Wild Call

di Hal_cyon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hate Me. ***
Capitolo 2: *** Wolf in Sheep's clothing. ***
Capitolo 3: *** Bad Omens. ***
Capitolo 4: *** Branches and Bones. ***



Capitolo 1
*** Hate Me. ***


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I - Hate me.

Il Var’Celen non amava l’insubordinazione.
Era qualcosa di sconosciuto all’interno della comunità elfica, e di caldamente sconsigliato in quella umana.

Osservò le giovani donne in piedi davanti a lui, tutte a capo chino ed ammantate nelle vesti nere tipiche delle Sacerdotesse di Ranyra,
così lunghe da trascinarsi a terra. Non osavano alzare lo sguardo né proferire parola.
Poteva sentire l’odore della paura spargersi nell’aria, ed era nauseante.

“Sapete di essere semplice bestiame per noi. Siete in vita perché lo vogliamo, ma potremmo cambiare idea.”

Iniziò a camminare tra le fila di Sacerdotesse, assicurandosi di mettere bene in mostra il profilo della spada affilata che pendeva dal fianco.
I tremiti ed i singulti si fecero man mano più udibili nel silenzio.

“Ora ditemi, dove si nasconde l’ultima di voi?”

L’ultima di trenta Omega umane rinchiuse nella sconfinata Moonbright, sulla vetta di un monte scosceso e dimenticato.
Il Santuario di Ranyra era l’unico che gli elfi avevano risparmiato per un puro fattore estetico - le mura bianche del mausoleo catturavano
magnificamente la luce - concedendo agli umani di pregare quella divinità con moderazione, sempre consapevoli che la Natura fosse la vera signora
ed andasse venerata in quanto tale.

Quelle femmine erano fattrici eccellenti, secondo la loro specie. Partorivano eredi forti, in salute, destinati a divenire grandi guarrieri,
e gli elfi non potevano permettere che la feccia proliferasse oltre.

Come ogni luna nuova, il Var’Celen si era recato al Santuario per somministrare alle elette gli inibitori, sostanze create con l’uso della magia che impedivano alle creature di andare in calore ed attirare attenzioni indesiderate.
Lo scopo principale era quello di renderle sterili, ovviamente, motivo per cui i maghi di Narawen sperimentavano mese per mese nuove formule.
Su alcune avevano effetto, su altre il processo si innescava con lentezza, creando invece una sorta d’immunità.

Ucciderle sarebbe stato più facile, ma quella pace illusoria stipulata con il Consiglio di Goldcrest impediva agli elfi di utilizzare metodi violenti e drastici, purtroppo.

L’Alpha sospirò quando fu chiaro che nessuna avrebbe aperto bocca.
La mano si posò sul pomello della spada mentre sostava davanti ad una stolta adepta impaurita, invisibile sotto il drappo nero.

“Saremo costretti a strapparvi la verità con i nostri metodi, e credetemi, implorerete pietà per -”

Come una freccia in pieno petto, l’odore fu così forte ed improvviso da farlo indietreggiare, mozzando le ultime parole in un rantolo a denti stretti.
Una scia dolce, quasi stucchevole, pregna di umori. La sentiva distintamente nel naso, nei polmoni, nelle viscere, nel bassoventre.

I Beta che piantonavano l’ingresso del mausoleo persero la loro compostezza, annusando l’aria irrequieti.
Le Sacerdotesse si strinsero le une alle altre ed iniziarono a bisbigliare preghiere nell’assurda lingua umana.

Dov’è.

L’elfo, schiavo dell’istinto più primordiale, lasciò la stanza in un fruscìo di vesti, troppo veloce per essere fermato anche dai suoi stessi subordinati.
Sapeva che un’Omega era lì, tra quelle mura, e lo stava chiamando a gran voce.
La traccia olfattiva che prima gli sfuggiva ora era chiara quanto una lanterna nel buio.
Si muoveva ai piani superiori, vicina al tetto scoperto dell’edificio, convinta che un paio di mura potessero salvarla dall’ispezione del Var’Celen.

Dove si nasconde.

Non era mai accaduto che una Sacerdotessa rifiutasse l’inibitore, che disobbedisse ad un ordine diretto della Regina e del popolo elfico.
Voleva morire, non c’era altra spiegazione.

Trovata.

Il tintinnio dei campanelli che portava alle caviglie risuonò per il corridoio, e poi su, lungo la scalinata in pietra che conduceva alla terrazza.
In pieno inverno era una pazzia recarvisi senza gli indumenti adatti, per quanto l’intera struttura fosse un ammasso di rovine e non isolasse mai davvero
dai venti gelidi della montagna. Alla povera fuggitiva non importava molto, vista l’urgenza di sottrarsi all’ispezione.

Gli stivali dell’elfo affondarono nelle tracce fresche dell’adepta, l’impronta dei piedi nudi nello strato di neve che si era raccolto dove solo un colonnato proteggeva dalle intemperie, disposto a cerchio lungo il perimetro del terrazzo.
La statua di Ranyra troneggiava nel centro, mozzata dalla vita in su, ed al suo fianco una figura ammantata vi si aggrappava come fosse una zattera in mezzo al mare in tempesta. Si reggeva a malapena sulle gambe, il respiro affannato una condensa nell’aria.
Aveva il capo scoperto, la pelle scura dei mortali di Goldcrest, e capelli così lunghi e spessi da sembrare cordame attorcigliato.

Nonostante il vento spirasse con prepotenza, il Var’Celen continuava ad inalare boccate di quel profumo irresistibile, e lo stava facendo impazzire.

Era concentrato su di lei, la inchiodava con lo sguardo lì dove si trovava. Sentiva un ringhio costante ribollire in gola, fuori dal suo controllo, e la voleva.
Sarebbe morto se non l’avesse posseduta in quel preciso istante, in barba al freddo e la tormenta che iniziava ad imperversare.
Non provava più nulla che non fosse desiderio, rispondeva solo alle membra che pulsavano in attesa di scontrarsi contro quel corpo che - lo sapeva -l’avrebbe accolto nel suo calore.

La Sacerdotessa crollò sulle ginocchia, ma non distolse lo sguardo.

“Stai lontano.”

Osava impartire ordini, sfidarlo apertamente. La natura di Omega le imponeva di cercare qualcuno che alleviasse le sue sofferenze, che la ingravidasse come la fattrice che era, e invece non faceva altro che rannichiarsi e prendere le distanze, strisciando via.

“Ti ho detto di stare lontano!” gridò di nuovo, mentre l’elfo avanzava a zanne scoperte.

Quando solo un paio di passi li separarono poté scorgere il colore di quegli occhi terrorizzati - un verde chiaro, quasi trasparente -
e le gocce di sudore che imperlavano l’incarnato cotto dal sole della sua terra natìa.
Aveva la bellezza di un’animale selvatico, e l’odore dei suoi sogni più proibiti.

Accoppiarsi con un’umana era contro la legge, un motivo di scherno tra gli alti ranghi dove lui era amato e rispettato.
In realtà, il solo fatto di rispondere al calore di un Omega della razza nemica rappresentava un’anomalia.

E allora perché?

Il suo corpo reagì prima che l’elfo ebbe modo di capirne le intenzioni, imprigionando la ragazza in una gabbia di mani e gambe che non si sarebbero scostate per nulla al mondo.
Era sordo alle proteste, cieco ed affamato. Strappò la tunica con le unghie affilate e poi, una volta tastata la carne bollente sotto di lui, cominciò a farsi spazio tra le ginocchia frementi della Sacerdotessa. Se esisteva ancora una parte senziente l’aveva messa a tacere. Pensava solo a quanto fosse invitante la curva della spalla, quel punto dove il collo pareva implorarlo di essere morso e marchiarla a vita.
Era assurdo che fosse accaduto al consigliere della regina, un elfo inflessibile e dotato di un’autocontrollo ai limiti del possibile, eppure voleva farla sua.

Nel momento in cui la punta fredda della lama si conficcò nel suo fianco, il Var’Celen pensò che fosse uno scherzo dei sensi, annebbiati dal desiderio.

Poi il coltello scese in profondità, e il dolore fu più forte del bisogno.
 



