Pink Coffee

di Zomi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Caffè o Tè?” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 1204
Prompt/Traccia: 10 - A e B sono costretti a condividere un tavolo al bar per un paio di giorni di fila perché il caffè è affollato e non ci sono posti liberi (da FairyPiece)


 
PINK COFFEE  
 


Erano stati giorni frenetici al Moby Dick.
La pioggia improvvisa di Maggio aveva costretto il reinvio dell’apertura del giardino estivo, e il locale, di modeste dimensioni, si era ritrovato ad ospitare i suoi clienti nell’angusto spazio che aveva a disposizione, gli spazi invernali snobbati per i loro bigi colori.
Era stato così che Ace l’aveva conosciuta.
Il bar strapieno e brulicante di mille persone vogliose solamente di assaporare il primo caffè mattutino, li aveva costretti a unirsi in un muto cameratismo e a condividere per qualche giorno il medesimo tavolino senza conoscersi.
Si erano incrociati qualche volta, lui rapido nell’implorare il suo Dead Eye a Satch per combattere gli attacchi di narcolessia, lei guizzante nel sfuggire con in mano un caffè altrettanto potente e adrenalinico.
Incrociati si, tante volte senza mai fare caso l’uno all’altra.
Conoscersi, parlare, scoprire che lei aveva le iridi viola, un scintillante piercing sullo zigomo sinistro, la passione per la tinta rosa Hot Pink e che la sua risata era calda ed eccitante come la caffeina no, quello non lo aveva mai fatto.
Quattro giorni.
Quattro giorni di pioggia in cui avevano condiviso un tavolino non proprio benestante del bar, che traballava emozionato ad ogni risata di lei come il cuore del moro.
Quattro giorni in cui nel Moby Dick avrebbe potuto anche entrare un elefante rosa starnazzante ma Ace non se ne sarebbe accorto, troppo assorto dalle parole di lei, dal suo sorriso sornione, dalla malizia del suo respiro, dall’incantevole luccichio magico dei suoi occhi perlacei.
Quattro giorni passati a ingurgitare caffè pur di non addormentarsi e perdere qualche sua sfumatura, a difendere il tavolino guadagnatosi tra spintoni e morsi ai clienti, pattugliando il suo arrivo e sentendosi rinascere vendendola arrivare bagnata di pioggia.
Quattro giorni in cui le aveva chiesto ogni cosa della sua vita –aveva fratelli? Sorelle? Il suo piatto preferito? Aveva tatuaggi? Poteva vederli? Baciarli?-
Quattro giorni in cui non aveva avuto un solo attacco di narcolessia, e in cui la pioggia battente aveva fatto da sottofondo alle loro fitte chiacchierate, al suo provarci sottile e alle risposte dolci e viperine a volte di lei.
Quattro giorni in cui Ace…
-… non le hai mai chiesto il nome?!?-
Satch guardò esterrefatto il moro, un misto di ribrezzo e vergogna nei suoi confronti.
-No no no! Aspetta!- agitò le mani davanti a sé, il vassoio posato all’ormai fidato tavolino di Portuguese che se ne stava sconfortato con il mento abbandonato sul ripiano e le ciocche nere sparse attorno allo sguardo vitreo.
-Per quatto giorni hai flertato con lei, le hai chiesto di tutto e di più- si massaggiò il ponte del naso il barista non riuscendo a credere al riassunto che stava mettendo assieme –Ma non lei hai mai chiesto né il nome né il numero di telefono?!!?-
-Sì- piagnucolò Ace, graffiando un riflesso dorato del sole sul tavolino, odiandolo.
Il sole era tornato a splendere, e con esso gli avventori del Moby Dick avevano trovato coraggio nel prendere il quotidiano caffè all’accogliente ombra del giardino estivo del locale.
Ma se per il locale aveva significato la fine di quei giorni frenetici di lavoro e caos, per Ace aveva segnato la fine del suo menage con l’affascinante ragazza dalla chioma di fragola, sparita con la pioggia dal locale da ormai una settimana.
-Sei sicuro non sia più tornata?- si grattò il mento barbuto Satch.
-Più vista- sbottò Ace, sbattendo la fronte sul tavolo –Sparita, scomparsa, vaporizzata, desaparecida…- diede un altro colpo al ripiano –Non la rivedrò mai più-
Come aveva potuto essere così sciocco?
Le aveva chiesto di tutto, la conosceva come se si fossero amici da una vita… ma non sapeva il suo nome!
Come era potuto accadere? Come?
Come aveva potuto essere così sciocco da innamorarsi di una persona tanto speciale, ma non chiederle mai il suo nome?
-Oh ora non fare il bambino!- sbottò Satch, regalandogli uno scappellotto -È  solo colpa tua, e non ti è permesso piangerti addosso!-
Ace si massaggiò la nuca, piegando di lato il capo a fulminare l’amico masticando qualche imprecazione.
-Se proprio non vuoi ascoltare i miei lamenti, almeno dammi la mia dose quotidiana di anti-pisolino-improvviso!- allungò un braccio verso di lui, la mano aperta e chiusa in una chiara richiesta di caffè in dose massima.
 -Ai Latin Lover imbranati niente caffeina- riprese in mano il vassoio, allontanandosi.
-Oh andiamo!- si sollevò dal suo tavolino del pianto Ace –Se non bevo il mio Dead Eye mi addormenterò in men che non si dica!- fissò l’amico tornare dietro al bancone del bar, sorridendo alla sua collega Halta –Satch dai: ti pago!-
-Sarebbe ora!- sbuffò il capellone.
Ace grugnì, sentendosi già le palpebre pesanti.
Si diede una scrollata, tentando di allontanare il tepore della carezza di Morfeo, deciso a mantenere la sua postazione di vedetta in cerca della sua ragazza da caffè.
-Halta…- piagnucolò in cerca di supporto, ma la castana gli sorrise timorosa venendo subito intercettata da Satch.
-Zitto e soffri in silenzio!- l’ammonì –Così impari a non chiedere le cose basilari in un flirt!-
-E se mi addormento e lei arriva?!?- tentò ancora, il dorso della mano che massaggiava freneticamente un occhio già chiuso dal sonno.
Satch ghignò, aprendo le braccia e agitando il ciuffo a banana.
-Amico mio- parlò suadente, mentre gli occhi di Ace si appannavano sempre più –Sarà destino se così accadrà… e chi sono io per intromettermi nel disegno divino?-
Ace non ebbe il tempo di insultarlo, che cadde addormentato sul ripiano del tavolino.
 
