Like an Astronaut

di _Lady di inchiostro_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 9163 
Prompt/Traccia: “Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?” (Matrix)




 
Capitolo primo
~
Atto primo






Era la prima volta che gli capitava di sognare una cosa del genere.
Si trovava sopra la vetta di una montagna, e un paesaggio bellissimo si estendeva davanti ai suoi occhi, le acque di quello che sembrava un mare che splendevano sotto i raggi del sole. Tutto aveva le sfumature brillanti del verde degli alberi e del rosa degli ultimi raggi che stavano per scomparire in lontananza.
Ammirò la scena, estasiato, lasciandosi sfuggire un verso di stupore.
Eppure, non era il solo che stava ammirando quello spettacolo. Si rese conto di essere in compagnia quando si guardò intorno, notando che dietro di lui c’era un enorme cratere, e se ci fosse caduto dentro sarebbe stato risucchiato per sempre dall’oscurità.
Un ragazzo della sua età si trovava a pochi metri da lui, ed era totalmente perso ad osservare ogni minimo particolare per accorgersi della sua presenza.
Si avvicinò, inclinando la testa, e solo allora quello sobbalzò, aggrottando subito le sopracciglia.
«Chi sei tu?» soffiò.
«Sai… potrei farti la stessa domanda.»



*


Sibun, a quaranta anni luce dal Sistema Solare



«Shimizu-san!» Una piccola ragazza, i capelli biondi e corti raccolti con una pinza alla bell’e meglio, si stava sbracciando per farsi notare dall’amica, che stava correndo all’impazzata verso di lei.
Si fermò pochi minuti dopo, respirando a tentoni e prendendo profonde boccate d’aria. «Scusate il ritardo!» disse, quando riuscì a parlare, cacciando in gola fiotti di saliva.
Tutti, all’interno della scuderia, le sorrisero, per poi tornare a guardare la scena sugli schermi. Il Team Principal, Keishin Ukai, si limitò solo a guardarla di traverso, teso più che mai; solo Takeda-sensei, il direttore tecnico, le sorrise e la salutò con un cenno della mano.
«Come sta andando?» chiese, serissima.
«Kageyama e Hinata si stanno contendendo il terzo posto; Daichi e Asahi sono rimasti indietro, e Tanaka è uscito fuori pista» rispose Yachi, spostando lo sguardo sul pilota in questione. Stava mormorando qualcosa tra i denti, probabilmente qualche insulto ai restanti piloti rimasti in gara.
Il fatto che non avesse tentato di saltarle addosso come era sua solito voleva dire che era fin troppo concentrato sulla gara per pensare a lei, al momento. Si avvicinò accanto a lui, mettendogli poi una mano sulla spalla. Quest’ultimo divenne rigido, le spalle che quasi tremarono. Conosceva fin troppo bene quel profumo…
«Non è colpa tua» gli disse.
Bastò quello perché Tanaka scoppiasse a piangere dalla gioia, asciugandosi le lacrime col braccio. «SHIMIZU-SAN!» Andava blaterando, seguito a ruota da Nishinoya, uno dei collaudatori, che non poteva fare a meno di invidiare l’amico.
«Vedete di tardavi una calmata, voi due!» urlò Ukai, la sigaretta ancora tra le labbra, seppure fosse spenta da un pezzo.
Un rombo a loro familiare li fece riscuotere, e tutti si voltarono quasi in contemporanea verso la pista: il tetto di plastica sintetica la ricopriva per intero, ma era comunque possibile vedere quello che succedeva dall’interno, la gente sugli spalti che si era alzata in piedi, incitando i concorrenti. Una navicella di colore bianco e azzurro stava per superare una di colore bianco e viola.
«Oikawa vuole soffiare il primo posto ad Ushijima…» mormorò Sugawara, il capo della squadra di ingegneri che gestiva la manutenzione delle navicelle.
Diventare un pilota da corse, su Sibun, aveva una notevole importanza: era l’evento sportivo che la popolazione aspettava con trepidazione, e ogni anno le varie scuderie eleggevano i loro piloti migliori, nel tentativo di superare i due gironi di qualificazione e arrivare in finale, dove a gareggiare sarebbero stati i migliori tre. Ed era per quella ragione che l’intera scuderia Karasuno era tesissima, perché ne valeva della loro fama oramai perduta da anni, una posizione in finale contava più di qualsiasi altra cosa.
Alcuni spostarono lo sguardo sulle telecamere, da cui era possibile ammirare ogni angolazione della pista, le due navicelle delle scuderie avversarie che quasi si sfioravano, mentre le loro, arancioni e nere, erano un po’ più indietro. Fecero tutti un balzo indietro, credendo che la navicella azzurra stesse per colpire quella viola, ma non fu così; semplicemente, tornò a ricoprire la posizione di poco prima.
Mancava poco alla fine dell’ultimo giro.
«Avanti ragazzi…» mormorò Takeda.
Le loro navicelle, sebbene fossero compagne, sembrava che stessero lottando tra di loro per l’ultimo posto rimasto. Alla fine, a tagliare il traguardo, fu quella contrassegnata dal numero nove, le prime due che erano già arrivate a destinazione.
All’interno della scuderia si levarono delle urla di gioia. «Ce l’abbiamo fatta!»





I piloti erano da poco rientrati nelle rispettive scuderie, la stampa e i fan che quasi li soffocavano.
«Non avevamo dubbi che sarebbe stato Ushijima Wakatoshi a tagliare il traguardo per primo!» disse una delle tante intervistatrice poste là vicino, la telecamera ovale che fluttuava davanti a lei. «Che sia la sua occasione per diventare campione per il terzo anno di fila?»
«Kageyama Tobio ci ha stupito, invece!» disse un altro presentatore, anche lui con la sua personalissima telecamera, inquadrando il pilota appena menzionato, che non sembrava comunque entusiasta della sua posizione, mentre i suoi compagni lo abbracciavano.
L’altro pilota della squadra Karasuno, Hinata Shoyo, invece, uscì dalla sua navicella proprio in quel momento, furioso più che mai, e le telecamere si premurarono di riprendere la scena per bene.
«Ma la vera star della pista è sempre lui…» continuò la presentatrice di prima, e il piccolo robot mise a fuoco sulla figura che stava uscendo dalla navicella bianca e azzurra, mentre si toglieva il casco e scuoteva i suoi capelli castani, facendo andare in visibilio milioni di fan.
Oikawa Tooru scese dalla sua amata navicella con un balzo, raggiugendo i suoi compagni e il suo Team Principal, che gli fecero i complimenti con vigorose pacche sulle spalle. 
«Quando hai preso la navicella di Wakatoshi, abbiamo temuto il peggio!» esclamò Hanamaki, il capo ingegnere, afferrandolo per il collo e cominciando strofinare le nocche sulla nuca del giovane pilota.
Oikawa riuscì a liberarsi dalla presa poco dopo, ridendo. Poi, i suoi si spostarono sui suoi avversari, determinatissimo. «Sono riuscito a battere il mio allievo… Manca solo da superare Ushijima!»
Sorrise, scoprendo i denti, l’intera scuderia della Shitorizawa e della Karasuno che stavano squadrando lui e i suoi compagni, i membri dell’Aoba Johsai, e parevano tre leoni in carne ed ossa che stavano lottando per la stessa preda. Si voltò poco dopo, con l’intento di togliersi la tuta dello stesso colore della navicella e rispondere alle domande dei giornalisti.
Quest’anno, ne era certo, sarebbe stato lui ad essere eletto campione.


*


Terra, a quaranta anni luce dal Sistema Trappist-1


Una bambina, la frangetta che le copriva gli occhi, stava correndo lungo una strada sterrata. C’erano solo campi attorno a lei, per la maggior parte di riso, e le sue belle scarpe, di tanto in tanto, affondavano in qualche pozzanghera di acqua sporca e dal colore marrone chiaro. Si fermò poco dopo davanti a un campo, un occhio lasciato per metà scoperto, respirando a tentoni. Una figura, una mascherina a coprirgli naso e bocca, stava estirpando le delicatissime piante.
La bambina, di appena dieci anni, sorrise, riconoscendo immediatamente di chi si trattasse. «Iwaizumi-san!»
Il ragazzo alzò lo sguardo, togliendosi poi la mascherina e sorridendo all’indirizzo della ragazzina. «Ciao Haruka» disse poi, camminando lentamente sul terreno acquoso, e con un piccolo sforzo le fu accanto.
Lei fece dondolare un cestino davanti ad Iwaizumi. «La mamma è riuscita a fare una crostata. E ti ho portato il libro che volevi!»
«Una crostata, sul serio?» disse, prendendo il cestino e dando una sbirciatina dentro. In effetti, all’interno di un contenitore di plastica trasparente, c’era una fetta di una crostata. «Sono more quelle?»
Haruka annuì vigorosamente. «Le ho prese in prestito da un fruttivendolo che sta in città. Aveva un sacco di frutta, non ne ho mai vista così tanta!»
Iwaizumi alzò lo sguardo dal cestino, puntandolo su di lei. «Haruka…» disse piano. «Lo sai che non dovresti rubare…»
La bambina abbassò lo sguardo, le guance che si colorarono di porpora. «Ma la mamma ci teneva così tanto a fare una torta! La nostra gallina ha fatto le uova dopo un sacco di tempo!»
Sospirò. Le loro madri erano stati amiche fin dai tempi del liceo, e da quando la madre di Hajime non c’era più, Haruka e la sua famiglia si erano sempre presi cura di lui e suo padre. Conosceva quella bambina da quando era ancora in fasce, era normale che si comportasse come un fratello maggiore un po’ austero.
Le accarezzò la chioma corvina con una mano ancora guantata. «Promettimi che non lo farai più… intesi?»
L’occhio blu come il mare lasciato scoperto dalla frangia sembrò quasi brillare per la contentezza. «Okay.»
Si diressero verso la casa alle loro spalle, distante un paio di metri, il tetto spiovente che un tempo era stato di colore rosso e le pareti di cemento armato.
«Papà!» chiamò Hajime non appena entrò, e una figura apparve da dietro un piccolo televisore mezzo smontato. «Haruka è venuta a trovarci.»
«Ho portato una fetta di crostata alle more!» esclamò poi la bambina, abbracciando l’uomo che era riuscito a scavalcare gli attrezzi lasciati per terra.
«Ancora che smanetti con quel televisore alla ricerca di qualche rete che prenda?» domandò, storcendo il naso.
«C’è ancora qualche canale che trasmette, abbi fede figliolo!» Si mise davanti il televisore, accendendolo col telecomando, e subito comparve l’immagine di una donna, vestita con un tailleur rosso, che stava leggendo una serie di notizie. «Hai visto?»
Hajime grugnì, tirando poi fuori il libro e la fetta di crostata; ne assaggiò giusto un pezzo, passando poi il contenitore al padre, che la mangiò con gusto. «Haruka, fai i complimenti alla mamma, è squisita, non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho mangiato una crostata così!» disse, rivolgendosi poi al figlio. «Sei sicuro che non ne vuoi più?»
«Non ho fame papà – poi spostò lo sguardo sulla bambina, seduta davanti a sé, e le sorrise –, e tranquilla, è ottima!»
Haruka ricambiò il sorriso, guardando poi con curiosità il libro che il suo amico stava sfogliando. Era uno dei volumi che sua madre aveva tenuto come ricordo degli anni universitari oramai sfumati.
«A che ti serviva il libro sui sogni della mamma?»
Alzò le spalle. «Ho fatto un sogno strano stanotte, e volevo capire se stavo impazzendo del tutto…»
«Ah sì? E che cosa hai sognato?»
Iwaizumi parve rifletterci un attimo, indeciso se raccontarlo o meno. Alla fine, si lasciò andare, sistemando le pagine un po’ spiegazzate e ingiallite del libro. «Mi trovavo sopra quello che doveva essere un vulcano… Ed ero circondato da un sacco di verde. Era un posto che non avevo mai visto, e per certi versi mi sembrava estraneo…» Ingoiò un fiotto di saliva. «E c’era un ragazzo…»
«Un ragazzo?» Haruka inclinò la testa di lato, e per un attimo i loro occhi si incontrarono, blu e verde sembrarono mischiarsi.
Scosse la testa. «Lascia stare – e richiuse il libro – probabilmente avrò mangiato pesante ieri sera…»
«Hajime…»
«Papà, non cominciare, ieri sera ho mangiato!»
«No, non è per quello…»
L’uomo indicò fuori, una coltre di fumo rossastra che sembrava sollevarsi dal terreno lentamente, muovendosi quasi come se fosse una nuvola velenosa verso di loro.
«Cazzo! Questa non ci voleva» imprecò, alzandosi dalla sedia, seguito a ruota dal padre, e subito sbarrarono le finestre che davano sul campo coltivato, come se fossero già pronti ad una cosa del genere.
«Quanto manca?»
«Venti secondi. Aiutami a sbarrare la porta, coraggio!»
«Iwaizumi-san?» La bambina lo tirò per la maglietta. «Sta arrivando la tempesta rossa?»
La risposta alla domanda, arrivò poco dopo, quando le mura delle casa cominciarono a tremare. Da un piccolo spiraglio lasciato aperto dalle finestre sbarrate, era possibile vedere la coltre di fumo e sabbia che si avvicinava sempre di più, adesso con più velocità, come se avesse preso vita propria. Si abbatteva sul campo di riso, sugli altri campi più lontani, e per metà già perduti; si abbatteva sulle altre case, e la loro non faceva eccezione. Si misero al centro della stanza, lontano dalle pareti, Haruka che adesso si trovava in braccio ad Hajime. Il ragazzo tenne lo sguardo fisso sulla porta, mentre le mura della casa tremavano sempre di più, come se si trovassero dentro l’occhio di un ciclone, il tetto che produceva scricchiolii poco rassicuranti.
Non seppero quanto durò, ma si sentirono veramente al sicuro solo quando l’unico rumore udibile fu il pianto sommesso di Haruka contro la spalla di Iwaizumi.
«Shh, è passata. Puoi guardare adesso» mormorò, ricominciando comunque a respirare.





Iwaizumi Hajime non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva visto il cielo di colore azzurro, o il mare che non fosse una distesa di acqua sporca. Non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva visto un supermercato pieno di cibo, o che aveva respirato aria pulita.
La popolazione mondiale era stata decimata. Nessun posto era più sicuro, la tempesta rossa, fatta di sabbia e fumo, non risparmiava nessuno.
La Terra stava morendo. E l’essere umano se n’era accorto quando era già troppo tardi.


*


Sibun era uno dei pochi pianeti del sistema Trappist-1, il piccolo sole che gli forniva energia, in cui era possibile vivere. Ed era per questo che gli abitanti in esso presenti, vivevano in assoluta pace, rispettando comunque le condizioni climatiche di quel pianeta, come se gli parlassero e cercassero di capire gli eventuali problemi.
Le costruzioni di Sibun era piuttosto monotone e minimalistiche: il loro bianco brillante risaltava col grigio della terra e del mare di quel pianeta. Gli unici edifici che si distinguevano per imponenza e grandiosità erano le Piramidi, sede del Consiglio degli Scienziati e dell’Archivio Nazionale.
E uno dei membri di questo consiglio, nonché capo della classe dei Ricercatori, era proprio il padre di Oikawa Tooru. Quella sera, proprio quando suo figlio aveva conseguito un importante traguardo, lui era ritornato dalla sua ultima esplorazione, accompagnato dalla figlia.
«A Tooru!» disse il capofamiglia, seduto a capotavola, alzando il boccale verso il figlio. «Per averci resi fieri ancora una volta!»
«Non parlare troppo presto, papà! Non è stato ancora incoronato campione!» si intromise la figlia maggiore.
Tooru storse il naso. «Spiritosa, Hoshi. Davvero molto spiritosa… E dire che io volevo brindare al successo tuo e di papà.»
«Ah, non abbiamo fatto chissà che!» disse, tornando a mangiare il suo piatto. «Non siamo neanche scesi a terra, quel pianeta aveva una temperatura pari a quella di una fornace!»
«Avete già pensato a un nome?» chiese Oikawa.
Era questo quello che facevano i Ricercatori. Viaggiare da un pianeta all’altro alla ricerca di pianeti che fossero, almeno lontanamente, simili a quelli di Sibun. Nel loro sistema ve n’era già due, ed erano stati chiamati con il nome di Cnosso e Festo: fungevano da basi per le colture, principalmente, in modo che rimanessero comunque delle porzioni di terra libera e non sfruttate dall’uomo.
Fin ad ora, però, erano stati gli unici ad essere riconosciuti come pianeti possibilmente “abitabili”; gli altri che erano stati via via scoperti e archiviati, avevano una struttura assolutamente incompatibile con Sibun.
«Pensavo ad Ignis, che te ne pare?» domandò l’uomo, i gomiti sopra il ripiano del tavolo.
«Uh, mi sembra perfetto!» disse, sorridendo poi all’indirizzo della madre, che si era alzata da tavolo e gli aveva stampato un bacio tra i capelli. «Ho letto le ricerche che avete riportato, e mi sembra azzeccato!»
«Ottimo!» Poi si rivolse alla moglie. «Tesoro, perché non lasci che sia Asimo a occuparsi dei piatti?»
«Perché per una volta voglio farlo da sola, senza l’ausilio dell’intera casa, posso?» disse, voltandosi in direzione del suo consorte, la mano su un fianco.
Tutti quanti, a Sibun, avevano le case robotizzate. Asimo era il processore che controllava tutto, dalle pulizie, agli elettrodomestici, a far comparire le porte non appena qualcuno digitava il campanello automatico posto sulla parete. Faceva tutto lui, in modo che la gente del posto potesse dedicarsi alle proprie attività. Del resto, la gente di Sibun era per la maggior parte votata alla scienza o ad attività che fossero utili per la società. In quel caso, le corse era uno dei pochi divertimenti che la popolazione poteva permettersi.
«Sei sempre la solita» disse, dirigendosi verso di lei e cominciando baciarle il collo. I figli fecero entrambi una faccia disgustata.
«Tooru, andiamocene, prima che comincino con le smancerie davanti a noi!»
Il ragazzo seguì il consiglio della sorella, e, dopo aver premuto il bottone, la porta comparve davanti a loro; li accolse un grazioso corridoio e una scala che portava al piano superiore.
«Domani hai le prove?» chiese Hoshi, non appena giunsero alle loro stanze, e premendo un altro bottone, una porta comparve proprio davanti a lei.
Oikawa annuì. «Simulazione di gara. Devo testare tutte le possibili piste.»
Dello Stadio, l'unica cosa esistente erano gli spalti; per il resto, le piste cambiavano ogni volta, sempre rivestite dalle loro cupole di plastica trasparente, per evitare che qualche pezzo volasse tra il pubblico in caso di incidenti.
«Okay, cerca di dormire bene...» Il castano sbatté le palpebre, confuso. «Stanotte ti ho sentito mentre ti agitavi, si può sapere che cosa hai sognato?»
Tooru aprì la bocca, come a volerle spiegare, per poi chiuderla e scuotere la testa. «Ero solo nervoso per la gara, sta tranquilla!»
Hoshi lo guardò, poco convinta, ma preferì non indagare oltre e lasciare perdere. Gli augurò la buonanotte, ed entrambi si recarono nelle loro stanze.
Oikawa era quasi pronto a mettersi a letto, ma qualcosa lo distrasse, qualcosa che era rimasto sopra la sua scrivania. 
Quella sera, dopo quello strano sogno, si era subito alzato e si era recato alla scrivania in cerca di carta e penna. Era rimasto sveglio fino alla mattina, disegnando il paesaggio che aveva visto, col timore di dimenticarlo.
Si sedette, perdendosi poi ad osservare i disegni che aveva appeso sulla parete sopra la scrivania: li aveva fatti quando era più piccolo e già sognava di diventare un pilota, le navicelle colorate che brillavano sulla carta bianca. 
Erano l'unica cosa con un po' di colore a Sibun.
Intrecciò le dita, abbassando poi lo sguardo sul disegno che aveva sul ripiano.
Si chiese se, anche per quella notte, avrebbe sognato quello strano individuo.


 
Atto secondo





«Ancora tu?»
«Ma che bella maniera di rivolgersi a una persona, lo sai?»
«Tu non sei una persona, sei solo il frutto della mia testa! Anche se non ho la più pallida idea del perché abbia creato un tipo come te…»
«Voleva essere un insulto?»
«Tu che dici?»
«Sei una proiezione antipatica, lo sai?»
«Quindi sarei io la proiezione?»
«Certo, io sono una persona reale.»
«Anche io lo sono.»
«Ma io non ti ho mai visto da nessuna parte…»
«Neanche io ho mai visto la tua faccia di cazzo.»



*

Quella mattina, dopo essere passato a vedere le condizioni della loro piantagione di riso, Hajime e suo padre avevano deciso di recarsi in città, alla ricerca di qualche cosa da portare a casa. Non speravano tanto nel cibo. Con la “piaga”, il flagello che si nutriva di azoto e consumava l’ossigeno nell’aria, solo pochissime colture sopravvivevano; di conseguenza, mancando le materie prime, non era possibile creare tutte quelle pietanze articolate che un tempo si trovavano sui banconi di qualsiasi supermercato. A stento, gli animali riuscivano a rimanere in vita per più di due anni, e anche da morti la loro carne non era utile: la maggior parte delle volte, era veleno per l’essere umano.
Le città, da qualsiasi parte del mondo si andasse, erano tutte semiabbandonate, solo qualcuno si ostinava ancora a vivere tra quei palazzi di cemento che, oramai, non avevano più valore. La tempesta rossa si era abbattuta principalmente nelle metropoli più popolose, passando di tanto in tanto nelle zone di campagna. Era come se la Terra si fosse improvvisamente ribellata e avesse riversato le sue urla su quelle strutture abusive, che non le appartenevano e la stavano degradando lentamente.
Per Hajime, la città di Kagoshima era esattamente identica a Tokyo, quando l’aveva vista l’ultima volta: deserta e con degli scheletri di ferro che si ergevano da terra, le strade semi distrutte e la gente che vagava dandosi alla criminalità.
Suo padre posteggiò in una strada piuttosto appartata, sperando che nessuno gli rubasse la macchina, erano l’unico mezzo di trasporto funzionante che avevano a disposizione.
Camminarono per le strade, qualche bambino che andava scorrazzando qua e là, alcune persone che li fissavano dall’alto in basso. Hajime preferiva non avere a che fare con gente del genere, non perché avesse paura, ma perché aveva ancora una parvenza d’integrità e umanità: quella gente aveva perso tutto, anche l’ultimo briciolo di razionalità, e si comportavano come animali, se non peggio; arraffavano tutto quello che potevano, uccidendo se era necessario. Forse i bambini si salvavano, ma erano così fragili che molti morivano prima di compiere cinque anni. Haruka era un caso eccezionale, non si vedeva tanti bambini della sua età in giro.
Entrarono dentro quello che doveva essere un piccolo supermercato, gestito da un uomo e una donna tarchiati e con tatuaggi su entrambe le braccia.
«Che volete?» chiese la donna, il marito che subito gli puntò un coltellino, che lei gli fece abbassare, almeno per il momento.
«Assi. E qualche attrezzo da lavoro» rispose il padre di Hajime, asciutto, senza lasciarsi intimorire.
La donna ci pensò un attimo prima di indicare, con l’indice, uno scaffale alle loro spalle, infondo al piccolo locale. Non c’era molto, giusto un paio di assi e qualche attrezzo un po’ malandato. Avrebbero potuto vedere da un’altra parte, ma Kagoshima era grande e non era detto che avrebbero trovato di meglio. Presero solo il necessario.
«Cosa offrite?» parlò a quel punto l’uomo, notando la merce che avevano messo sul bancone bianco sporco.
Il denaro non serviva più a niente, forse solo per gli uomini più ricchi del pianeta, ma molti si erano rifugiati chissà dove o erano morti durante un colpo di stato ordito dalla povera gente. Del resto, il mondo stava andando in pezzi e loro parevano fregarsene.
Hajime gli fece vedere un sacco colmo di riso. Loro storsero il naso. «E come dovremmo cucinarlo?»
«Non prendeteci per cretini, il gas funziona ancora!»
«Hajime!»
«Vedi di andarci piano, ragazzo!» L’uomo si alzò in piedi, e la lama del coltello era a un passo dalla gola del giovane.
«Perché, altrimenti che cosa faresti? Mi taglieresti la gola? E cosa ci guadagneresti?»
«Ora basta, Hajime!» Suo padre lo spostò indietro, ponendosi davanti all’omone. «Abbiamo anche della carne secca. È poca, ma l’abbiamo già mangiata, e come vedete siamo ancora vivi.»
La moglie sbarrò immediatamente lo sguardo, sussurrando qualcosa all’orecchio del marito, che gli lanciò un’occhiata poco convinta, prima di accettare l’accordo.





Iwaizumi era seduto in macchina, in attesa che suo padre tornasse. Usciti dal market – e dopo che entrambi avevano avuto un piccolo bisticcio –, gli aveva chiesto se potesse passare da un suo amico, che gli forniva sempre merce di ottima qualità, ed era grazie a lui se, in parte, erano riusciti a tirare avanti.
Aveva deciso di non scendere col padre per fare da guardia al veicolo, e adesso si ritrovava a fissare i bambini che giocavano con un pallone improvvisato, mentre si mangiucchiava un’unghia spezzata. Non sapeva per quale ragione, ma aveva sognato ancora una volta quel ragazzo, quel paesaggio bellissimo, e persino in quel momento gli passavano davanti le immagini della loro discussione, quella voce fastidiosa che gli rimbombava ancora in testa.


«Rude! Ma ti comporti sempre così?»
«Solo con le persone presuntuose come te.»
«Io non sono presuntuoso!»
«Ah no? Quindi mi vuoi dire che paparino non ha tanti soldi?»
«E tu? Sembri un contadino… anzi, un gorilla.»
«Ripetilo, e ti faccio saltare tutti i denti»



Avevano continuato così per quelle che dovevano essere delle ore. Alla fine, prima che il sole di quello strano mondo calasse, avevano scoperto l'uno il nome dell'altro.


«Piacere Iwa-chan, io mi chiamo Oikawa Tooru!» Gli porse la mano, che lui non strinse.
«É Iwaizumi. Vedi di non dimenticarlo.»
«Iwa-chan é più carino!»
«Non m'interessa!»
«Iwa-chaaan ~»
«IWAIZUMI!»



Non sapeva perché si fosse comportato così, sembrava che fosse tornato ad avere quindici anni, e non ventitré. In fondo, era tutto frutto della sua testa, quel ragazzo non esisteva veramente, quel mondo strano non c'era.
Eppure, sembrava tutto così maledettamente reale: tutto aveva un suo ordine, dal fruscio delle acque e delle foglie, al sole che si spegneva all'orizzonte e che lo faceva ripiombare nella realtà. E quel ragazzo, nei suoi modi di fare, non sembrava una proiezione, un ologramma inventato dalla sua mente, ma sembrava una persona qualunque, una di quelle che si potevano incontrare per strada per puro caso.
Gli era già capitato di fare dei sogni fin troppo realistici. Ma questo... li batteva tutti. E per di più, aveva sognato lo stesso luogo e la stessa persona per due volte di fila.
Fece schioccare la lingua, le urla dei bambini che si fecero sempre più forti. E che sovrastavano le urla di paura di un'altra persona.
Hajime notò qualcuno che stava correndo in lontananza, un paio di mele strette al petto, e ci volle un po' prima che si accorgesse che si trattava di Haruka. Sbarrò gli occhi, mentre la bambina veniva spinta con la faccia a terra da un ragazzo più grande e alto di lei, la faccia macchiata per via di chissà quale malattia.
Adesso, le stava stringendo il collo con entrambe le mani. 
Hajime scese dalla macchina e si diresse correndo verso di loro, la rabbia che gli offuscava la mente e la vista. Mollò un calcio sull'orecchio al giovane, che cadde di lato, mezzo stordito.
«Stai bene?» chiese poi ad Haruka, abbassandosi al suo livello, e lei annuì, tossendo un paio di volte per riprendere aria.
Sentì il fischio di uno sparo poco dopo, e lo zigomo destro cominciò a bruciare e pizzicare, un rivoletto di sangue caldo che gli colava sulla guancia. Il ragazzo di poco prima, probabilmente di quattordici anni, si teneva a malapena in piedi e aveva tra le mani una pistola che, quasi sicuramente, non sapeva usare.
Non ci volle molto prima che Iwaizumi lo atterrasse di nuovo, dandogli una gomitata sotto il mento e prendendosi la pistola.
«Sparisci!» urlò, puntandogliela contro, e il ragazzo indietreggiò, per poi scappare a gambe levate.
«Iwaizumi-san...» sentì pigolare, e vide che Haruka si era messa in piedi e stava guardando con insistenza il graffio sullo zigomo.
Hajime la prese per un braccio e la strattonò. Non voleva essere così brusco con lei, ma il panico aveva cominciato a montargli dentro, e si poteva percepire anche nel suo tono di voce. «Mi avevi promesso che non avresti più rubato!»
«Io...» Haruka tirò su col naso. «Mi dispiace... Mi dispiace tanto...»
Scoppiò a piangere poco dopo, continuando a chiedere scusa tra i singhiozzi.
Hajime l'abbracciò stretta. «Ora smettila di piangere…» e nel dirlo, non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.


*


Nello stesso momento, su Sibun…


Oikawa, quella mattina, si era svegliato col sorriso sulle labbra. Fin dal primo momento, il ragazzo del sogno gli era sembrato diverso da tutte le altre persone che aveva sognato. Sembrava reale, sembrava una persona veramente esistente.


«Ora che ci penso… Non si sognano persone totalmente sconosciute… magari ti ho visto passeggiare per strada.»
«Ne dubito fortemente.»
«Beh, non lo scopriremo mai se non mi dici come ti chiami!»



