À Demian

di lady igraine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Attesa ***
Capitolo 3: *** Sarah ***
Capitolo 4: *** Inconciliabile ***
Capitolo 5: *** Per caso ***
Capitolo 6: *** Per caso ***
Capitolo 7: *** Sogni ***
Capitolo 8: *** Disarmato ***
Capitolo 9: *** Mi dispiace ***
Capitolo 10: *** Annie ***
Capitolo 11: *** Essere grandi ***
Capitolo 12: *** Contrasti ***
Capitolo 13: *** Il giorno più brutto ***
Capitolo 14: *** Non perdonarmi ***
Capitolo 15: *** Barbi ***
Capitolo 16: *** Edoné ***
Capitolo 17: *** Nessuno è fatto per stare da solo ***
Capitolo 18: *** Tre mesi ***
Capitolo 19: *** Nicolas ***
Capitolo 20: *** Normalità, quasi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti!
Questa è stata la mia prima storia, l'avevo pubblicata anni fa e poi rimossa prima di portarla a conclusione. Ora, per qualche astruso motivo, anzi, forse proprio per darmi una motivazione ad essere onesta, ho deciso di provare a condividerla di nuovo. Ci sono delle ingenuità, ed è una storia che può risultare pesante o difficile da seguire (non per il livello, solo per gli argomenti non proprio leggeri), ma è nata in un momento un po' particolare e quindi ci sono molto legata. Ci terrei molto ad avere un confronto, se avete qualcosa da dirmi o se volete ammazzarmi un po' con della sana critica, non esitate. Vorrei sistemarla, ma vedere i propri difetti è difficile, confido in voi!
Spero di ritrovare nuovi e vecchi lettori, vi affido il mio cucciolo - sì, per Dami ho un amore a dir poco materno!- dategli una possiblilità e forse non ve ne pentirete.

Ps: sono pigra e tragicamente lenta. La storia è già scritta, anche solo per una rilettura e un controllo rapido potrei metterci dall'una alle due settimane. Giuro, non di più! Cercherò di pubblicare sempre il mercoledì... così, perchè mi piace il mercoledì!

 

 À Demian

Prologo


Ciao Dami,
 
 come stai?
 
 Non so come cominciare, mi rendo conto che questo dovrebbe essere il ventiquattresimo foglio che mi ritrovo a fissare dall’ultima volta che ci siamo visti. Mi chiedo sempre se assomigli ancora ai miei ricordi, ma ormai so che le mie lettere sono solo un monologo con me stesso a cui tu non risponderai.
 
Eppure, continuare a scriverti è l’unica soluzione che ho trovato per non perdere anche te.
 
 Ti ricordi quando da piccoli giocavamo sulla discesa sterrata, dietro casa tua, e facevamo le gare con le macchinine?
Io le truccavo e vincevo sempre e quando lo hai scoperto hai pianto come un disperato e non mi hai voluto parlare per giorni.
Ci pensavo perché sei sempre stato così, inflessibile e ostinato, poco incline al perdono.
 
Un vero zuccone, insomma, per essere elegante.
 
Ci pensavo perché oggi sono andato a casa tua e ho sentito tanta nostalgia. Quella volta per farti smettere ho dovuto regalarti la mia Ferrari gialla. Quando Sarah l’aveva fatta cadere dalla mensola graffiandone la cromatura e si era messa a piangere, allora l’avevi buttata via e mi avevi detto che non ci avresti più giocato con le macchinine.
Era la mia preferita. Ti avrei ammazzato.
Ci pensavo perché Sarah è sempre stata l’unica a cui non sei mai riuscito a portare rancore e ora la invidio.
Eri davvero un bambino strano, e nonostante fossi un marmocchio insopportabile (e lunatico, odioso, passivo-aggressivo, con un gancio destro micidiale e tendenze omicide latenti… ma non voglio lusingarti troppo) mi mancano proprio i vecchi tempi.
Mi manca correre fino al ruscello nel bosco, tagliando per la pista ciclabile, mi manca fare a turno per portare Sarah in spalla e vederti diventare fucsia per lo sforzo e il fiato che ti mancava, perché dovevi resistere per non cederla a nessuno. Mi fai ancora sorridere.
 
E quella volta che siamo rimasti nel campo fino a sera perché lei voleva una corona di margherite ma nessuno dei due sapeva farla? Alla fine le abbiamo regalato un mazzo di fiorellini e ci siamo guadagnati un bacio e quel sorriso da fatina.
 
Oggi ti sembrerò più nostalgico del solito, neanche avessi settant’anni e un piede nella fossa, e forse ti chiederai il perché. Ma anche no, però te lo dirò lo stesso: mi sono reso conto che è da quando la zia si è ammalata che non abbiamo più giocato assieme, e tu che eri il mio migliore amico ti sei allontanato lentamente, a testa china, senza che potessi fare nulla per aiutarti. Con Annie ho avuto l’impressione di riaverti indietro come eri prima.
Avrei voluto che durasse per sempre.
 
Sono tornato a casa tua e mi sono seduto sul divano, i teli sono pieni di polvere e tutto sa di abbandono.
Stanotte l’ho sognata.
L’ho sognata come era poco prima che se ne andasse, quando mi ha supplicato di consegnarti quella busta. Mi chiedo se hai mai letto la sua lettera, ma non so nemmeno se hai letto le mie, non so più niente di te.
Odi anche lei al punto di non riuscire più nemmeno a riguardare una sua foto?
Non posso smettere di pensare a quel periodo e a cosa avrei potuto fare di diverso, di utile. È uno dei miei incubi ricorrenti, mi sento bloccato e non so come uscirne. E mi tormento pensando a te che sei a millequattrocento chilometri di distanza e sei solo, non riesco nemmeno a immaginare come tu possa stare. Ci sono momenti in cui mi ritrovo a contare i giorni per realizzare a che punto siamo arrivati.
Mi domando se il suo viso è la tua persecuzione come lo è la mia, e cosa avrei dovuto fare per aiutarvi di più.
 
Mi faccio raccontare tutto da Beau, non arrabbiarti se la costringo, dovresti sentire come si inorgoglisce parlando del tuo talento. Diventa un problema farla stare zitta, ma la sento preoccupata per la tua solitudine. Prenditi più cura di lei, lo sai che ti adora ed è nevrotica e fragile. Mi dice che trascorri ancora le ore delle tue giornate al cimitero, e io divento matto se ci penso, perché sono passati due anni Dami e tu ancora non parli. Non mi hai mai risposto, nemmeno una volta, ma non mi riesce di gettare la spugna.
Ti immagino da solo insieme ai tuoi demoni e io non ti ho mai difeso abbastanza da loro, ti ho sempre guardato mentre ti distruggevi. Anche adesso sto lontano da te e non servo a niente, Beau e Trix però mi hanno fatto chiaramente capire di starti lontano, dicono che ti farei del male e sarei egoista e che devo lasciarti i tuoi tempi.
Mi devo sempre ripetere queste cose per impedirmi di prendere il primo aereo e venire lì a tirarti fuori da quel buco senza fondo che ti ostini a chiamare vita. A volte vorrei veramente sapere quanto dureranno i tuoi tempi e perché, oltre a me, hai deciso di punire tutte le persone che sono ancora qua ad aspettarti.
 
Sapere che mi odi, proprio tu che sei come un fratello, non mi fa dormire la notte. Quindi ricordati che nessuno ti ha lasciato indietro e che per me sei e resterai sempre quel bambino capriccioso che frignava e si attaccava alla mia maglietta quando si faceva male.
Sei sempre il mio fratellino disadattato, e puoi metterci anche una vita intera se vuoi, ma apprezzerei molto se non mi facessi aspettare tutta la mia. Giusto per recuperare un po’ di tempo insieme, no?
Io lo capisco, lo capisco davvero Dami, lo so che ci sono perdite che sono impossibili da superare, ma ci sono sempre i vivi, noi non siamo scomparsi.
 
Il mondo non è finito, tu non sei morto. Non dimenticarti di noi.
Con affetto,
Jules
 

 

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Capitolo 2
*** Attesa ***



À Demian

Capitolo primo

Attesa

 

 

Le note basse di una chitarra elettrica picchiavano secche, rimbombando tra le pareti del corridoio vuoto. Poi, l’urlo euforico della voce distorta e grezza esplose distintamente mangiando ogni altro suono, e su quelle grida di sfogo liberato Demian si mosse appena, sprofondando di più nella sedia, alla ricerca inconscia di una posizione più comoda.

L’auricolare sinistro sfuggì al suo orecchio e, con la musica d’un tratto ovattata, sussultò e si raddrizzò con un sobbalzo e uno sprazzo improvviso di consapevolezza. In un primo momento di confusione non riuscì a mettere a fuoco dove si trovasse e l’istinto lo portò a guardarsi intorno con sospetto, solo per pochi istanti, prima di riprendere il controllo e lasciarsi avvolgere da un’inaspettata sorpresa.

Si era addormentato.

Semplicemente addormentato.

Non ci era mai riuscito, non in ospedale, passava le ore d’attesa in uno stato di torpore e dormiveglia nel migliore dei casi, ma riposare veramente era impensabile per troppe ragioni, per la tensione, il nervoso.

La musica doveva essere riuscita, chissà grazie a quale miracolo, a riempire il vuoto apatico di tutto quel bianco e la solitudine dell’attesa, permettendogli di trovare tregua persino su una di quelle seggiole da ospedale, di ferro e finta pelle anallergica con un’inesistente imbottitura di gommapiuma.

Eppure, come sempre, bastava un breve frammento di silenzio per farlo ricadere nel disagio e in quei pensieri sui quali si riprometteva di non indugiare troppo a lungo, per non permettere all’angoscia di scivolare nella costernazione. Nemmeno la stanchezza delle ultime quarantotto ore prive di sonno bastava a sedare l’ansia.

Lentamente, ancora intontito, sollevò il viso per scrutare il cielo oltre il finestrone dagli infissi bianchi, scrostati, che dal fondo del corridoio lasciava penetrare tenui raggi di luce tiepida.

Stava albeggiando, dovevano essere quasi le sette del mattino, anche se non poteva esserne del tutto certo, il cellulare si era scaricato la sera prima e naturalmente non gli era stato possibile in alcun modo tornare a casa.

Quasi due giorni senza dormire e quasi senza mangiare, si sentiva a pezzi e forse avrebbe dovuto farsi una doccia, ma non voleva muoversi, se lo era ripromesso. Sarebbe rimasto seduto lì fino a quando lei non si fosse svegliata, sarebbe rimasto finché non l’avesse vista respirare normalmente, e sorridergli magari.

Si sistemò sulla sedia come un essere umano e non come l’invertebrato che si sentiva essere, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e cercò di trattenere l’ennesimo sbadiglio e il dolore alla spalla e al fondoschiena. Il corpo era intirizzito, la spalla decisamente anchilosata e il collo irrigidito per la discutibile posizione con cui aveva trascorso la nottata.

Tentò di farlo scrocchiare per liberarsi di quella fastidiosa sensazione di non potersi muovere liberamente e imprecò sottovoce quando lo sforzo andò a vuoto. Ai vari indolenzimenti, contribuivano in maniera dolorosa i crampi allo stomaco per il lungo digiuno, così dopo aver contemplato la parete disadorna di fronte a sé e la porta chiusa della camera, pensò che forse, almeno, poteva concedersi di allontanarsi qualche istante, giusto il tempo di recuperare qualcosa che gli desse le energie per non crollare e finire ricoverato a sua volta.

Si tolse le cuffiette e le arrotolò impaziente intorno al lettore CD, poi l’infilò malamente nella grande tasca della felpa, insieme alle sue mani irrigidite e screpolate dal freddo, e di malavoglia si costrinse ad alzarsi e a ripercorre quel maledetto, familiare, corridoio vuoto.

Era tutto tremendamente bianco lì dentro.

Erano bianche le pareti.

Era bianco il pavimento.
Persino le finestre malandate e piene di spifferi erano bianche e l’unica nota di colore erano le piccole e scomode seggiole beige stinto che punteggiavano il muro.

La fissazione degli ospedali per il bianco Demian non l’aveva mai compresa. Ci aveva provato, ma quello restava ai suoi occhi il colore più estraniante e triste, sapeva di ricordo sbiadito e si ritrovava spesso a pensare che lo odiava, con ogni fibra del suo essere.

Era meravigliosamente paradossale che fosse generalmente riconosciuto come la sfumatura della purezza, come sinonimo di salvezza. Tutto ciò che era candido era bianco, il bianco rilassava le persone normali.

Ma non lui.

Demian se ne sentiva sconfitto, risucchiato in un nulla annichilente ogni volta che si ritrovava a camminare in tutta quell’assenza di colore. Il bianco accentuava solamente il senso di rovina che permeava l’ospedale e sapeva di resa, come una bandiera sventolata tristemente a ricordare che non tutti lì dentro potevano farcela.

Quella verità nessuno la conosceva meglio di lui.

Se fosse uscito avrebbe trovato suoni, rumori, vita.

Distrazioni.

Gli bastava oltrepassare il perimetro dell’ospedale però, per ritrovarsi in una dimensione sospesa e senza tempo, fatta di inquietanti silenzi e facciate in stile dopoguerra, con le camere rigorosamente bianche dai soffitti alti quattro o cinque metri ma non altrettanto larghe. Gli davano un malsano senso di claustrofobia e instillavano in lui un desiderio istintivo di fuga.

A quell’ora poi non c’era nemmeno un’anima nei dintorni, solo lui, che neanche avrebbe dovuto poter stare lì, ma, ogni volta che accadevano quegli imprevisti, Marisa e il Primario del reparto gli permettevano di aspettare fuori dalla camera fino all’orario delle visite.

Chiudevano un occhio perché Demian in ospedale, davanti a quella stanza, ci aveva passato più giornate che non seduto in un banco di scuola, e la televisione con le sue stupide serie con medici fantocci tanto brillanti da curare ogni malattia non lo aveva mai illuso o ingannato.

Lui la verità la conosceva fin troppo bene, sapeva che era tutto troppo grande e vuoto e che quel vuoto lasciava dentro solo una profonda tristezza che lo annientava ogni giorno di più.

Aprì una porta a due battenti e scese le scale per raggiungere il piano terra, dove sapeva di poter trovare delle macchinette. Sperava di resistere un altro paio d’ore almeno, però nonostante i crampi l’idea di una qualunque forma di sostentamento lo nauseava, per questo aveva un allucinante bisogno di caffè.

La macchinetta delle bevande era vicino alla porta d’ingresso.

Un capannello di persone aveva assediato l’infermiera di turno al banco informazioni e stava facendo un discreto schiamazzo che acuì solamente di più il suo già grande mal di testa.

Avrebbe voluto parlare con Marisa, giusto l’indispensabile per farsi un’idea un po’ più chiara della situazione e magari ricevere una qualche forma di rassicurazione, non che ci avrebbe creduto o avrebbe apprezzato, ma non si sentiva abbastanza coerente in quello stato per avere certezza di cosa desiderasse veramente sentirsi dire.

Forse, solo parole sterili da una persona familiare, la solita storia ripetuta con affettuosa e sconcertante ipocrisia.

La povera infermiera non sembrava essere in condizione di dedicargli qualche minuto in quel momento, perciò si rassegnò a recuperare dalla tasca dei jeans qualche spicciolo e selezionò il caffè forte con abbondanza di zucchero, nella speranza che glielo rendesse più tollerabile.

Demian detestava quella brodaglia amara ma non aveva troppe alternative che lo tenessero in piedi.

 

Resisti ancora un poco.

 

Continuava a ripeterselo, solo qualche ora e poi, quando avesse parlato con lei, sarebbe finalmente tornato a casa e avrebbe dormito tutto il giorno.

La macchinetta iniziò a ronzare mentre compariva il messaggio “attendere” sul display. Dondolò da un piede all’altro e quando finalmente il segnale scomparve estrasse il bicchiere bollente dallo sportellino.

Subito imprecò: non era scesa la paletta di plastica per mischiare lo zucchero. Un classico, non era di certo la prima volta che gli capitava, la sua esistenza non aveva mai brillato per fortuna, ma quella giornata nello specifico si preannunciava uno schifo peggiore di quello che era solito affrontare.
Rassegnato, lo buttò giù tutto d’un sorso.
Non sapeva nemmeno di caffè, sembrava una pallida imitazione. Come se, avendo richiesto più zucchero, avesse perso proporzionalmente il diritto ad avere la stessa dose di caffè che viene normalmente data. Gettò il bicchiere con stizza nel primo cestino che riuscì a trovare e sfilò dalla tasca dei jeans neri un pacchetto di sigarette, per levarsi quel sapore ripugnante dalla bocca. Non lo avrebbe mai capito, perché odiava il caffè. Forse, perché semplicemente gli ricordava l’ospedale, e per uno strano binomio mentale assumeva nella sua bocca il sapore del catrame.
«Brutta giornata?»

Era così concentrato che non comprese subito che quella voce dalla delicata cadenza veneta si stava rivolgendo proprio a lui. Con fin troppa indolenza si volse per incontrare il viso dell’infermiera. Era difficile guardarla, per lui, e quando si soffermava sui suoi occhi scuri di cioccolata fondente, opposti ai suoi, si convinceva che lo sarebbe stato sempre, anche in futuro.

Quando l’aveva conosciuta Elena era solo una tirocinante del reparto di oncologia, anni prima, che l’università aveva assegnato proprio a quell’ospedale per due mesi. Ma ormai era stata assunta proprio lì, ironicamente, e questo l’aveva resa odiosamente e faticosamente familiare per lui.

Anche troppo.

Annuì impercettibilmente, irritato per averla incontrata già di prima mattina e seccato dalla propria irritazione. L’unica nota veramente positiva, era che il suo umore con lei avrebbe potuto essere estremamente variabile, e ad Elena non sarebbe importato comunque, il modo in cui le si rivolgeva non la disturbava particolarmente.

«Che dici, me ne offri una?»
Dem inarcò un sopracciglio e la squadrò con sufficienza «Non dovresti nell’orario di lavoro» le fece notare. Solo perché odiava varcare quella soglia, dove in bella vista stava un cartello “vietato fumare”, per sentire l’odore di fumo addosso a ogni dipendente che poi si prendeva cura di malati che, per quell’odore, stavano morendo. Certo, era un ragionamento senza senso, come la maggior parte dei suoi pensieri quando si trattava di quel posto.

Probabilmente, contestare Ellie per principio contribuiva al suo sistematico contradditorio.

Certamente, se Jenevieve non avesse avuto il cancro, non gliene sarebbe fregato niente dell’odore del fumo o di qualunque altra cosa.

Avrebbe persino regalato ad Elena il pacchetto.

Magari avrebbe smesso di avercela con lei.

Ellie, come prevedibile, sorrise di quella sua osservazione «Ho finito il mio turno, piccolo moralista»
Non la guardò, scrollò semplicemente le spalle e le porse il pacchetto di sigarette. La ragazza ne prese una e, senza consenso, lo seguì fuori dalla porta girevole e si appoggiò al muro accanto a lui.
Quel giorno aveva voglia solo d’ignorarla e fingere che non esistesse.

Era bella Elena, il tipo di bellezza che faceva voltare gli uomini quando passava per strada, con una folta chioma castana, due grandi occhi scuri, la carnagione olivastra e le gambe lunghe e snelle. Il tipo di ragazza che, quando era in vena, attirava anche la sua, di attenzione. Ma, forse per il rapporto che avevano, ormai non era più particolarmente toccato dalla sua presenza accanto a lui.

«Come sta tua madre?» domandò ad un certo punto lei, soffiando fumo.
Deglutì rumorosamente «Come ieri» mormorò, cercando di tenere solida e sicura la voce, mentre con gli occhi inseguiva gli inesistenti fili verdi del cortile interno dell’ospedale, per non rincorrere il guizzo di un presentimento che lo tormentava.

Era un semplice rettangolo di terra morta delimitato da alberi di magnolia spogli. Lo osservava sempre, dalla finestra del piano superiore, e si domandava a cosa servissero quei cespugli di fiori moribondi e mal curati.

 

Davvero non capiscono che questa raccolta di natura morta rende il paesaggio perfino più triste?

 

Doveva essere colpa sua, era lui ad aspettarsi troppo, a pretendere più del dovuto da un posto che le persone le accoglieva a lungo solo per abituare i parenti a non averle più intorno, per facilitare così la fase “Perdita della madre/figlia/cugina di  terzo grado e così via”.

«Hai passato di nuovo qui tutta la notte?» Elena interruppe ancora il filo assurdo delle sue elucubrazioni, e dal suo tono trapelò una nota di profonda pena che lo ferì e irritò più del dovuto.

«Non ho bisogno del tuo conforto» chiarì, scoccandole un’occhiata eloquente. Non sopportava la compassione che tutti gli riservavano, lo faceva sentire un animale ferito, e lui non era un debole.

«Ok» borbottò l’infermiera tranquillamente, gettando a terra il mozzicone di sigaretta e schiacciandolo poi con il tacco della scarpa «Allora suppongo che ci vedremo domani» continuò abbozzando un cenno di saluto con la mano prima di allontanarsi senza aspettare una sua risposta, che comunque non sarebbe arrivata.

Osservò la sua figura longilinea finchè non fu scomparsa dal vialetto, poi imitò il suo gesto, gettò il mozzicone e rientrò. Sperava che maman avesse aperto gli occhi, nel frattempo, aveva il sonno leggero nell’ultimo periodo ed era raro che riuscisse a farsi una completa dormita.
Gli tremò la mano, quando la posò sulla maniglia della porta della camera di Jenevieve. Strinse le dita in una contrazione che sapeva di spasmo, e schiuse l’uscio piano per non disturbarla in caso stesse ancora riposando.

La sera prima, quando finalmente aveva abbandonato la terapia intensiva e le avevano dato una stanza, Demian era rimasto con lei e le aveva tenuto la mano fino a che non si era addormentata.

Dopo no, non ce l’aveva fatta a fingere di sopportare di vederla in quello stato, era semplicemente fuggito, aveva preferito aspettarla altrove.

Il sottile rumore della bombola di ossigeno permeava l’aria e sostituiva il respiro un po’ affannato che aveva imparato ad associare a sua madre. La trovò seduta, per non dire abbandonata, contro la spalliera del letto, con il capo leggermente reclinato sulla spalla.

La guardò dalla soglia per qualche istante, prima di palesarsi.

Guardò il tubo che dal basso torace drenava il liquido dai suoi polmoni, pensò che le cannule nasali erano una visione quasi quotidiana, ma quel tubo, quel foro all’altezza delle costole più basse, quello sarebbe sempre stato un qualcosa di irrimediabilmente estraneo.

Jenevieve inclinò il viso sciupato verso di lui e abbozzò un sorriso tirato sui denti rovinati, ma il suo sguardo sembrò trapassarlo come non l’avesse visto davvero.

«Sei ancora qui tesoro?»  la sua voce arrochita e secca lo fece sussultare. Aveva un aspetto tragicamente deperito e sgradevole, la stanchezza l’abbatteva brutalmente rendendo anche il gesto più semplice un’impresa in grado di prosciugarla. La pelle le aderiva alle ossa, la vedeva ogni giorno, eppure ora riusciva ad apparirgli persino più magra, più spolpata.

A quell’immagine distorta di maman non riusciva ad abituarsi, per quanto di tempo ne fosse trascorso.

Jenevieve era stata bionda come il sole, e come il sole erano stati i suoi occhi, dorati e caldi, e il suo sorriso raggiante e a tratti buffamente immaturo. E Demian aveva provato un orgoglio smisurato per la sua bellissima maman, al suo sguardo infantile splendida più di qualunque altra mamma avesse mai incontrato, perché tutte erano serie e antiche, mentre lei era distratta e giocosa.

Era difficile ora sopportare che quegli stessi occhi da cerbiatta furbi e dispettosi fossero resi così offuscati e assenti a causa degli antidolorifici, quasi vuoti avrebbe detto, se non si fosse ripetuto migliaia di volte che quella donna era sempre sua madre.

Si costrinse a inventare una forma di sorriso e si avvicinò a lei.

«Ti senti meglio?»
C’era un altro posto-letto in quella stanza. Fortunatamente era vuoto quel giorno, non doveva bisbigliare, ma il tono uscì comunque leggero e delicato, come si stesse avvicinando ad una bambina dal ginocchio sbucciato e dovesse ricorrere a tutta la tenerezza che provava per lei.

Jen sollevò gli occhi al soffitto «Sto bene, tu invece hai una cera pessima. Devi tornare a casa a dormire, mon amê. Non puoi restare tutte le volte»
Demian si trattenne dal risponderle male.

Quella mattina non era in vena di scherzare o di tentare per l’ennesima volta di sdrammatizzare sulla loro condizione, ma non voleva nemmeno ferirla. Era facile chiedergli di tornarsene a casa come se nulla fosse, ma come avrebbe potuto dormire sapendola lì da sola?

Non era la prima volta che accadeva, di certo non sarebbe stata l’ultima. Nonostante ciò, gli era impossibile assistere alle crisi respiratorie di sua madre e fingere che fosse tutto nella norma. Era stanco di vedere l’ambulanza che d’urgenza la portava via, era stanco di tutto. Desiderava avere solo più tempo, ma ogni volta che Jen stava male realizzava che il tempo stava iniziando a scadere e sentiva solo un gelido panico dentro di sé.

Si perse nell’intreccio di fili che la collegavano alle macchine, in quel bip che scandiva i battiti del suo cuore, in quegli aghi che le bucavano la bella pelle, sulle mani, pompando nel sangue le dosi di morfina necessarie e non farla soffrire, e gli sfuggì una smorfia.

«Maman, io sto bene» tagliò corto.

Capì che aveva colto l’antifona, perché esitò un momento prima di parlargli ancora. Gli prese la mano e se la portò al viso, baciandogli il dorso.
«Dami, davvero, non devi preoccuparti in questo modo per me. Va’ a casa e riposati. Non serve che tu trascorra la notte qui ogni volta»

Si lasciò andare ad un sorriso più dolce e si aggrappò alle dita magre di lei per contenere l’amarezza.

«Guarda che io lo faccio per l’infermiera» la prese in giro.

Era ancora bella, quando aggrottava le sopracciglia in un moto disappunto e arricciava le labbra, come pronta a fare i capricci più che a rimproverarlo.

Era bella ed era soffice di una dolcezza che lo scioglieva.

«Non è troppo grande?»

Finse di rifletterci un attimo, poi si morse il labbro inferiore per non tradire con un sorriso il tono serio «Credo abbia ventitré anni. Ho sempre preferito le donne mature»

Sua madre si drizzò all’istante, scandalizzata, ignorando il fatto che avrebbe dovuto muoversi il meno possibile «Otto anni di differenza, te lo scordi! Ti proibisco di rivederla categoricamente. Ci manca solo che porti il mio bambino sulla cattiva strada!»

Demian provava un sottile piacere, quando Jen giocava a fare il genitore. Era ovvio che fosse solo finzione, ma riusciva comunque a trasmettergli l’impressione di essere meno solo, e dopo anche lei sembrava più felice e soddisfatta.

«Sette, ho quasi sedici anni!» la rimbeccò, sollevando affettuosamente l’angolo della bocca in una smorfia ironica. Si chinò su di lei a stamparle un delicato bacio sulla fronte, e sorrise fra i capelli corti cercando di ricordare come fossero prima, lisci e morbidi.

«Rifiuterò le sue avance da oggi» le promise con finta condiscendenza.

Se maman avesse saputo le cose che aveva già fatto con Elena forse ne sarebbe morta oppure, se ne avesse avuto la forza, lo avrebbe appiccicato al muro con un sonoro ceffone. Eppure in parte doveva saperlo, che sulla “cattiva strada” ci era già finito da un pezzo, da molto prima che la malattia di lei peggiorasse al punto da renderle impossibile il vivere serena a casa sua.

«Se ti senti meglio vado a chiedere quando potrò portarti a casa» asserì infine.

Jen però scosse la testa.

Demian non le aveva notate, quelle occhiaie profonde, e neanche la piega dolente della bocca.

Non stava per niente meglio.

Non poteva guarire, non era un illuso e lo sapeva fin troppo bene, ma veramente non poteva impedirsi di sperare che il tempo si potesse dilatare ancora un poco.

Non era assolutamente pronto a perderla. Non sapeva neppure come spiegarlo alla sua Sarah, che maman un giorno semplicemente non ci sarebbe più stata e basta. Se poi pensava a sua sorella, pensava che forse anche lei avrebbe potuto non esserci più, si sentiva come se il terreno sotto i suoi piedi si stesse sfaldando e non ci fosse più nulla di concreto a cui potersi aggrappare.

«Ci penseremo più avanti» stava intanto dicendo Jenevieve «Lo sai che per routine mi terranno qui almeno un paio di giorni. Seriamente, adesso va’ a dormire, tresor»

Demian voleva andarsene da quella stanza con tanta intensità che stavolta accolse senza riserve il desiderio della madre. Si chinò a baciarla di nuovo sulla guancia e, dopo aver respirato il profumo della malattia che le aleggiava intorno, si congedò, promettendo di tornare presto.
Uscì dall’ospedale a passo svelto, schivando chiunque potesse riconoscerlo. Non era il momento opportuno quello per sentirsi fare le solite domande. Si calcò il cappuccio della felpa sulla berretta nera da cui spuntavano ciuffi di capelli bianchi, e raggiunse il parcheggio dove aveva lasciato il suo motorino. Rimpiangeva di avere solo quindici anni, di essere così inutile, di non poter fare mai nulla di concreto per poter aiutare le persone che amava.
 
 
Erano le otto del mattino quando arrivò a casa.

L’ospedale distava poco dal centro città e quindi dalla sua scuola, ma casa sua era molto più lontano, in un paesino limitrofo, e per poter rientrare gli occorreva sempre almeno mezz’ora.
Il campanile della chiesa vicina, con il fastidioso “Don” delle sue campane che scandiva il tempo implacabile, gli ridiede una dimensione temporale, quella che perdeva quando rimaneva troppo a lungo in quel luogo bianco tagliato fuori dalla vita vera.

In teoria avrebbe anche potuto andare a scuola, era da più di una settimana che non si presentava. Già l’anno prima si era preso troppe libertà a dire dei professori, aveva perso la maggior parte dell’anno e nonostante fossero stati molto permissivi niente l’aveva salvato da una disastrosa bocciatura. Ed ora, nel consiglio di classe ci leggeva solamente un’ostilità nei suoi confronti nata dall’esasperazione, lo sapeva benissimo che con il suo assenteismo cronico avrebbe probabilmente perso di nuovo l’anno.

Non che la cosa avesse un qualche peso.

Quando vedeva sua madre capiva che di cose stupide come la scuola o il futuro non poteva importargli di meno. Chiuse la porta blindata dietro di sé, diede due giri di chiave e rilassò le spalle. Entrare lì dentro, solo, senza nessun tipo di ansia gli alleggerì per pochi attimi il mondo. Ma poi la luce lampeggiante della segreteria telefonica gli ricordò quasi crudelmente che aveva ancora dei legami che lo vincolavano a tutto ciò che si stendeva oltre la soglia di casa.
Era troppo presto perché qualcuno gli avesse lasciato un messaggio in mattinata. Era più probabile che fosse della sera precedente, forse di sua zia.
Premette il bottone e la registrazione rilasciò la voce d zia Claire. Sembrava agitata e Demian fu percorso dal brivido tipico di quando si aspettava solo brutte notizie.
“Ciao Dami, i medici ti hanno detto qualcosa? Come sta Jen? Si è svegliata? E tu come ti senti? Se hai bisogno basta che mi chiami e vengo subito”
Demian inarcò un sopracciglio, perplesso. Zia Claire sapeva perfettamente come stava sua madre, cosa potevano avergli detto o qualsiasi altra cosa. Quasi sicuramente aveva già chiamato in ospedale per avere le informazioni che ora stava chiedendo a lui.
La voce della zia s’interruppe un momento, una pausa abbastanza lunga da permettergli di deglutire. Poi, incerta, la registrazione riprese “sai… Sarah aveva una visita ieri. Mi ha chiesto perché non c’eri”
Questa volta impietrì. Se ne era completamente scordato.

In verità se ne scordava quasi sempre, perché odiava quelle visite più di tutto, e toccava sempre a Claire coprirlo, per non far rimanere male la sua sorellina. Si ritrovò a supplicare mentalmente che Claire non avesse aperto bocca con la bambina e che Sarah non fosse terribilmente arrabbiata con lui. Ma in verità già sapeva prima ancora di sentirlo che la zia aveva vuotato il sacco, così come era certo che la sua petite peste non gli avrebbe mai tenuto il broncio.
“Si è un po’ spaventata” ecco, le aveva detto della mamma, lo sapeva.

Un’altra lunga pausa.

Una di quelle che odiava sentire. Prima che la voce potesse riprendere aveva già afferrato il giubbino nero e lo stava indossando di nuovo. Sarah non doveva preoccuparsi, per questo le notizie che le venivano date erano dosate e addolcite col miele, perché lei non doveva assolutamente provare ansia.
“Comunque ora sta meglio, davvero. Non stare in pensiero. Sarah voleva che te lo dicessi, dice che tu devi sapere sempre tutto altrimenti ti preoccupi. È molto dolce. Ti saluta e dice di ricordarti che ti vuole bene… ciao Dami, ci vediamo presto”
Anche quel giorno non avrebbe visto scuola. Afferrò il cellulare e ricordò a scoppio ritardato che era scarico. Attraversò a grandi falcate il corridoio per raggiungere la sua camera da letto, spalancò la porta per ritrovarsi il cane bellamente addormentato fra le sue lenzuola. Il cucciolo alzò appena la testa quando lo vide e prese a scodinzolare gioioso.
«Maledizione Lala! Lo sai che non voglio che sali sul letto!» inveì scacciandola malamente. Lalami, una piccola, soffice e pestifera bestiolina che amava riempirgli il letto di peli, con la lingua a penzoloni, cominciò a saltargli addosso.
«Giù Lala! Non è proprio il momento! Levati dalle scatole!» riuscì ad allontanarla con una gamba mentre infilava il braccio dietro al letto per raggiungere il carica batteria, sempre attaccato a quella presa nascosta. Collegò il cellulare e in maniera quasi frenetica cercò nella rubrica il numero di Claire.
Il telefono iniziò a emettere il suo snervante “Tuuu” che sapeva quasi di accusa. Come se qualcuno, dall’altro capo della cornetta, lo stesse apostrofando con una sorta di disprezzo.
Claire ci stava mettendo troppo a rispondere. Poteva star facendo qualunque altra cosa, non era detto che fosse accaduto niente di grave, ma il pensiero di aver lasciato Sarah da sola quando le aveva promesso che l’avrebbe accompagnata lo tormentava. Per non parlare di quel “ora sta bene” che lasciava presupporre un qualcosa di non troppo positivo prima.
«Pronto?»
«Zia!» esclamò lui tirando un sospiro di sollievo «Che cosa le hai detto?» il tono aggressivo celava malamente un’accusa.
«Solo che hai accompagnato Jenevieve all’ospedale per dei controlli» chiarì lei pacatamente.
Sembrava un’affermazione piuttosto normale e innocua, e non riusciva proprio ad afferrare cosa avesse in tutto questo allarmato la sorella. Come se gli avesse letto nel pensiero Claire osservò
«Non è una stupida Dami. Ha capito che qualcosa non andava. E la mia bugia le ha fatto credere che fosse più grave del dovuto»
Maledisse Sarah, perché per avere solo nove anni era decisamente troppo sveglia, oltre che terribilmente sfortunata.
«Ok, arrivo» si ritrovò a dire prima ancora di averlo pensato
«Non è necessario, davvero. È stato solo un attacco di panico, oggi stava così bene che ha anche deciso di andare a scuola»
Si sentì sbiancare di collera per quanto la sua carnagione pallida glielo concedesse.
«E tu glielo hai permesso? Lo sai quanto è instabile dopo un attacco, non avresti dovuto permetterglielo!»
Staccò il cellulare. La conversazione non sarebbe durata ancora a lungo, e per quella manciata di secondi la batteria avrebbe retto prima di spegnersi di nuovo.
«Vado a prenderla. Chiama la scuola e avvisa che uscirà prima»
Guardò l’ora: più che prima, sarebbe praticamente uscita subito dopo l’inizio delle lezioni.
«Avanti Dami, non esagerare. Non è il caso»
«Ho detto che sto andando, quindi è meglio che chiami o la porterò via di lì senza il tuo consenso»
Riattaccò bruscamente senza aspettare risposta.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE

 

Buongiorno!

 

Prima di tutto, scusate, ho già trasgredito. Avevo detto mercoledì e invece finisco con il postare di sabato… ho tre motivi!

Uno valido, l’altro discretamente valido, il terzo diciamo forza maggiore!

Il mercoledì mattina sono stata chiamata per lavorare con poco preavviso e non pensavo che mi sarei liberata solo sul pomeriggio molto tardo (questo è il motivo valido), e poi ho fatto male i miei calcoli.

Perché ok, ora partono le ammissioni imbarazzanti.

Non ho scelto il mercoledì a caso, l’ho scelto perché la sera esce sempre una puntata di Yuuri! On ice e beh, non mi sono bruciata il cervello per questo anime giuro, sono tranquillissima, smanio solo come una pazza tutta la settimana e in giornata non riesco a pensare ad altro, tutto qui!

Quindi, visto che l’attesa del mercoledì non mi passa mai, mentre quando devo pubblicare per l’ansia mi sembra sempre che il tempo voli, ho deciso di sovrapporre le due cose…

Sì.

L’ho fatto solo per l’anime, il mio senso delle priorità fa schifo, ma davvero io ci muoio, la curiosità mi ammorba!

E quindi alla fine ho capito che pubblicare mercoledì sarà impossibile, perché penso solo a Yuri! E Yurio pure, è adorabile Yurio…!

Terzo motivo, il giorno dopo sono partita per la Francia e solo ora ho recuperato un wifi, quando ho saltato la pubblicazione non avevo pensato che poi non avrei avuto tempo fino a oggi, vi chiedo profondamente scusa.

Lato positivo: non so quanti di voi vecchi lettori ricordino questo dettaglio, ma in questo momento sono esattamente a Kerlaz, e proprio oggi ero esattamente su una scogliera non casuale, e ho mangiato un kouign amann ai piedi di un pozzo altrettanto non casule!

È stato un po’ come ritrovare un luogo familiare e ho provato un moto probabilmente immotivato di nostaglia… ma forse sono solo strana!

La prossima volta non tarderò, giuro che farò la brava.

 

 

Ah, Fabula Nera grazie di essere tornata, non sai quanto sia confortante ritrovare il tuo nome

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Capitolo 3
*** Sarah ***


Buon Natale!

 

Lo so, un altro ritardo, ma credo ormai l’abbiate capito… le scadenze uccidono il mio spirito!

Comunque è una buona occasione per fare gli auguri a tutti e in particolare a Fabula Nera, Usagi e Claddaghring8: grazie di tutto, per come mi avete riaccolto dopo un lungo periodo di assenza e per le vostre fantastiche parole d’incoraggiamento. Siete fantastiche!

 

Il ritardo è dovuto ad una mia testardaggine, la solita: il francese!

Come ricorderete, forse, a volte alcuni dialoghi sono in lingua.

Se ricordate altrettanto bene, io non so il francese.

Un bel paradosso, me ne rendo conto!

Perché insisto nonostante un tale intoppo? Oltre ad una notevole dose di autolesionismo, soprattutto perché il rapporto tra Demian e Sarah perderebbe un qualcosa che solo andando avanti comprenderete, e quindi mi costringo a forza a colmare una lacuna incolmabile.

Ho fatto del mio meglio (e rispolverato tre anni di medie infernali con professori di francese dal fortissimo accento siciliano che non mi hanno facilitato il compito), siate tolleranti e… beh, se sapete il francese e scorgete qualche indecente obbrobrio della vergogna, magari ditemelo.

Sarebbe un gesto davvero apprezzato!

Per non ammorbarvi, l’ultima postilla la lascio a fine capitolo, giuste per spiegare un paio di cose se aveste domande!

 

 

 


À Demian


Capitolo secondo

Sarah

 

 

Sarah era fragile.

Demian era cresciuto ripetendoselo ancora e ancora, per non scordarlo mai.

Per imprimersela a fuoco addosso, quella sensazione d’impotenza e paura, per respirarla sempre, in ogni momento, e non poterla mettere da parte mai.

Era la prima cosa che gli era stata detta, quando la sua bellissima sorellina era nata. Non il colore degli occhi, il peso, quanto aveva pianto o se era come lui.

Niente di tutto questo, solo che era fragile.

E allora l’aveva cercata, con il naso spiaccicato al vetro ed il corpo sollevato sulle punte per poter vedere più lontano, aveva frugato con lo sguardo ogni lettino, sforzandosi di riconoscere fra quelle file di neonati uno simile all’altro, la sua Sarah.

C’era Jules accanto a lui, gli aveva messo un braccio attorno alle spalle e lo aveva attirato a sé, e Demian riusciva solo a ricordare di aver stretto la sua maglietta forte e che era stato il cugino a spiegargli quella verità troppo grande e incomprensibile che gli adulti gli avevano raccontato solo a metà.

Sarah soffriva di problemi cardiaci.

Come a un fiore nato prematuro quando ancora il gelo imperversa intorno a lui, le era stata tolta la possibilità di difendersi da sola, e Demian aveva capito, lo aveva compreso subito, un’ineluttabile verità che aveva falciato con un solo colpo spietato e preciso la sua età più tenera e pura: avrebbe dovuto proteggerla, sarebbe dovuto diventare forte, la campana di vetro che l’avrebbe difesa dalle brutture della vita, per poterla tenere al sicuro.

O l’avrebbe persa.

Perderla era l’unica cosa che non sarebbe mai riuscito a sopportare.

Essere tanto forte però, non si era rivelato facile, Demian aveva scoperto di non essere all’altezza di quel compito che si era assegnato da solo, illudendosi forse di poter dare più di quanto fosse in grado.

Poteva essere il timore degli ultimi giorni a renderlo immotivatamente più ansioso e isterico di quanto la situazione non richiedesse, ma non poteva impedirsi di vedere in ogni svincolo e ogni deviazione da un percorso ben organizzato e preciso un pericolo per lei, e la loro situazione familiare era sempre una svolta imprevista, un filo teso che minacciava di spezzarsi e di spezzarla.

Solamente grazie a questa consapevolezza aveva ammesso un anno prima, seppur con ritrosia, che la sua bestiolina sarebbe stata meglio lontano da loro, da lui e Jen, e avrebbe avuto una vita più tranquilla sotto la tutela di Claire.

E odiava vivere senza di lei e saperla distante, ma all’idea che anche Sarah potesse vedere la lenta progressione della malattia di maman si sentiva peggio, allora il suo conforto era saperla ancora innocente e si aggrappava a quell’innocenza pura, incontaminata, per sopprimere la nostalgia e la solitudine.

C’erano dei momenti in cui, senza un motivo apparente, lo sconforto gli pesava come un macigno e gli sembrava di essere slegato dal proprio corpo, in quei momenti si pentiva, capiva che, forse, aveva sbagliato tutto, avrebbe dovuto permettere che fosse zia Claire a farsi carico di Jenevieve, di lui e di Sarah, avrebbe dovuto affidare quel compito così delicato a qualcuno che ne fosse all’altezza. Poi però, la lucidità tornava e tornava una delle sue poche certezze: era lui la famiglia di maman, e quella malattia era un peso che solo lui doveva prendere su di sé.

Per quanto impensabile, Jenevieve lo aveva assecondato.

Demian ne ignorava realmente il motivo e non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo, semplicemente era giunto alla conclusione che Jen dovesse aver pensato che, seguendo i suoi desideri, forse lo avrebbe aiutato ad accettare meglio la situazione.

La verità era che nulla poteva renderla meno amara, ma questo poteva comprenderlo unicamente Sarah.

La sua Sarah.

Giunse nel parcheggio di fronte alla scuola elementare che erano quasi le nove, e già gli sembrava di averci messo un’infinità di tempo, e che in quel lasso di tempo sarebbe potuto accaderle di tutto.

Avrebbe persino potuto provare una forma di ansia per il suo ritardo, bastava solo questa consapevolezza a farlo sentire un inetto e un incapace.

Sollevò gli occhi stanchi, arrossati, sull’edificio giallo stinto, bucato da immensi finestroni e racchiuso da una ringhiera verde pallido che lasciava intravvedere un grande cortile maltenuto, ed anche se il luogo era completamente diverso provò una fitta allo stomaco, una sensazione di impiccio che poteva tradurre più onestamente con “ricordo”.

Poteva trattarsi di pura e banale reminiscenza ma Dem era più portato a credere che, probabilmente, tutte le elementari si assomigliassero in qualche modo, ed era facile per lui rivedere in un cortile spoglio una fetta consistente della sua infanzia.

Suonò al citofono e la voce rude di una bidella su di età lo invitò a introdursi nella scuola con un sordo e fastidioso rumore che aprì il cancellino. Demian salì correndo i gradini in pietra calcarea che conducevano all’ingresso e solo di fronte alla porta a vetri rallentò per prendere un’andatura più tranquilla e sicura.

Il salone, dalle pareti di un giallo un po’ più acceso, era vivace e decorato da disegni di bambini che giocavano e si rincorrevano, da farfalle variopinte e dalle impronte delle mani degli alunni. Era un ambiente diverso dalle elementari che aveva frequentato lui, sembrava più accogliente e vivibile, sereno. Demian di quei suoi anni conservava un ricordo amaro, la scuola era sempre stato un luogo difficile per qualcuno come lui, risentire addosso l’umiliazione era spontaneo, ma perlomeno riconosceva un merito al periodo più ingrato della sua vita: gli aveva insegnato a farsi le ossa.

La scrivania della bidella, a ridosso della parete opposta all’entrata, era presieduta da una bassa donnina dai ricci scapestrati biondo tinti, con un doppio mento prominente che veniva malamente nascosto dal dolcevita a collo alto.

«Buon giorno. Sono Demian Lemaire, sono venuto a prendere Sarah Lemaire»

La bidella alzò svogliatamente gli occhi dalla sua rivista, lo squadrò e, senza perdere l’aria annoiata, annuì piano «Sì, hanno chiamato mezz’ora fa» confermò, sollevandosi con estrema riluttanza.

Indossava delle scarpe con il tacco basso, il ticchettio snervante rimbombò nel salone facendola apparire come un piccolo gnomo dal grugno perennemente scontento. La seguì fino a quando non la vide fermarsi davanti ad una porta decorata con delle coccinelle sotto la scritta “5 B” e bussare con impazienza, come avesse fretta di ritornare alle proprie mansioni.

Anche quel piccolo momento di attesa prima del “avanti!” della maestra riusciva ad apparirgli come un lasso di tempo sufficientemente lungo da dilatare la sua ansia. Di ansia, per Sarah, ne provava con una facilità disarmante, per qualunque cosa, un respiro più pesante, una smorfia incompresa, e diventava totalmente incapace di gestirsi. Era questo il motivo per cui, a conti fatti, nonostante tutto il tenero amore che provava per lei, la evitava come la peste.

Perché la salute di sua sorella era la sua più grande paura, non sempre riusciva ad armarsi per affrontarla.

La bidella si sporse dall’uscio discretamente e Dem, subito, infilò con poco garbo la testa sopra quella della donna, per poter vedere la classe. Il suo quasi metro e ottanta unito alla bassa statura della bidella non gli rese il compito particolarmente complicato, così gli riuscì di studiare rapidamente le tre file di scolari curiosi che lo fissavano confusi di rimando.

La chioma screziata di biondo di sua sorella gli permise di metterla a fuoco rendendo indistinto qualunque volto la circondasse, e Sarah, dall’angolo della seconda fila, intercettò i suoi occhi e gli sorrise raggiante.

La bidella provvide subito ad allontanarlo bruscamente.

«Il signore è venuto a prendere Sarah Lemaire» sibilò gelandolo con un’occhiataccia ben poco convincente.

L’insegnante, dapprima perplessa, gli sorrise affabile, e Demian per riflesso considerò tra sé che fosse la maestra di matematica. Aveva quel sorriso dal retrogusto sadico che sapeva di perfido, quando riconsegnava una verifica.

«Certamente. Sarah, hai preparato tutto?»

La sua sorellina scattò immediatamente dal posto come non stesse aspettando altro, si caricò in spalla lo zaino e afferrò il giubbino, un soldatino perfettamente addestrato.

«Ci vediamo domani» le sorrise la maestra, e Sarah ricambiò con entusiasmo, sembrava un’incarnazione della gioia e della spensieratezza così palese da risultare sciocca. Demian non riusciva a comprenderla, non del tutto, quasi diventava difficile sostenere il suo sguardo pulito e dolce, gli pareva che la sua anima potesse illuminare tutto e lo accecava.

Davanti alle fossette e alla spruzzata di lentiggini sulla pelle chiara, si sentì improvvisamente più tranquillo e tutta l’inquietudine provata nell’ultima settimana si dissolse come non avesse mai avuto ragione di essere.

Sarah era una creatura fatata nata sulle sponde di Ys, che si barcamenava tra il mondo dei mortali e il regno dei faerie e camminava come sollevata da terra, in una leggerezza che apparteneva a lei soltanto.

«Arrivederci» la bimba si volse verso la classe sventolando la mano e ricevette un “Ciao” corale in risposta, poi tornò a posare le sue iridi di caramello su di lui e Demian provò la necessità di abbracciarla.

Mentre la bidella richiudeva la porta, si accorse quasi distrattamente che i bambini all’interno dell’aula lo stavano studiando bisbigliando e ridacchiando.

 

Ok, la scuola sembrerà anche diversa, ma certe cose non cambiano mai.

 

La purezza infantile sarebbe sempre stata meschina e crudele e l’avrebbe portato ogni volta a sentirsi un bambino di sette anni ferito.

«Fratellone!» esclamò la sorella, saltandogli tra le braccia tradimento «Pourquoi tu es ici?»

Gli occhioni brillavano di traboccante felicità e quella sua gioia lo travolse come un’onda in piena, facendolo ridere. La sollevò da terra e girò su se stesso, lasciando che la risata calda di Sarah riempisse qualunque silenzio e sradicasse ogni tormento.

 

«Tu n'es pas heureuse de me voir?»

Non sei felice di vedermi?

 

Sarah si aggrappò tenacemente al suo collo e nascose il volto sulla sua spalla, sentì le labbra aperte in sorriso sincero sulla clavicola mentre le risa si stemperavano dolcemente e lei annuiva.

Fu l’indisposto colpo di tosse della bidella a ricordargli che si trovavano ancora a scuola e stavano facendo troppo baccano.

A malincuore, lasciò che i piedi di Sarah ritoccassero terra, ma si concesse almeno la gioia di stringere la sua piccola manina candida prima di congedarsi dalla donna e avviarsi all’uscita.

 

«Donne-moi le sac à dos»

Dammi lo zaino.

 

La aiutò a sfilarselo dalle spalle e si accorse con un’insensata punta di fastidio che era pesante e avrebbe voluto che lei non dovesse fare sforzi, seppur non troppo eccessivi. Non poteva ignorare che anche la più piccola fatica l’appesantiva e rendeva il suo respiro labile affannoso, anche quando le sue preoccupazioni sfioravano il ridicolo non riusciva ad accantonarle, perché il mondo complottava costantemente alle spalle della sua fragile bestiolina.

 

«Tu me ramènes à la maison?»

Mi porti a casa?

 

Lo guardava dal basso, con le sopracciglia leggermente aggrottate e gli occhi dal taglio obliquo che, alla luce pallida di una giornata autunnale riflettevano mille sfaccettature d’ambra sciolta. A volte, gli sembrava di rivedere le espressioni di sua madre quando era bambino, ma macchiate di una consapevolezza diversa, più genuina e viva.

Si morse l’interno della guancia e cercò di non mostrarle che quella domanda in qualche modo lo aveva ferito, perché con lei viveva di sensi di colpa e che Sarah desse per scontato che non sarebbero rimasti insieme se non il tempo necessario era solo l’ennesima dimostrazione concreta che sua sorella non si aspettava niente da lui. Non aveva fatto nulla per alleviare la loro separazione, la lasciava troppo tempo da sola. Era per lei la presenza più assenza, si mostrava solo per sparire.

Le sorrise dolcemente, senza guardarla in volto, per non permetterle di leggergli dentro e farle capire che stare con lei era la sua cura, ma anche il suo personale inferno.

 

«En vérité je pensais que nous aurions pu rester esemble jusqu'au déjeuner»

In verità pensavo che saremmo potuti stare insieme fino a pranzo.

 

«Vraiment?»

Aveva l’aria sconvolta di qualcuno a cui avessero appena confermato la vera esistenza dell’isola di Ys, e allora Dami sfoggiò il suo miglior sguardo da cucciolo ferito.

 

«Bien sûre, mais si tu n’as pas envie ce n’est pas un problème»

Certo, ma se non hai voglia non fa niente.

 

Borbottò affranto.

Il viso di Sarah si aprì in uno dei suoi più raggianti sorrisi e le guance s’imporporarono di rosso per l’entusiasmo. L’ascoltò ridere, assorbì ogni più piccolo gesto di quella bambolina e delle sue manine da fata e pensò che non sarebbe mai riuscito a comprenderla, non davvero.

Era un mistero che non gli era dato di svelare, ché la sua petite peste era un estremo ed insieme il suo opposto: era serena, candida, e allo stesso tempo cosciente di ciò che le accadeva e che accadeva alle persone che amava. I suoi aspetti più salienti erano inconciliabili, eppure questo non minava il suo essere, Sarah era piena di vita, era radiosa, sempre.

«Mais tu ne vas jamais à l'école?»

Ma tu non vai mai a scuola?

 

Si grattò la testa coperta dal berretto nero, in un moto d’imbarazzo per la risposta che quella domanda innocente portava con sé, perché la verità era tutto meno che innocente e non desiderava mettersi in cattiva luce agli occhi della sua pestifera sorellina.

Scrollò le spalle con noncuranza, come bastasse un gesto a scacciare pensieri sgradevoli, e la frangia bianca gli ricadde sugli occhi.

 

«Porquoi je devrais, si tu études puor tous deux?»

Perchè dovrei, quando tu studi per tutti e due?

 

La canzonò, facendo leva sullo spropositato amor proprio della bimba, che come prevedibile si gonfiò d’orgoglio come un gufo impettito: riusciva ad apparire persino più piccola e tenera.

 

«J'ai pris distinct!»

Ho preso distinto!

 

Cinguettò soddisfatta, strappandogli l’ennesimo, irrimediabile sorriso storto.

E mentre Sarah lievitava nel suo ego appagato, pensò che voleva solo avere una scusa per strapazzarla come fosse un peluche. A tradimento la sollevò e se la caricò in spalla e Sarah fece solo in tempo ad urlare senza possibilità di divincolarsi. All’urletto stridulo fece eco l’ennesima risata liberatoria.

 

«Seulement? Tu devrais t’engager bien plus, si autrement tu ne me égales plus! Je prenais seul “excellents”»

Solamente? Dovrai impegnarti di più o non mi batterai mai! Io prendevo solo “ottimi”!

 


la punzecchiò, e infilò le dita gelide sotto il suo maglioncino per farle il solletico ai fianchi. Sarah per il solletico ci moriva, si dimenava come un’anguilla, tentava sempre, in ogni modo, di sgusciare alla sua presa e, soprattutto, rideva fino alle lacrime con tanto trasporto da splendere, per tutta quella gioia, e allora nemmeno lui poteva esimersi e si lasciava contagiare da quell’allegria che sgorgava come fonte di vita da una sorgente incontaminata.

 

«Menteur!»

 

Ridacchiò

 

«Je le sais, que à l’école tu n’était pas bravo!»

A scuola andavi malissimo, lo so!

 

Prese fiato come non respirasse da una vita, annaspò, rise e si mangiò le parole, non le riusciva di scandire i suoni e più faticava, più si lasciava trasportare dalle risa.

 

«Je te pries, laisse-moi! Je ne respire pas!» biascicò a stento.

Ti prego, lasciami! Non respiro!

 

A sentirla tanto in difficoltà, con quelle gambettine magre che si agitavano e le mani affrancate alla sua felpa disperatamente, gli veniva voglia di tormentarla ulteriormente. Quando alle risa spontanee subentrarono violenti colpi di tosse, Demian però s’irrigidì e venne colto da un panico inatteso.

La rimise subito a terra e s’inginocchiò davanti a lei, esclamando il suo nome con urgenza.

«Sarah! Sarah, tu te sens bien?»

Le strinse il braccino sottile e le scostò i lunghi capelli che le coprivano il bel viso, nascosto dalle mani a coppa. Avrebbe voluto picchiarsi, lo sapeva benissimo che doveva far sì che rimanesse tranquilla, ma poi quando lei rideva e si lasciava andare tanto spontaneamente si scordava di tutto.

Sarah smise di tossire, scostò le mani e sfoderò un ghigno furbetto di chi la sa lunga.

 

«Eh eh, Je le savais que en ce moyen  tu te serais arrêté!»

Eh eh, lo sapevo che così la smettevi!

 

Asserì soddisfatta, e a Demian mancò il respiro per lo sbigottimento.

Si ritrovò a fissarla per un lungo istante senza parole, sbatté le palpebre ancora e ancora, sforzandosi di focalizzare la situazione.

 

«Tu as feint?»

Hai fatto finta?

 

Mormorò allibito.

L’infarto era venuto a lui.

 

Come può scherzare su una cosa smile?

Non si rende conto di quanto mi tormenti costantemente?

 

Il sorriso le morì lentamente sulle labbra, gli angoli della bocca si piegarono verso il basso e Dami realizzò, con svilimento, di averla ferita, di nuovo.

 

«J’étais en train de blaguer»

Stavo scherzando

 

Sussurrò ad occhi bassi, giustificandosi come fosse in torto, e Demian sapeva che non lo era, che era stato lui, ingiustamente, a metterla a disagio.

 

«Tu es ainsi toujours trop sérieux, je me sens bien, frère. Tu le sais que je ne te dirais jamais un bougeoir»

Sei sempre così serio… io sto bene, fratellone. Lo sai che non ti direi mai una bugia.

 

Le guance spruzzate di leggere lentiggini erano arrossate dalla colpa, e Demian ne provò una profonda vergogna e si sentì anche peggio di uno schifo. L’unica cosa che odiava più dello stato di salute di sua sorella, era solamente la propria capacità di ricordarle costantemente la sua diversità e fargliela pesare con la sua angoscia.
Non importava quanto s’impegnasse o si ammonisse, al minimo segnale diventava soffocante e non le permetteva di vivere la sua età come avrebbe dovuto, persino nelle piccole cose. Sarah aveva quel dono, il dono di fargli desiderare di essere altrove e, al contempo, di fargli desiderare di non allontanarsi mai da lei.

E adesso, di fronte a quegli occhi d’oro, sarebbe scappato subito, ma come poteva scappare dalla sua bellissima bestiolina, se poi avrebbe avuto un disperato bisogno di lei?

Di sapere che stesse bene?

Si morse ancora le labbra e poi, sospirando la sua esasperazione, abbozzò un sorriso compassato, nel vano tentativo di rimediare.

 

«Alors, qu’est-ce que tu veux faire?»

Allora, cosa vuoi fare?

 

Domandò,  in un miserabile sforzo di cancellare con un colpo di spugna la sua inadeguatezza.

Sarah lo comprese perché esitò, ma poi gli sorrise con quell’aria dispettosa e furbetta ai suoi occhi adorabile.

 

«Je veuz aller au parc!»

Voglio andare al parco!

 

 

Demian sbuffò e sollevò gli occhi al cielo, ma in realtà era solo grato, infinitamente grato, che sua sorella fosse come era, che possedesse quella dolcezza e quella comprensione che non avrebbero dovuto appartenere ad una creatura tanto piccola e indifesa, così sguarnita davanti alla vita.

La guardava e tutto l’amore che provava per lei lo travolgeva con tanta prepotenza da togliergli le parole per dirlo, per questo non ci riusciva, per questo forse era inabile a mostrarle l’affetto che provava e non riusciva a farle comprendere che lei era il suo nord in un’esistenza senza bussola.

 

«Et parc soit»

E parco sia.

 

La aiutò a mettersi a cavalcioni sulle sue spalle e prima di avviarsi verso i giardini pubblici le prese una mano e le depose un leggero bacio sul polso.

 

«Et je veux une crème glacee aussi!»

E voglio anche un gelato!

 

 

Aggiunse Sarah, appoggiando il mento sulla sua testa per poi dargli un pizzicotto.

In cambio ricevette solo sbuffi disperati.

 

«Tu es une gâtée»

Sei una viziata.

 

Quando raggiunsero i giardini pubblici, davanti a loro si aprì una distesa verde punteggiata da alberi sfioriti tinti delle tonalità dell’autunno. I rami screziati di rosso e di oro rendevano vivace il sentiero della pista ciclabile e ombreggiavano gli scivoli e le altalene, le foglie secche ricoprivano il terreno di un caldo manto marrone-dorato.

Sarah gli sfilò la berretta di lana e la indossò lei stessa, poi gli passò le mani fra i capelli.

Lo faceva sempre anche da piccola, li faceva scorrere fra le dita come fossero fili di seta, e Demian all’aperto non si scopriva mai il capo, per il disagio, a meno che non fosse sua sorella a desiderarlo.

Per questo non le disse nulla e la lasciò giocare distrattamente, ma Sarah afferrò una ciocca e la tirò con fastidio.

 

«To dois mettre moins gel! Les cheveux sont tous secs et je ne les aime pas»

Metti meno gel! I capelli sono tutti secchi, non mi piacciono»

 

Si lamentò, e Demian sbuffò divertito «Mais je les aime», le fece notare con una punta di rimprovero che in realtà era solo troppa tenerezza.

Forse sarebbe diventato come suo nonno, a volte lo pensava, burbero in maniera esasperante.

 

«Mais sans tes cheveux sont doux comme la soie!» insistè la bambina.

Ma senza I tuoi capelli sono morbidi come seta!

 

Aveva sempre trovato insolito che Sarah non gli avesse mai fatto domande a quel proposito, aveva sempre preso atto delle stranezze che lo riguardavano e che non concernevano nessun altro dei suoi conoscenti senza battere ciglio. Probabilmente, per lei le sue prerogative estetiche non erano nemmeno diversità, erano solo una manifestazione di lui, perché Sarah ragionava senza pregiudizi.

Era raro, per un bambino, e Demian lo aveva già imparato da piccolo, tutti lo avevano sempre guardato di traverso ed era stato più facile, per i suoi compagni d’infanzia, emarginarlo piuttosto che non farsi domande.

Rimase in silenzio e la aiutò a rimettere i piedi per terra.

Subito, Sarah indicò il fortino di legno munito di scivolo e altalena.

 

«Je veux aller sur la balançoire!»

Voglio andare sull’altalena!

 

Esclamò, e prima che potesse anche solo pensare di fargli delle raccomandazioni, si era già voltata e stava correndo.

 

«Ehi, arrête-toi! Tu le sais que tu ne dois pas courir!»

Fermati! Lo sai che non devi correre!

 

La rimproverò andandole dietro e in risposta ricevette un’impertinente linguaccia.

 

«Oui, oui, je le sais “maman”!» lo prese in giro.

Sì, sì, lo so “mamma”.

 

«Ok j'ai compris» borbottò rassegnato «Mais tu ne te déplaces pas. Je te pousse»

Ok, ho capito. Ma non muoverti. Ti spingo io.

 

Sarah si accomodò placidamente sull’asse di legno e lo guardò colma di aspettativa.

Era incredibilmente leggera, così eterea che Demian talvolta ci aveva creduto davvero, che fosse una silfide di cristallo. La spingeva e nel mentre la studiava, osservava le gambe magre tese al cielo, i lunghi capelli castani screziati di miele che si sollevavano in un sinuoso strascico.

Era la bambina più bella che avesse mai visto, e non perché fosse sua sorella. Semplicemente, aveva una dolcezza nei tratti, nello sguardo fermo, sicuro, un’inesauribile vena infantile nel sorriso e un atteggiamento da grande troppo in fretta che la rendevano adorabile.

«Fratellone?»

«Oui?»

Sarah volse il capo e lo guardò da sopra la spalla, aggrappandosi saldamene alle catene per non sbilanciarsi.


«Comment va maman?»

Come sta la mamma?

 

Lo chiese a voce sottile appena sussurrata, con una cautela innaturale che stonava con la sua esuberanza e Demian si meravigliò ancora di quanto bene lo conoscesse, tanto a fondo da sapere perfettamente che bastava citare maman per ferirlo.

Sussultò e mancò di spingerla, allora Sarah puntò i piedi nella terra e fermò l’altalena.

Dami non lo sapeva, se provava più pena per se stesso o per lei, che era stata costretta a conoscere il tatto quando invece avrebbe dovuto potersi esprimere liberamente e chiedere di sua madre senza dover temere le conseguenze.

 
«Maintenant elle va mieux»

Ora sta meglio.

 

Non riuscì a infondere in quelle parole la forza che avrebbe voluto, suonavano deboli anche e a se stesso, come la voce insicura e tremante ed infatti non gli riuscì di rassicurarla. Sarah s’incupì, chinò la testolina bionda lasciando che i capelli nascondessero alla sua vista ogni sua espressione, e si mordicchiò il labbro.

Poi, fece per rialzare il viso, ma esitò, e Demian comprese che desiderava tanto dirgli qualcosa e tuttavia non ne trovava il coraggio, i bei lineamenti puerili erano mangiati da un’attanagliante incertezza.

 

«Tu aussi ne me dis pas les mensonges, c’est vrai?»

Anche tu non mi dici le bugie, vero?

 

Mormorò infine.

Seppe da quello sguardo colmo di parole non dette che non era solo quel dubbio a tormentarla.

S’inginocchiò davanti a lei e le prese le mani piccole fra le sue. Per uno sciocco momento, si perse nel contrasto di colori della loro pelle, perché le mani di Sarah erano delicate e rosee mentre le sue avevano la stessa, gelida consistenza del marmo, ed era assurdo, inspiegabile.

Era il cuore della sua bestiolina a tradirla, il suo stesso cuore il nemico che doveva combattere ogni giorno, un nemico contro cui Demian era assolutamente impotente, eppure anche solo il colore di quella pelle morbida, di quelle guance spruzzate di leggere lentiggini, gridava vita.

 

«No, petite peste, je ne te dis pas les mensonges»

No piccola peste, non ti dico le bugie.

 

Non riuscì a sostenere quella menzogna guardandola negli occhi, era consapevole di starla tradendo, proprio lei che era la purezza incarnata ed era l’unica persona della quale Demian bramasse la fiducia come fosse una panacea contro ogni male.

Sarah allora gli sorrise facendo mostra di un dentino mancante.

 

«Et quand je peux la voir?»

E quando posso vederla?

 

Demian abbassò le palpebre in un sospirò profondo, cercando di riorganizzare i propri pensieri, di trovare qualcosa di sensato da dirle che non le causasse troppo dolore. La richiesta di sua sorella era lecita, non vedeva maman da mesi e la colpa era solo sua, aveva espressamente detto a Claire di non permetterle di incontrare Jen per non condannare anche Sarah alla sua medesima sofferenza.

La stava tenendo lontano da sua madre negli ultimi istanti della sua vita, facendole soffrire entrambe di nostalgia e mancanza, non aveva di certo bisogno di un indovino per capire che, un giorno, sua sorella non l’avrebbe perdonato.

Solo, non gli importava.

Doveva proteggerla dal dolore di vedere maman in quella condizione penosa, se fosse stata al sicuro avrebbe potuto accettare anche di perderla in futuro.

 

«Je ne sais pas.  Maintenant elle est toujours à l’hôpital»

Non saprei. Adesso è ancora in ospedale.

 

«Je peux venir avec toi. Je sais que tu vas toujours à la voir, la tatie me l’a dit!»

Posso venire con te. Lo so che vai sempre a trovarla, me l’ha detto la zia!

 

Scoraggiato si ripromise di fare un bel discorsetto a zia Claire sulla sua bocca troppo grande, le accarezzò la linea dolce del viso, quando però parlò lo fece con fin troppa durezza

 

«Ce n'est pas le moment appropriéè»

Non è il momento.

 

Tagliò corto e si pentì all’istante, vedendo gli occhi di sua sorella farsi tragicamente lucidi.

 

«Mais»

 

S’interruppe, incerto.

Vederla triste lo tormentava, mentirle non gli permetteva di essere clemente con se stesso, ma non era minimamente intenzionato a cedere su quel punto con Claire.

Non aveva un’alternativa che gli lasciasse la coscienza già martoriata in pace.

 

«Je te promets que, au plus vite, je t'emmènerai la voir» aggiunse infine.

Ti prometto che il, prima possibile, ti porterò da lei.

 

Sarah sporse il labbro inferiore in un broncio deluso amabile, ma annuì e Demian l’abbracciò stretta, le accarezzò e i capelli e le depositò un bacio leggero sulla fronte, sussurrandole piano come avesse fra le mani un uccellino spaurito

 

«Ne t’agite pas, reste calme»

sta tranquilla, non agitarti.

 

 

La sua bestiolina si scostò e gli sorrise più serenamente, scuotendo pianto la testa.

 

«Je ne m'agite pas, ou à la fine tu te agites plus que moi»

Non mi agito, o alla fine tu diventi più nervoso di me.

 

Quella fossetta ingenua all’angolo della bocca gli sciolse il cuore, le rimboccò i capelli dietro le orecchie, le sfiorò la guancia rossa e fredda. Era così soffice da smuovergli un’infinita dolcezza quando i suoi occhi di sole si mostravano tanto forti e determinati, ma Demian non era mai certo di quanto Sarah avesse compreso, né di quanto restasse ferita a causa sua. Quel suo sorrisino impenitente lasciava intuire un “so tutto, non c’è bisogno che mi spieghi nulla”, che lo gettava in un’incertezza costante.

 

«Dis-moi ce que tu veux faire. Nous ferons tout ce que tu veux, sauf courir»

Dimmi che cosa vuoi fare. Faremo tutto quello che vuoi, tranne correre»

 

Le disse infine, rassegnato a non poterla mai afferrare del tutto.

 

«Je veux ma glacée!» rispose, ridendo spensierata come se non avessero mai toccato l’argomento “maman” e tutto ciò che comportava. Demian decise di rispettare la scelta della sua bestiolina, si alzò stirando le braccia e la guardò ghignando.

 

«Et?»

 

«Tutto tutto?» inclinò la testa come a rafforzare il proprio dubbio, come se stesse tastando un qualche limite. La sua dolcezza riusciva davvero a farlo sorridere anche quando avrebbe desiderato solo gettarsi sotto un treno.

Per questo Sarah doveva essere necessariamente una fata, perché lo elevava, lo sollevava come una carezza lasciandolo sospeso e poi lo rigettava all’inferno con la sua sola tristezza.

 

«tout ce que»

Qualunque cosa.

 

 

 

Un libro.

Sarah gli aveva chiesto di aiutarla a leggere un libro.

Non se ne era sorpreso, sua sorella amava leggere e ancora di più adorava che qualcuno leggesse per lei, era una bambina dagli svaghi troppo limitati che, fortunatamente, aveva trovato nella lettura la sua ancora di salvezza. Come aveva fatto anche lui.

Quello doveva essere uno dei rari meriti di maman, che era stata una madre negligente e terribile, ma in un mare di errori eclatanti era stata all’altezza di trasmettere loro almeno il suo amore per l’arte ed il bello.

Pensava questo, mentre la sua petite peste apriva lo zainetto e ne estraeva la sua copia consunta di “Ar Priñs Bihan”, Le Petite Prince. Demian lo prese dalle sue mani con solennità e lo contemplò con calma nostalgica, ché quel libro era l’unico cimelio di famiglia: la mamie lo aveva regalato a maman quando era bambina, Jen lo aveva ceduto a lui nell’infanzia e, quando si era ammalata, Dami lo aveva dato a Sarah.

Lo aveva fatto perché aveva capito, nel momento in cui il cancro si era fatto più forte, che non sarebbero più tornati in Francia, non per molto tempo almeno, e non voleva che la sua bestiolina si potesse allontanare dalle loro origini.

L’edizione era però in dialetto bretone e Sarah non lo capiva, la mamie lo parlava inframmezzandolo con il francese, quando si rivolgeva a loro, e se già Demian lo comprendeva a stento, per sua sorella risultava una lingua estranea che si sforzava d’imparare.

Si erano seduti tra le radici di un albero, Sarah si era sdraiata comodamente, usando le sue gambe come cuscino, e facendo sfarfallare le lunghe ciglia dei suoi già adorabili occhioni, lo aveva convinto a recitarlo per lei.

