La
finestra chiusa tremò sotto la
forza del vento. Fuori pioveva ormai da ore e quella che era iniziata
come una
pioggerellina di poco conto si era rapidamente trasformata in un
temporale in
piena regola. La pioggia scrosciava con forza, riempiendo con il suo
rombo la
piccola stanza bianca di calce: se anche qualcuno avesse voluto
parlare,
sarebbe stato impossibile portare avanti una conversazione.
Lina
lanciò un’occhiata alle
ombre distorte che la luce delle candele proiettava sui muri e si
strinse le
braccia attorno al petto, tremando. La sedia sulla quale era seduta
tradì uno
scricchiolio discreto, ma nessuno se ne accorse a eccezione di Talya,
la
consorella che sedeva al suo fianco. La donna le rivolse un sorriso
mesto e la
giovane deglutì, riportando lo sguardo sul pagliericcio sul
quale giaceva Issa.
La ragazza, vent’anni appena compiuti, aveva iniziato a
mostrare i primi segni
della malattia soltanto una settimana prima, ma erano bastati pochi
giorni
perché la sua salute peggiorasse drasticamente. Le macchie
rosate che le erano
comparse su mani e piedi si erano presto trasformate in ulcere che le
avevano
divorato gambe e braccia, il lieve mal di testa che la tormentava da
qualche
giorno si era aggravato e tramutato in una paralisi che le impediva di
piegare
il collo e aprire la bocca, il suo cuore aveva lentamente abbandonato
il suo
battito regolare per assumere un ritmo erratico e imprevedibile. Quello
che la
stava uccidendo, però, era il liquido che le si era raccolto
nei polmoni e che
le impediva di ottenere l’ossigeno necessario per vivere. A
ogni respiro
stentato, dal torace della poveretta giungeva un gorgoglio umido che
faceva
accapponare la pelle a chi lo udiva. Lina rabbrividì
nuovamente, grata per il
rumore della pioggia che le impediva di udire quel sibilo sinistro.
Anche
se lei e Issa non erano mai
state in rapporti particolarmente stretti, Lina provava pena per quella
ragazza
timida e laboriosa che, per sua sfortuna, avrebbe lasciato la vita
terrena
decisamente troppo presto. Mentre studiava di soppiatto le sue braccia
pallide
avvolte dalle bende, la giovane si chiese, non per la prima volta, se
ci fosse
una vita, dopo la morte. Sebbene fosse nell’Ordine da ormai
dieci anni, Lina
non si era ancora fatta un’idea precisa su quel particolare
argomento: i suoi
studi non erano ancora riusciti a far chiarezza su ciò che
accadeva all’essenza
di una persona una volta che il cuore smetteva di battere e la
coscienza
svaniva.
Accanto
a lei, le sue consorelle
tenevano per lo più il capo chino. Alcune stavano pregando,
comprese Lina,
altre erano probabilmente assorte in pensieri più complessi.
Riflessioni
filosofiche sul senso della vita, forse, oppure formule sperimentali
che
potessero guarire quel morbo comparso dal nulla che aveva
già mietuto molte vittime.
La
giovane si guardò le mani,
flettendo le dita e fissando distrattamente l’ombra
azzurrognola
dell’inchiostro che mille lavaggi non erano riusciti a
eliminare. La malattia
non era contagiosa, si disse, leggermente rassicurata. Se lo fosse
stata, i morti
sarebbero stati molti di più: anche all’interno
della loro confraternita, dove
il caso di Issa era già il terzo dall’inizio
dell’anno. La sua origine rimaneva
però ancora avvolta nel mistero, il che rendeva impossibile
prevenirla. C’era
chi sosteneva che fosse provocata da una qualche sostanza disciolta
nell’acqua,
chi da un’esalazione nell’aria, chi dal consumo di
carne proveniente da bestie
malate e chi, ancora, credeva che il morbo fosse da attribuire a un
qualche
maleficio o incantesimo. Non vi era alcuna prova o indizio che facesse
pendere
l’ago della bilancia verso l’una o
l’altra ipotesi e i Sapienti del regno
brancolavano nel buio.
