Acqua di Witchlight (/viewuser.php?uid=68373)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
La
finestra chiusa tremò sotto la
forza del vento. Fuori pioveva ormai da ore e quella che era iniziata
come una
pioggerellina di poco conto si era rapidamente trasformata in un
temporale in
piena regola. La pioggia scrosciava con forza, riempiendo con il suo
rombo la
piccola stanza bianca di calce: se anche qualcuno avesse voluto
parlare,
sarebbe stato impossibile portare avanti una conversazione.
Lina
lanciò un’occhiata alle
ombre distorte che la luce delle candele proiettava sui muri e si
strinse le
braccia attorno al petto, tremando. La sedia sulla quale era seduta
tradì uno
scricchiolio discreto, ma nessuno se ne accorse a eccezione di Talya,
la
consorella che sedeva al suo fianco. La donna le rivolse un sorriso
mesto e la
giovane deglutì, riportando lo sguardo sul pagliericcio sul
quale giaceva Issa.
La ragazza, vent’anni appena compiuti, aveva iniziato a
mostrare i primi segni
della malattia soltanto una settimana prima, ma erano bastati pochi
giorni
perché la sua salute peggiorasse drasticamente. Le macchie
rosate che le erano
comparse su mani e piedi si erano presto trasformate in ulcere che le
avevano
divorato gambe e braccia, il lieve mal di testa che la tormentava da
qualche
giorno si era aggravato e tramutato in una paralisi che le impediva di
piegare
il collo e aprire la bocca, il suo cuore aveva lentamente abbandonato
il suo
battito regolare per assumere un ritmo erratico e imprevedibile. Quello
che la
stava uccidendo, però, era il liquido che le si era raccolto
nei polmoni e che
le impediva di ottenere l’ossigeno necessario per vivere. A
ogni respiro
stentato, dal torace della poveretta giungeva un gorgoglio umido che
faceva
accapponare la pelle a chi lo udiva. Lina rabbrividì
nuovamente, grata per il
rumore della pioggia che le impediva di udire quel sibilo sinistro.
Anche
se lei e Issa non erano mai
state in rapporti particolarmente stretti, Lina provava pena per quella
ragazza
timida e laboriosa che, per sua sfortuna, avrebbe lasciato la vita
terrena
decisamente troppo presto. Mentre studiava di soppiatto le sue braccia
pallide
avvolte dalle bende, la giovane si chiese, non per la prima volta, se
ci fosse
una vita, dopo la morte. Sebbene fosse nell’Ordine da ormai
dieci anni, Lina
non si era ancora fatta un’idea precisa su quel particolare
argomento: i suoi
studi non erano ancora riusciti a far chiarezza su ciò che
accadeva all’essenza
di una persona una volta che il cuore smetteva di battere e la
coscienza
svaniva.
Accanto
a lei, le sue consorelle
tenevano per lo più il capo chino. Alcune stavano pregando,
comprese Lina,
altre erano probabilmente assorte in pensieri più complessi.
Riflessioni
filosofiche sul senso della vita, forse, oppure formule sperimentali
che
potessero guarire quel morbo comparso dal nulla che aveva
già mietuto molte vittime.
La
giovane si guardò le mani,
flettendo le dita e fissando distrattamente l’ombra
azzurrognola
dell’inchiostro che mille lavaggi non erano riusciti a
eliminare. La malattia
non era contagiosa, si disse, leggermente rassicurata. Se lo fosse
stata, i morti
sarebbero stati molti di più: anche all’interno
della loro confraternita, dove
il caso di Issa era già il terzo dall’inizio
dell’anno. La sua origine rimaneva
però ancora avvolta nel mistero, il che rendeva impossibile
prevenirla. C’era
chi sosteneva che fosse provocata da una qualche sostanza disciolta
nell’acqua,
chi da un’esalazione nell’aria, chi dal consumo di
carne proveniente da bestie
malate e chi, ancora, credeva che il morbo fosse da attribuire a un
qualche
maleficio o incantesimo. Non vi era alcuna prova o indizio che facesse
pendere
l’ago della bilancia verso l’una o
l’altra ipotesi e i Sapienti del regno
brancolavano nel buio.
A
volte, nelle sue riflessioni
notturne, Lina immaginava di essere lei la persona che avrebbe
finalmente
trovato la cura per sconfiggere quel male crudele e salvare la vita a
centinaia
di innocenti. Ogni volta, però, la luce dell’alba
portava immancabilmente con
sé la consapevolezza che quei vaghi desideri non erano altro
che fantasie: i
suoi talenti erano altri. La botanica, per esempio, o, curiosamente,
l’innata
capacità di orientarsi in un luogo mai visto prima.
Il
suono nitido e penetrante di
una campanella d’argento la riscosse da quei pensieri e,
guidata da un riflesso
spontaneo, Lina si alzò di scatto dalla sedia. Le altre
persone che, fino a
quel momento, avevano vegliato sull’inferma fecero lo stesso
e, come un sol
uomo, dieci donne – giovani e anziane allo stesso modo
– si diressero con passi
rapidi e silenziosi verso la porta, evidentemente desiderose di
lasciarsi alle
spalle quella piccola stanza umida dove già si intravvedeva
l’ombra della
morte.
Non
appena furono uscite, altre
dieci consorelle scivolarono nella stanza e presero posto attorno alla
malata:
quel rituale si sarebbe ripetuto fino a quando la Vecchia, o chi per
essa,
fosse venuta e avrebbe portato via con sé la sfortunata
fanciulla.
Uscendo
dall’infermeria, Lina
ebbe l’impressione di entrare in un altro mondo, un mondo
più leggero e quasi
privo di ombre. Malgrado quel mese di maggio si fosse rivelato
più piovoso del
consueto, i grandi camini presenti in ogni stanza erano accesi e il
calore
delle fiamme scacciava l’umidità, esaltando il
profumo delle grandi travi in
legno d’abete lasciate a vista sul soffitto. La giovane
chiuse gli occhi e
respirò a pieni polmoni quell’odore famigliare e
gradito, lasciando che il
tepore del fuoco allontanasse anche la sensazione di disagio che aveva
provato
nell’infermeria. Subito si sentì meglio e, dopo
qualche istante, riaprì gli
occhi, facendo mente locale per cercare di ricordare quali fossero i
suoi
impegni per la giornata.
Quando
era entrata in infermeria
era appena suonata la seconda ora del pomeriggio. Ogni turno di
assistenza alla
malata durava un’ora e questo significava dunque che, prima
di poter tornare in
biblioteca e dedicarsi allo studio, Lina avrebbe dovuto dare il suo
contributo
per la sopravvivenza della Congrega. Quella settimana era di turno in
lavanderia.
Con
una smorfia di disappunto al
pensiero di dover trascorrere un’ora con le mani immerse
nell’acqua fredda del
lavatoio, la giovane si incamminò verso le scale che
conducevano nel
seminterrato, dove si trovava il locale adibito a lavanderia. Il lungo
corridoio che conduceva alle scale era decorato da innumerevoli arazzi
e
dipinti, ma Lina vi sfilò davanti senza degnarli di uno
sguardo: li conosceva
come le sue tasche, ormai, ed era convinta che essi non potessero
riservarle
più alcuna sorpresa.
Giunta
circa a metà corridoio,
però, la ragazza si fermò e, com’era
sua abitudine, volse lo sguardo al terzo
pannello del ciclo del “Mondo Antico”, una serie di
dipinti che rappresentavano
il Continente Occidentale come esso era prima della venuta dei Primi
Re. Il
quadro in questione era piccolo e buio, dipinto con pennellate decise,
quasi
rabbiose, e rappresentava una foresta cupa, piena di muschi ed alberi
dai rami
contorti. Lina lo aveva notato subito quando, a quindici anni, era
entrata a
far parte dell’Ordine. Quando una consorella anziana le aveva
mostrato quella
che, da allora in poi, sarebbe stata la sua casa,
l’attenzione della ragazzina
ne era stata subito attratta. A colpirla non era stata la vegetazione
scura e
selvaggia, ma piuttosto la moltitudine di minuscoli particolari che
l’artista
vi aveva inserito. Nel dipinto era infatti presente una fauna variegata
i cui
rappresentanti più numerosi erano senza alcun dubbio gli
uccelli: corvi, gazze,
picchi, merli, pettirossi, persino gli occhi di brace di un gufo
acquattato nei
recessi di un vecchio tronco e la sagoma di uno sparviero che si
stagliava nel
fazzoletto di cielo che si intravvedeva tra le fronde nere.
Dopo
aver lanciato un rapido
sguardo al corridoio deserto, Lina si avvicinò al dipinto
fino a sfiorarne la
superficie con il naso, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco i
dettagli.
Ogni volta che lo guardava, aveva l’impressione di scoprire
un particolare
nuovo – o forse di ritrovarne uno notato tempo addietro e poi
dimenticato. In
un certo senso, era come se il quadro fosse vivo, una finestra su un
altro
tempo e un altro luogo. Anche in quell’occasione, Lina
sorrise notando una
minuscola cincia il cui brillante piumaggio giallo e celeste illuminava
un
angolo particolarmente buio. Che carina,
pensò, provando un moto di tenerezza per quella bestiolina
fatta di tela e
colore a olio che la osservava con microscopici occhi neri.
Subito
dopo, il suo senso del
dovere tornò a farsi sentire e la giovane si
allontanò dal dipinto,
raggiungendo le scale e percorrendole a piccoli passi rapidi. Quando
giunse al
locale adibito a lavanderia, Lina arricciò il naso,
resistendo alla tentazione
di strofinarlo per proteggerlo dal sentore pungente del sapone grezzo.
Le due
donne che erano già al lavoro accanto al lavatoio le fecero
un cenno di saluto,
mentre la terza, accucciata accanto a una cesta piena di panni sporchi,
le
rivolse un ampio sorriso. «Eccoti qui!» le disse, a
mo’ di saluto. «Come sta
Issa?»
