in fondo era mio zio e a parte noi non aveva nessuno. Ma i soldi del nostro misero conto continuavano a sparire magicamente, la bollette si accumulavano e mia madre non faceva altro che aggrapparsi a lui perché si fidava e papà le mancava terribilmente. Peccato che quel verme avesse un’amante che lo consumava sino al midollo e che, a lungo andare, consumò anche noi:
l’alcool.


15 Agosto. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 14:30. Jungkook.

«Buonasera Jungkook».
L’infermiera è giovane e parla sempre a bassa voce, tenendo il capo chino. Vorrei che si fermasse di più a conversare con me, ma non dev’essere esattamente il suo sogno quello di passare un pomeriggio in compagnia di un matto che sente voci e vede persone che non esistono.
«Ti ho portato le tue medicine».
Già, è sempre la stessa storia. Guardo il vassoio con le pasticche e sento il pranzo risalire verso l’esofago.
«Come ti senti?» Mi rivolge un sorriso appena accennato ma sincero. Lo apprezzo e vorrei poter ricambiare; purtroppo i muscoli addormentati del mio viso non me lo permettono.
«Non voglio prenderle» dico in risposta, gettando un’occhiata al cocktail letale che mi ha appena portato. So che fare i capricci non serve a nulla e riverso la colpa su quelle labbra incurvate alle insù, che mi danno l’illusione di poter essere accontentato, almeno una volta.
«Sono obbligata a somministrartele. Mi dispiace» Parla in modo schietto, evitando di guardarmi, so di metterla in difficoltà.
«Ho dormito per quattordici ore, voglio stare sveglio». Non demordo perché intorno alle sei arriverà mia madre e non voglio che mi veda in questo stato. Anche legato ad un letto d’ospedale cerco di starle vicino come posso, di trasmetterle una forza che vorrei potere avere per tutti e due, ma che in realtà non posseggo neanche per me stesso.
L’infermiera finalmente alza il capo e posso osservare da vicino i morbidi lineamenti del viso; sembra quasi una bambina. I capelli li tiene legati in una coda alta e spesso mi diverto ad osservarli mentre sfuggono al controllo dell’elastico, ricadendo veloci e fluidi sulle guance e sulle spalle.
«Sai che potrei essere licenziata per questo» mormora iniziando a trafficare con le pasticche, eludendo ancora una volta il mio sguardo. Capisco che sta diminuendo i grammi che dovrò ingoiare con l’acqua, per questo le lancio un’occhiata scettica.
«Allora perché lo stai facendo comunque?» Non credo di averle fatto pena, non mi sembra il tipo di persona che si lascia abbindolare dalle suppliche di un ragazzino.
Lei incastra le sue iridi scure nelle mie, mostrando una fermezza che non credevo potesse avere. «Perché tua madre è una brava donna, Jungkook. E tu…»
Suona un allarme da un’altra stanza e la vedo correre via mentre biascica qualche scusa. Mi alzo a sedere e ingoio le medicine, pregando che il mio stomaco non le rigetti un minuto dopo.



26 Agosto. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 1:30. Jeongkook.

«Vattene, va via!»
Sta facendo avanti e indietro attorno alla brandina, ha un andamento scattoso, veloce, mi spaventa. La signora anziana che condivide la camera con me si volta dal lato opposto, emettendo un grugnito. Per sua fortuna è sorda.
Tiro la coperta fino al naso e strizzo gli occhi. Non c’è, non c’è, lui non esiste veramente. E’ in qualche prigione a marcire lontano da qui.
Le rughe che gli increspano la pelle lo fanno sembrare ancora più vecchio, sento il suo alito insopportabile a pochi centimetri dal mio naso. Urlo, non ce la faccio più ad averlo vicino, e gli tiro un destro con tutta la forza che ho. Lo vedo sbattere contro i ferri di un lettino e cadere a terra, picchiando forte la testa. Un rivolo di sangue segna gli interstizi del pavimento, destando in me la stessa rabbia che provai quel giorno, quando tentai di porre fine alla sua vita davanti agli occhi terrorizzati di mia madre. Lo odiavo e lo odio ancora, con tutto me stesso, eppure non sono riuscito ad ucciderlo, così come ora non riesco a cacciarlo via dalla mia mente incasinata. Perché lui torna sempre, ed ogni volta è più forte di prima.
«Quand’è che ti decidi a morire, eh?» Mi alzo dal letto e gli rifilo un altro calcio prima che possa avere il tempo di rialzarsi, ma nel giro di un secondo sento la porta della camera aprirsi e due infermieri mi bloccano le braccia, trascinandomi a forza sulla brandina.
«Lasciatemi! Non capite? Fin quando non lo ucciderò, lui continuerà a perseguitarmi!». Perché non me lo lasciano fare? Perché non provano nemmeno a comprendere come mi sento? Mi viene da piangere e cerco di divincolarmi ma le mie braccia non sono più forti come prima, i medicinali e la scarsa quantità di cibo che mangio mi rendono ogni giorno più debole; quattro mani bastano e avanzano per immobilizzarmi e costringermi ad ingurgitare altre pasticche che sicuramente mi faranno dormire.
«Vi prego…». Ho la gola secca e le corde vocali consumate. Una volta le usavo per cantare, alla mamma piaceva tanto. Adesso invece, sono urla e lamenti la colonna sonora della mia vita. Prima di cedere alla morsa del sonno riesco a scorgere la sagoma di una donna accanto al mio letto. È sfocata e non riesco a vederla bene, ma compare sempre nei momenti più difficili. Se ne sta seduta su una sedia invisibile, col volto nascosto tra i palmi e i lunghi capelli lisci gli carezzano le braccia come lacrime d’ebano. Sta lì, e piange. Continuamente.