Dopo varie insistenze, alla fine glielo aveva detto. E se la sua teoria si sarebbe rivelata vera, allora doveva aver visto quel ragazzo da qualche parte, magari aveva incrociato il suo sguardo, chi lo sa.
Per questa ragione, finiti gli allenamenti su pista, si era diretto di gran carriera alle Piramidi. Al centro vi era la strada principale, e la piramide di sinistra, la più piccola, altro non era che l’Archivio di Sibun, dove veniva conservato qualsiasi cosa, dalle informazioni su un pianeta che era stato appena scoperto, agli articoli di giornale. E questo, ovviamente, includeva anche la lista di tutti quanti gli abitanti del pianeta, che veniva aggiornata ogni volta che ci fosse un qualche nascita o qualche decesso. Questo significava che avrebbe trovato lì tutte le informazioni che cercava su Iwa-chan. Certo, se fosse riuscito sul serio a incontrarlo, forse gli avrebbe detto che non l’aveva mai visto in vita sua, tanto meno sognato. Tuttavia, Oikawa aveva come una sorta di presentimento: era sicuro che, invece, Iwa-chan l’avrebbe riconosciuto.
I sogni non hanno nulla di scientifico, non si fondano su basi certe. C’era chi, però, diceva che da questi si potesse risalire a tante cose, alla parte più profonda di un individuo.
Oikawa, lo sapeva, qualcun altro su quel pianeta l’avrebbe preso per un folle; ma lui, in fondo, era sempre stato diverso dagli altri, tutti improntati sulla razionalità degli eventi. Un po’ sognatore, un po’ anticonvenzionale, era anche questo che gettava su di lui un’aura di fascino, perché non era il classico ragazzo che si incontrava su Sibun, o sugli altri pianeti di Trappist-1. Al contrario dei suoi connazionali, aveva sempre creduto alla fatalità e al destino, cosa che invece vengono considerate come dei tabù sul suo pianeta. Ne aveva sentito parlare solo perché, una volta, aveva trovato quelle parole in un vecchio dizionario di sua madre.
Ovviamente, nessuno sapeva di questa sua indole abbastanza passionale, figuriamoci: per molti, quella era solo una facciata, un modo di atteggiarsi per catturare l’attenzione del pubblico.
Si trovava dentro l’enorme stanza che conteneva il Catalogo degli Abitanti, delle enormi braccia robotiche che lavoravano sulla tastiera di diversi computer, scrivendo senza sosta. La graziosa ragazza del banco informazioni l’aveva accompagnato di persona, e dopo essere entrati, Oikawa la stava seguendo lungo uno stretto corridoio, verso il computer principale.
«Stai cercando una persona, giusto?» Il castano annuì, e la ragazza si mise davanti ad un leggio, parlando poi al computer. «Ciao Giunone!»
Il computer fece una serie di rumori, come a dire che aveva sentito, e l’enorme schermo fece apparire l’elenco di tutti i nomi, e ogni tanto ne compariva qualcuno nuovo o qualcun altro spariva.
«Basta che dici il nome al microfono e lei farà il resto!» disse la ragazza, lasciandogli il posto.
Tooru scandì per bene le parole, e non appena il nome fu captato dal computer, una barra cominciò a scorrere freneticamente verso il basso, alla ricerca del nome richiesto. Si fermò alla lettera i, segnalando poi un errore nel processo di ricerca.
Oikawa trasalì: no, di certo non si aspettava di ricevere una risposta del genere, e non poteva neanche dubitare della validità di quello che diceva la macchina, veniva revisionata ogni mese, in modo che tutto funzionasse alla perfezione e non ci fossero intoppi. Era sicuro della sua idea, non poteva essere che la sua mente avesse inventato dal nulla quel tizio. Aveva una grande fantasia, ma non fino a quel punto: Iwa-chan aveva mille sfaccettature, che si potevano attribuire solo e soltanto ad una persona in carne ed ossa.
«Siamo sicuri che fosse questo il nome?» chiese la ragazza, titubante. Non dubitava di Oikawa-san, figurarsi, chissà quante ragazze avrebbero smaniato per essere al suo posto. Volveva solo svolgere il suo lavoro al meglio.
Il ragazzo guardò lo schermo, gli occhi ancora spalancati e la bocca semi aperta, scuotendo poi il capo e ridendo imbarazzato all’indirizzo della ragazza. «Ops, devono avermi dato il nome sbagliato! Scusami di averti fatto perdere tempo.»
Lei sorrise, rassicurandolo e dicendogli che sarebbe sempre stata a disposizione per qualsiasi sua richiesta, arrossendo come un peperone, ma Oikawa si limitò a sorridere com’era solito fare con ogni sua pretendente.
Fu in quel momento che l’espressione della ragazza cambiò, indicando il suo zigomo destro con dito tremante. «Oikawa-san… Sanguini…»
In effetti, aveva sentito dolere proprio in quel punto, ma non ricordava di essersi graffiato da qualche parte. Si asciugò col dorso della mano, trovandolo sporco di sangue. Rimase a fissare quella macchia rossa con sgomento, chiedendosi che cosa diavolo potesse essere successo.


*


Come al solito, il sole stava tramontando ed Iwa-chan era già accanto a lui; questa volta, era seduto, le gambe che dondolavano nel vuoto. Si sedette anche lui, spingendolo poi di lato, come a fargli perdere l’equilibrio.
«Ma ti sei bevuto il cervello?»
«Mi hai mentito» disse piano, sul volto un’espressione offesa. «Sputa il rospo, qual è il tuo vero nome?»
«Prego?»
«Oggi sono andato a cercare il tuo nome all’Archivio Nazionale, ma non c’era…»
Hajime storse il naso. «Che fai, mi stalkeri? E che cosa diavolo sarebbe l’Archivio Nazionale?»
Oikawa sbatté gli occhietti. «Iwa-chan, sei serio? Ma su quale pianeta vivi?»
«Forse sei tu ad essere un alieno!»
«Un che?»
«Senti, lascia perdere!»
Ci fu un attimo di silenzio, prima che Tooru si lasciasse andare ad un’esclamazione piuttosto colorita, e Hajime lo guardò di traverso, torvo.
«Ma certo! Tu vieni da un altro pianeta!»
«Cosa?»
«Ecco perché non ti trovavano sul Catalogo!» Si girò a guardare l’altro, una faccia sconvolta che si era palesata sul suo viso, mentre Oikawa lo squadrava dall’alto in basso. «E ora che ci penso, sei diverso dalla persone che vivono su Sibun…»
«Okay, è ufficiale…» disse Iwaizumi, tra sé e sé. «Sono uscito fuori di testa…»
Il castano si sporse verso di lui. «Dai, dimmi da quale pianeta vieni! Così posso suggerire a mio padre di recarsi sulla tua galassia!»
Lo guardò, sempre più sgomento. Quel ragazzo faceva sul serio? No, perché non gli pareva proprio di parlare con una persona matura, ma con un bambino di cinque anni. Si passò una mano sul viso, evitando di perdersi ad osservare troppo quegli occhi color cioccolato e che lo guardavano allo stesso modo di un gatto che aspetta di mangiare la sua porzione di cibo.
«Lo sai…»
«Se lo sapessi, non te l’avrei chiesto.»
Hajime sospirò «Il Pianeta Terra. È abbastanza sconvolgente come notizia?»
La domanda che aveva posto, ovviamente, era retorica, sicuramente si aspettava che quel ragazzo si mettesse a discorrere con lui su quanto quel pianeta fosse bello un tempo, e a quel punto avrebbe capito che si trattava di un sogno; un sogno ricorrente e ogni volta strano, ma pur sempre un sogno.
E invece, quando si girò verso Oikawa, lo trovò boccheggiante e con lo sguardo stralunato. Il sole calò improvvisamente, e quando Hajime aprì gli occhi, si trovava nella sua stanza, il cielo fuori ancora blu come la notte.

 

Atto terzo




La prima volta che aveva sentito parlare del pianeta Terra, aveva appena compiuto sei anni. Una donna, ancora in vestaglia, veniva portata via da due individui, due infermieri forse, mentre lei urlava. Urlava, e tra quelle urla aveva sentito nominare quella parola. Aveva chiesto a sua madre che cosa stesse succedendo, e allora lei gli aveva spiegato che quella donna aveva la Sindrome dell'Astronauta.
Cosa significasse quella parola, nessuno pareva saperlo, e il dizionario di sua madre mancava delle prime pagine, quindi non l'avrebbe scoperto mai. Sapeva solo quello che significava per gli abitanti di Sibun.
Si diceva che ci fossero alcune persone in grado di entrare in contatto con gli abitanti del pianeta Terra, al punto da sentire le loro sofferenze fisiche. E questo, implicava che sulla Terra ci fosse vita.
Tutti quelli che cercavano di convincere la gente a muoversi verso quel pianeta, venivano considerati vittime della Sindrome dell'Astronauta.
Sulla Terra non c'era vita, questo era quello che riportavano le informazioni sul quel pianeta. La gente lo odiava, perché molta gente di Sibun era morta per andare ad esplorarlo. Quella volta, era tornato solo metà equipaggio, e da allora la Terra era stata considerata il pianeta più ostile che ci potesse essere.
Nessuno, però, sapeva effettivamente quando fosse avvenuta quella spedizione. Era solo una leggenda che si raccontava ai bambini, ma qualcuno si era effettivamente informato sulla sua veridicità?
Eppure era strano, tutto su Sibun aveva una sua logica, non c'era nulla che non avesse una sua spiegazione. Perché, allora, quando la gente chiedeva di raccontare qualcosa in più su quella fatidica spedizione, nessuno sapeva rispondere? Possibile che a nessuno importasse?
Oikawa fu colto da un brivido freddo, mentre ripensava a come si fosse svegliato in preda al panico, in un bagno di sudore e con la stanza totalmente avvolta nel buio. Aveva paura. Aveva paura di stare impazzendo. E sapeva bene che le persone che cadevano vittime della Sindrome, prima o poi sparivano nel nulla: su di loro, rimanevano solo i pettegolezzi e le malelingue che metteva in giro la gente.
Si strinse nel suo pesante giaccone, quella mattina era sceso presto da casa pur non avendo gli allenamenti; in ogni caso, non sarebbe riuscito a riaddormentarsi, e aveva quasi il terrore di farlo ancora, come se dormire non fosse un bisogno assolutamente necessario per il suo corpo.
Cercava di cancellare con tutte le sue forze l’espressione corrucciata di Iwa-chan mentre lo fissava, probabilmente senza capire il motivo della sua reazione. Se avesse avuto anche solo la forza di tenere la matita in mano, magari sarebbe persino riuscito a disegnarla in ogni minimo dettaglio: la fronte contratta, gli occhi verdi che risplendevano di una luce diversa sotto i raggi del sole, la ferita sullo zigomo destro…
Oikawa si toccò la zona dove ieri si era ferito, senza sentire la minima traccia di qualche graffio o altro. Era tutto sparito qualche ora dopo. E Iwa-chan aveva una ferita proprio nello stesso punto, e anche bella evidente.
C’era qualcosa di strano in tutto questo, quasi di anomalo. Possibile che quella storia fosse vera?
Tooru non si sarebbe mai tolto quel tarlo dalla testa, e per questa ragione aveva deciso di recarsi ancora una volta all’Archivio Nazionale, per saperne di più su quella faccenda. Si era appoggiato al bancone, aspettando che la ragazza di ieri finisse di parlare al telefono e si accorgesse della sua presenza.
«Oh, buongiorno Oikawa-san!» disse poi, con un sorriso smagliante e contornato da un rossetto rosso. «È tornato per cercare quel nome?»
«In realtà sono qui per qualcos’altro…» Si sporse lentamente verso di lei, senza smettere di sorridere, anche se le sue mani tremavano. La ragazza, come si aspettava, divenne rosso magenta, e lui ne approfittò per farle l’occhiolino. «Sono qui per una missione top secret!»
La giovane fece un’esclamazione di totale stupore: del resto, era risaputo che il padre di Oikawa Tooru era un Ricercatore di grande fama.
«Sai mantenere un segreto?» le disse. Lei annuì. «Bene, perché mi servirebbero tutte le informazioni che avete sul Pianeta Terra…»
Fu a quel punto che la ragazza spalancò gli occhi, tenendo le pupille fisse su quelle del castano; le spostò poco dopo, verso il pulsante di accensione del telefono, e quel gesto bastò ad Oikawa per capire quali fossero le sue intenzioni: prima che fosse troppo tardi, aveva già afferrato il polso della ragazza.
«Oikawa-san… mi fai male…» disse, cercando di liberarsi, e Oikawa si rese conto che lo stava guardando come se fosse un disadattato mentale, un reietto, una persona pericolosa.
Diminuì la presa, senza comunque lasciarla, parlando poi piano. «Non devi spaventarti…» disse, deglutendo fiotti di saliva e respirando a tentoni. In realtà, avrebbe dovuto, si faceva paura persino da solo. «Non ho la Sindrome dell’Astronauta… Anzi, sto cercando una cura per questa malattia, per questo mi servono più informazioni necessarie.»
«Davvero?» esclamò. «Vuole entrare a far parte del Consiglio degli Scienziati?»
Era così che funzionava su Sibun: se si voleva diventare un membro del Consiglio si doveva essere degli scienziati che avevano già lavorato per migliorare la vita dei cittadini, oppure si poteva presentare una scoperta eccezionale, al punto da scioccare tutta la platea, compresa la normale popolazione. Di certo, scoprire la cura per quella sindrome avrebbe giovato a tutti.
Lui le fece cenno di abbassare la voce, ma annuì poco dopo. Era l’unica scusa plausibile per poterlo lasciare lavorare in pace, altrimenti l’avrebbero considerato un sospettato e l’avrebbero portato chissà dove. «Ora capisci perché non posso dirlo a nessuno?»
La ragazza annuì, e vedendo che non c’era alcuna parvenza d’orrore nel suo sguardo, le lasciò il polso. In poco tempo, si era già alzata e aveva chiamato una sua collega per sostituirla, accompagnandolo poi nel posto meno frequentato dell’intero Archivio: il Catalogo dei Giornali.





C’era una scrivania dentro quel posto tutto impolverato. L’unica luce disponibile la forniva un robot dalla forma ovale – tipica forma dei robot su Sibun – e Oikawa dovette sbattere le dita sulla struttura metallica un paio di volte prima che si accendesse. La ragazza gli aveva spiegato che quel robot era lì da una vita e che, alla fine, tutti avevano finito per affezionarcisi: era un ferro vecchio, questo era vero, ma la sua luce era ancora buona, aveva solo bisogno di carburare un po’ prima che funzionasse.
«Okay Beemo – si rivolse al robot, stiracchiandosi, e questi sembrò quasi risvegliarsi nel sentire la voce di qualcuno che chiamava il suo nome –, diamoci da fare!»
Gli era stato portato un solo fascicolo dal Catalogo dei Ricercatori, misero e con qualche informazione sparsa, per il resto aveva soltanto qualche ritaglio di giornale, che il computer gli aveva mostrato sotto il nome di Sindrome dell’Astronauta: beh, era ovvio.
Il fascicolo non diceva granché, non sembravano neanche delle informazioni così antiche come credeva. Erano tutte informazioni che già conosceva, e più che parlare di quale fosse la reale struttura di quel pianeta, se sul serio non ci fosse alcuna possibilità di vita, si limitavano a esaltare l’eroismo di quei Ricercatori che erano morti nell’impresa. Di quell’equipaggio, però, non c’era neanche una foto. C’era solo un elenco di nomi, e Oikawa decise di tenerlo per sé, nel caso avesse avuto la possibilità di cercare quei nomi.
Per antonomasia, riuscì a ricavare maggiori informazioni su cosa fosse la Sindrome vera e propria, rendendosi conto che, ad esserne vittima, erano state diverse persone. Non tantissime, in confronto al numero di abitanti di Sibun, ma erano comunque parecchie. I sintomi erano tutti gli stessi: la convinzione di sentire il dolore di un’altra persona, strani sogni, il presentimento di avere qualche malattia o di essersi feriti, senza in realtà avere nulla, fino alla totale follia, in cui si andava urlando contro la gente che c’era vita sulla Terra e che si doveva salvare il genere umano.
Oikawa si toccò lo zigomo, avvertendo un formicolio dietro la nuca: quel graffio non poteva esserselo immaginato, un’altra persona l’aveva visto sanguinare. Anche se, sicuramente, la ragazza del banco informazioni avrebbe fatto finta di niente nel caso in cui fosse stato scoperto e le chiedessero qualcosa.
Rabbrividì, continuando poi a leggere caso dopo caso, riga dopo riga, finché un nome non attirò la sua attenzione. Non era un caso vero e proprio, parlava solo di una giovane i cui sospetti sul suo essere vittima della Sindrome si era rivelati infondati. Il fratello aveva smentito tutto, e lei aveva confermato.
Il cognome della ragazza era Ukai. E il fratello della donna era Ukai Ikkei, il famoso pilota di corse divenuto campione per ben cinque volte, ora possessore della scuderia Karasuno.





Prima di schizzare fuori dalla Piramide, era passato al Catalogo degli Abitanti, alla ricerca dei nomi di quella famosa lista. Aveva scoperto che erano tutte persone morte e che, per saperne di più, avrebbe dovuto cercare al Catalogo dei Defunti, che si trovava presso il Cimitero Nazionale, appena fuori città.
Decise di passarci dopo, non appena avrebbe parlato con Ikkei-san. Per quanto fosse a capo di una scuderia tra le sue acerrime nemiche, portava comunque rispetto a quell’individuo: per tanti anni, era stata una leggenda nel mondo delle corse.
Inoltre, sebbene potesse risultare circospetto, le sue intenzioni riguardavano qualcosa che andava al di fuori della gara. Riguardavano Iwa-chan. Doveva sapere… doveva sapere se non stava impazzendo del tutto, se era vero che Iwa-chan veniva da un altro pianeta, del perché lo stesse sognando.
Lo trovò alla scuderia principale della Karasuno, fornita di pista come tutte le altre, e stava assistendo all’allenamento che si stava svolgendo in quel momento. Se non avesse avuto altro per la testa, probabilmente anche lui avrebbe rinunciato al suo giorno libero per allenarsi. Era riuscito a entrare evitando la sicurezza, e adesso si trovava davanti a lui, anche se quello gli rivolgeva le spalle. Era in compagnia di suo nipote, e a giudicare dal numero contrassegnato sulle navicelle, quelli che si stavano allenando dovevano essere il piccoletto e Kageyama.
«Ukai-san!» urlò, dopo aver ripreso fiato, ed entrambi gli uomini si girarono, sorpresi della sua presenza. «Le devo parlare!»
«E tu come diavolo sei riuscito a entrare?» Keishin si avviò a passo di marcia verso di lui, come a volergli intimare di andarsene.
Oikawa lo ignorò totalmente. «Riguarda sua sorella.»
Le spalle dell’anziano ebbero un sussulto, ma l’uomo cercò di non darlo a vedere. «Non sono tenuto a parlarne con te, giovanotto! È forse un piano di Irihata per depistarci? Siamo arrivati fino a questo punto?»
«Irihata-sensei non c’entra nulla, sono venuto qui di mia spontanea volontà!» Preferì evitare di sollevare polemiche sul fatto che il suo Team Principal era stato appena accusato di essere un uomo meschino.
Ikkei lo guardò di traverso. «Allora sei venuto inutilmente.»
Oikawa digrignò di denti, accorgendosi solo adesso che i due piloti più giovani della Karasuno avevano finito il loro consueto giro di pista e si stavano dirigendo verso di loro. Hinata, per poco, non balzò all’indietro, proteggendosi con una sorta di posizione ninja. «Che cosa ci fa qui Oikawa-san?»
Il castano li guardò appena, concentrandosi giusto un attimo sullo sguardo di Kageyama che, dallo stupito qual era, passò ad essere determinato. Un tempo, quando erano ancora dei principianti, avevano fatto parte della stessa scuderia, la Kitigawa Daiichi, e Oikawa aveva sempre visto Kageyama Tobio come una possibile minaccia. Avevano anche avuto un battibecco per tale questione, e da allora tutto ciò che volevano era fare a pezzi l’altro. In quel momento, però, non aveva tempo per badare a lui.
«È una questione urgente!»
«Sei sordo? Ti è già stato detto di andartene!» Il più giovane degli Ukai lo prese per il braccio, forse con l’intento di trascinarlo fuori, nonostante fosse più alto e forse più pesante di lui.
Fu allora che Oikawa, conscio che non avrebbe più avuto un’altra occasione come quella, sbottò. «Ho sognato un abitante del Pianeta Terra!»
L’atmosfera raggelò di colpo, il giovane Ukai che non riusciva più a tenere la presa sul suo braccio. Tutti lo stavano guardando come se avesse appena detto un’eresia, compreso Ikkei-san.
«La Sindrome dell’Astronauta…» disse Hinata in un sussurro, muovendo appena le labbra.
«Questo è troppo…» Keishin aveva già afferrato il suo cellulare per chiamare qualcuno, ma a fermarlo in tempo fu suo nonno, serio come non lo era stato mai.
Tenne lo sguardo fisso sugli occhi di Tooru, che sembravano quasi implorarlo, eppure non c’era alcuna parvenza di paura, alcun risentimento per quello che aveva appena detto: era convinto al cento per cento.
«Non possiamo parlarne qui… Casa mia è nelle vicinanze.»
Se possibile, tutti fissarono sgomenti l’anziano uomo, tranne Oikawa, che annuì al suo indirizzo. «Ottimo!»





«Vorrei sapere perché siete venuti anche voi due…» sibilò il castano tra i denti, spostando poi lo sguardo sui piloti della Karasuno, intenti a prendere il tè come se nulla fosse.
La casa di Ukai-san non era diversa dalle altre di Sibun, era anch’essa robotizzata e del colore della carta; solo i mobili erano un po’ datati.
«Perché vogliamo sapere anche noi se sei pazzo!» esclamò Hinata, afferrando poi un pugno di biscotti e infilandoseli in bocca in un solo colpo.
Oikawa emise un grugnito. «Non sono pazzo…»
«Sarebbe un bel vantaggio per te» aggiunse Kageyama, rivolgendosi al rosso. «Se Oikawa-san viene dichiarato pazzo, sarà costretto a uscire dalla gara, e di conseguenza entreresti tu al suo posto.»
«Wow, sul serio?»
«Vi ho già detto che non sono pazzo!»
«Questo lo stabiliremo noi!» Si accorsero solo adesso che Keishin Ukai era rientrato dalla cucina, seguito dal nonno, ed entrambi si accomodarono di fronte a loro, uno accanto all’altro.
Per un attimo, calò un silenzio tombale, in cui la tensione era palpabile nell’aria, fino a quando non fu Ukai senior a parlare. «Descrivimi i tuoi sintomi.»
«Nonno, non gli crederai sul serio!» Quello lo zittì con cenno della mano, e adesso tutta l’attenzione era rivolta ad Oikawa.
Il ragazzo prese un profondo respiro, infossando un po’ il collo. «Niente di particolare, per adesso… Ho solo sognato questo ragazzo, Iwa-chan, più di una volta, e all’inizio ho pensato che fosse un nostro connazionale. La teoria che fosse l’abitante di un altro pianeta è venuta dopo, magari era una qualche specie in grado di connettersi con noi attraverso i sogni in maniera inconscia…» Stava divagando, per cui riprese il discorso. «Non avrei mai pensato che provenisse dal Pianeta Terra. Di recente, mi sono persino accorto che lui ha una ferita sullo zigomo destro, e ieri ho iniziato a sanguinare nello stesso punto all’improvviso… senza che avessi nulla.»
Ikkei annuì. «Di solito dove ti trovi quando sogni?»
«Siamo sulla vetta di una montagna… o di un cratere, non sono ancora riuscito a capirlo. E sulle pendici ci sono diversi boschetti sparsi, mentre all’orizzonte si estende il mare e nel cielo il sole sta tramontando, sempre. Quando la luce scompare, mi ritrovo nella mia stanza. »
«Riconosci qualcosa di Sibun in quel paesaggio?»
Oikawa parve rifletterci su un attimo. «Poco. Giusto qualcosa.»
«Questo perché è il frutto dell’unione tra il tuo spirito e quello di questo Iwa-chan.»
Tutti, nessuno escluso, rimasero di sale dinanzi a quella affermazione, espressa senza alcun tentennamento. Keishin credeva che suo nonno avesse qualche rotella fuori posto per dare corda a quelle assurdità.
L’anziano si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia, parlando con assoluta serietà e franchezza. «Secondo quanto si dice su Sibun, chi è affetto dalla Sindrome dell’Astronauta è convinto di poter percepire il dolore di un’altra persona anche se questa è distante anni luce. Di avere le stesse malattie, di ferirsi dove si ferisce l’altro, e di poterci comunicare attraverso i sogni. Questa persona è sempre un abitante del Pianeta Terra.» Guardò dritto negli occhi il giovane che gli stava seduto davanti e che pendeva dalle sue labbra. Sospirò. «Beh… Queste persone hanno ragione. O almeno, mia sorella ne aveva.»
Hinata per poco non sputò il tè, mentre gli altri ospiti rischiavano quasi di cadere indietro con la sedia; solo Tooru rimase fermo, incapace di esprimere qualsiasi emozione, o di accennare qualsiasi movimento.
«Un attimo, nonno, sei stato tu stesso a farla scagionare!»
«Perché altrimenti sarebbe sul serio impazzita» rispose al nipote. «Molte delle persone che cadano nella più completa follia non lo fanno per via della Sindrome in sé, ma per il fatto che vergono emarginati dall’intera società, arrivando al punto di credersi seriamente pazzi…»
Spostò lo sguardo di lato, sui tre giovani che gli stavano seduti davanti. «Oikawa, conosci il significato della parola destino?» Vedendo il castano annuire, continuò. «Mia sorella diceva che era come se fosse destinata a quel giovane ragazzo del suo sogno, come se fossero legati. Ha raccolto delle informazioni sul quel pianeta che nessuno possiede, e tutto grazie a quei sogni. Credimi, sono descrizioni troppo accurate persino per un bambino con molta fantasia.» Si fermò un attimo, giusto per riprendere fiato. «Gli astronauti sono i nostri Ricercatori per i terrestri. È stato dopo il caso di mia sorella che si è diffuso questo nome, perché era stata lei a utilizzare per la prima volta quella parola. Voleva andare a trovarlo… ma come hai ben capito, non le è stato permesso. Mi ha raccontato di averlo sentito morire…»
Ukai prese un respiro profondo, l’aria che era diventata colma di un’elettricità a loro sconosciuta. «Ascoltami Oikawa, io non ho mai dubitato delle parole di mia sorella, mai. Era una scienziata, e ha dovuto fingere di non avere nulla solo per poter sopravvivere e sperare che, un giorno, potesse incontrare questa fatidica persona. Io non so perché tu sia legato proprio a quel giovane, ma sappi che un motivo c’è!»
«Ovvero?» Fu Kageyama a parlare, anche se non si aspettava seriamente una risposta quella domanda. Ukai-san, però, sembrava avere la risposta a tutto.
«Mia sorella mi raccontava che il Pianeta Terra, un tempo, era stato florido, ma che stavano avvenendo troppe catastrofi e troppe persone morivano per via delle malattie.» Non smise nemmeno un attimo di guardare il castano, che adesso aveva le pupille ridotte a due fessure, le mani sudate e appiccicaticce. Perché aveva il presentimento che quello che avrebbe detto l’uomo non sarebbe stato positivo?
«In parole povere, ci stai dicendo che il Pianeta Terra stava diventando seriamente un pianeta ostile?» chiese il nipote, ora più che mai interessato alla conversazione.
L’altro alzò le spalle. «Non nei modi che decantiamo noi, mai sì… Sì, è così. Sono convinto che, adesso, la Terra sia arrivata a livelli di vivibilità tra i più bassi…»
Era questo allora il motivo per cui sognava Iwa-chan? Per essere destinato a sentirlo soffrire, sentirlo morire, senza poter fare nulla? Non c’era davvero niente che potesse fare?
No, era destinato a fare altro, e doveva farlo lui, per via del suo carattere, per via del suo comportamento un po’ fuori norma.
Qualcosa c’era, ma significava che doveva rinunciare al suo ruolo di bravo cittadino di Sibun e comportarsi come un matto. Ma era l’unica alternativa, se voleva salvare Iwa-chan e migliaia di altre persone possibilmente.
«Ukai-san» disse, dopo interminabili minuti di silenzio. «Posso avere le informazioni raccolte da sua sorella?»





Kageyama e Hinata erano seduti, le gambe a penzoloni nel vuoto, sul cornicione dalla terrazza che la famiglia di Kageyama aveva sul tetto. Si erano scambiati a malapena due parole usciti da casa di Ukai-san, giusto per dividersi i soldi per dei ghiaccioli, che adesso stavano gustando assieme. Anche se quello di Tobio, a dirla tutta, si stava sciogliendo sulla sua mano. Era ancora troppo preso dalle immagini di Oikawa-san che gli scorrevano davanti, mentre prendeva i fascicoli tra le mani, e i suoi occhi brillavano di una luce particolare, non era la sua solita determinazione. Kageyama non credeva che la determinazione potesse assumere le sfumature più differenti.
«Cosa credi che abbia intenzione di fare Oikawa-san?» chiese poi, senza pensarci, senza rendersi conto del soggetto che aveva accanto.
Hinata alzò le spalle. «Non ne ho idea… Ma sono convinto che farà di tutto per andare sul Pianeta Terra.»
«Quindi tu credi a tutto quello che ci ha raccontato Ukai?»
«Tu no?»
«Non lo so…»
«Io ci credo!» disse, mangiando l’ultimo pezzo rimanente del suo ghiacciolo. «E credo anche che farei la stessa cosa di Oikawa-san!»
Kageyama inarcò un sopracciglio. «Ah?»
«Se sapessi che sono destinato a una persona, e che quella persona è in pericolo, anch’io fare di tutto per salvarla.» Si girò verso il compagno e acerrimo rivale di sempre, inclinando la testa e sorridendo. «No?»
Tobio sentì una sensazione calda all’altezza del petto, pressante e che rischiava di schiacciargli la cassa toracica. Succedeva da diverso tempo in compagnia di quel cretino di Hinata Shoyo. La sola idea che si fosse preso una cotta per quell’incapace lo mandava sui nervi.
Scostò lo sguardo, le punte dell’orecchie rosse come due pomodori maturi, e gli rispose, bofonchiando. «Forse sì.»