«Sempre
uguale» replicò laconica
Lina.
Subito,
il bel volto della
ragazza che le aveva posto quella domanda si rabbuiò e Lina
si sentì in dovere
di consolarla. Anche se non poteva essere molto più giovane
di lei – la sua
effettiva data di nascita era sconosciuta – Ibbi era ancora
una novizia. Dopo
un’infanzia e un’adolescenza trascorse in
schiavitù, era stata affrancata dal
suo padrone morente, guadagnando la libertà, ma ritrovandosi
sola al mondo,
senza un posto da chiamare casa. La sua naturale curiosità
– unitamente a una
certa dose di disperazione – l’avevano fatta
avvicinare all’Ordine sino a
spingerla a entrare a far parte di una Congrega.
Era
già da qualche mese che lei e
Lina condividevano la stanza e, fino a quel momento, nessuna delle due
aveva
mai avuto motivo di lamentarsi dell’altra.
Chinandosi
per raccogliere una
federa che era sfuggita dal cesto che Ibbi teneva tra le ginocchia,
Lina si
voltò verso la compagna con un sorriso di circostanza.
«Il primo medico le ha
dato delle droghe molto forti» sospirò.
«Se non altro, in questo momento non
soffre più.»
Ibbi
annuì, appena rinfrancata, e
allungò alla ragazza di fronte a lei un grosso pezzo di
sapone giallastro,
rivolgendole uno sguardo di scusa. Solitamente, la giovane non sarebbe
stata
esonerata dal servizio di lavanderia, ma, qualche giorno prima, le sue
mani
avevano iniziato a screpolarsi. Quella che nelle prime, terribili ore
era stata
interpretata come la prima manifestazione della malattia che stava
uccidendo
Issa si era poi rivelata una banale dermatite da contatto, un malanno
passeggero che aveva però lasciato le mani della ragazza
piene di bolle
dolorose che mal sopportavano il contatto con il sapone grezzo
utilizzato in
lavanderia. Ibbi era stata così incaricata di portare su e
giù dalle scale le
pesanti ceste contenenti il bucato e i panni da lavare, un compito che
svolgeva
con lo stesso entusiasmo con cui affrontava qualsiasi mansione le fosse
affidata.
Con
un sorriso tirato, Lina prese
il sapone e la federa che aveva appena raccolto da terra e si
voltò verso il
vecchio lavatoio di pietra, cercando un punto in cui l’asse
di legno su cui
avrebbe insaponato i panni non fosse troppo scheggiata. Poi immerse la
federa
nell’acqua, cercando di non pensare a quanto il gorgoglio
dell’aria che fuggiva
verso la superficie le ricordasse quello prodotto dai polmoni di Issa.
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Capitolo 2 *** 2 ***
Tre giorni dopo
«A
me ha fatto schifo: dobbiamo
proprio assistere anche noi?»
Lina
alzò gli occhi al cielo
davanti all’ennesima lamentela di Danah, una delle due
giovani novizie che
erano sotto la sua responsabilità. «Non ti
verrà chiesto di assistere a tutte
le autopsie», spiegò, cercando di mantenere la
calma, «ma è possibile che, di
tanto in tanto, tu debba aiutare i medici, quindi è meglio
che cominci a farci
l’abitudine.»
«Ma
è una cosa disgustosa»
insistette la ragazza,
passandosi una mano tra i capelli troppo corti per essere raccolti
nella
crocchia tipica delle consorelle dell’Ordine.
Perché le fossero stati tagliati
era un mistero che Lina non aveva alcuna intenzione di indagare.
«La puzza, poi,
era tremenda. Se ci ripenso, mi viene ancora da vomitare.»
«A
me non ha dato poi così tanto
fastidio» si intromise la dolce e paffutella Eda, con la sua
voce morbida e
pacata. «È stato interessante.»
Danah
emise un suono di
esasperazione e allungò il passo, distanziando di qualche
metro la compagna e
la tutrice. Lina scosse la testa, osservando le spalle ossute della
quindicenne
fremere d’indignazione. Non sarebbe durata molto, quella. La
vita all’interno
della congrega era piena di soddisfazioni, ma non era per tutte: quando
lei vi
aveva fatto ingresso, alla stessa età delle sue due pupille
e contro la sua
volontà, aveva passato alcuni mesi in preda al senso di
smarrimento e alla
paura. Anche allora, dopo dieci anni, c’erano giorni in cui
si chiedeva se
fosse davvero quella, la strada che gli Dèi intendevano
indicarle.
Eda,
invece, era decisamente
promettente. Aveva la pazienza e la dolcezza che le avrebbero
consentito di non
contrariare i suoi superiori e, allo stesso tempo, la natura
l’aveva fornita di
una mente pronta e analitica che le permetteva di studiare a fondo
ciò che la
circondava.
Notando
che la sua allieva
ribelle non accennava a rallentare il passo, Lina la
richiamò: «Danah! A
sinistra! Stiamo andando nella sala comune, non nel vostro
dormitorio.»
«Lo
so» fu la risposta soffocata,
ma comunque piccata, che giunse dall’adolescente. Quando
arrivò alla grande
porta scura della sala comune, però, Danah si
fermò, come se il pensiero di
aprirla di persona la intimorisse. Con un minuscolo sorriso
soddisfatto, Lina
la raggiunse e la spalancò, facendo cenno alle due ragazze
di entrare.
Non
aveva mai amato
particolarmente la grande sala circolare in cui le consorelle si
riunivano ogni
volta che la Superiora aveva qualche comunicazione importante da fare.
Se
d’inverno lo scuro legno di noce che ricopriva ogni
superficie poteva, se non
altro, dare l’illusione di emanare un certo tepore, la
giovane trovava che
d’estate quell’ambiente cupo fosse soffocante,
privo di luce e di correnti
d’aria.
Buona
parte delle donne che
risiedevano nella Congrega avevano già preso posto sulle
numerose file di
panche che, situate su diversi ordini di gradinate, scendevano ad
anelli
concentrici sino al palchetto posto al centro della sala. A ogni minimo
movimento,
le vetuste travi del pavimento scricchiolavano, dando vita a un
singolare
concerto di gemiti e cigolii che faceva accapponare la pelle delle
braccia a
Lina.
«Forza»
disse la giovane,
individuando una panca ancora vuota. «Mettiamoci
lì.» Quando le ragazze si
furono sedute, Lina si guardò attorno e indirizzò
un cenno di saluto a Ibbi, che
si era sistemata su una panca di fronte a lei, poi cercò con
gli occhi la
Superiora.
Grete
di Altavilla era una donna
sulla cinquantina, alta e dritta come un fuso. Malgrado la corporatura
asciutta
e mascolina, i capelli ormai grigi e gli occhi scuri più
infossati di quanto
fossero stati in gioventù, Lina trovava che ci fosse un che
di attraente nel
volto della donna, un’eleganza rigida e onesta che raramente
aveva scorto
altrove. O forse era l’ammirazione che provava per lei a
fargliela percepire
come tale, la cieca fiducia che riponeva nelle sue decisioni ragionate
e mai
dettate dal pregiudizio. Anche in quei giorni difficili, quando nemmeno
tutta
la sapienza racchiusa tra le mura della Congrega sembrava in grado di
dare
risposte agli interrogativi a cui si trovavano a far fronte, Grete era
sempre
stata assolutamente onesta e trasparente con le sue consorelle.
Quando
tutte le donne che si
trovavano in condizione di poter abbandonare le loro occupazioni furono
giunte
nella sala comune, la Superiora si alzò dalla panca sulla
quale si era
accomodata e raggiunse il palco. Lina notò che i suoi
movimenti parevano essere
leggermente più rigidi del solito, come se la stanchezza di
quei giorni
iniziasse a farsi sentire.
La
donna non ebbe bisogno di
compiere alcun gesto per attirare l’attenzione delle
compagne: quando si era
levata in piedi, anche gli scricchiolii erano cessati e sul locale era
sceso un
silenzio pressoché assoluto. «Veniamo subito al
punto» esordì Grete, con la sua
voce ferma e limpida. «Questa mattina si è
conclusa l’autopsia sul corpo della
nostra consorella. Com’era facile aspettarsi, i polmoni
apparivano irritati e
carichi d’acqua.»
Lina
annuì inconsciamente,
ricordando quello che aveva visto quando i medici avevano sezionato il
corpo di
Issa.
«Anche
attorno al cuore è stata
rinvenuta una notevole quantità di liquido. I reni erano
sensibilmente
ingrossati, mentre non abbiamo riscontrato alcun tipo di anomalia negli
altri
organi. Riteniamo che le ulcere a livello degli arti siano
ricollegabili alla
sofferenza renale, mentre non abbiamo trovato alcuna spiegazione per la
paralisi dei nervi del cranio, dal momento che l’encefalo si
presentava, per
quanto abbiamo avuto modo di vedere, nella norma.»
«Anche
in questo caso, non
abbiamo rilevato alcuna origine evidente del male. Se non fosse per il
numero
di casi che si stanno riscontrando in tutto il regno, saremmo portate a
credere
che si tratti di una malattia che si origina spontaneamente
all’interno
dell’organismo di una persona con una predisposizione
naturale a svilupparla,
senza che alcun fattore esterno la scateni.»
Nell’udire
quelle parole, Lina
appoggiò il mento a una mano, pensierosa. Era evidente che
ci fosse qualcosa
che, fino a quel momento, era sfuggito alla loro attenzione. La
Superiora aveva
ragione: i casi registrati erano troppi – e in continuo
aumento – perché la
malattia non fosse causata da un agente esterno.