Una caramella.
Fu questa la sensazione che lo svegliò.
Una caramella alla vaniglia si era posata sulle sue labbra e lo aveva accarezzato con dolcezza, scuotendolo.
Con enorme sforzo, storse le labbra, arricciandole contro quel dolciume morbido e profumato che lo aveva destato.
No, non era una caramella.
Era si dolce, delicata, ma aveva il calore di un corpo, la consistenza di una bocca e la forma di un sorriso.
Qualcuno lo stava baciando.
Storse il naso, la fronte corrugata e le palpebre contratte nell’aprirsi con testardaggine, deciso a svegliarsi contro ogni forma di sindrome diencefalica, riuscendo finalmente ad aprire gli occhi e  a puntarli su chi osava abusare del suo stato comatoso.
La sua bocca si dischiuse in un sorriso quando identificò con chiarezza due limpide iridi viola studiarlo, e una conosciuta risata risuonare con allegria nel bar scuotendolo del tutto dal sonno improvviso.
Era lei ed era lì.
Bella come sempre, sorridente e con quella sfumatura maliziosa ad accerchiarle il sorriso che aveva appena baciato.
-Ben svegliato mio Bell’Addormentato- la vide ridere, agitando la chioma rosata –Caffè?-
-Si, mia principessa rosa- accettò l’offerta, stropicciandosi un occhio ricambiando il suo sguardo divertito.
-Principessa?- rise alzando la mano a richiamare un cameriere del bar –Bonney non ti basta?-
Il sorriso di Ace si accese, illuminandogli il viso e facendo avvampare le gote chiare di Bonney.
Si, le era mancato in quella settimana.
Lui con le sue lentiggini ancor più belle illuminate dal sole e non dai neon del locale, le sue ciocche nere e morbide, i suoi occhi d’ossidiana voraci nel cogliere ogni suo dettaglio.
-Si, Bonney può bastare- le sorrise –Per ora-
Due caffè iniziarono a raffreddarsi mentre Ace e Bonney riprendevano a conoscersi laddove la pioggia si era fermata.
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Caffè o Tè?” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 898
Prompt/Traccia: 33) “L’erba si fuma, non si beve” (da Fanwriter.it! )

