Breath of Life di LysL (/viewuser.php?uid=101833)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Note
dell’autrice:
Questa
volta ad inizio del capitolo, perché ci sono delle cose che
voglio dire.
Prima
di tutto, questa sarà la mia prima long, quindi sono nervosissima,
anche
perché è anche una fantasy!AU, che è
uno dei miei AU preferiti e spero di
essere riuscita a descrivere tutto come volevo *sigh*
Seconda
cosa, ci saranno tante descrizioni e tante parti introspettive, ad un
certo
punto ci sarà anche dell’angst e del mild
gore/quasi splatter – e quest’ultimo
lo segnalerò nel capitolo interessato perché non
vorrei che nessuno si
ritrovasse a leggere di qualcosa che potrebbe urtare la sua
sensibilità – perché
semplicemente mi piace scriverlo :)
Il
titolo della storia è tratto da Breath of Life dei
Florence + The
Machine, che potete trovare qui!
Come
sempre, ringrazio la mia beta _Lady di inchiostro_
E
niente, vi auguro una buona lettura e spero che vorrete lasciarmi un
commento
anche critico!
Prologo
Tutti,
in quel piccolo villaggio sperduto sui monti Urali, conoscevano la
leggenda;
Otabek era cresciuto sentendo raccontare della terribile Regina di
ghiaccio e
del suo castello, nascosto tra le nebbie della montagna, oltre il bosco
innevato,
in quelle terre che il sole non riusciva a raggiungere.
Erano
ormai decenni che la Regina se ne stava rinchiusa nella propria dimora,
circondata dal ghiaccio e dalla solitudine, ma la paura dei paesani non
era
diminuita; durante l’inverno, tutti gli abitanti si
chiudevano nelle loro case,
mantenendo il fuoco sempre acceso, perché credevano
scacciasse la magia della
Regina. Era permesso uscire solo di giorno, quando il sole assicurava
un
naturale scudo contro quella stregoneria, e non era raro che non si
muovessero
dalle proprie dimore di legno per giorni e giorni, in attesa che le
nuvole
smettessero di coprire la volta del cielo e la neve smettesse di
rivestire ogni
cosa con il suo manto freddo e silenzioso.
Era
durante quei lunghi giorni di noia e torpore che venivano tramandate le
storie,
soprattutto quelle misteriose che parlavano della Regina e del suo
castello.
Pochi
l’avevano vista, e ancor meno quelli rimasti in vita, solo
l’anziano Yakov era
sopravvissuto abbastanza per narrare a tutti del suo aspetto. Otabek si
ricordava di come, all’età di sei anni, quel
racconto gli fosse rimasto
impresso a fuoco nella mente.
Era
uno di quei giorni durante i quali era proibito uscire fuori e tutte le
famiglie si erano radunate nella capanna più grande del
villaggio, che veniva
anche usate per le riunioni. I bambini, soprattutto i più
piccoli, vedevano
quella come un’occasione per giocare, e a loro poco importava
delle paure dei
genitori, intenti com’erano a rincorrersi e nascondersi.
Proprio
durante questi giochi, tutti furono chiamati a raccogliersi di fronte
al
camino, dove Yakov, stretto nella sua immancabile sciarpa di lana e
seduto su
una sedia di legno, si preparava ad intrattenere i suoi piccoli
spettatori.
I
fiocchi di neve turbinavano fuori dalla finestra, accumulandosi sui
davanzali,
e il vento soffiava impetuoso, ululando come un animale ferito e
facendo
tremare i vetri della capanna. Otabek ricordava di essersi seduto sul
tappeto
di fronte a Yakov e di come sua sorella si fosse andata a infilare tra
le sue
braccia poco dopo, impaziente come lui di ascoltare cosa avesse da dire
quello
strano uomo burbero, ma che tutti trattavano con rispetto. Quando anche
gli
altri bambini si furono seduti lì accanto, Yakov
cominciò a raccontare.
«Vedere
la Regina di Ghiaccio è una sorte che non augurerei nemmeno
al mio peggior
nemico. È terribile e ti rimane nell’anima, non va
più via. A volte riappare
nei miei sogni e mi ricorda che non potrò mai liberarmi di
quest’esperienza.
Ero
molto più giovane di adesso, quando la incontrai, ma lo
ricordo come se fosse
ieri. Mi ero perso nel bosco, fuggendo da un gruppo di fuorilegge che
volevano
derubarmi; il bosco è stregato, come sapete, e nessuno, a
memoria d’uomo, ne
era mai uscito vivo, così mi ero ormai rassegnato
all’idea che non avrei più
rivisto la mia famiglia e il mio villaggio. Vagai due giorni,
consumando le
provviste che avevo con me, in attesa che il freddo avesse la meglio
sul mio
corpo, quando all’improvviso vidi una sagoma muoversi tra i
rami carichi di
neve.
Non
sapevo chi fosse, e per un attimo dimenticai dove mi trovavo. Chiamai
quella
persona, ma mi rispose solo il lieve fruscio del vento gelido,
così cominciai
ad arrancare nella neve alta più del mio ginocchio e la
seguii.
Arrivai
di fronte ad un lago ghiacciato, tutt’intorno a me era
avvolto da una foschia
bianca e spessa, e nemmeno il sole riusciva a filtrare attraverso le
nubi; la
figura scivolò leggiadra sul ghiaccio, come se stesse
volando e non feci in
tempo a seguirla, cercando di non rompere la lastra gelida, che
scomparve
inghiottita dalla nebbia.
Continuai
ad avanzare fino a quando il mio corpo non si arrese, vinto dal freddo
e dalla
stanchezza, cadendo sul ghiaccio. Solo a quel punto mi resi conto del
mio
errore: di fronte a me, circondato da alte pareti ghiacciate ed
imponente come
niente che avessi mai visto in vita mia, si stagliava un castello
interamente
di ghiaccio trasparente.
Provai
a tornare indietro, ma non ne avevo più la forza, il gelo mi
aveva succhiato
via ogni energia rimasta e aveva terminato anche l’ultima
striscia di carne
essiccata.
Poi
la vidi. Il cuore mi trema ancora al ricordo. È la donna
più bella che io abbia
mai visto, d’una bellezza eterea, spigolosa e simmetrica come
il Ghiaccio di
cui è sovrana, una bellezza terribile. Avanzava piano, con
eleganza, scostando
il lungo vestito che sembrava filato dalla brina e
dall’argento.
“Chi
siete voi? E come siete arrivato qui?” Mi chiese. Vi
aspettereste una voce
stridula, invece era, per quanto impossibile possa sembrare, calda e
severa. Il
terrore mi aveva bloccato la lingua, ma in qualche modo riuscii a
risponderle.
“Perso.”
Lei
mi guardò e mi parve quasi che i suoi occhi affilati mi
stessero trafiggendo
l’anima. Si voltò alla propria destra, e solo
allora mi accorsi della presenza
di qualcun altro. Riconobbi la figura che avevo seguito: un ragazzino
dall’aria
fredda e infastidita.
“Yurochka,
perché hai portato qui questo umano?” Gli chiese,
e sentii un brivido
percorrermi la schiena; non era un brivido di freddo.
Il
ragazzino mi fissò con aria sprezzante, prima di
risponderle. “Era entrato nei
nostri domini, mia signora.” La sua voce era molto
più profonda di quello che
mi sarei aspettato, ma il suo tono esprimeva più emozioni
della Regina stessa.
Lei
pose nuovamente lo sguardo sul mio corpo mezzo assiderato e mi
voltò la
schiena, sollevando una mano verso il suo compagno. “Portalo
via, non voglio
cadaveri nella mia terra.”
Il
ragazzino si inchinò e volse la testa verso di me e, con un
veloce movimento
del polso, una stregoneria, senza dubbio, mi fece cadere in un sonno
profondo.
Quando
mi risvegliai mi trovavo in una capanna al limite esterno del bosco. Le
persone
che vi abitavano, una famiglia di boscaioli, mi raccontarono di avermi
trovato
privo di sensi nella neve, respiravo ancora e vollero fare un
tentativo. Sono
loro molto grato, senza il loro aiuto non sarei qui. Dopo qualche
settimana fui
pronto a tornare al villaggio, dove fui accolto dai miei cari, ma nulla
fu più
come prima. Sembrava che avessi perso la capacità di amare,
e non passava
giorno senza che sognassi il meraviglioso viso della regina, come se la
mia
anima fosse rimasta con lei. Ancora oggi, non ho mai amato alcuna
donna, e
continuo a chiedermi perché sia capitato a me, questo
destino crudele. Vivere
senza amore, senza una compagna di vita, senza conoscere ciò
di cui tutti
parlano e di cui tutti cantano, è un destino che non
augurerei neanche al mio
peggior nemico. Tenetelo bene a mente, e non inoltratevi mai nel bosco
stregato, potreste non essere tanto fortunati.»
Quella
notte, Otabek
sognò di correre, rincorso da una figura bianca e senza
volto, e di perdersi in
un fitto labirinto di alberi dai tronchi scuri e i rami spogli che
scricchiolavano al vento, come la neve sotto gli scarponi.
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Note
iniziali:
Avvertimenti:
menzione di sangue e minori mutilazioni
[5800
parole]
Capitolo
I
Quasi
sedici inverni erano trascorsi da quella sera in cui conobbe la storia
della
Regina di ghiaccio e col passare del tempo, il timore verso quella
figura
misteriosa era diminuito. Nessuno era più entrato nella
foresta e la Regina
continuava a non manifestare la propria presenza, cosa di cui i locali
erano
più che felici, nonostante vigesse ancora il divieto di
uscire durante le notti
d’inverno.
Anche
quell’anno la stagione fredda era alle porte e Otabek si
apprestava a compiere
il suo primo viaggio da solo; qualche giorno prima era arrivato un uomo
a
cercare qualcuno che potesse lavorare alla fucina del paese vicino e
Otabek,
incoraggiato dalla sua famiglia, aveva deciso di cogliere
quell’occasione,
dopotutto la sua abilità nel maneggiare incudine e martello
lo precedeva e
l’uomo ne era rimasto molto impressionato.
Era
partito appena due giorni prima, insieme ad Astra, la sua cavalcatura
dal manto
nero, e adesso solo un giorno di cammino lo separava dalla sua nuova
vita.
Aveva salutato sua madre e suo padre, entrambi addolorati di doverlo
lasciar
andare lontano, ma consapevoli che fosse la cosa più giusta
per lui; sua
sorella Ayzere invece gli si era appesa al collo, come se non dovesse
rivederlo
mai più e aveva pianto. Lui l’aveva stretta e le
aveva promesso che avrebbe trovato
qualcuno che scrivesse per lui quante più lettere possibili,
eppure singhiozzi della
ragazza lo seguirono fino a quando non ebbe lasciato la stradina
sterrata e
piena di ciottoli del suo villaggio, immettendosi in quella principale
che
costeggiava il bosco.
Sebbene
non fosse un viaggio troppo impegnativo, già dopo il primo
giorno Otabek aveva
cominciato a risentire della posizione seduta sulla sella, con la
schiena che
gli si bloccava nelle posizioni più strane e le gambe piene
di lividi a causa
del continuo sbattere dei polpacci contro il ventre di Astra. Alla sera
del
secondo giorno, anche le sue cosce non erano ridotte meglio: lo
sfregare del
cuoio attraverso la stoffa dei pantaloni era la cosa più
fastidiosa dell’andare
a cavallo, e anche se ormai era diventato un dolore sopportabile, il
lieve
bruciore incessante lo rendeva irritabile ed insofferente.
Fu
un sollievo scendere da cavallo quella sera; aveva programmato il
viaggio in
modo da essere in paese prima del solstizio d’inverno, quando
la magia della
Regina sarebbe stata più forte, così da poter
rimanere dentro casa durante le
notti in cui il freddo avrebbe fatto da ambasciatore di quella
stregoneria.
Si
preparò ad accamparsi per la notte, mentre la temperatura si
abbassava ancora
di più. Per quanto non gli piacesse l’idea di
ripararsi al limite del bosco,
era una cosa che doveva fare per forza, se non voleva essere attaccato
da
qualche brigante rimanendo sulla strada maestra, e poi così
avrebbe anche
potuto legare Astra agli alberi sul confine. Stando alle parole di
Yakov,
l’importante era non entrare nel bosco.
Il
suo tascapane di stoffa gli serviva solo per il cibo e
l’unico cambio di
vestiti che possedeva, mentre la coperta di spesa lana pesante stava
appesa in
un fagotto sul fianco di Astra. Adesso Otabek ringraziava mentalmente
sua madre
per aver insistito affinché la portasse con sé,
perché il freddo si faceva
sempre più rigido ogni minuto che passava. Aveva preparato
un piccolo fuoco, in
modo da poter riscaldare un po’ d’acqua e
prepararsi qualcosa di caldo da bere,
così avrebbe potuto distendersi accanto alle braci e
ricevere un po’ di calore
durante la notte.
Il
buio calò gradualmente, il fuoco si spense, lasciando solo
qualche legnetto
ardente che brillava d’una rassicurante luce arancione
nell’oscurità illuminata
solo dal bagliore delle poche stelle che si intravedevano attraverso le
nuvole.
Otabek
era sicuro che avrebbe piovuto, o forse nevicato, ma sapeva di poter
passare la
notte tranquillo, fintanto che l’odore inconfondibile
dell’umidità non aveva
ancora impregnato l’aria; scoprì che dormire,
quella sera, era un’impresa più
ardua del previsto, visto che Astra continuava a scalpitare. Dopo
l’ennesima
volta che provava a chiudere gli occhi e veniva puntualmente riportato
alla
realtà da quel rumore scostante ed irrequieto, Otabek decise
di alzarsi e
cercare di capire cosa le prendesse.
«Ssh,
bella, cosa c’è?» le chiese dolcemente,
accarezzandole il muso. La cavalla
scosse la criniera, ricercando il contatto con la sua mano e Otabek la
conosceva ormai abbastanza bene da sapere che c’era qualcosa
che non andava.
Astra era sempre stata la più docile e tranquilla
cavalcatura del suo villaggio
e non era da lei comportarsi in quel modo, ma in quel momento Otabek
non la
riconosceva: Astra scuoteva il muso, senza star ferma un attimo e fu
proprio a
causa di quei movimenti che Otabek, spostandosi per evitare uno zoccolo
sul
piede, catturò un’ombra con la coda
dell’occhio, un’ombra sottile ed
inconfondibilmente umana.
«Ehi!»
gridò. «Fermati!» scattò
lontano da Astra, per seguire quel luccichio che aveva
notato. Una sagoma si stagliava contro l’oscurità
della foresta, longilinea e
tremula come se emanasse luce propria, fino a quando Otabek non si
accorse che
ciò che aveva scambiato per un brillio intrinseco non era
che la pelle diafana
di chiunque fosse quell’individuo. Non era nemmeno sicuro che
si trattasse di
un uomo o di una donna, però accelerò il passo,
continuando a gridare di
fermarsi. Non fece in tempo a raggiungerla però, che la
sagoma non scartò di
lato e scomparve tra la fitta boscaglia. «Dove stai andando!?
Torna indietro,
il bosco è stregato!» urlò, sperando
che quella persona potesse sentirlo.
Otabek avvertì il cuore salirgli in gola, mentre il rombo
sordo di un tuono in
lontananza squarciava la notte, e lui posava un piede oltre la prima
fila di
alberi; il nitrito di Astra fu l’unica cosa che lo
risvegliò da
quell’inseguimento e in quel momento si rese conto di aver
appena oltrepassato
il confine che sin da piccolo gli era stato raccomandato di non violare
mai,
per nessuna ragione al mondo.
Il
sangue gli fischiava nelle orecchie, mentre faceva un passo indietro e
ritornava all’esterno. Si guardò intorno, sperando
di vedere qualcuno e capire
che, chiunque fosse, non fosse ormai perduto nel bosco stregato, ma non
c’era
nessuno, era tutto tranquillo, se non per il lieve alone arancione
delle braci
che illuminava la sagoma scalpitante e spaventata di Astra.
Tornò
dalla propria cavalcatura, accarezzandola piano e mormorandole parole
dolci per
rassicurarla e sospirò di sollievo quando finalmente Astra
sbuffò dalle narici
e smise di fremere. Otabek non chiuse occhio quella notte e
riuscì a prendere
sonno appena qualche ora precedente alle prime luci
dell’alba, vinto dalla
stanchezza.
Il
suo sonno fu inquieto e Otabek sognò qualcosa che non gli
era più capitato di
sognare da anni: una figura bianca e senza volto in una foresta scura;
correva
dandogli le spalle e lui la inseguiva a passi veloci, scartando gli
alberi che
gli ostruivano la via. Quando si risvegliò, però,
non ricordava niente.
L’ultimo
giorno di viaggio passò senza avvenimenti degni di nota,
anche se Otabek non
faceva che ripensare a ciò che era accaduto la sera prima,
chiedendosi che fine
avesse fatto quella persona, senza osare pensare al peggio.
Raggiunse
il paese all’ora del tramonto; il sole rosso faceva brillare
le punte aguzze
della grande roccia che proiettava la propria ombra sulle case. Non gli
ci
volle molto per capire che quel paese era molto diverso dal suo piccolo
villaggio: era più grande, con strade e stradine che si
incrociavano come un
formicaio, più frenetico e più rumoroso, perfino
a quell’orario.
Sorpassò
diverse taverne illuminate, dove già cominciavano a
radunarsi uomini di ogni
tipo, da coloro che sembravano soldati, a giudicare dalle cotte di
maglia che
indossavano, dalle pesanti spade che pendevano ai loro fianchi e dagli
elmi che
alcuni di loro tenevano sottobraccio, a semplici contadini dai vestiti
usurati.
C’erano anche alcune donne, anche se Otabek sapeva bene che
non erano lì per
divertirsi, ma per divertire. Quell’usanza non gli era mai
piaciuta molto,
soprattutto dopo che suo padre gli aveva spiegato in cosa
effettivamente
consistesse e sua madre gli aveva intimato di tenersene alla larga, se
non
voleva diventare centro delle voci che circolavano e rischiare di non
trovar
moglie.
L’odore
di cibo, alcool e sudore che emanava da quei locali era quasi
asfissiante, e si
mischiava con quello del terriccio sotto i suoi piedi, in un misto
nauseabondo
che Otabek non aveva mai sentito prima d’ora in vita sua,
complici anche i
rigagnoli d’acqua e chissà cos’altro che
scorrevano ai lati della strada.
Otabek
passò le taverne senza dare una seconda occhiata,
limitandosi a cercare
l’insegna della fucina; era sceso dalla groppa di Astra, e
per quanto si
sentisse a disagio a camminare in mezzo a tutta quella gente, sapeva
che non
avrebbe fatto buona impressione se avesse continuato a camminare a
cavallo
anche dentro le stradine del paese.
Dovette
chiedere ad un paio di persone, ma alla fine trovò
ciò che stava cercando. La
fucina era una palazzina a due piani, il primo era l’officina
vera e propria,
dove venivano svolti tutti i lavori, dalla forgiatura alla rifinitura,
mentre
il secondo ospitava la casa del proprietario e le stanze per gli
impiegati
forestieri. Otabek legò Astra all’apposita
staccionata lì vicino, prima di
bussare sul portone di legno; non sapeva cosa aspettarsi;
l’uomo che era venuto
a reclutarlo al suo villaggio non era il proprietario
dell’attività, Otabek al
momento non ne ricordava il nome, ma quel tipo aveva incantato sua
madre con i
suoi modi molto drammatici, facendo ridacchiare sua sorella nel mentre,
e
adesso Otabek si ritrovava a chiedersi come sarebbe stato il vero
proprietario,
se fosse un bonaccione, come aveva detto quel tipo o se fosse
tutt’altra
persona.
I
suoi pensieri furono interrotti dal rumore dei cardini che stridevano,
mentre
la porta veniva aperta e l’odore del fumo e del ferro
surclassava qualunque
altro. Un uomo sulla quarantina, imponente come un armadio e spesso
almeno
tanto quanto, riempiva la cornice dell’uscio. «Che
vuoi ragazzino?» sbottò.
Aveva una voce sorprendentemente calda e non troppo profonda che
contrastava
con il suo aspetto minaccioso.
«Sono
qui per il posto alla fucina. Un vostro dipendente è venuto
a richiedere la mia
presenza qualche settimana fa, al villaggio più a
nord.» rispose Otabek, senza
perdere il contatto visivo con l’uomo.
«Oh,
sei tu allora! Georgji mi ha parlato di te!» lo
squadrò da capo a piedi e si
grattò il mento, per poi schioccare la lingua. «Mi
aspettavo fossi più alto, ma
sei bello robusto! Andrai bene!» gli diede una manata sulla
spalla, facendo
spazio per lasciarlo entrare. Otabek non disse niente a proposito del
commento
sulla sua altezza, dopotutto c’era abituato.
Si
prese qualche momento per osservare l’ambiente.
C’era il fuoco vivo e caldo, i
mattoni bianchi ed incandescenti illuminavano tutte le pareti e Otabek
sapeva
bene che tutta l’attività di quella fucina
dipendeva da quel fuoco, come un
cuore pulsante, che non avrebbe dovuto spegnersi mai. Sulla sua destra
stava la
postazione per la lavorazione e la temprata, mentre sulla sinistra vi
era un
tavolo ricoperto da pezzi di armatura ancora grezzi e lame non
affilate,
proprio accanto la mola, oltre ad una moltitudine di attrezzi per la
lavorazione a freddo.
Nuovamente,
fu la voce dell’uomo ad interrompere la sua esplorazione.
«La tua stanza è di
sopra, insieme alle altre – indicò le scale
– il turno inizia domani mattina
alle cinque, non un minuto più tardi, ma fino ad allora sei
libero, quindi se
vuoi andare in giro per il paese a divertirti un po’, fa
pure. E a proposito,
io sono Feliks, come devo chiamarti, ragazzino?»
«Otabek
Altin, signore.» gli rispose, raddrizzando la schiena.
«Grazie
dell’ospitalità.»
Feliks
scosse la testa e mosse la mano davanti a sé, come per
dirgli di non essere
così formale. «Ve bene, Otabek. Domani vedremo se
ne sarà valsa la pena,
altrimenti dovrò rimproverare Georgij per avermi portato un
incapace.»
Otabek
si costrinse a mantenere un’espressione neutra ed annuire in
silenzio. Non
voleva che l’uomo lo rimandasse a casa, non dopo aver
affrontato quel viaggio e
non con l’inverno alle porte. E poi cosa avrebbe detto ai
suoi genitori?
«Signore,
ho anche un cavallo, non vorrei che restasse fuori tutta la
notte.» disse; di
certo non sarebbe stato contento di sapere che Astra avrebbe dovuto
passare
l’intera nottata esposta al gelo e chissà
cos’altro, ma per fortuna Feliks
agitò una mano verso il retro del locale.
«Sì, sì, c’è una
stalla lì dietro, è
sempre vuota, ma sono sicura che la tua cavalcatura la
troverà comoda. C’è
anche del foraggio, lo teniamo per ogni evenienza, e quella povera
bestia dovrà
essere stanca, dopo averti portato in groppa fino a qui.»
«Grazie
mille, signore.» Feliks gli rivolse un cenno del capo e
tornò a fare ciò che
aveva interrotto, lo stridio della mola che riprendeva a riempire
l’aria.
Otabek
uscì di nuovo, stupendosi di come in pochi minuti il cielo
si fosse fatto molto
più scuro. Astra scalpitava di nuovo, ma stavolta era certo
che fosse per
l’ambiente nuovo e tutte quelle persone che la circondavano.
Sussultò, quando
le posò una mano sul fianco, prima di riconoscerlo e nitrire
felice.
«Sì,
bellezza, siamo arrivati, ti mostro la tua nuova casa,
andiamo.» slegò le
redini dall’anello e con una pacca convinse Astra a muoversi;
la stalla era
davvero come aveva descritto Feliks, pulita, asciutta e rifornita e
Otabek si
prese il suo tempo per togliere la sella ad Astra e spazzolarle la
criniera
chiara, riempiendole poi la mangiatoia e il secchio
dell’acqua. Astra vi si
avventò e Otabek le sorrise. «Grazie per ieri
sera, se non mi avessi svegliato
non so cosa sarebbe successo.» le sussurrò. Sapeva
che parlarle non aveva molto
senso, ma era anche convinto che Astra fosse molto più
intelligente degli altri
cavalli che conosceva. «Credi che stia bene, quella persona
intendo?» Astra
scrollò la criniera, ma non diede segni di nervosismo.
«Non so perché me ne
preoccupo, non so neanche se fosse un uomo o una donna, o un nemico.
Però quel
bosco… è pericoloso, e Yakov ha detto che non
augurerebbe quella sorte neanche
al suo peggior nemico.»
Astra
lo guardò, mentre lui appoggiava la fronte sul suo muso.
«Forse mi sto solo
preoccupando troppo, che ne pensi?» Astra nitrì e
Otabek rise. «Lo so, lo so.
Sono stanco anch’io, buonanotte, bella.» le
carezzò un’ultima volta il muso e
uscì dalla stalla per andare ai piani superiori.
La
sua stanza era piccola, con un modesto materasso di paglia, un
cassapanca, una
sedia e un piccolo camino, per cui Otabek ringraziò il
cielo. C’era anche uno
specchio graffiato e una bacinella per l’acqua, utili per
farsi la barba; aprì
il proprio involto, gettando la coperta di lana sul materasso e
l’unico cambio
di vestiti sulla sedia. Avrebbe dovuto accendere il fuoco, ma non era
molto
sicuro di voler restare in camera, dopotutto, come aveva detto Feliks,
poteva
andare a divertirsi un po’ come non aveva mai potuto fare a
casa. Non sarebbe tornato
tardi, si era detto, giusto in tempo per dormire abbastanza da non
essere
stanco il primo giorno di lavoro. Voleva proprio vedere se le taverne
di questo
paese erano poi tanto differenti da quello del suo villaggio.
Dopo
il terzo bicchiere di alcool, Otabek cominciava a sentire la testa
più leggera
e sperava di riuscire a ritrovare la strada per la fucina, senza
incappare in
qualche guaio come la sera prima. Al ricordo, un brivido gli percorse
la
schiena, ma lo attribuì al tocco che gli solleticava la
coscia.
Aveva
scoperto che non solo le taverne erano diverse, erano anche diverse le
donne.
Non era mai stato un tipo a cui piaceva quel genere di cose, ma era
interessante come un po’ di alcool riuscisse a cambiare la
sua visione delle
cose, e quella rossa che gli accarezzava languidamente la gamba
sembrava
all’improvviso tutto ciò di cui aveva bisogno,
eccetto che non poteva proprio
farlo, non avrebbe mai mancato di rispetto ad una donna in quel modo,
non con
l’educazione che gli era stata impartita.
Non
aveva però messo in conto che la ragazza potesse offendersi.
Appoggiato contro
il muro, fuori dalla locanda, con l’aria fredda che gli
soffiava sulle guance
arrossate, Otabek si ritrovò con il collo marchiato di rosso
dalle labbra di lei.
L’aveva spinta via, non troppo forte, ma abbastanza da farle
capire che, anche
se il suo corpo poteva sembrare d’accordo, la parte ancora
razionale della sua
mente non lo era.
«Scusami.»
sussurrò, mentre lei si sistemava la gonna, indignata.
«Cos’è, non sono
abbastanza bella?» sputò la ragazza.
Otabek
la guardò bene in viso: aveva un bel paio di occhi azzurri e
capelli rossi
corti che le incorniciavano il viso minuto e dai lineamenti fieri. No,
non
avrebbe mai detto che non era bella, era forse una delle più
belle donne che
avesse mai visto.
«N-no,
tu sei molto bella – lei alzò gli occhi al cielo,
ma Otabek non si fermò – è
solo che… non sono abituato a queste cose e non voglio
costringerti a fare
qualcosa contro la tua volontà. Mia… mia madre
non me lo perdonerebbe mai, se
lo sapesse.»
Contro
ogni sua previsione (che comprendeva almeno uno schiaffo), lei
scoppiò a
ridere, con una mano sulla pancia. Si passò le dita sugli
occhi spazzando via
le lacrime. «Ma di cosa parli? Contro la mia
volontà? Ti prego, dimmi che non
mi hai preso per una puttana?»
Il
rossore sul viso di Otabek dovette essere una risposta abbastanza
chiara,
perché le sue risate si intensificarono, prima che lei
ritrovasse un po’ di
contengo e riuscisse a parlare di nuovo. «Tanto per essere
chiari, se avessimo
fatto sesso sarebbe stato del tutto consensuale, almeno da parte mia.
Però
grazie, eh, sei un vero gentiluomo… Come hai detto che ti
chiami?» gesticolò a
suo indirizzo, gli occhi luminosi ed incuriositi.
«Io
non l’ho det-» cominciò a dire, poi
però si accorse che lei stava per alzare
una seconda volta gli occhi al cielo. «Otabek.»
«Piacere
di conoscerti, Otabek, ci vorrebbero altri uomini come te in questa
stupida
cittadina. Comunque io sono Mila.» gli porse la mano e a
Otabek parve tutto
molto strano, considerato che fino a pochi minuti prima erano
avviluppati l’uno
all’altra come una coppia di fatto. Ciò non gli
impedì di afferrare quella
mano, però, sentendola piccola e fragile tra le proprie.
«Piacere mio, Mila.»
Mila
sorrise. «Appurato che non faremo sesso questa sera, e forse
mai, c’è
qualcos’altro che ti va di fare, Otabek?»
***
Passarono
alcune settimane, durante le quali Otabek fece del suo meglio per
guadagnarsi
il rispetto di Feliks ed abituarsi a quei nuovi ritmi.
Il
suo capo era rimasto contento del suo modo di lavorare, cominciando
anche ad
affidargli lavori singoli e non solo ruoli da aiutante. La prima cosa a
cui gli
aveva permesso di lavorare da solo era stata una spada e Otabek aveva
sgobbato
per giorni, nel tentativo di creare una buona arma, un’arma
che non avrebbe
tradito il suo proprietario in battaglia. Aveva usato tutti i trucchi
imparati
in quegli ultimi tempi, con particolare attenzione al bilanciamento
della lama
e dell’elsa, aveva studiato la forma della lama,
appiattendola e modellandola
con precisi colpi di martello ed infine l’aveva affilata e
lucidata, senza
riuscire a trattenere un sorrisetto soddisfatto quando Feliks, dopo
averla
osservata per bene, gli aveva fatto i complimenti e gli aveva detto che
poteva
anche tenerla per sé; da quel momento, la spada stava nella
stalla di Astra.
Per
il resto, il tempo che non passava all’officina lo passava
con Mila. Da quella
sera alla taverna, che avevano passato a ballare, si erano visti quasi
tutti i
giorni e quell’assidua frequentazione aveva reso palese che
non ci sarebbe
stato niente tra loro, perché Mila era davvero troppo
rumorosa e aveva una
concezione della vita di coppia diametralmente opposta alla sua,
così avevano
deciso che sarebbero rimasti amici, perché dopotutto si
godevano la compagnia
l’uno dell’altra.
Quel
giorno Feliks l’aveva mandato a prendere dei materiali appena
fuori paese e
Mila aveva insistito per andare con lui, perché non le
andava di rimanere a
casa con sua madre. La donna, si lamentava Mila, non faceva altro che
annoiarla
con i suoi discorsi sul prendersi cura della casa e della famiglia e
Otabek, il
quale sapeva benissimo che tipo fosse Mila, non era affatto stupito
dalla
reazione della ragazza.
Di
certo non avrebbe mai potuto aspettarsi che quella piacevole gita
avrebbe preso
una piega del tutto inaspettata, e Otabek fu colto totalmente di
sorpresa,
quando successe.
Stavano
tornando verso la cittadina, sempre costeggiando il bosco a cavallo di
Astra, e
Otabek era grato che il sole fosse ancora abbastanza alto nel cielo.
Non
l’aveva detto a Mila, perché la prima volta che le
aveva parlato di quella sua
credenza, lei aveva riso e gli aveva assicurato che era solo
un’antica
superstizione ormai troppo vecchia per essere ancora verosimile.
Tuttavia,
la sua mente si chiedeva ancora che fine avesse fatto quella persona
che
l’aveva svegliato settimane prima, se fosse stata fortunata
come Yakov e si
fosse salvata o se invece fosse diventata un corpo senza vita, sepolto
dalla
neve.
Aggrappata
al suo busto, con il mento appoggiato alla sua spalla, Mila gli stava
raccontando della sua ultima conquista – se la madre di
Otabek l’avesse sentita
parlare in quel modo, probabilmente ci sarebbe rimasta secca sul colpo,
ma Otabek
si era abituato a quel lato poco convenzionale (e anche piuttosto
inadeguato)
del carattere di Mila e doveva ammettere che lo divertiva ascoltarla e
gli
piaceva sapere che lei riuscisse a godersi appieno la propria vita, in
barba
alle tradizioni e ciò che gli altri ritenevano inappropriato.
Ed
anche in quel momento l’avrebbe ascoltata volentieri, se le
sue orecchie non
avessero captato un suono anomalo, diverso dalla sua voce chiara e
squillante.
Era
iniziato come un gemito, poi si era fatto più alto,
diventando quasi un urlo.
«Ssh.»
Intimò a Mila, con una mano alzata ad enfatizzare.
«
“Ssh” a me?» Lei gli allungò
una gomitata dalla propria posizione con le
braccia attorno al suo busto.
«Zitta,
non senti?» Otabek le afferrò un polso,
perché Mila non voleva saperne di
starsene ferma.
Proprio
quando finalmente Mila chiuse la bocca e smise di lamentarsi, la voce
si sentì
di nuovo. Lei gli diede un’altra gomitata, stavolta con
urgenza, muovendosi
nervosa dietro di lui. «Cosa stai aspettando, Otabek? Andiamo
a vedere cosa sta
succedendo!»
Otabek
diede un colpo sul fianco di Astra con il tallone, spronandola verso la
fonte
del rumore; sembrava provenire dalla radura accanto la strada che
Otabek aveva
visto settimane prima. Girò l’angolo e
tirò le redini.
Di
fronte a lui, in mezzo alla piccola mezzaluna di alberi, nella luce
morente del
tardo pomeriggio, un gruppo di banditi, probabilmente gli stessi che
stavano seminando
il panico da qualche giorno a quella parte, aveva circondato quello che
sembrava essere un ragazzo poco più giovane di lui.
Non
ebbe tempo di guardarlo bene, distratto dai banditi che continuavano a
stringersi attorno a lui, ma notò il suo vestiario, troppo
elegante per essere
un semplice paesano come loro, inoltre la sua pelle chiara era segno di
una
vita vissuta lontano dal sole.
Mila
scese da Astra con un balzo e Otabek le fu subito dietro, sguainando la
sua spada
che Feliks gli aveva consigliato di portare sempre con sé.
Nonostante non gli
fosse mai servito fino a quel momento, Otabek si era allenato un
po’ con il
proprio capo e sapeva come maneggiare un’arma, quindi era
sicuro che se la
sarebbe cavata, il problema principale era il numero dei banditi; non
finì nemmeno
di pensarlo, che due di loro caddero a terra senza essere stati
apparentemente
toccati da nulla, inerti nella neve, lasciando gli altri due in piedi e
furiosi, ma non ebbe tempo di rifletterci su, perché uno dei
due rimasti lanciò
un grido di rabbia e caricò verso il ragazzo, la sua spada
macchiata di ruggine
che roteava con potenza e velocità, anche se la collera
rendeva la traiettoria
del colpo scomposta.
«Spostati
da lì, quello ti uccide!» Si ritrovò a
gridare in direzione del giovane. Questi
voltò la testa di scatto verso di lui: fu un secondo, ma al
suo volto dai
lineamenti fini si sovrappose un viso sfocato e bianco; quando Otabek
sbatté le
palpebre l’immagine era già scomparsa e il ragazzo
aveva fatto un balzo di
lato, evitando un fendente che se l’avesse colpito gli
avrebbe aperto lo
stomaco, la lama che sibilò proprio ad un soffio dal suo
addome. Fece altri due
passi indietro, si abbassò in posizione accovacciata e
tirò fuori da uno dei
suoi stivali uno stiletto argentato. Tornò in piedi
nell’arco di un battito di
ciglia, sollevando il proprio pugnale in posizione di difesa di fronte
al viso.
Lanciò uno sguardo verso Otabek e solo in quel momento egli
si accorse degli
occhi affilati e fieri del ragazzo. Non avevano nulla che invidiare a
quelli
dei soldati che vedeva alla taverna, e anzi brillavano con ancora
più ferocia.
Distratto
com’era, riuscì a parare un fendente del secondo
uomo solo perché Mila gli
gridò di stare attento. Alzò il braccio, con la
lama di taglio, che stridette e
provocò una pioggia di scintille mentre scivolava sul filo
dell’altra. L’uomo
grugnì, spingendo la propria arma contro la sua.
