Meet S. Holmes

di meiousetsuna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I won't let you be the death of me ***
Capitolo 2: *** Live and let die ***
Capitolo 3: *** Killing me softly with his song ***
Capitolo 4: *** I will lie for You, I’ll die for You ***
Capitolo 5: *** I was born to love you, every single day of my life ***



Capitolo 1
*** I won't let you be the death of me ***


Documento senza titolo

Personaggi: John/Sherlock, Greg, Molly/Mike, James, altri
Rating: arancione
Generi: drammatico, romantico, magical realism
Avvertimenti: OOC parziale, movieverse, crack paring, character!Death, lime


Il bicchiere di whisky era stato riempito ― un terzo, come si conviene ad un gentiluomo ― e svuotato già due volte, eppure non un minimo cenno di rilassamento era seguito a quel rituale.
Forse poteva versarne un altro, non sarebbe diventato un alcolista per quello, era troppo avanti con l’età perché un’innocente indulgere in un piacere diventasse un vizio pericoloso.
‘Appunto’.
Gregory batté il bicchiere sulla scrivania con troppa energia, causando uno scricchiolio nel cristallo.
“Non comincerò a parlare da solo a voce alta”.
‘È quello che stai facendo, però. Sai che sono qui, e sai che ormai non hai una salute da compromettere’.
“Sto benissimo, e intendo restare in queste condizioni ancora a lungo”. Incredibile, stava davvero conversando con… un fantasma?
‘Davvero? Ti senti invincibile? Ascoltami, ascoltami bene…’
Tutto quello che l’uomo provò fu un dolore lancinante al braccio sinistro, poi più niente. Non sentiva battere il cuore, era la sua ora?
Quando la terribile sensazione passò di colpo, Gregory riuscì solo a pensare che l’idea di stare impazzendo sarebbe stata il male minore. Era una persona pragmatica, malgrado una vena di sentimentalismo, ma qualcosa gli diceva che la ridicola spiegazione che gli aveva attraversato la mente, alla prima sillaba sussurrata da quella splendida voce cavernosa, corrispondeva alla verità.
Il terzo whisky scivolò sulle sue labbra, mentre un’ondata di sudore gelido lo attraversava da capo a piedi.

Meet S. Holmes
Cap 1. I won't let you be the death of me *

Quando Molly si metteva in testa di fare qualcosa di bello per gli altri, poche cose l’avrebbero potuta fermare; un ciclone o un’orda di cavallette sarebbero andati bene, oppure la disapprovazione della persona che più amava al mondo, che era proprio quella che a volte le dava dei dispiaceri.
Capiva, a modo suo, che suo padre preferisse il figlio maschio, anche se ambedue negavano una cosa così meschina e ne facevano una questione di carattere più compatibile. Comunque era difficile non volere bene a John, anche Molly ci teneva moltissimo al fratellino; avrebbe dovuto smettere di chiamarlo così, ormai aveva venticinque anni, si era laureato in medicina a pieni voti e stava terminando la specializzazione… ma niente avrebbe cancellato quei ricordi ― vivi nelle tante fotografie sparse in tutta la villa ― di loro da bambini, con lei che gli insegnava a giocare a tennis, o lo aiutava a costruire castelli di sabbia enormi. John non era alto e a volte i coetanei lo prendevano in giro; Molly sarebbe stata pronta a scattare per difenderlo, ma lui li smontava con una risata solare, e con quel modo affabile che aveva di relazionarsi con gli altri. Solo un’ombra sembrava, qualche volta, turbarlo; la ragazza non aveva mai detto nulla, ma sospettava la natura delle sue preoccupazioni. Gli occhi blu ― uguali a quelli della mamma, come i capelli biondi ― si spegnevano all’improvviso, dandole un sottile dispiacere. Lei invece aveva preso dai Lestrade: capelli più scuri e occhi nocciola, anche se non identici a quelli di suo padre quanto avrebbe voluto.
Bene, si sarebbe persa in riflessioni più tardi: tra dieci giorni sarebbe stato il sessantacinquesimo compleanno di Gregory Lestrade, avrebbero avuto una marea di invitati illustri, e quella festa sarebbe stata il suo assoluto tripudio personale.

“Allora, John, mi accompagni? James sta arrivando con l’elicottero della ditta, ha avvertito un’ora fa”.
Il giovane girò gli occhi al cielo, ma senza smettere di sorridere. “Come vuoi, papà, così passiamo la mattina insieme. Speriamo solo che James non faccia come quella volta in cui per dirci che aveva firmato un bel contratto è sceso in stile musical, con quella corona di plastica da Regina Elisabetta!”
Gregory diede una pacca affettuosa sulle spalle del figlio. “Non essere così duro… in fondo cantava i Queen, era appropriato”.
John scosse la testa, avanzando verso la pista di atterraggio che occupava una parte consistente del loro vastissimo parco, col suo solito atteggiamento informale, i semplici jeans e il maglioncino a righe.
“Mary non l’hai sentita più, vero?”
“No. Ma va bene così. Mi nascondeva qualcosa del suo carattere, credo… sai che a me piacciono le persone oneste”.
Gregory guardò il figlio con quella luce speciale negli occhi che brillava solo per lui, fermandosi sul limitare tra il prato e la pista.
“Perché tu sei un ragazzo buono, John. Eppure hai bisogno di un po’ di pericolo, secondo me. Di una scossa, di qualcuno che ti tolga il fiato, che tu possa guardare come se non esistesse nessun altro al mondo. A me andrà bene comunque”.
John si sentì gelare. Anche suo padre stava per fare quell’insinuazione? Si bloccò, come puntando i piedi e irrigidendosi.
“Sai, non tutti passano gli anni dell’università a saltare addosso a ogni compagna di corso, ho preferito studiare! Non significa…”
“Io non ho detto niente, non sono un genio in queste cose. Ho incontrato tua madre che aveva diciotto anni, e tanto è bastato. Voglio solo ve
derti felice. Sicuramente i Moriarty sarebbero onorati di averti nella loro famiglia. Insomma ― Gregory si sistemò il nodo della cravatta tradendo un po’ di incertezza ― se mai per te fosse stata un’opzione. James non è simpatico, ma di certo è un ragazzo intelligentissimo”.
“Peccato che io non sia gay!” John alzò la voce fissando suo padre con sguardo torvo, mentre si conficcava le unghie nei palmi delle mani con tutta la forza di cui era capace.

Il mattino seguente John non avrebbe potuto essere più stanco e teso di così; James era atterrato limitandosi, bontà sua, a salutarlo con un “ti piace il mio nuovo Donna Karan, Johnny bello?” a cui lui aveva risposto con qualcosa come “ben arrivato, Jimmy” il che sarebbe stata una specie di offesa, visto il suo odio per quei diminutivi; ma il giovane socio della Lestrade Company capiva quello che voleva, quando voleva. O fingeva benissimo, questa era l’opinione di John, ma tutti lo consideravano esagerato. Più tardi, prima di cena, gli aveva teso un agguato nel corridoio, e abbassando alcuni centimetri della cinta dei preziosi pantaloni nuovi, gli aveva mostrato di aver comperato anche i boxer del suo stilista preferito, con un ammiccamento che lasciava pochi dubbi.
Il turno in ospedale era stato snervante, ma il pronto soccorso gli piaceva moltissimo, in realtà.
Al S. Bart’s il giovane medico si sentiva utile, produttivo e davvero motivato in quello che faceva. I suoi colleghi avrebbero ucciso per fare internato in qualche reparto prestigioso, ma a John piaceva l’imprevisto, esserci nel momento cruciale per salvare una vita umana. Le barelle che trasportavano i feriti in qualche incidente, o i sopravvissuti ad una sparatoria lo portavano direttamente sul campo di battaglia, per così dire. Bloccava emorragie, suturava tagli profondi, estraeva pallottole, tentava soluzioni audaci e rapide, pressoché sempre con successo, senza scordarsi di spendere qualche parola gentile per i familiari.
Dopo le prime sei ore una pausa era sacrosanta, tanto più che a pochi metri dall’ospedale c’era una deliziosa tavola calda italiana, “Da Angelo”. John aprì la porta salutando con la mano, come ogni giorno. Si sedette al bancone per essere servito presto, come ogni giorno. Sbocconcellò un pranzo leggero e acqua, come ogni giorno. Ma la normalità era finita lì. C’era un ragazzo, di spalle, accanto a lui, che parlava al telefono ad una velocità quasi disumana, come se bombardare l’interlocutore di istruzioni dovesse convincerlo a fare quello che chiedeva. Il dottore non era pettegolo, ma non poteva smettere di ascoltare o staccare gli occhi da quella figura alta, elegante, sovrastata da una chioma bruna di notevole bellezza. Per un attimo sperò che non si girasse, perché la cosa più incredibile del personaggio in questione era la voce. Profonda, vellutata, avvolgente. Che gli scivolava addosso come se fosse nudo, e potesse sentirla sulla pelle. E meno male che gli piacevano le donne, ripeté a se stesso prima di lasciare un minuscolo vuoto che potesse essere riempito dal dubbio.
“Fa’ come ti dico, prenditi un periodo di riposo, stare nella casa al mare non ti fa bene, ti da strane idee. Lascia perdere, sai che ci tengo a te, malgrado tutto. Puoi venire a stare da me, faremmo pratica con la musica. Sì, ti voglio bene, ti chiamo domani”.
La voce si voltò, e purtroppo per John a quella si unirono delle iridi come ghiaccio azzurro, e labbra rosee e delicate. Il giovane chiuse il cellulare e come se fosse la cosa più ovvia del mondo, continuò il discorso con lui.
“È mia sorella. Si è lasciata con Victor, il suo fidanzato da tre anni, e ora ha una forte forma depressiva, lo psicologo aveva consigliato di ricoverarla, ma non la farò mai rinchiudere in un posto dove la tratterebbero come una pazza!”
“Ecco… sei un fratello premuroso, e ti ringrazio della confidenza, ma forse mi confondi con qualcuno che conosci”. John inghiottì a fatica, passandosi la lingua sulle labbra.
“Che c’è da capire? Sei entrato all’una esatta, lavori al S.Bart per essere qui sempre a pranzo puntuale, Angelo non ti ha neppure chiesto cosa ordinavi. Sei stanco, ma non hai l’aria distaccata, non sei solo un chirurgo, fai pronto soccorso. Porti una maglia economica ma hai scarpe costose, un regalo. Vieni da una famiglia benestante, ma sei una persona semplice e disponibile, per questo hai scelto un internato che ti mettesse in prima linea. Non hai più di ventiquattro, venticinque anni ma sai che la tua strada è questa. Sei affidabile”.
“Incredibile! È stato fantastico, sei un detective?”
“Più o meno. Volevo che sapessi che non parlavo con una fidanzata” ― John si risparmiò di chiedere il perché, meglio non ascoltare nessuna risposta ― “sono a Londra da poco, non ho ancora un dottore. Potresti essere tu. O no. Forse preferisco che tu non debba toccarmi, intendo per visitarmi”.
“Forse è meglio, sì”. ‘Che sto dicendo?’ “Mi chiamo John”.
“Hai anche un secondo nome?”. Questa non se l’aspettava. Era un modo furbo di non dire il proprio, perché il gioco dell’Affascinante Sconosciuto andasse avanti, o aveva davvero capito che lo aveva sì, e lo detestava cordialmente?
“Non importa se non vuoi dirlo, non è questo che conta. È quello che una persona ti trasmette, l’istinto di voler fare amicizia, o fare qualcosa per prenderti cura di lei. Tu lo fai, e nessuno ti ricambia nello stesso modo, vero?”
“Devo andare, scusami”. Non era da lui essere così sgarbato, ma John non riusciva a portare avanti quel discorso. Era imbarazzato, e si sentiva esposto all’esame di quegli occhi impossibili che sembravano tagliare l’armatura della sua paura come un raggio laser; ne avevano anche la luminosità, pensò, un motivo in più per scappare subito.
“Verrò qui a pranzo ogni giorno, ci vedremo”.
“Abiti in zona?” Era il minimo della civiltà, chiederlo.
“No, ci verrò apposta”. John salutò solo con un cenno della testa, pagò e fuggì il più velocemente possibile. Il bruno sorrise, finendo di bere con calma una tazza di Earl Grey. Saldò il conto, uscì, e attraversò la strada.
Per lo meno non aveva visto. Fu l’ultimo pensiero cosciente che attraversò il giovane mentre la prima automobile, che viaggiava troppo al centro tra le corsie, lo sbalzò così forte da gettarlo sul cofano di un furgone che marciava in senso contrario (qualcosa di spappolato nell’addome, costole rotte, sensazione di essere caduto da una finestra più di una volta) che lo buttò sul marciapiede, battendo la testa (trauma cranico; più niente). Una pozza di sangue si allargò sotto i capelli, un rivolo sottile usciva dalla bocca, gli occhi erano ancora socchiusi. I passanti gridavano, alcuni si erano avvicinati e avevano chiamato un’ambulanza, ma era troppo tardi. Quello che giaceva sull’asfalto, era un bellissimo angelo caduto.