«Prima
di convocarvi, ho discusso
in privato con le nostre sorelle medico», continuò
Grete, indicando con una
mano le due donne che sedevano alle sue spalle, «e, insieme,
abbiamo deciso di
prendere alcuni provvedimenti che potrebbero farci capire meglio
l’origine
della malattia. Come ben sapete, ci siamo già concentrate su
fattori come
l’acqua e il cibo, ma senza alcun risultato. Da oggi, ci
concentreremo sulle eccezioni,
sulle piccole abitudini
anomale che alcune di noi potrebbero avere.»
Il
silenzio fu spezzato da alcuni
bisbigli confusi, ma la Superiora non si lasciò distrarre.
«Sarebbe bello pensare
che quello di Issa sarà l’ultimo caso
all’interno della nostra Congrega, ma
sappiamo tutte che non sarà così. Per questo
voglio che ciascuna di voi annoti
in modo dettagliato e minuzioso ciò che fa giorno per
giorno: ciò che mangia,
quello che beve, tutte le attività che svolge. Voglio sapere
quello che
toccate, respirate, maneggiate. Quando il prossimo caso si
manifesterà, avremo
un diario accurato di ciò che quella persona ha fatto negli
ultimi tempi: se
risulterà qualche attività che la distingue dalle
altre, ci concentreremo su
quella.»
Tutt’intorno
a Lina, le donne
ondeggiarono il capo e si scambiarono commenti sottovoce,
apparentemente
approvando la decisione della Superiora. Sebbene ne vedesse il senso,
invece,
la ragazza avvertì una sensazione di disagio calare su di
lei: malgrado si
sforzasse costantemente di migliorarsi, era terribilmente sbadata. Era
solita
fare le cose sovrappensiero, lasciandosi guidare dalla routine:
difficilmente
sarebbe riuscita a ricordarsi di annotare sul diario ogni
più piccola azione.
Ecco, me la sento. Sarò io, la prossima
ad ammalarmi, e il mio diario
sarà così pieno di buchi che non ci caveranno
nulla di buono.
Deglutendo
nervosamente e
tormentandosi i polsini della camicia con la punta delle dita, Lina
tornò a
concentrarsi sulla Superiora.
«Spero
che vi rendiate tutte
conto dell’importanza di quello che vi chiedo. Conto sulla
vostra totale
collaborazione» continuò Grete, soffermandosi in
particolare sulle novizie e
sulle ragazze più giovani. Quando ebbe raccolto il consenso
di tutte, la
Superiora riprese a parlare. «Dal momento che ci troviamo
tutte raccolte qui,
voglio approfittarne per ragguagliarvi su altri fatti che stanno
accadendo nel
nostro regno e che richiedono la nostra attenzione.»
«Giungono
voci di strani fenomeni
e di strani avvistamenti che, a quanto pare, starebbero avendo luogo
nelle
province più remote. Al momento, la maggior parte delle
segnalazioni ci
arrivano da Porto della Neve, Campo dei Fiori e dal Distretto delle
Colline
Blu, ma, proprio questa mattina, ci è giunta notizia che un
ragazzino è stato
ucciso da una bestia sconosciuta poco lontano da Forte delle Acque,
nella
provincia delle Foreste Grigie.»
«Inoltre,
come accennato, pare
che si stiano verificando fenomeni apparentemente inspiegabili: incendi
che
divampano nei campi, appiccati da mani invisibili, alberi che sembrano
nascere
e crescere nel corso di una notte, fiumi che deviano il loro corso
senza
apparente ragione.»
Davanti
a quelle parole, le donne
presenti nella sala non batterono ciglio, restando silenziosamente in
attesa di
istruzioni.
«Chiedo
a tutte coloro che non
stanno lavorando per trovare una cura alla malattia
dell’acqua di dividersi in
gruppi di lavoro e di esaminare i resoconti custoditi nella nostra
biblioteca,
alla ricerca di qualche traccia che suggerisca che fatti del genere si
sono già
verificati in passato. Ciò che sta accadendo ha certamente
una spiegazione, ed
è nostro compito trovarla. Nel pomeriggio vi
assegnerò l’argomento sul quale
concentrarvi.»
Le
donne annuirono e Lina strinse
le mani in un pugno, mentre un brivido di eccitazione le correva lungo
la
schiena. Silenziosamente, la ragazza pregò di essere
assegnata al gruppo che si
sarebbe occupato di determinare la natura degli attacchi da parte di
bestie
feroci, in parte perché, prima di trasferirsi nella
Capitale, la sua famiglia
aveva vissuto nel Distretto delle Colline Blu, e in parte
perché era da sempre
profondamente affascinata dal mondo animale.
Lina
allungò le gambe verso il
centro della sala, stiracchiandosi discretamente, e poi fece scorrere
uno
sguardo tutto intorno a sé, cercando di capire se fosse
giunto il momento di
alzarsi e ritornare alle proprie occupazioni quotidiane. Proprio in
quel
momento, però, Grete parlò di nuovo.
«Infine, devo mettervi al corrente di
un’ultima cosa. Una settimana fa, la principessa Adlyn
è scomparsa. Come ben
sapete, la ragazza non è nelle condizioni di muoversi senza
l’aiuto di un’altra
persona: considerando che la sparizione è avvenuta nel cuore
della notte,
quando si trovava nei suoi quartieri, abbiamo motivo di pensare che
qualcuno
l’abbia rapita.»
Un
mormorio scandalizzato si
diffuse nella sala. Lina sgranò gli occhi, sgomenta. Sebbene
della principessa
sapesse
molto poco – solo che aveva
sedici anni e che, qualche anno prima, era stata colpita da una
malattia che
l’aveva resa cieca - tutti
coloro che
avevano avuto a che fare con lei ne parlavano come di una ragazza
deliziosa.
Saperla in pericolo la rattristava.
«Naturalmente»,
continuò la
Superiora, «non sta a noi occuparci delle ricerche: questo
è compito delle
Guardie Reali. Tuttavia, vorrei chiedervi di spendere una preghiera e
un
pensiero per lei. La scienza e lo studio possono arrivare solo fino a
un certo
punto: oltre a quel confine, è necessario affidarsi a una
sapienza superiore.»
Lina
abbassò gli occhi, sperando
che la donna non facesse in tempo a scorgere lo scetticismo che si era
disegnato sul suo volto.
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Capitolo 3 *** 3 ***
Due giorni dopo
Quella
mattina, la pioggia che
era caduta abbondantemente nei giorni precedenti cessò,
lasciando il posto a un
sole che già annunciava l’arrivo
dell’estate imminente. I suoi raggi chiari e
forti facevano brillare i colori resi più vivi dalle recenti
precipitazioni, ma
riempivano anche l’atmosfera di una calura umida e
persistente, che si
appiccicava alla pelle e mozzava il fiato a chi aveva la sventura di
trovarsi
in un luogo non sufficientemente ventilato.
Seduta
accanto a Ibbi su un vecchio
muretto a secco, Lina guardava le pecore brucare placide a qualche
decina di
metri da lei e nel frattempo cercava, con una mano, di allentare la
pressione
che il colletto inamidato della divisa le esercitava sulla trachea.
Odiava
il caldo. Le toglieva ogni
energia e le lasciava solamente la voglia di accasciarsi a terra alla
ricerca
di un poco di frescura. Con un sospiro esausto, la ragazza si
passò una mano
sulla nuca, trovandola calda e sudaticcia, e cercò di
sollevare un altro po’ la
crocchia in cui aveva raccolto i capelli. Inutilmente.
Al
suo fianco, Ibbi diede un
ultimo morso alla mela che aveva prelevato dalla dispensa e poi se ne
gettò il
torsolo alle spalle, facendolo scomparire tra gli arbusti bassi e fitti
che
ricoprivano il dolce pendio che scendeva verso la valle del fiume Adro.
Poi
alzò il viso verso il cielo terso, sorridendo.
Lina
si chiese come fosse
possibile che l’amica apparisse così a suo agio
sotto al sole cocente. I suoi
vestiti erano perfettamente inamidati, non una sola goccia di sudore
era
visibile sulla sua pelle e i suoi capelli corvini, anch’essi
raccolti nella
crocchia d’ordinanza, erano lisci e lucenti come ossidiana,
senza una virgola
fuori posto. La giovane provò un brivido di gelosia: non
aveva certo bisogno di
specchiarsi, per sapere che la sua chioma color ruggine non era nemmeno
lontanamente disciplinata come quella della compagna e, anzi, si
ribella
all’acconciatura in cui l’aveva costretta in
un’esplosione di sottili fili
rossastri che le davano l’aspetto di una ragazzina appena
emersa da un
cespuglio di rovi.
Ma cosa importa? Si chiese, passandosi
distrattamente una mano sul
capo. Dopotutto, una donna consacrata alla Sapienza non doveva
preoccuparsi del
suo aspetto fisico. Subito dopo, però, la ragazza scosse il
capo: chi sperava
di prendere in giro? Nonostante i suoi sforzi, non era ancora riuscita
a
soffocare del tutto la sua naturale vanità. Forse
quando sarò più vecchia, si disse,
speranzosa.
Incuriosita
dal suo movimento
improvviso, Ibbi si voltò a guardarla. «Cosa
c’è?» le chiese, inclinando il
capo di qualche grado. Lina si strinse nelle spalle.
«Niente» mentì. «Ho solo
caldo.»
La
giovane bruna annuì, alzando
nuovamente gli occhi sull’azzurro abbagliante del cielo.
«Già» esalò. «E
dire
che, fino a ieri, diluviava! Comunque a me non dà poi
così tanto fastidio,
tutto questo caldo: probabilmente è perché la mia
famiglia veniva dal Deserto
dei Cristalli. Loro dovevano per forza esserci abituati, alle alte
temperature.»
«Mh-mh.»
