Without you

di lady lina 77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatre ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentasei ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentasette ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentotto ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


"Devi cercare di capire".

"Non avevo scelta".

"E'stato un qualcosa di inspiegabile, una passione incontrollabile".

"Speravo di contare sulla tua comprensione".

"Il tuo atteggiamento non ci è di nessun aiuto".

"Per favore, togliti di mezzo".


Le frasi di Ross le rimbombavano nella testa come un'emicrania dolorosa. E facevano male, in un certo senso più del tradimento. Si arrampicava sugli specchi, trovava giustificazioni all'ingiustificabile e non aveva la minima considerazione del dolore che le aveva provocato, quasi fosse invisibile e l'unica cosa che contasse fossero lui e i suoi desideri. Ma in fondo, di che si stupiva? Era da tanto che era invisibile, per Ross. Cos'era cambiato, cosa aveva portato in più quella notte di tradimento vero e proprio, che lei non avesse già provato ogni volta che lo vedeva correre da Elizabeth e da Geoffrey Charles, ingorando lei e Jeremy, trovando mille scuse per preferire loro alla sua vera famiglia? Nulla, Ross l'aveva già tradita mille e più volte, in tanti modi diversi ma pur sempre dolorosi. Cosa poteva pretendere da lui, che probabilmente non l'amava più da tanto? E che, se l'aveva amata, era stato unicamente per sopportare meglio il dolore di non aver potuto avere Elizabeth.


"Vado a Truro!".


Si certo, a Truro! Demelza si chiese perché Ross sentisse il bisogno di mentire circa le sue reali intenzioni. Bastava dirlo, vado da Elizabeth, voglio stare con lei.

Lo avrebbe accettato, ne avrebbe pianto, si sarebbe sentita disperata ma in un certo senso sarebbe stato meglio di quelle menzogne, di quelle umiliazioni che Ross le infliggeva senza il minimo rimorso.

E lei, perché avrebbe dovuto stare ad aspettarlo in quella casa a Nampara? Non era forse ugualmente umiliante rimanere, attendendo la carità di un marito che non vedeva l'ora di correre da un'altra?

Nampara era di Ross, l'aveva costruita suo padre per sua madre ed era stata l'eredità per il figlio. E ora che il suo matrimonio era finito, non c'era più alcun motivo per rimanere per lei.

Aspettò che Ross uscisse per andare a... Truro... Dopo la loro litigata di poche ore prima, quando lei aveva rovesciato a terra tutto quello che era sul tavolo, suo marito si era ritirato nella libreria e non si era più fatto vedere. Poi era uscito a cavallo, in compagnia delle sue bugie ed era corso a cavallo a Trenwith, da Elizabeth, di questo era certa. Osservò la camera da letto che era stata sua e di Ross, ricordando quanto si erano amati su quel letto, fra quelle coperte, e tutte le gioie e i dolori vissuti fra quelle quattro mura. La nascita dei loro figli, la morte di Julia, le promesse, le speranze, i fallimenti e i successi che avevano condiviso insieme.

Non c'era più nulla, Ross aveva distrutto tutto e sembrava non curarsene, ormai proiettato al suo futuro con Elizabeth.

Lei, Jeremy e anche Julia erano il suo passato. Non ce la faceva a combattere, ad affrontarlo di nuovo, a vivere col fantasma del primo amore di Ross sempre presente accanto a lei.

Non c'era motivo per rimanere, Ross presto se ne sarebbe andato e si sarebbe dimenticato di lei.

Si mise sul letto, piegò le ginocchia e pianse. I suoi gemiti spezzavano il silenzio della casa e odiava il fatto che Jeremy potesse sentirla ma non riusciva a fermarsi.

Era terribile amare qualcuno che ti aveva fatto tanto male e per il quale non sei niente.

"Signora, vi sentite male?".

La voce di Prudie la fece sobbalzare. La guardò, ricordando quando era arrivata in quella casa e lei non la sopportava e le intimava di tornare da suo padre, ormai dieci anni prima. Prudie era diventata, negli anni, una specie di mamma per lei, apparentemente distratta ma in realtà attenta a tutte le dinamiche di quella casa e a tutto ciò che riguardava lei e Ross. Le sarebbe mancata, pensò, ormai convinta della sua decisione. "Mi dispiace per il macello che ho combinato nella sala da pranzo stamattina".

Prudie sospirò. "Certe volte, davanti a certe frasi e a certi uomini, spaccare tutto è meglio di una medicina. Ma il signor Ross...".

"Il signor Ross è andato a Trenwith e io... ho bisogno che mi aiuti a fare le valigie".

Prudie spalancò gli occhi. "Valigie? Ma... signora? Santo cielo, aspettate, non dovete precipitare le cose, aspettiamo che il signore torni almeno".

Demelza si alzò dal letto, asciugandosi le lacrime. Le si avvicinò, poggiandole gentilmente una mano sulla spalla. "Prudie, per favore, aiutami. Mi serve il giusto indispensabile per me e Jeremy, non ti chiedo altro".

"Ma dove andrete? Cosa dirà il signore?".

Demelza sospirò. In un primo momento aveva pensato di andare da suo padre ma poi aveva scartato l'idea. Non voleva che Jeremy crescesse nello stesso ambiente in cui era cresciuta lei, non voleva che avesse un'infanzia simile alla sua e Illugan offriva poche opportunità a un bambino dolce e vivace come suo figlio. Inoltre, c'era la concreta possibilità di rincontrare Ross e lei non voleva vederlo mai più, voleva sparire dalla sua vita e ricominciare essa stessa una vita. Londra avrebbe offerto più possibilità di un nuovo inizio ed era una città grande e abbastanza lontana dalla Cornovaglia, l'ideale per far perdere le proprie tracce. Le spiaceva mentire a Prudie, sapeva quanto fosse affezionata a lei e a Jeremy ma non poteva fare altrimenti, il rischio che si tradisse davanti a Ross era troppo elevato. "Non lo so, dove mi porteranno il caso e il destino. Ma sta tranquilla, andrà tutto bene, sai che so cavarmela".

"Il signor Ross che cosa dirà? Si arrabbierà con me se, tornando, non dovesse trovarvi".

Demelza scosse la testa. "Sta tranquilla Prudie, non se ne accorgerà nemmeno che non ci siamo più. La sua testa ha ben altri pensieri, ormai".

"Io non credo che sia così".

Demelza la abbracciò. "Per favore, mi puoi aiutare? E' l'ultima cosa che ti chiedo come signora di Nampara. Ho bisogno di te".

Prudie annuì, asciugandosi le lacrime dal viso. "Odio il signor Poldark! Come ha potuto...? Oh, quanto se ne pentirà di quello che vi ha fatto".

Demelza strinse gli abiti che aveva in mano, rabbiosa e allo stesso tempo triste. "No, non se ne pentirà! Vuole Elizabeth da sempre, lei era nel suo destino. E' giusto così, sarà felice e finalmente potrà stare accanto alla donna che ama davvero". Mise i vestiti in una borsa, chiudendola poi energicamente. "Prudie, ti chiedo solo un favore ancora, se puoi farlo".

"Ditemi".

Demelza abbassò lo sguardo, ricordando il volto dolce della sua prima bambina. "Di tanto in tanto, promettimi che porterai dei fiori sulla tomba di Julia. Io non potrò farlo, sarò lontana e dubito che Ross se ne ricorderebbe".

"Lo farò, signora. Ma...".

Demelza non la fece finire. La abbracciò di nuovo, forte, come cercando il coraggio di fare quello che aveva già deciso.

Poi prese la sua borsa da viaggio, scese le scale e prese Jeremy, che stava giocando sul tappeto in soggiorno, fra le braccia.

Jud la guardò, perplesso. "Andiamo da qualche parte?".

"Non tu ma io e il signorino Jeremy sì". Gli diede un veloce bacio sulla guancia e poi, stringendo a se suo figlio, prese la porta e uscì da quella che era stata per tanti anni la sua casa, la sua famiglia. Si portava dietro mille e più ricordi di quel posto, Nampara sarebbe sempre rimasta nel suo cuore, così come suo marito, Jud e Prudie, i minatori con le loro famiglie e Ginny.

Garrick, scodinzolando, le si affiancò. Era arrivato in quel posto con lei dieci anni prima e non l'avrebbe abbandonata per nessun motivo al mondo, era l'amico più fedele che le fosse rimasto. "Coraggio Jeremy e Garrick, si parte per una nuova avventura" – esclamò, cercando di essere ottimista e di trasmettere serenità soprattutto al suo bambino.

Jeremy la guardò, incuriosito. Non sapeva ancora parlare bene ma si stava evidentemente chiedendo cosa stesse succedendo.

Demelza lo baciò sulla fronte. "Andiamo in un posto nuovo, in una casa nuova! Io, te e Garrick".

Il bimbo le cinse il collo, stringendola forte. "E papà?".

A quella domanda, Demelza si morse il labbro. "Papà resta quì, ha tante cose da fare e non ha tempo per noi. Ma vedrai, staremo bene lo stesso". L'unica cosa che la rasserenava, era che Jeremy non avrebbe sofferto troppo per la distanza da Ross. Suo padre non si era mai particolarmente occupato di lui da quando era nato e Jeremy era talmente piccolo che presto si sarebbe dimenticato di lui, considerando normale la sua assenza.

Mentre si allontanava da Nampara, diretta alla diligenza che l'avrebbe portata a Londra, in lontananza sentì la voce di Jud che, come tante altre volte, stava lamentandosi.

"Non è giusto, non è corretto, non è gentile, non è umano".

Nonostante il suo cuore fosse in tumulto, a Demelza venne da sorridere al pensiero che Jud parlasse di lei e Ross, in quel suo modo forse non elegante ma che aveva imparato ad amare. Gli sarebbe mancato, lui come tutti gli altri e la vita che si era costruita in Cornovaglia.

Ma era ora di voltare pagina, come aveva fatto Ross. E per quanto doloroso, era giusto farlo il prima possibile.




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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Londra era immensa, le faceva mancare il fiato. Si sentiva piccola e spersa in quella città così rumorosa, frenetica, piena di gente e carrozze che sfrecciavano nei vicoli a tutta velocità.

Era un mondo variopinto ed eterogeneo, fatto di mille realtà diverse. Uomini in smoking, eleganti ed austeri, passeggiavano per le vie fumando la pipa, mercanti agli angoli della strada urlavano per vendere la loro merce e bambini scalzi giocavano in mezzo ai passanti, totalmente lasciati a loro stessi.

Strinse a se Jeremy che, intimorito, le si era aggrappato al collo. Pure Garrick, tenuto con un guinzaglio, le stava vicino con la coda fra le gambe, spaventato da quel mondo così diverso dalla Cornovaglia.

Demelza sospirò, decidendo il da farsi. Aveva con se pochissimo denaro e nessuna idea su cosa fare, su dove andare. Doveva trovare un lavoro, un posto dove dormire, un appiglio per iniziare una nuova vita ma non sapeva dove sbattere la testa.

Per un attimo si pentì della scelta fatta, per un attimo l'istinto di tornare a Nampara parve sconfiggerla ma poi si morse il labbro, guardò il suo bambino e decise che doveva dargli una vita migliore di quella che gli avrebbe riservato la Cornovaglia. Aveva scelto di lasciare Ross, di lasciarsi dietro alle spalle il suo matrimonio, Elizabeth e tutto quello che era stato il suo mondo.

Una strana fitta al ventre e un'improvvisa nausea la assalirono. Si massaggiò lo stomaco cercando sollievo, chiedendosi se quel malessere che già l'aveva colta altre volte nel corso degli ultimi giorni, fosse dovuto allo stress delle ultime settimane.

La prima notte, a Londra, l'avevano passata in una locanda di quart'ordine, non aveva potuto permettersi di meglio di quel tugurio maleodorante e malfrequentato. Urla e schiamazzi l'avevano tenuta sveglia e anche Jeremy aveva frignato tutta notte. Purtroppo però non aveva avuto altre alternative coi pochi soldi a sua disposizione, o quel posto o sotto i ponti. Quindi...

Il giorno dopo aveva bussato a mille porte. Negozi, botteghe, sarti, qualsiasi tipo di attività che richiedesse l'aiuto di una donna disposta a lavorare.

Ma non ne aveva ricavato nulla, nessuno voleva assumere una giovane donna sola, forestiera, con un figlio piccolo e un cane al seguito.

Odiò se stessa e la sua situazione e odiò anche tutta quella gente che non le dava una possibilità. Aveva voglia di lavorare, l'aveva sempre fatto e un tempo era stata un'ottima sguattera per Ross, perché nessuno voleva assumerla?

In realtà sapeva la risposta, immaginava cosa quella gente di città pensasse di lei. Una poco di buono, una donna lasciva, una che aveva un figlio senza avere accanto un marito era per tutti un qualcuno da tenere lontano.

Una volta era stata la signora di Nampara, ora era l'ultima degli ultimi...

Pensò, camminando per le vie del centro di Londra che aveva pian piano imparato a conoscere, a quali passi compiere. Quella città, la capitale, sembrava non offrirle nulla e forse avrebbe dovuto spostarsi ancora, tornare nelle campagne o nella brughiera, dove la gente semplice era più propensa ad aiutare una donna in difficoltà.

Fu proprio in quel momento, mentre pensava di ripartire, che una elegante carrozza la affiancò, fermandosi accanto a lei.

"Signora Poldark, che sorpresa trovarvi quì!".

Demelza alzò lo sguardo, rimanendo a bocca aperta. "Caroline Penvenen?". Sapeva che era tornata a Londra ma mai avrebbe creduto di rincontrarla.

L'ereditiera le sorrise, facendo segno al cocchiere di aprire la porticina della sua carrozza. "Su venite, è davvero un piacere incontrarvi qui e da queste parti è così difficile trovare qualcuno di interessante con cui fare due chiacchiere".

Demelza strinse a se Jeremy e poi, dubbiosa, accettò l'invito. In fondo, che aveva da fare? L'esuberanza di Caroline le era sempre parsa piacevole e non poteva dire di non apprezzare quel loro fortuito incontro. Finalmente, a Londra, aveva a che fare con un viso amico.

"E allora, signora Poldark, che ci fate a Londra? Vostro marito?".

Demelza si morse il labbro. Ripensare a Ross le faceva tornare il mal di stomaco, accidenti a lui. "In Cornovaglia, suppongo. A vivere la sua vita, mentre io qui tento di vivere la mia".

Caroline si accigliò. "Vostro marito deve avervela combinata grossa".

"Abbastanza". Demelza abbassò lo sguardo mentre la carrozza riprendeva placidamente la sua andatura per le strade del centro.

"Il problema di vostro marito, sapete qual'era?".

"Non so a cosa vi riferite, ma potrei farvi un lungo elenco".

"Non si accorgeva, mentre guardava altro... o altre... che tutta la Cornovaglia gli invidiava sua moglie".

"Davvero?". A quelle parole, a Demelza venne da ridere. In realtà, se davvero era così, nemmeno lei se n'era accorta. "E voi come state, signorina Penvenen?" - chiese, per cambiare argomento. Sapeva che se n'era andata per la fine della storia con Dwight e le piangeva il cuore al pensiero di quanto lui avesse sofferto nel perderla. Le sarebbe piaciuto aiutarla, aiutarli, se non fosse stata sommersa di problemi essa stessa.

Caroline alzò le spalle. "Così... Come vanno le cose in Cornovaglia?".

Anche Demelza alzò le spalle. "Così". La osservò di sottecchi, intuendo quello che le premeva sapere. "Dwight sta per partire, ha deciso di arruolarsi come medico di marina".

A quelle parole Caroline scostò lo sguardo, fingendo di guardare un punto imprecisato della strada. "Oh... Quanto meno saprà farsi valere in qualcosa di più consono al suo rango" – disse, deglutendo.

Demelza sospirò. "La guerra è sempre la guerra e nessuno ci dovrebbe andare. Spero che vada tutto bene".

Caroline annuì, stringendo il ventaglio che aveva fra le mani. "Che cosa ci fate a Londra, signora Poldark?".

Demelza sorrise tristemente. "Inizio una nuova vita. Non ho altra scelta, ormai".

"Vostro marito vi ha tradita alla fine, non è così?".

Quella domanda tanto diretta la colpì e la ferì. I sentimenti di Ross per Elizabeth, alla fine, erano palesemente evidenti per tutti, si rese conto. "L'ha sempre voluta e ora che Francis è morto... cosa poteva separarli?".

"Il matrimonio con voi, forse?" - obiettò Caroline.

"A quanto pare no". Demelza sospirò, accarezzando i capelli di Jeremy che si era addormentato fra le sue braccia. "Me ne sono andata, ho fatto perdere le mie tracce e non voglio che lui mi trovi. Dubito che mi cercherà ma se per caso gli venisse in mente di farlo, per una pura questione di doveri verso suo figlio, io preferirei che...".

Caroline sorrise, bloccandola. "Siete orgogliosa come me, vi capisco. Nuova vita a Londra, quindi?".

Demelza sbuffò. "E chi lo sa? Non trovo uno straccio di lavoro".

Caroline rimase per un attimo in silenzio, pensierosa. Poi la osservò di sottecchi, sorridendo maliziosamente. "Forse posso aiutarvi, signora Poldark". Si voltò verso il cocchiere, chiamandolo. "James, portaci a Regent Street".

"Si signora".

Il cocchiere prese una via laterale e Demelza osservò incuriosita Caroline. "Cosa avete in mente?".

"Da quelle parti la mia famiglia ha un locale commerciale in disuso. In origine era una locanda con annesso servizio di posta e ristoro cavalli ma poi un incendio lo ha semidistrutto e dopo qualche lavoro di ristrutturazione, è stato lasciato vuoto ed inutilizzato. Al piano di sopra si trova un appartamento abbastanza grande per voi, vostro figlio e il cane. Se saprete rimetterlo a nuovo, farlo fruttare, quel posto potrete considerarlo vostro".

A Demelza mancò il fiato per quella proposta inaspettata. "Ma signorina Penvenen, io non posso pagarvi un affitto".

"Chiamatemi Caroline. E per quanto riguarda l'affitto, ci accorderemo appena vedrete i primi guadagni. Siete scaltra ed in gamba, so che potrete far fruttare quel posto che, ad oggi, rappresenta solo un debito per me. Accettate, signora Poldark?".

"Solo se mi chiamerete Demelza".

"Accetti, Demelza?".

"Accetto volentieri. Grazie".

Caroline sorrise, chinandosi ad accarezzare Garrick. "Ah, di nulla, vado d'accordo con le donne in gamba che amano i cani. Saremo buone amiche e socie".

Giunsero a Regent Street in una manciata di minuti.

Demelza scese dalla carrozza, guardandosi attorno, in quel dedalo di vicoli e botteghe, tanto vicina al centro e allo stesso tempo tanto simile ai posti semplici in cui aveva vissuto fino a pochi giorni prima. Il locale commericale era grosso, composto da un ampio negozio e una stalla a lato, era in rovina ma con un po' di lavoro si poteva rimettere in piedi.

Sì, sentiva di potercela fare, che era nelle sue possibilità e che quel posto rappresentava un nuovo inizio, per lei.

"Ti fa paura la mole di lavoro? Ti manderò degli operai ad aiutarti, ovviamente non potrai fare da sola e io ho tutto l'interesse a far funzionare questa cosa, Demelza".

"No, non mi fa paura lavorare. Ti ringrazio, Caroline".

L'ereditiera sorrise, tornando ad accarezzare Garrick. "A conti fatti, sarò io a ringraziare te. Avremo successo".

Demelza sorrise. La nausea la attanagliava ancora, non ne capiva il motivo ma quell'opportunità, quel regalo dal cielo riuscivano a metterla talmente di buon umore che per un attimo dimenticò il suo malessere, Ross, le lacrime e la disperazione degli ultimi giorni, proiettandosi verso la sua nuova vita con rinnovato ottimismo.




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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Avrebbe dovuto tornare subito a Nampara al suo ritorno da Truro, ma quasi senza rendersene conto aveva diretto il suo cavallo verso Trenwith.

Da quella notte Ross non ci era più tornato, se non di sfuggita per vedere quella casa da lontano, indeciso sul da farsi, sui suoi prossimi passi, su tutto.

Aveva desiderato Elizabeth per tanti anni e fino a quella notte ogni scusa era stata buona per correre da lei, ma ora che l'aveva avuta, posseduta, era come se si sentisse il vuoto dentro di se. L'amore vissuto è diverso da quello ideale, ha mille sfaccettature, mille punti di forza e mille punti di debolezza che lo rendono non più utopistico ma vero, nel bene e nel male. E di questo, come una doccia fredda, si era accorto al suo risveglio al mattino, quando l'aveva vista dormire accanto a se e le era sembrata improvvisamente un'estranea, tanto da spingerlo ad una fuga precipitosa.

Sapeva di sbagliare e di comportarsi come un coniglio con Elizabeth, ma non riusciva a fare nulla. Né a entrare in quella casa per rimanerci, né a entrare per dirle che era stato un errore e che il suo posto era da un'altra parte, con un'altra donna.

Pure verso Demelza si sentiva in colpa, alla deriva. Non sapeva cosa fare, cosa dire. Era arrabbiata con lui, ne aveva mille ragioni, ma fino a quel momento l'aveva sempre perdonato per ogni suo colpo di testa.

E ora invece non cedeva, non capiva e non voleva vedere la sua confusione, non provava empatia verso i suoi sentimenti per Elizabeth, non usava la comprensione che di solito, sempre, gli riservava. In un certo senso era irritato anche verso di lei, oltre che verso se stesso. Se solo Demelza avesse avuto pazienza, se solo fosse stata più accomodante...

Invece, da quel pugno in poi, fra loro era calato il gelo che solo le parole taglienti di Demelza nei suoi riguardi, di tanto in tanto, spezzavano. Parole dure, risentite, che facevano male. Era stata solo una notte, come poteva Demelza aver perso del tutto stima e fiducia in lui? Come poteva dire di non provare più orgoglio quando lo guardava? Come poteva urlare, reagire con violenza ad ogni tentativo di comunicazione?

Era tutto complicato per lui, perché Demelza non lo capiva?

Sospirando, incitò il cavallo a riprendere il cammino verso casa, lasciandosi ancora una volta Trenwith alle spalle, incapace di concludere qualcosa.

Sarebbe andato a casa dove avrebbe trovato una moglie ostile, due servi fannulloni e un figlio per cui non aveva mai tempo. Quanto meno, qualcosa di positivo c'era, di cui parlare. A Truro aveva ricevuto buone notizie, c'erano ancora investitori pronti a puntare su di lui e forse la Wheal Grace sarebbe potuta ripartire con rinnovato ottimismo, dopo il grave incidente di pochi giorni prima.

Quanto meno, avrebbe avuto un buon argomento per tentare di intavolare una discussione civile con sua moglie... Demelza, dopo tutto, si era sempre dimostrata molto interessata a tutto quello che concerneva il lavoro nella miniera, con lei aveva discusso ogni tanto, la sera, di piani di scavo e di possibilità, di costi e benefici. Spesso, quando lavorava nella libreria davanti a mappe e piantine, lei era andata da lui a fargli compagnia con una tazza di the caldo, cincendogli le spalle con un abbraccio e standogli vicino in silenzio. A quel ricordo, gli si contorse lo stomaco. Da quella notte, Demelza aveva smesso di interessarsi a lui e a tutto quello che faceva, lo aveva lasciato solo davanti a mappe e problemi, lontana e distante. Non si era mai accorto, come in quegli ultimi giorni, di quanto averla vicina fosse piacevole, anche e soprattutto nelle piccole cose quotidiane.

Giunse a Nampara che era ormai quasi buio, affamato, chiedendosi che situazione avrebbe trovato in casa. L'ultima volta che aveva visto sua moglie era stato durante la colazione di tre giorni prima, quando avevano litigato e lei aveva rovesciato tazze e stoviglie a terra, urlandogli contro tutta la sua rabbia. Poi era partito, senza dirle più nulla. Una fuga, in fondo, come quella da Elizabeth.

Pregò che si fosse calmata in quei tre giorni. Si rese conto che, litigare con Demelza, era un qualcosa di difficile da gestire e che lo feriva profondamente. Non si era mai accorto di quanto sapesse leggergli dentro, di come sapesse prevederlo e capire i suoi pensieri più intimi e di come fosse capace di ferirlo a parole, colpendolo proprio nei punti più dolenti.

Quando entrò in casa, tutto era stranamente silenzioso ed avvolto da una inquietante penombra. Jud era seduto davanti al camino, impegnato a pulire un vecchio pentolone, mentre Prudie era seduta al tavolo, a tagliuzzare delle patate. Non c'erano traccia né di Demelza né di Jeremy, stranamente. "Buona sera" – disse, entrando ed appoggiando la sacca da viaggio sul tavolo. "Mia moglie e mio figlio dove sono?".

Prudie e Jud si guardarono negli occhi, intimoriti. Poi Prudie si alzò dal tavolo, affannandosi per preparargli la tavola. "Buona sera signore! Se avete un po' di pazienza, vi servo la cena. Non vi aspettavamo che per domani".

"Prudie, ti ho chiesto dov'è mia moglie?". Il tono di Ross cominciava ad essere seccato.

"La signora non c'è!" - rispose infine Jud, squadrandolo in viso con un malcelato rancore.

"Che significa che non c'è? Dov'è? E mio figlio?".

"Non c'è nemmeno il signorino Jeremy".

Quel tono accusatorio e rabbioso di Jud, lo misero ancora più di cattivo umore. Che cosa significava? Dov'era a quell'ora della sera Demelza, con Jeremy? Non era da lei uscire, non la sera, non senza dire dove sarebbe andata. "Che cos'è questa storia?".

Prudie sospirò, abbassando lo sguardo. "Se n'è andata tre giorni fa subito dopo la vostra partenza, signore. Ha fatto le valigie, preso il bambino ed è sparita da questa casa e dalla nostra vita".

Gli occhi di Ross si spalancarono dalla sorpresa, dalla rabbia, dal terrore. Demelza se n'era andata? Andata per non tornare? Andata dove? Per quanto? "Spiegati meglio" – mugugnò, mentre un groppo fastidioso gli attanagliava la gola.

Prudie scosse la testa. "Andata via per non tornare, signore. Vi ha lasciato".

A Ross parve che il mondo gli crollasse addosso, doveva aver capito male, non poteva essere... Come poteva averlo fatto? Come poteva essersene andata senza dire nulla, senza aspettare che le cose si sistemassero, che lui capisse cosa voleva? Era tornato comunque da lei, dopo la notte a Trenwith, non le bastava? "Dove diavolo è andata?" - urlò, picchiando un pugno sul tavolo.

"Non lo so, signore" – ammise Prudie, con gli occhi lucidi. "Non ce lo ha voluto dire".

Jud prese a passeggiare per la stanza, borbottando. "Non è stata una cosa giusta, non è stata gentile, non è stata umana...".

Ross annuì a quelle parole, rosso d'ira, puntando l'indice verso di lui. "Hai ragione, Jud, stavolta non posso che essere d'accordo con te!".

Il servo si fermò, guardandolo in viso. Sembrava arrabbiato pure lui. "Certo signore! Non è stato giusto andare a Trenwith quella notte ed abbandonare la signora. E poi, quando siete tornato, non le avete nemmeno chiesto scusa".

Quelle parole accesero in lui ancora più ira. Come osava Jud? Cosa ne sapeva, come poteva giudicare? Da quando i suoi servi erano diventati tanto insolenti? E Demelza, come aveva potuto osare? Con che coraggio se n'era andata? Dannazione, erano sposati, era sua moglie! "Ne riparleremo domani di questa storia, dovevate impedirglielo, dannazione!".

"La signora è libera, come tutti, di uscire da quella porta e andare dove vuole, non abbiamo certo il diritto di fermarla" – rispose a tono, Jud.

"Come vi ho detto, ne riparleremo domani! Ora vado a letto, non ho fame!" - disse, trattenendo a stento la rabbia.

Lasciò i servi, salì velocemente le scale ed entrò nella stanza da letto sbattendo la porta dietro di se.

Osservò quell'ambiente e gli parve cambiato, freddo. Il letto a baldacchino e i mobili erano ancora al loro posto, ma le candele erano spente, una pesante oscurità aveva preso possesso della stanza e non c'era più nulla che riportasse alla presenza di sua moglie e di suo figlio.

Il letto e la culla di Jeremy erano vuote, tutto era desolatamente in ordine e un silenzio opprimente pareva soffocare la camera e la sua gola.

Si avvicinò alla parete e sferrò un violento pugno contro il muro.

Se n'era andata...

Si chiese se, quella notte che aveva passato con Elizabeth, Demelza avesse provato le stesse cose che stava provando lui in quel momento. Stupore, rabbia, desolazione, solitudine, disperazione...

Osservò la spinetta accanto al letto, ricordando quanto Demelza amasse suonare, di tanto in tanto, e di come lui spesso si fosse fermato a guardarla mentre lo faceva, impalato davanti alla porta, rapito da quei lunghi capelli rossi ribelli che le ricadevano sulla schiena.

Alzò il coperchio che copriva la testiera, per poi richiuderlo con violenza.

Se n'era andata, al diavolo! Non avrebbe dovuto farlo, non doveva permettersi! Si rese conto che non aveva mai contemplato una cosa simile, che non si era minimamente soffermato a pensare a questa eventualità. Demelza c'era sempre stata per lui, ad ogni suo ritorno a casa, ad ogni suo errore era stata capace di perdonare e di stargli accanto. Perché ora no? Perché lo aveva abbandonato? Sapeva cosa lo aveva legato ad Elizabeth, lo aveva sempre accettato e in fondo entrambi erano consapevoli che prima o poi sarebbe successo, no?

Si sentiva tradito, rabbioso, pensava a lei ed era come pensare a un nemico.

L'avrebbe ritrovata, a costo di mettere a ferro e fuoco tutta la Cornovaglia. E l'avrebbe riportata a casa, al suo posto, che le piacesse o no! Era sua moglie, aveva dei doveri, aveva delle responsabilità.

"E io ho bisogno di te...".

Deglutì, sedendosi su quel letto freddo e vuoto, stringendo la coperta fra le mani. Aveva un mal di testa atroce, si sentiva stanco e confuso, alla deriva.

Demelza se n'era andata, non era più la signora di Nampara, la sua signora...

"La mia stella guida...".

Si rese conto che quello che le aveva detto quel giorno corrispondeva alla verità. Era la sua stella guida, colei che le indicava il cammino, ed ora si sentiva, oltre che arrabbiato, perso.

E Nampara, la sua casa, il suo rifugio, per un attimo gli parve uguale a quello che era stato dieci anni prima, al ritorno dalla guerra. Un posto freddo, vuoto, atto solo a coprirti la testa durante i temporali. Ma non una casa...

Lei l'aveva resa la sua casa...

E ora che se n'era andata, era come se Nampara avesse perso la sua anima.


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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Nei giorni seguenti, Ross era partito ed aveva messo a ferro e a fuoco tutta la Cornovaglia. Era andato a Illugan a cercare Demelza a casa di suo padre, poi si era spostato da Verity, aveva chiesto informazioni al villaggio dove vivevano la maggior parte dei suoi minatori e infine era andato pure a Southempton, per verificare che non si fosse imbarcata per il nuovo mondo.

Ma nulla, ogni ricerca era risultata vana ed infruttuosa. La preoccupazione e la frustrazione per quanto successo con sua moglie fecero passare in secondo piano i turbamenti per Elizabeth che, Ross lo sapeva, continuava ad aspettare una sua risposta, un suo cenno.

Ma non ne aveva tempo, non poteva occuparsi anche di lei, ora che Demelza se n'era andata. La cosa principale era ritrovare sua moglie e riportarla a casa, assieme a Jeremy.

Era furioso, preoccupato, si sentiva in trappola. La gente che lo frequentava aveva capito che qualcosa non andava, che Demelza non c'era ma per fortuna nessuno gli aveva ancora fatto domande dirette circa l'assenza di sua moglie. Ma sapeva che presto avrebbe dovuto affrontare la questione anche con gli altri, ammettere che sua moglie lo aveva lasciato e il perché. Provava vergogna, verso se stesso e verso l'immagine che avrebbe dato di lui al mondo.

Dopo due settimane di ricerche forsennate, ormai non sapeva più dove sbattere la testa. Doveva parlare con qualcuno o sarebbe impazzito!

Ogni giorno aveva sperato che Demelza cambiasse idea e tornasse ma era anche consapevole di quanto lei fosse testarda ed irremovibile quando prendeva una decisione, difficilmente avrebbe fatto ritorno a Nampara di sua spontanea volontà.

Bussò con energia alla porta di Dwight che, dopo pochi istanti aprì l'uscio. "Ross, qual buon vento! E' un po' che non ci vediamo. Tutto bene?".

"No". Entrò in casa, sedendosi al tavolo. Senza aspettare l'amico, si versò del vino in un bicchiere e bevve tutto d'un fiato.

Dwight gli si avvicinò, preoccupato. "Ross, cosa succede?" - chiese, sedendosi accanto a lui.

Ross si portò le mani alla fronte, chiudendo gli occhi. "Demelza se n'è andata".

"Cosa? Che diavolo stai blaterando?".

"Se n'è andata, mi ha lasciato. Ha preso Jeremy ed è sparita nel nulla".

Dwight spalancò gli occhi, incredulo. "Andata per non tornare? Ma chi, Demelza? Perché?".

Ross scosse la testa, allungando la mano per prendere il bicchiere vuoto davanti a lui. "L'ho tradita. E' stato solo una volta, una notte, è stato qualcosa di irrazionale, non avevo scelta, non potevo fermarmi...".

Dwight trattenne il fiato, evidentemente in difficoltà. "Hai tradito Demelza? Come hai potuto farlo, Ross? Hai una moglie meravigliosa che tutti ti invidiano, dannazione! Con chi, perché?".

Ross sospirò, abbandonandosi sulla sedia. "Con Elizabeth. Mi ha comunicato per lettera l'intenzione di sposarsi con George Warleggan e ho perso la testa. Demelza ha cercato di fermarmi ma non ci è riuscita. E così sono andato a Trenwith e... Beh Dwight, lo sai, io sogno Elizabeth da sempre, è il mio primo amore e non l'ho mai dimenticata e...".

"Ross, che stai dicendo, cosa stai blaterando? Santo cielo hai tradito tua moglie e stai quì ad accampare scuse? Demelza ti ha sempre amato più di ogni altra cosa, ti è sempre stata accanto e solo Dio sa quanto possa essere stato duro in certi frangenti vivere con uno come te e tu... tu nel mentre non avevi mai dimenticato Elizabeth?".

Il tono di voce acuto di Dwight lo fece sussultare. "So che sembra terribile detto così, ma io...". Cercò di prendere la bottiglia per riempirsi nuovamente il bicchiere, ma Dwight glie lo impedì. "Ti prego, ne ho bisogno" – implorò.

Dwight scosse la testa. "No, non ne hai bisogno! Quello che ti serve è essere sobrio e lucido e trovare una soluzione a questo disastro. Sempre che...".

"Sempre che, cosa?".

Dwight si sedette accanto a lui. "Sempre che la partenza di Demelza non ti sia utile a stare con Elizabeth. Ti faciliterebbe le cose, se è lei che vuoi".

A quelle parole, Ross alzò lo sguardo su di lui, colpito da quanto aveva appena detto. Quella di Dwight era evidentemente una provocazione, ma era vero, se Demelza non c'era più, la strada per arrivare ad Elizabeth sarebbe stata in discesa per lui. Ma stranamente questa era un'ipotesi che non lo allettava per niente, non ci aveva mai pensato e nemmeno ora gli passava per la mente di fare una cosa del genere. Da quando Demelza era partita, ogni suo pensiero era rivolto a lei e alla sua ricerca, era sua moglie e non concepiva minimamente l'ipotesi che potessero vivere lontani. Gli mancava, doveva ammetterlo a se stesso! Così come non poteva non ammettere che gli sarebbe piaciuto tornare indietro a quella notte e fare tutto in maniera diversa, rimanere a casa con lei, evitare Elizabeth e salvare così il suo matrimonio.

Ma il danno era fatto ed ora si sentiva perso. "Io voglio riportare a casa mia moglie. Elizabeth è stata... Sai, quelle cose... quelle cose che idealizzi e che ti sembrano perfette quando le vedi da lontano e poi, una volta che le hai provate, non ti attirano più? Le vedi per quel che sono da vicino, belle, piacevoli, ma che non valgono nulla in confronto a chi hai accanto e con cui condividi la vita. Io rivoglio Demelza a casa, solo questo. L'ho cercata ovunque e non è da nessuna parte".

"Ross, sai che è un bel casino, vero?".

"Lo so, Dwight. Non credevo che sarebbe successa una cosa simile".

Il dottore sospirò, poggiandogli amichevolmente una mano sulla spalla. "Ross, una donna vuole essere unica per il suo uomo. Anche Caroline, in fondo, sentiva la competizione coi miei pazienti e alla fine è andata a finire come ben sai".

"Caroline se n'è andata perché tu, invece che partire con lei, hai perso tempo a cercare di salvare il didietro a me. Mi sento terribilmente in colpa per questa cosa e spero di poterti aiutare a risolverla, un giorno".

Dwight sospirò. "Era destino che andasse a finire così, siamo troppi diversi, non avrebbe funzionato". Si sedette accanto a lui, prendendo a sua volta la bottiglia e riempiendo i due bicchieri. "Sai una cosa? Una bella bevuta ce la meritiamo, in fondo. E per quanto riguarda Demelza...".

"Cosa?".

"E' testarda Ross, ma ti ama. Qualsiasi cosa sia successa ed ovunque lei sia, ti ama. Pensa a questo, se non sai dove sbattere la testa".

"Già".

Entrambi bevvero, svuotarono la bottiglia e poi rimasero in silenzio seduti al tavolo ad osservare il soffitto, ognuno col suo peso nel cuore. Avevano amato due donne che non erano riusciti a tenere ed ora era come se il mondo attorno a loro si sgretolasse, facendoli sentire alla deriva.

"Ho deciso di arruolarmi come medico di marina, Ross".

"Forse dovrei farlo anch'io, a questo punto. La miniera, anche coi nuovi fondi ottenuti a Truro, non da garanzie e non ho più una famiglia di cui occuparmi".

Dwight sospirò. "Fallo se senti che è la tua strada. Ma prima, accertati di averle tentate tutte con Demelza, per ritrovarla".

"Lo farò".


...


Rientrò che era ormai buio, mancava da due settimane da Nampara, da quando era partito alla ricerca di Demelza, cavalcando per mezza Inghilterra. Per un attimo sperò che fosse tornata ma quando entrò in cucina, le candele spente e il silenzio opprimente gli tolsero ogni illusione.

Prudie gli andò incontro, ciabattando e borbottando. "Signore, siete tornato! E' piuttosto tardi. Volete mangiare qualcosa?" - chiese, con scarso entusiasmo.

"No, andrò subito a letto. Ci sono novità? Lettere, notizie su Demelza...".

Prudie scosse la testa. "Ci sono delle missive per voi. Una arriva da Trenwith, il matrimonio fra il signor Warleggan e la signora Elizabeth si terrà fra una settimana".

La freddezza con cui accolse quella notizia lo stupì. Tre settimane prima aveva dato fuori di matto, distruggendo il suo matrimonio con Demelza all'idea che Elizabeth sposasse George. Ora invece non provava nulla. "Ci sono altre belle notizie per me o posso andare a letto?" - chiese, con una punta di ironia nel tono di voce.

Prudie annuì. "E' stato quì il vostro socio alla miniera. Ha detto di dirvi di correre subito da lui, appena tornato. Pare che abbiano trovato ingenti quantità di stagno dietro la parete crollata. Tanto ingenti da farvi quasi diventare ricco".

"Cosa?". Era una buona notizia per i suoi uomini, se quello che aveva detto Prudie corrispondeva a verità, era la realizzazione di un sogno e il coronamento di anni di fatica. Ma non riusciva a gioirne. Quanto avevano faticato, perso, sofferto lui e Demelza negli anni di povertà che avevano condiviso insieme, aspettando un momento simile? Ed ora quel momento era quì e lei non c'era più... L'amarezza lo invase, come un veleno. "Grazie Prudie, domani mattina andrò alla miniera quanto prima".

"Aspettate ad andare a letto signore, c'è un'altra cosa?".

Ross alzò gli occhi al cielo. Che diavolo poteva esserci ancora? "Cos'altro c'è?".

Prudie rovistò nella tasca del suo grembiule, estraendone una lettera. "E' della signora. L'ho trovata sotto il cuscino del letto in cui avete dormito in libreria, dopo che...".

La interruppe, mentre il cuore prendeva a galoppargli nel petto. "Di Demelza?".

"Si signore, deve averla scritta prima di lasciare questa casa. L'ho trovata quando ho disfatto il letto, visto che ormai siete tornato a dormire nella stanza padronale".

Con le mani tremanti, Ross prese la lettera e senza dire nulla salì al piano di sopra, chiudendosi nella sua stanza. Si gettò sul letto, con mente e cuore in tumulto. Una lettera, da Demelza... Forse non tutto era perduto, forse gli aveva lasciato un recapito, una spiegazione, un qualche appiglio per ritrovarla. La aprì, speranzoso e allo stesso tempo terrorizzato. Riconobbe la scrittura elegante, ordinata e pulita di sua moglie, molto migliore della sua.

"Ross, ti scrivo questa lettera per informarti che sto partendo con Jeremy. Non ha importanza né dove andrò, né quello che farò ma ti rassicuro che farò di tutto perché nostro figlio stia bene, su questo puoi dormire sonni tranquilli. Sono la figlia di un minatore dopo tutto, una donna del popolo. E le donne del popolo sanno cavarsela anche senza avere un uomo accanto, sanno lavorare ed arrangiarsi da sole. Le donne del popolo non hanno bisogno né di aiuto né di attenzioni, come giustamente avevi detto ad Elizabeth durante una vostra vecchia conversazione che avevo ascoltato per errore, a Trenwith.

Non cercarmi, sarebbe una inutile perdita di tempo perché non tornerò. Non hai responsabilità verso di me, sentiti libero di vivere come vuoi, accanto alla donna che hai sempre desiderato. In fondo ho sempre saputo che sarebbe successo, che era lei che volevi, che ero solo una seconda scelta. Non è una bella sensazione vedere, giorno dopo giorno, che l'uomo che ami non ti considera abbastanza per lui. E non voglio che mio figlio provi quello che provo io crescendo, vedendo suo padre che sogna una vita e una famiglia altrove. Lo so, l'ho sempre saputo che era Elizabeth che volevi, che né io, né Julia, né Jeremy saremmo mai stati alla sua altezza, che quella perfetta per te era lei. Non me ne vado per il tradimento di una notte ma per tutti quelli avvenuti prima, ogni volta che diventavamo invisibili e tu correvi da lei, senza curarti del fatto che ne potessimo soffrire. Mi hai tradita in mille modi Ross e forse l'ultimo non è nemmeno stato il peggiore.

Ora non avrai più bisogno di accampare scuse, ora potrai vivere con lei alla luce del sole. Tu ed Elizabeth.

Il vostro amore supererà ogni ostacolo, come non è riuscito a fare il nostro. Siete perfetti e fatti per stare insieme, come le avevi detto sempre in quella famosa conversazione che ho sentito, mio malgrado.

Ora potrete farlo, potrete vivere il vostro amore, mi faccio da parte e me ne vado. Ti auguro di essere felice con lei, sul serio. L'unica cosa che ti chiedo, per me e per Jeremy, è di non cercarci più. Vivi la tua vita e permetti a noi di vivere la nostra, serenamente, senza sentire il peso del confronto con altre persone. Non sentirti in obbligo, mai, non ne abbiamo bisogno.

Demelza


Gli sembrò che la stanza gli collassasse addosso. Cercò di ricordare a quale conversazione si riferisse Demelza nella lettera ma i suoi ricordi in quel momento erano confusi ed incoerenti.

Era una lettera breve, non rabbiosa, non accusatoria, una lettera scritta con cuore ferito della donna che aveva sposato e che aveva giurato di amare sopra ogni altra cosa.

Facevano male quelle parole messe nere su bianco, gli davano la consapevolezza di ogni suo errore o torto, di quanto l'avesse fatta soffrire, di quanto l'avesse trascurata, di quanto l'avesse ferita, tanto da farle credere di essere la seconda scelta, un ripiego. Non era vero che non l'aveva mai considerata abbastanza per lui, non era vero dannazione!

E ora, che avrebbe fatto?

Non era il tradimento di una notte che aveva spinto Demelza ad andarsene, ma il tradimento di tutte le promesse che gli aveva fatto e che non si era mai curato di mantenere, troppo preso da se stesso, dal voler cambiare il mondo, dal suo antico ed utopistico amore giovanile.

L'aveva persa, giorno dopo giorno. E per la prima volta ne aveva la piena consapevolezza.

E ora che era rimasto solo, aveva la certezza di capire cosa avesse provato lei per anni. Ed era qualcosa di terribile.






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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


I lavori di ristrutturazione procedevano speditamente. Grazie alla moltitudine di operai che gli aveva inviato Caroline a pulire, rassettare, riordinare, rimodernare e riarredare gli ambienti dell'attività e dell'appartamento, nel giro di poche settimane la locanda aveva ripreso vita.

Il tempo, ormai votato alla primavera e al bello, era stato clemente e con poca pioggia, il che aveva aiutato non poco il procedere spedito dei lavori.

"Se va avanti così Demelza, fra meno di un mese potremo aprire ufficialmente, di nuovo, questo posto".

Demelza sorrise. Caroline veniva spesso a controllare il procedere della ristrutturazione e ormai la considerava un'amica. La guardò, affascinata dalla sua rara bellezza, da quei capelli così biondi raccolti in raffinati boccoli, dai suoi occhi azzurri come il ghiaccio e dal suo portamento così elegante, raffinato, impreziosito da un fisico snello e slanciato. Caroline era giovanissima, bellissima, una delle più ricche ereditiere di Londra e sicuramente uno dei partiti più ambiti. Eppure, sotto la sua scorza di donna ricercata e viziata, si nascondeva l'animo di una ragazza ancora giovanissima che era stata vicina ad abbandonare tutto il suo mondo per amore di un dottorino squattrinato di campagna. L'ammirava per questo, soprattutto per questo. Più che per i suoi gioielli e i suoi abiti eleganti, si sentiva attratta da quell'animo molto più puro e lucente di quello di tanti altri nobili. "Non vedo l'ora di mettermi all'opera, odio starmene con le mani in mano".

A quell'esclamazione, Caroline scoppiò a ridere. "Con le mani in mano? Demelza, ti ho vista portare assi, usare con maestrìa un martello e correre più di tutti questi uomini messi insieme, o dietro al lavoro o dietro a tuo figlio! Non mi sembra che il tuo stile di vita sia così riposante, allo stato attuale, e credo che quando l'attività sarà aperta, sarà in quel momento che potrai riposarti... Se devo essere onesta comunque, dovresti rallentare un attimo. Ultimamente sei pallidissima, ti stai stancando troppo. Sei sicura di sentirti bene?".

A quella domanda, Demelza si morse il labbro. No, non stava bene e tutta la frenesia degli ultimi tempi forse non era che un modo per non pensarci troppo. Ma a Caroline doveva dirlo, con lei doveva essere sincera e c'era un segreto che ormai si portava dietro da settimane e che presto sarebbe stato evidente.

Quando se n'era andata da Nampara quasi non lo sospettava, ma giunta a Londra, settimana dopo settimana, quel piccolo dubbio era pian piano diventato una realtà e quando era stata male di stomaco, più volte, sentendo l'odore della vernice per imbiancare le pareti, la certezza era diventata inconfutabile.

Si massaggiò il ventre, ricordando quante lacrime aveva versato da sola, chiusa in una camera al piano di sopra non ancora ristrutturata, lontano da tutto e tutti, quando aveva capito...

C'era stato un tempo in cui lei e Ross erano stati amanti appassionati e lei una moglie innamorata. L'amore per lui, nonostante tutto, c'era e ci sarebbe sempre stato, ma la passione no, quella era finita in cenere nell'esatto istante in cui Ross le aveva detto di togliersi di mezzo ed era corso da Elizabeth.

Ma prima di allora, dopo la faccenda del contrabbando, lei e Ross si erano amati, notte dopo notte, facendo l'amore in quel modo meraviglioso che, in quegli istanti, riusciva ad isolarli dal mondo e da tutto e tutti. In quei momenti tanto intensi, perfetti, Ross era suo, solo suo, nemmeno Elizabeth riusciva a mettersi fra di loro. Ed era in quei momenti che avevano concepito Julia, Jeremy e...

Era sempre stata felice quando aveva scoperto di aspettare un figlio, ma stavolta era diverso. Il suo matrimonio era in frantumi, Ross era ormai di un'altra donna e per lei e i suoi bambini non c'era più posto nella sua vita. Era sola, i suoi figli sarebbero stati soli, senza un padre a guidarli. Sapeva che sarebbe stato difficile per Jeremy ma quando se n'era andata da Nampara, quasi due mesi prima, non poteva immaginare che dentro di lei, da poche settimane, stesse crescendo una nuova vita, un bambino che Ross non avrebbe mai conosciuto, di cui ignorava l'esistenza, un bimbo che aveva iniziato a vivere mentre suo padre la tradiva e la abbandonava a se stessa, incurante del dolore che le aveva provocato e dei suoi sentimenti. "Aspetto un bambino, Caroline" – sussurrò, con un filo di voce.

La ragazza spalancò gli occhi, a bocca aperta. "Cosa?".

Demelza guardò Jeremy, a pochi passi da loro, in un angolo del locale, intento a giocare con Garrick e Horace, il cane di Caroline. "E' successo prima che...".

"Prima che Ross ti tradisse?".

Demelza sorrise, amaramente. "Su questo puoi starne certa perché poi non l'ho più nemmeno fatto avvicinare alla camera da letto".

Caroline scosse la testa e poi le prese la mano, stringendola fra le sue. "Mi dispiace, non so nemmeno cosa dirti, non ho figli e non ho idea di come tu possa sentirti".

"Tradita, umiliata, disperata, sola, in colpa".

"Ti senti in colpa? Demelza, lui ti ha messa incinta e poi è corso nel letto di un'altra! E ti senti in colpa TU?".

Demelza sentì gli occhi inumidirsi e fece del suo meglio per non scoppiare a piangere davanti agli operai che andavano e venivano e soprattutto davanti a Jeremy. "Mi sento in colpa perché quando ho scoperto che questo bimbo esisteva, non ne sono stata felice come per gli altri. Mi sento in colpa perché lo metterò al mondo in una situazione orrenda e non ho idea di che futuro potrò garantirgli. Mi sento in colpa perché ho paura, invece che esserne contenta. Sono terrorizzata Caroline, io non so se ce la faccio a portare avanti da sola una gravidanza, a partorire senza avere Ross a fianco, a gestire tutto senza crollare".

Caroline le strinse ancora più forte le mani. Poi le accarezzò una spalla, cercando di farle coraggio. "Senti, lasciamo un po' da parte la locanda, che ne dici? Ti trasferisci da me, ti passi la gravidanza con tranquillità e quando nascerà il bimbo, riparleremo di aprire questo posto".

"No".

La risposta sicura di Demelza, fece sussultare Caroline. "Demelza, sii ragionevole".

"Non ho mai accettato di vivere alla spalle di nessuno e poi, se mi fermo ora, avrò troppo tempo per pensare, Caroline. Devo avere qualcosa da fare o impazzirò e il lavoro alla locanda, finita la ristrutturazione, non sarà così faticoso. Non sono malata e non ho mai passato nessuna gravidanza a letto. Non mi sembra il caso di farlo ora".

"Va bene. Ma per quanto riguarda Ross, che farai? Glielo dirai?".

Demelza scosse la testa mentre le lacrime, nuovamente, rischiavano di rigarle il viso. "No, non posso. Non vuole me, non voleva nemmeno Jeremy ed ora che la strada verso Elizabeth è spianata per lui, vedrebbe questo bambino unicamente come un peso, un errore, come l'ennesimo intoppo. Non posso fare questo al mio bambino, non posso. Lo terrò e lo crescerò da sola, come farò con Jeremy. E Ross...". Deglutì, era così difficile ammetterlo... "Lui starà con la donna che ama, con Geoffrey Charles e avrà figli con Elizabeth, forse, un giorno. E' con lei che desidera diventare padre, una vera lady gli darà sicuramente figli migliori, ai suoi occhi, di quelli che ha avuto con me".

Caroline abbassò il viso, incerta su cosa dire. "Io credo che Ross invece se ne pentirà un giorno, di quel che ha fatto".

"Io credo di no".

"Demelza, tu sei sconvolta, hai mille ottime ragioni per esserlo e ora vedi tutto nero ma... sei così sicura che non ti abbia mai amata? Era distratto, ha commesso mille passi falsi, ti ha tradita ma... voi siete stati anche felici, insieme".

Demelza abbassò lo sguardo, vinta nuovamente dai ricordi. Ricordi anche felici di sorrisi, abbracci, di parole sussurrate rivolte solo a lei e che solo lei poteva sentire, di giornate dure passate a far quadrare i conti coi pochi soldi a disposizione e nonostante questo serene, perché erano insieme. I ricordi belli, più di quelli orrendi degli ultimi giorni a Nampara, erano quelli che la facevano soffrire di più. Si sentiva sola, tremendamente sola e inerme, senza appigli, senza certezze, senza alcun affetto a parte Jeremy e quel piccolo che cresceva dentro di lei. "Dovrebbe nascere a novembre" – sussurrò, per cambiare discorso e pensare a qualcosa di bello.

Caroline sorrise. "Quindi, per Natale, avrai un bel regalo! Sappi che ti riempirò casa di cose per neonato, a Londra esistono negozi di moda infantile meravigliosi. Se sarà una bambina, ti inonderò di abitini da principessa".

A quelle parole, per la prima volta nella giornata, Demelza sorrise. "In realtà, ho come la sensazione che sarà femmina. E spero che questa attività che stiamo per aprire mi permetta di poter mantenere i miei figli".

"Andrà bene!". Caroline frugò nella sua borsa, tirando fuori un plico di fogli. "A proposito, è per questo che sono venuta, oggi. Tieni".

"Cosa sono?" - rispose Demelza, prendendo i fogli.

Caroline alzò le spalle. "Scartoffie burocratiche che mi ha preparato il mio legale, che devi firmare per iniziare l'attività. Leggitele con calma stasera e poi ritornamele firmate appena puoi".

"Lo farò. Grazie di tutto, Caroline". Quella nuova vita, stava diventando improvvisamente reale.

"Bene, allora per oggi posso andare". L'ereditiera si avvicinò alla porta, salutandola con un cenno della mano. "Demelza, ricordati che sono tua amica e che potrai contare su di me per qualsiasi cosa".

"Lo ricorderò".

Caroline le sorrise, prese Horace fra le braccia, accarezzò la testolina di Jeremy e scomparve nella via.


...


Era ormai sera tardi, Jeremy dormiva nel suo lettino e Demelza non riusciva a dormire.

Passeggiò nel corridoio della sua nuova casa, ormai quasi del tutto abitabile ed ammobigliata grazie alla generosità di Caroline, accarezzandosi il ventre ancora piatto.

Ora che era sola, poteva permettersi di piangere, in silenzio, senza che il mondo si accorgesse di quanto fosse fragile in quel momento.

Pensò a Jeremy, al suo nuovo figlio in arrivo, a Ross e un moto di rabbia la spinse a dare un pugno contro la parete. Era disperata, stanca, arrabbiata con se stessa. "Ti odio, Ross" – sussurrò contro la parete, singhiozzando. Erano solo parole, uno sfogo... Non era odio vero, non riusciva a farlo, nonostante tutto. Lo amava ancora, lo avrebbe sempre amato, odiarlo le avrebbe reso le cose più semplici ma non le riusciva. Ross era stato il suo amore, colui che l'aveva salvata da una vita fatta di miseria, colui che l'aveva resa la donna e la madre che era adesso.

Ma ora il suo ricordo la rendeva fragile, spezzata e debole. Doveva lasciarselo indietro, dimenticarlo, riporre i suoi ricordi con lui in un angolo del cuore il più irraggiungibile possibile o sarebbe impazzita. E non poteva permetterselo, lo doveva ai suoi figli, loro meritavano una madre serena.

Aspettò di calmarsi, seduta nel buio della notte, nel corridoio. Poi, quando fu sufficientemente certa che non avrebbe pianto nuovamente e svegliato Jeremy, tornò nella stanza.

Accese una candela sul comodino, si sedette alla piccola scrivania al lato del letto e lesse i documenti che le aveva lasciato Caroline.

Era quella la sua nuova vita, ora. E doveva lasciarsi alle spalle quella vecchia, se voleva avere successo ed essere indipendente e in grado di crescere i suoi figli.

Sfiorò la fede al suo dito che riposava lì silenziosa, ricordandole costantemente un grande amore che non c'era più. Non se l'era mai tolta, dal giorno del suo matrimonio con Ross quell'anello era sempre stato il suo orgoglio. E quindi con immensa fatica, dolore, se la sfilò, chiudendola con un gesto secco nel cassetto della scrivania, al buio, lontana dai suoi occhi e dal suo cuore, per sempre.

Poi prese la penna, la intinse nell'inchiostro e prese a firmare i documenti in un modo nuovo, mai usato, perché quando sfoggiava quel cognome, ancora non sapeva scrivere. Firmò tutto, rimanendo stupita di quanto la sua firma ora le apparisse estranea, quasi non sua. Eppure doveva abituarsi. Non era più Demelza Poldark, ora.


"Demelza Carne".


Faceva male leggere quel nome. Ma era quello che era tornata ad essere.


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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


"Signore, oggi è stato quì un domestico di Trenwith. Vi ricorda che dovete ancora rispondere all'invito per il matrimonio fra il signor Warleggan e miss Elizabeth. Si sposeranno domani".

Ross alzò gli occhi al cielo. Già, se n'era dimenticato! O non aveva voluto stare troppo a pensarci. "Hai ragione Prudie, l'ho scordato. Il lavoro alla miniera mi ha assorto totalmente in questi ultimi giorni". In fondo era una bugia a metà perché era vero, da quando la parete era crollata il mese prima, quella miniera era diventata fonte di ricchezza per lui, i suoi soci e i minatori che vi lavoravano. Si era perso dietro libri contabili, pagamenti, progetti e non aveva pensato ad altro che al lavoro per giorni, era più comodo così, faceva meno male avere un qualcosa a cui pensare.

"Quindi signore? Mando Jud a Trenwith con la vostra risposta?".

"No". Si massaggiò le tempie, incerto sul da farsi ma consapevole di quello che sarebbe stato un suo dovere già da diverse settimane. Non era come quella sera di un mese prima, non era furente e fuori di se ma al contrario, di una calma controllata che non gli era mai appartenuta. Doveva qualcosa ad Elizabeth, sapeva di essere stato pessimo con lei, tanto quanto lo era stato con Demelza. Ed era ora di iniziare a riparare ai suoi errori.

Non poteva cambiare l'ordine delle cose, il passato e tanto meno poteva modificare un futuro già segnato con promesse che non poteva mantenere perché lo sapeva, non era Elizabeth nel suo destino, non lo era mai stata e mai come in quel momento gli appariva chiaro. Ma un mese prima si era introdotto a casa sua con la forza, aveva buttato giù a calci una porta, l'aveva travolta con una furia quasi non umana, lui che l'aveva sempre vista come un qualcosa di utopisticamente inarrivabile, come una bambolina da trattare con la massima cura.

E dopo quell'amplesso, dopo quella notte di amore selvaggio con lei, cosa era rimasto in lui? La fine di un sogno infantile, di un'utopia, la fine dell'illusione di un amore puro e perfetto, la percezione della vera realtà che lo circondava, la consapevolezza di aver idealizzato come un bambino mai cresciuto qualcuno di distante e non aver apprezzato il vero amore che aveva costantemente a fianco. Aveva una moglie che amava più della sua stessa vita, che aveva ferito e tradito e che aveva perso assieme a suo figlio. E una donna che aveva sempre desiderato e che ora, dopo quanto successo, gli appariva lontana, estranea, diversa da lui in tanti di quei modi che, ora lo sapeva, non poteva durare fra loro. Elizabeth non era Demelza, non si sarebbe mai adattata a vivere in povertà, non avrebbe mai sorriso davanti alle difficoltà della vita e non si sarebbe rimboccata le maniche per sopravvivere, non ne era capace. Elizabeth non lo avrebbe amato dopo ogni sbaglio, non lo avrebbe accolto con un sorriso anche se le cose andavano male, non sarebbe stata in grado, totalmente inadatta, a stare accanto a un uomo complesso e portato all'errore come lui.

Era Demelza il suo amore, Demelza che aveva sempre messo da parte, data per scontata, che aveva lasciato un vuoto in quella casa tanto assordante che a volte gli faceva mancare il fiato, che era la sua migliore amica, un'amante tenera ed appassionata che sapeva soddisfare ogni suo bisogno e soprattutto che era la meravigliosa madre dei suoi figli. La sua vita l'aveva costruita con lei e con lei era stato il più felice degli uomini, lei era stata il suo rifugio, la sua forza, il suo amore vero, sincero, imperfetto forse ma talmente forte da superare ogni tempesta che li aveva investiti.

"Signore?".

"Scusa Prudie, stavo pensando. Lascia stare Jud, a Trenwith ci vado io stesso".

Prudie spalancò gli occhi, preoccupata. "Adesso? Ma... Signore, non è il caso... L'ultima volta che...".

Ross sospirò, capendo a cosa alludesse la donna. Era in imbarazzo, ecco... "Torno presto, non starò via tutta la notte. Vedi di prepararmi una cena commestibile per quando sarò tornato, piuttosto. Quella di ieri sera mi ha distrutto lo stomaco".

Senza aspettare una risposta, si rimise il tricorno in testa ed uscì a cavallo, diretto a Trenwith.

Il vento era impetuoso, c'era aria di tempesta e non aveva voglia di perdere più tempo del necessario. Doveva parlare con Elizabeth, chiarire con lei la sua posizione e cercare di dissuaderla, questa volta con la ragione, da quell'idea malsana di sposarsi con George. Certo, ormai poteva essere troppo tardi ma doveva comunque provarci. Non sapeva se Elizabeth lo facesse per vendicarsi di lui o per amore vero, ma George era il demonio e le avrebbe rovinato la vita.

Giunse a Trenwith dove, dopo aver bussato alla porta, un cameriere lo fece entrare nel salone principale.

"Nipote, qual buon vento".

Ross sorrise. Zia Agatha stava seduta al solito tavolo a fare i suoi tarocchi, come sempre. Le si avvicinò, baciandole la mano. "E' sempre un piacere vederti, zia".

La vecchia lo squadrò in viso. "Stavolta sei entrato in questa casa in modo più consono al tuo rango è, Ross? L'ultima volta ci hai scardinato una porta e ci è costato un salasso farla riparare. Devi imparare ad essere più discreto".

Ross deglutì. Quella donna aveva quasi cento anni e l'occhio più lungo di una lince. "Ecco...".

Zia Agatha ridacchiò, prendendo a rigirare le sue carte. "Sei venuto per Elizabeth?".

"Devo parlarle un attimo".

La donna scosse la testa, il volto incupito da foschi pensieri. "Domani porterà il demonio in questa casa. E quando fai un patto col diavolo, poi devi essere pronto a pagarne le conseguenze. Ma purtroppo non sarà l'unica a pagarle, temo".

"A chi ti riferisci?".

"Al bambino, a Geoffrey Charles. E' l'ultimo Poldark rimasto in questa casa e pensi che George lo gradisca?".

Anche Ross si incupì a quelle parole. Era vero e sapeva altrettanto bene che George era spietato e non si sarebbe fermato neanche davanti a un bambino ancora piccolo, orfano di padre. "Dov'è Elizabeth?".

Zia Agatha alzò le spalle. "Di sopra, nella sua stanza. Non c'è bisogno che ti indichi la strada, vero...?" - disse, con una punta di malizia nel tono di voce.

Ross arrossì di nuovo, per la seconda volta nella serata. "No, so dov'è" – mugugnò.

Fece per allontanarsi ma la voce di Agatha lo fermò nuovamente.

"Ross? Dicono cose curiose sulla tua famiglia, ultimamente. Se la tua graziosa moglie se n'è andata, perché non sei tornato prima? Lei ha fatto molto per noi, certo, ma in fondo non è che una sguattera e ha capito che il tuo posto era quì. Dovevi tornare prima".

Ross strinse le mani, rabbioso. Adorava zia Agatha ma nessuno doveva parlare in quel modo di Demelza. "Quella sguattera... è mia moglie! E quel bambino per cui sei tanto preoccupata non sarebbe quì, VIVO, se non fosse stato per lei. Il mio posto non è mai stato a Trenwith".

Non aggiunse altro, uscì dal salone e salì sulle scale.

Trovò Elizabeth sul corridoio, insieme ad un suo servitore che doveva averla avvertita del suo arrivo. Indossava una vestaglia rosa cipria, i capelli le ricadevano sciolti sulle spalle ed era così uguale a come l'aveva lasciata, frettolosamente, quella mattina di un mese prima.

"Cosa ci fai quì, Ross?".

Deglutì. La sua voce era fredda e poteva capirne la rabbia. "Volevo vederti".

"Non ti sembra troppo tardi?" - disse, mentre il servitore si allontanava.

"Spero non lo sia proprio del tutto".

Elizabeth incrociò le braccia al petto, non togliendogli gli occhi di dosso. Anche così arrabbiata, i suoi modi erano estremamente controllati ed eleganti.

"Mi dispiace, ho commesso un errore imperdonabile e...".

"Sono stata un errore?".

"No... Si... Elizabeth, non sarei dovuto venire quella notte e tu lo sai! E non doveva succedere quel che è successo".

Elizabeth gli si avvicinò di alcuni passi, lentamente. "Perché? Non era quello che volevamo da sempre?".

"Sono un uomo sposato".

Un lieve sorriso, freddo come il ghiaccio, comparve sul viso della donna. "Sposato ad una donna che, a quel che si dice in giro, ti ha lasciato".

Quelle parole risvegliarono in lui rabbia e frustrazione. "Non immagini perché se n'è andata?".

"Dai a me la colpa, Ross?".

La guardò in silenzio per alcuni istanti, ricordando quanto aveva insinuato Demelza quella mattina di un mese prima. Elizabeth lo aveva deliberatamente stuzzicato, provocato, sapeva cosa voleva ottenere spedendogli quella lettera e lui ci era cascato. No, non era colpa di Elizabeth ma sua, della sua leggerezza, del suo orgoglio e della sua stupidità. "Certo che no. La colpa è mia, io sono il marito di Demelza e io non avrei dovuto dimenticarlo".

"Perché non sei tornato da me, dopo che lei se n'è andata?".

Ross sorrise, la risposta era tanto semplice ed era stata proprio Demelza, con la sua lettera, ad insegnarglielo. "Perché ho già commesso una volta l'errore di far sentire una donna la seconda scelta. Non intendo farlo di nuovo".

Elizabeth spalancò gli occhi. "La seconda scelta sarei io?".

"Non la metterei proprio in questi termini ma... a conti fatti Elizabeth, non ti amo. Non come credevo, non come un uomo dovrebbe amare la sua donna".

Elizabeth parve ferita a quelle parole, ma come al solito incassò il colpo da vera signora. "E' stata una notte così terribile per te?".

"Non è stata terribile, certo che no! Ma non mi ha lasciato niente. E' come se con te sia uscito il mio lato peggiore. Con Demelza non è mai stato così, io non sono MAI stato così con lei. Con mia moglie c'è passione ma anche tenerezza, voglia di abbracciarla, voglia di tenerla vicino a me dopo aver fatto l'amore. Non ho provato nulla di tutto questo con te Elizabeth, solo voglia di scappare da questa casa, da te e dai miei errori. Demelza se n'è andata ma questo non cambia i miei sentimenti per lei. Avrei dovuto dirtelo subito, lo so, sono un codardo e di questo te ne do atto".

"E allora perché sei quì stasera?".

Era meglio non girarci troppo attorno, tanto era inutile tergiversare. "Non sposare George".

"Perché? Perché a te non piace?".

"Perché è un mostro Elizabeth e tu lo sai! Ti rovinerà la vita e la rovinerà a Geoffrey Charles".

Elizabeth sorrise di nuovo, freddamente. "Si è preso cura di me sempre, dopo la morte di Francis. Non è mai scappato! E con Geoffrey Charles è sempre stato un padrino meraviglioso".

Ross scosse la testa, cercando di rimanere calmo. "Meraviglioso ora, perché non ha ancora ottenuto la tua mano".

"Mi ha sempre dato tutto quello di cui ho bisogno. Cura l'educazione di mio figlio, paga le governanti e i medici per mia madre e mi vizia in tutti i modi in cui una donna puo' desiderare di essere viziata".

"Sposi lui o i suoi soldi?" - sbottò infine, gelido.

Elizabeth divenne rossa, livida dalla rabbia. "Vattene da questa casa, Ross! Suppogno che non ti conterò fra i miei ospiti, domani".

Ross la guardò, gelido. Eccola, era lei il suo primo amore, la donna idolatrata per anni per la quale aveva distrutto il suo matrimonio. Demelza aveva capito tante cose di lei, prima di lui che si era sempre rifiutato di vedere. "Suppongo di no". Le fece un inchino. "Tanti auguri, credo che tu ne abbia bisogno, futura signora Warleggan".

Le voltò le spalle, scese le scale, imboccò la porta d'ingresso e uscì, sbattendola con forza alle sue spalle.

Prese il suo cavallo e, sotto una pioggia incessante, galoppò fino a Nampara. La sua casa, ormai vuota e fredda come la donna che si era appena lasciato alle spalle.

Sperava di sbagliarsi su George ma sapeva che non era così e che Elizabeth avrebbe pagato cari i suoi errori.

Come, del resto, li stava pagando lui.



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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


I mesi erano passati tanto in fretta che non se n'era quasi accorta, se non fosse stato che la sua gravidanza era ormai tanto evidente che tutti gli chiedevano, in continuazione, quanto mancasse al parto.

Erano stati mesi frenetici per Demelza e la sua vita era cambiata totalmente nel giro di pochissimo tempo.

La sua nuova attività aveva aperto i battenti a fine primavera e in breve il giro d'affari si era fatto talmente florido e profiquo da esserne stupita essa stessa. Era strano per lei non avere problemi di denaro, dopo anni passati a centellinare i centesimi e a convivere con lo spettro della povertà.

Le piaceva lavorare e avere a che fare con tanta gente e il suo locale era frequentato da una vasta cerchia di persone di tutti i generi, tanto che in breve aveva fatto la conoscenza di diplomatici, politici, lord, conti e duchi, oltre che di gente comune.

Caroline aveva fatto in modo di farle avere, fra i clienti, persone facoltose per le quali faceva da tramite per la spedizione di missive anche importanti, occupandosi personalmente di dazi, tasse di spedizione e disbrighi burocratici per la posta che doveva raggiungere gli stati esteri.

Era stanca, la gravidanza avanzata la spossava, ma non riusciva a fermarsi. Un po' perché il suo nuovo lavoro le piaceva, un po' perché aveva bisogno di una buona stabilità economica, un po' perché lavorare le permetteva di non pensare.

Nel giro di pochi mesi era riuscita a raggiungere un volume d'affari invidiabile e a saldare a Caroline l'affitto arretrato del locale, anche se l'ereditiera aveva insistito strenuamente perché non le desse dei soldi. Ma Demelza aveva la testa dura e la sua amica aveva dovuto arrendersi al fatto che lei non voleva avere debiti di qualunque tipo con nessuno.

Anche la sua vita casalinga era cambiata. Lavorando per lo più nel locale, aveva assunto alle sue dipendenze una povera famiglia che viveva di stenti a pochi isolati dalla sua attività, gente buona che aveva conosciuto per caso, girovagando fra i vicoli attorno alla sua nuova casa. E così, dopo aver finito la ristrutturazione e aver arredato ogni camera della sua nuova dimora, nella sua famiglia erano entrati a far parte Samuel Logan, un uomo minuto e gentile, completamente calvo, di circa sessant'anni che la aiutava nei lavori più pesanti nel locale e in casa, sua moglie Margareth e la loro figlia trentenne Mary che non si era mai sposata e viveva ancora coi genitori. Margareth e Mary erano diventate i suoi angeli custodi. La aiutavano nelle faccende domestiche tenendo pulita tutta la proprietà, cucinavano e si prendevano cura di Jeremy, quando lei era troppo occupata per poterlo fare.

Lei e il suo bambino si erano affezionati alla famiglia Logan e Demelza aveva predisposto che due camere da letto della sua casa fossero destinate a loro.

Cenavano insieme nella grande cucina padronale, la sera, chiacchierando e parlando di quanto successo durante la giornata, rendendo piacevole e famigliare il clima di casa.

Margareth aveva cucito coperte, abitini e tutto quanto necessario per il nuovo bimbo in arrivo e si era prodigata, assieme alla figlia, a dare una mano a Demelza nella gestione del piccolo Jeremy.

Demelza aveva raccontato loro la sua storia, di aver abbandonato il marito a causa di un tradimento e loro non l'avevano mai giudicata, avevano semplicemente assorbito quelle informazioni per conoscerla meglio e poi avevano continuato a vivere con lei senza fare altre domande. Erano persone discrete, dai modi gentili, fidate e affezionate a lei e a Jeremy e per Demelza era stata una grossa fortuna incontrarli, anche se spesso, paragonandoli a Jud e Prudie, sentiva la mancaza dei suoi domestici di Nampara, così fannulloni, imperfetti, brontoloni ma che le avevano voluto anch'essi bene come a una figlia.

"Signora, porto in cantina la birra appena consegnata?".

La voce di Samuel, comparso dalla porta d'ingresso della locanda con in mano una grossa cassa di birra, la costrinse ad alzare il capo dal suo lavoro di lucidatura del bancone. "Certo, aspetta che ti do una mano" – disse, correndogli incontro.

"No signora, per favore! Con quel pancione, non sarebbe il caso".

Demelza sbuffò. Odiava essere trattata come una persona malata per il semplice fatto di essere incinta. Molto incinta... In realtà, secondo i calcoli, il suo bambino sarebbe dovuto nascere già da una settimana ma era quasi arrivato dicembre e ancora non c'erano segni di travaglio imminente. Anche se, lo sapeva, i suoi parti erano sempre stati molto veloci e quindi tutto poteva succedere da un momento all'altro. "Samuel, guarda che sto bene".

Dal fondo del bancone, un suo cliente abituale che si fermava spesso a bere un bicchiere di brandy prima di rientrare a casa la sera, scoppiò a ridere. "Signore, questa donna ha più energia di me e voi messi insieme. Corre sempre come una trottola".

Demelza annuì, sorridendo. Quell'uomo, Martin Devrille, era un ricco finanziere che si era costruito la sua fortuna da solo, partendo da zero, proprio come lei. Era nato in una famiglia di agricoltori e una volta sposato, si era trasferito a Londra dove aveva scoperto di avere un buon fiuto e una discreta fortuna per gli affari e le speculazioni finanziarie. Una serie di investimenti giusti gli avevano fruttato una fortuna e ora, a settant'anni, era una delle persone più ricche di Londra. Era un uomo affabile, gentile, rimasto ancorato ancora ai modi di fare semplici e spicci di quando era giovane e povero e questo a Demelza piaceva.

Lui e sua moglie Diane vivevano in una grande villa nel centro di Londra. Non avevano avuto figli e spesso, quando Demelza li aveva visti insieme, si era fermata ad ammirare la dolcezza e la devozione di quell'uomo nei confronti della moglie a cui doveva essere legatissimo. La inteneriva vederli insieme, osservare quei gesti che potevano essere abitudinari ma che dovevano far parte di loro e della loro storia insieme, gesti che a lei, quando pensava a Ross, mancavano ancora tanto.

Martin era un uomo affabile, di belle maniere e spesso si era intrattenuta con lui a chiacchierare del più e del meno, quando si era fermato alla sua locanda, e non era mancata occasione che, in presenza di Jeremy, si fosse fermato a giocare con lui.

Samuel scosse la testa, sconsolato. "Oh signor Devrille, la mia padrona è la donna più testarda della capitale. Metterebbe sotto anche il primo ministro del re, se ne avesse l'occasione".

Martin annuì, prendendo a guardarla attentamente, stropicciando fra le mani il giornale che stava leggendo. "Signora Demelza, venite quì e datemi un consiglio! Ho più bisogno io di voi, che quell'uomo con quelle birre".

Demelza lo guardò, incuriosita, avvicinandosi a lui. "Bisogno di me? Volete altro brandy?".

L'uomo scosse la testa, poi aprì il giornale che aveva fra le mani, mostrandole la pagina riservata all'economia. "Devo decidermi se prendere azioni della Wellington Corporations o della Hope Leisure. Che ne dite, cosa mi consigliate?".

"Ah, non saprei. Non me ne intendo di finanza e di azioni, signore".

"Lo so, non voglio il parere di un'esperto, voglio che mi rispondiate così, ad intuito. Dicono che le donne incinta abbiano un sesto senso sviluppatissimo e che ci si debba sempre fidare della loro parola. Cosa dite, devo fidarmi della Wellington o della Hope?".

Demelza dovette trattenersi dal ridere. Era così strano il modo di concludere affari dei ricconi, pensò. "Scegliete la Hope Leisure" – disse infine, vagamente divertita.

"Perché?".

Demelza sorrise. "Mi piace il nome, porta speranza, è romantico a suo modo. Per quanto possa essere romantica una miniera".

Martin scoppiò a ridere poi si alzò in piedi, piegando nuovamente il giornale fra le sue mani. "E sia, acquisterò le quote della Hope Leisure. Mi piace il vostro modo di ragionare, mi ricorda il mio degli inizi. Sapete come ho iniziato a costruirmi la mia fortuna?".

"No".

"Coi pochi risparmi fra le mie mani, ho comprato le azioni di una società che aveva il nome del cavallo da soma di mio padre. Un gesto sentimentale, ecco... Un mese dopo quelle azioni avevano centuplicato il loro valore e io mi sono improvvisamente ritrovato, dal dormire sotto i ponti, ad essere ricco". Mise delle monete sul bancone, per pagare il brandy. "Vediamo se con voi sarò altrettanto fortunato".

Demelza sospirò. "Lo spero".

"Se mi frutterete guadagno, sarò vostro fedele cliente per sempre" – disse, in modo galante.

"E se la mia scelta risulterà quella sbagliata?".

Martin scoppiò a ridere. "Allora, avrete perso un cliente, Demelza" – esclamò, scherzosamente. Le fece un inchino, in modo gentile, poi dopo un cenno di saluto se ne andò.

Demelza ridacchiò, poi tornò a lucidare il bancone. Martin Devrille era l'ultimo cliente della giornata, era ormai buio, aveva preso a nevicare ed era ora di chiudere la locanda e andare a cenare.

Finì di pulire poi, stancamente, dopo che Samuel ebbe chiuso le imposte del locale, salì le scale che portavano all'appartamento al primo piano.

Fu all'ultimo gradino che, improvvisa, la colse una violenta fitta al ventre. Dovette fermarsi per riprendere fiato, stringendo convulsamente lo scorrimano. Cercò di regolarizzare il respiro, ma un'altra contrazione violentissima la costrinse a lasciarsi andare e a sedersi sul gradino. Era il suo terzo figlio, conosceva benissimo i sintomi del parto e non c'erano dubbi, il suo bambino si era deciso a nascere.

Appoggiò la schiena alla parete fredda cercando sollievo e le forze per rialzarsi in piedi. Si rese conto di essere terrorizzata, nonostante non fosse la prima volta. Quel bambino di cui Ross ignorava l'esistenza stava per venire al mondo, lo avrebbe partorito da sola e questo avrebbe reso una volta per tutte la sua separazione dal marito, ufficiale. "Margareth..." - chiamò, col fiato corto.

La donna comparve pochi secondi dopo, trafelata, con la figlia e con Jeremy. "Mamma..." - sussurrò il bambino, spaventato.

Demelza si impose di sorridergli, nonostante tutto. "Va tutto bene, tesoro".

Margareth si voltò verso la figlia, comprendendo subito quanto stava per accadere. "Mary, porta il bambino in cucina e fallo cenare. Poi dì a tuo padre di correre a chiamare la levatrice, credo che sia arrivato il momento".

Mary ubbidì, sparendo con Jeremy nel corridoio. Margareth la aiutò a rialzarsi, la accompagnò in camera e le diede una mano a spogliarsi e a mettere una camicia da notte comoda. "Signora, cercate di non agitarvi, presto la levatrice sarà quì".

Col fiato corto, devastata da contrazioni fortissime e subito ravvicinate, Demelza strinse nella mano destra il lenuolo. "Io ho sempre avuto parti veloci, Margareth. Se la levatrice non fa in tempo, tu sapresti...".

"Certo signora, vi aiuterò io, se necessario, state tranquilla".

Tranquilla... A quella parola, un moto di rabbia prese possesso di lei. Come poteva essere tranquilla? Era sola, con un figlio piccolo, un altro in arrivo e con un marito che ormai, probabilmente, viveva felice e beato con la sua amante. Non era tranquilla, era arrabbiata, furente, spaventata, si sentiva sola. Per un attimo, in preda a una contrazione più forte, desiderò che Ross, nonostante tutto, fosse lì. Anche solo facendo finta di tenere a lei e al bambino in arrivo, a fingere di darle una carezza e un incoraggiamento, anche solo per un attimo... Aveva bisogno di lui, dannazione! "Lo odio, Margareth".

"Parlate di vostro marito?".

"Sì. Come può averci fatto questo, come può averci lasciati soli?".

Margareth scosse la testa, tamponandole la fronte sudata con un panno fresco. "Signora, io non lo conosco ma conosco voi. E se quell'uomo vi ha abbandonata, significa che non vi meritava e che non aveva compreso il vostro valore. Ora su, pensate alle cose belle, al fatto che presto conoscerete questo bambino e avrete l'onore di vederlo crescere, potrete tenerlo in braccio, osservarlo scoprire il mondo e che ogni momento che vivrete insieme sarà per voi un ricordo prezioso. E vostro marito non avrà niente di tutto questo".

"Già". Quelle di Margareth volevano essere parole di conforto, ma in realtà la rattristavano ancora di più. Era vero, Ross avrebbe perso ogni cosa di questo bambino, lui che era stato tanto felice quando era nata Julia e che per lei si era impegnato a rendere il mondo un posto migliore.

Fu l'ultimo pensiero razionale, quello. Il travaglio fu veloce, più di quello di Julia e Jeremy. La levatrice fece appena in tempo a varcare la porta della camera e ad avvicinarsi al letto, che la bimba nacque, dieci minuti prima della mezzanotte di un giorno nevoso di fine novembre.

Margareth le si avvicinò, appoggiandole la bambina a fianco, avvolta in una coperta. "Avevate ragione, è una femminuccia bellissima ed in salute".

Distrutta, Demelza aprì gli occhi. L'aveva sentita piangere con vigore ma non l'aveva ancora vista. Una bambina... Come Julia... Si chiese se sarebbe stata uguale alla sorella, bella e dolce come lei. A chiunque assomigliasse, comunque, non aveva importanza, sentiva già di amarla più della sua stessa vita, come era successo coi suoi fratelli prima di lei. Era come se con la sua nascita, le sue paure, le sue ansie si fossero acquietate.

Si voltò verso sua figlia, stringendola fra le braccia. Era bellissima, col viso tondo, i capelli rossi come i suoi e con i suoi stessi occhi azzurri. E con lo sguardo vispo e attento, ereditato dal padre. Vederla, la intenerì infinitamente. "Benvenuta, Clowance Poldark" – sussurrò, imponendole quel nome che, nei mesi precedenti, aveva deciso insieme a Jeremy.

Le accarezzò le guance, le mani, le baciò la punta del nasino e la piccola reagì sbadigliando ed osservandola incuriosita. Poi la strinse al suo petto, accarezzandole la piccola schiena.

Nonostante fosse tardi, quando lei e sua figlia furono sistemate con abiti puliti e letto rifatto, Mary le portò Jeremy che, preoccupato, non riusciva a dormire.

Demelza lo accolse nel lettone stringendolo a se e quando tutti se ne furono andati rimase in silenzio, cullata dal respiro placido dei suoi figli.

Jeremy si voltò verso la sorella, fissandola incuriosito. Demelza sorrise, accarezzandogli i capelli. Jeremy era un bambino dolce, pacato, gentile e con una fervida intelligenza, riflessivo e tranquillo e in questo non aveva preso decisamente né da lei né da Ross."Ti piace, tesoro? E' tua sorella Clowance".

Jeremy annuì. "Sì, posso toccarla?".

"Certo, falle una carezza sulla guancia, sarà contenta, sai?".

Jeremy allungò la manina, accarezzando il viso della sorella. Demelza gli accarezzò la testolina, baciandolo sulla fronte. "Lo sai, ora sei un fratello maggiore e sei anche l'uomo di casa. Dovrai insegnare a Clowance tutto quello che sai" – gli sussurrò, osservando gli occhi dolci e vivaci di Jeremy, così uguali a quelli del padre.

Osservò i suoi bambini, insieme, sentendosi infinitamente fortunata ad averli accanto. Senza di loro, la sua vita non avrebbe avuto più alcun senso... Era per loro che viveva e lottava, perché avessero un domani sereno, nonostante tutto. Guardò la piccola Clowance, che si era appena affacciata alla vita, talmente bella e perfetta che per un attimo si chiese se Ross, se l'avesse vista, sarebbe stato capace di volerle almeno un pochino di bene, nonostante tutto, nonostante Elizabeth e il suo amore per lei.

Ma a quel pensiero scosse la testa. Ross non avrebbe voluto Clowance, così come non era stato felice per l'arrivo di Jeremy. Ross ora era di Elizabeth, sicuramente viveva felice con lei e Geoffrey Charles e magari era in attesa di un figlio da lei, per quel che ne poteva sapere. Mancava da molti mesi dalla Cornovaglia e sicuramente una cosa del genere era anche piuttosto probabile, ormai.

Le venne da piangere di nuovo ma si impose di non farlo, non avrebbe sprecato altre lacrime per lui e non avrebbe fatto preoccupare i suoi figli a causa del dolore che le aveva procurato Ross.

Nonostante tutto però, Jeremy parve capire il suo turbamento. Allontanò la manina dalla guancia di Clowance e la abbracciò teneramente, appoggiando silenziosamente la testa contro la sua spalla.

Demelza rispose al suo abbraccio, stringendolo a se. Aveva Jeremy e Clowance accanto e poteva definirsi una donna fortunata per questo, nonostante tutto. E Ross poteva avere tutti i figli che desiderava da Elizabeth ma glie ne sarebbero sempre mancati due che, anno dopo anno, si sarebbero dimenticati persino della sua esistenza.

E per quanto quel pensiero facesse male, lei non poteva farci niente. Ross aveva fatto delle scelte e ora ne avrebbe pagato le conseguenze, per sempre.


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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


"E' davvero bellissima, fra una quindicina d'anni sarà fra le ragazze più ammirate di Londra".

Demelza, muovendosi dolcemente sulla sedia a dondolo, osservò la sua bambina che, placidamente, dormiva fra le sue braccia. "Per ora Caroline, grazie a te, è la bambina col guardaroba più fornito della capitale. Ha più abiti di me".

Caroline rise. "Ah, non credo, i figli del re forse hanno molti più vestiti. E comunque è una bambina di classe, Clowance, si vede a prima vista! Inoltre, è un piacere comprare vestitini a lei e a Jeremy, non credevo che la moda infantile mi potesse dare tante soddisfazioni".

Demelza sorrise. "E allora visto che le cose stanno così, che aspetti a fare un figlio? Circolano tante voci su di te, che ti vogliono fidanzata con questo o quell'altro lord, sai? Ti affibbiano un nuovo fidanzato a settimana".

"Sì, vero! Settimana scorsa era Lord Corvoy, quella prima ancora il Visconte di Touregh e questa settimana...". Ci pensò su, osservando distrattamente il soffitto. "Sai che non ricordo...? Forse Sir Donald Ziever, il banchiere".

"Questa settimana ho partorito, mi sono persa un sacco di pettegolezzi a causa di Clowance e non sono aggiornata sui tuoi presunti fidanzamenti" – sussurrò Demelza, sorridendo dolcemente alla figlia. "E comunque, Caroline, di tutti questi fidanzati, ce n'è qualcuno che ti piace davvero?".

"No, sono tutti noiosissimi e tronfi del loro milionario conto bancario".

Demelza alzò lo sguardo su di lei, osservandola attentamente. "Pensi ancora a Dwight?". Ogni tanto si chiedeva cosa avesse fatto il suo amico, se davvero fosse partito per la guerra come le aveva confidato prima che lei lasciasse la Cornovaglia.

Caroline si morse il labbro, quasi fosse in difficoltà. "All'inizio mi ha scritto molte lettere che puntualmente gli rimandavo indietro. Però poi mi sono decisa a mandargli una risposta, gli ho intimato di lasciarmi in pace e non ho più avuto sue notizie. Quindi...".

"Quindi questo non significa che non lo ami più". Demelza era frustrata per la situazione fra Dwight e Caroline, era una sua spina nel fianco ricordare che si erano lasciati a causa di Ross e delle scelte scellerate durante il periodo in cui faceva contrabbando. "Caroline, Dwight sarebbe partito con te, voleva farlo, non vedeva l'ora! Quella sera non si è presentato all'appuntamento perché si è accorto che Ross era in pericolo, che stava per cadere in un'imboscata ed è rimasto coinvolto negli scontri. Se c'è qualcuno con cui dovresti prendertela, quella persona sono io, non lui".

"Tu? E cosa c'entri, scusa?".

"Non sono riuscita ad impedire che mio marito proseguisse in quell'attività, non sono riuscita a fermarlo e alla fine è stato Dwight a pagarne il prezzo più alto".

Caroline scosse la testa. "Non sei responsabile per le azioni di tuo marito, Demelza. Sei sempre stata molto tollerante con lui, lo hai seguito e sostenuto con una forza non comune, hai avuto una pazienza infinita. Ma Ross Poldark, per quel che lo conosco, è uno scavezzacollo che agisce senza pensare alle conseguenze di quello che fa e dubito che tu saresti mai riuscita a cambiarlo. Suppongo che questo, comunque, faccia parte del suo fascino, no?".

Demelza sorrise, con una punta di amarezza. Era vero, Ross era una persona che viveva sempre in bilico, una testa calda della peggior specie, con un codice morale e d'onore che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire e questo e tanti altri aspetti l'avevano fatta innamorare di lui, così forte, così diverso dagli altri uomini della sua classe sociale. "Già, il suo fascino... Che è quello che purtroppo mi ha fregata".

"Pensi ancora a lui?".

Demelza guardò sua figlia. "Come potrei non farlo? Clowance e Jeremy sono opera sua".

Caroline sospirò. "Glielo farai sapere della bambina? Voglio dire, credo sia un suo diritto...".

"Sai, avevo anche pensato di farlo ma...". Demelza abbracciò la bimba, baciandola sulla fronte. "Poi mi sono chiesta dove avrei dovuto scrivergli, se a Nampara o a Trenwith... E mi è passata la voglia. Ha la sua vita ora e io non ne faccio parte. E di certo non ne fanno parte i miei bambini".

"Pensi che ti abbia dimenticato?".

A quella domanda, Demelza sorrise amaramente. "Mi aveva dimenticata da ben prima che partissi. Nel suo cuore e nella sua mente c'erano solo Elizabeth e le sue necessità".

Calò il silenzio, un silenzio pesante. Nessuna delle due sapeva cosa dire ed entrambe erano consapevoli che in fondo era inutile parlarne, sia Dwight che Ross facevano ormai parte del loro passato.

Un sommesso bussare, seguito dalla voce di Margareth, ruppe quel momento di stasi. "Signora, avete visite".

Demelza e Caroline si guardarono in faccia incuriosite.

"Aspetti qualcuno?".

"No". Demelza si strinse nello scialle, guardando verso la porta della sua camera. "Margareth, chi è?".

"Il signor Devrille con sua moglie".

Caroline parve incuriosita. "Il finanziere? Lo conosci?".

"E' uno dei miei clienti abituali alla locanda". Era stupita, cosa ci faceva lì? "Falli entrare, Margareth".

"Certo signora".

Demelza si sistemò i capelli che le ricadevano liberi sul collo e sulla schiena. Indossava una veste da camera e di certo non era nelle condizioni per ricevere una persona di così alto lignaggio, ma non aveva il tempo materiale né la voglia di cambiarsi d'abito. Era ancora spossata dal parto e tutto quello che desiderava era rimettersi a letto e dormire.

Martin Devrille e sua moglie Diane comparvero dopo alcuni istanti, con un grosso mazzo di rose fra le mani. "Signora Demelza, vogliate scusarci per l'intrusione, ma ci tenevamo a farvi le congratulazioni per il lieto evento".

Demelza sorrise, cercando di alzarsi dalla sedia a dondolo. Ma Diane la fermò. "Oh, non sforzatevi, rimanete comoda". Le si avvicinò poggiando i fiori sul tavolino e facendole un inchino. "Siamo solo di passaggio, una visita di cortesia".

"Vi ringrazio. E colgo l'occasione per presentarvi una mia cara amica, la signorina Caroline Penvenen".

Martin Devrille fece un profondo inchino. "Signorina Penvenen, è un piacere conoscervi di persona. Siete molto famosa in città".

Caroline rise. "Più che altro, la gente ama parlare di me".

Demelza e i coniugi Devrille risero a quella constatazione e poi Diane si avvicinò per vedere la piccola Clowance. "E' un incanto, una splendida bambina".

"Vi ringrazio. E' la mia gioia, assieme a suo fratello".

Diane accarezzò la guancia della piccola. "Ero così curiosa di vederla. Vi somiglia, sapete?".

Demelza sorrise, dolcemente. "Grazie, siete gentile".

