Sehnsucht.

di nettie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La macchia nel candore. ***
Capitolo 2: *** Mazzi di bianche margherite. ***
Capitolo 3: *** Fiori d'Inverno. ***
Capitolo 4: *** Calligrafia da prima elementare. ***
Capitolo 5: *** Il padrone del dolore. ***
Capitolo 6: *** L'assenza che dilania. ***
Capitolo 7: *** Saper volare. ***



Capitolo 1
*** La macchia nel candore. ***


SEHNSUCHT.

 

Sehnsucht è una parola tedesca, e in italiano corrisponde a “struggimento”. In realtà, il significato di questa parola è molto più profondo, in quanto sta ad indicare una sensazione particolare. Provi “Sehnsucht” quando desideri ed ami una persona che non puoi avere tua. Deriva dall'antico alto tedesco „Sensuht“, nel senso di "malattia del doloroso bramare".

 

Questa storia, invece, è stata fortemente ispirata da “Ti regalerò una Rosa”, canzone dell’artista italiano Simone Cristicchi che consiglio a tutti di ascoltare prima di iniziare la lettura.

nota: questa storia verrà aggiornata di settimana in settimana, ogni sera, puntualmente. 

 


 

 

Camminavo fra quei lunghi corridoi così candidi, dalle pareti bianche come il latte. Indossavo solo un camice bianco un po’ sgualcito, e i piedi nudi erano a contatto col pavimento freddo: quella sensazione mi faceva rabbrividire.

Quei corridoi troppo lunghi e troppo candidi, che erano sinonimo di casa più o meno da sempre e da quando ne ho memoria, mi stringevano fra le pareti alte e fredde.  

Settimane fa avevo visto la neve sciogliersi e lasciar spazio ad un soffice velo di verde erba, ed avevo osservato il sole brillare su quel manto verde che tanto mi sembrava immenso. Non staccai neanche un attimo gli occhi da quel paesaggio che mi sembrava meraviglioso, ero capace di stare anche ore intere lì, in quella stanza, a guardare fuori da quella piccola finestra.

Quella, era il mio unico contatto col mondo. La natura, così bella, mi ricordava spesso Margherita.

Margherita era la ragazza della camera affianco la mia, aveva gli occhi azzurri come il cielo estivo e le mani affusolate; le dita lunghe e pallide. Una folta chioma di ricci rossi le incorniciava il viso piccolo e dalle forme arrotondate, quel visino pallido dalle guance sempre rosee e dalle labbra fini. Quando la vidi per la prima volta stava entrando timida nella sua stanza, ed una donna dietro di lei reggeva un grande borsone rosa in mano. Sparirono poi entrambe dietro la porta, e non la pensai per tanto tempo dopo.

La mia vita, lì, scorreva monotona come sempre. Mi svegliavo verso le sei del mattino con gli occhi lucidi, e rimanevo sdraiato sul letto a fissare il soffitto, rinchiuso nel mio stesso silenzio. Qualche ora dopo, una donna con un simpatico berretto e con un camice bianco veniva sempre a farmi visita. Diceva di chiamarsi Sandra, e mi sembrava buona. Portava un carrello con sopra una tazza fumante, e un pezzo di pane affianco, su un piatto. Li poggiava sul piccolo tavolo davanti il mio letto, e mi invitava a sedermi per mangiare. La guardavo con gli occhi di un bambino spaurito, ma non le ho mai disubbidito. Così, ogni mattina mi alzavo, e mi andavo a sedere qualche metro più in là. Lei, invece, si accingeva a cambiarmi le lenzuola del letto e a riordinare un po’ ovunque. Io prendevo la tazza fumante fra le mani, e la portavo alle labbra. Latte dal sapore un po’ amaro scivolava giù per la mia gola, e non lasciai mai la tazza vuota. Il pane, come da routine, non veniva neanche toccato. Sandra mi incitava a mangiarlo, con quella voce così melodiosa e i modi di fare assai materni, ma io ero di coccio.

Mi salutava, e come sempre se ne andava dalla stanza, trascinandosi dietro quel carrellino tanto curioso. I suoi modi di fare erano gentili, educati, e aveva le mani morbide dal tocco velato. Quando ero irrequieto era lei a carezzarmi piano il capo, fino a quando non mi sentivo meglio. Ogni giorno sapevo che l’avrei rivista agli orari dei pasti, e non mi dispiaceva. Lei era diversa da tutte le altre donne in camice: lei era buona, lo leggevo negli occhi scuri e nel sorriso sempre presente sulle sue labbra, anche nelle giornate più nere. Fino ad allora, Sandra era stata l’unica persona alla quale avevo mostrato confidenza.

Una volta a settimana, lei stessa mi accompagnava nella stanza del Dottore. Il Dottore per me non aveva nome; me lo disse la prima volta che lo incontrai, ma non lo fissai mai nella mente perché non m’importava minimamente. Era un uomo di mezz’età con una stempiatura grigiastra, triste ed evidente. La cintura a stento conteneva la pancia arrogante, e io ogni volta lo guardavo tutto incuriosito. Il camice era sempre sbottonato, e sfoggiava ogni settimana una camicia di diversi colori - tutto molto sgargiante, e forse non adatto ad un uomo della sua età. Dietro gli occhiali quasi sempre grassi e appannati si nascondevano due occhi piccoli e neri, un naso aquilino vedeva subito sotto di sé un paio di baffi folti e grigi, che coprivano le labbra. Mi salutava con una pacca sulle spalle, e mi faceva accomodare. Quando Sandra abbandonava la stanza, lui iniziava a parlarmi.

Non mi piaceva per niente quell’uomo, per quanto potesse avere una saccente aria benevola … non mi era mai andato giù. Davanti a me, ad ogni incontro con lui, c’era un foglio bianco e una matita mai troppo appuntita. Mi chiedeva di disegnare, mi faceva domande, cercava di tirarmi fuori le parole dalla bocca … ma le parole, io, non le avevo. Certe volte, non disegnavo né scrivevo nulla per fargli un dispetto, e lui s’arrabbiava tanto da alzare la voce. Non capiva; non aveva mai capito. Mi dava fastidio quel suo modo così fintamente pacato di rivolgersi a me - mi dava fastidio la sua presenza in generale. Mi sentivo a disagio: quell’uomo non aveva mai capito fino in fondo ciò che a me serviva. Imprimevo le mie idee ogni settimana su un foglio diverso, tentavo di mettere insieme qualche parola con la mia calligrafia traballante, e lui mi incitava fino a farmi sentire un fenomeno da baraccone: a cosa diavolo gli servivano i miei disegni, le mie righe? E perché aveva tutta questa smania di udire quella voce che non avevo mai udito neanche io? Mi metteva a disagio, e odiavo quella sensazione di viscido che lui mi metteva addosso. Dopo tre quarti d’ora o poco più, riuscivo ogni volta a sgattaiolare via da quella sudicia stanzetta: lui scuoteva la testa e mi lasciava andare, con quel finto sorriso nascosto dai baffi folti e quell’odiosa aria da chi vuol essere simpatico ma non riesce.

 

《Ci vediamo Venerdì prossimo, giovanotto!》

 

Non gli rispondevo mai, neanche un cenno della mano. Mi chiudevo la porta alle spalle senza voltarmi, assumendo l’atteggiamento più diffidente che potessi. Non riuscivo a comunicare con lui. Non riuscivo a comunicare. Una volta fuori, venivo riaccompagnato in stanza da un uomo o una donna in camice, sempre persone diverse. Questo, avveniva ogni venerdì della settimana, dopo pranzo, fra le due e le quattro. Mai provai sensazioni più odiose di quelle, fra quelle quattro pareti dove mi sentivo studiato come un animale.

Una volta arrivato il pomeriggio, avevo tempo per me. Mi facevano scendere in giardino solo durante la bella stagione. Così, io, vestito solo di uno dei tanti camici bianchi che avevo, calzavo un paio di scarpe un po’ usurate e scendevo a fare una passeggiata. Nonostante mi trovassi lì da molto tempo, non avevo mai stretto amicizia con nessuno. Era un posto curioso, quello. C’era tanta gente, ma non tutti erano socievoli - anzi, quasi nessuno. Così, ho passato per tanto tempo una vita amara e solitaria, prigioniero del mio stesso mutismo.