Non era stato impegnativo, Demian quasi lo sapeva a memoria, ma aveva provato comunque dell’imbarazzo.

 

 

«A! Priñs Bihan, komprenet ‘m eus, tamm-ha-tamm, da vuhezig velkonius.

E-pad pell ne ‘z poa bet evel didu nemet c’hwekted ar c’huzh-heol»

 

“Oh, piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita malinconica.

Per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti.”

 

 

«Velkonius?» si era accigliata Sarah, aggrappandosi alla sua manica e scuotendola, le sopracciglia aggrottate.

 

«Mélancolique» chiarì, scompigliandole i capelli e trattenendo una risata al borbottio scocciato della bimba

 

«Elles ne se ressemblent pas» e poi aveva aggiunto «Et c’hwekted?»

 

Non si assomigliano.

 

 

Si era morso il labbro e sorridendo aveva scrollato le spalle «Douceur»

Aveva ripreso:

 

«Desket ‘m eus ar munud nevez-se d’ar pevare deiz, d’ar beure, pa ‘c’h eus lavaret din:

-Me ‘blij din ar c’huzh-heol. Eomp da welout ur c’huzh-heol…

-Met ret eo gortoz…

-Gortoz petra?

-Ez afe an heol da guzh.

Da gentañ e ‘c’h eus diskouezet bezañ souezhet-meurbet, ha goude e ‘c’h eus graet goap ac’hanout. Ha lavaret ‘c’h eus din:

-Krediñ a ran emaon atav du-mañ!»

 

 

Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando mi hai detto:

"Mi piacciono tanto i tramonti. Andiamo avedere un tramonto..."

"Ma bisogna aspettare..."

"Aspettare che?"

"Che il sole tramonti..."

Da prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e

poi hai riso dite stesso e mi hai detto:

"Mi credo sempre a casa mia!..."

 

Sarah si era lamentata con uno sbuffo

«Je n'ai pas compris bien»

Non ho capito bene.

 

«Qu'est-ce que tu n'as pas compris?»

Che cosa non hai capito?

 

Glielo aveva chiesto sapendo che in realtà Sarah non aveva compreso quasi nulla, ed infatti lei gonfiò le guance e lasciò andare una pernacchia.

 

«Krediñ a ran emaon atav du-mañ» aveva soffiato, e Demian si era concesso quella risata divertita che premeva per essere liberata.

 

«”Je me crois toujours chez moi”» parafrasò, chinandosi a baciarle ancora la testolina. Sarah aveva preso la mano fra le sue, aveva giocato con le sue dita e aveva liberato un sorriso furbo.

 

«En vérité j'ai compris, mais je l'aime. C’est mon passage préféré!»

In verità ho capito, ma lo amo. È il mio passaggio preferito!

 

Il cellulare nella tasca allora aveva vibrato e Demian si era interrotto.

Le aveva sorriso, le aveva promesso che avrebbero continuato insieme un’altra volta e, dopo averle preso il tanto agognato gelato, così grande che neanche volendo sarebbe riuscita a finirlo, l’aveva riaccompagnata a casa dalla zia, in moto.

Non le aveva dato possibilità di protestare.

Non era nemmeno entrato a salutare, si era tenuto a distanza, guardando il cancello di casa da lontano, si era fatto dare un bacio frettoloso sulla guancia da una Sarah chiaramente delusa che non avesse trascorso la giornata con lei come le aveva promesso, e se ne era andato.

L’aveva fatto a testa china, l’aveva fatto perché quando vivevano un momento sereno e perfetto si sentiva soffocare e provava l’impulso ancestrale di fuggire. Che Sarah fosse la cosa più importante della sua vita non era sufficiente, starle accanto era una sofferenza che, almeno a se stesso, non poteva negare, ironicamente soprattutto quando le cose andavano bene.

Perché non andavano mai davvero bene e lui non riusciva ad ingannarsi, crogiolarsi in un’illusione era una sofferenza maggiore.

Quel messaggio improvviso era stato la scappatoia che gli serviva per assecondare la propria vigliaccheria e non aveva potuto fare a meno di coglierla al volo. Quando Niko chiamava e decideva di riunire il gruppo, tutti dovevano accorrere, era la regola, e questa regola spesso gli consentiva di evitare quelle giornate in famiglia alla Mulino Bianco che non aveva e non meritava.

Non riusciva più nemmeno a mettere piede in casa di sua zia, si sentiva alienato, un oggetto fuori posto in quadro perfettamente ordinato.

Lui e suo cugino erano diversi, lo erano sempre stati, fin da bambini.

Stava per perdere sua madre, aveva perso suo padre tempo prima, quando li aveva abbandonati, e Sarah era fragile.

Non aveva ricevuto nulla di perfetto, non poteva integrarsi in una famiglia affiatata e completa come quella di Jules, poteva solo ammirarla prendendo le distanze, poteva solo cercare d’immaginare come avrebbe potuto essere, se le cose fossero andate diversamente.

Si guardò allo specchio ancora e ancora, ricambiando con disprezzo quel riflesso diafano che lo tormentava.

 

Sei una possibilità andata male.

Sei un caso su trentacinque mila, un refuso di stampa.

 

Se lo ripeteva ogni volta, come se potesse così indursi a cambiare, eppure l’immagine davanti ai suoi occhi non mutava.

Su trentacinquemila, su quindicimila, dati diversi a seconda della manifestazione della patologia, per lui erano solo numeri per descrivere un maledetto gene recessivo tramandato dalla famiglia di sua madre e manifestato in lui per beffa del destino.

 

Malattia congenita.

 

Suonava tutto molto tecnico, quando erano i medici a parlargliene, ma a Demian quelle cifre davano solo la nausea.

Si arrese davanti a se stesso, infilò la testa nel lavandino e fece scorrere l’acqua per risciacquarsi i capelli, come la sua petite peste gli aveva suggerito di fare poche ore prima. Poi prese una salvietta e li tamponò piano, asciugandosi il volto pallido.

 

Albinismo.

 

Tutto sommato non gli era andata male: anche se la sua vista era abbastanza rovinata, non lo era così tanto da impedirgli una vita quasi normale con le lenti o gli occhiali, e il suo strabismo era sufficientemente leggero da passare inosservato tranne ad un occhio attento.

Non tutti quelli come lui erano altrettanto fortunati, sapeva di non potersi seriamente lamentare, a molti non era possibile continuare a studiare a causa della vista, altri avevano la pelle tanto rovinata da sembrare piagata. Lui stava bene ed era molto bello, almeno questo se lo concedeva. Naturalmente era pallido come un fantasma e la luce del sole lo irritava da morire in ogni modo possibile, ragione per cui aveva un rapporto conflittuale con il sole e non era mai stato al mare, tranne sulle fredde coste dell’Atlantico vicino a casa della mamie, in Francia, dove aveva trascorso ogni giorno estivo della sua infanzia fino ai suoi dodici anni.

Gli occhi azzurro sporco, quasi grigio misto ad una delicata sfumatura rosata, lo fissavano di rimando dallo specchio mentre cercava d’indossare le lenti a contatto colorate che servivano a proteggerli dall’eccessiva luce e a non mostrare quella strana sfumatura sanguigna.

In passato aveva avuto altri problemi, era stato fisicamente debole e vittima di bullismo da parte di quei bambini che consideravano la sua una diversità patologica. Aveva imparato a sue spese la crudeltà e il giudizio spietato delle persone che lo avevano sempre circondato, che lo guardavano come fosse un poveretto da compatire, un caso umano con cui era impossibile interagire in maniera normale.

Molto avevano avuto vergogna anche solo a guardarlo negli occhi, un imbarazzo immotivato che lo aveva ferito e che ancora lo disturbava.

E allora si era ripromesso che non avrebbe più concesso a nessuno di sopraffarlo, di farlo sentire un difetto, uno scherzo naturale.

L’unica distanza tra lui ed il resto del mondo era banale mancanza di melanina che lo privava anche del fascino che altrimenti i suoi lineamenti gli avrebbero conferito. Era stato più difficile per lui, rispetto ad una persona normale, rendere il proprio fisico altrettanto forte, ma si era impegnato a fondo per limare ogni possibile differenza.

Si passò la salvietta umida sul collo e sui muscoli delle braccia e dell’addome, ben delineanti, prima di indossare una maglietta nera che sbatteva incredibilmente in contrasto con la sua pelle.

Poi prese il tirapugni appoggiato sul mobile, lo indossò sulla mano sinistra e lo strinse, recuperò un coltellino a serramanico e se lo mise in tasca.

 

***

 

La luce bassa del tramonto tratteggiava in lontananza le sagome oscure dei suoi compagni, raccolti contro una staccionata logorata del parchetto vicino alla stazione dei treni.

Quelle erano le ore della giornata in cui i ragazzi normali iniziavano a evitare quella zona, quel quartiere. Non era ben visto dalla gente per bene, con le case dimesse, i muri ricoperti di murales ai quali lui stesso aveva contribuito, con tutte le risse e i locali malandati e la droga.

Non era il luogo ideale per passeggiare amabilmente a braccetto con le persone care.

Per questo ci andava.

Lì non si sentiva fuori posto, ma esattamente dove doveva essere, confuso in una massa di diseredati non diversi da lui. Non erano propriamente amici, erano suoi simili, condannati quanto lo era lui stesso a tutto ciò che non avevano la forza di sopportare.

Nicolas gli si fece incontro e si salutarono stringendosi la mano e battendosi il pugno, in un gesto che aveva il sapore dell’abitudine.

Per qualche distorto motivo quella routine aveva il raro dono di calmarlo, quando si trovava in loro compagnia poteva far cadere ogni maschera di compostezza e tolleranza e annegare in ogni malessere vivendolo fino in fondo senza remore.

«Ehi Dem, hai sentito del nuovo gruppo?» gli domandò Dave con un sorriso colmo di allegria artificiosa, mentre si avvicinava per porgergli la canna che si stava fumando e che ormai era quasi del tutto consumata. Gliela sfilò dalle dita e fece un lungo e lento tiro.

«No» soffiò insieme al fumo «Chi sarebbero?»

«Novellini» intervenne Niko «Ragazzini che hanno deciso d’interferire con il nostro giro» snudò un ghigno perfido che sottintendeva in maniera limpida come pensava di sistemare le cose.

Demian dubitava seriamente che fossero davvero un problema, riteneva più probabile che Nicolas avesse semplicemente voglia di sfogare il proprio sadismo.

«Una lezione basterà per ricordare a tutti che questo è il nostro territorio» chiarì Alex, scrollando le spalle con indifferenza, come stesse parlando di semplice, banale e noiosa burocrazia.

 Teo, seduto sulla staccionata con le braccia a penzoloni e una sigaretta in bocca, rise di gusto alla sola idea, Andrea invece abbozzò un sorriso distante, non stava ascoltando, forse pensava alla birra che si sarebbe scolato di lì a poco.

«Età?» era stato un sospetto nato dell’espressione meschina di Teo a indurlo a farsi scrupoli, sebbene fosse ironico: lui per primo era il più piccolo del suo gruppo e vi era entrato nell’Estate dei suoi tredici anni, difficilmente avrebbe trovato qualcuno più giovane di come lui lo era stato.

Difficilmente però, qualcuno abituato all’ambiente si sarebbe arrischiato a occupare un territorio già gestito da altri spacciatori, soprattutto se a gestirlo era Niko, un nome piuttosto noto nel giro e nipote di un ancor più noto spacciatore.

Le regole de gioco erano in realtà piuttosto elementari.

«Mocciosi che si divertono a fare i grandi» sputò Teo con la stessa, insofferente espressione con cui avrebbe potuto rigurgitare bile.

Demian piegò la bocca in una smorfia amara.

A volte non capivano o non ricordavano, lo definivano ridendo il piccolo del gruppo eppure sembrava che non si rendessero veramente conto di quanti anni lui stesso avesse. Se qualcuno giocava a fare il grande, Demian sapeva di essere il primo, e quei ragazzi con lui.

«Quindici, sedici. Non di più» specificò Alex con un sorriso maligno complice verso Nicolas «Con questi ci divertiamo»

Dem gettò a terra il mozzicone della canna ormai finita e sollevò l’angolo della bocca in un’espressione sarcastica.

«Non mancherò»

Niko sfoderò quella piega della bocca che osava definire in qualche modo sorriso

«Lo sapevo che eri dei nostri»

 

ANGOLO AUTRICE

 

Nei miei sopralluoghi a Finisterre, nei paesini che nel mio immaginario hanno riempito l’infanzia del mio cucciolo, mi sono accorta di una notevole mancanza della mia vecchia versione.

Questa mancanza è il dialetto bretone, infatti hanno il bilinguismo (ovviamente il Piccolo Principe in bretone non potevo non regalarmelo e l’ho comprato al volo!).

Per questo la scelta di mettere il brano estratto dal libro della madre in bretone: Demian non lo parla, è vero, ma ho pensato che per loro sia un po’ come per noi, quando i nonni ci parlano in dialetto e noi lo capiamo soltanto senza essere in grado di masticarlo.

Almeno, parlo per me!

Non ho mai imparato una sola parola di sardo nonostante gli sforzi di nonna, e il bergamasco mi è estraneo pur con tutto l’impegno di nonno =)

 

L’isola di Ys, che cita Demian, è una leggenda locale propria del paesino della nonna di Demian, nata proprio nella baia di Douarnenez. Una specie di mito di Atlantide, per intenderci.

Dovrebbe caratterizzare meglio le sue origini… spero!

 

Detto questo, aggiornerò prima di Capodanno, anche perché ho già corretto il prossimo capitolo.

Ora mi ritiro, che la mia famiglia minaccia di defenestrare il computer…

 

Buone feste e buon Natale!!!

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Capitolo 4
*** Inconciliabile ***



À Demian


Capitolo terzo

Inconciliabile

 


Nel buio della sera le luci al neon dell’insegna dell’Edonè andavano a intermittenza lanciando riverberi azzurri, tristi e tetri, sugli alberi spogli del viale.

Era estraniante guardare il locale dall’esterno, ascoltare la musica rimbombare tra quelle mura familiari e arrivare al suo orecchio in maniera indefinita. Si era seduto sul muretto del parco della stazione, da quella posizione aveva la perfetta visuale del parcheggio quasi deserto non fosse stato per un gruppo di motorini ammassati in un angolo e qualche macchina non messa troppo bene.

Forse stavano suonando i Sex Pistols, non ne era certo ma le urla stonate di “Anarchy in the U.K” erano difficili da confondere, non bisognava saper cantare, bastava urlarla con tutto il fiato e mangiare le parole con il nervoso e la rabbia. Insieme, grida chiassose d’incitamento, risate sguaiate di chi con l’alcool ci è andato giù piuttosto pesante.

Non bastava la strada che li divideva a rendere quel baccano meno assordante, ma importava poco visto che il locale sorgeva sul viale dietro la stazione, in una zona particolarmente malfamata e frequentata solamente da quella parte di gioventù nostalgica ancora legata ad un passato vecchio di almeno un ventennio, di punk, di skinhead, di gabber.

Rilasciò una piccola nuvola di condensa e si strinse nelle spalle, per combattere il freddo di quella serata iniziata male. Le mani pendevano nel vuoto, tremavano, ma non era sicuro di non riuscire a tenerle ferme solo per i brividi. Si sentiva teso come una corda di violino e continuava a tendere le dita e a contrarle attorno al tirapugni, ancora e ancora, come per instillarsi una calma che proprio non riusciva a racimolare. I suoi amici ridevano tra di loro, chiacchierando del più e del meno con una semplicità ai suoi occhi disarmante, mentre Demian riusciva solo a restare raccolto nel proprio mutismo. L’ilarità con cui scherzavano lo turbava e scombussolava più di tutto, iniziava a nascere in lui la speranza che quella situazione si sarebbe risolta con un nulla di fatto, una spedizione punitiva a vuoto, ché lui non aveva voglia di punire nessuno, voleva solo tornarsene a casa e che la vita gli facesse meno schifo.

Eppure non finiva mai come desiderava, Dem stesso aveva iniziato ad ignorare le proprie aspettative e a seppellirle, perché lo sapeva fin troppo bene che tutto sarebbe sempre andato storto e, volente o nolente, avrebbe dovuto ingoiare i sensi di colpa ed il disagio e tutto quello che si portavano dietro.

Si convinceva ogni volta che sarebbe stata l’ultima, che avrebbe lasciato perdere Niko e tutto lo schifo che circondava quella vita, che non li avrebbe più seguiti perché lui non era questo, non poteva essere solo questo, doveva esserci di più, doveva avere un luogo vero a cui fare ritorno, non era possibile che da qualche parte non ci fosse un cazzo di posto anche per lui. Alla fine però, la verità era soverchiante più di qualunque sciocchezza di cui tentasse di convincersi, il terrore di non avere qualcuno, di non avere nulla a cui aggrapparsi, era più forte di tutto.

Lo rendeva vile, cieco e succube.

E lo faceva vergognare di se stesso, della propria pateticità.

Demian non sapeva sopportarsi, e questa era l’unica certezza nella sua vita, non sopportava di accostarsi alle persone normali. Guardò distrattamente Nicolas ed i suoi ricci tagliati corti, quell’aria crudele e il suo sorriso strano, che sembrava una piaga, una linea tagliata netta sul volto duro; guardò Davide ed il suo non rendersi mai conto di niente, una vena d’innocenza che forse era solo troppo uso di acidi, gli infiniti piercing e quei modi goffi di muoversi, la cresta biondo platino e la testa rasata ai lati. E poi c’era Andrea, che non ascoltava davvero e nascondeva parte del viso dietro ai capelli lunghi e annodati, e Teo che voleva solo litigare ed emanava la familiare aura di sprezzo e collera repressa; Alex che fungeva da cuscinetto tra il più grande e incattivito del gruppo e il più sciocco e inconsapevole.

Ironicamente proprio loro, Niko in prima linea, lo avevano accolto, raccolto quasi con il cucchiaino sulla strada dopo che era stato picchiato a sangue per l’ennesima volta tanto da non riuscire più a rialzarsi.


 «Sei forte piccoletto!» esclama uno sconosciuto accostandosi a lui.
Demian sente solo la bocca piena di sangue, a malapena riesce ad alzare gli occhi sul nuovo venuto. Non si aspetta aiuto, si prepara solo ad incassare altri colpi, ma si ritrova un ragazzo più grande accovacciato davanti a lui, a fissarlo con un sorriso sghembo inquietante.
«Te la sei cercata» gli fa notare il ragazzo, ma sembra più una presa in giro che un rimprovero.
È vero, se l’è cercata, se si può definire cercare rogne il mandare a cagare un perfetto stronzo che non ha fatto altro che sfotterlo definendolo scherzo della natura.

Non aveva potuto tacere, anche se loro erano in tre e lui un fottuto albino del cazzo troppo debole per potersi difendere in qualunque modo.

Se non voleva aiutarlo né pestarlo più di quanto fosse possibile vista la situazione perché diavolo restava lì a umiliarlo con la sua sola presenza?

«Che cazzo vuoi?» cerca di dirlo con freddezza, la voce però è spezzata e le parole biascicate.
«Mi piace il tuo carattere ragazzino, veramente.  Io sono Nicolas, ma chiamami Niko, è decisamente meno da figlio di papà!»

Questo si è fumato il cervello, è certo. Riesco a malapena a parlare, per non dire respirare, e lui mi elucubra sul suo stupido nome?

Suo malgrado, per quanto gli riesca, abbozza un sorriso, mostrando i denti sporchi di rosso.
«De…mia...n» sussurra e Niko, allargando il sorriso, gli prende la mano e gliela stringe. Poi lo aiuta ad alzarsi, passandosi il braccio di Demian sulle spalle e caricandolo quasi completamente di peso su di sé.
«Mi piace il tuo stile, davvero. Vieni con me Dem, la prossima volta vedrò di coprirti io le spalle»


Chiuse gli occhi e rilasciò, insieme al fumo della sigaretta appena accesa, l’ennesimo, pesante sospiro di resa. Aveva un debito con loro.

Aveva un debito con Nicolas.

Era sempre per quel debito che non sapeva dire di no, che si apprestava ogni volta a compiere azioni che lo rendevano indegno a se stesso, che poi lo sapeva che ci avrebbe messo giorni, forse settimane, per riuscire a guardarsi allo specchio senza disprezzarsi troppo. Poteva solo soffocare gli scrupoli e i rimorsi o non sarebbe riuscito a fare nulla, solo a causare disappunto. Li avrebbe tenuti per dopo, tutti i suoi inutili tentennamenti, li avrebbe fatti sfilare davanti agli occhi prima di andare a dormire, nel migliore dei casi li avrebbe vomitati nel primo bagno quando fosse rimasto solo.

La realtà dei fatti era che non importava minimamente come si sentisse, bastava avere l’aria giusta, l’atteggiamento disinvolto, quasi annoiato, per non deludere le aspettative di nessuno e non contrapporsi all’entusiasmo dei compagni.

Ad un tratto un ragazzo uscì discretamente dal locale e attraversò a passo svelto il parcheggio per raggiungere il parco, poco lontano da dove si erano appostati loro. Demian fu il primo a notarlo, alzò pigramente la testa, la sigaretta quasi del tutto consumata rimase mollemente sospesa fra le sue dita mentre lo seguiva con lo sguardo senza riuscire a parlare.

Aveva trattenuto il respiro per qualche istante.

Sembrava un ragazzino, una presenza molto poco significativa. Non troppo alto, magro di quella corporatura scattante e nervosa, una zazzera di capelli spettinati che la luce porosa dei lampioni gli era parso avesse colorato di biondo, ma non ne era certo, la sua vista era debole e discutibile.

Ora che finalmente lo aveva visto voleva veramente solo tornarsene a casa e non saperne nulla, quello stupido era palesemente più indifeso di quanto non lo fosse stato lui stesso quel giorno, quando Niko lo aveva aiutato e persino respirare era troppo difficile.

Rimase in silenzio, in attesa.

Quasi si convinse che gli altri non ci avrebbero fatto caso, se fosse rimasto rigido come nulla fosse, ma ovviamente aveva chiesto ancora una volta troppo: Niko gli tirò una leggera gomitata al braccio ammiccando con la testa verso il nuovo venuto, con un’espressione seria e sadica che gli si inerpicò in un brivido su per ogni vertebra della schiena.

Non avrebbe potuto fermarli e quasi gli venne da ridere.

Era ridicolo, non ci avrebbe nemmeno provato, avrebbe fatto la sua parte. Spense il mozzicone della sigaretta contro il muro e scese con un leggero slancio. La colpa non era sua, era di quel ragazzino, doveva essere proprio uno sprovveduto per non averli notati in quell’oscurità indefinita. Certe cose erano semplice questione d’istinto di sopravvivenza, in un mondo che ti mangiava vivo se non ne possedevi un briciolo eri fottuto e la colpa era solo tua.

Niko fece cenno a tutti di attendere sollevando un braccio. Un’altra figura, in quel parco abbandonato che era il loro quartiere e ritrovo, si stava avvicinando al ragazzino. Doveva essere l’acquirente venuto a ritirare la sua dose. Una sottile nausea gli lasciò in bocca il sapore di bile quando realizzò davvero cosa stesse per accadere. Sembrava troppo piccolo, si chiese se anche lui a suo tempo, nei suoi disagiati quattordici anni, apparisse tanto grottesco in quelle vesti. Tutto voleva meno che essere lì, ma non era una novità. Quando si trovava in un posto, immancabilmente desiderava essere altrove, in nessun luogo si sentiva a suo agio, era dannatamente inadatto a qualunque cosa facesse. Per questo chiuse gli occhi, si concentrò sul proprio respiro e ignorò la nausea e il malessere che gli comprimevano stomaco e polmoni.
Non importa se quel moccioso è la metà di te, non importa.

Una mano si poggiò sulla sua spalla, stringendola in un gesto d’incoraggiamento «Ehi Dem, svegliati. Dobbiamo dargli il benvenuto!»

Nicolas non era del tutto malvagio, anche se poteva sembrarlo, all’apparenza. Pretendeva solo ciò che sentiva spettargli, non sapeva nemmeno lui cosa volesse, ma sapeva come ottenerlo e il metodo importava poco. Proteggeva ciò che aveva, e non era molto.
Era spietato sì, ma non malvagio.

La vita attraverso quelle iridi d’acqua sporca era difficile da comprendere, Niko non aveva la tradizionale idea di bene e male, se sentiva l’impulso di fare qualcosa, quella cosa doveva essere naturalmente giusta, e lui seguiva solo se stesso, in maniera grottesca e incurante. Demian lo aveva capito nel tempo, aveva anche condiviso quell’ideale, ma non aveva la forza di perseguirlo con la coscienza intatta, non aveva quella libertà di spirito per convivere con se stesso, dopo.
Decisamente però non gli riusciva di biasimarlo, quell’assurdo ragazzo di ventidue anni con un’esperienza di vita da far invidia ad un cinquantenne e l’entusiasmo di un bambino mentre tortura una lucertola, lo disturbava solo il fatto che i bersagli di Niko purtroppo fossero ben più grandi di un semplice animaletto raccolto in giardino.

La bocca contratta in una linea dura ed esangue, non rispose all’amico, si limitò a seguire Alex, Dave, Teo e Andrea.

«Ehi, pezzo di merda!» apostrofò Teo il ragazzino.

Questo si volse, il volto smunto corrucciato, e Dem poté vedere i suoi occhi enormi dilatarsi per lo stupore e sciogliersi in un istante in paura liquida. Era davvero biondo, con tondi occhi azzurri e tratti sottili, un po’ efebici, troppo infantili. Doveva essere straniero.

Perché un moccioso simile, un rametto secco e spigoloso fin troppo incline a spezzarsi al minimo soffio di vento, era invischiato in simili affari? Lui e i suoi stupidi amici dovevano necessariamente dare fastidio a Nicolas nel loro giocare a fare gli adulti?

«Maledizione» masticò a bassa voce, tra sé e sé, in un moto d’insofferente frustrazione. Il ragazzo nel frattempo era indietreggiato di qualche passo e stava cercando di dare un contegno alla propria espressione.

«Volete della roba?» mormorò in maniera vaga, con un accento decisamente straniero, forse slavo.
Un altro passo indietro ed incespicò nei propri piedi, gli occhi spaventati vagavano attorno, alla ricerca di una via di fuga o forse di qualche amico che fosse uscito a ripescarlo. Nessuno aveva fatto capolino dall’ingresso del locale però, era completamente solo, e forse era meglio così. Niko non si fermava davanti ad un mero numero, non aveva senso della misura, se dovevano far del male a qualcuno meglio fosse solamente uno.

I suoi compagni si erano allargati avanzando e lentamente lo avevano accerchiato, chiudendo ogni scappatoia.

Il terrore su quel volto puerile Dem lo aveva conosciuto molto bene, era stato il suo, molto tempo prima. Insieme al rammarico, a quella mano crudele che gli stringeva le viscere in una morsa dolorosa, come un’onda d’adrenalina che riscosse tutti i nervi gli montò dentro una collera cieca a meschina. Aveva subito tanto e così a lungo che era giusto, ci doveva essere una sana giustizia da qualche parte che riportasse l’equilibrio, aveva bisogno di sapere che non era l’unico ad aver dovuto sopportare l’umiliazione e quel maledetto senso d’impotenza che attanaglia solo chi non è all’altezza di potersi difendere.

E se non era la vita a dimostrargli che tutti vivevano in un maledetto pantano in cui ogni giorno si affondava un poco, allora ci avrebbe pensato da solo a tirare con sé altre persone. Anche il ragazzino sarebbe sopravvissuto, proprio come era sopravvissuto lui, e magari avrebbe imparato anche a fare meno cazzate in futuro e a difendersi.
«Non ho un cazzo adesso con me» aveva continuato quello, la voce esile tremava «State perdendo tempo»

«È un peccato che sia da solo» osservò Teo con noia «Avrei voluto giocare di più»

Alex sbuffò, sollevando appena le spalle «Meno rotture» constatò tranquillo, facendo scrocchiare le dita in un gesto intimidatorio.
Fu la risata di Niko però, il suono più agghiacciante, ché Nicolas non rideva, raschiava la gola in un ringhio quasi animalesco «Avete sbagliato a venire qui» disse gelido, con il volto sfigurato dal familiare sorriso pericoloso da attaccabrighe «Lo dirai anche ai tuoi amici, quando potrai parlare di nuovo»

Il ragazzo s’irrigidì, ora pienamente consapevole del pericolo, e si guardò ancora una volta attorno, calcolando le possibili vie di fuga. Fu naturale che i suoi occhi si posassero su di lui, Demian lo aspettava. Prima ancora che iniziasse a correre, Dem lo aveva capito, lo aveva sentito che ci avrebbe provato: aveva cercato il punto debole e l’aveva individuato, tra tutti, in lui.
Fremette d’indignazione nel rendersi conto di essere stato considerato, come sempre, il più scadente, l’anello debole. Strinse i denti e quando il biondino gli andò addosso cercando di abbatterlo con una spallata, nonostante fosse pronto quasi perse l’equilibrio, ma avendolo previsto riuscì a placcarlo tirandogli una ginocchiata nello stomaco con tutta la forza che aveva.
Voleva fargli male, punirlo per aver dubitato di lui solo per il suo aspetto diafano.

Lui non era un debole.

Voleva vendicarsi, ché in quegli occhi spaventati non riusciva a vederci la disperazione, non più, vi leggeva unicamente sprezzo, l’arroganza di mille volti, di tutte le persone che lo avevano sopraffatto sempre nella sua vita solo perché avevano colto la sua fragilità, la grettezza di chi non gli aveva mai mostrato un briciolo di pietà, gli occhi di tutti coloro che l’avevano fatto sentire un lebbroso, sbagliato, inadeguato.

Impotente.

Che lo avevano considerato o avvicinato soltanto per ricordargli che non valeva niente.
Il ragazzo boccheggiò sulla sua spalla per un attimo, la bocca spalancata in un moto di stupore e dolore, poi cadde a peso morto su di lui e Demian lo lasciò scivolare a terra, pietrificato dall’improvvisa consapevolezza.

Fu Alex ad afferrare il ragazzino per la giacca, impedendogli di abbattersi al suolo, lo strattonò bruscamente allontanandolo da lui.

E Demian lo guardò immobile, inaspettatamente stanco, come svuotato. Perché era successo di nuovo, il suo orgoglio era stato troppo spesso ferito ed ora non riusciva a controllarlo, si sentiva spinto a reagire come se ogni gesto fosse un insulto alla propria persona. Ed ora era già pentito, avrebbe dovuto permettergli di scappare, lo sapeva fin troppo bene.

Teo gli concesse un sorriso feroce e stranamente compiaciuto «Bel colpo», gli disse in un raro apprezzamento, prima di caricare il braccio e colpire il ragazzo in pieno stomaco. Ne seguì un lamento raccapricciante da animale ferito, un singulto che non aveva voce.

Demian chiuse gli occhi piano, poi li strinse, strinse i pugni, prese fiato. Non fece nulla, non avrebbe potuto nemmeno volendo, rimase come paralizzato davanti agli amici che a turno si divertivano a massacrare un indifeso. Rimase fermo per un tempo che gli parve infinito, e non c’era lui, solo i suoni e il senso di colpa, e quel “Perché non l’hai lasciato andare? Lo sapevi come sarebbe finita, lo sai sempre”.

I gemiti erano ormai sfumati in un mormorio leggero, non gli vedeva il volto perché era letteralmente sopraffatto dai suoi compagni, nessuno di loro conosceva la compassione, forse come lui ne avevano ricevuta troppo poca nella loro penosa esistenza, per poterne provare.

Al diavolo cosa avrebbe pensato quel bastardo di Teo, avresti dovuto farlo scappare.

Dovresti fermarli.

Eppure le mani avevano ripreso a tremare troppo, non ci sarebbe riuscito, e non per paura di loro, quello mai. Se si fosse messo contro Niko conosceva bene quali sarebbero state le conseguenze, piuttosto prevedibili tra le altre cose, ma le avrebbe sopportate, non sarebbe stato nulla di diverso dal passato. Dopo però, che ne sarebbe stato di lui?

Aveva già perso a sufficienza, la vita gli aveva chiesto sempre troppo e Dem aveva già pagato abbastanza, non era giusto rinunciare ancora per uno sconosciuto che non l’avrebbe nemmeno ringraziato.

Come prevedibile, Teo non gli permise di restarsene con le mani in mano «Ehi scherzo della natura, non ti prendi la tua parte? O hai paura di sporcare le tue manine bianche?» lo richiamò ad un tratto, dopo essersi reso conto che non aveva fatto nemmeno un passo.

Era una sfida quella, Teo lo riteneva uno smidollato, aveva imparato ad accettare, pur con insofferenza, la sua presenza solo per Nicolas, ma non poteva sopportarlo ed il sentimento di sprezzo era reciproco. Gli altri ragazzi no, loro lo rispettavano, ma Teo era il più grande, il più violento e decisamente il più figlio di puttana tra tutti, quello che ci andava sempre troppo pesante qualunque cosa facesse e che avrebbe voluto prendere il suo faccino e spiaccicarlo al muro fin dal primo giorno in cui si erano incontrati.

Alex stava tenendo il ragazzo da dietro, ormai ne sosteneva quasi interamente il peso, quel corpo piccolo e gracile era spezzato, ogni respiro un rantolo disumano di dolore, il volto una maschera viola e pulsante rigata di lacrime e sangue. Non c’era più l’azzurro limpido delle sue iridi strafottenti e intimorite, gli occhi erano gonfi e pesti. Aveva perso qualche dente, probabilmente aveva qualche costola rotta visto la contrazione del viso ogni volta che provava ad incamerare aria, e Dem si chiese come facesse ad essere ancora cosciente.

«Allora, ti decidi a tirarti insieme?» insisté Teo, provocatorio.

«Lui non è un vigliacco» ribatté Niko con astio, forse per difenderlo, Demian aveva l’impressione che Nicolas si sentisse oltraggiato ogni volta che Matteo lo accusava perché, in qualche modo, con quell’atteggiamento metteva in dubbio una sua scelta, come a dirgli che aveva sbagliato a permettergli di unirsi al loro gruppo.

E Niko non sbagliava. Infatti si volse verso di lui e annuì, come a incoraggiarlo a far finire rapidamente la situazione a far rimangiare a Teo il proprio commento. Dave e Alex lo osservavano con la medesima sicurezza, erano convinti che non li avrebbe delusi, e Dem riusciva solo a pensare che, davvero, avrebbe preferito non dover dimostrare nulla a nessuno, non voleva farlo.

Avrebbe voluto essere a casa, magari abbracciato a Sarah, a leggerle qualche storia, a stringere la sua manina sottile da bestiolina.

Sistemò il tirapugni, distese le dita, le strinse intorno agli anelli di metallo, in un gesto abituale.

Avrebbe voluto che maman fosse nella sua stanza per prendersi cura di lei, avrebbe voluto fare i compiti e andare a scuola la mattina, l’indomani.

Alzò il braccio sinistro e caricò il colpo, veloce, senza esitazioni.

Non doveva pensare, non si sarebbe perdonato più tardi, nella sua solitudine.

All’impatto sentì la mandibola del ragazzo rompersi, la pelle lacerarsi. Il biondino lasciò andare un ultimo urlo straziato, il suono abbandonò le sue labbra insieme ad un fiotto di sangue, poi la testa gli ricadde inerme sul petto, come una bambola rotta. Finalmente il dolore gli aveva permesso di svenire, le lacrime però non smisero di bagnargli le guance gonfie e segnate. Un’immagine grottesca e angosciante così eccessiva da sembrare finta. Alex liberò il corpo martoriato del ragazzino che senza forze cadde a terra indifeso, ricoperto di sangue in un tale stato che sarebbe potuto tranquillamente apparire morto, e Niko soddisfatto gli strinse la spalla e gli sorrise con orgoglio «Sei un grandissimo bastardo, questo si che è un pugno come si deve! Che dici Teo, hai finito di rompere il cazzo per oggi?»
Il più grande scrollò le spalle, disinteressato.

«È meglio andarcene» fece notare Davide, allarmato. Aveva notato un movimento nel parcheggio, gli occhi di Dem corsero all’ingresso dell’Edonè, alcuni ragazzi stavano uscendo, forse a controllare perché il loro amico tardasse tanto. Teo diede un ultimo calcio al corpo inerme prima di avviarsi, e Demian e gli altri lo seguirono, lanciandosi in una corsa divertita, come avessero compiuto un’innocua marachella e fossero riusciti a sfuggire ad un rimprovero.

«Ignora quello stronzo, io lo so che non sei il tipo che si tira indietro» gli disse ancora Niko per incoraggiarlo. Aveva un modo assurdo, tutto personale, di cercare di infondere sicurezza. Doveva essersi convinto che gli importasse qualcosa delle parole di Teo e del suo veleno gratuito, ma a Demian quel loro concetto di “non tirarsi indietro” era del tutto estraneo e avrebbe riso di quella rassicurazione, se non si fosse sentito feccia. Non gliene importava niente, pensava solo all’articolazione che cedeva sotto il suo pugno, al dolore in quei lamenti, alla maschera tragica calcata sul volto di un ragazzo che sembrava più piccolo di lui.

Quello che aveva fatto ora non era diverso da ciò che aveva subito, era diventato un carnefice che aveva ancora l’ardire di sentirsi la vittima, e si odiava. Almeno una cosa, una sola doveva farla, o non sarebbe più riuscito a guardare negli occhi la sua petite peste senza sentirsi indegno. Prese il cellulare e compose rapidamente il numero

«Serve un’ambulanza»

 

 

Si muoveva nell’oscurità come fosse lui stesso inconsistente e potesse dissolversi, ed era quella l’impressione, voleva dissolversi. Non aveva acceso la luce ed il silenzio assordante premeva come una coperta asfissiante sul suo corpo, ne appesantiva i movimenti. Raggiunse la porta socchiusa della camera di maman, guardò attraverso lo spiraglio alla ricerca di una sagoma familiare che non avrebbe ritrovato, Jenevieve era ancora in ospedale e se lei era ricoverata Demian poteva solo aspettarla. Aspettare che lei tornasse era il mantra della sua esistenza, come l’attesa davanti a quella porta.

Lalami, goffa a causa del sonno e delle grosse zampine che scivolavano sulle piastrelle, gli si avvicinò per mordicchiargli il fondo dei jeans. Era brillo e aveva mal di testa, non aveva voglia di giocare. Si chinò, le lasciò una tenera quanto rude carezza sul testone, poi entrò in camera di sua madre. Si stese sul letto matrimoniale che profumava di lei e del sandalo che spargeva nella stanza per togliere l’opprimente odore da malata, come lo definiva maman, mise il cuscino in posizione verticale e vi si aggrappò con forza, affondandovi il volto.

La odiava, quella donna, prendersi cura di lei era l’unica ragione che riempisse le sue giornate, quando veniva ricoverata si sentiva sperso, non sapeva che fare, si lasciava trasportare.

Viveva perché lei tornasse ancora a casa.

La bombola dell’ossigeno era ancora accanto al materasso.

Presto

Se lo ripeteva come un mantra.

Solo qualche giorno e poi basta silenzio

 

 

***
 
 Pioveva a catinelle quella mattina, gocce di pioggia implacabili e grandi come chicchi d’uva gli frustavano il volto e senza un ombrello, nel ripercorrere a testa china la distanza tra il parcheggio sul retro dell’edificio e l’ingresso della scuola, si ritrovò con la felpa completamente fradicia ed i capelli candidi appiccicati alla fronte.

Rassegnato alzò gli occhi stanchi sulla struttura, cercando di metterla a fuoco, di mettere a fuoco i ragazzi, gli insegnanti, le persone che si affrettavano come lui, solo ombre nella sua visione debole, figure dai tratti indefiniti, sfocate forse anche da quell’atmosfera umida di acqua e nebbia leggera. Era più di una settimana che non partecipava alle lezioni, maman non era stata bene, gli era parsa più affaticata del solito. Le cure le causavano frequenti attacchi di debolezza e Demian non sapeva cosa fare di diverso per aiutarla a sentirsi meglio. Aveva potuto solo girarle costantemente attorno, soffocarla di attenzioni, farle mangiare tutti quegli stupidi cibi sani che non servivano a niente, ed infatti non era cambiato nulla, non serviva mai.

L’aveva vista stare sempre peggio e non aveva potuto fare assolutamente niente, e non riusciva a rassegnarsi a quell’impotenza che gli mangiava l’anima, sentiva solo che doveva impegnarsi di più, avrebbe dovuto essere più concreto e, quando fosse tornata a casa, avrebbe trovato un modo per esserlo.

Non era certo che gli insegnanti lo avrebbe giustificato ancora a lungo, molti stavano diventando insofferenti e non perdevano occasione di far pesare il proprio disappunto. Alcuni non li aveva mai nemmeno visti, col nuovo anno erano cambiati e con le sue assenze non sapeva neanche che faccia avessero, ma era solo questione di priorità, se lo ripeteva continuamente: degli estranei non sarebbero mai stati la sua priorità.
S’infilò velocemente le cuffiette del lettore CD mentre saliva i gradini, lasciando che i Blur nascondessero le voci dei ragazzi appostati come avvoltoi sulla porta a fumarsi una sigaretta prima della campanella. Era il modo più semplice per estraniarsi, la musica, lui avrebbe fumato dopo, preferiva nascondersi nelle scale antincendio durante l’orario di lezione perché era l’unico modo che aveva trovato di non imbattersi in qualcuno, preferiva essere solo per rilassarsi. Gli estranei lo agitavano più di quanto non fosse disposto ad ammettere, odiava ritrovarsi circondato di persone, il disagio lo attanagliava e non sapeva dove guardare, cosa fare, come muovere le mani.

E si odiava, ché quel malessere nasceva dagli sguardi, non riusciva ad accettare come lo fissavano tutti, neanche fosse un fenomeno da baraccone o un raro animale in via d’estinzione, e allora si biasimava per essere tanto debole.

Ma erano troppo pesanti, quegli sguardi, perché potesse fingere di non vederli, e gli restava solo la musica come muro, anche se di prima mattina non la sopportava, aveva tremendamente sonno. Non c’era incentivo migliore delle cuffie per tenere gli altri a distanza, e in più davano l’impressione che fosse impegnato in altro che non elucubrare sulle sue assillanti fobie. Non voleva dare l’idea di essere spaventato, preferiva essere isolato grazie alla sua aria sprezzante e spavalda, ma in verità lo sapeva che non aveva davvero bisogno di quei sotterfugi per restare solo: già il suo aspetto metteva le persone a disagio. Gli parlavano come avessero davanti un paraplegico, con l’imbarazzo tipico di chi non sa dove guardare per non dare l’impressione di fissare troppo a lungo e in modo sfacciato. Se poi aggiungeva a questo anche la sua fama da spacciatore, teppista, drogato legato a pessime compagnie, lo stereotipo di persona da evitare se non si volevano problemi, dal carattere instabile in grado di spaccare la faccia a qualcuno per una parola sbagliata e più volte portato in caserma per rissa e spaccio, beh, diventava facile capire che non avrebbe avuto noie, e ci arrivava anche da solo, ma non lo accettava. Non aveva certo un curriculum invidiabile alle sue spalle, eppure non riusciva a trattenere un sorriso sardonico davanti all’ipocrisia delle persone che lo circondavano. Frequentava una scuola d’arte, e lì le droghe si sprecavano, difficilmente aveva visto studenti “trovare” l’ispirazione senza fumarsi almeno una canna.

Scrollò la testa, a scacciare un pensiero fastidioso.

Era meglio così, doveva essere meglio. Se avevano paura di lui lo lasciavano solo e non era costretto a dare spiegazioni di alcun tipo a nessuno. Essere soli, nel suo caso, poteva essere solo un vantaggio e l’unica cosa sensata, c’erano verità di cui preferiva decisamente non parlare.
Quella mattina aveva dato un’occhiata indolente all’orario e aveva scoperto che alla prima ora lo aspettava italiano, ma non aveva idea né di dove fossero arrivati con il programma né chi fosse il nuovo insegnante. Ne provava un leggero dispiacere, amava leggere ed era fondamentalmente quello che faceva durante le lezioni, per trascorrere il tempo. A casa era sempre troppo nervoso e troppo impegnato a prendersi cura di maman per poter trovare la tranquillità di aprire un libro, invece la scuola, per quanto paradossale, era una specie di angolo di  paradiso, di quiete totale e assoluta dove se gli venivano rivolte due parole era un evento  fuori dalla norma, quasi un miracolo.
Entrò nella sua aula, la 2C, e andò dritto verso il suo banco, nell’angolo in fondo vicino alla finestra.
Lasciò cadere la borsa a terra, con atteggiamento insofferente, e fece scorrere rapidamente lo sguardo sulla nuova classe prima di posarlo sul paesaggio fuori dalla finestra. Aveva fatto in tempo, con quella rapida analisi, a vedere capannelli di ragazzi che borbottavano fissandolo in tralice. Di alcuni di loro ricordava il nome, di altri solo il viso, ma aveva frequentato così poco dall’inizio dell’anno da non aver legato praticamente con nessuno dei nuovi compagni.
Si ritrovava nuovamente in seconda perché la situazione di Jenevieve si era definitivamente aggravata l’anno precedente e lui aveva scelto di vivere più tempo in camera di sua madre che seduto ad uno stupido banco ad ascoltare stupide persone.

Ovviamente gli insegnanti non glielo avevano perdonato.

Quello era probabilmente l’ultimo anno che avrebbero trascorso insieme, lui e sua madre, ma aveva scoperto che la pietà aveva un limite, limite oltre il quale, stupidamente, gli insegnanti si sentivano presi in giro. Avevano deciso di dargli contro, come se la sua fosse pigrizia. Come se il suo mondo ruotasse intorno a loro e prenderli in giro fosse la ragione del suo esistere, quando per lui loro non erano altro che ombre.
Ed ora si sentiva osservato e avrebbe voluto solo chinare la testa.

Lo capiva, la classe doveva essere parecchio incuriosita da lui, quelle attenzioni però non erano reciproche, non erano niente di speciale, non avevano nulla che potesse minimamente interessarlo. Schiuse le labbra per accogliere un’altra boccata d’ossigeno, e continuò a perdersi oltre la finestra, lontano, dove era più facile non accorgersi di nulla. Quando s’innervosiva, cercava di concentrarsi sui dettagli, lo aiutava. Come quasi ogni edificio di inizio novecento, giusto perché la struttura della sua scuola non stava cadendo a pezzi, le finestre erano celate da un’inferriata di ferro battuto a ricami floreali, che faceva tanto carcere e celava parzialmente il cielo grigio quanto la strada, e su quei ricami decise di focalizzare la sua attenzione.

Non sentiva il rumore della pioggia, ma gli sembrava di poterne percepire la carezza, la morbidezza dell’acqua sul viso. Quell’odore di umido quando le gocce s’incontravano con il calore dell’asfalto Dem avrebbe potuto respirarlo ad occhi chiusi senza mai stancarsene, se ne sentiva riempito e si sentiva svuotato di ogni sentimento. Lo tranquillizzava e inebriava di una strana e calda esaltazione, forse lo lasciava semplicemente sereno. Era come lui, silenziosa, ovattata di malinconia, abbracciava tutto ed ingrigiva il mondo, lo velava di una tenue tristezza che non lo faceva sentire solo, adombrava ogni cosa con il fascino della decadenza.

La voce timida di una ragazza lo riportò alla realtà e gli ricordò che si trovava in classe. Non era in ospedale con maman.

«Ciao Demian»

Distrattamente la squadrò, si sforzò di riconoscerla o almeno di cogliere un brandello di familiarità, ma non ebbe successo. In realtà stava pensando ancora ad altro, cercava gli sbuffi d’acqua sulla strada con la coda dell’occhio, pensava a sua madre, non gli pareva nemmeno di avere davanti quella sconosciuta.

Non era brutta, ma non era neanche bella. Una ragazza nella media, piccola di statura come una bambina, forse troppo morbida per potersi permettere di fasciarsi in jeans tanto stretti e con troppo trucco sugli occhi castani. Senza sarebbe stato meglio, sarebbe parsa più pulita e innocente, come faceva pensare quel fisico indifeso. I capelli neri e mossi le arrivavano fino alle spalle, era impacciata da morire, dava l’impressione di non sapere cosa fare mentre si torceva le mani, le labbra troppo sottili tese in una linea d’ansia.

Involontariamente inarcò un sopracciglio.

«Sono Giulia» disse lei, notando la sua perplessità.

Si sarebbe staccata le dita, se avesse continuato a tormentarsi le mani con tanto nervosismo.

Non era tanto il suo nome a lasciarlo dubbioso, quanto la situazione nel complesso. Nessuno gli rivolgeva mai spontaneamente la parola se non per provocarlo, gli unici rapporti che aveva avuto con delle ragazze erano più o meno sempre dello stesso stampo: lui era bello, strano, “diverso” nella vera accezione della parola, e quelle erano nel migliore dei casi delle sciocche che facevano scommesse su chi sarebbe stata la prima che riusciva a farlo capitolare, per aggiungere alla propria personale lista dei “ragazzi che si erano fatte” anche un malato; nel peggiore dei casi, idiote che volevano solo il cattivo ragazzo di turno e si erano convinte che lui lo fosse per eccellenza.

Praticamente era abbordato solo da soggetti discutibili e per principio non se ne filava nemmeno una.
Giulia però non sembrava appartenere a nessuna delle solite categorie, era questo a spiazzarlo. Era carina, aveva un sorriso timido e gli occhi bassi per l’imbarazzo.

Cosa diavolo voleva da lui?

In che modo avrebbe dovuto mandarla via?
«Sei stato malato?» tentò ancora Giulia, con un coraggio che lo sguardo sfuggente tradiva. Eppure sembrava davvero decisa a parlare con lui e, quasi a seguire un copione, volse lo sguardo verso due ragazze, due sue amiche, che le sorridevano e sghignazzavano come due emerite idiote.

D’improvviso capì cosa stesse succedendo ed insieme al fastidio subentrò la familiare fitta di umiliazione. Era una sfida riuscire a catturare il suo interesse, lei non doveva essere diversa. Lo vedeva sulle sue, sgarbato, il classico cattivo ragazzo tenebroso che andava redento, con dei problemi irrisolvibili che risvegliavano in lei lo stupido istinto da crocerossina latente in quasi ogni ragazza.
Fece una smorfia di fastidio.
«Sono sempre malato, è difficile guarire quando ci nasci» 

Le guance di Giulia s’imporporarono di vistoso imbarazzo e le sue labbra sottili s’inclinarono verso il basso, in una sfumatura di delusione che non le riuscì di celare. Non si sentì in colpa, odiava quel tipo di attenzioni, non l’avrebbe di certo intenerito con della pietà.

«Ti servono degli appunti?» sussurrò lei ancora, in un ultimo, disperato sforzo di comunicare, sbatacchiando le palpebre neanche le fosse entrato un moscerino nell’occhio, sperando di essere ammaliante forse, Dem non lo capì. Pensò solo che fosse ridicola e che si stava stancando, gli unici sguardi da cucciola desiderosa d’affetto che riuscivano a renderlo arrendevole e a conquistarlo erano quelli della sua Sarah, magari Lalami, perché era un’indifesa palla di pelo crema troppo tenera per resistere, tutto il resto era noia, imitazioni per nulla convincenti.

«Ti sembra che mi interessi?» la freddò senza frenare l’insofferenza nella voce, prima di voltarsi e tornare a osservare la pioggia sottile e scrosciante come aghi fuori dalla finestra. Sperava davvero che Giulia cogliesse l’antifona e si facesse da parte, già quelle poche parole cavate a forza lo avevano drenato.

Con la coda dell’occhio notò la piccola bocca della ragazza aprirsi in un cerchio di perfetto sconcerto e indignazione, era impallidita all’improvviso, le mani avevano smesso di stritolarsi vicendevolmente.

«Sei… sei proprio maleducato!» sbottò sulla difensiva, mordendosi l’inesistente labbro inferiore. Dem non trattenne un sorriso beffardo e sollevò un poco le spalle, in un gesto di studiata noncuranza. Giulia sospirò e gli diede la schiena, pronta finalmente ad andarsene, gli occhi avevano perso in un battito di ciglio quel guizzo da innamorata persa.

Proprio vero amore, valutò sollevando le iridi chiare al soffitto.

«Ehi»

La compagna fece scattare il volto verso di lui, illuminata da un barlume di speranza che gli fece storcere il naso. Pensava davvero che potesse chiederle scusa?

«Non truccarti al buio la mattina. Non ti riesce» l’apostrofò con un ghigno di scherno, prima di rimettersi le cuffiette con un gesto rapido e preventivo, per non udire la risposta inveita o il borbottare scocciato delle amiche impiccione. E infatti si accorse con crescente insofferenza che la sua antipatica e gratuita osservazione aveva attirato l’attenzione degli altri compagni di classe, che ora confabulavano guardandolo in tralice senza nemmeno tentare di dissimulare la propria curiosità.

Le amiche della sua personale adescatrice la presero a braccetto, gli riservarono un’occhiata rovente e la condussero al suo banco come due oche impettite.

Adelina e Guendalina Blabla, avrebbe detto Sarah, e pensare al commentino pungente che la bimba avrebbe fatto migliorò un poco il suo umore e gli strappò una breve ma profondamente divertita risatina. Scosse il capo e si passò una mano fra i capelli, inclinando la testa all’indietro per contemplare il soffitto costellato di macchie di umidità. Con fantasia poteva provare a vederci qualche immagine astratta, in quei contorni, il tempo stava scorrendo a rilento e iniziava a disperare per quegli interminabili minuti che non avevano intenzione di esaurirsi. Fortunatamente, al suono della campanella l’insegnante fece subito capolino dalla porta e, come un operoso e poco pensante sciame d’api, tutti gli studenti scivolarono rumorosamente nei propri posti.

Non si meravigliò nel constatare che il banco accanto al suo fosse, ironicamente, vuoto. Era curioso di sapere chi usufruisse del suo posto durante le numerose giornate di assenza che caratterizzavano la sua carriera scolastica, perché sicuramente qualcuno c’era. Forse, i due ragazzi dall’aria scanzonata della seconda fila, che avevano il classico atteggiamento da piccoli bulli, il ragazzo pigro del centro che sembrava sul punto di addormentarsi; o qualche ragazza desiderosa di un posto dove poter spettegolare non vista. Non che per Dem fosse un problema, era una legge non scritta che veniva rispettata puntualmente, quando frequentava le lezioni quel posto era suo, nessuno si era mai permesso di ridire sulla questione.

Doveva però esserci un assente, visto che accanto a lui non si era presentato ancora nessuno. Appoggiò indolente la guancia sulla mano, per non doversi sforzare nemmeno di dover tenere la testa sollevata, e seguì il professore con gli occhi mentre iniziava a fare l’appello. Faceva parte della nuova guardia, Demian non lo conosceva, ma era giovane e dall’aria un poco impacciata, c’era qualcosa di goffo nel tentativo autoritario del suo tono, nella rigidezza della sua postura. Sembrava un bersaglio, non un insegnante.

«Lemaire Demian»

«Presente» rispose automaticamente, e l’uomo s’interruppe subito, con evidente stupore.

«Lemaire, finalmente posso vederti. Sono sorpreso di scoprire che esisti. Incominciava a girare la voce che tu fossi una leggenda metropolitana» lo punzecchiò, facendo ridacchiare alcuni ragazzi più per condiscendenza che per vero divertimento.
«Lo sono» osservò pacatamente, facendo accigliare il professore.

Era giovane, sulla trentina al massimo, un accenno di barba incolta, altezza media e fisico da studioso letterato, sopracciglia folte arricciate in disagio.

Accennò un colpo di tosse per dissimulare la perplessità «Le voci sulla tua sfacciataggine erano vere più che una leggenda. Comunque spero che a casa ora vada tutto bene e che tu possa ricominciare a frequentare le lezioni come si deve»

Perse un battito davanti a quelle parole, il sangue smise semplicemente di fluire e Demian si ritrovò allibito a labbra schiuse, un foglio bianco al posto dei pensieri coerenti. Non poteva crederci, lo aveva detto davvero, quell’uomo inetto e incompetente aveva fatto un simile commento in classe, davanti a tutti. La conferma che quell’uscita non fosse frutto del suo pensiero gliela diedero le voci dei compagni di classe che avevano seguito l’affermazione levandosi in un brusio sommesso.

Le prime file si erano voltate, i ragazzi lo guardavano di sottecchi, alcune ragazze tenevano le mani sulla bocca per coprire i commenti che si stavano bisbigliando.

Assottigliò gli occhi dal taglio obliquo in una linea crudele e ostile: «Non è morto ancora nessuno» sputò con ironia incattivita «Ma ovviamente è solo questione di tempo»

Lo disse solo per far sentire l’insegnante sbagliato e fuori luogo, perché doveva imparare, doveva mordersi la lingua e imparare a stare zitto, non doveva permettersi di far conoscere a perfetti sconosciuti la sua situazione. La sola idea di essere sulla bocca di tutti per qualcosa di reale, qualcosa che l’avrebbe reso ancora più pietoso e patetico, lo faceva impazzire.

Calò un silenzio imbarazzato che lo riempì di sprezzante soddisfazione. Si appoggiò con inerzia allo schienale della sedia, incrociò le braccia al petto e squadrò il professore con un sopracciglio alzato in un atto di sfida.

Arrogati ancora il diritto di accennare alla mia famiglia, ti sfido a provarci.

L’uomo abbassò il capo e si passò una mano dietro al collo «Mi dispiace molto» si limitò a mormorare «Io sono il professor Morelli. Sei rimasto piuttosto indietro, al cambio dell’ora mettiti d’accordo con i tuoi compagni e fatti passare gli appunti»

Il professore deglutì a fatica e distolse lo sguardo, evidentemente turbato, aprì il libro di testo e iniziò a sciorinargli gli argomenti della lezione precedente, argomenti che Demian purtroppo già conosceva grazie all’anno passato. Si stavano concentrando sull’analisi del testo e della poesia, erano ancora fermi alle prime figure retoriche e, quel giorno, era previsto “Pianto Antico” di Carducci. Sollevò gli occhi al soffitto e sbuffò rumorosamente.

Era prevedibile, studiavano sempre le stesse cose, mai un sussulto di originalità. Più che imparare, a volte aveva l’impressione di essere semplicemente indottrinato, studiavano a pappagallo di generazione in generazione le medesime cose e solo quando erano diventati un’infinità di piccoli identici cloni erano liberi di uscire. La scuola non era diversa da un allevamento di polli e poi, fuori, lo avrebbe aspettato il macello. Perché arrischiarsi nel creare pensieri diversi, quando si poteva essere tragicamente banali e identici?

Il diverso non piaceva davvero a nessuno, lo doveva accettare e basta, faceva solo storcere le bocche, causava solo ribrezzo, distanza, sospetto.

Istintivamente allungò il braccio per recuperare la borsa abbandonata a terra. Vi frugò dentro e ne estrasse un libro dalla copertina rigida di finta pelle, il titolo inciso con un elegante corsivo dorato riflesse vivacemente il colore della luce artificiale dell’aula.

“Lès misèrables”.

Lo accarezzò pazientemente per qualche istante, rapito dal titolo, dalla delicatezza di quei suoni. Ovviamente, la copia era in lingua originale, la sua vera lingua, più di quanto lo sarebbe mai stato l’italiano, ed era paradossale. Lui in Italia c’era nato e cresciuto, eppure riusciva a guardarlo ancora come un paese straniero, il luogo natio di suo padre. Forse era questo ad estraniarlo, Demian con l’uomo che li aveva abbandonati che Sarah era appena nata non voleva averci nulla a che fare, condividere il suo sangue lo allontanava da se stesso, non era mai riuscito ad accettare di avere qualcosa in comune con lui. L’Italia era il paese dell’uomo che non aveva più rivisto, che era scappato senza nemmeno salutarlo e che, ora che maman era ammalata e morente, non si faceva carico dei due figli capitati per errore in gioventù, si limitava solo a mandare un sostanzioso mantenimento per tenerli lontani dalla sua vita perfetta.

Era il paese dell’altra donna.
Non ci riusciva proprio, a sentirsi parte di qualcosa di più grande, si sentiva solo estraneo in terra straniera e quando usava l’italiano gli sembrava di avvicinarsi a quell’uomo, di creare punti in comune che non desiderava. La Francia era sempre stata la sua unica, vera casa, la sua patria. Lì era nata maman, l’unica ad avergli dato un nome e un cognome, e solo lì aveva, anche se dispersa, ancora una famiglia pronta ad accoglierlo e che a volte gli mancava come l’ossigeno. Quando sua madre era una ragazzina, i nonni per lavoro si erano trasferiti in Italia, e quando qualche anno dopo avevano deciso di ritornare nella loro amata Francia, solo Jenevieve e Claire erano rimaste. La zia aveva conosciuto il suo futuro marito, maman si era illusa che una persona squallida sarebbe stata la sua famiglia, ecco perché si ritrovava lontano da zio Jean, da nonna Marie, da Isabeau e tutti i numerosi cugini.

Mentre in Italia, beh, erano solo figli illegittimi e indesiderati, lui e la sua Sarah, i nonni paterni nemmeno li avevano mai voluti conoscere, odiavano Jen troppo a fondo per poterli considerare loro nipoti. Se ci rifletteva, si sentiva patetico, per questo non voleva mai pensarci e non voleva che qualcuno sapesse. Nella sua vita aveva sempre detto che suo padre era morto, era meno penoso che ammettere di essere stato rifiutato fin dalla nascita.

Aprì il libro nel punto segnato dalla foto che aveva incastrato tra le pagine qualche giorno prima. L’istantanea scivolò sul banco, mostrando il volto angelico e radioso della sua bellissima sorellina, tenera di una bellezza da bambolina di porcellana, una fragilità disarmante in quel corpicino minuto e pieno di vita. Si soffermò sulle lentiggini poco definite dallo scatto e sui suoi occhioni di ridente caramello, e ne provò un familiare e straziante dolore, un senso di mancanza che sapeva come di uno strappo improvviso e infelice nell’anima. Avrebbe voluto trascorrere con lei ogni minuto di ogni giorno, voleva ricordarle sempre che non erano soli, che lei lo avrebbe sempre avuto in un modo o nell’altro, ma avrebbe mentito anche a se stesso. Sarah era la sua vera famiglia, l’unica che gli restasse, e gli faceva così male guardarla e starle accanto che non ci riusciva, per quanto lo volesse. Averla e perderla sarebbe stato troppo, non riusciva a reggere il pensiero della sua assenza.

«Lemaire» lo richiamò il professore.

Aveva il libro in mano e un’espressione molto seccata contraeva i suoi occhi piccoli in fessure rugose e sottili «Potresti trovare la lezione interessante se ascoltassi. Potresti spiegarci perché il poeta sceglie queste immagini per raccontarci il suo lutto?»

Demian arricciò le labbra in un sorriso ferino e beffardo. Non aveva il libro di testo e di certo non gli serviva, “Pianto Antico” era, appunto, una poesia che alle medie veniva fatta imparare a memoria oltre ad essere chiara e desolante in modo struggente.

«La parafrasi in certi casi è superflua, certe cose non hanno bisogno di essere spiegate, si spiegano da sole» ribatté tranquillamente, con un’alzata delle iridi chiare alle luci al neon del soffitto.

«Sottolinea l’ovvio per i comuni mortali» insisté piccato il professore, e a lui venne solo da sorridere. Non era una punizione, era un gioco. Gli erano sempre piaciute le poesie, aveva passato interi pomeriggi con maman a leggerne per poi discuterne per ore, era dolce come solo un’abitudine poteva esserlo.

Era un amore viscerale per le parole che Jenevieve aveva trasmesso a lui e a Sarah fin dall’infanzia, le parole di altri per trovare un senso ed una voce alla sua anima che sapeva solo dimenarsi e contorcersi e urlare senza articolare suoni. Ed era questo, ciò di cui parlava Carducci, il suo singolo sentimento diventava comune, esprimeva una sofferenza che Dem non sarebbe mai riuscito a pronunciare.

«Parla del dolore, il dolore di ciò che è perduto e che non si può riavere» si ritrovò a mormorare. Le dita accarezzavano piano la superficie liscia della foto come se potessero attraversarla ed arrivare a sua sorella e sfiorarla con la medesima dolcezza «Ci sta dicendo che la natura non muore mai, non per davvero. Che se una foglia cade in autunno rinascerà sempre a primavera. Ma per l’uomo non è così e non c’è nessuna fede che salvi… quando perdiamo qualcuno lo perdiamo per sempre, la morte è solo assenza e fa male come morirne. L’autore ha perso suo figlio, il mondo attorno a lui potrà anche rinascere e il tempo continuare a scorrere ma questa realtà non può cambiare… ed è una sorte contro natura, quella umana, che non segue un vero corso, perché un padre non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio»
Un pesante silenzio gli fece eco, Demian sollevò lo sguardo dalla foto per posarlo sulle file di persone sedute davanti a lui, quasi tutte intente a farsi i propri affari o almeno a fingere di farli. Alcuni suoi compagni, con cautela intimorita, lo studiavano, coprendosi la bocca con la mano per cercare di celare i mormorii di commenti inadeguati. C’era pena in quegli occhi, compassione, una pietà annichilente che lo spinse a mordersi l’interno della guancia per soffocare la morsa di disagio. Giulia era completamente girata, rivolta verso di lui in modo quasi sfacciato, non esitava a mostrargli che lo stava fissando ed anzi, sembrava proprio intenzionata ad intercettare il suo sguardo, forse per leggervi quelle parole che non avrebbe mai pronunciato.
Era davvero dispiaciuta, c’era qualcosa di profondamente innocente e buono in lei e per questo non riusciva ad odiarla, nonostante gli fosse tragicamente facile pensarla un’insopportabile impicciona. Chinò il capo ancora sulla foto, sull’incredibile sorriso a trentadue denti della sua petite peste, sui capelli castano dorati che le incorniciavano il volto in una massa arruffata mentre mangiava il gelato, con la guancia sporca di panna montata e gli occhi strizzati in mezzelune di brillante sole. Lo salutava con la mano libera, era seduta su uno scivolo rosso del parco giochi ed era radiosa quel giorno, lo ricordava, l’avevano scattata l’estate appena trascorsa, zio Jean aveva portato Jenevieve all’aperto e Sarah si era divertita moltissimo.
Il dolore di Carducci forse Demian poteva capirlo davvero, perdere Sarah significava per se stesso divenire un ramo secco e morto incapace di sperare in una nuova primavera, come se il sole venisse spento all’improvviso ed il modo scivolasse nel buio di un’esistenza vuota e apatica.

«Interessante» borbottò Morelli con meraviglia, prima di annuire per poi puntare l’attenzione su qualcun altro e proseguire l’analisi del testo.
 
***

 

Aveva approfittato subito del cambio dell’ora per uscire a fumare, si era accomodato, quasi sdraiato, sui gradini delle scale antincendio, con la schiena appoggiata al muro e la testa reclinata all’indietro, a guardare il soffitto senza vederlo davvero, una gamba piegata sosteneva il suo braccio, l’altra restava mollemente distesa, come priva di forze. Piovigginava ancora, acqua leggera come polvere sottile. Demian ne era incantato, si smarriva in quelle linee fini che fendevano l’aria e allora una malinconia prepotente gli pesava nel petto come un nodo che andava stringendosi, e quel malessere era tanto familiare, struggente, da portare con sé un po’ di serenità che forse era, in realtà, solo una rassegnazione impotente.

Il cellulare vibrò nella tasca dei jeans facendolo sussultare e strappandolo dal suo sogno estatico. Lo tolse lentamente, provava sempre un moto di orrore quando quell’aggeggio reclamava la sua attenzione, un permeante senso di ansia nel vedere chi l’avesse cercato. Quando leggeva il nome di Claire gli tremavano ogni volta le mani, poteva significare che Sarah era stata male, troppe volte si era dovuto precipitare dalla bimba, troppe volte il terrore l’aveva paralizzato e aveva pensato che doveva finire tutto, che non ce la faceva a sopportare quel panico.

Per Demian ormai le chiamate di Claire significano sempre e solo che Sarah aveva bisogno di lui e si odiava e si vergognava anche con se stesso nell’ammettere che detestava leggere il nome di Claire su quel dannato display, soffriva troppo e non riusciva a sopportarlo.

 

Zia Claire

 

Buongiorno Dami, sei a scuola?

oggi dopo pranzo andrò a trovare Jen, devo farle sapere qualcosa?

Ah, Sarah ha chiesto quando potrà vederti di nuovo

 

2/10/2001

 

9:08
 

Avrebbe dovuto regalare un cellulare a sua sorella, almeno avrebbero potuto sentirsi ogni volta lei lo desiderasse senza passare prima dalla zia, si sarebbe risparmiato un paio d’infarti.

Ridacchiò piano, sarebbe mancato solo un suo infarto per chiudere il cerchio paradossale che era la sua vita.

 

Demian
Di a maman che arriverò sul tardo pomeriggio e cenerò con lei e a Sarah che passo a prenderla verso le tre

2/10/2001
9:13
 
Zia Claire

 

Ok, ma non pensare che non mi sia accorta che non mi hai detto se sei a scuola.

Ci vediamo presto tesoro. Abbi cura di te, ti voglio bene
2/10/2001
9.15

 

Non smise di sorridere, anche se si sentiva un poco triste e in colpa.

Sentirsi chiamare “tesoro” lo turbava, di certo un tesoro non lo era ma probabilmente la zia non voleva ammetterlo. Schiacciò il mozzicone della sigaretta contro il gradino e si decise a rientrare in classe. La lezione era già iniziata da almeno dieci minuti, perciò non si sorprese di trovare la porta dell’aula chiusa ed il professore in piedi davanti alla lavagna. Ciò che lo lasciò perplesso abbastanza da fargli perdere qualche secondo davanti all’ingresso, fu ritrovare il banco accanto al suo improvvisamente occupato da una figura sufficientemente minuscola da apparire insignificante. Un ragazzo mingherlino e dall’aria sfigata, con grandi occhiali a fondo di bottiglia, si dimenava sulla sedia neanche fosse posseduto per cercare d’intravvedere l’esercizio alla lavagna.

«Lemaire» lo apostrofò subito il professor Albani, uno dei pochi insegnanti che gli fosse familiare, visto che aveva già avuto il piacere d’intrattenere rapporti complicati con lui l’anno precedente «Quanto tempo»

«Buongiorno prof. Sentito già la mia mancanza? Sono passate solo un paio di settimane» Demian gli sorrise con eccessiva arroganza, per provocarlo. Era consapevole che la sua noncuranza era la causa principale dell’indispettirsi dei professori nei suoi confronti, ma lui stesso era sempre stato profondamente scocciato dalle stupide e inappropriate frecciate dei docenti e non era mai riuscito a nasconderlo.
«Va’ al posto» sibilò astioso Albani «E aspetta l’intervallo prima di andare a fumare»
Annuì, sollevato di aver scampato l’alterco almeno per una volta, e si diresse pacatamente al suo posto. Non gli sfuggì il nervosismo del ragazzino del banco accanto al suo mentre lo studiava come un alieno, così come non poté non notare tre ragazzi voltarsi verso lo sfigato con un ghigno meschino e derisorio. Folgorato, comprese che probabilmente lo avevano costretto a sedersi accanto a lui, quello non doveva essere il posto abituale del mingherlino.

Pensavano seriamente che l’avrebbe picchiato, maltrattato o comunque praticato su quel ragazzino una qualsiasi forma di violenza?

La sua fama in quella scuola doveva essere precipitata ulteriormente, perciò si morse l’interno della guancia e decise d’ignorare il nuovo vicino per riprendere con la sua lettura della mattinata, giusto per non dare adito a strane idee di bullismo psicologico o verbale.

Aveva preso l’abitudine, quando trovava qualche frase che lo colpiva particolarmente, di sottolineare il brano con la matita per trascriverlo successivamente, una volta arrivato a casa, su un qualunque spazio disponibile della superficie di legno con cui aveva ricoperto una parete di camera sua, in un vero e proprio collage di frasi sconnesse. Erano i suoi promemoria, i suoi mantra di vita, forse solo un tentativo di sostituire le classiche parole, i consigli, che avrebbe dovuto dirgli un adulto serio e presente quando fosse rientrato a casa. Le conosceva tutte a memoria, gli erano familiari e gli davano l’impressione che ci fosse qualcuno ad aspettarlo, anche se si trattava di un personaggio immaginario di un qualche racconto stravecchio di secoli.

 

“Tutti gli uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno quaggiù, nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne durante, la medesima cenere dopo”

 

Tastò il banco alla ricerca di una matita, senza distogliere gli occhi dalle pagine, e non si ricordò subito di aver dimenticato l’astuccio, quel giorno.