Lina annuì, ma senza
incontrare lo sguardo della compagna. Come lei stessa le aveva rivelato
nei
primi tempi in cui avevano condiviso la camera, Ibbi non aveva mai
conosciuto i
suoi genitori, né alcun altro parente. Di conseguenza, non
aveva alcuna prova
che la sua famiglia venisse proprio dagli aridi deserti rocciosi del
Primo
Continente. In verità, la tonalità ambrata della
sua pelle scura, i suoi lisci
capelli neri, gli zigomi ben delineati e i suoi occhi bruni, dalla
forma un po’
allungata, lasciavano piuttosto intravvedere una certa somiglianza con
i tratti
somatici degli abitanti dei Monti del Cielo, la regione glaciale che si
estendeva nella zona più settentrionale del Continente
Antico. Se alla ragazza piaceva
però pensare di essere nata sotto il rovente sole del sud,
lei non vedeva
alcuna ragione per contraddirla.
Senza
lasciarsi scoraggiare dalla
tiepida reazione della compagna, Ibbi si sistemò meglio sul
muretto e poi si
voltò a guardarla. «Ma senti un
po’… non ti ho più chiesto come stanno
andando
le tue ricerche! Hai scoperto qualcosa di interessante?»
Lina
soffocò uno sbuffo
sprezzante. «Proprio per niente»
borbottò. «Abbiamo spulciato decine e decine
di vecchi tomi solo per scoprire quello che in fin dei conti sapevamo
già: a
meno che non ci sia all’opera qualcosa di molto
strano, un albero ha bisogno di almeno un paio di anni per crescere in
quel
modo. Non è una cosa che può avvenire in una
notte sola, così, come se nulla
fosse.» Quasi senza rendersene conto, la giovane fece
oscillare nervosamente le
gambe, colpendo le vecchie pietre del muretto con il tacco dei suoi
stivaletti.
Malgrado le sue speranze, la Superiora non l’aveva assegnata
ai casi di
attacchi da parte di bestie feroci, bensì a quelli di
apparizioni di piante in
luoghi più o meno improbabili. Il fatto che, almeno fino a
quel momento, le sue
ricerche si fossero rivelate del tutto infruttuose non faceva altro che
aumentare la sua insofferenza.
«Capisco»
commentò la ragazza
bruna, abbassando lo sguardo sulle piccole piante grasse che crescevano
ai
piedi del muretto. Dopo qualche istante riprese a parlare, abbassando
leggermente la voce, quasi si sentisse un poco a disagio. «E
se ci fosse
effettivamente all’opera qualcosa di strano?»
chiese, guardando di sottecchi la compagna per studiarne la reazione.
«Voglio
dire, non sarebbe poi così improbabile, se si prendono in
considerazione tutte
le cose che stanno accadendo in questi tempi. C’è
questa malattia che nessuno è
in grado di capire o spiegare, ci sono questi animali che nessuno
sembra aver mai
visto prima d’ora, sembra che gli alberi abbiano preso
l’abitudine di muoversi
nottetempo, senza contare tutti gli strani fenomeni naturali e,
naturalmente,
il rapimento della principessa…»
«Cosa
c’entra il rapimento della
principessa?» la interruppe Lina, confusa.
Ibbi
sollevò una spalla. «Be’, è
una discendente degli Antichi Re e…»
«…
ed è anche un membro della
famiglia reale» sbottò l’altra ragazza,
sarcastica. «Sono certa che nessuno ha
pensato al riscatto che potrebbero chiedere per restituirla alla sua
famiglia
sana e salva.»
Ibbi
la fissò per un istante, poi
il suo viso si contrasse in una smorfia. «Vedila come vuoi,
ma, se penso a
tutta questa storia, io ho come uno strano presentimento. E comunque
non sono
certo l’unica a parlare di incantesimi e malefici…
anzi, è una teoria
abbastanza diffusa.»
«Sì,
tra gli ignoranti!» ribatté
Lina, rivolgendole uno sguardo severo. Poi, notando
l’espressione offesa della
compagna, il suo viso si addolcì.
«Senti», sospirò, «io non dico
che la magia
non esista, però credo che sia un errore tentare di usarla
come spiegazione per
qualsiasi cosa che non riusciamo a spiegarci in altro modo. Quello che
sta
accadendo potrebbe essere una semplice serie di coincidenze e, dando la
caccia
a streghe e stregoni, correremmo il rischio di non arrivare mai alla
verità.»
«Gli
alberi che si muovono sono
una coincidenza?» la
provocò Ibbi.
Lina
si strinse nelle spalle,
leggermente contrariata dall’interruzione. «Gli
alberi che crescono così
velocemente sono effettivamente strani, ma potrebbe
esserci una spiegazione. Così come per tutto il resto. La
malattia potrebbe
avere delle cause perfettamente naturali – anzi,
verosimilmente è proprio così
- le bestie
sconosciute potrebbero non
essere poi così sconosciute,
Adlyn
potrebbe essere stata rapita da qualche squilibrato, e via
dicendo.» La giovane
lasciò sfumare la frase, consapevole che quello non era
certo il modo migliore
per concludere la sua difesa, ma non trovandone comunque uno migliore.
Ibbi
parve sul punto di
ribattere, ma la sua attenzione fu sviata dalle pecore che,
improvvisamente,
presero a muoversi irrequiete. Gli agnelli si strinsero al fianco delle
madri e
dal gregge si levarono una serie di belati allarmati, mentre le bestie
si
riunivano in un gruppo compatto.
«Che
gli prende?» chiese la
giovane bruna, confusa. Lina si alzò in piedi e si
guardò attorno, cercando di
determinare cosa avesse messo in allarme gli animali. Attorno a lei, la
campagna appariva tranquilla, senza alcun movimento sospetto in vista.
Solo,
sopra alla sua testa, alcune cornacchie sfrecciarono nel cielo,
gracchiando.
«Sembra che qualcosa le abbia spaventate» disse
allora, aggrottando la fronte.
«Ma, onestamente, non capisco cosa.»
«Un
lupo?» azzardò Ibbi.
Lina
fece per negare, ma poi
strinse le labbra, incerta. Quanto vorrei
avere un cane, adesso, pensò, lanciando un
pensiero carico di nostalgia al
vecchio cane da pastore che era morto l’anno precedente e che
non era mai stato
sostituito. Sebbene quanto ipotizzato dall’amica le sembrasse
improbabile, non
aveva mai avuto a che fare con un lupo – men che meno con un
intero branco di
quegli animali – e dunque non era in grado di individuarne la
presenza con un
certo anticipo. «Non dovremmo vederlo?» chiese
allora, facendo scorrere lo
sguardo sul paesaggio davanti a lei, quasi completamente privo di
vegetazione.
Rapida,
Ibbi balzò sul muretto.
«Se venisse da dietro…»
sussurrò, fissando con gli occhi socchiusi i cespugli
fitti che coprivano il pendio alle loro spalle. Lina la
imitò, ma non vide
alcun movimento ad eccezione dello svolazzare concitato degli insetti.
Tutto
d’un tratto, le pecore presero
a colpire il terreno con gli zoccoli in un gesto che tradiva paura e
inquietudine
crescente. Di fronte a quell’atteggiamento di cui non capiva
la ragione, la
ragazza si sentì scossa da un brivido di nervosismo. Prima
che potesse fare
alcuna congettura, però, la mano di Ibbi si strinse attorno
al suo polso.
«Senti un po’…» fece la
giovane, alzando il naso al vento e annusando l’aria.
Lina
inspirò a fondo e,
immediatamente, notò quello che in un primo momento le era
sfuggito. Ora che ci
faceva caso, avvertiva chiaramente il sentore di qualcosa di
famigliare: era
vago e leggero, indubbiamente distante, ma cionondimeno inconfondibile.
«Fumo?»
chiese, guardando Ibbi in cerca di conferma.
Quella
annuì, mentre sul suo
volto si dipingeva un’espressione preoccupata. «Non
sarà mica un incendio,
vero?»
La
giovane scosse il capo. Se in
un’altra occasione avrebbe sorriso del pessimismo
dell’amica, in quella
circostanza non poté fare a meno di ripensare a
ciò che aveva appreso negli
ultimi giorni, agli incendi che, senza alcun motivo apparente, erano
scoppiati
in aperta campagna. Fino a quel momento tutti gli incidenti erano
avvenuti in
regioni periferiche, ma quella consapevolezza non era sufficiente per
fugare
tutti i suoi timori. «Probabilmente è solo un
camino acceso o un contadino che
brucia un po’ di foglie», mormorò,
«ma è comunque meglio tenere gli occhi
aperti.»
Senza
farselo ripetere, Ibbi
balzò giù dal muretto e si diresse rapidamente
verso il luogo in cui le pecore
si erano radunate, superando l’unico albero che, con la sua
chioma rigogliosa,
ostruiva in parte la visuale. Portandosi una mano sopra agli occhi per
schermarli dal sole, la ragazza si guardò attorno.
«Boh, io non vedo fumo da
nessuna parte» annunciò. «Non vedo
proprio…» le parole le morirono in gola e
Lina si alzò così velocemente che
rischiò di inciampare nell’orlo della gonna.
Tutt’intorno
a loro, i confini delle cose parevano essersi fatti più
sfumati e, sebbene non
avvertisse alcun cambio di temperatura, la giovane aveva
l’impressione di
guardare il mondo attraverso la lente deformante del caldo intenso.
L’odore di
erba bruciata si fece più pungente e Lina soffocò
un colpo di tosse.
«Da
dove viene?» chiese Ibbi, con
una nota di paura nella voce. Deglutendo, l’altra giovane
spostò lo sguardo su
di lei. «Non ne sono sicura», ammise, «ma
è meglio rientrare. Raduniamo il
gregge e torniamo alla Congrega.» Così dicendo, si
diresse verso uno degli
animali più vicini a lei, una vecchia femmina con una
caratteristica macchia
scura sul muso, una sorta di lacrima nera che le dava
un’espressione
perennemente triste. Era la matriarca del gregge e Lina sapeva che gli
altri
animali l’avrebbero seguita dovunque.