Alma sentì il calore del suo sangue inondarle il ventre, sciogliere la neve sparpagliata attorno ai loro corpi.
Non riusciva a smettere di tremare, ma nel momento in cui il pugnale si era fatto strada nelle vesti dell’elfo aveva capito di potercela fare,
e così era andata avanti, fino a che l’impugnatura era stata l’unica cosa visibile sul corpo del dannato Var’Celen.

Ad ogni ispezione, quando lui la costringeva a bere quel liquido demoniaco, Alma pensava ai mille modi in cui avrebbe potuto sfigurare la perfezione del consigliere. Durante le notti febbrili passate a delirare per il dolore, piegata su sé stessa, immaginare la lama di un coltello in mezzo a quegli occhi ferini era l’unica cosa a procurlarle un po’ di sollievo.

Ora l’Alpha si contorceva come carta sul fuoco, imprecava nella lingua traditrice del suo popolo, e dovette trattenersi dall’infierire.

Non c’era tempo.

La strada verso le scale era spianata, conosceva tutti i passaggi segreti per sgusciare via dal Santuario senza essere vista, ma il Calore era arrivato all’improvviso e le metteva i bastoni tra le ruote. Aveva il fiato corto, le gambe instabili, un fuoco inestinguibile tra le gambe che pregava di essere spento.

Odiava quello che era, quello che implicava.

Raccolse il rimasuglio di vesti e sputò sulla figura agonizzante che aveva osato attaccarla, sperando che il freddo avrebbe terminato l’opera al suo posto.
Meritava una morte lenta ed agonizzante, la stessa sofferta dalla povera gente tra cui era nata.
Gli elfi giocavano a fare gli dei, li dimezzavano con strane pozioni e li costringevano a vivere nella paura, eppure non erano immortali.
Si sarebbe premurata di dimostrarlo, una volta tornata a Goldcrest.

Ai piani inferiori le voci terrorizzate delle sorelle si mescolavano agli ordini delle guardie reali. Il Santuario non era mai stato così chiassoso prima di allora.

Alma scese i gradini in fretta, insensibile a qualsiasi cosa stesse calpestando per il gelo che le mordeva i piedi, finché la luce di una torcia fu visibile in fondo allo stretto corridoio privo di finestre. L’edificio era stato costruito per venerare una divinità e dare rifugio ai pellegrini abbastanza coraggiosi da sfidare Moonbright e le sue insidie, ma dopo gli anni della guerra contro il popolo elfico erano comparsi passaggi segreti e nascondigli che lo rendevano più simile ad un labirinto. Alma ne conosceva ogni anfratto, lo aveva scoperto e memorizzato durante il periodo di sacerdozio forzato.
Una spinta alla pietra sotto alla torcia ed una botola conduceva al piano inferiore, nelle stanze private della Matrona.
Da lì bastava scostare il letto per calarsi nelle profondità dei sotterranei, con una scala di corda scricchiolante che l’umidità aveva reso instabile.
La ragazza l’aveva usata solo una volta, e implorò che non la lasciasse cadere nel vuoto fino al canale di scolo.

Notò con sommo piacere che il Calore si stava facendo man mano più sopportabile, ora che l’Alpha era distante. Riusciva a procedere spedita, vedeva con chiarezza la galleria che conduceva fuori, dove il canale ghiacciato si riversava nella pianura. Sapeva che una volta finito il periodo del bisogno il freddo l’avrebbe consumata fin dentro le ossa, e non importava. Per allora avrebbe raggiunto Wintervale, dove gli umani si sarebbero prodigati in parole rassicuranti e pasti caldi. Era al sicuro tra la sua gente, lontana dalla prigione in cui gli elfi avevano stipato lei e le altre povere Omega.

Uscì a carponi dall’apertura del canale, strisciando nell’acqua congelata con circospezione.
Quelle creature diaboliche volavano sul dorso di Evren grandi quanto l’intero edificio, potevano stanarla facilmente se non prestava attenzione.

Alma recise i campanelli che portava alle caviglie per fare meno rumore possibile, appostata nell’ombra. La presa attorno al pugnale era diventata una sorta di rigor mortis, la mano faticava a rispondere, e si ferì nel tentativo di tagliare quegli stupidi ornamenti da appestati imposti dalla legge.

Alzò lo sguardo verso la distesa bianca ed intoccata attorno a lei, fino a dove il limitare della foresta - una macchia scura nella tormenta - segnava l'inizio delle pendici ed un nascondiglio sicuro dalle creature volanti degli elfi.

Una cinquantina di passi e l'avrebbe raggiunta.

L’ingresso del Santuario si trovava sul lato opposto, dove le guardie sorvegliavano i portoni d’entrata. Per il momento non ne vedeva nessuna, ma la sua scomparsa doveva aver allarmato gli elfi, ed era solo questione di tempo prima che circondassero la struttura.

Correre. Correre a perdifiato e gettarsi nell’intreccio di alberi era l’unica opzione possibile.

Era esausta, consumata dallo stupido desiderio che stava attirando chissà quanti occhi su di lei, ma la libertà era a soli cinquanta passi da lì.

L’eco di un corno riecheggiò nella valle. Lo stridìo degli Evren le scosse le membra e infilzò i timpani da parte a parte.

Adesso. Adesso o mai più.

Si gettò nella neve di petto, scavando ed inciampando nelle insidie che celava. A volte sprofondava, a volte un rialzo inaspettato la tirava su, dandole la falsa speranza di aver accelerato il passo. I primi alberi parevano attenderla a rami spiegati, curvi verso di lei, rassicuranti quanto i cancelli di Goldcrest ogni volta che rincasava, da bambina.

Li aveva rivisti nei suoi sogni tante volte, come aveva visto l’ombra di un Evren su di lei mentre si allungava per sfiorarli.

L’incubo prese forma.
La creatura scese in picchiata, una saetta caduta dal cielo in un turbine di neve ed aghi di pino.
Il piumaggio era candido quanto l’ambiente intorno ad essa, distinguibile solo per il nero che si espandeva sulle estremità delle quattro ali.

Gli occhi di rapace incatenarono Alma, pregni di promesse di morte.

“Pensavi davvero di riuscire a scappare?”

Non osò voltarsi. Temeva ciò che avrebbe visto.

Gli spasmi arrivarono con lui, talmente violenti da farla crollare.

Odiava la parte che agognava al maledetto elfo traditore, al modo in cui il suo corpo reagiva adesso che un Alpha era vicino.

La violenza con cui le tirò i capelli avrebbe dovuto farle male, invece dovette trattenersi dal mugolare di piacere.
L’unica soddisfazione fu vedere che anche l’altro stava soffrendo a suo modo per quella vicinanza, il respiro affannoso e le pupille così strette da distinguersi appena nelle iridi purpuree.
Una criniera di capelli albini si riversò sul viso di Alma quando l’elfo l’attirò a sé, un ringhio basso a far vibrare il petto di entrambi.
Poteva distinguere ogni cicatrice, ogni tatuaggio strisciato sulla pelle chiara, il timore reverenziale che incutevano i canini affilati a pochi centimetri
dalle sue labbra.

Quella bestia che tutti adoravano, il Var’Celen eletto dalla regina, ai suoi occhi non era che uno scherzo della natura.
Il verso di protesta si perse nella tormenta quando le loro bocche s’incontrarono, mentre cercavano di mordersi a vicenda e prevalere uno sull’altra.
Voleva ucciderlo. Voleva che la possedesse nelle ombre della foresta fino a spegnere il fuoco che la consumava.
Le sua mani erano ovunque, s’infiltravano tra la stoffa strappata e scendevano fino ai fianchi, assicurandosi che fossero abbastanza vicini per poter premere la protuberanza tra le gambe contro il punto che bruciava più di tutti. Dov’era il pugnale? Perché non riusciva a prendere le distanze e ridurlo a brandelli come aveva sempre sognato di fare?

La lingua dell’elfo incontrò la sua, e quando sentì il profilo di qualcosa di tondo e liscio cadervi sopra fu troppo tardi.
La saliva ridusse la pillola in una poltiglia dolciastra, che Alma tentò di sputare scrollandosi di dosso il corpo marmoreo del Var’Celen.
Non l’aveva ancora ingoiata, ma le orecchie fiscihiavano e la vista si riempiva di piccoli punti neri.

