Tales of Gotham: What lies beneath

di Nanas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adhic sub iudice lis est ***
Capitolo 2: *** And the tongue is a fire, the very world of iniquity ***
Capitolo 3: *** Summum ius, summa iniuria ***
Capitolo 4: *** As the black bird above you disappears into the night ***
Capitolo 5: *** Decipit frons prima multos ***
Capitolo 6: *** Enough madness? Enough? And how do you measure madness? ***
Capitolo 7: *** Mal giova illustre sangue ad animo che langue ***
Capitolo 8: *** The enemy of my enemy is not necessarily my friend ***
Capitolo 9: *** A wise man gets more use from his enemies than a fool from his friends ***
Capitolo 10: *** Sotto la fragile crosta della civiltà si agita il freddo caos ***
Capitolo 11: *** Death may be the greatest of all human blessings ***
Capitolo 12: *** Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno ***
Capitolo 13: *** A man that studieth revenge keeps his own wounds green ***
Capitolo 14: *** Injustice and justice are two sides of the same coin ***
Capitolo 15: *** La comicità sta nei tempi ***
Capitolo 16: *** Quando il gatto danza è per isolare la sua prigione ***
Capitolo 17: *** Gli addii possono essere sconvolgenti ***
Capitolo 18: *** Non è l'interezza della vita vivere ***



Capitolo 1
*** Adhic sub iudice lis est ***




Per prima cosa, vi ringrazio per aver aperto questa fanfiction!
Fino all’ultimo sono stata in dubbio se scrivere una presentazione o una larga nota d’autore finale per questa storia, ma proprio quando stavo per protendere per la seconda mi sono ricordata di come abbia segnato tra i personaggi un po’ tutti e che quindi, leggendo il primo capitolo estremamente limitato dal punto di vista di apparizioni, qualcuno si sarebbe potuto distrarre dalla cosa pensando che in verità i personaggi siano meno di quanto si immaginino. Non è così: se ho contato bene, in questa fanfiction ce ne sono circa una trentina rivisitati! Non tutti intervengono con la stessa frequenza naturalmente, ma ho cercato di non rendere nessuno una mera cometa e chiunque importante nel suo piccolo: spero che questo passi!
La vera protagonista, in ogni caso, è e rimane Gotham: una città scura, divisa nettamente nella sua parte diurna e florida di eccessi e bellezze ove vive il ‘bel popolo’ e quella notturna, malfamata, decadente nella sua malformazione nata da un appassimento delle persone che la abitano e la vivono. È piena di suoni, sirene, clacson, persone che camminano velocemente e vicoli abbandonati. È piena di grigio, di smog, di palazzi alti e di carte per terra, persone che mendicano sedute sul ciglio della strada e luci dei lampioni che fendono il buio delle lunghe vie della città e gli incroci larghi e regolari. Gotham è una tipica città americana, eppure unica nei suoi cittadini.
Ed in questa storia ne siete i benvenuti. ♡

 

 

1. Adhuc sub iùdice lis est


[La causa è ancora in attesa di giudizio]
Orazio, Ars poëtica, 78

 

 

 

 

GOTHAM CITY – Manicomio di Arkham (Arkham City)

17/12/1976 – Pomeriggio

 

Manicomio di Arkham.

Il suono della sirena echeggia graffiato e basso contro le pareti grigie e rovinate dell’enorme sala, spandendosi nell’aria mentre una lampada protetta da una grata arrugginita e chiodata al muro rotea su se stessa, ferendo di un colore aranciato il pavimento sporco e composto da larghe piastrelle scure.

Yaku attende in silenzio, le mani che trovano rifugio dentro le tasche del lungo doppiopetto, e mentre aspetta che i portelloni blindati finiscano di aprirsi del tutto porta le iridi castane a fissare le guardie carcerarie davanti a lui, il giubbotto con su scritto ‘Security’ che esprime il motivo della loro presenza in quella bolla di civiltà carceraria.

«Prego».

Sente uno dei due dire quando quel suono assordante finalmente smette di fendere l’aria, e fa un cenno di ringraziamento prima di superare entrambi, gli agenti che si è portato dietro dalla centrale che lo seguono a qualche passo di distanza. In lontananza può sentire uno sfondo di urla e lamenti mischiarsi al suono incessante della pioggia, ma come ormai ha deciso da anni di fare tenta semplicemente di ignorarlo, avanzando invece verso l’ingresso controllato.

«Quanto tempo fa lo hanno preso?»

Iwaizumi si materializza al suo fianco subito dopo aver passato la sala delle guardie, e Yaku non ha bisogno di guardarlo per prendere consapevolezza di quanto quella notizia sia ancora difficile da digerire per lui, che al caso di Pinguino ha lavorato per tantissimi anni, senza riuscire ad avere mai prove sufficienti per darlo alla giustizia.
Non che non ci abbia provato in passato, si deve dire: l’Ispettore Iwaizumi è entrato nel suo dipartimento almeno una decina di anni prima, e Yaku è abbastanza certo di averlo visto passare almeno gli ultimi cinque a tentare di catturare il criminale che ora sosta dietro le sbarre, mettendoci tra l’altro un impegno che a tratti aveva rasentato la devozione. Alla fine era stato proprio Yaku, qualche mese prima ed usufruendo del suo essere di grado più alto in quanto commissario del suo distretto, ad obbligarlo ad andare avanti, revocandogli l’autorizzazione a consultare notte dopo notte i verbali trascritti dai suoi colleghi anni prima – o quelle prove circostanziali ormai cadute in prescrizione – e chiedendogli di partecipare ai nuovi casi che si stavano presentando in quei giorni. Iwaizumi era un buon ispettore, e vederlo buttato davanti pratiche impossibili già era una novità che non aveva apprezzato di buon grado. Quando a questo si era aggiunto lo scoprire che aveva iniziato a non tornare a casa più volte a settimana, dormendo sul lavoro pur di non perdere tempo prezioso da dedicare a quelle piste sterili, era sopraggiunta l'inamovibile alternativa lavorativa: alternativa che l’altro non aveva preso bene, ma che almeno gli aveva evitato di rovinarsi la salute e la sanità mentale sul cercare le motivazioni che avevano spinto Pinguino aa cambiare drasticamente atteggiamento verso la comunità.

«Qualche ora fa, dovrebbero averlo portato in una cella isolata nel reparto di Terapia Intensiva».

Risponde mentre vengono fermati da un altro paio di agenti di sicurezza, stavolta armati. Mostra – per quella che è abbastanza sicuro sia la terza volta negli ultimi dieci minuti – la tessera di riconoscimento della GCPD, la copertura di pelle che viene fatta aprire orizzontalmente per venire poi richiusa poco dopo, al vedere uno dei due arretrare, rilassando le spalle.

«Commissario Yaku. Loro sono l’Ispettore Iwaizumi ed il Sovrintendente Capo Ushijima».

Dichiara, voltandosi velocemente ad indicare i due uomini dietro di sé; può vedere sott’occhio le mani di entrambi che scivolano fuori dai cappotti a tirare fuori i loro tesserini di riconoscimento, mostrando il distintivo argentato celato nella custodia che li contiene, prima di riportare l’attenzione sugli agenti davanti a loro, annuendo debolmente di risposta al loro cenno di assenso.

«Siete qui per Pinguino?»

«Esatto, dobbiamo fargli delle domande per assicurarci della sua colpevolezza».

«Non lo avete già fatto? Non sarebbe già in carcere, altrimenti».

Lo sguardo di Yaku rimane immobile, fisso verso l’agente che gli ha posto la domanda con leggero scetticismo, rimanendovi il tempo sufficiente affinché una chiara virgola di disagio inizi a farsi spazio tra le sue rughe espressive. Alla fine la guardia cede, e gli occhi vanno a scivolare insicuri fuori dal suo campo visivo ed in giro per le pareti, cercando falle inesistenti o macchie di umido (in verità già largamente presenti quasi ovunque) e di muffa che facilmente si possono vedere rincorrersi agli angoli delle pareti rinforzate.

«Cella 117».

Yaku annuisce, aspettando che l’agente si giri ed alzi il braccio a dare il lascia passare ad una terza persona presente su una guardiola sopraelevata, permettendo al portellone in acciaio e cemento di aprirsi; lo fa anche lui, alzando nel suo caso il braccio per accennare ad un ringraziamento, prima di varcare la porta e seguire i lunghi corridoi, prestando attenzione ai grandi numeri cerchiati che compaiono di sala in sala attorno a lui.

Terapia Intensiva è una delle strutture più grandi e profonde dell’intero comprensorio manicomiale: si sviluppa su tre piani scavati sotto terra, ed è atta a contenere fino a duecento criminali di diverso livello. Condotti da uno degli agenti in divisa del luogo, i tre poliziotti superano una serie di enormi porte dall'apertura orizzontale, probabilmente necessarie a condurre ad altre sezioni del Manicomio Carcerario a loro palesemente precluse. La cosa risulta sempre più chiara man mano che proseguono, la guardia che li sta accompagnando che sembra permettere l’apertura esclusiva di alcuni mirati portelloni blindati, e nel mentre lo vede parlare alla ricetrasmittente per richiedere l’ennesima autorizzazione Yaku lascia lo sguardo scivoli sulle telecamere poste in giro, tra una grigia parete e l’altra, appena sopra lampade rosse e tonde che illuminano le colonne che dividono una cella dall’altra. Sono tutte diverse, a loro modo: alcune sono aperte e scure all’interno, altre chiuse, mentre altre sembrano quasi essere coscienti ed urlanti mentre chiunque sia dall’altra parte della porta blindata sbatte contro di essa, graffiandola dall’interno o ridendo istericamente.

 

«Bel posto».

Commenta Iwaizumi a qualche metro di distanza, e sinceramente Yaku non può fare a meno che trovarsi d’accordo con quel sarcasmo evidente mentre arrivano davanti ad un gigantesco montacarichi, le grate scure ed arrugginite a causa dell’umidità che cigolano mentre le guardie a difesa dell’ascensore ne aprono le inferriate, lasciando entrare i quattro all’interno di quell’enorme locale. Yaku guarda i suoi sottoposti, e come ormai accade da anni non rimane eccessivamente sorpreso né dall’assoluta mancanza di emozioni che sembrano albergare sul volto di Ushijima, né dalla sensazione di scettica miscredenza che quello di Iwaizumi sembra invece traspirare.

Quando arrivano al piano prefissato, tuttavia, si riscopre ancora disabituato a certe emozioni.

Perché nonostante non sia la prima volta che scenda lì sotto, né con tutta probabilità l’ultima, si ritrova ogni volta incredibilmente novizio a quel nodo allo stomaco che lo attende non appena le voci dei detenuti si fanno più vicine, più strazianti, le urla isteriche che lasciano posto a sibili segreti e a frasi incomprensibili che si ripetono come una nenia per tutta la durata del corridoio. Sulle pareti strette – che dividono le celle ai lati in file ordinate e parallele – display piatti mostrano il simbolo del carcere roteare pigramente attorno al suo asse, mentre la voce registrata del Sindaco esprime in sottofondo una sfilata ottimistica e politicamente corretta di concetti ed utopie perbenistiche – alle quali, peraltro, Yaku è abbastanza conscio nemmeno questi creda veramente più.

«(…) ha fondato questo nobile istituto, pochi immaginavano sarebbe diventato un centro di analisi e riabilitazione psichiatrica per criminali di livello nazionale (…)»

Si volta di lato per vedere, oltre che sentire, uno degli incarcerati recitare a voce bassa le parole del Sindaco; le dita di quello che fu un uomo sono strette attorno alle sbarre, il volto è innaturalmente incastrato tra le grate, ma sono gli enormi occhi larghi ed iniettati di sangue ad attirare grottescamente la sua attenzione, studiandoli mentre intenti a fissare il monitor in maniera maniacale. Le ciglia non sbattono, e le iridi non cadono da nessun’altra parte che non siano quelle due A unite che volteggiano con indolenza sino a formare un rombo, la scritta ‘Arkham’ ben visibile al centro di esse.

«Siamo quasi arrivati, si trova in fondo a questo corridoio».

La voce della guardia lo ridesta da quella disturbante visione, portando a volgere nuovamente lo sguardo in avanti, e mentre avanzano accoglie quasi come una benedizione il fatto che quelle urla che hanno fatto da sfondo al loro camminare fino ad ora si facciano più sporadiche sino poi a scomparire quasi del tutto, divenendo nulla più che un lontano sottofondo in una sala quasi completamente vuota.

«Lo abbiamo messo lontano dagli altri per evitare problemi, è piuttosto bravo a convincere le persone a sporcarsi le mani al posto suo».

«Fidati, non ci stai dicendo nulla di nuovo».

Yaku sente Iwaizumi rispondere a denti stretti. Si avvicina il sufficiente per andargli a stringergli appena la spalla con la mancina, catturando il suo sguardo ed obbligandolo ad abbassare appena il viso, così da incontrare i suoi occhi.

«Se vuoi entro solo con Ushijima».

«No».

Risponde subito, fissandolo intensamente fino a quando Yaku non sospira, scostando la mano e girandosi per seguire la guardia nell’anticamera della cella.

«Come vuoi. Allora entriamo. Ispettore, dopo di lei».

 


°°°°

 

La cella 117 non era diversa solo nell’ambiente nel quale era situata, ovvero nel suo essere il più lontana possibile da qualsiasi uscita utile ed in un luogo più isolato e più controllato dalle telecamere rispetto alle altre: quello sarebbe stato raro, ma decisamente non unico. Quello che la differenziava veramente era la costruzione interna della stanza, che al contrario delle restanti era infatti divisa in due parti, separate da una grata in acciaio su cui si affacciavano due panche in cemento poste una davanti all’altra – posizione evidentemente atta a permettere il vantaggio di fare un interrogatorio senza obbligare le guardie a presenziare il movimento del prigioniero.

Le luci si trovavano ad una altezza tale da non permettere nemmeno all’umano più alto di potervisi avvicinare troppo, toccarne i fili o semplicemente trovarvi un appiglio per fare da leva e tirarsi sopra; poteva sembrare una scelta bizzarra, ma era una precauzione che si era resa necessaria da quando l’ultimo prigioniero aveva tentato di strappare la struttura dal soffitto, andando a ricercare nei condotti che probabilmente si nascondevano oltre la parte murata una possibile via di fuga.

Non che tali contromisure fossero realmente necessarie, conoscendo le modalità – incredibilmente più astute fra l’altro, oltre che pericolose come solo i cavilli burocratici sapevano essere – attraverso le quali era solito sfuggire alla legge Pinguino.

 

°°°°

Pinguino /(?)

Professione: Ristoratore, Boss del racket
Vero Nome: Suguru Daishou
Aspetto: Uomo, capelli petrolio con frangia laterale, occhi nero pece
Caratteristiche: Genio del crimine e della finanza, esperto nel combattimento corpo a corpo.

°°°°

 

Yaku entra come terzo nella piccola stanza, ma non si sorprende di trovare il criminale sdraiato sulla schiena, le mani elegantemente poste sullo sterno, gli occhi chiusi e i capelli corti, lisci e di un denso verde petrolio morbidamente poggiati su quell’unico cuscino ancora plastificato lasciato sul materasso spoglio. Il commissario muove qualche passo verso la panca, non staccando mai gli occhi da lui, e può quasi sentire l’aria di scherno che l’altro riesce a traspirare: quel sarcasmo con il quale pensa a loro mentre, completamente conscio di come tutti siano infine entrati all’interno dell’abitacolo, lascia che gli angoli delle sue labbra vadano a tirarsi su in maniera impercettibile ma incredibilmente fastidiosa. Dio: basta solo questo a procurare un leggero tic nell’arcata sopraccigliare di Yaku che però, forse non in maniera del tutto inaspettata per il detenuto, decide di limitarsi a battere con forza le nocche sulle sbarre, iniziando poi a parlare con tono appena più alto del solito.

«Pinguino, abbiamo delle domande da farti».

Annuncia asciutto, osservando con irritazione sempre crescente come l’unico effetto di quelle parole sia il modo in cui gli angoli della bocca dell’altro si acuiscano maggiormente, la posizione che rimane del tutto simile a quella adottata precedente la sua richiesta.

«Commissario, che onore vederla scendere così in basso pur di vedermi».

Le palpebre si schiudono, le iridi serpentine che vanno a fissarsi sottili e scaltre sul gruppo dall’altra parte delle sbarre mentre un sorriso ora chiaramente provocante si apre su quel viso liscio e latteo, probabilmente divertito dall’ambivalenza di quella frase da lui stesso pronunciata.

«Anche per me è un piacere vederti qui, Pinguino. Devo dire che l’atmosfera del manicomio criminale ti dona».

Pinguino sibila una risata a denti stretti prima di decidere infine di sedersi, un lungo ciuffo morbido e ondulato che va a portarsi completamente sulla parte sinistra del viso mentre si porta in verticale, lasciando scoperti entrambi gli occhi lunghi e stretti e le sopracciglia sottili.

«Peccato solo che sia stato un viaggio a vuoto il suo, Commissario: non ho interessi nel rispondere alle vostre domande, qualsiasi esse siano».

Le iridi si assottigliano maggiormente nel dirlo, e nel silenzio successivo Yaku può chiaramente sentire Iwaizumi muoversi irritato accanto a lui, vibrante come un cane selvatico in attesa di attaccare. Forse non è davvero stata una buona idea portarlo là sotto.

«Pinguino».

Yaku si volta verso Ushijima, rimasto in silenzio fino ad allora ed ancora immobile alla sua sinistra, e per un secondo a quello sguardo alto ed impassibile si sovrappone quello del padre di Wakatoshi, quell’espressione austera e noncurante che ha visto tante volte sui ritratti ad honorem in giro per il dipartimento ed appartenenti ai precedenti commissari che hanno dato lustro al loro distretto in passato. Buon sangue non mente, in fondo.

«Il commissario Yaku potrà volerti venire incontro─»

Il superiore aggrotta le sopracciglia, dubbioso su dove l’altro voglia effettivamente arrivare con quel discorso. Se lo avesse detto qualcun altro potrebbe pensare a quel commento come ad un tentativo di indebolire la sua posizione, ma contando che a farlo è stato Ushijima lo scetticismo è abbastanza elevato da fargli riconsiderare piuttosto velocemente la cosa, portandolo a domandarsi in compenso quale possa essere il finale di una frase iniziata in maniera simile.

«─Ma io non perdono chi fa ostruzionismo alla giustizia».

La voce è bassa e roca, eppure per qualche motivo non c’è calore nelle sue parole, solo il ghiaccio e l’umidità della cella che tutto ad un tratto sembrano diventare ancora più estremi e insopportabili, lasciando una sensazione di disagio che con tutta probabilità silenzia Pinguino per molto più tempo di quanto si sia egli stesso prefissato. Yaku lo vede fissare il sottoposto con attenzione, tutto ad un tratto nuovamente serio ed incredibilmente attento alle parole dell’altro, e nel frattempo che le iridi di Ushijima si riflettono nelle sue il silenzio si protrae nella piccola stanza, in attesa di venire schiuso dal suo bozzolo di aspettative.

«Ah! Quanto è difficile essere innocenti di questi tempi. Verrebbe quasi da dichiarare il falso per non dover sottostare un secondo di troppo a quegli occhi inquisitori».

Pinguino porta infine le mani verso l’alto, le braccia piegate mentre le spalle vanno ad alzarsi per qualche secondo, il viso a scuotersi leggermente ai lati.

«Troppe guardie mi hanno fatto domande, in queste ore. Ma voi non siete come loro, giusto? Voi vi sentite speciali, ecco perché siete qui. Lo sento sulla lingua─»

Ed effettivamente nel dirlo fa scivolare fuori quel muscolo stretto e leggermente biforcuto sulla punta, indicandolo con il lungo indice pallido e l’unghia a stiletto, il viso che si solleva appena mentre questo rotola per qualche istante verso l’alto e verso il basso, saggiando il sapore dell’atmosfera che lo circonda prima di ritirarsi nuovamente all’interno della cavità calda.

«Sento l’aria che ristagna dei dubbi e delle domande che vi trascinate dietro. Il vostro odore di decoro e di giustizia è quasi nauseante, la mia lingua non raccoglieva molecole olfattive così pulite da parecchio tempo, ormai. Nemmeno una delle guardie che mi ha portato qui aveva la metà dell’odore che trasudate, non riesco ad immaginare cosa debba essere sentirsi in minoranza in un ambiente dove si dovrebbe essere tutti ligi a certi utopici ideali».

«Le nostre guardie fanno il loro lavoro, Pinguino. Non ti abbiamo portato qui per sottoporli ad una prova di fedeltà a tue spese».

Yaku risponde leggermente piccato, le braccia che si incrociano in petto mentre si muove appena il sufficiente per obbligare il criminale a porre nuovamente l’attenzione su di lui, attirato dal movimento come un serpente alla ricerca di una possibile preda.

«Meglio per loro allora, poiché non sono affatto sicuro quanti passerebbero il test, altrimenti. Ma basta chiamarmi Pinguino, è un nome che mi hanno dato troppo tempo fa e troppe volte ho – come si potrebbe dire? – cambiato pelle, nel frattempo. Anche se quell’ispettore non sembra esserne particolarmente conscio, visto come mi guarda da quando è entrato».

Yaku ci mette qualche secondo a capire di chi stia parlando l’altro, ma gli basta notare il modo in cui Iwaizumi sta guardando Pinguino per farsi un’idea chiara su chi sia soggetto della frase: le palpebre dell’ispettore sono assottigliate e la mascella risulta dolorosamente contratta, probabilmente a riflesso dello sforzo di controllare le parole, o forse la rabbia, o forse entrambi. Yaku stringe le labbra, domandandosi per quella che sembra essere l’infinitesima volta se abbia fatto bene a portarlo con lui, e nel mentre cerca di ricordare se vi sia un motivo principale per il quale lo abbia fatto.

Quando era arrivata la notizia della cattura di Pinguino infatti, solo qualche ora prima, era stato inizialmente molto poco propenso a rendere l’ispettore Iwaizumi partecipe della cosa; ma alla fine, e visti i precedenti, si era convinto fosse ciò che era giusto fare, ipotizzando il vederlo dietro le sbarre avrebbe forse aiutato il suo inconscio a misurarsi con l’altro, a concretizzarlo ed allontanarlo dalla percezione simile ad un incubo che si era ritrovato a rincorrere negli anni precedenti.

Adesso però, a vederlo così, capisce quanto gli effetti di quell’incontro siano ancora impossibili da prevedere, ed il dubbio torna ad insinuarsi velenoso nella testa mentre si sforza di tornare a fissare Pinguino, l’irritazione crescente e sempre più difficile da contenere.

«Sappiamo che hai cambiato modo di operare, e che da quando hai aperto l’Iceberg Lounge il tuo nome non è più intervenuto all’interno di nessuna indagine. Ma sul cambiare quello che sei─ dimmi: come dovremmo chiamarti, allora?»

Le sottili labbra si allargano a disegnare un sorriso serpentino sul volto del carcerato e una mano va a porsi sul petto mentre si alza in piedi, emulando un inchino e tornando poi a fissare malizioso il commissario.

«Molti ormai mi chiamano con il mio nome, ma voi potete chiamarmi Serpe. Piuttosto, l’ho sempre immaginata più alto, sa Commissario? Invece è abbastanza basso da sembrare un topino, sicuro di voler rimanere in questa cella ancora a lungo?»

Ah, questo non doveva decisamente dirlo.

Non sono molte le cose per cui Yaku sia veramente capace di perdere la pazienza, ma sicuramente l’argomento altezza è uno di quelli che chiunque, conoscendolo, non ha fatica a capire sia meglio non tirare fuori in sua presenza. La pulsazione sulla tempia sinistra aumenta distintamente alle parole dell’altro, e prima che possa evitarselo sbatte un pugno distinto contro una delle inferriate della cella, un rumore secco che rimbomba nella stanza per qualche secondo mentre la vibrazione del palo continua a soffocare qualche rumore di sottofondo.

«Ordine, Serpe. Dove io voglia stare non deve interessarti, e non sono venuto qui per questo. L’unico motivo per il quale sei in questa cella è per rispondere alle mie domande, e sarà quello che farai finché non avrò deciso sia sufficiente. Sai per cosa sei stato arrestato e portato qui, almeno?»

Dio, se solo potesse eliminare quel sorriso strafottente.

«Mhm– avrei una lista da proporre, quindi perché non restringiamo il campo e non me lo dici tu, piccolo topo?»

«Come vuoi, allora. Sei stato accusato di aver compiuto praticamente tutti gli ultimi crimini commessi in settimana nella città di Gotham: testimoni affermano di essere certi della tua colpevolezza per la rapina alla banca di Gotham di martedì scorso, il furto con scasso al Museo di Scienze Naturali di questa domenica, nonché l’incendio appiccato al Park Row solo ieri. Nell’attacco, come saprai, sono morti molti civili, senzatetto, guardie e vigilanti. Per tale motivo, oltre che per furto, sei accusato di procurato allarme, terrorismo, omicidio premeditato e probabilmente genocidio».

«Non sono un po’ troppe cose da fare in una settimana, commissario?»

«Pare ti sia dato da fare, ma potresti dircelo tu».

Il silenzio cala nella cella, e Yaku può chiaramente vedere nello sguardo di Serpe una traccia di qualcosa che forse non sperava di vedere, ma che chiaramente non può ignorare.

La confusione.

Dura solo un istante, naturalmente, perché Serpe è veloce a rimettere su la solita facciata controllata e saccente, il sorriso tirato e l’espressione scaltra mentre torna a sedersi, una delle due mani a fare perno sul materasso ed una in aria, il palmo verso l’alto ed il polso piegato mentre la testa viene scossa appena, in senso di diniego.

«Ah, che situazione scomoda. Sa commissario, per quanto sarebbe interessante vedere cosa siate pronti ad accettare ad occhi chiusi pur di riuscire a trovare prove convincenti per tenermi qui dentro, mi duole dirvi che sono innocente. E che se c’è una cosa che odio di più di finire in questa topaia quando colpevole, è l’esserci per qualcosa che non ho fatto. Quindi, per quanto mi commuova sapere che abbiate pensato a me per tutte queste artistiche esibizioni, spero per voi sarete il più lontano possibile da Gotham quando uscirò di qui. Sapete, sono una persona per bene, e come tale non c'è nulla che mi rincresca maggiormente dell'avere a che fare con persone che mentono».

Yaku stringe la mascella, mentre può chiaramente vedere sott’occhio la guardia muovere istintivamente la propria mano sul mitra che teneva abbassato fino a qualche secondo prima, alzandolo leggermente e allargando appena i piedi, così da avere un baricentro più stabile.

«No».

Dice soltanto, voltandosi a guardarlo per qualche secondo ed alzando un braccio a mezz’aria, facendogli segno di stare indietro.

«No».

Ripete, voltandosi stavolta verso Serpe e puntando gli occhi castani e decisi sull’altro, le sopracciglia aggrottate in un’espressione dura ed il volto scuro e diplomaticamente ostile.

Non ha intenzione di ignorare la chiara minaccia dell’altro, ma non crede nemmeno che sia saggio creare attrito fisico all’interno di un carcere potenzialmente pieno di nemici. La guardia è giovane probabilmente, e non ha idea delle sommosse che vi sono state negli ultimi anni all’interno di quella struttura; ma Yaku sì, e non ha intenzione di rischiare.

Non quel giorno.

«Mhm? No? Allora che ne dite di passarmi il testimone e di rispondere alla mia, di domanda?»

E Serpe torna a sorridere, la lingua che viene di nuovo fatta scivolare fuori dalle labbra sottili mentre le sopracciglia si distendono in un’espressione canzonatoria.

«Quando mi farete uscire da qui, posso averti come mio chauffeur?»

 

°°°°

 

GOTHAM CITY – Esterno del manicomio di Arkham (Arkham City)

17/12/1976 – Tramonto

 

L’aria fredda del vento che sferza le guance dei tre poliziotti non appena l’ultima porta dell’edificio di Terapia Intensiva si apre è come il bacio caldo del sole in una giornata primaverile, tanto è silenziosamente atteso da tutti loro.

È ancora presto in fin dei conti ma, nonostante non siano neppure le cinque, la serata sta già sopraggiungendo, buia e senza luna, le poche stelle che a quell’ora dovrebbero già essere visibili brillano nascoste dalla spessa coltre di fumo che esce dalle alte ciminiere ai margini della città, soffocate dall’inquinamento dei mezzi che sale arrampicandosi sui palazzi; malgrado ciò, Yaku è abbastanza certo di non desiderare altro in quel momento che stare lì fuori, seppur nella consapevolezza di vivere in una delle città più inquinate del mondo, le scarpe che calpestano il terriccio secco e il cigolio dei cancelli che accompagna la loro uscita dal comprensorio del manicomio di Arkham. Può quasi sentire i solchi lasciati dagli occhi delle vedette che li stanno controllando a distanza, erti su una delle torri al lato dell’inferriata appena sorpassata, ma finge di non accorgersene mentre si avvicina, con Ushijima e Iwaizumi al seguito, alla volante che hanno parcheggiato lì un paio di ore prima.

Gli sportelli si chiudono, ma la macchina non parte subito, mentre Yaku si volta a guardare verso i due passeggeri alla sua destra, lo sguardo attento e la voce confidenziale.

«Abbiamo bisogno di prove».

Se Ushijima rimane in silenzio a fissarlo dai posti di dietro Iwaizumi invece sbuffa a quelle parole, probabilmente ancora sovraccarico di malumore a causa dell’incontro appena avvenuto e che fortunatamente non ha visto nessuno perdere le staffe – cosa che Yaku ha temuto fino alla fine sarebbe inevitabilmente successo.

«Non abbiamo scelta, gli indizi sono pochi e se portassimo adesso la questione in procura non passerebbe più di ventiquattr’ore chiuso in quella cella.»

Mormora a voce abbastanza alta da venire sentito anche dagli altri due, lo sguardo che si abbassa mentre il pollice e l’indice della destra vanno ad imprimere un poco di pressione all’incavo degli occhi con il naso, le sopracciglia spesse ad aggrottarsi di riflesso.

«I suoi antecedenti sono l'unico motivo per cui ci è stata approvata l'incarcerazione preventiva. Cosa ne pensate delle sue parole, poi? Il fatto che dica di essere innocente è─»

Strano, è quello che vorrebbe dire, ma non finisce la frase perché dirla ad alta voce sarebbe come ammettere e rendere dolorosamente reale quello che tutti loro stanno pensando e che non hanno intenzione di dire; perché se davvero Serpe fosse il responsabile di quei gesti criminali, difficilmente avrebbe articolato la conversazione in quel modo; perché se fosse davvero colpevole, difficilmente si sarebbe fatto prendere; e, soprattutto, se davvero fosse stato lui ad organizzare una cosa simile, difficilmente li avrebbe lasciati cadere così chiaramente nell’argomento, senza tentare raggiri o metodi per uscirne il prima possibile. Il ché fa presupporre che, per quanto sia dura da accettare, non sia davvero lui il mandante di tutti quegli atti di criminalità.

«Pensare alle sue parole non ci farà arrivare a nulla, credo. Alla fin fine persino Serpe, per quanto dotato di una parlantina alquanto irritante, rimane uno psicopatico. Cercare di capire come funziona la sua mente sarebbe una lotta persa in partenza. Tuttavia─»

E qui cala nuovamente il silenzio, perché le parole a questo punto vanno dosate bene.

«… ─Tuttavia qualcosa non torna. Non abbiamo certezze, ma se ipoteticamente lui non fosse il criminale che cerchiamo, o se non fosse da solo, non possiamo ignorare che dovremmo cercare da qualche altra parte il colpevole.»

Sospira poi, come ad essersi improvvisamente ricordato di una cosa particolarmente scomoda che non aveva tenuto in considerazione fino a quel momento, come effettivamente non ha fatto.

«Conoscendo il Sindaco però, farà pressioni per chiudere il caso prima delle elezioni. Il ché ci lascia poco tempo per trovare prove concrete su cui lavorare».

«Cercheremo informazioni».

La voce di Iwaizumi è nitida seppure arrivi mentre l’uomo è ancora con il volto abbassato e gli occhi chiusi, e Yaku si ferma ad ascoltarlo, vedendo con la coda dell’occhio Ushijima voltarsi a fare lo stesso. Annuisce.

«Perfetto. Io andrò al Dipartimento nel frattempo, qualcuno deve avvertire il primo cittadino delle novità e purtroppo questo lavoro spetta a me. Ushijima?»

Ma Ushijima è già uscito dalla macchina insieme ad Iwaizumi, e Yaku sospira, tornando a voltarsi verso il volante e tirando fuori le chiavi della macchina, rimanendo a fissarle per qualche secondo prima di stringerle tra le dita ed inserirle nella toppa al lato, avviando il motore.

Un sospiro, prima di guardarsi allo specchietto, scoprendo una ruga lunga e netta a separare le due sopracciglia e ad esplicitare un’espressione stanca e preoccupata.

Saranno dei giorni lunghi, se lo sente.

«Ah─ Dio, spero ci abbiano almeno aggiustato la macchinetta del caffè.»

 





Eeee stop. Fine primo capitolo!
Lo so, lo so: l’inizio è molto lento, e probabilmente anche un poco noioso. La verità è che avevo bisogno di un
inizio incentrato sull’Arkham Asylum per dare il la alla storia, ma dopo aver fatto uscire i nostri poliziotti dal manicomio non avevo proprio la possibilità di inserirci anche altri personaggi senza rendere il capitolo stesso un’odissea lunghissima! Ma piano piano li inserisco tutti, promesso. Tra l’altro ancora non si è capito chi sia Batman, ahahah! Si accettano scommesse, nel frattempo: al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** And the tongue is a fire, the very world of iniquity ***




Scusate per il ritardo, volevo postarlo dopo una settimana ed invece sono quasi passate due dallo scorso capitolo. Mannaggia! Questa parte comunque mi piace mooolto di più, quindi spero davvero che piacerà maggiormente anche a voi, anche perché so che il primo capitolo era piuttosto rrhhh– diciamo discutibile. (…)
Ma basta cincischiare: ci vediamo alla fine, e buona lettura!



2. And the tongue is a fire, the very world of iniquity


[Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell'iniquità]
Giacomo 3:6


GOTHAM CITY La Danse de le Langues (Burnley)

17/12/1976 – Più tardi, poco dopo il tramonto


Iwaizumi aveva sempre pensato la via su cui trovava l’ingresso de La Danse de le Langues fosse stata in qualche modo costruita, seppur precedentemente l’inaugurazione di tale attività, con il chiaro intento di accogliere negli edifici che vi si sviluppavano ai lati operazioni ed esercizi commerciali simili a quelli per i quali era conosciuto quel locale, riconoscibile a tutti – clienti e non – per i suoi caratteristici esterni grigi e verdi e per l’insegna elegante e luminosa.

Situata nella parte alta della città, nel quartiere di Burnley per essere precisi, la strada era infatti famosa non solo per il suo offrire un comodo collegamento con una delle torri di comunicazione più alte della zona, ma anche per essere una delle vie principali del quartiere a luci rosse più conosciuto della regione. Ogni anno si poteva assistere alla nascita di nuovi hotel, in realtà rivisitazioni di palazzi che venivano venduti alle grandi compagnie man mano che si svuotavano e che la gente abbandonava le sue abitazioni, sconfitta dalle urla e dalle continue feste nate per le strade notte dopo notte, senza tregua alcuna. Ed ogni anno il numero di turisti provenienti da qualsiasi parte della nazione cresceva di conseguenza, attirati come falene dalla irresistibile e grottesca necessità di conoscere la parte più pulsante e sensuale della Gotham notturna, passando le loro serate tra cabaret, locali con spettacoli di topless o nudo integrale sia maschili che femminili, storici cinema a luci rosse ed esercizi commerciali specializzati in materiali per adulti.

La Danse de le Langues rientrava proprio in quell’atmosfera, ed altri non era che un cabaret il cui nome era stato almeno una volta nella vita sulla bocca di tutti, per bravura dei suoi dipendenti o per le storie confuse e dai tratti smussati che aleggiavano attorno alle prestazioni che si diceva alcuni di loro offrissero – seppure mai fossero stati davvero trovati testimoni pronti a dimostrarlo.

Era un locale che si distingueva per eleganza degli interni e per fama delle ballerine e dei ballerini che ospitava, oltre che per il repertorio di danze e spettacoli che coloravano le orecchie dei suoi clienti che trovavano in quelle musiche e nell’atmosfera d’epoca che si respirava, non appena il sole calava e l’insegna luminosa sulla strada si illuminava, uno dei motivi migliori per farsi anche due ore al giorno di macchina e raggiungere la struttura in tempo per lo spettacolo serale.

Inoltre, era facilmente raggiungibile a piedi dal Manicomio di Arkham; cosa che in quel momento Iwaizumi apprezzava più di tutte quelle informazioni accumulate nell’arco di tempo passato a vivere a Gotham, sinceramente parlando.



Gli occhi dell’ispettore notano l’insegna ancora spenta del locale non appena gira l’angolo, mentre di passaggio davanti ad un semaforo intestarditosi sul rosso e su un marciapiede che sta iniziando a popolarsi solo in quel momento, dopo quasi un’intera giornata passata nella semi sonnolenza; accelera impercettibilmente il passo, abbassando lo sguardo per non farsi riconoscere mentre fa segno ad Ushijima di seguirlo, e si scusa mediante un cenno insofferente della mano quando finisce quasi con l’investire un uomo nel mentre, facendo distrattamente scivolare l’altra sullo stemma della GCPD prima di proseguire oltre, non preferendo parola.

Le lunghe vetrine de La Danse de le Langues sono coperte da poster ordinatamente allineati, e su ciascuno di essi Iwaizumi può vedere sfilare disegni di donne e uomini che ballano, abbracciati insieme mentre sorridenti o tenendosi per braccio, il vestito tradizionale del can-can che lascia siano solo le gambe e i numerosi strati del sottogonna a mostrarsi al pubblico; e poi ancora donne a cavallo o sedute su altalene che calano dagli alti soffitti, con indosso cappelli ricchi di piume o al galoppo su puledri dai colori più vari. Scritte francesi ed inglesi si inseguono l’una dietro l’altra mentre l’ispettore supera le copertine delle serate più celebri del locale, arrivando infine davanti ad una delle numerose entrate del cabaret artistique mentre una mano va a sollevare uno dei pesanti drappeggi propri delle tende smeraldine che ricoprono le porte ancora chiuse, premendo contro il legno laccato di una di queste e non meravigliandosi di trovarla sbloccata: dopo tutto il locale è vicino all’apertura, e molti dipendenti devono essere sul posto di lavoro con almeno un paio di ore di anticipo rispetto all’inizio della serata.


Non appena Iwaizumi entra non può fare a meno di notare come l’ingresso abbia ancora quella traccia di oscurità dovuta all’inattività: la luce tenue proveniente dalle piccole abat-jour poste sul bancone a qualche metro da loro sembrano essere le uniche sorgenti presenti al momento, mentre i piccoli led ad incasso celati nel soffitto color panna sono per la maggior parte ancora spenti, dando l’idea l’ambiente sia ancora per la maggior parte addormentato. Le pareti sono verdi, un petrolio che solo il bianco dei battiscopa e delle tende che scivolano ad intervalli alterni dal muro riescono a smuovere, mentre il pavimento è di un noce naturale ed opaco.

È passato ormai molto, moltissimo tempo dalla prima volta che l’ispettore è entrato lì dentro, eppure non può fare a meno di aggrottare le sopracciglia nel constatare come, nel mentre tutto ciò che è Gotham sembri cambiare e plasmarsi in continuazione, quasi fosse un organismo cosciente sui desideri dei suoi abitanti, La Danse de le Langues sembri al contrario essere invisibile al tempo, inafferrabile nella sua eterea presenza che trascende lo spazio e gli anni che passano ineluttabili al di fuori delle sue mura.

Ah, dannazione. Se ricordare l’avanzare degli anni è già tremendo di per sé, certamente non possono farlo stare meglio i ricordi che ora stanno involontariamente prendendo piede nella sua testa, legati al motivo della sua prima visita alla ricerca di un amico che aveva creduto scomparso da anni ma che – nonostante ciò – aveva continuato a cercare anche dopo essere entrato nel comando della polizia di Gotham, chiedendo informazioni quando libero dal lavoro e tracciando cerchi sulle mappe che teneva attaccate al frigo della cucina, segnando le zone dove pensava di aver trovato indizi al riguardo; amico, infine, che aveva effettivamente ritrovato lì dentro, seppure non nella situazione o nelle vesti nelle quali aveva pensato l’avrebbe rivisto.


«–?!?!»

I pensieri di Iwaizumi vengono interrotti repentinamente quando sente qualcuno, o qualcosa, sbattere senza troppe cerimonie contro la sua spalla, e le sopracciglia si aggrottano appena mentre la sua prima reazione è quella di voltarsi abbastanza bruscamente verso la possibile causa di quell’incidente, la bocca già schiusa in una smorfia di mal celata irritazione.

«Sarebbe educato scusarsi».

Dice solo, mentre gli occhi vanno a posarsi decisi su quell’uomo che sembra superarlo di almeno una trentina di centimetri, la testa rasata ed un grosso ragno disegnato su metà calotta cranica. Nota il modo attraverso cui questo lo squadra dall’alto verso il basso, ed è quasi tentato di chiedere se abbia qualcosa da dire quando lo vede voltare lo sguardo alla sua sinistra, dove Ushijima ha fatto un impercettibile passo avanti per mettersi al suo fianco, silenzioso eppure incredibilmente presente.

«… La prossima volta stai più attento».

Sente infine lo sconosciuto rispondere a denti stretti prima di allontanarsi, e rimane a fissarlo sino a quando non nota l’enorme testa superare una curva ed inserirsi in un corridoio in fondo alla sala, uscendo dal suo campo visivo e da quello del collega di fianco. Il suo onore preme con oppressione dal fondo dello sterno, e per un secondo è quasi tentato di voltarsi verso Ushijima per dirgli che non era necessario quello che ha fatto, e che avrebbe saputo cavarsela da solo. Ma poi pensa che di tempo lì dentro vuole spendercene poco sinceramente, e che non è decisamente il momento per lasciarsi andare a questioni simili; oltre al fatto che non ha nemmeno più l’età per farlo, a dirla tutta.

Attorno a loro, nel frattempo, il lusso sembra averli trasportati all’interno di un enorme quadro d’epoca: dai vasi in marmo che si posano stabili su lunghi banconi o sugli alti comodini in legno pregiato dalle rifiniture placcate in oro, alle colonne imperiali che si alzano dal pavimento a sorreggere il grande ingresso elegante, tutto è perfettamente allineato ad un’idea anacronistica di antichità e di storia. Nemmeno un graffio sembra poter intaccare quella perfezione creata al tavolino, ed Iwaizumi si domanda per qualche istante se davvero le persone non riescano a notare come una tale inattacabilità da tutto e da tutti in una città come Gotham non possa che nascondere la presenza di un’abile mano criminale dietro. Non sa nemmeno più se sembri così scontato a lui perché poliziotto, o se sia davvero così difficile da riconoscere; ma a vedere come i turisti continuino a viaggiare entusiasti per decine di chilometri pur di vedere almeno uno spettacolo del celebre locale, o come i giornali di tutta Gotham vi dedichino prime pagine ad ogni Prima di Novembre, o ancora come abbia più volte visto giovani coppie arrivare serene e curiose a prenotare biglietti ad ogni ora del pomeriggio, senza mai una punta di timore a scalfirne i visi ancora privi di preoccupazioni, si direbbe come alla fin fine la copertura sia decisamente salda.

Non che lui abbia prove di alcun genere, fra le altre cose. Nonostante sia un locale a gestione familiare, e quindi mandato avanti da padri e figli per lungo tempo, sembra che nessuno abbia mai fatto azioni abbastanza esplicite da essere ufficialmente indagati per alcun tipo di azione illecita.
Girano voci, certo: ma vi è davvero un luogo in tutta Gotham che non ne sia oggetto?


«Stop».

Al sentire quella richiesta Iwaizumi effettivamente si ferma, ma solo perché davanti a lui ha esattamente la persona che si aspettava prima o poi sarebbe comparsa. Per quanto non ami seguire gli ordini di un qualcuno che palesemente non sembra esserne molto esperto a seguirne a sua volta, rimane che l’ispettore sia attualmente in un territorio non favorevole al distintivo che porta, e non sia quindi molto intenzionato a mostrarlo finché non strettamente necessario.

«Devo parlare con King».

Risponde invece, cercando di essere il più diplomatico possibile nonostante il tono esca decisamente più autoritario del previsto, le iridi che rimangono fisse su quelle castane dell’altro. Nota le sopracciglia di quella specie di cane da guardia aggrottarsi eccessivamente, talmente sottili da sembrare quasi trasparenti, mentre un ringhio sommesso viene emesso a labbra socchiuse in segno di avvertimento. Il come abbia fatto un ragazzo così poco propenso alla calma a sopportare le ore di attesa necessarie per tingere i capelli corti e crespi in quella maniera, è ancora un mistero: se si fosse tenuto su quel biondo totale che copre la maggior parte della sua testa sarebbe quasi stato credibile, forse. Ma riguardo quelle strisciate di nero che ne dividono nettamente il cranio da poco sopra un orecchio sino all’orecchio opposto, beh. Quella è tutt’altra storia.

Iwaizumi regge lo sguardo, aspettando l’altro intuisca la situazione o almeno si ricordi di lui, contando come ormai siano anni che compare in quel locale facendo ogni volta la medesima richiesta. Ma niente, sembra la situazione sia caduta su un terreno sterile, e basta questo a metterlo decisamente di malumore: Dio, avrebbe veramente voluto evitare di usare quella carta.

«Ushijima».

Sente gli occhi di Ushijima puntarsi su di lui, in attesa.

«Mostragli il mio distintivo».

Dio, se avrebbe voluto evitarlo. Lo stesso Ushijima sembra pensarci in effetti, consapevole quanto lui di come far uscire nome completo ed indirizzo in un ambiente simile sia più controproducente che altro, ma alla fine arriva probabilmente alla medesima consapevolezza di Iwaizumi, ed una mano va a scivolare attenta sul suo giaccone, alla ricerca della custodia.

Mettere su un piatto d’argento tutto ciò che aiuti qualcuno ad identificarlo tra mille non sembra decisamente una scelta saggia, non importa quanto ci si pensi: ma almeno avranno l’obbligo legale di portarli a vedere il proprietario del locale, quando l’avranno visto.

«Kyotani, falli passare, King conosce già queste persone».

Ushijima si ferma, ritirando subito la mano al vederne una seconda posarsi sulla spalla del ragazzo tinto di biondo, e l’ispettore riesce a vedere la pressione con la quale quelle dita fantasma premono sulla giacca nera dell’altro, provocando di risposta uno schiocco scocciato di lingua da parte del compagno. Iwaizumi non ha bisogno davvero che la sorgente di quella voce si mostri, poiché dopo tanti anni ha imparato a riconoscerne la voce, lui; ma mentirebbe se dicesse gli dispiaccia vedere entrare nella sua visuale l’unico capace di placare quel cane selvatico chiamato Kyotani, quei capelli morbidi e castani che scivolano alla luce mentre quegli occhi caldi e seri si posano su di lui non appena visibili, controllando velocemente se abbia o meno armi in vista.

«Yahaba. Lui è qui?»

Iwaizumi lo saluta con un leggero cenno di capo prima di fare la domanda che veramente gli preme, studiandolo a sua volta mentre gli occhi scivolano al punto vita dell’altro, alla ricerca di fondine o di strane pieghe della camicia. Tutto come al solito, insomma.

«È sempre qui, ispettore.»

Un accenno di sorriso si schiude sulle labbra di Yahaba mentre parla, e Iwaizumi non può fare a meno di emulare la stessa smorfia al sentire quella risposta che ormai gli viene propinata da anni.

«Lo dici perché vero, o perché molti dei suoi alibi ufficiali si reggono su questo?»

«Alibi, ispettore? Davvero non so di cosa stia parlando.»

«Naturalmente. Ushijima–»

Il viso si piega appena per volarsi verso il collega, e non appena gli occhi di Ushijima incontrano i suoi muove la testa di lato, ad indicare di seguirlo. Superano i due uomini vestiti eleganti, prendendo un corridoio poco distante e leggermente più largo degli altri ramificati attorno alla sala d’ingresso, e i passi si fanno più soffici mentre il parquet cede il posto alla moquette, le lampade a muro che colorano opacamente di un verde acqua le pareti mentre profili zincati si alternano a pannelli fonoassorbenti di un verde veronese; alla loro destra Iwaizumi vede sott’occhio una serie di vetrate trasparenti, al cui interno piccoli cubicoli divisi da delle tende fanno da ambiente per i giovani dipendenti che sa arriveranno dopo il tramonto, e continua a camminare sino a quando l’area attorno a loro torna ad allargarsi, aprendo la vista ad un’enorme sala con al centro tavolini tondi su cui posano abat-jour del tutto simili a quelle viste precedentemente.

La sala degli spettacoli principali de La Danse de le Langues è larga il sufficiente per contenere all’interno almeno trecento persone. Ogni tavolino ha un paio di sedie collocate l’una opposta all’altra, con schienali dalle rifiniture in legno di mogano rivolti verso l’esterno ma tutti predisposti verso un palco rialzato, largo e ancora semi-spoglio – eccezion fatta per una mezza dozzina di ballerine in intimo prese dalle prove, alcune danzanti ed altre in movimento attorno a sedie dall’imbottitura di velluto.

Ai lati due file di tende in broccato del medesimo colore dei pannelli contornano i confini del palcoscenico, mentre tutto attorno una serie di divanetti decorati da numerosi cuscini dalle fantasie barocche – smeraldine dorate ed argentee – ammorbidiscono gli angoli della sala; lo scheletro delle loro basi è intagliato nel legno chiaro, e quelli che danno sul muro ricoperto in boiserie ne celano la metà inferiore, la parte superiore terminante in una mensola su cui si posano candele perennemente accese ad illuminare specchi dalle cornici tonde e rettangolari, atti a riflettere clienti e pareti di un marino scuro.

E poi eccolo, al centro di questa enorme sala e seduto su una delle sedie accanto a questi tavolini:
Oikawa.


°°°°

King

Professione: Proprietario de La Danse de le Langues, informatore di Hajime Iwaizumi, probabile capo di un giro di prostituzione.
Vero Nome: Tooru Oikawa
Aspetto: Uomo, capelli cioccolato leggermente mossi, occhi del medesimo colore.
Caratteristiche: Figlio di una delle famiglie più influenti di Gotham, spiccato senso degli affari.

°°°°


Iwaizumi lo riconoscerebbe ovunque, ma c'è da dire l’altro non abbia fatto chissà quale sforzo per rendersi meno riconoscibile del solito. Le gambe sono accavallate nella sua direzione, i gomiti fanno perno sui braccioli imbottiti della sedia mentre la guancia si poggia sulle nocche della mancina, la destra che al contrario tiene dallo stelo il calice in cristallo, facendo ruotare la sostanza chiara e limpida che vi è all’interno mediante il movimento lento e ipnotico del polso.

Avanza senza rallentare, fermandosi solo quando si trova ad essere ad un tavolo di distanza dall’altro, ma le iridi rimangono fisse su quelle del compagno, impassibili ai movimenti che anticipano la successiva comparsa di due uomini in completo scuro, silenziosi e fedeli mentre si avvicinano ai lati del loro dirigente sino a posizionarsi poco dietro la sedia di Oikawa. Nulla che non abbia visto abbastanza volte da poter immaginare perfettamente pur senza aiuto degli occhi, comunque.

«Ispettore Iwaizumi, finalmente è venuto a trovarmi!»

A metà tra la domanda e l’entusiasmo Oikawa volge il suo sorriso più cordiale verso Iwaizumi che, però, non risponde, andando invece ad abbassare le palpebre mentre si toglie il giaccone invernale, piegandolo un secondo prima venga raggiunto da una ragazza bassa e bionda, spuntata dal buio di uno dei tanti cubicoli che si sviluppano ai lati della sala.

«Yachi, porta la giacca dell’ispettore nel mio guardaroba personale, così che abbia la certezza nessuno oserà toccare alcun ché dei Suoi averi. Non che nessuno farebbe mai una cosa simile, si intende; è risaputo non vi siano ladri qui dentro. Dico bene?»

Iwaizumi osserva la giovane ragazza scomparire, piccola e tremolante, oltre uno spesso velo scuro che divide una delle grandi uscite principali del palco, e per un istante si chiede se sia maggiorenne almeno, o se sia veramente il caso di chiederlo al proprietario del locale in quel momento. Ma alla fine passa oltre: per quanto Oikawa sia senza ombra di dubbio una di quelle persone che, all’inizio della sua carriera, lui stesso avrebbe collegato alla parte marcia della città, c’è da dire che con il tempo ha imparato a riconoscere come, tra tanta melma che infesta la città, egli sia a suo modo dotato di quella che a molti di essi manca: una morale.

Forse, pensa, ha semplicemente imparato a distinguere le scale di grigio che vi sono tra il bianco ed il nero. O forse, ancora più semplicemente, potrebbe essere che una parte di lui tenda ad inserire ancora una qualche traccia di virtuosismo in quella persona che da ragazzino era ingenuamente sicuro di conoscere come le sue tasche.

Ma qualsiasi sia la risposta, rimane che attualmente non abbia davvero il tempo di pensare a nessuna strana verità interiore, così avanza semplicemente di qualche passo verso il tavolo di Oikawa, andandosi a sedere sull’unica sedia fatta nel frattempo allontanare da un giovane ragazzo e andando a posare i gomiti sul ripiano, la mano destra che va a raccogliersi attorno a quella sinistra chiusa a pugno.

«Sono venuto per parlarti di una cosa importante».

«Ah~, ce ne ha messo di tempo! Solo, speravo il nostro incontro sarebbe stato più– intimo. Invece vedo che ha portato di nuovo ospiti con ».

Gli occhi di Oikawa slittano velocemente verso il secondo poliziotto, ed in un istante quell’aria elegante viene sciupata selvaggiamente da un’espressione piccata ed infantile, la mano che tiene il vino che va ad abbassarsi a posare il calice sul tavolino mentre il naso si arriccia debolmente, le sopracciglia aggrottate in palese disaccordo.

«I Suoi gusti tra l’altro non sono cambiati nemmeno un poco, speravo la mia compagnia vi avesse mutato almeno in quel senso».

Dio.
Le palpebre dell’ispettore si abbassano nuovamente, chiudendo loro la vista del mondo per una buona manciata di secondi – dieci per l’esattezza, contati uno ad uno nel tentativo di placare l’istinto di buttare le mani attorno al collo dell’altro – prima di riaprirsi, le labbra che si schiudono a far scivolare fuori la risposta più diplomatica possibile.

«Il vice ispettore Ushijima è utile al nostro dipartimento, non mi serve sapere altro».

«Probabilmente perché non fa il giusto lavoro, o sapreste cosa altro servirebbe».

«Qualsiasi cosa sia, credo sia un bene che non ce l’abbia».

«E questa è la prova che non passa abbastanza tempo qui dentro».


Il silenzio cala sulla sala, e Iwaizumi rimane a fissare con espressione dura il proprietario del locale, quelle iridi calde e strafottenti fulcro di uno sguardo sfacciato e a tratti impudente.

«Mi servono informazioni su una serie di delitti accaduti negli ultimi tre mesi».

Nemmeno il tempo di vederlo che quello sguardo sfrontato scompare in un battito di ciglia, mentre al sentire quella frase un’espressione ora calcolatamente disinteressata prende piede su quel viso elegante, le dita pigramente occupate a ridefinire con i polpastrelli il confine della bocca del calice che rallentano la loro corsa, quasi fino a fermarsi.

«… Perché dei delitti dovrebbero essere di competenza di un proprietario di un locale di cabaret?»

«Vuoi davvero ti dia una risposta?»

L’ombra di un sorriso accoglie quella risposta un istante prima che il proprietario schiocchi appena le dita della sinistra, chiamando a sé un uomo alto e dai capelli innaturalmente sparati verso l’alto, il viso abbastanza lungo da portare istintivamente Iwaizumi ad associarlo ad un tulipano.

«Kindaichi, perché non porti un calice di vino al nostro ospite? Magari così uno dei due ricorderà all’altro le buone maniere, come ci si aspetta accada durante una conversazione tra gentiluomini».

Kindaichi posa un secondo lo sguardo su Iwaizumi, muovendolo poi perplesso verso l’altro poliziotto ancora in piedi e tornando a guardare il suo capo, in attesa forse di un secondo ordine.

«… Devo ripetermi?»

Il barista scuote la testa prima di indietreggiare, simulando un leggere inchino prima di voltarsi per tornare verso il bancone posto dietro una fila di colonne laccate di bianco, i colori dei vetri dei diversi alcolici esposti sulle mensole che creano riflessi colorati sulla parete alle spalle.

«Come vanno le cose nel dipartimento, ispettore? Ha trovato quella talpa di cui mi parlava?»

«Sì, è stato piuttosto facile dopo aver ricevuto il nome per lettera anonima».

Un altro sorriso, mentre la mano torna a sollevare il calice, alzandolo il necessario affinché Oikawa possa indirizzarlo verso la luce della abat-jour e guardarvi attraverso.

«Ma non mi dica. Deve a qualcuno un grosso favore, allora».

«Nessun favore, è stata una soffiata per saldare un debito».

Le iridi di Oikawa tornano a fissarlo, indecifrabili.

«Sempre così sicuro, persino su cose simili. Peccato– Per il suo informatore, intendo».

Sta per rispondere, ma le labbra si richiudono istintivamente quando vede sott’occhio tornare Kindaichi, un calice in mano riempito da un liquido chiaro del colore della paglia sino a poco meno della metà; aspetta lo posi sulla tavola, proprio davanti a lui, e fa un cenno di ringraziamento prima di prenderlo in mano, lasciando che l’aroma sprigionato dalla mistura tolga ogni dubbio sulla natura alcolica della bevanda.

«Le dita sulla coppa, ispettore? La facevo più portato al Galateo».

Iwaizumi alza lo sguardo dall’elegante bicchiere che nel frattempo ha posato nuovamente sul tavolino, un’espressione leggermente scettica che si va involontariamente a disegnare sul suo volto.

«Non lo sa? Se si prende il calice con le dita, si copre il vino e diventa incredibilmente difficile apprezzarne il colore appieno, tutte le sue sfumature, la sua limpidezza, il perlage! Ma, quel che è ancor più grave–»

Le palpebre di Oikawa vanno a chiudersi leggere, la mano che tiene quel nettare chiaro che va a far ondeggiare a sinistra e a destra il calice, appena sotto alle narici di quel naso alla francese.

«– Eventuali profumi delle mani potrebbero mescolarsi con quelli del vino, riducendo la possibilità di cogliere l’ampia gamma aromatica che ci offre. Come potremmo allora proclamarci intenditori di vino, e perché dovremmo comprare una bevanda tanto raffinata, se poi si fosse incapaci di berla nel suo stato ottimale? Guardi il suo collega, ad esempio, crede che sappia come si beva una tale perla del consumo?»

Le palpebre si rialzano giusto per guardare Ushijima per una manciata di secondi, ancora in piedi.

«Vuole che risponda, signor King?»

Probabilmente non si aspettava che rispondesse. Il naso si arriccia di nuovo, con più enfasi della prima stavolta, e gli occhi scivolano di nuovo su Iwaizumi, colpevolizzandolo con lo sguardo mentre il bicchiere viene nuovamente messo da parte.

«… Sappia che non mi piace affatto questo agente, ispettore».

Iwaizumi lo guarda impassibile, il calice di nuovo messo da parte ed il lavoro nuovamente in prima linea.

«Le informazioni, Oikawa».

«Ah, come è noioso. È davvero così insofferente all’idea di rimanere più dello stretto necessario qui dentro?»

Oikawa scuote la testa, visibilmente – o meglio, teatralmente – ferito dalla risposta di Iwaizumi, ma alla fine alza con accidia il braccio sinistro, piegando un paio di volte l’indice del destro verso una delle guardie, chiedendole di avvicinarsi.

«Trova Mad Dog, probabilmente è da qualche parte con Yahaba. Portali entrambi qui».

Iwaizumi vede la guardia annuire velocemente prima di allontanarsi, scomparendo dietro le spalle di Ushijima.

«Kunimi».

La seconda guardia si fa avanti, piegandosi appena verso il basso per avvicinarsi anch’essa al viso di Oikawa, ancora seduto; vede il proprietario sussurrargli qualcosa all’orecchio e Kunimi annuire brevemente prima che anche questo scompaia, stavolta nella direzione opposta rispetto alla precedente.


Il silenzio cade nella sala ad un tratto incredibilmente vuota, e Iwaizumi lancia uno sguardo a Ushijima, incrociando gli occhi dell’altro e fissandolo per qualche istante, in attesa. Il sospiro di Oikawa non tarda ad arrivare, come sempre del resto, e il giovane uomo dai capelli scuri e corti volta nuovamente il viso, portandolo a studiare l’espressione tutto ad un tratto incredibilmente stanca e svogliata del proprietario del locale, intento a massaggiarsi il punto di incontro delle sopracciglia.

«Adesso che siamo soli, di cosa hai bisogno?»

«Ma come, niente più terza persona?»

«Ah, che posso dire? Lo sai come sono, mi annoio facilmente. Soprattutto quando si tratta di mandare avanti un gioco troppo a lungo, Hajime».

«Questo non è un gioco, Tooru».

«Sembra la tua vita lo sia, contando quanto spesso la metti in pericolo chiedendo cose alle persone sbagliate».

L’espressione di Iwaizumi si indurisce a quelle parole e le sopracciglia si aggrottano, andando a creare un’ombreggiatura densa sotto di loro, nell’intaglio degli occhi.

«Sei il mio unico contatto, lo sai».

«Non dovresti averne nessuno, per avere una minima possibilità di raggiungere la pensione».

Iwaizumi sente la frustrazione di Oikawa in quelle parole, la battaglia interiore tra quello che vorrebbe dirgli e quello che può dirgli riguardo il modo in cui ha scelto di vivere la sua vita, e solo per quello decide di non rispondere e di non continuare quella conversazione, perché non sarebbe niente che non abbiano già affrontato più e più volte negli ultimi anni, a più riprese, a zero risultati.

Perché Oikawa non ha mai voluto che diventasse un poliziotto, nemmeno quando erano ancora al liceo. Lo vedeva chiaramente, nel modo in cui i suoi occhi perdevano vitalità quando Iwaizumi gli parlava senza troppe pretese dei corsi per entrare nella GCPD, dei test da superare, delle ammissioni annuali. Lo aveva sempre visto, ma non aveva mai capito il perché, affibbiando l’antipatia che Oikawa sentiva nei confronti della polizia ad una qualche sorta di infantile ribellione contro le regole, o contro l’uniforme in generale.

Non lo sapeva, e non poteva saperlo all’epoca, che Oikawa fin da quando entrambi erano bambini era sempre stato più consapevole del mondo esterno di quanto lo fosse stato lui, consapevole di cosa volesse dire essere un poliziotto, di cosa significasse rischiare ogni giorno la vita senza avere la certezza di tornare a casa la sera, il non sapere se un giorno qualcuno dei cattivi avrebbe deciso che eri un pericolo, e che andavi eliminato ad ogni costo. Tooru lo sapeva già, e probabilmente lo aveva sempre saputo, perché – come aveva scoperto Iwaizumi cinque anni prima – in quel mondo ci era vissuto. Perché la sua famiglia, da generazioni, era sempre stata di quelle che gli omicidi dei poliziotti li commissionavano, appartenendo ad una delle fazioni più potenti di Gotham assieme ai Calabrese ed ai Falcone; e che così come i beni si passavano di padre in figlio, così anche i clienti e le attività familiari finivano di mano in mano, seguendo la linea di sangue della famiglia.

Il ché aveva significato, per Tooru, prendere non appena finito il liceo – ed a seguito della morte prematura del padre durante un’imboscata – le redini de La Danse de le Langues, entrando ufficialmente a far parte del giro criminale di Gotham all’età di diciannove anni, scomparendo dalla vita di chiunque avesse conosciuto precedentemente per non farli diventare bersagli troppo facili. Scomparendo, quindi, anche dalla vita di Iwaizumi, in particolar modo sapendo il desiderio dell’amico di entrare nelle forze dell’ordine.

Tutto questo era accaduto anni prima, e l’ispettore poteva capire – nel presente – Oikawa avesse effettivamente dovuto prendere una decisione veloce ai tempi, fra l’altro non senza pagarne il duro prezzo dovuto al rimpianto delle occasioni perse. Eppure, non poteva fare a meno di sentirsi istintivamente la parte offesa della situazione, perché lui una decisione da prendere non l’aveva proprio avuta: il giorno prima aveva un migliore amico, il giorno dopo era semplicemente scomparso.

Lo aveva cercato le prime settimane, il primo mese, il primo anno. Aveva chiesto in giro, sicuro che per scomparire in quel modo doveva essere successo qualcosa di grave, ed alla fine aveva ipotizzato l’unica cosa potesse a sua idea giustificare un simile cambiamento:

Oikawa era tenuto contro la sua volontà da qualche parte.

Ecco perché, una volta entrato a far parte della GCPD ed avere avuto la possibilità di trovare più agganci e più testimonianze che da semplice cittadino, aveva usato le sue prime ferie per provare a cercare nuovamente Oikawa, acquisendo informazioni a tempo pieno sino ad arrivare a quel locale.

Aspettandosi uno schiavo.

Ritrovandosi un Re.


«Tooru».

«… Cosa, Iwachan

Oikawa sembra essere ancora un poco contrariato nel mentre risponde, le dita che vanno a massaggiarsi la fronte mentre gli occhi si chiudono per qualche istante, in attesa.

«Mi serve una mano, ma se non mi aiuterai rimarrò comunque sul caso. È il mio lavoro».

Non sarò meno in pericolo di quanto non sia già quotidianamente; è questo che vorrebbe dirgli, se non sapesse come Oikawa sia già perfettamente consapevole della cosa. Perché lo sa, sa che probabilmente nessuno dei due è destinato ad arrivarci mai, alla terza età, ma questa è la vita che lui ha scelto entrando nella guardia, e che l’altro ha accettato quando non si è opposto alla scelta dei familiari di far succedere all’impero del padre il suo. Quindi che diritto ha Oikawa di preoccuparsi della sua vita, se lui è il primo ad ignorare i pericoli della sua?

«… Lo so, anche se continuo a non capire il perché tu lo abbia scelto».

Oikawa sospira appena, riposando il gomito sul bracciolo e piegando la testa da un lato, sino a sorreggersi la tempia con le dita.

«Cosa ti occorre».

«Informazioni sui crimini dell’ultima settimana, in particolare su quelli riguardanti la rapina alla banca di Gotham di martedì scorso, il furto con scasso al Museo di Scienze Naturali di questa domenica e l’incendio appiccato al Park Row ieri».

«Non è stato già condannato Pinguino con le stesse accuse?»

«Le notizie circolano piuttosto velocemente, vedo».

«Ne sei davvero sorpreso?»

«Difficilmente».


Rimangono in silenzio per qualche istante, lo smeraldo delle iridi di Oikawa che si incontra con la terra bagnata di quelle di Iwaizumi, sino a quando l’ispettore non sente dei passi sempre più vicini interrompere lo scandirsi dei secondi e predire l’arrivo di Kyotani e Yahaba, vedendoli effettivamente comparire una manciata di istanti dopo accompagnati dalla guardia mandata a chiamarli.

«Signor King».

«Kyotani, Yahaba. Accompagnate all’uscita il nostro ispettore, e fate in modo nessuno lo disturbi finché dentro il locale. Non vorremmo mai che si faccia l’idea che questo posto sia frequentato da persone poco per bene, in fin dei conti».

Ed in un istante entrambi tornano ad i loro ruoli, maschere invisibili che tornano a celarne le emozioni mentre Iwaizumi si alza, venendo tempestivamente raggiunto dalla ragazza bionda che gli pone timidamente la giacca, lo sguardo basso e le mani piccole a tenere la stoffa in alto. Ringrazia con un cenno del capo, indossandola in un unico fluido movimento, prima di voltarsi verso Ushijima, ancora in piedi vicino al corridoio.

«Andiamo».

Dichiara mestamente prima di avvicinarsi alle guardie con l’idea di seguire la richiesta fatta dal proprietario del locale, uscendo di lì prima dell’arrivo della clientela. Sinceramente non è mai stato molto vezzo agli spettacoli che La Danse de le Langues è solita offrire ai suoi clienti, e non crede di essere pronto a testimoniare contro il suo informatore dopo aver involontariamente assistito ad alcune di quelle famose prestazioni di cui nessuno sembra volere avere prove.

«Ispettore Iwaizumi–»

La voce di Oikawa è inaspettata, ed Iwaizumi si volta a guardarlo in tempo per vederlo con il calice in mano, lo sguardo puntato su di lui, l’ombreggiatura dell’arcata degli occhi che scurisce il colore nocciola di quelle iridi attente.

«Sa qual è il modo giusto per tenere un calice in mano?»

Iwaizumi sta un attimo in silenzio, cercando di capire se l’altro voglia o meno una vera risposta dopo tutta la conversazione avuta poco prima, ma al vedere il proprietario del locale continuare a fissarlo immobile aggrotta le sopracciglia, sospirando e schiudendo nuovamente le labbra.

«… Tenere la coppa lontana dalle dita?»

Silenzio, mentre i due esseri umani si studiano a vicenda.

«La risposta è: Non importa ve ne sia o meno uno davvero giusto».

E con le iridi ancora puntate su di lui Oikawa piega il polso, facendo scivolare il vino fuori dalla concavità del bicchiere e facendolo riversare copiosamente sul pavimento scuro.

«Perché un vino, per quanto buono sia, non vale nulla una volta che finisce a terra».

E poi ancora silenzio, mentre anche le ultime gocce di quel nettare chiaro scivolano dalla protezione del vetro decorato, gettandosi sconfitte dalla gravità sul marmo scuro dalle venature argentate.

«Qualsiasi cosa accada cerchi di tenere sempre il vino dentro il suo calice, ispettore».

E lo sguardo che condividono per qualche secondo è pieno di aspettative, richieste, promesse. Non morirò, vorrebbe dire Iwaizumi. Ma la verità è che in una città come Gotham la vita non è mai una certezza, e come poliziotto le sue aspettative sono molto più basse di un cittadino normale.

Così, alla fine, l’unica cosa che può fare è girarsi, indicando a Ushijima di fargli strada assieme a Yahaba e collega mentre si abbottona nel frattempo il doppio petto, incamminandosi silenziosamente tra i corridoi bui verso l’uscita del locale.



°°°°



«Quanto siamo rimasti lì dentro?»

Domanda ad Ushijima, vedendolo controllare l’orologio mentre lui porta una mano alla spalla, facendola roteare pigramente. L’insegna de La Danse de le Langues è illuminata, nota.

«Cinquanta minuti».

Un sospiro, prima di seguire Ushijima ed iniziare ad incamminarsi lungo la strada.

«Assurdo, ogni volta che entro in questo locale non riesco mai ad uscirne velocemente. Abbiamo perso tantissimo tempo, speriamo ci dia risultati».

«Sarebbe dovuto venire alla stazione di polizia».

Iwaizumi soffoca una risata, prima di portarsi le mani in tasca e abbassare il viso, immergendolo parzialmente nell’ampio collo del giubbotto.

«… Oikawa? Non riusciresti a portarcelo nemmeno se ci fosse lui dietro tutto questo, fidati».

«Difficile da incriminare?»

«Difficile da sospettare».

Ushijima si volta a guardarlo, rimanendo in silenzio per qualche secondo mentre entrambi continuano a camminare, facendosi da parte mentre le macchine iniziano a transitare per le strade abbastanza vicine ai marciapiedi, portandoli istintivamente a rintanarsi più verso l’interno.

«Dobbiamo tornare dal commissario?»

«Contando che il capitano probabilmente ha appena finito di parlare con il sindaco? Vorrei evitarlo. Ma non credo che abbiamo molte possibilità, quindi–»

Gli occhi di Ushijima rimangono fissi davanti a sé, le labbra che si schiudono ancora una volta.

«Al dipartimento?»

«Al bar. Per il dipartimento, prima necessito di almeno un’altra caraffa di caffè».



Ed un altro capitolo è finito! Sono molto molto felice di come sia venuto Oikawa ed il suo rapporto con Iwaizumi, devo ammetterlo. Spero davvero sia piaciuto anche a voi, fatemi sapere!
Per quanto riguarda Ushijima invece, sta lentamente iniziando a parlare. Insomma dice poche cose per ogni capitolo ma sono sempre pregne di significato, che persona incredibilmente densa che è; adorabile, ma densa. (…)
Ma insomma, questo è quanto! Alla prossima!
(Ps. Finalmente sta per spuntare Batman!)

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Capitolo 3
*** Summum ius, summa iniuria ***


3. Summum ius, summa iniuria


(Somma giustizia, somma ingiustizia)
Cicerone, De officiis, I, 10-33






GOTHAM CITY Gotham City Police Department (GCPD)

17/12/1976 – Ore 20:00 circa


Il dipartimento di Polizia responsabile del ventitreesimo distretto di Gotham, ricordato più nella sua forma siglata – GCPD – e fondato nel 1820 all’interno di un antico palazzo in pietra dalle alte vetrate e gli elevati soffitti, si ergeva su un isolotto sulle sponde del fiume del Sud e si componeva di una struttura monumentale divisa dal resto dei palazzi d’epoca – caratteristici del quartiere – da una serie di strade a doppia corsia e da un alto muro di recinzione, intervallato da colonne di guardia su cui erano montate telecamere diurne ed ad infrarosso. La scritta “GCPD” illuminava con il suo blu elettrico il cancello principale, un portone basculante dotato di più aperture e costruito in vetro antiproiettile, che permetteva l’entrata controllata e mirata di poliziotti sia scortanti banditi che in libero arbitrio per lavoro; solo una volta entrati era possibile vederne una perfetta copia, sempre di un blu incredibilmente acceso ma di dimensioni maggiori, a sovrastare l’entrata del dipartimento, le prime due lettere scisse dalle altre per lasciare nel mezzo spazio sufficiente all’imponente stemma della struttura: un’aquila dalle ali spianate con uno scudo poliziesco stretto tra gli artigli delle zampe inferiori.


Ushijima e Iwaizumi salutano di sfuggita un paio di colleghi di guardia mentre le mani vanno a porsi su ciascuna delle due grandi maniglie dorate delle porte di legno, spingendole in avanti ed aprendosi così la strada verso la grande sala principale del dipartimento. I suoni sono la prima cosa che li accolgono, quel rumore continuo ed irregolare di macchine da scrivere, di scarpe che battono su un legno dai colori sciupati e da righe nate dallo strusciare delle sedie, di persone al telefono e rumori trillanti di chiamate ancora non accettate. E poi le luci della sera che calano all’esterno, scure seppure provenienti dalle grandi finestre ad arco che si prendono più piani del gigantesco locale e che lasciano spazio, nella parte più interna della struttura, a lampade fredde ed artificiali che pendono come scheletri rigidi e rettangolari dal soffitto a cassettoni, librandosi pigramente ad un paio di metri dalle scrivanie grigie piene di fogli e di articoli da cancelleria.

Iwaizumi può sentire chiaramente le rotelle delle sedie su cui siedono pigri o sovreccitati ispettori e semplici apprendisti ruotare velocemente sul pavimento, prima di vederli slittare con i loro corpi pesanti di impegni improvvisi da una parte all’altra della sala, tagliando non di rado la strada ad alcuni colleghi a piedi.

«Signor Ushijima! Ancora in giro?»

«… Goshiki».

L’ispettore si ferma nel sentire quella voce dalle tonalità piccate andare a richiamare con una sorta di infantile prepotenza l’attenzione del suo collega, e si volta appena di lato, notando un ragazzo alto – dannatamente alto, contando l’età del giovane – e dalla carnagione poco più chiara della sua tutto intento a guardare con aria di sfida Wakatoshi.

«Ohi! Pensavo fossi tornato a casa, come faccio a prendere il tuo posto qui dentro se tu sei sempre in dipartimento?!»

Segue un secondo di silenzio, gli occhi di Tsutomu che rimangono puntati con tenacia su quelli pacati e inespressivi di Ushijima, ancora immobile davanti a lui. L’ispettore può sentire l’attesa di Goshiki vibrare nell’aria come una corda di violino, e lo sguardo scivola con negligenza verso il suo collega, domandandosi distrattamente se l’altro abbia finalmente intenzione di riconoscere gli sforzi quel novellino stia facendo.

«… Preferisci esca?»

«Cos– No! Non è questo il punt– Ispettore non rida, non c’è nulla di divertente!»

Iwaizumi va a scuotere velocemente una mano mentre abbassa appena il capo, sbuffando un accenno di ghigno mentre tenta di contenere il sarcasmo puntatosi in gola. Sono passati solo alcuni mesi dall’ingresso di quel nuovo poliziotto alla centrale, ma c’è voluto poco per far capire a tutti gli agenti che vi lavorano all’interno come, nonostante gli sforzi di Goshiki e nonostante le sue continue dichiarazioni sull’essere entrato lì dentro solo per occupare una carica già occupata dal suo collega, Ushijima sia ancora lontano dal considerare la giovane recluta della GCPD anche solo una lontana minaccia per la sua attuale posizione nella polizia di Gotham.

Lo può sentire bisticciare ancora mentre si volta a guardare verso la loro meta iniziale, non faticando ad immaginarsi di sfuggita le guance del giovane gonfiarsi leggermente davanti all’imperturbabile apatia del gigantesco compagno, prima che un sospiro sconfortato – ma non sconfitto, parola che Goshiki probabilmente nemmeno conosce – vada a mettere fine a quei tentativi di considerazione, la tonalità che torna ad un livello più basso e controllato.

«Comunque… Sei riuscito a beccare quel tuo informatore strano, Tend– qualcosa? Ti stava chiamando a squarciagola fino a qualche minuto fa.»

«No. Dove sta?»

«Oh? Allora, se non lo hai ancora visto–? Dovrebbe essere dietro le sbarre al momento, anche se era seduto sulla scrivania di Eita ad aspettarti fino a nemmeno mezz’ora fa. Tra l’altro stamattina ho sentito Semi dire a Shirabu che gli avevano dato un nuovo caso, quindi probabilmente erano entrambi alla sua postazione per quello.»

«Sbarre?»

«Sbarre, sbarre.» Annuisce velocemente. «Non so bene cosa sia successo ma ad un tratto ho sentito la tua talpa dire che si stava annoiando, e quando mi sono girato aveva già iniziato a mettere nel trita carte i documenti che l’ispettore Semi aveva sulla scrivania. Lui sembrava piuttosto divertito, ma Eita non l’ha presa molto bene–»

Una pausa, mentre va a massaggiarsi dietro il collo, le scure sopracciglia aggrottate.

«Insomma, credo alla fin fine lo abbia incarcerato per intralcio alla giustizia, o qualcosa di simile.»

«Ushijima–»

Iwaizumi vede il collega voltarsi verso di lui, la statura predominante dell’altro che pare appianarsi appena a causa della lontananza che si è creata fra di loro nel mentre. L’ispettore ha infatti nel frattempo fatto quei passi in più verso l’ufficio del commissario, e al vedere gli occhi di Ushijima puntarsi sulla sua figura piega appena il braccio, chiudendo la mano a pugno e lasciando il pollice teso ad indicare verso destra, dove due rampe di scale portano al palco sopraelevato che dà sullo studio del capo del dipartimento.

«Io vado.»

Ushijima annuisce, riabbassando poi lo sguardo a guardare il giovane novizio con quella frangetta scura perfettamente para che gli copre la fronte bianca; ne avrà per molto, probabilmente. Iwaizumi si gira nuovamente verso il suo obiettivo, tornando a camminare sino a salire le scalette che portano alla porta del commissario, bussando con abbastanza forza prima di entrare nella stanza silenziosamente, guardandosi attorno alla ricerca del proprietario dell’ufficio.


°°°°


«Sì ma con tutto il rispetto, Signore, quello che le sto dicendo è che non siamo sicuri che sia colpevole– Sì, naturalmente Serpe si è macchiato di altri crimini in passato, ma–»

Iwaizumi vede una figura bassa ed esile muoversi nervosamente dietro la scrivania sino a posarsi con le spalle contro di essa, il coccige poggiato sul legno di noce del ripiano mentre la mano si va a muovere tra i capelli corti e rossastri, la voce vibrante ed il tono tenuto sotto controllo solo grazie all’assoluto lavoro di autocontrollo e di disciplina che l’esperienza ha probabilmente fatto maturare.

«Quello che le stavo dicendo, signor Sindaco– No, no. Certo che no.»

Si allontana dalla scrivania per girarsi verso la porta del suo studio, e solo in quell’istante sembra rendersi conto della figura di Iwaizumi ancora immobile all’ingresso, silenzioso ed in attesa. Gli fa segno di sedersi, e nel mentre il braccio si muove ad indicargli una delle due sedie davanti alla sua postazione di lavoro la parte interna dell'avambraccio si struscia leggermente contro una delle due fondine ascellari che porta ai lati del busto, poco sotto l’attacco dell’arto superiore, facendo un rumore basso ed irregolare.

«No, capisco. Ma se solo lei lasciasse a me ed alla mia squadra la possibilità di–...»

Iwaizumi si allontana dalla porta e dal suo vetro opaco per andarsi a sedere davanti al commissario, e nonostante la lontananza che lo divide dal telefono con filo riesce a sentire una voce tonante ed imperiosa provenire dalla cornetta dell’apparecchio, portando l’altro ad allontanare appena lo strumento dall’orecchio. Yaku aggrotta le sopracciglia, facendo una smorfia infastidita ed attendendo pazientemente il termine di quel soliloquio, prima di riavvicinarla al padiglione, accorto nel riposarla all’orecchio accaldato.

«Certo. Una settimana. Sarà fatto, la ringrazio.»

E senza aspettare risposta abbassa la cornetta verso il basso, attento a non far piegare troppo il cavo che collega la base del telefono alla stessa così da sfibrarlo più di quanto non sia già stato fatto dall’usura del tempo.

«Elezioni, ah–»

Commenta, e nel mentre una mano va a posarsi stanca e nervosa sulla fronte, allargandosi poi a premere con pollice e medio le tempie ancora pulsanti per lo sforzo mentale compiuto nel tenere i toni della conversazione il più professionali possibile.

«Quel vecchio dovrebbe preoccuparsi di tenere la testa dei suoi cittadini sui loro colli, non il suo fondo-schiena su quella poltrona polverosa.»

Continua, ormai visibilmente irritato, rimanendo in quella posizione per qualche istante prima di fare un sospiro profondo e togliere la mano dal viso, andando a posarla sul bracciolo della poltrona mentre la schiena sprofonda contro lo schienale, affondando nella fodera soffice.

«Portami buone notizie ispettore, ne ho bisogno come il pane.»

«Il mio informatore terrà un occhio aperto per noi.»

«Dio ti ringrazio.»

Rimangono in silenzio per un po’: Iwaizumi con un sopracciglio leggermente alzato ed in attesa di ricevere altri ordini, il commissario con gli occhi puntati sul calendario che tiene sulla scrivania, l’espressione corrucciata e le labbra strette in una smorfia.

«… Commissario Yaku–»

«Una settimana.»

Iwaizumi lo guarda con una nota di scetticismo, lasciando che un’espressione disincantata compaia sul suo volto mentre tenta di capire se il commissario stia davvero parlando con lui, o sia solo finito inconsapevolmente ad assistere ad un soliloquio dettato dallo stress.

«Il sindaco Washijou ci ha dato una settimana per trovare il vero colpevole di questo caso, altrimenti ci obbligherà a chiudere il caso con Serpe come unico accusato. A quanto pare le elezioni si avvicinano e non vuole rischiare di indebolire la sua campagna elettorale perché, cito testualmente, dei poveri pazzi hanno deciso di mettere a ferro e fuoco la città più del solito

«Che novità.»

«Quanto il fatto che il sole tramonti ogni sera. Comunque, riguardo il tuo informatore–»

Iwaizumi assottiglia per un istante le palpebre prima di piegare la testa di lato, il gomito poggiato sul bracciolo e le nocche a sostenere la guancia olivastra.