«Tu
stai attenta che non rimanga
indietro qualche agnello» disse, lanciando
un’occhiata a Ibbi. Le pecore erano
adesso visibilmente spaventate e si muovevano bruscamente, di scatto,
improvvisando dei tentativi di fuga che si spegnevano ancora prima di
iniziare.
Quando Lina afferrò il collare della vecchia femmina, questa
diede un tale
strattone che la ragazza rischiò di finire terra.
«Buona» sussurrò, stringendo
tra le dita la spessa striscia di cuoio consumata
dall’utilizzo prolungato.
Quello
che fino a pochi istanti prima
non era stato che un vago tremolio appena percettibile
nell’aria iniziava ormai
ad assumere contorni sempre più definiti, delineandosi in
spire azzurrine o
grigiognole. L’odore acre che permeava l’ambiente
non lasciava più alcun dubbio
su quale fosse la natura della materia che le circondava, eppure Lina
continuava a non capire da dove provenisse quel fumo. Esso pareva
infatti
generarsi in assenza di fiamma, quasi risalisse dalle
profondità della terra o
nascesse dalla stessa aria.
Mentre
la ragazza era concentrata
nel tentativo di capire da quale direzione provenisse il fumo, la
pecora che
stava trattenendo per il collare scartò di lato e la
travolse, colpendola con
il dorso morbido, ma, al contempo, sorprendentemente saldo. Lina fece
appena in
tempo a lanciare un’esclamazione di sorpresa e poi cadde a
terra, sull’erba
ancora umida di pioggia. Al movimento della matriarca, anche tutte le
altre
bestie scattarono, lanciandosi in un galoppo pesante e disordinato.
Istintivamente
la giovane gridò e si rannicchiò su se stessa nel
tentativo di proteggersi
dagli zoccoli che si schiantavano sul terreno.
Per
alcuni interminabili secondi,
tutto fu solo una foresta di zampe bianche, lana, fango e fumo
tutt’intorno;
poi, quando anche gli ultimi animali le furono sfrecciati accanto, Lina
si mise
a sedere, stupita di ritrovarsi viva e in buona salute.
«Stupide
bestie» sibilò,
alzandosi lentamente in piedi e sistemandosi con gesti secchi la gonna
bagnata
e stropicciata. Improvvisamente, la sensazione che ci fosse qualcosa di
sbagliato e pungolò la
nuca e la ragazza
aggrottò la fronte, rendendosi conto che il silenzio che era
sceso attorno a
lei era un po’ troppo profondo.
«Ibbi?»
chiamò. «Ibbi!»
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Capitolo 4 *** 4 ***
«Ibbi»
chiamò di nuovo, mentre il
cuore prendeva a batterle più forte. Il fumo era
più denso, ora; il suo odore
talmente penetrante che gli occhi presero a lacrimare e dovette tossire
più
volte per liberare la gola da quel sentore acre. Non ricevendo nessuna
risposta
dall’amica, Lina abbassò istintivamente lo sguardo
a terra, cercando di
superare la barriera grigia che ricopriva il terreno.
E se
fosse caduta? Si chiese, preoccupata. Se
le pecore l’avessero calpestata?
Il
fatto di non riuscire a vedere
con precisione ciò che la circondava la confondeva e
disorientava, ma a ogni
istante che passava, la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava
si
faceva sempre più netta. La ragazza si portò una
mano su bocca e naso, cercando
di proteggerli, e poi si diresse verso il punto in cui aveva visto Ibbi
per
l’ultima volta. Quando lo raggiunse, però, non
trovò altro che erba calpestata
ed escrementi di pecora. Che abbia
inseguito il gregge? Si chiese allora, con una punta di
speranza.
Poi,
veloce com’era apparso, il
fumo prese a diradarsi, senza che nessun alito di vento venisse a
disperderlo.
Nel giro di pochi minuti, l’aria tornò limpida e
tersa com’era stata quando le
pecore avevano iniziato a dare i primi segni di nervosismo. Non
v’era alcuna
traccia di ciò che era successo e, se non fosse stato per il
fatto che sia Ibbi
che gli animali erano scomparsi, Lina avrebbe creduto di essere stata
vittima
di un’illusione.
La
giovane restò immobile per
qualche istante, stringendo inconsapevolmente i pugni sul tessuto della
gonna e
interrogandosi sul da farsi. La cosa più logica sarebbe
stata tornare alla
Congrega e denunciare l’accaduto: ciò a cui aveva
appena assistito era
senz’ombra di dubbio la prova che le stranezze degli ultimi
tempi non erano più
confinate alle remote regioni periferiche, ma avevano iniziato a
manifestarsi
anche lì, nel cuore del regno. D’altro canto,
però, se tendeva le orecchie,
poteva ancora sentire il tintinnio dei campanacci delle pecore
– un suono che
si faceva però sempre più debole man mano che le
bestie si allontanavano. E se
Ibbi le avesse inseguite? Anche se, formalmente, l’altra
ragazza non era sotto
la sua responsabilità, Lina sentiva comunque di doversene
fare carico. Se, da
un lato, il tempo trascorso insieme l’aveva portata ad
affezionarsi a lei,
dall’altro le aveva permesso di conoscerla a fondo: Ibbi non
era il tipo di
persona che si poteva abbandonare a se stessa a cuor leggero. Anche se
aveva
sempre avuto la convinzione che le persone cresciute in un ambiente
difficile –
come Ibbi, appunto – fossero in grado di badare a se stesse
meglio di quelle
che erano cresciute in un ambiente tutto sommato privilegiato, la
giovane
doveva ammettere che lei, figlia di mercanti, pareva comprendere il
mondo
meglio dell’amica, che affrontava la vita con una leggerezza
e un’innocenza
sconcertanti.
Non posso lasciarla da sola, decise, su
due piedi. Senza contare, aggiunse
una parte della
sua mente che avrebbe preferito ignorare, che
non hai nessuna prova che Ibbi abbia inseguito gli animali. E se fosse
semplicemente scomparsa nel nulla? E se qualcuno – o qualcosa
– l’avesse
portata via? Anche questi sono eventi inspiegabili, dopotutto.
La
giovane scosse con decisione
il capo, rifiutandosi di pensare a
quell’eventualità priva di ogni fondamento. Non perderti in congetture assurde, quando
hai a portata di mano una spiegazione perfettamente plausibile,
si
rimproverò.
Inspirando
a fondo, Lina puntò
gli occhi nella direzione verso la quale erano corse le pecore.
C’era un
villaggio, a pochi chilometri da lì. Sarebbe arrivata solo
alle porte del
centro abitato, decise. Se avesse ritrovato la compagna, bene,
altrimenti
avrebbe fatto ritorno alla Congrega senza di lei e avrebbe dato
l’allarme. Non
si sarebbe immischiata in cose più grandi di lei: le donne
consacrate alla
Sapienza non potevano abbandonare i confini della propria Congrega.
Perché il
mondo non poteva e non doveva corromperle, ma anche perché,
al di fuori della
protezione dell’Ordine, avrebbero potuto andare incontro a
mille pericoli.
Ma arrivare fino ai confini del pascolo non mi
metterà in pericolo,
decise la ragazza, raccogliendo il proprio bastone e avviandosi di buon
passo
sulla traccia lasciata dagli animali in fuga. Più si
allontanava dal muretto a
secco che segnalava la fine dei terreni della Congrega, e
più avvertiva un
senso di inquietudine aggrovigliarsi nel suo stomaco. Eppure sentiva di
dovere
andare. Solo fino alle porte del villaggio, non oltre.
Pietrarossa, si disse. Si
chiama Pietrarossa e sopravvive grazie al commercio di lana e tessuti
grezzi. Il
fatto di ripetersi nozioni apprese in biblioteca le dava
l’illusione di
conoscere un po’ meglio un mondo che aveva abbandonato per
sempre a soli
quindici anni, spinta dalla pressione di sua madre, del suo patrigno e
dei suoi
cinque fratelli maggiori.
Un
improvviso scivolone su un
sasso instabile la costrinse a concentrarsi un po’ di
più su quello che aveva
sotto i piedi. Davanti a lei, il terreno declinava piuttosto
rapidamente, ma la
curvatura della dorsale su cui si trovava era tale che la ragazza non
aveva
modo di vedere che a poche centinaia di metri di distanza. Raccogliendo
la
gonna con una mano per procedere più speditamente, Lina
scese zigzagando lungo
il sentiero, ora facilmente distinguibile, che attraversava il pendio
erboso
costellato da enormi massi appuntiti. La gente del posto, che non
riusciva a
spiegarsi come quei giganteschi blocchi di roccia fossero arrivati
lì, li aveva
ribattezzati “Sassi delle Fate”, supponendo che
questi fossero stati lasciati
lì da qualche forza sovrannaturale.
Lina
si prese qualche istante per
riflettere su come quel fatto fosse l’ennesima riprova che,
spesso, la gente
ricorreva a magia e superstizione per spiegarsi ciò che non
riusciva a
comprendere, e poi si rimise in cammino. Lo scampanellare che
l’aveva guidata
fino a lì era ora stabile, indice che le pecore si erano
fermate, e lo stomaco
della giovane fu attraversato da una fitta d’inquietudine: e
se Ibbi non fosse
stata lì? Forse ha fatto ritorno
alla
Congrega, si disse, ma poi scartò
quell’ipotesi. Il sentiero che partiva
dal pascolo e che conduceva alla Congrega procedeva in linea retta per
un ampio
tratto e il tempo che aveva passato immersa nel fumo era stato troppo
breve
perché Ibbi avesse potuto percorrerlo e scomparire dalla sua
vista.