Prima del muro di tenebra, vide l’espressione vittoriosa del nemico sopra di lei, parole sussurrate nel linguaggio umano a sfiorarle l’orecchio.

“Prega di non svegliarti mai, Omega.”

 


‹ Note dell'Autrice  
Buonasera e grazie per essere passati a leggere! Affronto per la prima volta questa tematica, quindi se notate incongruenze o errori fatemelo sapere.
Ho sempre amato le divergenze tra elfi e umani nei vari fantasy letti, quindi perché non metterci un po' di pepe ed Omegaverse per incasinare il tutto?
Lo so, sono un genio.


EDIT: Ecco pronta la Mappa di Wild Call.  Copyright a me medesima.

Spero che vi piaccia, e grazie ancora per la visita! 


Omegaverse in Wild Call: come funziona?

Elfi

- Alpha (F & M): hanno il pieno controllo della magia già in giovane età, un intelletto superiore ed un'innaturale lunga vita.
Assumono posizioni di comando all'interno della guardia reale.
- Beta 
(F & M): Elfi "standard". Non vivono a lungo quanto gli Alpha, raggiungono sempre la maturità verso i cinquantanni.
Sono considerati anziani al raggiungimento dei duecento, controllano discretamente la magia.
Alcune femmine possono generare figli, ma è considerato un avvenimento raro.
- Omega (F): le più belle e desiderabili della specie. Attraggono naturalmente la magia, sono venerate ed altamente rispettate nel regno.
Vengono promesse ad Alpha potenti e generano eredi destinati a comandare.
Omega (M): non potendo procreare hanno meno importanza delle femmine della specie, ma la magia scorre forte in loro.
Spesso divengono potenti stregoni o guaritori, ed alcuni sono visti come progenie stessa della Natura.


Umani

Alpha (F & M): come gli Elfi, anche gli umani di questa classe divengono inevitabilmente potenti condottieri o personaggi di grande acume.
Non vivono a lungo quanto i nemici, ma risentono meno dell'avanzare dell'età. 
Beta 
(F & M): I comuni esseri umani. Le donne sono sterili, salvo rari casi. I bambini nati da madri Beta vengono chiamati "Appesi",
in bilico tra la vita e la morte fino al momento del parto.
Omega (F): le uniche in grado di generare figli, quindi fondamentali alla continuità della specie. Ne nascono poche, e vengono prontamente vendute a dei patroni degni di ingravidarle prima del raggiungimento della maturità sessuale. Non avendo alcuna magia a proteggerle sono molto vulnerabili durante il Calore.
Omega (M): i reietti della società. Sono soggetti gracili ed effeminati che a volte i signori accolgono per pietà (o svago) all'interno delle loro corti.
Per una donna Omega partorire un maschio della stessa classe è segno di debolezza o scarsa fertilità.

 

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Capitolo 2
*** Wolf in Sheep's clothing. ***


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II - Wolf in Sheep's clothing.


Var’Celen, il Prescelto dal Cielo.

Un titolo a cui ambivano tutti gli Alpha del regno, e che solo lui, forestiero di Uril Gawin, era riuscito ad ottenere.
Ripensandoci ora, mentre volava sul dorso dell’Evren con un’Omega umana tra le braccia, sembrava un dettaglio irrilevante.

Non importava che lui fosse il favorito della regina, un mago eccelso ed il compagno più ambito dalle femmine della razza.
Aveva ceduto al suo lato istintivo, permettendogli di capovolgere le priorità e mettere al primo posto una mortale.

L’elfo esigeva vendetta, l’Alpha moriva dalla voglia di affondare in lei, custodirla gelosamente, averla sempre sotto il proprio sguardo ovunque andasse.


Stava impazzendo, non vi era altra spiegazione.
 

Si rifiutò di ammettere che quella notte, al Santuario, aveva notato l’assenza di un’adepta ancor prima di contare le donne nella sala principale.
Sapeva che lei non era lì perché ad ogni ispezione riusciva ad identificarla anche sotto il pesante drappo nero.
Come l’arrivo di un cattivo presagio, gli faceva formicolare le mani e bruciare le narici, poiché possedeva una traccia distintiva
che nessun incenso riusciva a dissipare.

Era conscio del destino che l’attendeva una volta raggiunta Narawen: l’Omega, considerata una minaccia, avrebbe conosciuto
la vera crudeltà del popolo elfico.

Non reagiva all’inibitore e si era sottrattata al controllo della luna nuova, ed il prezzo per un simile affronto era la vita, forse con qualche tortura nel mezzo.
Lo stregone di corte adorava sperimentare, in fondo.

Ripensò alle grida disperate dei disertori mentre spire di lava bucavano loro la pelle come vermi in una mela, dentro e fuori,
scavando fino alle ossa, e strinse la Sacerdotessa al petto senza rendersene conto.

 

Una voce dentro la testa prevaleva su tutte le altre: non lasciare che la prendano.
 

Doveva rinnegare ciò che era per una mortale?

No. Il Re aveva commesso lo stesso errore, secoli prima, infatuato di un’umana al punto da ingravidarla e donare al regno un erede imperfetto.
L’esilio era stato l’ultimo di molte umiliazioni, la punizione così esemplare dal far desistere chiunque dall’imitarlo.

Inutile avvalersi della scusa del Legame, poiché gli elfi non credevano nel destino e sapevano che non c’era nulla che la magia non potessere risolvere. Lasciavano quelle favole alle razze inferiori ed i loro déi immaginari, smancerie romantiche che poco c’entravano con il rapporto viscerale che un Alpha e un’Omega consumavano al primo Calore.

Era la causa dell’attaccamento del Var’Celen alla ragazza dalla pelle scura. Una volta soppresso il bisogno con i giusti inibitori sarebbe tornata una semplice schiava senza poteri, buona solo per accendere candele al Santuario.

E finché quei ragionamenti razionali si srotolavano nella sua mente, l’elfo si ritrovò con il viso premuto tra i capelli neri della prigioniera,
consumato dalla necessità di scoprire quali forme celasse la pelliccia di lupo con cui l’aveva coperta.

Era passato troppo tempo dall’ultima volta in cui una femmina l’aveva accolto nel suo giaciglio, ma fino a quel momento non se n’era curato.
Adesso, invece, sembrava più importante di bere e respirare.

Cosa doveva farne di lei? Darla in pasto alla corte della regina e guardare da lontano il suo declino?
Riportarla alla prigione di Moonbright e sperare che non tentasse di nuovo la fuga?

Probabilmente sarebbe accaduto ancora senza qualcuno a tenerla a bada.

Ad ogni buon conto, per ora necessitava di un luogo dove sostare in attesa dell’alba, quando qualcuno avrebbe richiesto la sua presenza per spiegare i sopprusi al Santuario. I Beta che lo accompagnavano avevano assistito alla scena.
Poteva già sentire le critiche di sua Maestà riecheggiare nelle orecchie per la mancanza di contegno
dimostrata di fronte ad un’umana di nascita inferiore, e represse uno sbuffo d’insofferenza.

 

L’Evren planò sul versante est delle montagne, mentre il cielo sfumava dalla tenebra ad un grigio pallido,
ancora carico di nuvole per le lunghe nevicate invernali.

Una spaccatura separava le alture, come se un gigante avesse scavato una via nella roccia a mani nude.
Attraverso di essa scorreva il fiume della Serpe, ed abbarbicata sulla parete scoscesa stava l’imponente fortezza di Northpass.

La scalinata per accedervi, dall’alto, pareva l’intestino di un grosso mostro di pietra.

Gli elfi non erano esattamente i benvenuti a Northpass.

La fortezza rappresentava l’ultimo tentativo di resistenza dei mortali, nonché l’ingresso che avevano creato per scendere nel ventre della montagna stessa.
Il controllo di Narawen non poteva giungere fin lì, perciò sospettavano che i rivoltosi attendessero l’occasione di un riscatto nei cunicoli sotterranei.


Il Var’Celen era noto agli esseri umani, per questo preferiva cambiare aspetto quando si trovava fra loro.
Fece atterrare la creatura alata lontana dai confini, e con la Sacerdotessa issata sulle spalle iniziò ad incamminarsi verso il primo contingente di guardia.