«Ce l’avevamo in pugno, quel
moccioso! Hai visto com’è vestito, di sicuro i
suoi genitori pagheranno una
bella somma per riaverlo. Possiamo dividere la ricompensa, che ne dici,
eh? A
te e a tua moglie farebbero comodo un po’ di soldi, si vede
da lontano un
miglio.» il fiato caldo dell’uomo soffiò
sulla faccia di Otabek. Un urlo
disumano risuonò nell’aria, e l’uomo
dovette riconoscere la voce del suo
compagno, perché si distrasse, cercando con lo sguardo la
causa di quel grido;
la sua distrazione permise ad Otabek di piantargli un piede sullo
stomaco,
calciando per toglierselo di dosso. L’uomo si rese conto
troppo tardi
dell’errore che aveva commesso e non fece in tempo a
riacquistare l’equilibrio
che Otabek ruotò la propria spada che scivolò,
gemendo contro la lama nemica, e
si incastrò sotto l’elsa. Otabek
applicò pressione su di essa, tanto da
obbligare l’altro a lasciare la presa, se non voleva
ritrovarsi con una mano
mozzata. La spada cadde a terra nella neve calpestata e dura e Otabek
la calciò
via verso Mila che la bloccò con la scarpa.
«Non
proporre mai più qualcosa del genere ad un
brav’uomo, bastardo.» sputò, prima
di colpirgli la testa con il tacco del proprio stivale in modo da
fargli
perdere i sensi.
Si
voltò verso dove aveva lasciato il ragazzo a vedersela con
l’altro bandito, e
li trovò ancora lì, solo che l’uomo
aveva l’intero corpo coperto di tagli più o
meno profondi e si teneva una mano stretta sull’addome. Il
suo sangue era schizzato
sul vestito impeccabile del suo avversario e Otabek avrebbe potuto
giurare che
quelle strane protuberanze mischiate alla neve ed al sangue fossero
dita umane.
Il
ragazzo non sembrava più aver bisogno di aiuto: si muoveva
tanto velocemente da
rendere impossibile prevedere i suoi movimenti e l’altro uomo
non aveva possibilità
di scampare a quei fendenti sottili e sempre più
ravvicinati. Otabek però
riuscì a vederlo, il modo in cui il suo giovane avversario
mosse il pugnale
d’argento tra le dita, stringendolo come un vero e proprio
coltello, e capì
stava preparando il colpo successivo, capì che sarebbe stato
per uccidere. Scattò
in avanti, colpendo l’uomo alla tempia con l’elsa
della propria spada e lo
osservò mentre crollava a terra, tra la neve ridotta a
fanghiglia, come i suoi
compari. L’odore acre e metallico del sangue gli fece salire
un conato di
vomito e Otabek si affrettò ad alzare lo sguardo sul
ragazzo; i loro occhi si
incrociarono per un secondo e gli parve che il tempo si fosse
rallentato, prima
che questi si inginocchiasse a ringuainare il pugnale e cominciasse a
correre
verso il bosco.
Otabek
si bloccò nei suoi passi, ma ciò non
fermò Mila, che urlando un “torna qui, non
siamo pericolosi!” si era lanciata
all’inseguimento, oltrepassando i primi
alberi e scomparendo in un fruscio di stoffa.
«Mila!»
Gridò allora. Non ci pensò neanche per un momento
prima di correrle dietro, con
un ultimo sguardo sconsolato ad Astra, che nitriva spaventata.
Il
bosco era fitto, ed il suolo era coperto di arbusti secchi che si
impigliavano
ai suoi pantaloni, strappandoli, graffiandogli la pelle, gli
artigliavano le
membra, come avide mani. Tutt’intorno gli pareva sempre
uguale, le scarpe
scivolavano sulla terra congelata, mentre Otabek ricercava la luce tra
i rami
mezzi spogli che si innalzavano verso il cielo, dita scheletriche ed
ingioiellate
di stalattiti e brina, in cerca di qualche segno distintivo che gli
facesse
capire se fosse già passato da un certo punto o meno.
Continuava a urlare il
nome di Mila fino a sentire il sapore del sangue nella gola e a volte
sentiva
la voce di lei chiamarlo a sua volta, ma non riusciva a capire da dove
provenisse, era come se stesse girando su se stesso, anche se non aveva
fatto
altro che andare avanti.
«MILA!»
provò un’altra volta. Un senso
d’impotenza si faceva strada in lui, unito alla
paura e alla consapevolezza che non ci sarebbe stata via
d’uscita, alla rabbia
perché non solo non era riuscito a salvare il ragazzo, ma
anche perché aveva
trascinato la sua amica in quel suicidio.
Presto
il sole era scomparse dietro le montagne ed il buio ricoprì
ogni cosa, il cielo
scuro e macchiato di stelle sembrava crepato dai lunghi rami degli
alberi che
vi si stagliavano contro.
«Cazzo…
CAZZO!» imprecò, tirando un pugno
all’albero più vicino, e scoprendo che il
dolore lo aiutava a pensare più lucidamente, anche se
continuava a non avere
uno straccio di idea su come fare a uscire da lì.
Continuò
a vagare senza meta, le gambe che cedevano sotto il suo peso, le sue
grida
ridotte a semplici sussurri senza forza, fino a quando non si
lasciò andare in
ginocchio sul terreno duro e freddo. Ringhiò, prese a pugni
la terra, mentre i
rami secchi gli si conficcavano nelle nocche, ormai scorticate, poi
alzò lo
sguardo di fronte a sé, sperando di trovare qualcosa, qualunque
cosa che
potesse aiutarlo.
Fu
allora che si accorse di una sagoma che si muoveva
nell’ombra. Scattò in piedi,
portando una mano sull’elsa. «Mila?»
provò, nessuna risposta. «Chi sei?»
provò
ancora, ma nemmeno questa volta ottenne niente. La sagoma si mosse,
correndo di
lato e lui scattò dietro di lei. «Chi sei? Fatti
vedere!» e continuò a chiamare
e gridare, perché seguire quella sagoma era
l’unica cosa che poteva fare in
quel momento.
«Otabek!?»
Sentì urlare da qualche parte nel bosco. La sua mente
formulò una sola parola: Mila!
E gridò ancora più forte; questa volta
però, la voce non girava intorno,
non cambiava direzione, così Otabek decise di provare.
«Mila!
Se mi senti, continua a chiamarmi e sta ferma!» Le
intimò, sperando che lei
l’avesse sentito.
Quando
avvertì il cambiamento nelle urla della ragazza, seppe che
aveva capito: se
prima erano distrutte dalla consapevolezza di star gridando invano,
adesso
invece erano speranzose, più forti, più potenti,
e soprattutto sempre più
vicine.
Quando
la vide, voltata di spalle, con le braccia strette al corpo e il busto
piegato
in avanti gli venne quasi da piangere per il sollievo. «Mila!
Mila, sono qui!»
Esclamò, senza riuscire a far nient’altro che
aprire le proprie braccia per
accoglierla quando gli corse incontro.
«Otabek.»
singhiozzò lei, strofinando la guancia contro il suo collo.
«Otabek.»
Le
accarezzò i capelli, stringendola più che poteva.
«Dobbiamo uscire di qui.» le
sussurrò e la sentì annuire, prima di esalare un
debole. «Ma come?»
Stava
per scuotere la testa, perché il fatto di essersi ritrovati
non significava che
fossero in salvo, quando tra i tronchi degli alberi intravide di nuovo
la
sagoma. Trattenne il respiro, per non spaventare Mila, ma le strinse
una mano,
alzandole la testa con l’altra, il palmo che le stringeva la
guancia. «Mila,
Mila ascoltami, adesso devi fidarti di me, va bene? Non lasciare mai la
mia
mano, tieniti con tutte e due se vuoi, aggrappati al mio braccio, ma
non
lasciarmi andare per nessun motivo, capito? Per nessun
motivo.» lei cacciò
indietro le lacrime e annuì, muovendo la mano nella sua, in
modo da stringerla
forte, gli sorrise stanca, ma determinata.
Otabek
prese un profondo sospiro e alzò di nuovo lo sguardo di
fronte a sé, la figura
era ancora lì, nascosta nell’ombra, ma non gli
sembrava più minacciosa come
prima. Se non l’avesse aiutato a trovare Mila non si sarebbe
fidato, però era
la sua unica speranza e non importava nient’altro.
Cominciò
a camminare piano, stando attento a che Mila non rimanesse indietro;
gli parve
di camminare per miglia e miglia, non pensava di essersi addentrato
così tanto
nel bosco, ma quando alla fine le sue orecchie captarono il nitrito di
un
cavallo e i suoi occhi distinsero la lieve luminosità del
cielo stellato, seppe
che erano finalmente arrivati.
Accelerò
il passo, esortando Mila a fare lo stesso, e non appena
superò il confine del
bosco e i suoi polmoni si riempirono dell’aria fresca
notturna e una risata
incontrollata gli proruppe dalla labbra. Si lasciò andare,
cadendo per terra e
trascinando Mila con sé.
Rimasero
distesi l’uno accanto all’altra per un tempo
indefinito, mentre Astra nitriva e
scalpitava, in preda alla loro stessa felicità.
L’adrenalina
gli scorse via dalle vene e venne rimpiazzata da
un’improvvisa e confortante
stanchezza.
Dopo
parecchi minuti, quando anche le lacrime di gioia si furono asciugate
sul suo
volto, Mila gli fece accorse che i corpi dei banditi non
c’erano più e che
anche i materiali per Feliks erano spariti. Otabek sentì una
nuova rabbia
montargli dentro: era tutta colpa di quegli individui se erano finiti
in quella
situazione e si sentì ancora peggio, quando capì
che non era riuscito a salvare
quel ragazzo dagli occhi fieri. Era già la seconda persona
che perdeva in
quella foresta e lo faceva sentire così… inetto.
«Possiamo
dire di essere stati aggrediti. Voglio dire, abbiamo
l’aspetto di due persone
scampate alla morte per puro caso.» Otabek non voleva dirle
che era proprio
così. «Non ci crederebbe nessuno, se raccontassimo
quello che è successo lì
dentro.» mormorò lei.
Otabek
la guardò, e Mila capì. «Scusa se ti ho
detto che non era vero. Non so cosa sia
successo nel bosco, ma di sicuro non è qualcosa di normale.
Non so ancora come
tu abbia fatto a farci uscire di lì.»
sospirò, montando in sella dietro di lui
e appoggiandosi alla sua
schiena.
«Non
lo so neanche io.» esalò gettando un ultimo
sguardo al fitto della selva, prima
di spronare Astra verso il paese.
Quando
arrivarono, a sera inoltrata, Feliks non ne fu contento, ma credette ad
entrambi quando gli raccontarono di essere stati attaccati e Otabek non
ebbe
ripercussioni sul proprio lavoro.
Scivolò
in un sonno inquieto non appena posò la testa sul cuscino,
sfiancato da tutte
le emozioni che aveva provato, sognando ombre e grida, sangue mischiato
al
fango e alla neve e due occhi affilati, verdi, fieri come quelli di un
soldato.
Note
finali:
Ed
ecco il primo capitolo!
In
realtà avrei dovuto pubblicarlo sabato pomeriggio, ma so
già che non ne avrei
avuto il tempo, quindi ve lo beccate all’una di notte! Evviva
i ritmi sani
Ne
approfitto anche per dire che, salvo imprevisti, gli aggiornamenti
dovrebbero
essere sempre durante il fine settimana, perché è
l’unico momento in cui mi
posso mettere seriamente a sistemare i capitoli T_T
Bene,
la storia sta cominciando a prendere forma! Vengono introdotti alcuni
dei nuovi
personaggi, tra cui Mila.
Parliamo
un attimo di Mila! Nonostante possa sembrare, ci
tengo a dire che non ci sarà alcun triangolo amoroso
perché, oltre a non sapere
davvero come gestirli, non sono elementi narrativi che mi entusiasmano
più di
tanto. Mila e Otabek (tolta la prima sera in cui si sono conosciuti)
non hanno
mai avuto e non avranno interazioni romantiche, sono semplici amici e
lo sono
perché io adoro tanto Mila e volevo
inserirla nella storia (quindi non
insultate la mia bambina, ok? Ok). Avrà anche un ruolo
importante più avanti!
Per
quanto riguarda il resto dei personaggi, abbiamo un
cameo di Georgij, perché anche lui riceve poco amore, e
Feliks, proprietario
della fucina e capo di Otabek. E penso si capisca benissimo chi sia la
figura
che Otabek vede nei pressi del bosco entrambe le volte ;)
Mi
sono divertita tanto a descrivere le ambientazioni di
questo capitolo, perché dopo tutti i libri con ambientazione
medievale che ho
letto, ho finalmente avuto la possibilità di utilizzare le
cose che ho imparato
u.u e spero di essere riuscita nell’intento di rendere al
meglio l’atmosfera
del paese e della fucina dove lavora Otabek!
Concludo
con il ringraziare chiunque abbia letto, e spero
mi vorrete lasciare un commento su cosa ne pensate della storia fino ad
ora,
magari sui personaggi (se sono o meno IC, ad esempio) o su cosa pensate
succederà nei prossimi capitoli!
Un
grazie speciale va a Silvar
Tales che
ha recensito il prologo, e come sempre alla mia
beta _Lady
di
inchiostro_
LysL
|
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
[5250
parole]
Capitolo
II
Tra
le tante cose successe la sera prima che Otabek non riusciva a
spiegarsi, una
in particolare continuava a non dargli pace. Ci ripensò la
mattina dopo mentre,
di fronte al fuoco rovente della fucina, aiutava Feliks a forgiare una
lama. Il
clangore assordante del martello contro il pezzo di metallo ancora
malleabile
inghiottiva qualunque altro rumore e il calore insopportabile gli fece
rimpiangere di non aver preso un fazzoletto da legarsi sulla fronte,
perché le
goccioline di sudore continuavano ad oscurargli la vista, impigliandosi
alle
sue ciglia.
Fissava
le scintille gialle e arancioni che si spegnevano sul suo guanto di
pelle; il
movimento monotono del braccio era ormai diventato meccanico per lui,
cosa che
gli lasciava la possibilità di pensare anche ad altro e non
rischiare di
schiacciarsi un dito sull’incudine.
La
sera prima, tra la paura ed il sollievo di essere rimasto vivo, non
aveva avuto
né il tempo né la voglia di riflettere bene su
ciò che era accaduto alla radura
e nel bosco; con l’adrenalina in circolo e la fretta di
salvare quel ragazzo,
il suo cervello non si era soffermato sull’immagine dei due
banditi che
crollavano a terra senza emettere un suono e solo adesso, con la mente
più
libera e lucida, quel particolare era tornato a tormentarlo.
I
due corpi si erano accasciati su loro stessi, come due marionette a cui
fossero
stati tagliati i fili, e Otabek non aveva mai visto accadere qualcosa
del
genere; la cosa più simile a quello che riuscisse a
ricordare era successa anni
prima al suo villaggio, durante una giornata di festa: nel bel mezzo di
una
tipica danza popolare, eseguita al centro della loro piccola piazza,
una donna
che non conosceva bene si era irrigidita di colpo, rovinando sulla
strada
polverosa.
Otabek
ricordava che il suo corpo venne scosso da tremori incontrollati e la
sua bocca
si muoveva senza emettere alcun suono, fino a quando non la chiuse del
tutto e
prese a gemere; sua madre gli era corsa incontro, Ayzere appesa al suo
collo
che nascondeva il visino nella sua spalla e gli aveva coperto gli occhi
con una
mano, ma questo non gli aveva impedito di sentire. Dopo qualche secondo
i
gemiti si fermarono, diventando lunghi conati e versi rauchi, grida
strozzate
come quelle delle galline a cui veniva tirato il collo, alla ricerca di
aria.
Poi tutto d’un tratto, era calato nuovamente il silenzio e
sua madre cominciò a
spingerlo verso casa, dandogli uno scappellotto sulla nuca quando lui
provò a
guardarsi indietro. La donna era immobile e un sottile rivoletto di
sangue le
colava dalle labbra.
Ricordava
perfettamente quella scena e come fosse stata protagonista di molti
suoi
incubi, da bambino, finché non se liberò negli
anni dell’adolescenza. Eppure sapeva
che non era lo stesso caso: quegli uomini non avevano avuto delle
convulsioni,
non avevano urlato e non sembravano sofferenti, piuttosto,
rifletté, sembravano
solo addormentati, come se i loro muscoli si fossero rilassati tutti
nello
stesso momento. C’era un senso di familiarità in
quella spiegazione, qualcosa
che gli stuzzicava la memoria e gli sfuggiva, sebbene Otabek non
riuscisse a
capire da dove provenisse.
Quando
Feliks spinse la lama dentro la vasca d’acqua fredda
lì vicino, il vapore della
tempra gli soffiò sulla faccia, investendolo con
quell’odore umido di ruggine
mista a bruciato. Soffocò un colpo di tosse, sotto gli occhi
attenti dell’uomo,
gli occhi che prendevano a lacrimargli. Si passò un braccio
sul viso.
«Cosa
ti prende, ragazzino? Non sei concentrato come al solito.» lo
riprese. Entrambe
le sue sopracciglia folte erano inarcate e l’uomo lo stava
guardando con un
cipiglio preoccupato e anche un po’ severo.
Otabek
sospirò. «Sono ancora piuttosto scosso per ieri,
credo.» rispose, sperando che
Feliks non volesse parlare dell’argomento, perché
non era sicuro di cosa fosse
conveniente dirgli o meno, e per sua fortuna Feliks gli credette,
annuendo. «So
che sei stato bravo con quella spada! Avrei voluto vederti!»
esclamò con un
sorriso, senza dubbio in un tentativo di tirargli su il morale. Aveva
nuovamente posato la lama sull’incudine e la stava osservando
con aria critica.
Otabek
sorrise, e si strinse nelle spalle. «Mila esagera sempre
troppo.» Feliks annuì,
senza bersi nemmeno una parola. Gesticolò con la mano.
«Ah, già, Mila. Chi è
questa ragazza, di preciso?» Otabek volle alzare gli occhi al
cielo, l’ultima
cosa che gli serviva era una paternale.
«Un’amica.»
borbottò, senza la minima voglia di continuare quella
conversazione, ma Feliks
era di tutt’altro avviso e Otabek lo capiva,
perché dal punto di vista
dell’uomo il loro era un rapporto inspiegabile. Era un bene
che non né lui né
Mila dessero troppo ascolto alle malelingue del paese, e Otabek si
riteneva
anche abbastanza fortunato che a Feliks non importasse nulla dei
pettegolezzi,
perché un uomo più severo l’avrebbe
già licenziato, considerate tutte le volte
che Mila andava a fargli visita.
«È
molto bella.» commentò Feliks e Otabek si
ritrovò ad annuire distrattamente,
perché dopotutto anche un cieco avrebbe potuto vedere che
Mila era una bellezza
rara, di quelle che si incontrano una volta sola nella propria vita.
Peccato
che fosse appaiata ad un carattere incompatibile con il suo, almeno
romanticamente parlando.
«Stai
pensando di chiederla in moglie?»
Otabek
sussultò, colto di totale sorpresa da quella domanda detta
in tono serio e
anche un po’ malizioso; alzò la testa di scatto e
fissò Feliks dritto negli
occhi. «Assolutamente no.»
L’uomo
rise e agitò la mano con cui teneva il martello e con cui
aveva ripreso a
modellare la lama. «Non ti scaldare, ragazzino, era una
domanda legittima. Ogni
ragazzo della tua età dovrebbe pensare a
sistemarsi.» replicò lui, senza
guardarlo; Otabek si rese conto in quel momento del modo sgarbato in
cui gli
aveva risposto.
«Mi
scusi, signore, ma no, non ci sarà alcun matrimonio tra me e
Mila.» e il solo
dirlo ad altra voce lo convinse di quanto sbagliate suonassero le
parole “Mila”
e “matrimonio” nella stessa frase.
Feliks
emise un suono poco convinto, ma riprese a dare martellate
sull’incudine, per
affilare il taglio della lama. Le rifiniture sarebbero toccate a
Georgij, che
aveva proprio un tocco magico quando si trattava di intarsiare ed
incidere a
freddo.
La
parola magico rimase più a lungo nella
sua mente, lambendo ai suoi
ricordi, come se provasse a fargli realizzare qualcosa che
però continuava a
non palesarsi.
«…con
un veloce movimento del polso, una stregoneria, senza dubbio, mi fece
cadere in
un sonno profondo.»
La
voce di Yakov gli rimbombò nelle orecchie, e si rivide
lì, accanto al fuoco, ad
ascoltare il racconto dell’uomo, con una sua sorella seduta
tra le gambe.
Ed
era così ovvio. Solamente la magia era capace di ridurre due
uomini grandi e
grossi a pargoli dormienti ed indifesi, era così ovvio,
così scontato, così
spaventoso. Otabek non era stupido, dopo quella realizzazione non ci
mise molto
a collegare la magia e il ragazzo del giorno prima. I suoi abiti, le
movenze,
il modo in cui era scappato. Il suo viso non era spaventato, non stava
fuggendo
da lui e Mila, no, il ragazzo se ne stava andando.
Ciò che non capiva
era perché avesse lasciato che lo aiutassero, se era
perfettamente capace di
cavarsela da solo, e se era lui l’ombra che l’aveva
guidato da Mila e fuori dal
bosco, perché l’aveva fatto? Erano stati loro ad
entrare nei suoi domini,
avrebbe potuto guidarli dalla Regina e loro non avrebbero potuto fare
niente,
se non morire della stessa sorte toccata ai tanti prima di loro.
«Ecco
qui! Questo era l’ultimo pezzo di oggi, Otabek. Puoi andare,
penso io a
sistemare la fucina.» esordì Feliks, dopo qualche
altra martellata. Otabek
annuì brevemente, togliendosi i guanti di pelle e il
grembiule macchiato di
fumo.
Sua
madre, da piccolo, gli diceva sempre che la curiosità
portava guai e sin da
quando aveva memoria, Otabek aveva sempre cercato di essere
responsabile, di
fare ciò che era giusto ci si aspettasse da lui. Non era
responsabile uscire
dal villaggio a quell’ora di notte e con la neve che non
aveva smesso un attimo
di cadere, non era responsabile portare Astra con sé, non
era responsabile
voler andare a cercare quel ragazzo, ma per una volta non gli
importava. Per
una volta, Otabek lasciò che fosse il suo istinto, senza
freni inibitori a
guidarlo fuori dalla propria stanza, fino alla stalla di Astra. Lei
scosse la
testa quando lo vide e Otabek le sorrise, allungandole un pezzo della
mela che
aveva mangiato per cena. Astra lo sgranocchiò felice ed
emise un suono basso e
soddisfatto.
«Anch’io
sono felice di vederti, bellezza. Ho bisogno di te,
stanotte.» le accarezzò un
fianco, per poi porsi di fronte al suo muso e poggiarle una mano tra
gli occhi.
Astra nitrì piano.
«Scusami.»
mormorò, prendendo la sella dalla staccionata e
assicurandola al suo dorso. Le
salì in groppa velocemente, e la spronò verso i
confini del villaggio.
Il
percorso a ritroso era ancora più inquietante. Le stelle
fornivano una debole
luce argentata, che si rifletteva sull’elsa delle sua spada e
sulle componenti
metalliche della sella di Astra, proiettando dei tremuli brillii sul
suolo
gelido, mentre gli zoccoli della cavalcatura affondavano piano nella
neve con
un rumore soffice e attutito.
Otabek
teneva lo sguardo fisso sul confine della foresta; oltre gli alberi gli
pareva
di vedere un affollarsi di ombre e fruscii, e la cosa peggiore era non
riuscire
a capire se si trattasse solo illusioni create dalla sua mente
suggestionata o
ci fosse realmente qualcuno che lo seguiva. Decise di non pensarci
troppo,
dopotutto non era neanche sicuro di volerlo davvero sapere.
Continuò
a galoppare fino alla radura dove il giorno prima lui e Mila avevano
trovato
quel ragazzo. Anche quella mezzaluna di alberi, che di giorno poteva
anche
essere ritenuta accogliente, era avvolta dalla luce troppo debole, le
ombre dei
tronchi proiettate sulla neve vergine come tante, nodose sentinelle.
Astra
era nervosa, indietreggiava dal confine del bosco, come se anche lei
avvertisse
qualcosa di sbagliato, ma Otabek si piegò in avanti,
sussurrandole un
incoraggiamento nell’orecchio; si sentiva crudele a farle
questo, lei era
sempre stata leale nei suoi confronti e non voleva metterla in
pericolo, ma doveva
sapere.
Si
fermò proprio vicino ad una roccia più sporgente
che poteva servire da riparo.
Sotto la volta di pietra la neve non era arrivata e Otabek
lasciò le redini. Si
fidava abbastanza della sua cavalcatura da non lasciarla legata,
così se avesse
avuto bisogno di scappare, avrebbe potuto farlo.
«Tornerò
presto, promesso.» Astra lo fissò con un occhio
solo e gli diede un lieve colpo
con la testa. Otabek le accarezzò la criniera.
«Promesso.»
Fuori
il vento non era molto forte, ma i fiocchi di neve, leggeri,
turbinavano piano,
sciogliendosi a contatto con il suo viso e oscurandogli la vista.
Arrancò fino
al confine del bosco, appoggiandosi agli alberi, senza però
oltrepassare quella
linea immaginaria. Sentiva uno strano formicolio alla nuca; intorno a
lui non
c’era che una distesa bianca e silenziosa da un parte e il
bosco, con la sua
magia e l’oscurità, dall’altra. Lui
stesso era in balia di qualunque cosa ci
fosse là dentro. Avrebbe potuto trattarsi di animali feroci,
stregoni
mutaforma, o di un semplice ragazzo, ma Otabek non era più
nella condizione di
potersi tirare indietro.
«So
che ci sei.» disse, a voce bassa, perché sapeva
che, ovunque fosse quella
persona, poteva sentirlo comunque. «Non sono qui per farti
del male, ma non
entrerò nel bosco, se è questo che vuoi. Non so
perché tu mi abbia aiutato una
volta e non rischierò di nuovo. Se vuoi attaccarmi, dovrai
mostrarti e
scontrarti con me corpo a corpo.»
Gli
rispose solo il silenzio della montagna, ma Otabek non si scoraggio,
dopotutto
sapeva di non potersi aspettare né una risposta immediata.
«Eri
tu quella notte di settimane fa? Quella figura che ha fatto spaventare
il mio
cavallo, vero?» continuò, senza permettersi di
rilassarsi neanche per un
secondo. «Ti assicuro che non voglio farti del male, puoi
mostrarti, io non ti
attaccherò.» provò di nuovo, e
sospirò nell’accorgersi che quella strategia non
lo stava portando a nulla di concreto. Forse avrebbe dovuto entrare nel
bosco,
allora la figura avrebbe dovuto farsi vedere per forza, se non altro
per
portarlo al castello della Regina, o per farlo perdere ancora di
più nel fitto
della foresta, in modo da non doversi preoccupare mai più di
lui. Posò una mano
su uno dei tronchi, sentendo la corteccia ruvida e fredda sotto il
palmo, le
dita dell’altra mano che stringevano forte l’elsa
della spada fino a sbiancare
le nocche. Respirò a denti stretti, scusandosi mentalmente
con la sua famiglia,
Astra, Mila, Feliks e Georgij. Prese un profondo sospiro
«Non
dovresti dire che non vuoi farmi del male con una spada appesa al
fianco.»
Otabek
avvertì un brivido corrergli lungo la schiena. La voce era
risuonata come se fosse
proprio dietro di lui, ma quando provò a voltarsi
scoprì di non riuscirci;
sentiva ogni muscolo come congelato e si rese conto di non avere
neanche il
tempo per pentirsi di quella stupidissima decisione. Pensò
ad Astra che lo
aspettava nella caverna, ad Ayzere che aspettava le sue lettere e ai
suoi
genitori che l’avevano mandato al paese perché
facesse qualcosa di buono della
sua vita, perché sposasse una ragazza che avrebbe potuto
dargli dei figli.
Forse anche a loro, come a Feliks, sarebbe piaciuta Mila. E forse
avrebbero
davvero dovuto sposarsi, così che nessuno continuasse a
chiedere perché non
avessero già un anello al dito.
Il
panico gli riempì le vene e la testa con la forza di una
valanga, lasciandolo
stordito; una strana adrenalina che non aveva mai sentito prima di quel
momento
gli fece tuonare il cuore nel petto, mentre un solo ed unico pensiero
si faceva
strada nella sua mente: non voleva morire, non voleva morire in quel
modo, non
per un motivo così stupido, non perché non aveva
dato ascolto alla sua dannata
testaccia solo per una volta.
Un
tocco freddo sulla mano lo fece tornare in sé e il rumore
della lama che veniva
sguainata lo mise sull’attenti. Il filo scintillò
alla luce delle stelle, per
poi venire appoggiato alla sua guancia. «Bella fattura,
questa spada. È la
stessa dell’altro giorno, giusto?» La voce si
spostò verso destra, ma Otabek
era ancora paralizzato e non riusciva a muovere il collo per guardare.
«Il
filo è ancora perfetto.» la spada gli
passò sulla gola, senza toccarlo, eppure
Otabek ne riusciva a sentire la presenza ogni volta che deglutiva, come
un
soffio gelido contro la pelle. Avvertì di nuovo freddo alla
mano e gli parve
che qualcuno gliela stesse toccando, ma nessuno poteva avere la pelle
così
gelida ed essere in vita.
Poi,
com’era arrivata, la paralisi scomparve; il suo primo istinto
fu quello di
muoversi, ma aveva ancora la propria spada puntata sotto il mento.
Strinse in
denti per evitare di toccare il filo.
«Sta’
fermo.» gli intimò la voce. «O ti
squarcio la gola.» Sentì un frusciò,
come di
qualcosa che strisciava nelle neve e non resistette
all’impulso di dar
un’occhiata verso il basso, dove un paio di stivali di cuoio
affondava nelle
buche lasciate dai suoi piedi.
Una
mano gli artigliò la spalla e Otabek fu costretto a girarsi
per assecondare
quel movimento; la mano lo spinse in ginocchio nella neve e Otabek
percepì la
lama spostarsi dalla propria gola fino alla nuca. Era ancora in
posizione di
svantaggio, ma almeno adesso poteva parlare.
«Chi
sei?» chiese e ricevette un calcio tra le scapole; il colpo
gli strappò il
fiato dai polmoni e lui si ritrovò a boccheggiare, tossendo
del sangue per
terra, il sapore ferroso gli riempì sgradevolmente la bocca.
«Chi
sei tu? E come ti permetti di venire qui e parlarmi
come se fossi un tuo
pari.» La testa gli venne strattonata all’indietro
e solo in quel momento
Otabek vide chi realmente gli stava parlando.
Non
riuscì neanche a godersi la sensazione di vittoria nel
sapere che aveva avuto
ragione a sospettare del ragazzo perché la paura di fare
qualche passo falso e
finire lì la propria avventura era troppa.
Lui
lo stava fissando con gli stessi occhi fieri e feroci della prima volta
che
l’aveva visto, aveva i capelli acconciati in trecce tanto
complicate da
sembrare un copricapo ricamato e da ciò che poteva vedere,
una giacca dal collo
alto.
«Perché
mi hai aiutato, ieri?» gli chiese allora, con la voce ridotta
ad un soffio.
Il
volto del ragazzo cambiò, e per un attimo sembrò
perdere l’aria minacciosa che
aveva mantenuto fino a quel momento, la mano che gli tirava i capelli
tremò, ma
la presa si strinse più forte, strappando ad Otabek un
gemito di dolore.
«Perché tu hai aiutato me?»
replicò ancora.
«Perché
ho visto una persona in difficoltà.»
ringhiò tra i denti stretti e di nuovo
l’espressione del ragazzo vacillò.
Lasciò andare i suoi capelli, spostandogli
la spada dal collo. «Alzati e girati.»
ordinò.
Otabek,
nonostante sentisse ancora le gambe deboli, provò a tirarsi
in piedi; affondava
nella neve, mentre cercava di voltarsi verso l’altro. Il
ragazzo, scoprì, non
era molto più alto di lui e gli teneva ancora la lama
puntata contro, anche se
stavolta a distanza meno ravvicinata. «Non ero in
difficoltà.» puntualizzò. Il
suo tono era totalmente diverso da quello che aveva usato fino a pochi
secondi
prima; Otabek avrebbe detto che fosse solo incredibilmente infastidito,
e non
riuscì a non pensare a sua sorella quando faceva i capricci,
chiedendosi come
potesse un individuo tanto minaccioso e pericoloso come quello che gli
stava di
fronte ricordargli Ayzere, l’anima più pura che
conoscesse.
«Me
la sarei potuta cavare anche da solo, se voi non foste
arrivati.» continuò. «Non
è la prima e non sarà l’ultima volta
che dovrò difendermi, visto che adesso non
solo la gente entra per caso nella mia foresta, ma pare che venga a
cercare la
morte di propria spontanea volontà.» mosse la
spada verso di lui e Otabek fece
un passo indietro.
«Sta’
fermo, ti ho detto, credi che non ti colpirei?» nonostante
fosse convinto che
se il ragazzo avesse voluto ucciderlo l’avrebbe
già fatto da un pezzo, Otabek
non volle testare la sua pazienza e rimase fermo.
Si
guardarono negli occhi per un tempo che non riuscì a
quantificare, studiandosi.
Otabek
si prese del tempo per osservarlo bene come non aveva avuto ancora modo
di
fare; l’intera sua figura sembrava emanare un senso di
profondo contrasto. Da
una parte i suoi occhi simili a nulla che avesse mai visto, occhi da
combattente, dall’altra i capelli, biondi e folti e troppo
lunghi per i costumi
del paese, acconciati come solo una ragazza avrebbe fatto; da una parte
i suoi
lineamenti spigolosi e gli zigomi alti, dall’altra le labbra
piene e di un
lieve colore rosato, che insieme ai suoi occhi sembravano
l’unica macchia di
colore su quel viso bianco. Il suo vestito era elegante, sembrava
intessuto dal
ghiaccio stesso, ma gli stivali di cuoio non avevano niente di diverso
da
quelli che Otabek stesso stava indossando, se non fosse che al loro
interno vi
era di sicuro un pugnale d’argento.
Un’altra
cosa che era stata insegnata ad Otabek era che non era opportuno
associare la
bellezza agli uomini. La bellezza era qualcosa che andava ricercata
solo nelle
donne, non una caratteristica fisica che un uomo potesse trovare in
altri
uomini, e tuttavia, l’unico aggettivo con cui Otabek avrebbe
potuto descrivere
il giovane che gli stava di fronte era bello. Era
totalmente in armonia
con se stesso, essendo contemporaneamente la propria antitesi, ed
Otabek si
scoprì confuso da tutto quello che stava provando.
«Io
non ti colpirei.» gli rispose, in un sussurro, e per la terza
volta parve che
l’altro non sapesse come reagire.
Fu
solo dopo qualche secondo che, finalmente, abbassò la spada,
lasciandola cadere
per terra ai piedi di Otabek. «Riprenditela, ti
servirà nel caso ti venisse la
stupida idea di tornare qui.» poi indietreggiò,
camminandogli intorno e con un
frusciò di foglie, neve e stoffa, scomparve come tutte le
altre volte,
fagocitato dalle ombre della notte.
Gli
vollero parecchi minuti prima di riacquistare controllo di
sé: gli tremavano le
mani e non si sentiva i piedi ed era convito che il freddo ne fosse
solo causa
parziale. Raccolse la spada da terra, con un verso infastidito non
appena le
sue dita entrarono in contatto con l’elsa fredda, e ricoperta
di una sottile
strato di ghiaccio.
Avanzando
piano, con il corpo completamente intirizzito tornò alla
roccia dove aveva
lasciato Astra. La cavalla, quando lo vide arrancare a fatica in mezzo
alla
neve gli galoppò incontro, e Otabek si aggrappò
alla sella, beandosi del calore
del suo ventre. Le salì in groppa, sfinito, e
lasciò che lei lo portasse fino
al paese.
***
A
distanza di qualche giorno, Otabek continuava a pensare a
quell’incontro,
perdendosi nel cercare di ricordare i particolari del viso di lui, il
suo tono
di voce e il modo in cui si muoveva. Mila gli aveva chiesto
perché sembrasse
così tanto pensieroso in quel periodo, ma le era bastata
un’occhiata per capire
che qualunque cosa fosse, non era ancora il tempo per lei di saperla.