Dopo
poche decine di metri, il
sentiero scollinò e la giovane giunse improvvisamente in
vista dell’abitato di
Pietrarossa. Ciò che catturò maggiormente la sua
attenzione, però, fu l’enorme
gregge di pecore radunato nei prati antistanti al villaggio. Queste non sono tutte mie,
constatò,
confusa. Non senza una certa apprensione, Lina notò che tra
gli animali si
aggiravano alcuni uomini – probabilmente pastori –
mentre ai margini del gregge
erano in attesa alcune persone che i mantelli blu identificavano come
Guardie
Reali. La loro presenza in quel luogo la sorprese non poco, ma la
ragazza vide
che non aveva senso attendere oltre: inspirando a fondo per farsi
coraggio –
non era più abituata a trattare con persone che non fossero
le sue consorelle –
si incamminò verso il gregge.
Dovrei forse segnalare la mia presenza?
Si chiese, a disagio. Per
sua fortuna, pochi istanti dopo un anziano pastore sollevò
gli occhi dalle
pecore e incrociò i suoi.
«Buongiorno»
lo salutò, cercando di nascondere il proprio nervosismo.
L’uomo
si tolse il cappello dalla
testa e inclinò leggermente il capo nella sua direzione.
«Buongiorno a te…
sorella?» Il saluto suonò quasi come una domanda
e, automaticamente, le mani di
Lina volarono ai suoi capelli, cercando di dar loro una parvenza di
ordine.
«Ehm…
credo che alcune di queste
pecore siano mie» fece, riducendo al minimo
l’obbligo di fare conversazione.
«Lo
credo anch’io» convenne
l’uomo. «Ci sono piombate addosso
all’improvviso. Erano tutte spaventate, come
se stessero scappando da qualcosa.»
Lina
si accorse che l’attenzione
dei presenti – o per lo meno di quelli a portata
d’orecchio – era tutta su di
lei e la cosa la fece arrossire. «È per
caso… per caso, con loro è arrivata
anche una mia consorella?» chiese, aggirando la domanda che,
pur
indirettamente, il pastore le aveva posto. Anche se confuso dal cambio
di
argomento, quello scosse il capo. «No, erano sole.»
Nell’udire
quella risposta,
un’ondata di sconforto si abbatté su di lei, e la
cosa dovette essere evidente,
perché una guardia le si avvicinò.
«C’è qualche problema?» Lina
tossicchiò
appena, per assicurarsi che la sua voce fosse salda, poi
alzò lo sguardo
sull’uomo, che la superava in altezza di più di
una testa. Quando però provò a
parlare, sentì che le parole le morirono in gola.
«È possibile» ammise infine,
con un sorriso.
La
guardia – che, a un’occhiata
più attenta, non dimostrava molti anni più di lei
– parve cogliere la sua
riluttanza a parlare davanti a tutti e le fece cenno di seguirlo in
disparte.
«Dunque?» le chiese poi, con un tono che fece
correre un’onda di irritazione
lungo la schiena della ragazza. Dieci anni di isolamento le avevano
quasi fatto
dimenticare la supponenza delle Guardie Reali e dei soldati in generale.
«Io
e la mia compagna stavamo
sorvegliando le pecore nei pascoli della nostra Congrega»
replicò, indicando
con un gesto la direzione dalla quale era arrivata. «Ad un
tratto, gli animali
hanno iniziato a innervosirsi e di punto in bianco ci siamo trovate
avvolte dal
fumo.»
«C’è
stato un incendio?» la
interrogò il soldato. Dopo un attimo di esitazione, Lina
scosse il capo. «Non
ne ho visto traccia. Il fumo è apparso
all’improvviso, quasi… dal nulla.»
Negli
occhi chiari dell’uomo
passò un lampo allarmato e, anche se fu veloce a
nasconderlo, Lina intuì che
quel soldato sapeva di più di quanto non avesse rivelato
sino a quel momento.
«Hai parlato di una compagna?» le chiese lui. La
giovane annuì. «Sì. Siamo
state insieme, a pochi metri l’una dall’altra, fino
a quando è arrivato il
fumo. Poi, quando si è diradato e io sono ancora stata in
grado di vedere
attorno a me, Ibbi non c’era più. Ho pensato che
avesse inseguito le pecore,
ma…» Lina non concluse la frase, ma
allargò le braccia con aria desolata.
«Com’è
questa donna? Puoi
descriverla?» La guardia si guardò attorno, come
se stesse cercando di
identificare una persona mai vista prima. E
come se qui non fossero tutti uomini, aggiunse mentalmente la
ragazza. «Ha
più o meno la mia età» disse, comunque.
«È un po’ più bassa di me, ha
la pelle
scura – ma non scurissima – e capelli e occhi neri.
E, naturalmente, è vestita
come me.»
L’uomo
annuì. «Dovrebbe essere
abbastanza riconoscibile» commentò. Lina fece una
smorfia. «È quello che temo»
le scappò detto. Il soldato le rivolse uno sguardo
incuriosito e lei si pentì
subito di quell’esternazione. «Era una schiava, un
tempo, e… non conosce bene
il mondo.» Lui la guardò come se si aspettasse di
sentirla proseguire, ma Lina
non aggiunse altro: non desiderava discuterne con uno sconosciuto.
Davanti
al suo silenzio, l’uomo
si strinse nelle spalle. «Bene. Vorrà dire che la
cercheremo e, quando l’avremo
trovata, la riaccompagneremo alla vostra Congrega. Nel frattempo, tu
puoi
recuperare le tue bestie: chiedi a qualche pastore di
aiutarti.» Lina annuì, ma
qualcosa, nel profondo del suo animo, le impedì di fare
quello che le era
appena stato suggerito. Questa persona sa
qualcosa che io non so, si disse, mordicchiandosi
pensosamente l’interno di
una guancia. E se fosse stato a conoscenza di qualche dettaglio utile
per le
loro ricerche? Non era forse suo preciso dovere perseguire la
conoscenza sempre
e comunque?
Notando
la sua immobilità, l’uomo
le lanciò uno sguardo stranito, poi le rivolse un cenno di
saluto e fece per
girare sui tacchi, ma, quasi senza rendersene conto, Lina si protese
verso di
lui e lo trattenne afferrandolo per una manica. «Chiedo
scusa, ma non ho potuto
fare a meno di notare che la menzione del fumo apparso dal nulla non
sembra
averti colto di sorpresa.»
Gli
occhi del soldato si
appuntarono per una frazione di secondo sulle dita della giovane, poi
risalirono sul suo viso. «Negli ultimi tempi se ne stanno
verificando parecchi,
di eventi del genere.»
«Anche
così vicini alla
Capitale?» lo interrogò Lina. Sul volto della
guardia comparve l’ombra di un
sorriso. «No» ammise. «Mai
così vicini alla Capitale, che io sappia. Ma ci sono
state delle avvisaglie…»
Quelle
parole catturarono
immediatamente l’attenzione della giovane. «Di che
tipo?» chiese, cercando di
tenere a bada l’eccitazione che si era impossessata di lei.
«Non
credo che sia opportuno
discuterne in questa sede» replicò il soldato, in
un tono che lasciava
chiaramente intendere che, più che la sede, era la compagnia
a non convincerlo
del tutto. Piccata, la giovane lasciò la presa che aveva
sugli abiti dell’uomo
e incrociò rigidamente le braccia. «Con tutto il
rispetto, vorrei farti notare
che, se sai qualcosa al riguardo, sei tenuto a comunicarlo
all’Ordine.»
Senza
battere ciglio, l’uomo
sostenne il suo sguardo. «Lo so. Il mio Capitano
avrà cura di fare avere alla
tua Superiora tutte le informazioni in nostro possesso. Io, comunque,
sono qui
per occuparmi di altro.»
Improvvisamente,
Lina sorrise,
felice di avere occasione di dimostrare la propria
superiorità. «Della
Principessa, immagino.» Il soldato sgranò gli
occhi, stupito, anche se, in
realtà, c’era ben poco di sorprendente nel fatto
che l’Ordine fosse a
conoscenza di un evento tanto importante. «Ve ne state
occupando anche voi?»
chiese.
Lina
fece per dire che no, Grete
di Altavilla aveva semplicemente chiesto loro di pregare per la
ragazza, ma,
intravvedendo l’occasione di scoprire qualcosa di
più a proposito di quanto
stava accadendo, si strinse nelle spalle. «In un certo
senso» disse, vaga.
L’uomo
si avvicinò di un passo,
costringendola a piegare ancora di più il collo per poterlo
guardare in faccia.
«E…?» la incalzò.
«Avete scoperto qualcosa?»
Pur
sapendo che si trattava di un
atteggiamento potenzialmente pericoloso, Lina sollevò appena
un angolo della
bocca. «Non credo che sia il caso di parlarne qui»
rispose, facendo eco a ciò
che lui le aveva detto poco prima. Il soldato la fissò per
qualche istante, poi
scosse il capo. «Mi sembra giusto»
borbottò. «Stammi a sentire», riprese
poi,
fissandola negli occhi come per giudicare la sua reazione,
«ti propongo una
cosa. Potresti venire con me a dare un’occhiata al villaggio,
per vedere se
troviamo la tua amica o se, per lo meno, incontriamo qualcuno che
l’ha vista. Nel
frattempo, ne approfittiamo per scambiare due parole: tu mi dici quello
che
sai, e io, in cambio, ti dico quello che so io.»
La
giovane lo guardò di
sottecchi. Un tempo sarebbe arrossita, se un uomo le avesse fatto una
proposta
del genere, vedendoci chissà quale secondo fine, ma in quel
momento non ci vide
altro che un tentativo – anche piuttosto goffo – di
aggirare una qualche regola
non scritta. La prospettiva, però, era allettante, doveva
ammetterlo. Se fosse
riuscita a portare a casa qualcosa di concreto, forse Grete le avrebbe
tolto il
caso delle piante dalla crescita misteriosa e le avrebbe permesso di
dedicarsi
a qualcosa di più eccitante.