Passo dopo passo il viso mutava, perdendo i tratti affilati ed indurendo il profilo della mascella. Gli zigomi e la fronte ampi, una zazzera di capelli scuri,
la pelle del medesimo colore dell’Omega ed ecco creata l’immagine di un povero fuggiasco di Goldcrest, con le sole iridi violacee a tradirlo.

I soldati di ronda si limitarono a confiscare il pugnale che la ragazza teneva ancora in cintura, un ricordo della ferita ormai rimarginata a cui l’elfo non era particolarmente legato.

“È malata?” chiese una guardia, sbirciando sotto la testa di lupo che copriva il capo di lei.

Il Var’Celen dovette trattenersi dal ringhiare, e rispose in un perfetto dialetto del luogo che la febbre non l’aveva mai abbandonata negli ultimi giorni.

“Ho bisogno di vedere un guaritore” supplicò, “deve essercene uno tra voi.”

I soldati si scambiarono occhiate dubbiose.
A volte dimenticava quanto fossero diventati diffidenti dopo la guerra, avvezzi ai giochetti di prestigio dei nemici.
Un viandante di Goldcrest che arrivava a piedi, senza bisacce ed avvolto nelle pellicce doveva aver destato sospetto, ma l’elfo non disponeva di un volto più credibile, al momento. L’aveva sottratto ad un servitore del Santuario, dimentico dell’espressione minacciosa che mostrava normalmente.

Il silenzio che seguì la sua richiesta gli fece temere il peggio, finché uno di loro disse: “alla cittadella, prima del Vortice.”

Così chiamavano la scalinata apparentemente infinita che conduceva alla fortezza, ora impraticabile a causa del ghiaccio che aveva divorato ogni fessura nella pietra. A corte si vociferava di un secondo ingresso attraverso i tunnel, ma non vi era tempo di cercarlo.
Sarebbe bastato un capanno per ripararsi dal vento pungente ed un focolare a scaldare le membra, per adesso.

Il soldato più loquace fece strada attraverso un accampamento rudimentale, difeso solo da palizzate di legno che qualsiasi Evren avrebbe potuto spazzare via con un colpo d’ala.

L’ombra della fortezza gettava nell’oscurità l’insediamento umano alle sue pendici, casupole accatastate tra loro che parevano sbucate dalla roccia stessa, tanto erano grezze. Solo la milizia pattugliava la zona, ed il Var’Celen inalò il puzzo terribile di corpi sporchi, feci e chissà cos’altro che saliva dai camini accesi.

Era giusto che vivessero così, rintanati come topi ad annegare nel loro liquame. Non vi era posto per certa feccia entro i confini di Narawen.

“Svegliamo subito il guaritore. Puoi aspettare qui dentro” disse lo scarno umano che li aveva scortati, indicando l’ennesimo mucchio di sassi che i nativi chiamavano casa.

“Ti ringrazio.”

Non gli sfuggì l’occhiata che rivolse alla Sacerdotessa. Il Calore attirava attenzioni indesiderate perfino tra le classi di infimi Beta, dopotutto.

Era solo quesitone di tempo prima che qualcuno iniziasse a tempestarlo di domande.
Gli occorreva un diversivo, sufficiente a trascorrere del tempo lontano dalle intemperie e riprendere i contatti con il suo esercito.
Con un po' di fortuna avrebbe risolto presto il problema.

 

L’elfo depose la fanciulla sul pavimento, accanto al fuoco, ed andò all’apertura che fungeva da finestra per osservare la situazione:
mentre il popolo dormiva, le guardie si stavano radunando attorno alla casa tra bisbigli ed ammonimenti, attirati dall’odore della sua prigioniera.

Patetici animali.

L’Alpha non era migliore in questo vista la fame che lo consumava dalla fatidica notte al Santuario, però si sentì comunque in diritto di avanzare pretese sul corpo dell’Omega. Era il consigliere reale, non un qualunque zotico voglioso di-

“Oh, salve.” Il guaritore entrò titubante, ricoperto da strati su strati di pelli consumate e con la barba incrostata di brina.
Non appena lo sguardo cadde sulla figura addormentata della ragazza una tinta di rosso gli colorò le guance.

“Ecco, se posso azzardare... non credo sia febbre comune” balbettò, inginocchiandosi accanto a lei.
Il modo in cui umettò le labbra diede il voltastomaco all’elfo, intento a combattere una battaglia personale contro l’Alpha dentro di sé che pregava di lacerare il patetico ometto in mille pezzi.
Le scostò i capelli dal viso e premette una mano sulla fronte sudata, per poi rimuovere la pelliccia in un lento ed approfondito esame.

Non si accorse dei movimenti del Var’Celen. Non si accorse che si stava portando alle sue spalle.

“Vista l’età forse potrebbe essere il primo Calore. I sintomi sono gli stessi.”

Indugiò per un istante di troppo sull’incavo dei seni, visibile attraverso la veste strappata, e fu il suo ultimo errore.

Una mano invisibile lo afferrò per il collo, finché l’elfo mimava l’atto da poco distante senza toccarlo veramente.
Le vene si gonfiarono, e dalla bocca sfociò un mare di saliva che rese le sue proteste dei gorgogli senza senso.

“Sei un guaritore perspicace” disse il suo assassino, gettandolo contro la parete come un fantoccio inanimato.
“Ma da oggi faranno a meno di te.”

 


Quando si affacciò alla porta i soldati della ronda diurna lo salutarono con un breve inchino.

“Maestro” disse uno di loro, “verrete a visitare mia moglie, vero?”

“Certo.” Il Var’Celen sorrise attraverso la folta barba bianca, mostrando una chiostra di denti marci.
Era rivoltante, ma sarebbe servito allo scopo.

“Non appena mi sarò occupato della nostra ospite sarò subito da te.”

 

‹ Note dell'Autrice  
Apro un sondaggio perchè davvero non mi so decidere: secondo voi questa storia ha bisogno di un triangolo amoroso? Non è nei piani, ma la drama-queen in me lo esige.
Comunque, p
ian piano le cose procedono. Nel prossimo capitolo rivelerò il nome del nostro dispotico elfo - ricordando che gli elfi sono fissati con i nomi lunghi e complicati - 
e intanto aggiorno con la mia fantastica Mappa!

Approfitto di questo spazio per ringraziare
 LatazzadiTea e Lady Red Moon, che hanno recensito per mia somma gioia dandomi la carica per continuare.
Non abbandonatemi che sennò mi passa l'ispirazione. 
Inoltre ringrazio Passant96 che quatta quatta mi ha aggiunta tra i preferiti. Grazie mille^^



Spero di non avervi deluso troppo, ma solo un pochino. Ci vediamo al terzo capitolo! 
 

Halcyon

 

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Capitolo 3
*** Bad Omens. ***


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III - Bad Omens


Per Alma fu un risveglio come un altro.

Dopo la somministrazione dell’inibitore si destava sempre con lo stesso senso di nausea, crampi all'addome,
gola riarsa ed uno stato febbrile che rendeva il gelo dell’inverno una benedizione per la pelle accaldata.

A differenza delle volte precedenti, però, non riusciva a riconoscere nulla attorno a lei.

Per anni aveva aperto gli occhi nella sala grande del Santuario, tra le compagne raggomitolate una contro l’altra
ed il suono dei loro respiri a riempire il silenzio.

Ora un focolare ardeva lì accanto, mura di pietra grezza la proteggevano dal freddo,
ed un canto mormorato a bocca chiusa fu sufficiente per farle capire che si trovava tra amici.

La dama ed il mulo era una ballata tipica delle città a nord, sentita durante la breve infanzia trascorsa tra quelli della sua razza.
Era allegra, sciocca, in qualche modo confortante.

“Allora non sei morta. Che sollievo!”

Seduto dalla parte opposta stava un anziano dalla barba lunga ed i capelli radi, una maschera di rughe
che l’aria calda delle fiamme rendeva tremolante come un miraggio.

Alma credette di sognare quando sentì parole umane uscire dalla sua bocca.

La regina aveva imposto l’obbligo assoluto di esprimersi e scrivere secondo l’assurda lingua elfica, un insieme di simboli lunghi ed ondeggianti che sembravano fatti per distruggere le penne d’oca.
Persino al Santuario, meta di soli mortali, le sacerdotesse erano costrette ad usarlo in ogni situazione.