Il
sole faceva timidamente capolino da dietro le nubi, ma l’aria
era ancora fredda,
sia all’esterno che dentro la stalla di Astra; avevano appena
finito di
mangiare, ma era domenica, quindi nessuno dei due aveva niente di
importante da
fare. Quella volta Mila si era portata dietro un legnetto con la punta
carbonizzata
e se ne stava seduta sul pavimento ricoperto di paglia, con la gonna
che
disegnava un cerchio attorno a lei, a disegnare qualcosa sul muro di
pietra
grigia; Otabek, dal suo canto, stava spazzolando la propria cavalcatura
che
emetteva dei bassi nitriti di apprezzamento. Dopo gli ultimi
avvenimenti,
sapeva che Astra meritava davvero di essere trattata come un cavallo
reale.
«Beks.»
lo chiamò Mila. Lui si voltò distrattamente verso
la ragazza, notando come il
suo viso si fosse intristito. Mila sospirò. «Credi
che quel ragazzo sia morto?»
Otabek
impiegò appena pochi secondi per registrare le parole
dell’amica, e un rombo
sordo gli riempì le orecchie; dopo la prima ed unica volta
che ne avevano
parlato, tra lui e Mila c’era stato il tacito accordo di non
tornare più su
quell’accaduto e se prima Otabek ne era rimasto turbato,
s’era sentito quasi
preso in giro, adesso, dopo aver visto il ragazzo tre sere prime, ne
era grato.
Non si sarebbe mai aspettato che Mila tirasse fuori quella storia di
nuovo, e
lo prese alla sprovvista. Tentò di metter su
un’espressione stranita e non
terrorizzata al pensiero che Mila potesse scoprire che non solo era
sicuro che
lui non fosse morto, ma sapeva anche dove fosse.
«Beh,
noi siamo sopravvissuti per miracolo.» rispose, evasivo.
«No,
Beks, non parlo di noi. Parlo di lui, ho paura che sia successo tutto
per colpa
nostra, se non l’avessimo spaventato con quello scontro non
sarebbe mai
scappato nel bosco.» insistette Mila. Per quanto potesse
essere una persona
esuberante e all’apparenza superficiale, Mila teneva davvero
alle persone,
perfino a degli sconosciuti visti per puro caso; Otabek si sentiva
orribile a
nasconderle una cosa del genere, ma non sapeva ancora come lei avrebbe
reagito
e non voleva rischiare che, da testa calda qual era, si infilasse di
nuovo
dentro il bosco. Il ragazzo era stato molto chiaro, non ci sarebbe
stata una
seconda opportunità.
«Se
la colpa è di qualcuno, allora è di quei banditi
che non hanno esitato ad
attaccare un ragazzo da solo, non nostra.» le disse allora,
sperando che lei
lasciasse cadere il discorso. Mila strinse le labbra, ma
annuì e continuò a
disegnare.
Diede
un ultimo tratto di carboncino, prima di lasciarlo cadere per terra,
ormai del
tutto consumato. Si alzò, spolverandosi la gonna.
«Che ne pensi?» gli chiese;
stava indicando il disegno e Otabek si sporse per osservarlo.
Sentì il cuore
salirgli in gola e battere come un forsennato: di fronte a lui stava un
ritratto fedele del guardiano della foresta, perfetto in ogni
particolare. La
memoria visiva di Mila non avrebbe mai smesso di stupirlo, perfino lui,
che
l’aveva visto già una seconda volta e non di
sfuggita, non sarebbe riuscito a
ricordare con precisione il modo in cui erano intrecciati i suoi
capelli, ma
Mila aveva disegnato e sfumato ogni treccia con precisione. Anche
l’espressione
era la stessa, altera e piena di furia.
«È… è molto
bello.» disse, e sperò di
non essere arrossito, perché un conto era essere consapevole
della bellezza di
quel giovane nell’intimità della propria mente, un
conto era dirlo ad alta voce
e non importava che Mila l’avrebbe preso sono per un
complimento verso la
propria arte. Lei gli sorrise. «Grazie. Adesso devo andare,
ho promesso a mia
madre di aiutarla con alcuni vestiti.»
La
madre di Mila era una sarta e Mila aveva ereditato la sua bravura nel
disegno,
Otabek l’aveva incontrata una sola volta e gli era sembrata
una donna molto severa,
ma buona, la stessa bontà nascosta di Mila.
Otabek
le sorrise e alzò una mano in segno di saluto, lei
ricambiò e corse via dalla
stalla.
Continuò
a spazzolare Astra fino a quando il suo manto non fu lucido e la
criniera
districata e priva di tutte le pagliuzze che vi rimanevano attaccate.
Avrebbe
potuto andare di nuovo alla taverna, ad incontrare degli altri ragazzi
che
aveva conosciuto durante in suo soggiorno al paese, ma il suo sguardo
continuava ad indugiare sul disegno di Mila.
Fissò
la propria spada appoggiata al muro accanto.
«Riprenditela,
ti servirà nel caso ti venisse la stupida idea di tornare
qui.»
Ed
infine si posò il mantello sulle spalle e sellò
Astra, sperando che nessuno lo
notasse uscire dalla cittadina.
La
neve aveva smesso di cadere ormai da qualche ora, ma era ancora fresca
e gli
zoccoli di Astra vi affondavano, così Otabek decise di
continuare a piedi,
tenendola per le redini. Impiegò di più a
raggiungere la radura e appena vi
arrivò l’ormai familiare senso di pericolo e di
aspettativa gli fece stringere
lo stomaco. Posò una mano sull’elsa della spada,
stringendo forte. Non voleva
farsi gabbare come l’ultima volta così si tenne a
debita distanza dagli alberi.
«Ehi!»
Esclamò. «Sono io, esci fuori!» Non
sapeva perché aveva specificato quella
cosa, anche perché chi altri poteva essere il pazzo che dopo
non uno, ma due
avvertimenti, continuava a recarsi lì nonostante sapesse di
star costantemente
rischiando la vita.
Questa
volta non dovette aspettare neanche un minuto, la figura snella del
ragazzo
corse fuori dalla foresta. Apparve dalla prima linea di alberi.
«Ti avevo detto
di non tornare.» e di nuovo, la sua voce non pareva rabbiosa,
solo irritata.
Anche il suo viso non era contorto dalla furia, invece le palpebre
mezze
abbassate e le sopracciglia inarcate lasciavano intendere un profondo
fastidio.
Otabek
alzò un angolo della bocca, in un tentativo di nascondere la
propria sottile
paura. «Non l’hai mai detto, in
realtà.»
Il
ragazzo parve pensarci su, poi sbuffò. «Non
pensavo fosse necessario, stupido
umano. E smettila di parlarmi come se fossi un tuo pari, questo mi pare
di
avertelo detto.» Nonostante si trovasse a parecchie iarde da
lui, Otabek poteva
benissimo vedere quanto avesse abbassato la guardia dalla prima volta
che si
erano incontrati, non si aspettava di essere attaccato e sembrava
più
tranquillo. Ne ebbe la conferma quando si sedette a gambe incrociate
sotto uno
degli alberi. «Perché sei di nuovo qui?»
Otabek
mollò la presa sull’elsa e si lasciò
cadere nella neve, con gli occhi fissi in
quelli del ragazzo. «Non lo so.» gli rispose,
perché in realtà non sapeva
davvero per quale motivo avesse deciso di andare nuovamente nel posto
in cui
aveva rischiato la vita ben due volte.
L’altro
sbuffò, ma Otabek ebbe ragione di sospettare che si
trattasse di un modo per
camuffare una risata. «Te lo dico io perché:
perché non tieni alla tua vita, da
stupido umano quale sei.»
«Ti
sarei grato se la smettessi di offendermi.»
replicò.
«E
io ti sarei grato se la smettessi di farmi perdere tempo. Non posso
neanche
andarmene.» il suo modo di lamentarsi era simile ai capricci
di un bambino e
Otabek si ritrovò ancora una volta a pensare ad Ayzere e al
suo broncio. Il
ragazzo allungò una gamba e tirò fuori lo
stiletto dallo stivale; per un attimo
Otabek credette che stesse per tirarglielo addosso, come aveva visto
fare
qualche volta per gioco alla taverna, solo che stavolta non sarebbe
stato uno
scherzo. Dovette ricredersi quando lui lo usò per cominciare
a giocherellarci,
conficcandolo nel terreno ghiacciato e riprendendolo.
Astra
nitrì lì vicino e fece per avvicinarsi al
ragazzo; Otabek sentì un’ondata di
panico montargli dentro e scattò in piedi, ma ormai Astra
era troppo in
prossimità del giovane perché lui potesse fare
qualcosa. Non successe nulla:
Astra abbassò il muso, annusandolo e gli diede un colpetto
sulla testa, solo in
quel momento lui reagì. Si scostò da quel tocco e
alzò un piede per allontanare
il cavallo. «Toglimi il tuo animale di dosso!» gli
urlò.
Otabek
si alzò in piedi, camminando piano verso Astra, in attesa
che l’altro gli
dicesse di fermarsi e arretrare, o che semplicemente lo attaccasse.
Niente di
tutto quello successe e Otabek riuscì ad afferrare le
redini. «Andiamo bella,
non infastidire questo ragazzo. Andiamo.» la tirò
verso di sé e Astra scrollò
la criniera, nitrendo contenta, senza perdere di vista il suo nuovo
compagno di
giochi. Quando furono di nuovo a distanza di sicurezza e Otabek
osò guardare
verso l’altro, si stupì di trovarlo in piedi molto
più vicino di dove l’aveva
lasciato.
Aveva
un pugno serrato all’altezza del fianco e lo fissava
incredulo, come se non
riuscisse a credere a ciò che stava vedendo
«“Questo
ragazzo”? Prima lasci che il tuo cavallo mi aggredisca e
adesso questo? Quante
maniere irrispettose dovrò ancora sopportare prima che tu
impari a rivolgerti a
me come si deve?»
Otabek
strinse le spalle, accogliendo il muso di Astra, che aveva cominciare a
cercare
di aprirgli le braccia per raggiungere il tascapane dove teneva sempre
qualcosa
da darle. Le porse una manciata di mele sminuzzate che lei
inghiottì
avidamente.
«Astra
è femmina e non ti ha aggredito. E se sapessi il tuo nome,
forse potrei rivolgermi
meglio.» strofinò il collo di Astra, alzando gli
occhi ad incrociare quelli del
ragazzo.
Lui
fece una smorfia infastidita. «Se me l’avessi
chiesto, te l’avrei detto.»
Otabek
era stufo di quel continuo rimpallo che pareva essere l’unico
modo in cui
riuscivano a parlare. Qualunque cosa dicesse, sembrava che
l’altro gliela
rinfacciasse con ancora più causticità.
«Non
pensavo dessi così tanta importanza a queste cose.»
«Infatti
non mi interessa!» Incrociò le braccia e
alzò il viso, distogliendo lo sguardo
da lui e puntandolo verso il cielo bianco.
Otabek
sospirò, arrendendosi al fatto che non avrebbe mai capito
perché si comportasse
in modo così scostante. «Io sono Otabek
Altin.» gli svelò, e non si era mai
sentito tanto scoperto, nel dare il proprio nome a qualcuno.
Il
ragazzo abbassò gli occhi e Otabek vacillò, senza
sapere cosa aspettarsi.
«Yuri.»
disse, semplicemente.
Fu
come se una nuova consapevolezza fosse calata tra loro, Otabek rimase
in
silenzio, per poi mormorare un sottile, quasi inudibile.
«Yuri?»
Il
ragazzo, Yuri, alzò un sopracciglio.
«Sì, Yuri. E adesso togliti dai piedi,
altrimenti devo restare qui a controllare che non entri nella
foresta.»
Otabek
gli rivolse un ultimo sguardo, prima di salire su Astra, ma non si
mosse.
«Vattene!»
gli disse di nuovo Yuri, gesticolando verso la strada e infine Otabek
gli voltò
le spalle.
Neanche
quella volta gli aveva detto di non tornare.
E
non glielo disse mai.
Note
finali:
Salve!
Non
vedevo davvero l’ora di poter pubblicare questo capitolo e ho
impiegato il
doppio del tempo a sistemarlo, perché non ero soddisfatta di
come avevo
impostato alcune cose nella bozza iniziale. Finalmente abbiamo in scena
anche
Yuri e sono felice!
Quindi,
lasciatemi spendere due parole anche sul suo personaggio (giusto
perché sapete
quanto mi piaccia sproloquiare); Yuri, in questa storia, ha un vissuto
molto
diverso da quello che conosciamo nel canon, ma non voglio ancora
svelarlo,
perché sarà un punto cruciale della storia
*risata malvagia* una cosa
importante che bisogna tenere a mente è che Yuri appare
esattamente per ciò che
è.
Per
il resto, ho adorato scrivere la scena del primo, vero incontro tra
Otabek e
Yuri; un po’ violento, ma comprendete anche che Yuri vede
arrivare questo tipo
armato nel bel mezzo della notte e non sa cosa aspettarsi, o meglio,
pensa che
voglia fargli del male. Dall’altra parte invece abbiamo
Otabek che si lascia
vincere dalla curiosità e si trova ad affrontare qualcosa di
sconosciuto, ed
entrambi entrano in contatto con una realtà diversa da
quella a cui sono abituati
e a cui dovranno abituarsi, in un modo o nell’altro.
Se
vi steste chiedendo cosa sia successo alla donna del ricordo di Otabek,
la
povera anima ha avuto una crisi epilettica, solo che nessuno in questa
storia
sa cosa sia una crisi epilettica e hanno pensato che si trattasse di
qualche
possessione/evento sovrannaturale, per questo non l’hanno
soccorsa.
Finisco
qui, e ringrazio tutti coloro che hanno letto, sperando che vogliate
lasciarmi
un commento di qualsiasi genere, li adoro tutti! <3
Grazie
anche a chi ha inserito questa storia tre le preferite/seguite, e alla
cara Silvar
Tales, che ha recensito lo scorso capitolo! Ringraziamento
speciale, come
sempre, alla mia fantastica beta _Lady di inchiostro_
Alla
prossima!
LysL
|
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
[5950
parole]
Capitolo
III
Agli
occhi di chi gli stava intorno, la vita di Otabek continuava
normalmente, come
se non fosse successo nulla; lavorava la mattina alla fucina, spesso
anche il
pomeriggio, e si vedeva ancora con Mila di tanto in tanto. Dormiva
nella
propria stanza e si alzava all’alba per ravvivare il fuoco al
piano di sotto,
accompagnava Georgij alla taverna, se questi glielo chiedeva, e
continuava ad
evitare le domande insistenti e poco discrete di Feliks. Eppure ogni
volta che
poteva, non importava a che ora o in che giorno, Otabek tornava alla
radura e
chiamava Yuri.
All’inizio
si sedevano lontani, Yuri appoggiato agli alberi di confine e con il
pugnale
tra le mani, Otabek vicino ad Astra a volte con un piccolo coltello e
un ciocco
di legno che passava il tempo ad intagliare (ne faceva delle grezze
statuette
che poi mandava ad Ayzere). Le loro conversazioni, quando non se ne
stavano
zitti e Yuri non lo ignorava, non erano altro che un susseguirsi di
insulti ed
affermazioni acide da parte del ragazzo; Otabek cercava sempre di non
prenderle
sul personale e di rispondere nel modo più tranquillo
possibile così che Yuri
non si innervosisse e non gli dicesse di andarsene, cosa che era
successa un
paio di volte.
Ogni
volta la sua paura scemava sempre più e sebbene continuasse
a non volersi
avvicinare agli alberi, ciò non gli impediva di lasciare la
spada per terra
vicino ad Astra e andare a sedersi sempre un po’
più vicino a Yuri. Lui non
dava segni di evidente fastidio, se non qualche sbuffo rumoroso o dei
sottili
soffi che assomigliavano a quelli di un gatto, quando credeva che la
distanza
fosse troppo poca. A quel punto Otabek provava ad allontanarsi nel modo
meno
evidente possibile, o semplicemente rimaneva fermo nella propria
posizione,
aspettando che Yuri si abituasse a quella nuova vicinanza; Yuri, aveva
capito,
finiva sempre per abituarsi, lo si notava dal modo in cui le sue spalle
si
rilassavano e i suoi occhi smettevano di saettare di lato per
controllare che
Otabek non si muovesse più. Negli ultimi tempi, Otabek era
riuscito ad ottenere
di sedersi proprio accanto a lui, pur evitando il più
possibile di toccarlo:
Yuri non sembrava molto incline al contatto fisico diretto o non
ricercato, che
era molto diverso dal modo in cui aveva toccato, o meglio malmenato
Otabek la
prima volta che era andato a cercarlo.
Durante
quelle ore trascorse insieme, quando finalmente Yuri smise di
insultarlo o
rispondergli acidamente e a monosillabi, Otabek scoprì che
lui aveva molti più
anni di quelli che dimostrava e che in virtù di
ciò era molto più dell’essere
freddo e calcolatore che mostrava di essere; cominciò a
sentirsi in qualche
modo lusingato che Yuri stesse accettando la sua presenza nella sua
vita, senza
più tenerlo lontano e non solo fisicamente.
Yuri
era molto legato alla foresta, gliel’aveva detto la volta in
cui Otabek gli
aveva chiesto come mai non se ne allontanasse mai, e aveva anche
aggiunto che
Otabek, con la sua mente umana, non avrebbe mai potuto capire fino in
fondo la
profondità di quel legame. Per la prima volta ad Otabek non
parve un insulto,
quanto più una semplice constatazione. Scoprì
anche che quel bosco era stato l’unica
casa di Yuri, da quando l’altro riusciva ad avere memoria e
tuttavia Otabek
aveva avuto la sensazione che non gli stesse raccontando tutta la
verità:
teneva lo sguardo basso e non aveva alzato gli occhi neanche una volta,
in
quella maniera nervosa che aveva imparato a riconoscere, ma sapeva di
non
essere nella posizione di avanzare richieste.
Yuri
inoltre, nonostante il carattere brusco e difficile, gli dava
l’impressione di
essere una persona profondamente sola; Otabek si era perfino ritrovato
a
chiedersi che fine avesse fatto la Regina o perché Yuri non
ne parlasse mai.
Anche in quel caso, però, era consapevole di non potersi
aspettare nulla da
Yuri, così aveva finito per non indugiare su questo aspetto.
Più
il tempo passava, più la temperatura
si faceva mite, ma Otabek continuava a portare con sé un
doppio mantello, per
potersi sedere a terra senza congelare.
Il
sole riusciva a sciogliere la neve lì
alla radura, e la prima, tenera erbetta tentava di far capolino da
sotto la
coltre fredda e bianca.
Fu
durante uno di quei giorni meno
gelidi che si chiese per la prima volta cosa stesse facendo.
Yuri
era disteso sulla schiena, le mani poggiate sull’addome, e
stava osservando una
nuvola scura, probabilmente carica di pioggia o neve, che passava di
lì e
Otabek era disteso di un fianco accanto a lui, la testa appoggiata al
braccio e
all’avambraccio, piegati a mo’ di cuscino.
«Otabek?
Posso farti una domanda?» lo chiamò Yuri e lui
alzò gli occhi da una povera
formica che arrancava sul terreno congelato in cerca di un foro per
tornare al
proprio formicaio e li posò sull’altro.
«Dimmi.»
Erano
vicini, e Yuri lo stava guardando fisso negli occhi; le sue pupille
erano
dilatate e inghiottivano quasi il verde delle sue iridi, svelato solo
da una
sottile linea più esterna. I capelli intrecciati gli si
erano arruffati,
sembrava genuinamente curioso di sapere qualunque cosa avesse deciso di
chiedergli.
«Tu
hai una famiglia?» La sua voce suonò insicura, ma
non meno interessata.
Otabek
rilasciò il respiro che non si era accorto di star
trattenendo e corrugò le
sopracciglia, stupito da quella domanda. «Sì,
c’è mia madre, mio padre e mia
sorella Ayzere…» stava per continuare, ma Yuri
scosse la testa e lo interruppe.
«No, non quel tipo di famiglia. Intendo una famiglia tua.»
enfatizzò
l’ultima parola, per spiegarsi meglio e Otabek
capì; probabilmente era
arrossito, se il caldo che sentiva alle guance era di qualche indizio,
ma gli
rispose comunque. «Oh, no. Perché lo
chiedi?»
Yuri
scosse la testa e sembrava essere confuso dal suo stesso comportamento.
Quando
distolse lo sguardo da lui Otabek dovette fermarsi
dall’allungare una mano e
voltargli la testa verso di sé.
«La
donna che chiamavi nel bosco, pensavo fosse lei la tua
famiglia.» il suo tono
era vago e Yuri strizzava gli occhi come se gli sfuggisse qualcosa che
non
riusciva a comprendere.
«Mila?
No, no lei è una mia amica.» mormorò
Otabek, sussultando quando Yuri si girò di
nuovo verso di lui, stavolta spostando l’intero corpo ed
imitando la sua
posizione con il braccio piegato sotto la testa. «Io sono tuo
amico?»
Otabek
inspirò e fu la prima volta che riuscì a captare
l’odore di Yuri; sapeva di
fresco, di bosco, ovviamente, ed aveva una nota dolce che Otabek non
riusciva
ad identificare. Lo guardò in viso: i suoi lineamenti
sottili e aggraziati
sembravano controllati, ma le sue guance, solitamente pallide come la
neve,
apparivano più rosee. Otabek gli sorrise. «Tu vuoi
essere mio amico?» gli
chiese.
E
fu in quel momento che Otabek capì di non avere
più alcun controllo su
qualunque cosa fosse quella che stavano facendo, perché Yuri
sorrise. Yuri
ricambiò il suo sorriso, ed era la prima volta in
assoluto che succedeva.
Otabek capì che l’opzione di smettere di vederlo
non era più contemplabile,
forse non lo era mai stata.
«Io…
penso di sì.» rispose Yuri e quella volta sorrise
alzando solo un angolo della
bocca e scoprendo i denti, poi si distese di nuovo.
Non
passò molto prima che parlasse di nuovo; Otabek
notò che aveva la fronte
corrugata e gli occhi assottigliati, in quell’espressione che
aveva imparato a
classificare come confusa.
«Mi
puoi parlare della tua famiglia?» gli chiese e le
sopracciglia di Otabek
scattarono verso l’alto e lui prese un profondo sospiro.
Rilassò le spalle,
mentre Yuri tornava a guardarlo. Come prima, sembrava semplicemente
curioso, ma
quella volta Otabek percepì qualcosa di diverso nel suo tono
di voce e nel modo
in cui stringeva le labbra tra loro.
Annuì,
lasciando che le parole uscissero senza filtro, con Yuri non serviva.
«Io non
sono originario del paese più vicino, abitavo più
a nord, ma ho dovuto cambiare
dimora per lavorare, la mia famiglia è rimasta al mio
villaggio natale. Mia
madre si chiama Sofiya. È una donna molto bella, ed
è sempre stata una madre
gentile, un po’ severa, certo, ma ha sempre pensato al mio
bene e a quello di
mia sorella. Le assomiglio molto, abbiamo gli stessi occhi e lo stesso
naso,
mio padre dice che abbiamo anche la stessa lingua lunga, –
aggiunse con un
sorriso e Yuri fece di nuovo quel sorrisetto sghembo – lui
è molto più bonario
di mia madre, di lui ho il colore dei capelli e, come gli piace dire,
“la
stazza da lavoratore.”»
A
quelle parole, Yuri scosse le spalle per nascondere un singhiozzo
divertito.
«Beh, di sicuro non parla della statura.» lo prese
in giro.
Otabek
si finse offeso, portandosi una mano sul petto. «Mi scusi
tanto, sua altezza.»
Yuri
non gli rispose e continuò a tenersi le braccia sul viso,
celando i propri
risolini.
«E
poi non sei neanche tanto più alto di me.» Otabek
chiuse gli occhi, come a
mostrare superiorità, senza però nascondere il
sorriso che gli stirava le
labbra.
La
risata silenziosa di Yuri si calmò dopo alcuni secondi e
solo allora Otabek
alzò una palpebra, trovandolo voltato verso di
sé. «Come si chiama tuo padre?»
gli chiese, ancora.
«Rami.»
L’altro
annuì. «È un bel nome. Sai cosa
significa?».
Otabek
scosse la testa, stranito; non aveva mai pensato che i nomi potessero
avere un
significato dal momento che, per lui, erano sempre stati solo un modo
per
riconoscere le persone, una parola associata ad un essere umano e non
ad un
oggetto. Si tirò a sedere. «Non avevo idea che
avesse un significato.»
Yuri
imitò il suo movimento e alzò gli occhi al cielo.
«Come no?»
Otabek
abbassò il viso, nervoso, e prese a grattare il terreno con
le unghia. «Ci sono
molte cose che non so, Yuri.» disse infine, senza guardarlo.
Poteva conoscere
l’arte del ferro, essere un buono fabbro, e saper maneggiare
una spada se ne
avesse avuto bisogno, ma sapeva bene di non essere un letterato; non
era nobile
e non poteva permettersi di conoscere la storia e la letteratura e fino
a quel
momento non gli era mai importato, perché non gli era mai
capitato di parlare
con qualcuno che avesse una cultura superiore alla sua. Yuri parlava
spesso di
cose che lui non capiva, di cui non aveva mai sentito parlare; quando
accadeva,
Otabek stava ad ascoltarlo con attenzione, cercando di ricordare quante
più
nozioni possibili, le avrebbe perfino scritte, se avesse saputo farlo.
Incrociò
le gambe e affondò un dito in uno dei piccoli solchi che
aveva scavato.
Yuri
gli era scivolato accanto e adesso Otabek sentiva il suo corpo premere
contro
il fianco, freddo attraverso gli strati di stoffa che li separavano.
«Amorevole.»
gli sentì dire, in un sussurro. «Rami significa
amorevole.»
Un
piacevole brivido gli corse lungo la schiena, forse per il freddo,
forse perché
la voce di Yuri era suonata morbida come mai prima di allora.
«Amorevole.»
ripeté, sperando di ricordarlo abbastanza a lungo da poterlo
riferire a suo
padre.
«Continui
a parlarmi della tua famiglia?» domandò Yuri, a
voce bassa.
Otabek
sospirò; non aveva smesso di fissare il proprio dito
inghiottito dalla terra
umida, lo tirò fuori piano, osservando come i granuli di
terreno rimanessero
attaccati alla propria pelle. Si passò velocemente il
pollice sul medio per
farli cadere e poi riprese a parlare. «Rimane solo mia
sorella minore, Ayzere.
È una piccola piaga, e un po’ ti somiglia
– si beccò un pugno non troppo forte
sul braccio – voglio dire che
è capricciosa, non ascolta mai quello che
le dico e non perde occasione per prendermi in giro, però le
voglio molto
bene.» si rese conto di ciò che aveva detto solo
quando alzò gli occhi su Yuri.
Lo trovò con la fronte corrugata e le mani intrecciate in
grembo.
«Tu…
mi vuoi bene?» gli chiese allora,
cogliendolo totalmente di sorpresa, anche
se avrebbe dovuto essere abituato a quel modo di fare che mostrava
quanto in
realtà Yuri fosse inesperto in fatto di relazioni umane.
Un’altra persona non
avrebbe mai chiesto una cosa del genere tanto direttamente, ma se
c’era una
cosa che Otabek aveva capito, era non aspettarsi niente di usuale da
parte di
Yuri.
Si
strinse nelle spalle. «Sì, beh, siamo amici, no?
Quindi ti voglio bene.» e a
quelle parole Yuri gli sorrise di nuovo, come aveva fatto prima.
Otabek
sentì il petto stringersi, si aspettava quasi che Yuri
ricambiasse quella
frase, ma lui rimase in silenzio e ad Otabek non rimase che cambiare
argomento,
prima di finire ad indugiare su pensieri che non avrebbero neanche
dovuto
esistere. Si schiarì la voce. «E Ayzere cosa
significa?»
Yuri
fece una smorfia, tamburellando con le dita sulla coscia.
Ripeté il nome un
paio di volte, prima di schioccare la lingua. «Ayzere
significa Luna dorata.»
Otabek si appuntò mentalmente anche quello, poi la voce di
Yuri lo distrasse
ancora. «E come comunicate, se loro abitano
lontani?»
«C’è
un ragazzo giù al paese che scrive le lettere per me, visto
che io non so
farlo, e poi loro se le fanno leggere da qualcun altro.» gli
spiegò. Non ebbe
bisogno di sentirgliela dire, perché la domanda che
attraversò la mente di Yuri
gli si lesse chiara in viso. “Non sai né
scrivere né leggere?”
Eppure
Yuri non parlò, si limitò ad annuire e stringersi
di più contro di lui. Otabek
rabbrividì, ma gli venne facile attribuire quella reazione
all’inesistente
calore corporeo del ragazzo che pareva rubargli il proprio.
«Ti
piacerebbe imparare?» La voce di Yuri vibrava piano, incerta.
Lo
squadrò scettico; aveva sempre sognato di imparare a leggere
e scrivere, ma non
aveva mai pensato che quel desiderio potesse anche solo lontanamente
diventare
realtà. Si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe
molto.»
Yuri
si illuminò, gli occhi che brillavano e Otabek
sentì il sangue salirgli alle
guance e sperò che Yuri non se ne accorgesse; per sua
fortuna l’altro era tutto
impegnato a tirarsi in piedi e portarsi un pugno al petto.
«Posso insegnarti
io!» annunciò, esaltato.
Otabek
si mordicchiò un labbro per non sorridere ancora
più ampiamente, scuotendo la
testa in un tentativo di liberarsi da quell’iniziale
incredulità; non avrebbe
mai pensato che Yuri potesse arrivare a proporgli qualcosa del genere,
eppure
eccolo lì, mentre accettava che Yuri gli facesse da tutore.
«Grazie,
Yuri.»
Yuri
alzò un sopracciglio e calciò un po’ di
terra, le labbra strette tra loro
quando mugugnò un “Ringraziami quando avremo
finito.” Al quale Otabek non poté
che rispondere con uno sbuffo divertito e un sorriso sincero.
***
Yuri
mantenne la propria promessa, e già dalle volte successive a
quella loro
conversazione prese a portare con sé dei libri e delle
pergamene ingiallite.
Come
insegnante non aveva molta pazienza, ma Otabek si impegnava
più che poteva;
avevano iniziato con i nomi, il suo, quello dei suoi genitori, di sua
sorella e
così via, in modo che gli venisse più semplice
associare i suoni parlati ai
simboli scritti nella grafia stretta e vagamente disordinata di Yuri,
anche se il
ragazzo gli aveva assicurato che faceva del suo meglio per renderla
più
leggibile.
Non
era difficile come aveva creduto, anche se doveva spesso fermarsi a
riflettere
su quale lettera leggere, soprattutto quando si trattava di parole
nuove.
Ricordava la prima volta che Yuri gli aveva scritto qualcosa da
leggere: era il
suo nome, ma Otabek non l’aveva mai visto scritto prima
d’allora, e confondeva
ancora la yu con la effe,
così quando, con voce incerta e
balbettando, lesse “Fri”, Yuri
scoppiò in una risata incontrollata e
tutta di pancia, per poi correggerlo e spiegargli che si leggeva
proprio “Yuri”.
Era
diversa dalle sue solite risatine di gola, spesso roche, e Otabek si
disse che
avrebbe potuto sopportare d’essere preso un po’ in
giro, se avesse significato
vedere Yuri ridere a quel modo.
Otabek
aveva fatto molti progressi, e aveva iniziato a leggere un poema
insieme a
Yuri. Lui gli aveva detto che si chiamava Cantare delle gesta
di Igor, ed
era uno scritto anonimo. Raccontava la storia di un certo Igor
Svyatoslavich,
principe che aveva guidato una campagna militare contro i Polovcy,
senza però
riuscire a vincere.
Ormai
erano arrivati alle battute finali, dove la giovane sposa
dell’eroe,
Yaroslavna, cantava il proprio dolore per la lontananza
dell’amato.
Stavano
seduti ai piedi di un albero e Otabek teneva le pergamene aperte sulle
gambe
distese, mentre seguiva con il dito lungo la riga di lettere che
avevano
finalmente un senso ai suoi occhi. Pensare che fino a qualche settimana
prima
non avrebbe neanche saputo da dove cominciare a leggere gli dava i
brividi, e
non vedeva l’ora di riuscire a ricordare tutti i simboli alla
perfezione, così
da poter scrivere la sua prima lettera alla sua famiglia.
Un
venticello freddo gli scompigliava i capelli e lo faceva rabbrividire,
ma
continuò a leggere, balbettando quando non sapeva qualche
parola, e allora Yuri
lo aiutava, indicandogli la lettera, la corretta pronuncia e
ripetendola fino a
quando lui non fosse riuscito a pronunciarla bene e sbuffando di tanto
in tanto
quando ci metteva troppo tempo. Otabek non se la prendeva,
perché sapeva che
Yuri voleva solo che lui diventasse bravo in fretta: aveva preso molto
a cuore
il suo desiderio di scrivere ai suoi genitori e alla sua sorellina.
«…
“O větrě,
větrilo! Čemu, gospodine, nasilĭno věẹši?” » Otabek rivolse
un’occhiata a Yuri, per essere sicuro di
star pronunciando tutto nel modo giusto e vide che l’altro
annuiva, per poi
fargli cenno di continuare.
Otabek
prese un profondo respiro, continuando a passare il
polpastrello lungo la fitta fila di simboli. « “Čemu
myčeši chinovĭskyya
strělky na svoẹyu netrudnof krilcyu na moẹya lady
voi?” » Fu a quel
punto che la voce di Yuri si fece sentire; il ragazzo sbuffò
e portò una mano
ad afferrargli il polso e glielo portò qualche parola
indietro.
«No,
no! Otabek devi concentrarti.» gli disse, sporgendosi verso
di lui, le guance quasi a contatto. Posò il proprio indice
su quello di Otabek,
stringendogli delicatamente la mano e facendo scorrere quel dito su una
parola
in particolare. «Rileggi qui.»
Otabek
aggrottò le sopracciglia, guardando bene ogni lettera, poi
esordì, sicuro. «Netrudnof.»
Ma non ebbe bisogno di guardare Yuri per sapere che aveva alzato gli
occhi al
cielo.
«Piano,
leggi più lentamente.» La presa sul suo indice si
fece meno forte, ma Yuri non
gli lasciò la mano e si premurò di far passare il
polpastrello sotto ogni
singola lettera, mentre lui scomponeva la parola.
«Ne-t-r-u-d-no-f...
– si accorse subito dell’errore
non appena pronunciò l’ultima lettera,
dandosi mentalmente dell’idiota per non essersene accorto.
– No… no… è netrudno-yu.»
si corresse e stavolta Yuri parve
soddisfatto.
«Esatto.»
lo lodò, con una punta d’orgoglio nella voce; Yuri
si mostrava sempre molto
contento dei suoi progressi e non mancava di dimostrarglielo, anche in
modi
meno convenzionali, come ammettere che infine Otabek non era “così
stupido
come pareva”, frase a cui Otabek rispondeva
rimarcando quanto neanche lui non
fosse l’insegnante ideale e a quel punto Yuri solitamente gli
pizzicava un
braccio e gli intimava di stare in silenzio.
Continuò
a leggere, interrotto di volta in volta da Yuri, che correggeva la sua
pronuncia o la sua intonazione, o anche solo gli spiegava il
significato di
parole che Otabek non aveva mai sentito prima.
Era
bello essere capace di capire ciò che qualcun altro aveva da
dire, ma che non
poteva riferire di persona; c’era qualcosa di affascinante
nel sapere che nel
passato, da qualche parte, qualcuno aveva deciso di mettere per
iscritto i
propri pensieri e che adesso lui aveva il privilegio di riuscire a
conoscerli e
magari, tramandarli. Finì di leggere, pronunciando
l’ultima frase con voce
incerta e sperando che Yuri non lo correggesse di nuovo; con sua somma
sorpresa, Yuri non disse niente e si limitò a guardarlo con
l’accenno di un
sorriso sulle labbra.
Otabek
lasciò che i propri occhi scivolassero sul suo volto sereno
per poi posarsi
proprio su quelle labbra. Erano socchiuse, chiare e sembravano morbide,
perfino
più morbide di quelle di Mila.
Non
si accorse del momento esatto in cui era successo, non era consapevole
di
volerlo fino a quando non se ne rese conto, di colpo e senza alcun preavviso, e il
desiderio
di toccarle, passarvi le dita per constatare che fossero davvero
soffici come
apparivano, si fece strada in lui senza che potesse fermarlo. Strinse
una mano
a pugno, serrando i denti in modo da non farsi sfuggire niente di
compromettente, mentre il suo intero corpo si faceva più
immobile di una
statua.
Yuri
respirava piano e quando Otabek tornò a guardarlo negli
occhi lo trovò confuso.
Non capiva cosa gli stesse succedendo: aveva sempre avuto amici maschi,
non era
una novità, li aveva al suo villaggio e li aveva al paese
eppure mai, mai,
ricordava di aver provato un’emozione di quel genere.