Imprecò sottovoce e rimase a fissare truce le lettere che gli danzavano davanti, incerto su come segnarsi la pagina senza rovinarla. Non voleva correre il rischio di scordarsi la citazione e sapeva che, matematicamente, di lì a qualche ora avrebbe dimenticato dove ritrovarla, quando il timido ragazzino accanto a lui, notando il suo improvviso nervosismo, gli porse titubante una matita.

«Ti serve?»

Demian arricciò le labbra, quasi risentito.

È evidente che mi serve, che domanda idiota.

Avrebbe voluto dirlo ad alta voce, ed invece rimase zitto e cercò di non guardarlo. Non poteva prenderla e basta, quella stupida matita, sarebbe stato scortese, e tuttavia non voleva nemmeno parlargli, non voleva correre il rischio di aprire una porta che desse il via ad un dialogo imbarazzante.

Si morse la guancia e fissò le pagine con finta ostinazione, studiando con la coda dell’occhio l’intimidito compagno che non aveva ancora guardato in faccia. Il ragazzo con cui non voleva parlare, con un’espressione tra il sollevato e il rassegnato, appoggiò la matita nella sua parte di bancata, abbozzò con l’angolo della bocca un sorrisino contrito e tornò a concentrarsi sul suo esercizio.

Demian ne rimase spiazzato. Esitò un istante, il tempo che quello strano individuo senza nome ci mise per tornare a seguire la lezione, poi afferrò di soppiatto la matita e sottolineò con decisione il paragrafo. Si sentì immediatamente meglio, ma non era certo fosse solo per essere riuscito a soddisfare le proprie fissazioni.
Non l'avrebbe ringraziato, era sottinteso che fosse grato, non c’era bisogno di parole. Squadrò ancora quel profilo spigoloso e indeciso e ne sorrise, si sorprese nel provare una sorta di simpatia per quel piccolo secchione.
 
                                                                

ANGOLO AUTRICE

 

 

BUON ANNO A TUTTI!

E buon compleanno a me! XD

 

 

Pensare di scrivere due righe tra Natale e Capodanno è sempre utopia, ma io ci ho provo lo stesso perché sono tenace e non mollo!

Ieri sera, per festeggiare il mio genetliaco, sono andata al cinema, e siccome non sono una persona, ma l’incarnazione di uno spazio pubblicitario per le cose che amo, vi inviterò ad andare a vedere il nuovo Star Wars per la quale mi sto ancora rotolando per terra.

Anche solo per gli ultimi tre secondi, bisogna vederlo, dico sul serio, non supererò facilmente il coccolone che ho provato per quell’unica inquadratura che sa di omaggio ed è tristissima (se siete fan della saga capirete, se non lo siete che cosa state aspettando? XD).

 

Concentrandoci invece sul capitolo, con questo abbiamo più o meno vagliato gli aspetti principali della vita del nostro Dami, ovvero la famiglia, gli amici ed ora la scuola.

È parecchio complessato, lo so, ma proprio per questo è per me tremendamente adorabile. Non ho granché da dire, vorrei sentire cosa avete da dire voi, mi piacerebbe davvero moltissimo, fatevi avanti senza timore!

Vi incentiverò con la banale scusa che il mio compleanno è appena passato per ammorbidire il vostro cuoricino e magari spingervi a sprecare due minuti per me.

Sarebbe un gesto molto carino!

 

In caso non funzionasse, tanti auguri! Il prossimo capitolo è anch’esso già pronto e dovrebbe arrivare settimana prossima insieme ad un nuovo personaggio che spero vi piaccia!

 

Ps: quando dico che ascolta i Blur, in realtà nella mia testa sono molto più specifica, ascolta Song 2, uno dei brani rock più famosi di sempre, giusto per non essere un poco banale XD

 

 

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Capitolo 5
*** Per caso ***


À Demian


Capitolo quarto (prima parte)

Per caso


Quando la campanella suonò, decretando finalmente la fine di sei ore interminabili di supplizio, Demian chiuse gli occhi e inclinò la testa all’indietro con un sospiro di sollievo, lasciandosi scivolare scompostamente contro lo schienale della sedia. Era stata una mattinata tragicamente lunga e solo le tre ore di modellato erano riuscite a distrarlo un poco. Siccome era ripetente, il professore invece di commissionargli ancora la scultura di un piede, che già si era dovuto subire, gli aveva permesso insieme ad un altro bocciato di entrare nella stanza dove la scuola conservava i modelli e di sceglierne uno autonomamente.

Davanti a scaffali invasi da modelli di diversa difficoltà, Demian aveva optato per una testa di tigre scuoiata. Le fauci aperte in un ruggito sofferente e i muscoli delineati ed esposti lo avevano stregato. Il professor Sala non ne era stato molto convinto, ma era l’unico a vedere in lui un talento e non un fallito perciò lo aveva assecondato con quel suo scetticismo da acido artista e Dem aveva scommesso con se stesso che ci sarebbe riuscito e l’avrebbe fatto in meno di dodici ore. Anche il suo compagno di classe lo aveva imitato, probabilmente per non essere da meno, e su quella scultura si erano dannati tutta la mattina.

Era stato l’unico momento di tregua che aveva avuto.

Leggere gli era risultato impossibile, non era abbastanza concentrato, in due ore era avanzato di una manciata di pagine, si era ritrovato più volte sulla stessa riga e aveva capito che non sarebbe riuscito a sfuggire ai propri pensieri.

Non poteva smettere di pensare al ragazzino della sera prima, come diapositive i ricordi di quel corpo inerme e devastato accasciato a terra gli scorrevano sotto le palpebre ogni volta che chiudeva gli occhi. Non aveva potuto accertarsi di come stesse, era dovuto fuggire come il più vile codardo per evitare problemi, ed ora avrebbe solo voluto sapere se stesse bene, forse sarebbe bastato a lavarsi un poco la coscienza.

Forse.

Ma non ci credeva nemmeno lui.

Troppo preso a rincorrere i propri sensi di colpa, Demian non si accorse subito che il compagno di banco aveva rifatto rapidamente il proprio zaino e si stava già per avviare fuori dall’aula. Dava l’impressione di avere molta fretta, forse non vedeva semplicemente l’ora di allontanarsi da lui, non se ne sarebbe stupito. Allungò comunque una mano verso la manica del ragazzo e gli strattonò bruscamente il braccio, per attirare la sua attenzione.

Il compagno spalancò gli occhi resi enormi dalle lenti e s’irrigidì, un cerbiatto braccato nella prateria. Riuscì, con quel suo stare in guardia fin troppo eccessivo, a strappargli un sorriso, e con quel sottile accenno sulle labbra Dem gli porse la matita.

Non gli stava antipatico, era quella la verità, era piccolo e minuto, con il volto un poco segnato dall’acne e l’aspetto dinoccolato e impacciato insieme, come una buffa caricatura di un adolescente qualunque. Conosceva quella postura, un po’ curva, di chi può difendersi solo da sé e cerca di farsi piccolo per poter sparire, era un peso a Demian fin troppo familiare. E, nonostante l’atteggiamento indisposto e scostante e tutto l’impegno che profondeva nel sembrare terribile, Dem non voleva esserlo davvero. Avrebbe solo voluto sapere come sarebbe stato trovare qualcuno a cui non importasse nulla di quella maschera fusa al suo volto, che riuscisse a vedere oltre il suo ridicolo tentativo di essere un rivestimento che aderisse alle idee altrui, per assecondare quella triste idea di sé che tutti avevano, perché a nessuno importava di leggere tra le righe, nessuno glielo aveva mai chiesto, come fosse in realtà, se ci fosse altro oltre a ciò che avevano scelto di vedere in lui.

Ogni suo gesto andava letto tra le righe, ma si era quasi rassegnato al fatto che nessuno parlasse la sua lingua dato che nessuno aveva mai davvero capito.

Non si meravigliò quando il compagno di banco, con aria preoccupata, fece guizzare rapidamente gli occhi da lui alla porta prima di afferrare frettolosamente la matita e allontanarsi quasi correndo, senza dirgli una parola.

Non se ne meravigliò ma non poté esimersi dal provare un leggero moto di delusione.

Abbassò la mano lentamente, assorto, lo sguardo fisso come a cercare ancora una persona che era già sparita.

«Non è come pensi»

La voce sottile e delicata di Giulia lo aveva riscosso, si volse per guardarla mentre con malcelata cautela la ragazza si avvicinava piano al suo banco, come aveva fatto quella stessa mattina. C’era una prudenza diversa ora nel suo rivolgergli la parola che riuscì a infastidirlo. Inarcò un sopracciglio in un’espressione eloquente di perplessità, e incrociò le braccia al petto, rilassandosi contro lo schienale della sedia come a darle un invito implicito a proseguire, per dare un senso alla sua invadente uscita.

Giulia arrossì, chinò appena la testa e prese a giocare distrattamente con una ciocca di capelli «Non è scappato per colpa tua. Barbi intendo, lui fa sempre così quando finiscono le lezioni, scappa sempre. Te lo dico perché mi è sembrato che ci fossi rimasto male.»

Demian si morse l’interno della guancia e deviò lo sguardo.

Che quella sconosciuta avesse colto il suo disagio lo faceva sentire umiliato, ma non l’avrebbe mai ammesso. Rifiutava con tutto se stesso di potersi far ferire da simili sciocchezze, nella vita aveva ricevuto rifiuti come essere umano decisamente più dolorosi, doveva essersi fatto le ossa, era una questione di principio «Non ci sono rimasto male» chiarì, lasciando trapelare involontariamente una nota di infantile testardaggine di cui Giulia sorrise con condiscendenza.

«No, infatti. Non sei il tipo, sei al di sopra di tutto, no?»

Aveva assottigliato gli occhi in fessure ostili di freddo ghiaccio e le aveva scoccato uno sguardo astioso, ma Giulia non aveva smesso di sorridergli, le guance rosse velate d’imbarazzo. Lo aveva salutato agitando la mano, balbettando qualche incomprensibile parola di commiato, e se ne era andata come se la sua collera non l’avesse minimamente sfiorata. Forse, aveva valutato tra sé mordendosi l’interno della guancia, con la fronte corrugata e le sopracciglia chiare corrucciate in disappunto, rispetto al trattamento che le aveva riservato quella stessa mattina l’occhiataccia appena ricevuta doveva esserle sembrata un sorridente biglietto d’invito.

 

Ma che diavolo vuole quella, che all’improvviso deve parlarmi per forza?

 

Non era stato abbastanza sulle sue, doveva essere più scocciato e recalcitrante se voleva sperare di liberarsi di possibili, futuri scocciatori, ma non aveva pensato che nella nuova classe si sarebbe imbattuto in soggetti così seccanti.

Lasciò cadere la testa a ciondoloni all’indietro e sospirò ancora, un’abitudine per scaricarsi e riprendere il controllo della situazione quando aveva l’impressione che questo gli sfuggisse. Erano usciti praticamente tutti e anche lui si decise finalmente ad abbandonare il proprio banco.

Era una giornata storta, avrebbe voluto raddrizzarla vedendo Sarah, magari portandola a prendere un cellulare, eppure non riusciva a trovarne la voglia.

Più grave, non riusciva a trovarne il coraggio.

Era un bugiardo che mentiva a se stesso, ma aveva solo paura, ciò che gli faceva desiderare di stare lontano da sua sorella in quel momento era la sua vigliaccheria. Sarah era uno specchio in cui scorgeva la propria imperfezione, lo sarebbe sempre stata con quei suoi occhi grandi e limpidi, puliti di un mondo incontaminato che lui non aveva mai conosciuto, uno sguardo sognante nella quale talvolta si smarriva. Quando poi la sua coscienza era più sporca del solito la evitava come fosse il peggiore dei mali perché quel sorriso aperto, quella sua dolcezza adorante da bestiolina che gli riservava, lo facevano sentire tragicamente in difetto, lo costringevano a fare i conti con se stesso e a ricordarsi costantemente che non era e non sarebbe mai stato quello che avrebbe dovuto essere per renderla fiera di lui, per essere degno di lei.

Si sentiva fuori posto e si trovava costretto a mentirle piuttosto che avere il coraggio di sopportare il suo biasimo. Sarah era tutto il suo mondo e ogni cosa che potesse desiderare, come poteva reggere un suo ipotetico rifiuto se non fosse riuscita ad accettare la terribile e imperfetta persona che era?

Come avrebbe sopportato un pomeriggio accanto a lei?

Con che coraggio le avrebbe parlato, con che forza avrebbe potuto sorriderle, fingendo che tutto andasse bene, che fosse felice, che non fosse diventato esattamente come quelle persone che disprezzava dal profondo e che avevano reso la sua infanzia una strada lastricata di tormenti?

Si coprì il volto con la mano, massaggiandosi l’occhio in un gesto di esasperata frustrazione. Gli bastava pensare a quella bambina per lasciarsi cadere in un circolo di paranoie e autocommiserazione, era evidente che anche quel giorno non ce l’avrebbe fatta a vederla, lo sapeva perfettamente, ed era un’autodifesa sciocca e controproducente perché solo la presenza di Sarah in realtà avrebbe riassestato il suo mondo e ridato un senso ad ogni suo gesto.

E, nonostante questo, si sarebbe negato la sua cura, perché Sarah era l’incarnazione della sua coscienza ancora limpida e perfetta, completamente fuori dalla sua portata, non la meritava, non quando era così infangato.

Fuori, l’aria fredda gli pizzicò il naso. Aveva smesso di piovere ed il sole, pallido vessillo riflesso su un cielo cangiante di nuvole, emanava una luce debole e fastidiosa che sembrava rimbalzare da una superficie all’altra. Si ritrovò costretto a strizzare gli occhi più volte, ma non bastò a lenire il bruciore, allontanò i capelli dal viso e rilasciò una boccata di fumo.

Mentre si avviava lentamente verso il retro della scuola, nella sezione del parcheggio nascosta dell’edificio e lontano dall’ingresso perché quella mattina era arrivato tardi e tutti i posti erano già stati occupati, riconobbe delle voci concitate, ma non ne distinse le parole.

A causa della sua inutile fotosensibilità quando la luce era così iridescente diventava più cieco di una talpa, non riusciva a tenere gli occhi aperti e non vedeva a più di un metro di distanza, per cui gli fu impossibile mettere a fuoco i proprietari di quelle voci tanto rumorose. Fortunatamente il suo casco aveva la visiera oscurata o quel giorno sicuramente si sarebbe schiantato contro una pianta prima di raggiungere casa. Non vedeva l’ora che arrivasse l’inverno, con un po’ di fortuna e magari un po’ di pioggia e di neve si sarebbe risparmiato anche le lenti che mal sopportava visto che gli irritavano la sclera rendendo i suoi occhi ancora più arrossati ed inquietanti di quanto madre natura avesse deciso. Sulla sua carnagione risaltavano anche troppo, due gocce di sangue in campo bianco.

Le voci attirarono ancora una volta la sua attenzione e Demian, tenendo la sigaretta tra i denti, si sforzò di mettere a fuoco la situazione facendosi ombra con le mani per vedere più lontano, ingoiando l’umiliazione.

Gli occhiali da sole erano la soluzione, sciocco lui che quel giorno li aveva dimenticati a casa.

Finalmente riconobbe il suo compagno di banco mingherlino e goffo proprio mentre veniva spintonato da un ragazzo che, a intuizione, era almeno il triplo di lui e il doppio di Dem. Vide “Barbi”, se questo era il suo nome, cadere a terra, dritto in una pozza. I suoi occhiali scivolarono sul suo naso e caddero a terra, mentre il suo aguzzino gli urlava contro qualcosa.

Demian si ritrovò a rallentare il passo fino a fermarsi, per poter assistere alla scena.

 

Perché cavolo deve succedere proprio mentre passo io?

Non poteva succedere dieci minuti prima?

O anche dopo, putain, ma non mentre io sono nei paraggi!

 

Rosicchiò il filtro della sigaretta, combattuto sul da farsi. O almeno, avrebbe voluto essere combattuto, ma in verità si era fermato solo per darsi del cretino per ciò che stava per fare e per cercare di convincersi a non andare e a starne fuori.

Ovviamente, dopo le etiche azioni della sera prima, gli sarebbe stato impossibile far finta di nulla o davvero stavolta si sarebbe dannato l’anima per tutta la vita.

«Lascialo stare!» si era sfilato la sigaretta dalla bocca e lo aveva urlato prima ancora di rendersene conto. Aveva gettato il mozzicone a terra e a passo deciso avanzava verso l’armadio a due ante che sovrastava il piccolo Barbi. Non sapeva se fosse o meno uno studente, se lo era doveva essere come minimo del quinto anno, al contrario di lui sembrava già un uomo, un adulto e non un ragazzino. Più l’immagine dell’energumeno si definiva ai suoi occhi più una parte di lui si pentiva di non essersi fatto gli affari propri. Non che non avesse esperienza nell’andare alle mani con soggetti all’apparenza più prestanti, ed infatti allo sconosciuto Demian mostrò solamente la sua aria spavalda e provocatoria che, sapeva, avrebbe fatto arrabbiare quel gigante solo di più.

«E tu chi cazzo sei?»

Ormai a pochi passi di distanza Demian si accorse che il ragazzone non era più alto di lui, erano solo le braccia e i pettorali pompati a farlo apparire più ingombrante, nulla che fosse ingestibile. Portava i capelli cortissimi e in quella cortina di pochi millimetri compariva una svastica rasata grande tutta la nuca. Un naziskin era esattamente quello che gli serviva per dare il giusto brio alla sua giornata.

Anche il suo compagno di classe stava assistendo alla sua comparsa con altrettanta confusione, come fosse un’apparizione sovrannaturale, e a Demian venne spontaneo pensare che forse, con quella luce cangiante, doveva sembrare un rilucente fantasma.

Sorrise ferino, mostrando con la sua smorfia provocatoria il canino storto «Ti rigiro la domanda, bestione. Sei uscito dalle pagine di Mary Shelley, per caso?»

L’energumeno rasato si accigliò, mostrando quella che doveva essere probabilmente la sua espressione più brillante, da un neonazista non si aspettava di certo picchi di folgorante intelligenza.

«Frankenstein!?» rincarò Dem, ironico, sperando che almeno cogliesse la battuta, ma ne seguì solo un momento di perplesso silenzio.

«È amico tuo?»

Il naziskin si rivolse al suo compagno di banco ancora sdraiato a terra senza occhiali, e quello prontamente scosse la testa.

 

Eh, ti pareva. Aiuti un idiota e quello ti pianta in asso proprio mentre gli tendi la mano.

Piccolo vigliacco

 

Non che gli importasse davvero del supporto di quello smidollato, non si era messo in mezzo per lui, non davvero. Lo stava aiutando solo per poter avere una ragione valida con se stesso per guardare di nuovo negli occhi la sua bestiolina, senza dannarsi l’anima e desiderare di spaccarsi la testa contro il primo spigolo utile.

Aveva scrollato svogliatamente le spalle «Nessuno sarebbe amico di un omuncolo» chiarì scoccando al ragazzino occhialuto un’occhiata indifferente «Ma gli devo una matita» sfidò Frankenstein con il suo sorriso più beffardo «Mettiti in coda se ne vuoi una anche tu»

L’espressione dubbiosa del suo brillante interlocutore lo fece ridere di sottile scherno, voleva restare impassibile ma proprio non ci era riuscito, quello sguardo vacuo era solo la conferma che non si trovava di fronte un genio, non che avesse nutrito dubbi a riguardo.

Gli occhi di Barbi ora erano immensi sul suo viso smunto anche senza gli occhiali che ne deformavano l’immagine.

«Mi stai prendendo per il culo?»

Demian si schiarì la gola per far scemare la risata e assunse il suo atteggiamento inflessibile e senza traccia di timore, anche se da qualche parte ne provava «Quindici secondi per capirlo, non sei così stupido! Pensavo ce ne avresti messi come minimo trenta»

Nonostante fosse estremamente prevedibile, Dem non fu abbastanza svelto da schivare il pugno che, preciso e veloce, lo colpì in pieno volto, sullo zigomo. Il contraccolpo lo fece vacillare, già sentiva il sapore ferruginoso del sangue che si diffondeva in bocca, ma non ebbe il tempo di soffermarcisi. Frankenstein gli si avventò contro, caricando ancora il destro che Demian scansò prontamente, deviò il braccio dell’energumeno e gli assestò un pugno nello stomaco. Lo vide dilatare gli occhi per la sorpresa, mentre la bocca si apriva e gocce di saliva restavano sospese fra di loro. Fu solo qualche secondo esteso, poi Demian mirò a quella faccia larga e informe da ominide sotto steroidi. Ne seguì un grottesco “croc” quando il naso di lui si accartocciò come argilla sotto le sue dita, il naziskin si lasciò sfuggire un guaito animalesco e si allontanò velocemente di qualche passo.

Aveva colpito bene, il ragazzo si portò le mani sul volto e imprecò chinandosi, come a contenere il male che provava mentre un rivo di sangue colava dalle narici e gli bagnava le labbra e il mento.

Il viso di Demian pulsava terribilmente, ma strinse i denti e ingoiò gli spasimi di sofferenza usando tutta la forza di volontà di cui disponeva per mascherare il dolore e restare dritto, sprezzante e impassibile. Aveva imparato molto tempo prima ad incassare ed aveva sviluppato una certa resistenza che forse era solo troppo orgoglio.

«Sparisci cazzo, sparisci o giuro che ti ammazzo, ti spacco la faccia!»  urlò Frankenstein, gli occhi iniettati di collera e le vene del collo e della tempia che palpitavano come piccoli bruchi grassi, era talmente sfigurato dalla collera che Dem non dubitò nemmeno un istante che l’avrebbe fatto, ma non ne fu minimamente preoccupato.

«Facciamo che te ne vai tu. Oggi sono stanco e ho altri impegni, trattare con voi bestioni non è il mio passatempo preferito» gli sorrise sfacciato, ignorando il dolore che si spandeva dallo zigomo al resto del volto. Era più inquieto per lo stato della sua faccia che per l’innocuo bestione domestico che sapeva solo sbraitare ma non aveva i denti.

«Questo stronzo mi deve dei soldi!» urlò ancora il ragazzo rasato. Era frustato ma non accennò ad avvicinarsi più.

Demian si passò stancamente una mano fra i capelli appiccicati alla fronte per l’umidità, si soffermò prima sul gigante, poi sul piccolo Barbi ancora seduto a terra come incredulo. In un primo, astruso pensiero, tutto passò in secondo piano e riuscì a domandarsi solo il perché di quello stupido soprannome: giocava con le bambole? Lo prendevano in giro perché era gay? lo avevano beccato al Toys Center nel reparto bambine?

Gli ci vollero un paio di secondi buoni per focalizzarsi sulla questione importante, la più paradossale: Frankenstein in versione mansueta che cercava quasi di intenerirlo per portarlo dalla sua parte. Ci voleva un certo coraggio, Dami gliene dava atto, considerando che probabilmente aveva reso la sua faccia abbastanza malconcia da non poter nemmeno pensare di mostrarla alla sorella.

Barbi sembrava un cucciolo passivo e spaventato.

«È vero?» gli chiese soltanto, senza particolare interesse. Stentava a crederlo possibile, ma il compagno di classe annuì titubante.

«Da un mese» rincarò Frankenstein, strappandogli un altro, ironico sorriso.

Gli era difficile pensare che un ragazzino come Barbi, dall’apparenza innocua e cheta, un tipo tutto “casa e chiesa”, avesse comprato delle droghe di qualunque tipo. Se l’apparenza ingannava però, allora la sua teoria sulla possibile perversione che spiegasse quel soprannome femmineo prendeva corpo.

Si massaggiò la radice del naso con il pollice e l’indice, prima di decidere «Senti, ti pagherò io. Passa stasera nel parco vicino alla stazione, dal lato del parcheggiò dell’Edonè e avrai quanto ti deve»

Il naziskin s’irrigidì e si drizzò come fulminato. Lo sguardo vacuo si era ad un tratto illuminato di consapevolezza «Tu sei quel fottuto albino, quello che gira con Niko»

Non era una domanda, la vena di rispetto e timore che aveva permeato la sua voce era un chiaro segnale che lo conoscesse, in molti lo conoscevano. Nicolas era noto nell’ambiente e così lui, che lo accompagnava ovunque ed era il suo protetto, lo era di rimando. Inoltre il suo bizzarro aspetto non gli permetteva di passare inosservato.

Abbassò le spalle «Sono io»

Voleva solo sussurrarlo, ma la vergogna gli grattò la gola in un ringhio ostile.

Frankenstein si pulì con la manica il sangue che si stava seccando sulla barba e le labbra e annuì cauto «Se non ci sarai stasera, verrò a cercarlo ancora. E troverò anche te»

 

***

 

 

L’asfalto era ancora umido di pioggia ma Barbi era rimasto accasciato a terra, anche dopo che il suo aguzzino se ne era ormai andato. Gli tremavano le mani, era troppo agitato perché Demian potesse lasciarlo solo in quello stato così, senza dirgli una parola, lo aveva aiutato a rialzarsi, aveva raccolto i suoi occhiali e alla bell’e meglio li aveva puliti nella sua felpa prima di renderglieli.

Barbi si era trascinato fino al muro del retro della scuola e lì si era seduto. Quasi rannicchiato, colto da brevi spasmi.

Pur non volendo, Demian si era seduto accanto a lui, in silenzio.

Con il passare dei minuti il compagno di classe sembrava essersi calmato, ma non parlava e restava con le ginocchia tra le braccia, come un bambino spaurito, e Dem proprio non sapeva che fare. Non era mai stata la persona giusta per dare conforto, non lo aveva mai realmente ricevuto, lo aveva sempre rifiutato e quindi, per assurdo che fosse, non era all’altezza di confortare a sua volta.

E allora si mordeva l’interno della guancia e con ostentata indifferenza studiava quel piccolo secchione mingherlino mangiato dai vestiti troppo larghi, un chiodo dai capelli neri, corti, e l’aria da bambino sperso, con il naso dalla linea morbida e gli occhi chiusi.

Come era possibile che un’esistenza dall’apparenza tanto fragile avesse deciso di appoggiarsi ad un ragazzo pericoloso e dall’aria evidentemente poco raccomandabile?

Dove lo aveva trovato il coraggio Dem proprio non se lo spiegava. Anche avesse voluto drogarsi, non si spiegava come fosse entrato in contatto con quel decerebrato poco di buono.

Chinò il capo, oppresso dalla malinconia di un pensiero che non voleva prendere consistenza perché sarebbe stato troppo svilente, eppure che gli piacesse ammetterlo con se stesso o meno la verità non mutava: lui stesso non era diverso, non aveva nulla di raccomandabile, non era migliore di Frankenstein, persino quell’energumeno senza cervello aveva esitato quando aveva capito chi fosse.

Nella catena alimentare di quel sistema, Demian sapeva di essere persino peggiore e se ne vergognava al punto di non sopportarsi.

«Grazie»

La voce di Barbi era labile e consumata, leggera di un sussurro stentato.

Demian seguì il profilo del suo corpo in tralice, per leggervi anche solo un segnale che gli facesse capire cosa avrebbe dovuto fare o dire, ma il compagno restava rigido. Ne dedusse che doveva essere ancora molto scosso e perciò si sforzò di abbozzare un sorriso di circostanza.

Non sapeva come muoversi, era consapevole di essere lui stesso, per quel ragazzo, una presenza minacciosa, e questa realtà lo rendeva imbarazzato e reticente.

«Te lo dovevo» borbottò altrettanto piano, stringendo e tirando la manica della felpa per coprirsi le dita pallide, la pelle arrossata e spaccata sulle nocche.

Barbi aveva corrugato la fronte e finalmente si era voltato per guardarlo negli occhi, non con timore, solo con una muta domanda.

«Sai, la matita» spiegò arricciando le bocca nell’angolo destro «Prima non stavo scherzando»

L’espressione di Barbi si distese lentamente, lasciando spazio alle labbra socchiuse in un cerchio di perfetta sorpresa «Per una cosa così sciocca? Non è un gran debito» lo apostrofò.

Demian s’incupì, risentito a causa di quella leggerezza che sminuiva uno dei pochi gesti che aveva apprezzato davvero «Lo è per me. Mi serviva» disse lapidario.

Al suo sguardo gelido seguì un breve attimo di silenzio, come ponderato. Poi, con sua sorpresa, la postura di Barbi si rilassò e il ragazzo iniziò a ridere, quasi istericamente, come una liberazione.

«Non ci credo, non è possibile. Dicevano che sei un mostro, quando quegli stronzi mi hanno costretto a sedermi accanto a te ho temuto di dovermela vedere con un altro bullo… ero terrorizzato! E invece…» continuò a ridacchiare e si asciugò una lacrima di divertimento e tensione rilasciata «E invece tu sai pensare solo ad una matita!» concluse, riversando nel riso che stemperava tutto il suo sollievo.

Demian accennò un sorriso mite scrollando le spalle «Beh, senza avrei dovuto segnare il libro. Non sopporto di rovinare i miei libri»

Il compagno di classe lo ponderò senza esprimersi tanto a lungo che Dem iniziò a provare disagio. Non era abituato ad essere studiato in quel modo, come se nemmeno si vedesse il colore delle sue iridi o la sua apparenza. Si sentiva scrutato fin nelle ossa e si ritrovò quasi costretto, per sua personale umiliazione, a deviare lo sguardo.

Alla fine Barbi gli porse la mano, il volto contratto in un’espressione seria e solenne, e Demian non capiva e non ne era sicuro, ma afferrò comunque quella mano da artista come lo era lui stesso, che qualcosa in comune lo avevano, non erano troppo diversi.

«Mi chiamo Diodoro Barbadico» disse tutto d’un fiato e le orecchie gli divennero assurdamente rosse «Grazie mille per il tuo aiuto, senza di te sarei stato nei guai sul serio»

Diodoro Barbadico, lo ripetè mentalmente, per esserne sicuro. Almeno ora capiva l’origine di quello stupido soprannome.

«Quando ho sentito che ti chiamavi Barbi, ho pensato fossi un pervertito dei giochi per bambine» commentò involontariamente ad alta voce, dando suono a quell’immagine per lui buffa del ragazzino fanatico conciato da Sailor Moon. Nel complesso trovava quel nome altisonante e terribile, una punizione crudele di genitori spietati.

Diodoro arrossì e fece una smorfia «No, mi prendono solo in giro. Sai non sono esattamente virile. E i miei con i nomi sono un disastro. A me ovviamente è andata peggio che alle mie sorelle»

A sentire la parola “sorella”, Demian sussultò.

«Com’è la mia faccia?» quasi lo aggredì, cambiando all’improvviso atteggiamento e tono di voce, tanto che Diodoro incespicò un momento, vittima della sorpresa, prima di riuscire a raccogliere le parole.

«Direi viola» valutò piano, osservandolo con aria critica.

E Demian desiderò sprofondare piuttosto che accettarlo «Molto?»

Ancora silenzio e Barbi che si mordeva le labbra prima di annuire «Sufficientemente per capire che ti sei beccato un bel pugno in faccia»

Dem si stropicciò il volto con la mano in un gesto di stanchezza prima di sollevare gli occhi al cielo e liberare l’ennesimo, pesante sospiro. Si lasciò scivolare scompostamente contro il muro in un moto di sconforto. Non sapeva cosa fare, di certo era consapevole di non potersi presentare alla sua bestiolina con il viso devastato, sorriderle e dirle ancora “tranquilla amore, sono solo caduto e mi sono beccato uno spigolo infido in piena faccia”. Sua sorella non era una sciocca e tantomeno una sprovveduta, non gli avrebbe creduto e lui non voleva spiegarle nulla, voleva tenerla fuori da certi aspetti della sua esistenza, da certe sue tendenze che la bambina ignorava.

Si alzò per guardare il proprio riflesso, appena accennato, nella finestra di un’aula del piano terra. Il vetro smerigliato gli rimandava un’immagine poco definita, ma abbastanza nitida per identificare la grande macchia violacea che occupava parte del suo viso. La sfiorò con le dita e riconobbe al tatto il profilo in una lacerazione poco profonda ma comunque sanguigna.

Una ferita banale che non gli era però possibile nascondere in alcun modo.

«Maledizione» imprecò tra i denti, tastandosi piano la guancia per non farsi male. Contemporaneamente recuperò il cellulare dalla tasca della felpa e iniziò a digitare un messaggio veloce per avvisare sua zia della buca che avrebbe dato a Sarah.

La collera che provava nel dover dare alla sua petite peste un’altra delusione la stava sfogando con fin troppa foga sui tasti del cellulare, e il suo cipiglio doveva essere davvero terribile perché Diodoro, rimasto in silenzio durante tutte le sue manovre, domandò cauto «Tutto bene?»

Demian lo incenerì con tutta la collera e l’astio che i suoi occhi obliqui dal taglio affilato potevano trasmettere. Era indisposto al punto che, per quel livido, avrebbe preso a calci anche la Barbi se non si fosse tolto rapidamente dai piedi.

«A te cosa cazzo sembra?» ringhiò in un impeto d’irritazione «Dimmi quanto devi a quel fottuto stronzo e facciamola finita» rimise il cellulare in tasca e continuò a osservarlo con ostentata rabbia dall’alto in basso, tanto che Barbi la sua risposta la mormorò appena, intimidito.

 «Non sei costretto a fare quello che hai detto» aggiunse poi, sempre a voce sussurrata, ma Dem si limitò ad alzare di nuovo gli occhi al cielo «Se non lo faccio quello ti pesta per davvero. E comunque non è un regalo, è un anticipo. Almeno a me potrai ridarli con calma. Ma domani mi dovrai dare parecchie spiegazioni che ora, sinceramente, non me ne frega un cazzo di sentire» si caricò lo zaino in spalla e si avviò al proprio motorino.

«Tutto qui?» gli urlò dietro Diodoro.

Ma Demian scrollò ancora solo le spalle e non gli rispose.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Oggi è una giornata un po’ insolita e quindi non sono in grado di trovare parole.

Non mi succede spesso, ma quando non ho voglia di fare nulla non faccio proprio nulla, ed infatti non ho ancora incontrato un essere vivente che non sia Eldry (il mio cane), né ho comunicato con alcunché. Per tirare le somme, questo è il mio primo contatto con il mondo oggi, e non so che dire, tantomeno sul capitolo.

È solo una metà, tra l’altro.

Credo che tornerò a fissare il soffitto, la verità è che mi è stata fatta una proposta insolita che non so se accettare, ma stimo molto il lavoro della persona che me lo ha chiesto e per questo sono in dubbio. E quando sono in dubbio, vegeto in attesa che lo spirito santo o chi per lui mi dia in mano il senso della vita.

Evviva!

Sarebbe bello se aveste voi qualcosa da dire a me, perciò chiedo un favore ai nuovi lettori silenziosi, sarebbe un vero onore sentire anche le vostre voci, e comunque grazie di esserci, una storia ha valore solo in relazione a chi la segue.

 

Nell’apatia generale mi ritirerò, a presto!

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Capitolo 6
*** Per caso ***


ANGOLO AUTRICE

 

Ben ritrovati viandanti lettori!

Ora, provo un leggero imbarazzo per quello che state per leggere, quindi, ehm… beh, ecco… non c’è niente di peggio che balbettare pure per iscritto, come se non lo facessi già abbastanza dal vivo!

Allora, niente, io a scrivere di certi momenti delicati sono un disastro, soprattutto qui dove non doveva essere nemmeno un momento troppo delicato…

Argh, insomma, significa che potrei aver fatto scempio, ma doveva succedere e quindi sto pazientemente cercando di mettermi l’anima in pace e di non seppellirmi in giardino dopo essermi tirata una pala in testa da sola!

Se avete consigli per migliorare quel particolare momento, fatelo, vi prego, perché sono veramente un’inetta. Sarà che nero su bianco tutto sembra sempre terribilmente più volgare, non è incredibile?

Ah, scusate le volgarità, mi ero ripromessa di scusarmi anche in passato per il lessico non troppo candido usato dai personaggi. Normalmente sono contraria alle parolacce nei libri, ma dipende sempre dal racconto e, con i personaggi presenti in questa storia, dialoghi dai toni colti sarebbero suonati troppo fuori luogo.

 

Grazie dell’attenzione!

 

 

 

À Demian


Capitolo quarto (seconda parte)

Per caso

L’ospedale non era lontano dal suo liceo e, più per abitudine e istinto che per scelta, Demian si era ritrovato nel grande parcheggio adiacente al pronto soccorso e lì aveva lasciato il proprio motorino.

Gli Ospedali Riuniti avevano due grandi parcheggi, uno dei quali sul retro del padiglione principale, e vantavano una struttura estremamente singolare, una serie di edifici scollegati l’uno dall’altro raccolti intorno ad un grande cortile centrale e raggiungibili attraverso dei sentieri di sampietrini consumati.

Demian non aveva più avuto bisogno di passare dalla reception per sapere che sua madre era collocata nel padiglione centrale, a volte si fermava lo stesso solo per dare a Marisa un saluto, quel giorno però non ne aveva avuto voglia.

Aveva preso una cioccolata prima di entrare nella camera di maman, e quando lei lo aveva visto aveva smaniato come una bambina.

«Hai già bevuto?»

Le aveva sorriso con condiscendenza «No maman, non ancora»

Allora lei, proprio come se una bambina lo fosse davvero, aveva teso le braccia strizzando le dita «Dammi subito quel bicchiere!»

Rassegnato le aveva consegnato la bevanda e Jenevieve l’aveva assaggiata appena, facendo schioccare le labbra secche con soddisfazione «Ok, puoi berla».

Gli aveva restituito il bicchierino di plastica e Demian aveva sbuffato «Lo sai che non è necessario tutte le volte, vero? Va bene che le infermiere non mi sopportano, ma nessuno proverà ad uccidermi nell’immediato futuro… spero»

A Jenevieve non importava niente, era un rituale suo che Demian non comprendeva ma assecondava, perché lei sembrava incredibilmente felice e appagata dopo, e sorrideva con tutti i denti tra sé e sé, una sua piccola e poco chiara soddisfazione personale.

Aveva preso una sedia e si era accomodato accanto a lei, ma maman era stanca e poco dopo si era addormentata, lasciandolo nel suo contemplativo e abituale silenzio davanti alla parete bianca e spoglia. Il letto accanto a sua madre non era ancora stato occupato da nessuno ed il silenzio assoluto riusciva solo ad amplificare il senso di risucchiante vuoto che tutto quel bianco gli causava.

Era una parola strana “bianco”, sbiadita, che si ripeteva all’infinito come un’eco nella sua testa fino a perdere senso, o forse se la ripeteva proprio per non pensare ad altro.

Quando Jen dormiva le stringeva piano la mano e con la punta delle dita leggere ripercorreva il corso delle vene di lei su fino all’incavo del gomito e poi ancora al polso. Sembrava tanto fragile e dolce che non poteva fare a meno di diventare estremamente delicato con lei, sapeva d’indifeso, un corpo friabile di ricordi lontani.

Inizialmente aveva deciso di raggiungerla quella sera, ma al pensiero di non poter vedere la sua Sarah, per ricevere quel perdono che sapeva di benedizione, era stato preso da un tale attacco di nostalgia e solitudine da non potersi impedire di correre da sua madre, come un bambino alla disperata ricerca di un posto sicuro dove rifugiarsi.

Maman era sempre stata il suo rifugio dal mondo e quando la rivedeva, evanescente sotto le coperte di cotone, provava solo un profondo senso di mancanza e capiva con quanta disperata angoscia la rivoleva a casa con sé. A volte era davvero difficile prendersi cura di lei e il peso di quella responsabilità lo opprimeva, ma la verità era che era troppo debole per avere solo se stesso, non riusciva a sopportarlo. Ogni volta che la ricoveravano Demian finiva con il girare a vuoto cercando di restare ovunque meno che in casa sua, dove un silenzio fatto di vuoto e abbandono lo uccideva lentamente, lo demoliva lasciandolo spossato, fragile e insicuro come quando era piccolo.

Era tragicamente facile allora, in quei momenti di debolezza, lasciarsi trasportare dalla corrente per ricadere nel solito baratro di errori e ricordi che voleva seppellire, che fingeva di archiviare senza mai riuscirci davvero, perché lui era un nostalgico e sapeva solo vivere delle proprie ferite e delle cose che aveva saputo perdere, di quelle che avrebbe perso, che non  aveva la forza di affrancarsi a nulla e aveva la sensazione che ogni cosa fosse destinata a cadere oltre il baratro della sua esistenza per lasciarlo solo nel nulla.

Era tragicamente facile allora ricordare la voce di suo padre, ricordare di come fosse tornato a casa un giorno e, semplicemente, papà non ci fosse più su quel divano, con la sua chitarra e una birra e quel volto annebbiato che Demian non riusciva più a tratteggiare nella propria memoria.

Era facile risentire le parole che non avrebbe mai dovuto ascoltare e che gli avevano sfregiato l’anima. Non era colpa di suo padre, Dem se lo era ripetuto spesso, era normale che quell’uomo sconosciuto lo avesse vissuto come un difetto di fabbrica, che parlasse di lui con quel tono accorato per la sua condizione fisica che lo disturbava. Non era il figlio che dei genitori avrebbero voluto e non si era mai fatto illusioni, non più, non dopo aver sentito papà manifestare la propria speranza di una secondogenita sana perché non avrebbe sopportato che anche lei fosse così.

Era stato quel giorno che Demian lo aveva capito con chiarezza, in lui qualcosa era sbagliato, non era normale e non avrebbe mai potuto esserlo.

Era facile poi risentire la mano fra i capelli, in una carezza leggera e labile, quando gli avevano detto con fin troppa tranquillità, come se davvero lui non fosse in grado di comprendere la portata di quelle parole, che Sarah era fragile, era unica e debole e andava protetta.

Che se non fosse stato attento l’avrebbe persa, e l’avevano detto così, pacificamente, senza rendersi conto di quanto in realtà gli stessero facendo male in un modo nuovo da cui non poteva ancora difendersi.

Era tragicamente facile ricordare Il Giorno Più Brutto e pensare ogni volta che suo padre era solo questo, una raccolta di frammenti sfocati dalla nebbia dell’età e marciti per il risentimento di dieci anni di amarezza.

Si soffermò sulla pelle morbida e sottile come carta velina del polso di maman e ascoltò il pulsare lento del sangue a ritmo con il suo cuore. Era ancora bella come durante l’estate appena passata, sul suo viso c’erano ancora tracce di delicato sole e a Demian sembrava quasi di vederla nel giardino di casa, sul dondolo usurato con una bandana vivace in testa mentre guardava Jean che litigava con il vecchio tagliaerba e rideva.
Ci si aggrappava al suo sorriso, alla tenerezza con cui le dita affusolate di maman sfogliavano libri di poesie, ma se lei non c’era quel ricordo non bastava, e i bocconi amari tornavano e restavano incastrati in gola ed il senso d’inadeguatezza lo attanagliava.

Come poteva non vedere Sarah per giorni?

Si sentiva ridicolo e meschino ad avere sempre un bisogno tanto disperato di lei che era troppo piccola.

Bussarono piano alla porta, più per attirare l’attenzione di lui che per chiedere il permesso visto che Jenevieve dormiva.

Demian alzò lo sguardo da sua madre per incontrare le iridi d’oro liquido di zia Claire.

Ed eccola, la nostalgia, Claire era una fotografia vivente di maman ringiovanita di qualche anno, quando ancora la malattia non l’aveva sfibrata. Erano cresciute come gemelle e come gemelli i loro volti si ricalcavano. Gli stessi incredibili occhi dal taglio obliquo e indagatore, ornati da pesanti ciglia che quando si abbassavano lasciavano appena intravvedere stralci d’ambra, gli stessi tratti magri, levigati nella mandibola, la stessa linea della bocca, ma le labbra di Claire erano piccole, rosa pastello, mentre maman era come lui, aveva labbra carnose e piene.
Entrambe erano bionde, una colata di miele denso, il medesimo che screziava anche la chioma un poco più scura di Sarah, solo che la zia aveva i capelli mossi e ribelli, con qualche buffa ciocca che si arricciava in molle e che lei tratteneva con forcine e fermagli, mentre quelli della sorella maggiore erano lisci e disciplinati.

Si alzò senza far rumore e si avvicinò piano alla zia, per salutarla con un bacio sulla guancia. Dovette chinarsi per poter arrivare a lei, che era tutta contenuta in una botte piccola che sfiorava il metro e sessanta.

La mano di Claire corse subito al viso, tastandogli lo zigomo, e Demian sussultò per la sorpresa e il leggero bruciore «Che cosa ti sei fatto?»
Era sbiancata e non si contenne nel manifestargli tutta la sua apprensione. Continuò ad esaminargli il livido, premendo verso l’esterno, come se così le fosse stato possibile capire quanto fosse estesa la lesione e se si fosse rotto qualcosa. Un brivido di dolore lo obbligò a chiudere gli occhi, le afferrò i polsi e la costrinse con delicata fermezza ad abbassare le mani, scuotendo il capo «Ne parliamo dopo» sillabò con le labbra, e le sorrise con affettata serenità prima di uscire e di chiudersi la porta alle spalle.

Si appoggiò alla superficie di legno con tutto il corpo, liberando un pesante respiro. Doveva andarsene prima che Claire avesse finito, quella era una spiegazione scomoda che non avrebbe mai dato a sua zia. Certe cose non poteva condividerle con Sarah come con un qualunque altro membro della famiglia, visto che nessuno s’immaginava davvero che genere di vita facesse o che tipologia di persone avesse preso l’abitudine di frequentare negli ultimi due anni.

Si avvicinò alla finestra bianca in fondo al corridoio e la spalancò, accogliendo a pieni polmoni l’aria fredda d’inizio autunno. Era una brezza leggera ma il contrasto con il calore dell’ambiente interno gli intorpidì comunque il viso, Demian si sporse oltre il davanzale per poter respirare a fondo quel clima umido.

Avrebbe voluto che Julian fosse già di ritorno perché era l’unico a cui avrebbe potuto parlare con onestà dei propri turbamenti o almeno l’unico con cui avrebbe potuto condividerli in silenzio. Quando lo avesse rivisto non glielo avrebbe detto però, che aveva sentito la sua mancanza. Doveva solo stringere i denti, sopportare e sopportare ancora un poco, con più pazienza, poi sua madre sarebbe stata dimessa, Jules avrebbe ricominciato a girargli intorno e il suo mondo si sarebbe riassestato. Solo un altro poco ancora, prima della prossima tregua.

Prese una sigaretta dal pacchetto custodito nella tasca dei jeans e la posò mollemente fra le labbra, tornando a guardare fuori il cortile interno di magnolie moribonde. L’autunno non gli dispiaceva, bastava che non ci fosse troppo sole per farlo, se non felice, almeno vagamente contento, aveva un rapporto conflittuale con la luce che fin dall’infanzia lo aveva perseguitato.

Notò allora, distrattamente, una macchia arancione comparire come un fiore in campo verde, e senza accorgersene iniziò a seguire quel colore inaspettato con la coda dell’occhio, quasi sorpreso, ché lì in ospedale c’era solo bianco e tutto era pesante, eppure in quei movimenti c’era una strana leggerezza che aveva già conosciuto e mai compreso.

Quell’unica nota di vita tra gli alberi nudi e scheletrici si traduceva nella fragile e sottile figura di una ragazza, troppo sfocata dalla distanza. Soffiò fumo e si sporse istintivamente un poco più fuori, per soddisfare la curiosità che quella buffa creatura, vestita da zucca matura che si muoveva candidamente su un letto di foglie morte, aveva appena risvegliato. Riconosceva del celeste nella gonna che le si agitava leggera attorno alle gambe, parzialmente nascosta da una grande felpa arancio violento, metteva a stento a fuoco una matassa di capelli probabilmente ricci che si agitava come la coda a batuffolo di un coniglietto esagitato. Tutto di lei dava quell’impressione naturale di buffo e tenero, come di bambina.

Come Sarah, gli veniva da pensare, ed era un pensiero strano e nostalgico, perché in quella sconosciuta riconosceva come un’intuizione, un inspiegabile impulso ancestrale, quella delicatezza ingenua che amava tanto nei gesti e nell’esistenza stessa di sua sorella.

Stonava, nella tristezza apatica che gli aveva sempre trasmesso l’ospedale, in quel mondo bianco e vuoto di cespugli secchi e natura in declino sapeva solo provare sensazioni stantie e si sentiva vecchio e stanco, sfibrato da una spossatezza così prevaricante da lasciarlo inerme. In tutto questo lei era una nota di colore fuori dalle righe, un contrasto inadeguato e tanto assurdo da rasserenarlo.

Non si accorse subito di aver appoggiato la testa piano al telaio della finestra, si era adagiato con la pacatezza con cui riposava sul seno di sua madre talvolta, quando voleva solo essere cullato e sentiva il cuore svuotarsi di ogni oppressione. Non si accorse nemmeno di aver inclinato le labbra nel primo accenno spontaneo di sorriso mentre la guardava chinarsi, forse per cercare qualcosa, Demian non riusciva a capire cosa ma non gli importava.

Un blocco di cenere cadde senza rumore dalla sigaretta che stringeva tra le dita e che andava consumandosi, ma non aveva più voglia di nicotina, voleva restare immobile a respirare la vita labile di quella ragazza che riusciva a stordirlo anche solo da lontano.

Avrebbe voluto avvicinarsi forse, per vederla meglio, per sapere la sua espressione e conoscere la linea del suo viso, per sentire quel peso sullo stomaco sciogliersi in una nuvola di nulla e scivolare via, perché era quello il vuoto che provava, un vuoto sereno che sapeva di cielo terso dopo settimane di tempesta.

Spense il mozzicone e richiuse la finestra con lentezza, ancora avvolto dalla calda coperta di un sentimento inspiegabile e familiare che aveva conosciuto solo attraverso la sua piccola bestiolina.

Era l’apparente spensieratezza che l’aveva ingannato, non aveva potuto fare a meno di sovrapporre alla figura sfocata di un’estranea Sarah, perché era lei che aveva desiderio di vedere ed era lei che avrebbe voluto osservare giocare.
Non riusciva mai a pensare a sua sorella adulta, e questo lo tormentava terribilmente, più di quanto volesse ammettere con se stesso, la paura di perderla lo ancorava al presente e il domani non esisteva, nulla gli faceva più male di questo. Non sapeva contenere il terrore primordiale di non poterla rivedere ed ogni volta che era troppo in difetto con se stesso, forse per fatalismo, non riusciva a non essere sopraffatto dall’ansia, come se non potesse incontrarla più se avesse perso anche solo una minima occasione di trascorrere del tempo con lei.

In quella ragazza però, per la prima volta, aveva intravisto come avrebbe voluto che fosse Sarah da grande, ancora leggera, ancora spontanea, piena di un’innocenza mai sporcata.

Era sempre terribilmente in ansia se si trattava di sua sorella e troppo irrazionale, il suo naturale pessimismo lo abbatteva sempre prima che riuscisse a costruirsi delle speranze e il suo traballante equilibrio interiore vacillava al punto che bastava una semplice sconosciuta vestita da zucca che gliela ricordasse per fargli tirare un’insospettata boccata d’ossigeno tra il malessere.

Decise di andarsene mentre la zia era ancora impegnata nella camera di maman, per risparmiarsi una scenata che avrebbe intaccato il suo fin troppo instabile buon umore.
Si sentiva ridicolo ma non voleva ammettere di star decisamente impazzendo, voleva illudersi ancora un poco di essere abbastanza forte da poter sopportare quella situazione a lungo, ché la forza doveva inventarsela se non c’era e lui di scelte alternative non ne aveva. Sapere di non avere possibilità però non lo aiutava a restare lucido, e niente a suoi occhi era più drammatico del diventare irragionevole e ingestibile.

Non voleva spezzarsi.

Non voleva anche quell’umiliazione, controllarsi era ciò che gli aveva permesso di restare in piedi e non riusciva nemmeno a concepire cosa ne sarebbe stato di lui se non ci fosse più riuscito.

Raggiunse la hall e cercò da lontano Marisa, ma l’infermiera non era nei paraggi e dietro al banco informazioni, a parlare con una donna bionda dall’aria sfatta, c’erano solo volti poco noti.

Si rassegnò a non vedere la signora per quel giorno e fece nuovamente per uscire all’aperto, quando due braccia si serrarono con inaspettata decisione attorno al suo collo.

Riconobbe il familiare profumo d’ibisco e la morbidezza di quella pelle di caramello sciolto, così in contrasto con la propria, candida.

«Sei di buon umore oggi?» gli sussurrò sfiorandogli l’orecchio con le labbra grandi. La sua cadenza veneta gli parve la cosa più scontata e ovvia del mondo e ne provò un affilato fastidio, un disagio insopprimibile di cui non riusciva a sbarazzarsi.

Sentiva il seno soffice e abbondante contro la schiena e le mani di Elena aprirsi sul suo petto, facendolo sussultare.

«Dami, sei più distante del solito» avvertì il sospiro caldo di lei sul collo e si morse l’interno della guancia per non rabbrividire «So che non lo facciamo spesso, ma puoi anche parlarmi»

«Non servi per parlare» rispose pacatamente, e lei s’irrigidì contro di lui per un breve istante, il tempo di ferirla e che quelle parole attecchissero.

Poi Ellie annuì «Hai ragione» le mani dalle dita lunghe, quelle dita da pianista mancata e infermiera fallita, scivolarono lentamente verso il bordo dei suoi jeans e lì si insinuarono accarezzandolo con esasperata lentezza «Se ne hai voglia allora…» gli prese il lobo tra i denti e lo succhiò e lambì con la lingua, in una provocazione che lo fece eccitare.

Le bloccò subito il polso e si voltò di scatto, guardandosi attorno per controllare che nessuno avesse notato i giochetti istigatori di Elena e quella sceneggiata da denuncia per atti osceni in luogo pubblico, il personale però era completamente dedito alla signora bionda e non aveva prestato loro nessuna attenzione. Per il resto, le seggiole della saletta d’attesa davano loro la schiena e sembrava che le poche persone sedute non li avessero notati.

Allora si concentrò su Ellie, che dai pochi centimetri in meno che aveva lo studiava con i grandi occhi da cerbiatta liquidi di desiderio, i corpi che si sfioravano. Avrebbe voluto baciarla, ma con cattiveria, avrebbe voluto morderla fino a ferirla e sentirla lamentarsi e sopportare e trattenere il pianto con quelle sue immense iridi lucide di voglia e dolore.

Avrebbe voluto e se ne vergognava.

 

Perché, perché le permetto ancora di toccarmi?

 

Eppure non riusciva a farne a meno in qualche modo, anche se non la sopportava e la trovava sì bellissima, ma in maniera così superficiale da risultarne scialba. Non sapeva nemmeno come avrebbe dovuto considerarla.

A volte la vedeva come un’amica o almeno s’imponeva di crederlo, ma lei era la prima e l’unica con cui avesse fatto sesso e l’unica da cui accettasse di essere toccato e per questo si ritrovava ad odiarla la maggior parte delle volte.

Gli piaceva, il tocco di Elena, era sensuale e eccitante. Gli piaceva quel tipo di rapporto che avevano sviluppato, in cui non doveva aspettarsi o desiderare di più: semplicemente lei era bella, disponibile a sopportare i suoi malumori in silenzio e disponibile anche in molti altri sensi.

Provava per lei solamente attrazione e i loro bisogni s’incastravano perfettamente, che poi Ellie fosse sciocca e indisponente non contava, che la odiasse, che lui fosse solo un altro della sua lista da femme fatale, non doveva importargli, andava bene lo stesso.

Elena lo conosceva molto bene ed era brava a leggerlo, gli si spalmò addosso e gli prese la mano libera, quella che non le stava trattenendo il polso, per portarsela fra le gambe.

Dem riuscì a stento a deglutire e si accorse di essersi indurito.

«Quando vuoi» gli ammiccò maliziosa, un sorriso soddisfatto sul volto da strega. Avrebbe voluto sbatterla contro il primo muro accessibile e scoparsela, che tutti vedessero che dannata, prevedibile stronza era e di come nascondesse sotto il sorriso affabile e dolente e il suo aspetto avvenente tutto il suo egoismo e la sua superficialità da prostituta d’alto borgo.

Ritrasse la mano e, continuando a tenerla saldamente per il polso, attraversò le porte scorrevoli e abbandonò il padiglione principale. Aveva paura di non riuscire a frenare il proprio istinto e di finire veramente con il compiere un’azione riprovevole davanti a tutti, perché quello era l’effetto terribile che Elena aveva su di lui e non era mai riuscito a combatterlo. La trascinò malamente sul retro dell’edificio, stringendo con più forza del dovuto e ignorando le lamentele di lei che piagnucolava con scarsa convinzione.

«Dami mi fai male»

La spinse contro il muro e la congelò con un’occhiata furibonda che la zittì all’istante. Ellie deglutì a fatica, ma poi gli sorrise e Demian pensò ancora, con rabbia, che tutto il male che desiderava farle lei lo meritava sempre, sapeva solo distruggere tutto e rovinare la sua perfetta bolla di pace. Le infilò la mano fra i capelli e la baciò con cattiveria, schiacciandola contro la parete e mordendole le labbra fino a farla gemere per il dolore. Le mani di Elena gli aprirono la felpa e la gettarono da qualche parte, poi s’infilarono sotto la sua maglietta. La pelle fredda di lei che seguiva il percorso degli addominali gli dava brividi di freddo e piacere. Demian interruppe il bacio e le aprì la bocca con le dita perché le succhiasse. Quando furono abbastanza umide, con poca grazia le scostò l’elastico dei pantaloni di cotone della sua divisa e il bordo delle mutandine, per infilare poco gentilmente due dita dentro di lei.

Elena mugolò, con quella nota dolente che Dem aveva sentito troppo spesso. Poi l’infermiera s’inarcò in avanti tra le sue braccia e cercò ancora le sue labbra, in un bacio che Demian non riuscì a non ricambiare, anche se non avrebbe mai voluto darle della tenerezza. Quando Elena sospirava nella sua bocca la sua eccitazione in quel modo la sua erezione pulsava in maniera dolorosa e la desiderava con un tormento inaccettabile.

Non aveva smesso di lubrificarla e di giocare con le dita durante quello scambio, e quando si accorse che il respiro di Elena si stava facendo troppo pesante ed era ad un passo dal piacere, Demian ritrasse la mano suscitando in risposta un ringhio di disappunto.

Allora le sorrise ironico, mostrandole il canino «Tocca a te» le sussurrò all’orecchio, mordicchiandole poi la pelle del collo per lasciarle un vistoso segno.

Sapeva di non doverlo fare, Elena era sempre stata chiara, non dovevano restarle dei segni o Simone avrebbe dubitato di lei, ma non gli importava niente, trasgrediva ogni volta e lei alla fine non opponeva resistenza. Ed infatti ancora una volta Ellie inclinò il collo per facilitargli il compito.

«Sei un viziato, ti ho abituato troppo bene» si lamentò.

S’inginocchio davanti a lui e gli abbassò la cerniera dei jeans senza esitare, ma non fece in tempo nemmeno a sfiorarlo, entrambi si bloccarono nel sentire un urlo improvviso alle loro spalle.

Demian allontanò Ellie facendo pressione sulle sue spalle, richiuse i jeans e si volse con sgomento, sperando di non essere stato beccato. Lo sgomento si trasformò in orrore quando riconobbe poco lontano una ragazza con la felpa arancio e la gonna celeste e una matassa di riccioli. Si sentì per un istante così svuotato che pensò davvero sarebbe svenuto, le gambe erano molli e probabilmente doveva essere più bianco di un cencio.

Di tutte le persone che avrebbero potuto imbattersi in quello scabroso spettacolo, quella sconosciuta era l’unica da cui non avrebbe mai voluto essere visto, perché sembrava ingenua e tanto sciocca e sembrava Sarah… e gli veniva da vomitare.

La ragazza però non li stava nemmeno guardando, Demian ci mise qualche secondo per realizzare questo dettaglio. Era caduta a terra, il ginocchio magro e spigoloso le sanguinava e lei, a così pochi metri da un momento tanto inopportuno, era concentrata solamente a tamponare, con le labbra arricciate in malumore, la piccola ferita.

L’orrore scomparve rapidamente e Demian rimase perplesso a studiare quella rara creatura ignara del resto del mondo mentre con uno sbuffo si rialzava, spazzolandosi gambe e gonna, e poi si chinava a raccogliere delle foglie sparse a raggiera intorno a lei. In un lampo di comprensione Demian capì che poco prima, nel cortile, era probabilmente questo quello che stava facendo, stava raccogliendo le foglie cadute.

Valutò che non doveva essere un genio, ma era terribilmente carina, così corrucciata e assorta.

Finalmente la ragazza alzò il viso permettendogli di vederla per davvero e Demian, che aveva pensato di avvicinarsi, di aiutarla forse, si ritrovò immobile e senza parole, con le ghiandole salivari che lo avevano abbandonato e la bocca arida come il Sahara.

I due boccoli scuri sfuggiti alla coda riccia incorniciavano un volto candido di porcellana e in contrasto con la pelle chiara e i capelli scuri, le labbra morbide sembravano rosse come lamponi. Era alta e la sua magrezza la faceva apparire ancora più sottile ma non goffa, quasi aggraziata nonostante l’imbarazzo infantile che caratterizzava ogni suo gesto.  Ciò che più lo aveva spiazzato di quell’incredibile volto dall’aria distratta e serena erano gli occhi grandi dal taglio orientale. La distanza non gli permetteva di distinguerne il colore, ma erano abbastanza espressivi da manifestare tutta la perplessità e l’imbarazzo che l’avevano colpita.

Demian non ne comprese il motivo, se non fosse stato che fino a pochi attimi prima era lui quello in procinto di compiere atti osceni in luogo pubblico, avrebbe giurato dalla reazione che la ragazza aveva avuto che era lei ad essere stata colta in flagrante mentre stava facendo qualcosa che non avrebbe dovuto.
Come a supportare quest’impressione, la vide arrossire fino quasi a sfiorare il colore della propria felpa.
«Non è come sembra!» esclamò nascondendo dietro la schiena le foglie che aveva appena raccolto «Cioè io… non…»

Demian era troppo sconcertato per andarle in aiuto, riusciva solo a esaminarla con le sopracciglia aggrottate ed una notevole confusione di congetture in testa. Lei si guardò attorno rapidamente, come alla ricerca di una qualche giustificazione che non le veniva, e Dem comprese dall’aria spaesata e innocente che non si era resa conto di aver interrotto qualcosa.

«Io devo andare!» balbettò imbarazzata e senza permettergli di ribattere qualunque cosa, quasi con un pirouette, si volse e corse via. Rimase immobile ancora per un momento e si sentì uno sciocco. Ellie che si schiariva la gola lo risvegliò dalla catalessi nella quale era caduto. Si era dimenticato della presenza dell’infermiera, altrettanto confusa ma decisamente meno affascinata di quanto non fosse lui dalla ragazzina appena scomparsa. Decise di non guardare più Elena in volto, recuperò invece la sua felpa e se la rimise senza chiuderla, prima di raggiungere il punto dove la ragazza era caduta. Era rimasta una foglia a terra, una foglia rossa che sfumava nel giallo. La raccolse e rigirò il gambo sottile tra le dita, facendola ruotare.

Era bella, non sapeva perché ora questo pensiero lo stesse folgorando come una verità assoluta, non gliene era mai importato nulla e non erano mai state altro che un elemento di corredo dell’autunno, le foglie, eppure ora la fissava e ci credeva davvero, che fosse bellissima. Ché se tutti gli alberi avessero avuto quella gradazione il cortile di quell’ospedale sarebbe stato meno triste, eppure forse quella sfumatura l’avevano avuta per tutto il tempo e lui per abitudine e noia non ci aveva mai prestato attenzione.

Nondimeno gli bastava pensare a quella ragazzina che come la peggiore delle bambine di cinque anni si dedicava ad un passatempo tanto sciocco e ci trovava un senso ed una bellezza che gli erano sempre sfuggiti. Disorientato si guardò attorno come se fosse potuta ricomparire da un momento all’altro.

Raccoglie foglie, non deve essere sicuramente un genio. Anzi, sembra non aver nemmeno capito in che razza di situazione è incappata. No, non è un genio.

 

E, nonostante questo, gli piaceva il suo volto, era bella in modo anticonvenzionale, anche con quel corpo spigoloso. Era bella per quegli incisivi che aveva notato essere divisi, per come in pochi secondi aveva mostrato venti espressioni diverse e aveva arricciato le labbra in modi astrusi e ridicoli, era bella per quegli occhi dal colore sfuggente, perché nell’insieme era una presenza tanto luminosa da risultare abbacinante. Davanti a persone come lei Dem sapeva solo chinare lo sguardo, erano come l’estate e lui non riusciva a sopportare la presenza del sole, non riusciva più a vedere nulla. L’aveva intuito già da quella finestra, che lei era questo, lo aveva capito perché con la sua sola presenza lo aveva riempito in qualche maniera di lei, di quel modo di essere che era l’opposto del suo.

Aveva su di lui un effetto stordente.

«Dami?»

La voce di Ellie ancora una volta lo riscosse. La vide appena, d’un tratto l’ascendente che con un solo sguardo aveva sempre esercitato su di lui non lo scalfì, al contrario quasi si meravigliò di trovarla ancora lì quando lui già l’aveva scordata.

«Dami stai bene?»

Infilò la foglia nella tasca della felpa e annuì distrattamente.

«Ci vediamo» bofonchiò, e se ne andò dedicandole uno sbadato gesto della mano.

La verità era che si sentiva stranamente bene e non voleva vedere Ellie, non voleva rischiare che di nuovo distruggesse la quiete che stava provando da quando aveva incrociato il volto di quella ragazzina troppo bella per essere vera.

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Capitolo 7
*** Sogni ***


 

 

 

À Demian


Capitolo quinto

Sogni

 

 

 

 

Demian non sognava mai molto, o meglio, non ricordava mai i propri sogni. Gli restavano addosso come un sentore, un presentimento di dejà vu indistinto che si traduceva in una leggera e impalpabile patina di sudore sulla pelle che evaporava in un disagio inespresso con i primi respiri consapevoli. Appena stendeva le braccia, queste sensazioni svaporavano e restava come sospeso tra realtà e dormiveglia con gli occhi socchiusi volti al soffitto, come nel tentativo di riafferrare un’impressione perduta per sempre.

Erano i gesti, sua madre diceva questo quando era bambino. La sera, quando rientrava - non importava quanto fosse tardi- maman andava in camera da lui per baciargli la fronte e gli sussurrava di fare sogni d’oro. Per Dami quelle parole erano un rituale senza senso compiuto, un incantesimo, non le aveva mai scisse per coglierne il significato, non ne avevano. “Sognidoro” suonava proprio come una formula magica ed anche se avrebbe dovuto dormire, restava sveglio fingendo il sonno solo per poter sentire la voce dolce di maman che lo faceva addormentare.

Al mattino però i sogni non li ricordava mai, erano un quadro impressionista, una raccolta di sensazioni sfocate in un insieme di colori, come il soleil levant di Monet, con la sua barca che sapeva solo di ombra confusa nel calore aranciato della luce. Allora maman gli aveva spiegato che erano i gesti che facevano dimenticare i sogni, azioni istintive come stropicciarsi gli occhi o stirare le braccia. Compiere questi movimenti abituali era come dare un colpo di spugna alla lavagna della memoria.

Demian le aveva creduto, maman aveva sempre tante storie irreali per ogni cosa, una cantastorie moderna che trovava nel suo Io ogni spiegazione, non importava quanto sensata, e lui non era mai riuscito a metterla in dubbio veramente, anche le volte in cui non le credeva.

Così, era rimasto meravigliato quando, il mattino seguente, al risveglio, aveva impresso come un dipinto ad olio il sogno appena avuto, a pennellate chiare e definite.

Era meravigliato, ma aveva dato all’episodio il peso che si dà alle banali inezie quotidiane, non fosse stato che, il giorno seguente, l’evento si era ripetuto, lasciandogli addosso un languido desiderio di qualcosa ancora poco definito.

L’immagine che restava incancellabile sotto le palpebre, incisa, era sempre la stessa.

Era un parco di alberi frondosi e antichi, lo stesso dove portava la sua Lalami a passeggio quando aveva voglia di sfogare la propria solitudine, eppure nel sogno sapeva con certezza sconcertante che quel parco non era “quel parco”, ma il più semplice cortile di un ospedale, e lui si ritrovava seduto in placida attesa tra delle radici nodose, rannicchiato per combattere un freddo inconscio quasi annichilente. L’erba era secca e irrigidita e tutto era avvolto da una caligine surreale che lo rendeva stranamente consapevole di essersi addentrato in un sogno. 

Allora, colmo di quella consapevolezza, aspettava finché lei non compariva.

Cosa sognava, se le parlava, quei dettagli gli sfuggivano, impressa restava solo l’idea di una felpa arancio e di un corpo delicato dai contorni definiti in un’immagine appena accennata che di definito non aveva nulla. Gli restava addosso, come un parassita, la curiosità di poter sentire la sua risata, perché la immaginava scrosciante come un tintinnare di campanelli mossi dal vento, uno scacciapensieri di carne e sangue e sorrisi infantili, la curiosità di sapere la sfumatura di quegli occhi da gitana incantatrice.

Al risveglio, tutto ciò che gli era rimasto delle proprie fantasie erano una manciata di parole e un ricordo che non era mai esistito.

 

“Non è come sembra”

 

Quattro parole, le uniche che le avesse sentito pronunciare, dette non con la leggerezza dell’imbarazzo del loro primo incontro, ma sussurrate con un’inclinazione di disarmante malinconia, una fragilità inerme che la rendeva ai suoi occhi evanescente come un raggio di luce poroso appena filtrato tra i fitti rami di un’ombrosa radura.

L’esuberanza che la caratterizzava ed era stata evidente anche così, in un incontro di pochi minuti, lasciava poco spazio alla tristezza velata che Demian le cuciva addosso nelle sue fantasie, eppure l’istinto gli sussurrava che, sotto l’apparente spensieratezza, la malinconia le apparteneva, come in una forza di opposti che si attraggono.

Se la prima volta aveva soppresso il sogno, rotolandosi tra le lenzuola e succhiando il benessere che gli aveva gettato addosso come fosse nettare, rifiutandosi di uscire di casa e di andare a scuola per non sporcarsi ancora del mondo, il secondo giorno lo aveva invaso una nostalgia tale che, finalmente, gli era stato chiaro non avrebbe mai potuto lasciar correre.

Allora, se non era possibile sopprimere la smania che lo attraversava, la soluzione più semplice era stata prendersi il proprio tempo e sparire, almeno per qualche giorno.

Aveva preso Lalami con sé e si era trasferito da Nico.

L’appartamento dell’amico era un luogo singolare.

Sorgeva sotto un palazzo di appartamenti a sei piani, in periferia, e, a causa del dislivello del terreno, dal lato dell’ingresso risultava interrato. Se ne si seguiva il perimetro, si trovava che il retro era un susseguirsi di vetrate opache che conducevano ad un grande ingresso a due porte, forse un tempo destinato ai garage o ad una rimessa. Non aveva l’abitabilità, ma importava poco, l’affitto era più basso così e con il piccolo ingresso indipendente, interrato di una decina di gradini, c’era una privacy diversa. Ogni membro del gruppo aveva la propria chiave ed una stanza, se di stanze si poteva parlare. Quella di Demian si trovava nella grande rimessa sul retro, non aveva finestre e solo lo spazio per il materasso gettato a terra, ma a lui andava più che bene. Nicolas gli aveva ceduto tutto quello spazio illuminato dalle vetrate, era la zona più fredda della casa e d’inverno si congelava lì dentro, ma era anche lo spazio più grande, e lui l’aveva fatto proprio negli ultimi due anni. L’arredamento era essenziale, la si raggiungeva attraverso un piccolo corridoio che dava sulla camera di Dave, illuminata da un lucernario, e, appena varcata la soglia, sulla destra si trovava la cosa più simile ad una cucina che ci fosse in tutto l’appartamento: fornelli da campeggio appoggiati a spaiati mobili di legno, un mini frigo pieno più di alcolici che di viveri, e poi scaffali in metallo stipati di cibi in scatola a lunga conservazione, il tutto racchiuso in una conca a forma di L del muro, una rientranza dovuta allo sgabuzzino che era camera sua. In centro svettava una vecchia stufa a legna che talvolta accendevano d’inverno, ma non potevano usufruirne troppo a lungo, i vicini tendevano a lamentarsi del fumo e per questo, quelle rare volte in cui si trovavano tutti insieme a mangiare sul tavolo lì vicino, corredato da sedie di diverse misure, dovevano avvolgersi in felpe e maglioni.