D’un
tratto, il viso di Ibbi le
balenò davanti agli occhi. Stava solo perdendo tempo, lo
sapeva bene: non c’era
modo che la ragazza fosse sfilata accanto ai pastori, non vista, e
fosse
entrata nel villaggio. Forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere il
suggerimento della guardia e a correre alla Congrega per dare
l’allarme.
Però…
solo pochi minuti. Mezz’ora al
massimo, si ripromise. Sento quello
che questo tizio ha da dirmi e
poi torno a casa, senza perdere altro tempo. Del resto, se Ibbi non
è alla
Congrega, probabilmente c’è ben poco che possiamo
fare, così, su due piedi.
Annuendo
come per convincersi che
quella fosse la decisione giusta, Lina incontrò di nuovo gli
occhi del soldato.
«Va bene» disse. «Andiamo.»
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Capitolo 5 *** 5 ***
Di
tanto in tanto, il soldato al
suo fianco le rivolgeva la parola, ma lei non gli prestava alcuna
attenzione.
Man mano che si avvicinavano alle porte del villaggio, la giovane
avvertiva un
senso d’angoscia montarle nel petto. Erano passati troppi
anni dall’ultima
volta che si era spinta oltre i confini della Congrega e
l’idea di trovarsi di
punto in bianco circondata da gente sconosciuta la metteva decisamente
a
disagio.
Non c’è motivo di preoccuparsi,
si disse, abbassando lo sguardo sui
propri piedi per evitare di incrociare quello di alcuni pastori che
stazionavano a pochi metri da lei. Sono
persone normali, uguali identiche a quelle che conoscevo da ragazzina.
Era
sicuramente vero, cionondimeno era consapevole che gli abiti che
indossava
l’avrebbero immediatamente identificata come consorella
dell’Ordine: il fatto
che si trovasse fuori dalla Congrega era una cosa sufficientemente
insolita da
attirare l’attenzione degli abitanti del villaggio, e
l’idea di trovarsi al
centro di decine e decine di sguardi sconosciuti la faceva sudare
freddo.
Quando
giunsero a pochi metri
dall’antica porta di pietra che segnalava
l’ingresso del villaggio – dovevano
esserci state delle mura, una volta, lì, ma erano quasi
completamente scomparse
– la ragazza rallentò inconsciamente il passo,
mentre il suo stomaco si
contraeva in una serie di piccoli, sgradevolissimi crampi.
«Vieni?»
Senza
che se ne rendesse conto,
Lina era rimasta indietro di alcuni metri e l’uomo che la
stava accompagnando
si era fermato a guardarla, sul volto un’espressione confusa.
«Sì» esalò lei,
schiarendosi poi la voce per renderla più ferma. Non renderti ridicola, si
rimproverò, spingendo avanti il mento e
raddrizzando le spalle. Risoluta, la giovane si diresse a passi decisi
verso la
guardia e poi la superò, varcando così le porte
del villaggio. Aveva percorso
appena pochi metri sul selciato irregolare che rivestiva quella che
doveva
essere la strada principale, quando un senso di famigliarità
la investì,
inatteso. L’odore di fumo e di cibo, simile a quello che
respirava ogni giorno
nella Congrega, eppure così diverso, la riportò
immediatamente ai giorni della
sua infanzia, quando era solita passare le giornate accovacciata su una
delle
botti che suo padre portava al mercato. Il ricordo – quasi
dimenticato, ma
gradito – le riscaldò il petto e lei si
sentì un po’ meno fuori posto.
Rilasciando
un respiro che non si
era nemmeno accorta di aver trattenuto, la giovane alzò lo
sguardo verso il
cielo limpido, osservando dal basso il netto contrasto tra le pareti
bianche
delle case, tutte uguali, e gli scuri tetti di ardesia che le orlavano.
Non
erano abitazioni ricche, lo vedeva chiaramente, ed erano nettamente
più piccole
di quella in cui aveva vissuto un tempo, ma c’era un che di
dignitoso negli
usci ordinati e nei fiori gialli e scarlatti che adornavano le
finestre. Distrattamente,
Lina pensò che non sembrava un brutto posto in cui vivere,
quello.
Dopo
un istante di indecisione,
il soldato le fece cenno di seguirlo e si incamminò lungo la
via, inoltrandosi
verso il cuore del piccolo villaggio. Man mano che si allontanava
dall’ingresso, Lina diveniva sempre più
consapevole del modo in cui la
osservava la gente: chi con curiosità, chi con diffidenza,
chi, addirittura,
quasi con timore. Quella consapevolezza fu sufficiente a far svanire
gran parte
delle sensazioni positive che aveva provato fino a qualche istante
prima, e la
ragazza si ritrovò ben presto a stringere nervosamente il
grembiule tra le
mani. Quando la tensione iniziò a diventare troppa, si
accostò al suo
accompagnatore. «Mi guardano tutti»
mormorò, quasi a pregarlo di fare qualcosa.
Lui
le rivolse uno sguardo
sorpreso – sembrava non essersi nemmeno reso conto delle
attenzioni di cui era
lui stesso marginalmente oggetto – poi scrollò le
spalle, ostentando
indifferenza. «Be’, è normale. Non
è che quelle come te ci vengano spesso, da
queste parti.»
Lina
alzò gli occhi al cielo di
fronte a quell’ovvietà, trattenendosi a stento
dallo sbuffare. «Lo so, ma mi
mette comunque a disagio essere osservata in questo modo. Sembra
addirittura
che dia loro fastidio» si lamentò, accennando con
il capo a un gruppetto
composto da due donne e un uomo che, all’ombra di un
porticato, la osservavano
di sottecchi.
«Ma
no» replicò il soldato. «Ti
guardano così solo perché non sono abituati a
vedere molti estranei. Comunque,
non è un male: se la tua compagna è stata da
queste parti, qualcuno l’avrà
certamente notata. Basterà fare qualche domanda.»
Così dicendo, si diresse
verso le tre persone che lei gli aveva indicato. I tre si affrettarono
a
distogliere lo sguardo e, per un istante, Lina provò un moto
di gratitudine nei
suoi confronti: era alto, notò, per la prima volta e, anche
se era piuttosto
snello e meno imponente di alcuni uomini con cui aveva avuto a che fare
in
passato, la divisa che indossava esercitava comunque un vago effetto
intimidatorio sulle persone che gli stavano attorno. Adesso
non mi fissate più, eh? Pensò, con un
fremito di
soddisfazione.
All’oscuro
di quei pensieri, il
soldato aveva raggiunto i tre sconosciuti e aveva rivolto loro un
saluto.
«Avete visto una donna della Congrega, di recente?»
chiese loro, quando Lina
gli si avvicinò. Una delle donne la scrutò da
capo a piedi, poi si rivolse alla
guardia. «A parte lei?»
Il
soldato sgranò gli occhi
chiari, come se non si fosse aspettato una domanda tanto sciocca, e
Lina
sbottò: «A parte me, ovviamente.»
Aveva usato lo stesso tono che era solita riservare a Danah nei suoi
momenti
peggiori, ma, anche se lo sguardo offeso della sconosciuta le fece
capire che
la cosa non era passata inosservata, non riuscì a
dispiacersene.
«No,
non l’abbiamo vista» si
intromise la seconda donna, un po’ più anziana.
«Se posso darvi un consiglio,
andate alla Locanda del Gallo D’Oro: se si cerca
un’informazione, quello è il
posto migliore per trovarla.»
Lina
scosse la testa, scettica.
«Dubito che Ibbi sia andata alla locanda» disse,
alzando lo sguardo sul
soldato. Dubito anche che sia venuta al
villaggio, aggiunse, poi, mentalmente, ma si
guardò bene dal dirlo. Non
voleva separarsi da lui prima di scoprire qualcosa di più a
proposito di quello
che le aveva accennato fuori dal villaggio.
«La
Locanda del Gallo D’Oro è il
posto in cui va chi ha voglia di scambiare due parole»
insistette la donna più
anziana. «La tua compagna forse non è
lì, ma forse ci troverete qualcuno che
l’abbia vista.»
«Cosa
vuoi fare?» chiese la
guardia, guardando la ragazza. «Vuoi provare ad andare alla
locanda o
preferisci girare ancora un po’ per strada?» La
giovane esitò, soppesando le
due opzioni. Se, da un lato, non trovava particolarmente allettante
l’idea di
sedere a un tavolo con un uomo sconosciuto, alla mercé della
curiosità degli
avventori del locale, dall’altro doveva ammettere che,
così facendo, sarebbe
stato molto più facile intavolare una conversazione che le
permettesse di
scoprire ciò che più le interessava.
«Andiamo
alla locanda» decise,
allora. «Se non altro, vorrei approfittarne per magiare
qualcosa: non ho ancora
pranzato» mentì, prima di aggiungere, a bassa
voce: «Credo che non abbia molto
senso girare a vuoto per le strade: se nessuno ha visto Ibbi, devo
tornare alla
Congrega e dare l’allarme senza perdere altro
tempo.»
A
quelle parole, il compagno
delle due donne, che fino a quel momento non aveva parlato, le rivolse
un’occhiata penetrante. «Dare
l’allarme?» ripeté.
«È successo qualcosa?»
«Non
è successo nulla» replicò
immediatamente la guardia, impedendo a Lina di rispondere lei stessa.
«La
ragazza stava badando ad alcune pecore, si è allontanata per
cercare un agnello
e potrebbe essersi persa. Hai detto che si è trasferita alla
vostra Congrega da
poco, non è così?» chiese, poi,
rivolgendosi alla giovane. «Sì, è
così»
confermò lei, lentamente, lanciando un’occhiata
tagliente all’uomo, che l’aveva
sorpresa con quella menzogna.