1 Settembre. Luogo sconosciuto, ora sconosciuta. Identità sconosciuta.

«Jimin, non posso più aspettare».
Mi fa strano chiamarlo col nome da umano che si è scelto, ma so di avere qualche possibilità in più e ho tutta l’intenzione di giocarmela al meglio.
Lui si volta e mi guarda con severità. Quel viso un tempo paffutello è ormai divenuto austero e spigoloso. A dispetto della sua bassa statura, Jimin sa incutere soggezione anche al più enorme degli angeli.
«Hai davvero bisogno che ti ripeta qual è il nostro compito?»
Sbuffo, non lo sopporto quando fa così. Siamo cresciuti insieme, è il fratello che ogni angelo vorrebbe avere, ma alle volte sa essere davvero irritante. Mi conosce più di chiunque altro e sa che quando mi metto in testa una cosa è quasi impossibile farmi cambiare idea.
«Il mio compito è proteggere Jeon Jungkook. Lo faccio dal momento in cui è nato ed ho intenzione di continuare a farlo sino alla fine».
«Non potrai proteggere più nessuno se rinuncerai alle tue ali, razza di incosciente».
È testardo e si scalda facilmente, ma io non demordo. «Potrò parlargli, faccia a faccia, non chiedo altro che questo. Ha bisogno di qualcuno che gli mostri le cose da un altro punto di vista».
«Ha bisogno del suo angelo custode, non di un’altra stramba visione!»
«Invece è proprio adesso il momento giusto per andare. Forse non si fiderà subito di me ma-»
«È un suicidio».
«Lo so ma-»
«Dannazione, hai pensato alle conseguenze?»
«Certo che ci ho pensato!» Quasi lo urlo, sovrastando la voce di Jimin. Rinunciando alle mie ali, otterrò la possibilità di essere visto da Jungkook per un determinato periodo di tempo. Un angelo può sopravvivere solo qualche mese in un corpo da umano, dopodiché la sua essenza si sgretola e finisce per scomparire definitivamente. In poche parole, muore. E indietro non si torna.
«Allora che ti prende, sei forse pazzo?»
«Jimin, sei stato tu ad insegnarmi che gli umani sono creature preziose, che vanno protette e che senza di loro il mondo sarebbe un posto arido e vuoto».
Ha ancora le sopracciglia aggrottate, ma stranamente mi lascia parlare.
«Ho imparato ad apprezzarli per come sono, con tutti i loro difetti e loro strambe abitudini. È stata dura all’inizio, non capivo perché dovessimo dedicare la nostra vita a proteggere degli individui così diversi e così lontani da noi». Faccio una pausa, il suo volto è meno teso. Sta iniziando a capire. «Ma è anche grazie a loro se ora so cosa vuol dire amare e dare la propria vita per qualcuno».
«Sei disposto a morire pur di salvare Jungkook?» Conosce già la risposta, la legge nella mia anima.
Annuisco in conferma. «Non posso più vederlo ridotto così. Non sarei il suo angelo custode se non facessi qualcosa».
Jimin sospira e si massaggia le tempie. La nostra conversazione sembra averlo prosciugato dall’interno. Capisco ciò che sta provando più di quanto lui creda.
«Sei il peggior allievo che abbia mai avuto» sussurra, scuotendo il capo. Si avvicina e mi afferra per le spalle, stringendole con forza.  «Se avessi saputo che un giorno sarebbe finita così, non ti avrei neanche-»
Lo abbraccio, soffocando il resto della frase. «Abbi cura di te» mormoro vicino al suo orecchio. «Mi mancherai, fratello». Quando mi allontano vedo i suoi occhi brillare e qualche lacrima tradire quel contegno che aveva cercato di darsi dal momento in cui era stato nominato responsabile degli angeli custodi.
«Resterai sempre ChimChim il piagnucolone» lo canzono, beccandomi un pugno sulla spalla.
«Vedi di non fare casini, laggiù» replica, asciugandosi svelto gli occhi. «Non avrai una seconda possibilità».
Gli sorrido, sperando che la mia partenza non influisca negativamente sul suo modo di vedere gli umani. Come al solito mi legge nel pensiero e ricambia timidamente il sorriso. «Tranquillo, resteranno sempre i miei preferiti». Mi dà un buffetto sul braccio ma la sua espressione torna ad incupirsi.
«Ora vai» aggiunge solo, mentre inizio a sentire le ali svanire poco a poco.
«Addio Jimin».
Un ultimo sguardo, prima di voltarsi. «Addio».


 
1 Settembre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 15:00.
Jungkook.

Sono ancora immerso in uno stato di dormiveglia. Sento le palpebre vibrare impercettibilmente; so che a breve dovrò sostenere il solito colloquio con lo psichiatra. A dire la verità, da quando sono rinchiuso qui non è che abbia fatto chissà quali progressi, anzi. Purtroppo non riesco ad aprirmi con lui, è troppo difficile raccontare la mia vita davanti ad uno sconosciuto. Faccio ancora fatica ad accettare io stesso ciò che è successo, figuriamoci sbandierarlo ai quattro venti. Quell’uomo è paziente, fossi stato in lui non avrei retto neanche due giorni in mia presenza. Sostanzialmente sono due ore di silenzio quasi assoluto. Mi blocco, è come se qualcosa mi impedisse di tirar fuori la voce: ci provo, ma un groppo alla gola mi assale ogni volta che tento di spiegargli come mi sento. Sa cosa vedo, più o meno, e con quanta frequenza lo vedo. Ha anche parlato con mia madre, ma non è la stessa cosa, ciò che ha vissuto lei non è ciò che ho vissuto io.