Demian aveva appeso ai muri fogli di carta leggera alti quanto lui e parzialmente disegnati, lavori alla quale si dedicava sporadicamente, quando sentiva la voglia di sporcare qualcosa senza un fine; il tavolo della cucina era invaso da album, cartelle e pastelli, ma i colori a olio e le tempere, quelli li conservava su uno sgangherato carrello che si spostava di volta in volta insieme a lui, a seconda della voglia che lo trascinava.

C’erano a terra, parallele ai lati opposti dell’ambiente, due file di assi di legno che, se rimosse, rivelavano dei nascondigli, come sgabuzzini interrati, forse usati per conservare i viveri in passato, Dem ci aveva fantasticato sopra a lungo ma non era mai giunto a comprendere il loro utilizzo. C’erano delle scale a muro per potersi calare e aveva trovato pratico sfruttare quei ripostigli per conservare il materiale più ingombrante, i secchi di vernice, i rulli, le casse di bombolette spray e altro ancora. Niko anche li utilizzava, ci nascondeva le partite di cocaina, tra i suoi strumenti.

 L’unica nota che non gli apparteneva era la bicicletta scassata di Nicolas, gettata malamente contro la grande porta a due ante della rimessa, accanto a un vaso pieno di fogli arrotolati, tentativi di disegni mal riusciti.

Aveva trascorso lì dentro i successivi quattro giorni, concentrandosi solo sul lavoro, perché quello era il problema, quando la smania lo prendeva doveva sfogarla per darle un senso, sfogarla fino ad esaurirla per poter tornare a respirare.

Si sentiva languido, colmo di un’esasperazione dolciastra, sollevato come da una carezza. Creare in quello stato di grazia era come fare l’amore, assecondare una frenesia che trovava piacere solo nella sua massima espressione.

Dave però doveva essere nuovamente in rotta con i suoi genitori, perché anche lui aveva occupato in maniera più o meno fissa la tana di Niko e proprio per questo non lo aveva abbandonato un attimo. Aveva passato i pomeriggi seduto per terra contro il muro, magari con una canna, una volta con dell’Lsd che Demian aveva accettato di buon grado: gli acidi lo rendevano sensibile ai colori, li amalgamavano in maniera imprevista, un guizzo di luce, una lucentezza che non avrebbe mai considerato da lucido, una folgorazione che dava un senso ad ogni cosa.

E in tutto questo Dave, come un cagnolino fedele non dissimile a Lalami ed altrettanto desideroso delle sue attenzioni, non lo aveva lasciato un momento con se stesso.

«Cazzo Dave! Ti levi dai coglioni?»

E il ragazzo dalla cresta per l’occasione blu, sbuffava e si lagnava «Mi rompo. Ma non molli mai quei pennelli di merda? Dai usciamo, andiamo a fare una partita a biliardo! Mi sto rompendo il cazzo, Dem!»

Demian aveva perso il conto di quelle uscite fastidiose e delle volte in cui aveva ribattuto «Tu scopi mai quando qualcuno ti guarda?»

Dave la prima volta si era accigliato «Che domanda del cazzo è?»

«È come se stessi scopando e tu mi stessi guardando. Non vengo se un uomo mi guarda»

Le volte seguenti l’amico aveva riso e basta «Ehi Dem, non è che ti ecciti se ti guardo io? Ti sta venendo duro fratello, ammettilo!»

«Vaffanculo stronzo»

Il quarto giorno era sbottato, aveva preso a calci Davide in un moto d’ira, sotto gli occhi indifferenti di Niko che sorseggiava il proprio caffè con totale nonchalance, aveva recuperato cane, cartelletta con gli schizzi e giusto due o tre tele, e se ne era tornato a casa.

La vena creativa non si era esaurita, nonostante i suoi sforzi, al contrario come un fiume in piena lo colmava e soffocava al punto che si sentiva costretto a svuotarsi come un naufrago cerca di svuotare d’acqua la propria scialuppa per restare a galla il più possibile.

I sogni non erano cessati, non si erano prosciugati nemmeno dopo la sua marcia forzata con poche ore di sonno, poco cibo e troppe droghe creative, non si prosciugavano nemmeno ora che era tornato a casa.

Il sesto giorno si era svegliato con un grande mal di testa e la voglia di annegare nel Brufen per anestetizzarsi come si doveva. Aveva aperto gli occhi piano, la stanza era già illuminata a giorno e senza le lenti a contatto e i suoi occhiali da sole vedeva poco e male. Qualcosa di umido e caldo continuava a posarsi con dovizia sul suo volto, lasciando una scia bagnata dietro di sé, ma era così intontito che ci mise qualche istante per mettere a fuoco Lalami, la sua immensa lingua rosa penzolante e la coda morbida che si agitava gioiosa.

Quando finalmente riconobbe i suoi occhioni neri tra il pelo crema balzò all’indietro con uno scatto, finendo oltre il bordo del letto. La caduta rovinosa in un groviglio di lenzuola che ne seguì gli costò una dolorosa botta al fondoschiena.

«Lala!» si lamentò cercando con movimenti spastici di districarsi dalla coperta.

Lalami non coglieva mai il suo tono di rimprovero, la sua sola voce bastava per farla scodinzolare di più e forse non era il cane più brillante che potesse capitargli, ma nella sua dolce dedizione c’era qualcosa di profondamente commovente che la rendeva adorabile. La cucciola lo raggiunse subito per ricominciare a leccare con cura il suo braccio destro, che spuntava oltre la stoffa come un invito palese, per lei, a giocare.

Con rassegnazione e un moto di tenerezza che lo aveva fatto sbollire all’istante, Demian afferrò la piccola palla di pelo, accettando così il suo affetto bavoso, e a sua volta iniziò a grattarla dietro l’orecchio e sul pancino.

Come Lalami si contorceva per potersi mettere pancia all’aria era una cosa che lo faceva sempre ridacchiare, non aveva dignità, solo un morboso desiderio di coccole ed una zampina che si dimenava come posseduta se toccava il punto giusto.

Perso nel suo rituale mattutino ripercorse con la mente, ancora una volta, il sogno appena trascorso.

Perché aveva sognato, di nuovo, lo stesso episodio, era la quarta notte che gli capitava e non riusciva a darsene ragione.

Senza dubbio qualcosa di lei aveva risvegliato un impulso sopito, ma Demian stesso ignorava cosa fosse quella sfumatura che il suo inconscio aveva colto e che lo tormentava tanto profondamente. Capitava d’incrociare il viso di un estraneo e di esserne irrimediabilmente attratto, come a seguire un filo invisibile, eppure non aveva mai provato un tale trasporto per qualcuno e questo lo frustrava. Se lo avesse capito, quel di più, sarebbe riuscito a mettere da parte un’immagine senza importanza che cresceva nella sua memoria in maniera forzata e artificiosa, un ricordo che non lo era davvero ma che lui stesso continuava a vivere come tale.

«La tua storia d’amore con il cane è sempre affascinante, devo ammetterlo»

Al suono imprevisto di quella voce, Demian si dimenò, scacciando il lenzuolo, e si mise a sedere sul parquet, gli occhi spalancati con meraviglia.

Sulla porta, appoggiato allo stipite con le braccia conserte e l’aria da fighetto per cui lui lo avrebbe volentieri preso a pugni, c’era suo cugino.

«An?» la lingua impastata dal troppo silenzio si attorcigliò facendogli biascicare il nome e rivelando il suo stato di poca lucidità. Acchiappò Lalami e la attirò a sé, ché già la sua adorabile palla di pelo si stava precipitando verso il nuovo venuto scodinzolando, e a Dem l’idea non piaceva. Lala, per protesta, gli morse le dita e si dimenò, puntando le zampine contro il suo petto per allontanarlo e raggiungere Julian, ma lui non mollò la presa e non glielo permise. Era assurdamente geloso di Lalami, era la sua cucciola e l’amava al punto che provava fastidio quando tentava di accogliere un estraneo con lo stesso entusiasmo riservato a lui. Il cane non era una persona, era solo una cucciola, e razionalmente sapeva di non poterla trattare come un essere umano e pretendere  che lei capisse la differenza di comportamento che, secondo la sua testa da padrone problematico, avrebbe dovuto adottare per farlo felice; saperlo però non gli impediva di essere possessivo come fosse una donna pronta a tradirlo.
Nel mentre il cugino aveva abbandonato la sua posa da fotomodello solo per scostarsi, con fare teatrale, il ciuffo biondo dagli occhi.

«Non sono la persona che speravi di vedere? Dalla tua faccia potrei quasi credere che finalmente tu ti sia trovato una ragazza» si fermò solo per squadrarlo con la fronte corrucciata ed un sorrisino ironico «Ma da come stringi Lala direi che la tua vita amorosa con il cane procede come sempre!»

Canzonarlo era la ragione di vita di Julian, da quando poi aveva portato a casa Lalami, due mesi prima, Demian si era dedicato a lei come un padre premuroso e ossessivo, soprattutto quando sua madre o sua sorella non erano nei dintorni. Sfogava solo su Lala tutto il suo amore represso e questo atteggiamento gli aveva valso la beffa dei familiari tutti, di Jules in particolare.

Si morse l’interno della guancia e decise che, per quella volta, si sarebbe trattenuto dal fargli notare che non faceva ridere mai neanche un po’.

«Cosa ci fai qui? Non eri in America?»

Julian sorrise apertamente, uno sfavillare di denti e labbra stese che facevano pensare ad un tonto senza pensieri, un libero sciocco che della vita sapeva vedere solo il bicchiere mezzo pieno, come se il male non potesse scalfirlo. Jules era così, completamente diverso da lui, carico di una serenità e di una forza interiore che, forse, avrebbero dovuto farlo sentire in difetto, ma che grazie alla sua spontaneità senza riserve si trasmettevano anche a lui quando erano insieme, come una boa di salvataggio in mare aperto a cui affrancarsi per non affogare. Con quel sorriso ebete, Julian gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi e Demian l’accolse, non liberando però Lalami.

«Sei il solito stordito, sono tornato domenica! Te lo avevo anche scritto, ma tu i messaggi non sai nemmeno cosa siano, vero?» lo rimproverò bonariamente, scuotendo la testa e il suo ciuffo biondo da idolo delle teenager.

Era stato via per un mese.

Era stato pesante, quel mese. Era stato come essere soli, senza avere qualcuno con cui parlare almeno un poco. Era partito alla fine di agosto per New York e Demian, considerati i giorni trascorsi e l’inizio dei corsi universitari, avrebbe dovuto saperlo già da sé che sarebbe rientrato a breve, solo che Jenevieve in quel mese aveva avuto uno dei tracolli peggiori e non era stato in grado di pensare ad altro che a maman.

«Sarah mi ha detto che sei sparito da una settimana. Ha detto che non ti sei più nemmeno fatto sentire»

Incassò la testa tra le spalle.

Quelli erano i momenti in cui si rendeva conto di quanto le parole di Julian potessero pesare su di lui: un suo rimprovero, anche detto con tono giocoso, lo sviliva tanto da farlo tacere, da abbassare gli occhi. La verità era che Demian invidiava Julian e lo ammirava, a modo suo, per quanto lo reputasse uno sciocco che non sapeva far altro che correre dietro alle donne.

Gli invidiava la leggerezza di vivere e gli invidiava Sarah.

Perché Jules viveva con lei, la adorava e poteva trascorrerci insieme più tempo di quanto non fosse concesso a lui da un anno a quella parte.

«Non c’è bisogno poi che ti dica che mia madre è sul punto di chiamare la Guardia Nazionale per recuperarti. Solo prima di uscire mi avrà ripetuto almeno quindici volte che gli risponde sempre la segreteria telefonica» aveva incrociato le braccia al petto ed assunto la sua espressione eloquente da ti conviene parlare, l’unica che, a volte, riusciva a cavargli qualcosa da quella gola senza voce che si ritrovava.

«Come sta lei?» lo sussurrò con tono labile e i suoni strozzati da uno spasmo, e lo guardò appena, con il capo chino. L’ombra morbida delle proprie ciglia abbassate offuscava il volto del cugino: era il senso di colpa che non gli permetteva di affrontarlo a viso aperto, aveva paura della risposta, odiava il proprio egoismo che lo spingeva a scappare e ritrarsi ogni volta che qualcosa lo sfiorava, lo odiava perché poi l’imbarazzo e la vergogna gli rendevano difficile tornare dalla sua piccola peste. Temendo la risposta abbracciò Lalami con più dolcezza, permettendole di ricominciare a leccargli la mano.

Julian scosse la testa sbuffando «Potrà meravigliarti, ma a parte un fratello cretino Sarah sta benissimo. Che tu ci creda o meno la mia cuginetta è tosta, non si lascia abbattere da nulla» socchiuse gli occhi in un’espressione scrutatrice e sospirò «Contrairement à toi, direi»

Demian inclinò il capo e si morse ancora la guancia, per seppellire l’imbarazzo. Si rendeva conto di non avere un bell’aspetto in quel preciso istante, si era curato poco.

Succedeva sempre così, era un istinto che non poteva combattere, quando creava pensava solo a creare, a dipanare quel filo di pensiero ingarbugliato per cercare di arrivare al bandolo, bandolo che non afferrava mai. Ed infatti, come a punirlo, ogni sua opera era incompleta, vuota, nonostante vivesse solo per quel momento, l’attimo dell’ultima pennellata, dell’ultimo sguardo ad un lavoro finito.

Non si faceva la doccia da qualche giorno, aveva dormito male, mangiato meno e fumato troppo. Non sapeva come giustificare quella sua condizione da rifiuto.

«Ho avuto da fare»

Posò a terra Lala, che non aveva smesso un solo istante di muoversi, e subito la cagnolina corse a rosicchiare il lenzuolo. Gli strappò un sorriso intenerito, tutto di lei era tenero e da coccolare. Jules aveva la fronte corrucciata, una piccola ruga si stava scavando fra le sue sopracciglia, stava rimuginando sul senso delle sue parole e Demian non se ne meravigliò: se c’era qualcuno nella sua vita che non prendeva mai per buona una sua affermazione ma ne ricercava sempre un senso nascosto, come un messaggio in codice, quel qualcuno era suo cugino.

«È tornata?» la ruga si appianò all’istante e il volto di Julian si aprì un sorriso entusiasta che lo imbarazzò, se possibile, più di tutta la conversazione cuore a cuore appena avvenuta.

«Oui» mormorò, senza distogliere la propria attenzione da Lalami.

«Mon dieu, ti è tornata l’ispirazione finalmente, dopo mesi di facce lunghe neanche t’avessero ammazzato il cane, e il massimo che sai fare è quella smorfia e dirmi questo stupido “oui”?»

Julian si lasciò andare ad un’energica manata d’incoraggiamento amichevole fin troppo sentita sulla sua spalla, manata che riuscì perfino a farlo vacillare sui propri piedi. Demian si passò la mano sul collo, a scompigliare i capelli già di per loro arruffati in un groviglio di lana bianca, mentre cercava di trovare le parole e di domare il proprio imbarazzo. Era vero che da mesi aveva sofferto una crisi da tela bianca che l’aveva abbattuto fino alla depressione: non riuscire a dipingere era per lui come non riuscire ad urlare, a cantare, a piangere, una frustrazione costante e un dolore sordo che lo faceva sentire impotente e inutile, ma avrebbe preferito riuscire a tenere per sé quegli stati d’animo da donna in fase premestruale, e che fosse stato tanto evidente persino ai suoi parenti lo poneva in uno strana e immotivata condizione di mortificazione.

Julian, troppo entusiasta per lui per rendersi conto della vergogna in cui stava sguazzando, riprese «Come minimo ora devi farmi vedere che cosa sei riuscito a tirare fuori»

Demian sussultò e finalmente sollevò il volto per guardare in viso il cugino, aveva gli occhi grandi dal panico. Jul non se lo lasciò sfuggire e arricciò ancora le sopracciglia, in un moto di perplessità.

«Tutto bene?»

Il momento peggiore per lui era sempre quello delle spiegazioni, e sulle tele conservate nell’altra stanza sapeva di doverne dare molte, e non le conosceva nemmeno con certezza. Si sentiva in difetto se considerava che non gli era più riuscito di fare neanche uno schizzo a carbone degno di nota per mesi e poi, semplicemente, era bastato un incontro puramente casuale e anonimo per portargli una ventata d’ispirazione sbocciata in maniera imprevista e morbosa. Piuttosto che ammettere la vera ragione di quel momento creativo, avrebbe preferito poter tornare allo stadio di monotona apatia e di sentimenti inespressi precedente quei suoi sogni ricorrenti.

Lo sapeva perfettamente, che Jules non gli avrebbe più dato tregua se avesse visto i suoi disegni.

«Ehi Dami? Ci sei?»  la mano di Julian sventolò insistentemente a pochi centimetri dal suo naso. La scacciò con un gesto secco del braccio «Quanto sai essere noioso. Sì, ci sono. No. Non ho intenzione di farti vedere nulla»

Il suo migliore amico abbozzò un leggero sorriso che doveva essere di comprensione, ma che nascondeva una finta condiscendenza che Demian conosceva fin troppo bene. Nonostante lo sapesse, non riuscì comunque a precederlo: con una rapida svolta Julian corse fuori dalla stanza e attraversò sbandando il corridoio. Quasi sbattè contro la porta di quella che un tempo era stata la lavanderia di casa e che ora era diventata il suo personale atelier. Riuscì a raggiungerlo e ad afferrargli il braccio per strattonarlo poi bruscamente, solo che ormai era troppo tardi, il cugino si era già irrigidito davanti all’ultima tela abbandonata sul cavalletto, e si guardava attorno sbigottito.

La pupilla sembrava mangiare il verde dorato dei suoi occhi grandi, così simili a quelli di suo padre e distanti dal taglio obliquo ed esotico di Claire.

Demian si sentì colto in flagrante, abbandonò stancamente le braccia lungo i fianchi e chinò un poco le spalle, come per prepararsi istintivamente ad incassare i commenti che sarebbero seguiti a quell’analisi indesiderata.

Sul muro, fissati con delle puntine, e appesi ad asciugare con delle pinze ad un filo, decine di fogli facevano sfoggio di un unico, ricorrente soggetto.

E il soggetto era quella ragazza sconosciuta incontrata più nel mondo onirico che nella vita vera.

Si stropicciò il viso e rosicchiò la guancia nel suo abituale gesto di nervosismo, alla ricerca delle parole giuste che spiegassero un’ossessione che sfuggiva a lui stesso. Era tormentato dalla presenza soverchiante di quella ragazza, c’era qualcosa in lei, nella sfumatura non colta dei suoi occhi, nei movimenti infantili e nella piega aggraziata del suo capo in una muta confusione, qualcosa che razionalmente non riusciva a identificare, ma che il suo inconscio doveva aver riconosciuto. Una sfumatura di nostalgico forse, un senso di appartenenza, come se solo guardandola avesse potuto sapere in un istante che loro erano della medesima sostanza, un’essenza condivisa nata dalla stessa fonte. E non importava rivederla, non era nei suoi interessi conoscerla, semplicemente l’aveva riconosciuta come sua eguale ed era rimasto affascinato dalla sua bellezza ingenua e inconsapevole.

«Non ha gli occhi» constatò Julian, parlando dopo qualche minuto di silenziosa contemplazione.

«No, infatti»

«Io te lo dico, è un po’ inquietante»

Dem sollevò l’angolo destro della bocca in un cenno divertito, per il tono petulante che Julian aveva usato e per quel suo familiare quanto terribile vizio di affermare una sua personale verità con un “io te lo dico”. Si concesse una vanitosa e auto celebrativa occhiata a tutti i propri lavori, con un sottile compiacimento per l’uso dei colori ad olio ed una punta di indisposizione nel realizzare, ancora, che mancava qualcosa alle sue tele, qualcosa di essenziale.

L’incapacità che sentiva di afferrare l’essenziale era solo un’altra manifestazione dell’inettitudine che lo caratterizzava e che proprio non riusciva a combattere. In quasi tutte le opere, la ragazza era rappresentata da lontano, sottile come un giunco, appoggiata con delicatezza ad un albero o magari di schiena, con quella massa di ricci indistinta disciolta sulle spalle. Era questo che mancava, il suo viso, era questa l’assenza principale.

Si conosceva abbastanza da sapere che, finché non fosse riuscito a raffigurarla per come era davvero, disciogliendo nei colori l’impressione onesta di quello che gli aveva lasciato addosso, non si sarebbe mai liberato di quell’asfissiante momento di sfogo artistico.

Jules tossicchiò con fare forzato «Allora sulla ragazza ci ho visto giusto, eh?» ammiccò, dandogli una leggera gomitata sul braccio.

Demian si ritrovò ad alzare gli occhi al soffitto, esasperato a prescindere «No. Sei completamente fuori strada»

Suo cugino si accigliò nuovamente, e questa volta accompagnò il gesto con un arricciamento grottesco del naso. Dem avrebbe solo voluto essere inghiottito dal pavimento, per non dover dire chiaramente che, in qualche modo, aveva assunto l’atteggiamento di uno psicopatico, potenziale stalker.

«Non è la mia ragazza. Non la conosco. Non ci ho mai parlato»

Maledì la propria scarsa capacità di eloquenza e il sorrisetto provocatorio dell’amico. 

«Beh, da questi non si direbbe! Sei diventato uno stalker cuginetto mio?»

«No!» urlò subito.

Non riuscì a darsi un contegno e cadde dritto nella provocazione di Jules, per questo si maledì di nuovo all’istante. Per quanto non fosse solito alla sua persona, stavolta si ritrovò ad arrossire, come colto in fallo, e d’altronde era tremendamente facile con la sua carnagione, ancora più facile se le frecciatine ricevute erano perfettamente in linea con i suoi stessi pensieri.

«Senti, putain, è bella va bene? È un buon modello di base. Niente di più e niente di meno!»

Jul scoppiò in una fragorosa risata che lo irritò.

«Quindi è solo una musa ammirata da lontano?»

«Solo intravista» sibilò a denti stretti.
Il cugino lo soppesò un istante, facendo scorrere le pupille attente dalle dita dei piedi scalzi alla punta dei capelli spettinati, poi gli cinse a tradimento il collo, trascinandolo fuori dalla stanza.

«Fratellino mio, tu hai seriamente bisogno di una ragazza!»

Dem lottò per liberarsi da quella stretta e quando non ci riuscì si ritrovò a sbuffare, esasperato e imbronciato come un bambino.

Con tutto l’affetto possibile, avrebbe voluto restare solo, non di certo in compagnia di Jules, non in quel momento. L’immagine del sogno era labile e i contorni della sua memoria iniziavano già a slabbrarsi come bordi sdruciti di una tovaglia senza orlo. L’intreccio si dissolveva e così il ricordo, e lui non aveva avuto ancora il tempo di acciuffarlo per fermarlo nel tempo e rendere eterno nella sua memoria quell’incontro onirico - la piega di quel collo morbido e candido, sottile, la voluttuosità di quei riccioli, e il sorriso, quel sorriso da Esmeralda.

Era triste sentirlo scivolare via, avrebbe voluto dipingerla ad arcobaleno, quel mattino, come se il corpo di lei fosse stato un prisma di luce dalle mille facce che rimandava tutti i colori insieme, perché quella notte la sensazione che gli era rimasta addosso, viscosa e molle, indefinita, non aveva un solo colore e non era reale, non era terrena, era una sensazione sospesa e languida, indolente come un gatto disteso a prendere il sole.

Non aveva colore, aveva solo luce.

Quella ragazza sapeva di luce, forse ne aveva anche la consistenza e l’odore, quel profumo di terra calda e aria rarefatta, quella sensazione di bruciore sulla pelle gradevole e soffocante insieme. Senza che se ne accorgesse il pensiero era ancora scivolato su di lei e si stava domandando, per la millesima volta, perché quella sconosciuta si trovasse nel cortile dell’ospedale quel giorno e cosa stesse facendo e per quale ragione. Gli piaceva, a volte, idealizzare il tutto e rivedere quei ricordi con le tinte di un quadro antico, rinascimentale, toni vividi e ombre nette e taglienti come lame, a plasmare figure corpose e solide simili a statue. Un’immagine sacra dove lei quasi lo metteva in soggezione, dove ogni gesto era poesia e aveva qualcosa di nascosto, che gli sfuggiva, ma che dava profondità a quel momento sopra ad ogni altro. Una verità celata a lui preclusa ma che, immaginava, lei potesse vedere e sentire, come se fosse Lachesi.

Allora tutti quei colori e quella luce assumevano un senso arcano e lo rasserenavano.

Lalami, nel frattempo, li aveva seguiti scodinzolando senza togliergli gli occhietti vispi di dosso, e aveva cercato di richiamare la sua attenzione, per ricevere anche solo una carezza. La notò e gli venne da ridere «Cosa me ne faccio di una ragazza? Io ho Lala, ricordi?»

Lala lo osservava davvero con la tenerezza che si riserva ad un amante, innamorata persa, e Demian la adorava per questo, la cagnolina era l’unica intima compagnia che si era concesso da quando Sarah era andata a vivere da sua zia e sua madre faceva avanti e indietro dall’ospedale. Per questo aveva sviluppato una dipendenza assurda e irragionevole verso l’affetto incondizionato che Lalami gli dimostrava ogni giorno.

«Sei un caso perso. Hai quindici anni: i tuoi ormoni si può sapere dove cazzo sono?»

Arrivati in sala Dem si staccò da lui, ridendo e scuotendo insieme il capo. Si trovava sempre senza parole davanti alle sue affermazioni troppo indiscrete.

«Almeno dimmi che non sei più vergine! Devi rispettare le tradizioni di famiglia!» continuò Jules imperterrito, ignorando il suo palpabile imbarazzo, magari non visibile dalle sue espressioni ma certamente percepibile nei gesti.

«Non è una tradizione di famiglia, ma una tua tradizione» gli fece notare dandogli le spalle per chinarsi sulla televisione e accenderla insieme alla Playstation «E solo perché eri un puttaniere!» specificò, nella speranza di fargli tagliare il discorso.

«Non puoi capire. Io ero il tuo modello, ero responsabile della tua istruzione! È stato un grande peso per me sapere di essere il tuo maestro»

Dem scosse con rassegnazione la testa: speranza vana.

«Risparmiami le tue stronzate di prima mattina»
Gli passò un joystick e Jules lo prese al volo.
«È quasi mezzogiorno Dami. Capisco che il mondo reale ti va stretto, ma non è proprio “prima mattina”»

Allora Demian si raddrizzò e scrollò le spalle con noncuranza «Non è che mi cambi granché. Fifa ti va bene?»
Era solo di un torneo alla Play di cui aveva bisogno, per distrarsi in maniera sana, una volta tanto, senza fare sciocchezze. Questo era ciò che gli suggeriva una vocina nella sua testa, una petulante, fastidiosa voce che Demian associava al suo latente spirito di sopravvivenza che cercava, talvolta, di farsi sentire.

Di cose sciocche e senza senso ne aveva fatte fin troppe nell’ultimo periodo e ora che Julian era tornato, forse poteva concedersi una tregua e ricominciare a respirare invece che cercare di soffocarsi da solo.

«Ovvio» rispose spiccio Jules.

Dem si lasciò andare in modo poco elegante accanto al cugino e tacque in attesa che il gioco si caricasse, per godersi quella piccola parentesi e ricollocarla finalmente nella sua quotidianità fin troppo scossa. Gli era mancato davvero, trascorrere la domenica pomeriggio con Julian, a bere Ceres perché l’amico apprezzava solo la birra doppio malto, a fumare e giocare tutto il tempo a calcio. Era stato solo un mese, ma gli era parso di più, forse era stato solo il mese più difficile.

Demian iniziava a sentirsi senza speranza e questo gli faceva paura, forse per questo era stato il più difficile.

Probabilmente maman non sarebbe tornata a casa.

Per questo era stato difficile.

Come se avesse letto l’improvviso incresparsi dei suoi pensieri, Lala lo chiamò grattando insistente la sua gamba con la zampetta morbida. La sollevò e la poggiò delicatamente sul divano accanto a lui, permettendo che gli leccasse la guancia quando la piccola palla di pelo si sporse con la lingua a penzoloni verso il suo volto.

La mollezza viscida della sua linguetta gli faceva il solletico e si ritrovò a ridacchiare.

«È la cosa più schifosa che io abbia mai visto!» non perse occasione di apostrofarlo Jul, con una smorfia disgustata. E poi, ancora «L’hai viziata troppo»

Dem lo incenerì con una delle sue occhiate più ostili «La mia Lala può fare tutto quello che vuole!» soffiò gelido.

«Sì, certo. Tu e quel cane avete un rapporto malsano, io te lo dico! Ti sbaciucchi lei quando sei depresso?»

Una cosa di Julian che non gli era mancata era la sua sfacciataggine e sì, anche quella capacità rara di dire sempre la cosa sbagliata e di fare osservazioni demenziali gratuite.

«Senti, scegli la tua squadra e non rompermi»

Jules sorrise condiscendente, inclinando il capo come un cucciolo perplesso prima di sollevare le mani in un gesto di resa «Ok, ok. Concetto afferrato, non toccare Lalami. Piuttosto, ricordami di darti il regalo che ti ho portato dopo, ti piacerà un sacco»

Mugugnò un “Ok” scarsamente interessato, tanto lo sapeva che il cugino non si sarebbe offeso per la sua mancanza di entusiasmo. Aveva un rapporto discutibile con i regali, lo mettevano in imbarazzo e allora cercava di tenersi sul leggero per non pensarci.

«Ah, Dami» riprese ancora quello, dopo un altro istante di silenzio «Prima che inizi la partita…» esitò, e a sentirlo esitare Demian mise in pausa il gioco per alzare finalmente lo sguardo assonnato su di lui, in un barlume di lucidità più consapevole: Julian era privo di tatto, senza speranza, e nei suoi confronti anche una grande carogna. Era insolito vederlo trattenersi, come alla ricerca delle parole giuste, quando in genere sparava a zero.

«Quella ragazza, perché non aveva mai gli occhi?»

Deglutì rumorosamente un groppo di saliva che minacciava di soffocarlo e si morse l’interno della guancia e poi succhiò il labbro inferiore, in una concatenazione di gesti abituali che gli davano il tempo di raccogliere i pensieri.

Anche il ricordo di quella notte era perso, di nuovo, come ogni giorno negli ultimi sette giorni. Eppure, Demian ci provava davvero, era sicuro di riuscire a distinguerli, nei suoi sogni, quegli occhi da gitana incantatrice.

Era sicuro di riuscire a vederne il colore e quella sfumatura sconosciuta che, in quel parcheggio, non era riuscito a mettere a fuoco abbastanza velocemente prima che lei se ne andasse. Doveva essere quello, il buco nero d’incompletezza e frustrazione per cui non riusciva ad essere soddisfatto e non riusciva a smettere di provare ad afferrare l’essenza di lei.

«Perché non me li ricordo» chiarì a voce bassa, mentre le dita scivolavano nel morbido pelo di Lalami per dargli un contatto con il reale e non farlo perdere nei propri pensieri «Non sono riuscito a vederli, o forse li ho visti, ma non riesco a ricordarli. Credo di sognarli quasi ogni notte, però quando mi sveglio, al mattino, sono già scivolati via e mi resta solo l’impressione di quello sguardo sulla pelle. Vorrei solo catturarlo, solo per un momento, allora forse tutte quelle immagini avrebbero un senso»




ANGOLO AUTRICE

 

Questo è un capitolo insolito, almeno è l’impressione che ne ho ricavato rileggendolo ancora e ancora, per essere sicura di non aver creato una situazione eccessivamente onirica, eppure temo sia proprio quello che è successo e, come sempre, sconfitta dai miei stessi impedimenti getto la spugna!

L’ispirazione, che sia nello scritto come nell’arte figurativa, è sempre difficile da afferrare, va e viene e a volte sono proprio le sciocchezze più impensabili a far nascere un germoglio di creatività, uno sguardo, un movimento, una frase o una situazione.

Personalmente, mi capita di far trascorrere quasi un anno tra un disegno e l’altro, e non è che nel mentre non scarabocchi, ma un lavoro vero, intriso di tutta me stessa e della mia fatica e della mia passione, quello mi capita così raramente da farmi disperare.

Il disegno è il mio grande amore non corrisposto che si fa desiderare, e per questo ho scelto d’impostare questo capitolo in questo modo, potrà sembrare assurdo ed ognuno effettivamente percepisce i periodi di vuoto creativo a modo proprio, ma in questo io e Dami siamo simili (ovviamente lui è più talentuoso, ma non vale visto che le sue doti artistiche sono ispirate a quell’idiota di mio fratello e beh, la statua della tigre scuoiata fatta durante il suo secondo anno ancora mi fissa con baldanza e ho passato giornate intere a farne bozzetti, senza farmi vedere per non omaggiarlo troppo!) e volevo che almeno qualcosa di me lo avesse!

 

Per esempio, e lo condivido così, anche se non vi interessa, questa storia è nata in una giornata d’attesa in ospedale. Ero così esasperata che ero scesa a prendermi una cioccolata alle macchinette insieme a mia cugina, ma ovviamente quando avevo ritirato il bicchiere non c’era la paletta, ed ero tanto irritabile da averci fatto un monologo sopra! Poi, tornata in camera, avevo preso un giornale sul tavolino e avevo letto la notizia di un gruppo di ragazzi arrestati per spaccio.

 

Ecco, adesso sapere da dove nasce il mio Dami!

Oggi sono in vena di chiacchere a vuoto, ma tra qualche giorno sarà l’anniversario di quel giorno, ed io sono una nostalgica, è come se parlassi del mio bambino troppo cresciuto e mostrassi le foto della sua infanzia alle vicine di casa annoiate che non sanno come sottrarsi al monologo!

 

Mi ritiro e spoilero (sì, sono un’immensa, carognosa spoileratrice!) dicendovi che finalmente, nel prossimo capitolo la ragazza avrà un nome, ché forse è anche il caso di iniziare a conoscerla!

 

 

Ps: finalmente, evviva Julian!

 

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Capitolo 8
*** Disarmato ***


À Demian


Capitolo sesto

Disarmato


 

Alle sei e mezza del mattino faceva freddo, non solo per il vento. Era l’aria ad essere fredda, intrisa della pioggia che forse sarebbe caduta, un odore pungente e fresco, di pulito, pensava Demian, come se il mondo non l’avesse ancora insozzata di smog e fumo.

La sfumatura nera del cielo era ben lontana dall’impallidire e dava l’insolita e inquietante sensazione che non ci fosse nulla all’orizzonte, oltre le pozze di luce che macchiavano l’asfalto. Solo la luce calda dei lampioni rendeva definiti i contorni delle strade. Un clima a metà che lo lasciava in un torpore fiacco e con un malumore abbastanza forte da fargli intuire senza problemi quanto anche quella giornata gli sarebbe parsa pessima e insostenibile.

In mezzo ad un parcheggio desolato, con lo zaino appeso mollemente alla spalla e il naso arrossato per l’umidità, ancora cercava una ragione che lo illuminasse sul perché, quella mattina, avesse deciso di puntare la sveglia tanto presto.

Dopo aver trascorso il pomeriggio con Jules aveva provato la familiare nostalgia per sua madre, un sentimento amaro che lo avvolgeva ogni volta che si concedeva di trascorrere del tempo con la sua famiglia. Voleva vederla soprattutto per lavare via il senso di colpa, perché quando maman era costretta in ospedale, Dami non riusciva ad impedirsi di diventare latitante, un istintivo ribrezzo gli intimava di tenersi lontano da quelle grandi stanze bianche, e lui a combattere contro le proprie ansie non era mai stato bravo.

Imboccò un vialetto rivestito di foglie accartocciate che sotto i suoi piedi crepitavano la propria agonia, e ad un tratto si bloccò, esitante, non sapeva nemmeno lui per quale motivo. I contorni delle foglie che rivestivano il cortile e inghiottivano le radici degli alberi erano appena percepibili, ma quella percezione discreta bastava a rapire la sua attenzione.

E a farlo pensare a lei.

La verità che non voleva raccontarsi e negava con tutto se stesso era tanto ovvia quanto irritante: era il pensiero d’imbattersi ancora in quella ragazza, anche solo per errore, a frenarlo dal tornare in ospedale nel pomeriggio.

Era colpa sua se si stava presentando da sua madre fuori dall’orario di visite, colpa di lei e di Julian anche, che l’aveva assillato con mille domande e ossessionato con le sue congetture. Dopo aver condiviso quell’unico, sciagurato momento in cui, per vie a Dem sconosciute, era stato ghermito dal fascino discutibile di quella ragazzina, Julian aveva completato l’opera e provveduto a rendergli un incubo l’idea di incontrarla ancora.

Non voleva vederla, ma perché avrebbe dovuto ritrovarla di nuovo lì?

Lo sapeva fin troppo bene, che le persone normali avevano una vita, non trascorrevano il loro tempo in ospedale.

Soprattutto non alla sua età.

Scosse la testa e si costrinse ad andare oltre, a non fermarsi a guardare il paesaggio più banale della sua vita come se fosse l’unico collegamento che gli era concesso con quella rara creatura.

Il cugino lo aveva davvero condizionato troppo, aveva persino rinunciato ad assecondare la propria vena artistica, dopo tutte le frecciatine ricevute, ed il risultato prevedibile era che si sentiva compresso e a disagio, come fosse troppo grande in un corpo troppo piccolo. Continuare però a tentare di afferrare quello sguardo ora gli faceva pensare di star veramente diventando uno stalker.

Si appoggiò alla maniglia della porta in vetro, e questa sotto la leggera pressione girò lentamente. Lo accolse la calda luce soffusa della hall e una vampata di calore che lo colpì in pieno viso, quasi soffocante in contrasto con la freschezza dell’aria che precedeva l’alba. L’ambiente a quell’ora era sonnacchioso e pigro, ma non mancava comunque una fila di persone in attesa che occupava con sonnolenza le seggiole in plastica blu. Tutti genitori con i propri figli, bambini accoccolati alle madri, altri più grandi con lo zaino di scuola vicino ai piedi.

Doveva essere la mattinata degli esami del sangue, pensò, e lo pensò con una punta di amarezza, perché gli ricordavano Sarah, Sarah che doveva controllare costantemente i suoi valori, Sarah che dopo gli sorrideva, pallida come un piccolo fantasmino buffo e dolce, e non aveva paura o, se l’aveva, non l’aveva mai mostrata.

Per un motivo che lui stesso non sapeva spiegarsi e nonostante si fosse ripetuto che no, assolutamente, in lei non voleva imbattersi neanche sotto la più atroce tortura, fece scorrere con un’occhiata veloce tutti i volti, alla ricerca di una massa di ricci e di una felpa vivace.

Ovviamente la ragazza non c’era, com’era normale che fosse, eppure questo non bastò a lenire la delusione e il moto di vergogna per essersi sentito quasi tradito, come fosse una colpa che lei non fosse lì, seduta in quel mare di sconosciuti come una tinta di colore fuori luogo.

Accantonò quel misto di sentimenti contrastanti e si decise a raggiungere il banco informazioni, dove Marisa, con i suoi occhiali a ellisse pericolanti sul naso adunco e le rughe sul collo morbido, era troppo concentrata su alcuni documenti per notarlo.

Sembrava stanca ed anche più anziana. Non aveva mai portato bene i suoi cinquant’anni, ad occhio chiunque ne avrebbe aggiunti almeno una decina, ma quella mattina era sfibrata non solo nell’apparenza, era qualcosa che si leggeva nella linea bassa dello sguardo.

«Buongiorno Marisa. Giornataccia?»

L’infermiera sussultò, alzò gli occhi su di lui ed il volto le si sciolse in un sorriso dolce che accentuò le rughe d’espressione e la rese quasi tenera, una dolce vecchina.

«Demi! Tesoro, come mai già in piedi? Non vorrai mica scatenare l’apocalisse!»

Demian ammiccò con un ghigno verso la sala d’attesa «No, per oggi mi accontento di farmi due risate mentre cerchi di gestire madri mansuete in menopausa»

Marisa si lasciò andare ad una risata leggera, scrollando il capo «Sei terribile» commentò soltanto, poi però lo guardò con un’intensità diversa, che celava una qualche tribolazione a lui poco chiara.

«Tu come stai?» gli domandò cautamente, dopo un lungo momento di silenzio contemplativo, e con esitazione aggiunse «Jen mi ha chiesto di te in questi giorni. Era preoccupata, non ti ha più visto e nemmeno sentito»

La piega ironica del labbro di Demian si abbassò quasi a rallentatore, non riuscì a camuffare il proprio turbamento né riuscì a non incupirsi.

«Tutto normale» pronunciò veloce, come a giustificarsi. Poi si passò piano una mano sul collo e chinò appena il capo «Tu sai… sai quando potrò…» la guardò da sotto le lunghe ciglia e la trovò corrucciata «Quando potrà tornare a casa?»

Il cambio repentino d’espressione della donna lo gelò.

«Avevo questo brutto presentimento» sospirò lei, come affranta, e ancora «Non te lo hanno detto, vero?»

Il braccio gli ricadde inerte lungo il fianco, mentre con lo sguardo confuso e gli occhi grandi di panico e infantile paura, Demian cercava nel viso familiare dell’infermiera una calma e un conforto che dissipassero l’ansia.

Non riuscì a trovarli, Marisa era misurata e pacata, fin troppo cauta, come dovesse disinnescare una bomba pronta a esplodere senza preavviso.

Gli mancò il respiro, strinse i pugni, cercò d’inalare aria, di non fasciarsi la testa, ma conosceva quella donna da sette anni ormai, la conosceva bene, gli era stata vicino, gli aveva accarezzato i capelli e offerto cioccolate calde e parole dolci, si era seduta accanto a lui.

E gli aveva sempre dato le notizie più difficili della sua vita.

Gliele aveva date con quell’espressione contrita.

Gliele aveva date con l’afflizione di non poter fare altrimenti, come se almeno la verità, almeno quella, gliela dovesse.

 Quello che stava per sentire non gli sarebbe piaciuto.

«Cosa?» la nota di accusa non sfuggì a Marisa, lo seppe nel momento esatto in cui gli occhietti contornati da una fitta rete di rughe si fecero lucidi a tradimento.

«Non la dimettono Dami. Tua madre… Jenevieve non vuole tornare a casa, ha deciso di restare qui. Non dovrei essere io a dirtelo, ma pensavo fosse per questo… pensavo fosse per questo che non ti ho più visto. Pensavo non volessi vedere»

Non si era mai sentito tanto intontito, con la testa leggera e sospesa, non c’era un senso e se non c’era un senso allora non poteva essere reale.

«Le parlo io… le dirò che va bene, che può tornare. È solo preoccupata»

Marisa scosse piano la testa, rassegnata in modo insopportabilmente doloroso.

«Tua zia si è già occupata di tutto, Jen è decisa tesoro, vuole restare qui»

Deglutì a fatica e rimase in silenzio, non riusciva neanche a pensare di muoversi. Si rese conto, e questo lo fece sentire ancora più sgomento, di non avere niente da dire, assolutamente niente. Si era immaginato infinite volte quel momento, come una premonizione o un presentimento costante di catastrofe sopra di lui, ed aveva sempre creduto che avrebbe combattuto lo strano buco nero che gli si stava aprendo nel petto con tutte le parole che aveva sempre taciuto.

Si era sbagliato.

Quando la terra mancava sotto i piedi, all’improvviso, a tradimento, anche le parole venivano risucchiate dal buco nero insieme a tutto il resto, ad ogni speranza, ad ogni castello in aria costruito con la stessa tenacia con cui un bambino si ostina a creare torri in riva al mare. Le onde si erano portate via ogni cosa e gli rimaneva solo sabbia tra le dita ed un vuoto nel petto, un vuoto strano che stava trasformando in nulla ogni cosa intorno a lui.

Come se il tempo si fosse arrestato, e la sua vita fosse rimasta sospesa a quel frammento di esistenza, quel momento crudele, a quel “non la dimettono” che faceva più male di un pugno in pieno viso.

Cercava di riflettere, ma riusciva solo a stringere un meschino pensiero: aveva deciso senza di lui.

Non lo aveva consultato, non ne avevano parlato, aveva scelto da sola, come sempre. Si era illuso che almeno nella malattia, forse, le cose sarebbero state diverse, non sarebbe stato lasciato indietro, ed invece al momento cruciale maman non era cambiata, aveva fatto la sua scelta e la sua scelta non lo contemplava.

«Dami... stai bene?»
Per la tensione delle braccia e di quei pugni, serrati forte come se da soli potessero tenerlo in piedi, ogni muscolo gli doleva, eppure ne era consapevole solo vagamente, perché non stava pensando, non stava vedendo, era tutto assurdamente ridicolo.

Come avrebbe potuto stare bene?
poi un barlume di realtà: doveva essere colpa di Claire, era senz’altro colpa di Claire, ché la zia non era mai stata d’accordo, non voleva che fosse lui a prendersi cura di sua sorella, non voleva che stessero loro due soli in una casa tanto grande. E maman non poteva volerlo lasciare, non ci credeva, doveva essere stata Claire e maman non aveva avuto il coraggio di dirgli che lo abbandonava.

No, non aveva avuto il coraggio neanche di lasciarlo.

«Dami? Mi stai facendo paura»

Alzò gli occhi su di lei, cercò di metterla a fuoco e ci riuscì appena, come trovarsi di fronte un’ombra indistinta, ma la lingua era appiccicata al palato e secca come carta vetrata.

«Posso?»

Marisa abbozzò un sorriso stanco e triste, di chi sapeva comprendere anche senza parole. Infatti, annuì piano e cercò d’infondere dolcezza nella sua aria dolente.

«Certo che puoi andare tesoro. Non restare lì troppo e non svegliare nessuno»

Le solite regole quando visitava fuori dall’orario.

Si volse meccanicamente e con lentezza esasperante superò l’ascensore per raggiungere le scale. Sentiva il bisogno di camminare per ossigenarsi il cervello forse, sapeva solo, una certezza assoluta, che se fosse rimasto immobile in un piccolo spazio claustrofobico avrebbe perso la ragione.

Con lo schiocco della porta si ritrovò solo.

Non era vero che non aveva nulla da dire, aveva così tanto che sentiva la gola ostruita e gli venne un conato di vomito. Si chinò in avanti con una mano sulla bocca e l’altra stretta spasmodicamente al giubbino, sullo stomaco, come potesse strapparselo dall’addome. Deglutì a stento un groppo di saliva insieme alla bile ed un fievole lamento abbandonò appena le labbra dischiuse.

Aveva caldo, gli bruciavano terribilmente gli occhi, e il lamentò scivolò in un singulto leggero. Strinse con più forza la mano sulla propria bocca, cercò di tapparsela con tutta la cattiveria che possedeva, ma non ci riuscì.

Il singulto divenne un singhiozzo, e le palpebre erano umide e vischiose di pianto e non voleva piangere, non voleva davvero, ma non sapeva come smettere, gli mancava il fiato e bruciava anche la gola e bruciavano i polmoni.

No, non riusciva a pensare, non riusciva a dirsi nulla.

Era solo nella tromba delle scale come era solo sempre, un’altra patetica metafora della sua esistenza, e davanti a quella solitudine sapeva solo arrabbiarsi con tutto se stesso, non riusciva a rassegnarsi. Afferrò lo zaino e lo scagliò con tutta quella collera compressa contro il muro, guaendo il suo dolore da animale ferito, ma non bastò a lenire la frustrazione.

Si passò nervosamente una mano sul volto, tra i capelli scompigliati, e in quel momento, nascosto dal mondo, capì, capì davvero. Pensava di essere stato disperato in passato e che il mondo fosse un luogo abietto e crudele, invece era lui a non aver capito niente, non lo aveva mai davvero assaggiato, il dolore, non ne aveva sentito l’amarezza sulla lingua, la costernazione più nera non lo aveva mai ghermito, mai.

Era solo uno sciocco e un patetico, triste, drammatico ed inutile ragazzino che non sapeva nulla, che pensava sarebbe stato in grado di gestire quel dolore ed invece non era minimamente preparato, si era solo illuso di una forza che non esisteva e non era mai esistita.

E allora, di fronte a tutta la sua debolezza, si ritrovò arreso, a piangere, a singhiozzare sempre più forte, in lamenti tanto strazianti che forse Marisa avrebbe sentito, ma cosa importava?

Cosa importava se lei stava morendo?

Stava morendo.

Non voleva tornare a casa perché stava morendo.

Moriva, e non aveva nemmeno il coraggio di dirglielo.

«Merde!»

Tirò un pugno al muro, urlando, e poi lo fece di nuovo e di nuovo ancora.

«Merde! Merde! Merde!»

Una fitta si propagò con uno spasmo dalle nocche a tutto il braccio. Si fermò a guardare estraniato quelle dita che tremavano e non riusciva più a chiudere, la pelle raschiata da cui scivolavano rivoletti di sangue, una gabbia di linee astratte come pittura colata. La carne viva pulsava, ma quasi non riusciva ad accorgersene, la gola ostruita gli rendeva difficile respirare, il fiato era pesante e non riusciva a placare i singhiozzi inconsapevoli. Si appoggiò al muro, cercò di accumulare aria, ma persino stare in piedi era uno sforzo che gli costava troppa fatica.

Le ginocchia gli cedettero e Demian si lasciò andare piano, scivolò contro la parete fino a ritrovarsi rannicchiato a terra.

Nascose il viso fra le gambe e si passò nervoso una mano tra i capelli, non riusciva a fermare l’attacco di panico, non riusciva a non piangere e non provava vergogna, non era abbastanza lucido per controllarsi.

Perché era ovvio, e solo lui non era stato in grado di comprenderlo: era il punto di non ritorno.

Era la fine.

E lo sapeva, che sarebbe dovuto accadere, lo sapeva che maman non sarebbe rimasta per sempre e nemmeno il tempo che ad altri era concesso, e allora perché non riusciva a respirare?

Era solo un bambino.

Si sentiva come da bambino, come quando aveva sei anni e sapeva solo farsi piccolo davanti alle urla e alla rabbia, come quando ne aveva otto e si raccoglieva ai piedi della porta chiusa della camera da letto di maman per ascoltarla piangere. Non era cambiato nulla in quei dieci anni, restava un inutile inetto incapace di camminare da solo, ché Dami lo aveva sempre saputo di non valere niente, ma non gli importava, non gli importava della paura di sua madre, era troppo sopraffatto dalla sua stessa.

Lei non ci sarebbe più stata, e senza maman c’era solo un punto fermo in quel suo piccolo mondo che aveva iniziato a sgretolarsi tra le sue mani quando ancora non aveva la forza per afferrarlo.
Poi pensava a Sarah, e sarebbe voluto morire davvero, a lei non avrebbe avuto la forza di dirlo, non aveva mai avuto neanche il coraggio di spiegarle veramente cosa stesse accadendo.

 

Come posso proteggerla da qualcosa più forte di me?

 

Fu solo il pensiero di Sarah a spingerlo a riaprire gli occhi, il pensiero di doversi preoccupare solo e soltanto di lei. Come stesse Jenevieve a quel punto diventava del tutto contingente, che Claire avesse agito alle sue spalle, che nessuno lo avesse ancora una volta considerato, che stesse per restare solo; niente di tutto questo poteva avere valore alla luce di Sarah.

Il groppo che gli stringeva la gola e minacciava di soffocarlo non accennava a sparire, ma Demian riuscì a ricacciare il pianto sfregandosi bruscamente gli occhi fino a sentirli gonfi bruciare di un altro dolore, pungente e superficiale. I singhiozzi si affievolirono e così, immobile a terra come un giocattolo spezzato senza più padrone, pensò che non era quello il momento di lasciarsi andare.

Non lì, non in quel modo.

Razionalmente sapeva di doversi alzare, di dover raggiungere maman e parlarle.

E urlare, se serviva, ma non doveva crogiolarsi in una non-reazione, non questa volta che la situazione era tanto importante e delicata, o ne avrebbe fatto le spese la sua bestiolina. Avrebbe costretto Jenevieve ad essere onesta, l’avrebbe costretta a dirgli in faccia le sue scelte e le avrebbe gettato addosso tutta la sua collera, al diavolo se era malata, era colpa sua, era sempre stata colpa sua fin dall’inizio.

Si era arresa.

Aveva rinunciato.

Come aveva potuto rinunciare a tutto?

Come aveva potuto anche solo pensare di lasciarsi dietro ancora una volta lui e Sarah, come se non importasse, come se non valessero abbastanza?

Perché, perché non gli era stato concesso un solo genitore che volesse fargli da genitore?

Riuscivano unicamente ad andarsene, tutti quanti, e ciò che gli restava era a malapena l’idea di una madre astratta ed egoista e la figura spezzata di un padre che aveva solo saputo abbandonarli e rinunciare.

E Jen lo sapeva, che stava per lasciarsi alle spalle macerie, ma ancora una volta scuoteva la testa e andava per la sua strada, e Claire neanche immaginava cosa significasse perdere gli unici riferimenti della propria vita ed ora la odiava, odiava che avesse gestito tutto senza consultarlo e la odiava per aver appoggiato maman nella sua scelta anziché spronarla ad essere forte, a resistere ancora un po’.

 

Solo un altro po’.


Con lentezza strascicata - ché il corpo non lo avvertiva suo, gli pareva di muovere qualcosa di estraneo -si rialzò a fatica e costrinse le gambe ancora tremanti a trovare la forza di reggerlo. Poi raccolse il proprio zaino, non si era reso conto di averlo tirato, in uno sprazzo di ingenua ignoranza del momento e di tutto ciò che lo aveva appena sopraffatto, sperò di non aver rotto le mine delle matite o sbriciolato il carbone.

Forse, avrebbe disegnato dopo. Forse avrebbe raccolto tutto, ricomposto la realtà pezzo per pezzo incidendola sulla carta, e forse così avrebbe rimesso insieme i frammenti di sensazioni che come schegge impazzite di un vetro esploso vagavano nella sua testa e si conficcavano a tradimento nella carne, incidendolo a fondo, da dentro.

Forse.

Prima però sarebbe andato da sua madre.

Con questo pensiero si trascinò sulle scale, lasciando scorrere le dita sul corrimano di ferro. La mano gli pulsava tragicamente, iniziava a sentire il bruciore e a percepire ogni singolo osso delle falangi come indipendente, si morse l’interno della guancia e si augurò davvero di non essersela rotta. Quando raggiunge la stanza occupata da Jenevieve rimase sospeso sulla soglia.

Si era sopravvalutato di nuovo, se ne rese conto con un sorriso amaro sulle labbra gonfie e martoriate dai denti. Era troppo appesantito e troppo vile, se ne vergognava, ma non voleva vederla, non voleva vederla più.

Se non fosse tornata a casa, vederla non aveva senso e lui voleva essere ovunque, ma non lì con lei, non desiderava trascorrere nemmeno un altro istante accanto a lei.

Avrebbe voluto che non ci fosse stata, per non doversi trovare in bilico a scegliere e non doversi biasimare ancora e ancora, che tanto qualunque scelta avesse compiuto lo avrebbe reso infelice e già si sentiva schiacciato da una fin troppo opprimente, malinconica e rassegnata tristezza.

La rassegnazione del non riaverla con sé, la consapevolezza di tutti quei dettagli di sfibrata stanchezza che aveva voluto ignorare e che ora avrebbe senz’altro notato sul suo bel volto, la certezza che quella pelle morbida sarebbe parsa diafana e trasparente come un velo che non voleva ancora toglierle di dosso per vederla come era diventata davvero, tutto questo gli fece comprendere che non era all’altezza di affrontarla.
Poteva fare lo spavaldo quanto voleva con se stesso, a conti fatti però serviva a poco, perché quella forza di essere onesto e di sentirsi dire la verità non l’aveva e forse non l’avrebbe mai avuta.

«Ehi, ciao! Mi ricordo di te!»

La pressione delicata di una mano sulla spalla lo fece sussultare. Era un tocco leggero, timido quasi, appena accennato, eppure lo percepì come uno spintone imprevisto, incespicò in avanti e dovette appoggiarsi con la mano offesa allo stipite della porta, ingoiando il dolore con un morso spietato alle labbra. Con gli occhi lucidi di male ed un tremore strano all’altezza del petto, come una contrazione dei polmoni in risposta al suono morbido di quella voce, si volse lentamente.

Come comparsa dal nulla, l’estranea eppure fin troppo nota figura di una ragazzina minuta lo fissava con gli occhi grandi socchiusi in mezzelune ridenti e le labbra incurvate in una linea irriverente.

Con uno sguardo rapido percorse la sua discreta altezza e si soffermò sui dettagli più familiari: la spalla ossuta e sporgente messa in mostra dallo scollo largo della maglietta, la linea cedevole del collo lungo e sottile, la curva morbida della guancia, quella insolente del nasino con la punta all’insù in un moto di sfida. La guardò tutta con un solo sguardo, la guardò fino ad abbracciarla completamente, per poi raggiungere gli occhi grandi, spalancati in un verde che sapeva smarrire.

Erano verdi.

Aveva tentato di riacciuffare quel colore ogni giorno e in ogni sogno, eppure quella sfumatura sfacciata e assurdamente limpida gli era sfuggita come acqua corrente, l’aveva percepita, solo percepita, per poi sentirla sparire con rassegnazione. Ed ora, ora non avrebbe saputo nemmeno come dipingerla, che tonalità avrebbe potuto scegliere, perché era troppo intensa e destabilizzante, piena quasi ad apparire irreale, finta, una pennellata di verde su frammenti di ceramica.

Si perse nel silenzio di quella sua contemplazione estatica, e il fatto che fosse trasandata come non mai, lontanissima dall’idea sacrale e sublimata della sua memoria, non lo sfiorava. I ricci erano un garbuglio inestricabile raccolto alla meglio sul capo, i jeans larghi e stinti le ricadevano sulle gambe magre con malagrazia facendola apparire persino più magra e sottile sotto tutta quella stoffa, ed il suo volto sonnacchioso e stropicciato dalla stanchezza, come se si fosse alzata da poco, emanava la dolce tenerezza di una bambina arruffata.

Demian se ne rese conto come una folgorazione improvvisa.

Era bella sì, ma non era una bellezza abbacinante, sarebbe potuta apparire estremamente anonima con il suo viso pulito, tutta quell’esuberanza puerile e gli occhi grandi senza trucco. Sarebbe potuta apparire banale, eppure banale non lo sembrava per nulla, perché era quella la sua bellezza, era lì che risiedeva tutta l’ispirazione: era di una purezza luminosa, nuda e disadorna, tanto limpida da poter essere contemplata solo così, nella sua forma più naturale e istintiva.

Era bella proprio perché nulla in lei pareva essere curato e tutto appariva selvatico e spontaneo e emanava come un senso di tutto il suo essere e della la sua indole soverchiante con un solo sorriso, timido e adorabile.

Si riscosse quando si rese conto che fissandola in maniera insistente aveva fatto nascere in lei un sorriso furbo dalla vena maliziosa.

«Sei solo, oggi?» domandò infatti ammiccando, con una sfacciataggine tale che Demian colse subito il riferimento ad Elena e si riebbe distogliendo gli occhi.

«Cosa ci fai tu qui?»

Il tono gli uscì più scontroso e sgradevole di quanto avrebbe voluto, ma era la sorpresa d’incontrarla sul serio a prenderlo in contropiede, come se Julian gli avesse lanciato addosso un anatema. A rafforzare il tono ostile, scacciò malamente la mano di lei, ancora posata con delicatezza sul suo braccio.

La ragazza non parve turbata, si limitò ad ampliare quel suo sorriso zingaresco che tutto appariva tranne che innocente. C’era come un’antitesi tra la sua bocca provocatrice e lo sguardo candido velato da un’aria giocosa, un gioco di opposti annichilente che lo lasciava senza parole.

«Stai per andare a scuola?» la ragazza indicò incuriosita lo zaino «Che liceo frequenti? Quanti anni hai?» insisté, amplificando ulteriormente quella sensazione di smarrimento che causava già solo con la sua presenza.

 Demian sbatté le palpebre un paio di volte, come per metterla di nuovo a fuoco o rimettere a fuoco la situazione surreale nella quale si sentiva incastrato, rialzò gli occhi sul volto entusiasta di lei e venne colpito da un’altra, improvvisa certezza: quella ragazza era come un ariete pronto a sfondare un portone, e lui avrebbe solo perso.

Era evidente, viaggiavano su due frequenze completamente differenti, e lei non era intenzionata a spostarsi dalla propria. Non lo avrebbe ascoltato, avrebbe continuato ad ignorarlo e a fargli domande se non si fosse adattato lui, non la conosceva per niente eppure questa era una verità già fin troppo ovvia.

Disarmato ed esasperato, si passò lentamente una mano sul viso, la squadrò con circospezione e decise, infine, di accontentarla.

«L’artistico» bofonchiò, e lo travolse un inaspettato imbarazzo, come se avesse condiviso con lei chissà quale segreto, imbarazzo che crebbe nel vedere il sorriso di lei farsi, se possibile, più grande e raggiante, traboccante di soddisfazione.

«Lo sapevo, te lo giuro, me lo sentivo tantissimo! Hai quell’aria da bohemien, o almeno, io uno come Modigliani me lo immagino tipo te, un po’ eccentrico e con scritto in fronte qualcosa come “ce l’ho con il mondo”. Sai, un po’ stravagante, dai l’idea di esserlo un sacco»

Lo disse tutto d’un fiato, arricciando il naso e annuendo tra sé come se fosse giunta alla verità più profonda del suo essere con una sola, superficiale occhiata.

E Demian si sentì totalmente sprovvisto di difesa, perché davvero era troppo confuso. Proprio lei, che emanava da ogni poro stranezza e disagio, lei che ai suoi occhi era la quintessenza dell’anormalità aveva il coraggio di dare a lui, che cercava di fondersi con i muri il più possibile pur di sparire, dello stravagante?

Non era solo disarmato, si sentiva con le spalle al muro e stava ricambiando quell’espressione trionfante con tutto lo scetticismo che non sapeva mettere nelle parole, infatti la ragazza lo colse, alzò gli occhi al soffitto in un cenno di simulata esasperazione e gli ricordò candidamente «Vorrei farti presente che non sono io a… ehm, “accoppiarmi” è la parola giusta? Davanti a sconosciuti sul retro di un ospedale. Settimana scorsa ero io, oggi magari il postino. Chi lo sa, la vita è imprevedibile!»

Con quel colpo basso riuscì a fargli chinare il capo per la vergogna.

 

Sconosciuta 1 - Demian 0.

 

La spensieratezza e le mille espressioni che erano in grado di fare capolino sul suo bel volto gli avevano ricordato un po’ Sarah, per quanto fosse possibile visto che Sarah aveva solo nove anni, ma la nonchalance con cui aveva appena fatto riferimento a quell’episodio era al limite del sopportabile e di certo cancellava con un colpo di spugna tutta la sua prima impressione di purezza e innocenza.

Non era vero che era stata tanto sciocca da non rendersi conto della situazione, semplicemente, era così lontana da loro che non potevano sfiorarla.

Ancora una volta, in maniera fastidiosamente dolorosa, Demian si sentì un’ombra, e si odiava perché bastava il commento di una sconosciuta a rigettarlo sempre nello sconforto della propria nullità.

«Hai frainteso» tentò di giustificarsi, ma lei ridacchiò smorzando immediatamente ogni tentativo.

«Oh, io non credo proprio. Non che abbia una qualche importanza, comunque!»

Demian incassò la testa nelle spalle e si morse l’interno della guancia, dedicando tutta l’attenzione alle righe delle piastrelle.

«Piuttosto» proseguì invece lei con aria giocosa «Parliamo di qualcosa d’interessante! Perché sei qui? Questo non è orario di visite, come mai ti hanno fatto passare lo stesso?»

Raggelato Demian sollevò di scatto la testa e la inclinò per guardare alle sue spalle la porta socchiusa. La mortificazione lo sbatté nella realtà con la stessa forza di un pugno in faccia. Maman era a pochi passi da lui, erano separati solo da una porta sottile, e lui non riusciva ad aprirla.

Maman stava morendo, e lui non voleva più vederla, ed era bastata una stupida ragazzina dagli occhi grandi ad allontanarlo da tutto, come se la malattia di sua madre non fosse importante e potesse resettarla in un istante e vivere una vita dove lei non c’era mai stata.

Sarebbe stato più facile, fingere che maman non fosse mai esistita, uscire dall’ospedale e continuare senza il pensiero di doverci tornare ancora e ancora.

«Jenevieve… lei è tua madre, non è vero?» la ragazza lo richiamò di nuovo, con voce ad un tratto timida e l’aria colpevole, remissiva. Sembrava così piccola ora, come se il timore l’avesse portata a raccogliersi e restringersi, a renderla d’improvviso indifesa.

Aveva il capo inclinato e gli occhi sciolti in una torbida oscurità, cupa e inadatta al suo viso pulito e solare. Anche così, era bella, e lo coglieva impreparato, come se non sapesse fare altro. Tanto impreparato che gli fece paura.

«Come la conosci?» la domanda suonò come un ringhio, e lei gli rispose abbozzando un sorriso sottile e discreto e abbassando appena il mento, in un moto d’insicurezza infantile terribilmente tenero e familiare. Iniziò ad attorcigliare un riccio ribelle intorno al dito indice, e quel gesto introverso, quel fragile e dolce timore stemperarono la sua collera sul nascere. Pensava, nella sua vita, che l’unica fragilità in grado di distruggerlo fosse quella di Sarah, eppure ora guardava una sconosciuta in volto e ne provava una tenerezza tale da annientare ogni sentimento negativo sul nascere. Sembrava veramente una bambina, beccata con le mani nella marmellata prima di cena, e c’era troppa ingenuità in quel suo modo di fare dispettoso, provocatorio e malizioso, troppa spontaneità perché potesse riversare su di lei la propria frustrazione.

«Qualche volta le ho parlato. La conosco, un pochino» confessò arrossendo, senza però distogliere lo sguardo, fu questo a turbarlo ancora, di nuovo, a non fargli trovare le parole. Per questo, con la gola secca, si limitò ad annuire e a darle la schiena, per spezzare il potere di quello sguardo verde senza ombre. Si affrancò ancora allo stipite per creare una sorta di muro, e pensò che avrebbe voluto che lei se ne andasse, voleva potersi crogiolare nella propria vigliaccheria senza la vergogna di essere giudicato, ma continuava a sentirsi quello sguardo attento e vivo addosso, lo sentiva come un peso leggero, come se avesse spessore.

Un momento di silenzio e poi, con attenzione, quella mano piccola e morbida tornò a cercarlo, sfiorò piano le sue nocche ferite, le dita già livide, le strinse con delicata fermezza e accompagnò la mano offesa a sé, costringendolo ancora una volta a notarla.

La osservò inclinare impercettibilmente il capo mentre un riccio sottile si posava sulla guancia ridisegnandole il profilo «Questa va curata».

Lo disse con estrema dolcezza, accennando ancora un soffice sorriso intriso di una lieve malinconia, uno sguardo che forse avrebbe potuto tradire della compassione, ma Demian non la vide, non riuscì ad andare oltre quelle labbra appena arcuate, ci si affrancò quasi, perché erano calma, sapevano di sicurezza, sapevano di un luogo caldo quando fuori pioveva e lui voleva solo una coperta nella quale rintanarsi.

Ecco, quel sorriso sapeva di una calda coperta che scacciava ogni turbamento, e per questo si ritrovò ancora ad annuire, ché la voce non voleva uscire eppure aveva il sentore che non servisse, che lei potesse capire anche così.

Senza sciogliere quel contatto leggero e sicuro, la ragazza gli fece cenno di seguirla e Demian, con un’arrendevolezza che non sapeva di poter provare, le andò dietro osservando la sua schiena e quel braccio teso verso di lui, allacciato al suo in un gesto tremendamente infantile eppure incredibilmente rassicurante.

Si fermarono davanti alla porta di uno sgabuzzino e lei, come fosse la cosa più naturale del mondo, vi entrò e iniziò a frugare fra gli scaffali. Demian era confuso da tanta sicurezza, rimase docile sulla soglia, immobile, e pensò che quella perfetta estranea sembrava davvero un animale raro e lui avrebbe solo voluto dirglielo, ma non trovava le parole.

«Lo fai spesso?»

 Non si stupì della mancata risposta.

Lei lo guardò da sopra la spalla per un istante, forse lesse tutta la perplessità che sentiva sul suo viso, perché reclinò il capo all’indietro e si lasciò andare ad una risata spensierata, argentina e selvaggia come un tintinnare di scacciapensieri.

Allora Demian si morse l’interno della guancia e non disse altro, si limitò a seguire, spinto da una curiosità morbosa, ogni suo movimento e come lo compiva fino a quando lei, dopo aver recuperato bende e disinfettante, non gli indicò con aria autoritaria una piccola scala a tre gradini a ridosso di uno scaffale.

«Siediti»

Annuì di nuovo con circospezione e si vergognò di se stesso, della scarsa capacità di eloquenza che stava manifestando e della completa mancanza di argomenti che non lo facessero apparire come un perfetto sciocco.

Aveva molte domande che avrebbe voluto rivolgerle, non tanto per il sapere fine a se stesso, ma perché erano i dettagli a dare forma ad un’anima, e i dettagli avrebbero arricchito la sua arte e forse lo avrebbero persino liberato da quel disperato e schiacciante senso di incompletezza che da giorni lo pungolava. Eppure lo aveva capito, chiedere non sarebbe valso a nulla, non a lei, quella ragazza non gli avrebbe mai risposto, per non dargli soddisfazione probabilmente.

Respirò piano, socchiuse gli occhi e si accontentò di sentirla, di percepire le sue mani piccole e morbide, un po’ goffe rispetto alla sua figura slanciata, ancora immature, mentre lo medicavano delicatamente.

Quando ebbe finito, la osservò catturare l’altra mano, sospesa pigramente nel vuoto, e prenderla fra le sue, accarezzando distrattamente con il pollice i rilievi sottili sulle nocche.

«Non dovresti farti del male» sussurrò assorta, per poi guardarlo appena dal basso e sorridere serenamente, cancellando ogni traccia di paternalismo dalla sua uscita.

«Non mi faccio male» ringhiò sulla difensiva, più per abitudine, salvo pentirsene all’istante.

Aveva la sensazione che ogni affermazione di quella ragazza fosse in realtà sempre una semplice constatazione priva di qualunque accusa o giudizio. Non la conosceva per poterne essere tanto sicuro, eppure inconsciamente ne era certo ed era la prima volta che gli succedeva di provare una tale, istintiva fiducia verso un estraneo. Era quella fiducia a farlo sentire a disagio, era quel confidenziale contatto tra le loro mani a rilassare i suoi muscoli e a far risuonare, contemporaneamente, un campanello di allarme nella sua testa.

 

Alzati, voltati e vattene.

 

Era troppo incuriosito da lei per dare retta a se stesso, incuriosito dalla tranquillità con cui aveva nuovamente ignorato la sua simulata freddezza come se neanche avesse aperto bocca. Era immune ad ogni suo abituale tentativo di scacciare chiunque, ascoltava solo quello che voleva e dava l’impressione di un’imperterrita testardaggine con cui sarebbe stato meglio non collidere.

La osservò studiare il reticolo di cicatrici perlacee della sua mano, appena percepibile a occhio a causa del pallore che lo caratterizzava, seguendone il percorso con le dita.

D’un tratto si bloccò, le palpebre appena abbassate si spalancarono e la ragazza alzò gli occhi grandi, lucenti sul suo volto tanto da illuminarla tutta.

«Io sono Arianna!» si presentò, un sorriso così grande e soddisfatto, felice in modo abbacinante per una sciocchezza, da avere il sapore agrodolce della sincerità più genuina e spontanea, una dolcezza guastata dal retrogusto amaro dei suoi ricordi, ché quella naturalezza ricordava la sua Sarah.

 

Arianna

 

Ne saggiò le vocali e le consonanti, per decidere se il suono gli piacesse, se fosse adatto a lei, ma ancora aveva le idee troppo confuse per capirlo e allora proseguì nel suo ostinato e inconcludente silenzio.

Arianna lo canzonò subito, pizzicandogli la sottile pelle del dorso della mano «Ora toccherebbe a te» gli fece notare, stirando ancora le labbra il più possibile, fino a creare una fossetta puerile all’angolo della bocca.

La guardava e provava quell’impulso: alzati, voltati, vattene. Poi però, s’incagliò in quegli occhi da gatta smaltati di verde, e si sentì smarrito, come di fronte a qualcosa di troppo grande che non riusciva a cogliere.

Come se il piano della sua esistenza si stesse inclinando gradualmente, e lui non riuscisse a restarvi affrancato, e allora poteva solo scivolare lentamente e inesorabilmente verso il basso, e sul fondo ora ci vedeva lei e un brivido di panico lo percorreva come una scossa elettrica dalla punta delle dita fino alla nuca.