Si girò su un fianco, esausta ed accaldata mentre sfregava le cosce tra loro per trovare un po’ di sollievo.
Il Calore non sembrava avere fine, la stava consumando, e pezzo per pezzo iniziò a ricordare: il sapore dolciastro che ancora permeava sulla lingua,
le vesti lacerate, una pelliccia bianca di lupo.

“Lui... lui dov’è?” chiese, la voce arrochita dalla sete.

Sapeva che non poteva essere distante visto il modo in cui ogni centimetro del suo corpo smaniava dalla voglia di essere toccato.
Non aveva mai reagito a nessun Alpha in quel modo, dettaglio che la rese ancora più furiosa.

L’anziano si limitò ad inclinare il capo, visibilmente confuso.
Il drappo di rughe s’infittì appena sorrise, il sorriso compassionevole che si riservava ad i malati di mente.

“Eri sola quando ti ho trovata sulle montagne.”

Il padre della ragazza diceva sempre di diffidare da chi sorrideva con la bocca, ma non con gli occhi. Lo sconosciuto era un pessimo bugiardo.

Dalla stanchezza che la trascinava dentro e fuori dal sonno, Alma non riusciva a capire quanto di ciò che era accaduto fosse reale o meno,
se il Var’Celen avesse davvero osato alzare le mani su di lei o se fosse stata tutta l’incarnazione di un incubo.

Era riuscita a scappare? L’avevano lasciata morire nel mezzo della foresta?

Mani e gambe non erano legate, perciò poteva cominciare ad escludere l’ipotesi di un rapimento.
Esaminando il luogo in cui giaceva, Alma suppose di aver varcato il confine di Moonbright per il semplice fatto che
oltre al Santuario non vi erano villaggi, ed i primi insediamenti sorgevano oltre le foreste.
Wintervale, però, non si affidava alla pietra per costruire le proprie abitazioni.

- Northpass. Sono arrivata a Northpass. -

Aveva attraversato le catene montuose fino al versante opposto da sola? No, impossibile.

Quelle vette erano ripide oltre ogni dire, denti aguzzi di roccia che colavano a picco nel Fiume della Serpe, solitamente congelato.

Alma sapeva di aver visto la foresta, di esserci arrivata vicina, ma camminare per miglia e miglia
senza un briciolo di energia in corpo fino alla fortezza era troppo.

Decise di stare al gioco del vecchio quando fu chiaro che da sola non ne avrebbe cavato un ragno dal buco.
Chiese dell’acqua ed ebbe la forza di mangiare una strisciolina di carne secca, seppur il suo stomaco protestasse incessantemente.

La nausea copriva la fame, e la stanchezza copriva la nausea.
Se la colpa di tutto quel fermento non era l’elfo in questione poteva esserci un Alpha umano nei paraggi, forse.

“Il tuo nome?” domandò il vecchietto, mentre estraeva da una bisaccia delle foglie secche e prendeva a masticarle.
Teneva lo sguardo basso, concentrato sulle fiamme, ed ora che le stava più vicino Alma distingueva ogni singolo strato di sporcizia che lo ricopriva.

“Alma.”

“Alma cosa?”

“Alma Obèl, signore.”

Fece un mmh disinteressato prima di sputare su un palmo l’impiastro lucido di saliva.

“Mostrami la caviglia” disse. Ancora non alzava gli occhi.

Alma obbedì con riluttanza e fece scivolare la gamba fuori dall’involucro di pelliccia in cui si era rannichiata,
osservando con orrore una ferita slabbrata che correva fino al polpaccio, di un pessimo colore scuro.
Il gelo le aveva impedito di sentire le sue stesse dita, figurarsi un taglio del genere.

“Hai fatto molta strada, eh?”

La ragazza attese che il bruciore iniziale passasse prima di replicare, stringendo i denti finché non scricchiolarono.

“Sono di passaggio. Presto tornerò a Goldcrest.”

Presto, non appena il Calore fosse passato e qualche buon’anima l’avesse scortata oltre le montagne.
Senza denaro e senza cibo poteva fare gran poco, comunque.

Le serviva aiuto, e gli umani erano parecchio solidali fra loro quando si trattava di sfuggire alla tirannia elfica.

Le mani tremolanti del vecchio, intanto, seguitavano a spalmare il cataplasma ad un ritmo sempre più lento,
completamente assorbito da quella semplice azione.

Prima che iniziasse a risalire fino al ginocchio Alma lo ringraziò, un modo gentile per dire di lasciarla andare.
Non poteva vedere quale espressione avesse, ma dal respiro pesante e la bocca semi aperta poteva intuirlo.

“Devo mettermi in viaggio” sentenziò, seppur poco convinta. Di sicuro reggersi in piedi era un requisito fondamentale per incamminarsi verso il mare, insieme ad una saccoccia con del denaro ed una buona arma al fianco. L’essere Omega non aiutava, e nel pieno del Calore, poi.

Vide l’ometto barbuto processare l’affermazione con la lentezza che contraddistingueva ogni suo movimento,
scuotendo il capo in un gesto che non significava né sì né no.

“Ho faticato molto per tenere le guardie lontane.
Una volta fuori di qui sarai in balìa della strana legge animale che ci governa.”

“Lo so, ma non ho scelta.”

“Una scelta c’è sempre” bofonchiò, facendo un cenno di noncuranza con la mano.
“Puoi andare incontro alla morte o diventare la fattrice segreta di Northpass. Mi sembra un gesto nobile nei confronti dei tuoi simili.”

L’espressione disgustata della ragazza bastò come risposta, e l’anziano si mise a ridere.
La risata sfociò in colpi di tosse secca, poi in un gracchiare fastidioso.

Alma si accorse che proveniva da un corvo appollaiato alla finestra - o meglio, buco nella roccia - solo quando la sua ombra si proiettò sul pavimento, oscurando il volto grinzoso del guaritore.
Vi fu un peculiare scambio di sguardi, frasi non dette tra umano e volatile per un brevissimo istante,
poi il corvo prese il volo in un frullo d’ali, ed Alma temette di aver appena avuto un’allucinazione.

“Ah, le bestiole nere non portano mai buone notizie.”

L’allusione ad i capelli della sacerdotessa ed il tono scuro del suo incarnato furono difficili da ignorare,
al punto che Alma strisciò lontano da lui, verso un mucchio di legna accatastata coperta da un telo.
Avrebbe potuto usare un ciocco per difendersi se quell’inquietante vecchietto avesse tentato di giocarle un brutto scherzo, in assenza del fidato pugnale.

- Il pugnale - rimembrò infine, - il mio pugnale. Dov’è? -

L’ondata di panico che aveva cercato di sopprimere fin dalla notte della fuga iniziò a riemergere,
mescolandosi al Calore e la febbre in un miscuglio pericoloso.

Era l’unico ricordo del mondo umano, l’unico regalo mai ricevuto in vita.

In esso celava la promessa di spezzare le catene elfiche e tornare a casa, tra la sua gente, libera di amare ed unirsi ad un uomo degno di lei.
L’aveva ripulito dal sangue del Var’Celen, era ben saldo alla cintura mentre combatteva contro il gelo e la neve alta per raggiungere la foresta.

Fece sgusciare una mano sotto al telo, nascosta dalla pelliccia, tastando il profilo della legna riposta a seccare alla ricerca dell’arma più idonea.

Quando le dita toccarono qualcosa di morbido ebbe un sussulto.

All’improvviso il suono di un corno riecheggiò nella vallata, accompagnato da urla allarmate e passi svelti.
Stavano attaccando la cittadella, ed i mortali avevano solo un nemico per cui valeva la pena suonare il corno.

“Che ti avevo detto?”

Il guaritore non si era scomposto minimamente, quasi sapesse che cosa li attendeva una volta lasciato il riparo nella roccia.
Si era alzato e fissava Alma con fare interrogativo, la testa inclinata come l’uccello apparso alla finestra  poc’anzi.

Aveva abbandonato la postura da vecchio malandato, nemmeno fosse ringiovanito in un battito di ciglia.

La ragazza sostenne il suo sguardo finché procedeva a tastare quello strano oggetto accatastato insieme alla legna,
speranzosa di ricavarne qualcosa di più intimidatorio di un bastone: era morbido, ma si rattrappiva man mano che l’esplorazione continuava.