In quei giardini così immensi, mi piaceva sedermi sull’erba ed osservare il mondo circostante. Ero a stretto contatto con la natura, ed era l’unico modo con il quale riuscivo a sentirmi parte del mondo … distaccandomi da esso, che tanto odiavo.Lungo tutto il perimetro dell’edificio e di tutto il giardino si issavano alte mura color grigio, che mi mettevano un’infinita tristezza. Passavo le giornate a chiedermi cosa mai nascondessero quelle mura tanto alte, ma non riuscii mai a darmi una risposta concreta. Ero solito rimanere a passeggiare in quei grandi giardini fino al calar del sole, e se tutto andava bene, anche dopo. Quando il cielo iniziava a scurirsi e le prime stelle ad apparire sulla volta celeste, sentivo una voce - sempre diversa di volta in volta - chiamare forte il mio nome. Poi, una persona mi veniva incontro con passo svelto, mi prendeva per un braccio e mi trascinava dentro l’edificio riaccompagnandomi in camera, senza darmi possibilità di ribellione.

Loro dicevano che non potevo stare fuori dopo il calar del sole, e artigliavano le loro unghie alla mia carne per portarmi dentro, dove loro mi consideravano “al sicuro”. Ma non capivano; non potevano capire.

 

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Capitolo 2
*** Mazzi di bianche margherite. ***


Quando ebbi per la prima volta un contatto con Margherita, era una fresca primavera e il vento mi carezzava il volto. Il cielo era terso, privo di nuvole, e il sole mi baciava il capo. Tenevo in mano un mazzo di piccole margherite dai petali fini, dalle sembianze così delicate, e sedevo a terra, in un angolo di quel giardino grande che mi accoglieva puntualmente ogni pomeriggio. Le fissavo, e in silenzio sfioravo piano i petali candidi con i polpastrelli delle dita, come se volessi carezzarli. Mi divertivo ad osservare ogni tipo di pianta ci fosse in quel giardino, a prendere mazzi interi di bellissimi fiori per contemplarli tutti ed inebriarmi i polmoni del loro dolce profumo. Probabilmente lei mi vide e mi venne incontro, perché quando alzai lo sguardo mi ritrovai le sue gambine magre che spuntavano da sotto una veste davanti il muso.

Indossava il mio stesso camice, ed eravamo così diversi e così simili da far quasi soggezione. Salii con lo sguardo percorrendo centimetro dopo centimetro tutta la sua figura, fino ad arrivare a posare gli occhi su quel viso d'angelo dalle labbra come petali di rosa. Affogai poi i miei occhi scuri nei suoi, dello stesso colore del cielo che vegliava entrambi dall'alto. Ne fui colpito tanto da perdermici dentro, ignorando lo scorrere dei secondi e le mie mani che avevano iniziato a formicolare piano, facendomi perdere la percezione delle dita e dei palmi. Lei mi parlò, e fu allora che udii forse il suono più bello mai udito in tutta la mia vita. Mi salutò e basta, un semplice saluto che seppe catturarmi all’istante. Mi si gelò il cuore e il sangue nelle vene, perché non potevo dare una risposta a quel saluto tanto gentile; non potevo complimentarmi con lei per la sua voce tanto melodiosa e femminile. Per la prima volta in vita mia, iniziai ad avere un magone giù nello stomaco che quasi bloccava il respiro: avevo paura di risultare scortese, e d'allontanare l'unica persona che mi si era avvicinata per la prima volta dopo anni di solitudine. Neanche provai a schiudere le labbra, tant'era lo scoraggiamento in me. Rimasi muto come lo ero sempre stato,  Inizialmente, mi mostrai diffidente e distaccato nei suoi confronti, forse per troppo tempo. Abbassai lo sguardo, perché sostenere quei due occhioni grandi e chiari era per la mia anima fragile troppo difficile. Lei sembrò non far caso al silenzio che ricevette in cambio al suo saluto e si mise di fianco a me, seduta con le ginocchia al petto. I ricci rossi brillavano sotto i raggi del sole, le scendevano lungo tutta la schiena e lungo tutte le spalle, formavano piccole spirali e boccoli che seguivano la linea della sua spina dorsale.

Io mi morsi appena il labbro, mentre le mani continuavano a carezzare piano quei fiori dai delicati petali. Dito dopo dito, petalo dopo petalo, facendo attenzione a non sfregiare quei piccoli fiori che in tutta la loro bellezza sapevano donarmi un senso di serenità e pace quasi idilliaco.

Lei portò una mano al suolo e ne colse uno dai petali bianchi, stringendo lo stelo fra il pollice e l’indice. La guardavo con la coda dell'occhio nella speranza di non farmi notare, e più i miei occhi percorrevano le linee nelle quali si snodava il suo volto, più il mio cuore rimaneva affascinato ed estasiato.

 

《 Sono belli, vero? 》

 

Disse ancora, forse nella speranza di poter intrattenere un discorso con me. La sua voce era fievole e calma, pacata, aveva un timbro caldo che nascondeva una vena di vergogna e timidezza. Ci fu un lungo silenzio fra noi due, e io, a disagio, non alzai mai lo sguardo per tutto quel lasso di tempo. Sentivo le gambe tremare e il fiato s’era spezzato, bloccato nel petto a metà percorso. Poi, le sue parole mi spiazzarono.

 

《 Sei muto? 》

 

Non ho idea se lo stesse dicendo per scherzare, o se lo stesse dicendo per schiaffarmi in faccia una realtà che odiavo con tutto me stesso. Mi voltai verso di lei, e i miei occhi scuri come il petrolio incontrarono i suoi color del cielo primaverile; mi ipnotizzarono ancora una volta. Sulle sue labbra rosee era dipinto un sorrisetto sornione, un sorrisetto da schiaffi, che sparì immediatamente dopo aver incontrato i miei occhi scossi e allarmati. Annuii piano con un movimento del capo quasi impercettibile, e lei mi guardò più intensamente, con quei due occhioni che tanto mi colpivano. In realtà, non sapevo se fossi muto o meno. Non ci avevo neanche mai pensato, e non ero neanche sicuro del vero significato. Non avevo mai aperto bocca in vita mia, era certo, e non sapevo quale e come fosse il suono della mia voce ... ma per me, non era mai stato un problema. L’unica cosa che sapevo era che la mia patologia si poteva riassumere in una parola: solitudine. Quella maledetta che per il più delle volte si mascherava da amica, quella maledetta dalle quali braccia mi lasciavo coccolare. Scossi leggermente la testa annuendo per puro istinto, tanto per darle una risposta. Non disse niente, forse rimase in silenzio per rispetto, o forse semplicemente perché non sapeva cosa dire. Per me non fu un gran problema, anzi, me ne tornai sulle mie a sguardo basso, e continuai a badare ai miei fiori stretti nel pugno. Il mio cuore nonostante tutto batteva all'impazzata nella cassa toracica, avevo paura potesse esplodere tanto quella domanda m'aveva reso agitato e nervoso. Le sue manine così piccole e delicate raggiunsero le mie, e con una dolcezza inaudita aprì il pugno dove tenevo stretti i piccoli fiori, e nel mazzo aggiunse il fiore che lei stessa aveva colto poco prima. Non la guardai, né feci altro. Sentii il cuore mancarmi un battito nel petto e le guance prendere fuoco, fu una sensazione tutta nuova e quasi mi vergognavo del rossore che s’era creato sulle gote. Mi lasciò chiudere nuovamente la mano, e nessuno dei due disse niente. Da sotto quel camice troppo largo per quel corpo così minuto, con la coda dell’occhio intravidi dei polsi fini e pesantemente bendati. Mi chiesi perché, ma non riuscii a darmi una risposta. Smisi di pensarci poco dopo perché non mi piaceva focalizzare la mente sui fatti privati altrui.

Rimanemmo lì in quell’angolo del giardino forse per ore intere, mentre il sole ci guardava e vegliava su di noi, posto in alto nel cielo. C’era un silenzio religioso fra noi due, un silenzio che quasi parlava, e mi piaceva. Avvertivo una sorta di elettricità nell'aria, quel qualcosa che mi rendeva partecipe di una vicina svolta, ma era ancora troppo presto per far sì che io capissi la realtà dei fatti.

Quello fu il nostro appuntamento segreto, che più di tanto segreto alla fine non era. Ogni giorno, lei riusciva a scovarmi negli angoli più remoti di quell’immensa distesa d’erba, e rimaneva con me fino al calar del sole. Leggevo il suo nome scritto sulla targhetta appesa al braccialetto che tutti in quel posto portavano, e per la prima volta provai ribrezzo verso il fatto che ci etichettassero come animali destinati al macello. Feci una smorfia, forse, ma la camuffai bene e mi chiesi come si potesse mai numerare un fiore di tale bellezza?