«Non guardarmi così, ormai dovresti aver capito che non ho intenzione di chiederti il nome. Ho deciso che ci sono cose di questo lavoro che preferisco non sapere, e questa è solo una di quella lunghissima lista. Come ad esempio–»

E continuerebbe la frase se non fosse che l’urlo entusiasta di qualcuno fuori dall’ufficio lo porti a frenarsi di colpo, mentre al di là della porta in vetro opaco si sentono un paio di sedie che si muovono ed il vociare borbottante di una serie di persone che si affrettano verso la fonte di quel baccano, tornando poi a camminare lentamente a prova di un’effettiva mancanza di qualche pericolo imminente.

«… –Il perché Ushijima abbia scelto di legarsi a quell’informatore, in effetti. Ora ha anche preso l’abitudine di venire alla GCPD, da quanto ne so io gli informatori dovrebbero rimanere nell’anonimato per la loro salvaguardia e la nostra, quindi perché di lui sappiamo persino la faccia?! Come fosse facile da dimenticare poi!»

Yaku scuote la testa, sembrando per qualche secondo un gattino bagnato nel tentativo di liberarsi dall’acqua di troppo prima di alzarsi di scatto, guardando Iwaizumi ancora seduto e facendo scattare il mento di lato per un istante, intimandolo di seguirlo.

«Insomma, se vogliamo chiudere in tempo abbiamo bisogno di una mano, Ispettore. Mi segua.»


°°°°


GOTHAM CITY Tetto della Gotham City Police Department (GCPD)

17/12/1976 – Subito dopo


Il tetto della GCPD non ha nulla che spicchi o lo renda chissà quanto fuori dalla norma.

Spazioso, per lo più grigio e vuoto al di fuori delle alte cappe di fumo a fiorire come tronchi di alberi dalla nuda terra di cemento, alcuni motori di condizionatori dell’ultimo piano posti a metri alterni in giro per la pavimentazione grezza e lo smog che inghiottisce le piccole sorgenti di luce soffuse e nascoste di quell’inchiostro scuro che è la volta notturna.


La porta metallica si chiude pesantemente dietro di loro mentre il commissario e Iwaizumi avanzano su quel lago di spoglio materiale che orna grezzo la pavimentazione del tetto, il vento che sferza freddo e pungente sulla pelle scoperta del viso e delle mani, strisciando sotto i vestiti come fosse una pianta urticante e facendo impercettibilmente stringere entrambi nelle loro giacche pesanti e ancora calde dell’interno della struttura.

I due poliziotti avanzano di qualche passo attraverso i soffi di fumo che ascendono indecisi dalle tubature verso il cielo, e Iwaizumi si permette di voltare lo sguardo verso gli altri palazzi per qualche secondo, posandolo su quelle luci rettangolari che si accendono e si spengono come fossero pedoni di una scacchiera tridimensionale nel buio della notte, domandandosi distrattamente quanto tempo sia passato dall’ultima volta che si è ritrovato ad essere anche lui a casa per l’ora di cena.

Non che Hajime Iwaizumi abbia mai considerato il lavoro un impedimento, ad onor del vero. Non ha mai badato troppo a conformarsi a quelli che ha sempre considerato essere inutili preconcetti della società, come l’andare a dormire durante la notte o il rispettare quei cinque pasti fondamentali perfettamente divisi che i nutrizionisti si prodigano sempre a pubblicizzare ogni volta che possono. Lui semplicemente dorme quando non lavora, mangia quando ha fame o tempo per prepararsi qualcosa, ed in generale pensa di bere abbastanza caffè per poter andare avanti lunghe ore in mancanza di entrambi, se necessario.

Eppure.

Eppure a volte vede tutte quelle luci, tutte quelle persone che animano e vivono silenziosamente in quella città che lui si illude a volte di conoscere e di poter capire, e non può fare a meno di sentirla: sentire quella sensazione scomoda di essere lontano e distante da tutto ciò, da tutti loro. La consapevolezza di non appartenere a quel mondo, di non essere della stessa pasta di cui è fatta quella gente che lui passa giorno e notte a difendere, estraneo della loro società e nonostante ciò difensore della loro biodiversità, sempre da fuori, sempre senza veramente farne parte.

Noi siamo diversi dalla gente che difendi, Hajime: abbiamo solo trovato modi opposti per dimostrarlo.”

Ah, quanto nervosismo può esserci nel ritrovarsi a pensare, quando non necessario, alle parole di un informatore già così eccessivamente egocentrico di suo?



«Anni che lo uso questo marchingegno, e ancora non ho capito come accenderlo senza farlo fumare per almeno i primi tre secondi. Ah, accidenti!»

I pensieri di Iwaizumi vengono interrotti bruscamente dalla voce di Yaku, e lo sguardo va velocemente a cercare il suo capo in carica, trovandolo accanto ad un proiettore di grossa cilindrata e dalle parti metallizzate alla base leggermente arrugginite, abbassato sulla tavola dei comandi e con una mano posata sul ginocchio, l’altra in procinto di premere qualche tasto illuminato.

«Vuole una mano?»

Uno dei poliziotti di pattuglia sul tetto prova a proporre, lo sguardo incerto e quasi intenerito dalla scena; pessima scelta di espressioni, quando ci si trova davanti ad una persona come Yaku.

«No, posso farcela da solo, se solo riuscissi a– Ecco–!»

Quell’ultima parola esprime il suo orgoglioso entusiasmo mal celato mentre, ignorando completamente l’uomo accanto a lui, gli occhi del commissario vanno a puntarsi sulla luce apparsa nel cielo, una macchia dai numerosi angoli smussati dalle nubi irregolari che crea l’ombra aleggiante di un pipistrello dalle ali spiegate.

I minuti che passano sembrano essere infiniti, una virgola che si allarga a macchia d’olio in quella bolla di silenziosa attesa che Iwaizumi sinceramente crede ad un certo punto arriverà a soffocarlo, mentre si ritrova a sedersi con un lungo sospiro sul cornicione al confine del palazzo, le labbra strette e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di nervosismo mentre si ritrova a guardare il cielo, poi il commissario, ed infine in basso dietro di lui, verso la strada.


Il primo a vederlo è Yaku, come sempre.

Iwaizumi nota con la coda dell’occhio il commissario alzarsi in piedi e guardare avanti a lui, e prima di alzarsi lui stesso può scorgere l’ombra di un sorriso scivolare per un istante sul volto del suo superiore mentre questo avanza verso la figura alta e scura che si staglia al centro del tetto, il mantello che si muove come petrolio sulla superficie grezza della pavimentazione creando l’effetto di un incubo fatto di carne ed oscurità.

Strano come persino un eroeeroe? – non sembri tale, in una città scura come Gotham stessa.

Yaku arriva davanti alla nuova comparsa nello stesso tempo in cui Iwaizumi si convince ad alzarsi lentamente dal cornicione della palazzina, e una mano va a porsi sul fianco fasciato dai numerosi tessuti caldi che ha indosso. Dice qualcosa, ma la voce arriva parzialmente spezzata all’ispettore poco dietro, probabilmente per via del vento che ancora sferza quell’aria ogni secondo più fredda ed umida per via del fiume a pochi metri dal dipartimento.

«Iniziavo a pensare non avresti visto il segnale, stanotte.»

«Difficile possa accadere. Serata tranquilla, commissario?»

Il sorriso nato sulle labbra di Yaku non deve essere sfiorito più di tanto, a giudicare dalla frase che regala successivamente all’uomo mascherato.

«Vediamo: la città è sotto assedio da giorni, Pinguino – che ora si fa chiamare Serpe, Dio ce ne scampi – è tenuto in detenzione all’ottavo piano di Terapia Intensiva del manicomio di Arkham, ma abbiamo motivo di credere che il vero colpevole sia ancora in libertà e stia usando Serpe come vittima sacrificale. Ah, e il Sindaco sta fumando sulla sua comoda sedia come se potesse andare a fuoco da un momento all’altro a causa di elezioni che metà dei cittadini di Gotham nemmeno ricordano ci siano. Ed ultimo ma non ultimo, mi tocca avere a che fare con te sul tetto di un palazzo nel bel mezzo di una notte dicembrina. Quindi direi tutto tranquillo, Batman. Tu come stai?»


°°°°

Batman

Professione: Direttore generale, Filantropo
Vero Nome: Daichi Sawamura
Aspetto: Uomo, capelli mori corti e spessi, occhi del medesimo colore
Caratteristiche: Addestrato a sollecitazioni fisiche e mentali, geniali capacità investigative, esperto di spionaggio, esperto informatico, maestro del travestimento

°°°°


Iwaizumi li vede stringersi la mano, e nel mentre vede la mascella di Batman rilassarsi nel contatto con l’altro non riesce a fare a meno di pensare quanto la scena davanti a lui sia del tutto simile a quella di due vecchi amici che si rincontrano dopo lungo tempo; ecco forse perché aspetta cessi di esserci contatto tra i due prima di fare gli ultimi passi necessari a porsi al fianco del commissario, abbassando leggermente il capo in segno di saluto verso Batman.

«Come mai mi avete chiamato?»

«Abbiamo– o meglio, ufficialmente potremmo avere, un problema con quello che sta accadendo nel vecchio distretto di Gotham, vicino ad Arkham. Avrai sicuramente letto delle numerose manifestazioni criminali che vi sono state negli ultimi tempi, i furti con scasso, le guerre armate–»

Batman rimane in attesa, aspettando il commissario continui.

«Ebbene, abbiamo ricevuto una serie di segnalazioni riguardo il possibile colpevole che potrebbe esserci dietro tutto questo, che come ti ho detto poco fa sembra sia Serpe. Solo–»

Yaku va a spostare il peso sulla gamba antistante quella usata fino a quel momento mentre riprende fiato, l’indice ed il pollice che vanno a porsi sulla fronte mentre gli occhi vanno a chiudersi al mondo, stanchi delle luci e della realtà che li contorna oltre che, probabilmente, dalle troppe ore passate dall’ultima pausa di sonno affrontata.

«– Che qualcosa non torna. I testimoni non si sono presentati a deporre ufficialmente le loro dichiarazioni, e la zona sembra fosse particolarmente vicina all’attività di Serpe stesso. Chi sarebbe così spregiudicato da andare a ledere aziende gemellate alle loro e gettare caos così vicino a queste ultime?»

«Non Serpe.»

«È quello che abbiamo pensato anche noi, purtroppo.»

Yaku sospira, visibilmente sollevato all’idea di trovarsi in accordo con il Cavaliere Oscuro, ma non meno preoccupato per le insinuazioni pronte a nascere coerentemente con quella tesi.

«Ecco perché ho chiesto al Sindaco di darci più tempo per trovare questi benedetti testimoni, ma sembra essere più interessato ad archiviare il caso il prima possibile piuttosto che rendere effettivamente a questa città il colpevole di tutto questo. Per lui schemi e trappole sono solo una perdita di tempo, è la forza bruta la chiave per la sicurezza della sua poltrona. Come a dire: più persone sono in carcere, più siamo in vantaggio.»

Yaku scuote la testa, visibilmente stanco di quel punto di vista così diverso dal suo.

«Quindi di base la cosa è questa: abbiamo una settimana per provare che c’è altro sotto, ma nessuna idea su come rintracciare i testimoni ed iniziare un’indagine seria.»

Il silenzio cade pesante su di loro, impalpabile eppure opprimente come l’aria di Gotham al calare della notte: i gas di scarico delle macchine sono come delle lenzuola che premono pesanti sulle radici della città, creando una campana di inquinamento che offusca leggermente le luci provenienti dai lampioni e rende la volta stellata una coperta grezza di lana scura.

Iwaizumi controlla distrattamente l’orologio, tenendo lo sguardo sulle lancette qualche secondo in più mentre con la mente ripercorre velocemente le informazioni immagazzinate nelle ultime ore, e solo quando Batman parla nuovamente rialza lo sguardo, indirizzandolo verso la macchia di pece dai contorni scuri e graffianti.

«Me ne occupo io.»

Ed a quelle parole le sopracciglia si aggrottano istintivamente mentre Iwaizumi schiude le labbra, pronto a rispondere e a chiedere conferme, o spiegazioni forse. Perché è un ispettore, oltre che un cittadino, e l’orgoglio già insito nella sua natura e fiorito come una rosa spinata grazie alla carica ricoperta lo porta a voler sapere come Batman voglia esattamente occuparsene: è abbastanza certo dietro quella maschera si nasconda un uomo – e non un metauomo – in fin dei conti, un umano come tutti loro, e questo fino a prova contraria non lo porta ad essere né sotto né sopra a tutti i suoi colleghi, pari nelle possibilità e nelle tempistiche. Come può quindi occuparsi da solo di ciò che decine di uomini stanno trovando difficoltà a controllare?

«Come–»

Ma non riesce a dire altro che Batman si volta, alzando un braccio e premendo il grilletto della pistola presa dalla fodera accanto alla cintura, lanciando un rampino verso uno dei gargouille del palazzo accanto e saltando mentre va ad attivare la forza di richiamo della fune, scomparendo in un battito di ciglia nella notte.

Prima di qualsiasi domanda.
Prima di qualsiasi richiesta di spiegazioni.

«Inutile che chieda, ispettore.»

La voce del commissario esce leggermente ovattata a causa della presenza della sciarpa dietro la quale la parte inferiore del viso di Yaku si è appena andata a riparare, ed Iwaizumi si volta in tempo per cogliere le lunghe ciglia abbassarsi a nascondere gli occhi dell’altro, un respiro caldo e denso che condensa velocemente sul confine morbido della lana.

«Lavoro da molti anni con Batman, e non mi ha mai detto come faccia a ricevere alcun tipo di informazione. Probabilmente ci sono cose che persino la giustizia non può raggiungere, o almeno non in tempi brevi.»

Lo sguardo di Iwaizumi è scettico, una smorfia di disappunto appena visibile attraverso l’espressione attenta e grave che scherma il suo viso olivastro.

«… Quello che sta dicendo–»

Le palpebre del commissario si rialzano e le pupille strette e color nocciola si puntano a mirare nella direzione presa da Batman, rimanendo a studiare quel punto ove il cavaliere oscuro sembra essere stato accolto dalle tenebre.

«Batman è la giustizia di Gotham, ispettore. Non la giustizia in generale.»

Il viso è di nuovo verso di lui a quel punto, e prima che Iwaizumi se ne possa rendere conto sono occhi da felino quelle che si posano sulle sue, una traccia di luminosità che accende lo sguardo del commissario e che sembra quasi rifulgere di luce propria di contrasto alla penombra dell’ambiente.

«L’unico modo di ottenere delle informazioni da questa città è immergersi in essa, Iwaizumi. Ma non sottovalutarla mai, o non ti lascerà più tornare a galla. E una volta che sei lì sotto–»

Un istante di silenzio, il vento che urla nelle sue orecchie mentre Iwaizumi adesso la può quasi sentire, adesso che le orecchie sono abbastanza attente ed abituate al suo respiro ed alla sua lingua.

Gotham gli sta parlando. Parla a tutti loro, continuamente. Può sentirla annidarsi attorno e sotto di lui, strisciando, respirando roca dai tombini e dai vicoli scuri alla ricerca di qualcuno, qualcosa, ciò che resta o le basta per vivere; la può sentire, diversa da tutte le altre città ed impalpabile come un sussurro, in continua trasformazione mentre pone le sue radici nelle vesti e nei cuori delle persone che ne percorrono le strade lunghe e trafficate di giorno, fredde e sussurranti di notte.

« –Te lo assicuro, non si respira.»

E con questo Yaku si sistema meglio la giacca, facendo poi qualche passo verso il gabbiotto al lato del tetto e fermandosi a qualche metro di distanza dallo stesso, voltandosi a guardare un Iwaizumi ancora immobile.

«Forza, dobbiamo sbrigarci se vogliamo beccarli ancora in piedi.»

Iwaizumi lo guarda con scetticismo, un sopracciglio alzato mentre rimane fermo nella sua posizione, forse nel tentativo di capire – arrivato a questo punto – quale sia il vero ruolo della polizia in quel caso. Non ha forse Yaku appena chiesto al Cavaliere Oscuro di lavorare al posto loro?

«Chi?»

«I giornalisti. L’ispettore Semi, prima di sbattere in carcere l’informatore di Ushijima, mi ha dato i nomi delle testate giornalistiche che hanno ottenuto le foto delle scene del crimine prima che arrivassimo. Dobbiamo esaminarle tutte, anche quelle che non sono state pubblicate, così forse riconosceremo qualche volto tra la folla.»

«… E Batman–?»

«Ottimo per le informazioni scomode, un po’ troppo tenebroso per le informazioni legali. E poi insomma–»

E i denti biancheggiano nella notte mentre le labbra di Yaku si aprono in un ultimo sorriso felino, le pupille lunghe e brillanti che lo fissano mentre Iwaizumi inizia a muoversi verso di lui, lasciandolo passare avanti mentre la mano rimane sul pomello freddo della porta di ferro che li conduce alla scala di servizio del dipartimento, al sicuro dal freddo della notte.

«Potrei mai lasciare ad un uomo vestito da gigantesco pipistrello tutto il divertimento?»




Ed abbiamo anche finito il terzo capitolo, scoprendo finalmente chi è Batman!
Aaaah non potevo evitarlo: Daichi è troppo carino, e rispetto a molti altri mi sembrava veramente perfetto da inserire nel ruolo! Spero comunque che anche gli altri personaggi della Shiratorizawa siano piaciuti, e soprattutto
ho iper apprezzato metterli nella polizia perché… Non so, mi sembravano molto calzanti. Avete anche notato il nome del sindaco? È il loro coach! Zam zam!
In ogni caso, ormai manca poco e finalmente spunteranno anche Kuroo e Kenma. (…)
– Oltre che moltissimi altri personaggi… –
A presto! (E se vi va di commentare, beh. Non odierei la cosa, ecco!(...))

Nanas

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Capitolo 4
*** As the black bird above you disappears into the night ***


c

Scusate per il ritardo!
Sono davvero inqualificabile mannaggia, ho cercato fino alla fine di essere puntigliosa nelle pubblicazioni e invece eccomi qua, con un mese di distanza dall’ultima volta che ho aggiornato questa fanfiction… Che vergogna.
Spero che il quarto capitolo possa in qualche modo farmi perdonare. (?)
Ci vediamo alla fine!




4. As the black bird above you disappears into the night


(Come il nero volatile sopra di te scompare nella notte)

In the Bat's Mouth, Mount Eerie




GOTHAM CITY Sawamura Mansion (Bristol District)

17/12/1976 – Quella stessa notte


La residenza dei Sawamura si erge su una collina appena in periferia, fuori dal complesso di palazzi e nella parte alta della città, dopo aver attraversato il Robert Kane Memorial Bridge a cavallo del fiume North ed essersi lasciati sulla destra l’enorme spazio riservato all’aeroporto di Gotham.

La macchina di Batman supera il maniero dalle enormi dimensioni, costeggiando l’immenso e curato giardino dell’abitazione mentre alla sua destra ombre di fredda roccia e angoli smussati dal tempo vanno a formare le torri, le guglie, i gargouille ed i rosoni che plasmano l’aspetto geometrico della sua villa. Il gotico cancello alto si staglia scheletrico nell’oscurità opacizzata dai singoli lampioni ad olio che pungono di luce soffusa la strada, e la scritta Sawamura al di sopra delle inferriate magre viene lasciata dietro mentre la macchina dal potente motore Vauxhall/GM da 5,0 litri macina velocemente quei metri che separano il guidatore da una delle tante entrate segrete del rifugio a cui è diretto.

Una curva, un’altra, uno stop e poi una leggera inclinazione del terreno, ma stavolta il motore a getto sul retro diventa silenzioso, le luci che si attenuano e il terreno che si piega verso il basso mentre dall’interno Daichi preme un pulsante sul cruscotto, diminuendo lentamente di velocità mentre davanti a lui una parte dello sdrucciolato si abbassa il necessario per scoprire un’entrata parallela alla strada ma posta sotto terra, larga e bassa appena il sufficiente affinché la bat-mobile possa entrarvi.

L’umidità che circonda come una patina morbida e umettata il vetro al suo inserimento è come un silenzioso bentornato per la macchina di Batman, e mentre il cruscotto si imperla leggermente Daichi può quasi sentire la vettura venire accompagnata nel suo tragitto che sembra terminare quando le pareti si aprono a mostrare un’enorme caverna senza cielo, scura e sanguinante di gocce trasparenti in caduta dalle stalattiti lacrimanti dal soffitto buio.


Il buio attorno è totale quando la macchina infine si ferma, il silenzio invece solo parziale mentre la natura si riversa con la solita placidità all’interno della grotta: il battito di alcuni pipistrelli in lontananza, l’acqua che fluisce nelle profondità più intime del rifugio, i rumori della roccia che si assesta e si sposta assecondando infinitesime forze provocate dal vento che entra dalle fratture e che ferisce le pareti più esterne, proveniente dal promontorio che scivola verso il fiume North su cui la caverna si affaccia.


L’oscurità si trattiene solo per qualche secondo però, e la figura del Cavaliere Oscuro non è ancora del tutto fuori dal veicolo quando una serie di luci illuminano il parcheggio circolare dell’automobile, aumentando poi di numero ed allungandosi in un ponte luminoso che porta fino ad una serie di scale basse e trasparenti. Oltre queste, uno spiazzo con una sedia imbottita ed una scrivania, davanti la quale si pone quello che sembra essere un immenso computer: una ventina di schermi di diverse grandezze che si accendono tutti nello stesso momento segnando mappe, visi con taglie segnate ai lati, punti che si muovono nello schermo e codici che iniziano a rincorrersi freneticamente su uno sfondo monocromatico e tendente ad un verde petrolio.

I passi di Batman non si volgono però verso quel miracolo della tecnologia, il mantello che scivola sulla pavimentazione grezza mentre Daichi si sfila lentamente la maschera dal viso, liberando gli occhi nocciola scuri e i capelli corti e spessi, avvicinandosi verso una teca vuota e posando sul manichino stilizzato l’accessorio appena tolto. Si prende qualche minuto per fare lo stesso con il resto, prima di rimettersi gli indumenti lasciati piegati di lato qualche ora prima ed incamminarsi verso l’elevatore posto a qualche metro di distanza.

Serpe, il nuovo nome di Pinguino.

Il Sindaco, le sue elezioni alle porte.

Una città sotto assedio, dubbi sulle testimonianze non ufficialmente reperite.

Le porte dell’elevatore che si aprono lo interrompono da quei pensieri quasi in maniera brusca, e sul momento quasi ha difficoltà a riconoscere quelle prove di normale quotidianità che gli si stanziano davanti come sue: in primo luogo il grande pianoforte laccato di nero a pochi metri da lui, assieme ai due divani in fodera antica raccolti attorno al tavolino ottocentesco da tea su cui sono posati qualche libro ed un paio di riviste di economia. E poi ancora le piante da interni che coprono gli angoli della grande sala, le vetrine degli armadi che si arrampicano sui muri contornati da quadri e ritratti d’epoca, fino ad arrivare all’enorme finestra a vetri che dà sul terrazzo e che apre la sua vista alla densa coltre notturna che ne soffoca il panorama.


La luce è spenta, ma in fondo non ha bisogno di aprirla per fare i passi necessari ad uscire dal salotto del piano terra; ciò a cui è difficile abituarsi dopo tanti anni di solitudine è invece quel chiacchiericcio che sente formarsi nel silenzio non appena mette piede nell’atrio principale, ancora soffuso e pacato a causa della momentanea lontananza dalla sua fonte.


Daichi passa l’ingresso, la fontana spenta ormai da anni che riflette nel pallore della sera il bianco candido del marmo di cui è composta, superando poi la grande scala centrale che sale verso i corridoi esterni del piano di sopra. Un arco il legno di noce lo inserisce all’interno di una grande sala, e gli occhi si posano per qualche istante sulla larga scrivania scura occupata da fermacarte di ottone rappresentanti animali di varie grandezze, una lampada ministeriale con una struttura in metallo dalla finitura bronzata e un diffusore mobile in vetro verde di lato, una poltrona in taffetà nascosta dietro e due sedie vittoriane puntate verso il ripiano antico. Il passo si fa più ovattato mentre cambia pavimentazione, un numero crescente di tappeti d’epoca indiani e medio orientali che adornano il parquet curato, e mano a mano che si avvicina sente quelle voci diventare sempre più nitide, una alta e squillante ed una più bassa e tremante, insicura nel suo tentare di dare qualche sorta di responsabile consiglio a quella più giovanile.


«Hai visto, hai visto Asahi?! Proprio come avevo detto, due set ad uno!»

«È stato bravissimo signorino, ora se volesse tornare ai piani superiori–»

«E hai visto che ‘bang!’ finale? Cosa ti avevo detto, che quel giocatore sarebbe stato la salvezza della sua squadra?! Se non ci fosse stato lui a prendere tutte quelle schiacciate sarebbero stati sconfitti al primo set– Non è figo, Asahi?!»

«Sì–… Cioè: , sì, lo è stato, ma– davvero, adesso dovrebbe veramente andare a letto, prima che–!»

«Daichi!»

Daichi non fa nemmeno in tempo ad entrare nella stanza che vede un giovane ragazzo alzare le braccia nel salutarlo entusiasta, gli occhi castani ed accesi che si tuffano affettuosamente in quelli dell'ultimo erede dei Sawamura mentre il ragazzo salta velocemente giù dal divano, superando un secondo uomo posto di spalle – alto ed elegantemente vestito – e avvicinandosi a passi veloci verso il proprietario della villa, fermandosi a qualche centimetro di distanza a regalargli un sorriso ampio e caldo.

«Yuu, ancora sveglio?»

Lo saluta implicitamente, posando la mano sulla testa del minore ed andando a scuotere paternalmente quella chioma nera spruzzata di biondo su una singola ciocca anteriore, allontanando poi le dita al fine di tornare ad allacciarsi i gemelli dei polsini della camicia nel cammino abbottonata. Da un certo punto di vista si rende conto di farlo più per abitudine che per vera utilità, contando che è notte e che presto si ritirerà a riposare nelle sue stanze: ma i gemelli da polso sono una delle cose che il padre gli ha insegnato ad avere sempre in ordine, e seppure sia veramente più un vezzo che altro rimane non sia qualcosa gli interessi davvero cambiare.

«Mhm–? Ah, sì! Sì stavo aspettando che tornassi però, così che mi potessi dire se c’è qualcosa che non va. L’aria è veramente strana negli ultimi tempi, non pensi?!»

Daichi lo guarda per qualche secondo, alzando poi le iridi scure verso il maggiordomo solo per scoprirlo girato a guardare entrambi, l’espressione contrita dalla preoccupazione e le labbra già schiuse e pronte a lanciarsi in un soliloquio di scuse e rammarichi.

«B–bentornato signor Sawamura! So che il signorino dovrebbe già essere a letto, ma– Mi scusi, mi aveva chiesto di non farlo rimanere sveglio in attesa che tornasse, ci ho provato, ma lui–!»

«Azumane, non preoccuparti. Nutro speranza sia stata una giornata tranquilla, piuttosto».

«Ah sì, molto. Spero sia lo stesso per voi. Poco fa vi ha chiamato quel giornalista, a proposito. Il signor Sugawara».

«Ah–»

Daichi non riesce ad evitare che un sorriso fiorisca spontaneo sul suo volto a sentire il nome del reporter farsi strada nella sala, e abbassa le palpebre concedendosi un momento di intimità mentre compie qualche passo verso la poltrona in velluto e dai piedi in quercia a qualche metro dal divano, andandosi a sedere e passandosi le dita abili sui polsini ormai chiusi.

«Ha detto se aveva urgenza di qualcosa? È insolito per lui chiamare oltre l’orario di cena».

«Sì, era–»

«C’è una mega festa dal Sindaco questa domenica, l’ho sentito anche io a scuola oggi! Ci vanno tutti i genitori dei miei compagni, ma senti Daichi perché non organizziamo anche noi qualche cosa?! Questa è chiaramente una sfida, ti porto io qualcuno che animi la serata se hai paura di fare cose troppo noiose!»

Ha preso il via.

Daichi rimane in silenzio mentre Nishinoya inizia a esporre tutto eccitato mille congetture e mille possibilità riguardo ipotetiche feste a casa Sawamura, ed al vedere Asahi tentare di bloccarne la fantasia sin troppo esuberante non riesce ad evitare un sorriso appena accennato e subito celato dalla mancina, posta di taglio davanti le labbra mentre gli occhi cioccolato si prendono un secondo per guardare con affetto gli unici due coinquilini di quell’enorme abitazione.

«(…) E poi potremmo far venire quei signori che suonano sempre fuori dalla chiesa la domenica con le pentole, sono troppo forti e sarebbero super felici di vedere la tua casa Daichi, l’altra volta mi hanno detto che dormono in un palazzo abbandonato, quanto possono essere ganzi da uno a dieci?!»

«Davvero, io non credo che– signorino, quando ha parlato con quelle persone!?»

Ah, povero Asahi. Sembra davvero essere sull’orlo di una crisi mossa dalla più sincera preoccupazione, soprattutto a vedere come vada a muovere velocemente le mani nel tentativo di rallentare il più giovane.

È quasi arrivato il momento di frenarlo, pensa, e nel mentre la destra va ad allungarsi verso il tavolino laccato al lato, prendendo un’elegante ampolla e togliendo con attenzione il tappo rettangolare in vetro, piegandola a servire un paio di dita di cognac su un piccolo bicchiere da liquore che tiene lì accanto, alzandolo a saggiarne il contenuto.

«E poi che ne dici di portare la gente del circo?! A tutti piace il circo, l’altro giorno ho visto un documentario dove–»

«Signorino, sa bene che molti segreti di questa villa devono rimanere–!»

«E che ne dici degli elefanti–!? Scommetto che quelli nemmeno il Sindaco li ha!»

«Nessuno può avere elefanti in casa, signorino Y–»

«Mhm, dici non riusciremmo a farli entrare? Possiamo provare con gli struzzi allora! Conosco un tipo dell’Upper East Side che può reperirne un paio in mezza giornata, aspetta che lo ch–!»

… Ok, può anche bastare.

«Yuu, non volevi sapere cosa accade in città negli ultimi tempi?»

La domanda posta da Daichi è semplice e potenzialmente sterile, eppure basta a far scattare Nishinoya come una molla, facendolo voltare istantaneamente mentre rimane ancora appollaiato sulle spalle di Asahi, nel tentativo di raggiungere il telefono con filo posto su una mensola dietro al maggiordomo.

Quando è arrivato lassù?

«Allora ci sta davvero qualcosa che non va, lo sapevo

E con questa scende velocemente sul pavimento, le mani che fanno perno su quel gigante buono mentre il busto si piega lontano dalla schiena dell’altro, le gambe che slittano sino a farlo scivolare verso il basso. Daichi lo vede atterrare perfettamente in piedi sul parquet, ma non fa in tempo a sentire il suono sordo delle piante dei piedi posarsi sul legno che gli occhi vispi dell’altro sono già fissi su di lui, la curiosità che vibra sulla sua pelle quasi a vestirlo di un secondo indumento.

«Chi c’è da mettere in gattabuia stavolta?! Prendiamo la bat-mobile? Ci metto un secondo a mettermi il costume, lo sai!»

«Non sappiamo ancora se il colpevole non stia già in carcere».

«Mhm–? Cosa significa?»

Nishinoya piega la testa di lato, le sopracciglia fini che si aggrottano leggermente ed il dubbio chiaramente dipinto sul suo volto.

Daichi gli fa segno di sedersi, e non appena il minore si posa sul bracciolo del divano, piegando una gamba e portando le mani sulla caviglia arrivata a qualche centimetro dal bacino, inizia a fare un resoconto degli avvenimenti degli ultimi giorni e delle ultime informazioni ottenute dalla polizia, passando successivamente alle testimonianze incerte ed alla impossibilità di contattare gli ipotetici spettatori dei vari crimini commessi prima della cattura di Serpe.


°°°°


«Quindi dobbiamo– cercare testimoni?»

L’incertezza nella tonalità vocale del più giovane è palpabile mentre cerca di tirare le conclusioni della storia appena sentita, e nel mentre tenta di lavorare sulle informazioni ricevute il gong dell’alto orologio a dondolo scatta, provocando un piccolo scompenso in Asahi. Daichi si volta a guardare l’ora, scoprendola più tarda del previsto, e mentre il pendolo dorato torna a dondolare pigramente dentro la teca in vetro e legno massello si alza in piedi, posando il bicchiere vuoto sul tavolino da tea e avvicinandosi alla porta che dà sul largo ingresso ottocentesco, voltandosi a guardare Nishinoya dallo stipite.

«È tardi, ne parliamo domani. Hai scuola la mattina, giusto?»

«Ma– Daichi!»

Sente Nishinoya sbuffare e continuare a fare qualche storia con Asahi mentre continua a camminare, superando nuovamente la grande fontana in marmo e stavolta salendo le larghe scale, coperte nella parte centrale da una moquette morbida e di un bordeaux scuro.

«Buonanotte Yuu, mi raccomando per domani. Non stancare troppo Asahi, d’accordo?»

Dice semplicemente, aspettandolo sopra le scale prima di scompigliargli appena i capelli puntati in aria e voltarsi verso il corridoio sulla destra.

«Buonanotte Daichi!»

Lo sente urlare dall’altra parte, e da ancora di spalle alza una mano per fargli sapere di averlo sentito – come non farlo, vorrebbe domandare – mentre posa quella libera sulla porta in legno di massello dell’anticamera della sua camera da letto, aprendola.

Un’altra giornata è finita.

Si permette finalmente di pensare mentre si siede sul divano a due posti, portando indietro la testa ed abbassando le palpebre. Sono pochi i momenti in cui può lasciare che la stanchezza prenda il sopravvento, e quello ne è un raro esempio: potrebbe rimanere così per quello che potrebbe essere un secondo o un’ora, e non avrebbe veramente importanza. In fin dei conti, anche quando si prende quei momenti per distanziarsi dalla realtà la sua mente è comunque attiva, guardinga per istinto più che per consapevolezza ed incapace di quietarsi a comando, occupata da talmente tanti pensieri da non potersi quasi mai focalizzare su uno in particolare.

«Daic– signor Sawamura?»

«Azumane».

Daichi rimane con gli occhi chiusi al sentire la voce di Asahi scivolare alle sue orecchie, attendendo l’altro continui a parlare mentre il braccio si posa alla cieca sul bracciolo del divanetto su cui è ancora seduto, il tessuto che sfrega sul suo palmo a condividere la frescura nata dall’essere rimasto l’intera giornata inutilizzato.

«Il signorino Nishinoya è andato a letto, però–»

Le palpebre si sollevano nuovamente, le pupille che scrutano il maggiordomo dalla crocchia disordinata e dalla barba appena accennata mentre questo fa un leggero inchino, rimanendo tuttavia sulla soglia della porta scura.

«Non mi ha detto cosa fare con il signor Sugawara domani, signor Sawam–»

«Azumane, ci conosciamo da una vita. Chiamami solo Daichi, te ne prego».

«Eh? Ma– è il mio datore, non so se–»

«I tuoi genitori servivano la mia famiglia, è vero. Ed io ti ringrazio per essermi rimasto accanto anche dopo la loro dipartita. Ma tu hai frequentato molti ambienti insieme a me e, soprattutto, siamo coetanei. Davvero senti questa necessità di chiamarmi usando un onorifico?»

«No, ma–…»

«Chiamerò io stesso il signor Sugawara domani. Ti ringrazio, vai a riposare».

«… Come desidera– cioè, desideri. Con permesso allora…»

E con questa Asahi fa un secondo impacciato inchino, arretrando verso il corridoio e rimanendo sulla cornice della porta per qualche istante, le labbra contratte come se indecise se lasciarsi sfuggire qualcos’altro. Ma alla fine sembra optare per il silenzio, e Daichi lo vede voltarsi velocemente e sparire, percorrendo il lungo corridoio verso la sua camera.

Forse dovrebbe andare a letto anche lui, si arrischia a pensare, soprattutto considerando quanto il domani sembri essere particolarmente lungo.

Spera solo che possa essere altrettanto proficuo.


°°°°



GOTHAM CITY Streetview (Quartiere Bowery)

18/12/1976 – Sera


Quando il giorno seguente cala la sera sulla città di Gotham, l’accoglienza che le viene data dai cittadini che la abitano è quasi quella che si donerebbe ad una vecchia amante; le persone si muovono più velocemente nelle strade diventate ormai solitarie ed inospitali, i senzatetto sui marciapiedi tentano di trovare in qualche cartone un’abitazione di fortuna, mentre le carte di vecchi giornali scivolano increspandosi sui tombini e sui pali della luce, sospinte dal vento e dall’aria sollevata dalle poche macchine ancora in circolazione. Il mantello di ipocrisia che durante il mattino copre come una seconda pelle i cittadini cede il posto ad una elegia di egoismo e perdizione, e Daichi osserva silenziosamente la città trasformarsi mentre, nel frattempo che le ali create dal tessuto scuro che porta alle spalle vengono spianate a permettergli di planare da un palazzo all’altro, scorge tra quei visi conosciuti durante il giorno espressioni deformate di sdegno o di piacere, corpi che si dondolano o si trascinano sulla strada mentre l’odore pungente dell’alcol e del sesso riempiono i vicoli più bui e lontani dalle strade principali.

«Cosa cerchiamo, esattamente? O chi, non saprei– Alla fine ieri non mi hai detto cosa dovessimo fare oggi!»


°°°°

Robin

Professione: Studente della Gotham Professional Art Academy
Vero Nome: Yuu Nishinoya
Aspetto: Giovane adolescente, capelli neri con una ciocca bionda sulla fronte, occhi cioccolato
Caratteristiche: Capacità fisiche eccezionali, esperto nella maggior parte delle arti marziali e nell'utilizzo di svariate armi, strumenti, veicoli e armature hi-tech

°°°°


La voce di Robin pare quasi stonare in quell’ambiente così scuro e dismesso, e seppure Batman non rallenti né si volti verso il ragazzo accanto le labbra severe e contratte si schiudono dopo un paio di istanti, la maschera che cela sopra gli occhi che preme appena sulla parte inferiore della mandibola.

«Testimoni. O almeno, persone presenti durante i crimini degli ultimi giorni».

«Oh– e non abbiamo piste, scommetto».

Il Cavaliere Oscuro rimane in silenzio, perché non vi è sinceramente bisogno di rispondere ad una domanda simile. Poiché ormai conosce abbastanza bene il commissario del distretto da sapere che se ci fossero state prove reali non lo avrebbe certamente cercato così facilmente, soprattutto contando quanto egli creda non solo nelle sue pattuglie, quanto nella legalità delle sue azioni.

È una cosa che Daichi rispetta, ma che ha scoperto ormai molti anni prima quanto possa essere incredibilmente limitante, soprattutto quando si ha a che fare con una città come Gotham.

Ed è abbastanza sicuro lo sappia anche il commissario stesso, in fondo.


«Lì».

Dice soltanto, ed in un attimo le ali vengono schiuse, il mantello che torna ad essere vuoto d’aria mentre Batman e Robin si trovano a scivolare silenziosamente in un vicolo poco lontano dalla diciottesima, Robin che rimane ciondoloni sulla scala di emergenza che costeggia un palazzo gotico e che racchiude mediante un altro edificio gemello una stretta strada senza uscita.

«Yoh!»

Dice solamente mentre ancora a testa in giù, sollevando (abbassando?) una mano in segno di saluto verso un punto più scuro dietro ad un cassonetto. Daichi si avvicina alla macchia scura che dimora dietro quel ricettacolo di detriti sino a quando non può vedere chiaramente un uomo di mezza età distinguersi dal cassonetto, la barba incolta e i capelli divisi in ciocche attaccate le une alle altre dallo sporco e dal sudore rappreso. I vestiti che gli cadono addosso al pari degli stracci ne sottolineano la sua figura magra ed ossuta, le labbra sono screpolate e le mani piene di graffi, intente a grattare via con le unghie nere ciò che rimane di un precotto buttato da qualcuno durante il giorno.

Lo sconosciuto alza lo sguardo, il bianco degli occhi in netto contrasto con le macchie scure che si spandono sulle tempie, sulla fronte e sulle gote quasi fossero bruciature mai rimarginate, e le sopracciglia si stirano per il terrore e la sorpresa, le dita magre e fasciate da lenci di stoffa che tentano di nascondere il più possibile quel lauto pasto che è riuscito a racimolare nell’immondizia, la paura di passare un’altra giornata senza mangiare che quasi lo fa strisciare via, incurante delle piaghe probabilmente già presenti sulle ginocchia scoperte.

«Non voglio farti del male, ho delle domande da farti».

Spiega Daichi dopo qualche istante, abbassandosi con un ginocchio sino a portarlo a sfiorare l’asfalto nudo e freddo, gli occhi contornati dal nero della maschera e dell’ombreggiatura delle palpebre che si portano all’altezza di quelli del suo interlocutore, ancora arrotolato gelosamente attorno al suo bottino.

«Assicuro io, è un po’ inquietante ma è dalla parte dei buoni. Giuro».

Prova a rassicurarlo anche Robin, decidendo nel frattempo di fare una capriola in aria ed atterrare anche lui sull’asfalto, un sorriso sulle labbra e la maschera scura che gli copre giusto gli occhi, celandone la natura iperattiva che Daichi sa nascondersi dietro.

«Io non– Io non so niente! Non so niente, prometto che non parlo, non so niente–!»

Sentono l’altro biascicare in un dialetto stretto, i talloni nudi che si puntano per terra dandogli resistenza sufficiente a spingersi dietro, come a volersi fondere il più possibile con il muro alle sue spalle. Batman rimane impassibile, immobile nell’attesa che l’altro si calmi o finisca di agitarsi, ma non passa molto prima che veda con la coda dell’occhio Robin abbassarsi a terra, preoccupato, muovendo la testa dubbiosamente e schiudendo le labbra in una smorfia di apprensione.

«Ehi, ehi calmati, amico. Davvero, stai prendendo un abbaglio– Non siamo noi i cattivi, anzi–»

Daichi può sentire le mani rivestite di nero del minore armeggiare con la cinta canarina, prima che un tintinnio metallico anticipi il suo tirare fuori da una delle numerose tasche una serie di piccole monete rotonde che non manca di posare davanti al senzatetto, facendo attenzione a non dargli modo per farle involontariamente finire sotto il cassonetto.

«Tieni, prenditi qualcosa da mangiare dopo, non consumare quella roba. Non credo ti faccia proprio bene».

L’anziano sul momento non sembra ascoltare molto le sue parole, le spalle che si incurvano maggiormente e le mani che si fanno piccole e fragili attorno a quel magro pasto che è riuscito a racimolare, ma dopo qualche minuto finalmente sembra calmarsi, adocchiando disperato quei soldi e lasciandosi vincere dalla tentazione come fosse un animale del deserto davanti alla sua prima pozza d’acqua.

Le mani vanno tremanti a posare a lato la confezione sporca, abbastanza vicino da poterla riprendere in caso gli sconosciuti decidessero di approfittare di quel momento per prendersi il bottino, e dopo un istante di dubbio le unghie graffiano quasi lo sporco della pavimentazione mentre le dita artigliano velocemente quei dischi argentati, portandoseli velocemente dentro le tasche rovinate e appesantite di quello che una volta doveva essere un pantalone.

«… Cosa volete dal vecchio Paul? Sono innocente, giuro che sono innocente, io–»

«Paul, sappiamo che sei innocente. Vogliamo solo sapere se hai visto qualcosa quattro giorni fa in questo quartiere, quando c’è stato–»

«L’incendio? Oh, no, l’incendio al parco Sheldon, l’incendio non è stata colpa mia, io li ho visti, io li ho visti tutti, io lo sapevo che– Oh, ma non al vecchio Paul, non a lui!»

Batman si avvicina appena col busto, gli occhi scuri e severi che studiano l’uomo cercando di capire se nella confusione di quelle frasi sconnesse si celi alcuna verità, e una mano va a posarsi sul ginocchio, il nero del guanto che si fonde con la protezione del tessuto come fosse una goccia che torna all’oceano.

«Chi ha visto, Paul?»

«Gli uomini, gli uomini che parlavano! Erano lì dietro, e poi hanno preso un ragazzino, oh povero ragazzino, e gli hanno detto cose, e sibilato falsità all’orecchio! L’ho visto, ho visto il terrore di quel piccolo umano, ha provato a dire di no ma loro–!»

«Lo hanno ricattato, stai dicendo questo?»

La voce di Robin è tutto ad un tratto ferma, sicura, e Batman può quasi sentire le vibrazioni che il corpo del ragazzo emanano al sentire il vagabondo parlare di soprusi e minacce verso un ragazzo probabilmente della sua età, sicuramente abitante della città che ha preso l’obbligo di aiutare.

«Erano lì, e lo hanno obbligato a chiamare qualcuno, e poi! Poi un serpente doveva essere la condanna di quell’incendio, ma solo la loro enorme risata era il vero colpevole di tutto ciò! Quella sanguinosa, grossa risata dipinta sui loro volti di marmo bianco!»

Sente Robin gelarsi sul posto mentre lentamente si volta a guardarlo, la maschera nera che si piega leggermente in un’espressione preoccupata mentre il Cavaliere Oscuro rimane a fissare in silenzio il senzatetto ancora arricciato su sé stesso, ora farneticante riguardo pagliacci portatori di morte e clown dalle mazze chiodate riversati sulle strade.

Una risata rossa come il sangue, dipinta su volti bianchi come il latte.

Conosce solo una persona che designi i suoi scagnozzi ad un tratto distintivo del genere.

Ed è una delle persone che più di tutte le altre vorrebbe vedere per sempre chiuso ad Arkham.



°°°°



Dopo quell’uomo non tutte le testimonianze erano state così complicate da avere, ma nemmeno erano state tutte più facili. Man mano che la notte prosegue Batman non si stupisce di trovare persone innocenti, altre che tentano la fuga, altre ancora che ammettono di aver preso soldi per testimoniare il falso, ed infine alcuni che ammettano persino di averlo fatto in buona fede.

«Come è possibile che abbiate creduto fosse una buona idea dire ai poliziotti che avevate visto cose che fino a qualche minuto prima manco vi sareste mai immaginati?!»

Robin è tra lo sdegnato ed il sorpreso mentre mette le mani sui fianchi coperti dalla stretta parte superiore del costume, il rosso del tessuto in cotone elasticizzato in netto contrasto con la pelle fortificata e nero pece che copre le gambe e le braccia, stretta a fasciarne i muscoli giovanili sino a scomparire negli stivali ergonomici.

«Non guardarmi così, mi si è presentato un tipo mentre stavo camminando e– Ma non lo so, ha detto tipo di essere un poliziotto in borghese e che doveva chiedermi di chiamare il distretto e fare il nome di un certo Serpente, mi sembra?»

«Le ha detto il perché?»

«Forse? Mi ha detto avessero la certezza che ci stava un capo di una gang criminale dietro e che dovessero procurarsi le prove per arrestarlo, ma che avevano prima bisogno di una scusa per aprire le indagini e–!»

«Ha fatto vedere il tesserino?»

«Perché avrei dovuto chiederlo, chi mai farebbe una richiesta così assurda come testimoniare alla polizia qualcosa?!»

Batman si alza di nuovo in piedi, facendo segno a Robin di tornare sui tetti mentre l’ultima testimone ascoltata si allontana in tutta fretta dalla strada, guardandosi dietro mentre ancora di corsa e rischiando di inciampare quando la punta di una delle sue scarpe basse e consumate si scontra con una piastrella sollevatasi dal manto del marciapiede.

«Su».

Il rampino che porta alla cintura viene sollevato verso il piano più alto del palazzo che hanno accanto, ed in una manciata di secondi permette al Cavaliere Oscuro di salire sulla terrazza dell’edificio, seguito subito dopo da Robin che per l’occasione non può proprio fare a meno di fare qualche rotazione di più del necessario con il corpo, poggiandosi al termine dell’ascesa sul sostegno offerto dalla cornice dell’abitazione per fare un’ultima capriola in aria e posare i piedi sulla piatta pavimentazione finale della struttura.

Giovani d’oggi.

«… La lasciamo andare? Ha detto che ha accettato soldi per fare falsa testimonianza, non è una cosa illegale, tipo?!»

«Direi che può bastare».

Il broncio che si forma sul viso del giovane Robin è palese, le guance che si gonfiano leggermente mentre l’insoddisfazione lo ricopre interamente, quasi come fosse un secondo costume che ne mostri l’offesa ed intima noia causata dalla mancanza di azione della serata.

«Ma non mi sembra ci abbiano detto molto, ora abbiamo qualche idea sul chi, ma il perché…»

«Non è stato detto loro molto altro, quindi non possiamo aspettarci ricordino cose non abbiano mai saputo. Devo tornare alla GCPD, tu torna alla villa. Abbiamo finito qui».

«Ma–!»

«Yuu».

Uno sbuffo, mentre le braccia di Robin vanno ad alzarsi e le mani a posarsi dietro la testa.

«… E va bene. Però non sperare che vada a letto, chiederò ad Asahi di giocare con me alla console piuttosto. Devi vedere come sono diventato bravo a Pong, ormai non mi batte nessuno!»

«Ci vediamo a casa».

Robin dice probabilmente qualcos’altro, ma Daichi non ha bisogno di ascoltarlo per sapere sia partito nelle sue elucubrazioni mentali su come convincere quel cuor di leone di Asahi a giocare con lui ad uno sparatutto, guardandolo piuttosto alzare un braccio a lanciargli un saluto veloce prima di voltarsi e dargli le spalle, scomparendo in una manciata di istanti alla sua vista, avvantaggiato dalle ombre e dalla piccola statura nel suo tentativo di confondersi con le fumarole e gli oggetti di varia grandezza che occupano i tetti.

Anche Daichi prenderà quella direzione, ma non in quel momento; si volta invece in direzione del fiume, rimanendo a fissare la macchia chiara a forma di pipistrello nel cielo il tempo necessario per calcolare la strada migliore per arrivarne alla sorgente, la più ricca di insenature e di punti d’ombra che gli permettano di scivolare nell’oscurità e lontano da occhi indiscreti.

Il salto che segue è metodico, silenzioso, invisibile nella notte che lo riconosce come suo compagno, figlio della sua esistenza, complementare nella loro esistenza incatenata alla mancanza di luce. È il salto di un animale notturno che si fa strada nell’oscurità, attirato da quel segnale luminoso come un pipistrello dalla sua preda.


… Sarà meglio il commissario non sappia mai di questa similitudine, in ogni caso.





Qualcuno (unamoresolitario) mi ucciderà perché ancora non sono spuntati Kuroo e Kenma. Sappiate che avete ragione, sono una persona orribile. Ma giuro che presto arriveranno, e da allora non ce ne libereremo mai più. (...)
Per i lettori silenti e non: fatemi sapere cosa ne pensate! Nell’attesa intanto, vorrei prendermi un momento per ringraziare i commentatori degli scorsi capitoli
:
Unamoresolitario, per avermi dato supporto morale fin dal primo capitolo ed avermi riempito di complimenti ad ogni pubblicazione; non so nemmeno se avrei continuato a pubblicare su EFP se non fosse stato per te, sei stata un tesoro!
Black_Sun97, per avermi fatto una recensione lunghissima che mi ha sinceramente scaldato il cuore e che mi porterò nella tomba dei secoli dei secoli, amen. (…)

In ogni caso, avete capito chi ci sia dietro questa storia? O almeno chi potrebbe esserci parzialmente dietro questa storia?!
Zam zam! (?)
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Decipit frons prima multos ***


E niente, ormai la mia vita è all’insegna del ritardo.
Ringrazio quei quattro gatti che seguono la storia (
unamoresolitario, praticamente scrivo per lei ahahah ♡) per la pazienza che avete ogni volta nel non dimenticarvi di questa fanfiction, seppure io stessa a volte lo faccia. (…) Siete degli angeli.
Nuovo capitolo, in ogni caso!
Buona lettura!


 


 


 

5. Decipit frons prima multos


 

(La prima impressione spesso inganna)

Fedro, Fabulae, 4, 2, 6


 


 


 


 

GOTHAM CITY Gotham City Police Department (GCPD)

18/12/1976 – Ore 22:00 circa


 

«… Cosa dovremmo fare?»

Le parole di Ushijima risuonano basse e vibranti nella penombra della tromba delle scale, mentre sui muri al lato si susseguono piccole e lunghe finestre a scoprire come scure ferite il mondo esterno alla struttura. Le pupille di entrambi vanno ad allargarsi a tempi alterni quei secondi scoordinati in cui le lampade che guidano i loro passi perdono ad alternanza contatto con l’elettricità, e mentre quegli istanti di buio vengono intervallati da insicuri periodi di pallida luce le suole delle scarpe creano ovattati echi dei loro passi, alzando leggermente parte di quella ormai sedimentata striscia di polvere posta tra il ripiano in marmo e il cemento armato stilato ai lati.

Yaku continua a camminare, lo sguardo che rimane fisso davanti a sé mentre può quasi sentire gli occhi dell’uomo più alto – molto più di quanto si senta a suo agio ad ammettere, a onor del vero – scavargli fori dietro la nuca, in silenziosa attesa di una risposta che il commissario non è tra le altre cose neppure sicuro di avere. Ma sa bene, se non come uomo almeno come commissario di uno dei distretti più tediosi di sempre, come rimanere in silenzio in una situazione così delicata non sia l’ideale, non senza provare almeno a dare un tentativo di risposta.

Tenta di concentrarsi allora, le idee che si sviscerano confuse e febbricitanti nella sua mente nel tentativo di formulare un piano che possa funzionare almeno teoricamente, fino a quando, dopo aver voltato un’altra rampa di scale e nel mezzo della seconda, decide infine di rispondere al collega, le sopracciglia tuttavia corrugate ad esporre il dubbio presente nel suo animo di poliziotto.

«Le informazioni che ci ha dato Batman sono preziose, ma purtroppo non ci rendono il lavoro più facile.»

E mentre inizia a parlare non può fare a meno di notare come la voce sia ancora roca per il freddo combattuto fino a pochi minuti prima, quando ancora sul tetto dell’edificio. Batman dovrebbe davvero riconsiderare la sua necessità di vedersi a notte fonda, sinceramente: Passi in estate, ma di inverno? A Dicembre? Vuole forse farlo morire assiderato prima del tempo?

«Ed anzi, se possibile l’ipotesi che dietro tutto questo possa esserci proprio Joker rende il tutto dannatamente più complicato.»

Riesce a vedere di sottecchi Ushijima annuire lentamente, a quanto pare sufficientemente d’accordo con la risposta ricevuta dal suo superiore.

«In ogni caso, prima mi hai detto di aver parlato con Iwaizumi– Come mai non ci ha raggiunti, come gli avevo chiesto di fare?»

«Ha detto che era in attesa di notizie da parte del suo informatore.»

Oh. Questa è una novità.

Yaku alza un sopracciglio, andando a posare la mano sul corrimano mentre si volta nuovamente, i piani superiori che vengono nel frattempo lasciati indietro durante quel loro viaggio in solitaria, giù per le scale di servizio della struttura.

«Il suo informatore– Tu lo hai conosciuto, giusto? Che tipo è?»

È una domanda avventata, e se ne rende conto. Ma a qualcuno doveva farla, e per quanto la sua fiducia in Iwaizumi sia indiscutibile – essendo uno dei pochi poliziotti sulla cui fedeltà sarebbe pronto a giurare – rimane che sarebbe uno stolto se si rifiutasse di riconoscere come l’ispettore si mostri essere indissolubilmente legato al fantasma di questa persona di cui tanto sente parlare.

E Yaku è dolorosamente consapevole di quanto avere legami forti in un ambiente simile possa essere, se non distruttivo, almeno pericoloso. Di cosa significhi veramente creare un rapporto con una seconda persona così lontana dal proprio mondo, decidendo di affidarsi a qualcuno senza magari essere pienamente consapevole di come, se mal riposta, la fiducia di una persona possa diventare velocemente anche la sua condanna. Di come la vita sia caduca, sottovalutata, intrisa da una incoscienza di fondo che la gente spesso si porta dietro, nella innocente incapacità di capire quanto basti poco per spezzarla.

E questo non vale solo per i poliziotti.

… La mano libera dal corrimano si stringe in un pugno involontario, ed è un attimo.

Ancora prima che possa rendersene conto la sua mente sembra ritirarsi in qualche confusionario ricordo del passato, e mentre i contorni sembrano dissolversi nel nulla riesce ad intuire il profilo di un ragazzo alto e magro, capelli corti e bianchi come il latte, un sorriso ferino, due pupille longilinee e verdi.


 

… No, no. Non questo.

Ispettore Yaku, finalmente è tornato! Deve sentire che notizie che ho per lei!”

No.

No no no no. Non può fermarsi su quel ricordo, deve andare avanti. Nulla di quello che è successo può essere cambiato in alcun modo, e lui, lui non–

Quindi posso venire a trovarti più spesso se trovo nuove cose da dirti?!”

Dio.

Era giovane, troppo giovane. E lui– lui aveva appena ricevuto il suo nuovo incarico come Ispettore, quindi non era forse altrettanto giovane? Quei ricordi sembrano quasi appartenere ad una seconda vita, eppure non saranno passati neppure dieci anni da quell’avvenimento, da quel ragazzo. Un ragazzo così incauto, così emozionato all’idea di essere utile, di essergli utile.

Così stupido.

Aaaaah– ci siamo! I Falcone mi hanno finalmente chiesto di partecipare ad un loro incontro, vedrà che news che le porterò al mio ritorno! Sarà fiero di me, ispettore!

No. No. Lui non poteva saperlo, lui era solo un informatore. Era il suo informatore. Troppo ingenuo, troppo ingenui entrambi. Come potevano sperare sarebbe stato così facile? Come poteva sperarlo lui, poi? Il suo informatore non aveva avuto nessun tipo di preparazione per quel mondo, era lui il poliziotto, sarebbe dovuto essere lui quello che– Perché non se ne era accorto prima, come aveva fatto a non rendersi conto di quello che stava accadendo?! Era stato uno stupido, un ingenuo, un incapace, un–

Un volto bianco. Occhi vitrei che lo fissano nel vuoto.

No. No. Nononononono no n o no n–

Vittima N03, Haiba Lev. Sembra fosse russ– Ispettore Yaku, tutto bene?”


 

Lev.


 


 

«… –ku?»

È come riprendersi da un incubo.

È un istante, e mentre il freddo del suo corpo viene lavato via da un brivido improvviso Yaku si rende conto di essersi fermato nel mezzo della rampa, la mano che stringe così tenacemente il corrimano da rendere le nocche delle dita completamente bianche.

Rimane ancora qualche secondo immobile, il sudore che gli imperla la fronte ed il respiro corto, e si prende il suo tempo prima di andare a voltare lo sguardo verso Ushijima, scoprendolo fermo accanto a lui, a fissarlo da un paio di gradini di distanza.

«– … Perdonami, ero perso nei miei pensieri.»

Biascica velocemente, il viso che si abbassa leggermente mentre torna con il corpo a scendere le scale, l’espressione nuovamente lontana dalla presenza di qualsiasi emozione troppo accentuata, celato a se stesso e ad agli altri, chiuso al dolore ed al ricordo.

Una maschera, dipinta del suo sangue.

«Di che parlavamo, in ogni caso?»

«… L’informatore.»

«– Quello dell’Ispettore Iwaizumi, giusto. Dicevo, impressioni in merito?»

I secondi che seguono interminabili sono previsti sin dall’inizio dal Commissario della GCPD, ma alla seconda rampa passata in silenzio la certezza Ushijima lo abbia ascoltato inizia appena a vacillare, portandolo a schiudere le labbra una seconda volta.

«Ushij–»

«Non gli piace beva il vino.»

… Non crede di aver ben capito la risposta.

«… Eh?»

E non può evitare di fermarsi nuovamente sul posto, il volto che stavolta va a girarsi completamente verso il suo sottoposto mentre un’espressione palesemente perplessa e scettica va a dipingersi sul volto. Vede l’altro continuare a camminare, percorrendo a larghe falcate il pianerottolo del piano terra sino a raggiungerlo davanti alla porta al cui lato campeggia uno zero sbiadito, aprendola lentamente e lasciando che il suono delle macchine da scrivere, del chiacchierio dei poliziotti e dei telefoni che suonano invadano ovattati le pareti scure della torre delle scale.

Completamente indifferente alla sua confusione, come sembra chiaro.

«… Che vuol dire che non gli piace tu beva il v–»

«Commissario, è tornato! Come è andata sul tetto, lo ha visto davvero?!»

Yaku si ritrova impossibilitato a continuare quella strana, veramente strana conversazione quando un ragazzo piuttosto alto e dalla perfetta frangetta scura e bluastra gli si piazza davanti, palesando un viso triangolare ed un’altezza piuttosto generosa. La cosa sta diventando più frustrante del previsto, considerando che lì dentro è lui la carica più alta a prestare quotidianamente servizio.

«Chi dovrei– ah, Goshiki. Sì, Batman ci ha detto ciò che ci serviva. Mi cercavi?»

«Non proprio, ma l’ispettore Iwaizumi mi ha detto di dirle che sta portando qualcuno in sala interrogatori e che vorrebbe lei lo raggiungesse il prima possibile.»

«Oh–»

La sorpresa nel tono di voce di Yaku è veramente impossibile da evitare, e così dopo qualche istante di perplessità il commissario non riesce a fare a meno di guardare con un certo moto di curiosità il suo ufficio, accanto al quale si trovano due anonime porte di un grigio spento.

«Ti ringrazio, allora vado. Ushijima?»

«Il verbale.»

«Sì grazie, entro un’ora sulla mia scrivania per favore. Dovrei liberarmi prima della mezzanotte.»

Vede l’agente annuire accomodante e annuisce anche lui, in segno di saluto e ringraziamento, affrettandosi poi verso la piccola rampa di scale che eleva il suo studio e la sala interrogatori dal resto dell’enorme atrio, facendo attenzione a non urtare nessuna pila instabile su alcuna scrivania o di finire in mezzo ad un passaggio di massa di suoi sottoposti.

È sufficiente fare solo qualche passo prima di arrivare davanti alla prima porta posta sulla destra: Yaku si arresta un secondo, e solo in quel momento si scopre diviso tra il dubbio sul perché l’informatore dell’ispettore – ed Iwaizumi stesso – abbia deciso di cambiare così drasticamente idea sulla necessità di anonimato e la curiosità riguardo l’identità di una persona fino ad ora rimasta nell’ombra. Ma alla fine la professionalità ha la meglio, ed è come Commissario che dopo qualche istante bussa alla porta, lasciando passi un secondo prima di andare ad abbassare la maniglia, senza attendere una vera risposta.


 


 

°°°°


 

«Ispettore Iwaizumi.»

«Commissario.»

«Commissario Yaku.»

Yaku lascia che il suo sguardo scivoli verso la fonte di quelle – due? – voci, e dopo qualche momento necessario ai suoi occhi ad abituarsi alla poca luce della stanza non tarda a riconoscere nella prima sagoma scura ed atletica l’Ispettore, le spalle tese e i palmi posati sul bancone interrogatori, e nella seconda l’agente scelto responsabile del reparto tecnico della sala interrogatori, poggiato contro il muro a braccia incrociate ed un’espressione placida a rilassarne la muscolatura facciale.

«Agente Matsukawa.»

Fa un leggero segno di saluto anche a lui, prendendosi il suo tempo mentre inizia a fare un paio di passi verso il tavolo illuminato da una singola lampada lasciata pendere dal soffitto, pallida e rotonda: sembra sia stata creata giusto con l’intento di illuminare la parte centrale della stanza, nota, ed in effetti è solo un pallido rimasuglio quello che riesce a raggiungere il vetro fissato sulla parete opposta a quella ove ha cercato sostegno l’agente Issei Matsukawa.

Ma tutto questo può venire dopo: In fin dei conti dubbio e curiosità sono entrambi fattori umani piuttosto giustificabili, e dopo qualche istante di ben costruita noncuranza Yaku porta il suo sguardo a vagare pigramente verso la persona seduta alla scrivania, studiandone i tratti alla ricerca di qualcosa, forse, che gli permetta di poter associare a quel viso snello l’immaginario creatosi in tutti quegli anni nella sua testa riguardo l’informatore del suo ispettore di vecchia data.


 

Deve dire che il primo approccio è– di dubbio, se così lo si può definire. Non sa bene perché, dal momento che effettivamente non ha mai avuto modo per farsi un’idea seria su come l’informatore di Iwaizumi potesse essere, ma sinceramente non si aspettava affatto una persona simile; e questo, vuole sia chiaro, non è solo per il vestiario succinto e stretto – che lascia davvero poco spazio all’immaginazione, se può fare un commento incredibilmente datato al proposito –, né solo per quell’eccesso di pelle nera che fascia le gambe snelle; e non è neppure per quella maglietta strappata, o per la serie di braccialetti da danzatore che porta al polso o– o per quei capelli, così incredibilmente rosa ed atipici, se immaginati accanto alla capigliatura incredibilmente tradizionale dell’ispettore Hajime.

Insomma, non che lui abbia pregiudizi di alcun tipo: Se Gotham può avergli insegnato qualcosa, che sfori magari dal non dare per scontate le persone che tentino di vivere nella legalità, è stato proprio imparare ad accettare ed apprezzare la diversità come forma di ricchezza, piuttosto che di discriminazione.

… Però– a lui quei capelli dalla sfumatura rosata proprio non tornano per qualche motivo, come nemmeno gli occhi stretti e lunghi da gatto, per non parlare di quello sguardo attento e leggermente annoiato che sembra nascondere, in fondo a tutto, una qualche traccia di beffarda derisione verso il mondo intero.


 


 

«Lui sarebbe–?»

Domanda infine, seppure l’espressione rimanga il più possibile inespressiva mentre si avvicina al tavolo, fingendo una certa noncuranza nell’andare ad osservare con attenzione l’unico ragazzo lì seduto; lo vede alzare gli occhi, come annoiato davanti ad una domanda che probabilmente qualcuno – Matsukawa, con ogni certezza – ha già formulato in passato e che a quanto pare dovrebbe essere talmente ovvia da non necessitare neppure venga formulata, ed il commissario sente un pizzico di ingestibile irritabilità nel vedere come quello strano informatore si prenda giusto un istante a guardarlo, prima di piegare la testa e andare a scrutare la figura dell’agente ancora parzialmente celata dalla semi oscurità, regalandogli un sorriso stretto attraverso quelle labbra affilate.

«La storia si ripete, non credi?»

«… Forse. Se lo credessi, si ripeterebbe anche questo?»

«E se si ripetesse, ci crederesti maggiormente?»

… Si è perso qualcosa?

Yaku alza un sopracciglio, rimanendo a fissare il ragazzo dai capelli chiari come confetti per poi passare lo sguardo sul suo agente scelto, probabilmente domandandosi istintivamente se non sia giunto il tempo di sbloccare il numero massimo di giorni di ferie concessi e permettere a chiunque ne abbia effettivamente bisogno di prendersi una vacanza e ritrovare la propria assennatezza.

La certezza totale gli arriva quando vede Matsukawa abbozzare un sorriso alla risposta dello sconosciuto, e vorrebbe effettivamente dire qualcosa quando vede anche quest’ultimo sorridergli di rimando, rendendo la scena incomprensibilmente molto più intima di quanto non sia e facendolo incomprensibilmente sentire terribilmente fuori posto tutto ad un tratto.

«Si chiama Takahiro Hanamaki, ufficialmente lo abbiamo portato qui con l’accusa di riciclo illecito di denaro e prostituzione. È il portavoce del mio informatore.»

Ah, quindi non è lui l’informatore di Iwaizumi. Per qualche motivo, Yaku decide come questa sia istantaneamente diventata la notizia più positiva della serata.

«Buonasera, signor Hanamaki. La ringrazio a nome del dipartimento per la sua disponibilità.»

«Mhm~? Oh nessun problema, non vengo in ogni caso per voi; il mio datore di lavoro aveva bisogno di qualcuno per far arrivare le informazioni al signor Iwaizumi, ed io oggi non dovevo lavorare.»

«Datore di lavoro?»

Le labbra di Yaku si schiudono a formulare quella domanda prima che possa effettivamente pensare razionalmente se sia convenevole o meno porla, e non ci vuole molto prima che capisca di aver fatto indubbiamente un errore, giusto il tempo necessario a vedere un sorriso malizioso aprirsi sul volto del ragazzo a nemmeno un metro da lui, stavolta nella sua direzione.

«Datore di lavoro. Sta per chiedermi quale sia il lavoro, per caso

«Ho visto l’accusa ufficiale per la quale vi abbiamo portato qui. Tuttavia, confido tale calunnia sia stata orchestrata per permetterci di interrogarvi, e che il vostro lavoro sia lecito e regolato da norme legali.»

Gli occhi di Hanamaki si assottigliano maggiormente, le labbra che si incurvano nascondendo i denti ma lasciando che l’ombra di un sorriso felino rimanga presente su quel viso chiaro ed appuntito, e il busto va a porsi in avanti, il gomito sulla scrivania e il mento che viene posato sul palmo snello, infossandosi il minimo necessario per sentirne la resistenza della carne.

«Lecito e legale sono due cose piuttosto diverse, non pensa sia abbastanza pretenzioso chiedere entrambe?»

Yaku incrocia le braccia al petto, decisamente poco propenso ad apprezzare la piega che sta prendendo quella conversazione.

«Lecito e legale sono due cose che vanno di pari passo, quando si vive in una realtà sociale.»

Vede Hanamaki alzare la mano libera, e dopo qualche secondo l’indice va ad inclinarsi a destra e a sinistra, assecondato da un suono acuto mentre la lingua schiocca velocemente più volte contro il palato, le labbra socchiuse e gli occhi fissi su di lui.

«Ah, ma qui si sbaglia commissario. Perché non vediamo cosa ne pensa il suo agente, piuttosto?»

E mentre ancora sta parlando lo sguardo va a posarsi su Matsukawa, già voltato a guardare Hanamaki mentre quest’ultimo va a stendersi con il busto sul tavolo grigio, il viso a scendere e la guancia a poggiarsi sull’avambraccio scoperto.

«Mhm?»

«… Il lecito è ciò che è consentito dalla convenienza sociale e dalla morale, il legale dalla legge.»

«Ah ah~! Bingo

La soddisfazione che quella risposta ha portato nel ragazzo sembra essere impossibile da definire a parole, e Yaku decide tutto ad un tratto sia che l’argomento è davvero arrivato al capolinea, sia che a pensarci bene non ha davvero bisogno di sapere cosa faccia quel ragazzo nel tempo libero, o perché lo faccia, o se sia davvero possibile per quell’Hanamaki e per l’agente Matsukawa di aver raggiunto in così poco tempo una tale lunghezza d’onda comune, due persone distinte ed opposte come modi di porsi, eppure così incomprensibilmente vicini nella comprensione del reciproco.


 

«Bene, adesso che ha avuto la sua risposta che ne pensa di tornare al punto iniziale della nostra conversazione?»

Iwaizumi decide infine di intervenire, la voce stabile e la tonalità ferma che si impongono con educazione ed una sana dose di fermezza sull’intera situazione, facendo in modo tutti gli sguardi tornino a posarsi su di lui. Il sorriso di Hanamaki cala, l’espressione ora priva di qualsiasi emozione che domina quel viso fine mentre gli occhi si fissano attenti su quell’uomo che si era quasi dimenticato di avere nel frattempo davanti, l’ombreggiatura delle palpebre e l’assoluta immobilità che rendono l’occhiata scura e densa.

«Ah– penso di aver detto quasi tutto, sinceramente.»

Dichiara infine, alzandosi nuovamente a sedere in maniera composta e portando una mano dietro al collo, piegandolo a destra e a sinistra nel tentativo di ammorbidire i muscoli del trapezio indolenziti.

«Mi è stato detto di dirvi che pare Serpe non c’entri nulla con i crimini avvenuti nella zona interessata, e che i colpevoli non vadano cercati nella sua cerchia. Inoltre–»

«I colpevoli? Più di uno?»

Yaku lo ferma prima che possa continuare, piegando il busto in avanti e mettendo le mani sul tavolo, avvicinandosi maggiormente con il viso ad osservare Hanamaki; perché dopo la conversazione che ha avuto con Batman sul tetto di certa in questa faccenda c’è solo la presenza di Joker. Invece il nuovo informatore sta parlando di colpevoli, al plurale, è questa è la classica cosa che un commissario della polizia veramente non può prendersi la briga di ignorare.

«Vuole farmi l’eco, Commissario? Ha sentito bene. Sembra che le menti dietro a– qualsiasi cosa stia accadendo e sulla quale stiate indagando, siano almeno due. Almeno, da quello che è riuscito a sapere il mio datore.»

Il silenzio cala nella stanza, e mentre i poliziotti si lasciano qualche minuto per digerire la notizia appena ricevuta il mondo sembra diventare tutto ad un tratto troppo rumoroso, troppo confusionario, troppo spavaldo nel suo diritto piccato di prendersi quegli istanti per far notare a tutti il ronzio della luce sopra le loro teste, o le persone che parlano da oltre la porta pesante che li divide dal resto del dipartimento, o i clacson delle macchine da fuori l’edificio uniti al rumore metallico dei semafori che incitano i pedoni a passare.

È tutto irrealmente vivo; tutti lo sono, al di fuori delle persone rinchiuse in quella piccola stanza.

«… Avete i nomi?»

Chiede infine Iwaizumi quando la possibilità di non uscire mai da quella situazione di stallo diventa più concreta di quanto chiunque di loro vorrebbe, e guarda Hanamaki scuotere la testa mentre l’espressione torna tuttavia ad essere impercettibilmente più rilassata, come se in qualche modo rivedere il loro piccolo ecosistema tornare a funzionare lo abbia messo nuovamente non solo a suo agio, ma anche in qualche modo a controllo della conversazione stessa. Il ché, c’è da aggiungere, gli fa ipotizzare Hanamaki non sia probabilmente una di quelle persone amanti degli imprevisti; non quanto lo sia del controllo, almeno.

Nessuna sorpresa abbia come datore di lavoro Oikawa, insomma.

«Nessuno, ma il mio datore può dirvi questo: prima che voi arrivaste a fare i vostri prelievi e le vostre domande per la rapina al Museo di Storia Naturale, qualcuno si è prodigato a togliere molte monete che si trovavano in giro per i pavimenti.»

«Parli della rapina all’Istituto Cyrus Pinkney? In quel caso le monete potrebbero essere quelle conservate nelle teche appartenenti ai primi del cinquecento.»

Hanamaki alza le spalle, palesando la propria ignoranza al riguardo, e Iwaizumi non può fare altro che staccarsi dal tavolo per iniziare a camminarvi intorno, sia per sgranchirsi le gambe – è stato effettivamente per troppo tempo in quella posizione, per quanto non ci abbia pensato fino a quel momento – sia perché le informazioni che stanno acquisendo da quel ragazzo sembrano avere risvolti abbastanza inquietanti da rendere quasi controproducente il continuare a stare fermo sul posto. Ha bisogno di muoversi, tornare a far circolare il sangue, dare aria alla testa e provare a vedere cosa possa chiedere di fattibile ad Oikawa attraverso Hanamaki stesso, qualcosa che forse possa, se non aiutarli, almeno avvantaggiarli nell’indagine che stanno portando avanti.

Non che ci sia la minima possibilità Oikawa la prenda bene, in ogni caso: Già si immagina il mugolio frustrato a cui si lascerà andare quando verrà a sapere di avere ancora domande da fare in giro su questa storia; ma il tempo è poco e gli interrogativi ancora tanti, ed ha l’impressione che l’altro non gli dirà di no se dovesse arrivare a chiedergli altri favori, per quanto difficilmente terrà nascosta la sua irritazione al riguardo al loro prossimo incontro.

«Ok, allora potresti dir–»

Un leggero bussare alla porta della sala interrogatori lo porta a fermarsi nel mezzo della frase, e tutti i presenti si voltano verso la sorgente di quel rumore inaspettato, osservando alcune ombre lunghe e strette scivolare come acqua bagnata da sotto lo stipite del legno chiuso.

«Avanti.»

La voce di Yaku è stabile e diretta verso l’entrata serrata, e non passa molto prima che questa venga aperta, mostrando un uomo piuttosto alto, dalla carnagione scura e le labbra carnose, i capelli caratteristicamente afroamericani ed alla moicana, lunghi sopra le orecchie e quasi completamente rasati sotto.

«Commissario Yaku.»

«Dimmi, Reor

«Sono arrivati due avvocati per la persona che tenete in custodia, sembra che le prove contro di lui non siano abbastanza da permettere un arresto né un interrogatorio.»

Il tempo di finire di parlare che due uomini in giacca e cravatta fanno il loro ingresso, lo sguardo di entrambi calmo ed impassibile mentre le scarpe laccate di nero specchiano riflessi opachi ed irregolari ad ogni passo che fanno; le falcate si fermano praticamente subito dopo aver varcato la soglia, e non bisogna certo essere un commissario di polizia per intuirne il solido messaggio celato all’interno: Usciremo il prima possibile da qui, sembrano gridare, ed ovviamente con Hanamaki a seguito.

«Mhm? Oh, sembra il mio taxi sia arrivato.»

Sentono il finto imputato dire mentre il rumore della sedia trascinata sulle piastrelle grigie della pavimentazione palesano il suo alzarsi in piedi, ed i passi morbidi che risuonano tra le strette pareti vengono presto assecondati dalla magra figura del ragazzo che si avvicina verso la porta, entrando lentamente nel campo visivo di tutti e fermandosi esattamente in mezzo ai due giganti ancora immobili all’entrata.

«Non potete lasciarcelo per qualche altro minuto? Stiamo discutendo di cose importanti.»

La voce di Matsukawa arriva ferma ma bassa, roca e lontana seppure il punto ove sia situato non risulti essere abbastanza da permettergli di risultare tanto distante. Iwaizumi si volta a guardarlo, alzando scetticamente un sopracciglio nel vederlo staccarsi dalla parete per avvicinarsi al trio in piedi, fermandosi ad un paio di metri mentre gli occhi rimangono fissi su quelli di Hanamaki, le mani nelle tasche dei pantaloni e le spalle leggermente curvate in avanti, ad assecondare la posizione delle braccia tese.

Hanamaki stesso rimane qualche secondo in silenzio a fissarlo, prima che un sorriso fino si appropri delle sue labbra, lo sguardo che assume sfumature di espressione che Hajime riesce a cogliere solo in parte e che in qualche modo gli ricordano quelle di un leopardo che abbia trovato la sua preda al fiume addormentata, se non proprio un altro leopardo, solo enormemente più svogliato e pigro.

«Sa agente, per quanto apprezzi molto la sua volontà di passare del tempo insieme–»

E fa un istante di pausa, come a vedere se Matsuwaka abbia qualcosa da dire prima di farlo continuare; ma quest’ultimo rimane in silenzio, lo sguardo indolente e le palpebre rilassate, ed il sorriso di Hanamaki sembra se possibile ampliarsi ancora di più, così affilato da poter tagliare.

«Le devo ricordare che persino i poliziotti devono pagare per certe compagnie. Perché non passa dove lavoro, un giorno di questi? Chieda all’ispettore Iwaizumi di accompagnarla, magari il mio datore le farà un prezzo di favore, vedendola con lui.»

E Iwaizumi può notarlo chiaramente, l’occhio di Hanamaki che viene strizzato per un istante in direzione del collega dai capelli corti e scuri, prima che quel sorriso felino vada a posarsi – più freddo e meno sovraccarico di adrenalina, in ogni caso – sulle iridi del commissario al suo fianco, ancora in piedi e leggermente innervosito da chissà quale delle tante frasi dette dal ragazzo.

«Per vedermi ballare, ovviamente. Perché è importante il lecito ed il legale, non è vero commissario?»

E con questa si allontana insieme ai due avvocati, la movenza del tutto simile a quella di un gatto mentre le anche si muovono con regolarità, opposte al movimento delle spalle e coerentemente con quello delle corte ciocche rosate in balia dell’aria e dalla gravità.


 


 

°°°°


 

La porta va a chiudersi dietro i due uomini in abito elegante, e nella stanza scende un silenzio carico di pensieri e reazioni diverse, le menti dei tre poliziotti che macinano informazioni mentre il piccolo lampadario della stanza racchia appena di risposta ad una variazione di elettricità inattesa, la luce che viene a mancare per un battito di ciglia prima di tornare stabile sul tavolo adesso vuoto.

«Dobbiamo fidarci?»

Mormora Matsukawa alla fine, e questo basta per far sì che Iwaizumi gli lanci uno sguardo freddo e duro, le sopracciglia aggrottate e la mascella stretta a creare dei leggeri infossamenti sotto le gote.

«Il mio informatore non mi darebbe informazioni, se fosse dubbioso della loro veridicità

«Qualsiasi sia la verità…»

Entrambi si voltano verso il commissario, ancora in piedi e con un braccio piegato affinché l’indice ed il pollice si possano chiudere morbidamente attorno al mento, ed aspettano il continuo mentre l’espressione contrita e gli occhi fissi su un punto fermo palesano una concentrazione abbastanza alta da rendere impensabile anche solo l’idea di fare un passo, nel timore di fargli perdere il filo di chissà quale idea creatasi nella sua mente.

«Solo una cosa è certa: Quando una cosa è troppo chiara a Gotham, è perché qualcuno sta cercando di farla passare per la realtà. Ed indipendentemente da chi sia invischiato in questa storia, vi è di certo che ci sia molto più da scavare di quanto avessimo inizialmente preventivato.»

E nel dirlo Yaku scioglie la sua posizione, facendo qualche passo verso la porta e fermandosi solo per voltarsi verso i due poliziotti davanti a lui, squadrandoli bene prima di aprirla, la luce che viene dall’esterno che arriva inaspettatamente ad oscurare i tratti del commissario, rendendone solo il profilo visibile.

«Tornate a casa ora. Domani riprenderemo le ricerche all’Istituto Cyrus Pinkney: voglio avere tutte le registrazioni delle telecamere interne alla struttura, e informazioni se siano state trafugate o meno monete di particolare interesse economico per il Mercato Nero.

Abbiamo quattro giorni per scoprire chi si sia alleato con Joker


 


 


 

Stavolta unamoresolitario mi uccide. (…)
Niente, volevo mettere Kenma e Kuroo in questo capitolo ma alla fine mi è venuto troppo lungo e mi sono dovuta fermare prima. Perdonami.
MA INDOVINA CHI VEDREMO NEL PROSSIMO?!
… Davvero. Giuro.
… Ti prego cerca di volermi bene comunque.
ALLA PROSSIMA (ARRIVERÀ PRIMA DI TRE SETTIMANE.)

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Capitolo 6
*** Enough madness? Enough? And how do you measure madness? ***


6. Enough madness? Enough? And how do you measure madness?


 

(Abbastanza pazzia? Abbastanza? E come la misuri la pazzia?)

Joker, Batman: Arkham City


 


 


 

GOTHAM CITY – ? (Unknown Place)

18/12/1976 – Quella notte


 

Prima di tutto il resto, arriva la parte acustica.

Ti coglie alla sprovvista appena entri nel locale, dopo aver varcato un paio di porte e fatto quelle scale di troppo che dividono il piano terra da quello sotterraneo. È una sensazione strana, estraniante sicuramente, il passare da un triste e sconsolato magazzino con un paio di tavolini ed un bancone lungo e malandato, dietro cui vigila in piedi un uomo smunto intento a pulire in silenzio e con pazienza un paio di bicchieri impolverati con uno straccio sporco e sfibrato, al piano internato più in profondità, una sala enorme a cui si accede mediante una serie di corridoi creati ad occultare i rumori e le grida di umani e umanoidi che vivono nelle sue profondità.

Le voci che artigliano l’aria densa, urlanti come corvi nello sforzo di venire ascoltate da persone a qualche centimetro di distanza, si stirano in un tentativo acuto di passare il blocco denso di quella musica alta e pulsante fino a raggiungere i loro destinatari, mentre un rumore pesante e continuo pompa nelle casse che si irraggiano a partire dal tavolo del mixer, allungandosi come dita di una mano per tutta l’area ed andandosi ad affievolire solo allo scontrarsi con le pareti insonorizzate.


 

Solo quando si raggiungono gli ultimi gradini delle scale si è raggiunti anche dalla parte visiva.

Gli occhi lacrimano, le sopracciglia si aggrottano e le palpebre si socchiudono nel tentare di proteggere le iridi umide da quella festa di luci caleidoscopiche che si ripetono a ritmi sempre più veloci, colori diversi ed elettrici che fendono l’aria mentre il fumo si addensa sopra le teste delle persone che si muovono sulla pista. Chi ritmicamente, chi lentamente, chi fuori tempo, ognuno segue un percorso di suoni tutto suo, perso in pensieri appannati dall’alcool e da ciò che ha iniziato a fumare prima e dopo essere entrato lì dentro.