Percepisco dei rumori provenire da fuori e apro gli occhi, deciso a ricompormi prima del suo arrivo, ma ciò che mi appare di fronte rischia di farmi cadere giù dal lettino.
Vedo una persona ferma a pochi centimetri dal mio volto: mi fissa come fosse interessato e si scansa all’improvviso solo quando si accorge che anch’io lo sto guardando. Non ha il camice e non è una faccia che ho già visto all’interno dell’ospedale. Non è neanche un paziente, qui dentro sono il più giovane e questo sembra avere la mia età o poco più.
No. Non ancora. Non di nuovo. Non un altro.
D’istinto scendo giù dal materasso, barcollando un poco, e in me inizia a nascere l’amara consapevolezza che anche quella persona non è altro che il frutto della mia mente malata. Vorrei ignorarlo, far finta che non esista, ma lo spavento è tanto e poi sembra diverso dalle solite allucinazioni. Di solito loro non mi guardano così insistentemente.
«Il tuo naso è più grande di quanto pensassi!»
E soprattutto non fanno commenti sul mio naso. Stiamo scherzando? Lo ha detto davvero?
Faccio ancora qualche passo indietro, avvicinandomi alle mura della camera. Per un secondo, solo uno, rincorro la speranza che quel ragazzo sia fatto di carne ed ossa. È l’entrata del dottore, poco dopo, a smontare la mia illusoria teoria.
«Jeon Jungkook, che sta facendo?»
Ha una cartellina in mano e mi osserva con aria stanca. Senza dubbio un convalescente schiacciato su una parete con lo sguardo fisso del vuoto non è una visione troppo stramba per uno psichiatra.
In quell’esatto momento, il ragazzo inizia a farmi gesti strani, agitando in aria le mani e negando con il capo. «Non dire niente di me, per favore». Sussurra marcando i movimenti labiali e io rimango pietrificato, senza riuscire a rispondere alla domanda del dottore. Ingoio saliva a vuoto e continuo a fissarlo. La mia mente è sull’orlo di esplodere.
«Vede qualcuno, Jungkook?». L’uomo riparte all’attacco, avvicinandosi cautamente a me.
Sposto lo sguardo su di lui, con gli occhi ancora spalancati, e annuisco debolmente.
Il ragazzo comincia a muoversi di nuovo, stringendo i denti e segnando impensabili traiettorie con le braccia. Se non fossi paralizzato dal terrore, lo troverei anche piuttosto buffo.
«Chi?» continua il dottore, prendendomi per un polso ed accompagnandomi sulla poltrona accanto al lettino. «Il bambino che gioca?»
No, quello non è così fastidioso; tira la palla al muro e la riprende, ridacchiando di tanto in tanto. Ma lui, questo ragazzo… chi diavolo è?
«Sì, è il bambino» dico invece ad alta voce. Non so neanche’io perché ho mentito, forse ho solo bisogno di inquadrare bene la situazione, prima di riferirla al dottore. «Ma è strano oggi, mi ha… mi ha fissato negli occhi». Invento di sana pianta, infilando nel racconto anche qualche particolare dell’incontro con il ragazzo, che nel frattempo sembra aver assunto un’espressione più serena. Mi rivolge un pollice in su e si siede inaspettatamente sul letto della signora anziana, come in attesa che io finisca di parlare.
Non appena il medico lascia la stanza lui scatta di nuovo in piedi, afferrando con due mani le sbarre del mio letto. Tiro su le gambe, stringendole al petto, eppure non riesco a fare a meno di guardarlo. Ora mi sorride anche. La sua bocca assume una strana forma rettangolare.
«Cosa vuoi?»
Di solito non parlo con le allucinazioni, ma è stato lui a rivolgermi per primo la parola, perciò devo cercare di capire che cos’altro sta succedendo dentro il mio cervello.
«Presentarmi, prima di tutto».
Presentarsi? Sto davvero sforando il limite del ridicolo.
«Ci conosciamo?» Non so perché, mi sembra di averlo incontrato da qualche parte. Forse a scuola, eravamo così tanti che potrei averlo incrociato nei corridoi: si, è sicuramente un’opzione plausibile.
«Più o meno. Io conosco te, Jungkook».
Mh, sembra la battuta di uno stalker.
«Quanto mi conosci?».
E questa la replica della sua vittima.
«Abbastanza da sapere che collezioni profumi da donna».
«Cos-?» Devo essere sicuramente sbiancato perché sento la terra mancarmi sotto i piedi. Nessuno, a parte mio fratello, sa delle essenze che conservo in un cassetto di camera mia. Che poi non sono mica tutte da donna, si tratta di profumi unisex!
«D’accordo, chi cavolo sei?» Mi trattengo dall’imprecare e non ho più voglia di giocare agli indovinelli.
«Mi chiamo Vasariah».
Il timbro della sua voce si fa più basso e quel nome esce dalle sue labbra come fosse l’eco del vento. Sembra quasi che lo abbia detto in un'altra lingua, tanto quei suoni mi appaiono estranei.
«Ma tu puoi chiamarmi V, se ti fa piacere». Si sposta al lato sinistro e si accomoda tranquillamente sul mio materasso. «Sono il tuo custode».
«Custode?» Davvero, penso di aver inarcato un sopracciglio, perché il tutto è oltremodo surreale. «Tipo un angelo custode?» Probabilmente questa conversazione segnerà l’addio definitivo all’ultima briciola di sanità mentale che è in me, ne sono sicuro.
Lui sorride di nuovo, ma stavolta il suo sguardo sembra malinconico. «Solo custode. Non sono più un angelo ormai».
Ok, credevo di non poter arrivare più in basso: a quanto pare non c’è mai fine alla pazzia. Inspiro ed espiro lentamente, chiudendo gli occhi.
«D’accordo V, o come cavolo ti chiami. Chiaramente sto peggiorando, perciò da oggi in poi farò esattamente come mi hanno consigliato i medici. Farò finta che tu non esista, quindi non parlarmi e stammi lontano. Tu e tutti quegli altri maledetti che mi perseguitano. Lasciatemi in pace».
Mi sento un’idiota ad avanzare richieste davanti a qualcuno che è solo un’immagine, come se potesse davvero agire e pensare di testa propria. Loro sono solo un brutto scherzo che l’alterata percezione della realtà mi gioca. Non sono malato, so di non esserlo. Ma devo combatterle se voglio uscire di qua; finché continuerò a vederle e ad essere pericoloso per me stesso, non mi lasceranno mai andare. Devo farcela.
Riapro gli occhi e, a parte la signora che dorme, la stanza è vuota. Il ragazzo non c’è più.



15 Settembre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 18:00. V.

Jimin mi aveva avvertito che non sarebbe stato un compito facile, ma in qualche modo pensavo che Jungkook avrebbe capito. Avevo qualcosa di diverso dagli altri; quel legame speciale che ci aveva uniti da sempre doveva aver lasciato sicuramente qualche traccia di sé nel suo cuore. Anche se in modo inconsapevole, speravo che Jungkook mi riconoscesse come una parte del puzzle che componeva la sua difficile esistenza.
Lo osservo da giorni, ma lui non può vedermi adesso. Fintanto che la sua coscienza mi sarà ostile, preferisco non mostrarmi.
La routine è sempre la stessa e francamente penso che stare chiuso qui dentro peggiori le sue condizioni più di quanto lo facciano i medicinali. Ora che sono accanto a lui, posso vedere nitidamente le persone che lo perseguitano nelle allucinazioni. Le nostre anime rimangono connesse, percepisco ancora ciò che sente, le sue intenzioni e le sue paure.

Proprio mentre sono sovrappensiero, entra un’infermiera, quella che solitamente gli porta la giusta dose di medicine da prendere durante la giornata. Si avvicina a lui e prova a chiamarlo, ma Jungkook sta riposando e ha il respiro pesante. Stanotte lo zio lo ha tormentato anche nei sogni.
Gli si avvicina cautamente, spostandogli le ciocche di capelli sudate dalla fronte. Prende un fazzoletto dalla tasca e gli tampona con delicatezza il sangue che fuoriesce dalle labbra secche e screpolate. Poi si guarda intorno e, dopo un attimo di esitazione, tira fuori dal camice un barattolino in vetro contenente una strana sostanza giallo chiaro. Vi immerge un dito e ne prende un po’, dopodiché la spalma sulla bocca di Jungkook, stando attenta a non svegliarlo. In un attimo le sue labbra sembrano rinate e il suo volto acquista subito un aspetto più sano. Immagino che la ragazza debba tenere molto a lui, si percepisce dalla premura che dimostra in ogni suo gesto.

Jungkook non cena, prende le medicine e si stende di nuovo sul letto. Ha l’espressione di chi si è stancato di lottare. Mi avvicino a lui, accomodandomi sulla poltrona accanto al lettino. Ho promesso a me stesso di non intervenire, non ancora almeno, ma quando Jungkook si sveglia di soprassalto e scorge la figura dello zio in fondo alla stanza, non posso fare a meno di stare all’erta. L’uomo inizia ad urlare, più forte di ogni altra volta che ho avuto l’occasione di vederlo, e le sue orecchie si tingono di rosso, mentre un tanfo di alcool inizia a riempire la stanza. È vomitevole, non so come Jungkook sia riuscito a sopportare tutto questo fino ad oggi. Si alza di scatto e con un gesto deciso lo spinge lontano. Ha gli occhi infiammati di rabbia e le nocche chiuse, pronto a sferrare, finalmente, il tanto agognato colpo di grazia. Le sua voce copre le urla strazianti dell’uomo e io mi guardo attorno preoccupato, pensando che da un momento all’altro sarebbe di sicuro arrivato qualcuno a controllare.
«Se devo morire voglio morire oggi, ma solo dopo averti visto esanime, zio!»
È fuori di sé, non posso lasciarlo in questo stato. In un secondo gli sono davanti e gli circondo le spalle con entrambe le braccia, cercando di tenerlo fermo.
«Ehi! Che cazzo succede? Chi sei?! Ti avevo detto di sparire, lasciami!»
Cerca di divincolarsi ma i suoi muscoli sono deboli, così come la sua forza di volontà.
«Adesso calmati, Jungkook. Calmati».
«Lasciami, voglio ammazzarlo di botte!»
Lo stringo più forte. «Non è così che risolverai le cose». Sento il suo battito cardiaco accelerare, non sta funzionando. Lo libero velocemente, spostando i palmi delle mani sulle sue orecchie.
«Cosa stai-»
«Non ascoltarlo e guardami, ok?»
Tenta ancora di opporsi, ma poco dopo ricambia il mio sguardo e, in preda alla disperazione, preme più forte i miei palmi affinché il suo udito si isoli completamente. Strizza gli occhi e mormora tra i denti qualcosa che assomiglia a un “vattene”, fin quanto la stanza non piomba nel più assoluto silenzio. Allora solleva le palpebre, esausto, per poi crollare tra le mie braccia privo di sensi. Lo trasporto di peso fino al lettino, dove lo adagio con cautela, rimboccandogli le coperte.
«Cerca di dormire, Jungkook. Veglierò io su di te».



