Deglutì e distolse lo
sguardo. Non potava rimanere in quella posizione, con Yuri premuto sul
suo
fianco, il suo respiro profumato che gli soffiava sulla guancia e le
sue labbra
chiare che lo confondevano. Sì tirò in piedi
bruscamente, strappando a Yuri un
verso contrariato, mentre anche lui si alzava veloce.
«Otabek?»
lo richiamò Yuri quando vide che lo ignorava. Si
spazzolò con una mano la
polvere dalla veste chiara, le pergamene abbandonate per terra, e si
sporse in
avanti afferrandogli una spalla. «Cosa succede?»
Otabek
si arrestò nei propri passi, il tocco della mano che gli
pesava sulla spalla,
tentò di riacquistare il controllo del proprio respiro,
fingendo di non sentire
il battito forsennato del proprio cuore che non ne voleva sapere di
calmarsi.
Mise
su un sorriso nervoso, prima di voltarsi verso di lui.
«Nulla. Mi sono solo
ricordato che ho delle… cose da fare alla fucina.»
Otabek
sperò che Yuri non riuscisse a leggere quella bugia,
perché sentiva solo
l’impellente bisogno di mettere distanza tra se stesso e
quella radura, di pensare
da solo, di farlo anche in fretta, prima di fare qualcosa di cui si
sarebbe
pentito e rischiare di perdere Yuri.
Yuri
ritirò la mano. «Oh. Capisco. Domani
verrai?» e sembrava così tanto speranzoso,
ogni volta che glielo chiedeva e ogni volta Otabek gli rispondeva che
sì,
sarebbe tornato l’indomani, se ne avesse avuto la
possibilità.
Annuì.
«Certo.»
Yuri
indietreggiò e Otabek lo osservò mentre si
accovacciava per terra a raccogliere
le pergamene; quando tornò in piedi i suoi occhi cercarono
la figura di Otabek.
Si sporse in avanti, come se volesse seguirlo, indugiando qualche
attimo in
quella posizione, poi però si ritirò verso gli
alberi. «Va bene, a domani
allora.» la sua schiena sparì tra la boscaglia e
Otabek fu libero di salire su
Astra e tornare al paese.
Sentiva
la testa pesante e non sapeva cosa gli stesse succedendo, né
perché, sapeva
solo che Yuri, con i suoi modi bruschi, con le parole taglienti e gli
occhi più
affilati del suo pugnale, era riuscito a farsi strada nella sua vita e
nel suo
cuore in un modo che era pericoloso, spaventoso a tratti, ma bello,
terribilmente
bello.
Era
tornato nel tardo pomeriggio ed era salito dritto nella propria stanza
subito
dopo aver lasciato Astra nella stalla. Non sapeva nemmeno da dove
cominciare a
riflettere su quello che gli stava succedendo, perché per la
prima volta nella
sua vita non aveva termini di paragone; il tempo passato con Yuri
apparteneva
ad un’altra dimensione, dove lui poteva fermarsi, disteso su
di un mantello, a
chiacchierare di qualunque cosa gli venisse in mente, o semplicemente a
stare
in silenzio, guardando il cielo e, di sfuggita, il ragazzo accanto a
lui. Yuri
sembrava pensarla allo stesso modo: gli aveva detto che lui era il
primo umano
con cui parlava, il primo di cui si fidasse, gliel’aveva
detto guardandolo
negli occhi e Otabek era riuscito a leggere tutta la
sincerità di quelle
parole. Se ne sentiva lusingato, come se l’amicizia di Yuri
lo rendesse
speciale. Qualche volta avevano anche duellato, per semplice
divertimento, ma
Otabek rimaneva incantato vedendo il modo in cui il viso di Yuri si
trasformava. I suoi occhi, quando si scontravano, esprimevano tutto il
loro
potenziale; sembrava proprio che Yuri fosse nato per la battaglia: il
modo in
cui si muoveva era ipnotico, sinuoso e Otabek si era ritrovato spesso
con le
spalle al muro perché invece di difendersi aveva preferito
rimanere a
guardarlo, solo per essere preso in giro a causa di quello stesso
motivo.
Altre
volte invece Yuri gli aveva parlato di come si prendeva cura del bosco,
di come
dovesse essere sempre attento ai confini, perché non voleva
che gli uomini lo
distruggessero e quando Otabek gli aveva chiesto come facesse a
controllare
tutto il perimetro della foresta, che copriva la maggior parte della
montagna e
della vallata, Yuri gli disse che usava gli animali, spesso lupi, e
chiedeva
loro di scoraggiare chiunque tentasse di entrare. Gli disse anche, con
il suo
solito tono pungente, di ritenersi fortunato che volesse passare del
tempo con
lui, invece di mandargli i lupi alle calcagna e Otabek aveva provato
una piacevole
sensazione di calore allo stomaco, eppure non riusciva liberarsi dal
sospetto
che ci fosse qualcosa di sbagliato nel modo in cui sentiva quando stava
con
Yuri.
Quella
mattina non era stata diversa. Si erano visti, si erano salutati e si
erano
semplicemente seduti per terra a leggere, come facevano già
da un po’ di tempo.
C’era stata quiete, un’atmosfera quasi familiare,
d’intimità. Otabek ne era
confuso, perché non riusciva a capire come fosse possibile
che in così poco
tempo, Yuri avesse raggiunto, e forse superato, il livello di
confidenza che
aveva con Mila. Sentiva di potersi affidare a lui e pensare che durante
il loro
primo incontro Yuri non aveva fatto altro che minacciare di ucciderlo e
puntargli la sua stessa spada alla gola gli sembrava ormai assurdo. Non
credeva
possibile riuscire a provare così tanto affetto per una
persona così diversa da
coloro con cui era abituato ad aver a che fare.
Si
passò una mano sul volto, al ricordo del suo viso vicino al
proprio, del suo
profumo fresco ed invitante e delle sue labbra di quel color rosa lieve.
Tutto
in Yuri parlava di una delicatezza intrinseca, eppure Otabek non si
sarebbe mai
sognato di definirlo delicato, o debole, anzi se c’erano due
aggettivi che
potevano descrivere Yuri, erano sicuramente combattivo e fiero. Yuri
era… era
totalmente diverso da chiunque altro avesse mai incontrato e non
rientrava in
nessuna delle categorie che Otabek conosceva. Ed era bello,
era bello e
Otabek non sapeva cosa fare a riguardo; era bello in modo diverso da
come poteva
esserlo Mila: lei aveva le forme morbide di una donna e non
c’era da chiedersi
perché fosse bella, Yuri invece era alto e asciutto, un
fascio di muscoli
scattanti e movenze a tratti aggressive e scomposte a tratti ipnotiche
ed
aggraziate, ma che si adattavano perfettamente al suo carattere.
Tuttavia,
Otabek non riusciva ancora ad arrivare al nocciolo della questione e
tutta quella
confusione, tutto quel riflettere su qualcosa che non capiva,
l’aveva solo
stancato e gli aveva provocato un forte mal di testa.
Quasi
cadde giù dal letto quando due
colpi secchi alla porta lo strapparono a forza dai propri pensieri,
come un
sonnambulo svegliato di colpo. Si alzò velocemente,
sistemandosi la camicia e
aprì la porta; trovò Mila, infuriata come non
l’aveva mai vista, che gli diede
un colpo sul petto non appena lo vide. «OH! Sei vivo
allora!» esclamò. Lo
spinse di lato per entrare e si andò a sedere sul bordo del
suo letto.
«Ciao
anche a te.» borbottò lui, ma Mila
non era dell’umore giusto per sopportare il suo sarcasmo e
gli rivolse
un’occhiata di fuoco. «Spero tu abbia una
spiegazione per non esserti fatto
vedere in questi giorni. Eppure Feliks mi ha detto che ti ha dato anche
più
tempo libero.»
Otabek
richiuse la porta; i suoi
pensieri avevano già cominciato a correre per trovare una
soluzione a quella
situazione scomoda in cui si era cacciato. Di sicuro non poteva dire a
Mila di
Yuri, ma come spiegarle dove se ne andava ogni pomeriggio e sera?
Ma
Mila, cosa che non aveva messo in
conto, ormai aveva imparato a decifrare perfino le sue
più piccole
espressioni, i minimi cambiamenti nel suo volto.
La
ragazza assottigliò gli occhi,
piegando la testa di lato. «Beks, stai arrossendo?»
gli chiese curiosa.
Non
le rispose, e probabilmente divenne
ancora più rosso, perché Mila si mise a ridere.
«Oh… tu hai incontrato una
ragazza! E Beks, stai arrossendo! Quindi hai incontrato una
ragazza che ti
piace!»
Otabek
scosse la testa. «N-no! Smettila
di dire idiozie!» reagì e capì di aver
sbagliato nello stesso momento in cui
l’ultima parola gli lasciò le labbra,
perché il sorriso di Mila si fece ancora
più grande e lei posò una mano sul letto,
facendogli cenno di sedersi accanto a
lei. «Ah! Otabek Altin, non mi freghi più! Chi
è? La conosco?» quando vide che
Otabek non le rispondeva, né si muoveva, sbuffò
rumorosamente. «Smettila e
parlami di lei.»
Otabek
la fissò; non poteva dirle di
Yuri, si ripeté. Eppure, si disse, forse Mila gli stava
porgendo la soluzione
su un piatto d’argento, forse parlarle di Yuri, anche se
indirettamente, l’avrebbe
aiutato a capire cosa gli stava succedendo. Non era sicuro che questa
discussione gli avrebbe dato le risposte che cercava, e non era sicuro
che tali
risposte sarebbero state facili da accettare, ma con un sospiro
sconfitto si
andò a sedere accanto a lei. «Non so cosa
dirti.»
Mila
gli posò una mano sulla spalla.
«Sei così imbarazzante, amico mio. Comincia a
descriverla, poi vedrai che ti
verrà tutto molto naturale.» gli sorrise,
incoraggiante.
Anche
se con qualche riserva, Otabek
prese un profondo sospiro. «Beh, ha dei begl’occhi,
e anche un bel viso…» Mila
inarcò un sopracciglio. «Solo questo?
Com’è fisicamente?»
Otabek
la guardò, consapevole di cosa
Mila gli stesse chiedendo e cosa si aspettasse, ma lui non poteva
descrivere
qualcosa che non esisteva; non che Yuri non avesse un bel corpo, per
quanto gli
sembrasse strano ammetterlo, ma di sicuro Mila voleva sentir parlare di
seni, e
al massimo di gambe, niente a che vedere con spalle larghe e grandi
mani dalle
dita lunghe che giocherellavano con un pugnale. Scosse le spalle e Mila
alzò
gli occhi al cielo. «Giusto, dimenticavo chi ho davanti.
Continua pure.»
Otabek
non sapeva se sentirsi offeso o
meno da quel commento, ma decise di ignorarlo. «Mi trovo bene
con lei, mi piace
parlarle, perché non devo stare troppo attento a
ciò che dico… e mi piace ascoltare
quello che ha da dire, soprattutto.» Si guardò le
mani e si ricordò delle prime
volte che aveva visto Yuri. «È un po’
scontrosa, a volte. Però è… non so,
non
ho mai conosciuto nessuno come lei, non sembra nemmeno appartenere a
questo
mondo.» si trovò a sorridere, senza neanche
accorgersene.
Mila
gli passò un braccio attorno al
busto, poggiandogli la testa sulla spalla. «Il mio Beks si
è innamorato!»
esclamò lei, ignara dell’effetto che avrebbero
avuto quelle parole su Otabek.
Lui
la guardò mentre cercava di
processare quell’ultima frase. «Cosa?»
perché non poteva essere, doveva aver
capito male per forza.
Mila
alzò gli occhi al cielo e gli
strinse il braccio. «Innamorato, Beks. Amore.
“È bella, non ho mai conosciuto
nessuno come lei, mi trovo bene con lei e mi piace
ascoltarla” e dovresti
vedere la tua faccia.» sospirò lei prima di
sorridergli. «È una cosa
bellissima, Otabek. Perché non volevi dirmelo?»
Otabek
scosse la testa. «Io non credo
che… sia amore.» Non poteva assolutamente essere
amore, affetto sì, amicizia
senza dubbio, ma amore? L’amore era qualcosa di molto
più profondo e
soprattutto era qualcosa che un uomo provava verso una donna.
«Io
credo di sì, invece. In realtà non
c’è
nemmeno bisogno di guardati per capirlo, basta sentirti parlare. Si
sente che
tieni molto a lei e ti piace stare con lei, vero?» Mila
parlò a voce bassa e in
tono dolce, mostrando di nuovo tutta quella gentilezza ed empatia di
cui era
capace.
Otabek
ne era intimorito, proprio perché
sapeva quanto Mila fosse brava a leggere le persone, quasi come se
riuscisse a
percepire le loro emozioni e per questo sapeva anche di poter far finta
che lei
non gli avesse detto nulla. Mila aveva ragione: Otabek teneva a Yuri,
anche
troppo, e gli piaceva stare con lui.
Sospirò
e annuì, scacciando via la lieve
sensazione di panico che gli faceva pizzicare la nuca, e cercando di
aprirsi alla
possibilità che ciò che provava per Yuri si
trattasse realmente di amore.
Mila
gli sorrise e continuò. «E ti piace
lei. Ti piace il suo aspetto, giusto?» ancora una volta,
Otabek si ricordò del sorriso
di Yuri, o del modo in cui teneva il pugnale alzato di fronte al viso,
mentre
scattava di lato per provare un affondo e non riuscì proprio
a frenare la
propria reazione, quando il cuore gli accelerò e lo stomaco
gli si strinse al
solo pensiero. E nonostante tutto, tentò ancora di creare
una scusa. «Mila, ma
mi piace stare anche con te, e mi pare di averti detto mille volte che
ti trovo
bella.»
La
sua amica fece del suo meglio per non
alzare nuovamente gli occhi al cielo e borbottò tra
sé e sé. «Perché ci provo
ancora?» prima di portare quella conversazione su un altro
livello. «Lo so che
tieni a me, Beks. Ma non è la stessa cosa, ecco
perché ti voglio fare un’altra
domanda.»
«Quindi?»
Incalzò lui, a quel punto
impaziente di sentire cosa stesse passando per la testa rossa di Mila.
Il
sorriso furbo che si aprì sul suo
volto quasi lo spaventò. «Ti è mai
venuta voglia di baciarla? E non intendo un
bacio stupido come quello che hai dato a me quando ci siamo conosciuti,
intendo
un bacio di quelli seri, quelli belli.» e dopo quelle parole,
Otabek era certo
di essere diventato scarlatto.
Fece
una smorfia, borbottando senza
neanche provare a nascondere l’imbarazzo. «Ma che
razza di domanda è?» Il suo
volto doveva essere uno spettacolo ridicolo, a giudicare
dall’espressione di
Mila, ma lei sorrise ancora più ampiamente.
«Rispondi.»
Otabek
si prese del tempo prima di
risponderle. A dire la verità non aveva mai provato il
desiderio di baciare
Yuri, o meglio – anche se era difficile ammetterlo persino a
se stesso – si era
vietato di provarlo, però quella mattina si era soffermato
ad osservargli le
labbra; di nuovo, sentì qualcosa smuoversi nel suo stomaco e
forse, se non se
ne fosse andato di fretta e furia, forse avrebbe voluto baciarlo.
«Non
lo so. Forse.»
«Devi
incontrarla domani?» gli chiese
Mila. Otabek scrollò le spalle, rispondendo con un fievole
“sì” e Mila si
illuminò. Si alzò in piedi e batté le
mani. «Allora cerca di capirlo, e se sarà
così – si posò una mano sulle labbra,
come se gli stesse svelando un segreto –
cosa che credo, promettimi che le dirai tutto!» gli fece
l’occhiolino.
«Ci
proverò.» fu la sua mezza promessa, confuso
com’era sul come avrebbe mai potuto dire una cosa del genere
a Yuri senza
spaventarlo o allontanarlo per sempre.
«Va
bene, però promettimi anche un’altra
cosa.» l’espressione di Mila si fece triste e lei
mise su un broncio; Otabek
non era sicuro di voler sapere cosa stesse per dirgli.
«Promettimi
che non mi lascerai mai più
sola per una settimana intera! Brutto idiota,
pensavo di aver fatto qualcosa
di male!» sbottò.
Otabek
sentì un grosso peso scivolargli via del petto,
perché non avrebbe mai voluto
ferire Mila, allungò un braccio verso di lei facendole cenno
di avvicinarsi e
abbracciandola quando fu a portata di braccia. «Adesso fai il
carino? Non
funziona così, mio caro!» strillò lei,
ma stava ridendo. Otabek sorrise con
lei, perché alla fine Mila sarebbe stata sempre sua amica, e
forse un giorno
avrebbe potuto davvero parlarle anche di Yuri.
Traduzione:
O
větrě, větrilo! Čemu, gospodine, nasilĭno věẹši? Čemu
myčeši
chinovĭskyya strělky na svoẹyu netrudnoyu krilcyu na moẹja lady voi?
O
vento, venticello! Perché, signore, soffi nemico?
Perché porti
le frecce unne sulla tua ala leggera contro i guerrieri del mio sposo?
Note
finali:
Holaa~
Questo
capitolo è stato un parto! L’ho modificato fino ad
un momento prima di
pubblicarlo e non ne sono ancora del tutto convinta T_T
Precisazioni
(come al solito): sebbene io non abbia scelto una data precisa per lo
svolgimento dei fatti, nella mia testa il tutto si svolge nel 1200
circa, in
una zona nella parte sud dei monti Urali, quasi sull’attuale
confine tra Russia
e Kazakistan. In quel periodo, lì ci stavano i Bulgari, e
per gentile
concessione della mia beta, ho scoperto che utilizzavano il cirillico
come
lingua corrente (essendosi fusi con le varie popolazioni slave
preesistenti) e
che qualche anno dopo sono stati dominati dai Bizantini.
A
tal proposito, il poema citato “Cantare delle Gesta di
Igor” (titolo originale:
Slovo
o Pŭlku Igorevě) esiste realmente, ed
è stato scritto da un
autore anonimo nel XII secolo ed è l’unico dannatissimo testo di
letteratura slava antica che sono riuscita a trovare su internet! Ho
quasi
pianto di gioia quando ho scoperto che si incastrava bene con lo
spazio-tempo
della storia!
Se
vi interessa saperne di più, vi lascio il link al sito qui!
L’errore
che fa Otabek quando legge è uno degli errori che facevo io
quando ho iniziato
ad imparare l’alfabeto cirillico, ossia confondere la lettera
yu (Ю che,
per correttezza, andrebbe translitterata come ju) e
la lettera effe (Ф
e lo so che è praticamente una “fi”
greca, ma il mio cervello deformato da
cinque anni di scientifico ci vede solo il flusso di campo elettrico e
magnetico, sorry)
Ovviamente
i nomi della famiglia di Otabek sono tutti inventati, ed in particolare
il nome
Rami è stato scelto perché io nutro un amore
profondo verso l’attore Rami Malek
(qui),
che è una persona adorabile e bellissima.
Passando
ad altro: questo capitolo è stato un parto, sì,
ma ha anche dei momenti che ho
adorato scrivere, come ad esempio Yuri che insegna ad Otabek come si
legge. È
qualcosa che volevo assolutamente inserire, perché mi piace
che entrambi si
aiutino a vicenda in questo rapporto, tirando fuori il meglio
l’uno dell’altro
:)
Detto
ciò, grazie a chiunque abbia letto e spero che vorrete
lasciarmi un parere,
anche critico, li apprezzo tutti!
Come
sempre, un grazie va alla mia beta, che ormai conoscete tutti, e a Silvar
tales e Kiarana che hanno recensito lo
scorso capitolo! Grazie anche
a chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite!
Comunicazione:
sono sotto esami! Devo dare una materia tra meno di quindici giorni,
quindi l’aggiornamento
della prossima settimana salterà, perché non
riuscirò a sistemare il capitolo,
purtroppo *sigh*
Quindi
alla prossima!
LysL
|
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
[6400
parole]
La
mattina successiva alla chiacchierata
con Mila, Otabek avrebbe voluto permettersi di indugiare un
po’ di più a letto,
poiché era domenica, ma Feliks aveva cominciato a bussare
alla porta della sua
stanza appena dopo l’alba e l’aveva messo a lavoro
di buon’ora perché erano in
ritardo su una consegna. Sebbene stesse pregustando quel riposto da
tutta la
settimana, Otabek non se la prese; eseguì tutto
ciò che Feliks gli diceva di
fare, erano compiti molto meccanici e gli permettevano di distrarre la
mente da
tutto ciò che vi turbinava dalla sera prima. Dopo la
conversazione con Mila, la
sua impazienza di vedere Yuri era cresciuta nell’arco di una
sola notte. S’era
svegliato con l’intenzione di andare da lui dopo aver
rassettato la propria
stanza, come gli chiedeva sempre di fare Magda, la moglie di Feliks e
la
richiesta dell’uomo aveva solo posticipato quel momento,
rendendolo ancora più
impaziente, tanto che Otabek si fermò giusto per trangugiare
il proprio pranzo,
prima di fiondarsi nella stalla e sellare Astra.
Sentiva
la pelle solleticare, in tutto
il corpo, e un lieve calore che gli riempiva lo stomaco, un calore che
Otabek
riconobbe come aspettativa e adesso, con la promessa di non raccontarsi
più
stupide bugie solo perché più comode, vi
riconosceva anche la paura.
Non
riusciva a liberarsi quel lieve,
strisciante panico che gli faceva formicolare la nuca e le braccia,
mandandogli
brividi lungo la schiena. Era il timore di scoprire che le parole di
Mila erano
vere, che s’era veramente innamorato di un uomo, per quanto
diverso da
qualunque altro uomo avesse mai conosciuto. Sapeva cosa si pensava di
quel tipo
di relazioni, sapeva che nessuno si sarebbe mai augurato qualcosa del
genere,
eppure sapeva anche che era successo e continuava a succedere. Al suo
villaggio, per esempio, tutti sapevano che i due uomini di mezza
età che
vivevano proprio ai piedi della montagna erano ben lontani
dall’essere solo
amici, almeno stando a ciò che gli era sempre stato detto.
Però Otabek si
ricordava che sua madre aveva semplicemente storto il naso alla vecchia
donna
che raccontava quella storia e che rideva di tanto in tanto invocando
Dio, che
potesse salvarli tutti. Eppure mai una parola di condanna o
disgusto era
uscita dalla bocca di sua madre, anche se di sicuro non nascondeva il
suo non
essere d’accordo.
Quel
pensiero lo rassicurava, nonostante
non fosse il suo unico timore. C’era anche un’altra
cosa, forse ancora più
spaventosa della prima: anche se fosse stato realmente innamorato di
Yuri,
nella parte razionale della sua mentre era consapevole di non potersi
aspettare
che Yuri lo ricambiasse e il solo pensarci gli faceva stringere
spiacevolmente
il petto.
Fu
solo quando Astra nitrì il proprio
disappunto alla sua distrazione, che Otabek riprese coscienza del
presente e
degli alberi che scorrevano accanto a lui. Sospirò, e
spronò la propria
cavalcatura a passo più rapido, in modo da potersi liberare
di tutti quei dubbi
il prima possibile.
Il
viaggio gli sembrò più lungo del
solito, ma di sicuro era solo un’impressione dettata
dall’impazienza e quando
finalmente arrivò alla radura scese da Astra più
veloce che poté, lanciando la
spada per terra e camminando veloce verso la foresta. Non ebbe neanche
bisogno
di chiamare quella volta, perché Yuri era appena dietro la
prima linea di
alberi e gli stava già sorridendo. Si fece largo tra gli
arbusti e le fronde,
talmente fitte che Otabek continuava a non spiegarsi come non fosse
pieno di
tagli e con i vestiti strappati in più punti, prima di
uscire allo scoperto.
«Sei
tornato di nuovo.» disse, e lo fece
semplicemente perché ormai era diventato una specie di rito.
Se durante le
prime volte il tono era annoiato e insofferente, adesso era diventato
gioviale
e quasi affettuoso. Otabek si chiedeva se fosse davvero così
sorpreso di
vederlo tornare, ogni volta, anche dopo aver capito
che non si sarebbe
liberato di lui tanto facilmente.
«Te
l’avevo detto.» alzò un angolo nella
bocca, rispondendo a bassa voce. Si erano avvicinati e Otabek si perse
ad
osservare i lineamenti sottili del suo viso, con quella che doveva
essere
l’espressione più stupida di sempre stampata in
faccia, se le parole di Mila
erano state veritiere (ed era piuttosto sicuro che lo fossero); prese
un
profondo sospiro e tossicchiò, distogliendo lo sguardo da
Yuri. Doveva stare
calmo, non doveva farsi sopraffare in quel modo, doveva capire cosa gli
stesse
succedendo e doveva farlo quel pomeriggio, prima che la situazione si
complicasse ancora.
Yuri
lo stava guardando stranito, con
quei suoi occhi verdi e all’apparenza tanto freddi, eppure
tutto ciò che Otabek
provava era calore, diffuso in tutto il corpo, più
concentrato sulle guance e
nello stomaco, che gli si contraeva gradevolmente tutte volte che
incrociava le
iridi dell’altro.
Poi
Yuri mosse velocemente il polso a
mezz’aria, lasciando scattare e dita indietro, e sul suo
palmo di
materializzarono le pergamene che utilizzavano per studiare. Otabek
seguì quel
movimento con occhi incantati; vedergli compiere magie era ancora
qualcosa che
lo destabilizzava, lo affascinava oltre ogni dire e gli dava piena idea
di chi
fosse realmente il ragazzo che gli stava di fronte. Era già
successo altre
volte, ad esempio quando Yuri, con il palmo aperto contro la sua
schiena, lo
aveva aiutato ad asciugarsi dalla neve che si scioglieva sotto i suoi
vestiti,
lasciando solo una tiepida sensazione preceduta da uno strano
intorpidimento,
ma Otabek sapeva che non avrebbe mai smesso di meravigliarsi di fronte
a quei
piccoli miracoli che Yuri sapeva compiere. Scosse la testa piano e fece
un
sorrisetto.
Yuri
lo ricambiò e il cuore di Otabek
decise di stringersi e pulsare più forte; Otabek voleva
alzare una mano,
accarezzargli il volto, sentire sotto le dita quel sottile sorriso e il
modo in
cui gli mutava i lineamenti e per la prima volta fu consapevole di quel
pensiero, inspirò e strinse i propri pantaloni, per
impedirsi di farlo.
Nuovamente,
fu Yuri a spezzare tutta
quella tensione che Otabek sentiva accumularsi ogni secondo di
più.
Prese
le pergamene del Cantare delle
gesta di Igor e le aprì, cercando il punto in cui
erano arrivati il giorno
prima, mentre borbottava. «Se oggi finiamo questo, puoi
provare a scrivere
qualcosa sotto dettatura, domani, che ne dici?»
alzò un occhio su Otabek, in
attesa di risposta.
Otabek
si affrettò ad annuire. «S-sì,
certo.» lo sguardo di Yuri si assottigliò, ma lui
non disse niente, almeno fino
a quando non trovò il segno; a quel punto produsse un verso
soddisfatto e si
avviò sotto il loro solito albero, crollando a terra con
molta poca grazia e
schiacciando la neve sotto di sé con uno scricchiolio.
Otabek
lo seguì poco dopo; fu il
pomeriggio più pesante che riuscisse a ricordare, mentre
cercava di non
sbagliare le lettere e scrutava il viso di Yuri nel frattempo.
Ovviamente, la
sua distrazione non giovò assolutamente al compito che stava
tentando di
portare a termine, fino a quando Yuri, con uno sbuffo rumoroso, non
decise di
mettere fine a quello strazio.
«Non
sei concentrato.» gli fece presente
e Otabek si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo: come se
non lo sapesse
già da sé. Mugugnò qualcosa di
inintelligibile, prima di spostarsi le pergamene
dalle gambe incrociate e posarle di fronte a Yuri, che si
affrettò a
riprendersele, per evitare che si bagnassero.
«Scusa.» bofonchiò Otabek.
Yuri
schioccò la lingua. «No, lascia
perdere, riproviamo domani, per adesso è inutile
continuare.» Non sembrava
arrabbiato, né infastidito, notò Otabek, mentre
Yuri faceva scomparire
nuovamente le pergamene. Pareva semplicemente confuso, come spesso
accadeva
quando Otabek faceva qualcosa che lui non aveva previsto, solo che in
quei casi
chiedeva sempre ad Otabek il perché delle sue azioni, mentre
quella volta
rimase in silenzio e si alzò, calciando un po’ di
neve. Camminò un po’ in
tondo, mormorando parole che Otabek non colse, fino a quando non si
voltò
nuovamente a fronteggiarlo, le braccia incrociate al petto.
Otabek
si sentì mancare il respiro
quando gli occhi determinati di Yuri si piantarono nei suoi; erano
passati
mesi, e ancora non riusciva ad abituarsi al modo in cui
l’altro lo guardava,
alle sue iridi verdi e quasi velate d’azzurro, sapeva
già che non vi si sarebbe
abituato mai.
«Voglio
fare qualcos’altro.» sbottò
allora Yuri e Otabek alzò un sopracciglio in una muta
domanda.
Yuri
si guardò intorno, prima di
individuare Astra che brucava tra la neve in cerca della tenera erbetta
appena
spuntata «Posso cavalcare Astra?» gli chiese.
Otabek fissò prima Yuri, poi
Astra, poi di nuovo Yuri, il quale nel mentre aveva assunto
un’espressione un
po’ scocciata.
«Se
non vuoi, puoi semplicemente
dirmelo, invece di fissarmi come un idiota.» lo
apostrofò, acido, e il suo
comportamento strappò una risata ad Otabek. Si
alzò in piedi, richiamando Astra
con un fischio.
Lei
gli si avvicinò trottando piano. «Certo
che puoi cavalcarla.» gli disse allora. Astra gli diede un
colpo col muso sulla
spalla, per attirare la sua attenzione e lui le accarezzò il
collo. «Vero,
bellezza? Ti lascerai cavalcare da Yuri, sì?»
Astra nitrì sotto quelle carezze.
«Brava, bella.» le diede due lievi colpetti sul
fianco, così da farla
posizionare in modo che Yuri potesse salirle in groppa.
Lui
si avvicinò. Le sue mani bianche si
alzarono a sfiorare la criniera di Astra, passando le dita tra i fili
neri. La
cavalla scosse la testa, in quello che Otabek sapeva essere un segno di
soddisfazione, ma Yuri ritirò il braccio con uno scatto e
gli lanciò uno sguardo
scettico.
«Devi
rilassarti, se sei teso lei lo
sente. È più intelligente di quanto
credi.» gli spiegò. Gli prese delicatamente
il polso e, portandolo di nuovo a contatto con il collo di Astra,
aprì la mano
su quella di Yuri. «Piano, così.» le
dita di Yuri si mossero con più sicurezza
contro la criniera. Nel mentre, Otabek era certo che il suo cuore
stesse
esaurendo tutta l’energia che aveva in corpo, a giudicare
dalla velocità con
cui batteva.
«Adesso
puoi salire.» gli disse. Guidò
la sua mano sinistra al corno e gli indicò di mettere la
destra sull’arcione,
in modo da poter far leva una volta messo il piede nella staffa. Yuri
seguì le
sue istruzioni, voltandosi a guardarlo appena un momento prima di
issarsi. «Non
mi disarciona, vero?» la sua voce parvi di nuovo insicura, e
Otabek ghignò alla
sua espressione preoccupata. «Solo se la
infastidisci.»
«Sta’
zitto.» borbottò Yuri, fece leva
sul piede già assicurato alla staffa e si tirò
su, sedendosi scomposto sulla
sella. Astra scalpitò all’improvviso peso,
distribuito in modo diverso da
quello a cui era abituata.
Yuri
teneva le gambe troppo allargate e
la schiena troppo morbida: qualsiasi movimento un po’
più brusco l’avrebbe
fatto finire per terra. Otabek scosse la testa, tirando le redini per
calmare
la propria cavalcatura e le sussurrò di stare buone, prima
di rivolgersi al
ragazzo. «No, no, Yuri, rilassati.» gli
posò una mano sul polpaccio, facendola
risalire lungo la sua coscia, in modo che aderisse al ventre di Astra.
«Devi
fidarti di lei, appoggiati meglio e tieni la schiena dritta.»
si accorse dopo
di come le sue dita si fossero strette sulla gamba di Yuri e la
lasciò andare
di scatto; se Yuri l’aveva notato non lo diede a vedere, ma
continuò a tenere
le redini come se ne andasse della sua vita e fece come gli era stato
detto.
Yuri inspirò ed espirò, mentre un sorrisetto gli
si apriva sul volto e lui
portava una mano ad accarezzare la testa di Astra. Il manto scuro della
cavalla
contrastava intensamente con la pelle diafana di Yuri e Yuri stesso
sembrava
uno di quei cavalieri che sfilavano al paese, senza neanche rendersene
conto,
fiero ed in groppa ad una bellissima cavalcatura; non indossava
un’armatura,
non aveva una spada che gli pendeva al fianco ed era mille volte
più elegante
di un qualsiasi cavaliere, eppure il suo sguardo, il suo portamento, il
modo in
cui era determinato a farcela erano in tutto e per tutto quelli di un
soldato.
Colpì piano il fianco di Astra con il tacco dello stivale e
lei mosse un passo
in avanti e poi un altro. Otabek li osservava incantato,
perché era sicuro che
non avrebbe mai più visto un’immagine tanto
perfetta. Il sole morente del
pomeriggio colpiva i capelli intrecciati di Yuri creando un eccezionale
gioco
di luci sulle ciocche bionde: Mila avrebbe venduto l’anima
per poter disegnare
qualcosa del genere, ma in cuor suo Otabek si sentiva fortunato
d’essere
l’unico a poter godere di quella vista.
Yuri
continuava a girare in tondo,
felice che Astra non lo stesse disarcionando e non desse segni di
fastidio,
finché non si ritrovò davanti ad Otabek. Si
spostò in avanti sulla sella. «Ti
fidi di me, Otabek?» domandò. I suoi occhi
ardevano e Otabek non aveva nessuno
scusa per dirgli di no, tuttavia non voleva dargli l’idea di
essere totalmente
nelle sue mani, anche se era ben consapevole che fosse esattamente
così.
«Dipende.»
Yuri
alzò gli occhi al cielo, con un
sorrisetto sghembo. «Voglio mostrarti una cosa, ma devi
fidarti di me.» gli porse
una mano, un chiaro invito a salire a cavallo con lui.
Otabek
assottigliò lo sguardo mentre la
voglia di scoprire cosa avesse in mente Yuri si faceva sentire,
prepotente e,
senza credere a ciò che stava per fare, Otabek
afferrò la sua mano, gelida come
sempre, issandosi dietro di lui. Inspirò profondamente e
cercò di non
concentrarsi su quanto fossero fisicamente vicini, più di
quanto lo fossero mai
stati, con la schiena di Yuri premuta contro il petto e le gambe che
strofinavano insieme ad ogni movimento di Astra.
Yuri
si voltò a guardarlo e se Otabek
avrebbe potuto ignorare la sua vicinanza, non poteva però
ignorare i loro nasi
che quasi si toccavano. Trattenne il fiato e si riscosse solo quando
Yuri gli
chiese di prendere le redini. Gli passò le braccia attorno
al busto, mentre
quelle di Yuri si andarono a posizionare in avanti, le mani sul corno.
«Entra
nel bosco.» gli disse, in un soffio che si spense sulle
labbra di Otabek.
Per
un attimo, Otabek credette di aver
capito male, poi il respiro gli si bloccò nella gola,
fuoriuscendo in un
singulto strozzato, mentre stringeva la presa sulle redini. Il suo
corpo prese
a tremare, ogni nervo si infiammò e ogni muscolo si
contrasse al ricordo della
paura che aveva provato nel fitto di quella foresta. Un goccia di
sudore freddo
gli colò lungo la tempia, e Yuri se ne accorse
perché la seguì con lo sguardo.
«Non
devi avere paura.» mormorò lui, ma
non si mosse. «Sei con me.»
«Yuri,
per favore, non farmi tornare lì
dentro…» Otabek percepì il terrore, mai
dimenticato, prendere possesso delle
proprie membra e l’unica cosa che lo tratteneva
dall’indirizzare Astra lontano
da quel posto erano solo gli occhi di Yuri. La sua mano fredda corse a
stringergli un braccio. «Fidati di me.»
ripeté; la sua voce era calma, sicura
e, Otabek avrebbe potuto giurarci, sincera. Yuri non voleva fargli del
male,
Yuri non voleva abbandonarlo nel bosco, né voleva guidarlo
dalla Regina. Prese
un paio di profondi sospiri, che uscirono tremanti dalla sue labbra
dischiuse.