Abbassò gli occhi e accompagnò quel gesto di vile difesa con una smorfia «E se non mi andasse?»
lo disse sperando di ferirla e che lei lo liberasse da quelle mani morbide ancora strette alle sue, ma Arianna scosse la sua testolina riccia in un’onda di boccoli arruffati e scuri, e rise sommessamente, tra sé e sé quasi, come se in qualche modo se lo aspettasse.

«Beh, sarebbe un bel problema. Ma potrei sempre chiamarti “Marpione”, sai, come un titolo. Tipo “Ah, ecco, guarda là: quello è il marpione del parcheggio”! Non è proprio conciso, ma ti identifica con poche parole, che ne pensi?»

Sussultò e allontanò le mani da lei con un movimento brusco e ostile, assottigliando gli occhi in un’affilata linea accusatoria «È questa l’idea che ti sei fatta di me?» soffiò, senza curarsi di non far trasparire l’enorme indignazione che l’aveva travolto.

Perché che non si fossero incontrati in circostanze propriamente normali lo capiva anche da sé, e di certo comprendeva con sentita vergogna di non aver fatto mostra dei suoi pregi migliori, ma era con Elena, si trattava di Elena, non di chiunque. E forse era già tutto irrimediabilmente sporcato, ma non avrebbe accettato altro fango su di loro, non avrebbe sopportato di vedere un qualcosa di già fin troppo logorato venire svilito ulteriormente fino a divenire feccia.

Arianna per un momento parve incupirsi, si portò un dito al mento e arricciò il nasino sottile dalla punta all’insù con fare pensieroso, poi si mordicchiò il labbro inferiore e abbozzò un sorrisino ironico e impertinente «Scarmigliato, con una mano dentro i pantaloni di una fanciulla indifesa. Chissà perché mi sono fatta una simile idea, non riesco proprio a capirlo» si tirò un leggero buffetto sulla guancia, in un finto rimprovero «Brutta Ari, brutta e maliziosa!»

Demian era basito e sentiva le guance scottare di nuovo imbarazzo, imbarazzo che doveva risultare palese perché Arianna lo guardò in viso e si lasciò andare ad un’altra, allegra risata. Si stava divertendo alle sue spalle e in tutta quella situazione non era questo il paradosso più grande: ben più paradossale era che non se ne sentiva assolutamente infastidito.

Il semplice fatto che riuscisse a stare nello stesso spazio vitale con lui, ridendo tanto spensieratamente senza provare alcuna sorta d’imbarazzo o disagio, in qualche modo lo esaltava e leniva la disperazione che sentiva nel non riuscire a formulare un solo pensiero coerente.

Sembrava che Arianna non lo guardasse nemmeno, che non notasse nella sua apparenza nulla di anomalo. Lo faceva sentire, con una facilità sorprendente, un ragazzo normale in compagnia di una persona inconsueta, e Demian non era certo di cosa avrebbe dovuto provare, perché non si era mai realmente trovato in una situazione simile.

Arianna non giudicava, nonostante ne avesse la possibilità ed i motivi, per ciò che aveva visto quel giorno, si limitava a giocare e ridere, con quel sorriso sfuggente che sembrava gridare che nulla era davvero così importante da incrinare la sua innata allegria.

Quando l’aveva vista la prima volta, aveva avuto la stessa, sconcertante impressione, che il disagio e la confusione che avevano attraversato quel suo bellissimo viso fossero dovute ad una qualche, futile inezia che riguardava lei soltanto e non l’imbarazzante momento che aveva interrotto.

«Ti ripeto che hai frainteso» mormorò debolmente, più per dire qualcosa che non per difendersi davvero, perché quella limpidezza con cui lo guardava uccideva qualunque tentativo di giustificazione.
Arianna rispose con un’immatura linguaccia «Eh no, bello. Dovrai decisamente impegnarti di più se vuoi convincermi!»

Demian poté solo accigliarsi, ancora, e pensare che sì, era ufficiale: Arianna lo confondeva.

«Cioè?»

La osservò mentre, in un gesto consueto, si arrotolava un riccio intorno al dito, muovendo le labbra in strane smorfie che dovevano essere abituali e involontarie espressioni di quando elucubrava fra sé. La trovava buffa, e adorabile quella vena innocente.

 Completamente fuori dal suo controllo, Demian sentiva nascere una curiosità malsana e controproducente, sentiva nascere il desiderio di imparare a conoscere ogni singola smorfia, per poterla leggere, per poter aver accesso a quell’anima insolita che si nascondeva dietro a sorrisi furbi e sguardi giocosi; perché Arianna sembrava ermetica nei suoi silenzi, eppure l’aveva colpito l’impressione che, in realtà, quelle stesse parole che non venivano espresse avrebbe potuto leggerle sul suo viso come un libro aperto, se avesse imparato la sua particolare lingua.

«Non saprei» stava mugugnando intanto lei, assorta «Però, possiamo lavorarci. Oggi pomeriggio» si prese il labbro inferiore fra il pollice e l’indice e lo torturò per qualche istante, raccolta nella sua riflessione che lo comprendeva solo in parte, solo come spettatore senza volontà. Per questo, Demian deglutì un vuoto d’aria e di sottile panico «Come scusa?»

Arianna batté le mani soddisfatta e finalmente lo guardò con un sorriso raggiante «Sì, oggi pomeriggio è perfetto!»

Avrebbe voluto obiettare, ma ogni protesta, davanti al suo entusiasmo, si spense, e rimase solo la meraviglia per quel sorriso, per come riuscisse davvero a farla splendere, per come riuscisse ad accecarlo, a inibire ogni suo senso o istinto di autoconservazione. Arianna non sorrideva solo con le labbra, sembrava che tutto il suo corpo tendesse a quello splendore, persino il più piccolo movimento tradiva la sua gioia straripante e Demian si limitò, di nuovo, a chinare il capo, per paura di essere arrossito.

«Allora ti aspetto alle quattro qui fuori, però non fare tardi. Odio la mancata puntualità»

Demian continuò a guardarla a labbra schiuse, senza trovare nulla da dire.

 

Interessante, è sempre bello avere voce in capitolo.

 

Nel mentre, decidendo da sé che ormai il loro incontro era giunto al termine, Arianna si era avvicinata alla porta pronta ad abbandonare lo sgabuzzino, ma poi, come folgorata, si bloccò e tornò a guardarlo.

«Non mi hai detto il tuo nome alla fine. Me lo dici, o ti devo davvero chiamare “Marpione”? No perché se vuoi lo faccio»

Un discreto blocco di saliva gli andò di traverso e questa volta, ne fu certo dalla vampata di calore che gli bruciò le guance, doveva essere arrossito per forza.

Ne era più che certo, che se non l’avesse accontentata si sarebbe ritrovato quello sciocco nomignolo appiccicato addosso come una targhetta d’identificazione indesiderata.

«Demian» borbottò in un soffio che aveva il sapore della timidezza, ed invece era solo uno sforzo di vincere le proprie resistenze personali.

Sussultò e quasi si ritrasse, come spaventato, quando la vide avvicinarsi e, in un attacco di confidenza a lui inspiegato, allungare la mano per scompigliargli i capelli come se fosse un bambino.

«Demian» ripeté sorridendogli ignara «Mi piace, è un bel nome. Non fare tardi Demi, o diventerò il tuo incubo!»

 

Troppo tardi, lo sei già e neanche lo sai

 

«Lo sai che non hai risposto nemmeno ad una mia domanda?» trovò da qualche parte le parole per apostrofarla, irritato dalla sua sfacciataggine forse, o da quella mano che gli aveva accarezzato i capelli come solo sua madre e le persone più vicine si erano mai permesse di fare.

Ma non la colse impreparata, Arianna fece mostra della sua migliore espressione angelicata e ingenua, fin troppo scaltra, di chi la sa lunga ed innocente non lo è per nulla.

«Fa parte del gioco Demi, do un valido motivo alla tua mente di mettere a tacere la tua stupida coscienza per venire oggi»

Demian si accigliò e sbatté le palpebre più volte, per mettere a fuoco la ragazza o forse solo quel discorso, assurdo quanto lei, altrettanto incomprensibile.

Riuscì solo a ricavarne un molto poco intelligente «Eh?» che la fece ridacchiare ancora di gusto, con la mano sulla bocca a nascondere gli incisivi divisi.

«Se verrai oggi, ti spiegherò perché sarai venuto davvero, così potrai capire perché ho detto ciò che ho detto» si fissarono negli occhi per qualche secondo, e Demian pensò che forse in quello sguardo poteva leggerci qualcosa, ma poi Arianna rise di nuovo, strappandolo a qualunque speranza di capirla.

«Non scervellarti, è inutile. A dopo, Demi»


Va bene, ok. È strana. Troppo strana.

È strana oltre ogni mia logica.

 

E non era quella la vera frustrazione. Più frustrante era sapere che aveva dannatamente ragione, era ovvio, non c’era nemmeno possibilità di fingere una scelta.

Era chiaro come il sole che quel pomeriggio sarebbe andato da lei senza neanche pensarci.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE
 
Rieccomi, anche se con un leggero ritardo.

Prima di tutto, vorrei lanciare un piccolo e logorroico appello: ho premesso all’inizio -e sono ancora decisa a mantenere la parola- che questa storia vedrà la sua fine indipendentemente dalla partecipazione dei lettori, ma è il bisogno di ogni autore, credo, sapere cosa passa nella testa di chi legge.

Se qualcosa non va, se invece qualcosa vi viene trasmesso, non nego che avrei davvero piacere di saperlo, mi darebbe una bussola per capire se mi sto o meno muovendo nella giusta direzione e mi forse mi darebbe anche un pochino di sicurezza sui miei deliri.

In particolare a chi l’ha inserita nelle preferite, perché se l’avete fatto un motivo pure ci sarà, e sarebbe bello se lo condivideste con me!

 

Ma non voglio essere pedante (eh, sì, troppo tardi! XD)

Dami qui riceve la notizia che già aleggiava nell’aria dai capitoli precedenti, la situazione gli crolla addosso e da adesso avrà un modo forse un po’ discutibile di gestire il suo stato emotivo. Di contro, finalmente conosce Arianna, che è in realtà più logica e sensata di quanto non possa apparire ad un primo impatto, ma spero imparerete a conoscerla.

È stato un capitolo estremamente impegnativo per me, soprattutto nella prima parte, cercare di descrivere la sua reazione alle parole di Marisa mi ha… sfiancata!

Ho fatto del mio meglio e sono molto curiosa di sapere Arianna che impressione vi ha fatto!

 

Ah, forse il prossimo arriverà tra due o tre settimane, perché sono un poco impegnata!
 

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Capitolo 9
*** Mi dispiace ***


À Demian


Capitolo settimo

Mi dispiace


La linea scura della grafite, seguendo il percorso della sua mano, si delineò precisa come una ferita netta sulla carta spessa da disegno.

Demian ne ascoltava il rumore, un grattare leggero, un minimo attrito della mina, piacevole, confortante. Riusciva a non pensare al dolore affilato che s’inerpicava su per le dita e rendeva i movimenti più lenti e scostanti. Nonostante il male non voleva aspettare, sentiva che, forse, quello era il momento giusto, forse sarebbe riuscito dove aveva fallito costantemente negli ultimi giorni.

La benda lo intralciava, ma tutto era sopportabile, aiutava a non concentrarsi su altro e Demian sapeva di non dover pensare, doveva guardare solo lei, vedere solo lei.

Incastrò tra i denti la matita che stava utilizzando per poter sfilare la 8B da dietro l’orecchio, poi iniziò a marcare con più decisione le zone d’ombra del volto morbido, la linea sbarazzina del naso. Ripose nuovamente la 8B tra l’orecchio e i capelli e passò ancora alla più rigida B, per sfumarle dolcemente e far risaltare un punto di luce.

Ogni gesto era vittima dell’abitudine, Demian si aggrappava all’istinto come un bambino al filo di un aquilone e cercava di assecondare il vento per tenerlo sollevato un poco, ancora un poco, il tempo di acciuffare l’immagine che non aveva definizione e si presentava come una strana, informe idea pronta a prendere struttura solo nel momento in cui la mina trovava la sua impressione sulla carta. Riusciva ad ignorare il disagio del dolore proprio perché quell’istinto, come la voce incantatrice di una sirena, era più forte di tutto e pretendeva, con una prepotenza inaccettabile, di essere ascoltato, di diventare ciò che era nato per essere.

Strinse la matita fra i denti e recuperò lo sfumino.

Un tocco leggero, una carezza soffice alla carta ingiallita, poi interruppe il movimento e si fermò ad osservare la figura che andava tratteggiandosi, a ricercarne i difetti, a frugare le imperfezioni che l’avrebbero resa più “lei”. Era sui difetti che lavorava, erano le mancanze i punti di riferimento a cui si aggrappava con forza per ricreare un viso, eppure quel volto levigato lasciava troppo poco spazio alle imperfezioni con le sue linee dolci e gli occhi a goccia da gitana.

 

Avrei dovuto usare il carboncino

 

Lo realizzò mordendosi la guancia e maledicendosi insieme, ché sarebbe stato più semplice, avrebbe potuto sbozzare l’immagine, usare un tratto più grezzo e impreciso, più spontaneo e meno ponderato, ma nella concitazione del momento si era semplicemente limitato ad afferrare il primo astuccio che aveva trovato, e le matite erano ciò che ne era uscito.

Ogni suo muscolo si oppose di fronte alla sorpresa di quello sguardo, inciso su un foglio eppure ammaliante del fascino che ammantava la controparte reale.

Arianna aveva degli occhi incantatori impossibili da afferrare, ed ebbe la sensazione che non ci sarebbe mai riuscito, che avrebbe potuto provarci ancora e ancora, eppure alla fine non sarebbe giunto ad altro che ad un mero tentativo di avere quell’anima tra le sue mani. Avrebbe potuto illudersi, di aver colto la sua profondità più oscura, ma si sarebbe solo ingannato.

La ragazza del disegno forse assomigliava ad Arianna, forse Demian poteva avere l’ardire di credere di essere riuscito ad imprimere la sua essenza più intima, ma sarebbe stato solo un inganno volto a nutrire il proprio ego.

Mancava ancora qualcosa.

Mancava una sfumatura selvaggia in quelle iridi torbide, sporcate d’innocenza, mancava la vena maliziosa intrisa di semplicità e purezza.

Con amarezza realizzò di essere ben lontano dallo stringerla.

Arianna lo guardava sfrontata e troppo candida persino da un ritratto ricco d’ingenuità, segnato da assenze che lo rendevano povero, solo un’immagine vuota. Eppure, non riusciva a smettere di ricalcare con la memoria il percorso tondo della mandibola, l’irriverenza di quel nasino dalla punta appena sollevata verso il cielo, gli incisivi infantili leggermente divisi che davano al suo sorriso una luce nitida e pulita, chiara di aria tersa in una giornata di primavera. Non riusciva a smettere, e quel ricordo si sovrapponeva senza pietà al disegno e lo sviliva crudelmente.

Era stato l’incontro più disarmante della sua vita, eppure provava della gratitudine verso quella sconosciuta, destabilizzante ragazzina. Grazie a lei, era riuscito a rendere più piccolo e distante il pensiero di maman, a ridimensionarlo per infilarlo a forza in qualche scomparto della sua mente a cui potesse prestare meno attenzione.

Ed anche se continuava ad inciamparci, nella consapevolezza di Jenevieve, dell’ospedale, del tempo e di Sarah, poi guardava il suo lavoro e Arianna, in un qualche modo a lui sconosciuto, riusciva a concorrere per intensità a tutti i nodi di pensieri che gli si dibatteva dentro, tutti stretti in un’unica rete perché non riuscissero a fuggire e nessuno prevalesse sull’altro.

Abbassò il braccio, quella mano dolorante ancora sospesa, in dubbio se lasciare ancora un altro segno o fermarsi e basta, e accontentarsi di aver quasi sfiorato un’idea, ché forse già solo riuscire a percepirla, quell’idea, era più che sufficiente, era già troppo.

Era pretendere di varcare un confine sacro, era credere di poter conoscere la Fatalità.

E Dem proprio non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se sarebbe stato meglio restarsene a casa o incontrarla, se avrebbe o meno fatto meglio a chiedere a Julian qualche consiglio, prepararsi qualche ipotetica domanda da farle per non restare completamente in silenzio o, più sensato, qualche risposta.

Si passò la mano sano sul volto e si stropicciò gli occhi in un vano gesto di esasperazione.

Stava sguazzando in fisime allucinanti degne della più scalmanata teenager di fronte a Jesse McCartney ma ripetersi da solo, come un mantra, di darsi una calmata non stava portando alcun aiuto alla sua causa.

Il suono della campanella lo riportò bruscamente alla realtà: l’ora di Figura si era appena conclusa, e lui aveva bellamente ignorato quello che avrebbe dovuto essere il soggetto imposto dal professore.

Il cavalletto di legno nel centro dell’aula, così vuoto e inutile, aveva un retrogusto di antico e abbandono, e Demian lo guardò forse per la prima volta con il labbro tra i denti e le palpebre socchiuse. Alcuni esercizi di profondità erano per lui estremamente complessi e quasi inutili, motivo per cui tendeva ad ignorarli: la sua visione stereoscopica era ridotta e l’astigmatismo, per quanto non eccessivo, unito a questo difetto gli rendeva difficile riprodurre fedelmente il reale da una certa distanza. Invece, con il volto di Arianna era stato diverso, i dettagli si erano incisi a fuoco nella mente in maniera fin troppo nitida, poche volte gli era parso di aver percepito tanto chiaramente qualcosa o qualcuno al di fuori di Sarah e di maman.

I suoi compagni di classe avevano raccattato le proprie cose e stavano rapidamente e disordinatamente abbandonando l’aula per ritornare alla loro, al secondo piano. Demian li osservò, una macchia dai contorni un poco sfocati, poi guardò ancora Arianna, provò il noto senso di delusione e disillusione e si decise a raccogliere il suo materiale e a riporlo finalmente nello zaino.

«Sbaglio o questo non è un cavalletto?»

Dem alzò pigramente il viso ed incrociò gli occhi nocciola di Giulia ed il suo sorriso intenerito da mamma.

 

Non sono un cane, non ho gli occhioni sberluccicosi, non c’è nessun inutile motivo per cui tu mi debba guardare così.

 

Fu tentato di dirglielo, ma poi avrebbe dovuto dare importanza ad uno sguardo e non gli andava. Scrollò le spalle «Perspicace come sempre» la pungolò con scarsa convinzione, ed infatti Giulia non si offese, si chinò sopra la sua spalla e dedicò tutta la sua attenzione al ritratto.

La sua espressione mutò rapidamente, da seria ad incantata.

«Wow» la sentì soffiare piano, corrucciando la fronte senza più aggiungere altro.

Quel silenzio lo mise inaspettatamente a disagio, il non sapere se a colpirla era stata la sua tecnica o il soggetto di per sé, plausibilissimo dato che la ragazza sul foglio tutto era meno che comune.

«Ha degli occhi incredibili, ma sembrano… finti. Come le immagini dei cartelloni pubblicitari o cose così. Non sono troppo irreali?»

Demian accennò un sorriso, perché almeno Giulia gli aveva appena confermato che non era un pazzo fissato, che gli occhi di Arianna erano davvero particolari, fuori dal comune. E tuttavia, quel tratto finto che la compagna aveva colto era probabilmente da imputare alla vuotezza che proprio non gli riusciva di colmare con la sua arte, e questa verità era svilente.

«È davvero bella. Forse, mhm, la spalla. Non è troppo ossuta?» continuò a valutare ancora Giulia fregandosi il mento tra pollice e indice. Aveva abbandonato completamente la veste della reticente, timida fanciulla per calarsi nei panni della studentessa di arte dall’atteggiamento critico, un riflesso naturale dopo più di un anno di lavaggio del cervello sull’importanza delle proporzioni e il dramma degli occhi a forma di “olive schiacciate”.

Era un modo di porsi comune, e se per primo si fosse trovato di fronte ad una simile immagine avrebbe avanzato la medesima osservazione. Il problema era che Arianna era veramente troppo magra, gli pareva quasi miracoloso che il suo apparato muscolare così rarefatto riuscisse a tenerla in piedi, sembrava avesse solo pelle sulle ossa.

 

Bravo, mi sembra giusto, ragiona anche tu come se stessi guardando un modellino in scala invece di una persona.

 

«Lo so. Ma volevo restare fedele all’originale»

«Oh» si lasciò sfuggire la compagna, con una vaga inclinazione di delusione che però scomparve subito «Hai più sentito Barbi? Abitiamo vicini, ma è da una settimana che non viene a scuola e non lo vedo»

Il rapido cambio di argomento lo spiazzò un istante, non gli era chiaro perché Giulia avesse interrotto la sua analisi, ma forse doveva essere stato un brutto colpo all’autostima sapere che Arianna esisteva davvero, eccome, e non sapeva cosa significasse la parola silenzio tra l’altro. Ci mise quel momento più del dovuto, per registrare la nuova domanda.

«Perché avrei dovuto?» aveva risposto d’istinto, senza riflettere, senza nemmeno associare un volto a quel nome. Poi però, in pochi secondi ripescò i ricordi della settimana precedente, del ragazzino rachitico e di quel favore che avrebbe dovuto fargli.

Che avrebbe dovuto, ma che aveva scordato.

Lo aveva scordato perché aveva incrociato Arianna.

«Beh, mi ha detto che lo hai aiutato, che non sei così male» gli stava spiegando Giulia nel mentre, il volto decorato da quel suo sorriso fiacco e timido. Riuscì a farlo vergognare e mentre deglutiva la saliva gli rimase come un pesante groppo in gola.

 

Non lo ho aiutato, mi sono dimenticato di lui.

Ho visto quella sconosciuta e ho visto Elena e sono scappato.

 

Non solo non si era presentato all’incontro, soprattutto si era fatto travolgere dalla propria egoistica vena creativa e aveva spento il cellulare, per cui si era reso impossibile da rintracciare e magari Frankenstein si era anche presentato all’appuntamento, ma se anche Alex l’avesse incontrato al suo posto, non aveva avuto comunque modo di contattarlo per poterlo avvisare.

Sperò di non aver messo Barbi in guai, se possibile, ancora più grandi.

«Tu hai il suo numero, giusto?»

«S-sì, ci conosciamo da quando siamo piccoli»

Demian accese il cellulare per farselo dettare e questo iniziò a vibrare inoltrandogli tutti i messaggi ignorati nell’ultima settimana di eremitaggio. Bastava solo il pensiero di doverli leggere tutti a fargli desiderare di spegnere di nuovo quel dannato apparecchio e magari di sparire per altri sette giorni. Se avesse osato però, quasi sicuramente si sarebbe ritrovato fuori casa vigili, carabinieri, pompieri e quant’altro.

 

Meglio non giocare troppo con l’apprensione della zia

 

Con un sospiro rassegnato ignorò la cartellina lampeggiante dei “messaggi ricevuti”, si limitò a salvare subito il numero di Barbi in rubrica e a inviargli un messaggio per sapere dove fosse, come stesse e di chiamarlo immediatamente se Frankenstein gli aveva creato qualunque problema.

Per quanto lo ritenesse assurdo e cercasse di convincersi che non era così, si sentiva responsabile di quel ragazzino, sapeva di aver peggiorato in qualche modo la sua situazione intromettendosi e si sentì improvvisamente in colpa, quasi a tradimento.

Giulia lo stava guardando, intimidita, e Demian realizzò che erano rimasti solo loro, lo stava aspettando. Si concentrò sul suo viso ordinario, piccolo, gli occhi dal taglio pigro e i capelli tirati indietro da una fascia fucsia che mostrava la fronte bassa e liscia e i tratti regolari del naso. Si era truccata in modo leggero e fine, rispetto alla volta precedente, il delicato tocco di perla dava più luce ai suoi occhi scuri.

Infilò il disegno nella cartelletta, ripose tutto nello zaino e si alzò abbozzando un sorriso verso la piccola ragazza che gli arrivava poco sotto la spalla.

«Così stai meglio», commentò semplicemente, per rimediare forse inconsciamente alla scortesia che le aveva dimostrato. Non chiarì a cosa si riferisse e non ce ne fu bisogno, Giulia doveva aver capito, perché arrossì abbassando il capo e mormorò un “grazie” impacciato dalla vergogna.

Si avviarono insieme verso la loro classe, Demian ad un tratto si rese conto della completa mancanza di disagio nell’avere Giulia accanto come fosse davanti ad una rivelazione dalla portata immensa: era una presenza discreta e tranquilla, serena come la placida superficie di uno stagno, un’acqua cheta eccessivamente timida.

Era difficile, provare un desiderio di accanimento di fronte a qualcuno dalla personalità tanto buona da sembrare persino fin troppo manipolabile. Non se ne era reso conto, in quel primo incontro, eppure ora lo sentiva con una certezza quasi presuntuosa: Giulia era il tipo di persona disponibile al punto che per affetto si sarebbe perfino abbassata ad un livello secondo lui umiliante.

La sua discrezione poi la rendeva piacevole, per nulla invadente.

«Era la tua ragazza?» sussurrò lei, prendendosi le mani come non sapesse che farne.

 

Eh, come non detto.

 

Demian la squadrò dall’alto e si rimangiò tutti i bei pensieri appena formulati.

«No»

La risposta secca e brusca fece sussultare Giulia, che però si lasciò sfuggire un sospiro dalla sfumatura sollevata.

«Però deve piacerti molto» insinuò, forse per tastare la sua reazione.

Dem ci rifletté un momento, scavando in maniera superficiale le impressioni che lo avevano colpito alle spalle quando aveva parlato con Arianna, alla ricerca di una definizione che ponesse fine alla curiosità della compagna di classe.

La verità era che trovava Arianna bella in modo imprevisto e per lui evidentemente fatale, ma se ci rifletteva, doveva trattarsi solo di questo, di un capriccio estetico perché questo era tutto ciò che aveva conosciuto di lei.

«È bella» constatò, ma non si sentì soddisfatto da quella conclusione, la trovava riduttiva, suonava inappropriata, non bastava a coprire ogni gradazione del suo turbamento.

Accompagnò le proprie parole con una smorfia di disappunto che fece ridacchiare Giulia.

«Oh Demian, dovrai superare questa cosa del non riuscire mai a parlare, lo sai? Ho l’impressione che dici sempre ciò che non pensi, solo perché credi sia la cosa giusta da dire»

Erano giunti sulla porta della loro classe e Giulia, prima di accomiatarsi, gli dedicò un altro sorriso colmo d’indulgenza e tenerezza «S-senti, credo di aver capito che sei un po’ un caso perso, ma io non riesco a vederti terribile. Se…. Non lo so, se avessi bisogno di una mano, anche con la tua bella, puoi sempre chiedermi tutto quello che vuoi. Un parere femminile magari ti è d’aiuto»

Le sue guance raggiunsero lo sgargiante colore della sua fascia per capelli fucsia, lo congedò con un goffo cenno della mano e si precipitò dalle sue due amiche oche.

Demian invece rimase immobile, a ponderare quelle parole e la purezza dell’intenzione, una disponibilità regalata con troppa ingenuità e che pure, in sé, portava qualcosa di quasi commovente.

Non gli dispiaceva, Giulia, pensò che probabilmente, fuorviato dal suo malumore, l’aveva giudicata male, aveva reagito sulla difensiva e lei invece desiderava solo potergli parlare. Certo, il giorno del loro primo incontro non era stato un buon giorno, questo però doveva aver influito troppo sulla sua capacità di giudizio perché ora pensava che avrebbe potuto parlarci ancora, averci un rapporto civile.

Con uno sbuffo sconfortato raggiunse il suo banco.

 

***

 

 

Demian aveva perso la cognizione del tempo trascorso a tormentarsi la benda della mano come fosse il suo più acerrimo e fastidioso nemico, ma per quanto ogni minuto era pesato doveva essere passato come minimo un quarto d’ora.

Nonostante tutti i tentennamenti da fanciulla innocente al primo appuntamento, alla fine era sceso a patti con se stesso e aveva deciso di presentarsi all’incontro.

Certo, essere arrivato con mezz’ora d’anticipo l’aveva fatto sentire un cretino, ma mai quanto il successivo appostamento davanti all’ingresso con tanto di marcia avanti-indietro come il peggiore degli avvoltoi. Le quattro erano passate da molto, eppure di Arianna non c’era la minima traccia e Dem era scisso tra il sospiro di sollievo che premeva in gola per uscire e la profonda indignazione per la buca appena ricevuta.

Si sentiva umiliato, per tutta la mattinata si era tormentato inutilmente ed ora, invece di continuare a tenere quell’atteggiamento scanzonato da figo che in realtà celava più disagio che altro - appoggiato alla parete con il cappuccio sollevato, i capelli nascosti nella berretta nera e le cuffie nelle orecchie-, avrebbe voluto prenderlo a testate, il muro.

Giusto per punirsi un poco per la propria semplicità infantile che l’aveva portato davanti all’ospedale ad aspettare qualcuno che non si sarebbe presentato.

Le ultime ore di scuola erano state infinite, aveva avuto la percezione distorta che il tempo non stesse assolutamente scorrendo. Anzi, pareva ostinato a restare il doppio del solito su ogni minuto, rendendogli l’attesa un inferno. In quella sospensione temporale in cui il suo cervello si era dato all’apnea, solo l’ora di Figura era stata di un qualche sollievo, mentre tutti gli altri tentativi di riempire uno spazio vuoto si erano rivelati fallimentari.

Quando si era reso conto di aver riletto dieci volte la stessa pagina senza aver assimilato neanche una frase, aveva gettato la spugna e si era lasciato scivolare, senza più opporsi, in uno stato vegetativo deprimente. D’altro canto, se “Notti Bianche” non era stato una lettura sufficiente a risvegliare i suoi sensi, nulla sarebbe servito alla sua causa.

Con le spalle contro il muro e gli occhi intrecciati ai sampietrini, Demian provò una strana sensazione, un’analogia tra se stesso e il libro che aveva abbandonato sul banco di scuola poche ore prima. Forse era in quel modo che si era sentito l’anonimo protagonista nell’aspettare pazientemente ogni sera la comparsa di Nasten’ka, forse era quello il sentimento disperato della ricerca di un raggio di sole a cui aggrapparsi quando si era in mezzo ad una tempesta, come un singulto affranto che strinava la gola per gridare aiuto, per assicurarsi alla vita.

Un brivido scivolò con una scarica elettrica nei muscoli, percorrendo ogni terminazione nervosa per permettergli di percepire a fondo l’angoscia.

 

Ti stai facendo suggestionare troppo.

Ti stai attaccando non a lei, ma all’idea che ti sei fatto di lei, al tuo inutile bisogno.

 

 

Eppure, quel bisogno doveva necessariamente soddisfarlo, aveva la necessità primaria di un momento d’illusione, di una beatitudine fittizia che poi sarebbe anche potuta svanire, ma almeno gli avrebbe concesso il tempo di risollevarsi.

Doveva crederci, che fosse possibile, doveva convincersi che Arianna fosse la possibilità di una distrazione felice, e paragonarla a Nasten’ka non gli portava alcun conforto, non conoscendo il finale del racconto.

Smise di giocherellare con il bordo della garza quando la chitarra di “Sometimes I Feel Like Scremiang” venne sostituita da una pianola dalla dolcezza nauseante. Recuperò subito l’mp3 dalla tasca del giubbino e stoppò “Reality” immediatamente.

Julian gli aveva portato quel piccolo aggeggio dall’America come regalo, Demian alla fine lo aveva aperto quel pomeriggio, per distrarsi, e aveva trovato un biglietto del cugino che sosteneva fosse più pratico del suo Lettore CD e che aveva provveduto lui stesso a riempirlo delle sue canzoni preferite. Provò l’immenso desiderio di strozzarlo: la colonna sonora de “Il tempo delle Mele” decisamente non era una delle sue canzoni preferite.

Si guardò rapidamente intorno, quasi temendo di essere stato colto in flagrante ad ascoltare un brano tanto smielato e imbarazzante, ma si tranquillizzò subito costatando – con una certa amarezza, doveva ammetterlo – che non c’era nessuno.

Proprio nessuno.

La sua, di Nasten’ka, era persino peggiore della controparte cartacea, non aspettava la quarta notte per scaricarlo, evitava direttamente di presentarsi alla prima. Demian guardò la punta delle scarpe da ginnastica, si morse il labbro e pensò che, probabilmente, al posto di lei nemmeno lui si sarebbe fatto vivo.

Il cellullare segnava già le quattro e venti, ma decise di provare ugualmente a concederle il beneficio del dubbio per un altro quarto d’ora, ché forse era davvero solo in ritardo, anche se questo avrebbe contraddetto l’affermazione di Arianna sull’odiare i ritardatari.

Credere che si sarebbe presentata avrebbe lenito l’umiliazione che lo tormentava.

Nel frattempo, cambiò canzone e scrisse a Julian

 

 

Demian

Reality? Sto seriamente pensando di pestarti, per questo.

9/10/2001

16:20

 

Poi si guardò attorno ancora ma, non vedendola all’orizzonte si arrese, decise di attenderla nell’atrio dell’ospedale, al caldo. Scivolò lentamente in una delle seggiole di plastica blu legate insieme, e pensò che forse erano ancora meglio quelle del reparto di Oncologia, ché la finta pelle anallergica a confronto era velluto.

Il cellulare vibrò, il nome del cugino faceva capolino sullo schermo.

 

Jules

Ahahah non mentire, tanto lo so che in realtà la stai ascoltando stringendo Lala fra le tue braccia! L’ho scelta con amore! XD

9/10/2001

16:24

 

Ecco dove vuole andare a parare quell’idiota. E ti pareva se non tirava in mezzo il cane.

 

Demian

Sei un cazzone e ti prenderei a pugni… con tanto amore s’intende

9/10/2001

16:26

 

Jules

Non hai senso dell’umorismo =)

9/10/2001

16:30

 

 

Sono quasi totalmente sicuro che sia il tuo senso dell’umorismo a fare schifo

 

Era passato il tempo che aveva pattuito con se stesso, e di Arianna alla fine non c’era comunque traccia, perciò si rassegnò a tornarsene a casa.

 

Potrei sempre andare da Jules a rendergli il pugno promesso.

 

Fece per alzarsi quando lo sguardo gli cadde sulla schiena di una donna seduta in attesa, proprio come lui, due file di sedie più avanti. I capelli erano di un biondo slavato, raccolti in un disordinato chignon, le spalle ricurve davano l’impressione di un’eccessiva stanchezza e il picchiettare impaziente del suo piede destro, mentre si mangiava un’unghia, era un indice sufficiente della sua ansia. Demian aveva avuto la sensazione di conoscerla, ma ci mise qualche istante a realizzare che si trattava della medesima persona trafelata che aveva attirato la sua attenzione e quella di tutte le infermiere la settimana passata, prima che Elena entrasse nel suo campo visivo e lo distraesse, ovviamente.

La osservava e ne provava tristezza e tenerezza insieme, doveva trattarsi di una madre, una di quelle vere, che senza i propri figli non sanno respirare, che sanno amarli come e più di loro stesse.

Demian era sempre stato affascinato, da quel tipo di madre che sa fare la madre.

Avrebbe voluto vedere quell’ansia, quell’apprensione, rivolta anche lui, avrebbe voluto vedere maman dedicargli quel tipo di amore, qualche volta. Ma maman era una madre che dava spazi, anche troppi, che concedeva errori anche quando erano troppo grandi e non si sarebbero dovuti compiere.

Lei non si rendeva conto della portata della sua tolleranza, così eccessiva da trasformarsi in indifferenza.

«Pensavo non saresti tornato oggi» la voce dolce di Marisa lo costrinse a riscuotersi. Si accigliò un attimo, non cogliendo a cosa si riferisse, poi si lasciò sfuggire un’altra smorfia, un piegarsi scontento di labbra che non avrebbe voluto condividere ma che era stato troppo istintivo per essere comandato.

 

Anche io

 

Però, non lo disse.

Abbassò gli occhi e si sentì ancora bambino, davanti ad una donna che non era mai riuscito a guardare davvero in volto, per paura, perché lei in certi momenti non era più “Marisa”, mutava in qualcos’altro, diventata il suono di ciò che non aveva la forza di ascoltare.

«Come ti senti, tesoro?»

 

Come in un déjà-vu, come quando mi guardavi in silenzio e non avevi nulla da dirmi. Come quando a malapena mi sfioravi, come se con il semplice tocco avessi potuto trascinarti nel mio abisso insieme a me, e speravi che quel tuo disagio io non lo vedessi.

 

Era una brava donna, si era sempre presa responsabilità che non le competevano, solo per amicizia verso Jenevieve, per un senso del dovere che probabilmente era stato pesante quanto un macigno. Demian si arrabbiava a volte, perché lei non aveva fatto di più, ma poi si crogiolava nel calore della sua infanzia e allora il viso di Marisa tornava ad essere un’immagine gentile e rassicurante, una signora che l’aveva coccolato di dolci e viziato di cioccolate, che era rimasta seduta accanto a lui in silenzio ogni volta che maman aveva degli esami e lui rimaneva ad attendere da solo, senza aver nulla da fare e senza poter capire davvero la situazione.

Le voleva molto bene e non desiderava biasimarla, né sfogare su di lei la propria frustrazione.

«Sto bene. Dovevo solo… assimilare la notizia» accennò un sorriso debole velato di colpa. In quella manciata di parole aveva raccolto tutta la sua ipocrisia, ché in realtà non aveva la minima intenzione di assimilarla, aveva deciso che l’avrebbe ignorata e basta.

Avrebbe ignorato Jenevieve come se non fosse mai esistita, e forse sarebbe stato meglio dopo, forse sarebbe riuscito ad abituarsi prima a quando non fosse più esistita davvero. Arianna era parsa un buon compromesso: una bellezza che riusciva a non lasciarlo indifferente ed una personalità che riempiva bene gli spazi. Sembrava il lenitivo perfetto, ma era una possibilità sfumata in partenza e dissolta con la stessa rapidità con cui si era formata.

Questo rifiuto senza possibilità di replica non si era limitato a ferire il suo orgoglio, gli aveva lasciato addosso anche un’inspiegata amarezza, la vaga percezione di aver appena perso qualcosa di bello senza una ragione.

Non riusciva a capire perché, se la sua intenzione era quella fin dal principio, Arianna gli avesse chiesto di vedersi neanche fosse una questione fondamentale.

«Le hai parlato?»

 

A maman non ad Arianna. Concentrati, Crétin!

«Non mi va»

In sottofondo, restava lo snervante ticchettare del piede della signora bionda che ora iniziava a seccarlo.

«Posso chiederti cosa aspetta quella donna? L’ho riconosciuta, anche settimana scorsa era qui»

Non era veramente interessato né curioso, semplicemente la nevrotica sconosciuta gli era parsa il miglior pretesto per distogliere l’attenzione da sé e da quell’argomento spinoso che era più che deciso a non toccare più. Marisa seguì il suo sguardo e si soffermò a sua volta sua quella figura fragile prima di liberare un sospiro.

«È una brutta storia. Sembra che suo figlio sia stato preso di mira da un gruppo di ragazzi, forse è un caso di bullismo ma anche fosse, si è rifiutato di parlare quindi c’è poco da fare. Comunque l’hanno conciato per le feste, povero ragazzo.»

Marisa inclinò il capo verso di lui e gli regalò un sorriso dolce e materno «Anche se ha la tua età, è così mingherlino che, quando l’ho visto, mi ha ricordato di quando eri bambino»

Demian deglutì a vuoto mentre un’idea, che in realtà era solo consapevolezza, si faceva strada dentro di lui.

«È straniero? Biondo, piccolo di statura?»

Marisa aggrottò la fronte e abbassò le palpebre in quella sua espressione indagatrice troppo poco severa perché potesse davvero avere effetto «Lo conosci forse?»

«Puoi dirmi il reparto e la camera?»

«Non mi hai risposto»

«Nemmeno tu»

Demian cercò d’imprimere nei propri occhi tutta l’urgenza che stava provando, un nuovo nodo allo stomaco alla sua infinita lista di sensi di colpa che sperava davvero l’infermiera potesse scorgere leggendo tra le righe.

La vide esitare, portarsi alla fronte la mano segnata dal lavoro e dall’età, sospirare e arrendersi come faceva sempre, con una rassegnazione che sapeva sempre di un “almeno questo te lo devo” che Dem non sapeva spiegarsi.

«Non voglio sapere perché è così importante. Sai come funziona, cerca di essere discreto»

Con il suo tatto dovuto probabilmente ad una vita dedicata alla cura degli altri, Marisa si risparmiò qualunque domanda inopportuna, l’esperienza le aveva insegnato tutto, Demian lo percepiva ogni volta che l’infermiera arriva fin quasi a toccare un suo limite, limite che lo avrebbe spinto a ritrarsi, e si fermava da sola.

Prima di avviarsi al padiglione dove era stato ricoverato il ragazzo, per un’ultima, amara volta, si soffermò sull’orologio dell’atrio, giusto per avere un’ulteriore conferma che fossero le quattro e quaranta e che Arianna, evidentemente, non si sarebbe più presentata.

 

 

 

Maximilian Aderca

 

Era quello il suo nome.

Non c’erano margini di dubbio, dal vetro della porta Demian lo vide seduto nel suo lettino bianco, con la schiena irrigidita e il capo fasciato, e lo riconobbe.

Quello era davvero il ragazzino che avevano picchiato lui e i suoi amici, e gli bastava un’analisi veloce per capire che lo avevano ridotto male. Bussò piano prima di aprire la porta, e Max volse il capo nella sua direzione con lentezza esasperante ed una smorfia che gridava quanto ogni movimento gli costasse dolore.

Demian vide la sua espressione perplessa trasformarsi in terrore, gli occhi grandi per quel viso smunto dilatarsi, e gli sembrò quasi di tornare a quella sera, davanti ad una creatura così piccola e spaurita, un animaletto selvatico in trappola.

«Tu sei quell’albino di merda, sei uno di loro. Perché sei qui? Non ho detto un cazzo a nessuno» il tono era ostile, ma la voce soffiata, leggera, e le parole articolate male a causa del bendaggio che limitava i movimenti della bocca. Doveva costargli fatica anche parlare, con quel pugno la mandibola, se non gliel’aveva rotta, gliel’aveva almeno slogata.

Sollevò le mani in un gesto di resa e abbozzò un tentativo di sorriso cordiale «Volevo sapere come stavi» mormorò, e si vergognò di se stesso e della propria sfacciataggine. Non sapeva nemmeno lui dove aveva trovato il coraggio di presentarsi ancora davanti a quel ragazzo, dove risiedeva la faccia tosta che gli aveva permesso, proprio a lui che era il colpevole di quella sua condizione penosa, di porgli una simile domanda.

Decise però di andare fino in fondo, per una volta.

«E…» non riuscì a sostenere quegli occhi, di un azzurro completamente diverso dal suo, vivo e vivido, senza cedimenti, e per questo le parole gli morirono in gola. il silenzio colmo di attesa e quello sguardo, lo sguardo di qualcuno che si trovava di fronte ad un incubo incarnato che sperava potesse dileguarsi presto, erano demotivanti «E volevo chiederti scusa. Veramente»

Si sentì d’improvviso più leggero, privato di un peso che non si era reso conto di star portando fino a quel momento.

Non si aspettava nulla da Max, assolutamente nulla, ma essere lì in quella stanza era sufficiente, perché per una volta stava affrontando la conseguenza di un suo errore e, anche se non c’era alcun modo di rimediare, sapere di non star scappando con la coda fra le gambe lo faceva sentire meno vile.

Per una volta, non si stava disprezzando, per una volta stava pensando che, magari, c’era ancora qualcosa di salvabile in lui.

«Dalle sei alle otto settimane solo per la mandibola. Un mese e mezzo di gesso al braccio, frattura scomposta. Tre costole incrinate, trauma cranico. Non sto bene stronzo» sibilò Maximilian con ritrovato coraggio «Se pensi che ti perdono non hai capito un cazzo. Quando esco, lo giuro che ti troverò, a te e a quei figli di puttana dei tuoi amici, e vi faccio ingoiare i denti a calci in faccia» la rabbia e il rancore trasparirono con tale forza che Demian deglutì a stento e provò l’impulso di andarsene.

Non per la minaccia, da quel corpicino spezzato non perveniva nemmeno volendo un senso di pericolo, e poi ne aveva ricevute così tante nella sua vita che difficilmente potevano riuscire a sfiorarlo, ma l’odio era un’altra cosa.

L’odio, in una forma così autentica e sentita, lo spaventava, non sapeva come muoversi su un terreno tanto ostile, né era sicuro di averne il diritto solo per sentirsi un poco meglio.

 

Avrei dovuto lasciarlo andare. Non avrei mai dovuto fermarlo.

È colpa mia, se è conciato così.

J'ai été stupide

 

«È equo. Mi sembra giusto, non proverò nemmeno a fermarti, potrai restituirmi tutto con gli interessi. Ma tornerò a trovarti» riuscì a sostenere quegli occhi limpidi di acqua fresca e ad accennare un sorriso più sincero davanti allo sconcerto di Maximilian.

«Oltre che albino sei pure scemo? Sparisci, io qui non ti ci voglio più vedere» lo sconcerto aveva fatto esitare il ragazzino, era suonato meno duro di quanto non avrebbe voluto, probabilmente, e a quell’esitazione Demian si aggrappò con sollievo.

«Sono Demian Lemaire, Scuola d’arte Fantoni, secondo anno corso C. Dillo pure ai tuoi amici, così sapranno dove trovarmi» gli diede le spalle a alzò la mano in un gesto di commiato «Ci vediamo, verrò presto»

Ignorò i numerosi e coloriti improperi che Maximilian gli lanciò, neanche fossero oggetti contundenti pronti a ferirlo, e se ne andò a testa china.

 

Cosa ti aspettavi, che ti perdonasse?

Pensavi davvero di poterti redimere così facilmente?

Che bastasse così poco?

 

 

In momenti di lucidità come quello, quando riusciva a guardarsi dall’esterno, come stesse contemplando non se stesso ma la vita di qualcun altro, riusciva a vedersi nella sua interezza, e allora poteva distinguere con chiarezza il circolo vizioso nella quale era scivolato, a riconosceva razionalmente la falla nel sistema della sua vita. Il suo però era un impulso acquisito dopo anni di abitudine e svilimento personale, era una falla che non riusciva ad aggiustare.

Si scavava la fossa da solo, più si svalutava più era portato a commettere gesti che lo portavano a svalutarsi ulteriormente.

Il breve incontro con Max lo aveva sfibrato, pensò a casa sua, a come si sarebbe affogato nel divano con Lalami stesa addosso e una birra in mano magari, a guardare qualche film sciocco che avrebbe potuto distrarlo, perché di questo andava avanti, di distrazioni. Ogni cosa che lo circondasse era una forma di distrazione che gli permetteva di continuare a trascinarsi, e supplizio il tempo che trascorreva in attesa dell’uno o dell’altro passatempo.

A guardarsi ora, provava quasi pietà per se stesso.

Passò per l’atrio del padiglione centrale solo per poter salutare Marisa, poi uscì nuovamente all’aperto, ad occhi chiusi, ad ispirare un’aria fredda satura dell’aroma dell’autunno, un ultimo barlume di calore crepitante catturato dalla natura e rilasciato dalla terra come un estremo spasmo di vita.

«Ehi ciao! Speravo tanto che avresti aspettato»

Al suono di quella voce trafelata, Demian spalancò gli occhi. Istintivamente si portò una mano al viso a proteggere le iridi chiare, investite dall’improvvisa luce che aveva trasformato il mondo in un informe macchia gialla e i contorni delle sue dita in infuocate linee rosse. La macchia si ritirò lentamente, delineando un volto estraneo eppure noto come avesse trascorso ogni giorno contemplandone il candore.

Una goccia di sudore sulla fronte, il fiato ancora un poco pesante ed un sorriso che mangiava tutto il resto con il suo splendore soverchiante.

 

Avresti dovuto saperlo, idiota.

Guardala, lei compare solo quando non la aspetti.

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Annie ***


À Demian


Capitolo ottavo

Annie

«Ehi! Speravo che avresti aspettato»

 

Arianna era bella.

Era una vertigine improvvisa, l’ultimo gradino mancato della scala che mozzava a tradimento il respiro, una strana voragine nel petto in cui i battiti si perdevano risucchiati in un’emozione troppo complessa e inattesa per essere definita. Un brivido che gli aveva afferrato la nuca e si era sciolto nel sangue in ebrezza liquida, in un languore depositato dolcemente sullo stomaco di fronte alla sfuggevolezza di quel sorriso solare, leggero come un raggio di luce e tiepido di una stanchezza vaga, appena percepibile, un piegarsi di labbra che accennava due morbide fossette agli angoli della bocca.

Tutto il resto, la comprensione più completa di lei, della sua presenza, venne solo dopo qualche istante di rapimento, una visione sgranata che lentamente acquisiva nitidezza.

Arianna era bella e incurante, non si sapeva vestire. La sua aria trafelata era solo accentuata dalla maglietta grande. La scollatura a barca scopriva la delicata linea del collo che si congiungeva, levigata e sensuale di una fragilità tenera, con un arco cedevole alla spalla sottile, mangiata dalle maniche larghe. Le braccia magre, nascoste da una doppia manica, sembravano piccole come quelle di una bambina e, come se una bambina lo fosse, le mani erano nascoste dalla stoffa abbondante. Le dita giocavano con l’orlo in movimenti che smascheravano il sentimento di calma apparente emanato dal suo volto.

I fuseaux neri rendevano le sue gambe all’apparenza persino più magre e lunghe come steli, modellate in curve delicate.

 Demian le accompagnò con lo sguardo, sentendo la bocca arida.

 La ripercorse lentamente, notò le scarpe da ginnastica dal colore verde fluorescente, ed infine si riaggrappò ai dettagli del suo viso, i capelli sciolti e sconvolti che le coprivano le orecchie e i ricci sfatti che come ragnatele crepavano la porcellana della fronte.

Arianna strinse la cinghia di stoffa della sua borsa a tracolla e si appoggiò leggera al muro, senza aggiungere una parola. Lo studiava con un’intensità disturbante, un’espressione di profonda, pacata calma accompagnata da un guizzo inafferrabile come il riflesso delle scaglie di un pesce appena intravvisto sotto la superficie piatta di un lago e subito scomparso. Dava l’idea di una serenità quieta, eppure Demian continuava a percepire la sensazione di mulinelli d’acqua imprevisti, in quelle iridi chiare, l’impressione che, se non avesse fatto attenzione, un’oscillazione di quello sguardo l’avrebbe trascinato in un vortice in cui avrebbe finito con l’affogare.

Strinse le labbra e si decise a domandare, in modo brusco, per riprendere una certa distanza che in quei pochi istanti aveva sentito sfumare «Non odiavi i ritardi?»

E pensò comunque di essere stato fin troppo delicato, considerato quanto aveva aspettato, quanto era stato idiota a restare in attesa senza neanche conoscerne il motivo.

La ragazza piegò il capo, come un cucciolo curioso di fronte a qualcosa di sconosciuto «Perché sei rimasto?»

Un’altra vertigine, un battito mancato, per la vergogna, la cocente, bruciante vergogna di non avere nulla con cui ribattere.

 

Perché non puoi semplicemente rispondermi?

Sono io a pretendere troppo?

 

Arianna si scostò dal muro, scrollò le spalle e gli occhi si accesero di comprensione, una luce che dava una sfumatura di curiosità e intelligenza viva al suo viso.

«Mi ero dimenticata, sono io che devo dirti perché sei rimasto, giusto? Ho promesso di rispondere»

Inclinò le labbra in un gesto ironico, che lo spiazzò.

Arianna si avvicinò e gli strinse la mano senza pensarci troppo, poi con una pressione in realtà molto debole, dal sapore dell’invito, cercò di trascinarlo con sé «Non parliamone qui però. Non abbiamo molto tempo prima che sia buio, e questo posto mi deprime davvero tanto! Andiamo da un’altra parte»

Fu come ricevere una scossa.

Demian puntò i piedi, strinse le labbra tanto da farsi male e, quando Arianna si volse a guardarlo con la fronte corrucciata per il suo silenzio, ebbe la certezza che lei avesse già capito, ma stesse cercando un modo di uscirne senza doversi sbilanciare.

Forse, non aveva colto solo la sua rabbia, ma anche l’affilata umiliazione che aveva provato pensando ad un rifiuto. La osservò prendere un profondo respiro, piegare ancora la testa lasciando che i ricci le scivolassero sulle guance chiare, come a studiarlo da una diversa prospettiva, e constatare solamente «Ti sei offeso»

Non arrabbiato: offeso.

Comprese che era vero: non era semplicemente incollerito, era offeso. E si meravigliò quando si accorse che gli bastava che Arianna lo avesse capito, perché quel sentimento svilente si riducesse e ritirasse nei recessi del suo essere.

«Mi dispiace. Cioè mi dispiace davvero, intendo! Non quei “mi dispiace” da convenzione, effetto contentino che si usano quando qualcuno ti tiene il muso e tu proprio non ne hai voglia, io dico uno di quelli onesti, anche se non hai un motivo vero per credermi in effetti, e io non saprei nemmeno che dirti per convincerti del contrario perché, dai, non mi conosci neanche e quindi, o ti fidi sulla parola o mi molli qui e adesso, che poi ne avresti tutte le ragioni, ma a me dispiacerebbe comunque tantissimo, perché sono stata trattenuta contro la mia volontà e ti assicuro che non vedevo l’ora di essere qui e ho dannato l’anima a tutti quanti perché mi lasciassero uscire prima, ma al solito non mi ascolta mai nessuno. Che poi quando ti ho detto che odio i ritardi avrei dovuto essere più onesta, io sono sempre in ritardo, ma odio aspettare i ritardatari…. Paradossale, eh? Anche un po’ da carogna probabilmente, però non posso farne a meno, aspettare mi mette l’ansia e tu hai l’aria di uno che si fa i cavoli propri, mi spiace davvero!»

Demian spalancò gli occhi e schiuse la bocca. Aveva pensato di interromperla almeno dieci volte, ma Arianna lo aveva sommerso con quell’ondata di parole senza prendere mai fiato e, alla fine, di tutto il discorso Dami aveva colto a malapena il senso. Sollevò subito la mano, approfittando della pausa di respiro un poco più lunga, per farle cenno di fermarsi, perché sembrava intenzionata a ricominciare il suo sommergente monologo e non solo il viso di lei era divenuto rosso in maniera preoccupante, ma soprattutto non era sicuro di avere la forza di sopportare ancora minuti interi di frasi prive di qualsivoglia logica.

Di tutto, forse l’unica cosa che avrebbe avuto interesse a conoscere, sarebbe stata la ragione del ritardo, e normalmente -almeno secondo le convenzioni più banali- sarebbe stata quella la prima cosa che si sarebbe dovuta dire per tirarsi fuori d’impaccio.

Eppure, se ne accorse con disappunto, Arianna aveva glissato su quell’argomento con palese ovvietà, pungolando così la parte più curiosa del suo essere, costretta a languire dal freno spietato della propria indole discreta che non gli avrebbe mai concesso di esprimere apertamente quella domanda.

Accettò con un sospiro dimesso di restare nell’ignoranza più completa, ché aveva un buon intuito, e l’intuito gli diceva che quella ragazza strana non si era semplicemente dimenticata di dirgli i suoi motivi, aveva chiaramente deciso di non condividerli e basta.

«Oui, oui, bien sûr, je comprends, mais arrêtez ça, s'il te plaît

«Eh?»

Arianna lo fissò sgomenta e, con ancor più sgomento, Demian si accorse di essersi lasciato sfuggire la propria lingua. Era un istinto che normalmente emergeva solo con sua sorella, eppure qualcosa di esasperante e tremendamente familiare in quella sconosciuta lo aveva indotto a rilassarsi.

«Tranquilla, non fa nulla. Va bene così» balbettò riannodando i bordi sfilacciati delle proprie sensazioni.

La situazione gli stava sfuggendo di mano, il terreno sotto i suoi piedi era mutato in una scivolosa lastra di ghiaccio pronta a creparsi al primo passo falso, e lui riusciva solo a restare immobile, in precario equilibrio in attesa di un miracolo che non lo facesse ingoiare dal gelo.

«Allora andiamo?» ripeté lei, calda di un sorriso estatico e soddisfatto, tenero da suscitare il desiderio di afferrarle la guancia e strizzarla, come faceva sempre sua nonna.

Arianna gli porse la mano, Demian la fissò incerto, ne studiò la forma infantile, le dimensioni piccole e dall’apparenza soffice e debole, una mano fatta per accarezzare, per accogliere nel suo palmo solo dolcezza.

La strinse, ma senza convinzione, mollemente. Lasciò che fosse lei a scegliere l’intensità di quel legame mentre Arianna intrecciava spensieratamente le loro dita, e decise di restare in disparte, a osservare quello squarcio di bellezza che lei gli stava donando come uno spettatore dubbioso, perché non lo sapeva, fin dove voleva spingersi. L’ingenuità primordiale di Arianna non gli permetteva di comprenderne le intenzioni.

L’ospedale distava quasi venti minuti dal centro proseguendo a piedi, eppure la ragazza non accennò a dirigersi alla fermata del bus e Demian, senza porsi troppe domande, tenne il suo passo docilmente.

Arianna trasmetteva un senso di pace, emanava una forza interiore solida e insondabile in perfetto accordo con il suo essere, in un equilibrio incomprensibile che avrebbe quasi potuto stonare, con quel suo aspetto stropicciato da bambina arruffata.

Eppure Demian la guardava, non riusciva a smettere di guardarla dall’alto di quei suoi dieci centimetri in più, con riserbo, un pudore che pensava di non possedere più e invece aveva giaciuto in qualche luogo remoto e inutilizzato del suo sé in attesa di essere rispolverato, una veste che aveva abbandonato fin dall’età più tenera e forse era ancora intatta, non era perduta.

Nonostante gli atteggiamenti infantili, i gesti di Arianna erano accompagnati da un’insolita eleganza, per nulla ricercata, spontanea nella dolcezza di un movimento inconscio. Una sensualità latente e immatura nel modo delicato con cui fletteva il collo o camminava, dritta come un fuso, come se il suo corpo tendesse verso l’alto, leggero, appeso ad un filo teso da cui si sgranavano una ad una le vertebre della sua schiena, in una curva leggera e raffinata.

Ed allora gli si seccava la gola ed un calore che non avrebbe voluto provare si annidava nel basso ventre e capiva che quello era il potere di Arianna, il suo essere acerba, l’ingenuità della sua essenza che si rifletteva nel suo aspetto esteriore rendendola fragile in maniera disarmante.

Almeno fino a quando non parlava e fino a quando i suoi occhi vispi guardavano altro, inseguivano la linea dell’orizzonte e pensieri che Demian non poteva nemmeno immaginare.

Perché poi, quando di tanto in tanto, pareva ricordarsi di lui, ricambiava le sue occhiate fugaci con una forza che spazzava via ogni sua spavalderia per costringerlo a distogliere lo sguardo. Se non lo avesse fatto, se avesse provato e sostenere occhi tanto belli e ruffiani, avrebbe finito con lo strapparsi l’anima e donargliela spontaneamente, per non dover tentare lo sforzo di resisterle.

In questo, Arianna gli ricordava Sarah.

L’asfalto aveva ceduto il posto ai sampietrini e, dopo aver attraversato un incrocio, imboccarono un lungo porticato medievale di grosse pietre grigie che conduceva alla zona pedonale, senza dedicare particolare attenzione ai negozi di antiquariato e mobilia che si srotolavano alla loro destra, oscurati dall’assenza di luce naturale.

Solo quando superarono il colorificio Demian ebbe un sussulto di esitazione. Quello era il suo negozio preferito, dove si procurava sia il materiale scolastico che quello ad uso prettamente personale. In vetrina, una valigia da centoventi pastelli in gradazione cromatica gli fece desiderare di entrare seduta stante e farsi un regalo. Non ebbe però il coraggio di far presente la voglia di potersi fermare anche solo un momento. La ragazza al suo fianco lo scrutò arricciando le labbra, come avesse intuito un suo repentino cambio di umore, come una bambina dagli occhi grandi, e allora si affrettò a scuotere la testa per deviare l’attenzione.

Forse concederle quel pezzo di mondo, anche se quel negozio era solo un buco, era troppo, era darle l’accesso alla sostanza che componeva la sua essenza vitale. L’arte era un pensiero sublime che inchiodava la sua anima inerme, un segreto che, se condiviso, l’avrebbe spogliato di ogni difesa per lasciarlo nudo di fronte alla realtà, debole.

Un mollusco senza conchiglia.

E Arianna era bellezza, bellezza che avrebbe forse potuto arricchire quell’arte, ma ad un prezzo che non poteva sapere se sarebbe stato equo, per questo non le disse nulla.

La piazza triangolare in cui sfociava il porticato era riempita da una fontana centrale, dal taglio moderno e disadorno, asettico, che Demian non aveva mai particolarmente apprezzato. L’aria era fresca ma non fredda, per questo i tavolini all’aperto di un bar, protetti da ombrelloni squadrati e delimitati da eleganti fioriere, erano invasi da persone e bambini. La calma che li aveva accompagnati si saturò di suoni. La strada proseguiva in salita, conduceva ad una chiesa antica e discretamente famosa, sulla destra invece, si snodava la principale via del centro: un susseguirsi di negozi di vestiario, gioiellerie, e tre librerie - a cui di solito Demian faceva tappa, prima di comprare un libro, per scegliere un’edizione che lo soddisfacesse- tutti incastonati in edifici storici dai colori vivaci. C’era una grande quantità di gente, gruppi di ragazzi, signore con cagnolini di piccola taglia vestiti come imbarazzanti bamboline. Sul bordo della strada pedonale, alcuni artisti intrattenevano capannelli di persone raccolte in cerchio tutt’attorno, ed un paio di bancarelle vendevano fiori spiegazzati.

«Vieni di qua, ti porto nel mio posto preferito!» lo incoraggiò Arianna, con un sorriso che avrebbe potuto tranquillamente accecarlo.

Il suo posto preferito, si rivelò essere un bar-gelateria, con l’ingresso in una galleria e pochi tavolini da esterno bianchi con le seggiole rosse.

Demian ci era passato davanti molte volte e lo conosceva, tutta la facciata che si offriva alla strada era in vetro ed era possibile osservare l’interno, ma non ci era mai entrato. Sembrava un luogo per famiglie, e Dem non aveva mai frequentato luoghi per famiglie negli ultimi anni.

Il bancone offriva una notevole varietà di gelati nonostante il periodo dell’anno, ma era impensabile avvicinarsi visto il gruppo di bambini chiassosi e genitori petulanti che si accatastavano gli uni sugli altri neanche quella fosse l’ultima scorta di cibo sulla terra e dovessero fare prima per non morire di fame. Arianna si fece notare da un cameriere prima di salire al piano superiore, attraverso una scala a chiocciola con la balaustra d’acciaio, nascosta in un angolo, che non aveva notato tanto era discreta. Si accorse anche di un piano inferiore passando davanti all’ingresso ad arco della taverna, perché arrivava il crepitio di una televisione, la telecronaca di una qualche partita. Di sopra, le pareti erano rivestite di finta pietra e il parquet chiaro unito alla luce naturale proveniente dalle vetrate dava a locale un aspetto arioso. Solo un paio di tavoli erano occupati, separati da piccoli muretti decorati da piante, ma c’era la musica a colmare l’assenza di brusii che avrebbe reso l’ambiente triste e Demian tirò un sospiro di sollievo per quella calma ritrovata. Aveva voglia di fumare, ma non voleva farlo davanti ad Arianna, voleva farle una buona impressione.

Nell’insieme era un bar come un altro, abbastanza banale perché non riuscisse a capire cosa lo rendesse speciale per la ragazza.

«Che fortuna, il mio posto preferito è libero!» si entusiasmò lei, trascinandolo in fondo alla sala, vicino alla vetrata. Si poteva osservare il viale sottostante e c’era qualcosa di pittoresco in quella visione dall’alto che Demian non si sarebbe mai aspettato, per questo ancora non parlò, rimase perso nella contemplazione di quelle figure sfocate come macchie di colore disciolte nell’acqua, un quadro impressionista dalle sfumature ombrose del sole che calava e mostrava l’oscurità di quel mondo, l’altro lato della medaglia.

Un viaggio oltre lo specchio.

Arianna ridacchiò «Lo sapevo che ti piaceva. Era coerente con quel tuo aspetto da bohemien»

Demian si schiarì la voce e tornò a concentrarsi su di lei, allora Arianna gli passò il menù e adagiò il viso nelle mani a coppa, sfoggiando l’espressione furba di una bambina pronta a fare un dispetto. Forse leggeva davvero troppo, ché quell’atteggiamento lo fece pensare a Tom Sawyer e quell’associazione lo fece sorridere.

«Tu non ci guardi?»

«No, so già cosa prendere» rispose sicura.

Demian, in imbarazzo, si passò una mano sul collo e si morse la parte interna della guancia. Arianna era disagiante, non la smetteva di fissarlo senza filtri, dritto negli occhi, senza un motivo apparente.

«Cosa?»

La osservò raddrizzarsi immediatamente, ridacchiare e portarsi la mano davanti al volto, per tenere il conto con le dita, come se davvero fosse una bambina. Doveva aver conservato certe puerili abitudini che la rendevano adorabile e stemperavano il suo nervoso.

«Ci sono ben due motivi per venire qui!» dichiarò con un sorriso incompleto, una sola fossetta all’angolo della bocca «Primo: fanno un frappè al cocco che è la fine del mondo, il più buono della mia vita. Ne berrei a litri! Secondo: se gli chiedo di farmi il cappuccio in un certo modo, me lo fanno come lo voglio io»

A leggere tutta quella soddisfazione per qualcosa di tanto banale, Dem non riuscì a trattenere una risata «Tutto qui?»

«Ehi, sono validi argomenti!»

«Mi aspettavo qualcosa di più»

Arianna fece spallucce e storse il naso «Ti aspetti troppo dall’abitudine, vengo qui con mio fratello da sempre, non c’è nessun racconto epico dietro»

In quel momento si avvicinò il cameriere con il taccuino alla mano.

Demian non aveva scelto niente, né aveva una qualche idea di cosa prendere in un bar di quel genere e in compagnia di una ragazza come lei. Normalmente si sarebbe dato ad una birra, ma poi la guardava e gli sembrava di accostare due elementi che non avevano nulla da spartire.

«Un frappè al cocco» lo disse senza rifletterci, ed Arianna s’illuminò come un albero di Natale.

«Allora ti ho convinto!» si gonfiò di orgoglio, poi tornò a guardare il povero ragazzo in attesa, in piedi accanto a lei.

«Io vorrei una tazza di caffelatte, per favore» lo disse con un entusiasmo eccessivo che gli fece corrugare la fronte per la confusione. Non capiva perché, aveva l’impressione che qualsiasi cosa potesse animarla, come traesse da qualunque sciocchezza un soffio di vita. Il cameriere annuì e fece per andarsene, ma Arianna lo richiamò all’istante «Mi raccomando: caffelatte, non cappuccio!»

«Sì, signorina»

Si voltò e Arianna lo fermò di nuovo «Niente schiuma! E non esagerate con il caffè. Deve essere beige, tipo. Il colore è fondamentale, ricordalo. Beige chiaro, altrimenti non ha senso»

Demian rimase basito, schiuse le labbra e pensò che forse, più stranito di lui c’era solo il povero ragazzo a cui era toccato in sorte di servire il loro tavolo. La sua aria smarrita davanti ad una richiesta che non lasciava possibilità di salvezza era sconcertata e grottesca. Il cameriere si affrettò ad annuire ancora e a defilarsi velocemente, solo allora Arianna posò i suoi occhi verdi da gatta viziata su di lui e snudò tutti i denti nell’ennesimo, abbagliante sorriso.

«Non mi chiedere il perché!» lo precedette, dondolando i piedi sotto la sedia e inclinando ancora la testa, in quel gesto che doveva essere un vezzo «Non è una cosa che si possa dire ad un primo incontro, lo troveresti strano»

Demian squadrò la sua figura minuta, si accigliò ancora, ma solo un’istante: era arruffata, assurda ed emanava una naturalezza che lasciava tranquillamente intuire che ci credeva davvero, in quello che aveva appena detto. Era convintissima delle sue parole, probabilmente, secondo i suoi standard, Arianna si stava contenendo, e la sola idea di quello che avrebbe potuto dire o fare senza alcun freno lo fece ridere di gusto.

«Ma hai visto la faccia di quel poverino?»

Arianna increspò le labbra in un broncio a paperella «Ora puoi capire l’importanza del punto due» osservò risentita, aumentando solo il suo buon umore.

«Ok, visto i pessimi risultati non credo valga la pena di contenersi. Dimmi il motivo»

«Ma Dani mi ha detto che certe cose, se qualcuno non mi conosce, sono inquietanti»

«Dani?»

«Mio fratello»

Il grumo di fastidio che già si stava addensando all’altezza dello stomaco si sciolse subito, era corrucciata, giocava con le mani sul tavolo e seguiva i movimenti delle proprie dita distrattamente.

«Non mi inquieto facilmente, sono cresciuto con una delle donne più eccentriche mai esistite» la tranquillizzò, e Arianna allora si distese, e nel sorridere i suoi occhi si strizzarono in due gocce di rugiada verde che lo lasciarono senza parole.

Il cameriere si avvicinò di nuovo con le loro ordinazioni, quando posò la tazza di caffelatte davanti alla ragazza, lei non perse la sua aria felice «Ok allora te lo faccio vedere»

Spostò la tazza in mezzo al tavolino rotondo, e Demian si sporse a guardare, non sapeva nemmeno lui cosa. Una brodaglia beige chiaro, latte sporco, era tutto ciò che vedeva, e l’odore nauseante del caffè lo prese a tradimento. Si scostò con fastidio.

«Non lo assaggi?»

«Non mi piace il caffè»

«Nemmeno a me, è amaro» gli fece presente Arianna, confusa «Ma questo non è semplice caffè, dovresti berlo. Se non lo bevi, non puoi sentire la magia»

Demian tornò a sedersi il più lontano possibile, strinse la cannuccia del suo frappè e la mosse piano, per prendere tempo.

Non capiva.

«Forse è inquietante» si ritrovò a dire, con un mezzo sorriso sghembo che sdrammatizzasse la sua uscita, ed infatti Arianna scosse la testa, riprese la tazza e sbuffò «È solo perché non capisci. Questo è il colore dell’universo»

«Che?»

«Ma sì, non lo sapevi? Il colore dell’universo è caffelatte. Non è stranissimo?»

Demian, quasi contagiato, si sorprese a inclinare il capo a sua volta, forse per capire la prospettiva con cui guardava lei le cose, ma non gli cambiò nulla «No, il caffè non mi piace lo stesso» le fece notare con un sorriso sincero «Non mi farai cambiare idea, non lo renderai bevibile»

Allora, sotto il suo sguardo divertito, Arianna s’imbronciò metodicamente, arricciò ancora le labbra sembrando una buffa e sciocca papera, e quell’aria volta solo ad arruffianarlo gli strappò l’ennesima, sottile risata.

«È solo perché sei un bruto, non ci vedi la poesia» borbottò lei, nascondendosi dietro il muro delle proprie braccia intrecciate.

«Quale sarebbe?»

Le iridi di Arianna si accesero di quel suo puerile e tenero entusiasmo che già gli sembrava di conoscere da tutta la vita «Quando ho una tazza di caffelatte tra le mani, mi viene il buon umore. Hai presente quella storia noiosa che ti dicono sempre, che sei pulviscolo, una particella di polvere nell’universo, praticamente rispetto al tutto non sei nulla?»

Faceva fatica, a seguire la sua logica, non gli era chiaro quale volo pindarico quella testolina riccia e scapestrata avesse appena compiuto, perciò si limitò ad annuire.

«Ecco, quando bevo il caffelatte, è come se fossi io a bere l’universo ed è lui a essere così piccolo da stare nelle mie mani» concluse soddisfatta, prendendo la tazza in questione e bevendone un lungo sorso.

«Arianna uno, universo zero. Questo mi mette di buon umore!»

Demian rimase inizialmente allibito, forse perché ad un certo punto, era sembrata tanto seria che era riuscita ad alzare la sua aspettativa, pensava che l’avrebbe folgorato con qualcosa d’inimmaginabile. E alla fine l’aveva anche fatto, a modo suo, ma un modo tanto assurdo che davvero, davvero per quanto si sforzasse riusciva solo a ridere.

E allora lo fece, diede sfogo a quel divertimento sincero che gli fece venire gli occhi lucidi.

«Sul serio?»

«Sul serissimo!»