****

Ehilà! Che dire?
Ho provato a cimentarmi in un genere che adoro e odio: l’angst.
Mi piace scriverlo e mi piace leggerlo, ma ci rimango puntualmente malissimo. Sono fatta così! XD
Questa storia nasce come one shot, ma per questioni di leggibilità migliore ho deciso di dividerla in due parti. Probabilmente non è niente di nuovo, sono da poco approdata in questo fandom e ancora non ho letto molto, perciò ho scritto semplicemente ciò che mi passava per la testa. E dato che questa storia mi ha assorbito completamente per tre giorni di fila (tra una pausa dalla stesura della tesi e l’altra) ho voluto provare a condividerla con voi.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, spero tanto abbiate voglia di proseguirla. Se così fosse, mi farebbe molto piacere saperlo direttamente da voi!
Incrociando le dita affinché i server di EFP funzionino, vi mando un bacio e, qualora decideste di darmi una possibilità, alla prossima! ^^
 
Ps. "Vasariah", lo strambo nome che ho scelto per V, è la denominazione degli angeli custodi di chi è nato tra il 29 Agosto e il 2 Settembre. :)



Vavi






 

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Capitolo 2
*** September/October ***


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September/ October






 
 
 
21 Settembre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 9:30.
V.

Non mi parla di sua spontanea volontà, ma ho deciso di rimanere visibile. Devo affrontare la situazione adesso che è più vulnerabile, imponendomi.

«Vuoi molto bene all’infermiera, vero?»

L’approccio che uso non è esattamente il massimo, ma dopo l’ultima orribile nottata in cui gli ho rivolto la parola preferisco iniziare con qualcosa di più leggero.
Lui mi guarda allibito, di certo non se l’aspettava.
«Ti prego, dimmi cosa vuoi veramente e lasciami in pace» esordisce poco dopo, giocherellando in modo distratto con il lenzuolo.
In realtà è una domanda lecita, sono davvero interessato a sapere quanto quella persona sia importante per lui. Rimango in silenzio, in modo da fargli capire che sto aspettando sul serio la sua risposta. Jungkook mi guarda di traverso e lascia andare la testa contro la spalliera del letto, poggiando un braccio sul ginocchio piegato.
«Sei scemo o cosa? È solo un’infermiera, la conosco a mala pena».
Sono sorpreso, come può affermare una cosa del genere dopo quello che ho visto? Eppure ai miei occhi è tutto così palese.
«Lei ti ama». Mi sembra impossibile che non se ne sia ancora accorto, perciò provvedo a renderglielo noto.
«Che cavolo stai dicendo?» Adesso pare scosso, quasi adirato. Ho toccato un argomento che non gli va a genio. Forse gli umani non si sentono a proprio agio a parlare apertamente dell’amore, o magari gli angeli ne posseggono una concezione diversa.
«Smettila di dire stronzate. Il fatto che tu sia intervenuto quella notte non cambia le cose. Rimani sempre un’immagine che non esiste».
«Io sono un custode, non un’allucinazione».
«E che cos’è che staresti custodendo, la mia integrità mentale? No perché se non te ne fossi accorto sono rinchiuso in questo reparto psichiatrico da quasi sei mesi ormai. Bell’angelo custode!»
Ha dannatamente ragione, non posso biasimarlo. «Sono venuto qui per cercare di aiutarti. Per cercare di rimediare alle mie mancanze».
«Già beh, non credo di aver bisogno del tuo aiuto, V».
Sento una punta di acidità nella sua voce, però è la prima volta che mi chiama per nome e non riesco a trattenere un mezzo sorriso. Il filo rosso che una volta ci teneva uniti si sta pian piano ricomponendo.

«Ragazzo mio, non è molto intelligente ignorare i consigli di un angelo, specie se hai il privilegio di poterlo vedere».