Domande? (sì, chiedo scusa di essermi presentata così ^^)
Perché questo prompt? Per la questione dei sogni, ovvio. Sono abbastanza realisti, quindi non riescono a capire se quello che stanno sognando sia vero oppure frutto della loro testa, almeno finché Oikawa non riceve quelle informazioni da Ukai. E poi, io amo Matrix *piange tutto*
Che cosa sono gli Atti? In origine, questa storia doveva avere più capitoli, ma per rispettare le regole del contest (qui) ho dovuto unirli assieme. La suddivisione in atti è solo un modo simpatico di far capire che la trama cambia leggermente (no, in realtà faccio come San Tommaso e le sue questioni nella Summa Theologiae, divido tutto *la mettono al rogo*);
Trappist-1? Sibun? Il primo è il sistema da poco scoperto dalla Nasa, ed è formato da sette/otto pianeti, se non sbaglio. Ho deciso di scegliere il pianeta sette (PERCHE’ SETTE E’ LA MISURA MASSIMA DI QUALSIASI COSAH!), citando comunque gli altri due pianeti che gli scienziati hanno individuato come simili alla conformazione terrestre. Sibun, in gotico, significa sette :’)
Che cosa è la tempesta rossa? È la piaga? Se non avete visto Interstellar, queste due cose prendono spunto da questo film. Dura quasi tre ore, ma dopo che mio padre me l’ha fatto scoprire, mi si è aperto un mondo. Sulla Terra, si è abbattuta questa piaga, che distrugge ogni cosa poiché si nutre d’ossigeno, e ci sono frequenti tempeste di sabbia. Nella mia storia, sono leggermente più devastanti;
Come funziona la questione delle gare? Sono come delle normalissime gare di Formula1, solo con le navicelle spaziali fighe :’D I vari ruoli che cito associati ai personaggi prendono spunto proprio dai ruoli che le varie persone occupano all’interno della scuderia Ferrari. Prometto che farò un documento Word in cui scriverò i ruoli dei personaggi e lo posterò su Twitter, appena avrò tempo... *pensa agli esami e si dondola sulla sedia*;
Come funziona la questione dell’Archivio? Perché proprio le Piramidi? Su Sibun la scienza conta più di qualsiasi altra cosa. Sono organizzatissimi, per cui tendono a conservare qualsiasi cosa. Il Consiglio, beh, è un po’ come la nostra sede del Parlamento. Per quanto riguarda le Piramidi… si tratta di un possibile indizio :’)
Che cosa è la Sindrome dell’Astronauta? Si capirà con lo scorrere dei capitoli, ma avrete ben capito che funziona come una sorta di legame tra due soulmate. Intanto, vi lascio dire che prende spunto da questa canzone <3
Qualche riferimento? Cnosso e Festo prendono spunto dai palazzi minoici: oltre ad essere sede del sovrano, venivano anche conservati gli approvvigionamenti. Scusatemi, ma Storia Greca si è impossessata di me. Giunone, ovviamente, è la divinità protettrice delle donne partorienti per gli antichi greci, di conseguenza mi sembrava adatto per il computer del Catalogo. Beemo è… beh, conoscete Adventure Time? No? È questo robot qui. Asimo è un prototipo di robot umanoide inventato dai giapponesi. Ignis, invece, prende spunto dalla parola fuoco, proprio perché era un pianeta con una temperatura altissima;
Ho detto tutto? Per adesso sì. Fatemi sapere che cosa ne pensate dei miei OC e della caratterizzazione dei personaggi! Qualsiasi commento costruttivo è ben accetto! <3
Ci si vede, pirati spaziali! ;)
*parte la canzone di Capitan Harlock a caso*
_Lady di inchiostro_

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 7617 
Prompt/Traccia: Un cielo diverso
Note aggiuntive della piratessa spaziale (?): dedico questo capitolo a Laura, la mia beta e waifu. Scusami per farti disperare..
.


 


Capitolo secondo
~

Atto primo
 


Un mese dopo...






I suoi sogni si erano fatti sempre più strani. Oikawa non faceva che chiedergli continuamente informazioni sul pianeta Terra, su come fosse un tempo e cosa ci fosse di diverso da allora. Lui, di rimando, gli chiedeva come fosse il suo pianeta, e avevano scoperto che alcune parole all'altro erano sconosciute.
A quanto pare, su Sibun, si parlava prettamente il giapponese, ma c'erano tanti abitanti che parlavano anche altre lingue. La spiegazione a tale particolarità, però, non c'era; o almeno, Oikawa non aveva badato al fatto che riuscissero a comunicare pur provenendo da pianeti differenti, del resto era convinto che Iwa-chan fosse un abitante di Sibun.
Avevano scoperto che quello non era un mare, ma un lago dall'acqua blu, come non si era mai visto su Sibun: lì, l'acqua del mare sembrava grigia. E non avevano neanche i vulcani, e a detta di Iwaizumi loro davano sempre le spalle alla sua bocca.
Avevano parlato di loro, delle vite che conducevano e di quello che facevano durante la giornata, e Hajime si era sentito veramente umano. Parlare con Oikawa lo faceva sentire umano, perché quando si svegliava la mattina doveva preoccuparsi della piantagione, di suo padre e Haruka, e cosa più importante di sopravvivere. Tooru aveva la capacità di farlo sentire normale, un ragazzo di ventitré anni qualunque e che aveva ancora una vita davanti.
Iwaizumi Hajime si era ritrovato a sperare ancora. Ma il dubbio che questo fosse solo frutto del suo inconscio continuava a serpeggiare.






Questa volta, i raggi del sole avevano una sfumatura che andava dall’arancione al rosso tenue. Oikawa gli aveva detto che gli ricordava il suo sole, che loro chiamavano Trappist-1, i cui raggi erano molto più tenui.
Era vero. La stella del Sistema Solare mandava dei raggi che bruciavano al contatto con la pelle, ora più che mai.
Era seduto sul bordo del cratere, i talloni che sbattevano contro la parete rocciosa, e Oikawa era già seduto accanto a lui.
Sorrideva, come sempre. «Ciao Iwa-chan!»
«Shittykawa» disse, usando il nomignolo che gli aveva affibbiato, e il castano s'indignò.
«Potresti chiamarmi in un'altra maniera, eh Iwa-chan?» 
«Ti ho già detto che smetterò di chiamarti in questo modo, se tu la smetterai di storpiare il mio nome.» 
Il castano aprì la bocca, richiudendola subito dopo e sbuffando.
«Allora, come sono andati gli allenamenti?» gli chiese poi.
Un ghigno si dipinse sul suo viso. «Diciamo così: tra due settimane sarò pronto per essere eletto campione.»
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo. «Certo...»
«Tu come stai?»
Hajime spostò lentamente lo sguardo su di lui, il ghigno di prima venne sostituito da un'espressione preoccupata. «Sto bene, Oikawa, non c'è bisogno che ti preoccupi...»
«Lo sai che lo sento, Iwa-chan...»
Tooru gli aveva confessato che era in grado di sentire il dolore che provava lui, e che una cosa del genere nel suo pianeta veniva considerata una malattia. La chiamavano la Sindrome dell'Astronauta. Se avessero scoperto che ne era affetto, forse l'avrebbero rinchiuso da qualche parte e avrebbero smesso di sognarsi a vicenda.
«Sì, lo so!» sbottò. Non era certo che la cosa valesse anche per lui. Fino ad ora, Oikawa non si era ancora ferito e lui non aveva riscontrato nulla di anomalo nel suo corpo. O almeno, nulla di anomalo rispetto al solito…
«Hajime...» Sentì la carne rizzarsi di colpo. Oikawa l'aveva chiamato per nome. Da un mese a questa parte, non glielo aveva mai sentito pronunciare. «Devo dirti una cosa... Riguarda quel mio progetto...» 
Gliene parlava già da un po' di tempo, stuzzicando la sua curiosità allo stesso modo di un bambino che fa i dispetti. Adesso, però, non sembrava per niente un bambino: sembrava un giovane adulto pronto a fare un discorso serio.
Iwaizumi annuì, come a dire che lo stava ascoltando, e Oikawa prese un bel respiro prima di cominciare a parlare. «Sto costruendo una navicella.» L'altro inarcò un sopracciglio, scettico. «In realtà, sto solo rinforzando una Nave Passeggeri. Le usiamo per la gente che si sposta da Sibun ai due pianeti per le colture e le serre. Te ne ho parlato...»
«Okay, posso sapere a che ti serve? Riguarda la gara?»
«No. Riguarda te.»
Hajime spalancò gli occhi. Ora capiva, tutto aveva un senso: Oikawa non gli poneva quelle domande sul suo pianeta per colmare la sua naturale curiosità. Lui voleva...
«No» disse, alzandosi in piedi. «É fuori discussione!»
«Iwa-chan, devo solo aggiungere le ultime cose, poi potrò venire a salvar...»
«Chi, Oikawa? Chi?» urlò l'altro. «Me? Mio padre? Haruka?»
«Pensi che li lascerei sul vostro pianeta pur sapendo che sono destinati a morire?»
»É proprio questo il punto, Tooru.» L'aveva chiamato per nome anche lui. Per la prima volta. «Non hanno bisogno di false speranze...»
«Iwa-chan, io posso venirvi a prendere!» Oikawa si era alzato in piedi anche lui e gli stava urlando contro, disperato.
«No, Oikawa, non puoi!» La sua voce si affievolì. «Non puoi...»
Calò un attimo il silenzio, Oikawa che mosse cautamente un paio di passi verso di lui, con l'intenzione di prendergli il viso tra le mani e permettergli di guardarlo in faccia. Non ci riuscì, Iwaizumi parlò quasi subito.
«Io continuo a credere che tu non sia reale.» Oikawa fece quasi un balzo dopo quella affermazione. «Continuo a credere che tu sia solo il frutto della mia testa.» Lo guardò dritto negli occhi. «Non ho bisogno di essere salvato da nessuno. Se è vero che sei reale, allora dovresti pensare al tuo futuro, non a me.»
Quelle parole facevano male, erano acido corrosivo sulla sua lingua.
La notte che stava scendendo su di loro disegnò delle linee violacee e bluastre sul volto di Oikawa. Parlò con un filo di voce, gli angoli degli occhi che piano piano si inumidirono. «Sì. Forse hai ragione.»









La mattina dopo, Hajime si era alzato già stanco. Si sentiva fiacco, debole, molle; persino muovere le braccia per stiracchiarsi comportava uno sforzo immane per lui. Aveva passato il resto della giornata cercando di non pensare ad Oikawa, a quello che gli aveva detto, alla sua espressione sofferente, l’ultima cosa che aveva visto prima di ripiombare nella fredda e dura realtà. Quella mattina, alle prime luci dell’alba, c’era stata un’altra tempesta. Adesso, erano frequenti anche nelle zone di campagna.
La Terra non ce la faceva più, voleva farla finita. Hajime non poteva biasimarla.  
Voleva tornare ad essere quella di un tempo, ma sapeva che non era possibile, che non si poteva tornare più indietro. Gli uomini del ventunesimo secolo avevano fatto strage del pianeta, facendone quello che volevano, senza pensare alle conseguenze, senza pensare alle ripercussioni che avrebbero potuto avere gli abitanti di un secolo dopo.
C’era una parte di lui che avrebbe voluto credere a Oikawa, che ce l’avrebbe fatta sul serio, perché anche se lo conosceva da solo un mese, si sarebbe fidato di lui anche ad occhi chiusi; e poi c’era la parte razionale, quella che aveva visto fin troppo male nel mondo, quella che era sbocciata non appena sua madre era morta quando lui aveva l’età di Haruka. E quella gli diceva che Oikawa era solo il frutto delle sue speranze senza futuro.
Dopo aver lavorato con fatica al campo di riso, Hajime era rimasto tutta la giornata a casa, aiutando il padre di tanto in tanto con qualche lavoretto, nel tentativo di riparare qualche elettrodomestico, ma niente di che. Haruka venne a trovarlo nel pomeriggio.
«Salve a tutti!» esclamò la bambina tutta contenta.
«Ciao Haruka!» Fu il padre di Hajime a parlare per primo. «Come stai? Passata l’influenza?»
Era stata male nell’ultimo periodo, e da allora non si vedeva spesso in giro. A informarli delle sue condizioni era stata la madre, una ex infermiera, proprio come la signora Iwaizumi.
Haruka annuì, sorridendo.
«Che hai nel sacchetto?» parlò a quel punto Hajime, accorgendosi della busta che teneva in mano.
La bambina si avvicinò al tavolo, accomodandosi su una sedia, e tirando fuori un pacco di biscotti che pareva intatto. «Sorpresa!»
«Bambina mia, ma dove li hai presi?» domandò con stupore il signor Iwaizumi, sedendosi anche lui, imitato poi dal figlio.
«Li ho trovati!» Hajime alzò un sopracciglio. «Te lo giuro, Iwaizumi-san, non ho più rubato da allora!»
Haruka giunse le mani e strinse gli occhi, quasi ad invocare un incantesimo, nella speranza che Iwaizumi-san le credesse. Alla fine, il giovane le accarezzò la testa come solo lui sapeva fare e le fece un lieve sorriso. Aprì il pacco, e fu il primo a sacrificarsi per testare se fossero mangiabili: chissà a che epoca risalivano.
«Sono buoni, servitevi!» disse, dopo aver ingoiato il boccone.
I tre rimasero a parlottare per un po’, prima che il padre di Hajime decidesse di tornare ad occuparsi della lavatrice, lasciando i due ragazzini a chiacchierare.
«Stai bene, Iwaizumi-san?» sbottò a un certo punto Haruka, prendendo un altro biscotto.
Sentì un formicolio dietro la schiena, la voce preoccupata di Oikawa che gli rimbombava dentro il cervello, mentre il senso di colpa faceva galoppare il suo organo vitale come un cavallo impazzito. No, lui non stava bene, per niente. Forse all’apparenza sì, ma dentro stava marcendo come il nucleo terrestre. E se era vero quello che gli aveva detto quel mezzo pazzo, allora lo stava sentendo anche lui.
Anche lui si ritrovava ad essere stanco, anche lui faceva fatica a respirare, anche lui sentiva in bocca il sapore amaro del sangue.
«Sì…» rispose, pur sapendo di star mentendo spudoratamente. «Sono solo stanco…»
«Perché? Hai dormito male?» Quella consapevolezza investì completamente Haruka, che sbatté le delicate e cerulee mani sul tavolo, issandosi in piedi sulla sedia. «È successo qualcosa a Oikawa?» chiese, agitata.
Hajime le aveva raccontato dei suoi sogni, ma non avrebbe mai immaginato che ci credesse veramente, né che prendesse così tanto a cuore Oikawa. Insomma, era troppo assurdo persino per un bambino di dieci anni!
Ma non per Haruka. Lei credeva veramente nell’esistenza di Sibun, popolata da una razza che era simile – se non quasi identica – a quella umana.
Si passò una mano sugli occhi: non avrebbe voluto arrecarle un dispiacere, ma non se la sentiva di mentirle un’altra volta. «Abbiamo litigato.»
«Cosa…? E per quale motivo?» Haruka sembrava che stesse per avere una crisi di pianto.
Sospirò. «Perché vuole venire sulla Terra per portarci su Sibun.»
Ci fu un attimo di silenzio, il tempo che quella frase venisse portata via dalla brezza pomeridiana, poi Haruka fece un salto sulla sedia, rischiando di cadere. «Iwaizumi-san, è una notizia stupenda! Dobbiamo avvertire gli altri!»
Hajime scosse il capo. Avvertire gli altri…?
«Aspetta, Haruka, forse non hai capito…»
«Un mio amico ci può aiutare, è bravissimo con i computer e il suo papà lavora alla base spaziale che c’è qui vicino. Potremmo diffondere la notizia sui… uhm… com’è che si chiamano? Social qualcosa. Qualcuno è rimasto aperto, no?»
A dirla tutta, forse erano solo gli uomini più ricchi a utilizzarli, più per abitudine che per il reale senso che avevano un tempo.
«Haruka, lui non verrà qui!»
Gli occhi blu della bambina tremolarono. «Perché no? L’ha detto lui…»
«Io gli ho detto di non venire.»
Quella frase la disse tutta d’un fiato, e per un attimo la bambina parve non capire, o forse credeva di aver sentito male. Hajime, tuttavia, non abbassò lo sguardo, neanche quando lei si arrabbiò con lui.
«Perché l’hai fatto? Sei una persona cattiva, Iwaizumi-san!»
«Haruka, morirebbe in un posto così! Lui è sempre stato abituato a vivere in pace, perché deve rischiare tutto per… cosa? Tre scapestrati senza più una ragione di vita?» Era questo il suo reale motivo. Non il fatto che continuasse a sostenere che non fosse reale e che fosse tutta una finzione. Con Oikawa, aveva toccato la realtà, aveva toccato la vera essenza delle cose e come queste dovessero essere, tutte al loro posto. Era anche vero, però, che quel giovane pilota viveva non solo su un pianeta distante anni luce da loro, ma era persino un pianeta prospero. Lì, Tooru aveva la sua vita, il suo futuro, tutto; metterlo a rischio per la sua, di vita, era solo un atto di egoismo nei confronti di chi gli stava accanto. O forse, in questo caso, l’egoista era solo lui.
Non era sicuro che Haruka avesse capito la natura delle sue parole, ma continuò a parlare a oltranza, osservando la superficie in legno del tavolo. «Non gli permetterei mai di sacrificare la sua vita per me…» disse, in un sussurro.
Non sentendo alcuna risposta da parte della bambina, alzò lo sguardo, trovandola nuovamente seduta e con la testa china, il mento che toccava lo sterno. Hajime corrucciò la fronte, chiamandola, ma non arrivò alcuna risposta. Si alzò e fece il giro del tavolo, abbassandosi poi alla sua altezza.
«Haruka…?» disse, toccandole un braccio nel tentativo di riscuoterla. «Non è il caso di scherzare.»
Mai si sarebbe aspettato che quel corpicino fragile finisse tra le sue braccia, come se fosse una bambola di pezza. Sembrava avesse smesso di respirare.
«Haruka? Haruka!» disse, scuotendola appena, ma quella non rispondeva.
Hajime si lasciò andare a un’imprecazione, chiamando disperatamente suo padre e stringendosi la bambina al petto.





*




 
Due settimane dopo…





Era appoggiato alla parete, in attesa di entrare dentro la stanza. Suo padre era di sotto a parlare con il padre di Haruka.
Quella casa non era diversa dalla loro, una classica casa di campagna che si estendeva su un bel campo. La madre di Haruka e la sua le comprarono poco prima che la fine del mondo avesse inizio. E osava dire, per fortuna.
Guardò fuori dalla finestra che aveva di fronte, il campo praticamente lacerato dalla piaga: l’unica cosa su cui potevano contare era quella povera gallina oramai troppo vecchia e il cibo che Haruka e il padre portavano a casa. Hajime strinse le palpebre, perché il solo pensare che a dieci anni Haruka rubava e pensava al benessere della sua famiglia lo faceva andare su tutte le furie. Avrebbe dovuto divertirsi e andare a scuola, cosa che fa un qualunque bambino di dieci anni. Aveva sulle sue spalle un peso troppo grande, una responsabilità che non si addiceva alla sua età, e forse era anche per questo che si era ammalata. E adesso era chiusa nella sua stanza e stava per spirare.
La porta si aprì, e Hajime vide uscire la madre di Haruka in lacrime, i capelli e il viso stravolti. Gli lanciò appena un’occhiata, poi provò a sorridergli, incoraggiandolo ad entrare. Fece un piccolo inchino, chiudendo poi la porta alle sue spalle. Strinse la maniglia tra le mani prima di lasciarla andare, dirigendosi con lenti e pesanti passi verso il letto della bambina, il corpo nascosto sotto le coperte.
I suoi occhietti si aprirono e alla vista del ragazzo fece un lieve sorriso. «Iwaizumi-san…» mormorò, tossendo poco dopo.
Lui cercò di ricambiare il sorriso. «Non ti sforzare, Haruka.»
«Iwaizumi-san, hai visto Oikawa stanotte…?»
Le spalle di Hajime tremarono, ma lui fece finta di niente e aggiustò la frangetta della bambina, in modo da poter vedere meglio i suoi occhi. «Sì… e ti saluta.»
Per quanto non gli piacesse mentire ad Haruka, non era il caso in quel momento dirle che non sognava Oikawa da ben due settimane, da quando lei si era ammalata, gli incubi che venivano ad assalirlo ogni notte, assieme ai ricordi di sua madre malata. Era comunque un gesto tipico di Oikawa, sapeva quanto Haruka fosse una sua grandissima fan.
Si ritrovò improvvisamente desideroso di vederlo. Aveva l’impellente bisogno di dirgli quello stava succedendo, ora, in quel preciso istante.
Haruka gli sorrise, dando un altro colpo di tosse prima di parlare. «Posso chiederti un favore…?» Iwaizumi annuì. «Puoi abbracciarmi da dietro le spalle, per favore?»
Il ragazzo annuì, e in poco tempo si era già infilato sotto le coperte, scostando Haruka con cautela e appoggiandosela al petto. «Intendevi così?» disse, circondandola con un braccio.
«Sì.» Premette il viso contro la maglietta di Hajime, artigliando debolmente il tessuto tra le dita. «Iwaizumi-san, tu mi vuoi bene, vero?»
Il nodo alla gola, per un attimo, gli impedì di rispondere. Quella ragazzina era stata il suo mondo per quasi metà della sua vita. «Certo.»
«Posso chiederti di mantenere una promessa?»
«Quale?»
«Devi promettermi che andrai con Oikawa anche se io non ci sono… e che gli dirai che mi dispiace tanto…» Gli occhi blu della bambina incontrarono quelli verdi di Hajime, oramai lucidi, e lui non poté fare altro se non annuire.
La bambina sorrise, mostrando appena i denti, e le sue piccole dita si andarono a stringere a quelle della mano libera di Iwaizumi. Rimasero così per un po’, prima che lei dicesse, quasi come se si stesse addormentando: «Iwaizumi-san, sei caldo…»
Poi, il silenzio. Nessuno fiatò, nessuno parlò. Hajime perché non ne aveva il coraggio, Haruka perché…
«Haruka?» la chiamò il giovane, sentendo che la sua presa si era fatto sempre più debole, se non inesistente. «Haruka…»
Non ebbe bisogno di altre conferme. Schiuse le labbra sui capelli della bambina, chiudendo gli occhi e lasciando che due lacrime gli solcassero il viso.






*




 
Il giorno dopo…





Suo padre gli aveva prestato una giacca nera, ma per il resto era vestito sempre allo stesso modo. Haruka era stata seppellita all’ombra di bell’albero, forse uno degli unici ad essere rimasto ancora sano e intoccato dalla piaga. Dopo quella specie di cerimonia improvvisata, senza che avesse nulla di religioso, Hajime era rimasto a osservare il paesaggio desolante che lo circondava. C’era vento, ma niente che lasciasse presagire l’arrivo di una tempesta.
Le ultime parole di Haruka gli martellavano dentro la testa fino a perforare la carne e il cranio. Lei avrebbe voluto andarsene, vedere con i suoi occhi un posto nuovo e sconosciuto, riuscire a respirare dell’aria che fosse pulita… e invece era morta sulla Terra.
Haruka ci credeva, mentre lui era ancora in vita. Forse, sarebbe stato meglio se fosse stato lui a sparire…
Tossì, guardandosi poi il palmo della mano: rosso sangue. «Merda!» masticò tra di denti.
Si chiese se fosse successo anche ad Oikawa, qualunque cosa stesse facendo. Chiuse la mano sporca di sangue a pugno, e per un attimo non era più su quel campo secco e morto, ma in quello strano mondo frutto dei ricordi suoi e di Oikawa. Il ragazzo era accanto a lui e gli stava sorridendo. Sì, se avesse avuto la possibilità di conoscerlo, probabilmente Haruka l’avrebbe adorato. Avevano entrambi lo stesso sorriso.
Si incamminò verso casa dei genitori della bambina, e dovette fare un po’ di strada per raggiungerla, le mani infilate dentro le tasche dei pantaloni. Si impose di tossire il meno possibile, lo faceva solo per necessità. Quando arrivò a destinazione, la gente non fece caso a lui. Non se l’aspettava, eppure erano venuti in molti: del resto, Haruka era conosciuta per il suo essere socievole e amichevole con tutti.
Si guardò intorno, finché il suo sguardo non ricadde su un ragazzo, il più giovane di tutti tra il gruppo di persone, vestito in maniera impeccabile. Sembrava quasi fuori posto. Era accompagnato da un uomo, forse suo padre, anche lui vestito di tutto punto.
Ricordò, all’improvviso, la discussione che lui e Haruka ebbero prima che lei si sentisse male. Parlava di un suo amico il cui padre lavorava per la Jaxa. Quella bambina aveva sempre avuto un cuore grande, la sua idea era quella di avvertire più persone possibili per poterle salvare. Hajime non sapeva se sarebbe riuscito a fare una cosa del genere, ma poteva provarci. Per lui, valeva come una seconda promessa.
Haruka gli aveva detto di vivere. E lui l’avrebbe fatto.
Non appena il ragazzo rimase solo, si diresse verso di lui per parlargli. «Tu eri amico di Haruka?»
L’altro annuì, intimorito da quella figura austera. «Tuo padre lavora per la base spaziale che sta nelle vicinanze?» Annuì ancora. «Allora devi un favore a me e Haruka…»




 
Atto secondo






Diede un altro colpo di tosse, guardandosi poi il palmo della mano: come al solito, la sua mano era sporca di sangue. Deglutì, e sentì in gola il retrogusto ferroso della sua stessa saliva, pulendosi poi la mano in tutta fretta. Nelle ultime due settimane, era peggiorato. Sua sorella se n'era persino accorta, ma ovviamente i medici avevano detto che non c'era nulla di anomalo nel suo corpo. 
Certo, non era lui a stare male. Era Iwa-chan quello che stava male.
Oikawa prese un bel respiro, muovendo le mani avanti e indietro sulle cosce. Si trovava dentro la stanza adibita per i piloti, nell’attesa dell’inizio della corsa, ogni scuderia ne aveva una.
Non doveva pensare ad Iwa-chan, non nel suo grande giorno. Doveva pensare alla sua vita. In fondo, lui voleva questo.
Qualcuno bussò alla porta, e poco dopo fece la sua comparsa sulla soglia Hoshi. «Sei pronto?» gli chiese.
Lui cercò di fare il suo solito ghigno, anche se dentro continuava a sentire dolore. E non era solo un dolore fisico. «Sono nato pronto!»
La sorella ricambiò il suo sorriso, ed entrambi si diressero fuori la stanza d'attesa, passando da un corridoio all'altro. Arrivarono alla scuderia, dove il suo team lo stava già aspettando, e non mancarono di accoglierlo con urla, fischi e qualche pacca sulla schiena. Irihata-sensei gli diede le ultime direttive, per poi aggiungere un ultimo suggerimento, con un atteggiamento paterno che veniva fuori solo in quelle occasioni. «Fai attenzione…»
Oikawa annuì, infilandosi il casco e accomodandosi dentro la navicella. «Okay, dolcezza, facciamo andare tutti in visibilio oggi!» disse, accendendo tutti i comandi necessari.
Aspettò che la saracinesca si aprisse, i motori già accessi, poi la navicella schizzò in aria, lasciando una spirale di fumo alle sue spalle. Fece un paio di giravolte, e quello fu l’unico momento, per Oikawa, in cui poté spegnere il cervello e smettere di pensare. Smettere di pensare ad Iwa-chan. La gente sugli spalti era minuscola, ma poteva riconoscere benissimo lo striscione che il suo fan club aveva fatto per lui. Si chiese, per una frazione di secondo, se ad Haruka-chan sarebbe piaciuto prenderne parte.
Si concentrò sulla pista, dandovi una veloce occhiata: era una delle più difficili, con diverse curve a gomito, ma non si lasciò intimorire. Notò che anche i suoi avversari erano usciti dalle loro scuderie e stavano controllando che tutto fosse apposto. Finiti i cinque minuti di prova, si aprì uno spiraglio nella cupola protettiva trasparente, abbastanza grande da fare entrare le navicelle, che si posizionarono sulla linea di partenza nell’ordine con cui erano arrivati nella precedente gara.
Oikawa strinse le mani attorno al volante, ingoiando un grumo amaro: aveva ancora il sapore del sangue.
No, non poteva permettersi distrazioni. Aveva faticato tutta la vita per arrivare fin lì, e i suoi due nemici di sempre gli erano proprio accanto, contro di lui, e gli avrebbe fatto mangiare la polvere. Non poteva sprecare i suoi anni di sacrifici per uno sciocco, insulso terrestre. Non poteva sprecare la sua vita per Iwa-chan. Lui non…
Il conto alla rovescia riuscì a riscuoterlo dai suoi pensieri, e appena un secondo dopo stava già correndo sulla pista.
Fu una gara all’insegna dei colpi di scena, la navicella della Karasuno e della Aoba Johsai che tentavano di superare la imbattibile navicella della Shitorizawa, ma il meglio – come sempre – venne riservato per il gran finale. Il fatidico ultimo giro.
La gente quasi si alzò in piedi quando Oikawa, con un abile mossa, riuscì a superare Ushijima, le navicelle che sbattevano tra di loro, e tramite radio poté sentire l’intera scuderia festeggiare come non mai, assieme a lui. Mancava l’ultimo tratto di strada, poteva già sentire il dolce suono della parola campione associato al suo nome. Mezz’ora dopo, vedeva già la linea del traguardo, doveva solo fare l’ultima curva e poi avrebbe ufficialmente vinto.
Girò il veicolo magistralmente, come solo lui sapeva fare, e giurò di poter sentire lo stupore della gente anche da dentro la sua navicella. Fu quando rimise il veicolo nella posizione corretta che si accorse che c’era qualcosa che non andava. Il segnale di allarme scattò improvvisamente, come se al processore fosse successo qualcosa, e Oikawa non riusciva più ad avere il controllo del veicolo.
Non riusciva neanche a parlare con il suo team, era nel panico, le mani che tremavano. Non gli era mai successa una cosa simile, pur sapendo quali fossero i rischi del mestiere.
Bastò un attimo, e la navicella si andò a schiantare per terra, proprio a pochi metri dalla linea di traguardo.
Le orecchie gli fischiarono, o forse era solo il rumore delle altre navicelle che erano giunte a destinazione. Poi, non riuscì più a distinguere alcun suono o a vedere altro, se non macchie rosso sangue. Le stesse che aveva sul suo palmo quella mattina. Le stesse che vedeva Iwa-chan ogni giorno…
«Non devo svenire…» si impose, mormorandolo tra le labbra secche come due foglie, ma le palpebre si chiudevano da sole. «Non devo svenire… Non…»
L’ultima cosa che riuscì a distinguere furono delle figure che forzavano la sua navicella. Poi, un’ultima parola spirò tra le sue labbra. «Hajime…»





*




 
Mezz’ora prima





Quella mattina, Iwaizumi si era recato alla base spaziale di Kagoshima assieme a Jun, l’amico di Haruka, il cui padre era stato un ingegnere aerospaziale di grande fama. Le basi spaziali della Jaxa, come anche quelle della Nasa, oramai, non avevano più senso di esistere. Al suo interno vi erano ancora persone che lavoravano a chissà quali progetti, nel tentativo di salvare l’umanità.
Un tempo, avrebbe solo detto che si trattava di una banda di illusi, gente che non voleva arrendersi all’apparenza. Ma aveva da poco seppellito la sua amica più cara – no, per essere più precisi, la sua piccola sorellina – che credeva ancora nella bontà umana e nella possibilità di un salvataggio. Ora, avrebbe contato fino a dieci prima di insultare a sproposito.
Non fu un problema entrare: il ragazzino gli aveva fornito un pass, e tutti all’interno della stazione sembravano conoscerlo. C’era ancora un prototipo di una qualche navicella esposto fuori e lasciato dimenticato, e Hajime poté accorgersi della presenza di diversi uomini in camice e non, all’interno dell’area. Passarono da un corridoio a un altro, e per lui sembravano tutti uguali, tutti pieni di gente che ancora credeva nella scienza, nella fisica, nella matematica e nelle enormi risorse che queste tre materie, riunite assieme, potevano dare.
Jun lo portò dentro una stanza piena di computer, e alcuni di questi parevano abbastanza datati e fuori uso. Gli disse di non preoccuparsi, che usava di nascosto quella stanza dimenticata da tutti per poter hackerare i computer dei vecchi e sporchi ricchi. Hajime sapeva che era una cosa abbastanza illegale, ma del resto la giustizia era andata a farsi fottere quando Haruka era morta, perciò non aveva più importanza. Aveva parlato con Jun di quelle che erano le sue intenzioni, e se all’inizio gli aveva dato del pazzo, quando aveva sentito che questa era stata l’ultima richiesta della sua amica, si era ritrovato a tentennare.
Aveva dovuto forzare un po’ la mano, ma alla fine aveva accettato.
Passarono ben due ore nel tentavo di hackerare i social network rimasti aperti: gli unici erano Facebook e Twitter, e fu facile entrare e diffondere la notizia dell’arrivo di una navicella proveniente da un altro pianeta. Haruka avrebbe voluto questo, che la gente si salvasse.
Doveva soltanto pregare che si vedesse con Oikawa, quella notte, per potergli dare il via e dargli le direttive su dove si trovasse la base di Kagoshima. E, magari, chiedergli scusa…
«Siamo sicuri che Haruka volesse questo?» chiese Jun, soddisfatto di essere riuscito a evadere i sistemi di controllo – oramai scarsissimi – di quei due pilastri di Internet, rimanendo comunque scettico.
Jun non era un cattivo ragazzo, faceva quello che poteva per sopravvivere e per rompere la solita monotonia. In quel caso, entrare nel mondo digitale come hacker lo divertiva. La colpa non era sua, aveva solo diciassette anni. Nemmeno alla sua età Hajime aveva dei progetti per il futuro. Nessuno sarebbe dovuto diventare così, un guscio vuoto che aspettava solo la morte.
Annuì, determinatissimo, e il ragazzo alzò le spalle, ammirando per un’ultima volta la sua opera. In quel momento, però, qualcuno irruppe nella stanza. «Jun!»
Entrambi si girarono, e parevano due ladri che erano stati colti sul luogo del misfatto, Jun ancora seduto sulla sedia girevole. Hajime riconobbe subito l’uomo che gli stava di fronte: era il padre di Jun, anche lui vestito con un camice bianco, il pass che gli penzolava dal collo. «Ti avevo già avvertito di smetterla di fare l’hacker!»
«Ma io…»
«Niente scuse!» e nel dirlo, prese il figlio per l’orecchio facendolo alzare e trascinandolo fuori. «Questa è l’ultima volta!»
Non si era neanche accorto della sua presenza, e per un attimo rimase a fissare la scena, sbalordito. Capì quello che stava succedendo solo quando vide che l’uomo portava via il figlio lungo tutto il corridoio. «Aspetti un attimo!»
L’altro si girò, tenendo ancora il ragazzo per l’orecchio. «E lei chi diavolo sarebbe?»
«Iwaizumi Hajime, signore.»
«È un amico di Haruka, papà» continuò il ragazzo, contorcendosi per il dolore.
«Ho chiesto io a Jun di farmi da hacker, lui non c’entra…»
L’uomo lasciò la presa, indignato e più infuriato di prima. «Ma che bravo, un modello esemplare! Allora mi devo aspettare che la prossima volta chiederà a mio figlio di uccidere un uomo?»
«Non era mia intenzione…» Hajime avrebbe voluto replicare a quella domanda senza senso, ma si sentì improvvisamente più debole di prima, la testa che gli girava e la vista che si faceva offuscata.
«Bene, allora sparisca, prima che io chiami la sicurezza…!»
Poi, non sentì più niente, sebbene avesse padre e figlio a pochi passi. Si sentiva come se fosse sotto l’acqua e stesse affogando, non era neanche in grado di sentire la sua stessa voce. Non riuscì a muovere un passo, nemmeno quando l’uomo tornò a urlargli contro, probabilmente intimandogli di andarsene.
Riuscì a captare solo la voce preoccupata di Jun, e scorse un’espressione di puro terrore nei loro sguardi. «Iwaizumi-kun… che le succede?»
«Mio dio…»
Qualcosa di denso e caldo cominciò a colare dalla sua fronte, e Hajime si toccò la parte sinistra per capire che cosa fosse. E capì anche perché quei due lo stavano fissando come se fosse sotto l’effetto di una qualche stregoneria.
Stava sanguinando. Aveva cominciato a sanguinare senza alcun motivo.
«Oikawa…» sussurrò immediatamente.
Gli era successo qualcosa. Qualcosa di grave.
Non ebbe il tempo di preoccuparsene, perché pochi secondi dopo aveva già perso i sensi.