"E voi una donna davvero speciale ed in gamba, Demelza! A me e a mio marito piacete molto, siete onesta, gentile e una gran lavoratrice. Una donna in gamba ed indipendente".

"E con un ottimo fiuto degli affari!" - la interruppe Martin, avvicinandosi a loro con una busta fra le mani, che porse a Demelza.

"Cos'è?".

"Un piccolo dono per i vostri bambini. Una parte delle azioni che ho acquistato sotto vostro consiglio settimana scorsa. Ricordate la nostra conversazione?".

In realtà, Demelza aveva scordato lo strambo modo di concludere gli affari di Martin Devrille, dopo il parto era stata concentrata solo su Clowance e Jeremy e aveva tralasciato tutto il resto. Ma ora che lui glielo ricordava... "Oh sì, le azioni di quella miniera, la Hope Leisure, giusto? Alla fine le avete acquistate?".

"Certo!" - esclamò Martin, mentre anche Caroline appariva interessata. "Ho comprato mille azioni al costo di trenta ghinee l'una. Sapete, quanto valgono ora, singolarmente, quelle azioni?".

"No".

"Duecento ghinee, mia cara. Hanno trovato pochi giorni fa un enorme giacimento di rame sotterraneo e le azioni sono schizzate alle stelle. Mi avete dato un ottimo consiglio che mi è fruttato ottimi guadagni".

"Cosa?". Demelza spalancò gli occhi, sorpresa e piacevolmente compiaciuta di averlo consigliato per il giusto, pur avendo fatto una scelta puramente casuale.

"Avete capito benissimo! Era un piccolo capitale per me, quello investito, giusto un riempitivo ai miei affari più importanti. Ma guardate che risultato! Ve l'ho detto, avete la fortuna e l'occhio lungo che avevo io da giovane e quindi, sono quì per proporvi un accordo".

"Quale accordo?".

Martin indicò la busta che le aveva messo fra le mani. "Quello è un mio regalo per voi e per i vostri figli, lì dentro c'è la metà del pacchetto azionario della Hope Leisure. E' per voi, quelle azioni sono vostre. Potrete tenerle o rivenderle, vi frutteranno una fortuna qualunque cosa farete".

Demelza scosse la testa. "Ma signore, non posso accettare".

"Dovete accettare" – intervenne Diane. "Per mio marito è una questione d'onore".

Anche Caroline annuì. "Prendile Demelza, non essere sciocca".

Demelza sospirò, sentendosi presa in trappola e in contropiede. "Ma... Io non ho investito alcun capitale, signore".

"L'ho fatto io e i guadagni sono stati notevolissimi. E voi meritate la vostra parte, sono un uomo d'onore che si ricorda degli amici".

"Ma io non ho fatto nulla, signore" – insistette Demelza.

Martin le sorrise, poggiandole delicatamente una mano sulla spalla. "Lo farete in futuro, se accetterete la mia proposta".

"Quale proposta?".

"Vi va di entrare in società con me e coi miei due soci?".

"Una società azionaria? Ma signore, io non mi intendo di finanza" – protestò Demelza. "E non ho nemmeno i fondi per poterlo fare".

Martin annuì. "Siete intelligente, imparerete e io ho bisogno di qualcuno di giovane a cui trasmettere il mio sapere. I miei due soci sono miei fratelli, ormai in la pure loro con gli anni. Non sono sposati e non abbiamo figli e nipoti a cui insegnare le basi del nostro lavoro. Non vi chiedo di mettere grossi capitali, solo quello che potrete giocarvi senza mettere a rischio la stabilità vostra e dei vostri figli. Capitali piccoli, insomma, cifre che potete rischiare di perdere senza grossi drammi. Mi fido del vostro fiuto Demelza, avete senno e mi ricordate tanto me stesso da giovane, siete una donna fuori dal comune e io vi stimo molto".

"Accetta, Demelza! Hai questa attività che ti frutta molto e quindi guadagni sicuri. Qualche investimento finanziario, guidato da chi se ne intende, non ti ruberà né troppo tempo né troppo denaro" – insistette Caroline.

"Accettate? Non vogliamo farvi pressioni, né tanto meno farvi correre dei rischi, lo sappiamo che siete sola e con due figli di cui occuparvi".

Demelza ci pensò su. Era una proposta allettante, pericolosa se non gestiva bene le cose, ma che poteva aprirle innumerevoli strade. Aveva davanti due brave persone, oneste, che si erano davvero affezionate a lei e ai suoi bambini e con loro avrebbe potuto imparare qualcosa di quel mondo dietro cui ruotava la fortuna di miniere, minatori e banchieri, quel mondo contro cui Ross aveva combattuto strenuamente per sopravvivere e per aiutare i suoi lavoratori e la povera gente della Cornovaglia. "Piccoli capitali, per ora. Non rischio la serenità dei miei figli, ora che ho raggiunto un discreto stile di vita e ho un lavoro che mi permette di mantenerli".

Martin sorrise. "Ovviamente". Accarezzò la piccola Clowance e poi prese la moglie sotto braccio. "Faremo grandi cose insieme, Demelza. Consideratemi un amico, più che un socio. Non ho avuto figli ma se ne avessi avuta una, avrei voluto che somigliasse a voi. A tal proposito, se non avete impegni, ci farebbe piacere che trascorresse con noi la notte di Natale, così da conoscere i miei fratelli. Niente di grandioso, solo una cena in famiglia. Avervi alla nostra tavola, coi bambini, renderebbe più piacevoli le nostre feste".

Demelza sorrise. "Grazie, accetto il vostro invito con piacere".

Ancora non poteva saperlo, ma quella nuova avventura con Mister Devrille, che in quel momento le faceva un po' paura, l'avrebbe portata molto lontano, facendola diventare una delle donne più potenti di Londra in breve tempo.


...


Prudie e Jud erano ubriachi già da ben prima della mezzanotte di Natale e se non fosse stato per Dwight, in licenza militare per le feste, avrebbe passato la notte di Natale completamente solo.

Nampara era avvolta da una fitta nebbia, il gelo aveva incrostato le finestre e nemmeno il camino sembrava riuscire a scaldare l'ambiente.

Il dottore era arrivato per una breve visita, dopo mesi passati al fronte, e avevano scambiato assieme due chiacchiere.

"Come ti pare la guerra, Dwight?".

L'amico sorrise. "Un ottimo modo per fare pratica come medico, Ross. E' qualcosa di disumano".

"Partirai il due gennaio?".

"Sì, la mia nave salperà all'alba, direzione Francia".

Ross giocherellò col bicchiere di vino che aveva fra le mani, facendo danzare il liquido rosso in esso contenuto. "Forse faremo il viaggio insieme, sai?".

Dwight spalancò gli occhi. "Cosa?".

"Mi sono arruolato due giorni fa e la mia nave partirà il due gennaio, come la tua".

"Ma Ross... Perché proprio ora? La tua miniera sta fruttando, i tuoi minatori, grazie a te, stanno passando un Natale sereno e poi hai una moglie e un figlio dispersi chissà dove, da ritrovare".

Ross scosse la testa. Era a pezzi, nonostante gli ottimi guadagni e la stabilità economica raggiunta negli ultimi mesi. Il suo mondo era andato a rotoli, aveva trovato la ricchezza ma aveva perso la donna della sua vita, per sempre. Erano mesi, tanti mesi che non sapeva nulla di Demelza e ormai era rassegnato al fatto che non si sarebbero più rivisti. "I miei soci cureranno gli interessi della Wheal Grace e i miei servi mi terranno pulita la casa. Per quanto riguarda Demelza...". Si alzò, sparì, raggiunse la camera da letto e riapparve alcuni istanti dopo, con una lettera fra le mani che diede all'amico. "Leggi".

Accigliato, Dwight ubbidì.

Ross gli si sedette accanto, silenzioso. Era la lettera che gli aveva lasciato Demelza prima di partire, che ormai conosceva a memoria e che, ogni volta che la rileggeva, gli faceva male come il primo giorno in cui ne era entrato in possesso.

"Accidenti, Ross..." - commentò Dwight, laconico. "E' decisamente la lettera di una donna ferita. Ma... potete sistemare le cose".

"Ho deciso che non voglio sistemarle!".

"Cosa?". Dwight era stupito.

Ross sospirò. "Sono mesi che ho smesso di cercarla. In quella lettera, Demelza mi ha detto che si è sempre sentita la seconda scelta, non alla mia altezza. Odio averla fatta sentire così, non essermene mai accorto e la sai una cosa...? Sono io quello che non è alla sua altezza, io che avevo accanto la donna più bella e in gamba del mondo e non ho saputo amarla, apprezzarla, starle accanto come meritava. Non mi ha mai chiesto nulla, se non amore e attenzione. E io guardavo dall'altra parte, raccontandomi frottole per correre altrove, invece che stare con lei. Perché dovrei cercarla, per offrirle cosa? La vita con un uomo idiota, arrgante, che già l'ha fatta soffrire tanto? Non sarebbe un gesto d'amore vero, altruista per una volta da parte mia, lasciarla andare, lasciarla libera di vivere la sua vita felice, magari accanto a qualcuno che la meriti davvero? Perché dovrebbe voler tornare? Perché dovrei pretendere che lo faccia? Perché dovrebbe darmi una nuova possibilità?".

"Ross, tu la ami e lei ama te! Tornerebbe subito se le parlassi come stai parlando a me ora. Demelza non ti ha chiesto, per tanto, che questo".

Ross scosse la testa. "E' giusto così, che lei viva la sua vita libera, come mi ha chiesto. E che io paghi con la solitudine tutti i miei errori e la mia arroganza. Partirò per la guerra con te, magari in battaglia saprò sentirmi più vivo di come mi sento ora qui".

Dwight lo fissò, preoccupato. "Ross, sei sicuro di star bene? Sei sicuro di voler rinunciare a lei?".

"Tutto quello che vorrei è riabbracciarla, chiederle scusa e dirle che non è mai stata seconda a nessuno, che è lei l'amore della mia vita. Ma suppongo che non poterlo fare sia la punizione giusta per me".

Ross non disse altro. Lasciò che Dwight tornasse a casa, dopo aver brindato al Natale, e poi tornò in camera sua, in quella casa avvolta da un silenzio spettrale. Si sedette sul letto, sfilandosi la camicia di dosso, ricordando il Natale di un anno prima, quando aveva regalato a Demelza quelle calze di seta e avevano passato una meravigliosa notte insieme, a fare l'amore con una passione e una tenerezza uniche. Non avrebbe mai più vissuto momenti simili, non l'avrebbe più avuta accanto, non l'avrebbe più vista sorridere o arrabbiarsi, non avrebbe più provato il calore della sua vicinanza e dei suoi abbracci. Accarezzò il lato del letto dove dormiva sua moglie, con gli occhi lucidi. "Ovunque tu sia, buon Natale, amore mio".




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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Forse non ce l'avrebbe mai fatta ad abituarsi a quella vita lussuosa che, senza che l'avesse cercata, l'aveva travolta e aveva cambiato il suo modo di vivere.

Da quando era nata Clowance, otto mesi prima, la società finanziaria in cui l'aveva coinvolta Martin Devrille le aveva fruttato innumerevoli guadagni. C'erano state alcune perdite, vero, ma i pacchetti azionari acquistati, per lo più, si erano rivelati ottimi investimenti.

La sua non era più sopravvivenza e volendo avrebbe potuto chiudere la locanda e vivere solo di speculazioni finanziarie, ma Demelza non se la sentiva di dare una svolta del genere alla sua vita. La locanda, il lavoro manuale erano ciò che le ricordava chi era, da dove veniva e perché si alzava ogni mattina per rimboccarsi le maniche. Aveva due figli e voleva che crescessero con sani principi, imparando il valore dell'onesto lavoro. Non voleva due bambini viziati che credessero che tutto gli fosse dovuto, non voleva che diventassero come tanti palloni gonfiati della Londra bene. E non voleva esserlo nemmeno lei.

In quei mesi, Martin l'aveva introdotta nei salotti 'bene' di Londra, aveva conosciuto tantissime persone influenti e con alcuni aveva stretto rapporti di lavoro e amicizia. La guardavano con un misto di sospetto e curiosità, stupiti e allo stesso tempo incantati dal fatto che una donna sola fosse stata capace di arrivare tanto in alto e in così breve tempo.

Aveva partecipato a cene, balli, feste facoltose, circondata da gente che, al suo arrivo a Londra un anno e mezzo prima, le aveva sbattuto la porta in faccia. Era ironico pensarci, se si soffermava a ricordare quanto fosse stata disperata, allora...

Accaldata, sventolò il ventaglio che teneva fra le mani. Indossava un meraviglioso abito di seta verde, scollato sulla schiena, i suoi capelli erano racchiusi in una elegante treccia che lasciava sfuggire, con calcolo, una ciocca di capelli sulla fronte, al collo portava una collana adornata di uno splendido diamante e per quanto Caroline si fosse affannata a dirle che era una delle donne più ammirate del ballo della contessa McAvery, si sentiva decisamente a disagio.

Osservò nobili e nobildonne chiacchierare fra loro, ballare con eleganza al suono della musica dell'orchestra, tormentando con la mano il gioiello che portava al collo. "Quanto durerà questa festa, Caroline?".

L'ereditiera sbuffò. "Lo so, è un po' noiosa, ma quì ci sono persone influenti, sia per i tuoi affari, sia per i miei. Fa buon viso a cattivo gioco e vedi di divertirti e magari di sorridere un po'. Entro stasera potresti incrementare, senza fatica, i tuoi guadagni. O trovarti nuovi soci in affari".

"Ma i miei bambini... Sono a casa da soli, per l'ennesima volta! E' da una settimana che non passo la serata con loro".

Caroline scosse la testa. "Non li hai abbandonati, sono con quei tuoi servi, giusto? Li adorano come se fossero figli loro, sta tranquilla".

Demelza abbassò il viso. Sapeva di non averli abbandonati, ma le mancavano lo stesso. Era felice di aver stretto quell'accordo con Sir Devrille e ogni guadagno e ogni suo sforzo avrebbe aiutato Jeremy e Clowance in futuro, lo faceva per loro. Ma spesso si fermava a pensare, con nostalgia, a quando era una semplice locandiera o ancora prima, a quando era in Cornovaglia e passava la giornata ad occuparsi della casa e della sua famiglia, senza continui impegni ad allontanarla da loro. Per quanto ora la sua vita fosse emozionante, intensa, comoda, erano i momenti coi suoi bambini che preferiva, giocare con loro, vederli scoprire il mondo, addormentarsi sentendo il loro placido respiro accanto a lei, nel lettone, quando facevano capolino nella sua stanza e non volevano dormire da soli.

Sospirando, si guardò attorno. La festa in giardino era splendida, piena di luci, torce accese e tavole riccamente imbandite. Le cadde lo sguardo su due giovani che, insistentemente, guardavano nella loro direzione. "Caroline, credo tu abbia degli spasimanti" – le sussurrò, indicando i due ragazzi col ventaglio che teneva fra le mani.

Caroline ridacchiò. "Non guardano me, mia cara. Guardano te".

"Me? Perché dovrebbero farlo?".

Caroline le strizzò l'occhio. "Perché sei una creatura rara, bella, intelligente e piuttosto ricca. Adorerebbero mettere le loro manine sul tuo patrimonio e, tanto che ci sono, pure su di te" – concluse, maliziosa.

Demelza rise, a quelle parole. In realtà si sentiva un pesce fuor d'acqua e si sentiva tutto fuorché una donna desiderabile. "Figurati".

"Sei una donna molto bella, Demelza. Non sottovalutarti, hai fascino e carisma da vendere".

"Sono una donna sposata".

"Ma non porti più l'anello al dito da molto tempo".

Demelza sbuffò. "Stasera, credo tu abbia bevuto. Ti lascio ai TUOI due spasimanti e vado a cercare Martin e Diane. Volevano parlarmi, li ho visti prima, al nostro arrivo, e poi sono come spariti".

Caroline la guardò, in tralice. "Stai fuggendo... Sicura che i due giovanotti non ti interessano?".

Demelza sorrise, scuotendo la testa. "Sono tutti tuoi, ci vediamo dopo".

Si allontanò, mentre le pareva che mille occhi fossero puntati su di lei, ricordadosi del suo primo ballo di alcuni anni prima, a casa dei Warleggan, con Ross. Anche allora si sentiva spersa e smarrita, con suo marito assente, preso dal gioco e dalla voglia di smascherare le manovre di George. Fu il loro primo litigio, quello. Fu la prima volta che Ross la fece sentire invisibile e sola, ora che ci pensava... Era cambiato tutto da allora. Si chiese cosa avrebbe pensato Ross, se l'avesse vista in quel momento. Era una lady adesso, come Elizabeth, elegante, raffinata ed invitata alle feste più esclusive della capitale. Strinse il ventaglio fra le mani, al pensiero del marito. Faceva male ancora, ricordarlo...

Finalmente, quando l'ansia stava prendendo il sopravvento, intravide il viso amico di Diane. "Vi ho cercato dappertutto".

Diane le si avvicinò, prendendola sotto braccio. "Oh mia cara, vi stavo cercando anche io. E' una serataccia".

"Come mai? La festa è un po' noiosa, ma non mi sembra così male".

Diane si incupì. "Cattive notizie, Demelza. Martin è distrutto, vieni". La condusse dal marito, dribblando con eleganza gli invitati.

Demelza la seguì in silenzio, preoccupata, non sapendo cosa aspettarsi. Era andato male qualche investimento? Avevano comprato azioni diventate carta straccia? Che diavolo stava succedendo?

Quando raggiunsero Martin Devrille, Demelza lo trovò pallido e smunto. C'erano con lui due uomini, suoi amici e collaboratori occasionali, che aveva conosciuto nei mesi precedenti quando era stata invitata dal suo socio per delle colazioni d'affari.

Fece un inchino e i due uomini le baciarono la mano.

Martin le cinse le spalle con un braccio, attirandola a se. "Demelza, è successa una disgrazia".

"Martin, mi sto spaventando. Cosa c'è?".

Diane sospirò. "Ti ricordi di Sir Benjamin Reeley? Lo avevi conosciuto al ballo del mese scorso, all'Opera. Un caro, vecchio amico di Martin".

Demelza annuì. Ricordava, seppur vagamente, quell'uomo. Una persona sui sessant'anni, gioviale, goliardica, dai capelli e dai baffi rossi, pronta allo scherzo e a bere del buon vino con gli amici, quando se ne presentava l'occasione. Era un ricco borghese di Londra e Martin glielo aveva presentato come uno dei suoi più cari amici. "Sì, me lo ricordo".

Martin, con gli occhi rossi, annuì. "Amava la vita, per lui ogni occasione era buona per far festa".

Demelza deglutì. Martin stava parlando al passato e il suo sesto senso le suggeriva che poteva essere successo qualcosa di grave. Si morse il labbro, non sapendo cosa dire. "Che cos'è successo?".

"Si è tolto la vita la notte scorsa, con una pallottola in testa" – rispose uno dei due uomini in loro compagnia.

Demelza spalancò gli occhi. Per quanto poco conoscesse quell'uomo, non gli sembrava affatto una persona portata a fare qualcosa di simile. "Mi... mi dispiace... Era un buon amico per voi, Martin. Sentite condoglianze".

Martin scosse la testa. "Era una persona solare, allegra. E per colpa di quei demoni...". Strinse i pugni delle mani, tremante. "Gli hanno tolto tutto, persino la voglia di vivere!".

Demelza guardò Diane, senza capire. "Di chi sta parlando?".

"Di quei demoni dei Warleggan, della Warleggan Bank!" - disse Martin rabbioso, scagliando a terra il bicchiere di champagne che teneva fra le mani. "Aveva dei debiti con loro, ha osato non appoggiarli in alcune speculazioni finanziarie e loro gli hanno intimato la restituzione immediata di quanto lui gli doveva. La vergogna di finire sul lastrico, nella prigione dei debitori, lo hanno spinto a...".

"A togliersi la vita". Demelza sbiancò.Warleggan... quel cognome che arrivava come un incubo dal suo passato, quando credeva di esserselo lasciata per sempre dietro alle spalle. A quanto pareva, il loro modo di operare non era cambiato e continuavano a mietere vittime fra coloro che avevano creduto ingenuamente in loro e nelle loro promesse. "Parlate di George Warleggan?" - chiese, tetra.

Martin spalancò gli occhi. "Lo conoscete, Demelza?".

"Mio malgrado...". Alzò gli occhi al cielo, ricordando tutto il male che George aveva fatto a lei e a Ross negli anni. "Mio... marito... ha avuto grossi problemi con lui. Per George Warleggan, schiacciarlo, era una questione di vita o morte, ne era ossessionato e ci ha perseguitati per anni". Odiava parlare di Ross davanti a qualcuno che non fossero i Devrille, che conoscevano la sua storia, ma non poteva fare altrimenti. "Purtroppo c'è poco da fare, sono molto potenti" – concluse, sconfitta. Poi però ci pensò su, considerando che tutto era cambiato e lei aveva i mezzi per mettergli i bastoni fra le ruote... "Martin, la nostra società... Se investissimo una quota considerevole di denaro nelle azioni della Warleggan Bank, pensate che riusciremmo ad avere abbastanza azioni per entrare nel loro consiglio di amministrazione?".

Martin spalancò gli occhi. "Potremmo, certo. Ma non voglio avere niente a che fare con quella gente. La Warleggan Bank ha portato alla rovina e alla morte uno dei miei migliori amici".

Demelza annuì. "Ma noi non chiederemo prestiti, saremo loro creditori. E se avessimo abbastanza azioni, George Warleggan dovrebbe scendere a patti con noi, per le sue speculazioni finanziarie. Questo ci darebbe un grosso potere su di lui".

"Io non voglio vederlo nemmeno in volto, George Warleggan! Demelza, non mi siederò mai al consiglio d'amministrazione della banca di quell'uomo. Nemmeno se siete voi a chiedermelo".

Lo sguardo di Demelza divenne freddo come ghiaccio. "Non ve lo chiederò, infatti. Perché ci andrò io".

I due uomini accanto a loro la squadrarono, stupiti. Poi annuirono. "Potrebbe essere una bella idea e avete abbastanza capitale per farlo. La Warleggan Bank è una società sicura, non rischierete capitale e potreste tenere George per il collo, se vi mettete insieme e magari stringete qualche alleanza segreta con qualche altro azionista che non ha troppo in simpatia quelle persone".

Martin picchiettò il piede, pensieroso. Poi alzò lo sguardo, a guardarla in viso. "Sei sicura di volerlo fare? Sono serpi, Demelza, ma la tua idea mi stuzzica, potrebbe portare a una sorta di giustizia".

"Lo so che sono serpi, li conosco bene, mio malgrado. Stabiliamo la somma da investire, compriamo il pacchetto azionario e poi farò tutto io, ormai sono abbastanza esperta per riuscire a portare a termine questa cosa e a sedermi in un consiglio d'amministrazione per poi uscirne vincitrice". Prese un profondo respiro, stava giocando col fuoco e poteva scottarsi ma non voleva fermarsi. George aveva fatto male a tante persone oneste, ne aveva fatto anche a lei e alla sua famiglia e ora che aveva i mezzi per contrastarlo, non avrebbe perso la sua occasione. Non lo faceva solo per Martin e per il suo amico ma anche per se stessa, per Ross e per tutte le persone che quell'essere aveva rovinato.

Martin annuì. "Domani mattina passa a casa mia, daremo inizio all'affare".


...


Tornò a casa che era passata da poco la mezzanotte. Faceva ancora caldo, quell'estate Londra era stata torrida e spesso aveva passato notti insonni a causa della calura.

Fece attenzione a non fare rumore, raggiunse la sua camera e finalmente si tolse quegli abiti tanto eleganti quanto scomodi di dosso e si mise una camicia da notte. Si sciolse i capelli, li pettinò e poi, in punta di piedi, raggiunse la camera dei suoi figli.

Entrò, guardandoli dormire alla luce di una candela ancora accesa posta sul comodino. Jeremy si era addormentato con un libro illustrato fra le mani e Demelza sorrise nel guardarlo dormire. Era così intelligente Jeremy, faceva mille domande, aveva modi di fare aggraziati e gentili ed era tranquillo e pacato. Spesso si chiedeva da chi avesse preso, perché né lei né Ross erano così, di carattere. Si chinò, baciandolo sulla fronte, e il bambino aprì gli occhi. "Mamma, sei tornata?".

"Shh, dormi, è tardi e sveglierai Clowance".

"Ti sei tolta il vestito da principessa".

"Già, era così scomodo, sai?". Si sedette accanto a lui, accarezzandogli i capelli e prendendogli il libro, per metterlo sul comodino. "Su, lo mettiamo a posto. Continuerai a guardarlo domani".

Il bimbo glielo riprese dalle mani, aprendolo. "Guarda mamma, ci sono i disegni dei cavalli. Uno grande e uno piccolo" – disse, indicando due cavalli illustrati sulla pagina. "Sono una mamma cavallo con il suo bambino?".

Demelza sorrise. "No, vedi Jeremy, questo più piccolo è un pony. Un cavallino che resta piccolo ed è adatto ad essere cavalcato da dei bambini come te e Clowance".

Jeremy si illuminò in viso. "Davvero? Me ne compri uno?".

"Ci penseremo quando sarà pronta la casa nuova". Presto, prima dell'inverno, avrebbero traslocato in una grande villa con giardino nel centro di Londra, che aveva acquistato e stava sistemando ed arredando. Una casa enorme, su due piani, signorile, con un vialetto curato e recintata da un'elegante cancellata in ferro battuto, accanto alla casa dei Devrille, in una delle vie più esclusive di Londra. Le spiaceva lasciare quell'appartamento sopra la sua locanda, lì era nata Clowance e lì c'erano i ricordi di quel primo periodo in quella nuova città, tanto difficile e tanto intenso, ma per il bene dei bambini aveva deciso di comprare una casa dove potessero giocare tranquillamente senza fare lo slalom fra i clienti della sua attività. Certo, per lei sarebbe stato più complicato fare avanti-indietro ogni mattina e ogni sera per raggiungere la locanda, ma quella casa era un buon investimento per il futuro dei suoi figli e avrebbe offerto comodità e prestigio a quello che era rimasto della sua famiglia. Era grande, piena di stanze, con un enorme salone da ricevimento e tanto spazio per Jeremy e Clowance per giocare.

"Mamma, e il cavallo grande?".

Demelza abbassò lo sguardo sull'altra figura illustrata, uno splendido cavallo nero e lucente. "Questo è un purosangue, Jeremy. Un cavallo grande, agile e veloce, che cavalcano le persone adulte. Il tuo papà ne ha uno uguale". Si morse il labbro, stupita di quell'ultima frase, maledicendosi. Non voleva farlo, non voleva parlare di Ross a Jeremy, non voleva turbarlo ma probabilmente quella sera, sentir parlare di George aveva risvegliato in lei ricordi sopiti.

Il bimbo alzò lo sguardo su di lei, incuriosito. "Papà ha un cavallo così? E mi portava con lui?".

"Eri molto piccolo, era pericoloso...". Sentì gli occhi pungerle. No, Ross non aveva mai portato Jeremy a cavallo, ma ricordava perfettamente di quando ci aveva portato Geoffrey Charles, in compagnia di Elizabeth.

"Perché papà non viene mai a trovarci?".

"E' molto occupato, Jeremy" – rispose, con una freddezza che non le era mai appartenuta.

Il bimbo abbassò lo sguardo. "Lui non è della famiglia, non ci vuole bene, non viene mai. Si è dimenticato di noi".

Demelza si morse il labbro. Dannazione a lei, che le era saltato in mente di parlare di Ross a Jeremy? E ora, cosa doveva rispondergli? Certo, la logica le suggeriva di non mentire, di essere franca, ma il suo cuore si rifiutava di farlo, di arrecare un dolore a suo figlio, ancora così piccolo. Lo abbracciò, stringendolo a se, chiudendo il libro che teneva fra le mani. "Jeremy, tu sei il suo bambino e il tuo papà potrà dimenticarsi di ogni cosa ma mai di te. Ne sono sicura. E' molto occupato, è lontano, ma sono certa che ti pensa sempre".

"Pensa anche a te e a Clowance?".

Sorrise, con amarezza. "Certo, a modo suo...". Si chinò a baciarlo sulla fronte, rimboccandogli le coperte. "Ora dormi, è tardi".

"Va bene, mamma".

Si alzò dal letto, dopo avergli dato un'ultima carezza, avvicinandosi alla culla di Clowance. Era cresciuta un sacco, aveva la testolina piena di boccoli rossi e una vivacità fuori dal comune, sembrava avere l'argento vivo addosso. Gattonava per tutta casa, urlando contrariata se non otteneva quel che voleva, fissandoti con uno sguardo buffo e corrucciato. Lei, diversamente da Jeremy, era decisamente figlia sua e di Ross, stessa testa dura, stesso carattere ribelle di chi non accetta compromessi e sa già cosa vuole. Era incantevole, una bambina splendida che tutti si fermavano ad ammirare, quando la portava fuori per fare una passeggiata. Si chinò a baciarla, chiedendosi se fosse giusto sottrarre tanto tempo ai suoi figli per dedicarsi agli affari, rimpiangendo il tempo che passava lontano da loro.

E ora, con l'affare Warleggan fra le mani, il tempo in loro compagnia si sarebbe ulteriormente ridotto.

Pensò a Ross e a come tutto sarebbe stato diverso se l'avesse amata, se avesse tenuto a lei come teneva ad Elizabeth, se non se ne fosse andata...

Ma era inutile pensarci, Ross non era più suo e lei era stata capace di ricominciare una nuova vita e di assicurare un futuro ai suoi due bambini. E questo le costava sacrifici, sofferenza, sensi di colpa, ma la riempiva anche d'orgoglio.

Baciò Clowance sulla fronte e decise che il giorno successivo, dopo il colloquio con Martin Devrille, avrebbe tenuto chiusa la locanda e passato la giornata coi suoi figli a giocare con loro rotolandosi sul pavimento o a correre nel parco cittadino, senza abiti di seta o acconciature raffinate. Come una volta, come in Cornovaglia.






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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Prese un profondo respiro, mentre le gambe le tremavano.

Quella mattina si era svegliata presto, aveva raccolto i lunghi capelli rossi in un elegante chignon che lasciava cadere qualche ciocca sul collo, aveva indossato un meraviglioso vestito di seta blu, come il suo cappello. Aveva indossato guanti di seta, orecchini e collier d'oro, al polso un bracciale di perle e si era truccata il viso in maniera elegante e non troppo marcata. Era una donna d'affari, giusto? Doveva impressionare i suoi interlocutori, non era questo il suo scopo? Doveva spiazzare e mettere all'angolo George Warleggan e non voleva avere nemmeno un capello fuori posto. Doveva essere perfetta nella sua prima apparizione al consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank.

Nonostante il suo aspetto fosse fiero ed elegante però, una strana ansia le attanagliava lo stomaco. Vedere George significava aprire di nuovo i conti col suo passato ed era certa che lui avrebbe fatto di tutto per metterla in difficoltà, parlandogli anche di Ross, se necessario.

A suo favore poteva usare il cospicuo potere che le quote azionarie della banca, acquistate coi suoi soci, le davano, permettendole di trincerarsi dietro il puro profitto e la conclusione di affari vantaggiosi per tutti. Era un'azionista della Warleggan Bank ora, non una loro debitrice. E questo, George, sapeva che doveva tenerlo in conto.

Arrivò alla banca poco dopo le nove del mattino, leggermente in ritardo rispetto all'orario fissato. Anche questo era studiato e rispettava appieno l'idea che voleva dare di se a quegli uomini: noncuranza, arroganza e poco rispetto per le loro regole. Doveva e voleva apparire capricciosa, questo avrebbe aumentato il fascino nei soci della banca che non la conoscevano e avrebbe fatto indispettire George che comunque si sarebbe trovato con le mani legate, visto il peso delle azioni che lei aveva in suo possesso.

Salì al secondo piano dell'edificio, osservando i dipinti alle pareti e gli eleganti tappeti che adornavano il corridoio, tutti di ottima fattura persiana.

E quando arrivò alla sala del consiglio d'amministrazione, entrò senza bussare, imponendosi un passo deciso e sicuro.

Al centro della sala c'era un enorme tavolo d'ebano scuro e una decina di uomini vi era seduta attorno. Alcuni erano anziani, altri alle prime armi, forse ancora più giovani di lei. Tutti elegantissimi, tutti ricchi e tutti desiderosi di concludere ottimi affari.

E a capo tavola, a dominare tutto e tutti, con gli occhi sgranati dalla sorpresa, George Warleggan, vestito con un elegante soprabito rosso, pallido come un cencio e senza parole. Era decisamente stupito dal vedersela davanti... Gli era stata presentata, dai verbali, come Demelza Carne e non col cognome Poldark. E questo aveva influito non poco sull'effetto sorpresa. Lui non conosceva il suo nome di Battesimo, dopo tutto...

Demelza finse di ignorarlo, si tolse il cappello e prese posto al tavolo, sedendosi su una delle sedie lasciate libere. "Scusate il ritardo signori ma sapete, noi donne siamo davvero capricciose e amiamo perdere tempo nei negozi d'alta moda" – disse, togliendosi i guanti ed appoggiandoli al tavolo, con una lentezza ed un'eleganza studiata.

George, sempre più pallido, tossicchiò. "Che cosa ci fate quì?".

Demelza alzò lo sguardo su di lui. "Oh, non ve l'hanno detto? Demelza Carne, piacere di incontrarvi, signore! Sono, assieme ai miei soci, una delle nuove azioniste di maggioranza della Warleggan Bank". Accavallò le gambe, appoggiò la mano sotto il mento e sorrise amabilmente. "Ora che abbiamo fatto le nostre presentazioni, direi che è il caso di iniziare a parlare d'affari, è già così tardi... mio malgrado".

"Certo!" - asserì uno degli altri soci, un giovane dai capelli dorati che stava all'altro lato del tavolo.

"Certo" – ripeté George, squadrandola gelido. "Volete che vi presenti gli altri soci di maggioranza?".

"No, non è necessario. Sono quì per parlare di denaro, non per ampliare il mio giro di conoscenze".

George incassò, si sedette e annuì, aprendo il verbale posto davanti a lui. "Oggi discuteremo della costruzione della nuova sede della nostra banca a Oxford. Come sapete, il costo d'acquisto del fabbricato che ci lancerà in questa nuova avventura, è piuttosto elevato. Ovviamente dovremo coprire i costi per la ristrutturazione, l'ampliamento e la messa in sicurezza della banca che, ad oggi, sarebbe una delle più grandi della città. Questo ci porterà profitti innumerevoli, ma altrettanto innumerevoli saranno le spese iniziali d'investimento. Potremmo utilizzare denaro nostro, privato, che ammortizzeremmo coi primi proventi, quando la banca aprirà. Oppure, usare i profitti derivanti dal pignoramento delle abitazioni di coloro che hanno debiti con noi non ancora saldati. Ho un elenco di nomi che vi ho fatto preparare in copia, uno per ciascuno di voi. Queste persone sono cadute in rovina e, nonostante non si siano conclusi ancora i termini per la restituzione delle somme che ci devono, dubito fortemente che potranno saldare i loro debiti con noi. Se siete d'accordo, inizierei col pignoramento dei loro immobili".

"Io non sono d'accordo".

La voce di Demelza ruppe il silenzio che si era generato alle parole di George, che spalancò gli occhi. "Come?".

"Non sono d'accordo" – ripeté, lentamente.

"Signora" – rispose George, con malcelato disprezzo nel tono di voce – "Voglio ricordarvi che il pagamento dei propri debiti è un dovere sia civile che morale, in una società onesta".

Demelza annuì. "In una società onesta costituita da uomini onesti, si rispettano i termini di pagamento accordati. Quanto tempo è stato dato, a quelle persone iscritte su quella lista, per il pagamento dei loro debiti?".

Uno dei soci prese l'elenco, studiandolo. "Sono persone che hanno il termine di pagamento fissato a gennaio del prossimo anno".

Demelza sorrise. "Mi pare che manchi ancora molto, quindi. Siamo ancora in estate, dopo tutto, e quelle persone potrebbero avere tutto il tempo per estinguere i propri debiti".

"Sono persone vicine alla bancarotta, non pagheranno nemmeno con l'avvento del nuovo anno!" - ribadì George, piccato e rosso d'ira. "Concedergli questi mesi farebbe di noi persone estremamente stupide e sognatrici".

"Farebbe di noi, persone oneste" – ribadì Demelza, non togliendogli gli occhi di dosso. "Io non firmerò nulla di quanto proposto, se questi sono i termini! Un conto sono i prestiti scaduti, un conto quelli ancora in essere. Non rovinerò la vita di persone in difficoltà e non intendo avere nessuno sulla coscienza".

"E per i costi della nuova banca?" - chiese George, con aria di sfida.

Demelza sospirò. "Investiremo i nostri capitali, se necessario, non mi pare che questo sia un problema. Oppure chiederemo noi stessi dilazioni di pagamento alla società costruttrice, impegnandoci a saldare coi primi proventi della nuova banca. Questa è la mia posizione, signori. Che, a conti fatti, è pure quella che rispetta la legge vigente che non consente di cambiare, in corso d'opera, accordi già presi. Ma se voi pensate il contrario e possedete abbastanza azioni della Warleggan per proseguire senza la mia firma, ovviamente sarete liberi di farlo anche senza il mio benestare".

George si morse il labbro. I suoi occhi erano fuori dalle orbite e Demelza avrebbe scommesso che, se avesse potuto, le avrebbe messo le mani al collo. "Signora... Carne... ovviamente il vosto peso azionario in questa seduta è piuttosto consistente e non possiamo non tenerne conto. Ma vorrei invitarvi ad essere ragionevole".

"Io vi invito a fare altrettanto!".

Il socio biondo giovane che aveva davanti, tossicchiò. "Io credo che il ragionamento della signora sia giusto, eticamente corretto. E che possiamo, dopo tutto, trovare altre strade per i fondi che ci sono necessari".

George strinse i pugni, contrariato. "Voi altri signori, che ne pensate?".

La misero ai voti. E su undici persone presenti, tre gli diedero ragione. Era ancora poco, avevano tutti paura di George, ma per Demelza era già un ottimo risultato. Erano quattro contro sette, con abbastanza peso azionario per fermare i piani subdoli di quel demonio.

George sospirò. "E sia, chiederemo dilazioni di pagamento alla società appaltatrice. Ma sia chiaro, appena scatterà il nuovo anno, pretenderò la restituzione di tutti i crediti non ancora versati a mio nome".

"E' in vostro diritto farlo" – rispose Demelza, alzandosi in piedi. Sorrise agli altri soci, rimettendosi i guanti e il cappello. "Signori, è stato davvero un piacere conversare con voi stamattina. Ma credo che ora tornerò a passatempi più femminili, come dello sano shopping per le vie del centro della capitale. D'altronde, noi donne sappiamo essere così capricciose".

I soci le fecero un inchino, osservandola stupiti, increduli per quanto avevano appena visto. Nessuno di loro aveva mai osato contraddire George prima di quel giorno. Poi, uno ad uno, lasciarono la sala.

Demelza fece per imitarli ma la voce di George la raggiunse, gelida, alle spalle. "Signora Carne... volete concedermi il piacere di due chiacchere prima di dedicarvi ai vostri passatempi? O, dovrei dire, signora Poldark?" - chiese, appena furono soli.

Demelza si voltò verso di lui. Bene, erano faccia a faccia ora, senza nessun altro attorno. Poteva finire la sua commedia di nobildonna viziata adesso, e giocare a carte scoperte. "Sono lusingata che vi ricordiate di me, George".

"In effetti è strano, i volti di voi sguattere sono tutti così uguali" – ribatté lui.

"Già, puo' darsi" – rispose, a tono.

George le si avvicinò di alcuni passi, arrivando a pochi centimetri da lei. "Come è possibile che siate quì, a questo tavolo?".

"Città nuova, vita nuova. Gli affari mi sono andati straordinariamente bene, quì a Londra".

George sorrise, freddamente. "Dovrebbero fare una legge che vieta a voi sguattere e a quelli della vostra stessa specie di sedere ai tavoli di potere, signora Poldark".

Demelza rispose al sorriso. "Potrebbero, in effetti... Ma se facessero una legge simile, ai tavoli di potere non potrebbero sedersi nemmeno coloro che discendono da un'umile famiglia di fabbri, non credete?". Sorrise, si voltò e fece per andarsene, ma George la richiamò.

"Aspettate un momento, non ho ancora finito con voi. Parliamo e mettiamoci d'accordo, vorrei evitare problemi simili a quelli di poco fa, alla prossima riunione di consiglio. E proporvi un piccolo accordo".

Demelza si voltò verso di lui, seria. "Io non faccio accordi con voi, George. Dimostratevi ragionevole e andremo d'accordo, tutto quì".

"Voi ed io siamo molto simili, signora Poldark, da quello che vedo. Potremmo andare d'accordo".

Demelza si oscurò in viso. "Io non mi ritengo affatto simile a voi, per fortuna".

"Non volete ascoltare cos'ho da dirvi?".

No, non voleva. In realtà la presenza di George la stava irritando terribilmente. "Non ne ho particolarmente voglia. Arrivederci!".

George non si fece intimorire. "Vostro marito... Lo avete lasciato da ormai... un anno e mezzo, mi pare".

Gli occhi di Demelza si assottigliarono. "Non credo siano cose che vi riguardano. E non credo sia il caso di parlare di Ross quì, in un consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank. Lui non c'entra nulla in questo momento".

George puntò il dito contro di lei, pensieroso. "Lo avete lasciato e suppongo ce l'abbiate a morte con lui per qualche motivo a me ignoto. Vi do la possibilità di vendicarvi, di essere mia complice e di togliervi le vostre soddisfazioni. Come sapete, vostro marito è sempre stato un grattacapo per me, insieme potremmo distruggerlo".

Demelza incrociò le braccia alla vita, squadrandolo con espressione furente. Come poteva chiederle una cosa del genere? Ma poi, di che si stupiva? Era con George Warleggan che stava parlando, dopo tutto... "Non ho alcun interesse a rovinare mio marito ma al contrario, spero che viva felice, sereno e il più possibile lontano da me e dalla mia famiglia. Mi spiace George, se cercate un alleato per fargli la guerra, cercate altrove".

"La Wheal Grace si è dimostrata una miniera molto solida, sta donando infinite ricchezze a vostro marito e ai suoi soci. Se noi comprassimo delle azioni...".

Demelza sussultò. La Wheal Grace... Ricordava quanta fatica, quanti sacrifici avesse fatto Ross per riaprirla, l'immenso lavoro di lui e dei suoi uomini in quei cunicoli scuri, il triste destino di Francis, la sua disperazione dopo il crollo e la morte di due dei suoi uomini. Credeva che quella miniera fosse ormai chiusa, dopo quell'incidente, invece Ross probabilmente era riuscito a tenerla in vita. "Se la Wheal Grace si sta dimostrando un'ottimo investimento, sono felice per Ross e per le persone che lavorano per lui. Conosco quegli uomini e le loro famiglie, una ad una, e non intendo muovere un dito contro di loro. Ross sta facendo la sua vita, io la mia. E mi va bene così".

George scosse la testa. "Signora Poldark, vostro marito cosa direbbe se gli dicessi cosa fate a Londra? Cosa penserebbe se sapesse che siete una scaltra azionista e giocatrice di borsa? La cosa potrebbe turbarlo, non pensate?".

Demelza si morse il labbro. No, George non doveva dire nulla a Ross e c'era un modo per assicurarsi che stesse zitto circa i loro rapporti. "Io non credo che sia conveniente, per voi, parlargli di me".

"Perché mai?".

Demelza sorrise, con freddezza e distacco. "Perché se lo faceste, George, dovreste anche ammettere davanti a lui che vi tengo in scacco nel consiglio d'amministrazione della vostra stessa banca. E credo che preferiate la morte al dover ammettere uno smacco simile, giusto?".

"Come osate? Voi non mi metterete i bastoni fra le ruote" – rispose George, rosso in viso.

Demelza lo fissò negli occhi, furente. "E voi non li metterete a me. Avremo un rapporto di lavoro onesto e rispettoso e ognuno di noi starà al suo posto, agendo secondo legge ed onestà verso il prossimo. Andremo d'accordo, se ognuno rispetterà i patti. Ross non deve sapere nulla di me e di quello che faccio quì, intesi? Se direte qualcosa, sappiate che ho abbastanza potere per bloccarvi ogni attività finanziaria della Warleggan Bank".

George sospirò. "Ebbene non parlerò, ma voi sarete ragionevole d'ora in poi, quando ci vedremo alle prossime riunioni".

"Sarò onesta ed agirò con altrettanta onestà, cercando di venirvi incontro dove possibile".

"E io non parlerò a Ross della vostra attività. E di voi. Potete stare tranquilla, anche perché mi sarebbe impossibile comunicare con lui, allo stato attuale dei fatti".

Demelza si oscurò, mentre una strana ansia prendeva possesso di lei. "Perché?".

"Si è arruolato ed è partito per la guerra ad inizio anno, otto mesi fa. Per quel che ne so, potrebbe anche essere morto".

Demelza si sentì mancare, tanto che dovette appoggiarsi al muro per non cadere a terra. Impallidì, mentre le mani presero a tremarle. In guerra? Ross? Come poteva averlo fatto, come poteva aver abbandonato Elizabeth, Geoffrey Charles e una miniera fiorente? Perché? "State bleffando?".

George alzò le spalle. "Perché dovrei farlo? Non ne avrei interesse, non credete?".

Già, non ne aveva interesse, Demelza questo lo sapeva. "Ross è sempre stato molto avventato" – commentò, sotto voce.

"Non parlerei di avventatezza quanto piuttosto di sconfitta, signora Poldark".

"Sconfitta?". Demelza lo guardò, senza capire di cosa parlasse.

George alzò la mano sinistra dove, all'anulare, brillava una lucente fede nuziale. "Mi sono sposato".

"Congratulazioni" – rispose, in tono piatto.

"Con la vostra ex cugina, la vedova Poldark. Elizabeth ed io siamo convolati a nozze poco dopo la vostra partenza e la nostra unione è stata benedetta dall'arrivo di un meraviglioso bambino, Valentin".

Le parve che le si prosciugasse tutta l'aria nei polmoni. George ed Elizabeth? Come poteva essere? Elizabeth aveva sposato George? E Ross? Tentò di parlare, ma non riuscì a dire nulla, improvvisamente le sembrava di avere il vuoto in testa. Cosa diavolo era successo in Cornovaglia, nell'anno e mezzo in cui era stata assente?

Notando la sua sorpresa, George sorrise amabilmente. "Capite signora Poldark, per Ross è stato un trauma. Ho conquistato la maggior tenuta della sua famiglia, sono diventato tutore di suo nipote Geoffrey Charles e ho sposato la donna che da sempre ama e che ha sempre sognato, come forse anche voi sapete bene. E questo l'ha mandato fuori di testa, costringendolo ad arruolarsi per la disperazione di sapere la sua amata, sposata al suo acerrimo nemico". Le poggiò famigliarmente una mano sulla spalla. "Sicura di non voler riconsiderare la mia offerta di acquistare quote azionarie della Wheal Grace?".

Con uno strattone, Demelza si allontanò da lui. "Non colpirò mio marito alle spalle e non cambierò idea. E ora, se mi permettete, vorrei andarmene".

"Non vi congratulate con me?".

"Congratulazioni George, per tutto. Arrivederci".

La voce di George la raggiunse alle spalle, nuovamente. "Mi invidiate?".

Si voltò verso di lui, di nuovo. "Perché dovrei farlo?".

"Perché io, a differenza di voi, ho un matrimonio felice, con una donna meravigliosa, innamorata, onesta e raffinata. Un matrimonio perfetto, a differenza del vostro. Ma vi capisco, comprendo la vostra scelta di andarvene, essere la moglie di Ross Poldark dev'essere stato frustrante".

Demelza sorrise. "Non esistono matrimoni perfetti George e in ogni coppia ci sono piccoli, inconfessabili segreti, tenetelo a mente". Avrebbe desiderato urlargli in faccia la verità, che la sua preziosa dama era una bugiarda doppiogiochista, una falsa finta dama che lo aveva tradito prima di sposarlo e che, con tutta probabilità, sognava ancora Ross. Ma non lo fece, non c'era più motivo per farlo, non c'entrava più nulla con la vita di quelle persone e voleva tenerle lontano da lei quanto più possibile. "Vi rinnovo i miei auguri, comunque, per il matrimonio e per il bambino. Ora devo davvero andare".

George annuì. "Perché ve ne siete andata? Me lo sono sempre chiesto con immensa curiosità".

Demelza gli voltò le spalle, aprì la porta. "Non credo che vi farebbe piacere saperlo, George". Uscì dalla stanza, chiuse l'uscio dietro di se e a passi spediti si avviò verso l'uscita. Gli occhi le pungevano, il suo corpo era percorso da brividi di freddo e non ne capiva il motivo.

Improvvisamente, fu costretta a fermarsi.

"Signora Carne" – la chiamò il socio giovane che aveva presieduto la riunione con lei, poco prima. Lo riconobbe, era il ragazzo biondino che era seduto dall'altra parte del tavolo, davanti a lei.

"Volevo congratularmi con voi, avete davvero stile nel portare avanti le vostre idee".

Demelza annuì, disattenta. "Grazie".

"Che ne dite se ci vedessimo per bere un the?".

"Scusate ma oggi non sono dell'umore giusto per fare conversazione. Magari un'altra volta".

Il ragazzo annuì, cercando di incassare con dignità il suo rifiuto. "Ma certo signora, scusate se vi ho disturbato" – balbettò, arrossendo.

Si sentì in colpa. Era stata brusca, era fuori di se e quel ragazzo così impacciato ne stava pagando le conseguenze. "Scusate, ma oggi è una giornata terribile per me. Sono di fretta e non so nemmeno il vostro nome".

"Theodor Garvey, milady. Per servirvi".

Demelza sorrise. "La prossima volta, se vi andrà ancora di farlo, berrò più che volentieri un the con voi. Ma oggi non mi è davvero possibile".

Il volto del ragazzo si illuminò. "Aspetterò la prossima riunione con impazienza, allora".

"Certo". Lo guardò allontanarsi, sentendosi in colpa per quella promessa che in fondo non aveva voglia di mantenere, fatta unicamente per toglierselo di torno quanto prima. Non era d'umore adatto a sopportare nulla, nemmeno un gesto o una parola gentile.

Uscì in strada, appoggiandosi al muro, osservando il cielo estivo di Londra, di un color azzurro pallido. Ross era in guerra da mesi... "Sei un dannato idiota" – disse, mentre calde lacrime le rigavano le guance. Le aveva fatto male sentir parlare di lui, per un anno e mezzo aveva fatto di tutto per non pensarlo e non immaginare cosa stesse facendo e ora George aveva riaperto vecchie ferite in maniera dolorosa. "Perché non sei andato da lei? Perché non hai lottato per tenertela? Perché hai permesso che George la sposasse? Ed eri davvero così disperato senza di lei, dal fatto di vederla con un altro, da decidere di partire per la guerra?". Le faceva male immaginare che, probabilmente, era quello che l'aveva spinto ad andarsene...

Però... Ross era suo marito e dannazione, non le riusciva proprio di non preoccuparsi per lui ogni volta che prendeva decisioni azzardate e pericolose. Lo aveva sempre fatto, in ogni dannata avventura in cui si era imbarcato suo marito. Anche ora, anche lontani, anche dopo tanto tempo non riusciva a non essere in ansia per la sua sorte...

Su due piedi, prese una decisione che mai avrebbe contemplato possibile fino a dieci minuti prima. Ma se non l'avesse fatto sarebbe morta di preoccupazione, non ci avrebbe dormito la notte e avrebbe smarrito il briciolo di serenità che aveva faticosamente raggiunto in quei mesi. Doveva andare in Cornovaglia, in incognito, e scoprire cosa fosse successo a Ross. Doveva sapere come stava, cosa faceva, il perché di tante cose. Doveva scoprire se era vivo... Era suo marito dopo tutto, ancora. E il padre dei suoi figli...

E quale momento migliore per tornare, se non quello? Lui era lontano, non correva il rischio di incontrarlo e lei avrebbe fugato tutti i suoi dubbi e le sue paure e sarebbe potuta andare a fare visita alla tomba di Julia. Era tanto che non andava dalla sua bambina e si sentiva terribilmente in colpa per averla abbandonata.

Sarebbe partita quanto prima, avrebbe affidato i bambini a Martin e Diane e poi avrebbe raggiunto Nampara. Se c'era qualcuno che poteva rispondere alle sue domande e mantenere il segreto sulla sua visita, quella era indubbiamente Prudie. Solo lei poteva aiutarla, laggiù.








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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


La carrozza procedeva placidamente nelle lande deserte, battute dal vento d'autunno della Cornovaglia.

Demelza si strinse nel mantello, infreddolita. Non ci era più abituata, benché Londra fosse umida e nebbiosa, difficilmente l'aveva vista ventosa da quando ci viveva.

Martin e sua moglie Diane avevano accettato con entusiasmo di tenerle i bambini mentre era via ed era sicura e tranquilla a lasciar loro i suoi figli. Per Jeremy e Clowance erano diventati come dei nonni e anzi, Jeremy li chiamava proprio così, nonna Diane e nonno Martin, e presto avrebbe imparato anche Clowance a chiamarli a quel modo. E loro, senza figli e nipoti da accudire e coccolare, riversavano il loro affetto sui suoi bambini, riempiendoli di attenzioni e regali, tanto che spesso aveva dovuto frenarli dal viziarli troppo.

Anche per lei erano diventati, oltre che soci in affari, una specie di famiglia, quei genitori che le erano mancati da bambina, tanto che si era confidata con loro circa il suo passato e il motivo del suo viaggio in Cornovaglia e Martin e Diane erano stati comprensivi e dolci, nel rassicurarla e nell'incoraggiarla a fare quel viaggio.


"Martin, credi che io sia patetica a partire? Voglio dire... E' così stupido da parte mia preoccuparmi per mio marito ma... preoccuparmi e dannarmi per lui è sempre stata la cosa che mi riesce meglio. Non riesco a farne a meno".

"Io non vedo nessuna donna patetica davanti ai miei occhi ma al contrario, una giovane donna in gamba, intelligente e ancora molto innamorata del padre dei suoi figli. Parti, se senti che è quello che devi fare per stare tranquilla, fai quello che devi e poi, alla fine di tutto, torna quì. Hai una casa laggiù e una figlia che non c'è più ma che vuoi andare a visitare al cimitero. E' tuo diritto farlo. Non preoccuparti per Clowance e Jeremy, ci penseremo io e Diane a loro".


Mentre la carrozza procedeva, pensò a quanto le aveva detto Martin prima di partire. Era davvero, ancora, una donna innamorata? O era partita per una semplice questione di principio, perché sentiva che lo doveva ai suoi figli?

Il colloquio con George l'aveva sconvolta, aveva scoperto una realtà che credeva impossibile e scardinato molte delle certezze che aveva quando era partita.

Elizabeth aveva sposato George alla fine... Perché l'aveva fatto? Era stata una scelta consapevole sua e di Ross, quella di troncare? O, semplicemente, Elizabeth aveva scelto il partito migliore? E Ross... quanto era stato d'accordo – se lo era stato – con quella scelta?

Dubitava di essere ancora nei pensieri di suo marito, non era tanto sciocca e sognatrice da crederlo possibile e sicuramente dietro alla sua partenza per la guerra in Francia si nascondeva la delusione per aver perso Elizabeth ma Ross rimaneva comunque il padre di Jeremy e Clowance e lei aveva il dovere di scoprire cosa stesse combinando e se si era fatto ammazzare oltre Manica.

La carrozza si fermò e Demelza si affacciò al finestrino. Viaggiava in incognito, vestita di eleganti abiti di lana pregiata, coperti da un meraviglioso mantello di pelliccia che la riparava dal vento della Cornovaglia, già molto freddo.

Il cocchiere aprì lo sportellino, inchinandosi. "Signora, siamo arrivate".

Demelza prese il mazzo di rose bianche poggiato sul sedile e scese dalla carrozza, calandosi il cappuccio in testa. Non c'era in giro nessuno, era quasi mezzogiorno, ma preferiva non correre il rischio che qualcuno la vedesse e la riconoscesse.

Si guardò attorno, provando una stretta al cuore. Si trovava davanti all'ingresso del cimitero dove riposava Julia, la sua prima, meravigliosa bambina a cui pensava sempre, ogni volta che giocava coi suoi fratellini.

Lei era stata il suo tormento in quell'anno e mezzo a Londra in cui non era potuta venire a trovarla.

Pagò il cocchiere e poi entrò nel cimitero, raggiungendo a passi veloci la piccola tomba della figlia. Le cedettero le gambe, quando fu a tu per tu con lei, si inginocchiò e per molti minuti non fece altro che piangere in silenzio. Era così diversa ora dalla mamma che aveva conosciuto Julia, era più adulta, sicura di se, elegante, ricca. Ma il dolore per la sua perdita era rimasto ugualmente lacerante e impossibile da superare. Avrebbe donato ogni ricchezza, ogni agio, ogni comodità pur di poterla riavere indietro, ma sapeva che non c'era strada di ritorno per lei, che Julia era persa per sempre e che nulla gliel'avrebbe restituita. Si chiese se Ross pensasse a lei ogni tanto, le aveva voluto bene, ricordava quanto fosse commosso il giorno in cui era nata e quanto fosse disperato quando le aveva rivelato che era morta. Quella era stata l'unica volta in cui l'aveva visto piangere...

Si chiese come sarebbe stata, se fosse vissuta. Avrebbe avuto sei anni ormai, i capelli lunghi, avrebbero potuto chiacchierare insieme e avrebbe insegnato a suo fratello e alla sua sorellina tutto quello che sapeva. Forse, se non fosse morta, anche le cose fra lei e Ross sarebbero andate diversamente perché era stato proprio dalla perdita della loro bambina che, pian piano, avevano iniziato ad allontanarsi e lui aveva ricominciato a guardare Elizabeth con occhi innamorati, dimenticandosi di lei e rifiutando, di fatto, la paternità di Jeremy a cui non aveva mai voluto dare il minimo di attenzioni.

Osservò la tomba, pulita, ordinata, piena di fiori di campagna. Sorrise, Prudie aveva tenuto fede alla promessa che le aveva fatto quando era partita e si era presa cura di Julia, mentre lei era lontana.

Sistemò le rose in un vaso e poi sfiorò il marmo, mentre un groppo le stringeva la gola. "Anche se non posso più venire quì, tu lo sai che ti penso sempre, vero Julia? Ti vorrò sempre bene, ovunque tu sia, non dimenticarlo mai, sei la mia bambina, quella che ha fatto di me una mamma".

A malincuore, dopo alcuni minuti di raccoglimento, si alzò in piedi. Allontanarsi da lei faceva male perché sapeva che non sarebbe potuta tornare per molto tempo o forse mai, ma aveva i minuti contati e se si fosse fermata troppo, avrebbe rischiato di incrociare qualche suo vecchio conoscente che l'avrebbe potuta riconoscere.

Accarezzò di nuovo il marmo freddo, mentre il vento le frustava il viso.

E poi, dopo un ultimo sguardo, lasciò il cimitero e si diresse a piedi verso Nampara.

Percorse sentieri che conosceva a memoria, stringendosi nel suo mantello. Il cielo era scuro, prometteva pioggia e questo poteva essere seccante ma quanto meno non c'era in giro anima viva.

Sorpassò le miniere che aveva imparato a conoscere a memoria, la Wheal Leisure e la Wheal Grace, osservando da lontano il via vai degli uomini che vi lavoravano, ricordando quando vi si recava per andare a trovare Ross, poi costeggiò la costa, sferzata dal vento ancora più violentemente. E infine, in lontanza, scorse la sua casa, Nampara.

Per un attimo le mancò il fiato... Era quella casa sua, il suo rifugio, l'unico posto dove volesse stare davvero, dove si era sentita accolta, amata, serena e sicura. Non Londra, non la locanda, non la grande villa dove sarebbe andata ad abitare di lì a pochi mesi con Jeremy e Clowance. Nampara sarebbe sempre stata la sua casa, coi suoi campi e i suoi prati a circondarla, con il cortile dove faceva giocare Garrick e sistemava il bucato, con il suo arredamento semplice ma caldo ed accogliente e che gli risvegliava ricordi ad ogni angolo della casa.

Ma quello non era più il suo mondo, il suo posto... Lo aveva lasciato più di un anno e mezzo prima per non tornare e quella che stava facendo era solo una breve visita prima di tornare ai suoi impegni, al suo lavoro e ai suoi figli.

Si avvicinò, bloccandosi quando scorse una figura conosciuta nel cortile, intenta a ritirare il bucato steso. La sentì borbottare a causa del vento che disturbava il suo lavoro e, nonostante tutto, le venne da ridere. "Vuoi una mano, Prudie?" - chiese, appoggiandosi alla staccionata.

Sentendo la sua voce, Prudie spalancò gli occhi e si voltò, rimanendo per lunghi istanti impalata e a bocca aperta. I panni le caddero di mano ma parve non accorgersene. "Giuda! Siete tornata" – esclamò, andandole incontro correndo.

Demelza le sorrise, avvicinandosi ad abbracciarla. "Non sono tornata, sono solo di passaggio. Fra poche ore ripartirò".

"Oh signora, signora" – mormorò Prudie, quasi soffocandola nel suo abbraccio.

"Come vanno le cose quì?".

Prudie si asciugò le lacrime, cercando di ricomporsi. "Bene... Sì insomma, viste le circostanze. Ma voi... Voi che ci fate quì? Di tutte le persone che immaginavo di rivedere, voi siete...".

"Quella che meno ti aspettavi" – concluse Demelza, per lei. Guardò la casa, con nostalgia. "Sei sola?".

"Sì, Jud è sparito in città a vendere la lana tre giorni fa e non si è ancora ripresentato a casa, probabilmente per paura di prenderle! Quel dannatissimo scansafatiche che non è altro! Sarà a bere in qualche osteria, il signore, appena l'avrò sotto mano lo scorticherò vivo".

Demelza scoppiò a ridere. "A quanto pare, non è cambiato nulla qui".

Prudie sospirò, prendendola sotto braccio. "Beh, qualcosa è cambiato. Su, venite dentro, vi preparerò del the caldo, dovete essere davvero infreddolita".

Demelza annuì e si lasciò condurre in casa. Le mancò il fiato quando fu dentro, quella casa risvegliava in lei mille e più ricordi. La cucina, il salotto, la scala che portava alla sua camera da letto, tutto le parlava di lei, di Ross e della famiglia che avevano costruito insieme. Ricordi belli si mischiavano a ricordi brutti, in un connubio capace di stordirla. Crollò sulla sedia, esausta, stringendosi nel suo mantello.

"Avete abiti bellissimi" – sussurrò Prudie, guardandola con attenzione.

"Sono più che altro caldi" – rispose, vaga. Non voleva parlare di lei e della vita che si era costruita, meno cose diceva e meglio era. Prudie le voleva bene come una madre ma il rischio che si tradisse era troppo alto.

"Siete venuta per il signore? Ross non c'è, manca da questa casa da inizio anno".

"Lo so".

"Come?". Prudie spalancò gli occhi, sorpresa. "In che senso?".

"Lo so è basta. Qualcuno mi ha detto che è partito, che si è arruolato nell'esercito".

Prudie rimase in silenzio per lunghi istanti, facendosi mille domande. Non ci stava capendo un accidenti, era chiaro, e nonostante tutto le spiaceva non essere totalmente sincera con lei. "E' per questo che sono tornata, per parlare con te. Che diavolo sta combinando, Ross? Perché è in Francia, invece che essere con Elizabeth?".

Prudie le mise la tazza di the fumante davanti, sedendosi nella sedia accanto a lei. "Una cosa per volta, ragazza. Dimmi prima come stai, dove vivi, cosa fai e come sta il piccolo Jeremy. Per favore". Le parlò in prima persona, usando il 'tu', dimenticando il rapporto serva-padrona che si era instaurato fra loro dopo il suo matrimonio con Ross. Le parlò come una volta, quando non era che una ragazzina che faceva la sguattera per il capitano Poldark e questo le faceva piacere, aveva un sapore di cose antiche, di famigliarità, di semplicità. E in fondo, lei non era più la padrona di Nampara e di Prudie.

Demelza sospirò. "Sto bene, vivo lontana da quì, ho un ottimo lavoro che mi permette di mantenermi dignitosamente e Jeremy è la mia gioia, è cresciuto tantissimo, è intelligente e fa mille domande. E' un bambino bello, buono e assennato e a volte mi stupisco di aver messo al mondo un figlio così diverso da me e da Ross". Guardò Prudie, seria. "Nessuno deve sapere di questa mia visita, ti prego di non dirlo in giro, nemmeno a Jud. Nemmeno a Ross, SOPRATTUTTO a Ross".

"Ross? Chissà quando tornerà" – rispose Prudie, sconsolata.

"Che diavolo sta succedendo quì?".

Prudie scosse la testa. "Hai cercato informazioni su Ross? Cosa sai di preciso?".

"Non ho cercato informazioni su di lui, sono venuta a sapere, per caso, alcune cose. E mi sono un po' preoccupata, è pur sempre il padre dei..." - si corresse subito, non voleva parlare di Clowance con Prudie, non sarebbe riuscita a tenere un segreto del genere. "Di Jeremy".

Prudie si accigliò, ma non disse nulla. "Il capitano Poldark si è arruolato ad inizio anno. La miniera va bene signora, subito dopo la vostra partenza è stato scoperto un enorme giacimento e ora che Ross non c'è, i suoi soci si prendono cura dei suoi affari, danno a me e a Jud il nostro stipendio e ci comunicano quanto il signore scrive loro, per lettera, dalla Francia".

Demelza inspirò profondamente, rinfrancata da quelle parole. "Quindi è vivo? Sta bene?".

"Fino a tre settimane fa, data della sua ultima lettera, sì. Non ho idea di quanto tornerà, però". Sbuffò, guardandosi attorno. "Devo tenere pulita questa casa perché se tornasse all'improvviso e la trovasse in disordine, darebbe fuori di matto. Quando è tornato dalla Virginia, si era infuriato per un po' di cose qua e la".

Demelza rise. "Quando è tornato dalla Virginia, mi aveva raccontato che la casa cadeva a pezzi".

"Che uomo esagerato, oltre che impossibile".

"Già". Cadde il silenzio, Demelza abbassò lo sguardo e prese a fissare, distrattamente, la tazza di the che aveva davanti. "Bene, Ross è in salute e gli affari gli vanno bene. Volevo solo sapere questo, ora credo che sia ora che riparta".

Prudie le prese le mani nelle sue, stringendole. "No, resta! Prendi il signorino Jeremy e torna qui, ne sarebbe così felice".

"Oh Prudie...". Si morse il labbro, vinta dalla nostalgia e dall'affetto per lei. "Non è più il mio posto, questo. E Ross desidera un'altra donna, che dovrei tornare a fare?".

"Ma chi? Quella gattamorta di Trenwith? Si è sposata quella lì, col più ricco, con quel damerino con la puzza sotto il naso che non va d'accordo col signore".

Demelza sorrise, tristemente. "Non importa quello che fa lei, a me importava quello che pensava lui. E lui voleva lei, la vuole ancora e la vorrà sempre".

Prudie scosse la testa. "Ma cosa dici? Ross non è mai andato a cercarla, credo che del loro matrimonio non gliene importasse nulla. E' andato solo una volta a farle visita, la sera prima che si sposasse".

"Per farle cambiare idea, suppongo. Per stare con lei e ricominciare una vita insieme...".

"No. Quella sera il signore mi ha detto che andava a Trenwith a portare la risposta all'invito per la cerimonia di nozze. Non aveva intenzione di rimanere la, mi aveva detto di preparare la cena che sarebbe tornato subito e così ha fatto. Tempo un'ora ed era a casa. Da quella sera, posso metterci la mano sul fuoco, non si sono più rivisti. Anche perché il signor Warleggan ha fatto recintare tutta la zona di Trenwith e a guardia ha messo i suoi scagnozzi, armati. Ross non ha mai tentato di avvicinarsi a quella casa e da quel che so, prima di partire, l'unico con cui aveva rapporti era il bambino, Geoffrey Charles. Sgattaiolava fuori da casa e di nascosto correva quì. Aveva occhi così tristi, povera creatura. Sua madre è un'inetta e non ha mai saputo difenderlo da quell'orco. Alla fine è stato spedito in collegio da qualche parte e quì non si è più visto nemmeno lui".

Le si strinse il cuore a pensare a Geoffrey Charles e a come poteva aver vissuto in quella casa, con George accanto a lui, che spadroneggiava senza che sua madre dicesse niente per difenderlo. Geoffrey Charles era l'ultimo Poldark rimasto a Trenwith e di certo George aveva fretta di liberarsi di lui e di legittimare il suo ruolo all'interno della tenuta, soprattutto dopo la nascita del figlio avuto da Elizabeth.

"Demelza?".

La voce di Prudie la fece sussultare. "Dimmi".

"Il signore... So che ti ha fatto soffrire, che ha sbagliato tanto ma... ha bisogno di te. Torna, ti prego. Questa casa non è più una casa senza te e il bambino".

"Non posso, Prudie. Sono cambiate tante cose e la mia vita è altrove, adesso".

"C'è qualcun altro nella tua vita? Per questo non puoi perdonare Ross?".

Demelza annuì. Non era una bugia, in fondo. Non aveva accanto nessun nuovo amore ma era comunque circondata da amici fidati, aveva una vita stabile e una figlia di cui Ross ignorava l'esistenza. Non poteva tornare, non più. "Prudie, si sta facendo tardi, devo partire, Jeremy mi starà aspettando".

"Vallo a prendere e torna quì. Se Ross sapesse che sei tornata, lascerebbe subito l'esercito e correrebbe a Nampara come un forsennato. Ti ha cercata tanto".

Demelza fece un sorriso amaro. "Mi ha cercata? Davvero? Perché, per una questione d'onore? Perché si vergognava a dover ammettere davanti agli altri che era stato abbandonato da sua moglie?".

"Ross era davvero distrutto, spesso l'ho visto girare per casa con gli occhi lucidi".

Demelza scosse la testa. "Prudie, era disperato per lei, perché aveva sposato George. Gli occhi lucidi erano per Elizabeth, così come la decisione di partire per la guerra, non sopportava di averla persa! Non sono io ad essere nei suoi pensieri, non lo sono mai stata. Tutto quello che so è che la mia partenza con Jeremy, per lui, è sicuramente stata un sollievo, si è tolto di casa due persone che erano solo un peso".

Prudie si alzò dalla sedia, andandole accanto ed inginocchiandosi davanti a lei. "Ma cosa dici? I suoi occhi brillavano quando eravate insieme. Hai dato gioia alla sua vita, sei sua moglie e lui questo non l'ha dimenticato".

"E allora perché era da lei che correva? Perché era a lei che pensava sempre? Perché io e Jeremy eravamo invisibili ai suoi occhi?".

Prudie si rialzò, accarezzandole i capelli. "Ha sbagliato molto, ha dato tante cose per scontate ma ti adorava, ti adora ancora. Sa di aver sbagliato, dagli una seconda opportunità. Demelza, se tieni ancora un po' a lui – e so che è così, altrimenti non saresti qui – fallo!".

Sentì gli occhi pungerle a quelle parole e di colpo, come un fiume in piena, le lacrime e la disperazione che aveva represso da quando era partita, strariparono. Scoppiò a piangere e a singhiozzare come se fosse stata ancora una bambina e si aggrappò a Prudie affondando il viso nel suo collo, abbracciandola come in cerca di sostegno. "Come puoi chiedermelo? Tu eri qui, tu hai sempre visto tutto! Non sono mai stata abbastanza per lui. Non abbastanza bella, non abbastanza attraente, non abbastanza interessante e non sono mai stata capace di risvegliare in lui la passione, l'amore che gli suscitava Elizabeth. Ero solo uno svago, in attesa di avere lei. Ci ho provato ad essere una brava moglie, a sostenerlo, l'ho amato più di quanto io abbia mai amato me stessa ma non era sufficiente per lui. Non mi voleva, non voleva Jeremy, non sapeva che farsene di noi. Non posso tornare, non posso fare questo a me stessa e a mio figlio. E Ross... non so perché non abbia lottato per Elizabeth, avrà avuto le sue buone ragioni o forse non c'era motivo di lotta perché lei ha preferito un altro, ma non inizierà ad amarmi perché ha perso lei. L'amore non è così, non è un qualcosa che nasce per interesse, è qualcosa che nasce, spontaneo, dal cuore. E se non ha provato amore per me prima, non lo farà nemmeno adesso".

"Oh bambina...". Prudie le accarezzò le guance, ad asciugarle le lacrime. "Non puoi pensare davvero queste cose. Ti adorava, è perso senza di te. Lo conosco da tanto tempo, fidati".

Demelza scosse la testa, alzandosi dalla sedia. "Non sarei dovuta tornare, sai? Mi fa male stare quì e sentire... e ricordare... Sono contenta di averti vista ma ti prego, lasciami tornare a casa".

Prudie annuì, sconfitta. "Non verrai più a Nampara, vero?".

"No. Grazie per quello che fai per la tomba di Julia, continua a prenderti cura di lei, te lo chiedo come favore personale".

"Lo farò".

Demelza annuì, asciugandosi le lacrime. Guardò la casa, un'ultima volta, imprimendosi nella memoria ogni particolare, ogni piccolo dettaglio da portarsi dietro, nei suoi ricordi. "Tieni tutto in ordine, mi raccomando, sai che ci tiene. Prenditi cura di lui quando tornerà. E per quanto riguarda me...".

"Non devo dire nulla, lo so".

"Grazie". Demelza sorrise. "Buona fortuna, Prudie. Cerca di star bene".

"Anche tu. E dai un bacio a Jeremy da parte mia".

"Lo farò". La salutò con un cenno del capo, si rimise il mantello e poi uscì, sparendo fra le nubi e il vento freddo dell'autunno della Cornovaglia. Tornare a Nampara era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto e difficilmente avrebbe ritrovato il coraggio per farlo di nuovo.






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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


Era giunto l'inverno su Londra, freddo ed implacabile. La neve aveva preso a cadere con notevole anticipo rispetto al solito e questo aveva complicato le operazioni di trasloco e arredamento della sua nuova casa.

Per fortuna però, con la notevole disponibilità economica di cui ora disponeva, Demelza era riuscita a pagare un numero sufficiente di uomini per fare tutto in fretta e il giorno del primo compleanno di Clowance fu quello che decretò il suo ingresso ufficiale nella nuova, lussuosa abitazione.

Camminando per i corridoi, faticava ancora a credere che quella casa fosse davvero sua. Osservò gli arredamenti raffinati, i tappeti, le pareti finemente imbiancate di colori caldi e armoniosi, il grandissimo salone da ricevimento dove avrebbe potuto ricevere eventuali ospiti, la maestosa sala da pranzo, le camere da letto sue, dei suoi figli, della servitù e dei suoi ospiti, tutte arredate con eleganza e gusto e il grande giardino, perfettamente curato e pieno di piante grandi e rigogliose.

Era casa sua e mai, se da piccola le avessero detto che avrebbe vissuto a Londra in un'abitazione simile, ci avrebbe creduto.

Si era trasferita assieme alla famiglia Logan che, fin dall'inizio, le era stata accanto nell'appartamento sulla locanda ma aveva dovuto assumere altro personale, oltre a loro, per tenere in ordine una casa così grande. E così, alle sue dipendenze, erano entrate una cuoca, cinque domestiche, una cameriera personale per lei, due giardinieri e un maggiordomo. La cura personale di Jeremy e Clowance l'aveva lasciata a Margareth e Mary Logan, che i bambini adoravano e che conoscevano ormai bene, mentre Samuel era diventato il suo portalettere ed era incaricato di portare la sua corrispondenza personale riguardante l'attività di azionista, ai suoi soci, mentre nel tempo libero aiutava il maggiordomo ufficiale della casa.

Anche alla locanda aveva assunto tre dipendenti che la gestissero quando era impossibilitata a farlo di persona, in modo da avere tempo per stare anche coi suoi figli, per quanto possibile.

I Logan le avevano detto che era davvero una brava donna e che tante persone, grazie a lei, quell'anno potevano festeggiare serenamente il Natale perché avevano un lavoro.

Jeremy guardò la casa e i soffitti finemente decorati, poi prese a correre nel corridoio, inseguito da Garrick. Demelza, che teneva per mano Clowance che stava imparando a fare i primi passi, lo richiamò. "Attento, potresti cadere".

Caroline, giunta in serata assieme a Martin e Diane per un brindisi, rise. "Se anche cade, finisce sul morbido. Adoro questi tappeti, sono soffici da morire".

"Si, ma non voglio che Jeremy corra come un pazzo per tutta la casa!" - borbottò Demelza, guardando suo figlio che si divertiva come un matto, esplorando ogni angolo di quel loro nuovo mondo.

Martin eruppe in una fragorosa risata. "Ah, lascialo fare! E noi andiamocene a bere un bel bicchiere di champagne e brindiamo a questo tuo nuovo inizio".

Demelza sospirò, lanciando un'ultima occhiata al figlio, inseguito da Mary che cercava di calmarlo. Poi si arrese e seguì i suoi ospiti nel grande salone principale.

Era stato arredato con gusto elegante ma sobrio. Le finestre erano schermate da tende bianche, di pizzo, al centro del locale troneggiava un lungo tavolo d'ebano e ai lati della stanza c'erano dei grossi divani di pelle, separati fra loro da uno scrittoio posto all'angolo. Alle pareti aveva fatto mettere quadri raffiguranti i paesaggi della Cornovaglia perché voleva che i figli, da grandi, sapessero da dove venivano e non lo scordassero.

Si sedettero sui divani e la cameriera arrivò per servirli. Demelza si mise Clowance sulle ginocchia, facendola giocare.

La bimba rise, rifugiandosi fra le sua braccia, e lei gli accarezzo i morbidi boccoli rossi racchiusi in due codini, perdendosi nella bellezza di quel visino. Aveva una figlia stupenda, ne era follemente innamorata e ancora non riusciva a credere a quanto fosse cambiata la sua vita dall'anno prima, dalla notte in cui, spaventata e senza certezze, l'aveva messa al mondo.

"Brindiamo allora!" - esclamò Diane, alzando il calice. "A questa casa, ai nostri affari e soprattutto al primo compleanno della nostra piccola Clowance".

La bimba rise, divertita, mentre anche Jeremy faceva capolino, rifugiandosi fra le braccia di sua madre.

"Nonna Diane, che regali hai fatto a Clowance?".

"Jeremy!". Demelza gli diede un buffetto sulla fronte.

Martin gli fece l'occhiolino, attirandolo a se. "Jeremy, alla tua sorellina abbiamo regalato delle bambole e tanti vestitini. E per te...".

"Non è il suo compleanno!" - obiettò Demelza.

Ma Martin finse di non sentirla. "Per te, domani arriverà un enorme cavallo a dondolo da tenerti nella tua nuova stanza".

Jeremy si illuminò. Saltò al collo di Martin, contento, baciandolo sulla guancia. "Grazie nonno Martin! A me piacciono i cavalli".

Demelza scosse la testa. Martin, Diane e Caroline adoravano i suoi bambini, li viziavano senza ritegno e con generosità. E soprattutto volevano loro davvero bene, un tipo d'amore genuino, sincero, che non chiedeva niente in cambio. Per un attimo pensò a Ross, alla sua indifferenza verso Jeremy, al suo rifiuto delle proprie responsabilità di padre, chiedendosi come fosse possibile che perfetti sconosciuti amassero suo figlio più di lui. Guardò Clowance, che Ross nemmeno conosceva e che per lui avrebbe rappresentato solo un peso se fosse rimasta a Nampara e a quei pensieri il suo umore tornò come sempre cupo e triste, come quando era arrivata a Londra e non riusciva a darsi pace.

"Demelza, va tutto bene? Sei diventata improvvisamente muta" – chiese Caroline, osservandola.

Si sforzò di sorridere. "Sì, sto solo pensando a come corre veloce il tempo. Sembra ieri che Clowance è nata e già cammina e sa chiamarmi 'mamma'. Presto, se va avanti così, mi presenterà il suo fidanzato".

Caroline e Diane sorrisero. "Ah, sicuro! Lei sarà fra i migliori partiti di Londra, fra alcuni anni. E Jeremy uno dei ragazzi più ambiti dalle gentildonne. Crescili bene, Demelza, hai una grande responsabilità".

A dispetto di tutto, rise. "Ci proverò. Ma crescerebbero meglio se voi tre non li viziaste".

Caroline bevve lo champagne. "Come sei antipatica stasera! I bambini VANNO viziati. Guarda come sono contenti. E sarai contenta anche tu, ora che hai questa casa e potrai organizzare feste esclusive. A quando la prima?".

"Non organizzerò feste esclusive, non sono il tipo".

Caroline sbuffò. "Sei davvero noiosa, lo sai?".

Martin scoppiò nuovamente a ridere. "Siete davvero una bella coppia di amiche voi due! Comunque signorina Penvenen, Demelza è come me, affezionata al suo lavoro. A proposito, mia cara, ho saputo che hai fatto un investimento curioso, la scorsa settimana".

Demelza si accigliò. "Di che parli?".

"Hai comprato il pacchetto azionario della Northern Bank! Perché? E' un tipo di banca senza futuro, con una buona e rivoluzionaria idea di base per partire, ma i tempi non sono ancora maturi. Fallirà prima di aprire i battenti".

Demelza fece un sorriso furbo. Aveva sentito parlare della Northern Bank al suo ritorno dal viaggio in Cornovaglia, mesi prima. Era una banca nuova, neonata, che a differenza delle altre offriva fiducia e crediti a proletari e povera gente che intendeva iniziare un'attività o una nuova vita. Conosceva il mondo della finanza, sapeva che le grandi banche non concedevano prestiti a gente del popolo e la stuzzicava l'idea che una nuova banca, con nuove idee prese dagli esiti della rivoluzione in Francia, avesse avuto l'idea di aprire canali di credito anche alle persone più povere per offrire a tutti un'opportunità. Le azioni erano poco più che carta straccia, nessun finanziere aveva voluto puntare sulla Northern e lei aveva comprato il pacchetto azionario di maggioranza per una cifra irrisoria. "Credo che, se mai ci fosse un consiglio d'amministrazione, sarei l'unica a presiederlo. Su quella banca ci ho messo gli occhi solo io".

"Certo" – rispose Martin – "Tu hai ottimo fiuto negli affari ma temo che questo sarà il tuo primo buco nell'acqua".

"Non importa, la cifra che ci ho investito è irrisoria. Mi tengo le azioni nel cassetto e sto a vedere che succede".

"Secondo me non succederà nulla, chiuderà prima di aprire i battenti" – disse Caroline, accarezzando i capelli di Clowance.

"Puo' darsi. Ma puo' darsi di no! Il mondo sta cambiando".

Martin scosse la testa. "Sei troppo avanti per i nostri tempi, Demelza. Forse una banca del genere avrà fortuna in futuro, ma non ora, non in Inghilterra. Quì c'è il re, comanda lui, comanda la camera dei lords e comandano i nobili. Purtroppo per la povera gente è difficile emergere, non siamo in Francia".

"Ma noi ci siamo riusciti" – obiettò Demelza. "E arriviamo da quel mondo che quella banca vuole aiutare".

"Noi siamo stati fortunati, Demelza, ma è raro che succeda" – rispose Diane. "Certo, sarebbe bello che qualcuno desse fiducia e un'opportunità alla povera gente tanto che, sai, nonostante quello che dice mio marito, spero che tu ci abbia visto giusto. Se avrà successo, con te a capo del consiglio d'amministrazione, la gente che si rivolgerà alla Northern sarà fortunata".

"Vedremo".

Finirono di brindare e poi, dopo averli salutati e guardati rientrare nelle loro case, Demelza prese per mano Jeremy che, ancora eccitato dall'essere nella casa nuova, non aveva alcuna intenzione di prendere sonno. "E' ora di dormire, tesoro" – gli intimò, camminando nei corridoi di quella immensa casa.

"Voglio dormire con te, mamma" – protestò il bambino.

"Jeremy, hai una camera grande e bella tutta per te, non vuoi dormire nel tuo nuovo letto?".

"No, voglio stare con te".

"Mammaaaa" – urlò Clowance, aggrappandosi al suo collo, facendole capire che anche lei desiderava la stessa cosa.

Demelza sorrise. Forse era normale, era un ambiente nuovo per loro ed erano ancora molto piccoli. E poi era il compleanno di Clowance, poteva anche fare uno strappo alla regola e tenerli con lei tutta notte, per una volta. "Va bene, ma solo per questa volta. Da domani, ognuno in camera propria e potrete venire da me soltanto al mattino, quando vi sveglierete. D'accordo?".

"Si". Jeremy gli strinse la mano, dondolandosi. "Mi canti una canzone?" - chiese, mentre entravano nella sua stanza. Era enorme, con un grande letto a baldacchino al centro, grandi armadi a lato della camera, tappeti morbidi, e una spinetta accanto alla finestra, che aveva desiderato più di ogni altra cosa. Le ricordava Nampara, quanto amasse suonarla e i momenti felici che aveva vissuto con Ross.

"E' molto tardi" – obiettò Demelza.

Jeremy saltò sul letto, contento. "Allora giochiamo".

Non riuscì a fare la seria davanti alla loro contentezza. Prese Clowance, la fece rotolare sul materasso e rise, sentendola ridere. Si lasciò travolgere dall'allegria dei suoi figli, da Jeremy che, abbracciandola, cercava di farle il solletico e dalla piccola che imitava il fratello, ridendo contenta. E si rese conto che era una cosa stupida quella di star male pensando a Ross. Era lui che aveva perso momenti simili, non lei.

E come un anno prima, quando era nata Clowance, si sentì fortunata ad averli accanto. Erano loro la sua ricchezza, non quella grande casa, non le azioni di qualsivoglia banca, non il denaro. Ed erano quelli i momenti della sua vita che preferiva, quelli semplici, passati con loro, lontana dal mondo spietato di affari e nobiltà, sotterfugi e cattiveria.

Era fortunata, semplicemente, di essere la loro madre.

Quando si furono un po' calmati, strinse a se Jeremy e si mise sul petto Clowance. Il bimbo, dopo qualche mugugno, si addormentò quasi subito mentre la piccola la fissò, avvicinandosi finché le punte dei loro nasi si toccarono. "Mamma" – mormorò, strofinandosi gli occhi, assonnata. Le sorrise, accarezzandole i capelli, intonando per lei, sotto voce, una canzone per augurarle un buon primo compleanno.


...


Come stai, Dwight?”. Ross era preoccupato per il suo amico. La guerra lo aveva annientato, con la sua durezza e la sua spietatezza. Dwight era partito per dimenticare Caroline ma il suo animo era gentile, altruista e assolutamente non pronto ad affrontare un’esperienza del genere. Era nato per curare la gente, non per ucciderla.

Era stato catturato, assieme ad altri uomini, durante un’uscita di pattuglia un mese prima e Ross, assieme a dei compagni d’arme, era andato a salvarli con una pericolosa missione segreta.

Ross era temprato alla guerra, alle battaglie, aveva combattuto per tre anni in Virginia molto tempo prima, sapeva cosa aspettarsi, come sopravvivere, come far fronte al carico di morte e dolore che un conflitto ti sbatteva in faccia senza pietà e il suo animo era molto più selvaggio ed iroso di quello dell’amico.

Si guardò attorno, in quella infermeria da campo improvvisata, dove per una volta era Dwight ad essere il paziente. Lo aveva recuperato stremato, ferito nel corpo e nell’animo e da una settimana giaceva senza forze in un letto, con un foglio di congedo già firmato dal loro comandante che lo rimandava a casa per problemi di salute.

Non voglio tornare in Cornovaglia” – si lamentò Dwight, mugugnando fra le coperte.

Ross sospirò. “E invece ci tornerai e sarai più utile la che qui. Scusa la franchezza, come medico sei un talento ma come soldato lasci molto a desiderare”.

Perché pondero i pericoli e non mi lascio in missioni disperate e assurde come te?”.

Ross rise. “Sì, anche per quello”.

Torna a casa pure tu, Ross”.

Io non sono ferito”.

Magari lei è tornata e ti sta aspettando con Jeremy”.

Ross distolse lo sguardo, non aveva voglia di parlarne. “Lei non tornerà e la vita militare a me non dispiace”.

Potrebbe avere bisogno di te” – insistette Dwight.

No, è in gamba, è forte e sa cavarsela benissimo da sola. Se si fosse trovata in seria difficoltà, per il bene di Jeremy avrebbe messo da parte il suo orgoglio e sarebbe tornata. Non la vedrò più, Dwight. Se provo ad immaginarmela, la vedo serena, realizzata e perfettamente in grado di cavarsela, probabilmente sta meglio di quando viveva con me”.

Dwight scosse la testa. "Hai degli affari a cui pensare. La tua miniera, ad esempio, e gli uomini che ci lavorano dentro".

"I miei soci si occupano dei miei affari e da quel che mi scrivono, va tutto bene. Sei tu quello che sta male Dwight ed è a casa che devi tornare, a fare il tuo lavoro e a rigenerarti. E magari, quando ti sarai rimesso in sesto, potresti partire per farti un giretto a Londra a trovare una certa biondina che ti sta ancora a cuore".

"Finiscila, sono passati due anni, che ci dovrei andare a fare a Londra? Caroline ormai si sarà sposata col migliore partito della città".

Ross si alzò dallo sgabello, stiracchiandosi. "Beh, a parte la questione di Caroline, hai molti pazienti che ti aspettano. E un foglio di congedo già firmato, quindi non puoi che tornare. Ci vedremo quando sbatteranno a casa pure me, che sia per qualche ferita o per insubordinazione".

Dwight lo fissò, mettendosi a sedere sul letto. "Ross, dico sul serio, congedati anche tu. Non riesco a credere che tu ci abbia rinunciato davvero, a lei. Torna, ricomincia a cercarla e portala a casa, siete fatti per stare insieme e sono sicuro che anche lei ti ama ancora. Avete un figlio, hai delle responsabilità verso di lui e per quanto lei ti abbia intimato di non cercarla, tu...".

Ross lo fermò. "Dwight, conosco le mie responsabilità. Credi che non ci abbia mai pensato? Sai, vorrei essere tanto nobile d'animo e di cuore da dirti che sì, sono così altruista da desiderare che lei sia felice lontano da me, con qualcun altro magari al suo fianco, qualcuno che la ami e che mio figlio forse chiama papà. La verità però è che la rivorrei accanto a me, mi manca, ogni giorno e ogni notte. Voglio sentirla parlare, cantare, arrabbiarsi, voglio riabbracciarla, vedere come è cambiata durante questi due anni, voglio ritrovare mio figlio, prenderlo per mano e aiutarlo a scoprire il mondo. Ma se ne sono andati e l'unico con cui posso prendermela sono io stesso. Per loro sono un estraneo ormai".

"Non per Demelza!" - obiettò Dwight.

"Ma lo sono per Jeremy. Era piccolissimo quando se ne sono andati e anche prima, non mi sono mai curato di lui. Sai, dopo Julia avevo paura ad affezionarmi e a soffrire ancora nel caso l'avessi perso e ho sempre trovato mille scuse per affidarlo a qualcun altro. E il risultato qual'è stato? Che in ogni caso gli ho voluto bene, anche se da lontano e distratto da mille cose. E ora sto soffrendo comunque perché ho perso anche lui, come sua sorella".

"Credi che Demelza gli parli di te?".

Ross scosse la testa. "Non lo so, probabilmente no, non credo che voglia turbarlo".

Dwight si accasciò sul cuscino. "Io penso una cosa... Per quanto tempo sia passato, voi avete avuto un rapporto fortissimo ed indissolubile e certi legami non possono essere spezzati. Avete superato mille tempeste insieme, avete lottato come due leoni contro tutto quello che vi è successo, sempre insieme, sempre pronti a ricominciare. Se tua moglie ora sapesse che sei quì, ti spaccherebbe la testa, nonostante i due anni di lontananza e la sua volontà a non volerne sapere più niente di te".

Ross scoppiò a ridere a quelle parole, mentre nella mente si affollavano i ricordi di quanto Demelza fosse risoluta, combattiva e testarda, quando si metteva in testa qualcosa. Si era arrabbiata da morire con lui durante la faccenda del contrabbando e mille altre volte, facendo quel broncio che lo faceva impazzire. La adorava, amava. Quando sorrideva, quando era arrabbiata. Era la sua vita, lei... "Oh, puoi giurarci, Demelza sa tirare ottimi pugni, te lo assicuro" – mormorò, ricordando l'occhio nero che gli aveva fatto dopo la notte passata con Elizabeth. A quel pensiero però, la voglia di ridere scemò in lui.

Aveva distrutto tutto, quella notte... Il loro amore, la fiducia, tutto quello che avevano costruito insieme. Spesso, nei suoi incubi, riviveva la stessa scena, lui con in mano la lettera di Elizabeth, lei che cercava di fermarlo e poi il suo sguardo sconfitto, ferito, gli occhi arrossati quando lui gli aveva detto, con cattiveria, di togliersi di mezzo. Demelza sapeva cosa sarebbe successo quella notte, lo sapeva meglio di lui, lo conosceva meglio di quanto lui avesse mai conosciuto se stesso. E ora, suo malgrado lo aveva imparato, solo chi ti ama davvero sa conoscerti così profondamente.


"Per favore, togliti di mezzo".


Lo aveva fatto Demelza, davvero e per sempre.

Con un sospirò, pose la mano sulla spalla di Dwight. "E' tardi ora, cerca di dormire e di riprenderti. Così presto sarai pronto per fare il viaggio in nave e tornare a casa".

"Ross, ripensaci. Vieni con me".