I corpi si toccano, si sfiorano e si strusciano, danzando o non fingendo nemmeno più di fare quello mentre ondeggiano con trasporto cercando un contatto umano sempre maggiore, nasi che respirano sulla pelle sudata di altre persone lontane dalla folla e con le spalle poggiate sulle pareti di confine della sala. E poi ancora lingue, muscoli umidi e contratti che si muovono prestandosi ad un incontro che parte da uno schiocco di labbra e termina su un palato estraneo, i proprietari impegnati a cercarsi con le mani, con le braccia e con le gambe su quei divanetti che emettono suoni strozzati ad ogni movimento brusco, soffocati dalle persone che vi si accalcano sopra mentre inebriate da tassi alcolici alti come i bicchieri che tengono ancora con qualche difficoltà in mano.


 

Infine, arriva la parte olfattiva.

Quella che permea tutto, esibendo mediante le sue invisibili capacità ciò che la vista non può celare ed il rumore non può nascondere: un tripudio di sudore, eccitazione, prodotti chimici, schiuma da barba e profumi costosi; e poi ancora tabacco, erba, fumo, sino ad arrivare all’odore caratteristico e pungente dell’alcool, a quello stucchevole dei cocktail che scivolano di palmo in palmo o a quello amaro del gin, che viene versato con audacia nelle coppe ancora vuote.


 


 

Il bancone – quello vero, non quello di facciata appartenente al piano superiore – è affollato, e la gente che vi è seduta accanto o in piedi mentre appoggiata sul legno usurato parla e ride sguaiatamente, sorpresa da battute che spesso nemmeno riesce veramente a sentire mentre le voci vengono sovrastate dalla musica che le casse vicine continuano in maniera martellante a mandare a tutto volume. Il barista dietro il ripiano in mogano passa le mani abili tra le bottiglie allineate al muro, prendendone alcune e lasciando scivolare il liquido contenuto al loro interno dentro un alto bicchiere di plastica, prima di prendere un cucchiaino lungo e dotato di una sorta di spirale intorno la sua lunghezza per mescolare il contenuto colorato.

«Ehi, puoi metterci anche uno spicchio di arancia dentro?»

«Nessun problema.»

Risponde dopo qualche secondo, prendendosi quei pochi istanti per inserire qualche cubetto di ghiaccio in un paio di cocktail già completati che pone poi sul bancone. Va successivamente a prendere da accanto alla macchina per la spillatura della birra un’arancia già tagliata a metà, e ne ruba uno spicchio, aprendolo a raggio per inserirlo sulla cornice del bicchiere che presenta al cliente, lo sguardo già posto su un altro uomo accanto al precedente.

«Per lei?»

E la danza riprende mentre un’altra richiesta viene fatta, un ragazzo che viene spintonato lontano dal bancone mentre un uomo più alto e con un sorriso rosso sangue dipinto attorno alla bocca e fino a metà delle gote si fa strada prepotentemente, imponendo così la sua presenza ed il suo diritto di essere servito prima di chiunque altro.

«Levati, idiota!»


 


 

Ed è allora e solo allora, quando gli occhi finalmente perdono contatto con ciò che è umano e si disabituano alla normalità con cui si sono con così tanta dovizia assestati nell’arco della giornata, che le prime anomalie di quel luogo iniziano a spuntare fuori. Le prime facce marchiate, le prime cicatrici ben esposte, i primi collari elettrici legati al collo o alle caviglie dei presenti – alcuni scalzi, altri no – o le prime macchie per terra, che le luci a volte mascherano ma che nemmeno la pulizia più approfondita – comunque mai stata fatta – potrebbe cancellare. Poiché nulla cancella l’alone rosso e ormai posato del sangue rappreso, tanto meno la presenza di altro sangue versato subito dopo.

Orrori.

Mostri, non più umani di quanto non lo fossero in una vita passata o nella giornata ormai finita, che si muovono come fantasmi in un’oscurità che ormai appartiene e fa loro da casa: una tana, quel sotterraneo celato alla civiltà e alla legalità, pronta a trasformarsi durante la notte in un circo che possa accogliere la popolazione di Gotham, esibendole in un tripudio di catene e violenza come fossero bestie da esposizione.


 


 

°°°°


 


 

«Ohya ohya– Comunque Joker, come sapevi che ci sarebbero cascati così velocemente i poliziotti?»

Il cubicolo da cui proviene quella voce energica e concitata è scuro, non troppo largo e dai soffitti piuttosto alti. Una tenda rossa e pesante lo separa dal corridoio più esterno che collega alle scale per scendere dal soppalco, mentre dal lato opposto una serie di vetrate graffiate e vandalizzate da numerose scritte in vernice fosforescente aprono la sua vista all’enorme sala del locale, rendendo il trambusto lontano ed ovattato ma permettendo alle persone al suo interno di poter gettare uno sguardo sull’intera galleria, nel caso lo desiderino.

«Sai, ammetto che non ero molto fiducioso all’inizio, credevo avrebbero aspettato un poco a buttare Serpe dentro Arkham– ohya! Tu invece ci avevi proprio visto giusto!»

Sì, è proprio strana quella voce. Sembra avere una base bassa e musicale, eppure a tratti risulta diventare estremamente cacofonica, un insieme di alti e bassi che ne variano inaspettatamente la tonalità mediante salti acuti e poi gravi che la rendono quasi somigliante ad un rapace a caccia durante la notte, più che ad un umano. Cosa che ormai, in effetti, si potrebbe dire non sia più.

Non per metà del suo viso, almeno. Ma anche qui, non che sia davvero un problema: alla fin fine al suo interlocutore attuale le cose strane piacciono.

Sicuramente più della normalità, almeno.

«Mhm–? Che vuoi farci, la gente crede in quello che vuole, solo i matti sanno andare oltre le ovvietà. ~»


°°°°

Joker

Professione: Criminale professionista
Vero Nome: Tetsurou Kuroo
Aspetto: Uomo, capelli neri con punte verde acido, occhi mori, trucco caratteristico sul viso
Caratteristiche: Maniaco omicida, privo di una diagnosi psicologica precisa, probabile disturbo bipolare aggravato da disturbo antisociale di personalità, frequente uso di tossine che forzano sul volto della vittima un sorriso forzato che ne causano la morte.
°°°°


 

Joker sorride, il trucco rosso che disegna sul viso delle labbra vivide, affilate e lunghe quasi fino alle orecchie, e i denti biancheggiano nella semi oscurità a quella risata silenziosa, le palpebre che si rilassano su quegli occhi felini e del colore della terra. Fa una pausa, e mentre la schiena va a poggiarsi sullo schienale morbido ed imbottito del divanetto ove è seduto i capelli ricadono disordinati sulla parte destra del viso, neri come l’inchiostro e unici nelle loro punte verde acido. Un gomito viene portato alla spalliera, e mentre il polso viene ruotato pigramente in senso orario ed antiorario la mano libera alza qualche dita, muovendole come fossero zampe di un ragno.

«Ah~. Ma non credere: il commissario non si farà distrarre per molto, presto capiranno che Serpe non c’entra e saranno decisamente poco felici dello scherzo. Chissà come la prenderanno; vogliamo scommetterci qualcosa, amico mio? Ho saputo che ti piacciono molto le scommesse

Ed ha appena finito di parlare che tra le nocche delle dita, ancora in rapido movimento, una moneta rotola inaspettatamente allo scoperto, materializzandosi in un ultimo gesto fluido del polso e portandosi infine fra l’indice ed il medio. Le dita lunghe ed affusolate vengono stese – forse per non farla cadere o forse no, in fondo ciò che passa nella mente di Joker è tutto fuorché intuibile – mentre la mano viene accompagnata verso l’alto, dando maggiormente l’impressione di stare tendendo in mano una sigaretta, piuttosto che un disco piccolo ed argentato.

«… Ohya– Non saprei Joker, sinceramente scommetterei con tutti tranne che con te.»

L’interlocutore risponde dopo qualche secondo, scuotendo la testa in un disagio appena accentuato mentre le lunghe ciocche argentate e nere della parte destra del viso si muovono morbidamente davanti la palpebra, abbassata a nascondere l’iride grande e dorata che vi è celata dietro.

«Ah~ è perché mi vuoi bene, vero? Ma hai ragione, neanche io voglio che ci siano rancori fra noi due in effetti.»

Joker accavalla le gambe, entrambi i gomiti adesso puntellati dietro la spalliera, e l’occhio non coperto dalla lunga frangia rimane a fissare l’altro, studiandolo per qualche secondo. Le labbra rimangono schiuse a mostrare un sorriso felino, ed il trucco rosso sangue che amplia quella beffarda smorfia simile ad una risata cola appena all’angolo, sconfitta dal calore del locale.

«Quindi qual è il nostro piano, adesso che Serpe è fuori dai giochi?»

Prova a richiedere l’ospite, incrociando le braccia toniche al petto e guardandolo serio, il polsino destro della camicia bianca che va ad immergersi nell’incavo nero offerto dalla manica opposta. Anche la mano sinistra fa la medesima cosa, ma è color latte il solco di tessuto in cui quel polsino pece si tuffa: tutto in quell’abbigliamento è infatti perfettamente simmetrico; sono solo i colori ad essere, di metà in metà, perfettamente invertiti.

«Mhm, un piano dici? Che brutta parola, io non sono tipo da fare piani, dovresti saperlo! O almeno, mi aspetto che almeno uno di voi due lo sappia. Quale sei oggi, a proposito~?»

L’interlocutore rimane immobile, gli arcuati sopraccigli grigi che si aggrottano mentre la confusione rende per qualche secondo il suo viso una maschera di incertezza, un’espressione così inaspettatamente innocente che Joker stesso non può fare a meno di scoppiare a ridere una seconda volta, rimettendosi la moneta nella manica.

«Ohya ohya~, beata l’ignoranza. Dio, adoro quando uno di voi dimentica dell’esistenza dell’altro. Dai, dai, prendila come una battuta. Sono simpatico, non credi anche tu? Ti svelerò un segreto: prima che la mia vita prendesse– una svolta, diciamo, ammetto passassi alcune serate a fare da cabarettista per arrotondare il mio salario. Pensi si noti?»

Qualcosa in quelle parole continua a stonare, ma nonostante si renda conto di quanto voglia davvero pensarci sopra– è come se non potesse veramente farlo. La sua testa è un macigno denso di nebbia e certezze accartocciate come documenti ormai inservibili, e non appena una parte della sua coscienza prova ad inserirsi in alcune partizioni della sua memoria sente come un muro a bloccarlo, un blocco di nulla su cui riflettere la sua ignoranza di come abbia passato a volte minuti, a volte ore, a volte interi giorni.

Ma non può pensare adesso a tutto ciò. Il luogo non è quello giusto, e per quanto vorrebbe fidarsi di Joker– neppure la compagnia lo è. Perché per quanto ormai lui e il pagliaccio si conoscano da anni non ha dubbi sarebbe folle fidarsi dell’altro, almeno fino al punto di permettergli di vederlo in una di quelle situazioni delicate con cui si ritrova a combattere alcune volte.

Serpe è la prova di come Joker non si faccia problemi a usare i propri colleghi, nel caso gli serva. E lui non è interessato a diventare un suo diversivo entro tempi recenti. Si limita a scuotere la testa quindi, mentre la mano sale a massaggiarsi la noce del collo, in chiaro segno di disagio.

«Cabarettista, dici? Ohya– Diciamo che nemmeno io voglio rancori con te, quindi perché non saltiamo questa domanda e torniamo a quello che ti avevo chiesto prima, Kur– Joker?»

Si prende qualche istante per rispondere, l’estraneo, e non può evitare di notare come l’altro rimanga in assoluto silenzio a seguito di quella frase, fissandolo immobile come un gatto davanti la sua preda. Non ha fretta in ogni caso, così anche lui si limita a piegare appena la testa di lato, utilizzando quei secondi per accantonare qualsiasi altro pensiero estraneo alla discussione, fissandolo quasi come farebbe un gufo in attesa di ricevere la sua risposta.

È decisamente una situazione strana.

E soprattutto, potrebbe essere una situazione difficile da sbloccare; per fortuna non è così, e Joker dopo qualche secondo si riprende, andando scuotere la testa tutto a un tratto più serio di quanto lo sia mai stato negli scorsi minuti, il viso nuovamente privo di quella sua eterna smorfia canzonatoria.

«Va bene, va bene– Ma solo perché sei tu. Comunque sì, abbiamo ancora un piano. Per quanto non lo chiamerei piano, che ne dici di obiettivo? I piani li ha la polizia, o il nostro caro commissario che ormai conosciamo bene. I piani li fanno gli opportunisti, e loro sono opportunisti che cercano di controllare il loro piccolo mondo. Ma noi?»

Una pausa, e quegli occhi stretti e mori vanno a puntarsi pigramente verso la vetrata del cubicolo, osservando nella semi oscurità di quell’ambiente sotterraneo le persone più in basso, ancora intente a sfregarsi disordinatamente le une contro le altre in quel un tripudio di istinto che colora di sfumature fluorescenti l’ambiente pregno di alcool e di fumo.

«Noi non siamo degli opportunisti. Noi tentiamo di dimostrare agli opportunisti quanto siano patetici i loro tentativi di controllare le cose. Noi non facciamo piani.»

La voce è bassa, grave in quelle poche parole distillate con una freddezza improvvisa, e nel dirle anzi lo sguardo va ad spostarsi oltre la lastra trasparente verso la sua sinistra, ove si erge immobile un ragazzo. È basso, difficilmente maggiorenne – seppure i tratti tipicamente giovanili siano ardui da intuire al di sotto del pesante trucco – e le labbra sono dipinte come se fossero denti appartenenti ad un sorriso che si spande per tutta la parte inferiore del volto. Gli fa un segno, e il giovane è veloce a fiondarsi sui bicchieri vuoti, posati sul tavolino tra i due divanetti su cui sono seduti Joker e il suo ospite, riempiendoli di un liquido denso e scuro prima di ritirarsi silenzioso, tornando a occupare la posizione precedente.

«Ma allora quale sarebbe il nostro obiettivo adesso? Cioè, Serpe starà anche dentro, ma–»

«Ma non a lungo, lo so bene. Mhm~ che seccatura. Le cose sarebbero decisamente più semplici se non fosse per– come si chiama quel commissario, Yaku? Ohya ohya, che cosa frustrante: non solo è un poliziotto, ma è anche di quelli che nella giustizia ci credono. E questa sua illusione…»

Una pausa, e Joker va a prendere un sorso di quel vino freddo versato dinanzi a lui, facendo scivolare le lunghe unghie smaltate di nero sulla condensa che ne inumidisce il vetro esterno.

«Questa menzogna potrebbe effettivamente causare qualche problema. Probabilmente, arrivati a questo punto, avrà già scoperto che le notizie sul possibile mandante di questi piccoli– incidenti, diciamo, potrebbero essere un poco campate per aria. E questo è proprio un pensiero sgradevole.»

«A proposito di cose che stanno per aria–»

E qui l’interlocutore non sa bene dove guardare sinceramente, ben cosciente di come l’argomento che sta per iniziare sia tutto fuorché tranquillo. Perché già Joker non è esattamente una persona che molti definirebbero stabile, per molti ed ovvi motivi. Ma chiunque creda che la sua saldezza emotiva sia solo collegata ai pian– agli obiettivi che l’altro sia solito avere nella sua anarchica ricerca di una libertà totale e disinibita, non lo ha probabilmente mai visto di fronte ad una persona che abbia posato gli occhi un secondo di troppo su– Lui.

Rimane immobile quindi, e ha bisogno di un momento prima di alzare timidamente il viso, andando a fissare un punto ben definito in alto e proprio al lato di Joker, muovendosi impercettibilmente nel notare – non senza una punta di disagio – come l’oggetto – il Lui – della discussione lo stia già silenziosamente osservando di rimando, raggomitolato come un piccolo gatto mentre in equilibrio su un enorme anello acrobatico dorato pendente dal soffitto.

«Il tuo– insomma, deve stare proprio lì sopra? Non che non sia incredibile vederlo ruotare e penzolare a testa in giù, ma ammetto che sentire nell’ombra i suoi occhi brillanti che mi scrutano tacitamente ogni volta che parlo è un po’ un’esperienza un po’ strana.»

Joker si volta alla sua destra, guardando nella direzione indicata dallo sguardo dell’ospite, prima di tornare a studiarlo, sorridendo appena mentre le palpebre si abbassano leggermente, regalandogli un’espressione ferina.

«Ohya ohya~ non ti facevo così suggestionabile, sai? Harlee Kenn, da bravo, scendi. A quanto pare stiamo inquietando il nostro ospite–»


 

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Harlee Kenn

Professione: Criminale professionista
Vero Nome: Kenma Kozume
Aspetto: Ragazzo magro, capelli tinti di biondo con ricrescita dalle punte blu e rosa, occhi mielati
Caratteristiche: Come Joker, anche lui psicotico omicida che sfugge ad ogni facile classificazione, resistenza sorprendente, eccellenti capacità ginniche, bassa espressività facciale
°°°°


 

Harlee sta qualche secondo immobile, le iridi lunghe e dorate che esaminano senza mostrare alcuna emozione in particolare l’intera figura del suddetto ospite, e solo quando Joker richiama la sua attenzione una seconda volta, ritirando la lingua dal palato ed emettendo un paio di schiocchi acuti con essa, il minore torna a voltarsi istintivamente verso di lui, quasi come fosse un piccolo felino attirato dal verso di un animale estraneo. Allunga le gambe magre, i pantaloncini bicolore rossi e blu leggermente tirati a causa dell’attrito offerto dall’anello, prima di piegarle velocemente, facendo perno sul metallo e portando il busto verso il basso, rimanendo a testa in giù. Un paio di giri, poi le gambe in tensione lo fanno scivolare silenziosamente verso terra, le mani a lasciare la presa dall’anello acrobatico mentre l’esile ragazzo raggiunge con le punte dei piedi il morbido cuscino del divanetto sotto di lui, andando ad arrotolarsi leggero accanto all’altro.

«Mhm~? Va meglio?»

La voce di Joker giunge per qualche motivo inattesa dopo tanto silenzio, e l’interlocutore ci mette un istante di troppo a togliere i suoi occhi dal piccolo ragazzo rannicchiato accanto al pagliaccio, facendoli slittare via da quelle snelle braccia – ora strette a stringere le altrettanto snelle gambe piegate davanti al petto – fino a posarli sul proprietario del locale, annuendo un paio di volte.

«Bene, allora. Ritornando al nostro obiettivo, stavo per chiederti se avessi fatto quelle ricerche che ti avevo detto.»

«… Ohya–? Ah sì, le hanno fatte i miei uomini. Hanno scoperto che è vero, ciò che cerchiamo è ancora lì– Ma hanno prenotato molti campioni, che – dicono – saranno probabilmente messi su un aereo lunedì mattina e mandati in giro per il mondo.»

«Oh oh? Nonostante la lontananza di Serpe?»

«Soprattutto per la lontananza di Serpe. Sembra non vogliano fargli vedere che gli affari sono andati in calo mentre lui era– beh, via.»

Joker rimane in silenzio per qualche istante, forse sovrappensiero mentre scioglie la posizione accavallata delle gambe. Si infossa maggiormente sullo schienale della poltroncina, poi, e nel movimento i capelli neri come la pece schiacciano le loro punte verde acido contro il bordo dei cuscini, soffocandone una parte altrimenti innaturalmente sparata verso l’alto.

Capelli strani, quelli di Joker.

L’interlocutore nota la presa di Harlee dalle proprie ginocchia sciogliersi, e aggrotta pudicamente ed imbarazzato le sopracciglia nel vederlo, dopo aver posato la guancia morbida su una delle due ginocchia, portare le dita piccole e pallide sul busto del compagno, sfiorando i bottoni scuri della giacca argentata e nera ed aprendola appena, a mostrare una camicia purpurea celata all’interno.

«Quindi pensano anche loro che Serpe uscirà presto di prigione? Ah, ma certo~ Probabilmente glielo avrà detto lui. Assurdo, no? Non importa quanto in basso sia internato, trova sempre il modo di connettersi con i suoi. Il ché ci porta a pensare abbia già anche capito chi ci sia dietro alla sua piccola vacanza di gattabuia. Ohya~ davvero un peccato.»

Joker sembra ignorare quello che Harlee sta facendo, e questo nonostante l’ospite stia palesemente fissando più il compagno che lui: quello che sembra interessargli davvero è invece la reazione che tale visione pare stia stimolando nell’invitato. Sorride in maniera sbieca nel notare come li stia guardando, immaginando lo sconcerto sia probabilmente dovuto alla confusione nata dal trovare una strana attrattiva e sensualità nei movimenti del più giovane, e ride di gusto quando l’ospite rinsavisce un attimo, le gote leggermente arrossate e le labbra strette dalla sorpresa di essere stato scoperto. Solo allora allunga il bracco alla sua destra, portandola dietro la testa di Harlee.

Lanciando un messaggio piuttosto chiaro, ci sarebbe da aggiungere: Vedere, ma non toccare.

«Ma insomma, siamo amici di vecchia data, quindi sono sicuro che capirà non ci sia niente di troppo personale dietro. Senza contare che si dice il freddo faccia bene ai serpenti, non è vero? ~»

I polpastrelli di Harlee Kenn si muovono come seta sulla camicia, spostando la cravatta dorata e liberando un paio di bottoni neri come l’inchiostro: l’indice ed il medio si insinuano poi con delicatezza, e vagano qualche minuto prima di piegarsi a graffiare con le unghie appuntite la pelle dell’altro. Joker sembra decidere solo in quel momento che tutto ciò sia abbastanza ed alza la mano destra, prendendo con decisione il polso del minore e portandolo in alto, richiamando l’attenzione di un Harlee che al suo movimento si limita ad alzare lo sguardo, immergendo le iridi mielate in quelle scure del compagno. Il pagliaccio si piega, e prima che l’interlocutore possa capire altro lo vede mordere quel collo latteo, staccandosi solo quando Harlee mugugna un verso sofferente e abbozza una leggera strattonata, una forma arrossata ad arco a macchiarne la pelle pallida e qualche goccia di sangue che fa capolino sottopelle, proprio nei due punti toccati dai canini dell’altro.

«Ascolta micio, il tuo gattone ha molto lavoro da fare e non stai aiutando. Quindi vedi di non disturbare o dovrò mangiarti a morsi, ok?»

Harlee si tocca un po’ il collo prima di mettere su il broncio, allungando una gamba e poi l’altra mentre va a piegarsi in avanti con tutto il busto, proprio come fosse un gattino in procinto di stirarsi. L’estraneo lo vede poi tornare nella sua posizione iniziale, ma non fa in tempo a localizzare altrove lo sguardo che quegli occhi lui e felici si alzano verso di lui, riuscendo, nonostante l’apatia che potrebbe giurare governi quel viso piccolo ed ovale, ad esprimere un senso di attesa non indifferente. È quasi come se gli stesse chiaramente dicendo – in un linguaggio ancora più chiaro di quello verbale – di non aver dimenticato nemmeno per un secondo la sua presenza, e che in verità si stia ancora domandando perché non se ne sia andato, o se davvero non abbia più nulla da dire visto il silenzio degli ultimi minuti.

L’ospite si schiarisce la voce, cercando di mandare via la sensazione di quegli occhi silenziosamente giudicanti davanti a lui, e porta invece lo sguardo su Joker, scuotendo la testa.

«Comunque, l’importante è che riusciamo a finire tutto prima di avere alla calcagna il commissario di polizia. Sembra il sindaco gli abbia messo molta fretta per chiudere il prima possibile il caso, e non voglio trovarmi a pagare i suoi straordinari, ecco.»

«Ah~, ordini. Che terribili e nefasti ricordi. Siamo stati anche noi così, vero Harlee?»

Nulla, forse è stato un errore far scendere Harlee da lì sopra.

Il Joker sembra non abbia più occhi che per lui, e le labbra vanno a incurvarsi in un sorriso mentre un braccio si allarga, dando modo a quel piccolo ed atletico ragazzo dai capelli bicromatici di mettersi a cavalcioni su di lui: le ginocchia del più giovane non perdono un istante a puntellarsi delicatamente sul divanetto, e dopo qualche secondo di assestamento le braccia snelle si allungano in avanti, a circondare e racchiudere teneramente il collo del compagno. Il bacino rimane qualche centimetro più in alto rispetto alla gamba di Joker mentre si sistema meglio, e gli occhi rimangono sulla giugulare lunga e pulsante fino a quando le lunghe dita del pagliaccio si posano sotto il suo mento, imprimendovi una leggera forza al fine di fargli alzare pigramente lo sguardo.

«Impotenti, davanti a persone che volevano imprigionarci e tenerci sotto controllo, al guinzaglio dei più grandi e dei più influenti. Fino a quando non ci siamo liberati, non è vero Harlee?»

Le iridi scure di Joker vanno a posarsi su quella piccola bocca dalle labbra rosate e morbide, rimanendovi mentre si sporge verso di lui. Si ritira senza preavviso, poi, portando indietro il volto e prendendosi il tempo necessario a passarsi lentamente la punta stretta della lingua sul labbro superiore, sorridendo ferino al vedere le labbra del compagno incurvarsi in un piccolo broncio.

«Non potevo certo lasciarti così, vero Harlee? Lo volevi anche tu, l’ho visto nei tuoi occhi. Tu riuscivi a vedere persino oltre quello che vedevo io, e questo ancora prima della tua nuova vita. Riuscivi a sentire il mondo per la vera ipocrisia che portava in grembo, ti serviva solo una– spinta

Mormora, ignorando completamente l’interlocutore ancora presente a poca distanza mentre la mano va a posarsi sul fianco del più giovane ed il medio a scivolare lentamente verso l’alto, percorrendo tutta la spina dorsale e portando il compagno ad arcuare un poco ed involontariamente la schiena. Le dita arrivano infine ad insinuarsi tra i capelli, ma non per slittare morbidamente tra le ciocche scolorite: Un secondo, e senza che nessuno possa intuirlo Joker le ha già chiuse a pugno, tirandole leggermente verso il basso ed obbligando il collo di Harlee ad esporsi maggiormente.

Di più.

Si avvicina nuovamente, portando la punta del naso nell’incavo pulsante della giugulare prima di muoverlo sulla parte anteriore della gola, arrivando fino al pomo d’Adamo. Vi schiude le labbra rosse come il sangue, ed una smorfia ambigua fa capolino sul suo viso nel farlo, una risata ancora silenziosamente dipinta sulla bocca affilata che permane anche mentre piega la testa, mordendogli con appena più pressione del necessario la pelle lattea solo per ritirarsi subito dopo, lasciando la presa su quei fili biondi dalle punte bluastre e rosate.

«Ecco perché ci siamo liberati, giusto? Perché è quando non è stato più necessario seguire le leggi che abbiamo capito cosa fosse il vero potere. E presto lo sapranno tutti, tutti, tutti

E stavolta scoppia a ridere, una risata sguaiata ed improvvisa che porta qualcuno dall’interno della sala sottostante a girarsi istintivamente verso di loro, mossi da una curiosità che sembra sfiorire subito non appena individuano, oltre la vetrata, la sorgente di quel graffiante intermezzo non calcolato.

I volti cadono a fissare il pavimento, speranzosi forse di non aver visto qualcosa che priverà loro della possibilità di tornare a casa dalla loro famiglia quella sera, mentre tutto ad un tratto la musica diventa più alta, più assordante, una parte dei clienti che migra silenziosamente verso la parte opposta della pista mentre quelle risa echeggiano sgraziate, aggrappandosi alle pareti come unghie sanguinanti e colorando l’aria di euforica pazzia.

«Ohya~ abbiamo quello che ci serve quindi! Se scompare Lunedì, basterà prenderselo prima!»

Pronuncia quelle parole in maniera sbrigativa, il polso libero dalla presa attorno alla vita stretta di Harlee che va a muoversi lesto, ondeggiando per aria mentre gli occhi vanno a chiudersi, tutto a un tratto come annoiati da ciò che sta vedendo. Poiché nulla ha più senso e più priorità adesso del passare tempo di qualità con il suo Harlee: e quella persona gliene sta rubando, anche troppo.

Dio, non può aspettare. Ne vuole di più, immensamente di più.

Di più!

«Non credo sia utile fare altre supposizioni, dopo tutto: abbiamo trovato un obiettivo! Quindi vai pure a goderti la festa adesso, l’ho organizzata per te alla fin fine. ~»

E con questo sembra Joker consideri la faccenda conclusa, lo sguardo che si porta nuovamente verso quello di Harlee ad osservarlo con gli occhi stretti e caldi, palesemente soddisfatto di vederlo ancora seduto a cavalcioni su di lui e con il viso rivolto verso l’incavo del suo collo, a farsi il più vicino possibile al suo corpo pulsante di adrenalina. La lingua umida guizza fuori il sufficiente per leccargli il nasino stretto e dritto, sorridendo poi in maniera ferina quando lo vede arricciare istintivamente le narici di risposta, forse per cercare di resistere all’istinto di grattarsi via il senso di pizzicore che l’altro gli ha procurato.


 

Ok, direi che ha visto abbastanza.

L’ospite si alza in piedi, le mani che vanno a posarsi sulle ginocchia per premere sulla stoffa rossa e bianca dei pantaloni che indossa, ed in un secondo è lontano da tutti quei cuscini di pelle, il suo completo elegante perfettamente diviso a metà nei colori e nei tessuti nuovamente privo di pieghe.

«Ohya, ohya– Ci… Vediamo poi, allora?»

Saluta, ancora un po’ impacciato davanti a quell’eccessiva fisicità a cui Joker e Harlee sembrano abbiano deciso di donarsi, a quanto pare completamente noncuranti del luogo pubblico e della presenza altrui. Aspetta qualche secondo una risposta, accettando infine la realtà fisica di come una bocca già occupata in attività precise non abbia la possibilità di fare altro al contempo, e si gira di lato, circumnavigando il divanetto ed avvicinandosi verso le tende ancora abbassate. L’idea principale è di tornare nel sottopalco e farsi una birra, magari, prima di andarsene di là.

Ohya, quel luogo puzza davvero troppo di vernice.

«Ehi Bokuto–»

E l’ospite si gira giusto in tempo per prendere al volo una piccola moneta argentata, rigirandola tra le dita un paio di volte e notando i disegni dai colori accesi trascritti sopra le originali incisioni. Gli occhi del Presidente ritratto su una delle due facce sono segnati con una X verde acido, e la scritta ‘DIE’ è stata pitturata in viola a coprire metà di entrambe le superfici. Alza lo sguardo verso Joker, la mano che va a chiudersi a pugno attorno al piccolo e prezioso disco, mentre gli occhi si fissano su quelli del collega, facendo non poca fatica a distinguerlo dalla figura di Harlee – accoccolatoglisi sopra – sia a causa della lontananza, sia per la semi oscurità che già dopo pochi passi sembra aver avvolto come una coperta fredda entrambi.

«A volte non scommettere è la scelta giusta.»

Ed è una risata.

Ed è il silenzio sul palco.

Ed è il tripudio della pazzia.


 


 


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E finalmente sono arrivati!! Oddio, pare una vita che ho promesso la loro presenza (sono tipo tre mesi… Ah ah, quanto sono pessima…) ma posso alla fine dire che sono qui tra noi, i nostri bellissimi bimbi. Dio, quanto mi piace la KuroKen. Anche quando sono entrambi schizzati. //v// ♡ (…) Comunque sia: Kuroo e Kenma in questa storia ricoprono i ruoli di Joker ed Harley Quinn! Ho deciso di dare a loro questi personaggi per una serie di motivi:
1. Joker è caratterizzato dalla risata, e Kuroo ha un po’ quella risata ferina che un po’ inquieta.
2. Harley è praticamente una ginnasta ed io morivo dall’idea di mettere Kenma su un anello acrobatico o a fare ginnastica artistica in generale. (…) È super snodato, rrhhh~ ♡ (…)
3. Ho visto le splendide immagini di Kuroo e Kenma ad opera di Sasagogo eee non ricordo! Qui trovate i due link:
https://twitter.com/pandagaro/status/761967605548580864 (Kuroo)
https://pbs.twimg.com/media/Cycm3CVXgAQsli5.jpg (Kenma)
4. Dovevano essere una coppia. Anche se sono disfunzionali da morire. (...)
Ps. Avete capito chi è Bokuto?! Vestiti a metà, una parte di coscienza scissa dalla seconda… In caso non sia chiaro, comunque, non preoccupatevi: Arriverà presto anche la sua scheda. (?) Ringrazio infinitamente unamoresolitario e Black_Sun97 per le recensioni, comunque: siete delle amorine. Eeee niente, ho chiuso qui direi. Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Mal giova illustre sangue ad animo che langue ***


7. Mal giova illustre sangue ad animo che langue


 

(Ad un animo fiacco non offre vantaggio la nobiltà di nascita)

Giuseppe Parini, L'educazione, Odi, 1764


 


 


 


 

GOTHAM CITY Sawamura Mansion (Bristol District)

21/12/1976 – Mattina


 

La città di Gotham la domenica mattina sembrava risplendere di una nuova, addormentata bellezza che poco aveva in comune con l’aspetto colpevole proprio degli altri giorni.

Stremata da un’intera settimana passata a lavorare ed impigrita da un sabato sera preda della notte e dei suoi fasti, arrivata al settimo giorno sembrava quasi piegarsi, immensamente stanca, ad un sonno iniziato all’alba per alcuni e nel cuore della notte per altri, consacrata ad una tradizione di riposo che dai tempi della nascita del Signore – “e il settimo giorno”, come diceva la Bibbia – ne ammorbidiva i tratti assonnati sotto un velo di innocenza e innaturale incoscienza.

Le campane delle Chiese suonavano poche volte, richiamando a sé i giovani e meno giovani fedeli che si riversavano silenziosamente nella Casa di Dio, e mentre la nebbia portata dall’umido del fiume avvolgeva come una coperta morbida ed impalpabile i palazzi grigi ed alti, da quelle strutture in mattoni e in marmo si alzavano verso l’alto canti di cori e Amen sentiti, che scivolavano come fantasmi attraverso una città inghiottita dal silenzio e dalla sonnolenza.

Per Daichi, la domenica mattina non era una giornata tanto diversa da molte altre.

Certo, vi era la possibilità di leggere il giornale in villa, piuttosto che nel suo studio alla Sawamura Enterprises; come anche vi era la possibilità di allenarsi nella palestra nascosta nei piani sotterranei, simulando un duello corpo a corpo assieme a Yuu o lavorando in solitaria con i manichini. Vi era poi la possibilità di lavorare sulle sue nuove armi, consultare la biblioteca di famiglia al secondo piano, o persino ascoltare Nishinoya ed i suoi accorati resoconti riguardo i progressi raggiunti nella creazione di nuovi elementi di spionaggio e di camuffamento, inventati tra un giorno di scuola e l’altro.

Ma Daichi era prima di tutto un imprenditore, e tale attività limava molto la concezione stessa della “giornata libera”. Ecco perché, anche durante le domeniche e magari dopo aver fatto tutto quello che si era prefissato di fare durante la mattina, l’uomo solitamente continuava i suoi pomeriggi occupandosi degli affari di famiglia, firmando documenti e controllando progetti, leggendo curriculum e passando in rassegna i punti acquistati dalla compagnia durante la settimana.

Semplicemente, la domenica per lui era una giornata come tutte le altre, ma senza gli stretti obblighi indotti dalle corte tempistiche dei giorni feriali.


 


 

Quella domenica tuttavia non è come le altre: è la domenica precedente al Natale, e se questa già dovrebbe essere motivazione sufficiente per vedersi occupato in serate di beneficenza o cene di ufficio, il fatto siano anche vicine le elezioni del Primo Cittadino rende i piani incredibilmente facili da immaginare.

Soprattutto ora che è già nella sua macchina, Asahi alla guida.


 

°°°°


 

GOTHAM CITY Arkham Mansion (Arkham City)

21/12/1976 – Quella notte


 

Nata per essere la villa del proprietario del manicomio criminale di Arkham, professione effettivamente esercitata – ed ancora occupata – dal signor Tanji Washijou prima di diventare Sindaco di Gotham, la casa del Primo Cittadino si ergeva a poca distanza dal Giardino Botanico dell’enorme proprietà, nella parte est dell’isola.

La South Channel Island, il cui nome proveniva proprio da uno dei due canali che la scindevano dal resto dei territori di Gotham, era un’isola piccola e controllata, alla quale si accedeva attraverso tre ponti principali che la collegavano al distretto della Columbia PT in basso e al quartiere Bay Side in alto, uno dei più famosi della Gotham aristocratica.

Quella sera, per l’occasione offerta dal Gran Gala organizzato dal Sindaco in vista delle prossime elezioni, tutti e tre i ponti erano stati aperti ed illuminati a giorno, così da permettere la sfilata di macchine di invitati e ospiti d’onore chiusi nelle loro carrozzerie tirate a lucido, portate a lavare dagli chauffeur in giornata ed ora riunite in una lunga fila indirizzata ad un unico tetto.


 

«Siamo arrivati, signor Saw– Daichi.»

Asahi rallenta appena, superando gli alti cancelli all’ingresso della struttura ed attraversando il ponte che collega Bay Side con la parte nord di Gotham, e mentre la suola preme appena sul pedale del freno gli occhi vanno a guardare verso lo specchietto retrovisore, a cercare un Daichi scurito dall’anonimato dei vetri oscurati.

L’uomo annuisce, prima di portare il viso verso il finestrino e posare il gomito sul ripiano, chiudendo le dita e portando le labbra a premere contro le nocche, le palpebre che si abbassano nel tentativo di concedersi quegli ultimi minuti di tranquillità.


 

Il Sindaco non è esattamente una persona che Daichi inserirebbe nella sua cerchia di amicizie più intime, ma non può neppure dire sia una di quelle persone con le quali non senta di aver creato negli anni un qualche tipo di rapporto, se non confidenziale almeno basato sulle conversazioni di cortesia che le varie feste annuali richiedono di fare.

Inoltre, Washijou non è neppure un uomo eccessivamente confidente verso la giustizia: Daichi è abbastanza certo ciò sia più che altro dovuto al lungo periodo passato a prendersi cura, giuridicamente e fisicamente, dei pazienti presenti nel penitenziario di Arkham, e per tale motivo non gliene fa una colpa, naturalmente.
Ma neppure un pregio.

Per quanto qualcuno potrebbe infatti difficilmente credere nel bene super partes o nella redenzione come strada scontata per un carcerato – soprattutto se dalla personalità disturbata o orgogliosa delle proprie stragi, come la maggior parte dei pazienti di Arkham sono – , Sawamura trova poco da biasimare nel modo in cui Washijou ha usato negli ultimi anni la sua posizione di Preside di quella struttura – casa degli scarti della città, come li chiama lui a pubblico assente – per guadagnarsi i favori e le benevolenze necessarie ad occupare la poltrona di Sindaco così a lungo.

Washijou è un umano, e forse per questo insoddisfatto per natura. Ma può davvero essere questa una giustificazione, in una città dove l’insaziabilità è presente ad ogni angolo di strada?


 


 

«Signore.»

Daichi torna in sé, capendo di essere rimasto talmente rapito dai suoi pensieri da estraniarsi dalla realtà, e al notare come la macchina si sia nel frattempo accostata all’entrata della villa abbassa gli occhi, sistemandosi un’ultima volta la giacca nera e la cravatta elegantemente annodata attorno al collo della camicia bianca.

«Grazie Asahi.»

«È un piacere, signor– Daichi. Quando posso venirvi a riprendere?»

Daichi muove il polso libero in avanti, piegando il braccio per far ritirare il tessuto e permettere all’orologio di scivolare fuori, mostrando le lancette dorate in movimento sul quadrante rotondo.

«Per l’una dovremmo aver finito. Ma chiamo io, non preoccuparti.»

«D’accordo. Allora, se posso–»

Asahi lo guarda dal vetro di riflesso, notandolo posare la mano destra sul blocco della portiera, prima di andare ad abbassare gli occhi, in un’espressione leggermente nervosa.

«–Credo di dover andare a prendere il signorino Nishinoya. Non so se– lei si ricorda che oggi era stato invitato alla festa con i suoi compagni di classe, giusto?»

Daichi allontana la mano dalla maniglia al sentire quelle parole, posandola cautamente sullo schienale del guidatore mentre le sopracciglia si aggrottano, la tonalità di voce che si fa più bassa.

«… Sì, naturalmente. È successo qualcosa?»

«N-no, no! Cioè, non saprei. È che…»

Asahi rimane un po’ in silenzio prima di tirare fuori dal taschino un taccuino, andando a sfogliare velocemente e con le dita leggermente tremanti quelle piccole pagine quadrate ed ingiallite.

«È che prima ha usato un telefono pubblico per chiamare la Villa, e ha detto qualcosa–»

«Qualcosa?»

«–Qualcosa sul ripetere l’esperienza del gioco delle boe, credo. Era tutto molto confuso, ma–»


 

Il gioco delle boe.

Ovvero, un gioco che Nishinoya ed i suoi compagni di liceo sono soliti fare almeno una o due volte l’anno, specialmente sotto le vacanze d’inverno – con il rischio di morire di ipotermia – o d’estate – in tempo per cadere vittima delle numerose barche in transito al largo della baia di Gotham.

Un gioco che Daichi ha più volte intimato Yuu di non fare, e che Nishinoya stesso ha spesso commentato fosse da sprovveduti fare, quando fatto da altri.

Come è ovvio, sembra la stessa cosa non sia tuttavia valida per lui.


 

«Vai pure, e fammi sapere.»

Dichiara infine, intuendo ed approvando il piano di Asahi di andare a riprendere quel ragazzino così incredibilmente poco incline a qualsiasi moderazione. Si lascia poi andare ad una ultima richiesta di controllo che anche gli amici di Yuu stiano bene – e siano ancora tutti vivi, soprattutto – prima di scendere dalla macchina, posando le suole sullo sdrucciolato chiaro.


 


 

°°°°


 


 

«Posso?»

Non è quasi ancora entrato che viene velocemente raggiunto da un giovane di media statura vestito di un abito nero, dal panciotto e i guanti bianchi. Lo vede sorridergli cordiale, indicando la mantella che ancora tiene indosso, e anche Daichi accenna un sorriso cortese mentre lo ringrazia con tono caldo, sfilandosela e porgendola con attenzione.

La mano va ad alzarsi a mezz’aria nel salutare qualche amicizia di vecchia data posta poco più in lontananza, prima di fare finalmente qualche passo elegante verso la maestosa sala d’ingresso, lasciandosi dietro il freddo della notte e l’atmosfera dicembrina.


 


 

La Sala Principale della Villa di Arkham si sviluppava su più piani, ed il soffitto era talmente alto da sembrare quasi irraggiungibile nei suoi cassettoni in legno di cedro; alte vetrate permettevano alla luce lunare di filtrare attraverso il blocco trasparente, arrivando sino al marmo della pavimentazione di rara bellezza, insinuandosi negli interni dell’abitazione come un pallido fantasma in cerca di attenzioni. Luminosi lampadari in cristallo scendevano a cascata dal soffitto barocco, smuovendo gocce di luce nell’aria ed illuminando l’ambiente caldo e fastoso. Davanti a lui, una decina di basse scale portavano ad un soppalco su cui si ergeva un’enorme statua raffigurante il fondatore del manicomio di Arkham, mentre ai lati un altro paio di rampe si univano dietro l’opera, creando una balconata atta ad ospitare una porta dalle ante in legno massello, dai decorosi intagli e dalle iniziali del suo primo proprietario impressi sul materiale trattato.


 

«Posso aiutarla?»

Daichi inizia la salita, la mano che scivola leggera sul corrimano mentre alza il braccio opposto, aiutando una giovane donna dall’abito da sera decisamente troppo lungo a superare lo scoglio offerto dai gradini.

«Grazie, e– mio Dio, la prego di scusarmi per la pessima figura, signor… Sawamura?»

Daichi sorride educato mentre questa ride timidamente, ed una volta arrivato al soppalco le prende la mano, alzandola dolcemente a lasciarle un bacio che si ferma a qualche centimetro dal dorso chiaro.

«Nessun problema, miss–?»

«Oh, giusto, ancora non mi sono presentata! Mi chiamo Kanoka, Kanoka Amanai!»

Ora che sono sullo stesso piano gli occhi di Daichi non riescono a nascondere una punta di sorpresa nel notare l’altezza così poco comune di quella giovane donna, e per qualche istante si domanda se ciò possa essere dovuto alla presenza di un generoso tacco. Ma a vedere come il viso piccolo e ovale della ragazza vada ad infossarsi maggiormente tra le spalle deve ricredersi, riconoscendo in quel gesto un tentativo di farsi più piccola di quanto non sia.

«Anche se in verità, io la conosco già–»

L’espressione di Daichi muta in una appena tracciata dalla confusione, le sopracciglia che si aggrottano nello sforzo di ricordare quel caschetto scuro e nero e quegli occhi grandi ed espressivi.

«Davvero? Ci siamo visti in passato, per caso? Deve perdonarmi, incontro molte persone durante il giorno, quindi a volte la mia mente finisce per dimenticarne alcune.»

«Oh no, no! Ha ragione a non ricordarsi di me, non ci hanno mai presentati. Sono venuta qualche volta alla Sawamura Enterprises per salutare il mio compagno che lavora per lei, e–»

Naturalmente, come ha potuto dimenticarlo? In un secondo il ricordo di quella ragazza accanto ad uno dei suoi principali gestori pubblicitari diventa incredibilmente nitido, come anche l’immagine delle mani di lei che accarezzano di nascosto i palmi del suo dipendente, mentre questo arrossisce vistosamente prendendole tra le sue di getto e portandole sul petto, borbottando qualcosa.

«Ah, ricordo. Lei è la futura sposa di Ryuunosuke Tanaka, giusto? Le mie più sentite congratulazioni, ho saputo della proposta.»

Il viso di Kanoka va ad accendersi appena mentre le dita scivolano sulle ciocche scure dei capelli, portandone alcune dietro l’orecchio mentre le labbra morbide si aprono in un sorriso.

«La ringrazio, ammetto che non me lo aspettassi più, non dopo tanti anni che..! Ma sono–»

«Daichi! Eccoti qui, ormai pensavo non arrivass– Oh, scusatemi. Disturbo?»

La voce di Yaku arriva inaspettata, e sia Daichi che Kanoka si voltano nell’udirla, intuendone l’origine nella figura piccola e dalla chioma castana ancora presa dal farsi velocemente strada tra vari gruppi di persone davanti a loro.

«Non si preoccupi Commissario. Lei è la fidanzata di uno dei miei più fidati dirigenti. Le stavo facendo proprio adesso i miei auguri per la proposta di matrimonio.»

«Matrimonio? Sentiti auguri anche da parte mia, allora. Il suo è un uomo molto fortunato.»

Sorride amichevolmente nel vedere Kanoka ridere impacciata, prima di voltarsi verso Daichi, portando una mano sull’avambraccio e dandogli un paio di pacche attraverso il tessuto della giacca.

«Ti ero venuto a cercare perché ho davvero bisogno te. Speravo fossi arrivato.»

«Dubitava del mio arrivo, Yaku? Quasi scortese da parte sua. Tuttavia, temo dovrà aspettare ancora. Come ha già avuto modo di vedere sono nel mezzo di una conversazione, e non credo sarebbe molto educato lasciarla a metà.»

«Oh, non si preoccupi! Stavo cercando Ryuu, ma credo sia nella prossima sala. Vi lascio alla vostra reciproca compagnia, adesso. Con permesso!»

La donna accenna ad un piccolo inchino, allontanandosi poi velocemente mentre le pieghe del vestito vengono trattenute tra le mani, probabilmente per non rischiare nuovamente di inciampare. Daichi la segue con lo sguardo, abbassandolo solo quando Yaku lo trascina nuovamente giù per le scale, portandolo velocemente dietro la grande statua ai suoi piedi.

«… Cosa succede, Yak–?»

«Devi salvarmi.»

Lo sguardo di Yaku è serio, determinato mentre lo guarda, le sopracciglia aggrottate in un’espressione accigliata e severa mentre i muscoli della mandibola la tengono ancorata con forza al resto del cranio, le labbra che si stringono in una linea sottile.

«Salvarvi?»

«… Sì. Sono arrivato qui da più di un’ora, Daichi. Da un’ora, ed è da quando ho messo piede qui dentro che il Sindaco mi tormenta per una questione urgente della quale purtroppo non posso parlarti ma che fidati, è davvero urgente.»

Ah.

Ecco, è in momenti come questi che Daichi non sa davvero come rispondere, consapevole di come l’essere sia Batman che erede della famiglia Sawamura a volte lo metta nelle condizioni di avere informazioni delle quali solo una delle due identità dovrebbe essere a conoscenza.

«Non posso ovviamente immaginare, ma Yaku–»

«E sai, io capisco che voglia avere novità su come stiano andando le ricerche, solo che… Non sono quelle che lui vorrebbe io facessi; perché lui sta puntando sul cavallo sbagliato della corsa, diciamo, ed io non me la sento di dirgli che in verità quelli che cerchiamo sono altri purosangue crimin–»


 

«Commissario, ecco dov’era– Ah, ma ha incontrato il signor Sawamura vedo. Sempre in tempo per i balli, ma mai per la cena.»

Yaku si immobilizza istantaneamente nel sentire la voce di Washijou materializzarsi dalla cima delle scale, ed alza gli occhi in tempo per vederlo scendere lentamente, lo sguardo che va ricomponendosi appena prima che il Primo Cittadino arrivi a loro, la mano tesa a stringere quella di Daichi.

«Bellissima serata, non crede?»

«Senza dubbio, Sindaco. Devo ammettere che, nonostante il passare degli anni, non ho ancora incontrato uomini capaci di offrire neppure la più blanda imitazione di una delle sue feste.»

«Quale adulatore. Ha sentito, commissario? Queste sono le parole di un uomo che fa politica.»

Daichi si sforza in una breve risata, mentre Yaku si limita a guardare il Sindaco con espressione impassibile, la musica proveniente dal lettore in vinile che tutto ad un tratto sembra deformarsi nelle orecchie del più basso, in un suono stirato e sgradevole.

«Il signor Sawamura sta cercando solo di guadagnarsi la dama più bella, facendo il gentiluomo per le sue sale. Posso giurare di averlo visto in compagnia di una donna quasi sposata, poco fa.»

Stavolta è Washijou a scoppiare in una mezza risata, la mano che va a posarsi sulla spalla di Yaku.

«Nessun fiore è più prezioso di quello che sta per essere colto da qualcun altro, commissario. Il signor Sawamura sa quello che fa, ed anzi dovreste prendere esempio da lui, se non vuole rischiare di passare la sua terza età tra cibi di strada e notti bianche davanti alla televisione.»

«A me piace cucinare, signore. E con tutto il rispetto, credo che trovare una persona con la quale condividere la propria vita sia una cosa difficilmente riassumibile in una cappa meno scura o una bolletta più costosa.»

«Ah, è dunque questo che insegnano adesso sui matrimoni? Nessun dubbio le persone non si sposino più, se farlo significhi qualcosa di più complicato di un pasto caldo e la certezza di una notte in compagnia.»

Daichi richiama l’attenzione di uno dei camerieri in transito accanto a loro e solleva una mano, prendendo un lungo calice di spumante che porge verso il Sindaco, un sorriso cortese sulle labbra.

«Suvvia signor Washijou, non le sembra di essere troppo cinico a riguardo? Per nostra fortuna, l’uso del matrimonio come espediente obbligatorio per assicurarsi qualche piccola proprietà terriera o l’eredità di famiglia è passato in disuso da anni. Persino lei deve ammettere che il ruolo della donna si è evoluto da allora, e ridurla a una balia o a un mero divertimento sarebbe controproducente persino per la sua persona. Ricordo male, o sua moglie è la brillante imprenditrice di una delle case farmaceutiche più in lustro nella nostra città?»

«Difatti, quella donna è molto più uomo di molte persone che ho incontrato nella mia vita. In vero direi di averne sposato uno, se non fossi sicuro dell’impossibilità di tale azione.»

«Anche sua figlia tuttavia sembra essere dotata di grande intelletto. Anche lei oserebbe dire non potrebbe essere altro che una buona cuoca, per il suo futuro marito?»

«Ah insomma signor Sawamura, da che parte sta in questa conversazione? Inizio a pensare di essere entrato in territorio nemico pur rimanendo nella mia casa, che esperienza spiacevole mi fate vivere. Piuttosto: quale donna ha attirato in precedenza la vostra attenzione, vicina a venir relegata in quella gabbia dorata di cui tanto tessete le lodi?»

«Non ascolti quello che dice il commissario, sono solo parole di una mente troppo incline all’ironia. Ho incontrato la signorina Amanai, che caso vuole sia anche la futura sposa di uno dei miei migliori dipendenti, e mi è parso convenevole farle gli auguri per la proposta.»

«Ma certo– la signorina Amanai l’ho invitata io stesso alla serata, dovrebbe aver portato anche il suo fidanzato per l’occasione. Strano sia l’uomo l’accompagnatore, non le pare? Ma non potevo certo evitare di chiamare una delle più qualificate rappresentanti del servizio pubblico di Gotham, in fin dei conti.»

Anche Yaku si volta nuovamente verso Daichi, un sorriso stavolta rilassato dipinto sul volto.

«Non so se lo sai, ma è lei che sta organizzando le ultime iniziative di volontariato per i senzatetto che dormono nelle stazioni, è una figura molto popolare tra i cittadini negli ultimi mesi. Sai, forse è vero che sareste molto bene insieme. Peccato che il tuo dipendente te l’abbia soffiata sul tempo.»

«Da molto tempo, direi. Il signor Tanaka conosce la fidanzata da quando erano entrambi molto giovani. Difficilmente potrei competere su terreno simile, non crede?»

«Ah, a proposito di volontariato e donazioni–»

Il Sindaco sembra animarsi nuovamente ed il braccio si muove velocemente in avanti, andando a stringere senza esitazioni la mano libera di Daichi.

«Ancora non l’ho ringraziata personalmente per l’offerta ricevuta lo scorso ottobre per il manicomio. Ogni sua donazione è una boccata di aria fresca per la nostra città. Sono Sindaco, ma anche dirigente della struttura Arkham: so meglio di molti altri gli enormi problemi e le carenze di fondi di cui soffre l’edificio.»

L’espressione del primo cittadino cambia con talmente tanta rapidità che Daichi e Yaku sono costretti a sbattere le ciglia un paio di volta, istintivamente. Le labbra si piegano dignitose in una mezzaluna severa, gli occhi che vengono nascosti dall’ombra scura delle sopracciglia, ed il viso anziano e segnato sembra tutto ad un tratto ritrovare tutta quella serietà e dedizione alla giustizia che le male parole – solo qualche istante prima pronunciate con innocente misoginia verso una porzione di popolazione da lui rappresentata – avevano cancellato.

«Proprio a questo riguardo, sono orgoglioso di poter dire che la mia amministrazione ha fatto in questi anni enormi passi avanti per garantire una vita migliore ed una salvaguardia personale invidiabile per ogni membro di Gotham. Dai più ricchi ai più poveri, mandando avanti la struttura e separando questi criminali da questa gloriosa città, posso affermare–»

«Mi scusi, Sindaco–»

Daichi lo ferma, un sorriso educato che sosta sul viso di uno degli scapoli più richiesti di Gotham, mentre la testa va ad abbassarsi in segno di scuse, riportando poi le iridi su quelle del primo cittadino. Può quasi sentire quelle di Yaku al lato perforargli il cranio, in una supplica disperata di non lasciarlo solo in quella situazione.

«Ma per quanto sarei onorato di rimanere a parlare con lei, in queste occasioni dimenticarsi di salutare tutti è vissuta come una scortesia fuori da qualsiasi norma; quindi devo lasciarla, e credo di doverle rubare anche il commissario. Prima che arrivaste, eravamo proprio sul punto di andare a salutare gli invitati rimasti sulla lista.»

«Oh, ma certo– Anche io devo ancora incontrarne molti, in effetti.»

«Con permesso, allora. Avremo sicuramente modo di parlare nuovamente nell’arco della serata.»

E dopo aver fatto un breve inchino si congeda, Yaku accanto a lui ed il Sindaco sempre più lontano. Percorro in silenzio tutta la sala, salutando di sfuggita una coppia vicino al tavolo delle degustazioni, e solo quando arrivano alla finestra dall’altro capo della stanza il commissario si lascia andare ad un sospiro di liberazione, la cravatta che viene allentata e il primo bottone della camicia che scivola lontano dall’asola.

«Mio Dio, credevo di non uscirne più. Ma lo hai sentito, che discorsi da secolo scorso? Spero che entro il 1980 non dovrò più essere partecipe di conversazioni simili, sinceramente. Che visione retrograda e maschilista, davvero da non crederci.»

«Non ci badi: l’avanzata età è la causa maggiore della sua visione limitata dei ruoli. Piuttosto, tra qualche giorno entreremo nel 1977: non crede tre anni siano pochi per sperare in un cambiamento così drastico?»

«Tanto saremmo sempre in ritardo, Daichi, anche se chiunque dovesse smettere di pensarla in quel modo in questo preciso istante. Per quanto mi riguarda, prima è meglio è.»

Daichi ride, non potendo fare altro che concordare con quell’uomo così ricco di energia nonostante la piccola statura.

«In ogni caso, scapolo d’oro, è vero che anche io devo incontrare alcune persone. Quindi ti lascio qui: cerca di tenere il Sindaco più occupato possibile se lo rivedi. Per quanto mi riguarda, penso che passerò il resto della serata a nascondermi tra la gente; sia mai la mia altezza possa rivelarsi utile, una volta tanto.»

«Non pensavo le avrei mai sentito dire una cosa simile, sa? Non riesco nemmeno ad immaginare quale serio motivo possa esserci dietro ad un bracconaggio tale da ridurvi in questo stato.»

«Meno si sa, meglio è. Ma davvero, ora è meglio che vada. Grazie ancora, eh–»

E con questo Yaku gli dà una ultima pacca amichevole sulla spalla, allontanandosi velocemente e sparendo con altrettanta celerità tra la folla. È proprio vero: persino la bassa statura può essere un’ottima arma, se usata bene.


 


 

°°°°


 


 

In ogni caso, il ballo non è mai stata un’attività nella quale Daichi si sia mai effettivamente sentito a suo agio.

Nonostante l’accademia privata da lui frequentata avesse, tra le varie lezioni di ginnastica, anche quelle dedicate a tale disciplina, deve ammettere che ha sempre cercato di limitare la sua presenza sulla pista, preferendo le chiacchiere con i compagni o le passeggiate in giardino a quella pratica così poco conforme al suo carattere riservato.

Sopprime un sospiro di stanchezza, posato con una spalla al muro accanto ad una delle tante altissime finestre della sala, ed osserva in silenzio le coppie che roteano sospinte dalla musica dell’orchestra, lunghi vestiti colorati delle donne che si combinano allo scuro elegante degli uomini.


 

Daichi nota distrattamente come la sua posizione non sia delle più adatte per vedere molto altro di un paio di coppie in movimento, essendo molto lontano dal primo cordone che circonda la parte dedicata al ballo, ma presto la cosa finisce in secondo piano, la calma e la tranquillità del momento che mediano tutte le conversazioni avute fino a qualche minuto prima.

«Devo dedurre che anche tu ti stia nascondendo dal Sindaco, oggi?»

Riconoscerebbe ovunque quella voce chiara e delicata, e sorride teneramente mentre si volta alla sua destra giusto in tempo per vedere Koushi Sugawara avvicinarsi, i passi lenti e morbidi ed il corpo snello fasciato morbidamente da un elegante completo di un grigio argentato. La pelle pallida ed i capelli del colore della luna sembrano astri nascenti in quell’atmosfera di sfarzi, e gli basta pensarlo per rendersi conto di stare già facendo un cenno di inchino verso l’altro, gli occhi mori che vanno a riflettersi in quelli chiari e castani mentre la mano slitta in avanti, a prendere il calice offerto dall’uomo ora ad un passo dalla sua figura.

«In verità l’ho già incontrato. Abbiamo avuto una sconveniente conversazione sul ruolo della donna in un matrimonio, abbastanza lunga da farmi temere di essere tornato nell’ottocento.»

Sugawara ride mentre scuote la testa, una traccia di compassione sul viso ed un piccolo neo al lato dell’occhio sinistro che va a richiamare l’attenzione di Daichi lontano da quelle labbra rosate.

«Ah, non credere a metà delle cose che Washijou dice. Lui stesso non vi crede.»

«Non per quanto riguarda sua figlia e sua moglie, almeno.»

«Solo perché non hai avuto cuore di continuare con gli esempi. Sappiamo entrambi non vi sia una donna della sua vita che consideri davvero ad un livello più basso di qualsiasi altro uomo in terra.»

Ora tocca a Daichi scuotere il capo, amareggiato.

«Rimane un dubbio il perché sia così restio ad ammetterlo, allora.»

«Perché, a suo dire, una buona conversazione si basa su frasi che spicchino per arguzia ed efficacia. Attributi che a volte preferisce alla verità stessa.»

«Fatico a vedere i lati positivi di una conversazione basata su una menzogna, tuttavia.»

«Questo perché credi debba rimanere qualcosa dalle conversazioni che avvengono in questi eventi. Rimarresti turbato da quanti la pensino diversamente.»

«Allora forse è meglio l’ignoranza, in alcuni casi.»

«Sono casi molto radi, ma non posso che darti ragione.»

Ridono entrambi, prendendosi un secondo per alzare il calice e sorseggiare il fresco liquido raccolto al suo interno, prima che gli occhi di Sugawara si posino nuovamente su Daichi, due iridi calde e dense racchiuse dall’abbraccio di quelle lunghe ciglia chiare.

«Come sta il nostro beniamino della città, piuttosto?»

Un sorriso, i denti di Sawamura che biancheggiano persino nelle luci radiose di quei lampadari lussuriosi.

«Addirittura beniamino, Koushi? Non credo di meritare un tale appellativo, per quanto apprezzi incredibilmente la tua gentilezza. La mia unica fortuna, in fin dei conti, è solo quella di essermi ritrovato ad avere più possibilità materiali di altre persone, e di aver dato agli altri quando necessario. Credo questo sia dovere di ogni cittadino.»

«Non tentartela, Daichi. Sai meglio di me che non è solo il quanto si ha, ma anche il quanto si dona che rende un uomo fondamentale per una città. O dimentichi forse che ho scritto io l'articolo sulla tua ultima donazione, solo un paio di giorni fa? Non rischiare la troppa modestia diventi un difetto, molti non aspettano altro che screditarla non appena possibile.»

«Addirittura un difetto, Koushi?»

«Addirittura un difetto, Daichi. Gotham ha bisogno di persone come te, che non abbiano timore di mettere il loro viso accanto la giustizia, invece di celarvisi dietro per giustificarsi a tempo debito.»

«È forse un velato indizio a ricordare quella coppia di consiglieri della scorsa giunta?»

Le labbra di Koushi si stringono appena, l’espressione che si rabbuia come una luna calante oscurata dall’ombra causata della terra.

«Sappiamo entrambi non fossero solo un paio, Daichi.»

«Ma ancora non sono stati condannati. Credi davvero siano colpevoli, tutti loro?»

«Tu credi non lo siano?»

«Io credo in quello che dice la Giustizia.»

«E dovresti sapere meglio di me come questo possa essere un problema, a Gotham.»

Il silenzio che cala su entrambi è intriso di pensieri, ma nessuno dei due sembra davvero essere sicuro di volerli portare alla luce quindi rimangono così, uno accanto all’altro, i calici che si vanno via via svuotando e la presenza di uno che in qualche modo rilassa l’altro, rendendo superflua qualsiasi conversazione.

Ormai si conoscono da molti, moltissimi anni.

Sugawara era entrato nella sua accademia privata che aveva già quattordici anni, tardivo rispetto agli altri studenti. Poco si era saputo del suo passato tranne che avesse vissuto un grande trauma familiare, che lo aveva portato ad isolarsi da tutti e a chiudersi in un guscio talmente spesso che nemmeno le precedenti professoresse erano più riuscite ad avere un contatto con lui, obbligando il padre a ritirarlo per evitare di fargli perdere l’anno.

Inizialmente era stato difficile riuscire ad avere un vero e proprio contatto, doveva ammetterlo.

Lui, Daichi, la cui scomparsa prematura dei genitori aveva lasciato una carenza affettiva che al liceo ancora si portava dietro, era stato in difficoltà all’idea di parlare con qualcuno che non gli venisse incontro o che non iniziasse una conversazione di sua spontanea volontà. Ma vi era stato qualcosa, ai tempi, che aveva attirato irrimediabilmente Daichi verso il compagno, un affetto ed una voglia di capire quel piccolo ragazzo così difettoso nel modo di porsi, silenzioso e chiuso nel suo mondo e nei suoi silenzi.

Poi, giorno dopo giorno, era nato un rapporto. All’inizio era stato uno sguardo, poi la prima parola, poi il primo contatto fisico. E quando tutti lo pensavano ormai impossibile Koushi era sbocciato come un fiore, e come fiore si era dimostrato essere il più bello che Daichi avesse mai visto in tutta la sua vita. Pieno di vita, curioso, di buon cuore, eppure a tratti così egoista e dispettoso da far venire il nervoso persino allo stesso Sawamura. Tutto in Koushi era emozione, emozione pura, e l’esprimeva con l’entusiasmo di una persona che a lungo non era stata capace di farlo, come se con quell’emotività avesse voluto rifarsi col mondo, imporre la sua presenza satura di colori che altrimenti Daichi avrebbe visto un po’ più spenti, un po’ più opachi.


 


 

«–Cosa significa che hanno eliminato la prima volante?»

Daichi si volta verso verso la fonte di quella voce ovattata e lontana, scorgendo a qualche metro da lui la figura di Yaku scomparire tra la folla, seguito da un uomo con un vassoio ed un lungo filo scuro a seguito. Cerca di non farsi notare troppo mentre il bicchiere viene lentamente posato sulla finestra alle sue spalle, scuotendo poi la testa nel vedere Koushi lanciargli uno sguardo incuriosito. Fa velocemente segno di dover andare alla toilette, lasciandolo in piedi dopo avergli lanciato un sorriso rassicurante, prima di muoversi velocemente tra la folla, chiedendo scusa e salutando qualche suo cliente riconosciuto tra i tanti

Solo allora individua nuovamente Yaku, fermo a qualche passo di distanza, e fa appena in tempo a chiedere ad un cameriere di passaggio due calici di spumante prima di andarsi ad avvicinare all’altro.

«Mhm, mhm– Ok. D’accordo, arrivo subito.»

«Commissario, un bicchiere di spumante?»

Alla voce di Daichi Yaku si volta di scatto, la cornetta che viene nel frattempo abbassata velocemente sulla base scura che il maggiordomo tiene sul vassoio dorato. A vedere il volto dell’altro si rilassa, scuotendo però le mani in avanti mentre il dipendente fa un leggero inchino di lato, allontanandosi e tirando via il filo dal pavimento.

«Daichi, mi hai fatto prendere un colpo. Comunque no, ti ringrazio– Pare ci siano sviluppi nel caso che sto seguendo, qualcosa sullo Jezebel Center, quindi sto andando a dare un’occhiata. Ho già bevuto troppo, contando che devo guidare. Per fortuna sono i miei a fare i controlli sul tasso alcolico. Ci vediamo presto, va bene?»

Prova a scherzarci su, prima di chiedere scusa e di allontanarsi velocemente, probabilmente alla ricerca di un cameriere o una cameriera che possa indicargli la stanza dove sono tenute le giacche.

Lo Jezebel Center.

Daichi rimane immobile, lo sguardo concentrato mentre i pensieri corrono analiticamente nella sua testa. Yaku ha parlato dell’eliminazione di una volante, quindi qualcuno sta tendendo sotto controllo la zona e, soprattutto, la sta proteggendo: il ché sarebbe quasi normale, in una città come Gotham.

L’unico problema è quel quartiere, da quanto ricorda, è gestito da Serpe; e Serpe è in prigione, quindi quel luogo dovrebbe essere dormiente, in attesa del suo “benefattore”. Invece–


 

Quella sanguinosa, grossa risata dipinta sui loro volti di marmo bianco!’


 

Quella frase torna in mente in un attimo, e basta quello a fargli raggiungere a passo svelto il maggiordomo visto precedentemente, facendosi passare il telefono e componendo il numero della Villa Sawamura.

Vede Yaku scendere le scale della sala d’ingresso, con il cappotto ancora sbottonato e il cappello che gli copre metà della testa, e dopo aver abbassato la cornetta del telefono chiede al dipendente della casa dove possa prendere il suo cappotto, promettendosi di mandare il giorno dopo un messaggio di scuse a Sugawara.

Per adesso, non può fare altro che muoversi velocemente verso l’uscita, avvicinandosi ad una silenziosa macchina nera quando questa raggiunge infiniti minuti dopo l’entrata ed inserendosi nel caldo abitacolo mentre questo riprende velocità, Asahi al volante.

«Problemi, signor Sawamura?»

«Spero di arrivare abbastanza presto per evitarli.»


 


 


 

Insomma, dopo infinito ritardo sono finalmente tornata!
Vorrei innanzitutto ringraziare tipo per sempre (??) le persone che hanno commentato lo scorso capitolo: Mio Dio, ma siete tantissime! //v//)!! ♡ Non mi aspettavo assolutamente tanta gioia e per poco non piangevo da qualche parte, sinceramente. (…) Mi fa tantissimo piacere che vi siano piaciuti i personaggi, e che in generale la storia non vi sia sembrata troppo pesante o altro. Davvero, ci sto mettendo tutta me stessa nel tentare di rendere ogni capitolo un minimo interessante, ed avere persone che mi fanno sapere i loro commenti al riguardo mi… non lo so, sono troppo contenta. Cioè, davvero troppo. Troppo!
Ringrazio quindi
unamoresolitario, AgrifoglioOro, Aandyy e Fisico92 perché sì, perché siete tutti importanti e ho un sacco bisogno di scriverlo ovunque.
Finalmente dal prossimo capitolo capiremo decisamente di più della storia, oserei dire che anzi è il punto di svolta della storia stessa.
♡ Aaaah non vedo l’ora! Per chi avesse notato la mancanza di Bokuto in questo capitolo… Non demordete, questo vuol dire che nel prossimo… Eh eh eh. ♡
Ultimi appunti sulla storia:
- Amanai: http://haikyuu.wikia.com/wiki/Kanoka_Amanai (Amica di infanzia di Tanaka, non è ancora arrivata nell’anime ma è presente nel manga!)
- Washijou:
http://haikyuu.wikia.com/wiki/Tanji_Washij%C5%8D (Allenatore della Shiratorizawa!)
Ed infine:
- Cartina di Gotham: http://batmangothamcity.net/wp-content/uploads/2012/04/gotham-city.jpg (Pensavo fosse ingiusto non l’avessi ancora messa!)

Alla prossima!

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Capitolo 8
*** The enemy of my enemy is not necessarily my friend ***


8. The enemy of my enemy is not necessarily my friend



(Il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico)

Derek Landy, Skulduggery Pleasant





GOTHAM CITY Jezebel Center (Quartiere Bowery)

21/12/1976 – Più tardi


Lo Jezebel Center, chiamato anche Jezebel Plaza dai residenti italo o latinoamericani di Gotham migrati in quel quartiere da una o più generazioni, era un centro commerciale all’aperto situato nel quartiere di Bowery, ad un isolato da Park Row al nord e dal Sheldon Park ad est. La struttura, dotata fra le altre cose di un ingresso al sistema diurno metropolitano della città – al momento chiuso per via dell’ora tarda – consisteva in tre grandi vie parallele, unite di edificio in edificio da una serie di larghi incroci che permettessero di raggiungere agevolmente l’una l’altra corsia a seconda delle esigenze; l’intero quartiere risultava essere elegantemente delimitato da palazzi e cancelli alti e piuttosto datati, che ne assicuravano l’apertura all’inizio turno la mattina – quindi attorno alle dieci – e la chiusura alla sera, quando l’ultimo dipendente dei negozi custoditi al suo interno lasciava l’ambiente di lavoro ed il vigilante ne chiudeva i lucchetti arrugginiti.


In tutta sincerità erano state rare le volte che Daichi era entrato in quello che non poteva che essere definito come un gigantesco outlet della malavita a cielo aperto; ed anzi, si poteva effettivamente dire il numero potesse scendere rasente lo zero, se si pensava alle volte vi fosse entrato in qualità di Daichi Sawamura e non come suo oscuro alter-ego pipistrello.

Spesso usati come negozi immagine per il riciclo di denaro sporco o come tane per bische clandestine, gli empori che lo Jezebel Center ospitava erano infatti per lo più gestiti da ex contrabbandieri e da criminali al servizio di Serpe, ed i dipendenti che vi lavoravano non erano altro che nuovi acquisti delle bande o esploratori sul campo, alla continua ricerca di informazioni che i clienti che arrivavano nelle botteghe involontariamente portavano. A volte erano notizie di poco conto, come sogni ad occhi aperti di possibili vacanze in Europa o l’acquisto di una casa in Canada, ma tra le tante chiacchiere che si sentivano non mancavano quelle che i mercenari erano soliti chiamare pepite, informazioni lasciate sfuggire dai cittadini riguardo grandi eredità in transito per la morte di un parente o l’arrivo a Gotham di familiari in possesso di dati sensibili riguardanti la città.



Lo Jezebel Guns, un famoso ed antico negozio di armi situato ad un paio di botteghe di distanza dall’entrata sud dell’outlet – e conosciuto da tutti per il numero spropositato di vetrine acquistate con l’andare avanti del tempo – sembrava essere l’esempio più calzante di quel tipo di realtà. Gestito da Richard Leblanc, in arte ‘Loose Lips’, era uno degli avamposti preferiti da Serpe e uno dei più conosciuti da Batman, che in quell’esercizio commerciale si era ritrovato più volte a fare irruzione; e se già sventare piani criminali poteva potenzialmente essere un lavoro dalla pericolosità non nulla, il fatto lo Jezebel Guns fosse un negozio di armi rendeva l’azione ancora più complicata, a causa dell’arsenale fuori dal comune che i villani avevano a disposizione al suo interno. Per molto tempo il commissario Yaku e uno dei suoi dipendenti, un ispettore ormai in carica da molti anni, avevano tentato di farlo chiudere, ma ogni qual volta che – finalmente – la polizia riusciva ad avere il lasciapassare per fare irruzione qualsiasi carta di troppo era sparita, i dipendenti cambiati e tutte le prove di illegalità sfumate nell’aria.


Questo era probabilmente stato uno dei motivi che aveva portato Yaku ad allontanarsi così velocemente dal Gran Gala organizzato dal Sindaco quella sera: il fatto vi fosse effettivamente qualcosa allo Jezebel Center che permettesse di perquisire molti di quei negozi su cui la polizia aveva altrimenti le mani legate da anni, incatenata a burocrazie pesanti e poco pratiche che non permettevano azioni ufficiali senza avere un numero sensibile di prove che le giustificassero.


°°°°


La prima cosa che Batman sente non appena esce dalla ruggente macchina nera sono le urla dei poliziotti che stanno chiedendo di sgomberare la zona, accalcati attorno al cancello chiuso che delimita lo spazio di quel quartiere caduto nell’inattività notturna. Lo sguardo scivola silenzioso sul fascio plurimo di luci blu e rosse che fendono l’aria, provenienti dalle numerose volanti in sosta o parcheggiate nel mezzo della strada, ed alza gli occhi oscurati dalla maschera a studiare quelle macchine che vibrano nella fretta dei loro motori lasciati aperti, sparse a più file come a creare una confusionaria lisca di pesce davanti all’entrata del mercato. Il mantello nero crea un’ombra pece mentre si muove seguendo i confini dei palazzi, confondendosi tra le tenebre che rabbuiano gli angoli degli edifici e creano uno scuro percorso sino al primo anello di poliziotti, le iridi scure che ne frattempo si posano sull’agente speciale che sta parlando al walkie talkie ad una decina di metri di distanza, avvicinandosi da dietro e fermandosi a qualche passo da lui.


«Se qualcuno mi sente mi risponda, passo.»

Silenzio, il pulsante che viene premuto ancora una volta.

«Qui è il commissario della GCPD. Siamo fuori, sono richieste informazioni dall’interno, passo.»

Ancora una volta, una muta risposta.

«… Se c’è qualcuno mi faccia sapere qualcosa. Per favore, non– diavolo, qualsiasi cosa. Passo.»

«Commissario.»

«Mi dica, agent–»

Yaku si volta con espressione grave, aggrottando leggermente le sopracciglia nel trovarsi davanti l’armatura rinforzata dell’altro, ed alza lo sguardo, slittando con le iridi castane oltre il simbolo del pipistrello in rilievo sui pettorali ed arrivando sino agli occhi dell’altro, ancora celati dalla maschera.

«… –Batman, ancora non ti ho chiamato, come fai a–? Sai cosa, non mi farò domande.»

Daichi lo vede scuotere la testa mentre la mano va ad abbassarsi appena, andando a dare più libertà e meno tensione al piccolo cavo arricciato che collega la radio ancora chiusa tra le dita con l’interno della volante al suo fianco.

«Ringrazio che sei qui, piuttosto. Non so i miei uomini quanto riusciranno a resistere lì dentro, ed ho già perso più contatti di quanti sia pronto ad avere con le loro famiglie.»

Nonostante lo abbia visto nemmeno una mezz’ora prima alla festa, il ricordo delle loro conversazioni e del suo sorriso a battute e risposte fatte da entrambi ancora vivido nella sua mente, Daichi non può fare a meno di notare quanto il viso di Yaku sia scavato, stanco e schiacciato da una pressione che sembra si sia depositata da anni su di lui, piuttosto che da qualche minuto.

È come, pensa in silenzio mentre lo vede passarsi una mano stanca fra i capelli, se i residui dei ricordi di coloro che se ne sono andati mentre in servizio lo stiano seguendo al pari di un’ombra, accumulandosi – invece che disperdersi – nel tempo e tornando ad emergere ad ogni nuova perdita.


È un demone che il commissario ha dentro da secoli, e dal quale neppure Batman non può liberarlo.


«Quanti sono.»

«Non ho numeri precisi, solo zone. Sappiamo per certo che ce ne sono all’interno del negozio di armi, e che non ci permettono di avvicinarci alle vetrine. Sull’incrocio ne sono di guardia altri, non sappiamo quanti, e probabilmente alcuni di loro sono pronti ad uscire in strada ad ogni rumore sospetto. Sono anche riusciti a fondere la catena del cancello con un lanciafiamme spuntato non so davvero da dove, quindi ci è impossibile entrare finché non arrivano i vigili del fuoco.»

«Per molti dei suoi sarà troppo tardi, allora.»

Yaku abbassa le palpebre, celando gli occhi sfiancati dal mondo mentre la mano libera va a posarsi nell’incavo tra le sopracciglia, andando a stringere come a cercare di risolvere una acuta emicrania. Emicrania che Batman non ha in fondo alcuna certezza l’altro non abbia, vista la piega presa dagli eventi negli ultimi minuti.

«Lo so. Ma abbiamo forse altra scelta?»

«Lasci fare a me. Lei rimanga qui, e controlli che i suoi uomini ricevano le cure di cui necessitano.»

A quelle parole gli occhi di Yaku si riaprono di scatto, tornando a fissare severamente l’uomo pipistrello.

«Cosa– No! Senti: sarai anche Batman, ma io sono il commissario. È mio dovere proteggere i miei uomini, senza contare che anche se andassi da solo ti servirebbe sicuramente una man– Ehi!»

Ma non ha nemmeno finito di parlare che Batman ha già alzato il braccio, il rampino fissato alla cintura multiuso che viene indirizzato oltre l’insegna dello Jezebel Center mentre la scritta in ferro, fissata poco più in alto e dal carattere stretto ed austero, viene coperta ad alternanza da qualche tessuto rovinato.

Un passaggio nell’aria, un movimento nell’oscurità mentre un corpo inchiostrato di un’armatura nera pece scivola silenziosamente oltre il cancello, superandolo in altezza. E Yaku non può fare nient’altro, se non guardare il Cavaliere Oscuro scomparire dentro lo Jezebel Center.



°°°°



Quando atterra silenziosamente dall’altra parte del cancello, la prima cosa che Daichi fa è guardarsi attorno, probabilmente in cerca di agenti ancora in vita. La lontananza dalle volanti rende le voci dei poliziotti dall’altra parte del cancello ovattate e lontane, ed è solo in quell’inaspettato e pacato silenzio di parole e di grida che si rende conto, per la prima volta da quando è arrivato, che gli altoparlanti dell’Outlet non sono spenti, nonostante ciò che si aspetterebbe dall’ora.


“ – Dashing through the snow
On a one horse open sleigh~”


Il rumore metallico e gracchiante di Jingle Bells, una tradizionale canzone di natale, fa eco dalle casse che si affacciano dagli angoli degli edifici e dalle colonne che dividono i negozi, ed il suono si spande innaturale nelle vie prive di vita mentre Batman percorre a passo lento quella principale, posando lo sguardo sulle salme dei poliziotti e dei malviventi innaturalmente riversi al suolo.

Nonostante l’orario di chiusura sia passato da molto, sembra che le luci delle insegne di molti locali siano ancora accese; i lampioni ad olio traspirano calore per l’uso prolungato, mentre lunghi fili variopinti ed appesantiti da led colorati percorrono la strada da palazzo in palazzo, accendendosi e spegnendosi tremolanti proprio come fossero su enormi alberi di natale, arrivando ad attorcigliarsi attorno alle inferriate dei cancelli ed all’interno delle vetrine abbandonate.


“ – Bells on bobtail ring
Making spirits bright…”


Percorre in silenzio quella strada, in attesa di sentire qualsiasi rumore sospetto, sino a quando non arriva davanti ad uno dei tanti corpi dai visi volti a terra, abbassandosi a posare le ginocchia sui sampietrini freddi ed umidi e girandolo per controllarne l’identità e lo stato in cui versa.

Come immaginava.

Aggrotta le sopracciglia, e la mano va ad allontanarsi lentamente mentre le iridi rimangono fisse sulla faccia dello sconosciuto, gli occhi innaturalmente posti all'indietro e la pelle pitturata come quella di un pagliaccio. La tinta bianca come il latte contrasta cromaticamente sia il sangue che cola dalle orecchie e dalla fronte, sia l’incarnato scuro che rivela il collo, mentre le palpebre sono completamente pitturate di blu; sulle guance e sul mento, tre schiocchi rossi sembrano quasi formare gli angoli di un ipotetico triangolo, mentre un piccolo rettangolo verticale pitturato al centro delle labbra va a completare l’astratta figura che Batman ha già visto su molti altri volti, affrontati insieme o incontrati in passato, ma tutti associati alle stesse situazioni, agli stessi scontri.

Allo stesso criminale.

Riconoscerebbe quei tratti distintivi ovunque.


O'er the fields we go
L a u g h i n g all the way~!”


«Ohya, ohya~

Batman alza lo sguardo istantaneamente, lasciando il cadavere a terra e portandosi in piedi mentre una voce metallica interrompe la canzone di natale ancora di sfondo a quella innaturale scena, graffiando l’aria quasi appartenesse ad un gatto che si stesse facendo le unghie sul microfono del sistema audio del centro commerciale.

«Comunicazione di servizio. È appena stato avvistato un topo volante per le vie del nostro Outlet Village. Ripeto, è appena stato avvistato un topo volante per le vie del nostro Outlet Village. Cosa ci fa ancora lì? Sapete quanto non mi piacciano i topi.»

Le labbra di Daichi si stringono appena, le iridi nocciola che studiano silenziosamente la zona. Gli altoparlanti sono sistemati ad intervalli regolari lungo tutta la via principale su cui si è fermato, e la voce che ne monopolizza le casse arriva con qualche ritardo man mano che ci si allontana da ciascun apparecchio, creando una disturbata e fredda eco.

Un tale fastidio non può che essere dovuto ad una sola persona.

«… Joker.»

«Ohya~ Batman! Qual buon vento ti porta qui? Hai scoperto di essere in ritardo per i regali? Guarda che a me sarebbe bastato il pensiero.»

«Cosa ci fai qui?»