Senza pensarci, si fece più vicino a Yuri e adesso era
sicuro che l’altro potesse
sentire il suo cuore martellare dentro la sua cassa toracica, ancora in
preda
al panico.
«Beka?»
Quell’unica
parola gli fece scattare la
testa verso l’alto, incrociando di nuovo gli occhi di Yuri.
Era evidente che
neanche l’altro fosse sicuro di cosa aveva appena detto, ma
Yuri era impulsivo,
probabilmente aveva pensato a quel soprannome e l’aveva
semplicemente usato,
senza rifletterci più di tanto.
La
presa di Yuri sul suo braccio si
strinse e lui cercò di muoversi sulla sella per poterlo
guardare. «Non so come
provarti che non farò niente, quindi devi solo fidarti di
me, per una volta. E
ho bisogno che tu guidi Astra, perché io non so
farlo.» sembrava quasi ferito
dalla mancanza di fiducia di Otabek nei suoi confronti e Otabek non
poteva far
nulla in proposito, non perché non si fidasse, ma
perché la consapevolezza di
essersi perso, la paura di stare per morire e la perdita di ogni
speranza
avevano lasciato un solco troppo profondo.
Però
Yuri era lì con lui, e lui non
aveva paura di Yuri, non poteva aver paura di Yuri,
non se lui gli
stringeva il braccio e non se lo fissava negli occhi in quel modo.
Abbassò
le palpebre, così da non dover
vedere l’esatto momento in cui si sarebbe lasciato la radura
alle spalle.
«Guidami.» gli disse e percepì il modo
in cui la schiena di Yuri si distese,
appoggiandosi al suo petto.
La
voce di Yuri risuonava chiara, mentre
si inoltravano nella fitta boscaglia, ma Otabek non sentiva Astra
lamentarsi,
come se il suolo non fosse ricoperto da arbusti secchi e graffianti.
Per un
attimo gli parve che Yuri avesse poggiato la testa sulla sua spalla, ma
la
sensazione scomparve dopo pochi secondi.
Cavalcare
ad occhi chiusi era una delle
cose più strane che avesse mai fatto: nonostante
l’adesso sottile paura di cui
ancora non era riuscito a liberarsi, la vicinanza di Yuri e la calma di
Astra
avevano avuto l’effetto di rilassarlo e Otabek stesso aveva
preferito
concentrarsi sui suoni che lo circondavano. Non c’erano urla,
non c’erano
fruscii sinistri e il vento non faceva stormire le foglie in mille
sussurri
inaudibili, gli zoccoli di Astra affondavano nella neve e la
schiacciavano
scricchiolando, ma non c’era niente di strano, niente di
pauroso. Si permise di
sospirare, e sentì Yuri ridacchiare. «Siamo quasi
arrivati, falla girare verso
sinistra.» Otabek non vedeva dove fossero, ma
sentì un rumore diverso, come se
Astra stesse camminando su erba morbida e non sulla neve. La cavalla
nitrì
piano accelerando il passo fino a che Yuri non gli chiese di fermarla.
Otabek
tirò le redini e le lasciò andare, senza
però spostare le proprie braccia da
attorno a Yuri.
«Adesso
puoi aprire gli occhi.» gli
mormorò, poi gli sollevò un braccio per poter
scendere. Anche quella volta,
Otabek si aspettava lo stridio della neve sotto la suola degli stivali,
ma non
venne mai e l’atterraggio di Yuri venne attutito dal terreno.
Anche
l’odore era diverso, più dolce e
umido e Otabek poteva giurare di riuscire a sentire il rumore di acqua
che
scorreva lì vicino. Aprì gli occhi, gradualmente,
e lo spettacolo che gli si
aprì di fronte gli spezzò il fiato.
Si
trovava in un prato circondato da
alti alberi i cui tronchi erano coperti di muschio verde e soffice. La
luce del
giorno non era ancora del tutto scomparsa e il cielo era un colore
azzurro
cupo, dove solo poche stelle facevano già capolino.
Il
prato era coperto di fiori, ce
n’erano di blu e violetti, come anche di bianchi e gialli, e
gli sembrarono
così fuori posto quando voltò la testa a
guardarsi indietro e si accorse della
neve a sole poche iarde da dove si trovava lui. Girando su se stesso,
si
accorse anche che il rumore che aveva sentito non era altro che un
piccolo
ruscello. Scorreva costeggiando una parete di roccia e si riversava in
una
piccola pozza d’acqua limpida e con il fondo di ciottoli.
Otabek
si accovacciò per terra, le dita
tremanti che sfioravano l’erba, mentre le narici gli si
riempivano dell’odore
di quel posto, riconoscendovi la nota dolce che aveva sentito in Yuri.
Alzò gli
occhi verso Yuri e scoprì che lo stava guardando,
l’ombra di un sorriso sul
volto.
«Cos’è
questo posto?» gli chiese, senza
smettere di passare le mani tra l’erba e fiori. Non riusciva
a crede di star
vedendo davvero una cosa simile. Sentiva anche caldo, tutto
d’un tratto e si
accorse che la temperatura era in tutto e per tutto uguale a quella
primaverile,
quasi estiva; si tolse il mantello e la giacca mentre si tirava in
piedi.
Yuri
fece lo stesso, lasciando cadere la
sua lunga veste per terra e scoprendo una semplice camicia bianca che
gli
lasciava scoperto il petto. Otabek ebbe appena in tempo di notare le
linee
chiare dei muscoli, prima di sentirsi arrossire mentre qualcosa gli si
muoveva
nello stomaco e scivolava verso il basso. Distolse lo sguardo,
imbarazzato da
quella reazione. Forse era questo a cui si riferiva Mila quando aveva
parlato
dell’aver qualcosa da dire sul suo corpo.
Yuri
sorrise e stirò le braccia verso
l’alto. «È il posto dove vivo. Si trova
proprio al centro del bosco e nessuno
può raggiungerlo tranne me…»
fissò Otabek. «Me, e chi reputo degno di
conoscerlo.»
Otabek
scelse di ignorare le parole di Yuri
e il significato che potevano avere, concentrandosi invece
sull’altro, che
aveva preso a camminare verso il ruscello; era visibilmente
più rilassato di
come era al di fuori della foresta, e per la prima volta Otabek
comprese quanto
profondo fosse il legame che condivideva con ogni singolo filo
d’erba ed ogni
singolo albero; lo vide nel modo in cui i suoi piedi si poggiavano
sulla terra
o nel modo in cui le sue mani sfioravano la roccia e le cortecce, con
reverenza, con amore. Yuri sembrava pieno d’amore in quel
momento, un amore
incondizionato e leggero, non di quegli amori soffocanti che troppo
spesso
aveva visto fuori, al paese e al villaggio.
Si
sedette sul bordo del laghetto e gli
fece cenno di avvicinarsi. Otabek lo osservò mentre si
sfilava gli stivali e
immergeva i piedi nell’acqua trasparente, schizzò
un po’ in giro, come un
bambino che saltava dentro una pozzanghera e chiuse gli occhi,
lasciando che
l’acqua si facesse di nuovo calma attorno a lui.
Otabek
gli si rannicchiò accanto e
allungò una mano per sentirne la temperatura; si
stupì di trovarla tiepida e
ancor più si stupì quando uno spruzzo gli
arrivò sul volto. Yuri lo guardò con
un sopracciglio alzato. «Questo è
perché non ti fidi di me, idiota.»
Otabek
aprì la bocca per ribattere, ma
la richiuse in un ghigno. «Pensavo avessimo smesso con gli
insulti.»
«Non
è un insulto, è un dato di fatto.»
Dopo
quelle parole, Yuri non poté
proprio lamentarsi quando anche il suo viso venne spruzzato.
Lasciò andare
un’esclamazione stupita e procedette a schizzarlo di nuovo.
Otabek ridacchiò,
mentre sentiva le goccioline solleticargli il collo ed intrufolarsi
sotto la
sua maglia. Mise la mano a coppa per raccogliere più acqua e
la indirizzò
proprio verso Yuri, che si scostò all’ultimo
momento, senza però riuscire ad
evitare di bagnarsi il capelli. Otabek ebbe la sensazione che
l’avesse fatto
apposta: Yuri era scattante ed era praticamente impossibile coglierlo
di
sorpresa.
Yuri
si asciugò il viso con la manica
della camicia anche se alcune ciocche di capelli gli rimasero incollate
alle
tempie, l’acqua che colava in piccole gocce, segnandogli il
profilo della
mascella e scomparendo tra le clavicole.
Aveva
gli occhi socchiusi e un angolo
della bocca sollevato. Per la seconda volta, Otabek gli
guardò le labbra. Erano
piegate in un sorriso morbido, tutto il suo viso era rilassato, la
pelle bianca
che, come la prima sera che l’aveva visto, pareva brillare di
luce propria.
Se
lo aspettava, perché non era stupido
e aveva smesso di mentire a se stesso dalla chiacchierata con Mila,
eppure ciò
non gli impedì di rimanere senza fiato quando, per la prima
volta, per
la prima volta sentì la voglia, quasi imperativa, di baciare
Yuri. Voleva
sentire la morbidezza di quelle labbra sulle proprie, voleva
accarezzargli le
guance, sciogliergli tutte le trecce e passare le dita in mezzo ai suoi
capelli
biondi, voleva sentire il suo respiro sulle guance, sulla bocca, e non
perché
si trovavano a cavallo di Astra, ma perché volevano e basta.
«Beka,
perché mi guardi così?»
domandò
Yuri, e dovette accorgersi di quanto Otabek si fosse bloccato,
perché parlò
molto piano.
E
di nuovo quel soprannome che gli
strinse il petto, riempiendolo di un calore che nulla aveva a che fare
con la
temperatura del prato, perché nonostante Yuri fosse una
creatura non umana,
nonostante fosse freddo e spesso scostante, Otabek sentiva solo calore,
quando
stava con lui. Si sentiva bene, si sentiva libero,
libero di essere chi
volesse e come volesse, svincolato da ogni credenza che poteva aver
avuto fino
al loro incontro.
Yuri
non era cattivo, Yuri non era un
assassino spietato e non era crudele, e tutto quello che gli avevano
raccontato
era profondamente sbagliato.
Mentre
lo guardava, Otabek realizzò che
avrebbe potuto anche osservarlo per il resto dei suoi giorni e
continuare a
meravigliarsi di fronte ad ogni dettaglio del suo viso, del suo corpo,
della
sua voce, del suo profumo. Avrebbe potuto ascoltarlo per ore ed ore
senza mai
esserne stanco, avrebbe potuto semplicemente stargli vicino senza dire
niente e
ne sarebbe stato contento.
L’aveva
promesso a Mila, le aveva detto
che ci avrebbe quantomeno provato, e se fino a qualche secondo prima
aveva
potuto avere riserve, adesso non avrebbe potuto tirarsi indietro,
perché era
invigorente, era caldo ed era troppo. Troppo travolgente e troppo vero
per
poter continuare ad ignorarlo.
«Y-yura…»
cominciò, ma si bloccò subito
nel sentire il modo in cui aveva pronunciato il suo nome; Yuri tuttavia
non
fece niente, si limitò a guardarlo ed aspettare.
«Io
credo di essermi innamorato di t-»
Continuò, ma l’espressione che si dipinse sul
volto di Yuri lo frenò appena
prima che potesse pronunciare l’ultima vocale e la sua voce
si troncò
bruscamente.
Non
credeva fosse possibile, ma gli
occhi solitamente fieri e pieni di furore si erano trasformati in due
pozze
liquide. Verdi e cupe, sotto il cielo che si scuriva sempre di
più, lucide,
tristi e Otabek non sapeva cosa fare, perché riusciva solo a
percepire il caos
d’emozioni che turbinavano dentro di sé, come
fiocchi di neve agitati dal
vento, senza riuscire a distinguere le une dalle altre. Ed il proprio
cuore,
che batteva veloce, eppure ancora troppo lento, aritmico, come a
prendersi
gioco di lui.
«Otabek
no. Non puoi esserlo davvero.»
ringhiò Yuri, quasi fosse arrabbiato, e Otabek assistette
impotente alle
lacrime che gli inumidirono le ciglia, non troppe da scivolare sulle
sue
guance, ma abbastanza da essere visibili.
«Perché
no? Yuri, cosa succede?» mandò
al diavolo tutto, e con delicatezza gli prese il volto tra le mani.
«Cosa
succede?» Non capiva.
«Beka,
non puoi. Non puoi.» disse di
nuovo lui, la voce incrinata, prossima allo spezzarsi.
«Yura
non dipende da me. Perché non
posso?» Non capiva.
Yuri
gli afferrò i polsi e li strinse
forte, tanto che Otabek sentì il sangue pulsare nelle vene a
contatto con le
sue dita gelide. «Perché io
non posso.»
Otabek
ebbe appena il tempo di recepire
quelle parole, prima che tutto si fermasse.
Erano
vicini, occhi fissi gli uni negli
altri, le fronti quasi a contatto, eppure Otabek si sentiva miglia e
miglia
lontano da Yuri. «Cosa significa che non puoi?»
Yuri
sospirò e fece per liberarsi dalla
sua presa, ma Otabek non aveva intenzione di lasciarglielo fare,
nonostante
sapesse che se Yuri avesse voluto davvero divincolarsi, allora lui non
avrebbe
potuto far niente per evitarlo. Si limitò a lasciar
scivolare le mani più verso
i suoi capelli e la nuca, i pollici che gli strofinavano le tempie.
«Io
non posso amare, Otabek. Non ci
riuscirei, neanche se volessi.» gli rivelò infine,
con voce distrutta,
abbassando lo sguardo.
Ma
Otabek non capiva, non riusciva a
comprendere cosa volesse dire che Yuri non poteva amare, come fosse
possibile,
quando fino a pochi minuti prima sembrava aver così tanto
amore da donare. «Io…
non capisco, Yuri.»
Yuri
inclinò la testa, quasi
appoggiandosi al suo tocco, ma quando parlò il suo tono era
diventato di nuovo
freddo. «Quando ho accettato questo compito, quello di
salvaguardare la
foresta, la Regina mi ha fatto giurare che avrei votato la mia vita a
quello e
solo quello. Tutti hanno paura della Regina perché
portatrice di freddo e
morte, ma il suo potere più terribile è questo,
lei priva della capacità
di amare, in parte o del tutto. Per questo non posso, perché
non so cosa voglia
dire amare nel modo in cui voi umani vi amate l’un
l’altro. Posso provare un
labile affetto, posso provare gratitudine, ma non posso amare
come vuoi
amarmi tu.»
Otabek
utilizzò tutta la propria volontà
per non ribattere di nuovo, anche se non capiva come potesse esistere
una cosa
del genere, come si potesse vivere senza l’amore. Fu in quel
momento che si
ricordò delle parole di Yakov.
«Sembrava
che avessi perso la capacità
di amare… come se la mia anima fosse rimasta con
lei.»
Guardò
di nuovo il viso triste di Yuri e
non riuscì a frenarsi: passò le braccia attorno
alla sua figura e lo tirò verso
di sé. Lui ricambiò l’abbraccio e
Otabek sentì le sue dita aggrapparsi alla
stoffa della camicia. Yuri appoggiò la fronte contro la sua
spalla e sospirò.
«Mi
dispiace, Beka.» mormorò. Otabek non
disse niente, lo strinse solo più forte, sperando che la
sensazione di averlo
tra le braccia avesse la meglio sul pizzicore agli occhi che gli
impediva di
tenerli aperti. Respirava pesantemente, incapace di far
nient’altro che tenere
Yuri vicino a sé, aveva paura che lasciandolo andare lui
sparisse nel folto del
bosco, abbandonandolo lì.
«Io
mi ricordo com’era prima, lo so cosa
significa. Lo vedevo in molte persone, l’ho provato io stesso
e lo capivo,
però ho dovuto…» la frase si perse
nell’aria umida della radura, poi Yuri
inspirò e continuò.
«Ho
dato alla Regina il permesso di
prenderselo.» si scostò da Otabek, ma
portò entrambe le mani a stringere le
sue, i lineamenti mesti e gli occhi arrossati. Prese un altro profondo
respiro,
e Otabek seppe che stava per raccontargli cosa era accaduto.
«Mio
padre beveva molto, mia madre e mio
nonno erano gli unici a mandare avanti la nostra casa, assicurandosi
che non mi
mancasse mai niente. Poi mio nonno è morto e mia madre
pareva non aver voglia
di andare avanti, in alcun modo. Mio padre la picchiava. La picchiava
quando
non avevamo niente da mangiare, la picchiava quando ne avevamo poco, la
picchiava anche se era abbastanza e lei non reagiva, non reagiva mai,
diceva di
meritarlo.
L’inverno
era alle porte e c’era freddo,
perché nessuno dei due aveva pensato a spaccare la legna e
io ero troppo
piccolo per poterlo fare. Così, a undici anni, il giorno in
cui mio padre era
troppo ubriaco per accorgersene e mia madre troppo stanca per alzarsi
da letto
scappai via, e mi infilai nel bosco. Prima non era così. Era
molto più esteso,
ma nessuno lo proteggeva, quindi mi bastò andare sempre a
nord per trovare il
palazzo della Regina. Non so nemmeno perché mi
ascoltò, quella volta. Le chiesi
di aiutarmi, di aiutare la mia famiglia. Li amavo, prima.
Mi
seguì fino a casa, donandomi un
mantello più caldo e qualcosa da mangiare. Appena vide i
miei genitori mi
chiese se volessi davvero salvarli, le assicurai di sì.
Erano la mia famiglia.
“C’è un prezzo.” Mi disse e,
senza nemmeno sapere di cosa si trattasse,
acconsentii.
“Potrai
vivere con loro finché vuoi, ma
quando entrambi ti lasceranno solo, dovrai tornare da me e fare
ciò che ti
dirò.” Era questo il patto, e non mi parve una
pretesa troppo grande, dopotutto
io volevo solo vivere con la mia famiglia, non mi importava del dopo.
Lei
mi sorrise, ricordo e io mi convinsi
che tutto fosse ritornato al proprio posto. Non so ancora come abbia
fatto, ma
nell’arco di una notte mia madre era tornata quella di un
tempo e mio padre
smise di bere, sobrio come non lo vedevo da anni. Andava bene.
Per
qualche anno vivemmo proprio come
una famiglia, poi le cose peggiorarono di nuovo; mio padre
ricominciò a bere, a
picchiare mia madre, a volte anche me, fino a quando non ci giunse
notizia che
una notte, ubriaco, era andato a giocare d’azzardo alla
taverna del mio
villaggio e non era più tornato. Non so nemmeno se sia morto
quella notte o
dopo. Mi sentii male, perché non mi importava, era sempre
stato terribile con
me e mia madre e pensai che neanche la magia della Regina avesse potuto
avere
la meglio sulla sua indole marcia. Ma avevo ancora mia madre, e
bastava.
Qualche volta era più triste, pensavo si sentisse sola, non
mangiava e non
voleva alzarsi dal letto, però ormai avevo quasi sedici
anni, quindi potevo lavorare
e provvedere alla nostra vita. La accudivo, la lavavo quando non voleva
farlo
da sola, la imboccavo. Poi migliorava, faceva le faccende di casa,
cucinandomi
i miei piatti preferiti, ma non durava mai. Aveva delle crisi ed ero
sempre io
a dover evitare che si facesse del male. Andammo avanti così
per ancora qualche
anno, poi, pochi mesi prima del mio ventesimo compleanno, lei
morì. Si uccise.
Successe mentre io non ero a casa. tornai la sera tardi, solo per
trovarla in
una pozza di sangue con il coltello che usava per preparami da mangiare
piantato nello stomaco.
Non
so per quanto tempo rimasi per terra
a piangere, ma quando mi rialzai sapevo che c’era una sola
cosa da fare. Ero a
pezzi, avevo perso tutto quello per cui avevo lottato, avevo solo la
mia parola.
Quando
mi presentai alla Regina lei mi
disse che gli umani non meritano di essere amati come io amavo i miei
genitori,
e mi disse che era in grado di liberarmi da quel fardello. Ero
distrutto dal
dolore e mi parve l’unica cosa sensata, perché non
appena mi guardò negli
occhi, prendendosi quel pezzo della mia anima, il dolore scomparve,
rimpiazzato
da una calma fredda. Mi chiese di diventare guardiano di questo bosco,
in modo
che nessuno potesse più raggiungerla lì, nel suo
castello e io accettai, perché
le avevo dato la mia parola che sarei rimasto al suo fianco e quale
modo
migliore di farlo, se non quello di proteggerla? E da allora questo
è il
compito a cui devo dedicarmi.»
Quando
Yuri smise di parlare non aveva
ancora spostato gli occhi da quelli di Otabek, che lo guardava.
Provò a
parlare, a dire il suo nome, dirgli che gli dispiaceva, che se avesse
saputo
non l’avrebbe mai costretto a ricordare, ma il fiato gli
morì in gola: Yuri non
avrebbe voluto essere compatito, Yuri avrebbe voluto essere capito e
non
importava se ne fosse innamorato o meno, Otabek era prima di tutto suo
amico.
Yuri
non credeva che gli umani fossero
degni di essere amati, ma dopo aver ascoltato la sua storia per intero,
Otabek
aveva capito che lui per primo non credeva di meritare amore. Era stato
così
facile per lui rinunciare a quell’emozione perché
non sapeva nemmeno come ci si
sentisse ad amare ed essere amati in egual maniera.
Yuri
aveva così tanto amore da donare,
non si era sbagliato, ma non sapeva come fare e non per colpa della
Regina, o
almeno non del tutto. La colpa era stata della sua storia, della sua
famiglia,
ed era il motivo per cui adesso si trovava bloccato in quella
situazione.
A
Otabek si strinse il cuore e per
quanto anche in quel momento il suo desiderio più grande
fosse baciarlo e far
finta che fosse un semplice ragazzo, Otabek non poteva farlo, non era
giusto e
Yuri si meritava di meglio.
Gli
posò entrambe le mani sulle spalle,
con delicatezza. «Vuoi che me ne vada?» gli chiese,
perché non gli avrebbe
imposto la sua presenza, se Yuri avesse voluto rimanere da solo dopo
quello che
gli aveva raccontato. O se non avrebbe voluto più vederlo.
Lui
scosse la testa. «Non voglio che tu
te ne vada, ma se tu vuoi andartene non ti
tratterrò.» lo disse serio, senza
alcuna inflessione, proprio come aveva narrato la sua storia. Il suo
tono
monocorde metteva i brividi.
«Non
voglio andarmene, Yura. Non me ne
andrò fino a quando non mi dirai tu di farlo.» lo
rassicurò, anche se sentiva
il cuore spezzarsi ad ogni parola. Yuri era pronto a lasciarlo andare,
mettendo
da parte l’unica cosa simile ad un affetto che avesse provato
in tutti quegli
anni.
Otabek
non sapeva come ci si sentisse.
Provò ad immaginare una vita senza la sua famiglia, senza le
lettere scambiate
ogni settimana, senza sentire la loro mancanza, senza poter sentire la
risata di
Mila e poter apprezzare quel modo sottile che aveva di essere buona, o
senza
quello che provava per Yuri. Si sentì terribilmente vuoto,
come se
all’improvviso un’enorme voragine gli si fosse
aperta proprio al centro del
petto, il cuore che pareva stretto in una morsa.
«Allora
siamo bloccati qui.» scherzò
Yuri, ma ad Otabek non sfuggì il modo in cui i suoi occhi
s’erano fatti cupi.
Yuri abbassò il volto e gli lasciò andare una
mano, afferrando il bordo della
roccia su sui era seduto, ma tenne stretta l’altra e mosse i
piedi nell’acqua
tiepida.
«Yura?»
le sue dita tremarono. Lo
sciacquio si fece più lento mentre Yuri si voltava a
guardarlo. «Se potessi
scegliere, vorresti tornare ad amare?»
Lesse
la risposta nei suoi occhi ancor
prima che Yuri aprisse bocca. Volle quasi chiedergli di non rispondere,
ma a
che scopo? Sentirglielo dire non avrebbe cambiato il fatto che per
quanto avesse
voluto sperare il contrario, Otabek in cuor suo già lo
sapesse.
Yuri
storse le labbra, scuotendo la
testa. «No.» e lo disse con così tanta
sicurezza che Otabek, quella volta,
dovette lottare davvero per non lasciarsi travolgere da tutta quella
tristezza
che lo circondava. Annuì, facendogli capire che rispettava
la sua decisione,
pur non riuscendo a comprenderla.
Non
parlarono più, ma Yuri appoggiò il
capo sulla sua spalla, e ad Otabek andava bene così, per ora.
Il
ritorno fu lento; Otabek tenne gli
occhi aperti e capì perché quando erano arrivati
gli era parso che il suolo
fosse libero: era come se gli alberi e i cespugli secchi si spostassero
al loro
passaggio, lasciandoli avanzare come non avrebbero mai fatto se non ci
fosse
stato Yuri.
Quella
volta lui era seduto proprio
davanti al corno e Yuri si teneva al retro della sella,
senza che Otabek
avesse bisogno di essere guidato. Per una volta, Otabek era lieto che
Yuri non
possedesse alcun calore corporeo, perché era più
facile fingere che non lo
stesse toccando se non percepiva la sensazione bruciante del suo fiato
sul
collo o del suo petto contro la schiena. Lo guardò scendere
e alzare una mano
per salutarlo, prima di girarsi senza guardarlo e ritornare nel suo
prato senza
tempo e stagione.
Quella
notte, per la prima volta da
quando aveva iniziato a vedere Yuri, Otabek sognò di nuovo
la figura bianca.
Lui camminava veloce su una strada sterrata prima di arrivare ad una
casa dalla
porta aperta, ma una volta entratovi riusciva solo vedere un cadavere
in una
pozza di sangue e la figura bianca, schizzata di rosso, che piangeva
rannicchiata sulle assi di legno del pavimento.
Note
finali:
Salve
a tutti!!
Mi
scuso per il ritardo nel ritardo, ma la vita reale mi richiama, visto
che anche
dopo l’esame ho avuto da fare con
l’università e progetti vari, oltre ad essere
finalmente riuscita a recuperare un po’ di vita sociale
:’)
Bene
(o non bene), questo capitolo è stato uno strazio da
scrivere, perché l’angst
non è esattamente nelle mie corde eppure mi ostino
a scriverne yay, ma
mi ritengo abbastanza soddisfatta della riuscita, anche
perché durante la
revisione, ho aggiunto solo una scena nuova e non due o tre, come mi
succede di
solito, e nella parte finale non ho cambiato quasi nulla, mi sembrava
abbastanza
pregna di emozioni già così, senza appesantirla
con descrizioni/introspezioni
fini solo a se stesse. Spero solo di non aver fatto un errore
>.<
È
venuto fuori l’elemento angst della storia, che poi
sarà il fulcro di tutti i
prossimi capitoli. Ci sarà anche un cambio di POV, e la
narrazione si sposterà
su Yuri (potevo mai evitarlo? No, esatto), ma è utile per
spiegare delle cose
in particolare, quindi sì.
Adesso
sappiamo anche mooolto di più sul passato di Yuri, anche se
non conosciamo
ancora bene cosa sia successo dopo che lui si è unito alla
Regina, e questo è
uno dei motivo per cui ho deciso di cambiare POV.
Un’altra
cosa che mi sembra doveroso dire è può sembrare
che i nostri eroi siano
arrivati ad un punto molto brutto e triste, ma posso assicurarvi che
non è il
peggio ancora, e che io non sono brava con i bad
ending, perché non
riesco a non dar gioie ai miei personaggi, soprattutto dopo averli
fatti
soffrire.
Altra
precisazione, che è più una curiosità,
la madre di Yuri è bipolare. Ha sempre
alternato periodi detti maniacali, ovvero quelli in
cui il soggetto presenta
umore persistentemente elevato, senso di
grandiosità/invincibilità, spiccata
loquacità e agitazione psicomotoria (che consegue nella
diminuzione drastica
delle ore di sonno) e a volte anche allucinazioni visivo-uditive, a
periodi
invece detti depressivi, durante
i quali il soggetto si sente
depresso, vuoto e perde interesse in attività
precedentemente piacevoli; è
inoltre caratterizzato da insonnia/ipersonnia, alterazione dei bioritmi
(tra i
quali anche l’alimentazione) e ricorrenti pensieri di morte o
suicidi, con o
senza tentativi di suicidio.
La
madre di Yuri aveva vissuto in un ambiente equilibrato fino alla morte
del nonno,
poi le continue pressioni da parte del marito e l’improvviso
onere di prendersi
totalmente cura di Yuri da sola hanno solo peggiorato quella che era
una
situazione clinica già dall’inizio.
Si
è poi tolta la vita, in preda ad uno di questi episodi
depressivi, mentre Yuri
non poteva evitarle di farsi del male. (È vagamente ispirata
a Monica Gallagher
da Shameless US
se conoscete il personaggio).
Chiusa
questa parentesi informativa, ci
sarebbero altre cose che dovrei aggiungere, ma queste note sono
già troppo
lunghe così, quindi se avete dubbi/domande non esitate a chiedere!
Voglio
ringraziare di cuore chiunque
abbia letto e messo la storia tra seguite/preferite e spero vorrete lasciarmi un parere <3 e un
ringraziamento
speciale va sempre a Silvar tales e Kiarana
che hanno recensito
lo scorso capitolo (siete meravigliose <3), e ovviamente anche alla mia
fantastica beta!
Alla
prossima!
LysL
Ps: se volete
passatemi a trovare anche su Tumblr,
sul mio blog personale
(dove semplicemente sclero sulla vita) e autrice
(dove a
volte rebloggo cose inerenti alla storia, e altre volte condivido le
mie
frustrazioni di fanwriter).
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
ATTENZIONE:
descrizione dettagliata di scene violente e ferite gravi/mutilazioni
[7000
parole]
Capitolo
V
A
Yuri era sempre piaciuto il castello
della Regina, sin dalla prima volta che vi era entrato, da piccolo.
L’imponente
portone principale era una lastra di ghiaccio spessa, pesante e
impenetrabile;
ricordava di aver dovuto usare tutta la sua forza da undicenne per
aprire uno
spiraglio largo abbastanza perché il suo corpicino sottile
potesse passarvi
attraverso. I lunghi corridoi erano coperti di stalattiti che pendevano
dal
soffitto, create dal lento gocciolio dell’acqua durante i
mesi più caldi, gli
archi rampanti sostenevano il peso delle pareti trasparenti, attraverso
le
quali la luce della luna passava, donando a tutto una sfumatura di
azzurro puro
e chiaro.
Era
una costruzione grandiosa, con alte
torri dalle cupole a cipolla che puntavano verso il cielo e rilucevano
come le
sfaccettature di pietre preziose sotto i raggi solari o la tenue
luminescenza
delle stelle e della luna.
Appena
entrato, un familiare rumore
metallico lo accolse. Yuri non ebbe nemmeno bisogno di far niente,
perché la
magia del palazzo aveva dotato i suoi stivali di due sottili lame sotto
la
suola che gli permettevano di scivolare veloce sui pavimenti di
ghiaccio. Aveva
imparato ormai da anni come lasciarsi andare, non senza qualche
difficoltà
all’inizio, ed era una bella sensazione, aveva scoperto Yuri,
lo faceva sentire
leggero e libero.
Il
castello era inoltre perfettamente
abitabile, anche se nessuno l’avrebbe sospettato, almeno per
chi non dovesse
preoccuparsi delle temperature rigide che vigevano tutto
l’anno. Vi erano letti
morbidi di lana e piume e baldacchini di quella stoffa sottile e
leggera che la
Regina sembrava saper filare dal ghiaccio stesso, vi erano
approvvigionamenti
di cibo e acqua, vi erano grandi sale da bagno nelle quali
l’acqua, grazie al
potere della Regina, era calda abbastanza da non cristallizzarsi; ma
non solo,
vi era anche una grossa biblioteca che Yuri amava frequentare quando
non aveva
nient’altro da fare, e una grande collezione di statue
diverse, in ghiaccio, in
pietra, perfino in legno, scalpellate in modo raffinato e preciso da
chi aveva
avuto anni per poter perfezionare la propria tecnica, anche se non
sapeva con
esattezza chi le avesse scolpite.
Yuri
scivolava piano attraverso le
stanze adornate da fregi e bassorilievi intarsiati nei muri fino a
trovarsi di
fronte allo spesso portone che fungeva da ingresso alla biblioteca. Lo
spinse,
sentendo il ghiaccio cedere sotto il tocco, ed entrò
chiudendoselo poi alle
spalle. Aveva bisogno di distrarsi e non pensare a tutto ciò
che era successo
quel giorno, anche perché sapeva bene di non poter fare
niente a riguardo, e
che rimuginarci sopra non avrebbe portato a niente se non ad una
profonda
frustrazione. Frustrazione causata dal non poter fare niente per
liberare
Otabek da quel fardello, lo conosceva abbastanza da sapere che, anche
se gli
avesse gliel’avesse proposto, Otabek non avrebbe mai
accettato un compromesso con
la Regina; quel ragazzo viveva in simbiosi con i propri sentimenti,
Yuri
l’aveva capito subito, era impulsivo e profondamente umano,
con tutti i difetti
ed i pregi che ne derivavano, come ad esempio
l’incapacità di discernere cosa
fosse meglio per se stesso, ma anche l’incomprensibile legame
con la sua
famiglia e con quella sua amica, Mila.
I
suoi occhi si posarono sugli scaffali
pieni di libri e illuminati dalla luce cupa, filtrata dalle guglie che
adornavano
il tetto dell’ambiente.
Non
si stupì di trovare Seung-gil seduto
su una delle poltrone imbottite, con in mano un libro e
l’espressione
concentrata.
Seung-gil
c’era sempre stato, a quanto
Yuri riuscisse a ricordare, era stato lui ad accompagnarlo dalla
Regina, quando
era venuto a chiedere grazia per i suoi genitori e l’aveva
ritrovato una volta
diventato guardiano. Il suo compito era quello di assicurarsi che
niente
succedesse al castello e alla Regina: aveva una relazione molto
più intima e
profonda con lei di quanto Yuri potesse mai immaginare. Inizialmente
non
l’aveva trovato molto interessante, ma era stato a lungo
l’unica persona con
cui potesse parlare e aveva finito per fidarsi di lui.
Seung-gil
non aveva voluto rivelargli
perché si trovasse lì, nonostante non fosse
originario di quelle terre, anche
se dal suo modo di fare, Yuri era sicuro che avesse avuto una profonda
delusione d’amore e che anche lui avesse tratto vantaggio dai
poteri della Regina.
«Bentornato.»
Lo salutò lui, alzando a
malapena gli occhi dalle pagine. Le dita bianche stringevano la
copertina
usurata con deferenza; la sua pelle, stranamente, era quasi
più chiara di
quella di Yuri stesso, ma se Yuri manteneva il proprio aspetto etereo
grazie ai
capelli biondi e gli occhi chiari, l’altro lo spezzava con i
capelli neri come
le ali dei corvi e gli occhi di pece, profondi e vissuti come Yuri non
ne aveva
mai visti.
Yuri
gli rivolse un cenno del capo, ma
la voce dell’altro lo bloccò di nuovo.
«Lei vuole vederti.» gli annunciò. Yuri
alzò un sopracciglio; era strano che la Regina lo facesse
chiamare da
Seung-gil. Era successo due sole volte da quando era arrivato a
palazzo: la
prima quando un grosso battaglione di umani aveva tentato di
trasgredire nel
bosco e Yuri non era riuscito ad evitarlo, perdendo un bel pezzo di
foresta, e
la seconda volta quando Yuri aveva permesso che uno dei suoi lupi si
avventurasse fuori dai confini del suo regno, finendo inevitabilmente
ucciso da
un pastore. Entrambe le volte la Regina l’aveva rimproverato,
non troppo
aspramente, ma Yuri sapeva di averla delusa. Erano passati anni, e non
era più
successo; Yuri aveva prestato molta più attenzione al suo
compito ed era sicuro
che qualunque cosa volesse dirgli la Regina aveva a che fare con
Otabek. Subito
il pensiero che lei volesse vietargli di vederlo gli fece storcere il
naso; per
quanto sapesse di non poter tenere Otabek legato a sé in
eterno e sapesse che
era un pensiero egoista, Yuri non aveva neanche voglia di lasciare che
gli
scivolasse via tra le dita, gli piaceva stare con lui ed era quasi una
boccata
d’aria fresca, diversa dalla pesantezza e
dall’immobilità che lo circondavano.
«È
nell’ala est, devi andare lì il più
presto possibile.» continuò Seung-gil, senza
neanche un cambio nel tono di
voce. I suoi occhi ripresero a scorrere sulle lettere, che da quella
distanza
parevano latine.