"Forse un giorno lo farò" – rispose, vago. In realtà non aveva voglia di tornare, nessuno lo aspettava, a casa. Si guardò attorno, notando uno ad uno i commilitoni del suo reggimento. Tutti ricevevano lettere da casa da genitori, mogli, fidanzate, figli. Quei soldati desideravano tornare, avevano qualcuno che si preoccupava di loro e avrebbero avuto, all'arrivo, qualcuno da abbracciare. Non lui...

Per un istante desiderò che succedesse come aveva detto Dwight, che Demelza sapesse che era partito, che si arrabbiasse e corresse lì, a prenderlo per i capelli per riportarlo a casa. Lo desiderò davvero, con tutto se stesso.

Ma sapeva che non sarebbe mai successo e quindi tanto valeva rimanere, all'infuori di quella guerra non c'era più niente per lui.


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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


La primavera era ancora lontana e l’avvento del nuovo anno aveva portato nebbia e gelo su Londra.

Era una serata buia dove non si vedeva a un palmo dal naso, talmente fredda che nemmeno il mantello di pelliccia che indossava riusciva a scaldarla.

Demelza si strinse nelle braccia, rabbrividendo. Se c’era una serata inadatta a una riunione fra gli azionisti della Warleggan Bank, era decisamente quella.

Ignorò le frecciatine di George che a fine seduta, vedendola infreddolita, si era stupito che una ex sguattera potesse non reggere il gelo. Lo aveva detto mentre, coi suoi seguaci, entrava in una comoda e calda carrozza che lo avrebbe accompagnato all’albergo dove alloggiava durante il suo soggiorno londinese.

Lo odiava, senza se e senza ma. Al diavolo, era talmente nervosa dopo le riunioni con lui, che sentiva il bisogno di camminare fino a casa, anche se il clima le suggeriva di fare come George e cercarsi una carrozza.

Fece per incamminarsi nei vicoli bui di Londra, decisa a fare due passi per sbollire la rabbia, quando una voce la chiamò.

Demelza, aspettate. Non aggiratevi da sola per Londra a quest’ora, potrebbe essere pericoloso”.

Demelza si voltò, trovandosi davanti il viso di… Dannazione, non ricordava mai il suo nome, sapeva solo che era l’azionista più giovane della Warleggan Bank, quello a cui aveva promesso un’uscita alcuni mesi prima per bere insieme un the. “Non preoccupatevi signor… signor…”. Arrossì. “Scusate, ho davvero scarsa memoria per i nomi”

Theodor Garvey”.

Certo, Theodor”. Demelza sorrise. “State sereno, due passi al buio, nella nebbia, non hanno mai ucciso nessuno”.

Siete una donna, siete sola e potreste trovare qualche malintenzionato” – insistette il ragazzo.

Demelza lo guardò storto. Odiava quando la gente la trattava come una bambolina per il solo fatto di essere una donna. “Il nostro caro George Warleggan mi ha talmente innervosita che, se trovassi un delinquente sulla mia strada, riverserei su di lui tutta la mia rabbia. Tranquillo, non mi succederà nulla, casa mia è poco distante”.

Permettete che vi accompagni, almeno”.

Demelza alzò gli occhi al cielo. Ma quanto era insistente quel tizio? “Vi ringrazio della proposta, ma preferirei di no. Ho voglia di fare due passi da sola. E Londra, di sera, con la nebbia, è perfetta per il mio stato d’animo”.

Di tutta risposta, Theodor le sfiorò il fianco, attirandola a se. “Insisto, signora. E’ pericoloso” – sussurrò, con le labbra pericolosamente vicine alle sue.

A quel contatto si irrigidì, scostandosi bruscamente da lui. Non voleva essere toccata, non da uno sconosciuto di cui faticava a ricordare il nome. A dire il vero, non voleva essere toccata da nessuno. Nella sua vita era stata solo con Ross e ancora faticava a realizzare che esistevano altri uomini al mondo a cui, prima o poi, forse avrebbe voluto avvicinarsi. Ma non ora, non era pronta e si sentiva ancora, nonostante tutto, la donna di Ross. Inoltre, questo Theodor non risvegliava in lei alcun interesse. Era troppo giovane, troppo insistente e inoltre era del gruppo della Warleggan, cosa che la metteva decisamente sul chi va la. “Toglietemi le mani di dosso” – disse, minacciosa.

A quella reazione, quasi non si fosse accorto del suo gesto, il ragazzo annuì. “Scusatemi, non volevo”.

Si che volevate!”. Si allontanò di alcuni passi, fulminandolo con lo sguardo. “Theodor, siete giovane e sicuramente animato da buone intenzioni. Rivolgete le vostre attenzioni su qualcun altro, ve lo consiglio. Esistono giovani donne che pagherebbero per avere accanto un uomo come voi ma io… Io sono sposata, ho due figli piccoli e talmente tanti problemi che finirei con il rovinarvi la vita”. Poteva anche aggiungere, per essere incisiva, che non gli importava nulla di lui ma non le andava di spezzargli il cuore.

Mi avevate promesso un the” – insistette lui.

Demelza si guardò attorno, la città era buia e spettrale. “Ora non ci sono locali aperti. Un giorno, forse, se avrò tempo”.

Non gli diede tempo di rispondere, si stava decisamente facendo tardi e voleva tornare a casa dai suoi figli. “Buona notte” – disse vaga, lasciandolo da solo davanti all’ingresso della banca.

Camminò a passo spedito fino a casa, in una Londra deserta. Quando entrò dall'uscio, dopo aver sorpassato il giardino completamente brinato, tutto quello che desiderava era mettersi davanti a un caldo camino acceso. Stava letteralmente congelando!

Una delle sue cameriere le andò incontro, esibendosi in un inchino. "Signora, bentornata. C'è un ospite che vi aspetta nel salone".

Togliendosi il mantello, Demelza la fissò, accigliata. "Un ospite? A quest'ora?".

"Si signora. Dice di considerarsi un vostro amico, se gli darete questo onore".

"Di chi si tratta?". Era curiosa e allo stesso tempo irritata da quell'intrusione a quell'ora così tarda.

"Si chiama Walther Smith ed è un azionista di borsa".

"Chi?". Non aveva proprio idea di chi fosse questo tizio.

La cameriera alzò le spalle. "Cosa gli dico, signora? Vi annuncio?".

Demelza sbuffò, mentre la sua idea di rilassarsi davanti a un camino evaporava. "Lo riceverò io stessa senza troppe cerimonie, puoi andare a dormire ora, è tardi".

Rimasta sola, di malavoglia raggiunse il salone dove, su uno dei divani, stava seduto un uomo sulla cinquantina, completamente calvo, molto sovrappeso, con due occhi piccoli, azzurri ed inespressivi e un viso che le donava sensazioni sgradevoli. "Walther Smith, immagino".

L'uomo si alzò in piedi. "Signora Carne, buonasera. Scusate l'intrusione" – disse, con fare ammiccante.

Con cautela, Demelza si avvicinò a lui. "A cosa devo l'onore di questa visita? Non mi sembra di conoscervi".

"Oh, avete ragione, mi presento subito. Sono un azionista, ho una società che lavora in borsa e si occupa di compravendita di titoli. Forse ci siamo incrociati a qualche asta".

Demelza alzò le spalle. "Puo' darsi".

L'uomo annuì. "Verrò subito al punto, siete reduce da una riunione importante e, vista l'ora, sarete davvero stanca".

"D'accordo, cosa volete da me?".

"Comprare un pacchetto azionario di vostra proprietà. So che detenete la maggioranza delle azioni della Northern Bank e vorrei acquistarle".

Viscido... Ecco, ora che ci pensava era quella la sensazione che gli risvegliava quell'uomo. Lo fissò, pensierosa, chiedendosi il perché di quella strana visita e quella strana richiesta. Aveva acquistato le azioni della Northern pochi mesi prima, in autunno. Ricordava quanto l'avessero presa in giro Martin e Caroline per quella scelta di puntare denaro su una banca che, sulla carta, era destinata a fallire. Aveva acquistato quelle azioni per un prezzo irrisorio e ad oggi valevano ancora meno di quando ne era entrata in possesso. In pratica, erano carta straccia... Quindi, perché quest'uomo si trovava a casa sua, interessato al loro acquisto? "Le azioni della Northern non valgono nulla, ad oggi sono un investimento passivo per me. Perché vorreste acquistarle?".

L'uomo allargò le braccia. "Pura filantropia, signora. Mi spiace pensare a una bella donna come voi, tanto in gamba, che rischia di perdere il suo capitale a causa di un investimento sbagliato. Per la mia società, molto grande, sarebbe una perdita irrilevante invece. Consideratelo un gesto d'amicizia e di stima".

"Negli affari, signore, difficilmente ci si basa su stima e amicizia" – rispose, con freddezza.

L'uomo annuì, piccato. "Eppure insisto, senza secondi fini. Vendete".

Demelza si sedette sul divano, accavallando le gambe. "Ci perderei comunque se ve le vendessi, perché valgono meno di quando le ho comprate".

"Vi ridarrei interamente la somma che avete speso in autunno, signora".

Se prima aveva la sensazione che fosse un viscido, ora ne aveva la certezza. Perché un perfetto sconosciuto voleva comprare, smenandoci, delle azioni in perdita? Perché tanta insistenza? Si morse il labbro, osservandolo di sbieco. "Vi ringrazio per la vostra gentilezza nei miei confronti, ma non ho mai avuto intenzione di vendere le azioni della Northern".

"Vi pregherei di essere ragionevole, per il vostro bene e quello dei vostri figli".

"I miei figli stanno benissimo, state tranquillo".

L'uomo le si avvicinò. "Ripensateci. La mia è un'ottima offerta".

"Vi ho detto di no".

"Perché?".

Demelza sorrise freddamente. "Perché ci sono affezionata, a quelle azioni. Mi fa dormire serena saperle nel mio cassetto la notte, quando vado a dormire". Si alzò in piedi, faccia a faccia con lui. "Avete altre richieste?".

L'uomo fece un inchino, lanciandole occhiate tutt'altro che amichevoli. "Solo una... Pensateci".

"Se cambierò idea, vi farò sapere" – rispose, con freddezza.

Lo accompagnò alla porta e lo guardò uscire dalla cancellata. Che diavolo voleva quell'uomo da lei? Il fatto che si fosse presentato a casa sua di sera tardi, mentre non c'era ed erano presenti i suoi figli, non la lasciava per niente tranquilla.

Si chiese cosa ci fosse dietro perché sicuramente qualcosa che le sfuggiva, c'era! Pensierosa, si avviò in camera sua, accendendo le candele e il camino. Poi aprì un cassetto della cassettiera dove c'erano dentro i documenti della sua attività finanziaria, sedendosi sul letto con il contratto d'acquisto della Northern fra le mani.

Attorno a lei c'era un silenzio opprimente...

Lesse riga per riga rischi e benefici di quell'operazione, pensò a possibili sviluppi finanziari, a costi e guadagni eventuali. Qualcosa non tornava, quello era un investimento destinato a fallire...

"Eppure quell'uomo vuole acquistare queste azioni...". Si lasciò andare, sprofondando fra i cuscini e le coperte, chiedendosi come si fosse ritrovata lì, a Londra, in quella casa elegante, a pensare ad investimenti di borsa a mezzanotte.

Non era quella la vita che aveva immaginato per se stessa e che aveva voluto, non erano persone come quel mister Smith che voleva avere vicino. Aveva trovato amici fidati come Diane e Martin, era vero, ma si stava muovendo in un mondo spietato, fatto di falchi che aspettavano solo un passo falso per rovinarti. E se tanto gli dava tanto, il suo ospite di poco prima era uno di loro.

Tutto quello che aveva sempre voluto era essere una moglie amata e una madre. Le mancavano le serate in Cornovaglia, a Nampara, passate a giocare con Jeremy, a cucire o a parlare con Prudie, ad aspettare Ross per andare a letto.

Ora era sola, doveva prendere tutte le decisioni importanti senza nessuno accanto, senza un confronto, senza una spalla amica su cui appoggiarsi. Tutti dicevano che aveva fiuto per gli affari, che aveva carattere, che era una donna coraggiosa e determinata ma in verità si sentiva così indifesa in serate come quella che aveva appena passato.

Fece scivolare i fogli della Northern sul letto, osservandoli. Cosa avrebbe fatto Ross al suo posto? Avrebbe venduto, salvando il salvabile? O avrebbe tenuto duro ed aspettato l'evolversi degli eventi?

"Le avrebbe tenute...".

Ross amava le sfide, gli azzardi, non avrebbe venduto.

E in quel momento si accorse, o meglio, si ricordò di quanto erano sempre stati simili, loro due...


...


La spalla gli bruciava da morire e la febbre, benché non particolarmente alta, non lo abbandonava da dieci giorni. Si sentiva particolarmente imbecille perché mesi prima aveva preso in giro Dwight per la sua scarsa resistenza fisica alla guerra e ora lui, per una semplice pallottola che l'aveva preso di striscio, era a letto da quasi due settimane.

"Signor Poldark, riuscite ad alzarvi?" - chiese il medico da campo. "Il capitano vuole parlarvi".

Con la spalla fasciata, contro voglia, Ross annuì. "Devo andare da lui?".

"No, sta arrivando lui da voi".

Ross si mise a sedere composto. La testa gli doleva terribilmente a causa di quella ferita che apparentemente era di poco conto, ma che gli creava problemi che stentavano a risolversi. Stava decisamente invecchiando, in Virginia non aveva avuto problemi simili.

"Signor Poldark, buona sera. Come state?".

Ross alzò il viso ad osservare il suo capitano. "Ancora malconcio ma conto di essere sui campi di battaglia entro una settimana".

Il capitano scosse la testa. "Il medico dice che la febbre non accenna a lasciarvi e credo che sarebbe utile un periodo di riposo lungo per voi". Si avvicinò, posando un foglio sul letto.

"Cos'è?" - chiese Ross, mentre sorgeva in lui uno spiacevole presentimento.

"Avete servito onorevolmente la corona per più di un anno, è ora di tornare alla vostra casa e alle vostre attività, Ross Poldark".

Ross spalancò gli occhi. Lo stavano congendando? Per una ferita di striscio e qualche linea di febbre? "Capitano, io sto bene". Era assurdo, lo stesso destino toccato a Dwight qualche mese prima, ora toccava a lui.

Il capitano rimase impassibile. "Ross Poldark, è quasi primavera, la Cornovaglia è splendida in quella stagione e avete affari e famiglia di cui occuparvi. Avete combattuto bene e con coraggio ma non possiamo rischiare a mandare in battaglia persone non perfettamente in forma. Come vi dicevo, il re è felice per i servigi resi e l'esercito ha delle regole. Partirete per l'Inghilterra la settimana prossima, col vostro foglio di congedo" – disse, indicando il documento che gli aveva messo sul letto.

A Ross parve che il mondo gli sprofondasse sotto i piedi. Doveva tornare a casa, a Nampara? Era davvero finita per lui, quell'avventura che per tanti mesi lo aveva sottratto al dolore e alla perdita della sua famiglia? Tornare significava affrontare i fantasmi del suo passato da cui fuggiva da più di due anni, significava tornare in una casa che non sentiva più sua, in una miniera che gli donava una ricchezza che non avrebbe diviso con nessuno. Significava affrontare le conseguenze dei suoi errori... "Ma...".

"Niente ma! Sono ordini, i miei. Partirete settimana prossima e questo è tutto. A casa vostra vi rimetterete in fretta e potrete tornare alla vostra vita e alle vostre abituali attività. La Cornovaglia ha bisogno di chi fa funzionare le miniere, ricordatevelo. E voi ne avete una in attivo, da quel che so".

"Già". Quando il capitano se ne fu andato, gettò a terra il foglio di congedo. Dwight, tornato a casa due mesi prima, avrebbe riso come un matto nel vederlo tornare a causa di una ferita e di un po' di febbre. Ora il suo amico stava bene, gli aveva scritto dicendogli di aver ripreso la sua attività di medico nel loro villaggio e che le cose andavano discretamente per lui. Gli era sembrato sereno, in quegli scritti...

Ma lui? Tornare significava ridisegnarsi una vita ed era una cosa che non gli andava di fare.

Si massaggiò la spalla ferita, maledicendola. Pregò di guarire in fretta, una volta a casa. Quanto meno avrebbe potuto tuffarsi nel lavoro in miniera e non avrebbe avuto tempo per pensare.

Si rese conto, con terrore, che era ora di affrontare le conseguenze dei suoi gesti ed imparare a conviverci. Per sempre.





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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


Non era stato un viaggio facile per Ross e facendolo, si era accorto di quanto fosse debole e spossato.

Aveva combattuto quindici mesi in guerra, affrontando ogni tipo di situazione o pericolo, aiutando compagni feriti o assistendoli nella morte che, per alcuni, era arrivata senza pietà cogliendoli nel pieno della giovinezza.

Era partito per sfuggire a una situazione terribile che si era creato con le sue mani e tornava con l'animo ferito di chi ha visto il peggio della vita, della loro misera natura di esseri umani che non riescono a vivere in pace e devono uccidere per affermare un'effimera supremazia.

Giunto sulla costa inglese, tormentato da quella febbre che a fasi alterne lo colpiva, si era dovuto arrendere a prendere una carrozza che lo portasse fino a Nampara. Aveva osservato il paesaggio, strada facendo, quasi stupito che fosse tutto come lo aveva lasciato. Stesse piante, stesse case, stesse persone che, in quella terra sferzata dal vento, si spaccavano la schiena per sopravvivere e garantire un'esistenza serena alla propria famiglia.

Quando finalmente giunse a Nampara, benché non avesse chissà quale voglia di tornarci, si sentì sollevato. Non ce la faceva davvero più, era fisicamente a pezzi e tutto quello che voleva era andarsene a letto e dormire per giorni senza pensieri.

La sua casa era come l'aveva lasciata, per fortuna. Non era come la volta precedente quando, al suo ritorno dalla Virginia, l'aveva trovata a pezzi, cadente e in condizioni di totale abbandono. A quanto sembrava, Jud e Prudie stavolta aveva lavorato quel tanto che bastava per tenere una parvenza di decoro. La strigliata che aveva fatto loro prima di partire aveva sortito gli effetti sperati, a quanto sembrava.

Quando entrò in casa, entrambi i suoi servi furono sorpresi di vederlo e in effetti non se ne stupiva, non aveva comunicato a nessuno il suo ritorno, anche se avrebbe presto mandato un messaggio a Dwight per venire a visitarlo. Quella dannata febbre lo stava distruggendo e voleva risolvere quanto prima il problema.

Prudie gli aveva subito sistemato il letto e si era messo sotto le coperte senza dare chissà quali spiegazioni a lei e a Jud, dicendogli il minimo indispensabile: era tornato, era stato congedato e dovevano riabituarsi alla sua presenza quanto prima.

Cadde in un sonno profondo e per giorni rimase sospeso in uno strano stato di semi-incoscienza, lontano da tutto e da tutti. Non era solo la febbre, era la stanchezza accumulata nei lunghi mesi di guerra a renderlo così debole e non si era mai accorto di essere così stanco, fintanto che era rimasto nell'esercito.

Dwight era stato chiamato da Jud ed era corso a visitarlo subito. Si era ripreso, aveva ricominciato ad esercitare la sua professione di medico e dopo averlo preso in giro per essere tornato dalla guerra più malconcio di lui, aveva preso l'abitudine di venire a trovarlo tutti i giorni per una visita. Gli aveva medicato la ferita al braccio, constatando che si era infettata, gli aveva dato dei medicinali per la febbre e ordinato riposo assoluto.

Per giorni non aveva fatto altro che dormire ed oziare nel letto, circondato dal silenzio assoluto o al massimo dai borbottìì di Prudie e dalle sue litigate selvagge con Jud.

Non era cambiato davvero niente in quella casa, da quando era partito... E allo stesso tempo era cambiato tutto dai tempi in cui c'era Demelza.

Per tutto il tempo in cui era rimasto in battaglia, era riuscito quasi ad accantonare il ricordo di sua moglie e di suo figlio ma ora, solo con se stesso, nella casa dove aveva costruito la sua famiglia, la nostalgia per lei e Jeremy era tornata prepotentemente a tormentarlo. Erano trascorsi quasi due anni e mezzo da quando se n'era andata e non poteva non chiedersi se stesse bene, se riuscisse a badare a Jeremy, se se la cavasse anche da sola, nonostante tutto.

Complice la febbre, i ricordi per Demelza e Jeremy erano ancora più dolorosi rispetto a una volta e non riusciva a fronteggiarli con lo stesso fervore e lo stesso coraggio di prima. Si sentiva perso, solo, senza uno scopo nella vita, circondato da gelo perenne e da sensi di colpa a cui non sapeva fare fronte. Era strano pensare al fatto che stesse male e che Demelza non si preoccupasse per lui... Faceva male perché gli dava l'esatta dimensione di quanto aveva perso.

Certe notti, a causa della febbre, si svegliava di soprassalto, intontito, dimenticando per qualche istante che tutto era cambiato e che era solo. E allora si voltava di lato, nel letto, cercando Demelza e trovando solo un cuscino e un materasso freddi. E a quel punto l'illusione finiva, si svegliava e rimaneva in silenzio, stordito, ad osservare il nulla. Lei non c'era più da tanto e non sarebbe più tornata a Nampara, non sarebbe più stata la sua stella.

E a lui sarebbe mancata per sempre...

La rivoleva. Lei, coi suoi capelli lunghi, rossi e ribelli, con il suo sorriso dolce o con il viso imbronciato quando la faceva arrabbiare, lei che non stava mai ferma e correva tutto il giorno per il bene della sua famiglia, lei che aveva sopportato povertà e privazioni senza mai lamentarsi, che aveva affrontato le mille preoccupazioni che lui le aveva dato, lei che si interessava a lui e a tutto quello che faceva perché lo amava ed aveva finito per amare tutto quello che lo riguardava, lei che aveva sofferto in silenzio, per tanto, vedendolo correre da Elizabeth, lei, che lui aveva trascurato e trattato a volte con disprezzo, dando per scontate mille cose che scontate non erano, lei che lo aveva reso migliore, lo aveva sposato e lo aveva reso padre di due meravigliosi bambini, lei che era diventata la sua ragione di vita, il suo amore e se n'era accorto solo quando l'aveva persa a causa della sua arroganza e della sua idiozia.

Perché quella sera non si era fermato? Perché le aveva inflitto un dolore simile, pretendendo poi comprensione? Perché era stato tanto folle, sconsiderato? Come aveva potuto farle tanto male, a lei che era l'unica che non lo meritava?

Per cosa, poi? Per una notte di piacere effimero che non gli aveva lasciato nulla, per un sogno infantile che era svanito nell'esatto istante in cui l'aveva raggiunto. Cosa cercava in Elizabeth? Ciò che aveva con Demelza, forse? Che sciocco che era stato, non avrebbe trovato nulla in lei semplicemente perché non era il suo vero amore. Era Demelza che amava, Demelza con cui condivideva un'intimità tanto appassionata quanto dolce e sincera, Demelza che gli stava accanto senza chiedere nulla, che lo amava incondizionatamente perché è questo l'amore, donare senza aspettarsi nulla in cambio, lottare perché il tuo amato o la tua amata siano felici.

Fu in una di queste notti che, quasi senza accorgersene, i suoi occhi divennero lucidi. Era da tanto che non piangeva, da quando era morta Julia. Non lo aveva mai fatto dalla partenza di Demelza ma tutto quel miscuglio di pensieri, uniti alla spossatezza, ebbero la meglio su di lui. Appoggiò la testa al cuscino e pianse, maledicendosi e chiedendosi come avrebbe fatto a vivere un'intera vita senza di lei. "Torna... Anche solo per un attimo, anche solo per due parole... Lasciami solo un istante per dirti che niente di quello che hai scritto in quella lettera che mi hai lasciato è vero, che non eri seconda a nessuno, che ti amo e che tutto quello che voglio è vivere la mia vita con te. Non con Elizabeth! Torna e permettimi di dirti che perdere Elizabeth, mentre ero in Virginia, è stata la mia più grande fortuna perché mi ha permesso di trovare te. Torna a casa, riportami Jeremy e permettimi di essere suo padre e tuo marito".

Il silenzio fu l'unica risposta che ottenne... E piangendo, in silenzio, ripiombò in un sonno oscuro ed insidioso, popolato di incubi e solitudine.


...


Dopo un mese di riposo e convalescenza, finalmente poteva dirsi guarito e pronto per tornare a godere dell'aria aperta e del piacere del suo lavoro alla miniera. Stare all'aperto, nel pieno della primavera, dei suoi colori e dei suoi profumi, lontano da Nampara per gran parte del giorno e impegnato in qualcosa, lo avrebbe aiutato a non pensare.

"Signore, siete sicuro? Se vi stancate, se vi ferite, se vi...".

"Jud, basta! Cos'è questo elenco di disgrazie che mi stai propinando?" - disse, calandosi il cappello in testa e montando a cavallo.

"Signore, il riposo è la migliore medicina contro ogni male" – rispose il servo, lasciando le redini.

Ross lo guardò storto. "Scommetto che è il principio su cui basi la tua vita di fannullone, è" – commentò, prima di partire al galoppo verso la Wheal Grace. Quando la vide, fu invaso da una specie di eccitazione, come un bambino al primo giorno di scuola.

Fu accolto da tanti sorrisi colmi di gratitudine e con una sonora pacca sulla spalla dal Capitano Henshawe, il suo inseparabile amico e socio. "Capitano Poldark, è una vera gioia rivedervi fra noi".

"Lo è anche per me. Dalle lettere che mi avete inviato, sembra che quì vada tutto alla grande" – rispose, sedendosi alla sua scrivania, mentre fuori un via vai di minatori entrava ed usciva dalla miniera.

Henshawe sorrise soddisfatto, mettendogli davanti una pila di libri contabili. "Potete dirlo forte, questa miniera è una fonte di ricchezza sorprendente. E il filone non accenna a diminuire ma anzi, è sempre più grande. Sembra incredibile, visto quanta sfortuna abbiamo avuto all'inizio. Su quei registri potrete vedere i costi e i guadagni fin qui ottenuti".

Sorseggiando un bicchiere di vino, Ross annuì. "Comincio subito. Devo rientrare nell'ordine di idee e ricominciare a gestire attivamente questo posto".

"Buon lavoro allora, capitano".

"Grazie. Ci vediamo dopo per il pranzo".

Rimasto solo, Ross prese a spulciare i registri, stupito. La Wheal Grace, l'antico sogno di suo padre, era diventata una fonte di ricchezza dall'inestimabile valore. Pensò a Francis, a quanto ci aveva sperato, a quanto ci fosse andato vicino a quella realizzazione che aveva solo potuto sfiorare con un dito, pensò a sua madre il cui nome era stato scelto per la miniera da suo padre, a Demelza e a quanto, insieme, ci avessero sperato.

Era una realizzazione quella, di anni di fatica e sudore, lotte e privazioni... Per lui era una realtà amara ma era anche consapevole di quanto tutto questo significasse per le persone che lavoravano per lui.

Passò ore a contare i guadagni, sommando cifre su cifre, accorgendosi che ora aveva abbastanza capitale per saldare, almeno con un acconto, un debito contratto da troppo tempo. Alcuni anni prima, quasi sul punto di finire nella prigione per debitori a causa di George, qualcuno che era rimasto in incognito aveva anticipato del denaro per lui saldando un suo debito ed era ora di scoprire chi fosse questo misterioso benefattore e cominciare a restituirgli tutto.

Nel pomeriggio si recò da Pascoe, deciso a costringerlo a rivelargli il nome che gli era stato celato quel giorno di Natale di oltre due anni prima.

Il suo banchiere, quando lo vide arrivare, si esibì in un caldo sorriso. "Capitano Poldark, rivedervi fra noi è un gran piacere. Sapevo del vostro ritorno e che avevate avuto problemi di salute, perciò sono piacevolmente sorpreso di vedervi di nuovo sano e attivo, fra noi".

"Sano, attivo e pronto a saldare un vecchio debito" – rispose Ross, sedendosi sulla sedia davanti alla scrivania.

"Di che parlate?".

Ross intrecciò le mani, deciso a tirargli fuori di bocca quel dannato nome, in un modo o nell'altro. "Parlo del mio misterioso benefattore che mi ha salvato dalla prigione e dalla resa a George Warleggan. Ho abbastanza capitale per iniziare a restituirgli il prestito che mi fece allora, quindi avrei bisogno di sapere chi è".

Pascoe sbuffò. "Quella persona voleva rimanere in incognito e, allo stato dei fatti, non credo nemmeno sia interessata alla restituzione del denaro. Puro gesto di generosità il suo, ve lo assicuro".

"Io voglio saldare il mio debito, è una questione di principio. Chi è quest'uomo? Voglio vederlo e, tanto che ci sono, magari ringraziarlo. Ha salvato me e la mia famiglia, allora, mi sembra il minimo che io possa e debba fare".

Pascoe, in difficoltà, si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto. "Ah, capitan Poldark... mi state mettendo in una posizione scomoda".

"Il nome di quell'uomo! Sappiate che non me ne andrò di qui finché non me lo direte".

Il banchiere sospirò. "Chi vi dice che sia un uomo? Non mi pare di avervelo mai detto...".

Ross spalancò gli occhi, sorpreso. "E' una donna?".

Pascoe annuì. "Caroline Penvenen. E sappiate che mi avete appena fatto infrangere un giuramento a una gentildonna".

Ross, ancora stupito, sorrise da canaglia. "Questa cosa non mi farà dormire la notte, ve lo assicuro. Mi sentirò in colpa a vita per voi" – disse, ridendo.

Ignorò le occhiatacce di Pascoe e, dopo un cenno di saluto, uscì dal suo studio.

Era davvero senza parole. Caroline Penvenen... Era stata lei a saldare i suoi debiti! Perché? Sicuramente, ai tempi, Dwight le aveva parlato dei suoi problemi finanziari e forse, per amore del suo amico che era in pena per lui, aveva deciso di aiutarlo.

Era stata gentile e gli aveva salvato la vita. E questo lo faceva sentire ancora più in colpa per aver causato la rottura fra lei e Dwight.

Camminando verso il suo cavallo decise. Non poteva sistemare le cose con Demelza, l'aveva persa per sempre, ma forse non tutto era perduto e poteva fare ancora qualcosa per Dwight e Caroline.

Doveva saldare un debito, giusto? Caroline era la sua creditrice, viveva a Londra, sapeva come trovarla e con la scusa del denaro, forse forse...

Decise! Il tempo di preparare i documenti per il pagamento e una valigia e poi sarebbe partito per la capitale. Dwight l'amava ancora e se anche per Caroline le cose non erano cambiate, forse poteva fare in modo di rimetterli in contatto.

Si sentì un po' Demelza, in quella situazione. Un tempo l'aveva sgridata per quella sua voglia di ficcare il naso in questioni che non la riguardavano ma ora aveva iniziato a pensarla come lei. Sua moglie aveva ragione, se due persone si amavano, dovevano stare insieme. E forse lui aveva i mezzi per fare in modo che questo avvenisse.




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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


Londra lo accolse con un tiepido sole primaverile e un cielo di un azzurro pallido.

La città era caotica come la ricordava, anche se non ci metteva piede da anni. C'era un via vai incessante di persone di ogni genere, tutti frettolosi in un modo che, a uno che veniva dalla campagna come lui, pareva fastidioso.

Caroline Penvenen viveva in una grande villa in centro città, era una donna conosciuta e ricercata e non era stato difficile reperire il suo indirizzo.

Quando la carrozza giunse davanti a casa sua, rimase a bocca aperta ad ammirare lo sfarzo di quella grande abitazione su due piani dal color giallo pastello, circondata da un giardino curato, pieno di grossi tigli secolari e con il prato puntellato da mille fiori dai più svariati colori.

Un vialetto di ciotoli bianchi accompagnava i visitatori dal grande cancello in ferro battuto alla maestosa porta d'ingresso della casa.

Quando il maggiordomo andò ad aprirgli, si sentì un po' intimorito ad entrare in una casa simile, tanto diversa dal suo mondo.

"Attendete qui, vado ad annunciarvi alla signora. Il vostro nome?" - chiese il maggiordomo, quando furono all'ingresso.

"Ross Poldark. Io e la vostra padrona ci siamo conosciuti in Cornovaglia alcuni anni e fa e sono qui per saldare un vecchio debito".

Il maggiordomo annuì, lo pregò di attendere e scomparve, inerpicandosi nell'elegante scala a chiocciola posta a fine del corridoio.

Ross si guardò attorno, ammirando i quadri alle pareti, tutti di ottima fattura, gli eleganti tappeti, i mobili finemente levigati e tutti gli oggetti di lusso che adornavano l'ambiente. Era decisamente diversa da Nampara, quella casa... Eppure una donna così raffinata, fine e ricca si era innamorata di uno squattrinato dottore di campagna, arrivando anche a scegliere di sacrificare tutto per lui. Pensando a loro, si rese conto di quanto fosse potente il sentimento dell'amore, quanto fosse capace, quando era vero e sincero, di affrontare e superare ogni problema gli si ponesse davanti.

"Signore, Miss Penvenen mi ha chiesto di condurvi nel salone principale" – disse il maggiordomo, ricomparso in tutta fretta davanti a lui.

Si lasciò condurre dall'uomo. Superarono corridoi e salotti finemente arredati, finché non giunsero in una sala più grande, con un tavolo rotondo al centro, un pianoforte nell'angolo, comodi divani e una grande biblioteca accanto alla finestra che dava sul cortile.

"La signora arriva subito, mi ha pregato di dirvi di attenderla qui".

"Vi ringrazio". Si sedette al tavolo, vagamente intimorito da quel posto. Era abituato alla miniera, ai paesaggi rurali della Cornovaglia e negli ultimi anni pure ai campi di battaglia, non certo ai salotti della Londra aristocratica.

Improvvisamente la porta si aprì e Caroline Penvenen, vestita di un elegante abito azzurro confetto, coi capelli pettinati in morbidi boccoli, comparve davanti a lui, preceduta dal suo inseparabile cane. Era bellissima, ancora di più di come la ricordava, aveva un aspetto dolce e allo stesso tempo etereo.

Horace gli si avvicinò, annusandolo, poi andò ad accucciarsi sotto al tavolo. Caroline gli sorrise, accarezzando il ventaglio che teneva fra le mani. "Capitano Poldark, è davvero una sorpresa vedervi qui. Quanto sarà? Due anni? O forse ancora di più".

Ross si alzò in piedi, esibendosi in un inchino. "Forse due anni e mezzo, da quando avete lasciato la Cornovaglia l'ultima volta".

Caroline si avvicinò, sedendosi su una sedia, fronteggiandolo. "Ci sono tornata pure l'anno scorso in Cornovaglia, per il funerale di mio zio".

Ross annuì. Sapeva della morte dell'uomo, glielo aveva raccontato Prudie in una giornata in cui era in vena di fare pettegolezzi. "Ho saputo e vi porgo le mie condoglianze, eravate molto legata a vostro zio, da quel che ricordo".

Distrattamente, dissimulando noncuranza, Caroline si fece aria col ventaglio. "Sì, lo ero. La sua morte è stata una dura prova da superare per me anche se, il fatto di vivere a Londra e di vederlo di rado, mi ha aiutata a superare il lutto". Lo guardò di sottecchi, curiosa. "A cosa devo la vostra visita, capitano? Il mio maggiordomo mi ha accennato qualcosa che mi è risultata incomprensibile".

Ross incrociò le braccia al petto. "Beh, sono venuto a restituire il mio debito. La mia miniera va a gonfie vele e ormai sono in grado di darvi almeno un acconto di quello che voi avete anticipato anni fa".

"Non so di cosa stiate parlando".

Ross fece un sorrisetto furbo. "Io invece credo di sì. Pascoe, il mio banchiere, mi ha detto tutto e quindi credo sia inutile girarci troppo intorno. Sono venuto per restituirvi quanto vi devo e soprattutto per ringraziarvi della vostra gentilezza. Avete salvato me, la mia famiglia e la mia compagnia da una fine orrenda".

Caroline sorrise, prendendo Horace fra le braccia, accarezzandolo. "Quel Pascoe ha davvero la lingua troppo lunga e non è di parola, pessima cosa per un banchiere. Comunque non è stata generosità, la mia, quanto piuttosto... Come potrei definirla? Scaltrezza nel saper riconoscere un buon affare? Se volete complimentarvi con me, fatelo per la mia intelligenza nell'investire il mio denaro" – disse, strizzandogli l'occhio. "Comunque, non avete obblighi nei miei confronti, capitano".

Ross scosse la testa, mascherando un sorriso. Prese dalla sua borsa da viaggio dei documenti, posandoli sul tavolo, fra loro. "Ne va del mio onore. Ho qui i documenti atti a restituirvi metà della cifra, compresa di interessi. L'altra metà ve la restituirò in estate, ora non mi è possibile perché vorrei gratificare i miei minatori con un pagamento extra, visto quanto si stanno impegnando nell'estrazione".

Caroline sorrise. "Capisco! Ottima logica da imprenditore, capitano! Si gratificano i propri lavoratori, spingendoli a lavorare ancora meglio e di più. Mi piace. Ma vi ripeto, non è un obbligo, prendetelo come un regalo da un'amica a un amico".

"Negli affari, signorina, l'amicizia va messa da parte. Avrete quello che vi devo perché è giusto così e perché sento che è quello che è giusto fare".

Caroline sospirò. "Come volete...". Guardò distrattamente verso la finestra, continuando ad accarezzare il suo cane. "Ditemi capitano, come vanno le cose in Cornovaglia?".

"Bene. Anche se, a onor del vero, sono stato assente per più di un anno. Ho combattuto per l'esercito inglese in Francia e sono tornato solo poco più di un mese fa".

Caroline lo studiò in viso, apparentemente non sorpresa di quanto gli aveva appena detto. "In guerra, è? E ditemi, com'è?".

"Istruttiva. Ti insegna quali sono le cose vere e importanti della vita, quelle per cui combattere. Ed è crudele ed implacabile, non risparmia nessuno che vi è destinato a morirvi. E' democratica, uccide in egual misura poveri e ricchi che si trovano al momento sbagliato, nel posto sbagliato".

Caroline annuì. "Beh, visto che siete qui, evidentemente non eravate destinato alla morte nei campi di battaglia francesi. Anche se..." - si portò la mano a uno dei boccoli biondi, prendendo a giocarci – "immagino che vostra moglie sarà stata molto in ansia per voi".

A quella frase per un attimo impallidì e non sapendo che cosa dire, scostò lo sguardo da lei, prendendo a guardare un punto imprecisato della stanza. "Non proprio".

Caroline parve decisa ad insistere sull'argomento. "E' una donna così in gamba e graziosa, vostra moglie. Mi è piaciuta da subito".

"L'avete incontrata spesso?". Ne era sorpreso.

Caroline sorrise. "Qualche volta. Voi non eravate in casa".

Ross tossicchiò, cercando di cambiare argomento. "E voi, miss Penvenen, che mi raccontate? Vi trovo ancora più bella e in forma dell'ultima volta che vi ho vista".

"Sto bene, meravigliosamente".

Ross sorrise. "Vi credevo ormai sposata a qualche nobile lord londinese. Una donna giovane, bella e..."

"Ricca?".

Ross rise. "Beh... sì, anche ricca... Avrete schiere di ammiratori che ambiranno alla vostra mano, immagino".

Caroline sbuffò, alzando gli occhi al cielo. "Ah, ogni settimana mi affibbiano un nuovo amore. Ho un'amica che mi informa sul gossip settimanale, puntualmente. Mi pare che mi abbia detto che questa settimana sono fidanzata con un tal lord Balthazar Cooper".

A quel nome strano, a Ross venne quasi da ridere. "Ed è così?".

"Non so nemmeno chi sia" – rispose lei, con un'alzata di spalle.

"Quindi siete libera, al momento?".

Caroline sorrise, maliziosa. "State pensando di farmi la corte, capitano?".

"Sono un uomo sposato".

"Già, lo siete...". Caroline si abbandonò contro la spalliera della sedia, studiandolo in viso.

Anche Ross la guardò, pensieroso. Era libera, ancora. E se tanto gli dava tanto, Dwight forse era ancora nei suoi pensieri perché una donna come Caroline Penvenen non resta troppo a lungo senza un uomo accanto, se non ce n'è motivo. "Dwight ha combattuto con me al fronte per quasi un anno. E' tornato in Cornovaglia pochi mesi prima di me per motivi di salute".

Al sentire quel nome Caroline si oscurò, distogliendo lo sguardo da lui. "Dwight? Sta bene?" - chiese, fingendo noncuranza.

"Ora sì. Non è nato per fare la guerra, se fosse rimasto, quel posto lo avrebbe ucciso. Ora ha ripreso la sua professione, per la gioia della mia gente".

"Il suo vero amore, la professione di medico" – commentò laconica e amara.

Ross alzò lo sguardo su di lei, mentre i sensi di colpa per aver causato la rottura fra lei e Dwight tornavano prepotentemente a tormentarlo. Era tornato per saldare un vecchio debito, non solo di denaro ma di riconoscenza, verso di lei che lo aveva salvato dalla prigione e verso Dwight che era sempre stato un amico leale e sincero per lui. "Sarebbe partito con voi, quella notte. Si è attardato a causa mia, per salvarmi da un'imboscata mentre trasportavo merce di contrabbando".

"Questo me lo ha scritto, due anni fa, nelle decine di lettere che mi ha mandato".

"Eppure non lo avete voluto rivedere".

Caroline scosse la testa, stringendo a se Horace. "E' passato molto tempo, non ha più importanza quello che è successo con lui, è acqua passata. La mia vita ora è qui, ho una cerchia di amici fidati e una vita stabile e agiata. Non avrebbe comunque funzionato con Dwight, siamo troppo diversi. Alla fine, è meglio che sia andata così, fra noi".

"Perché non vi credo?" - disse Ross, insistendo volutamente.

Caroline sospirò, vagamente piccata. "Signor Poldark, siete venuto per saldare il vostro debito o per perorare la causa del vostro amico? E' lui che vi manda?".

"Non sa nemmeno che sono qui".

"Bene! E allora facciamo che questa conversazione non abbia avuto luogo e che ci siamo intrattenuti unicamente per parlare di affari".

Ross strinse i pugni, deciso a non demordere. Era in difficoltà, si vedeva chiaramente la battaglia in corso dentro di lei e si capiva chiaramente che, a differenza di quanto affermava, Dwight era ancora nei suoi pensieri. "Concedetegli un'ultima possibilità, non vi ha mai dimenticata e soffre ancora per voi! Un faccia a faccia, quanto meno. Potrebbe andar male, ma quanto meno ci avreste provato e vi mettereste entrambi il cuore in pace. Ma potrebbe andar bene e sarebbe un nuovo inizio, per voi. In una coppia, spesso, si commettono errori enormi ma se un amore è vero e sincero, una seconda occasione puo' superare ogni ostacolo e ogni frattura. Non sono gli amori idilliaci, quelli senza sbavature, ad essere reali, ma quelli imperfetti, che incontrano ostacoli e si impegano per superarli. Tentate".

"Sono passati due anni e mezzo, capitano".

"Lui vi pensa ancora, sta male per voi ogni giorno".

Caroline strinse a se Horace, appoggiando il ventaglio sul tavolo. "Ma mi ci vedreste, in Cornovaglia, a vivere mangiando sardine, a contatto con operai e minatori? Non è il mio mondo".

"Avanti, non fareste la vita da contadina, avete la tenuta di vostro zio a disposizione. Non accampate scuse, trovate il coraggio e tentate".

"Come?".

Ross sorrise. "C'è una carrozza che mi attende, qui fuori. Fatevi preparare una valigia e partite con me. Entro stasera saremo in Cornovaglia".

Caroline deglutì, combattuta. "Da Dwight?".

"Da Dwight o ad ammirare il paesaggio. Il vento della Cornovaglia, in primavera, è rigenerante".

Caroline lo guardò storto. "Il vento della Cornovaglia, in primavera, è gelido".

Ross scosse la testa. "Lo vedete, siete una lady, trovate sempre un motivo per lagnarvi. La Cornovaglia non vi cambierà".

"Ho degli impegni, qui" – disse lei, come ultimo tentativo di resistergli.

"Sarete di ritorno fra pochi giorni, Dwight non vi rapirà. E pian piano ricostruirete la vostra vita, se desidererete farlo". Si alzò in piedi, porgendole la mano. "E allora, signorina Penvenen, venite?".

Caroline si alzò in piedi. "E sia, tentiamo. Datemi solo qualche minuto per preparare i bagagli". Si avviò verso la porta, tirandogli un'occhiataccia. "Siete testardo, lo sapete?".

"E convincente" – rispose Ross, a tono.

Caroline si morse il labbro con fare malizioso. "Mi auguro per voi che sappiate essere altrettanto convincente anche per le questioni che riguardano voi stesso" – commentò vaga, sparendo dietro l'uscio.

Ross rimase perplesso davanti a quella frase ma non si fece domande. L'aveva convinta a tornare con lui e questa era già di per se una vittoria.


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Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Il paesaggio della Cornovaglia le era rimasto impresso nella mente e nel cuore. Era selvaggio, primitivo, spoglio e allo stesso tempo affascinante. E legato a una persona che, benché non avesse voluto ammetterlo per più di due anni, non aveva mai dimenticato.

Si sentiva strana a fare quel viaggio in carrozza con Ross Poldark ma accettare, dopo le sue insistenze, era la cosa che gli era riuscita più naturale perché in fondo aveva sempre sperato che sopraggiungesse un qualcosa, una scusante per riportarla in quelle terre.

Osservò Ross, silenzioso, accanto a lei. Era il marito della sua migliore amica e questo pensiero la turbava perché stava mentendo a lui e per forza di cose avrebbe dovuto poi mentire a lei. Come avrebbe potuto prendere Demelza, quell'improvvisata di Ross a Londra? Cosa avrebbe pensato di quel viaggio? Cosa avrebbe provato sapendo suo marito tanto vicino? Certo, Demelza sarebbe stata felice per lei, se le cose con Dwight si fossero sistemate, ma avrebbe avuto il sacro terrore di ritrovarsi faccia a faccia con Ross.

Lo guardava, non sapendo se ammirarlo o odiarlo. Sapeva quanto aveva fatto, come avesse fatto soffrire Demelza, come l'avesse umiliata, tradita e ignorata per tanto tempo, eppure... non aveva la faccia di una persona cattiva e ne era rimasta colpita quando, la prima volta, ne aveva potuto saggiare la fierezza e il coraggio durante quel processo che poteva costargli una condanna a morte. Aveva davanti il padre di Jeremy e Clowance, che lei stava vedendo crescere, a cui era affezionata, era la madrina della piccola e il fatto che Ross ne fosse totalmente all'oscuro la metteva in seria difficoltà. Sperò che il discorso non vertesse su Demelza, perché mentire le sarebbe risultato estremamente difficile.

Improvvisamente la carrozza si fermò e Ross si affacciò alla finestrella. "Siamo arrivati".

Venne colta da un attacco di panico. "Da Dwight?".

"Sì, siamo davanti a casa sua. Copritevi, il vento oggi pare freddo".

Caroline gli lanciò un'occhiataccia, calandosi il cappuccio del suo mantello azzurro in testa. "Sono ancora indecisa se odiarvi, capitano".

Ross rise. "Magari mi ringrazierete, stasera o domani".

Caroline inspirò profondamente per prendere coraggio, scendendo dalla carrozza. Si guardò attorno. La casa di Dwight era rimasta esattamente come la ricordava, piccola, modesta, circondata da un muretto di pietra e dalla campagna da cui, in lontananza, si vedevano altre piccole dimore di povera gente.

Ross arrivò all'uscio, bussando. "Dwight?! Sei in casa?".

Dopo pochi secondi la porta si aprì. Caroline, indietro di alcuni passi, nascosta alla visuale, strinse i pugni delle mani, convulsamente. Era così uguale ai suoi ricordi Dwight, con quell'espressione buona, quel viso pulito e gentile, senza la minima traccia di cattiveria o egoismo a deturparlo. Era però più magro di come lo ricordava, più smunto, con gli zigomi vagamente più pronunciati. Dopo la prima occhiata si vedeva chiaramente come la guerra avesse lasciato i suoi segni amari su di lui.

Incurante di tutto, Dwight osservò Ross. "Hei, che sorpresa! Sono giorni che sei introvabile, nemmeno alla miniera sapevano dove ti fossi cacciato. Dove sei finito?".

Ross alzò le spalle. "Ho fatto un viaggetto a Londra per affari. E ti ho portato un regalo". Annuì e si fece da parte, facendole segno con la mano di avvicinarsi.

E col cuore in tumulto, Caroline si avvicinò.

Vide Dwight spalancare gli occhi e poi impallidire, quando si fu calata il cappuccio, liberando i suoi lunghi capelli biondi.

Ross si grattò la guancia, forse in imbarazzo. "Avevo degli affari da concludere con lei e ho pensato che poteva essere una buona idea rapirla e portartela qui per farvi fare due chiacchiere".

Dwight lo guardò a bocca aperta. "Rapirla?".

"Più o meno" – disse Caroline, sorridendo forzatamente.

Ross sospirò. "Vi lascio adesso, credo di essere davvero di troppo e che possiate proseguire da soli, anche perché non amo troppo intromettermi negli affari degli altri. L'unica cosa che posso dirvi, la cosa che vi direbbe anche mia moglie che è più saggia di me, se fosse qui, è che se due persone si amano, gli ostacoli che li tengono divisi devono essere considerevoli, altrimenti vuol dire che non hanno il coraggio di perseguire le loro convinzioni. Lei direbbe anche che ci sono pochissime cose che al mondo valga davvero la pena di possedere e se le possiedi, nient'altro ha importanza. E se non le possiedi, allora tutto il resto non ha valore".

Caroline rimase colpita da quelle parole, dal loro significato in se e dalla dolcezza con cui Ross le aveva pronunciate, ricordando sua moglie. Si chiese per un attimo quanto di quello che credeva Demelza fosse vero e quanto Ross fosse cambiato durante la loro separazione, ma gli occhi magnetici di Dwight la riportarono alla realtà. "Eppure, scommettere sull'ignoto... Su questo viaggio, sull'assurda decisione di venire qui dopo tutto questo tempo...".

Dwight annuì. "Eppure, non è la vita stessa, una scommessa? E il giocatore d'azzardo è sempre quello che ne viene fuori peggio? Temo che coloro che soffrono di più sono quelli che ignorano i desideri del cuore e passano poi la vita a pentirsene".

Anche le parole di Dwight la colpirono perché era vero, erano scappati entrambi, per quasi tre anni, dai loro sentimenti, per paura di soffrire, e alla fine avevano sofferto ancora di più a stare lontani. Si accorse solo di sfuggita che Ross si allontanava, lasciandoli soli. La paura di poco prima all'idea di star da sola con Dwight scomparve, stava bene, si sentiva a casa e a posto con se stessa. "Temo che tu abbia preso ad odiarmi, in tutto questo tempo. Sono stata orrenda a rimandarti indietro quelle lettere ma ero mortalmente arrabbiata, ferita... Noi donne ce la leghiamo spesso al dito, sai?".

Dwight sorrise, in quel modo dolce, gentile e quasi timido che l'aveva fatta innamorare. "Non c'è dubbio che ora ti odio" – disse, accarezzandogli la guancia. "Ma sono felice che tu sia qui, più di tutto il resto". La attirò a se, la abbracciò ed improvvisamente non ci fu più bisogno di parole fra loro. Ci sarebbe stato tempo per parlare, per raccontarsi di quegli anni di lontananza, della vita condotta a Londra, della morte di suo zio, della guerra che lo aveva portato su suolo francese, di quanto avessero entrambi sofferto e di quante strade si dipanavano loro davanti per costruire un futuro insieme.

Tutto si zittì, in un lungo bacio che fece scomparire ogni divisione, rancore, conflitto intercorso fra loro. Quando si separarono, Caroline gli sorrise. "Mi hai davvero rapita, dottor Enys".

"Credo di si". Le prese la mano e la condusse in casa. Chiusero il mondo fuori, non esisteva nulla a parte loro, in quel momento.

La casa era rimasta come la ricordava, modesta, povera ma dignitosa, piena di libri sparsi ovunque e di oggetti di uso medico. Era così diversa dalla sua residenza di Londra ma la sentiva sua, in un modo intimo che si puo' provare solo quando sei al posto giusto, con la persona giusta e in pace con te stessa. Si sedettero sul piccolo sofà accanto al camino e lei appoggiò la testa alla sua spalla.

"Non andrai via di nuovo, vero?" - chiese lui, quasi timoroso.

Caroline sospirò. "Sono partita su due piedi con Ross e ho lasciato un sacco di affari in sospeso a Londra che devo sistemare. Il tuo amico è molto insistente e alla fine ho ceduto e sono contenta di averlo fatto".

"Che ci è venuto a fare da te, Ross?".

Caroline sospirò. "Saldare un vecchio debito, un prestito che gli avevo fatto anni fa. Non era niente di importante, poteva anche non farlo, ma ha insistito e credo che per lui fosse una questione d'onore. Poi, da cosa nasce cosa e alla fine ci siamo trovati a parlare di te e pochi minuti dopo ero su una carrozza diretta qui".

Dwight la guardò, preoccupato e in ansia. "Quindi, tornerai subito a Londra?".

"No, non subito. Magari domani... O dopo dopodomani, se hai posto qui per me".

Dwight sorrise. "Certo".

Caroline annuì. "Questo è solo l'inizio".

"Di qualcosa di importante?".

Le venne da sorridere. "Di qualcosa di importante" – ripeté.

Dwight si alzò, prendendo un piccolo laccio di cuoio dal tavolo. Poi tornò da lei, prendendole la mano sinistra e legandoglielo attorno all'anulare. Infine le baciò le dita, guardandola negli occhi. "L'inizio di qualcosa di importante, sì".

Caroline si perse nei suoi occhi, ricordando quanto le fosse mancato quello sguardo gentile e sincero e quel mondo semplice, pulito, così diverso da quello comodo e per molti aspetti falso e perbenista di Londra. "Hai detto che hai posto per me, giusto? Dov'è la nostra camera da letto?".

Dwight spalancò gli occhi, era la prima volta che lei gli faceva una proposta così diretta e per un attimo sembrò smarrito e spaventato. Ma fu solo un attimo. La prese per mano e la fece alzare e poi le fece strada verso quello che sarebbe stato, per i giorni successivi, il loro rifugio d'amore.


...


Ross passeggiò fino a casa, costeggiando la spiaggia. Il vento era forte ma da bravo nativo della Cornovaglia, lo trovava piacevole.

A dire il vero, in quella giornata tutto gli sembrava piacevole e si sentiva l'animo leggero, come se aiutare Caroline e Dwight, rendersi utile per qualcuno e sistemare un guaio che aveva indirettamente causato anni prima, lo avesse rigenerato nello spirito.

Fischiettò, entrando nell'uscio di casa, a Nampara, e Prudie lo guardò sorpresa. Beh, in effetti era piuttosto musone, per la maggior parte del tempo, quella reazione ci stava tutta.

"Signore, il vostro viaggio a Londra dev'essere stato davvero proficuo" – disse, armeggiando con due grossi polli che andavano spiumati e taglianti.

"Puoi dirlo forte, ho concluso ottimi affari, saldato in parte un debito e sistemato un guaio di alcuni anni fa che aveva fatto soffrire il mio più caro amico. Sai, è piacevole rendersi utile a qualcuno".

Prudie annuì. "Oh, anche io ho concluso ottimi affari". Prese i polli, sbattendoli sul tavolo davanti a Ross. "Comprati a prezzi stracciati! Carne fresca fresca, gli avevano appena tirato il collo". Si avvicinò alla cucina, prendendo un grosso coltellaccio che poi, con un gesto veloce, infilzò nel legno del tavolo, a pochi centimetri dalle mani del suo padrone. "Amate rendervi utile? Perfetto, aiutatemi a spennarli e a togliere le interiora, sarete così felice che dormirete come un bambino, stanotte".

Ross prima deglutì fissando il coltello che per poco non gli aveva mozzato le dita, poi la guardò storto. La malattia della voglia di lavorare, a Prudie non sarebbe mai venuta! Così come non le sarebbe mai passata la malattia dell'arroganza di chiedere al suo padrone di lavorare al suo posto. Si alzò dal tavolo, deciso a togliersi di torno, divertito nonostante tutto. "Ti ringrazio della tua premura, ma vedrò di rendermi utile da qualche altra parte".

"Ma non avete niente da fare!" - obiettò Prudie.

Quella semplice frase lo fece riflettere. Era vero, non aveva nient'altro da fare, suo malgrado. Oltre al lavoro in miniera, ai rapporti con banche e creditori, non c'era nient'altro che lo attendesse. Osservò la sua serva che, pur apparentemente distratta, conosceva ogni aspetto della vita di quella casa. Poco prima aveva citato Demelza, con Dwight e Caroline, e Prudie la conosceva bene, aveva passato tanto tempo con lei e forse avrebbe potuto consigliargli qualcosa a mente serena. "Senti... tu credi che io abbia sbagliato ad arrendermi e a smettere di cercarla?".

Prudie alzò lo sguardo su di lui. "Di cosa parlate, signore?".

"Di mia moglie. Voglio dire... Ho smesso di cercarla da tanto ma sono pur sempre suo marito e ho dei doveri sia verso di lei che verso mio figlio".

Prudie scosse la testa, staccando una manciata di piume dal primo pollo capitatogli fra le mani. "Ai vostri doveri di marito e padre, dovevate pensarci quando lei era qui. Farlo ora non è di nessuna utilità né a voi, né a lei e nemmeno al bambino".

Ross si morse il labbro. Poteva pure arrabbiarsi per quella risposta diretta e vagamente accusatoria, ma in fondo lei aveva ragione. "Magari ha bisogno di me ed è in difficoltà da qualche parte".

Lo sguardo di Prudie si fece serio. "Non lo è".

Alzò lo sguardo su di lei, vagamene sorpreso da quella risposta tanto sicura. "E tu come lo sai?" - chiese, cupo.

Prudie rimase in silenzio per alcuni istanti, come soppesando le parole da dire. Poi alzò le spalle. "La signora è in gamba, sa rimboccarsi le maniche, lavorare e arrangiarsi anche da sola, se è necessario. Lo ha sempre fatto anche qui, quando voi correvate da quella gattamorta di Trenwith. Spaccava la legna, lavorava come un somaro e teneva pulita la casa. Credete che una come lei abbia passato questi anni a piangersi addosso? Io sono sicura di no".

Ross sorrise amaramente, a quelle parole. Era vero, Demelza era in gamba, poteva prendersi cura di se stessa e Jeremy anche da sola, come del resto faceva anche a Nampara, visto che lui non c'era mai. Aveva mancato in tante cose, nel suo affetto verso di lei e suo figlio, nelle attenzioni ai loro bisogni, concentrato unicamente su se stesso e i suoi sentimenti troppo egoistici per accorgersi di chi aveva vicino e lo amava. "Non credi che sarebbe bello se fosse ancora qui".

Prudie annuì. "Questa casa ha perso la sua anima da quando lei se n'è andata. Ma sapete... sarebbe bello, se tornasse, per me, per voi. Ma non per lei, Demelza qui ha sofferto molto e dubito vorrebbe tornare a vivere in questo posto".

Ross sorrise, con amarezza. "Sono stato un pessimo marito, vero?".

"Vero! E lei ne ha sofferto e io spesso ho dovuto consolarla, quando non si dava pace per non essere la moglie che voi desideravate".

Spalancò gli occhi a quelle parole, sentendosi in colpa in maniera atroce. Quanto l'aveva fatta soffrire, sentire piccola e invisibile? Accidenti a lui, era la donna che amava più di se stesso e aveva dovuto perderla per capire i suoi errori, la sofferenza che le aveva causato e quanto fosse importante per lui... Era perso senza di lei, era come essere caduto e non essere stato più capace di rialzarsi. "Vorrei solo sapere se sta bene come dici tu".

Prudie si morse il labbro. "Signor Poldark, io solitamente mantengo le mie promesse ma stavolta, se questa cosa rimane fra noi, magari potrei infrangerne una...".

"Quale promessa?".

Prudie si sedette sulla sedia, davanti a lui. "La signora... Sta bene, lo so perché l'ho vista. Lo scorso autunno, quando eravate al fronte, è stata qui".

Gli parve che il pavimento gli crollasse sotto i piedi, a quelle parole. "Cosa?". Per un attimo si sentì confuso, quasi svenne. Sentiva le guance in fiamme e la gola seccarsi sempre più. "Perché non me l'hai detto?".

"Perché lei mi ha chiesto di non farlo ma visto che siete tanto preoccupato, preferisco essere sincera. In fondo è stata qui solo pochi minuti, il tempo di bere un the e poi è ripartita. Non è stato nulla di che".

"Cosa ti ha detto? C'era anche Jeremy con lei?".

Prudie scosse la testa. "No, il bambino non c'era ma mi ha raccontato che sta bene e che la aspettava a casa. Probabilmente lo aveva affidato a qualcuno. E' passata a trovare vostra figlia al cimitero ed è venuta a salutarmi, poi se n'è andata. E' stata dura per lei tornare qui e non credo che tornerà ancora. Non ha detto molto, né su dove vive, né su cosa fa. Ma stava bene, indossava un abito meraviglioso, molto più bello di quello che indossano le gran signore di qui, e sulle spalle portava un mantello di pelliccia così morbido e caldo che per un attimo ho stentato a riconoscerla. Le sue mani erano liscie e candide, si vede che non fa più lavori pesanti come a Nampara".

Nonostante quelle parole, nonostante le avesse detto che Demelza stava bene, si odiò per essere partito e per aver perso l'unico appiglio che aveva per ritrovarla. "Non ti ha chiesto di me? Non ti ha detto nient'altro?".

"Era contrariata dal fatto che voi foste in guerra ma non ha detto molto. Ve l'ho detto, è stata qui solo per pochi minuti. Ma sta bene, state sereno".

Stare sereno? Come poteva esserlo? Cosa faceva, dove viveva sua moglie? Come si manteneva, come faceva ad avere abiti tanto belli ed eleganti, lei che era partita senza un soldo? Gli venne in mente la soluzione più ovvia, aveva accanto qualcun altro che si prendeva cura di lei e di Jeremy, aveva iniziato un'altra vita e questa idea lo annientava e lo faceva impazzire. Immaginare qualcuno le la abbracciasse, baciasse, che la stringesse a se di notte, in un letto... Si sentiva di impazzire, a quei penseri sulla sua Demelza...

Prudie, quasi presagendo i suoi turbamenti, scosse la testa. "No, non è come pensate, dubito ci sia un uomo nella sua vita, soffre ancora per voi. Ma è in gamba, sa come farsi strada e come mantenersi da sola. Se sta bene, lo deve unicamente a se stessa, le donne come Demelza non hanno bisogno di un uomo per poter vivere, sa cavarsela anche da sola e se la amate davvero, dovreste convincervene anche voi e essere fiero di lei".

Ancora una volta, Prudie aveva ragione. Si guardò attorno, smarrito, realizzando che lei era stata lì e che lui non c'era, troppo lontano, troppo impegnanto a sfuggire ai suoi errori e alle sue responsabilità.

Ma decise di non deprimersi. Era stata una buona giornata quella, per lui, per Caroline e Dwight e dopo tutto, ora sapeva che sua moglie e suo figlio stavano bene. Era inutile tormentarsi con pensieri negativi, aveva ricevuto buone notizie e solo su quelle doveva concentrarsi.

E se Demelza stava bene, poteva dormire sereno per quella notte.




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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


"Demelza, oggi mi avete stupito. Non credevo che avreste firmato così, senza battere ciglio".

La voce sgradevole di George la raggiunse alle spalle, appena raggiunta la porta d'uscita della sede della Warleggan Bank. Si chiese perché finisse sempre così, perché la inseguisse ad ogni fine di riunione e la bloccasse per infiniti minuti, invece che andarsene per la sua strada. Alzando gli occhi al cielo, di uno splendido e terso azzurro estivo, si mise in testa il cappello per ripararsi dal calore del sole. "Perché non avrei dovuto farlo? La vostra era una proposta ragionevole, ben pensata, non dannosa per i nostri creditori e soprattutto proficua per me e per i miei soci".

George le si affiancò. "Certo! Ma era una specie di... trappola! Ero convinto che, nonostante tutte queste motivazioni, per il semplice fatto di farmi dispetto, non avreste firmato".

Demelza sbuffò con fare annoiato. "Così mi offendete ed offendete la mia intelligenza. Stiamo parlando di affari, non siamo bambini".

"Ma i nostri trascorsi...".

Demelza, con un amabile sorriso, si voltò verso di lui. "Come vi ho appena detto, si sta parlando di denaro, non di questioni personali. Siamo professionisti, George".

Di tutta risposta, l'uomo divenne rosso di rabbia. "Siete una donna e il vostro posto dovrebbe essere a casa, a curare le faccende domestiche e i figli. Ne avete due, se non mi sbaglio, giusto? Prendetevi cura di loro e mandate alle riunioni i vostri soci, mi risulta che i fratelli Devrille siano in società con voi e, in quanto uomini, hanno più titoli per sedere al consiglio di amministrazione della Warleggan Bank di quanti ne abbiate voi".

Demelza picchiettò il piede, nervosa. Odiava i discorsi maschilisti e George le faceva venire l'orticaria, quando lo aveva fra i piedi. Sì, avrebbe volentieri ceduto il suo posto a Martin o ai suoi fratelli pur di non vederlo, ma non lo avrebbe mai fatto perché avrebbe preferito la tortura piuttosto che dargli quella soddisfazione. "I fratelli Devrille non vi hanno molto in simpatia, George. Anzi, vi detestano proprio! Preferiscono lasciare a me l'onore di avere a che fare con voi e sono assolutamente soddisfatti dei risultati che ho ottenuto fin'ora. Dovrete sopportarmi ancora, quindi".

George alzò il dito indice verso di lei, ad indicarla. "Demelza Poldark, voi siete una donna testarda e assolutamente impossibile. Credo che non abbiate ancora capito qual'è il vostro posto nel mondo e sono convinto che qualcuno dovrebbe insegnarvelo".

"Quale sarebbe, il mio posto? Cosa dovrei fare per compiacervi?".

"Starvene a casa, come fa mia moglie. Prendete esempio da Elizabeth, lei è perfettamente consapevole di cosa debba o non debba fare e sa stare al suo posto".

"Bisogna vedere cosa intenda Elizabeth, per suo posto...". Demelza sorrise freddamente. Accidenti, ogni volta che George nominava Elizabeth, le veniva la grandissima voglia di raccontare a quel pallone gonfiato tutta la verità sulla sua dolce mogliettina e di infrangere il suo mondo perfetto. "Elizabeth è Elizabeth e io sono io. Non sono nata, come lei, per compiacere un uomo. E nemmeno per fare la bella statuina da mostrare con orgoglio ai vostri ricevimenti importanti. Avete sposato la vostra donna perfetta e avete con lei la vostra perfetta famiglia. Godetevela".

George, sempre più rosso di rabbia, le si avvicinò viso a viso. "Io non vi sopporto".

Demelza sorrise di nuovo, freddamente. "Nemmeno io. Ma per una volta voglio venirvi incontro, andandomene da qui subito. Come mi avete ricordato poco fa, ho due figli a casa che mi aspettano, e ora che è arrivata l'estate vorrei passare del tempo con loro all'aperto. Buona giornata, George".

Si allontanò a passi lenti, gustando il calore del sole sulla pelle scoperta delle braccia. Adorava la moda londinese e quegli abiti estivi di seta, dalle maniche corte, a sbuffo, eleganti e allo stesso tempo comodi e freschi da portare. Era d'umore terribilmente buono e nemmeno le imprecazioni di George, che gli giungevano alle spalle urlandogli che cominciava a provare compassione per Ross per averla avuta come moglie, sarebbero riuscite a turbarla. Quasi divertita, ridendo fra se e se, si allontanò per le strade di Londra, colorate e caotiche, che parevano essersi risvegliate dal grigiore invernale in quei primi giorni di quella piacevolissima estate.

Di tanto in tanto, strada facendo, si fermò ad osservare le vetrine dei negozi più eleganti, quasi stupendosi ancora del fatto che, se avesse voluto, sarebbe potuta entrare e comprare senza problemi qualsiasi cosa lei volesse. Era strano non essersi ancora abituata a quel tenore di vita e sentirsi invece ancora così legata alle sue origini anche se, ripensando alla conversazione con George di poco prima, questo la salvava dal diventare davvero, un giorno, una donna come Elizabeth.

Quando giunse davanti a casa sua, a pochi passi dal cancello, una figura piuttosto nota che sostava davanti ad esso la bloccò. Bene, era la giornata degli scocciatori... "Signor Smith, com'è che vi trovo sempre a bighellonare davanti a casa mia?" - chiese, avvicinandosi di soppiatto.

Il finanziere, appena la vide, si esibì in un sorriso falso ed ipocrita, inchinandosi. "Signora, stavo per chiamare la servitù per farmi ricevere, ma vedo che non ce n'è bisogno. Sono passato per sapere come state e se avete pensato alla mia proposta".

Aprendo il cancello con le chiavi, sospirando e dandogli le spalle, Demelza scosse la testa. Stava diventando insistente, troppo per i suoi gusti. "No, non ci ho pensato per il semplice fatto che non ho intenzione di vendere quelle azioni".

"D'accordo, smettiamo di giocare, signora! Quanto volete per le quote della Northern? E' la cifra che volete concordare, giusto? Ditemela, smettetela di fare la preziosa e concludiamo l'affare".

Demelza si voltò verso di lui, infischiandosene di dimostrargli quanto la sua presenza la infastidisse. "Come vi ho detto, non voglio vendere! E ora, se volete scusarmi, vorrei entrare in casa. I miei figli, insieme a una cara amica che oggi doveva passare a farmi visita, mi aspettano".

"Siete una donna davvero testarda, lo sapete?".

Demelza alzò le spalle. "Siete la seconda persona che me lo dice, oggi. Comincerò a prenderlo come un complimento".

Smith le si avvicinò di alcuni passi. "Sapete, bighellonando qui davanti, in attesa del vostro arrivo, ho visto i vostri due figli giocare in giardino. Due gran bei bambini, davvero...".

Una strana rabbia prese possesso di lei. Come osava stare ad osservare i suoi figli, quell'uomo? Cosa diavolo voleva insinuare, citandoli, cosa voleva da lei? "State lontano da casa mia. E soprattutto, state lontano dai miei figli" – disse, scandendo bene parola per parola.

"E invece tornerò, di tanto in tanto. Un giorno cederete".

Demelza non rispose e, nervosa, lo guardò allontanarsi. Quell'uomo la inquietava e le dava l'impressione di essere un tipo senza scrupoli, come la maggior parte dei finanzieri che conosceva, dopo tutto. Scosse la testa, sperando di non vederlo per un bel po'. Non gli avrebbe permesso di rovinargli la giornata, non con quel sole stupendo, non nel giorno in cui poteva godersi i suoi figli nel loro giardino, senza altri impegni a separarla da loro, non con Caroline che le aveva promesso di venire a trovarla, dopo gli ultimi mesi in cui si erano viste pochissimo.

Quando arrivò nel retro del giardino, i bambini le corsero incontro. Jeremy le saltò al collo, baciandola sulla guancia, e Clowance, che ormai correva veloce quanto e più del fratello, si fece prendere in braccio. "Ciao bimbi, cosa state facendo?" - gli chiese, allegra.

Jeremy corse verso Garrick. "Gli voglio insegnare a riportarci i giochi che gli lanciamo, ma non ci ascolta".

Demelza scoppiò a ridere, rimettendo a terra Clowance. "Bambini, Garrick è anziano ormai e non ha voglia di correre avanti ed indietro in giardino per riportarvi i vostri giocattoli".

"Ma io voglio insegnargli lo stesso" – insistette Jeremy.

"Stesso" – ripeté Clowance.

"Fate come volete, ma non tormentatelo troppo". Li lasciò ai loro giochi, sotto lo sguardo attento di Mary che li osservava dalla scalinata dov'era seduta facendo l'uncinetto. Poi si avvicinò alle due altalene in fondo al giardino, su una delle quali aveva scorto la figura elegante di Caroline che la stava aspettando. "Scusa il ritardo ma ho avuto delle scocciature, strada facendo" – disse, abbracciandola.

Caroline sorrise, risiedendosi sull'altalena. "E' piacevole stare qui a dondolarsi, sotto l'ombra delle piante del tuo giardino! Hai avuto una bella idea a comprarle per i bimbi".

Demelza si sedette sull'altalena a fianco, dondolandosi debolmente. "Non glie le ho comprate io".

"E chi è stato?".

"Martin, chi se non lui?" - rispose, divertita. "Sai com'è fatto, basta che veda Clowance o Jeremy osservare un gioco e lui glie lo va a comperare subito".

Caroline annuì. "Beh, le altalene sono divertenti".

Demelza rise. "Ma i bimbi ci salgono poco, la uso più io di loro. Da piccola non avevo giocattoli e credo di averne desiderati, senza mai essere stata accontentata". Si voltò verso di lei, sembrava raggiante. "E tu, che mi racconti? Sono mesi che scompari nel nulla per settimane e poi quando ci vediamo fai tutta la misteriosa. Che sta succedendo?".

"Guarda!". Caroline, orgogliosa, le mostrò la mano sinistra, dove spiccava un piccolo anello di cuoio all'anulare. "Mi sono fidanzata! La prossima primavera, fra nemmeno un anno, mi sposo".

"Cosa?". Demelza spalancò gli occhi. Era senza parole, sorpresa e allo stesso tempo infinitamente felice per lei! "Ti sei fidanzata e non mi hai detto niente? Quando? Come? E con chi?".

Caroline, con fare malizioso, si morse il labbro. "Due mesi fa, con un uomo stupendo che mi farà felice. Tu sarai la mia testimone di nozze, la mia damigella personale, sappilo e preparati, hai nove mesi per farlo!".

"Ma certo, sarà un onore per me. Ma chi è il fortunato?".

Sospirando, Caroline distolse lo sguardo da lei. "Non te lo dico, per adesso".

"Perché?".

"Perché se lo facessi, tu poi non vorresti venire al matrimonio e io ti voglio al mio fianco. Meglio metterti davanti al fatto compiuto, quando non potrai scappare".

Demelza la guardò storto e poi scoppiò a ridere, senza capire il senso di quello strano discorso. Passò in rassegna, mentalmente, tutti i partiti della Londra-bene, cercando di capire chi potesse essere quest'uomo misterioso che a lei poteva non piacere, tanto da spingerla eventualmente a non partecipare al matrimonio. Improvvisamente, un sordo terrore prese possesso di lei, unito a un senso di stupore. "Non mi dire, è uno degli azionisti della Warleggan Bank? Ti prego, non dirmi che mi troverò tutto il consiglio di amministrazione al tuo matrimonio, insieme a George e alla sua perfetta famiglia".

Caroline scoppiò a ridere. "Ahah, chissà! Non-te-lo-dico".

Clowance, giunta di corsa, saltò sulle gambe di Demelza, interrompendo i loro discorsi. "Mamma, veniiii" – urlò, contenta.

Demelza la strinse a se, baciandola sulla guancia. Era diventata uno splendore sua figlia, con dei boccoli rossi e morbidi a colorargli la testolina e due guance piene a ornarle il visino paffuto e simpatico. "Un attimo amore, devo capire cosa passa nella testa di zia Caroline".

Clowance osservò l'ereditierà poi sospirò, sciogliendosi dalla testa i due nastrini che le tenevano legati due codini.

"Ah, Clowance" – si lamentò Demelza, trovandosi i nastri fra le mani. "Non sopporta proprio di avere roba in testa, ma le vanno i ciuffi negli occhi" – disse, rivolta all'amica.

Caroline osservò la bimba. "Me la presti, tua figlia, per il matrimonio? Per portare gli anelli, intendo".

"Clowance? Ma è piccola, non credo che ne sarebbe capace, senza distrarsi".

"Ci eserciteremo, prestamela per qualche giorno, ogni tanto, me la tengo a casa tutto il giorno e insieme proveremo e decideremo pure i vostri abiti. Sarebbe carinissimo se ne aveste due uguali, tu e lei".

Demelza osservò sua figlia e poi Caroline. In effetti, quella proposta poteva tornarle utile per una serie di motivi. "Dimmi solo una cosa! Non è uno della Warleggan, vero?".

"Non lo è".

"E allora d'accordo, ti lascio Clowance. Anzi, mi faresti un piacere a tenerla, di tanto in tanto. Jeremy vuole imparare a leggere e ho assunto un istitutore che dovrebbe cominciare a venire qui da settimana prossima, il martedì e il giovedì. Senza Clowance e disturbarli, farebbero lezione con più tranquillità. Se te la portassi in quei giorni al mattino, prima di andare alla locanda, e tornassi a prenderla di sera, a fine lavoro, per te sarebbe un problema?".

Caroline annuì, accarezzando i capelli della bimba. "Nessun problema, io e la principessina ci divertiremo da matte insieme. Vero Clowance?".

"Vero" – rispose la piccola, saltando giù dalle gambe della madre e correndo verso Garrick e Jeremy.

Caroline guardò i due bambini giocare contenti, insieme. Poi, tornando più seria, si voltò verso Demelza. "Posso chiederti quando glie lo dirai di lei, a Ross?".

Stupita da quel cambio di tono repentino, Demelza si oscurò. "Cosa c'entra Ross, adesso?".

L'amica alzò le spalle. "Così... Presto sarò una donna sposata, magari avrò figli e mi chiedevo come riuscissi a gestire una situazione tanto complicata. Con Ross a condividere le responsabilità, avresti meno preoccupazioni, saresti più tranquilla e a posto con la tua coscienza".

"Io, con la mia coscienza, sono assolutamente a posto".

"Demelza, Clowance è sua figlia e per quanti errori lui abbia commesso, credo che abbia il diritto di sapere che lei esiste. E di vedere anche Jeremy".

Lo sguardo di Demelza si perse dietro ai figli, con un velo di tristezza sul volto. "Non gli è mai importato di noi e ormai abbiamo vite separate. Non voleva Jeremy e di certo non vorrebbe Clowance. Sarebbero un peso per lui, come lo sono stata io".

"Questo non puoi deciderlo tu, a prescindere. Che ne sai?". Indicò i due bambini che, contenti, giocavano col loro cane. "Sono meravigliosi, li adorano tutti quanti e Ross si scioglierebbe, se li vedesse. Guardali! Jeremy è un ometto, non ha nemmeno cinque anni e già vuole imparare a leggere, sarebbe l'orgoglio di ogni padre. E Clowance è un amore di bambina, di una bellezza rara e di una cocciutaggine e simpatia uniche. Io credo che li amerebbe da morire, se avesse l'opportunità di incontrarli".

Demelza scosse la testa. "Succederebbe come dici tu, li adorerebbe se fosse stata Elizabeth a metterli al mondo. Ma la loro madre sono... solo... io... E non era con me che voleva costruire una famiglia, lui la voleva con Elizabeth. Io e i bambini siamo stati solo un diversivo per lui, finché c'era Francis. Dopo la sua morte e con Elizabeth finalmente libera, noi a Ross non servivamo più. Era a lei che pensava, ai suoi bisogni, era lei che voleva".

"Ha commesso molti errori ma magari li ha capiti ed è pentito di quello che ha fatto. Demelza, pure io farei fatica a perdonare un tradimento ma è stata una sola notte e magari...".

Demelza si voltò verso di lei, con aria afflitta. "Non è stata solo una notte... Sono state tante notti, tanti giorni in cui per lui non esistavamo, in cui desiderava solo che scomparissimo per lasciarlo libero di vivere con chi voleva, come desiderava. Il tradimento di una notte potevo anche perdonarglielo ma mi feriva di più pensare che oltre a me, giorno dopo giorno, tradisse anche Jeremy. Non contava nulla per lui. Eravamo senza soldi, non sapevamo quasi cosa mettere sulla tavola per mangiare e lui correva da Elizabeth a giocare con lei e suo figlio alla famiglia felice, incurante del fatto che potessimo avere bisogno di lui e che ci stesse facendo soffrire. Ha venduto, senza dirmelo, le sue quote delle Wheal Leisure, ne ha ricavato 600 ghinee che ha regalato ad Elizabeth perché stesse bene, incurante del fatto che suo figlio non avesse di che mangiare. E l'ho scoperto per caso, molti mesi dopo, perché un conoscente me lo ha riferito. Lui non si era nemmeno degnato di dirmelo...".

Caroline abbassò lo sguardo, a corto di parole. "Mi dispiace, non lo sapevo".

"Quindi" – proseguì Demelza – "non sto a sperare in qualcosa che non succederà mai, non rischio la serenità dei miei figli andando a cercare qualcuno che so già che non avrebbe né cura né amore per noi. E' inutile che io contatti Ross per dirgli dei bambini perché le risposte che potrebbe darmi, io le conosco già. I miei figli ora sono sereni, circondati dall'amore di tante persone che per loro sono una famiglia. E mi va bene così".

"Ma... non dirai mai nulla a Jeremy e Clowance, di lui? Non hanno diritto di sapere?".

"Quando saranno adulti, se lo vorranno, glie ne parlerò. E saranno liberi di prendere le decisioni che riterranno più opportune. Ma ora sono piccoli, hanno solo me ed è mio il compito di proteggerli e difenderli da un padre che finirebbe solo per deluderli e farli soffrire. Io sono adulta, posso sopportare di non contare nulla per lui, ma loro no. Non sarebbe giusto".

Caroline abbassò lo sguardo. "E se fosse cambiato? Se avesse capito i suoi errori? Se ti amasse?".

Demelza scosse la testa. "E' troppo tardi, ormai".

"Sai che sei testarda?" - sbottò l'ereditiera.

"Sei la terza persona che me lo dice, oggi".

Caroline sbuffò. "Bene, riflettici su questa cosa!".

"Non sono testarda, sono realista".

"Dimmi una cosa, non lo ami più?".

"Amo i miei figli".

"Non hai risposto alla mia domanda" – insistette Caroline.

Demelza si dondolò sull'altalena, fissando il vuoto. "Quando penso a lui, mi sento vuota, inutile, imperfetta, come mi ha fatta sentire per anni. Non so cosa provo, forse semplicemente odio verso me stessa perché non riesco a lasciarmelo del tutto dietro le spalle. Ed è la cosa più stupida da fare perché lui per me non ha mai avuto un briciolo di considerazione o amore, ma non posso farne a meno. Come ti ho detto, ero solo una consolazione, una che gli scaldava il letto e gli teneva pulita la casa, finché ne ha avuto bisogno".

Caroline si alzò dall'altalena, avvicinandosi e abbracciandola. "Non dire così, tu sei stupenda e Ross avrebbe dovuto baciare il terreno dove camminavi".

"Non pretendevo così tanto,volevo solo che mi amasse. Ma non è andata così ed ora è troppo tardi".

Caroline scosse la testa. "Non volevo intristirti, scusa. Forse dovrei andare a casa e lasciarti alla compagnia dei bimbi".

"Mi terrai Clowance, allora?".

"Me la presti per gli anelli?".

"Certo" – rispose Demelza, finalmente con un sorriso.

Caroline annuì, scompigliandole scherzosamente i capelli. "E allora sarò la tua bambinaia per tutta l'estate".


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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Era tornato a Londra, come promesso mesi prima, per saldare il suo debito. Non aveva annunciato il suo arrivo ma sapeva da Dwight che Caroline si trovava in città per cominciare a pensare a come organizzare il loro matrimonio e quindi sapeva per certo che l'avrebbe trovata. Gli pareva così strano pensare che certe persone avessero bisogno di quasi un anno per prepararsi a una cerimonia a cui, a lui e Demelza, erano serviti solo due giorni, quando si erano sposati. Ma forse era diverso, lui e sua moglie non si erano corteggiati, sposarla era stato un qualcosa di irrazionale ed istintivo, dettato dalla necessità di non farla vivere nello scandalo, dopo quanto successo fra loro. Nessuno dei due, quel giorno, pretendeva chissà che dall'altro e solo in seguito, piano piano, il loro rapporto era diventato così forte e indissolubile, d'amore e passione. Sembravano passati secoli da allora e in un certo senso era così... Era cambiato tutto, aveva perso tutto e si sentiva come invecchiato di colpo di vent'anni, ogni volta che pensava a lei.

Il maggiordomo lo accompagnò nella consueta saletta dove Caroline usava riceverlo.

Ross si sedette sulla sedia, godendosi la calda brezza estiva che arrivava dalla finestra aperta che dava sul giardino. Era un'estate splendida e con un clima meraviglioso, quella. Anche Londra, di solito grigia e nebbiosa, sembrava aver preso colore e vita, in quei mesi.

Caroline giunse all'improvviso, vestita di un sobrio abito rosa. Stranamente i capelli erano lasciati liberi, senza boccoli o fronzoli ad ornarli, ed era evidente che non aspettasse visite per quella giornata. "Capitano Poldark, mi riuscite sempre a cogliere di sorpresa" – commentò, stranamente nervosa.

"Vi disturbo? Sono solo passato per saldare il mio debito e poi andrò via subito, vorrei essere a casa quanto prima possibile".

Caroline si sedette sulla sedia, sventolando il ventaglio. "Nessun disturbo, siete il mio salvatore, dopo tutto. Non avete debiti con me, per quanto mi riguarda, mi avete aiutata a ritrovare il mio uomo e l'amore e dovrei essere io a essere in debito nei vostri confronti".

Ross sorrise, mettendo sul tavolo i documenti relativi al prestito. "Finanziariamente, sono io il debitore. Ma da oggi, salderemo ogni cosa e ci dedicheremo solo al vostro matrimonio".

"Dwight vi vuole come suo testimone, lo sapete?".

Ross annuì. "Sì, me lo ha chiesto".

Caroline, firmando i documenti che Ross gli aveva posto, lo guardò di sottecchi. "Preparatevi, sarà una giornata interessante e particolare".

Ross scoppiò a ridere. "Sì, immagino. Li conosco gli sfarzi dei vostri matrimoni da ricconi".

Caroline gli strizzò l'occhio. "Niente di troppo sfarzoso, Dwight sarebbe in imbarazzo. Sarà una cosa elegante ma sobria". Piegò i documenti e poi sospirò, appoggiando il mento alla mano. "Non vedo l'ora".

"Lo immagino".

Improvvisamente la porta si aprì quasi con violenza e davanti a loro comparve una bimbetta di circa un anno e mezzo-due, dai boccoli rossi, che corse nella stanza lanciandosi verso Horace che, tranquillo, stava dormendo davanti al camino spento.

Ross osservò la piccoletta e poi Caroline, sorpeso. "E questa da dove spunta?" - disse, indicando la piccola che, incurante di loro, cercava di svegliare il cane.

Caroline osservò la bambina e poi lui, passando lo sguardo fra loro più e più volte. "Lei è Clowance, la figlia di una cara amica. La mia migliore amica, a dire il vero. Me la lascia ogni tanto e ne approfitto per insegnarle a portare gli anelli, sarà la mia piccola damigella alla cerimonia e porterà le fedi a me e a Dwight".

Ross spalancò gli occhi. "Quella bambina? Siete sicura? Mi sembra così piccola".

Caroline sorrise. "E' sveglia e avrà tempo di crescere, prima che arrivi il giorno del matrimonio. E poi, non la trovate carinissima? Pensate che amore che sarà, con il suo vestitino da damigella".

Ross osservò la bimbetta. Era molto graziosa in effetti, con quei boccoli lucenti e morbidi, quel visino vispo e furbo, quegli occhi azzurro-verdi e quelle guance rosse e piene. Indossava un abitino azzurro di pizzo e fra i capelli aveva un nastrino del medesimo colore mentre ai piedi aveva delle eleganti scarpine di vernice che la rendevano simile a una bambolina. Doveva appartenere all'alta aristocrazia londinese, di certo non era figlia di popolani, pensò... "Carina, molto. Ma secondo me troppo piccola per portare gli anelli, si distrarrà".

Caroline si voltò verso la bimba. "Clowance, vero che sarai capace di essere la mia damigella?".

La bimba si voltò verso di lei, imbronciata e arrabbiata per essere stata distratta dai suoi giochi. "Sì" – rispose, di malavoglia.

A Ross venne da ridere. Doveva avere un gran bel caratterino, quella piccoletta, Caroline si sarebbe pentita presto di averla scelta come damigella. "Beh, istruitela bene" – disse, alzandosi.

"Ve ne andate già?" - chiese Caroline, sorpresa.

"Beh, ho fatto quel che dovevo e non vorrei disturbare oltre. Avete da fare, a quanto vedo" – disse, indicando la bimba.

L'ereditierà rimase in silenzio alcuni istanti, pensierosa. Poi si alzò dalla sedia. "Vi fermereste due minuti in più? Ho bisogno di un favore".

"Quale favore?".

"La bimba... Devo assentarmi un attimo perché attendo il mio banchiere che dovrebbe arrivare a momenti per farmi firmare dei documenti. Questione di pochi minuti, potete dare un occhio a Clowance mentre vado a riceverlo?".

Ross spalancò gli occhi, guardandola come se fosse stata pazza. "Io? Ma non la conosco, non ho idea di...".

"E' una bimba, mica morde".

"Ma se piange? Se vi cercasse...? Se... Se...".

Caroline sbuffò. "Perché dovrebbe piangere? Non vorrete mica trattarla male, no?".

Ross arrossì. "Certo che no, ma...".

La donna scosse la testa, quasi esasperata. "Capitano Poldark, siete sopravvissuto a un anno sui campi di battaglia e dubito che una bambinetta vi ucciderà. Gioca col cane, nemmeno vi guarda. State seduto, datele un occhio e io sarò subito da voi".

"Ma non avete domestiche che possano farlo?" - chiese lui, esasperato.

"No, hanno il pomeriggio libero, oggi". Si avviò verso la porta, senza attendere la sua risposta. "A dopo e grazie" – disse, col più amabile dei sorrisi. "E tu Clowance, fai la brava".

"Brava..." - ripeté la bimba, continuando a tormentare il povero Horace.

Ross, deglutendo, osservò sgomento la porta che si chiudeva. E adesso? Santo cielo, lui insieme a una bimbetta da curare, da solo! Guardò la piccola, sperando non smettesse di giocare col cane e pregando al contempo che quell'irresponsabile di Caroline tornasse presto.

La bimba, nonostante tutto, pareva non far caso a lui, intenta a giocare col povero Horace che, in silenzio e non troppo felice, subiva la sua irruenza infantile.

Si chiese come era stato possibile. Era venuto a Londra per saldare un vecchio debito e parlare d'affari e si era trovato, senza quasi accorgersene, a fare da bambinaio a una scalmanata bimbetta dai capelli rossi. La osservò, senza muoversi, dalla sedia su cui era seduto. Stava tormentanto quel povero cane, tirandogli coda e orecchie, e il povero animale iniziava a dare segni di insofferenza con delle sommesse ringhiate. Fu però quando la vide allontanarsi, prendere la rincorsa e lanciarsi sul cane, che decise di intervenire prima che l'animale la mordesse. "Hei, no" – disse, prendendola al volo e sollevandola di peso da terra. Non aveva voglia di sentirla strillare per un morso di cane che, fra l'altro, si sarebbe pure meritata.

La bimba si voltò verso di lui con un'espressione piccata ed imbronciata, guardandolo con l'eloquente espressione di chi si sta chiedendo cosa voglia da lei lo sconosciuto che ha davanti.

Rimase stordito da quel viso, non se n'era accorto fino a quel momento, finché l'aveva guardata da lontano. Aveva quei capelli rossi e mossi così simili a quelli di Demelza e anche quell'espressione corrucciata le ricordava tanto sua moglie. Probabilmente era un segno distintivo delle rosse di capelli, pensò.

La bimba fece per dimenarsi e Ross maledì Caroline che non si sbrigava a tornare. "Agitati quanto vuoi ma non ti lascerò tormentare ancora quel povero cane" – le disse, serio.

Clowance fece per strillare ma, incurante, la portò al tavolo, sedendosi sulla sedia e mettendosela sulle ginocchia. La piccola faceva resistenza, dimenandosi e dimostrando un caratterino già notevole, per la sua età. Guardò il tavolo, cercando un'idea per tenerla impegnata nell'attesa che Caroline tornasse . Alla fine la sua attenzione cadde su una pila di fogli e gli venne in mente che, quando era piccolo, suo padre gli aveva insegnato a fare forme di draghi ed animali piegando la carta. "Sai, io so fare i draghi! Vuoi vedere?".

La bimba si voltò verso di lui, apparentemente incuriosita e più tranquilla. "Si".

Prese un foglio in mano, lo piegò e ripiegò finché davvero, non ne uscì la forma di un drago. "Visto?".

"Bello!". La bimba spalancò gli occhi stupita, sfiorando la sua creazione. Poi sorrise, finalmente contenta. E anche in questo le parve tanto simile a Demelza, che gli si contorse lo stomaco. Era identica... Quasi senza accorgersene, mentre la piccola gli prendeva il drago dalle mani, le accarezzò quei lucenti boccoli rossi, morbidi come seta. "Sai, tu somigli tanto alla mia Demelza" – le sussurrò.

Clowance, a quelle parole, alzò lo sguardo su di lui. "Mamma" – eclamò.

Ross tornò a guardarla e sorrise. Doveva essere una bambina molto amata e curata, si vedeva da quanto fosse serena, ben vestita con abiti eleganti e di pregio e dai suoi capelli, tenuti a bada da quel grazioso nastrino che sua madre, probabilmente, le aveva sistemato con cura. "Vuoi la mamma? Ah, sta serena, arriverà presto, credo. O almeno, te lo auguro, altrimenti dovrai sorbirti quell'irresponsabile di Caroline fino a stasera".

Clowance lo fissò ancora per alcuni istanti e poi, dopo un'alzata di spalle, si sporse verso il tavolo, prendendo gli altri fogli. "Ancora!" - disse, mettendoglieli in mano e facendogli capire che voleva altri draghi.