«Mhm? Oh, con qui intendi qui. Chissà, forse anche io non volevo farmi trovare a mani vuote. O credevi davvero non avrei restituito il favore? Ohya ohya, vediamo–»

Daichi può sentirlo respirare contro il microfono, piccoli soffi che per qualche istante gli ricordano – non senza estremo disagio – quelli del gatto di Sugawara quando questi gli avvicina scherzosamente la cornetta di casa mentre al telefono insieme. Ma l’assurdo accostamento svanisce in fretta non appena sente l’altro ridere in maniera affilata: può immaginarlo, seduto su una poltrona che non gli appartiene, Harlee probabilmente posato su uno dei due braccioli, immobile ed inespressivo in opposizione a quel sorriso acuminato che taglia il viso lungo e felino del pagliaccio.

Un animale, sempre – in qualche modo – nel suo ambiente naturale.

«Trovato! Che ne dici se ti mando il mio regalo attraverso i miei ragazzi? Si chiamano “Pallottole per Ficcanaso”, ne compro sempre qualcuna di scorta per chi si imbuca alle feste. Non fare complimenti.»

E mentre sta ancora finendo di parlare Batman si abbassa, rotolando di lato appena in tempo per evitare che una mazza da baseball chiodata vada a lacerare le sue carni. Si volta velocemente, facendo slittare la gamba per dare un calcio ruotato ben assestato alla caviglia del suo assalitore, mentre vede con la coda dell’occhio altri arrivare da oltre le porte dei vari locali, armi alle mani.

Sono ovunque.

Si sposta dietro una colonna un attimo prima che una serie di spari buchino il suo mantello, e lancia il rampino per tirarsi addosso uno degli assalitori, portandogli il braccio attorno al collo e stringendo sino a fargli perdere conoscenza. Nemmeno il tempo di riabbassarsi che un’ascia rossa come il sangue invade il suo campo visivo, ma Daichi decide sul momento di ignorarne il proprietario mentre ruota invece in avanti, alzandosi e dando un pugno sotto il mento ad un secondo pagliaccio, facendolo cadere a terra.

Nel frattempo, gli spari arrivano da qualsiasi direzione: intere ondate di bossoli che colpiscono i mattoni dei muri di fronte ai negozi, le vetrine distrutte e le canne delle armi che scivolano fuori tradendo la presenza degli scagnozzi del Joker al loro interno.

Batman si volta, si piega su un braccio, lancia un bat-artiglio contro un altro degli assalitori prima di salire addosso ad uno intento a rialzarsi, tramortendolo con un colpo alla testa prima di rotolare via e disinnescare una bat-bomba di fumo, gettandola al centro della strada.


«Si può sapere che aspettate, che chiami la disinfestazione?! È proprio vero che le vacanze impigriscono le persone. O forse qualcuno qui sta cercando di far arrabbiare Harlee? Perché io non lo farei di certo.»

La risata di Joker graffia le casse del centro commerciale, uscendo orribilmente distorta da quelle ancora incredibilmente in funzione nonostante gli spari. In sottofondo alcune continuano a piangere lacrime musicali, e Batman fa una veloce rovesciata indietro proprio mentre un inquietante assolo di pianoforte prende il posto dei cori di natale, incitando un ascolto scordato e fuori tempo di qualche sconosciuta versione di Jingle Bells.

Ma Daichi non ha tempo per pensare a nulla: Il gas sta finendo, diramandosi leggermente e sollevandosi verso luminarie e festoni che pendono sopra le loro teste, facendo da scheletro per i pannelli verdi in policarbonato posti a proteggere l’outlet dalla pioggia e dalla neve. Un colpo finisce per prenderlo alla spalla, spazzando l’armatura e portando via una parte di tessuto, e Batman indurisce la mascella nel notare come gli uomini prima dentro i negozi siano nel frattempo usciti, circondandolo e puntandogli le grosse armi da fuoco in testa.

Accidenti.


«B o o m

I radio commenti di Joker sono forse la cosa più frustrante dell’intera situazione, a pensarci bene.

Daichi si abbassa giusto in tempo per schivare i primi colpi, riparandosi dietro due corpi esanimi al suolo, e nell’ipotesi di essere chiuso a qualsiasi possibilità di fuga si guarda attorno con accortezza, alla ricerca di un modo per uscire da quella situazione. Alla sua destra, corpi ed armi puntate contro di lui. Alla sua sinistra, pagliacci e lame, colori fosforescenti evidenziati dalla pittura che dipinge i volti dei criminali attorno a lui. In basso–

– È bagnato.


Batman alza lo sguardo, e nota solo allora come la tettoia dai vetri spessi sia rovinata proprio là, sopra la sua testa, un grande buco procurato probabilmente dai poliziotti e dai criminali venuti alle armi in quel campo prima che arrivasse.

È la sua occasione.

Aspetta che le pallottole calino di intensità, e quando accade lancia il suo bat-artiglio verso l’unico uomo abbia ancora la mitragliatrice piena, indirizzando poi il rampino verso l’alto e tirandosi su, ad arrampicarsi sino da uscire nuovamente all’aria aperta.

«Dove è finito!?»

Ora che è in alto può vederli tutti: una circonferenza irregolare di uomini e ragazzi confusi dalla sua mossa che cercano di guardarsi attorno, alla ricerca del pipistrello scomparso. Daichi passa la mano libera dal rampino dietro la cintura, prendendo il suo bat-artiglio sonico e piegando il braccio, pronto a gettarlo in basso nel tentativo di stordire almeno la metà dei suoi nemici; ma non riesce a tenderlo del tutto che una liana acuminata gli si aggroviglia attorno, obbligandolo a fermarsi.

Quella pianta–

… Una pianta?

No, non avrebbe senso. Eppure–

«Lassù!»

Batman rotola lontano dal buco della tettoia, rendendosi irraggiungibile ai proiettili degli scagnozzi di Joker ancora confinati al piano più basso, prima che lo sguardo scivoli alla sua destra, seguendo il lungo arbusto ancora avvolto al suo arto sino a raggiungere una figura alta e slanciata poco distante. I capelli della persona davanti a lui sono neri, neri come la pece, piccole ciocche scure che cadono sulla fronte pallida e sulle tempie decorate di un elegante verde smeraldo, che sfuma sulle guance formando morbidi spirali in semi trasparenza. Un lungo mantello color menta copre le spalle proporzionate e simmetriche, scivolando dietro un busto snello ed atletico sino a scomparire oltre la parte posteriore di un pantalone stretto e coperto di foglie, addossandosi poi ai margini dei piedi nudi e venati, quasi come se edera verde vi crescesse sottopelle.

«Poison.»


°°°°
Poison Ives

Professione: Criminale Professionale
Vero Nome: Keiji Akaashi
Aspetto: Uomo, capelli neri e corti, tratti eleganti, occhi lunghi dalle iridi scure
Caratteristiche: Capacità di stimolare e guidare la crescita vegetale, emana feromoni naturali che gli permettono di controllare le vittime, la sua pelle secerne una tossina che rende mortale il suo tocco, impulso patologico a sterminare il genere umano per proteggere il regno vegetale.
°°°°


«Batman.»

«C’entri anche tu con tutto questo?»

Nessuna risposta: le labbra dell’altro rimangono chiuse, gli occhi blu marino su Batman, le palpebre rilassate e la forma lunga ed elegante che ne valorizza le ciglia folte. Poi, mentre ancora impassibile, una mano va ad alzarsi lentamente, le dita leggermente piegate e il dorso puntato verso il Cavaliere Oscuro; ora può vederli chiaramente, anche se è ben consapevole di quale sia la natura del metaumano davanti a lui: sotto la pelle pallida e morbida, infatti, l’edera sembra scorrere accanto le vene a disegnare rami color menta, allungandosi su tutte le braccia e sovrapponendosi alle effettive piante rampicanti che sembrano nel frattempo materializzarsi dal nulla, carezzandogli il corpo e scivolando oltre quella carnagione chiara.

«Sono qui solo per estinguere un debito.»

«Un debito? Pensavo non facessi affari con Joker.»

Poison rimane in silenzio per qualche secondo, il viso una maschera di indifferenza che non varia neppure quando la mano ancora alzata va a chiudersi inaspettatamente, le piante attorno al suo braccio che si allontanano appena prima di calare come enormi spilli su Batman stesso.

Daichi si sposta appena in tempo, saltando all’indietro mentre uno dei rami secondari riesce ad attorcigliarsi alla sua gamba– ma non a ledere le carni, come probabilmente Poison sperava di fare; si gira velocemente su se stesso, premendo con la mano libera il bat-artiglio sulla liana nel frattempo arrivata alla coscia tagliandola di netto, mentre quella avviluppata attorno al braccio si piega, perdendo contatto con l’armatura. È un secondo, ma è sufficiente: appena sente la presa scomparire anch’essa viene tranciata via dal bat-artiglio, e Batman può sentire chiaramente di risposta al taglio un sospiro irritato scivolare fuori dalle labbra rosate dell’altro, un verso basso e appena accennato di sofferenza.

«Ed io pensavo non fossi solito uccidere esseri viventi.»

«Se non sei in combutta con Joker non è necessario che combattiamo, Poison.»

Daichi schiva un altro snello tentacolo, allungatosi dal braccio del nemico dopo essersi materializzato assieme ad un nuovo ramo di edere, e rotola da un lato, passando sotto un arco in mattoni che scinde due palazzi ai lati della via principale dello Jezebel.

«Non ho bisogno di un motivo per combattere qualcuno come te. Chi uccide piante senza rimorsi di coscienza non merita di vivere grazie al loro ossigeno; uccidere un essere vivente ma rifiutarsi di farlo con un essere umano non è meno ipocrita di salvare una specie chiudendola in una gabbia

Probabilmente si riferisce all’ultima volta che si sono visti, pensa Batman, ovvero all’incidente avvenuto al Giardino Botanico di Arkham ormai un anno prima.

A causa di una somministrazione eccessiva di Venom da parte del Joker, infatti, una delle piante nate da Poison Ives era cresciuta a livelli esorbitanti, arrivando ad invadere le fondamenta e parte dell’intera isola di Arkham in meno di un’ora; Batman era allora stato costretto, nel tentativo di salvare Gotham dall’essere inglobata da quella gigantesca edera rampicante, a distruggere la pianta alle radici, causando l’ira del metaumano. Ma non aveva avuto scelta: il Venom era una droga steroidea pericolosa, ottenuta da una serie di esperimenti fatti su Bane e capace di conferire una forza sovrumana agli uomini, oltre che una grandezza innaturale alle piante: ed era caduta nelle mani di Joker, in quel periodo.

Il ché rendeva la distruzione di qualsiasi cosa ne fosse venuta in contatto l’unica opzione possibile.

Ma non ha tempo di rimarcare chi sia effettivamente colpevole di quella perdita – cosa che fra l’altro lo stesso Poison dovrebbe sapere, seppure sembri non considerare davvero la crescita della pianta il problema quanto la sua uccisione – che vede le labbra del rivale schiudersi delicatamente, un sussurro che viene sciolto nell’aria mentre alle sue silenziose parole le piante che sfiorano il suo corpo si allungano nuovamente, puntando i loro spilli avvelenati contro di lui.

Batman salta dietro, andandosi a rifugiare sul parapetto della balconata che costeggia la tettoia dello Jezebel Center, e lancia il suo bat-artiglio contro le liane in corsa verso di lui, stringendo la mascella a soffocare un verso di disappunto quando una di quelle ancora libere fende l’aria di fianco, lasciando ampi graffi e strappando via parte del costume. Ruota su se stesso, abbassandosi in tempo per evitare una terza liana, e il braccio va a tendersi sino a lanciare il bat-rang verso Poison, obbligandolo alla difesa che però risulta tardiva: l’arma in lega d’acciaio temprato va a conficcarsi poco sopra il ginocchio del metaumano, e Batman non può fare altro che piegarsi in avanti, affaticato, mentre vede l’altro cedere a posare il ginocchio sano sulla tettoia.

«Anche tu hai ucciso, Poison.»

Ah, i graffi sul braccio cominciano a bruciare. Daichi spera davvero di avere ancora una siringa di siero contro il veleno del metaumano tra le varie tasche della sua bat-cintura.

«Migliaia di persone sono decedute dopo che hai sparso le tue spore velenose per tutta Gotham l’ultima volta. Non peggiorare la tua situazione associandoti ai piani di un pazzo come Joker.»

Lo sguardo di Ives lotta nel tentativo di rimanere il più distaccato possibile, ma le sopracciglia aggrottate e le labbra rosate appena strette indicano un’emozione di sofferenza mal celata che Batman non fatica a cogliere dopo tanti anni. Una mano affusolata si posa sulla ferita, tirando fuori l’arma con un verso soffocato e gettandola lontana, rimettendosi poi a fatica in piedi, il peso completamente spostato sulla gamba sana.

«Non mi interessano gli umani Batman, ormai dovresti saperlo.»

Poison si muove, indietreggiando con passo tremante quanto basta per evitare che Batman possa usare il suo triplo artiglio sulle liane ancora striscianti ai suoi piedi, e schiocca silenziosamente la lingua mentre un’espressione contrita ed elegantemente irritata inizia a farsi spazio su quel viso dai tratti fini.

«Non sono null’altro che orribili sacchi di carne che se ne vanno in giro a distruggere le mie creature con arroganza ed avidità. Ed io non ho interesse verso simili esseri viventi.»

L’espressione di Poison non è adirata, eppure Batman riesce a vedere chiaramente oltre quelle iridi uno sdegno ed un disgusto quasi completo per ciò che la sua umanità rappresenta. Dalla ferita che il suo bat-artiglio gli ha inferto continuano a scendere lunghi rivoli di sangue viola scuro, mentre la pelle alla luce del lampione sembra riflettere un colore pastello simile a quello del latte sporcato di tea verde, trasparente nelle sue venature menta condensatesi in superficie nel tentativo di farlo rigenerare il prima possibile.

«Joker non è diverso, Poison. Ti sto dando la possibilità di uscirne fuori prima che–»

«Ohya, ohya?! Joker, Joker, sempre Joker, Batman!»

Batman non fa in tempo a voltarsi verso quella nuova voce che si trova ad indietreggiare di colpo,
arcuando la schiena nell’evitare che gli intrecci di Ives gli perforino lo sterno e schiacciando il più possibile le spalle, nel tentativo di fare un salto all’indietro nonostante la mancanza di energia.

«Sei davvero sicuro sia con lui che Poison abbia un debito? Vuoi scommettere?! Testa o Croce?»

Quella voce. Batman continua ad indietreggiare, spingendo con le braccia e con i muscoli delle gambe, e solo quando sente le liane acuminate smettere di fendere l’aria attorno a lui fa un’ultima rotazione, alzandosi in piedi a fissare le due figure ora almeno ad una decina di metri di distanza, assottigliando appena gli occhi nel riconoscerne la seconda.

«… Bokuto.»

L’uomo accanto a Poison Ives piega la testa di lato, le sopracciglia grigie arcuate e gli occhi ambrati che vanno a fissarlo da quella posizione inclinata, spalancati come quelli di un gufo in attesa di una possibile preda. Lo scruta così per qualche secondo, le palpebre alte e l’espressione interessata, prima di raddrizzare nuovamente il capo, un sorriso esageratamente grande a tirarne le labbra per metà rosee, per l’altra metà quasi dimenticate nell’enorme ustione che sembra aver grattato via con inaspettata precisione l’emisfero sinistro del volto.

«Bokuto? Mhmm– No, mi spiace. Assente. Qui parla Due Facce!»


°°°°

Due Facce

Professione: Criminale professionista

Vero Nome: Koutarou Bokuto
Aspetto: Vestiario diviso a metà ad emulare il viso, metà sfregiata con capelli posti verso l’alto, l’altra metà immacolata con i capelli morbidamente abbassati, grossi occhi da gufo gialli
Caratteristiche: Incredibilmente abile con le calibro 45, ossessione psicotica per la dualità, per prendere decisioni si affida al lancio della sua moneta, pericolosa bipolarità

°°°°


Batman rimane in piedi, il viso privo di alcuna espressione particolare mentre rimane in lontananza, fissando i due nemici e attendendo un continuo che non tarda ad arrivare.

«Ohya~ Sai Batman, io e Poison eravamo sicuri ti saresti fatto vivo. E non perché non invitato, quanto piuttosto perché riesci sempre ad arrivare nei momenti meno opportuni.»

Le dita vanno a muoversi svelte, il braccio a mezz’aria mentre la moneta che Due Facce lancia in aria riflette punti di luce ad ogni capriola, sprigionando piccoli spilli di luce che dividono ciascuna pausa tra un balzo e l’altro.

«Quindi sei ancora tu il collegamento con Poison Ives, Due Facce?»

«Ohya, ohya~ Chi lo sa? Le risposte sono due, ma solo una è quella giusta. Tu quale preferiresti?»

Batman fa qualche passo avanti a quelle parole, gli stivali rinforzati che emettono suoni gravi e regolari.

«Preferirei la smetteste di uccidere innocenti.»

«Mhm–»

Due Facce sembra pensarci su, le sopracciglia che si aggrottano e l’indice della mano destra che va a posarsi sul mento, il labbro inferiore a creare un piccolo broncio su quel viso duale. Quando sembra infine raggiungere un verdetto quello stesso indice va additare il cielo notturno, un’espressione entusiasta dipinta sul volto.

«Facciamo così, ti darò una possibilità di vittoria facile, senza quei morti che proprio non ti piacciono. Che ne pensi? Se esce croce, Poison Ives, io o chiunque altro credi ci sia in questa storia abbandoneremo questo posto senza lasciare vittim– Oh.»

Lo sguardo di Due Facce va ad assumere un’espressione confusa mentre il viso si piega nuovamente da un lato, le sopracciglia corrugate.

«... Ohya– Ho sbagliato, vero? Intendevo non più di quanto non ce ne siano al momento, almeno. Se, invece–!»

Ed il viso torna ad essere una maschera di eccitazione, gli occhi grandi e rotondi che si puntano elettrizzati su Batman.

«Esce testa, sarà lo scontro a decidere le sorti del nostro incontro. Dimmi Batman: secondo te combattiamo, o non combattiamo?»

Batman rimane in silenzio, sciogliendo il muscolo del braccio mentre con la mano sente quasi il calore che lo indirizza a posarla sul bat-rang che tiene al lato del fianco. Stringe appena le labbra nel vedere Due Facce lanciare la monetina in aria, e avvicina maggiormente le dita all’arma posizionata a qualche centimetro dal palmo mentre vede il disco cadere perpendicolarmente sul dorso dell’altro, che si affretta a coprirlo con la mancina.

Può notare con la coda dell’occhio Poison abbassare lo sguardo, le iridi blu che scivolano silenziosamente lì dove anche gli occhi di Due Facce sono puntati, mentre questo toglie lentamente la mano, trattenendo rumorosamente il respiro mentre quel piattino argentato torna a risplendere nella notte, mostrando al suo proprietario l’esito del suo aver roteato con operosità in aria.

E Batman non ha bisogno di vedere la risposta della moneta.

Non ne ha bisogno perché gli è sufficiente notare il modo in cui le labbra di Due Facce si schiudono in un sorriso enorme e sinistro, gli occhi spalancati come un gufo che si rialzano a fissare l’uomo pipistrello, le sopracciglia arcuate in un’espressione di febbricitante euforia e il respiro veloce e tremante.

«Combattiamo.»



- - - - - -


E anche questo capitolo è finito! Oddio finalmente sono intervenuti Bokuto e Akaashi, sono un sacco felice ed elettrizzata per la novità! (?!) Che ne pensate?! Vi piacciono i ruoli che ho dato ad entrambi? Anche se credo che quello di Bokuto ormai fosse un po’ palese mannaggia… Ma confido che quello di Akaashi sia stato inaspettato. ♡ -Ride-
Non so quanti di voi siate effettivamente fan di Batman, ma sappiate che molte frasi dette dai nostri criminali preferiti (???) sono inspirate ad altre dette veramente da Joker, Poison Ivy e Due Facce nei vari videogiochi (Arkham Asylum/City) fumetti e film a loro dedicati. ♡ Per quanto riguarda le scelte dei personaggi, ammetto di essere stata un pochiiiiino di parte per quanto riguarda le coppie:
- Kuroo era perfetto per Joker, quindi Kenma Harley Quinn è stata una associazione scontata;
- Bokuto con i suoi cambi di umore era un perfetto Due Facce, e Poison Ivy ha un rapporto ambivalente con Due Facce perché mentre era umano sono stati fidanzati (anche se lei voleva ucciderlo, ma questa è un’altra storia), ed ancora adesso ogni tanto si lanciano frecciatine. Insomma, un rapporto un po’ complicato, ma con Due Facce presumo lo sia sempre. (…)
E poi insomma, Poison Ivy è bellissima, ed ha un rapporto bellissimo con Harley Quinn, ed anche Joker lo ha con Due Facce ogni tanto (almeno per affari) quindi insomma, sono o non sono il più bel quartetto del mondo? ♡ (?)
Grazie per i commenti, siete adorabili e aaaaaah, ogni volta non me li aspetto per niente e sono un sacco felice di riceverli. ;v;)/ ♡ Al prossimo capitolo!


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Capitolo 9
*** A wise man gets more use from his enemies than a fool from his friends ***


9. A wise man gets more use from his enemies than a fool from his friends


 


 

(All'uomo saggio sono più utili i suoi nemici, che allo sciocco i suoi amici)

Baltasar Gracián, The Art of Worldly Wisdom


 


 


 


 

GOTHAM CITY Jezebel Center (Quartiere Bowery)

21/12/1976 – Ancora più tardi


 

L’ultima volta che Batman aveva combattuto contro Due Facce, ormai molti mesi prima, non vi erano stati né la luna, né le stelle, né i roventi fumi in uscita dalle arrugginite canne fumarie o le luci delle volanti in lontananza ad incorniciare la notte di Gotham e le sue fredde lotte intestine.

Nulla; nemmeno un dettaglio capace di imprimere, nella memoria dell’uomo pipistrello, ricordi che si allontanassero dagli sguardi lanciati alle alte vetrate a scacchiera – protette da spesse reti in ferro – o dagli alti lampadari d’epoca posti a cascata dai soffitti a volta. Nulla, quindi, se non i lunghi schermi rettangolari posti sulle colonne in quercia a dividere la grande sala in legno antico, tabelloni scuri a palette con i principali scambi di valuta segnati in bianco su caratteri alfanumerici a scomparsa, capaci di creare costruzioni geometriche che impreziosissero l’atmosfera datata dell’ambiente.


 


 

La “Gotham Bank”, la banca più importante e grande dell’intera città, era rinomata per avere un sistema di vigilanza e di sicurezza che andasse ben oltre quelle che erano le possibilità di molti dei ladri che popolavano il bassoventre della metropoli e che dovevano le loro origini, per la maggior parte almeno, al quartiere popolare di China Town. Una certezza che era però anche una lama a doppio taglio, poiché se era già di per sé difficile sentire l’allarme dell’edificio suonare più di una o due volte all’anno, era altresì probabile che, quando ciò accadeva, dietro al colpo vi fosse ben più di una semplice organizzazione di ladri in cerca di fortuna o di un criminale solitario speranzoso di passare inosservato nella notte.

L’ultima volta che quella sirena era scattata, il suono si era disperso nel quartiere come un lamento pedante e preciso, passando gli edifici adiacenti ed andando ad ampliarsi nell’aria grigia alla ricerca di un suo soccorritore che alla fine aveva trovato, nascosto nell’ombra ed a qualche tetto di distanza, il mantello nero e lungo a coprire gli angoli scarni di cemento. Proprio come una vera sirena lo aveva attirato a sé, facendolo planare silenziosamente nella notte sino a raggiungere le porte di vetro esplose nell’attacco mirato ad aprirle, e sempre nel mutismo della sua identità celata aveva puntato il suo rampino verso uno dei gargouille che decoravano la parte superiore degli interni di quell’enorme stanza, portandosi vicino al soffitto ed osservando i numerosi uomini che camminavano sotto di lui.

Aveva ascoltato le loro conversazioni, le loro lamentele sulla mancanza di celerità tra i compagni in azione, e si era alzato in piedi dalla sua posizione raccolta sopra la testa della statua quando uno di loro aveva intimato l’amico a fare più velocemente, avendo poco tempo a disposizione e volendo Due Facce vedere tutti i soldi contenuti nell’enorme cassaforte passare ai loro camioncini prima dell’arrivo della polizia.

Trovare Bokuto era stato difficile e aveva richiesto non solo la sconfitta di tutti i suoi tirapiedi, ma anche l’uso di più gadget per superare i passaggi che Due Facce aveva bloccato nel tentativo di rendere impossibile a chiunque di seguirlo.

Avevano lottato, lo ricordava bene. E per quanto Batman fosse riuscito alla fine a tirarlo fuori dalla banca mentre incosciente, lasciandolo all’alba del nuovo giorno davanti al comando di polizia della GCPD, non era passato molto tempo prima che la notizia della sua evasione, avvenuta mentre in viaggio verso il manicomio di Arkham, giungesse al suo orecchio e agli occhi di tutti i lettori del quotidiano di Gotham.


 


 

°°°°


 


 

«Ohya ohya, quanta fretta! Dove corri così velocemente?!»

Batman rotola di lato, portando il braccio in alto così da coprirsi il viso con il mantello, mentre una delle lunghe piante acuminate di Poison fendono l’aria accanto a lui, tagliando parti di tessuto ma fermandosi prima di arrivare a lambire la carne. Daichi stringe le labbra, la mano posata a terra che va a fare pressione contro la lastra verde ai suoi piedi, e si alza giusto in tempo per schivare una pallottola proveniente dalla pistola di Due Facce, roteando poi su se stesso e prendendo velocità per lanciare un bat-artiglio verso l’avversario.

Lo vede piegarsi di riflesso, la gittata del bat-rang troppo lunga per colpirlo durante il viaggio di ritorno verso il proprietario, ed utilizza quel momento di pausa per gettare una bomba fumogena verso Poison: lo vede farsi scudo con le sue liane prima che il gas si spanda velocemente attorno a loro, e mentre i corpi del metaumano e di Due Facce – ancora accanto a lui – scompaiono dal suo campo visivo Daichi usa la situazione per portarsi più in alto, indirizzando il rampino verso una delle scale di emergenza ai lati del palazzo e salendo sino ad arrivare al primo pianerottolo impolverato.

«Sai Batman, ho visto quanta gente lì sotto hai atterrato. Ma sono tutti incoscienti, non morti– vero?»

Il gas inizia già a diramarsi, e Daichi si inginocchia a controllare le armi che ancora tiene ancorate alla cintura, dal numero ormai piuttosto esigue e che va ad abbassarsi di secondo in secondo.

«Ohya~ è bello vedere come ancora tenti di seguire quelle tue regole.»

La voce di Due Facce è alta, febbricitante mentre quei globi grandi e dorati lo fissano dal basso; lo studia emozionato per quello che sembra un istante di pura follia, prima che l’espressione si trasformi in un battito di ciglia in una carica di ribrezzo, entrambe le mani che si alzano a puntare le due bocche delle sue semiautomatiche verso di lui, facendo fuoco. Batman si piega da un lato, usando la scala come protezione per quei proiettili sparati senza troppa mira e con troppa fretta – per sua fortuna – e mentre le canne ancora fumano per lo sforzo si trova a salire un altro piano, alla ricerca di una posizione che possa sfruttare meglio durante il combattimento.

«Un tempo avevamo una missione, ricordi?! Un sogno, un’utopia! O ancora credi che potesse essere realtà?! Ohya, ohya! Ma adesso– Adesso è molto più facile, sai?!»

Anche il fumo che ha annebbiato la figura di Poison si sta diramando lentamente, e Batman non ha bisogno di abbassare lo sguardo per sapere come anche Ives si stia preparando nuovamente a colpirlo, gli occhi socchiusi ma silenziosamente avvelenati davanti ai resti delle piante rampicanti ormai frammentate a terra.

« –Niente ansie, niente esitazioni, io e Bokuto adempiamo solo al volere del Fato!»

Bokuto, pensa Batman mentre infine si ferma, voltando lo sguardo verso i due criminali ormai a piani di distanza da lui e verso Due Facce, fissandolo in silenzio.

Ricordare, gli chiede.

Come se dimenticare fosse possibile– come se vedere mezzo di quel viso orrendamente sfigurato possa davvero far scordare a Daichi che Bokuto è ancora lì da qualche parte, dietro tutta quella pazzia, inglobato da quella seconda personalità completamente distaccata dalla principale e prevalsa dopo l’incidente, soffocato da una vita che non gli appartiene e che, forse, continua a non desiderare e a ripudiare con tutto se stesso.

«Bokuto, fermati– Puoi controllarlo.»

È una mossa azzardata, ma una parte di sé non riesce a non arrivare a questo punto ogni volta che si scontra con Due Facce. È quasi imprudente la tenacia con la quale tenta ogni volta di parlare con l’altro e di farlo tornare in sé, una imprudenza a cui difficilmente si lascia andare in qualsiasi altra situazione. Forse il problema è sempre stato lui: spinto dal senso di colpa e dalla speranza, o forse – e a volte non solo arriva a pensarlo, quanto a crederci – persino dall’egoismo nato dalla necessità di convincersi come non tutti gli esseri umani nascano con una predisposizione alla malvagità; come se, salvando Bokuto, in qualche modo redimerà forse anche se stesso, allontanandolo da quel vortice di marcio e di oscurità che avvelena Gotham ed i suoi cittadini.

«Controllare me? Ohya, ohya!»

Ride, una risata sguaiata e rumorosa che porta le sopracciglia di Batman ad aggrottarsi da dietro la maschera.

«Ascolta Batman, ci servono molte cose per mandare avanti questo posto. È difficile guadagnare abbastanza per comprare tutto ciò che occorre per rapinare banche e scassinare caveau quando sei deturpato così

La mano ustionata di Due Facce va ad indicare con un gesto eloquente la metà del volto sfigurata, e Daichi usa quell’istante per calare nuovamente verso di loro, lasciandosi andare ad un verso di dolore quando una delle edere di Poison lo colpisce trapassandogli una parte della spalla. Dannazione – Perde quota velocemente, troppo velocemente, ma non riesce neppure ad atterrare dolorosamente su di un fianco che si trova Due Facce addosso, la schiena che preme contro tettoia del mercato mentre le mani dell’avversario si chiudono attorno al suo collo, bloccandolo a fissare un viso deformato in una smorfia di collera mista ad illogico fanatismo:

«Come ti senti quando vedi questa faccia, Batman?! Quando siamo così vicini che puoi vedere ogni singola piega della mia metà sfregiata? Ohya~ ti piace, non è così?»

Una risata sguaiata e poi un’espressione seria, mentre il taglio di un sorriso si fende in un secondo ad assecondare una scarica di rabbia, la dentatura che biancheggia allo scoperto di quelle labbra ritratte.

«Dopo tutto, tu hai bisogno di criminali quanto ne ha bisogno Gotham stessa. Prima ci trasformi in un mostro, e poi ci dai la caccia

La saliva crea fili lunghi e trasparenti tra i denti di Due Facce mentre questo parla, e nel frattempo che la pazzia irriga lo sguardo del criminale i suoi occhi, larghi e spalancati seppure a tratti privi di focalizzazione, sono puntati con fervore sotto di lui, dove Batman si sta ancora scuotendo nel tentativo di allontanarlo da sé.

«Bok–»

«Addio Batman, addio a te ed al tuo s–!»


 


 

È un secondo, e quello che prima era un peso sopra al suo corpo tutto ad un tratto diventa un fantasma, mentre Bokuto si piega improvvisamente da un lato accartocciandosi su se stesso, le mani sulle tempie e l’espressione contratta in una smorfia di dolore ed irritazione. Batman si alza a sedere, piegandosi velocemente di lato e rotolando qualche metro più dietro quando le lunghe edere di Poison creano istantaneamente un muro tra lui e Due Facce, isolando entrambi dalla vista di Daichi.

«SmettDobbiamo ucciderlo, dobbiamoNo, lui ci Lascialo, non–!»

Lo sente annaspare oltre quella barriera di verde, e rimane in silenzio mentre si alza in piedi, posando lo sguardo su Poison e scrutandolo in silenzio mentre questi compie alcuni passi silenziosi per porsi fra lui e l’alleato. Riesce a notare la mano destra allargarsi a lato, a fare un istintivo e forse persino inconscio gesto di protezione verso Bokuto, e quando una delle liane si muove appena ad aprire un momentaneo scorcio nella barriera di edere che lo protegge può vederlo ancora inginocchiato a terra, le unghie talmente premute contro la carne del cranio da lasciarvi sicuramente solchi sopra, lo sguardo fisso nel vuoto e le labbra socchiuse a mostrare l’incoscienza che sta vivendo il proprietario in quel momento. Una guerra sta avvenendo nel suo corpo, due personalità che si combattono per decidere chi delle due dovrà avere il comando del corpo che condividono, e Daichi sa che potrebbe essere il momento giusto, il momento per far tornare Bokuto in sé finalmente. Se solo Poison Ives –

«Poison»

«Ding Dong! Comunicazione di servizio.»

Sia Poison che Batman abbassano simultaneamente lo sguardo verso il foro che vi è nella tettoia, riconoscendo la voce gracchiante che giunge dal megafono.

«Mhm~ Ohya? Cosa vedono i miei occhi? Pare la festa si sia trasferita al piano di sopra! Quando si dice una piega inaspettata degli eventi~»

Una risata, seguita da un suono che potrebbe essere qualsiasi cosa e che Daichi si sforza di tenere a mente, un ticchettio metallico come di qualcosa che venga chiuso ermeticamente attraverso una serie di ganci, o forse di uncini in acciaio. Una valigia?

«Comunque! Per quanto questo posto faccia uscire tutta l’anima natalizia che è in me, vorrei avvisare i miei uomini che qui abbiamo finito. Poison, lascio Due Facce alle tue amorevoli cure, dopo tutto sei il suo metaumano preferito quando si tratta di affrontare le sue crisi esistenziali!»

La risata rimane come uno spettro a librarsi nell’umido dell’aria anche quando la musica di natale torna a graffiare gli altoparlanti segnati dalla battaglia, gemendo qualche parola in inglese prima di perdere potenza e rallentarne il suono in uscita in un effetto raccapricciante.

Batman torna a guardare davanti a sé, e lo fa giusto in tempo per trovare le piante di Poison intente a raccogliere Due Facce da terra portandolo verso l’altro; fissa il metaumano in silenzio, tenendo una mano sulla ferita alla spalla mentre lo vede fare qualche passo verso il confine del palazzo, la gamba ormai guarita grazie alla linfa prodotta dal suo stesso corpo.

«Po»

«Batman. È vero che non sono parte di questo piano, ma non sono alleato di questa città: Se Gotham cadrà per colpa delle sue stesse azioni» una pausa «Non sarò io a fermarla.»

Pronuncia quelle parole senza voltarsi, e Batman fa un passo avanti giusto in tempo per vedere Poison lasciarsi scivolare di sotto, Due Facce inconsciamente avviluppato dalle sue piante.

È un attimo, e l’attimo dopo è nulla più.


 


 

°°°°


 


 

Una volta scivolato nuovamente giù mediante la fessura usata per salire sulla tettoia, la prima cosa che Batman nota è il cancello nuovamente aperto, le luci dei vigili del fuoco ed il rosso dei loro grandi automezzi a dipingere il grigio che si staglia oltre le grate spalancate. I passi sono lenti e calcolati, lo sguardo che slitta poco più avanti verso i corpi riversi ed ora coperti da una serie di lunghi teli color ardesia a nasconderne i volti sfigurati o dolorosamente riconoscibili ai poliziotti piegati a piangerne la perdita.

Vede in lontananza Yaku, ma non fa in tempo a raggiungerlo che anche questo alza lo sguardo, dandogli un cenno e avvicinandosi a passi veloci, facendosi largo tra vigili e medici – ancora nella silenziosa ricerca di feriti o superstiti – sino ad arrivargli davanti.

«Batman! Cosa è successo là sopra? Abbiamo sentito la voce di Joker, poi gli spari, e poi presumo di averti visto scomparire oltre il tetto– Volevamo raggiungerti una volta aperti i cancelli, ma i miei uomini sono caduti in un’imboscata di Harlee Kenn. Dio–»

Il commissario si lascia andare ad un sospiro frustrato, le dita che vanno a correre tra i capelli chiari e corti e gli occhi a chiudersi stanchi.

«Ci crederesti mai? È riuscito a tenere testa a dieci dei miei migliori agenti, inizio a dubitare non sia umano da come si muove e salta da un punto all’altro. Poi con quell’espressione assolutamente apatica, sembrava non fare il minimo sforzo a stare dietro ai loro movimenti… Assurdo. A te come è andata, hai scoperto qualcosa?»

Ma Batman non risponde, la mente ormai un fascio di nervi percorsi da idee e ipotesi accavallatesi le une sulle altre dal momento stesso che ha lasciato la tettoia ed è tornato a camminare sulla via principale del Jezebel Center; continua anzi ad avanzare, il commissario al suo fianco che lo guarda con le sopracciglia leggermente aggrottate e l’espressione perplessa, sino a quando non arriva davanti alla sua macchina, le cui portiere si sono nel frattempo sollevate per farlo entrare.

«Dobbiamo andare da Serpe. Non abbiamo prove sia colpevole né innocente, ma ora sappiamo che Joker e Due Facce sono alleati. E Joker non fa mai nulla per nulla, quindi ci deve essere un motivo che lo abbia spinto a prendere di mira proprio questo posto, proprio oggi.»

Yaku lo fissa in silenzio per qualche secondo, metabolizzando le sue parole mentre un primo accenno di scetticismo si fa largo nei suoi occhi. Ma non hanno tempo per queste cose: Batman gli fa segno di salire in macchina, l’espressione indecifrabile dietro la maschera che ne cela più di metà sguardo, e rimane a fissare l’altro quando quest’ultimo alza un attimo la mano, facendogli segno di attendere. Lo vede tornare indietro e parlare ai suoi uomini, gesticolare qualcosa mentre impartisce probabilmente qualche tipo di compito, aspettando poi che tutti coloro che sono in ascolto annuiscano velocemente prima di posare una mano sull’avambraccio di uno di loro, poco più alto di lui – è lontano, ma Batman è abbastanza certo sia lo stesso visto la sera prima, sul terrazzo della GCPD – prima di voltarsi nuovamente nella sua direzione, raggiungendo la sua macchina a grandi passi ed entrando velocemente nella vettura, leggermente a disagio.

«… Dove sono le cinture di sicurezza?»

Lo sente domandare, mentre lo sguardo va a posarsi diffidente ai lati del sedile. Daichi rimane a fissarlo per qualche secondo prima di voltarsi verso il volante, mettendo in moto la macchina. Le portiere si chiudono velocemente, ed altrettanto velocemente una cintura di sicurezza ad X compare ai lati del posto del passeggero e del guidatore, avvolgendo entrambi i corpi e facendo soffocare al commissario un respiro lasciato a metà.

«Ah– comodo. Credo– Comunque, ho lasciato i miei uomini a perlustrare la zona e a raccogliere il massimo delle informazioni possibili su cosa vendessero i negozi dello Jezebel; in caso manchi qualcosa ci mandano una lista. Ora– Perché stiamo andando da Serpe? È ancora nel penitenziario, difficilmente saprà qualcosa di questo attacco.»

«Forse, ma sicuramente sa di più di noi sui traffici di questa zona.»

«Perché?»

Batman lancia uno sguardo verso il commissario, guardandolo per una manciata di secondi prima di tornare alla strada, il volante che viene inclinato velocemente mentre una curva stretta li porta a voltare su una strada secondaria; il semaforo giallo all’incrocio lampeggia impassibile, indicando un’accortezza che Daichi non sente di poter avere al momento, mentre con la coda dell’occhio nota il modo in cui Yaku ha le mani saldamente chiuse a pugno ai lati del sedile, la bocca socchiusa e pronta a fare qualche tipo di commento sul codice stradale che l’altro sta decidendo con così tanta leggerezza di ignorare.

No, non hanno tempo nemmeno per quello.

«Perché è lui ad amministrarla.»


 


 

°°°°


 


 

GOTHAM CITY Manicomio di Arkham (Arkham City)

21/12/1976 – Notte


 

La prigione di Arkham era esattamente come Yaku ricordava di averla lasciata nemmeno una settimana prima: buia, fredda, inospitale ed incredibilmente umida. Per quanto fosse stato in molte prigioni da quando aveva iniziato la sua carriera di commissario di polizia, non vi era tuttavia stato altro carcere capace di procurare sin dai primi minuti passati al suo interno quella sensazione di malessere e fastidio che lo accompagnavano non appena passato il cancello, portandolo a grattarsi sovrappensiero un avambraccio nel mentre in attesa dell’apertura del montacarichi o durante la camminata per raggiungere la cella del prigioniero.

«Prego, da questa parte.»

Yaku potrebbe dire alla guardia che sa già dove andare, ma alla fine rimane in silenzio, dovendo ammettere a se stesso in maniera piuttosto vile di preferire avere una terza persona accanto a lui in quella discesa tra gli abissi del manicomio, le voci degli “ospiti” della struttura che graffiano con tonalità acute le pareti dagli angoli di muffa, una patina verde e sudata che va percorrendo i bordi dei corridoi lunghi e stretti. Allontana lo sguardo da quei dettagli lacrimanti umido e sporcizia, e dopo aver osservato la sentinella ad un paio di metri da lui si volta alla sua sinistra, posando lo sguardo sulla macchia nera che lo sta accompagnando nei meandri di quell’edifico senza fondo.

Gli occhi si posano sulla cinta che ad ogni passo il mantello scopre appena alla vista, e le sopracciglia si aggrottano scettiche mentre riesce a riconoscere tra i vari gadget affissi alla vita dell’altro le bat-manette, la cerbottana, il rampino, un paio di bat-artigli–

«Ti hanno mai fatto storie per tutte le armi che porti nella prigione ogni volta?»

Domanda infine inesorabilmente vinto dalla curiosità, mentre nel frattempo lo sguardo torna a fissare la guardia avanti a sé, l’espressione sottile e volutamente diplomatica che va a posarsi con falso disinteresse sul giubbotto imbottito che questi indossa. Batman rimane in silenzio per quelli che sembrano essere secondi interminabili, continuando a camminare con passo sostenuto e controllato, mentre Yaku si trova costretto ad aumentare impercettibilmente il suo quando si rende conto di essere andato a rallentare, forse nell’attesa di una risposta.

«Solo una volta.»

Dichiara infine, ed il commissario non riesce ad evitare di lanciargli uno sguardo sott’occhio, le iridi che slittano per un istante sul collega prima di tornare in avanti, un filo di interesse ad incrinare quella maschera di perfetta indifferenza.

«Poi hanno smesso di domandarlo?»

«Poi hanno capito che è più utile avermi armato.»

«Sembra l’inizio di una di quelle storie che valga la pena raccontare ai proprio nipoti.»

«Mi creda, non lo è. Soprattutto se i protagonisti sono Joker ed il suo mettere fuori uso dall’interno i sistemi di sicurezza del manicomio per fuggire dalla struttura.»

A quelle parole il commissario si volta del tutto, decidendo evidentemente di arrendersi al palese coinvolgimento che la sua espressione deve esprimere in quel momento, mentre le sopracciglia vanno ad aggrottarsi appena, lo sguardo acuto e partecipe e la voce che rimane bassa e rauca, nel tentativo di farsi sentire solo dall’altro.

«Il caso dello psichiatra corrotto, intendi? Come si chiamava, il dottor Kozum–…?»

«Siamo arrivati.»

La voce della guardia è vicina, ma non abbastanza per superare quella di Batman, grave e impassibile mentre pronuncia l’ultima frase, lo sguardo ancora una volta puntato davanti a sé.

«Ora lo conosci come Harlee Kenn.»


 


 

L’agente davanti a loro si ferma, interrompendo involontariamente quella conversazione avvenuta a qualche metro da lui, e volge le spalle verso la grande porta blindata in acciaio che si trova alla fine di quel lungo corridoio, prendendo un abbondante mazzo di chiavi dal cinturino che tiene stretto in vita mentre ne va a cercare una in particolare, i numeri sbiaditi sulle varie etichette che scivolano veloci fra le sue dita.

«Non avete molto tempo, verranno a portargli il pasto tra poco.»

Dichiara asciutto, aprendo la porta che dà alla stanza che Yaku già conosce e rimanendo poi di lato, permettendo a Batman ed al commissario di fare il loro ingresso all’interno. È ancora sulla soglia, ma al poliziotto non serve nemmeno abituarsi alla luce tenue della cabina per riconoscere subito il prigioniero posto oltre le sbarre in metallo: e questo non perché sia disteso nello stesso modo in cui lo ha trovato la volta scorsa, o per i vestiti riconoscibili, o ancora per il modo tipico attraverso il quale le sue mani sono posate sul busto, come in attesa di cadere addormentato in una favola vecchio stile.

È il sorriso. Yaku può vederlo, può vedere la delicatezza leggera e strafottente attraverso la quale le labbra del criminale sono già piegate verso l’alto, due petali beffardi che inquadrano quell’espressione mal celata di scherno nei loro confronti e probabilmente fiorita da prima ancora che fossero dentro la cella.

Dio, non ha bevuto abbastanza caffè per affrontare quella situazione.

«Serpe, vogliono parlarti.»

La voce della guardia è lontana, ed il commissario non ha bisogno di voltarsi per intuire come l’agente abbia preferito rimanere accanto alla porta, vigile ma a distanza da quelle sbarre che separano il criminale da tutti loro.

«… Vogliono?»

La voce di Serpe acquista una leggera nota di interesse nel pronunciare quella parola, e pare il desiderio di sapere di più su questo plurale sia sufficiente a convincerlo a girarsi, voltando lo sguardo e posando quasi istantaneamente lo sguardo su Yaku. Accenna ad un sorriso serpentino non appena le iridi strette arrivano a riconoscerne i tratti familiari, le fini e corte sopracciglia che rimangono rilassate a sostegno della fronte liscia e pallida.

«Commissario, ancora qui? Allora è proprio vero che sono le prede a cercare i predatori, alle volte.»

Decisamente, troppo poco caffè.

«Non vedo tue possibili prede in questa stanza, Suguru. Fra le altre cose non sono solo, come vedi.»

«Mhm~? Eppure non è forse il topo preda del serpente, commissario? Sono sorpreso, lei prima di tutti non dovrebbe mancare di simili nozioni basilari di zoologia.»

Serpe sorride maggiormente, i canini lunghi ed acuminati che biancheggiano alla luce mentre le labbra retratte ne scoprono i contorni pungenti. Sempre sorridendo si alza a sedere, gli occhi lunghi e stretti che vengono nascosti dalle palpebre sottili prima che essi vengano puntati nella direzione del secondo ospite di quella stanza, la lingua biforcuta che scivola fuori per qualche istante prima di scomparire nuovamente all’interno.

«Ed avevo già notato avessimo compagnia. Batman–»

Un rapido accenno con la mano, svogliato nel suo palesare un disinteresse su misura per la situazione.

«Ti mancavo forse, che sei venuto a trovarmi?»

«Sono venuto per chiederti di Joker.»

Serpe sembra pensarci su, e nel mentre che rimane in silenzio tira indietro le spalle, stirandosi con la schiena e muovendo le scapole all’esterno ed all’interno, terminando con un fluido e serpentesco movimento della colonna vertebrale; solo allora torna a posare nuovamente lo sguardo su Batman, ancora immobile accanto a Yaku.

«Joker, mhm? Alto, capelli scuri, trucco opinabile, una passione malsana per il suo assistente–?»

«Vogliamo sapere cosa stesse cercando nel tuo territorio.»

È un attimo, ma Yaku può vedere chiaramente quella virgola di incertezza che si fa strada nello sguardo di Suguru mentre questo immobilizza il movimento dei polsi in rotazione, guardando Batman in silenzio per una manciata di secondi prima di tornare ad aprire le labbra in un sorriso arguto, che non riesce tuttavia a raggiungere gli stretti occhi poco più sopra.

«E cosa vi fa credere io lo sappia, miei irrispettosi ospiti?»

Yaku sta per ribattere quando Batman lo precede, la voce ferrea e la risposta così tempestiva da far pensare al commissario fosse già nella mente dell’uomo pipistrello da prima di entrare ad Arkham.

«La tua conoscenza del sottobosco criminale di Gotham non è seconda a nessuno, Serpe. Non si muove foglia in città senza che tu lo sappia, e stento a credere che l’essere qui dentro da qualche giorno non ti abbia già dato la possibilità di mandare i tuoi informatori in giro a cercare notizie su cosa stia succedendo al di fuori di queste mura.»

Serpe sorride, la lingua che torna a saggiare l’aria per qualche istante prima di tornare indietro, gli angoli della bocca che si alzano a tagliare le guance bianche in una smorfia intrisa di beffa.

«Mandare informatori, Batman? Queste sono insinuazioni pesanti. Si sa che in questo triste posto qualsiasi collegamento con l’esterno è assolutamente vietato. Non è così, guardia?»

Lo sguardo cade con eccessivo interesse verso l’agente ancora alla porta, e la lingua saetta veloce dentro e fuori il caldo rifugio offerto dalla bocca così da assaporare famelica chissà quale umore presente nell’aria. L’uomo in divisa getta velocemente uno sguardo sul criminale prima di indurire nervosamente la mandibola, distogliendo subito gli occhi dall’altro.

«Nervoso? Strano, sembra quasi– In ogni caso, commissario, mi rammarica dirvi che non so cosa cercasse Joker nel mio quartiere, né tanto meno perché non me lo abbia semplicemente potuto chiedere, se era così interessato ad averlo.»

«Gli avresti dato ciò che gli serviva, in caso?»

Stavolta è Yaku a chiedere, seppure forse semplicemente spinto dalla necessità di parlare piuttosto che rimanere in silenzio sotto lo sguardo di Serpe; sono poche parole, eppure sembrano essere sufficienti a far sì che l’altro si lasci sfuggire un verso di apprezzamento, forse soddisfatto di averlo fatto parlare o forse per la risposta che è già pronto a dare, magari preparata battute prima e in attesa di venire sfoggiata al momento giusto.

«Ah~ non posso mentirle, lo sa: direi di no. Non senza un lauto compenso, almeno. Ma sono discorsi inutili: è risaputo Joker abbia un problema piuttosto grave con qualsiasi mezzo di vendita che abbia valore solo nominale; non sarebbe disposto a pagare più per presa di posizione che per altro. Eppure si tratta di educazione: lei avrebbe chiesto prima di rubare, no?»

Yaku sta per schiudere le labbra, già pronto a fare i suoi commenti riguardo cosa sia per Serpe “l’educazione”, quando una serie di passi veloci e calzanti irrompono inaspettatamente all’interno della cella, portandosi dietro un ragazzo giovane in uniforme dal respiro agitato ed un lungo foglio tra le mani.

«Per– Per lei commissario. Dalla sua squadra–»

Annaspa mentre Yaku allunga una mano per prendere quel pezzo di carta, probabilmente uscito dal fax qualche minuto prima a giudicare dalla sua temperatura alta e dalla scrittura leggermente storta risultata dalla stampa, e ringrazia a voce bassa la probabile matricola prima di portarsi più vicino alla piccola luce al neon che illumina la parte riservata a lui ed al collega in nero, alzando leggermente il foglio nel tentativo di leggerne più chiaramente il contenuto.

«Batman– mi hanno mandato la lista. Dalle ricerche pare manchino una serie di cose che avevano in stock, qualche filo, alcune ventole, degli orologi, dei rossetti– ah.»

Yaku si ferma un attimo, aggrottando le sopracciglia mentre il documento viene portato più vicino alle iridi castane, forse nel tentativo di leggere meglio quelle piccole lettere e capire se sia possibile si sia sbagliato nella fretta. Cosa non accaduta, a quanto pare.

«… Questo è strano, a quanto pare anche moltissimi profumi. Ma davvero molti, parliamo di migliaia di prodotti. Ammetto non facessi Joker un amante del genere, lo vedo più da– erba gatta? O anche solo da erba, a dirla tutta.»

«Di che locale?»

È– inaspettato. È tutto quello che Morisuke riesce a pensare mentre lui e Batman si girano verso Serpe, il primo guardandolo con espressione leggermente sospettosa mentre dall’altra parte delle sbarre il criminale continua a fissarlo insistentemente, in attesa di una sua risposta.

«Come?»

«Da che negozio li ha presi.»

C’è qualcosa di strano nel modo in cui Serpe lo sta guardando, e seppure la domanda sembri venire posta nella tonalità più asciutta e disinteressata del mondo Yaku può sentire chiaramente qualcosa stonare all’interno della sua frase, una crepa invisibile ai lati di quella sua maschera di tranquillità che porta il commissario ad abbassare lo sguardo, le iridi che si muovono alla ricerca dei nomi dei locali controllati.

«Controllo. Ah– ecco; sembra questi furti si siano focalizzati solo sulla Jezebel Parfume, specializzata in profumi ecosostenibili ad uso di–»

Si blocca, aggrottando le sopracciglia ed adottando un’espressione tra il confuso e preoccupato, i muscoli della mascella che si contraggono leggermente mentre rimane qualche istante in silenzio, rileggendo più volte la stessa riga come a volersi accertare di averla letta in maniera giusta.

«Di cosa?»

Domanda infine Batman, spronandolo con una certa imposizione della voce a continuare.

«Batteri.»

La risposta arriva di lato, e le iridi di Daichi vanno a puntarsi istintivamente verso la sorgente da cui quella parola sembra essersi materializzata, scorgendo la figura di Serpe seduta sulla brandina, la schiena leggermente curvata in avanti ed i gomiti poggiati sulle ginocchia, a scrutarlo in silenzio.

«… … Vado a chiamare la scientifica.»

La guardia si fa da parte mentre Yaku stringe la carta tra le mani, facendo veloci passi verso l’agente ed allontanandosi dalla cella. Batman può notare il modo attraverso il quale Serpe rimane a guardare le spalle del commissario finché possibile, e solo quando sente i tacchi delle scarpe laccate di Morisuke diventare echi ovattati decide di continuare la conversazione, la tonalità bassa ed impostata.

«Di che batteri stiamo parlando?»

Serpe torna a guardarlo, lanciando un ultimo sguardo alla porta blindata adesso occupata dalla sagoma della guardia prima di voltarsi verso di lui, un’espressione indisponente a modificarne i tratti fino a qualche istante prima lisci ed eterei.

«Ah, non saprei. Piuttosto, la vera domanda che mi farei al momento se fossi in te sarebbe–»

E nel continuare un sorriso tagliente si apre sul viso, le labbra strette che disegnano una luna chiara su quella pelle pallida come il latte.

« –In che altro modo potrebbero esseri usati?»

«… Qui abbiamo finito.»

E con questa Batman si volta verso la guardia, il mantello scuro che si libra fendendo l’aria e creando zone d’ombra sul pavimento sporco mentre esce velocemente dalla stanza, superando l’agente e percorrendo il corridoio mentre sente Serpe continuare a parlare e poi ridere di gusto, seppure ormai lontano.

Ma non ha tempo, non oggi. Perché la risposta alla domanda di Serpe, conoscendo Joker, è solo una, e non è certamente quel tipo di risposta che si vorrebbe avere quando si sa che il criminale in questione adesso ha tutti i mezzi per realizzarla.

Un’arma batteriologica.

Batman si chiede se esista qualcosa di più pericoloso del bioterrorismo scatenato dalle mani di un pazzo.


 



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Ok ok ok, sono in ritardo. Lo ammetto. Sono una brutta persona. (…)
Ringrazio immensamente la mia beta-reader Francesca perché ha trovato il tempo per leggere questo capitolo prima di farmelo postare. Grazie mille! ♡ Ringrazio inoltre anche le persone che commentano, quelle che mettono i preferiti e i seguiti, insomma un sacco di gente che non mi aspettavo di trovare interessata a questa Batman AU e hjfbskjkjf, mi fate commuovere. ;_;) (??)
Cosa ne pensate del capitolo, comunque?! Povero Bokuto, mi fa un sacco tenerezza in questa storia…! Non so se è molto comprensibile anche per le persone che non conoscono il personaggio (?), ma Due Facce soffre di disturbi di personalità multipla dovuti ad un trauma fisico e morale che è anche causa della poco estetica ustione che segna metà del suo corpo. Ho voluto enfatizzare la cosa in vari modi:
– Primo tra tutti, il fatto che parla al plurale di se stesso!
– Secondo, il fatto che spesso combatta con se stesso riguardo ciò che sia bene o meno fare. (??)
– Terzo, il fatto non sempre si ricordi di avere anche altri se stesso dentro di lui. (?!)
Ammetto inoltre di adorare malamente anche Suguru, è più forte di me mannaggia. E adooooro il fatto che ci provi spudoratamente con Yaku. (…) E a proposito di Yaku… Ma quanto è carino!? ♡
Come pure Kenma, che fa la pelle a dieci poliziotti come fosse nulla. Rrrh! ♡ (??)
Fatemi sapere che ne pensate!
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 10
*** Sotto la fragile crosta della civiltà si agita il freddo caos ***


10. Sotto la fragile crosta della civiltà si agita il freddo caos.
(E in certi posti il ghiaccio è pericolosamente sottile.)



V for Vendetta





GOTHAM CITY Sawamura Enterprises (Old Gotham)

22/12/1976 – Mattina


Il giorno dopo lo scontro con Joker, Poison e Due Facce, la notizia della rapina allo Jezebel Center era già su tutti i giornali; veri e finti testimoni si accalcavano agli incroci delle vie principali, fingendo di bisbigliare i loro falsi segreti ai passanti e tentando al contempo di farsi sentire da quanta più gente possibile, mentre tra le strade trafficate bambini in abiti malconci e rattoppati sventolavano giornali con la prima pagina recante una frase corta ma d’effetto, sufficiente cioè a permettere che decine di monete finissero nelle loro piccole tasche bucate.

Nessun luogo è più sicuro!

Lo spettegolare sulla faccenda aveva animato gli animi più chiacchieroni della città, ma persino tra i reticenti a quel cicalio sommesso le insinuazioni e le dichiarazioni riguardo quella notte sembravano pizzicare la corda della curiosità. C’era persino chi affermava di aver visto Batman arrivare insieme alla polizia, cosa su cui chiunque si sarebbe sentito di dubitare in altri momenti – soprattutto a causa del rapporto men che meno duale che il Cavaliere Oscuro pareva avere con la legalità – mentre altri giuravano di averlo visto lottare sulle scale antincendio di uno dei palazzi fiancheggianti il centro commerciale, magari perfino passando accanto l’appartamento del figlio di questo o quel vicino che nessuno ovviamente conosceva ma che indiscutibilmente doveva esistere.

Tra realtà e finzione tutto aveva quindi preso un contorno labile e sfumato quella mattina del ventidue dicembre, ed alla fine delle controversie riguardo le testimonianze a volte discordanti solo dubbi e domande rimanevano ai cittadini, che venivano così posti davanti ad un gioco di sfide e di obblighi alla verità che li portavano a comprare i quotidiani con la stessa passione che un senzatetto avrebbe avuto nell’addentare un pasto caldo durante una lunga notte invernale.




Una copia del The Gotham Times arriva tra le mani di Daichi quando questo ne compra una dal piccolo venditore davanti l’entrata della Sawamura Enterprises, e mentre il bimbo è ancora intento a gridare dello scandalo del giorno al resto dei passanti la transizione si completa con qualche moneta in più da parte dell’adulto, le dita della mancina libera che vanno a frizionare morbidamente il cappellino di lana che il bimbo porta mentre un sorriso paterno si delinea sulle labbra al vederlo schiudere le sue tutto emozionato, mostrando orgoglioso il balconcino che la caduta dei denti da latte gli ha lasciato.

Daichi legge velocemente le prime righe della notizia principale, superando nel frattempo la grande porta a vetri che lo accompagna verso l’interno dell’edificio, ma non riesce a raggiungere la metà pagina che viene raggiunto da un uomo e da una donna, entrambi vestiti elegantemente ed entrambi veloci sul marmo chiaro e venato della Hall.

«Signor Sawamura, i suoi impegni per la giornata».

«Signore, le donazioni della campagna per gli orfani di Gotham».

Daichi annuisce con espressione seria, fermandosi a controllare le carte che i due dipendenti tengono fra le mani mentre posa sul bancone d’ingresso il giornale, prendendo la penna offertagli nel frattempo per firmare una serie di documenti recanti il simbolo della sua azienda.

«Grazie Tanaka. Come procedono, piuttosto?»

«Senta qui: sembra stiano crescendo velocemente, e con velocemente intendo molto velocemente. Si figuri che anche quest’anno contiamo di sostituire un nuovo record al precedente. Ormai potrebbe considerarsi un’abitudine, ah!»

«Bene, porti le nuove analisi al signor Ennoshita allora. Magari potreste iniziare a vedere quali acquisti per gli orfanotrofi della città sia possibile fare con le donazioni attuali. Signorina Michimiya–»

La ragazza dai capelli mori e dal taglio corto e curato si volta a guardalo, i grandi occhi castani che rimangono appena un secondo a rimirare quelli di Daichi prima che un leggero rossore si impadronisca delle sue guance perlacee, un sorriso reso insicuro dall’imbarazzo che trema dolcemente sulle labbra colorate.

«Sì, signor Sawamura?»

«Dia pure a me la tabella degli impegni e vada a prendersi qualcosa di caldo. Ho saputo che suo fratello amministrava uno dei negozi presi d’assalto ieri dai criminali: me ne dispiaccio enormemente».

Daichi sorride teneramente nel vederla allargare le palpebre, probabilmente sorpresa lui si ricordi di quando – mesi fa – si è lasciata sfuggire l’enorme novità che ha portato il fratello a tornare ad amministrare un locale dopo tanti anni di disoccupazione. Si premura intanto di sfilarle delicatamente i documenti dalle mani affusolate, gli occhi che slittano sugli impegni della mattina prima di tornare a specchiarsi in quelli dell’altra.

«Oh– Grazie mille signor Sawamura, io– vorrei solo fare una chiamata, sa, per assicurarmi che mio fratello stia bene… Stamattina è stato convocato dalla polizia a testimoniare, e non l’ho sentito da quando è entrato in dipartimento quindi..!»

«Signorina Yui non si preoccupi, davvero. Faccia con calma».

La vede fare un inchino appena accennato in segno di rispetto, e abbassa la testa anche lui prima di vederla allontanarsi velocemente, la gonna stretta che si tira sulle ginocchia mentre i tacchi picchiettano sulla superficie lucida del pavimento elegante.

In ogni caso, dalle carte risulta non abbia impegni fino a metà mattinata.

Daichi sospira mentre entra nell’ascensore dell’azienda, e attende in silenzio mentre questo sale sino al piano ove è situato il suo ufficio, superando poi la porta di noce scuro e seguendo il tappeto rosso su cui è ricamato lo stemma della sua famiglia. Si sistema con la mano libera il nodo della cravatta che indossa, andando nel frattempo a circumnavigare la grande scrivania in massello fino a portarsi accanto alla poltrona ottomana in ecopelle, ed una mano va a posarsi sullo schienale alto e maestoso per farla strusciare contro la moquette, così da allontanarla dallo scrittoio.


Sono passati anni, ma non ha fatto cambiare nulla di quel luogo.

Da quando i genitori sono venuti a mancare, ormai decenni prima, Daichi ha fatto in modo che tutto quello che una volta era stato lo studio del padre rimanesse immutato. Come risultato di questa fedeltà totale, ancora nel presente gli sembrava di sentire, negli angoli più stretti ed illibati dell’ufficio, il flebile odore dei sigari che questi era solito fumare mentre indaffarato a lavorare sulle carte poste sul suo elegante sottomano in pelle, i bordi rinforzati in metallo dorato e leggermente rigati dall’usura; ai tempi lo studio del padre gli era sembrato un ambiente in stile antico e tradizionale, circondato da mobili pregiati e confortevoli realizzati con la bellezza unica di materiali naturali e ricercati, e Daichi aveva fatto in modo rimanesse tale. Ai lati della porta alta e dai pannelli regolari i due fantasmi dei genitori rimirano con i loro occhi impressi ad olio la stanza, i grandi quadri fatti durante la sua infanzia appesi sopra un paio di divani in pelle nera e raffiguranti da una parte le due figure dietro ad un bambino giovane e riservato, dall’altra lo stesso uomo con una mano posata simbolicamente sulla piccola spalla del giovane erede. I due dipinti sono illuminati da piccole lampade in ottone per quadri, mentre una serie di piante da interni – le preferite dalla madre – fioriscono ai lati, decorando gli angoli esposti dell’enorme ufficio liberi dalle colonne in marmo rosso e dalle lunghe librerie in legno scuro ricolme di libri scritti in più lingue. Seguono le ricostruzioni in gesso di famosi mezzi busti romani, un angolo per il bancone degli alcolici per i clienti più importanti – costantemente illuminato di una luce fioca e fredda proveniente dalle piccole luci distribuite più in alto – ed infine, alle sue spalle, una serie di larghe ed alte vetrate che danno sulla trafficata e misteriosa Gotham.



Daichi ha appena abbassato lo sguardo sulle carte che tiene sulla scrivania, posando il documento con gli impegni previsti per la giornata accanto al sottomano, quando sente bussare alla porta. Alza gli occhi appena in tempo per vedere una delle due ante aprirsi, ed un sorriso affiora involontariamente sulle sue labbra quando nota una chioma pallida come la neve fare la sua comparsa, seguita da un viso morbido ed ovale.

«Posso?»

«Prego, signor Sugawara. Sa già di essere sempre il benvenuto qui».

Le parole di Daichi sono calde, fedeli, e sono accompagnate da un gesto di invito mentre il palmo della destra va ad allargarsi appena verso l’esterno, proponendo all’altro di farsi avanti.

«So anche che siamo da soli, Daichi. Non c’è bisogno di essere così professionali anche in queste occasioni, sai?»

E nel mentre lo dice Koushi gli sorride di rimando, gli angoli delle labbra rosate che si sollevano appena mentre le dita affusolate vanno ad accompagnare la porta alle sue spalle, allontanandosi quando un rumore morbido ne rende nota la chiusura.

«Niente segretaria oggi? Non sono stato fermato e non ho subito nessun controllo di sicurezza mentre salivo, sei fortunato io non sia un malvivente!»

Daichi si lascia andare ad una risata al sentire quelle parole mentre si porta davanti la scrivania, la parte inferiore del busto a posarsi contro la lastra di legno.

«È in pausa al momento. Ed in ogni caso non credo nessuno ti fermi più da tempo in generale, Koushi. Persino il portiere mi ha confidato essersi stancato di chiederti il documento di riconoscimento all’entrata, visto il numero di volte che ti ho invitato io stesso a salire».

E stavolta è Sugawara a scoppiare in una leggera risata, scuotendo leggermente la testa mentre la stoffa leggera dei pantaloni produce un rumore soffice ad ogni passo. Sawamura posa i palmi sulla superficie in legno dietro a lui, andando a premervi sopra per qualche secondo prima di allontanarsi e portarsi sulla destra, facendo segno all’altro di seguirlo.

«Da come lo dici pare ti sia pentito di averlo fatto!»

Il giornalista finge di crucciarsi nel dirlo, ma viene tradito dalle iridi che navigano ancora ridenti sulle linee definite del viso di Daichi mentre questo alza un braccio, prendendo dalle mensole alle spalle del bancone una bottiglia in cristallo, togliendo il tappo lavorato e ruotando appena il polso, così da far fluire il forte odore del liquido al suo interno sin dentro le sue narici.

«Ormai ti conosco da troppi anni per poter anche solo ipotizzare tu creda veramente potrei farlo, Koushi. Piuttosto, sono lieto di vedere tu abbia ricevuto il mio messaggio per oggi».

«Asahi è venuto stamattina stessa a recapitarmelo. Devi vedere come si faccia ancora problemi ad entrare in casa mia, seppure lo conosca da praticamente una vita. Continua ad essere di una timidezza disarmante! L’ho dovuto praticamente obbligare a sedersi al tavolo da pranzo per offrirgli un tea, o sarebbe probabilmente rimasto in piedi all’ingresso

Daichi scuote la testa, non rimanendo affatto sorpreso da ciò che il compagno sta raccontando, e nel frattempo che lo ascolta parlare si allunga a prendere due bicchieri da dietro al bancone, versando due dita di quella miscela color paglia in entrambi; posa poi la bottiglia sul ripiano liscio e lucido, ed una mano si alza a mezz’aria, porgendo uno dei due calici a Sugawara.

«Ti prego di non prenderla sul personale, sai che Asahi è fatto così. Ma sono sicuro abbia apprezzato il tuo gesto, nonostante tutto–»

«Lo spero bene! Era anche il mio miglior tea, se posso essere sincero. Continua però a sorprendermi qualcuno possa davvero sentirsi in soggezione davanti alla mia persona. Lo immagineresti mai?»

«In vero, credo di aver visto più persone uscire imbarazzate e sconfitte da conversazioni avute con te che con il Sindaco stesso. E molte di queste erano conosciute essere ben più spigliate di Asahi».

«Sì? Oh beh, magari sono un inconsapevole bravo oratore!»

«Semplicemente, credo nessuno immagini come dietro un viso come il tuo possano nascondersi idee così cocciutamente incontestabili. O che tu possa avere tanta tenacia nel difenderle».

Gli occhi nocciola di Sugawara sembrano legna da ardere mentre si posano su di lui, il bicchiere che viene abbassato verso la vita mentre un sorriso accondiscendente si schiude nuovamente sul viso morbido, con fare eloquente.

«Come il mio, Daichi?»

«Sai cosa intendo».

Una risata.

«Beh– Direi che questo non invalida la mia teoria sull’essere un buon oratore, in ogni caso».

«… Sì, su questo suppongo tu abbia ragione».

E nel dirlo Daichi sorride, abbassando le palpebre e piegando il bicchiere in orizzontale, così da sorseggiare il liquore custodito al suo interno.

«Piuttosto, posso sapere cosa è successo ieri?»

La domanda dell’altro giunge spontanea, e per qualche secondo Daichi rimane in silenzio, l’espressione una maschera di normalità mentre dentro il dubbio l’altro sappia lo porta per una manciata di istanti a cadere vittima del gelo. Ma poi il ricordo della cena, dei balli e degli sfarzi visti solo qualche ora prima a casa del Sindaco tornano in mente, e l’uomo torna a sorridere morbidamente, un’espressione rammaricata sul volto.

«Un’emergenza con Yuu, mi spiace molto non ti abbia salutato prima di abbandonare la festa».

«Yuu? Aspetta– Non ancora il gioco delle boe, voglio sperare».

«Sembra lo trovino veramente irresistibile come passatempo».

«Sembra non amino l’idea di rimanere in vita, più che altro. Noi eravamo molto più tranquilli alla loro età, o sbaglio?!»

Daichi scuote il viso, prendendo il bicchiere ormai vuoto che l’altro gli pone per posarlo sotto il getto di acqua fredda del lavabo, prodigandosi nel frattempo a sciacquare il suo. Le memorie della giovinezza passata assieme al compagno sono come una calda coperta che ancora indossa con estremo piacere nei momenti di solitudine, e le labbra si schiudono leggermente nel ricordo di loro due, ancora giovani al mondo, chiusi ogni fine settimana nella sua grande e solitaria villa poco fuori da Gotham, seduti sui tappeti arabici di uno dei tre larghi saloni mentre intenti a leggere volumi antichi trovati nella libreria della casa.

«Noi eravamo già anziani alla loro età, Koushi».

«Sai, se vuoi che lo prenda come un complimento sarà bene che riformuli la frase».

«Signor Sawamura!»

Le porte dell’ufficio si aprono improvvisamente e lo sguardo di entrambi saetta verso di esse appena in tempo per vedere la segretaria di Daichi, Yui Michimiya, entrare nella stanza a passi veloci, un’espressione terrorizzata a martoriarne il volto piccolo e tondo.

«Signorina Michimiy–»

«Signor Sawamura, deve venire al piano terra, sta succedendo qualcosa fuori dall’edificio!»



°°°°



Urla, gemiti, stridii di macchine che si puntano nel mezzo della strada e allarmi dei negozi che suonano mentre autobus e persone sbandano contro le loro vetrine, mandandole in frantumi su un mare di uomini e donne intenti a strapparsi le carne con le unghie, tirarsi via i capelli o schiacciarsi contro le mura degli edifici più vicini.

Questo è il panorama che si apre davanti agli occhi dei tre adulti non appena l’ascensore dell’azienda apre le sue porte a due battenti, un suono acuto che indica l’arrivo al piano terra mentre il display posto sopra i pulsanti si accende in un piccolo zero, luminoso e rotondo nell’ignoranza della sua incoscienza. I vetri che chiudono l’entrata principale e le larghe finestre offrono riparo a quello che sembra essersi trasformato in un nuovo mondo fuori la Sawamura Enterprises, una isteria di gruppo che i dipendenti ed i clienti dello stabile stanno guardando dall’interno, alcuni terrorizzati sul posto, altri involontariamente ipnotizzati da quello che sembra essere frutto della loro immaginazione, qualche passo incerto che viene fatto verso le porte chiuse della costruzione nel fissare quelli che minuti fa erano cittadini come loro, vicini di casa, colleghi del lavoro.

«No».

Daichi non ha idea di cosa stia accadendo, ma è certo non sia nulla che vada guardato da troppo vicino. Pone una mano sulla spalla di uno degli uomini che si sono avvicinati alla porta d’ingresso, fermandolo mentre la mano dello stesso è a qualche metro dal pulsante necessario all’apertura della spessa vetrata. L’uomo si volta verso di lui, e Sawamura lascia che quegli occhi allargati dallo shock trovino un poco di conforto nella sua espressione ferma, rimanendogli accanto sino a quando questo non abbassa titubante il braccio, lasciandolo ricadere sul fianco.

«Signor Takeda».

Si volta verso il portiere, trovandolo ancora immobile alla sua postazione e visibilmente in stato confusionario, e alza la voce per attirare la sua attenzione, il tono fermo ed improvvisamente autoritario, le sopracciglia aggrottate a formare un’espressione tesa e dominante.

«Signor Takeda».

Ripete, ma il giovane uomo sembra assente, le iridi che si muovono esitanti tra gli individui che riesce a scorgere all’esterno, lo sguardo che scivola su una donna presa a rotolarsi a terra, le mani fra i capelli e la bocca aperta in un grido animale.

«Signor Takeda!»

Il ragazzo sobbalza mentre la voce tonante di Daichi riesce in qualche modo a tirarlo nuovamente in sé, e si volta a guardarlo, tremolante ed insicuro, i grandi occhiali che ne incorniciano gli occhi smarriti e scossi.

«Blocchi immediatamente tutte le uscite del palazzo, e faccia calare le grate a protezione delle vetrate. Nessuno deve avvicinarsi o aprire le finestre di questo o altri piani».


Thump.


Un rumore sordo attira l’attenzione di tutti i presenti nella sala, ed una serie di occhi si voltano a guardare verso l’origine di quel colpo pesante e cupo, l’urlo di un dirigente che spezza il silenzio calato nel frattempo.


Thump.


Una figura accartocciata e dall’aspetto ansante si arrotola contro il vetro fumè a pochi passi dai presenti, indietreggiando giusto per andare a sbattere nuovamente contro di esso, il materiale semi trasparente che vibra in riflesso a quello scontro rimanendo però privo di qualsiasi crepa sospetta; Sawamura si prende un secondo per ringraziare mentalmente l’insistenza del suo architetto nel sostituire, solo qualche mese prima ed a seguito dell’ultima evasione di Black Mask dalla prigione, tutte le vetrate d’epoca del piano terra con vetri balistici: nulla avrebbe presagito in passato sarebbero risultate tanto utili, e certamente non così a breve.

Avrà al massimo trent’anni, pensa intanto, e nel mentre i pensieri si articolano composti all’interno della sua mente il suo sguardo cade sulla carrozzina a pochi passi da lei, al cui interno un bambino sta alzando le piccole mani in aria, cercando di graffiare una morbida giraffa in cotone posta a decorazione sopra il parasole della culla che lo ospita.

«… Signorina Michimiya, porti tutti all’interno del caveau: chiudetevi al suo interno e non aprite per nessun motivo fino al mio ritorno. Vi è un sistema di ventilazione a circuito chiuso quindi non dovreste avere problemi a rimanervi per tutto il tempo necessario».

Dichiara infine, gli occhi che rimangono fissi sulla giovane sconosciuta mentre le labbra della stessa si schiudono in maniera innaturale, iniziando a rilasciare saliva schiumata.


Thump. Thump, thump, thump!


Un botto, un altro ancora, e stavolta sembra che il rumore abbia attirato anche l’attenzione di altri nelle stesse condizioni della ragazza, cittadini e passanti trasformati, da un momento all’altro, in quelli che sembrano essere animali senza raziocinio, la bocca che viene aperta e chiusa ritmicamente nel tentativo di azzannare aria davanti a loro.

«Signor Sawamura, lei cosa»

«Vada!»

Dice soltanto, e si volta a lanciarle uno sguardo ferreo mentre la vede arretrare di qualche passo, l’indecisione e la preoccupazione chiaramente visibili sul suo viso. Alla fine cede, spronando i presenti a seguirla e salire insieme a lei le scale, e Daichi rimane in silenzio a vedere la gente iniziare a raggrupparsi mentre il cerca-persone chiuso nella tasca destra della sua giacca vibra un paio di volte. Non ha bisogno di vedere chi sia: quello è il cerca-persone che usa per accogliere le richieste di aiuto della GCPD, e solo il commissario ne ha il numero.

«Daichi!»

Ormai sono scomparsi quasi tutti oltre quel muro che porta alla seconda rampa di scale; eppure quella voce – appartenente all’unica persona rimasta nella sala insieme al proprietario – è capace di superare qualsiasi rumore proveniente dall’esterno, qualsiasi urlo, qualsiasi verso e qualsiasi allarme che si stia allargando in maniera scoordinata e disomogenea nell’aria di Gotham, alzandosi in coro e spegnendosi solo per poi riprendere, più forte e più disperato, a graffiare quell’incubo a cielo aperto che è diventata in pochi minuti la città.

Daichi! È stato Koushi ad urlarlo, le iridi del compagno due pozzi di espressività che sembrano arpionare Sawamura a sé mentre lo studiano da lontano, da vicino le scale, puntati in una muta richiesta che Daichi non ha davvero bisogno di sentire per intuire.

E tu, dove stai andando?

«Devo controllare che Nishinoya ed Asahi stiano bene».

«Vuoi uscire da qui?! Quanti passi pensi di riuscire a fare prima che quelle– cose ti prendano?!»

Il tono è confuso, accusa e ragionevole dubbio che si mescolano in una scelta di frasi che sembrano lasciare lo stesso Koushi in difficoltà, in bilico tra la necessità egoistica di convincere Daichi a rimanere in quell’edificio e la razionale consapevolezza di come uscire da quel luogo sia rischioso, non necessario, ma soprattutto potenzialmente mortale.

«Non uscirò sulle mie gambe. Nel garage interrato ci sono una serie di macchine di servizio, userò una di quelle. E no, non posso permetterti di fermarmi, né tanto meno di venire con me–»

Risponde anticipandolo, e prima che l’altro possa a sua volta rispondere va a scuotere lentamente il viso, le pupille che tornano a cercare quelle di Sugawara.

«Sarai più al sicuro nel caveau, lo sai».

«Anche tu lo saresti, e anche tu lo sai. Almeno lascia che ti accompagni!»

«Koushi, no. Ho bisogno che tu stia qui, che tranquillizzi la gente, che non lasci che nessuno di loro cada nel panico e faccia sciocchezze. Li hai visti, sai che ne basterebbe uno».

«Daichi–!»

«Se non puoi farlo per te, fallo per loro».

«Ma–!»

«Koushi, fallo per me. Te ne prego».

Il compagno rimane in silenzio, le sopracciglia che si aggrottano mentre la mascella va ad indurirsi, un’espressione testarda e leggermente indignata che fa perno su quei tratti delicati. Daichi sa che sta giocando scorrettamente, e che Sugawara non gli perdonerà facilmente tutto ciò: non solo sta facendo leva sulla sua umanità e sul suo essere fortemente protettivo verso le persone in difficoltà, ma soprattutto – e ancora più imperdonabile, probabilmente – sta facendo leva su qualcosa che ha giurato tempo addietro non avrebbe mai sfruttato.

Sentimenti, sentimenti che Koushi gli ha confidato tempo addietro, e che ora sta usando per obbligare Koushi stesso a non fare qualcosa che sarebbe più che intenzionato a compiere.


Thump.

Thump, thump, thump!


Le iridi di Sugawara, solitamente delle più morbide e tenui sfumature del sottobosco, sembrano tronchi sradicati mentre si avvicina a Sawamura, e ad ogni passo che l’altro compie Daichi sente il buio dei suoi occhi inabissarsi nella sua anima, obbligandolo a rimanere impassibile persino quando Koushi arriva ad un passo da lui, incredibilmente vicino, eternamente lontano.

«Avevi promesso–»

«Lo so».

Lo sa davvero, ma non può fare altro. Lo sa, ma non può permettere che una promessa renda tutto diverso; perché Sugawara non può e non deve seguirlo, e non solo per non venire a conoscenza della sua seconda identità. Non può perché sarebbe in pericolo, e perché l’accusa che ora macchia il suo sguardo non sarà mai grande quanto la disperazione che proverebbe Daichi nel saperlo perduto per un suo sbaglio, per un suo calcolo sbagliato o per un secondo di troppo nel voltare verso una strada ghermita di individui senza più umanità.

«Torna».

Un sussurro duro, detto a mandibola contratta prima che l’altro si volti verso le scale, a guardare il portiere tornato sul pianerottolo a cercarlo. Daichi può vedere l’attesa ed il terrore chiaramente visibili sul volto emaciato che lo guarda da lontano, e rimane in silenzio mentre osserva Koushi lanciargli un’ultima occhiata prima di affrettarsi verso le scale, lasciandolo in quella sala enorme e ormai vuota.


Thump, thump, thump!


Un altro urlo, e Daichi si gira verso il vetro, guardando un uomo ringhiare verso di lui mentre la saliva cola schiumosa dalla bocca. Le pupille sono dilatate, gli occhi si muovono a scatti in ogni direzione portandolo a sbattere contro il vetro, poi contro le colonne e infine contro le grate che proteggono le entrate della struttura e che a quella pressione cigolano pesantemente, opponendo resistenza alla sua azione.

E lo sa: non può perdere un secondo di più.




°°°°



GOTHAM CITY Near GCPD (Old Gotham)

22/12/1976 – Ore 12:00 circa


Il viaggio era stato lungo, oltre che incredibilmente complicato. Non appena era sceso in garage Daichi aveva chiamato villa Sawamura dal telefono di emergenza della cabina del guardiano, ascoltando con tensione sempre crescente quel suono regolare e privo di sicurezze per quella che gli era parsa un’eternità; arrivato al decimo squillo era stato quasi sul punto di chiudere quando finalmente un rumore acuto e breve aveva interrotto quei lunghi istanti di attesa, e subito dopo la voce del ragazzo dall’altra parte della cornetta era arrivata gracchiante alle orecchie di Daichi, permettendogli di riacquistare il suo autocontrollo qualche secondo prima di iniziare a parlare.

Nishinoya non aveva avuto neppure il tempo di iniziare veramente una conversazione: Daichi aveva chiesto, anzi preteso, di sapere in quale punto della villa fossero lui e Asahi, ed era stato solo dopo aver sentito il minore rispondere confuso di essere nella palestra sotto terra che Sawamura si era rilassato, accorgendosi solo in quel momento di aver talmente contratto i muscoli della schiena e delle spalle da aver riaperto alcune ferite procuratosi il giorno prima e nascoste dalla garza e dai vestiti pesanti.

La conversazione era proseguita per breve tempo; Yuu aveva chiesto a Daichi cosa fosse successo, prima di raccontargli lui stesso dell’esperienza avuta mentre al telefono con il suo amico. A quanto pare era già vestito e pronto a uscire di casa quando il compagno di scuola, con lui al telefono e in ritardo come lui per gli allenamenti di calcetto, gli aveva iniziato a dire qualcosa riguardo un odore buonissimo che si stava espandendo nel salotto dopo essere entrato dalla finestra lasciata aperta dalla madre. Poi, a detta di Nishinoya, erano seguiti una serie di tossii, e lentamente le parole si erano trasformate in una serie di rantolii a cui era susseguita la caduta della linea telefonica. Da allora Yuu aveva provato più volte a richiamarlo senza successo, e poco dopo erano iniziate ad arrivare dalla radio delle richieste di SOS e racconti febbricitanti da parte dei conduttori radiofonici rimasti chiusi nei loro studi di registrazione, la strada fuori dal loro edificio ghermita a loro dire da gente fuori di sé e veicoli senza controllo.