Aprì gli occhi di scatto. Si trovava dentro una stanza vuota, le pareti e il pavimento dipinti di nero. A stento, sulla superficie traslucida, Hajime riusciva a vedere il proprio riflesso.
Non conosceva quel posto, e di certo non era stato uno scenario dei suoi ultimi incubi. Aveva la guancia a terra e non riusciva a muoversi, gli doleva tutto. Perché sentiva dolore in tutte le sue membra? Perché i suoi arti sembravano fatti di granito?
«Dove sono…?» si chiese, provando a rigirarsi, e un dolore lancinante lo percosse tutto, al punto da farlo urlare.
Ci provò più volte, mordendo il labbro inferiore per impedirsi di urlare, e un attimo dopo fu a pancia sotto, riuscendo avere una visuale migliore di quello che aveva davanti. Vide un corpo, disteso anche questo per terra, lontano diversi metri da lui. Sembrava morto.
Si accorse solo allora di due cose, o per meglio dire, di due colori che risaltavano in quella stanza nera: il primo colore di cui si accorse fu il rosso sangue della pozza che stava attorno al cranio del corpo, e che colava dalla sua fronte; il secondo colore di cui si accorse fu il marrone chiaro degli occhi del giovane. Solo una persona, per Hajime, aveva gli occhi color cioccolato.
«Oikawa…» mormorò.
Gli occhi del giovane parevano vitrei, spenti, ed erano spalancati. Iwaizumi aveva già sentito la sensazione che stava provando in quel momento, era la sensazione di una vita che stava per andarsene, di un corpo che stava lasciando il suo calore. E lui l’aveva sentita nelle dita di Haruka strette alle sue.
«No, cazzo» imprecò, muovendosi poi a carponi, nel disperato tentativo di avvicinarsi a lui, ma ogni movimento gli procurava delle fitte simili a lance che si conficcavano nella carne.
«Oikawa, vedi di svegliarti!» gli urlò da lontano, senza smettere di muoversi. «Giuro che se muori, verrò personalmente a cercarti nell’aldilà per prenderti a calci in culo!»
Nessuna risposta, nessun movimento. Sentiva la vita del giovane pilota che, piano piano, gli scivolava addosso.
No. Non di nuovo.
«Tooru, non posso perdere anche te!» urlò ancora, e sentì uno spiacevole nodo alla bocca dello stomaco. «Tooru!»
Stava per arrendersi, questa volta sul serio, quando vide le palpebre di Oikawa muoversi. Sbatterono un paio di volte, come se Oikawa stesse giocando e fosse tutta una finzione, un gioco che aveva del macabro. Mosse appena la testa, muovendola in alto in modo da poterlo vedere.
«Iwa-chan» mormorò, e il ragazzo in questione si lasciò sfuggire un sorriso.






*




Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide furono delle macchie che si muovevano, tutte di colore diverso. In una riconobbe un volto che si chinava su di lui, e poi sentì una voce, ovattata, che urlava.
La sua vista riacquistò i suoi naturali contorni dopo un po’ tempo, quando delle infermiere cominciarono a visitarlo, puntandogli una luce sugli occhi. In seguito, riconobbe la sua famiglia: sua madre e sua sorella erano in lacrime, suo padre era alle loro spalle e gli sorrideva.
Era in ospedale. L'avevano portato in ospedale dopo l'incidente. Gli parlavano, ma Oikawa non riusciva a dire nulla, non riusciva a rispondere, si sentiva ancora troppo frastornato. La testa era pesante e i suoi arti non rispondevano ai comandi.
Perché non riusciva a muoversi?
Parlò solo quando sua sorella rimase da sola all'interno della stanza, dopo che un’infermiera aveva portato via i suoi genitori. «Hoshi...»
«Bentornato tra noi!» gli disse, tirando su col naso e producendo una risata nervosa.
«Che cosa è successo...?» chiese, biascicando. Aveva la bocca colma di saliva. Poteva al massimo girare la testa, ma sentiva comunque un dolore lancinante.
«Hai avuto un incidente. Ti hanno dovuto mettere il Siero.»
«Il Siero...» Ci mise un po' per metabolizzare quello che sua sorella gli aveva detto, poi i suoi occhi si spalancarono improvvisamente. «Quindi sono...»
«No, Oikawa, tranquillo!» disse, posandogli una mano sulla guancia. «Sei a rischio, ma i medici sono fiduciosi!»
Il Siero era uno stimolatore inventato proprio per i casi di paralisi improvvisa, dovuta a spiacevoli incidenti come quello. Veniva iniettato nella parte paralizzata, e aveva lo scopo di stimolare appunto gli impulsi nervosi. Se la terapia riusciva, allora la persona aveva ottime probabilità di ricominciare a muoversi. In quel caso, il punto colpito era la colonna vertebrale, quindi i medici dovevano averglielo iniettato nella zona lombare.
«Se non ti avessero tirato fuori subito, probabilmente non saresti neanche qui...»
Su questo, Oikawa non era poi tanto sicuro. L'immagine di Iwa-chan che strisciava verso di lui, un sorriso di sollievo sul volto, gli apparve improvvisamente davanti. Il suo cuore mancò di qualche battito.
Aveva sentito la sua voce, aveva sentito che lo chiamava. Gli aveva detto che aveva bisogno di lui.
Iwa-chan... non l'aveva dimenticato. 
Produsse un verso frustato per via del dolore. «Chi mi ha tirato fuori...?»
«I tuoi avversari.» Oikawa la guardò, stupito. «Si sono resi conto del tuo incidente solo quando avevano già tagliato il traguardo. Se non l’avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto. Nel modo di frenare, Kageyama ha persino distrutto la sua navicella. Sono corsi subito verso la tua e l’hanno forzata.»
«Immagino che dovrò ringraziarli...» Alzò gli occhi al cielo. «Chi ha vinto la gara?»
«Il tuo kohai» disse Hoshi, incrociando le braccia.
«Cazzo...»
«Ti dispiace essere stato battuto dal tuo allievo?»
«Non è il mio allievo!» sbottò, sentendo poi dolore alla base del collo. «E comunque, non è solo per questo...»
«E allora per cosa?»
«Perché non ho potuto vedere la faccia di Ushijima dopo che è stato sconfitto.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi sua sorella scoppiò a ridere, e lui sorrise vedendola nuovamente contenta. «Sei sempre il solito!»
Continuò a sorridere, abbandonandosi poi sul cuscino e sentendo l'impellente bisogno di chiudere gli occhi.
«Ti lascio riposare...» gli disse Hoshi, uscendo poi dalla stanza.
Oikawa produsse un respiro basso, i muscoli intorpiditi. 
Se una parte di lui, quella governata dal suo orgoglio, si sentiva sconfitta per aver perso un'occasione come quella, dall'altra smaniava per rivedere Iwa-chan, fregandosene del resto.
Era vivo solo grazie a lui, non c'era altra spiegazione.
Sentì le palpebre pesanti, ma si addormentò solo quando sulla stanza calò il buio, il Siero che cominciava già a fare effetto.





Hajime si svegliò mentre lo stavano trasportando nella sua stanza, suo padre e quello di Jun che lo reggevano. Per poco non fece perdere l’equilibrio a entrambi, il suo corpo che sussultò di colpo, come se si fosse svegliato da un incubo. Non che quello che avesse visto fosse tanto diverso da un incubo, ma almeno aveva la sicurezza che Oikawa fosse ancora vivo.
Lo sentiva. Per qualche strano motivo, sentiva che era ancora vivo.
Suo padre fu così sollevato di vederlo sveglio, e percorsero gli ultimi gradini che conducevano alla sua stanza con più cautela possibile, senza muoverlo troppo. Quei piccoli movimenti che facevano i due uomini, gli procuravano dolore in tutto il corpo. Lo posarono sul suo letto, chiedendogli se si sentisse meglio, e lui credeva che lo stessero prendendo in giro: era chiaro che non stesse per niente bene.
Jun arrivò poco dopo con la madre di Haruka, l’unica persona con un minimo di competenza in campo medico. Purtroppo, però, la donna non seppe dirgli che cosa avesse. Il lato da cui aveva cominciato a sanguinare era intatto, non presentava alcun segno di taglio o contusione; quello che non sapeva spiegarsi era quella improvvisa paralisi, all’apparenza pareva che non avesse nulla. Hajime sperò con tutto se stesso che non si accorgesse dei sintomi della sua vera malattia, quella che l’aveva colpito per davvero, ma per fortuna la donna non disse nulla. Forse aveva avuto un presentimento, tuttavia aveva ritenuto che non era il momento adatto per parlarne, e comunque non aveva a che fare con la sua paralisi.
L’unica possibilità era che fosse successo qualcosa ad Oikawa, ma ovviamente loro non potevano saperlo.
Gli aveva spiegato che il dolore svanisce quando la persona sente l’altro morire, di conseguenza se fosse morto per davvero a quest’ora non sarebbe paralizzato a letto.
La mamma di Haruka rassicurò suo padre, dicendogli di aspettare e vedere come procedeva la situazione, parlandogli come se lui fosse in coma e non capisse quello che stessero dicendo: sì, beh, era confortante essere trattato come un malato terminale!
Jun e suo padre se ne andarono poco dopo, l’uomo che non la smetteva di scusarsi per i suoi modi bruschi, e Iwaizumi gli disse che non c’era alcun rancore, che era tutto okay. L’aveva visto sanguinare e poi svenire davanti ai suoi occhi, era normale che gli fosse preso un colpo.
Sospirò, la sua stanza adesso totalmente avvolta dal buio, se non per la piccola lampadina tascabile che suo padre aveva puntato verso il tetto, a mo’ di lume per il comodino. Cercò di guardare fuori – il collo era l’unica cosa che riuscisse a muovere bene – scorgendo solo le enormi nuvole che coprivano il cielo stellato. Buttò la testa indietro, sul cuscino, producendo un altro sospiro frustato.
Se era ridotto così, la colpa era solo di Oikawa. E mentre si chiedeva che cosa diavolo potesse essergli successo, i suoi occhi si chiusero da soli e il respiro si fece più pesante.





Non si trovavano sul cratere del vulcano, questa volta si trovavano distesi sulla ghiaia, appoggiati ad una roccia grigia come il ferro, spalla contro spalla. Davanti a loro, a pochi metri, potevano godere delle acque del lago che si infrangevano contro le rocce, i loro flutti che producevano un rumore calmo e quasi ipnotico.
Hajime si accorse della presenza di Oikawa al suo fianco poco dopo, quando cercò di alzarsi in piedi, ma non ci riuscì; anzi, era riuscito a muovere un braccio, era già una gran cosa.
Quindi quello che avevano nel mondo reale si ripercuoteva anche nei sogni? Buono a sapersi.
«Iwa-chan…» Spostò lo sguardo su Oikawa, gli occhi che erano diventate due pozze d’acqua, e sembrava un povero cucciolo bastonato.
«Non mi guardare così, è per colpa tua se sono ridotto così!» disse, brusco. Non l’avrebbe ammesso mai, ma era felice di vederlo vivo.
«Ho avuto un incidente, rischiavo di morire!» pigolò l’altro.
«Che incidente?» Assottigliò lo sguardo prima di parlare ancora. «C’entra la gara?»
Bastò uno sguardo di Oikawa per capire. «Rischio di rimanere paralizzato… Ma a quanto pare, riesco a muovere le braccia adesso, per cui non dovrei avere problemi!»
Avrebbe voluto chiedergli maggiori spiegazioni, cosa diavolo significasse che era a rischio paralisi, ma non ebbe il tempo: il castano fu distratto dall’acqua cristallina del lago. «Allora è così l’acqua sulla Terra?»
Hajime fu un po’ colto alla sprovvista, spostando poi lo sguardo sulla scia biancastra che lasciava l’acqua sulle sponde. «Sì… era così…»
Non se la sentiva di spostare lo sguardo su Oikawa, però sapeva che lo stava guardando. Se l’avesse fatto, sarebbe crollato, lì, in quel preciso istante. Quelle settimane, quei giorni, erano state le più intense della sua vita. E la sola idea che avrebbe potuto perdere anche quel cretino, lo…
«Una volta mio padre mi portò a pescare proprio qui» disse, e un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Avevo sette anni, ma già allora seppi con certezza che odiavo pescare!» Fece una risata, per poi rabbuiarsi subito dopo. «Adesso, però, ci tornerei…»
Prese un bel respiro, lasciando fluire il filo dei suoi pensieri, quello che aveva sempre pensato e che non aveva mai potuto esternare. «Non dico di essere stato un naturalista convinto, anzi, a volte odiavo la gente che seccava con queste storie… Eppure, adesso, non posso fare a meno di chiedermi se le cose non sarebbero andate meglio se io ci avessi prestato più attenzione...»
«Iwa-chan, non dipende solo da te…»
«Lo so…»
Alzò lo sguardo verso il cielo, e fu lieto di trovarlo limpido, le prime stelle che cominciavano a popolarlo. Sembrava suddiviso tra una striscia scura e una rosata e giallo chiaro. Non riconosceva nessuna di quelle costellazioni.
«Sono le costellazioni che vedo dal mio pianeta» disse Oikawa, quasi come se gli avesse letto nel pensiero.
Iwaizumi sentì il petto stretto in una morsa. L’ultima volta che era riuscito a vedere le stelle era stato tanti e tanti anni fa. Le aveva osservate con una persona che non riusciva a dormire per via della sua paura del buio.
«Ad Haruka sarebbero piaciute…»
Oikawa non fece caso a quello che disse Iwa-chan, in un primo momento; poi, captò qualcosa, come se la frase stonasse e fosse stata pronunciata con un qualche errore grammaticale. Ma lui non aveva sbagliato, non aveva usato il tempo passato per sbaglio, l’aveva fatto di proposito.
Voltò la testa di scatto verso di lui, sentendo solo dopo il nervo pulsare per il dolore, ma cercò di non badarci troppo. Lo sguardo ora basso di Hajime valse come spiegazione sufficiente. Aveva gli occhi lucidi.
Deglutì un boccone amaro. «Quando?»
«Due giorni fa…»
Calò il silenzio per un po’, e Tooru poté sentire gli angoli degli occhi che cominciavano a pizzicare: anche se non conosceva quella bambina, sapeva quanto Iwa-chan le volesse bene, e grazie ai suoi racconti aveva finito per affezionarcisi anche lui.
«Mi dispiace… Se avessi saputo… Forse avrei fatto di tutto per venire prima…»
«Tooru» Il castano spostò lo sguardo su di lui, ed era serio, gli occhi ancora coperti da una patina lucida. «Sono io che ti ho detto di rinunciare a tutto, la colpa non è tua.»
«Sì, ma…»
«L’unico motivo per cui non mi sono lasciato morire, Tooru, è che ho promesso ad Haruka di venire con te.» Gli occhi color cioccolato dell’altro si spalancarono ancora di più, e un respiro gutturale uscì dalla sua gola. Non sapeva che cosa dire. «E quando ti ho visto ridotto in quel modo… Mi sono reso conto che sei l’unica cosa che mi è rimasta, e non potevo perdere anche te.»
Una lacrima, non sapeva bene se di gioia o di dolore, solcò il viso del giovane pilota, le labbra tremolanti che cercavano di incurvarsi in un piccolo sorriso. Hajime fece una risata nervosa, la nuca che sbatteva contro la dura roccia.
«Mi sento così patetico a dirti queste cose…»
Nessuno disse niente, semplicemente Oikawa si fece più vicino a lui. Fu difficile, perché sentiva delle scariche elettriche lungo tutto il corpo, eppure non si diede per vinto. Respirò a fatica, il viso di Iwa-chan era pochi centimetri. Si fissarono per un tempo infinito, le punte dei loro nasi che si sfioravano, fronte contro fronte. Non seppero chi fu a fare la prima mossa, e alla fine non aveva poi tanta importanza.
Fu un bacio un po’ scomposto, poiché non riuscivano a reggersi in piedi nella dovuta maniera, ma sentirono comunque il sapore delle labbra dell’altro sulle proprie.
«Comincia a far buio…» disse Hajime, dopo che si staccarono per riprendere fiato, ancora fronte contro fronte.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo…» Oikawa riprese a baciarlo subito dopo, con più foga, infischiandosene del dolore che avvertiva alla spina dorsale.
L’altro si staccò, spostandosi per baciarlo sotto il mento, arrivando poi al collo. Il castano produsse un mugugno di piacere, e un attimo dopo le sue labbra erano di nuovo su quelle di Iwaizumi. Si resero conto di non avere più tempo, quando una luce blu calò sui loro volti.
«Oikawa» gli disse, facendo un ghigno. «Comincia a preparare la navicella.»
L’altro ricambiò. «Contaci!»






Domande? 
Perché questo prompt? Per la questione del cielo che vede Iwaizumi in sogno. Non è lo stesso cielo che vede dal Pianeta Terra, inoltre ha un significato particolare: Haruka, se avesse avuto la possibilità di andare su Sibun, avrebbe amato quelle costellazioni…
Perché la bambina? In realtà, questa domanda è stata la mia beta a pormela. E la verità è che non lo so. Su Interstellar avviene una morte, ma come al solito io ho reso la cosa ancora più tragica del previsto. Credetemi, ho pianto persino io mentre scrivevo quella scena… Nella mia testa, Haruka doveva essere affetta da leucemia già da diverso tempo, ma non mi sono informata nella giusta maniera sui sintomi, perciò non me la sono sentita di specificarlo. In conclusione: no, non volevo uccidere Haruka, ma rimango un’autrice abbastanza sadica e masochista…
Come mai sentono dolore ma non hanno nulla? È un po’ diverso dalle classiche storie Soulmate dove ad uno dei due spuntano lividi o graffi dove li ha l’altro. Le ferite compaiono, sì, ma spariscono subito dopo. Per quanto riguarda il resto, beh, Iwa-chan in teoria non è paralizzato, ma sente lo stesso dolore; e Oikawa sputa sangue, sì, ma lui sta benissimo. Avvertono solo il dolore dell’altro, tutto qui;
Che cosa è il Siero? Una cosa che mi è uscita così, di punto in bianco. Con un incidente del genere, era normale che Oikawa succedesse qualcosa. Ma siccome non me la sentivo di rendere le cose ancora più tragiche di quanto già non fossero, ho deciso di dare vita a questa strana sostanza (che nella mia testa è sull’arancione) che se iniettata nella zona paralizzata può stimolare gli impulsi nervosi. Chiedo scusa a tutti gli studenti di medicina per le barbarie che ho scritto, in ogni caso xD
Qualche riferimento? La Jaxa sarebbe la Nasa giapponese; la base di Kagoshima, invece, esiste davvero, e siccome volevo essere il più accurata possibile, Hajime e la sua famiglia si sono trasferiti lì. Ho ripreso l’ambientazione di campagna del film Interstellar e anche di Your Name, perciò ho immaginato che Kagoshima fosse circondata da un sacco di verde, lontano dalla città.
Che dire, ringrazio chiunque stia seguendo questa storia, e mando un bacio grosso grosso alla mia beta! <3 
Fatemi sapere cosa ne pensate della caratterizzazione dei personaggi. Ci si vede al prossimo capitolo, spero di riuscire a pubblicarlo a breve ;)
Per qualsiasi informazione mi trovate su: l’uccellino che cinguetta (?)
_Lady di inchiostro_
 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 7835 
Prompt/Traccia: Countdown
Note della piratessa spaziale (?): per ulterioti informazioni, vi consiglio di leggere le note finali. Grazie della vostra attenzione! <3 


 



 
Capitolo terzo
~

Atto primo







La mattina dopo, Hajime riusciva già a muovere le braccia e a mettersi seduto, ma muovere le gambe era ancora fuori discussione. Questo stava a significare, però, che la medicina su quel dannatissimo pianeta faceva veramente dei miracoli. Se lui stava così, allora voleva dire che anche Oikawa si era ripreso. Ripensò a quello che era successo tra loro due, sembrava fossero passati pochi secondi, e non sapeva se sentirsi un completo scemo mentre desiderava ardentemente averlo al suo fianco, in quel momento.
Iwaizumi si passò un dito sulle labbra, prima di fare leva sulle braccia, appoggiandosi poi sullo schienale del letto. Produsse un sospiro basso, mordicchiandosi l’interno della guancia nel tentativo di sentire meno male in tutto il resto del corpo.
«Oh mio dio, Hajime!» Suo padre aveva aperto la porta e vedendolo seduto in quel modo, non poté non esprimere la sua enorme gioia. «Stai meglio? Riesci a muoverti?»
«Dalla vita in giù a malapena…» disse con una smorfia. «Ma per il resto sì… riesco a muovermi.»
«Meno male!»
L’uomo rimase in piedi a fissarlo, nella mano destra teneva un piatto con una fetta di quello che doveva essere pane integrale, e Hajime giurò di avergli già visto quell’espressione addolorata sul volto. Aveva lo stesso sguardo perso nel vuoto quando sua madre era in fin di vita. Lui non l’aveva vista quando era oramai ridotta in condizioni pessime, poteva solo sentirla tossire da dietro la porta; ma suo padre sì, l’aveva vista, e poteva solo immaginare quanto fosse stato difficile per lui lasciarla andare. Quando si ama una persona si è disposti a fare qualsiasi cosa, persino chiedere alla morte di prendere la propria vita in cambio di quella dell’altro.
Lui e suo padre si assomigliavano parecchio. Poteva non sembrare così, ma era la verità, erano sempre stati dei tipo un po’ chiusi in se stessi, riuscivano a comunicare solo tra loro. Suo padre era diventato più aperto da quando sua moglie non c’era più, perché era sempre stata lei quella che socializzava con gli altri e che sorrideva sempre.
Suo padre aveva un modo tutto suo di mostrarsi forte e, allo stesso tempo, di ricordarla; ma proprio perché erano fin troppo simili, Hajime sapeva benissimo cosa stava provando. Aveva perso la sua sorellina acquisita, e aveva rischiato di perdere un’altra persona altrettanto importante.
«Papà, tutto bene?» chiese.
L’uomo parve riscuotersi. «Sì, scusami… Ti ho portato qualcosa da mangiare.»
«Non ho fame, grazie.»
Gli sorrise a stento, posando il piatto sul comodino e recandosi verso la porta. Si fermò sull’uscio, stringendo tra le dita lo stipite in legno. «Posso sapere che cosa hai?»
Il ragazzo parve confuso. «Che intendi?»
«Parlo della tua malattia – interruppe il figlio prima che ricominciasse a parlare –, e non mi riferisco alla paralisi.»
Hajime sentì un brivido lungo tutta la schiena, non sapendo se prenderlo come un buon presentimento per la sua guarigione, o come un segnale d’allarme. Scostò lo sguardo da quello del padre e fece un grugnito.
«Come lo sai…?»
«Sono tuo padre. Mi credi così cieco da non accorgermi che c’è qualcosa che non va in te, che sei spesso stanco e che mangi a malapena?» Valeva lo stesso discorso di prima: se Hajime conosceva abbastanza bene il padre, allora anche lui conosceva bene il figlio. E poi…
«Lo sai perché insistevo tanto sulla questione del cibo? Perché tua madre aveva cominciato così prima che si ammalasse… Poi cominciò a tossire sangue.»
Un altro brivido, questa volta sulle spalle. Teneva la testa bassa, mentre suo padre si sedeva con cautela sul bordo del letto.
«È la stessa malattia…?» gli chiese, gli occhi adesso lucidi.
Hajime alzò lo sguardo. «Sì, è la stessa malattia della mamma…»
Una cosa che Hajime non si sarebbe di certo aspettato era che suo padre lo abbracciasse. Non strinse troppo, si limitò solo ad avvicinarlo a sé, e lui non riusciva proprio a ricambiare la presa. Era troppo sconvolto. Voleva piangere, ma decise di trattenersi.
L’uomo lo lasciò andare poco dopo, sorridendogli, e passandogli una mano sulla spalla. E fu in quel preciso momento, con quell’immagine davanti, che Iwaizumi si impose di mantenere un’ennesima promessa.
Non l’avrebbe lasciato da solo. Non si meritava di soffrire ancora.
Nessuno doveva soffrire ancora.
«Papà – cominciò –, ti prometto che ce ne andremo da questo pianeta.»
L’uomo non capì perché il figlio gli avesse detto così, e per un attimo corrucciò la fronte. La pelle d’oca venne dopo.
Quello sguardo così determinato, sul volto di suo figlio, non lo vedeva da quando era solo un bambino.