Un dito, un’unghia, l’orlo di una manica.

Non appena capì cosa stava toccando, Alma costrinse le proprie gambe a sorreggerla e scostò il telo in un unico gesto,
rivelando il corpo ingrigito del suo stesso salvatore sotto alla riserva di legna da ardere.
Sbucavano solo gli arti superiori ed inferiori, la testa rivolta dalla parte opposta risparmiò alla sacerdotessa una vista impietosa dello stato in cui riversava.

 

Il vecchio era morto.

Il vecchio era davanti a lei.

 

“Stanno arrivando gli elfi. Dovresti scappare” suggerì.
Il tono di voce era cambiato in un colpo di tosse, tornando al mormorio profondo che l’aveva tormentata quasi ogni notte, nei suoi incubi.

Alla luce pallida del mattino riuscì finalmente a distinguere la tonalità inusuale delle sue iridi,
un viola profondo che tra le gente di Goldcrest avrebbe suscitato raccapriccio, in quanto colore dell’aldilà.

Per Alma era più pericoloso della morte stessa. Era tutto ciò che presagiva la morte, con un carico di sofferenza che pareva non avere mai fine.


La porta alle spalle dell’elfo traditore si spalancò.

Un suo simile - fin troppo simile - sostava all’ingresso a spada sguainata, la lama lucida di sangue fresco a riflettere i primi bagliori del giorno.
Portava i medesimi capelli bianchi del Var’Celen in lunghi intrecci fermati da anelli d’oro, e numerose cicatrici segnavano un volto altrimenti perfetto.
A differenza del suo aguzzino era totalmente privo d’espressioni, una maschera impassibile.

“Ti stai divertendo, fratello?” chiese in tono monocorde, così che non suonò né come un rimprovero né come genuino interesse.

Alma non sapeva se quell’appellativo indicasse un vero grado di parentela o avesse a che fare con le loro usanze, ma la somiglianza dei tratti somatici
- il profilo dritto del naso, la mascella spigolosa, gli occhi allungati - era innegabile.
Portava persino la stessa pelliccia in cui ora lei si nascondeva, incapace di pianificare una fuga prima che gli elfi diventassero troppi da fronteggiare.

“No, per niente. Ingannare gli umani è davvero troppo facile.”

Il Var’Celen si voltò per un istante, giusto il tempo di mostrare alla ragazza un ghigno crudele. “Specialmente questa.”

Perché l’aveva portata a Northpass? Sarebbe morta comunque, tanto valeva lasciare che il gelo dell’inverno facesse il suo corso.
Poteva risparmiarsi di curarle le ferite e metterla davanti ad un focolare, ma aveva preferito mantenerla in vita.

La regina diceva sempre che morire era facile, una scappatoia dai propri peccati,
quindi la prospettiva di finire nelle prigioni di Calilmarith divenne una certezza, infine.

“Il vecchio Maestro sa un sacco di cose” disse il rapitore, avvicinandosi al cosiddetto fratello.
Era così basso da sembrare un bambino in confronto a lui.

“Questi ratti hanno scavato un nuovo buco sotto la montagna.
Vicino alle stalle c’è una roccia che si può spostare. Manda qualcuno a vedere.”

L’albino chinò il capo ed uscì, la spada ben salda in mano come monito per le guardie che ora si tenevano a distanza,
lanciando occhiate disperate all’anziano che fino a poco prima si era occupato delle loro ferite.

L’aveva ucciso per inpossessarsi del suo corpo, ed anche della sua testa. Quante volte aveva stroncato una vita per motivi tanto subdoli?
Fin dove poteva arrivare la crudeltà di quegli esseri dai denti aguzzi partoriti dalla Foresta stessa?

La magia era caduta nelle mani sbagliate, Alma se lo ripeteva sempre.

“Feccia immonda” sibilò la sacerdotessa, usando di proposito la sua lingua natìa.

Un attimo prima fissava la sagoma malconcia del vecchio sull’uscìo, ed un attimo dopo la sua gola era stretta tra le dita del Var’Celen.
Le unghie pungevano la pelle, l’ossigeno lottava per risalire.
L’elfo non aveva mai smesso di sorridere.

“Dina, Morier.”

Le intimò di fare silenzio, chiamandola pelle scura.
Morier era suo padre, sua madre, le sue sorelle e fratelli.
Un nome che li accomunava tutti, come se quello vero non avesse alcuna importanza. Agli occhi dei tiranni erano solo pelle scura.

“Ringrazia che il tuo Calore non sia ancora finito” proseguì, allentando la presa e spingendola contro la catasta di legna.
Alma sfiorò una gamba del povero Maestro lì sotterrato e represse un urlo.

“In questo momento la voglia di violarti è più forte di quella di ucciderti, ma chissà quanto durerà.”

Le parole si confondevano al ringhio basso che gli ribolliva in petto, mentre scostava la pelliccia e faceva aderire ogni singola parte del suo corpo di predatore contro l’Omega indifesa.
Era bollente come ricordava, emanava lo stesso odore che l’istinto le comandava di cercare tra mille altri pretendenti.
È
lui - diceva, - È il tuo Legame. -

Perché mentre comandava al proprio corpo di scappare, quello seguitava a cercare un contatto con l’altro.
Voleva voltare la testa, e invece andò incontro alla bocca dell’elfo di sua spontanea volontà, stavolta senza droghe ad addolcirle la lingua.

La legna scricchiolò sotto il loro peso quando il Var’Celen la spinse giù, con la schiena premuta contro le cortecce ed i rami appuntiti.
Alcuni si spezzarono, ed Alma temette di sentire le ossa del Maestro frantumarsi insieme ad essi.

- Non voglio. Non così. Non adesso. -

Chiuse il labbro inferiore dell’elfo in un morso, assaggiando il sapore del suo sangue in un misto di raccapriccio e soddisfazione.
Era pronto a penetrarla, ma lei non era pronta ad accogliere un mostro dentro di sé con altrettanta foga.

Lo sguardo confuso del consigliere durò solo per un fugace istante prima di divenire l’occhiata iraconda che più gli si addiceva.

 

“Rasequinn” chiamò una voce piatta alle spalle del Var’Celen.

Il fratello, stavolta con un nutrito seguito di soldati, attendeva disposizioni con il corpo di un giovane umano ai propri piedi.
Una guardia privata di armi ed armatura, dal volto pesto ed il braccio piegato in maniera innaturale dietro la schiena.

“Li abbiamo trovati” seguitò, incurante di ciò che aveva appena interrotto.
“Cosa ne facciamo?”

Rasequinn - un nome che nella loro lingua significava artiglio bianco - mantenne l’attenzione sulla sua vittima
Finché disponeva del futuro dei sovversivi. Una goccia di sangue gli colava lungo il mento, rosso acceso sulla pelle pallida.

“Li portiamo a Calilmarith. Tutti quanti.”

Prese Alma per la vita, riportandola in piedi accanto a lui.
La rabbia ed il desiderio che irradiava resero la sacerdotessa instabile quanto un gracile albero in balìa della tormenta.

Avrebbe barattato un’ora alle prigioni per uno stupro, cento volte meno umiliante e doloroso di ciò che l’attendeva in quella mefitica torre nera.

Ma ormai aveva fatto la sua scelta.

 

‹ Note dell'Autrice  
Phew, ce l'ho fatta. E ho anche preparato la mappa, che poi non si dica che non mantengo le promesse!
Come dicevo, gli elfi in Wild Call amano i nomi lunghi. Rasequinn è il primo di tre nomi, giusto per non essere megalomani,
e mi piaceva l'idea che si potesse abbreviare in Quinn. In realtà tutti i nomi degli elfi si potranno abbreviare, a partire da quello del fratello misterioso.
Inoltre ho introdotto un po' di linguaggio elfico, più presente da qui in avanti. Madò, che sofisticata. Meglio che mi fermo.

Ecco la mappa di Wild Call, da tenere come riferimento.
Sì, l'ho fatta io da zero. No, non è replicabile. Grazie.

Grazie infinite a Tea, Moon e Passant per aver lasciato le loro utilissime recensioni. Ogni critica/consiglio è ben accetto, sempre e comunque.
E grazie soprattutto a Connie91 e nadine5 per aver aggiunto la storia tra le seguite 


Fatemi sapere cosa ne pensate e cosa vi aspettate da questo gran casino. Ci vediamo al quarto capitolo! 
 