E suo malgrado dovette ubbidire, davanti al tono perentorio che la bambina aveva usato. "Tu sei abituata ad avere tutto quello che vuoi, è?".

"Si".

Gli venne da sorridere, era piuttosto buffa e sicuramente simpatica nelle sue espressioni e nei modi di fare. Un po' gli spiaceva che appartenesse all'aristocrazia, un mondo che, crescendo, avrebbe finito per rovinarla.

Piegò altri fogli, perdendo la cognizione del tempo, mentre Clowance, sulle sue ginocchia, sembrava catturata dai movimenti delle sue mani e stava ferma e in silenzio ad aspettare che finisse il suo lavoro. Quando ebbe fatto dieci draghi, decise che forse erano abbastanza. "Basta?".

"No".

"Ma guarda, abbiamo una famiglia di draghi, adesso. Ci sono il papà drago, la mamma drago e i figli drago... Devi scegliergli dei nomi, non possiamo farne altri"... Dove diavolo si era cacciata Caroline???

Clowance si imbronciò, saltò giù dalle sue gambe, si mise le mani sui fianchi e poi batté il piedino per terra. "No, ancora!".

Ross la guardò, un po' divertito, un po' in difficoltà. Era dannatamente cocciuta! "Sai che sei davvero testarda? Però ti dico un segreto, fai bene! Bisogna sempre affermare le proprie idee e non farsi schiacchiare da quelle degli altri...". Le accarezzò la guancia. "Solo, potresti farmi un favore? Questa tua affermazione della tua personalità, potresti farla con qualcun altro e non con me? Non sono troppo abituato ad avere a che fare con dei bambini". Già, suo malgrado era così. Julia era morta prima che fosse abbastanza grande per costruire un rapporto vero e proprio con lei e Jeremy... beh, per suo figlio lui non c'era mai stato e si era perso mille cose di cui ora, che era troppo tardi, si pentiva. Prese un drago fra le mani, guardandolo e mettendoglielo davanti agli occhi. "Sai che fanno? Volano?".

"Oh". Clowance ne prese uno da terra, lo guardò e poi, con uno scatto che lo colse di sorpresa, si lanciò di corsa verso la finestra aperta.

"Nooo". Ross balzò in piedi, prevedendo le mosse della piccola, prendendola al volo prima che, eventualmente, si lanciasse giù dalla finestra cercando di volare col suo drago. La prese in braccio, col cuore che gli balzava nel petto. Aveva perso forse dieci anni di vita, in quegli ultimi secondi. "Non farlo mai più".

Davanti al suo tono di voce brusco, la bimba spalancò gli occhi che poi, dopo pochi istanti, divennero lucidi.

"No... Non piangere". Santo cielo, Caroline quando tornava?

Clowance si stropicciò gli occhi con le manine, frignando. "Vola, vola..." - ripeté.

Ross sbuffò, rimettendola a terra. La prese per mano, accompagnandola verso il tavolo, ma la bimba fece resistenza. "Noooo, non vollo...".

"Non vuoi?".

"No".

Alzando gli occhi al cielo, cercando un modo per tenerla lontana dalla finestra, gli venne in mente una storiella che poteva tenerla occupata. "Sai, non puoi farli volare, sono troppo piccoli questi draghi, non sanno farlo. Ma sanno sputare fuoco e fare le battaglie, vuoi vedere?".

Non troppo convinta, Clowance annuì. "Sì". Lo prese per mano e lo tirò fino al camino, facendogli segno di sedersi per terra accanto a lei. "Vollo vedere".

Ross si sedette sul pavimento, sentendosi davvero ridicolo. Se i suoi minatori l'avessero visto, gli avrebbero riso dietro per anni. "Prenderemo tutti e dieci i draghi, adesso, poi faremo due schieramenti da cinque e faremo una guerra fra loro. Ti intendi di strategie militari?".

Clowance lo guardò storto, malissimo, grattandosi la guancia, pensierosa. E si accorse di essere davvero ridicolo, davanti a quella reazione! Che diavolo stava facendo, stava raccontando di guerra e strategie belliche a una bambina di nemmeno due anni? Sospirò, arrendendosi al fatto che era davvero goffo... "Lascia stare, facciamo altro, ti va?".

Clowance ci pensò un po' su e poi si portò le mani alla testa, sciogliendo il nastrino che le teneva in ordine i capelli. "Toh" – gli disse, mettendoglielo in mano.

A quel gesto, Ross sorrise. "Ti ringrazio, sei gentile. Ma credo stia meglio a te".

"No, non vollo. Tuo!".

"La tua mamma non si arrabbierà se non te lo vede addosso, stasera?".

"Sì".

Scoppiò a ridere, era davvero fenomenale discutere con lei. "E non ti importa?".

"No".

Pensò che era davvero fantastica, benché all'inizio non l'avesse entusiasmato l'idea di prendersene cura. Stranamente stava bene, la spontaneità di quella bambina lo divertiva e lo faceva sentire sereno come non gli capitava da anni. Le accarezzò la testolina, piegando il nastrino e mettendoselo in tasca. Lei glielo stava regalando e forse stare al gioco le avrebbe fatto piacere. Lo avrebbe restituito più tardi, senza farsi vedere, a Caroline, nel caso si fosse decisa a tornare.

Clowance gli saltò in braccio, ridendo. "Draghi".

Ross sospirò. "Draghi". Si alzò in piedi, prendendola in braccio e tornando con lei al tavolo. Prese altri fogli e iniziò a piegarli, costruendo altri draghi di carta. La bimba lo osservava rapita, canticchiando una canzoncina che gli pareva davvero incomprensibile, piena di parole ancora sgrammaticate, vista l'età. Anche in questo gli ricordava Demelza e stare con lei gli sembrò talmente piacevole che il tempo parve dilatarsi piacevolmente, in sua compagnia, tanto che, quando diversi minuti dopo la porta si aprì e ricomparve Caroline, provò uno strano dispiacere. La donna entrò, seguita da un uomo un po' in la con gli anni.

"Capitano Poldark, siete sopravvissuto!".

Ross sorrise. "Dove diavolo siete stata? Non dovevano essere due minuti?".

"Le cose si sono dilungate". Si avvicinò a loro, strizzando un occhio a Clowance. "Guarda chi è venuto a prenderti?".

La bimba osservò l'uomo e poi le si illuminò il viso in uno splendido sorriso. "Nonno Martin!" - esclamò, correndo incontro all'uomo che, evidentemente abituato, la prese al volo fra le braccia.

Ross sentì una strana fitta al cuore, quando la piccola si allontanò da lui. Non ne capì il motivo, non era che una bimbetta come tante, eppure l'idea di separarsene lo intristiva. Ma nonostante tutto era giusto così, era arrivato suo nonno e lei si era dimenticata subito di lui e dei draghi, attirata dal calore della sua famiglia.

"Clowance!" - esclamò l'uomo, baciandola sulla guancia. Poi si rivolse a lui, chinando il capo. "Vi ringrazio per esservene preso cura".

"Di nulla".

Caroline diede un bacio alla bimba. "E ora, dove vai?".

Nonno Martin la mise a terra, prendendola per mano. "Prima di andare a casa, andiamo a comprare le carote e poi andiamo al parco a dare da mangiare ai pony, vero?".

Clowance annuì. "Vero!".

L'uomo sorrise alla piccola. "Saluta Clowance! E ringrazia quel signore per aver giocato con te".

Clowance si voltò verso di lui poi, staccando la sua mano da quella del nonno, gli corse incontro, gli saltò fra le braccia e gli diede un bacio sulla guancia. "Glassie signore" – sussurrò. Poi si rialzò in piedi e, dopo un goffo tentativo di inchino, corse da suo nonno, lo riprese per mano e scomparve con lui dietro la porta.

Caroline li osservò uscire e poi, finalmente, tornò a rivolgergli le sue attenzioni. "Carina, vero?".

Ancora stordito da quel bacio, Ross annuì. "Molto! E con un gran bel caratterino". Era strano, Clowance era riuscita a scalfire, per un breve attimo, il ghiaccio che si sentiva addosso dal giorno in cui aveva perso la sua famiglia. Forse era il candore infantile, la sua allegria, la sua testardaggine o quanto fosse buffa nei modi di fare ma, qualunque cosa fosse, lo aveva fatto star bene. Era da tanto che qualcuno non gli rivolgeva un gesto di affetto spontaneo e sincero come quel bacio e attraverso Clowance, ancora di più, si rese conto di quanto aveva perso. Anche lui aveva un figlio, altrettanto simpatico e bello, che avrebbe potuto donargli le stesse emozioni di Clowance, se lui fosse stato meno idiota e superficiale e se non avesse fatto tanto male alla donna che amava, fino a spingerla ad andarsene per sempre.

"Somiglia a sua madre" – disse Caroline, vaga.

A quelle parole si trovò a pensare, stupidamente, a quanto fosse fortunato l'uomo che aveva accanto una donna e una figlia così belle, riflettendo sul fatto che probabilmente quell'uomo non sarebbe mai stato idiota quanto lui e non avrebbe mai permesso a niente e a nessuno di rovinare la sua famiglia. "Bene, se non ci sono altri bambini da curare, io me ne andrei. E' ormai tardi".

Caroline ridacchiò. "No, i bambini sono finiti, per oggi! Ci vediamo settimana prossima, torno in Cornovaglia per passare alcuni giorni con Dwight".

Ross si rimise il cappello in testa. "E allora, a presto".

"A presto".

Uscì dalla casa di Caroline e si rimise subito sulla carrozza. Due ore dopo era già in piena campagna inglese, circondato dal silenzio dei pascoli.

Si mise una mano in tasca per cercare un fazzoletto, quando si accorse che aveva ancora con se il nastrino di Clowance. "Accidenti, mi sono dimenticato di darlo a Caroline!".

Lo prese fra le mani, accarezzandolo, mentre il visino della bimba gli tornava in mente. Sorrise, ricordandola, realizzando che l'avrebbe rivista al matrimonio, visto che Dwight lo voleva come testimone. Chissà se si sarebbe ricordata di lui?

Il pensiero di Clowance, lo riportò ai suoi figli. Avrebbe pagato oro per riavere Jeremy, per essere un padre migliore per lui. Quando lo aveva visto l'ultima volta, aveva pressapoco l'età di Clowance e ora probabilmente nemmeno si ricordava più il suo volto...

E infine pensò a Julia, la sua piccola, stupenda Julia. L'aveva amata più della sua stessa vita, la sua morte lo aveva annientato e forse non l'avrebbe mai davvero superata del tutto. Era la paura di affezionarsi e di soffrire ancora che l'aveva allontanato da Jeremy e da Demelza, pian piano, era quel mondo perfetto e creduto indistruttibile e rivelatosi poi fragile che l'aveva fatto impazzire e lo aveva spinto a cercare nuovamente un amore idealizzato, perfetto e senza sbavature e problemi, senza rendersi conto che la perfezione era dovuta solo al fatto che era una fantasia. Il vero amore, quello reale, era quello con Demelza, quello che affrontava gioie e dolori, le tempeste della vita vera, trovando in sua moglie un porto sicuro, un rifugio dove rintanarsi e trovare affetto e sostegno quando tutto attorno a lui crollava. Aveva perso tutto, la gioia di amare, di essere uomo, marito e padre a causa di un sogno infantile, a causa della sua arroganza e di tutti gli errori fatti. Strinse a se il nastrino di Clowance, alzando gli occhi al soffitto della carrozza, cercando di scorgere il cielo oltre ad esso. "Julia, ti ho delusa, vero? Ho trattato male la mamma e tuo fratello e ora se ne sono andati... Sai, oggi ho conosciuto una bimba che mi ricordava tanto te... Era da tanto che non stavo con una bambina, da quando c'eri tu... Mi manchi, mi manca la mamma e mi manca tuo fratello, vorrei poter tornare indietro, darei via tutto quello che ho per riavervi. Ma non posso, non si puo'. Perdonami per non essere riuscito a salvarti e non essere stato capace di evitare alla tua mamma tanto dolore".

Abbassò lo sguardo, rilasciando la presa sul nastrino che si appoggiò contro la sua gamba. E decise. Sapeva che Demelza, prima di partire, aveva chiesto a Prudie di prendersi cura della tomba di Julia. Beh, da quel giorno lo avrebbe fatto lui, era suo padre dopo tutto e prendersi cura di quella tomba era l'unica cosa che, ormai, potesse fare per ciò che rimaneva della sua famiglia. Erano anni che non andava al cimitero, vedere la tomba di sua figlia lo annientava ancora ma se era davvero un uomo, se voleva ancora sentirsi un padre degno di questo nome, doveva sforzarsi e farlo.

Il ricordo di Julia era tutto quello che gli rimaneva...


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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


"Ti propongo un patto, Dwight!".

"Quale patto?".

Caroline si strinse nel suo mantello di lana, mentre il freddo vento autunnale della Cornovaglia le spettinava i lunghi capelli biondi. "In estate si vive quì, ma in inverno si torna a Londra. Questa regione ha un clima e un vento impossibili da sopportare".

Dwight scoppiò a ridere, cingendole le spalle e attirandola a se. "Ah, quando ci si abitua, questo vento non è poi così male. La Cornovaglia ha un clima splendido e un'aria tersa e pulita. Londra è nebbiosa ed umida, invece".

"Ma non c'è tutto questo vento. E pure Londra ha avuto un clima splendido, questa estate. Una vera favola, né troppo caldo, né troppo freddo. E quasi quattro mesi senza la minima traccia di nebbia".

"Aspetta a parlare, ora siamo in autunno e a breve non vedrete a un palmo dal naso, nella capitale!".

Caroline sbuffò, lasciandosi prendere per mano. Stavano facendo una passeggiata sulla scogliera, discutendo del più e del meno mentre si gustavano il paesaggio che, doveva ammetterlo, era davvero suggestivo.

Era una giornata serena, tersa e piuttosto fredda e pareva che l'inverno fosse deciso ad accelerare i tempi e a presentarsi prima del previsto, in Cornovaglia. Era arrivata due settimane prima per passare un po' di tempo con Dwight e la temperatura era scesa irrimediabilmente, giorno dopo giorno, tanto che era stata costretta a comparsi abiti invernali per non congelare.

"Passiamo alla miniera, a salutare Ross? Siamo a due passi dalla Wheal Grace" – propose Dwight.

Caroline annuì. "Ci offriranno qualcosa di caldo da bere?".

"Alla miniera? Dubito!" - rispose lui, ridendo. La strinse a se e proseguirono per il sentiero che portava alla Wheal Grace, sferzati dal vento.

Caroline osservò quel via vai di uomini sporchi di fango e polvere che andavano e venivano dalle grotte, chiedendosi come fosse possibile vivere un'intera esistenza così. Non ci era abituata e dubitava che avrebbe mai potuto riuscirci. Attraverso Dwight aveva scoperto un mondo vicino e allo stesso tempo lontano dal suo, sfarzoso e comodo, composto da tante persone senza certezze, senza denaro, che si spaccavano la schiena per paghe misere. All'inizio aveva guardato quasi sprezzante quelle persone ma, giorno dopo giorno, grazie all'amore del suo uomo che si prodigava per loro, aveva scoperto esseri umani con tanti sogni, come tutti, aspirazioni e tanta voglia di lavorare sodo per amore della loro famiglia. Li rispettava, ora. Non ne capiva la fatica e la condizione umana fino in fondo ma in un certo senso quelle persone erano entrate a far parte di lei e della vita che avrebbe vissuto dopo il matrimonio con Dwight.

In lontananza scorse Ross che, in maniche di camicia, aiutava a portar fuori dalla miniera un carrello pieno di rocce. "Santo cielo, congelerà!" - esclamò, stringendosi ancora di più nel suo mantello.

Dwight scosse la testa, mascherando un sorriso. "Starà bene, ci è abituato. Scommetterei che ha addirittura caldo, a furia di correre come una trottola".

"Io non capisco perché lo fa! Insomma, ci sono i suoi operai che lavorano, lui potrebbe starsene a casa al caldo a contare i profitti, senza muovere un muscolo. Ora la miniera va che è una meraviglia, chi glielo fa fare di stare quì a spaccarsi la schiena, al freddo? Non ha bisogno di lavorare". Non lo capiva, era come Demelza che, come lui, continuava a lavorare alla locanda benché fosse ricca e potesse benissimo farne a meno e stare a casa a fare la signora. Erano davvero tanto simili, quei due...

Dwight la osservò, con una serietà che raramente gli aveva visto vestire. "Lo fa per non pensare. Rimanere a casa sua è un tormento per lui... Ti sarai accorta, o forse te lo ha raccontato, che le cose per lui, in famiglia, non sono propriamente idilliache".

Caroline abbassò lo sguardo. Ahia, il discorso si stava dirigendo su un terreno minato. E ora? Si sentiva in colpa, stava mentendo a Ross, a Demelza e soprattutto a Dwight e questa era la cosa che le pesava di più, ma si sentiva in un vicolo cieco e prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel problema in cui si era ritrovata, suo malgrado. "Non mi ha detto niente ma è abbastanza palese. Sua moglie non vive più quì".

"Se n'è andata due anni e mezzo fa, insieme al figlio. Da allora, lui non ne sa più nulla".

Caroline osservò Ross che, dopo averli visti in lontananza, si stava avvicinando. "Erano innamorati, peccato... Ma lui, te lo avevo detto, dava troppe cose per scontate e sembrava non la vedesse nemmeno".

"Già". Dwight le strinse la mano, facendole capire di stare in silenzio, appena in tempo prima che Ross li raggiungesse.

"Dwight, miss Penvenen, che piacere. Sto cominciando a pensare che voi, signorina, cominciate ad apprezzare il nostro clima" – disse Ross, ridendo.

Caroline lo fulminò con lo sguardo. "Preferirei una seduta dal medico, coperta di sanguisughe, al vostro dannato vento".

Ross e Dwight si guardarono negli occhi, ridendo.

"Sei sicuro di volerla sposare?".

"Ah, sì. L'adoro, anche quando borbotta".

Ross le strizzò l'occhio. "Allora è vero amore! Bravi".

Caroline sbuffò. "Invece di fare lo spiritoso, mi raccomando, preparatevi a dovere per il vostro ruolo di testimone".

"E a cosa dovrei prepararmi? Devo solo fare una firma e vi assicuro che so scrivere. Quella che potrebbe avere problemi siete voi, con la vostra mini-damigella".

Caroline sorrise. Ross si ricordava ancora di Clowance, benché fossero passati più di due mesi dal loro incontro. "La mia piccola damigella sarà istruita a dovere e sarà bravissima".

Ross la guardò di rimando, con aria di sfida. "La vostra mini-damigella ha una notevole testa dura, un linguaggio ancora limitato ma sa dire benissimo la parola 'no'. E se quel giorno si sveglierà col piede sbagliato e deciderà di non fare nulla, dubito troverete argomentazioni che le faranno cambiare idea".

Dwight, che non ci stava capendo nulla, la fissò un po' smarrito. "Abbiamo una damigella?".

"Sì, la figlia di una amica, ci porterà gli anelli. Vedrai, è un amore, una meraviglia di bambina".

"Di un anno e mezzo. L'ho conosciuta questa estate, quando sono stato a Londra per saldare il mio debito con la tua cara fidanzata" – precisò Ross.

Dwight spalancò gli occhi. "Avremo una damigella di un anno e mezzo?".

"Ne compirà due a novembre, fra poco più di un mese. E per il nostro matrimonio ne avrà quasi due e mezzo. Sta tranquillo, sarà perfetta".

Dwight sospirò. "Santo cielo...".

Caroline guardò i due, ridacchiando. Odiava mentire ma ancor più odiava che qualcuno contrastasse le sue idee e la ritenesse una sprovveduta. "Non commetterei mai un azzardo per il mio matrimonio, che credete? Ho il mio asso nella manica, nel caso Clowance faccia i capricci!".

"Che sarebbe?" - chiese Ross, scettico.

"Il suo fratellino".

Ross e Dwight spalancarono gli occhi. "Vuoi far fare a un maschio la damigella?".

"No!". Santo cielo, quei due erano esasperanti. "Voglio dire che Clowance ha una venerazione per suo fratello e fa tutto quello che lui gli chiede. Lei lo adora e lo segue ovunque, se quel giorno si mette male, mettiamo lui lì a convincerla".

Ross sospirò, tornando a volgersi verso la miniera. "State affidando le sorti del vostro matrimonio a due bambini. Auguri". Diede una pacca sulle spalle a Dwight, salutò Caroline e si allontanò con un'aria davvero divertita. "Ho molto da fare, ci vediamo presto" – disse, tornando al suo lavoro.

Dwight lo osservò andare via, pensieroso. "Era da tanto che non lo vedevo così di buon umore".

Caroline si morse il labbro, decisa ad indagare circa i sentimenti del bel capitano Poldark verso Demelza. E se c'era qualcuno che poteva fugare i suoi dubbi, quello era di certo Dwight. "Come mai? Soffre per sua moglie? Non mi sembrava averne così tanta cura, quando li ho conosciuti".

Dwight, prendendola sotto braccio, la condusse nuovamente sul sentiero che portava a casa sua. "Ross ha commesso mille errori, molto gravi anche. Ha trascurato la sua famiglia, è stato completamente assente per suo figlio e ha tradito Demelza, correndo fra le braccia di Elizabeth".

"E allora, direi che lei ha fatto bene ad andarsene" – sbottò Caroline.

"Ah, dal punto di vista di Demelza sì, perché lei ha davvero sofferto molto a causa di Ross. Ma lui...". Dwight scosse la testa. "Ross ha sempre amato sua moglie, il suo problema era che la dava per scontata. E' perso senza di lei, non ha più nulla per cui lottare e vivere, non ha una meta, uno scopo e vive divorato dai rimorsi e dai sensi di colpa per quanto ha fatto, per averla fatta soffrire, per averla tradita, per essere stato un pessimo padre e per non avere più accanto la sua famiglia. Li conosce i suoi errori, uno ad uno, ha saputo ammetterli e fare ammenda, ha fatto chiarezza nel suo cuore, ha definitivamente archiviato quell'amore giovanile idealizzato e ha capito l'immenso amore e valore che aveva Demelza per lui. Lo so, non dovrebbe essere così ma spesso ci si accorge di quanto valga ciò che abbiamo accanto, quando lo abbiamo perso. Non si darà mai pace, senza di lei. Per questo è partito per la guerra, per non pensare, per non affrontare quella vita vuota senza di lei e senza il suo bambino. La verità è che lui e Demelza erano anime gemelle, fatti per stare assieme e io sono sicuro, voglio sperare almeno, che anche lei pensi a lui ogni tanto e che non lo odi".

Giunsero davanti alla porta di casa e mentre Dwight apriva la porta, Caroline abbassò lo sguardo. Cosa doveva fare, cosa doveva dire? Accidenti, doveva essere sincera, dividere quel peso con qualcuno e le parole di Dwight le avevano dato la prova certa di qualcosa che forse sapeva già. Ross amava sua moglie, per quanto Demelza fosse convinta del contrario. Lo aveva capito dal loro incontro la primavera prima, quando per la prima volta Ross era andato a casa sua per saldare il suo debito e aveva scorto nei suoi occhi un velo di tristezza che non scompariva mai, nemmeno quando rideva. E ancor più se n'era accorta due mesi prima, davanti al suo sguardo pieno di nostalgia e rimpianti quando aveva dovuto salutare la piccola Clowance. "Dwight, devo dirti una cosa" – disse, tutto d'un fiato.

Dwight annuì, chiudendo la porta dietro di loro, dirigendosi verso il camino per accendere il fuoco. "Dimmi tesoro".

"Sono una pessima persona".

Il dottore spalancò gli occhi, alzandosi in piedi ed avvicinandosi a lei. "Amore mio, cosa stai dicendo? Non è vero".

Caroline deglutì, cercando le parole giuste per iniziare, non sapendo bene cosa aspettarsi da Dwight. "Ti ho mentito su una cosa... O meglio, l'ho omessa...".

"Di cosa parli?".

Caroline gli indicò una sedia. "Siediti, è meglio! E' una storia lunga e magari ti potrebbe venire da svenire".

Dwight, peoccupato, fece quanto gli aveva chiesto, sedendosi ed aspettando che lei facesse altrettanto.

Caroline si mise accanto a lui, poggiando i gomiti sul tavolo e mettendosi le mani nei capelli. "Io... che Ross e Demelza non stavano più insieme, i motivi della loro separazione... ecco, li sapevo già prima che me li dicessi tu".

"Te lo ha raccontato Ross?".

Caroline scosse la testa.

"Lo hai capito da sola?".

Ancora, Caroline scosse la testa.

Dwight si accigliò. "E allora, come hai...?".

Con un sospiro si tirò su, mettendosi più composta sulla sedia. "Me lo ha detto Demelza".

"Demelza?". Lo sguardo di Dwight divenne di puro stupore e terrore. "Cosa?".

"Hai capito benissimo. Io so dove vive, cosa fa, conosco Jeremy e lei è la mia migliore amica. Lo so da tanto, lo so da quando ha lasciato la Cornovaglia e per caso ci siamo incontrate a Londra, dove vive".

"Stai scherzando?".

Scosse la testa, non riuscendo a guardarlo in faccia. "Non era mia intenzione mentirti, quando ho incontrato Demelza, quasi due anni e mezzo fa, noi due ci eravamo lasciati, io non credevo che avrei rimesso piede qui e nemmeno sospettavo che avrei avuto a che fare ancora con Ross Poldark. Demelza e io ci siamo incontrate per caso, lei aveva lasciato Nampara da pochi giorni ed era arrivata a Londra col cane e col bambino, senza sapere dove sbattere la testa e da dove ricominciare. L'ho aiutata, una specie di solidarietà fra donne, verso una persona che avevo conosciuto solo sommariamente ma che mi era piaciuta tanto. Siamo diventate amiche, ci siamo frequentate e l'ho aiutata ad avviare un'attività a Londra che le ha permesso di mantenersi e di stare economicamente tranquilla. Quando Ross è ricomparso nella mia vita, la primavera scorsa, quando ho accettato di venire qui da te per parlare e per ricominciare, sapevo che questa cosa avrebbe creato problemi ma non riuscivo a trovare il modo di affrontarla e di parlare con te per di risolverla".

"Santo cielo...". Dwight si mise le mani nei capelli. "Ross la sa questa cosa?".

"No, non tradirei mai la fiducia di Demelza! Nemmeno lei sa che io e te siamo tornati insieme, sa che mi sono fidanzata e le ho detto che avrebbe scoperto il nome del mio futuro sposo il giorno del matrimonio. A dirla tutta, credo che pensi che mi sposo con qualche grosso azionista londinese".

Dwight la guardò, pallido in viso. "Quindi, Demelza verrà al nostro matrimonio così, alla cieca, senza sapere cosa l'aspetta e chi incontrerà?".

"Sì".

Con un lungo sospiro, Dwight si accasciò sulla sedia. "Per fortuna mi hai detto di sedermi...".

"Te lo dicevo che potevi svenire...".

"Già". Dwight gli lanciò un'occhiataccia. "Come sta Demelza?".

"Bene". Caroline si appoggiò nuovamente al tavolo coi gomiti, prendendo fra le mani una ciocca di capelli. Gli raccontò di come si erano incontrate, di come avessero avviato insieme la locanda e di come Demelza poi, dopo aver incontrato i Devrille, fosse diventata una vera lady della finanza, di quanto fosse diventata ricca, del suo ruolo all'interno della Warleggan Bank e di come ormai fosse una delle donne economicamente più potenti e ammirate di Londra.

Alla fine del racconto, Dwight aveva la bocca spalancata. "Demelza? La nostra Demelza? Quella che lavorava come una pazza a Nampara, che veniva a trovare Ross alla miniera e che non desiderava altro che essere una buona moglie e madre? E' incredibile immaginarla nelle vesti di una nobildonna della capitale".

"Ha fiuto per gli affari ed è una donna in gamba, intelligente e risoluta, oltre che molto bella. E anche parecchio testarda perché, come suo marito, benché ne possa fare volentieri a meno, continua a lavorare pure alla locanda. E' incredibile come sia rimasta la stessa semplice persona che ho incontrato a Londra quel giorno. E' amorevole, gentile, una donna d'affari ma allo stesso tempo una madre meravigliosa e incredibilmente dolce".

Dwight sorrise. "Non me ne stupisco, Demelza è così e non cambierà mai. Sono contento che stia bene e che si sia rifatta una vita ma mi spiace per Ross... Lei merita quel che ha ora ma... lo amava così tanto e ora di ciò che erano, non è rimasto più niente. Hanno raggiunto la ricchezza e perso l'amore che li univa".

Caroline scosse la testa. "Lei lo ama ancora, sai? Non lo dice apertamente ma è così, per quanto lui l'abbia fatta soffrire, non riesce a lasciarselo indietro del tutto. Potrebbe avere qualsiasi uomo desideri, a Londra c'è la fila che spasima per averla ma per lei esiste solo Ross".

"E allora perché non è tornata?" - sbottò Dwight.

Caroline gli strinse la mano. "Perché lei è convinta di essere sempre stata un peso per Ross, che lui non vedesse l'ora di liberarsi di lei e del bambino e di essere stata la seconda scelta che andava bene finché Elizabeth non è tornata libera. Per tanto ha pensato che lui si fosse rifatto una vita con il suo primo amore e solo per caso ha scoperto che lei aveva sposato George Warleggan e che Ross era partito per la guerra per il dolore di averla persa".

"Pensava che Ross fosse partito per Elizabeth? Ma non è vero, Ross è partito per lei, non sopportava di vivere a Nampara senza la sua famiglia. Santo cielo, Ross non ha mai pensato che lei fosse un peso, come puo' aver creduto a una cosa simile?".

Caroline lo guardò storto. "Beh, chiedilo al tuo amico. Da quello che mi ha raccontato lei, avrei pensato la stessa cosa al suo posto. Lui è stato davvero pessimo e per tanto si è comportato con arroganza, superficialità, trattandola come un oggetto invisibile ed interessandosi solo del benessere di Elizabeth e di suo figlio. Non gli importava di lei, del dolore che le arrecava, gli importava solo di se stesso. E anche con Jeremy... Demelza mi ha raccontato che non lo ha mai voluto, che non se ne è mai curato, che era con Elizabeth e Geoffrey che voleva avere una famiglia. Come poteva tornare?".

Dwight sospirò, stringedole la mano di rimando. "Ross ha commesso molti errori e si odia per averla fatta soffrire. La ama da morire, posso assicurartelo. Darebbe la sua vita, tutto quello che ha per riabbracciarla e per ritrovare il suo bambino. Sa di essere stato un marito e un padre pessimo ma ogni suo pensiero ormai è per lei e per Jeremy. Non per Elizabeth, non è lei che ama. E non è lei che avrebbe potuto renderlo felice e farlo sentire completo come si è sentito con Demelza".

"Ne sei sicuro?".

"Certo, ci metterei la mano sul fuoco".

"E allora dobbiamo aiutarli".

Dwight si grattò la guancia, pensieroso. "Come? Caroline, amore mio, farli incontrare al nostro matrimonio, senza dirgli nulla, è una pessima idea. Toglitelo dalla testa!".

Caroline, indispettita, gli strattonò il braccio. "Hanno aiutato noi e si amano ancora da morire. Hanno bisogno l'uno dell'altra per essere davvero felici e ora tocca a noi fare qualcosa per loro".

"Sono d'accordo! Ma cosa?".

Caroline picchiettò le dita sul tavolo, pensierosa. "Prima di pensare al da farsi, c'è un altro grande problema di cui dobbiamo parlare".

"Santo cielo! Che altro c'è ancora?". Era esasperato, pareva davvero terrorizzato ormai.

"C'è il problema della mia damigella".

Dwight la guardò storto, asciugandosi il sudore dal viso. "La tua damigella di un anno e mezzo?".

"Quasi due...".

"Tesoro, è l'ultimo dei nostri problemi. Se farà i capricci e non vorrà portarci gli anelli, ce li porteremo noi".

Caroline sbuffò. "No, non è l'ultimo dei nostri problemi, è il primo dei problemi!".

"Perché?".

"Perché Clowance, la mia piccola damigella, è figlia di Demelza".

A questo punto, Dwight sbiancò talmente tanto che parve davvero sul punto di svenire. "Di Demelza? La bambina di un anno e mezzo? Quella di cui parlava poco fa Ross?".

"Sì". Gli si avvicinò, cercando di spiegarsi prima che il suo fidanzato desse in escandescenze. "Quando Ross è venuto la scorsa estate, non si era fatto annunciare e mi è capitato a casa di sorpresa, un giorno in cui la piccola era da me. Giuro, non ho programmato di farli incontrare ma la bambina era lì, ci è piombata nel salotto e ho dovuto far buon viso a cattivo gioco, dicendo a Ross che era la figlia di una amica e che sarebbe stata la mia damigella".

Dwight la guardò. Sembrava stravolto, come se avesse lavorato per venti ore di seguito in miniera. "Hai detto che la bimba farà due anni a novembre? E' figlia di...".

Caroline annuì. "Di Ross. Quando Demelza se n'è andata, era incinta da pochissimo, nemmeno lo sapeva. Lo ha scoperto a Londra. Clowance è nata nella capitale in un giorno di neve e io sono la sua madrina".

A quel punto, Dwight si accasciò col viso sul tavolo. "Ross ne morirà, quando saprà questa cosa. Quando scoprirà che quella notte in cui è stato con Elizabeth lei aspettava già sua figlia, quando realizzerà che a causa dei suoi errori Demelza ha dovuto affrontare tutto da sola, sarà divorato dai rimorsi e dai sensi di colpa, molto più di quanto già non faccia ora".

"Ma... Demelza mi ha detto che non voleva altri figli, magari davvero non gli importa".

Dwight scosse la testa. "Ross amava da impazzire la loro prima figlia, Julia. Ha affrontato la sua morte da solo, tenendola fra le braccia, vedendola spirare davanti ai suoi occhi. E da solo ha portato quella piccola bara sulle spalle... Non l'ha mai superata del tutto quella perdita perché amava la sua bambina ed è stata la paura di soffrire ancora che lo ha fatto reagire tanto freddamente alla nascita di Jeremy. Ma ama i suoi figli, TUTTI i suoi figli. E se sapesse che al mondo esiste una figlia di cui ignora l'esistenza, una bimba come quella che ha perso, sarebbe l'uomo più felice della terra". La guardò, assorto. "Quindi lui non sa che quella bimba è sua?".

"No. E nemmeno Demelza sa del loro incontro. Come ti ho detto, è stato tutto casuale ma poi... ho forzato un po' le cose e con una scusa, ho lasciato da solo Ross con la bambina per una mezz'oretta".

Dwight spalancò gli occhi. "Caroline, tu mi fai paura!".

"E' andata bene, si sono divertiti come pazzi, sta tranquillo. Clowance è meravigliosa, somiglia tanto a Demelza e Ross... credo ne sia rimasto conquistato. Forse il suo istinto paterno ha riconosciuto quella bimba come sua figlia, anche se, consciamente, non poteva capirlo".

"Che si fa? Diciamo la verità ad entrambi?".

Caroline scosse la testa. "No, Demelza non verrebbe al matrimonio e si chiuderebbe a riccio, è testarda come un mulo quando si impunta. Ma hai ragione, non possiamo aspettare il giorno delle nozze, devono vedersi prima". Ci pensò su e poi, all'improvviso, sorrise. "E se fosse una cosa casuale? Sì, intendo di una casualità un po' guidata...".

"Che hai in mente?".

Caroline si alzò dalla sedia e gli si avvicinò, cingendogli le spalle. "La Wheal Grace è ora fonte di ottimi guadagni e se un anonimo azionista proponesse a Ross un incontro nella locanda di Demelza per discutere di affari...".

"Cioè?".

"Pensaci, ne usciremmo puliti così e non tradiremmo la loro amicizia! Quando torno a Londra, faccio scrivere una lettera per Ross dal mio maggiordomo personale, persona estremamente fidata e silenziosa e dall'ottima calligrafia che il caro capitano Poldark non potrebbe riconoscere. Fingerà di essere un azionista interessato e gli scriverà una lettera per proporgli l'acquisto di quote azionare della miniera, dichiarando di preferire rimanere nell'anonimato fino al loro incontro. Gli darà appuntamento nella locanda di Demelza e il gioco è fatto. Si troveranno casualmente faccia a faccia e poi...".

"Dipenderà da loro". Dwight sorrise, accarezzandole i capelli e baciandola sulle labbra. "E' un'ottima idea e tu sei davvero intrigante e un'ottima stratega".

"Lo prenderò come un complimento! Però...". Caroline fece alcuni passi pensierosa, all'interno della stanza. "C'è un problema. Demelza ora è piuttosto impegnata e sarà spesso fuori Londra per degli incontri d'affari e rischiamo di dare a Ross un'appuntamento in un giorno in cui lei non c'è".

"E quindi, che si fa?".

"Mi ha detto che rallenterà col lavoro per il compleanno di Clowance e che da lì in poi, almeno fin dopo Natale, non si muoverà più da Londra. E che passerà la prima parte di dicembre alla locanda per chiudere la contabilità annuale".

Dwight sorrise. "Quindi... spediamo Ross a Londra per inizio dicembre?".

Caroline sorrise, furba. "Certo, socio!". Gli prese la mano, stringendola in segno di fiducia e d'amore, uniti da quel tacito accordo che doveva rimanere segreto al mondo.





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Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


"E' solo una slogatura".

Ross osservò di sottecchi Prudie che aveva trovato l'ennesima scusa per non lavorare e si voltò verso Dwight che, concentrato sul suo lavoro, le stava fasciando il polso. "Ma una slogatura che non le permetterà di lavorare, o una slogatura leggera e che non da grandi problemi a svolgere le normali attività di casa?".

Dwight sospirò. "Niente di grave, potrà cucinare e fare lavori leggeri, pur con moderazione".

Prudie divenne rossa di rabbia. "Che ne sapete voi dell'immenso dolore che sto provando? Il braccio mi fa talmente male che me lo farei staccare a morsi da un cane, per quanto soffro".

"Il problema non era solo al polso?" - chiese Ross, accigliato.

"Prende tutto, signore, fino alla spalla. Voi non capite nulla del dolore di questa povera serva".

Dwight e Ross si guardarono negli occhi, cercando di non scoppiare a ridere. Il dottore finì di fasciare il polso e poi, dopo un breve massaggio al braccio, la congedò. "Per oggi tenete il braccio a riposo e da domani ricominciate ad usarlo con calma".

Prudie fissò Ross in cagnesco. "Calma... Bella parola, con questo qua come padrone" – borbottò, scomparendo dietro la porta trascinando i piedi.

Dwight ridacchiò. "Sei messo bene a servitù, vedo".

"Sono soli in casa tutto il giorno e si prendono un sacco di libertà. E non sono mai dalla mia parte anche se, devo ammetterlo, la casa è in condizioni discrete, rispetto a un tempo".

Dwight si sedette sulla sedia, stiracchiandosi. "Di che ti lamenti? Almeno tu hai chi ti aiuta, io sono da solo e devo fare tutto".

"Presto sarai sposato con Caroline e vi trasferirete nella casa di suo zio e vivrete fra qui e Londra, facendo la spola verso l'altra lussuosa residenza della tua futura moglie. Avrai talmente tanti servitori da non ricordarti nemmeno i loro nomi".

Dwight arrossì. "Chissà se mi abituerò".

"Ci riuscirai. Caroline è tornata a Londra?".

"Sì, da dieci giorni. Ha un sacco di faccende da sbrigare laggiù e non puo' passare tutto il tempo a fare la turista in Cornovaglia". Alzò lo sguardo su di lui, accigliato. "A proposito, hai qualche buon consiglio da darmi per il matrimonio?".

Ross spalancò gli occhi. "Chiedi consigli a me?". Scoppiò a ridere, picchiandogli sulla spalla con la mano. "Caro mio, io sono proprio l'ultimo a poterti dare consigli in questo campo, visto com'è andato a finire il mio di matrimonio".

"Avanti, non buttarti giù così! Demelza ti amava tantissimo e questo significava pur qualcosa! Insomma, non dovevi essere così male, come marito".

Ross, soprapensiero, si avvicinò a un cesto di frutta posto sul tavolo, prendendo fra le mani una mela e tirandola all'amico. "Vuoi un consiglio per il tuo matrimonio? Fai l'esatto opposto di quello che ho fatto io, sarai un marito perfetto e renderai tua moglie una donna felice".

Dwight fece per rispondere quando la voce lamentosa di Jud arrivò alle loro spalle, interrompendo i loro discorsi.

"E' arrivato un messo da Londra con una lettera per voi" – disse il servo, poggiando la busta sul tavolo.

Ross si accigliò. Una lettera da Londra? "Chi me la manda?".

Jud sbuffò, scocciato. "Ora a un servo si chiede anche di rendere conto della posta privata del proprio padrone... Roba da matti, come se non bastasse il lavoro da somaro che già si ha sulle spalle! Tutto questo è profondamente ingiusto, disumano e sconveniente" – si lamentò, allontanandosi dalla sala senza rispondere alla domanda che gli era stata posta.

Dwight scoppiò a ridere. "Ma che hanno oggi i tuoi servi?".

Ross, prendendo fra le mani la lettera, scosse la testa. "Oggi? Sono sempre così". Aprì la busta con fare annoiato e disattento, leggendo sommariamente quanto vi era scritto.

"E allora? Qualcosa di importante?" - chiese Dwight, stranamente curioso.

Ross alzò le spalle. "Niente di che, un azionista che vorrebbe comprare qualche quota della Wheal Grace".

Dwight sorrise. "Oh, ottime notizie allora, incrementerai i tuoi creditori! Chi è? Londra è piena di ricchissimi uomini d'affari, la fortuna sta davvero girando nella tua direzione, Ross".

"Non si firma con nessun nome" – rispose, facendo cadere la busta sul tavolo. "Dice che vuole rimanere anonimo fino al nostro incontro, per questioni di privacy. Mi ha fissato un appuntamento a Londra, in una locanda a Regent Street nella mattinata del 3 dicembre. Nemmeno so dove diavolo sia, Regent Steet".

"In centro, Ross. E' una delle vie commerciali principali di Londra, la finanza della capitale passa tutta da lì. Ci andrai?".

"Non lo so, le lettere anonime non mi sono mai piaciute".

Dwight alzò le spalle. "Dai, che ti importa? Li conosci questi ricconi, sono pieni di concorrenza e preferiscono concludere affari in anonimato prima che qualcun altro glieli sottragga da sotto il naso. Fa parte del gioco, non fare il difficile. E questo potrebbe essere un buon affare anche per te che si tradurrebbe in migliori condizioni di lavoro per i tuoi minatori. Pensaci, è una buona notizia che qualcuno voglia investire sulla tua miniera".

Ross si sedette sulla sedia, stiracchiandosi. "Ah, non lo so! Non ho la minima voglia di andare a Londra in pieno inverno. Sarà umidissima e con un nebbione che non si vedrà a un palmo dal naso".

Dwight scoppiò a ridere, a quelle parole. "Santo cielo, in questo momento sei identico a Caroline quando si lamenta per il vento della Cornovaglia!".

Divertito, anche Ross rise. "Finiscila! Dici che devo accettare?".

"Io accetterei. Quanto meno, andrei a vedere di che si tratta e poi deciderei il da farsi".

Ross si accasciò sulla sedia, osservando distrattamente il soffitto. "Resta il fatto che Londra, sotto Natale, con questo freddo...".

"Avanti, non vorrai rinunciare ad un affare per un po' di neve e nebbia! Ross non è da te, che ne è del tuo spirito d'avventura che sfoderavi brillantemente in guerra l'anno scorso?".

Con un sospiro, Ross annuì. "Hai ragione ma...".

Dwight divenne serio, prendendo a guardarlo intensamente negli occhi. "Se Demelza fosse qui, che ti consiglierebbe?".

Rimase colpito da quella domanda, era da così tanto tempo che lei non c'era e gli dava consigli e ormai aveva imparato, per non cedere alla disperazione, a relegare il ricordo di sua moglie in un angolo nascosto della mente, il più lontano possibile dal suo cuore. Sorrise, tristemente. "Mi consiglierebbe di andare, per i miei minatori".

Dwight sospirò, alzandosi dalla sedia e mettendosi il cappello. "Ecco, la risposta te la sei data da solo. Prepara la valigia e parti, ci si rivede nella capitale. A inizio dicembre, non so ancora il giorno preciso, partirò anch'io per Londra, per passare un mese con Caroline e festeggiare insieme il Natale. Ci divertiremo, è una città che offre molte attrattive".

Ross rise. "Tu e la vita mondana londinese siete due pianeti lontani? Non sei tipo da feste e locali notturni".

Anche Dwight rise. "Ma tu si! E pure Caroline... Mi trascinerete in qualche birreria alla moda e mi costringerete ad ubriacarmi fino a farmi vomitare anche le budella, già lo so".

"Dovrei fare da terzo incomodo?" - chiese, divertito.

Dwight gli strizzò l'occhio. "A piccole dosi, ogni tanto, ti vogliamo con noi. E' grazie a te che siamo tornati insieme e siamo tanto felici e questo non lo dimenticheremo mai, Ross. E inoltre abbiamo il matrimonio da organizzare, ci serve il tuo aiuto".

"Cioè, volete farmi lavorare?".

"Preferisco pensare che ci divertiremo come pazzi!".

"Perché no, in fondo l'idea è allettante, mi hai convinto". Ross gli si avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla. "E sia, passiamo un po' di giorni nella capitale, a divertirci come ventenni".

"E a concludere affari" – puntualizzò Dwight.

"Speriamo" – rispose Ross, con una punta di scetticismo.


...


Nebbia, gelo ed umidità... Eccola la splendida Londra di inizio dicembre, un incubo!

Quell'anno non era ancora nevicato ma una coltre di freddo avvolgeva la città, resa scura e buia da una nebbia onnipresente che non pareva voler mai andar via.

Era giunto a Londra la sera prima, aveva prenotato una stanza in una locanda e noleggiato un cavallo per girare la città il giorno successivo, per andare all'incontro con questo misterioso azionista interessato alla sua miniera. Benché avesse promesso a Dwight di fermarsi nella capitale per passare un po' di tempo insieme, la cosa non lo allettava per niente, non aveva davvero voglia di fermarsi in quel posto così rumoroso e pieno di gente, tanto che aveva deciso di ripartire al massimo dopo due-tre giorni. In fondo, Dwight e Caroline avrebbero trovato il modo di divertirsi anche senza di lui. Soprattutto senza di lui...

Montò sul suo cavallo, una bestia dal manto color rossiccio nervosa e ingestibile, diretto a Regent Steet. Si era studiato una mappa della città perché non aveva la minima idea di dove fosse questo posto e, man mano che procedeva al passo, in mezzo a una folla infreddolita e frettolosa, si accorse che in effetti si stava dirigendo nella parte della città più commerciale e dedita agli affari. Botteghe, banche e grossi negozi adornavano le vie ed era tutto un via vai di uomini d'affari, viandanti e commercianti che urlavano come pazzi i prezzi delle loro merci. "Che posto impossibile...".

Si chiese come potesse, la gente, vivere in mezzo a quella bolgia. La parte più nobile della città, silenziosa e berbenista, era molto vicina ma sembrava lontanissima in mezzo a tutta quella confusione. Incrociò molte domestiche e bambinaie con piccoli lord e principessine al seguito, diretti verso i parchi cittadini, pensando a quanto fosse triste la vita di quelle persone dedite talmente tanto al lavoro e al denaro da relegare la servitù a crescere i propri figli. Era diversa la Cornovaglia, più a misura d'uomo, di famiglia, di bambino. Anche i nobili avevano molti servi al loro servizio, nella sua terra, ma la vita era più semplice rispetto alla capitale, anche per loro.

Perso in quei pensieri svoltò l'angolo che portava a Regent Street, ancora più caotica della via che aveva appena lasciato. Il cavallo si innervosì ancora di più e faticò non poco per tenerlo al passo. La bestia nitrì nervosamente, disturbata dagli schiamazzi di un gruppo di bambini di strada che giocavano con le biglie sul selciato. "Buono...".

Improvvisamente, una carrozza lanciata a folle velocità fra la folla, fece scansare di corsa le persone, spaventate, che si accalcarono ai lati della strada per non essere investite.

Ross strinse ancora di più le redini mentre il cavallo diventava sempre più nervoso, faticando a tenerla a bada, spostandosi verso il centro della strada per non travolgere nessuno. La carrozza lo raggiunse, sfiorandoli e prendendo di striscio il cavallo sulla coscia.

L'animale nitrì dal dolore, imbizzarrendosi, sollevandosi sulle due zampe posteriori. Fu una delle ultime cose che ricordò. Tentò di tenerlo a bada, di riottenere il controllo su di lui e mentre tentava di riconquistare stabilità, riuscì a deviare all'ultimo una bambina che gli si era parata davanti all'improvviso.

Il cavallo si issò nuovamente, ancora più spaventato, scalciando sul selciato mentre la gente si spostava spaventata. Urtarono un qualcosa dietro di loro, forse il marciapiede, non lo seppe mai con certezza. La bestia si dimenò e tentò di tenerla a freno per non schiacciare nessuno ma nello sforzo perse la prese sulle redini. L'animale nitrì ancora, terrorizzato, si risollevò sulle zampe posteriori e lui, ormai senza più appigli, perse l'equilibrio.

Cadde all'indietro, una caduta di schiena da oltre un metro d'altezza. Sentì la gente urlare e poi un dolore acuto, tanto forte da togliergli il fiato alla base della testa, all'attaccatura col collo. E poi più nulla, all'improvviso le urla cessarono e divenne tutto nero, lontano, ovattato. Fino a scomparire, insieme alla sua coscienza.

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno ***


Si chinò dietro al bancone della locanda, alla ricerca dei libri contabili. Non aveva affatto voglia di fare quel lavoro che considerava noiosissimo, ma supponeva che l'esattore delle tasse fosse invece di tutt'altro avviso e quindi, volente o nolente, le prime settimane di dicembre le avrebbe passate a fare conti e denunce dei redditi.

Faceva molto freddo quella mattina e nemmeno il caldo abito di lana che indossava, rosso come i suoi capelli, e la pelliccia attorno al collo, riuscivano a scaldarla.

Intenta a cercare i registri, fu però costretta ad alzarsi e a guardare verso la porta, quando sentì il vociare dei suoi figli. Quella mattina si era alzata molto presto ed era uscita di casa che ancora dormivano e non li aveva ancora visti. Erano con Margareth e Mary che, tenendoli per mano, li avevano accompagnati a salutarla prima di andare a fare la spesa.

Jeremy le corse incontro, saltandole in braccio, imitato dalla piccola Clowance. "Mamma, vieni con noi?".

Demelza sospirò. Sì, sarebbe andata volentieri con loro, accidenti alle tasse! Ma, la dura vita... "Tesoro, non posso, devo lavorare. Ma stasera tornerò presto a casa e...".

Jeremy sorrise, contento, abbracciandola ancora più forte. "Faremo l'albero di Natale insieme, vero?".

"Certo, te l'ho promesso".

Clowance si mise fra loro, decisa. "Anche io?".

"Ma sicuro, anche tu!" - disse Demelza, prendendola in braccio. Era così bella quella mattina, una vera bambolina. Aveva i capelli sciolti, tenuti a bada da un cappello di velluto blu, come la mantellina che indossava e che la riparava dal freddo. Le guance erano rosse e piene e sembrava immensamente contenta. La baciò sulla fronte, rimettendola a terra. "Ora andrete con Mary e Margareth a comprare il pane e poi, oggi pomeriggio, Martin vi accompagnerà a scegliere l'abete e le decorazioni da mettere nel salone grande".

"Un abete gigantissimo?" - chiese Jeremy, eccitato.

Demelza sorrise. Era bello vederli tanto contenti e in fin dei conti quello era il primo Natale che avrebbero festeggiato come si deve, da quando vivevano a Londra. Due anni prima era appena nata Clowance e la sua vita era ancora avvolta dall'incertezza e dal dolore, l'anno precedente aveva appena traslocato e la casa era ancora un cantiere in fermento ma ora niente le avrebbe impedito di regalare ai suoi figli un vero Natale. "Un abete gigante, esatto, tanto il nostro salone è enorme. E stasera lo decoreremo tutto".

"Tutto! Lo vollo losa" – disse Clowance, prendendole la mano e mettendosi a giocare col bracciale che aveva al polso.

Jeremy si imbronciò. "Uffa mamma, Clowance si è fissata col rosa! Vuole l'albero tutto di quel colore ma è da femmine".

Demelza rise. "Clowance, gli abeti sono verdi, ma poi ci metteremo su tante decorazioni rosse e d'oro. Vedrai, ti piacerà anche se non sarà rosa".

La bimba fece la faccia arrabbiata, battendo il piedino a terra. "No, losa".

Jeremy, attento a tutto quello che diceva la sorella, le prese il braccio libero, tirandola verso di lui. "Ho un'idea mamma!".

"Quale idea?".

Il bimbo si fece serio serio, come se stesse preparandosi per un discorso solenne. A Demelza faceva davvero tenerezza quando faceva così. Era cresciuto molto Jeremy e aveva quell'espressione vivace e allo stesso tempo tenera che la faceva sciogliere. Era cambiato molto, fisicamente, rispetto a quando vivevano in Cornovaglia. Aveva i capelli più lunghi ora, a caschetto come era di moda fra i suoi amichetti della Londra borghese, che gli arrivavano alle spalle, castani con sfumature rosse che erano più evidenti in estate, sotto il sole, e qualche lentiggine qua e la sul nasino all'insù. "Mamma, ho contato il numero delle stanze di casa nostra e sai, sono venticinque".

"E allora?".

"E allora, compriamo venticinque alberi di Natale con venticinque addobbi diversi, così Clowance, in camera sua, si decora l'abete con quel colore da femmina".

Demelza scoppiò a ridere. "No, scordatelo! Un albero solo, molto grosso, nel salone principale".

"Ma io lo vollo losa!" - insistette Clowance, frignando.

Guardò i suoi figli, indecisa su come renderli comunque contenti non cedendo però, al contempo, ai loro capricci. "Facciamo così, oggi con nonno Martin e nonna Diane, comprerete l'abete e le decorazioni rosse e d'oro, come si usa a Natale. Ma poi potrete scegliere qualcosa di piccolo, una decorazione a testa del colore che vorrete, da aggiungere all'albero insieme alle altre cose".

"Losa?" - chiese Clowance.

"Rosa, se ti va!".

Jeremy ci pensò su, poi annuì. "E allora io voglio una decorazione azzurra, da maschio".

Demelza sorrise, accarezzò loro i capelli e poi si rialzò in piedi. "Come la vorrai tu! Allora soci, siete d'accordo?" - chiese divertita, tendendo la mano destra verso di loro.

Jeremy annuì, dandole il cinque con una sonora pacca. "Sì, d'accordo socia!".

Anche Clowance lo imitò, picchiando la sua manina sulla loro. "Sì".

Demelza strinse le mani di entrambi i figli, ridendo. "E ora su, andate con Margareth e Mary, devo lavorare" – concluse, indicando ai bimbi le due domestiche che, divertite, li aspettavano sulla porta. Era una bella giornata quella, decise, nonostante la nebbia e i registri contabili da controllare, era talmente serena che in fondo si sentiva abbastanza grintosa pure per affrontare quel lavoro così barboso.

Si richinò, prese i registri dalla credenza e poi si mise in un angolo del salone, seduta a un tavolo, mentre i clienti della locanda andavano e venivano, serviti dai suoi collaboratori.

Poteva essere passata forse una mezz'ora quando la porta della locanda si aprì di colpo e Leslie, una delle sue lavoranti che aveva mandato poco prima ad ordinare dei liquori all'emporio, le corse incontro trafelata. "Signora, c'è un tempo da lupi fuori, fra freddissimo. E c'è appena stato un incidente a qualche decina di metri da qui".

Demelza alzò gli occhi su di lei. "Un incidente?".

Leslie annuì, stringendosi nel mantello per scaldarsi. "Sì, una carrozza ha urtato un uomo a cavallo, la bestia si è imbizzarrita e ha fatto cadere il suo cavaliere sul selciato. Ha picchiato la testa e ora sembra quasi morto".

Demelza scosse la testa. "Santo cielo... Ma è morto davvero?".

"No, ma non si muove ed è privo di conoscenza. Infatti, sono venuta per chiedervi se... Ecco, credo abbia bisogno di aiuto e di essere visitato da un medico ma quì in questa strada, a parte il vostro appartamento al piano di sopra e la pensione di mister Ziegler, non ci sono altre case per dargli un primo soccorso. E...".

"E mister Zieglier, lo conosciamo, per non urtare la gentile sensibilità dei suoi clienti e giocarsi il guadagno della locazione di una camera, lascerebbe persino sua madre sul selciato". Demelza sospirò, arrendendosi al fatto che quel noiosissimo lavoro sui registri si sarebbe prolungato, suo malgrado, più del previsto. Si alzò dalla sedia, mettendosi il mantello sulle spalle. "Su, andiamo a vedere che è successo".

"Lo faremo portare qui?" - chiese Leslie, accodandosi.

"Non abbiamo molta altra scelta" – le rispose, aprendo la porta. "Spero solo che non sia nulla di particolarmente grave e che dopo la visita del medico possa essere spostato perché di notte, alla locanda, non rimarrebbe nessuno a prendersi cura di lui".

Fece solo alcuni passi che dovette fermarsi davanti al muro di gente corsa a vedere cosa fosse successo.

Leslie si fece largo, intimando alla gente di farla passare. "La mia padrona puo' ospitare quest'uomo nell'appartamento sulla sua locanda, fateci spazio!".

La gente, molta della quale la conosceva, la fece passare e Demelza si avvicinò al luogo dell'incidente. Due donne erano inginocchiate davanti al ferito per prestargli le prime cure e il cavallo dell'uomo era a pochi metri, ancora molto nervoso. "Qualcuno è andato a cercare un medico?" - chiese, avvicinandosi per vedere meglio.

Una donna annuì. "Sì, ho mandato mio figlio a cercare il dottor Carter, signora Carne".

"Ottimo, quando arriva, mandatelo alla mia locanda e...". Si bloccò e in un attimo fu come se il suo passato, tutto d'un colpo, le fosse ripiombato sulle spalle con la violenza di un fulmine. "Ross...". Pronunciò quel nome sottovoce, appena lo vide bene in viso, diventando di marmo. Ross... Era impossibile, non aveva senso! Stava sognando? Era per caso impazzita e preda di allucinazioni? Come poteva essere lui, cosa ci faceva lì, a pochi metri da lei, ferito e senza sensi come se fosse morto? Cosa ci faceva a Londra? Le tremarono le gambe e dovette appoggiarsi a Leslie per non cadere, mentre si sentiva impallidire e aveva caldo e allo stesso tempo freddo, come se stesse per svenire essa stessa.

"Signora, vi sentite bene?".

"No, Leslie...".

La ragazza la sorresse, preoccupata. "Volete sedervi? Che vi succede?".

Demelza si morse il labbro. Cosa le succedeva? C'era Ross lì davanti a lei, quel marito da cui era fuggita quasi tre anni prima e che non era mai stato capace di amarla, un uomo di cui era innamorata da sempre, nonostante tutto, il padre dei suoi figli... Ed era lì, come morto, davanti a lei. E non provava nulla se non gelo, oppure provava talmente tanti sentimenti contrastanti che, mischiandosi, avevano finito per farla cadere in quello strano stato di tranche. "Ross..." - ripeté, nuovamente.

Leslie la guardò, accigliata. "Lo conoscete?".

Annuì, stringendo i pugni delle mani. "Sì, è mio marito".

La reazione di Leslie, a quelle parole, non tardò ad arrivare. Spalancò gli occhi, sorpresa, guardando lei, il ferito e poi ancora lei. "Vostro marito? Il padre dei bimbi?".

"Si, il padre dei miei bimbi".

Gli occhi delle persone presenti si piantarono su di lei, sorpresi e sospettosi. Leslie la prese sottobraccio con fare protettivo. "Cosa volete fare?".

Guardò Ross, senza trovare il coraggio di avvicinarsi, accertarsi delle sue condizioni e cercare di svegliarlo. Era pallido, sembrava davvero morto e lontano da tutto ciò che lo circondava e un rivolo di sangue gli colava dalla nuca, rigandogli il viso. "Portatelo alla mia locanda, sbrigatevi! Non puo' rimanere quì, al freddo".

Due uomini annuirono e lo presero, uno per le spalle e uno per le gambe, senza che Ross desse cenni di risveglio. Lo portarono velocemente alla locanda, seguiti da Demelza e Leslie che, silenziose, camminavano dietro a loro come autome.

Quando furono nel locale, Demelza intimò loro di portarlo al piano di sopra, in quella che era stata la sua stanza. Ancora non capiva, si sentiva come parte di un sogno – o un incubo – e si muoveva con passo meccanico, senza pensare, senza rendersi conto di cosa la circondasse. Cosa ci faceva Ross lì? Era un caso, un dannatissimo scherzo del destino che si trovasse da quelle parti, così vicino a lei? Oppure era lì per un motivo per preciso? Aveva scoperto dove viveva e la stava cercando? Beh, era inutile pensarci, solo Ross avrebbe potuto risponderle e al momento era impossibilitato a farlo. E forse, nemmeno voleva sapere perché si trovasse lì.

"Signora, è arrivato il medico".

La voce di Leslie la riportò alla realtà, anche se i suoi sensi erano ancora appannati. "E' al piano di sopra, prima porta a destra del corridoio".

Il medico annuì. "Dicono che sia vostro marito. Gradirei che veniste con me".

Annuì, senza trovare la forza di opporsi. Era vero, Ross era ancora suo marito, nonostante tutto, aveva dei doveri e di certo il medico avrebbe gradito parlare con lei dopo averlo visitato. Però... allo stesso tempo non si sentiva più sua moglie, era come avere a che fare con uno sconosciuto di cui non sapeva più nulla da tanto e di nuovo, al medesimo tempo, quello sconoscito era il padre dei suoi figli. Era un circolo vizioso, una trappola subdola, uno scherzo crudele del destino quello...

Salì le scale, aspettando in corridoio che il medico visitasse Ross. Era strano, era preoccupata e allo stesso tempo talmente confusa da sentirsi impermeabile a ogni sentimento verso di lui. Se si fosse svegliato cosa avrebbe dovuto fare, cosa avrebbe dovuto dirgli, cosa gli avrebbe chiesto? Non voleva rivederlo mai più, soprattutto non così. Era tutto assurdo, nemmeno nelle sue più sfrenate fantasie avrebbe creduto possibile una cosa simile.

Il medico aprì la porta della stanza dopo una visita lunga più di mezz'ora. "Signora, entrate. Dobbiamo parlare".

Demelza deglutì. "Si è svegliato?".

"No".

Preoccupata per quel tono di voce grave, entrò. Ross era steso in stato di incoscienza in quello che era stato il suo letto, dove aveva pianto tanto per lui anni prima e dove aveva dato alla luce la piccola Clowance. Era impossibile anche solo pensarci... O il mondo era troppo piccolo oppure il fato era un qualcosa di estremamente dispettoso. "Come sta?".

Il dottore, un uomo grassoccio sulla cinquantina, si sistemò gli occhiali sul naso. "E' privo di conoscenza, un sonno profondo e molto infido. Ha picchiato la testa in un punto molto sensibile e questo potrebbe aver compromesso le sue funzioni vitali e cognitive".

"Che volete dire?".

Il dottore scosse la testa. "Allo stato attuale, è in coma. Non so dirvi se e quando si sveglierà e nemmeno in che condizioni sarà".

Demelza osservò Ross che, nei suoi ricordi, era sempre pieno di vita e non riusciva mai a stare fermo. "Lui è molto forte, una tempra invincibile. Starà bene, ne uscirà".

"Signora, vi avverto e vi consiglio di prepararvi al peggio. Se non si sveglia in pochi giorni e non riprende a nutrirsi e ad idratarsi, il suo cuore non reggerà a lungo. Non lasciatelo mai da solo e accertatevi che non venga spostato. Bagnategli le labbra con un panno bagnato, tenete pulita la ferita alla testa e curate la sua igiene personale. Per ora non possiamo che fare questo per lui".

"Va bene...". Si appoggiò alla parete, incapace di andarsene da quella stanza e allo stesso tempo incapace di andare vicino a suo marito. Si limitò ad osservarlo, da lontano, col cuore e la mente a pezzi, persa in un turbine di emozioni che non sapeva spiegarsi. Rimase così per lunghi minuti, con lo sguardo perso nel vuoto, finché non sentì la presenza di Leslie dietro di se.

"Signora, devo fare qualcosa?".

Annuì. "Il dottore dice che non va lasciato solo e che non si sveglierà, almeno nell'immediato" – rispose, con una voce che non le sembrava nemmeno la sua, incredibilmente fredda e distante.

"Che farete?".

Sospirò, chiudendo gli occhi, non contemplando altra strada se non quella di rimanere lì e fare quello che aveva sempre fatto ogni volta che era insieme a lui: prendersene cura... Nonostante tutto, nonostante Elizabeth, nonostante fossero ormai due estranei, non aveva altra scelta. "Resta insieme a lui finché non torno".

"Dove andrete?".

Sospirò. "Vado a casa a prendere degli abiti di cambio e ad avvertire che non tornerò. Devo sistemare i bambini e inventarmi qualcosa con loro, per giustificare il fatto che non mi vedranno per un po'. Torno subito, tu non muoverti da questa stanza e non togliergli gli occhi di dosso".

"Certo signora".

Demelza corse giù e, senza dire null'altro, uscì dalla locanda, camminando a grandi falcate verso casa sua. Stranamente non avvertiva più né il gelo né la nebbia, era come se il mondo attorno a lei fosse ovattato e distante, come se stesse vivendo in un sogno.

Quando arrivò a casa, i bambini erano nel salone principale, in compagnia di Diane e Martin.

Jeremy le corse incontro, contento. "Mamma, sei già tornata! Facciamo l'albero?" - le chiese, indicandole il grosso abete che troneggiava al centro della sala.

Demelza, quasi non lo vedesse, mentre Martin e Diane la guardavano con preoccupazione, scosse la testa. "Devo stare via alcuni giorni, potete tenermi i bambini?" - chiese al suo socio e alla moglie.

Jeremy sgranò gli occhi, tirandola per la manica. "Ma mamma, l'albero?".

"Non ho tempo per l'albero, ti ho detto che devo andare via" – gli rispose, con fare assente.

Jeremy si imbronciò, dandole una pacca sul braccio, rabbioso. "Sei cattiva, me lo avevi promesso".

Demelza lo guardò ma era come se non lo vedesse, in quel momento. "ORA BASTA, SMETTILA!".

Jeremy sussultò mentre i suoi occhi diventavano lucidi e Clowance, a pochi passi da loro, scoppiò a piangere.

Diane si avvicinò, cercando di ristabilire la calma. "Bambini, fate i bravi con la mamma, sicuramente ha un qualcosa di urgente da fare".

Jeremy indietreggiò. "Sì, lei ha sempre cose urgenti da fare lontano da noi". La guardò un'ultima volta, rabbioso, poi corse via dal salone mentre Clowance continuava a piangere.

Demelza lo guardò sparire alla sua vista, sentendosi impotente e allo stesso tempo in colpa per quella reazione avuta con lui. Non aveva mai alzato la voce coi suoi figli e lo aveva fatto ora, quando Jeremy aveva tutte le ragioni per essere arrabbiato con lei. Si chinò, prendendo Clowance fra le braccia, cercando di calmarla. "Shhh, scusa, non volevo spaventarti" - le disse, cullandola.

"Demelza, cosa è successo?" - chiese Martin, avvicinandosi.

"Ho rivisto Ross" – rispose, semplicemente. "Ha avuto un incidente davanti alla mia locanda e ora è nel mio vecchio appartamento, in coma".

L'uomo spalancò gli occhi. "Ross? Tuo marito? Ma non è possibile, come è potuta accadere una cosa simile? Un incidente a lui, qui a Londra, davanti alla tua locanda? E' assurdo!".

"Già, assurdo. Era lì, sul selciato e... non riesco a chiedermi il perché, come sia successo, non so niente... Ma il medico dice che non deve stare solo e io non ho altra scelta se non...".

Diane le sfiorò la spalla, dandole una carezza. "Cureremo noi i bambini, sta tranquilla, staranno bene. Fa quel che devi".

Annuì, stringendo a se Clowance. Già, doveva fare quel che era il suo dovere verso Ross ma soprattutto verso suo figlio che aveva ferito pochi istanti prima. "Vado da Jeremy, adesso. Dite alla mia cameriera personale di prepararmi una valigia con dei cambi d'abito, starò via per un po' di giorni, finché la cosa non si risolverà, in un modo o nell'altro.

"Va bene".

Con la piccola Clowance, salì nella camera dei giochi al primo piano dove Jeremy, silenzioso, si era messo a giocare col suo cavallo a dondolo. Si avvicinò a lui, inginocchiandosi al suo fianco. "Mi dispiace, non volevo alzare la voce con te. Ho sbagliato ma oggi è stata una giornata tanto difficile e... non sono in me".

"Sei una bugiarda, mamma" – rispose lui, senza voltarsi.

Abbassò lo sguardo, ferita da quelle parole che però sapeva di meritarsi. "Non volevo mentirti, volevo davvero fare l'albero con te ma è successa una cosa grave e devo stare via un po' di giorni. Ma per Natale sarò a casa, giuro. Niente al mondo potrebbe impedirmi di passare quel giorno con voi". Non stava mentendo perché, se quello che il dottore diceva corrispondeva a verità, se Ross non si fosse svegliato a breve, non sarebbe arrivato vivo a Natale. Se si fosse ripreso, invece, avrebbe organizzato la sua convalescenza pagando qualcuno per stare con lui.

"Davvero?".

"Certo". Gli accarezzò la guancia, asciugandogli le lacrime che la bagnavano. "Devo fare una cosa importante Jeremy, davvero tanto, tanto importante".

"Per il tuo lavoro?".

Sorrise, tristemente. "No, non per il mio lavoro, ma per me, te e Clowance". Era vero, anche se Ross era lontano, anche se non erano più una famiglia, rimaneva il padre dei suoi figli e aveva bisogno di sapere che al mondo, benché non vivessero più insieme e lui non si prendeva più cura di loro, lui esisteva. Era importante, soprattutto per i suoi bimbi.

Clowance si rannicchiò fra le sue braccia, più tranquilla e alla fine anche Jeremy, sceso dal cavallo a dondolo, corse ad abbracciarla. "Giura che torni, per Natale".

"Lo giuro!". Non avrebbe mai infranto quella promessa...

Jeremy si tirò su, guardandola negli occhi. "E allora, vai a fare la tua cosa importante. Noi ti aspettiamo qui".

Annuì, colpita dalla serietà di suo figlio che, forse, aveva capito molto più di quanto lei gli aveva detto.

Affidò i bimbi ai Devrille e, dopo aver finto una serenità che non possedeva nel salutarli, tornò alla locanda. Prese i libri contabili e li portò al piano di sopra per controllarli mentre vegliava Ross e poi, dopo aver congedato Leslie, si tolse gli eleganti abiti di lana che indossava per mettersi addosso qualcosa di più semplice e pratico, vestiti tanto simili a quelli che portava una volta in Cornovaglia. Si legò i capelli in una lunga treccia, accese una candela sul comodino e, finalmente, trovò il coraggio per sedersi accanto a lui.

Lo guardò, realizzando che lei e suo marito non erano così vicini da quasi tre anni. Scosse la testa, decisa a relegare ogni sentimento in fondo al cuore, per non farsi sopraffare da rabbia, dolore e preoccupazione. Doveva rimanere fredda e lucida per occuparsi di lui al meglio ma era difficile. Era Ross che aveva lì davanti e lui stava male, era distante e a un passo dalla morte e questo, anche se fingeva che non era così, la terrorizzava.

Quasi con timore gli scostò i ciuffi neri dalla fronte, osservando il suo viso pallido, sofferente e allo stesso tempo bello e perfetto come lo ricordava, scorgendo in lui tratti di Jeremy e di Clowance. Era il loro padre, era l'uomo che avrebbe sempre amato, dopo tutto... E ritrovarselo davanti così la annientava e la faceva sentire impotente sia verso i suoi sentimenti che verso di lui e il suo stato di salute.

Deglutì, allontanando la mano da lui, prese un panno, lo immerse nella bacinella piena d'acqua e poi, delicatamente, gli bagnò le labbra.

Fuori imbruniva, faceva freddo e Demelza lo sapeva, sarebbe stata una lunghissima notte, quella.




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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


Era da due giorni che non chiudeva occhio ed era stravolta, talmente stanca che si sarebbe potuta addormentare ovunque. Ma purtroppo non se la sentiva di dormire, di andare a riposare in un'altra stanza e di lasciare Ross alle cure di qualcun altro, anche se Leslie e gli altri suoi lavoranti della locanda si erano offerti di darle una mano per permetterle di riposare.

Andava avanti, per inerzia, dondolandosi sulla sedia a dondolo accanto al letto, sfogliando di tanto in tanto, distrattamente, i libri contabili da controllare e non togliendo gli occhi di dosso a suo marito.

Il perché Ross fosse lì a Londra le era ancora sconosciuto, sapeva solo che era ferito gravemente e che il suo sonno era talmente profondo che nessun medico, nemmeno il più grande luminare di Londra fatto chiamare il giorno prima, avrebbe saputo spezzare.

Si prendeva cura di lui, passandogli un panno umido sulla pelle, bagnandogli le labbra con una spugna, medicandogli la ferita sulla testa. Nessuno avrebbe potuto mettere in discussione il fatto che era un'efficente infermiera. Era questo che ci si aspettava da lei, giusto? Erano questi i suoi doveri di moglie, malgrado tutto, doveva accudirlo e prendersi cura di lui... E lo stava facendo, con gesti assenti, meccanici, privi di qualsiasi sentimento o affetto. Si sentiva svuotata, fredda e lontana da ogni emozione, non c'era amore, non c'erano sentimenti nei suoi gesti e in quello che faceva per lui, non c'erano carezze, abbracci, lacrime di preoccupazione, era come se i suoi occhi si fossero prosciugati e il suo cuore inaridito. Più di una volta era stata tentata dall'idea di farlo trasportare all'ospedale cittadino per farlo seguire da personale medico qualificato, nessuno avrebbe potuto accusarla di niente, Ross non se ne sarebbe nemmeno accorto e lei avrebbe potuto far finta che nulla fosse successo e avrebbe potuto riprendere la sua vita, tornare a casa, fare l'albero di Natale coi suoi bambini e continuare a seguire i suoi affari, senza altre preoccupazioni.

Sarebbe stata la strada più facile... Eppure non se la sentiva di seguirla e di abbandonarlo a se stesso, anche se le aveva fatto del male, anche se non l'aveva mai amata e non aveva avuto cura nemmeno di suo figlio. Non riusciva ad abbandonarlo a se stesso e lo guardava in silenzio, dalla sedia a dondolo, trovandolo solo, smarrito, debole e indifeso... Ed era così strano vederlo così, lui sempre tanto forte, coraggioso, testardo, incosciente e indistruttibile...

La voce di Leslie la raggiunse da dietro la porta, dopo che la ragazza ebbe bussato. "Signora, ci sono visite per voi".

Stancamente, Demelza si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta. Chi diavolo poteva essere? Non aspettava nessuno e non aveva certo voglia di fare conversazione. Aprì la porta con un gesto seccato. "Chi sarebbe?".

La ragazza annuì, facendole segno con la testa verso il fondo del corridoio. "Miss Penvenen".

Demelza chiuse gli occhi, stanca, sospirando. "Caroline...". Voleva stare sola ma stranamente, sentire che l'amica era lì, la rincuorava. Uscì dalla stanza e corse verso la ragazza che, nel suo mantello azzurro, la aspettava all'imbocco delle scale. La abbracciò, aggrappandosi a lei come una bambina, lasciandosi andare a un pianto sommesso e disperato che, si rese conto solo in quell'istante, aveva bisogno di fare. "Caroline, è successa una cosa..." - singhiozzò, col viso affondato nel suo collo.

L'ereditiera la abbracciò, accarezzandole la schiena. "Lo so, si tratta di Ross. E' una cosa talmente assurda...".

"L'hai sentito in giro?".

Caroline, con sguardo grave, scosse la testa. "No. Lo sapevo già di mio, sapevo che Ross sarebbe arrivato a Londra". La lasciò andare e si scostò di lato, mostrando a Demelza la persona che era giunta con lei.

"Dwight...". Demelza spalancò gli occhi dalla sorpresa, quasi svenne, era come se un altro pezzo del suo passato, dopo Ross, fosse tornato a tormentarla e a chiederle il conto per le sue scelte. Osservò il dottore, dallo sguardo sempre gentile e pulito come lo ricordava, poi Caroline. "Come puo' essere...?".

Dwight le si avvicinò e dopo averle lanciato una lunga e penetrante occhiata, senza dire nulla, la abbracciò. "Demelza..." - sussurrò, fra i suoi capelli.

"Oh Dwight". Non capiva cosa stesse succedendo ma l'abbraccio di Dwight era dolce, confortevole e sapeva di cose antiche che le mancavano, nonostante tutto. Però, cosa ci faceva lì anche lui? Era con Ross a Londra? Aveva incontrato Caroline per caso, cercando l'amico che aveva avuto un incidente? Sapeva che lui e suo marito erano tornati dalla guerra molti mesi prima, glielo aveva comunicato George che per dispetto non mancava mai di tenerla aggiornata sui movimenti della Cornovaglia, suo malgrado, benché non ne volesse sapere nulla. Ma nonostante tutto, era davvero una cosa assurda quella che stava succedendo. "Cosa ci fai qui anche tu? Con lei". Diede una penetrante occhiata a Caroline, cercando delle risposte.

L'amica guardò Dwight, annuendo. "Glielo dico io".

"Dirmi cosa?". Ora cominciava ad essere irritata perché avvertiva di essere parte di un qualcosa che le sfuggiva.

Caroline le prese la mano, stringendola. "E' Dwight l'uomo che sposerò in primavera".

Demelza si voltò verso il dottore, stupita. E anche felice che fosse lui, ma... Le mancava un pezzo, un qualcosa che le facesse apparire il quadro completo. Si erano lasciati tre anni prima e Caroline aveva più volte affermato di non volerne sapere più niente di lui. Come si erano rincontrati? E perché non glielo aveva voluto dire? E soprattutto, se era da Dwight che Caroline andava, quando passava settimane lontana da Londra, quanto era stata vicina a Ross che era il migliore amico del suo fidanzato? "Perché non me lo hai detto?".

Caroline guardò Dwight, come in attesa di un aiuto, e Demelza si oscurò. "Cosa mi state nascondendo?".

Dwight poggiò la mano sulla sua spalla, obbligandola a guardarlo negli occhi. "E' stato Ross a farci rincontrare, la scorsa primavera".

Demelza li guardò, stupita. "E' grazie a lui che siete tornati insieme?".

"Sì". Caroline la prese sottobraccio, obbligandola a seguirla nella stanza dove riposava suo marito. Appena entrate, lanciò un'occhiata preoccupata all'uomo che giaceva privo di sensi nel letto. "Sta molto male? E' grave?" - chiese, mentre anche il suo fidanzato entrava nella stanza.

Demelza, irritata, si morse il labbro. "Sì, sta male! E ora voglio delle spiegazioni".

Dwight si avvicinò a Ross per visitarlo e Caroline si appoggiò alla parete della camera. "Il debito che tre anni fa fece rischiare a Ross la prigione per debitori, fui io a pagarlo. Era il migliore amico di Dwight ed era una persona che ammiravo e risvegliava in me curiosità e così lo feci, pregando Pascoe di mantenere il mio anonimato".

"Sei stata tu?". Demelza era sorpresa. Per tutto quel tempo, Caroline non le aveva detto nulla di quel grande aiuto che aveva dato a lei e alla sua famiglia, salvando suo marito da due anni di carcere, e questo era uno di quegli aspetti che facevano di lei la meravigliosa amica che era da anni.

"Sì, sono stata io. Poi, dopo la rottura con Dwight, sono tornata a Londra e ho ripreso la mia vita, cercando di dimenticare tutto quanto della Cornovaglia, dimenticando anche quel prestito che feci a Ross e che dopo tutto non mi comprtava problemi finanziari. Ma mesi dopo ho incontrato te, siamo diventate amiche e tutto è filato via liscio fino alla scorsa primavera perché Ross, tornato dal fronte, aveva trovato la Wheal Grace attiva, prospera e ricca e aveva i soldi per ripagare il suo misterioso debitore. Lo conosci meglio di me, sa essere molto incisivo ed insistente e ha ottenuto da Pascoe il mio nome. E così è venuto da me, me lo sono ritrovata davanti casa a sorpresa e alla fine, dopo che mi ha restituito un acconto del prestito, ha talmente insistito per farmi incontrare Dwight, che alla fine ho dovuto cedere e sono partita con lui per la Cornovaglia. Hai un marito davvero convincente e testardo, sappilo".

A dispetto di tutto, lanciando un'occhiata al letto dove giaceva Ross, Demelza sorrise, provando uno strano senso di orgoglio verso di lui e quello che aveva fatto. "E così hai rivisto Dwight e hai scoperto che l'idea di dar retta a Ross non era poi così male".

Caroline sorrise. "Esatto. Ho poi rivisto Ross in estate, quando è tornato a Londra per saldare il prestito e alcune volte in Cornovaglia, quando sono andata a trovare Dwight. Non volevo tenertelo nascosto ma non sapevo come dirtelo che era ricomparso nella mia vita, mi trovavo in un vicolo cieco, sia nei suoi confronti che nei tuoi".

Demelza annuì, capendo cosa intendesse. In effetti, Caroline si era trovata suo malgrado in una situazione davvero infelice. Osservò Dwight che, assorto, medicava la ferita di Ross e lo visitava, non capendo ancora, però, cosa ci facesse a Londra suo marito. "Gli hai detto di me?".

Caroline scosse la testa. "No, te lo giuro! Mai il discorso è caduto su di te, nelle nostre conversazioni! E sono stata ben attenta a fare in modo che non succedesse, non ti avrei mai tradita. Solo Dwight sa di te, gli ho raccontato della tua vita di ora, lui sa tutto. Ma Ross è all'oscuro di ogni cosa".

Dwight, dal letto, alzò gli occhi su di lei. "Sono davvero senza parole Demelza, ne hai fatta proprio tanta di strada! Complimenti, Caroline mi ha detto che ormai sei una fra le donne più potenti e ricche di Londra e non me ne stupisco, l'ho sempre saputo che sei in gamba".

"Grazie, ma al momento ho poca voglia di essere adulata. Ditemi il resto della storia, perché c'è un resto! Ditemi che diavolo ci fa Ross qui ora, visto che mi avete detto che il suo debito era stato saldato in estate".

Caroline impallidì, prese un profondo respiro e raccontò tutto, di come lei e Dwight avessero deciso di aiutare Ross come lui aveva fatto con loro, di come avessero ideato il piano per farlo venire a Londra e di come avessero organizzato un incontro casuale fra loro due, alla locanda. Incontro mai avvenuto a causa dell'incidente.

Al termine del racconto, Demelza si mise le mani nei capelli. "Santo cielo, cosa avete fatto!? Non dovevate, Caroline tu lo sapevi che non volevo vederlo! E ora, a causa della vostra idea, è fra la vita e la morte!".

Caroline abbassò lo sguardo, stringendosi nel mantello. "Santo cielo, se avessimo saputo che sarebbe andata a finire così, non avremmo mai ideato un piano simile. Demelza, ti prego, non odiarci".

Demelza sorrise, amara. "Odiarvi non servirebbe a nulla, ormai il danno è fatto. Non volevo rivedere Ross ma ormai è qui, in queste condizioni, e dobbiamo cercare di farlo stare meglio".

Dwight annuì. "Vai a riposare, hai una faccia stravolta e hai bisogno di dormire. Resto io qui con lui".

Caroline la prese sottobraccio. "Dai, ti accompagno nella camera di Jeremy. C'è il suo letto ancora fatto, giusto? Almeno potrai coricarti un po' e dormire".

Demelza le lanciò un'occhiataccia, le avrebbe volentieri riempito la faccia di schiaffi ma sapeva anche che era sempre stata un'amica sincera, gentile, altruista e buona, che l'aveva aiutata in mille modi e che aveva fatto quello che aveva fatto in buona fede. Non riusciva davvero ad avercela con lei, era la sua migliore amica ed era soprattutto troppo stanca per litigare sul serio con qualcuno. Guardò Ross, sapendo che con Dwight sarebbe stato al sicuro e accudito e si lasciò condurre nell'altra stanza.

Appena Caroline chiuse la porta, si buttò sul letto di suo figlio, stravolta, e l'amica le si sedette a fianco.

"Dormi quanto vuoi, ci pensiamo noi a lui".

Annuì, nascondendo il viso nel cuscino. "Avete combinato un grosso pasticcio, lo sai?".

"Si. A proposito Demelza, c'è ancora una cosa che devi sapere su Ross".

Alzò lo sguardo su di lei, preoccupata dal tono serio della sua amica. Che altro poteva esserci, ancora? "Dimmi pure, a questo punto non mi stupisco più di niente".

Caroline si morse il labbro, prendendo a giocare nervosamente con le mani con la stoffa del suo abito. "Ross ha visto Clowance".

"Cosa?".

"La scorsa estate, quando è venuto a casa mia per saldare il prestito, Clowance era da me e lui l'ha vista. Giuro che non avevo organizzato la cosa, Ross era venuto a Londra senza avvertirmi e la bimba ci è piombata nel salone e...".

Demelza, con gli occhi sbarrati, si mise a sedere. "Ross e Clowance?".

Caroline annuì. "Si, gli ho detto che era la figlia di un'amica e che sarebbe stata la mia damigella al matrimonio, non ha sospettato nulla".

Al pensiero di Ross assieme a Clowance, le si strinse il cuore. Erano padre e figlia e ignoravano entrambi l'esistenza l'uno dell'altra. Clowance era stata col suo papà e non sapeva se la cosa la rendesse felice o furibonda. "E non è successo nulla di strano?".

Caroline, con un sorriso, le accarezzò la guancia. "Credo che se ne sia perdutamente innamorato. Il modo in cui la guardava era così tenero, dolce e malinconico... Ma tranquilla, non ha la minima idea che sia sua".

Demelza si oscurò, decisa a chiudere il discorso, era troppo stanca per pensare. "Voglio dormire, ora". Si buttò sul letto, nascondendosi sotto le coperte, sconvolta da quanto aveva appena sentito.

"Demelza, dormi ma dopo parla con Dwight. Ha tante cose da dirti su Ross".

"Ti ho detto che voglio dormire!" - rispose perentoria, chiudendo ogni discussione fra loro. Non voleva più sentire nulla, desiderava solo isolarsi dal mondo e da tutti i problemi che gli erano piombati addosso come una valanga. Chiuse gli occhi e crollò in un sonno profondo, perdendo la cognizione del tempo e di quello che la circondava.

Si risvegliò che era ormai buio, rendendosi conto con terrore che aveva dormito parecchie ore. Non si era accorta di essere tanto stanca finché non aveva poggiato la testa sul cuscino.

Dopo essersi risciacquata il viso e essersi data una sistemata agli abiti e ai capelli, tornò nella stanza di Ross, col terrore che gli fosse successo qualcosa mentre dormiva. Quando entrò, la stanza era illuminata da numerose candele e dal camino acceso e Caroline e Dwight erano al suo capezzale.

Osservò il marito, ancora perso in quel profondo sonno da cui pareva non si sarebbe mai risvegliato. Dwight la salutò con un cenno del capo e lei fece altettanto, con fare assente. "Come sta?".

Caroline, seduta su una sedia accanto al fidanzato, sospirò. "Come prima, non è cambiato nulla. Dwight lo ha medicato e visitato e gli ha cambiato la camicia perché era sudato. Gli è salita la febbre nelle ultime ore".

Deglutì. Ci mancava solo la febbre, a quella situazione già di per se tragica. "Come mai?".

Dwight scosse la testa. "Nella sua situazione è normale, il suo fisico sta combattendo una dura battaglia".

"Già". Demelza si avvicinò al letto, appoggiandosi poi alla parete accanto ad esso, chiedendosi insistentemente quanto ci fosse di davvero normale in quella situazione. "I dottori che lo hanno visitato prima di te, hanno detto che sarà difficile che si svegli".

Dwight, seduto sul letto accanto a Ross, si alzò. "Ross ha una tempra invicibile, sono sicuro che ci stupirà tutti".

"Se lo dici tu..." - rispose Demelza, in tono piatto.

"Vuoi metterti quì vicino a lui?".

A quella domanda di Dwight, Demelza scosse la testa. "No, sto bene qui".

Il dottore le sorrise dolcemente, allungando una mano ad accarezzarle la guancia. "A Ross non servono medicine o luminari, a lui serve avere vicino la persona che ama".

Demelza sorrise freddamente. "E allora, dovremmo chiedere a George Warleggan di prestarci Elizabeth per qualche giorno" – commentò, sarcastica.

Dwight e Caroline si guardarono negli occhi e poi l'uomo le si avvicinò, poggiando la mano sulla sua spalla. "Demelza, ti prego, so che ti ha ferita e che sei stanca, ma per favore, prenditi cura di lui".

"Lo sto facendo da due giorni, mi pare".

Il medico sospirò. "Certo, sei una bravissima infermiera e non gli fai mancare nulla di materiale. Ma... Sai cosa intendo, vero? Stagli vicino, stagli vicino davvero, fagli sentire il tuo affetto, che sei accanto a lui. Sii sua moglie, non la sua badante. Demelza, Ross ha bisogno di te, è un uomo perso, distrutto, da quando te ne sei andata".

Demelza osservò il marito, così pallido, indifeso e inerme. Era l'uomo che aveva amato e l'uomo che l'aveva fatta soffrire a lungo, senza curarsi minimamente del male che le stava facendo. E ora le si chiedeva di annullarsi nuovamente, per lui? Lo stava facendo, certo, meglio che poteva. Ma non avrebbe ceduto nuovamente all'amore per lui, non si sarebbe fatta ancora del male, se lo era lasciato alle spalle e stava bene adesso, da sola. "Doveva pensarci prima, ora è troppo tardi".

Dwight abbassò lo sguardo, forse colpito dalla sua freddezza. "Ross, in questi anni, è cambiato tanto Demelza. Non gli importa nulla di Elizabeth e di quell'amore che aveva tanto idealizzato. Sei tu la donna che ama e a cui ha pensato sempre, ogni giorno, sia in Cornovaglia che in Francia, quando eravamo insieme nell'esercito. E' solo, smarrito, pentito e disperato per gli errori che ha fatto, per averti fatta soffrire, per non essere stato capace di essere un buon padre per Jeremy e per averti fatto talmente male da costringerti ad andartene. Odia quella notte in cui è stato con Elizabeth e odia se stesso per aver tradito te, il vostro matrimonio e il vostro amore. Sai, ora si dedica anima e corpo alla miniera, non ha altro nella vita. Lavora come un matto e la sera torna a Nampara, da solo. Darebbe via tutto ciò che ha per riabbracciarti e per ritrovare il suo bambino. E sarebbe l'uomo più felice della terra, se sapesse che è padre anche di una bimba. Conosco Ross da tanto, è poco incline a mostrare i suoi sentimenti agli altri ma solo quando riguardava te, l'ho visto fragile e smarrito: quando eri malata ed è morta Julia e in questi ultimi anni vissuti senza averti accanto. Ha aiutato molto me e Caroline, ha lavorato come un pazzo per migliorare le condizioni di vita dei suoi minatori e non ha mai chiesto nulla in cambio a nessuno. So che sei arrabbiata con lui, che hai la tua vita ora, ma ti prego, non voltargli le spalle, tu e i bambini siete l'unica famiglia che ha e che ama".

Demelza rimase in silenzio ad ascoltarlo parlare di Ross, quel marito che una volta conosceva come le sue tasche ma che ora, dopo anni di lontananza, era come un libro che ancora non aveva sfogliato. Dwight parlava ed era come riscoprirlo di nuovo, era come colmare un vuoto lungo quasi tre anni in cui di lui non sapeva niente. Eppure, benché fosse bello sentire quelle cose, non riusciva a crederci, non del tutto. Ross non si era mai curato di lei e di quanto lo amasse, l'aveva trattata come l'ultima delle sue priorità, non aveva mai lottato né per lei né per Jeremy e quindi, perché avrebbe dovuto farlo dopo che se n'era andata, quando era troppo tardi? Non era un controsenso, quello?

"Demelza, a volte le persone sbagliano. Ma la grandezza di un uomo sta nel riconoscere i propri errori e lottare per migliorarsi. Ross lo ha fatto e ora sta a te dargli una seconda opportunità" – concluse Caroline, chiudendo il discorso di Dwight.

Demelza guardò Ross, lanciandogli una lunga occhiata. Poi si staccò dal muro dove si era appoggiata e, incerta, si mise seduta sul letto, accanto a lui. "Andate a casa, è molto tardi e io ho riposato a sufficienza".

"Demelza, ti prego, stagli vicino" – la implorò, Dwight.

"Sono qui con lui e gli starò accanto finché non starà bene. Per ora non posso fare che questo".

Dwight sospirò, avvicinandosi a Caroline a prendendola sottobraccio. "Tornerò domani mattina per visitarlo. Pensa alle mie parole, per favore, cerca di volergli bene come sapevi fare una volta nonostante tutti i suoi errori, fallo adesso che ne ha davvero bisogno".