Note d'Autore: primo esperimento eplicito di Kidd x Reiju



 
-… veramente preferisco il thè-
Bryan volò oltre lo schermo della televisione, preso alla sprovvista da un calcio della soave e piccola Alisa e Kidd non seppe se odiava di più quel maledetto gioco per la play o la risposta che gli aveva appena dato Reiju.
Si perché poteva anche accettare di incassare un colpo basso come quello in Takken 5, da quella fatina ripiena di veleno dalla chioma rosa confetto a cui avrebbe fatto il culo ben presto, ma che la coinquilina di sua cugina Koala preferisse quell’orrida brodaglia, inglese che negli anni aveva assunto il nome di Thè, a del sano e brasiliano oro marrone che tutti comunemente chiamavano caffè, no quello era inaccettabile.
Eppure doveva sospettarlo: un difetto Reiju lo doveva possedere.
Aveva fianchi invitanti, gambe lunghe, tette enormi, sorriso suadente, occhi azzurri e una pazienza infinita nel sopportare quel vulcano in miniatura di sua cugina in fase pre esami universitari, miscelata con l’onnipresenza nell’appartamento di Trafalgar, con quel suo ghigno sadico e saccente, di cui ignorava volentieri la motivazione per la quale la sua bastarda figura si trovasse sempre accanto a quella Koala.
Cosa intercorresse tra sua cugina e Trafalgar non gli interessava: che fosse studio o altro davvero non voleva saperlo!
Piuttosto era incline a interessarsi alla coinquilina prosperosa ed elegante della suddetta cugina, alle sue forme invitanti e a quel suo sorriso calmo e dolce che gli rivolgeva ogni volta che lui passava per quella casa, che fosse per un semplice saluto o per aggiustare qualcosa o per scroccare l’uso dell’imponente schermo piatto che avevano in salotto.
Ecco perché le aveva chiesto se le andava di prendere con lui un sano, nero e nevrotico caffè al nuovo bar del centro: perché gli piaceva.
Ecco perché si ritrovava rabbioso a massacrare di ginocchiate la faccia di Alisa con il suo avatar muscoloso e incazzato di nome Bryan, non capendo che cacchio ci trovava Reiju in una brodaglia simile a piscio come lo era il thè: lo aveva rifiutato con una scusa banale.
-L’erba si fuma, non si beve- masticò a mezza voce un ringhio, le dita premute a forza sul joystick, agitando le spalle e muovendosi a ritmo coi colpi che sferrava alla play sul tappeto del salotto dov’era seduto.
E che cazzo!
Se non le andava poteva anche rifiutare, non inventarsi che preferiva il thè.
Il thè!
E che diamine: cos’erano? Damine del fine ottocento che sorseggiavano brodaglia di erbacce con accento inglese e con tanto di pali in culo?
-Cazzo!- sbottò, agitando il capo rosso e unendo i pugni contro il cranio di Alisa.
Lo avrebbe dovuto sospettare che una come lei –educata, gentile, che non sgozzava sua cugina quando questa esagerava con l’allegria- non si sarebbe mai filato un rozzo e bestemmiante orso Grizzly come lui.
Eppure a certe ragazze i rossi con un carattere di merda come il suo e la stazza da rugbista piaceva… perché a lei no?
-Però sai…- la sentì muoversi dietro le sue spalle attirando la sua attenzione, il libro che stava consultando chiuso e posato sulle gambe, accavallate con estrema eleganza e malizia sotto la corta gonna nera -... per una volta potrei cambiare-