Il giorno dopo la gara erano venute le persone più disparate: oltre al suo team – che aveva praticamente piantato le tende dentro la sua stanza d’ospedale – gli avevano fatto visita anche i membri della scuderia Karasuno e qualcuno della scuderia della Shitorizawa.
Oikawa fu costretto a dover ringraziare sia Kageyama sia Ushijima, anche se a detta di quest’ultimo era stato il più giovane a fare tutto, e Hinata Shoyo non aveva fatto altro che metterlo in imbarazzo, raccontando com’era andata.
A quanto pare, Tobio si era accorto della navicella mezza distrutta solo quando era sulla linea di traguardo; avrebbe voluto svoltare, e tornare indietro, ma a quel punto la navicella di Wakatoshi gli sarebbe finita contro, per cui fu costretto a frenare di lato, frantumando metà navicella. Aveva detto al suo senpai che, per quanto fosse suo nemico, non gli avrebbe mai augurato una morte come quella, e Oikawa fu sinceramente colpito.
Ushijima si era fermato più avanti, invece, anche lui capendo immediatamente quanto era successo e aiutando Kageyama a forzare lo sportello inceppato. Tutto questo, aveva un che di eroico e pittoresco, e si chiese se la gente non avesse finito per ingigantire la cosa. O forse avrebbe voluto essere lui al posto di quei due trogloditi.
La situazione quasi degenerò quando quel piccoletto accennò alla questione sul fatto che lui avesse la Sindrome, e tutti si girarono a guardarlo. Per la prima volta nella sua vita, ringraziò quella parvenza di buon senso che aveva Tobio-chan, che bloccò subito la parlantina del compagno.
La mattinata passò velocemente, e anche alcuni membri del suo team cominciarono ad andarsene; gli unici a rimanere furono Makki e Mattsun, un altro della squadra dei piloti. Aveva bisogno di parlare con loro. Non perché non si fidasse degli altri, ma perché quei due li conosceva da più tempo.
«Ho bisogno che mi facciate un favore…» disse, serio.
«Wait, time out» Makki fece il gesto prima di ricominciare a parlare. «L’ultima volta che ti ho visto così serio è stato prima della gara… Si può sapere che succede?»
Oikawa non avrebbe voluto evitare di rispondere alla domanda, ma bisognava dare tempo al tempo. Ogni cosa avrebbe avuto la sua spiegazione.
«Mattsun, dentro la tasca della mia giacca c’è un biglietto, puoi prenderlo?» disse, indicandogli il divanetto con i suoi vestiti che avevano di fronte.
Per fortuna che adesso riuscisse a sollevare le braccia e che potesse stare appoggiato a due morbidi cuscini, questo poteva solo significare che il Siero stava funzionando e che gli impulsi mandati dal suo cervello non venissero totalmente ignorati.
Il ragazzo si alzò dalla sedia, trovando poi il bigliettino. Glielo stava passando, ma Oikawa gli disse di leggere quello che c’era scritto.
«K-2SO.» Ci rifletté un attimo. «È il numero di una Nave Passeggeri?»
«Sì. La sto rimodernando di nascosto.»
«Rimodernando?» Makki pareva sempre più perplesso.
«Nell’altra tasca – disse, continuando a rivolgersi a Matsukawa – c’è un taccuino. Se lo apri, capirai perché lo sto facendo.»
L’altro fece quanto gli era stato detto, rimanendo comunque perplesso. Sfogliò un paio di pagine con un’espressione annoiata, finché non sbiancò. Takahiro si alzò un secondo dopo, sporgendosi per intravedere anche lui quello che stava leggendo, e la sua espressione era la stessa dell’amico. Entrambi alzarono la testa, in contemporanea, fissandolo sconvolti.
Oikawa non sapeva se mettersi a ridere o se temere che chiamassero qualcuno da un momento all’altro. Quelle pagine, contenevano tutti gli appunti che aveva riportato dai fascicoli della sorella di Ukai-san.
«No no» disse Makki, sedendosi di nuovo – prima che le gambe cominciassero a cedere – e avvicinando la sedia al lettino. «Non puoi dirmi che tu hai…»
«Sì, ce l’ho… Ma non per questo sono diverso dal solito!» Spostò lo sguardo su entrambi i compagni. «Ci sono seriamente degli abitanti sulla Terra.»
«Vi prego, ditemi che non sta succedendo veramente…» continuò l’altro, abbandonandosi con la testa all’indietro e passandosi la mano sul viso, come a volersi svegliare da un brutto sogno. Mattsun, invece, non spiccò una parola, troppo intento ad osservare Tooru, quasi studiandolo.
«Sentite – continuò il pilota – ho scelto di dirvelo perché so che posso fidarmi ciecamente. Un’altra persona, al vostro posto, sarebbe già andata a urlarlo ai quattro venti! Siete i migliori in questo campo, vi chiedo solo di credermi!» La voce gli uscì un po’ strozzata, ma non importava in quel momento.
I due rimasero in silenzio, non sapendo cosa dire, Hanamaki che si massaggiava il collo e sbuffava, Matsukawa che ogni tanto dava un’occhiata a quello che c’era scritto.
«Credevo che capitasse solo alle donne…» aggiunse poi. «Anche mia zia l’ha avuta. È morta prima che si venisse a sapere.»
Oikawa sbatté gli occhietti: non si era mai aperto così, non fino a quel punto, e probabilmente scendere nei dettagli era troppo per lui. Francamente, non se la sentiva di chiedergli come fossero andate le dinamiche.
«Questa persona è importante per te? Intendo quella dei sogni.»
«Issei non gli crederai sul serio!» Makki era a conoscenza di quella storia sulla sua famiglia già da parecchio tempo, ma non credeva che l’avesse toccato fino a quel punto.
Oikawa ripensò immediatamente a quanto era successo in sogno quella notte, al marchi che Iwa-chan gli aveva lasciato sul collo e che tutti gli avevano chiesto cosa diavolo fossero. Poté sentire ancora lo sfarfallio allo stomaco mentre lo stava baciando, e avrebbe voluto farlo ancora.
«Sì» disse, quasi come se ne fosse reso conto solo ora.
L’amico lo guardò un attimo, mordicchiandosi poi il labbro inferiore. Gettò il taccuino sul letto. «Cosa vuoi che facciamo?»
«Issei!»
Oikawa lo ringraziò mentalmente per non averlo lasciato a marcire. «Ho rivestito la Nave dello stesso materiale che si usa per le Navi dei Ricercatori. A quanto pare, la temperatura sulla Terra è molto più alta, perciò c’era bisogno di un rivestimento protettivo, e quello delle navi che usiamo per viaggiare da un modo a un altro mi sembrava perfetto. Bisogna solo finire di rivestirla. E ho fatto qualche modifica interna, dovete solo vedere se vanno bene…»
Ci fu un attimo di silenzio, poi Issei si rivolse all’amico ancora sconvolto per tutte quelle informazioni improvvise. «Allora, Takahiro, tu sei dei nostri?»
Guardò prima l’uno e poi l’altro, capendo immediatamente perché avesse accettato di aiutarlo: c’era qualcosa di diverso in Oikawa, qualcosa che non sapeva distinguere né riconoscere, ma non era di certo qualcosa di negativo. E per la prima volta nella sua vita, si ritrovò a dubitare su quanto si dicesse su questa Sindrome.
«Mi pare di non avere scelta» disse, alzandosi in piedi e allargando le braccia. «E poi, non è la prima volta che assecondiamo le tue pazzie!»
Tooru sorrise, guardandoli entrambi con estrema gratitudine. «Grazie…» 






*




 
Una settimana dopo…






Capitava che lo scenario dei loro sogni, adesso, cambiasse. Potevano trovarsi sulle sponde del lago, o sempre sul margine del cratere, eppure questa volta si trovarono in una stanza. Non quella nera dell’incubo dell’altra volta, ma una qualunque stanza da letto di un ragazzo qualunque.
La stanza di Tooru.
«Benvenuto nella mia reggia!» disse, seduto sul bordo del letto, anche lui stupito di trovarsi lì. Fuori dalla finestra che illuminava la stanza, si poteva ancora vedere il lago.
Iwaizumi si guardò attorno, studiando l’ambiente, dal letto, all’armadio, ai vari modellini di navicelle esposti dentro una teca, ai disegni. Si pose davanti alla scrivania, osservando quei fogli appesi al muro. Avevano dei colori brillanti, stonavano su quelle pareti bianche.
«Li hai fatti tu?» chiese, indicandoli con la testa. Adesso, si muoveva quasi perfettamente, anche se aveva un po’ di difficoltà a camminare. Il castano annuì. «Non sapevo sapessi disegnare…»
«Sì, beh, non sono niente di che – poi vide il modo con cui Iwa-chan stava osservando le navicelle, curioso e affascinato in egual misura – quella bianca e celeste è la mia!»
Aveva un bel design, pensò Hajime, e si rese conto che l’idea umana di un’odissea spaziale non si sarebbe realizzata mai; per quanto ci provassero, non sarebbero mai riusciti a inventare navicelle come quelle, neanche se il pianeta fosse stato nelle condizioni adatte. Spostò poi lo sguardo su un altro plico di fogli posato sulla scrivania, facendo scivolare i disegni di lato ad uno ad uno. Aveva persino riprodotto quel bellissimo paesaggio alla perfezione, e Hajime provò una leggera punta d’invidia.
Qualcos’altro, però, catturò la sua attenzione. «E questo che sarebbe?»
Oikawa vide sventolarsi davanti agli occhi il disegno di un omino stilizzato di Iwa-chan, con un buffo balloon in cui diceva: “Puzzo”. Il ragazzo non pareva per nulla divertito dalla cosa. «Mi annoiavo…» disse, facendo fuoriuscire il labbro inferiore, e Iwaizumi alzò gli occhi al cielo.
Stava per risistemare tutto, quando un altro disegno destò il suo interesse; anzi, per essere più precisi, il suo stupore.
Era un suo ritratto. Non una versione stilizzata, ma un vero e proprio disegno che lo rappresentava di profilo, gli occhi colmi di meraviglia. Oikawa aveva catturato perfettamente il momento in cui aveva visto per la prima volta quello spettacolo. Il suo cuore batteva a mille, saltando persino qualche battito, e avvampò. Un altro disegno, posto sotto, gli diede il colpo di grazia.
Aveva appurato che Oikawa avesse una fervida immaginazione e che fosse molto intuitivo, ma non fino a quel punto. Lui gli aveva dato una descrizione approssimata, ma lui era riuscito a riprodurre fedelmente Haruka.
Gli aveva parlato di quando la faceva divertire sollevandola da terra, schiena contro schiena, e lui aveva disegnato proprio quella scena. Entrambi ridevano. Passò le dita sul volto della ragazzina e sorrise.
«Ti piace?» Oikawa capì subito quale disegno avesse preso, e si sentì un po’ il colpa per averlo realizzato.
L’alto annuì, sorridendo. Gli pizzicavano gli occhi.
Rimasero a fissarsi per un tempo indefinito, poi Oikawa si alzò dal letto, cercando di smorzare la tensione. «La Nave è quasi pronta, Makki e Mattsun stanno facendo un ottimo lavoro, mi tengono sempre aggiornati» Indicò un disegno posto un po’ più lontano dagli altri e che rappresentava una navicella più grande delle altre. «Avrà quelle dimensioni, pensi che ce la farà ad atterrare alla base?»
«Sì, presumo di sì.»
Avevano passato l’ultima settimana a capire quali fossero le coordinate giuste, senza avere altre informazioni se non la loro memoria e la possibilità di poter cambiare posto a proprio piacimento nei sogni. Oikawa aveva avuto il piacere di passare una notte nella biblioteca di Tokyo, e Iwaizumi di dare un’occhiata al famoso archivio.
«Quanti passeggeri ci saranno?»
«Pochi. Nessuno crede alla storia che io e Jun abbiamo scritto su Internet…» disse, indurendo la mascella. Avrebbero ritentato, non si sarebbero arresi così facilmente. «In ogni caso, dovremmo entrarci.»
«Perfetto, allora siamo quasi pronti!» trillò Oikawa.
Tutto stava procedendo anche meglio del previsto.
«Bene, adesso cosa vuoi fare?» Avevano ancora un po’ di tempo prima che la luce svanisse.
Tooru non gli rispose, si limitò solo a fare un ghigno famelico, dopodiché cominciò a baciarlo senza alcun preavviso. Oramai era quasi una routine, e Hajime doveva ammettere che anche lui non riusciva a farne a meno. Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso: Oikawa sembrava quasi affamato, come se non gli bastasse mai. Lo spinse verso di sé, e il castano produsse un verso di piacere, le loro lingue oramai completamente intrecciate.
Il resto, per entrambi, fu troppo veloce anche solo per registrarlo. L’uno spogliò l’altro, senza che le loro bocche si lasciassero, a meno che non fosse necessario. Ogni tanto le gambe cedevano, ma in quel momento era l’ultimo dei loro pensieri. Iwaizumi lo spinse sul letto, e per la prima volta poté ammirare quel corpo che aveva sempre visto nascosto sotto strati di vestiti. Era quasi certo che avesse un bel fisico, ma non era solo questo.
Tooru era bello. Anche così, anche con le guance rosse e i capelli scomposti, a Iwa-chan piaceva. Non glielo avrebbe detto mai, ma il pilota era abbastanza intelligente da capirlo da solo. E poi, anche per lui valeva la stessa cosa.
«Iwa-chan…» gemette, sentendo la mano dell’altro che si insinuava dentro le sue mutande, mentre continuava a martoriargli il collo con baci e morsi.
Lui prese l’iniziativa, liberando il ragazzo dalla stoffa, e poté quasi sentire l’altro sospirare per il sollievo, il viso ancora nascosto sul suo collo.
Lo stavano facendo, stavano per varcare una soglia da cui poi non sarebbero più tornati.
«La prossima volta, assicuriamoci di fare sesso nel mondo reale!» scherzò Hajime, respirando a tentoni.
Avevano le mani sul membro dell’altro, e massaggiavano con movimenti lenti, trattenendo i gemiti.
«Iwa-chan…» lo chiamò, capendo di essere arrivato oramai al limite.
Si guardarono negli occhi, e quelli di Oikawa si inumidirono non solo per via del piacere, ma anche perché qualcosa aveva appena preso strada nella sua mente. La paura. La paura che Iwa-chan non riuscisse ad arrivare vivo su Sibun. Perché anche se lui faceva finita di niente, sapeva che stava sempre peggio.
«Ti prego, non morire…»
Hajime lo fissò, serissimo, dandogli un bacio prima sulla fronte e poi sulle labbra. Per quanto fosse stato meno passionale degli altri, per Oikawa valeva anche di più. 
«Te lo prometto» disse, baciandogli poi gli zigomi inumiditi.
Il primo a venire fu Iwaizumi stesso, e poco dopo fu Oikawa. Rimasero distesi uno sopra all’altro, a fissarsi negli occhi, come se fosse l’ultima occasione per potersi rivedere. Poi, tutto si oscurò improvvisamente.



   




Aprì gli occhi di scatto, realizzando solo in quel momento che sua sorella lo stesse scuotendo.
«Oikawa, svegliati» sussurrava, e lui si mise seduto a stento.
«Hoshi, che diavolo succede...?» chiese, la sua mente ancora proiettata all’interno del sogno, con gli occhi di Iwa-chan puntati nei suoi.
Aveva il collo rosso, probabilmente di lì a poco sarebbe spuntato qualche livido. Non aveva tanta importanza, in fondo.
La ragazza dapprima non rispose, teneva la sguardo fisso su qualcos'altro, anche qualcosa le diceva che sarebbe stato il caso di smetterla di fissare con insistenza. «Perché hai la mano dentro i pantaloni...?»
Oikawa spalancò gli occhi, poi tirò fuori la mano in questione, chiudendola poi a pugno. «Ecco...»
«Ho cambiato idea, non sono sicura di volerlo sapere!» lo interruppe, e il ragazzo le fu grato mentalmente. Sarebbe stato un po' complicato da spiegare.
«Si può sapere perché mi hai svegliato – Oikawa guardò l'orologio – alle cinque e mezza del mattino?»
Di solito, era lui che svegliava la gente nel cuore della notte, e adesso capiva perché rispondessero tutti bruscamente alle sue domande esistenziali.
«É una cosa urgente, riguarda i tuoi amici!»
«I miei amici...?» Oikawa non capiva.
«Sì, Issei e Takahiro. Li hanno scovati poco fa al Deposito, mentre lavoravano su una Nave Passeggeri.»
Era nel panico. Oramai stava guarendo, sarebbe uscito da lì tra due giorni, o forse l'indomani stesso, e a quel punto avrebbe pensato lui alla navicella, partendo poi di nascosto. Era stato lui a dirgli che potevano lavorarci solo la notte, facendo attenzione ai custodi, ma forse i ragazzi non avevano calcolato abbastanza il tempo, arrivando fino a quell'orario.
«Quando è successo?» chiese immediatamente.
«Giusto una quindicina di minuti fa. C'era anche papà sul luogo. A quanto pare, quei due ragazzi hanno la Sindrome...»
Oikawa cominciò a sudare freddo. «Cosa...?»
«Hanno trovato un taccuino con degli appunti che riguardavano il Pianeta Terra» continuò Hoshi. «E sai bene cosa significa...»
Un taccuino. Il suo taccuino.
Mattsun e Makki erano finiti nei guai per colpa sua. E sapeva che avrebbero preferito farsi torturare piuttosto che accusarlo per salvarsi la pellaccia. Hoshi stava per posargli una mano sulla spalla, come a volerlo rassicurare – era normale che fosse sconvolto, i suoi due migliori amici erano stati accusati di una cosa gravissima –, quando suo fratello scostò le coperte. Voleva scendere dal letto. 
«Devo andare a parlare con papà...» disse, le gambe che tremolavano leggermente. Poteva stare in piedi, ma per camminare ci voleva uno sforzo maggiore.
«Cosa?» Hoshi parve confusa. «Tooru, sei ancora sotto osservazione, non puoi andartene così!»
«Dove li stavano portando...?» chiese, ignorando quello che gli era stato appena detto.
«Faranno una sorta di processo prima di rinchiuderli, per la questione della Nave...» Scosse la testa. «Senti, capisco che per te è dura da accettare, ma...»
«Quel taccuino è mio, Hoshi.»
Gli occhi color ambra della ragazza si fecero più grandi, guardando il fratello come se fosse un fantasma. Oikawa, però, non abbassò la testa.
«A quella Nave ci stavo lavorando io» ammise. «Ho chiesto a Makki e Mattsun di lavorarci finché non mi fossi ripreso.»
Hoshi deglutì con forza. Non aveva il coraggio di toccarlo, ma fu lui a prenderle la mano. «Ti prego Hoshi... Non posso lasciare che vengano accusati al posto mio!»
Tooru parlò quasi in lacrime, ma il suo sguardo non sembrava disperato. Era determinato, fiero. Hoshi non l'aveva mai visto così.
Aveva intuito da tempo che c'era qualcosa di diverso in lui, ma credeva che fosse dovuto al fatto che stesse male. Eppure, nonostante quella tosse strana, i medici avevano detto che non aveva nulla.
Ora, capiva che erano altri i pensieri che popolavano la mente di Tooru. Deglutì ancora, pentendosi immediatamente di quello che stava per fare, mettendo da parte la sua razionalità da scienziata, per seguire quello che gli diceva il cuore.
Si mise in piedi, mostrando a suo fratello la schiena. «Sono pur sempre tua sorella maggiore, non ti permetterei mai di andare a zonzo in queste condizioni!» disse, e anche se Oikawa non poteva vederla, sapeva che stava sorridendo. «Coraggio, ti porto io!»
Era una cosa che facevano quando erano piccoli, per gioco, e per un attimo Tooru provò un po' di nostalgia.
Sorrise, facendo poi quello che gli aveva detto la sorella, ed entrambi schizzarono fuori. 
Neanche diede retta a quello che urlavano le infermiere alla sue spalle, mentre Hoshi gli intimava: «Mi devi un favore, sappilo!»
E per quanto la situazione fosse disperata, Oikawa non poté non ridere.







Suo padre si trovava a casa. Oikawa non aveva idea di come avessero fatto ad arrivare vivi, senza che nessuno li fermasse prima. Avevano percorso mezza città in quelle condizioni, lui che sembrava un pazzo scappato dal manicomio e sua sorella col rischio che collassasse di punto in bianco. Era riuscita ad evadere la sicurezza dell'ospedale, muovendosi tra le vie più scondite, e quando raggiunsero il vialetto di casa tirarono entrambi un sospiro di sollievo. Trovarono il padre seduto davanti al tavolo da pranzo laccato di bianco.
«Papà, devo parlarti...» disse Oikawa, cercando di immagazzinare tutta l'aria possibile nei polmoni, mentre sua sorella lo faceva scendere e lo aiutava a reggersi.
Non continuò a parlare. Il respiro gli si mozzò di nuovo, e lo stesso valse per sua sorella. L'uomo teneva tra le mani il suo taccuino, e lo rigirava con un'espressione che andava dall'annoiato al furioso.
«Questa è la tua scrittura, vero?» chiese, sventolandolo in direzione del ragazzo.
Non ebbe bisogno di risposte, fece schioccare la lingua e si alzò in piedi, abbandonando il taccuino sul tavolo.
Oikawa riuscì a far staccare la lingua dal palato e parlò. «Allora, se lo sai, perché non fai scagionare Makki e Mattsun?»
L'uomo fece una risata sprezzante. «Stai scherzando? Tu sei sotto la mia tutela, ti rendi conto della figuraccia colossale che farei se si venisse a sapere questa storia?»
«Non m'importa, i miei amici non c'entrano niente!» urlò. «Sono io che li ho coinvolti in questa storia!»
L'uomo fece un sorriso amaro. «Lo sai... Tuo padre mi aveva esplicitamente chiesto di dirti la verità sul Pianeta Terra quando saresti stato più grande. Non avrei mai pensato che lo venissi a scoprire così...»
Ebbe la sensazione che Hoshi tremasse leggermente. Lui rimase di sale, non capendo quello che volesse dire, fino a quando... 
«Tu lo sapevi...»
Il sorriso dell'uomo si allargò. «É un segreto che alcuni di noi si portano nella tomba, ma per qualche strana ragione altri sentono il bisogno di ereditare questo fardello ai proprio figli... Così voleva fare tuo padre.»
Non l'aveva mai conosciuto il suo vero padre. Sua madre si era risposata quando lui aveva solo un anno. Rokuro, oltre ad essere anche lui vedovo e con una bambina già grande, era anche un ottimo amico di suo padre. Erano stati due grandi Ricercatori, una squadra. Il suo vero padre era morto in una missione cui Rokuro non prese parte. Per questa ragione si era offerto di mantenere sia sua madre sia suo figlio, a patto che si sposassero.
«Che cosa sai?» gli chiese, scandendo bene le parole e assottigliando lo sguardo.
Avrebbe voluto ucciderlo. Anni e anni di bugie, e milioni di persone erano state accusate di follia, quando quella storia, in realtà era vera.
Si teneva solo nascosta per... perché?
«So che tu hai la stessa dote che avevano un tempo gli abitanti di Sibun. Quella di poter vedere quando un popolo, anche lontano, aveva bisogno di aiuto, attraverso i sogni.» S'interruppe, alzando lo sguardo su un Oikawa sempre più sconvolto. «So che per questo motivo siamo andati ad esplorare la Terra, perché loro invocavano queste “divinità” per chiedere aiuto. So che eravamo molto più tecnologici di loro, le vedi quelle?» Indicò le Piramidi. «Ci sono anche sulla Terra, e sono una nostra invenzione. So che, nonostante risolvessimo i loro problemi, loro continuavano a chiamarci, finché non abbiamo deciso di stabilirci lì. Ci siamo integrati, abbiamo abbandonato Sibun, e abbiamo imparato la loro lingua, mentre la nostra Lingua Muta fu usata molti anni dopo per far comunicare chi non sentiva...»
Girò attorno a Oikawa e sua figlia. «Abbiamo abbandonato quel pianeta tempo prima, quando l'uomo fece strage di milioni di vite, tra cui alcune dei nostri uomini migliori. Era il 1945, te ne rendi conto? Quanto tempo...» Si passò una mano sugli occhi. «Alcuni sono rimasti, e ogni tanto mandavano segnali per indurci a ritornare. Com'è che li chiamano quegli idioti? Ah sì, Cerchi nel Grano! Non sanno neanche che nella nostra cultura rappresentano la speranza, l’amore, e altri sentimenti vari.»
Dopo aver fatto il giro della stanza, tornò davanti a Oikawa, che cercava di assimilare tutte quelle informazioni come se fosse una spugna, la sua mentre che lavorava per trasformarle in consapevolezza. Aveva appena scoperto la verità dall'uomo che l'aveva praticamente cresciuto.
Trattenne le lacrime facendo profondi respiri. «C'è qualcos'altro che devo sapere?»
L'altro alzò le spalle. «Sogni un'altra persona?» Oikawa non fece niente, ma l'uomo intuì che fosse così. «Probabilmente avrà qualche discendente che proviene da Sibun, per riuscire a fare questa cosa... Oh, e se senti il dolore che prova l’altro, probabilmente è perché questa persona ha davvero bisogno di un aiuto disperato. Almeno, funzionava così un tempo, non so se le cose sono cambiate. Capita troppo spesso nell’ultimo periodo.»
Oikawa era quasi tentato di sputargli in faccia. «E quindi?»
«Quindi niente. Ti ho detto tutto quello che dovevi sapere.»
«E tu credi seriamente che io rimarrò con le mani in mano aspettando che quella gente muoia?» Puntò il dito verso il corridoio, come a voler indicare l’enorme spazio che c’era fuori dalla casa. «Noi abbiamo mezzo pianeta disabitato, potrebbero benissimo vivere lì, o su Cnosso e Festo!»
«Sono degli esseri rozzi, Tooru!» urlò Rokuro. «L’unica cosa di decente che ci hanno insegnato è stato l'uso della parola, le loro stupidissime lingue! Per il resto, siamo noi che abbiamo costruito il loro mondo, noi gli abbiamo insegnato a usare dei simboli per scrivere, i nostri uomini sono i loro migliori scienziati! È un bene se spariscono dall'Universo! Abbiamo fatto tanto per vivere in pace, loro finirebbero per distruggerci!»
Il castano scosse la testa. «No, ti sbagli… Non sono tutti così…»
Lo analizzò come se fosse un reperto proveniente da un altro pianeta. «Ti sei affezionato a quella ragazza...»
«Ragazzo.» Questo lo lasciò sorpreso. «E sì, sono innamorato di lui. Farò di tutto per portarlo qui, assieme a più gente possibile!»
«Smettila di fare l’eroe, Tooru. Guardati: sei in condizioni pessime... Non riusciresti a percorrere nemmeno venti metri nello spazio.»
Erano faccia a faccia, a due centimetri di distanza, e si fissavano come due animali pronti a sbranarsi.
Fu Oikawa a parlare, dicendo quello che, da diversi anni, maturava dentro di lui. «Il mio vero padre mi avrebbe sicuramente appoggiato...»
Il ceffone che gli arrivò in faccia non se l'aspettava, e sputò sangue dalla bocca.
Tanto, aveva cominciato ad abituarsi. Iwa-chan peggiorava sempre di più.
Ed era anche questo uno dei motivi per cui non poteva stare lì a perdere tempo. 
«Sei un ingrato...» sibilò l'altro. «Non ti permetterò di infangare la mia carriera...»
Se fosse stato in condizioni migliori, forse sarebbe riuscito a stenderlo con un pugno; ma era ancora parecchio debole, per cui fu facile fermarlo. Rigirò il braccio dietro la schiena, e Oikawa non riuscì a trattenersi dall'urlare, poi lo atterrò, dandogli una ginocchiata dietro la gamba.
Stava per continuare, quando Hoshi lo fermò, in lacrime. «Papà, ti prego, basta!»
Oikawa non poteva vederlo, ma riusciva a sentire i respiri dei due. Rokuro parlò poi alla casa. «Asimo!»
«Mi dica, padrone!»
«Non appena usciamo, chiudi tutte le porte a chiave. Tooru non deve fuggire!» Si girò verso la figlia. «Tu rimani lì?»
La ragazza fissò il fratello, disteso per terra, e incrociò il suo sguardo. Fu lui a farle cenno di andarsene.
Non dovevano essere coinvolte altre persone.
Seguì il padre, e Oikawa capì di essere realmente solo quando sentì la serratura scattare.







Hajime intuì che c'era qualcosa che non andava quando cominciò a sentire dolore al braccio.
Si era svegliato, quella mattina, con i residui dell'orgasmo ancora addosso, e come faceva da una settimana si era recato alla base spaziale, accompagnato dal padre.
Gli aveva confessato quello che lui e Jun stavano facendo, e se all'inizio era molto restio a crederci, alla fine si ritrovò ad accettare la cosa. Era ancora particolarmente scettico, ma spesso ripensava all'espressione di suo figlio, quella mattina, e si disse che doveva essere sicuramente vero se lui ci credeva così tanto. E lo stesso discorso, valeva per la famiglia di Haruka.
Per il resto, nessuno gli credeva, né gli scienziati della Jaxa, né la gente sui social; nemmeno gli uomini potenti credevano a quella storia, nonostante avessero una piccola possibilità di salvarsi.
Ancora una volta, Jun e Hajime furono sorpresi davanti al computer, e ancora una volta vennero cacciati via – e non dal padre di Jun.
Fu allora che cominciò a sentire dolore al braccio, quasi come se una mano invisibile glielo stesse spezzando, per poi spostarsi dietro il ginocchio.
Stava succedendo qualcosa. Stava succedendo qualcosa ad Oikawa.
Hajime non sapeva di che cosa occuparsi prima, se della sua malattia che non la smetteva di farlo tossire, o di quello che stava succedendo su Sibun.
E all'improvviso, si rese conto che loro, lui e Oikawa, stavano lottando contro il tempo.
Era un conto alla rovescia. E stava per scadere.

 




Atto secondo
 




Un paio d’ore dopo…






Strinse il palmo a pugno, sentendo le dita viscide per via del sangue. Le unghia si conficcarono nella carne, i denti mordevano il labbro inferiore. Si sentiva debole, e non solo fisicamente parlando. Era lì, rannicchiato contro i cassetti della cucina, e non poteva fare niente.
Non poteva fare niente per salvare Hanamaki e Matsukawa.
Non poteva fare niente per salvare Iwa-chan.
Provò ad addormentarsi, nel disperato tentativo di avvertirlo, ma non riusciva a prendere sonno, era troppo agitato. Poteva tentare di manomettere i comandi per far apparire la porta, ma a parte le posate, non aveva alcuno strumento utile per aprire il quadro di comando.
Nascose il viso tra le ginocchia, reprimendo un singhiozzo.
Iwa-chan stava sempre peggio, lo poteva sentire ogni volta che respirava. E la sola idea che sarebbe rimasto rinchiuso dentro la sua stessa casa, sentendo piano piano la sua vita che si spegneva, gli dava i brividi. Gli aveva promesso che sarebbe rimasto vivo… ma Oikawa avrebbe fatto di tutto per aiutarlo a mantenere la promessa?
Strofinò la fronte contro il tessuto della tuta, lasciandosi andare un respiro strozzato. «Hajime…» mormorò, biascicando, e i gli occhi verdi del ragazzo gli apparvero davanti, assieme al suo lieve sorriso. Oikawa non riuscì a trattenere le lacrime. «Perdonami…»
E all’improvviso, sentì il classico rumore della porta che appariva sulla parete. Alzò la testa di scatto, e per un attimo credeva di avere le visioni: la porta era lì. Si alzò in piedi, con l’intento di aprirla, quando sentì dei rumori bassi e pesanti che provenivano dal corridoio. Erano passi.
Aprì il cassetto alle sue spalle, rovistando tra le posate, e le sue dita sfiorarono la lama di un coltello. Non era troppo tagliente, ma era quasi certo che sarebbe riuscito a ferire Rokuro con quello. Solo che, ad aprire la porta, non fu l’uomo in questione…
«Cazzo, Hoshi!» disse Tooru, gettando via il coltello che teneva in mano.
La ragazza lo guardò per qualche istante, gli occhi lucidi, prima di dirigersi verso di lui per abbracciarlo. Strinse forte la presa. «Stai bene…?»
Non rispose. «Cosa ci fai qui? Non dovresti essere con…» Stava per dire “papà”, ma si morse la lingua subito dopo, frustato.
La sorella gli spostò un ciuffo dall’occhio, per poi fargli l’occhiolino. «Gli ho detto che ho dimenticato il Documento di Identificazione in ufficio, senza quello non mi fanno entrare alla Piramide!»
«E come diavolo hai fatto a entrare?» Credeva che Rokuro avesse bloccato tutte le porte, solo lui poteva disattivarle.
«Ho manomesso Asimo» Oikawa sgranò lo sguardo. «Ero piccola, ma ricordo di averlo visto fare a tuo padre una volta… Diceva che sembrava perfetto, ma che invece anche la miglior macchina ha le sue piccole falle…»
Le braccia del giovane erano lungo i fianchi, e non sapeva come reagire a quell’affermazione. Lui non l’aveva conosciuto, sua madre sembrava averlo dimenticato, e Rokuro si era rivelato un essere infimo e crudele.
L’unica che ancora lo ricordava era proprio Hoshi.
«Lui è sempre stato gentile con me…» disse, flebilmente. «Non ero sua figlia, eppure mi ha sempre trattato meglio di come facesse mio padre…»
Fece un piccolo sorriso, prendendo poi il viso del pilota tra le mani. «Ascoltami, non me ne frega un cazzo di quello che ha detto mio padre… E non m’interessa se la gente ti prenderà per pazzo, io sono pur sempre tua sorella e ti credo!»
Hoshi non era realmente sua sorella, non condividevano per niente lo stesso sangue. Avrebbe potuto infischiarsene di lui, e invece era lì, voleva lasciarsi coinvolgere, pur sapendo quali fossero le conseguenze.
Gli abitanti di Sibun hanno sempre pensato che è logico essere più legato ad una persona della propria famiglia, con il proprio stesso sangue. Quella volta, però, Hoshi si disse che non c’era nulla di sbagliato in quello che stava facendo.
Aveva scelto Oikawa. E per lei rimaneva sempre il fratellino che aveva visto crescere.
Lo stesso che aveva abbracciato di nuovo e che, adesso, stava piangendo contro la sua spalla.