Demelza annuì, non troppo convinta. Guardò i due amici andarsene e sparire dietro la porta e poi, rimasta sola, finalmente si voltò verso di lui, sfiorandogli la guancia con una carezza leggera, decidendo di rivolgergli la parola per la prima volta da quando lo aveva rivisto. "Ross Poldark, quello che mi ha detto Dwight io non so se sia vero, forse lo è ma era dalla tua voce che volevo sentire quelle parole, tanto tempo fa. Sappi che sono fiera di te e di quello che hai fatto per Caroline e Dwight, sei riuscito a fare in modo che siano felici e questo in fondo è da te, da sempre ti preoccupi che le persone che ti stanno attorno stiano bene. Non lo hai fatto per me e per nostro figlio ma so che hai sempre lottato per tutti gli altri e in fondo questo fa di te una brava persona. Sono meno orgogliosa del fatto che tu sia andato in guerra, a mettere a repentaglio la tua vita. Anzi, sono proprio arrabbiata per questo ma suppongo di non avere più voce in capitolo nelle scelte della tua vita, come del resto tu non ne hai nelle mie. Tanto tempo fa sono stata malata e tu mi hai preso la mano e mi hai implorato di tornare e ora faccio altrettanto, ti sprono a tirare fuori la tua grinta e a svegliarti da questo sonno". Gli strinse la mano, forte, per essere ancora più incisiva. "Non importa più quello che provi per Elizabeth, quella notte e tutto il resto Ross, è passato tanto tempo e ho accettato il fatto che amassi lei più di me, non ho più nulla da chiederti e nulla da pretendere, eccetto una cosa: sei il padre dei miei figli e io ho bisogno di sapere che sei vivo, da qualche parte! E quindi sappi che potrei accettare tutto, dimenticare ogni cosa, tranne una: azzardati a morire e io non te lo perdonerò mai" – concluse, avvicinando il volto al suo.

Rispose il silenzio, ovviamente, e di certo non si aspettava null'altro. Però, dopo alcuni istanti, sentì che la mano di Ross, che stringeva nella sua, debolmente, ricambiava la sua stretta. Sussultò, stupita. "Ross, mi senti?" - chiese, col cuore in gola, spinta ad insistere. "Apri gli occhi, ce la fai?".

Ross non riaprì gli occhi ma continuò a stringerle la mano e si agitò debolmente, spostando il viso sul cuscino, convulsamente. "Demelza...".

Le parve che le si fermasse il cuore, nel sentirlo parlare. La sua voce, impastata, una voce che non sentiva da tanto, una voce che chiamava il suo nome e non quello di Elizabeth. Il SUO nome... "Ross!" - lo chiamò, scuotendolo lievemente.

"Dem...".

La voce di suo marito si riperse nel sonno profondo in cui era sprofondato. Per un attimo si era illusa che si stesse svegliando ma evidentemente, quelli erano i deliri di un uomo che stava molto male. Eppure... era lei che cercava, a dispetto di tutto, anche se non si vedevano da anni e non poteva sapere di averla accanto. Vinta da quelle emozioni e da quel che Dwghit le aveva detto poco prima, cedette. Sapeva di farsi del male, sapeva che non avrebbe portato a nulla di buono per lei ma non riuscì a resistere alla tentazione di mettersi accanto a lui, abbracciarlo e tenerlo vicino. "Torna Ross, ti prego..." - gli sussurrò, accarezzandogli la testa poggiata sulla sua spalla, ripetendo quelle stesse parole che lui le aveva rivolto anni prima.

Si addormentò tenendolo fra le braccia, quasi senza accorgersene, in una posizione semi-seduta che era forse scomoda ma che non avvertiva come tale. Sentiva solo il calore del corpo di Ross vicino al suo, il suo respiro affannato e la grande battaglia che lui stava combattendo per riemergere dalle tenebre.

La mattina arrivò anche troppo in fretta, gelida e nebbiosa come i giorni precedenti. Demelza si svegliò di soprassalto, odiandosi per essersi addormentata di nuovo, invece che vegliare su di lui. Guardò Ross che, fra le sue braccia, non si era mosso di un millimetro e gli accarezzò i capelli delicatamente. Poi fece per alzarsi ma la presa del marito, su di lei e sulla sua mano, pareva ancora incredibilmente forte. "Ross, lasciami, devo alzarmi" – gli intimò gentilmente, senza aspettarsi che lui la sentisse.

E proprio per questo il suo cuore quasi si fermò quando, a quelle parole dette più a se stessa che a lui, lo vide scuotere la testa e riaprire i suoi occhi neri su di lei.







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Capitolo 23
*** Capitolo ventitre ***


"Ross!". Si sedette davanti a lui, gli prese il viso fra le mani per costringerlo a guardarla e chiamò più volte il suo nome. "Mi senti? Riesci a parlare, a muoverti? Sai chi sei e dove ti trovi? Mi riconosci?".

Ross la fissò immobile, con lo sguardo annebbiato, senza proferire parola.

"Ross, riesci a capire quel che ti dico?". Era terrorizzata da quello sguardo assente, vacuo, perso. E se ciò che aveva detto il primo medico che lo aveva curato fosse stato vero? Se quell'incidente avesse distrutto la persona che lui era?

"Ross, d'accordo, non parlare ma se riesci, fammi un cenno e dimmi se mi capisci".

Impercettibilmente, a fatica, Ross annuì.

"Sai chi sono?".

Fece cenno di sì.

"Sai dove ti trovi?".

Scosse la testa, smarrito.

"Sai cosa ti è successo?".

Ancora, scosse la testa.

Demelza sospirò, un pochino più rasserenata. A modo suo Ross comunicava e non era completamente scollegato dalla realtà che lo circondava. L'aveva riconosciuta e non aveva idea di cosa gli passasse nella mente ad essersela trovata davanti, però il fatto che fosse mentalmente presente era già un buon segno. Così com'era un buon segno che non riconoscesse l'ambiente che lo circondava, la sua casa alla locanda gli era sconosciuta dopo tutto, e forse era anche normale che non ricordasse nulla dell'incidente.

Si alzò di scatto dal letto e corse al piano di sotto dove Leslie stava sistemando la locanda per l'apertura mattutina, incitandola ad andare a chiamare di corsa Dwight a casa di Caroline Penvenen.

Poi tornò di sopra, non sapendo bene cosa fare e come comportarsi. Rientrò nella stanza e, cautamente, gli tornò vicino. Ross fissava il soffitto, assorto o forse non del tutto cosciente, non sapeva stabilirlo con esattezza. Con la mano gli sfiorò la fronte e si oscurò quando si accorse che la febbre era ancora molto alta. Immerse il panno nella bacinella d'acqua e glielo mise sulla fronte, scrutandolo preoccupata.

Ross reagì ruotando gli occhi verso di lei, osservandola in quell'ostinato silenzio a cui lei non sapeva dare spiegazioni.

"Sta tranquillo, fra pochi minuti arriverà Dwight".

Ross non rispose, chiuse gli occhi e risprofondò in un sonno profondo.

Dwight arrivò mezz'ora dopo e Demelza rimase in corridoio ad aspettare che finisse di visitarlo. L'amico restò a lungo in camera, chiuso dentro con Ross, logorandola nell'angoscia di attendere.

Quando uscì dalla stanza, due ore dopo esservi entrato, Dwight le sorrise. "Direi che siamo stati fortunati, starà bene. Certo, non subito, sarà una cosa lunga ma credo che ne uscirà indenne".

Demelza scosse la testa, timorosa che Dwight cercasse di tirarle su il morale. "Non riesce a parlare, fatica a muoversi, sembra assente a tratti. Come puoi dire che va bene?".

"Demelza, Ross è stato in coma per diversi giorni, non puoi pretendere che si svegli fresco come dopo un riposino pomeridiano. E' normale che sia così e vedrai che andrà sempre meglio, giorno dopo giorno recupererà tutte le funzioni fisiche. E' cosciente e capisce cosa gli diciamo ed è già tanto, per uno nelle sue condizioni".

"Davvero capisce?".

Dwight annuì. "Certo".

Demelza lo guardò di rimando, con aria di sfida. "Allora spiegagli dove si trova, perché è qui e il motivo per cui ci sono anch'io".

Davanti al suo tono di voce vagamente irritato, Dwight deglutì. "Accidenti, sei cambiata, sai...".

"Non sono cambiata, sono ancora arrabbiata!". Indicò la porta della stanza con la mano, non staccandogli gli occhi di dosso. "Tutto questo è opera tua e di Caroline, non mia. Io non ho cercato Ross e Ross non ha cercato me, quindi ora darai a lui le spiegazioni che hai dato a me giorni fa. Tu e Caroline siete dei cari amici, vi voglio bene, ma non voglio essere coinvolta più di quanto sia già, in questa storia".

Dwight annuì, abbassando lo sguardo. "Credo che tu abbia ragione e che spetti a me farlo. Ma ti prego, prenditi cura di lui".

"Lo farò, conosco i miei doveri di moglie. Ma non darò spiegazioni di un qualcosa accaduto non per mia volontà".

"Bene Demelza, tu farai il tuo dovere. E io il mio".

La ragazza annuì. "E allora potremo tornare ad andare d'accordo. Ah, non una parola su di me con lui, né sui miei figli. Non sa e non dovrà sapere di Clowance e non voglio nemmeno che si parli di Jeremy con lui. Non lo ha voluto quando è nato e ora resterà fuori dalla sua vita. E quando starà bene, tornerà in Cornovaglia e si dimenticherà di avermi incontrato, specificaglielo bene".

"Demelza, ti prego...".

"Specificaglielo bene!" - ripeté perentoria, prima di tornare in camera dal marito.

Nei tre giorni seguenti Dwight passò gran parte della giornata alla locanda, al capezzale di Ross. Caroline faceva avanti e indietro e Demelza gestiva la convalescenza del marito come meglio poteva, dividendosi fra gli impegni di lavoro e la malattia di Ross che, benché non parlasse, sembrava sempre più attento e vigile.

Come d'accordo, al terzo giorno, quando Ross sembrava più in forma e iniziava stentatamente di cercare di comunicare, Dwight gli raccontò la verità su quel viaggio a Londra e su come avesse saputo da Caroline dove vivesse sua moglie. Demelza, appoggiata alla parete, a fianco della finestra, ascoltò in silenzio quel racconto, senza intervenire. Ross si voltò verso di lei, guardandola in viso, e lei sostenne il suo sguardo senza mutare l'espressione tirata del viso.

Alle rivelazioni di Dwight, Ross reagì con sguardo stupito ma non rabbioso come aveva fatto Demelza e guardava l'amico come se gli fosse stato grato. La cercò ripetutamente con lo sguardo ma lei, finché non rimasero soli e calò la sera, non si avvicinò al letto.

Sistemò le lenzuola e la biancheria pulita negli armadi, diede una pulita veloce alla camera e per tutta la giornata si perse in mille faccende che le consentivano di non avere rapporti diretti con lui. Sapeva che ora sarebbe arrivata la parte più difficile e che in fondo, finché Ross era stato semi-incosciente, era stato semplice stargli accanto. Ma ora lui stava tornando alla vita, presto sarebbe stato in grado di parlare e allora, evitarlo, sarebbe diventato un problema.

Quando fu buio, approfittando del fatto che sembrava dormire, Demelza riempì la bacinella di acqua fresca e gli fece alcuni impacchi sulla fronte ancora bollente. Si sedette accanto a lui, scrutandolo in viso, accorgendosi di quanto fosse ancora pallido e sofferente e chiedendosi cosa provasse dopo il racconto di Dwight. Rimase lì per lunghi minuti e poi, quando fece per alzarsi e accomodarsi sulla sedia a dondolo, la mano di Ross prese la sua, stringendola ed impedendole di allontanarsi.

"Dem..." - sussurrò, a fatica.

Spalancò gli occhi. Dannazione, era sveglio! Con un gesto veloce scostò la mano dalla sua, librandosi dalla sua stretta. "Cerca di riposare, sei molto debole" – disse, col tono in cui si impartisce un ordine.

Ross si voltò verso di lei, guardandola con sguardo ferito. "Demelza...". Allungò la mano, cercando di riprendere la sua, ma lei fu più veloce e si allontanò di scatto dal letto. "No, non mi devi toccare".

Ross chiuse gli occhi, annuì e non tentò più nulla. Pochi istanti dopo ripiombò in un sonno profondo che durò tutta la notte.

Demelza si rintanò sulla sedia a dondolo, rannicchiandosi sotto una coperta, sollevata dal fatto che si fosse addormentato ma sentendosi allo stesso tempo in colpa, anche se non ne capiva il motivo. Stava facendo fin troppo per lui e non aveva nulla di cui rimproverarsi, dopo tutto...

Lo guardò dormire, notando in lui tante cose di Jeremy e Clowance e sentendo una fitta al cuore. Non aveva mai desiderato molto dalla vita, tutto quello che aveva voluto davvero era il suo amore, che fosse un marito innamorato e un padre devoto per i suoi figli. E invece... Le tornarono in mente tanti episodi in cui le aveva voltato le spalle, facendola sentire l'ultima degli ultimi, la sua arroganza in certi frangenti, le mille preoccupazioni che le aveva fatto vivere per i suoi trascorsi con la giustizia. Aveva trovato la pace in quegli ultimi anni, perché Caroline e Dwight avevano voluto riportarlo nella sua vita?

Persa in quei pensieri si addormentò, in un miscuglio di ansia, preoccupazione e rabbia, mentre i ricordi brutti che l'avevano tormentata fino a pochi minuti prima si mischiavano ad altri ricordi, dolci, belli, felici, di quando lei e suo marito sembravano una coppia innamorata, chiedendosi, nel dormiveglia, quale fosse il vero Ross, se quello dell'inizio del loro matrimonio o quello che aveva conosciuto dopo la morte di Francis.

Nei giorni seguenti, come aveva detto Dwight, Ross migliorò gradatamente. Ricominciò a dire qualche parola, a rispondere sempre meglio agli stimoli e a muoversi più agilmente, anche se ancora non gli era possibile né stare seduto, né tanto meno alzarsi per tentare di camminare. La testa gli faceva ancora molto male ed era preda di vertigini fortissime quando tentava di tirarsi su, e Demelza gli aveva intimato di rimanere steso.

Come promesso a Dwight, non lo aveva abbandonato ed era rimasta sempre accanto a Ross, prendendosi cura di lui e soddisfando ogni suo bisogno. Aveva anche ripreso a parlargli, per questioni puramente pratiche, e Ross ubbidiva a quello che gli diceva senza opporre resistenza, continuando a scrutarla con quegli occhi neri e profondi.

Dopo una settimana dal suo risveglio, Ross aveva riacquistato la facoltà di parlare, riuscendo, con Dwight, a intavolare qualche breve conversazione, quando di giorno rimaneva lì a prendersi cura di lui.

Con lei invece si limitava ad annuire quando gli parlava di futilità come il pranzo, la cena, quando lo aiutava a cambiarsi la camicia e quando gli dava le medicine, tanto che quella specie di mutismo aveva iniziato a sembrarle confortevole e ormai non provava più imbarazzo a stare da sola in camera assieme a lui.

E proprio per questo, la sera che sanciva la prima settimana di risveglio dal coma, Demelza sussultò quando lui le prese di nuovo la mano, stringendo talmente forte che lei non riuscì a sottrarsi a quel contatto. "Demelza, ti prego, parlami..." - la implorò.

Col fiato corto, presa in contropiede, lo guardò. "Lo faccio, mi pare".

"No, non lo fai...".

"Non ho niente da dirti più di quello che ti comunico durante la giornata, sai tutto quello che c'è da sapere e che ti ha detto Dwight e quindi non trovo altri argomenti di conversazione da intavolare con te".

Ross scosse la testa. "Ma... non ci vediamo da quasi tre anni...".

"Già, e avremmo continuato a non vederci, se Dwight e Caroline non si fossero intromessi".

Ross le strinse ancora di più il polso, intrecciando poi le dita con le sue, come faceva tanto tempo prima, quando facevano l'amore insieme. "Dimmi qualcosa di te... Dove siamo, cosa fai, come stai... Parlami di Jeremy...".

Lo guardò, irritata e allo stesso tempo confusa da quel contatto che le faceva quasi bruciare la mano. Sapeva che sarebbe arrivato quel momento, dannazione! E non ci era preparata. "Ti trovi nell'appartamento sopra la locanda che gestisco, sto bene, ho un buon giro d'affari e, grazie a qualche investimento azzeccato, posso definirmi... benestante...". Beh, era stata molto evasiva, non aveva accennato alla portata degli affari e del denaro a sua disposizione e allo stesso tempo lo aveva rassicurato sulle sue condizioni finanziarie, Ross poteva dirsi soddisfatto, pensò. Anche se era strano definirsi 'benestante' perché da due anni a quella parte era diventata decisamente ricca, ma non aveva voglia di metterlo al corrente del giro d'affari che gestiva. "Contento e soddisfatto, ora?".

"Jeremy?" - insistette lui.

"Sta bene" – rispose, secca.

"Dov'è? Qui non c'è e non ho mai sentito la sua voce".

"Vive nella mia nuova casa, ad alcuni isolati da qui. Questo dove siamo ora, è il primo appartamento che ho occupato a Londra dopo che me ne sono andata da Nampara, ma adesso posso permettermi una casa più grande e lui è la, assieme a persone che si occupano di lui fintanto che sono qui con te".

Gli occhi di Ross divennero lucidi. "E' cresciuto?".

Demelza sorrise freddamente a quella domanda, mentre una strana rabbia prendeva possesso di lei. Ross aveva sempre ignorato suo figlio e ora giocava a fare il padre premuroso? Ora che era troppo tardi? "Certo che è cresciuto! Sta bene, è un bambino sensibile ed intelligente e anche se ha solo cinque anni, sa già leggere e scrivere". Diede uno strattone alla sua mano, liberandosi dalla stretta del marito. "E ora, direi che puoi dormire! Ho necessità che tu guarisca presto, ho un sacco di cose da fare".

"E quando sarò guarito?".

A quella domanda, uno strano silenzio lungo alcuni istanti si creò fra loro. Era irritata, quasi sull'orlo del precipizio, pronta ad esplodere e a urlargli in faccia tutto il dolore e la delusione che l'avevano accompagnata per anni. Cosa voleva ora da lei, cosa pretendeva? Cosa si era messo in testa? "Quanto sarai guarito, tornerai a casa tua! Mi pare che laggiù tu abbia una miniera da mandare avanti".

"Torna con me".

"Perché? Prudie non ti tiene abbastanza pulita la casa e hai bisogno di una sguattera? La Wheal Grace va bene ora, assumi altro personale".

Ross rimase colpito da quelle parole velenose a cui non era abituato e i suoi occhi si inumidirono. "Non ho bisogno di una sguattera... Ho bisogno della mia famiglia".

A quelle parole, decise che voleva fargli un po' del male che lui aveva fatto a lei negli anni. "Tu non hai una famiglia, non ce l'hai più da anni... Ma io sì. A proposito, resterò qui fino alla Vigilia, ma poi pagherò qualcuno che resti qui a prendersi cura di te. E' Natale e voglio passarlo a casa mia, con le persone che amo e che mi amano. L'ho promesso a Jeremy e manterrò la mia parola".

Lo sguardo di Ross parve ferito ma non disse nulla, forse capendo finalmente che non c'era nulla che avrebbe potuto ottenere, da lei, non un discorso tranquillo, non un perdono, non una seconda opportunità. Si voltò di lato, dandole la schiena e rannicchiandosi sotto la coperta.

Demelza si stupì di se stessa, mai avrebbe creduto di parlargli così, non a lui che aveva amato più di se stessa. Eppure, nonostante avesse voluto ferirlo, non ne provò gioia. Lo guardò e gli sembrò fragile, solo e indifeso e l'istinto di provare a consolarlo e di chiedergli scusa per quelle parole fu talmente forte che, per evitare che accadesse, si alzò di scatto dalla sedia, uscì dalla stanza e intimò a Leslie, che lavorava fino a tardi, di stare con lui.

Si rifugiò nella camera di Jeremy, si nascose sotto le coperte e decise che non voleva più vederlo fino al mattino successivo. Si addormentò di sasso, sfinita da tutto, desiderosa che arrivasse subito il 24 dicembre per tornare alla serenità della sua casa, lontano da lui che sapeva ancora risvegliare in lei sentimenti tanto forti e contrastanti.

Però non dormì che poche ore. Prima della mezzanotte, Leslie irruppe nella stanza, svegliandola. "Signora, vostro marito ha di nuovo la febbre alta! E io dovrei andare a casa".

Si tirò su di soprassalto, presa da una forte preoccupazione, sentendosi in colpa per averlo lasciato solo quando aveva promesso di non farlo. La febbre? Di nuovo? Saltò giù dal letto e corse in camera di Ross che, nell'inscoscienza, si agitava sotto le coperte a causa dei brividi. E si sentì un verme per avergli detto quelle parole, poco prima. Ross doveva rimanere tranquillo e lei lo aveva provocato di proposito per fargli del male. E ora...

Andò da lui, gli si sedette accanto e stavolta fu lei a prendergli la mano. Era inutile, non ce la faceva a voltargli davvero le spalle. "Va a casa Leslie. Ci penso io a lui".

La ragazza annuì e, quando furono soli, Demelza gli accarezzò la guancia. "Mi dispiace" – sussurrò, dandogli un leggero bacio sulla fronte bollente, stupendosi per quel gesto che gli era venuto fuori spontaneamente. Era vero, gli spiaceva, odiava se stessa per averlo ferito. "Non volevo che stessi male".

A fatica, Ross aprì gli occhi. Si guardarono per un lungo istante e poi le cinse la vita, attirandola a se. Lo lasciò fare, si lasciò abbracciare e crollò con lui fra le coperte, mentre calde lacrime presero a rigarle il viso appoggiato al suo petto. Si odiava per la sua debolezza, per l'incapacità di resistergli e di rimanere fredda verso di lui e per la sensazione di benessere che provava a stare fra le sue braccia, dopo tanto. Non ce la faceva ad allontanarlo perché Ross era, nonostante tutto, colui che le aveva cambiato la vita, colui che l'aveva resa una donna, una moglie e una madre. Se era quel che era, lo doveva soprattutto a suo marito.

"Dispiace anche a me. Nemmeno io volevo che stessi male" – le sussurrò lui, fra i capelli, accarezzandoli.

Demelza lo abbracciò. "Sono qui Ross, ora sta tranquillo e riposa. Cerca di star bene domattina, se davvero vuoi farmi contenta".

"Lo farò". E con quelle parole dal sapore di una promessa, calò il silenzio fra loro.


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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


Da quando aveva avuto la febbre, Demelza era diventata più gentile con lui e anche le loro conversazioni erano più distese, tanto che in certi momenti la sua mente, ancora annebbiata dall'incidente, si rifugiava nella fantasia che quella lunga separazione non fosse mai avvenuta e che fossero ancora felici insieme, a Nampara. Ma poi la guardava muoversi in quella stanza, in quella casa che a lui era sconosciuta, avvertendo, oltre al forzato muro di cortesia che Demelza si era imposta di avere con lui, un muro alto e possente posto fra loro. Era vero, si era fatta abbracciare quella notte e aveva dormito fra le sue braccia, accanto a lui, ma la verità era che Demelza era lontana, persa a causa dei suoi errori e non più sua. Non avevano mai parlato, da quando si era svegliato, di quanto successo fra loro, di come il loro matrimonio fosse naufragato, delle disastrose conseguenze della sua notte con Elizabeth. Voleva parlarne ma avvertiva chiaramente che lei non desiderava farlo e allora stava zitto, la guardava, la osservava cercando di capire cosa facesse, le sue nuove abitudini e quanto fosse realmente cambiata. "Cosa stai facendo con quei libri?" - le chiese, mentre lei se ne stava seduta accanto al letto sulla sedia a dondolo, intenta a scrivere su dei grossi tomi.

Demelza sbuffò sconsolata. "Sto sistemando la contabilità annuale della locanda e sono già in ritardo con i termini di consegna. Credo che prenderò una multa...".

Era talmente strano vederla in quelle vesti di donna lavoratrice e dirigente di un'attività, che ne rimase colpito, affascinato. Era stata la sua domestica tanti anni prima, ma mai l'aveva immaginata nei panni di una donna libera, indipendente ed economicamente ricca. Ma in fondo l'aveva sempre saputo che era in gamba, intelligente e piena di risorse e che sarebbe stata capace di avere successo in ogni cosa. "Vuoi una mano? So farlo, i libri contabili della Wheal Grace li gestisco io".

"Lascia stare, ti tornerebbe il mal di testa. Sta venendo persino a me".

"E la multa?". Non riusciva a capire come facesse ad essere così tranquilla, aveva ben presente quanto potessero essere salate le sanzioni degli esattori, con chi non rispettava i termini.

A Demelza, invece, pareva che la cosa non la tangesse. "La pagherò" – disse, alzando le spalle. "Comunque ho ancora un po' di tempo, magari riesco ad evitarla".

La guardò senza sapere che cosa risponderle, rendendosi conto che non aveva affatto problemi di denaro. Gli aveva detto che aveva azzeccato degli investimenti e che non aveva problemi di denaro, ma non era stata troppo chiara a riguardo. Ricordò le parole di Prudie, quando gli aveva raccontato che era stata a Nampara l'anno prima, di quanto l'avesse trovata raffinata ed elegante, curata e tanto simile alle lady di città. Ora invece sembrava tanto simile alla Demelza che ricordava lui a Nampara, vestita con abiti semplici, con capelli raccolti in una mezza coda come sempre e anche quell'appartamento benché gradevole e ben tenuto, pareva piuttosto modesto. Certo, la sua vera casa era un'altra, glielo aveva detto, ma...

Un modesto bussare alla porta, interruppe i suoi pensieri.

Leslie, la lavorante di Demelza che più di tutti la aveva aiutata a prendersi cura di lui, entrò, esibendosi in un inchino. "Signora, alla locanda è arrivato lord Philippe Hidding".

Demelza alzò gli occhi su di lei. "Oh, ha bisogno espressamente di me?".

"Non proprio. Vuole solo sapere se stasera, per la riunione alla borsa, gradireste un passaggio in carrozza, che tanto deve passare da qui".

Guardò sua moglie che, confusa, fissava pensierosa il soffitto.

Demelza si accasciò sulla sedia, sbuffando. "Quale riunione?". Scosse la testa, mettendosi una mano fra i capelli, scompigliandoseli. "Ahh accidenti, ora ricordo, la fusione delle banche...".

"Che gli dico?" - chiese Leslie, sull'uscio.

Sua moglie guardò fuori dalla finestra, distrattamente. "Fa freddo, troppo persino per i miei gusti. Digli che accetto l'invito, non ho davvero voglia di uscire a piedi, stasera".

Leslie sorrise. "Sembra che vi dispiaccia!".

"Certo che mi dispiace! Avevo dimenticato questa cosa e con questo freddo sarei rimasta volentieri qui davanti al camino acceso. Invece dovrò uscire al buio, al freddo, per mettere una semplice firma".

"Si, però...".

"Però cosa, Leslie?".

La ragazza arrossì. "Lord Philippe è così giovane, bello ed affascinante, con quei suoi capelli biondi e quegli occhi azzurri come ghiaccio... E voi sarete sola soletta con lui su quella carrozza e credo che ogni donna della capitale vi invidierà per questo".

Demelza scoppiò a ridere. "Ah Leslie, se vuoi ti cedo volentieri il mio posto".

"Oh signora, so a malapena leggere, però...".

"Su, vai a dirgli che accetto l'invito" – concluse sua moglie, chiudendo i libri che stava sfogliando. "E poi torna qui, devo prepararmi e ho bisogno che ci sia qualcuno insieme a mio marito, nel caso avesse bisogno".

"Certo signora".

Ross guardò Leslie correre via e poi guardò Demelza, in un misto fra stupore, confusione e irritazione. Chi diavolo era questo affascinante lord tanto impudente da chiedere a sua moglie di uscire con lui di sera? E perché Demelza aveva accettato così, su due piedi? E soprattutto, cosa diavolo c'entrava sua moglie con la borsa e con una fusione fra banche? Voleva farle mille domande ma la sua lingua sembrava bloccata.

La guardò sistemare i registri sul comodino, alzarsi, stiracchiarsi e poi avviarsi verso la porta. "Come hai sentito, dovrò uscire un paio d'ore. Ti lascio alle cure di Leslie, ormai dovresti conoscerla e ti troverai bene con lei".

"Non uscire, non di sera..." - riuscì a mugugnare, sentendosi ridicolo a dire quelle parole, quando era palese che Demelza ci fosse abituata.

Lei sorrise. "E' una cosa breve, sarò di ritorno prima della mezzanotte. Ed uscire col buio è una cosa che faccio spesso, l'unica scocciatura è che stasera non ne avevo voglia. Accidenti, che cosa assurda concordare una riunione in borsa a pochi giorni dal Natale!" - sbottò, prima di uscire dalla stanza.

Ross rimase lì, in silenzio, senza riuscire a muoversi, senza avere la possibilità di alzarsi e di seguirla per chiederle spiegazioni a cui sapeva di non aver diritto. Non riusciva a sopportare che uscisse da sola per andare chissà dove, chissà con chi... Non lei, che ricordava sempre a casa ad attenderlo, pronta ad accoglierlo a braccia aperte. Era come se le posizioni si fossero invertite, era come realizzare davvero che tutto era cambiato.

Leslie fu da lui alcuni minuti dopo e per un paio d'ore non vide più Demelza. Fuori si fece buio, scese un nebbione fortissimo e i vetri della stanza si incrostarono di ghiaccio.

L'aiutante di sua moglie, seduta su una sedia, era tranquilla ed intenta a lavorare a maglia e forse avrebbe potuto fare due chiacchiere con lei per scoprire qualcosa, pensò. Era poco più di una ragazzina, Leslie, poteva avere forse vent'anni, un viso simpatico cosparso di lentiggini e dei capelli castani dritti come fusi che le arrivavano alle spalle. E soprattutto, era molto chiacchierona...

Quando il campanile rintoccò le otto, quando era convinto che Demelza fosse già uscita, a sopresa la vide tornare nella sua stanza. E rimase senza fiato, attonito, a bocca aperta... Stentava a riconoscerla... Della donna di poche ore prima vestita con abiti semplici, coi capelli un po' spettinati e l'aria tranquilla, non c'era più traccia. Era bellissima, altera, distante. Indossava un lungo ed elegantissimo abito blu, ornato di una pelliccia al collo e alle maniche, i capelli erano pettinati in perfetti boccoli che le ricadevano sulla schiena, era truccata in modo leggero ma visibile, indossava orecchini e un ciondolo di diamanti e fra le braccia aveva un mantello di lana dalle finiture raffinate. Era la sua Demelza, quella ma era come se non la conoscesse... Non l'aveva mai vista così, lo lasciava senza fiato. Eppure era proprio quella bellezza che lo disturbava, che gliela faceva apparire quasi estranea, distante, fredda e sconosciuta. Demelza non era così, quel modo di essere tanto raffinato, elegante e altero non gli apparteneva, lei era una persona semplice, solare, gentile, dolce, che non aveva paura di fare lavori umili e mettersi dalla parte delle persone più in difficoltà quando serviva. Cosa ci faceva con quegli abiti, in mezzo agli avvoltoi della borsa? Dov'era finita quella ragazzina che giocava con il suo cane nelle campagne della Cornovaglia?

"Ci vediamo dopo, Leslie" – disse, alla ragazza. Poi lo fissò, senza avvicinarsi. "Cerca di dormire Ross, devi riposare".

Annuì e rimase in silenzio mentre lei andava via, lasciandolo da solo con Leslie.

La ragazza sospirò, ammirata. "La signora è sempre così bella, mi lascia senza fiato ogni volta che va a questi incontri così importanti".

Prese la palla al balzo. "Ci va spesso, a questi incontri importanti?".

"Beh si, va a questi incontri importanti con gente importante perché lei è importante, qui a Londra".

Quel discorso gli era davvero incomprensibile ma al momento c'era un'altra faccenda che lo preoccupava. "Ci va sempre con quel lord biondo, a queste riunioni importanti?".

Leslie rise. "Lord Philippe? No, non credo. Però lo vede spesso perché hanno molti affari in comune. E poi lui ha un grande maneggio di cavalli da corsa fuori Londra e so che in estate la signora passa alcuni fine settimana da quelle parti per portare il signorino Jeremy a vedere le corse, visto che il bambino adora i purosangue. E lord Philippe ne è ben contento, a lui credo che lei piaccia molto e io la invidio per questo".

Ross alzò gli occhi al cielo, nervosamente. Era strano sentir parlare di quella Demelza a lui sconosciuta da altri e ancor più strano era sentir raccontare Jeremy da quella ragazzina che conosceva suo figlio meglio di lui. Il suo bambino amava i cavalli, pensò, come lui... "Da quanto lavori per mia moglie?".

"Da sei mesi. Sapete, mia sorella maggiore è la sua cameriera personale nella sua dimora e quando ha saputo che cercava una lavorante per la locanda gli ha parlato di me e la signora è stata ben felice di assumermi. Ha fatto molto per la mia famiglia, permettendo a me e a Dorys di lavorare. E siamo fortunate ad avere una padrona come lei, è sempre così gentile, dolce e non si pone mai come una persona di rango superiore, sembra una di noi. Io la ammiro molto perché non ha mai avuto paura di lavorare e di sporcarsi le mani, se necessario".

Ross chiuse gli occhi, felice che Demelza non avesse perso la dolcezza e l'umiltà che la contraddistingueva da sempre, nonostante tutto. "Lei è così...". Però, non capiva comunque tante cose. "Perché dici che è una persona importante? Perché doveva presenziare a questa riunione? Da che so, lei mi ha detto che ha solo fatto qualche investimento azzeccato".

Leslie spalancò gli occhi e per un attimo parve incerta e timorosa di avergli raccontato troppo. Poi si morse il labbro, abbassando il viso. "Beh... Qualche investimento azzeccato? La signora è in società con degli importanti azionisti di Londra, i fratelli Devrille. Gestiscono un giro di denaro immenso, sono tutti molto ricchi e detengono le quote azionarie di maggioranza di alcune fra le più importanti banche del paese. Vostra moglie è una delle donne più ricche e potenti di Londra, signore".

Spalancò gli occhi a quell'ammissione, gli sembrò che il terreno gli crollasse sotto i piedi. Come poteva essere, come ci era riuscita?

Leslie, rossa in viso, parve andare in panico davanti alla sua espressione. "Forse non dovevo dirvi queste cose, vi prego non fate parola con la signora delle mie confidenze".

Annuì, con fare assente. "Certo, tranquilla".

Leslie sprofondò sulla sedia. "Grazie".

Ross chiuse gli occhi, mentre sentiva il mal di testa tornare prepotentemente. Era annichilito, senza parole... Era strano pensare a lei, a sua moglie, come a una lady della Londra più potente e aristocratica, immaginare il rispetto e il timore che poteva incutere nelle persone e l'enorme potere nelle sue mani, se quello che Leslie aveva detto, corrispondeva a verità.

Non aprì più bocca, nella stanza piombò il silenzio e per ore nessuno parlò.

Pensò che forse doveva dormire, ma non ce la faceva. Doveva vederla, doveva parlarle, doveva capire... Era pur sempre sua moglie, la madre di suo figlio e si era messa in affari con quella parte di aristocrazia contro cui lui aveva sempre combattuto. Faceva parte anche lei, adesso, di quel ristretto gruppo di persone che si ergono a padroni e giudici dei più poveri? Era questa la vita che faceva adesso e che avrebbe atteso anche suo figlio, una volta diventato adulto?

Demelza tornò ben dopo la mezzanotte e Leslie, appena la vide, la salutò frettolosamente e corse via, come se avesse paura che lui la potesse tradire.

La camera era illuminata dal chiarore del camino acceso e da una candela posta sul comodino accanto al letto.

Sua moglie si mosse per la stanza piano, in punta di piedi per non svegliarlo. Per questo sussultò spaventata, quando le rivolse la parola, spezzando il silenzio della notte. "Non sto dormendo".

"Dovresti farlo, è molto tardi" – rispose lei, scrutandolo in viso.

"E' molto tardi anche per te".

"Vero, ma io ci sono abituata e non sono convalescente da un incidente".

Si voltò verso di lei, terribilmente irritato. "Sei abituata ad uscire la sera coi lord?".

A quella domanda, l'espressione di Demelza si incrinò, diventando vagamente sospettosa e irritata. "Credo che non siano cose che ti riguardano".

Non si sarebbe fatto intimorire da quel tono e si sentiva abbastanza in forze per affrontare una discussione seria con lei, in quel momento. "Molte persone comprano qualche azione che poi si rileva un ottimo affare, proprio come mi hai detto di aver fatto tu. Ma nessuna di quelle persone viene invitata in Borsa per firmare la fusione di due banche, sai? Molte persone che hanno fra le mani azioni fruttuose, non possono permettersi case lussuose o di pagare multe come se niente fosse, così come non possono permettersi di avere al proprio servizio così tanto personale come te. Così come non possono permettersi abiti eleganti e amicizie così altolocate".

Demelza si appoggiò alla finestra, fissando distrattamente il mondo fuori di essa. "Come ti ho detto, la mia vita non è più affar tuo. Quasi tre anni fa mi hai detto di togliermi di mezzo e io l'ho fatto, ora accettane le conseguenze".

Quelle parole lo ferirono perché a quanto pareva, oltre al muro di finta cortesia che Demelza stava usando con lui in quei giorni, la ferita per quanto successo fra lui ed Elizabeth in quella notte maledetta, era ancora aperta. "Voglio solo sapere chi è Demelza Poldark quando è fuori da questa locanda".

Sua moglie sospirò, si appoggiò con le mani al davanzale e poi, scuotendo la testa, roteò il viso verso di lui. "Demelza Poldark non esiste più, Ross". Gli si avvicinò, sedendosi sul letto accanto a lui. "Non esiste più dal giorno in cui ho tolto la fede dal mio dito".

Spalancò gli occhi, con un groppo alla gola, guardandole la mano sinistra. Era vero, non se n'era accorto, ma Demelza non portava più nessun anello all'anulare. "L'hai buttata?".

Gli indicò il cassetto sotto al comodino. "No, sta lì da quasi tre anni, chiusa dentro. Non ho più aperto quel cassetto dalla sera in cui ho gettato lì dentro quell'anello". Si alzò, tornando verso la finestra, un po' spersa nello sguardo. "Vuoi sapere chi è ora Demelza Carne? D'accordo, te lo dico...". Come in un racconto senza interruzioni, gli parlò di come, quasi per gioco, Martin Devrille le avesse proposto di entrare in società con lui, dopo la prima scommessa azzeccata fatta insieme e di come da allora le cose fossero andate talmente bene da farla diventare molto ricca e un'esperta di borsa. Gli raccontò pure di George Warleggan e del suo ruolo all'interno della Warleggan Bank, rivelandogli il motivo per cui il suo acerrimo nemico avesse smesso di perseguitarlo per paura di ripercussioni all'interno del consiglio d'amministrazione della sua banca. E infine, di come avesse deciso di tenere pure la locanda perché amava quel posto, perché gli ricordava le sue origini e di come avesse iniziato quella sua nuova vita.

Ross rimase sbalordito, attonito, in silenzio. Sentirla raccontare quelle cose era un miscuglio di sentimenti strani dentro di lui: ammirazione perché era arrivata più in alto di lui e allo stesso tempo rabbia perché si era mischiata con persone che lui odiava ed era entrata a far parte di un mondo ostile, falso, crudele, che cambiava le persone in peggio, facendole diventare come avvoltoi verso i più deboli. E soprattutto, odiava che fosse stata LEI a proteggerlo da George e dai suoi giochetti di potere e rivalsa. "Sei diventata amica delle persone che mi hanno perseguitato" – disse, semplicemente, alla fine del racconto.

"Pensi che io sia come George?".

"No, ma corri il rischio di diventarlo".

Demelza si appoggiò alla parete, incrociando le braccia al petto. "Io non desidero denaro e potere, se faccio quel che faccio è perché sono sola e voglio garantire un futuro a nostro figlio. Non ha nessuno a parte me e voglio che, se mi succedesse qualcosa, possa avere una vita sicura e stabile, senza dover finire a mendicare all'angolo di una strada".

Si sentì in colpa, a quelle parole, riconoscendo tutte le sue mancanze verso il figlio. "Jeremy ha un padre".

"Non hai mai voluto essere suo padre e nemmeno mi sognerò mai di chiederti di esserlo. Fra poco sarai guarito, tornerai a Nampara e ti dimenticherai che ci siamo incontrati. Non voglio discutere con te stasera, ma ricordati che a breve te ne andrai da qui".

Si sedette di scatto, provocandosi una violenta vertigine. Si accasciò con le mani sulla fronte, in cerca di equilibrio, e Demelza in un attimo fu accanto a lui sul letto. "Accidenti, te lo avevo detto che dovevi riposare! Perché sei tanto testardo e perché ti incaponisci a tornare su un argomento già chiuso? Dormi Ross!".

Alzò gli occhi su di lei, il suo sguardo prometteva scintille. Poi le prese il polso, lo strinse e la attirò a se. "Lascia tutto questo, prendi Jeremy e torna a casa con me".

"Scordatelo, io non torno a Nampara! Non tornerò a fare la moglie invisibile di un uomo che pensa unicamente al suo amore perduto e non ho davvero voglia di trovarmi Elizabeth e George come vicini di casa. Vivo qui ora, la mia vita è a Londra e il nostro matrimonio è finito".

Sentì pungergli gli occhi a quelle parole, rendendosi conto ancora una volta di quanto avesse fallito come marito. "Era davvero così terribile essere sposata con me?".

"Si, lo era" – ammise lei, con sincerità. "Non sempre, ma lo è stato di certo dopo la morte di Francis, quando di colpo io e Jeremy abbiamo smesso di esistere per te e siamo diventati solo un peso. E forse anche prima, quando comunque eri costretto ad accontentarti delle seconde scelte".

"Demelza, non è così! Ogni volta che ti ho detto che ti amavo, non mentivo". Scosse la testa, disperato. "Ti prego, non smettere di lottare per il nostro matrimonio".

Demelza abbassò lo sguardo. "Ho smesso di lottare tanto tempo fa per noi, Ross. Non è paura di ritentare o di riprovarci ma... semplicemente ci ho messo giù il pensiero. Non sarò mai come Elizabeth ai tuoi occhi, perfetta come lei, bella quanto lei... Non risveglierò mai in te la passione che riesce a risvegliare lei, non mi desidererai mai come desideri lei. La verità, Ross, è che non avremmo dovuto sposarci, non ero io quella che volevi e amavi, era per lei che dovevi combattere, era per lei che dovevi fare il pazzo per riprendertela, quando sei tornato dalla Virginia. Era da lei che avresti voluto dei figli, non da me".

Abbassò lo sguardo, colpito da quelle parole non rabbiose, non accusatorie ma piene di tristezza e dolore che lui le aveva inferto. Ricordò la lettera che Demelza gli aveva lasciato prima di andarsene, altrettanto amara, altrettanto disincantata. Non era vero niente, dannazione! Con Elizabeth non avrebbe trovato né gioia, né calore, né una famiglia. Le strinse la mano, accarezzandole le dita fra le sue. "Perdere Elizabeth, quando son tornato dalla Virginia, è stata la più grossa fortuna della mia vita perché mi ha permesso di trovare te, di conoscerti, di sposarti e di formare una famiglia dove mi sentivo amato, accettato, a casa. Felice... Ho fatto molti errori, odio quella notte in cui ti ho tradita e odio tutte le volte in cui ti ho mancato di rispetto per correre dietro a quella che era la fantasia romantica idealizzata di un bambino. Quella notte con Elizabeth...".

A quella frase, Demelza scattò, punta sul vivo. "Non ne voglio parlare!".

Scosse la testa, invece ne dovevano parlare! "Cercavo te, quella notte. Ma lei non era te, non sarebbe mai stata come te e mi ci è voluto quell'errore madornale per capire che ciò che mi univa a te, non potevo trovarlo da nessuna parte se non con te. Quello che avevamo noi, non potevo trovarlo con nessun'altra persona perché è ciò che ci unisce solo a chi amiamo davvero. Demelza, non posso tornare indietro, non posso cancellare quella notte, non posso che chiederti scusa e sperare in un tuo perdono. Ma sappi che non ho mai detto 'ti amo' a vanvera, che ti ho sempre amata più della mia stessa vita e che Julia e Jeremy sono stati la cosa migliore e più perfetta che io abbia mai fatto. Mi mancate, darei tutto quello che ho per riavervi indietro, per tornare ad averti come moglie e per essere il padre di nostro figlio".

Demelza abbassò lo sguardo, con gli occhi lucidi. "Tutte le volte che ti dicevo di non andare da lei, tu non mi ascoltavi e partivi al galoppo. Perché ora dovrei crederti? Perché dovrei tornare a casa? Perché dovrei rischiare la serenità che abbiamo ottenuto a Londra io e Jeremy? La mia vita ormai è qui. Non volevi altri figli dopo Julia, non hai mai voluto Jeremy e ora ne parli come se non essere il padre dei nostri figli sia il tuo più grande rimpianto".

"Pensi che non abbia mai amato Jeremy e Julia? Santo cielo, la morte di nostra figlia è il dolore più grande della mia vita! Come puoi credere che...?".

Demelza scosse la testa. "Amavi Julia, lo so questo. Ma so anche che, se lei non fosse morta, sarebbe diventata invisibile ai tuoi occhi esattamente come me e Jeremy. Avresti voltato le spalle pure a lei, dopo che Elizabeth è diventata la vedova di Francis".

Quelle parole lo ferirono perché forse potevano anche essere vere, avrebbe deluso pure Julia, se fosse rimasta. E quel pensiero lo annientava, a pensare alla sua piccola, perfetta bimba che avrebbe potuto soffrire a causa dei suoi errori.

Demelza abbassò lo sguardo. "Io sono fiera di quel che sono diventata qui e ho la consapevolezza di agire per il giusto e di essere circondata da brave persone. Londra è casa mia adesso, non Nampara!".

A quelle parole, ricordando quanto gli aveva detto Leslie poco prima e il racconto di Demelza circa i suoi affari, gli prese una strana rabbia. No, lei sbagliava! Lei non era così, la sua vita non era a Londra e lì non sarebbe mai stata davvero felice! Con un gesto veloce le prese il viso fra le mani, la attirò a se e piantò i suoi occhi in quelli di lei. "No, tu non sei così, la tua vita non è quella che ti sei costruita qui". Le portò una mano fra i capelli, scompigliando di proposito i boccoli perfetti che le ricadevano sulla schiena. "Tu sei sempre coi capelli sciolti, liberi, spettinati, sei quella che corre per aiutare tutti quelli che ne hanno bisogno e che lotta come una leonessa nelle battaglie della vita, per il bene della tua famiglia. Tu non sei una da abiti eleganti e raffinati, da cene di gala o da serate con uomini d'affari, tu sei la mamma di Jeremy e sono certo che preferiresti stare con lui la sera, invece che con Lord e banchieri. Puoi negarlo ma io so che è così, Demelza Poldark". Scandì il suo nome da sposata, perché se lo imprimesse in testa, mentre sua moglie lo guardava con occhi sgranati, senza trovare il coraggio e la forza per allontanarlo. E cedette ad ogni suo proposito di rispettare la richiesta di Demelza di stargli lontano. Era troppo vicina, troppo bella, troppo perfetta per resistergli ed erano stati lontani troppo tempo. La desiderava, impazziva dalla voglia di averla, di amarla, di tornare ad essere davvero suo marito. Si avvicinò, la attirò a se spingendola sulla nuca e la baciò sulle labbra, disperatamente, sentendosi finalmente a casa, al suo posto, con l'unica persona che valeva la pane avere a fianco.

Demelza rispose per un istante al suo bacio, schiudendo le labbra, illudendolo che anche per lei fosse così. Ma poi, dopo alcuni secondi, si allontanò bruscamente da lui, spingendolo sul cuscino ed alzandosi di scatto dal letto. Lo guardò con aria terrorizzata, furente, pulendosi le labbra col palmo della mano. "Non farlo mai più. Non mi bacerai, non mi toccherai, non farai niente... Non ho intenzione di stare con un uomo che passerebbe la vita a paragonarmi col fascino delicato e perfetto del suo primo amore. Ora farai come dico io, dormirai, guarirai e tornerai a casa! E' finita Ross, non riprovarci mai più".

Rimase attonito, allibito, odiandosi per quanto aveva appena fatto. Non voleva spaventarla, non voleva baciarla contro la sua volontà e soprattutto, non voleva che pensasse che sarebbe sempre vissuta all'ombra del ricordo di Elizabeth. Poteva dirle e ripeterle che la amava, che Elizabeth non contava più nulla, che era lei la sua ragione di vita, ma in quel momento Demelza era troppo sconvolta ed arrabbiata per credergli, per ascoltarlo, per tentare di sistemare le cose.

E per la prima volta da quando l'aveva rivista, in quel momento si rese conto che forse era davvero tutto perso, per lui... E che Demelza Poldark forse non sarebbe più esistita e non sarebbe stata più al suo fianco.


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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


Gli ultimi due giorni, dopo quel bacio che l'aveva colta di sorpresa, erano stati strani, silenziosi, carichi di una strana tensione che, prima di quel fatto, sembrava un po' essersi smorzata rispetto all'inizio.

Odiava se stessa, si era fatta cogliere di sorpresa, aveva permesso che lui si avvicinasse tanto da confonderla e si era fatta baciare. E dannazione, le era anche piaciuto, tanto che, se non fosse stato per la sua razionalità, avrebbe ceduto a Ross su tutti i fronti. C'erano tante cose che li dividevano, ma non poteva mentire a se stessa, lui sarebbe sempre stato una parte importante di lei, un amore infelice ma pur sempre un amore vero. Lo amava e lo avrebbe sempre amato, anche se le cose fra loro non erano andate come sperava e ormai lo aveva allontanato dalla sua vita.

Anche Ross pareva freddo, distante, cortese ma allo stesso tempo molto formale. Le parlava ma aveva smesso di cercarla, di provare a sistemare le cose e finalmente, dopo quanto si erano detti due sere prima, pareva essersi rassegnato al fatto che ormai tutto fosse finito fra loro.

"Come mai oggi c'è tutto questo silenzio? Non si sentono le voci provenire dal piano di sotto" – chiese, con fare annoiato.

Chiudendo i registri che aveva finito di compilare, Demelza si avviò verso la porta coi libri in mano. "Oggi è il ventitre dicembre, la locanda è chiusa e lo sarà fino al nuovo anno. Ho concesso otto giorni di vacanza ai miei dipendenti per stare con le loro famiglie durante il Natale, quindi per oggi ci siamo solo tu ed io". Aprì la porta, decisa a scendere al piano di sotto per sistemare i libri. "A proposito, ricordi cosa ti ho detto giorni fa, vero? Domani torno a casa mia, rimarrai solo e sarai il padrone assoluto di questa casa. Stai molto meglio ma non sei ancora in grado di essere completamente autonomo e quindi incaricherò una mia domestica di fare avanti e indietro per portarti cibo, cambi d'abito e per controllare che tu stia bene e che prenda le tue medicine".

"Non è necessario".

"Si che lo è, non riesci a stare in piedi per più di tre secondi senza avere vertigini".

A fatica, Ross si mise a sedere. "Posso viaggiare in carrozza e partirò il giorno dopo Natale per tornare a casa mia. Ho già abusato fin troppo della tua ospitalità e del tuo tempo".

Spalancò gli occhi, sorpresa. "Cosa? Ross, non se ne parla! Non stai ancora bene, arriveresti a Nampara a pezzi".

"E allora, una volta lì, mi metterò a letto e mi farò servire dai miei servi".

Si voltò verso di lui, furente, con uno sguardo che prometteva scintille. "No, non andrai da nessuna parte. Punto, fine del discorso". Non gli avrebbe permesso di fare una sciocchezza simile, non voleva che stesse di nuovo male, con tutto quello che aveva passato dopo l'incidente... Era vero, avrebbe dovuto essere felice che volesse andarsene ma... stranamente non era così. "Tu sei nato per farmi morire d'ansia".

"Non sono più un tuo problema, quindi puoi dormire sonni tranquilli. Tornerò a casa e, come volevi tu, faremo finta che questo mese non sia mai esistito. Partirò, che tu lo voglia o no, perché hai ragione, la tua vita non è più affar mio e allo stesso tempo la mia vita non è affar tuo".

Quelle parole la colpirono e la irritarono perché, benché in esse ci fosse racchiuso il nocciolo di quello che era ormai il loro rapporto, erano profondamente ingiuste. "No mio caro, non è la stessa cosa. E' vero, tu non hai più alcuna voce in capitolo riguardo alla mia vita ma io sì, per quel che concerne la tua, visto che per tre settimane non ho dormito per vegliarti, son stata lontana da casa e ho trascurato il mio lavoro. Quindi, tu ora resterai qui finché Dwight ti darà il permesso di partire, poi tornerai a casa o ovunque vorrai andare". Non aspettò la sua risposta e, irritata, scese al piano di sotto. Era fuori di se, furibonda. Come diavolo potevano venirgli in mente quelle parole? Come poteva non pensare all'ansia che gli procurava ogni volta che si metteva in testa qualche idea idiota delle sue? Come poteva parlarle con quel distacco che, era vero, lei aveva cercato e preteso da lui, ma che ora gli faceva male?

Scese alla locanda, avvolta da silenzio e buio, tirando le tende perché entrasse un po' di luce dalla vetrata che dava sulla strada.

Nervosamente, sistemò i registri nell'archivio e poi prese uno straccio per spolverare tavoli e sedie, desiderosa di scaricare la tensione con qualche lavoro fisico. Aprì i vetri per arieggiare il locale e spalancò la porta d'ingresso per fare entrare aria fresca – o fredda – sperando di calmarsi e di tornare poi al piano di sopra più tranquilla e meno propensa a prenderlo a schiaffi. Era un dannatissimo testardo, aveva la testa dura come quella dei muli e non capiva se questa idea malsana di partire subito fosse dovuta a una sorta di dispetto che voleva farle o al fatto che davvero volesse tornare a casa sua. Beh, indipendentemente dal motivo, era rimasto lo stesso imprudente testone di una volta. Ecco da chi aveva preso Clowance, da lui! Stessa testa dura e cocciutaggine del padre, crescendo l'avrebbe fatta dannare pure lei, ne era certa!

Assorta in quei pensieri, non si accorse dell'ombra apparsa dietro di lei, entrata furtiva dalla porta aperta.

"Signora Demelza, è un po' che non ci vediamo e siete diventata troppo sfuggente per i miei gusti" – disse il nuovo arrivato, chiudendo con un gesto secco la porta dietro di lui, girando poi la chiave e tirando le tende.

Demelza, presa alla sprovvista, spalancò gli occhi spaventata. Cosa diavolo ci faceva lui lì? Le aveva fatto mille improvvisate a casa ma mai alla locanda. "Mister Smith... A cosa devo questa improvvisata?".

L'uomo si avvicinò a lei, minaccioso. "Sono venuto a porgervi gli auguri di buon Natale. A casa siete introvabile e alla fine son dovuto venire qui".

Indietreggiò, preoccupata. Era sempre stato viscido e infido, ma ora aveva la strana sensazione che fosse anche aggressivo. "Non dovevate disturbarvi".

"Chiudete finestre e tende, dobbiamo parlare in privato".

"No".

Smith scosse la testa, scocciato. "Io lo farei, se fossi in voi. Avete due gran bei bambini di cui conosco orari di uscita e abitudini e sarebbe davvero un peccato che a quei due dolci innocenti succeda qualcosa a causa della testardaggine della loro madre".

Demelza guardò fuori dalle finestre, cercando un appiglio, una figura conosciuta che potesse aiutarla, senza però trovarla. "Lasciate fuori da questa storia i miei figli!".

"E allora, chiudete le finestre e tirate le tende" – ripeté di nuovo.

Demelza ubbidì, non sapendo cos'altro fare. Chiuse tutte le finestre, schernò con le tende l'interno della locanda e poi si voltò verso di lui che, davanti alla porta, le precludeva ogni via di fuga. "Cosa volete?".

"Le azioni della Northern. Il tempo stringe, firmate l'accordo di vendita e facciamola finita".

Demelza scosse la testa. "Il tempo stringe? Per cosa?".

"Non sono affari vostri!".

"Oh, si che lo sono, visto che le quote di maggioranza della Northern Bank sono mie".

Smith scosse la testa, avvicinandosi a lei a piccoli passi. "Sapete signora, io ritengo che una donna serva solo per una cosa e quella cosa non è gestire affari. Vediamo se riesco ad essere più esplicito".

Demelza indietreggiò, finendo con la schiena contro il muro. "Andatevene".

"Quando avrò finito. Siamo soli, nessuno ci disturberà e, a conti fatti, magari lo troverete anche piacevole". Con un gesto veloce le prese il polso, stringendolo con violenza, dimostrando una forza che non gli si sarebbe mai potuta attribuire, a prima vista.

"Lasciatemi!" - urlò, dimenandosi.

Smith la prese per la vita, le fece lo sgambetto e la fece cadere a terra. In un attimo fu sopra di lei, stringendole la vita ed immobilizzandola. "Volete che prosegua e che vi faccia vedere come deve essere trattata una donna capricciosa o venderete?".

"Non vederò niente!" - urlò, tentando inutilmente di liberarsi dalla sua stretta, mentre avvertiva le mani di Smith alzarle la gonna e risalirle le gambe. Il terrore la invase. Cosa doveva fare? Cedere? Urlare? Che diavolo nascondevano quelle azioni, cosa voleva Smith da lei, perché era disposto a compromettere la sua reputazione con un gesto di violenza su una donna per avere quelle quote?

Quando la mano di Smith raggiunse il suo seno, chiuse gli occhi, arrendendosi all'inevitabile, mentre le lacrime le bagnavano il viso.

"Lasciala stare, maledetto!".

Aprì gli occhi di colpo, trovando Ross a pochi passi da loro, in piedi, poggiato con la mano alla parete. Era pallido ma probabilmente, sentendo le sue urla, era riuscito a scendere le scale per correre in suo soccorso.

Smith lo guardò con aria selvaggia, aggressiva. "E voi chi siete?".

Ross non gli rispose. A grandi falcate lo raggiunse, prendendolo per il bavero e spingendolo a diversi metri di distanza.

"Chi siete?" - urlò di nuovo, Smith.

Demelza si tirò su, massaggiandosi il polso ed asciugandosi poi le lacrime. "Lui è mio marito. Ed è molto meno diplomatico di me".

Ross gli andò addosso, sembrava non avvertire né spossatezza né vertigini. Il suo viso era pura rabbia, gli tirò un calcio nel fianco e poi uno sulla schiena. "Prima che ti uccida, esci da qui e non farti più vedere".

Ancora col fiato corto, Demelza indietreggiò fino alla parete. E a quel punto Smith capì che era meglio andarsene e, dopo essersi rimesso in piedi e aver aperto la porta, scappò via.

Quando furono soli, Demelza si appoggiò al muro, accasciandosi a terra.

Ross si avvicinò, fermandosi a pochi passi da lei. "Stai bene?".

"Non lo so".

"Chi era quell'uomo? Lo conosci? Cosa voleva da te?".

A fatica, si rimise in piedi, ancora molto scossa, sentendosi addosso le mani di quell'uomo. "E' nell'alta finanza di Londra. Il suo nome di famiglia è Smith e...". Era strano, era spaventata e le tremava la voce, tanto che faticava a parlare. "Io non so, in realtà, cosa voglia da me. Cioé, lo so ma non capisco".

Credeva che Ross l'avrebbe sommersa di domande ma, prendendola di sopresa, si limitò a poche parole. "Beh, lui fa parte di quel mondo marcio di cui sei entrata a far parte e di cui ti ho parlato giorni fa. Non metto in dubbio che ci siano brave persone all'interno di quel mondo, ma è abbastanza probabile che la maggior parte siano come questo mister Smith".

Sussultò. Ross sembrava così distante, freddo... Aveva rischiato di subire una violenza e lui stava lì, senza muoversi, senza preoccuparsi. Era una sensazione strana, spiacevole, nonostante comunque fosse corso a salvarla... "Vuole comprare da me delle azioni di una nuova banca, la Northern. Sono azioni in mio possesso che valgono poco-niente, ma lui insiste e spesso me lo sono trovata a casa ad orari improbabili per convincermi a venderle. E' sempre stato molto insistente ma mai aggressivo. Fino ad ora, quando me lo sono trovato qui. Ho aperto la porta per cambiare aria e...".

"Non mi devi spiegazioni. Fa parte del gioco a cui stai giocando, Demelza. Prenditi una guardia del corpo e risolverai il problema. Fra quelli della tua classe, funziona così".

"Fra quelli della mia classe?". Quella freddezza e quella presa di distanza la ferivano terribilmente. Gli aveva chiesto di rinunciare a lei e ora che lo aveva fatto, si sentiva sola e spersa. Che le prendeva? Era la conseguenza di quanto appena successo con Smith a farla sentire tanto debole? Oppure, forse, non era quello che davvero voleva da Ross?

Lui annuì. "Sì, voi ricchi spesso avete guardie del corpo. Fa parte del gioco e del mondo dorato in cui vivete. Limita un po' la libertà ma dormirai sonni tranquilli. Hai molto denaro, potrai assumere una guardia per te, una per casa tua e una per il tuo bambino, senza alcun problema".

"Il MIO bambino?". Aveva preso le distanze non solo da lei ma anche da Jeremy. Beh, non era stata proprio lei a chiedergli di farsi da parte? Scoppiò a piangere, ancora, come una ragazzina. Era spaventata, disperata, si sentiva enormemente sola e inerme.

Solo a quel punto, Ross ebbe una reazione. Si avvicinò, sfiorandole una spalla. "Ti senti bene? Quel tizio ti ha fatto qualcosa di male prima che io arrivassi?".

Scosse la testa, fra lacrime e singhiozzi. "No, non sto bene. Se tu non fossi arrivato, lui... lui...".

"Ma sono arrivato. Avanti, smetti di piangere, mi stai spaventando".

Demelza scosse la testa, aggrappandosi alla sua camicia. "Non capisci come mi sento? Non capisci che se non c'eri tu, lui avrebbe...".

"Demelza, io c'ero. E anche se non vuoi più avermi come marito, fintanto che sarò qui credo che, almeno, sia mio dovere proteggerti, se ce ne fosse bisogno". Le accarezzò la guancia, piano. "E ora fammi sedere, credo mi giri terribilmente la testa".

"Oh Ross". Quasi non l'avesse sentito, si rifugiò fra le sue braccia, piangendo ancora più forte. "Non avresti dovuto alzarti, ma sono felice che tu l'abbia fatto". Pianse, a lungo, fra le sua braccia, cullata dalle sue carezze sulla schiena.

Restarono così, abbracciati, per lunghi minuti. Poi, quando si fu un po' calmata, alzò lo sguardo su di lui, sfinita. "Scusa... Tu stai male e io ti sto tenendo qui in piedi".

Ross si guardò attorno, smarrito. Era la prima volta che scendeva alla locanda e quell'ambiente doveva apparirgli sconosciuto. "Non fa niente. Ti senti meglio?".

"Si".

Le sorrise. "E allora, per favore, spranga quella porta e accompagnami di sopra".

"D'accordo".

Chiuse la porta a chiave, mettendoci un doppio lucchetto. Poi lo accompagnò di sopra, aiutandolo a rimettersi a letto. Era terribilmente pallido e, passato l'effetto dell'adrenalina, il suo fisico stava subendo i postumi dello sforzo appena fatto. "Va meglio?".

Passandosi una mano sulla fronte sudata, Ross annuì. "Si, prendere a calci qualcuno ogni tanto, è sempre terapeutico. Aiuta a far passare lo stress. Tu come stai?".

"Bene" – mentì. Non era vero però, era ancora spaventata da quello che Smith le aveva fatto, da quello che avrebbe potuto fare e da quello che aveva detto sui suoi figli. Spesso, l'estate precedente, lo aveva colto sul fatto a spiare Clowance e Jeremy che giocavano nel giardino, studiandone orari e abitudini, ma fino a quella sera lo aveva creduto incapace di nuocere a qualcuno. Ma ora lo sapeva, Smith era senza scrupoli e avrebbe fatto del male anche a due bambini, per i suoi interessi.

"Demelza?".

Si accorse che stava tremando e che le sue mani erano scosse da tremiti. Il suo viso era rigato da lacrime, scese senza che se ne accorgesse. "Lui mi fa paura".

"Se n'è andato, hai chiuso la porta a chiave e per un po' di giorni avrà mal di schiena. Ti lascerà in pace, soprattutto quando vedrà che avrai delle guardie del corpo che vigilano su di te. Demelza, non è successo niente, per fortuna".

Lo guardò, disperata, furente, fuori di se, non riuscendo a controllare le sue emozioni. Si sedette sul letto, accanto a lui, stringendo la coperta fra le mani. "Tu non capisci... Lui non minaccia solo me. Se... se... non gli darò quel che vuole, lui...".

A quel punto, Ross ebbe una reazione più forte, lasciando da parte l'autocontrollo che si era imposto fino a poco prima. Le strinse le spalle, costringendola ad alzare il viso su di lui. "Che cosa? Demelza, cos'è che ti spaventa tanto?".

"Lui li controlla, sa i loro orari, cosa fanno, dove trovarli".

"Chi?".

"I bambini... Gli farà del male se non gli vendo quelle azioni e forse dovrei farlo, a questo punto".

Ross si oscurò, guardandola senza capire. "Quali bambini?".

Fra le lacrime, Demelza abbassò lo sguardo. "I nostri bambini".

Ross si accigliò mentre lei, distrutta, crollò fra le sue braccia. La guardò, con lo sguardo con cui si osserva una persona fuori di senno. "Stai parlando di Jeremy? E di Julia? Demelza, Julia non è più con noi e l'unica cosa positiva è che ora sta in un posto dove nessuno puo' farle del male. Cerca di stare tranquilla, stai iniziando a preoccuparmi".

"Non sto parlando di Julia!" - sbottò lei, esasperata. Si tirò su, a fatica, capendo che ormai, nella disperazione, si era spinta troppo oltre per continuare a tenere quel segreto. Doveva dirlo, voleva dirglielo! Era il padre dei suoi figli, Ross, e aveva diritto di sapere che qualcuno minacciava Jeremy e Clowance. E aveva bisogno di condividere quel peso con lui, non ce la faceva da sola, non dopo quanto successo poco prima. Lui l'avrebbe odiata, si sarebbe arrabbiato, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. E comunque, nonostante tutto, forse li avrebbe protetti. "Quando me ne sono andata da Nampara, io non lo sapevo ancora ma poi qui, a Londra...".

Ross spalancò gli occhi, capendo dove sarebbe caduto il discorso ben prima che lei terminasse la frase. Il suo viso si riempì di senso di colpa, dolore, costernazione. "Eri incinta? Santo cielo...".

Demelza annuì, accarezzando le coperte. "Lei è nata qui, in questa stanza, su questo letto..." - disse, con sguardo perso.

Credeva che Ross si sarebbe arrabbiato, che avrebbe alzato la voce e le avrebbe urlato contro tutta la rabbia per non esserne stato informato invece, inaspettatamente, la abbracciò, stringendola talmente forte che per un attimo le sembrò di soffocare. La baciò sulla fronte, accarezzandole i capelli e i suoi occhi divennero lucidi. "Ho una figlia?" - chiese, con la voce spezzata dall'emozione.

Annuì. "Sei arrabbiato?".

"Si. Con me stesso perché, a causa dei miei errori, tu hai dovuto affrontare tutto da sola e io mi sono perso tutto. E perché quella dannata notte non ho abbandonato solo te e Jeremy ma pure una bambina che aveva appena iniziato ad esistere e che io avrei dovuto proteggere. Avevo promesso a Julia che avrei lottato per rendere il mondo un posto migliore e ho fallito su tutto, rendendo un inferno persino la mia casa, tanto da spingerti ad andartene".

Rimase colpita da quelle parole, da quell'atteggiamento. Ross era sempre stato orgoglioso e poco incline ad ammettere i suoi errori mentre ora se ne faceva carico, totalmente, senza cercare alibi o scuse. "Avrei dovuto dirtelo, forse. Ma io credevo che non ti sarebbe importato, che saresti corso subito da Elizabeth, dopo che me ne ero andata, e che la bambina l'avresti vista solo come un peso, come me e Jeremy".

Ross le asciugò le lacrime con la mano, commosso a sua volta, baciandola nuovamente sulla fronte. "Mi dispiace che tu abbia creduto una cosa del genere e mi rendo conto che, se lo hai pensato, è a causa mia". Le strinse la mano, accarezzandola piano. "Credimi, Demelza! Io mi odio per quello che ho fatto, che TI ho fatto. Non vedo Elizabeth dalla notte prima del suo matrimonio e in quell'occasione andai da lei solo per parlare e per metterla in guardia da George. Non ho mai pensato di vivere con lei e subito mi sono reso conto di quanto avessi idealizzato lei e trascurato te e la mia vera famiglia. Eravate voi la mia ricchezza, il mio mondo e la mia ragione di vita e io, stupidamente, l'ho capito solo quando vi ho perso. Sono stato un idiota e un arrogante senza pari". Le sfiorò il mento, costringendola a sollevare il viso. "Guardami!".

"Ross...".

"Ascolta, credimi per favore! Per me non esiste nulla di più importante di te e dei nostri figli. Averti come moglie ed essere il padre dei bambini che tu mi hai dato, è il mio orgoglio. Sono fiero dei miei figli e non avrei voluto averli da nessun'altra donna che non sia tu. Ti prego, mi conosci meglio di chiunque altro, lo sai bene che non sto mentendo".

Demelza chiuse gli occhi, inspirò profondamente e lasciò che ansia, dolore, tristezza defluissero da lei. Le aveva detto parole che ogni donna avrebbe desiderato sentire dal suo uomo e sì, le faceva piacere, era tutto quello che aveva sempre desiderato. Che la amasse, che fosse l'unica scelta per lui, non il ripiego. "Ti credo" – disse, arrendendosi al fatto che era così. Gli credeva, VOLEVA credergli! Aveva bisogno di lui, voleva che ci fosse, accanto a lei e accanto ai bambini. Ricominciare poteva essere la più grande sfida della sua vita ma era anche abbastanza folle da credere che poteva essere possibile, nonostante le esistenze così diverse che conducevano. Lasciò che le sfiorasse i capelli, che l'attirasse a se. Lasciò che la baciasse, a lungo, sulle labbra. Conosceva il sapore dei suoi baci ma per tanto tempo aveva creduto di averlo dimenticato. Non era così, Ross era la sua casa, il suo amore, la sua vita e queste sono cose che non si dimenticano mai.

"Parlami di lei" – disse Ross, contro le sue labbra.

"Di chi?".

"Della mia bambina".

Sorrise, a quella domanda. "La conosci già".

Ross si allontanò bruscamente da lei, guardandola nuovamente come se fosse stata pazza. "Come posso conoscerla?".

"L'hai incontrata la scorsa estate, a casa di Caroline".

Ross spalancò gli occhi, mentre sul suo viso sfilarono espressioni diverse che andavano dalla sorpresa, allo stupore, alla consapevolezza e infine alla gioia. "La bambina dei draghi! Clowance?!". Scoppiò a ridere come se fosse ubriaco, felice. "E' mia? Quella splendida, vivacissima e testarda bambina è mia?" - urlò, prendendole il viso fra le mani.

Anche lei sorrise, in modo più controllato, quasi avesse paura che quello fosse solo un bel sogno. Sembrava così felice Ross, dopo che per anni aveva creduto che avrebbe rifiutato ogni responsabilità verso i suoi figli. "Si, l'hai descritta bene. E' proprio così, splendida, testarda e vivace. Una Poldark fatta e finita".

Ross la abbracciò, trascinandola nel letto, riprendendo a baciarla con passione. "Sei sicura che sia solo dai Poldark che ha preso? Io, in lei, ho visto molti tratti di te".

Demelza sbuffò. "A modo suo, ha preso il meglio – o il peggio – da entrambi. E' un osso duro, mette sotto persino suo fratello quando litigano".

"E' bella come te!" - le disse, stavolta più serio. "Ed è il mio orgoglio più grande". Le sfiorò i capelli, la vita, la abbracciò e la costrinse a rifugiarsi sotto le coperte con lui. "Quando l'ho vista, la scorsa estate, ho pensato che l'uomo che aveva una figlia così, doveva essere davvero fortunato. E ora, sapere che quell'uomo sono io... Quante cose mi sono perso, non ci sono mai stato, né per lei, né per Jeremy... E questo non me lo perdonerò mai, non accetterò mai di aver sacrificato la mia famiglia per uno stupido ideale infantile che non contava niente".

Demelza gli sfiorò la guancia. "Non partire, Ross. Resta qui, con noi".

"Lo vuoi davvero?".

"Si".

"Solo a una condizione!".

Demelza si accigliò. "Quale?".

Ross le prese la mano sinistra, baciandola con passione. "Che tu ti rimetta la fede, signora Poldark. E' la sfida più grande della tua vita, rimetterti quell'anello. Vuoi farlo?".

"Si". Deglutì, ricordando quanto fosse stata disperata la sera in cui se l'era tolto. Poi si alzò, aprì il cassetto e riprese fra le mani quel piccolo anello d'oro che Ross, tanti anni prima, quando era ancora incredula che la stesse sposando, le aveva messo al dito. Glielo diede e lui, con un gesto lento, glielo rimise al dito. Poi si baciarono, con passione, e Ross la attirò nuovamente sul letto, baciandola sulle labbra, sul collo, sfiorandole la vita e accarezzandole la schiena e i lunghi capelli rossi, con gesti lenti e studiati. "Non chiedermi di fermarmi, perché tanto non ti darei ascolto".

Le punte dei loro nasi si sfiorarono e Demelza, col fiato, corto, gli baciò il collo, per poi risalire alle sue labbra. "Non mi pare di avertelo chiesto".

"Meglio così, Demelza Poldark".

Pensò che sentir pronunciare il suo nome da quella voce calda, fosse l'unica cosa che avesse mai desiderato nella sua vita. "Mi sei mancato".

"Anche tu...Voi...". Le sfiorò la mano con la fede, accarezzandola. "Non togliertela mai più".

"E tu non dimenticarti mai più di averla al dito" – disse lei, in un tono dolce ma fermo.

Si baciarono a lungo, presi da una frenesia che ben conoscevano perché da sempre, fra loro, l'attrazione era stata fortissima. Ross le sciolse i capelli, l'aiutò a togliersi i vestiti e poi accarezzò il suo corpo quasi con terrore, timore di farle male. Anche se, per la verità, quella più preoccupata era lei. "Sei sicuro che...".

"Sto bene".

"Si... Ma...". Era dannatamente difficile parlare, mentre Ross la baciava sul ventre e sul petto. "Non dovresti riposare?".

"Questo non mi ucciderà, sta tranquilla".

Lo riattirò a se, ricatturò le sue labbra e lasciò che la baciasse a lungo. Non aveva fretta, era stata una dura lotta contro se stessa cedergli ma ora voleva gustarsi ogni attimo col suo uomo, scoprire cosa si provasse a sapere di essere l'unica per lui, senza segreti, senza primi amori o sogni infantili che li dividessero.

"Ti amo, Demelza Poldark. Non ho mai smesso di farlo e la mia vita, senza di te, è stata inutile e vuota".

"Ti amo anch'io, Ross".

Mentre la candela sul comodino pian piano si consumava, rilasciando un alone dorato attorno a se, fecero l'amore, a lungo, ritrovandosi come coppia, amici, amanti, genitori, in un modo dolce e allo stesso appassionato ed intenso, come da sempre era stato il loro rapporto. Entrambi avevano sbagliato molto, si erano feriti e si erano negati l'un l'altro a lungo. Ma erano come calamite e prima o poi, e ora lo sapevano, qualcosa li avrebbe attirati ancora l'uno davanti all'altro, fondendoli di nuovo.

Non sarebbe stato facile, lo sapevano bene. Il vero amore non è quello perfetto delle fiabe ma quello che, nelle tempeste, sa affrontare i problemi e uscirne vincitore, più forte di prima. Non si sarebbero mai illusi dal 'Vissero felici e contenti', sapevano che la vita, come l'amore, è una lotta e un qualcosa da coltivare giorno dopo giorno e che a volte il sole non sorge ma ti regala giornate buie. Ma stava proprio nella forza di un rapporto sopportare quelle giornate buie, per poi gioire insieme quando il sole sarebbe tornato.

Mentre faceva l'amore con lei, Ross non gli tolse gli occhi di dosso, quasi che i loro sguardi fossero incatenati l'un l'altro. Era qualcosa di unico, intimo, profondo, guardarsi negli occhi in quei momenti e Demelza lo sapeva, solo con lui sarebbe riuscita a vivere qualcosa di tanto sconvolgentemente intenso e bello, come se fossero davvero fusi, come se fossero stati davvero una cosa sola.








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Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


Il fuoco del camino era spento da ore probabilmente, ma se ne era accorta solo ora che era ormai mattina. Si strinse a Ross che le cinse la vita con le braccia, attirandola a se, rabbrividendo. "Sono una pessima moglie. Non ti ho fatto riposare e ora ti sto facendo morire di freddo perché non riesco a trovare la forza di alzarmi per riaccendere il fuoco".

Ross sorrise, baciandola sulla fronte. "Credo che le pessime mogli siano altre".

"Se lo dici tu...". Demelza chiuse gli occhi, si sentiva strana e anche imbarazzata, benché fosse una cosa stupida. Era la moglie di Ross e tante volte si era svegliata al mattino, nuda, fra le sue braccia, dopo una notte passata a fare l'amore. Già, una volta era normale che fosse così, ma tre anni prima tutto era cambiato e non credeva che avrebbe ritrovato un'intimità così intensa con lui. Era stato qualcosa di strano, irrazionale, istintivo e allo stesso tempo carico di sentimenti che entrambi avevano rimosso a lungo. Era stato impossibile resistersi, stare lontano, cercare una scusante per non fare l'amore con lui perché voleva Ross, lo aveva sempre voluto, non ci poteva girare troppo attorno, lo aveva desiderato anche negli ultimi tre anni, nonostante tutto. E le parole che le aveva detto il giorno prima le avevano scaldato il cuore, un cuore che credeva arido e ormai incapace di provare ancora sentimenti verso di lui. Si erano amati per tutto il pomeriggio, la sera e la notte appena trascorsa, affamati e mai sazi l'uno dell'altra. Lui l'aveva desiderata, guardata, ammirata, come se al mondo non ci fosse che lei, come sognava da sempre, come credeva non l'avrebbe amata mai. E ora, fra le sue braccia, avrebbe voluto che il tempo si fermasse, cristallizzandoli per l'eternità così, insieme, l'uno fra le braccia dell'altro. "Comunque, dovresti dormire un po', ora".

"Dormirò se dormirai anche tu!" - rispose lui, deciso.

Demelza alzò lo sguardo su di lui, gli prese la mano sinistra nelle sue e gli accarezzò le dita e il palmo, piano. "Ormai è abbastanza tardi, di solito se sono sveglia a quest'ora, difficilmente mi riaddormento".

"Perché? Non sei una lady che puo' fare quello che vuole, adesso? Non potresti startene a dormire quanto vuoi?".

Sorrise. "Potrei farlo, se non fosse per i nostri figli". Era strano, bello, parlare con lui dei bambini.

"Perché?".

"Prima si sveglia Clowance, all'alba. Scivola giù dal letto, sceglie il suo giocattolo preferito della giornata, viene da me nella mia stanza, sale sul mio letto e poi, per svegliarmi, mi getta sulla fronte il suo gioco. Mezza intontita la prendo, la abbraccio, la metto sotto le coperte, lei si addormenta e provo a riaddormentarmi anche io. Qualche ora dopo arriva anche Jeremy, mi sveglio del tutto e resto lì con loro, che non stanno fermi un attimo, finché la mia domestica non ci chiama per la colazione".

Il viso di Ross si addolcì a quelle parole. Le accarezzò la guancia e la baciò teneramente sulle labbra, abbracciandola. "Parlami ancora di loro, ti prego. Dimmi tutto quello che avete fatto insieme, giorno dopo giorno, in questi tre anni".

"Ci vorrebbero tre anni per farlo" – commentò lei, divertita.

"Beh, fammi un riassunto".

Sospirò. "Jeremy ama i cavalli, ne è affascinato. Gli piace disegnare e quest'estate ha insistito per avere un istitutore che gli insegnasse a leggere e scrivere e visto che sembrava tenerci tanto, l'ho assecondato. E anche se ha solo cinque anni, impara talmente in fretta da lasciarmi stupita... E' tranquillo, sensibile e allo stesso tempo furbo, quando gli conviene. Clowance è... beh, l'hai vista, testarda, vivacissima, piuttosto esigente e quando ti dice che vuole qualcosa, di solito non la chiede, la pretende! Lei è un osso duro e si arrabbia quando viene contrariata, però sa anche essere dolce, quando ha la luna giusta. E' buffa quando parla, quando ride, quando gioca o quando si arrabbia, non riesco mai a fare troppo la seria con lei. Sono la mia vita, amo stare con loro anche se spesso non posso farlo a causa del lavoro, ma so che sono con persone che li adorano e che farebbero di tutto per farli contenti. Li ascoltano, si prendono cura di loro e, ahimé, li viziano anche. I nostri figli han più giocattoli di tutti i bambini della Cornovaglia, hanno una stanza tutta loro solo per i giochi e spesso, di pomeriggio, ho la casa invasa dagli amichetti di Jeremy che vengono da lui a giocare. Figli dei vicini o bambini che incontra al parco, insieme alle loro tate, e con cui ha stretto amicizia. Loro giocano e Clowance e gli altri fratellini e sorelline più piccoli, li seguono ovunque".

Ross sorrise, poi divenne pensieroso, ricordando il frangente il cui aveva visto Clowance la prima volta, a casa di Caroline. "Chi è nonno Martin? Quando ho incontrato nostra figlia, è venuto un uomo a prenderla e lei lo ha chiamato così".

Demelza annuì. "Martin Devrille, il mio principale socio in affari. E' mio vicino di casa e ci ha adottati, praticamente. Non ha figli e per me è diventato come un padre e per i bambini, un nonno. E lo è davvero! Ora sono con lui e sua moglie e probabilmente, essendo rimasta lontana per tanto tempo, avrà comprato ai nostri figli mezza Londra".

Ross prese una ciocca dei suoi capelli rossi, giocandoci. "Sai, vorrei essere geloso di queste persone che ti son state vicine in questi anni ma non posso. Dovrei ringraziarli per essere stati la tua famiglia, un sostegno e un punto di riferimento per te e per i bambini. Sono stati molto migliori di me".

Demelza deglutì a quelle parole. Ripensò al dolore provato dopo la morte di Francis e a quanto fossero stati in crisi lei e Ross, tentennando per un istante sul fatto di voler tornare con lui. "Sai che non sarà facile, vero? Siamo due persone molto diverse e ci siamo fatti molto male... Riusciremo a lasciarci davvero tutto alle spalle? In poche ore è cambiato tutto, ogni mio piano per il futuro è stato rivoluzionato e io mi sento... Non lo so, forse solo strana".

Ross sospirò, capendo bene a cosa alludesse. "Elizabeth non esiste più. E credo che non sia mai esistita fin dal momento in cui ho capito di amare te. Era una fissazione, una fantasia idiota di un idiota che faceva i capricci per avere ciò che non aveva ottenuto da ragazzo".

"Ma quel capriccio ci è costato caro, Ross. Saprò dimenticare?".

Ross le accarezzò i capelli. "La domanda giusta è SE vuoi dimenticare".

Annuì. Già, tutto si poteva superare ma il punto era se lo si voleva fare. Lo guardò, era bello come il sole, affascinante, tutto quello che aveva sempre desiderato. E l'amava, dopo che per tanto aveva creduto di non essere stata abbastanza per lui. Poteva vivere comunque una vita felice e agiata senza di lui, a Londra, ma sapeva che sarebbe stata un'esistenza vuota e fredda, priva di aspettative. Era il suo compagno, suo marito, il suo amante e il suo migliore amico e gli era mancato come l'aria in ogni dannato giorno di quegli ultimi tre anni. Era felice di essere madre ma desiderava anche sentirsi una donna e solo con lui ci riusciva, da sempre. "Lo voglio Ross".

Le diede un lungo bacio, di quelli che le facevano mancare il respiro. Poi la abbracciò, stringendola forte fra le sue braccia. "Io sono un dannato e fortunatissimo uomo perché ho accanto una donna come te e so che non ti merito".

"Lo so" – rispose lei a tono, seria.

Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere dopo quella risposta, finalmente rilassati, sereni, come se una ventata d'aria nuova e fresca li avesse investiti.

"Demelza, credo che tu ora debba andare".

"Andare?".

Ross annuì. "E' la Vigilia, devi andare dai bambini, ti stanno aspettando".

A quelle parole, si sentì persa. Non aveva voglia di lasciarlo solo e di andarsene e allo stesso tempo non vedeva l'ora di riabbracciare i suoi figli che non vedeva da più di tre settimane. "Vieni con me".

"Meglio di no. Non riesco a stare in piedi per più di un minuto senza avere giramenti di testa e inoltre non mi conosce nessuno a casa tua, metterei tutti in difficoltà e in imbarazzo. Soprattutto i bambini. Ti rovinerei il Natale, preferisco restare qui a riposare. Ma tu devi andare, lo hai promesso, no?".

"Si. Ma...".

"Niente ma! Ti ho avuta solo per me per tanto tempo, ora va da loro. E' Natale e vorranno la mamma. E tu vuoi loro".

Demelza scosse la testa. "Certo che li voglio! Ma odio l'idea di lasciarti qui da solo".

"Era la tua idea fino a ieri!" - obiettò lui.

Demelza lo guardò storto, prendendo un cuscino e picchiandoglielo sul petto. "Spiritoso! Da ieri son cambiate molte cose, fra cui le priorità della mia vita".

Ross sorrise, accarezzandogli una guancia. "Starò bene, riposerò e non farò alcuno sforzo, giuro. Va tranquilla e non preoccuparti, avremo tanti altri Natali da festeggiare insieme".

Tranquilla era una parola grossa... Si alzò dal letto, si sistemò per la giornata, si rivestì e riaccese il fuoco. Poi, una volta pronta, si avvicinò al letto, dando un bacio al marito. "Ti manderò una domestica con del cibo. Ti lascio una copia delle chiavi sul comodino, tieni tutto chiuso e vedi di non girare troppo per casa, se ti venisse un giramento di testa, non ci sarebbe nessuno ad aiutarti a tornare a letto e io ho bisogno di stare tranquilla, fintanto che sarò a casa. Me lo puoi promettere?".

"Giuro".

Lo guardò storto, sapendo che non sarebbe rimasto a letto troppo, gli diede un altro bacio e poi, a malincuore, lasciò la locanda.

Fuori il tempo era gelido, il cielo coperto, ma ancora non c'era traccia di neve ed era strano, ricordando quanta ce ne fosse stata negli anni precedenti.

A passi spediti raggiunse casa e, con un groppo alla gola, vi entrò. Era cambiato tutto dall'ultima volta che ci era stata, per lei e per i bambini.

Dentro era un via vai di domestiche che correvano avanti e indietro e che, appena la videro, si esibirono in un inchino e in un sorriso.

"Signora, siete tornata!" - esclamò Dorothy, una delle sue cuoche che rientrava nello stesso momento dal mercato.

"Lo avevo promesso". Diede il mantello al maggiordomo e si diresse verso il salone principale, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Nello studio accanto all'ingresso, c'era un grosso abete addobbato e pure in fondo al corridoio ce n'era un altro. Si accigliò, incrociando le braccia al petto, richiamando a se il maggiordomo. "Che ci fanno quegli abeti qui?".

L'uomo sospirò. "Ce n'è uno in ogni stanza della casa, signora".

"Cosa?".

"Certo. Il signorino Jeremy voleva un albero in ogni camera e Sir Devrille e sua moglie sono stati contenti di assecondare questo suo desiderio".

Demelza sentì le braccia caderle e le spalle farsi pesanti. "Quanti abeti ci sono in casa?".

"Venticinque, signora".

Spalancò gli occhi, in un miscuglio fra stupore e sconforto. "VENTICINQUE? Santo cielo, abbiamo degli abeti anche in soffitta?".

"Anche in cantina, signora".

Alzò gli occhi al cielo. Jeremy sarebbe stato in castigo per il resto della sua infanzia e Martin gli avrebbe fatto compagnia. Ovviamente dopo aver disboscato casa sua che, a conti fatti, aveva ormai più abeti delle montagne del Tirolo. Cosa diavolo avevano combinato suo figlio e il suo socio, mentre lei non c'era? "Dov'è il mio piccolo, dolce Jeremy?".

"Nel salone, assieme alla signorina Clowance. Stanno giocando coi regali che sono arrivati nei giorni scorsi".

"Regali da parte di chi?".

L'uomo ci pensò su. "Da parte di tanta gente, signora. Avete molti amici e conoscenti che dipendono da voi e dalle vostre decisioni nella finanza e hanno ricambiato con generosità quanto fate per loro durante l'anno. Avete il salone invaso da pacchetti e scatole colorate. Doni per voi e per i bambini".

Alzò gli occhi al cielo, casa sua era irriconoscibile. "Non posso crederci...". La maggior parte di quei doni proveniva, sicuramente, da gente che nemmeno conosceva e che avrebbe dovuto ringraziare, fingendo magari un rapporto di amicizia che nemmeno esisteva...

"Demelza!".

La voce potente di Martin, giunto dalla scalinata principale, la investì in pieno. Si imbronciò, i suoi occhi fecero scintille e si avviò verso di lui a passi spediti. "Venticinque abeti? Martin, ne volevo UNO! Come hai potuto cedere alle insistenze di Jeremy?".

L'uomo si esibì in un grosso sorriso. "Posso spiegarti tutto".

Incrociò le braccia al petto. "Avanti, sono tutta orecchie".

"I bambini erano così turbati dal fatto che fossi andata via così frettolosamente che ecco, assecondarli era la cosa migliore da fare per tirar loro su il morale".

"E gli hai tirato su il morale, permettendogli di fare VENTICINQUE alberi di Natale!? Dannazione Martin, tu non puoi fargli fare tutto quel che vogliono, non è così che si educa un bambino. Che avresti fatto se, ad esempio, Jeremy ti avesse detto che voleva Buckingham Palace?".

L'uomo alzò le spalle con noncuranza. "Che domande! Sarei andato dal re e mi sarei messo d'accordo con lui".

Sospirò, rassegnata al fatto che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco. Si portò la mano alla fronte, accarezzandola, cercando di evitare che le venisse mal di testa. "Tu e Jeremy, dopo Natale, sistemerete tutti gli abeti!".

"Noi?".

"Si, voi! Non la servitù! Jeremy – e anche tu – avete bisogno di una lezione che vi ricorderà a vita cosa succede a disubbidire".

"D'accordo, sugli abeti POTRESTI avere ragione. Ma non ti dovrai arrabbiare per il regalo personale che ho fatto ai bambini".

Demelza lo guardò storto, aspettandosi il peggio. "Gli abeti non bastavano?".

"Gli abeti sono addobbi, il regalo di Natale è un'altra cosa. E i bambini sono stati così felici per i pony".

Sbiancò, dovendo appoggiarsi al muro. "QUALI PONY?".

"Quelli nella tua stalla. A proposito, non ci sei passata, tornando? Non li hai visti?".

"NO! Hai comprato due pony ai miei figli? Santo cielo, Martin, sono troppo piccoli e non saprebbero prendersene cura".

"Impareranno! Ed erano tanto felici quando li hanno visti". Martin scosse la testa, quasi divertito dalla sua reazione . "Sei troppo...". Poi si bloccò, osservandola e prendendole la mano sinistra fra le sue. "Hai la fede al dito! Quindi, suppongo che...".

"Non cambiare discorso!" - obiettò, gelida.

"Demelza! Ma sono felice!". L'uomo la abbracciò forte, con fare paterno. "Suppongo quindi, che le cose fra voi si siano sistemate e che lui stia meglio".

A quella dimostrazione d'affetto, sorrise. Martin le voleva bene come si vuole bene a una figlia e sapeva quanto desiderasse vederla felice. A dispetto del fatto che in quel momento volesse strozzarlo, rispose al suo abbraccio. "Sarà una strada lunga ma sì, tante cose si sono sistemate".

"E lui dov'è?".

"Alla locanda, ancora non è abbastanza in forze per muoversi".

Martin le accarezzò la guancia. "E tu cosa ci fai qui?".

"Cosa avrei dovuto fare? I bambini mi aspettavano e non posso lasciarli soli a Natale. Non voglio...".

"Cosa dovresti fare?". Le poggiò una mano sulla spalla, guardandola con espressione seria. "Lo sai bene dove dovresti essere".

Annuì, capendo cosa intendesse e trovandosi d'accordo con lui. Aveva promesso ai suoi figli un Natale perfetto ma non poteva esserlo così, con una montagna di regali, con venticinque alberi di Natale e circondati da lusso e servitori pronti a esaudire ogni capriccio. Sarebbe stato un Natale lussuoso ma non perfetto. Jeremy e Clowance avevano montagne di giocattoli e non avevano bisogno di averne altri, erano circondati da persone pronte ad esaudire ogni loro desiderio ogni giorno dell'anno ma non avevano mai passato del tempo col loro padre. Il Natale perfetto, per lei e per loro, era un altro, insieme, con la loro famiglia finalmente riunita. "Non ti dispiace se li porto via?".

Martin scosse la testa. "Il tuo posto è con lui, insieme ai bambini, è quello che hai sempre desiderato. Portali dal loro papà, io ho i miei fratelli e mia moglie e festeggerò con loro e la servitù, mia e pure tua se mi dai il permesso, come ogni anno".

"Grazie!". Lo abbracciò, commossa. Poi si allontanò, sorridendo furba. "Ma non sei comunque esentato, quando tornerò, dal sistemare casa mia! La voglio com'era prima, senza bosco".

Martin sospirò, sconfitto. "Ne riparleremo nel nuovo anno".