«Mitomane» articolò a fatica, lasciandosi andare sulla sedia e piegando la testa all’indietro. Non era importante che ci fossero altre persone, che guardassero pure, che vedessero che animale raro aveva davanti, puro e ingenuo come fosse appena venuto al mondo.

Arianna si allungò sul tavolo, distese il collo in un gesto sensuale che quasi gli strozzò il respiro, e poi lo ripagò con una linguaccia divertita.

 

Avevano abbandonato il locale che il sole era già tramontato.

La via cittadina era illuminata dai lampioni e dalle vetrine dei negozi. Quella gradazione calda, in opposizione con l’oscurità, affascinava Demian, che osservava il profilo distratto di Arianna modellarsi nei contrasti di luci e ombre.

Sembrava rilassata e appagata, aveva l’aria di una persona che era riuscita ad ottenere tutto ciò che potesse desiderare, e lui proprio non si spiegava come fosse possibile. In quell’atmosfera pacata e serena, dove ormai solo coppiette si aggiravano tranquille e la maggior parte della gente si era ritirata per andare a cenare, anche Demian si sentì finalmente sciolto da ogni nervosismo. Si concesse di osservare Arianna senza provare vergogna, ché tanto lei era sfuggente e raccolta nelle sue riflessioni, con quel sorriso che le bagnava il volto, e i suoi occhi grandi, scuri come pozzi profondi a causa dei riflessi, scivolavano sui manichini esposti nelle vetrine senza un vero interesse, a confermare che i vestiti non erano esattamente la sua passione.

Ad un tratto, inchiodò bruscamente.

Avevano abbandonato la strada pedonale e si erano inoltrati nel Viale principale che conduceva alla stazione, costeggiato da immensi alberi e siepi curate tratteggiate con più chiarezza dai fari delle macchine di passaggio. Arianna aveva lasciato la sua mano solo per aggrapparsi con irruenza alla manica di pelle della sua giacca, ed ora lo strattonava emettendo un acuto verso a lui poco chiaro.

«Che ti prende?»

«Sono trotolinissimi!» chiosò a voce sufficientemente alta da far voltare alcuni passanti. Allora Demian si accorse che a pochi passi da loro c’era un negozio di peluches. Arianna quasi si spiaccicò al vetro, e continuò con entusiasmo «Guarda quello, quel tucano là in alto che occhi che ha!»

La sua risata ebbe l’effetto scrosciante di una cascata e ispirò in Demian lo stesso senso di meraviglia e limpidezza. Assecondò l’insistenza con cui lo invitava ad avvicinarsi, e si trovò di fronte un pupazzo dalle fattezze caricaturali, con gli occhi tondi immensi e vagamente allucinati, ed un corpo grottescamente più piccolo e cicciotto.

«È orribile» constatò senza riflettere, causando il disappunto immediato di Arianna che rispose con una non troppo delicata gomitata nel fianco.

Sobbalzò per la sorpresa e la guardò ad occhi spalancati, ma poi cozzò contro il suo broncio infantile e gli sfuggì un sorriso «E tu sei violenta!»

«No, sei tu che non capisci niente! Guardalo, è la cosa più bella e tenera al mondo.  Sembra così morbidoso! Potrei passare ore a punzecchiargli il pancino»

Davanti a quest’imprevista rivelazione, Demian non poté frenare il suo sopracciglio dall’inarcarsi istintivamente, gesto che fece gonfiare le guance di Arianna d’indignazione. Veniva voglia di farle scoppiare come palloncini, solo per vederla svuotarsi e poi infiammarsi ancora di più per il fastidio.

«Non mi guardare così» bofonchiò, allontanandosi da lui e liberandogli il braccio.

Dem riacciuffò la sua mano prima che Arianna potesse intrecciare le braccia al petto, la trattenne e si ritrovò a guardare sgomento quelle dita piccole e morbide fra le sue. Perché quello non era un gesto da lui, normalmente non lo avrebbe mai fatto, eppure non aveva potuto farne a meno. Quello avrebbe potuto essere il loro unico incontro nella vita, e gli sarebbe stato anche bene, sarebbe stato accettabile, ma almeno per una sera, voleva succhiare fino in fondo il midollo dell’essenza di Arianna, voleva assorbirla il più possibile.

Voleva che quell’incontro casuale, nato da una situazione casuale, potesse restare cristallizzato nel tempio della sua memoria come un momento colto e sublimato, reso eterno.

Un ricordo di perfetta serenità di cui poter essere geloso.

«No» le sussurrò leggero, cercando di nascondere il tremore dell’imbarazzo con un tono appena sussurrato.

Arianna lo guardò negli occhi, sorrise timidamente, una vena di pudore innocente nella piega delle labbra, e contraccambiò la stretta.

Con un colpo di tosse simulato, cercò di riacquistare il giusto atteggiamento «Non preferisci qualcosa di più classico? Tipo quell’orsetto?»

La ragazza arricciò il naso e le labbra in un’espressione di disgusto eccessiva e estremamente buffa «No, sono banali e noiosi. Quel fenicottero è bello. Mi fa morire dal ridere!» chiosò di nuovo, additando un altro peluche con evidenti problemi di linea.

 

Ok, le piacciono le cose inquietanti e possibilmente in sovrappeso.

 

Demian rientrava nella prima categoria, ma si rifiutava perentoriamente di entrare a far parte della seconda. Osservò il loro riflesso sfocato nel vetro e pensò all’effetto strano che dovevano dare in coppia, erano così diversi: lui, pallido e vestito di nero, con le orecchie piene di anelli ed il capo coperto, non trasmetteva esattamente un senso di tranquillità e fiducia; per contro, Arianna era il suo opposto, con la maglia colorata da hippie e quell’aspetto da creatura innocente e serena.

Si sentì fuori contesto, fermo davanti a quel negozio, per questo le fece una leggera pressione con la mano, nella speranza di farle intuire il suo disagio.

E Arianna lo guardò dal basso, spensierata, e capì senza dire una parola, perché annuì e lo invitò a seguirlo imboccando una via perpendicolare alla strada principale, che conduceva ad una zona residenziale isolata. Quella parte di città era più calma, salvo qualche locale notturno che ancora non aveva potuto esprimere il meglio visto che non era orario. Passavano molte macchine, ma non incrociarono quasi più nessuno sul loro cammino.

La mente di Dami era annodata in mille domande, non riusciva però a dargli corpo. Nonostante la tranquillità che li circondava e il solo rumore del traffico lontano come accompagnamento costante di sottofondo, si sentiva soffocato, una mano sulla nuca che pesava come se il mondo fosse presente, ad osservare quello squarcio di vita che non gli apparteneva e aveva in sé qualcosa d’intonso, una tela pulita che aspettava la prima pennellata per definire se stessa.

Quando giunsero in fondo alla strada, ad una rotonda presieduta dai resti di una torre arroccata, rimasuglio delle antiche mura trecentesche della città, venne folgorato da un’idea.

«Vieni con me!» e senza aspettare risposta, si mise a correre trascinandola con sé, svoltando a sinistra.

Arianna si lasciò andare ad una risata che le tolse il respiro e la fece incespicare, cercò di riprendere il controllo e alla fine lo superò e si voltò a guardarlo con le iridi lucide di divertimento e le guance colorate di rosso per lo sforzo «Come sei lento!»

Il dono di quella ragazzina sottile e all’apparenza fragile, era la capacità di rendere semplice anche la situazione più assurda, con una facilità tale che sentirsi a proprio agio, con lei, era come respirare, necessario. Che l’avesse appena conosciuta era irrilevante, c’era attorno alla sua persona un’aura di familiarità dolce come di qualcuno amato da una vita intera.

Ridendo la tirò a sé, Arianna per la sorpresa inciampò e gli cadde addosso. Allora, Demian se la caricò in spalla, in un gioco naturale che aveva sempre condiviso con Sarah.

Arianna rise sguaiatamente, cercando di sgusciare alla sua presa come un’anguilla esagitata, ma questo rendeva solo più divertente trattenerla.

«Mettimi giù Demi! Dai!»

A rafforzare quella sua richiesta strascicata dalla risata, Arianna gli tirò qualche fiacco pugno sulle spalle, a cui rispose prontamente con il solletico. La sentì scattare con tanta forza che quasi gli cadde, ma non per questo smise di tormentarla, ne provò solo un sadico, maggior piacere.

«Smettila, ti prego!» supplicò con un tono talmente lamentoso che Demian percepì il pianto nelle risa, un’ilarità incontenibile a cui si era lasciata andare senza opporre resistenza.

«Solo se stai ferma!»

Si accorse di star ridendo: proprio lui, rideva come un matto, come non ricordava di essere in grado di fare.

«Ok, ho capito, giuro che ho capito! Faccio la brava, lo prometto, non mi muovo più!»

Lo distrasse ancora Arianna, riportando l’attenzione, che per un secondo aveva allontanato, di nuovo su di lei.
Avvertì il suo corpo leggero irrigidirsi in maniera innaturale e la voce di Arianna uscire forzatamente seria, come se si stesse trattenendo a fatica ma non volesse in alcun modo darlo a vedere «Sono una statua, visto?»

«Le statue non parlano» le fece notare divertito «Tu è un miracolo se stai zitta!»

 Non poteva vederla in volto, ma aveva imparato velocemente che con lei non era necessario. Arianna parlava con ogni parte del suo corpo, come se la sua gioia dirompente fosse troppa, e non riuscisse ad essere contenuta e allora fuggisse dai pori della sua pelle per ammantarla di un alone di spensieratezza.

 Il suono di una pernacchia seguì il respiro più profondo che le aveva sentito prendere.

«Ti sto facendo una linguaccia, sappitelo!» sibilò infatti lei, con atteggiamento fintamente indisposto.

«Ah, beh, molto maturo»

Arianna gli abbassò il cappuccio della felpa e gli sfilò la berretta nera, in un primo momento Demian quasi non se ne rese conto.

Solo Sarah si permetteva un contatto tanto intimo.

Quando il disagio della consapevolezza si fece avanti, rimase atterrito dalla sua stessa leggerezza che lo aveva portato a dare troppa confidenza ad un’estranea. La rimise a terra, molto bruscamente, ma Arianna non parve farci caso. Si calcò la berretta sopra i riccioli scuri e gli sorrise esaltata come una bambina, con tutti i denti in bella mostra e le fossette adorabili sulle guance.

Non aveva reagito a quel suo aspro cambio di reazione, con gli occhi grandi pieni di meraviglia gli ricordò un poco Sarah e questa realizzazione improvvisa delle affinità che le due streghe avevano lo turbò profondamente.

 

Mi ignora, non c’è altra spiegazione


«Dove mi hai portata?» domandò lei, senza minimamente considerare l’espressione truce che doveva avere in quel momento per guardarsi attorno, un animaletto curioso dal sorriso grande.

Demian accarezzò con lo sguardo la ringhiera che, dall’altro lato della strada, celava il parco più grande della città alla loro vista. L’aveva portata lì perché Arianna, quel pomeriggio, aveva condiviso un pezzetto di sé, un luogo che amava, e forse avrebbe potuto farlo anche lui, avrebbe potuto condividere qualcosa per non essere dimenticato.

Anche fosse stato solo un giorno, solo quel giorno, sarebbe stato un toccarsi per lasciarsi un ricordo, e gli piaceva, il pensiero di essere una piccola spina nell’anima di quella ragazza, un fantasma impalpabile che non poteva vedere, ma che sarebbe potuto riemergere a volte, donandole un senso di nostalgia. Gli piaceva l’idea di poter essere legato, anche solo così, da uno scomparto seppellito nella memoria, a qualcosa di bello come lo era lei, a qualcuno di felice come lei.

«Ti faccio vedere»

Non cercò più un contatto, ed Arianna non parve accorgersene o finse di non accorgersene, gli trotterellò accanto senza spegnere mai la luce dei suoi occhi.

A Demian quel parco piaceva particolarmente. Ci portava spesso Sarah quando era più piccola. L’area giochi era grande e sua sorella ci si perdeva come una bambina al Luna Park, ed era un luogo appartato, sufficientemente grande da permettergli di non incrociare nessuno se lo desiderava. Ci andava a correre a volte, dopo la palestra, e, nei momenti di creatività maggiore, era facile trovare un buono spunto per disegnare: gli alberi nodosi ombreggiavano le grandi distese verdi e i laghetti artificiali davano una sensazione rinfrescante, come un’oasi isolata a cui aggrapparsi nel caos cittadino.

C’erano poi numerosi sentieri costellati di panchine, poco battuti soprattutto la sera, quando la luce dei lampioni e il pesante silenzio davano un’aria spettrale che inquietava le persone. I cespugli ben curati delimitavano le aree di gioco e la pista dei kart e mentre Arianna lo seguiva taciturna, Demian contemplava quei luoghi familiari con un’insolita stretta al petto.

Per molto tempo, avevano rappresentato momenti felici, vissuti con maman e Sarah, mentre ora erano semplicemente mutati in un rifugio riparato dove fuggire quando la presenza di sua madre era troppo opprimente. Negli ultimi mesi ci portava Lalami, la solitudine pesava anche ad uno come lui, che la cercava morbosamente, ma con la cagnolina ne soffriva di meno ed allo stesso tempo poteva risparmiarsi di parlare.

«Non so perché, ma credo di esserci già stata» considerò Arianna ad un tratto, e la trovò con il mento tra le dita ed i pensieri attorcigliati che le si leggevano in viso.

«Tutti ci sono stati almeno una volta»

«Perché sei voluto venire qui?»

A quella domanda, gli saltarono i nervi.

Per tutto il tempo ne aveva ricevute e aveva risposto quasi sempre con un’onestà inadeguata per una persona sconosciuta, ma lei si era ben guardata da dargli soddisfazioni. Scavava senza remore nell’anima altrui, ma proteggeva la sua con un egoismo irritante.

«Non dovevi essere tu a rispondermi?» l’accusò, vanificando il pomeriggio trascorso insieme. Si guardarono negli occhi, e Dem ebbe l’impressione di essere tornato a qualche ora prima, davanti all’ospedale, dove aveva seppellito tutte le rimostranze che ora premevano per avere il loro spazio.

Ed anche questo, in realtà, era sorprendente. Non gli succedeva spesso di non riuscire a reprimere se stesso, non si spiegava quel cattivo umore che lo aveva pugnalato a tradimento, ma che potesse esprimerlo tanto facilmente in maniera diretta e non con sotterfugi, questo era davvero destabilizzante.

Arianna abbozzò un sorriso disarmante, velato da una malinconia che lo spinse a distogliere lo sguardo e lo svuotò come un palloncino. Riusciva a farlo sentire meschino per il semplice fatto di aver provato della rabbia verso di lei.

«Certo, tutto quello che vuoi» gli disse, poi scrollò le spalle e la sua espressione si distese e tornò tersa «Però non con quel tono di voce»

Si sedette su una panchina e lo invitò silenziosamente a raggiungerla picchiettando insistentemente con la mano sul posto accanto al suo. La studiò con sospetto, insicuro, ma alla fine si disse che era una cosina, Arianna, un fuscello di ragazza dal sorriso bello, e non avrebbe potuto fargli concretamente nulla, era inutile guardarsi le spalle con tanta insistenza.

Si diceva questo, eppure la sensazione che quella ragazza fosse più pericolosa di chiunque avesse mai incontrato non lo abbandonava. Gli si accomodò accanto e lei gli prese le mani e lo guidò, rivolgendo i suoi palmi verso l’alto.

«Che staresti facendo?»

Davanti alla sua perplessità, Arianna sollevò gli occhi al cielo, in un gesto di simulata esasperazione che gli gridava come facesse ad essere tanto ottuso da non comprendere certe “ovvietà”.

«Ristabilisco il tuo stato zen, ovviamente»

Quel suo assurdo modo di fare riuscì a spiegargli le labbra in un accenno di sorriso, un’increspatura serena che la portò a sua volta a rilassare le spalle e a mostrargli ancora tutti i denti in una delle sue espressioni pure e inermi.

«Perfetto. Bravo ometto. Ora prendi un bel respiro»

«Ometto?» storse la bocca e Arianna si accigliò

«Preferivi soldatino?»

Ci mise qualche istante a realizzare che era seria e gli stava parlando come fosse un bambino. E malgrado fosse paradossale, e fosse anche piuttosto scettico sui metodi di quella piccola maliarda dagli occhi verdi, comprese che non era importante nulla: con lei non c’era un senso di priorità e probabilmente nemmeno della logica, ma non farla contenta era più difficile che opporsi e cercare di capirla.

Scosse subito la testa e chiuse gli occhi, pronto ad assecondarla, prese un grande respiro, poi un altro ancora.

«Cosa intendevi dire, stamattina?»

Arianna piegò la testa, ormai era certo che solo così quella buffa creatura manifestasse la propria perplessità.

«Sì dai, non puoi non ricordare. Quando hai detto che non dovevo scervellarmi»

In un primo momento, Arianna arricciò le sue labbra piccole, poi le distese e ridacchiò «Quindi ci avevo visto giusto, era questo il tuo problema. Lo sapevo. Era solo un modo per incastrarti, tu sei un razionalista, ti si legge in faccia, prima di decidere di fare qualcosa ti danni l’anima, non è vero? “sì, no, forse”, se non ti avessi messo addosso dei sani dubbi e un briciolo di curiosità, era matematico che non mi avresti incontrata. Sicuramente fai così con tutto»

Dopo essersi espressa, lo guardò in viso e si tappò immediatamente la bocca con la mano, abbassando le palpebre in un’espressione da vittima pentita volta ad intenerirlo. Se non fosse stato tanto offeso avrebbe riso di quella reazione infantile nel rendersi conto di aver parlato troppo. Non ci riuscì però, quel discorso aveva urtato in qualche modo il suo orgoglio, toccando una corda inerme che vibrando lo feriva. Cercò di darsi un tono per non farglielo capire, ma gli occhi di Arianna parlavano per lei, e quel pentimento sincero gli gridava che non c’era riuscito, ad essere indifferente.

Quella ragazza dall’apparenza angelica, di angelico non aveva nulla.

«E perché avresti dovuto volermi vedere per forza?» attaccò, non si accorse di sembrare semplicemente un randagio messo alle strette, un gattino che si sentiva una tigre e tentava di scacciare con la sua zampina un mostro più grande di lui.

Quel viso si adombrò di un dispiacere sottile ed anche la sua voce vibrò di una velata e struggente tristezza, una malinconia latente, soppressa con la volontà ma presente in lei come un’altra faccia del suo sorriso abbagliante. E lui l’aveva sognata, la sua tristezza, l’aveva intuita, per istinto, fin dal primo giorno, aveva colto la sfumatura celata oltre la sua esuberante allegria come un contrappeso.
Forse non era un caso, che Arianna lo avesse colpito tanto a fondo, forse qualcosa di lei lo aveva capito, un’affinità di un’anima ferita come la sua, ritirata dietro a mura dall’aspetto pacifico, ma altrettanto alte e inespugnabili.

«Perché sembravi uno che voleva restare solo» mormorò a disagio, mordicchiandosi le labbra come in dubbio, esitante.

E nonostante il dubbio, gli occhi erano incatenati a suoi, gli occhi di Arianna non cedevano mai, erano forti di incrollabili certezze e sicuri delle proprie fragilità.

Demian si scoprì ad invidiarla.

«E?» la invitò a esplicitare un sottinteso che aveva percepito come una stonatura in una delicata sonata.

La guardò sospirare e, con quel sospiro, spogliarsi di ogni insicurezza «E sembravi anche una di quelle persone che è meglio non lasciare sole quando vogliono esserlo»

La sua spavalderia si consumò con quelle poche parole. Arrossì tutto in una volta e si nascose calando sugli occhi la berretta nera che, Demian non si era accorto, stava indossando ancora lei.
Avrebbe voluto ribattere qualcosa di forte, di distaccato, che non lo facesse scivolare nella pateticità del suo essere, ma non gli sovvenne nulla alla mente.

Non sapeva come prendere ciò che gli era appena stato detto con tanta innocenza, si sentiva stranamente scollato da quel momento, come potesse guardarsi da fuori, guardare lei, l’irrealtà di un attimo che nella sua esitazione si stava già consumando.

Demian non sapeva mai come muoversi, di fronte all’interesse altrui. Se ne era sempre sentito ferito, perché non aveva mai percepito nulla di genuino nella pietà, solo un sentimento che lo declassava e lo faceva apparire debole, mortificato.

In difetto con tutti, ma soprattutto con se stesso.
Eppure, in Arianna c’era un’acutezza diversa, familiare, una comprensione che andava oltre il pietismo di circostanza. Arianna aveva letto tra le righe ciò che lui per primo non era in grado di esprimere a voce, aveva raccolto la sua solitudine come un fiore e aveva ammirato le sfumature di sole sulla corolla martoriata.

Arianna aveva provato compassione, nella sua radice più profonda e pura, si era specchiata in lui e nell’immagine del suo respiro inerme aveva ritrovato se stessa e aveva bevuto di sé attraverso i suoi occhi.

Demian rimase sgomento da quel barlume di certezza, lei aveva compreso perché erano anime dissanguate dalla medesima ferita.
«Perché eri in ospedale fuori dall’orario di visite?» lo domandò con cautela ed una nota di tenerezza che era solo partecipazione ad un male che conosceva, che lo dilaniava e che sospettava, con amarezza, condividesse anche lei.

Arianna sussultò, perse per qualche secondo la maschera di compostezza spensierata, un frammento di cedimento tante breve che Demi pensò di averlo solo immaginato, perché poi la vide sorridere ancora.

Allora sorridere gli sembrò per la prima volta uno scudo, e pensò che forse era questo il modo che lei aveva scelto per gestire la vita, si difendeva da tutto con un sorriso.

«Questa me l’aspettavo» ridacchiò, scrollando piano le spalle, per togliere importanza alla risposta «È abbastanza complicato. Diciamo che non stiamo vivendo situazioni molto diverse, ecco. Conosco tua madre perché conosco tutte le persone che sono ricoverate. Mi aiuta a farmi un’idea di come la cosa sarà dopo. Non credo ci sia altro da dire»

Demian annuì piano e non disse altro.

Non c’era molto da aggiungere, era stata vaga, ma lui per primo conosceva l’orribile sensazione di non poter esprimere certe verità ad alta voce, ché il suono dava corpo ai mostri e li rendeva più grandi e sovrastanti, più difficili da tenere a bada. La confidenza che le aveva strappato bastava, sapere che anche lei stava perdendo qualcuno, proprio in quel reparto, per la stessa malattia che lo allontanava da maman, illuminava le ombre di quell’affinità che sentiva per lei, un elastico teso che pretendeva di potersi riavvicinare, e Arianna era l’altro polo, il punto di ritorno.

Il buco nero oltre il piano inclinato della sua coscienza.
Le prese la mano, la strinse.

Voleva che anche lei sentisse la medesima consapevolezza che lo aveva attraversato in quel preciso istante, un’illusione forse, che però annientava tutto il resto, non lo spingeva verso il baratro che gli stringeva il petto, quel senso di vuoto, quella voragine, la guardava dall’alto ora, ne provava una vertigine, e restava affrancato a quella mano per non scollarsi dalla realtà e non scivolare nello sconforto.

Poi lei gli sorrise in modo diverso, spezzò quel filo di tristezza che li aveva uniti e rabbrividì «È già parecchio tardi» gli fece notare, risvegliandolo «Ci ho messo troppo oggi ad arrivare, ci siamo persi il pomeriggio. Mi sembra di aver buttato un sacco di tempo»

Ormai il buio era diventato pesante e viscoso, s’intravvedevano le stelle e gli alberi scheletrici stringevano il cielo in una morsa di rami. 

«Ho lasciato il motorino in ospedale. Torniamo indietro, così ti accompagno a casa»

Arianna scosse la testa «Hai il telefono? Avviso Dani di venirmi a prendere qui. Conoscendolo è già là a divorarsi il fegato perché non mi vede arrivare!»

Si avviarono lentamente lungo il sentiero, oscuro in lontananza, solo dopo che si era accordata con suo fratello. Non avrebbe voluto rientrare, ma faceva freddo ed Arianna, vestita con abiti troppo leggeri, tremava un poco e si rannicchiava ingenuamente tra le proprie braccia per riscaldarsi. Era disarmante, la tenerezza che riusciva a suscitargli con un gesto tremendamente banale, eppure il modo delicato in cui si raccoglieva nelle proprie spalle e la linea fragile del collo che disegnava un leggero arco di luna nell’oscurità, gli smuovevano un senso di morbidezza, e capiva che in lei c’era qualcosa di prezioso. Una fragilità ignota che la rendeva forte, le conferiva una bellezza imprevista.

Si sfilò la giacca di pelle e gliela porse, solo per sentirla ridere di nuovo.

«Ok, questo è un cliché, caro mio. Mi sembra di essere finita in un film di serie C, se fai queste cose!»

Sollevò l’angolo della bocca nella sua espressione provocatoria «Io non mi preoccuperei, la serata non finirà con un bacio, quindi sei al sicuro da qualunque cliché»

Lo disse per orgoglio, ma era già pentito di essersi tagliato le gambe da solo. Era da quando gli era comparsa davanti che i suoi occhi avevano seguito la linea di quelle labbra, sempre umide perché le mordeva assiduamente, ed un languore penoso si raccoglieva in un grumo nella gola secca lasciandolo in uno stato di sospesa agonia.

Tanto lo sai, non l’avresti mai nemmeno sfiorata.

Non ne avresti avuto il coraggio, una ragazza come lei non merita di essere sporcata.

 

Arianna indossò la giacca, incrociò le braccia al petto e gli rispose con un finto broncio

«Sappi che non giocherò all’infermierina perversa per farmi baciare da te!» lo punzecchiò con precisione millimetrica.

La saliva gli andò di traverso e si ritrovò a tossire, cercando di riprendere fiato, con gli occhi lucidi e l’aria sconvolta. Più per tormentarlo che per aiutarlo, Arianna lo supportò con qualche pacca ben poco delicata sulla spalla. La vergogna per l’episodio avvenuto la settimana prima tornò a pungolarlo, sperava davvero che potesse dimenticarsi di Elena ma, lo intuiva da quell’espressione malandrina, la sua era una speranza vana.

Lo costrinse a distogliere lo sguardo e a pensare che, davvero, gli conveniva fare attenzione a non provocarla se non desiderava pagarne le conseguenze.

Arianna cercò la sua mano, si sorrisero mossi da un imbarazzo diverso, più consapevole, che lo liberava di qualsiasi tormento.

 

Fosse anche stasera, solo stasera, andrò bene.

Me lo farò bastare.

 

Eppure avrebbe voluto altro, avrebbe voluto di più, anche se era più semplice convincersi del contrario per non soffrire di un desiderio mancato. Mentre aspettavano, Demian non perse l’occasione di osservare ancora il suo profilo, la linea morbida della fronte che scivolava nell’incavo del naso per poi sollevarsi sulla punta insolente, come in un moto di orgoglio.

«Noi…»

Annaspava in un pozzo di parole non dette che lo sommergevano e non gli permettevano di afferrarle, le cercava nel suo viso sereno, ma quella bellezza sfacciata non gli andava incontro, lo sfidava soltanto rendendo più difficile trovare un senso.

«Ci… ci vediamo ancora?»

Arianna sollevò le sopracciglia, contrasse le labbra belle e alla fine rise di lui «Ok, io ci provo a stare buona, ma fai proprio delle domande idiote! Se devi stare sui cliché almeno scegline uno utile. Tipo “mi daresti il tuo numero?”. Almeno avrebbe senso»

Demian abbassò gli occhi e si passò una mano sulla nuca, per sentirla scoperta. Provava sempre una vergogna bruciante, a restare senza il suo berretto, era quasi come essere nudo, eppure quella ragazza aveva superato anche quel disagio senza neanche averci provato.

Era venti passi avanti a lui, se ne sentiva disarmato, come se davanti a quelle iridi verdi e intonse perdesse consistenza e forma, per diventare solo desiderio. Puro e semplice, primordiale desiderio.
bofonchiò imbronciato «Mi daresti il tuo numero?»  per sentirsi rispondere «Non ho il cellulare!»

Rideva con l’espressione furba di chi si stava prendendo gioco di lui e le mani sullo stomaco, quasi a contenere quell’ilarità che le rendeva gli occhi lucidi.

«Ma sei stata tu a dirmi di chiedertelo!»

Arianna scosse la testa ed i capelli, una massa oscura e indefinita nel buio, si mossero ridisegnando i contorni del suo volto «Erroneo. Ti ho detto che sarebbe stato più logico chiedermi il numero, non che avresti dovuto chiedermelo»

Dem si passò ancora una mano fra i capelli candidi, poi la fece scivolare sul viso stropicciando rudemente la pelle, un rito per scacciare la disperazione.

«E quindi? Che dovrei fare?»

«Dovresti darmi il tuo numero. Ti chiamerò io, sarà più semplice»
Si tolse il capello, liberando la massa indomita e scarmigliata di ricci, si alzò sulle punte e glielo calcò in testa, tirandoglielo sugli occhi. Non la vedeva, ma sentiva le dita fredde sulle guance, percepiva quel leggero ridacchiare che scovava in ogni dettaglio qualcosa per cui valeva la pena ridere. Arrotolò il bordo del berretto e ricambiò il sorriso che lo aspettava, con gli incisivi divisi, oltre l’oscurità della stoffa.

Una macchina rallentò costeggiando il marciapiede pochi metri più avanti, proprio mentre Demian finiva di dettarle il numero. Il finestrino si abbassò con un ronzio, mostrando il volto di un ragazzo piazzato, con i capelli ricci e iridi forse verdi.

La linea da felino indolente degli occhi dallo sguardo pungente, li rendeva indubbiamente fratelli nonostante i tratti del volto di Daniele più rudi, sbozzati come incisioni nella pietra, spigolosi.

«Puffetta, potevi avvisarmi prima. Ti stavo aspettando già da un’ora»
Demian si concentrò su di lui, alla ricerca di qualcos’altro nella sua persona che non gli trasmettesse un rigetto a pelle, poi si dedicò ad Arianna, si accorse che era arrossita.

«Devo andare»

Fece per togliere anche la giacca, ma Demian la fermò con un leggero sorriso «Tienila pure. Così sono sicuro che ti rifarai viva» glielo disse chinandosi sulla sua figura minuta, per non farsi sentire dal nuovo venuto.

Daniele non aveva distolto l’attenzione da lui, nemmeno un attimo, l’espressione arcigna e sospettosa non lo abbandonava.

«Puffetta, muoviti»

«Arrivo, arrivo!» urlò quasi, non preoccupandosi di non far trasparire tutta la sua irritazione. Tornò a guardarlo, e Demian s’intenerì di quell’aria mesta.

«Buonanotte Demi, vedi di fare il bravo!»

Non riuscì a risponderle, non con prontezza. Era carina quando s’imbronciava, era un buon “ultimo ricordo”, nel caso non avessero avuto altre occasioni. Arianna, rinunciando ad un suo congedo, abbozzò l’ultimo saluto con la mano e fece per voltarsi, allora Dem allungò il braccio verso di lei, pietrificandola per la sorpresa.

Era una carezza di dita leggera, la sua, sulla guancia morbida. Si abbassò un poco, per portarsi all’altezza del suo viso, e sorrise lieve quando la vide abbassare le palpebre lentamente, come un invito. Posò le labbra in un bacio soffice sulla sua fronte, si scostò e le sorrise ancora, per la bocca schiusa e l’aria scossa, per la dolcezza che emanava.

«Visto? Nessun cliché. Buonanotte Annie»

 

 

 


 
 

 

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Capitolo 11
*** Essere grandi ***


À Demian


Capitolo nono

Essere grandi

 

 

 

 

 

«Fratellone! Je veux une crêpe avec la Nutella et les fraises!»

La voce di Sarah era sempre morbida e confortante, permeata di una tenerezza fanciulla fragile come le sue spalle sottili. Demian la guardava trotterellare allegra qualche passo più avanti, con la sua chioma d’oro brunito che le nascondeva la schiena e Lalami tra le braccia. La cucciola era cresciuta molto nell’ultimo mese, pesava troppo e le stava scivolando lentamente, così la povera Lala restava sospesa in una posizione improbabile che pareva una tortura, a guardarla provava per lei un’incredibile pena.

«Petite Sarah, ma chèrie, ti prego metti giù quella palla di pelo dannata, rischi di diventare come tuo fratello»

«Che sarebbe comunque meglio che diventare come quell’idiota di tuo cugino» Demian freddò Jules con una gelida occhiataccia ammonitrice.

«E la crêpe

A volte Sarah gli ricordava il Piccolo Principe: non demordeva mai. Poteva porgli ancora e ancora il medesimo quesito ignorando completamente tutto il resto, come gli abituali battibecchi tra suocere che caratterizzavano qualsiasi interazione tra lui e Jules, e restava sempre depositato sulle sue labbra di rosa un sorriso velato in grado di scioglierlo.

Quasi

 

«Trop gâteaux te font mal»

Troppi dolci ti fanno male

 

La piccola peste tramutò immediatamente il suo sguardo adorante in un broncio dispettoso da fatina ammaliatrice. Si strinse la cagnolina al petto con più enfasi, come a cercare di creare un’immagine davanti alla quale Dami potesse capitolare, e Lalami emise un guaito di disperazione.

«Mais j’adore trop les gâteaux!» supplicò con vocina sottile e tenera.

«Ignoralo Sarah, ha solo il braccino corto»

«Jules!»

Il cugino ghignò, ignorando il suo richiamo con una sfacciataggine ai limiti del sopportabile. Sua sorella aveva aggrottato le sopracciglia e la sua espressione confusa, da cucciola che andava soffocata di baci, fu un chiaro indice che qualcosa le era sfuggito. Forse perché in casa Demian le si era sempre rivolto in francese, Sarah aveva qualche problema con alcune sottigliezze dell’italiano, come i modi di dire. Davanti al suo musino era difficile riuscire a racimolare un briciolo di fermezza.

«”Braccino corto”?»

«Oui, il est un radin!»

«Putain, Jules!»

Sarah si aggrappò piano alla sua manica, rendendo la situazione già precaria di Lalami estrema, e tentò ancora una volta di vincerlo con il suo atteggiamento tenero e indifeso, tutto da viziare. Distendeva le palpebre, increspava la boccuccia, e Demian capitolava come neve davanti ad un sole troppo caldo.

«Tu ne dépenserais pas trois mile lires non plus pour moi?»

Il desiderio di dirle di sì lo inchiodò un istante.

«Ce n’est pas pur l’argent, mais trop gâteaux ne te font….» le parole gli morirono sulle labbra,

schiuse in un sospiro strappato a tradimento. Era sempre difficile restare fermo nelle proprie convinzioni propedeutiche quando quella piccola viziata s’impuntava e lo travolgeva con tutta la sua dolcezza.

Julian lo precedette prima che gli riuscisse di provare a resistere al fascino di sua sorella con risoluzione «Ne t’inquiète pas, chérie, te la compro io» sorrise, guardandolo in tralice con quella sua espressione sorniona da carogna incarnata, solo per provocarlo. Aveva gli occhi di zio Lorenzo, linee morbide che scivolavano nel soffice, ma che con la sua pessima personalità Jules riusciva a sporcare di malizia e sottile ironia.

«Jules, Christos, cosa non hai capito della parola “no”?»

Sarah lasciò libera Lalami, che scivolò a terra con un rantolo di sollievo, e corse subito a braccia aperte verso il cugino. Jules raccolse il suo invito con un sorriso raggiante, la sollevò in aria e a Demian sembrò incredibilmente leggera, un riflesso fragile in controluce.

«Sei il mio preferito!»

Lo esclamò con impeto solo per guardarlo poi da sopra la linea della propria spalla e regalargli una linguaccia provocatrice. Basito osservò il bel volto della bimba, ed il pensiero fu automatico e spontaneo.

 

Passa troppo tempo con Julian

 

Lalami gli si era già accostata e grattava la sua gamba come a supplicarlo di non lasciarla più nelle mani di quella disgraziata di Sarah, che poco prima quasi le staccava la testa. Recuperò il guinzaglio che stava strisciando a terra con un sospiro rassegnato.

 

E tu, brutta bestia, tu forse sei pure peggio di Sarah!

 

«ok, va bien, tu as gagné»

Va bene, ok, hai vinto

 

mormorò come se sconfitto lo fosse davvero, ed in parte era proprio così, amava quella bambina così tanto che scorgere i suoi occhi inumidirsi, pur nella consapevolezza della finzione volta a piegarlo, bastava a piegarlo davvero.

 

«je t'achète cette stupide crêpe. Mais j’ai veux comme minimum un câlin!»

Ti prendo quella stupida crepe. Ma voglio come minimo un abbraccio!

 

Jules si aggrappò a lei come un polipo «Troppo tardi, adesso è mia!» scatenando la risata soddisfatta di Sarah, limpida e argentina come un bicchiere di cristallo appena sfiorato. Sentirla così serena lo mise di buon umore, ma durò solo una manciata d’istanti, il tempo di vedere la sua bestiolina stampare un bacio sulla guancia di quel suo inutile cugino.

«Ok, basta effusioni, ridammi mia sorella!»

Gliela sfilò letteralmente dalle braccia di forza, guadagnandosi un’occhiata divertita e derisoria insieme di Julian e il sottinteso che non aveva bisogno di essere esplicato a parole: sei proprio uno scemo a prendertela per davvero.

Demian si sforzava sempre, di contenere la propria gelosia, ma con Sarah era impossibile. Con sua sorella perdere il filo logico era fin troppo semplice delle volte, anche nei casi più ridicoli che lo facevano apparire come un bambino sospettoso e possessivo. L’aiutò ad arrampicarsi sulle sue spalle e le afferrò le gambe sottile per trattenerla e darle stabilità, visto che la sua peste di stare immobile proprio non ne era capace. Sentire il suo peso morbido addosso, sentirla appoggiare la guancia tra i suoi capelli, aveva su di lui l’effetto benefico di un balsamo su una piaga.

Era per quella sensazione di rigenerante freschezza che amava stare con la bambina, abbracciarla forte e pensare che il mondo poteva anche andare al diavolo, tanto c’erano loro due, ci sarebbero sempre stati solo loro due, ché da soli erano distrutti, ma insieme si proteggevano, non erano persi, avevano un attracco in quella loro vita di solitudine e mancanze.

Sarah stava canticchiando a bocca chiusa un motivetto, un suono familiare che non subito gli riuscì d’inquadrare, almeno fino a quando non la sentì mormorare, con la vocina cullata dal suo passo

«Toutouig la la, va mabig,
Toutouig la la»

 

Le lasciò una carezza dolce sulla gambina, mentre gli sembrava quasi che Sarah gli si adagiasse contro completamente, senza più forze, come sfinita ad aderire alla sua schiena. Gli faceva provare una tristezza delicata, la malinconia di una nostalgia struggente, di momenti condivisi che sembravano così lontani, ed invece erano solo un anno prima, una manciata di mesi che li avevano però allontanati. E allora non poteva non chiedersi se Sarah fosse consapevole di cosa gli ricordasse quella melodia, di che valore avesse per lui.

Se quella ninna nanna sussurrata fosse un modo per fargli sentire rimpianto e mancanza di lei.

 

«Da vamm a zo amañ, koantig

Ouzh da luskellat, mignonig»

Aveva lo stesso accento di maman, ma gli errori di pronuncia Demian li riconosceva come i propri, influenza delle mille volte in cui gliel’aveva cantata al posto di Jenevieve. Perché quella non era una ninna nanna qualunque, era la ninna nanna.

Era la canzoncina infantile che aveva sempre accompagnato i suoi ricordi più intonsi, di quando sua sorella ancora non esisteva e sua madre gli dedicava il suo amore prima che potesse prendere sonno. E poi, a sua volta, ci aveva trascorso le serate a sussurrarla a Sarah, anche quando lei già dormiva ma lui era troppo triste e stanco per riuscirci, di una stanchezza diversa e opprimente di vivere che non avrebbe ancora dovuto conoscere.

«Dami?»

«Dami? Incominci a preoccuparmi»

«Fratellone?»

Una scossa, la voce preoccupata di Sarah come un filo che lo strattonava e lo risbatteva nel reale. Chiuse gli occhi, li riaprì e rimise a fuoco i negozi, le persone nel corridoio, e Julian.

«Oui?»

 

«Tu t'es enchanté!»

Ti sei incantato!

 

lo prese in giro la sua bestiolina, allacciandogli le braccia al collo in un improbabile e problematica stretta, visto la posizione in cui la bambina si trovava.
«Eh certo, io ti chiamo per un’ora e non mi consideri nemmeno se ti prendo a calci negli stinchi, a lei rispondi subito! Bene. Questa me la segno, io te lo dico!»

«Jules, sei una piaga che cammina!»

«Ingrato, con tutto quello che faccio per te!»

«Tipo? A parte imbucarti nei miei appuntamenti con mia sorella, rovinando giornate altrimenti perfette ovviamente»

«Ehi! Sei un egoista. Io ero a casa da solo a far nulla, con che cuore mi avreste abbandonato? Sarah mi voleva, vero Sarah?»

La bambina gli dedicò una linguaccia «No!»

Julian non perse l’occasione per bofonchiare le proprie rimostranze da martire, fortunatamente erano giusto arrivati e davanti a loro si profilò l’insegna del negozio. Demian i centri commerciali li odiava, ma aveva finalmente deciso di portare Sarah a comprare quel benedetto cellulare, così avrebbero potuto contattarsi direttamente senza passare dalla zia, e quindi quel giorno aveva fatto un’eccezione.

Sarebbe stato un pomeriggio perfetto… se non ci fosse stato Julian!

«Quel téléphone portable tu m'achètes?» gli chiese lei, tutta soddisfatta.

Che cellulare mi prendi?

Sarebbe stata l’unica bambina della sua età ad avere un telefono e ne era estremamente orgogliosa. Non che Demian nutrisse dei dubbi sull’impiego che avrebbe finito con il farne: avrebbe passato ore a giocare a “Snake” esattamente come faceva quando si appropriava impunemente del suo.

« Je peux l'avoir comme le toi?» continuò, facendolo ridere.

Lo posso avere uguale al tuo?

 

« Tu peux avoir ça que tu veux, bestiole! Jules, prendi Lala in braccio»

Puoi avere tutto quello che vuoi, bestiolina!

 

Il cugino sbuffò prontamente «Puzza. Non è giusto. Tu hai voluto portare il cane, perché devo tenerlo in braccio io?»

 

Perché il cane dà meno fastidio ti te

 

«E se poi non la lasciano entrare? Dai, fallo per me!»

Dem non poteva vederla, ma non ne aveva bisogno per sapere che Sarah gli stava certamente facendo gli occhi dolci e il broncetto.

«Solo perché me lo chiedi tu» cedette infine sbuffando, prima di prendere Lala tra le braccia. S’inoltrarono nell’ampio negozio e cercarono di orientarsi con scarso successo, affiancando gli scaffali dedicati alla playstation e ai videogiochi, attraversando il reparto dei computer di ultima generazione, per incappare poi nella sezione televisori, videoregistratori e videocassette. Raggiunsero infine la jungla di cellulari e telefoni fissi e davanti a quelle infinite quanto sconosciute possibilità Demian provò un senso di smarrimento caricaturale e ridicolo.

«Cristo, una commessa! Guardala come brilla dello splendore della salvezza!»

«Sei davvero un idiota»

Jules sorrise impenitente prima di raggiungerla e placcarla con chissà quale sconveniente battuta da provolone fallito e Dem rimise a terra Sarah scuotendo la testa per quel caso umano con cui condivideva il sangue.

«Sapete già che modello desiderate?»

La voce della donna era modulata e formale, un sorriso affabile da venditrice veterana le increspava il volto. Dietro quell’apparenza angelica e disponibile si vedeva perfettamente che già stava valutando tutte le ultime uscite da proporre.

«Nokia 3330»

Demian decise di interrompere il suo ipotetico flusso di pensieri sul nascere. Sarah subito si affrancò alla sua felpa e la tirò con poca discrezione

 

« C'est comme le toi?»

È come il tuo?

 

Le scompigliò i capelli e le sorrise, c’era qualcosa di dolce in lei persino in gesti così banali «Oui, sûre»

Mentre aspettavano, l’occhio gli cadde su un modello di cellulare dell’anno precedente in esposizione, scontato. Non riuscì a non pensare ad Arianna, che era tagliata fuori dal mondo e dalla sera prima non gli era più stato possibile contattarla perché, per qualche assurda ragione, non aveva un telefono.

Si appuntò mentalmente di segnalarle quell’occasione, se mai si fossero rivisti.

All’idea di restare sospeso per giorni, senza poterla sentire come in quel momento, si frustrava pure di più e aumentava il malumore, uno scontento immotivato che non gli riusciva di sopprimere.

 

Perché diavolo non ti sei ancora fatta sentire?




 ***

 

«Terra chiama Dami. Si può sapere che ti passa per la testa? Dai, sei insopportabile quando fai il tormentato assorto»

Da quando avevano abbandonato il negozio Julian non aveva cessato un solo istante di fargli il terzo grado, camuffato dal suo abituale tono canzonatorio, un tentativo di rabbonirlo forse. Poco importava, Demian aveva deciso di non dargli soddisfazione.

Dopo essersi fermati ad un bar della zona ristoro del Centro Commerciale, avevano occupato una panchina ed ora Sarah, comodamente seduta sulle sue gambe, era troppo presa a godersi la sua tanto agognata crềpe alla Nutella per prestare loro particolare attenzione. Lalami, sdraiata ai suoi piedi, era concentrata a rosicchiare il bordo sdrucito dei suoi jeans, e nell’insieme Demian non riusciva a trovare un appiglio a cui aggrapparsi per distrarre Jules.

Proprio mentre disperava, il cellulare nella tasca vibrò, avvisandolo dell’arrivo di un messaggio. Non si mosse subito, per un istante trattenne il fiato, quasi paralizzato dalla possibilità che, finalmente, Arianna si fosse fatta viva. L’aspettativa era stata tanta che ora quasi temeva di leggere, il responso a tutta quell’attesa avrebbe potuto deluderlo.

Si accorse che il cugino lo stava fissando con le sopracciglia aggrottate, cercando di leggere nei suoi sguardi e nei suoi gesti quei pensieri che rifiutava strenuamente di condividere. Quegli occhi indagatori bastarono a dargli la spinta che gli serviva.

La delusione aveva il sapore di una congestione.

Il nome sulla schermata era quello di Nicolas, il tono del messaggio particolarmente aggressivo lo invitava a farsi vivo presto.

Con un sospiro fece scivolare di nuovo l’apparecchio nella tasca dei jeans, poi guardò Sarah, assorta e buffa, con l’angolo della bocca arricciato in un’espressione di soddisfazione gongolante. Non voleva rispondere a Niko, aveva bisogno di prendersi una pausa da lui e dal resto del gruppo. Dopo quella sera non era più riuscito ad incontrarli, il disagio per ciò che avevano fatto gli era rimasto addosso. Era assurdo, non era stata la cosa peggiore che avesse combinato con quei disastrati casi umani, eppure qualcosa era scattato nella sua testa, un interruttore che aveva acceso una luce, illuminando consapevolezze impreviste.

Probabilmente, era stato vedere Maximilian di persone a impedirgli di ridimensionare l’avvenimento fino a renderlo un’inezia.

«Non mi hai più detto se hai o meno rivisto quella ragazza» colpì il centro Julian scostandosi il ciuffo biondo, con quella sua capacità di cogliere sempre il problema con naturalezza e nonchalance «Sei un po’ strano in questi giorni. E non è necessariamente una cosa negativa»

Aveva le braccia intrecciate al petto, la sua aria saccente, la consapevolezza di vederci anche troppo bene era scritta in ogni angolo del suo volto affilato.

Sarah sussultò e come un papavero appena svegliato, tutto stropicciato e distratto, alzò i grandi occhi da falco su di lui, aggrappandosi stretta alla maglietta per attirare la sua attenzione.

 

« Tu a une fiancée, frère?»

Hai una ragazza fratellone?

 

La sua vocina labile intrisa di preoccupazione, simile a qualcuno che ha taciuto troppo tempo ed ora non sa più come parlare, gli trasmise un profondo dispiacere. La guardò ancora, pensò che Sarah aveva solo lui, che era il suo tutto esattamente come lei lo era per lui. Pensò che quel panico inespresso poteva capirlo, già la sua assenza era costante senza bisogno d’interventi esterni che li allontanassero ancora.

E si sentì meschino. Forse la paura in quegli occhi gialli era proprio quella di essere sostituita, accantonata definitivamente, e lui invece aveva pensato soltanto a se stesso, aveva cercato un modo per stare meglio senza la sua bestiolina.

Le sorrise, le lasciò un bacio fugace tra i capelli di sole brunito.

 

«No, jamais. Je n'ai pas du temps pour le femmes , j'ai toi, juste?»

No, mai. Non ho tempo per le ragazze. Io ho te, giusto?

 

Sarah esitò, c’era come una vena di malinconia impigliata nel suo sguardo, ma poi sorrise tutta, s’illuminò di gioia, si accoccolò a lui come un gattino randagio in cerca d’affetto e Dem poté solo chinare il capo, sconfitto dalla dolcezza.

 

Neanche tu mi dici le bugie, vero?

 

Le domande di sua sorella, quelle richieste implicite d’amore incondizionato e purezza assoluta, gli restavano conficcate come spine nell’anima. Non lo sapeva nemmeno lui, dove trovasse il coraggio di mentire ad una creatura tanto ingenua, ma riuscirci con tanta facilità lo faceva vergognare di se stesso.

«Non dovresti farlo» sibilò Julian severo, come se gli avesse letto nel pensiero.

Allora Demian scosse il capo e decise di non incrociare il suo volto carico di rimproveri che davanti a Sarah non poteva rivolgergli. La bambina aveva la bocca sporca di Nutella ed i capelli spettinati le uscivano dal nastro rosso. Li fece scorrere tra le dita e ricordò quando compiva quel gesto abituale con maman, in quei momenti che erano i loro pochi momenti. Ed infatti, sua sorella li portava acconciati con le ciocche laterali fermate dietro la testa con un fiocco da quando aveva trovato una foto della mamma da ragazzina. Così raccolta, Sarah sembrava ancora di più una bambolina, gli mancava la vena diabolica di Jenevieve che riusciva a dare malizia persino ad un’acconciatura tanto semplice.

«Ok, si sta facendo tardi ora. Andiamo a casa?»

Dem sussultò, e con lui Sarah, che abbassò le mani strette attorno al tovagliolo come in una sorta di resa totale e silenziosa. Quando sua sorella era triste si spegneva in maniera inspiegabile, ogni parte di lei si chiudeva e gridava silenzio, orecchie occhi e naso, ogni senso si ritraeva al sicuro, irraggiungibile, e sembrava un corpo vuoto all’improvviso.

Assente e pallida, come non la stesse più tenendo tra le braccia.

C’era qualcosa di tremendamente triste nella distanza che l’allontanava da lui.

Le ore erano trascorse in fretta, ma non sembravano mai abbastanza, avrebbe voluto avere il coraggio di dire che non voleva separarsi da lei, non ancora, non quel giorno. Avrebbe voluto che Sarah avesse lo stesso coraggio, invece restavano sospesi nel silenzio, cercando negli occhi dell’altro il medesimo dispiacere.

Julian sospirò, stropicciandosi la radice del naso «Dami, perché non resti a dormire da noi per una sera?»

Demian esitò, si morse piano l’interno della guancia e valutò che, forse, per una volta poteva farlo, poteva accontentare Sarah. Ma poi immaginava il disagio, e già poteva sentirsi un intruso nell’altrimenti perfetto quadretto familiare della zia, e gli montava l’angoscia inspiegata che lo prendeva quando contemplava qualcosa a cui non poteva appartenere.

Scosse piano la testa, un sentimento di leggero rimpianto per un’occasione sfumata e rassegnazione nel dover guardare sempre da lontano la fiaba di qualcun altro, uno spettatore indesiderato aggrappato come un parassita al mondo.

Con la mano cercò quella di sua sorella, la strinse e iniziò a giocare distrattamente con le sue piccole dita.

 «Tu veux tourner chez nous, pour une soirée?» domandò abbozzando un sorriso pieno di mestizia

Vuoi tornare tu a casa nostra, per una sera?

« Demain Matin t'accompagne à l'école»

 Domattina poi ti accompagno io a scuola

 

aggiunse, quasi potesse rendersi una figura più affidabile così, per convincerla forse. Perché non aveva idea di come la sua bestiolina vivesse realmente quell’allontanamento dalla propria casa, né quanto ci stesse male. A confermare le sue incertezze, anche Sarah indugiò.

Assurdo, come il piccolo tentennamento che non le permetteva di trovare le parole potesse essere per lui più doloroso di una verità meschina gettata in faccia. La sua bestiolina distese un sorriso e annuì

 

« Seulement si tu termine de me lire le livre et puis tu dors avec moi»

Solo se finisci di leggermi il libro, e poi dormi con me

 

« Évidemment je dors avec toi! Nous ordonnons une pizza?»

Certo che dormo con te! Ordiniamo la pizza?

 

« Oui! Cela Avec le frites!» esclamò subito raggiante.

Quella con le patatine fritte!

 

Sarah era un’abitudinaria, prendeva sempre la stessa, era confortante che certe sue abitudini non fossero cambiate in quel lasso di tempo.

«Ve bene se vado con lui, vero Jules?» domandò ancora, il tono della voce più basso, insicuro, una bambina che aveva appena realizzato di aver preso una decisione senza avere il consenso degli adulti.

Anche Demian se ne rese conto a tradimento, non poteva decidere da sé di riprendersi Sarah, anche lui era un bambino agli occhi della zia, e forse lo era davvero e basta, nonostante fosse convinto di potersela cavare da solo poi, a conti fatti, nei momenti cruciali, doveva volgere a Julian il medesimo sguardo di supplica speranzosa che animava gli occhioni di Sarah. Era di Julian il compito di riportarla a casa, Dem lo sapeva.

Lo aveva capito, che il cugino in realtà non si imbucava nei suoi incontri con sua sorella, ma si univa sempre per supervisionare il suo comportamento con la bambina al posto della zia. Claire non era mai troppo contenta di lasciar dormire Sarah fuori durante la settimana scolastica e in aggiunta non si fidava per nulla di lui, lo viveva come un distratto e un irresponsabile, incapace di prestarle le giuste attenzioni e di ricordarsi banalità come, per esempio, farla arrivare puntuale a scuola.

Oltretutto, era minorenne e unico abitante della casa, la somma di tutte queste motivazioni era per la zia un discreto deterrente, e nell’esasperazione del cugino Demian ci leggeva tutto il suo combattimento interiore.

Julian si concentrò sul visetto dolce di Sarah, poi alzò gli occhi morbidi a incrociare il suo sguardo, sospirò e annuì.

«La porto a casa a prendere la borsa di scuola e i vestiti, te la riporto tra un’ora, ok? Alla mamma lo spiego io»

Sarah scoppiò a ridere per la contentezza incontenibile, si aggrappò al suo collo con forza e quasi lo strozzò, ma poi gli stampò decine di baci a schiocco sulla guancia e Demian pensò che respirare in fondo non era così essenziale.

Sarah, solo lei era essenziale.

 

«Magnifique! Puis Je veux jouer avec lala! Au contraire, je veux jouer à “Mickey Mouse”! Tu me fais jouer une série, juste frère? Je ne joue pas depuis beaucoup de temps!»

Che bello! Voglio giocare con Lala! Anzi, voglio giocare a “Topolino”! Mi fai fare una partita, vero fratellone? Non ci gioco da tantissimo tempo!

 

Demian le cinse il corpicino sottile e la stritolò in una morsa possessiva che aveva poco della tenerezza di un abbraccio, una stretta da orso burbero che fece ridere la sua bestiolina un poco di più.

« Tout ce que tu veux petite peste! Mais rapide, tu vas avec quel idiote. Après tu vas, après tu retournes»

Tutto quello che vuoi, piccola peste. Ma ora muoviti e vai con quell’idiota. Prima vai prima torni!

 

Le lasciò un ultimo bacio fra i capelli prima che Sarah balzasse a terra, sulle sue gambine sottili, e si precipitasse infantilmente da Julian per afferrargli la mano «Su, forza! Andiamo!»

Jules scosse il capo in una risata allegramente disperata, incrociò ancora i suoi occhi e Dem riuscì quasi a sentire le parole non dette “che ci vuoi fare? È impossibile dirle di no!”.

«Come vuoi, ma chérie! Ci vediamo Dami»

Demian accennò un sorriso a metà, addolcito da quella concessione.

«Grazie»

Lo sussurrò che ormai il cugino era lontano, quasi nascosto da gruppi di persone a passeggio tra i negozi nel loro pomeriggio libero. Jules non poteva sentirlo, ed era meglio così.

Rimase seduto ancora, in silenzio, e nonostante fosse immerso in un luogo pubblico pieno di gente, si sentì solo come quando restava in camera sua a contemplare un’immagine inafferrabile. In quell’esatto modo, scollato dall’ambiente, con solo la consapevolezza di Lalami ai suoi piedi ancora intenta a rosicchiare i suoi jeans, Dem cercava di afferrare un senso nel collage di immagini sparse e slegate che creava la sua vita.

Sarah ancora non sapeva che maman aveva scelto di non tornare più a casa, Jules glielo aveva confermato quando avevano parlato, prima di uscire. Zia Claire aveva deciso di parlarne alla bambina solo quando lui si fosse fatto vivo, e di questo almeno Demian gli era grato. Aveva bisogno ancora di un po’ di tempo per riflettere meglio sul futuro e capire cosa fosse meglio fare, per sé stesso e per la bimba. Una parte di sé cercava di convincerlo che doveva, che era assolutamente necessario spiegare a Sarah l’evoluzione della malattia di maman, non solo per prepararla ad un “dopo” inevitabile che Demian aveva accantonato fino alla fine, ma anche perché era giusto che potesse vivere a fondo gli ultimi momenti con Jenevieve per non provare rimpianto.

Non voleva essere la causa di quel rimpianto.

Eppure, la paura istintiva che lo portava a proteggerla da qualunque forma di bruttura, lo spingeva al silenzio. Avrebbe voluto che Sarah potesse rimanere intonsa e innocente, ignara della morte, ignara della perdita.

Voleva che nulla potesse turbarla e offuscare la sua luce limpida.

In quel garbuglio di incertezze, l’unica possibilità che gli si palesava davanti era anche l’unica che non avrebbe mai desiderato: doveva affrontare la zia. Aveva evitato incontri prolungati con lei, aveva evitato di parlarle di questioni importanti negli ultimi mesi, perché Claire lo distruggeva. Eppure, non vedeva soluzioni al vicolo cieco in cui la malattia di sua madre li aveva incastrati, aveva bisogno lui stesso di comprendere appieno la situazione, cosa che, per vigliaccheria, aveva scelto di non fare.

Se il momento di maman è giunto, devo permettere a Sarah di andare a trovarla.

Devo farlo

 

Se non lo avesse fatto lui personalmente, questa volta Claire avrebbe scavalcato i suoi desideri e sarebbe andata avanti per la sua strada senza più considerare il suo volere. Non l’aveva ancora fatto senza il suo consenso grazie anche alle parole di maman, ma ora era tutto diverso.

Ora non lo avrebbe più ascoltato.

 

Se Sarah deve vedere maman, devo essere con lei.

Non ci sono scusanti, sarò con lei.



***

«Prends quelle pommes, cela dans le coin!»

Prendi quella mela, quella nell’angolo!

 

la incitò Demian, allungando istintivamente la mano per sfilarle il joystick. Sarah schivò rapidamente lui, ma non fu altrettanto pronta nell’evitare il fungo appena comparso nello schermo. Topolino ruzzolò malamente, si rialzò e ricominciò a correre verso di loro, l’espressione terrorizzata e l’ombra del gigante che lo inseguiva sempre più grande e incombente.

 

«Une pomme peste! Tu dois prendre une pomme, tu es en train de ralentir trop!»

La mela, peste! Devi prendere una mela, stai rallentando troppo!

 

Sua sorella si dimenò, piegandosi ora da un lato ora dall’altro come se Topolino fosse direttamente collegato ai suoi movimenti.

 

«Voila, tu l'a manqué encore!»

Ecco, l’hai mancata di nuovo!

 

«C'est ta faute, tu n'es pas silencieux!»

È colpa tua che non stai zitto!

 

ribatté la bambina, alzando il joystick verso l’alto, a simulare un salto del personaggio, come se muovendosi lei stessa Topolino avesse potuto saltare più in alto.

Guardarla giocare era ciò che ci fosse di più divertente, per Dami: era un vero disastro, non stava assolutamente ferma e, quando veniva colpita o sbagliava, s’infervorava come mai le accadeva, inveiva contro il gioco e contro di lui, mostrando un lato del suo carattere solitamente sopito.

 

«No, c'est ta faute parce que tu ne sais pas jouer! Je suis inquiété, tu es comme nôtre cousin, je dois vous enseigner tout!» la canzonò Demian, mentre sullo schermo compariva la scritta “Game Over”.

No, è colpa tua che non sai proprio giocare! Sono preoccupato, sei come tuo cugino, devo insegnarvi tutto io!

 

Sarah sbuffò e tirò con stizza il joystick contro un cuscino del divano, poi incrociò le braccia al petto e gonfiò una guancia per palesare tutta la sua irritazione da pulcino indisposto

 

«Tu es un porte-malheur, la prochain fois je réussira, tu verra! Mais tu dois cesser de me regarder!»

Tu mi porti sfortuna, la prossima volta ci riuscirò, vedrai! Però tu devi smetterla di fissarmi!

 

Fece per riavviare la Play Station per ricominciare la partita dall’inizio, ma Dem fu più rapido, la afferrò per la vita e la sollevò come non avesse peso, tenendola sotto braccio con le gambe e le braccina che penzolavano buffamente. Sarah però rispose altrettanto prontamente con un calcio di punta sullo stinco, strappandogli un lamento tanto di sorpresa, quanto di dolore.

«Malédiction Sarah!»

 

Con quell’aria angelica che si ritrova mi dimentico sempre che è una bestiolina selvatica

 

« Mets moi par terre! Je veux jouer encore!»

Mettimi giù! Voglio giocare ancora un po’!

 

«Eh non petite peste, tu n'as pas bien compris. Il est dix heures et demie e demain tu dois aller à l'école. Tu dois aller à dormir»

Eh no, piccola peste, non hai capito bene. Sono le dieci e mezza e domani hai scuola. È ora di andare a letto

 

«Je ne veux pas aller à l'école, je veux rester à la maison avec toi!»

Non voglio andare a scuola, voglio stare a casa con te!

 

Demian aprì la porta della camera di maman con il gomito e spinse con il ginocchio, Sarah riuscì a strappargli una risata e quasi la bambina gli cadde. La scaricò velocemente sul lettone matrimoniale morbido e fresco di lenzuola appena cambiate e il suo corpicino rimbalzò facendola scoppiare a ridere.

 

«Qu'est ce que tu voudrait faire?» domandò incuriosito, arricciando il naso.

E che vorresti fare?

 

Sua sorella sollevò le braccia al cielo e declamò soddisfatta «Nous allons à Gardaland!»

Lo fece sorridere ancora, per quella sua piccola follia infantile, perché l’avrebbe portata a Gardaland ogni giorno dell’anno se fosse servito. Si sedette accanto a lei e si lasciò cadere di schiena, per ritrovarsi supino a contemplare il soffitto dipinto a metà. Maman tempo prima aveva iniziato a pitturare la sua camera da letto, ma poi si era stancata e quella era rimasta incompleta, con la quarta parete e il soffitto spaccati da una linea di colore diverso.

 

«Cet été sûrement. Quand il sera plus chaud»

Questa Estate di sicuro. Quando farà più caldo

 

Sarah si sollevò a carponi, gli posò le manine sul petto e iniziò a scuoterlo con tutta la sua forza «Mais tu me lis au moins l'histoire?»

Almeno la storia me la leggi?

 

Lo sporgere del suo labbro inferiore in un broncio istintivo gli faceva venire voglia di afferrarlo e tirarlo, solo per sentirla lamentarsi.

 

«Sûre, après vas à te mettre le pyjama. Et tu vas à te laver aussi, au contraire la tante me tue»

Certo, vai a metterti il pigiama prima. E a lavarti, o la zia mi ammazza

 

La bimba saltò a piè pari giù dal letto e corse in bagno gridando una canzone resa irriconoscibile dalle sue terribili steccate. Demian sentì la porta chiudersi e la serratura scattare.

Gli sembrò assurdo, Sarah non si era mai chiusa dentro, non avevano mai avuto problemi a condividere il medesimo ambiente, era piccola e inconsapevole, non aveva mai provato vergogna. Non era vero, che non era cambiato nulla, la sua sorellina stava sviluppando il senso del pudore, provava timidezza ora, persino con lui.

Era normale a nove anni?

Gli sarebbe sempre sembrato troppo presto, con lei, che fosse giusto o meno. Quando vivevano ancora insieme, la sua bestiolina nemmeno ci pensava che era un uomo, non se ne rendeva proprio conto, non con consapevolezza. La distanza iniziava a cambiare certi dettagli che gli era impossibile notare nei loro brevi incontri giornalieri, era una realtà triste da realizzare.

Con uno sbuffo si costrinse ad alzarsi.

Andò a sciacquarsi con una doccia rapida nel bagno della taverna, per non disturbare Sarah e concederle tutto lo spazio da signorina che le serviva. Il getto d’acqua calda lasciò una scia di macchie rosse sulla pelle pallida, ma nonostante il bruciore sottile gli sciolse i muscoli tesi e lo rilassò. Non si trattenne a lungo quanto avrebbe desiderato per potersi godere il tepore, uscì in fretta e si asciugò i capelli frizionandoli con una salvietta. Infilò una maglietta pulita, i pantaloni della tuta, e con ancora la salvietta in testa fece di corsa le scale per ritornare dalla sorellina.

Sarah si era già appallottolata sotto le coperte, accoccolata come il guscio di una lumaca sul cuscino, “Le Petite Prince” abbandonato vicino al suo capo. Fissava assorta la copertina consunta, una mano scivolava nel pelo di Lalami che le si era acciambellata contro, aderendo alla linea del petto e delle gambe.

 

«Quatre éléphants qui se balançaient

Sur une toile toile toile,

Toile d'araignée…»

 

Stava canticchiando con la voce impastata dal sonno che doveva averla travolta come sempre dopo la doccia. Quando era più piccola si addormentava quasi all’istante, ora lottava per restare sveglia aggrappandosi alle canzoncine infantili che avevano accompagnato i loro giochi con i cugini, quelle imparate da Tristan e Isabeau nelle loro estati a Douarnenez.

Abbandonò la salvietta sul comodino, scostò il piumone piano, per segnalare la sua presenza a Sarah, tanto concentrata da non averlo ancora notato. La bambina alzò gli occhi gonfi di sonno su di lui e gli sorrise dolcemente.

 

«Où nous sommes arrivés?»

Dove siamo arrivati?

 

La sua bestiolina si stropicciò gli occhi, a riprendere il contatto con il presente, ma le sue parole uscirono comunque impastate di stanchezza «Sixième chapitre»

Demian prese tra le mani il libricino usurato come stringesse una reliquia pronta a disfarsi tra le sue mani. Ciò che percepiva, ogni volta, era la sensazione di riuscire ad afferrare un’emozione, un ricordo cristallizzato che aveva preso forma in un libro. C’erano le sue speranze puerili, tra quelle righe, i ricordi di sua madre, dei momenti trascorsi insieme, di quando si era sentito tanto solo da aver supplicato disperatamente Jenevieve di regalargli una Volpe, perché anche lui voleva addomesticare qualcuno, anche lui desiderava avere qualcuno che fosse speciale per lui e solo per lui.

Lalami starnutì strappandogli un accenno di risata.

 

Beh, alla fine ho addomesticato Lala.

Circa

 

Forse era vero il contrario, era stata Lalami ad addomesticarlo, dato che dormiva impunemente sul letto per quanto Demian si ripromettesse ogni volta di insegnarle a non farlo e quando lo guardava, con la sua espressione vittimistica più collaudata, vinceva su tutto, esattamente come Sarah.

Probabilmente, era troppo debole di fronte alle cose che amava.

 

 

«Ya. Pa vez kreisteiz er Stadoù-Unanet, an heol, an holl a oar se a ya da guzh, e Bro-C’hall. A-walc’h e vefe gallout mont da Vro-C’hall en ur vunutenn evit arvestiñ ouzh ar c’huzhheol»

 

Infatti. Quando agli Stati Uniti è mezzogiorno tutto il mondo sa che il sole tramonta sulla Francia. Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto.

 

         

«Arvestiñ?» lo interruppe Sarah al solito, ché anche da assonnata, più nel mondo onirico ormai che in quello reale, restava sufficientemente lucida da porsi troppe domande.

 

«Assister» chiarì, sistemandosi meglio il cuscino dietro la schiena. Sarah annuì piano e richiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalle sue parole, da quell’accento tutto sbagliato che aveva in sé qualcosa di rassicurante. La lingua della nonna, era la lingua della buona notte.

 

«Met, siwazh, Bro-C’hall zo kalz re bell. Hogen, war da blanedenn ken bihan, a-walc’h oa dit sachañ da gador eus un nebeut kammedoù. Hag e selles ouzh ar serr-noz bewech ma ‘z poa c’hoant…

-Un deiz,’m eus gwelet an heol o kuzhat pergont teir gwech!

Un tammig diwezhatoc’h ez ouzhpennes:

-Te ‘oar… pa vezer ken trist, eo plijus sellout ouzh ar c’huzh-heol…

-Deiz ar pergont teir gwech e oas ken trist neuze?

Met ar priñs bihan ne respontas ket»

 

 

Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto. Sfortunatamente la Francia è troppo lontana. Ma sul tuo piccolo pianeta ti bastava spostare la tua sedia di qualche passo.

E guardavi il crepuscolo tutte le volte che volevi...

-Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatré volte!
E più tardi hai soggiunto:
-Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti...

-Il giorno delle quarantatré volte eri tanto triste?
Ma il piccolo principe non rispose

 

Sarah si avvicinò a lui, si strinse al suo braccio come alla ricerca di qualcosa di solido a cui aggrapparsi, un gesto che raccoglieva in sé una tale fragilità da turbarlo. La cinse e la portò a sé, lasciò che quel piccolo capo di Sole e vita si posasse sul suo petto.

 

«Tu ne crois pas qu'il a raison?»

Non pensi che lui abbia ragione?

 

borbottò lei, sfregando la guancia sulla sua maglietta come un micio indolente che faceva le fusa. La voce però, quella era lamentosa e debole, la voce di qualcuno che sentiva montare il pianto più affranto e lottava per trattenerlo.

 

«Qu'est ce que tu veux dire?»

Cosa intendi?

 

«La France… semble vraiment trop loin. Il semble que nous ne la réviseront plus. Et si la mère meurt, peut être que nous ne la réviseront plus vraiment, nous ne retourneront jamais à la maison»

La Francia… sembra veramente troppo lontana. È come se non la dovessimo rivedere mai più. E se la mamma morirà, forse non la vedremo più davvero, non torneremo più a casa»

 

Iniziò a piangere.

Lo faceva piano, con una discrezione così forte da ricordargli maman. Se non l’avesse avuta tra le braccia, se non avesse sentito attraverso il corpo sottile il cambio del suo respiro, non l’avrebbe notato.

Capiva cosa voleva dire, era una mancanza che a sua volta lo tormentava. Erano due anni ormai, che non tornavano a casa. Proprio loro, che a Kerlatz ci erano cresciuti, vi avevano trascorso ogni Estate e ogni Inverno della loro vita e avevano lasciato là non solo la famiglia, ma anche gli amici più cari, d’improvviso si erano sentiti tagliati fuori dal quel mondo.

Gli sembrava solo il giorno prima, l’ultima volta che si era rincorso per le strade sterrate tra i campi, a ridosso della scogliera, con Beau, Jules, Trix, Adrien e Chris.

Gli sembrava ieri, eppure erano già trascorsi anni.

La loro vita si era fermata a quell’ultima volta, si era fermata al sogno di poter rientrare a casa. Ed invece, l’ultimo frammento vissuto con la sua famiglia era stato il funerale del nonno, e ci era andato da solo con Claire e Jules, senza maman, senza sua sorella.

Cosa doveva dirle?

Come poteva anche solo sperare di lenire il senso di una mancanza che era anche la sua stessa ferita più grande?


«Si elle meurt, je l'a oublierai»

Se lei non ci sarà più, la dimenticherò

Pianse più forte, come piangono i bambini, non come piangeva lei.