Tutto il pomeriggio lei era la mia ombra. Finivamo come da routine seduti su uno spicchio d’erba, con le caviglie solleticate dai fili d’erba umidi e dai petali dei fiori che entrambi amavamo tanto. Passava il tempo a raccontarmi di lei, dei suoi passatempi, di quanto amsse i propri capelli e di quanto amasse leggere. Io avrei voluto dirle che amavo anch'io la sua bellissima chioma riccia, e avrei voluto confessarle che erano pochissimi i libri letti in vita mia. E andavamo avanti così, a cogliere fiori ed intrecciarli fra loro come due bambini dall’alto dei nostri vent’anni, fino a quando il sole non ci baciava il capo con il suo ultimo raggio di luce. Lì, all’imbrunire, entrambi sentivamo chiamare i nostri nomi ad alta voce: solo in quel momento realizzavamo che era davvero l’ora di andare, e che un ennesimo giorno se ne era andato così, nel nulla. Ci alzavamo, e seguivamo l’uomo dal camice bianco e dal simpatico berretto che ci guidava di nuovo dentro quell’immenso edificio. Lei, ogni volta, prima di sparire dietro la porta della sua camera, mi salutava e m’abbracciava stretto. Sentivo le sue piccole braccia cingermi il busto ed il suo volto affondare nel mio petto. Io poggiavo il viso fra i suoi capelli e godevo del suon buon profumo come fosse l'unica cosa importante al mondo. Non potevo dirle niente e mi sanguinava il cuore, allora una volta sciolto l'abbraccio mi limitavo a sorriderle e lasciarle una carezza affettuosa sul capo: cos’altro avrei potuto fare? Quando poi vedevo la sua porta chiudersi davanti i miei occhi, sentivo la mano di Sandra afferrarmi delicatamente un polso, per invitarmi a seguirla nella stanza che da anni mi faceva da dimora. Per la prima volta, iniziai a sentirmi un animale in gabbia anche fuori la stanzetta del Dottore.

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Capitolo 3
*** Fiori d'Inverno. ***


All’ultimo giorno di Estate, quando già la brezza autunnale iniziava a sfiorarci i volti puri e giovani, non mi permisero di fare la solita passeggiata pomeridiana che tanto riusciva ad allietarmi l’animo tormentato. Capii che il freddo stava arrivando, ma non capivo tutta la loro smania di proteggermi da quest'ultimo. "Bene, anche quest'anno dovrò vedere la neve imbiancare il prato da quella piccola finestra", pensai, e lanciai un sospiro amareggiato. Tornai nella mia camera vuota e dalle pareti troppo bianche, che puzzava di quelle medicine che tanto non mi piacevano, come il resto di quell’edificio troppo grande. Mi sentivo così piccolo e indifeso, in quel luogo dove vivevo da sempre ma che m'era ancora sconosciuto, con tutti i suoi segreti e le sue insidie. Improvvisamente, iniziai a farmi un’idea un po’ più concreta di ciò che mi circondava; iniziai ad aver paura dei miei pensieri.

Quando feci per afferrare la maniglia della mia porta, sentii una mano dal tocco delicato battermi due volte sulle spalle. Mi girai di scatto con gli occhi sbarrati e le articolazioni irrigidite dalla sorpresa e dal terrore, e il cuore mi si sciolse nel petto quando vidi la figura minuta di Margherita proprio davanti a me. Lei prima sorrise piegando gli angoli di quelle labbra così deliziose, poi, sfociò in una piccola risata che fece sorridere anche me. Era piccolissima davanti la mia figura, e - può sembrar strano - ma più i giorni passavano, più lei mi sembrava bella, più mi sembrava fiorire come un fiore può fare in Primavera. I suoi occhioni verdi lasciavano intendere avesse in mente qualcosa di intrigante e tutto nuovo per me e per lei, e ne fui terribilmente attratto. Allungò un braccio, e con la sua manina mi afferrò un polso. Io la guardai con fare interrogatorio, ma lei mi fece segno di tacere ponendo il dito indice davanti le labbra … e come avrei mai potuto dirle di no?

Iniziò a camminare per quei corridoi tanto lunghi e tutti uguali, sembrava li conoscesse come le sue stesse tasche, e io che abitavo lì da una vita conoscevo solo la strada per scendere in giardino; me ne vergognai, e realizzai di aver sprecato tutti gli anni trascorsi lì. Il suo passo era veloce, felpato, quasi felino, mi trascinava per il polso che stringeva forte, ed ogni tanto si voltava appena per sorridermi, tutta esaltata e con le gote in fiamme. Capii che ciò che stavamo facendo non si poteva fare quando lei intravide uno degli uomini in camice col berretto svoltare uno dei tanti angoli, e mi fece nascondere con prepotenza dietro l’angolo precedente, incastrato in una nicchia del muro. Era tesa ed agitata, ma l’emozione le si leggeva negli occhi. Quando perdemmo di vista l’uomo lei tirò un silenzioso sospiro, e si passò una mano sulla fronte e fra la chioma riccia. Mi guardò, e sorridendomi mi fece cenno di seguirla ancora. Amavo il modo in cui riusciva a comunicare con me rispettando il mio silenzio. Iiniziammo a salire una rampa di scale che si trovava poco più giù. I gradini erano alti, forse un po' rovinati, mancava qualche mattonella che lasciava intravedere un triste strato di cemento. I suoi passi erano leggeri, lei stessa s'era fatta leggera come piuma, e spesso m'intimava con un'occhiata di cercar di fare meno rumore possibile. Il cuore mi balzava nel petto ad intervalli irregolari. Non so per quanto tempo salimmo, ma alla fine iniziarono a farmi male i muscoli delle gambe.

Arrivammo in una stanza grande tanto quanto un buco, con le pareti tappezzate di scaffali… e libri. Libri, ne avevo visti pochi e letti ancor di meno. Quei pochi che avevo me li procurava Sandra, forse di nascosto o forse per pietà, e li tenevo gelosamente custoditi nel cassetto. C’era anche una piccola, minuscola finestra dalle persiane spalancate, e il sole di Settembre illuminava tutta la piccola stanza facendo passare i suoi caldi raggi attraverso quella. Metteva in risalto i cumuli di polvere sopra ogni scaffale, pulviscolo che oscurava il titolo di ogni volume, che sporcava il pavimento chiaro tanto da farci lasciare le impronte. Rimasi a fissare per un po’ quella piccola finestra: da dietro il vetro polveroso si poteva vedere l’intero giardino e gli edifici che componevano quel bizzarro posto che m’era da casa. Pensai fossimo arrivati in una torre, o qualcosa del genere. Ora che me ne rendevo veramente conto, neanche ricordavo qual'era l'esatto aspetto dell'edificio visto dall'esterno. Rimasi come estasiato, nel vedere come gli alberi già iniziavano ad imbrunirsi e a colorarsi di mille colori diversi. Lì in cima, il mondo aveva assunto tutt'altro aspetto. Margherita si mosse con movimenti così fluidi e decisi che quasi sembrava avesse pianificato tutto da tempo; mi invitò a sedermi in un angolo, ed estrasse con le mani delicate un libro usurato da una delle tante file di libri ordinati, nello scaffale dal legno rovinato. Io piano piano mi accovacciai proprio sotto la finestra, dove il sole mi baciava il capo. Distesi le gambe, e poggiai la schiena contro la parete umidiccia e fredda, di dura pietra. Lei si chinò per poi sedersi al mio fianco, e si fece vicina a me. Poggiò la testa dai ricci rossi sulla mia spalla come se fosse la cosa più naturale del mondo, ed io iniziai a sentire il cuore martellare ancora più velocemente nel petto.

Non la stavo guardando, ma sentivo il suo sguardo addosso, potevo avvertire quei due grandi occhioni scrutarmi come se lei fosse tornata bambina … o come se non fosse mai diventata adulta.

 

《 Li vedi questi libri? 》

 

Iniziò a parlare, rivolgendosi a me. La sua vocina sottile era dolce, pacata. Mi rilassava l'anima, era una gioia anche solo udirla.

 

《 Saranno i nostri fiori quando fuori è Inverno. 》

 

Continuò, e mi venne spontaneo voltarmi verso di lei. Alzò il capo e mi guardò con quei due grandi occhioni vispi che raccontavano la Primavera. Sorrise, e io sorrisi con lei, consapevole del valore di quel semplice piegarsi delle labbra in una mezzaluna: più valore delle mille parole che non potevo dirle. Ebbene, il mio sorriso era l'unica e più sincera cosa che ero in grado di donarle. Schiusi le mie labbra e le increspai in una curva dolce, mentre sentivo le mie gote prendere fuoco. Lei abbassò lo sguardo, nascondendo quegli occhi meravigliosi con le ciglia lunghe, e con un gesto della mano aprì il libro. Sfogliò delicatamente le pagine fino ad arrivare ad un punto preciso - si fermò a poco più di metà volume. Teneva stretti fra le mani i lati del libro senza sgualcire le pagine dal colore giallastro e dall’inchiostro un po’ sbiadito.