"Certo". Corse verso il salone, dai bambini, bloccandosi sull'ingresso della stanza. Il suo salone era un qualcosa di meraviglioso, un tripudio di festoni color oro e rossi appesi alle pareti, con tende color porpora alle finestre e un enorme abete addobbato al centro della stanza, sotto al quale c'erano almeno un centinaio di pacchi dono incartati in carta di ogni colore. E in mezzo a tutto questo, i suoi due bambini giocavano contenti, scuotendo le scatole per capire cosa ci fosse dentro. "Fate piano, potrebbero contenere roba fragile" – disse, raggiungendoli.

Jeremy, al suono della sua voce, alzò il viso di scatto e poi gli corse incontro, abbracciandola, seguito dalla piccola Clowance. "Mamma!" - urlò, contento. "Sei venuta davvero".

I bimbi le saltarono in braccio, contenti. Jeremy indossava un abitino blu di lana, elegante, con un colletto bianco e coi pantaloni fino al ginocchio, chiusi con dei bottoncini che gli conferivano un aspetto principesco e con ai piedi degli stivaletti di cuoio. Clowance invece aveva un vestitino di velluto rosso, legato in vita da un nastrino nero, delle calzine bianche e delle scarpette di vernice del medesimo colore dell'abito. Erano semplicemente splendidi, tanto perfetti da sembrare finti.

Dopo aver dato loro un bacio, Demelza guardò Jeremy negli occhi. "Certo, io mantengo la parola data, a differenza di qualcuno".

Il bimbo sospirò, capendo a cosa alludesse. "Sei arrabbiata per gli alberi?".

"Molto".

"Li ha voluti tutti Clowance! Li voleva rosa, piangeva e abbiamo dovuto accontentarla" – si giustificò, mentre la sorella si imbronciava per quella evidente bugia.

"Non è vero, non li ha voluti Clowance. Lei ne voleva solo uno, rosa".

"Losa!" - ripeté la bimba.

Demelza si sedette per terra, davanti all'albero, facendoli sedere sulle sue gambe. "Sai che sei in castigo, Jeremy?".

"Ma mamma, è Natale!".

Demelza sorrise. "Sarai in castigo da dopo Natale quando dovrai, da solo con Martin, sistemare tutti gli abeti, togliere le decorazioni e tagliare la legna".

"Ma non sono capace!" - obiettò il bambino.

"Imparerai". Lo baciò sulla nuca, stringendolo a se. Li guardò... I suoi bimbi, suoi e di Ross. Lui li avrebbe adorati, li aveva sempre amati, ogni singolo giorno di quei tre anni in cui lei aveva creduto che li avesse dimenticati. Era strana, meravigliosa quella sensazione di non essere più sola con loro, di essere finalmente una famiglia. "Bimbi, vi devo dire una cosa importante".

Clowance e Jeremy si voltarono verso di lei e il bambino sospirò. "Che sei arrabbiata per gli alberi e che sono in castigo, giusto?".

Demelza scosse la testa, piuttosto divertita, nonostante tutto. "Quello te l'ho già detto ed era sottinteso. Ma no, vi devo dire una cosa più importante".

"Pottante...". Clowance le si arrampicò sul collo, abbracciandola, e Demelza la baciò sulla guancia.

"Che cosa?" - chiese Jeremy, curioso.

Demelza sospirò, cercando le parole giuste con cui spiegargli quanto la loro vita sarebbe cambiata. "Sapete, quando me ne sono andata a inizio mese, per fare quella cosa importante... Beh, io dovevo fare una cosa importante davvero".

Jeremy annuì. "Dovevi lavorare?".

"No". Accarezzò la guancia del figlio per rassicurarlo. "In tutti questi giorni sono stata col vostro papà, nella nostra vecchia casa sulla locanda".

Jeremy spalancò gli occhi, sorpreso, talmente scosso da non respirare quasi. "Papà? Il papà è venuto a Londra? E dov'è?".

"Papà" – ripeté Clowance, guardandola senza capire.

Demelza strinse a se Jeremy, abbracciandolo forte e percependone il turbamento. Era normale, lui era ancora molto piccolo per capire, ma abbastanza grande per comprendere la portata enorme di quanto gli aveva appena detto. "E' alla locanda perché è stato molto male. Ha avuto un brutto incidente e sono stata con lui per tutto questo tempo per curarlo. Non vi ho detto niente per non preoccuparvi, ma ora sta meglio per fortuna".

"Ma lo hai lasciato solo alla locanda?" - chiese Jeremy.

"E' ancora debole, deve stare a letto". Guardò i bambini negli occhi, seria. "Lo so che qui ci sono gli abeti, tanti regali, i vostri pony e le persone a cui volete bene ma... che ne dite se tutte queste cose le guardassimo dopo Natale e andassimo da papà, noi tre insieme?".

Jeremy parve pensieroso. "Alla locanda?".

"Si, a passare il Natale con lui. Vorrebbe tanto vedervi. Ma la scelta sta a voi, vi avevo promesso il Natale più bello del mondo e lo festeggeremo come vorrete. Pure qui, se vi farà piacere. Alla locanda c'è papà ma non ci sono né regali, né abeti, né oggetti natalizi. Pensateci bene".

Jeremy guardò i regali, l'abete, il salone addobbato. "Chi darà da mangiare ai pony, se andiamo via?".

"I nostri domestici".

Jeremy annuì. "Tanto di giochi ne abbiamo tanti". La abbracciò, turbato, vagamente spaventato ma anche emozionato. "Andiamo dal papà".

"Papà" – ripeté Clowance.

Demelza li abbracciò, forte, orgogliosa di quella loro scelta. "Sono davvero fiera di essere la vostra mamma".

Clowance si liberò dall'abbraccio, correndo fra i doni sotto l'albero e prendendo un grosso sacco di juta rosso. "Lo vollo dal papà".

Jeremy si illuminò, correndo dalla sorella. "Giusto, brava Clowance! Lo portiamo dal papà".

Demelza si accigliò, guardando il sacchetto nelle mani della figlia. "Cos'è?".

La bimba annuì, seria. "La pappa!".

Si avvicinò loro, sbirciando nel grosso sacchetto rosso. Dentro era pieno di caramelle di zucchero, cioccolata, biscotti e altre dolcetti che qualcuno doveva aver regalato loro. "Buona idea, portiamoli da papà, ne sarà contento".

Clowance si fece seria. "E' mio!".

Demelza rise. "E non vuoi darci niente?".

Clowance ci pensò su, poi annuì. "Si, vollo... Un pochino".

"Anche perché i dolci sono pure miei" – aggiunse, Jeremy, lanciando un'occhiataccia alla sorella.

Rise, li prese in braccio e li strinse a se. "D'accordo bambini! Si va dal papà". Guardò la testolina di Clowance, i capelli le cadevano disordinatamente su fronte e spalle e aveva un aspetto abbastanza buffo. "Mettiamo un nastrino fra i capelli?" - le propose, sapendo già la risposta.

La bimba si imbronciò, stringendo il sacco rosso fra le mani. "No, non vollo!".

Annuì. In fondo, che importanza aveva? Ross l'avrebbe adorata anche così, vivace e spettinata, come era stata lei tanti anni prima, quando si erano innamorati l'un l'altro.

Ora lo sapeva, ne era certa. Sarebbe stato davvero un Natale perfetto, quello! Per lei, per Ross, per i bambini. Per la loro famiglia finalmente riunita. Se c'era un regalo che voleva per Natale, era solo quello. E probabilmente era stata abbastanza buona da essere esaudita tanto che non avrebbe mai più chiesto nient'altro che quello, che la sua famiglia rimanesse unita per sempre.








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Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


Tutto era avvolto da un silenzio tranquillo, l'ideale per dormire e riprendersi in fretta. Voleva guarire, stare bene il prima possibile, tornare quello che era prima dell'incidente e poter stare accanto a sua moglie e ai suoi figli come meritavano. Non voleva più essere un'ombra, un fantasma nelle loro vite ma una presenza vera, reale, su cui sentissero di poter sempre contare.

Si voltò verso il lato del letto vuoto e questa volta, dopo tanto, non percepì un senso di solitudine e smarrimento. Poteva sentire ancora il profumo di sua moglie, fra quelle lenzuola, della sua pelle, dei suoi lunghissimi capelli rossi che aveva accarezzato per ore e, se chiudeva gli occhi, poteva avvertire ancora su di se le sensazioni che quella notte d'amore e passione con lei gli aveva regalato.

Era felice, stordito, incredulo. Fino a un mese prima credeva che la sua vita fosse finita, che non gli avrebbe regalato più nulla e invece, grazie a Dwight, Caroline e a un destino amico, aveva ritrovato il suo amore, l'unica donna che lo facesse sentire completo, felice, la donna che aveva sposato, che gli aveva regalato i più bei ricordi della sua vita e lo aveva reso padre. La donna che, in un momento di pura follia ed egoismo, aveva fatto soffrire e costretto ad andarsene lontana, per ritrovare la serenità perduta accanto a lui.

Era stato difficile, dopo l'incidente a cavallo, aprire gli occhi e ritrovarsela vicino, tanto che per alcuni istanti aveva pensato di essere diventato un pazzo visionario, ma poi tutto si era fatto più nitido, comprensibile e le parole di Dwight gli avevano fugato ogni dubbio e mostrato la realtà che lo circondava. L'aveva guardata per giorni, in silenzio, cercando di cogliere un gesto d'intesa con lei, che però ovviamente non era arrivato, sepolto da anni di lontananza, rancori e silenzi. Demelza era stata dolorosamente distante e fra loro aveva frapposto un muro e questo, benché sapesse di meritarlo, lo spiazzava, soprattutto in virtù dei ricordi che lo legavano a lei, ricordi di giorni felici, complicità, dolcezza, risate e di sguardi colmi d'amore che lei riversava su di lui. Aveva distrutto tutto e forse, se non fosse stato per una serie di eventi fortuiti, non avrebbe avuto seconde possibilità.

Per giorni, dopo che lei gli aveva raccontato la sua vita a Londra, aveva temuto che Demelza fosse cambiata per sempre e che la donna dei suoi ricordi non esistesse più. Non la riconosceva mentre lavorava ai registri contabili e nemmeno in quegli abiti elegantissimi, coi capelli perfettamente in ordine, da bambolina di porcellana. Non era lei, quella! Non era Demelza! Era stato solo il giorno prima che l'aveva ritrovata, che si erano ritrovati in gesti semplici, complici, solo loro. Aveva ritrovato la dolcezza delle sue carezze, dei suoi baci, il calore delle sue braccia che lo stringevano a se in quel modo in cui solo lei riusciva a farlo sentire a casa, in pace con se stesso e col mondo. Si erano amati senza riserve, come se quegli anni di lontananza non fossero esistiti, come se al mondo ci fossero solo loro e tutto il resto non avesse avuto importanza, come se per tutto quel tempo in cui erano stati divisi, non avessero avuto che fame e desiderio l'uno dell'altra. E lì, su quel letto dove lei gli aveva detto di aver messo al mondo la loro bambina, aveva ritrovato la donna che amava più di qualsiasi altra cosa al mondo, la donna semplice, gentile, tenera e allo stesso tempo decisa che aveva reso la sua vita qualcosa di bello. Certo, sapeva di non conoscere quasi nulla della vita che si era costruita a Londra, della sua rete di amicizie, delle sue abitudini e del mondo sicuramente ricco e lussuoso in cui ora viveva coi suoi figli, ma la cosa importante era che quel mondo non l'aveva cambiata e anzi, era orgoglioso che lo avesse usato per aiutare le persone più in difficoltà, come faceva anni prima in Cornovaglia.

Era felice, come non lo era forse mai stato. Felice di essere vivo, di averla accanto, di poter sperare in una vita lunga e serena con lei, felice di pensare che poteva riabbracciare suo figlio e che avrebbe avuto accanto un'altra bimba che amava già tantissimo, anche se non l'aveva vista che per pochi minuti, senza sapere di esserne il padre.

Chiuse gli occhi, colto dal sonno, finalmente sereno. Certo, Demelza se n'era appena andata e già gli mancava tantissimo ma sapeva che era a casa, circondata da persone che l'amavano, coi loro figli. Avrebbe passato un bel Natale con loro e questo a lui bastava.

Non seppe nemmeno quanto potesse aver dormito, forse un paio d'ore. Improvvisamente, nel sonno, qualcosa di umido gli bagnò la guancia e si svegliò di colpo, sgranando gli occhi e mettendosi seduto, per un attimo preda di vertigini e confusione. Guardò accanto al letto e rimase ammutolito dal trovarsi di fianco... "Garrick!" - esclamò al cane che, muovendo la coda contento, lo guardava aspettando una carezza. "Santo cielo, che ci fai qui?" - esclamò ridendo, accarezzandogli il muso. Il cane reagì con contentezza, ricordandosi di lui. Saltò con le zampe anteriori sul letto e riprese a leccargli il viso, facendogli mille feste. Ross rise, non capendo che diavolo ci facesse lì Garrick. Lo accarezzò con affetto, gli era mancato anche lui che, a onor del vero, era l'artefice del suo primo incontro con Demelza tanti anni prima e gli aveva regalato di fatto la sua splendida famiglia.

Guardò verso la porta della stanza che, ora che ricordava, era rimasta aperta dopo che sua moglie era andata via. Sentì dei passi per le scale e si rimise a sedere, vagamente nervoso. Era la cameriera che gli aveva mandato Demelza, che doveva portargli il pranzo? Ed era venuta col cane?

Quando stava per alzarsi per andare a controllare, lei ricomparve sulla porta. E a Ross mancò il fiato... "Demelza...". Era lì, davanti a lui e... non era sola. Teneva in braccio la loro piccola, vestita con un'abitino rosso che la faceva sembrare una bambola e teneva nell'altra mano Jeremy. Rimase attonito, a bocca spalancata, preda di talmente tanti sentimenti contrastanti e violenti, da sentirsi il fiato venir meno. I suoi bambini... E sua moglie...

Jeremy, che aveva immaginato, pensato e rimpianto ogni giorno di quei lunghi anni... Era così grande ora, coi capelli più lunghi, il viso tondo e l'espressione talmente seria da metterlo quasi in soggezione. E la piccola, era cresciuta anche lei, benché l'avesse vista solo pochi mesi prima aveva i capelli più lunghi e sembrava più alta. Crescevano in fretta, troppo per un padre come lui che si era perso tutto. Ed erano i più bei bambini che avesse mai visto in vita sua.

Demelza mise a terra la piccola e poi si inginocchiò fra loro, abbracciandoli. "Bambini, questo è il vostro papà. Salutatelo, su".

Guardò sua moglie, non capendo come mai fosse lì con loro, felice come non lo era mai stato ma talmente confuso da sentirsi impacciato e incapace di fare qualsiasi cosa. Si alzò dal letto e si avvicinò a loro, piegandosi sulle ginocchia per essere alla loro altezza. Gli girava la testa ma dubitava che fosse a causa dei postumi dell'incidente...

Clowance lo guardò pensierosa, corrucciata, stringendo fra le manine un sacco rosso. Guardò la mamma, avvicinandosi a lei un po' intimorita, poi tornò a guardare verso di lui. Infine, dopo qualche istante, spalancò i suoi occhioni verde-azzurro e sorrise, correndogli incontro e saltandogli in braccio. "Draghi!" - esclamò eccitata, abbracciandolo come se lo conoscesse da sempre. Restò ammutolito, sorpreso dal fatto che si ricordasse di lui, nonostante fosse passato del tempo e lei fosse così piccola. "Sì Clowance, draghi...". La strinse a se, affondando il viso in quella testolina rossa, inspirando il profumo dei suoi capelli, abbracciandola talmente forte che ebbe quasi paura di farle male. Era sua figlia e la stava abbracciando per la prima volta con la consapevolezza di esserne il padre. Fino a pochi giorni prima non sapeva nemmeno della sua esistenza e Clowance era lì, a rappresentare tutto quello che aveva perso a causa dei suoi errori e tutto quello che poteva riservargli un futuro ora di nuovo roseo.

La bimba restò ferma, tranquilla fra le sue braccia. Ross alzò lo sguardo su Jeremy che, sempre serio, si nascose dietro la gonna della madre appena si accorse che lo stava guardando. Gli si strinse il cuore pensando a quanto lo aveva trascurato anche quando erano a Nampara, a quanto fosse stato un pessimo padre e a come tutto fosse diventato complicato a causa dei suoi errori, per lui. Jeremy era più grande di Clowance, sicuramente aveva avvertito di più la sua assenza e ora probabilmente era intimidito e spaventato dalla sua presenza e non poteva dargli torto. Era troppo grande per vivere quell'incontro con la spensieratezza di Clowance e allo stesso tempo troppo piccolo per elaborare tutti i sentimenti che si agitavano in lui. Allungò la mano, limitandosi ad accarezzargli i capelli, senza forzarlo a fare nulla. "Ciao ometto" - gli disse, semplicemente.

"Ciao".

Demelza gli sfiorò il mento, costringendolo a guardarla. "Jeremy, è papà, non vuoi andare da lui come Clowance?".

Il bimbo scosse la testa, nascondendosi ancora di più dietro la sua gonna. "No".

"Non ti ricordi di lui?" - gli chiese di nuovo, Demelza.

Jeremy abbassò lo sguardo. "No".

Faceva male sentirselo dire, ma era consapevole che non poteva essere altrimenti. Era troppo piccolo quando si erano visti l'ultima volta ed era passato tanto tempo... Decise di non insistere e, con Clowance fra le braccia, si rimise in piedi. Guardò Demelza e d'istinto la abbracciò. "Cosa ci fai qui?" - sussurrò dolcemente, al suo orecchio.

Lei lo guardò, accarezzandogli la guancia. "Mi sono ricordata di una cosa, quando sono arrivata a casa. Il vero, perfetto Natale non è quello con cibi elaborati e con montagne di doni ma quello che si passa con chi amiamo. Siamo una famiglia, tu sei la mia casa e ovunque ci sia tu e ci siamo anche noi, sarà un Natale perfetto. E il dove non ha importanza, non ora, non per noi, dopo tutto quello che abbiamo vissuto. E' vero, avremo tanti altri Natali ma il più importante resta questo e io non ti lascerò da solo".

La baciò sulle labbra, un bacio lungo, dolce e commosso. "Grazie, amore mio".

"Non devi ringraziarmi, in fondo l'ho fatto anche per me. Una volta, tanto tempo fa, ti avevo detto che per essere felice mi bastava che ci fossimo io, te, la nostra casa e delle candele accese. Non è cambiato nulla per me, da allora, semplicemente, a questa lista di cose, si sono aggiunti i nostri figli".

Ross si avvicinò, le punte dei loro nasi si sfiorarono, la strinse a se. "Ero davvero perso senza di te".

Demelza sorrise, dandogli una leggera spinta. "Immagino. Però adesso, su, rimettiti a letto. Non dovresti stare troppo in piedi".

Ross ubbidì e Demelza lo raggiunse sul letto, mettendosi Jeremy sulle ginocchia.

Clowance, dopo un primo momento in cui era stata tranquilla, si divincolò dalla stretta del padre. Si mise in piedi, osservandolo incuriosita. "Papà?".

Sentirsi chiamare 'papà' dopo tanto tempo, da lei, era un qualcosa di meraviglioso. Era perfetta, una piccola Demelza in miniatura, con un viso splendido, una vocina adorabile e un modo di fare che poteva conquistare chiunque. "Dimmi".

Clowance gli prese una mano, stringendola nella sua. "Più via?".

La riprese in braccio, stringendola a se, baciandola sulla guancia. "No, non vado più via".

Demelza sorrise, prima di tornare a guardare Jeremy che, silenzioso, stava aggrappato a lei, guardandoli senza parlare. "Tesoro, dì qualcosa a papà o penserà che non sai parlare. Sei stato tu a voler venire qui, giusto?".

Ross guardò suo figlio, capendo quanto potesse sentirsi in soggezione davanti a uno sconosciuto che gli era stato presentato come un padre e che aveva abbracciato e baciato la sua mamma poco prima. "Davvero sei voluto venire qui? Mi fai contento, sai?".

"Si, davvero" – disse il bimbo.

Tentò di parlargli, per rompere il ghiacchio. Non era tanto bravo coi bambini, non aveva esperienza e si sentiva impacciato. "Anche se qui non ci sono alberi di Natale?".

Jeremy scosse la testa. "Sono stanco di vedere alberi di Natale" – disse, sospirando.

Demelza lo fulminò con lo sguardo, guardandolo con aria di rimprovero. "Pensa a come sarai stanco quando dovrai disfarli tutti".

Jeremy finalmente alzò lo sguardo su di lui, come in cerca di aiuto anche se, a onor del vero, non capiva di cosa stessero parlando lui e Demelza. "E' tutta colpa di Clowance e del suo stupido albero di Natale rosa, da femmine".

Di tutta risposta, la piccola si imbrociò e con un gesto veloce si lanciò verso il fratello, pronta a tirargli i capelli. La fermò in tempo, prima che litigassero. "Hei, che succede?".

Imbronciata, col viso basso e gli occhi puntati su di lui, Clowance sbuffò. "Io vollo l'albero losa ma mamma e Jeremy non lo vollono".

Ross la abbracciò, fissando moglie e figlio, stupito dal fatto che le avessero detto di no. Con che coraggio potevano pensare di contrariare quella splendida e ammagliante bambina? "Perché?".

"Il rosa è da femmine, lei vuole tutto rosa! Caroline dice che Clowance, da grande, avrà tanti fidanzati ma per me non ne avrà nemmeno uno, se non cambia idea su quel colore" – sbottò Jeremy, guardando storto la sorella.

Al sentir pronunciare la parola 'fidanzato' accanto al nome della figlia, Ross sentì spuntargli il primo capello bianco. "Vuoi un fidanzato?" - chiese alla piccola.

"No".

"Vuoi che sia io il tuo fidanzato?".

Clowance ci pensò su e poi annuì. "Si".

Le diede un altro bacio sulla fronte, consapevole di esserne perdutamente innamorato e di essere felice come non mai per essere lui suo padre. "Brava, non cambiare mai idea!".

Demelza scosse la testa. "Ho venticinque alberi di Natale a casa, di cui uno tutto rosa in camera di Clowance. E li ha voluti Jeremy, ragion per cui, visto che glielo avevo vietato, è in castigo e dovrà smontarseli tutto da solo".

Ross spalancò gli occhi, incredulo e preoccupato per il figlio. "Dai, venticinque alberi di Natale sono belli. Non vorrai davvero che lui, tutto da solo...?".

Jeremy lo guardò con rinnovata attenzione, fissando poi la madre, speranzoso che lei gli desse retta. "Visto che sono belli? Lo dice anche il papà!".

"Ma andranno tolti da chi li ha voluti" – rispose lei, gelida.

D'istinto, Ross poggiò la mano sulla spalla del figlio e quando Jeremy si voltò verso di lui, gli strizzò l'occhio. Col cavolo che lo avrebbe lasciato da solo a fare quell'immane lavoro, Demelza poteva pure fare la madre severa ma lui non aveva avuto accanto i suoi figli per tre anni e li avrebbe assecondati in ogni modo.

Demelza parve captare lo sguardo d'intesa fra lui e Jeremy e stranamente non si arrabbiò. Sorrise, capendo tutto e fingendo di stare al gioco. Poi spinse il bimbo ad avvicinarsi a lui. "Stai qui con papà e Clowance, mentre esco un attimo? Così curi papà e stai attento che non faccia sforzi".

"Dove vai, mamma?".

Anche Ross era curioso. Dove voleva andare ora, Demelza?

La donna sospirò, alzandosi dal letto. "Abbiamo un problema, siamo senza cibo e se non esco a fare la spesa, stasera digiuneremo".

Ross scoppiò a ridere, a quelle parole. "Ma come? Una delle donne più ricche di Londra che rischia di rimanere senza cibo a Natale?".

"Già" – rispose lei, ridendo. "Te la senti di stare quì con loro un'oretta, da solo?".

Annuì. Si, se la sentiva, non voleva allontanarsi dai bambini per nessun motivo al mondo.

Jeremy parve spaventato e saltò giù dal letto, svegliando Garrick che si era appena addormentato sul pavimento e correndo dalla madre. "Vengo con te".

Demelza scosse la testa. "No, resta qui con papà. Così potrai conoscerlo meglio".

"Ma mamma!" - si lamentò il bambino – "Chiama Margareth e Mary e fai fare a loro la spesa! Che tanto poi, se non ci sono, chi cucina?".

Ross parve sorpreso da quella domanda, dal fatto che Jeremy non concepisse che potesse farlo sua madre, quando lui ricordava invece quanto lei fosse brava fra i fornelli. Ma forse era normale, era una donna ormai diversa Demelza, e probabilmente non aveva più tempo di cucinare e relegava tutto alla sua servitù.

Demelza sbuffò, parve offendersi alla domanda di Jeremy. "Lo farò io!".

Clowance e Jeremy spalancarono gli occhi, sorpresi. "Tu?".

"Si, io!". Si rimise il mantello e Jeremy, preoccupato, le corse vicino. "Ti prego mamma, portami con te".

"No, è meglio che tu resti qui". Demelza si avvicinò a un borsone che aveva poggiato a terra al suo arrivo, estraendone un libro illustrato. "Su, torno presto. Perché non fai vedere a papà quanto sei bravo a leggere".

Jeremy parve perso a quell'invito, spaventato dal trovarsi da solo con lui. In quel momento, se non avesse avuto il dubbio di spaventarlo, si sarebbe alzato e lo avrebbe preso in braccio per tranquillizzarlo, ma sapeva che avrebbe ottenuto l'effetto contrario. Jeremy era ancora scosso dalla sua presenza, imbarazzato e non sapeva cosa fare o cosa dire. Annuì alla madre e quando lei se ne fu andata, invece che raggiungere sul letto lui e Clowance, si sedette tutto solo sulla sedia a dondolo, aprendo il libro e chiundendosi in un ostinato silenzio.

Anche per Ross era difficile capire come gestire la situazione con lui. Per tre anni aveva sognato di fare il padre, suo padre, rifugiandosi in fantasie romantiche dove tutto era facile e senza problemi, senza pensare alle difficoltà pratiche nel rapporto con un figlio che non conosceva. Che doveva fare, come poteva avvicinarsi davvero a lui nel modo giusto?

La piccola Clowance, sentendosi messa per un attimo in disparte, gli tirò la manica della camicia. "Papà!".

"Dimmi".

La bimba aprì il suo sacco rosso, rovistandoci dentro e tirando fuori una caramella che gli porse. "Toh!".

Sorrise, era così dolce e generosa e quel gesto gli ricordava tanto quello di alcuni mesi prima, quando gli aveva regalato il suo nastrino per i capelli. "Grazie, sei gentile".

Jeremy alzò lo sguardo su di loro, scuotendo la testa. "Non è gentile. Sono caramelle al miele e a lei non piacciono, per questo te le sta regalando. Lei regala a tutti tutto quello che non vuole. Se provi a prenderle un cioccolatino, si metterà a piangere".

Ross si sentì davvero idiota e scoppiò a ridere. Era il padre di una bambina geniale. La sollevò e la baciò sulla fronte, giocando con lei fra le coperte. Era felice, ma mancava qualcosa a quella felicità quasi perfetta. Si voltò e guardò Jeremy che, silenzioso, si era messo a rileggere il suo libro. E alla fine si alzò dal letto, lasciando momentaneamente da sola Clowance. Si inginocchiò davanti a lui e diede un'occhiata al libro illustrato che teneva fra le mani. "Che cosa stai leggendo?".

"Una favola su un cane che gira l'Inghilterra".

"Cane! Garrick!" - urlò contenta Clowance, saltando sul letto. "Jeremy, vieniiii".

Ross sorrise. "Vieni lì con noi. Lo vedi, ti vuole anche tua sorella".

Jeremy scosse la testa. "Sto bene qui".

Sospirò. Era un osso straordinariamente duro, suo figlio. "Mamma mi ha detto che sei già molto bravo a leggere e scrivere, anche se hai solo cinque anni".

"Non è vero, non sono tanto bravo come dice lei. Non conosco un sacco di lettere, ancora".

"Beh, ma sei comunque molto bravo, alla tua età i bambini non conoscono nessuna lettera e non sanno scrivere nemmeno il loro nome. Io ad esempio non lo sapevo fare, a cinque anni".

"E quando hai imparato?".

"A sette anni sono andato a scuola ma ci ho messo tanto ad imparare perché scappavo sempre dalla classe, quando mi annoiavo".

Finalmente Jeremy alzò lo sguardo su di lui, con l'ombra di un sorriso sul viso. "Davvero scappavi?".

Suo figlio sembrava ammirato. "Si, dalla finestra".

"E adesso che sei grande, hai imparato a leggere e a scrivere il tuo nome?".

Ross ci pensò su. "Un pochino me la cavo".

Jeremy rise. "Mamma scrive e legge tanto. Lei è brava!".

"Lo so" – rispose, ricordando quando era lui stesso ad insegnare a Demelza a leggere e a scrivere tanti anni prima, quando era la sua domestica.

Improvvisamente, Clowance corse da loro, tirando il fratello per la stoffa dei pantaloni. "Se veni ti do questo!" - disse, porgendogli un cioccolatino che doveva aver preso dalla sua sacca piena di dolci.

Ross gli strizzò l'occhio, trovando finalmente il coraggio di prenderlo in braccio e non incontrando nessuna resistenza in lui, stavolta. "Io se fossi in te accetterei! Mi sa che è raro vedere tua sorella compiere gesti tanto generosi".

Jeremy annuì, abbracciandolo. Poi con un gesto veloce prese il cioccolato dalle mani della sorella, prima che questa cambiasse idea. Prese in braccio anche lei e coi due bambini si mise sul letto, deciso quanto meno a leggere loro il libro di suo figlio.

Li strinse a se e si sentì felice e fortunato per averli ritrovati, per sentirsi di nuovo un padre e parte di una famiglia. "Mi spiace di essere stato via tanto tempo. Giuro che non andrò più via".

"Lo giuri davvero?" - chiese Jeremy.

"Certo".

Il bambino annuì. "E allora fa niente, se non ci sei stato per tanto. Basta che resti e tratti bene la mamma!".

Rimase colpito da quelle parole e dallo sguardo serio che entrambi i bimbi gli lanciarono in quel momento. Adoravano la madre, avevano con lei un rapporto strettissimo ed erano stati inseparabili, solo loro, per tre lunghi anni. Era come essere un intruso in quel momento, che si faceva largo nella loro famiglia e i suoi figli, benché tanto piccoli, si sentivano responsabili della felicità di Demelza che per loro era tutto. "Io la vostra mamma la amo più della mia stessa vita e tutto quello che voglio è che sia felice. Mi aiuterete in questo?".

Jeremy annuì. I bimbi si strinsero a lui, in silenzio, e Ross decise che in fondo non volevano che gli leggesse un libro ma semplicemente stare con lui, senza parlare. Li tenne stretti a se e loro rimasero lì, fermi e buoni, abituandosi alla sua presenza.

Fu una Vigilia bella quella, serena, senza grandi cose, con un pranzo semplice, senza luci di Natale o doni ma nessuno di loro ne sentì la mancanza.

Parlarono, raccontarono ai figli la loro storia e di come si erano conosciuti grazie a Garrick, della Cornovaglia, delle miniere, di Jud e Prudie e di tutto quello che avevano fatto insieme lui e Demelza negli anni. Lo raccontarono come fosse una favola, tutti e quattro nel lettone, e i bambini ascoltarono attenti, curiosi, facendo mille domande che, pian piano, sciolsero il ghiaccio fra loro.

Si misero a letto che fuori era ormai buio e iniziava a nevicare. Londra era avvolta da un piacevole, magico silenzio e la notte di Natale regalava un alone di pace ad ogni cosa.

Permisero ai bambini di dormire con loro, tutti insieme, in quella prima notte passata riuniti. Jeremy si mise fra i suoi genitori, abbracciato alla sua vita mentre Clowance, rannicchiata sul suo petto, a un certo punto reclamò le attenzioni della madre. Ci rimase un po' male che volesse lei ma Demelza, dopo averla presa fra le braccia e stretta a se, gli sorrise. "E' abituata a me ma sta tranquillo, presto non avrà occhi che per te".

Annuì. Era giusto così e Demelza e Clowance, insieme, erano le donne più belle che avesse mai visto. Sua moglie era meravigliosa coi bambini, sapevano divertirsi e stare insieme con un'armonia che lo lasciava incantato ed era fiero di averla sposata e di aver regalato ai suoi figli una madre del genere che, pur da sola e fra mille difficoltà, li aveva cresciuti con amore e serenità.

"Mamma, mi canti una canzone di Natale?" - chiese Jeremy, con la voce impastata dal sonno.

"Non ne conosco, di canzoni natalizie".

La guardò, ricordandosi il loro primo Natale da sposati, quando lei aspettava Julia e a Trenwith aveva capito di amarla mentre cantava una canzone. "Ce n'è una che sarebbe perfetta. La nostra canzone, te la ricordi?".

Pur senza aggiungere altro, lei capì a cosa si riferiva. "Non la canto da anni, quella canzone".

"Cantala adesso!" - insistette, guardandola negli occhi. Voleva sentirgliela cantare, voleva riappropriarsi di quel qualcosa che era solo loro.

Dopo un istante di incertezza, Demelza appoggiò il viso ai capelli di Clowance, baciandoli, e poi stentatamente cantò quella che era stata un inno al loro amore ma anche un buco nero in quegli anni di separazione.


"I’d’ pluck a fair rose for my love;
I’d’ pluck a red rose blowing.
Love’s in my heart a-trying so to prove
What your heart’s knowing.
I’d’ pluck a finger on a thorn,

I’d’ pluck a finger bleeding.
Red is my heart a-wounded and forlorn
And your heart needing.
I’d’ hold a finger to my tongue,
I’d’ hold a finger waiting.
My heart is sore until it joins in song
Wi’ your heart mating".


Cantò fissando Clowance fino a metà canzone, ma poi si voltò verso di lui e in quel momento capì che aveva smesso di cantare per i figli e che ora, ogni parola, come quel giorno a Trenwith, era rivolta a lui.

Era bella come allora, la amava alla follia forse più che allora e nessuna donna gli era mai apparsa tanto seducente come lo era lei in quel momento.

Non fiuscì a farla finire di cantare, attirato a lei come da una calamita. La baciò, con passione, approfittando del fatto che i bambini ormai si erano addormentati. "Lo sai, amore mio, tutto ciò che di bello ho avuto dalla vita, me lo hai dato tu" – disse, stringendola a se, baciandole il viso e le labbra, con tenerezza e passione. "La scorsa notte è stata un sogno, soli io e te. Ma questa notte, con i nostri figli e la nostra canzone, è ancora più perfetta e unica". Aveva temuto che Londra, la ricchezza e la sua nuova vita l'avessero cambiata ma in quel momento capì definitivamente che era una paura stupida. Lei era la stessa donna di Nampara, che sapeva cantare con una voce dolce e melodiosa per lui e per i suoi figli, che amava le cose semplici e che davvero, per essere felice, non chiedeva che una casa dove stare e una famiglia da amare. Era lei, sarebbe sempre stata lei, non se ne sarebbe mai più separato, non avrebbe più voltato le spalle al vero dono che la vita gli aveva fatto. Era la sua stella e aveva bisogno della sua luce per vivere. E di quella delle sue due stelline per sentirsi davvero un padre.







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Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


Era stata una settimana bella, di scoperta e riscoperta per lui. Per sette giorni lui e Demelza avevano chiuso il mondo fuori da quella locanda, ritrovandosi come coppia, scoprendo di nuovo il piacere di stare insieme e la gioia di prendersi cura dei propri figli contando sull'aiuto reciproco.

Avevano passato giornate intere a giocare coi bambini, godendo della loro presenza, della loro vivacità e di tutte le emozioni che solo chi è molto piccolo sa dare a un adulto capace di scoprire la meraviglia dell'innocenza della loro tenera età.

Ross aveva potuto conoscere finalmente, davvero, il piccolo Jeremy, scoprirne le capacità, chiacchierare con lui delle cose che gli piaceva fare e che aveva imparato in quegli anni di lontananza e gli aveva fatto mille promesse su quello che avrebbero fatto insieme in futuro. E poi aveva scoperto Clowance, quella figlia di cui ignorava l'esistenza, una bimba che in un certo senso azzerava i conti col passato e con la terribile perdita di Julia, restituendogli la voglia di essere padre. Adorava la sua piccola, ne era davvero innamorato, lo incantava con quella sua vocina vivace, con le parole ancora storpiate e con la sua grandissima faccia tosta che le permetteva di ottenere tutto quello che voleva. Era un uomo fortunato, ora ne era consapevole, pienamente. Coi bambini aveva un rapporto molto fisico, con lui si scatenavano, gli si lanciavano sul petto, volevano essere presi sulle spalle e fare giochi spericolati e lui, con loro, aveva avuto una ripresa talmente portentosa da ritenersi praticamente guarito fin dal loro primo incontro.

Se di giorno apparteneva interamente ai bambini, la notte era quella che gli aveva restituito il suo ruolo di marito e amante della donna che aveva sposato. Perché una volta messi a letto i figli, c'erano solo loro, lui e Demelza. Avevano tanto da recuperare, tanto da superare e tanto da riscoprire, di loro due. Demelza gli era mancata ogni dannato giorno di quei tre anni, gli era mancata la loro complicità, la sua vicinanza, le loro risate e quell'intimità tanto profonda quanto intensa che li aveva uniti fin da quella loro prima volta, quando l'aveva vista con il vestito azzurro appartenuto a sua madre. Da quel momento, lei era stata sua. E dopo anni di sofferenza, lontananza, aveva capito anche lui di essergli appartenuto da quell'istante.

Facevano l'amore, ogni notte, godendo del piacere di ritrovarsi, di stare insieme, di vivere finalmente come una famiglia unita. Certo, Ross sapeva che le cose da affrontare sarebbero state tante, che quella settimana vissuta nella locanda significava stare come in una bolla di sapone che li isolava dalla vita e dal mondo vero, che sarebbero arrivati i problemi e che le cose da risolvere sarebbero state tante, però era felice e per il momento non voleva pensare a nulla se non a lei e ai suoi figli. E c'erano momenti dove avrebbe voluto rimanere sempre così, solo loro quattro, in quella bolla di sapone tanto perfetta da sembrargli quasi un bel sogno.

Dopo il capodanno la locanda si sarebbe riaperta e Demelza aveva deciso che, dopo la notte di festa per l'arrivo del nuovo anno, era ormai ora di tornare tutti e quattro nella sua dimora ufficiale. Ross stava ormai bene ed era arrivato il momento di iniziare a vivere nella vita vera di tutti i giorni.

Con un po' di timore e rimpianto, Ross salì sulla carrozza con sua moglie e i suoi figli. Guardò la locanda, che gli aveva restituito la sua famiglia, rendendosi conto che ora aveva paura. Sarebbe andato in una casa per lui sconosciuta, lussuosa, circondata da servitù che lui non conosceva e che gestiva interamente Demelza e temeva che si sarebbe sentito un intruso. Quelle persone conoscevano i suoi figli, si rapportavano con loro in modi a lui sconosciuti, avevano abitudini che non erano le sue e questo lo sapeva, non era il mondo a cui era abituato e che aveva condiviso una volta con sua moglie. Aveva paura perché ora avrebbe vissuto sulla sua pelle la nuova vita di Demelza, ne sarebbe stato coinvolto e non sapeva se la cosa gli avrebbe fatto piacere o meno. E soprattutto, come avrebbero conciliato le esigenze lavorative di entrambi? Aveva una miniera da gestire, in Cornovaglia, una miniera a cui tornare con minatori che contavano su di lui. E sua moglie era una delle più potenti donne d'affari di Londra...

Quando la carrozza si fermò e scesero davanti alla villa, Ross spalancò gli occhi. Si trovavano in una delle zone più lussuose di Londra, circondati da dimore di prestigio, e la casa di Demelza era qualcosa di grandioso, più sfarzosa di Trenwith, enorme, con un giardino curatissimo e ampio adornato da piante secolari e chiuso all'esterno da un elegante cancello in ferro battuto.

Una donna non più giovane corse loro incontro e i suoi figli si lanciarono fra le sue braccia. "Margareth!" - urlarono, eccitati.

Demelza lo prese sottobraccio, accompagnandolo all'ingresso. "Ti presento Margareth. Più che una domestica, è stata il nostro angelo custode fin dai primi mesi in cui ho vissuto a Londra. Ed è stata colei che mi ha aiutata a far nascere Clowance".

La donna annui e Demelza lo indicò. "E lui e mio marito Ross".

Margareth fece un inchino, con riverenza. "Signore, benvenuto".

Annuì in segno di saluto, a disagio. Sommariamente, Demelza e Jeremy gli avevano raccontato nomi e caratteri della servitù, ma ad essere onesto ricordava ben poco.

Entrarono in casa e Ross si sentì quasi mancare. Se fuori la casa gli era sembrata grandiosa, dentro lo era ancora di più. Lussuosa, elegante, raffinata ed arredata con gusto, non c'erano mobili o tappeti di seconda scelta o scarso valore ma nonostante questo l'arredamento non era pacchiano ma curato con estrema cura dei particolari, senza fronzoli eccessivi. E in questo ci vedeva la mano di Demelza che da sempre, anche a Nampara, aveva la capacità di rendere bella e accogliente una casa.

Sua moglie e i bambini gli presentarono ogni persona che lavorava lì, dal maggiordomo, alle cameriere, ai cuochi. Si chiese quanto ci avrebbe messo a ricordare i nomi di tutti e come sarebbe riuscito a trattare con loro. Era abituato a due servi scansafatiche che lo trattavano come un loro pari, come poteva fare con della servitù vera, che aveva voglia di lavorare e che lo guardava con riverenza? Quelle persone trattavano Demelza con estrema gentilezza e lei faceva altrettanto, ma lui? Che ruolo avrebbe avuto in quella casa, in quella vita? Si sentì sperso e probabilmente sua moglie se ne accorse. Gli strinse la mano nella sua, gli strizzò l'occhio e lo condusse verso le scale. "Su, ti accompagno nella nostra camera, così potrai riposare".

Annuì, ubbidendo come se fosse un bambino, grato di poter rimanere finalmente da solo con lei. Osservò le stanze, i corridoi, le scale di marmo, notando in ogni ambiente gli alberi di Natale di Jeremy. Questo lo fece sorridere e lo rincuorò un po', facendolo sentire a casa, nonostante tutto.

I bimbi correvano davanti a loro, muovendosi con naturalezza in quegli ambienti tanto lussuosi. Jeremy lo prese per mano, quando furono al piano di sopra, tirandolo verso una porta. "Vieni, ti faccio vedere la nostra stanza dei giochi!".

Demelza sorrise. "Sei fortunato, hai un'ottima guida! Jeremy conosce ogni angolo della casa, li ha esplorati tutti!" - disse, prendendo la piccola Clowance in braccio. "Io e lei vi aspettiamo in camera. Ci cambieremo di abito e ci faremo belle per la nostra prima cena tutti insieme, qui".

Annuì, anche se avrebbe voluto aggiungere che le trovava già belle così, vestite con abiti semplici rispetto a quelli sicuramente più raffinati che avevano in quella casa. Ma supponeva che quello fosse un'altro degli aspetti a cui si doveva abituare.

"Dai papà, vieni!".

Seguì Jeremy che lo portò in una grandissima stanza dalle pareti azzurro pastello, più ampia del suo salotto e della sua libreria di Nampara messi insieme. Era la stanza da giochi più fantastica che avesse mai visto, il sogno di ogni bambino. Ovunque c'erano bambolotti e case per le bambole, soldatini di latta, due grossi cavalli a dondolo, peluches, trottole e a lato della finestra un tavolino pieno di pastelli e libri illustrati o da colorare. "E' tutto tuo e di Clowance?" - chiese, attonito. "Chi vi compra tutti questi giocattoli?".

Il bimbo alzò le spalle. "Caroline, nonno Martin e nonna Diane e i soci di mamma. Giù nel salone grande ci sono ancora i regali di Natale da aprire e avremo sicuramente altri giochi nuovi. Mi sa che non riuscirò a ricordarmi tutto quello che ho, sono troppi".

"Già". Gli dava ragione, in pieno. Era bello che i suoi figli vivessero nell'agiatezza ma avevano troppo, tanto da non ricordarsi nemmeno tutti i loro giochi. Pensò ai figli dei suoi minatori, in Cornovaglia, che giocavano all'aperto usando unicamente sassolini o legnetti o, semplicemente, la fantasia, lanciandosi in avventure spericolate fra boschi, spiagge e prati.

Jeremy lo spinse fino alla finestra, mostrandogli il retro del giardino. "Guarda, abbiamo anche due altalene, per quando è estate e giochiamo fuori".

Alzò gli occhi al cielo. Era decisamente troppo! "Ci salite?".

Jeremy scosse la testa. "Mica tanto, mi piace di più esplorare il giardino e trovare i vermetti, in estate. Nemmeno Clowance ci sale, lei ha paura, una volta è caduta e non ne ha voluto più sapere. Ci vanno sopra mamma e Caroline, sulle altalene. E chiacchierano, chiacchierano e ancora chiacchierano tante ore insieme, quando Caroline ci viene a trovare".

Sorrise, immaginando che per Demelza avere un'altalena fosse un sogno realizzato di quando era piccola. E felice che Jeremy, nonostante i suoi mille giocattoli, amasse fare le stesse cose che faceva anche lui da piccolo.

"Mi fai vedere anche la cameretta tua e di Clowance?".

Jeremy annuì. "Certo, ma mica dormiamo insieme! Io ho la mia stanza e Clowance la sua! E nella sua c'è quel bruttissimo albero di Natale rosa, da femmine".

Scoppiò a ridere. "Ma Jeremy, tua sorella E' una femmina".

Jeremy sbuffò, sconsolato. "Si, me ne sono accorto! Troppo femmina...".

Quella reazione lo divertì, pensando a come avrebbe cambiato idea, suo figlio, di lì a dieci anni, circa le donne.

Si fece accompagnare nella stanza di Jeremy, anche questa grande, con un letto a baldacchino e una scrivania dove c'erano i libri e gli scritti che suo figlio faceva col suo istitutore, complimentandosi con lui per quanto fosse bravo a studiare.

Poi andarono a vedere la stanza da 'femmine' di Clowance. Sembrava la stanza di una bambola, con le pareti rosa, l'albero di Natale rosa e il copriletto ovviamente rosa. In effetti la sua piccola era un po' fissata con quel colore...

Poi tornarono da Demelza. Aprì la porta di quella che sarebbe stata la sua camera da letto, rimanendo a bocca aperta. Era immensa, con le pareti blu, decorazioni elaborate sul soffitto, enormi armadi ai lati della stanza e pregiati tappeti sul pavimento. Ma la cosa che lo colpì di più fu la spinetta a lato del letto. Sorrise, felice che Demelza ne avesse voluta una pure a Londra, ricordando quanto amasse suonarla a Nampara.

Ma se la camera lo aveva lasciato a bocca aperta, la sua sorpresa fu totale quando vide Demelza e Clowance uscire dalla cabina-armadio. Entrambe avevano i capelli raccolti in una coda di cavallo, legata da un nastro di seta verde come i loro abiti, elegantissimi, raffinati, bordati di pizzo. Erano bellissime ma si accorse che, come la sera in cui Demelza era uscita per la riunione alla borsa, le apparivano estranee.

Clowance gli corse incontro, facendosi prendere in braccio. "Hai visto l'albelo tutto losa? E' mio!".

"Certo amore, è bellissimo".

Tutta soddisfatta, Clowance gli cinse il collo. "Poi Jeremy lo mette via da solo".

"E tu non lo aiuti?".

"No, mamma non vole!".

Demelza rise, Jeremy si imbronciò e lui pensò che aveva una figlia che sapeva essere davvero una carognetta. La mise a terra, avvicinandosi a Demelza, abbracciandola. "Sai che lei ci farà dannare?".

Sua moglie annuì, baciandolo sulla mascella. "Sono due anni che ne sono consapevole".

Le sfiorò i capelli, baciandola sulla fronte. "Sei bellissima".

"Grazie". Lo prese per mano. "Su, ora scendiamo, andiamo ad aprire tutti insieme i regali di Natale e poi ceniamo. I cuochi hanno preparato una grande cena per noi, per festeggiare il tuo arrivo".

Questa cosa lo stupì. "Davvero? Dovrò ringraziarli? Come mi devo comportare con la tua servitù?".

Demelza scosse la testa, spingendolo fuori dalla stanza. "Se vuoi ringraziarli, fa pure. Ma ricordati che non sei un ospite, sei il padrone qui e loro lavorano per te. Sei il loro signore".

Non era molto d'accordo su questa cosa, era Demelza la padrona di quella casa e lui si sentiva decisamente un ospite, al momento. Ma non disse nulla, annuì e con la sua famiglia andò nel salone dove li attendevano un centinaio di regali ancora da scartare.

Spalancò gli occhi, guardando sua moglie che, come lui, sembrava smarrita davanti a tutti quei doni. "Ma... ma...?".

Demelza scosse la testa. "Sai qual'è la cosa buffa? Per la maggior parte, provengono da sconosciuti". Mise la mano sulla spalla di Clowance. "Coraggio piccola peste, tu sei bravissima a disfare le cose, vero?".

"Si!".

"E allora su, con Jeremy apriteli tutti".

I bimbi si guardarono negli occhi e poi, felici come non mai, si lanciarono sui doni.

Lui e Demelza si sedettero sul divano, guardandoli. Si sentiva a disagio ma guardare i suoi figli, averli vicini, lo rincuorava. Man mano che aprivano i doni, i bambini portavano loro i biglietti di auguri allegati, in modo che poi Demelza potesse scrivere un ringraziamento.

Trascorsero una piacevole serata, nonostante il suo senso di estraneità. Cenarono nella sala da pranzo, elegante e apparecchiata con posate d'oro, serviti da veri domestici che conoscevano a menadito le buone maniere e che sembravano pendere dalle labbra di sua moglie e dei suoi figli, a cui parevano molto affezionati. C'era un'atmosfera famigliare, nonostante la ricchezza che li circondava, e poteva ben capirne il motivo: Demelza era una padrona di casa gentile, che ricordava perfettamente le sue origini e trattava con gentilezza le persone che lavoravano per lei, non ergendosi a padrona dura e inarrivabile ma al contrario, mettendosi al loro pari, al loro fianco nel decidere le cose. Era fiero di lei e ora capiva perché, alla locanda, anche Leslie le fosse tanto affezionata e si ritenesse fortunata a lavorare per lei.

Dopo cena, fecero giocare i bambini e poi li misero a letto nelle loro stanze, nonostante le insistenze per dormire con loro. Ma Demelza fu inflessibile e lui si trovò contento della cosa. La voleva, era tutto il giorno che la desiderava e non vedeva l'ora di toglierle di dosso quell'elegantissimo abito verde per ritrovare la sua donna, quella che amava e che tanto le ricordava i tempi in cui vivevano a Nampara.

Quando furono nella loro camera, notò che qualcuno aveva provveduto ad accendere il camino e che tutto era avvolto da un piacevole tepore.

"Che ne farai di tutti quei regali?".

Demelza sospirò, slacciandosi il vestito. "Ho detto alle domestiche di scegliere quel che gli piace e di prenderlo. E per quanto riguarda Jeremy e Clowance, sceglieranno un gioco a testa fra quelli ricevuti e gli altri li porteremo ai bambini dell'orfanotrofio cittadino. Hanno troppa roba, per i miei gusti".

Gli si avvicinò, baciandola sulle labbra con passione. "Ottima idea! In effetti ho notato che hanno davvero troppe cose, rispetto a quelle che gli servono".

"Lo so! Purtroppo siamo circondati da persone che li viziano e io non riesco ad impedirlo. I miei soci, i Devrille, soddisfano ogni loro capriccio".

"Forse dovremmo mettere un freno a questa cosa".

Demelza lo guardò con aria di sfida, mascherando un sorriso. "Se riuscirai a farlo, te ne sarò eternamente grata".

"Beh, sono i nostri figli e gli altri dovrebbero rispettare le nostre decisioni a loro riguardo" – obbiettò, seccato che qualcuno intervenisse in maniera tanto pesante circa l'educazione di Jeremy e Clowance.

Demelza divenne seria, a quelle parole. "I Devrille adorano i bambini e tutto sommato, mi hanno aiutata molto anche nella loro educazione. Jeremy e Clowance hanno tante cose, è vero, ma non li ritengo viziati. Sono bravi e generosi e credo sia merito anche delle persone che mi hanno aiutata negli anni".

Ross annuì. "Non sto dicendo che non sono grato a queste persone, ma vorrei che fossimo solo io e te a pensare ai nostri figli, da ora".

Demelza si mise sul letto, in sottoveste. "Ah, mio caro, sarai esaudito da domani! Avrai i bambini tutti per te, a tempo pieno, tutto il giorno!".

"Che vuoi dire?".

Quasi in difficoltà, Demelza dondolò le gambe che penzolavano giù dal letto. "Domani mattina dovrò alzarmi molto presto per andare alla locanda. Devo presentare i registri contabili all'esattore delle tasse e dovrò occuparmi delle ordinazioni di merce per il magazzino. Dovrò predisporre il lavoro dei miei dipendenti, domani apriremo di nuovo, e poi vorrei iniziare a pensare ai loro salari del mese. Ci metterò tutto il giorno e in serata ho una riunione alla sede della Warleggan Bank. Un consiglio d'amministrazione in cui George mi farà saltare i nervi, già lo so... In pratica, uscirò al mattino che dormirete ancora tutti e tornerò tardissimo".

Quella rivelazione, lo irritò. Se ne sarebbe stata via tutto il giorno? "Non puoi farlo fare a qualcuno, tutto questo lavoro? Voglio dire, alla locanda hai molti dipendenti, non possono pensare loro ai registri e all'ordinazione della merce? E per quanto riguarda la Warleggan Bank... Santo cielo, non voglio che tu esca la sera, da sola, con quel tizio che ti ha aggredita a piede libero, per andare a vedere George Warleggan! Hai dei soci, potrebbero andare loro al tuo posto, alle riunioni serali! Starai via tutto il giorno e non vedrai praticamente né me, né i bambini".

"Ross!". Demelza si oscurò, irritata, scuotendo la testa. "Sapevo che sarebbe successo e che avremmo discusso di questa cosa. Non sono abituata a relegare ad altri il mio lavoro, lavoro che, vorrei ricordarti, mi ha permesso di mantenermi in questi anni senza di te".

Cercò di ignorare il senso di colpa che quelle parole risvegliarono in lui. "Ma io ora sono qui! Rallenta, pensa a noi, non ci vediamo da anni e te ne scappi a fare mille altre cose che non riguardano la tua famiglia! Abbiamo bisogno di te, IO ho bisogno di te. E i bambini preferirebbero averti vicino, te lo assicuro".

"Ross, smettila! Credi che non abbia sensi di colpa a lasciarvi soli tutto il giorno? Ora ci sei tu coi bambini però, potrò lavorare più tranquilla e sapendo che sono col il loro papà!".

"E io e i bambini che faremo? Aspetteremo che tu trovi tempo per noi, fra un impegno e l'altro?".

Demelza si alzò, fronteggiandolo. I suoi occhi lanciavano fiammate e santo cielo, era davvero rimasta uguale a una volta, quello sguardo così fiero e forte che usava quando era arrabbiata non si era mai spento. "Sei ingiusto, ora!".

"Tu sei ingiusta! Potresti delegare il tuo lavoro a qualcun altro, ma evidentemente non vuoi farlo".

"Ti da più fastidio la parte della locanda o il fatto che debba vedere George?".

"Entrambe le cose. Perché non ci vanno i tuoi soci, alla Warleggan Bank?".

Demelza sospirò. "Fu mia l'idea di entrare nel consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank, Martin non ne voleva sapere. Insistetti e mi presi la responsabilità di seguire questo affare personalmente, per tenere d'occhio George. Non posso tirarmi indietro, ora!".

Lo capiva, certo! Ma per lui era troppo difficile da accettare, rivoleva sua moglie, in toto. E questo sì, era egoista, irrealizzabile, troppe cose erano cambiate e doveva accettarle, ma... "Ti rendi conto di cosa significhi tutto questo, per me?".

Demelza annuì. "E tu ti rendi conto di cosa significhi per me, ricostruire da capo la mia vita? Ross, non è stato facile riaccoglierti, decidere di riaverti a fianco e ora lo so, hai ragione, dovremo trovare il modo per rinventarci da zero, ma prendiamoci il tempo per capire come farlo. In un mese è cambiato tutto e io non ci sto capendo un accidente, so solo che dalle mie decisioni e dal mio lavoro, dipendono le vite e la tranquillità economica di molte persone di cui mi sento responsabile e voglio fare il meglio per loro".

Ross chiuse gli occhi. Capiva cosa volesse dire, era quello che spingeva lui, in Cornovaglia, a farsi in quattro per le famiglie dei minatori che lavoravano per lui. Erano simili lui e sua moglie e proprio per questo capiva perché lei sentisse il suo lavoro come un dovere da cui non poteva sottrarsi. E capiva anche che sì, le aveva sconvolto la vita e che lei aveva fatto tanto per lui, in quell'ultimo mese, che aveva già fatto tanti passi per venirgli incontro e che ora toccava a lui farne altrettanti. "Scusa, non volevo essere scortese prima. Hai ragione, devi andare domani e io resterò qui coi bambini. Non preoccuparti, staremo bene e io, dopo tutto, ho bisogno di passare tanto tempo con loro per conoscerli".

Demelza lo attirò a se, abbracciandolo e baciandolo sulle labbra. "Ross, ce la faremo, riusciremo a far funzionare le cose. Abbi pazienza, ti prego".

Chiuse gli occhi, affondando il viso fra i suoi capelli. "Certo, amore mio". La baciò di nuovo, spingendola sul materasso. Demelza gli accarezzò il collo e le spalle, gli sbottonò la camicia e poi prese a baciarlo sul petto, facendolo impazzire. "Domani non ci sarò, ma mentre sono qui, credo di poterti considerare solo mio".

Le tolse la sottoveste, perdendosi ad ammirare la perfezione del suo corpo e la bellezza di quei lunghissimi capelli rossi sparsi sul materasso. "E io per questo, posso ritenermi un uomo fortunato" – sussurrò, prima di azzittirla con un nuovo bacio, desideroso di lasciare tutti i problemi da parte e di fare l'amore con lei.

Si sentiva smarrito, perso e allo stesso tempo felice. Tutti questi sentimenti derivavano da lei e sapeva che, nel bene e nel male, Demelza sarebbe stata la sua forza e il suo tormento. Ci voleva tempo, lei aveva ragione. Ma insieme ce l'avrebbero fatta.






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Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


Demelza era uscita molto presto ed era rimasto a poltrire a letto il più a lungo possibile, finché i figli non lo costrinsero ad alzarsi.

Fecero colazione insieme nella sala da pranzo, serviti in eleganti tazze di porcellana, con the, biscotti e pane imburrato. I domestici di Demelza anticiparono ogni suo desiderio o richiesta, dandogli quello che desiderava ancor prima che lui potesse eventualmente chiederlo, cosa a cui non era decisamente abituato. Si sentiva a disagio e non vedeva l'ora di finire di mangiare per far qualcosa da solo coi bambini.

Appena anche Clowance ebbe finito di mangiare, li prese per mano, costringendoli a raggiungere il piano superiore. "Coraggio, oggi dobbiamo lavorare!".

"Io no!" - esclamò Clowance, incrociando le braccia e facendo il broncio.

Ross le scompigliò la testolina rossa, sorridendo. "D'accordo, tu ci guarderai. Ci penseremo io e Jeremy a disfare gli alberi di Natale. Mamma ieri sera mi ha ricordato che devi farlo, sai?" - disse, al figlio.

Il bambino sospirò. "Me lo immaginavo...".

Anche Ross sospirò, pensando che in fondo venticinque alberi di Natale sarebbero stati un lavoraccio, da disfare, pregando che al figlio non venisse mai più in mente niente di simile. Anche se, quell'incombenza, gli sarebbe tornata utile per fare qualcosa insieme a lui. "Credevo che la mamma se ne sarebbe dimenticata, sai?" - esclamò, prendendo degli scatoloni vuoti dove riporre gli addobbi, che aveva fatto portare da una domestica di cui non ricordava ovviamente il nome.

Jeremy spalancò gli occhi. "Mamma che si dimentica di un castigo? Impossibile! Mi sa che non la conosci molto bene!".

Scoppiò a ridere a quelle parole, considerando che in effetti, conoscendola, non poteva che aspettarsi che se ne ricordasse. "Su, basta parlare! Andiamo a lavorare".

Poco entusiasta, Jeremy lo seguì, e la piccola Clowance trotterellò dietro di loro con una bambola fra le braccia.

Cominciarono da una delle camere degli ospiti, dove troneggiava un abete molto grande a lato della stanza.

"Come facciamo a smontarlo? E' tanto alto, quando io e nonno Martin lo abbiamo addobbato, abbiamo usato la scala".

Ross osservò l'albero e poi il figlio. Infine prese il bambino fra le braccia, mettendoselo sulle spalle. "Niente scala, così arriverai alla punta".

Jeremy spalancò gli occhi, guardandolo dall'alto. "Forte! Così è bellissimo, papà!" - esclamò, eccitatissimo di essere sulle sue spalle per la prima volta.

"Non hai paura?".

"No, mi piace un sacco!". Contento, Jeremy prese le sfere e le perline colorate e, una dopo l'altra, le lanciò in uno degli scatoloni posti alla base dell'albero.

Felice di vederlo così eccitato, Ross prese a togliere gli addobbi dalla parte centrale dell'albero mentre Clowance, con la sua bambola, li guardava incuriosita. E a un certo punto, stanca di guardarli, gli si avvicinò, tirandolo per la camicia. "Papà?".

"Cosa c'è?".

La bimba, stanca di rimanere in disparte, allungò le braccia verso di lui. "Anche io vollo tollere l'albero".

Ross guardò Jeremy, strizzandogli l'occhio, facendogli segno di assecondarla. Poi si chinò, prendendola in braccio. "D'accordo, mi aiuti qui, mentre tuo fratello sistema la parte in alto?".

"Si".

"Hai deciso di diventare generosa?".

Clowance annuì, fiera. "Si. E vollo stare in braccio!".

La baciò sulla fronte, rendendosi conto che era letteralmente innamorato di quella testolina rossa e del bimbo che teneva sulle spalle. Lavorarono fino a mezzogiorno inoltrato, divertendosi, tanto che la lontananza di Demelza non gli pesò particolarmente e anche i bambini, sereni e tranquilli, collaborarono senza litigare, in pace ed armonia. In quattro ore, i venticinque alberi di Natale furono disfati e quando si stava organizzando per portarli in giardino per tagliarli, fu fermato dal maggiordomo che glielo impedì. "Signore, no! Questo non è lavoro per voi, ci penserà il giardiniere. E' ora di pranzo, è già servito in tavola e voi e i signorini sarete affamati".

Ross si grattò la guancia, in imbarazzo. Si sentiva un leone in gabbia con tutta quella servitù che faceva tutto e che lo preveniva in ogni cosa e non capiva perché non potesse tagliare la legna, visto che era una cosa che faceva abitualmente in Cornovaglia. Però in effetti era affamato, i bambini pure e aveva ancora tutta la giornata da organizzare, con loro. Se non poteva tagliare la legna, si sarebbe dovuto inventare qualcos'altro da fare. Fece coi bambini un giro nella stalla per vedere i loro pony, spiegò loro cosa fare per prendersene cura e alla fine, dopo essere stato chiamato all'ordine dalla servitù per l'ennesima volta, si decise ad andare a mangiare.

Pranzarono in relativo silenzio e per la prima volta nella giornata, sentì che Demelza gli mancava. Si chiese come avrebbe potuto abituarsi a quelle sue abituali assenze e si trovò anche a pensare a come avesse fatto lei, a Nampara, a fare altrettanto quando lui era via. I bambini invece sembravano abituati a quella situazione e non particolarmente scossi dall'assenza della madre, non quanto lui almeno.

Li osservò, accorgendosi che Clowance sbadigliava e si sfregava gli occhi con la mano e anche Jeremy pareva stanco. In effetti avevano lavorato come matti per quattro ore e loro non dovevano esserci abituati. Beh, meglio così, aveva il pomeriggio da organizzare e un paio d'ore sarebbero passate facendoli dormire un po'.

Margareth, la domestica più anziana che osservava l'andamento del pranzo in un angolo della sala, però lo prevenì di nuovo. "Finito di mangiare, signore, volete che metta a letto i bambini?".

Scosse la testa, deciso a prendersi cura personalmente di loro. "No, lo faccio io. Li porto con me in camera mia".

"Come volete, signore".

Sospirò. Era davvero seccante avere tanta gente attorno che lo anticipava in tutto, tanto che per un attimo sentì la nostalgia di quegli scansafatiche di Jud e Prudie.

Dopo il dolce, prese i figli in braccio, rifugiandosi in camera sua dove, a parte loro, per fortuna non aveva accesso nessuno. Mise i piccoli a letto, stendendosi fra loro, e Clowance ne approfittò per rannicchiarsi sul suo petto, succhiandosi il pollice e giocando con l'altra mano con una ciocca dei suoi capelli. Jeremy invece appoggiò la testolina contro la sua spalla, sbadigliando. "Sono stanco, papà".

"Lo so, dormi ora".

Jeremy annuì, girandosi verso di lui. "Grazie per avermi aiutato".

"Te l'avevo promesso, no?".

Il bimbo ci pensò su. "Lo sai, quando sei arrivato ero preoccupato".

"Perché?".

Jeremy arrossì, giocando nervosamente con la stoffa della sua camicia. "Credevo che ci rubavi la mamma e che eri cattivo. Sai, quando non c'eri, se chiedevo di te, la mamma diventava triste e allora pensavo che eri...". Si bloccò, quasi in difficoltà, non sapendo forse che parole usare.

"Io non vi ruberò mai la vostra mamma, sta tranquillo! Siete i suoi bambini e non permetterebbe mai a nessuno, nemmeno a me, di allontanarla da voi". Ross gli accarezzò la guancia, colpito dalla sensibilità che Jeremy, nonostante i suoi cinque anni, stava dimostrando. Era davvero bello il rapporto che aveva con sua madre, come se ne preoccupasse e come se ne prendesse cura. "Credevi che l'avrei fatta soffrire?".

Suo figlio annuì. "Si. Sai, io e Clowance ci preoccupiamo per mamma e non ti conoscevamo. Avevo davvero paura, mica lo potevo sapere se eri bravo...".

"Hai ancora paura?".

"No! Adesso so che sei buono. E mamma è contenta!".

Sorrise, pensando che se Jeremy diceva che sua madre era contenta, doveva essere vero. Lo abbracciò, stringendolo a se. "Sono contento anche io e credo che tu sia stato davvero bravo, mentre non c'ero, a stare vicino alla mamma. Ora lo faremo insieme, d'accordo?"

"D'accordo!".

"E ora su, dormi".

"Si papà".

Nella stanza calò un silenzio tranquillo e dopo che i figli si furono addormentati, anche lui si appisolò con loro, cullato dal suono dei loro respiri.

Nella stanza c'erano un tepore rigenerante e un'atmosfera serena, stava talmente bene, in beatitudine, che quasi si spaventò quando, nel dormiveglia, sentì la leggera carezza di una mano sulla sua guancia. Aprì gli occhi, trovandosi davanti il viso di Demelza. "E tu cosa ci fai qui?" - chiese, sorpreso. Non doveva tornare in tarda serata?

Demelza si sedette sul letto accanto a loro e poi si stese, attenta a non fare rumore e a non svegliare i bimbi. "Ho seguito il tuo consiglio. Ho fatto quello che non potevo delegare e ho lasciato ai miei dipendenti della locanda l'incombenza di ordinare la merce necessaria alla ripresa dell'attività. Sono capacissimi di farlo e in fondo, non c'era bisogno che io restassi".

Era felice che fosse lì, con loro, e allo stesso tempo stupito che avesse lasciato un lavoro che adorava fare per tornare a casa. "Lo hai fatto a causa della nostra discussione di ieri sera?".

Demelza ci pensò su un attimo. "Si e no. Ci ho pensato e credo che tu abbia ragione, non posso starmene fuori casa tutto il giorno, lasciando te e i bambini da soli".

Si sentì in colpa, le stava stravolgendo la vita e la stava costringendo a fare, forse, cose che le potevano pesare. "Demelza, devi fare quello che ti senti, non quello che voglio io! Sono qui, sono con te e con i bambini e questo mi basta, non ho il diritto né di dettare le regole, né di sconvolgerti vita ed abitudini. Tu hai fatto già molto, mi hai perdonato l'imperdonabile e ti sei presa cura di me quando stavo male, senza farmi pesare nulla del nostro passato. Sono io quello che deve adattarsi a questa situazione, non tu".

Demelza sorrise, si voltò verso di lui e gli accarezzò una guancia, piano. "Non mi pesa essere tornata a casa prima, anzi... Mi piace stare con voi, siete la mia famiglia e essere una moglie e una madre è quello che ho sempre desiderato. Non i soldi, non il potere, solo l'amore di chi amo!".

"Ma il tuo lavoro?". Era bello quello che lei aveva appena detto, ne era felice, ma nonostante le sue parole, temeva che fosse tornata per le pressioni che le aveva fatto la sera prima.

Quasi presagendo quello che pensava, Demelza lo baciò sulle labbra. "Ho scelto di riaverti nella mia vita, di riprovarci, di trovare il coraggio per credere che potessimo farcela. E averti qui con me significa cambiare la mia vita, non in peggio ma in meglio, significa trovare compromessi fra quello che ero prima e quello che sarò con te, ridisegnare le mie abitudini. Non posso vivere come prima perché non è fattibile, siamo una famiglia di nuovo e io voglio farne parte il più possibile. Ieri sera avevi ragione, non posso ridurmi a stare con voi nei ritagli di tempo fra un impegno e l'altro, non posso e non voglio farlo".

Ross sorrise, stringendola a se, piano, per non svegliare Jeremy. "D'accordo, mi basta sapere che sei contenta".

"Lo sono. Io non ho mai desiderato essere ciò che sono ora, è successo quasi senza che me ne accorgessi o potessi evitarlo. Ma adesso ci sei tu con noi, posso contare su di te e devo fare delle scelte fra ciò che è necessario fare e ciò che posso e voglio delegare a qualcun'altro, mettendo da parte il mio orgoglio che mi spinge a voler fare tutto da sola. Sai, da quando sei tornato, certe volte mi fermo a pensare che vorrei tanto che tutto tornasse ad essere come a Nampara. Mi manca la nostra casa, quella vita, la Cornovaglia...".

Ross chiuse gli occhi, pensando che anche a lui mancava Nampara e mancava il vivere la sua famiglia in maniera più semplice, ma decise di non dirlo, di non forzarla a prendere decisioni di cui poi avrebbe potuto pentirsi. "A Nampara non eri nessuno, qui sei una donna ricca, potente e importante".

Demelza sorrise dolcemente, poggiando la testa contro la sua spalla. "Non è vero che non ero nessuno, a Nampara ero tua moglie, la madre di Julia e Jeremy e la padrona di Jud e Prudie. E questo per me voleva dire tutto".

"Potremo andarci quando vorrai, ti basta chiederlo".

Demelza annuì, accarezzando i capelli di Jeremy. "Lo so". La sua espressione divenne seria, cercò la sua mano e quando la trovò, intrecciò le dita con le sue. "Oggi ci ho pensato, sai? Al fatto che tu fossi preoccupato del fatto che uscire di sera, con Smith a piede libero, potrebbe essere pericoloso. E hai ragione! Non posso rischiare la mia incolumità, la tua e quella dei bambini, soprattutto. Vuole le azioni della Northern e credo che gliele venderò, mettendo fine a questa storia".

"E' quello che vuoi fare davvero?".

Demelza scosse la testa. "E' quello che devo fare".

Non era d'accordo, non del tutto. "Lungi da me voler mettere il becco nei tuoi affari ma ecco... io non venderei!".

"Perché?".

"Perché non è quello che vuoi e perché non è giusto vendere e chinare il capo davanti a minacce e violenza. Ho sentito parlare della Northern Bank in Cornovaglia, so che è una banca nata per aiutare non solo i ricchi ma che concede prestiti anche a persone meno agiate, dando a tutti le stesse possibilità, seguendo i dettami della rivoluzione francese. E' un'idea grandiosa e sono felice che tu abbia acquistato quelle azioni e che abbia creduto a quello in cui credo io. Tienile, se è quello che vuoi! Qui ci sono io a proteggervi e non permetterò a quel verme di farvi del male".

Demelza si strinse a lui, grata. "Quelle azioni non valgono nulla, non valgono il rischio".

"Ti sbagli! Se quell'uomo le vuole, quelle azioni devono valere molto invece".

Demelza annuì. "Sarai davvero la mia guardia del corpo?".

"Se lo vorrai...".

Sua moglie sorrise, furba. "E allora stasera verrai con me, assieme ai bambini!".

"Dove?".

"Alla riunione alla Warleggan Bank! Quella non posso evitarla ma è un buon banco di prova per vedere se riusciamo davvero a trovare una soluzione per conciliare la nostra nuova vita. E i bambini saranno curiosi di vedere dove lavoro, quando mi allontano la sera".

Ross spalancò gli occhi. Era pazza per caso? Voleva portarlo, coi bambini, a vedere George? "Demelza, credo sia una pessima idea...".

Sua moglie, per nulla scoraggiata dalla sua reazione, gli strizzò l'occhio. "Io invece, credo sia un'idea ottima e che sarà divertente. Ci stai, guardia del corpo?".

Lo guardò con uno sguardo dolce e complice allo stesso tempo, in quel modo tanto famigliare per loro e allo stesso tempo nuovo. Era da tanto che non erano così, sereni, affiatati, capaci di capirsi con un solo sguardo che sapeva valere più di mille parole. Si chinò, la baciò sulle labbra con passione e poi la strinse a se. "Beh, potrebbe essere divertente essere un principe azzurro e avere la mia damigella da salvare. E anche rivedere George, dopo tutto. Ci sto, questa sera si esce tutti insieme e si va a vedere una mamma che lavora!" - esclamò, osservando i loro due bambini che, incuranti, continuavano a dormire accanto a loro.

Demelza osservò i figli, ancora profondamente addormentati. "Com'è andata oggi, con loro?".

"Benissimo! Hai visto che bravo che è stato Jeremy? Ha disfatto tutti gli abeti".

A quell'affermazione, sua moglie rise. "Si certo, tutto da solo, magari...".

Finse di stare al gioco, anche se Demelza sapeva benissimo la verità. "Io e la principessina gli abbiamo dato una piccola mano".

"Clowance?". Demelza allungò la mano ad accarezzare i riccioli della figlia. "Non ci credo, LEI che lavora? Incredibile".

Ross ridacchiò. "E' stata magnanima. Vorrei lavorare anche io, ad essere onesto, ma i tuoi domestici me lo hanno impedito. Avevo in mente di tagliare gli abeti in giardino ma il tuo maggiordomo me lo ha praticamente vietato".

"Certo, gli ho detto io di farlo, sei reduce da un grave incidente, Ross".

"Ma ora sto bene" – obbiettò lui. "Da quando sei così apprensiva?".

Demelza gli diede una pacca sulla fronte, spingendolo sul cuscino. "Sono assennata, non apprensiva. E ora dormi, che stasera rimarremo fuori fino a tardi".


...


Cenarono presto e poi uscirono che era ormai buio. Le strade erano deserte e ai bordi c'era neve ghiacciata che conferiva alla città un aspetto quasi magico. I bambini, eccitati dall'uscita serale, correvano davanti a loro saltando sui mucchi di neve, contenti di vedere per la prima volta la loro mamma che lavorava.

Ross e Demelza, invece, camminavano più tranquillamente, mano nella mano, non perdendoli d'occhio. Faceva freddo ma era una serata tranquilla, rilassata, stavano bene e nemmeno l'idea che a breve avrebbero rivisto George riusciva a turbarli.

"Ogni quanto si svolgono le riunioni alla Warleggan Bank?".

Demelza gli strinse la mano, appoggiando la testa alla sua spalla. "A volte, passano mesi fra una riunione e l'altra. Non troppo spesso, in pratica".

Annuì, sollevato. Sua moglie era bellissima quella sera, altera e irraggiungibile come tutte le volte che l'aveva vista andare a qualche riunione importante. Ma stranamente, questa volta gli appariva meno estranea e non si sentiva disturbato dai gioielli e dai suoi abiti eleganti. Era lei, poteva essere vestita con abiti semplici o coi vestiti della regina d'Inghilterra ma era Demelza. La sua Demelza! L'unica che riuscisse a farlo star bene, a farlo sentire a suo agio e a farlo ridere, ed erano sentimenti e una predisposizione d'animo che per tanto aveva creduto di non provare mai più.

Quando giunsero davanti a un grosso edificio del centro, imponente ed elegante, Demelza chiamò a se i bambini. "Dovete fare i bravi e stare con papà. Qui non vogliono confusione, capito?".

"E se vollo qualcosa?" - chiese Clowance, succhiandosi il pollice.

Demelza la guardò, poi diede a Ross uno sguardo d'intesa. "Dovrai chiedere al signor George Warleggan, quello che siederà a capo-tavola. E' lui il capo".

"I capi sono tutti cattivi" – intervenne, Jeremy.

Ross rise. "Certo, hai ragione! Ed è per questo che veglieremo sulla mamma e terremo d'occhio questo George, per vedere che si comporti bene. E lo chiameremo ogni volta che dovremo dire o fare qualcosa. Capito?".

"Si".

Entrarono e Ross si sentì vagamente a disagio. Era un posto molto elegante e non riusciva a non ammirare Demelza che si muoveva in quegli ambienti con la leggerezza di una farfalla. Ci era abituata, era palese! Per anni lei aveva combattuto e contrattato con quelli che lui considerava avvoltoi e nemici, aveva ricattato George Warleggan e lo aveva messo all'angolo, concludendo affari milionari. E lo aveva protetto, lasciandolo libero di lavorare con calma alla Wheal Grace senza che quell'avvoltoio cercasse di portargliela via. Era affascinato da lei, la guardava ed era come vedere una dea, ne era totalmente, follemente innamorato e ancora una volta si maledì per il modo in cui l'aveva trattata, per come l'aveva fatta soffrire e per non aver capito pienamente quale tesoro rappresentasse per lui.

Salirono all'ultimo piano e, quando videro un gruppo di uomini davanti a una grossa porta in legno, prese i figli per mano.

Demelza si irrigidì, rallentò il passo e gli fece segno di seguirla.

"Demelza" – esclamò uno dei finanzieri – "Benarrivata". L'uomo fece per parlare, quando notò che non era sola. "E questi due bei bambini? I vostri figli, scommetto! Era ora che ce li faceste conoscere".

Demelza annuì. "Si, sono i miei figli, Clowance e Jeremy. Stasera ho voluto mostrar loro dove lavoro". Gli si avvicinò, prendendolo sotto braccio. "E lui è mio marito, Ross Poldark".

Al pronunciare quel nome, bianco come un fantasma, dalla porta aperta comparve lui... Ross si irrigidì, pensando a quanto lo odiava, a quanto aveva cercato di rovinare la sua vita e a quanto quell'uomo potesse detestare Demelza, per il ruolo che oggi ricopriva e che lo costringeva, di fatto, a scendere a compromessi con lei. "George Warleggan... Siamo vicini di casa e alla fine riusciamo ad incontrarci solo a Londra" – disse, provocatorio.

George, impallidendo, lo squadrò, prima di lanciare un'occhiataccia a Demelza. "Questo che cosa significa?".

Sua moglie, per nulla intimorita, si sistemò una ciocca di capelli dietro le spalle. "Mi ha accompagnata, Londra è piena di lupi e falchi famelici pronti ad attaccare, la notte. Ed è dovere di un marito proteggere la propria donna, non pensate? Questo non fa parte del vostro concetto di famiglia perfetta?".

George si morse il labbro mentre gli altri azionisti, presagendo aria di tempesta nell'aria, si rifugiarono nella sala delle riunioni. "Questo è il consiglio d'amministrazione di una banca fra le più importanti del paese, non un luogo di scampagnate per famiglie. Il fatto che voi abbiate portato qui vostro marito e i vostri figli, è assolutamente fuori luogo, tanto più che pensavo non foste più nemmeno una famiglia ormai da anni".

Demelza sorrise freddamente. "Vi sbagliavate e non mi pare di ricordare di avervi mai detto nulla di simile. E per il resto, non preoccupatevi, Ross e i bambini sanno che non devono interrompere la riunione".

George alzò lo sguardo su Ross, furente. "Avete capito, Ross? Silenzio totale, non dovrete metter becco in ciò che discuteremo qua dentro. E la prossima volta, fate in modo che vostra moglie venga scortata da una guardia, non voglio più vedere voi e i vostri bambini qui".

Ross annuì, divertito dal vederlo tanto fuori di se. "Sarò muto come una tomba e per quanto riguarda me e i bambini, non mi pare ci siano regole che vietino di accompagnare i propri cari ad una riunione serale. O sbaglio?".

George scosse la testa, non sapendo cosa rispondere, gli voltò le spalle e rientrò nella sala. "Come vi ho detto, pretendo silenzio. E ora entrate, diamo inizio all'assemblea".

Ross prese i figli per mano, entrò nella sala e si mise in un angolo appartato ad osservare sua moglie e quegli uomini, alcuni giovani e alcuni piuttosto anziani, sedersi a quel grosso tavolo dove, poteva scommetterci, si decidevano i destini di tante povere persone.

George aprì un grosso tomo, leggendo l'ordine del giorno. "Come vi ho anticipato per lettera, stasera approveremo l'esproprio coatto dell'area di St. Germaine per la costruzione di una nuova sede della banca. In quell'area ci sono solo baracche e togliendo quel marciume e i rifiuti umani che vi vivono, ridaremo lustro a tutto il quartiere. Soprattutto con il nostro arrivo che spingerà molti azionisti a guardare a quella zona con rinnovato interesse".

Ross strinse le mani dei bambini, rendendosi conto che quel verme, negli anni, non era affatto cambiato. Era arrogante, senza cuore e si ergeva a giudice e padrone delle vite di chi non riteneva alla sua altezza, calpestando le persone come fossero formiche.

Demelza lesse l'ordine del giorno, poi si alzò dalla sedia con un movimento veloce. "Dove devo firmare il diniego?".

Gli altri azionisti la guardarono, forse nemmeno troppo sorpresi da quella presa di posizione, mentre George tornava a farsi rosso per la rabbia. "Cosa c'è che non va? Vi siete eletta a paladina dei baraccati?".

Sua moglie sostenne lo sguardo di George. "Paladina dei baraccati? Non direi... Ma paladina del rispetto della legge, si! Quella gente è proprietaria di quelle baracche che, per quanto possano valer poco, rappresentano la loro casa. Ci sono molte aree da bonificare a Londra in cui costruire nuove sedi della banca, senza andare a distruggere la vita di gente che non può permettersi nemmeno di pagare un avvocato per difendersi".

"Signora, qui si parla di affari, non di buoni sentimenti!" - urlò George.

Demelza sbuffò. "Avete chiesto di riunirci per decidere, giusto George? Beh, il mio parere è negativo".

A quel punto, a sorpresa, George si voltò verso di lui. "Signor Poldark, vorreste per favore invitare vostra moglie ad essere ragionevole?".

Ecco, lì lo voleva. Lui e Demelza si lanciarono uno sguardo d'intesa che valeva più di mille parole, poi si rivolse a George col più amabile dei sorrisi. "Non mi permetterei mai di aprire bocca e di intervenire in una vostra riunione. E' giusto che stia in silenzio, come mi avete intimato poco fa. Sono solo un ospite, dopo tutto, e mia moglie è più che capace ad argomentare e decidere da sola. La vostra socia è lei, non io". Pensò che era una situazione stupenda, quella. Per la prima volta, senza violenza, senza pugni, senza urla, riusciva ad avere la meglio davvero su George e a metterlo in difficoltà, usando le armi di sua moglie: gioco d'astuzia, pazienza nel saper aspettare il momento giusto per attaccare, furbizia. Era fiero di lei, per come agiva, per come si poneva con quegli uomini d'affari, per come ragionava usando il cuore e non la logica del guadagno.

Clowance si liberò dalla sua stretta e, senza che riuscisse a fermarla, corse da George. Gli tirò la stoffa dei pantaloni, si imbronciò e si mise le mani sui fianchi. "Tu sei blutto! E guaddi male la mia mamma! Non-si-fa!".

"I vostri figli sono dei selvaggi!" - sbottò lui, prima che Demelza si avvicinasse e prendesse la bimba fra le braccia.

"Avete ragione. Quindi, visto che disturbano, è tardi e io ho già espresso la mia posizione a riguardo, ora vado a casa con la mia famiglia. Buon proseguimento di seduta George. Spero troviate una soluzione alternativa ai vostri piani circa la nuova sede, senza il mio voto favorevole non potete fare altro, temo". Senza aspettare risposta, Demelza gli volse le spalle, si avvicinò a lui e a Jeremy e, dopo avergli strizzato l'occhio, gli fece cenno di seguirla.

Se ne andarono insieme, percorrendo quegli eleganti corridoi, scoppiando a ridere come ragazzini quando furono in strada, di gusto, mentre i bambini li guardavano un po' confusi.

Ross rise, non aveva forse mai riso a quel modo. Si avvicinò a sua moglie e la abbracciò, trascinandola fra le sue braccia, rendendosi ancora una volta conto di quanto fosse stato folle quel suo antico amore per Elizabeth. Ciò di cui aveva bisogno era una donna vera come Demelza, non una bambolina da esposizione da mostrare ai ricevimenti. "Io ti amo! E ti adoro!".

Le braccia di Demelza gli cinsero la vita. "Visto? Te l'avevo detto che sarebbe stato divertente!".

"Santo cielo, lo è stato davvero! Anni passati a prenderlo a pugni e ad affrontare processi, quando avrei potuto semplicemente chiedere aiuto a te per metterlo al muro".

Demelza gli sorrise in un modo che non poteva che definire seducente. "Sei stato bravo anche tu, hai capito cosa dire, quando parlare e come stare al gioco. E la cosa bella è che nemmeno abbiamo dovuto metterci d'accordo".

Annuì a quelle parole, baciandola avidamente sulle labbra. Demelza lo lasciò fare, ma poi lo spinse leggermente indietro, osservando i bambini. "Ross, non siamo soli e i nostri figli ci stanno guardando".

Per nulla intimidito da ciò, si rivolse ai bimbi. "Posso baciare la mamma?".

Jeremy alzò le spalle. "Fa pure, ma poi andiamo a casa?".

"Certamente".

Vista la gentile concessione dei piccoli, la baciò ancora, a lungo, rendendosi conto che in quel momento si sentiva innamorato come un ragazzino, che era completamente soggiogato da lei, dal suo fascino, da ciò che rappresentava, da ciò che era diventata e da ciò che sarebbe sempre stata per lui.

Fu Clowance ad interromperli, stanca di aspettare. Tirò Demelza per la gonna, allungò le braccia verso di lei e sbadigliò. "Mamma, vollo andare a fare la nanna".

L'espressione di Demelza si addolcì, tornò ad essere una mamma, la prese in braccio e la strinse a se, baciandola sulla fronte. "Hai ragione piccolina, andiamo a casa".

Ross sorrise, si avvicinò al piccolo Jeremy e a sua volta lo prese fra le braccia. "E' tardi e dovete dormire in effetti". Col braccio libero, cinse le spalle a Demelza e in silenzio, rilassati e sereni, si avviarono verso casa costeggiando le placide acque del Tamigi. Non si parlarono lungo il tragitto, limitandosi a scambiarsi degli sguardi che volevano dire più di mille parole. C'era desiderio in loro, un disperato bisogno di stare insieme, di ritrovare davvero tutto quello che erano stati e che avevano rischiato di perdere, di recuperare il tempo perduto, di perdersi l'uno nell'altra per cancellare tutto il dolore, la solitudine e il male che li aveva divisi.

I bambini si addormentarono durante il tragitto e una volta giunti a casa, immersa ormai nel silenzio e nell'oscurità, li cambiarono d'abito e li misero nel loro letto senza che si svegliassero. Era ormai passata la mezzanotte, erano ancora piccoli, avevano corso come forsennati e non erano abituati a rimanere svegli tanto a lungo, erano stravolti.

Demelza si avviò verso la loro camera da letto, togliendosi di dosso, strada facendo, il mantello di pelliccia che aveva indossato per andare alla riunione.

La seguì in silenzio, come un cagnolino, ancora una volta incantato dai suoi movimenti lenti e forse studiati, dal suo modo di fare sicuro e dal suo sguardo dolce. In quel momento, si rese conto, era completamente in suo potere, lei avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa e lui l'avrebbe fatta senza battere ciglio.

Una volta in camera, chiusero la porta a chiave, lui accese il camino e Demelza, sempre in assoluto silenzio, iniziò a sbottonarsi l'elegante abito color avorio che indossava.

La fissò, attratto da lei come da una calamita. "Che te ne pare? Sono stato una buona guardia del corpo, stasera?".

Lei sorrise, togliendosi di dosso una collana. "Si, una guardia del corpo perfetta!".

"Bene. Vuol dire che so fare bene il mio lavoro".

Demelza si sedette sul letto, accavallò le gambe e lo guardò di sottecchi, con un modo di fare controllato e allo stesso tempo civettuolo. "E' l'unico lavoro che hai intenzione di fare, la guardia del corpo?".

A quella domanda si tirò su, si allontanò dal camino ormai acceso e la raggiunse, inginocchiandosi davanti a lei e prendendole le mani nelle sue. "Dipende da cosa mi chiederai di fare. Ricordi? Sono il tuo umile servo, te lo dissi tanto tempo fa".

Demelza ci pensò su. "Si, è vero! Ma poi te ne sei un po' dimenticato".

Raggiunse le sue labbra e le baciò avidamente. "Sei autorizzata ad essere violenta, se dovesse risuccedere".

"Fa in modo che non ce ne sia bisogno, Ross".

Si guardarono negli occhi e improvvisamente l'espressione giocosa sparì dai loro volti. Quella di Demelza non era stata una battuta ma un avvertimento e sapeva che lei aveva bisogno di certezze, che dietro alla potente donna d'affari che era diventata, c'era una donna piena di paure, ferita e tradita e che ora toccava a lui darle coraggio, fiducia in se stessa e in loro. "Non lo dimenticherò. Per tre anni non ho vissuto, è stata una non-vita la mia, piena di sensi di colpa, solitudine e dolore. Un dolore vero, non quello che posso aver provato al ritorno dalla Virginia, un dolore che mi toglieva il respiro ogni volta che pensavo a te e a quello che avevo perso, un dolore tanto forte da essere quasi fisico".

Demelza annuì. "Lo capisco cosa vuoi dire. Era così anche per me, ogni volta che ti pensavo e credevo che non sarei stata mai abbastanza bella, abbastanza amabile e che non mi avevi mai amato come amavi Elizabeth. E' stato così quando ho scoperto di aspettare Clowance e quando l'ho partorita e ogni volta che mi sono trovata a decidere qualcosa di importante riguardante i nostri figli e tu non c'eri per potermi confrontare. E' stato così ad ogni compleanno di Jeremy e Clowance e ogni volta che giocavo con loro e tu non eri qui. A me non importa della Warleggan Bank, delle azioni della Northern, del potere, del denaro, di questa casa e di quello che la gente pensa di me. L'unica cosa di cui mi importa ora siete tu, i bambini... Noi... Ho scelto di essere nuovamente tua, di fidarmi di me stessa più che di te, perché la cosa più difficile è stata convincermi che non era vero che ero seconda a qualcuno, che siamo una coppia imperfetta che ha sbagliato ma che ha saputo migliorarsi, crescere e ritrovarsi. Ti ho voluto di nuovo al mio fianco e ora mi farò in quattro perché le cose vadano bene perché per me, te... per noi... è l'unica cosa che conta".

Sorrise, baciandola sulla fronte. "Hai ragione. Siamo l'unica cosa che conta".

Demelza si lasciò abbracciare poi, come se fosse stata scivolosa come un'anguilla, si divincolò dal suo abbraccio. In piedi, a pochi passi da lui, ricoquistò l'espressione civettuola e divertita di poco prima. Lo stava decisamente, piacevolmente provocando... "Guardia del corpo, ora vorrei finire di cambiarmi d'abito, se permetti...".

Finse di stare al gioco. "Vuoi una mano?".

"Sono capace di farlo da sola...".

"Ma con me faresti prima".

Demelza si morse il labbro con fare sensuale. Era talmente irresistibile con quella sottoveste bianca e con quei capelli rossi che le ricadevano morbidamente sulle spalle, che non avrebbe risposto troppo a lungo delle sue azioni. "Fammi vedere che sai fare, allora".

Si mosse verso di lei, risucchiato da quello strano gioco di sguardi fra loro nato al termine di una giornata serena in cui si erano riscoperti amici, complici e inseparabili, una giornata passata a stuzzicarsi e a scherzare, a sognare che arrivasse sera per rimanere finalmente da soli. Si desideravano ed il desiderio era palpabile, forte, quasi tangibile in quella stanza. Le sfiorò le spalle, fece scivolare la sottoveste per terra e poi, dopo averle sfiorato i fianchi, costringendola ad arretrare, la spinse gentilmente sul letto. Lei lo guardò in attesa, senza dire nulla. La raggiunse, si stese sopra di lei e prese a baciarla con passione, costringendola ad arrendersi alle sue attenzioni. "Non avere paura, non mi dimenticherò più chi sei e cosa rappresenti per me" – le sussurrò, col fiato corto, fra un bacio e l'altro.

Demelza gli accarezzò con dolcezza i capelli e la nuca. "Lo so, sta tranquillo".

"Sai, amore mio, dopo Julia io ho avuto paura di diventare nuovamente padre e ora, in questo momento, con i nostri figli che dormono nelle stanze a fianco, mi rendo conto che non esisterebbe notte più perfetta di questa, momento più bello e magico di quello che stiamo vivendo, per un altro bambino. Ecco, pur con tutte le mie paure, la bellezza di quello che siamo ora mi farebbe superare ogni timore".