‘Ciao, Gregory, ti sono mancata?’
‘No’, avrebbe risposto l’uomo, se non fosse stato troppo impegnato a portare una mano sul cuore prima ancora di sentire la morsa ormai familiare che si accompagnava all’arrivo della voce.
‘Sto per esaudire la tua curiosità. Vai ad aprire la porta’.
Lestrade lasciò la sua stanza da letto, dove stava riponendo dei documenti nella cassaforte, e andò nel salone da pranzo. C’erano sua figlia Molly e il marito, Mike Stamford, uno dei suoi più fidati collaboratori, James e John, naturalmente. La cameriera lo aspettava vicino al tavolo.
“C’è un signore per lei, dice di non poter aspettare, che era atteso. È in biblioteca”.
“Vado subito”.
“Papà!” Molly era stupefatta, di solito il gentiluomo non lasciava la sua famiglia ad attenderlo, né correva agli ordini di chicchessia.
“Torno presto, iniziate senza di me”.
Quando spinse leggermente la porta di noce con la punta delle dita, Gregory si accorse di non aver avuto mai tanta paura; stava tremando, e non gli era successo neppure al funerale dell’amatissima moglie.
“Mi stavo annoiando, è la cosa che odio di più. Sbrigati, stiamo andando via”.
Incredibile. Si era figurato varie possibilità, in quei giorni: la prima ovviamente era di avere un disturbo mentale, ma non era così. Poi che gli sarebbe apparso un mostro, un demone, uno spettro marcescente. Non…
“Sono attraente, lo so. Conosco le convenzioni sociali sulla bellezza, preferisco usare un mezzo che mi lasci avvicinare a voi”.
“Sei… la mia morte? Questo è il tuo vero aspetto?”
“Voi umani, così egocentrici. Non sono tua, sono la stessa per tutti, da tanto tempo che quasi non lo ricordo” l’essere mosse qualche passo con le sue gambe slanciate, mettendo a posto i polsini di una camicia di seta viola, le maniche della giacca blu cupo, e in ultimo passando le dita affusolate tra i capelli voluminosi “mi piacciono, un po’ lunghi. Questo ospite che sto usando è un ragazzo che è stato investito oggi, mi serviva un passaggio. Non è che i corpi si trovino nei frigoriferi”.
“Ma io non voglio morire”. Dio, non poteva dire una cosa più ovvia, Gregory se ne rese conto immediatamente.
“Noioso, prevedibile, banale. Mi chiameresti un sociopatico, credo: a me non interessa del tuo volere, non conta nulla”.
C’era un’ultima carta che poteva giocare, pensò Lestrade, una valida.
“Ti propongo un patto”. Un guizzo di interesse accese gli occhi di cristallo del suo interlocutore.
“Una sfida!” La creatura unì i palmi delle mani, posando la punta delle dita sulle labbra. “Dimmi”.
“Ti offro di sperimentare una vita umana; starai con me, parteciperai al mio lavoro, parlerai con le persone, scoprirai cosa pensano davvero di te. Prendila per una breve vacanza”.
Gregory trattenne il fiato, stava rischiando tutto. Era dai tempi del primo prestito per fondare la società, che non sentiva tanta adrenalina scorrere nelle vene.
“Il pericolo ti sta eccitando, Greg. Ti chiamerò così, da ora in poi. E sì, accetto, finché manterrai il mio interesse vivo” anche la morte aveva un senso dell’umorismo, pensò l’uomo, perché un sogghigno assurdo gli aveva stirato gli angoli della bocca “sarà un rapporto funzionante, lo sento. Introducimi alla tua famiglia”.
Il vocio delle chiacchiere curiose che animava in grande salone si interruppe all’improvviso, quando il capofamiglia rientrò, con una mano sulle spalle di un ragazzo dall’aspetto…
bellissimo, sospirò Molly, preda di un attimo di sogno adolescenziale
simpatico, decise Mike, rivolgendogli un gran sorriso
pericoloso, afferrò James
spaventosamente magnifico, ricordò John. Impossibile.
“Greg, ci presenti il tuo amico?” Mike era sempre affabile.
“Certo, vi presento…” e ora? Lestrade lasciò vagare la mente tra i ricordi, cercando qualche nome stravagante tra i libri di avventure della sua infanzia “Sherlock, il mio amico Sherlock. Questi sono i miei figli, John, Molly; suo marito Mike e il mio partner principale, James Moriarty”.
“Che nome insolito, vero Molly? Particolare, romanzesco!”
“E ha anche un cognome, Sherlock?” La voce maligna di Moriarty coprì quella di Stamford, malgrado fosse appena un sibilo.
“Ho un cognome, Greg?”
“Sei sempre divertente. Naturalmente”.
“Dobbiamo indovinare, è un gioco?” James aveva una scintilla nello sguardo che allarmò John, il quale non credeva nelle sue buone intenzioni.
“Holmes” ormai era fatta “Sherlock Holmes”.
“Sembra un personaggio vittoriano, vero?” Molly sorrise al fratello, ma John era di umore nero, lo capì al volo, e decise di non insistere.
“Le porto la cena, signore?” La cameriera si era accostata con modi garbati.
“No, praticamente non mangio”.
“Interessante. Non ricordo dove ha detto che lavora, signor Holmes”. James non si dava per vinto, era intrigato e arrabbiato nello stesso tempo.
“Perché non l’ho detto. E puoi darmi del tu. Ho un accordo con Greg, un affare. E alloggerò qui”.
Quella fu decisamente la frase che mise a tacere tutti.

Il cosiddetto Sherlock girovagò distratto nell’enorme villa, lasciando la famiglia Lestrade a quella che sembrava una lite domestica in piena regola, non era interessato. E quello? Un odore buono. Seguendo la scia il ragazzo entrò nelle cucine, annotando con divertimento che tutti si erano alzati in piedi al suo ingresso.
“Buonasera, signore” quello che pareva il domestico più importante gli era andato incontro, con un fare indeciso “posso fare qualcosa?”
“Cosa manda questo profumo?”
“Biscotti allo zenzero appena sfornati; ne gradisce uno?”
L’appetitoso dolcetto fu adagiato in un tovagliolo di lino e passato nella mano destra di Sherlock. Il primo boccone fu una sorpresa, il secondo una rivelazione.

John aveva sempre amato rilassarsi facendo una nuotata alla fine di una giornata intensa, e mai come quel giorno ringraziò di vivere in una casa così ricca da avere quel lusso a disposizione. Avrebbe fatto a meno di molte cose, ma il piacere dell’acqua tiepida addosso era insuperabile, almeno lo pensava finché, appoggiatosi al bordo per prendere fiato, si trovò di fronte delle scarpe blu con le stringhe.
Seguiva tutto il resto: fisico tratteggiato da un pittore, viso sottile, riccioli scuri. E in mano, Sherlock Holmes aveva una specie di fagotto fatto con una delle loro tovagliette da tè.
“Sono biscotti allo zenzero. Credo che saranno la mia droga, John. Ne hai mai mangiato uno?”
“Perché, vieni da un altro pianeta? Certo, chi non li conosce?”
“Sei ostile, innervosito. Ho fatto qualcosa di strano?”
John non credeva alle sue orecchie. Era una persona mite, di solito, ma farlo arrabbiare faceva affiorare un lato aggressivo che lui per primo non tollerava.
“Ti sei sentito furbo, stamattina? Sapevi chi ero, e hai finto di dedurre cosa faccio, qual è la mia vita… divertente. L’amicizia, l’istinto…”
“Ho detto questo? Non ero proprio in me, oggi” La voce baritonale di Sherlock si scavò un tunnel fino al cervello del dottore, esplodendogli dentro. Lo vide annaspare in cerca di una risposta pungente, finendo solo per serrare le labbra aspirando parecchi metri cubi d’aria.
“Devo essere stato ambiguo, mi succede, credo. Il tuo istinto è impegnato altrove? Sei innamorato di James?”
Non sono gay!” Un grido strozzato uscì dalla gola di John. Non voleva che nessuno lo sentisse, ma non ce la faceva più. “E casomai non sarebbero affari tuoi!”
“Capisco. Però resta l’altra opzione”. Sherlock si girò, prese un asciugamano e lo porse in direzione di John, che non usciva dall’acqua, come se si sentisse in difficoltà in costume di fronte a lui.
“Sono a disagio con le persone, non ho neppure un amico. Vorresti essere tu?”
Senza poter dire perché, John si ritrovò a fare cenno di sì con la testa, afferrando l’asciugamano e sentendo che quella era la proposta più pericolosa che avesse accettato in vita sua.


*Asking Alexandria, “The Death of me”
Note: benvenuti in questa piccola avventura; almeno spero di parlare a qualcuno ^-^!
Naturalmente in questa rivisitazione di “Meet Joe Black” i personaggi di Sherlock non hanno mantenuto l’età, la parentela e i rapporti che conosciamo: non sarebbe un movieverse. Per cui… prendete per buono quello che leggete, specie eventuali cambi di cognomi ; )
p.s giuro, tenterò di fare capitoli più brevi e credo che saranno ogni due settimane. Grazie di aver letto!