 

《 Posso leggere per te? 》

 

Sussurrò piano, forse per non farsi sentire e non essere costretta ad andare via da quel piccolo paradiso rinchiuso fra quattro mura. Esitai a risponderle, ma poi annuire alla sua proposta fu quasi spontaneo, naturale. Sarei stato un pazzo, se solo le avessi detto di no. Vidi il suo sorriso allargarsi e mostrare i denti bianchi; penso di non aver visto mai nulla di più bello. Così inizio a cantarmi l'amore, a narrare di storie perdute nel tempo e mai più ritrovate, di giovani che s'amavano e riuscivano bene o male a vivere solo del loro reciproco amore. Quel giorno sentii il cuore fare su e giù nella cassa toracica: fui troppo stupido per ascoltare il suo messaggio, ciò che mi stava urlando con tutte le sue forze. 

 

Ci trovarono quando il sole era già calato da un pezzo e la piccola stanza s’era vestita di tenebre come una bella signora si veste per un ballo. Eravamo immersi lì, fra le pieghe del suo enorme vestito fatto di oscurità, ma lei, Margherita, lei illuminava tutto. Lei era così divenuta il mio sole, la mia lanterna, quella luce che ha la stessa luminosità della salvezza. Quel pomeriggio lo passammo così, con la sua voce a leggere e parlare al posto mio, che le parole non le avevo e non le avrei mai potute avere. Mi lesse poesie meravigliose che parlavano d'amore, mi cantò di canti misteriosi e bellissimi, di romanticherie ai quali i giovani si lasciavano spesso andare, e pian piano scoprivo un mondo nuovo. Le leggeva talvolta con la voce d’una bimba, talvolta con un timbro duro che ero sicuro non sfregiasse solo la mia anima, ma anche la sua. Mi chiesi se lei l'avesse mai provato, l'amore, e per la prima volta in vita mia sentii il forte e disperatissimo bisogno di chiederle chi amasse, di chiederle come fosse amare. Ma non lo feci, rimasi in silenzio.

Ci trovò uno dei tanti uomini in camice, e ci separò l’uno dall’altra con insistenza e prepotenza che non riuscivo ad accettare. Mi arrabbiai per la prima volta in vita mia, ma mi tenni tutto dentro, ingabbiai i sentimenti e l'immensa ira che mi stava ardendo nello stomaco. Ci rimproverò, e con tono arrogante ci ordinò di non salire più in quel luogo che per me era così magico, e ci borbottò qualcosa di poco carino dietro le spalle, mentre ci spintonava malamente giù per le scale. Margherita mi guardò con gli occhi sgranati, e con le labbra mimò una veloce scusa, prima di arpionare le manine delicate alla ringhiera delle scale per evitare di scivolare. Ebbi l’istinto naturale e repentino di scattare verso di lei e prenderla fra le mie braccia per non farla cadere, o forse fu solo l’ombra del desiderio. Mi sentii in pericolo, in vero pericolo. Tutto quello che sapevo, era che qualcosa in me non stava andando come prima. Era strano, non ero sicuro mi piacessero veramente quelle sensazioni - ma se non avessi voluto farmele piacere con la forza?

Davanti le porte delle nostre rispettive stanze ci salutammo in modo sfuggente con uno sguardo frustrato, e venimmo riportati in quella che a me iniziava a sembrare a tutti gli effetti una gabbia.

[ Angolo Autrice: salve a tutti! Spero che vi stia piacendo il corso della storia. Come sempre, il prossimo capitolo verrà pubblicato il 4 Ottobre. Vi ricordo di dare uno sguardo e lasciare un like alla pagina Facebook, dove potrete trovare contenuti aggiuntivi e rimanere sempre aggiornati.

-nettie

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Capitolo 4
*** Calligrafia da prima elementare. ***


Sandra era passata già da un po’: me lo diceva la minestrina insipida che aveva lasciato sul solito tavolo, ormai fredda e dall’aria poco appetibile. Non mangiai, non degnai il piatto neanche di un misero sguardo. Lo stomaco s’era chiuso in previsione di un brutto - bruttissimo - presentimento. Mi misi a letto, e mi coprii fino alla testa con quelle coperte bianche e leggere. Improvvisamente, iniziai a sentirmi veramente indifeso e privo di ogni potere, sebbene non sapessi neanche cosa volesse dire essere in potere di qualcosa. Sentivo freddo nello stomaco e nel petto, improvvisamente, come se qualcosa mi mancasse terribilmente tanto. Proprio come se ci fosse qualcosa del quale avessi un bisogno quasi vitale, un bisogno struggente e artigliante, ma che nonostante tutto, nonostante le lotte, non avrei mai potuto avere. Questo pensiero mi logorava dentro, e più fossilizzavo la mente su questa ambigua sensazione, più sentivo un’immaginaria spada farsi strada nel mio petto con la sua tagliente lama. Chiusi gli occhi quasi senza accorgermene, e con il suono delicato della sottile voce di Margherita che riecheggiava ancora in mente, mi addormentai di sasso, senza neanche avere la decenza di cambiare vestiti o lavarmi. Non avevo voglia di fare assolutamente niente, se non farmi rapire dal sonno il prima possibile nella speranza di dimenticare quella giornata meravigliosamente strana e scombussolante. Non fu un sonno piacevole, perché venne disturbato a metà percorso da alcuni singhiozzi che provenivano da fuori quelle quattro mura. Inizialmente pensai di star sognando, ma quando gli accorati lamenti iniziarono a farsi più acuti fui costretto ad aprire gli occhi. Infastidito, mi tolsi le coperte di dosso e tesi l’orecchio, ancora con la bocca impastata e la vista troppo appannata per permettermi di vedere bene.

Ciò che stavo sentendo era molto simile ad un pianto, e la cosa mi fece raggelare il sangue nelle vene. Non mi servii pensare o altro, sapevo chi fosse ad emettere tali lamenti pieni d’angoscia. Margherita, nella sua stanza, piangeva sola, al freddo, nel suo letto scomodo e senza un sostegno su cui contare. Origliai le sue preghiere e le sue lacrime solcarle le guance da dietro il muro della mia stanza, e fece più male di quanto mi aspettassi.

Mi maledii più e più volte. Il desiderio di bussare alla sua porta e cercare di capire cosa la turbasse così tanto era forte, ma non potevo. Non potevo, e poi, cosa le avrei mai detto? Cosa avrei mai potuto dirle? Mi sarei avvicinato a lei, l’avrei guardata, forse avrei osato abbracciarla, ma poi? Il silenzio non può consolare, non quando due occhi scuri raccontano un dolore ancor maggiore e angosciante. Per la prima volta in vita mia, sentii di avere veramente bisogno di una voce, e mai prima di quel momento desiderai così intensamente di poter parlare, parlare almeno a lei. Parlarle con lo sguardo non m’era più sufficiente. Era un desiderio che palpitava nel petto e mi lacerava il cuore, così provai a sopperire almeno in parte a questa mancanza. Con un rapido gesto della mano spalancai quel cassetto tanto prezioso, e presi uno degli ultimi fogli bianchi che mi rimanevano - incastrati e camuffati fra i libri di Sandra. Dal medesimo cassetto recuperai una penna un po’ usurata e a corto di inchiostro. Quella penna, però, si rivelò ben presto la mia chiave per il cielo. Mi misi a sedere sulla sedia, e poggiai le mani sul tavolino freddo. Scansai forse bruscamente la minestra, che era rimasta lì per tutta la notte, intatta. Posai il foglio sul piano liscio e gelido, poi, la punta della matita raggiunse il candore del bianco foglio un po’ sgualcito. La mia mano tremava, non abituato a scrivere spesso facevo fatica a mettere insieme ogni parola, ogni sillaba, e il tratto insicuro della calligrafia mi ricordava una realtà che avevo iniziato ad odiare lentamente. Ma ci riuscii, piano, ma alla fine ci riuscii. Aprii il mio cuore e lo spiaccicai sul foglio.

 

“Ti scrivo questa lettera perché non so parlare,

perdona la calligrafia da prima elementare.

E mi stupisco se provo ancora un’emozione,

ma la colpa è della mano che non smette di tremare.

Io sono come un pianoforte con un tasto  rotto,

l’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi.