Quando
si furono allontanati dal
gruppetto, la guardia la prese per un polso e la fece avvicinare a
sé. «Stai
attenta a non parlare troppo» le disse, chinandosi verso il
suo orecchio. Il
tono non era minaccioso, ma quell’avvertimento fece comunque
scattare una
scintilla di rabbia nel petto della ragazza. «E
perché mai?» ribatté,
liberandosi dalla presa con uno strattone deciso. «Tanto, ben
presto si
accorgeranno anche loro che stanno succedendo delle cose strane.
Ammesso che
non se ne siano già
accorti, se, come
dici tu, ci sono già state delle avvisaglie,
da queste parti.»
Lina
gli rivolse un’occhiata di
sfida, ma lui si limitò a scuotere il capo, guardandola con
un mezzo sorriso.
«Non sai davvero come funziona il mondo, vero?» le
chiese, con una tale aria di
compatimento che, per un istante, la giovane credette di vedere rosso.
Per una
frazione di secondo, fu tentata di dire che lei il mondo lo conosceva
molto
meglio di lui, grazie tante, visto
e
considerato che lei passava la vita a studiare e lui, con ogni
probabilità, non
sapeva nemmeno scrivere il suo nome, ma poi si trattenne. No, non si
sarebbe
abbassata a tanto. Avrebbe mantenuto la calma, come il suo ruolo
richiedeva e
come era abituata a fare, e così facendo gli avrebbe fatto
intendere tutta la
sua superiorità. «Se lo dici
tu…» commentò allora, sussiegosa,
degnandolo solo
di una mezza occhiata. L’uomo parve sul punto di ribattere,
ma poi scosse
nuovamente il capo e tornò a dirigersi verso la sua meta.
Vista
dall’esterno, la Locanda
del Gallo D’Oro era un edificio come tutti gli altri,
riconoscibile solamente
dall’insegna rappresentante un galletto dorato appesa sopra
alla porta. Una
volta varcata la soglia, Lina tirò un sospiro di sollievo
nel notare che il
locale era semi deserto: c’erano solo un paio di avventori
sparsi qui e là e
gran parte dei tavoli di legno chiaro erano vuoti. Quello che doveva
essere il
locandiere, un uomo sulla cinquantina che zoppicava vistosamente dalla
gamba
sinistra, si avvicinò loro. «Buon
pomeriggio» li salutò, con una nota di
incertezza nella voce. «Posso esservi
d’aiuto?»
«Vorremmo
mangiare qualcosa» fece
il soldato, prontamente. «E vorremmo sapere se hai visto
un’altra donna della
Congrega, oggi.»
«No,
non l’ho vista» replicò
distrattamente l’uomo. Mentre lo diceva, i suoi occhi erano
fissi sul volto di
Lina e la giovane distolse lo sguardo, a disagio, sentendo le orecchie
in
fiamme. Dopo qualche istante, si azzardò a guardare ancora
in direzione del
locandiere e sul suo volto notò un’espressione
concentrata. «Beh?» fece allora,
più aspramente di quanto avrebbe voluto. Immediatamente, il
locandiere si
riscosse e arretrò di un passo, con una risatina
imbarazzata. «Non vorrei
sembrare inopportuno, ma… sei mai stata al mercato di
Balma?» chiese.
Lina
aggrottò la fronte, confusa.
Lo ricordava, il mercato di Balma. Era il più grande mercato
del Nord, un luogo
che suo padre visitava una volta all’anno. L’aveva
accompagnato, qualche volta.
«In verità, sì. Ma è da
molto tempo che… l’ultima volta avrò
avuto dieci o
undici anni, credo.» L’oste annuì.
«Se posso chiedere: vieni dalla nostra
Congrega, vero? La tua famiglia è di queste
parti?» Leggermente infastidita da
quell’interrogatorio, la giovane incrociò lo
sguardo del soldato, che si
strinse nelle spalle. «No, a dire il vero non sono di queste
parti.» replicò,
secca. «Sono nata nel Distretto delle Colline Blu. Se sono
qui, è solo perché
mia madre si è risposata e ora vive nella
Capitale.»
Per
nulla scoraggiato dalla
scontrosità della ragazza, il locandiere si aprì
in un gran sorriso. «Non è
che, per caso, sei la figlia di Ivor di Pian
dell’Alba?» La domanda la lasciò a
bocca aperta e il locandiere interpretò correttamente il suo
silenzio stupito.
«Lo sapevo!» esultò.
«Conoscevo tuo padre, tanto tempo fa. Cercava di rifilarmi
sempre del vino scadente, spacciandolo per un’ottima annata,
ma, sotto sotto,
era un brav’uomo. Tu, comunque, sei identica a tua madre:
è per questo che ti
ho riconosciuta. Avevo sentito che eri entrata nell’Ordine,
ma non mi aspettavo
certo di trovarti qui.»
Istintivamente,
Lina strinse tra
le dita una ciocca ramata che era sfuggita dall’acconciatura
e le penzolava
davanti agli occhi. «Non è vero che sono identica
a mia madre» protestò. L’oste
le rivolse un sorriso placido. «Capelli a parte,
s’intende. Ma hai la sua
stessa faccia. Anche l’espressione è la
sua.» Davanti a quell’osservazione,
Lina arrossì: non amava particolarmente essere paragonata a
sua madre, ma,
sfortunatamente, sapeva che il locandiere aveva ragione. Da suo padre
aveva
preso solo i capelli rossi, ma i lineamenti, le lentiggini e gli occhi
scuri
erano una chiara eredità materna; e non c’era
nulla che lei potesse fare per
cambiare quella verità. Cercando di evitare che
l’uomo continuasse a chiederle
della sua famiglia – un discorso che preferiva evitare, se
poteva – la giovane
si strinse nelle spalle. «Sì, be’,
immagino sia vero. Comunque, come dicevamo,
sono qui per cercare una mia compagna che si è persa: sei
certo di non averla
vista?»
A
quella domanda, l’oste si fece
più serio. «Era vestita come te,
immagino.» Quando Lina annuì, l’uomo
scosse il
capo, con un’espressione dispiaciuta sul volto.
«No, purtroppo non ho visto
nessuna consorella: né oggi, né nei giorni
scorsi. È vero però che oggi sono
stato piuttosto impegnato e non ho avuto molto tempo di fare
conversazione:
perché non vi sedete e non mangiate qualcosa? Nel frattempo,
io proverò a fare
qualche domanda agli altri clienti.»
Prima
che la ragazza potesse dire
che non era il caso che lui si scomodasse – poteva benissimo
farle lei, le
domande – il soldato si lasciò scivolare sulla
sedia più vicina. «Mi sembra un’ottima
idea» disse, alzando lo sguardo sul locandiere. Quando quello
si allontanò con un
sorriso soddisfatto, Lina rimase immobile per qualche istante, indecisa
sul da
farsi. Le poche persone presenti nel locale la stavano fissando e lei
si
affrettò a sedersi, sentendosi piuttosto stupida.
«Non
avevo idea che tu conoscessi
il padrone di questo posto» le disse il soldato, quando si fu
accomodata. Per qualche
motivo, la giovane credette di avvertire una lieve sfumatura
d’accusa, nelle
sue parole. «E infatti non lo conosco»
ribatté. «Mio padre però era un
commerciante di vino piuttosto rinomato e viaggiava molto…
immagino avesse
diverse conoscenze sparse per il regno. Non ricordo mi abbia mai
parlato di
questo tizio, ma sono passati diversi anni da quando è morto
e io mi sono ormai
dimenticata molte cose.»
Notando
che il soldato continuava
a fissarla, Lina sbuffò, spazientita. «Non mi pare
che la cosa abbia una
qualche importanza, comunque. Parliamo piuttosto del fatto che Ibbi non
è qui.»
Davanti al suo tono bellicoso, la guardia si rilassò contro
lo schienale della
sedia, sollevando un gomito per trovare una posizione comoda.
«Il fatto non
pare stupirti» commentò, osservando la sua
reazione.
La
ragazza abbassò gli occhi sul
tavolo, un po’ in imbarazzo. «Be’, in
effetti credo sia improbabile che sia
entrata nel villaggio: perché avrebbe dovuto
farlo?» chiese, mentre una fitta
di preoccupazione le attraversava lo stomaco, ricordandole che la sua
compagna –
la sua amica – era
scomparsa nel
nulla e lei stava perdendo tempo con un soldato sconosciuto,
anziché correre
alla Congrega e dare l’allarme.
«Non
saprei» replicò la guardia.
«Perché sei qui, allora?»
Lina
incontrò il suo sguardo e,
per una frazione di secondo, si chiese se fosse il caso di fidarsi di
lui. Aveva
degli occhi terribilmente chiari, quasi color ghiaccio e, per qualche
motivo,
lei aveva sempre provato una certa diffidenza nei confronti delle
persone con
gli occhi azzurri. «Immagino valesse comunque la pena fare un
tentativo»
sospirò. «Se Ibbi non è qui, significa
che è sparita nel nulla in mezzo a quel
fumo nato dal niente: poco fa, tu hai detto che non è il
primo evento del
genere ad essere avvenuto vicino alla Capitale, ma che ci sono state
delle avvisaglie. Bene, voglio
sapere a cosa
ti stavi riferendo: se Ibbi è scomparsa, ogni particolare
può esserci utile per
tentare di ritrovarla.»
«Mi
pare logico» convenne lui,
placido. «In cambio, tu mi racconterai ciò che sai
a proposito della scomparsa
della Principessa: se non erro, i patti erano questi.»
Improvvisamente,
Lina si accorse
di aver fatto un piccolo, trascurabile errore: non si era preparata
alcuna
fandonia da rifilare al soldato in cambio delle informazioni che
avrebbe
ottenuto da lui. Perché lei, della sorte di Adlyn, non
sapeva assolutamente niente.
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