Kidd aggrottò la fronte, lo sguardo puntato allo schermo della televisione attento a schivare ogni colpo della sua avversaria digitale.
-Tsk- agitò le spalle borbottando acido –Non sentirti costretta-
Non accettava accontentini lui!
Non si accontentava di un caffè se poi non poteva avere anche i cinema, le uscite serali, quelle pomeridiane, i sorrisi, i baci e…
-Oh ma non mi sento costretta- si alzò dal divano, avvicinandosi pericolosamente a lui.
Percepì il suo inteso profumo solleticargli le narici, il ciuffo rosato dondolare accanto al suo viso e il suo soffio stuzzicargli il padiglione auricolare mentre le soffici rotondità del petto di Reiju si premevano con calcolata malizia contro la sua spalla, tesa a mantenere fermo e impassibile il joystick.
-Voglio prendere un caffè con te, Kidd- la voce le scivolò sul suo nome con accattivante inclinazione, facendolo sussultare sul tappeto –Anche perché, sai…- soffiò ancora la rosata, aggiungendo un polpastrello a correre su e giù per colonna vertebrale del ragazzo -… il caffè è una pianta, quindi tecnicamente un’erba e…- sospirò apposta costringendolo a trattenere il fiato nel percepire l’accattivante gonfiarsi del suo petto contro  di lui -… seguendo la tua logica, uguale al thè-
-C-cosa?!?- sgranò gli occhi, sbraitando e ruotando il capo verso la ragazza.
Il joystick cadde a terra premendo tasti a caso tra le gambe di Kidd, emettendo una lieve vibrazione che non intaccò minimamente la risata divertita di Reiju.
-Il caffè uguale al thè?!?- ringhiò fissandola recuperare il suo libro e avviarsi verso la sua stanza -Mi prendi per il culo donna?!-
-Oh non sia mai- avanzò di un passo, fermandosi a reclinare la testa all’indietro e rivolgergli un sorriso suadente –Quello la prossima volta magari…- soffiò lasciva dando il colpo di grazia al rosso, che abbandonò del tutto il gioco alla play -… ogni cosa a suo tempo Kidd-
Sullo schermo Bryan volò oltre l’arena, schiantandosi a terra e con la soave a velenosa Alisa a bloccarlo a terra con le gambe premute sulle sue spalle, il bacino forzato sul volto dell’albino che, per nulla rancoroso per la solenne sconfitta, ghignava tanto quanto la sua controparte umana ancora seduta sul tappeto del salotto a squadrare le forme di un’altrettanto velenosa e soave donna.
 
 

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Caffè o Tè?” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 1801
Prompt/Traccia: 4.”Mi offri un caffé?" (da FairyPiece )
Note d'Autore: Non scrivo su Nami e Zoro da molto. E niente, si vede
 






 
Caffè.
Nella vita non chiedeva molto: una tazza di caffè alla mattina e qualcuno con cui addormentarsi alla sera accanto.
Due semplici desideri.
Uno forse più importante dell’altro dato che alla compagnia notturna poteva anche rinunciare, ma al caffè no!
Era chiedere troppo?
 
-Oh my dear! Don’t worry: I came this evening… are you happy?-
 
Sano, corposo, scuro, amaro e forte.
Un caffè deciso e determinato a dargli la carica, non abbandonandolo alla sua indole pigra e dormigliona.
Caffè.
Intenso, aromatico caffè!
 