Hoshi aveva uno scooter, in garage. Non lo usava da quando aveva sedici anni e una volta aveva rischiato di avere un brutto incidente, ma ricordava ancora come funzionasse. Riuscì a metterlo in moto, Oikawa seduto dietro di lei, e sorvolarono la città a tutta velocità, sospesi nel vuoto. Il castano tenne lo sguardo fisso sulla Piramide più grande, la sede del Consiglio. Era lì che si sarebbe tenuto il processo. Fortunatamente, l’intera popolazione era andata ad assistere e nessuno si accorse di loro.
«Quanto manca?» chiese, urlando per sovrastare il vento.
«È cominciato da quindici minuti!»
Erano ancora parecchio distanti, ma Oikawa poté accorgersi degli uomini posti davanti all’entrata, armati. Di solito, il plotone veniva posto all’interno, e solo qualche uomo si trovava a controllare la situazione all’esterno, poiché tutta la popolazione si trovava dentro. Probabilmente, quegli uomini erano stati piazzati lì sotto le direttive di suo padre.
«Come facciamo a evitarli?»
«Se tu ti tieni forte – e nel dirlo, aumentò la velocità al massimo –, lo capirai!»
Il ragazzo spostò lo sguardo dal manubrio dello scooter, alla sorella, all’entrata della Piramide; capì quali fossero le sue intenzioni quando si trovava a venti metri dalla porta a vetri, per fortuna spalancata.
«No no no!» disse, mettendosi in piedi e tenendosi alla sorella. Era abituato ad urti peggiori, ma di solito non c’erano dei soldati armati pronti a fare fuoco. Di certo, neanche loro si aspettavano di vedere uno scooter fiondarsi direttamente dentro l’edificio.
Rotolarono per terra, il marchingegno che era finito contro la statua in bronzo che rappresentava le fattezze di Sibun, distruggendosi. Oikawa si massaggiò il gomito, e per un attimo ci vide doppio. Quasi sicuramente, Hajime si stava chiedendo che cosa diavolo stesse facendo per essere maltrattato in questo modo. Tossì, con l’impulso di scacciare via la polvere che si era sollevata da terra. Come al solito, sputò sangue.
Cercò di non pensarci, per adesso, sua sorella che si era posta di fronte a lui e lo stava guardando, mentre i soldati puntavano le armi contro di loro. «Faccia a terra! Ora!»
«Ce la fai…?» chiese la ragazza sottovoce.
«Lo sai che ho la pellaccia dura.»
«Bene, perché ti chiedo di darmi una mano» Gli passò una pistola laser, di quelle usate per tramortire, non per uccidere. «So che non ti piace sparare, ma…»
«Ho detto faccia a terra!»
A Oikawa era già capitato di tenere un’arma come quella in mano: aveva quattordici anni, un momento cruciale per i giovani di Sibun, perché è in quel momento che loro decidono che cosa faranno nel loro futuro. Ovviamente, Rokuro voleva che lui seguisse le sue orme, e per farlo avrebbe dovuto imparare a difendersi. Aveva scelto di seguire un’altra strada rispetto a quella di Ricercatore, ma quei pomeriggi passati ad allenarsi a sparare gli tornavano utili, adesso.
Sparò un colpo verso l’uomo che si stava avvicinando a loro, un raggio blu che lo colpì, trapassandolo tutto e facendolo cadere riverso a terra. Fece lo stesso con un altro paio di uomini che si trovavano nel suo campo visivo, schivando i colpi con una precisione magistrale, la stessa che metteva quando faceva curvare la sua navicella. Era uno scontro ad armi pari, sebbene quelli avessero dalla loro la superiorità numerica. La strategia militare, però, insegna che è la tecnica quella che conta.
«Oikawa, vai!» gli disse Hoshi, dopo che si erano nascosti dietro la statua. Erano rimasti gli ultimi tre uomini, e Hoshi aveva persino guadagnato una pistola in più. «Qua ci penso io!»
Era la cosa più assurda che avesse mai vissuto nella sua vita, in confronto correre su pista era una bazzecola. Osservò la sorella, i capelli castani come i suoi scompigliati, la coda mezza storta e il viso rosso. Aveva il fiatone.
Dovevano avere qualche buona stella che li proteggeva, non c’era altra spiegazione. Annuì, aspettando un attimo prima di uscire allo scoperto. Ebbe solo il tempo di prendere il fucile di un uomo riverso per terra, saldato per bene alla schiena, prima di sparire alla vista degli altri soldati, troppo concentrati ad occuparsi di Hoshi. Aveva quasi rischiato che un colpo lo prendesse alla tempia.
Corse per i corridoi piccoli e angusti, e gli mancava quasi il respiro, le fibre muscolari tiravano, le gambe si muovevano quasi per inerzia, ma lui sentiva dolore ugualmente. Guardò appena il fucile che teneva in mano: ecco, quello serviva seriamente a uccidere. Sperò che non decidessero di usarlo sulla sorella.
Gli ci volle una vita prima di trovare la Sala delle Riunioni.
Aprì l’enorme portone con una spinta, e neanche si era reso conto di aver cominciato a urlare. «Fermi!»
L’aria sembrò rarefarsi all’improvviso, tutta la popolazione di Sibun era in piedi e lo stavano fissando. Doveva avere l’aspetto di un carcerato appena fuggito di galera, perché avevano tutti quanti delle espressioni di puro orrore nei loro volti. Persino i suoi compagni lo stavano guardando come se fosse impazzito del tutto – e forse un po’ lo era. Issei e Takahiro, invece, sembravano più stupiti di vederlo lì che di altro.
Avvertì il rumore di una pistola alla sua destra, e Oikawa si girò di scatto, il fucile già puntato su un paio di soldati, rendendosi conto di essere circondato. Spostò lo sguardo dall’arma, ai volti delle guardie, alla platea, rendendosi conto che sì, in quelle condizioni sembrava davvero un malato mentale.
«Non voglio farvi del male!» disse, lasciando poi il fucile. «Voglio solo che fermiate il processo!»
«Oikawa Tooru, l’è forse andato di volta il cervello?» Il Presidente, un uomo anziano e smilzo, si alzò in piedi, spostando poi lo sguardo su Rokuro, alla sua destra. Lo stava fulminando con lo sguardo.
Il castano si accorse anche della presenza di Tobio tra i giudici, ma del resto era uno dei privilegi che veniva riservato a chi diventava campione, la possibilità di presiedere nel Consiglio almeno per un anno.
«Il taccuino che è stato trovato è di mia proprietà. Ho scritto io quelle cose.»
Diverse esclamazioni di stupore si levarono per l’intera stanza circolare, alcuni bisbigliarono, altri non riuscirono a proferire parola.
«Che storia è mai questa?» A parlare fu il proprietario della scuderia Shitorizawa, Washijo Tanji, anche lui membro del consiglio. «Rokuro, ci vuoi spiegare?»
«Non so di cosa stia parlando…» rispose l’uomo, e Oikawa gli lanciò uno sguardo di fuoco.
In realtà, non era certo che bastasse un’entrata in scena efficace per convincere la gente a credergli. Probabilmente, aveva lavorato troppo con la fantasia, ma non era questo il punto. Doveva trovare un modo, veloce e istantaneo, per far sì che scagionassero Makki e Mattsun e che gli permettesse di raggiungere la Terra il più velocemente possibile. Il viaggio sarebbe stato comunque lungo, ma non poteva stare ancora a oziare.
Sbatté gli occhi quando si rese conto che dietro il Consiglio – che era seduto a un tavolo di marmo – era apparso un enorme schermo. In casi come quelli, cioè durante un processo, veniva usato per mostrare le prove schiaccianti che incriminavano l’accusato; forse l’avrebbero usato dopo per dimostrare la colpevolezza dei due ragazzi, ma non era per quello che era stato azionato.
Qualcuno aveva mandato in onda il video che riprendeva lui e Rokuro mentre discutevano. Asimo, del resto, aveva delle telecamere ovunque, in casa.
Oikawa trattenne il fiato, mentre accanto a sé si palesò sua sorella, e teneva per il collo un soldato, probabilmente colui che l’aveva aiutata a mettere in moto lo schermo e il video. Si rese conto che anche gli altri avevano smesso di respirare, chi per incredulità, chi per paura. E questo, valeva sicuramente per i membri del Consiglio.
Quando il video finì, Hoshi non poté mancare dal rivolgersi a Rokuro con un: «Game over, papà!»
Adesso, c’era il mutismo più totale – tranne forse per un commento detto da Satori Tendo: “Ma tu guarda la sorella di Oikawa!”
Quei milioni di occhi che aveva puntati addosso, adesso erano tutti rivolti verso gli uomini del Consiglio; e soprattutto, verso Rokuro. Gli stessi soldati non fecero niente, anche loro troppo provati, mentre i due fratelli scendevano le scale, dirigendosi verso i due giovani seduti davanti al banco degli imputati, i polsi e le caviglie incatenate con manette fluorescenti. Mandavano delle scariche elettriche ogni volta che il detenuto si ribellasse.
«Mi dispiace tanto, ragazzi…» sussurrò loro, ma quelli lo rassicurarono dicendo che non aveva alcuna importanza.
Solo allora, sentirono la risata sprezzante di Rokuro, e Oikawa alzò lentamente lo sguardo verso di lui. «Non vorrete seriamente credere a quel video, vero?» disse, indicando poi il giovane pilota. «È chiaro che abbia utilizzato un trucco per sabotarmi!»
«Bugiardo!» urlò.
«Lui mi odia.» Si alzò in piedi e fece in modo che la sua voce sovrastasse quella dell’altro. «Io l’ho cresciuto, ed è questa la gratitudine che mostra!»
Rokuro era bravo con le parole, era bravo a impietosire la gente. Forse la gente stava cominciando a credere a quello che aveva visto, ma l’espressione da uomo sconfitto e deluso vinceva su tutto. Oikawa non poteva permettersi di perdere contro di lui. Ne valeva la vita di Iwa-chan.
«Io credo a Oikawa-san»
Per un attimo, credette che a parlare fosse stata sua sorella, o i suoi due amici lì accanto, ma no, la voce proveniva da dietro. Ci mise un po’ per rendersi conto di chi si fosse appena alzato, quella zazzera assurda e di colore arancione che spiccava come non mai alla luce artificiale. Quel piccoletto tutto matto lo stava guardando negli occhi e gli sorrideva, e Oikawa non riusciva proprio a ricambiare, profondamente turbato. Sapeva che Hinata Shoyo credeva alla sua storia e a quella di Ukai-san, ma non avrebbe mai pensato che potesse dirlo davanti a tutta la popolazione di Sibun. I suoi compagni lo stavano guardando come se avesse appena confessato un omicidio.
Una seconda voce, questa volta proveniente dal gruppo del Consiglio, si levò alta in quella stanza, e Oikawa fu più sconvolto di prima: Kageyama si era alzato in piedi. «Anch’io gli credo.»
Fissò gli occhi blu del suo kohai e rivale, incapace di fare alcunché.
Bastò il gesto del Campione per far traboccare il vaso: i primi ad alzarsi, furono i membri dell’Aoba Johsai e della Karasuno, ma in un attimo, si alzarono anche tutti i restanti membri delle altre scuderie. Erano tantissimi.
Oikawa si ritrovò a boccheggiare. Non era affatto quello che si aspettava.
«Questo è oltraggioso!» urlò il Presidente, sbattendo poi una mano sul ripiano.
«Perché non glielo lasciate dimostrare?» parlò Ukai senior, e tutti si voltarono a guardarlo. «Se siete così sicuri che stia sbagliando, perché non lo fate andare sulla Terra per fargli vedere quanto, in realtà, abbiate ragione?»
I membri del Consiglio erano con le spalle al muro. La gente li stava fissando con diffidenza, anche chi non si era alzato in piedi, ancora titubante. Perché di certo, quegli uomini avevano senz’altro qualcosa da nascondere.
Il Presidente digrignò i denti. «E sia – s’interruppe un attimo –, ma non sarà Oikawa Tooru a partire.»
Il castano credette di aver sentito male.
No. Doveva essere lui a partire. Iwa-chan lo stava aspettando.
«Sei entrato qui dentro minacciando alcuni dei miei uomini. E francamente, sono quasi sicuro di sapere come sei entrato qui…» L’uomo fece un mezzo ghigno. «Di conseguenza, devi essere tenuto sotto osservazione. A partire al tuo posto saranno… Hinata Shoyo e Kageyama Tobio, visto che ti hanno sostenuto così tanto!»
I due ragazzi si irrigidirono, e lo stesso valse per Oikawa.
«Se muore il nostro campione in missione, ne subirai direttamente le conseguenze. Queste sono le condizioni, accetti?»
Oikawa non avrebbe voluto fare un patto di quel tipo con un uomo del genere, ma non aveva altra scelta. Le lancette del tempo ticchettavano incessantemente.
Lanciò un ultima occhiata a Kageyama, prima di affermare un: «Accetto!»





Domande? 
Perché questo prompt? Lo dico anche nella storia, il conto alla rovescia sta quasi per scadere, e sia Oikawa sia Iwaizumi stanno correndo contro il tempo; specialmente Oikawa, in questo caso, ma più avanti la situazione si farà interessante… ;)
Che cosa intendeva dire Mattsun? Faccio un piccolo riferimento all’isteria. Un tempo, si pensava che fosse una malattia tipica delle donne e che avesse a che fare con la loro indole passionale. Ovviamente, non è così, ma i casi con donne isteriche furono parecchie, e volevo fare lo stesso per la Sindrome, sono più le donne che gli uomini ad averla. Per quanto riguarda il passato oscuro del ragazzo… beh, il mio headcanon è che la zia sia stata eliminata da un suo familiare per non fare sapere in giro che avesse la malattia;
Oikawa sa disegnare? So che può stupirvi, ma mi piace l’idea di un Oikawa che abbia una vena artistico/musicale <3 
Non ci sono domande sulla parte NSFW… Ottimo, perché fa profondamente pena…
Cosa significa la questione di Rokuro? Spero si sia capito, ma Rokuro e il padre di Oikawa erano stati Ricercatori. Il padre del ragazzo, però, è morto in missione, e Rokuro ha ben deciso di sposare la madre di Oikawa quando lui era ancora piccolo. In realtà, nel mio scenario doveva essere il padre biologico, poi mi sono detta che sarebbe stato meglio far apparire il padre di Oikawa come una brava persona. E insomma, diamogliela una gioia! uu
Potresti rispiegare i rapporti che ci sono tra la Terra e Sibun? Allora, in pratica Sibun e la Terra sono nate all’incirca nello stesso periodo, solo che la popolazione del primo pianeta era molto più sviluppata a livello intellettivo. Gli abitanti avevano questa capacità di vedere la gente che chiedeva aiuto nei sogni, e in casi estremi sentivano persino il loro dolore. Prima la cosa era accentuata, adesso si è ridotta a una singola persona perché questa abilità è quasi scomparsa. Quando arrivano sulla Terra, siamo nel periodo dei Babilonesi circa, e anche se gli abitanti di Sibun torneranno sul loro pianeta, i terresti continueranno a chiamarli. Le Piramidi erano un indizio, perché sono stati loro ad aiutarli a costruirle (e questa idea deriva dalla teoria secondo cui le piramidi le abbiano costruite gli alieni…). Siccome, come ben sapete, l’uomo non ha mai finito di chiedere aiuto alle divinità – anche se loro non li consideravano divinità, solo un popolo venuto da lontano – allora gli abitanti di Sibun hanno deciso di stabilirsi sulla Terra per aiutarli. Finché non siamo arrivati alla Seconda Guerra Mondiale. Vi ricordate che nel precedente capitolo ho detto che su Sibun stranamente si parla il giapponese? Perché molti di loro erano stanziati lì quando le bombe nucleari sono state gettate su Hiroshima e Nagasaki. Alcuni Sibuiani (?) sono rimasti, ma continuavano a indurre i loro simili a tornare, disegnando dei simboli sul grano: da qui, i Cerchi nel Grano.
Che cosa è la Lingua Muta? Il nostro linguaggio dei segni. Nel mio immaginario, la gente di Sibun comunicava tra di loro in questa maniera. L’uomo gli ha insegnato a trasformare i suoni in parola, e loro a utilizzare dei simboli per scrivere. Sì, lo so, prima viene la parola e poi la scrittura, ma in questo caso per i Sibuinani era quello il loro linguaggio, comunicavano così. E loro mettevano per iscritto con dei simboli quello che minavano.
Ma lo scooter è volante? Sì, ragazzi, sì :’)
Qualche riferimento? K-2SO è il robot presente nello spin-off di Star Wars, Rogue One. Dovevo citarlo <3
Piccola curiosità: si è appena scoperto che tutto quello che si diceva su Trappist-1 è falso, di conseguenza metà della mia fic finisce dentro il gabinetto :’) Ma dopo l’iniziale depressione (qui per ulteriori informazioni), ho deciso di fregarmene e di continuare a scrivere. Vi avviso che il prossimo capitolo sarà l’ultimo ;)
Grazie a tutti quelli che stanno sostenendo questa storia, siete meravigliosi *w*
Vi abbraccio <3 
_Lady di inchiostro_

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


 
Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise - Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 10912 
Prompt/Traccia: Solo due cose sono infinite: l’Universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima” (Albert Einstein)
Note della piratessa spaziale (?): Quest'ultimo capitolo va ad Alexys_Tenshi, perché si è affezionata fin troppo a questa storia <3 




 
Capitolo quarto
~
Atto primo






Controllò che fosse tutto nella norma assieme a Issei e Takahiro. Azionarono un paio di pulsanti, per vedere se la navicella funzionasse, se ci fosse abbastanza carburante per un viaggio lungo come quello, se il rivestimento avrebbe ceduto all'improvviso.
Avevano concesso a Kageyama e Hinata di partire quel pomeriggio stesso. I due piloti erano dietro di lui, assieme a un paio di soldati che poi l'avrebbero portato via, mentre lui era chino sulla sua creazione. L'avrebbero tenuto sotto osservazione, almeno fino a quando quei due non sarebbero tornati; se non fosse stato così, l'avrebbero arrestato, o forse l'avrebbero portato da qualche parte, magari in un covo di pazzi.
Non era questo a spaventare Oikawa, però, era sicuro di quello che diceva.
Aveva paura che la Nave non sarebbe mai atterrata sulla Terra. Temeva che Iwa-chan non sarebbe mai arrivato su Sibun.
«È tutto nella norma» disse, asciutto, girandosi poi verso i due giovanissimi piloti, che quasi si misero sull’attenti. Era livido in viso.
Annuirono, e rimasero per un attimo in silenzio, poi Oikawa si rivolse a Kageyama: «Posso parlarti?»
Il ragazzo rimase sorpreso e si scambiò un’occhiata con Hinata, che stranamente intuì al volo, chiedendo se potesse già entrare dentro la navicella; Oikawa gli diede il suo consenso, e il ragazzetto si diresse quasi trotterellando dentro l’abitacolo.
Il castano fece due passi verso il suo kohai, studiando il suo viso: era serio quanto lui. «Tra andata e ritorno, il viaggio durerà ottanta giorni» gli disse.
«Lo so.»
A quanto pare, gli scienziati erano riusciti a trovare una formula per riuscire a superare la velocità della luce. Per questa ragione, il viaggio sarebbe durato solo una manciata di giorni nonostante il pianeta fosse distante anni luce. Se avessero utilizzato una Navicella dei Ricercatori forse ci avrebbero messo meno tempo, ma purtroppo avevano pochissimo spazio.
Oikawa tirò fuori un pezzetto di carta. L’aveva strappato dal suo taccuino, e sopra vi erano scritte le coordinate per arrivare sulla Terra e atterrare a Kagoshima. «Qui ci sono le coordinate. Sono approssimate… Io e Iwa-chan abbiamo fatto del nostro meglio.»
Il minore annuì. «Devo sapere altro?»
«Fai solo attenzione a non bruciare vivo.»
La temperatura su Sibun era molto bassa, e per almeno due volte all’anno arrivava a livelli quasi glaciali. Di conseguenza, per quanto sulla Terra non ci fossero delle temperature così alte, non sapevano se le loro navicelle avrebbero retto.
Kageyama annuì ancora, non sapendo se Oikawa-san glielo stesse dicendo perché ci teneva veramente alla sua vita, o solo per convenzione. Non ebbe il tempo di scoprirlo. Si voltò, dandogli le spalle, e l’ultima cosa che vide furono le manette fluorescenti che si legavano ai polsi di Oikawa, i due soldati che lo presero per l’avambraccio, con l’intento di trascinarlo.
Poi si girò anche lui. Per poco, però, perché quando stava per salire sulla nave, il suo rivale lo chiamò di nuovo. «Tobio!»
Aveva un’espressione malinconica sul viso, e quasi non gli si addiceva. Lo stava squadrando con intensità, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Portamelo qui vivo» affermò, la voce strozzata.
Kageyama aveva solo una vaga idea di come si sentisse. O almeno, si trovava in una di quelle strane situazioni in cui poteva immaginare benissimo cosa stesse sentendo l’altro e cosa avrebbe fatto lui al suo posto. E il suo cuore fece un capitombolo nel pensare che, sì, per Hinata avrebbe fatto esattamente la stessa cosa.
Guardò Oikawa-san negli occhi. «Lo farò!»








Kageyama entrò dentro la navicella, mettendosi seduto al suo posto di pilota. Le Navi Passeggeri avevano la fortuna di avere ben due comandi, in modo che non ci fosse soltanto il comandante, ma anche il suo copilota. In quel caso, sarebbe stato Hinata.
Il ragazzo stava guardando per bene i pulsanti, cercando di capire quali fossero quelli giusti da premere, e ogni tanto Kageyama interveniva per aiutarlo, facendolo di conseguenza innervosire.
«É tutto pronto?» chiese poi, mettendo le mani sul timone.
«Siamo pronti! Possiamo partire!» affermò, Kageyama si perse a fissare il ragazzo che gli stava accanto. Un tempo, erano stati rivali, e la scuderia di cui faceva parte Shoyo era misera e con pochissimi componenti. Era stato facile batterlo.
Mai si sarebbero aspettati, a distanza di anni, di ritrovarsi nella stessa scuderia come compagni. E mai Kageyama si sarebbe aspettato di essersi innamorato di lui, un totale incapace che non sapeva sfruttare bene le sue potenzialità. Lo stesso incapace con cui si sentiva invincibile.
Aprì la bocca, per poi richiuderla, mentre Hinata lo guardava, sbattendo gli occhi. «Cosa c'è? Ho qualcosa sulla faccia?»
Tobio prese un profondo respiro, puntando gli occhi scuri su quelli chiari del giovane compagno. «Devo dirti una cosa, Hinata...»
Il ragazzo lasciò il volante, girandosi totalmente verso di lui. Non l'aveva mai visto così.
«Nel caso in cui non dovessimo tornare...» disse, ingoiando un grumo di saliva. «Voglio che tu sappia...»
«Alt!» Shoyo gli mise una mano davanti al viso. «Non me lo dire.»
Tobio parve sorpreso. «Cosa?»
«Me lo dirai quando torneremo a casa» rispose Hinata, inclinando la testa di lato. «Così sarai costretto a rimanere vivo, no?»
Gli occhi blu del campione si spalancarono leggermente. Erano molto giovani, non avevano mai avuto l'occasione di fare un viaggio lontano dal proprio pianeta. E forse era su questo che speravano i membri del Consiglio, sul fatto che non sarebbero stati in grado di completare la missione perché non avevano esperienza.
Per un attimo, Tobio si era lasciato soggiogare da questa possibilità, pensando al peggio, quando non aveva messo in conto la forza d'animo che aveva Hinata. La forza d'animo che avevano entrambi.
Assieme creavano una reazione chimica, un'esplosione, e potevano sbaragliare qualsiasi cosa.
Kageyama ghignò, e vide sul volto del compagno la sua medesima espressione. «Io non ho alcuna intenzione di morire!»
«E allora facciamogliela vedere ai membri del Consiglio!»





I due ragazzi partirono poco dopo. Dal Deposito si levò una nuvola di fumo densa e chiara, sul cielo si disegnò un striscia bianca. Oikawa ebbe il tempo di vederla prima che lo facessero salire su un veicolo, per portarlo da qualche parte. 
Stette a fissare con intensità quella linea bianca, nella speranza che il suo pensiero arrivasse a Iwa-chan.






*




 
Quaranta giorni dopo, sul Pianeta Terra






Era andato a trovare Haruka. L’albero non era più rigoglioso come prima, il suo manto non faceva quasi più ombra, ma non nonostante questo rimaneva ancora in piedi. Stava morendo, stava marcendo dentro.
Hajime, a questo punto, avrebbe fatto il paragone con se stesso, ma non in quel momento. Aveva delle promesse da mantenere. Doveva resistere, doveva raggiungere Sibun, poi forse avrebbe potuto pensare alla sua malattia.
Alzò lo sguardo sulle poche foglie rimaste, facendo un piccolo sorriso. «C’è una cosa che non ti ho detto, prima che te ne andassi…» Era stupido parlare con una persona che fisicamente non c’era? Eppure, per lui Haruka c’era sempre. Forse stava solo impazzendo, ma la vedeva ancora correre verso il campo di riso, sentiva la sua risata e la sua voce che lo chiamava da lontano. «Volevo ringraziarti, di tutto.»
Prese un bel respiro, tirando su col naso, ma non smise mai di sorridere. «Mi sono innamorato di Oikawa» ammise. «Te lo dico perché so che ti avrebbe fatto piacere. E avevi ragione… hai sempre avuto ragione.» Guardò per un’ultima volta il cielo annuvolato, gli occhi che pizzicavano. «Dovrai aspettarmi tra molti di anni, ovunque tu sia. Ho intenzione di sopravvivere e di stabilirmi su Sibun. Per questo sono venuto a salutarti.»
Diede le spalle all’albero, il vento che cominciava a sollevarsi. «Ti vorrò sempre bene, Haruka.»






Era tornato a casa e aveva messo in un borsone tutto quello che poteva. Non sapeva cosa potesse servigli, effettivamente, su Sibun, Oikawa gli aveva detto che le caratteristiche erano simili a quelle della Terra, salvo per la temperatura.
Pensare a Oikawa, al suo viso l’ultima volta che l’aveva visto, gli fece venire una fitta lanciante allo stomaco e al petto. Non si erano sognati, nell’ultimo periodo, e Iwaizumi aveva capito che c’era qualcosa che non andava da quando aveva sentito un dolore lanciante in diversi punti del corpo e in diversi momenti nella stessa giornata. Avrebbe voluto chiederglielo la sera stessa, ma nulla, non sognò assolutamente nulla; o almeno, non lo ricordava. Se avesse sognato Oikawa se lo sarebbe ricordato, quei sogni erano sempre stati… intensi, reali, non sapeva neanche lui come spiegarli, neanche ora che era passato del tempo, neanche ora che sentiva qualcosa per quel ragazzo frivolo e petulante.
Troppe cose erano cambiate in lui, da quando aveva conosciuto Oikawa Tooru, e in quel caso la malattia non c’entrava: si era innamorato di una persona che conosceva da pochi mesi, proveniente da un altro pianeta, senza essere certo della sua esistenza, fidandosi ciecamente. Per certi versi, la parte più razionale di lui gli urlava contro che stava sbagliando tutto, tuttavia aveva smesso di dargli ascolto da quando Haruka era morta.
Per questa ragione, smaniava per rivedere Oikawa, per capire cosa diavolo fosse successo. Quei quaranta giorni erano stati estenuanti.
Il ragazzo non gli aveva dato una data precisa su quando sarebbe arrivato, aveva solo calcolato che sarebbe potuto attraccare nella seconda settimana del mese, all’incirca, dipendeva da quando sarebbe partito. Così, lui e suo padre, assieme alla famiglia di Haruka avevano deciso di stabilirsi alla base della Jaxa, in attesa che arrivasse.
Ancora non sapeva come mai gli stessero dando corda e la madre di Haruka non l’avesse psicoanalizzato, ma si disse che non aveva importanza, in quel momento. Hajime non poteva sapere che aveva innestato in loro un briciolo di speranza che, d’ora in poi, non se ne sarebbe andato più via. Perché, nonostante avessero perso qualcuno, avevano ritrovato una ragione per tornare a vivere. Per tornare a vivere da esseri umani, con una propria dignità, con la voglia di fare meglio.
Gli storici dicono che la storia non si ripete, che le dinamiche sono sempre diverse. E hanno ragione, nessuno avrebbe mai potuto prevedere la distruzione della Terra; ma sulla crudeltà e la svogliatezza umana, oh, gli storici sono tutti d’accordo. Quindi sì, avrebbero fatto di tutto per fare in modo che l’orrore non si ripetesse anche su un altro pianeta.
Hajime gli stava dando un’occasione. Chiunque fosse la persona di cui era innamorato – perché era chiaro che ci fosse qualcosa di più, traspariva benissimo da quello che gli aveva raccontato –, anche questa gli stava dando un’occasione. E loro l’avrebbero colta.
Arrivarono alla base poco dopo la famiglia di Haruka. Salutò il padre della ragazzina con un cenno del capo, mentre la madre gli si avvicinò, sorridendogli. Oltre, al borsone, aveva in mano un piccolo zainetto rosa. «Ho preso anche qualcosa di Haruka… Pensavo ti avrebbe fatto piacere…»
La sua voce tremò leggermente, come anche la mano di Hajime quando prese lo zainetto. Rovistò dentro, trovando più che altro giocattoli e disegni. Uno, in maniera particolare, catturò la sua attenzione: doveva averlo realizzato di recente, e per Hajime era uno dei migliori che avesse mai fatto.
«L’ho trovata in piedi una notte…» disse la donna. «Stava già male, e ho visto che stava disegnando quello. Era ancora sulla sua scrivania…»
Era una navicella. O per meglio dire, come Haruka immaginava la navicella di Oikawa. Era colorata per metà, ma aveva usato il colore giusto: il celeste.
Non erano stati solo lui e Oikawa a dare speranza a quelle persone. Era stata anche Haruka, nei suoi modi da bambina ingenua e ottimista.
Sorrise, le labbra che tremolarono appena. «Posso tenerlo? C’è una persona che lo adorerà senz’altro.»
La donna annuì, e fu allora che una voce lontana li distrasse dalla loro conversazione, facendoli voltare. «Iwaizumi-san!»
Jun stava correndo verso di loro, la felpa sbottonata e il fiatone. Hajime l’aveva avvertito che, in un modo o nell’altro, loro si sarebbero trasferiti lì, bisognava solo che trovassero sia un modo per entrare sia un posto dover poter sostare per un paio di giorni, se necessario. Il problema non era Jun, né suo padre – che non si capiva bene da che parte stesse –, quanto gli altri scienziati della Jaxa.
Tutto quello che si diceva nei film di fantascienza era falso: gli scienziati della Nasa non credevano nell’esistenza degli alieni, o di una qualsiasi forma di vita addirittura più intelligente dell’uomo e in grado di salvarli. Avevano solo bisogno dell’aiuto di loro stessi, delle loro forze e delle loro capacità, quella soluzione sembrava solo una delle tante supposizioni di un visionario.
Hajime un po’ li capiva.
Il ragazzo si fermò davanti a loro. «Hanno scoperto che siete arrivati qui…»
«Come?»
«Non lo so» e il ragazzo ebbe solo il tempo di rispondere, prima che un gruppo di uomini si dirigesse verso di loro a passo di marcia.
Alcuni non sembravano degli scienziati, avevano addosso la divisa da custodi. «Voi non siete autorizzati a stare qui!» urlò uno degli uomini in camice bianco.
«Non farebbero nulla di male, ci sono tante stanze vuote che possono essere adibite a camera da letto, diglielo tu papà!»
Il gruppo spostò l’attenzione verso il padre del giovane, che si era un po’ nascosto dietro di loro, senza sapere bene cosa dire. Se da un lato avrebbe voluto credere a suo figlio – che per una volta stava facendo qualcosa di buono nella vita –, dall’altro voleva rimanere fedele ai suoi colleghi e alla scienza. Aprì la bocca, ma non emise fiato.
«Non vi intralceremo, lo giuriamo!» continuò la madre di Haruka.
«Voi siete solo una mandria di ciarlatani! Ci avete disturbato fin troppo, fuori!»
Hajime sentì la testa che cominciò a vorticare, e il respiro per un attimo gli si fermò in gola. Non riusciva più a respirare, era come se avesse improvvisamente perso la capacità di farlo, come se i suoi polmoni non rispondessero ai comandi. E mentre si accorgeva degli uomini in divisa che venivano verso di loro, pronti a trascinarli fuori come avevano già fatto negli ultimi tempi, le gambe gli cedettero.
Non cadde riverso a terra, per fortuna, ma un ginocchio era posato sul suolo, assieme a una mano, in modo da potersi sorreggere.
«Hajime-kun!»
«Iwaizumi-san, che succede?»
Suo padre gli fu subito accanto. Aveva ricominciato a respirare, anche se aveva la sensazione di immettere dentro i polmoni della carta vetrata, non dell’ossigeno. Tossì ininterrottamente, sputando sangue più e più volte, sotto lo sguardo agghiacciato dei presenti, compresi gli scienziati.
Alla fine, fu il padre di Jun a farsi avanti. «Lasciateli entrare.»
«Come scusa?»
«Siete per caso ciechi? Non vedete che quel ragazzo sta malissimo? Saremo pure degli scienziati, ma prima di tutto siamo esseri umani, e non possiamo permetterci di lasciare un individuo in questo stato!»
Ebbe il tempo di sentire quell’ultima frase, prima che le forze fluissero via improvvisamente dal suo corpo e lui cadesse addosso a suo padre.