E giorno e notte si assomigliano,

nella poca luce che trafigge i vetri opachi…”

 

Iniziai a scrivere, e non mi fermai presto. Ora che ci avevano vietato di raggiungere quel posto per noi magico, volevo scrivere righe così curate tanto da farle somigliare a quelle poesie che lei amava, nelle quali si specchiava e nelle quali avevo iniziato a specchiarmi anche io. Sapevo che non ci sarei mai riuscito, sapevo che non sarei mai riuscito ad imitare tali sfoghi d’amore e dolore, ma nonostante tutto ci provai. Quel sottofondo straziante che spezzava la quiete mi turbava, a stento riuscivo a sopportarlo. Ma non perché mi disturbasse o altro, ma perché faceva male, e il male lo sentivo dentro. Un’intensa fitta allo stomaco che non voleva passare. Pensai a me e Margherita: così simili, ma così diversi.

 

Le avrei dato la lettera l’indomani. Piegai il foglio in quattro parti, e lo misi sul comodino affianco il mio letto, in modo che al risveglio non mi sarebbe passato via dallo sguardo per nulla al mondo. Lì non c’era solo inchiostro sbiadito su carta ingiallita: era un pezzo del mio cuore. Mi stesi sul materasso troppo freddo, e mi coprii con le coperte mentre il gelo autunnale cominciava a farsi sentire in lontananza. Immaginavo però il freddo imminente come un freddo diverso dalle altre stagioni trascorse: quel freddo sarebbe stato scaldato da Margherita, dalla Primavera nei suoi occhi e dalla sua voce sottile. Steso, fissavo il soffitto illuminato dalla fioca luce lunare che si faceva strada oltre l’opaco vetro della mia stanza, con un grande buco in mezzo al petto che mi faceva sentire un po’ più pesante, nonostante il vuoto che lasciava in corpo. Non pensai al tempo che scorreva, semplicemente m’addormentai da un momento all’altro col suo viso in mente, chiudendo gli occhi per poi farmi rapire da Morfeo.

 

La mattina dopo venni stranamente svegliato da Sandra, verso mezzogiorno e un quarto quando il sole settembrino era già alto nel cielo. Sentivo gli occhi bruciare intensamente, e la prima cosa che vidi fu il sorriso della donna che mi scuoteva piano per le spalle.


《Buongiorno anche a te.》

 

Disse allegra, e allargò la mezzaluna che s’era formata sulle sue labbra fini; il volto solcato da alcune rughe mi trasmetteva un senso di materna protezione. Mi stropicciai gli occhi e risposi al suo sorriso come un figlio può rispondere al sorriso di una madre. Appena mi misi seduto sul letto, con la schiena poggiata alla spalliera, ebbi l’istinto di portare la mano al comodino. Subito afferrai quel pezzetto di carta piegato la sera prima. Lo strinsi fra due dita, delicatamente, e fu come il più grande sollievo della mia vita: era ancora lì, il mio cuore era ancora nel foglio. Lo rimisi sul comodino, e Sandra mi guardò come se sapesse già tutto.

 

《Stamattina Margherita non è in stanza. Potrai vederla oggi pomeriggio.》

 

Disse con una strana luce negli occhi alla quale non diedi molto peso, inizialmente. Feci una smorfia in segno di disapprovazione, e corrucciai il volto arricciando le sopracciglia. Sentivo l’irresistibile bisogno di vederla, di sapere come stesse, sentivo di dover chiedere il perché di tutte quelle lacrime la scorsa notte. Poi, realizzai che non ne ero capace, e mi incupii tutto d’un tratto. Sandra mi guardava con occhi leggermente affranti, dove non riuscivo a scorgere la stessa vitalità che sempre li animava.

Mi misi a sedere sul letto e sospirai gonfiando il petto, mentre Sandra mi lasciava un’ultima carezza sui capelli scompigliati. Lei si avviava verso la porta per uscire dalla mia stanza, e io mi sentivo sempre più impotente, sempre più … inutile.

 

《Ci vediamo dopo.》


Si voltò verso di me e mi sorrise un’ultima volta. Io la salutai con un cenno della mano, accennando un amaro sorriso.

[ Angolo Autrice: 

Perdonate il ritardo dell'aggiornamento, ma per vari motivi non sono riuscita ad essere puntuale. 

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Capitolo 5
*** Il padrone del dolore. ***


Mantenne la sua promessa. Non toccai né acqua né cibo fino alle cinque del pomeriggio: le ore trascorrevano lente e pesavano come un macigno, mentre il buco che sentivo nello stomaco si allargava fino a sembrare una voragine. Ad un certo punto il volto di Sandra sbucò da dietro la porta semi-chiusa. Mi guardò con quei grandi occhioni scuri dalle ciglia lunghe, sbirciandosi intorno ed esitando ad entrare, come se sentisse il bisogno di chiedermi il permesso - come se sentisse di aver interrotto la celebrazione di un dolore troppo intimo per venirle rivelato. Inarcai un sopracciglio e lei mi rivolse uno dei suoi soliti sorrisi. Con la testa mi fece cenno di alzarmi e raggiungerla, ed era questo che adoravo del rapporto fra me e Sandra: lei non mi faceva sentire inferiore. Sandra aveva la delicatezza di saper comunicare con me proprio come facevo io col resto del mondo: nel silenzio più totale. Come Margherita, del resto, lei si dilettava a trascorrere con me ore interne quando venivo attaccato da qualche malanno, o quando la cupidigia della giornata si infiltrafa malefica nel mio cuore e non riuscivo a trattenere un pianto senza ragione. Capii al volo cosa voleva intendere con quell’occhiata complice, con quel gesto appena accennato del capo. Gli occhi mi si accesero come due scintille, e penso che le mie guance avessero preso immediatamente fuoco.
Mi alzai cercando di sistemarmi appena i capelli, impacciato e un po’ goffo, e mi chinai per calzare le scarpe usurate che si trovavano ai piedi del letto. Le allacciai di fretta e strinsi bene il nodo, poi mi passai una mano sulla testa in un secondo tentativo di tenere a bada quella chioma che mi ritrovavo. La seguii fuori dalla stanza con un lieve sorriso sulle labbra ed il cuore che batteva veloce nel petto. Bastarono pochissimi passi ma interminabili secondi per raggiungere la porta della stanza adiacente, e fu la mia mano tremante ad aprirla senza neanche bussare. Non feci in tempo neanche a farmi salutare da Sandra, che già ero sgattaiolato dentro come una furia, col passo felpato e il cuore che pulsava in gola. Lì, finalmente, la vidi. Era di spalle ed era seduta ai bordi del letto dalle coperte ancora sgualcite: si era forse appena alzata? Avevo forse disturbato il suo sonno? Feci come per avanzare verso di lei mentre la porta s’era già chiusa dietro di me, ma qualcos’altro destò la mia attenzione. Pensavo che la sua stanza fosse identica alle altre, pensavo che le mura bianche fossero un attributo comune a tutti gli abitanti di quel posto strano, e invece per la prima volta in vita mia osservavo pareti dipinte di un colore diverso. No, non era solo un colore. Fogli, volantini, grandissime scritte a caratteri cubitali che non riuscivo a decifrare, pezzi di giornale e scarabocchi dai colori sgargianti tappezzavano le quattro mura di quella stanza. Le serrande erano severamente tappate, e la finestra chiusa. C’era un lieve ma sgradito odoraccio di chiuso che mi entrò nei polmoni prima che potesse inebriarmi corpo e mente il profumo di Margherita. Rimasi stranito, quasi interdetto, e mi bloccai a pochi passi dalla porta chiusa. Ma poi la sentii rivolgermi la parola.

 

《 Vieni. 》

 

Sussurrò con un filo di voce, mentre si dondolava con la schiena curva. C’era un qualcosa di strano nel suo timbro - un qualcosa di roco, di sinistro. I capelli erano raccolti in una coda alta, forse in modo un po’ disordinato, e alcune ciocche sfuggivano via alla presa dell’elastico, ricadendo davanti i suoi occhi e lungo il viso.

 

Mi invitò a sedermi accanto a lei, su quel letto dal materasso piatto e dalle lenzuola sfatte. Mossi un passo, titubante, ché quasi non mi sembrava lei vista sotto quella luce. Raggiunsi rapidamente il bordo del letto come se non volessi venir visto, e mi misi a sedere proprio al suo fianco. Serrai le mani ai bordi del letto, e dondolai appena le gambe, mentre comunicavamo nel silenzio più assoluto. Per un attimo ebbi l’impressione di sentire il suo piccolo cuore battere. La guardai incuriosito, e mi sembrò diversa pur essendo sempre la stessa. Non sembrava lei, ma i suoi riccioli rossicci li riconoscevo. Non sembrava lei, ma quei due occhioni che si portavano la Primavera dentro li riconoscevo. Sentivo il mio cuore martellare con foga nel petto, ma era come se non respirassi.