Doveva essere stato il sonno a spingerla a scoprire quelle sue primordiali paure. Dopo il primo, momentaneo attimo di smarrimento, in trance, Dami si sentì scosso da quel pianto come risvegliato da un coma profondo. Mise da parte il libro, la strinse più forte, nascose il viso tra i suoi capelli ed un nodo stretto attorno alla gola minacciò di soffocarlo. Forse, avrebbe potuto piangere anche lui, avrebbero potuto sfogarsi insieme, avrebbe potuto essere quell’inetto che si sentiva.

Non trovava le parole.

 

«Ne pas dire ça, amour. Je te porterai à la maison, chaque fois tu voudrait. Nous allons y avec maman aussi... je»

Non dire così, amore. Ti ci porterò io a casa, ogni volta che vorrai. Ci andremo ancora anche con maman vedrai… io

 

si morse la guancia per non crollare, per ritrovare nel dolore una logica. Per non smarrirsi nelle bugie che le stava raccontando, bugie che in realtà erano solo le sue speranze, erano quei sogni a cui si aggrappava ostinatamente prima di andare a dormire.

Che tutto sarebbe andato bene.

Che non sarebbero rimasti soli.

Che maman non li avrebbe lasciati a loro stessi.


«Je ne permettrai jamais que tu puisses l'oublier, Sarah»

Non permetterò mai che tu possa dimenticarla, Sarah

Prese le distanze, le scostò i capelli dal volto piccolo e molle di lacrime, le lentiggini erano semi gettati sul campo rosso delle sue guance.

 

«Je te parlerai toujours d'elle, nous la rappèllerons ensemble. Nous… nous ne la laisserons pas aller loin. Tu ne oublieras jamais maman, je te le promets»

Ti parlerò sempre di lei, la ricorderemo insieme. Noi… noi non la lasceremo andare via. Non dimenticherai mai maman, te lo prometto

 

Sarah non rispose, ma annuì debolmente e gli occhi dorati ritrovarono un barlume di lucidità in quella tristezza profonda, nascosta agli occhi del mondo e ai suoi, tanto insospettabile da fare ancora più male una volta intravista.

 

«Ne pas oublier moi»

Non dimenticare nemmeno me

 

Lo sussurrò, aveva il sapore di una preghiera.

Demian ne rimase agghiacciato.

Quelle parole gli parvero quasi irreali, era impossibile che Sarah le avesse pronunciate per il semplice fatto che gli era impossibile credere che Sarah potesse concepire un pensiero tanto aberrante.

 

«Comme je pourrai t'oublier?»

Come potrei dimenticarti?

 

Tu sei il Sole attorno al quale gravita la mia vita, sei l’unica cosa bella.

Sei la prova che la vita non è del tutto insensata.

Davvero non lo sai?

 

 

Se Sarah non lo sapeva, se non lo capiva, allora aveva sbagliato ogni cosa e la sua breve esistenza era stata veramente inutile e priva di qualunque scopo.

L’idea che la sua piccola peste covasse nel suo animo una solitudine tanto grande gli fece male e mai gli era parsa più fragile, mai il suo cuore si era rivelato tanto insicuro. Lo ascoltava battere forte, preda dell’agitazione, e sentiva il proprio sincronizzarsi a quello della bimba in un disperato tentativo di raccordare le loro anime.

Tornò a stringerla forte, pensò che doveva calmarla, acquietare quell’inquietudine che l’aveva crocifisso al letto e gli aveva tolto il respiro.

Rimasero a crogiolarsi nel calore della reciproca presenza e, lentamente, Demian si accorse che nonostante quel tamburellare sempre un poco nervoso, il corpo di Sarah si stava lentamente rilassando, piangere doveva averla spossata, forse le sue erano state solo lacrime di nervoso e stanchezza, forse non era vero niente.

Si stava addormentando, ma lottava testardamente per tenere gli occhi aperti, ancora un poco, e cercava di guardarlo negli occhi quando le palpebre non si facevano troppo pesanti.

Sussurrò

 

«Ce n’est pas vrai. Quand je ne serai plus ici, tu pourrai me oublier si tu te sens mieux… je ne me facherai pas, si tu es heureux»

Non è vero. Quando non ci sarò più, potrai dimenticarmi se ti farà stare meglio… non mi arrabbierò se sei felice

Demian sentì una lacrima colargli, come slegata da sé, sulla guancia. Un’unica goccia che sembrava estranea al suo corpo, estranea a lui e a tutto ciò che cercava di pensare. Non riusciva a raccogliere un’oncia di raziocinio per dirle qualcosa di profondo, di maturo e di rivelatorio che le avrebbe cambiato la vita.

No: ora sapeva, ora capiva.

Sarah gli stava facendo conoscere la disperazione più implacabile, la sviscerava per lui, gli mostrava il dolore. Ed era un male tanto grande che non riusciva quasi a percepirlo, a scinderlo dal proprio essere, era un malessere tanto radicato da identificarsi con la sua stessa persona e allora il suo corpo si rivoltava e lo rigettava, non poteva assimilarlo.

Lo liberava sotto forma di una lacrima.

Lo inchiodava al panico più assoluto.

 

«Tu seras ici toujours, tu ne dois pas penser ces choses. Promets le moi, to dois me promettre que tu ne le penseras plus»

Tu ci sarai sempre, non devi pensare queste cose. Giuramelo, giurami che non ci penserai mai più

 

«Je ne sais pas. Être adult doit être beau… j’aurais voulu essayer»

Non lo so. Essere grandi deve essere bello… mi sarebbe piaciuto provare

 

Le manine si erano contratte sulla sua maglietta, si erano aggrappate in un attimo di disperazione a lui, una stretta convulsa che Demian riuscì solo a ricambiare. La catastrofica sensazione d’impotenza e frustrazione lo travolse e si trovò di fronte alla realtà che meno era in grado di accettare: non avrebbe mai potuto fare davvero nulla per lei. Non c’erano campane di vetro abbastanza grandi per custodirla al sicuro senza ucciderla e certamente lui non aveva la forza né le possibilità per essere un vero scudo dalla sofferenza. Gli sembrava quasi di vederla scivolare, risucchiata dal senso di mancanza, la perdeva, perdeva l’idea dell’ingenuità di quell’anima candida, e non riusciva ad afferrarla.

Dove era, l’ingenuità di Sarah?
Dov’era tutta la spensieratezza che con un solo sorriso si trasmetteva attorno a lei ridando lustro e colori al grigiore di un’esistenza vuota?

 

Non lo pensa davvero, non lei. Non è possibile, è solo un momento, sono solo pensieri momentanei portati dalla stanchezza, che scompaiono in fretta.

Sarah non può realmente credere a ciò che sta dicendo.

 

«Tu seras grand, tu pourras faire tout ce que tu veux. Quand tu seras grande nous les ferons ensemble. Tu seras une splendide adulte un jour, et tu seras toujours avec moi»

Tu sarai grande, potrai fare un sacco di cose. Quando sarai più grande le faremo insieme. Sarai una splendida adulta un giorno, e sarai sempre con me

 

Lo sussurrò tra i suoi capelli, le baciò la nuca ancora e ancora, in un gesto che era uno scacciapensieri, una dolcezza che sperava potesse cancellare le brutture dell’idea della perdita che li avvolgeva.

Percepì il sorriso della bambina irradiarsi come ne fosse scottato.

Il più piccolo gesto di Sarah valeva ogni cosa, valeva il mondo.

 

«Tu a raison. Je serai toujours avec toi»

Hai ragione. Sarò sempre con te

 

biascicò piano, con tono impastato. Sbadigliò, si raccolse ancora, un piccolo animaletto selvatico ammansito dal calore e dall’amore, che in sé però continuava ad avere una sorta di diffidenza, un’energia latente pronta a scattare persino nel sonno, un nervosismo che era troppa vita, compressa in un corpo minuscolo impossibilitato a sopportarla.

 

«Tu me chantes une berceuse?

Mi canti la ninna nanna?

 

Come facevi prima, lesse Demian tra le righe.

Si raccolse su un fianco, per poterla avvolgere meglio nelle sue coccole, accostò il viso al suo, spiegazzato dalla stanchezza e dai pensieri troppo oscuri, troppo inadeguati per una bambina così piccola. Più che cantare, Dem bisbigliò leggero al suo orecchio, per frenare la voce ed evitare che si potesse spezzare, un sussurro per gridare che la sua era un’anima oppressa che minacciava di frantumarsi.

Era un debole, avrebbe voluto piangere.

Ma non ci riusciva.

 

 

«Toutouig la la, va mabig

Toutouig la la

Da vamm a zo amañ, koantig,

Ouzh da luskellat, mignonig»

 

Come poteva parlarle della morte, della perdita, dare una ragione di essere al dolore, proprio alla sua sorellina, che la sofferenza della sua condizione doveva affrontarla ogni giorno?

Come poteva dirle che anche avere una mamma le sarebbe stato negato?

 

 

«Toutouig la la…

Da vamm a zo amañ, oanig

Dit-te o kanañ he sonig

 

En deiz all e ouele kalzik

Hag hiziv e c'hoarzh da vammig»

 

Ogni parola aveva il sapore di maman. Sapeva dell’infanzia che aveva perduto, sapeva di tutte quelle cose che non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare, perché erano troppo, erano memorie di un tempo che gli spezzava il cuore.

Era allora, che aveva scoperto che la paura paralizzava, che si era riscoperto vigliacco, quando la malinconia lo colpiva a tradimento e si sentiva solo da morire, e avrebbe voluto urlare contro maman ancora e ancora, di guardarlo, di guardare Sarah, di ricordarsi di loro, ma poi non ci riusciva mai, non trovava le parole e il coraggio.

Restava, immobile, davanti ad una porta chiusa, restava ad ascoltare sua madre piangere in camera sua quando credeva che lui e sua sorella non potessero accorgersene, per lo stesso terrore e la stessa sofferenza che lo imprigionavano.

Due solitudini simili a rette parallele destinate a non incrociarsi, a non poter mai condividere il proprio male. In quei momenti c’era solo Sarah, l’unico conforto a cui ancorarsi era la manina pallida, quasi bluastra, della sua indifesa sorellina. Era così bella, così ingenua, da scacciare qualunque angoscia, e guardarla stringergli l’indice e sospirare era tutto ciò che di pulito e buono restasse nella sua vita. Poi Sarah si era fatta più grande, e lui aveva potuto solo restarle accanto ad assicurarsi che chiudesse gli occhi e riposasse bene, accarezzandole i capelli con esasperata mestizia e quella ninna nanna tra le labbra.

 

«Toutouig la la, 'ta paourig

Poent eo serrañ da lagadig

 

Toutouig la la, bihanig

Ret eo diskuizhañ da bennig

 

Toutouig la la, rozennig

Da zivjod war va c'halonig

 

Da nijal d'an neñv, va aelig

Na zispleg ket da askellig»

 

La mano della sua bestiolina si era rilassata ed ora restava mollemente appoggiata al suo petto. Il corpo aveva perso ogni rigidità e mentre dormiva le sue labbra schiuse liberavano sbuffi di respiri che sembravano frammenti di pene liberate.

 

“Sai, quando si è molto tristi si amano i tramonti” diceva il Piccolo Principe, ed un sorriso malinconico temprò il suo volto.

 

Sarah era il tramonto su cui si posavano i suoi occhi quando la vita era troppo triste.

 

Le donò un ultimo bacio sulla fronte, con la delicatezza con cui si sfiorano i petali di una margherita recisa.

 

«Bonne nuit, Sarah»

 



ANGOLO AUTRICE

 

Non sono morta!

Poteva sembrarlo, e invece no!

 

Né volevo mollare la pubblicazione, ma sono stata immersa in grandi problemi e molto lavoro, e quindi non ho avuto il tempo di correggere i dialoghi in francese per parecchi mesi, essendo io un’analfabeta senza speranza.

La vera difficoltà poi stava nel fatto che essendo qui molti, non ero certa di come gestirli. La traduzione direttamente sotto la frase mi è sembrata la più pratica per il lettore, sebbene visivamente fastidiosa, e quindi ho optato per questa soluzione. Se ne avete di migliori accetto suggerimenti, gli asterischi con così tante frasi mi sembravano pessimi!

 

Come sempre, non ho granché da dire sulla storia, ho voluto mantenere la vecchia struttura di questo capitolo, ovvero un inizio leggero che scivola nel tragico, forse troppo calcato, ma desideravo mantenere lo spirito ingenuo della storia originale, per affetto almeno.

 

Dovrei pubblicare, se tutto va bene, un altro capitolo prima di agosto, poi entrerò in pausa perché il 4 agosto partirò finalmente per la Cambogia e starò via tutto il mese. Dovrei ricominciare a pubblicare intorno a metà settembre.

 

Non che possiate morire di trepidazione nell’attesa, ma almeno sapete perché sparirò di nuovo!

 

A presto e buone vacanze!



Ps: lo ammetto, il capitolo era lungo… non ho corretto la punteggiatura! Troppo stress!

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Capitolo 12
*** Contrasti ***


À Demian

Capitolo decimo

Contrasti

Attorno a lui c’era solo oscurità.

Buio fitto e denso, viscoso. Aveva la sensazione che gli si fosse appiccicato addosso, se ne sentiva soffocato. Gli ostruiva la gola, gli mancava il fiato e l’aria rarefatta pareva opporsi ad ogni suo tentativo di inspirare ancora e ancora, faceva freddo e il sudore gli imperlava la fronte e il corpo come un secondo strato di pelle impalpabile.

Avrebbe voluto agitarsi, scalciare quel dannato piumino che pesava addosso facendolo sentire come se ogni movimento gli fosse precluso e fosse legato polsi e caviglie, avrebbe voluto cercare una posizione più comoda che gli desse una qualche tregua.

Invece restava fermo, schiacciato ad afferrare un buio annichilente.

Sarah dormiva ancora stretta a lui, raccolta nel suo abbraccio con il volto angelico, nascosto dalle ombre della notte, che posava placidamente sul suo petto. Demian si chiedeva come riuscisse a riposare quando il suo cuore batteva tanto forte e ostinatamente da sembrargli che volesse solo sfondargli la cassa toracica. D’altronde, in realtà voleva che sua sorella rimanesse proprio lì, dove si trovava, dove era il suo posto.

Non voleva allontanarsi da lei, non aveva mi sentito tanto la necessità di tenerla vicino a sé, al sicuro, come se un suo abbraccio potesse bastare a combattere un male che Sarah si portava ingenuamente dentro.

A soffocarlo era solo la paura di tutto ciò che si erano detti, di quello che non avevano avuto il coraggio di dire. Sarah aveva incarnato con poche parole i suoi incubi più oscuri, ed ora le ombre avevano mani acuminate ed artigli che si aggrappavano al suo corpo e facevano a brandelli la pelle, dilaniavano la carne e il sangue e l’ultimo dei suoi respiri, lo spingevano, cadeva in un baratro di insicurezze senza fondo.

La cosa peggiore era il sentimento di sospensione che lo tormentava, quel fondo mancato che forse avrebbe fatto male, lo avrebbe frantumato, ma l’avrebbe anche liberato di un peso. Un unico, grande dolore, e poi basta.

La fine.

Frantumarsi insieme a lei e sparire.

Perché lo sentiva nei loro cuori sincronizzati sullo stesso battito, se mai le verità di Sarah fossero diventate realtà, schiantarsi a sua volta, toccare quel fondale di amarezze e morirci, per quello schianto, sarebbe stata l’unica cosa sensata che gli sarebbe rimasta.

Il corpo della sua bestiolina si abbassava e si alzava al ritmo con il respiro, ed era delicato e labile, una visione destinata a dissolversi con l’alba. Se avesse acceso la luce, come nelle migliori storie di spiriti, il suo corpicino cangiante si sarebbe disgregato in polvere, ma il suono del suo soffice soffio di vita non era sufficiente a fornire conforto, gli sembrava di potersi ingannare senza la vista.

 

Sarah sa.

Conosce la sua condizione.

 

E se Sarah sapeva, se conosceva la natura della propria condizione, se era consapevole delle poche garanzie del suo esistere, Demian allora era perso.

Incapace d’azionare gli ingranaggi del proprio pensiero e di raccogliere le proprie sensazioni appannate dall’attanagliante dubbio che lo rendeva inerme.

 

Nessun esame, nessun controllo potrà garantire nulla.

Nonostante tutto il tempo trascorso da quel giorno, non è cambiato niente.

E almeno non fingere di poter dormire, non fingere che vada tutto bene.

Non ci sono sicurezze.

Blandi tentativi di preservare la sua fragilità e nient’altro.

Smettila di mentirti, guardati.

Sei patetico.

 

Si premette un pugno sull’occhio, schiacciò fino a farsi male, per ricacciare l’angoscia e forse il pianto che minacciava di strabordare dagli occhi lucidi.

 

Quanto ancora puoi resistere?

E anche se volessi cedere, pensi sul serio di averne la possibilità?

Cosa credi di fare, come pensi di lasciarti andare?

La tua apatia non ti salverà.

 

Scivolò fuori dalle lenzuola che il sole era ben lontano dal mostrarsi. Erano quasi le cinque, sul balcone faceva freddo e la luce spettrale della lampada esterna tratteggiava le linee di un giardino lasciato all’incuria del disuso.

Accese una Lucky Strike, inspirò una profonda boccata di fumo e lo trattenne a lungo, prima di rilasciarlo. Le volute opache di grigio si confusero rapidamente con le nuvole di ardesia che incorniciavano la luna.

Si accomodò su una seggiola di vimini sgangherata, retaggio di maman come la compagna, abbandonata in un angolo e occupata da un cestone di panni da stendere ormai quasi del tutto asciugati. Forse, sua zia si era anche raccomandata perché se ne occupasse lui, con qualche post-it o una chiamata, ma non ci aveva prestato attenzione. Il tavolino intrecciato era sormontato da una lastra di vetro opaca e sporca, i fiori nel vaso si erano seccati, alcuni erano caduti, altri erano rimasti tetramente attaccati per un soffio e dondolavano leggermente, come in una poesia di Ungaretti.

Il vento muoveva le ombre degli alberi ridisegnando il confine del suo sguardo, e il rumore delle foglie che frusciavano riempiva il vuoto silenzio.

Non distolse mai la sua attenzione da quell’ondeggiare pacato e metodico, finì la sigaretta lentamente, lasciò che una parte si consumasse da sé mentre i suoi occhi inseguivano complicati pensieri che s’intrecciavano ai ricordi.

Ricordi di Sarah a cinque anni, di quell’anno vissuto in ospedale per la bambina, quando ancora maman stava bene.

Ricordi di Jenevieve con quella piccola bestiolina sulle spalle, per i corridoi di un reparto infantile, e la mano aggrappata al treppiede delle flebo che le seguiva impietoso.

Schiacciò il mozzicone in un posacenere già ricolmo. Appoggiò i gomiti alle ginocchia, guardò il fiato condensarsi.

Forse avrebbe piovuto.

Mai una notte gli era parsa tanto lunga.

 

 

 

Il campanile della chiesa, ben visibile dalla finestra della cucina, lo ridestò dal suo torpore rintoccando le sette. Più stanco della sera precedente, Demian abbandonò la sua seggiola e un posacenere ricolmo di mozziconi che il cielo albeggiava, con nuvole sfiorate dal rosa e dall’indaco.

Le erbacce del giardino e il gazebo di legno sfibrato dalle piogge e dal sole perdevano la loro poesia alla luce del giorno e lasciavano al loro posto solo un sentore di degrado, un’impressione di tristezza simile a quella che coglie un adulto quando osserva l’altalena su cui giocava da bambino ormai in rovina. Si affacciò alla porta della camera di maman e ritrovò una Sarah profondamente addormentata. Non aveva notato la sua assenza, e il suo posto accanto alla bambina alla fine era stato preso da Lala, che si era completamente distesa supina con le zampe tese al vuoto, rigide come nel rigor mortis.

La parte più irresponsabile e inadeguata di sé valutò velocemente se farle o meno saltare scuola. Pensò al cinema, scandagliò tutte le locandine di film Disney in uscita, ricordò che Sarah doveva avergli accennato ad Atlantis.

Qualunque sciocchezza morì sul nascere, su quella soglia, infranta sul visino piccolo e lentigginoso della sua bestiolina. Si passò una mano fra i capelli per ravvivarli, dalla nuca le dita scivolarono sul collo e lì si ancorarono, in attesa del passo successivo.

Con un sospiro amaro liquidò l’idea di passare la giornata con lei e andò in cucina, a recuperare le arance che aveva comprato apposta il pomeriggio precedente per farle una spremuta.

Stava profondendo tutta la sua attenzione in quei gesti meccanici e banali, quando la vocina impastata di Sarah lo riportò bruscamente sul pianeta terra, nella sua cucina intoccata da settimane, in una mattinata di una settimana che voleva non solo non vivere, ma nemmeno considerare.

«Fratellone?»

Il pigiama era largo e sgualcito ed i capelli un groviglio di nodi che avrebbe fatto concorrenza ad una gorgone. Sua sorella si stropicciò gli occhi pigramente, con il dorso della manina. Sembrava avesse una domanda inespressa sul suo visino da cucciola.

«Bonjour, bestiole»

La confusione si acuì, gli occhi della bimba si assottigliarono, lo studiarono con un sospetto buffo, poi si spalancarono lentamente, riempiti di consapevolezza, ed allora le sue labbra di rosa si schiusero gradualmente in un sorriso soffice e felice.

«Bonjour, mon frére!»

Gli corse incontro e Demian fece appena in tempo a gettare la scorza vuota dell’arancia per afferrarla al volo. Si esaminarono ancora, e Dami lesse in lei il suo medesimo stupore, il medesimo sconcerto nel vivere quell’istante come un frammento di ricordo cristallizzato e ormai perduto. Poi, Sarah gli schioccò un bacio veloce sulla guancia e ridacchiò soddisfatta.

«Tu fais quoi?»

«Un jus d'orange»

«Adore le jus!» batté le manine con entusiasmo.

Stirò un sorriso compassato, per non farle pesare il suo malumore «Pendant va' te préparer pour l'école»

La rimise a terra, Sarah sfoderò un ghigno malandrino e si drizzò come un soldatino ubbidiente esibendosi in un pomposo saluto militare. Infine si voltò e corse verso il bagno, i piedini nudi che scivolavano sulle piastrelle.

«Et mets-toi les pantoufles, avant que tu tombes malade!»

E mettiti le pantofole, prima che ti ammali!

 

«Oui, maman!»

Sarah scomparve nella camera da letto della mamma lasciando come strascico solo l’eco della sua risata. Averla in casa, sveglia e normale, gli riassestò un poco l’umore guastato dal sonno, dall’angoscia e dal troppo fumo che gli aveva scorticato la gola. Finì di prepararle la colazione, sistemò la tavola con una tovaglietta di Topolino, ricordo di una gita a Disneyland con Beau e Tristan, e tagliò una fetta di torta al cioccolato comprata solo per lei.

Non era certo che la bimba avesse conservato intatte le sue abitudini mattutine, ma nel dubbio si era attenuto alla colazione che abitualmente consumava con lui tempo prima. Personalmente non aveva fame, lo stomaco si era contorto e ristretto e se provava a immaginarlo, non doveva essere più grande di una noce per le contrazioni e la nausea che gli causava, perciò mise sul fuoco la moka del caffè, giusto per darsi una spinta a restare sveglio.

Lalami aveva fatto in tempo a mangiare ed il caffè a risalire con un gorgoglio di protesta, ma Sarah non si era più mostrata. Bussò alla porta del bagno con una leggera apprensione, che si smorzò non appena riconobbe i lamenti mugugnati della sorella che inveiva, poco elegantemente, in francese. La musicalità del suo accento mascherava le barbarie che bofonchiava, ma Dem si appuntò comunque mentalmente di non imprecare più nemmeno per errore davanti a lei.

«Qu'est-ce que tu fais?»

Entrò senza consenso, e Sarah si volse a guardarlo con un broncio frustrato e le guanciotte rosse di sforzo «Je ne peux pas!» piagnucolò la propria indignazione pestando un piede.

Davanti a tutto quel fervore solo perché non le riusciva di sciogliere i nodi, Demian si concesse il primo ghigno sincero.

«Tu es vraiment un désastre!»

Le sfilò la spazzola di mano e Sarah emise uno sbuffo contrariato, l’aria avvilita di un cucciolo maltrattato «Di solito me li pettina la zia»

 

Potevi chiederlo a me

 

La vita sarebbe stata più semplice, se certe verità gliele avesse mai dette a voce. Invece si limitò come sempre a pensarle, a pensare che lo voleva davvero, che sua sorella dipendesse un poco da lui, ma alla fine andava bene come le veniva spontaneo ed era meglio se non avesse ricercato nulla. Concentrato sui filamenti dorati che scivolavano tra i denti della spazzola, non si accorse subito che la maglietta della bimba, con lo scollo a barca, lasciava intravvedere una spessa cicatrice a lisca di pesce, testimonianza dell’importante operazione di quasi cinque anni prima.

Per un po’ s’incantò sul quello sfregio, bianco perla su bianco latte, e quando notò che Sarah lo studiava dallo specchio con le sopracciglia corrucciate, il malumore gli ripiombò addosso.

«Habille-toi, mets-toi un sweat»

Vestiti, mettiti una felpa

la rimproverò istintivamente.

Finì di legarle con un elastico le ciocche laterali, poi le diede le spalle e si allontanò, per non doverla guardare in viso. Per non vedere lo sguardo che le aveva lasciato, perché non vedesse l’espressione di disappunto e rigetto che temeva di avere, quasi di ribrezzo.

Perché Sarah era piccola, non poteva capire che il suo malessere era paura per lei e nient’altro, e lui non era in grado di trasmetterlo in maniera sana, normale.

«Il fait trop froid puor toi ici» aggiunse, per smorzare la crudeltà delle proprie parole, ma il tono freddo confuse solo sua sorella. La vide annuire e vestirsi subito, come in imbarazzo. E quel silenzio inquieto e colmo di disagio si protrasse per tutta la durata della colazione. Sorseggiava il caffè a fatica e guardava Sarah di sottecchi mentre mangiava e dondolava le gambine sotto il tavolo, gli occhi fissi nel vuoto davanti a sé, per non sbagliare nemmeno per errore ad incrociare i suoi.

Demian, il peso di quel silenzio, lo sentì come un macigno di vergogna sotto il quale avrebbe voluto finire schiacciato, come punizione per le sue mancanze.

Sua sorella non si espresse più, lo seguì ad occhi bassi, si fece aiutare ad indossare il casco e si sedette davanti a lui nel tragitto fino a scuola, aggrappandosi alle sue braccia. Compì ogni gesto con la timidezza di una paura latente, Demian non sapeva se per le parole che le aveva rivolto o per il tono aggressivo che l’aveva spaventata. Quando si fermò nel parcheggio e la vide posare i piedi a terra, provò una fitta allo stomaco. Sarah gli porse il casco, poi alzò gli occhi su di lui, con timore.

Abbozzò un sorriso.

«Au revoir, fratellone»

Si mise sulle punte, per poter arrivare a lasciargli un bacio sulla guancia, e Demian assecondò quel gesto candido che riusciva solo a rivelargli la sua costante inadeguatezza verso qualcosa di bello. Maman gli aveva insegnato ad amare il bello, non gli aveva insegnato come proteggerlo però, ed allora per tenere stretto ciò che amava Demian finiva con l’aggrapparvisi con troppa forza, distruggendo tutto.

«Au revoir, mon trésor, tiens-toi bien»

Arrivederci mio Tesoro, fai la brava

La sua bestiolina sorrise con più tranquillità, annuì e gli diede la schiena per raggiugere i compagni di classe raccolti in capannelli davanti al cancello della scuola.

«Et ne pas courir!» aggiunse, dopo un breve momento di riflessione. Questa volta Sarah lo guardò da sopra la spalla e scoppiò a ridere «Oui maman!»

 

 

***

 

La casa di zia Claire s’inseriva in un complesso di villette a schiera dai muri intonacati di rosa e finta pietra agli angoli. Demian era seduto da dieci minuti buoni sul suo sgangherato motorino, a studiare oltre le siepi basse, perfettamente potate, che avvolgevano la ringhiera, il piccolo rettangolo di prato altrettanto perfettamente curato, un piccolo giardino in miniatura decorato di fiori come una bomboniera.

Una perfetta casa borghese insomma, con un sentierino che conduceva al portico, lastricato di grosse pietre e ombreggiato da un acero rosso. Le imposte delle porte a vetri erano spalancate e dalla soglia schiusa della cucina usciva una musica leggera, ovattata dalle pareti eppure sufficientemente nota perché dal minimo suono Demian potesse riconoscerne il brano.

L’ombre et la lumiere aveva quel ritmo pacato e sonnacchioso che ricalcava la personalità della zia nei suoi momenti oziosi da animale pigro. Momenti così rari, che se ci pensava forse poteva contarli sulle dita di una sola mano.

Sorrise, al pensiero di Claire che probabilmente ci stava ballando su quella musica, come faceva maman ascoltando Elton John quando era bambino e lei doveva fare le pulizie. Con uno slancio delle mani si staccò dal sellino, attraversò la strada e sostò di fronte al cancello marrone come irrigidito, prima di decidersi a suonare. La testa della zia fece capolino quasi immediatamente dalla porta della cucina e, appena lo riconobbe, fece subito scattare il cancellino che si aprì spontaneamente, senza emettere il minimo cigolio.

Qualsiasi serramento di casa sua cantava appena lo si sfiorava, ma lì, in quella casa perfetta, tutto era impeccabile e funzionale, oliato come fosse nuovo. E in quel semplice quanto banale confronto Demian ci leggeva i dettagli che mettevano in risalto quanto il suo mondo fosse sempre stato in bilico sul disastro, sul punto di andare in pezzi perfino su inezie come quelle.

«Ciao, tesoro!» la zia lo accolse con un grande sorriso.

Aveva labbra sottili e chiare che nel tendersi quasi scomparivano lasciando solo un accenno di contorno. Quell’espressione amorevole si oscurò in un attimo «Hai portato Sarah a scuola, vero?»

Gli strappò un sorriso quell’accusa permeata da un senso di minaccia latente.

Annuì, ma non aggiunse nulla.

Era fermo sulla soglia di una casa in cui cercava sempre di non entrare. Se possibile, nemmeno voleva avvicinarcisi, perché bastava la vista di tutta quella vita, raccolta in una casa che vissuta lo era davvero, lo era da una famiglia, per causargli smarrimento e tristezza.

Alla luce di una tersa giornata autunnale Claire era bellissima, anche in quella sua tenuta da casalinga inquieta, con i capelli biondi raccolti in un mollettone sconclusionato e una maglietta blu elettrico larga e bucherellata, con qualche macchia bianca dovuta quasi certamente alla candeggina.

«E perché invece tu non sei a scuola?» per avvallare il suo rimprovero brandì il piumino delle polveri neanche fosse un’arma contundente e gliela puntò al petto. Claire cercava di approcciarsi in modo scherzoso alla sua negligenza, per trovare un punto d’incontro, un dialogo tra la precisione che la caratterizzava e il suo essere sconclusionato all’opposto. Qualcosa nel suo viso dovette farla desistere però, perché abbassò il braccio quasi a rallentatore e lo studiò con un cipiglio da rapace.

Demian aveva esitato fino a quel momento perché non aveva idea di come introdurre l’argomento.

L’espressione della zia si ammorbidì in un sorriso accomodante «È successo qualcosa?»  

Quando arrivava il momento di farsi avanti, riusciva sempre e solo a tacere, incapace di reagire. E così, tutti i sentimenti che nei giorni precedenti lo avevano animato, scomparvero. Persino la collera immensa verso la zia, quell’odio bruciante, si era già consumato lasciando solo cenere dietro di sé, braci appena tiepide che covavano un rancore sopito.

Claire non aveva alcuna colpa, per questo non gli riusciva di sfogare sulla sua minuta figura la sua frustrazione e il senso d’impotenza. L’unica persona che riusciva davvero ad odiare era maman ed il suo egoismo. Lui e sua zia erano sulla stessa barca, trascinati dalla corrente della volontà di Jenevieve, che potevano solo assecondare, senza realmente opporsi al volere di una donna viziata ed egoista in grado di vedere solo se stessa.

Anche sua zia stava perdendo qualcuno di amato.

Anche lei non avrebbe mai desiderato che maman si arrendesse.

Ma Jenevieve aveva sempre preso da sé le proprie decisioni, e l’avrebbe fatto fino alla fine, senza considerare il loro dolore.

Annuì ancora e strinse le labbra fino a renderle persino più esangui «Devo parlarti di maman» chiarì, con una voce ferma e distante che non credeva sarebbe riuscito a sfoggiare e gli suonava estranea «E anche di Sarah»

Il sorriso materno della zia si spense piano e una nuova determinazione illuminò quel volto che, non fosse stato per i segni del tempo, riusciva a conservare in sé una traccia genuina di fresco e giovinezza. Entrò in casa e lasciò la porta aperta, come invito affinché la seguisse.

La sala era in perfetto ordine, Demian non trovava altro aggettivo per definire l’ambiente arioso e accogliente. Il parquet scuro era tirato perfettamente a lucido, il tappeto persiano ai piedi del divano crema era di ottimo gusto, come ogni cosa scelta da Claire, e i libri erano ordinati per grandezza sulle mensole del grande mobile che occupava tutta una parete. I soprammobili erano perfettamente spolverati e le superfici di legno, la televisione ed il computer erano immacolati in maniera quasi maniacale, nemmeno in controluce gli riusciva di individuare un granello di polvere.

Tutto curato nei minimi dettagli, come lo era Claire, a rimarcare che con sua madre condivideva l’aspetto e la genetica, ma nient’altro.

La zia si era compostamente accomodata sul divano, appena sul bordo, e con le mani si massaggiava le tempie «È per questo che non sei più andato a trovarla, vero? Hai scoperto cosa ha deciso di fare»

«Sì»

«Te ne volevo parlare, ma sei sparito. Non sono più riuscita nemmeno ad incrociarti» spiegò, fermando i movimenti circolari delle dita per alzare lo sguardo e fissarlo negli occhi. Si mordeva il labbro sottile, forse era il senso di colpa per una mancanza che non aveva realmente avuto. Perché era vero, aveva assecondato i suoi soliti colpi di testa e aveva fatto in modo di non essere reperibile, di questo Claire non aveva motivo di biasimarsi. Forse almeno, avrebbe potuto saperlo prima, ma anche ad esserne informato, non cambiava il fatto che non avrebbe avuto comunque voce in capitolo su quella scelta.

Valutò se sedersi, per provare ad avere un dialogo tranquillo e sereno, ma il suo corpo rigettava quella possibilità, sedersi era l’ultima cosa che avrebbe potuto fare, aveva addosso troppa adrenalina, troppa ansia per quello che avrebbero dovuto dirsi, perché rispettava Claire e inconsciamente, e neanche tanto inconsciamente, aveva paura di lei.

Prese un respiro profondo, chiuse gli occhi un istante, per allontanare l’immagine stranamente prostrata di una donna indistruttibile.

«Non voglio che Sarah la veda»

«Sarah non dovrebbe vedere sua madre?» sussurrò Claire, basita.

«Sì» lo disse con voce ferma e sicura, un tono che non ammetteva repliche, ma era già evidente dalla luce di quegli occhi ferini che la zia non avrebbe esitato a ribattere.

Infatti, Claire si alzò, tentando di far valere tutta la sua altezza, un metro e cinquantotto di donna con la brutalità di uno scaricatore di porto celata dietro l’apparenza da nobildonna. Ogni traccia di comprensione e benevolenza era stata soppiantata da una destabilizzante decisione.

«Non ci siamo mai capiti bene, Dami, quindi questa volta sarò molto chiara e moto diretta e al diavolo i moralismi. Non sono mai stata d’accordo con nessuna delle decisioni prese negli ultimi anni. Mia sorella è un’irresponsabile, e io sono convinta che tutti i suoi tentativi di assecondarti ti abbiano fatto più male che bene. Ma l’ho ascoltata, perché non avevo nessun diritto di intromettermi. Non volevo che ti sobbarcassi del peso che ti sei preso, non volevo allontanare Sarah da voi, eppure vi ho aiutati a farlo, in fondo anche io temevo che potesse stare male.

Ma ora le cose sono diverse. Sono cambiate Dami, devi aprire gli occhi»

Fece un passo verso di lui, e Demian dovette sopprimere l’istinto di allontanarsi. Avevano parlato fino allo sfinimento di ciò che Claire aveva sempre pensato, sentirlo però lo poneva ogni volta in uno stato d’inadeguatezza che non sapeva come gestire. La zia gli prese il volto tra le mani, lo inchiodò con lo sguardo impedendogli qualunque tentativo di sottrarsi alla sua brutalità.

«Jenny sta morendo»

Lo scandì lentamente, con crudeltà quasi, e davanti agli occhi della donna che lo aveva cresciuto, occhi gemelli a quelli di sua madre, di sua sorella, provò il panico di non riuscire a raccordare i propri pensieri.

 

Pensi davvero che non lo abbia capito, zia?

Non riesco a pensare ad altro ormai, ci provo, ma non ci riesco.

 

L’unica cosa di cui fosse consapevole, era di star perdendo maman. Accettarlo era un’altra questione, una questione che magari avrebbe affrontato da solo, un giorno.

Forse.

Le afferrò i polsi e strinse con troppa forza, lo comprese dal lamento appena stentato che le sfuggì tra i denti, ma non gliene importò. Voleva essere altrettanto cattivo e riuscire a farle almeno un poco del male che riceveva da lei con una manciata di parole.

Si chinò e soffiò ad un palmo da suo volto, con gelida indifferenza «Lo so»

«Jenny è mia sorella. Non te lo dirà mai perché non vuole ferirti, ma desidera rivedere sua figlia prima di morire» la voce s’incrinò su un’esitazione, la zia s’irrigidì e il viso si congestionò in una smorfia di sofferenza «Anche Sarah vuole solo rivedere sua madre. Non hai alcun diritto di decidere per lei»

La rabbia della vergogna lo travolse «Nemmeno tu!» ringhiò, solo perché non voleva pensarci, non voleva ascoltare ciò che sapeva, non voleva ritrovarsi a gestire i suoi sensi di colpa e la durezza della zia contemporaneamente, era una battaglia da cui avrebbe potuto uscirne solo sconfitto. Sfogò la sua inadeguatezza aumentando la stretta, finché gli occhi strizzati nel dolore di Claire non gli fecero capire di star esagerando. Allentò la presa e la zia, con un movimento secco e un’espressione rancorosa, si liberò. Dei cerchi rossi segnavano la pelle morbida dei suoi polsi sottili.

«Io non lo faccio infatti! Faccio decidere lei!» gli urlò contro, indignata, massaggiandosi il polso destro con troppa energia, come a scacciare il senso della sua mano avvinghiata a lei per ferirla.

«Sarah è troppo piccola per capire, non sa a cosa va incontro. Non ha idea di cosa dovrà vedere!»

«Lo so che vuoi proteggerla, Dio solo sa se non è quello che vorremmo fare tutti, ma Sarah conosce la morte più di quanto tu possa anche solo immaginare! La affronta tutti i giorni, muore dentro tutti i giorni e la colpa è anche tua! Non puoi proteggerla e poi abbandonarla, quando lei aspetta soltanto che tu le dedichi un’ora, una dannata ora della tua vita!»

Demian indietreggiò di un passo, non riuscì a deglutire.

Lo sguardo di fuoco della zia lo inceneriva e ammutoliva, la donna avanzò puntandogli l’indice al petto, decisa a sputare le parole come veleno succhiato da una ferita infetta.

«Tu hai veramente idea di come sia la quotidianità di tua sorella? O ti è più facile far finta di aver dimenticato? Non può giocare, non può correre, si affatica per un nonnulla e l’unica cosa che le riesce è guardare gli altri, ed io posso solo guardare mia nipote che si lascia vivere come una spettatrice impotente! Vegliarla, e sperare che non stia male e non abbia crisi, perché quando sta male lei vuole soltanto te, e la metà delle volte tu non ci sei!»

Lo colpì al petto, ripetutamente, un tocco debole in realtà, ma reso forte dalla collera e per Demian così insostenibile che indietreggiò finché non incontrò il bordo della scrivania del computer. Cercò di restringersi, quasi di appollaiarvisi sopra, di scomparire.

Era quella la forza della zia, lo faceva sentire minuscolo.

Un altro colpetto e l’indice sollevato in un gesto di velata minaccia «Non ci sei perché sei un vigliacco, perché hai paura! È pietoso dover vedere una bambina di nove anni che lotta per non farti preoccupare, perché non credere, lei lo sa che scapperesti! Sa perfettamente che se ti rendessi davvero conto dei suoi limiti la lasceresti sola!»

S’interruppe, solamente perché da qualche parte in quel suo sfogo aveva iniziato a piangere, ed ora non le riusciva più d’ingoiare i singhiozzi di nervoso. Avere quegli occhi da falco, gli stessi occhi della sua coscienza, mietitori della sua anima, puntati addosso con tanta energia, gli toglieva le parole.

Aveva sempre pensato che la malattia di maman gli avesse rovinato la vita, l’avesse segnata al punto che l’unica cosa che gli restasse di sopportabile era la certezza che almeno Sarah si sarebbe salvata, che l’unica cosa buona della sua vita era stato farsi carico di quel dolore per non doverlo spartire con la propria sorellina.

Solo quello.

Ed ora gli era appena stata tolta quell’unica possibilità.

 

Non hai mai capito niente

Sei solo un vigliacco ed un bastardo, credi di avere tutte le risposte, ed in realtà sai solo girare in cerchio.

Sarah fa bene a dubitare di te, sei solo un vile su cui non si può contare, sai soltanto scappare.

 

S’illudeva di essere forte, si aggrappava alla convinzione di poter affrontare tutto, ché se non cedeva, se riusciva a rimanere tutto d’un pezzo, anche solo nell’apparenza, sarebbe passato indenne attraverso i paradossi della sua vita. Il mondo era orribile, chi non era forte abbastanza veniva masticato e sputato, e lui aveva trascorso anche troppo tempo della sua esistenza provando un opprimente senso di mortificazione.

Per questo se lo era imposto, si era costretto a essere forte, una muraglia impenetrabile. Ma forse, aveva ottenuto solo di essere ermetico, e dentro quelle mura aveva nascosto un’anima indifesa che soffriva da sola, senza speranza di ricevere aiuto.

Si sentì inerme, le braccia gli ricaddero lungo i fianchi, come non gli appartenessero più. La verità, per qualcuno come lui, era qualcosa di atroce che lo faceva avvizzire da dentro. La mano di Claire raggiunse il suo viso, gli accarezzò la guancia e un brivido, come un sussulto, lo attraversò. Fu come un risveglio dal suo torpore apatico.

La guardò negli occhi, gli parve di vederla per la prima volta. La mano della zia lo stava afferrando e lo tratteneva, impedendo al vuoto senza ritorno dei suoi pensieri di risucchiarlo lontano. Il suo calore, la sua tenerezza affettuosa, erano un’ancora che lo affrancava alla realtà.

Aveva la pelle bagnata.

Forse stava piangendo, non se ne era accorto, era un inetto succube della vita, non era in grado nemmeno di trattenere quel male per sé. Quando si parlava di Sarah, l’impotenza lo annientava.

«Dami, non le hanno dato più di tre mesi di vita. È l’ultima possibilità che abbiamo di rimettere a posto le cose, non voglio avere questo rimorso. Non volevo ferirti… lo so che la ami, so che Sarah è la persona più importante della tua vita. Non volevo mettere in dubbio il tuo affetto, ma il tuo amore non deve soffocarla»

«È tutto ciò che mi resta»

Si vergognò di doverlo sussurrare. Si vergognò di dover ammettere una verità tanto deprimente, la voce roca s’incrinò. Per quanto le volesse bene non era in grado di proteggerla, la vita era troppo più forte di lui perché potesse tenergli testa con la sua debolezza.

Chinò il capo, appoggiò mollemente la fronte sulla spalla di Claire ed un singhiozzo strozzato venne soffocato dal corpo piccolo e snello della zia.

«Non è tutto, c’è molto di più. Questa è casa tua Dami, se solo volessi vederlo. Quando vorrai, questa porta sarà sempre aperta per te, avrai sempre un posto dove tornare. Tu non sarai mai solo» un sospiro tremulo, la sua mano fra i capelli, ad accarezzargli la nuca «Non sei solo» ribadì con più forza. Glielo ripeté a lungo, come una litania, un lento e pacato incantesimo che intesseva attorno alla sua anima stanca una rete di sicurezza a cui si aggrappò con tutte le sue forze. Il tono calmo, dolce eppure incredibilmente fermo di Claire, gli trasmise la giusta calma; ricacciò l’angoscia, si staccò da lei. Si guardarono negli occhi ancora una volta, Demian trattenne un brivido.

«Ascoltami ora. Io non lo farò senza di te. Voglio che tu le sia accanto quando le diremo di Jenny. Anche tu per lei sei tutto, e voglio che sia tu a sostenerla. Ma per farlo, devi prima affrontare Jen. Devi giurarmi che lo farai»

Le dita sostarono con leggerezza sicura sulla sua guancia e Demian faticò a deglutire. Accennò ad abbassare il capo, ma Claire non glielo permise, con ferma dolcezza lo costrinse ad affrontarla.

«Giurami che sarai con lei, quando le diremo che Jen sta per morire»

Ebbe paura, così paura che le mani tremarono. Le chiuse in due pugni serrati, cercò un equilibrio, di domare quel terrore di non essere all’altezza, di non poter sostenere Sarah. Paura di deluderla, di soffrire troppo e di essere tanto compreso dal proprio dolore da non essere in grado di curare la sofferenza di sua sorella.

Pensò a Sarah e si disse che almeno per una volta, qualcosa le doveva.

«Je promets»

 

 

***

 

 

Il cellulare aveva ripreso a vibrare.

A contatto con la superficie di legno del tavolo faceva un baccano assurdo, un rumore che gli stava trapanando il cervello acuendo un mal di testa già di per sé epocale.

Si interruppe, ma solo per pochi istanti. Il tempo di qualche sospiro e vibrò di nuovo. Era la decima volta e Demian iniziava ad essere intollerante. Abbandonato il proprio corpo in maniera scomposta sul divano, il movimento più esteso che gli riusciva di compiere era inclinare la testa all’indietro. Persino la bottiglia di birra, piena a metà, che stringeva fiaccamente tra le dita, risultava troppo pesante. Osservò la linea di quel liquido ambrato dondolare pigramente, ipnotizzato. Di come fosse arrivato a casa ricordava poco, la mente era annebbiata. Sapeva solo che dopo aver parlato con la zia si era sentito troppo male, così male che non sapeva nemmeno come gli riuscisse di restare in piedi. Sapeva solo che era stanco, stanco, e aveva freddo di una disperazione che lo svuotava. Era tutto più facile, se ogni cosa si sfocava. A terra, ai suoi piedi, altre quattro bottiglie vuote erano accatastate e una, sdraiata, gocciolava sul tappeto già largamente macchiato. Non ne aveva mai rette più di tre, ma quel giorno aveva accettato una personale sfida con se stesso. Eppure non bastava, a quel senso di leggerezza, di ovatta nella testa, si era aggiunta una nausea prepotente che sembrava solo il riflesso fisico di un malessere che non sapeva esprimersi.

Lalami era una palla di pelo raccolta sul divano, al lato opposto, lo guardava inquieta e non aveva il coraggio di avvicinarlo. Il suo musino appuntito che ricordava una volpe era infossato nella sua coda e quegli occhietti vigili lo studiavano con un’attenzione che rasentava la paura. Quando beveva, il cane gli stava sempre a debita distanza, come non lo riconoscesse, e allora Demian ricambiava quelle occhiate intimorite con una pena infinita, per se stesso, per tutto ciò che amava in modo troppo maldestro per essere amore.

Lo prese un altro conato di vomito, non sapeva quanto fosse colpa dell’alcol e quanto di quella giornata del cazzo. Quanto di Claire, quanto di quella sua vita.

Quanto di maman.

 

Sta morendo

 

Faceva quasi ridere. Stava morendo da anni, eppure era una possibilità che veramente non poteva prendere forma, non attraverso i suoi occhi. Restava una verità sospesa e irreale, improbabile, messa in conto più per evenienza e convenzione che per una certezza.

Il cellulare ricominciò a vibrare.

Aggrappandosi allo schienale del divano si aiutò ad alzarsi, barcollò pericolosamente ed i contorni degli oggetti si sfaldarono e riunirono e separarono di nuovo, stritolandogli lo stomaco in un nuovo impulso a rigettare. Ciondolò verso la cucina, afferrò il telefono e interruppe quel rumore martellante rispondendo senza guardare il numero.

«Ehi! Buon giorno amante dei clichè!»

La voce così squillante e allegra lo colpì a tradimento, allontanò l’apparecchio dal viso e lo studiò assottigliando gli occhi, quasi cercasse di ricordare cosa fosse e come funzionasse. La verità era che non era sicuro di aver riconosciuto l’altra persona o, se ci aveva visto giusto, non poteva essere vero, sarebbe stato troppo ironico, un’altra presa in giro della vita.

«Annie?» biascicò, pronunciando la prima parola sensata dopo ore di sconclusionati borbottii. Scoprì di avere la bocca impastata, una sensazione sgradevole come se gli avessero fatto l’anestesia alla lingua.

La ragazza non gli rispose, non subito. Lasciò trascorrere un lungo momento di silenzio, e Demian sentì che le gambe iniziavano a flettersi, gelatinose e assolutamente non in grado di reggerlo ancora per molto.

«Cosa è successo» ogni traccia di ilarità si era dileguata, ed ora quella voce allegra si era fatta seria e indagatrice. Se fosse stato più lucido, avrebbe provato a leggerci altro, ma non riusciva a concentrarsi. Riusciva a pensare solo che era Arianna, ed era veramente ingiusto. Aveva atteso e desiderato fino allo sfinimento una sua chiamata, ed il grande momento era giunto solo ora che era troppo in aria per poterne gioire.

Registrò la domanda e si accorse, con sgomento, che non era una domanda, che quella ragazza aveva nei suoi riguardi un intuito spaventoso.

«Niente» borbottò.

Si sfregò gli occhi, la stanza non la smetteva di ondeggiare, si appoggiò al tavolo con la mano libera.

 

Una canna, ecco cosa devo farmi. Con una canna mi rilasso di sicuro

 

«Demian… hai bevuto?»

Si sentì punto sul vivo come se Arianna lo avesse fisicamente pungolato.

«Perché?» scattò sulla difensiva. Non capiva come lo avesse compreso, così da poche parole, ma si vergognava, era ancora sufficientemente lucido forse, per la vergogna.

«Perché ho visto persone sfondate dall’alcol abbastanza spesso da riconoscere subito quando qualcuno non è lucido» ribatté pratica «E il tuo “perché” da bambino che nasconde le caramelle è decisamente una conferma»

Tutte quelle parole dette con la rapidità della sua parlata, lo lasciarono stordito. Demian sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di mettere a fuoco quel discorso decisamente troppo articolato per la sua momentanea condizione.

«Ok, hai ragione» mormorò arreso.

Barcollò verso il divano, si lasciò cadere fra i cuscini e portò un braccio a coprirsi gli occhi. Così nascosto, il mondo smise un istante di girare, ma la testa pulsava e tutto andava male, lo stomaco si restringeva ancora e ancora e forse avrebbe vomitato.

Che importanza aveva negare l’ovvio?

C’era troppa luce e lui voleva solo finire di bere, in quella bottiglia nera ci vedeva tutto un senso.

«Cosa è successo Demi?»

«Niente» sussurrò. Mai una parola gli era parsa tanto vuota, così vuota che gli venne ancora l’assurdo desiderio di piangere.

«Tutto»

Arianna non rispose, poi Dem riconobbe uno dei suoi pesanti sospiri dal sapore della resa «Dimmi cosa devo fare»

Suonava categorico come un ordine e Demian pensò che fosse tipico di lei, che le si addicesse, perché Arianna parlava sempre con una sicurezza assoluta che la faceva apparire indistruttibile e irreale. Tutta quella sicurezza metteva solo in luce la propria debolezza, quella pateticità che cercava di nascondere ma restava comunque davanti ai suoi occhi senza che potesse contrastarla.

Lo faceva sentire a pezzi, non riuscì a frenare il pianto quieto che lo prese a tradimento, né ci provò, quasi non se ne accorse, era troppo ubriaco per avere la lucidità di biasimarsi. Desiderava solo qualcuno a cui appoggiarsi e un nascondiglio dove infossare il suo viso, come da bambino, quando cercava riparo nel collo di maman e la sua spalla sembrava l’unico porto sicuro di tutta la vita. Voleva essere cullato e che qualcuno gli dicesse che sarebbe andato tutto bene.

E non era importante che fosse vero, lui la verità non la voleva. Voleva essere illuso, voleva essere protetto, almeno un poco per una volta.

«Vieni qui Annie? Vieni da me…»

Gli mancò il fiato

«Ti prego… ti prego vieni da me, non lasciarmi solo»

«Arrivo subito. Metti via quella bottiglia Demi, siediti e aspettami»

La sua risposta arrivò immediata e senza ombra di esitazione, e il suo corpo rispose immediatamente a quella dolce fermezza, le spalle si sciolsero e Demian si raccolse. Il tono materno, melodioso di una sfumatura infantile, aveva un che di severo, ma la sua durezza riuscì solo a farlo sentire più tranquillo, era come se qualcun altro stesse prendendo il timone e lui potesse finalmente smetterla di preoccuparsi della direzione della sua nave.

«Aspettami, ti prometto che arrivo presto. Sono con te… non ti lascio Demi»

 

Guida tu Annie, fa’ quello che vuoi. Io la strada non la conosco più

 

 

 

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Capitolo 13
*** Il giorno più brutto ***


À Demian

Capitolo undicesimo

Il giorno più brutto








La casa della nonna, talvolta, era avvolta da una leggera caligine che ne sfumava i contorni.

Era un evento particolare, che si verificava d’inverno e che Demian associava al Natale, alle feste e alla famiglia. La nebbia s’infittiva, il sentiero di terra veniva inghiottito da un velo latteo e i campi in lontananza mutavano in un’indistinta macchia opaca, l’accenno di qualcosa di nascosto. Gli alberi allora erano solo ombre ritorte, abbozzi di mostri in un mondo incantato e spaventoso. Quando succedeva, Jenevieve lo accompagnava lungo la scogliera attraverso l’erba alta. Si fermavano vicino ad una panchina di legno mangiata dall’umidità che si affacciava sul mare e maman, con quel suo inafferrabile sorriso malandrino, lo aiutava a superare dei cespugli spinosi, per arrivare fino al limite fra terra e vuoto, dove non si poteva andare.

Lì, in quel piccolo spiazzo erboso, maman inclinava il capo all’indietro e Demian restava rannicchiato tra le sue gambe ad assorbire il calore.

La battigia della baia di Douarnenez, sempre umida e lucida d’acqua salmastra, distorceva le luci del porto, e la città di ombre rischiarata da lumini sospesi torreggiava velata sul mare color fumo.

Maman non lo guardava, ma lo stringeva fra le braccia, forte forte per non fargli sentire il freddo.

Era una sensazione simile, quella che gli intorpidiva il corpo e le braccia, l’impressione di quella stretta avvolgente, di un affetto un poco distante, appena percepibile.

Un calore di un tempo in cui era tanto piccolo che Sarah nemmeno era nata, e lui s’infilava nel lettone di maman mentre lei era fuori fino a tarda notte per lavoro. Sentiva sulla guancia la stessa morbidezza del cuscino a cui si aggrappava per cercare il suo profumo quando era lontana, le dita leggere intrecciate ai suoi capelli avevano la leggerezza delle carezze che riceveva quando, al rientro, maman lo riportava in dormiveglia nella sua cameretta e gli scostava i capelli per baciargli la fronte prima della buonanotte.  

Quel momento, piccolo frammento di gioia rubata, era vivido e puro come un sogno vissuto mille notti.

Si sentiva esattamente così ora, incredibilmente, inaspettatamente bene. Al caldo e al sicuro, avvolto da una morbidezza che sapeva di una madre mai esistita e solo sospirata, di un amore mai conosciuto. Avviluppato in una tenerezza protettiva dall’amaro retrogusto di una casa perduta. Non era ancora sveglio, ma in quello stato sospeso tra sonno e veglia in cui la realtà non si era definita ed era facile ritracciare i confini delle cose con le proprie memorie. Gli piaceva, crogiolarsi in quello stato di beatitudine, si sentiva così stanco che anche il solo pensiero di muovere un muscolo gli era insopportabile. La pesantezza del suo corpo in quel momento era sfiancante eppure gli donava una nuova tranquillità.

Quando cercò di alzarsi però, realizzò che non solo era affrancato a qualcosa, ma qualcosa era affrancato a lui. Strizzò gli occhi e alla prima luce che gli ferì le pupille gli venne subito un capogiro. Abbassò le palpebre e soppresse la nausea e il moto di debolezza che lo rendeva uno straccio. In casa non portava mai le lenti a contatto colorate e la luce traditrice era quella bassa e troppo calda del tramonto, che filtrando dalle finestre gettava nuove zone d’ombra nella sala.

Sussultò per la sorpresa, stava posando il capo sulle cosce di qualcuno, e non gli ci volle molto per capire che, per assurdo, quelle erano le gambe di Arianna. Per i suoi movimenti, la ragazza mugolò di protesta. Cercò di scivolare delicatamente fuori dalla sua presa, ma Annie si era addormentata in una posizione improbabile e lo circondava. La testa di lei penzolava debolmente in avanti, le palpebre distese disegnavano un sonno sereno e pacato e le labbra schiuse un’espressione infantile, coronata da un filo di bava all’angolo della bocca. Un sospetto lo spinse a toccare il cappuccio della felpa, che Dem ritrovò umido.

Storse la bocca.

 

Bene ma non benissimo. Mi ha sbausciato la felpa.

Sarebbe pure riuscita ad apparirgli come una visione, non fosse stato per quel piccolo, ed anche un pochino disgustoso, dettaglio.

Eppure riusciva a restare bella, così chinata su di lui, come a proteggerlo, con le lunghe ciglia nere che le accarezzavano la pelle tenera delle guance ed i suoi ricci che gli sfioravano il collo. Veniva voglia di tratteggiare il profilo morbido della mandibola con la punta delle dita, di svegliarla con un bacio, come nelle peggiori tradizioni di fiabe. Ma Annie non era la Bella Addormentata, e lui certamente non era un principe, era più che altro un Sidney Carton privato anche della possibilità di una redenzione e condannato solo al proprio vizio autodistruttivo e ad un amore non corrisposto. E come a confermare che di Carton era l’erede, la bocca era troppo impastata, come se il malto della birra stesse fermentandogli in bocca, a ricordargli che per il romanticismo di bassa lega non era il giusto momento.

Riuscì a sfuggire alle braccia sottili di Arianna, la guardò ancora, cercò di ricordare qualcosa delle ore precedenti ma l’eccessivo tasso alcolico doveva averlo steso. Sapeva di aver incontrato Claire, e che subito dopo, si era fermato in un supermercato e si era comprato due pacchi di du demon. Aveva sempre odiato quella birra, ogni sorso sapeva di benzina, ma in passato aveva già sperimentato che niente lo metteva al tappeto come quella roba, ed infatti non ne era rimasto deluso.

Era Arianna a sfuggirgli, lei e il fatto che, nonostante non se lo aspettasse, non era rimasto per nulla turbato dalla presenza di lei in casa sua. Troppo pesante, la testa di Annie, inclinata in avanti, trascinò con sé in maniera comica tutto il corpo. Demian arrestò la caduta rovinosa puntellando la sua fronte con un dito, il collo della ragazza si piegò grottescamente e finalmente Arianna spalancò gli occhi.

 

Ti prego, vieni da me, non lasciarmi solo

 

L’aveva chiamata lui, era stato lui a portarla a casa sua.

Arianna sbatté gli occhi un paio di volte, lo mise a fuoco e si sciolse subito in un sorriso raggiante, di quelli che le diottrie agli altri le bruciavano «Ben svegliato finalmente!»

Che una persona potesse sorridere in maniera tanto spontanea e sincera sapeva di miracolo, se non la avesse avuta davanti, se non fosse stato tanto palese che in lei scorreva costante una sottile vena d’entusiasmo inspiegato, Demian non ci avrebbe creduto. Avrebbe pensato fosse solo una falsa e un’ipocrita.

«Come va il tuo mal di testa, piccolo ubriacone?»

Abbozzò un accenno di sorriso, offuscato dall’imbarazzo «Potrebbe andare meglio»

 

«Aspetta, ti prometto che arriverò presto. Non ti lascio, Demi»

 

Iniziava a sovvenirgli ciò che si erano detti, il proprio tono, affranto e infantile, lo metteva ora in un certo imbarazzo

 

«Demi, devi dirmi il tuo indirizzo. Riesci a ricordarlo?

«No»

«Non posso venire da te se non mi dici dove sei. Concentrati, su! Se non mi dai il tuo indirizzo non riuscirò a trovarti»

 

La nausea lo aveva sfibrato e il senso di vomito aveva fatto il resto. Era riuscito a snebbiarsi il necessario per dirle ciò che doveva, poi non ricordava granché. Solo Arianna, che gli ripeteva di restare sveglio, eppure proprio la sua voce doveva aver spinto le palpebre pesanti a cedere del tutto.

 

«Mi piace la tua voce, Annie»

«Continuerò a parlarti allora, ma tu ascoltami e resta sveglio, non ho idea di quanto hai bevuto»

«…sì…»

 

Che Arianna fosse lì aveva un senso, si era precipitata non appena aveva sentito il suo bisogno, c’era qualcosa di commovente oltre l’imbarazzo, quegli occhi grandi così carichi di aspettativa, il capo appena proteso verso di lui, smuovevano una tenerezza infinita. A pochi centimetri, le iridi erano verdi come i fili d’erba toccati dal sole dopo una giornata di pioggia.

Estraniavano, non poteva credere che in natura fosse possibile una tale sfumatura. Per un istante, respirare gli sembrò impossibile. Poi, Arianna si stiracchiò come un gatto, protendendo le braccia e il corpo in avanti, e quel gesto banale spezzò l’incredibile ascendente di quel suo sguardo da felino indolente che lo soggiogava. Istintivamente, Demian si riappropriò delle sue gambe, nascose il volto contro i jeans di Annie e così protetto dal suo sguardo pungente si sentì riparato. Sfregò la guancia contro di lei, mugolando piano, in sottili fusa di apprezzamento, ad occhi chiusi per godersi l’attimo. Arianna non reagì subito, il suo corpo in un primo momento si era irrigidito, ma dopo una manciata di dilatati secondi, la ragazza intrecciò le dita magre ai suoi capelli, in movimenti lenti ed esasperanti che ricordavano le dolci attenzioni di una madre paziente.

Demian non ci vedeva nulla di Jenevieve in Arianna, né lo desiderava, tutto ciò che voleva era quel tipo disinteressato di conforto ed affetto, in una forma totalmente gratuita e forse, proprio per questo, incredibilmente appagante. Alzò piano una palpebra, per poterla sbirciare di nascosto, eppure la visione che lo colse gli lasciò un brivido freddo di spaesamento.

Stava sorridendo.

Arianna sorrideva sempre, sembrava non sapesse fare altro, sorrideva in continuazione, e nonostante quell’espressione di ostentata serenità era facile cogliere l’ombra scura nel suo sguardo, una macchia di umida malinconia che si spandeva nell’iride chiara e sporcava la piega morbida delle labbra di un’angoscia inspiegata. Anche quando non voleva pensarci, era inevitabile per lui percepire quell’impressione costante nei riguardi di Annie: la osservava e in lei vedeva due anime opposte che dilaniavano un corpo fragile.

«Sono già le sei» constatò Arianna dopo un’occhiata rapida al proprio orologio da polso, abbassando le spalle con la stessa resa con cui si abbassa una difesa per mostrare sconforto «Io e te le giornate le bruciamo, non sappiamo proprio sfruttare il tempo» ridacchiò appena, ma non sembrava una risata felice, e Demian accennò un sorriso di circostanza vuoto e confuso.

«Mi piacerebbe stare sempre così»

«Dovresti lavarti Demi, puzzi di alcol, sei quasi insopportabile» ghignò come la strega Salamandra davanti al suo imbarazzo, e gli pizzicò un fianco, forte abbastanza da farlo sussultare. Arricciò il naso, si sforzò di sentire il proprio odore, ma più pungente dell’olezzo che lo accompagnava e a cui era probabilmente assuefatto, c’era il profumo di detersivo. Sollevò il collo della maglia, lo portò al viso e storse la bocca per la vergogna.

 

Ricordo i barboni della stazione, fantastico

 

In tutto questo, Arianna non aveva smesso di osservarlo, le sopracciglia espressive sollevate e le labbra bagnate da un ghigno malizioso che riusciva a metterlo in un imbarazzo tragico, quasi epocale. Dovette provare per lui una minima forma di pietà però, perché non infierì oltre, si limitò a ridacchiare piano, accarezzandogli ancora i capelli e la fronte, con un’indulgenza tenera riservata ad una creatura fragile. Questo forse, era ancora più svilente.

Piegò la testa, osservò la stanza pur di non guardarla, e si rese conto che le bottiglie che avevano accompagnato il suo abituale tentativo di discesa nell’autodistruzione erano sparite. La sala era tirata a lucido, l’orrida macchia di birra sul tappeto si era ridotta ad un alone scuro.

«Quando sono arrivata, ti eri addormentato. Ah, giusto per avvisarti in caso i vicini sospettino qualcosa, per entrare ho scavalcato il cancello! Dovresti chiudere la porta a chiave, sai? Chiunque potrebbe entrare se lasci tutto aperto!»

«Se parli in questo modo, mia madre finisci con il sembrarla davvero»

Sarebbe stata una donna petulante ed una madre asfissiante in futuro, gli sembrava già di poterla vedere, eppure più che fastidio, quell’adolescente bambina riusciva a strappare un sorriso. Arianna gli fece una pernacchia, dondolando la testa «Sei un ingrato, ho pulito tutto da cima a fondo. Non che avessi troppo da fare, mentre dormivi»

«Non avresti dovuto, non eri tenuta»

La vide adombrarsi ancora e mordersi le labbra, gli incisivi separati davano al suo volto magro un aspetto dimesso e delicato, terribilmente infantile. Si allontanò da lei, per prendere le distanze, perché d’improvviso la consapevolezza del suo corpo esile, la portata della sua presenza in un momento così soverchiante della sua vita, gli franò addosso.

Se quel suo brusco gesto l’aveva turbata, Arianna non lo diede a vedere, c’era un pensiero nei suoi occhi, il filo di un aquilone che stava per scivolare via, e lei era troppo indecisa, non sapeva se afferrarlo e trascinarlo a terra, dove avrebbe dovuto condividerlo con lui, o perderlo per il momento, e sperare di ritrovarlo in futuro, chissà quando.

«Ti lamenti molto, quando dormi» iniziò, come un’osservazione casuale, ma poi arrossì, e Demian sentì il corpo farsi di sale. Non c’era nulla di casuale.

«A volte» sussurrò, e la bocca non era più solo impastata, sembrava impossibile articolare i suoni ormai.

Si fissarono in silenzio per una manciata di lunghissimi secondi. Non aveva il coraggio di chiedere nulla, nemmeno riusciva ad immaginare cosa avrebbe potuto aver detto, non ricordava di aver sognato, era solo stanco e la mente una tavola bianca, un reticolo di nebbia che non gli permetteva di focalizzare nulla.

«Hai chiamato Sarah» lo disse alla fine, ritrovando un tono risoluto che Demian non sapeva spiegarsi. Non riusciva a spiegarsi come Arianna riuscisse a non tirarsi mai indietro, anche quando l’argomento era spinoso, la situazione scomoda. Se succedeva, si limitava ad affrontarla, guardandolo sempre negli occhi, così categorica e determinata da risultare spaventosa.

«Sarah è tua sorella, non è vero?» gli domandò con un sospiro rassegnato, la rassegnazione di chi aveva già compreso che parlare sarebbe stato duro, quasi impossibile.

Demian la fissava come faceva con le ombre della sua cameretta che s’ingigantivano nella penombra e lo terrorizzavano da bambino. Cercò di deglutire, ma non ci riuscì, la bocca era secca e il suo corpo aveva cessato funzioni basilari come la salivazione.

«Lo sai già, no? Sai già tutto. Cos’è, sei andata in giro a fare domande? Hai chiesto a qualcuno di quel caso umano con la madre con un piede nella fossa? Scommetto che ne avrai sentite di cose interessanti, ne hanno di aneddoti da raccontare»

La sfidò con tutto lo sprezzo che riuscì a mettere dentro ogni sillaba, la voce venefica vibrava di una noncuranza calcolata che mirava a ferirla. Voleva che se ne andasse, che gettasse la spugna, lo mandasse a quel paese e uscisse da quella casa per non ritornarci mai più.

Non sopportava il nome della sorella detto da lei, non poteva sopportare che la conoscesse.

Arianna non fece una piega «Sì, ne ho sentite. Ma io l’ho chiesto a te»                  

Non si era minimamente scomposta e questo lo prese in contropiede, facendolo vacillare. Nessuna smorfia, nessuna contrazione delle mani, era completamente immune alla sua ritrosia, Demian non trovava altra spiegazione. Forse, nemmeno lo ascoltava, lo ignorava e lo trattava con la condiscendenza che si dedica ad un bambino capriccioso.

«Non ti ho dato il permesso di parlare di lei»

«Demi, che cosa ha Sarah?»

Cercò di sorridere con sarcasmo, ma gli uscì una smorfia amara «Hai parlato con maman, non te lo ha detto?»

Arianna sbuffò «È così difficile rispondere?»

La guardò in tralice e pensò che l’espressione seria non le si addiceva, che era troppo spietata, a voler sapere a tutti i costi qualcosa di tanto penoso, soprattutto in quel frangente, mentre già si sentiva fin troppo provato.

«È malata. Punto. E tu dovresti andare a casa»

Scattò in piedi e le diede la schiena per frapporre tra loro una maggiore distanza fisica, che lo aiutasse a placare la nauseante repulsione che sentiva per lei. Odiava quell’integrità, voleva che lei lo odiasse, doveva ricambiarlo e sparire, il solo pensiero che si fosse già spinta tanto a fondo da chiedergli di Sarah lo turbava troppo profondamente.

 

Perché mi fai questo, perché se già sai?

Io lo so che maman ti ha detto tutto, ne sono sicuro.

 

La sentì ridere con una spontaneità destabilizzante che gli irrigidì ogni muscolo e lo fece deglutire a stento. Non ebbe il coraggio di voltarsi a guardarla, assorbì quella risata sottile come uno scampanellio di scacciapensieri mossi dal vento.

«Demi, facciamo uno scambio equivalente? Io ti parlo di me, se tu mi parli di te. È equo, no?»

Demian esitò, trovò l’audacia di girarsi.

Era seduta, leggermente in penombra perché la luce bassa del tramonto si era quasi del tutto ritirata dalla sala e si infiltrava appena come filamenti luminosi tra le tapparelle a mezza altezza, spaccando in ragnatele chiare la stanza scura. Aveva i capelli raccolti in una coda che le scopriva la fronte, se ne accorgeva solo ora che ci prestava attenzione, come se fino a quel momento non l’avesse vista davvero. Un foulard spuntava tra i ricci incolti, forse a ricami floreali o a macchie di colore, e nella sua salopette di jeans larga le sue braccia sottili e le spalle raccolte sembravano minuscole, mangiate dall’eccesso di stoffa. Stava osservando un piccolo spaventapasseri dal sorriso grande, una creatura contro cui pareva vergognoso arrabbiarsi, perché aveva in sé l’atteggiamento di una bambina dispettosa e irriverente, a cui era impossibile prestare un rimprovero.

Ci si poteva fidare di una persona così? E se la risposta fosse stata anche sì, perché allora sentiva dentro una tale diffidenza? Soppesò rapidamente i pro e i contro di quella strana situazione: Arianna si era presa cura di lui, senza motivo e senza tornaconto, per un intero pomeriggio; d’altro canto, dava la sensazione sgradevole, con quella sua indifferenza spietata che su di lui aveva lo stesso effetto di una mattonata in faccia, di volerlo incastrare, anche se gli sfuggiva il come e il perché. “dovevo incuriosirti”, era questo che gli aveva detto una volta. Anche in quel momento aveva scommesso tutto sulla sua assurda curiosità per lei, era furba.

Aveva già capito tutto, lo incatenava così, banalmente, solo con la curiosità intrinseca che era in grado di produrre con quella sua aria intonsa da fata che attraversa un mondo mortale in punta di piedi. Storse la bocca, realizzò che Arianna e Sarah in comune avevano molto, avevano un modo di vivere che gli sarebbe stato sempre incomprensibile.