Mi volto di scatto in direzione della voce roca che ha appena fatto sobbalzare Jungkook. Quasi non ci credo, è stata proprio la signora anziana del letto accanto al suo a parlare. Diamine, c’è decisamente qualcosa che non quadra: come fa a vedermi?
Jungkook la guarda con la bocca spalancata, sconvolto quasi quanto me. Forse adesso comincerà a capire che non sono affatto una delle sue creature immaginarie.
«Lei mi vede, signora?» Chiedo l’ovvio perché non so in che altro modo rompere il silenzio. Lancio uno sguardo a Jungkook, non vorrei crollasse di nuovo sul pavimento.
«Senza apparecchio sono praticamente sorda, ma ci vedo benissimo, che tu ci creda o no. E sei anche un bel ragazzo».
Questo è davvero inaspettato. Immagino che dovrei ringraziare, so che buona educazione farlo quando si ricevono i complimenti, ma Jungkook è più veloce e mi vince sul tempo.
«No aspetta, che cavolo sta succedendo? Lei non dovrebbe vederlo, non ha alcun senso. Io… lui è… ».
«Oh non è il primo che vedo e non sarà neanche l’ultimo» replica svelta la vecchietta agitando un dito e sbattendo le palpebre grinzose. Il suo aspetto pallido e trasandato non mi inganna, sento che è stato questo posto a ridurla così. «Ne vedo a bizzeffe di angeli come lui. E non solo, ci sono anche quelle stramaledette anime che vagano senza meta a tormentarmi giorno e notte. Ma dico, andassero a scocciare a qualcun altro, cosa può dar loro una umile vecchia?».
Alzo le spalle e le sorrido, negando con il capo come per dire che non lo so. Sono profondamente addolorato per lei; immagino che sia stata portata in questo posto a causa nostra, magari abbandonata da qualche parente che non aveva intenzione di prendersene cura. Vedere creature ultraterrene in questo mondo non è una colpa. È una condanna.
«Mi spiace che le sia toccata questa sfortuna, signora» .
«Oh, non preoccuparti. Almeno qui mi danno da mangiare. Ma le tue ali dove sono, tesoro? Non riesco a vederle».
«Avanti è assurdo!» Jungkook interviene nella conversazione, alzando i palmi verso il cielo e lasciandoli ricadere un attimo dopo lungo i fianchi. «Dopotutto anche lei si trova qua dentro, chi mi dice che non sia completamente fuori di testa?»
L’espressione della signora si fa più cupa. «Insomma, dov’è finito il rispetto per gli anziani? Ringrazia piuttosto di aver avuto un angelo custode come lui. A me è toccato un tipo scorbutico e pure bruttino. Senza offesa per la categoria, eh». Mi guarda con la coda dell’occhio prima di voltarsi dal lato opposto e riprendere a russare.
Rivolgo nuovamente le mie attenzioni a Jungkook e lo trovo, com’era prevedibile, in uno stato di totale confusione. Si passa due mani sul volto e si scompiglia nervosamente i capelli. «Ma perché tutte a me».
Il suo tono non sembra alterato, spero tanto che stia cercando di accettare la realtà dei fatti. Non posso aiutarlo se continua a respingermi.
Non stacco gli occhi da lui mentre si infila un cardigan sul camice bianco: di solito quando decide di andare a mensa, invece che farsi portare il cibo in camera, è un segno positivo.
«Tutto quello che voglio è aiutarti, Kookie».
Mi guarda con aria dubbiosa, storce anche un po’ il naso per come l’ho chiamato, poi sospira sconsolato: che sia la resa?
«D’accordo, ma ora lasciami solo. Ho bisogno di schiarirmi le idee».
Si è accorto che posso decidere autonomamente quando apparire e quando scomparire alla sua vista. Sono felice, ha finalmente compiuto il suo primo passo verso di me. Annuisco e faccio per obbedire, ma lui mi ferma con un gesto, come se si fosse appena ricordato qualcosa.
«Che volevi dire prima quando hai detto… lei ti ama?»
Oh cavolo, allora aveva ragione Jimin! È davvero qualcosa a cui tengono molto. Stavolta però decido di andarci cauto.
«Nel suo sguardo percepisco un forte desiderio di proteggerti e di vederti guarito. Ha premura di te come se fossi una persona a lei molto cara».
Jungkook chiude gli occhi e scuote lievemente la testa. «In questo caso, si può usare l’espressione “voler bene”, piuttosto che “amare”. L’amore è... beh, non è solo questo» replica poi, un po’ imbarazzato.
«Cos’altro è, allora?» Domando incuriosito. Poi improvvisamente mi ricordo delle parole di Jimin e di come, molto tempo addietro, mi avesse spiegato il particolare processo che portava gli umani a riprodursi. Essendo considerato un atto molto intimo, ne dedussi che doveva avvenire tra persone che si volessero davvero bene. O che provassero amore, per l’appunto.
«Intendi il sesso, forse?»
Jungkook mi guarda allibito, come se avessi appena pronunciato una parola tabù. Perché gli umani devono essere così complicati?
«N-no, non intendevo… oh, lascia stare. Sarà meglio chiudere qui la discussione. Ora… devo andare». Parla velocemente, a stento riesco a capirlo, e lascia la stanza in fretta e furia, a testa china.



9 Ottobre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 12:30.
Jungkook.

È trascorsa più di una settimana, ma fatico ancora a crederci. Il modo in cui mi guarda mi mette in soggezione: sento come se volesse scrutarmi dentro, portare alla luce qualcosa che a me sfugge. Sebbene abbia dei modi di fare discutibili e i suoi ragionamenti a volte lasciano molto a desiderare, la sua presenza mi fa star bene.
Da qualche giorno ho convinto il medico a diminuire la dose di medicine: la notte non dormo molto, ma durante il giorno sono più tranquillo e non ho voglia di trascorrerlo sdraiato sul letto a sonnecchiare. Devo essere presente a me stesso, trovare un modo per cavarmi da questa situazione. V è la mia ultima speranza.

Siamo entrambi seduti sul letto, uno accanto all’altro. Non c’è molto spazio, ma V ha detto che vuole vedere le cose dal mio punto di vista. Letteralmente.
Davanti a me osservo nitida l’immagine del bambino che gioca, sempre con la stessa palla rossa per le mani.
«Una volta piaceva anche a te giocare a palla, ricordi?»
È strano sentirlo parlare della mia infanzia come se ne avesse sempre fatto parte. Inoltre non mi sono mai soffermato a ricordare, perché qui dentro non mi è d’aiuto e poi fa dannatamente male.
«E andare in bicicletta. Non ho mai visto un bambino spericolato come te. Pur di vincere quelle stupide gare con i tuoi amici saresti finito sotto a una macchina».
Mia madre era terrorizzata dal mio comportamento. Mi sento in colpa per averla fatta preoccupare tanto, ma credo fosse proprio nella mia indole. Se penso a come sono adesso, quasi mi vergogno; un tempo avrei combattuto sino all’ultimo respiro per ottenere qualcosa. Allora perché qui sto gettando la spugna?
«Non dovrei dirtelo, ma quella volta in autostrada temetti di non riuscire a proteggerti».
«In autostrada?»
«Già, quando ti bendasti gli occhi per attraversare, come un emerito idiota».
«Ehi! Gli angeli non dovrebbero dire parolacce!»
Si volta a guardarmi fingendosi serio. «Neanche gli umani, se è per questo».
All’improvviso realizzo il significato delle sue parole. Dunque fu grazie a lui se nessuna macchina mi tranciò in due, quel giorno.
«Immagino che dovrei ringraziarti» mormoro allora, abbassando il capo.
Lo sento ridacchiare. «Non ce n’è bisogno. Sono nato per proteggerti, Jeon Jungkook».
Ogni volta sentirglielo dire mi provoca una fitta allo stomaco. È così strano pensare di aver avuto davvero qualcuno al proprio fianco per tutta la vita senza esserne mai consapevoli e senza potergli mai essere riconoscenti.
«Comunque dovresti provare ad abbandonarti ai ricordi, ogni tanto». Indica il bambino a pochi metri da noi. «A lasciarli fluire liberamente».
In quell’esatto momento il bambino si volta a guardarmi e sul suo piccolo volto tondo e levigato riesco a scorgere un sorriso sdentato fin troppo famigliare.


18 Ottobre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 13:30. V.

La mensa dell’ospedale sembra un mercato all’ora di punta. Non che io sia mai stato fisicamente in un mercato, ma so che gli umani lo dicono spesso per indicare un posto molto affollato. Jungkook è seduto ad un piccolo tavolino tondo e sta mangiando il proprio pasto, mentre io me ne sto poggiato alla parete accanto ai vassoi. Preferisco rimanere a distanza per non metterlo in difficoltà con gli altri pazienti, anche se in fondo nessuno può vedermi. Beh, a parte la sua singolare compagna di stanza.

D’un tratto passa di lì, casualmente, la solita infermiera. Sembra riluttante a fermarsi proprio davanti a Jungkook, ma poi cede e gli sorride. Lui ricambia.
«Come stai oggi?»
Sono lontani, ma posso sentire in modo nitido le loro voci.
Jungkook alza le spalle. «Sono lucido, per ora mi basta».
La targhetta argentata che la ragazza tiene attaccata al camice riporta a caratteri corsivi il suo nome: Song Mi Yon.
«Ultimamente ho dovuto fare una sostituzione in un altro reparto, per questo non sono più venuta».
Lui annuisce, comprensivo. «Non ti devi scusare con me. È il tuo lavoro».
Miyon sembra rendersi conto delle implicazioni di ciò che ha detto e dopo un saluto sbrigativo fugge via.
Jungkook rimane per un po’ a guardarla mentre si allontana e poi, quasi di scatto, si volta verso di me, lanciandomi uno sguardo colpevole. Mi scappa da ridere, è veramente un tipo singolare. Non smetterà mai di stupirmi. Gli lancio un’occhiata divertita di rimando e lui mette il broncio, tornando al suo cibo.