*

 




Quindici minuti dopo, sulla Nave Passeggeri  






«Secondo te è quello il Pianeta Terra?» chiese Hinata.
A giudicare da quello che potevano ammirare, non aveva un bell’aspetto: forse un tempo era stato florido, ma adesso sembrava vecchio e sporco, come un oggetto da poter buttare via. L’acqua aveva un colore raccapricciante, come anche i continenti, e molto spesso non si capiva dove finisse uno e dove iniziasse l’altro.
Hinata si domandò se i terresti avessero mai avuto l’occasione di ammirare il pianeta da quella posizione, forse si sarebbero resi conto di quello che stava succedendo. O forse, l’avevano fatto, ma l’essere umano era troppo stupido per capire quello che aveva.
Con l’uomo funziona così: rimpiange ciò che non può avere più. Ma Hinata e Kageyama non lo sapevano.
Il capitano della Nave guardò le coordinate che gli erano state date. «Sì, secondo quello che c’è scritto qui.»
Shoyo spostò lo sguardo dal finestrino per concentrarsi di nuovo sulla guida. «Bene, e adesso che facciamo?»
«Attraccare, mi pare ovvio!»
Kageyama smanettò con un paio di pulsanti, sperando che il suo sesto senso gli stesse indicando la strada giusta, e Hinata si mise a fare lo stesso.
«Idiota, quello non serve!»
«Lo sapevo benissimo!»
Solo quando furono certi che fosse tutto pronto decisero di cominciare la discesa. Ad un primo impatto, la navicella cominciò a tremare, e si resero conto che la temperatura stava cominciando ad innalzarsi. I due giovani tennero saldamente le mani sul volante, qualsiasi movimento brusco o anche il solo aumento della velocità gli sarebbe stato fatale. Dovevano essere una cosa sola.
Sentivano il rivestimento scricchiolare, e forse persero pezzi durante la discesa. I due si guardano più di una volta di traverso, come a darsi sostegno a vicenda. Non seppero quanti metri avessero percorso prima di raggiungere una certa stabilità: la nave smise di tremare e la temperatura sembrò abbassarsi, diventando quasi glaciale in alcuni momenti.
Kageyama poté riprendere a respirare. Il primo passaggio era andato, e secondo quanto c’era scritto sul foglietto avrebbero dovuto trovarsi proprio sopra un certo monte Fuji, uno dei più famosi del paese. Aumentò la velocità, credendo che il peggio fosse passato, ma non fu così.
Stavano scendendo in picchiata. La Nave era fuori controllo.
Scattò immediatamente l’allarme, e Hinata parve riscuotersi, ancora troppo preso da quello che era appena successo. «Che cosa hai combinato…?»
Il ragazzo non rispose, troppo intento a capire dove stesse il problema. «Hinata, pensa tu ai comandi, devo capire cosa è successo!» Probabilmente, qualcosa era andato in tilt durante la fase di atterraggio.
«Cosa, da solo?» Non ricevette alcuna risposta, e cominciò a sudare freddo, le mani sul volante. «Oh mamma, oh mamma, oh mamma…»
Non sapeva che cosa fare, vedeva il suolo del pianeta che si avvicinava sempre di più, e l’idea che stesse effettivamente per morire, lo investì in pieno. «Kageyama…?»
«Se solo riuscissi a…» Per fortuna, il ragazzo aveva capito dove stesse il problema – e non era nulla di irrisolvibile –, e adesso cercava di muoversi verso un paio di fili intrecciati tra loro e che doveva rimettere in funzione. Solo che ci stava mettendo troppo tempo.
Per la prima volta nella sua vita, Hinata Shoyo vide una montagna e ne ebbe subito il terrore. Sembrava la punta di un coltello gigantesco e pronto per conficcarsi dentro la loro navicella; o meglio, loro erano pronti per lasciarsi conficcare come se fossero degli spiedini, e in un momento come quello qualsiasi parvenza di lucidità era scomparsa.
«Kageyama!»
«Sta zitto, idiota, mi deconcentri!» disse, riuscendo finalmente a prendere i due fili tra le dita e facendo in modo che tornassero al loro posto.
L’allarme smise di produrre quel suono fastidioso, segno che tutto era tornato nella norma. «Fatto!»
Non si era neanche accorto che mancava davvero pochissimo allo schianto. A farlo tornare prepotentemente al suo posto di pilota fu la voce di Hinata, completamente nel panico. «Tobio!»
Spalancò gli occhi, senza riuscire neanche a registrare come diavolo fosse fatto quel monte, perché la sua mente era popolata da tutt’altro: la consapevolezza che doveva fare qualcosa, e in fretta anche. Il suo volante era già tra le sue mani, e provò a spostare il muso della Nave verso l’alto, in modo che riuscissero schivarlo; poi, diede gas e solo grazie ai due motori riuscì ad evitare il monte poco prima che lo raggiungessero del tutto.
I due piloti furono schiacciati conto i sedili. Hinata, ancora terrorizzato, buttò solo un occhio alla montagna, trovandosi combattuto tra la paura e la bellezza che quello spettacolo emanava. Non c’era nulla di così bello su Sibun, e forse tanti anni prima sarebbe stato ancora più bello.
«Sono vivo…» mormorò Hinata, dandosi un pizzicotto sulla guancia per constatare che fosse vero.
«Prego, figurati, è stato un piacere salvarti la vita!» sbottò Kageyama, infuriato.
Il copilota non aveva la forza di rispondere in quel momento, mentre cercava di prendere aria, togliendo per il momento le mani dal volante: scuotevano ancora, come se fossero sul volante che traballava per via della troppa velocità.
«Bene, adesso dovremmo andare – Kageyama lesse il bigliettino – di là!»
Indicò la strada di fronte, dando poi una gomitata sul fianco a Hinata per indurlo a riprendersi. Passarono di città in città, e per quanto lo scenario potesse sembrare sempre uguale, ai loro occhi nascondeva sempre qualcosa di diverso: un palazzo dalla forma stana, qualche piantagione particolare e soprattutto quei buffi cartelli che attiravano particolarmente l’attenzione, erano quasi ipnotici.
Quello che però destò lo stupore di entrambi fu vedere delle persone che si muovevano sotto di loro. Non c’era tanta gente, forse alcuni neanche uscivano allo scoperto, ma c’erano: quelli erano esseri umani, e urlavano, parlavano e facevano altre mille cose che potevano fare anche loro su Sibun. 
Ne avevano la conferma. La Terra forse non era più abitabile come un tempo, forse la gente era divenuta ostile, ma i terrestri c’erano. La Sindrome dell’Astronauta… non era una malattia mentale. Quei vaneggiamenti, per quanto possa essere strano da dire, avevano un loro fondamento di verità. Oikawa-san e tanti altri avevano ragione.
Tobio non sapeva quando avrebbe dovuto fermarsi, doveva solo vedere la base spaziale per capire che era quello il luogo dove doveva atterrare. Notò qualcosa di strano, una struttura che non avevano mai incontrato lungo il tragitto, e decise di puntare verso quella zona. Pareva una navicella, ma era diversa dalle loro, più grande e decisamente ingombrante per i loro gusti – anzi, per quelli di Sibun.
«Mi sa che è quello il posto» disse, puntando verso uno spazio lasciato vuoto. Sperava solo che la Nave ci entrasse.
Si accorsero di un gruppo di persone che stava fissando la scena con la stessa espressione di un pesce lesso, e alcuni sembravano che stessero per avere un infarto. 
La nave si posò dolcemente sul terreno, sollevando polvere e fumo; solo allora, i due piloti si lasciarono andare contro i sedili, togliendosi la cintura e prendendo boccate d’aria come se fossero sorsi d’acqua. Per quanto il loro viaggio fosse stato tranquillo, senza particolari intoppi, erano stati in tensione fino ad allora.
«Ce l’abbiamo fatta!» urlò a quel punto Hinata, riacquistando il suo naturale entusiasmo, il viso sorridente rivolto verso il compagno.
Kageyama, senza rendersene conto, si perse ad osservare i dettagli di quel viso gioviale, come se fosse la sua ultima occasione per registrarli. Stavano per morire, la sua paura più profonda da quando si erano messi in viaggio si era quasi avverata. E la sola idea che stessero rischiando così tanto e che lui non avrebbe più detto a Hinata quello che sentiva, lo…
Non poteva più aspettare, non ne aveva più voglia, non quando l’altro era a pochi centimetri da lui. Coprì la distanza che separava le sue labbra da quelle di Shoyo, l’altro che fu incapace di dire o fare alcunché, se non rimanere come uno stoccafisso, gli occhi completamente dilatati. Le labbra di Tobio, però, avevano un buon sapore.
Si staccarono poco dopo, entrambi consapevoli di quello che era appena successo. Le orecchie di Tobio andarono in fiamme nel realizzare quello che aveva fatto.
«Volevo dirti – cercò di cambiare discorso, spostando lo sguardo di lato – che puoi guidare tu la navicella al ritorno, mentre io faccio il copilota.»
L’altro avrebbe voluto rispondergli che un’esperienza del genere non l’avrebbe mai più rifatta in vita sua, ma non riusciva a esprimersi se non attraverso monosillabi. «Ah… sì… okay…»
Fu in quel momento che qualcosa li distrasse, e l’imbarazzo svanì improvvisamente. Si girarono quasi in contemporanea, notando la figura di un ragazzo che si sbracciava per attirare la loro attenzione; in seguito, indicò un gruppo di persone dietro di lui, che stavano trasportando…
Kageyama scattò subito in piedi ed era già pronto per uscire fuori. Hinata, invece, si lasciò andare a un’esclamazione. «Per tutti gli universi…»







Per un tempo che non seppe definire, vide solo nero.
Nero e oscurità, denso e scuro. Non fu come nella stanza, no, c’era solo nero e basta. Sentiva le voci, le sue orecchie le percepivano, ma parevano lontane, come flussi di ricordi che fluivano facilmente via. Poi, si sentì sospeso nel vuoto, sballottato qua e là, senza riuscire a comprendere cosa stesse succedendo attorno a lui.
Solo quando le voci si fecero più vicine, trovò la forza per aprire gli occhi e risvegliarsi. E la prima cosa che vide quasi lo raggelò sul posto. Aveva la vista ancora a chiazze, ma non poteva sbagliarsi, conosceva perfettamente quel colore d’occhi: blu, come quelli di Haruka.
«Iwaizumi-san? Iwaizumi-san!»
Una piccola parte di sé, sperava di essere rimasto svenuto per chissà quanto tempo, e che tutto quello che era accaduto nell’ultimo periodo in realtà non fosse mai successo. Haruka sarebbe stata viva, avrebbe continuato a ridere come una qualsiasi bambina di dieci anni, e lui non avrebbe dovuto seppellirla.
«Haruka…?»
Per quanto volesse davvero che le cose fossero andate così, si rese conto che non era fattibile, e che c’era una persona altrettanto importante che lo stava aspettando. Ma del resto, la bambina l’avrebbe sicuramente perdonato.
La sua vista si fece più ridefinita, rendendosi poi conto che quei occhi appartenevano a un ragazzo che non aveva mai visto, con addosso una tuta molto simile a quella che portavano gli astronauti. Non era lui a chiamarlo, bensì Jun, che stava inginocchiato vicino a lui, assieme al padre di Hajime. Si rese conto, mano a mano che tutto si faceva più chiaro, che tutti lo stavano fissando, compresi gli scienziati che prima lo avevano preso per matto; alcuni sembravano veramente preoccupati.
Cercò di mettersi seduto, rendendosi conto di essere disteso su una brandina di fortuna, che non aveva nulla di comodo. La testa gli pulsava ancora, e si massaggiò la parte sinistra. «Dove sono…?»
Jun gli sorrise. «Lei e Haruka avevate ragione, Iwaizumi-san…»
Ci mise un po’ per comprendere il significato nascosto di quelle parole, ma quando lo realizzò, spostò lo sguardo su tutti i presenti, tutti sorridenti; gli scienziati fecero persino un inchino del capo verso la sua direzione, come a chiedergli scusa per aver dubitato di lui. Poi, Hajime si mise in piedi, facendo spostare tutti, intravedendo una finestra nella parte anteriore della navicella.
Da lì si vedeva la Terra. In un modo o nell’altro, tutti avevano avuto l’occasione di poterla vedere tramite le fotografie fatte dai satelliti o da qualche sonda. Ma in quelle foto, lo spettacolo mozzava il fiato, adesso era soltanto desolante.
Per la prima volta nella loro vita, tutte le persone che stavano su quella navicella si resero conto dell’orrore che avevano commesso: avevano distrutto qualcosa di raro e prezioso, la propria casa, qualcosa nato milioni e milioni di anni fa in un modo straordinario. Avevano fatto del male a milioni di vite, a specie rare, permettendo che il menefreghismo prevalesse sul loro buon senso.
L’universo forse era infinito, ma la stupidità umana lo era ancora di più.
C’è un momento in cui la sete di potere deve arrestarsi, in un modo o nell’altro. Forse è un’idea un po’ utopistica, difficile da associare all’essere umano, ma era quello che volevano fare quel gruppo di persone. Perché avevano distrutto la cosa migliore che gli fosse stata concessa, non importa se per mano di Dio o di una esplosione incandescente. Avevano superato il limite.
«Oh, si è svegliato?» Un vocetta allegra catturò la sua attenzione, facendolo voltare verso la zona dei comandi. Una buffa testa rossa sbucò da uno dei sedili, probabilmente quello del capitano della navicella.
«Hinata, non ti distrarre!» gli intimò il ragazzo di prima, ancora in piedi.
«Non mi urlare contro, che cavolo!» rispose l’altro, sbuffando sonoramente.
Iwaizumi parve confuso. «Dov’è Oikawa…? Chi siete?»
Il campione si mise sull’attenti, leggermente intimorito da quella voce calda e austera. «Il mio nome è Kageyama Tobio. E quello alla guida è Hinata Shoyo…»
«Piacere!»
Kageyama credeva di stare per avere un tic all’occhio. E dire che l’aveva pure baciato quel cretino!
«Hinata, sta zitto!»
«Dov’è Oikawa?» chiese di nuovo Iwaizumi, cercando di dare più fermezza alla sua voce, anche se la gola bruciava ogni volta che cercasse di parlare.
Le spalle del ragazzo ebbero un sussulto, poi abbassò lo sguardo. «Purtroppo, è dovuto rimanere su Sibun…»
Cosa? Doveva essere lui a guidare la navicella, almeno gli aveva detto questo l’ultima volta che ne avevano parlato. Che fosse successo qualcosa?
Hajime cominciò a sudare freddo. Anzi, sentiva freddo dall’interno, ma era quasi sicuro che non fosse solo per via del panico. Quello svenimento improvviso era stato un campanello d’allarme. Oramai, poteva contare i giorni che gli rimanevano… 
«Hanno scoperto che Matsukawa-san e Hanamaki-san stavano lavorando al rivestimento di questa nave. Per evitare che fossero processati, Oikawa-san ha dovuto confessare di essere lui l’artefice di tutto. Lo tengono sotto osservazione» spiegò Tobio.
Adesso, tutto aveva un senso. Aveva capito abbastanza di Oikawa per sapere che, per raggiungere il suo obiettivo, sarebbe stato capace di pazzie inimmaginabili, rischiando la salute e la vita, se era necessario. Ed era per questo motivo che, ben un mese fa, Hajime aveva cominciato a sentire dolore in diversi punti del corpo. Avrebbe voluto saperne di più, ma si era già fatto un’idea su quello che aveva potuto combinare Tooru; e poi, c’era un’altra domanda di cui gli premeva sapere la risposta.
«Dove l’hanno portato?»
Il giovane scosse la testa corvina. «Non lo so… Nessuno lo sa.»
Iwaizumi sentiva che le gambe sarebbero cedute di lì a breve. Respirare gli era sempre più difficile, mentre deglutiva fiotti di saliva mischiati a sangue. Strinse i pugni. Quell’idiota… Lo avrebbe ammazzato. Sì, l’avrebbe preso a pugni non appena l’avrebbe rivisto. Non poteva farlo preoccupare così, non poteva non farsi vedere per più di un mese, non…
La voce rotta dal pianto del castano gli risuonò in testa, e la stretta sui suoi palmi diminuì appena.
«Iwaizumi-san…?» A chiamarlo così, stavolta, era stato Tobio, e per la prima volta lo guardò dritto negli occhi. Ebbe la sensazione, come quando si guardavano lui e Haruka, che verde e blu si mischiassero in un’unica miscela. «Oikawa-san mi ha chiesto di portarla sul nostro pianeta sano e salvo, ed è quello che ho intenzione di fare!»
Gli sorrise appena, e Hajime non seppe che cosa dire: si limitò solo a ringraziarlo con un accenno del capo. A parlare, in seguito, fu Hinata, alzando un braccio come per attirare l’attenzione. «Stia tranquillo, Iwaizumi-san! Non appena vedranno tutta questa gente proveniente dal Pianeta Terra, si ricrederanno e libereranno Oikawa-san!»
Sperava davvero che fosse così. «Quanto manca per arrivare?»
Kageyama prese posto vicino al compagno, riafferrando il volante. «Quaranta giorni, come per l’andata.»
Erano troppi. Per lui, erano troppi.
Suo padre e i genitori di Haruka lo stavano fissando con aria preoccupata; persino Jun non sembrava tanto convinto delle sue condizioni di salute, forse tutti avevano capito che c’era qualcosa che non andava in lui, persino quei due ragazzi provenienti da un pianeta sconosciuto e di cui si stava fidando come se fossero dei conoscenti di vecchia data.
Forse, era lui l’unico a non aver realizzato appieno di essere malato. E quaranta giorni, date le condizioni in cui si trovava, erano davvero troppi.
Fece un paio di passi verso i sedili dei guidatori, milioni di stelle che si estendevano di fronte a lui. Vide gli altri pianeti del Sistema Solare, e probabilmente quello che stavano per sorpassare era Saturno, con i suoi anelli che lo caratterizzavano. Buffo, aveva sempre pensato che non si vedessero così tanto a occhio nudo. Stava vivendo un’esperienza unica al mondo, e molto probabilmente tantissima gente avrebbe pagato oro per potersela godere. Eppure, lui non lo stava facendo, la sua mente si trovava su Sibun, e con un dispiacere immenso aveva lasciato indietro la Terra, Haruka, Kagoshima, la vita che avrebbe potuto avere…
Si impose di resistere. Si impose di combattere contro la malattia, ancora per un po’.
Forse altri gli avrebbero detto che doveva rinunciare, che non c’era più speranza, e che avrebbe dovuto lasciarsi andare; ma lui, aveva smesso di rinunciare a tutto ancora prima di provarci. Era tornato ad essere quel bambino determinato e che non si arrendeva mai di fronte alle avversità.
«Posso farvi una domanda?» I due piloti si voltarono a guardarlo. «Questo affare può andare più veloce di così?»
Kageyama e Hinata si scambiarono un’occhiata d’intesa, ed entrambi fecero lo stesso medesimo sorriso. «A tutto gas, Kageyama!»
«Non me lo faccio ripetere due volte!»