-Yep, I miss you too: your lips, your hear, your strong arms, your dick…-
 
Una sola tazza alla mattina, niente di più.
Chiedeva solo quello!
Una tazza di caffè dopo la doccia per iniziare bene la giornata, carico e attivo, pronto ad affrontare ogni ostacolo giornaliero e a sopportare i vicini rompiscatole dei condominio o i colleghi esaltati del lavoro.
 
-... I wanna touch you for all night. I wanna kiss your skin and scream your name whatever you push in me and do it so hard…-
 
Gli andava bene anche del sciacquoso caffè solubile, o decaffeinato.
Gli andava bene tutto purché nella sua tazza, ogni santa mattina alle sette e mezza, ci fosse un liquido caldo e scuro.
Lui voleva del caffè, dannazione!
Caffè, caffè, caffè, caffè!
 
-… I’m wearing your favorite napkins, but I can lose it and arrive to you without it and other of my cloths…-
 
Perché?
Perché quella sua piccolo e semplice richiesta non era ascoltata?
Perché anche quella mattina, schivando valigie e ignorando il suo chiacchiericcio civettuolo al telefono e in una lingua che prima delle nove del mattino per  lui era marziano, nella sua tazza non c’era del sano caffè ma…
-… thè? Ancora thè?- domandò sollevando il capo nella sua direzione.
-Shh!- lo zittì Baccarat , riservandogli un’occhiataccia assassina prima di riprendere la sua conversazione –Pardon? Nope. It was only he…-
Zoro grugnì, addossandosi con la schiena al bancone della cucina, la luce del mattino che filtrava tra le fronde degli alberi del giardino condominiale fino a illuminargli il viso.
Rovesciò il contenuto della sua sacra tazza nel lavandino, voltandogli poi le spalle mentre gorgogliava nel ingerire quell’orrida brodaglia che la sua “ragazza”, così l’additavano i vicini, continuava a imporgli ogni santa mattina.
Braccia strette al busto, Zoro ringhiò, gli occhi d’ossidiana fissi a seguire l’avanti e indietro della donna formosa e dalla chioma rosata che rideva, parlottava, flirtava, fingeva di parlare con il suo capo assumendo un aria austera proprio come da copione per il suo viaggio di lavoro già programmato quando invece il suo sorrisetto lascivo e gli occhi dorati brillavano a ogni parola anglofona che esalava, tradendo che in realtà dal suo capo non andava a lavorare.
O per lo meno, i lavoretti che gli faceva non rientravano nella sua busta paga.
Sbuffò stringendo la presa delle braccia al busto, il capo ruotato verso l’unica finestra ben illuminata della cucina e che dava sull’altra facciata del condominio. Con le iridi nere vagò sulla parete dell’edificio, riconoscendo la figura di Sanji fumare a torso nudo sul balcone di casa propria e, quando i loro sguardi si incrociarono, si diedero il buongiorno ricambiandosi il dito medio.
Le gioie di abitare su due fronti diversi del medesimo condominio, divisi soltanto dal cortile in comune!
Ghignò, ma l’ilarità durò ben poco sul suo viso non appena sentì ridere sguaiatamente Baccarat, ricevendo l’ennesimo ammonimento della mattina a tacere quando provò ad aprir bocca per chiederle perché rideva tanto.
Grugnì, questa volta imbestialito non solo per la mancata dose di caffeina quotidiana.
Perché poi convivevano ancora se ben sapeva che lo tradiva?
Non era certo una novità per lui quei falsi viaggi di lavoro in cui la rosa si assentava per giorni per una fuga romantica con il suo amante non proprio tanto segreto.
-… I love you too Tesoro…-
Roteò gli occhi al soffitto, trattenendosi dall’imprecare, tornando svelto a concentrarsi sul studiare il condominio dirimpettaio.
Che razza di situazione.