Yuri
annuì, ripromettendosi che sarebbe
tornato alla biblioteca dopo aver parlato con la Regina.
Si
fece strada tra i corridoi bui e
luccicanti, mentre un senso di strana nausea gli attanagliava lo
stomaco. Era
ormai da un po’ tempo che il suo stomaco pareva trovare ogni
giorno una ragione
per infastidirlo, ma l’aveva attribuito all’arrivo
della primavera e al fatto
che passava meno tempo al castello.
La
vide, in piedi sulla gradinata,
mentre osservava una delle più belle statue del castello.
Rappresentava un
giovane dai lineamenti insoliti, i cui occhi allungati gli ricordavano
un po’
quelli di Otabek. Aveva entrambe le braccia sollevate aggraziatamente e
i suoi
vestiti erano stati scolpiti così che desse
l’impressione di star roteando su
se stesso; la sua espressione era rilassata e felice, se non fosse
stato per
piccole rughe che gli solcavano la fronte, a mostrare concentrazione.
Yuri si
chiedeva chi l’avesse scolpita e da chi avesse preso spunto,
perché era troppo
realistica per essere solo frutto della mente umana; era sicuro che ci
dovesse
essere stato un modello, ma la Regina non gliene aveva mai parlato e
l’unica
volta che aveva chiesto a Seung-gil, egli gli aveva intimato di non
domandare
oltre.
Il
viso spigoloso della Regina
contrastava con la morbidezza della veste che le scivolava sul corpo in
complicati drappeggi, leggeri come la brina.
«Yurochka.»
chiamò lei non appena lo
notò avvicinarsi, un sorriso accennato sulle labbra sottili.
Yuri fece un breve
inchino, con un braccio piegato all’altezza
dell’addome, mentre saliva le
scale. Le lame scheggiavano i bordi dei gradini, ma non era importante,
perché
la magia avrebbe sistemato tutto.
«Mia
signora.» salutò con rispetto; lei
gli fece cenno di farsi più vicino, allargando un braccio
verso di lui e,
quando Yuri fece quel che gli veniva richiesto, lei si sporse per
posargli una
mano leggera sulla spalla. Se Yuri aveva gli occhi freddi e taglienti,
essi non
avevano comunque niente a che vedere con quelli della Regina, dal
taglio
allungato e le ciglia lunghe e spesse, con iridi verde smeraldo molto
più scure
di quelle di Yuri e pupille che scrutavano direttamente la sua anima.
«Ultimamente
ti sei dedicato meno al tuo
compito, Yurochka.» disse lei con voce severa e distolse lo
sguardo da lui
accarezzando il profilo della statua, lo sguardo assottigliato mentre
ne
osservava la fattura.
Yuri
scosse la testa. «Non ci sono stati
trasgressori, altrimenti i miei lupi me l’avrebbero
detto.» le assicurò, ma non
riusciva ad ignorare lo spiacevole contrarsi delle proprie viscere.
«Mi
risulta che un umano sia entrato nel
Cuore della foresta. Mi chiedo come sia possibile.»
Yuri
tenne lo sguardo alto, consapevole
di non aver nulla da nascondere. «È entrato con
me, non avrebbe mai fatto
qualcosa per danneggiare il bosco o per ferire me, ed anche se fosse,
ho
abbastanza magia per poter tenere a bada un singolo umano.
All’interno del
bosco sono ancora più forte.»
La
Regina tornò a guardarlo, un sorriso
sulle labbra sottili. «Non ne dubito. Voglio solo che tu
sappia che non importa
quale relazione hai con questo umano, non deve interferire con il tuo
compito.
Puoi divertiti con lui, non ti nego questo, ma devi essere consapevole
che
finirà, che anche lui si stancherà di te,
perché gli umani non sono degni di
amore, Yurochka. Non sono nemmeno capaci di donarne come si deve,
figurarsi di
accettarne. Non sprecare ciò che ti rimane.» fu
fredda e tagliente, mentre
parlava, ma si sbagliava. Per la prima volta da quando viveva con lei,
Yuri non
era d’accordo con ciò che lei gli stava dicendo,
senza ritrovarsi in quelle
parole; Otabek non aveva mai, nemmeno le prime volte, fatto qualcosa
con
l’intento di ferirlo, mentre lo stesso non si poteva dire di
Yuri. Otabek non
l’aveva mai deluso, neanche quando gli aveva confessato di
essersi innamorato
di lui, Yuri non era rimasto deluso, quanto più sorpreso e
forse rattristato.
Otabek non aveva mai tradito la sua fiducia, in alcun modo.
Assottigliò
lo sguardo, inspirò l’aria
gelida e controbatté. «Non è
così. Non ho intenzione di divertirmi,
non
mi dispiace poter passare del tempo con lui, ma non mi illudo che possa
durare
per sempre.» e fu colpito di quanto vere suonassero quelle
parole. Se da un
lato il solo pensiero che la Regina potesse banalizzare così
tanto ciò che
esisteva tra lui ed Otabek aveva fatto accendere una scintilla di
rabbia in lui,
dall’altro non credeva che Otabek sarebbe sempre rimasto al
suo fianco, sapeva
benissimo che ad un certo punto non avrebbe più voluto
averlo attorno, perché
Yuri non poteva ricambiare qualunque cosa fosse quella che Otabek
provava per
lui, amore, e soprattutto non poteva costringerlo a rinunciare alla sua
vita.
La
Regina lo guardò, in silenzio, poi
socchiuse le palpebre e lasciò andare un lento respiro.
«Mi fido di te,
Yurochka, ma non voglio rimanere delusa, né voglio toglierti
quel pezzo di
umanità che ti rimane, perché meriti di poter
provare ancora delle emozioni.
Ricordati che gli umani non sono come noi, non sono come te. Non farti
del
male.» gli posò una mano sulla spalla.
«Non
vi deluderò, mia signora.» alzò un
angolo della bocca, in un sorriso che era tutto tranne che sincero;
quella
conversazione lo rendeva ogni secondo più nervoso e voleva
andarsene, ma la Regina
aveva altri piani. Lasciò andare la sua spalla, ma gli
accarezzò la guancia,
lasciando scivolare le dita sulla sua pelle, tanto gelide da far
rabbrividire
anche lui.
«Lo
spero.» la Regina ritirò la mano e
gli voltò le spalle, dai capelli legati in una crocchia alta
ed ordinata cadeva
un leggero velo che le copriva tutta la nuca e Yuri la
guardò allontanarsi;
aveva le viscere contratte e tutto in quella conversazione gli era
parso sbagliato,
a cominciare dal modo il cui la Regina aveva fatto in modo di
ricordargli più
volte come gli umani non fossero degni di niente, e come lui le avesse
giurato
eterna fedeltà. Eppure non era l’unica cosa:
quella volta, la Regina l’aveva
minacciato; era stato sottile e se Yuri non fosse stato abituato a
sentirla
parlare, probabilmente non se ne sarebbe neanche accorto. Lo era, ed
aveva
notato il modo in cui gli aveva detto che poteva privarlo della sua
umanità, del
tutto, senza che lui potesse far niente in proposito.
Per
quanto Yuri non volesse tornare a
soffrire come aveva fatto in passato, non voleva nemmeno perdere
emozioni come
il divertimento, quel senso di calore piacevole e familiare tutte le
volte che
lui e Otabek si stuzzicavano, la pace di quando si distendevano
l’uno accanto
all’altro.
Nel
suo cuore incapace di provare amore,
Yuri sentiva comunque un legame con Otabek,
nonostante non capisse fino
in fondo di cosa si trattasse. Yuri conosceva l’egoismo,
conosceva la
possessività e sapeva di possedere entrambe. Le provava
tutte le volte che
Otabek accennava a quella sua amica, Mila, o quando doveva lasciarlo
andare,
dopo aver passato il pomeriggio o la serata insieme. Gli veniva voglia
di
stringergli il braccio e tenerselo vicino, continuare a parlargli in
eterno,
senza però riuscire in alcun modo a capire
perché, e per Otabek aveva dovuto
essere ancora più difficile.
Yuri
lo sapeva, non erano molti gli
uomini che amavano altri uomini; nella sua breve vita fuori dal
castello aveva
capito che era qualcosa di cui la gente non parlava, di cui aveva quasi
paura e
se Otabek aveva avuto il coraggio di dirgli che s’era
innamorato di lui, doveva
davvero esserne convinto. Non poteva neanche immaginare quanto fosse
stato
complicato per lui e non negava di essersi sentito un mostro quando gli
aveva
detto che non poteva in alcun modo provare amore per lui, nonostante
l’avesse
detto solo perché, dopotutto, lui ad Otabek teneva e non
voleva che soffrisse
per un amore che non avrebbe mai potuto corrispondere. Otabek era
intelligente
ed era buono, e Yuri era sicuro che ci fossero migliaia di altre
persone che
potessero meritare il suo amore senza che lo sprecasse con lui; anche
perché,
come sapeva bene, l’amore umano non era destinato a durare e
nessun incantesimo
poteva cambiare quella verità che Yuri conosceva fin troppo
bene.
Sospirò,
triste di come le cose fossero
cambiate nel giro di un pomeriggio, ma consapevole di non poter
costringere
Otabek a non amarlo. Si diresse lento verso la biblioteca; Seung-gil
era
sparito, probabilmente a sbrigare qualche faccenda in giro per il
castello come
faceva sempre.
Si
inoltrò tra gli scaffali di duro, gelido
ghiaccio, ricoperti di tomi perfettamente conservati; non sapeva ancora
cosa
volesse leggere, non era un lettore assiduo, eppure non gli dispiaceva
intrattenersi con un buon libro, una volta ogni tanto e dopotutto non
c’era
molto altro da fare.
Scorreva
le dita sui volumi, sentendo le
copertine ruvide sotto i polpastrelli e le lettere in rilievo sul loro
dorso,
mentre leggeva di sfuggita i titoli. C’erano libri di ogni
tipo: enciclopedie
storiche, semplici fiabe e libri di poesie; Yuri poteva dire di
conoscerne la
maggior parte, anche se spesso li aveva letti di sfuggita e senza reale
interesse, soprattutto quelli che riguardavano la filosofia, non
facevano
proprio per lui. Ecco perché non si era mai avventurato in
quel corridoio.
Non
era diverso dagli altri,
semplicemente non era utilizzato. Neanche Seung-gil era molto
interessato di
filosofia; a dispetto della sua apparenza noiosa ed intellettuale,
Seung-gil
prediligeva i libri di musica e le enciclopedie che raccoglievano le
innumerevoli razze di animali conosciute. Anche Yuri aveva letto quei
libri ed
era rimasto incantato dalla reale quantità e
diversità di esse, ma adesso aveva
bisogno di qualcosa di nuovo, qualcosa che lo aiutasse a fare chiarezza
nella
confusione che si trovava in mente.
Gli
occhi scrutavano i titoli, tra
volumi più o meno grandi, quando captarono qualcosa di
diverso. Era un piccolo
libriccino, usurato e macchiato di inchiostro. Era diverso da tutti gli
altri e
Yuri lo estrasse dallo scaffale scoprendo che si trattava di qualcosa
di simile
ad un diario. Era evidentemente vecchio, se le pagine gialline erano di
qualche
indizio, sebbene sembrasse ancora in uno stato di perfetta
conservazione.
Lasciò scivolare i polpastrelli sul cuoio liscio e
appiccicoso di inchiostro
aprendo piano la prima pagina.
La
grafia che copriva la pergamena rilegata
era ordinata e sottile e non apparteneva né a Seung-gil
né alla Regina. Era
impossibile, si disse Yuri, era impossibile che quel libriccino fosse
arrivato
lì da chissà dove, era troppo simile a quello che
Seung-gil teneva appeso al
fianco, seppur molto più vecchio e doveva per forza
appartenere a qualcuno che
si trovava a palazzo.
Yuri
era curioso, in modo sottile, non
era invadente e non gli era mai importato conoscere i fatti degli
altri, eppure
se qualcosa non gli tornava era in prima linea per cercare di svelarla;
in quel
momento, il diario era riuscito a smuovere qualcosa in lui, il
desiderio di
sapere di cosa si trattasse si faceva già strada nella sua
mente, mentre lo
assicurava sotto la veste, tra i pantaloni e la pelle del fianco e lo
copriva
con la camicia.
Decise
che se ne sarebbe occupato una
volta tornato alla foresta.
Aveva
tempo. Yuri sapeva che quel giorno
Otabek avrebbe dovuto lavorare e non sarebbe arrivato prima del
tramonto e la
luna notturna era ancora alta nel cielo. Aveva tempo e non sembravano
esserci
trasgressori, a giudicare dalla calma che aleggiava nella foresta e tra
i lupi
che altrimenti sarebbero venuti a fargli rapporto.
Appena
arrivato alla sua radura,Yuri si
tolse la pesante veste, liberandosi anche degli stivali e dei vestiti.
La
sensazione dell’erba sotto i piedi e del lieve vento tiepido
che gli
accarezzava la pelle era ciò che lo rilassava più
al mondo, e per un attimo si
dimenticò delle parole della Regina, di Otabek e del
libriccino che aveva
trovato qualche ora prima.
La
luna si specchiava nella pozza
d’acqua, ed il rumore del ruscello che vi si riversava
increspandone la
superficie sembrava quasi seguire i battiti del suo cuore. Si
portò le mani
alla testa, mentre scivolava piano nell’acqua e prese a
sciogliere
accuratamente le trecce che gli correvano lungo il capo. Le ciocche
tiravano
lievemente, ma continuò imperterrito fino a quando anche
l’ultima treccia non
fu disfatta; non lasciava spesso i capelli sciolti, soprattutto
perché lo
infastidivano e si impigliavano ai rami degli alberi, senza contare il
tempo
effettivo che impiegava ad intrecciarli nuovamente. Erano lunghi e
galleggiavano sulla superficie dell’acqua, incollandosi alla
sua schiena,
ondulati per il risultato dell’essere rimasti intrecciati
ormai da qualche
giorno. Vi passò le mani, togliendo la polvere e lo sporco,
sciacquandosi
lentamente.
Fu
solo quando si appoggiò ai massi
levigati che circondavano la pozza che il suo sguardo
adocchiò i propri vestiti
abbandonati su una roccia; tra la stoffa chiara il colore bruno del
diario
risaltava di più e Yuri sollevò la mano,
l’indice puntato verso il libriccino;
esso si alzò in volo verso di lui, fermandosi a levitare di
fronte al suo viso.
Le
sue dita mimarono il gesto di aprire
la copertina in pelle; le erano pagine gialle e invecchiate,
l’odore dolciastro
della muffa gli riempì le narici, surclassando il profumo di
fiori della
radura.
Yuri
si appoggiò con la schiena contro il
bordo del piccolo lago, e con un altro gesto delle dita
voltò le prime pagine,
cominciando a leggere.
“Non
ricordo niente della mia vita di
prima, se non che ero solo. Un giorno mi risvegliai in questo castello
di
ghiaccio e da allora ho sempre vissuto qui, con la Regina. Sono passati
così
tanti anni che ormai non li conto più, non importano
più.
La vita qui
è monotona, pur avendo
poteri inimmaginabili, non c’è nessuno con cui io
possa parlare, a parte la Regina.
Quella che prima era felicità di essere vivo e di poter
godere di privilegi che
altri non possono neanche immaginare, si è trasformata in
una lenta noia,
scandita dai giorni che si susseguono e dai battiti solitari del mio
cuore.
Oggi, per la
prima volta, sono uscito
dal castello, senza dirlo alla Regina, altrimenti mi avrebbe costretto
a
rimanere dentro. Lei non capisce quando questo gelo mi stia uccidendo
lentamente: sono praticamente immortale eppure sento la mia vita
scivolare via,
gli anni che volare senza un senso, senza un perché, senza
che io possa
fermarli in alcun modo.
Mi sono
travestito usando il mantello di
un uomo che ho trovato morto nel bosco qualche giorno fa, in modo da
essere
meno riconoscibile e mi sono avviato al villaggio più vicino.
È
diverso da come me l’aveva descritto
la Regina, nessuno ha provato a farmi del male, anzi, tutti si
spostavano al
mio passaggio e le donne facevano commenti sul mio aspetto, parlottando
tra
loro su quanto fossi bello e diverso da tutti gli uomini che avevano
incontrato
fino a quel momento.
Anche la taverna
non è terribile come
pensavo, certo, lì la gente è più
allegra e meno rispettosa, ma è comunque un
posto divertente e non vedo l’ora di poterci tornare domani.
Spero che la Regina
non si accorga mai delle mie fughe, perché so che si
infurierebbe per averla
lasciata sola.”
“Oggi
sono andato di nuovo al villaggio
dopo il calare del sole e mi è capitata una cosa inaspettata
e molto strana.
Alla taverna si era fermato un battaglione di stranieri, parlano un
po’ la mia
lingua eppure non hanno gli stessi lineamenti degli altri: i loro occhi
sono
sottili e i loro capelli scuri e lisci, sono tutti molto simili gli uni
agli
altri, tranne uno.
È
l’uomo più bello che io abbia mai
visto. Sembrava molto giù durante la serata, ma gli sono
bastati un paio di
bicchieri per riprendersi e cominciare a cantare e ballare al centro
della
taverna. I suoi compagni ridevano ed anch’io mi sono goduto
lo spettacolo, fino
a quando lui non mi si è avvicinato chiedendomi di ballare
con lui. Non ho
potuto far altro che accettare, non ho potuto negare nulla a quei suoi
occhi
luminosi. Da quel momento non riesco a smettere di pensare a lui,
è successo
qualcosa dentro di me. È come se una parte a lungo
dimenticata si sia
risvegliata, eppure non so quale e non riesco a capire, mi sfugge
sempre
qualcosa.
Non posso
parlarne con la Regina, lei
non capirebbe. Mi sento il petto pieno, finalmente dopo anni e anni,
sento
un’energia dentro di me e non so spiegarmela. Spero di
rivedere quell’uomo, nei
prossimi giorni, in modo da poter comprendere meglio cosa stia
succedendo”
“Non
c’è. Non c’è più.
Il suo
battaglione se n’è andato. Non
c’è più e adesso mi sento di nuovo
vuoto, solo,
rinchiuso in questo castello che mi diventa sempre più
estraneo.”
I
paragrafi erano sconnessi, non una
data, non un nome, solo un’intuitiva cronologia e le ultime
parole erano
sbiadite, l’inchiostro era sbavato in grosse macchie scure,
come se chiunque
l’avesse scritto stesse piangendo.
Yuri
sentì gli occhi pizzicare; riusciva
a percepire l’impotenza in quelle frasi sporche di lacrime,
ma non capiva fino
in fondo di cosa quella persona stesse parlando. Il suo stomaco si
strinse
spiacevolmente, e le sue palpebre si socchiusero per scacciare quella
malinconia che la lettura gli aveva messo addosso.
Per
la prima volta Yuri sentì qualcosa
di diverso. Non se ne spiegava il motivo, ma quelle parole gli avevano
riportato in mente la prima volta che aveva visto Otabek, quando
l’aveva
aiutato contro i banditi, mesi prima. Era da quel momento che Otabek si
era
fatto strada nella sua vita lentamente, avvicinandosi a poco a poco
come si fa
con un animale selvatico, guadagnandosi la sua fiducia ed il suo, anche
se
flebile, affetto. E ciò che provava stando con lui era solo
calma, leggera e
quasi impalpabile, che scivolava tra loro e gli faceva dimenticare
quanto
avesse sofferto in passato e quanto solo si sentisse, a volte.
Era
una sensazione bizzarra, che c’era e
non c’era allo stesso tempo, più cercava di
concentrarsi su di essa, più quella
gli sfuggiva e lo lasciava frustrato. Chiuse il libro e lo
mandò a posarsi su
una roccia, mentre usciva arrabbiato dalla pozza, l’acqua che
schizzava
tutt’intorno in goccioline che gli scivolavano lungo le
membra. «Tutte
cazzate.» borbottò, passandosi una mano sui
capelli per far sì che tutta
l’acqua ne evaporasse. Non avrebbe lasciato che uno stupido
libro scritto da
qualcuno che nemmeno conosceva gli condizionasse la mente.
Eppure
era la prima volta che qualcun
altro sembrava percepire ciò che sentiva lui. La solitudine,
la voglia di
cambiamento, e quante volte Yuri si era chiesto a cosa gli servisse la
propria
immortalità? A cosa servissero i suoi poteri? Era possibile
che il suo unico
destino fosse quello di servire la Regina, che fosse l’unico
scopo per cui era
venuto al mondo? La risposta, fino a quel momento, era sempre stata la
stessa.
Lui era lì grazie alla Regina, non soffriva grazie alla
Regina e lei aveva
sempre dato, chiedendo in cambio solo protezione, ed era a quello che
servivano
i suoi poteri e la sua immortalità; era un patto equo a
undici anni, lo era a
venti e lo era ancora adesso, quando anche gli anni avevano cominciato
a
confondersi tra loro. Yuri non avrebbe potuto chiedere di meglio, lo
sapeva.
E
nonostante tutto, non poteva evitare
di chiedersi chi fosse quella persona: dove fosse andata e come fosse
finita la
sua storia; conosceva la Regina, ma non era indicativo,
perché Yuri non sapeva
da quanto tempo lei fosse viva. Era certo che, chiunque fosse, era
vissuto
molto prima che Seung-gil arrivasse a palazzo. Ma se era immortale,
allora che
fine aveva fatto? E soprattutto, perché la Regina non aveva
mai parlato di
qualcun altro, oltre a Yuri stesso e Seung-gil?
Yuri
sentiva la testa scoppiare e non
gli capitava da decenni, era familiare ed estraneo, una contraddizione
che non
faceva altro che aggiungere pesantezza ai suoi pensieri. Essi
turbinavano senza
meta e senza sosta, portando con sé la reminiscenza di
qualcosa, qualcosa di a
lungo dimenticato e seppellito nel suo profondo. Yuri non riusciva a
coglierlo.
Fu
quasi tentato di riaprire il
libriccino e ricominciare a leggere, in modo da potersi disfare di
quelle
riflessioni odiose e sterili, quando l’ululato forte di un
lupo lo riscosse
dalle sue stesse elucubrazioni.
«Cazzo.»
Imprecò, infilandosi
velocemente le vesti e gli stivali.
I
piedi affondavano nel terreno ancora
umido di pioggia e neve e Yuri correva veloce tra gli alberi che
parevano
scansarsi dinanzi a lui; Yuri sapeva che era solo il suo istinto a
ricordare
perfettamente dove si trovasse ogni elemento della foresta, dopo anni e
anni di
vita in simbiosi con essa. Il lupo ululò più
forte, segno che era più vicino.
Se ne stava acquattato dietro un fitto boschetto di arbusti alti
abbastanza da
celarlo e quando Yuri lo vide, esso guaì piano.
Yuri
abbassò la testa in segno di
gratitudine e gli fece cenno di allontanarsi. «Grazie, adesso
torna a pattugliare
il perimetro, qui me ne occupo io.» con un secondo guaito, il
lupo si lanciò
nel folto della foresta.
Dalla
sua posizione, Yuri poteva vedere
le sagome dei due intrusi, un uomo ed una donna. Yuri storse il naso
nel
sentire le urla e i piagnistei di lei, mentre l’uomo stava
zitto e continuava a
tenerle una mano ben ferma sulla bocca. Mugugnò di dolore
quando lei gli morse
le dita, i denti affondati nella pelle, prima di tirare indietro la
testa, in
modo da fargli lasciare la presa. L’uomo la spinse lontano da
sé, portandosi la
mano ferita all’addome e lei riuscì a mettere un
po’ di metri tra se stessa ed
il suo aggressore. Eppure, sebbene ella avesse appena oltrepassato la
prima
linea di alberi, quel confine che segnava il non ritorno,
l’uomo non sembrava
aver intenzione di lasciarsi sfuggire quella preda.
«Lasciami
stare, ti prego.» la voce
femminile arrivava chiara alle orecchie di Yuri, e solo allora si
accorse che
si trattava d’una giovane ragazza; il suo fiato era spezzato
e il tono stridulo,
mentre cercava di non lasciar impigliare la gonna tra i rovi ed
inciampava per
lo stesso motivo. L’uomo le era alle calcagna e, quando lei
scivolò sullo
strato di fango ghiacciato, non mancò di approfittarne. Yuri
lo vide mentre le
calava di sopra, la mano affondata nei capelli scuri di lei che le
strattonava
la testa per costringerla in una posizione supina. «Puoi
urlare quanto vuoi, non
ti sente nessuno qui. Ma… se continui così
attirerai i lupi.» le sue dita
presero a premere insistentemente sulla bocca della ragazza, mentre
l’uomo le
apriva con forza le labbra, spingendole le dita dentro la gola. La
ragazza ebbe
un conato, e provò a mordere di nuovo, ma erano troppo
spesse ed erano finite
troppo in profondità perché lei ci riuscisse.
Fu
la prima volta che una voce lo
disgustava a tal punto, e Yuri era quasi sul punto di girare le spalle
e
andarsene come faceva sempre di fronte all’ennesima
dimostrazione della
mostruosità umana, in attesa che entrambi si rendessero
conto di aver fatto
l’errore peggiore della loro vita. Poi la ragazza
urlò di nuovo, e la sua voce
si affievolì in un soffio, una cantilena distrutta; si
copriva il volto con le
braccia mentre una mano dell’uomo le alzava la gonna
strappata e l’altra le
stringeva la gola.
Yuri
sentì qualcosa scattare dentro di
sé: una rabbia mai dimenticata, una tristezza profonda e una
terza cosa, una
cosa inspiegabile, ma che lo fece schizzare in avanti, piegandosi in
ginocchio
per estrarre lo stiletto dallo stivale.
I
suoi piedi toccavano il terreno
leggeri, senza lasciar tracce e senza far rumore, fino a quando
l’uomo non fu
abbastanza vicino che Yuri riusciva a sentirne l’acre odore
di sudore e sporco
nelle narici.
Il
primo colpo alla coscia colse l’uomo
di sorpresa, tanto che rotolò di lato premendo il profondo
taglio con entrambe
le mani, la bocca spalancata in un grido muto. Il sangue rosso e denso
sgorgava
a fiotti dalla ferita e Yuri sapeva bene che quel colpo era
già mortale di per
sé, perché l’esperienza gli diceva che
in nessun modo quel sanguinamento si
sarebbe fermato, ma quella volta non bastava. Non
capiva più niente, si
sentiva animato solo da una furia mai provata prima, voleva far male,
far
soffrire, mentre affondava la lama più a fondo nella carne,
recidendo il
muscolo e scalfendo l’osso. La ragazza urlò, uno
schizzo di sangue che andava a
macchiarle la gonna.
Il
secondo colpo fu meno studiato, e
Yuri strisciò la nuca dell’uomo, tuttavia la punta
del pugnale riuscì a
penetrare la pelle della spalla. Quella volta l’uomo
urlò e tentò di colpire
dietro di sé, con il solo risultato di impalarsi una mano
sullo stiletto.
Yuri
sentì il sangue caldo entrare in
contatto con le proprie mani gelide e ritirò il pugnale, per
poi colpire
ancora, stavolta perfettamente all’altezza
dell’intestino. Tirò di lato,
sentendo la carne cedere come se fosse burro sotto la forza bruta e
incontrollata che stava imprimendo alla lama, il rumore viscido delle
budella
che tentavano di scivolare fuori, mentre la mano dell’uomo le
schiacciava
all’interno.
Incrociò
i suoi occhietti acquosi e
chiari, pieni di terrore e spalancati, consapevoli di non avere
più scampo.
Fu
guardandolo negli occhi che gli
trafisse il cuore, guardando la vita che gli lasciava le iridi, spinse
il
pugnale dentro il suo petto fino all’elsa, torcendo la mano
per scavare più in
fondo ed essere sicuro di aver compiuto il suo lavoro. Non
percepì nemmeno le
rinnovate grida di terrore della ragazza, perché era il
proprio sangue a
fischiargli nelle orecchie, mentre quello dell’uomo gli
bagnava entrambe le
mani e gli gocciolava sulle braccia. Il getto bollente che
sgorgò dal petto
trafitto gli colpì il viso, e Yuri fece in tempo a voltarsi
prima che gli
finisse in bocca. Digrignò i denti, alzando un piede per
spingere via il corpo
senza vita.
Solo
il tonfo del cadavere che rovinava
a terra lo riportò alla realtà e Yuri scosse la
testa, lo sguardo fisso sul
pugnale interamente coperto di rosso.
Il
rumore inconfondibile di un conato e
l’odore acido del vomito riempirono l’aria,
facendogli alzare il volto verso la
ragazza e la trovò accovacciata a terra, sporca di fango e
sangue, con una mano
a pulirsi le labbra spalancate. Aveva gli occhi inondati di lacrime e
orrore
che strizzava nel tentativo di schiarirsi la vista. Poi si rese conto
del fatto
che era proprio di fronte a lei e le sarebbe bastato alzare lo sguardo
per
poterlo vedere.
Scattò
indietro con un balzo,
nascondendosi tra le ombre della notte, come avrebbe dovuto fare
già
dall’inizio. Lei non si mosse.
«Non
startene lì rannicchiata, alzati.»
lo disse bruscamente e si sorprese quando, pian piano, la ragazza si
tirò su
sulle gambe tremanti. Aveva profondi occhi scuri e i capelli neri
scarmigliati
a coprirle la fronte; teneva ancora la testa bassa e tirava su col naso.
«Seguimi.»
Intimò e lei annuì febbrile,
la mani che andavano a stringere la gonna, un passo dopo
l’altro, lasciandosi
guidare. Superò il cadavere dell’uomo cercando di
guardarlo il meno possibile
ed ignorando il suono viscido delle scarpe che affondavano nel terreno
impregnato di sangue.
Yuri
non sapeva che fare con lei:
sarebbe stato solo ipocrita se avesse ucciso quell’uomo solo
per il gusto di
lasciare che lei venisse divorata dai lupi o morisse assiderata. E Yuri
non
voleva che la ragazza morisse, perché non sarebbe mai
entrata nel bosco se quell’uomo
non avesse cercato di farle del male; la gola gli si strinse in uno
spasmo di
disgusto al pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere se
lui non fosse
intervenuto, e pensare che in un primo momento non aveva voluto fare
nulla.
Fino
a qualche settimana prima non
avrebbe fatto nulla, pensò; era consapevole che troppe volte
in quegli anni
aveva voltato la schiena dinanzi a scene di quel tipo, lasciando che
avvenissero per poi compiere il proprio lavoro. Quella volta
però, un istinto
che non credeva di possedere aveva preso il sopravvento. Gli era
capitato
spesso, nel corso degli anni, di dover utilizzare il proprio pugnale,
ma aveva
sempre tentato di non approfittare
dell’inferiorità di chi gli stava di fronte:
colpi mirati ad indebolire, mai profondi da causare troppo dolore, e
poi un
ultimo colpo finale, solitamente al petto o alla testa. Mai aveva
tratto così
tanto piacere dall’uccidere qualcuno e mai era stato
così crudele e disumano, neanche
con chi lo meritava davvero; era stato un attimo, poi, un momento di
rabbia
incontrollata ed inspiegabile che gli aveva ottenebrato la mente e
aveva preso
possesso dei suoi arti senza che lui potesse far niente per fermarla.
Gli
parve di sentire un pigolio, prima
di rendersi contro che non era altro se non la voce della ragazza.
«G-grazie.»
gli stava sussurrando, molto passi dietro di lui.
Yuri
ringhiò e avvertì il respiro di lei
fermarsi, per poi riprendere con cadenza meno ritmata.
«Non
ringraziarmi, stupida. Piuttosto
smettila di vagabondare a quest’ora di notte.» non
la vide annuire, ma il
gemito che seguì le sue parole gli fece capire che la
ragazza aveva sentito.
«P-posso
chiedervi, p-perché mi avete
salvato?» domandò, la voce ridotta ad un sussurro
fievole e Yuri roteò gli
occhi. «Non importa, sappi solo che non sarò
così clemente se dovesse succedere
una seconda volta. Oggi sei stata fortunata, domani,
chissà.» le disse ed era
serio; aveva sopportato quell’intrusione solo
perché lei non ne era diretta
responsabile.
«C-certo.»
balbettò lei. Yuri fu quasi
sul punto di riprenderla anche su quello e si fermò solo al
pensiero di quanto
fosse ridicolo. Fortunatamente stavano arrivando al confine delle
foresta. Le
prima luci dell’alba si facevano strada tra i rami e la
vegetazione e la
ragazza sospirò di sollievo, correndo fuori e fermandosi
solo per gettare
un’occhiata dietro di sé. Aveva il viso stravolto
e schizzato di sangue, per
non parlare dei grossi lividi che le si stavano formando sulla gola,
eppure
sembrava sollevata quando alzò una mano per fargli un cenno
di saluto; Yuri fu
ad un passo dal pentirsi di averla aiutata, ma si limitò a
rintanarsi più a
fondo nella foresta, mentre la osservava scappare in direzione del
villaggio,
le suole delle scarpe che lasciavano un scia di sangue e fango dietro
di lei.
Dopo
quell’episodio, Yuri si affrettò a
ritornare alla radura. Aveva camminato piano, per una volta, aspettando
che la
luce rosata dell’alba facesse capolino tra i rami degli
alberi. Il cadavere
dell’uomo era ancora lì e, sinceramente, Yuri
sperava che i lupi se ne
occupassero presto, perché non riusciva a guardare quel
corpo straziato senza
sentire la pesantezza del senso di colpa gravargli sulle spalle. Il
sangue gli
si era rappreso sulle vesti e sul viso, cominciando a creparsi e
tirando la
pelle, per non parlare delle mani che ancora sentiva viscide.
La
puzza di ferro e morte lo seguiva,
impregnava l’aria, saturava le sue narici e gli lasciava un
odore acre sulla
lingua e nella gola. Scosse la testa per scacciare l’immagine
del momento in
cui l’uomo aveva capito di non avere più scampo;
era successo tutto lentamente,
nella sua testa, avrebbe potuto ricreare con esattezza ogni colpo che
aveva
condotto l’uomo ad una morte così brutale,
ricordava lo stridio dell’osso
contro la lama, le urla, simili a quelle di un maiale al macello, la
viscosità
del sangue che gli spruzzava addosso, una volta trapassato il cuore,
che aveva
dato un altro paio di spasmi, prima di bloccarsi del tutto. Non aveva
mai combattuto
in quel modo tanto scomposto e quasi meccanico e gli aveva fatto paura,
come se
non fosse padrone dei propri movimenti, pur percependoli in modo netto
e
preciso. Si passò una mano nei capelli, scoprendoli
altrettanto umidi, il
respiro che accelerava e si faceva febbrile: i polmoni gli bruciavano e
sentiva
il petto stretto in una morsa. Poi arrivò, lo
colpì come una valanga; si portò
una mano allo stomaco, artigliando la camicia macchiata; le gambe lo
tradirono
e lui cadde sul terreno, le ginocchia che affondavano nella terra
morbida. Le
budella gli si contrassero, mentre il sapore acido del vomito gli
risaliva
lungo l’esofago, mozzandogli il respiro già
affannato.
Posò
il palmo sulla nuda terra,
boccheggiante, le palpebre strette e gli occhi inondati di lacrime
Il
suo cuore ebbe una contrazione, come
se stesse cercando di bucargli il petto e Yuri sentì del
sudore gelido colargli
dalle tempie e lungo la schiena inarcata. La prima scarica gli scosse
tutto il
corpo e altre lacrime andarono a rigargli il viso; il sangue secco
veniva
sciolto dall’acqua salata, finiva sulle sue labbra e gli
bagnava la lingua
scoperta, mentre la seconda scarica lo faceva piegare in avanti.
La donna era a
terra e l’uomo incombeva
sulla sua figura distesa, le braccia che proteggevano la testa,
mentre i
calci all’addome non facevano che diventare più
violenti.
Yuri si
lanciò sul corpo di sua madre,
gridando di smetterla, guardando suo padre con occhi supplichevoli.
«No…»
sputò la bile che gli era rimasta
bloccata nella bocca. «No…»
provò ad alzarsi, ma le gambe non gli rispondevano
e si ritrovò a scivolare indietro. I fiato gli usciva dal
naso in piccoli
sbuffi sempre più ravvicinati, fino a fermarsi.
Un piede gli
affondò nella pancia,
troncandogli il respiro, mentre un’esclamazione di dolore e
sorpresa gli
lasciava le labbra.
Suo padre lo
squadrava come se non
avesse visto nulla di più schifoso nella sua vita, poi gli
sputò addosso e con
un ultimo sguardo, tirò la brocca mezza piena sul
pavimento, i cocci che si sparpagliarono
tutt’intorno. Yuri non avrebbe mai dimenticato il dolore
delle schegge che gli
penetravano la pelle tenera.