La osservai meglio, e intravidi da sotto le larghe maniche del camice ancora quei fini polsi fasciati da bende macchiate di rosso. Non ci pensai neanche, fu un movimento spontaneo quello di afferrarle la mano e portarla verso di me. Le alzai piano la manica, e vidi le bende estese lungo tutto il braccio. Fu un movimento fulmineo e scattante, la mia presa era salda e lei non poteva impedirmi di non sfiorarla. Rimase così, inerme, immobile, come fosse colpevole … con la faccia da vittima. Il rosso portava la stessa tonalità del dolore che stavo sentendo dentro, ed era in forte contrasto con il bianco delle candide bende. Non capivo, non capivo chi le avesse potuto far del male: erano queste bende il motivo del suo notturno pianto?

Corrucciai il viso, e con le labbra schiuse e gli occhi sgranati le volsi uno sguardo interrogativo. Le lasciai andare il piccolo e fine braccio che cadde a peso morto sulle sue gambe. Lei ritrasse immediatamente il braccio nella veste come un animale si rifugia nel suo guscio, e serrò i bordi della manica con le dita affusolate. Mi guardò con gli occhi sbarrati e una strana luce brillava in essi. Sebbene non avessi usato le parole, lei aveva compreso ciò che avrei tanto desiderato domandarle.

 

《E’ il padrone.》

 

Disse con un filo di voce, quasi a voler sussurrare. La sua voce era fievole, sembrava un cane bastonato e poi abbandonato a sé stesso. Fissava con insistenza il muro con fare di sottomissione, poi si rivolse nuovamente a me.

 

《Non lo vedi?》

 

E mi lanciò un’occhiata quasi impaurita, mentre con una mano indicava laddove io vedevo solo un muro pieno di scritte e volantini ritagliati male. A quel suo gesto, sembrò quasi come se volesse nascondersi dietro di me, perché si fece piccola piccola arpionandosi alla mia spalla, quasi affondando le unghie nella carne fino a farmi male. Poggiò poi anche il mento sulla mia spalla, e continuava ad indicare quella parete imbrattata con gli occhi chiusi e le manine tremanti. Per la prima volta, iniziavo a chiedermi cosa non andasse in Margherita, se fosse stato sempre presente questo problema, se io me ne fossi accorto solo ora, o se avessi sognato tutt’altra ragazza solare e vivace. Un po’ l’idea faceva male.

 

《Se non faccio ciò che mi ordina, lui farà di peggio.》

 

Continuò a parlare, e quelle frasi risultavano come una lingua sconosciuta alle mie orecchie. Male? Chi? Di chi stava parlando? Non riuscivo a capire, e avrei voluto dirle che lì non c’era proprio nessuno: niente e nessuno avrebbe potuto farle del male poi, non in mia presenza. Il suo sguardo era ora vacuo e le labbra inespressive: la guardavo con occhi insistenti e sentivo il suo malessere crescerle nel petto. Avrei voluto dirle che non aveva niente da temere, ma non potevo. Sentii allora il bisogno di spiegarmi in qualche modo, con gesti, con scritte, con quel linguaggio fisico e visivo che avevamo inventato io e lei, adatto a descrivere solo il nostro piccolo mondo, ma avevo paura della sua reazione. Paura, timore verso qualcuno che fino a pochi secondi fa vedevo come perfetto: era una sensazione che mi lasciava un dolore simile ad una pallottola nello stomaco. Tremava, mentre teneva le mani serrate al mio braccio, e io non sapevo cosa fare o come agire. Si nascose dietro di me ed affondò il volto sul mio petto, stringendomi forte il busto.

 

《Ci sta guardando. Ti prego, vattene.》

 

Sibilò contro il cotone caldo del mio camice, ma io ero contrariato. Chi avrebbe dovuto farmi mai del male? Chi avrebbe dovuto farci mai del male? La costrinsi ad alzare il viso e a guardarmi, poi scossi la testa in segno di negazione: non l’avrei lasciata, non me ne sarei andato. La presi per le spalle, e le strinsi delicatamente con la paura di farle male. Lei mi guardò come forse non m’aveva mai guardato, e io sentii una scarica di brividi scivolarmi giù per la schiena. Con forza mi spinse via da lei, mi prese per le spalle e mi diede una botta abbastanza violenta che mi lasciò totalmente sbigottito. Io balzai in piedi come fossi stato colpito da una scossa, ed indietreggiai sgomento, guardandola con occhi spauriti: non potevo credere a ciò che aveva appena fatto.

Vidi i suoi occhi iniziare a gonfiarsi di lacrime, e pregai per non vederne sgorgare via da quelle pietre preziose neanche una, ma fu tutto invano. Il suo viso iniziò a rigarsi di copiosi cristalli di dolore, abbondanti e trasparenti, e il mio cuore venne trafitto da una spada immaginaria che portava il suo nome.

 

《Vai via! Via! Vattene!》

 

Alzò la voce contro di me, come se fosse terrorizzata da quel qualcosa che non esisteva. Come se avesse paura per me, come se temesse per la mia incolumità. Lì, mi immobilizzai sul posto, preso dal panico più totale, mentre i miei occhi sgranati la fissavano mentre si straziava per i suoi tormenti interiori. E quello era lo strazio peggiore di tutti.

Sentii la porta spalancarsi, e voltando la testa vidi due uomini in camice piombare nella stanza di Margherita come un uragano. Uno dei due uomini prese Margherita per un braccio, e le intimò di calmarsi quasi sibilando, ringhiandole contro con fare violento, mentre lei mi implorava di scappare. Si dimenava, si dimenava come un animale impazzito, scalciava mentre l’uomo la teneva salda fra le braccia stringendole i polsi, più le stringeva i polsi più lei gemeva e si lamentava del proprio male, e più si lamentava del proprio male più si dimenava e divincolava per sfuggire alla violenta presa dell’uomo col camice.

 

《Torna nella tua camera! Abbiamo da fare!》

 

Mi disse uno dei due, prima di afferrarmi per un polso in modo brusco e trascinarmi verso la porta di quella stanza che profumava di lei. Mi cacciarono via come se fossi un animale indesiderato, con spintoni e parole azzardate. Poco prima, ebbi l’accortezza e la furbizia di abbandonare quelle righe rinchiuse in un pezzo di carta sul tavolo di Margherita, passando totalmente inosservato. Quello che mi restava da fare, era sperare che lei la leggesse. Venni scaraventato fuori dalla camera e chiusero la porta alle loro spalle con un tonfo, mentre sentivo il cuore stringersi in una morsa fatale. Non ebbi il coraggio di obiettare, e nel mio silenzio me ne tornai scosso nella fredda stanza che m’ospitava da circa sempre. Dopo una mezz’ora circa di torture, sentii la voce di Margherita cessare di straziarsi da dentro le mie quattro mura. Mi chiesi cosa fosse successo, e di chi lei parlasse. Immagini orrende scorrevano davanti i miei occhi: di lei che urlava, che chiedeva aiuto, e quell’aiuto le veniva negato dai due violenti uomini. Non riuscivo a darmi una risposta, non riuscivo neanche a pormi domande concrete. Avevo solo iniziato ad avere timore di un qualcosa che sembrava più grande di me e lei messi insieme. Passai la serata così, seduto su quella scomoda sedia, dietro quel tedioso tavolino, a fissare il sole calare dietro il muro di pesante cemento, aldilà di quella piccola finestra che mi confinava lì dentro.

Pensai tanto, ma non arrivai a nessuna conclusione.

[ Angolo Autrice: 

Sono stata puntuale, stavolta! Come sempre, ringrazio in modo speciale chi vorrà lasciare un commento, e vi invito a lasciare un mi piace alla pagina Facebook dove potrete leggere materiale aggiuntivo e rimanere aggiornati sulla pubblicazione di nuove storie. 

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Capitolo 6
*** L'assenza che dilania. ***


Nei giorni seguenti, Sandra mi diede il permesso speciale di visitare Margherita per circa un’oretta al giorno. Il suo stato mi preoccupava sempre di più, ma dimenticai in fretta della lettera che le avevo scritto sere e sere prima. Mi dimenticai di quel pezzo di cuore come un bambino, crescendo, si dimentica del suo giocattolo preferito.

Ogni pomeriggio, se prima era come fosse lei ad assistere me, ora s’erano invertiti i ruoli.  Il mio stato emotivo era terribilmente instabile, e ogni volta che guardavo nei suoi occhi vitrei il petto mi faceva male.