Costretto a rinunciare al suo caffè mattutino sorbendosi una brodaglia giallastra e zuccherosa e a beccarsi pure le corna… tutto offerto dalla sua dolce metà, amante della bevanda inglese!
Bell’affare davvero.
Chi glielo aveva fatto poi di andare a convivere con lei?
Ah già, sua madre, certa che una convivenza avrebbe riallacciato i loro rapporti amorosi e che lei, accortasi di quanto fosse bello convivere con lui, avrebbe mollato l’altro, guadagnando così nuora fissa e vita sentimentale felice per il tanto adorato figlio.
Ingenua.
L’unica cosa che ci aveva guadagnato Zoro da quella convivenza forzata non era altro che del schifosissimo thè, oltre che a un palco di corna esponenziale che avrebbero potuto far impallidire anche il più giovane e valoroso cervo delle montagne.
Fosse solo bastato poi.
Se pensava ancora una volta al suo adorato caffè assente gli saliva una sana voglia di gettare Baccarat dalla finestra.
Lei, il suo accento inglese e quel demente di Gild che non se la portava via con sé.
Sollevò lo sguardo dall’arredamento della cucina, le chiacchiere civettuole della rosa ignorate bellamente, cercando una qualche attrattiva con cui distrarsi dall’ennesimo torto alla caffeina ricevuto e agli uggiolii innamorati di quella che doveva essere la sua ragazza.
Zigzagò con gli occhi sulla facciata opposta del condominio finché lo sguardo non gli fu attratto  da una finestra appena aperta sul piano dirimpetto al suo.
Un’esile mano chiara aveva aperto il balcone, lasciando sgattaiolare al sole un gatto dal folto pelo bianco, a cui aveva donato una carezza prima di riemergere nel tessuto svolazzante di una colorata tenda.
Erano passati pochi secondi prima che una rimbombante radio urlasse note e canti dal medesimo balcone, annunciando l’uscita dell’inquilina dalla chioma ramata e felice che ballava sulle punte dei piedi mentre innaffiava le vistose peonie che ornavano il terrazzo,  abbassandosi ogni tanto ad accarezzare il micione che serpeggiava tra le sue lunghe e invitanti gambe.
-What? Sorry my darling but there is a noise and I can’t…-
Zoro piegò il capo all’indietro, incuriosito dalla nuova vicina, osservandola con attenzione mentre apriva un altra finestra, permettendogli così di seguirla nella sua cucina e brandendo una caffettiera per ora vuota di oro bruno.
La gola gli si scaldò alla vista, e ignorare le proteste di Baccarat per la musica troppo alta che le impediva di parlare con il suo amante era ora ancor più facile.
-Per la miseria!- sbottò la rosa, sgomitando il compagno e affacciandosi alla finestra della cucina –Perché diamine tiene la musica così alta quella!?!-
Zoro ghignò, scrollando le spalle in risposta alla donna, che cellulare alla mano sbraitava per le note alte e prolungate.
-Dev’essere quella fastidiosa nuova vicina di cui mi ha accennato la signora Tsuru- sbottò, riportando il cellulare all’orecchio e allontanandosi in fretta –Che sfortuna! Dear? Are you there?-
-Nuova vicina?- borbottò Zoro, seguendo la rossa che macchinava abile con la caffettiera, cantando a mezza voce e non accennando ad abbassare il volume della radio.
La vide piroettare snella a ritmo di musica, ondeggiando i fianchi invitanti, la chioma rossa che la seguiva e abbelliva.
Ora che ben ricordava, gli sembrava che anche a lui la signora Tsuru, in una delle rare e sciagurate volte in cui avevano condiviso l’ascensore per scendere al piano terra, l’avesse informato dell’arrivo di una ragazza solare ed energica, rossa di capelli e con un gattone troppo grasso per essere alimentato solo a crocchette.
-Fa la maestra all’asilo qui all’angolo!- ricordava che aveva gracchiato fiera e saccente nel suo metro di altezza –Seria e devota: non viaggia per lavoro!-