 
Atto secondo



 
Quaranta giorni dopo, sul pianeta Sibun








Si trovava chiuso in una stanza dall’aspetto molto minimalista. C’era solo un tavolo con due sedie, un divano che fungeva anche da letto, un bagno personale e una finestra misera da cui riusciva a malapena a vedere cosa c’era fuori. E poi c’era uno specchio. Era enorme, e ricopriva metà parete.
Oikawa non era stupido, sapeva che in realtà lo specchio era un enorme telecamera che inquadrava ogni angolo della stanza, in modo che non potesse fuggire. Del resto, avevano detto che l’avrebbero tenuto sotto osservazione, no?
Non aveva ancora chiaro dove l’avessero portato, in realtà. Dopo aver lasciato il Deposito ed essere usciti fuori dalla Base Area, lo avevano infilato con forza dentro un furgone, giusto il tempo di vedere la Nave Passeggeri volare via, verso la Terra. Poi, l’avevano bendato, in modo che non potesse vedere niente, finché non era giunto lì. Si aspettava una struttura decadente e maleodorante, dimenticata da tutto e da tutti nell’universo, e invece si ritrovò a percorre un lussuoso corridoio con porte in un legno pregiato e che non aveva visto da nessuna parte.
Era un’illusione, facevano apparire quel luogo come un posto confortevole e dove la gente poteva guarire dalla sua malattia, ma in realtà le facevano solo il lavaggio del cervello. Non era sicuro di voler sapere quante persone ci fossero con la Sindrome all’interno della struttura. Dieci, cento…? O forse anche mille?
Quel corridoio era infinto e forse tutte le stanze erano occupate… o erano vuote, perché avevano eliminato i pazienti prima.
Era questo quello che volevano fare con lui? Toglierlo di mezzo?
Oikawa non poteva morire così, non in quella misera stanza, non senza aver rivisto Iwa-chan.
Aveva passato gli ultimi ottanta giorni a girovagare per la stanza, alla ricerca di un modo per distrarsi, per fare in modo che il tempo passasse più velocemente. Neanche il sonno riusciva più a rincuorarlo, poiché aveva smesso completamente di sognare Iwa-chan, e non sapeva ancora il perché. Mangiava a stento quello che gli portavano, e ogni giorno si ritrovava a gemere per terra, la tosse che non riusciva a farlo respirare. A volte sveniva, e si risvegliava quando fuori era buio.
Ma nei suoi sogni, di Iwa-chan non c’era alcuna traccia.
Erano stati ottanta giorni di inferno, e Oikawa temeva di stare per impazzire sul serio, perché la sola idea di poterlo sentire morire da un momento all’altro lo mandava in paranoia. Oramai, condivideva la stanza assieme alla sua stessa paura della morte.
Aveva perso il conto delle giornate, a un certo punto, e non sapeva più a chi affidarsi, a chi chiedere aiuto.
Tutto quello che voleva… era riabbracciare Iwa-chan, e questa volta sul serio.
Come al solito, stava passeggiando all’interno della stanza – conosceva ogni angolo a memoria adesso –, una mano sugli occhi, quando qualcuno bussò alla porta. Un omone grosso e ingombrante fece la sua apparizione sulla soglia. «Hai visite» annunciò.
Il ragazzo si stupì. Durante quel lungo tempo di prigionia, non gli era stato concesso di vedere nessuno, e francamente non credeva fosse possibile. L’uomo lasciò spazio all’ospite in questione, dopodiché si richiuse la porta alle spalle, rimanendo comunque a fare da guardia.
Oikawa tirò sul col naso non appena vide sua sorella Hoshi. Entrambi corsero ad abbracciare l’altro, stringendosi, e Tooru poté vedere il suo viso bagnarsi per via delle lacrime.
«Guarda come ti hanno ridotto…» disse, prendendo il viso del ragazzo tra le mani. Lui, comunque, fece di tutto per sorriderle.
Era felice di vederla. Almeno, poteva comunicare con qualcuno.
Si erano seduti al tavolo, e Hoshi cercò di parlargli del più e del meno, senza scendere troppo nei particolari o toccare argomenti troppo delicati. Tuttavia, sapeva che il fratello aspettava questo momento da più di due mesi: aveva bisogno di sapere cosa diavolo si fosse perso mentre lui era rinchiuso lì.
«Hoshi… Ho bisogno di sapere che novità ci sono.»
La ragazza alzò le spalle. «La vita è sempre la stessa qua su Sibun. Solo… Il Consiglio ha perso credibilità.» Fecero tutti e due un mezzo sorriso di vittoria. «Continua a governare, ma la gente sta cominciando a credere a quello che hai detto. Potrà sembrare assurdo, eppure molte persone hanno avuto almeno un caso di persona affetta dalla Sindrome in famiglia, anche nel passato.»
Continuavano a definirla una malattia, sbagliando, perché quella gente non era malata, non aveva problemi psichici. Diceva solo la verità, e come tutte le verità era troppo scomoda.
«Se vuoi saperlo, mio padre ha perso il suo posto sia come Capo dei Ricercatori, che come Ricercatore stesso.» Passò un dito sulla superficie impolverata del tavolo. «Tua madre l’ha cacciato fuori di casa a calci, avresti dovuto vederla!»
Oikawa sorrise, forse il primo vero sorriso da quando si trovava lì: sua madre poteva sembrare una donna tranquilla, ma in realtà era un peperino. Non gli veniva difficile immaginarla mentre cacciava via Rokuro, e in quel momento sentì il necessario bisogno di chiederle scusa per aver pensato male di lei; non aveva mai dimenticato il suo vero padre.
«E tu… tu come stai?» provò a chiedere il giovane.
Hoshi non aveva posto domande di questo tipo perché le condizioni del ragazzo erano palesi, e inoltre se avesse saputo che in quel posto subiva anche delle torture, probabilmente non avrebbe più risposto di sé. Oikawa le era estremamente grato per questa sua accortezza, e si chiese se non avesse sbagliato lui a porgliela. Anche per lei era evidente che le cose non stessero andando bene.
Stava per chiederle scusa, quando la sorella rispose ugualmente. «Per adesso, il mio lavoro di Ricercatrice è sospeso, dopo quanto successo alla Piramide.» Fece una risata amara per smorzare la tensione. «Dopo… si vedrà!»
Si riferiva a quello che sarebbe successo nel caso in cui la Nave non avrebbe fatto più ritorno. Mancavano solo poche ore alla scadenza, poi di Oikawa e di Hoshi avrebbero potuto farne quello che volevano. Lei si era salvata, fortunatamente era solo stata accusata, ma non sapevano a cosa sarebbe ammontata la sua pena, che cosa avrebbe dovuto scontare.
In confronto, liberarsi di lui era un gioco da ragazzi.
Posò un mano su quella della sorella, e la ragazza ricambiò subito la presa.
Fu allora che avvenne. Un rumore simile al ronzio di un motore fece rimbombare tutti le pareti della stanza, e i due si guardarono attorno, perplessi. Il divano si spostò di almeno due centimetri. Oikawa si alzò in piedi, cercando intravedere cosa stesse succedendo dalla finestra, e il suo cuore per poco non rischiò di arrestare il suo incessante battere. Adesso, i battiti erano velocissimi, quasi indistinguibili, mentre osservava K-2SO che atterrava dolcemente sulla Grande Piazza, il fulcro della cittadina.
Ce l’avevano fatta. Quella era la Nave che lui stesso aveva modificato.
Quella era la Nave guidata da Tobio. In quella Nave c’era Iwa-chan!
«Sono loro!» gridò Hoshi, lacrime di gioia che gli inumidivano gli occhi. Erano arrivati appena in tempo.
Il castano si diresse verso la porta, battendo incessantemente sul legno per farsi sentire dall’omaccione di prima. «Tiratemi fuori di qui!» urlò. «La navicella è arrivata, mi avevate promesso che sarei uscito non appena sarebbero tornati su Sibun!»
Un piccolo spiraglio si aprì dalla porta, e Oikawa poté vedere quegli occhi grigi e spenti puntati nei suoi. «Mi spiace, ma finché il Consiglio non ci da l’ordine, noi non possiamo rilasciare nessuno.»
«Cosa?» Oikawa parve indignato.
«Queste sono le procedure» e l’uomo richiuse lo spiraglio.
«Infami…» sibilò Hoshi tra i denti.
Iwaizumi era a due passi da lui, gli bastava davvero poco per poter sentire il suo calore di nuovo vicino, per poterlo rivedere ancora. Iwa-chan era tutto il suo mondo, ma le leggi di uno stupido mondo quale Sibun gli impedivano di vederlo, ancora una volta.
Cominciò a dare pugni alla porta. «Siete dei bastardi! Fatemi uscire immediatamente!»
Purtroppo, non continuò per molto, perché improvvisamente sentì una fitta fortissima appena sotto la costola. Cadde in ginocchio, sua sorella che gli fu subito accanto, preoccupatissima, ma lui non la sentiva, aveva un fastidiosissimo fischio dentro le orecchie che cancellava ogni suono. Cominciò a tossire senza smettere neanche per un attimo, e la sorella si accorse con orrore che il pavimento era macchiato di rosso. Un rosso più scuro delle altre volte.
Oikawa doveva uscire di lì. Ed anche in fretta.
«Vi prego, chiamate un dottore!» disse, mentre il ragazzo cercava di immagazzinare più aria possibile dopo quella serie di colpi di tosse. «Mio fratello sta male! Apra la porta, la prego!»
Per un paio di minuti, non successe nulla; poi, la serratura scattò e l’uomo di prima comparve davanti a loro. Ebbe solo il tempo di lanciare un’occhiata annoiata al giovane che quasi si contorceva per il dolore, prima di essere colpito dal fascio di un laser. Hoshi l’aveva tramortito, sparandogli un colpo.
L’allarme scattò quasi immediatamente, e la ragazza aiutò il fratello a rimettersi in piedi.
«Come diavolo hai fatto a…?»
«Credevi veramente che avrei lasciato tutte le mie armi a quegli idioti?» Gli fece l’occhiolino. «Ero già propensa a farti fuggire, per questo ho nascosto un’arma nello stivale. Dimentichi che ogni macchina ha le sue falle... Il sensore non si è accorto di nulla!»
Tooru fece un mezzo sorriso alla sorella: era davvero unica, e non sapeva in quali modi ringraziarla per tutto quello che aveva fatto per lui. Un altro colpo di tosse lo colse alla sprovvista, facendolo piegare in avanti.
Se lui stava così, allora voleva dire che anche Iwa-chan…
«Riesci a camminare…?»
Oikawa annuì. «Sì, posso farcela.»
«Allora muoviamoci, stanno arrivando!» Prese la pistola dalla tasca dell’uomo e proseguirono nella direzione opposta rispetto a quella da cui stavano arrivando le guardie.
Si rese conto che, al primo impatto, non si era accorto che i corridoi erano tutti uguali tra di loro. Fu difficile correre, perché un dolore lanciante sembrava che gli stesse perforando il polmone. Non aveva neanche la forza di tenere un’arma in mano, fece tutto sua sorella, sparando un colpo ogni volta che si trovavano davanti un nemico. Uscirono da una botola, e quando furono fuori Oikawa si rese conto di conoscere perfettamente quel posto: era la Sala Riunioni. Si trovavano proprio sotto la poltrona del Presidente.
Non ebbe il tempo di stupirsi per una cosa così deplorevole, perché lui e sorella stavano già correndo verso l’esterno. Riuscirono ad evitare ancora una volta la sicurezza – e per miracolo, oserei dire –, trovandosi poi per strada. Hoshi fu costretta a dover minacciare un pover uomo perché gli desse il suo furgone, ma alla fine non volevano fargli realmente del male.
Hoshi guidò a tutta velocità sfrecciando contro il vento, mentre Oikawa cominciava a sudare freddo.
Non ci vedeva più bene, respirare diventava un’attività quasi estenuante, e sentiva che le forze gli venivano meno. Aveva corso per tutto quel tempo e si sentiva esausto, ma aveva resistito fino ad allora, poteva resistere ancora per poco.
Iwa-chan era lì, lo stava aspettando.
La Grande Piazza pullulava già di gente quando arrivarono, e passare con un veicolo di quella portata era quasi impossibile.
«Mi chiedo perché non siano andati alla Base…» disse Hoshi, slacciandosi la cintura, imitata poi dal fratello.
Lo prese per mano, e in un attimo stava già spintonando la gente senza troppe cerimonie per lasciarlo passare. Intanto, lui teneva gli occhi sul retro della navicella, adesso aperto e da cui scendevano delle persone vestite con dei camici. Il piccoletto apparve in un secondo momento, urlando qualcosa alla folla che, purtroppo, Oikawa non riuscì a captare.
Inciampò poco dopo, trovandosi di nuovo per terra.
«Coraggio, Oikawa, manca poco!»
Un brivido. Una scarica.
Qualcosa lo trapassò dalla testa ai piedi, come un fulmine. Era come se la pesantezza dovuta a quel dolore immane stesse piano piano svanendo. Era come se gli stessero portando via qualcosa di indispensabile per la sua esistenza.
Cominciò a tremare, gli occhi ora completamente spalancati. «Sta morendo…»
«Cosa?»
Gli occhi erano su Hoshi, ma in realtà non stava guardando lei; nella sua mente, aveva ben chiare tutte le immagini di Iwa-chan, da quando l’aveva visto la prima volta, a quando gli aveva confessato di essere un abitante della Terra, a quando l’aveva baciato, a quando avevano fatto l’amore. Quel ragazzo era entrato prepotentemente nella sua vita, mettendola sottosopra, eppure a lui non importava. Con lui, provava una felicità che non credeva di meritarsi.
Non poteva…
Si rimise in piedi, dando voce a quella poca forza che gli era rimasta, e questa volta fu lui a correre verso la navicella, lasciando la sorella indietro. E quando raggiunse la sua meta, la scena gli fece raggelare il sangue nelle vene.
«Oikawa-san, meno male che è arrivato!» disse Hinata di fianco a lui. «Iwaizumi-san sta malissimo, c’è bisogno di un medico!»
Sentì la voce di Hoshi alle sue spalle, probabilmente stava chiamando qualche dottore, ma per il resto la sua mente e il suo corpo erano catapultati altrove, come se fosse qualcun altro a vivere quella scena, non lui stesso. Non appena aveva messo piede dentro la navicella, qualcosa si era reciso in lui. Un legame, fortissimo, lo stesso che gli aveva permesso di sentire la voce di Hajime quando stava per morire.
Un flusso lo attraversò, e Oikawa avrebbe voluto catturarlo, farlo tornare indietro, ma oramai era troppo tardi.
Fece un paio di passi verso la figura di Iwaizumi, disteso su una brandina, un uomo che lo scuoteva e lo chiamava per nome. Quasi si spaventò a vedersi comparire quella figura accanto, sembrava un povera anima in pena che vagava senza uno scopo preciso.
Si pose anche lui accanto al corpo di Hajime, boccheggiante, le mani che tremavano. Cominciò a piangere immediatamente. «Non sento niente…»
Nessuno parve capire quello che stesse dicendo, se non Kageyama e Hinata, che spalancarono subito gli occhi.
«Non sento più dolore…» continuò Oikawa, le lacrime che continuavano a solcare incessantemente il suo viso.
«Che cosa significa che non senti più dolore…?» Hoshi parlava, sempre più sconvolta.
«Quando – Kageyama cercò di trovare le parole giuste, mentre la sorella del suo ex-senpai lo stava guardando – una persona con la Sindrome dice di non sentire più il dolore dell’altro, è perché quello…» Non riuscì a completare la frase, e abbassò lo sguardo, come molti altri all’interno della navicella.
«No…» mormorò l’uomo che stava di fianco a Oikawa – e che con ogni probabilità era il padre di Iwa-chan.
Le mani del giovane continuavano a tremare, e non riusciva a toccarlo, aveva paura si sentire quel corpo diventare freddo tra le dita. Semplicemente, chiuse quelle mani a pugno, tra di loro, e le calò sul petto di Hajime con forza, proprio all’altezza del cuore.
«Sei uno sporco bugiardo!» urlò, continuando a colpire con forza. «Mi avevi promesso che non saresti morto, Hajime! Me l’avevi promesso!»
Stava per dare un altro colpo, ma decise di lasciare perdere. Era finita. Era arrivato troppo tardi.
Posò la fronte contro il petto del giovane, continuando a piangere. «Me l’avevi promesso…» mormorò, per poi cominciare a urlare come un disperato.
Faceva più male del dolore fisico. L’aveva perso. Tutto il suo mondo, l’aveva appena perso e senza che avesse potuto dirgli addio almeno un’ultima volta.
Nessuno osò dire nulla all’interno del piccolo abitacolo, solo le urla di Tooru riempirono l’ambiente e, addirittura, una parte della piazza. Le urla, dopo interminabili minuti di sofferenza, si trasformarono in singhiozzi, e fu allora che il castano sentì una mano che si insinuava tra i suoi capelli.
Conosceva perfettamente quel tocco…
«Mio dio, Hajime!»
Tooru alzò la testa di scatto, e li vide: erano semichiusi, ma quegli occhi verde brillante c’erano ancora; respirava a tentoni, ma Iwa-chan c’era ancora. Era vivo, non l’aveva abbandonato.
Tutti tirarono un sospiro di sollievo, quasi increduli per quello che era appena successo. Lo stesso Oikawa sentiva dentro si sé delle emozioni che non sapeva come descrivere, erano contrastanti, e avrebbe aspettato che fluissero via prima di registrarle.
«Iwa-chan…?» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
Il ragazzo in questione cercò di parlare, nonostante la fatica. «Io… mantengo… le promesse…»
Ecco, ora sì che poteva tirare un sospiro di sollievo e ridere, ridere nonostante le lacrime. Perché Iwa-chan era lì accanto a lui e aveva tenuto fede alla sua promessa.
Gli diede un veloce bacio a stampo, prima che i medici arrivassero e lo portassero via.







«Sei sicuro di non sentire più niente?»
Oikawa annuì, ancora stralunato, una mano che si muoveva su e giù sul braccio, come a volersi riscaldare. Sentiva ancora il freddo della morte addosso, e aveva ancora il bruttissimo presentimento che quello fosse un sogno e che in realtà Iwa-chan era...
«Non sento più il suo dolore» disse, quasi come se fosse una nenia. «Non so cosa gli stiano facendo...»
«Ehi.» Hoshi si era alzata dalla sedia di plastica e gli aveva messo le mani sul volto. «Andrà tutto bene, okay?»
Ci pensò un po’ prima di annuire.
I medici erano arrivati quasi subito, e avevano trasportato Iwa-chan su una barella. Erano arrivati in ospedale pochi minuti dopo, seguendo il veicolo, e avevano percorso un corridoio infinito, finché Oikawa non fu costretto a lasciargli la mano e a vederlo entrare in Sala Operatoria. Erano lì da nove ore e nessun medico si era fatto vivo. Tutti temevano il peggio, ma quello ad essere più in apprensione era proprio Oikawa. Il poter sentire il dolore di Iwa-chan era un vantaggio, perché sapeva esattamente come stesse in ogni momento possibile, ma adesso... 
Adesso, in un momento cruciale, aveva smesso di percepirlo, e la paura che potesse morire per davvero gli montava dentro e gli ostruiva la gola.
Era appoggiato a una parete bianco chiaro, ed aveva fissato le mattonelle color indaco per tutto quel tempo. L'aria sapeva di disinfettante, ma il naso aveva smesso di prudere già sei ore prima.
Alzò lo sguardo verso il gruppo che stava seduto sulle sedie verdi davanti a lui. Kageyama e Hinata dovevano fare rapporto, per cui non erano potuti venire con loro, ma volevano essere ugualmente informati; c'erano un uomo e una donna, e Oikawa pensò che si trattassero dei genitori di Haruka; c'era anche un ragazzo, doveva essere quello che aveva aiutato Iwa-chan, e poi c'erano due uomini. Uno doveva essere il padre del ragazzo, mentre l'altro era sicuramente il padre di Iwa-chan. Si assomigliavano parecchio.
«Lei lo sapeva?» disse, rivolto a lui, e le spalle dell'uomo sussultarono appena. I suoi occhi verdi e spenti incontrarono quelli scuri del giovane.
Annuì, e Oikawa dovette fare uno sforzo immane per imporre alle sue labbra di muoversi. «Posso sapere che cosa ha...?»
L'aveva intuito, in un modo o nell'altro, i sintomi non lasciavano presagire nulla di buono. Sperava solo di essersi sbagliato.
L'uomo si grattò la nuca, cercando di trovare le parole giuste, ma non ce ne fu bisogno. Finalmente, dopo una lunghissima attesa, il gruppo vide uscire dei medici dalla Sala Operatoria, accompagnati da alcune infermiere.
Fu una di queste ad avvicinarsi verso di loro, un'espressione neutra sul viso. Oikawa strinse i pugni lungo i fianchi per impedire alle mani di cominciare a tremare.
«É stato molto fortunato» disse, con franchezza. «Altre ventiquattro ore, e forse il polmone sarebbe collassato. In quel caso, non avremmo potuto fare niente...»
Era quasi sul punto di ricominciare a piangere di nuovo, ma si impose di rimanere lucido.
«Il tumore aveva già preso tutto il polmone sinistro, abbiamo dovuto asportaglielo e mettergli un prototipo meccanico. Il suo corpo ha reagito bene, per cui non dovrebbe rigettarlo. Il tumore si era spostato anche nell'altro polmone, ma lì abbiamo rimosso solo un lobo...»
Erano troppe informazioni e pesavano come macigni, lo schiacciavano per terra. Le unghie si conficcarono nelle carne, ma quel dolore faceva meno male di quello che sentiva al cuore.
«Come sta...?» riuscì a chiedere, dopo interminabili attimi di silenzio.
E per la prima volta, l'infermiera sorrise, ed era un sorriso sincero. «Deve seguire una particolare terapia, ma starà bene... Non ho mai visto una persona con una tale forza di volontà in vita mia, credimi!»
Oikawa ebbe la sensazione di aver ricominciato a respirare solo in quel momento. Si passò una mano sul viso, come a trattenere le lacrime, questa volta di gioia.
«Grazie...» disse, senza che fosse rivolto a qualcuno in particolare.
La donna sorrise ancora, per poi rivolgersi al padre di Iwaizumi. «Lei è il genitore?» L'uomo aveva dovuto appoggiarsi alla parete mentre la donna parlava. Aveva rischiato di perdere anche suo figlio. Non ebbe bisogno di risposte. «Può vederlo, se vuole, dovrebbe già essere nella sua stanza.»
Guardò prima l'infermiera e poi Tooru, per poi dire. «Lasci che sia il ragazzo a vederlo.»
La conosceva perfettamente quell’espressione, era la stessa che aveva lui quando guardava sua moglie. Non sapeva in che modo, non sapeva come, ma era stato quel ragazzo a far cambiare suo figlio, a fargli ritrovare la forza di andare avanti.
Lui non aveva avuto la fortuna di riabbracciare sua moglie... ma non avrebbe mai privato qualcun’altro di una tale fortuna.
Oikawa ne fu sorpreso, e tutto quello che riuscì a fare fu chinare il capo per ringraziarlo.
«Non appena ti immetti nel corridoio, è la seconda porta sulla destra» gli spiegò l'infermiera.
Non ci mise molto ad arrivare. Premette il pulsante, e la porta gli apparve davanti, aprendosi.
La scena gli fece rizzare le carni: Iwa-chan era disteso su un lettino ed era attaccato a un respiratore artificiale, e ad altre macchine che Oikawa non conosceva. Un'altra infermiera stava sistemando gli ultimi fili, gli sorrise e poi lasciò la stanza da una porta secondaria e che portava direttamente alle sale operatorie.
Il ragazzo aprì gli occhi, e vedendosi Oikawa in piedi lì accanto, un cardigan malandato e troppo grande per lui addosso, aprì la bocca, con l'intento di parlare.
Il castano lo zittì. «É meglio se non ti sforzi...»
Si sedette su una sedia, avvicinandola un po’ di più verso di lui. Gli prese la mano e cominciò a stringere forte. Era calda.
«Sai, adesso non sento più dolore» disse, provando ad abbozzare un sorriso. «Quindi, se sono qui accanto a te, è per questo motivo.»
Le lacrime gli offuscarono la vista, e sentì il necessario bisogno di aumentare la presa sulle dita dell'altro. Aveva bisogno di sapere che quel momento era reale e che Iwa-chan era ancora vivo.
Prese un profondo respiro. «Perciò, non so come tu ti senta, se stai veramente meglio, o...» Un singulto lo fece interrompere. «E quando eravamo sulla Nave, io... ho temuto il peggio, ho cominciato a prenderti a pugni, e tu non ti risvegliavi... Sembravi morto...»
Abbassò lo sguardo, in preda ai singhiozzi. «Hajime...» mormorò. «Ti amo tanto... tantissimo...»
Bastò un attimo, e Oikawa avvertì la mano del ragazzo scivolare dalle sue dita per andarsi a posare sulla sua guancia umida.
Quegli occhi color cioccolato ancora colmi di lacrime si posarono su quelli di Hajime, semiaperti ma più attenti che mai. Le sue labbra, incurvate in un piccolo sorriso, sillabarono la parola: “anch'io”
Oikawa rise, le sue dita che si intrecciavano con quelle ancora posate sulla sua guancia. E rimasero così per tutto il tempo a disposizione 

 





Atto terzo
 





Sei mesi dopo…







Quei corridoi d’ospedale, oramai, li conosceva a memoria, come anche i volti delle infermiere e dei medici. Sapeva chi era realmente educato e gentile, e chi invece salutava per convenzione. L’infermiera che era stata in sala operatoria con Iwa-chan gli passò vicino, salutandolo con un sorriso e con un cenno della mano, cui ricambiò ben volentieri.
L’ospedale si era riempito, nell’ultimo periodo, e i pazienti per la maggior parte erano persone provenienti dal pianeta Terra. C’era stato un vero e proprio esodo, il Consiglio aveva dovuto ammettere i suoi sbagli se non voleva che si scatenasse una rivoluzione, e aveva acconsentito alla partenza in massa di alcune navicelle per portare su Sibun più terresti possibili. Per adesso si trovano lì, ma alcuni in seguito si sarebbero trasferiti su Cnosso e Festo; anche se non avevano salvato tutti quanti gli abitanti del pianeta, poiché molti erano già in fin di vita e in condizioni pessime, e altri avevano deciso di rimanere lì, troppo diffidenti per fidarsi di gente che diceva che avrebbe potuto salvarli. In sostanza, avevano preso solo un quarto delle persone ancora vive sul pianeta – e bisognava dire che la popolazione terrestre si era notevolmente dimezzata, se non di più.
Oikawa si era occupato personalmente della manutenzione delle nuove Navi Passeggeri, aiutato da tutti quanti gli ingegneri delle altre scuderie, e avevano deciso di battezzarle sotto il nome di OIKS, in riferimento al suo nome. Si era sentito particolarmente onorato: non era diventato campione, ma aveva comunque ricevuto un posto all’interno del Consiglio, dopo che gente come Rokuro e lo stesso Presidente erano stati fatti fuori, mentre sua sorella Hoshi sedeva come capo del Dipartimento dei Ricercatori, al posto del padre. Aveva riottenuto il suo incarico, e Oikawa si disse che nonostante tutto non avrebbe mai rinunciato a correre. La sconfitta ancora bruciava.
Sarebbe voluto partire anch’egli per la Terra, in fondo l’aveva persino studiata, tuttavia non se la sentiva di abbandonare Iwa-chan mentre stava seguendo la terapia. Ed era nella sua stanza che si stava recando, dopo aver avuto una riunione con i membri del Consiglio.
Fu mentre stava camminando che qualcosa si avvinghiò alla sua gamba, all’improvviso. Oikawa sapeva perfettamente di cosa si trattava, o meglio di chi. Abbassò la testa, trovando una faccina tonda che lo fissava, chiazzata sulle guance di bianco mentre al centro era scura come il cioccolato. Non poté evitare di sorriderle.
«Ciao mostriciattolo!» disse, e su quel visino apparve un sorriso perfetto e smagliante.
«Oikawa-san!» Il castano alzò lo sguardo, trovandosi una delle infermiere che si dirigeva verso di lui. Prese quella creatura in braccio, staccandola dalla gamba del giovane, e quella produsse un lamento soffocato. «Mi dispiace, è scappata un’altra volta…»
«Non si preoccupi» disse, sorridendo.
Due manine bianche tesero verso di lui. «Kawa» mormorò una vocina.
Quella bambina di due anni era arrivata sul pianeta dopo la prima spedizione. A quanto pare, i suoi genitori erano morti durante una tempesta – che i terresti definivano con l’appellativo di “rossa” –, e lei era riuscita a salvarsi per miracolo. Erano una bambina un po’ particolare, perché la pelle era scura in alcuni punti, ma chiarissima in altri: era una cosa che non si era mai vista su Sibun, tutti quanti avevano sempre avuto la pelle perfetta. Iwa-chan gli aveva spiegato che aveva la vitiligine, una malattia dovuta alla mancanza di melanina, nulla di grave. A quanto pare, però, per gli scienziati quella bambina era diventato oggetto delle loro ricerche e dei loro studi, tanto che erano quasi tentati di portarla in laboratorio, ma Oikawa gliel’aveva severamente proibito.
Non sapeva perché, ma quella bambina lo seguiva ovunque, sempre, ogni volta che bazzicava lì. L’aveva vista solo una volta, attraverso il vetro da cui si vedeva la sala giochi per i bambini malati, ed era rimasto colpito da quelle macchie, come tutti all’interno dell’ospedale. Da quel momento, faceva di tutto per scappare e attaccarsi a lui. Era una bambina fin troppo sveglia, e Oikawa aveva finito per affezionarsi, anche se non l’avrebbe ammesso mai. Poteva sembrare uno che odiasse i bambini, all’apparenza, ma in realtà non era così.
Stinse tra l’indice e il pollice quella minuscola manina, e la bambina rise, talmente forte che il rumore risuonò per tutto il corridoio.
«Posso tenerla io, se vuole» sbottò poi, senza smettere di sorridere.
«Come dice?»
«Mah sì, tanto sono sicuro che troverà un altro modo per seguirmi e uscire!» Poi si rivolse alla bambina. «Ti va di andare a trovare quel musone di Iwa-chan, eh?»
Forse la bambina non aveva capito, ma batté comunque le mani, entusiasta, e l’infermiera si decise a lasciargliela in braccio. Fecero pochi metri, prima di raggiungere la stanza di Hajime; fece premere il bottone alla bambina, e in un attimo furono dentro la stanza.
«Guarda chi è venuto a trovarti, Iwa-chan!» disse, non appena fece la sua comparsa.
«Zumi» disse subito la bambina, e il ragazzo rimase un po’ stupito. Non perché avesse qualcosa contro quella bambina, ma perché lo stupiva che Oikawa l’avesse portata lì.
«Oh, ciao Jun!» disse poi all’indirizzo del ragazzo, che lo salutò a sua volta. «Tutto bene? Tu e tuo padre vi trovate bene nella nuova casa?»
«Molto bene, grazie!» Lui e suo padre vivevano in un’unica casa assieme ai genitori di Haruka e al padre di Hajime, poco distante da una casa che Oikawa aveva già riservato a lui e al suo ragazzo. Capendo di essere di troppo, decise di togliere il disturbo. «Allora ci vediamo, Iwaizumi-san!»
Fu quando Jun uscì dalla stanza che Oikawa si sedette sulla sedia, la bambina sulle sue gambe. «Che c’è?» disse poi, notando come Hajime lo stesse squadrando dall’alto in basso.
Indicò la bambina. «E tu vuoi farmi seriamente credere che non ti sta a cuore?»
«Non mi sta a cuore!» esclamò, seccato. «Si è attaccata alla mia gamba, come al solito, e ho detto all’infermiera che ci avrei pensato io! Sarebbe comunque arrivata qui, è peggio di un animale!»
«Ma non avrebbe potuto aprire la porta…»
«Ti saresti alzato tu ad aprirla nel momento in cui l’avremmo sentita piangere?»
Calò per un attimo il silenzio, finché la bambina non interruppe quel gioco di sguardi chiamando nuovamente il ragazzo. «Zumi.»
Allungò una manina verso di lui, e Hajime le offrì in cambio un dito, che lei stinse come se fosse un oggetto di vitale importanza. Fece un sorriso, anche se era velato di tristezza.
«Nessuno ha ancora deciso di adottarla?» chiese.
Oikawa scosse la testa. «Probabilmente è per via di queste macchie…»
«Bah, non vedo dove sia il problema…»
Non dissero più nulla, limitandosi a guardare quella creaturina che osservava la stanza con attenzione; ogni tanto andava indicando degli oggetti e ne ripeteva il nome, seppur storpiato.
«Oikawa, devo dirti una cosa…»
Il castano avvertì un brivido lungo la schiena. Non gli piaceva quando Hajime usava quel tono di voce.
«Stamattina ho parlato col mio medico» cominciò. «Mi ha detto che sto facendo dei passi da gigante e che la terapia ha dato i suoi frutti. Il polmone nuovo funziona alla grande, per cui non dovrebbero esserci problemi…»
Fu interrotto dal ragazzo. «Un attimo, mi stai dicendo che sei guarito?»
Iwaizumi si lasciò sfuggire un sorriso. «Domani mi rilasciano.»
«Iwa-chan! È una notizia bellissima! Perché devi sempre parlare con un tono di voce così tragico?» urlò, e nella foga si sporse appena verso di lui per stampargli un bacio sulle labbra. Succhiò appena il labbro inferiore, giusto per sentire il sapore dell’altro sulla lingua, un pizzicore che gli lasciava un fremito lungo tutto il corpo.
Furono interrotti da un piccolo gemito, ed entrambi si sporsero verso la bambina. Stava indicando una delle navicelle che stava per attraccare alla Base.
«Eppure, sai… Forse dovremmo prenderla noi.»
Iwaizumi rimase stupito. Un attimo prima si stavano baciando, adesso da dove gli era uscita questa affermazione?
«Ma non avevi detto che non ci tenevi?»
«Sto solo pensando che noi due sembriamo gli unici a non avere problemi con questa sua malattia» disse, alzando le spalle e osservando le chiazze bianche che aveva sparse un po’ in tutto il corpo. «Potremmo portarla a casa e darle un nome, magari…»
«Guarda che è una bambina, non un animale domestico, Shittykawa!» lo rimproverò Hajime. «E poi, scusami, non ha già un nome?»
Effettivamente, conosceva quella bambina da quasi sei mesi e non aveva ancora capito come si chiamasse.
«Non hanno trovato nulla su di lei, tutto quello che la sua famiglia aveva è andato distrutto…» disse, facendo tremolare il ginocchio in modo che la bambina potesse giocare. Si stava divertendo un mondo.
«E tu pensi che saremmo in grado di fare i genitori?»
«Non lo so…» ammise Oikawa, tristemente. «Però, intanto vorrei darle un nome.»
Stava accadendo tutto troppo in fretta. E va bene che adesso stavano ufficialmente assieme, va bene che anche lui aveva finito per affezionarsi a quella bambina, ridendo dell’esasperazione di Oikawa ogni volta che se la trovava al seguito, ma… Non si sentiva pronto. Ne se la sentiva di prendersi cura di una creatura così piccola, non ancora. La ferita lasciata da Haruka bruciava ancora.
«E che nome vorresti darle?» disse, roteando gli occhi.
Tooru sembrò pensarci su, gli occhi bassi. «Che ne dici di Haruka?»
Per un attimo, Hajime credette che il suo cuore avesse smesso di battere. Le sue dita artigliarono le lenzuola, per poi lasciarle andare poco dopo. Non se l’aspettava, non una domanda del genere. Oikawa non l’aveva detto con cattiveria, o per via della sua mancanza di tatto, solo perché sapeva quanto ci tenesse Iwa-chan a quella bambina. Nessuno avrebbe mai potuto sostituirla, questo lo sapeva bene… voleva solo dimostrargli che lui era già stato una sorta di genitore per lei, e che avrebbe potuto farlo ancora. E proprio per questo, Oikawa voleva darle quel nome. 
L’espressione ferita del ragazzo, però, lo fece ricredere su tutto. «Scusami… Non volevo…»
«No» disse, deglutendo, gli occhi coperti da una sottile patina lucida. La bambina lo stava fissando con la testa inclinata, gli occhietti verde acqua che sembravano brillare. Hajime le passò una mano su quella piccola testolina scura, e sorrise. «Le sta bene…»
Oikawa sorrise, e non ebbe bisogno di altro per sapere che un altro piccolo mondo stava entrando a far parte del loro sistema.

 


Fine

 
 
Domande? 
Perché questo prompt? Cito questa affermazione di Einstein anche nella storia. La conoscevo già da prima, e ho sempre pensato che quell'uomo avesse seriamente ragione...
Le navicelle di Sibun superano la velocità della luce? Take the reference... *silenzio* Okay, cito Star Trek. L'Enterprise supera la velocità della luce. Inoltre, l'idea del viaggio che dura ottanta giorni, prende anche spunto da: "Il giro del mondo in ottanta giorni". Sono stupida, lo so... Oh, e mi sono dimenticata di dire che la rotazione di Sibun è simile a quella della Terra, si distanziano solo di poche ore;
Come mai la navicella prima si surriscalda e poi diventa fredda durante la discesa? Mi baso sulla temperatura dei vari strati dell'atmosfera. Qui per ulteriori informazioni (anche se lo so che vi preme sapere se Kageyama e Hinata si sono messi assieme… E la risposta è sì :’3)
Come mai Oikawa non sente più dolore? Perché si é ricongiunto con Iwa-chan, di conseguenza non è più necessario che senta il suo dolore, non sono più distanti come prima;
Perché proprio la vitiligine? Mi sono lasciata ispirare da questa modella, che personalmente trovo bellissima nonostante la sua malattia. E non potete capire, la mia mente già viaggia oltre, e se mai dovesse esserci un qualsiasi altro contest io lo so che scriverò qualche raccolta di Shot su questi due papà adorabili con questa bambina *piange forte*
Era proprio necessario chiamarla Haruka? Sì. Dovevo farmi perdonare... (forse...)
Qualche riferimento? Solo per quanto riguarda la malattia di Hajime. Sui sintomi, ho preso spunto da questo sito (e vi trollato alla grande, AHAHAHAHAH *le danno fuoco*)
Ringraziamenti vari: a Kotomi per aver recensito tutti i capitoli, e a unamoresolitario. A chi a messo la storia tra le seguite o le preferite <3
Alla mia beta, sempre e comunque. Adesso, hai trovato un motivo per odiarmi.
E ancora una volta, a Alexys_Tenshi <3
Grazie ancora a Fanwriter.it e a Torre di Carta, per aver organizzato questo evento, permettendomi di scrivere qualcosa su un tema che non ho mai trattato. È stato un parto, ma alla fine mi sono pure divertita :’) <3 
Che dire, ci si vede pirati spaziali! <3 
*sparisce in una nuvola color viola*
_Lady di inchiostro_
 

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