La coccolavo e la tenevo stretta come una bambina da proteggere, carezzandole il capo con la delicatezza di chi sta maneggiando una preziosa bambolina di porcellana, mentre lei tremava in silenzio fra le mie braccia. Le nostre giornate trascorrevano in silenzio come tutti gli altri giorni, ma quel silenzio era così freddo da congelare il sangue nelle mie vene. Era un silenzio gelido, che non mi trasmetteva alcuna emozione se non amarezza. Non sapevo cosa le avessero fatto, e la mia sofferenza più grande era quella di non poterglielo chiedere. Ogni volta che cercavo un qualsiasi tipo di contatto con lei, fosse anche solo visivo, si ritraeva dalla mia presa e si raggomitolava in un angolo del letto. La guardavo, e mi sembrava una bestiola smarrita ed indifesa alla quale avevano tolto la ragione. Le differenze le potevo solo vedere. Le avevano tolto le bende dai polsi, sì, e profonde cicatrici solcavano questi ultimi. Alcune erano ancora rosse, altre sembravano uno sbiadito e disprezzato ricordo impresso sulla pelle. Non capivo chi avesse potuto fargli del male fino a questo punto, né capivo perché lei si lasciasse trattare così male. Ogni volta che i miei occhi cadevano su quei polsi fini, la rabbia mi ribolliva nello stomaco e desideravo sempre di più proteggerla, come un cane da guardia inferocito. Non capivo la realtà, perché io non avevo mai vissuto né sentito parlare di cose simili, rinchiuso lì da sempre e impossibilitato a vedere ciò che si celava dietro quelle pesanti mura che iniziavano a starmi un po’ strette.

Vedere Margherita in quello stato era come morire un po’ dentro, e non riuscivo a sostenere così tanta pressione. C’erano periodi in cui alternava i suoi stati di lucidità a stati di semi-incoscienza, e sembrava sempre profondamente sonnolenta, quasi come se stesse per crollare dal sonno da un momento all’altro. Mi rivolgeva la parola, ma a  volte le sue frasi risultavano sconnesse e scomposte, o forse seguivano un filo logico criptato e presente solo nella sua mente così complessa. A volte indicava sempre quel maledetto muro, e vedevo i suo occhi velarsi di lacrime mentre si rinchiudeva in un silenzio che non era mai stato suo. Avrei voluto fare qualcosa, salvarla, scappare con lei oltre quelle mura che - lo sentivo dentro - odiavamo entrambi. Per la prima volta, iniziò a mancarmi la vecchia Margherita, e mi chiesi se la Primavera l’avrebbe mai guarita da quello che ormai iniziavo a chiamare col nome di male. Avrei voluto vivere con lei mille di quelle Primavere.

Ogni sera, mi coricavo sempre un po’ più disilluso e distrutto dentro. Mi si inumidivano gli occhi e mi veniva l’istinto di piangere, allora lo facevo perché nessuno mi guardava. Mi sentivo un bambino indifeso nell’infanzia della quale non avevo memoria, Poi, mi addormentavo così: preso dallo sconforto più totale, mentre i giorni si mischiavano gli uni agli altri.

 

Arrivò un giorno in cui Sandra venne nella mia stanza con il volto affranto, ma così affranto che mai la vidi una seconda volta in quelle condizioni. Le labbra erano increspate in una spiacevole espressione di rammarico, e le mani sembravano tremarle. Si mise accanto a me, seduta ai bordi del letto, e mi mise una mano sulla spalla con delicatezza. Io la guardai con fare interrogativo, e lei ci mise un bel po’ prima di iniziare a parlare, come se dovesse trovare le parole giuste per dirmi ciò che doveva dire. Sospirò, prima una, poi due volte, e mi guardò bene negli occhi. Affondò il suo sguardo nel mio, e leggevo nei suoi grandi occhi scuri qualcosa: qualcosa che mi stava nascondendo. Inarcai un sopracciglio, e con un cenno della mano la invitai a parlare senza timore.

 

《Oggi non potrai vedere Margherita. Magari, domani.》

 

Lo disse tutto d’un fiato come se le dispiacesse tanto da farle male dentro, e poi abbassò immediatamente lo sguardo. Si mordicchiò appena un labbro e strinse i pugni, a capo chino come se volesse evitare il contatto visivo con me. Io non feci niente, rimasi semplicemente a metabolizzare il fatto, quelle sue parole, quella negazione. Mi preoccupai: era vera preoccupazione, la sentivo in fondo allo stomaco, quella preoccupazione che forse mai avevo provato in vita mia prima di quel momento. Iniziavo a sentire il dolce profumo di vita inebriarmi i polmoni, ma non feci mai in tempo a sentirne il sapore pungente sul palato.

 

Così i giorni passarono sempre più lenti, silenziosi, e io mi chiudevo sempre di più in me stesso - mio malgrado, malgrado di tutti, malgrado di Sandra. Ogni giorno sempre la stessa storia, sempre le stesse parole da parte di Sandra, tanto che iniziai ad allontanarmi anche da lei. “Domani”, “Domani”, “Domani”. Ormai pensavo solo ad arrivare al giorno seguente, nella speranza di poter vedere la mia Margherita in fiore, nella speranza di potermi assicurare che non fosse appassita una volta per tutte. La mente smise di farsi false illusioni, ma il cuore ancora non voleva cedere. Non mi facevo più carezzare, e preferivo starle alla larga, non guardarla quando era in stanza a sistemare le mie cose e a lasciarmi il cibo. Evitavo il contatto umano, il contatto con lei, come se fosse la cosa che più mi disgustasse al mondo. Le visite dal Dottore aumentarono di volta in volta, e Sandra dovette trascinarmi con la forza lì, circa tre giorni a settimana. Ma io ormai m’ero imposto ed ero deciso: non avrei fatto niente se non m’avessero ridato indietro la mia Margherita. La volevo, la volevo con tutto me stesso e sentivo bisogno di lei. Un verissimo e vitale, disperato, angosciante bisogno della mia bella Margherita. Come potevano farmi conoscere la vita e strapparmela via subito dopo, senza alcuna pietà? Così, sedevo scomposto su quella sedia scomoda mentre quel grasso uomo mi metteva pressione e mi innervosiva. Odiavo il dottore, e più lo odiavo più sentivo la bile salirmi in gola. Lo fulminavo con lo sguardo, lo sfidavo a strapparmi le parole dalla bocca o le scritte dalle mani: non importava quanto potesse tentare e ritentare, non mi avrebbe mai abbattuto. Ero diventato ostile a quel tipo di vita, e lui se ne era accorto. Non sembrava volermi lasciare andare, no: mi tratteneva lì a lungo, ma io non avevo intenzione di cambiare idea. Non mi avrebbero mai avuto, senza Margherita.

 

Una sera come tante, tediosa, mentre Sandra mi riaccompagnava in stanza vidi qualcuno entrare nella stanza di Margherita … Ma quel qualcuno non era lei, e forse fu questa la cosa che fece più male. Era un uomo dalla pelle bruna e dai capelli molto scuri, aveva il passo un po’ trascinato e la schiena molto curva. Era alto, molto più alto di me, ed era robusto. Un po’ mi mise timore. Una delle tante donne col camice e col berretto reggeva una borsa dall’aria pesante, mentre lo lasciava entrare in quelle quattro mura che per me erano diventate sacre, una qualcosa di molto più simile ad un santuario che a una stanza. Passando, riuscii a ficcare il naso negli affari altrui, e buttai l’occhio dentro quella stanza, speranzoso di trovare lei seduta su quel letto scomodo dalle coperte sgualcite… ma non trovai più neanche le sue pareti, e fu lì che sentii il cuore cessare di battere nel petto per un attimo interminabile, il fiato mozzato a metà. Lì, non c’era più Margherita, semplice. L’avevano cancellata senza dire niente e nessuno, come se non fosse mai esistita, come se fosse solo un errore di Dio da eliminare. Non avevano cancellato solo lei e il suo profumo, ma anche il mondo che aveva creato in quella stanzetta. Avevano steso uno strato di triste vernice bianca anche sulle sue amate pareti, e io non volevo ancora crederci. Dove era finita?