A
volte, nelle sue riflessioni
notturne, Lina immaginava di essere lei la persona che avrebbe
finalmente
trovato la cura per sconfiggere quel male crudele e salvare la vita a
centinaia
di innocenti. Ogni volta, però, la luce dell’alba
portava immancabilmente con
sé la consapevolezza che quei vaghi desideri non erano altro
che fantasie: i
suoi talenti erano altri. La botanica, per esempio, o, curiosamente,
l’innata
capacità di orientarsi in un luogo mai visto prima.
Il
suono nitido e penetrante di
una campanella d’argento la riscosse da quei pensieri e,
guidata da un riflesso
spontaneo, Lina si alzò di scatto dalla sedia. Le altre
persone che, fino a
quel momento, avevano vegliato sull’inferma fecero lo stesso
e, come un sol
uomo, dieci donne – giovani e anziane allo stesso modo
– si diressero con passi
rapidi e silenziosi verso la porta, evidentemente desiderose di
lasciarsi alle
spalle quella piccola stanza umida dove già si intravvedeva
l’ombra della
morte.
Non
appena furono uscite, altre
dieci consorelle scivolarono nella stanza e presero posto attorno alla
malata:
quel rituale si sarebbe ripetuto fino a quando la Vecchia, o chi per
essa,
fosse venuta e avrebbe portato via con sé la sfortunata
fanciulla.
Uscendo
dall’infermeria, Lina
ebbe l’impressione di entrare in un altro mondo, un mondo
più leggero e quasi
privo di ombre. Malgrado quel mese di maggio si fosse rivelato
più piovoso del
consueto, i grandi camini presenti in ogni stanza erano accesi e il
calore
delle fiamme scacciava l’umidità, esaltando il
profumo delle grandi travi in
legno d’abete lasciate a vista sul soffitto. La giovane
chiuse gli occhi e
respirò a pieni polmoni quell’odore famigliare e
gradito, lasciando che il
tepore del fuoco allontanasse anche la sensazione di disagio che aveva
provato
nell’infermeria. Subito si sentì meglio e, dopo
qualche istante, riaprì gli
occhi, facendo mente locale per cercare di ricordare quali fossero i
suoi
impegni per la giornata.
Quando
era entrata in infermeria
era appena suonata la seconda ora del pomeriggio. Ogni turno di
assistenza alla
malata durava un’ora e questo significava dunque che, prima
di poter tornare in
biblioteca e dedicarsi allo studio, Lina avrebbe dovuto dare il suo
contributo
per la sopravvivenza della Congrega. Quella settimana era di turno in
lavanderia.
Con
una smorfia di disappunto al
pensiero di dover trascorrere un’ora con le mani immerse
nell’acqua fredda del
lavatoio, la giovane si incamminò verso le scale che
conducevano nel
seminterrato, dove si trovava il locale adibito a lavanderia. Il lungo
corridoio che conduceva alle scale era decorato da innumerevoli arazzi
e
dipinti, ma Lina vi sfilò davanti senza degnarli di uno
sguardo: li conosceva
come le sue tasche, ormai, ed era convinta che essi non potessero
riservarle
più alcuna sorpresa.
Giunta
circa a metà corridoio,
però, la ragazza si fermò e, com’era
sua abitudine, volse lo sguardo al terzo
pannello del ciclo del “Mondo Antico”, una serie di
dipinti che rappresentavano
il Continente Occidentale come esso era prima della venuta dei Primi
Re. Il
quadro in questione era piccolo e buio, dipinto con pennellate decise,
quasi
rabbiose, e rappresentava una foresta cupa, piena di muschi ed alberi
dai rami
contorti. Lina lo aveva notato subito quando, a quindici anni, era
entrata a
far parte dell’Ordine. Quando una consorella anziana le aveva
mostrato quella
che, da allora in poi, sarebbe stata la sua casa,
l’attenzione della ragazzina
ne era stata subito attratta. A colpirla non era stata la vegetazione
scura e
selvaggia, ma piuttosto la moltitudine di minuscoli particolari che
l’artista
vi aveva inserito. Nel dipinto era infatti presente una fauna variegata
i cui
rappresentanti più numerosi erano senza alcun dubbio gli
uccelli: corvi, gazze,
picchi, merli, pettirossi, persino gli occhi di brace di un gufo
acquattato nei
recessi di un vecchio tronco e la sagoma di uno sparviero che si
stagliava nel
fazzoletto di cielo che si intravvedeva tra le fronde nere.