 

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Capitolo 2
*** Live and let die ***


Documento senza titolo

Grazie infinite a  Emerenziano, CreepyDoll, Sora_ale, Iryland, af_Eleven_ ,baileyzabini90, clelia91, Saeros25 per aver recensito e/o seguito: mi date speranza! *-*  

                                                                 capitolo 2: Live and let die

Gregory avanzava con passo disinvolto, sperando che l'atteggiamento bastasse a mascherare lo stato di terribile ansia che lo stava divorando ogni minuto di più.
Era una sensazione fastidiosa e sconosciuta che partiva dallo stomaco e saliva nella gola, dandogli l'impressione di non avere aria sufficiente a respirare bene.
Non era preoccupazione per lo spinoso argomento che doveva affrontare durante il consiglio dei dirigenti, ma il brivido freddo che correva lungo la schiena dall'istante in cui ‘Sherlock’ gli aveva annunciato con fare serafico che sarebbe andato al lavoro con lui. Lestrade si sarebbe opposto, ma le avvisaglie di infarto erano terminate: il suo amico manteneva la parola, e non voleva certo farlo arrabbiare.
Quando la porta si aprì un'ondata di gelo discese nell’ufficio.
I soci maggioritari erano come paralizzati, tranne Moriarty, che non avrebbe mai dato l'idea di essere colpito dall'atteggiamento di qualcun altro.
Si avvicinò tendendo la mano, con un falso ed esagerato sorriso, elegantissimo in un completo di Versace grigio scuro con i profili neri, i pantaloni strettissimi e una cravatta di seta rosso cupo.
“Ma buongiorno, signor Holmes… Sherlock! Vedo che dovremo fare l’abitudine alla sua presenza”.
Gay”.
“Cosa?” La risposta di Sherlock era stata un sussurro, ma James aveva sentito più che bene.
“Hey. Come stai? State tutti bene, spero”. Il bruno si voltò in cerca dell’approvazione di Gregory, con l’aria di dire ‘vedi quanto sono gentile, se voglio?’
“Avremo un ospite, quindi”. Il fidato braccio destro di James, Irene, non si era fatta certo intimidire, anzi. Valutò con una veloce occhiata il nuovo arrivato, trovandolo evidentemente di suo gusto; non sarebbe stato il primo né l’ultimo a passare dalla loro parte nelle decisioni da mettere ai voti grazie a qualche incentivo rilasciato sotto una scrivania. E l’avrebbe fatto più che volentieri, questa volta.
“Mi occupo di molte cose contemporaneamente, e sì, mi vedrete spesso” ignorando le gerarchie nonché il fastidio di aver interrotto un consiglio, Sherlock si accomodò al posto di Lestrade, guardando fisso James.
“Adesso vorrei molti biscotti allo zenzero, ne vado matto. Fatemeli portare, per favore”.
“Altro? Noi qui non abbiamo niente da fare, evidentemente!” James aveva perso per un attimo il suo sangue freddo, sporgendosi col busto in un gesto aggressivo che non era riuscito a trattenere, pur tentando di minimizzarlo con la sua inquietante risata.
“Sì, dell’Earl Grey, anche se non è disponibile”.
“Non stiamo giocando, signor Holmes” un uomo alto e imponente, con corti capelli castano chiaro brizzolati sulle tempie, si era alzato per tendere la mano al giovane “se Greg si fida di lei avrà i suoi motivi, ma forse questa riunione deve continuare a porte chiuse”.
“Questo è il nostro revisore, Sebastian Moran, Sherlock. Oggi dobbiamo discutere della possibilità di una fusione col nostro principale rivale, Culverton Smith. È un azzardo che non amerei troppo, ma forse sarà inevitabile”.
“Come la morte e le tasse!” Rispose gioviale Mike Stamford.
Un sorriso malizioso illuminò il viso di Sherlock. “Allora devo proprio restare, temo”.
“Non credo, no! Qui nessuno ti conosce, non sappiamo cosa vuoi, che ruolo stai giocando… abiti a casa di Greg, gli dai del tu…”
“Hai ragione, Jimmy. Vivo con la famiglia di Greg. Ti dà fastidio, chiaramente, ma dovrai fartene una ragione. Abbiamo degli affari personali, non mi importa niente di questo Smith, né devo chiedere la vostra approvazione”.
“Non conosce il Cereal Killer?” La voce insinuante di Irene catturò l’attenzione di Sherlock.
“Serial killer? Ne conosco più di uno, naturalmente, di persona. Interessante”.
Mike accennò una grassa risata, trattenuta tra le labbra socchiuse. “Sei un bel tipo, Sherl! Posso chiamarti così?”
“Come preferisci”.
“Bene, ora vorrei chiederti solo un po’ di tempo col mio consiglio, Sherlock” Greg tentò una mossa disperata “perché non fai un giro turistico, Londra ha mille attrattive. Forse ti servono dei contanti”.
“Il vostro denaro”. James guardò a bocca aperta Sherlock prendere un fascio di sterline come se fossero soldi del Monopoli “In che ospedale lavora John? Siamo molto amici, vorrei andare a salutarlo”.
“Al S. Bart’s”. Un lieve timore sfuggì tra quelle poche parole, ma l’essere sovrannaturale fece finta di non notarlo.
“Signora, signori. Vi auguro la migliore giornata di sempre”.
Lasciandosi alle spalle ― appropriatamente ― un silenzio di tomba, Sherlock aprì la pesante porta, e si sporse sopra una spalla per fare l’occhiolino ad un pubblico che si sarebbe potuto definire di statue viventi.
La corsia del pronto soccorso era affollatissima, visto il numero di pazienti che arrivava come un flusso interminabile. Sherlock riusciva a sentire alcuni pensieri, quando erano forti, disperati e particolarmente rivolti a lui.
‘Non voglio morire oggi’; ‘questa ferita mi sembra fatale’; questo era normale, pensò. Ma la quantità di frasi dei medici del reparto che potevano riassumersi in ‘la miglior cosa sarebbe che morisse subito’ non era abituato ad ascoltarla. Era in vacanza, però: per qualche giorno non se ne sarebbe curato.
Uno soltanto non stava formulando idee del genere, e non aveva dubbi che quel canale energetico lo stesse conducendo nella giusta direzione.
John era accanto ad una barella sulla quale un ragazzino terrorizzato piangeva mentre lui gli ricuciva un taglio piuttosto profondo su una gamba, lasciando che la madre gli tenesse la mano invece di allontanarla come da prassi della procedura di emergenza. Mentre metteva i punti di sutura tentava di distrarlo, chiamandolo spesso per nome e tranquillizzandolo; sarebbe tornato presto a gareggiare sullo skateboard, senza problemi. Appena terminato si prese solo il tempo per gettare i guanti e disinfettare le mani, prima di dedicarsi ad un'altra persona in attesa.
C’era un’anziana donna su una sedia a rotelle, lasciata sola da una parente che non poteva aspettare il suo turno. John si diede un’occhiata intorno e decise di rischiare visitandola prima che chiamassero il suo numero per non abbandonarla spaventata e senza alcun appoggio.
“Signora, come si chiama, cosa posso fare per lei?”
“Mi chiamo Martha… oggi lei è il mio dottore?”
“Sì, sono io” John le rivolse un sorriso affettuoso, sedendosi sui talloni per portarsi all’altezza del suo viso “è già in cura presso di noi?”
La donna ricambiò, malgrado fosse evidente che soffrisse, doveva essere una persona simpatica e di spirito. “Ormai sono qui solo per la terapia del dolore, dottor…”
“Lestrade, Martha. Mi dispiace sinceramente; la stanno facendo aspettare? Vado a sollecitare la capoinfermiera”.
L’anziana non rispose nulla, insospettendo John, che pensò stesse avendo un attacco molto brutto in quel momento, ma non era così: i suoi occhi stanchi erano completamente sbarrati in direzione di un ragazzo che si stava avvicinando a loro, con un passo così felpato da essere inudibile.
I suoi occhi celesti cambiavano man mano che si facevano più prossimi, passando a sfumature carta da zucchero, perlacee, e in ultimo di un grigio metallico, aspro e tagliente: ma questo lo vide solo la povera donna.
John si accorse solo di deglutire a fatica, mentre Sherlock si portava ad un soffio di distanza da lui; quando ormai stava per dover cercare un punto d’appoggio ― magari la stampella che qualcuno aveva lasciata in un angolo del corridoio ― una collega si sbracciò per chiamarlo di corsa. Il dottore la seguì senza esitazioni.
“Sei qui per me, vero?” Martha alzò su Sherlock uno sguardo pieno di speranza. “Comprendo chi sei, ti stavo aspettando… era ora”.
“Non sono qui per te, donna. Non vedi che ho da fare?”
La signora gli prese la mano, senza alcun timore. “So che un tumore mi sta mangiando, e che tu mi farai smettere di soffrire; non aspettare, ti prego”.
Sherlock si liberò delicatamente della stretta, osservando attentamente la creatura dolorante che aveva di fronte. Passò le dita affusolate sui suoi polsi segnati dai fori delle flebo, poi sul viso come una carezza, cercando le piccole lesioni della pelle, lasciando un momentaneo sollievo.
“Non potresti lasciarmi morire? Ti prego… ora non sto soffrendo, portami via”.
“A presto” la voce di Sherlock era un sussurro “oggi non sono qui per questo”. Con un ultimo tocco lieve sul viso si allontanò, girandosi di scatto appena avvertì due occhi blu come l’oceano che lo guardavano con dei sentimenti che erano evidenti persino per lui. Non se ne curava, non erano certo un vantaggio nel suo lavoro, ma questa volta non riusciva ad alzare una barriera efficace.
John lo raggiunse, affondando le mani nelle tasche del camice, con fare imbarazzato.
“Dovresti essere al mio posto, forse! Peccato che tu non abbia scelto questa carriera, sei bravo”.
“Mi dispiace, non dovevo intromettermi”.
“Non scusarti, per favore. Sei stato così dolce con quella signora… scommetto che le ricordavi un figlio, sembrava che volesse venir via con te”.
“Non lo so, John. Potrei non essere quello che credi”. Ad un emozionato dottore non rimase che tenersi i suoi dubbi, sia sull’identità dl suo nuovo amico, che quelli ai quali si ostinava ancora ad aggrapparsi.


Gregory aveva un rituale, prima di affrontate una giornata più difficile delle altre: sostava qualche minuto nello studio, passando in rassegna le fotografie preferite, che aveva fatte incorniciare con semplici montature di argento massiccio. Per prima la sua, di fronte alla palazzina dove aveva creato la prima sede della ditta; poi quella piccola, in bianco e nero, dei suoi genitori.
Seguiva quella con Molly e John con la toga della laurea, e infine quella di sua moglie.
Senza dire nulla, dava un bacio sul palmo della mano destra e lo posava sul ritratto. Non era più così dispiaciuto di raggiungerla, era solo in allarme per tutto quello che avrebbe lasciato in sospeso.
Quando entrò in sala da pranzo, James stava discutendo con Sherlock, la qual cosa non lo stupiva affatto.
“Non dovresti pretendere di insegnare agli altri cosa fare, James, non dopo aver comprato l’esame di scienze politiche e quello di diritto romano. So che questo lo trovavi inutile e faticoso, ma la tua preparazione non è completa”.
Moriarty spalancò a dismisura la bocca per rispondere una nutrita serie di insulti, ma prima che potessero volare parole grosse, successe qualcosa di incredibile.