Demelza lo attirò a se, baciandolo avidamente. "Sai, credo che sia la cosa più bella che tu mi abbia mai detto...".

Calò il silenzio nella stanza e quello sguardo così disperato in cui si leggeva il loro bisogno di stare insieme, di ritrovarsi per davvero dopo aver vissuto un lungo inferno, si acquietò.

Così come lui aveva l'aveva aiutata a togliersi la sottoveste, lei fece lo stesso, facendo scivolare i suoi vestiti a terra. Si toccarono a lungo, si accarezzarono, fecero l'amore in una maniera totalizzante che annullò ogni pensiero, ogni timore, ogni paura e tutto il dolore che li aveva divisi. Era già successo tante volte, da quando si erano ritrovati, ma mai in un modo tanto intenso, passionale, dolce e allo stesso tempo selvaggio. Per la prima volta da quando si erano rivisti, avevano la convinzione che tutto fosse davvero alle loro spalle, che erano stati capaci di voltare pagina, capire i propri errori ed erano nuovamente pronti ad affrontare una vita insieme. Che non sapevano dove li avrebbe portati ma che sapevano li avrebbe visti per sempre uniti e capaci di affrontare ogni cosa.





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Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


Nelle ultime settimane poteva definirsi pigra e scansafatiche. Aveva promesso tempo a Ross, di rallentare, di scegliere quanto era necessario fare e quanto poteva essere delegato e onestamente, era contenta di averlo fatto. Aveva sempre amato lavorare e non starsene con le mani in mano ma era anche consapevole che tre anni di separazione, da superare, sono difficili e tormentati e ci vuole tanto impegno per far funzionare le cose. Ed era piacevole tornare ad essere semplicemente una moglie, una madre, occuparsi delle persone che amava e viverle ogni istante del giorno.

Aveva delegato Leslie nella gestione della locanda, era una ragazza volenterosa, degna di fiducia e che conosceva bene le dinamiche del lavoro e il carattere dei clienti, sarebbe stata perfetta in quel ruolo. Lei si limitava a recarsi alla locanda a volte, nel pomeriggio, con Ross e coi bambini, per le faccende più urgenti e delicate.

Per quanto riguardava la sua attività finanziaria, invece, gli impegni rimanevano e a volte, la sera, doveva recarsi a qualche importante riunione. Lei e Ross, coi bambini, avevano preso l'abitudine di andarci insieme di tanto in tanto, quando non nevicava e quando i bambini non erano troppo stanchi per seguirli. Quando usciva da sola invece, aveva dovuto cedere alle insistenze di Ross a non recarsi alle banche a piedi e aveva dovuto sottostare alla sua richiesta di viaggiare in una comoda, calda e sicura carrozza. Beh, faceva parte dei compromessi da prendere anche questo, no? E in fondo era tanto bello il modo in cui lui si preoccupava di lei.

Per il resto, era tutto bello, felice, finalmente non era più sola e aveva ritrovato quell'uomo che tanto l'aveva ferita e fatta soffrire ma che, lo sapeva, non aveva mai smesso di amare con tutta se stessa. Ross era gentile, dolce, attento e la guardava con quello sguardo che era un misto fra ammirazione, amore e profonda attrazione. La guardava come non credeva avrebbe fatto mai, si erano ritrovati e avevano saputo voltare pagina e ricominciare, senza dimenticare gli errori passati. Aveva ritrovato un marito tenero, dolce, innamorato e un amante appassionato e mai pago, tanto che, forse a causa degli anni di lontananza, non sapevano resistersi ogni volta che rimanevano soli.

Coi bambini invece, Ross era un padre tenerissimo e presente, tanto che ormai sia Jeremy che Clowance lo cercavano e lo coinvolgevano in tutto quello che facevano. Ross era, in un certo senso, geloso di loro e non gradiva troppo l'interferenza dei domestici che si erano occupati dei bambini fino al suo arrivo. Questo era un aspetto di non facile gestione, con Ross che metteva il muso se qualcuno 'osava' vestire i bambini o far loro il bagno al suo posto e con i domestici che lo guardavano in seria difficoltà e in imbarazzo. Lei ci rideva sopra, divertita da questa cosa, felice che Ross non desiderasse altro che stare coi suoi figli. Lo guardava con loro e si fermava a pensare a quanto invece avesse creduto, per anni, che non ne avrebbe voluto mai sapere, che sarebbero stati un peso per lui, che tutto quello che voleva era Elizabeth. Non era così, Ross desiderava lei, voleva i suoi figli e ora lo sapeva, per lui la parola casa e la parola famiglia corrispondevano a lei, a Jeremy e alla piccola Clowance.

Era una mattina nebbiosa, quella, molto fredda. Fecero colazione nel salone principale, sorseggiando tè e mangiando della cioccolata pregiata che un suo socio aveva fatto recapitare loro.

Clowance allungò la manina verso il vassoio, pronta a prendere l'ennesimo dolcetto. "Lo vollo ancora".

Demelza scosse la testa, le prese il polso e la attirò a sé. "No, ora basta. Ne hai già mangiati cinque, di cioccolatini. Ti verrà mal di pancia".

Clowance, di tutta risposta, si voltò verso suo padre che, accanto a loro e con Jeremy sulle ginocchia, aiutava il figlio a leggere un libro sui cavalli. "Papà...".

Demelza lanciò un'occhiataccia al marito, intimandolo silenziosamente di non cedere. Ross aveva un debole per Clowance e ancora non aveva ben chiaro quanto la sua piccola dolce bimba fosse in realtà capricciosa e manipolatrice, quando voleva qualcosa.

Ross intercettò la sua occhiata e accarezzò la testolina della bimba. "Hai sentito? Hai mangiato troppo, ti verrà mal di pancia con tutta quella cioccolata".

"Ma io la vollo!" - sbottò Clowance, battendo il piedino a terra, stizzita.

"No, basta".

La voce ferma di Ross, che le diceva forse il suo primo 'no', ebbe l'effetto di un tornado. Gli occhi di Clowance divennero lucidi, singhiozzò e poi scoppiò a piangere a dirotto, con fare quasi isterico.

Demelza e Jeremy si guardarono, tranquilli e ormai abituati a quel genere di scenate. Ross invece spalancò gli occhi, terrorizzato dal vederla piangere così. "Demelza?".

"Ross, no. Se cedi ora, sei finito!".

Jeremy toccò la manica della camicia del padre, attirando la sua attenzione. "Non devi avere paura, mica piange perché è malata o ha male da qualche parte. Non guardarla e vedrai che poi le passa".

Ross lo guardò e poi guardò lei, con gli occhi spalancati, come se fossero stati pazzi, mentre le urla di Clowance facevano tremare i vetri. "Beh... forse un altro cioccolatino glielo potremmo dare. Cioé, è sempre meglio che farla piangere così".

Demelza lo fulminò con lo sguardo. Dov'era finito il suo integerrimo capitan Poldark, quello che non accettava compromessi con nessuno? "No".

"Ma...".

Scosse la testa, esasperata più da lui che dalle urla della figlia. "Se cedi adesso, sarai in suo potere". Si alzò dal divano e si avvicinò alla figlia. "Clowance, ora basta".

"Nooooo". Rabbiosa, la piccola le diede una pacca sul braccio. "Blutta!".

A quel punto, a sorpresa, con fare fermo e deciso, Ross si alzò sul divano, si inginocchiò davanti a loro e la guardò negli occhi. "Clowance, chiedi scusa alla mamma!".

"Noooo".

"Fallo subito!".

Clowance cercò di sostenere il suo sguardo ma Ross rimase fisso ad osservarla, serio, viso a viso. Alla fine la bimba abbassò gli occhi e, piangendo e senza dargli soddisfazioni, si rintanò in un angolo del divano, rannicchiandosi a pancia in giù, singhiozzando sommessamente col viso affondato nei cuscini.

Demelza prese la mano di Ross, impedendogli ogni movimento. Era stato bravo, fermo e deciso e Clowance aveva dovuto abbassare la testa. La loro bimba aveva percepito l'autorità del padre e se lui avesse ceduto, ogni suo sforzo sarebbe andato perso. "Lasciala stare" – sussurrò gentilmente.

Ross la guardò con sguardo dolorante, facendole capire che vedere la figlia piangere da sola così, sul divano, per lui era una sofferenza immane. "Non si ammalerà?".

Demelza rise. "No, sta tranquillo". Ignorando la piccola, si avvicinò a Jeremy che, curioso, osservava lo scambio di battute fra i genitori. "Cosa stai leggendo?".

"Cavalli! Papà, vero che tu sei bravo a cavalcare? Si, anche se poi qui a Londra sei caduto e ti sei fatto male!".

Ross ridacchiò imbarazzato, arrossendo. "Molto bravo! Sai, una volta, quando io e la mamma vivevamo in Cornovaglia e tu non eri ancora nato, io e lei ce ne andavamo al galoppo sulle scogliere a picco sul mare. La stringevo stretta a me, lei teneva le redini e lanciavamo il nostro cavallo a grande velocità per i prati".

Jeremy spalancò gli occhi, sorpreso. "In Cornovaglia, dove c'è la tua casa, c'è il mare?".

"Si, certo! E molto vento, come mi rimarca Caroline ogni volta che ci viene" – commentò Ross, ricordando divertito quanto l'ereditiera faticasse ad abituarsi a quel clima.

Jeremy, per nulla pago di quelle spiegazioni, gli si arrampicò sul collo, abbracciandolo. "Papà, ma ci sono i parchi dove i bambini possono giocare?".

Ross scoppiò a ridere. "Parchi? I bambini, in Cornovaglia, giocano liberi nei boschi e nei prati! Non ci sono parchi ma ci sono tante miniere. Io ne ho una".

"Ohhh". Sempre più estasiato, Jeremy tornò a guardare la madre. "Davvero?".

Demelza sorrise, ripensando alla bellezza selvaggia della Cornovaglia, al suo vento, ai suoi silenzi, alla sua gente semplice e gentile, pronta sempre ad aiutarsi a vicenda, alle miniere dove lei e Ross avevano riposto tanti sogni un tempo, alla sua casa, Nampara, tanto modesta quanto calda e accogliente e a Jud e Prudie, i due servi più scansafatiche esistenti al mondo. Le mancava tanto quel mondo, quella vita modesta e allo stesso tempo vera, autentica, lontana dai fronzoli della Londra aristocratica. "E' così! Abbiamo una casa che da sui campi, basta uscire dalla staccionata e si puo' giocare e correre ovunque senza pericoli. E la miniera di papà è poco lontana e ci si puo' andare a piedi".

Il bimbo ascoltava incuriosito, eccitato da quei racconti su quel mondo che doveva apparirgli estremamente magico ed avventuroso. "La tua miniera, papà, ha i tunnel sotto terra?".

"Certo".

"Mi ci porti?". Si voltò verso la madre, con sguardo implorante. "Mamma, posso andarci?".

Demelza guardò Ross negli occhi e poi annuì. "Certo che puoi". In quel momento si rese conto che desiderava la Cornovaglia e le miniere più di suo figlio. Voleva la sua vera casa, i suoi due servi, la sua camera da letto dove con Ross era diventata donna e madre, rivoleva il suo mondo e allo stesso tempo aveva paura ad abbandonare la vita costruita a Londra. Troppe responsabilità, troppe persone dipendevano da lei... Come avrebbe potuto fare?

Ross la guardò negli occhi, non sapendo forse nemmeno lui come interpretare la sua risposta. In realtà, non sapeva nemmeno lei cosa fare...

Improvvisamente la porta si aprì. "Demelza, quanto tempo!".

Si voltarono tutti, eccetto Clowance, verso il nuovo arrivato, giunto nel salone come un tornado, come suo solito. Demelza si accigliò, erano settimane che non lo vedeva, dalla Vigilia di Natale. "Martin! Ti aspettavo tanto tempo fa per togliere gli abeti e invece mi hanno detto che sei fuggito a lavorare lontano da Londra per evitarlo!" - commentò, sarcastica.

Martin Devrille, come se non l'avesse nemmeno sentita, alzò le spalle. "Beh, vedo che hai comunque già sistemato il problema".

Demelza lo guardò storto ma poi decise di glissare sull'argomento. Era la prima volta che Martin e Ross si trovavano faccia a faccia, eccetto a casa di Caroline l'estate prima, ed era giunto il momento di presentare ufficialmente a suo marito quella persona tanto importante per lei e per i bambini. "Martin, ti presento mio marito, Ross Poldark".

Il suo socio, benché sapesse i loro trascorsi e quanto lei aveva passato a causa sua, fece un sorriso bonario e gentile, come suo solito. "E' un piacere fare la vostra conoscenza".

Ross annuì, vagamente intimidito. Non era da lui ma essere davanti a colui che, insieme alla moglie Diane, era stato la famiglia di Demelza e il suo principale socio in affari, lo metteva in difficoltà. "E' un piacere anche per me. Volevo ringraziarvi per quanto avete fatto per la mia famiglia. Mia moglie mi ha molto parlato di voi".

Martin scoppiò a ridere. "Immagino! Soprattutto per la faccenda degli abeti". Si avvicinò a Jeremy, dandogli un pizzicotto sulla guancia. "Piccolo, sei contento che sia tornato papà? Ora potrà insegnarti lui ad andare sul pony".

Jeremy annuì, contento. "Si! Papà sa andare bene a cavallo, anche se poi è caduto ed è quasi morto il mese scorso".

Martin fece violenza a se stesso per non scoppiare a ridere in faccia a Ross e poi, per togliersi dall'imbarazzo, fissò la piccola Clowance, ancora rannicchiata sul divano. "Cos'ha?".

Demelza alzò le spalle con noncuranza. "Capricci, come al solito".

Martin annuì senza scomporsi. Beh, ci era abituato, dopo tutto. Conosceva Clowance da quando era nata ed era ben consapevole di quanto quella dolce ed angelica bambina potesse trasformarsi in un demonio urlante, quando le si diceva di no per qualcosa. Distolse lo sguardo da lei e poi, con un gesto veloce, si tolse dalla tasca dell'impermeabile il giornale che portava con se, facendolo cadere sul tavolino davanti a Demelza. "Leggi".

Demelza si accigliò. "Non ho voglia di leggere il giornale!".

Martin alzò gli occhi al cielo. "LEGGI!".

La donna fece un sorriso maligno e divertito. "Quando avrai finito di aiutare i miei domestici a tagliare gli abeti in giardino, leggerò".

Il suo socio, esasperato, guardò Ross. "Voi avete sposato una donna impossibile e cocciuta!". Prese di nuovo il giornale e stavolta lo mise direttamente nelle mani di Demelza. "LEGGI!".

Sbuffando, controvoglia, Demelza guardò la prima pagina del giornale per farlo contento. "Il principe ereditario si è fidanzato. Bene, manderemo un bigietto d'auguri alla famiglia reale"- commentò in tono piatto.

Martin le prese il giornale dalle mani, aprendolo e sfogliandolo. Poi glielo rimise in mano. "Leggi qua! Del principe ereditario m'importa men che niente".

Demelza guardò dove gli indicava Martin mentre anche Ross, ora curioso, dava un'occhiata alla pagina del giornale. Fece scorrere lo sguardo su quanto scritto, era la pagina finanziaria, un qualcosa che lei e Martin avevano letto spesso, durante le loro sedute di lavoro. Ma c'era qualcosa di diverso, in quella pagina, quella mattina. E appena Demelza la vide, sentì i polmoni prosciugarsi, il fiato venire meno e tutto intorno le divenne ovattato, quasi che stesse per svenire. Si abbandonò contro la spalliera del divano, impallidendo e ansimando, guardando Martin con occhi spalancati, senza riuscire a dire nulla.

"Amore mio, cos'hai?" - chiese Ross, avvicinandosi e prendendole una mano fra le sue.

Martin scoppiò a ridere a quella reazione. "Santo cielo, tu tramuti in oro tutto ciò che tocchi! Fiuti e punti gli affari con la stessa scaltrezza con cui un lupo sceglie la sua preda!".

Demelza rimase in silenzio, osservando Martin, poi Ross e poi la pagina del giornale che le stava cambiando nuovamente la vita. Vide quella scritta, Northern Bank, e quella cifra a fianco, con un valore nominale azionario alle stelle. Aveva comprato azioni che valevano poco più di carta straccia e ora si trovava fra le mani qualcosa di inestimabile valore. Fino al giorno prima, la Northern non valeva nulla. In una notte, per qualche assurdo gioco del destino, di borsa o di chissà quali trame, era diventata una banca su cui tutti puntavano, una banca pronta a traghettare l'Inghilterra verso un nuovo e moderno futuro dove tutti potevano avere le stesse possibilità.

Martin la abbracciò, ridendo come se fosse stato ubriaco. "Santo cielo, ti presi pure in giro quando prendesti quelle azioni! E ora sei una delle donne più ricche d'Inghilterra, potresti comprarti un titolo nobiliare adesso ed essere invitata pure a presenziare alla festa di fidanzamento del principe ereditario".

Ross la guardò, anche lui pallido e incredulo. Poi le sorrise, accarezzandole la guancia. "Demelza, santo cielo ora hai capito perché quel tizio che ti ha aggredito ci teneva tanto? Accidenti, hai fiutato l'affare del decennio".

Annuì, ancora incapace di parlare. Si, ora capiva perché quell'avvoltoio di Smith teneva tanto a quelle azioni, era un demonio della borsa e sapeva prevedere gli sviluppi economici molto prima che questi accadessero. Per un puro caso aveva acquistato le azioni della Northern prima di lui, battendolo sul tempo, e da allora non si era dato pace perché gli fossero vendute. Guardò ancora una volta la pagina di giornale, non sapendo se essere felice oppure no. Era una cosa meravigliosa, quella, per chi nella Northern avrebbe riposto le sue speranze. Ma per lei? Essere la socia di maggioranza di una società finanziaria diventata di colpo tanto potente, le avrebbe conferito nuovi incarichi, nuove responsabilità, lunghi periodi lontana da casa e dalla sua famiglia, nel nord del paese dove aveva sede la banca. Lontano da Londra, lontano dalla Cornovaglia...

Martin si congratulò di nuovo, la abbracciò calorosamente con quel suo solito trasporto paterno, pieno di vero orgoglio verso di lei e quello che era diventata. Poi, dopo aver salutato Ross, aver dato una carezza a Jeremy e una veloce occhiata a Clowance, se ne andò.

Per alcuni istanti calò il silenzio nella stanza. Ross le si avvicinò, prendendole le mani, stringendogliele. "Tesoro, ti rendi conto di quello che hai fatto? Sei... Sei diventata davvero una delle donne più ricche del paese. Congratulazioni, sono contento per te".

Demelza sorrise forzatamente. Si sentiva frastornata, confusa, incredula da quanto era appena successo. Pensò a Martin e al suo sguardo così fiero e gli venne in mente che doveva tutto a lui. Se lei era quel che era, lo doveva solo a lui e alla fiducia che le aveva accordato quel giorno di due anni prima. "Sai cosa vuol dire questo per noi, Ross?".

Suo marito, a quella domanda, si oscurò, capendo il succo del discorso. "Lo so, ma non voglio essere un tuo limite. E' il tuo successo questo, goditelo come meglio credi".

"Dobbiamo decidere insieme cosa fare, Ross. E' una cosa importante, questa, che mi porterebbe per molto tempo lontano da voi".

Ross annuì. Era in corso una lotta interna in lui, fra il voler lasciarla scegliere e il desiderarla tutta per se. "Cosa vuoi fare?".

Demelza sorrise, accarezzandogli la guancia, abbracciandolo e stringendosi a lui per trovare coraggio. "Voglio cedere le azioni della Northern".

Ross spalancò gli occhi. "A quello Smith? Demelza, no!".

"Non a lui, certo che no. Le voglio donare a Martin e ai suoi fratelli, le meritano tanto quanto me e sarebbero dei meravigliosi azionisti di maggioranza al mio posto. Se sono arrivata fin qui, oggi, è solo merito loro. Sono stati la mia famiglia, il mio sostegno, coloro che mi hanno permesso di rimanere a galla e di prendermi cura dei bambini in questi anni. Io non ho bisogno dei soldi della Northern, ho già fin troppo denaro e responsabilità così e il potere non è mai stato una mia ambizione. Quindi, se sei d'accordo...".

"Vuoi davvero coinvolgermi in questo?". Ross era stupito.

"Certo, sei mio marito e questa è una grandissima decisione che influirà sul futuro dei nostri figli. Significa rinunciare a futuri guadagni molto importanti e forse questo denaro un giorno potrebbe servire a Jeremy o a Clowance e noi potremmo pentirci di averlo rifiutato".

Ross le accarezzò la guancia, piano, con quelle sue mani calde e gentili. "I bambini hanno tutto quello che gli serve, lo avevano da ben prima della notizia di questa mattina. Sono fortunati e hanno due genitori che possono mantenerli senza problemi e garantire loro un futuro. E, soldi a parte, hanno dalla loro una famiglia unita. So che forse parlo così per egoismo perché ti vorrei tutta per me, ma se è solo questa la tua paura, allora mettila da parte".

Demelza annuì. "Lo farò! E voglio cedere le quote, se sei d'accordo anche tu. Meno problemi, meno minacce, meno responsabilità".

"E allora donale ai Devrille. Salderai così il debito di gratitudine che hai con loro".

Si abbracciarono e anche Jeremy si strinse alla vita della madre, contento che un nuovo lavoro non portasse via la sua mamma da lui.

Clowance alzò il visino dal cuscino, con le guance ancora rigate di lacrime. Ross e Demelza la guardarono, aspettando le sue mosse.

La bimba allungò una manina verso la madre, le strinse la stoffa della manica e poi, sotto voce, disse quelle magiche paroline che le erano state intimate poco prima. "Mamma... scusa".

Il viso di Demelza si addolcì. La prese in braccio, la abbracciò e finalmente decise che era arrivato il momento di coccolarla un po'. Stringendola a se capì che la sua decisione di cedere le azioni della Northern era quella giusta perché non avrebbe rinunciato per nulla al mondo agli abbracci di quella piccola testarda bambina, alla dolcezza di Jeremy e alla vicinanza di Ross. "Farai la brava, adesso?".

"Sì". Clowance alzò gli occhi su Ross, studiandolo in viso, quasi intimidita. Poi, succhiandosi il pollice, si sporse verso di lui. "Sei rabbiato?".

"No, non sono più arrabbiato". La prese in braccio, la strinse a se, finalmente rasserenato dal fatto che potesse coccolarla e che quell'assurdo castigo fosse finito.


...


Quella sera fecero una passeggiata tutti insieme. Nel pomeriggio era nevicato e uno strato di neve soffice copriva tutti i rumori della città. Clowance e Jeremy avevano insistito per uscire a giocare e Ross e Demelza, dopo quella giornata di grandi emozioni, non se l'erano sentita di dir loro di no.

Fecero un giro per il centro, costeggiando il Tamigi, osservando le luci delle torce che si riflettevano sulla neve, donando riflessi magici.

"Sai una cosa? Londra è davvero bella".

Demelza rise, all'esclamazione del marito. "Se ci fosse qui Caroline, ti rinfaccerebbe questa frase a vita".

"Sono sincero, Londra con la neve è splendida di sera. Anche se, nulla a che vedere con la nostra Cornovaglia".

"Già". Demelza si perse a pensare alle fredde e ventose serate d'inverno, quando erano insieme a casa, a Nampara, davanti al camino acceso, mentre fuori c'era un tempo da lupi che però non faceva paura perché era parte del fascino di quella terra.

Quando i bimbi si furono calmati, Demelza li prese per mano e si decise che era ora di andare a casa.

Camminarono fino all'angolo dove svoltava la via dove sorgeva la loro abitazione, quando furono costretti a fermarsi. Nel marciapiede davanti a loro, qualcuno sostava, a pochi metri dal cancello d'ingresso della loro dimora. Aveva un modo di fare sospetto, inquietante, era vestito con un mantello nero e passeggiava avanti e indietro con fare nervoso.

Demelza prese il braccio di Ross, mentre un sordo terrore sorgeva in lei. "E' Smith!". Dannazione, lo avrebbe riconosciuto anche al buio!

Quasi sentendola, l'uomo si avvicinò loro, facendo scivolare il cappuccio sulle sue spalle, mostrando a loro la sua vera identità. Demelza non si era sbagliata!

"Signora Poldark, ci si rivede, alla fine!" - disse, minaccioso. "Dopo tutto ve lo avevo promesso".

Demelza strinse le mani dei bambini, avvicinandoli a lei. "Andatevene! Non ho niente da dirvi".

Smith, per nulla colpito dalle sue parole, si avvicinò ancora di alcuni passi. "Come lo sapevate? Come facevate ad essere al corrente del vero valore di quelle azioni?".

Non era certo obbligata a dar spiegazioni a quel tizio, ma forse se lo avesse fatto, se lo sarebbe tolto di torno. "Non lo sapevo! Ho seguito semplicemente il cuore, dando fiducia a un qualcosa che non fosse solo una prerogativa dei ricchi ma che puntasse ad aiutare anche le fasce più deboli".

Smith sputò a terra, mentre Ross, scuro in volto, si frapponeva fra lui e la moglie. "Negli affari non si usa il cuore ma la logica del profitto".

Demelza scosse la testa. "Ognuno ha i suoi metodi. Voi tenetevi i vostri, io mi tengo i miei".

"Dannata strega, arrivista e sgualdrina". Con un gesto veloce Smith tolse dalla tasca del mantello un coltellino a serramanico, lanciandosi verso di lei.

E quello fu troppo per Ross, attento come un'aquila alle azioni dell'uomo. Gli si avventò contro con violenza, spingendolo a terra. Smith era di corporatura tozza, non giovane e Ross ebbe l'effetto di un tornado su di lui. Gli torse il polso, costringendolo a lasciare il coltello, e poi iniziò a prenderlo a pugni con una furia quasi inumana. Uno, due, cinque, dieci pugni in pieno volto che, in breve, insanguinarono il volto tumefatto di Smith.

Demelza, spaventata, rimase per alcuni istanti di sasso, stringendo a se i bambini. Eccolo il suo Ross, quello indomito e temerario che avrebbe ucciso per la sua famiglia e per lei, chiunque avesse avuto intenzione di far loro del male. Ma non voleva che succedesse, che assassinasse Smith a suon di pugni, non voleva vedere Ross di nuovo sotto processo, voleva solo pace, amore, voleva la sua famiglia.

Clowance scoppiò a piangere, spaventata, mentre Jeremy prese a tremare. E a quel punto, urlando, si avventò sui due uomini, dividendoli. Abbracciò Ross, lo spinse indietro mentre Smith, quasi esanime, giaceva a terra senza muoversi, col fiato affannato. "Ross, ti prego, basta! Lo ucciderai, ti caccerai nei guai e io... io non voglio perderti di nuovo" – urlò, quasi in lacrime.

Una guardia cittadina addetta al controllo notturno delle strade, sentendo le urla, corse da loro. Guardò Smith e poi Ross e poi ancora il coltello a terra. "Cos'è successo?".

Demelza deglutì, aiutando suo marito a rialzarsi. "Ci ha aggrediti. E non è la prima volta. Se mio marito non lo avesse fermato, mi avrebbe accoltellata".

La guardia si chinò verso Smith, prendendolo per il bavero e costringendolo ad alzarsi. "Venite con me al comando. Vi medicheremo e poi ci darete delle spiegazioni. Mi auguro che sappiate essere convincente perché cercare di ferire una nobildonna di notte, con un coltello, porta dritti alla prigione".

Smith tossì sangue e la guardia non gli diede modo di parlare.

Se ne andarono e, una volta rimasti soli, Ross si avvicinò ai figli, prendendoli in braccio. Clowance piangeva disperata, terrorizzata. Un pianto vero, non come quello capriccioso del mattino, il pianto di una bimba che aveva appena assistito a una possibile violenza su sua madre. Ross la strinse a se, accarezzandole i capelli. "Shhh, è andato via, tranquilla".

Jeremy si aggrappò al collo del padre, stringendosi a lui. "Sei forte, papà! Hai salvato la mamma".

Ross sorrise, baciandolo sulla fronte. "I papà servono a quello!". Poi osservò Demelza, avvicinandosi a lei. "Tutto bene?".

"Si, credo". Si abbandonò contro di lui, piangendo silenziosamente, in un misto fra paura e sollievo. "Non voglio mai più vivere niente del genere, Ross".

"Non succederà più, è finita".

Demelza deglutì, mentre le lacrime continuavano a rigarle il viso. "Portaci a casa, Ross".

"Certo, ci andremo subito".

Demelza scosse la testa, rendendosi conto finalmente di quale fosse per lei l'unica strada da seguire, se voleva essere felice. "No, non questa, la nostra vera casa. Portaci a Nampara, non avremmo mai dovuto andarcene".

Ross spalancò gli occhi, sorrise e la strinse a se, mentre anche i singhiozzi di Clowance cessevano. "Certo, hai ragione. Torniamo a casa".

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Capitolo 31
*** Capitolo trentuno ***


Non sapeva bene come definire il suo stato d'animo mentre la carrozza li stava portando lontani da Londra, verso casa.

Da un lato era felice, era come la realizzazione di un sogno tornare a Nampara, riabbracciare le sue origini e ritrovare quel luogo unico che aveva sempre sentito come suo rifugio e casa. Meno ricco, meno lussuoso di Londra ma che sapeva farla sentire al suo posto e al sicuro, in pace col mondo.

D'altro canto però era innegabilmente triste. Londra le aveva dato l'opportunità di ricominciare, di realizzarsi, di scoprirsi capace di avere successo senza l'aiuto di nessuno, era stata una donna ricca ed ammirata e no, non le importava perdere queste cose ma di certo le sarebbero mancate le abitudini di quei tre anni, l'essere completamente padrona di se stessa e della sua esistenza, il prendere decisioni da sola e la vita in quella grande città. Le sarebbero mancati i suoi dipendenti della locanda, i suoi domestici, le amicizie sincere, i Devrille e tutti coloro che, in un modo o nell'altro, le erano stati vicini.

Lei e Ross avevano deciso di tenere la grande villa in centro, sarebbe stata la loro casa di città e ci avrebbero vissuto durante i loro ritorni a Londra. Ne aveva lasciato la gestione ai domestici, in modo da non licenziare nessuno, e anche alla locanda aveva fatto altrettanto, incaricando Leslie di sovraintendere a tutto quanto fosse necessario per continuare a mandarla avanti con successo. Si fidava dei suoi collaboratori, erano stati la sua certezza e il suo punto fermo durante tutto il periodo londinese. Lei li avrebbe osservati da lontano, avrebbe comunicato con loro via lettera e sarebbe stata informata di ogni cosa. Sarebbe andata bene, ne era certa!

E poi c'erano i Devrille. Sapeva di aver arrecato un dolore a Martin, Diane e agli altri fratelli del suo socio, andandosene, sapeva di essere stata amata come una figlia e che per i suoi bambini erano stati tutti quanti dei nonni premurosi. Ma era anche consapevole che erano felici per lei, per quella famiglia ritrovata che aveva sempre desiderato e ci avrebbe messo la mano sul fuoco, l'affetto fra loro non sarebbe mai finito nemmeno a tante miglia di distanza. Martin aveva subito detto che, per l'estate, avrebbe acquistato un cottage in Cornovaglia e che vi avrebbe soggiornato nei mesi caldi, in modo da poterla andare a trovare a suo piacimento. E lei avrebbe fatto altrettanto ad ogni ritorno a Londra, per seguire i suoi affari. Faceva ancora parte della società coi Devrille e aveva garantito di continuare a seguire le assemblee alla Warleggan Bank, ogni volta che ce ne fosse stata necessità. E anche, dalla Cornovaglia, gli altri affari che l'avevano vista direttamente interessata. Avrebbero ancora lavorato insieme, in modi e tempi diversi, ma non si sarebbero persi di vista. Per quanto riguardava le azioni della Northern Bank, lei e Martin erano giunti a un compromesso. Il suo socio si era commosso quando gli aveva offerto in regalo l'intero pacchetto azionario per ringraziarlo di quanto fatto per lei ed aveva gentilmente declinato il dono.


"Demelza, ciò che ti donai per la nascita di Clowance, non si avvicina nemmeno lontanamente al valore di quanto mi vuoi dare. Hai due figli da crescere e benché tu ormai non abbia più problemi di denaro, devi pensare al loro futuro. Con quelle azioni puoi fare grandi cose per te, per le persone che crederanno in quella banca, per i tuoi bambini e per rendere il mondo futuro dove vivranno, un po' migliore. Non hai debiti con me, non ne hai mai avuti. Tieni quelle azioni, sono tue, tu per prima ci hai creduto e ora hai pieno diritto di usarle per te".


Alla fine, dopo le sue insistenze e supportata da Ross, lei e Martin erano giunti a un compromesso. Lui avrebbe accettato solo metà delle azioni, come fece Demelza quando nacque Clowance e lui gli donò metà del pacchetto finanziario di quanto aveva investito su suo suggerimento. Martin si era impegnato a seguire personalmente i consigli di amministrazione della Northern in modo da lasciarla libera e lei avrebbe semplicemente goduto dei frutti del suo lavoro, senza dover lasciare marito e figli.

Aveva accettato quel compromesso e ora si trovava sulla strada per la Cornovaglia, su una carrozza, decisamente ricca e ancora indecisa su come investire quei soldi.

I bambini dormivano sulla poltrona opposta a quella dove era seduta con Ross. Jeremy stava rannicchiato sulla destra della carrozza mentre Clowance, di fianco a lui, dormiva abbracciata a Garrick. Lei e Ross invece, in silenzio, se ne stavano seduti uno accanto all'altra, pensierosi. Non erano stati molto locuaci, da quando erano partiti non si erano scambiati che qualche parola e se ne stavano semplicemente lì, vicini, con lei che gli poggiava dolcemente la testa alla spalla, lasciandolo libero di accarezzarle i capelli con movimenti lenti e gentili.

"A cosa stai pensando?" - chiese improvvisamente Ross, forse stanco di quel silenzio. "Sai, sei così silenziosa che ho quasi paura che tu ti sia pentita della scelta di tornare".

Demelza sorrise a quelle parole un po' preoccupate. "No, non sono pentita. Sto pensando a tante cose ma non certo a questo! Sono felice di tornare a Nampara, sono persino un po' emozionata".

"Di vedere Jud e Prudie che, a questo punto, mi avranno prosciugato la cantina dei vini?" - disse Ross, divertito.

"Sì, certo! Anche di vedere Jud e Prudie". Erano anche loro come genitori, per lei. E ritrovarli era una grande gioia, che mai avrebbe pensato di provare.

"E allora a cosa pensi?".

Demelza scosse la testa, sospirando. "Penso a quando me ne sono andata su una carrozza come questa, a com'ero a pezzi, spaventata, senza un soldo e con un cane e un bambino a cui provvedere. E un'altra figlia in arrivo, che mi procurava terribili dolori di stomaco".

Lo disse con leggerezza, ma avvertì il corpo di Ross irrigidirsi a quelle parole. "Mi dispiace".

"E' passata, Ross. Ora non dobbiamo pensare al passato ma al nostro futuro". Si mise dritta, abbandonando la posizione poggiata contro di lui. "Stavo pensando al denaro della Northern, a come investirlo. Hai delle idee?".

"E' denaro tuo, non mio. Puoi farne quel che vuoi".

Demelza gli prese la mano, stringendola. "Non esiste nulla che sia solo mio o tuo. E' denaro NOSTRO! E dovremmo decidere insieme cosa farne, soprattutto perché si tratta di tanti soldi".

Ross sorrise. "E' così strano pensare che non abbiamo problemi di denaro e che l'unico nostro cruccio sia come spenderlo! Non ci è mai capitato".

"Vero". Anche Demelza rise, tornando ad appoggiarsi a lui. Guardò i bambini che dormivano, rendendosi conto di quanto la loro vita sarebbe cambiata, del mondo in cui avrebbero vissuto e di come questo li avrebbe resi migliori e più forti."Sai cosa potremmo fare?".

"Cosa?".

Alzò lo sguardo su di lui, colta da improvvisa ispirazione. "Costruire una scuola per i figli dei tuoi minatori, accanto alla tua miniera. Questo farebbe la differenza per loro, aprendogli più strade per il futuro".

Ross la guardò, sorpreso da quella proposta. "Credo sarebbe un'ottima idea! Cioè, io odiavo la scuola ma in effetti, per quei bambini, sarebbe la salvezza da una vita fatta di lavoro duro e senza aspettative. Pensa a quante cose potrebbero fare, se sapessero leggere e scrivere".

"Già! E la potrebbero frequentare anche Jeremy e Clowance! Onestamente non mi piaceva troppo avere un precettore privato per nostro figlio, a Londra. Voglio che cresca con gli altri bambini del posto, come hai fatto tu".

Ross sorrise. "Una scuola...". La baciò sulla fronte, teneramente. "Ottima idea, amore mio".

Demelza guardò fuori dalla finestra. Conosceva quei paesaggi, non mancava molto ormai. "Siamo quasi arrivati".

Ross la vide sbadigliare, abbandonandosi contro di lui. "Sei stanca? Perché non provi a dormire un po', come i bambini?".

"Dormirò stanotte!".

Ross scosse la testa. "Non credo...".

"Sei un marito troppo esigente". Mascherando un sorriso, Demelza gli baciò la guancia con affetto. "Sai, non avrei mai creduto che sarei tornata qui e che i miei figli sarebbero cresciuti con il loro padre".

"Credi che si abitueranno?" - chiese Ross, guardando i due bimbi con una punta di apprensione.

"La Cornovaglia ce l'hanno nel sangue, come me e te. Saranno felici qui".

Improvvisamente, la carrozza si fermò e il cocchiere sopraggiunse ad aprire il portellino. "Siamo arrivati, signori".

Demelza sentì il cuore balzargli nel petto. Erano a Nampara, a casa... Guardò Ross, tremando lievemente, e lui le strinse la mano. "Andrà tutto bene" – le sussurrò.

"Si". Ne era certa, niente avrebbe potuto rovinare quel momento, né George, né Elizabeth, né Trenwith e i tristi ricordi che risvegliava in lei.

Scesero dalla carrozza seguiti da Garrick che, appena vide la sagoma di Nampara, corse come un pazzo verso la casa, abbaiando. Ross sorrise. "Se la ricorda!".

"Già". Demelza guardò quella casa, la SUA vera casa, quella dove avrebbe voluto crescere i suoi figli, vederli farsi adulti, invecchiare e diventare la custode dei suoi ricordi di una vita assieme a Ross. Gli pizzicarono gli occhi dall'emozione. Non aveva nulla della sua villa londinese, non si avvicinava nemmeno lontanamente allo sfarzo e al lusso che si era lasciata indietro ma nessun posto avrebbe potuto farla sentire al caldo e al sicuro come Nampara.

Improvvisamente, al suono dell'abbaiare di Garrick, la porta di casa si aprì con violenza. Prudie e Jud, borbottando, uscirono fuori. E appena li videro lì, insieme, davanti a loro, rimasero a lungo a bocca aperta senza proferire parola.

"Giuda, la signora... E il signore..." - balbettò Prudie.

Jud, con gli occhi fuori dalle orbite, deglutì. "Il signore scoparso è vivo! E ha trovato la moglie... E essere sparito così, senza dire niente ai suoi due servi non è stato gentile, non è stato umano, non è stato conveniente".

Demelza sorrise, gustando quell'atmosfera di casa fatta anche di quello, di quei due servi scansafatiche che l'avevano vista crescere. Andò loro incontro, travolgendoli con un abbraccio. "Jud, Prudie..." - mormorò, fra le lacrime.

"Signora, signora!". Prudie la strinse fra le braccia talmente forte che le sembrava di essere bloccata fra due tenaglie. "Siete qui! Con lui, col cane... Insieme. Ma cos'è successo?".

Ross si avvicinò loro. "Beh, Londra è stata piena di sorprese. Sono quasi morto, ma in cambio ho ritrovato la mia famiglia e l'ho riportata a casa".

"Santo cielo!" - sbottò Jud – "Eravate partito per pochi giorni e siete sparito per mesi. Vi credevamo morto, come in Virginia!".

Ross li guardò storto. "Spero che, per la disperazione, non abbiate affogato il vostro dolore nel mio vino".

Prudie e Jud, in difficoltà, si guardarono negli occhi. "Signore, un goccetto per affogare i dispiaceri, non si nega a nessuno".

Demelza rise e Prudie ne approfittò per riabbracciarla. "Siete tornata per restare, questa volta?".

"Si".

"Ma come è possibile? Com'è successo che voi due...?".

Ross sospirò, cingendo le spalle di Demelza con un braccio. "Te lo racconteremo dopo. Aiutateci a portare dentro i bagagli ora, siamo stanchi".

Jud si guardò attorno. "Ma il bambino? Non c'è?".

"E' nella carrozza, sta dormendo" – disse Demelza. "A lui penseremo noi. E anche a sua sorella".

Jud e Prudie si guardarono nuovamente negli occhi. "Sorella?".

Demelza annuì. "La nostra bimba. E' nata a Londra pochi mesi dopo che mi ci ero trasferita".

Il viso di Prudie si illuminò. "Due bambini a Nampara? Al posto di uno?".

"Già". Ross tornò alla carrozza, vi salì e con delicatezza prese i due bimbi fra le braccia. Poi tornò dai servi e dalla moglie.

Demelza prese la piccola in braccio, stringendola a se. "Vi presento Clowance Poldark". Poi guardò il figlio che, stiracchiandosi, si stava svegliando. "Jeremy lo conoscete già".

"Santo cielo, quanto è cresciuto" – commentò Prudie, accarezzando i capelli del piccolo.

Jeremy si svegliò, si strofinò gli occhi e poi si guardò attorno. "Siamo arrivati?".

"Signorino Jeremy, certo che sei arrivato!". Prudie, esaltata, lo rapì dalle braccia del padre, stringendolo a se e stritolandolo fra le sue braccia. "Ti ricordi della vecchia e brava Prudie che ti faceva sempre giocare?".

Jeremy la guardò, un po' tramortito. Poi cercò conforto negli sguardi dei genitori. "Non mi ricordo tanto" – sussurrò, svincolandosi dall'abbraccio di Prudie. Poi corse da Ross, affondando il viso contro di lui. "Papà?".

Lo riprese in braccio, stringendolo a se. "Tranquillo, vedrai che ti piacerà qui e che magari ti ricorderai qualcosa, pian piano, di quando eri piccolo".

Jeremy annuì, poi si guardò attorno con attenzione. "Ma questo è il nostro cortile?".

"Si".

"E io e Clowance ci possiamo giocare con gli animali? Vero che mi hai detto che ci sono le galline e i vitellini?".

"Certo! Dopo ti porto a vederli".

Jeremy sorrise, prima a lui e poi alla madre e ai servi. "Mi piace qui, anche se non mi ricordo".

Prudie sorrise, poi si avvicinò a Demelza, osservando il visino di Clowance. "E' una bambolina incantevole" – sussurrò, accarezzandole i capelli.

La bimba, a quel gesto, si svegliò. Guardò la donna con aria guardinga, si imbronciò e poi nascose il viso nel collo della madre. "Non vollo che mi tocchi".

Prudie spalancò gli occhi e Jud scoppiò a ridere. "Santo cielo, una Poldark fatta e finita! Bellissimo, sarà davvero bellissimo averla qui".

Demelza rise, abbracciando la sua bimba. "Lei morde, appena sveglia. Poi diventa più simpatica però, se le passa la luna storta".

Prudie scoppiò a ridere. Poi aiutò Jud a portare in casa tutti i bagagli e insieme fecero il loro ingresso a Nampara.


...


Poche ore dopo, finita la cena e raccontato sommariamente quanto successo a Londra in quegli anni e il modo rocambolesco in cui si erano rincontrati grazie a Caroline e Dwight, Demelza se ne stava seduta al tavolo, in compagnia di Prudie. Ross era al piano di sopra a sistemare i bauli e la camera dove avrebbero dormito i bambini e Jeremy e Clowance, curiosi, lo avevano seguito, non prima di averlo costretto a fargli vedere gli animali nella stalla.

Prudie, asciugando un grosso pentolone, le sorrise. "Sono felice che tu sia qui. Questa casa aveva perso la sua anima senza di te e senza Jeremy".

Demelza annuì. "E forse io avevo perso la mia, di anima, andandomene".

"Deve essere stata dura per te a Londra. E visto la vita che ti sei costruita lì, dev'essere stata dura tornare e dare una seconda possibilità al signore".

Demelza annuì. "Non c'è stato niente di facile per noi. E se siamo qui ora, felici, lo dobbiamo unicamente alle nostre teste dure. Non ci siamo arresi, benché forse entrambi avremmo preferito farlo per non rischiare di farci male di nuovo".

Prudie le poggiò famigliarmente una mano sulla spalla. "Quando sei venuta qui un anno e mezzo fa, credevo che quello fosse un addio. Sono felice che la vita ti abbia riportato qui. E' questo il tuo posto ed è qui che dovranno crescere quei due bellissimi bambini".

"Sei stata sorpresa di vedere Clowance, scommetto".

Prudie scosse la testa. "Non molto, lo sospettavo. Un anno e mezzo fa, quando sei venuta qui, ti sei tradita parlando di Ross. Avevi detto, prima di interromperti, che era il padre dei tuoi figli. E avevo il sospetto che non ti riferissi a Julia ma a qualcun altro, soprattutto dopo che mi sono ricordata dei tuoi mal di stomaco prima di partire".

Al sentir nominare il nome di Julia, Demelza le prese le mani nelle sue. "Grazie per esserti presa cura di lei".

"E' stato un piacere".

Demelza sospirò, poi si alzò dalla sedia. "Credo che raggiungerò Ross e i bambini in camera. E' tardi e dobbiamo metterli a letto".

"Buona notte, Demelza".

"Buona notte, Prudie".

Salì in camera dove Ross, travolto dall'eccitazione dei bimbi, cercava di evitare che si spaccassero qualche osso saltando sul loro letto. Appena la videro, i bimbi le corsero incontro in camicia da notte. "Mamma, sei arrivata!".

"Certo! E' ora di dormire, vi porto nella vostra camera".

"Ma così presto?" - si lamentò Jeremy.

Demelza sospirò. Erano troppo emozionati per addormentarsi, sarebbe stata una serata lunga quella. Si guardò attorno, Ross aveva sistemato ogni cosa e essere lì, nella sua stanza da letto con lui e coi bambini, dopo tanto tempo, la emozionava enormemente. Voleva abbracciare tutti e tre, fondersi con loro e fare in modo che quel momento durasse per sempre. Era sempre stato il suo sogno tornare lì, avere l'amore completo di Ross e tornare ad essere una famiglia con lui e coi loro figli.

Ross le si avvicinò, la prese per mano e, percependone i pensieri, la strinse a se. "Bentornata".

Si sedettero tutti e quattro sul letto, facendo giocare i bambini e raccontando loro qualche favola della Cornovaglia. Poi a Ross venne in mente una cosa... Si alzò, aprì il cassetto del comodino e, dopo aver preso qualcosa, tornò da loro. "Guarda cos'ho qui, Clowance" – disse alla figlia.

Demelza spalancò gli occhi. Ross le aveva raccontato del loro primo incontro e del 'gentile dono' che gli aveva fatto la figlia, ma la stupiva il fatto che Ross avesse conservato quel nastrino quando allora, per lui, Clowance non era che una bimba sconosciuta. "L'hai tenuto?" - mormorò, osservando il nastro fra le mani del marito.

Clowance si imbronciò subito, guardando storto il padre. "Non lo vollo!" - disse, decisa. Poi però ci pensò su un attimo, la sua espressione si fece furba e prese il nastro. "Papà, è tuo! Adesso te lo metto" – disse, alzandosi in piedi ed avvicinandosi pericolosamente ai capelli di Ross che, capendo le sue intenzioni, mentre Demelza e Jeremy ridevano divertiti, si scostò bruscamente da lei.

"Il nastrino fra i miei capelli, no!".

"Ma io vollo mettettelo!" - disse la bimba, con aria di sfida.

Demelza, ridendo, prese la bimba fra le braccia. "Si sta vendicando di te per aver tirato fuori quell'odiato nastro, Ross! Fossi in te, lo rimetterei dove l'hai preso, lei non si arrenderà".

Mascherando un sorriso, Ross le diede retta. Poi tornò da loro, prendendo entrambi i bambini in braccio prima che a Clowance venisse qualche altra strana idea. "Ora su, a nanna! E' davvero tardi".

"Ma..." Jeremy fece per protestare ma questa volta ci fu poco da fare. Demelza e Ross li portarono nella loro camera dove avevano rimediato due lettini di fortuna per la notte, li misero sotto le coperte e poi, dopo averli coccolati un po', li lasciarono con la promessa che il giorno dopo avrebbero esplorato i prati e i boschi circostanti e li avrebbero portati a vedere la miniera.

Ross prese Demelza per mano, una volta che furono addormentati. Ma contrariamente alle aspettative della donna, non la portò in camera da letto ma al piano di sotto. Era ormai tardi, Nampara era avvolta dal silenzio e anche Jud e Prudie dormivano. "Cosa vuoi fare?" - chiese Demelza.

Ross le strizzò l'occhio. "Prendiamo il cavallo e usciamo noi due, da soli".

"E i bambini?".

"Dormono e ci sono Jud e Prudie in casa, tranquilla".

Demelza, accigliata, lo seguì nelle stalle. Accarezzò il cavallo di Ross, quel meraviglioso stallone su cui spesso, anni prima, avevano cavalcato insieme. Poi, con gesti famigliari, capendosi all'istante, montarono in groppa. Prese le redini, mentre Ross le stringeva la vita. "Dove vuoi andare?" - chiese, al marito.

"Alla Wheal Grace".

Spalancò gli occhi, sorpresa. "A quest'ora?".

"Si".

Non chiese nulla, forse desiderosa come Ross di tornare in quel posto. Galopparono da soli, nel silenzio e nella fredda notte della Cornovaglia, col viso sferzato da quel vento secco e gelido che tanto gli era mancato, provando sulla sua pelle una sensazione di liberà che non sentiva da tanto. Era su un cavallo, fra le braccia di Ross. Ed era la donna più felice del mondo per questo. Portò il cavallo su sentieri che mai aveva scordato e che conosceva a memoria, riappropriandosi di quei luoghi, di quei profumi e delle sensazioni che risvegliavano in lei.

Quando giunsero davanti alla Wheal Grace, Ross la aiutò a scendere da cavallo. "Guardala... Ricordi quando ci abbiamo lottato, per farla funzionare? Ricordi quanti sacrifici abbiamo fatto, quanti errori, quanto dolore abbiamo patito per questo posto?".

Demelza annuì, ricordando quel periodo, la mancanza cronica di soldi, la pressione di George e il sacrificio di Francis. "Lo ricordo! Ma ora questo posto rappresenta la vita per i tuoi minatori ed è il tuo successo, Ross" – disse, prendendogli la mano.

"Il nostro successo, Demelza. Ricordi? Non c'è nulla di mio o tuo ma solo nostro. Se questa miniera ha ripreso a funzionare, è stato anche grazie a te e a come mi sei stata vicina".

Demelza gli sorrise, lo abbracciò e rimasero in silenzio, da soli, cullati unicamente dal rumore del vento. "Sono contenta di essere venuta qui adesso, con te".

"Anche io, ne avevo bisogno". Ross la abbracciò, affondando il viso fra i suoi capelli. "Questo posto era il nostro sogno".

"E ora il sogno si è avverato" – rispose lei, prima di dargli un lungo e dolce bacio sulle labbra.




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Capitolo 32
*** Capitolo trentadue ***


Con la scusa che era il capo e poteva permettersi di non andare a lavorare e nonostante lei gli avesse ricordato che erano mesi che non lo vedevano in miniera, Ross era rimasto a casa per un'intera settimana, dopo il loro ritorno da Londra.

Gli faceva piacere vedere quanta premura ed attenzioni avesse Ross nei loro confronti, come si prodigasse per aiutare i bambini ad abituarsi a quella casa e alle nuove abitudini, adorava come le stesse vicino e fosse dolce e affettuoso, attento prima a lei che a se stesso. Era strano, bello essere il suo primo pensiero, dopo che per tanto si era sentita l'ultima della lista, quella che veniva dopo Elizabeth e Geoffrey Charles o i minatori della Wheal Grace. E comunque, nonostante gli ricordasse costantemente che aveva una miniera da mandare avanti, gli era grata per essergli rimasto accanto, aveva bisogno di lui, di scoprirsi e riscoprirsi famiglia a Nampara, di riappropriarsi, insieme a lui e ai bambini, di abitudini vecchie ma allo stesso tempo nuove.

Jeremy e Clowance si erano abituati subito alla vita di Nampara. Suo figlio scorazzava tutto il giorno in cortile, dietro a Prudie, attratto dalla vita all'aperto, dagli animali nella stalla, dalle corse dei prati e divertito dai modi di fare poco ortodossi della domestica. Pian piano, in lui, erano riaffiorati ricordi lontani di Prudie, così come l'affetto per lei. La cercava sempre, per giocare o per proporsi come suo aiutante nelle faccende di casa. Alla partenza da Londra, lei e Ross avevano stabilito che lui e Clowance portassero con loro solo tre giochi a testa fra quelli che preferivano ma a Nampara i giocattoli erano rimasti dimenticati nella stanza e nessuno dei due bambini li aveva usati, attirati più dalla vita all'aperto che da attività da fare al chiuso.

Clowance era più restìa invece, ad avvicinarsi a Jud e Prudie. Era nata a Londra ed era abituata a ben altri tipi di abitudini e domestici e faticava a conciliare la sua vivacità di bambina con il suo carattere un po' aristocratico e raffinato che aveva sviluppato nella capitale. Stava sempre attaccata a lei o a Ross e tendeva a scappare se Prudie provava a prenderla in braccio. La domestica ne era divertita, la piccola altamente infastidita. Ross la chiamava 'principessa' e in effetti, come aveva predetto Caroline alla sua nascita, Clowance era davvero una piccola lady.

Il mattino dell'ottavo giorno dal loro ritorno, finalmente ma di controvoglia, Ross tornò alla miniera. Jeremy aveva insistito per andare con lui ed era talmente eccitato di vedere per la prima volta dove lavorava il padre che, senza fare storie, si era alzato all'alba con lui.

Demelza era rimasta a letto con la piccola Clowance che, dopo che Jeremy si era svegliato, l'aveva raggiunta e si era rannicchiata sotto le coperte con lei. Diede un bacio al figlio, sicura che si sarebbe divertito tantissimo con Ross e poi, a sua volta, si fece baciare dal marito. "Stai attento a Jeremy! Non vorrei si cacciasse nei guai".

Ross, accarezzandole i capelli, l'aveva stretta a se. "Tranquilla, lo terrò con me in ufficio e gli farò vedere cose non pericolose e sempre in mia presenza. Tu che farai, verrai a trovarci con Clowance, oggi?".

Annuì, anche se questa era una cosa che la metteva in imbarazzo. Era stata separata da Ross per tre anni e sicuramente, vedendola, sarebbe stata sulla bocca di tutti i minatori. Odiava essere al centro dell'attenzione e tutti i pettegolezzi che ne sarebbero derivati su lei e Ross. Questo suo stato d'animo, però, la faceva sorridere. Si sentiva così simile alla se stessa appena sposata, che si vergognava a farsi vedere alla miniera per paura che le persone pensassero che una semplice sguattera si desse delle arie... In fondo, nonostante tutto, non era cambiata molto da allora...

Ma ci sarebbe andata in giornata, comunque. Ross ci teneva ed era un suo dovere far parte della vita di suo marito. Una sera, quando ancora erano a Londra, lui le aveva confidato che i momenti peggiori, quando erano separati, erano alla miniera a cavallo del mezzogiorno quando le mogli e i figli dei minatori venivano a portare cibo e compagnia ai loro cari e lui si trovava lì ad osservare famiglie unite e felici, ricordandosi di quanto fosse solo e di cosa avesse perso. Non voleva che Ross si sentisse ancora così, sapeva quanto dolore si provasse a sentirsi soli e odiava il fatto che lui si fosse sentito così male per così tanto tempo.

Quando Ross se ne fu andato, si rintanò sotto le coperte con la piccola Clowance che, in vena di essere coccolata, non disdegnava di essere accarezzata ed abbracciata. Questi erano i momenti in cui apprezzava di più la maternità, quei brevi istanti sola coi suoi figli, a giocare con loro, a godersi sorrisi, abbracci e parole ancora stentate di chi la guardava e la prendeva come modello per diventare grande. Jeremy ormai era cresciuto per questo genere di cose, ma Clowance era nell'età perfetta per goderne. "Oggi pomeriggio andiamo a prendere papà e Jeremy alla miniera, così la vedrai da vicino" – le disse, facendole il solletico sul pancino.

"La minera?".

"Certo! Faremo una passeggiata sulla spiaggia e poi ci andremo". Benché fredda, era una giornata serena, l'ideale per godere di una camminata sulla sabbia, solo loro due. Clowance aveva visto il mare unicamente da lontano e ne sarebbe rimasta affascinata.

Rimasero a letto a poltrire fino alla mattina tardi e poi, dopo essersi vestite e aver accudito i vitellini nella stalla, pranzarono insieme a Prudie e Jud.

Clowance li guardava come si guardano delle strane e sconosciute creature. Era perplessa dai loro servitori e non poteva darle torto, erano così diversi da quelli di Londra, sempre ben vestiti, pettinati, riverenti e a modo.

Prudie osservò la bimba, facendole la linguaccia. "Quei vestitini di pizzo dureranno poco qui" – sbottò.

Clowance si imbronciò. "Sono miei!".

Demelza rise. "Prudie, sono i suoi vestiti e non abbiamo nulla di più modesto per ora. E poi dubito che li rovinerebbe, è attentissima a non sporcarsi e a non romperli. A Londra abbiamo lasciato un'infinità di vestitini di Clowance, se questi si rompessero, ce li faremo portare".

"Oggi pomeriggio che farai, Demelza?" - chiese Prudie. "Andrai alla miniera?".

"Si! Voi, per favore, non allontanatevi da qui. Come vi abbiamo detto ieri sera, arriveranno da Londra i pony dei bambini e i miei purosangue". Il corriere con gli animali sarebbe arrivato nel pomeriggio, finendo col riempire del tutto la stalla di Nampara. Ross le aveva detto che intendeva ristrutturare tutta la tenuta, stalla compresa, visto che la famiglia era cresciuta. Le pareva strano pensare a una Nampara più nuova e rimodernata, adorava quel posto così com'era ma in effetti coi bambini si stava un po' stretti. E coi nuovi arrivi, sarebbero stati stretti anche gli animali.

Finito di mangiare, prese Clowance fra le braccia. "E allora, si va da papà?".

"Sì!".

Uscirono nel pallido sole del primo pomeriggio. Demelza prese per mano la figlia che, attenta, osservava tutto quello che la circondava. Quando raggiunsero la spiaggia, costeggiarono la riva, ammirando lo spettacolo di quelle onde mai uguali l'una all'altra che si infrangevano sulla battigia.

"Pecché è più grandissimo del Tamigi?".

"Perché questo è il mare, il Tamigi è un fiume. Ti piace?".

"Sì".

"Ti piace vivere qui?".

"Sì".

"Ti piacciono anche Jud e Prudie?".

La bimba rimase un attimo in silenzio. "Vollo pensalci!".

Demelza scoppiò a ridere, inginocchiandosi davanti a lei. La prese fra le braccia e si sedette sulla sabbia, con la sua bimba sulle ginocchia. "Preferisci stare qui o a Londra?".

"Qui pecché tu ci sei semple e c'è anche il papà! Plima eri via tanto".

Sentì una fitta allo stomaco a quelle parole, sicuramente sincere. Si era sempre sentita in colpa a Londra, verso i suoi figli, per il tempo che passava lontana da loro a causa del suo lavoro. Jeremy e Clowance erano sempre stati circondati da persone che li adoravano ma evidentemente, come tutti i bambini, desideravano solo la loro mamma. "Ora starò con te molto di più, sai? E anche papà. Ogni tanto viaggerò e dovrò stare lontana ma sarà per poco tempo e succederà raramente".

Clowance annuì. "Va bene. Però vollo stare col papà quando tu via! No con quelli due blutti a casa".

La baciò sulla guancia. "Vedrai che imparerai a voler bene a Jud e Prudie. Loro te ne vogliono, sai?".

Clowance non sembrava troppo convinta e sicuramente i due servitori di Nampara erano molto inferiori agli standard a cui era abituata. Ma si fece andar bene le rassicurazioni della madre tanto che, chiuso quell'argomento, la sua attenzione si spostò a qualcosa di rosato sulla sabbia. Allungò la manina, prendendo l'oggetto che la incusiosiva. "Cos'è?".

Demelza sorrise. "E' una conchiglia. Ce ne sono tante qui". Gliela prese di mano, mettendogliela vicino all'orecchio. "Viene dal mare ed è un po' magica, se te la tieni vicino, sentirai il rumore delle onde".

Clowance osservò il suo piccolo tesoro nelle mani della madre. "Tintiglia...".

"Conchiglia" – la corresse Demelza, divertita.

Clowance la riprese fra le mani. "Bella! La vollo portare al papà".

"Gliela vuoi regalare?".

"Si".

Si rialzarono dalla sabbia e a piccoli passi, tranquillamente, raggiunsero la Wheal Grace.

Quando incrociarono i primi minatori, Demelza si irrigidì. Ma nessuno le chiese nulla o fece commenti, tutti si limitarono a salutarla come se non si vedessero che dal giorno prima, con dei gran sorrisi stampati sul viso. Erano gli uomini di Ross quelli, a suo marito dovevano tutto e poteva leggere nei loro volti tanta gratitudine e affetto nei loro confronti, non certo curiosità o voglia di fare pettegolezzi. Anche il capitano Henshawe la accolse calorosamente, senza chiederle nulla, facendo finta che quei tre anni non fossero mai trascorsi. E di questo gliene fu grata, anche se sospettava che Ross gli avesse comunque già raccontato ogni cosa e intimato di non fare domande troppo imbarazzanti.

Strinse la manina di Clowance e andò nella miniera, in quello che era il piccolo ufficio di Ross. Erano più di tre anni che non vi si recava, dal giorno del crollo. Ricordava quella giornata maledetta, iniziata male e finita ancor peggio con Ross che, fuori di se, correva da Elizabeth nel cuore della notte, rischiando di distruggere per sempre il loro matrimonio. Quanta acqua era passata sotto i ponti, da allora, quando dolore, quanta sofferenza e quanta strada avevano fatto per rinascere e ritrovarsi come coppia, lei e Ross... Sembrava ancora quasi incredibile che ci fossero riusciti.

Persa in quei pensieri ancora dolorosi raggiunse Ross che, assorto, stava seduto alla sua scrivania a compilare dei registri.

Appena la vide, gli sorrise. "Sei venuta davvero, alla fine!".

"Credevi che non l'avrei fatto?".

"Credevo che ti sentissi ancora in imbarazzo per farlo".

Clowance, incurante dei loro discorsi, corse fra le braccia del padre che, con gli occhi che brillavano, la prese sulle sue ginocchia, abbracciandola e baciandola sulla testolina rossa. "Cos'hai fatto oggi, principessa?".

"Ho vitto il mare! E' grande, lo sai?".

Ross sorrise. "Lo so".

Demelza si avvicinò loro, appoggiando la mano alla spalla di Clowance. "Nostra figlia ha un regalo per te".

Ross guardò la bimba, incuriosito. "Davvero?".

Clowance annuì. "Si guadda, una tintiglia" – esclamò fiera, mettendo la conchiglia sulla scrivania.

Lo sguardo di Ross si addolcì, mentre stringeva a se la bambina. E a Demelza, ricordando quanto lui gli aveva detto e di come si fosse sentito solo in, negli anni, in quel posto, venne semplicemente voglia di abbracciarlo. Lo conosceva bene, sapeva leggergli nel pensiero meglio di chiunque altro e poteva ben immaginare quanto in quel momento fosse felice, commosso ed emozionato dall'averle lì con lui. Andrò dietro la sedia, gli cinse la schiena con le braccia e appoggiò il viso contro il suo collo.

Ross non disse nulla, si limitò ad accarezzarle la mano, rimanendo in silenzio per lunghi istanti, godendo di quel contatto, di quel legame di nuovo forte, di quel calore che solo lei poteva dargli.

Fu Clowance a spezzare quell'attimo magico. "Ti piace la tintiglia?".

Ross annuì, prendendo la conchiglia e mettendosela davanti, sulla scrivania. "Tantissimo! Anzi, sai che faccio? Da oggi in poi la terrò qui con me e sarà il mio portafortuna".

Gli occhi di Clowance brillarono. "Siii". Si sporse verso di lui, appoggiò la fronte contro quella del padre e sorrise. "Tanta fottuna".

"Speriamo, anche perché ne avremo bisogno!" - esclamò Ross, prendendo una busta bianca che riposava a lato dei registri. La porse a Demelza, strizzandole l'occhio. "Questa è per te. Me l'ha portata oggi un messo di Pascoe".

Demelza, senza sciogliere l'abbraccio al marito, osservò incuriosita la busta. "Cos'è?".

"Il tuo progetto per la scuola, con costi e dati tecnici per costruirla. Ho scritto a Pascoe chiedendogli di farti un preventivo e di inviarti qualche idea per realizzarla e credo che questa sia la sua risposta".

Demelza, eccitata, sorrise. "Che dice? Che c'è scritto?".

Ross sospirò. "Non l'ho aperta! Anche se insisti che è una cosa NOSTRA, in realtà il denaro è tuo e credo sia giusto che la apra tu".

Demelza rise, dandogli scherzosamente un leggero pugno sulla testa. "Clowance, il tuo papà è più testardo di un mulo!" - esclamò, baciandolo sul collo. "Potevi aprirla e darci un occhio, poi l'avremmo guardata insieme questa sera a casa". Era strano, bello fare progetti con lui, sapere che davanti a loro avevano l'infinito, un numero di strade da percorrere inimmaginabile.

Ross scosse la testa. "E allora la apriremo stasera se ti fa piacere, appena messi a letto i bambini. Comunque ne ho parlato ai minatori e la cosa ha entusiasmato quasi tutti. Sono felici di quest'opportunità che daremo ai loro figli e credo che vedremo arrivare anche qualche bambino figlio di minatori che lavorano in altre miniere concorrenti".

"Dovremo ampliare il progetto, allora!" - esclamò Demelza.

"Questo costerà molti soldi".

Lei sorrise, tornando ad abbracciarlo. "A Londra concludevo unicamente affari dove giravano molti soldi. Sono brava in questo!".

"Lo so!".

In quel momento, come una piccola furia, Jeremy comparve nello studio. Era completamente spettinato, sudato e pieno di polvere, col fiato corto e le guance arrossate per la corsa.

Demelza lo guardò, spalancando gli occhi. Dov'era finito il suo pulitissimo, perfetto bambino? "Jeremy? Dov'eri?".

"A giocare con gli altri bambini! I loro papà lavorano per il mio papà! Sai che sono simpatici? Abbiamo inseguito i conigli, scavato delle buche e cercato le lucertole. E papà ci ha fatto vedere un tunnel, stamattina!" - disse, eccitato.

Clowance lo guardò storto, male, rannicchiandosi ancora di più fra le braccia di Ross. "Sei spocco!".

Jeremy scoppiò a ridere. "Si, è vero! E adesso ti abbraccio" – rispose, con una nota maligna nel tono di voce.

A quella 'minaccia', Clowance spalancò gli occhi inorridita. "NOOOOOOOOO! Papà, non vollo! Mandalo via a lavassi!".

Ross e Demelza si guardarono negli occhi, scoppiando a ridere. "Tranquilla tesoro, ti difendo io!" - disse Ross, divertito come forse non gli capitava da anni.

Clowance, seria, guardò il fratello. "Devi fare il bagno! Ti pottiamo al mare e ti buttiamo dentlo".

Jeremy le fece la linguaccia. "Ora ti abbraccio davvero, così ti sporchi anche tu e buttiamo in acqua anche te".

"PAPAAAAAA'".

Demelza la prese in braccio, mettendola a distanza di sicurezza dal fratello. "Jeremy, non farla urlare, siamo in una miniera e tua sorella potrebbe diventare più espolsiva di un carica di dinamite! Non si deve urlare nei tunnel o crolla tutto!".

"Mamma ha ragione!" - disse Ross, alzandosi dalla sedia ed avvicinandosi al figlio. Lo prese in braccio, incurante di quanto fosse sporco. "Su, andiamo a casa, ci faremo il bagno nella nostra vasca, tranquillo! E poi dopo cena, io e mamma guarderemo le carte per costruirti la scuola che frequenterai".

"Niente più istitutore?".

Ross gli sorrise, scompigliandogli i capelli. "No, basta! Studierai con gli altri bambini".

"Bello!".

Presero i figli e, dopo aver salutato gli altri, insieme, si diressero verso Nampara. Si sentivano entrambi più leggeri, sereni. Erano al loro posto ora e quella era la vita che avevano sempre sognato insieme. Il tramonto incombeva sulla spiaggia e il mare, baciato dal sole che calava, si tingeva sempre più di rosso. Demelza lo guardò, pensando che a Londra non aveva mai visto nulla di tanto bello.


...


Elizabeth se ne stava nel salone, a suonare l'arpa. Suo figlio, il piccolo Valentin, di controvoglia la ascoltava seduto sul sofà, evidentemente annoiato.

La donna lo osservò con una nota di preoccupazione, cosa che gli capitava di fare spesso, per tanti motivi, fin dal giorno in cui l'aveva messo al mondo. Valentin, dai capelli neri e ricci, era un bambino malaticcio, emaciato e debole, affetto da una forma di rachitismo che George mal tollerava e accettava. Aveva ormai due anni e ancora faticava a camminare per lunghi tratti, si stancava subito e aveva sempre uno sguardo strano e sperso. Spesso ricordava le parole della vecchia Agatha, dette il giorno della sua nascita.


"E' cattivo presagio, è nato sotto la luna nera".


Rabbrividì, ripensandoci. Il suo matrimonio con George era di facciata perfetto ma dentro quella casa, Trenwith, era come vivere prigionieri delle sue regole e delle sue lune. George aveva fatto allontanare suo figlio maggiore che ora, da quasi due anni, studiava a Londra. E guardava in cagnesco il figlio più piccolo, riflettendo sul significato di quei riccioli neri che non appartenevano né a lei né a lui.

Elizabeth era turbata, preoccupata per il futuro di Valentin e viveva col pressante sospetto che, nonostante il cognome Warleggan, il suo bambino non appartenesse affatto a quella famiglia e che fosse il frutto di quella notte folle di tre anni prima con Ross. Aveva paura anche solo ad ammetterlo a se stessa ma Valentin aveva decisamente i tratti dei Poldark e non certo dei Warleggan. E questo lo aveva notato anche George, benché lei avesse sempre negato che fosse successo qualcosa col suo primo amore.

Dalla sera prima del matrimonio, non aveva più rivisto Ross. Non sapeva più nulla di lui, eccetto che Demelza se n'era andata di casa col figlio.

Improvvisamente la porta si aprì e George entrò nel salone, adirato. Si tolse i guanti, li buttò sul tavolino e si sedette sul divano accanto a Valentin che, turbato, lo guardava in silenzio. "La piccola strega è tornata! Pure qui dovrò sopportarla, ora!".

Elizabeth lo guardò, senza capire. "Di chi parli?".

"Della tua ex cugina, la moglie di Ross. Non mi bastava doverla avere nel consiglio d'amministrazione della Warleggan, mi ci mancava che tornasse qui e con quel suo dannatissimo marito si mettesse a fare la samaritana per i figli dei minatori. La scuola vogliono costruire, quei due... E chi farà la figura del cattivo, in virtù di ciò? E chi è che i minatori ameranno e osanneranno ancora di più?".

Elizabeth lo guardava con gli occhi spalancati, senza capire. Demelza era tornata ed era con Ross? E cosa c'entrava la Warleggan? Per anni non aveva saputo nulla di lei e aveva vissuto la sua partenza con sentimenti ambivalenti: contentezza di non saperla più con Ross e soddisfazione nel saperlo solo a soffrire e allo stesso tempo sensi di colpa per aver distrutto la famiglia di colei che aveva salvato suo figlio anni prima. "Non riesco a capire, George" – disse, cercando di mantenere un certo contegno e di apparire distante dalle faccende dei Poldark.

"Quella dannata intrigante si era trasferita a Londra e ha fatto fior di soldi entrando nell'alta finanza. Devo ammetterlo, con gli affari è più scaltra e capace del marito! E' riuscita ad accedere al consiglio d'amministrazione della Warleggan e aveva talmente tante azioni da poter manovrare le mie decisioni. Ora è tornata con Ross, lei e i marmocchi son di nuovo a Nampara e con tutti i soldi che si è portata con se, mi creeranno problemi a non finire, quei due! La odio!".

"Marmocchi? Ne hanno solo uno".

George scosse la testa. "Ne hanno due, lei ha partorito una piccola Poldark a Londra, la degna figlioletta di Ross e di quella dannata sguattera. Due bambini selvaggi".

Elizabeth lo vide picchiare con violenza il pugno sul tavolo. Tentò di rimanere fredda ed impassibile ma quella sfilza di notizie appena ricevute la stava facendo andare in confusione. "Mi dispiace ma sono sicura che ne uscirai sempre vincitore" – balbettò.

George la squadrò freddamente. "Oh, lo speri? O parteggi ancora, magari segretamente, per Ross? Si dice che siate stati intimi, voi due...".

"Cosa dici? Io sono sempre stata solo tua, da quando è morto Francis".

George fissò il piccolo Valentin che, sempre in silenzio e spaventato dalla rabbia del padre, se ne stava rannicchiato sul sofà. "Sei sempre stata mia? E allora perché questo bambino ha i capelli sempre più neri e ricci?" - chiese, prima di alzarsi e allontanarsi dalla stanza, senza attendere una risposta.

Sbatté la porta dietro di se ed Elizabeth ripiombò nelle sue paure e nella sua solitudine.

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Capitolo 33
*** Capitolo trentatre ***


Era arrivato giugno e con esso, la data del matrimonio fra Caroline e Dwight.

Ross, assieme a Demelza e ai bambini, era tornato a Londra dieci giorni prima del fatidico sì, per permettere a sua moglie di sbrigare alcune pratiche finanziarie che la vedevano occupata nella capitale.

I bambini, in quei mesi in Cornovaglia, erano cresciuti parecchio, tanto che i domestici londinesi avevano fatto fatica a riconoscerli. Jeremy, abbronzato e irrobustito dai lunghi pomeriggi passati a giocare all'aperto, era diventato un bambino forte, vivace e che sprizzava energia da ogni poro. Abituato a star fuori tutto il giorno, si era praticamente stabilito nel giardino della villa, rientrando solo all'ora di cena e all'ora di andare a letto. Giocava con Garrick o con qualunque cosa trovasse di interessante fra l'erba, dimenticando tutti i giochi che aveva in casa e questo a Ross faceva piacere. Era tanto simile a lui quando era piccolo, pensava mentre lo osservava...

Clowance invece si era riabituata subito alla casa di Londra, benché ormai anche lei si fosse affezionata a Nampara e alle piccole abitudini che si erano presi lui e lei. Adorava quando, al ritorno dalla miniera, la metteva sul suo pony e la portava a passeggiare attorno alla tenuta e le piaceva anche accarezzare gli animali nella stalla e prendersene cura con Demelza. La sua bambina era cresciuta molto in quegli ultimi mesi e diventava sempre più bella ad ogni giorno che passava. Ricordava il loro primo incontro, quasi un anno prima, quel visino tondo e quei boccoli rossi che le arrivavano a malapena alle spalle che lo avevano fatto innamorare, in un momento della sua vita in cui si trovava solo e alla deriva. Ora i suoi capelli erano lunghi, le arrivavano quasi alla vita, erano morbidi e lucenti, pieni di boccoli come quelli di sua madre. Ancora mal tollerava Jud e Prudie e in questo era simile a lui che invece non sopportava la servitù di Londra. La capiva, ecco!

Ross si guardò allo specchio, cercando di fare un fiocco alla sua camicia, borbottando e chiedendosi perché la gente adorasse vestirsi in maniera tanto pomposa ai matrimoni. Jeremy, al suo fianco, aveva lo stesso problema.

"Papà, ma se ci mettiamo una camicia normale?" - chiese il bambino.

Ross alzò gli occhi al cielo. "Prova a proporlo a tua madre e senti che ti risponde!".

"Ross!". Il tono di voce da rimprovero li raggiunse subito. Demelza, davanti allo specchio e ancora in sottoveste, stava finendo di sistemare la piccola Clowance prima di vestirsi e a prima vista era quella più in ritardo sulla tabella di marcia, anche se lui sospettava che alla fine avrebbe finito di sistemarsi prima di tutti loro. Demelza gli si avvicinò, fronteggiandolo. "Siete due disastri" – mormorò divertita, sistemandogli il colletto della camicia e il fiocco. Poi si chinò, facendo altrettanto con Jeremy. "Lo so che odiate questi vestiti, ma per oggi dovrete sopportare".

"Perché?" - si lamentò Jeremy. "Mica li devo portare io gli anelli agli sposi, lo deve fare Clowance e quindi è più giusto che sia lei quella elegante".

"Jeremy!".

"Ma mamma...".

Clowance si avvicinò loro, imbronciata. E come al solito Ross rimase imbambolato a guardarla. Non c'erano dubbi, sua figlia sapeva ammaliarlo come un incantatore di serpenti, era talmente bella, adorabile e testarda che si chiedeva ormai sempre più spesso se al mondo fosse mai esistita una bimba meravigliosa quanto lei. A dire il vero era molto simile a Demelza, si somigliavano moltissimo e questo lo riempiva d'orgoglio e della consapevolezza di avere accanto due fra le più belle donne d'Inghilterra.

Clowance era bellissima, vestita di un abitino di pizzo rosa, scarpine del medesimo colore e guantini bianchi alle mani. E per ovviare al fatto che odiasse avere nastri nei capelli, Demelza aveva rimediato facendole una lunga treccia che la rendeva ancor più simile a una bambolina.

"Ma li devo poltale per fozza gli anelli?" - chiese, un po' titubante.

Demelza, finito di sistemare marito e figlio, la prese in braccio. "Certo, ricordi quanto ti sei esercitata per farlo?".

Clowance abbassò lo sguardo. "Si ma non lo so se vollo pottarli".

Ross la prese dalle braccia della madre. "Sono sicuro che sarai bravissima. E ora lasciamo libera la mamma, deve ancora vestirsi. Vedi com'è lenta?".

Demelza lo guardò storto, prima di dargli un buffetto sulla guancia. "Spiritoso! Come potrei essere pronta, visto che ho dovuto vestire pure te, oltre ai bambini?".

"Sbrigati!" - rispose lui, a tono e divertito.

Mezz'ora dopo, era pronta anche Demelza. Come Clowance, indossava un meraviglioso abito di color rosa pallido, di seta, legato in vita da un nastro che le faceva risaltare la figura snella, smanicato e con una leggera scollatura sulla schiena. Si era agghindata i capelli come la figlia, facendosi una lunga treccia che, assieme a un leggero trucco sul viso, la rendeva bellissima ai suoi occhi. Ogni volta che la guardava si sentiva innamorato come uno scolaretto ai primi palpiti amorosi, dipendente da lei, totalmente catturato dalla sua figura.

Raggiunsero gli sposi con la carrozza, incontrando Dwight nella Sacrestia. Ross sorrise vedendo l'amico bianco come un cencio, tutto agghindato in un elegante abito grigio. "Amico, si direbbe che te la stai facendo sotto".

Dwight allentò il colletto della camicia. "Sono preoccupato. Mi sento una specie di morso alla gola, una tenaglia".

Ross annuì, battendogli amichevolmente una mano sulla spalla. "Si chiama ansia, non sei malato!".

"Fai presto tu a parlare, qui quello che si sposa sono io e Caroline si aspetta una giornata perfetta! Avrò addosso gli occhi di tutta la nobiltà di Londra che si aspetta solo che io faccia un passo falso per confutare la loro teoria che un'ereditiera come Caroline non dovrebbe sposarsi con un medico di campagna come me".

Demelza gli si avvicinò, abbracciandolo. "Sta tranquillo, la nobiltà di Londra non è così terribile come la dipingono. Sono noiosi ma innoqui".

Ross rimase colpito dalle parole sicure di Demelza, rendendosi conto che lei, probabilmente, conosceva tutte quelle persone facoltose che li avrebbero circondati durante la giornata. E come nei primi giorni a Londra con lei, quasi sei mesi prima, si sentì un pesce fuor d'acqua. La vita di sua moglie nella capitale gli era ancora estranea, gli pesava, odiava il fatto che dei perfetti sconosciuti, per quasi tre anni, avessero fatto parte del mondo di Demelza mentre lui era lontano. Guardò Dwight, sospirando. "Mi sono sposato anche io e come vedi, sono tutto intero".

"Esatto!" - ribadì Demelza. "Il nostro matrimonio è stato meno sfarzoso ma l'emozione è la stessa. E anche se ti tremano le gambe, è qualcosa che ricorderai per tutta la vita. Il matrimonio è un po' come un viaggio in mare, navigare sarà bellissimo e ogni tanto incontrerai qualche tempesta, ma se saprete guidare la vostra nave insieme, collaborando e amandovi, la supererete e tornerete a veleggiare nel sereno".

Ross avvertì la mano della moglie che, dopo aver pronunciato quelle parole, strinse la sua dolcemente. Ricordò il giorno in cui si erano sposati in una cerimonia modestissima, la faccia perplessa di entrambi, lo stupore di trovarsi lì davanti a quel prete a dirsi quel sì che, ancora, non sapevano cosa avrebbe potuto significare per loro. Non la amava quel giorno, non ancora. Era una persona a cui voleva bene, una buona domestica e anche un'amica con cui parlare ma non ne era innamorato, non nel modo in cui dovrebbe esserlo un uomo che si sposa. Demelza era una sfida, un impegno che si era preso dopo una notte d'amore esplosa quasi per caso al termine di una giornata terribile, un cedimento a cui aveva voluto porre riparo per non farla vivere nello scandalo perché non voleva essere come gli altri nobili, non voleva usarla solo per il suo piacere per poi dimenticarsene durante il giorno. No, non avrebbe potuto farlo, non a lei. E quella scelta dettata dall'istinto, si era rivelata la migliore della sua vita. Era diventata il suo amore, era entrata nel suo cuore pian piano, con dolcezza e affetto sinceri, gli era stata accanto in tutte le battaglie della sua vita e ora era la sua roccia, colei che dava un senso alla sua intera esistenza e che mai più avrebbe potuto perdere. Quel giorno in cui disse quel si, il suo istinto aveva agito e deciso per lui. E ora lo sapeva, l'istinto è il più saggio degli amici e arriva prima di cuore e ragione alla scelta più giusta.

Mentre si recavano in Chiesa, coi bambini che correvano davanti a loro, le cinse le spalle. "Sai, se potessi tornare indietro, ti risposerei altre mille volte".

"Davvero? Rifaresti tutto uguale?".

"Tutto tranne una cosa".

Demelza abbassò lo sguardo, capendo a cosa alludesse. "Sai, forse quella notte è servita a far luce definitivamente sui tuoi sentimenti. Per quanto possa averci fatto male...".

"Avrei dovuto capirlo in altri modi" – la interruppe lui. La strinse ancora più forte a se, maledicendosi per l'ennesima volta per la follia che l'aveva spinto fra le braccia di Elizabeth. "E tu mi risposeresti, se potessi tornare indietro?".

Demelza sorrise, maliziosamente. Poi alzò lo sguardo al cielo con fare distratto. "Non lo so, ci devo pensare un po' sopra".

La bloccò, la abbracciò e scoppiò a ridere. "Davvero?".

"Sì, ci penserei! E poi ti sposerei comunque". Ridendo anche lei, lo prese per mano, impedendogli di rispondere. "E ora su, andiamo o arriveremo tardi alla cerimonia".

"Si, hai ragione!".

Entrarono in Chiesa e si sedettero in fondo alla navata, coi bambini fra di loro.

Come consuetudine, Caroline arrivò con qualche minuto di ritardo. E al suo ingresso lasciò tutti a bocca aperta. La sua, già di per se, era una bellezza rara ma l'abito da nozze la risaltava ancora di più. Indossava un meraviglioso vestito color avorio che le ricadeva elegantemente addosso, cucito apposta per far risaltare le sue curve e la sua femminilità. Un pendaglio di diamanti le ornava il collo nudo, i capelli biondi le ricadevano ordinati sulla schiena, tenuti a bada dal lungo velo che arrivava quasi fino alle caviglie. L'abito non aveva particolari fronzoli, non era ricco di pizzi e merletti e a modo suo era semplice ma era proprio questo il suo pregio, era di una sobrietà che la rendeva bellissima e allo stesso tempo non ne offuscava il fascino.

Emozionata, la sposa raggiunse Dwight e la cerimonia ebbe inizio. Ross si sentiva commosso a pensare al suo amico, a quanto anch'esso avesse sofferto per amore proprio come lui e a quanto si meritasse quella felicità. Caroline era una donna indubbiamente bellissima, interessante, vivace e desiderabile da chiunque, ma aveva scelto lui. Con consapevolezza e con tenacia, aveva deciso di sposare il meno ricco e abbiente ma sicuramente il più innamorato di lei. Dwight era le persona più buona che lui avesse mai conosciuto , un amico leale e sincero e gli doveva davvero tutto. Se non fosse stato per lui e per Caroline, non avrebbe mai avuto una seconda possibilità con Demelza e non avrebbe potuto riabbracciare i suoi figli. Certo, a sua volta lui l'aveva aiutato a ritrovare Caroline ma era nulla in confronto a quanto loro avevano fatto per lui e per la sua famiglia.

Un paggio venne a portare un cuscinetto con gli anelli e fu chiaro che era arrivato il momento tanto temuto sia da lui che da Demelza. Clowance avrebbe collaborato?

La bimba osservò il cuscinetto e si rannicchiò contro di lui. "Non vollo!".

"Clowance, ti prego" – la implorò Demelza.

Jeremy tentò di spingerla giù dalla panca. "Devi portarli!".

"Non vollo, ho paura!".

Ross la prese sulle ginocchia, baciandola sulla fronte. "Di cosa?".

"Mi guaddano tutti e io ho paura".

La strinse a se, coccolandola. "Ti guardano tutti perché sei bellissima e molto importante, sai? Devi portare gli anelli a Caroline e Dwight, altrimenti non potranno sposarsi".

Clowance affondò il viso contro il suo petto. "Ma io ho paura".

Ross si alzò, andando con la bimba in fondo alla navata, dopo aver strizzato un occhio a sua moglie in segno d'intesa. Una volta in fondo, mise a terra la bambina e gli diede il cuscino con gli anelli. "Ci metterai un attimo" – le bisbigliò – "e non devi aver paura, io starò qua a guardarti tutto il tempo. E se succederà qualcosa, correrò a salvarti e a portarti via".

"Davvero? Ma poi posso tonnare da te in braccio?".

"Certo".

Clowance guardò gli anelli, tutta assorta. Lo inteneriva quello sguardo di chi sa che deve fare qualcosa di importante e capiva che, così piccola, potesse esserne intimorita, soprattutto perché gli occhi sarebbero stati tutti puntati su di lei. "Coraggio, va. Cammina piano e va sempre dritta, dai loro gli anelli e poi corri di nuovo qui".

"Si. Tu mi spetti?".

"Certo".

Clowance annuì e poi, serissima, percorse tutta la navata. La sua camminata era stentata, un po' timorosa, ma non si fermò finché non fu davanti agli sposi. Diede loro gli anelli, guardando Caroline ammirata. E poi, appena il prete riprese la parola, corse a ritroso, rifugiandosi fra le sue braccia. "Sono stata brava?".

Ross la strinse a se. "Bravissima! Sei una Poldark e noi sappiamo sempre portare a termine quel che facciamo". La tenne in braccio, come le aveva promesso, e tornò a sedersi accanto a Demelza e a Jeremy fino alla fine della cerimonia.

Dwight non svenne, anche se in un paio di occasioni fu sul punto di farlo. E alla fine, dissero quel si che li avrebbe accompagnati tutta la vita. Si sentì commosso e strinse a se Demelza che, come lui, aveva gli occhi lucidi dall'emozione.


...


Il rinfresco si tenne nell'elegante giardino della villa londinese di Caroline. Tavoli riccamente imbanditi ornavano il prato e ovunque era un tripudio di eleganza e ricchezza. I doni per gli sposi furono messi dalla servitù sotto il portico, in bella vista, un'orchestra suonava sotto i grossi abeti del giardino e servitori e cameriere spuntavano da ogni dove per offrire da bere agli invitati.

Ross e Demelza, dopo aver chiacchierato con gli sposi, si ritirarorono in un angolo del giardino, seduti a un tavolino coi bambini, lasciando Dwight e Caroline liberi di intrattenersi con gli altri invitati.

Ross era davvero sorpreso dal fatto che tutti conoscessero Demelza, dal modo ammirato che avevano di guardarla, dal carisma che sua moglie sembrava emanare verso quelle persone e dalla sicurezza con cui lei intratteneva conversazioni con loro. Era come se sua moglie fosse due persone diverse: una era la Demelza londinese, qualla abile negli affari, ricca e potente e l'altra era la Demelza di Nampara, semplice, laboriosa e solo sua. Londra aveva fascino ma non amava tornarci troppo spesso con lei proprio per quella strana gelosia che sentiva di provare verso quel mondo in cui si sentiva di non appartenere. Guardava quegli uomini che la salutavano e parlavano con lei di affari e si rendeva conto che quel lato della vita di sua moglie non gli sarebbe mai appartenuto del tutto e si sentiva un estraneo. Si chiese se quelle persone sentissero una specie di interesse diverso verso Demelza, oltre a quello strettamente lavorativo, e gli faceva male avere questo genere di pensieri. Lui e Demelza erano di nuovo inseparabili ma non gli aveva mai chiesto, forse per paura, se in quei tre anni di separazione ci fosse stato qualcun altro nel suo cuore. E lei, di contro, non ne aveva mai fatto accenno.

Improvvisamente un uomo giovane, dai capelli biondi, si avvicinò al loro tavolo mentre mangiavano la torta. Jeremy, appena lo vide, gli corse incontro. "Ciao Philippe!".

"Jeremy, come sei cresciuto!" - disse il nuovo arrivato, inchinandosi poi davanti a sua moglie. "Siete splendida oggi. Offuscate quasi la sposa".

Demelza sorrise. "Grazie Philippe". Si avvicinò al marito, posandogli la mano sulla spalla. "Vi presento Ross".

Lo guardò, si guardarono. E Ross, nonostante non lo avesse mai visto, lo riconobbe. Quegli occhi azzurri come il ghiaccio non potevano che appartenere all'uomo con cui era uscita Demelza quando lui stava male, poche sere prima di Natale, per una riunione in borsa. Non poteva che essere lui, il damerino che idolatrava Leslie e che, a quanto sembrava, affascinava tutto il gentil sesso di Londra.

Guardò sua moglie, chiedendosi cosa avesse provato per lui in quei tre anni di frequentazione. Poi, pur di controvoglia, strinse la mano al nuovo venuto. "E' un piacere" – disse, in tono asciutto.

"Philippe ha un maneggio di purosangue fuori Londra, con Jeremy ci sono andata spesso per darci un occhio. Ed è un ottimo socio d'affari" – disse Demelza.

"Sai papà, Philippe mi ha fatto salire sui suoi cavalli e mi ha fatto tenere le redini" – aggiunse Jeremy, aumentando la sua frustrazione.

Ross piantò gli occhi sul bell'imbusto dagli occhi di ghiaccio. "Oh, bene...".

Suo figlio gli saltò in braccio. "Però adesso vado sul cavallo tutte le sere con papà. E mi piace tanto, più del maneggio".

Le parole di Jeremy assestarono una vittoria a lui e uno schiaffo morale all'uomo dei purosangue. Ross sorrise trionfante, stringendo a se il figlio. "Ai bambini piace fare le cose col proprio padre, che volete farci...".

Philippe annuì, incassò con eleganza e poi, dopo un saluto veloce, con la scusa di dover raggiungere degli amici, si dileguò.

Demelza poggiò una mano sotto il mento, sorridendo di sottecchi. "Ross, penserà che sei un orso".

"Non mi importa!".

"Sei geloso, per caso?" - insistette sua moglie, divertita nonostante tutto.

Ross mise a terra Jeremy e invitò i figli ad andare a cercare dell'acqua da portare a tavola. Quando furono soli, incrociò le braccia al petto. "Forse sono un po' geloso. Sei molto ammirata da tutti, se non te ne fossi accorta".

"Non è vero, sono solo gentili. E tu dovresti rilassarti".

Ross ci pensò su, per niente persuaso a chiudere quel discorso. "Senti, nei tre anni in cui sei vissuta qui sola, c'è stato qualcuno... un uomo... Si, insomma, sei sempre stata sola o hai pensato o magari provato a rifarti una vita con... che ne so, con questo Philippe ad esempio?".

Demelza divenne improvvisamente seria, a quella domanda. "Ross...".

"Rispondi!".

"Non c'è stato nessuno, l'unico ometto che è entrato nel mio letto è stato Jeremy. Certe volte ci ho pensato al fatto che un giorno forse qualcun altro sarebbe entrato nella mia vita ma non mi sono mai sentita davvero pronta per provarci davvero. Amavo te, nonostante tutto, nonostante per tanto ti abbia creduto felice assieme ad Elizabeth. Io sentivo di non poter essere di nessun altro".

Quelle parole gli scaldarono il cuore. In fondo, guardandola, anche elegante e bellissima, si rese conto che era la sua Demelza quella. E che gli aveva chiesto qualcosa di davvero stupido che il suo cuore conosceva già. "Nemmeno di quel lord dagli occhi di ghiaccio?".