27 Ottobre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 2.35.Jungkook.

Ci risiamo. Sto sprofondando di nuovo. Ancora e ancora precipito, sempre più giù, e la voragine si allarga. Ho provato a reagire, sto provando ad ignorare, ma non funziona. Lui ha negli occhi la furia di una belva, io ormai non sono altro che un cucciolo indifeso che attende di essere mangiato. Sono accucciato sulle ginocchia, a terra, e mi tengo la testa con gli avambracci, aspettando che tutto questo finisca. Non so che in modo, non mi importa, ma deve finire.

Ho brividi, mi sento impazzire, sto tremando. V. Aiutami, ti prego.

In un attimo percepisco la sua presenza accanto a me; piega le gambe, imitandomi, e cerca di liberarmi il volto da quella gabbia di oppressione nel quale l’ho rinchiuso. Ho bisogno di lui, ma non voglio che mi veda in questo stato. Sono terrorizzato e non ho neanche più la forza di reagire.
«Voglio morire» confesso, al limite della sopportazione.
Lui fa resistenza ed è impossibile per me oppormi. «Guarda dentro te stesso, Jungkook».

Dannazione, non ho bisogno di altri enigmi, la mia testa è già un enorme punto interrogativo senza che un angelo ci metta il suo zampino.

«Ho provato ad ucciderlo, ma non ci riesco, in alcun modo» soffio fuori, esausto.
«Perché non è ciò che vuoi» replica lui, guardandomi fisso negli occhi e sorreggendomi il volto con due mani.
«Cosa?»
Odio quell’uomo, mi ha rovinato la vita. Ha picchiato mia madre davanti a me e mio fratello, ci ha derubati e infine umiliati dinanzi a coloro che un tempo consideravamo amici. Ci ha illusi con false promesse, ha preso in giro mia madre facendole credere che ci sarebbe sempre stato. Invece siamo stati abbandonati, per la seconda volta, in balia di un’esistenza grama.
«L’ho già trafitto con un coltello, capisci? L’ho fatto una volta, perché non posso farlo di nuovo? Voglio portare a termine il mio compito!»
Quella sera di un anno e mezzo fa non ci sono riuscito, ma ora devo tentare, anche se fosse solo in un’allucinazione, o non smetterà mai di perseguitarmi.
«Tu non sei un assassino, Jungkook».
Le parole di V mi trapassano come una lama affilata. Le pronuncia come se stesse parlando di una certezza incontrovertibile, come se lui mi conoscesse più di chiunque altro.
«Hai attaccato tuo zio per legittima difesa, non perché desideravi la sua morte».
«Non è vero!» Sta dicendo delle assurdità, nulla di tutto questo ha senso. «Io lo detesto, deve sparire!»
«È già sparito, Jungkook».
Fisso V ad occhi spalancati e per un attimo neanche le urla di mio zio giungono più alle mie orecchie. Sbatto le palpebre e scuoto la testa, non riesco a seguirlo. Lui smette di sorreggermi e socchiude gli occhi.
«Nessuna madre vorrebbe che suo figlio diventasse un criminale. Non l’hai fatto perché sai che non era giusto, Jungkook, anche se pensavi lo meritasse».
Continuo a non capire e il mio stupore aumenta quando vedo le sue iridi brillare dietro uno scudo trasparente che non è più in grado di proteggerle.
«Non è tuo zio che devi perdonare, Jungkook. Le urla che senti, la rabbia che percepisci, non sono le sue. Quell’allucinazione è il riflesso della tua anima».
Il cuore mi martella nel petto come se volesse fracassarlo e sento il respiro farsi più instabile. Ho bisogno d’aria.
«Io… non voglio essere come lui». È tutto ciò che riesco a dire prima che le lacrime di V diventino, finalmente, lo specchio delle mie.
«Tu non sei come lui. Hai sempre voluto bene ai tuoi genitori e sei stato loro vicino quando ne avevano bisogno. La morte di tuo padre era inevitabile, era malato da tempo, non avresti potuto fare nulla».
Nonostante il suo timbro sia dolce e conciliante, per la prima volta da quando mio padre non c’è più, non riesco a fermare i singhiozzi. Partono dallo stomaco, passano per il cuore e lì si caricano di paura, tristezza ed emozioni mai confessate, per poi riversarsi nelle pupille e riempirle fino a lavar via tutto ciò che gli occhi di un giovane uomo non dovrebbe mai poter vedere. Fino a quel momento mi ero tenuto tutto dentro, custodendolo gelosamente in un angolino segreto del mio corpo, illudendomi di poter tenere i ricordi sotto controllo, lontani dalla mia mente e al servizio della ragione.
«Perdona il te stesso che vorrebbe uccidere, Jungkook, perdona il te stesso che si sente in colpa per tuo padre. Sfoga tutta la rabbia che hai cercato di negare in questi ultimi mesi: smettila di far finta di essere forte e piangi come hanno fatto tua madre e tuo fratello».
Mi aggrappo a lui con entrambe le braccia, perché penso di non farcela a sopportare ancora questo dolore. Avvolge la mia anima minacciando di romperla in mille pezzi ma, nel frattempo, cancella tutto ciò che è lì e non dovrebbe esserci.

Vedo mio padre e i pomeriggi spesi insieme a passeggiare nei boschi; scorgo quel sorriso complice che mi rivolgeva quando la mamma si raccomandava di non allontanarci troppo e noi, di nascosto, andavamo alla ricerca di grotte segrete o fiumiciattoli lungo i quali costruire rifugi. Ricordo anche le raccomandazioni, le sgridate e le incomprensioni, ma niente sarebbe mai valso a ripagare la gioia e la sensazione di appagamento che seguiva il successivo riappacificarsi.

Non sento più nulla se non l’eco devastante e al contempo benefico dei ricordi, finché la stanza diventa buia e percepisco la coscienza abbandonarmi lentamente.


30 ottobre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 15:00. V

Jungkook dorme da due giorni ormai. Le sue condizioni fisiche sono stabili, ma i medici sono preoccupati e io non riesco a darmi pace. Solo standogli accanto ho capito veramente cos’è che lo tormentava; tutto ciò che temeva e che cercava di reprimere, si era palesato in lui sotto forma di allucinazione. In questo modo, avrebbe potuto immaginarlo come qualcosa di estraneo, che non faceva parte di lui. Ma inevitabilmente quei sentimenti cercavano di ritornare al mittente, chi più violentemente chi invece in punta di piedi, generando in Jungkook un eterno conflitto interiore.

Nelle ultime ore lo zio non si è visto e nemmeno il bambino con la palla. Nonostante questo cerco di non perderlo d’occhio perché il suo sonno è agitato e i medici stanno facendo ipotesi decisamente fuori luogo. Certo non sanno ciò che Jungkook ha passato e purtroppo non posso intervenire in questa situazione. Spero solo che si svegli presto.