Feel the city breakin' and everybody shakin'
And we're stayin' alive, stayin' alive

“È la mia suoneria… ti dispiace?”
“No, figurati, fai con comodo”.
Greg dovette mordersi la lingua per non scoppiare a ridere. Era davvero quel ragazzo il partener giusto per suo figlio? Certo era uno squalo se si trattava di vincere una gara, ma che altro avrebbe saputo offrire?
Quando il suo giovane socio chiuse la telefonata, Lestrade lo affrontò di petto.
“Forse possiamo ridiscutere tutto, James. Non sono convinto che fonderci con l’impero di Culverton Smith sia un vantaggio. Invece di unirci, rischiamo di essere assorbiti, e questo è il lavoro di una vita, desidero che i miei figli lo portino avanti, anche se non sarà il loro interesse primario”.
“Greg potrebbe avere ragione, Jimmy” la voce paciosa di Mike spezzò la tensione “abbiamo di certo un paio di giorni prima della firma, non ci costa nulla rivalutare bene tutta la proposta”.
“Certo, se lo dici tu”. James mise un braccio sulle spalle di Mike, portandolo fuori, sorridendo in quel suo modo inquietante “andiamo a pranzo, che dici? Offro io, o magari in ultimo ti lascerò pagare… sono così volubile!”
Sghignazzando e dandogli pacche amichevoli sulla schiena Stamford si lasciò condurre fuori, mentre gli altri soci si apprestavano a fare lo stesso. Irene si fermò a consultare gli sms sul suo prezioso cellulare, che non lasciava mai incustodito. ‘Prepara una copia del contratto con le nostre modifiche. J.M.’
Un piccolo verso di soddisfazione fu la vera risposta, mentre sul telefono di James compariva uno stringato ‘sì’.
Quella sera John era stanchissimo, dieci ore di turno prolungato si facevano sentire, però niente gli avrebbe impedito di riprendere il discorso con Sherlock. Era rimasto così colpito dagli avvenimenti del pomeriggio da essere certo che non avrebbe neppure potuto dormire senza fare qualche domanda, in modo discreto, a quel ragazzo. Dopo pochi minuti dall’incontro con la signora Martha si erano dovuti separare, e anche il motivo della puntata in ospedale era rimasto ignoto.
‘Fa’ sì che sia come credo’ pregò John, rivolto a qualche divinità non ben identificata ‘poi penserò al resto. Poi’.
Quando riuscì ad abbandonare le sue fantasticherie, John si rese conto di essere già a tavola, con Molly che scherzava con Sherlock.
“Davvero? Ci sono aragosta, tartine di caviale e vino francese, e tu…”
“Vorrei dei biscotti allo zenzero, un vassoio”.
“Non è spassoso il nostro Sherlock, papà?”
Prima che suo padre potesse rispondere John interruppe il discorso in un modo maleducato che non era da lui, la tensione era insostenibile.
“Cosa hai detto prima alla mia paziente, Sherlock? Mi hanno riferito che è rimasta come sedata senza fare la morfina”.
Il bruno si limitò a rivolgergli un sorriso enigmatico, bevendo un sorso di tè.
“L’ho consolata. Non si fa così?”
“Ti sei trattenuto in ospedale?” Il tono di Gregory tradì un’ombra di paura.
“Sì. Ero curioso di vedere John all’opera, è davvero bravo. Non dovrebbe sprecarsi in situazioni indegne di lui”.
“Il S.Bart’s è un’ottima clinica… dove vai, John?”
Il giovane aveva capito più che bene la risposta di Sherlock, e borbottate delle scuse confuse era praticamente fuggito via, seguito dall’essere sovrannaturale, che aveva chiesto venia con un gesto del capo e si era alzato per seguirlo.
Lo raggiunse poco dopo, sui gradini che portavano alle stanze da letto, al piano superiore.
“Vorrei fare qualcosa per aiutarti, John. Non devi dire niente, se non ti viene spontaneo. James Moriarty non è davvero innamorato di te, lo sai. Non mi piace, sento dei pensieri oscuri nella sua mente”.
Il medico strinse il corrimano fino a far diventare le nocche bianche. Come si permetteva quello sconosciuto di affrontarlo così sulla sua sessualità, sui suoi sentimenti ― come si permetteva di avere ragione?
Tutti lo trattavano con più rispetto, ed erano i suoi familiari. Suo padre faceva degli accenni, Molly gli ripeteva sempre di parlare con lei quando si fosse sentito, di qualunque cosa ― di quello, ovvio ― avevano il tatto di fingere di non capire troppo. E senza voler fare male, di mentirgli.
Ripensò a James che l’aveva baciato il giorno dei suoi venticinque anni protestando poi di essere ubriaco fradicio, lui che aveva sempre il controllo della situazione. L’aveva tempestato di sms di scuse, alcune patetiche, altre che terminavano con degli smile e la frase ‘non ti manco?’, finché per il bene della società aveva finto di credere in uno stupido scherzo.
“Non parliamo sempre di me. Sono io a non sapere niente e vivi in casa mia. Sei sposato?”
“Col mio lavoro, da un’eternità”.
“Ma hai una ragazza? O un ragazzo? Perché non c’è niente di male, no?”
Le parole di John erano strozzate, quelle di Sherlock tranquille e leggere.
“No, non sarebbe sbagliato, certo. Ma gli esseri umani non sono proprio un interesse romantico, per me”.
Dette da qualcun altro quelle sarebbero sembrate solo le stramberie di un eccentrico, ma John sentì di cercare un significato profondo in ogni sillaba, di credere di stare ascoltando una verità, per quanto incomprensibile.
Un tremito lo attraversò mentre fissava gli occhi di ghiaccio del suo interlocutore, e non riuscì a trattenersi.
“Chi sei tu? Perché sei un essere meraviglioso, e io ho bisogno di capire. Voglio sapere chi sei in realtà, perché sto male se mi sei vicino, e sto male se non ti vedo. Eppure so già che mi risponderai che deve restare un mistero”.
Sherlock rimase serio, sfiorando appena le labbra di John con le dita.
“Sì. Grazie di capire. Per adesso è così. Ed è preferibile che le cose non cambino”.

note: ho pubblicato 2 giorni in anticipo sui 14 previsti, per non rischiare, all’opposto, un ritardo. Spero che – sempre se c’è qualcuno – vada bene! #^-^#




















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Capitolo 3
*** Killing me softly with his song ***


Documento senza titolo

Grazie ancora a Emerenziano, CreepyDoll, Sora_ale, Iryland, af_Eleven_ ,baileyzabini90, clelia91, Saeros25, Phoenix369, Harryet, Maheibellagenteh, Betely , Pixforever per aver recensito, preferito e/o seguito…
Scusatemi per la scelta che ho fatto, quella del semplice rating arancione e non rosso; spero di non essere un’assoluta delusione, ma ho cercato di seguire l’atmosfera del film…

Capitolo tre: Killing me softly with his song

Strumming my pain with his fingers
Singing my life with his words
Telling my whole life with his words
Killing me softly with his song

“Potresti deciderti una buona volta, papà. Sono in ritardo, e tu scegli di fare questo discorso proprio ora?”
John non stava affatto alzando la voce, ma aveva quel tono forzatamente calmo che non ammetteva repliche. Non lo usava mai con suo padre, andavano troppo d’accordo, ma quel discorso era il suo tasto dolente.
“Mi sembra che pochi giorni fa mi rimproveravi di essere troppo solitario, di non lasciare spazio a… aspetta: una passione che ti consumi? Hai detto così, e ora mi metti in guardia contro il pericolo di perdere la testa per qualcuno? Non ho intenzione di richiamare Mary né di andare con James a cenare a lume di candela, quindi… oh. Non intendevi loro, ho indovinato?”
Gregory prese un bel respiro, sistemandosi il nodo della cravatta in un gesto abitudinario che lo aiutava a concentrarsi.
“Forse ho sbagliato, perché mi preoccupo come se fossi ancora un ragazzino. Insomma, Molly ha un ottimo matrimonio, e con te mi sono lasciato prendere la mano. Non sono immortale, sai!”
“Che dici? Tu arriverai a cent’anni! Comunque la possibilità che ti preoccupa non esiste, come ti viene in mente?”
“Non ho nominato nessuno, eppure hai capito subito. Non ti devi nascondere da me, John, solo cerca di comprendermi; stai lontano da tu sai chi”.
“Perché, è Lord Voldemort in incognito? Dai, papà… non ridi?”
No, Gregory non trovò nulla di divertente in quella battuta che gli sembrava aleggiare intorno a suo figlio come una nube che porta tempesta.

“I compiti peggiori li riservi a me, James, non ci conterei ancora per molto”.
Irene abbassò lo specchietto da borsetta, dopo aver passato sulle labbra una generosa quantità di “Rosso Sangue” della sua marca preferita.
“È lavoro, ma la prossima volta a trattare con un uomo così repellente ci andrai in persona, credo che quello che posso fare io, potresti farlo anche tu. Magari in modo creativo”.
James scoppiò in una risata isterica, lasciandosi cadere sulla poltrona da dirigente di Gregory come su un trono, trovando molto divertente attaccare la gomma da masticare sotto il tavolo.
“Pensa a quello che potrai ottenere con la tua quota, cara. Non ti pentirai; invece se mi tradissi ora, potrei prenderla male”. James si osservò la punta dei costosi mocassini di Gucci. “Un paio di scarpe realizzato con quella tua pelle chiara non mi dispiacerebbe”.
“Certo. Ricorda che devi intestarmi subito le azioni e così per Moran. Siamo nella stessa barca, Jimmy”.
“Che noia, ripetete tutti delle frasi prevedibili… ma sì, io avrò anche un benefit. O due, chissà”.
Ad Irene non fu affatto difficile capire a cosa si riferisse il suo socio.
“Dobbiamo convincere quello stupido di Mike Stamford, però, lui è fondamentale”.
“Già fatto, non ha neppure capito cosa stava succedendo! Il vecchio Mikey si scioglie di fronte ad una buona birra, una barzelletta e qualche stretta di mano da vecchi amici. ‘Gregory è stanco, la fusione va manovrata in modo da farla pesare il meno possibile sulle sue spalle, guadagneremo tutti e lui potrà ritirarsi, se vorrà, con una pensione da nababbo, bla, bla, bla…’ il che è vero! Avresti dovuto vedere i suoi occhi bovini tutti raggianti… i nostri voti riuniti superano la percentuale delle sue azioni, Lestrade si è fidato troppo, non potrà farci niente. Ho solo un piccolo, insignificante dubbio”.
“Su Sherlock Holmes” Irene era un’ottima osservatrice “io non posso fare nulla, è chiaro che non mi considera. Fissa sempre te, o John. Non credo con lo stesso interesse… ma del segreto con cui tiene Gregory in pugno non ho afferrato nulla, è la persona più indecifrabile che abbia incontrato. Solo un fantasma può essere così sfuggente”.
‘Ma sono troppo intelligente per temerlo’ pensò James, rimirando la sua perfetta manicure.

♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥

“Queste cosa sono?”
“Mi sembra evidente, Greg! Sono cinque tipi di torta, Molly è impazzita per cercare di indovinare i tuoi gusti. Una è al lime, buonissima… io le ho già sperimentate tutte” non era difficile credere a Mike mentre teneva la mano di Molly per farle animo e praticamente si leccava i baffi pensando ad una seconda fetta “assaggia questa: meringa, cioccolato e ribes rosso”.
“Che vuoi che mi interessi di una torta, no, di tutta la dannata festa!”
Gregory si sarebbe morso la lingua, a proposito di masticare qualcosa, ma ormai era troppo tardi.
Delle lacrime di mortificazione, sempre più grandi, rotolavano dagli occhi buoni di Molly, fino ad evaporare sul contorno del viso leggermente arrossato dalla vergogna.
“Non faccio niente di abbastanza notevole, vero? Non conto, non ti importa nulla, sei felice solo quando guardi John”. Molly non era gelosa del fratello, ma in alcuni momenti le era impossibile frenare certi pensieri “sto impazzendo per offrirti una festa di compleanno che non sfigurerebbe a Buckingham Palace e tu non vuoi neppure provare un dolce…”
Gregory si sentì un verme, accorgendosi di aver trascurato l’idea che anche Molly avrebbe sofferto la sua mancanza nello stesso modo, anche con un marito innamoratissimo accanto.
“Perdonami, Molly. Sono terribilmente preoccupato per la svolta totale che devo orchestrare per la nostra ditta. È ovvio che voglio la torta, anzi le ordiniamo tutte!”
Greg afferrò una forchetta, prendendone un bel pezzo, sollevato di vedere il sorriso disarmante di sua figlia affiorare di nuovo tra le lacrime che si andavano asciugando.

Le dita fini di Sherlock scorrevano sulle costine dei testi antichi come sui tasti di un pianoforte, pensò John, osservando con rapimento il suo strano, carismatico amico che stava scoprendo le meraviglie della loro immensa biblioteca.
“Questo cos’è?” Il bruno si era fermato su una raccolta di Shakespeare, come se stesse decifrando i titoli attraverso i polpastrelli, ricordando al dottore il tirocinio che aveva sostenuto il secondo anno, quando aveva osservato dei pazienti non vedenti che nella sala d’attesa leggevano speditamente in Braille.
Ma non era neppure quello, era come se assorbisse magicamente informazioni toccando l’esterno dei volumi. Ovviamente era pura follia, quel ragazzo l’aveva completamente scombussolato.
“Giulietta e Romeo, un’edizione del diciannovesimo secolo, con delle incisioni di Dorè”.
“Di cosa parla?” L’espressione di John era impagabile.
Stai scherzando? Nessuno è così ignorante! No, scusa, volevo dire…”
“Ignorante, che è quello che stavi pensando. Non sono offeso, non so niente di letteratura o arte, non mi interessano per il mio lavoro. È così bello incontrare una persona sincera come te, John: non mi stanchi mai, comincio a pensare che mi piacerebbe passare molto, molto più tempo con te”.
“Sono solo stato maleducato, mi dispiace. Immagino che avrai studiato matematica. Ma non me lo dirai”.
“No. Raccontami di cosa parla il libro”.
“È la storia d’amore più famosa del mondo, credo. Romeo e Giulietta si amano, ma le loro famiglie sono rivali, e alla fine moriranno pur di restare uniti; un destino così sfortunato”.
“Ma in questo modo non si separeranno mai. Leggimi un passaggio”.
Il biondo lo fissò a bocca aperta. “Non l’avevo considerato così. Sei incredibile, straordinario. Bene… non sono un grande attore, però”.
Con un leggero tremito nella voce, John cominciò a recitare alcuni versi, da una pagina a casaccio.
“E allora non ti muovere fin ch'io raccolga dalle tue labbra l'accoglimento della mia preghiera” John ebbe un’esitazione “ecco, dalle tue labbra ora le mie sono purgate dal loro peccato”.
“Cosa succede nel momento in cui ti sei interrotto?” La voce di Sherlock era morbida e suadente.
“Si… si baciano”.
“Davvero, John? Così?” La bocca rosea dell’essere sovrannaturale sfiorò quella dell’altro, lasciandolo senza parole. “In effetti una bella sensazione. Mi piacerebbe leggere altro Shakespeare con te, magari stasera quando tornerai dal tuo turno. Ti aspetto in piscina, visto che sei lì tutte le notti”.
“Mi spii?” John non era affatto seccato, solo troppo sconvolto per reagire, era evidente.
“Non ne ho bisogno. Lo so”. Al dottore non rimase che cercare di calmare il battito del cuore mentre, con un gesto di saluto appena accennato, scappava dalla sua voglia di non andare più via.

Gregory incrociò al volo suo figlio, non facendo alcuna fatica a decifrare la sua aria imbarazzatissima; gli avrebbe fatto un discorso più tardi, ora il suo sesto senso di brillante uomo d’affari stava mandando tali segnali d’allarme da obbligarlo a restare concentrato.
“Buongiorno, Gregory, aspettavamo solo te”. Moriarty era appoggiato al grandissimo tavolo delle riunioni come un gatto in agguato per afferrare un topo.
“Dobbiamo darti una notizia. Può essere buona o cattiva, dipende solo da come la vorrai interpretare” il giovane scivolò in modo leggiadro verso Lestrade “siamo andati avanti nella trattativa con Culverton Smith. Non è precisamente un uomo malleabile, così abbiamo dovuto cedere su qualche punto…”
“E il mio consiglio ha ascoltato te, senza convocarmi?”
“Il punto è che non sembri più il leone che eri un tempo, Gregory. Specie da quando non muovi un passo senza l’ombra del misterioso Holmes; lo consideri più di noi, che ti sosteniamo da una vita, hai paura di fare un passo senza di lui, ci siamo sentiti a rischio”.
“Non devo rendervi conto di niente, siete il mio consiglio di amministrazione, voi mi dovete delle risposte!”
“Ecco, come pensavo! A questo punto vogliamo sapere chi è Sherlock Holmes, se è il suo nome! Cosa fa, da dove viene, perché ti manovra come un pupazzo! Niente, non parli! Non ci resta altro da fare, mi dispiace moltissimo, Gregory, ma non ci lasci scelta. Ti manderemo in pensione come Presidente onorario, siamo d’accordo tutti; sai che raggiungiamo il sessanta per cento delle quote, la mozione è già approvata, aspetteremo il tuo compleanno per rispetto di tutti gli anni passati insieme”.
“Cosa credi di fare, James?” Gregory era scattato senza esitazione, fermato da alcuni soci che lo trattenevano di forza mentre Moriarty stava visibilmente gongolando.
“Non ci fondiamo con Smith; ci assorbirà, pagando una cifra con tanti zeri che dubito entrerà in un assegno! Andiamo, Greg, è un vantaggio per tutti. Di fatto manterremo i nostri posti, ma con la liquidazione della chiusura della Lestrade Company, tu non dovrai lavorare più e ti godrai una vita faraonica, credimi”.
Gregory tentò di mantenere la calma, voltandosi verso Stamford.
“Mike? Non posso crederci…”
“Non volevo, Greg, lo giuro! Non sapevo cosa stavo firmando, credevo fosse solo l’approvazione della fusione, non di cedere la ditta… non volevo, Greg, noi siamo una famiglia! Non ti avrei tradito!”
“Non parlarmi più, Mike. Mi hai ingannato, o sei troppo stupido, se penso alla mia Molly…”
James scoprì i denti candidi mentre sogghignava felice, soffiando nell’orecchio di Lestrade.
“Convincere il vecchio Mikey è stato come bere un bicchier d’acqua, credevo di volermi buttare dalla finestra per la noia… Ma pensavo che tu saresti stato un osso duro, Gregory. È stato il signor Holmes a firmare la tua condanna, non sei più te stesso… o forse è merito mio” Moriarty sollevò il braccio destro come reggendo uno scettro immaginario “sono proprio il Napoleone della finanza”.


I minuti erano sembrati ore, e ogni ora un’era geologica a John, quel giorno. Appena rientrato a casa si trovò a posare la borsa nel primo posto che gli capitò, precipitandosi verso la piscina, rallentando nel momento di varcare l’arco che introduceva al locale, col suo tepore accogliente e le luci soffuse.
Sherlock era lì, se possibile reso più sfuggente alle regole che limitavano i comuni esseri umani, con i riflessi dell’acqua che luccicavano anche nei suoi occhi come se fossero specchi. Ovviamente era solo quel bellissimo colore tra il celeste e il grigio, e anche un po’ di stanchezza, non c’era altra spiegazione.
“Questa è la parte di casa che preferisco”. John tentò senza alcun successo di mantenere un’aria serena mentre slacciava la giacca blu, ma prima che potesse continuare Sherlock si era come materializzato alle sue spalle, aiutandolo a sfilarla.
“Grazie… certo se ci vedessero in questa piscina poco illuminata che ci togliamo gli abiti, le persone sparlerebbero…”
“Quindi suggerisci che ci spogliamo a vicenda”.
No! Cioè, va bene, non si fa certo il bagno vestiti, è che l’hai detto come…”
“Come se mi facesse piacere, perché è così. Tu non vuoi vedermi nudo, John?”
Il dottore restò impietrito, completamente incapace di organizzare una risposta sensata.
Sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare, reagire da uomo e spaccare la faccia di quell’insolente, dirgli il fatto suo. Non certo avvicinarsi, stringere i lembi della sua camicia e cominciare ad aprire i bottoncini uno ad uno come se potessero esplodergli tra le mani, sfiorare quella pelle candida che era affiorata tra la seta viola; e allora perché lo stava facendo?
Sentì le dita impossibilmente belle di Sherlock sul contorno del suo viso, che disegnavano una linea di scosse elettriche troppo potenti per poterle ignorare, e neppure si accorse di come e quando il bruno fosse rimasto solo con dei boxer grigi addosso.
John fece un salto indietro come se si fosse scottato con l’olio bollente.
“Non va bene. Perché tu stai presumendo… perché io non sono…”
Sherlock non rispose subito; preso un telo di cotone bianco se lo avvolse come una versione terribilmente sensuale di una tunica, gli occhi che mandavano bagliori cristallini mentre si privava dell’intimo, gettandolo via in un angolo.
John era senza fiato, in parte perché non aveva mai visto qualcuno diventare una tale provocazione coprendosi più di prima, in parte perché il terrore che gli stesse leggendo dentro era qualcosa di assoluto e ingestibile.
“Non mi importa cosa sei, o cosa non sei, John, perché anche per me non c’è una definizione che potresti adoperare. Percepisco la tua paura, e non dovresti averne. Che mi desideri, e pensi che sarebbe una sentenza. Eppure sono io che dovrei preoccuparmi un po’, non ti sembra?”
John si dimenticò di respirare guardando Sherlock che si adagiava su un fianco su una sdraio di bambù col materassino, il braccio destro che sorreggeva la testa e un sorriso malizioso che sembrava catturarlo come un laccio invisibile.
“Perché so come ti voglio” con la mano sinistra Sherlock prese un lembo del telo, e lo abbassò leggermente fino a scoprire la cintura pelvica “vieni vicino a me”.
Solo dopo essere crollato come una bambola di stracci in ginocchio vicino alla sdraio John si rese conto di aver fatto cinque passi, inghiottendo le lacrime che volevano liberarsi, e di aver posato la fronte contro il petto di Sherlock.
Le dita fresche della creatura accarezzarono i capelli biondo sabbia, aspettando che il tremore che si era impadronito del ragazzo si attenuasse, parlandogli all’orecchio come se qualcuno potesse ascoltare, rubando l’intimità di quel momento.
“Pensi che tuo padre o Molly ti ameranno di meno?”
“No. Sembra così facile rispondere, se lo chiedi tu. No”.
“Che avrai problemi in ospedale?”
“Non credo, ho vari colleghi che sono dichiarati”.
“Che sono dichiarati cosa? Dillo, John”. La voce di Sherlock era più bassa adesso, come se potesse ineluttabilmente ancorarsi nella profondità dell’animo del dottore, senza dargli modo di scappare.
“Di essere gay” John spinse il fiato fuori dai polmoni come se schiacciasse un sacchetto di carta per far uscire il contenuto “invece io volevo essere come mio padre, Sherlock. Volevo una famiglia, lasciare qualcosa che restasse”.
“Potresti adottare un bambino, John, sarebbe molto fortunato. E soprattutto lascerai vita, quella delle persone che salvi. Permettimi di dire che sono esperto, è la cosa più difficile. Tu sei perfetto come sei. Adesso occupati di me, però. Dolcemente”.
John alzò gli occhi, guardandolo come la manifestazione di un sogno.
“Sì… non c’è niente che vorrei di più dal momento che ti ho visto, oddio, è bellissimo poterlo dire!” il giovane continuò a parlare tradendo molto imbarazzo “Dolcemente, certo… anche se non sarò un granché, temo. Ti deluderò, e non vorrei, sei talmente meraviglioso che è difficile credere che tu sia vero”.
“Non sai quanto hai ragione, John. Eppure andrà tutto benissimo, in fondo anch’io non ho alcuna esperienza”.
“Che vuoi dire? Scusa non ho capito, non posso aver capito bene”.
“Sei l’unico essere umano che abbia mai avuto il permesso di toccarmi, John. Immagino che mi definiresti vergine, anche se si tratta di qualcosa di più”.
“E vuoi me? Potresti avere chiunque, voglio dire… forse un divo del cinema sarebbe alla tua altezza. O il principe ereditario”.