Mentre Sandra mi trascinava via di lì per un polso usando una violenza che non era sua io mi scollegai dal mondo esterno, e sentivo il mio cuore sanguinare copiosamente da una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. Quando lei aprì la porta della mia stanza, mi ci fiondai dentro e le chiusi la porta in faccia: non mi curai della sua presenza, né mi chiesi se fosse rimasta male o meno del mio gesto. Per la prima volta, sentivo il vero bisogno di stare solo. Mi buttai in ginocchio in un angolo, e piegando le gambe al petto misi la testa fra le mani. Tremavo, e non sapevo cos’altro fare. Ero scosso, forse troppo, ed era come se tutto intorno a me girasse un po’ troppo veloce e io non riuscissi a stare al passo del mondo. La confusione iniziava a farsi spazio in me, ed i pensieri si attorcigliarono in un caos indistricabile. Solo, nel freddo di quell’Invernale sera, urlai per la prima volta. Lo feci in silenzio, ma lo feci talmente forte da sentir le pareti della mia camera vibrare. Era un silenzioso grido di dolore, che tuttavia non bastava per esprimere il mio stato d’animo. Spalancai con violenza la bocca, e desiderai urlare come un condannato a morte. Lo feci in silenzio e fu liberatorio, ma il mio cuore non si era scagionato da quel peso mortale. Iniziai a piangere quasi senza accorgermene, e singhiozzai perso in quel pianto disperato. Le lacrime mi rigavano il viso senza che io me ne accorgessi, gli occhi rossi e paonazzi scrutavano nel buio della stanza mentre cercavano lei. Più la cercavano, più non la trovavano. Più non la trovavano, più il cuore si struggeva e si struggeva ancora, consumandosi in ogni lacrima. Con la testa serrata fra le mani mi maledii da solo, e per la prima volta provai un intenso dolore che mi dilaniava dentro, tanto che avrei preferito non esistere. Non so per quanto tempo piansi e mi disperai, ma sentivo lo sguardo di Sandra addosso, lei, che m’osservava da dietro il piccolo vetro posto sulla mia porta. Vegliò su di me per tutto il tempo, e io non riuscivo a sopportare la sua presenza - seppur così assente - in un momento tale.

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Capitolo 7
*** Saper volare. ***


 

Quando vidi sparire la sua ombra altrove, capii che se n’era andata, e capii che io avevo bisogno di un luogo più intimo dove stare per sfogare ogni briciola del male che mi portavo dentro. Fuggii via da quelle quattro mura in un batter d’occhio, chiusi la porta nel silenzio più assoluto e con passo felpato mi incamminai per quei lunghi corridoi, che di notte, deserti, mi rendevano inquieto. Sembravo una bestia brancolante nel buio, ferita e mugolante. Avrei voluto sparire.

Non ero sicuro di ricordare alla perfezione la strada che mi avrebbe portato alla meta, ma decisi di provare senza timore: era l’ultima e l’unica cosa che mi restava da fare. Quando ritrovai quella nicchia, e quando salii nuovamente quella rampa di scale così stretta e ripida, mi sembrò di sentire ancora una volta il suo profumo, di udire i suoi passi scalpitanti salire nervosamente quelle scale di freddo marmo. Mi sembrò udire la sua risatina sorniona, quel cinguettio così zuccheroso, mi sembrò di intravedere le pieghette della sua lunga camicia bianca svolazzare per quell’angusto corridoio. Forse, i suoi occhioni verdi mi stavano scrutando da chissà quale angolo. Arrivai così nella polverosa stanza che era immersa nel buio più totale, solo la luce della luna alta nel gelido cielo donava un po’ di luminosità a quelle quattro pareti umide e tappezzate di libri. Sentivo freddo, così tanto freddo da aver la pelle d’oca e i brividi lungo la spina dorsale. Presi fra le mani lo stesso libro che lei mi lesse tempo prima, quel libro che parlava di poesie e che parlava d’amore, quel libro che amai solo perché era la sua voce a leggermelo, a scandire ogni parola, sillaba, lettera. Mi misi sotto la finestra, rannicchiato in quell’angolo che sentivo mio da sempre, e passai una mano sulla copertina polverosa ed usurata, imitando ogni suo singolo gesto nella speranza di evocare un suo piacevole ricordo. C’era un vago profumo in quella piccola stanzina che tanto mi ricordava di lei, e più sfogliavo le pagine del libro, più sentivo le lacrime salirmi agli occhi. Cercavo di emulare i suoi movimenti, cercavo di invocare la sua presenza solo per avere la sensazione di averla ancora vicino, ma era tutto vano. Troppo scosso e troppo distrutto per piangere e disperarmi, o forse troppo confuso per capire la situazione, decisi di iniziare a leggere nel silenzio più totale, dove i battiti del mio cuore e il mio respiro erano le uniche cose udibili.

I miei occhi scorrevano veloci sull’inchiostro impresso sulla carta giallastra, e cercavo di ricordare la sua voce, di disseppellirla dai vecchi ricordi e riportarla lì con me, come fosse stata ancora vicino la mia figura. Come se il libro fosse stato fra le sue piccole manine affusolate, come se le mie orecchie dipendessero ancora e solo da quel suono idilliaco che era la sua voce. Le mie labbra si muovevano veloci parola dopo parola, ma neanche un gemito soffocato usciva da queste. Non sapevo dove fosse andata, non sapevo che fine avesse fatto. Speravo solo stesse bene. Speravo che .. magari, sarebbe tornata ancora una volta per portare via anche me. Per la prima volta, desiderai fuggire via da quel luogo che per me non aveva mai avuto un vero nome e che mi fungeva da prigione. Mentre leggevo grazie all’ausilio della poca luce lunare, iniziai a metabolizzare lentamente l’improvvisa assenza ingiustificata di Margherita, quasi senza accorgermene. Non so per quanto rimasi lì, ma il tempo non mi sembrò mai abbastanza per assimilare tutto il dolore.

Leggendo, mi accorsi che l’amore era molto simile a quello che mi portavo dentro, che forse l’avevo sempre conosciuto e non me ne ero mai accorto. Pensai che forse, Margherita era l’unica cosa capace di farmi realmente vivere … e di farmi sentire vivo. Me l’avevano strappata via dalle braccia con violenza inaudita, quando io alla fine sentivo solo il bisogno di amarla. Il semplicissimo ed umile bisogno di amarla con tutta l’ingenuità possibile che può avere chi non conosce la parola amore, con tutta l’ingenuità possibile che può avere chi non conosce veramente il mondo. Lei veniva da fuori, aveva lasciato che la gente affilasse le proprie lame su quella sua pelle delicata e ne era rimasta ferita mortalmente. Lei, lei lo sapeva cos’era l’amore? Lo aveva mai provato? Chi, chi aveva mai avuto la sacra occasione di poter venir amato da lei? Mi si strinse il cuore a quelle domande senza risposta.

Quel vuoto che già da un po’ mi portavo dentro iniziò a crescere e a farsi più profondo, mi sentivo un bambino confuso alle prese con un qualcosa più grande di lui, forse impossibile da affrontare. Amore. Che strana parola, ed era ancora più strano il fatto che io non ne avessi mai fatto oggetto dei miei desideri, o quantomeno dei miei pensieri. Solo in quel momento, mi veniva schiaffato in faccia come la più straziante delle realtà. Era ridicolo. Ero ridicolo.

Era incredibilmente ridicolo l’intenso modo in cui la mia anima stava soffrendo, il modo in cui la mia anima stava sanguinando.

Avevo sempre pensato alla morte come un qualcosa di lento e molto lontano per me, ma in quel momento mi sembrava più vicina che mai … e avevo paura fosse l’unico modo per riconciliarmi a Margherita.

Quando alzai lo sguardo dopo ore passate immerse nella lettura notai con piacere che il sole stava sorgendo, e da lì, in quel punto così alto dell’edificio, il cielo sembrava distante un palmo dal mio naso. Avrei voluto urlare il suo nome a tutto il mondo, oltre quelle mura grigie che odiavo più di me stesso. Avrei voluto urlare il suo nome a tutto il mondo, avrei voluto urlare che l’amavo.

No, non volevo più vedere il mondo dietro quei vetri sporchi ed opachi, così forzai il chiavistello arrugginito della finestra fino a farla aprire. Sentii un cigolio, e poi la brezza autunnale mi travolse carezzandomi il volto e spettinandomi i capelli. Osservai l’alba con occhi nuovi, più veri, e quasi fece male dentro.

Pensai che l’unico modo per raggiungere Margherita fosse scappare via di lì per sempre, ma erano pensieri annebbiati e confusi. Non capivo. Mi affacciai al mondo e allargai le braccia, come volessi librarmi al cielo.

Non avevo mai saputo quanto potesse essere pericolosa l’altezza.


“Sorprenditi di nuovo perché Antonio sa volare.”

[ Angolo Autrice: 

Eccoci arrivati al capitolo finale. Un grazie speciale a chi ha seguito la storia capitolo dopo capitolo, e a chi vorrà lasciare un parere finale. 

-nettie.

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