Era stato in quel momento che Daichi aveva avuto conferma di come ciò che era successo fosse effettivamente dovuto a quello che temeva: aria tossica.

Era l’aria la fonte, seppure il motivo ed il modo attraverso cui potesse diventare tossica da un momento all’altro erano ancora un mistero: aveva detto quindi a Nishinoya di indossare il costume da Robin, di farsi dare da Asahi la maschera filtrante che aveva tra i gadget nella bat-caverna e di andare verso Gotham, a cercare zone non ancora intossicate così da spingere i cittadini illesi a rifugiarsi in locali completamente climatizzati.


Quando era tornato alla villa per prendere gli occorrenti e diventare ancora una volta Batman, Robin era già uscito ed Asahi aveva seguito le sue indicazioni, tenendo i depuratori d’aria al massimo e le finestre completamente chiuse, rifugiandosi nuovamente nella palestra sotto terra.



°°°°



La Batmobile ruggisce fedele mentre lo stivale di Batman va a premere appena sul freno, rallentandone la velocità sino a farla fermare davanti ai cancelli della GCPD; si sporge lentamente, premendo la mano contro il telaio non appena la portiera si alza a mezz’aria, prima di uscire tacitamente dalla macchina, il silenzio proveniente dalla strada e dai palazzi grigio e disturbante.

La maschera che indossa gli copre il viso intero, permettendogli di camminare sull’asfalto e sotto il cielo aperto senza respirare nulla che non venga prima filtrato dai boccali di metallo che si aprono ai lati: la struttura è in acciaio fine, si allunga da orecchio a orecchio, e copre da metà del setto nasale ad oltre il mento squadrato. Fa qualche passo in avanti, e il panneggio del mantello scivola morbidamente nel seguire le correnti della leggera e pericolosa brezza, la strada deserta che si apre intorno a lui e che lascia il panorama a portiere delle macchine lasciate spalancate, altre ribaltate, mentre vestiti strappati e documenti spaiati vengono sospinti dal vento ai margini del viale.


La GCPD sembra abbandonata.

I cancelli socchiusi non sono presidiati da nessuna guardia, nessun punto di controllo anticipa l’entrata tenuta fino a qualche ora prima sotto sorveglianza da uomini e telecamere ad infrarossi, solitamente controllate dall’interno del dipartimento ed ora con la lente puntata verso il basso, ad esprimere nella loro immobilità l’aspetto decadente proprio del disuso.

Sembra tutto addormentato, in pausa o forse in attesa di qualcosa: Daichi si muove con costanza, gli stivali che creano rumori secchi e prepotenti nel silenzio irreale che dimora nel quartiere deserto, e alza gli occhi verso le torri di guardia un’ultima volta prima di posare il guanto della mancina su una delle grate principali del grande cancello, imprimendo una forza appena sufficiente per aprire uno stretto varco attraverso il quale entrare.

Il cigolio che si crea nel momento stesso in cui l’inferriata viene spostata è inaspettato, e nel tacito mondo che lo circonda risuona come una sirena dolente che stia spirando nei suoi ultimi istanti di vita, piangendo mentre arenata sulla spiaggia, vuota di ogni speranza e in collera con il fato avverso che l’ha voluta esiliare in un ambiente che non le appartiene. Le labbra di Daichi si stringono leggermente, seppure nascoste dalla maschera integrale che lo protegge dall’aria ma non da ciò che lo circonda, ed apre maggiormente il cancello, l’urlo di quel ferro non lubrificato che graffia la quiete di quel luogo in maniera continua e disperata, echeggiando e rimbalzando sulle pareti silenti del dipartimento della GCPD.

All’inizio non vi è reazione a questo pianto disperato e metallico; poi, un lamento lontano sembra rispondere a quella muta richiesta di aiuto. Un secondo, poi a questo se ne aggiunge un altro, un altro ancora, un altro ancora ed ancora mentre dai lati della strada e da sotto le macchine strisciano fuori e zoppicano incerti uomini e donne di ogni età, ringhiando come animali o respirando pesanti raschiando la gola, come nel tentativo di superare il gorgoglio liquido che l’eccessiva salivazione sta creando nella parte superiore delle loro trachee.

Daichi rotola in avanti un secondo prima che un uomo dall’età avanzata gli si avventi addosso, e si alza in tempo per vedere questo cadere rovinosamente a terra, voltandosi a guardarlo con gli occhi aperti in maniera eccessiva ed innaturale, i capillari arrossati e le narici dilatate nel tentativo di acquistare l’ossigeno che i battiti cardiaci accelerati consumano velocemente. Ruota su se stesso, poi, quando un urlo proveniente dalle sue spalle anticipa l’arrivo di un altro di quelle cose, e quando lo sente calargli sulle spalle si abbassa, piegando il busto in avanti e tirandoselo sopra, facendolo cadere rovinosamente a terra dopo averlo obbligato ad una mezza capriola sulla sua schiena.

Il viso appartiene ad un ragazzo, i capelli scuri e pari sulla frangia, le sopracciglia spesse e di un blu spento; gli occhi sono larghi, mori, il taglio della palpebra chiaro e definito. Sono i tratti del viso, prima che l’uniforme blu con lo stemma della GCPD cucito sopra, ciò che permette a Batman di collegare all’immagine della creatura lì davanti quella del ragazzo che solo la sera prima ha visto accanto al commissario allo Jezebel Center. Sotto lo stemma, il nome Tsutomu Goshiki si pone in rilievo sulle cuciture del taschino destro dell’uniforme, ma nonostante la somiglianza fisica non lasci dubbi Daichi trova tuttavia non poche difficoltà ad accostare a quello sguardo, a quei denti che vengono fatti sbattere in avanti nel tentativo di morderlo e a quelle pupille dilatate come se sotto effetto di stupefacenti, quello del ragazzo visto qualche ora prima: l’espressione di un giovane nuovo ad un lavoro di cui pareva essere totalmente infatuato, tutto intento a prendere più informazioni possibili sul come fare un’attenta analisi di una scena del crimine o di un criminale, le sopracciglia aggrottate per la concentrazione e per il desiderio di migliorarsi il prima possibile.

Ma non è il momento di lasciarsi andare a simili ricordi: l’uomo anziano si è nel frattempo rialzato, e a lui non rimane altro che porsi di lato mentre nota due donne avvicinarsi con la stessa espressione rancorosa e disperata dell’altro, una delle due lacrimante mentre si avvicina a passi incerti verso l’uomo pipistrello. Ora può vedere chiaramente gli stemmi cuciti sulle giacche di tutti i presenti, e nel momento stesso in cui si rende conto di aver visto almeno una volta ciascuno di loro sul tetto della GCPD non riesce a non guardarsi attorno un secondo di troppo, alla ricerca di quei capelli castani o dell’altezza caratteristica che gli permettano di distinguere Yaku all’interno di quell’orda di figure dai tratti umanoidi.

Non è lui. Nemmeno lei. Nemmeno lui, o l’altro, o l’uomo in fondo.

Non sembra scorgere nessuno con tali caratteristiche, e questo seppure il numero di quelle persone paia crescere di minuto in minuto. Ed anzi, forse è davvero così: in un momento di silenzio, Daichi si rende effettivamente conto di quanto lo spostare e buttare a terra quegli esseri nel tentativo di allontanarli stia attirando dall’esterno un numero sempre crescente di ex-cittadini, contrariamente a quanto inizialmente programmato.

Non ha un minuto da perdere.

Il Cavaliere Oscuro fa una serie di veloci capriole indietro, uscendo dal cerchio immaginario di esseri umani che lo avevano circondato, prima di portarsi in piedi, superando quelle poche scale che lo avvicinano al portone d’ingresso della GCPD ed andando a sfilare dalla cintura un paio di piccoli oggetti sferici, alzandoli verso l’alto.

Devo trovare Yaku, pensa, prima che quelle bombe grandi quanto delle palline da tennis vengano lanciate verso i piedi degli uomini e delle donne che si stanno avvicinando, aprendosi e rilasciando una cortina densa e chiara di fumo. Uno dopo l’altro, e dopo gli iniziali tossii e gorgoglii, Batman inizia a vedere gli ex agenti del commissario cadere a terra, addormentati per via del potente sonnifero che quel gas ora libero nell’aria contiene, e non aspetta un secondo prima di portare dietro la mano a cercare a tentoni il maniglione dorato dell’enorme porta di legno che segna l’ingresso del dipartimento, spingendo dietro di sé finché non lo sente cedere, a concedergli l’entrata.

Spera sinceramente di essere arrivato in tempo.

Ma c’è solo un modo per scoprirlo.



- - - - - -

… … … Insomma, un po’ in ritardo.
Sono ingiustificabile. Talmente ingiustificabile che niente, non ho nulla da dire.
… Alla prossima. (…)

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Capitolo 11
*** Death may be the greatest of all human blessings ***


11. Death may be the greatest of all human blessings
(yet men fear it as if they knew that it is the greatest of evils)

 

 

Socrates

 

 

 

 

GOTHAM CITY Gotham Center Police Department (GCPD)

22/12/1976 – Ore 12:30 circa

 

Da quando il commissario Yaku ne era diventato a tutti gli effetti la maggiore figura di spicco, l’interno del Dipartimento di Polizia di Gotham City era diventato l’esempio più lampante di decoro e lustro di una città un tempo assoggettata dal crimine e dalla malavita.

Per quanto ci fossero ancora possibilità di trovare esempi di poliziotti venduti o di ispettori corrotti non ancora stanati ed allontanati, infatti, era indubbio come la presenza di una personalità come quella di Morisuke Yaku, arrivato a occupare la carica di commissario dopo una lunga gavetta fatta all’interno e all’esterno di Gotham, avesse aiutato molto le sorti di quella che al presente era la struttura meglio organizzata dell’intera città. La prevenzione e la repressione del crimine e dei suoi criminali, umani e metaumani che fossero, così come la tutela dell’ordine pubblico e la condanna dei soggetti ritenuti responsabili di illecito, era in qualche modo parallelo con la concezione sempre più fiduciosa che alcuni cittadini iniziavano ad avere nei confronti delle forze dell’ordine, iniziando ad associarli a degli alleati, piuttosto che a criminali in possesso dell’enorme vantaggio fornito dalla legge.

 

 

 

Eppure adesso, mentre Batman osserva gli interni confusi, i fogli sparsi sulle mattonelle lisce e le scrivanie ribaltate, mentre supera le porte spalancate circumnavigando sedie rotte e macchine da scrivere riverse sul pavimento, non riesce a vedere nulla del lustro costruito con impegno e perseveranza nell’arco di anni da Yaku, nulla che non sia stato distrutto in appena qualche minuto di follia generale. Gli interni del Dipartimento non sembrano neppure discostarsi troppo dagli esterni ad essere sinceri, dalla Gotham ormai inselvatichita e dalle sue strade sporche, dai parcheggi all’aperto che Daichi ha avuto modo di osservare di sfuggita o dai parchi colmi di quelle persone – non sa più nemmeno se definirle tali – intente a scavare nel terriccio sino a far sanguinare le dita o ad arrampicarsi sugli alberi, scrostando le cortecce o cercando di graffiare via le reti di perimetro.

Daichi fa qualche passo in avanti, inserendosi nella parte centrale dell’enorme sala mentre tenta di destreggiarsi al meglio in quel labirinto di documenti e mobilio.

È tutto incredibilmente, assolutamente silenzioso. Il fruscio delle carte contro le altre è ovattato, il chiacchiericcio costante dei poliziotti del tutto assente, il rumore metallico dei tasti delle macchine da scrivere che sembrano appartenere ormai solo ad un ricordo, o quasi ad un’allucinazione. Perché è tutto ancora incredibilmente vivo lì dentro, dalle sedie spostate dalle scrivanie ai documenti impilati disordinatamente sulle mensole ai lati, eppure tutto – distante. Quasi come se fosse stata messa in atto una recitazione, lì dentro, che abbia mimato perfettamente la realtà senza imprimervisi veramente, abbassando le sue tende appena qualche secondo prima del suo arrivo.

Una farsa.

Deve trovare Yaku.

Daichi fa qualche passo in avanti, gli stivali che scricchiolano contro dei resti di vetri di una lampada ormai frantumata a terra, ma non riesce neppure ad arrivare alle scale che qualcosa di incredibilmente caldo e ruvido si posa sulla spalla, imprimendovi una forza inaspettata e tentando di scavare con le unghie annerite oltre la dura corazza del costume che indossa.

 

Una mano.

 

Daichi non fa in tempo a girarsi che il peso di un altro corpo va ad unirsi a quello già pressante del primo attentatore, e un braccio si alza in maniera protettiva quando uno dei due cerca di puntare in avanti la mascella, aprendo e chiudendo in maniera sconnessa i denti mentre più rivoli di saliva scivolano dalla sua bocca verso l’avambraccio teso. Hanno entrambi uno sguardo alienato mentre continuano a gettarsi contro di lui a più ondate, ma le bocche di entrambi saggiano solo l’aria mentre il pavimento si avvicina irrimediabilmente al loro cadere rovinosamente a terra, impreparati alla celerità con la quale Batman scivola invece inaspettatamente dietro, piegandosi da un lato e uscendo fuori dalla loro traiettoria.

La caduta è impressionante, e nella baldoria del legno delle scrivanie che viene distrutto e delle pile di carte che scivolano via lo scricchiolio indistinto di qualcosa di interno che si spezza rompe la monotonia del caos uditivo in cui sono immersi. Un urlo squarcia una pausa tra quei rantoli di rabbia, e quando uno dei due si alza Daichi può vedere distintamente la posa innaturale che il braccio del più giovane adotta, rimanendo inerme e penzoloni anche quando questo apre le braccia per riprendere l’equilibrio dopo la disastrosa caduta; nessun braccio sano potrebbe creare quell’angolazione, e nessun umano potrebbe rimanere cosciente davanti al dolore che un osso per metà sporgente dalle carni dovrebbe provocargli. Eppure Daichi non fa appena in tempo a leggere Goshiki Shirabu sulla divisa del giovane prima che questo si avventi nuovamente su di lui, le mascelle contratte ed il piccolo viso contrito in una espressione di delirante irritazione.

Legamenti e e tendini sembrano essersi mescolati all’interno di quel braccio deformato dalla caduta e sempre più gonfio a causa dei versamenti interni che sta accumulando, ed ogni secondo che passa i nervi che collegano il cervello alla mano sembrano andare sempre più in confusione, facendo contrarre le dita in maniera casuale o tendere il palmo quasi fino a spezzare il polso per la torsione.

Quel ragazzo ha bisogno di cure mediche, se vuole sperare di avere l’avambraccio ancora con sé tra qualche anno. Eppure, sembra che neppure gli estremi spasmi ai quali l’arto è obbligato siano capaci di riportare coscienza nella sua mente annebbiata, mentre la mano ancora funzionante va a muoversi freneticamente davanti al volto di Daichi nel disperato tentativo di artigliarlo. La risposta di Batman è veloce, e mentre si fa scudo con un braccio la mano guantata va ad afferrare il collo dell’altro, spingendolo via e tenendolo lontano da lui mentre gli occhi calano intanto sul secondo agente, trovandolo ancora urlante a qualche metro da lui ma in qualche modo completamente disinteressato alla sua persona.

Lo vede agitarsi, rialzarsi in piedi, iniziare a correre, inciampare e finire infine contro una delle colonne della sala, portandosi davanti ad essa ed iniziando a sbattere con forza la testa contro il marmo duro, ampi fiotti di sangue che presto iniziano ad aggiungersi alla saliva trasparente che scivola via ad ogni botta dalla sua bocca. Daichi aggrotta le sopracciglia, portando la testa indietro quando la mano di Goshiki sembra riuscire a sfiorare la sua maschera in metallo nel tentativo di tirarla via, e trae un sospiro rimasto a mezz’aria quando si rende conto di averla ancora fortunatamente integra e funzionante al suo posto, i filtri che continuano a pulire l’aria rendendola respirabile senza effetti collaterali.

«Non costringermi a farti del male.»

Dice solo, le iridi celate dalla maschera che si fissano su quelle castane del minore forse in un ultimo, strenue tentativo di vedere di nuovo un segno, una sfumatura di consapevolezza tornare su quel volto sfigurato dalla pazzia di quel lunedì mattina. Ma le pupille sono dilatate, nere come la pece ed espanse al punto tale che l’iride quasi risulta scomparsa, mentre la sclera – normalmente bianca o arrossata dalla carenza di sonno – esplode in una ramificazione di macchie e capillari che immergono l’iride in un bagno di sangue.

«Guardia Goshiki.»

Tenta un’ultima volta, ma invano. Le labbra dell’altro continuano ad aprirsi in maniera innaturale, scoprendo dei denti regolari e stretti in una morsa digrignante, mentre l’esasperazione di non riuscire a raggiungere il suo viso come bramerebbe porta una grande vena al lato del suo viso ad ingrossarsi enormemente, tanto in rilievo da risultare visibile anche oltre il taglio netto della frangetta scura.

Daichi non si ripete un’altra volta. Sapeva sarebbe stato inutile sin dal primo tentativo in fin dei conti, eppure la sua parte umana – che dovrebbe cercare di celare il più possibile in quelle vesti – non ha potuto evitare di esporsi spontaneamente davanti all’espressione esaltata di un ragazzo così giovane, sicuramente novizio alla carica stampata sulla sua uniforme sporca. Osserva un’ultima volta il sangue già parzialmente coagulato del braccio dismesso mentre questo scende a rivoli, creando macchie sempre più scure sopra la parte sfibrata della manica, mentre da oltre lo strappo del tessuto ormai pregno di liquidi un ematoma denso e violaceo va a formarsi sottopelle, esplodendo in fiumi ancora aperti lì dove la carne ha ceduto e l’osso sporge esposto.

Si tende un’ultima volta in avanti, e mentre il ragazzo si sbilancia a causa della variazione di peso improvvisa Daichi lo fa scendere velocemente con il busto, portando il collo tra il suo petto e il suo braccio ed iniziando a stringere con forza, premurandosi nel frattempo di evitare le unghie che il giovane tenta intanto di indirizzare verso la sua testa, alla cieca. Il tempo di attesa sembra infinito, ma alla fine Batman vede l’arto dell’altro farsi più pesante, i gesti più lenti, finché il ragazzo non smette di muoversi del tutto, lasciando cadere verso il basso il braccio mentre il ringhio diventa un gorgoglio iracondo e poi un silenzio innaturale.

Daichi fa attenzione nel posarlo a terra, controllando che respiri ancora e che il ragazzo sia solamente svenuto a seguito del principio di asfissia, prima di alzare gli occhi verso l’altro, ora preso a strappare i documenti tenuti su una serie di portariviste da parete che circondano una delle colonne centrali della sala d’ingresso. Nella distruzione del grande atrio disseminato di fogli, documenti ed incartamenti recanti il simbolo della GCPD, Batman non può fare a meno di notare come quella bestia dotata solo di istinto e rancore sembri essere parte essenziale dell’apocalisse che sembra svilupparsi nella città di Gotham. L’uomo sulla quarantina urla qualcosa, e con un ultimo graffio lasciato sulla superficie ruvida del cemento posto tra un portariviste e l’altro un paio di unghie si staccano completamente dalle dita, il sangue che macchia le mani sporche mentre i denti dell’arcata superiore ed inferiore digrignano con forza gli uni contro gli altri. Qualcosa sembra scattare nella testa di quell’uomo a quella nuova sensazione, e mentre il sangue denso scorre sopra la sua pelle screpolata e arrossata il viso viene gettato, con forza e tensione da parte di tutto il corpo, contro i vetri più esposti delle portariviste frantumate nel frattempo.

Batman fa un passo in avanti, ma è già troppo tardi. Lo vede accasciarsi lentamente addosso alla colonna mentre l’emorragia sviluppatasi dalla bocca e dai continui tagli procurati dalle schegge di vetro ancora sottopelle lo rendono via via più debole, sino a quando esso non si siede a terra, in silenzio, lo sguardo basso e un lungo filo di sangue e saliva che scivolano verso il pavimento, macchiandogli i pantaloni marroni scuri e il distintivo incorniciato sulla cintura in pelle.

Non può fare nulla per lui, non adesso.

Dopo avergli gettato un ultimo sguardo per capire se possa essere ancora un pericolo, e dopo essersi convinto della risposta negativa, Daichi si gira nuovamente verso le scale, ed è solo in quel momento che nota un particolare che prima, concentrato nella lotta, non ha avuto modo di notare: le inferriate di sicurezza, normalmente alzate a delimitare il pianerottolo da cui si ramificano le gradinate verso il sotterraneo e i piani successivi, sono abbassate sino al pavimento, offrendo un blocco di protezione contro le possibili infiltrazioni che qualcuno, dall’interno della struttura, ha cercato di arginare. Una contromisura, quindi, che quel qualcuno deve avere attivato; un qualcuno che forse è ancora lì, da qualche parte.

Daichi posa una mano su uno dei livelli della grata, facendone scivolare i polpastrelli sul ferro freddo, e le sopracciglia si aggrottano mentre rimane immobile qualche secondo, immerso nei suoi pensieri. Potrebbe davvero essere stato il commissario a chiuderla? In effetti non sa in quanti abbiano le credenziali per accedere a simili misure di sicurezza, ma se non fosse stato lui, chi altri potrebbe essere stato? E soprattutto: se questa ipotetica persona ha dato l’allarme quando tutto ciò è cominciato, non vuol dire forse che si trovava in un luogo ove tale aria tossica non arrivava, e dal quale era possibile prendere provvedimenti senza rischiare di essere infettato?

Non è molto, ma forse può lavorare con quell’informazione; dopo tutto, lui è arrivato fino a lì per chiedere supporto a Yaku – o a chiunque del dipartimento possa aiutare i civili, in generale – quindi non pensa di essere nelle condizioni di poter ignorare ci sia qualcuno ancora sano in quella struttura, per quanto minima possa essere tale possibilità. L’unico problema è: come può raggiungere questo possibile individuo, senza sapere dove sia?

Lo sguardo si alza, rincorrendo l’inferriata che serpeggia verticalmente sino al soffitto, e quando raggiunge l’estremità superiore continua a seguire la cornice che si allarga su ambo i lati, portandosi a destra e pedinando il lungo tragitto compiuto dalla stessa fino a raggiungere il muro che divide l’ambiente della scala da quello della sala di ingresso.

È allora che lo vede.

Non sembra essere più grande di una sessantina di centimetri per lato, l’aspetto di un piccolo quadrato posto a circa tre metri e mezzo dal terreno e coperto da una grata collegata alla parete da quattro chiodi fissati agli angoli. Daichi arretra, la mano che va a scivolare sul bat-artiglio che tiene legato in vita, e tende il braccio mentre lo tira verso una delle sbarre, assicurandosi che sia fissato ad essa prima di tirarlo via e far cedere così i piccoli chiodi. La grata cade con un tonfo sordo, rivelando un condotto di areazione abbastanza grande per passarvi all’interno, ma prima di sollevarsi Batman si prende un istante per voltarsi un’ultima volta verso le guardie, osservandole silente e in attesa.

Non sembrano tuttavia essere ancora nelle capacità di lasciare le loro posizioni, per quanto l’uomo dal viso rovinato dalle schegge di vetro si lasci andare di tanto in tanto a convulsioni involontarie delle braccia e delle gambe, così il rampino viene attivato e Daichi si inserisce all’interno dello stretto canale, percorrendolo sino ad arrivare ad una seconda grata. Apre anche questa, e quando arriva nuovamente sul pavimento si volta verso le inferriate ora alla sua sinistra, notando di averle sorpassate attraverso quella stretta deviazione e di essere ora dall’altra parte, ove una rampa devia forzatamente verso i sotterranei adibiti alla Scientifica.

 

Batman si rende conto solo mentre scende i gradini in cemento di come siano state rare le volte in cui ha visto quel piano: la zona che sta passando è completamente fuori portata per un civile, ed anche come Cavaliere Oscuro è capitato assai di rado abbia messo piede in quella porzione di GCPD; solo quando il commissario ha pensato fosse oltre ogni misura fondamentale fargli vedere prove impossibilitate, per qualche motivo, a lasciare il tavolo di laboratorio.

Yaku passa molto tempo lì sotto, o almeno, questo è ciò che ha avuto modo di sentirgli dire dopo qualche bicchiere di troppo – trangugiati sempre durante quello stesso tipo di feste dalla quale sono scappati solo ventiquattro ore prima.

Si domanda istintivamente quante siano le possibilità trovi veramente lui, una volta giunto.

 

 

°°°°

 

 

Il piano sotterraneo del Dipartimento di Polizia di Gotham City era un ambiente sterile, bianco come il latte e intriso fin dalle fondamenta dal perpetuo odore forte e pungente del disinfettante.

Per lo più ramificato in lunghi corridoi e tende in plastica che ne delimitavano le varie zone a diverso grado di sicurezza, ogni sezione interna era a sua volta suddivisa in una serie di piccole stanze al cui interno si potevano individuare oggetti da laboratorio di qualsiasi genere e dimensione. L’agitatore termico, la centrifuga, la buretta, l’ebullioscopio, i becher e le provette erano solo alcuni degli attrezzi appartenenti all’immensa gamma che si poteva trovare, e seppure Daichi non facesse più esperimenti chimici da moltissimi anni – dall’ultima lezione al college, probabilmente – ricordava ancora bene gli odori legati a quelle sostanze che vedeva sfilare da oltre le vetrate delle porte sigillate, primo fra tutti quello di quel famoso disinfettante che veniva utilizzato per ripulire a fondo qualsiasi cosa e che gli pareva di sentire anche oltre la maschera che indossava, tanto era forte il ricordo ad esso associato.

 

 

Non appena Batman arriva al piano, dunque, è proprio quell’odore caratteristico e pungente il primo inquilino che si presenta ad accoglierlo, rimanendo tuttavia intrappolato nella prigionia di quella maschera scura mentre gli occhi slittano attorno, alla ricerca di figure in movimento che possano successivamente rivelarsi un pericolo. Ma tutto tace, quindi alla fine Daichi fa qualche passo in avanti, la suola degli stivali rinforzati che batte sulla lucente e liscia pavimentazione chiara che si allarga a macchia d’olio per tutti gli ambienti del piano. Sulle pareti del lungo corridoio si susseguono porte, etichette, vetrate alte e strette che mostrano spicchi visivi dei laboratori che vi si nascondo dietro; e poi ancora armadi, scrivanie, banconi ricolmi di documenti, mensole con fotografie e attestati sparsi lungo le pareti e teche in vetro, al cui interno oggetti di laboratorio ormai piuttosto datati accumulano polvere mentre osservano inattivi il mondo che scorre davanti a loro.

Batman cammina, e tra quelle pareti bianche come un foglio di carta la sua figura è quasi una macchia di inchiostro in silenzioso movimento, una goccia di petrolio che scivola sulla neve disturbando quel monocromatismo ed imponendosi nella sua prepotenza visiva. Le piante da interni sembrano essere le uniche porzioni di arredamento che i lavoratori di quel piano sembrano aver accettato come contrasto, e il verde smeraldo si impone come unico metodo di differenziazione tra un corridoio e l’altro, portando Daichi a tenere inconsapevolmente conto del loro aspetto e a usarli quasi come fossero segnali atti a testimoniare la distanza percorsa nel frattempo.

Il termine di quel corridoio sembra essere una sala del tutto simile a quelle d’attesa negli ospedali.

Batman si guarda attorno, posando gli occhi sulle poltrone singole e a due posti che sono disseminate ai lati della piccola camera, portandoli poi dall’altra parte della stanza, dove un dispensatore colmo di acqua refrigerata dona con il suo blu appena accentuato una sfumatura di colore freddo accanto alla parete lattea; cartelline di vari colori sono posate su un lungo tavolino in legno chiaro posto dinanzi ad un paio di panche, mentre nella parte superiore della parete affiorano delle lunghe lavagne luminose su cui sono poste delle ecografie di busti e crani di grandezze variabili, piccole note e frecce poste ai lati ad indicarne le zone su cui porre l’attenzione. Su una scrivania in fondo alla parte destra della sala, una macchinetta da caffè fa da compagna ad una probabilmente atta a scaldare l’acqua, mentre una serie di cestini in miniatura racchiudono tisane e frutti di stagione a completare quello che Daichi immagina essere l’angolo per la pausa dei dipendenti della scientifica. In alto, infine, una pesante televisione a tubo catodico posta accanto ad un’enorme porta a vetri barricata manda in onda la proiezione un po’ disturbata e a tratti sgranata del logo della GCPD, ed al suo lato una piccola telecamera nera si muove a scatti, calibrando la grandezza dell’obiettivo mentre una spia rossa illumina fiocamente uno degli angoli del macchinario, segnandone lo stato attivo.

Stato attivo?

«Batman?!»

«… Commissario?»

Daichi ci mette un secondo in più del necessario a rispondere, e nonostante rimanga esternamente impassibile non può evitare che quella leggera pausa rifletta in minima misura quanto il sentire la voce Yaku uscire dagli altoparlanti della televisione giunga incredibilmente inaspettato.

«In persona, se mi ved– Dio, sembri la versione pipistrello di Bane con quella roba addosso.»

E nel mentre la voce continua ad uscire dagli altoparlanti Batman può vedere lo schermo sopra la sua testa iniziare a mandare in onda delle linee di disturbo visivo, la sigla della GCPD che inizia a tremare prima che il viso del commissario faccia la sua comparsa, inizialmente troppo vicino per essere inquadrato del tutto.

«La vedo.»

Non risponderà all’altro commento.

«Sì? Aspetta solo che– Ushijima tu sapevi come usare questo oggetto, giusto?»

Lo sente domandare a qualcuno esterno all’inquadratura, e mentre si volta a parlare con lo sconosciuto Batman rimane in silenzio, a fissare il collo e l’orecchio di Yaku che si muovono nello schermo. Alla fine in qualche modo l’ondeggiare della cinepresa sembra fermarsi, ed una grande mano dalla pelle olivastra compare per qualche secondo davanti la visuale, rendendo lo schermo nero per una manciata di istanti prima di lasciare nuovamente posto al viso del commissario.

«Dicevo, scusa. Sei riuscito a superare le barriere? Dio, spero che le persone che ci sono al piano terra siano meno perspicaci– Siamo alla fine del corridoio che si trova davanti a te, ma prima dovrai passare una cabina di decontaminazione; aspetta–»

Un suono acuto, e la luce rossa presente sopra la porta a vetri viene sostituita da una verde, il rumore metallico di una serie di meccanismi disattivati che rimbombano nella piccola sala d’attesa.

«Fatto, è aperta. Ti aspettiamo qui.»

Termina, facendo un segno di assenso al saluto silenzioso di Batman prima che questo faccia come gli è stato detto, avvicinandosi alla porta e vedendo di sfuggita il commissario chiudere la conversazione video. Quando le vetrate si aprono le attraversa, aspettando si richiudano prima di guardare verso l’alto, dove il sistema di decontaminazione è già pronto ad entrare in funzione.

Riconosce subito il progetto, seppure vederne il lavoro terminato sia naturalmente un’esperienza ben diversa dal vedersi presentate le bozze per avere i finanziamenti atti a renderle realtà. È stato uno dei suoi clienti a sviluppare quella cabina di bio-decontaminazione ambientale, e al vedere il risultato finale Daichi sente un moto di soddisfazione farsi spazio all’interno della tuta; quando infatti quello scienziato aveva chiesto di essere finanziato dalla Sawamura Enterprises molti dei soci interni avevano espresso chiaramente il loro disaccordo, così Daichi aveva deciso – piuttosto che limare il progetto – di finanziarlo come civile. Non passava giorno non fosse d’accordo con la scelta presa in passato: l’idea si era rivelata non solo molto intuitiva, ma soprattutto rapida, ecologica ed efficace, nonché un prodotto unico e fondamentale per una città come Gotham, ove veleni e tossicità erano all’ordine del giorno – come lo stesso Poison aveva dimostrato mesi prima.

La determinazione, il raggiungimento ed il mantenimento qualitativo di un risultato ottimale di abbattimento biologico non avviene in quella cabina mediante l’utilizzo di sostanze tossiche o nocive per la salute umana, bensì attraverso l’atomizzazione di un prodotto chimico a base di perossido d’idrogeno, espandibile per via aerea sotto forma di nebbia secca; tutto quello che Batman deve fare è attendere che il prodotto chimico erogato finisca di lavorare sul suo corpo, e rimane immobile mentre aspetta che la voce automatica all’interno della cabina gli spieghi cose che già sa, come tempi di attesa e sviluppo della sterilizzazione. È passato nemmeno un minuto quando delle seconde porte si aprono, e Daichi muove i suoi passi decisi lungo il corridoio che si è aperto avanti a lui, arrivando al termine e spingendo una grande porta in metallo.

 

«Ehi.»

Lo sguardo del commissario è appesantito da due scure lune sotto agli occhi che denotano una vistosa carenza di riposo, ma per il resto Batman non può fare a meno di pensare a come sia inatteso vederlo cosciente e in sé, al contrario di molti suoi dipendenti fuori e dentro l’edificio. Fa un cenno mentre si avvicina ancora, guardandolo fare lo stesso prima che gli occhi vadano a scrutare per qualche istante attorno a sé, lanciando uno sguardo alle altre – poche – persone presenti nel laboratorio, alcuni visi conosciuti ed altri completamente estranei.

Vi è un uomo dalla statura imponente e l’aspetto robusto, i capelli di un verde primavera scuro e lo sguardo in un complicato limbo tra il severo ed il disinteressato. Alla destra di Yaku ve ne è un secondo, più alto del commissario ma decisamente più basso di quello al lato, i capelli corti e indomabili e le sopracciglia che creano un taglio netto ed esigente, creando un’ombra estesa su quegli occhi cupi che Batman ricorda aver visto sul tetto della GCPD qualche notte prima. Di poliziotti attivi devono essere rimasti soltanto loro tre, poiché le altre due persone presenti nella stanza, poste più a lato e accanto ad un bancone bianco ricolmo di provette e becher dalle varie forme e dimensioni, non sembrano avere né la divisa né il distintivo in mostra, i vestiti che indossano nascosti da un lungo camice bianco sul cui taschino sinistro è esposto un tesserino di riconoscimento con sopra riportati nome, cognome e qualifica.

La prima è una donna: Alta, elegante, occhiali dalla montatura stretta e capelli lunghi e leggermente raccolti in una treccia morbida che scende di lato, le lunghe ciocche blu notte ai lati del viso che creano riflessi di luce e contornano tratti morbidi e longilinei.
Kiyoko Shimizu, recita il suo tesserino.

Il secondo è un ragazzo sulla trentina. Lunghe ciglia sembrano nascondere due occhi grandi ed espressivi, dalle iridi strette e del colore delle olive appena colte; i capelli, di un colore del tutto simile a quello dell’uomo dall’enorme statura accanto a Yaku, sono però lunghi almeno fino al collo, morbidamente scalati e pronti ad incorniciare un volto piccolo, equilibrato e costellato di lentiggini, che danno alla pelle un aspetto giovanile ed innocente – se non si considera il tangente stato di panico presente nella sua espressione.
Yamaguchi Tadashi, sempre dal tesserino.

 

«Cosa succede.»

Daichi sposta nuovamente lo sguardo su Yaku, portando nel contempo le mani sulla maschera di acciaio, smontandola dai lati delle orecchie e liberando nuovamente la parte inferiore del viso. L’odore del disinfettante diventa quasi oppressivo quando la resistenza offerta dai filtri viene a mancare, ma l’espressione non muta nel mentre si riabitua velocemente all’insieme di percezioni olfattive che si ritrova a dover contrastare da un momento all’altro.

«Sarebbe bello saperlo.»

Lo sguardo di Yaku è una maschera di stanchezza mentre la mano va a portarsi alla tempia, le dita che premono sulla sinistra mentre le sopracciglia vanno ad aggrottarsi maggiormente, ad esplicitare una emicrania quasi scontata dopo aver passato più di ventiquattro ore costantemente sveglio.

Probabilmente, pure laver visto cadere la propria città nel caos deve aver fatto la sua parte.

«Non abbiamo ancora capito cosa sia successo. La dottoressa Kiyoko ci ha mandati a chiamare per presentarci i risultati delle analisi svolte sulle formule dei profumi rubati, sono sceso insieme all’ispettore Iwaizumi ed all’agente Ushijima e poi– non saprei.»

Alza un braccio, andando a muovere la mano libera per aria mentre il polso fa rotazioni circolari, a dimostrazione di una confusione mentale che fatica a rimettere in ordine.

«Credo che sia iniziato con i rumori? Dio, è tutto maledettamente confuso– abbiamo sentito forti urla, e subito dopo ho ricevuto un messaggio radio dagli agenti di sicurezza del piano terra. Hanno iniziato a farfugliare qualcosa– »

Un sospiro, le palpebre che vengono strette maggiormente nel tentativo di concentrarsi maggiormente sul ricordo di quel minuti salienti.

«Ma si sono fermati presto, perché poi ho sentito una richiesta di identificarsi, le urla sul tenere qualcuno a distanza, poi c’è stato qualcosa del tipo, cito ‘ha preso Kein, gli sta strappando– Oh Dio salvami, vedo le sue ossa–!’ e dopo qualche sparo ed altre urla è caduto il collegamento...»

Le palpebre si rialzano, e gli occhi tondi e castani di Yaku sono in un secondo nuovamente su di lui, l’espressione buia e la voce resa roca dallo sconcerto e dalla necessità di non credere veramente a quello che sta per dire, probabilmente.

«Dalle fotocamere abbiamo potuto vedere un uomo sfondare una finestra, e subito dopo tutti i miei poliziotti hanno iniziato a muoversi convulsamente e a dare testate al muro, a graffiarsi le carni a sangue– e il resto lo hai visto presumo, se sei entrato dall’ingresso principale.»

Batman rimane in silenzio, lo sguardo puntato in maniera imperscrutabile su quello dell’altro; solo quando l’altro scuote la testa, abbassando successivamente il volto nella decisione improvvisa di prendersi un momento per cercare di recuperare la razionalità che il sonno e lo stato di emergenza stanno mettendo a dura prova, Daichi decide di alzare lo sguardo su quello degli altri presenti. Il primo che incontra è quello dell’uomo dai capelli nero pece e l’espressione grave, che ipotizza non abbia mai distolto lo sguardo da lui da quando è entrato minuti prima.

«C’era Joker la scorsa sera.»

Dichiara, ed a quella frase pronunciata con inconsapevole autorità Iwaizumi aggrotta maggiormente le sopracciglia, incrociando le braccia al petto e portando il peso a spostarsi esclusivamente su una gamba.

«Lo sappiamo già. Molti uomini sono caduti sotto le armi sue e di Harlee Quinn.»

«Mi spiace per le vostre perdite.»

A quelle due parole l’aggressività dell’ispettore cala appena, probabilmente trovando inatteso quell’esempio di umanità da parte di Batman. In verità, avendo soprattutto contatti – sporadici, tra le altre cose – con il commissario Yaku ed i suoi dipendenti più stretti, Daichi non sente di conoscere abbastanza poliziotti che lavorano nella GCPD da giustificare alcun senso di dispiacere verso gli uomini caduti. Ma è una frase che molte persone vogliono sentirsi dire, e l’uomo ha imparato da molto giovane quanto l’avidità nella speranza e nell’attesa di anche solo una singola frase possa muovere il mondo intero, se abbastanza convincente.

«… Grazie.»

Mormora infine l’altro di risposta, sciogliendo le braccia e portando le mani dentro le tasche dei pantaloni, guardandolo ancora leggermente scettico ma più propenso al dialogo.

«Parlavi di Joker.»

«È opera sua, probabilmente.»

«Vuol dire che Serpe–»

«No.»

Batman lo guarda negli occhi, vedendolo indurire la mascella alla sua risposta secca, gli occhi che vanno a rabbuiarsi nuovamente nell’insoddisfazione di una frase obbligata al silenzio.

«C’erano anche Poison e Due Facce con lui, e non possiamo sapere quanti altri ne abbia coinvolti. Il fatto che Joker fosse lì vuol dire che è probabilmente l’ideatore del piano, ma non è raro vederlo lavorare con altri.»

«Poison? Ma lui–»

Lui non lavora con altri criminali, è anche quello che pensa Daichi nei riguardi del metaumano, ed è un ragionamento che fino a quel momento non ha mai avuto motivo di mettere in dubbio. Nonostante ciò, non gli è tuttavia impossibile immaginare Poison capace di inserirsi in contesti anche scabrosi pur di risolvere un debito che senta di avere verso qualcuno; è indubbio che preferisca lavorare in singolo, come Batman stesso ha avuto modo di constatare negli anni, tuttavia considera l’onestà e la propria parola ancora valori con i quali valga la pena pagare un debito, a quanto pare.

Ironico, trovare tanto onore in un criminale.

«… Quindi come facciamo a fermarlo?»

Yaku sta guardando entrambi arrivati a questo punto, e Daichi posa nuovamente le iridi su di lui, le labbra che si schiudono nel rispondergli.

«Credo il problema non sia fermarlo. Se anche lo facessimo, non sapremmo probabilmente come bloccare l’epidemia. Ci serve sapere con cosa abbiamo a che fare per sapere come neutralizzarlo.»

«Per quello posso dare aiutarvi io.»

Una nuova voce entra nel campo uditivo di Batman, e non ha ancora finito di parlare che gli sguardi di tutti gli interlocutori si posano alla loro destra, andando a puntarsi sulla donna in camice ancora accanto al tavolo da lavoro, immobile ad indicare con raffinatezza la centrifuga delle provette in funzione.

«Forse esiste un modo, lo sto testando proprio adesso.»

«Siamo scesi anche per questo»

Yaku torna a parlare, andando a fare qualche passo per la stanza, le mani unite dietro la schiena all’altezza del coccige ed il nervosismo esplicitato chiaramente da passi veloci e cadenzati.

«Da quando ha ricevuto le varie composizioni dei profumi con nomi dei batteri annessi, la dottoressa Kiyoko ha iniziato a fare delle prove di neutralizzazione per cercare di capire quale fosse l’agente antibatterico più efficace per cercare di eliminare l’intossicazione. Anche il dottor Yamaguchi si è spostato dal suo reparto per questo, lo abbiamo incontrato sulle scale mentre arrivavamo qui.»

Una pausa, gli occhi caldi di Yaku che gravitano verso quelli del ragazzo poco distante prima di tornare a camminare avanti ed indietro.

«Sembra la dottoressa sia arrivata ad un buon punto, anche se– »

«Anche se le mie ricerche potrebbero essere inutili, se non conosco il ceppo specifico usato e le modifiche apportate. Perché nessun batterio lasciato in natura avrebbe effetti così devastanti.»

È un riflesso naturale forse, ma alle parole di Kiyoko tutti si voltano a guardare verso uno degli schermi televisivi ancora aperti nella stanza, scisso in quattro quadranti che espongono registrazioni in tempo reale di quattro zone diverse – esterne ed interne – del dipartimento della CGPD.

«Per avere effettivamente qualche speranza di neutralizzarlo dovrei avere un campione del composto che hanno usato per renderlo così violento.»

Alle parole della donna cala un lungo istante di silenzio, gli occhi di tutti loro che rimango puntati a guardare quegli umanoidi registrati dalle telecamere esterne mentre questi sono impegnati ad urlare piegati per terra, staccarsi i capelli dalla cute, andare a sbattere contro mura e volanti parcheggiate o a cercare di azzannarsi a vicenda.

Tutti loro sanno cosa la dottoressa stia proponendo, eppure nessuno di loro parla, seppure tutti per motivi diversi fra loro. Paura, incertezza, ma anche concentrazione nella ricerca di una strada meno pericolosa.

Così tante possibilità, così poche persone per provarle tutte.

«… In questo– penso che potrei aiutare io, forse–?»

Quasi divenuto invisibile nella conversazione, sia a causa della lontananza effettiva che si è creata rispetto al resto del gruppo sia per la riservatezza con la quale è rimasto appartato dietro quel grande bancone lungo e liscio, la voce del secondo scienziato risulta essere flebile ed incerta mentre quelle poche parole vengono pronunciate in quegli istanti di silenzio, impalpabili e leggermente tremolanti.

Ecco perché all’inizio esse rischiano quasi di non venire colte, mentre i presenti rimangono ognuno chiuso nei propri pensieri, i volti abbassati e l’espressione di alcuni di loro concentrata nel pitturarne la preoccupazione sui tratti facciali. Dopo qualche secondo però Yaku alza gli occhi, voltandosi a guardarlo non senza un pizzico di sconcerto, dovuto probabilmente alla novità di vedere quel giovane dai capelli di un mirto scuro interrompere quella sua assenza fonetica adottata sino ad ora.

«… Yamaguchi? In che senso?»

Domanda dopo qualche istante di perplessità, attirando il questo modo anche l’attenzione degli altri che a quelle parole si voltano a loro volta, posando gli occhi sullo scienziato ancora in disparte. Yamaguchi infossa leggermente la testa fra le spalle, facendosi istintivamente più piccolo dinanzi all’aspettativa chiaramente presente negli occhi di tutti loro– O di quasi tutti loro, almeno. Yamaguchi non crede di aver mai visto Ushijima servirsi di un’espressione diversa da quella attuale, mentre la maschera di Batman rende impossibile vederne la parte superiore del volto, nascondendone le rughe espressive.

«Nel senso– cioè, io lavoro in un altro reparto, ma ero venuto qui per dare una mano alla dottoressa Kiyoko, perché– ecco, ho già visto quel tipo di reazione in passato. Non su degli umani ovviamente, ma avevo studiato un caso simile per la mia tesi di specialistica e, cioè, non so se posso–»

«Dottor Yamaguchi.»

Tadashi chiude le labbra, cercando di tornare a respirare in maniera normale mentre sente le guance imporporarsi naturalmente, l’imbarazzo e l’impaccio del parlare davanti ad un numero così alto di persone che portano il suo cuore a battere freneticamente nel petto. Le iridi olivastre si alzano e si abbassano incerte, andando a puntarsi ed a scappare da quelle del commissario, il cui sconcerto ha lasciato posto ad uno sguardo severo ed pragmatico.

«Sì, scusate–! Ecco, dicevo– avevo fatto questo esperimento con un mio collega di corso che forse conoscete, il dottor Tsukishima Kei, non so se– ha dato le dimissioni un anno fa.»

Si illumina appena nel dire il nome del collega, ma l’entusiasmo si oscura subito nel fare riferimento all’allontanamento voluto dall’altro, il viso che si abbassa mentre le sopracciglia prendono una piega distesa e triste, il ricordo di quel giorno ancora presente nella sua memoria. Ci era rimasto male e non aveva senso dire il contrario. Non era riuscito a dire nulla, non si era sentito in diritto né abbastanza per chiedere a Tsukishima di restare, e tutto quello che era riuscito a fare era stato l’abbassare il capo, i pugni chiusi dentro le tasche del laboratorio e la lunga frangia a cadergli davanti il viso, a nascondere l’espressione di vergogna nata da quella mancanza di coraggio di puntarsi contro le spalle di Kei e dirgli di non lasciare lui e quel laboratorio in cui entrambi erano stati ammessi anni prima.

«Ma dovrebbe tornare a Gotham presto– Cioè, mi aveva promesso mi avrebbe portato a vedere le stell–»

Ok, questo può decisamente risparmiarselo. Scuote la testa, prima di alzare nuovamente gli occhi.

«In ogni caso, ho riconosciuto i batteri che avevamo usato nella nostra ricerca–»

E mentre lo dice va ad abbassare lo sguardo verso il banco da lavoro, muovendo gli innumerevoli fogli sparsi per tutto il ripiano e facendo slittare le iridi strette e concentrate sulle lunghe file di composti chimici che si susseguono gli uni dietro gli altri, arrivando infine ad indicarne con l’indice lungo prima uno, poi un altro, poi un terzo.

«È una composizione nata dall’unione tra questi tre.»

Kiyoko fa qualche passo, andando ad avvicinarsi al collega mentre le dita vanno ad accompagnare un paio di ciocche dietro l’orecchio sinistro, rimanendo in quella posizione per evitare di far scivolare la treccia in avanti. Va a studiare con le iridi scure i ceppi indicati da Yamaguchi, mentre questo rimane ad osservare con occhi attenti e svegli quelle tre sole, non un minimo di dubbio presente sulla sua espressione nonostante le migliaia di altre formule sparse nei restanti fogli posati sul tavolo; come se non vi fosse nulla di più naturale al mondo di riconoscere la percentuale precisa di ogni singolo elemento presente all’interno di una lunga costruzione polinomiale di un composto chimico studiato più di cinque anni prima.

«Non ne posso essere assolutamente sicuro, ma vedendo gli effetti che sta avendo, credo– un novanta per cento sicuro? Forse qualcuno ha rubato o letto la tesi, e l’ha usata per testarla sugli umani invece che sui topi. Dovrebbe ancora essere accessibile pubblicamente nella biblioteca universitaria, in fondo–»

Non ha ancora finito di parlare che Yaku alza un braccio, indicando Ushijima ed Iwaizumi e lanciando loro uno sguardo, aspettando loro annuiscano brevemente mentre iniziano ad allacciarsi le giacche imbottite. Torna poi a guardare Yamaguchi, riassumendo brevemente le notizie ricevute.

«Ottimo, allora basterà andarla a riprendere per scoprire la configurazione completa e lavorare per trovare un test di neutralizzazione che funzioni, giusto?»

«Oh, a dire il vero– quella la so già.»

Silenzio. Migliaia di sguardi che si puntano in contemporanea verso Yamaguchi mentre il ragazzo si rende improvvisamente più piccolo, una punta di sconcerto all’idea di essere improvvisamente divenuto il bersaglio di così tante occhiate focalizzate interamente su di lui.

«… Cosa?»

 

 

 

 

- - - - -

Ho fatto talmente tanto ritardo che non merito perdono. Ammetto che per un po’ ho anche avuto una mezza idea di mettere in hiatus questa storia, ma alla fine ho deciso di provare comunque a pubblicare almeno per le poche persone che la seguono…! Sono un po’ giù in questo periodo e questo ha portato un eccessivo rallentamento negli aggiornamenti, oltre che una mia latitanza generale dalla vita sociale. (…) Spero questo capitolo vi sia piaciuto in ogni caso, come al solito: fatemi sapere che ne pensate! Non siate timidi. (?)

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Capitolo 12
*** Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno ***


12. Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno.
(Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto)



Paracelso





GOTHAM CITY Gotham Center Police Department (GCPD)

22/12/1976 – Ore 12:30 circa


«Oh, a dire il vero– quella la so già».

«… Cosa?»

Silenzio. Migliaia di sguardi che si puntano in contemporanea verso Yamaguchi mentre il ragazzo si rende improvvisamente più piccolo, una punta di sconcerto all’idea di essere improvvisamente divenuto il bersaglio di così tante occhiate focalizzate interamente su di lui.

«S–Sì, cioè, la tesi era su quello?»

«Su quello

Yaku aggrotta le sopracciglia, la tensione presente nella tonalità che si incrina appena nel formulare la domanda, rendendo se possibile Yamaguchi ancora più teso.

«Sul controllo… delle attività neuronali sulle persone affette da schizofrenia. L’esperimento mio e di Kei consisteva nell’eliminare il problema, non nel crearlo».

La voce dello sperimentatore è un poco incerta mentre continua, ma nell’ultima frase lascia che trapeli una goccia di flebile risentimento nel ritrovarsi involontariamente a giustificare le proprie azioni. Ed anzi, a dirla tutta è un po’ offeso da come tutti lo guardano al momento, quasi come non fossero ancora convinti se il suo tipo di ricerca fosse davvero finanziato dall’università o da un gruppo terroristico interessato alla creazione di un’arma biologica.

«Però non potevamo fare sperimentazione su persone vive, quindi prima abbiamo provato a indurre sui topi delle allucinazioni leggere che potessero essere controllate tramite le varie composizioni–»

Continua, e gli occhi verdi vanno ad arrischiarsi a cercare quelli del commissario mentre Batman, al contrario, rimane in silenzio al lato dell’entrata, un’ombra inattesa e senziente in quell’universo di bianco e provette. Un suono di carta sfogliata porta tutti a voltarsi verso un lato della stanza, e vedono Kiyoko scrutare i fogli indicati dal ragazzo precedentemente, prendendone un paio ed iniziando a camminare per la stanza e lungo i contorni dei tavoli. Per qualche minuto gli unici suoni udibili sono i tacchi che tamburellano il pavimento duro, creando un rumore sordo che echeggia in maniera regolare tra le pareti del laboratorio, prima che gli occhi longilinei e scuri della donna tornino ad alzarsi verso il commissario, annuendo con delicatezza.

«Sei assolutamente sicuro di ricordarlo, Yamaguchi? Sapresti ricrearlo in laboratorio, adesso?»

Domanda solo a quel punto Yaku, voltandosi nuovamente verso lo sperimentatore mentre il tono serio e contenuto lascia posto ad una leggera vibrazione provocata, forse, dalla speranza di una soluzione inattesa. Yamaguchi si morde l’interno del labbro inferiore, le mani che vanno a massaggiarsi i dorsi mentre il nervosismo porta le orecchie e le guance ad arrossarsi leggermente, accaldando il viso del giovane. Sicuro, lui? Completamente sicuro?

«Io– Io non lo so. Posso provarci, però non–»

Non riesce davvero a terminare di parlare, tanto è in lotta nel tenere la respirazione calma e i battiti regolari, così nel frattempo cala il silenzio, Yaku che rimane a fissarlo serio e attento prima di voltarsi verso Kiyoko e il resto del gruppo, annuendo brevemente.

«Perfetto, allora. Mentre il dottor Yamaguchi e la dottoressa Kiyoko lavoreranno alla cura noi parleremo su come comportarsi una volta fuori di qui. Seguitemi».

E prima che Yamaguchi possa dire nuovamente qualcosa Yaku si volta, concentrato e sicuro come pochi esseri umani nel mondo, andando a fare qualche passo verso il corridoio e tirandosi dietro le figure delle guardie e di Batman.




°°°°




L’etichetta appena fuori la porta che Batman e i tre poliziotti erano ad un passo dal varcare esponeva la scritta ‘ufficio personale’, e non serviva fare più di due metri all’interno della stanza per rendersi conto di come esso fosse incredibilmente diverso dal resto delle stanze appartenenti a quell’ala del Dipartimento.

L’ufficio si componeva di cinque scrivanie da lavoro di un bianco latte, tutte accompagnate dalle loro sedie imbottite in tessuto che posavano su cinque piedi dotati di rotelle per facilitare i movimenti su un accogliente e levigato pavimento in legno. Scaffali da poco verniciati in resina offrivano ripari a documenti e scatole sigillate, impilati in maniera ordinata su ogni ripiano libero che non fosse chiuso da chiavi e lucchetti che ne evitassero l’apertura da parte di personale non autorizzato; un appendiabiti faceva inoltre la sua comparsa sulla destra – non appena veniva superata l’entrata principale – ma nonostante l’eterogenesi dei possibili capi che poteva ospitare vi erano riposti solo camici bianchi di diverse lunghezze, piuttosto che cappotti o giacche lasciate lì dagli scienziati appartenenti alla GCPD. Sulle pareti della stanza referti, qualche foto di gruppo, attestati e tavole periodiche di migliore o peggiore fattura eliminavano la monocromia della parete in crema, dividendosi gli spazi con prese d’aria e di corrente, oltre che con un quadro probabilmente quanto ironicamente comprato da uno degli scienziati del laboratorio durante una esotica vacanza, composto da una ragazza in costume atta a salutare con avvenenza la telecamera; kisses from Greece, diceva il testo a fumetto a pochi centimetri dalle labbra della bionda. Sulle scrivanie, infine, una serie di computer e di fogli firmati si alternavano a timbri inumiditi e registrazioni ufficiali di relazioni cliniche, rendendo chiaro come la maggior parte delle informazioni e delle questioni burocratiche appartenenti al laboratorio passassero di lì prima di finire ai piani alti, a raggiungere il commissario di polizia e i suoi agenti di pattuglia all’esterno della struttura.

Yaku va a sedersi sulla sedia davanti ad una delle scrivanie bianche che si dividono gli spazi del locale, ed abbassa gli occhi sulle lastre disordinatamente sparse davanti a lui, i gomiti poggiati sui braccioli e le mani unite a sorreggere la fronte; alza gli occhi stanchi nel sentire un rumore provenire dallo spostamento di una delle sedie a lato, e le iridi gravitano distrattamente verso Ushijima, guardandolo sedersi davanti ad uno degli spessi computer – Apple II, dichiara la scritta poco sopra le enormi tastiere grigie – mentre Iwaizumi rimane in piedi a braccia incrociate, lo sguardo torvo e la schiena poggiata contro la parete nitida.

Oltre tutti, c’è Batman. Tra i tanti colori chiari che illuminano quella stanza nel sottosuolo del dipartimento il Cavaliere Oscuro sembra quasi un bacino di pece, una macchia che si spande in altezza iniziando dalle due estremità delle lunghe orecchie da pipistrello e terminando nella cascata di nero che scivola giù sino al pavimento, tingendolo con il tessuto del mantello mentre il proprietario rimane immobile, appena al lato della porta, la maschera puntata verso il commissario ed il viso privo di qualsiasi espressività.

Yaku inspira, la schiena che va a raddrizzarsi lentamente prima di ricadere nuovamente nella sua posizione raccolta, verso il ripiano. Gli occhi vanno a posarsi su tutti loro, uno alla volta, ed alla fine le labbra vengono fatte schiudere, la voce ferma e risoluta.

«Bene. Mentre loro fanno le loro cose da scienziati vorrei parlare con voi di quello che al momento mi preme maggiormente capire, ovvero dove diamine sia la sorgente dalla quale Joker sta spargendo il suo allucinogeno amatoriale. Perché ce ne deve essere una, giusto? O almeno una… Dio, non voglio manco pensare all’opportunità ce ne siano di più. Come diamine si fa a spargere così velocemente tutta quella roba, in primo luogo?’

«Credo sia certo supporre si sparga per via aerea, commissario. Batman vi è passato in mezzo, eppure non ne è rimasto colpito semplicemente usando una maschera antigas. Il ché fa presupporre che qualsiasi umano possa farlo».

Il tono di Iwaizumi è controllato, eppure in qualche modo risulta chiaro il sospetto e la diffidenza che trapelano da quelle parole, per quanto parzialmente condite da un rispetto dovuto ai risultati che, deve innegabilmente ammettere, Batman pare comunque abbia ottenuto nel tempo.

«Non abbiamo mai visto nulla prendere piede così velocemente in città, il ché fa presupporre Joker abbia scoperto qualche tipo di fuoco che accomuni tutte le correnti che soffiano aria per Gotham».

Continua, e nel mentre parla Yaku si ritrova a ruotare appena sulla sedia, facendola dondolare a destra e a sinistra mentre il busto rimane piegato da un lato, la schiena accomodata sullo schienale imbottito e le nocche della destra puntate a lato della testa, a sorreggere una guancia piena. Gli occhi sono chiusi mentre l’altro pronuncia quelle parole, le sopracciglia che rimangono aggrottate nello sforzo di seguire l’ultimo dei numerosi ragionamenti proposti in quegli estenuanti giorni.

«Correnti d’aria, dici?»

Sembra pensarci su, una ruga espressiva che si va ad aggiungere alle altre appena sopra il naso, e pare pronto a dire qualcosa prima di scuotere leggermente la testa, un’espressione sconfitta in volto.

«Sapete cosa mi domando, notte e giorno? Sul perché questi matti abbiano sempre per qualche motivo una vasta conoscenza di praticamente qualsiasi cosa. Qualsiasi. Voglio dire–»

La mano libera scivola tra le ciocche di capelli, l’esasperazione poco contenuta che sfuma la tonalità autoritaria della sua voce.

«Correnti d’aria, seriamente? Qualcuno ha idea di come uno come Joker possa arrivare a capire come sfruttare le correnti ascensionali e discensionali dell’aria di Gotham?! E come diavolo faceva a sapere tra migliaia di tesi in archivio quella da cercare? Ma poi, che diavolo ci fa uno come Joker con le tesi degli universitari?! Dio, la mia sanità mentale. Ehi, Ushijima–»

Yaku apre nuovamente gli occhi, puntandoli verso l’agente dall’altra parte della stanza.

«Cerca per favore le mappe dei venti di Gotham, dovresti trovarle nel database del Dipartimento, percorso Analisi → Carte → Climatiche. È aggiornato mensilmente dalla terza divisione del secondo piano, quindi dovrebbero essere ancora valide. Vedi se ci sta un collegamento di qualche tipo, da qualche parte, in qualche punto a caso, qualcosa che possa aiutarci a capire dove Joker abbia dato inizio a questa pazzia. A questa sua ultima pazzia».

Ushijima annuisce brevemente, abbassandosi sul computer già acceso davanti, e le dita massicce si muovono lentamente sulla tastiera, digitando il proprio ID e la propria password per sbloccare il profilo di Dipartimento.

Ci vorrà un po’: non solo è già abbastanza un miracolo che il Dipartimento abbia dei computer, ma in generale è un miracolo che esistano. La presentazione del modello che hanno in dotazione sarà fatta solo nel prossimo anno al pubblico, ed è solo per una questione di sicurezza che la GCPD ne è già in possesso. Yaku sposta lo sguardo vero Iwaizumi, ed al vederne lo sguardo già puntato su di lui non dice nulla, continuando invece il suo semi-monologo nel tentativo di non perdere il filo di un discorso già reso abbastanza sottile dalla mancanza di riposo, ormai dote indispensabile nella sua carriera di commissario a quanto pare.

«Iwaizumi, ricordi se abbiamo delle maschere antigas da qualche parte nel dipartimento?»

«Dovrebbero essere nell’Armeria, al piano di sotto».

Yaku schiocca la lingua, aggrottando le sopracciglia e scuotendo la testa, sistemandosi meglio nella sedia dall’imbottitura morbida e la pelle marrone scuro. Sembra pensarci un attimo, abbastanza disturbato da quella notizia inattesa e dalla quale dipendevano così tante proposte successive, prima di tornare a sedersi al meglio quando si accorge che le spalle, spinte dalla gravità e avvantaggiate dalla levigatezza dello schienale, sono ormai scivolate quasi al livello dedicato ai reni.

«Ah, dannazione. Speravo le tenessimo in scientifica».

Iwaizumi abbassa lo sguardo per qualche secondo, portando sovrappensiero un dito piegato lungo il labbro inferiore, e per un po’ entrambi rimangono così, chiusi nella propria lista delle possibilità alternative da adottare. È Hajime ad uscirne prima, alzando lo sguardo ed incrociando nuovamente le braccia al petto, la tonalità ancora profondamente scettica e contenuta, ma un accenno di speranza a distenderne la voce.

«Qui hanno delle tute antiradiazioni, però».

«… Davvero? E da quando ce le possiamo permettere?»

Yaku non riesce a fare a meno di commentare, le palpebre che vanno ad abbassarsi leggermente sulle cornee chiare mentre un accenno di velato sconcerto si fa spazio nella voce.

«Regalo del sindaco per assicurarsi voti, direi. Non sono arrivate che da poche settimane, e dovrebbero essere anche antigas, presumo».

Iwaizumi annuisce di nuovo, prima di schiudere le labbra in un sorriso ferino, i canini pronunciati che biancheggiano all’esposizione.

«Finalmente una notizia decente».

Yaku si lascia andare uno sbuffo soddisfatto, chiudendo gli occhi ed andando nuovamente a rilassarsi sulla poltrona da studio. Ah, ora se lo ricorda in effetti, tutto quel traffico di scatoloni avvenuti agli inizi di Dicembre e tutte quelle parole e strette di mano di troppo, il simbolo elettorale di Washijou dipinto sui volantini sparsi ovunque nella Hall. Riapre gli occhi dopo qualche istante, e mentre li va a posare su Iwaizumi non può fare a meno di muoversi nuovamente sulla sedia, sovraccarico per via dell’inaspettata evoluzione presa dagli eventi.

«Allora vada per quelle. Almeno finché non scendiamo a prendere le altre».

«Ho trovato qualcosa».

Sentono una voce fuori campo dichiarare, e gli occhi di entrambi deviano istintivamente a focalizzarsi verso Ushijima. Non ha usato nessun timbro particolare, se non la sua normale gravezza aggiunta ad una caratteristica mancanza di eccessiva espressività, eppure mentre lo sguardo è puntato sullo schermo sembra soddisfatto, quasi fiero del suo operato.

Sono cose che il suo corpo non espone, eppure per Yaku – che lo ha da molti mesi ormai al servizio del suo dipartimento – sembra in qualche modo naturale notare come Wakatoshi stia esprimendo le sue emozioni, seppur senza usare alcuna esposizione fisica. All’inizio era stato difficile capirlo, ed anzi in verità tutta l’idea iniziale era stata abbastanza negativa riguardo l’altro, ma col tempo aveva imparato ad apprezzare quel gigante per come era, dividendo l’orgoglio ingiustificato dalla sicurezza nata dalla consapevolezza di fare bene ciò per cui aveva studiato, l’inumanità dalla – ben più comprensibile – incapacità di esprimere davvero i suoi sentimenti, la brutalità delle risposte dalla sua mentalità abbastanza schematica e a tratti infantile, che si rifletteva in una spesso scarsa densità ed in una quasi totale mancanza di perspicacia.

Uno zuccone, insomma, ma uno zuccone decisamente capace nel suo lavoro.

Yaku continua a guardarlo per un po’, prima di alzare lo sguardo verso Iwaizumi e Batman. Si alza dalla poltrona, ed insieme agli altri due fa qualche passo verso la scrivania dove sta l’agente, arrivando a porsi a lato mentre va a piegare appena il busto, abbassandosi il sufficiente affinché Ushijima possa mostrargli le cartine appena abbozzate, una serie di pixel verdi su sfondo nero.

«Sembra esserci una zona appena fuori la città dove si incontrano le correnti che poi si diramano dopo il fiume Nord».

Dice solamente, indicando con la grande mano verso lo schermo prima di tornare in silenzio, le iridi serie ancora puntate verso la mappa. Certo, cercare di capire perfettamente la zona interessata può essere complicato vista la mancanza di precisione della cartina in questione, ma Ushijima è sempre stato innaturalmente portato a capire le cose scritte e che non necessitano di… profondità.

«Davvero? E chi lo sapeva, ecco perché fa sempre così dannatamente freddo lassù– Perfetto, quindi quello è il nostro obiettivo, giusto?»

«Andrò io».

Yaku si volta verso Batman, rimettendosi dritto così da tentare inutilmente di riacquistare qualche centimetro nell’enorme squilibrio tra la sua altezza e quella del Cavaliere Oscuro, il collo che si piega all’indietro per permettersi di scrutare l’altro con la maggiore autorevolezza possibile.

«Ho già sentito questa frase ieri sera. La risposta è no. Non di nuovo».

«Potrebbero esserci Joker o DueFacce ad attenderci. E questa città ha bisogno di un comando di polizia presente, in caso ce ne sarà bisogno».

«Ce ne è già bisogno, ecco perché stiamo lavorando».

«Gotham non è una città, non ora. Non potrà difenderla finché non tornerà tale».

Yaku rimane in silenzio, stringendo le labbra mentre i denti dell’arcata inferiore premono contro quelli della superiore, un’espressione di frustrazione a stento celata sul volto.

«Risolveremo anche questo problema».

«Lo farà. Ma mi occuperò io della prima parte».

«Posso venire con te e lasciare i miei poliziotti qui».

«Un comando di polizia ha bisogno del suo commissario».

«Sapranno cavarsela da soli. Non li ho presi con me perché mi seguano in qualsiasi cosa faccia».

«Sarebbe inutile, Yaku. Vado io».

Rimangono a fissarsi, e solo quando Yaku capisce che l’altro non si allontanerà mai davvero dalla sua posizione – probabilmente presa e preparata dall’inizio della conversazione – si porta frustrato una mano alla testa, facendola scorrere tra i capelli corti mentre un verso di insoddisfazione prorompe dalle labbra socchiuse.

«Non ti staccherai da questo assurdo piano vero?»

Batman rimane a fissarlo, non proferendo parola mentre Yaku si porta le dita prima occupate tra le ciocche dietro il collo, massaggiandolo stancamente.

«Ah, accidenti– va bene, ma tieniti raggiungibile per qualsiasi cosa. E ricorda–»

Si ferma un attimo, le iridi accese e serie mentre il braccio ancora a mezz’aria si blocca, il palmo posato sulle vertebre dietro al collo e le dita premute contro la curva della giugulare.

«Che nonostante servano molte cose a Gotham, un martire non rientra tra queste».

Si scrutano in silenzio, e rimangono così anche quando la voce timida di Yamaguchi interrompe quel momento di tacito scambio di sguardi, insinuandosi incerta fra i due.

«Commissario–»

Yaku rimane a fissare ancora qualche istante Batman prima di voltarsi a guardare lo scienziato, ancora fermo sullo stipite della porta, le mani chiuse sul grembo e lo sguardo puntato ad un lato della stanza, probabilmente sensibile all’atmosfera pesante scesa nella camera.

«Forse– Forse abbiamo fatto».




°°°°




«Perché forse?»

La voce di Yaku è incuriosita e guardinga mentre camminano attraversando il corridoio, superando la porta dello studio dove stavano fino ad ora e percorrendo accanto a Yamaguchi quei metri che li separano dal laboratorio di Kiyoko.

«Ancora non sappiamo se la formula usata per rendere il batterio più invasivo sia quella che ho fatto in»

Yamaguchi non riesce a finire che stringe appena le labbra, corrucciando le sopracciglia ed abbassando lo sguardo. Non avrebbe mai pensato, a tanti anni di distanza dalla sua tesi di laurea, che sarebbe tornato a fare sperimentazione su quelle formule. Non certamente per un motivo simile, almeno, non per bloccare un’isteria di massa provocata da quella che potrebbe essere stata una composizione inventata da lui e dal suo ex collega universitario.

«Va bene. Quanto siamo sicuri funzioni da uno a dieci?»

Yaku gli posa la mano sulla spalla, premendo appena con le dita per farlo tornare in sé e allontanarlo dalla sensazione di disagio che continua a premere nauseante alla bocca dello stomaco, e Tadashi torna ad alzare lo sguardo, l’espressione poco più determinata mentre si perde a fare qualche ipotesi, calcolando la possibilità che il lavoro fatto da lui e Kiyoko dia effettivamente i risultati sperati.

«Siamo sul– credo settantacinque, settantasette percento».

Dichiara infine, voltandosi verso Yaku a cercare di intuire se trovi la sua risposta soddisfacente o meno. Lo vede chiudere gli occhi, continuando a camminare, prima di scuotere le spalle, portandosi le mani in tasca ed estraendone una piccola moneta da una di loro, guardandola e rigirandola tra le dita.

«… Speravo in un numero più alto sinceramente, il ventitre percento è abbastanza alto da darmi l’impressione di stare giocando una scommessa con la morte. Ma presumo non possa lamentarmi, contando che fino a poco fa la percentuale era quasi pari a zero».

Termina, rivoltando un altro paio di volte la piccola moneta tra le dita prima di riportarla alla tasca, lasciandola scivolare all’interno mentre superano la porta del laboratorio. Kiyoko alza lo sguardo, la mascherina che le copre metà del viso e i guanti che calano appena da oltre i gomiti piegati, e Yaku porta istintivamente una mano a coprirsi il naso e la bocca, cercando di proteggere entrambi dal fortissimo odore proveniente dal liquido bluastro che la dottoressa sta ponendo dentro una serie di due provette.

«Fatto?»

Domanda, lottando contro la necessità di sventolare il giacchetto per far circolare l’aria. La voce giunge ovattata a causa del palmo con cui si scontra non appena oltre le labbra, e Kiyoko annuisce, le mani affusolate che nel frattempo vanno a posare una serie di piccoli tappi di plastica sopra quella ventina di recipienti tubolari. Solo quando anche l’ultimo sembra essere stato sigillato il pungente aroma inizia finalmente ad affievolirsi, permettendo ai tre poliziotti di abbassare la mano e a Yaku di voltarsi di soppiatto a guardare Batman, non potendo dirsi veramente sorpreso quando nota la mancanza di qualsiasi difficoltà manifesta nel dover fronteggiare, a mano bassa e a mascella rigida, quel terribile aroma contro cui si sono appena scontrati.

Bah. In momenti come questo può intuire perché l’ispettore Iwaizumi abbia dubbi sull’umanità di quel personaggio.

«Dovrebbe. Non abbiamo certezze, quindi presumo lo scopriremo quando lo userete la prima volta».

Kiyoko pronuncia quelle frasi in maniera calma, posata mentre pizzica con le dita la punta dei lunghi guanti indossati tirandone via uno alla volta, andando poi a sciacquare con attenzione l’attrezzatura usata, becher e siringhe, facendole scomparire sotto il getto d’acqua.

«D’accordo– credo. Batman, riesci a portare queste cose con te?»

Si volta verso il Cavaliere Oscuro, guardandolo nel punto dove – presume – vi siano gli occhi mentre la maschera al livello del collo si piega sino a puntare il volto nella sua direzione.

«Ho la bat-mobile parcheggiata qui fuori».

Yaku annuisce, e prima che l’altro possa dire altro si volta verso il tavolo di laboratorio, su cui sono ancora posate le numerose provette. Prende una delle due basette che le contengono, pesandola con approssimazione piegando le braccia, prima di tornare indietro e porgerla a Batman, aspettando che questo la prenda prima di cominciare a parlare.

«Perfetto, allora ti accompagno con le altre soluzioni– e non guardarmi così, pensi che le persone qui fuori non cercheranno di attaccarti come hanno fatto con i miei poliziotti o con te prima? Hai bisogno di qualcuno che te le tenga al sicuro almeno fino all’uscita».

Dichiara con tono inflessibile, e può vedere chiaramente, seppure solo per un flebile istante, come Batman sia in difficoltà rispetto a come rispondergli, disorientato dalla sua testardaggine e sconcertato dalla sua posizione ragionevole. Termina presto, però, un battito di ciglia che separa quel momento di incertezza dal solito Cavaliere Oscuro mentre quest’ultimo schiude le labbra, la voce grave ed atona.

«… Non posso permetterlo».

Le sopracciglia di Yaku si aggrottano, mentre a quelle parole le braccia del minore vanno ad incrociarsi al petto, esponendo con quel gesto un’ostinazione che non lascia possibilità di incontro al di fuori di quella dettata da lui stesso.

Lui è già sceso a patti, in fin dei conti. Ha accettato di non andare a cercare Due Facce, Joker, o chiunque ci sia dietro tutto questo. Ha persino acconsentito a rimanere lì, ad aspettare sue notizie, e questo mentre i cittadini del suo distretto potrebbero essere – anzi, con tutta probabilità già sono – in grave pericolo, in balia di se stessi e della mancanza di raziocinio, intrappolati in un’allucinazione continua che li rende mostri, incubi sia agli occhi dei restanti abitanti che a quelli appartenenti al loro riflesso appannato sulle autovetture riverse per strada.

Non potrebbe permettergli cosa, in particolare? Di rendere sicura la sua città?

Perché in quello ha già irrimediabilmente fallito, quel giorno.

«Non te lo sto chiedendo, Batman. Lo farò lo stesso, che tu lo voglia o no. Hai detto che devo proteggere la mia città, ed è vero: questo è un modo per farlo. Non ti seguirò fino alle colline, o oltre il fiume, ma non per questo lascerò tu faccia tutto da solo».

Batman lo scruta in silenzio, ma il commissario non arretra di un passo, rimanendo immobile mentre il suo sguardo rimane disadorno di qualsiasi dubbio, le iridi che rispondono allo sguardo dell’altro posandosi con fermezza nel punto della maschera dove il chiarore della rete nasconde gli occhi dell’uomo pipistrello.

«… D’accordo. Andiamo allora».

Risponde infine l’altro, e Yaku annuisce lentamente prima di voltarsi verso la porta, facendo qualche passo verso il corridoio.

«Prendo la tuta antiradiazioni e arrivo. Aspettami qui».




°°°°




L’orologio del laboratorio ticchetta regolare il passare lento ed inesorabile dei secondi, e nel mentre i minuti scorrono e si rincorrono infrenabili sul quadrante dello strumento i due poliziotti rimasti, i due scienziati e Batman si ritrovano a lavorare sul caso, cercando di creare mappature cartacee, ricontrollare dati, ogni tanto tentando di collegarsi agli altri distretti sparsi per la città di Gotham attraverso telefoni e radio a lunga frequenza della GCPD.

Ushijima è ancora seduto alla scrivania, criptico nello sguardo mentre la mano rimane a mezz’aria, la cornetta di un telefono con cavo alzata mentre la mancina preme i numeri dettati dalla lista appuntata accanto alla lampada da studio. Aspetta qualche secondo, l’orecchio ben saldato al ricevitore, prima di abbassare nuovamente la cornetta e riportarlo sopra il resto dell’apparecchio, prendendo una penna e mettendo una tacca accanto al numero chiamato, passando a quello successivo.

Yamaguchi è, al contrario, seduto davanti al tavolo da laboratorio. Gli occhi slittano sulle formule che si snodano da una parte all’altra dei numerosi fogli sparsi per tutto il ripiano, ed ogni tanto alcune ciocche vanno a muoversi leggere mentre scuote la testa, entrambe le mani che vanno a posarsi tra i capelli ed il collo che va a piegarsi in avanti. Il viso si infossa verso il basso, le sopracciglia che si aggrottano in un senso di sconsolazione mentre un lungo sospiro scivola fuori dalle sue labbra, i pensieri che si accalcano nella sua mente come spighe che crescono da un terreno florido di pessimismo e sensi di colpa; è talmente inserito nei suoi rimorsi che non sente nemmeno i passi di uno dei due poliziotti diventare più vicini, e sobbalza quando sente la mano di qualcuno posarsi sulla sua spalla destra, la testa che si alza di colpo e lo sguardo che corre istintivamente a lato, incontrando il distintivo di un poliziotto. Alza lo sguardo poi, rilassandosi appena quando incontra gli occhi severi e maturi di Iwaizumi, e le labbra si distendono in un sorriso nervoso e stanco.

«Ispettore..!»

«Tadashi».

La voce di Iwaizumi è bassa ed autorevole, e basta a minare la piccola sicurezza sociale di Yamaguchi che abbassa nervosamente lo sguardo, deviandolo a lato a fissare un Ushijima ancora occupato all’altra scrivania.

«C’è qualcosa che posso–»

«Tadashi, non è colpa tua».

Ah, sapeva che sarebbe stato inutile evitare l’argomento. Yamaguchi abbassa lo sguardo, mordendosi istintivamente l’interno delle guance nel tentativo di calmare se stesso e di non mostrarsi troppo debole: possono dargli torto, in fin dei conti? Non tutti i giorni si viene a conoscenza di essere inconsapevolmente responsabile di un avvelenamento di proporzioni bibliche di tutti gli esseri umani residenti a Gotham.

«Ah ah… Perché mi sento come se lo fosse allora?»

Prova a riderci su, ma tutto quello che esce dalle sue labbra è un verso strozzato ed insicuro, che decade dopo qualche secondo mentre Yamaguchi porta una mano alla fronte, l’indice ed il pollice che vanno a porsi ai lati di ciascun sopracciglio, l’espressione sofferente. Iwaizumi rimane a fissarlo per qualche istante prima di voltarsi, ponendosi al suo fianco e poggiandosi sulla scrivania a braccia conserte, spostando dietro il baricentro sino a posare il coccige contro il bordo del ripiano.

«Tadashi, era la tua tesi di laurea. Non potevi certo sapere qualcuno l’avrebbe utilizzata in un modo simile; fidati quando ti dico che non hai colpe per quello che è successo».

«Eppure lo hanno fatto, l’hanno utilizzata, ed ora la città è in preda ad un’isteria di massa».

«Ed il fatto abbiano scelto di usare la tua ci porta il vantaggio di averti dalla nostra. Meglio qui sotto piuttosto che per strada, ad agitarti come se fossi tormentato dai tuoi peggiori incubi».

Yamaguchi si morde il labbro inferiore, e lo sguardo va a posarsi per qualche secondo al lato, a fissare lo stemma della GCPD in rilievo sul distintivo che Iwaizumi porta attaccato ad uno dei passanti della cintura. Porta poi nuovamente il viso verso i fogli sparsi davanti a lui, e le mani vanno ad unirsi nervosamente in davanti, le dita che armeggiano l’una con l’altra nel tentativo di combattere l’ansia che sente gonfiargli il cuore.

«Cosa accaduta a chissà quanti milioni di persone, là fuori».

«E che risolveremo grazie al tuo antidoto, essendo tu qui dentro».

«…»

Yamaguchi alza lo sguardo mentre le labbra si schiudono, già pronte a rispondere all’altro, ma nel momento stesso in cui l’aria viene incanalata attraverso la trachea si rende improvvisamente conto di non sapere come ribattere ad Iwaizumi. Le sopracciglia si aggrottano, un segno di sconcerto che va a pitturare quel viso chiaro e costellato di lentiggini, mentre la bocca va quindi a richiudersi, formando una smorfia di disappunto quando le labbra di Iwaizumi decidono di aprirsi nell’ombra di un sorriso sghembo, segnato di risposta a quell’espressione sinceramente disorientata di Yamaguchi e a quel momento di silenzio non previsto.

«… Non–!»

«Scusate il ritardo, ci ho messo una vita a trovarla».

La voce di Yaku proveniente dall’uscio del laboratorio è abbastanza alta affinché entrambi puntino i loro sguardi verso la sorgente materializzatasi lì davanti, e con la coda dell’occhio Yamaguchi può vedere anche i restanti colleghi nella stanza – e Batman, naturalmente – fare lo stesso, andando a rimirare la figura posta davanti alla porta, innaturalmente larga e goffa, di un colore verde militare e dotata di uno schermo di plastica trasparente atto ad evitare il contatto di qualsiasi agente patogeno con il viso, seppure mantenendo la visibilità dell’essere umano ospitato al suo interno piuttosto alta.

La tuta NBC – Nucleare Batteriologico Chimicoera un indumento dalla copertura totale, dalla natura stagna e provvista di SCBA – Self Contained Breathing Apparatus. Era da poco che il laboratorio ne aveva un paio custodite nella parte più interna della struttura, ma il regalo del sindaco era sembrato fin da subito necessario ed utile da indossare in caso di incidente chimico o batteriologico, per quanto alquanto scomodo a causa del peso eccessivo della bombola posta dietro alla schiena; Yamaguchi aveva dovuto usarla almeno un paio di volte nell’ultimo mese, e non ha bisogno di vedere quanto la schiena di Yaku fatichi a tenere il corpo in avanti per ricordarsi quanto fosse stato inizialmente difficile ritrovare il baricentro con quella cosa indosso, tentando di muoversi senza cadere o senza sforzare eccessivamente la schiena. L’essere goffi è inoltre peggiorato dalla tendenza della tuta a gonfiarsi dell'anidride carbonica che Yaku ad ogni inspirazione di ossigeno espira di conseguenza, e se non fosse per qualche fessura dalla quale passa qualcosa ogni tanto – finemente creata per mantenere la pressione interna leggermente più alta della pressione esterna ed ammettere così l’uscita di aria ma non l' ingresso di quella contaminata il giovane scienziato si potrebbe ben immaginare il modo attraverso il quale Yaku finirebbe col trovare impossibile muoversi all’interno della tuta, trovando altresì necessario farlo attraverso una serie di ruote di lato.

Ah– non gli veniva da ridere da un po’, ad immaginare altre persone in momenti imbarazzanti e poco verosimili della loro esistenza: è abbastanza certo Kei sarebbe fiero di lui.


«Siamo pronti, allora?»

Yamaguchi viene riportato all’attenzione dalle parole del commissario, e sbatte un paio di volte le ciglia, cercando di tornare al presente mentre si accorge di aver completamente perso il momento in cui Yaku è rientrato nella stanza, avvicinandosi ad Ushijima ed iniziando a impartire ordini su quali tempistiche avere nello sbloccare le varie porte atte a far uscire lui e Batman, prima di bloccarle e riaprirle solo quando lo vedrà ritornare. Se lo vedrà ritornare, è il tacito continuo a quella richiesta di apertura e chiusura, una possibilità che Yamaguchi riesce a sentire nell’aria mentre continuano a parlare dei pulsanti e del cronometro, delle telecamere e delle strade, dei corridoi deserti e di quelli superiori, pieni di colleghi fuori di sé da tenere lontani dalla sala d’ingresso fin tanto lui e Batman non passeranno con le boccette, unica possibile speranza per quella città.