Ci sentiamo tra due settimane, se ci sarà ancora qualcuno… #^-^#










 





 


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Capitolo 4
*** I will lie for You, I’ll die for You ***


Documento senza titolo

Grazie infinite ad Emerenziano, CreepyDoll, Sora_ale, Iryland, af_Eleven_ ,baileyzabini90, clelia91, Saeros25, Phoenix369, Harryet, Maheibellagenteh, Betely , Pixforever, Nina98, aleprincy, Derveni, Trailunwinki, per aver recensito, preferito e/o seguito…
Mi scuso nuovamente di aver scelto il rating arancione, senza tornare sui miei passi… credo che questo abbia fatto fuggire molti lettori!

Capitolo 4: I will lie for You, I’ll die for You

Sherlock gli dedicò uno sguardo che da solo avrebbe fugato qualunque dubbio sulla concretezza delle sue intenzioni.
“Ma io desidero soltanto te, perché sei speciale, così pieno di luce. John? C’è qualcosa che non va in quello che faccio?”
“No! Perché lo chiedi? Sono io che ti do questa impressione?”
“Hai un’espressione triste, forse vorresti che la avessi anch’io, anche se non capisco il motivo”.
“Non è così, è che… ecco, fare l’amore con qualcuno è una cosa seria, se la persona ti piace davvero”. John inghiottì a fatica dopo quella frase. Si sentiva più esposto negli ultimi minuti di quanto lo fosse stato nel resto della sua vita.
“Quindi non dovrei sorridere o divertirmi, o essere felice. È sbagliato?”
“Sarebbe bellissimo! Io, intendevo… si preferisce mostrare altre emozioni, è un codice, si può dire”.
Sherlock liberò una sottile risata cristallina che risuonò direttamente nel cervello del dottore come un tintinnio di campanellini.
“I codici degli altri non valgono nulla, per me. Io mi aspetto che stia per succedere qualcosa di bellissimo, e ho scelto di farti capire quanto mi starà piacendo. Tu puoi fare come vuoi”.
La creatura risollevò John facendolo appoggiare sull’orlo della sdraio, poi ebbe un ripensamento.
“Vorresti alzarti e spogliarti per me?”
Solo il giorno prima questa richiesta farebbe stata accolta da una colorita bestemmia, ma niente fu più naturale per il dottore che improvvisare un impacciato spogliarello, quasi in uno stato ipnotico, per poi correre a sedersi vicino a Sherlock.
“Ora, ecco…” Un secondo dopo le dita del bruno erano tra i suoi capelli corti del colore del sole, afferrandoli per avvicinare le sue labbra alle proprie.
“Riprendiamo da oggi pomeriggio, vuoi?”
Oh sì, John era decisamente d’accordo, pensò mentre si baciavano assaporando il gusto delle loro bocche, le mani che scorrevano a scoprire i contorni delle forme, la consistenza della pelle, tocchi lievi e terribilmente inebrianti.
D’improvviso Sherlock lanciò via il telo, provocando una serie di scosse elettriche nel corpo del suo innamorato che lo tagliarono a metà, lasciandolo senza fiato.
Soddisfatto dell’effetto ottenuto, l’essere sovrannaturale si lasciò andare facendo pendere un braccio verso il pavimento, l’altro sotto il viso, facendo segno con gli occhi che era pronto per lui.
“No, non così” John lo risollevò con una mano sotto il petto, facendolo stendere sulla schiena “abbiamo detto dolcemente. E devo andare a cercare qualcosa nella mia borsa da medico”.
“Cosa?” Non c’era malizia nella domanda, solo pura curiosità, il che mise John doppiamente in imbarazzo, facendolo avvampare fino alle orecchie.
“Uhm… per non rischiare di provocarti dolore, non potrei perdonarmelo. Serve per qualche visita, sai. La vaselina”.
Sherlock restò interdetto per un secondo, poi liberò una risata trattenendola tra le labbra socchiuse, che risuonò bassa e così seducente da far temere a John di avere un orgasmo solo ascoltandola.
“Vuoi giocare al dottore e l’ammalato, vero? Molti tuoi colleghi lo fanno”.
“Cosa?”
“In ospedale, mentre ti aspettavo ho ascoltato; quando si trattava di una donna giovane o un ragazzo grazioso molti medici speravano che toccasse a loro. Ho capito cosa vorresti usare”.
“Questo è orribile, sono persone malate! Noi dobbiamo pensare solo al loro benessere!”
“Ecco perché ho scelto te. Sei un’anima innocente, John, così tanto… è quello che ho sempre cercato. Ora però devi pensare solo a me. Visitami, se ti piace d’idea. Senza prendere nulla, non serve, fidati; basti tu”.
Se da una parte John si sentiva una specie di mostro profittatore del ragazzo più naïve che avesse incontrato in una città come Londra, dall’altra una strana consapevolezza lo calmava, anzi gli suggeriva di essere lui quello dominato; ma questo andava molto più che bene.
Percorse timidamente con le labbra il torace glabro di Sherlock, con la sua consistenza di seta, e un profumo naturale che non credeva che qualcuno potesse avere, come di petali di fiori appena caduti, che liberano la loro fragranza più preziosa.
Si fermò, alzando lo sguardo in quello azzurro, che adesso pareva acceso di fiammelle blu scuro, quasi diaboliche, invitanti come niente altro al mondo.
Spaventato di fargli male iniziò ad accarezzarlo dentro, pianissimo, guidato dai sospiri lascivi di Sherlock, che non erano certo quelli di qualcuno che soffrisse.
Quando poi, muovendosi senza interrompere mai il contatto visivo con quelle iridi splendide, John si perse in lui, credette di morire per il piacere.
Questo pensiero doveva essersi propagato nel corpo e nella mente del suo amante, perché Sherlock sorrise mentre si inarcava sotto di lui, bisbigliando: “Forse è possibile, John. Ma vuoi continuare, dimmi di sì. È più meraviglioso di quanto potessi mai immaginare. Perché sei tu”.
Non serviva altro perché John smettesse finalmente di tormentarsi, trovando un ritmo leggero che contrastava col suo cuore impazzito, sapendo che era tutto vero. Non stava sognando, eppure fare l'amore col ragazzo più bello, brillante e misterioso come un cielo a mezzanotte era qualcosa che avrebbe escluso dal range delle sue possibilità.
Invece era lì con lui, che gli scivolava dentro, ed era la cosa più naturale e giusta del mondo; non avrebbe voluto smettere mai, e sentiva dai gemiti rochi che il suo amante lo invitava a muoversi in modo più deciso.
Si lasciò andare sempre di più, finché senti le dita sottili di Sherlock prendergli il viso per avvicinarlo al suo, quelle labbra fresche che sigillavano le sue, versandogli il respiro spezzato dal culmine del piacere nella bocca perché se ne impadronisse. Pochi secondi dopo la stessa estasi prese il sopravvento, e John lo raggiunse nel loro spazio fuori dal mondo.

Quella mattina anche uno stupido avrebbe notato qualcosa di diverso in Sherlock, e Gregory certamente non lo era.
Se possibile, la creatura sovrannaturale che si aggirava nel suo soggiorno con un sorriso morbido e gli occhi di un celeste insolitamente caldo era ancora più strabiliante di quanto lo fosse normalmente.
Se fosse stato un ragazzo qualsiasi l’avrebbe considerato innamorato perso, ma quella circostanza era ben diversa.
“Ti sei sbattuto mio figlio”.
Sherlock si girò verso l’uomo, mimando un’espressione scandalizzata.
“Che linguaggio volgare, Lestrade”.
“Immagino che tutti ti rivolgano complimenti, di solito! Sei piombato qui a rovinare la mia vita, anzi a terminarla, mi tieni sospeso ai tuoi capricci e non chiedi il mio permesso per avvicinare John, e farlo soffrire per causa tua?”
“Attento, Gregory, mi stai sfidando. Io non chiedo permessi e tu non costituisci eccezione: perché dovresti? Hai parlato tanto dell’eccitazione di un vero amore, e sto violando le mie stesse leggi per concederti del tempo. Ricordati cosa posso fare”.
Una lieve torsione della mano della Morte provocò una piccola fitta pungente al cuore di Greg, quel tanto da non permettergli di dimenticare.
“Ti prego. Ho solo paura per il mio ragazzo”. La voce di Lestrade era ferma, non chiedeva per sé, era davvero terrorizzato per John, la sua sincerità era palese per la creatura.
“È tardi per pensarci adesso. Sto meditando di portarvi via entrambi, lui mi piace immensamente. E se deciderò così non potrai farci niente”.
A Gregory non restò che inghiottire veleno e pregare che esistesse un dio che avesse compassione di loro.