Halcyon

 

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Capitolo 4
*** Branches and Bones. ***


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IV - Branches and Bones.

Il vespaio di Northpass era in fermento. Tutti gli umani sbucati dai loro covi di pietra correvano ai ripari verso le pendici della montagna,
dove altri ingressi ai tunnel potevano salvare loro la vita. La guardia reale ne circondava l’intero perimetro, mentre gli evren si appollaiavano
lungo le sporgenze del Vortice ed osservavano il caos sottostante.

Rappresaglie del genere accadevano di frequente ai tempi della guerra, il Var’Celen le ricordava distintamente. Mortali nel panico, in ginocchio
a mani giunte nella speranza che una preghiera accorata potesse salvargli la vita, con bambini che strillavano e madri in lacrime.

Non vi erano più infanti da quando le Omega erano state rinchiuse a Moonbright, uniche donne fertili della specie. Un sollievo per le orecchie.

Quella che il Consigliere teneva salda per il polso era perfetta per lo scopo, attirava sguardi persino nel mezzo della confusione generale.
Alma aveva smesso di dibattersi nel momento in cui si era resa conto dell’orrore in atto, della disperazione degli umani prostrati dinanzi alle guardie elfiche. I più pavidi imploravano pietà, i più coraggiosi una morte rapida per sfuggire alle prigioni.
Calilmarith equivaleva ad un patibolo, un patibolo la cui salita era fatta di indicibili torture.
All’interno della torre la morte era la più appetibile delle possibilità.

Rasequinn incrociò gli occhi gelidi del fratello, Hillgaril, per un solo istante, finché l’altro teneva la spada premuta sulla gola di un soldato anziano inginocchiato nella sua stessa urina. Bastò un cenno del capo per dare l’ordine, e zampilli di sangue imbrattarono la neve circostante.
Alma si coprì gli occhi. L’elfo la costrinse a guardare tenendole entrambi i polsi in un’unica stretta.

Dall’entrata segreta ai tunnel, ridotta a rocce frantumate, sbucò la sagoma imponente di Edmund Gyfford, comandante del plotone di Northpass e protettore della fortezza.

Gli elfi lo tenevano per le braccia, e quello seguitava a camminare a testa alta, sforzandosi di non cedere alla paura come i compagni inginocchiati nella neve. Vedere il suo già esiguo esercito decimato accese qualcosa nel suo sguardo, ira ed orgoglio e smania di uccidere.

Era un Alpha umano, ma un re dei ratti non contava nulla per un re dei lupi.

“Il Consiglio di Goldcrest non approverà, Var’Celen” disse, una volta arrivato davanti all’elfo albino.
Privato delle sue armi, l’umano non appariva minaccioso quanto voleva sembrare, nonostante il fisico prestante e l’altezza fuori dal comune.

L’aveva incontrato quando era ancora troppo giovane per brandire una spada, ai tempi in cui il Consiglio stava gettando le prime, traballanti basi per governare quel poco di regno che restava. All’epoca gli era parso come un incapace che faceva la voce grossa e veniva rispettato unicamente per il suo status. A conti fatti non era così diverso, anche vent’anni dopo.

Rasequinn inarcò un sopracciglio, per nulla intimorito dall’idea di confrontarsi con una congrega di vecchi Alpha che credevano ancora di avere voce in capitolo. La pace fasulla stipulata tra umani ed elfi era stata una scusa, un modo per ingraziarsi la razza inferiore e costringerla a servire la regina senza le complicazioni che una guerra implicava. Il Consiglio giocava a governare, la povera gente si sentiva protetta, ma era conscia che parecchi gradini più in alto la sovrana li osservasse con una spada sospesa sopra le loro teste.

“Riferiremo che hai combattuto fino alla fine, non temere.”

L’elfo catturò il breve scambio di sguardi tra Omega e comandante, naturalmente attratto da una femmina in calore, e la sua pazienza - già tesa all’inverosimile - si spezzò del tutto.
Sollevò la mano libera. Le spire di tatuaggi chiari attorno al braccio si mossero sulla pelle come dotati di vita propria,
rami coperti di spine che dominavano la magia della Terra.

Da una gamba di Edmund Gyfford sbucò una singola radice, facendosi spazio tra la carne ed abbarbicandosi su di essa, e le urla dell’uomo trafissero i timpani di ogni creatura presente, fino a far gracchiare gli evren sull’altura.

Alma si aggrappò alla mano tesa del Var’Celen, strappandogli un ringhio di disappunto e nulla più, appena udibile sopra i versi disperati del comandante di Northpass.

Aveva gli occhi umidi di lacrime, un’espressione di puro sgomento che non le donava affatto.

“Smettila! Non puoi-”

Rasequinn la gettò a terra con la noncuranza riservata ad una carcassa - per quanto quel gesto gli fosse costato un certo sforzo - e seguitò a far crescere la radice che ormai era risalita fino al bacino, mentre l’uomo esauriva la voce e si esprimeva a rantoli soffocati.

Non avrebbe dovuto guardarla così. Era tutta colpa sua.

Quel pensiero rendeva la radice più spessa, i rami nodosi più lunghi, finché del comandante non restò che un albero insanguinato con un volto pallido e la bocca spalancata in una muta richiesta d’aiuto.

Gli umani tremavano, qualcuno rigettava i resti di un misero pasto ai propri piedi.

L’intero plotone si trovava lì, inerme, piegato ancora una volta al volere elfico.

La facilità con cui aveva dominato l’incantesimo sorprese Rasequinn. Era un maestro nell’arte della magia e nella padronanza degli elementi, ma far crescere una pianta dal midollo osseo di un umano, di solito, richiedeva una certa dose di energia.
Istintivo come un respiro, l’albero si era ancorato al terreno senza il minimo sforzo, lasciando il Var’Celen intoccato.

- L’Omega -  pensò, - questa nullità è la responsabile. -

Perché la magia aveva risposto al suo impulso di proteggere la fattrice, ed ora Edmund Gyfford si riconosceva appena in quell’intrico di rami cremisi. La guardò mentre si disperava, le mani affondate nella neve ed i capelli scompigliati sul viso. Era tutto un tremito, così diversa dalla guerriera che aveva incontrato sulla cima del Santuario, pronta a squarciargli le budella con un misero pugnale che conservava ancora.

Una voce assordante nella testa gli ordinava di portarla via, in un luogo consono ad una creatura inestimabile come lei, lontana dallo sguardo di altri maschi e vicina al suo petto. La voce di consigliere, tuttavia, ebbe la meglio.

“Garil, prendi tu la cagna.”

Hillgaril fece un breve cenno, sollevò Alma e la gettò malamente su una spalla, il tutto con la composta freddezza di una marionetta,
apparentemente sordo alle proteste - ed insulti - della sacerdotessa.


Un evren dal piumaggio bruno si staccò dalla scalinata lungo la montagna e volò davanti al padrone, strappando singulti agli uomini lì radunati che oramai sembravano scesi a patti con l’inevitabile destino che li attendeva. L’arrivo dei carri indusse tutti al silenzio, l'inizio di una marcia funebre.

“Assicurati che arrivi a Calilmarith. Io devo occuparmi dei sovversivi” disse Rasequinn, gioendo dell’espressione indignata di Alma sotto alla testa di lupo che le era calata in fronte.

Si era già voltato verso le vittime quando la voce roca dell’Omega lo richiamò.

 “Var’Celen!”

Fu quasi più assordante delle proteste di Gyfford, per lui. Una voce autoritaria che riecheggiò nel silenzio della vallata, come provenisse dal cielo stesso.


“Se gli déi non ti puniranno, lo farò io.”

Lo sguardo di Alma non mentiva. Era debole, moribonda, ma le iridi verde pallido non avevano mai perso il loro fuoco. Sapeva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per mantenere la parola, e perciò andava eliminata.


“Non vivrai abbastanza a lungo, Moriersentenziò, squadrandola da sopra la spalla un’ultima volta prima che l’evren del fratello prendesse il volo.
 

E mentre la distanza tra loro cresceva, la magia tornò a bussare senza preavviso, pretendendo ciò che le spettava di diritto.