Dopo
aver lanciato un rapido
sguardo al corridoio deserto, Lina si avvicinò al dipinto
fino a sfiorarne la
superficie con il naso, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco i
dettagli.
Ogni volta che lo guardava, aveva l’impressione di scoprire
un particolare
nuovo – o forse di ritrovarne uno notato tempo addietro e poi
dimenticato. In
un certo senso, era come se il quadro fosse vivo, una finestra su un
altro
tempo e un altro luogo. Anche in quell’occasione, Lina
sorrise notando una
minuscola cincia il cui brillante piumaggio giallo e celeste illuminava
un
angolo particolarmente buio. Che carina,
pensò, provando un moto di tenerezza per quella bestiolina
fatta di tela e
colore a olio che la osservava con microscopici occhi neri.
Subito
dopo, il suo senso del
dovere tornò a farsi sentire e la giovane si
allontanò dal dipinto,
raggiungendo le scale e percorrendole a piccoli passi rapidi. Quando
giunse al
locale adibito a lavanderia, Lina arricciò il naso,
resistendo alla tentazione
di strofinarlo per proteggerlo dal sentore pungente del sapone grezzo.
Le due
donne che erano già al lavoro accanto al lavatoio le fecero
un cenno di saluto,
mentre la terza, accucciata accanto a una cesta piena di panni sporchi,
le
rivolse un ampio sorriso. «Eccoti qui!» le disse, a
mo’ di saluto. «Come sta
Issa?»
«Sempre
uguale» replicò laconica
Lina.
Subito,
il bel volto della
ragazza che le aveva posto quella domanda si rabbuiò e Lina
si sentì in dovere
di consolarla. Anche se non poteva essere molto più giovane
di lei – la sua
effettiva data di nascita era sconosciuta – Ibbi era ancora
una novizia. Dopo
un’infanzia e un’adolescenza trascorse in
schiavitù, era stata affrancata dal
suo padrone morente, guadagnando la libertà, ma ritrovandosi
sola al mondo,
senza un posto da chiamare casa. La sua naturale curiosità
– unitamente a una
certa dose di disperazione – l’avevano fatta
avvicinare all’Ordine sino a
spingerla a entrare a far parte di una Congrega.
Era
già da qualche mese che lei e
Lina condividevano la stanza e, fino a quel momento, nessuna delle due
aveva
mai avuto motivo di lamentarsi dell’altra.
Chinandosi
per raccogliere una
federa che era sfuggita dal cesto che Ibbi teneva tra le ginocchia,
Lina si
voltò verso la compagna con un sorriso di circostanza.
«Il primo medico le ha
dato delle droghe molto forti» sospirò.
«Se non altro, in questo momento non
soffre più.»
Ibbi
annuì, appena rinfrancata, e
allungò alla ragazza di fronte a lei un grosso pezzo di
sapone giallastro,
rivolgendole uno sguardo di scusa. Solitamente, la giovane non sarebbe
stata
esonerata dal servizio di lavanderia, ma, qualche giorno prima, le sue
mani
avevano iniziato a screpolarsi. Quella che nelle prime, terribili ore
era stata
interpretata come la prima manifestazione della malattia che stava
uccidendo
Issa si era poi rivelata una banale dermatite da contatto, un malanno
passeggero che aveva però lasciato le mani della ragazza
piene di bolle
dolorose che mal sopportavano il contatto con il sapone grezzo
utilizzato in
lavanderia. Ibbi era stata così incaricata di portare su e
giù dalle scale le
pesanti ceste contenenti il bucato e i panni da lavare, un compito che
svolgeva
con lo stesso entusiasmo con cui affrontava qualsiasi mansione le fosse
affidata.
Con
un sorriso tirato, Lina prese
il sapone e la federa che aveva appena raccolto da terra e si
voltò verso il
vecchio lavatoio di pietra, cercando un punto in cui l’asse
di legno su cui
avrebbe insaponato i panni non fosse troppo scheggiata. Poi immerse la
federa
nell’acqua, cercando di non pensare a quanto il gorgoglio
dell’aria che fuggiva
verso la superficie le ricordasse quello prodotto dai polmoni di Issa.