«Bene, questo è quanto. Conto su di voi, mi raccomando».

Ed alla fine li vede andare via, Yaku che alza un braccio a mezz’aria a salutarli velocemente prima di uscire dalla porta con il suo primo carico in mano, mentre Batman posa nuovamente la maschera d’acciaio sulla metà inferiore del suo viso, muovendola e facendola scattare un paio di volte prima di premervi un pulsante al lato, rimanendo in silenzio qualche istante a prendere il suo carico di boccette prima di voltarsi e scomparire dietro l’angolo.

Scende il silenzio, e lo sguardo di Yamaguchi rimane a fissare la porta mentre la sua mente viene riempita di pensieri, parole e preoccupazioni accumulatesi in quelle ore ed ora pronte a inondare come una marea tutto ciò che riesce a raggiungere, lasciando solo detriti e paure verso un futuro che non vuole immaginare, né tanto meno vivere. Eppure, in fondo – proprio in fondo – si sorprende anche lui al sentire qualcosa di caldo premere contro la sua anima, illuminando una parte di sé che credeva sopita in quell’occasione e che forse la visione di Batman, il senso di responsabilità di Yaku, le capacità di Kiyoko, l’efficienza di Ushijima ed il discorso di Iwaizumi gli hanno fatto tornare. Una qualcosa che lo porta persino a pensare che, in fondo, abbia ragione l’ispettore nel dire che nella sfortuna vi sia stata la fortuna, e che l’averlo come scienziato di turno in quel dipartimento proprio quel giorno, in quel punto, accanto a quelle persone sia stata una carta inaspettata, certamente, ma più che mai di vantaggio nella loro missione di salvataggio dei cittadini di Gotham.

«Torneranno?»

Chiede all’ispettore Iwaizumi, lo sguardo che rimane puntato verso la porta dalla quale i due uomini sono appena usciti.

Perché a volte si deve credere in qualcosa.

«Sarà meglio per tutti noi. Il commissario è l’unico che sappia fare decentemente il caffè».

Perché a volte serve solo avere speranza.




°°°°




GOTHAM CITY Gotham Center Police Department, Hall (GCPD)

22/12/1976 – Ore 16:30 circa


Il ritorno in superficie non era stato semplice.

Non appena Batman ed il commissario erano arrivati nuovamente al piano terra del dipartimento, le boccette fra le mani e la bombola d’ossigeno saldamente posta sulla schiena di Yaku per permettergli di respirare, erano stati attaccati da cinque agenti – o almeno, da quelli che fino a quella mattina erano stati agenti della GCPD – che si erano scagliati addosso ad entrambi, saliva in caduta libera sui menti inumiditi e occhi iniettati di sangue e difficili alla focalizzazione.

«Attento!»

Yaku fa appena in tempo di gridare quell’avvertimento che è costretto ad abbassarsi, le boccette che tintinnano fra le braccia mentre tenta di coprirle con il proprio corpo nella maniera più sicura possibile; dannazione, ha una pistola dietro la schiena ma non ha modo di usarla, con entrambe le basette tra le braccia. Schiocca la lingua, nervoso, e rotola da un lato mancando per un secondo di scontrarsi con i denti di una donna che si è tuffata nella sua direzione, le boccette che tintinnano in maniera sinistra mentre si volta a guardare l’attentatrice, pronto a scattare. La donna però è ferma, immobile a fissare il suo riflesso sulla lacca di una macchina, l’espressione iraconda ora confusa e il ricordo della sua preda come svanito in un attimo. Le labbra sanguinanti si schiudono nella sorpresa, mentre le sopracciglia si alzano, una mano che va a grattare la portiera e il viso che si piega a destra e a sinistra, ricalcando istintivamente il comportamento di un animale dinanzi ad uno specchio.

Il commissario si alza in ginocchio, tenendo strette in petto le due scatole piene di piccoli cilindri dall’interno colorato, e quando è sicuro l’altra non provi più interesse per lui scivola via, rimettendosi in piedi e correndo verso Batman, guardandolo volteggiare e lanciare bat artigli contro i tre esseri che nel frattempo lo hanno attorniato.

«Sono qui–»

Dice semplicemente, e fa appena in tempo ad arrivargli accanto per vederlo colpire l’ultimo uomo rimasto in piedi, facendogli perdere i sensi con un colpo assestato dietro la nuca. Si ferma proprio davanti a quest’ultimo, guardandolo dall’alto e respirando pesantemente dall’interno della tuta antiradiazioni, la parte inferiore del vetro che protegge il viso e permette la visuale che va ad appannarsi leggermente nel calcare la differenza di temperatura tra il freddo dell’esterno ed il caldo dell’espirazione di Yaku.

«…–Lo conosco. È il padre di»

«… Avanti».

Alza lo sguardo dall’uomo riverso incoscientemente per terra appena in tempo per vedere Batman allontanarsi velocemente, e lo segue di corsa rimanendo il più possibile vicino al muro prima di raggiungere una bassa macchina nera pece che non fatica a riconoscere, dopo tante notti passate ad aspettarla o a vederla strisciare fuori dalle strette ombre create da vicoli abbandonati.

«Serve altro?»

Domanda infine al Cavaliere Oscuro mentre gli porge le provette, ed indietreggia poi di qualche passo, guardandolo negli occhi e attendendo pazientemente una risposta, le braccia che vanno ad incrociarsi in petto.

«No, grazie per aver portato le provette».

E nel mentre Batman risponde Yaku lo vede voltarsi, facendo il giro della vettura prima di premere un pulsante della cintura, aspettando che la portiera del guidatore salga a scoprirne la postazione di guida. Lo guarda salire in macchina e mettere in moto, ma prima che possa abbassarla una mano va a porsi verso l’alto a tenerla ferma, lo sguardo che si abbassa a fissare l’uomo pipistrello seduto alla guida mentre le dita si stringono appena contro la fodera morbida dell’interno, le labbra che si stringono in una linea sottile prima di schiudersi rigidamente.

«Batman».

Lo vede alzare lo sguardo, la maschera a celarne qualsiasi espressione, l’oscurità degli interni che si fonde con il costume scuro creando uno sfondo di contrasto con alcuni luci alternate sul cruscotto.

«È anche la mia città. Non scordarlo».

Dice semplicemente, prima di arretrare e rimanere a fissarlo nei punti ove la maschera copre le iridi dell’altro. Lo vede, nel silenzio della sua vettura, rimanere con lo sguardo a puntarlo per qualche minuto, una conversazione impossibile da replicare a parole che si snoda tra i due adulti prima che il Cavaliere Oscuro volti semplicemente lo sguardo, premendo un pulsante al lato del volante da macchina da corsa e scomparendo lentamente all’abbassarsi progressivo della portiera.

«Lo so».

Un colpo di gas, un ruggito nella notte, e Batman è solo un sogno – scuro, silenzioso, misterioso – figlio della notte, tornato ad essere impalpabile come l’alba e lontano da quell’orario pomeridiano che assola in mezzo a tanto grigiore portato dall’inquinamento la città di Gotham.

Ma se Batman è solo un sogno Yaku non può fare a meno di domandarsi, nella maniera più istintiva e razionale possibile:

È partecipazione o suggestione, credere in un sogno per il cambiamento della realtà?









- - - - -

Sono tornata! Ed è passato pochissimo tempo dall’ultima volta… Però ecco, la spinta che mi hanno dato i commenti ricevuti lo scorso capitolo è stata tantissima e sono stata così contenta di avere un riscontro positivo da vecchie e nuove persone che seguono questa storia, e… Insomma ok, potrei essermi quasi messa a piangere. In questo periodo ho veramente le emozioni al massimo, mannaggia. Comunque sia! Questa è stata l’ultima parte tranquilla dell’arc centrale, dal prossimo capitolo entriamo in quello finale! Sono così contenta di essere arrivata fino a qui, ormai siamo ai due terzi della storia e… Grazie, davvero. Grazie a tutti quelli che commentano e che mettono la storia tra le seguite o le preferite. È grazie a voi se continuo a pubblicare!
Ci vediamo al prossimo capitolo! (//v//)

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Capitolo 13
*** A man that studieth revenge keeps his own wounds green ***


13. A man that studieth revenge keeps his own wounds green
(Un uomo che medita vendetta mantiene le sue ferite sempre sanguinanti)



Francis Bacon





GOTHAM CITY Gotham International Airport (Bristol District)

22/12/1976 – 17:00 circa


Situata poco oltre l’aeroporto internazionale di Gotham, la collina segnalata dall’agente Ushijima apparteneva ad uno dei promontori più bassi della zona, una serie di altre rocce che rendevano la crosta dura e ferrosa mentre, a tratti, uno strato di humus cresceva a sufficienza da permettere la presenza di erba ma non lo sviluppo di radici proprie di grossi alberi. Sullo sfondo ingrigiva il panorama un divisorio offerto da due alture innevate stagliate a chilometri di distanza, mentre sul suolo la terra assumeva contorni grumosi lì dove la scarsa neve caduta nei giorni scorsi non aveva attecchito, le poche piante presenti che puntavano basse verso il suolo, le foglie rese strette dall’evoluzione e dalla necessità di ottimizzare l'esposizione al Sole o ai gas atmosferici.

Nonostante tutto, comunque, era probabilmente la presenza dell’uomo quella che doveva aver più di tutti variato quell’habitat già inizialmente secco ed inospitale. I continui rumori degli aerei pronti a decollare ed atterrare poco distante, il traffico a qualsiasi ora per raggiungerne la struttura, lo smog e l’inospitale effetto serra che avvolgeva l’intera landa scaldata dalle luci e dalle macchine aeroportuali avevano più di tutto il resto segnato la naturale presenza di animali e piante di quella zona, riducendo il numero di predatori a poche piccoli volpi selvatiche e quello delle prede a esili topi di campagna. Forse era vero non fosse difficile trovare tane scavate nel terriccio rossastro appena ci si allontanava dalle strade principali, ma in generale l’uomo aveva nel tempo sradicato abbastanza alberi per scopi costruttori da non permettere la presenza di altra fauna che fosse nella totalità abbastanza eterogenea da regolarsi autonomamente.


Non appena la città era stata presa da quella frenesia allucinogena inaspettata, però, il rumore degli aerei che erano soliti transitare in quella struttura sembrava essere completamente scomparso, e svanito era anche lo stesso contatto da parte di esterni della metropoli, che si erano prontamente chiusi nello stesso silenzio che aveva inglobato i mezzi di comunicazione non appena l’intera nazione aveva richiesto la quarantena precauzionale della città. Così ora era quasi alienante sentire come, assente quello, il rumore quasi assordante del vento finiva per filtrare, stridente e affilato, tra le incanalature delle montagne davanti alla vallata, quasi a fare da agghiacciante sirena di una realtà privata della sua umana quotidianità ma rimpossessatasi della propria naturalità.




Daichi rallenta leggermente nell’arrivare abbastanza vicino alla zona precedentemente appuntata sulla cartina alla GCDP, e quando anche l’ultima parte del motore sembra essersi spenta preme il pulsante di apertura del portello, posando al contempo un momentaneo sguardo sul posto del passeggero per controllare lo stato delle provette ancora al suo fianco. Sembra che il viaggio non le abbia troppo smosse, così nel vederle ancora integre ed ordinatamente impilate Daichi decide infine di scendere, a calpestare con gli stivali scuri il terriccio freddo ed umido della pavimentazione.

L’aria non tarda a sferzargli il costume mentre avanza, ma ad ogni passo i sensi rimangono all’erta mentre la consapevolezza di stare raggiungendo la stretta gola lo porta a stringere istintivamente i polpastrelli guantati alla cinta che ne fascia la vita. Se le informazioni trovate da Ushijima sono sufficientemente aggiornate, da lì dovrebbero passare molte delle correnti principali di Gotham: non è quindi improbabile la presenza di probabili alleati di Joker a presidiarne i contorni… Sempre che il piano del criminale sia effettivamente quello.

Daichi si inserisce nella scura forra silenziosamente, e nel vedere le ombre calare ad ogni passo in avanti una mano si sposta a sfiorare le rocce poste alla destra della spaccatura, trovandole lisce al tatto nella parte inferiore e friabili in quella superiore, ove piccoli grumi di terra sdrucciolata rotolano pigramente ad ogni pressione esercitata dai polpastrelli.

Percorre ancora qualche metro, venendo sempre più avvolto dall’oscurità mentre ripercorre a ritroso quell’imboccatura, avanzando adagio sino a trovarsi nel canale umido di un fiume scomparso. Il letto del torrente è scoperto, i ciottoli e le rocce che ne ricoprono la pavimentazione sembrano dischi che spuntano distrattamente in un mare di fango e di neve, e ai lati una serie di radici e rami bassi ricoprono insieme ai rampicanti le pareti scoscese dell’ambiente, creando un ambiente irrealistico e freddo.

Dall’alto, attirati da un allargamento inaspettato del soffitto roccioso, una serie di deboli raggi flebili e bianchi creano linee di luce che scoprono scorci umidi di muschio e di altri materiali depositati dal fiume, e sono proprio quei raggi che permettono a Daichi, durante la sua ricerca visiva del camino originario di quella luce, di notarla: una figura snella e vigile, poco sopraelevata rispetto a lui e con i piedi nudi posati sugli stessi ciottoli che i suoi stivali – nonostante creati appositamente per avere tenuta su qualsiasi terrenofaticano a calpestare senza fargli perdere per una frazione di secondi il baricentro.

Solo, il silenzio.

Daichi rimane a fissare quella creatura, elegantemente dritta e vestita di una immobilità degna di un essere etereo e impiegabile dall’età, prima di abbassare nuovamente lo sguardo verso l’alveo del fiume, avanzando tra i ciottoli umidi mentre lo sguardo non manca di scivolare a fasi alterne verso la figura sempre più vicina. All’inizio sembra che quella semi oscurità si stia prendendo gioco di lui, irridendolo con le ombre che lo contornano e creando forme di esseri che Batman è sufficientemente sicuro non abbiano motivi di trovarsi in quel luogo, ma man mano che gli occhi riescono a distinguerne maggiormente i tratti le sopracciglia celate dalla maschera si aggrottano leggermente, la mente che inizia a elaborare congetture mentre ogni passo lo porta ad accostarsi alla presenza silenziosa del metaumano davanti ai suoi occhi.



Non che si sia mai veramente aspettato di incontrare Joker in quel luogo, e questo non solo a causa dell’effettiva insicurezza con cui lui e la GCPD si stanno al momento muovendo nell’ipotizzare luoghi e modalità scelte dal criminale – problema già di suo non di poco conto; il vero motivo per cui dubitava di trovare il Pagliaccio lì dentro, anche in caso di corretta ipotesi riguardo la zona da controllare, era piuttosto da ricercarsi nella certezza, ormai sviluppata negli anni, di come Joker non sia decisamente qualcuno che si possa prendere in contropiede, non senza che questo abbia a sua volta trovato un modo per rendere nel frattempo l’intero imprevisto uno spettacolo a tutto tondo.

No, se fosse stata quella la zona scelta per il loro incontro probabilmente Daichi se ne sarebbe accorto da subito: vi sarebbero state luci intermittenti all’entrata della gola, un possibile pubblico di esseri – animati e non, contando la passione malsana del criminale per oggetti di pezza e cadaveri smembrati ed obbligati ad un sorriso tirato per mezzo di fili e cuciturea testimoniare la sua entrata in scena, e probabilmente avrebbe persino trovato un accenno di palco ad attenderlo all’interno, creato appositamente per ospitare entrambi durante lo scontro. E poi ancora troni, palloncini, uomini trasformati in bestie, simboli di risate e pagliacci pitturati con vernice fotoluminescente, apposti in giro come indicazioni per raggiungere la voluta ubicazione.

Nulla di tutto ciò è presente in quel luogo.

Davanti a Daichi vi è invece un giovane che il Cavaliere Oscuro conosce bene e che non fatica a riconoscere, nonostante la presenza in quel luogo lo lasci piuttosto sconcertato. È una figura che a Gotham difficilmente qualcuno potrebbe dimenticare, per l’eterea bellezza che la contraddistingue o per la pericolosità della sua fama: alto e longilineo, gli occhi lunghi ed eleganti e i tratti morbidi e raffinati, Poison Ives si staglia finemente a qualche metro da lui, sopraelevato mentre in perfetto equilibrio su una serie di rocce dalla superficie umida e liscia, l’asse baricentrico del corpo perfettamente in linea con il resto del corpo. Un piede è posto davanti l’altro nel seguire la curva del masso su cui poggia, mentre le braccia cadono morbide ai suoi lati, sfiorando i fianchi e andando a terminare in una carezza a metà coscia.

«Poison.»

La voce di Daichi è solida e stabile nel chiamarlo, ma nonostante ciò il metaumano rimane immobile, gli occhi del colore del sottobosco che si limitano ad osservarlo: un’aria di indifferenza – che ormai Batman conosce sin troppo benesembra essere fiorita da tempo su quel viso senza età mentre lo scruta dall’alto, in piedi su quello che in alta stagione deve essere il trampolino naturale di una delle tante rapide del fiume e che, essendo queste ora assenti, risulta essere al momento solo una delle molteplici sporgenze acuminate che ne accentuano i dislivelli.

«Non porti nulla per proteggerti dalle esalazioni.»

Continua, fermando la sua avanzata mentre le cornee scure vanno a puntarsi su quelle dell’altro, ora maggiormente visibile per via di un nuovo e sottile raggio di sole scivolato via dalle nubi scure e riuscito, in qualche modo, ad insinuarsi all’interno della stretta gola, cadendo proprio al fianco del metaumano ancora immobile.

«Su di me queste cose non possono avere effetto.»

Poison commenta dopo un momento di attesa, e mentre termina la frase lo sguardo va ad alzarsi appena verso il cielo, le palpebre che si abbassano mentre le narici inspirano silenziosamente l’aria fredda e dicembrina in cui sono entrambi immersi. Batman è abbastanza sicuro che una cosa del genere per lui sarebbe ancora una condanna a morte; non ne può essere certo naturalmente, non a così grande distanza dalla città, ma la possibilità contraria non è sufficiente probabile da fargli decidere di allentare la pressione ferrea che la maschera ancora indossata continua a fare sulla sua mandibola e su tutta la parte inferiore del viso.

«Non più, almeno.»

Lo sente terminare mentre il verde marino di quegli occhi lunghi torna a posarsi verso il basso, le lunghe ciglia che si abbassano anch’esse, estese e sottili, ad ombreggiarne la sfumatura fresca.

«Vuol dire che esistono persone immuni a questa sostanza?»

Daichi avanza la sua domanda con una tonalità che esterni potrebbero giudicare piatta, ma nel frattempo che lo fa osserva con attenzione l’espressione dell’altro, cercando in essa una qualsiasi reazione ne possa precedere una risposta. Poison non nega né appoggia la sua ipotesi, così il Cavaliere Oscuro lascia che il silenzio cali su entrambi mentre si arrischia a fare un passo in avanti, vedendo l’altro irrigidirsi istintivamente senza, tuttavia, accennare ad un arretramento.

Alla luce di quel pallido raggio ancora filtrante tra le fessure delle rocce la pelle di Poison risulta essere bianca come latte, sottile e fragile nell’apparenza, percorsa da una densa mappa di vene e capillari che corrono appena al di sotto della superficie pitturando, attraverso la linfa smeraldina che trasportano, le braccia e le gambe del metaumano di una leggera sfumatura menta. Daichi può vedere alcune delle vene più grandi creare una cartina acerba e dai confini smussati che attraversa tutte le zone scoperte del corpo del giovane, mentre quelle che colorano di un delicato verde le tempie più in alto sembrano quasi risplendere, chiare e traslucide, al punto da dare ai contorni del viso di Poison una tonalità quasi marina.

Ah.

Ecco dunque la risposta.

«Solo quelle mutate geneticamente.»

Propone, e non ha bisogno di vedere l’assenso formarsi negli occhi dell’altro per capire come la sua intuizione sia corretta.

«Eppure non può essere l’unico modo per esserne immune, o Joker avrebbe perso i suoi seguaci nel momento stesso in cui ha liberato il morbo.»

A quelle parole Poison abbassa indifferente lo sguardo, andando a carezzare distrattamente una pianta cresciuta nel frattempo accanto a lui, mentre le dita affusolate vanno a spostarsi con raffinata lentezza lungo la liscia superficie dello stelo arricciato davanti a lui. Rimane così a lungo, e nel frattempo altre piante ascendono dal terreno, creando ricami attorno alla sua figura e accogliendolo in quel riparo fresco e naturale; Batman nota l’altro sembri quasi essersi completamente dimenticato di lui, tuttavia decide che è inutile per il momento forzare la mano, preferendo rimanere a qualche metro di distanza mentre lo vede far scivolare i polpastrelli da un ramo all’altro, un accenno di sorriso a piegarne le labbra rosate.

Quel momento di flemma è però destinato a durare poco. Quando finalmente gli occhi verdemare scivolano nuovamente su di lui Daichi può vedere l’espressione morbida sfiorire rapidamente dal viso dell’altro, appassendo lentamente sino a farsi nuovamente distaccata, le mani che rimangono a sfiorare distrattamente qualche foglia scura mentre le restanti liane rimangono immobili, quasi come fossero animali in attesa, sensibili alla tensione accumulatasi nel metaumano.

«Lui gli ha fatto produrre qualcosa.»

Dichiara semplicemente, mentre ad una nuova carezza la pianta si arrotola maggiormente in una forma a spirale, alzando il fusto così da aumentare il contatto con il palmo morbido dell’altro.

«Qualcosa che Joker fa respirare a tutti i suoi tirapiedi, prima di farli uscire.»

Termina, e nel mentre lo dice il braccio viene leggermente piegato verso l’alto, così da permettere alla liana ancora arrotolata attorno al dorso di arrampicarvisi intorno, superando il gomito e risalendo lentamente verso la piega della spalla.

«… Lui?»

Prova a chiedere, senza ottenere tuttavia risposta. Che sia stato qualcun altro a trovare le formule della tesi? Che sia davvero Bokuto il responsabile, alla fin fine?

Cala nuovamente il silenzio, ed esso permane nell’aria pesante di domande e di dubbi fino a quando, nel vedere uno stivale di Daichi farsi in avanti e nello scorgere sottocchio il petto del Cavaliere Oscuro spandersi come a prendere aria e prendere nuovamente parola, Poison alza una mano, portandola in avanti ed intimando così a Batman di fermarsi.

«Fermo.»

Dice solamente, le palpebre che nel frattempo si abbassano a nascondere le iridi scure. Il Cavaliere Oscuro si arresta, ma la voce grave non tarda comunque ad arrivare, la rigida mascherata indossata che ne rende la tonalità grigia e metallica.

«Perché sei qui, Poison? Tu non lavori per lui.»

«Non importa il perché.»

Poison risponde secco, sbrigativo, e Batman non ha bisogno di studiarne il tono per intuire quanto il metaumano sia decisamente poco propenso all’argomento. Non fatica ad intuirne il motivo, dopo tutto: nonostante i tanti anni passati nella stessa città, sembra che il rapporto fra Poison e Joker non si sia mai veramente sviluppato al livello di alleati, ed i crimini ad opera di entrambi continuano ad essere piuttosto rari e quanto mai insoliti. Fra di loro sembra vigere un rapporto di non belligeranza, più che di simpatia, e seppure questo da un certo punto di vista lo metta in allerta – cosa potrebbe avere Joker che Poison possa bramare tanto da diventare suo temporaneo alleato? – rimane che, forse, questo potrebbe anche andare a suo favore. Daichi fa istintivamente un passo in avanti nel pensarlo, ma non riesce a farne un secondo che qualcosa cambia.

È un attimo: le piante del metaumano che perdono il contatto con il terreno, le liane che si avviluppano attorno a corpo del loro proprietario, ed in una manciata di istanti quella creatura eterea, flebile incontro tra intelletto umano e pura naturalità, è a mezz’aria e lontana da lui, lo sguardo che lo scruta diffidente e impassibile e la distanza che li separa ormai raddoppiata.

Sembra essere una posizione di difesa, certo; ma è anche, e soprattutto, una che favorisce un possibile attacco dall’alto. Attacco che Batman ha sperimentato più volte essere il preferito del metaumano.

«Non c’è bisogno di combattere, Poison.»

«Davvero, Batman?»

La voce di Poison sembra non differire da quella usata nelle frasi precedenti, eppure una sfumatura di attesa ne incrina appena la tonalità piatta, esponendo – forse persino inconsapevolmente – un sospetto che Batman può quasi sentire strisciare contro la sua uniforme, gli occhi stretti che continuano a studiarlo dall’alto come farebbe un animale da un dosso.

«Davvero; non sei tu quello che sto cercando, e lo sai. Dimmi dove trovare Joker, ed oggi sarà l’ultima volta che mi vedrai.»

Poison rimane in silenzio, e nell’attesa di una sua risposta le piante attorno a lui tornano a muoversi in maniera frenetica, arcuandosi maggiormente mentre dalle superfici lisce alcune spine iniziano a fiorire spontaneamente, crescendo in lunghezza pur rimanendo sottili come aghi.

«Sai che non posso farlo.»

«Sembra le mie conoscenze non siano sempre corrette. Sapevo anche tu non fossi solito allearti con Joker.»

L’espressione di Poison è indecifrabile, eppure Batman riesce a sentire la sensazione bruciante di quegli occhi su di lui, a fissarlo intensamente per secondi interi prima di espirare dalle narici, chiudendo gli occhi per una manciata di battiti prima di tornare a schiuderli verso di lui.

«E continuo a non farlo. Mi è stato chiesto di presidiare questo posto, ma non di difenderlo a costo della mia stessa vita. Facendo ciò, il mio debito con Joker sarà estinto.»

«Quale debito puoi aver accumulato con Joker per portarti a partecipare ad un piano simile?»

Poison non risponde, ma l’espressione apatica lascia per qualche secondo spazio ad una diversa, le sopracciglia che si aggrottano leggermente e l’osso della mandibola che viene stretto con appena più forza. Batman rimane immobile, ma le spalle diventano un fascio di muscoli tesi mentre il corpo si prepara istintivamente a muoversi in caso di necessità, gli occhi che slittano silenziosamente a vedere il modo attraverso cui le lunghe liane attorno al corpo di Poison siano ormai diventate edere velenose dalle spine lunghe e ricurve, l’energia accumulata che le rende vibranti e pronte a lanciarsi verso il basso al primo cenno del metaumano.

«Non è nulla che ti riguardi.»

La voce di Poison è ormai chiaramente incrinata dal disprezzo mentre parla, e il Cavaliere Oscuro può quasi sentire l’aria che respira portarsi gli strascichi di quel veleno che trapela da ogni parola. Verso chi è indirizzato quel disprezzo, però? Verso di lui, o verso il criminale dal sorriso di sangue?

«Questa non è la tua lotta, Poison. Qualsiasi cosa ti abbia promesso Joker, non ne vale la pena.»

«Non esiste nulla che Joker possa procurarsi e che mi possa interessare, Batman.»

«Cosa potrebbe darti, se non qualcosa di materiale?»

Il metaumano non risponde, rimanendo ancora fermo a mezz’aria mentre, tutto attorno, lo scrosciare delle piante contro le rocce umide crea una litania continua e sibilante. È come ascoltare un lamento lento e profondo, pensa di sfuggita Daichi; un gemito quasi, che va ad echeggiare per le pareti ripide ogni volta che le liane si arrampicano sfuggenti lungo il letto di quel fiume invisibile e che supera strisciante le rocce scure, spandendosi lungo l’alveo come un telo su una culla di morte.

«Poison, non mi interessa il vostro accordo. Ho solo bisogno di avere accesso a questo posto.»

«Perché proprio questo? Qualsiasi luogo offre libero accesso, eppure ciò non significa ti sia utile.»

Commenta, ed è una risposta disinteressata e distaccata, forse persino fredda se messa in rapporto con ciò che sta in quel momento accadendo a migliaia di esseri umani appena fuori da quella gola, poco oltre il ponte situato più a sud.

La classica risposta alla Poison Ives.

«Non avrò la certezza sia tale finché non saprò cosa ci sia effettivamente nell’aria

Il giovane rimane in silenzio, ancora nel fiore di quelle liane che sembrano cullarlo tra le verdi fronde, e proprio da loro sembra che alla fine prenda nuovamente il desiderio di tornare a reagire, la mano che va ad alzarsi a lato aspettando che una di loro si strusci morbidamente contro il suo dorso, arrampicandosi nel frattempo attorno al suo braccio.

«Se è un modo per chiedermi di cosa si tratti rimarrai deluso. Non so cosa stia usando, né dove se lo sia procurato. Come ho già detto, non sono suo alleato.»

«La GCPD ha un’ipotesi, ma non sarò in grado di validarla finché non verrà testata.»

«Un’ipotesi?»

«Un batterio, per quanto sarebbe meglio dire un insieme di batteri. Sicuramente più di un ceppo.»

«Batteri–»

Poison non commenta ulteriormente la notizia ma Daichi riesce a vedere, oltre quell’espressione di finto disinteresse, il modo attraverso cui il mento viene alzato leggermente, le narici che inspirano rumorosamente una piccola quantità d’aria mentre una velata sfumatura di irritazione scivola appena oltre la maschera di distacco indossata da Poison. La mano libera dalle carezze delle piante va a chiudersi a pugno, mentre i muscoli del braccio si contraggono sul posto, come se la notizia avesse in qualche modo sbilanciato qualche sorta di certezza avuta fino a quel momento.

«Non sapevo si trattasse di batteri. Ma ne conosco la fama: ogni giorno migliaia di loro uccidono molte delle piante presenti a Gotham.»

Dichiara infine, e Batman intuisce come finalmente sia riuscito a trovarle: poche parole, ma abbastanza per aprire uno spiraglio di dubbio nella perfetta schermatura che divide Poison dal resto del mondo. È una frattura stretta, momentanea, ma sufficiente a convincerlo nuovamente ad avanzare, le parole successive che escono lente e franche nel tentativo di arrivare il più possibile oltre quel muro di impassibilità creato dal metaumano.

«Forse so come evitare che faccia loro del male; ma non si risolverà nulla finché Joker e Due Facce continueranno ad avere la formula da replicare. Ho bisogno di sapere dove siano, e se tu»

«Non fraintendermi, Batman.»

Le labbra di Poison si schiudono appena il necessario nel pronunciare quelle parole, ma bastano a fermare nuovamente Daichi, bloccandone la lenta camminata.

«Non sono dalla parte di Joker, ma questo non significa sia dalla tua.»

Continua, e mentre sta ancora terminando di parlare un nuovo fascio di liane si avviluppano in maniera protettiva attorno ai suoi piedi, creando una spirale di muschio ed edera che sale verso l’alto a coprirgli la parte metà inferiore del corpo. Daichi scruta lentamente quei movimenti striscianti, e aspetta esse si fermino dal pulsare in maniera offensiva prima di rispondere, il tono fermo e diretto.

«Però sei dalla parte delle piante, e quello di cui stiamo parlando è un batterio. Quanto credi ci vorrà prima che inizi a corrodere l’aria al punto di renderla inospitale persino per loro?»

Ora il silenzio cala da entrambe le parti.

Gli occhi di Poison Ives sono immobili, eppure in qualche modo sembrano giudicarlo silenziosamente mentre le palpebre calano a mezza altezza sulle iridi marine, imbrunendo l’ombreggiatura della palpebra lì ove il sole non arrivi a schiarirne le tonalità. Batman vede le piante scivolare pigramente ai lati della figura del metaumano, come a chiedere consiglio su cosa debbano fare e su come si debbano comportare con l’ospite situato poco più in basso, e solo dopo una serie di interminabili minuti le vede iniziare lentamente ad abbassarsi, restringendosi con delicatezza e scivolando silenziosamente verso terra, portando con sé la figura del loro proprietario.

Rivedere Poison a terra è sufficiente a rilassare nuovamente i muscoli delle spalle di Daichi, e mentre i piedi nudi del metaumano si posano delicati sui massi muschiati la schiena del Cavaliere Oscuro torna a raddrizzarsi, abbandonando la posizione difensiva adottata istintivamente poco prima.

Non ha modo di ricominciare a parlare però con l’altro che questo si volta, dandogli le spalle e facendo qualche passo verso il letto del fiume, allontanandosi di qualche metro.

«Non so dove stia Joker–»

Lo sente dire, la voce che giunge ovattata a causa dei metri che li separano e che continuano ad aumentare ad ogni passo dell’altro, le piante ormai quasi del tutto scomparse o tornate alla terra dalla quale sono inizialmente fiorite.

« –Ma so dov’è Due Facce.»

Daichi fa un passo avanti a quella frase, ma si ferma prima di poterne fare un secondo. Seguire Poison sarebbe inutile, oltre che probabilmente controproducente: non c’è infatti bisogno di conoscere il metaumano per intuire come la vicinanza non sia esattamente qualcosa a cui sia avvezzo, e questo non contando che qualsiasi contatto con lo stesso potrebbe risultare potenzialmente nocivo, come ha avuto modo di scoprire in passato.

E con nocivo intende proprio fisicamente nocivo.

Il tipo di nocivo che uccide, se non si ha con sé un antidoto che ne contrasti gli effetti; come quello che lo ha salvato durante il combattimento allo Jezebel Center, per fare un esempio.

«Indicamelo allora.»

«Ad una condizione.»

Il metaumano si ferma per voltare appena lo sguardo, incastonando l’unico occhio blu marino visibile di profilo con lo sguardo impenetrabile di Batman, l’iride che va a studiare silenziosamente la maschera che indossa.

«Che tu non lo uccida, qualsiasi cosa esso faccia.»

Le parole vengono pronunciate con apatia, eppure il messaggio sembra essere pesante, pensato a lungo, una richiesta che richiama una sicura minaccia di scontro nel caso Batman non dovesse ottemperare all’unica istanza mandata avanti dal metaumano.

«Io non uccido.»

«Perdonerai il mio scetticismo in proposito.»

«Non cancellerei mai la vita di una persona. Non ne ho diritto, e non sono un criminale.»

«Ci sono molti modi di cancellare la vita di una persona, come ci sono molti modi di essere un criminale.»

Ed a questo segue un momento di silenzio, gli sguardi di entrambi che si scrutano attenti mentre la frase pronunciata da Poison rimane nell’aria, pesante e impermeabile alla neve che ha ricominciato a cadere leggera sul letto del fiume umido e congelato.

«Ti do la mia parola.»

«Non mi interessa tu me la dia, mi interessa tu faccia ciò che ti ho chiesto.»

«Lo farò.»

La voce di Batman è ferma mentre lo dice, e Poison si prende qualche secondo per studiarlo, cercare di vedere oltre quella maschera, capire attraverso i movimenti o – in questo caso – l’immobilità dell’altro quanto e se si possa fidare, e soprattutto se valga davvero la pena farlo.

Sembra infine giungere ad una soluzione, e dopo un ultimo silenzioso monito si volta nuovamente verso la cava che si apre fra le alture, tornando a camminare attraverso quella gola mentre l’oscurità inizia lentamente ad inghiottirlo.

«… Teatro Monarch, oltre l’Antica Cattedrale, superate le Ace Chemicals. Park Row.»

«Ti ringrazio.»

«Non farlo, non è per te che lo sto dicendo.»

Un ultimo battito di ciglia, ed infine Poison sparisce, scivolando nell’ombra di uno dei tanti canali secondari che rendono le superfici dell’angusto passo alte e irregolari. Batman rimane a fissare il punto ove è scomparso l’altro, gli occhi che studiano ancora per qualche istante le ombre in movimento mentre le orecchie si riempiono del suono cadenzato della placida natura che lo circonda, ed infine si volta anche lui, il mantello che fende l’aria mentre torna alla Bat-mobile, tirando fuori le boccette prese alla GCPD prima di insinuarsi nuovamente nella gola.

La segue per un numero imprecisato di metri, e solo quando raggiunge il termine, l’aria compressa dalla strettoia che tira con prepotenza indietro il mantello e che pone resistenza al suo avanzare attraverso le rocce dissestate, si piega a poggiarle a terra, fissandole tra i massi e aprendole una ad una.

L’antidoto è libero.

Daichi varia appena la curvatura della base, portando l’apertura dei flaconi nel verso del vento discendente verso la vallata ai loro piedi, e per una manciata di secondi si domanda se funzionerà davvero, se sia la scelta giusta da fare; lasciare liberi altri batteri può davvero essere soluzione di un problema di cui si abbiano solo teorie a riguardo? Qualcosa a cui non abbia lavorato lui, qualcosa che non esca dalle sue ricerche, qualcosa che sta posizionando sulla fiducia riposta verso qualcuno al di fuori di Asahi e Nishinoya?

Lo sguardo corre verso Gotham, ancora erta in lontananza ed oltre il lungo fiume che scivola pigramente a valle, e mentre le iridi scrutano la città di cemento e mattoni i pugni vanno a stringersi e a fare pressione sui palmi freddi, la pelle del guanto che geme appena nel contatto oppressivo con il resto del cuoio. In un attimo lo stesso freddo senso di solitudine legato alla sua infanzia ed alle sue ronde notturne sembra impossessarsi nuovamente della parte più interna del suo io, e nel fissare la metropoli in basso la mente viene invasa da pensieri scuri, da nuovi piani di azione, nuove ipotesi e nuove ricerche che certo, lo portino nuovamente in città, ma che gli permettano di tornare a lavorare sul come sconfiggere Joker a suo modo, con le sue forze, con i suoi piani.

Da solo.

Un tintinnio.

La maschera si abbassa a guardare verso terra, e le pupille si posano con attenzione sulle ampolle che lo stivale è andato involontariamente ad urtare, guardandole muoversi leggermente spinte dal vento e tintinnare al contatto con le altre. Sul lato di ciascuna di essere, la grafia di Yaku è chiaramente visibile e numera con professionale calligrafia ogni fiala, riportando il peso totale e la quantità di batteri inseriti in ogni miscela. Sono numeri, ma agli occhi del commissario di polizia devono essere sembrati una promessa, una speranza di salvare la sua città e i suoi cittadini da un incubo a cielo aperto che dalla mattina rischia di cancellare tutto ciò per cui ha lavorato tutta la vita.

Yaku Morisuke; voce portante del Gotham City Police Department.

Un uomo che non è né Asahi né Yuu.

Un uomo che ha riposto nella sicurezza della metropoli una priorità personale, prima che lavorativa.

Daichi rimane ancora qualche istante nel silenzio e nell’immobilità poi, lasciata libera la pressione alle mani, scivola nuovamente via, verso il buio che lo ha accolto all’andata. Gotham in lontananza cigola, piange, urla e si avvolge su se stessa, la pazzia che la logora dall’interno, uno strenuo attaccamento alla sopravvivenza che striscia tra le strade cercando di trattenerne le fondamenta e di attendere, forse, l’arrivo di un aiuto che venga da se stessa e dalle sue zone più scure.

Nere.

Come le ali di un pipistrello.

Prossima meta: Park Row.




- - - -

Buongiorno! ;v;)’’
Innanzitutto, mi scuso per il ritardo… Non era mia intenzione metterci tanto, ma mi sono trovata a dover risolvere in questi mesi un’infinità di problemi che mi hanno molto spenta anche dal punto di vista creativo. ;_;)’’
Lo ammetto: questo capitolo non è assolutamente il massimo. Non era nato per essere così, e questa doveva essere solo la prima parte di uno molto più ampio e che doveva avere tutt’altro argomento come fuoco principale. Purtroppo però sono finita per allargarmi troppo nel corso della scrittura, e quando ho notato che il capitolo stava diventando una cosa di una ventina di pagine mi sono fermata e ho messo a posto almeno la prima metà, che è quella che avete letto al momento! Potremmo vedere questa parte come una “pausa”, diciamo, tra i tre archi principali della storia. O un modo per rifarci gli occhi su Akaashi… Non so, a me fa morire come Poison Ives, ma sono palesemente di parte dal momento che l’ho messo io nel personaggio. (??)
Adesso siamo ufficialmente pronti ad entrare nella parte del “ti meno male”, comunque sia! Scusatemi ancora per la mancanza di azione, avrei evitato ma davvero, Akaashi non mi sembrava molto incline a combattere, e io non ho la forza di impormi su quegli occhioni da killer di cuori.
Ci rivediamo presto però, perché ho già scritto la bozza del capitolo successivo quindi devo solo correggerla…!
Promesso!
Un ringraziamento unico e speciale alle due bellissime dame che mi hanno dato la forza di continuare a pubblicare questa fanfiction, “unamoresolitario” e “Shila95”. Avete il mio cuore. (...)

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Capitolo 14
*** Injustice and justice are two sides of the same coin ***


14. Injustice and justice are two sides of the same coin
(Ingiustizia e Giustizia sono due facce della stessa medaglia)


Philosophy and Jurisprudence Books




GOTHAM CITY Monarch Theatre (Park Row)

22/12/1976 – Pomeriggio


Il Monarch Theatre, nome appartenente ad un vecchio edificio oramai in disuso da molti anni, era stato – durante quelli che ancora molti chiamavano i tempi d’oro di Gotham – uno dei maggiori teatri di élite della città, famoso per la clientela prettamente appartenente all’alta società e per la fama miliardaria di coloro che solitamente partecipavano alle serate organizzate dalla decorosa struttura vent’anni prima.

Ormai solcato dall’incuria e depauperato del suo fascino dai numerosi atti vandalici avvenuti all’interno e all’esterno dello stabile, il teatro sorgeva come un fantasma dimenticato nel cuore ormai spento del quartiere di Park Row, nell’ala sud est di Gotham ed a pochi passi dall’Antica Cattedrale della città, a meno di tre isolati dall’edificio una volta appartenente alla famiglia Kane ed ora chiamato Ace Chemicals. La strada per arrivarci ancora risentiva di qualche lustro ormai lontano, e ad ogni passo una serie di insegne vintage ciondolavano trascurate sotto un pesante strato di polvere, i colori una volta accesi e tentatori ora appassiti sotto la ruggine e oscurati dal cigolio appartenente ai perni indeboliti dalla negligenza dei proprietari. Alcune luci fioche ed insicure illuminavano a singhiozzi le zone più vicine al marciapiede, e fiumi scrostati di cemento lasciavano ad alternanza lo spazio a buche dimenticate e a tombini ricoperti di foglie, lasciate attecchire ai lati della strada assieme a carte di ogni grandezza e sigarette bagnate dalla pioggia.



Quando Poison aveva detto a Batman l’edificio dove avrebbe trovato Due Facce, Daichi era rimasto in silenzio, ascoltando le parole del metaumano ed annuendo con autorevolezza nel sentire il quartiere dove avrebbe trovato la struttura cercata.

Ma la verità era che, anche se non glielo avesse detto, Batman non avrebbe comunque avuto alcuna incertezza né su come arrivarci né su quale fosse effettivamente il rione in questione; per quanto la vicinanza alla Sawamura Enterprises avrebbe già potuto rendere questa conoscenza comprensibile, tuttavia, non era in questo che risiedeva il segreto di tale informazione. Esso era sepolto molto, molto più in basso, in un antro della sua memoria imprigionato dal senso di colpa e dal rimorso, artigliato a ciò che era diventato e a ciò che era come sarebbe potuto essere un pipistrello aggrappato alle rocce di una caverna, il ricordo più vivido collegato a quel luogo più che mai stampato dolorosamente nell’animo.




Batman entra nell’edificio silenziosamente, togliendo un paio di travi di legno malamente posizionate davanti la porta di entrata e calpestando con gli stivali rinforzati una miriade di frammenti di vetri rotti posati sulla moquette ormai rovinata, un mantello di pubblicità abusive e firme di artisti di strada che scivolano lungo le assi scrostate dal tempo e impoverite dall’umidità. L’entrata è immersa nella semi oscurità, e la hall abbandonata è come un lenzuolo di cenere che si sposta lentamente nella mente del Cavaliere Oscuro, scoprendo stralci di ricordi veloci e cicatrici passate. Il banco adibito alla vendita dei biglietti è spoglio, graffiato e ingrigito dal disuso e dall’età, eppure nella mente di Daichi si inseguono immagini dello stesso contornato da una lunga fila di uomini e donne in lungo, i cilindri sotto braccio, borse piccole e brillanti strette tra le mani curate, tacchi che pizzicano il legno lucido mentre il pavimento laminato riflette i punti di luce che i grandi lampadari in bronzo e vetro lasciano nella ampia ed elegante struttura.

Daichi volta lo sguardo dal bancone andando ad osservare alla sua destra, dove un ormai sporco e usurato scalone neobarocco a doppia rampa conduce al piano superiore. La moquette, una volta rossa e curata, ora sembra arrampicarsi quasi a fatica su ogni scalino, tirando il suo tessuto sfibrato e scolorato mentre ad ogni centimetro si susseguono strappi e zone scure causate da piccoli incendi appiccati da vagabondi e giovani ribelli. Persino i soffitti, prima alti e perlati, sembrano essersi infine piegati all’atmosfera di solitudine e abbandono a cui sono stati costretti, apparendo grigi e scrostati in più punti, le crepe che affondano come graffi sulle pareti sporche mentre le infiltrazioni d’acqua macchiano di un verde spento stucchi di fiori, conchiglie e nastri che lo osservano mutilati a molti metri sopra la sua testa.

Ad ogni passo i gradini larghi e polverosi scricchiolano sotto il peso inferto sui frammenti di intonaco caduti, eppure nella mente di Daichi è come se ciascuno di essi fosse ancora innaturalmente alto e tirato a lucido, un percorso ad ostacoli da sconfiggere ad ogni piccolo passo mentre, a non più di otto anni di età, tenta di seguire con infantile diligenza il padre e la madre lungo quella luminosa scalinata, lasciandosi andare ad un paio di piccoli saltelli nel tentativo di non rimanere indietro, le corte ed esili gambe coperte da un paio di pantaloncini scuri di seta, calzini bianchi di cotone lunghi fino alle ginocchia e un paio di scarpette laccate che scivolano sul marmo del piano a cui sono arrivati.


Graffiato da schegge di sedie, distrutte e ormai sparse tutto attorno all’ampio ripiano, un portone a due ante in legno di ciliegio apre a Batman la vista della sala principale.

È tutto diverso.

Lì dove prima vi erano luci soffuse, lunghe file di poltrone morbide e curate e tende dall’aspetto pesante e ricercato ora vi è solo la decadente immagine di un ambiente in rovina, l’arredamento in larga misura ormai scomparso e sostituito da file di barili e taniche dalla vernice scrostata e l’aspetto malridotto, accatastate ai confini della stanza o impilate disordinatamente davanti molte delle uscite di sicurezza al fine di ostruirne il passaggio.

Continua a camminare lentamente lungo la platea dismessa, ascoltando gli scricchiolii del pavimento e dei vetri che si frantumano sotto la suola degli stivali, e solo dopo aver lanciato un veloce sguardo verso le gallerie sopraelevate, in cerca di un movimento che possa tradire una presenza umana nascosta tra gli interni scuri, torna a porre l’attenzione verso il gigantesco palco posto in fondo, ove il profilo di una singola sedia abbandonata fa da appoggio ad una figura chiusa e ripiegata su se stessa, sola al centro della boccascena e completamente scoperta a causa di un sipario assente e dai pesanti drappi probabilmente rubati anni prima.



Due Facce.



Batman lo osserva in silenzio, lo sguardo che si posa sull’unica parte di viso che gli è possibile esaminare mentre i confini della solitaria figura vengono illuminati in maniera incostante dalla luce proveniente da dietro. La proiezione di un vecchio film in bianco e nero sullo sfondo mostra a tempi alterni scene tagliate di una pellicola muta, probabilmente uno degli ultimi film mandati anni prima sul grande schermo improvvisato sul fondale, quando si era tentato inutilmente di salvare il teatro trasformandolo in una forma plateale di un cinema barocco. Ogni tanto una serie di zone oscurate compaiono lì dove le bruciature della pellicola scivolano sullo schermo, creando buchi che vengono velocemente riempiti dal fotogramma dopo, rincorrendosi lungo il film quasi fossero loro stessi personaggi di quella sconosciuta trama.

È un momento di silenzio, distante dal tempo e dallo spazio che continuano intanto a fluire costanti oltre la porta alle spalle di Daichi, ed è in quella galleria dimensionale di ricordi che Batman riesce infine a vedere nella figura lì davanti Bokuto Koutarou, uno dei più atletici e carismatici avvocati che Gotham abbia mai conosciuto. Un uomo, prima che un cittadino, rispettato e amato da una larga parte della metropoli; un individuo, prima che un procuratore distrettuale, fortemente portato al rispetto della giustizia e della legge, sempre presente nella lotta contro il crimine, connubio unico e umano tra orgoglio e insicurezza, idealismo e ingenuità.

Un uomo positivo, raro.

Un amico unico.




Bokuto Koutarou era sempre stato legato al più giovane dei Sawamura da una vecchia e sincera amicizia, iniziata quando entrambi erano ancora solo dei bambini, subito dopo la morte dei genitori di Daichi. Era stato un periodo difficile, e lo stesso Daichi aveva solo ricordi confusi di quei pomeriggi e di quelle notti passate tra l’apatia e la disperazione, e di come quei sentimenti passivi fossero col tempo diventati aggressivi e disperati, portandolo a passare le giornate ad allenarsi con qualsiasi arma gli capitasse tra quelle piccole mani durante una continua e giovane ricerca di vendetta. Era stato allora che il padre di Asahi aveva infine deciso, come ultimo strenue tentativo di alleggerirlo da quei sentimenti ormai pronti a mangiare anche gli ultimi sprazzi della sua coscienza, di mandarlo in un ritrovo per bambini con difficoltà appartenente alla famiglia Arkham, nella provincia di Innsmouth.

Era lì che Daichi aveva conosciuto un secondo bambino, coetaneo dell’allora giovane erede Sawamura, e nonostante l'esiguo tempo passato insieme– era infatti stato all’interno della ricca struttura per il tempo complessivo di un’estate – i due erano diventati come fratelli; anzi, probabilmente l’incontro con Bokuto lo aveva cambiato al punto che, a distanza di decine di anni, Daichi era ormai pronto a pensare la sua intera vita sarebbe andata in maniera molto differente se non lo avesse mai conosciuto.

Nonostante fosse sempre stato all’oscuro della sua segreta identità di Cavaliere Oscuro, Koutarou si era dimostrato essere anche una volta cresciuto un valido alleato nella lotta al crimine organizzato. E nonostante gli impegni di entrambi, le lunghe riunioni alla Sawamura Enterprise e le udienze tenute a qualsiasi ora, nessuno dei due si era mai tirato fuori da quel rapporto di amicizia; né quando gli impegni avevano rischiato di travolgerli, né quando Daichi aveva iniziato ad avere molte notti piene, molti giorni occupati, molti periodi di buio.


 

«Bokuto–»

La voce è bassa, attenta, eppure in qualche modo Daichi non riesce ad evitare essa non sia anche parzialmente incrinata da quei ricordi appartenenti al passato che li accomuna; fa qualche passo in avanti, avvicinandosi silenziosamente verso la figura ancora accartocciata su quella sedia, e ad ogni metro che toglie alla loro distanza le labbra vanno a serrarsi maggiormente nel notare la sagoma sembrare sempre più malconcia, sempre più piegata dal tempo e quasi priva di emozioni.

Un guscio vuoto.

«… Daic–?»

La parola viene interrotta a metà mentre l’altro fa una pausa, l’occhio disponibile alla vista che scivola assente e indolente verso il Cavaliere Oscuro.

«Huh, Batman?»

Sembra quasi smarrito mentre lo dice, la tonalità che rimane distante e roca mentre l’occhio non smette di fissarlo con vacua incertezza, il collo ancora piegato verso l’incavo dello sterno e la testa penzoloni. Passa qualche istante così, immobile e lontano, prima che l’occhio torni in avanti, i capelli morbidi ed impeccabili che nel movimento tornano a coprire metà del viso mentre un leggero rumore, quasi di qualcosa che stia soffocando, porta Daichi ad avanzare di un altro passo, la mano che va a posarsi cauta al lato della cintura. All’inizio non riesce a capire cosa sia l’origine di quello strano suono, ma man mano che avanza gli occhi scorgono la leggera vibrazione delle spalle dell’altro, inizialmente leggera e tremante e poi sempre più esplicita.

«Ohya ohya~ sei proprio tu, Batman~!»

È un attimo.

Mentre una risata sguaiata irrompe dalle labbra rosate di Bokuto questo volta completamente il suo viso verso quello di Batman; lo schermo arriva ad illuminare anche la metà deteriorata del volto del criminale proprio mentre l’espressione muta in maniera improvvisa ed innaturalmente, rapida e assolutamente inverosimile. Batman stringe la mascella mentre vede l’altro alzarsi dal suo scarno trono, fendendo l’aria mentre allarga le braccia coperte da un completo perfettamente diviso a metà nei colori e nello stile, agitandole quasi fosse un grosso gufo che stia mostrando le sue ali in un notte di orgoglio e di caccia.

« Il nostro topo alato! Qual buon vento ti trascina qui, in questo posto abbandonato da anni e lasciato nella melma della miseria e della dimenticanza? Non si adatta alla tua fama, non vorrai mica sporcarti nello stesso fango dove sguazzano i criminali?!»

La voce di Due Facce stride quasi con l’ambiente dismesso che circonda entrambi, e mentre la pellicola espone alle sue spalle una macchina sfrecciante su un terreno di campagna il villano scende dal palco, abbassando le braccia e sorridendo in maniera sprezzante ed esagerata verso l’uomo pipistrello.

«Ohya~, i criminali, li ricordi ancora non è vero? Non ti puoi sbagliare, è la stessa feccia che tu hai lasciato bruciasse metà della mia faccia!»

«Due Facce–»

Batman inizia a dire qualcosa, ma non riesce a terminare che l’istinto lo porta a muoversi al lato di colpo. Una pallottola gli sfiora appena l’avambraccio, trapassando con facilità una parte del mantello ed aprendo una ferita nel lungo tessuto, e Daichi digrigna appena i denti mentre fa una capriola all’indietro, sfiorando una seconda mentre il rumore dell’oggetto incandescente sibila accanto alla sua maschera, andandosi ad imprimere su una colonna di marmo a qualche metro di lui.

Porta istintivamente la mano sulla cinta, afferrando il batarang ancorato alla striscia di pelle che gli cinge la vita, e indietreggia il necessario per potersi preparare a combattere, i piedi piantati nel pavimento e le spalle leggermente irrigidite per lo sforzo fisico e mentale di quella serie di rapide mosse.

«Risparmiati. So già cosa dirai: che non tutte le persone di Gotham sono malavitosi, e che ci sono innocenti persino in questa città–»

La voce sembra incrinarsi appena nel dire questa frase, e da qualche parte – tra le vocali ed una sillaba più lunga del solito – l’anima di Bokuto sembra quasi essere sinceramente combattuta su cosa stia facendo, la mano che tiene la pistola spuntata in pochi istanti che trema appena mentre quella libera va a posarsi sulla tempia. La testa viene scossa velocemente, ed un ringhio aspro squarcia ancora una volta l’aria densa di polvere e detriti della grande sala, le sopracciglia grigie che si aggrottano maggiormente mentre la mano sale a chiudersi a pugno tra le ciocche bicromatiche e selvagge, come a mimare una sofferenza interna e una confusione mentale impossibile da sopportare.

«Due Facce, ascolt–»

«Ma! Ma in fondo non è davvero così, non è vero?!»

Un altro sparo, a cui segue un altro ed un altro ancora mentre Bokuto, a occhi serrati e naso arricciato in una smorfia sofferta e disgustata, preme una terza e quarta volta il grilletto dell’automatica che tiene nella destra, girandosi alla cieca attorno al proprio asse e costringendo Daichi ad abbassarsi e a ripararsi ad ogni nuovo sparo.

«In questa città tutto è corrotto, tutto! Tutto!»

Batman rotola a lato, e mentre la superficie di una delle colonne viene graffiata da un proiettile di passaggio Daichi cambia velocemente copertura, correndo silenzioso verso una lastra di ferro rovesciata e lanciando il batarang alla cieca verso il criminale fuori di sé. Lo riesce a sfiorare, il ferro inossidabile dell’arma che penetra abbastanza in profondità da lasciare un solco chiaro sulla parte laterale della coscia, e mentre Due Facce si lascia andare ad un verso di sofferenza strozzato Batman prova a lanciarne un altro verso la pistola, nel tentativo di disarmarlo.

«Tu! Tu non puoi fermarmi, Batman!»

Bokuto si piega su se stesso, schivando di un istante l’arma del Cavaliere Oscuro, e nel momento stesso in cui gli occhi grandi e dorati tornano a guardare Daichi una seconda pallottola stralcia via parte del suo mantello, non ferendolo per una manciata di centimetri. Ora entrambe le mani di Bokuto sono occupate da un paio di armi da fuoco, una argentata e una completamente nera. Il distacco cromatico è tanto evidente quanto fuorviante, poiché Batman non riesce a capire da quella distanza se ad una differenza estetica simile faccia eco anche una differente capienza riguardo il numero di proiettili che entrambe le revolver possono contenere. Al momento la possibilità di avvicinarsi è però remota, così nel frattempo Daichi non può fare altro che tenersi lontano dalla mira di Due Facce, attendendo il momento giusto mentre, una dietro l’altra, una pioggia di proiettili sembra seguirlo come un’ombra ad ogni corsa e ad ogni manovra acrobatica che compie per l’enorme sala.

«Non puoi fermarmi perché lo sai, tu lo sai che sono tutti colpevoli, tutti!»

Parlargli in questo momento sarebbe inutile. Gli occhi di Bokuto esprimono uno stato febbrile di incosciente spirito assassino, e quando anche l’ultimo rifugio inizia ad incrinarsi a causa del fuoco nemico Batman non può fare altro che lanciare un rampino verso una delle finestre della galleria che si apre davanti a lui, scivolando all’interno della cabina scura mentre una nuova ondata di proiettili viene scagliata nella sua direzione.

«Tutti sporchi, tutti falsi!»

«Bokuto, io non posso farlo ma tu sì: devi fermarti.»

La voce di Batman è lenta, accorta mentre pronuncia quelle parole. Sa che ha bisogno di creare un ponte discorsivo, qualcosa che gli permetta di arrivare alla partizione della mente di Koutarou – del Koutarou che conosce – ora inglobata dalla seconda personalità prepotentemente presente, eppure più il tempo passa e più sente le possibilità che l’altro lo ascolti sempre più esigui.

Ha promesso a Poison Ivy non avrebbe ucciso Koutarou, e non lo farà. Da qualche parte, all’interno di quel corpo scosso da una psiche aggressiva e duale, si nasconde lo stesso giovane bambino che nell’infanzia ha permesso a Daichi di lenire una pena che lo stava logorando nel profondo; un bambino che a sua volta veniva da una situazione difficile, in quanto a sua volta ospite di quella ricca residenza estiva. Seppure Bokuto non abbia mai amato parlare eccessivamente male degli eventi legati alla sua infanzia, infatti, Daichi ha negli anni intuito come il suo pernottamento in quella struttura fosse dovuto alla presenza violenta e abusiva di un padre famoso, un uomo dall’aspetto e dalla politica impeccabile ma con un problema di alcolismo mai risolto e nascosto ai media, un uomo dalla ferocia che – non potendo essere scaricata fuori dalle mura domestiche – si era andata negli anni sempre più sfogando sull’unico figlio e sulla madre.

“Il vecchio aveva una moneta con due facce diverse, sai? Mi svegliava quando tornava a casa fetido di alcool, la tirava in aria e diceva che se fosse uscita una delle due sarei tornato a dormire, mentre se fosse uscita la seconda ci saremmo divertiti Divertiti, diceva.

Gli aveva raccontato un giorno, seduti entrambi sull’erba a pochi metri da uno dei salici piangenti che affollavano il giardino della residenza degli Arkham. E quella situazione doveva essere durata finché Bokuto, un giorno, doveva aver fatto qualcosa che l’aveva fermato per sempre, e che gli era costata il riformatorio.



I primi suoni sordi della pistola che scatta a vuoto fanno tornare Daichi al presente, e mentre questi vengono seguiti velocemente dalla seconda arma che diventa inutilizzabile Batman si arrischia ad uscire nuovamente allo scoperto, alzandosi a guardare verso il basso Bokuto che arretra istericamente verso il centro della sala, le braccia piegate a portare entrambe pistole davanti al suo volto.

«No, no, no!»

Lo sente e vede urlare, i denti che vengono digrignati mentre entrambe le mani passano a premere con insistenza i palmi occupati dalle pistole sulle tempie, gli occhi spalancati e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di insofferenza.

«Bok–»

«Non c’è nessun Bokuto! Io. Sono. Due Facce!»

Tuona ancora, l’espressione rancorosa e gli occhi ambrati che vanno a puntarsi come grandi fari verso Batman, nel frattempo sceso nuovamente in sala. Daichi lo osserva silenziosamente mentre l’altro inizia a scuotere come un cane inselvatichito la testa, ringhiando qualcosa di scommesso mentre le spalle vanno a curvarsi in avanti e il collo a infossarsi tra le spalle, le unghie che graffiano la cute superando il grigio e il nero delle ciocche disordinate.

«Bokuto, devi fermarti. La gente di Gotham morirà se continuerai a schierarti con Joker. Devi solo dirmi dove–»

«Ohya ohya, perfetto, perfetto~!»

Il cambiamento è di nuovo repentino; dura appena un battito di ciglia, e Batman non può evitare di arretrare leggermente nel vedere l’altro raddrizzare nuovamente la schiena come nulla fosse, un sorriso ora entusiasta stampato in volto e le sopracciglia arcuate in un’espressione di fanatismo.

Non c’è nulla da fare: nonostante i tentativi fatti anche negli incontri scorsi, Daichi rimane del tutto incapace di mantenere i ritmi che dividono Bokuto dalla sua seconda personalità. Eppure, in qualche modo, si ritrova ad essere ancora incapace di lasciarlo veramente perdere, ricercando nel discorso ciò che sarebbe più facile ottenere attraverso un combattimento.

Deve almeno tentare.

Deve almeno provarci, cercare di riportarlo nel suo corpo e nella sua mente, come è sempre stato e come sarebbe dovuto continuare ad essere. Bokuto è riuscito a farlo con lui quando erano bambini in fondo, e lui non ha il diritto né il desiderio di voltargli le spalle e fingere esso sia solo uno dei tanti criminali che infettano Gotham con la loro presenza.

«Vuoi sapere dove sta Joker, quindi? Ohya~! Benissimo!»

Batman aggrotta le sopracciglia, cercando di capire dove l’altro voglia andare a parare con quel suo essere tutto ad un tratto estremamente collaborativo.

«Proviamo con Testa o Croce! Giochiamo! Che ne dici, Batman? Se pensi di essere tanto nel giusto, tu che hai permesso che mi facessero questo senza alzare un dito per evitarlo, allora il fato ti sarà favorevole. Ohya~ giusto, Batman? È o non è giusto~?»

«Ho cercato di salvarti, Bokuto.»

La risposta viene accolta da una risata sguaiata, e mentre Daichi rimane immobile ad osservarlo sembra quasi che quella sua enorme risata si gonfi a dismisura nell’aria, lasciando andare Due Facce ad un tripudio di sarcasmo e pazzia che sembra durare un’eternità. Batman non dice nulla, l’espressione indecifrabile mentre osserva l’altro dirigere il suo sguardo incoerente verso l’alto, gli occhi grandi, gialli e spalancati che sembrano quasi stupirsi del soffitto a cassettoni che li sovrasta molti metri più in alto.

Passano una manciata di istanti, e poi ecco che Due Facce torna a fissarlo, lo sguardo nuovamente irato e le sopracciglia spesse e chiare tutte aggrottate in un’espressione di rancore.

«Ohya!? Tu? Tu hai cercato di salvarmi?! Era troppo tardi, Batman! Arrivi sempre troppo tardi! Le tue promesse di eliminare la malavita sono come l’aria, impalpabili anche se presenti. Ricordi quando ero io ad avere dei principi? Quando dissi al commissario Yaku che dovevamo arrestarti, che non si lavora con i vigilanti? Lo ricordi?! Rispondi Batman!»

I pugni arrivano veloci, ma confusi. L’uomo pipistrello arretra, schiva, un colpo contro offensivo che raggiunge lo sterno coperto dagli indumenti dell’altro mentre il busto si abbassa al sentire un colpo arrivare secco all’altezza dello stomaco. Le gambe si piegano, una si tende in avanti nel tentare di far perdere terreno a Due Facce e farlo ruzzolare per terra, ma anche se riesce effettivamente a farlo finire sul pavimento viene preso in contropiede dalla contro mossa dell’altro che rotola a sua volta di lato, un coltello che viene fatto sibilare a pochi centimetri dal suo collo.

Batman arretra di nuovo, il sangue che pizzica caldo quella piccola zona di pelle scoperta dall’armatura a cui Due Facce ha puntato, alzandosi e vedendo nel frattempo l’altro fare lo stesso.

«Nulla, huh-?! Ricordo io allora: tu promettesti, Batman! Lo promettesti! Promettesti che in un anno avremmo sconfitto il crimine, insieme– Ora mi domando: ho mai fatto parte del piano?! O ero solo un diversivo, una faccia pulita su cui i criminali potessero concentrare l’odio mentre tu li facevi a pezzi?!»

L’altro continua, e mentre parla Daichi può vedere la saliva creare fili trasparenti ed umidi tra l’arcata dentale superiore e quella inferiore, le tempie che pulsano pesantemente e i pugni rigati di graffi e macchiati dai primi lividi che si stringono con inumana forza sui palmi martoriati, sbiancando le nocche e arrossando la pelle all’interno.

«Fuori dai piedi, Batman. Gotham non ha bisogno di te, né tanto meno di essere il tuo sacco da pugilato per scaricare tutta la violenza che continui con insistenza a far passare per giustizia.»

«Non sono io che sto cercando di uccidere i cittadini di questa città.»

«Huh~? Ah giusto, sono i cattivi a farlo! Tu no–»

Bokuto soffia via una risata, e nel mentre le palpebre vanno ad abbassarsi sulle iridi dorate il braccio destro viene fatto alzare a mezz’aria, l’indice che va a scuotersi leggermente e a mimare una negazione che fortifichi le sue parole.

«Tu non uccidi. Tu tramortisci, picchi, colpisci, terrorizzi ma non uccidi. Ohya~ Quello che si dice un eroe! Perché lo fai Batman? Senso di colpa? Paura di passare quella flebile linea che ti divide da un criminale?»

Il batarang sibila durante il suo tragitto nell’aria, e nonostante Due Facce si pieghi all’ultimo per evitarlo una delle due ali metalliche finisce col graffiare il completo che indossa, un rivolo di sangue che scivola velocemente a marcarne la stoffa con il suo colore denso.

«Ohya, ohya~? Ho fatto punto per caso?!»

Commenta dopo qualche istante, il viso contratto in una innaturale smorfia di soddisfazione mentre gli occhi passano dal seguire il batarang, ora incastrato sul muro alle sue spalle, a Batman, la cui mano è ancora puntata in avanti, il braccio teso all’istante in cui ha lasciato andare l’arma. Daichi non ha neppure la completa consapevolezza di cosa lo abbia effettivamente spinto a quel gesto così istintivo, né su quale sia stato il momento esatto in cui si sia ritrovato ad avere l’oggetto tra le mani; ad un certo punto, semplicemente, le parole di Due Facce sono diventate come una macchia di olio nera nella sua testa, spandendosi ed oscurando tutto ciò che conosce e facendo venire a galla ipotesi ed insinuazioni che era necessario far tornare giù. Subito.

L’uomo pipistrello rimane per qualche secondo immobile, il busto leggermente incurvato in avanti mentre la tensione inizia a pungere come fosse un insieme di piccoli spilli su tutte le articolazioni. Si obbliga ad un lungo periodo di silenzio, e solo dopo aver liberato nuovamente la sua mente torna nella posizione eretta, abbassando con lentezza il braccio e posando nuovamente i suoi occhi sull’amico di vecchia data.

Due Facce è ancora a qualche metro da lui; ma qualcosa, in quello che è successo in quei secondi di introspezione, deve aver mutato ciò che sembrava essere fino a quel momento il suo bieco e distorto ottimismo verso lo scontro. La sua espressione sta infatti nuovamente cambiando, forse nel disappunto di vederlo tornare lentamente in sé o forse nella consapevolezza di aver perso l’occasione di colpirlo, ma Daichi sceglie di non occuparsene mentre approfitta di quel momento di instabile e inaspettato silenzio per tornare a parlare, la voce roca e il tono basso e ferreo.

«Bokuto, sai che non stiamo parlando di me. Dammi la posizione di Joker, costituisciti. C’è gente in questa città che ti può aiutare: salvala.»

Ora la rabbia è nuovamente chiara sul volto del criminale. Qualsiasi cosa avesse visto nel suo atteggiamento fino a qualche secondo prima deve essere scomparso, e il commento che ha appena espresso sembra sia solo l’ennesima scintilla capace di far scoppiare il rancore animale che Bokuto pare portarsi costantemente sottopelle, tra una risata e un grido di disperazione, insospettabile nei momenti di isteria e invisibile in quelli depressivi.

«Perché dovrei, Batman?! Nessuno salvò me, quando mi fecero questo! Perché devo essere io ancora una volta la vittima sacrificale necessaria a salvare questa città?!»

C’è tanta, troppa verità in quelle parole, poiché non passa giorno che Daichi non si ritrovi a ripensare a quella maledetta udienza di cinque anni prima. Tutto in quella notte sarebbe potuto andare diversamente, e tutto avrebbe potuto cambiare drasticamente il risultato finale. Eppure, nulla si era potuto evitare.

Per prima cosa, il boss Sal Maroni non avrebbe mai dovuto avere la possibilità di portare nulla in aula. Eppure, in qualche modo e nonostante i tentativi fatti dal commissario Yaku per evitare che una cosa simile accadesse, qualcuno delle guardie che lo aveva scortato doveva avergliene dato la possibilità. Che fosse suo affiliato o, più probabilmente, un semplice poliziotto corrotto non aveva più importanza, perché il caso non si era mai davvero aperto a causa dello scandalo mediatico che era sopraggiunto successivamente l’incidente. Quando, nel mezzo dell’udienza, Sal Maroni aveva gettato dell’acido sul viso dell’uomo che credeva responsabile per la morte del padre, il procuratore distrettuale e avvocato d’accusa Koutarou Bokuto, l’intero processo era stato fermato e lo scandalo aveva facilmente aperto le porte dell’aula a giornalisti e paparazzi, che avevano fotografato attoniti e nel fragore generale Bokuto venire portato via urlante in barella mentre, da un lato, metà del volto sembrava continuare a liquefarsi strato dopo strato. A nulla era valso l’intervento chirurgico a cui era stato sottoposto una volta arrivato in ospedale, e quando Bokuto aveva visto ciò che era diventato il trauma aveva prevalso, mentre lentamente ma inesorabilmente anche l’ultima parte di lui reticente alla pazzia crollava facendo spazio alla nascita di una seconda, criminosa personalità.

Come si sarebbe potuto aprire un ulteriore scandalo con al centro i poliziotti corrotti nella GCPD, quando già vi era in piazza quello di un uomo di giustizia rinato, nell’arco di poche settimane dall’incidente, nei panni di criminale di Gotham? La gente aveva necessità di credere in qualcosa, in qualcuno che lavorasse ancora per loro e li difendesse dalla presenza di un nuovo pericolo, e la GCPD non poteva permettersi di perdere quella poca fiducia che ancora permetteva alla città di non cadere nel panico. Così, alla fine, tutto era stato insabbiato, le colpe erano state nascoste, e la giustizia che Bokuto avrebbe dovuto avere – e che forse l’avrebbe fatto tornare col tempo in sé – non si era mai concretizzata.


No, Daichi non ha modo per trovare alcuna giustificazione a quello che è successo, al perché Bokuto sia diventato, dopo una vita sacrificata a combattere il crimine e dopo una carriera volta a credere nella giustizia, la pelle sulla quale la stessa giustizia abbia potuto riacquistare la fiducia della città. Così, nella consapevolezza di non avere nulla che possa discolpare Gotham dai suoi peccati, non riesce ad evitare di rispondergli nell’unico modo che gli è possibile, mandando avanti l’unica risposta che gli sia venuta in mente nelle notti più difficili, dopo tante morti, tanto dolore e tante perdite sopportate negli anni.

«Perché il sacrificio a volte è necessario.»

«E perché non il tuo allora, Batman?! Ti arrechi con ostinazione il diritto di poter scegliere il destino di questa città, ma ciò che riguarda il fato non è né nelle tue né nelle mie mani! Il destino»

Una pausa, un respiro profondo.

«Il destino può essere scelto solo dal destino stesso.»

E nel mentre lo dice una mano scivola a tirare fuori dalle tasche un piccolo disco argentato, portandolo sull’unghia del pollice mentre il resto delle dita si chiudono a pugno sotto di esso, a fare da base per il lancio.

«Quindi lasciamo che sia lui a decidere: testa per il tuo sacrificio, croce per il mio. Come ti sembra?»

Batman vorrebbe ribattere, ma non ha nemmeno il tempo di schiudere le labbra che la moneta vola in aria come una libellula, illuminando con i suoi spicchi di luce – riflessi dal film ancora in riproduzione – i capelli bicromatici di Due Facce, i suoi occhi ambrati, l’eleganza del naso e la metà orrendamente sfigurata e cicatrizzata delle labbra. Scende, poi, calando sul palmo freddo della destra e venendo momentaneamente coperta da quello lesionato e ustionato della sinistra, rimanendo al sicuro dagli sguardi per qualche secondo prima che la mancina si ritiri, scoprendola poco dopo.

«Pare non sia io colui che debba essere sacrificato, Batman.»

Un sorriso crudele e graffiante si apre su quel volto parzialmente sfigurato nello stesso momento in cui l’uomo pipistrello attiva il bat-artiglio, tirandosi via dal pavimento un secondo prima che una cascata di pallottole crepi il muro fino ad un momento prima alle sue spalle.

Un’altra pistola? Seriamente?

«Ohya ohya~ forza, vieni! Non hai detto tu stesso che il sacrificio a volte è necessario?! Cos’è, non dirmi che è un’altra delle tue promesse vuote, ci avevo quasi creduto stavolta!»

Batman schiva un’altra pallottola, e quando la necessità dell’altro di ricaricare la pistola acquieta gli spari lancia un bat-artiglio sonico ai suoi piedi, scivolando nuovamente a terra. Due Facce ora tiene premute le mani sulle orecchie, una serie di imprecazioni che continuano ad uscire a denti stretti dalle sue labbra mentre arretra di qualche passo, le sopracciglia aggrottate in un’espressione sofferente.

È il momento di chiudere quella storia.

Daichi si avvicina il necessario per poter piegare il busto e dare un calcio all’altezza della mancina del rivale, vedendolo piegarsi all’indietro mentre la pistola che aveva portato assieme alla mano alla testa scivola a qualche metro da entrambi. Usa la spinta ottenuta dal primo calcio per abbassarsi e darne un altro, stavolta alla vita, sentendo chiaramente il grido di dolore dell’altro che anticipa però un pugno ben assestato alla sua mandibola, completamente inaspettato. Arretra nuovamente quindi, ma solo per usare lo spray che ha tirato fuori dalla cintura, confondendolo per qualche istante mentre preme le mani sulle spalle dell’altro, usandolo come trampolino per ruotare dietro di lui e afferrargli i polsi, stringendoli contro la schiena.

«Bokuto, te lo dirò un’ultima volta: serve il tuo aiuto. Torna in te.»

L’espressione di Bokuto è un misto di rancore, cinismo e delusione mentre si muove invano, cercando di far scostare le mani di Daichi dai suoi polsi e rendersi nuovamente libero.

«Perché, non ti ho già aiutato abbastanza?! Guarda cosa mi è costato, guardami!»

E Daichi, ancora una volta, lo sa: sa cosa pensi Bokuto, e non riesce veramente a imputargli una colpa nel pensarlo. Perché sarebbe bastato poco quel giorno, così poco per salvarlo, per trarlo in salvo e rendergli salva la coscienza, oltre che il fisico.

Due Facce è un criminale, ma Bokuto non lo è.

Non il Bokuto che ha conosciuto lui, l'amico con cui è cresciuto, famoso per quelle cene sempre cominciate con un quarto d’ora di ritardo a causa della sua incapacità, dopo una certa ora, di leggere bene l’orario sul quadrante dell’orologio, intestardito nella sua idea di non mettere occhiali per non sembrare "quello antipatico". Ricorda la cena quando, dopo tanti anni di dubbi e indecisioni riguardanti la sua sessualità, gli aveva infine parlato dei sentimenti che pensava di provare verso un altro uomo, le sue risate impacciate nel parlare di quel ricercatore botanico, tale Keiji, con cui si trovava così in sintonia e con cui sperava – nella sua innocenza infantile – di poter stare un giorno e forse per sempre. Aveva persino parlato di presentarglielo, per quanto ciò alla fine non fosse mai accaduto.

Bokuto era sempre stato incredibilmente ingenuo e leale, inorgoglito nella sua visione di amore eterno ed imperituro, pieno di energie e subito dopo di insicurezze, e Daichi si era talmente abituato in tutto quegli anni a quei cambi di umori repentini che non si era accorto subito che qualcosa non andava, dopo l’incidente.

Non aveva notato subito che quello sbalzo non era più solo umorale, ma di personalità; non aveva notato che Bokuto, a volte, semplicemente non era più Bokuto, che qualcosa dentro di lui si era spezzato nel momento stesso in cui l’acido era dipanato sul suo viso e sulla mancina che aveva usato per coprirsi istintivamente la metà martoriata, lasciando profonde cicatrici su un corpo tormentato dalla sofferenza e su una interiorità spaccata dai rimorsi e dai rimpianti.

E quando lo aveva scoperto, era semplicemente stato troppo tardi.

«… Perché sei l’unico che può cambiare le cose, oggi. L’unico che può aiutare Gotham.»

Batman può vedere solo uno dei due occhi di Due Facce, ma può immaginare entrambi diventare due grandi sfere ambrate mentre le sopracciglia lunghe e grigie si sollevano per un istante, l’incertezza e la sorpresa che dipingono nuovamente un’espressione caratteristica dell’amico. È ancora lì, da qualche parte: quel volto, quella metà che lo sta osservando in quel momento è tutto ciò che lo tiene ancorato a quella speranza, una speranza che mostra l’altra parte solo come un incubo che non ha ancora avuto modo di razionalizzare, di relegare nel dormiveglia che divide il sogno dalla realtà.

«Gotham ha scelto male il suo eroe, allora.»

La testata arriva improvvisa, il collo del rivale che si piega repentinamente all’indietro, e Daichi sente un dolore acuto perforargli il cranio mentre il naso viene schiacciato indietro; arretra, mentre l’altro compie una capriola rotolando in avanti, salendo nuovamente sul palco in disuso mentre, sullo sfondo, una macchina dai fari accesi si muove vibrante e fedele sopra la pellicola un po’ bruciata.

«Ohya ohya~ chissà se si ricorderanno di te, quando in futuro parleranno di questa tragedia?! La caduta di Gotham~ Mannaggia, ora sono proprio curioso. Dici che dovrei chiedere alla moneta? Non posso aspettare così tanto!»

Ride perfino, beandosi di quella frase quasi fosse stata un’altra persona a dirla piuttosto che lui stesso. Batman si alza in piedi, fissando quello che una volta era un suo amico, e approfitta della lontananza per premere un piccolo pulsante sulla cinta, notando sott’occhio una piccola spia illuminarsi di risposta, lampeggiando due volte velocemente prima di prendere a farlo con regolarità.

«Ti sto dando un’ultima possibilità, Due Facce. Costituisciti adesso, e dimmi dov’è.»

«Non accadrà mai.»

Si guardando per qualche secondo, gli occhi grandi e luminosi come il sole che ricercano oltre la maschera quelli seri e mori dell’altro, e nel silenzio che ne segue la musica spettrale proveniente dai lati della sala diviene nuovamente l’unico suono udibile tra quelle mura, spandendosi nell’aria come un ostinato fantasma senza età.

«Mi dispiace, Bokuto.»

«… Cosa v–?»

E senza dargli modo di fare altro la mano di Daichi scivola nuovamente sulla cintura, facendo cadere dalla stessa la bomba di gas precedentemente disinnescata. Un suono sordo anticipa il denso grigio impalpabile che in un istante riempie gran parte della sala, e mentre la proiezione interrotta al muro crea tagli di luce di diverse altezze e profondità Batman si muove, silenzioso, verso il palco. Sa già dove andare, come muoversi, cosa fare. La maschera che non ha mai smesso di indossare contro la tossicità dell’aria esterna gli permette di respirare senza difficoltà, così non gli è difficile arrivare a Due Facce mentre questo sta ancora tossendo ed imprecando, sentendolo arretrare malamente ed inciampare su quella sedia logora che è stata il suo punto di inizio e che ora sta per diventare la sua prigione.

Scivola dietro l’altro, prendendolo alle spalle mentre le bat-bolas che ha tirato fuori dalla cinta si vanno a stringere attorno alle gambe ed al petto del rivale, obbligandolo a piegarsi in avanti e ad assecondare la spinta di Batman fino a farlo sedere su quel trono decadente.

«Non–! Ti avv»

Sono le sue ultime parole, prima che il gas faccia completamente effetto. Due Facce si accascia lentamente su se stesso, i capelli grigi della metà non ustionata che scivolano in avanti a coprire le palpebre calate, e dopo essersi assicurato della sua incoscienza Batman tira fuori dalla sua cintura un paio di funi leggere ma incredibilmente resistenti, legando Bokuto alla sedia e premendo successivamente un pulsante situato sulla fascia rigida che porta al polso.

«Commissario, ho Due Facce. Si trova al teatro di Monarch, a Park Row.»

Un suono sordo e disturbato riempie l’aria attorno a Daichi per qualche secondo, e solo dopo una decina di secondi sente una voce roca e metallica rispondergli dall’altra parte, stanca ma intentamente soddisfatta.

«Batman, alla buon’ora. Pensavo già di doverti venire a cercare con le bacchette da rabdomante. Ottimo lavoro, io anche ho una buona notizia per te: abbiamo informazioni su attività sospette alle industrie Sionis. Ti dice nulla come zona?»

«Era di Maschera Nera, ma negli ultimi tempi sembra sia passata in mano a Joker.»

«Beh, quando si dice un opinabile salto di qualità.»

«Vado a controllare. Come procede in città?»

«Sembra la gente si stia lentamente riprendendo. Riesci a crederlo? A quanto pare la zona dove hai lasciato quella bomba batterica era corretta. Certo che pensare di avere un numero simile di carte dei venti nei computer della GCPD–»

«Inaspettato.»

«Vero. Non mi lamenterò mai più della suddivisione dei fondi nel distretto. Comunque ecco, per ora sembra che la situazione stia migliorando. Mando una volante a prendere Due Facce allora?»

«D’accordo, a dopo.»

E detto questo Batman preme una seconda volta sul piccolo pulsante che tiene al polso, chiudendo la conversazione. Si volta verso Due Facce, scrutandolo in silenzio nel constatare come l’altro si stia lentamente riprendendo. La percentuale di gas era troppo bassa per una sala così grande, quindi non si meraviglia i fumi si siano espansi abbastanza da permettere all’amico una parvenza di coscienza. Resta da vedere che tipo di reazione avrà: lo osserva rimanere piegato su se stesso, la schiena curvata in avanti e il volto oscurato dall’ombra di Batman avanti a lui, mentre una serie di sussurri e parole prive di senso iniziano a scivolare via dalle sue labbra, riempiendo il silenzio di frasi di rimorso alternate ad altre di rabbia o cieca estasi.

Chiunque sia ormai Bokuto, al momento è assente.

Il mantello dipinge scheletri di ombre per terra quando infine Daichi si allontana, e rimane con lo sguardo fisso in avanti anche quando, senza aggiungere altro, esce dalla sala, procedendo di qualche passo mentre spettri di ricordi passati tornano ostili ad accalcarsi nella sua testa.