  

 

I resti arborei di Edmund Gyfford divennero sempre più piccoli man mano che l’evren saliva, sbattendo le quattro ali all’unisono contro i venti freddi dell’inverno. I rami rossi erano una macchia di colore disturbante in tutto il candore del paesaggio.

Alma non riusciva a togliersi quella scena raccapricciante dalla testa, il modo in cui l’albero si era fatto spazio ed era spuntato rigoglioso dal corpo di un umano il cui sangue era ancora caldo quando il fratello del Var’Celen l’aveva portata via.

Mostri, nient’altro che mostri.

Credeva di conoscere la morte, poi una nuova magia le mostrava in quanti modi una persona potesse soffrire, sfigurarsi, quanto potesse urlare.

E non lo meritava. Edmund non lo meritava. Al Santuario nessuno osava parlar male di lui, che offriva aiuto ai viandanti e li teneva al sicuro nei tunnel
della montagna. Chi avrebbe protetto la povera gente di Northpass adesso?

Cielo e terra divennero indistinguibili, un mare di nubi grigie dove nemmeno gli uccelli osavano librarsi.
La pelliccia di lupo si ricopriva di brina e l’aria era densa, affilata. Lo stupore fu talmente disarmante che Alma dimenticò di gustare il primo - ed ultimo - volo della sua vita, scambiando la vertigine per un malessere più profondo.

L’elfo alle sue spalle non emetteva un fiato, con la mano stretta al piumaggio dell’evren ed un braccio attorno allo stomaco della prigioniera, abbastanza saldo da non lasciarla cadere nemmeno se si fosse buttata di proposito.
Alma ci aveva pensato, ovviamente. Si era vista cadere giù dal dorso della bestia ed incontrare il suolo la’ dove aveva sempre camminato,
sulla terra a cui apparteneva, ma morire non sarebbe stato semplice per l’Omega.

Ripensò alla morsa possessiva di Rasequinn, la facilità con cui l’aveva attirata nella sua trappola per puro divertimento, profanando il corpo di un anziano guaritore la cui unica colpa era quella di prestare soccorso ai bisognosi.
Uccidere era facile per il Var’Celen, un’azione compiuta così di frequente da essere diventata quotidianità, e agli occhi di un immortale doveva sembrare poca cosa. Non era l’Alpha che voleva, ma l’Omega in lei lo bramava, rispondeva al suo tocco. La corda tesa di un’arpa che cantava al minimo pizzico.

Ed ora che l’elfo si allontanava, impegnato in chissà quale massacro, il subconscio avvertiva la sua assenza. Sempre di più. E faceva male.


La prima fitta la sorprese durante una breve picchiata.


Hillgaril stava conducendo l’animale verso una distesa di alberi spogli, dita scheletriche tese al cielo, e dovette sporgersi in avanti per sostenere la ragazza quando questa mollò la presa dal collo dell’evren. Alma coprì la bocca nel tentativo di soffocare i conati a vuoto che risalivano in ondate violente, lasciandola senza fiato e con una dose esigua di bile in gola.

Tutto il calore si prosciugò in un istante, nemmeno la pelliccia bastava.

Mani naa lle umien, Morier sibilò stizzito Hillgaril al suo orecchio, chiedendole cosa le fosse preso. Avrebbe voluto rispondere che non lo sapeva, ma sperava che la morte sopraggiungesse prima che le guglie di Calilmarith spuntassero all’orizzonte, invece seppellì il viso nelle piume umide dell’evren e pregò che il dolore finisse.
Da molto gli déi erano divenuti sordi alle richieste dell’Omega, e finché il male si estendeva alle tempie, privandola di lucidità, una figura maestosa affiancò i due nel volo. Un evren dal piumaggio color sabbia era sbucato dalle nuvole, silenzioso e veloce.

La persona sul suo dorso indossava una pelle di lupo dal colore talmente similare che appena si distingueva, ed alla sua vista Hillgaril imprecò.
Ad un solo cenno del capo le creature alate planarono in perfetta sincronia verso il basso, verso le piante scarne che punteggiavano il fianco della montagna.

Alma orbì l’impatto in ogni singolo osso, e avrebbe urlato se le fosse rimasta aria nei polmoni. Attorno a lei tutto vorticava, sentiva freddo e sudava.
Altre braccia la sorressero, meno robuste di quelle di Hillgaril ma ferme, decise a non scuoterla più del dovuto. Sentì sua madre nel fugace contatto, un profumo delicato e parole dette con una dolcezza tale da commuoverla, sebbene non le riconoscesse.

“Mani marte, Poikaer?”

Alma socchiuse gli occhi e non vide nulla. Aveva convissuto con il dolore da quella notte, al Santuario, ed era stato un crescendo di sensazioni sgradevoli. Il Calore era marginale adesso, sovrastato da dolori tanto fisici quanto mentali. Si rese conto di avere gli occhi bagnati solo quando l’elfo sconosciuto li asciugò, e proprio non capiva che ragione vi fosse di piangere.

Poteva farlo per Edmund Gyfford, per la povera gente in balìa della crudeltà del Var’Celen, per le compagne lasciate a Moonbright e per la famiglia che l’attendeva a casa, ma quelle lacrime avevano un gusto diverso. Non aveva mai pianto per sé stessa.

Non dovresti essere qui, Isa.

Dopo. Aiutami a farla sdraiare.

Una voce inequivocabilmente femminile, compassionevole.

Nessun elfo si era mai rivolto a lei con tanta gentilezza. Iniziò a credere che si trattassero davvero di allucinazioni.
Hillgaril si mosse attorno a loro, i passi felpati appena udibili sul letto di foglie e rami secchi.

Le sue parole erano più distanti, infuse di panico, la prova che doveva avere un cuore a differenza del fratello.

Si è legata a Quinn. Dobbiamo pregare che la cosa non sia reciproca.”

“Perché si trova qui, allora?”

“È un suo ordine, Isa. Devo portarla a Calilmarith.”

Calilmarith. Alla fine le divinità l’avevano accontentata. Stava spirando fuori dalle mura nere della torre, lontana dalle torture ed il tocco mefitico della magia. Non pensava di poterne gioire, ma fu così.

La mano dell’elfa seguitava a sfiorarle la fronte, gli zigomi, l’incarnazione di Ranyra discesa dal cielo per guidarla nell’aldilà. La sua voce copriva lo stridere degli evren ed il tremito degli stessi denti di Alma, che nel delirio la chiamò madre e si allungò verso di lei alla ricerca di conforto.

Non ci andrà disse infine l’elfa, ed anche le bestie tacquero.Verrà con noi ad Uril Gawin.

Alma non poté vederlo, ma capì dal ringhio di Hillgaril che era in profondo disaccordo.

Dovunque fosse quel luogo non ci sarebbe mai arrivata.

Vuoi disubbidire al Var’Celen? Devi essere pazza.

Quinn non sa quello che vuole. E adesso accendi un fuoco, teniamola al caldo.

Alma vide solo i bagliori delle fiamme, un dipinto sfocato che non produceva alcun tepore. Usò le ultime forze rimaste per stritolare la mano dell'elfa, suo unico appiglio, e in un istante tutte le luci si spensero.

 

‹ Note dell'Autrice  
Ooookay, ecco un capitolo né carne né pesce così, perchè avevo voglia di essere mediocre. Sento di non riuscire a dare abbastanza spessore ai personaggi, ma magari prossimamente ne avrò l'occasione? Boh. Non lo so. Non ascoltatemi.
Comunque grazie a chi, nonostante le attese, passerà lo stesso, anche solo per gettarmi sassi. Vi voglio bene lo stesso, ma usate sassi piccoli.

Ecco la
mappa di Wild Call, da tenere come riferimento.
Sì, l'ho fatta io da zero. No, non è replicabile. Grazie.

Grazie a Tea, Connie91 e la new entry
HeartOfYoukai45 per aver lasciato le loro gentili recensioni. Siete libere di criticarmi e ammucchiare sassi e sassolini, sappiatelo.
Approfitto di questo spazio anche per sbaciucchiare
Leeyra e irisserena che mi seguono in gran segreto ♡

Vi aspetto alla gogna. Pace e bene.

 

Halcyon

 

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