L’infermiera oggi è passata tre volte. Una per misurare la febbre, una per portare le medicine e un’altra per prendere di nuovo la temperatura. Si è poi affacciata per controllare il rilevatore di pressione e il battito cardiaco almeno un’altra decina di volte. È buffa quasi quanto Jungkook.

Sua madre viene a fargli visita tutti i giorni e ultimamente cerca anche di restare oltre l’orario di ricevimento. In questo reparto sono molto fiscali, quindi è raro che le venga concesso più tempo da passare con Jungkook; vorrei tanto parlare e cercare di rassicurarla, ma tutto ciò che posso fare, adesso, è restar loro accanto.


30 Ottobre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 22.00. Jungkook.

Quando apro gli occhi, una sensazione di stordimento mi investe come un’onda anomala, neanche avessi dormito anni interi senza mai svegliarmi. V è rannicchiato sulla poltrona accanto al mio letto: giurerei che stia dormendo, ma non credo gli angeli ne abbiano bisogno. Muovo appena le gambe, intorpidite, e subito si alza in piedi per saggiare come sto. I capelli castani scombinati e quell’aria un po’ svampita lo fanno sembrare in tutto e per tutto un umano.
«Sto bene» gli dico, prima che possa avanzare qualsiasi tipo di richiesta. Non mento, mi sento davvero diverso.
Lui sorride, e quello strano sorriso rettangolare gli illumina il volto. «Mi fa piacere».
Ricambio il sorriso, voltandomi poi dalla parte opposta. La visione della fanciulla che piange, alla mia sinistra, rischia di farmi venire un attacco di panico; non che pensassi davvero di essermi liberato di tutte le allucinazioni nel giro di pochi giorni, ma non era di certo ciò che speravo di vedere appena sveglio. Cerco di mantenere la calma e noto in lei qualcosa di diverso: ha sempre il capo chino, ma non piange più. Strizzo gli occhi, la sua sagoma è sempre stata un po’ sfocata rispetto alle altre, eppure adesso scorgo in modo nitido i lineamenti del suo viso. Somiglia un po’ a mia madre, quand’era giovane, ma la forma delle labbra non è la sua. Se non fosse una totale assurdità, direi quasi che somigliano a quelle dell’infermiera.
«Vedo che stai iniziando a capire da solo» esordisce V, riferendosi alle mie presunte teorie sulla ragazza. Non sapevo potesse anche leggermi del pensiero.
Sospiro e prendo le medicine che ho sul tavolo: ne avrò ancora bisogno. Ingoio un sorso d’acqua e sento la porta della camera aprirsi. Miyon noona fa il suo ingresso con la solita cartellina stretta al petto e io le rivolgo un cenno con la mano. Non appena la vedo avvicinarsi mi accorgo che V è scomparso.

«Le tue condizioni stanno migliorando» trilla lei senza riuscire a trattenere un’espressione sollevata, mentre mi passa il termometro per misurare la febbre.
«Le allucinazioni come vanno?»
«Molto meglio». Lo dico facendo trasparire tutta la gioia che sto provando in quel momento. Ormai non ho più bisogno di nascondermi.
«Ero molto preoccupata per te, Jungkook».
Anche lei, a quanto pare, ha deciso di dire le cose come stanno. Non è affatto vero ciò che ho raccontato a V a proposito di noi due, ma in quel momento non riuscivo ad accettarlo e altri mille pensieri mi impedivano anche solo di provarci. Lei non è per me come tutte le infermiere e io non sono per lei un semplice paziente. Da quando mi hanno ricoverato qui dentro, Miyon noona si è sempre presa cura di me trattandomi con il massimo riguardo e prendendosi molto a cuore il mio caso. All’inizio pensavo lo facesse perché mi considerava come una sorta di fratello minore, ma presto ho capito che il nostro legame stava iniziando a diventare qualcosa di diverso.
Io ero, e sono ancora, irrimediabilmente attratto da lei.
«Temevo di perderti».
La bocca le trema e, prima che possa avere il tempo di risponderle, sento le sue labbra inglobare le mie in un bacio che è solo l’inizio di un lungo cercarsi. Rimane attaccata a me appena qualche secondo, poi cerca di ricomporsi e fa per sussurrare delle scuse, ma non le lascio il tempo, perché avvicino di nuovo il mio viso al suo e la coinvolgo in un nuovo bacio. Stavolta sento la sua lingua carezzarmi il palato e la lieve pressione dei suoi denti sulle labbra fa definitivamente crollare tutte le barriere che fino a quel momento ci avevano tenuti lontani. Le intreccio le dita tra i capelli, intenzionato ad avvicinarla più a me, ma anche stavolta è lei ad interrompere il contatto.
«Jungkook scusami, io… non dovevo…».
È rossa in volto e immagino di esserlo anch’io, anche se fingo di avere tutto sotto controllo.
«Non mi hai mica costretto».
Lei ha ancora il respiro affannoso e con un gesto veloce si sistema la morbida coda di cavallo, per poi recuperare in fretta e furia la cartellina che aveva malamente abbandonato sul pavimento.
«Sto lavorando, devo essere impazzita» borbotta tra sè e sè, poi solleva lo sguardo e mi trova ad osservarla.
«Davvero Jungkook, non so se sia la cosa giusta. Tu sei..»
Ti prego, fa che non stia per dire piccolo. Stranamente si ferma, forse alla ricerca della parola esatta.
«Maggiorenne». La precedo allora, con fare rassicurante.
Lei sospira e mi sorride, non del tutto convinta. «Ora devo andare. Torno presto». È il saluto con il quale si congeda.
«Quando uscirò da qui ti inviterò a cena e allora non potrai più rifiutare!» Dico tutto d’un fiato, prima di vederla sorridere di nuovo e chiudersi la porta alle spalle.

«Sta tranquillo, è cotta».