Non
gridò, la bocca spalancata da cui
non usciva alcun suono, la testa che gli pulsava come se qualcuno la
stesse
tenendo in una morsa; i capelli gli erano caduti sul viso, oscurandogli
la
vista e Yuri provò un forte dolore diffuso in tutto il
corpo. Iniziò come un
bruciore alla base della schiena e gli percorse lo stomaco, fino a
risalire
verso il petto, intenso e tremendo, mentre le sue viscere sembravano
andare in
fiamme, la gola raschiata dall’acido della bile, la fitta gli
strinse
l’esofago, impedendogli di respirare bene. Un solo, piccolo
fischio gli
permetteva di far arrivare aria nei polmoni.
La ragazza era a
terra e l’uomo incombeva
sulla sua figura distesa, le braccia che proteggevano la testa,
mentre le
mani sul collo non facevano che stringere di più e di
più.
Gli
occhi gli pizzicarono ancora e nuove
lacrime, copiose, fitte, gli rigarono gli zigomi. Yuri strinse le
palpebre tra
loro, senza capire cosa gli stesse succedendo, perché quelle
scene si fossero
sovrapposte, perché lui ancora se le ricordasse
e perché riuscisse a
provare dolore.
Era
qualcosa che non gli accadeva da
così tanto tempo, Yuri non sapeva come poterlo affrontare,
se non rimanendo
disteso in attesa che quella sensazione di impotenza gli abbandonasse
le
membra. Sentì che il proprio corpo si raggomitolava, e non
si oppose, si lasciò
andare alla protezione delle proprie braccia strette
sull’addome e della testa
incassata nelle spalle.
Fu
solo dopo, Yuri non sapeva quanto
dopo, che il suo volto strofinò per terra; il sapore del
terreno gli entrò in
bocca, dolciastro, facendogli ritrovare il contatto con la
realtà.
I
polmoni si espansero di colpo, il
diaframma che lasciava allargare le pleure come una scudisciata
all’altezza
dello stomaco. Divenne consapevole del fatto di essere disteso,
completamente
coperto di sangue ormai del tutto secco, del sole che, adesso alto nel
cielo,
batteva impietoso su di lui, attraverso la fine copertura degli alberi
ancora
quasi del tutto spogli, ma dove i primi germogli si facevano vedere.
Digrignò
i denti nel mettersi seduto.
Aveva la lingua gonfia, come qualcosa di estraneo alla sua bocca, non
si era
mai sentito più a pezzi e fu quasi sul punto di cadere di
nuovo quando provò a
mettersi in piedi. Le ginocchia gli tremarono e una caviglia gli si
torse,
senza però provocare troppo dolore e parecchi minuti dopo,
Yuri riuscì a
mettersi in piedi.
Poggiò
il palmo destro contro un albero, lo colpì con violenza,
sentendo la corteccia
dura sfregiargli la pelle; strinse i denti e prese a camminare verso la
radura,
per poter riposare e lavarsi, in attesa di riuscire a capire cosa gli
fosse
successo.
Note
finali:
Ma
buongiorno/buonasera!
Ecco
il primo capitolo dal PoV di Yuri! Spero vi sia piaciuto,
perché a me è
piaciuto molto scriverlo! Ho cercato di mantenere uno stile meno
“emotivo” in
modo adattarlo al personaggio di Yuri, ma non sono sicura di esserci
riuscita
*sigh*
Si
cominciano a vedere i rapporti tra gli abitanti del castello e abbiamo
un nuovo
personaggio! Perché Seung-gil? Perché
è un altro personaggio di YOI che mi
piace tantissimo e merita anche lui tanto amore *ricopre di cuori*
Ooh,
e c’è anche un nuovo elemento: il diario! Credo
sia moooolto palese a chi
appartenga e mi piacerebbe sapere cosa ne pensate a riguardo!
Per
quanto riguarda la seconda parte del capitolo, spero che scene di
quella natura
non abbiano turbato nessuno, e in se fosse così, me ne scuso
sinceramente.
A
parte questo, da un lato avrei davvero tante altre cose da dire su
questo
capitolo, dall’altro credo ne verrebbe fuori una cosa
lunghissima (molto più
del solito) e io non voglio intasare lo spazio autrice, né
tanto meno rubarvi
ancora altro tempo! Grazie mille per aver letto ed inserito la storia tra seguite/preferite, e spero vorrete
lasciarmi un
commento!
Ringrazio,
come sempre, Silvar tales e Kiarana
per aver recensito lo scorso
capitolo, e per essere due lettrici meravigliose <3 e ovviamente
anche alla
mia beta!
Ne
approfitto anche per dire che ricomincerò anche con
l’università a tempo pieno ahimè,
quindi non assicuro più aggiornamenti regolari. Questo non
significa che non
scriverò più, solo che ci metterò
più tempo per sistemare i capitoli e
continuare quelli che ho in stesura, ma non abbandonerò
questa storia!
Alla
prossima!
LysL
|
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
[5170
parole]
Capitolo
VI
Sotto
l’acqua ogni rumore era ovattato;
non che ce ne fossero molti, ma alle sue orecchie non giungeva neanche
il lieve
ronzio degli insetti notturni che cominciavano a risvegliarsi.
Sotto
l’acqua, Yuri teneva gli occhi
aperti, osservando i propri capelli ed il modo in cui fluttuavano
intorno al
proprio viso. Il colore rosato, a causa del sangue che vi si era
asciugato
sopra e stava cominciando a sciogliersi, rendeva
quell’esperienza diversa dalle
altre volte.
Adesso,
Yuri si sentiva bene, lo stomaco
aveva smesso di contrarsi, la gola era libera e gli era ritornata tutta
la
forza.
Dopo
essere arrivato al prato, ormai ore
prima, era caduto in un sonno profondo ed agitato. Sapeva bene che non
era
normale, che non era così che avrebbe dovuto essere,
perché era la
dimostrazione che non si era sentito al sicuro, neanche lì
nel suo regno. Quella
sensazione di pizzicore dietro la nuca e sulle braccia non aveva voluto
abbandonarlo, sapeva che lì nessuno l’avrebbe
raggiunto eppure non era riuscito
a far rilassare la propria mente ed il proprio corpo.
Quando
s’era risvegliato si era accorto
che la luce stava cominciando a svanire, gli alberi che proiettavano
lunghe
ombre verso est. Si era spogliato in fretta, senza curarsi
più dei propri
vestiti, ben deciso a toglierli di mezzo una volta per tutte, non
voleva avere
nulla che gli ricordasse quel che era successo; nulla, tranne il suo
pugnale,
che doveva tenere per necessità. Lo lavò
più volte, utilizzando il tessuto
spesso del proprio mantello per rimuovere ogni residuo di sangue e
frattaglie
che vi era rimasto attaccato, poi gettò
l’indumento sulla pila degli altri
stracci; le sue dita si mossero da sole, quando sfregarono tra loro a
creare
una fiammella, prima di lanciarla su quelli che erano stati i suoi
vestiti.
Bruciarono piano, con uno sfrigolio lento e continuo, un sottofondo
quasi
rassicurante.
Non
aveva altri vestiti oltre quelli,
così aveva detto ad uno dei suoi lupi di recarsi al castello
e portargliene dei
nuovi, i quali adesso stavano posati sulle rocce lì vicino.
La
sensazione di pace che lo avvolgeva
in quel momento era surreale, ma anche lui aveva bisogno di respirare,
così
tirò fuori la testa dall’acqua, riempiendo i
polmoni d’aria fresca e profumata
di fiori. Era felice che l’odore del fango e del sangue se ne
fossero andati,
pensò, mentre la pozza che diveniva nuovamente limpida;
strofinò ancora le
braccia e le mani, sperando vivamente che ogni residuo di sangue fosse
sparito
e solo allora si decise ad uscire, passandosi le dita tra le ciocche e
lasciandole asciutte.
I
nuovi vestiti gli calzavano bene, come
si era aspettato, e non erano tanto diversi da quelli che portava
prima, se non
per l’assenza del mantello. Li aveva indossati con lentezza,
con il ricordo
della stoffa insanguinata che gli tirava la pelle, anche se adesso
c’era solo
la morbidezza di quel materiale e nonostante quello, Yuri si
ritrovò comunque ad
esitare al momento di mettere il pugnale negli stivali. Lo guardava, la
lama
lucida che rifletteva la luce rossa del tramonto, ormai quasi svanita.
Quello
strumento aveva tolto la vita a diversi, aveva protetto la sua
vita, la
sua foresta e la sua Regina, Yuri l’aveva sempre visto come
un compagno; quella
volta però, per la prima volta, ne ebbe paura.
Scrollò le spalle, come per
scacciar via quella sensazione di malessere e far smettere le sue
preoccupazioni di turbinare incontrollate, poi, lanciando un ultimo
sguardo al
pugnale, lo assicurò nella sua guaina.
Il
sole si congedò dietro le cime degli
alberi e chissà dove, e solo a quel punto, quando
già la luna faceva capolino
nel cielo, Yuri sentì, forte e chiaro, quel richiamo che era
diventato quasi un
rito; credeva di non aver mai provato un sollievo tanto profondo.
Corse
veloce verso i confini del bosco,
l’aria che gli sferzava il viso e i capelli sciolti, uno
stato d’animo così diverso
da quello della mattina. Il suo cuore, seppur calmo e controllato,
sembrava
pesare di più dentro il suo petto; era strano e piacevole e
Yuri non se ne
chiese il perché.
Quando
finalmente riuscì ad uscire dalla
foresta, e per fortuna senza che i suoi capelli si impigliassero da
qualche
parte, fu salutato dal nitrito di Astra, che si era subito avvicinata
per
dargli un colpetto di muso. Ebbe appena il tempo di alzare una mano ad
accarezzarle la criniera, poi Otabek parlò, distraendolo, la
voce calda e quasi
tremante. «Yuri.» pareva senza fiato.
Yuri
diede un’ultima carezza ad Astra
prima di avanzare ancora, fino a trovarsi proprio di fronte a lui. Non
aveva
bisogno di chiedergli alcunché per sapere che qualcosa non
andava; Otabek non
lo guardava in faccia, non aveva nemmeno alzato lo sguardo da terra e
teneva la
mano stretta sull’elsa della spada, una cosa che non faceva
da molto, molto
tempo.
«Beka,
cosa succede?» gli chiese allora,
lo sguardo assottigliato, l’espressione confusa.
A
quelle parole, dette piano e
lentamente, Otabek sollevò gli occhi, inchiodandolo sul
posto con le sue iridi
scure e penetranti; se non fosse stato sicuro che non sarebbe mai
successo,
Yuri avrebbe avuto paura che Otabek fosse ad un passo
dall’attaccarlo con la
sua spada e, nonostante fosse consapevole di essere molto
più forte di lui,
c’era comunque qualcosa nel modo in cui Otabek lo guardava,
che gli impediva di
fare alcunché per ferirlo. Non sapeva se sarebbe riuscito a
vincere uno scontro
contro di lui e quella consapevolezza era terrificante.
Fu
la voce di Otabek, ancora una volta,
a riscuoterlo. «Stai bene.» sussurrò, il
tono basso e stanco. Sembrò quasi che
un peso gli venisse tolto dalle spalle, che si rilassarono. Otabek
lasciò la
presa sulla spada e per un attimo parve sporgersi in avanti, le dita
che si
stendevano verso Yuri, per poi chiudersi a pugno e ritornare al proprio
posto.
Yuri
scosse la testa. «Cosa?»
Otabek
sospirò, lanciando la proprio
arma per terra. Strinse la stoffa dei propri pantaloni, con un altro
profondo
sospiro, prima di parlare. «Stamattina Mila mi ha detto che
una sua amica è tornata
dalla foresta coperta di sangue e sconvolta. Parlava di un uomo che
l’ha
salvata da qualcuno che voleva farle del male. Sarei voluto arrivare
prima, ma non
avevo alcuna scusa ragionevole per saltare il lavoro e… ho
creduto… per un
attimo ho creduto che fossi ferito...» non ci fu che Otabek
aggiungesse altro, perché
Yuri riuscì a percepire un “o peggio”
nelle sue parole. Otabek si passò
una mano tra i capelli e solo in quel momento Yuri si rese conto di
quanto
fosse realmente angosciato. Le sue pupille erano dilatate, era
impallidito,
nonostante l’agitazione gli avesse colorato le guance di
rosso. Le sue mani
stringevano febbrilmente i lembi della camicia e le sue labbra parevano
tremare.
Ma
Yuri sentiva solo rabbia, come se la
preoccupazione di Otabek non lo sfiorasse neanche un po’; gli
dava fastidio,
invece, che Otabek stesse così in apprensione al solo
pensiero che potesse
essergli successo qualcosa, non quando era a conoscenza della sua forza
e dei
suoi poteri, non quando Yuri stesso cercava ancora di convincersi che
qualunque
fosse il rapporto che aveva adesso con Otabek, sarebbe stato solo
passeggero.
Ancora
confuso e irritato da ciò che
Otabek gli aveva detto, si limitò a fare spallucce,
soffiando una risata stanca.
«Non sarà un semplice uomo a ferirmi, Otabek, tu,
tra tutti, dovresti saperlo
bene.» lo prese in giro e dallo sguardo che Otabek gli
lanciò era evidente che
non la pensasse allo stesso modo. Yuri non si aspettava quello sbuffo
esasperato.
«Non
è così semplice per me, Yuri. Io
ti… – la sua voce si affievolì e Otabek
si morse il labbro inferiore,
passandovi velocemente la lingua, prima di chiudere gli occhi e
lasciare che
l’aria gli gonfiasse il petto. Solo quando parve
più calmo, riuscì a continuare
– non voglio che ti succeda niente, Yura. Non
voglio.»
Yuri
sentì di nuovo quella strana
pesantezza nel petto, unita alla consapevolezza che Otabek vedeva tutto
sotto
una luce diversa, una luce che lui non poteva condividere.
Annuì
quella volta, senza poter fare
altro che rassicurarlo. «Ma sto bene. Sto bene, Beka. Non mi
è successo
niente.» mentì. Era ovviamente successo qualcosa.
La nausea, i ricordi…
rabbrividì, ma non voleva far preoccupare Otabek
inutilmente, soprattutto a
causa di ciò che non poteva né controllare,
né tantomeno capire.
«Lo
so.» gli rispose lui. Socchiuse gli
occhi e di nuovo le sue dita corsero a scompigliargli i capelli,
stavolta con
meno enfasi, come se si fosse appena reso conto che non era davvero
successo
nulla, che Yuri stava bene ed era lì di fronte a lui. E a
Yuri venne voglia di
schiaffeggiarlo, perché non era normale che fosse
così in apprensione nei suoi
confronti.
«Allora
smettila di fare l’idiota.» lo
riprese, duro.
Gli
occhi di Otabek saettarono verso
l’altro, due stilettate scure che Yuri era sicuro avrebbero
fermato il cuore di
chiunque. «Non insultarmi.»
Yuri
sgranò gli occhi, le braccia
incrociate al petto. «Ti insulterò fino a quando
non la smetterai di essere
ridicolo.» sputò. Non sapeva perché, ma
all’improvviso sentì il bisogno di
mettere distanza tra loro. I suoi piedi si mosse
all’indietro, come se stesse
scappando da un pericolo.
Le
dita di Otabek corsero di nuovo tra i
suoi capelli, con tanta foga che Yuri temette se li potesse strappare;
non
l’aveva mai visto in quello stato, nemmeno la prima volta,
quando si era perso
nel bosco. Adesso non sembrava solo disperato, c’era anche
rabbia. Otabek era
pieno di rabbia e c’era sempre qualcos’altro, ma
questo Yuri non riusciva a
decifrarlo. Otabek lasciò scivolare le braccia ai lati del
busto e rise, lo
sguardo rivolto verso il cielo scuro. «Ridicolo?
Perché non voglio vederti
morto?»
Yuri
digrignò i denti e gli prudettero
le mani, chiuse a pugno, le nocche che sbiancavano.
«Ridicolo, esatto. Sai bene
che sono più che capace di difendermi da solo. Lo ero prima
che arrivassi tu,
lo sono ancora, e continuerò ad esserlo anche
dopo.» gli ci vollero appena
pochi attimi per capire di aver utilizzato proprio quelle parole. Anche
se nel
profondo sapeva che sarebbe stato così, non aveva mai
pensato di dirlo. Se non
fosse stato tanto scosso, non avrebbe mai insinuato qualcosa del genere
di
fronte ad Otabek, mai, sapendo quanto gli avrebbe fatto male; era tardi
per
rimangiarsi tutto, eppure non poté evitare di sentire una
stretta allo stomaco
nel vedere l’espressione di Otabek farsi scura, la rabbia di
poco prima
surclassata da una calma irreale. Otabek prese un profondo sospiro che
lo aiutò
a tornare con la schiena più dritta e il suo viso si fece
più controllato. «Dopo
di me?» gli chiese, assottigliando gli occhi.
Yuri
decise di ignorare il modo in cui
le sue iridi si fossero fatte lucide. Non voleva pensare a cosa
significasse,
non voleva pensare a quanto le sue parole si stessero conficcando in
profondità
nel petto di Otabek. Serrò la mascella. «Dopo di
te.» confermò.
Otabek
scosse la testa, un sorriso amaro
sulle labbra, così diverso dal solito modo in cui esse si
curvavano quando
sorrideva per davvero. «Certo.»
Si
sedette per terra a gambe incrociate,
una mano sul mento e l’altra a sostenersi la fronte.
«Dammi un minuto.»
sussurrò.
Yuri
si sedette di fronte a lui,
lontano, in silenzio, osservandolo mentre mormorava qualcosa che non
riusciva a
cogliere, come un brusio indistinto, e si passava ripetutamente le mani
tra i
capelli. Il suo bisbiglio si faceva meno accentuato ogni secondo che
passava,
fino a quando Otabek non prese un profondo respiro ed alzò
la testa. «Voglio
dirti una cosa, Yuri. – aspettò che annuisse,
prima di continuare – Lo so che
non mi ami e che probabilmente non lo farai mai, lo so… ti
chiedo solo di non
aspettarti che io smetta di amare te,
perché non succederà. E
soprattutto non aspettarti che non mi preoccupi per te, sono comunque
un tuo
amico e non voglio vederti star male.»
Le
sue parole erano calcolate, efficaci
e dirette, proprio come Yuri si aspettava, e colpirono proprio quel
punto della
sua testa che gli diceva di non affezionarsi troppo, che anche Otabek
se ne
sarebbe andato; lo sguardo deciso di Otabek pareva trapassarlo eppure
Yuri non
abbassò gli occhi, preferendo rimanere fermo nella propria
posizione.
Strinse
i denti ed emise un verso
esasperato. «Nemmeno io voglio far star male te, cazzo.
Vattene pure via, se
questo ti rende più felice o sereno!» disse,
infine. Non sapeva perché l’avesse
detto, dopotutto non voleva per davvero che Otabek se ne andasse. E
tutto
perché era un egoista. Yuri era un egoista: avrebbe dovuto
costringerlo ad
andarsene, a scappare via più veloce che poteva, minacciarlo
se fosse servito,
avrebbe dovuto dirgli di non tornare dalla primissima volta, anzi, non
avrebbe
mai dovuto farlo uscire dal bosco. Eppure non l’aveva fatto,
continuava a non
farlo.
«Mi
pareva di averti detto che non
voglio andarmene.» e la sincerità nelle sue parole
rinnovò il peso sul cuore.
Sentì quel muscolo farsi pesante e gli parve che stesse
affondando di più nel
suo petto. Lo stomaco gli si contrasse in uno spasmo doloroso. Yuri
grattò la
terra con le unghia, beandosi delle lievi fitte di dolore date da
rametti e
pietruzze, nel tentativo di ignorare la propria reazione. Aveva bisogno
di
rabbia in quel momento, non di confusione.
Con
un movimento stanco si alzò in piedi
e si lasciò scivolare in ginocchio di fronte ad Otabek.
«Perché sei solo uno
stupido umano, Otabek!». Esalò, e fu come se tutta
la stanchezza che gli
gravava sulle spalle avesse deciso di manifestare la propria presenza
in quel
momento. Yuri chiuse il pugno contro la terra e lo caricò
contro il petto di
Otabek, abbastanza forte da farlo piegare un po’ in avanti.
«Se tu avessi un
minimo di cervello, te ne andresti.» aggiunse, lasciando la
propria mano lì
dove si era posizionata.
«Se
tu avessi un minimo di
cervello, me lo chiederesti.» arrivò la risposta,
accompagnata da un ghigno sul
viso di Otabek e a Yuri sembrò lo stesso di sempre. Quella
frase l’aveva colto
alla sprovvista. Dando ascolto ad un secondo fiotto di rabbia, gli
diede un
altro pugno. «Non dirlo, potrei farlo davvero.»
sibilò.
Otabek
intercettò la sua mano chiusa,
allontanandola da sé. «Sto aspettando.»
Yuri
alzò anche l’altro pugno, che venne
altrettanto facilmente bloccato da Otabek. Un ringhio gli
risalì la gola e Yuri
si ritrovò a digrignare i denti contro di lui.
«Non credere che sia difficile.»
soffiò.
Otabek
gli sorrise, ma non lasciò la
presa su entrambi i suoi pugni e adesso Yuri cercava di sovrastarlo,
usando le
sue mani come leva. «Eppure non l’hai ancora
fatto.»
Yuri
lo fissò negli occhi, la gola che
vibrava in un ringhio sommesso, prima di spingerlo via, accettando che
non
sarebbe mai riuscito a rinunciare a lui, ancora.
«Allora non continuare
a tentarmi.» esalò infine.
Cadde
di nuovo indietro, seduto sui
talloni ed osservò il viso di Otabek: stava sorridendo, un
sorriso fievole,
debole e non sentito, più un sorriso di facciata che altro.
E poi c’erano i
suoi occhi, banali, forse, sottili e scuri, nonostante Yuri sapesse
benissimo
cosa fosse quella luce che li illuminava e che li rendeva intensi e
determinati.
Gli
mancò l’aria. I polmoni ebbero uno
contrazione a vuoto ed un secondo dopo era piegato in avanti, con le
mani che
afferravano la camicia, le dita affondate nella stoffa chiara e
leggera. L’aria
gli passava per le narici e sembrava non recarsi dove avrebbe dovuto,
rimanendogli impigliata in gola. Un calore liquido gli passò
in tutte le membra
concentrandosi nel suo stomaco e risalendogli verso il cuore, verso la
testa.
Sentì
a malapena la voce di Otabek che
lo chiamava attraverso il fischio sordo che gli aveva riempito le
orecchie.
Tutti
i muscoli si fecero molli,
l’equilibrio precario in quella posizione che minacciava di
farlo rovinare a
terra. Aspettava l’impatto, ma quello non arrivò
mai ed invece Yuri si ritrovò
disteso, con la nuca sollevata delicatamente e un’ombra che
copriva la luce
delle stelle sopra di lui.
Si
sentì chiamare di nuovo, e provò a parlare,
a rispondere, senza che alcun suono gli lasciasse le labbra, senza che
le
labbra nemmeno si aprissero. Non riusciva ad avere il controllo del
proprio
corpo, come una marionetta a cui però erano stati tagliati i
fili. Sentiva solo
caldo, caldo bollente e paura. E nonostante tutto percepiva il sudore
freddo
colargli lungo le tempie e giù per il collo,
l’aria gelida della notte soffiare
tra i suoi capelli, delle dita che gli controllavano il battito, che
gli
accarezzavano la cute. Parole incomprensibili, mormorate direttamente
contro il
suo orecchio, avevano il solo risultato di fargli stringere la gola.
Tornò
forte, l’odore del sangue e della
putrefazione, come se lui stesso fosse disteso accanto ad un cadavere,
solo che
quella volta non era un uomo sventrato dalle sue stesse mani, era una
donna su
un pavimento di legno e il sangue impregnava le assi, riempiendo gli
interstizi
tra esse. Voleva portarsi una mano sulla bocca, a fermare il conato che
gli
risaliva per la gola, ma non ci riusciva. Sentiva di stare per
soffocare, affogato
nella sua stessa bile. E alla fine, il vomito non venne, la puzza
sparì, Yuri
sentì pian piano gli arti farsi più rigidi e solo
dopo qualche secondo riuscì a
piegare le dita.
Il
rombo si affievolì, finche non
percepì i nitriti spaventati di Astra e una voce calda che
gli sussurrava di
respirare e che sarebbe andato tutto bene, mentre la sensazione di mani
tra i
capelli si faceva più intensa.
Quando
riprese coscienza di sé, Yuri si
trovò appoggiato alle ginocchia di Otabek; il ragazzo si era
piegato su di lui,
probabilmente nel tentativo di farlo rinvenire ed il suo tono
spaventato lo
risvegliò del tutto. Tossì, forte, raschiandosi
la gola, inalando l’odore di
cuoio e il lieve sentore di fumo che aveva imparato ad associare ad
Otabek e un
fiotto di calma gli invase la mente. Prese un profondo respiro e solo
in quel
momento Otabek parve accorgersi che era tornato in sé.
«Yura?»
provò. Yuri portò le mani a
sfregarsi gli occhi, nel tentativo di far dissolvere quella nebbia che
ancora
gli appannava lo sguardo e solo in quel momento il viso contrito di
Otabek
entrò nel suo campo visivo. Yuri lo vide sospirare,
ringraziando il cielo, per
poi stringergli una spalla. «Come stai? Cosa è
successo?» gli chiese.
Yuri
scosse la testa e tentò di tirarsi
a sedere, ma Otabek glielo impedì con una leggera pressione
sul petto. La sua
mano calda premeva contro il suo cuore impazzito; non ricordava
l’ultima volta
che gli aveva battuto così forte. Tossì di nuovo
e provò a parlare. «Sto bene…
ho solo… non lo so.» si lasciò andare
contro le ginocchia di Otabek.
«Vuoi
tornare nel bosco? Posso
accompagnarti con Astra se vuoi…» propose Otabek,
evidentemente confuso ed
incerto sul da farsi. Yuri gli appoggiò una mano sul braccio
e lo sentì
rabbrividire sotto quel tocco freddo. Scosse la testa di nuovo,
stavolta solo
per farlo star zitto.
«No,
posso rimanere qui, però… – lo
guardò, incerto. Non sapeva neanche perché stesse
per chiedergli una cosa come
quella, conscio che gli avrebbe fatto male. Sapeva solo che non voleva
essere
lasciato solo, non ancora. – resta un po’, va bene?
Solo fino a quando non
riuscirò ad alzarmi.» mormorò, gli
occhi socchiusi.
Percepì
i movimenti dell’altro tra le
ciglia; le ginocchia furono rimpiazzate da una mano e poi da un braccio
che gli
si strinse attorno alle spalle. Otabek aveva posato uno dei due
mantelli che
soleva portare sotto la propria testa, in modo da poter stare
più comodo lì per
terra. Yuri sentiva il suo fiato soffiargli sui capelli sciolti, mentre
con
l’altra mano Otabek prendeva ad sfiorarglieli.
«Dimmi se va bene così.»
Il
cuore gli batteva come un forsennato,
la voce di tremava. Otabek pareva sconfitto, stanco, triste, come se
avesse
paura che Yuri gli avrebbe detto di spostarsi.
Yuri
non lo fece, limitandosi ad
accoccolarsi meglio contro il suo petto, sentendosi egoista ed orribile
ad
approfittare del fatto che Otabek tenesse così tanto a lui
da metterlo al primo
posto, ma non credeva di riuscire ad allontanarsi da lui in quel
momento.
«Cosa
è successo?» riprovò Otabek,
ancora teso. Yuri si strinse nelle spalle. «Non lo
so.» perché davvero non lo
capiva; era come se il suo corpo stesse rigettando qualcosa, ogni
volta: la
nausea, la sensazione di non riuscire a respirare, e tutto quel caldo
innaturale che lo riempiva come un veleno. Si strinse contro il corpo
dell’altro, respirò il suo odore,
aspettò che il suo respiro si sincronizzasse
con quello di Otabek, prima di parlare una seconda volta.
«Non ti devi
preoccupare per me, come vedi è passato. Non è
nulla di grave.» ma non era
vero. Anche la prima volta sembrava essere passato, eppure era
ritornato e Yuri
non poteva continuare a sfidare la sorte e sperare che non gli
capitasse in
battaglia: era immortale, ma non voleva dire che non potesse essere
ucciso. Era
fatto di carne come tutti, e sanguinava.
«Yuri…»
cominciò Otabek, fermandosi per
inspirare; il suo petto si gonfiò contro la sua guancia e il
suo cuore diede
due battiti più veloci, per poi normalizzarsi. «Va
bene, ti credo.» deglutì e
riprese a passargli le dita tra le ciocche.
Yuri
sentì ancora quella strana nausea,
però non successe niente, quella volta. Cominciava a sentire
le palpebre
pesanti e gli occhi chiudersi contro la propria volontà. Si
chiese quando si
fosse abituato così tanto alla presenza di Otabek, quando,
di preciso, avesse
cominciato a fidarsi di lui a tal punto da permettere alla stanchezza
di
vincerlo, mentre era con lui. Il ritmo del suo cuore era diventato
lento e
rilassante contro il suo orecchio e Yuri era tanto, tanto stanco. La
sensazione
delle dita che gli accarezzavano il cuoio capelluto era diventata
l’unica cosa
su cui la mente di Yuri pareva riuscire a concentrarsi, il lieve
sfregare delle
unghia e i brividi sulla testa, immerso com’era in quello
stato di sereno
dormiveglia, almeno fino a quando il petto di Otabek non prese a
vibrare piano
e delle basse, sconosciute note non lo distrassero. Contrariamente a
ciò che si
avrebbe aspettato, quella ninna nanna ebbe solo l’effetto di
rasserenarlo
ancora di più e fu solo per caso che riuscì a
captare il momento in cui Otabek
gli aveva posato un bacio sulla fronte e gli aveva detto di riposare,
prima di
lasciarsi andare completamente.
Era
al sicuro, nessuno gli avrebbe fatto
del male, e Yuri poteva risposare, finalmente, poteva riposare.
Quando
Otabek lo risvegliò, per Yuri
potevano anche essere passate ore, perché aveva totalmente
perso cognizione del
tempo e dello spazio, come se fosse entrato in una bolla di
tranquillità che
tuttavia era destinata a scoppiare.
Aprì
piano gli occhi, passandosi una
mano sul viso per rimuovere i residui del sonno.
«Beka?» gracchiò, la voce
ancora roca.
Provò
a mettersi seduto e quella volta
Otabek gli strinse le spalle e lo accompagnò nel movimento.
Yuri ignorò la sua
mano quando gliela porse per aiutarlo ad alzarsi, e si stupì
che le sue gambe
non avessero ceduto, come invece credeva avrebbero fatto.
«Io
devo andare adesso.» gli annunciò
Otabek. «Ti avrei lasciato dormire, ma dubito tu voglia
rimanere qui fuori.»
aggiunse, mentre faceva cenno ad Astra di avvicinarsi. La cavalla
nitrì piano e
gli diede un colpo di muso, lasciandosi però accarezzare
come sempre.
«No,
hai fatto bene.» Yuri studiò il suo
viso, era segnato da ombre scure di cui non si era accorto prima, ma
decise di
non indagare oltre, prima di tutto perché non voleva
trattenere Otabek e poi
perché non era nella posizione di poterlo fare. Si
limitò ad annuire e
aspettare che montasse in groppa ad Astra.
«Yura?»
Otabek lo squadrava,
l’espressione indecifrabile; Yuri alzò un
sopracciglio. «Dimmi.»
Sembrò
sul punto di dirgli qualcosa,
qualcosa che Yuri si scoprì curioso di sentire, poi parve
cambiare idea; si
passò una mano sul volto. «Ci vediamo domani,
buonanotte.» disse infine, con un
sorriso, stavolta un sorriso di quelli veri, che Yuri
ricambiò senza neanche
pensarci.
«Buonanotte,
Beka.» gli rispose.
Otabek
si issò sopra la sella e diresse
Astra verso il villaggio, con un ultimo cenno della mano.
***
Yuri
non era stanco, non più, così si
sedette su una delle rocce adiacenti alla piccola cascata; aveva
intenzione di
continuare a leggere il diario, curioso com’era di sapere di
più su chiunque
l’avesse scritto. Sentiva una strana connessione con quel
libriccino muffito e
usurato, sebbene al contempo provasse un sottile odio per chiunque
l’avesse
scritto, perché pareva comprendere perfettamente come ci si
sentisse a stare
con la Regina, senza però fornirgli alcuna soluzione utile.
Con
uno sbuffo infastidito a quel
pensiero, aprì, scorrendo le pagine che aveva già
letto e posando gli occhi
sulla grafia sottile ed ordinata.
“La
Regina mi ha chiamato oggi.
Non era diversa
dal solito, eppure sono
sicuro che sappia, c’era qualcosa, nei suoi occhi, che mi ha
ghiacciato il
sangue nelle vene.
In
verità, non mi interessa che lei
sappia o meno, perché non rivedrò mai
più quel giovane e tutto ciò che mi
rimane di lui sono i miei ricordi e la felicità di sentirmi
vivo dopo tutto
questo tempo.
Ho scolpito
diverse statue, in
quest’ultimo periodo, per tenermi occupato, ma anche per non
rischiare di
dimenticare il suo volto ed il suo corpo e credo sia questo il motivo
per cui
la Regina è tanto preoccupata. Ma come posso spiegarle cosa
mi è successo, se
non riesco a spiegarlo neanche a me stesso?
Ogni notte,
quelli che sono sempre stati
sogni tranquilli e quasi inesistenti da quanto riesco a ricordare sono
diventati scuri e tormentati, e le uniche volte che riesco a ricordare
con
esattezza ciò che ho visto durante il sonno, sono quelle in
cui sogno lui. Mi
sveglio triste, spesso piangendo, perché so che non
ritornerà, che non potrò
mai più ammirare i suoi occhi vivi ed il suo
sorriso.”
“Ho
smesso di scrivere su questo diario.
A che scopo provare a scrivere ciò che sento, quando sono
solo sentimenti
negativi e un profondo senso di abbandono?
Ho ripreso ad
andare al villaggio, a
quella taverna. Non so perché, ma sento che è
lì il mio posto, ad attenderlo,
perché non ritroverò mai più la pace,
se non con lui.
Qualche notte la
passo con delle donne,
altre con uomini. È un’esperienza nuova per me,
è come sentirsi vivi, non come
con lui, ma è un’emozione molto simile. Posso
lasciarmi andare e seguire solo
ciò che il mio corpo vuole fare, senza pormi
limiti.”
“Le
mie notti continuano ad essere
tormentate, non riesco più ad essere quello che ero un
tempo, la mia stessa
pelle mi costringe in una prigione da cui non posso scappare e
un’odiosa
debolezza mi intorpidisce le membra.”
“Per
quanto ancora dovrò aspettare? Sono
stanco, e non so più come occupare il mio tempo. Ormai anche
scolpire è
diventato monotono: la memoria non mi aiuta più, adesso, a
distanza di mesi.
Pattinare sul pavimento di ghiaccio ha perso il suo brivido, non quando
penso a
quanto potrebbe essere diverso con lui tra le mie braccia, perfino il
sesso ha
smesso di essere uno sfogo. Sto solo sprofondando in questo abisso di
solitudine
e monotonia, senza niente che riesca a sorprendermi, niente che riesca
a
perforare questa corazza di ghiaccio che è il mio cuore.”
Nel
paragrafo successivo la scrittura si
faceva tremula, confusa, come se la mano che stava scrivendo non
riuscisse a
star ferma, ed erano nuovamente presenti quelle macchie di inchiostro
sbiadito
che facevano pensare a delle lacrime. Yuri dovette strizzare gli occhi
per
riuscire a capire cosa ci fosse scritto, maledicendo l’autore.
“È
lui. È tornato, da solo. Se ne
stava in un angolo della taverna, in silenzio, guardandosi intorno e
non ho
potuto resistere. Mi sono seduto accanto a lui.
Era
così sorpreso di vedermi lì, sembra
non ricordare ciò che è successo mesi fa,
l’ho capito dopo poco.
Mi sento bene
quando parlo con lui, è
talmente pieno di gentilezza da farmi rimanere incantato a guardare ed
ascoltare qualunque cosa farà o dirà.
Mi ha detto di
chiamarsi Yuuri, è un
nome bello e delicato, come lui; si nasconde dietro una corazza di
insicurezza
ed imbarazzo, senza accorgersi di quanto ormai mi sento legato a lui,
quanto mi
senta vivo, nel posto giusto, al momento giusto; non credevo potesse
essere
possibile di nuovo.”
“Ormai
passo ogni momento libero con
lui, e voglio solo che sia felice.”