Una donna porta il suo bambino per mano, i vestiti eleganti che scivolano per terra e riflettono con i loro punti luce quelli delle abat-jour sparse ai lati del lungo corridoio. Gli uomini fumano la pipa, ridendo mentre raggruppati in piccoli gruppi accanto a comodini con portacenere in marmo. Vi sono anche famiglie, solitari, persone in coppia, anziani, uomini che parlano di politica e di affari.

La mano del padre si allunga verso la sua, piccola e morbida, mentre un sorriso si spande sul viso del giovane genitore.

Torniamo a casa, Daichi?’



Batman scuote la testa, ed è come se la consapevolezza di essere giunto nel frattempo al piano terra della struttura fosse lontana, flebile, distaccata dalla sua realtà, o almeno da quella che sta vivendo; ma non si ferma, e si obbliga a non vedere altro se non l’incuria e l’abbandono che trasmettono gli strati scrostati di carta da parati e la polvere accalcata sul poco mobilio rimasto.

No. Non ha bisogno di altri ricordi dolorosi in quel posto.

E non ne ha bisogno nemmeno quando esce, chiamando la batmobile e saltandoci dentro, alla volta delle industrie Sionis.

Ha solo un pensiero a cui può dedicarsi adesso, ed ha le fattezze di un uomo e di un sorriso di sangue. Non riguarda né la sua famiglia, né la sera di quel giorno di dicembre, né l’amore della madre quando lo ha guardato un’ultima volta, senza sapere che fosse tale e senza alcuna traccia di terrore o preoccupazione, una carezza sul viso paffuto e un bacio leggero lasciato sulla fronte.

Faremo la strada più breve, così arriveremo prima a casa. Ora me lo fai un sorriso, tesoro?’

Poi gli occhi vacui, il sangue, ed il pianto di un bambino nella pioggia davanti ai corpi riversi di due genitori ormai assenti.

Un orfano.



Manca Joker.




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Eeeee finalmente ho un nuovo capitolo! Insospettabilmente in ritardo, come al solito. (…)
Comunque, grazie a chiunque è arrivato a leggere fino alla fine.
♥ Questo capitolo è stato veramente lungo da mettere a posto, e non solo per la questione combattimento che ammetto mi ha messo non poco in difficoltà, quanto perché inizialmente era più o meno la metà di quello che vedete. Poi, durante la revisione, ho deciso di aggiungere le varie parti riguardanti il passato di Bokuto e di Daichi, sia per far capire meglio perché Daichi conoscesse Due Facce, sia per far intuire il motivo per cui Bokuto è impazzito, sia per parlare un po’ con gli occhi a cuoricino di Akaashi perché mi sembrava brutto non farlo. (??) Tra l’altro, ora credo sia un po’ più chiaro il motivo per cui Poison abbia fatto quella insolita richiesta e perché si conosceva con Bokuto. ♥ Per i passati di entrambi ho usato per quanto ho potuto quelli originali della DC, come al solito, quindi se sentite un groppone allo stomaco per la storia del padre violento o dell’omicidio dei Sawamura sappiate che non è colpa mia! (??) Cosa ne pensate di Bokuto, comunque? Adoro l’idea di eroe sconfitto che traspira il suo personaggio, è molto da tragedia Sofoclea. (??) Se vi va lasciate un commento al riguardo, mi farebbe enormemente piacere e mi permetterebbe di capire anche cosa vi piacerebbe più vedere in un possibile spin off su una coppia in generale! ;v;) ♥ A presto!



Importante: Ho una pagina FB! (Non so fare link funzionanti, quindi... https://www.facebook.com/NanasEFP/ )

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Capitolo 15
*** La comicità sta nei tempi ***


Consiglio: In questo capitolo vi è la presenza marginale di un testo piuttosto famoso appartenente all’opera lirica “Aida”. Consiglio quindi prima della lettura di aprire il seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=lhxxpYTT81k. Non c’è bisogno di vederlo tanto, è solo l’audio che serve! Sapete, per fare atmosfera. (??)
Ps. Ho aperto una pagina FB! https://www.facebook.com/NanasEFP/ ma prima di caricarla di roba aspetto di vedere se può interessare. (...)


 

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15. La comicità sta nei tempi
(Bene. Come dico sempre…)


 

Joker, Batman R.I.P.


 


 


 

GOTHAM CITY Manicomio di Arkham (Arkham City)

22/12/1976 – Pomeriggio


 

«Non lasciateli uscire dalle celle, non–!»

«Paziente H601, si fermi e porti le mani in alto, ripeto, si fermi e porti le mani in alto!»


 

Le sirene della struttura lamentano la loro nenia alta e cadenzata, fendendo l’aria satura di grida e di rumori metallici. Il suono si ripropone a distesa mentre le guardie avanzano tra le celle spalancate, urlando ai prigionieri di arretrare e di non oltrepassare il virtuale limite offerto dalle cornici delle porte blindate spalancate.

«Piano meno tre sotto attacco, ci servono rinforzi!»

Una guardia urla qualcosa alla piccola radio che porta poco sopra il pettorale destro mentre gli spari illuminano come schegge strillanti il corridoio tetro, ma non riesce a premere una terza volta il grilletto che uno dei prigionieri gli si avventa addosso, ululando eccitato mentre le mani ossute si stringono attorno al suo collo; il poliziotto si dimena, la pistola ormai lontana e le dita che artigliano disperate lo sterno dell’altro nel folle tentativo di allontanarlo, ed un grido gli muore in gola quando un secondo paziente si getta sulla metà inferiore del corpo, aprendo la bocca e calandola febbrile ad azzannargli il polpaccio, i denti neri come la pece che premono famelici contro la spessa protezione offerta dai pantaloni della divisa altrui.

Un fragore si unisce così a quello dei tanti altri accumulati di quel delirio di corpi e di polvere da sparo, e una terza, quarta guardia escono dagli ascensori in fondo, piccole mitragliatrici alle mani ed il giubbotto antiproiettile saldato al petto, le braccia tese a prendere la mira. È un tripudio di risate isteriche, grida di terrore e sangue, che schizza sulle pareti putrefatte coprendo i numeri delle celle dalle porte spalancate o distrutte nel panico del momento. Le guardie tentano inutilmente di creare un fronte comune per prendere nuovamente controllo della zona, minori in numero ma in maggioranza nelle armi, e mentre qualcuno viene trascinato via altri vengono tirati dai carcerati dalla parte opposta, le unghie che raschiano il pavimento sporco nel tentativo di opporsi a quella discesa verso gli inferi.

«Tornate nelle vostre celle e nessuno si farà male, ripeto–!»

«Dio, aiutat–!»


 


 


 


 

«Ah, quanta confusione.»

Serpe allontana il braccio dagli occhi, andando a schiudere le palpebre in maniera svogliata e ritrovandosi a fissare pigramente il soffitto della sua cella, piccole ragnatele a occuparne gli angoli più bui e fili di muffa unico arredo di quelli più alti ed umidi.

Dovrebbero davvero lavorare sulla mobilia di quel luogo. Suguru non sa sinceramente quale sia stato il motivo che abbia spinto la famiglia Arkham ad affidare la costruzione di quella struttura ad un architetto piuttosto che ad un altro, ma una cosa è certa: qualunque sia stata la motivazione che li ha portati a preferirne uno in particolare, è stata quella sbagliata. Persino riuscire a trovare quel mangiacassette è stata un’ardua impresa, e questo nonostante le volte in cui sia finito ad Arkham ed abbia fatto amicizia con le guardie al suo interno ammontino ormai ad un numero che, in ogni caso, continua a non rendergli sinceramente giustizia.

Il volto va a spostarsi di lato, un’espressione di leggero sconcerto che si crea sul viso liscio e pallido nel vedere la porta della cella socchiudersi dinanzi ai suoi occhi, ma non si alza dalla brandina sulla quale è steso, rimanendo invece a fissare le piccole forme che ora vede muoversi in lontananza, la luce degli spari che si alterna a quella rossa delle sirene, occupate a suonare il loro avvertimento riguardo la situazione di pericolo all’esterno della cella.

Gli occhi rimangono a fissare un paio di uomini occupati a prendere a calci un uomo steso a terra, prima che un sospiro fluisca via dalle sue labbra, il corpo che va a sedersi e poi portarsi in piedi. Ah, che tristezza. E pensare che ci ha messo più di un giorno a lavorarsi la guardia a protezione della sua cella e convincerla a fargli recapitare una cassetta che avesse sopra registrate le liriche dell’Aida.


 

Il sacro suolo dell'Egitto è invaso dai barbari Etiopi ♪


 

Le braccia di Serpe si piegano a metà altezza, i palmi delle mani che vengono portati verso l’alto mentre le palpebre si abbassano a nascondere le iridi strette, le labbra tirate in un accenno di sorriso affilato mentre il collo si piega all’indietro, esponendo il pomo d’Adamo sporgente e portando il viso di Suguru verso l’alto.

Ah, finalmente la sua parte preferita.

I lamenti di qualcuno sito fuori nel corridoio vengono spenti da una serie di colpi di pistola, e mentre le sirene urlano per l’ennesima volta il loro grido disperato qualcuno ringhia un’imprecazione tra i denti, il suono sordo di corpi che cadono a terra e che vengono sbattuti contro le pareti rigide che crea turpi collegamenti con l’odore ferreo del sangue che inizia a ristagnare nell’aria.


 

Baldi della facil vittoria, i predatori già marciano su Tebe ♪


 

Il messaggero del Re canta con tonalità tonante e calda quelle arie d’opera filtrate dagli altoparlanti deboli del piccolo registratore, e Serpe pensa sia davvero un peccato non sia riuscito ad andare nuovamente a vedere l’Opera la scorsa stagione.

Chissà, magari riuscirà a prendere i biglietti per la prossima. Dovrà chiederlo ad uno dei suoi contatti quando uscirà di lì.


 

Già Tebe è in armi, e dalle cento porte sul barbaro invasore proromperà ♪


 

Le urla ed i colpi di pistola si fanno sempre più vicini, e mentre il messaggero continua il suo canto lirico Radamès, il Re, Ramfis, sacerdoti, ministri e capitani ne fanno il coro di risposta, alzando il tono e gravando sulla solennità del momento. Suguru spera davvero che chiunque stia arrivando non lo privi del momento più ricco di pathos di tutte le arie dell’Aida: i passi stanno infatti diventando sempre più insistenti, facendosi largo tra le guardie o con le guardie – non che abbia davvero importanza a questo punto, contando come molti tra i poliziotti siano più propensi a prestare giuramento ai suoi soldi piuttosto che all’onore del piccolo commissario.

In ogni caso, spera che gli inattesi ospiti possano almeno avere l’accortezza e la sensibilità di lasciarlo in quell’acme di piacere uditivo, se proprio sono intenzionati ad entrare nella sua cella.

Le mani vanno ad alzarsi di livello, ondeggiando nell’aria mentre voci si aggiungono a quelle del messaggero, creando un crescendo di lirismo che Serpe sente arrampicarsi sulla sua pelle e insinuarsi nelle sue ossa, le labbra che si schiudono in un sorriso stretto mentre la lingua biforcuta saetta fuori per un istante, assaporando l’aria ricca di ormoni. Il terrore, l’eccitazione, l’ebbrezza ed il panico sono tutti ingredienti di uno dei suoi piatti preferiti; ed in questo momento sono nell’aria che lo circonda, amalgamati gli uni con gli altri, eppure stretti in un equilibrio che gli permetta di poterne differenziare i singoli sapori.


 

Guerra recando e morte! ♪


 

«Capo?»

Serpe si volta lentamente, le mani ancora in alto mentre una serie di cori si destano a massimo volume dagli altoparlanti del piccolo lettore, grattando disturbanti quando raggiungono il massimo di hertz disponibili dalla fascia di onde supportate dallo strumento. Il sorriso è ormai già presente da tempo su quel viso, le palpebre abbassate a mezz’aria mentre le iridi si posano con sguardo sagace sui tre uomini alle porte della sua cella, tutti vestiti con completi eleganti verdi e bianchi che stonano in maniera stridente con quel luogo di abbandono, le teste dai capelli laccati all’indietro e una leggera sfumatura verde acqua rassomigliante a delle squame di serpente dipinta sulle tempie di tutti loro.


 

Sì: guerra e morte il nostro grido sia!


 

«Ah, eravate voi ragazzi. È per caso già l’ora delle visite?»

Ride mentre si avvicina ai suoi sottoposti, e quando uno di questi gli passa silenziosamente una lettera, chiusa da una manciata di fredde gocce di cera rosse e verdi, Suguru la fissa silenziosamente, prendendola e rigirandola un paio di volte fra le dita lunghe ed affusolate.

Oltre la soglia della cella ormai spalancata, grida e schiamazzi continuano a rincorrersi in maniera malsana per tutto il piano e forse anche in quelli più alti, e gli spari di pistole e mitragliatrici sono come sottofondo musicale di quelle urla umane e meta-umane che neppure la lontananza del suo settore isolato riescono ad ammortizzare. Serpe riporta il pezzo di carta orizzontale, notando distintamente lo stemma “MrK comprimere la parte centrale della cera ormai solidificata. Lo sguardo si scurisce appena, mentre una delle lunghe unghie si insinua sotto alla carta libera al lato, forzandone l’apertura e liberando dalla sua stretta gabbia un piccolo cartoncino macchiato di rosso. Suguru lo tira lentamente fuori, alzandolo il sufficiente per rendere visibile le poche frasi dal carattere stretto ed appuntito che vi sono trascritte sopra, e quando riesce finalmente a leggerlo il sorriso si trasforma in una risata sguaiata, la lingua biforcuta che saetta fuori rendendosi visibile persino nella penombra della cella.


 

Dura più un serpente sotto terra o un pagliaccio ad un funerale?
Amici come prima? AH AH AH AH AH AH!
Mr.
K


 

«… È proprio completamente matto!»

Commenta infine, la risata che inizia lentamente a morirgli in gola mentre uno dei suoi seguaci non perde tempo ad offrirgli nel frattempo una maschera antigas, tirata fuori da un borsone nero con l’icona nitida di un serpente stampata su entrambi i lati.

Ma Suguru non ha fretta e aspetta, l’ilarità che ancora piega i lati delle sue labbra strette per una buona manciata di secondi. Solo quando decide di calmare le risa alza la mano snella e pallida per prendere ciò che è suo, posizionandolo sul volto e facendo segno ai suoi sottoposti di fargli strada attraverso i corridoi avvolti dall’aria stantia.

La morte ed il sangue non hanno mai smesso di esibirsi al di fuori di quella cella, neppure quando il Serpente si fa infine strada dalla sua prigione di cemento e acciaio, strisciando in direzione della agognata superficie terrosa e umida; lo sguardo cade sui prigionieri, autentici vincitori di questa battaglia tra ragione e sentimento, e sorride nel vederli intorpidirsi nella coccola di quell’euforia dovuta alla vittoria. Alcuni sono ancora avviluppati ai corpi caldi di guardie prive di gambe o dalle interiora completamente esposte, altri oscillano silenziosi agli angoli delle celle mugugnando una cantilena sconosciuta, mentre altri ancora cavalcano la loro frenesia saccheggiando i posti di blocco e urlando istericamente le loro verità incomprensibili.


 


 

Guerra! Guerra! Guerra Guerra Guerra! ♪


 


 

È stato un bel pernottamento, in fin dei conti.


 

Guerra! Guerra! Guerra Guerra Guerra!♪


 


 


 

°°°°


 


 


 

GOTHAM CITY – Sionis Industries (Industrial District)

22/12/1976 – Tardo pomeriggio


 

Le industrie Sionis erano state in passato proprietà di un noto imprenditore di Gotham, conosciuto a molti con il nome di Roman Sionis e a Daichi con quello di Black Mask.

Situate all’interno del distretto industriale della città, erano nel totale un insieme di strutture larghe e divise in più costruzioni, ognuna con il proprio ingresso indipendente ed ognuna divisa dalle altre da larghe vie dotate di rotaie per il trasporto di motori da costruzione ad elevata potenza e peso. Mattoni smussati dal tempo e dalla tossicità degli agenti chimici usati dalla fabbrica negli anni passati vivevano in alternanza con lunghe colonne di acciaio che dividevano in parti uguali le larghe pareti degli edifici, mentre all’interno lunghe vetrate frantumate e tubi di lungo diametro ne arredavano le porzioni più alte degli edifici, alcuni di essi uscendo fuori dagli stabili prima di rituffarsi in casse in metallo posate sul cemento di pavimentazione esterno. I grandi stabili erano inoltre affiancati da alte ciminiere che servivano alla dispersione dei fumi provenienti dalle fornaci di raffinazione di zolfo e derivati, ed anch’esse erano in mattoni e pietra lavica, materiali che donavano al complesso un aspetto decadente ed allo stesso tempo privo d’età; era tuttavia un dualismo che si amalgamava bene con l’atmosfera di Gotham, almeno in qualche modo, e che era stato sufficiente, sia in epoca di attività che di inattività, a porre i cittadini in uno stato di sfiducia verso l’idea del sindaco riguardo una possibile messa in sicurezza degli edifici in questione.


 


 


 

Nel presente l’acciaieria risulta essere ancora in disuso, ma Daichi ha scoperto mesi prima come le industrie siano da tempo sotto gli artigli di Joker. Non che abbia più la libertà di pensarla diversamente, in fin dei conti: se pure avesse voluto essere scettico in passato, infatti, quello che sta vivendo ora sarebbe l’istante in cui si renderebbe conto dell’errore commesso nell’esserlo stato.

La scritta ‘Sionis Industriesè ai lati fiancheggiata da due giganteschi soldatini in acciaio, dalla tinta ormai scrostata e mangiata da una ruggine che ha reso cavi e scuri gli spazi una volta probabilmente dedicati agli occhi delle sculture. Le braccia e le gambe, appena abbozzate, hanno invece lacrime e rivoli purpurei di vernice scolorita che scivolano sul metallo che li compongono, in triste caduta verso terra o cicatrizzati come fossero graffi di gatto su giganteschi corpi mutilati. Sui loro visi un’espressione di forzata felicità è stata dipinta con una bomboletta spray dal colore fosforescente, e oltre l’alto cancello le principali aperture ai vari edifici sembrano aver subito la stessa sorte, quasi totalmente coperte da giganteschi visi di pagliacci dipinti su travi di legno affiancate fra di loro, tutte dotate di bocche costantemente spalancate e tutte a mostrare, oltre i denti aguzzi e le labbra rosse a definirne i contorni, una serie di varchi necessari per avventurarsi all’interno delle dismesse strutture che il complesso ospita.

Il cancello non sembra essere controllato, ma Batman può chiaramente sentire voci di uomini originarsi da oltre la recinzione, confermandogli l’importanza che il luogo continua effettivamente ad avere come tana del pagliaccio. Sarebbe un’ipotesi dubbia se si trovasse in un’altra situazione, forse, ma Daichi si lascia convincere dal fatto che le parole dei sospettati sembrino prove di menti ancora lucide, per quanto la lontananza non gli permetta di sentire nel totale le conversazioni in cui esse sono inserite: se davvero non fossero tirapiedi di Joker, infatti, dubita la contaminazione avrebbe permesso loro di poter continuare a intavolare qualsiasi tipo di discussione. Inoltre le voci gli arrivano senza variazioni fonetiche o altro, il ché rende anche abbastanza certo essi non indossino neppure una maschera antigas, necessaria a chiunque non sia tirapiede di Joker per non perdere la ragione.

Daichi si piega su se stesso, portandosi davanti uno dei due giganteschi soldatini di piombo e dando sguardo veloce oltre il cancello, dove può contare chiaramente almeno cinque persone camminare avanti e indietro di fronte una delle enormi bocche che coprono le originali vie di accesso alle fabbriche. Alza lo sguardo, ed ecco saltare all’occhio un altro gruppo: tre uomini per la precisione, tutti occupati a parlare sul balcone dalle enormi vetrate collocato al piano superiore; ancora più in alto due cecchini fanno la loro comparsa, i fucili dal laser rosso che puntano punti vari del cortile interno, controllando la presenza di eventuali intrusi. Daichi torna a porre la schiena contro una delle lunghe gambe del soldatino alle sue spalle, mentre una mano va a posarsi sulla pistola che ha al lato, un artiglio a tre dita che viene tirato fuori dalla cintura e portato verso l’alto, in attesa dell’occasione giusta.

Capisce che quel momento è arrivato quando le voci iniziano ad affievolirsi: lancia uno sguardo dietro di sé, notando le guardie iniziare a muoversi per fare il loro classico giro di perlustrazione attorno all’edificio, proprio mentre le guardie sulla balconata decidono infine di rientrare all’interno, le cicche delle sigarette che vengono buttate impietosamente sul pavimento mattonato. Daichi si piega verso il cancello arrugginito, e dopo aver puntato il Bat-artiglio in direzione di uno dei cornicioni principali della struttura preme il grilletto, il proiettile dentato che va a conficcarsi tra i mattoni che ne decorano le rifiniture. Indietreggia, prendendo bene le misure per passare il cancello senza sfiorarlo, e non appena richiama a sé il lungo filo metallico viene sbalzato in avanti, atterrando silenziosamente sulla stessa balconata appena liberata.

Non appena entrato all’interno viene accolto da un locale scuro e freddo. Daichi sente le voci di alcuni scagnozzi di Joker riempire l’aria di imprecazioni e lamentele in lontananza, silenziandosi a vicenda quando uno di loro alza troppo la voce rendendo troppo palese il suo disaccordo verso le azioni attuate dal loro capo negli ultimi tempi. Batman non fatica a immaginarne il motivo: se già parlare male di un datore di lavoro potrebbe essere di suo controproducente, il fatto questo capo sia un criminale pazzo e pluriomicida non deve aiutare a rendere la situazione più gestibile. Approfitta invece della confusione per tirare via una grata da un condotto d’aria, inserendosi poi come un’ombra al suo interno e svanendo velocemente dalla vista di chiunque sia sul piano, appena prima che un piccolo gruppo di uomini decida di passare proprio nel corridoio ai suoi piedi.

«… – Rimane io non ne possa davvero più. Ho capito che è incazzato con Batman ma–»

«Shh– non dire altro idiota! Vuoi farti tagliare la lingua dalle pantere di Joker per caso?!»

«A proposito di questo, ma voi lo avete saputo di Adam?!»

«Adam? Cosa c’entra Adam con le pantere adesso?!»

Daichi sente le voci degli uomini di Joker echeggiare sorde oltre le piccole pareti del cunicolo che sta seguendo, e rallenta impercettibilmente quando si rende conto di essere probabilmente sopra le loro teste in questo momento, nascosto alla loro vista ma non alle loro orecchie. Il condotto di aerazione è stretto, ed arrivato a questo punto ogni passo può essere fondamentale a non farsi scoprire.

«L’altro giorno stavo parlando con Drake e mi ha detto che lo ha visto!»

«Ma chi?!»

«Adam, chi sennò?!»

«Ma non era morto?!»

Le grate sulla pavimentazione del condotto rendono possibile a Batman la vista ai suoi piedi, e il Cavaliere Oscuro rimane in silenzio a guardare quelle teste muoversi sotto di lui, mitragliatrici in mano e il malandato trucco da clown a pitturargli inverosimilmente il volto.

«Gli piacerebbe, a quel diavolo! No, ha detto che lo ha visto giù e– Cristo Iddio, solo pensarci mi fa venire il voltastomaco

«Cosa?»

« Mi ha detto che sembrava tutto il suo corpo stesse vomitando sangue, da quanto ne cacciava!»

«E ti credo! Già trovo assurdo lo abbia visto vivo… Nessuno è mai uscito sulle proprie gambe da sotto

«È quello che ho detto anche io! Infatti pare Joker avesse chiamato Drake a… Pulire.»

«Merda.»

Daichi rimane in silenzio, le informazioni involontariamente fornite dai tre uomini che vanno ad accalcarsi ordinatamente nella sua mente. “Là sotto”, hanno detto. Si riferiranno ad una stanza sotto terra, o con quell’avverbio vogliono intendere un vero e proprio secondo piano sottostante il primo?

«Ma perché era lì? Non è tipo uno dei più tirapiedi fidati del Joker!?»

«Ed è qui che arriva la parte assurda. Sembra fosse stato chiamato a fare da– non lo so, forse cameriere durante un incontro tra Joker e Due Facce, e che nel mentre abbia sentito loro due parlare.»

«Beh cazzo, stando tutti nella stessa stanza mi pare anche ovvio. Poi quel luogo è un buco!»

«Mica tanto ovvio, Joker lo ha accusato di essere una spia

«Una spia?!»

«Gli ha tagliato le fottute orecchie, Jonas!»

«Dio!»

Batman fa qualche altro passo all’interno della grata, lo sguardo che rimane puntato verso il basso nel tentativo di captare qualsiasi tipo di sospetto manifestarsi nelle espressioni e nei modi degli uomini posti più in basso; ma sembra che nessuno di loro si sia accorto di nulla, troppo presi dalle notizie di tale Adam per fare caso al grattare dei suoi stivali all’interno del passaggio in acciaio nel quale è nascosto, quindi dopo un istante di silenzio torna a camminare lentamente, i guanti in pelle che tastano i lati del condotto d’aria.

«Pensi che ci lascerà andare dopo stasera? Mia moglie mi aspetta a casa da una settimana–»

«Ah, non lo so. E non ti propongo manco di chiederglielo, se non vuoi finire tra le maAspetta, hai sentito anche tu?!»

Accidenti.

Una lastra lamenta un suono sinistro mentre il peso di Batman la incurva leggermente, e le labbra di Daichi si vanno a stringere impercettibilmente, l’espressione celata dalla maschera che si indurisce mentre lui rimane immobile, la mano posata sui batarang e il ginocchio piegato in avanti.

«Sentito cosa?»

«Si è mosso qualcosa qui sopra, proveniva da una di quelle gigantesche tubature

«Certo che si è mosso qualcosa idiota, siamo in una fabbrica abbandonata da anni. Che ti aspettavi di trovare qua dentro, il covo di una ditta di pulizie

«… E se fosse–»

«No che non lo è, vedi di stare zitto piuttosto!»

«Non mi hai nemmeno fatto finire di parlare!»

«Questo perché non voglio tu lo faccia, idiota. La mia vita è già abbastanza appesa ad un filo da quando Joker mi ha beccato a guardare di sfuggita Harlee. Non ho bisogno di avere un altro matto in costume che attenti alla mia pelle.»

«Ma dovremmo dirglielo in caso–»

«Fallo tu, se proprio ci tieni; io preparo il tuo funerale intanto.»

«Che vuoi dire?»

«Svegliati Mark, dico che qui i topi convogliano a nozze. Vuoi davvero dire a Joker pensi sia arrivato Batman senza nemmeno averlo visto? Sai dove finirà la tua testa se non dovesse essere lui?!»

L’altro sembra pensarci su, il silenzio che rende chiaro a Batman il dubbio che questo deve star vivendo. Alla fine, però, sembra decidere come vita e testa attaccata al corpo siano effettivamente punti di forza abbastanza validi nell’obiezione dell’altro, e Daichi lo sente ammettere con un sospiro come in fondo gli altri due abbiano ragione e di come il rumore potrebbe effettivamente essere stato causato da qualsiasi cosa.

È proprio vero: una persona da sola è intelligente, ma un gruppo di persone lo è di meno. Aspetta altri cinque minuti, e quando alla fine le voci iniziano ad affievolirsi e gli uomini cambiano stanza, andando a perlustrare con tutta probabilità il resto del piano, Batman prosegue all’interno dello stretto corridoio, un passo alla volta, passando da una stanza all’altra nel più assoluto silenzio.


 


 

Una volta arrivato alla sala telecamere non si sorprende di trovarla occupata da altri due scagnozzi di Joker.

Mazze chiodate posate accanto alle sedie imbottite e numerosi piccoli schermi dalle immagini sgranate e a filtro verde che si susseguono alla parete: queste sono le prime cose visibili a Batman dalla grata dalla quale può guardare la stanza, posta alla destra della porta e puntata sul lato più scuro del piccolo stanzino. Può vedere due uomini seduti alla scrivania, i vestiti stracciati e scuriti dall’usura, le maschere tenute strette a metà volto da un elastico che va a circondare il loro cranio pitturato. Aspetta qualche minuto prima di fare il passo successivo, studiando le azioni svogliate e pigre della coppia mentre tenta di captare possibili rumori provenire dalla porta chiusa alla sua sinistra.

«Aggiornamento dalla sala controllo, qui tutto a posto. Passo.»

Sente uno dei due dire, e nel mentre lo vede premere un pulsante rosso posto alla base di un antiquato microfono da tavolo che ha dinanzi, il corpo sporto in avanti e il petto che sfiora l’acciaio della larga scrivania. Daichi può chiaramente sentire la svogliatezza e la noia imprimersi in ogni lettera che l’altro pronuncia a voce irrimediabilmente seccata, e non passa molto prima che lo veda tuffarsi nuovamente contro lo schienale della sedia, infossandovisi malamente e tornando a parlare a voce roca e bassa con il suo collega, il bip acuto delle macchine davanti a lui che cadenzano i secondi in maniera netta ed automatica.

È il suo momento.

Porta la gamba destra, ancora piegata a causa del volume ridotto del condotto nel quale è nascosto, davanti la grata dalla quale ha visto tutta la scena, e con la suola dello stivale va ad imprimere una forza continua ma non esagerata contro i supporti in ferro, spingendo il necessario per allentare i chiodi che la tendono ancorata al restante metallo che compone la conduttura. Non appena sente che sta per cedere si ferma, ripiegando l’arto inferiore e continuando con le mani, chiudendo le dita attorno ai piccoli cilindri e sentendo il leggero scricchiolio dei chiodi che faticano ad uscire fuori, liberandosi dalla posizione a cui sono stati costretti anni.

Uno, due, tre.

Ne manca solo uno: spinge con appena più forza, la grata ormai staccata dalla conduttura, e…

Il rumore del piccolo chiodo che cade sul pavimento liscio e scuro della stanza si propaga all’interno di quelle quattro pareti quasi in maniera innaturale, rimbalzandovi contro e tornando in maniera più ovattata a ripetersi nel tempo; lo immagina rotolare attorno alla sua testina, il disco alla base che si inclina a destra e a sinistra mentre perde l’energia acquisita nella caduta. Rimane immobile intanto che i due uomini sotto di lui si fermano sul posto, guardandosi scettici ed interrompendo qualsiasi conversazione stessero avendo precedentemente.

«… Hai sentito anche tu, vero?»

«Sì. Cosa accidenti è stato

Ah, accidenti. E pensare che ha rimbeccato Robin nemmeno un paio di giorni prima per la sua incapacità di smontare grate senza fare il minimo rumore. Al ritorno dovrà parlare a Nishinoya dell’importanza della modestia e della sua concezione abietta di karma vendicativo.

Daichi porta gli stivali verso il confine ora scoperto della conduttura proprio nell’istante in cui vede i due sconosciuti voltarsi e guardare confusi prima per terra, poi l’oscurità ove è situato Daichi. I muscoli delle sue gambe si contraggono mentre prende la mira verso di loro, e quando salta fuori dall’ombra – la grata che cade a fare compagnia al chiodo traditore che lo ha smascherato – può vedere gli occhi dell’unico uomo che si è reso conto della sua presenza strabuzzarsi, il panico che affiora dalla sua espressione mentre le mani vanno ad arpionarsi al collega ed ai braccioli della sedia, in una istintiva ricerca di un sostegno da una parte, di attenzione dall’altra.

«Èè lui! Cazzo! Jonas, dai l’allarm–»

Ma l’altro non fa nemmeno in tempo ad alzare lo sguardo.

Batman cala su di loro come le tenebre calano sul giorno, scivolando a terra e lasciando che il lungo mantello li abbracci nella loro fredda incoscienza mentre allarga le braccia, chiudendole attorno al collo di entrambi e premendo il sufficiente per stimolare una momentanea asfissia.

Li vede cadere a terra, privi di sensi, e rimane in ascolto per assicurarsi l’azione non abbia attirato nessun altro scagnozzo di pattuglia nelle vicinanze. Sembra però ciò non sia accaduto, quindi si prende la libertà di dare le spalle alla porta, alzando lo sguardo sugli schermi posizionati sulle mensole alla parete per andalizzare velocemente le loro immagini irregolari, alla ricerca di un indizio che lo aiuti a capire dove si trovi Joker.

Non che debba cercare a lungo.


 

BAT-ti un colpo quando arrivi,

MAN-chi solo tu alla festa!


 

Una scritta su un muro, gocce dense che scivolano lungo la parete creando lacrime di vernice che calano verso la pavimentazione sporca di una stanza registrata dalla telecamera collegata al piccolo televisore centrale. Daichi rimane immobile, fissando l’unica immagine statica in quel mare di riprese che variano focalizzazione ad alternanza, e socchiude appena le palpebre per mettere a fuoco il codice collegato alla stanza che sta guardando, andandolo poi a ricercare sulla cartina aperta sul tavolo.

Area B-04: Settore B, piano meno uno, ‘Magazzini e Movimentazioni’.

Nessun dubbio sia una trappola, naturalmente.


 


 

°°°°


 


 

L’area B-04, definita dall’etichetta al lato della grande porta in acciaio rinforzato come Magazzino Centrale dell’impresa Sionis, era un vasto ambiente originariamente costruito per accogliere quasi sicuramente sia i materiali ricevuti sia quelli destinati a divenire merci e prodotti finiti per la vendita. In quanto magazzino principale dell’azienda esso era probabilmente nato per avere un funzionamento efficiente e razionale, e per tale motivo luci di emergenza e pannelli di controllo erano ancora perfettamente in funzione, magari impolverati a causa del disuso ma ancora disponibili semmai qualcuno avesse deciso di continuare la distribuzione della merce per soddisfare le esigenze dei clienti.

Quando ancora la struttura era in funzione non doveva essere stato difficile vedere scorte di cancelleria, materiali di manutenzione dell’attrezzatura produttiva e diversi tipi di manufatti a lavorazione ultimata sparsi in quella grande sala. Ma da quando Joker ne aveva preso possesso tutto ciò era ovviamente diventato un ricordo, e gli alti scaffali metallici a ripiani multipli erano stati addossati da un lato, piegati e privati delle loro mensole ormai accatastate disordinatamente ai lati della stanza, sostituendo alla visione passata di quei colossi rampicanti ordinatamente sparsi per la stanza un unico spazio privo di macchine da smistamento o dipendenti di azienda.


 


 


 

I passi di Batman nell’ambiente semi oscuro echeggiano sordi e lontani attraverso il silenzio della sala, e il mantello scivola sul pavimento sporco e disseminato di chiodi e bulloni, stimolando i piccoli oggetti che al suo passaggio tintinnano debolmente, acuti rumori che si alternano a quello più basso e ottuso della gomma degli stivali che tocca il pavimento in resina. Mano a mano che avanza Daichi si lascia dietro molti metri percorsi nella totale assenza di luce, ed è solo quando è ormai quasi al centro dell’enorme stanza che inizia a notare una incerta presenza stagliarsi nel buio dinanzi a lui, le braccia allargate come a voler abbracciare l’aria satura che li circonda ed un immenso sorriso ferino incomprensibilmente illuminato e scolpito nel rosso tagliente di quelle labbra strette.

«Ohya ohya~ Sorpresa!»

Daichi porta un braccio davanti agli occhi e piega appena il viso di lato quando una tempesta di luci si accende davanti ai suoi occhi, le palpebre che si stringono appena mentre neon verdi, rossi e gialli si accendono di colpo, macchiando le pareti unte di grasso e umidità dei loro colori e calando dal cielo come pipistrelli dalle scure rocce. Filamenti di led si piegano a festoni in un ambiente cromaticamente spento, e a spazi alterni piccole luminarie creano macchie chiare sulle pareti, pitturando di lacrime colorate l’aria pesante che dimora all’interno della sala.

«Chi abbiamo qui, se non il nostro vigilante volante?!»

La voce che esce da quei petali sanguinanti ha una tonalità febbricitante, e regala a Batman la fastidiosa sensazione che il proprietario stia come tentando di trattenere un entusiasmo che traspira palpabile dai respiri accelerati e dalla curvatura arcuata delle sopracciglia fini e nere. Approfitta della luce ancora vibrante per abbassare gli occhi, e nota solo allora ai suoi piedi una moltitudine di simboli pitturare tutta la pavimentazione: una serie di cerchi concentrici e sanguinanti dividono le aree a terra, uniti a disegni di pipistrelli con grosse croci pitturate sopra a loro volta surclassate dalla scrittura di risate sguaiate, vocalità trascritte a diverse grandezze e colori che invadono intere porzioni di pavimento. Solo allora alza nuovamente lo sguardo, rimanendo immobile mentre vede il Joker fare un largo inchino davanti a sé, la musica partita nel frattempo che gracchia una vecchia base da circo.

Tutto quello che c’entra con quel criminale è assurdamente teatrale e incomprensibile, eppure allo stesso tempo dall’esteticità sempre caratteristica. Daichi trova positivo, tuttavia, che nemmeno l’abitudine riesca ad educarlo a tutta quell’assurdità: né ai palloncini colorati agli angoli della grande stanza, né le carte da poker attaccate disordinatamente sulle pareti o sparse per terra, né agli altoparlanti disposti per la sala a suonare un sottofondo circense disturbato e raccapricciante. Né, tanto meno, l’assurdità di quella serie di scimmiette meccaniche che compaiono sulle grosse scatole impolverate distribuite tutto attorno, vestite del loro tradizionale completo rosso con bottoni e passamaneria dorata, le braccia corte che vanno a far scontrare in maniera scoordinata i piatti che tengono fra le piccole zampe.

A volte si domanda quando abbia il tempo materiale di organizzare certe cose, Joker.

«In cerca di materiali per decorare il giardino, scommetto?! Ah, gli ultimi acquisti per il Natale, si trova sempre qualcosa che manca in casa!»

La mano del criminale viene portata in avanti, l’indice lungo e snello che si inclina a destra e a sinistra, mimando una negazione che va a seguire anche quella del volto. Gli occhi si chiudono una manciata di secondi prima che la mano libera vada a passarsi su quel capelli neri pece dalle punte decolorate, tirando indietro la frangia destra lunga e asimmetrica – che finisce però col tornare nuovamente in posizione davanti l’occhio non appena il palmo viene riabbassato sul fianco coperto.

«Mi spiace informarti che siamo chiusi durante le vacanze invernali. Ci tengo ai miei dipendenti, sai? E poi i sindacati sono così suscettibili in questo periodo~!»

La risata dell’altro è esagerata, come sempre del resto, così Daichi non se ne sorprende più del dovuto mentre lo scruta in silenzio, aspettando che la bocca del pagliaccio vada nuovamente a chiudersi e quel verso agghiacciante a spegnersi tra i suoni che già li circondano e appestano la sala.

«Tu sai perché sono qui.»

Si limita invece a dire, la voce che esce stabile e risoluta oltre la maschera che ancora ha indosso.

«Mhm~?»

«La tua pazzia finisce qui. È ora di firmare la tua resa, adesso.»

Joker lo fissa per qualche secondo, l’ombra di un sorriso ancora presente sul volto lungo e ferino. Poi, prima che Batman possa aggiungere altro, quello stesso riso torna a spadroneggiare su tutti gli altri suoni che si accalcano nella sala, salendo di gradazione ancora una volta mentre la testa di Joker viene lanciata indietro, il viso puntato verso il soffitto e il pomo d’Adamo esposto nella sua vibrante ilarità. Le mani del criminale vanno a premere con tenacia lo stomaco nel tentativo di fargli riprendere aria, mentre una goccia di trucco nero cala dal lato esterno dell’occhio, scivolando pigramente sulla guancia pallida prima di venire trascinata via a forza dal palmo del suo proprietario, lasciando solo una macchia sfumata sulla gote del villano.

«Ohya, ohya! La mia resa!? Sei venuto a chiedere a me di firmare una resa?!»

«Non c’è vittoria per i nemici di questa città, Joker. Ormai dovresti saperlo.»

«Batman. Batman! E tu da quando saresti suo amico, invece?!»

E nel dirlo Joker deve coprirsi nuovamente lo stomaco con entrambe le mani mentre si piega leggermente in avanti, tirandosi poi indietro per esprimere nuovamente una risata.

«Ah, mi ucciderai se continui così, Bat-musone. E sappiamo entrambi che non puoi né vuoi farlo: come potresti vivere senza avere qualcuno a cui addossare il ruolo di cattivo?»

«Non ho bisogno di addossarti nessun ruolo. Sono le tue azioni a renderti tale.»

«Mhm? Ah, ma questo è ancora sbagliato– Vedi, lo sai che non devi mentire con me.»

Lo vede iniziare a camminare lentamente verso un lato della sala, avvicinandosi agli scaffali e fermandosi proprio davanti uno di loro, a prendere una piccola scimmia che ha appena smesso di battere i piatti dorati che tiene tra le zampe.

«Dopo tutto, se io morissi saresti obbligato a scontrarti con tutte quelle scomode consapevolezze che non vuoi tirare fuori dall’armadio. Oh, Dio, cosa ne sarebbe della tua mente allora?!»

Le lunghe unghie laccate di nero si infossano all’interno del peluche, sino a quando un rumore secco non manifesta la rottura della stoffa che racchiude l’ovatta al suo interno. Joker sorride, un insano entusiasmo che va a dipingersi su quegli occhi strabuzzati dalla pazzia nel vedere il pupazzo accasciarsi innaturalmente mentre un grumo di bianche interiora scivolano fuori dalla ferita di cotone; Daichi rimane invece semplicemente in silenzio, la mano posata sulla cintura e la maschera d’acciaio che cela il modo in cui le sue labbra si stringono al sentire quelle parole.

«Rischieresti la pazzia, o peggio, la sanità! Sarebbe una tragedia!»

«Joker.»

«Sai, me lo sono sempre chiesto: tu cosa preferisci, Batman? La pazzia, o la sanità?»

E nel mentre lo dice Daichi lo vede abbassarsi in un secondo inchino, il pupazzo di pezza ormai smembrato e dimenticato a terra. Si alza solo per fare un rapido giro su se stesso, portando le braccia al cielo e urlando verso la sua platea di scimmie e marionette sparse per la stanza, il corpo alto e slanciato che delinea sul pavimento sporco e pitturato una serie di ombre nette che lo circondano a raggiera.

«Ohya ohya~ Ti consiglio la pazzia, sai? Offre meno resistenza. Anzi, si potrebbe dire che è come la gravità stessa: basta solo una piccola spinta!»

Ed un’altra risata ancora scoppia fragorosa dalle sue labbra a quelle parole, la voce che rimbomba tra le pareti ampie mentre le scimmiette ai lati della stanza iniziano a battere i loro piatti dorati a velocità diverse, perdendo anche l’ultima traccia di uniformità rimasta e creando una illogica sequenza di acuti fuori tempo.

«Ah, peccato però che non ci sia il pubblico per questo nostro incontro. Sarebbe stato delizioso avere una grande folla di spettatori–»

La musica del circo è ormai assordante. Qualcuno deve aver alzato il volume, o più probabilmente deve essere stato lo stesso Joker ad aver registrato la musica in questo modo, probabilmente su un disco in vinile che ora un grammofono nascosto chissà dove sta riproducendo accanto a un microfono collegato agli altoparlanti che li circondano. Ma non ha modo di pensarci al momento, sia perché la situazione attuale richiede la sua attenzione sia perché l’argomento in generale non lo interessa sinceramente molto: quello che invece ha tutta la sua attenzione è l’espressione di Joker quando si volta nuovamente verso di lui, il sorriso ancora fiorente sulla bocca schiusa, gli occhi stretti e lunghi e le iridi ferine che lo fissano con strafottenza, canzonandolo con lo sguardo.

«– Dopo tutto lo sai, adoro gli omicidi di massa.»

«Finirai nuovamente ad Arkham per tutto quello che hai fatto, Joker.»

«Ah, ma ormai non è più importante se mi catturi e mi rimandi nel manicomio. Ho dimostrato la mia tesi, Batman: ho dimostrato che non c'è differenza tra me e chiunque altro! Lo hai visto anche tu, no?»

Le braccia vanno ad allargarsi in maniera plateale, abbracciando virtualmente quella stanza così perfettamente ed orrendamente adattata alla sua pazzia.

«Basta una giornata storta per trasformare il migliore degli uomini in un folle!»

«Non è così.»

«È esattamente così, Batman. Lo hai notato anche tu, vero? Li hai visti, sono lì fuori!»

La mano del criminale va ad indicare un punto casuale nel dirlo, probabilmente lì dove ipotizza ci sia il resto di Gotham. Daichi lo osserva in silenzio mentre la seconda mano va invece a porsi avanti a mezz’aria, l’indice ed il pollice che vanno ad avvicinarsi sino a rendere la distanza tra i due polpastrelli infinitesima.

«Ecco quanto dista il mondo da me. Una misera giornata storta. Ohya ohya, anche tu hai avuto una giornata storta, dico bene?»

Batman non risponde a quella provocazione, ed anzi cerca di fare un passo in avanti, gli occhi che rimangono fissi su quelli del Joker mentre il rumore assordante da circo inizia a piegarsi leggermente in una nenia distorta e senza melodia, per poi riprendersi a singhiozzi qualche secondo dopo.

«Oh sì, credi io non possa studiarti come tu fai con me, Bat-musone? Una giornata storta e tutto è cambiato, non è così? Altrimenti andiamo, perché ti vestiresti come un patetico topo volante?!»

«I cittadini di Gotham non sono come te. E non lo sarebbero se non li avessi resi tu tali. Dammi la formula Joker, ed eviterò di darti alla GCPD con qualche osso di meno.»

«Ohya ohya, siamo passati alla violenza? È decisamente un mio kink, ma non immaginavo che tu– Ma aspetta, la formula..? Ah– Intendi quella per essere immuni dal gas?»

Joker sembra illuminarsi nel dirlo, come se la domanda posta da Batman non fosse stata abbastanza chiara da renderne la comprensione scontata dall’inizio.

«Ma bastava chiederlo, senza girarci attorno come tuo solito. È proprio vero che pur di parlarmi saresti pronto a fare di tutto! Vediamo, allora–»

E nel mentre sta ancora terminando di parlare porta le mani in tasca, corrucciando le sopracciglia scure e dritte mentre sembra iniziare a cercavi qualcosa al suo interno.

«La formula, la formula… Ah, ecco!»

È un istante.

Uno sparo, e Batman che si abbassa fulmineamente mentre un proiettile rosso fuoco sfiora appena la sua spalla, scaldando il materiale che ne ricopre la pelle ed andandosi a conficcare nel muro di mattoni che ha alle sue spalle. Riporta lo sguardo verso Joker, e stringe appena le labbra al vedere la canna ancora fumante di una pistola rossa, dorata e bianca occupare parzialmente la visione della mancina del pagliaccio, la bocca truccata di un rosso fuoco schiusa in un sorriso tagliente ed insano.

«Vieni a prendertela.»


 


 

- - - - - -

Ed anche questa è finita! Come al solito taglio i combattimenti perché sono troppo lunghi e loro parlano un sacco. (…) Sono tutti un po’ troppo chiacchieroni qui dentro. Comunque oddio, nuovo capitolo! Sono super emozionata!!! (??????) Ma cercherò di parlare poco e di dire subito un paio di cose per chiudere in bellezza il capitolo:
Prima cosa: avete visto il Cavaliere Oscuro questi lunedì passati?! Hanno fatto entrambi i film su italia1, e nel primo ci stava Joker che dice molte delle frasi che ho citato qui!
Seconda cosa: ringraziamenti! Ringrazio infinitamente
unamoresolitario, come sempre, perché senza di te non sono sicura sarei arrivata qui. Ringrazio Fisico92, il cui interesse per la mia storia mi lascia sempre un’emozione calda in petto (??). Ringrazio ValeC04, new entry inaspettata che non mi aspettavo di trovare ma che sono felicissima mi abbia scritto! Ed infine ringrazio PokerAlice97, che si sta leggendo e recensendo ora la storia e credo non sia ancora arrivata qui ma io la ringrazio lo stesso, a tradimento. (?!) Alla prossima!

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Capitolo 16
*** Quando il gatto danza è per isolare la sua prigione ***


16. Quando il gatto danza è per isolare la sua prigione
(e quando pensa è solo fino alle pareti dei suoi occhi)


 

Paul Éluard


 


 


 

GOTHAM CITY – Sionis Industries (Industrial District)

22/12/1976 – Tramonto


 

Vita, morte.
Sanità, e malattia.
L’ordine, e il caos.

Batman non aveva idea di quanto fosse passato dalla prima volta che aveva incontrato Joker.

A volte, nei momenti più bui, non riusciva a fare a meno di pensare come forse il loro primo incontro fosse avvenuto persino prima di tutto questo, prima che la mente del Joker venisse completamente inabissata da una psicologia incoerente e avvelenata. Cosa sarebbe potuto cambiare, se avesse avuto quella consapevolezza anche nel passato?

Quante volte, secondo quell’ipotesi, gli era camminato magari accanto tra le vie di Gotham, inconsapevole di quello che sarebbe diventato in futuro? Un postino, un giornalista, un dipendente di azienda: Batman sapeva solo che qualcuno, anni addietro, aveva deciso di nascondersi dietro quella maschera di orrore e pazzia; qualcuno che, e Daichi di questo ne era certo, era morto l’istante stesso quella stessa maschera era stata calata la prima volta, il volto tumefatto e avvizzito in una risata disperata e in un pianto truccato di rosso e di nero. Un volto che Daichi poteva aver visto, almeno una volta, in mezzo alla strada una mattina di settembre, vicino alla Sawamura Enterprises o accanto al parco Sheldon durante un pomeriggio soleggiato.

Cosa si nascondesse, però, dietro la motivazione che lo aveva spinto ad immergersi in quel pozzo denso e vischioso di follia la prima volta, lui probabilmente non avrebbe mai avuto modo di saperlo.

Forse, a volte pensava, se lo avesse saputo sarebbe anche riuscito a salvarlo. Se solo lo avesse conosciuto prima, se quello che era stato una volta Joker fosse riuscito ad entrare in contatto con lui prima che la sua mente partorisse quel malsano abominio, forse tutto ciò si sarebbe potuto evitare.

Forse, salvando ciò che una volta era stato Joker, avrebbe potuto salvare anche Bokuto, successivamente.

E forse, a volte si arrischiava persino a sperare, c’era ancora una possibilità che ciò accadesse. Per quanto remota fosse, forse esisteva ancora una soluzione capace di riportare indietro entrambi e dimostrare a Daichi, prima che a Joker, di come anche dopo essersi spinti così in là un cambio di rotta fosse possibile.

Bastava lo pensasse affinché la bile iniziasse ad accularsi sotto la bocca dello stomaco. Perché, oltre tutti quei pensieri e al di fuori della sua vita dedicata alla lotta contro il crimine, Batman non era cieco a ciò che in fondo persino Joker sapeva: che cercare di salvarlo non era mai stata una questione di puro altruismo, quando di tornaconto personale.

Seppure spesso solo inconsciamente – alcune cose erano infatti lontane dal venire definite nella acida risolutezza della propria coscienza – Daichi capiva bene quello che lo stesso Joker si prodigava spesso a dire, la derisione e lo scherno presenti nelle sue battute di commiserazione verso Batman: sentiva quel collegamento e lo odiava con tutto se stesso, sentiva quel filo di sangue che sanciva la loro involontaria somiglianza e che Daichi cercava ad ogni scontro inutilmente di recidere, tenendosi strenuamente ancorato a quei principi – ultima frontiera di confine con la sua nemesi.

Joker, forse, era persino più necessario a Daichi di quanto Daichi stesso non fosse per quel folle: Perché era anche grazie all'esistenza del Joker che Batman era quello che era, ed era proprio grazie a Joker che Batman era ancora capace, nei momenti di dubbi e di debolezza, di distinguere il suo operato e la sua natura di vigilante da quella di criminale.

Quando la polizia gli dava la caccia, i cani ululavano nella notte seguendo i suoi odori e i conduttori radiofonici gridavano nelle case degli abitanti di Gotham, decantando a gran voce le testate dei giornali che lo vedevano come un pericoloso delinquente, in quei momenti era la consapevolezza della sua differenza con personalità come Joker che gli permetteva di distanziare ciò che raccontavano di lui con ciò che, nel profondo delle sue paure, temeva a volte di poter diventare.

Joker era la sua ancora di sanità, e se questa non suonava come la barzelletta più assurda ed inverosimile di tutta Gotham Batman non aveva davvero idea di cosa sarebbe potuto esserlo.

Riguardo le armi usate da entrambi, al contrario, vi era un abisso a separarle.

Quelle usate da Joker potevano essere di qualsiasi tipo: dalle armi convenzionali – da fuoco e da taglio – ad arsenali letali composti da carte da gioco od oggetti da giocoliere. Joker era un nemico imprevedibile, ma nonostante la pazzia che sembrava avvolgerlo come un serpente velenoso risultava capace di combattere Batman con una acutezza e una dimestichezza che lo rendevano pericoloso non solo nei giochi mentali quanto anche nel corpo a corpo.


 


 


 


 

Batman si piega di lato, facendo una rotazione a semi arco ed abbassandosi poi su una gamba, tendendo l’altra tesa così da trascinarla con prepotenza al lato delle caviglie del Joker, nel tentativo di fargli perdere l’equilibrio. Joker ride, una risata sanguigna che gocciola lungo le pareti dell’enorme sala, mentre è veloce a spostarsi, portando il busto indietro e le mani sul pavimento ad almeno un metro di distanza, agile come un gatto selvatico e snodato come un equilibrista.

«Sai, dico sempre che i tempi sono fondamentali nella comicità. Però–»

Si ferma un attimo, portando il dorso della mancina alle labbra prima di strisciarlo di lato, a stirare una riga di sangue scesa fino al mento per tutta la metà inferiore della guancia.

«Devo ammettere che anche nei combattimenti hanno le loro potenzialità.»

Batman rimane in silenzio, il palmo posato sulla cintura mentre vede Joker portarsi intanto quella stessa mano dietro il collo, massaggiandoselo come a stirarsi i muscoli dopo una lunga giornata di lavoro.

«Questa situazione… Mi ricorda una barzelletta, sai? Fammi pensare, com’era? Ah~ sì!»

Non ha completato la frase che si getta nuovamente su di lui, la pistola che viene tirata fuori da una tasca interna del giaccone lungo. Un batarang viene lanciato tempestivamente in avanti, e mentre Batman si sposta di lato l’arma da fuoco del folle finisce velocemente a terra, colpita dall’utensile a forma di pipistrello ancora incuneato al suo interno.

«Troppo facile? Ohya~ Mannaggia. Dicevo, un saltimbanco e un pipistrello entrano in un caf–»

Hanno appena iniziato, ma già Daichi non ha intenzione di sentire altro. Il busto viene piegato in avanti mentre accorcia velocemente le distanze tra loro, la destra chiusa a pugno e pronta a colpire l’altro in petto. Joker si accartoccia su se stesso, ma Batman non fa in tempo a notare come abbia parato il colpo, facendosi scudo con un coltello posto di piatto, che un secondo pugnale compare nell’altra mano, un sorriso che biancheggia sul viso del folle nell’attesa della prossima mossa. L’uomo pipistrello fa appena in tempo ad alzare l’avambraccio rinforzato che la lama si tuffa contro quella protezione improvvisata, venendo bloccata dal materiale rigido ma rimanendo incredibilmente vicina al corpo di Batman.

Come Joker, del resto.

«Quanta impazienza… Lo so che vorresti sentire subito la battuta finale, ma

Daichi manda avanti la testa di scatto, facendola scontrare contro le mandibola del criminale nel tentativo di allontanarlo. Joker però non arretra, ed anzi dopo quello scontro solo la testa viene puntata all’indietro, il pomo di Adamo che sporge per qualche secondo mentre il viso viene lentamente riportato in avanti, rivoli di sangue che ora scivolano copiosi dalla bocca pitturata di rosso. La lingua umida va a umettare lentamente il labbro spaccato, e mentre un sorriso esagerato e mostruoso va ad aprirsi su quel volto di diavolo Daichi riesce a vedere una patina rossa sporcare indecorosamente molti denti e i canini appuntiti a entrambi i lati, unico segno che provi come il suo attacco sia andato a ledere la carne di qualche gengiva.

«Se te la dicessi, non varrebbe la pena sentire il resto della storia.»


 


 

«… Batman?»


 


 

Joker sorride nel sentire una voce gracchiante e meccanica arrivare dalla piccola radio posta al polso dell’altro, e mentre spinge con il coltello contro l’avambraccio rinforzato del vigilante gli occhi vanno ad abbassarsi verso l’origine di quel suono freddo, posandovi le iridi allungate per una manciata di secondi prima di risalire a fissarle sulla maschera del protettore della città.

«Ohya~ è forse il commissario? Sto occupando l’ora della chiamata serale?»

Dichiara divertito, le labbra che si aprono maggiormente in un sorriso deliziato mentre il viso viene piegato leggermente, portandolo alla stessa inclinazione dell’arma da taglio che tiene in tensione contro l’arto dell’altro.

«Spero tu sia in ascolto. In caso sappi che abbiamo un’emergenza, sono appena stato chiamato dalle guardie di sicurezza del manicomio di Arkham.»

«Ah, se non parla del mio luogo di villeggiatura preferito! Ma allora posso origliare anche io, giusto? Alla fin fine ci sentiamo un po’ tutti a casa quando siamo lì dentro. Non è vero, Batman~?»

Daichi indurisce i muscoli della gamba sinistra prima di fare inaspettatamente perno contro il pavimento, utilizzando la forza contraria per spingere malamente via il criminale. Lo vede cadere a terra, scosso da risate isteriche ed armi alla mano, mentre lui indietreggia velocemente, premendo con il pollice il pulsante presente sul polso e portando la mano davanti alla maschera, le iridi che rimangono nel frattempo puntate sul villano parzialmente piegato a qualche metro da lui.

«Commissario.»

«Ah– Grazie al cielo. Pessimo momento?»

«Cosa hanno detto le guardie?»

«… Ok, pessimo momento. Sarò breve: qualcuno ha manomesso i sistemi di sicurezza del manicomio. Sembra che le guardie abbiano notato un’incursione sospetta ed abbiano fatto scattare l’allarme, ma invece di sigillare le porte dei corridoi il computer abbia visto l’ordine come autorizzazione a sbloccare tutte le celle.»

Batman scruta silenziosamente Joker, e nonostante il silenzio caduto nel frattempo tra di loro – e il viso del folle ancora celato a causa della posizione – riesce a vedergli le spalle tremare in maniera incostante, come a cercare di soffocare una risata sull’orlo di collassare nuovamente fuori dal debole muro offerto dalle labbra.

Ha una pessima sensazione riguardo quella faccenda.

«Feriti?»

«Si spera sempre nel meglio, ma– pare si stia scatenando l’inferno lì sotto, Batman. Alcuni prigionieri sono riusciti ad evadere, ma non avremo numeri fin tanto non avremo riportato tutti in cella e potremo vedere quali rimangano vuote. I miei uomini ed io stiamo andando, ma potremmo non essere sufficienti.»

Il messaggio sottinteso da Yaku è chiaro, e Daichi rimane immobile per interminabili secondi mentre Joker si rialza, riprendendo a sorridere sghembo mentre va a portare il coltello davanti gli occhi, rigirandosi la lama tra le dita.

«Cena da amici?~»

«… Arriverò il prima possibile.»

Dichiara infine alla radio, e prima che il commissario possa dire altro chiude il collegamento, spegnendo l’apparecchio e tornando a porre la mano al lato della cintura, il busto leggermente curvo in avanti.

«Sai Batman, non so se debba sentirmi geloso del rapporto che hai con quel commissario. Pensare che faccio così tanto ogni volta per darci la possibilità di stare un po’ da soli… Ma proprio quando iniziamo ad avere una certa intimità–!»

Sta ancora terminando la frase che Daichi vede il riflesso di uno dei suoi coltelli da palcoscenico illuminare per un istante il fianco dell’altro, e rotola di lato poco prima che questo venga lanciato nella sua direzione, tintinnando irregolarmente quando la gravità ha la meglio e lo fa cadere sul pavimento, lontano da entrambi.

«Forse dovrei farlo fuori, che ne dici–? Un delitto passionale, non lo chiamano così al giorno d’oggi i giornali?! Ohya~, ohya~! È proprio vero che questo è un mondo di matti, in quale altra realtà scambierebbero un omicidio per eccessivo amore?!»

Daichi piega il busto mentre la mano va ad afferrare il bat-artiglio, e senza dare tempo a Joker di poter prendere un secondo pugnale lo lancia verso di lui, arpionandolo per la lunga giacca violacea e tirandolo in avanti, facendogli quasi perdere l’equilibrio. Lo vede perdere il suo sorriso di strafottenza per qualche secondo mentre il suo baricentro esce velocemente dalla sua zona di equilibrio, ma invece di cadere a terra Joker si porta in avanti, facendo due grandi passi mentre il braccio viene teso e la mano chiusa a caricare un pugno, che va poi a scontrarsi con la parte laterale della maschera di Batman con forza tale da farla slittare all’indietro.

Cadono entrambi a terra, ma Daichi rotola di lato, alzandosi il più velocemente possibile e guardando verso terra, dove immagina sia caduto nel frattempo Joker.

Vuoto.

 

«Anche se nessun delitto batte i tuoi, naturalmente. Com’è che ti chiamano?»

La voce dell’altro gli arriva da dietro l’orecchio destro, e Batman ringhia un verso sommesso nel sentire un braccio andare a circondargli il collo, tirandolo verso l’alto e dietro di sé nel tentativo di fargli esporre maggiormente il collo e fargli così perdere coscienza per asfissia.

O peggio.

«Mostro alato, giusto? “Mostro alato terrorizza Gotham”, chissà cosa scrivono di me allora!»

Prova a respirare un paio di volte, invano, prima di piegare le gambe ed abbassarsi inaspettatamente, portando le mani sull’avambraccio dell’altro e chinandosi in avanti, obbligando di peso anche Joker a fare lo stesso.

Lo fa capitombolare in avanti, e una volta a terra si porta una mano alla gola, nel tentativo di riprendere aria. Vede il folle fare una, due capriole all’indietro che lo portano ad allontanarsi di cinque o sei metri, prima di riportarsi in ginocchio e poi in piedi, voltandosi verso di lui.

«Oh, andiamo Bat-musone, non prenderla sul personale. Lo sai che potrei mai ucciderti~. Siamo la più vecchia battuta della storia, la migliore! Il rosso e il nero. La vita e la morte. La barzelletta e la battuta finale! E so che anche tu lo pensi, che in fondo nemmeno tu potresti mai uccidermi!»

«Io non uccido nessuno.»

«Ohya ohya, lo vedi~? Già il primo punto in comune! E chissà quanti altri ne troveremo in serata. Dopo tutto lo sai, l’ho sempre detto che siamo incredibilmente simili

Una fragorosa risata, le labbra si tendono quasi da orecchio ad orecchio mentre Joker si porta le mani sullo stomaco, facendo una leggera pressione contro la stoffa della camicia. Persino le ciocche nere pece dalle punte verde acido vibrano, sommosse dai movimenti bruschi a cui vengono costrette.

«Anche se devo dirlo. Nonostante gli anni, riesci ancora a fare battute più divertenti delle mie! Tu non uccidi? Davvero?»

«Sei tu l’assassino, Joker. Sei pazzo, e con quelli come te l’unico punto che mai avrai in comune sarà il manicomio.»

«Ah~ Batman, sempre così sicuro della tua innocenza. Pensi io non lo senta? Che non percepisca quanto sia patetica l’intonazione che adotti quando parli di ciò che vorresti essere?»

Ha bisogno di un piano.

Daichi va a tastare con la mano lungo la cinta che indossa alla vita, facendo attenzione che il suo gesto ricada nella parte più ombreggiata della sua figura. Ruota leggermente poi nel seguire i movimenti dell’altro, in silenzio mentre lo vede iniziare a girare con lentezza attorno a lui, a numerosi metri di distanza.

Una pantera nera, pronta ad attaccare appena le si darà impunemente la schiena.

«Dimmi, quando hai smesso di crederci, Bat-musone? Quando hai capito che la maschera che indossi non è solo fisica?»

Vi è una chiara traccia di scherno nella tonalità adottata dall’altro, come su quel sorriso freddo e impietoso che indossa. Batman non risponde, la mano che va invece a tastare per quanto possibile gli spazi vuoti intervallati dalle varie armi che ancora non ha usato. Ogni tentativo di usare armi convenzionali non ha dato buoni frutti, fino ad adesso: Joker sembra essere privo di qualsiasi istinto umano collegato alla percezione del dolore e della salvaguardia personale, quindi non dovrebbe sorprenderlo come gengive rotte e qualche ematoma su fianchi e petto non abbiano avuto l’effetto sperato. Ma ha bisogno di fermarlo, e questo lo mette davanti ad un problema che, come sempre quando si parla di quel folle, non sembra facile da risolvere.

«Quando hai capito che eri diventato ciò che hai sempre temuto di essere?»

La voce di Joker è come un felino che si fa lentamente strada nella sua testa. Lo può sentire muoversi, lascivo e vizioso, lungo i fili della sua mente rigida e dura, cercando punti teneri ove poter imprimere gli artigli e staccargli, nel battito di un istante, le carni violabili.

Nulla che Daichi possa permettere.

«Io non sento la necessità di uccidere migliaia di persone nel tempo libero, Joker.»

«Ohya~ e invece sì. Sono solo diversi gli umani che prenderesti in considerazione per farlo. Perché cacceresti con così tanto fanatismo noi criminali, altrimenti?»

Non lo troverà, il punto debole. Non imprimerà alcun artiglio nella sua testa.

«Oh no, non è la volontà che ti manca, Batman: è il coraggio. Tu non puoi uccidermi senza diventare come me, ed io non posso ucciderti senza perdere l'unico essere umano al mio livello! Non è ironico?! Non possiamo ucciderci, ma entrambi stiamo esaurendo le alternative!»

«No.»

È un filo di voce, ma è sufficiente. Joker si ferma, andando a guardare l’altro con sguardo curioso mentre piega leggermente la testa di lato, facendo scivolare i capelli della frangia a scoprire il secondo occhio lungo e scuro.

«Ohya~?»

«Non tutte.»

Stavolta è Daichi a prendere l’iniziativa, e mentre l’altro ha ancora quel sorriso così orribilmente stampato sul viso il vigilante va a lanciare il suo bat-bolas in avanti, rotolando poi di lato per iniziare ad intrecciare la fune liberata dalla cintura attorno al corpo dell’altro.

«Ohya~ e questa? Mi aspettavo almeno un paio di preliminari, prima di passare a questo gioco!»

Lo sente commentare mentre cerca di scrollarsi di dosso il lungo cavo. Batman è veloce però, e prima che l’altro possa fare mosse efficaci è svelto ad arrivargli dietro, bloccandogli le mani contro la schiena ed obbligandolo al contempo ad avvicinarsi verso una delle tante casse vuote sparse per l’enorme sala, facendolo sedere su una di queste.

«Non ne avrai bisogno, abbiamo finito.»

«Di già? E pensare che non ho nemmeno usato la mia parola d’ordine, ancora.»

«Non servirà né qui, né nella struttura dove finirai tu.»

«Oh, no, no, no.»

Lo vede scuotere la testa a destra e sinistra mentre anche l’ultima fune viene rilegata al meglio attorno al suo corpo, obbligandolo forzatamente all’immobilità. Ma nulla di ciò che ha da dire gli potrebbe interessare, sinceramente: Batman decide così di rimettersi in piedi, nel disinteresse di ciò che l’altro ha da dire, mentre la mancina va a porsi sul bottone posto sul polso allo scopo di riattivare il collegamento con il commissario.

«Non metterci limiti in questo modo: La notte è ancora giovane, ed io sono ancora carico e pieno di energie! Ma a proposito di tempo, lo senti?»

Disinteresse per tutto, tranne che per questo.

«… Cosa?»

Il dito è già sul pulsante scuro, ma la mano si arresta appena prima prima di fare su di esso la piccola pressione necessaria a metterlo in funzione. Gli occhi vanno a riportarsi su quelli allungati e stretti del Joker, cercando una risposta nell’espressione ora sorniona che si sta dipingendo su quel pallido viso dal trucco scuro e sanguinante.

«Cosa cosa, Batman?»

Dio. Odia tutto ciò.

«Cosa dovrei sentire?»

«Mhm~? Oh, quindi non lo senti? Peccato. Che ti stia estraniando dalla realtà, Bat-sadico?»

Pare illuminarsi appena nel dirlo, prima di continuare a parlare.

«Ma in fondo posso capirlo, non siamo legati alla razionalità per contratto, nessuna clausola di sanità mentale! La follia, ah! La follia, invece–»

«Chiamerò il commissario. I suoi agenti ti condurranno al manicomio Asylum non appena la situazione si sarà stabilizzata.»

Joker sembra pensarci su per qualche istante, e nel mentre lo fa si lascia andare ad una cantilena di mugugni ovattati, ciondolando leggermente a destra e a sinistra e andando ad abbassare le palpebre ombreggiate, il trucco scuro che proietta i contorni scheletrici delle sue cavità orbitali come fossero due grossi dischi neri ai lati del naso longilineo.

Sembra infine arrivare ad una decisione, ed un sorriso tirato si allarga su quella maschera pallida, gli occhi che vanno a puntarsi nuovamente su quelli di Batman mentre il corpo torna a rallentare il suo frustrante inclinarsi a destra e a sinistra.

«Ah, apprezzo l’impegno ma credo che reclinerò~.»

I denti biancheggiano e rosseggiano, il sangue che ancora ne copre parzialmente lo smalto perlaceo.

«Prima cosa, perché non mi sento a mio agio con la gente nuova– Tutte quelle domande su quali trucchi usi e sul numero di omicidi fatti negli anni sono diventate davvero noiose, sai?»

Daichi schiude le labbra, pronto a rispondere al criminale, ma le richiude subito nel sentire che qualcosa non torna.

Un sesto senso, sviluppato negli anni e con l’allenamento, che lo obbliga a spostarsi di lato proprio nel momento in cui un gigantesco martello fa la sua comparsa al lato della sua visuale, fendendo lo spazio poco prima occupato da lui e creando al suo impatto con il pavimento un rumore rimbombante e scatolato, che echeggia pesante tra le pareti illuminate dai vecchi led natalizi.

Non ha un istante per pensare: neppure il tempo di girarsi per confrontarsi con l’avversario che un secondo attacco si ripete al primo, l’enorme arma che viene fatta ruotare attorno al corpo del ragazzo che la impugna nel tentativo di colpire il fianco di Batman. Daichi riesce a muoversi velocemente, piegando il busto e facendo una serie di capriole all’indietro per evitare di scontrarsi con il legno duro, e solo quando si trova a molti metri di distanza dal punto iniziale torna in piedi, guardando da lontano la persona comparsa accanto al Joker col fine di difenderlo dal vigilante.


 

Bassa, snella ed atletica, i capelli dalle radici scure e la tinta bionda che sfuma sulla sinistra in un rosa scolorito e sulla destra in un blu elettrico. Gli occhi sono illuminati da due iridi lunghe e ferine macchiate di un’ambra scuro, la pelle è pallida mentre un enorme martello squarcia l’aria al lato di quel volto piccolo e apatico, un cerchio ed una croce stampati sulle due facce del maglio posto leggermente in alto ed inclinato in posizione di attacco verso Daichi.

«Seconda cosa, perché il mio micino è molto geloso della gente che si prende troppe confidenze con il sottoscritto~.»


 


 


 

°°°°


 


 


 

Daichi aveva sempre considerato Harlee, nonostante l’aspetto indifferente e giovanile che lo caratterizzava, uno dei criminali più incomprensibili e imprevedibili di tutta Gotham.

Inizialmente inserito all’interno del gruppo di medici psichiatrici di Arkham Asylum con lo scopo di completare il suo tirocinio e divenire a tutti gli effetti specializzando in neuropsichiatria criminale, Kozume Kenma – era questo il nome che aveva avuto prima di darsi alla malavita – era stato inserito dall’università di Gotham all’interno del manicomio con l’autorizzazione a usare uomini e donne rinchiusi al suo interno come soggetti per la sua tesi di laurea.

Seppure il lungo periodo passato nell’edificio di detenzione, tuttavia, Kozume non sembrava avesse costruito nessun rapporto solido con altri dottori o specializzandi della struttura. Come Daichi aveva infatti avuto modo di venire a sapere dal direttore del dipartimento l’unica persona con cui Kenma aveva intrattenuto alcun tipo di conversazione era stato invece uno dei suoi pazienti, il Joker, che dalle carte che il giovane universitario aveva lasciato nella sua scrivania si era rivelato essere stato ai tempi considerato, dal ragazzo, l’ideale paziente zero per la sua tesi di analisi comportamentale.

Ciò che era successo dopo era ancora soggetto di dispute tra l’università di Gotham ed il manicomio stesso, ma i più si dividevano tra l’ipotesi che il neo-dottore fosse stato enormemente plagiato dal Joker stesso, perdendo la propria ragione seduta dopo seduta, e quella che fosse sempre stato in verità un probabile soggetto instabile e dall’incoscienza criminale sopita dietro un pesante strato di apatia caratteriale.

L’unica cosa certa era stata che, poco tempo dopo aver conosciuto il folle assassino, entrambi erano misteriosamente scomparsi, in una notte come tante altre, comparendo nuovamente in città dopo qualche settimana come coppia di criminali e con il nome di Joker ed Harlee Kenn.


 


 


 

Batman fa qualche rondata di lato, il respiro che si fa ansante oltre la maschera nel rimettersi velocemente in piedi, e quando una gamba gli cede – obbligandolo a porsi parzialmente in ginocchio – deve fare un enorme sforzo per piegarsi di lato, rotolando via un secondo prima che la facciata con la croce del martello di Harlee si vada a scontrare con il suo corpo.

Raschia con la gola un gemito roco quando sente una ferita aperta strusciare miseramente contro il pavimento graffiato dal tempo, e punta il bat-artiglio in avanti, scagliandolo dall’altra parte della sala così da farsi tirare via proprio quando Harlee colpisce nuovamente, a pochissima distanza da lui, prendendolo di striscio invece che integralmente solo grazie alla forza di richiamo del fil di ferro dell’arma appena utilizzata.

Daichi plana su uno dei pochi scaffali ancora in piedi, e non senza qualche difficoltà si volta nuovamente dietro, fissando in lontananza Harlee tornare a difendere la figura sorridente del Joker, ora orribilmente deformata in un fascio di risate isteriche e divertite.

«Ohya~! Se non riesci a fare meglio di così la vedo male per te, Batman!»

Batman schiocca la lingua contro il palato, le sopracciglia che vanno ad aggrottarsi mentre appunta irritato il commento di Joker nella testa, e nel posare lo sguardo su entrambi l’espressione si fa più contrita, le nocche che si sbiancano nello stringere le dita attorno al metallo freddo della mensola dove è chino. Vorrebbe rispondere, ma la verità è che l’esattezza di quelle parole è pesante da digerire, come è pesante da digerire il fatto che Harlee sia ancora in piedi accanto a Joker, lì dove lui si sia ritrovato costretto ad allontanarsi dal campo di battaglia.

Ciò che è certo è che, nonostante la dipendenza quasi totale che Harlee pare avere nei confronti di Joker, Daichi ha sempre effettivamente pensato al compagno di quel folle criminale come ad uno degli avversari con cui abbia sempre avuto più difficoltà a lottare. Nonostante l’aspetto pacato e contenuto, infatti, Harlee sembra possedere una agilità ed una flessibilità fuori dal comune, cosa che gli ha sempre permesso di compiere salti molto elevati e schivare proiettili sparati anche a distanza ravvicinata dai poliziotti da cui è spesso braccato.

È veloce, elastico, e si muove con un’agilità che solo Nishinoya riesce a seguire: mentre però è consapevole di cosa abbia reso Robin idoneo a eseguire attività acrobatiche di quel livello e a sviluppare una resistenza fisica lontana da quella dei suoi coetanei, essendo stato lui stesso responsabile della sua crescita e docente in quegli insegnamenti avvenuti nella palestra sotterranea di villa Sawamura, la naturale capacità di Harlee – ex dottorando della Gotham University – rimane per Daichi un mistero che non sa se avrà mai modo di svelare.

Harlee, inoltre, non indossa alcuna maschera al momento, il ché fa pensare Joker abbia usato su di lui lo stesso antidoto che ha usato su se stesso e sui suoi scagnozzi. Questo non sarebbe un problema, se non fosse che rende Harlee immune ad un’altra intera gamma di batteri potenzialmente nocivi, una lista di immunità già resa abbastanza lunga da Poison Ives: come Daichi ha infatti avuto modo di scoprire in passato anche moltissimi altri batteri, veleni e virus a lui conosciuti e sconosciuti risultano essere totalmente inoffensivi per Harlee, e questo proprio grazie all’intervento del metaumano, che pare abbia per qualche motivo deciso di condividere molti dei suoi anticorpi con quell’esile ma resistente ginnasta criminale.

Ecco allora il problema: perché ciò, naturalmente, rende Harlee immune anche a moltissimi agenti contenuti nelle sue cerbottane, spray e pellet gassosi, che finiscono per essere del tutto inutili contro di lui e che rendono molto esigue la percentuale di armi che Daichi può usare per combatterlo.


 


 

Un proiettile taglia l’aria accanto a Batman, obbligandolo ad abbassarsi rapidamente alla ricerca di riparo mentre tenta di uscire dalla mira di Harlee, che nel frattempo sembra aver tirato fuori due piccole pistole, una per mano, dei medesimi colori di quella usata da Joker.

Naturalmente, lo aveva quasi scordato: non è solo nel corpo a corpo che Harlee sembra essere un criminale dalla pericolosità spesso sottovalutata; proprio come Joker, infatti, esso pare essere anche vezzo all'utilizzo di armi da fuoco e da taglio; così come di esplosivi, armi e gadget decisamente non convenzionali che Daichi ha avuto modo di vedere in passato, durante i loro incontri avvenuti tra una evasione e l’altra.

Una differenza con Joker ci sta, però: rispetto al primo, Harlee parla immensamente di meno.


 


 

«Sappiamo entrambi che non hai possibilità di vincere, Joker.»

Batman fa una capriola di lato prima di allargare le braccia e con loro il mantello, planando nuovamente verso il pavimento nel tentativo di uscire fuori dal mirino di Harlee Kenn. Si ripara dietro una delle tante colonne che sostengono il soffitto della sala, portando le spalle a premere contro i mattoni freddi mentre con la destra va a controllare le armi che tiene ancora nella cintura, scartandone lentamente una ad una alla ricerca di qualcosa che abbia effetto sull’altro.

La risata di Joker non tarda ad arrivare, e Daichi stringe le labbra mentre tenta di non perdere la concentrazione, posando l’attenzione sui dardi penetranti che tiene di lato prima di passare oltre, sui bat-arang ancora non lanciati ma abbastanza inutili contro una persona come Harlee.

Altro, gli serve altro–

«Ohya~? Strano modo di parlare per uno che si nasconde per non essere sconfitto

«Il tuo piano è fallito, la città si sta riprendendo ed abbiamo già trovato la formula per annullare il tuo gas.»

«Ah~ ma se davvero fosse così sarebbe inutile chiedere quella che possiedo io. Eppure eccoci qui!»


 


 

Ed ha ragione, purtroppo.

Per quanto sia vero abbiano trovato una formula capace di anestetizzare qualsiasi cosa l’altro abbia sparso nell’aria di Gotham, è anche vero non abbiano certezze sull’effettiva durata che questa momentanea immunizzazione avrà. Il vero ed unico modo per avere una risposta soddisfacente sarebbe conoscere la formula originale, lavorando così alla creazione di un vaccino direttamente comprovabile su quella: ed è proprio per questo che quel foglio serve, come è proprio per questo che Joker non sembra sia assolutamente intenzionato a darglielo.

Un fischio acuto allontana Batman dal filo dei suoi pensieri, e si piega in avanti appena in tempo per evitare che il martello di Harlee gli perfori il cranio. Lancia un bat-arang verso l’alto, più nel tentativo di deconcentrarlo che nella vera speranza di arrecargli danno, e sembra che il piano abbia effetto poiché lo vede scivolare velocemente e silenziosamente lontano, andandosi a nascondere mediante una veloce serie di salti tra le travi portanti che sorreggono il seminterrato, muovendosi come un gatto a caccia nella semioscurità offerta dall’altezza.

È come cercare di catturare un randagio: attività che riesce particolarmente bene a Nishinoya, ma non a Daichi. Non è certo grazie a lui se al momento hanno una decina di gatti solo all’interno di Villa Sawamura, in fin dei conti. Solo che, da quello che ricorda riguardo le conversazioni sentite tra nobili tra una festa privata e l’altra, la maggioranza dei quali dediti secondo le tradizioni alla caccia della volpe e di altra selvaggina, per la cattura di animali particolarmente indomabili servirebbe una trappola a vivo, cosa che naturalmente lui non ha.

… O forse che ha, semplicemente nella maniera meno convenzionale possibile.


 

Avviene tutto molto velocemente.

Le funi del rampino penetra-muri vengono tirate da una parte all’altra della stanza, piegate e riprese da Batman stesso mentre cerca di schivare gli attacchi di Harlee provenienti dall’alto: le pallottole tranciano l’aria satura, vanno a colpire led sparsi sulle pareti da cui Daichi si distacca velocemente mentre compie il giro di una, due, tre colonne poste a più metri di distanza. Fa una rovesciata, rotola di lato, lancia qualche bat-arang mentre si rifugia dietro una mensola solo per uscirne subito dopo, una carica di bombe fumogene che vengono lanciate più per creare una difficoltà tecnica nella mira di Harlee piuttosto che nel vero tentativo di metterlo fisicamente in difficoltà.

Nemmeno un accenno di tosse, una parola di sconforto, nulla: Il ragazzo, ovunque egli sia nel celato riparo offerto dalle travi che sostengono la parte superiore della sala, sembra essere un fantasma impalpabile ed invisibile, focalizzato solo sul colpirlo usando meno energie possibili e senza obbligarsi a muoversi più del necessario.

Cosa che Batman può usare a suo favore.

Gli spostamenti del vigilante si fanno sempre più circoscritti mentre usa le traiettorie degli attacchi che l’altro riesce a lanciare per farsi un’idea sempre più precisa di dove possa nascondersi, e nel mentre continua a muoversi la lunga fune del rampino crea sempre più intrecci, andando a costruire una tela che va a svilupparsi ad un metro di altezza dal pavimento e che si incurva in angoli stretti ad ogni colonna che circoscrive.

«Che coda lunga, Batman! Ti sei accorto di star perdendo qualcosa per strada?»

Joker ha sempre qualcosa da dire. Batman non risponde, ed anzi continua a fare quelle figure astratte con la fune ancora un altro paio di minuti; quando finalmente sente il rampino iniziare a fare resistenza si ferma, portandosi in bilico sulle corde tese, alzando poi gli occhi verso l’alto a fissare esattamente sopra di sé, dove – se i suoi calcoli sono giusti – dovrebbe trovarsi la figura di Harlee, accucciata nella parte più interna di quell’incontro di travi.

Trovato.

Gli occhi di Harlee sono lunghi e dorati, e risplendono nel buio quasi quanto quelli di un animale accecato dai fari della macchina. Daichi può vedere il leggero modo con cui l’altro va a mordersi distrattamente il labbro inferiore, frustrato dal fatto di essere stato scoperto, ma l’uomo pipistrello non lo lascia pensare ad un modo per risolvere il problema: la destra è già sulla sua cintura, mentre le dita che circondano le piccole sfere esplosive che ha ancora in vita vanno a staccarle e a lanciarle verso l’alto.

Le sente, più che vederle, sbattere contro le travi che sorreggono il corpo del giovane acrobata, e prima che l’altro possa effettivamente allontanarsi uno scoppio e uno scricchiolio acuto determinano il cedimento della trasversa che usa come appoggio. Un rumore stridulo si genera nelle orecchie di Batman mentre il suono di propaga tutto attorno e lui si sposta di scatto, grosse schegge di legno che vengono sparate in maniera raggiale dal luogo dell’impatto mentre il corpo di Harlee cade pesantemente verso il basso, rimanendo intrappolato in quella rete di funi creata da Daichi durante lo scontro. La forza impressa dal corpo in caduta libera fa scattare una serie di nodi ai lati della sua figura così, mentre la parte centrale si appesantisce a causa del peso di Harlee, quella esterna si chiude su se stessa, di fatto intrappolando l’agile criminale.