Sghignazzò al ricordo, gli occhi attenti a non perdere alcun movimento della vicina tanto allegra e quasi armata di caffè, da quanto poteva scorgere dalla sua finestra.
Si ritrovò ad alzarsi sulle punte quando la vide afferrare l’elettrodomestico colmo di espresso, osservandola con desiderio quando se ne versò, ancora danzante, un’abbondante dose in una tazza ornata da onigiri e alzare gli occhi a… dannazione!
Distolse lesto lo sguardo quando lo incrociò a quello felino e nocciola –oh ne era sicuro!- di lei, masticando imprecazioni e maledicendosi per la figuraccia.
Beccato a spiare la vicina versarsi una tazza di caffè: quanti anni gli avrebbero dato?
Sperava nell’ergastolo a vita in una caffetteria a essere sincero.
-Oh God!- strillò Baccarat tornando in cucina, sfrecciando alla finestra e aprendola armata di cellulare e accento anglosassone.
-La vogliamo abbassare quella maledetta radio?!?- si fece sentire dall’intero quartiere –Qui c’è gente che deve parlare al telefono!-
La rossa la fissò attonita, le labbra incollate alla sua tazza di caffè retta con entrambe le mani.
Con nonchalance, si sporse dalla finestrella del suo cucinino, mostrando il suo florido petto e, sorriso ammaliatrice sulle labbra, rispose a Baccarat con un semplice –No!- accompagnato da una linguaccia infantile rivolta direttamente alla rabbiosa donna rosata.
Zoro scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro e per nulla intimorito delle minacce della patner che gli aveva rivolto per la sua ilarità, picchiandolo su un fianco prima di afferrare la sua borsa e andarsene con tanto di porta sbattuta, l’indignazione per la spavalderia della vicina che le aveva colorato anche le gote di un rosa shocking.
La udì disseminare parolacce inglesi e ordini perentori a un presunto taxista arrivato a scortarla all’aeroporto, minacciando la pena capitale se anche un suo solo bagaglio si fosse smarrito per strada.
Ancora ghignate il verde riportò gli occhi alla vicina, ridacchiante e ferma a fissarlo.
Le rivolse un cenno del capo, in segno di saluto, a cui lei rispose aprendo una mano a salutarlo.
Fu spontaneo e semplice ricambiare il gesto imitandola, strappandole un sorriso quando si accorse di aver agitato nel saluto la sua tazza da caffè, vuota e triste.
-Tsk- scosse il capo Zoro, abbassando gli occhi alla tazza e rigirandosela tra le mani –Anche stamattina niente caffè- borbottò.
Poteva consolarsi con il pensiero che per una settimana Baccarat sarebbe stata assente: avrebbe potuto comprare un nuova moka, nasconderla assieme a una dose massiccia di caffè, girare nudo per casa, guardare le partite con Rufy e magari anche cambiare la serratura dell’appartamento e buttare fuori di casa Baccarat senza dirle nient…
-Ehi!-
Sollevò la testa di scatto al richiamo, voltandosi verso la finestra ad osservare la vicina sbracciarsi per richiamare la sua attenzione.
Si sporse curioso, rivolgendole un sorriso storto.
-Si?- parlò roco senza dover nemmeno alzare più di tanto la voce, quasi che la musica ancora rimbombante non assordasse le sue parole ma le accompagnasse da lei.
-Caffè?- gli propose la rossa –Offro io!- gli mostrò la caffettiera ricolma.
Zoro ghignò, e armato di tazza, uscì di casa a passo di marcia.
Perché Zoro nella vita non chiedeva molto: una tazza di caffè alla mattina e qualcuno con cui addormentarsi alla sera accanto.
E ben presto le avrebbe avute entrambe: una liquida e densa nella sua tazza, l’altra rossa e profumata di mandarino stretta al suo fianco.

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