Salto sul letto neanche mi avessero piazzato una mina sotto al sedere. V è in piedi accanto a me, con le braccia conserte e l’espressione soddisfatta.
«P-perché sei ancora qui?! Pensavo te ne fossi andato!!»
«Nah, sono rimasto a godermi lo spettacolo».
«Bastardo!»
«Che c’è di male, scusa?»
«Potevi lasciarmi solo almeno cinque minuti!»
Alza le spalle, ridacchiando. «Quando mai mi ricapiterà di poter vedere da così vicino un bacio tra umani?»
«Beh, non lo so ma perché proprio il mio, accidenti!»
Ride ancora, sembra che il mio tono alterato lo faccia divertire. «Il timido Kookie che arrossiva davanti alle ragazze ora frequenta una donna adulta più grande di lui».
«Guarda che Miyon noona ha solo quattro anni in più di me, è una stagista!» Preciso, stizzito.
«Sì beh, come ti pare. Sei cresciuto, Jungkook».
Apro la bocca ma la richiudo svelto un attimo dopo, a corto di parole. La convalescenza qui dentro mi ha cambiato profondamente. Forse la mia corporatura si è indebolita, ma io ne sono uscito comunque vincitore.
«Tu cosa farai adesso?» Domando a V, cambiando discorso. Non ho mai chiesto troppe spiegazioni sul suo soggiorno straordinario sulla Terra, ma ora che la mia vita è giunta a un punto di svolta sono curioso di sapere come si dovrà comportare in quanto mio personale custode. Potrà tornare da dove è venuto, ma non potrà riavere le sue ali? Dovrà scontare qualche “punizione” divina?
«Beh, diciamo che il mio compito qui è finito». Leggo troppa tristezza nei suoi occhi e non credo sia dovuta solo al fatto di separarci.
«Ho rinunciato alla mia natura pur di aiutarti, Jungkook. Un angelo senza ali non può stare in paradiso, né in Terra, né in nessun altro posto».
«Che vuoi dire?» Gli sono davanti, immobile, in attesa di una spiegazione.
«Tra qualche giorno svanirò del tutto ed è come se non fossi mai esistito. Dimenticherai il nostro incontro ed io farò in modo che la tua mente modifichi i ricordi legati a me».
«No».
«Avrai un altro angelo custode, a te invisibile, che ti proteggerà così come ho fatto io».
Non voglio crederci, non può dire sul serio. Sento l’ansia cominciare a tormentarmi il petto.
«Non deve per forza andare così! Deve esserci un altro modo… io non parlerò a nessuno di te, lo giuro, ma non voglio dimenticarti. Non voglio».
Un bruciore fastidioso mi avverte che sto per mostrarmi di nuovo vulnerabile.
«Le leggi del cielo non si possono cambiare, Jungkook. Io ho fatto la mia scelta».
Mi asciuga con il pollice una lacrima che cade lungo la guancia, frenandone la discesa.
Lui ha fatto così tanto per me ed è frustrante sapere che non potrò mai sdebitarmi. Lo abbraccio di slancio, sentendolo ricambiare poco dopo.
«Sei il miglior custode che un umano possa desiderare».
Di nuovo, per l’ultima volta, ho l’occasione di rivedere quel sorriso rettangolare.
«Jimin sarà fiero di me».
«Jimin?»
Nel momento in cui pronuncio quel nome, V scompare definitivamente dalla mia vista e tutto ciò che mi rimane è la sua voce in lontananza, così calda e profonda come la sentii la prima volta.
«Addio, Jungkook».

 
Luogo sconosciuto. Ora sconosciuta. V

 

Jungkook è stato dimesso dopo circa un mese dal nostro ultimo incontro. I medici si sono raccomandati con lui affinché prosegua la terapia assieme allo psicologo, ma la quantità di farmaci che assume adesso è irrisoria rispetto a quella che gli veniva somministrata prima del mio arrivo. Io sono troppo debole per restare sulla Terra; la mia essenza si trova al momento in un limbo a metà tra umano e divino, in attesa di essere finalmente liberata da questa esistenza che ormai mi sta stretta. Ho fatto ciò che dovevo e non ho rimpianti. Un solo cruccio mi rende ancora pensieroso: il custode che verrà assegnato a Jungkook sarà all’altezza del compito? Riuscirà ad amare gli umani con la stessa intensità che mi ha trasmesso Jimin?

«Tu che dici?»
Non credo ai miei occhi quando, dal nulla, vedo comparire la sagoma di mio fratello, con quel solito sorriso sfacciato dipinto in volto.
«Jimin! Come fai a-».
«Dimentichi che tutti gli angeli condividono una forte connessione spirituale, fratello. Pensavi davvero che ti avrei lasciato svanire così?»
«Che dici, non possiamo cambiare le leggi divine».
«Non posso cambiarle ma posso aggirarle. In qualche modo».
Sono così contento di vederlo che a stento capisco ciò che sta dicendo. Lo lascio continuare.
«Trasferisci in me un po’ della tua essenza angelica» aggiunge svelto, sa che mi rimane poco tempo.
«Stai scherzando? Senza ali e dopo mesi sulla Terra è già un miracolo che non sia ancora sparito».
«Ne basta un pizzico».
Lo guardo scettico, ma dato che non demorde mi decido a farlo contento. Ormai non ho più niente da perdere. Gli prendo la mano e mi concentro, cercando di trasferire qualche piccola goccia della mia anima dentro la sua. Non è difficile, la connessione tra noi è sempre stata molto forte, solo che adesso temo di non esser più molto presente a me stesso. Il mio corpo sta svanendo e la sagoma di Jimin diviene sfocata.

«Ho rinunciato al comando degli angeli custodi per scendere di nuovo in pista. Era il minimo che potessi fare per te».
«Vuoi dire che-». Ormai non ho più forza neanche per parlare e Jimin finisce la frase al posto mio.
«Ho scelto di occupare il tuo posto come angelo custode di Jungkook. In qualità di ex-comandante mi è permesso farlo».
Credo di non aver mai provato emozioni così forti in tutta la mia vita. Forse il soggiorno sulla terra deve avermi condizionato, in qualche modo; da angelo non sono mai stato così emotivo.
«Ottenere quel ruolo è sempre stato il tuo sogno» dico, con nostalgia.
Lui annuisce. «Forse, ma non era il mio destino, Vasariah. Continuerò quello che hai iniziato e ti prometto che ci metterò tutto me stesso. Non so se la tua essenza sopravvivrà o meno all’interno del mio corpo, ma valeva la pena tentare. Se così fosse, potrai in qualche modo sentirti vicino a me e a Jungkook».
«Grazie» mormoro, commosso.
«Arrivederci, fratello». Sorride e tende una mano verso ciò che è rimasto di me. «Spero per te che questo Kookie sia un tipo apposto
» aggiunge, con tono fintamente minaccioso.
Rido, anche se ormai persino il mio timbro sta per svanire. «Lo adorerai».
Lui alza un sopracciglio, poco convinto, poi chiude gli occhi e ascolta le mie ultime parole.
«Arrivederci, Jimin».






















***
Vi ringrazio per essere giunti fino a qui. Non è una fan fiction dai temi facili e mi rendo conto che l’elemento sovrannaturale può non piacere a tutti (io stessa non amo particolarmente il genere, ma ho voluto tentare), in ogni caso sono contenta di averla condivisa con voi: magari qualcuno, prima o poi, l’apprezzerà! ^^
Non ho voluto approfondire la condizione medica di Jungkook perché non sono competente in materia e non avevo voglia di imbattermi in cose più grandi di me. Semplicemente ho voluto far intendere che la sua non fosse una vera e propria malattia, quanto più una condizione di malessere temporaneo; se vogliamo dargli un nome, possiamo identificarlo come Disturbo Post Traumatico da Stress, ma anche qui preferisco non indagare, dato che me ne intendo davvero poco. Il motivo per cui è ricoverato, oltre al fatto che la sua rischia di diventare una condizione patologica, sono sostanzialmente i suoi comportamenti violenti, seppur involontari, verso se stesso e verso “persone” che lui vede ma che in realtà non esistono. Spero abbiate compreso il significato che ho voluto dare a ciascuna allucinazione; la donna che piange è volutamente ambigua, mi piaceva l’idea di lasciare a voi libera interpretazione, anche se qualcosa è comunque accennato nel testo.

Nulla, dopo ciò tolgo il disturbo: ringrazio Martinarosenere per aver recensito e chiunque ha letto o leggerà questa storia, anche in silenzio.

Un bacio e alla prossima,
 
Vavi






 

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