«…!!»

Lo vede scuotersi velocemente, preso in contropiede e scocciato dalla insita consapevolezza di essere finito nell’insidia di un’imboscata, ma nonostante la sua nuova posizione teoricamente innocua Daichi si tiene ancora a qualche metro di distanza, gli occhi che non si distaccano un secondo dalla figura del minore mentre inizia a girargli attorno, nell’intento di arrivare nuovamente da Joker.

Harlee continua a muoversi come un animale preso alla sprovvista, tirando la fune nel tentativo di romperla ed arrivando infine ad incastonare le sue iridi mielate in quelle di Daichi. Vedere sul suo viso un accenno di emozione è già di suo un evento fuori dalla norma, eppure quando lo sguardo dell’altro si punta sul suo Batman è costretto a scontrarsi con un’espressione di puro sdegno, le sopracciglia aggrottate e le labbra retratte a mostrare i canini leggermente appuntiti, i denti serrati e le dita strette attorno alle corde metalliche.

«Buono.»

Si ritrova a dirgli prima che possa effettivamente pensarci su, lo sguardo che successivamente slitta lentamente verso quello di Joker, ancora fortunatamente legato al luogo ove Batman lo ha lasciato. Un’espressione di difficile interpretazione sembra essersi dipinta sul suo volto, e Daichi rimane in silenzio mentre lo vede fissare in modo totalmente estraneo al suo personaggio la figura di Harlee, ancora chiuso nella gabbia di funi che Daichi ha creato.

Sembra riprendersi subito però, e non appena si rende conto di essere sotto lo sguardo del vigilante è veloce a raddrizzare nuovamente la schiena, un sorriso enigmatico stampato sul volto e gli occhi neri e lunghi che tornano a guardarlo con teatrale divertimento, la maschera offerta dal trucco solo ultima di tante ben più profonde indossate dall’altro.

«Ohya, divertito con Harlee?»

«Avrei preferito evitare tutto questo.»

Joker alza le spalle, scuotendo la testa con fare mesto prima di tornare a guardare l’altro, un sorriso ancora più largo e sarcastico a farsi spazio tra le labbra fredde.

«Oh, ma perché? Come se non ti fosse piaciuto passare del tempo con lui. Ho conosciuto gente che ha tentato di pagarmi per potercisi anche solo avvicinare. Mando ancora qualcuno dei miei a cambiare loro i fiori, ogni tanto! Ma i soldi, i soldi~!»

Batman rimane in silenzio, fissandolo mentre questo ciondola al ritmo di quell’unica parola che viene ripetuta quasi fosse un mantra più e più volte, crescendo di tono fino a venire quasi urlata, strillata in quelle quattro mura che si silenziano solo nell’istante che precede un’altra frase, le labbra sanguigne di Joker che si aprono ancora e ancora a rivelare uno scherno mai svanito nella voce.

«Ne parlano tutti, li vogliono tutti! Dai ad un uomo un pezzo di carta, e sarà pronto a darti un pezzo di anima. Non è assurdo?! Questo mondo è assurdo, Batman!»

E torna a ridere, la voce calda ma la tonalità alta mentre quel riso inopportuno si spande nell’aria, una risata che parla di pazzia e deviazione, un’ilarità che delinea un cavaliere insensato che si fa strada al calar delle tenebre, camminando su un viale creato dai suoi stessi omicidi ed arronzato dal sottofondo delle urla degli innocenti.

«Consegnami la formula, Joker, e chiudiamola qui.»

«Sei sempre così di corsa. Sai, sto iniziando a pensare non apprezzi il tempo che passiamo insieme come lo apprezzo io.»

«Pensi bene.»

«Mhm? Se permetti, allora, parlerò con qualcuno che lo apprezzi di più.»

Batman sta per rispondere quando lo vede voltarsi verso Harlee, lo sguardo che si fa affabile e divertito mentre le sopracciglia si rilassano in un’espressione malsana ed affettuosa al contempo, il sorriso ancora gelato su quel viso bianco come la neve.

«Hai fatto quello che ti aveva detto di fare il tuo adorato partner, micetto?»

Alla domanda dell’altro Daichi riesce a sentire il fruscio delle corde palesare i movimenti di Harlee, e basta uno sguardo per notare Kenma mettersi insensatamente composto, sistemandosi nella rete come fosse un piccolo gatto prima di annuire pacatamente, le mani che vanno a chiudersi attorno alla corda ed un’espressione nuovamente priva di emotività ad incorniciarne i tratti giovanili.

«Ah, ma come sei bravo. Allora credo sia giusta l’ora di usare il mio nuovo giocattolo!»


 

E non serve certo il sesto senso di Batman per capire quanto ciò non porti nulla di buono.


 


 

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Nuovo mese vuol dire: Nuovo capitolo!
... E quante citazioni del Joker originale, mamma mia spero di averlo reso abbastanza in questo capitolo!
Sì sono un po’ in ritardo, perdonatemi. ;_;) Sono stata impegnata con studio e lavoro e purtroppo ho avuto pochissimo tempo da dedicare alla fanfiction! Ringrazio però tantissimo le persone che continuano a seguirla, e che non temo di dire siano il motivo principale per cui questa storia vedrà un finale su EFP. I vostri messaggi mi hanno spronato tantissimo, e finalmente tra un paio di…!
Ma non vi spoilero nulla. Ringrazio invece a nomi chiari (??) le persone che hanno commentato e reso ancora una volta fattibile, con il loro immenso entusiasmo, l’uscita di questo nuovo capitolo!

Fisico92, le atrocità criminali sono effettivamente un must. Pensavi le avrei evitate eh?!
ValeC04, SONO FELICISSIMA TU ABBIA PERSEVERATO NELLA LETTURA, come anche che ti piaccia Kuroo geloso. Per quanto in questa storia la gelosia abbia risvolti abbastanza inquietanti, ammetto che è anche un mio debole, soprattutto con Kenmfsjskj! ♡
Unamoresolitario, che dire di te. Sei la mia anima gemella, lo sai. (…) Grazie per esserci stata dall’inizio, e per il fatto tu sia affezionata così tanto a questa storia! ;v;) qualche arcangelo ti porta in grembo, che accendo un cero in suo onore??
PokerAlice96, prima o poi arriverai qui e saprai. (…)
Ed è tutto, grazie mille!!!

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Capitolo 17
*** Gli addii possono essere sconvolgenti ***


17. Gli addii possono essere sconvolgenti
(ma i r*****i sono sicuramente peggio)



Margaret Atwood







GOTHAM CITY – Sionis Industries (Industrial District)

22/12/1976 – ???



Il sorriso di Joker è ampio e privo di razionalità mentre rimane puntato sui tratti delicati di Harlee, gli occhi stretti e lunghi che riflettono le luci a scomparsa sparse tutto attorno e che obbligano l’interno dell’enorme sala a quella tetra e risibile ricostruzione di atmosfera natalizia.

«Ah, ma come sei bravo. Allora credo sia giunta l’ora di usare il mio nuovo giocattolo!»

«… Di cosa– »

Daichi ha appena iniziato a rispondere che si blocca, gli occhi ridotti a due fessure mentre un leggero movimento dell’altro lo mette in allerta. Non gli è sfuggito: il braccio destro del Joker si è infatti appena spostato più in alto rispetto al mancino e questo dettaglio, seppure apparentemente irrilevante, pone Batman davanti ad almeno un paio di pensieri decisamente sgradevoli da affrontare. Primo fra tutti il motivo per il quale il Joker possa averlo voluto muovere in quella posizione, per quanto la normale causa-effetto solitamente applicabile a umani e metaumani non sia altrettanto facile da applicare su di lui; secondo, pensiero invece ben più preoccupante, come nonostante la fune lo leghi dalla vita in su esso risulti essere decisamente troppo libero nei movimenti, o almeno più di quanto Daichi avesse inizialmente programmato.

Lo scruta quindi in silenzio, e quando vede nuovamente la mano dell’altro muoversi con qualche difficoltà all’interno della tasca della lunga giacca non perde tempo a fare un passo avanti, le labbra che si stringono nel frattempo dietro la maschera a gas in una contratta seppur momentanea espressione di dolore. Durante lo scontro una pallottola, o forse più di una, è riuscita a ledere le carni normalmente protette dall’uniforme da Cavaliere Oscuro, e ad ogni passo può sentire fitte simili a lunghi tagli di siringhe mandare stimoli al suo sistema nervoso, avvertendolo della mancanza di reattività del muscolo anteriore.

«Tieni quella mano a vista.»

«Mhm? Oh, come vuoi.»

Qualcosa non torna.

Gli occhi di Batman non possono fare altro che fissare quel polso che va lentamente allontanandosi dal riparo offerto dalla giacca, e Daichi ha appena qualche secondo per constatare due cose: sia come la mano del Joker sia dischiusa in maniera stranamente innaturale, sia come il criminale, assieme al dorso graffiato e ammaccato da qualche livido in formazione, stia facendo uscire anche qualcos’altro alla luce fatiscente di quelle luci colorate, un dispositivo dall’aspetto duro e metallico, rettangolare a meno di una piccola antenna posta all’apice dello strumento.

Quella non sembra la formula che gli ha più volte chiesto di mostrargli, se può essere pessimistico a riguardo.

«Posalo.»

Dichiara velocemente, la voce bassa e autoritaria. Non ha sinceramente idea di cosa sia l’oggetto che il Joker ha appena tirato fuori, ma la luce rossa che lampeggia al di sopra del tondo bottone che l’altro tiene premuto con il pollice non sembra presagire nulla di buono.

«Oyha~ Come andiamo di fretta, Batfulmine. Lo farò presto, non preoccuparti. Ma~!»

«Nessun ma.»

L’espressione di Daichi è composta da un fascio di muscoli in tensione che squadrano in maniera ferma ed autorevole il criminale. Come è successo con lui riguardo le pazzie del Joker, però, sembra ormai anche il criminale abbia sviluppato una sorda reattività alle sue richieste: il suo sguardo rimane infatti a ciondolare tra noia e disinteresse mentre scruta con noncuranza il telecomando, mugugnando una cantilena strana nel mentre passa a rigirarlo di pancia e di schiena, muovendo il polso quanto le corde gli permettono di fare.

«Ma~ Prima dobbiamo dire le nostre ultime volontà. Non funziona così di solito?»

«Prima di cosa.»

Ed è allora, solo allora che lo sguardo del folle torna a posarsi su di lui, puntandosi sulla sua armatura nero pece come un faro sanguinante nella notte.



«Prima del B O O M.»



Il sorriso del Joker si allarga a dismisura nel dire quell’ultima onomatopea, un taglio netto che va a scindere rossastro la parte inferiore nel viso mentre gli occhi si allargano in maniera eccessiva, a definire un entusiasmo che non promette a Daichi nulla di buono.

«Cosa hai fatto.»

Chiede dopo qualche secondo, la voce ferma e la tonalità bassa. Joker ride, ride di gusto mentre il mento si alza ed il viso rimane puntato verso il soffitto per quella che sembra un’eternità, il respiro che scivola via dalle labbra sino a lasciarlo quasi senza fiato.

«Ah– Io? Io ero tutto per te, Batman. Mentre però giocavamo con i tuoi bat-balocchi, saltando come poliziotti su petardi e dedicandoci le migliori poesie d’amore degli ultimi venti anni, può essere che il mio gattino abbia messo per tutta questa grande e triste struttura una serie di piccoli regali per te.»

Batman rimane in silenzio mentre si trova istintivamente a far scivolare lo sguardo verso quello di Harlee, a studiarne i lineamenti ancora privi di qualsiasi espressività.

Dov’è stato Harlee durante il suo combattimento con Joker?

Prima non si era posto quella domanda, o almeno aveva ingenuamente pensato il ragazzo si trovasse semplicemente in un’altra sala, e che magari avesse raggiunto il compagno quando si era accorto di quello che stava accadendo. Una cosa tipo sesto senso, connessione mentale, quell’inquietante capacità a cui Batman aveva avuto più volte modo di assistere e che pareva permettesse ad entrambi avere un metaforico collegamento ombelicale che Batman giudica, oltre che malsano, sinceramente lontano da qualsiasi altra cosa abbia mai visto in tutta la sua vita.

Ora, però, uno scenario ben più preoccupante si fa strada nella sua mente: perché a ben pensarci è effettivamente raro vedere Harlee e Joker divisi, e la consapevolezza nata dall'immaginare cosa il più giovane possa aver fatto alle sue spalle mentre Joker lo teneva impegnato crea in lui una scomoda sensazione di essere stato, se non raggirato, sicuramente preso in fallo dai due criminali.

«Te lo ricordi quando ti dicevo se lo sentissi, Batman? Vuoi cambiare la tua risposta, adesso?»

E non ha bisogno di dire altro.

Perché la verità è che, per quanto Daichi vorrebbe ignorare quello che Joker gli sta dicendo, il seme del dubbio riguardo ciò che il folle avesse veramente in mente dall’inizio del combattimento – e forse persino da prima – si è già insinuato all’interno della sua mente non appena questi ha iniziato a parlare, ipotizzando cose che il vigilante vorrebbe con tutto se stesso fossero menzogne ma che si trova, di base, impossibilitato a verificare.

Poi, qualcosa cambia.

La musica si va spegnendo lentamente, terminando infine quella nenia terribile e stonata di auguri di buon Natale solo per iniziarne probabilmente una nuova, ed in quel frangente di tempo in cui tutto tace anche Batman può, finalmente, sentirlo.

Proviene dappertutto.

Dalle piccole scimmiette sedute sugli scatoloni, dalle travi, da alcune mensole in fondo, da dietro le luci intermittenti, e probabilmente anche dalle finestre strette poste in alto e che danno verso l’esterno, raso terra rispetto all’asfalto dell’ambiente fuori e raso soffitto all’interno. Potrebbero essere anche in altre sale, ed anzi probabilmente lo sono, ed il solo provare a quantificarle gli riesce talmente impossibile che alla fine si ritrova a chiederlo al Joker, la maschera che si contrae appena a seguire i movimenti dei muscoli facciali ora irrimediabilmente contratti in una smorfia di tensione.

«Quante ce ne sono?»

«Oh, non abbastanza per disinnescarne tutte. Quindi non sprecare nemmeno il tuo tempo a provarci.»

«Morirai anche tu, se premerai quel pulsante.»

Joker scuote la testa, il sorriso ancora presente su quel viso deformato dalla pazzia.

«Ohya~? Non ti ho insegnato nulla, quindi? Non c'è niente come un po' di morte, distruzione e fumo per fare una grande uscita di scena!»

Ed eccola di nuovo, la risata sguaiata di una iena scossa dai tremori di un’emozione troppo forte. Mostruosa, selvaggia, carnivora verso i suoi stessi simili.

«E poi lo sai, la vita è sopravvalutata! Vivere, morire, a cosa serve scegliere come andare avanti quando il finale è sempre lo stesso?! È una battuta già sentita, già vista, già fatta!»

Sono troppe.

Non importa quanto potrà mai provare ad essere veloce, sono troppe persino per riuscire a distinguerne i singoli ticchettii. È un rumore bianco, un battito funerario che rimbomba per tutto il magazzino definendo gli ultimi istanti di quelle mura marce e pesanti, e loro si trovano esattamente nel punto più lontano dalle poche uscite che possano rendere possibile a Batman una facile via di fuga con due prigionieri sulle spalle.

Daichi scruta silenziosamente il Joker, e nel rumoreggiare di quelle risate soffocate una sola domanda gli scivola via dalle labbra, assurdamente intima e umana.

«E Harlee?»

Joker piega appena la testa di lato a quella domanda, e in quel movimento Batman ha per un secondo l’impressione di stare davanti a Bokuto. Ma l’impressione è solo momentanea, perché anche in quella somiglianza di posizione le iridi di Joker esprimono un’acutezza e una spietatezza che quelle larghe e mielate di Due Facce stentano a mostrare, persino nei suoi momenti di pura, cieca pazzia.

«Mhm? Harlee? Verrà con me, naturalmente. Dove altro dovrebbe andare? Lui mi appartiene, Batman. È mio, non ha senso rimanga in un posto dove non ci sia io. Non è vero, Harlee?»

«–.»

La voce di Harlee non è che un sussurro. Daichi stenta persino a sentirla inizialmente, e nel momento in cui la riconosce la mente corre istintiva a domandarsi quanto tempo sia passato dall’ultima volta che ha sentito il giovane parlare. Saranno mesi, probabilmente. Eppure la voce risulta essere inconcepibilmente stabile ed atona persino in momenti come quello, persino davanti a quell’assurda richiesta da Joker formulata e da Harlee irrazionalmente accettata in un battito di ciglia.

Il Joker e Harlee sono una domanda più grande di qualsiasi risposta la mente umana potrà mai immaginare. Daichi lo ha in parte accettato, ma non potrà mai comprenderlo; è troppo per lui, è troppo per chiunque, ed ogni giorno si trova a ringraziare e allo stesso tempo condannare l’impossibilità di farlo, di capire quel rapporto e quella dipendenza reciproca che li ha uniti anni addietro in una macabra danza e che da allora li sta consumando come fuoco su una miccia.

Persino in quel momento.

Persino ora che è arrivata la fine.

«E allora, Batman–»

Un ultimo tentativo, gli occhi di Daichi che scavano all’interno di quelli del Joker, forse nella assurda e irrazionale speranza trovarvi un ultimo barlume di lucidità.

«Non farlo, Joker.»

Trovandovi solo buio pesto.



«B O O M!»











Batman non fa in tempo ad alzare un braccio per tentare un’ultima, strenua volta di fermarlo che Joker lascia il pulsante; un rumore secco ed intenso esplode a molti metri di distanza, e in un istante a questo se ne aggiunge un altro, e un altro, e un altro ancora. Le vibrazioni fanno tremare e cadere le piccole scimmiette dalle loro mensole dismesse, mentre le esplosioni sembrano comprimere l’aria e rendere instabile il terreno ai suoi piedi. Sopra di lui un rumore sordo e arioso lo costringe ad abbassarsi di scatto verso il pavimento, e non fa in tempo a guardare verso l’alto che è costretto a gettarsi di lato, schivando una trave in caduta libera ed indietreggiando lentamente verso l’uscita, lo sguardo impegnato nella ricerca del Joker e di Harlee.

Una lingua di fuoco gli impedisce la visuale ai lati, sopra e persino davanti a lui, ove un palo schiocca le sue frustate di legno bruciato a molti metri da lui e schegge scoppiano in mille frammenti, proiettando fiamme calde e rubiconde verso il soffitto.

Non riesce a vedere nulla: il fuoco e il fumo sprigionati dagli oggetti che stanno cadendo dall’alto sembrano aver creato dei muri impossibili da valicare, ma può sentire chiaramente da oltre questi la risata sguaiata di Joker graffiare l’aria ed echeggiare da ogni angolo della sala. Lo scricchiolio prodotto dal legno caldo e bruciante anticipa il cedimento di una seconda trave, di una terza, e mentre la musica degli altoparlanti va lentamente spegnendosi, prima allungandosi sinistramente e poi deformandosi man mano che i cavi dello strumento vengono sciolti dalle fiamme vive, anche la risata del Joker sembra mano a mano affievolirsi e scomparire, persa in quella bocca di inferno.



Daichi fa un passo in avanti, seppure difficilmente saprebbe dire il perché.

Sa benissimo cosa stia succedendo dall’altra parte, come sa bene di non poter fare nulla affinché ciò non accada. Il fuoco non ferisce, uccide, e forse quel passo di troppo è solo per cercare di rispondere alla domanda che tutti, a Gotham, si sono prima o poi fatti.

Può morire il Joker?

Solo il pensarlo gli fa un effetto sinistro. Assicurarsi della morte dei due criminali è una necessità, non solo nei confronti della salvaguardia di Gotham ma anche per clemenza verso la sua mente: deve dimostrare a se stesso ciò che col passare degli anni ha spesso rischiato di dimenticare, ovvero che – nonostante l’aspetto funesto, la mente fuori da ogni canone umano e l’inquietante immaginario che si porta dietro ad ogni atto criminale – Joker rimane, in fin dei conti, solo un uomo. Ecco perché Daichi sente di dover vedere quel viso, ed ecco perché necessita di scrutare nelle profondità di quel sorriso di morte dipinto sulla salma ustionata.

Non può fare nulla di tutto ciò. Non riesce a fare un secondo passo, infatti, che un’esplosione al piano inferiore lo costringe ad arretrare, una parte di pavimento che crolla sotto i piedi obbligandolo a poggiarsi ad una colonna che però cede subito, tranciata dalle vibrazioni eccessive e ora in caduta libera verso di lui.

È una corsa contro il tempo.

Batman riesce appena a fare qualche passo verso l’uscita coprendosi con il mantello quando un’altra esplosione porta alcune scimmiette a saltare in aria, una trave di ferro che sfreccia nella sua direzione a seguito dello scoppio di una tubatura. Riesce a piegarsi all’ultimo istante e rifugiarsi dietro una colonna crepata dal calore, ma non prima che la suddetta trave prenda di striscio la sua maschera, bloccandone il sistema di purificazione automatico dell’aria.

È una corsa contro il tempo che non ha.

«Joker!»

Tenta un’ultima volta, ma ormai il rumore è tale da non permettergli di sentire neppure una possibile risposta dell’altro, che sia ancora una risata o una battuta finale. Le fiamme sono alte, il fumo si addensa nell’aria rendendola difficile da respirare e, per quanto la maschera sembri ancora reggere quel minimo necessario a permettergli di sopravvivere, lo lascia comunque ansante, in difficoltà mentre tenta di scorgere una via di fuga per sé ed un modo per raggiungere ciò che resta dei due criminali.

Basta un rapido controllo però per capire come non abbia veramente altra scelta: gli occhi rimangono socchiusi, a scrutare per una manciata di secondi la sala ormai inagibile, prima di accettare come ormai non ci sia davvero più nulla da fare. Si gira verso la porta, varcandola ed uscendo di corsa nel tentativo di proseguire nella parte di corridoio ancora non crollata; esegue salti a mezz’aria, rotola di lato ad ogni esplosione troppo vicina, schiva oggetti e parti cadenti di soffitto mentre gli scoppi continuano a susseguirsi, i timer delle bombe lasciate per tutta la struttura che scoccano a pochi secondi l’uno dall’altro emulando una reazione a catena.



Quando alla fine esce, sfondando con un balzo una finestra dai vetri incrinati e rotolando fuori all’aria aperta, si rende conto di aver risolto solo la metà dei suoi problemi. Scocca la lingua contro il palato nel vedere i tirapiedi del Joker accalcarsi davanti ai cancelli d’uscita, mazze da baseball colorate e mitragliette automatiche alle mani, e decide di continuare a ignorare con insistenza il dolore alla gamba destra mentre corre direttamente verso di loro, abbassandosi e tirando calci ben assestati contro i primi della fila, gli altri che nel frattempo corrono verso di lui nel tentativo di creare un muro di carne che non lo faccia passare.

Daichi si abbassa il necessario per schivare alcune pallottole e nel frattempo gonfia i muscoli della gamba ancora completamente funzionante, accumulando energia a pochi centimetri dai corpi di due criminali e facendo infine perno sulle loro spalle quando abbastanza vicino. Sale su di loro con un balzo, e quando le mani si liberano dalla presa va a tirare il bat-rampino verso il fucile del soldatino gigante che si trova all’entrata, richiamandolo indietro per farti scagliare in avanti. Il colpo di frusta gli fa soffocare un gemito basso, le costole dolgono nei punti dove un paio di travi hanno quasi rischiato di seppellirlo mentre era ancora all’interno della struttura, ma stringe i denti mentre viene tirato via, appena prima che un’esplosione sradichi l’enorme porta dell’industria schiacciando altri quattro scagnozzi di Joker alle sue spalle.







È fuori, ma lo è senza prigionieri.

Si volta a guardare per l’ultima volta l’industria in fiamme, l’espressione impassibile mentre la mente viene attraversata ancora una volta da mille pensieri, mille dubbi, mille possibilità su cosa avrebbe potuto fare e non ha fatto, su cosa avrebbe potuto cambiare di quel giorno, sulla sorte di Gotham e sulle mille delusioni e possibilità che si susseguono in una realtà graffiata da terrorismo e corruzione.

Cosa ha sbagliato, cosa ha fatto giusto?

Non può salvare chiunque?

Non può dunque evitare la morte?

Ma non c’è una risposta per tutto, probabilmente. E così, mentre un’esplosione dietro l’altra riga l’aria con le sua frequenza acuta e fa tremare gli interni della bat-mobile ancora spenta, a Daichi non rimane altro che rimanere in silenzio, scrutando il cielo ormai oscurato da un tramonto macchiato di sangue, il fumo nero proveniente dall’industria che crea funghi pece sugli scheletri di quegli edifici abbandonati.

Prossima meta, signore.”

Il computer di bordo suona metallico, l’intonazione inespressiva nonostante i tentativi di Nishinoya per renderlo il più umano possibile, e Daichi si prende il suo tempo per rispondere, guardando quell’inferno di fuoco e di fiamme per qualche altro minuto; abbassa infine lo sguardo, portando le mani ai lati del viso e staccando l’ormai rovinata maschera per la depurazione dell’aria, buttandola sul sedile del passeggero prima di riportare le dita sul volante, la cintura che va a chiudersi automaticamente attorno al suo busto.

«Manicomio di Arkham.»

La giornata, in fondo, non è ancora finita.







°°°°







GOTHAM CITY – Arkham Asylum

22/12/1976 – Sera



Le tinte scure del manicomio di Arkham sembravano quella notte essersi dipinte della fredda intensa luce dei fari da ricerca, proiettati dalle torri di guardia poste sull’alto muro di contenimento della struttura verso le finestre dai vetri distrutti e le porte dai ferri piegati.

Orde di poliziotti muniti di armi di qualsiasi calibro correvano da una parte all’altra nelle vie principali che collegavano i vari edifici della struttura, e i suoni delle loro urla e dei loro spari si alternavano all’abbaiare dei cani che venivano lasciati liberi di braccare i pazienti in fuga. Tutto attorno era il caos, sangue ed interiora che venivano tirati fuori dalle loro tane di carne e vestiti, una sorte che accomunava sia chiunque opponesse resistenza ad ordini maggiori come anche chiunque, dall’altra parte, tentasse di bloccare la libertà di coloro che tentavano di ottenerla dopo anni di internamento.





La Bat-mobile si muove sulla strada come una macchia di inchiostro alla sera, dipingendo il suo tratto lungo lo sterrato sconnesso che si inserisce nelle strutture più interne del complesso manicomio. Ruggisce come un animale tenuto a stento a freno, obbligato dal conducente a controllare la velocità e la tenuta di strada mentre sfila lentamente oltre le sequoie piangenti che descrivono il tragitto che porta verso la struttura principale di detenzione di Arkham.

Una curva larga va a scoprire lentamente le torri ghiacciate sullo sfondo del tramonto ormai calato, e mano a mano che la macchina si avvicina a questa vista si aggiungono tracce distratte e sconnesse di vetri rotti, porte dai cardini scollegati, corpi riversi a terra e fontane dalle statue sfigurate e gli arti mancanti.

Daichi ferma la macchina in uno spiazzo all’ombra di una quercia, e fa appena in tempo a scendere che individua fra la folla il commissario, posto a molti metri di lontananza da lui e con quello che sembra essere un megafono di metallo brunito stretto tra le mani, atto a dare comandi ancora muti per le sue orecchie lontane, seppure in un tono che non fatica ad immaginare.



«… Batman?!»

Chiunque lo stia chiamando, dunque, non può essere Yaku.

Daichi si volta verso l’origine di quella voce così inaspettatamente giovanile più per istinto che per vero interesse, e quando lo sguardo scivola verso destra ciò che trova è– il vuoto. Una massa morbida e confusionaria di capelli aranciati occupano il punto dove si sarebbe atteso di incontrare una testa, e seppure accanto a quel cespuglio ribelle color carota sembri effettivamente esserci qualcuno – incredibilmente alto rispetto all’altro, per giunta – per qualche motivo dubita fortemente che quella voce, così acuta ed infantile, venga da quel ragazzo dai capelli scuri come la pece e gli occhi blu come la notte, al momento intento a fissarlo con una intensità che raramente ha visto esercitare dalla maggior parte delle persone mentre nei panni del Cavaliere Oscuro.

Abbassa gli occhi quindi, seguendo istintivamente le ciocche rosse per tutta la lunghezza dei capelli, e da dietro la maschera non può fare a meno di aggrottare un secondo le sopracciglia quando si ritrova da un momento all’altro davanti a due occhi grandi ed espressivi, un viso tondo e morbido che contorna quell’espressione di pura eccitazione, le guance piene che vanno a fare da palo ad una bocca aperta e scoperta in una palese necessità di gridare.

«Gwah–! Sei davvero tu?! Oddio, oddio! Tobio fagli la foto, Koushi sarà felicissimo quando lo vedrà!»

Il giovane si volta verso il ragazzo alla sua sinistra, tirandogli la manica per spronarlo a fare quello che gli sta chiedendo mentre l’altra scivola nel taschino del gilet che indossa, un curioso indumento dalla fantasia di righe verticali chiuso con dovizia sopra una camicia marrone scuro e un panciotto di cuoio. Estrae quello che sembra essere un piccolo taccuino, tentando di combattere per non far uscire anche l’orologio che custodisce pure al suo interno, e prende l'occasione per tirare appena una catenina del medesimo colore, per controllare che questa sia ancora robustamente ancorata ad uno dei passanti del pantalone alla Capri che indossa.

«– Ma sei stupido?! Ti pare il momento?! Non lo vedi che sta andando a dare una mano? Sugawara lo aveva detto, non avremmo dovuto avvicinarci al manicomio di Arkham, e ora guarda in cosa siamo rimasti incastrati!»

Daichi rimane in silenzio a fissare entrambi, lo sguardo imperturbabile e segretamente sovrappensiero mentre il più alto dei due sembra quasi intenzionato a far pagare con un bernoccolo in testa il probabile errore fatto dal più piccolo, la mano chiusa a pugno che va a sfregarsi con forza contro la testa rossa dell’altro.

«Tobio mi fai male!»

«Magari il calore ti mette in funzione il cervello, stupido Hinata!»

Il più piccolo si lascia andare ad una serie di lamenti petulanti all’azione del compagno, e mentre le verbalizzazioni continuano da ambo le parti la mano libera del ragazzo dai capelli carota viene portata sulla faccia del maggiore, nel tentativo di allontanarlo da lui.

Ma aspetta.

Hanno detto Sugawara?

«… Chi siete?»

Il ragazzo più alto – che in una manciata di secondi, nota Daichi abbastanza sconcertato, è riuscito a cambiare abbastanza volte posizione da riuscire ad arpionare entrambe le braccia attorno alle spalle dell’altro, come nel tentativo di trascinarselo via – sembra rimanere sorpreso dalla domanda, ma è quello più basso a prendere l’occasione al volo, usando la confusione del primo per liberarsi e facendo istantaneamente qualche passo verso di lui, taccuino e penna stretti nella mancina mentre porta la destra in avanti, in segno di saluto.

«Io– Io sono Shouyou, signore! Hinata Shouyou! Lui è Tobio Kageyama, noi siamo due giornalisti e– »

«Noi non siamo ancora giornalisti. Lui è un tirocinante, io mi occupo di fotografia. Siamo ancora in periodo di prova signore, e grazie a questa testa di gambero non saremo più nemmeno questo domani!»

«Ehi, non è colpa mia! Non potevo sapere sarebbe scoppiato il finimondo, e poi anche tu volevi venire qui a fare delle foto!»

«Dovevamo andarcene prima, sei tu che sei rimasto a parlare con il dottore per una vita!»

«Non posso scrivere niente se non parlo con la gente, stupido Tobio!»

«E per la tua parlantina adesso perderemo il lavoro, idiota di un Hinata!»

Daichi li vede continuare a battibeccare, e usa quel periodo di confusione per ricollegare le conversazioni avvenute con Koushi qualche settimana prima, cercando di ricordare il nome dei due apprendisti di cui gli ha effettivamente parlato. Che siano effettivamente i due ragazzi che ha ora dinanzi, ancora intenti a cercare di responsabilizzarsi a vicenda?

In quel caso, può dire con certezza che cercare di renderli dei giornalisti sembrerebbe più una mossa dettata dalla fede che dalla ragione.

O, conoscendo Koushi, dalla sensazione di sfida che quel tirocinio sembra portarsi dietro.

«State qui e non muovetevi fino a quando non sarà tutto finito. Ci siamo intesi?»

Dice infine, e qualcosa nella sua voce deve essere terribilmente inquietante perché a sentirlo entrambi si immobilizzano sul posto, la mano del ragazzo più grande chiusa a granchio a tirare la guancia tenera del più basso, quelle del più piccolo arpionate al braccio dell’altro nel tentativo di staccarlo dalla sua faccia.

Non passa nemmeno un secondo che si rimettono a posto, annuendo debolmente con entrambi gli sguardi puntati verso terra e le orecchie un po’ arrossate dall’imbarazzo di essere stati richiamati da qualcuno di più grande, e Daichi ha un rapido flash di quanto tutto ciò causerebbe l’ilarità di Sugawara, che lo ha sempre scherzosamente rimbeccato di aver adottato Nishinoya solo per poter esplicitare al meglio il suo lato da padre brontolone.

«Intesi?»

Ripete, e aspetta entrambi annuiscano una seconda volta prima di voltarsi nuovamente verso la meta originale, quasi più stanco per la breve conversazione avuta con loro che per la battaglia ingaggiata fino a poco prima con il Joker. Percorre qualche metro prima di arrivare davanti al commissario, appena in tempo per vederlo passarsi visibilmente stremato la mano sulla fronte, studiando la mappa aperta sul cruscotto di una delle volanti, ancora una volta inconsapevole del suo arrivo.

«Commissario.»

Yaku alza una mano, facendogli segno di stare in silenzio mentre rimane a guardare la mappa, alzando dopo qualche secondo gli occhi dalla cartina per urlare qualcosa dentro al megafono.

«Gruppo Beta, c’è un possibile punto debole sul lato ovest della struttura, settanta metri di distanza dalla vostra posizione!»

Batman vede un gruppo di agenti all’entrata voltarsi verso di loro e annuire, fischiando con le dita per richiamare un paio di cani accanto a loro. Li vede iniziare a muoversi velocemente verso il lato sinistro dell’edificio, e solo quando anche l’ultima delle divise è scomparsa alla vista Yaku si volta, le dita di lato sulla tempia e gli occhi che si posano su di lui, allargandosi nel riconoscerlo.

«… Batman! Aspettavo tue notizie per Joker, dove–»

«Non sono riuscito ad ottenere la formula.»

Yaku lo scruta in silenzio, le sopracciglia aggrottate mentre resta in attesa di ricevere altre notizie al riguardo, ma quando capisce che non le otterrà nell’immediato si limita a sospirare, tornando a guardare la cartina che ha sotto gli occhi mentre la stanchezza torna a coprire come un maschera di cera il viso segnato dalla mancanza di sonno.

«Bene, mi racconterai dopo. Adesso abbiamo un altro problema di cui occuparci.»

Batman va a guardarsi attorno, notando nella confusione della battaglia un paio di pattuglie entrare all’interno dell’edificio principale di Terapia Intensiva del manicomio, scomparendo velocemente quando inghiottiti dalle grandi porte di metallo.

«Quanti sono?»

«Una quarantina, forse di più.»

«Tutti?»

«No, solo quelli che non siamo riusciti a riportare nelle loro celle. Molti piani li abbiamo già riportati all’ordine, ma quelli più in basso sono… Particolarmente impegnativi.»

Batman annuisce lentamente, voltandosi velocemente nel sentire una serie di spari rimbombare secchi da una delle ali più esterne dell’edificio, sulla parte occidentale.

«… Dannazione.»

Yaku impreca sotto voce prima di prendere il ricetrasmettitore palmare da dentro la macchina, componendo un codice di poche cifre poco sotto la radio mentre si porta rapidamente la cornetta nera e grigia vicino alle labbra, facendo attenzione a non allungare troppo il filo di collegamento alla radio della macchina.

«Gruppo Beta, aggiornamento.»

Si limita a dire, ma Batman riesce a sentire chiaramente il nervosismo dell’altro mentre rimangono in attesa, la radio della macchina che emette un rumore sordo e gracchiato come unica risposta alla richiesta di Yaku.

«Gruppo Beta, rispondete. Qui è il commissario.»

Ancora silenzio.

«Gruppo Betaaccidenti, qualcuno mi vuole rispondere?!»

«Vado a vedere cosa è successo.»

«No.»

Yaku lo ferma, lo sguardo che si alza di scatto a scrutarlo con austerità.

«Qualcuno deve andare, commissario.»

«Esattamente, io e i miei uomini. Ushijima, Iwaizumi, Semi–»

Dichiara secco, la mano che si alza nel tentativo di attirare l’attenzione di tre poliziotti ad un paio di macchine di distanza; Batman li vede voltarsi verso di loro, lo sguardo che passa da Yaku sino a lui, probabilmente notandolo per la prima volta. Se sono sorpresi però non lo danno a vedere, e dopo una manciata di istanti i loro sguardi corrono nuovamente e velocemente verso Yaku, in attesa di ordini.

«Preparate il gruppo Alpha. Stiamo entrando.»

Daichi li vede annuire tempestivamente prima di girarsi nuovamente in avanti, probabilmente andando a cercare gli altri poliziotti necessari al commissario per andare in missione. Batman nota la velocità con cui si allontanano dai veicoli, si avvicinano a gruppi di poliziotti, impartiscono ordini: nessun dubbio appartengano alla squadra del commissario. Con questo pensiero torna tornare a guardare il commissario, ora impegnato a stringersi in maniera più ferrea le cinghie che fissano il giubbotto antiproiettile al suo corpo.

«Non dovreste farlo.»

«Siamo gli unici che dovrebbero farlo, siamo stati addestrati per questo.»

«Questi criminali non sono come gli altri.»

«E noi non siamo cittadini come gli altri. Vorrei fosse chiara una cosa, Batman–»

Yaku sistema le pistole, caricandole e mettendo le ricariche di scorta negli spazi adibiti sulla cinta.

«Non ti ho chiesto di venire qui per lavorare al posto mio e dei miei uomini. Ti ho chiesto aiuto per lavorare con noi. Se credi questo non sia possibile dimmelo subito, ma sappi che noi entreremo lo stesso, con o senza te al nostro fianco.»

Rimangono a fissarsi in silenzio, entrambi nella speranza che l’altro cambi idea. Ma il terreno è a favore di Yaku: i poliziotti sono molti, e già troppi sono quelli entrati nella trappola conosciuta con il nome di Arkham Asylum; arrivati a questo punto, la GCPD tenterebbe un approccio meno di forza e più di cautela solo sapendo che tutte le persone mandate al suo interno siano senza alcun dubbio ancora vive, ma sono passati interminabili minuti dall’ultimo contatto avuto con la pattuglia entrata prima della squadra Beta e il silenzio, in questi casi, non porta mai lieti notizie. Batman può vedere i colleghi esprimere ad ogni loro movimento le stesse emozioni di un gruppo di compagni alla ricerca di vendetta per i commilitoni caduti ed è abbastanza certo che, se anche ora entrasse all’interno della struttura completamente da solo e con Yaku all’oscuro della cosa, passerebbe comunque poco tempo prima che un altro plotone di poliziotti lo seguisse nelle viscere dell’edificio, il commissario in prima fila e a mascella contratta, per cercare di arginare e soffocare il caos che imperversa nei piani più bassi.

«Batman–»

Yaku sta ancora aspettando una sua risposta, tuttavia non si volta a guardarlo, il viso che rimane fisso a scrutare l’entrata di Terapia Intensiva ormai lasciata completamente esposta e scoperta a incursioni ed evasioni.

«Fammi sapere quando partite.»

Dice solamente, e vede sott’occhio Yaku annuire mentre Daichi si volta verso la bat-mobile, il mantello che fa un arco largo nell’aria nell’assecondare il suo movimento veloce mentre una serie di pesanti passi si susseguono velocemente nel terriccio in direzione del bagagliaio, alla ricerca di armi da ricaricare e sostituire a quelle perse durante il duello con il Joker ed Harlee.

Quello che erano stati Joker e Harlee.

Batman non può fare di chiedersi se anche quella fine facesse parte del suo ultimo piano.







°°°°







GOTHAM CITY – Arkham Asylum

22/12/1976 – Notte



Era stato difficile riuscire a riportare una situazione di controllo all’interno della struttura.

I prigionieri si erano dimostrati a tratti accondiscendenti, a tratti difficili da trattare, ma per la maggior parte semplicemente incapaci di creare una conversazione con la polizia. Dopo essere stati richiamati all’ordine e incitati ad eseguire ciò che veniva chiesto loro alcuni avevano deciso di attaccare le guardie, avventandosi su quelle più vicine o sulle altre che avevano creato un cordone di contenimento attorno ai gruppi di internati rimasti, mentre altri avevano semplicemente tentato di affondare i loro denti nelle carni dei poliziotti, gridando frasi sconnesse e perdendo contatto con il terreno mentre si arrampicavano sui corpi delle forze atte a riportarli nelle celle.

Quando Batman ed il commissario erano arrivati all’interno della struttura, seguendo le urla disperate di alcuni sottoposti di Yaku precedentemente entrati al suo interno, avevano trovato una situazione difficile da gestire, seppure non impossibile: era stato necessario molto lavoro, molti uomini, e davvero un ammontare di tempo non indifferente per riuscire a riportare tutti i vari pazienti nelle loro celle, con il risultato che era stato possibile fare una stima dei dispersi e dei deceduti solo quando anche l’ultimo di loro era stato nuovamente trascinato nella sua iniziale postazione, contando i cadaveri ed identificandoli grazie alle cartelle cliniche presenti negli uffici del manicomio.

Mancavano una ventina di pazienti, più o meno.

E il nome di Serpe era fra questi.







«Ne siamo proprio sicuri?»

La voce di Yaku è greve e controllata mentre scruta con attenzione il foglio con i nominativi, ripercorrendo con gli occhi l’intero documento mentre ascolta le guardie carcerarie dare la loro conferma per quella che potrebbe essere la quinta volta, ma a cui probabilmente seguirà una sesta. Accanto a lui Batman vede il poliziotto dai capelli corti e scuri stringere le labbra, le palpebre che vanno a socchiudersi lentamente mentre le iridi rimangono puntate su una singola riga a metà modulo, e dal modo in cui la mascella rimane contratta ed i pugni vanno a chiudersi stretti e tremanti ai lati della carta non fatica ad immaginare quale sia il nome che abbia catturato la sua attenzione.

«Chiamatemi l'ispettore Iwaiz– »

«Signor Batman!»

Batman volta leggermente il viso nel sentirsi chiamare, e non tarda a notare tra la folla immobile una specie di piccolo turbo umano portarsi tutto di corsa nella sua direzione, un taglio scombinato di capelli color carota seguito da una chioma scura e corta.

Ah, Sugawara non sarà affatto contento di saperli ancora lì.

«Signor Batman come è andata dentro, ci sono tanti feriti!? È vero che alcuni pazienti sono scappati?! Cosa farete adesso?! La GCPD ha un piano per riprendere i fuggitivi, o avete intenzione di lasciare Gotham in balia di infermi mentali?! Ho sentito che il sindaco ha promesso ingenti fondi per qualsiasi distretto deciderà di appoggiare la sua campagna, a lei ha promesso qualcosa?! È vero quello che si dice sul vostro essere super partes nella nostra politica?!»

Daichi rimane in silenzio mentre viene raggiunto da quel concentrato di domande, e lo sguardo rimane puntato per qualche secondo sul ragazzo più basso prima di salire verso l’altro, scrutandolo da oltre la maschera e lasciando che questo vada a fissarlo a sua volta, l’espressione concentrata e la macchina fotografica Press meticolosamente stretta tra le mani.

Inizialmente sembrava almeno uno dei due non fosse interessato a quell’intervista: ora, dal modo in cui quegli occhi paiano tentare di scavare oltre la sua maschera, sembra che quel periodo sia ormai passato, e che entrambi si siano riscoperti estremamente bramosi dello scoop.

Non che possa dire di non riuscire ad immaginarne il motivo, dopotutto. Primo tra tutti il fatto che – nelle vesti di Batman – abbia sempre accuratamente evitato l’incontro con la stampa, preferendo lavorare nell’ombra degli alti palazzi anche al fine di rendere piuttosto difficile scrivere articoli su di lui che non si tuffino in ipotesi ed presunte supposizioni dopo le prime righe.

Ma questi sono tirocinanti di Koushi; già solo l’idea di riuscire a convincere un uomo come lui, capace nel proprio lavoro ma anche incredibilmente attento a mantenere circoscritti i costi atti a portarlo avanti, a prenderne due – e non uno – nell’arco di qualche settimana è piuttosto esplicito della potenzialità giornalistica che quei due ragazzini devono avere. Da quanto Daichi ne sa, infatti, i cronisti che Sugawara porta sotto la sua ala sono rinomati in tutta la regione per essere uomini e donne di grande talento e forza di volontà, e non sorprende molti tirocinanti sperino di conquistare il loro impiego alla The Gotham Times anche e soprattutto nella speranza di poter essere affiancati da una personalità come la sua.

«… Civili? Chi vi ha fatto entrare?! Questa zona è chiusa al pubblico!»

La voce di Yaku è un fulmine di baccano che interrompe qualsiasi tentativo dei giovani di fare il loro lavoro tuttavia, e quasi istantaneamente Daichi lo può vedere accorciare a larghe falcate la distanza tra lui e i due ragazzi, prendendo per la collottola il più piccolo e per una delle bretelle scure che indossa sopra la camicia celeste l’altro.

«Siamo giornalisti, non siamo civili! Ci lasci andare!»

«I giornalisti sono civili, ragazzino! Adesso andremo in centrale e mi spiegherete tutto, che ve ne pare?!»

«Centrale?! Questo è intralcio alla giustizia, la gente deve sapere la verità! Batm–!»

Batman li guarda muoversi velocemente, cercando di allentare senza successo la presa di Yaku su entrambi. Per quanto il responsabile del dipartimento della GCPD sia più o meno della stessa altezza del ragazzino dai capelli color carota, e quindi nettamente più basso rispetto a quello con i capelli neri come l’inchiostro, deve al momento star puntando uno sguardo abbastanza intimidatorio verso entrambi da non farli veramente sentire a loro agio nel loro tentativo di liberarsi: tentano una, massimo due volte, poi quelle prove diventano solo blandi tentativi di fargli allentare la presa, nella incerta speranza – forse – di farlo anche diventare più docile di espressione.

«Come posso fare intralcio alla giustizia, se sono il commissario?! Voi due–»

«Corruzione, corruzione! Aspetti lo sappia il signor Sugawara, vedrà come–!»

Non riesce nemmeno a finire che il ragazzo con i capelli neri gli tira un veloce calcio dietro il ginocchio, facendogli perdere per un secondo la tensione necessaria a stare su.

«Idiota, se lo viene a sapere il capo ci revocano il tirocinio, non ricordi cosa aveva detto su Arkham?!»

«… Vero– Aspetta che non lo sappia il signor Sugawara, allora!»

«Cosa dovrebbe anche solamente significarmi una frase simile?!»

Yaku ora è aggressivamente confuso, oltre che incredibilmente puntato nel suo nervosismo da mancanza di sonno causata dalla settimana impegnativa. I tre stanno ancora battibeccando quando Batman sente una piccola vibrazione espandersi dal polso della mancina, e lo sguardo cala in basso nel vedere una piccola luce rossa accendersi ad intermittenza accanto alla piccola radio che porta poco sotto il palmo, il piccolo schermo che segna un numero sconosciuto che richiede l’autorizzazione di entrare in contatto con lui.

Rimane un secondo in silenzio, alzando lo sguardo per posarlo sull’unico uomo non faccia parte della sua famiglia – o che non conosca la sua vera identità – che lo abbia mai contattato su quel profilo, prima di alzare il polso davanti al suo viso, premendo il tasto per l’attivazione del piccolo altoparlante.

«… Come–»

«Ohya, ohya~ allora Batman, tutto bene alla festa? Chi ha portato lo spumante alla fine?»





Non è possibile.











- - - - - - - - -

Quanto sono lenta?
Tanto. Ma sono giustificata! Sono sotto sessione estiva e ho iniziato le commissioni artistiche, quindi ho pochissimo tempo libero mannaggia. Ma! Ma ma ma ma! Sono qui.
Apposta per voi.
Perché vi voglio bene.
QUESTO ERA IL PENULTIMO CAPITOLO! Fatemi sapere impressioni, interessi, dubbi. Apprezzo tantissimo le recensioni e rispondo sempre a tutti! ♡ Che ne pensate della presenza di Tobio e Hinata? Non potevo non farli intervenire almeno una volta dopo tutto, sono troppo carini. Spero che siano anche abbastanza IC!
Scusate se questo capitolo dovesse avere molti errori ma la correzione è stata piuttosto blanda, e ammetto anche un po’ superficiale. Ma ero in super ritardo e non volevo peggiorare ancora di più e allargare le attese! Un bacio!
Alla prossima… Che sarà anche l’ultima! (ZAM ZAM)

Ps. Il titolo completo è: "Gli addii possono essere sconvolgenti, ma i ritorni sono sicuramente peggio". ♡

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Capitolo 18
*** Non è l'interezza della vita vivere ***


Esatto, questa sono io che decido di finire la storia dopo due anni di silenzio. (...) Se state davvero leggendo dopo un lasso di tempo così lungo, vi ringrazio. Sono accadute molte cose e la mia vita è cambiata drasticamente rispetto all'ultima volta che ho messo mano a questa fanfiction; forse anche per questo, quando è arrivato il momento di postare l'ultimo capitolo mi sono resa conto di non sentirmi pronta a chiudere questa storia, che rappresentava una parte di me che non ero disposta a veder scomparire, né che volevo tuttavia avere davanti agli occhi. Che essere strano che è l'uomo... Ora, finalmente, mi sento rappacificata con le mie aspettative e con la me stessa che ero anni fa, e sento di poter finalmente chiudere con questa fanfiction con l'amore e la nostalgia che si merita. Spero sarà lo stesso anche per voi.

 


 

18. Non è l'interezza della vita vivere

(né tutto della morte morire)

 
James Montgomery
 

 

 

GOTHAM CITY –  Arkham Asylum

22/12/1976 – Tarda sera

 

«Ohya, ohya~ allora Batman, tutto bene alla festa? Chi ha portato lo spumante alla fine?»

Quella voce.

«… Joker–»

L’intonazione di Batman è fredda, stonata rispetto alla tempistica di quella chiamata, sopraggiunta quando ormai si pensava di essere alla strofa finale di quella sfortunata esibizione. È solo una parola naturalmente, eppure solo nominarla sembra avere il potere di bloccare istantaneamente Yaku e i due giornalisti davanti a lui, prima di portarli lentamente a voltarsi. Lo fissano entrambi in silenzio, e come loro anche l’interlocutore dall'altra parte trattiene teatralmente il fiato per un paio di secondi, rimanendo in apnea nel tentativo di fingersi sorpreso della risposta ottenuta.

«Cosa?! Ero stato invitato, quindi? Ma senti, sei sicuro non sia solo un mio sosia? Perché in caso vorrebbe dire che sia io il sosia. Oddio, dimmi Batman, sono forse io il sosia?!”

Daichi non risponde, e nel silenzio del suo palcoscenico privato Joker scoppia a ridere, sguaiato e infrenabile nella sua pazzia.

«Ohya, spero che non ti lascerai ingannare, Batman~ Capisco che tu mi veda ovunque ma lo sai, non sono facile da imitare.»

«Come hai fatto a fuggire?»

Come ha fatto ad avere il numero di quel cercapersone, vorrebbe piuttosto chiedere. Ma ormai sono anni che ha a che fare con Joker, e per quanto non siano abbastanza per riuscire a capirlo – non pensa sia possibile farlo in ogni caso, anche passando un’intera vita a provarci – ha imparato come alcune domande siano inutili da fare a priori, sia perché destinate a rimanere senza risposta, sia per evitare l’accrescere smisurato e catastrofico dell’ego di un villano privo di regole o consapevolezze.

«Fuggire? Ohya~ intendi dalla mia industria? Diciamo che anche io ho cene a cui proprio non posso mancare. Pensa che erano così preoccupati del mio ritardo che mi sono venuti a prendere con una macchina volante! Nulla a che vedere con la tua, sia chiaro. Non fraintendermi, adoro l’atmosfera da cattivo ragazzo che la tua bat-cosa emana, ma è un po’ troppo scura per i miei gusti. Mai pensato di passare al rosso?»

Batman stringe le labbra, ignorando per il momento gli sguardi attraverso cui il commissario sembra stia prepotentemente esigendo di essere aggiornato: non vi sono dubbi che lo tempesterà di domande una seconda volta non appena questa pantomima di chiamata sarà terminata, probabilmente chiedendogli di ripetere per filo e per segno cosa sia esattamente successo all’interno delle industrie Sionis. Daichi non crede di avere tuttavia le risposte di cui Yaku sembra avere bisogno: gli ha già raccontato, in poche ma precise parole mentre stavano uscendo dal manicomio minuti prima, dell’incontro con il villano e di come lui stesso sia riuscito a scappare, e a giudicare dalla sua espressione sembra che anche lui avesse dato per scontato Joker fosse rimasto sepolto là sotto, mangiato dalle fiamme ed intossicato dal fumo.

Come risulta ormai evidente dalla chiamata, tuttavia, sottovalutare una persona pazza non è mai la scelta giusta.

«Ti direi di salutarmi Serpe, ma mi sa che ha già lasciato il tavolo vero? Ah, quanto è triste un addio... Mi spiace solo non siate riuscivi a incontrarvi. Colpa mia e di Harlee, non sappiamo mai quando mandare via i nostri ospiti!»

«Hai organizzato tu questa evasione?»

«Ohya? Quanta poca fiducia che mi dai, Bat-scettico?! E pensare che ero con te quando è successo, mi domando proprio come avrei mai potuto fare. E poi lo sai, io sono una persona che crede molto nella riabilitazione. Mi sono persino portato un dottore via, per averne sempre uno a disposizione per le mie sedute psichiatriche! Ma ora vado, devo mettere cose in forno e il tempo è poco, sia mai faccia attendere i miei ospiti!»

«Joker, come hai avut–»

Un rumore fragoroso ed improvviso porta Batman a smettere di parlare, e forse più per istinto che per reazione cosciente va ad allontanare appena il braccio dal viso, aggrottando le sopracciglia nel sentire il battente e metallico suono che ha inaspettatamente inglobato la chiamata.

... Eliche?

«Non ti sento, Bat-Musone, perché non ti appunti la domanda da qualche parte? Prometto che la prossima volta ti dedicherò tutto il tempo di cui hai bisogno! Tanto lo sai, non posso vivere lontano da te~!»

Batman sente l’ultima volta la risata sguaiata scivolare fuori dall’apparecchio prima che la chiamata si ammutolisca del tutto, e dopo aver abbassato appena il braccio lo sguardo cade verso Yaku, scoprendolo a fissarlo insieme a tutti i poliziotti vicino.

Dovrebbe dire qualcosa forse, ma la verità è che non c’è nulla da dire.

Non c’è mai nulla da dire, in giornate come questa.

 

Gotham ha affrontato una lunga notte, ma è finita. La città respira nuovamente, seppure in maniera affrettata ed irregolare, quasi come fosse una donna annegata e contro ogni probabilità ridestata: confusa, sorpresa persino, ma ancora in vita. Ancora una volta si è trovata in difficoltà, intrecciata al destino che lega quei demoni che hanno tentato di inabissarla ai suoi oscuri salvatori, grezze macchie d’inchiostro nate da quel terreno arido di virtù e nobiltà. Eppure, e ancora una volta, mentre persa e quasi preda delle ombre di quelle catene scure che la tengono ancorata tra la vita e la morte, ha visto un barlume di speranza e si è sporta verso di esso, liberandosi – o forse semplicemente allentando la presa.

E questo perché Gotham è, prima di tutto, i suoi cittadini.

Cittadini che continuano a portarla sull’orlo del baratro solo per tirarla all’ultimo nuovamente via, desiderosi di combattere per l’anima di quella città che si ritrova ad essere ancora una volta appagata del caos che la compone, soddisfatta dell’ordine che il vivere la sua oscurità comporta.

Poiché tutti sono parte della sua esistenza, tutti sono sangue che scorre caldo nelle sue vene e che rende possibile la sopravvivenza al freddo della notte:

Persino i criminali vivono, e così vive la città.

E poiché la città vive, così vive Batman.

 

 

«… Ma non muore mai?»

La voce di Yaku riporta Batman alla realtà, ma invece di guardarlo Daichi alza il mento a studiare la notte, accompagnata dalla pallida luna e dalle poche stelle che macchiano il cielo della luminosa metropoli.

«Il problema è che risorge sempre.»

 

 

°°°°

 


GOTHAM CITY –  Unknown

22/12/1976 – Notte

 

Ohya~, mannaggia, non ce l’ha proprio fatta a trattenersi: era così emozionato per quella chiamata così intima che la mano gli è scivolata sulla porta scorrevole alla sua sinistra, e subito dopo sul colletto del primo tirapiedi che ha trovato accanto. È stato un attimo, e forse il proprietario di quel colletto ha persino tentato di soffocare qualche urla mentre veniva sporto verso l’ignoto, un centinaio di metri tra lui e il fiume. Ora quel tirapiedi non c’è più e la porta è stata richiusa, alleviando nuovamente il rumore delle eliche che lo stanno conducendo verso la meta: non vorrebbe essere troppo ottimista ma gli sembra davvero la giornata stia continuando a migliorare!

Sotto di loro, il South River scivola silenzioso dentro il suo letto umido, riflettendo la pallida luce della luna; ogni piccola ondulazione ne increspa le onde scure, e i pallidi spettri delle luci notturne creano riflessi che vanno a tingere per un istante il vetro del veicolo di un freddo colore bluastro.

Joker chiude la chiamata, il sorriso ancora presente sul volto mentre abbassa la radio dell’elicottero, passandola nuovamente al conducente del mezzo. Si rigira nel frattempo un piccolo batarang tra le dita della mancina, facendo perno con l’indice ed il pollice sulle ali metalliche mentre piega il polso per poterlo vedere da più angolazioni: il nero rigato di quel piccolo souvenir viene velocemente coperto da calde gocce rosse che iniziando scivolare via dai polpastrelli, e Kuroo le guarda affascinato mentre rotolano lacrimanti sulla superficie della piccola arma, creando una curva rosso cremisi su quel profilo nero pece.

Sorride maggiormente, piegando la mano e facendo spostare il sottile rivolo in direzione del pollice, prima di girare in orizzontale il pipistrello e lasciarsi andare ad una risata sguaiata al vedere la forma di un sorriso stilizzato e sanguinante sovrapporsi a quella nera ed originale del batarang.

«Ah~ è proprio vero che questa città non è abbastanza grande per due maniaci omicidi.»

Dichiara infine, e mentre lo dice va a stringere le dita attorno al batarang, il sangue che filtra dagli incavi lasciati scoperti gocciolando verso il pavimento in metallo. La mano trema di riflesso alla forza della presa che va via via ad aumentare, e le nocche si sbiancano per lo sforzo sino a quando il batarang non viene lasciato cadere inaspettatamente a terra, la mano sanguinata che viene portata tra le ciocche nere pece a tirarle indietro, inumidendole e dando loro sfumature rosso cremisi. Si gira verso Harlee, seduto accanto a lui ed intento a disegnare qualcosa sulle pistole che porta in grembo, e si piega verso la sua figura esile, facendo perno sullo schienale del sedile per permettere al busto di curvarsi e ridimensionare la differenza di altezza.

«Le hai finite tutte?»

«–Sì.»

Kenma risponde dopo qualche istante, il tono privo di espressività mentre apre la canna delle due pistole, alzando le mani e facendo scivolare gli ultimi bulloni vuoti a terra. Sente il pilota del mezzo dire qualcosa alla radio, probabilmente tenendosi in contatto con qualcuno per assicurarsi di avere la pista di atterraggio libera, ma sinceramente non gliene importa poi molto di cosa stia dicendo al momento. Non esiste nulla che una pallottola in testa non possa in caso risolvere, e per quello c’è sempre tempo una volta che saranno scesi dalla vettura.

«Mhm~ Ma quanto sei bravo, micino. Vieni qua.»

Decide invece di rimanere focalizzato sul ragazzo accanto a lui, soffiando con voce bassa e calda verso la guancia del compagno mentre porta la mano ad avvolgerne il fianco, avvicinandoselo maggiormente. Sorride lascivo mentre sente il tessuto sulla gamba del minore strusciare contro il suo nel mettersi a cavalcioni, e piega il collo mentre avvicina il viso verso Harlee, rimirando per qualche secondo i suoi lineamenti delicati e le labbra morbide e rosate.

Ah, sarebbe decisamente un peccato ucciderlo. Quelle guance tenere sono così deliziose quando vengono arricchite da qualche graffio qua e là, e i granelli di polvere rimasti intrappolati tra le sopracciglia lunghe e scure dopo la loro gita alle rovine della Sionis... Dio.

Joker si sporge a baciarlo, anche se forse sarebbe meglio dire braccarlo, e lo sente subito ricambiare, la mancina del più giovane che va a posarsi dietro il suo collo mentre la destra, delicata, scivola sul lato inferiore della sua guancia. I polpastrelli freddi e morbidi di Harlee sfiorano il punto ove la tinta rosso scuro crea un fantasma di sorriso sulla pelle liscia, e nel sentirglielo fare Joker viene sedotto da un’ondata di adrenalina: schiude le labbra, portandosi con prepotenza dentro quella bocca piccola e silenziosa, divorandolo mentre viene preso da una fame arida e prepotente.

Ah, suo.

Le mani dell’altro scivolano più in basso, e Joker si lascia andare a un ansimo roco mentre i palmi piccoli e gelidi di Harlee seguono il battito bollente e frenetico attraverso le vene del suo collo.

Suo, suo!

Suo, suo, suo!

Suo suo Suo sUO suo sUo Suo suo Suo sUO suo sUo Suo suo Suo sUO suo sUo Suo suo Suo sUO suo sUo Suo suo Suo sUO suo sUo Suo suo Suo sUO suo sUo SuO

SUO

MIO!

MIO mIO mio MIO!

MIO!

«Se avete finito, penso sarebbe il caso di parlare di Serpe.»

Dio, odia quando la gente lo interrompe nei suoi momenti di divertimento. Dopo tutto quello che fa per rendere tutti felici, non si merita forse anche lui un poco di svago per sé?

Ah, mannaggia: è così difficile essere un eroe.

Joker socchiude gli occhi, riconoscendo una macchia di verde marino inserirsi forzatamente nella sua visuale, prima che le palpebre tornino tranquillamente a richiudersi, il viso che viene piegato maggiormente nel tornare a dare attenzioni al ragazzo sedutogli addosso.

Dio, potrebbe spezzarlo così facilmente. La sola idea basta a provocargli una nuova ondata di eccitazione al pari di una droga, le mani che spaziano sotto la giacca blu e rossa del più giovane, superandola velocemente e facendo lo stesso con la maglietta che l’altro indossa al di sotto. Va a tirare con le dita i buchi sfilacciati in giro sul tessuto, beandosi di quelli nuovi creati durante l’ultima battaglia, e appena sente l’umidità calda delle ferite ancora fresche porta le dita a piegarsi verso l’interno, premendo contro i tagli che si celano al di sotto, la pelle calda attorno alla ferita che opporre resistenza all’inaspettata pressione.

Harlee soffia qualcosa contro la sua bocca, le sopracciglia che si aggrottano e le dita che scorrono velocemente dietro a tirargli con un certo disaccordo i capelli alla base della nuca, e le labbra di Joker si aprono in un ghigno irridente nel mentre riapre appena gli occhi, scontrandosi con quelli liquidi e giudicanti del compagno.

Ah, se non fosse matto potrebbe quasi apprezzare l’assurdità di quello che sta pensando: perché come può un povero cristiano come lui, sbattuto senza arte né parte in un mondo tanto spietato e insensato da permettergli di girare a piede libero per la felicità della stampa e per l’intrattenimento del pubblico, arrivare a pensare che il provocare reazioni in un altro essere senziente sia una delle cose che più lo soddisfino sulla terra? Perché si ritrova a cercare reazioni di qualsiasi tipo, quando è chiaro causare dolore sarebbe abbastanza per chiunque altro?

Deve essere questa una delle realtà più ineludibili della follia, della casualità e della futilità dell'esistenza umana: lasciato in un mondo psicotico come questo, uno come Joker, dalla personalità che alcuni definirebbero eclettica ed esagerata, altri (i soliti noiosi strizzacervelli di Arkham, ad esempio) deformata da una eccedenza di reattività verso il mondo esterno o qualche forma avanzata di TSE, ha trovato la sua fissazione in un ragazzo che sembra essere completamente disinteressato a qualsiasi cosa il mondo abbia da offrire, apatico dinanzi alle novità come anche alle abitudini, impigrito dall’universo ed indifferente agli esseri umani.

Permettete dunque a questo povero ed umile uomo di ripetersi: quale assurda, bizzarra barzelletta è ai suoi occhi l’esistenza umana, in questo momento!

« –O magari potremmo parlare del suo arrivo all’isola di Tricorner, dove vorrei ricordarti stiamo andando anche noi.»

Joker sorride nel sentire il terzo ospite dell’abitacolo continuare a parlare, e stavolta si allontana leggermente dal ragazzo davanti a sé, le dita che scivolano verso il suo volto fino a fermarsi alla base del collo. Lo allontana il sufficiente da permettere alle sue iridi di scrutarne i tratti morbidi ed aggraziati, ed il sorriso si fa più ampio e distorto mentre i due pollici vanno a posarsi agli angoli della bocca di Kenma, facendoli scorrere sulle gote ad imitare la forma del trucco ancora parzialmente presente sul suo viso.

«Perché sei così serio?»

Sussurra, e nel mentre lo dice il suo respiro caldo scivola verso le labbra del compagno, superando facilmente quei pochi centimetri che li separano.

Ah, quale assurda ed amara barzelletta è l’esistenza umana, davvero.

« –E dove, sempre Serpe, potrebbe essere in attesa di lasciarti un buco in fronte.»

Ah, finalmente; iniziava a pensare non avrebbe mai trovato un vero motivo per dare attenzioni a quella conversazione.

Joker si volta finalmente a guardare l’interlocutore fino ad ora ignorato, la lingua che viene fatta schioccare lesta contro il palato mentre le mani rimangono a raccogliere il piccolo viso di Harlee. Le iridi scure vanno a studiare brevemente la giacca verde indossata dalla persona ora davanti ai suoi occhi, passando poi ai guanti, alla cravatta ed alla mascherina viola, parzialmente coperta da un paio di occhiali. Non può vedere la schiena dell’altro da quella posizione, ma non ne ha bisogno: si è trovato in presenza di quel brontolone un numero sufficiente di volte da ricordare l’enorme punto interrogativo che si porta stampato dietro, non dissimile a quello del bastone che ora giace abbandonato in un angolo dell’elicottero.

Ma guardatelo: passano gli anni, eppure l’enigmatico collega continua a rimane l’esempio migliore di cosa voglia veramente dire indossare un capo ever-… green.

«Ohya~ sei preoccupato per me Enigmista? Potrei commuovermi.»

 

°°°°

Enigmista

Professione: Criminale Professionista
Vero Nome: Kei Tsukishima
Aspetto: Uomo, capelli biondi, occhi mielati, occhiali da vista dalla montatura scura
Caratteristiche: Mente geniale, mancanza di empatia verso gran parte del genere umano

°°°°

 

«Difficilmente. Ma i miei sottoposti continuano a chiedermi cosa succederà quando arriveremo, ed io vorrei evitare di sporcare l’elicottero se questo dovesse accadere.»

La risata di Joker scoppia inaspettata ed entusiasta, ma l’Enigmista sembra non trovare la cosa altrettanto divertente mentre rimane immobile a fissarlo. La mano va invece ad alzarsi lentamente, permettendo alle dita di avvicinare maggiormente le lenti degli occhiali al viso.

«Sempre così serio– eppure dovresti saperlo, Enigmista, non sei mai completamente vestito senza un sorriso!»

Un’altra risata, a cui risponde un altro lungo silenzio da parte del collega.

 «Mhm~ Però conoscere il giorno e l'ora della propria morte darebbe una certa serenità, non credi anche tu? Ecco perché preferisco fare annunci pubblici quando sto improvvisando qualcosa a Gotham: non so con quale coraggio mi si dica che non tengo a quelle persone!»

«Allora non ti disturberà se ti lascio dall’altra sponda del fiume così tu possa arrivare da solo al tuo funerale.»

Joker inclina il viso, gli occhi che non smettono di puntare l’Enigmista mentre l’ombra del suo pazzo sorriso continua a stridere con l’inespressività dell’altro. Una mano va poi ad allontanarsi dal viso di Harlee, andandosi a poggiare sullo schienale del sedile.

«Come mai? Già pentito di avermi tirato fuori dalle industrie, Indovina-Chi?»

Il braccio di Kuroo è steso, la mano posata sulla spalliera così vicina alla spalla dell’Enigmista che gli basterebbe allungare appena l’indice di lato per sfiorarlo; sembra pensarci su, in effetti, ed il polpastrello si alza appena dalla pelle usurata del sedile, rimanendo a mezz’aria quasi stesse tastando il terreno.

Quanto in là gli sarà possibile spingersi?

Quanto è effettivamente spesso il muro innalzato da quell’uomo vestito di verde?

«La prossima volta preferirei essere avvisato del fuoco.»

«Mhm? Come mai lo dici come se fosse colpa mia? Come se fossi il colpevole, io

Allunga l’indice mezzo centimetro più avanti, e il busto dell’Enigmista si sposta impercettibilmente di lato, allontanandosi dallo schienale e sporgendosi parzialmente in avanti.

Ah.

Il sorriso ferito di Joker si schiude maggiormente in una smorfia saccente e divertita: oh, quindi quello è il limite del suo spazio personale? Ma che peccato, a saperlo prima.

Kuroo piega l’indice, ritraendolo nuovamente mentre vede l’altro fingere noncuranza attraverso il suo sguardo indolente.

«Lo sei?»

«Ma come, allora vuoi ferirmi davvero. Mi sembra ovvio sia io la parte lesa: dopo tutto erano le mie industrie quelle andate a fuoco, sarebbe da pazzi sabotare se stessi.»

Esclama amareggiato, la mano che va nuovamente a muoversi in aria mentre inclina con svogliata e stanca teatralità il polso che la sostiene.

Ma è un istante. Come se quell’intuizione dolorosa fosse stato solo un battito di ciglia sbagliato Joker torna a sorridere, e nel mentre lo fa la mano sul collo di Harlee va a posarsi dietro la nuca dello stesso, attirandolo maggiormente a sé sino a fargli posare una guancia morbida sullo sterno, poco sopra il punto ove si incontrano le clavicole.

«Non sapremo cosa accadrà finché non arriveremo, in ogni caso: è inutile lamentarsi adesso. Se mi vorrà uccidere, dovrò ucciderlo; se non mi vorrà uccidere, forse lo ucciderò io! Sarebbe un peccato, certo, ma vedi che ci berremo su un giorno!»

Continua, e nel mentre lo dice lo sguardo scivola verso il basso, il naso che sfiora le radici scure dei capelli di Harlee, inspirando leggermente e sorridendo nel sentire l’odore mischiato delle polveri da sparo e di quelle della Sionis stuzzicargli le narici.

Può quasi sentire sulla lingua il sapore di tutte quelle sostanze, e basta quello affinché tutto gli torni alla mente: le urla degli uomini sotto il fuoco, l’aria densa di fumo impossibilitato ad uscire a causa della fuliggine accumulata nei camini e il calore soffocante dell’incendio e delle esplosioni.

… –Dio, tutta quest’eccitazione potrebbe farlo impazzire.

Se solo potesse vedere Gotham impazzire insieme a lui.

«Ohya, ohya!»

Joker rialza il capo velocemente, voltandosi verso l’Enigmista a guardarlo da oltre la disordinata collinetta formata dai capelli di Harlee, le iridi scure che studiano placide e languide quelle castane della controparte.

«Come sono poco riconoscente: tra tanti tentativi di omicidio, mi stavo scordando la parte più importante!»

Continua, ma prima che possa dire effettivamente altro torna a silenziarsi senza preavviso, come in attesa di qualcosa; un qualcosa che pare ottenere solo quando l’altro aggrotta leggermente le sopracciglia, esprimendo una mancanza di pazienza giunta ormai al culmine.

Ah, una reazione.

Le labbra del Joker si schiudono nuovamente, assecondando con la loro piega ferina. Ora può decisamente continuare, cosa stava dicendo–?

«Cosa volevo– ah! Come dicevo, quella formula che mi hai passato non era male. Un po’ deboluccia forse, speravo in più scena, più morti, più disperazione! Sai per caso il motivo per cui abbiano scoperto la cura così in fretta, mhm?»

«Come pensi possa saperlo.»

«Oh, non fare il punto e virgola adesso, che le cose lasciate a metà non piacciono a nessuno. Ammetto comunque che fosse un buon inizio. Quindi dimmi un poco, come ne sei venuto in possesso?»

Oh, non si è sbagliato, può decisamente vederlo. Può chiaramente vedere l’istante stesso in cui qualcosa all’interno dell’Enigmista vacilla appena, seccato e istintivamente timoroso di aver inavvertitamente lasciato scoperto al tocco del Joker qualche nervo di troppo. Si riprende velocemente però, ed in un misto di instabile divertimento Kuroo lo guarda mentre l’altro rimane in stoico silenzio, la testa che va ad inclinarsi verso l’esterno e gli occhi che si puntano fuori dal finestrino, lontani da quelli dell’altro e chiaramente non propensi a dargli più alcuna attenzione.

Una risata fende la sera.

«Un segreto, mhm~? Mi piacciono i segreti, vedi solo di non averne mai quando riguardano me. Dopo tutto sarebbe un peccato dover tagliare via quella bella testa. Comunque–»

Fa un istante di pausa, e nel mentre abbassa lo sguardo verso il ragazzo ancora seduto a cavalcioni su di lui, passando distrattamente la mano dietro la piccola nuca e tra i lunghi fili biondi che la coprono copiosamente, giù sino alle punte blu e rosate.

«Come equazione è migliorabile, ma c’è tempo. Ah, se solo Batman fosse qui sarebbe così felice di vederci lavorare insieme. L’attività di gruppo migliora i rapporti interpersonali, sai Enigmista? Anche questo me lo hanno spiegato durante il mio pernottamento ad Arkham.»

Continua, e nel mentre la mano scivola in basso, oltre il collo di Harlee e lungo le vertebre che riesce ad intuire sotto gli strati di carne e vesti che ne ricoprono lo scheletro. Raggiunge il fianco, fermandosi proprio al limitare della curvatura e poco sotto il bacino, e da lì dà due leggeri colpetti, chiedendo distrattamente all’altro di spostarsi. Harlee sembra intuirlo velocemente, eppure aspetta comunque qualche secondo a metterlo in pratica, impigrito da quella mescolanza di fattori che tutto a un tratto sembrano essere dalla sua parte: la posizione comoda, i passivi e forse inconsapevoli vezzeggiamenti di Joker in quel raro episodio di multi-polarità positiva, e non per ultimo il calore sprigionato dal criminale, caratteristica che ha portato Harlee ad adottare istintivamente – e proprio come fosse un piccolo gatto da appartamento – l’idea di sonnecchiare addossato ad un grande termosifone a grandezza umana.

Deve essere difficile per lui, o almeno Joker può solo immaginarlo, ma alla fine Kenma alza una gamba e poi l’altra, il peso che scompare del tutto dalle gambe di Kuroo, lasciando però un fin troppo fastidioso senso di freddo. Non è la prima volta che succede – né probabilmente l’ultima –, ma quella non novità sembra essere davvero fastidiosa quel giorno, per qualche motivo. Ed è per questo che, invece di tornare a parlare con il collega, allarga leggermente le gambe, le iridi scure che scivolano sul compagno. In attesa. E Kenma pare non aver bisogno di tradurre il gesto: non ha fatto in tempo a vederlo sollevarsi dalle sue gambe che lo stesso fa perno sul ginocchio, girando su se stesso sino a dargli le spalle, scivolando fra i suoi arti inferiori e facendosi spazio al meglio. Lo vede e sente indietreggiare il giusto e, una volta soddisfatto della posizione raccolta, alzare le ginocchia al petto, attendendo Kuroo avvicini il suo petto alla piccola schiena scoperta.

«Non ti facevo da rapporti interpersonali.»

La voce dell’Enigmista è priva di qualsiasi empatia mentre pronuncia quelle parole, e Joker sorride maggiormente mentre porta in avanti il busto, posando il viso sulla testa di Harlee e le braccia in avanti, a chiudersi leggermente attorno al compagno.

«Ohya– Che devo dirti? Sono tipo da molte cose! Sono abbastanza sicuro di essere stato anche sposato, in uno dei miei passati. Chissà! A volte lo ricordo in un modo, a volte in un altro... Se proprio devo avere un passato, preferisco avere più opzioni possibili!»

Ride di gusto nel dire quella cosa, entusiasta per una conversazione che avviene più a senso unico di quanto gli interessi effettivamente notare, e la sua risata per qualche secondo è capace di superare persino il rumore persistente delle eliche che lavorano sopra di loro. Sente davanti a sé il minore muovere qualcosa di metallico davanti a lui, e poco dopo una serie di pallottole scivolano fredde contro il lato interno del suo ginocchio mentre Kenma ne prende una ad una, inserendole nel tamburo della pistola mentre conta a bassa voce.

«… Due–»

«Sai qual è la parte più divertente, Enigma? Che è tutto una barzelletta, una demenziale battuta! Perché non importa quante volte il sole sorgerà di nuovo su Gotham, basterà la certezza che lo faccia per fare in modo la gente dimentichi tutto, affinché le loro piccole ed insulse vite prendano ipocritamente il sopravvento sulle morti che ci sono state oggi!»

La risata è ancora una volta quasi d’obbligo, le braccia che si piegano a circondare i fianchi snelli di Harlee mentre il viso del Joker si abbassa di lato ad immergersi nell’incavo del collo dell’altro. Inspira profondamente, soffocando uno sbuffo divertito all’interno della stoffa del colletto e strusciando velocemente la punta del naso contro la stessa, prima di rialzare il viso e tirarsi nuovamente indietro, le narici che si dilatano nel saggiare nuovamente l’aria libera dagli umori del compagno.

«E allora, proprio allora, quando il ricordo sarà passato e tutti si sentiranno al sicuro nelle loro case e con i loro familiari, solo allora inizierà un nuovo spettacolo! Resterai qui per vederlo, spero?»

Joker quasi lo urla, cavalcando l’onda di un entusiasmo privo di ogni logica o frontiera, e le braccia vanno ad alzarsi e tirarsi i capelli indietro, il tintinnio dei proiettili che Harlee va a posizionare nel tamburo della seconda pistola che vanno a scindere con irregolarità i secondi di silenzio che seguono. L’Enigmista non ribatte subito, rimanendo immobile per istanti interminabili; poi, lentamente, le sue iridi slittano poco più in basso, andandosi a posare sul caschetto biondo con espressione superficialmente indifferente, l’attenzione che scivola dalla pistola carica che Harlee ha messo da parte qualche momento prima a quella che ha ancora tra le mani.

«Dipende dallo spettacolo. Alcune persone di Gotham valgono più di altre.»

Commenta infine, e per un flebile momento quella frase sembra essere preludio di qualcosa di ben più grande di una semplice risposta, una promessa, una richiesta che nessuno in quell’elicottero sembra davvero intuire. Eppure: eppure le mani di Harlee si fermano, le dita lunghe e sottili che rimangono sul posto mentre metà testa del proiettile è già all’interno del suo comparto. L’Enigmista resta immobile mentre quelle iridi mielate si sollevano appena, andando a scrutarlo in silenzio da oltre il morbido filtro biondo offerto dai capelli. I loro sguardi si incontrano, il castano indolente di Tsukiyama con il miele apatico di Kenma, e l’Enigmista si sente per un istante scoperto, nudo di fronte a quello sguardo che, nella sua mancanza di espressione, sembra riuscire a vedere oltre il suo muro di indifferenza, scavando indegnamente nella sua intimità sino a trovarla: la sua eccezione, quella persona di Gotham che vale più di altre.

Un’eccezione che trova i suoi contorni in una costellazione di lentiggini, in due occhi del colore della primavera ed in una promessa che profuma d’estate.

A volte l'eccentricità di Joker tende a far distogliere l'attenzione dalle vere capacità della persona con la quale si accompagna. Ma nemmeno il tempo di ricordarselo che è ormai troppo tardi: basta un istante, e Tsukishima sente come se Harlee avesse già scavato nel terriccio denso della sua mente, cacciando come fosse un piccolo predatore le sue insicurezze e uscendo con tesori ben più preziosi e pericolosi di quelli materiali. I suoi pensieri.

Anche l'Enigmista ha qualcuno che non vuole perdere. E Harlee sembra averlo intuito lì dove tutti gli altri non ce l'hanno fatta.

Il viso di Joker rimane puntato a fissare sott’occhio il giovane uomo vestito di verde. Le labbra si schiudono in un sorriso tagliente nel vedere il modo in cui l’altro guarda Harlee, eppure dopo qualche istante torna a parlare come nulla fosse, il volto che va a portarsi nuovamente in avanti.

«Sarà un bellissimo spettacolo. Saremo tutti attori, e saremmo tutti spettatori: che genialità, che pazzia! Spero Batman non avrà da fare, forse sarà meglio mandargli un messaggio? Non vorrei prendesse impegni per il nostro debutto.»

È un secondo: Harlee che smette di contare, l’Enigmista che torna a guardare il villano dalle labbra colorate dei sangue, ed il Joker che scoppia a ridere ancora una volta, raschiando la notte cullata dalle poche stelle e dall’ampia oscurità.

 

°°°°

 

Su tutte le guide turistiche di Gotham City c'è lo stesso consiglio: "Visitatela in inverno."


Tutti pensano si tratti della neve, e di come quell’agglomerato di acqua ghiacciata cristallina – solita posarsi sulle strade e sui tetti della cittadina già dai primi di novembre, non lasciandoli sino alla fine di febbraio – faccia sembrare la città "immacolata", "luminosa" e "nuova". Se si legge tra le righe, tuttavia, non faticherete a trovare la vera motivazione che si cela dietro quella richiesta spassionata, la necessità di quella metropoli selvaggia, strana ed affamata.


Ogni città ha una sua personalità. Ed agli abitanti di Gotham piace pensare che una determinazione incontrollabile sia quella che guida la loro. Perché Gotham è una città che non ha mai mollato, che non ha mai fatto la vittima. È una città abituata a stare da sola e che accetta l'essere temuta, malignata e dimenticata. È una città che pensa a se stessa, anche quando il peso di quel pensiero è troppo grande.


Quello che vogliono dire, è che bisognerebbe visitare Gotham quando la vera città è coperta.

 

AH AH AH AH AH!

 


 
E con questo, la storia è veramente conclusa. Questo capitolo è quello che, più di tutti, riprende direttamente dai fumetti di Batman numerose citazioni: l'intera fanfiction dopo tutto era nata come un omaggio a questo mondo, quindi spero davvero che il risultato sia stato, se non di farvi affezionare, almeno di farvi incuriosire riguardo l'ambientazione spettacolare che è Gotham. Concludo dicendo che non avrei mai, mai potuto completare la storia senza inserire Tsukishima, e spero che la sua presenza abbia anche aiutato a capire meglio il ruolo di Yamaguchi. Alla fin fine, sotto sotto, tutta la storia gira attorno agli studi che lui e Tsukishima fecero in passato, quindi nonostante il tempo che hanno effettivamente passato sullo schermo sia piuttosto limitato, la loro presenza in questa storia è stata fondamentale.

Vi ringrazio davvero per aver seguito questa storia fino alla fine. Davvero. E' la prima long fiction che invio e non mi aspettavo di ricevere tanto amore, quindi permettetemi ancora una volta di ringraziare tutte le persone che l'hanno messa nei preferiti, commentata, seguita o altro: se questa storia ha una fine, è grazie a voi.

Vi voglio bene.


Anastasia

 

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