John era sempre molto coscienzioso quando lavorava: era una vera vocazione la sua; non aveva scelto la medicina come carriera, ma come missione. Eppure, quella mattina, più di una volta aveva ceduto a un attimo di distrazione, mentre il suono monotono del campanello annunciava che l’ascensore dei visitatori stava salendo al piano. Ogni volta aveva sperato che la porta automatica si aprisse e una visione di ricci scuri e occhi trasparenti illuminasse il corridoio, per poi camminare verso di lui e… baciarlo in pubblico?
Non sarebbe fuggito, di sicuro. Guardassero pure, sarebbero solo stati invidiosi, anzi potevano anche fotografarli col telefono per quello che gli importava, ormai!
Quando più tardi lo scoprì nella stanza della signora Hudson non riuscì ad essere veramente sorpreso. Non l’aveva visto passare, ma c’era un dedalo di corridoi e scale dalle quali evidentemente era salito a piedi; trovarlo con Martha gli toccò il cuore più ancora di quanto aveva fatto con ogni bacio o carezza e decise di lasciarli parlare, lei era una donna fantastica, meritava ogni attenzione.
“Sei tornato… ma non ancora per portarmi via, vero? Stai sbagliando, lo sai? Stiamo soffrendo in molti, e tu non fai il tuo lavoro come dovresti”.
Sherlock fissò le pupille scure in quelle piene di dolore dell’anziana, cercando un coinvolgimento emotivo che non aveva mai provato da quando aveva memoria.
“Ti senti solo…” la voce di Martha era appena udibile “ma anche noi lo siamo quando moriamo. Abbiamo dei ricordi e li porteremo con noi. Anche tu puoi farlo, lasciami morire, ti prego”.
“Presto”. Sherlock si curvò su di lei, posandole sulla fronte il primo bacio di pietà che aveva mai dato nei millenni della sua esistenza.
Al suo rientro Sherlock si sentiva strano, ma scacciò via quel turbamento come un insetto fastidioso, convinto di essere entrato nella grande villa dei Lestrade prima del ritorno dei proprietari, ma si sbagliava.
Sprofondato in una comoda poltrona, con un bicchiere di cognac in mano ― e l’aria di averne già riempiti e vuotati molti ― Stamford lo stava aspettando, con la disperazione sul volto.
“Hey, Sherl! Disturbo? Posso parlare con te?”
“Certo, Mike. Tu sei sempre gentile”.
“Oh, credo che tu sia rimasto l’ultimo a pensarlo! Ho combinato il disastro più colossale che un uomo solo potesse fare, amico mio. La mia firma ha messo in ginocchio Greg: Molly non è interessata alla compagnia e ho potere anche per le sue quote, così ho fatto traboccare il vaso. Non so chi tu sia realmente, ma devi essere una persona di potere, Sherlock, è evidente. Fa’ qualcosa, se puoi, qualunque cosa”. L’uomo si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto tutto stropicciato. “Mia moglie mi deve odiare, in questo momento, anche se è così buona che cerca di non farmelo pesare”.
“A proposito, mi piacerebbe rivolgerti una domanda personale, se non ti disturba… come sai che ami Molly?”
“Come… è facile. Conosciamo i nostri difetti e li accettiamo senza riserve. Questo porta avanti un matrimonio. In più lei è talmente dolce. Hai visto, Greg preferisce John, è chiaro; non fare quella faccia, hum? Che lo preferisca tu va bene!” Mike strizzò l’occhio in direzione di un basito Sherlock “lei lo ha accettato, adora il fratello. Lui attira il sorriso, non so come dire”.
Il viso del bruno si illuminò dall’interno.
“Non potevi descriverlo meglio. Se sarà possibile ti aiuterò”.
Mike l’avrebbe abbracciato e baciato in quel momento, ma qualcosa che si poteva chiamare ‘senso di sopravvivenza’ lo tenne a debita distanza, seppure profondendosi in ringraziamenti anche solo per un possibile minimo tentativo. Il giorno seguente sarebbe stato il compleanno di Gregory e in quelle ventiquattro ore l’ultima speranza sarebbe scorsa via come sabbia in una clessidra. Sabbia troppo fine per poterla fermare, pensò. Ma forse Sherlock prescindeva ogni limite che conosceva fino  a quel momento.
Gregory era decisamente di diverso avviso, almeno sulla qualità di quei mancati limiti.
La festa del suo compleanno si sarebbe tenuta la sera successiva, ma egli era già col pensiero al suo termine. Si trattava di un conto alla rovescia che l’avrebbe visto finire i suoi giorni lasciando un tracollo dietro di sé.
“Sei pronto, Gregory? Aspetterò che tagli la torta e faccia il brindisi con i tuoi amici, voglio lasciarti un ricordo felice… mi è stato suggerito”.
“Hai riflettuto su John, come ti ho chiesto? Io sono pronto, era il nostro patto”.
“Sono innamorato di lui, lo porterò con noi, anzi per l’esattezza con me, e questo non è negoziabile”.
Lestrade capì che c’erano molti modi di morire, e quello fisico non era il peggiore. Non poteva lottare con la creatura, ma poteva parlarle esponendo il suo cuore.
“Non è amore, è una folle infatuazione. Tu puoi solo ferirlo, spezzare le sue speranze, infrangere la fiducia che ti ha dimostrata, sapendo che sarà solo per tua responsabilità. È davvero quello che desideri?”
“Voglio John e lo avrò!” Sherlock aveva gridato. Il suono della sua stessa voce alterata lo colpì con forza: lui non aveva motivi per arrabbiarsi in quel modo umano e inutile, non aveva mai avuto nemici che lo potessero preoccupare. E non fu il solo ad accorgersene.
“Stai litigando con me perché hai un dubbio, vero? In fondo sai che quello che ho detto è giusto. Hai bisogno di convincerti perché qualcosa sta cambiando in te. Stare vicino a mio figlio ti sta facendo apprezzare i sentimenti degli altri, ti fa sentire più buono, e hai paura”.
Per tutta risposta la Morte indirizzò un sorriso storto al suo opponente che poteva significare qualsiasi cosa: disprezzo, derisione, disgusto. O una morsa fastidiosa nel centro del petto alla quale non sapeva dare un nome.


Ringrazio chi è arrivato fin qui, e annuncio che il prossimo dovrebbe essere l’ultimo capitolo, più lungo degli altri. Proprio per questo potrei portare un leggero ritardo, visto che tra il 25 aprile e l’1 maggio non avrò neppure l’adsl quindi non starò al pc. Mi dispiace per la poca precisione della pubblicazione…
Per chi l’ha chiesto ^-^: il titolo del capitolo 2 era quello di uno dei film di James Bond, quello del capitolo 3 era ovviamente “Killing me softly”, questo è dalla canzone di Bryan Adams: Everything I Do


















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Capitolo 5
*** I was born to love you, every single day of my life ***


Documento senza titolo

Un saluto affettuoso ad Emerenziano, CreepyDoll, Sora_ale, Iryland, af_Eleven_ ,baileyzabini90, clelia91, Saeros25, Phoenix369, Harryet, Maheibellagenteh, Betely , Pixforever, Nina98, aleprincy, Derveni, Trailunwinki, gem12, Sere19sca: senza di voi questa storia non sarebbe esistita!
Ho preferito non realizzare un capitolo eccessivamente lungo, pur non “tagliando” nulla: per le differenze dalla fine del film, leggete (poi!) le note finali… se volete! #^-^# 


Capitolo 5: I was born to love you, every single day of my life

Una splendida cascata di scintille violacee ricadde al di là del prato, residuo di quei fuochi d’artificio che erano il coronamento di ogni festeggiamento ufficiale che si rispetti.
Molly era entusiasta mentre abbracciava uno sconfortato Mike, facendogli sentire la sua vicinanza affettuosa. Gli invitati si stavano divertendo dal primo all’ultimo: qualcuno era ubriaco, alcuni parlavano in modo appartato, altri ballavano al ritmo di una fantastica orchestra blues di sedici musicisti.
Il festeggiato però era introvabile, e John ne era dispiaciuto. Capiva che l’aria gioiosa non si confaceva a suo padre in quel frangente, ma non aveva senso abbandonarlo a isolarsi, crogiolandosi in cupi pensieri.
“Se cerchi Gregory non lo troverai qui. Sta salutando delle persone che non rivedrà… prossimamente”.
Il dottore non aveva certo bisogno di girarsi per riconoscere il timbro basso e seducente di quella voce, alla quale aveva strappato parole dolci e grida di piacere.
“Tu invece non andrai via, vero? Perché io credo di amarti”. Le ultime parole erano frammentate dal tremito che correva sulle labbra sottili del ragazzo biondo, che non aveva neppure il coraggio di voltarsi.
Un abbraccio intorno alla vita, e la cascata dei riccioli soffici di Sherlock che spiovevano sulla sua spalla destra furono la risposta.
“Ti amo anche io, John. Quindi ti lascerò stanotte. Non potremmo stare insieme, non mi conosci davvero”.
“Lo comprendo, ma... vorrei prendermi cura di te. Come il giorno in cui ci siamo incontrati per la prima volta, e hai detto che tu l'avresti fatto. Ora piacerebbe a me fare qualcosa per te, per la tua felicità. Non ho mai capito perché hai finto di non riconoscermi, ma non ha importanza; con te è tutto così diverso, ha un altro significato. Dimmi che non te andrai, o che tornerai se adesso devi davvero allontanarti”.
Sherlock aprì bocca per rispondere duramente, ma non un fiato uscì dalle sue labbra; certo non quello che aveva programmato di dire o fare.
Nell'istante in cui John si voltò per scrutare la sua espressione gli prese delicatamente il viso tra le mani, curvandosi a baciarlo.
“Non tornerò mai”.
John aprì gli occhi pieni di lacrime trattenute per fissarli in quelli dell'essere, e lo vide. Lo vide veramente per la prima volta, cercando di non cedere al capogiro che lo stava assalendo.
Le iridi del suo amato cambiavano colore, anzi, sembrava che del fumo argento brunito si muovesse al loro interno, senza appannare la pupilla nerissima, priva di emozione.
“Tu sei... un'altra persona? Chi sei? Cosa sei? Ho quasi paura, sai ― John tentò invano di sorridere ― perché quello che sto pensando, che il mio corpo sta gridando, non può essere reale”.
“La risposta è , sono proprio quello che stai immaginando, ma tu non devi temermi, John. Per te sarò sempre il ragazzo che hai visto quella mattina, e che, perché tu lo sappia, si era subito infatuato. Ti amo, per questo ti lascio libero; ti innamorerai di nuovo, te lo meriti”.
Malgrado sentisse il cuore lacerarsi senza rimedio, John rimase dov'era, un atavico senso di sopravvivenza che lo inchiodava sul posto. Quando la creatura fu abbastanza lontana, crollò in ginocchio, piangendo senza far rumore.