“Tante
cose sono cambiate e non so più
cosa stia succedendo al mio corpo. Lo sento quasi estraneo, e tornano i
ricordi, tornano cose che non credevo neanche esistessero, e quando
tornano non
riesco a respirare, sento il petto stringersi e il mondo comincia a
girare intorno
a me, a tal punto che non so più quale sia il cielo e quale
la terra. Sento la
stanchezza prendermi alla sprovvista, le gambe non mi reggono, ho paura
di
morire.”
“Oggi
ci siamo rivisti, e Yuuri mi ha
sorriso per la prima volta, si è seduto accanto a me di sua
spontanea volontà.
È stato bello, finché è durato,
perché una forte nausea mi ha preso lo stomaco
e non ho potuto trattenere il conato di vomito.
Yuuri era
preoccupato, ma gli ho detto
che non importava, che avevo mangiato qualcosa di strano, eppure so che
non è
così. C’è qualcosa che non va in me,
una parte di me stesso sta respingendo
qualcosa, la rigetta, non vuole considerarla, e anche adesso che sto
con Yuuri.
Il vuoto che sentivo è stato colmato, eppure continua a
mancarmi qualcosa. Non
so di cosa si tratti, ma sono intenzionato a scoprirlo.”
“Questi
episodi non fanno che aumentare,
ogni volta che guardo Yuuri le budella si torcono, la testa si fa
pesante.
Ormai non riesco più nemmeno a mentirgli, mi ha visto troppe
volte cadere svenuto
o vomitare e mi sta accanto ogni volta che succede, ma non allevia il
dolore,
se non per pochi minuti. Forse sto morendo, forse, dopotutto, non sono
così
immortale come credevo.”
Yuri
chiuse il diario di scatto, senza
voler credere a ciò che aveva appena letto. No, doveva
essere tutto un brutto
scherzo. La sua mente volò a Seung-gil, ma non era
possibile, lui non avrebbe
mai fatto una cosa del genere… Lui non poteva sapere cosa
stava provando Yuri.
Perché
tutto quello che stava provando
era scritto lì, su quelle pagine, inchiostro nero su
pergamena antica e sottile,
tra le rilegature mangiate dalla muffa.
Qualcuno
sapeva, o per lo meno aveva
saputo, ciò che gli stava accadendo; ne parlava con troppa
precisione,
descriveva i sintomi e le sensazioni, le evocava esattamente come Yuri
le
ricordava. Le sentì di nuovo sulla pelle, il terrore di
stare per morire, la
gola chiusa e l’impossibilità di muoversi e
respirare.
E
oltre a quello, c’era anche
qualcos’altro che lo accomunava all’uomo, qualcosa
che legava le loro storie,
qualcosa che Yuri non aveva mai pensato potesse essere causa, o
quantomeno concausa
dei suoi malori: un umano.
Note
finali:
Emh,
salve!
Mi
scuso profondamente per il ritardo nel pubblicare questo capitolo T_T
ma ho
avuto dei problemi in questo periodo e ho dovuto riprendere le lezioni
universitarie, tra professori strani e visite tecniche fatte a fine
maggio che dovrebbero
essere illegali. Quindi davvero, scusatemi tanto.
Sono
contenta di aver ripreso in mano questa storia, e devo ringraziare un
gruppo di
writing sprint, con persone bellissime (che non sto qui a nominare,
perché sono
tutti autori/autrici straniere) e che mi ha ridato la carica!
Passiamo
al capitolo!
La
scena tra Otabek e Yuri è stata pesante,
perché volevo renderla proprio
come l’avevo immaginata, facendo passare tutte le emozioni
che ci sono, e spero
davvero d’esserci riuscita!
Yuri
ha avuto un’altra crisi, ed insiste a dire che non
è niente, ma sa molto bene
di star mentendo prima di tutto a se stesso (dopotutto non è
stupido). Cosa
credete che siano queste crisi? Sono davvero causate dal fatto che sia
Yuri che
il misterioso uomo del diario (lol, molto misterioso, dicevano) hanno
conosciuto un umano?
Mi
farebbe tantissimo piacere sapere cosa ne pensate e spero vorrete lasciarmi un commento! :3
Per
finire, ringrazio chiunque abbia letto, con particolare menzione per Silvar
tales che ha recensito lo scorso capitolo (grazie mille,
come sempre!!
<3) e un grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storie tra
le
preferite/seguite. Ed ovviamente anche alla mia beta!
Spero
di non far aspettare così tanto per il prossimo capitolo, ma
si avvicina il
periodo degli esami *piange* quindi non so davvero quanto ci
metterò a finire
di scrivere il prossimo e ringrazio infinitamente chiunque ha avuto ed
avrà la
pazienza di aspettare!
Alla
prossima!! <3 <3
LysL
|
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Capitolo 8 *** Capitolo VII ***
Dedico questo
capitolo a Kiarana
che è
sempre dolcissima con me
Grazie
Capitolo
VII
Le
sue crisi non si fermarono; se
l’aspettava. Erano sempre più forti e frequenti:
quando era da solo attendeva
che passassero, passavano sempre, si lasciava cadere a terra e si
concentrava
solo sulla poca aria che riusciva ad inalare, in modo da essere sicuro
di non
stare per morire, anche se i dolori ed il caldo bollente gli rendevano
molto
difficile crederlo; quando era con Otabek erano ancora più
intense del solito,
ma Yuri almeno sapeva di potersi fidare di lui e cercava di ascoltare
la sua
voce, come unico appiglio per non confondere ciò che era
reale da ciò che non
lo era.
Perché,
oltre alle fitte, adesso c’erano
anche le allucinazioni e non erano semplici immagini, ma interi episodi
appartenenti alla sua vita di prima, con dettagli conosciuti solo a
lui, che lo
lasciavano sfinito e mentalmente distrutto. Non erano sempre
particolari
macabri o tristi, a volte provenivano anche da quei pochi anni di pace
che
aveva avuto. Ricordava suo nonno che gli insegnava a cucinare,
sorridente con
le mani sporche di farina e acqua, ricordava la sua voce affettuosa che
lo
lodava e la sua mano scompigliargli i capelli. Ricordava sua madre che
gli
accarezzava la testa e, distesa accanto a lui, gli cantava delle dolci
ninna
nanne per farlo addormentare quando fuori faceva troppo freddo ed il
vento
faceva sbattere le finestre di legno. Quando tornavano quei ricordi,
Yuri
scoppiava a piangere. Erano pianti incontrollati, di quelli che
continuano fino
a quando non si hanno più lacrime da versare, fino a quando
gli occhi non
bruciano e dolgono. Yuri odiava farsi vedere così,
soprattutto da Otabek, e
spesso sperava che non tornasse più, che lo lasciasse solo,
ma se c’era una
cosa che gli faceva ancora più paura delle crisi,
irrazionalmente, questa era
perdere Otabek.
Cominciava
a capire cosa intendesse
l’uomo del diario, quando aveva detto di essere stanco della
noia, della stasi
che avvolgeva tutto il castello e le loro vite, e di voler invece
trovare
altro, senza accontentarsi solo della vita che era stata loro offerta.
Non
aveva continuato a leggere,
spaventato da ciò che avrebbe potuto trovare tra quelle
pagine, ma una domanda
a lungo dimenticata era tornata a tormentarlo, una domanda a cui non
aveva mai
voluto rispondere.
Se
la ricordava ancora, pronunciata
dalla voce di Otabek, la prima sera che si erano parlati. «Perché
mi hai
aiutato?»
Perché
lo aveva aiutato?
Pur
non avendo mai riflettuto bene sulla
risposta a tale domanda, Yuri sapeva che l’aveva fatto per
una ragione molto
semplice: Otabek aveva messo a repentaglio la propria vita per
salvarlo, la
propria e quella della sua amica, in un gesto che Yuri non aveva potuto
ignorare, sarebbe stato solo ipocrita da parte sua ucciderlo. Una vita
per una
vita, e il suo debito era stato saldato.
La
vera domanda che avrebbe dovuto porsi
era perché non l’avesse ucciso la seconda volta,
quando era tornato a cercarlo.
In quel caso non c’era remore che potesse tenere, Yuri
avrebbe detto che se
l’era cercata, eppure no. Non l’aveva ucciso
nemmeno quella volta, né la volta
dopo, né quella dopo ancora, perché era elettrizzante;
avere un segreto,
fare qualcosa che si era vietato per anni, permettersi di parlare con
qualcuno
che non fosse la Regina o Seung-gil, era una sensazione diversa,
un’emozione
che Yuri non ricordava più. Stare con Otabek era
liberatorio, perché non era
impegnativo, non era difficile: con lui, Yuri non doveva preoccuparsi
di tenere
a freno la lingua, come avrebbe fatto con la Regina; con lui, poteva
anche
stare in silenzio e fare altro, senza però sentirsi ignorato
come gli succedeva
con Seung-gil. Chiacchierare con lui non era una forzatura e Yuri aveva
imparato a conoscere le cose che lo facevano ridere e quello che lo
facevano
arrabbiare o intristire e si era stupito quando aveva notato che anche
Otabek
stava cominciando a capire cose di lui, ma al contrario di quanto si
sarebbe
aspettato, tutto ciò non faceva che stringere il legame che
avevano instaurato.
Era
piacevole e ormai capitava sempre
più spesso che la sua mente creasse scenari in cui
c’erano solamente lui ed
Otabek, magari seduti vicino ad un fuoco, dentro una casa dove il
freddo e il
vento non potevano entrare, dove la neve e lo sguardo della Regina non
potevano
raggiungerli. Yuri aveva cominciato a chiedersi come sarebbe stato se
avesse
potuto addormentarsi accanto ad Otabek, ogni sera, con il battito del
suo cuore
nelle orecchie, a scandire l’unico tempo che gli interessasse.
Erano
pensieri che gli aprivano un vuoto
nello stomaco, gli facevano sentire la testa vuota e pesante allo
stesso tempo,
come una strana sensazione di vertigine.
Erano
pensieri pericolosi, e sperava che
la Regina non ne venisse mai a conoscenza, perché sapeva che
non avrebbe
capito, che non ne sarebbe stata contenta.
Eppure…
eppure non riusciva a smettere
di indugiare in quelle fantasie, non riusciva, non voleva.
Anche quando
tutto quel disordine di emozioni dimenticate veniva silenziato dalla
voce della
sua ragione, fredda e dura, la quale gli ricordava che sarebbero
rimaste solo
fantasie; anche quando tutte le notti tornava al prato e si chiedeva
come aveva
potuto permettere che accadesse, si chiedeva cosa avrebbe
fatto nel
momento in cui il sentimento che Otabek diceva di provare per lui si
sarebbe
spento, quando inevitabilmente Otabek sarebbe diventato troppo adulto,
con la
voglia di avere una famiglia e trovare stabilità.
Ogni
volta finiva per sentire il petto
stringersi fino a fargli male, raggomitolandosi su se stesso.
Quel
giorno non aveva ancora avuto nessuna
crisi, se ne stava seduto su una delle poltrone morbide della sala da
lettura
del castello e si rigirava tra le mani il diario sporco di inchiostro,
indeciso
sul da farsi.
Non
aveva il coraggio di scoprire cosa
fosse successo a quella persona, non voleva leggere di una morte lenta
e
dolorosa, eppure non si sentiva ancora pronto a lasciar andare quel
libriccino.
Sapeva
che le risposte che cercava erano
lì dentro e doveva solo trovare la forza di affrontarle, ma
gli tremavano le
mani al solo pensiero di poter trovare qualcosa… qualcosa
che sancisse per
sempre il suo destino.
Era
talmente preso nell’osservazione del
cuoio macchiato che non captò il lieve fruscio di un vestito
che scivolava sul
ghiaccio.
Fu
la voce incuriosita della Regina a
destarlo da quel trance, e Yuri sussultò quando la sua mano
fredda gli si posò
sulla spalla, infilandosi velocemente il libriccino sotto la giacca.
«Cosa
ti rende tanto pensieroso, mio
Yurochka?» gli aveva chiesto, prima di lasciarsi andare
elegantemente sulla
poltrona di fianco alla sua.
Yuri
alzò il viso, incrociando i
lineamenti spigolosi della donna, addolciti da un sorriso che gli parve
sincero
e dalla folta coltre di capelli castani che le incorniciava il volto.
Era
un’occasione unica, vederla con i capelli sciolti e non
raccolti nella sua
solita crocchia, ma le ciocche morbide avevano il potere di farla
sembrare più
giovane e più umana, se non fosse stato per il colore troppo
verde e troppo
acceso dei suoi occhi penetranti e la pelle traslucida, quasi
opalescente e
fredda come il ghiaccio di cui era sovrana.
Yuri
scosse la testa lentamente. «Non
so.» le rispose.
La
Regina si sporse verso di lui e gli
prese un braccio, avvicinandolo a sé. «Guarda i
tuoi capelli, Yurochka, non li
tieni più intrecciati, perché?» era
evidente che non si aspettasse una
risposta.
Yuri
si lasciò tirare, la Regina non era
stata brusca, e gli fece cenno di sedersi ai suoi piedi, posando una
mano sul
proprio grembo come a invitarlo ad appoggiarsi. In realtà
non aveva idea del
perché avesse smesso di acconciarli; probabilmente
perché gli veniva molto più
semplice lavarli dopo ogni crisi, visto che ormai erano diventanti
più lunghi.
Con
un sospiro, Yuri lasciò che lei cominciasse
a passargli le dita tra i capelli con l’obiettivo di
ripulirgli la chioma da
foglioline e rametti. Era stranamente rilassante, ma Yuri non riusciva
a non
pensare alle mani di Otabek e a quanto fossero state gentili, calde e
piacevoli
contro la sua cute. Scacciò l’immagine con tutto
l’autocontrollo che possedeva.
«Cosa
non sai?» gli chiese ad un tratto
lei. Aveva raccolto diverse ciocche nella propria mano e si apprestava
ad
intrecciarle.
«Molte
cose.» voleva essere il più vago
possibile, perché non sapeva quanto e cosa la Regina
sapesse, anche se
sospettava fosse molto più di ciò che appariva.
«A
che proposito?» Insistette la donna,
assicurando un nodo alla base della sua nuca e passando alla treccia
successiva.
Di
nuovo, Yuri scosse la testa.
«Diversi.» ed era una mezza verità,
perché la fonte delle sue preoccupazioni
non era singola e lui per primo non era sicuro di quante effettivamente
fossero.
«Ha
a che fare con quell’umano, vero?»
domandò, stavolta in tono più duro, come se
stesse per rimproverare un bambino
capriccioso.
Yuri
si irrigidì, ma si rilassò subito
dopo, non voleva che lei si intrufolasse ancora di più nella
sua mente. Non
rispose, lasciò che anche la seconda treccia venisse fissata
accanto all’altra.
Le
dita della Regina raccolsero altre
tre ciocche, e a Yuri non sfuggì il modo in cui le
tirò con l’intento di
causargli una piccola fitta di dolore. Trattenne il fiato.
«Non
devi nasconderti da me, Yurochka.
Sai bene che so sempre come ti senti. Non ricordi? La tua anima mi
appartiene e
sento come sta soffrendo.» le sue parole di miele gli
carezzarono le orecchie
al pari delle dita gelide che adesso gli acconciavano delicatamente i
capelli.
La
nausea, che non lo abbandonava mai,
si fece più intensa e il respiro gli accelerò.
Non aveva paura, no, era
qualcosa di peggio.
«Certo
che lo ricordi. E ricordi anche che
basta una parola, tutto questo potrà andarsene,
vero?» Eccola di nuovo, la
minaccia nascosta da gentile proposta, da favore che gli veniva
offerto. Yuri
vedeva l’intero palazzo girare intorno a lui ed
avvertì l’impellente bisogno di
scappare da lì, forte e imperativo come non mai.
«Ti
senti come un estraneo nel tuo
corpo, no? Come se ti mancasse un pezzo di te, ma al contempo stai
anche
rigettando qualcosa. – il respiro di Yuri si mozzò
di nuovo, il ragazzo non si
voltò di scatto solo perché costretto dalle dita
che ancora gli intrecciavano
le ciocche. – Lo so, lo so, mio Yuratchka, lo sento anche io.
Ma posso
aiutarti, posso far andare via tutto.»
La
Regina s’era chinata a sussurrargli
nell’orecchio e Yuri avvertì il suo respiro gelido
soffiargli sulla nuca.
«Posso renderti felice com’eri un tempo, non
c’è un’altra soluzione, e lo sai
bene.» fissò l’ultima treccia, le dita
che gli tracciavano il profilo delle
scapole attraverso la camicia.
Gli
strinse le braccia, aiutandolo ad
alzarsi e non appena fu in piedi, Yuri si liberò dalla presa
con uno strattone.
Aveva tutta l’intenzione di voltarsi e tornarsene alla
propria radura, a
riposarsi e riflettere, e forse a leggere ancora il diario.
Non
si accorse di quanto fosse stato
brusco il proprio movimento, fino a che il rumore di qualcosa che
cadeva a
terra non interruppe quel silenzio di cristallo tra lui e la Regina. I
suoi
occhi scattarono verso il pavimento; il diario, aperto contro il
ghiaccio, era
perfettamente visibile, ma quando Yuri fece per riprenderselo
provò solo un
forte dolore ai polsi, dove la Regina aveva stretto le mani.
Non
tentò nemmeno di ribellarsi, poiché
sapeva che era tutto inutile, anche se fisicamente la donna era molto
più
debole di lui, non avrebbe mai potuto eguagliare la potenza della magia
che gli
bloccava gli arti.
«Dove
hai presto questo diario?» gli
chiese allora la Regina, sporgendosi per raccoglierlo.
L’aveva lasciato andare,
ma i suoi polsi rimasero immobili. Il viso della donna era impassibile
come al
solito, eppure a Yuri non sfuggì il modo in cui i suoi occhi
si fossero
assottigliati e come le tremassero le mani.
«Liberatemi.»
intimò, consapevole che
non avrebbe ottenuto niente; infatti, la Regina si limitò a
sollevare il
libriccino di fronte a lui. «Dove l’hai preso,
Yurochka?»
«Liberatemi…»
insistette, strinandosi i
polsi contro quelle costrizioni magiche, i pugni chiusi.
«Yuri,
parla.»
Yuri
si immobilizzò; erano anni,
decenni, che la regina non lo chiamava più con il suo
semplice nome, e non
credeva che sarebbe stato così terrorizzato di sentirlo
nuovamente. Strinse i
denti, trattenendo il ringhio che gli risaliva su per la gola.
«L’ho
trovato.» le rispose, sentendo
adesso un nuovo sentimento ribollire accanto alla paura, qualcosa che
gli
scorse nelle vene. Le ginocchia gli cedettero, anche quelle strette in
una
dolorosa morsa.
«Cosa
hai letto?» le mani della Regina
si sporsero verso la sua testa, strattonandolo in modo che la guardasse
e Yuri
non l’aveva mai vista tanto sconvolta. La solita, elegante e
regale compostezza
aveva lasciato il posto ad una rabbia nuda, una rabbia che
rassomigliava più a
terrore e Yuri si chiese cos’altro nascondessero quelle
pagine, che segreto vi
fosse celato, e quanto fosse importante o pericoloso, se la Regina
aveva perso
il senno così, al solo pensiero che lui avesse letto.
Si
rese conto solo dopo pochi secondi
che la Regina non era arrabbiata, no, era terrorizzata almeno
quanto
lui.
Yuri
inghiottì un grumo di saliva.
«Ditemelo voi, mia Signora, cosa ho letto?» la
sfidò e se ne pentì nel momento
stesso in cui lei si abbassò al suo livello, per poterlo
guardare negli occhi.
«Non
osare. Tu non sai niente. Non sai niente.»
sibilò. «Sei solo un ragazzino, Yuri, sei solo un
ragazzino che non ha mai
saputo cosa fare della sua vita. Proprio come lui.
Avrei dovuto
prevederlo, siete così simili…» la sua
bocca si torse in un sorriso amaro e
minaccioso, ma, se Yuri fino a qualche attimo prima avrebbe dato
ascolto alla
voce che gli diceva di non infierire, di star zitto in attesa che
passasse,
adesso non ne aveva la minima intenzione; le parole della Regina erano
state
più dolorose e dirette di stilettate al petto, scavavano
dentro di lui, si
cibavano della sua insicurezza e della sua paura.
Si
passò la lingua sulle labbra che gli
si erano fatte secche e parlò. «Di chi state
parlando?»
La
Regina rise piano. «Pensavo fossi
intelligente, Yuri. Parlo dell’autore di questo diario, il
mio prezioso Vitya.»
disse, la voce che suonò melliflua e triste.
«Siete così simili. La stessa
bellezza eterea – gli passò un dito sul volto, a
tracciare la mandibola. – la
stessa forza e la stessa grazia. Era un guerriero anche lui, il mio
prezioso
Vitya, il migliore di tutti, prima di te. Avrei dovuto prevederlo,
avrei dovuto
prevedere che foste simili anche all’interno.»
Si
alzò e gli voltò le spalle. «Era un
sognatore, il mio Vitya. Sin dal primo momento che l’ho
visto, sapevo sarebbe
stato diverso. Non è mai stato bene qui, rinchiuso tra i
ghiacci, ma mi sono
illusa di bastargli, pensavo che avrebbe lasciato stare quei pensieri
che gli
affollavano la mente per rimanere con me. Non mi sono mai sbagliata
così tanto;
incontrò un umano, un tale Yuuri, e
all’inizio non me ne preoccupai. Il
mio Vitya era bello, e non potevo negargli il divertimento ed il
piacere, ma
mai, mai avrei pensato che avrebbe scelto un umano
al posto
dell’immortalità, della magia. Lo credevo
più saggio di così, più
ambizioso.»
Si
voltò a guardare Yuri. «E invece sai
cosa è successo? Lo sai, non è vero? Ha
continuato a vedere quel suo Yuuri,
senza pensare alla sua salute. Ma non ti sto dicendo niente di nuovo,
Yurochka.
Tu sai bene di cosa sto parlando; della nausea, della stanchezza ed il
logoramento, della sensazione di oppressione e del respiro che ti
manca, come
se stessi affogando. Non credere che non lo sappia.»
Yuri
si dimenò di nuovo, incurante del
fatto che fosse inutile e servisse solo a stancarlo, ma non sapeva
cos’altro
fare e di sicuro non sarebbe rimasto lì fermo senza neanche
provare a
ribellarsi. Eppure non riusciva ad interromperla, perché
finalmente stava
scoprendo cosa era accaduto e la sua mente bramava quelle informazioni
al pari
della libertà, in quel momento.
«Lo
sai perché ti senti così?» gli
chiese la Regina, e senza aspettare che lui le rispondesse,
alzò una mano a
mezz’aria, disegnando un complicato arabesco con la punta
dell’indice. La magia
si lasciò dietro una scia azzurrina, come il sole attraverso
il ghiaccio.
Yuri
assistette al materializzarsi
di una piccola ampolla sferica che sembrava brillare di luce
intrinseca; la
osservò meglio, mentre fluttuava di fronte a lui, e colse
una sottile nebbia
dorata scivolare sui bordi morbidi del materiale trasparente, lo
lambiva come
il fumo si piega alla costrizione di un camino. Yuri si
sentì scaldare,
un’immensa calma lo avvolse, una pace che diede tregua alle
sue membra
contratte e scoprì di non avere bisogno della Regina per
sapere cosa aveva di
fronte.
La
donna fece ondeggiare l’ampolla
nell’aria, portandola verso di sé. «La
riconosci, vero Yurochka? Anche dopo
tutti questi anni.» gli sorrise, passando un dito sulla
superficie liscia della
sfera.
Yuri
non riusciva a distogliere lo
sguardo dalla bruma aurea, la sua anima, che
volteggiava proprio davanti
a lui, così vicina, eppure così irraggiungibile.
Nella
rinnovata pace che gli
attraversava il corpo, Yuri trovò la forza di parlare, di
chiedere. «Cosa ha a
che fare la mia anima con le crisi?» esalò, mentre
un caldo torpore gli faceva
tremare le palpebre.
«Sai
cosa c’è qui dentro a parte la
tua anima, Yurochka? La tua umanità, il dolore che ti ho
tolto, l’amore che non
puoi provare. Ahimè, nonostante la tua anima sia ormai
quella di un immortale,
c’è ancora qualcosa che manca. Puoi ancora provare
emozioni, e questo fa sì che
il tuo corpo si senta più umano di ciò che in
realtà è. Il tuo corpo ricorda
l’umanità, la tua mente ti proietta
verso di essa, bastano gli stimoli giusti.»
disse la Regina, roteando l’ampolla sulla punta delle dita.
Gli
occhi di Otabek, coperti
dall’ombra dell’albero sotto il quale solevano
sedersi, furono la prima
immagine che gli riempì la mente. Non parlò, non
si azzardò a dirlo ad alta
voce, ma non servì a nulla; la luce nella sfera
brillò più forte e ricoprì
tutta la superficie interna, come se volesse romperla ed uscire fuori,
ricongiungersi con il suo proprietario
Quasi
contemporaneamente al lampo
dorato, Yuri fu scosso da un conato che lo lasciò
boccheggiante. Poi una fitta
al petto e l’aria che gli veniva risucchiata dai polmoni.
«È
questo ciò che ti
manca, è questo ciò che il
tuo corpo brama ed è questo che la tua
mezza anima rigetta, perché sa bene che
tornerebbe il dolore. Eppure tu
ti ostini a ricercarlo, e lo vuoi. Tutto quello che hai fatto in questi
mesi,
credendo che io non lo sapessi, questa… relazione che
hai instaurato con
il tuo umano. Non hai bisogno di sentirlo dire da me, sai
già che non è un
rapporto normale.» gli spiegò la Regina e strinse
la sfera.
Yuri
alzò la testa;
aveva un filo di saliva che gli colava dal labbro e sputò di
lato. «Quindi
significa che io…» provò a parlare, ma
fu bloccato di nuovo da un conato,
mentre la luce si faceva sempre più intensa.
La
voce della Regina
pareva lontana, ma Yuri riuscì a sentirla oltre al rombo che
sentiva nelle
orecchie. «Esatto Yurochka. Significa che il tuo corpo e la
tua anima vogliono
amare, significa che se la tua anima fosse intera, saresti
già innamorato di
quel tuo umano.»
Yuri
scosse la testa ed
aprì gli occhi. Vedeva la sua anima brillare, pregare per
ritornare dove le
spettava di diritto, fluttuando arrabbiata all’interno della
sfera, e si spinse
in avanti. Non importava più niente, avrebbe sofferto
volentieri il dolore, se
avesse voluto dire scappare via da lì, mettere
più leghe possibili tra se
stesso e la follia della Regina, una follia che la spingeva a
manipolare,
giocare con le vite altrui, fingere d’essere una salvatrice,
quando invece
sapeva solo incatenare a sé le sue povere, ignare, vittime.
L’avrebbe
affrontato
con onore, e forse non sarebbe stato solo, perché
l’idea d’essere capace di
ricambiare l’amore di Otabek non era mai stata tanto reale,
la voglia d’esserne
capace non era mai stata così intensa. Nella sua mente
confusa, mentre tutto
ciò che sapeva veniva sbriciolato dal semplice, furioso
turbinio della nebbia
luminosa, era l’unica cosa che era rimasta ferma e chiara.
Lui voleva vivere,
lui voleva stare con Otabek, e anche se ancora non sapeva come,
né riusciva a
capirne il perché, quella consapevolezza risuonava
imperativa e struggente e
gli dava la forza di continuare a muoversi e lottare.
Le
catene invisibili
gli bloccavano mani e piedi, ma non gli impedivano di urlare.
«RIDAMMELA! LA
RIVOGLIO!» gridò, il fiato che gli graffiava la
gola. «Non mi interessa più
stare qui! Lasciami andare!»
«Non
osare rivolgerti
così a me, Yuri. Cosa non capisci? Non posso lasciarti
andare! Anche il mio
prezioso Vitya mi ha abbandonato, sono rimasta sola per anni! Un
secolo, prima
che Seung-ah venisse a bussare alla mia porta. Non
permetterò che succeda di
nuovo, non voglio vivere ancora in quel modo…» Se
Yuri non fosse stato così
arrabbiato, si sarebbe accorto della tristezza che tingeva la voce
della
Regina.
«Come
ha fatto ad
andarsene? L’avete lasciato andare?» le chiese
allora, senza fiato.
La
Regina strinse la
presa sulla sfera e Yuri era sicuro che se fosse stata di un materiale
normale
sarebbe già finita in mille pezzi.
«Mi
ha abbandonato, si
è ripreso la sua anima, me l’ha rubata!
Mi fidavo di lui, e lui me l’ha
rubata.» la voce della donna si incrinò e lei
chiuse gli occhi, come se solo il
ricordo le procurasse dolore. Però Yuri sapeva che non era
vero, sapeva che la
Regina non poteva provare niente, che il suo era solo un capriccio
dettato
dalla mente ormai disabituata a qualunque emozione.
Rise
forte, Yuri,
perché quella risposta era stata ridicola. «TU!
Tu l’hai rubata a lui!
Così come l’hai rubata a me! E adesso la
rivoglio!»
La
Regina gli afferrò i
capelli con forza, una treccia si disfece e lui mugolò di
dolore mentre le
unghia si conficcavano nel cuoio capelluto. «Non osare, non
osare rivolgerti a
me in questo modo. Io non ho rubato niente. Io ti
ho raccolto quando per
te non c’era altra speranza, ti ho donato una nuova vita e
poteri che altri
bramano da un’eternità. Come al mio Vitya, non ti
ho chiesto nulla in cambio,
se non la tua fedeltà e adesso tu mi stai tradendo per un
futile umano!»
Yuri percepì il veleno in quelle parole e strinse i denti.
«Io
non vi avrei
tradito, se voi non aveste fatto tutto questo, io non vi avrei
tradito.» sputò,
respirando a fatica.
«E
avresti rinunciato
al tuo umano per me?»
Yuri
non rispose, le
labbra strette. La risposta era palese, pericolosa, e ovvia. No, non
avrebbe
rinunciato ad Otabek, e forse, anche se la Regina non avesse scoperto
il
diario, sarebbe stata solo questione di tempo prima che le crisi
avessero avuto
la meglio su di lui, prima che si fosse reso conto che non era
più la vita che
voleva e a quel punto avrebbe avuto due sole possibilità:
rinunciare a quello
che lo legava alla Regina o lasciarsi morire, dilaniato da un
sentimento che si
sarebbe fatto strada dentro di lui, fino a consumarlo. Non era
difficile
immaginare cosa avrebbe scelto; non gli interessavano i poteri, non gli
interessava l’immortalità, non gli erano mai
importati neanche prima, quando
era ancora del tutto umano, ed erano diventati solo un piacevole
effetto collaterale.
Da troppo tempo aveva creduto che stare lì, al fianco della
Regina, nel
castello, nella foresta, a vivere tra i lupi, sarebbe sempre stato il
suo unico
scopo, il suo unico destino. Eppure, da quando
aveva incontrato Otabek,
in lui si era risvegliata la voglia di avere di più da
quella vita, di trovare
una strada che fosse la sua, scelta, e non offerta.
La
Regina sorrise,
condiscendente, melliflua. «Vedi, Yurochka? Mi avresti
lasciata sola.»
«Avete
ancora
Seung-gil.» provò, in ennesimo tentativo di farla
ragionare.
«Lo
so, e gli sono
grata. Ma tu proteggi il bosco, la mia amata foresta, i miei animali e
non
posso lasciarti andare.» Gli sussurrò. La presa
sui suoi capelli si fece più
debole, quasi una carezza, e la Regina gli alzò il mento.
«Sai che non posso
far altro, vero?»
Si
allontanò da lui e
prese di nuovo la sfera, che brillava ancora, accecante. La
portò di fronte a
lui, e Yuri faticò a tenere gli occhi aperti e di nuovo
quella sensazione di
pace gli rilassò le membra, nonostante la paura cieca che
sentiva nel petto.
Si
spinse all’indietro
con la schiena, cercando di sfuggire alla stretta magica, si
guardò intorno, in
cerca di qualcosa. Sapeva benissimo di non poter
fare più nulla, ma non
smise di lottare. Non smise di lottare quando la Regina gli
posò una mano sul
petto, non smise di lottare quando con un rapido movimento del dito
aprì la
sfera. La bruma dorata volteggiò, prima di riversarsi
totalmente nel suo petto
e Yuri si sentì completo, una gioia
incontenibile gli squarciava il
petto, seguita da un dolore forte, una sensazione d’abbandono
che non aveva mai
realmente dimenticato ed infine un bruciore lungo
tutta la gola e nello
stomaco. Era un calore diverso da quello delle crisi, era sano, era
piacevole e
semplicemente meraviglioso. Sentì all’improvviso
un freddo gelido al corpo,
poiché il suo sangue si era appena riscaldato e risentiva di
più del ghiaccio
sotto le gambe e tutto intorno a lui. Voleva gridare, piangere,
correre, mentre
il turbinio di emozioni a lungo rimaste rinchiuse nella sfera si
faceva
strada in lui. Non aveva ancora smesso di lottare.
Poi
la mano della
Regina si ritirò dal suo petto e tutto svanì. Il
freddo scomparve, il calore
con esso, lasciandolo come un guscio vuoto, come quelle strane
conchiglie che
trovava incastonate nella roccia. Non aveva più nulla,
né la gioia, né il
dolore, nemmeno il più piccolo briciolo di
umanità. I suoi occhi spenti erano
fissi sulle dita della Regina, ricoperte di nebbia dorata, splendeva
forte e
pulsava piena di energia, tendendosi verso di lui. Non provò
nulla mentre lei
la costringeva all’interno dell’ampolla, dove
riprese a volteggiare furiosa;
spingeva contro le pareti, e Yuri non ebbe nemmeno tempo di vederla
vibrare
un’ultima volta, prima che scomparisse nell’aria,
come se non fosse mai
esistita.
Socchiuse
le palpebre,
avvertendo le catene sciogliersi ed il proprio corpo cadere in avanti,
sorretto
solo dalla presa salda della Regina.
Yuri
alzò il viso.
Non
sentiva niente,
solo il vuoto freddo del suo cuore che quasi non batteva
più, la solitudine dei
suoi pensieri slegati da qualunque emozione.
I
suoi occhi
incrociarono quelli della Regina, che lo mise in piedi, prendendogli il
viso
tra le mani. «Rimarrai con me, mio caro Yurochka.»
Yuri
non rispose, si
limitò a lasciarsi abbracciare dalla donna. Adesso non
sentiva più il freddo
delle sue braccia, anzi, gli sembravano tiepide; lei lo strinse e poi
gli parlò
all’orecchio. «Adesso devi solo disfarti
dell’umano.»
«Lo
farò, mia signora.»
le rispose, atono. Non era più importante, non sapeva
nemmeno perché avrebbe
dovuto esserlo.
«Bravo,
Yurochka.» gli
carezzò i capelli e Yuri abbandonò la testa sulla
spalla di lei. Si sentiva
stanco, privo di qualsiasi proposito, ma si limitò a restare
in silenzio,
mentre la Regina mormorava contenta che adesso sarebbero rimasti
insieme.
Chiuse
gli occhi, le
palpebre pesanti. Non aveva più voglia di lottare.
Note
finali:
SCUSATE!
Sparisco
per un sacco di tempo e mi ripresento con un capitolo del genere, sono
pessima.
Mi
dispiace di essere riuscita ad aggiornare solo adesso, ma sono stata
impegnata
con l’università (e giovedì ho
l’ultimo esame, uccidetemi pls) e lo è stata
anche la mia beta, quindi non ha potuto aiutarmi con il capitolo se non
praticamente questo pomeriggio.
Che
dire su questo capitolo se non SCUSATEMI DI NUOVO TANTO.
È
stato difficile arrivare a questo punto, perché chi mi
conosce sa che io e l’angst
non andiamo molto d’accordo, però ehi, se non ci
provo mai non posso
migliorare! Vorrei anche poter dire che dal prossimo capitolo le cose
miglioreranno, ma non prendiamoci in giro lol
“Seung-ah”
è un vezzeggiativo coreano, stando a quanto dice internet,
perché la regina
chiama i suoi sottoposti con soprannomi affettuosi :)
Detto
ciò, spero che il capitolo, anche se corto ed in ritardo, vi
sia piaciuto e che
vorrete lasciarmi un commento! Mi fanno sempre molto felice!
Un
enorme ringraziamento va a Silvar Tales e ZevisLovers
che hanno
recensito lo scorso capitolo <3 e ovviamente a Kiarana
che ha fatto questo
aesthetic per me e io piango ancora T_T
E
come sempre ringrazio la mia meravigliosa beta che mi deve sopportare e
lowkey
mi odia ma non vuole ammetterlo
Adesso
credo che andrò a cercare di dormire *risata isterica* e
alla prossima
(sperando che non sia tra altri due mesi)
LysL
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