Demelza tornò a ridere, rilasciando la tensione accumulata negli ultimi minuti. "Philippe?".

Ross annuì. "Leslie diceva che tutte le donne di Londra lo amano".

Sua moglie ci pensò su. "Beh, lui... Fra quelli che mi giravano attorno era indubbiamente il più piacevole da guardare".

"Vedi che ti sei guardata in giro?" - rispose lui, stavolta divertito.

"Ross, Philippe è indubbiamente un bell'uomo, giovane, gentile e ricco. Il fatto che ami te, non mi rende cieca al fascino degli altri. Tu non trovi, ad esempio, che Caroline sia bellissima e assolutamente desiderabile?".

Si grattò la guancia, imbarazzato, a quella domanda. "Beh, si. Ma questo non significa che io possa provarci con lei".

"Esatto. E lo stesso vale per me, il fatto che trovi Philippe affascinante non significa esserne innamorata o desiderare di averlo per una semplice avventura". Si alzò dal tavolo, allungò una mano e gliela porse. "Su Ross, alzati!".

"Cosa vuoi fare?".

"Che tu ci creda o no, anche se è pieno di uomini affascinanti che sono pure ottimi ballerini, vorrei danzare con te che in queste cose sei pessimo. Se non è amore questo, che altro puo' esserlo?".

Ross annuì. Quella di Demelza era una battuta ma in essa era racchiusa una grande verità. Fra mille, per mille cose, lei avrebbe scelto lui. E per la prima volta in quella giornata, non si sentiva più lui l'estraneo. Gli estranei erano gli altri e questa era una sensazione meravigliosa.

La prese per mano e la condusse a ballare. E benché odiasse farlo, per amore, lo avrebbe fatto fino alla fine del ricevimento. Per lei. E perché non lo avevano fatto al loro matrimonio, non l'aveva corteggiata, non l'aveva coccolata, non l'aveva fatta ballare. Ed era ora di rimediare.

E mentre le luci della città si spegnevano, una nuova famigia iniziava a muovere i primi passi in quel mare di incognite che era un matrimonio. E un'altra, tramite loro, scopriva e riscopriva il valore di quel si pronunciato quasi per caso anni prima e che si era rivelato essere la scelta migliore della loro esistenza.



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Capitolo 34
*** Capitolo trentaquattro ***


L'estate volgeva al termine e da un mese erano tornati tutti in Cornovaglia dopo il matrimonio di Caroline e Dwight che, finiti i festeggiamenti per la cerimonia, erano invece partiti per un romantico viaggio di nozze nelle Fiandre.

Demelza e Ross erano tornati alle consuete attività, lui alla miniera e lei a casa, a tirare avanti per via epistolare i suoi affari di Londra, a progettare la nuova scuola e a prendersi cura della tenuta e dei bambini.

Jeremy voleva sempre andare col padre alla miniera, era ormai diventato amico dei figli dei minatori e passava le sue giornate all'aperto a giocare con loro, oppure nello studio di Ross, catturato dalla curiosità di imparare da lui.

Clowance invece rimaneva con la sua mamma che la coinvolgeva nella tranquilla quotidianità di casa. Al mattino davano una mano a Prudie a sistemare e a dare da mangiare ai vitellini e poi uscivano a fare una passeggiata in spiaggia o nei boschi vicino a Nampara. Infine, dopo pranzo, andavano alla miniera a prendere i loro uomini.

Demelza trovava rilassante e splendida quella sua ritrovata vita in Cornovaglia. Forse era meno eccitante di Londra ma era la sua dimensione quella, era ciò che aveva sempre rimpianto ed era l'unico luogo che sentisse davvero suo.

Si recava di tanto in tanto, con Clowance, al cimitero, da Julia. Le cambiava i fiori sulla lapide, rimaneva lì in silenzio a pensare a quella sua bimba morta così presto che sarebbe rimasta per sempre nei suoi ricordi piccola, dal passo stentato, con i primi dentini da latte che spuntavano e con irresistibili guance piene e rosee. Pensare a Julia era ancora difficile, faceva male come il giorno in cui era morta e quella era una ferita che né lei né Ross sarebbero mai riusciti a sanare del tutto. Poteva vedere Julia nelle scoperte dei suoi fratelli, nella loro crescita e in loro, tramite loro, immaginare come lei avrebbe potuto essere. Avrebbe avuto quasi nove anni ora, i capelli lunghi, avrebbero potuto chiacchierare di tante cose e Ross le avrebbe potuto insegnare ad andare a cavallo. Un cavallo vero, non un pony. Sarebbe stata abbastanza grande per farlo, ormai...

Quel giorno era andata al cimitero presto, faceva ancora molto caldo e Clowance avrebbe fatto i capricci a camminare, se la temperatura fosse salita troppo.

Erano uscite da Nampara che il sole non era ancora alto, ognuna con un cesto di vimini in mano che avevano riempito coi fiori di campo che avevano raccolto per strada. Demelza indossava un abito rosso, semplice. Difficilmente si metteva, in Cornovaglia, gli eleganti abiti che usava a Londra, odiava che la gente del posto la potesse vedere come una signora, non si sentiva tale, nel suo cuore e nella sua mente sarebbe rimasta sempre la figlia di un minatore. Clowance invece indossava un abitino bianco di pizzo, legato in vita da un nastro verde come i suoi occhi. La bimba faticava ad abituarsi alle abitudini più semplici della Cornovaglia e non usciva di casa se non perfettamente vestita e tirata a lucido.

Dopo essere state da Julia e aver riempito la sua lapide con fiori di ogni colore possibile, Demelza aveva ripreso sua figlia per mano e aveva visitato le altre tombe appartenenti a persone che aveva conosciuto. Si fermò davanti a quella di Francis, ricordando con un groppo alla gola il loro ultimo colloquio e visitò la tomba dei genitori di Ross a cui sentiva di voler bene, anche se non li aveva mai conosciuti. E infine fece tappa davanti alla tomba di zia Agatha, morta un paio di anni prima, combattiva e infelice, costretta a passare gli ultimi istanti della sua vita a Trenwith, in quella casa non più sua, costretta a subire la presenza ingombrante di George. Demelza si chiese quanto avesse sopportato quella donna, dopo il matrimonio di Elizabeth. Agatha aveva carisma, coraggio, faccia tosta e testardaggine a volontà ma doveva essere stato un inferno per lei, vedere la sua casa di famiglia 'colonizzata' dal suo nemico. Era molto anziana, aveva quasi cent'anni ma sicuramente sarebbe potuta vivere un altro po', in altre circostanze.

Clowance la tirò per la gonna, ciondolando la testolina. "Mamma, andiamo?".

Sorrise. Beh, cominciava a fare caldo e lei si stava sicuramente annoiando. "Certo amore, andiamo a casa a pranzare e poi, dopo che avrai fatto il riposino, andiamo da papà".

"Prudie ha fatto la pappa?".

"La aiuteremo a preparare. Mi aiuti?".

La bimba annuì. "Si. Prudie non è mica tanto blava!".

Demelza non riuscì a mascherare una risatina. Clowance continuava a guardare la loro domestica in cagnesco, ancora non si fidava di lei. "Ma senti, non ti piace nemmeno un po'?".

"Ma mamma?! Deve fare di più il bagnetto! E' spocca! E c'ha i capelli blutti, mica come i tuoi! Garrick c'ha i capelli più belli di Prudie".

Ora, veramente, sarebbe volentieri scoppiata a ridere. Anche se erano al cimitero, Clowance era talmente buffa e spontanea che sarebbe stato impossibile non farlo. "Garrick non ha i capelli!".

"Si, dappeltutto mamma!".

Demelza la prese per mano, pensando a quanto le sarebbero mancati quei discorsi così sconclusionati fra di loro, una volta che Clowance fosse diventata grande. "Su, andiamo a casa! Che ne dici, passiamo dal bosco a raccogliere altri fiori per il salotto e le stanze da letto?".

"Siii" – esclamò la bimba, allegra.

Uscirono dal cimitero e Demelza si voltò ancora una volta in direzione della tomba di Julia. Era sempre difficile andarsene e lasciarla lì, pensare che non sarebbe mai diventata grande, che non avrebbe potuto inseguire i suoi sogni, scoprire l'amore, sentire il dolore di una caduta e la soddisfazione di tirarsi nuovamente in piedi. Il suo viso si incupì e in quel momento sentì la presa della manina di Clowance farsi più forte sulla sua. "Mamma, sei tritte?".

"Amore, no! Perché dici così?".

Clowance alzò le spalle e si aggrappò alla sua gamba. "Pecché si!".

Rimase stupita ancora una volta da come la osservava, nonostante sia lei che Jeremy le avessero dimostrato già altre volte quanto fossero sensibili ai suoi stati d'animo. Non voleva farla preoccupare e turbarla, era una bellissima giornata di sole e stavano facendo una passeggiata piacevole. Non avrebbe rotto l'incanto di quel momento, non avrebbe reso triste pure lei. "Sta tanquilla, sto bene".

"Allola ridi".

E Demelza rise, baciandola sulla fronte e benedicendo il fatto che fosse sua e che le fosse stato donato il privilegio di metterla al mondo. Lei e Ross desideravano un altro bambino, si sentivano pronti ma nonostante tutto, nonostante il loro rapporto fosse molto passionale e intenso dopo la riconciliazione, non era ancora rimasta incinta. Se ne stupiva, non aveva mai fatto fatica da quel punto di vista, lei e Ross erano sempre stati una coppia feconda e lei non aveva che ventotto anni, però stranamente un nuovo bimbo non arrivava. Il suo istinto le diceva che non si trattava di un qualcosa di fisico ma si sentiva come se, nonostante lei e Ross fossero tornati insieme e fossero felici, ci fosse ancora qualcosa da affrontare, una pagina dolorosa che ancora non avevano girato e con cui dovevano fare i conti. Solo allora, forse, sarebbe arrivato un nuovo bambino. Nel frattempo, forse era meglio così però, per Clowance e Jeremy. Non avevano avuto il loro papà per tre anni ed era giusto che ancora per un po' Ross fosse solo loro.

Strinse forte la manina della bimba, passeggiando verso il bosco, ammirando i riflessi dorati del sole sui suoi capelli, le due treccine che le aveva fatto quella mattina, le guance rosse e paffute e quel visino perfetto che la rendeva irresistibilmente bella.

Clowance dondolava il braccio che teneva il cestino, avanti e indietro, canticchiando una canzoncina.

"Sai che anche a me piace cantare?" - gli chiese.

"Sì! Sei blava mamma!".

Demelza fece per risponderle, mentre si incamminavano nel sentiero costeggiato dagli alberi, quando due figure che provenivano dalla direzione opposta la fecero bloccare. Spalancò gli occhi, stringendo convulsamente il polso della figlia nella mano. Le sembrò che il cuore le balzasse nel petto, che la gola si ristringesse e che il gelo, improvvisamente, avesse avvolto ogni fibra del suo corpo. Sapeva che sarebbe potuto accadere quando era tornata, lo sapeva dannazione! E non ci era preparata! "Elizabeth..." - sussurrò, guardando in direzione dell'elegantissima donna che si trovava a una decina di metri da lei. Non voleva vederla e sapeva che, se fosse successo, avrebbe potuto desiderare di farle del male, tanto male! Non aveva mai odiato nessuno, l'odio era un sentimento deleterio sia per chi lo provava, sia per chi lo subiva, ma con Elizabeth non riusciva ad essere razionale. Era colei che aveva quasi distrutto la sua famiglia, il suo mondo, i suoi sogni, colei che aveva fatto del male anche a Ross, ora che ci pensava, ed era colei che aveva privato i suoi figli del loro padre per tre anni. Ed ora era qui davanti a lei, sposa di un uomo subdolo e orribile, arrogante e senza cuore. Anime affini, pensò fugacemente, mentre anche Elizabeth si bloccava.

Demelza deglutì, osservandola. Era bellissima, perfetta come la ricordava, con quei morbidi e perfetti boccoli scuri che le ricadevano sulle spalle. Indossava un elegantissimo abito blu e teneva per mano un bambino all'incirca dell'età di Clowance, magrolino, pallido e con un viso smunto, con occhi scuri e spersi e con una massa di riccioli neri in testa. Furono soprattutto i capelli a colpirla. Non appartenevano ad Elizabeth e di certo non erano tipici nemmeno dei Warleggan. E sapeva anche, dai racconti che suo malgrado le aveva fatto George a Londra, che il piccolo era nato il giorno di San Valentino, prematuro di un mese. Guardò quel bambino mentre il dubbio che aveva covato in lei per tutti quegli anni diveniva certezza. Non era nato prematuro probabilmente e anche se nessuno avrebbe mai potuto provarlo, quel bambino non poteva essere che di Ross, frutto di quella notte maledetta di tre anni prima. Gli somigliava come una goccia d'acqua, gli somigliava più di quanto gli fossero mai assomigliati Julia, Jeremy e Clowance. Quei capelli e quegli occhi erano indubbiamente di Ross! Anche se, doveva ammettere, le somiglianze si fermavano lì. Quel bambino non aveva certo l'aspetto forte e florido di suo marito ma anzi, sembrava pallido, sofferente e debole, tanto che camminava aggrappandosi al braccio della madre quasi avesse paura di non reggersi in piedi, di cadere e di spezzarsi. Nonostante tutto gli fece pena, benché fosse un sentimento ignobile da provare nei confronti di un bambino. Ma non riusciva a non chiedersi che vita facesse accanto a un uomo freddo e subdolo come George che sì, era crudele e vendicativo, ma di certo non stupido. E come aveva notato lei quella somiglianza con Ross, di certo lo aveva fatto anche lui, con tutte le conseguenze del caso. Anche se, sicuramente, Elizabeth non aveva e non avrebbe mai ammesso quanto successo con Ross, di questo era certa.

Strinse ancora di più la manina di Clowance e decise che non aveva motivo di rimanere lì impalata e in imbarazzo. Se c'era qualcuna fra loro che doveva vergognarsi, di certo quella non era lei. L'avrebbe ignorata, non c'era nemmeno motivo di rivolgerle la parola e rivangare atti passati che, per quanto la riguardava, si erano risolti. Aveva ritrovato Ross, erano una coppia e una famiglia felice e lui si era lasciato Elizabeth alle spalle. Solo questo era importante! E inoltre, non era il caso di fare scenate a cui avrebbero assistito loro malgrado i due bambini.

Camminò con sguardo dritto, mentre Elizabeth, con gli occhi sbarrati, stava ferma in mezzo al sentiero. Clowance la guardava, vagamente intimorita dall'improvvisa aria pesante che era piombata su di loro. Beh, non c'era da preoccuparsi, avrebbe sorpassato la sua antica rivale, se ne sarebbe andata per la sua strada e per lei e Clowance sarebbe tornato il sereno.

Ma i suoi piani si infransero in un soffio perché fu Elizabeth, contro ogni logica, a rivolgerle la parola. "Avevo sentito che eri tornata..." - disse, in tono gelido.

Erano faccia a faccia, a forse un metro di distanza. "Sì, ma la Cornovaglia è abbastanza grande per non darci fastidio".

Elizabeth abbassò lo sguardo verso Clowance e sul suo viso apparve un'espressione strana, quasi di invidia e rabbia. "E' la bambina nata a Londra?".

Demelza sentì la rabbia che la invadeva ed era frustrante non potersi permettere scenate. Che le importava di Clowance? Perché voleva parlarle, cosa voleva da lei? Si voltò verso la figlia, dandole in mano anche il suo cestino, desiderosa che si allontanasse un attimo per poter dire due o tre cosette alla donna che aveva davanti. "Tesoro, ricordi che dovevamo raccogliere dei fiori? Mi faresti un favore, mentre parlo con questa signora? Riempiresti anche il mio cestino con tanti fiori di tutti i colori? Vuoi farlo?".

"Si, vollo!" - rispose Clowance, guardando prima lei e poi Elizabeth.

La bimba corse via, contenta, lasciandola finalmente libera – o quasi – di parlare con Elizabeth. "Hai qualcosa da dirmi?".

Elizabeth osservò Clowance fra gli alberi, a debita distanza. "E' di Ross?".

Le venne da ridere a quella domanda, era quasi ironico che le chiedesse una cosa del genere, soprattutto LEI. Osservò il bambino accanto a loro che, a differenza di sua figlia, aveva uno sguardo sperso e occhi opachi e poco attenti. E quei dannati riccioli neri che gli ricadevano sulla fronte. "E lui, è di George?".

Elizabeth, a quella domanda, impallidì, spalancando gli occhi. E anche se non disse nulla, per Demelza quella reazione fu più di una confessione, valeva più di mille parole. "Forse dovremmo cercare di andare d'accordo, visto che sei tornata e siamo vicine di casa" – rispose, cambiando decisamente argomento.

Demelza sorrise freddamente. "Andare d'accordo? Cosa vuoi Elizabeth, rinsinuarti nella mia vita perché quella che ti sei scelta non ti piace? Da quel che so, hai scelto di tua spontanea volontà di sposare George e ora credo che tu dovresti concentrarti solo su di lui e dimenticare noi".

"Non avresti dovuto andartene Demelza, il tuo comportamento non è stato appropriato. Una moglie non lascia mai la sua casa e sta sempre accanto al marito, a prescindere".

"Oh, certo, questo ti avrebbe fatto comodo! Avresti dormito sonni più tranquilli se io non avessi insinuato nella gente il sospetto che me ne fossi andata a causa di quanto successo fra te e Ross, vero?".

Elizabeth si morse il labbro. "E' passato molto tempo e mi pare che le cose per te, da allora, siano andate più che bene. Non potremmo dimenticare?".

Demelza guardò sua figlia che, felice e all'oscuro del marasma che era la sua mente in quel momento, raccoglieva fiori. Poi tornò a guardare Elizabeth. "Il tempo che passa non cancella le colpe ma attenua la rabbia e fa vedere le cose da altre angolazioni. Non le giustifica, ma ti da la giusta consapevolezza di capire quali sono le cose per cui lottare e quelle da lasciarsi alle spalle. Io ho capito di voler lottare per Ross e di volermi dimenticare di te. Tu cos'hai deciso Elizabeth?".

La sua voce era tagliente e in un certo senso azzittì la sua interlocutrice. "Ross ha la sua parte di colpe..." - balbettò.

Demelza annuì. "Sono d'accordo. E le ha pagate!". Diede un ultimo sguardo al bambino e poi ad Elizabeth, prima di richiamare a se Clowance. "Ora suppongo che tu debba pagare le tue, di colpe. Fa in modo che non ricadano su di lui, che non paghi errori commessi da altri sulla sua pelle..." - disse, senza aggiungere altro, rendendole palese che aveva capito molto più di quanto lei non gli avesse detto.

Prese la piccola Clowance per mano, sorridendole davanti ai cesti pieni di fiori che gli aveva portato. "Sei stata bravissima, tesoro".

"Lo so!".

Elizabeth guardò ancora una volta la piccola con lo stesso sguardo pieno di invidia di poco prima. "Ross deve amarla davvero molto" – sussurrò, con amarezza.

"Già!" - rispose Demelza. Non aggiunse altro, prese il cesto nella mano libera e se ne andò per la sua strada.


...


Il resto della giornata trascorse in modo strano. Demelza non aprì quasi bocca, né con Prudie, né con Ross quando tornò con Jeremy dalla miniera. Non era arrabbiata con lui, sapeva che ciò che aveva visto corrispondeva esattamente a un dubbio che aveva sempre avuto, però il viso e i capelli di quel bambino la tormentavano come un mal di denti fastidioso.

Cenarono in silenzio, mentre Ross la guardava senza capire cosa avesse. Pure i bambini e Garrick parevano smarriti davanti a quel comportamento tanto inusuale per lei, ma non poteva farci nulla. Fissava suo marito e si chiedeva se mai, in quegli anni, avesse avuto dei dubbi circa la paternità di Valentin Warleggan e quel dubbio la faceva andare fuori di testa.

Misero a letto i bambini prima del tempo e Prudie e Jud si ritirarono subito dopo nella loro stanza.

E infine, rimasti soli, andarono anche loro in camera da letto.

Ross si tolse la camicia, osservandola spogliarsi e mettersi la camicia da notte. "Amore mio, che cos'hai? Sei arrabbiata?".

"No Ross...".

Gli si avvicinò, accarezzandole i capelli e scompigliandoglieli. "Si che lo sei! Oppure c'è qualcosa che ti turba. Ho fatto qualcosa di sbagliato? Non stai bene? Dimmi che cos'hai, ti prego, non è da te startene zitta così, erano preoccupati anche i bambini".

Demelza deglutì. Era ora di affrontare quell'argomento che, per scelta o forse inconsciamente, non aveva mai davvero voluto affrontare con lui. Aveva paura a farlo, era terrorizzata dalle possibili conseguenze. E capì in quell'istante che era quella la pagina dolorosa che lei e Ross non si erano ancora lasciati alle spalle e che, silenziosamente, continuava a tormentarli. "Oggi ho visto Elizabeth".

Ross spalancò gli occhi. "Cosa? Sei stata a Trenwith?".

"No. L'ho vista per caso, nel bosco, di ritorno dal cimitero. Era col bambino, Valentin".

"Oh...". Ross non seppe cosa dire, anche lui a corto di parole. Anche a distanza di così tanto tempo, Elizabeth continuava ad essere un fantasma silenzioso e subdolo fra loro.

Demelza alzò gli occhi su di lui. "Tu hai mai visto quel bambino?".

"No, perché? Te l'ho detto, non sono più andato a Trenwith dalla sera prima del matrimonio".

Lei alzò le spalle. Ross sembrava tranquillo e per nulla turbato dal fatto che gli stesse parlando di Valentin e questo la rendeva piuttosto sicura che non si fosse mai posto il problema. "George, a Londra, amava raccontarmi della sua famigliola perfetta. Credo che godesse nel farmi sentire inutile e fallita, visto che la mia famiglia era andata in pezzi, sai? Ci sono state volte che, per quanto era odioso, avrei voluto urlargli in faccia la verità, circa la sua dolce mogliettina perfetta. Ma poi non l'ho fatto perché questo avrebbe distrutto molte vite innocenti, riacceso la lotta con te e in fondo, raccontandoglielo, non ci avrei guadagnato nulla. Ma sai, quando mi raccontava di Valentin e mi diceva che era nato prematuro di un mese, io avevo un dubbio...".

Ross le si sedette accanto sul letto. "Quale dubbio?".

Si voltò verso di lui, guardandolo in quei suoi occhi scuri tanto simili a quelli di Valentin. "Che invece non fosse affatto prematuro".

A quell'affermazione, Ross per un attimo parve smarrito. Ma poi, di colpo, spalancò gli occhi. "Stai per caso dicendo che...". Si alzò di scatto dal letto, mettendosi la mano sulla fronte sudata. "No, non pensarlo neanche!".

"Ho visto quel bambino oggi, Ross! Non somiglia ad Elizabeth e nemmeno a George! Ma è decisamente identico a te, stessi capelli, stessi occhi... E quando ho fatto una battuta a riguardo, Elizabeth è diventata bianca come un cencio. Ora, sicuramente lei non direbbe mai a George, nemmeno sotto tortura, quello che c'è stato con te! E sicuramente è tutto un suo interesse spacciare il figlio per un prematuro, ma... non è questo che ora mi interessa".

"E cos'è che ti interessa, allora?".

"Tu, Ross! Cosa ne pensi, cosa provi e cosa hai intenzione di fare, nel caso fosse tuo?".

Ross scosse la testa. "Demelza, non facciamoci del male, per favore! Siamo riusciti a ritrovarci, siamo felici e io non voglio nemmeno pensare a questa cosa".

"DEVI pensarci!".

"No, non devo farlo!". Ross si inginocchiò davanti a lei, poggiandole le mani sulle ginocchia. "Demelza, io non conosco quel bambino, non mi sono mai nemmeno posto il problema di chi sia e da dove provenga e di certo, come dici tu, Elizabeth ha fatto in modo che sia considerato in tutto e per tutto un Warleggan. Non possiamo tormentarci sulla sua identità perché non c'è modo di verificare quanto tu pensi e sospetti e questo servirebbe solo ad avvelenarci la vita".

"E se sapessi con certezza che è tuo, Ross, che faresti?". Non voleva tormentarlo, ma aveva bisogno di sapere, di parlare, di capire cosa davvero provasse.

Ross le accarezzò una guancia. "Non ti lascerei mai, se è questo che temi. I bambini sono di chi li cresce, io non ho alcun legame con Valentin e sicuramente mai ne avrò. Porta il cognome dei Warleggan e io non voglio nemmeno pensare che un mio figlio sia cresciuto da quell'uomo, ma se così fosse, non posso comunque farci niente, se non aprirgli la porta come feci per Geoffrey Charles qualche anno fa, quando cercava consigli e conforto". Si sporse verso di lei, baciandola sulle labbra. "Demelza, i miei figli sono quelli che dormono nella stanza accanto, quelli che mi hai dato tu. Nessun altro! Sono il mio orgoglio e la mia ragione di vita e ho sofferto come un cane a non avervi vicini per tre anni, non potrei mai, per niente al mondo, lasciarvi ancora. Voglio mia moglie, testarda, battagliera, dolce e con quei suoi lunghi capelli rossi che mi fanno impazzire, voglio il mio bambino che ama i cavalli e la miniera e la mia piccola principessa che sa ammaliarmi e rigirarmi a suo piacimento con due moine. Nient'altro, nessun altro".

Demelza sentì le lacrime rigarle le guance, unite a un senso di sollievo profondo. Ross aveva scelto, lo aveva fatto già anni prima e ora, semplicemente, gli stava ribadendo cose che lei sapeva già ma che aveva bisogno di sentirsi dire. E niente, nemmeno Valentin, sarebbe riuscito a separarli. Lo baciò, dolcemente, sentendo scivolarle di dosso la paura e la frustrazione per quella situazione che non avevano mai affrontato, ringraziando Dio per averle dato il coraggio di dire cosa la tormentava. "Se George avesse dei sospetti sul bambino... Hai idea di cosa gli farebbe passare? Non mi importa di Elizabeth ma lui... chiunque sia, è innocente".

Ross la abbracciò. "Elizabeth saprà tutelarlo, in virtù del cognome che porta saprà difenderlo meglio di quanto abbia saputo fare con Geoffrey Charles... O almeno lo spero".

"Che vuoi dire?".

Ross sorrise amaramente. "Sono arrabbiato da anni, con Elizabeth, dal giorno in cui ha mandato Geoffrey Charles in collegio, sottomettendosi al volere di George. Ha barattato la serenità di suo figlio in cambio di una vita comoda, agiata e benestante. E io questo non potrò mai perdonarglielo! Non potrei mai scegliere lei e mi odio per averla idolatrata per anni, senza quasi rendermi conto del valore della donna che avevo accanto e che avevo sposato".

Demelza sorrise, abbracciandolo. Era felice per quelle parole ma, nonostante odiasse Elizabeth, le riteneva un po' ingiuste. "Ross, lei ama i suoi figli, ne sono sicura".

"Ma lei non lotterebbe per loro con le unghie e coi denti come hai sempre fatto tu. E questo ai miei occhi fa una grande differenza. Io sono fortunato ad averti trovata, sposata e ad avere dei figli che hanno una madre come te".

Sorrise, appoggiando la fronte a quella del marito. "Ne avremo mai altri?".

Ross le strizzò l'occhio. "Chissà! Non so risponderti, ma di certo sarà piacevole provare ad averli. Che ne dici?".

"Dico che è un'ottima idea".

Calò il silenzio fra loro, stavolta intimo e sereno. Ross la spinse sul letto, delicatamente. E poi, dopo aver scacciato problemi e dolore, mentre la candela sul comodino si spegneva, fece l'amore con lei.



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Capitolo 35
*** Capitolo trentacinque ***


Era strano come il tempo, per lei, scorresse veloce e allo stesso tempo le apparisse immobile, nell'immutare del ritmo delle sue giornate.

Elizabeth era una signora, come tale si comportava e badava sempre di essere fedele all'etichetta e alle buone maniere, come doveva fare ogni brava moglie di un ricco uomo d'affari.

Da quando si era sposata con George Warleggan, non aveva più avuto problemi di denaro e ogni abito, ogni gioiello e ogni suo capriccio erano stati accontentati. Eppure niente le dava davvero gioia, emozione o soddisfazione, erano tutti effimeri doni atti solo a darle qualche attimo di compiacimento prima di risprofondare nella noia e nell'apatia.

Il suo primo figlio, Geoffrey Charles, viveva ormai lontano da diversi anni, in collegio. Sentiva di aver fallito con lui, con quel suo perfetto e bellissimo bambino biondo che aveva gettato in pasto alla cattiveria di George in cambio di denaro e ricchezza.

E poi c'era il piccolo, Valentin. Niente e nessuno avrebbe mai potuto darle la certezza che fosse figlio di quella maledetta notte con Ross ma in cuor suo lo sapeva perfettamente che non poteva essere figlio di George. La nascita del bambino non aveva portato gioia in quella casa. Nato in una notte di luna nera, era apparso subito malaticcio e debole. George non ci si era affezionato di buon grado, avrebbe preferito un figlio rigoglioso e forte ma la natura gli aveva donato quel bambino dai capelli scuri, perennemente malato, rachitico e tanto simile al suo acerrimo rivale. Da quando Agatha, prima di morire, gli aveva instillato il sospetto che il bambino non fosse un Warleggan e che non fosse affatto nato prematuro, George era diventato improvvisamente freddo, sospettoso e assente con lei. Non c'era calore in lui, non c'era amore negli sguardi che gli rivolgeva ma solo un mal celato astio che riversava, oltre che su di lei, sul bambino, con cui aveva modi di fare freddi. Pareva scocciato dalla sua presenza, tanto da rivolgergli malvolentieri la parola. Gli aveva giurato e spergiurato che non c'era stato nulla con Ross, che il bambino era nato un mese prima e che quei riccioli neri li aveva presi dalla nonna, ma George non gli aveva mai creduto del tutto.

All'esterno, davanti agli altri, recitavano il ruolo della famiglia felice, suo marito non avrebbe mai ammesso che il figlio che portava il suo nome poteva non essere suo e lei, d'altro canto, per proteggere il bimbo e la sua reputazione non avrebbe mai confessato, nemmeno in punto di morte, quanto successo con Ross. No, Valentin era nato nella casa Warleggan e come tale, per sempre, sarebbe vissuto.

E c'era un modo per poter convincere George della bontà delle sue affermazioni, un modo che poteva dimostrargli che lei partoriva sempre bambini prematuri. Gli aveva detto che Geoffrey Charles era nato un mese prima, come Valentin. E ora, che era di nuovo incinta di un vero Warleggan stavolta, aveva l'occasione per dimostrare a suo marito che lei metteva sempre al mondo bambini con un mese d'anticipo sulla data del parto.

Mancavano ancora molti mesi alla nascita ma Elizabeth, quel giorno, aveva un appuntamento importante e assolutamente segreto con un erborista di Truro. Una serva gli aveva detto che quell'uomo aveva qualche conoscenza di medicina, lavorava in incognito e preparava decotti e pozioni per ogni tipo di necessità. Era quello che gli serviva, una persona schiva che potesse preparare un medicinale che, preso al momento giusto, poteva provocare il travaglio, anticipando il parto. Era uscita presto in carrozza, dicendo che voleva comprare un nuovo mantello per l'inverno, e nessuno aveva sospettato nulla a Trenwith.

Si accarezzò la pancia ancora quasi piatta, mentre la carrozza procedeva verso Truro, chiedendosi se il bambino che aspettava sarebbe stato un altro maschio o una femmina. Desiderava una bambina, la voleva con tutta se stessa da oltre un anno, dal giorno in cui aveva incontrato per caso Demelza con sua figlia, nel bosco. Non l'aveva più rivista da allora e durante quegli ultimi dodici mesi aveva fatto di tutto per non incontrarla o sentir parlare di lei. Ma era stato impossibile. Tutti parlavano dei successi della Wheal Grace, della scuola che lei e Ross avevano aperto per i figli dei minatori, di quanto Demelza fosse abile negli affari e di quanto fosse apprezzata a Londra per questo. Era frustrante saperla di nuovo tanto vicina a lei, con Ross, e saperli tanto felici.

Quando l'aveva rivista nel bosco, oltre un anno prima, l'aveva trovata bellissima nonostante gli abiti modesti, serena e con un carattere molto più forte e deciso di una volta. E quella bambina, dai capelli rossi, bella e sana come Valentin non sarebbe mai stato, che chiacchierava e giocava con la sua mamma, era diventata un ricordo tormentato per lei... Non tanto perché fosse figlia dell'uomo che aveva amato ma per quel rapporto così forte e profondo che legava la bambina a sua madre. C'era complicità fra loro, piacere nello stare insieme, gioia nello scoprire il mondo. Forse era normale, una figlia è diversa da un figlio e trova tanti punti d'incontro con la madre. Si accarezzò di nuovo la pancia appena gonfia, pregando che fosse una bambina e che potesse spezzare la sua solitudine e la sua apatia, una figlia con cui costruire quel rapporto che aveva visto quel giorno fra Demelza e Clowance.

Ci pensava ancora spesso, ai Poldark. Non aveva mai dimenticato Ross e, anche se ora l'amore che provava per lui era misto ad odio, rimaneva sempre l'uomo che aveva sognato di sposare da ragazzina, l'uomo che, in una lettera disperata, aveva cercato di strappare alla sua famiglia e che alla fine aveva avuto per una notte senza che fosse comunque stato davvero suo. L'uomo che, nonostante si fosse ritrovato solo a causa dei suoi errori, alla fine non aveva scelto lei ed era vissuto nel rimpianto della moglie che aveva perso.

Quando Ross era venuto da lei la sera prima del matrimonio con George, non aveva capito il suo comportamento e il suo modo di pensare, cosa lui volesse e cosa ci facesse a Trenwith. E per molto tempo, anche dopo, aveva continuato a non capire le sue azioni e le sue scelte. E soprattutto, perché avesse scelto lei, l'ex sguattera che lo aveva abbandonato...

Anche dopo aver rivisto Demelza con Clowance, non era riuscita a darsi una spiegazione... Era una bella donna, indubbiamente, piena di fascino con quei lunghi capelli rossi, in gamba per quanto era riuscita a conquistare a Londra da sola e sicuramente ammirata. Sorrise amaramente, pensandoci... Lei, nelle medesime condizioni, non avrebbe concluso niente, sola e con un figlio piccolo, in una città sconosciuta. Demelza invece era diventata qualcuno e la gente la guardava con ammirazione non perché fosse una lady che un uomo esibiva con orgoglio accanto a se, ma per quel che sapeva fare.

Ma nonostante questo, ancora non capiva perché Ross avesse scelto lei. Lo aveva capito due mesi prima, in un caldissimo giorno di luglio, mentre cavalcava in solitaria sulla scogliera che dava sulla baia dei Poldark. Aveva appena scoperto di essere incinta ed era talmente frastornata dalla cosa che aveva voluto uscire da sola per pensare, riflettere ed accettare quella sua nuova condizione. Solitamente non c'era nessuno da quelle parti ma quel giorno sentì la sua voce...

Ross...

Che non sentiva e vedeva dalla sera prima del suo matrimonio...

Aveva fermato il cavallo, si era nascosta dietro una siepe e aveva guardato in direzione della spiaggia. Lui era lì, con la sua famiglia, con una camicia con le maniche tirate su fino al gomito, i pantaloni fino al ginocchio, coi piedi a mollo nell'acqua, intento a giocare coi suoi figli.

Aveva passato diversi minuti in tranche, guardandolo mentre giocava col maschietto, vivacissimo e che tentava di attirare l'attenzione del padre in tutti i modi, e la bambina che Ross, scherzosamente, a un certo punto aveva preso in braccio e costretta a bagnarsi. Era cresciuta Clowance dall'anno prima, ed era ancora più bella di come la ricordava. Aveva dei capelli lunghissimi, come quelli della madre, un fisico snello e sapeva decisamente come far impazzire suo padre correndogli sempre appresso, nella sottoveste bianca che indossava per fare il bagno nel mare.

Ross, in quella spiaggia, era felice. E mentre lo guardava, si rese conto di non averlo mai visto ridere così. Sembrava vivere in un mondo a parte in quegli istanti, concentrato solo sui suoi figli con cui giocava, che inseguiva di corsa e con cui si rotolava sulla spiaggia e sul bagnasciuga. Qualcuno avrebbe potuto dire che un vero signore non si dovrebbe comportare in quel modo ma sapeva che a Ross non importava cosa diceva la gente. Si viveva i suoi figli, cresceva con loro ed era felice di averli attorno. E i bambini sembravano catturati da lui, sereni, contenti. Come non era mai stato Valentin. George non aveva mai giocato col bambino, non lo aveva mai guardato con lo sguardo innamorato con cui Ross guardava i suoi figli, non aveva mai cercato la sua compagnia.

E poi, vide lei... Demelza, su quella spiaggia, se ne stava seduta appoggiata a una roccia, con addosso solo una sottoveste, come la figlia. Leggeva un libro e guardava la sua famiglia che giocava, serena. A un certo punto Ross era andato da lei, coi bambini, pregandola di raggiungerli in acqua. Alle sue proteste, Ross l'aveva presa in braccio, di forza, minacciandola di buttarla in acqua. Li aveva visti ridere insieme, a quella finta minaccia. E allora aveva visto quello sguardo fra loro, anche da lontano... Amore incondizionato, felicità assoluta, cameratismo, condivisione, complicità... Ross non l'aveva mai guardata a quel modo, nemmeno quando aveva sedici anni e lui non era ancora partito per la Virginia. Era Demelza che gli aveva dato la vera gioia, lei che era come lui, che non aveva vergogna di giocare in sottoveste coi suoi figli su una spiaggia, che amava ridere, sfidare le regole, non stare con le mani in mano e aiutare chi aveva bisogno. Demelza, che era stata capace di fare le scelte che invece lei non aveva mai avuto il coraggio di portare a termine.

Rimase nascosta a guardarli per lunghi minuti, capendo che non aveva mai avuto nessuna possibilità di riavere Ross e forse, sentendosi in colpa per aver cercato di strapparlo alle persone che amava e che lo rendevano felice. Lei non ci sarebbe mai riuscita, ora lo sapeva. Lei non avrebbe mai potuto essere che la damina da mostrare a feste importanti, quella che aspetta che gli altri decidano per lei... E Ross non avrebbe saputo cosa farsene di una moglie così.

E ora che lo sapeva, che conosceva il suo posto e il suo ruolo, doveva fare in modo che il suo mondo diventasse un luogo piacevole dove vivere.

Mentre la carrozza la portava verso Truro, si accarezzò il ventre. Il parto sarebbe avvenuto a marzo, come quello di Valentin. E grazie al decotto che avrebbe acquistato, avrebbe potuto anticipare il parto a febbraio. Il bambino sarebbe comunque stato abbastanza grande per sopravvivere e George si sarebbe persuaso una volta per tutte che lei non riusciva a portare a termine le gravidanze al nono mese. Tutto si sarebbe sistemato, sarebbero stati felici.

E se fosse stata una bambina, finalmente non si sarebbe sentita più sola...


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Capitolo 36
*** Capitolo trentasei ***


"Papà, ma com'era l'America?".

Ross, seduto sulla panca in attesa di fare colazione, guardò suo figlio che, grazie alla scuola, era sempre pieno di mille curiosità. "Molto verde! C'erano un sacco di boschi".

Jeremy, che ormai aveva sette anni e non si accontentava di risposte parziali, sbuffò appoggiando il viso al tavolo. "Solo boschi? E allora perché ci sei andato a fare una guerra?".

Ross si grattò la guancia, in difficoltà. Perché le domande dei bambini, all'apparenza tanto semplici, in realtà erano un rebus inestricabile da sciogliere? "Beh... Ecco...".

Clowance, di quattro anni, seduta accanto al fratello ascoltava la conversazione con sguardo annoiato, dondolando le gambe sotto la panca. "Ho fame!" - sbottò alla fine, per nulla interessata alle mirabolanti novità del nuovo mondo.

Ross sospirò, guardando verso la cucina. Prudie ci stava mettendo una vita a cucinare, come sempre. "Ci vuole pazienza!".

Clowance scosse la testa. "Ci mette tanto e non è neanche buono quello che fa! Dov'è la mamma?".

"Già, dov'è la mamma?". Ross guardò verso la scala che portava alla loro camera da letto. Demelza gli aveva detto che si sarebbe vestita e li avrebbe raggiunti subito per far colazione, ma stranamente ritardava.

Prudie entrò nel salone in quel momento, mettendo sulla tavola un grosso piatto pieno di quelle che, in teoria, avrebbero dovuto essere focaccine dolci. "Eccovi la colazione" – disse, osservando compiaciuta il risultato del suo lavoro.

Clowance la guardò storto, sfiorando con la manina una delle focaccine che, al suo tocco, si sbriciolò in tanti pezzettini. "Sono tutte rotte, non le voglio! La mamma le fa meglio!".

Prudie si mise le mani sui fianchi con fare minaccioso. "Anche intere, nel momento che le metterai in bocca e le masticherai, si sbriciolerebbero! Zitta e mangia!".

Quel tono supponente fece imbestialire la bambina. Clowance si alzò in piedi e, con il viso imbronciato, imitò Prudie mettendosi a sua volta le mani sui fianchi. "Nnnoooo!".

Ross scoppiò a ridere di gusto guardando la sua piccola principessina imbronciarsi con Prudie, con cui dava vita giornalmente a scenette spassosissime. C'era uno strano rapporto d'amore-odio fra loro, erano diverse come il giorno e la notte, una grassa, rozza e poco incline alle buone maniera e l'altra che non usciva dalla sua stanza se non perfettamente vestita con abiti eleganti, pettinata e con modi di fare da piccola lady in erba. "Clowance, basta capricci, siediti e mangia" – le intimò gentilmente, facendole capire che, nonostante la trovasse irresistibile, non era il caso che facesse capricci.

"Ma io voglio la mamma!" - rispose la bimba. "Lei cucina meglio".

Una voce li raggiunse dalle scale. "La mamma sta arrivando e credo che per oggi non cucinerà, quindi ti conviene mangiare la focaccia di Prudie".

Ross si voltò verso la scala, vedendo finalmente sua moglie. Era piuttosto pallida quella mattina e già a letto gli era sembrata poco in forma. "Tutto bene?".

Demelza si sedette al tavolo, accanto a Clowance a cui mise in mano un pezzo di focaccia. "Sì... Ho solo lo stomaco sotto sopra".

Prudie si imbronciò ancora di più. "Ecco, pure tu ragazza ora trovi scuse per non mangiare quello che cucino!".

Demelza rise. "No Prudie, figurati! E' che non riuscirei a mandar giù niente". Si massaggiò lo stomaco, cercando sollievo, pallida e sudata.

Ross le si avvicinò con una strana apprensione nello sguardo. Le mise la mano sulla fronte e poi scosse la testa. "Non hai febbre ma sei comunque bianca come un fantasma. Vuoi che resti a casa con te, oggi?".

"No, sta tranquillo. Non sono malata, ora mi passa".

Ross non sembrava sicuro di questa affermazione. Sua moglie era sempre piena di energie e l'unica volta in cui l'aveva vista a letto, malata, risvegliava ancora in lui ricordi terrificanti e un dolore forte come allora. "Dovresti metterti a letto. Magari vado a chiamare Dwight per farti visitare".

Demelza gli prese la mano, stringendola nelle sue. "Sto bene, sta tranquillo. Non disturbare Dwight, è molto impegnato. Caroline è a fine gravidanza ed è irascibile e lui ha un sacco di pazienti al villaggio da seguire. Non ho niente, va bene? Sarò in forma in poche ore, mi basterà prendere un po' d'aria".

Jeremy le corse vicino. "Ma mamma, avevi mal di stomaco anche ieri. Me lo ricordo".

Demelza abbracciò il bimbo, mettendoselo sulle ginocchia. "Non sono malata, d'accordo? Ora tu andrai a scuola, papà alla miniera e io e Clowance andremo a dar da mangiare a galline e vitellini. Poi andrò al villaggio per spedire delle lettere di lavoro a Martin a Londra e stasera riparleremo del mio mal di stomaco".

"No, non uscire se non ti senti bene, le lettere te le spedirò io, se vuoi. E per sicurezza, chiamerei Dwight comunque" – ripeté Ross, come se non l'avesse nemmeno ascoltata.

"Anche io!" - ribadì Clowance.

E Dwight, quasi li avesse letti nel pensiero, si materializzò in casa loro, battendo rumorosamente il pugno sulla porta e travolgendo quasi Jud che era andato ad aprirgli.

Demelza e Ross lo guardarono accigliati, stupiti di trovarselo lì a quell'ora. Aveva i capelli scompigliati, due occhiaie scure sotto gli occhi e un'espressione stravolta.

"Dwight, cosa è successo? Caroline sta male?" - chiese Demelza, preoccupata di vederlo in quello stato tanto inusuale per lui.

Dwight guardò Ross, pallido in viso. "No, lei sta bene! Eccetto che è isterica ultimamente e io sto contando le ore che ci separano dalla nascita del bambino e dal ritorno della pace...".

Ross si accigliò. "E allora cos'è successo? Non è normale vederti da queste parti a quest'ora del mattino".

Dwight scosse la testa. "So che forse è un errore essere qui ma credo che dobbiate saperlo. Arrivo ora da Trenwith, ho passato la notte lì dopo che un servitore dei Warleggan è venuto a chiamarmi nel cuore della notte. Il dottor Choake è fuori città e si sono rivolti a me per...".

Demelza si alzò dalla panca, avvicinandosi a lui e poggiandogli dolcemente una mano sul braccio. "Cos'é successo? Chi è stato male a Trenwith?".

Dwight fissò i due bambini e fece cenno di mandarli da Prudie. Appena li ebbero mandati con la serva, si sedette sulla panca davanti al tavolo, mettendosi le mani fra i capelli. "Mi hanno chiamato per Elizabeth e... E lo so, non dovrei essere qui a parlarvi di lei visto quanto avete patito a causa sua, Caroline mi ucciderà per questo ma credo sia meglio che lo sappiate da me".

Ross guardò Demelza, senza capire cosa stesse succedendo, cercando il lei risposte che ovviamente non poteva dargli. "Dwight, che è successo?".

"Ha partorito questa notte una bambina".

Demelza si sedette al tavolo, picchiettando le dita sul tavolo. "Non sapevo fosse incinta. Qualcosa è andato storto?" - chiese, con una strana ansia nel tono di voce.

Dwight sospirò. "La bambina sarebbe dovuta nascere a marzo, è prematura di oltre un mese ma sta comunque bene. Se la caverà... Elizabeth invece...".

"Elizabeth cosa?". Ross si rese conto, mentre parlava, di quanto la sua voce fredda tradisse una certa ansia. Era successo qualcosa di grave se Dwight era lì da loro, tanto sconvolto.

Il dottore si sedette accanto a Demelza sulla panca, picchiando un pugno sul tavolo. "Ha preso qualcosa... Ross, Demelza, non mi è mai capitato nulla di simile nella mia carriera. Il parto è andato bene ma subito dopo ha iniziato ad avere dolori fortissimi e una strana emoraggia che non riuscivo a fermare. Era come se i suoi organi interni fossero andati in cancrena, come se si stessero decomponendo. L'ho implorata di dirmi cos'avesse preso, se avesse assunto qualche sostanza strana prima dell'inizio del travaglio ma lei lo ha negato. E mentiva dannazione, lo so per certo! Sono un medico e quello che ho visto in quella stanza di Trenwith non ha nulla di naturale".

Demelza si morse il labbro, pallida in volto, ponendo quella domanda che Ross aveva il terrore di fare. "E' morta?".

Dwight annuì. "Già, se n'è andata. Non ho potuto fare niente, è stato terribile, una morte atroce che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Se mi avesse detto la verità, come l'avevo implorata di fare, forse... forse sarei riuscito a fare qualcosa, forse avrei potuto salvarla". Si mise le mani fra i capelli, poggiando il viso sul tavolo. "Una donna ancora così giovane, con una figlia appena nata e un bambino piccolo. E Geoffrey Charles, non posso pensare a cosa patirà quel ragazzino, ha già perso suo padre e ora...".

Ross, bianco in volto, non disse nulla. Si sentiva come paralizzato, inerme, come se la sua mente fosse improvvisamente svuotata. Elizabeth era morta... Per qualche strano, assurdo ed insensato motivo, era morta... E benché non la vedesse da anni e non provasse più nulla per lei, era stata il suo primo amore, colei che aveva sognato nelle sue fantasie da ragazzino e che, nel bene e nel male, aveva influenzato la sua vita per lungo tempo. Non riusciva a crederci, non poteva essere! "E' assurdo..." - riuscì solo a farfugliare, ricordando la sua eterea bellezza, la sua classe e la sua eleganza che presto sarebbero diventate polvere.

Dwight si alzò in piedi, a testa bassa. "Già, assurdo! George urlava come un pazzo con me, diceva che l'aveva uccisa la mia inesperienza. Ma poi ha dovuto arrendersi anche lui davanti all'evidenza. Il corpo ha iniziato quasi subito a decomporsi e a diventare azzurrognolo e io dannazione, devo capire che è successo! Che diavolo ha fatto, per quale motivo? E cosa c'era di tanto terribile da nascondere, da valere la sua vita?".

Demelza non rispose, abbassò il viso e strinse convulsamente la stoffa della sua gonna. "Suppongo che non lo sapremo mai".

"Già". Dwight si mise il cappello in testa, avviandosi verso la porta. "Scusate se vi ho disturbato con questa terribile notizia, ma ho ritenuto che doveste saperlo. Ora andrò a casa a riposare un po', se Caroline me lo permette ovviamente, e poi nel pomeriggio tornerò a Trenwith per delle verifiche sul corpo di Elizabeth. Voglio andare a fondo della cosa".

Ross gli pose una mano sulla spalla. "D'accordo. Grazie per essere passato, Dwight". Guardò l'amico uscire dalla casa e poi, come svuotato da ogni emozione, si appoggiò al muro osservando il vuoto.

Demelza gli si avvicinò, posandogli dolcemente una mano sulla vita. Lo abbracciò e restò in silenzio accanto a lui per lunghi istanti.

Ross la baciò sulla nuca, stringendola convulsamente a se. Non aveva pensieri coerenti in quel momento, eccetto uno: la morte di Elizabeth, giunta così inaspettata da togliergli il fiato, rifletteva l'ineluttabilità della vita e delle sue infinite variabili. E questo lo terrorizzava perché bastava un nulla per togliergli le persone che amava e senza le quali non avrebbe potuto vivere. Non riusciva a formulare quel pensiero, quella paura, sapeva solo che voleva tenere stretta a se Demelza e non lasciarla andare mai.

Sua moglie alzò lo sguardo su di lui, turbata. "Ross...".

"Cosa?".

"Dovresti andare a Trenwith".

Spalancò gli occhi, davanti a quelle parole. "Cosa?". Era piuttosto stupito e scosso che proprio lei gli dicesse una cosa del genere... Erano passati anni da quella notte terribile in cui aveva ceduto ad Elizabeth e il loro amore ormai era più forte di qualsiasi cosa, avevano ricostruito il loro rapporto e la loro famiglia mattone per mattone, ma Demelza non poteva aver dimenticato quanto successo, non poteva e mai avrebbe potuto accettarlo davvero. "Che stai dicendo?".

Sua moglie si scostò leggermente da lui, guardandolo negli occhi. "Dico sul serio, credo che te ne pentiresti, se non lo facessi".

"Demelza, sei sicura?".

Annuì. "Viva o morta, Elizabeth non avrebbe mai potuto rimettersi fra noi. Ma per te è stata importante e lo è stata a lungo. E anche se ora ami me, di certo non puoi aver dimenticato il sentimento che una volta provavi per lei. Se non le dici addio, i rimorsi ti divorerebbero a vita Ross. Lo devi a te stesso... E a lei..." - concluse, deglutendo, come se pronunciare quelle parole fosse stata una fatica immane per lei. E sicuramente lo era stato.

"Vieni con me" – la implorò. Aveva bisogno di lei, lo terrorizzava l'idea di andare a Trenwith da solo in quelle circostanze.

Ma Demelza scosse la testa. "No, lo devi fare tu. Provo pena per lei e per quello che è successo e per la disperazione che puo' averla spinta a fare qualcosa di pericoloso, mi dispiace per i suoi figli che hanno perso la loro madre ma io non ho nulla da dire e nessun saluto da fare ad Elizabeth. Ma tu sì e per quanto sia doloroso, lo devi fare. Non preoccuparti per me, io sto bene e ciò che c'è stato con lei è acqua passata da tanto. Ti aspetterò a casa".

Ross annuì. Lei aveva ragione, come sempre. Doveva andarci da solo a Trenwith, per un ultimo faccia a faccia silenzioso con Elizabeth, con colei che aveva amato e per la quale aveva quasi distrutto la sua vita e il suo matrimonio. Doveva vederla, dirle addio e chiudere davvero per sempre quella parte della sua vita. Accarezzò la guancia di Demelza, baciandola sulla fronte. "Va bene! Ma promettimi che oggi starai in casa a riposare".

"Non sono malata!" - sbottò lei.

Ross fece un sorriso triste e colmo di preoccupazione. "Ti prego, fallo per me se proprio non riesci a farlo per te stessa".

Demelza annuì, capendo forse più di quanto le sue parole potevano avergli trasmesso. Gli diede un veloce bacio sulle labbra, accarezzandogli i capelli. "Va bene, starò a casa e mi metterò un po' a letto. Farò accompagnare a scuola Jeremy da Prudie o da Jud e io starò quì tranquilla con Clowance".

"Giura!".

Demelza sorrise. "Giuro! E ora va...".

Ross annuì e poi, dopo aver salutato i bambini e aver comunicato loro che per quel giorno non sarebbe andato in miniera, uscì di casa.

Andò nella stalla, prese il suo cavallo e dopo cinque anni in cui aveva quasi dimenticato la strada che lo portava all'antica dimora della sua famiglia, si diresse nuovamente verso Trenwith.







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Capitolo 37
*** Capitolo trentasette ***


Tornare a Trenwith gli faceva uno strano effetto. Le ultime volte che era stato in quella dimora, la sua vita aveva preso una pericolosa deriva e aveva perso tutto quello che di caro aveva al mondo.

Si fece annunciare, c'era un sommesso via vai nel salone. Chi per affetto, chi per semplici relazioni d'affari, erano tutti lì a porre l'ultimo saluto ad Elizabeth Warleggan.

Ross entrò nel salone principale, deglutendo. Era tutto così diverso da come lo ricordava, quella era la casa della sua infanzia, dove scorazzava con Francis, chiacchierava con lo zio Charles che spesso rimproverava lui e suo padre per la loro condotta e poteva vedere ancora, con un po' di immaginazione, zia Agatha seduta al tavolo, intenta a fare i tarocchi. Era tutto cambiato da allora, c'erano gli stemmi dei Warleggan alle pareti adesso e l'atmosfera sembrava cupa e rarefatta. Di ciò che era stata quella casa, dei ricordi della famiglia Poldark che si portava appresso, pareva non essere rimasto più niente.

L'ultimo Poldark, Geoffrey Charles, era stato allontanato e mandato in collegio e ora se n'era andata anche Elizabeth che comunque rimaneva la vedova di Francis e in un certo senso un legame con la famiglia.

Sfiorò con le dita la superficie fredda del grosso tavolo del salone, sentendosi a disagio. La morte di Elizabeth, giunta come un fulmine a ciel sereno, era un'ulteriore chiusura con un passato che non esisteva più. Era una storia finita già da molto ma ora trovarsi lì, in quell'ambiente famigliare e allo stesso tempo sconosciuto, gli dava l'ulteriore conferma che i tempi erano cambiati e che la sua vita, da lì in avanti, avrebbe dovuto essere proiettata su altro. Aveva una moglie a casa, che amava più della sua stessa vita e che aveva lasciato a malincuore quella mattina, perché indisposta. E due bambini meravigliosi che lo rendevano un padre fiero e orgoglioso. Non chiedeva altro, non voleva altro! Ma Demelza aveva ragione, doveva fare quell'ultimo passo per chiudere quel capitolo della sua vita e benché fosse doloroso e penoso, sapeva che andava fatto.

George scese le scale, raggiungendolo nel salone. Era pallido, sofferente e di certo prostrato dalla morte della moglie. Per quanto lo odiasse, in quel momento avvertiva il suo dolore come qualcosa di autentico. "Sono venuto a porgere le mie condoglianze, George" – disse, sforzandosi di essere gentile.

Il suo acerrimo nemico, annuì. C'era rabbia nel suo sguardo, astio mentre lo guardava. "Ross, è molto che non ci si vede! Ultimamente sono abituato a trattare di più con vostra moglie mio malgrado, come ben sapete".

Ross sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Anche in quelle circostanze, George non riusciva a non essere acido. Ma decise di essere accomodante, non doveva essere un momento per niente facile per lui, aveva appena perso sua moglie e si era ritrovato solo con due figli piccoli, di cui una nata da poche ore. "Credo che non sia il momento di pensare al consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank, giusto?".

George annuì di nuovo, continuando a guardarlo in cagnesco. "Siete venuto a fare visita, Ross?".

"Sì".

"Non è un bello spettacolo, vi avverto".

Ross scosse la testa, irritato. "Non lo ritengo uno spettacolo ma piuttosto un qualcosa di pietoso. La morte di una persona giovane è sempre una disgrazia".

"Soprattutto quando quella persona giovane è stata un nostro antico amore, vero? O forse non così antico come si vuol far credere...".

Ross sospirò, deciso a non cogliere la provocazione. "Chiunque sia stata, rimane sempre una tragedia".

George gli indicò le scale. "Andate, la strada immagino che la sappiate di già. Oggi tornerà anche il vostro amico dottore che magari è pure responsabile di quanto successo".

A quell'accusa non troppo velata, Ross si voltò verso di lui, piccato. "Dwight è un ottimo medico e sia io che voi sappiamo che non ha colpe di quanto successo. La causa la sa solo Elizabeth e suppongo che si sia portata il segreto con se e che non lo sapremo mai. Incolpare persone innocenti non ve la riporterà indietro". E detto questo, si avviò verso le scale senza aspettare una risposta.

Gradino dopo gradino, raggiunse il piano superiore, percorrendo quel corridoio che aveva visto mille volte e che conosceva a memoria.

Davanti alla camera matrimoniale, due uomini sostavano parlottando. Li riconobbe sommariamente, dovevano essere cugini di George. Beh, non gli importava, li superò ed entrò nella stanza. Dovette fermarsi a pochi passi dall'ingresso, però. Un odore nauseabondo, come di un cadavere in decomposizione, impermeava l'aria nonostante la finestra fosse aperta. Non c'era nessuno nella stanza, eccetto lui. Si mise un fazzoletto sul naso e, a piccoli passi, pieno di angoscia e terrore, si avvicinò al letto.

Lei era lì... E non era più lei. "Che cos'hai fatto?" - le chiese, sapendo che non avrebbe mai potuto rispondergli. Gli si strinse il cuore al vederla consumata, con la pelle bluastra, con quell'espressione sofferente impressa indelebilmente nel suo viso. Dwight gli aveva detto che era stata una morte atroce e non dubitava di quanto gli aveva raccontato. Elizabeth era la visione fatta persona della sofferenza, del dolore, del male che ti fa gridare senza speranza di sollievo.

Era la ragazza che aveva amato da giovane, il suo primo idealizzato amore, quello che per tanti anni aveva tormentato la sua anima e il suo cuore impedendogli di vedere pienamente il tesoro di moglie che aveva accanto.

Ricordava tutto di lei, anche se ormai gli appariva come un'estranea. Ricordava il loro primo incontro, le innocenti promesse prima che lui partisse per la Virginia, il dolore provato quando si era sposata con Francis, il modo in cui si era sentito tradito e nonostante tutto avesse continuato ad amarla. Ricordava quella notte terribile, dove rancore e passione si erano fusi nel più grande errore della sua vita e di come poi si fosse sentito confuso, alla deriva, senza nessun appiglio a cui aggrapparsi. Aveva fatto un torto a lei, oltre che a Demelza, quella volta. E si chiese se, a distanza di anni, quell'errore non avesse provocato la morte della donna che aveva davanti.

Ma in fondo era inutile pensarci, darsi delle risposte. Era morta, solo questo contava. Elizabeth non c'era più e non sarebbero più esistiti per lei un futuro, la maternità, giornate belle intervallate a giornate brutte, il veder crescere i suoi figli, vederli farsi uomini e donne e realizzarsi nella vita. Era morta e per sempre, in tutti, sarebbe rimasta immutabile nella sua giovinezza mai sfiorita.

Non l'amava più da tanto e forse non l'aveva mai amata di quell'amore con la A maiuscola che viveva con Demelza, ma in quel momento non poteva dire di non provare un sentimento di affetto unito a pena e rammarico per ciò che era stata e per ciò che non avrebbe mai più potuto essere. Si tolse il fazzoletto dal naso e, nonostante la puzza, si chinò su di lei, baciandola sulla fronte. "Addio Elizabeth... Buon viaggio" – disse, trattenendo a stento le lacrime e la sua commozione.

Si allontanò poi dal letto, le diede un'ultima occhiata ed uscì a passi spediti dalla stanza. Era stato difficile, penoso, aveva bisogno di una boccata d'aria. Ma in un certo senso averlo fatto, esserci stato, lo faceva sentire più leggero. Sua moglie aveva ragione, lo doveva ad Elizabeth e lo doveva a se stesso quell'addio.

In lontananza, nel corridoio, sentì la neonata piangere. Incuriosito, forse desideroso di ritrovare in lei tratti di Elizabeth che in un certo senso l'avrebbero fatta vivere ancora in un certo senso, si avvicinò. Ma a un certo punto dovette fermarsi perché, in una delle stanze del corridoio, vide qualcosa che attirò negativamente la sua attenzione.

Un bambino dell'età di Clowance, dalla testolina piena di capelli ricci e neri, se ne stava tutto solo nella sua stanza, seduto per terra sul tappeto, intento a ordinare dei soldatini giocattolo. Ross ricordò di quanto Demelza gli aveva detto di Valentin, dei suoi dubbi circa la sua paternità e di quanto lui aveva affermato per tranquillizzarla. Quel giorno non gli aveva mentito, non sentiva Valentin come un figlio, nemmeno ora che lo aveva davanti per la prima volta. Tutto quello che i suoi occhi vedevano era un bambino piccolo, col cuore a pezzi, lasciato solo nel suo dolore e senza nessuno accanto a dargli una parola di consolazione. Pensò ai suoi bambini e a come sarebbero stati disperati se avessero perso la loro mamma e gli venne una fitta al cuore a quel pensiero che scacciò subito dalla mente. Però avrebbe voluto fare qualcosa per lui, nonostante tutto, entrare, cercare di distrarlo, parlargli, magari giocare un attimo con con quei soldatini. Ma non poteva farlo, per Valentin lui era uno sconosciuto e di certo avrebbe mal tollerato la sua presenza in un momento del genere.

Una cameriera che giungeva dalla camera dove aveva sentito i vagiti della piccola Ursula, venne in suo aiuto, togliendolo dall'imbarazzo. Conosceva quella donna, era stata tanti anni al servizio di suo zio Charles, prima dell'arrivo dei Warleggan in quella dimora. "Signora Tabb, potete venire per favore?".

La donna spalancò gli occhi nel vederlo, decisamente sorpresa. "Signor Poldark, sono anni che...".

Scosse la testa, non era tempo di convenevoli. Indicò il bimbo che, incurante, con fare meccanico allineava e buttava a terra i suoi soldatini. "Perché quel bambino, in un momento del genere, è lasciato solo? Santo cielo, che qualcuno gli dia retta, ha appena perso la madre!".

La signora Tabb annuì, intimidita dal suo tono. "Si... Si signore! Ma mister Warleggan ha detto di non perdere d'occhio la piccola Ursula e io non riesco a...".

"Ursula ha una balia, immagino! Una volta nutrita e pulita, non ha particolari esigenze, è una neonata. Ma quel bambino capisce e soffre, prendetevene cura!". Lo disse come un ordine, senza ammettere repliche, fregandosene del fatto che quella ormai era la casa di George e che lui non poteva dettarvi regole. Non poteva fare altro per Valentin se non quello. Non era suo padre, nonostante tutto, nonostante forse i legami di sangue, quel bambino era e sarebbe sempre stato di George. E George avrebbe dovuto prendersene cura!

Diede un'ultima occhiata al piccolo, chiedendosi se lo avrebbe rivisto. Poi, con un sospiro, scese dalle scale, si mise il tricorno in testa e senza salutare nessuno, lasciò Trenwith. Vedere Elizabeth in quello stato gli aveva messo addosso una strana ansia e urgenza di tornare a casa. Demelza quella mattina non stava bene e lui non vedeva l'ora di vederla per accertarsi che il suo malessere si fosse risolto. Galoppando, si rese conto che aveva paura, un terrore folle che qualcosa di improvviso e sconosciuto potesse portargliela via. Aveva già provato il dolore di perderla e non era in grado di immaginare di sopportarlo di nuovo, soprattutto con la consapevolezza che forse sarebbe stato per sempre. Non pregava spesso ma mentre tornava a casa chiese a Dio di proteggere sua moglie e i suoi bambini. Non gli importava di nient'altro, solo che loro stessero bene.

Arrivò a casa che pioveva, l'acqua era ghiacciata e punzecchiava il suo viso in maniera fastidiosa. Il cielo imbruniva e, nonostante fosse ancora relativamente presto, sembrava già sera. Quando entrò in casa, trovò i bambini che disegnavano nella libreria e Prudie e Jud in cucina, a preparare lo stufato. "Dov'è Demelza?" - chiese, con urgenza.

Prudie guardò verso le scale, continuando a rimestare il brodo. "Ha mangiato quasi nulla a pranzo e poi si è messa a letto. Non si è ancora svegliata ed è andato Jud a prendere il signorino a scuola".

Ross si accigliò, gli si contorse lo stomaco. Non era da Demelza rifiutare il cibo e soprattutto non era da lei dormire così tanto. Era sempre piena di energie, insancabile, infaticabile e sì, a tutti poteva capitare una giornata storta ma in quel giorno tutto lo rimandava a pensieri foschi.

Diede un bacio ai bambini e poi corse in camera, da lei.

La loro stanza era avvolta dalla penombra, l'acqua picchiava furiosamente sulla finestra e il camino scoppiettava senza sosta, regalando calore all'ambiente.

Si avvicinò al letto, si sedette accanto a lei che, col viso sereno, dormiva avvolta in una coperta di lana. "Demelza?".

La donna aprì gli occhi, assonnata, gli prese la mano e la strinse, incrociando le dita alle sue. "Sei tornato! Com'è andata?".

Ross alzò le spalle. "Suppongo... nel modo in cui va sempre, quando si va a far visita a un morto. Una cosa penosa, non so che altro dire" – concluse, mentre l'immagine del corpo senza vita di Elizabeth gli attraversava dolorosamente la mente. "Credo che Dwight abbia ragione, non è morta di cause naturali e nemmeno per complicanze del parto, era così... diversa... Dagli altri morti che ho visto, intendo".

Demelza si mise a sedere e lo abbracciò, cingendogli il collo con le braccia. "Mi dispiace" – sussurrò, sprofondando il viso nel suo petto.

Ross le accarezzò i capelli, piano, baciandola sulla fronte. "Sto bene e anzi, avevi ragione! Dovevo farlo, dovevo andare. Ora mi sento più leggero per quel che riguarda Elizabeth. Ma...".

"Ma cosa?".

Ross sospirò. "Sono preoccupato per te. Che cos'hai? Io domani faccio venire Dwight a visitarti e non voglio obiezioni".

"Non sono malata, te lo posso assicurare".

"Davvero? E allora perché hai questi mal di stomaco e queste nausee ricorrenti? E perché te ne stai a dormire da ore?".

Demelza rise. "Ross, me lo hai detto tu di riposare".

Scosse la testa, non aveva davvero voglia di scherzare. "Io domani chiamo Dwight" – ripeté.

"Non è necessario".

"Demelza!".

Sua moglie si appoggiò allo schienale del letto, guardandolo pensierosa. Poi, con un sospiro, gli riprese la mano. "Ne parleremo fra qualche giorno, Ross. Oggi non è il caso".

"Parlare di cosa?".

"Del mio malessere".

Ross le si avvicinò, sfiorandole il fianco con la mano. "Demelza, dimmi che sta succedendo perché sai, io ho appena visto una giovane donna morta e in questo momento vorrei avere la certezza che la donna che amo sta bene ed è in salute. Sai, guardavo Elizabeth e attraverso lei io pensavo a te e a come mi potrei sentire se ti perdessi".

Demelza impallidì a quelle parole, tremando lievemente. "Che cosa ti salta in mente?".

"Può succedere ad ognuno di noi, da un momento all'altro. Come è successo per Julia. E io non sono pronto, non lo sarò mai, non posso affrontarlo di nuovo".

"Ross...". Demelza sospirò sorridendogli dolcemente. Gli accarezzò la guancia solcata dalla cicatrice, gentilmente e lentamente. "Non puoi aver paura di questo perché ciò che temi un giorno succederà e noi non potremo farci niente. E' l'unica certezza che abbiamo, la morte. Ma non succederà oggi, non qui. Elizabeth è morta per qualche assurdo motivo, ben prima che potesse essere la sua ora, lo hai visto tu stesso. Ma noi siamo qui, siamo vivi e siamo una famiglia unita e felice e l'unica cosa intelligente e saggia che tu possa fare è godere di questo, giorno per giorno, gustandoti le piccole cose che rendono la nostra vita degna di essere vissuta e che la arricchiscano di ricordi che ci accompagneranno per tutta la nostra esistenza. Non puoi cambiare il nostro destino e la nostra condizione di esseri umani ma una cosa puoi farla, per te stesso e per chi ami: lottare perché tutti noi siamo sempre felici ed uniti, solo questo conta. L'amore".

Ross sorrise. Era così incredibilmente saggia e sapeva sedare le sue paure e il suo animo con poche e semplici parole. Solo lei avrebbe potuto farlo, solo lei era la donna giusta per stargli accanto tutta la vita. E aveva ragione, doveva lottare perché fosse sempre serena, felice e si sentisse amata. "Credo che tu abbia ragione, forse oggi sono solo un po' scosso. Ma resta il fatto che, seguendo quello che hai appena detto, io domani faccio venire qui Dwight".

A quel punto, mascherando un sorriso, Demelza prese la sua mano, appoggiandosela sul ventre. "Non sono malata, semplicemente ce l'abbiamo fatta".

Ross la guardò e per un attimo non capì più nulla. Guardò lei, guardò il suo ventre perfettamente piatto e poi ancora lei. Non ci speravano nemmeno più, non ci pensava da tanto, era l'ultimo dei suoi pensieri e ora... "Sei incinta?" - chiese, spalancando gli occhi.

"Sì. Volevo dirtelo in un altro momento ma non hai lasciato scelta. Non devi preoccuparti, è tutto normale, sto bene. E sono felice".

Col fiato che gli moriva in gola, la guardò. Lei era felice. E lui era terrorizzato! Era contento, certo, di una gioia che aveva quasi timore a far esplodere perché soffocata da mille paure per lei, per il bambino, per tutto... Ma le avrebbe messe da parte perché sapeva quanto Demelza lo avesse desiderato e quanto ci avesse sofferto, mese dopo mese, quando le sue speranze si infrangevano senza apparenti spiegazioni. L'aveva vista piangere per questo e aveva cercato di consolarla in mille modi, dicendole che in fondo avevano già due figli stupendi e che la loro famiglia sarebbe sempre stata completa così com'era. La baciò sulle labbra, deciso a non lasciarla un solo istante. Si era perso tante cose di Jeremy e non aveva vissuto la gravidanza e la nascita di Clowance. Quel bambino che si stava facendo strada in loro avrebbe pareggiato i conti col suo senso di colpa e con le sue mancanze passate. "Avevi ragione poco fa! Non posso temere la morte o ciò che puo' riservarci il destino, questa casa è piena di vita e l'unica cosa intelligente che posso fare è esserne contento".

Demelza sorrise e gli parve bellissima coi capelli sciolti, che le ricadevano disordinati sulle spalle.

"Sei felice davvero, Ross?".

"Felice, terrorizzato, preoccupato. Promettimi che andrà tutto bene, che starai bene. E che starà bene anche questo nuovo bambino".

Demelza rise, abbracciandolo. "Te lo prometto, anche perché non ho assolutamente intenzione di star male per tutta la gravidanza".

Ross rispose all'abbraccio, accarezzandole la schiena. "I bambini lo sanno?".

"No, non ancora. Volevo dirglielo assieme a te".

A quelle parole, Ross si alzò di scatto dal letto. "Bene, che aspettiamo allora?". Corse fuori dalla stanza e poi giù dalle scale, arrivando nella libreria come un tornado. Con foga prese i bambini in braccio e, incurante delle loro proteste, seguito da un Garrick scondinzolante, li portò in camera. "Bambini, io e la mamma dobbiamo dirvi qualcosa" – disse, appena fu davanti al letto.

Jeremy lo guardò stranito e poi si sedette sul letto, appoggiando il capo sulla spalla di Demelza. "Mamma, ti sei svegliata".

Anche Clowance saltò sul letto, sedendosi accanto a loro. Ross le si mise a fianco, mettendosela sulle ginocchia.

"Cosa dovete dirci?" - chiese la bimba, incuriosita.

Demelza si accarezzò il ventre, piano, guardando i suoi figli. "Presto avrete un fratellino. O una sorellina. Aspetto un bambino".

"Oh...". Clowance la guardò pensierosa, poi guardò Ross. "E dov'è? Quando arriva?".

Jeremy rise. "Ma che domande! Sta nella pancia di mamma, non sai proprio niente".

Ross accarezzò la testa del figlio, scompigliandogli i capelli. "Hei, non litigate o spaventerete questo povero fratellino che è appena arrivato fra noi".

"Dovrebbe nascere a fine anno, più o meno alla stessa data in cui sei nata tu, Clowance. Quando compirai cinque anni" – disse Demelza, rivolgendosi alla piccola.

A quelle parole, Jeremy scoppiò a ridere. "Ahah, Clowance! Ti ruberà il compleanno!".

Clowance si imbronciò e i suoi occhi divennero lucidi. "Io non lo voglio un fratellino. E nemmeno una sorellina! E non voglio nessuno che viene a rubarmi il compleanno. Mamma, papà, rimandatelo indietro".

Ross guardò Demelza in viso, trattenendosi dallo scoppiare a ridere. Clowance era sempre fantasticamente buffa e crescendo non era cambiata poi molto dal giorno in cui l'aveva conosciuta. "Beh, non è detto che nasca il tuo stesso giorno".

La piccola incrociò le braccia, arrabbiata. "Ma perché avete preso un altro bambino? Non vi bastavo io? C'è pure Jeremy, è abbastanza. Così adesso quasto qua nasce e io non sono più la tua principessa, papà".

Ross si addolcì a quelle parole. Capiva le sue paure, le sue perplessità e il timore di perdere lo scettro di cocca di papà. La prese fra le braccia, la strinse a se e la baciò sulla guancia. "Tu sei nata per essere la mia principessa e questo non cambierà mai!". Mise la mano sulla spalla di Jeremy, invitandolo a guardarlo in viso. "Sapete, quando ho sposato la vostra mamma, lei aveva solo me da amare. E se l'avessi pensata come voi, non sareste mai nati. Eppure abbiamo voluto avere dei bambini e sapete perché?".

"Perché?" - chiese Jeremy, mentre anche Demelza lo guardava, incuriosita da quel discorso.

"Perché sapevo che la mamma mi avrebbe amato lo stesso e che anzi, mi avrebbe amato ancora di più. Anche con cento bambini, non avevo paura che mi mettesse da parte e lei non l'ha fatto, come potete vedere. L'amore che proviamo per gli altri non si divide, puo' solo crescere e nascere in nuove forme per chi arriva dopo di noi".

Demelza annuì, sorridendogli. Accarezzò i lunghi capelli di Clowance e la bimba reagì avvicinandosi a lei e abbracciandola. "Ti giuro che non lo farò nascere nel giorno del tuo compleanno. Farò del mio meglio perché abbiate compleanni distinti, va bene?".

Ross la guardò scettico, divertito da quella promessa che di certo, benché fosse incredibilmente in gamba, non era in grado di mantenere con certezza. "Bambini, noi siamo contenti per questo bambino! E vorrei che lo foste anche voi".

Jeremy ci pensò su. "Io sono contento. Basta che, se è un'altra femmina, non ami il rosa come Clowance. Ne basta una in casa, così!".

Clowance gli tirò un'occhiataccia ma poi, con un sospiro non troppo convinto, annuì. "Si va beh, sono contenta SE non mi ruba il compleanno".

Ross rise, scopigliando i capelli di sua moglie. "Hai sentito? Sei responsabile del futuro rapporto fra Clowance e questo bimbo, vedi di impegnarti nel decidere il giorno giusto in cui metterlo al mondo".

"Lo farò".

Ross le sorrise, prese i due bambini per mano e li costrinse ad alzarsi dal letto. "Ora andiamo di sotto, la mamma aspetta un bambino e deve riposare".

Clowance annuì e Jeremy sorrise. La salutarono e Ross li accompagnò di nuovo sotto, da Prudie. Ma prima di lasciarli alle cure della serva, si sedette sull'ultimo gradino, fronteggiandoli. "Hei, facciamo un patto noi tre?".

"Quale patto?" - chiese Jeremy.

Ross sorrise. "La mamma ora è in un momento delicato e avrà bisogno di tutto il nostro amore e di tutta la nostra vicinanza. Dobbiamo starle vicino e farle sentire che le vogliamo ancora più bene, d'accordo? Avrà bisogno di noi, avere un bambino è una cosa bella ma anche tanto faticosa e difficile. Mi aiuterete a farla stare bene?".

Clowance annuì. "Sì. Io voglio bene alla mamma".

"Anche io! Certo che ti aiuto, papà" – ribatté Jeremy.

Ross accarezzò loro la nuca. "Sono davvero fiero di voi".

Li riaffidò a Prudie e poi, dopo aver intimato loro di non fare baccano, tornò da Demelza. Mentre erano via si era alzata e si era tolta gli abiti per una più pratica camicia da notte.

"Hai intenzione di stare a letto fino a domattina?" - le chiese, osservandola.

Lei rise, finendo di sistemarsi i capelli davanti allo specchio. "Potrei prenderci gusto, e stare a letto con la camicia da notte è più comodo".

Ross si sedette sul bordo del letto, guardandola. Era bellissima, i capelli le ricadevano morbidi fino alla vita, pieni di riccioli e boccoli, la sua espressione era serena e il suo colorito roseo. Era ancora magra ma non vedeva l'ora di vederla col pancione e godere insieme a lei di quell'attesa che non aveva saputo apprezzare con Jeremy e aveva perso con Clowance.

"Sei stato davvero bravo coi bambini, prima. Hai detto loro delle cose bellissime sull'amore! Non credevo che saresti diventato un tipo romantico" – gli disse, divertita, mentre si faceva una lunga treccia.

Ross rise, imbarazzato. "Non farci troppo l'abitudine".

Demelza gli si avvicinò e lui le sfiorò i fianchi, attirandola a se, affondando il viso contro il suo ventre e baciandolo con dolcezza.

"E' la prima volta che fai una cosa del genere" – sussurrò lei, accarezzandogli i capelli.

"Cosa?".

"Che baci la mia pancia quando sono incinta. Mi piace".

Alzò gli occhi su di lei, perdendosi in quel colore verde-azzurro. "E allora lo farò sempre".

"Ti amo, Ross. E sai, nonostante tutti gli errori e i difetti, io non ti cambierei per niente al mondo".

La attirò a se, baciandola lentamente sulle labbra. "Ti amo anche io. E nemmeno io ti cambierei per niente al mondo. Sei perfetta, per me" – le sussurrò, mentre tutte le angoscie e le paure di quella giornata sparivano, lasciando spazio solo alla vita e alle belle sensazioni che risvegliava in lui. Sarebbe andato tutto bene, lo sapeva. Avrebbero aspettato quel bambino insieme, godendo di ogni istante di quell'attesa, e poi lo avrebbero accolto nella loro famiglia con gioia, amandolo alla follia. La spinse sul cuscino, ridendo. "Ora dormi, devi riposare" – le intimò.

Demelza sorrise, rannicchiandosi sotto le coperte accanto a lui. "Salterò anche la cena, quindi?".

"No, cenerai in camera".

Demelza rise. "Come una gran signora?".

"Come una gran signora sposata con un marito molto apprensivo. Fattene una ragione!".

Scoppiarono a ridere, insieme, sereni. E anche se fuori continuava a piovere, in quella stanza, dopo una giornata difficile, tornò il sereno.

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Capitolo 38
*** Capitolo trentotto ***


Isabella-Rose Poldark decise saggiamente di nascere una settimana dopo il compleanno della sorella. All'alba del tre dicembre Demelza si sentì strana e ormai sapeva bene a cosa avrebbero portato quelle sensazioni fisiche sempre più pressanti.

Svegliò Ross, scuotendolo lievemente per non fare rumore.

"Che c'è?".

Sorrise. Il tre dicembre non era un giorno come gli altri, era la data che, tre anni prima, aveva segnato la rinascita della sua storia d'amore con Ross. Ricordava ancora quel giorno, il suo sgomento e il suo terrore quando aveva visto suo marito ferito, senza sensi in mezzo a una trafficata strada di Londra. Era ricominciato tutto così, un po' per caso, un po' grazie all'aiuto provvidenziale di Caroline e Dwight che testardamente avevano lottato perché si ritrovassero. Ecco, pensandoci non c'era giornata migliore per lei per mettere al mondo quel bambino che tanto avevano desiderato lei e Ross dopo essersi ritrovati, amati ed essere ripartiti insieme. "Ross, il bambino".

Suo marito spalancò gli occhi. "Adesso? Ma è ancora buio, nevica! Gli altri son nati di giorno, perché ora...".

Lo guardò storto, non aveva né la forza né la voglia di spiegargli che i bambini nascono quando ne hanno voglia, infischiandosene dell'orologio. "Va a chiamare Dwight!".

"Si, giusto!". Impacciato, inciampando negli stivali sotto il letto e rischiando di finire con la testa spiaccicata contro l'anta dell'armadio, Ross si vestì, le diede un veloce bacio e poi corse fuori alla velocità della luce.

Lo guardò uscire, cercando di non scoppiare a ridere. Sembrava davvero emozionato, terrorizzato ed impacciato. Difficilmente l'aveva visto così! Si massaggiò il ventre, cercando di stabilizzare il suo respiro, mentre le fitte iniziavano a farsi incessanti. Conosceva bene i dolori del parto, ci era passata già tre volte, di cui una da sola, lontana da casa e senza nessuno accanto a darle forza e ad accogliere il suo bambino. Ora era diverso, era a Nampara, c'era Ross ed erano una famiglia felice. Pensò ai suoi primi tre figli, nati tutti in modi tanto differenti: Julia era nata in un attimo in una giornata primaverile in cui era andata a vedere uno spettacolo teatrale di una compagnia errante. Jeremy aveva deciso di annunciarsi al mondo mentre era in barca a pescare e, se Ross non fosse arrivato a prenderla di peso e a riportarla a casa, urlandole contro durante tutto il tragitto per quanto fosse stata irresponsabile, il suo bambino sarebbe nato in mare. Clowance era nata a Londra, in un momento difficilissimo della sua vita, quando credeva che il suo matrimonio e l'uomo che amava fossero perduti per sempre. E ora invece era a casa, nella sua camera, nel suo letto. Un parto banale forse, ma proprio per questo più prezioso per lei e Ross.

Dopo mezz'ora Ross tornò nella stanza, seguito da un Dwight buttato giù dal letto e ancora spettinato.

Il dottore le sorrise, avvicinandosi e accarezzandole i capelli. "Ci siamo e sai già cosa fare, vero?".

"Già".

Dwight si voltò verso Ross. "Su, è ora che i padri escano dalla stanza, ci vediamo fra un po'".

Ross sospirò, non troppo felice di quell'allontanamento. "In realtà, vorrei restare...".

"No!". Demelza si mise a sedere sul letto, a fatica. "Non voglio che tu mi veda così, ti prego! Va dai bambini, magari si svegliano e potrebbero spaventarsi".

"Ma io...".

"Ti prego".

"Sei sicura?".

"Sicura".

Ross le si avvicinò, sedendosi sul letto. Le accarezzò la guancia e la baciò sulle labbra, dolcemente. "Andrà tutto bene, vero?".

"Certo, sta tranquillo. C'è Dwight, sono in buone mani".

"Già". Ross si alzò in piedi, poggiando la mano sulla spalla del medico. "Te la affido, mi raccomando".

Demelza lo guardò uscire e in un certo senso le spiaceva. Lo avrebbe voluto accanto, però odiava anche farsi vedere dal suo uomo in quello stato. Avrebbe pianto, urlato, sarebbe stata sporca, sudata e spettinata e sapeva che lui sarebbe morto dalla paura e dalla preoccupazione. Era meglio che aspettasse fuori e che stesse con i bambini. Lei e Dwight se la sarebbero cavati da soli.

A differenza degli altri parti, quello fu più lungo e difficile. I suoi figli erano sempre nati in fretta ma stavolta il travaglio fu lungo, doloroso e il parto complicato e terribilmente faticoso, tanto che a un certo punto anche la calma di Dwight parve vacillare.

Cercò di non urlare, di non lamentarsi troppo per non far spaventare Clowance e Jeremy, ma in certi frangenti era difficilissimo rimanere lucida.

Prudie faceva avanti e indietro portando acqua calda e pezze pulite, cercando di aitare Dwight a darle sollievo, ma in quel momento tutto le sembrava lontano, ovattato, coperto dal dolore fortissimo del travaglio.

Immaginava che Ross fosse molto preoccupato e in un certo senso questo la divertiva, nonostante tutto. Tre anni prima lui l'aveva quasi fatta morire di paura, ora lei si stava prendendo in un certo senso la rivincita...

Finalmente, dopo terribili sforzi, un travaglio infinito e tanta preoccupazione, alle quattro in punto del pomeriggio la piccola Isabella-Rose nacque, annunciandosi al mondo con un pianto acuto e vigoroso.

Dwight sorrise, prendendo la piccola e mettendogliela sul petto. "E' una bambina forte e in salute. E molto pesante, per questo abbiamo tribulato tanto".

Demelza, sfinita, strinse a se la piccolina. Lacrime di gioia le solcarono il viso. Era nata, dopo un'attesa infinita la piccola era fra loro... Quel giorno avrebbe potuto non arrivare mai, lo sapeva... Se lei c'era, era per merito del meraviglioso dottore che aveva accanto e della testa dura sua e di suo marito che in fondo non si erano mai arresi all'essersi persi. La guardò, era bellissima e aveva le guance rosse e piene, era il ritratto della salute quella piccolina. Era mora, come Ross. E aveva gli occhi azzurri come lei... "Dwight, grazie" – sussurrò, commossa.

Il dottore sorrise. "E' il mio mestiere, non devi ringraziarmi".

Demelza scosse la testa. "Non sto parlando solo di oggi... Grazie per quello che tu e Caroline avete fatto per me e Ross tre anni fa. Se non fosse stato per voi, io non sarei qui, felice. E non ci sarebbe nemmeno lei" – concluse, baciando la fronte della piccolina che, incurante dei loro discorsi, continuava a strillare.

Dwight rise. "Che caratterino! E che voce. La bambina mia e di Caroline è sempre debole e piange in modo così sommesso, questa piccola Poldark invece potrebbe rompere i vetri di casa".

Demelza accarezzò il visino della bimba, baciandola ancora sulla punta del nasino. "Sì, credo che da grande potrebbe fare la cantante".

Dwight rise, mentre Prudie si affaccendava a sistemare Demelza e la bambina.

"Come la chiamerete?" - chiese Dwight.

"Isabella-Rose Poldark".

"Nome doppio? Perché?".

"Perché abbiamo chiesto ai bambini di scegliere il nome e non sapevano decidersi, continuavano a litigare e alla fine abbiamo deciso che era giusto accontentare entrambi. Isabella, come desiderava Jeremy. E Rose, come ha chiesto Clowance".

"Politicamente corretto!" - disse Dwight, strizzandole l'occhio. Le si avvicinò ed aiutò Prudie a lavare lei e la piccola, a vestirle con abiti puliti e a sistemare il letto. "Ora vado da Ross, sarà in preda all'ansia, lo conosco! Tu, mi raccomando, riposati! E' stato un parto lungo e difficile, non voglio vederti in piedi prima di settimana prossima, d'accordo?".

"D'accordo" – rispose Demelza, abbracciando nuovamente la piccolina.

Prudie si intromise fra loro. "State tranquillo, starà in questa stanza piantonata! A costo di legarla al letto!".

Demelza si rannicchiò sotto le coperte, con la piccola sul suo petto che si era addormentata.

Rimase sola con lei per alcuni minuti, studiando ogni minimo particolare di quella nuova bambina. Era sfinita ma sapeva che per quella notte non avrebbe dormito e sarebbe rimasta ore a fissare sua figlia. Era un amore potente quello che, sentiva, la legava da subito ai suoi figli, qualcosa di diverso persino da quello che provava per Ross. Per un fugace momento pensò ad Elizabeth e a quello che poteva aver provato nel momento in cui si era accorta di essere destinata a morire e sentì una fitta al cuore per lei e per la piccola Ursula che, come Isabella-Rose, sicuramente aveva avuto bisogno di sentire la sua mamma vicino. Da donna a donna, da madre a madre, tralasciando tutto il resto, sentiva empatia con lei in quel momento. E un'infinita pena.

Strinse a se la piccola e in quel momento nella stanza entrarono Ross e i bambini. Suo marito era pallido, preoccupato. A grandi passi le andò vicino, sedendosi poi lentamente sul letto. "Amore mio..." - sussurrò, prendendole una mano fra le sue.

Lo guardò negli occhi. Quel suo uomo così coraggioso, incosciente, gentile, bello e assolutamente fuori dagli schemi... Sembrava sfinito come se avesse partorito lui! Lo amava da impazzire, lo avrebbe sempre amato e nessun altro posto sarebbe stato giusto per lei, se non accanto a lui. "Sto bene, stiamo bene".

Jeremy e Clowance si avvicinarono al letto. Il bimbo la abbracciò, delicatamente, quasi avesse timore di farle male. "Mamma, ti ho sentita piangere prima".

"Ma ora è passato. Mi faceva solo male la pancia, sta tranquillo".

Clowance si appoggiò coi gomiti al letto, sbirciando il fagottino che teneva fra le mani. "Dwight dice che è una sorellina!".

Demelza annuì. "E' vero, una sorellina. E, come ti ho promesso, non è nata nel giorno del tuo compleanno". Si sedette sul letto, a fatica, mostrando ai due bambini la piccola che dormiva fra le sue braccia.

Ross si inginocchiò, mettendo le mani sulle spalle dei due figli. I suoi occhi si inumidirono, sorrise e rimase semplicemente così, in silenzio, a guardare la nuova arrivata.

Clowance toccò la piccola sulla guancia. "E' abbastanza bella! Ma per fortuna non è bella come me, quindi va bene, possiamo tenerla. In fondo non mi ha nemmeno rubato il compleanno!".

Ross e Demelza si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere, mentre Jeremy scuoteva la testa, esasperato.

Ross strinse a se i figli, baciandoli sulla nuca. "Coraggio, salutate la mamma e la sorellina, visto che abbiamo deciso che puo' restare in questa casa. E andate da Prudie ad aiutarla a preparare la cena".

"Ma voglio stare qui" – si lamentò Clowance.

"Mamma deve riposare, è stanca".

I bimbi si guardarono negli occhi, annuirono non troppo felici e poi, dopo aver baciato la madre e averla abbracciata, corsero fuori dalla stanza.

E finalmente soli, Ross si chinò su di lei. La abbracciò forte e allo stesso tempo con una delicatezza che la intenerì. La baciò sulle labbra e poi appoggiò la fronte su quella della piccolina. "E' bellissima, amore mio".

"Già. Somiglia ad entrambi, è così perfetta...".

"Ho avuto paura sai? Ti sentivo piangere e urlare e, se non ci fossero stati i bambini, sarei corso da te. Odio saperti qui da sola e sapere che stai male".

Demelza gli accarezzò i capelli. "I parti sono così, poi passa".

"Ma sei pallida, sembri così stanca".

"Lo sono, infatti. Ma come ti dicevo, passerà".

Ross si sedette accanto a lei, le cinse le spalle con le braccia e la attirò a se, in un modo quasi uguale a come aveva fatto anni prima quando era nata Julia. La baciò sulla fronte, sulle labbra e la abbracciò ancora più forte. "Sono un uomo fortunato e ora, forse grazie anche ai miei errori e alla sofferenza che ne è derivata, ne sono pienamente consapevole. Ho una moglie che amo, dei figli stupendi ed è tutto quasi perfetto".

Demelza annuì, capendo cosa volesse dire. "Già... Sarebbe completamente perfetto se ci fosse anche Julia".

"Lei è con noi, vive nei suoi fratelli. Voglio pensarla così...".

"Anche io". Si rannicchiò fra le braccia di Ross, porgendogli la bambina. Lui la prese in braccio, quasi timoroso di romperla. Poi la abbracciò. "Benarrivata in questa pazza famiglia, Isabella-Rose. Siamo strani ma sai, difficilmente avresti trovato qualcuno che si vuole bene più di noi! E quindi, visto che sei nata in un giorno in cui cade un anniversario speciale per la tua mamma e il tuo papà, visto che sei stata tanto intelligente da non rubare a Clowance il compleanno e visto che tuo fratello e tua sorella han sentenziato che puoi rimanere... Benarrivata nella nostra vita, piccola" – disse, baciandola sulla fronte.

Cominciava una nuova vita, una nuova storia...

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