James mandò giù con poca eleganza il terzo calice di champagne in un solo sorso, contraddicendo l'immagine di perfetto aplomb che lo smoking di seta italiana gli conferiva. Irene lo guardava sconfortata, riflettendo sul fatto che ultimamente gli uomini attraenti non la consideravano se non come partner in affari. Moriarty le piaceva, ma tanto più avrebbe volentieri messo le mani addosso a quell'Holmes, anche se il suo fiuto non sbagliava mai, in quel settore. Nulla, aveva più possibilità di trovarli a baciarsi tra loro, magari di nascosto sul tetto della villa, che riuscirci lei. Almeno una cosa andava per il verso giusto, però. Un secondo dopo la mezzanotte la cessione della ditta sarebbe divenuta cosa di fatto, rendendola una delle donne più ricche d’Inghilterra. Era quello che voleva, no? Anche se alcune cose non avrebbe mai potuto comprarle…
In quel momento il viso maligno di James si accese di un sorriso mefistofelico, mentre Gregory li raggiungeva con passo sostenuto, lontano da occhi indiscreti. Peccato che alle sue spalle, come se sbucasse dal nulla, si fosse manifestato Sherlock, che posando una mano sulle spalle di Lestrade lo fermò un attimo, bisbigliandogli all’orecchio.
“Prima che ti disperi troppo, devi sapere che ho deciso che andremo via solo noi due. John resta qui. E per il resto, lascia parlare me”.
L’uomo assecondò la richiesta di Sherlock, ma solo perché era così felice per la salvezza di suo figlio da non riuscire a pronunciare una sillaba; non avrebbe potuto scegliere se ringraziarlo in ginocchio o dire che il resto in paragone non importava.
“Ecco che arrivano i nostri eroi… bellissima festa, Greg!”
“Mi dispiace, ma adesso devi rivolgerti solo a me, Moriarty” il tono di Sherlock non ammetteva repliche “eravate tutti così curiosi che ho deciso che in onore del compleanno del nostro ospite vi dirò chi sono in realtà”.
“Lascia perdere, ti prego”. Lestrade non si aspettava una rivelazione del genere, cosa avrebbe replicato? Che era vero, per farsi internare entrambi? Non che questo l’avrebbe sottratto al suo destino!
“Io sono…”
Muoio di curiosità! Non è vero, Irene? Dobbiamo chiamare anche gli altri membri del consiglio? Chi, sei, hum? Harry Potter, il Dottor Who… no, aspetta! John Lennon che non era morto davvero!”
“Che tu pensi a un decesso mi fa piacere, è molto indicato. E bastate voi due per sapere che sono un funzionario delle imposte dirette”.
Un opportuno silenzio cimiteriale scese come una coltre caliginosa sui presenti.
A ben guardare, l’espressione di Gregory non era meno sconvolta di quella con la bocca spalancata di Moriarty, ma passò inosservata, data la circostanza.
“Né voi né Smith avevate il diritto di vendere delle azioni il giorno prima di una fusione, il loro valore è aumentato e ne eravate a conoscenza prima che lo fossero tutti gli azionisti. Sembra un piccolo dettaglio, visto quello che avete dovuto tramare, vero? Ma essere avidi gioca brutti scherzi. E sei stato tu, Jimmy, a suggerirlo: alla morte e alle tasse non si sfugge. Avete due possibilità: il carcere, o licenziarvi dalla società e bloccare la fusione adesso. Suggerisco la seconda, per quanto la prima idea mi alletti molto. Lo faccio per il nome dei Lestrade”.
Più che considerare di essere arrestato James si sarebbe sparato in bocca, ma forse non ne valeva la pena: reputò meglio correre a chiamare Culverton Smith, fermare tutto nei pochi minuti rimasti, mentre la sua alleata avrebbe avvisato gli altri, lanciando inutili occhiate di odio dietro di sé.
“A Mike lo dirò io, era un’anima in pena… non dirmi che ho fatto una battuta di tuo gusto. E grazie, non lo dirò mai abbastanza. Sei, ecco, la persona migliore che potessi incontrare; vorrei dire un uomo buono, ma… forse è un’offesa?” Gregory si sentiva leggero, la paura di quello che stava per accadere stava svanendo ogni secondo di più. Era solamente il destino di ogni essere umano, aveva vissuto pienamente e aveva ricevuto molti doni. Una visione di lunghi capelli biondi danzò di fronte a lui, così realistica che sembrava di poterla toccare allungando una mano.
“È vero, Sherlock, oppure è per consolarmi? Non dovrei vedere tutta la vita passarmi davanti?”
“Quello succede nei film. È proprio tua moglie, Greg, è venuta a prenderti. Ora saluta i tuoi figli, ti posso concedere cinque minuti”.
Lestrade non se lo fece ripetere, correndo in direzione di Molly che stava piangendo di gioia abbracciata a Mike, mentre lui le raccontava la bellissima novità; la prese per mano, facendola girare e trascinandola in un giro di valzer, ascoltando la sua risata dolce, che gli avrebbe fatto compagnia per sempre. Quando la lasciò le diede un bacio sulla fronte.
“Grazie, Molly. Neppure la Regina ha mai avuto una festa così splendida”.
Mentre ascoltava la risposta commossa di sua figlia, Greg vide John camminare lentamente verso di lui, sconvolto anche se cercava di nasconderlo.
Quando furono esattamente uno di fronte all’altro non ci fu bisogno di spiegazioni. Capivano cosa stava succedendo, anche se per John era soprattutto un’intuizione, uno scienziato come lui non accettava facilmente di dare il giusto nome ad alcune cose.
“Papà, sei felice? Ho ascoltato la Adler fare una telefonata… dovrei essere contentissimo, lo so, invece mi sento come se stessi per perdere tutto quello che conta. Possibile…”
Gregory lo abbracciò forte, senza rispondere direttamente alla domanda.
“Ti voglio bene, John, questo non cambierà mai, in nessuna circostanza. Ora andrò via con Sherlock, per un po’. Forse per molto tempo, e tu non devi seguirci adesso, abbiamo un affare personale in sospeso. Mi ha dato quello che gli ho chiesto, ora è il mio turno”. Il ragazzo annuì, anche se senza convinzione, incapace di reagire d’impulso come avrebbe fatto solitamente.
Lestrade raggiunse Sherlock, che lo aspettava all’inizio del ponte che attraversava il laghetto giapponese, con un lieve sorriso sul volto.
“Hai detto addio?”
“Non proprio… i ragazzi se la caveranno. Grazie di avermi concesso questo tempo, e per John. Ti sono grato di tutto, amico mio”.
“Nessuno mi ha mai chiamato così, credevo di non avere amici, Greg. Ma evidentemente uno sì; e mi basta. Vieni, e non aver paura, non sentirai niente”.
Mentre suo padre e il giovane di cui era innamorato sparivano alla vista, scendendo il ponticello ricurvo, John rimase a fissarli come in sogno, per poi sbloccarsi improvvisamente, ma quando tentò di raggiungerli, non c’era più nessuno.
Non l’avrebbe cercato, sapeva istintivamente che l’avrebbero trovato tra poco, probabilmente nel suo studio, dove qualche volta si era addormentato con la testa china sul suo lavoro, la seconda cosa che amava dopo la sua famiglia.
Questa volta a riposare per sempre.

Era stata durissima, per John, la decisione di tornare in ospedale appena due giorni dopo il funerale di suo padre, ma era l’unica soluzione possibile. Se fosse rimasto a casa ad affrontare quel lutto non ne sarebbe più uscito, mentre prendersi cura di chi soffriva lo faceva sentire utile e motivato.
“Bentornato, Lestrade” una collega salutò cordialmente il giovane “ci fa piacere vederti così presto, insomma… c’è bisogno di te, in questo posto infernale, lo rendi più piacevole, davvero”.
Il biondo sorrise sinceramente alla dottoressa; non era l’unica ad avergli detto delle parole gentili, e la sua scelta gli pareva ogni momento più giusta.
“Sai la novità? Quel ragazzo che era in coma da una settimana, che era stato investito da un’auto proprio qui davanti?”
“No, Meredith, non credo sia un mio paziente”.
“No, l’hanno trasportato che tu avevi appena staccato, ne sono sicura, avrei voluto che ci fossi! Sì è svegliato l’altro ieri con un’amnesia parziale, ed è stato fortunatissimo, pensavamo solo al peggio. Ha le cognizioni più comuni, nessun danno fisico particolare alla testa… si ricorda di essere un violinista, in che quartiere abita, ma non come si chiama, per contattare dei congiunti. Stamattina alle otto, appena attaccato il turno sono passata e mi ha chiesto a bruciapelo ‘dov’è John’. Non è stato in grado di dirmi di chi parlava, non ricordava neppure di averlo appena domandato. Così, senza un cognome, ma ho pensato solo a te… ti va di dargli un’occhiata?”
Se avesse dovuto fornire una minima spiegazione razionale non avrebbe potuto darla, ma John sapeva benissimo chi avrebbe trovato in quella stanza del reparto rianimazione.
I capelli scuri formavano una nuvola soffice sul cuscino bianco, sembrando per contrasto quasi neri, e gli occhi azzurri erano più belli che mai; adesso il loro colore era vivo, come un ritaglio di cielo in una giornata primaverile.
Il cuore di John si strinse guardando quel fisico già sottile smagrito dall’alimentazione tramite flebo, e le occhiaie profonde su viso delicato.
“Hey, William”.
Il bruno lo fissò per qualche secondo in modo vacuo, poi lo sguardò si illuminò.
“È il mio nome! Me lo ricordo adesso… come ha fatto?”
“Mi dai del lei, ora?” John cercò di scherzare per non piangere, ne aveva avuto abbastanza, e non sarebbe servito a nulla “Noi ci conosciamo, e il tuo nome dovevo ancora indovinarlo… ma l’avevo capito, è facile. È quello del principe ereditario, ci avrei scommesso. Ti sta molto bene”.
William si sciolse in un sorriso dolce, sentendosi evidentemente meglio, all’improvviso. Quel dottorino gli piaceva tanto, altroché. Forse non tutti i mali vengono per nuocere.
“Sai altro di me?” C’era una punta di malizia nella voce, come se gli stesse leggendo dentro, pensò John con sollievo. Era una bellissima sensazione, sapeva di non dover nascondere niente a quella persona.
“Hai una sorella. Non vive a Londra e per ora non si sarà spaventata al punto di farti cercare dalla polizia, ricordo che avete un rapporto un po’ alterno. Ma vedrai che lo farà, così ricostruiremo la tua identità in modo completo, andrà tutto bene”.
“Ci credo. E il nostro rapporto qual è? Siamo migliori amici?”
“Abbiamo parlato una sola volta; so che sembra strano, ma è così. Però se mi dai il permesso ti spiegherei a che punto eravamo nel nostro discorso”.
John si curvò sul viso di William, accarezzandogli gli zigomi con i pollici mentre gli dava un bacio sulle labbra, tradendosi con un brivido di desiderio che non poteva mascherare in alcun modo.
Quando aprì di nuovo gli occhi vide che un delicato rossore aveva dato vita al volto pallido di quel ragazzo di cui era innamoratissimo. Glielo avrebbe fatto ricordare con calma, ma in modo inequivocabile, decise non senza sentirsi in imbarazzo. Non stava tenendo un comportamento esattamente professionale, ma aveva smesso di temere sempre tutto.
“Se questa è la politica del tuo ospedale, quando uscirò di qui lo proporrò per un encomio. È una terapia fantastica, la offri a tutti i pazienti?”
“Solo a te, e ogni giorno, finché vorrai. Soprattutto quando sarai dimesso. Potresti stare da me, per un po’. Per molto. Per sempre”.
William lesse il nome sul cartellino, soffermandosi sull’H tra ‘John’ e ‘Lestrade’.
“John. In qualche modo avrei indovinato anche io. E il tuo altro nome? Non ti piace, vero? Secondo me sarà bellissimo”.
“Ma non te lo dirò, lo dovrai indovinare, così sarà stato un gioco ad armi pari! Vuoi?”
“Chiedimelo ancora”.
John diede un altro bacio al suo amato, tuffando le dita in quei riccioli spettinati. E questa volta non si sarebbe fermato più, pensò.
Fino all’ultimo giorno della loro vita.

~FINE~

Note: ho scelto di cambiare due parti del film.
La prima è da poco. La scena della festa, nel film, è centrata sul valzer ballato dal padre con la figlia, per salutarla; qui ovviamente non ne ho avuto modo, per cui vi ho incluso la rivelazione dell’agente del fisco, invece di mostrarla prima, per dare più importanza al finale col party.
La seconda è una gran licenza, invece: nel film la Morte lascia il corpo di Brad Pitt vivo vegeto e intatto come se non fosse mai andato sotto la macchina, ma è un conto che non torna; era morto, per questo è stato utilizzabile, non era posseduto! Inoltre sarebbe un cadavere di alcuni giorni…
A questo punto, “impossibile per impossibile” ho preferito sdoppiare il corpo di Sherlock, in pratica… tutto allo scopo di scrivere questo finale che mi piace di più. Scusatemi!

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