Arianna appoggiò i gomiti alle ginocchia, si chinò in avanti e raccolse il viso morbido nelle mani a coppa. Giocava con il labbro inferiore, lo torturava e liberava solo per riprenderlo. Ad un tratto si scosse, come un animaletto che si scrollava di dosso l’acqua, si scrollò di dosso ogni incertezza, lo fissò ancora negli occhi e Demian capì immediatamente che doveva prepararsi ad incassare.

«Io non sono un genio e di solito mi faccio gli affari miei. Per essere precisi, mi faccio sempre gli affari miei» affilò gli occhi da gatta, soppesandolo «Ma ti è mai successo di sentire che non puoi lasciar perdere? Ecco, è questo che penso. Non riesco a smettere di pensare che lasciar perdere sarebbe la più grande scemenza della mia vita» inclinò la testolina ed i ricci, quell’unica, lucida massa compatta scura come l’ebano con quella luce, la seguirono «Però proprio non riesco a capire e non sono sicura di come si debba fare, a non lasciar perdere. Non è solo che Sarah è malata, a farti stare male. Quella mi sembra solo la punta dell’iceberg, ed io non so vedere così a fondo, però lo capisco che c’è un fondo. Il tuo senso di colpa non è giustificabile con la sola malattia di tua sorella»

In un primo momento, l’impatto lo lasciò comunque a bocca aperta. Anche a prepararsi, Arianna non era prevedibile, era difficile armarsi contro di lei, ma soprattutto contro le sue considerazioni, dette con la semplicità delle cose ovvie, eppure ovvie per nulla.

Nessuno si era mai accorto, e se anche qualcuno avesse notato quella sua verità nascosta, nessuno aveva mai avuto il coraggio di chiedergli, anche indirettamente, cosa covasse sotto tutto il suo amore per quella bambina.

«Tu non sai nulla» digrignò i denti.

«Sarebbe strano se lo sapessi, non ti pare?» gli sorrise ancora, e ancora in lei prevaleva quella sottile indulgenza che sembrava perdonargli tutto e lo indisponeva tanto «Che cosa ti fa sentire così responsabile?»

«Io sono responsabile di Sarah. Sono suo fratello, non ci deve essere un motivo» cercò disperatamente di dirlo con convinzione. Era quasi spaventoso, che fosse in grado di cogliere le gradazioni che alteravano la superficie della sua anima, Demian stesso non ne sarebbe stato capace, ma ora che lei aveva scelto quella parola precisa fra le tante, si rendeva conto che era proprio così che si sentiva, schiacciato per una vita intera, corta, miserabile vita, da quella responsabilità che ormai coincideva con lui stesso.

Arianna era spaventosa, faceva paura.

«Io non credo che tu sia così responsabile, qualunque cosa sia successa»

Gli venne da ridere, una risata terribilmente isterica e spiritata. Doveva portarsi ancora dietro gli strascichi della sbronza, non trovava altra spiegazione al magone bastardo che gli aveva appena annodato la gola.

 

Sarah una vita normale non potrà mai averla

Non so nemmeno se avrà una vita

 

Tutta la sua punizione e la sua redenzione si racchiudeva nella vita labile di sua sorella, spiegare cosa potesse significare, quanto fosse invivibile e opprimente questo per lui, era impossibile.

«Certo che lo sono» la voce gli cedette, tutta la collera che si era gonfiata in un fiume in piena pronto a schiantarsi su di lei, si ridusse ad un rivolo di panico.

«Ehi» Annie lo richiamò, sembrava dolente, il suo sorriso era più pacato ed empatico, e per un momento Demian si sentì ancora sulla panchina del parco, quella sera, quando un filo li aveva uniti e parlare era diventato, se non più facile, necessario.

Non importava quanto il baratro fosse profondo e le vertigini gli procurassero nausea, con quel filo di ragnatela sottile e delicato che creava un ponte tra loro, la verità diventava impossibile da occultare e l’odio si placava nella disperata ricerca di comprensione.

«Sono qui» gli tese una mano, proprio come quella sera, e vederla piccola e pallida nel crepuscolo dalle sfumature azzurrognole, gli fece pensare a Sarah, alla sua pelle cianotica e trasparente, quando stava peggio. La curiosità lo spinse ad avvicinarsi, sfiorarla piano, con circospezione. Sembrava davvero la mano di una bambina, senza tendini e muscoli, liscia e rotonda nelle forme.

«So anche ascoltare» gli disse, sollevando l’angolo della bocca, come a imitare la sua smorfia provocatrice. Se aveva capito qualcosa di lei, probabilmente era vero che gli stava facendo il verso, era il suo modo personale di sdrammatizzare e prendersi gioco di lui.

«Lo sai. Sarah soffre di problemi cardiaci. Ci è nata, non c’è molto che si possa fare al momento. È in lista per un trapianto da anni, ma non è così semplice, in fondo non lo è mai niente, no? È così delicata, che ho perso il conto dei ricoveri»

Non che potesse perdere il conto sul serio. L’ultimo anno prima che maman si ammalasse, Sarah aveva quattro anni e loro avevano vissuto più in ospedale che a casa. L’immagine della mamma un po’ china mentre portava sua sorella al trotto e la faceva giocare trasformandosi nelle gambe che la bimba non poteva usare, era impressa come un marchio a fuoco nella sua memoria.

La mano di Annie scivolò via dalla sua, la ragazza stava scuotendo il capo, contrariata.

«Non voglio sapere cosa Sarah ha clinicamente, voglio sapere cosa è Sarah per te. Credo che dovresti dirlo a voce. Perché te lo giuro, hai l’aria di uno che non lo ha mai detto. Certe cose, finché non le dici sul serio invece che limitarti a pensarle, non diventano definite. Puoi ancora nascondertele. E se ti nascondi qualcosa del genere, non riuscirai mai a superarlo. Non girarci intorno» si addolcì sul finale, Demian abbassò la testa.

Cercò le parole che non gli erano mai uscite, erano molte le cose che non poteva dire. Quando era bambino, quella era una di quelle cose che lo facevano vergognare tanto, troppo per avere il coraggio di dirlo a qualcuno. Nemmeno Julian lo sapeva, se la zia ne era a conoscenza era solo perché maman con lei condivideva tanto, praticamente tutto. Lui però non aveva mai imparato a condividere niente, e l’accumulo di quel tutto lo faceva sprofondare.

«Cosa le hai fatto, per sentirti così?»

C’era qualcosa di comico, una cosmica presa in giro. Concretamente sarebbe quasi potuto sembrare che non le avesse fatto nulla, che non potesse avere quel potere quando era solo un marmocchio incapace, in grado sempre e solo di assistere alle brutture perpetrate da quell’uomo. Eppure, il suo torto era il peggiore.

«L’ho odiata»

Ammetterlo lo lasciò senza fiato.

Si lasciò cadere a terra, ai piedi del divano. Si rannicchiò nella conca dell’angolo, portò le mani ai capelli e ci si aggrappò con una cattiveria dolorosa. Poi rise senza un motivo, si vergognava così tanto che poteva solo ridere di se stesso.

Annie era rimasta in silenzio, così lo ripeté, per farle capire quanto fosse vile e rivoltante.

«Io la odiavo» il ricordo feriva ancora nello stesso identico modo spietato, proprio come quando era lui ad avere cinque anni ed era un ammasso informe di paure primordiali e ossessioni che già delineavano l’omuncolo che era destinato ad essere «E lei nemmeno era nata. Ma odiarla era facile, era più semplice odiare Sarah, piuttosto che ammettere che quello non mi volesse bene perché in me qualcosa non andava»

Si piegò su se stesso, incastrò la testa tra le ginocchia e con le mani sulla testa pensò che avrebbe voluto potersi riassorbire, proprio come un buco nero, una stella pronta a implodere.

«Non sono sicura di aver capito»

«Perché non puoi! Come potresti, tu non lo sai che bestia era!»

 

E Sarah, pur non volendo, sarà sempre legata a lui.

La sua stessa malattia è legata a lui

«Io gli ho permesso di farle del male, è questa la mia colpa. È a questo che mi ha portato essere geloso di lei»

Arianna era confusa, c’era quasi una vena di panico in lei, Demian comprese senza difficoltà il motivo: lo vedeva sprofondare in un’agitazione compulsiva e non sapeva se toccarlo. Restava protesa verso di lui, incerta, e le labbra schiuse tradivano l’indecisione delle parole.

Scoprì che voleva che lei capisse, perché non era pazzo, era la sua ferita più grande e se Arianna non lo capiva dopo averlo messo davanti ad una tale voragine di fragilità, non sapeva se l’avrebbe sopportato.

Strinse con più violenza i capelli «Il giorno più brutto è il giorno in cui è nata Sarah»

Annie s’acquietò tutto d’un tratto, gli occhi spalancati sulla sua perplessità.

«Sarah è nata prematura, fu un incidente. Tu non lo sai quanto la odiavo. Lo sapevo che lui l’avrebbe preferita, che mi avrebbe sostituito, perché io ero un malato del cazzo e di un peso del genere non se ne faceva nulla»

Gli sfuggì un singhiozzo, una costernazione che straripò tutta insieme. Fu incredibilmente semplice, all’improvviso, dirle ogni cosa. Dirle che quell’infanzia era ricca di ricordi slabbrati e stinti, ma quell’unico giorno era fin troppo nitido, il più avvilente della sua vita.

«Un figlio non dovrebbe mai vedere una madre umiliata dal proprio padre»

No, un figlio non avrebbe mai dovuto assistere a certe forme di violenza. Per questo non era mai riuscito a dire a nessuno che i suoi genitori litigavano tanto, sempre. Non era mai riuscito a dire che quell’uomo picchiava maman, e nella sua ingenuità di bambino aveva creduto che nascondersi nel sottoscala e coprirsi gli occhi e le orecchie bastasse a dimenticare.

A fingere che non fosse mai accaduto.

Eppure, per quanto desiderasse, non aveva potuto scordare il bastardo che li aveva abbandonati, non aveva potuto dimenticare quel ventisette dicembre dei suoi sei anni. Non ricordava le parole, quelle no, erano sfumate, ma restavano impresse vividamente nella sua mente le voci, la rabbia crudele di sua madre, le urla. Maman diventava cattiva quando perdeva il controllo, diceva cose in cui magari non credeva, lo faceva per ferire.

Lui invece la minacciava.

La minacciava di tacere, di smetterla, si esasperava e voleva sopraffarla, ma maman era una donna forte, che non stava mai zitta, non si tirava indietro e non permetteva a nessuno di schiacciarla. Così negli anni le urla erano diventate spinte, alle spinte si erano aggiunte le mani.

L’aveva picchiata più volte, ne conservava frammenti confusi ma vividi, come vivida era stata la paura. La prima volta erano in bagno, Jenevieve l’aveva fatto sedere sul mobile accanto al lavandino, gli cantava una filastrocca infantile per convincerlo a tagliarsi le unghie. Poi era arrivato suo padre. Non aveva mai saputo il motivo di quel gesto, da lì però la situazione era degenerata e scivolata in una spirale di violenza che lo aveva fatto sentire minuscolo e inutile, terrorizzato.

Maman non si fermava, più le violenze aumentavano, più lei si infervorava e lo feriva, metterle le mani addosso era diventata l’unica soluzione che quel maledetto aveva trovato per prevaricarla quando non ci riusciva con le parole.

«Maman ha sempre avuto un brutto carattere» quanto mancava il respiro, ad ammetterlo, ammettere che con quella sua meschinità aveva aggredito anche lui, non solo quello che era stato suo padre, e lo aveva umiliato, perché quello era l’unico modo di insegnare che Jenevieve aveva trovato.

«Avrei voluto proteggerla. Ero un inutile nano da giardino, buono solo a piagnucolare, ma persino io avevo capito che la sua rabbia non l’avrebbe difesa dal dolore fisico. Poteva essere coraggiosa e forte quanto voleva, ma fisicamente davanti a lui era minuscola»

Aveva chiuso gli occhi, e gli sembrava di scivolare di nuovo a quella mattina, davanti al pianoforte lucido e aperto, i tasti bianchi e neri esposti come un sorriso perverso di uno stregatto ingannatore. Poteva ancora sentire le note suonate da maman, e il tono alterato, l’odio che serpeggiava tra loro quando litigavano. Se gli occhi erano chiusi, lo rivedeva mentre con la sua ombra sovrastava maman, piccola, fragile con le sue braccina sottili e la pancia pronunciata.

Quella pancia era Sarah.

Quegli spintoni erano l’inizio della fine. La mamma piangeva disperatamente, con una furia inedita persino per lei.

«Odiavo che le facesse del male, io ci provavo a tenerlo lontano da lei»

Non ci era riuscito però, maman era caduta, una scivolata così banale da sembrare ridicola. Solo che non era stata banale, era stato un incubo. Sbattendo contro il pianoforte non era riuscita ad attutire la caduta, aveva urlato di dolore, quel grido gli era rimasto dentro. Poi erano solo frammenti di memorie e di sangue, tanto sangue, dappertutto.

«Era maman a sanguinare»

Lo pervase una calma assoluta, una rassegnazione esasperata. Liberò i capelli, abbandonò il nascondiglio delle sue ginocchia e scoprì che Arianna era una bambola trascurata e turbata davanti a lui, immobile. Le sorrise mestamente

«Sarah è nata a sei mesi, per colpa di suo padre»

Era sua sorella, avrebbe dovuto difenderla da un male a cui non era preparata, ma non lo aveva fatto.

«Ero troppo geloso di lei. Geloso che potesse essere amata da quello come io non ero riuscito a farmi amare»

Ed invece, era stato proprio lui, che l’aveva messa al mondo e avrebbe dovuto amarla più di ogni altra cosa, a rovinarle la vita.

«Non l’ho più visto da allora. Sono stato dalla zia, mentre maman era in ospedale. Quando l’hanno dimessa e siamo tornati a casa, lui non c’era più. Se ne era andato e aveva portato via tutto ciò che testimoniava la sua esistenza»

Scosse il capo, quasi ridendo, perché gli veniva da piangere ancora, tanto tutto era stato ridicolo e paradossale.

«l’aveva detto una volta, che non avrebbe sopportato di avere un altro figlio malato. È stato onesto, non mentiva. Non ci ha più cercato»

Non era stato presente nemmeno per sapere se sua figlia ce l’avesse fatta, non aveva vissuto i mesi di ansia con il terrore che Sarah potesse non vivere, non sapeva cosa significasse, restare oltre un vetro a guardare quella piccola figura nell’incubatrice e pensare che era sola, che aveva perso la persona che più di tutti doveva proteggerla. Capire che, allora, se non ci fosse stato un padre, sarebbe stato lui il nuovo scudo e non avrebbe permesso più a nessuno di ferirla in quel mondo di merda che l’aveva tradita prima ancora che vedesse la luce.

«Sarah era forte già allora, è sopravvissuta nonostante tutto»

Nonostante il suo cuore.

Il suo cuore debole, che non aveva avuto il tempo di svilupparsi come avrebbe dovuto.

«Ha perso tutto prima di nascere, ed io ho avuto il coraggio di essere invidioso di lei. Forse, sarebbe stato diverso, se non l’avessi odiata, se fossi stato meno egoista. Ora lei ha solo me, ed io ho solo lei. Ho già rischiato di perderla…»

Non sapeva come spiegare il vuoto di quel giorno, quando Julian gli si era accostato e Demian aveva pianto come non si era più permesso dopo. Sapeva che il cuore di Sarah probabilmente non avrebbe retto, lo avevano detto i medici. In quel momento poteva anche apparire tutto normale, ma gli interventi alle spalle, l’edema che quasi l’aveva uccisa a quattro anni, erano cose che non riusciva a fingere non ci fossero state.

 

Senza di lei non ce la faccio

No, non era un qualcosa che potesse spiegare a voce, era solo la certezza assoluta che se avesse perso Sarah qualcosa dentro si sarebbe spezzato inesorabilmente, per sempre, senza speranza di tornare integro. Cosa poteva comportare questa rottura, nemmeno lui osava pensarci né voleva davvero saperlo.

Annie allungò una mano verso il suo viso.

Pensò di scansarsi, per istinto, ma poi, con un gesto delicato del pollice, Arianna strofinò una lacrima sulla sua pelle. Allora capì di aver ricominciato a piangere. Succedeva, se pensava troppo a sua sorella, era uno di quei pensieri dolorosi che corrodevano, come una goccia d’acqua che picchiava sempre nello stesso punto e scavava il cervello.

Anche Arianna piangeva, doveva averla ferita.

Questa era una delle ragioni per cui non raccontava mai quella fetta specifica della sua vita: non voleva suscitare pietà e pena, non voleva apparire un debole, un omuncolo pietoso che provocava sorrisi compassati di disagio.

Piuttosto, era più semplice non pensare a nulla e fingere di non sentire nulla, essere disprezzato per il suo menefreghismo che compatito per la tristezza che trasmetteva. Aveva ancora abbastanza amor proprio per cercare di difendersi dagli sguardi indiscreti delle persone a cui in realtà non importava niente.

«Ehi» Arianna lo richiamò con un mormorio sconsolato, velato da un leggero senso di colpa.

Però lo fissava ancora, dritto in viso, pure con quelle due grosse lacrime che stavano rotolando piano sulle guance rosse come piccoli ciottoli da una scarpata.

«Non è colpa tua»

Gli venne da ridere «Cosa?»

Abbassò gli occhi, non riusciva a reggere la serietà con cui veniva scrutato, l’incrollabile certezza che guidava Arianna era destabilizzante e faceva davvero paura, a qualcuno come lui, qualcuno che nella vita non aveva idea di come muoversi.

«Sono seria Demi, non è colpa tua, eri un bambino. Non avresti potuto fare nulla nemmeno volendo»

Razionalmente lo sapeva.

Nella realtà la razionalità non trovava posto.

Cercò di sorriderle più genuinamente, di annuire pure, ma gli sfuggì un singhiozzo. Arianna si sporse, lo avvolse con le sue braccia sottili e Demian nascose il viso nel suo collo e pianse. Da molto tempo non si sfogava così liberamente, senza freni e senza alcol, e fu strano sentire il fiato che mancava, le lacrime che si raccoglievano in gola in un peso soffocante, e allo stesso tempo sentirsi svuotare, privo di ogni energia, mentre si accasciava completamente sul suo corpo, con un’innocenza che non aveva più provato con nessuno.

Si sentiva davvero un bambino, provava la stessa leggerezza di quando si sfogava nei giochi con tutto se stesso e correva come un matto sulle scogliere e la spiaggia, e poi quasi non si reggeva in piedi e Julian lo portava in spalla fino a casa. Nello stesso modo si acquietò su Arianna, il respiro smise di tremare e ad un tratto, il pianto era diventato una semplice linea traslucida in controluce. Arianna, con le sue mani leggere, un po’ goffe, gli asciugò le guance umide. La pelle tirava, ma Annie sorrideva tranquilla ed ogni disagio passava in secondo piano, se lei sorrideva in quel modo così onesto e sereno.

«Ora stai meglio» sentenziò, con la solita certezza assoluta che ormai Demian associava già a lei e solo a lei «E non mentirmi, lo so che stai meglio. Sfogarsi ti toglie le energie per poter star male»

Riuscì a farlo ridacchiare con quel tono da maestrina esperta. Annuì debolmente, perché in realtà aveva ragione, era così sfibrato da sentirsi vuoto, ma non di un vuoto annichilente, semplicemente libero da emozioni opprimenti, eccessivamente forti.

«Dai, ora concentrati» rise lei «Hai a disposizione una domanda. Una sola! Quindi giocatela bene!»

Una domanda

 

Eccola, esuberante ed esasperante insieme, lo guardava con l’aria furbetta e una luce giocosa nelle iridi chiare. Arianna assomigliava davvero troppo a sua sorella, c’era qualcosa in lei che gli richiamava in qualche maniera la bambina, e forse proprio per questo aveva trovato gradevole, accettabile ed ora quasi indispensabile la prima, perché già era abituato alla seconda.

Erano molte le cose che avrebbe voluto chiederle, avrebbe voluto sapere perché fosse tanto sibillina, così criptica con quel sorriso da Esmeralda che ingannava e lasciava intendere che ci fosse sempre un segreto da qualche parte, ben custodito e irraggiungibile. Avrebbe voluto chiederle quale fosse, quel segreto, e di dividerlo con lui, come lui stesso aveva appena fatto.

Ci rifletté in silenzio, la osservò mentre le sue labbra da bambina restavano incurvate in una piega inafferrabile che lo confondeva e lo faceva sentire insicuro e al contempo più stabile. Con quello stratagemma sciocco, Arianna lo aveva distratto.

L’aveva colto: aveva letto il suo disagio ed era riuscita in qualche modo a colmarlo, questo lo scioccò abbastanza da non dargli ancora una volta, possibilità di replica immediata. Come faceva ad intuire quale sentiero fosse meglio seguire con lui, restava un mistero.

«La foglia» sussurrò, come illuminato all’improvviso.

Arianna inclinò la testa e con un gesto del mento lo invitò a proseguire, sebbene perplessa.

«Quel giorno in ospedale. Quando ero con Elena»

«L’adorabile nonché pudica infermiera?» lo pungolò con la solita precisione millimetrica, costringendolo a chinare gli occhi per contenere l’impaccio «Sì, proprio lei. Quando sei andata via hai lasciato una foglia. Tu…» si morse l’interno della guancia e con voce più labile chiese «Che cosa stavi facendo?»

Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiederle, quella era forse la più stupida. Eppure si era tormentato per cercare di capirla, era persino arrivato ad idealizzare un’azione tanto banale e aveva bisogno, ora, di ridimensionarla, per riportare quella ragazzina strana in una dimensione terrena più concreta e accessibile.

Arianna si lasciò andare ad una risata profondamente divertita, che però non riusciva a nascondere l’imbarazzo. La guardò alzarsi in piedi, passarsi una mano tra i capelli, muoversi con un certo nervosismo «Cavolo, e io che speravo non te ne fossi accorto!» si giustificò.

Si era allontanata da lui, la luce era poca, un alone giallo proveniente dal lampione acceso fuori, sulla strada. Non riusciva più a leggerle le espressioni se poneva tra loro una distanza. Era quella manina tra i ricci scompigliati, in un gesto irrequieto, a tradirla.

«Domanda di riserva?» lo supplicò.

Dem fece scattare l’interruttore e la luce artificiale delle lampade inondò il viso di Arianna, accentuandone il pallore e dando una sfumatura languida agli occhi da cucciola volta a intenerirlo. Era bella davvero, incredibilmente, la sua espressività aveva un ascendente su di lui che non avrebbe creduto possibile, perché fino ad allora era stato proprio solo di Sarah, tutto quel potere. Ed invece, quella ragazzina dall’aria sfatta e disordinata possedeva il medesimo dono di muoverlo a pietà. Si morse l’interno della guancia, poi sfoderò il suo miglior ghigno provocatore

«Una domanda per una domanda, giusto? Scambio equivalente» le fece il verso, profondamente divertito dalla faccia di Annie, che si sciolse subito in una smorfia. La ragazza sospirò sconfitta, scuotendo piano la testa «Touché, hai vinto»

Prese un grande respiro, come stesse per confessare un delitto «Sì, raccoglievo foglie. No, non sono un’idiota!» aggiunse dopo aver visto il sorrisino derisorio che già si disegnava sulle sue labbra. Demian ne rise, alzò il sopracciglio per calcare ulteriormente la sua confusione e metterla a disagio «Delucidami»

Arianna gonfiò le guance in un moto di stizza «Tengo un diario, ok? Un banalissimo diario, ci scrivo le cose e ci incollo qualunque cosa io associ alla giornata. Quel giorno era un perfetto giorno autunnale. Non volevo dimenticarlo» incrociò le braccia al petto e gli sembrò tanto un piccolo riccio offeso che in lui nacque spontaneo un sorriso di tenerezza. Si era raccolta in un angolo della cucina, vicino alla finestra, il broncio che arricciava le sue labbra era troppo spassoso e infantile.

 

Con quello che mi ha fatto raccontare, ha un bel coraggio ad arrabbiarsi per una sciocchezza simile

 

I pensieri di Arianna erano estranianti per qualcuno come lui, Demian non li capiva. Non capiva cosa intendesse dire, quando parlava di una giornata che sapeva perfettamente d’autunno, solo perché per lui ogni giorno aveva lo stesso penoso sapore del successivo e del precedente, era un nostalgico che viveva attaccato alle proprie amarezze e non vedeva molte sfumature. Viveva l’autunno o l’inverno semplicemente come stagioni tristi e morte che si confacevano a qualcuno morto dentro come lo era lui.

Arianna lo studiò e si rilassò, una vena malinconica le attraversò lo sguardo, una patina di tristezza inconciliabile con la spensieratezza che trasmetteva con una sua risata, eppure palese, presente.

«Sai, se ci pensi in un anno è racchiusa una vita intera, tutta concentrata. La natura è fantastica da questo punto di vista, in trecentosessanta giorni rinasce, vive e muore, e tu puoi vedere tutto ciò che di essenziale c’è in un’esistenza così, concentrata in un tempo brevissimo. La neve, il sole, la pioggia, la nebbia; i papaveri, le castagne e le fragole! Tutto contenuto in un numero limitato di giorni» chinò un poco la testa, distolse lo sguardo da lui, scostò la tendina e guardò fuori. Fissava la strada ora, i sampietrini che circondavano la casa.

Demian si avvicinò, colse la figura sfocata di una persona sotto la pioggerellina leggera, in lontananza, il colore dell’ombrello era una macchia fugace, un acquerello leggero non ancora asciutto che si spandeva indefinitamente sulla carta.

«Non è strano?» mormorò ancora, dopo un attimo di silenzio. Un sorriso sfuggente le accarezzava le labbra belle «L’autunno è bello, anche se sai che le foglie muoiono e gli alberi sembrano sofferenti. Eppure è bello lo stesso, e caldo. Quando vedo quei colori, quelle foglie gialle, mi sembra che la natura abbia catturato l’estate e la trattenga ancora per sé, ancora per poco. Allora penso che in fondo ne valga la pena davvero, di nascere in primavera per poter bere il sole fino a morirne. È un bel modo di vivere» scrollò le spalle, per scacciare la vergogna, e ridacchiò imbarazzata.

«Ecco, pensavo una cosa del genere, per questo raccoglievo quelle foglie» si scompigliò ancora i ricci e Demian non trovò nulla da dire, rimase in silenzio.

«Scusa, lo so che ho detto un sacco di stupidate! È che ogni tanto non posso non pensarci, alla morte intendo. Tu lo sai cosa voglio dire, quando passi troppo tempo lì dentro diventa quasi scontato. La morte intorno a te non puoi ignorarla, ci ho provato tante volte ma non sono proprio immune. Purtroppo non sono molto brillante, anzi sono davvero stupida, non giungo mai a nulla che abbia un senso»

Forse perché la morte non poteva ignorarla, Demian un senso riusciva a vederlo. Quando quel giorno aveva raccolto la foglia che Arianna aveva abbandonato, per la prima volta aveva pensato che l’autunno era bello, che quella era l’incarnazione di un’idea ed era bellissima.

Era la prima volta che gli si apriva uno squarcio sulle emozioni di Jenevieve: quelli dovevano essere i sentimenti di fatalità che maman provava davanti ad un giorno di pioggia, ad una foglia… davanti a lui; la fatale sensazione dell’ultima volta.

La fine.

Una raccolta di ultimi momenti concentrati in due mesi, forse meno. Ed ora capiva che era egoistico privare maman e Sarah della loro ultima volta, lo capiva davvero. Ciò che più lo disturbava però, era realizzare che quel sentimento disfattista Arianna era stata in grado di coglierlo come se le appartenesse.

 

Ora vorrei solo chiederle la sua storia, ma la domanda me la sono già giocata e so che non mi risponderebbe. Non davvero.

 

«Ti sei accorto che è ora di cena?» gli fece presente, scuotendo la manica della sua felpa per attirare l’attenzione «Devi andare da qualche parte?»

A disagio scosse piano la testa «No»

Non aveva nulla da fare, non c’era nessuno che lo aspettasse. Avrebbe potuto ordinare la pizza o risparmiare ripescandone una surgelata dal congelatore.

«Bene, perfetto!» gioì con un tono così entusiasta da risultare stordente, tanto che Demian rimase spiazzato a fissarla come fosse un’aliena «Allora muoviti e vai a lavarti, i miei ci stanno aspettando. Sono molto puntuali con la cena»

«Cosa?»

Arianna sollevò gli occhi al soffitto in una finta esasperazione «Ricordi? Sei uno che è meglio non lasciare solo!»

Rimase pietrificato di fronte a quella convinzione sicura e di nuovo serena.

«Su, muoviti» rise lei, poi sbatacchiò gli occhioni con un velo di malizia che gli tolse il fiato «So che preferiresti che sia io a lavarti, ma ti ho già detto che non farò l’infermierina! Quindi fa’ il bravo ometto, io ti aspetterò qui» si lanciò goffamente sul divano, afferrò il telecomando e iniziò a scorrere i canali davanti ai suoi occhi attoniti.

 

I suoi genitori?

Casa sua?

Cena?

Riuscirò mai ad avere voce in capitolo con lei?

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Non perdonarmi ***


À Demian

Capitolo dodicesimo

Non perdonarmi




«Volevi sembrare un ragazzaccio di strada, di quelli che fumano, si drogano e gozzoviglino tutto il giorno? No, perché se l’intento era questo ci sei riuscito perfettamente!»

Non sapendo che ribattere, Demian si passò una mano sul collo e rimase in silenzio. Arianna lo squadrava con aria critica, gli girava intorno e sembrava tanto un avvoltoio sopra una carcassa malmessa. Aveva spulciato ogni anfratto del suo armadio e gli era toccato scendere a compromesso con la realtà: il suo guardaroba era quello che era. Nessun abito elegante, niente di vagamente formale, il nulla assoluto. Una camicia non sapeva cosa fosse, di giacche non ne aveva mai comprate ed era già tanto se le sue magliette non erano di qualche concerto rock o non avevano stampe gotiche.

Era andato sul semplice, una maglietta monocromatica… ovviamente nera, giusto per non far risaltare troppo il suo incarnato pallido.

«Loro, per esempio, sono proprio necessari?» Arianna accennò ai guanti senza dita. Demian si grattò la testa sopra il berretto nero, attanagliato da un crescente senso d’inadeguatezza.

«Non sono fatto per queste cose»

Poteva anche sembrarle una scusa, una pessima giustificazione, d’altro canto non sapeva come spiegarle che lui era un teppista di strada, di quelli che fumano, si drogano e gozzovigliano tutto il giorno. Non aveva il coraggio di dirglielo, non voleva che lei potesse malgiudicarlo, per quanto si rendesse conto che, più che un mal giudizio, il suo sarebbe stato un semplice constatare la realtà. I jeans larghi e rotti, il berretto nero, la felpa con il cappuccio sollevato e il giubbino di pelle, contribuivano a renderlo un cliché banale e prevedibile del teppistello inquieto, non esattamente il bravo ragazzo che le figlie presentavano ai genitori.

 

È un fallimento.

E pensare che ho pure evitato il gel

 

Arianna si concentrò sul teschio grottesco che decorava la felpa e aggrottò le sopracciglia «Non so perché, ma non ti facevo tipo che ascoltava questo genere di musica»

Ci mise qualche istante a collegare l’immagine alla sua osservazione, quando realizzò gli venne da ridere «Infatti non la sopporto. Il teschio però è figo» sfoderò il suo miglior ghigno provocatore ed Arianna rimase spiazzata, ma in un secondo dissimulò scrollando le spalle e rispose con l’espressione più sorniona e meno impressionabile che Demian avesse mai visto.

«Banale» ammiccò. Poi, rapita da un pensiero suo, giocò con le labbra. Doveva essere una riflessione irragionevole, per forza. Lei sapeva fare solo quel tipo di pensieri, Dem ne era quasi del tutto certo.

Pensieri che lui non era in grado di concepire.

Alla fine di quel complesso cameo di espressioni, si mise a ridere «Sarà divertente. Farai venire loro un infarto!»

«Se vuoi posso cambiarmi ancora» borbottò rassegnato. Non che nutrisse speranze di un miglioramento, ma iniziava a vergognarsi per quel suo essere disastroso. Fortunatamente, Arianna non sembrava veramente preoccupata. Scrollò le spalle, lo prese per mano e lo trascinò fuori casa dopo aver lasciato una veloce carezza a Lalami, che già li guardava come la stessero abbandonando su un’autostrada.

«Andiamo a piedi?» si ritrovò a chiedere con una certa sorpresa, perché la ragazza, con piglio particolarmente deciso, stava tirando dritto ignorando il suo motorino.

«Ah, sì. Come credi che sia venuta? Ho scoperto che praticamente abitiamo a un paio di chilometri di distanza. non avrei mai immaginato che fossi del paese vicino!» tese le braccia al cielo e si stiracchiò come un gatto, l’espressione serena di una bambina felice «E poi l’aria è così fresca stasera. Non ha un profumo buonissimo? Mi fa venire voglia di camminare per ore a vuoto. anzi, sai cosa?» lo afferrò per la manica e lo scosse, per passargli l’improvvisa ondata di entusiasmo «Avrei voglia di andare sull’altalena!»

Arianna lo lasciava fondamentalmente senza parole, per cui la fissò confuso, a bocca appena schiusa senza riuscire a ricavarne un suono. Era davvero una bambina, aveva qualcosa d’incontaminato, di qualcuno che il mondo reale non l’aveva conosciuto. Ingenua, sciocca, furba, dannatamente diabolica: non poteva inquadrarla. Riusciva ad essere una cosa e contemporaneamente il suo opposto, aveva aspetti così antitetici nella propria persona da risultargli eccessivamente complessa. Era la prima volta che di fronte a qualcuno si ritrovava completamente spiazzato e il dubbio lo assillava.

 

Possibile che sia davvero candida come si mostra?

Quanto c’è di reale in lei?

 

Inspirò ed espirò profondamente l’aria fredda e corroborante della sera. Arianna aveva ragione, con le strade deserte ed un assoluto silenzio, con la sola luce dei lampioni a bagnare l’asfalto e a tratteggiare le sagome delle case e degli alberi, si creava un’atmosfera sospesa e surreale, in cui si rilassava perfettamente.

«A volte mi piace, uscire di notte e fare lunghe passeggiate. Mio fratello lo odia, ma alla fine mi accompagna sempre. Sai quanto è bello quando anche le strade principali sono vuote e puoi muoverti come vuoi? ti sembra di essere l’unica persona al mondo»

Le sorrise discretamente, accompagnato dall’abituale senso di disagio che non riusciva mai del tutto a scacciare, nonostante quella sensazione di quiete totale riuscisse a percepirla. Capiva cosa intendesse, con il cielo terso si vedevano anche le prime stelle.

O forse erano satelliti, non faceva molta differenza. Ai suoi occhi restavano abbozzi di vita proiettati nel tempo per giungere a loro dopo millenni, fotografie di un passato così remoto che in confronto la sua esistenza si trasformava in un blando, rapido battito di ciglia. Che la vita fosse labile lo sapeva fin troppo bene, eppure il pensiero della fine, della fugacità dell’essere, lo sopraffaceva ogni volta e gli toglieva le forze. Cercò la mano di Arianna e la strinse senza esitazione, intrecciando le dita alle sue. In quel momento, con l’accenno di nuvole trasportate dal vento e il silenzio interrotto da un’upupa lontana, quel fastidioso peso sullo stomaco venne a mancare.

La guardò meravigliato dal potere della serenità che era in grado di emanare solo con la presenza. Camminava assorta, guardando in alto senza accorgersene, con un sorriso appena scolpito sulle labbra, una piega lieve che però le accendeva gli occhi. A volte li chiudeva, inspirava a fondo si affidava solo alla stretta della sua mano come guida, mentre la brezza serale ogni tanto soffiava più intensa e le scompigliava le ciocche ribelli uscite dalla coda.

Era una bellezza che rendeva felice, ecco perché era bella. Magari un solo istante, un breve frammento rubato ad un mondo che scorreva, ma bastava per lasciargli addosso un senso di pienezza che quasi strappava il respiro.

Immotivatamente contento, solo perché gli stava camminando assorta accanto.

«È quella, siamo arrivati!»

Aveva esordito dopo un periodo di silenzio così prolungato che Demian sussultò per la sorpresa. Aveva indicato una villetta a schiera, con la ringhiera in ferro battuto che lasciava intravvedere un piccolo rettangolo d’erba.

Iniziarono a sudargli le mani per il nervoso, cercò di lasciare la mano di Arianna perché non lo notasse, ma si era avvinghiata con tanta decisione che fu impossibile porre un minimo di distanza.

«Non scapperai, non ci provare» lo redarguì immediatamente, con il tono di un sergente militare irritato.

Gli sfuggì un sospiro affranto di resa.

«Non sono cannibali, non ti scuoieranno vivo!»

Demian inarcò scettico un sopracciglio. Aveva un vago ricordo di come il fratello di lei lo avesse squadrato, l’ultima volta che si erano incrociati, ma quel vago ricordo era più che sufficiente per farsi un’idea piuttosto precisa di come lo avrebbe accolto.

«Ricordami perché sono qui» sibilò accusatorio, mentre lei già suonava il campanello.

«Perché cenare da soli è piuttosto deprimente»

«Non per me»

«Soprattutto per te!» lo rimproverò aggrottando ancora le sopracciglia e affilando gli occhioni da gatta «Risparmiami quella faccia da duro. Almeno con me è un po’ tardi, non credi?»

Provò l’irrefrenabile impulso di mandarla a quel paese, ma commise il banale e imperdonabile errore d’incrociare il disarmante sorriso serafico a trentadue denti che lo mise spalle al muro. Qualunque imprecazione si spense sulle labbra.

«Ari?»

La voce del citofono era gracchiante e metallica, non riuscì a definirne le sfumature, capì solo che all’altro capo c’era una donna impaziente.

«Sono io, apri!»

Demian la seguì sul breve tratto di selciato come un condannato che percorreva la strada verso il patibolo.

«Stai tranquillo, è solo una cena. Dovrai semplicemente mangiare, non è troppo difficile. Apri e chiudi la bocca. Dovessi avere dei dubbi sarò accanto a te, ti ricorderò come fare!» lo prese in giro. Era così euforica che finì con il ricambiare debolmente il suo sorriso raggiante, nonostante ogni parte di lui gli intimasse di voltarsi e andarsene senza dirle una parola.

«Arianna Selene Alessi!» sbraitò la voce di donna spalancando la porta «Dove diavolo eri finita? Sei sparita da ore, ti abbiamo cercata dappertutto, a tuo fratello stava venendo un infart…» il monologo le morì in gola quando lo mise a fuoco, e la signora rimase a bocca aperta, irrigidita come una statua grottesca di fronte a loro.

Anzi, di fronte a lui.

 L’unica cosa che desse l’idea che ancora respirava erano gli occhi che lo stavano squadrando da capo a piedi, ancora e ancora. Il tempo di un battito di ciglia e si ricompose, senza riuscire però a seppellire del tutto quel cipiglio confuso.

Arianna sfoderò ancora il suo sorriso sfrontato, con la dentatura smagliante in bella vista.

«Scusa mamma! Lui è un mio amico, si chiama Demian»

La donna individuò le loro mani intrecciate, Dem cercò subito di liberarsi ma Arianna non glielo permise.

«Tesoro, sei sicura che…»

«Certo. Sono sempre sicura di quello che faccio. Ah, Dem, come avrai capito lei è mia mamma, Melissa»

Demian si sentì spiazzato. Non era certo di cosa avrebbe dovuto fare in una simile situazione, tanto più che Melissa sembrava davvero turbata. Improvvisò porgendole impacciato la mano.

«È un piacere signora» bofonchiò a sguardo chino.

La madre di Annie dovette provare una forma di simpatia per compassione, davanti al suo comportamento intimidito, perché provò almeno a sorridergli. Non che quel tentativo di cameratismo lo mettesse a suo agio, ma perlomeno era un inizio.

«Accomodati pure Demian. Non volevo sembrarti scortese, ma non capita spesso che Ari porti a casa qualcuno. Ero solo sorpresa»

Oltre alla sorpresa era evidente una forma di disagio differente, ma non gli parve il caso di recriminare, perciò si limitò ad annuire e a seguire Arianna, che già stava trotterellando dentro casa trascinandoselo dietro come un peluche privo d volontà. La ragazza si lanciò letteralmente sul divano con una risata, facendolo inciampare goffamente tra cuscini. Mentre Annie si distendeva comodamente, appoggiando la testa sul suo ginocchio e gettando le gambe oltre il bordo del divano, volutamente o meno ignara del mutismo selettivo che lo aveva appena colpito, Demian si guardò attorno. Quella casa era diversa dalla sua, sempre disordinata e caotica come se un’orda inferocita di rinoceronti fosse passata di corsa nel salotto, e nemmeno era calda e perfettamente sterilizzata come quella di Claire. C’era un ordine sterile, essenziale, pochi oggetti tutti in vetro, qualche vaso decorativo, pavimenti in marmo grigio chiaro e pareti bianche passavano una sensazione di straniamento. Però la luce dei lampadari dalle composizioni strane -erano calzascarpe in vetro, quelli?- scaldava i mobili di mogano e illuminava di baluginii le numerose fotografie. Non c’erano quadri, ma foto ovunque, di Arianna da bambina, con due ragazzi più grandi, di un altro bambino abbracciato al suo pupazzo di peluche; di comunioni, cresime e compleanni. Tante piccole cornici disposte a schieramento riempivano le superficie di vetro, e c’erano rumori, una pienezza di vissuto che sembrava coccolare gli abitanti nonostante i colori freddi, eccessivamente moderni.

Tornò a osservare Arianna e provò una sorta di tenerezza indulgente per lei.

 

Però è davvero tutto, meno che elegante. Se non fosse così minuta, sarebbe un ottimo uomo.

 

Ai rumori delle stoviglie in cucina, alle lamentele di un bambino da qualche parte nella casa e al programma televisivo in onda in quel momento, si aggiunse il passo di carica di qualcuno che stava scendendo le scale trottando per poi urlare «È pronta la cena?»

Demian si inclinò per guardare il nuovo venuto. Riconobbe Daniele, il fratello più grande che era venuto a prenderla quel giorno al parco.  Il ragazzo notò le gambe di Arianna fare capolino oltre il bordo del divano, prese la ricorsa e le saltò addosso senza pietà.

Arianna gridò subito come un’aquila e quasi gli causò un infarto e l’irrimediabile perdita dell’udito all’orecchio sinistro.

«Ehi, puffetta! Dove eri finita?» Daniele le scompigliò i capelli con entrambe le mani e Arianna mugolò d’indignazione.

«Ero con lui!» cercava di allontanarlo premendo con i palmi delle mani sul suo viso, ma evidentemente il fratello era troppo pesante e più forte di lei, perché non riuscì a smuoverlo di un millimetro. Solo a quell’esclamazione Daniele s’irrigidì, alzò gli occhi su di lui, considerandolo finalmente degno di presenza e constatò, con tutta la simpatia che poté mettere nella voce velenifera: «Ah, ancora tu»

Demian già lo odiava, un istinto a pelle. Quello era solo il loro secondo incontro, ma il fratello di Annie riusciva a guardarlo dall’alto in basso con un disprezzo così radicato da risultargli insopportabile per principio. Fu solamente per non apparire eccessivamente scortese che si risparmiò una risposta acida. Si limitò a sollevare l’angolo della bocca in un ghigno ironico.

«Così sembrerebbe»

«Lui è mio fratello Daniele» si frappose Arianna come arbitro. Con quella matassa di capelli incolti che si ritrovava, tutti sparpagliati sul viso grazie al dispetto del fratello, non poteva vedere gli sguardi ostili che si stavano lanciando, ma i loro toni lasciavano difficilmente pensare ad un’amicizia appena nata.

Daniele corrugò la fronte «Puffetta, sei sicura?»

Sembrava preoccupato, in modo serio e adulto, non da antipatico gratuito. Annie sbuffò infastidita «Sì, sì, sì! Se qualcuno me lo dovesse chiedere di nuovo potrei non rispondere di me!»

A quell’uscita Daniele scoppiò a ridere e iniziò a farle il solletico.

«Mi stai minacciando?» l’apostrofò con finto risentimento. Arianna stava soffocando nelle sue stesse risate «No, te lo giuro! Non oserei mai! Lasciami, dai!»

Daniele la bloccò con più fermezza e non smise di torturarla, finché le esclamazioni di Annie non rasentarono la pura disperazione. 

Li guardava di sottecchi, in imbarazzo perché ogni volta che si soffermava più del dovuto gli sembrava di rubare qualcosa che non gli apparteneva. Non riuscì a trattenere un sorriso, ma insieme alla tenerezza di quel legame, cresceva dentro di lui il disagio. In un quadro così perfetto e armonioso si sentiva una macchietta nera, un refuso di stampa. Quella sensazione di straniamento che già era causa di tormento quando visitava sua zia, in un contesto al di fuori della propria famiglia risultò ancora più forte.

La felicità degli altri, meschinamente, lo sviliva.

«Ragazzi, la cena è pronta!» li richiamò Melissa dalla cucina, ponendo finalmente fine a quel supplizio. Daniele scattò in piedi, liberandola solo per esortarla, come se Arianna stesse cincischiando volutamente «Avanti Ari, ho fame!» la afferrò per le braccia e la sollevò senza alcuna difficoltà.

Annie non smise di ridere «Tu hai sempre fame, ti mangeresti anche Giorgi se potessi!»

Il fratello le rispose con una smorfia costipata «Nah, quella peste mi resterebbe sicuramente sullo stomaco!»

Demian contemplò di fondersi con la tappezzeria. L’ultima volta che si era sentito così piccolo e meschino e aveva desiderato di sparire era un bambino incapace ed inutile. Tutta quella complicità e il fatto che la ragazza lo avesse completamente scordato non stavano aiutando la sua autostima sempre in bilico sul disastro.

D’un tratto Arianna si volse e gli tese una mano «Vieni?»

Esitò solo un momento, poi si aggrappò a lei con una disperazione tale che Annie ridacchiò ancora.  La seguì in bagno e mentre si lavavano le mani Arianna aggiunse, in imbarazzo «Non prendertela con Dani, non lo fa apposta. Non gli piace chi mi gira intorno» le sue guance si erano appena colorate di rosso.

 

In quale modo quest’informazione dovrebbe farmi sentire meglio?

 

Non glielo chiese per non infierire, né specificò che volendo osservare i fatti in maniera più oggettiva, si poteva benissimo dire che fosse lei quella che gli girava attorno, più che il contrario. Quindi borbottò melanconico «Deve succedere spesso»

Arianna era davvero bella e spigliata, certamente avere un seguito di ragazzi desiderosi di trascorrere con lei almeno qualche minuto non doveva essere insolito. Si sentì grato di tutta l’iniziativa che Arianna stava dimostrando nei suoi confronti, ne era contento soprattutto perché non sarebbe mai riuscito a fare altrettanto, non possedeva quella spontaneità e quella schiettezza.

«In realtà meno di quanto pensi. Sai, mi considerano strana. Hai sentito mia mamma, non porto nessuno a casa»

Non le chiese il motivo per non costringerla ad affrontare un argomento che per lei poteva essere spinoso.

«Vinco un premio?» ghignò strafottente, gongolando per il rossore che le macchiò il volto.

«Se vai avanti così vinci un calcio nello stinco!»

A tavola la sua famiglia era già raccolta: oltre a Daniele e Melissa, c’era un bambino che doveva avere più o meno l’età di Sarah ed un altro ragazzo, o meglio un uomo.

«Lui è Giorgi» Arianna indicò il più piccolo, intento a sterminare briciole di pane sulla tovaglia «E lui è Luca, il maggiore»

Il fratello più grande, dall’aria decisamente più cordiale di Daniele e l’espressione discreta di qualcuno in grado di farsi gli affari propri e non sparare giudizi senza riflettere, abbozzò un sorriso gentile «Piacere»

«Lui è Demian» chiarì allegra.

Giorgi abbandonò il genocidio di pane per guardarlo mentre Arianna si sedeva. La imitò in imbarazzo, gli occhi di tutti i presenti si puntarono su di lui e provò uno spiacevole déjà-vu. I ragazzi a scuola lo trattavano nello stesso modo, alla stregua di un animale da zoo, quando cambiava classe e dovevano ancora abituarsi alla sua presenza.

«Sei il ragazzo di Ari?» la sua voce infantile lo fece sussultare.

 

Piccolo demonio

 

Arianna tossì e sputacchiò briciole per la sorpresa.

«Ari non starebbe mai con uno così» borbottò Daniele, e non perse l’occasione d’incenerirlo. Non poteva nemmeno dire che fossero partiti con il piede sbagliato, non erano partiti proprio e basta.

 

Uno così come, brutto stronzo? Cosa avrei che non va?

 

«È un amico» tagliò corto Arianna, con un sorriso indulgente al bambino, ignorando deliberatamente Daniele che sembrava davvero non fare sforzi per risultargli sgradevole. Melissa stava distribuendo equamente le porzioni di spaghetti quando si accorse che indossava ancora il chiodo e il berretto nero calcato in testa.

«Demian, non hai caldo? Puoi spogliarti caro, rischi di ammalarti se resti imbacuccato in quel modo»

Aveva lo stesso sorriso di sua figlia all’apparenza, ma c’era una nota stonata. La stessa piega delle labbra e le stesse fossette appena accennate non gli restituivano il medesimo calore, c’era qualcosa di freddo in lei, di forzato. Non avrebbe mai voluto mettersi a nudo di fronte a persone così maldisposte nei suoi confronti, conosceva già i risultati, ma opporsi sarebbe sembrato forse più insolito e disagiante.

«Dai, non preoccuparti, dammi pure il giubbino. Te lo appendo all’ingresso» insistette la donna andandogli vicino. Con riluttanza le cedette la giacca di pelle e liberò i capelli spettinati. La frangia bianca si sparse sulla fronte, senza il gel gli copriva gli occhi, la spostò con un gesto nervoso e fissò con ostentata sfida Melissa, che si era bloccata di fronte a lui in un’espressione di aperta e non troppo benevola sorpresa.

«Ah. Beh, torno subito, mangiate intanto» si defilò rapidamente, lasciandosi alle spalle un imbarazzato silenzio. Demian si scompigliò i capelli, si grattò il collo e guardò Annie in una disperata richiesta d’aiuto.

«Ari, il tuo ragazzo è vecchio!» il piccolo nano malefico, una spudorata finzione d’innocenza che avrebbe volentieri defenestrato, se ne uscì con la peggiore esclamazione scandalizzata che gli era mai toccata sentire «È più bianco del nonno!»

«Zitto stupido, è albino» lo rimproverò Daniele con uno scappellotto, mentre a sua volta veniva squadrato con biasimo e disappunto da Luca.

«Impara a stare zitto anche tu, Dani»

 

Campioni di tatto e diplomazia. Mi chiedo come abbia attraversato la vita intero ‘sto stronzo, senza che nessuno gli abbia mai fatto ingoiare i denti per la sua innata simpatia

 

«Che cos’è un albino?»

Arianna si colpì la fronte con il palmo aperto della mano, Demian fissò la pasta nel suo piatto e considerò seriamente di affogarcisi dentro o di spalmarla sulla faccia del bambino, all’occorrenza.

«È un malato» continuò Daniele mal celando il disprezzo «Giusto quello che ci mancava»

Serrò i pugni e trovò la forza interiore, un nirvana che nemmeno sapeva di possedere, per non alzarsi, lanciarsi dall’altro lato del tavolo e prenderlo a calci ripetutamente. Piuttosto, arrangiò un sorriso tranquillo e scrollò le spalle.

«Per essere “un malato” non sto tanto una merda»

 

Avrete anche gli stessi occhi, ma con tua sorella non c’entri proprio un cazzo, brutto stronzo

 

Daniele fece per rispondere ma Arianna fu più lesta e feroce «Sei un vero idiota!»

Demian lo vide trasalire e indignarsi come una vecchia comare offesa «Che?»

«Per carità Dani, ho sempre saputo che non sei proprio un genio, ma così stronzo non posso crederci! Sei un cazzone»

Poteva quasi scorgere il fumo che le usciva dalle orecchie, era rossa di collera ed era scattata in piedi, come per cercare di far valere il suo sdegno con maggior forza. Demian si rilassò contro lo schienale della sedia. Era abbastanza deciso a mettere da parte le buone maniere per litigare, fosse stato necessario, ma era impossibile pensare di provarci se Arianna s’infervorava a tal punto al posto suo.

«Io sarei un cazzone? E tu allora, che ti dai ai fenomeni da circo? Ma dico, lo hai guardato? Dove cavolo lo hai pescato questo! Porca miseria Ari, di tutte le cose di cui puoi aver bisogno, lui è sicuramente l’ultimo della lista!»

Arianna diventò pericolosamente paonazza «Tu che ne sai di cosa ho bisogno? Fatti gli affari tuoi!»

Si depositò uno strano gelo tra i presenti, come se Annie avesse toccato un tasto dolente che a Demian sfuggiva. Daniele divenne mortalmente ostile, nella sua voce Dem rintracciò un profondo rancore «Adesso devo farmi gli affari miei? D’improvviso io non ne so nulla? Dimmi che non sei seria»

«Sono stanca»

«Chiedimi scusa, Ari»

Arianna digrignò i denti e quei suoi occhi felini divennero linee di gelido verde «Sei tu che dovresti imparare il limite»

Giorgi si era spaventato, era incredibilmente piccolo su quella sedia, si era ritratto e guardava i fratelli litigare con gli occhi grandi e allibiti. Anche Melissa era tornata, ma si era fermata sulla soglia della cucina e non sembrava intenzionata a intervenire nella discussione dei suoi figli.

Questo parve a Demian più assurdo di tutto. Non li fermava né li riprendeva, era l’immagine dell’impotenza. Fosse stata Jenevieve lo avrebbe già appiccicato al muro a suon di schiaffi, ma Melissa pareva che nemmeno respirasse. Luca si massaggiava la fronte esasperato ed anche lui dava l’impressione di volere che se la sbrogliassero da soli.

«Non ci sono già abbastanza problemi? Devi preoccuparti per te stessa, non fare la crocerossina per un caso umano come questo qui! Basta guardarlo per farmi venire i brivi…»

«Ok, adesso basta. Vi ho lasciato fare a sufficienza» il tono perentorio di Luca bloccò Daniele dal concludere l’adorabile lista di complimenti che gli stava rivolgendo «Ora smettila di fare l’idiota» la mano del fratello più grande stritolò la spalla del minore abbastanza forte da fargli fare una smorfia scontenta.

«Non sei preoccupato che lei…»

«Hai esagerato. Scusati immediatamente»

Demian non era un genio, ma non gli ci volle molto per identificare in Luca il capobranco di quella marmaglia di fratelli simpatici come una manciata di ortiche nella maglietta. Davanti a quel tono secco che non ammetteva repliche, calò il silenzio.

Daniele tentò un’ultima volta di ucciderlo con gli occhi, fortunatamente doveva aver perso la lezione fondamentale sulle macumbe nel suo corso serale per stronzi, perché non riuscì a dargli fuoco nemmeno questa volta. Demian ricambiò l’occhiata con altrettanta intensità, ma ci aggiunse un sorrisino di scherno per rincarare l’odio.

Era l’unico ancora seduto e tranquillo, non si era mosso di un millimetro, non aveva fatto una piega nonostante la caterva d’insulti, e forse era proprio quel suo atteggiamento menefreghista che innervosiva Daniele più di tutto.

 

Con stronzetti come te ci ho a che fare da che sono nato, sei un illuso se pensi che ti darò soddisfazione

 

«Scusa» sibilò infine il fratello di mezzo, con la stessa intensità con cui avrebbe potuto dirgli “affogati”. Sbatté la mano sul tavolo e spinse la sedia che cadde a terra con un tonfo pesante «Non ho più fame»

Uscì dalla stanza teatralmente, lasciandosi alle spalle un profondo imbarazzo. Melissa, con la mano sulla bocca e gli occhi spalancati, gli sembrò uno scomodo e gratuito oggetto d’arredo. Giorgi aveva le iridi lucide, era solo un bambino e ci era rimasto male. Non gli piaceva molto, non gli piacevano i bambini in generale, ma avrebbe comunque preferito che quella discussione non si fosse consumata davanti a lui, era troppo piccolo e non era giusto.

Luca si passò ancora la mano sugli occhi, sembrava stanco, aveva profonde occhiaie e l’atteggiamento di un vecchio. Tornò a sedersi e si prese la testa tra le mani. In tutto questo, Arianna non si era più mossa, fissava la porta che aveva imboccato Daniele ma non la vedeva davvero, gli occhi umidi le appannavano la vista, inseguiva un pensiero che l’aveva allontanata da quella stanza. Le colò una lacrima, quando la sentì scivolare sulla guancia si riprese e con un gesto brusco si asciugò il viso. Poi si voltò a guardarlo e gli sorrise, senza riuscire però a cancellare la mortificazione che provava.

«Scusa Dem, pessima idea. Avrei dovuto saperlo, sarebbe stato meglio non portarti qui»

La situazione gli sembrava troppo delicata e incomprensibile perché trovasse qualcosa da dirle, perciò scelse ancora il silenzio.

«Vuole solo difenderti Ari, lo sai. Si preoccupa per te, ti adora» intervenne Luca, con la fatica di una persona che quella frase l’ha già ripetuta decine di volte e non sa più che strade tentare per essere creduto.

«Al diavolo» imprecò infatti Arianna, a confermare le sue sensazioni «Per una volta, una volta soltanto, poteva rispettare una mia scelta. Lo so che gli ho rovinato la vita, ci provo in ogni modo a non fargli pesare le cose, però ci deve essere un limite, non posso annullarmi per lui! Se le cose non andassero come devono andare…» s’interruppe, Demian sentì quella voce collerica incrinarsi in un tremito di orrore. Stava per piangere.

«Voglio solo che ne stiate fuori»

Luca era sbiancato, l’incarnazione della pura costernazione «Ari noi…»

 

Ho ascoltato abbastanza, mi rifiuto di guardare oltre queste assurdità

Mi rifiuto di sentire altro da queste persone, che vadano al diavolo

 

Scattò in piedi, afferrò la mano di Arianna e la costrinse a seguirlo senza permettere a Luca di continuare il loro discorso.

«Dem!»

«Andiamocene» chiarì, diretto alla porta d’ingresso. Incrociò gli occhi grandi, nocciola, di Melissa e aggiunse per scrupolo «È stato un piacere signora. Non si preoccupi per Annie, non le farò fare troppo tardi»

 

 
***
 

«Com’è che finiamo sempre in un parco, io e te?» urlò Arianna mentre correva verso lo scivolo, guardandolo da sopra la spalla con quel sorriso furbo che ormai, poteva anche ammetterlo, adorava.

«Ho un animo puro e innocente, anche se sembro un teppista drogato che gozzoviglia tutto il giorno. Ecco perché!»

Mentre Arianna si arrampicava sul complesso di legno con l’ilarità di una bambina, Demian le andava dietro tenendo il cartone di una pizza margherita ritirata da poco eppure già tiepida. Visto l’orario, erano stati più che fortunati a riuscire a farsene fare almeno una, ma già sapeva che non gli sarebbe mai bastata. Guardò Arianna sparire dentro la costruzione simile ad un castello e la rivide spuntare poi sulla torretta.

 A modo suo, visto il sorriso da paresi facciale, si stava divertendo.

«Muoviti, ho fame!»

Salì le scalette e si sistemarono in mezzo ad un ponte di legno sostenuto da catene traballanti che univa lo scivolo alla costruzione adiacente, munita di altalene. Era strano vedere quei grandi spazi verdi completamente vuoti, le poche volte che Demian era stato lì era d’estate, durante la Festa della Birra, e in quelle occasioni oltre ad una fiumana di persone c’erano gli stand del cibo, tavoli sparsi ovunque e il palco per i concerti. Nel buio della tarda serata, l’unica cosa che faceva loro compagnia era una vecchia villa sopraelevata, un rudere posizionato su una collinetta che sovrastava il parco e che era stato eletto a biblioteca comunale.

Non ci andava mai, c’era sempre un clima umido lì dentro, e per raggiungerla bisognava attraversare una distesa di fanghiglia che con le piogge si trasformava in sabbie mobili.

«La Coca-Cola ce l’hai tu?»

Arianna la recuperò dalla tasca della giacca e gliela sventolò davanti agli occhi come un trofeo. Si accorse troppo tardi che la peste la stava aprendo.

«No, aspetta!»

Il liquido fuoriuscì in un’eruzione di schiuma che travolse Arianna completamente. L’espressione basita gli strappò una risata senza ritegno «Non puoi agitarla così e poi aprirla, genio!»

Ari fissava le mani appiccicose e la bottiglia ormai dimezzata con una perplessità incredula, neanche avesse assistito a chissà quale incredibile reazione chimica. Alla fine ridacchiò anche lei, più per l’imbarazzo.

«Non ci avevo pensato. Passami un tovagliolo!»

«Non ti conviene andare alla fontana a lavarti? Sei più appiccicosa della carta moschicida»

Arianna rispose con una smorfia insofferente da bambina testarda «Dopo, adesso ho troppa fame!»

In quel momento a guardarla non si sarebbe mai detto che meno di un’ora prima avesse avuto una furiosa discussione di famiglia. Demian aveva deciso di restare neutro e non farle domande, non aveva nemmeno capito cosa fosse successo e non sapeva quanto avrebbe dovuto effettivamente preoccuparsi per lei.

Aveva capito soltanto che Arianna era fin troppo brava a nascondere le cose. Certo, non mentiva, però neanche gli diceva la verità. Se non fosse stato presente, non avrebbe mai saputo della discussione, Arianna seppelliva le emozioni negative da qualche parte e fingeva che tutto fosse in ordine. Non se la sentiva di biasimarla, nessuno poteva comprenderla meglio di lui, era il primo che faticava a scendere a patti con la realtà.

Per questo non faceva domande, non era suo diritto costringerla ad affrontare situazioni che non voleva vedere, non la conosceva abbastanza, non conosceva nemmeno le sue ragioni e senza quelle, ogni parola detta sarebbe stata vuota, un pour parler gratuito.

Non che Arianna avesse avuto con lui lo stesso timore, ma forse era diverso, forse lo aveva forzato perché lo aveva capito, che Demian aveva sfiorato il proprio limite di sopportazione. I pesi che si trascinava dietro lo stavano inchiodando e ormai non si muoveva quasi più. Gli sembrava di potersi cementificare al suolo.

 

Quanto è grande il peso di Annie?

Lei che cosa deve sopportare?

 

Arianna, completamente ignara dei suoi pensieri, canticchiava mentre sventrava la pizza con le mani

«Cazzo, gli avevo detto di tagliarla già a fette» borbottò quando si accorse di quel disastro. Annie, le dita sporche di pomodoro e l’aria malandrina, rise «Così è più divertente. Se vuoi ne strappo una fetta anche per te!»

«Hai un opinabile senso del divertimento. Ci vuole un certo coraggio per chiamare fetta quella cosa»

Arianna arricciò le labbra «Ti sfido a fare di meglio»

Guardò la carcassa di quella che era stata la sua pizza margherita con desolazione «L’hai distrutta, anche volendo non posso fare di meglio. Guarda come l’hai ridotta!»

Arianna lo imitò e sollevò l’angolo destro della bocca in una linea saccente «Non devi vergognarti se ti serve aiuto»

«No grazie. Me la caverò»

Dieci minuti dopo, la situazione era disastrosa e Arianna non perse l’occasione di prenderlo in giro per tutta la durata di quella cena improvvisata. Finì con lo spalmarle il pomodoro sulla faccia, per ripicca, senza considerare che l’indole dispettosa della ragazza avrebbe segnato la sua fine. Quando si ritrovò incastrato nell’angolo, con le braccia a tenerle i polsi mentre Arianna si dimenava grottescamente con le dita sporche per macchiargli il naso, capì che al di là di tutto lei non fingeva. Non accantonava tutto, non si fingeva entusiasta e infantile, quell’esuberanza era reale, era lei.

Glielo leggeva negli occhi felini accessi d’entusiasmo, in quella risata contagiosa che lo portava a ridere a sua volta.

Alla fine di quello scontro tra titani, Demian si passò la mano sulla guancia e considerò «Devo farmi una doccia»

«Ne hai un po’ anche sui capelli!» ridacchiò sommessamente lei, accasciandosi sulla sua spalla «Però non è così male mangiare insieme. Visto?»

La cinse con un braccio ridendo, gli sembrava di avere accanto una bambina che aveva sfogato tutte le sue energie ed ora era sfinita e letargica.

«Magari la prossima volta cuciniamo qualcosa a casa mia, ok? Sei peggio dei bambini, sei tutta sporca» ridacchiarono e si picchiarono dentro con le spalle.

Le parole che Daniele le aveva rivolto gli ritornarono alla mente però, ed un tratto s’incupì. Anche la risata di Arianna andò smorzandosi.

Avrebbe voluto sapere perché suo padre non ci fosse, a quel tavolo, quale fosse esattamente la situazione che lei diceva condividessero. Pensò che forse era proprio il padre di Arianna a stare male, gli altri sembravano stare tutti bene e lui era l’unico assente inspiegabile.  

 

Anche lei parla come una persona che sta perdendo qualcuno

Non posso chiederle una cosa tanto importante se non se la sente di dirmelo.

Io non gli avrei detto di maman, se non l’avesse già conosciuta

 

«Annie…»

Tatto, usa il tatto

Non puoi ignorare quello che è successo… non è sano

 

«Come stai?»

Silenzio.

Il buio sembrava più fitto in quell’improvviso nulla di parole.

Arianna gli si accoccolò al petto, la fronte gli sfiorò la clavicola, alla ricerca di un rifugio, lo stesso che quel pomeriggio anche lui aveva trovato nell’abbraccio di lei. Sentì che non poteva abbandonarla, che erano due anime simili in maniera dolorosa, si portavano addosso una solitudine diversa, una seconda triste pelle che respingeva il mondo. Era un sentimento di comunione così raro che andava preservato.

«Sto bene, tranquillo. Non dare troppo peso a quello che è successo. Tra fratelli è normale litigare, no?» prese fiato e si scostò per guardarlo negli occhi e sorridere «Ma probabilmente tu non lo fai mai. Tu adori Sarah»

«Anche tuo fratello ti vuole bene»

Era tanto affezionato a lei da diventare morboso, non ci voleva uno scienziato per capirlo. Il labbro inferiore le tremò, le iridi smaltate di verde si inumidirono ancora e Demian pensò che avrebbe pianto: per qualcuno come lei, che aveva imparato ad esprimere solo la propria gioia e non il dolore e la frustrazione, sarebbe stato un bene. Però Annie si piantò gli incisivi buffi nelle labbra e si costrinse a sorridere ancora, con gli occhi tristi.

«Lo so. Davvero, non ne ho mai dubitato»

Demian le sfiorò la linea della mandibola con la punta delle dita, a definire il contorno del suo viso tanto bello, deglutì e un groppo si incastrò in gola.

«Un giorno mi dirai di cosa stavate parlando?» gli sfuggì. Non voleva chiederle nulla ma sì, realizzava, quasi con meraviglia, che avrebbe voluto sapere, che era davvero interessato a sapere. Arianna prese le distanze e scrollò la testa in un gesto di noncuranza «È una sciocchezza di poco conto»

Demian riabbassò il braccio lentamente, si sentiva già svuotato, non era bravo a discutere e due muri non si scavalcavano a vicenda, restavano radicati nella loro rigida posizione. Strizzò le labbra in un moto di stizza e annuì piano, colmo di rancore per quella confessione mancata.

Lui le aveva dato Sarah, le aveva parlato dell’unica ragione per cui esisteva. Arianna era stata un incentivo abbastanza grande da spingerlo a parlare di sua sorella, ma lo scambio non era stato vicendevole, non le aveva trasmesso il medesimo senso di sicurezza.

«Non prendertela»

«Non me la sono presa»

Arianna sospirò e nel suo viso spianato dalla serenità tornò il tormento «Sì invece» torturò il labbro inferiore «Lo farò, ma non ora. È meglio, veramente. E poi davvero è meno importante di quanto sembri»

Annuì ancora, si era già rassegnato a rispettare il suo volere. Per i propri standard si era spinto fin troppo oltre l’insistenza e non avrebbe tollerato di farle altra domande. Che Arianna facesse qualunque cosa pur di non dare mai spiegazioni era ormai evidente, e Demian si ripromise che, da quel momento in poi, qualunque cosa fosse successa, avrebbe aspettato che fosse lei a confidarsi e avrebbe ingerito qualunque pretesa di risposte che in realtà non lo riguardavano.
«Ho promesso a tua madre che non ti avrei fatto fare tardi» le fece notare, per cambiare argomento. Annie si aggrappò al cordoncino del suo giubbino e iniziò a giocarci distrattamente

«Non è tanto tardi»

«Non è nemmeno presto»

Gli mise il broncio, una paperella stizzita sporca di pomodoro secco.

«Non vuoi andare a casa»

Annie scosse la testa in segno di diniego, senza dipanare la fronte corrucciata e alzare gli occhi dal cordoncino, come fosse la cosa più incredibile e particolare mai vista invece di un pezzetto di corda usurato dal tempo.

Demian prese fiato e raccolse un po’ di coraggio

 

Più autolesionismo che coraggio, non prenderti per il culo da solo

 

«Resti a dormire da me stanotte?»

Arianna abbandonò quel maledetto cordoncino per guardarlo negli occhi, nel momento meno opportuno visto l’imbarazzo infantile che lo stava ghermendo

«Non pensare male, volevo solo stare con te. Per non lasciarti sola intendo. Se non vuoi vedere tuo fratello, intendo! Sarò un perfetto gentiluomo»

La disgraziata rilassò le spalle e gli sorrise «Come avere una sorella, insomma!»

«Vorrei continuare a fare la pipì in piedi, se non ti dispiace! E non ti farò le treccine» stranamente, riuscì a farla ridere di gusto. La simpatia non era mai stata il suo vessillo, strapparle una risata sincera e diventare il Gauguin del duemila sembravano imprese impossibili allo stesso livello.

«Ok, va bene» ridacchiò lei, sollevando gli occhi al cielo «Però domani dovrei essere in ospedale per le nove»

«Nessun problema»

«Potresti non sorridere come un pirla? Sarai la mia sorellina per una notte, non farti strane idee, caro il mio marpione del parcheggio!»

Se il ponticello di legno gli fosse mancato sotto il sedere e fosse precipitato a terra dritto sull’osso sacro, avrebbe desiderato di meno avere una pala da tirarsi in testa per poi auto-seppellirsi.

«Non stavo pensando niente di strano, non sono un marpione!» urlò in un’istintiva difesa inconscia per la quale si vergognò ancora di più. Aveva la pelle calda, doveva essere arrossito.

La situazione non poteva peggiorare.

«E comunque non c’è problema. Ti do un passaggio io» riprese per far cadere l’argomento e spostarsi su lidi più tranquilli e agibili anche per lui. La osservò asciugarsi gli occhi lucidi, questa volta per l’eccesso di risate.

 

Bene, prendermi in giro ormai è diventato uno sport.

 

«Posso mandare un messaggio a Luca con il tuo cellulare?»

Ancora immusonito, se lo sfilò dalla tasca e glielo porse. Arianna iniziò a digitare velocemente sulla tastiera, ma prima di spedirlo si fermò a guardarlo a sua volta, con perplessità

«Ma tu a scuola non ci vai mai?»

Scosse i capelli e si mise a ridere. Lei e Sarah avevano davvero molto in comune.

«Sono un artista. Io non studio, io creo!»

 




***

 

«Non hai mai pensato di andare a vivere con i tuoi zii?»

Demian non si aspettava quella domanda. Sdraiato sul suo letto, scostò il braccio che gli copriva il viso per poterla guardare mentre si aggirava incuriosita per la stanza, un animaletto selvatico in cattività.

«Qualche volta»

Lalami, appallottolata contro il suo petto, si stiracchiò stendendo le zampine goffe da orsetta. Era troppo tenera in quei momenti, quando dormicchiava e poteva scorgere solo la linea rosa degli occhi chiusi, sembrava eccessivamente piccola, delicata, gli veniva voglia di stringerla fortissimo e riempirla di baci. A volte le faceva le pernacchiette al pancino, ma questo non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura.

 Vista la presenza di Arianna nella camera, si limitò ad accarezzare la cucciola con fare distratto. Annie nel mentre non aveva smesso un solo istante di osservare ogni dettaglio: si era incantata di fronte all’unica parete sgombra e la studiava con lo stesso rapimento dedicato ad un’opera d’arte. Demian ne provava un discreto imbarazzo. Aveva rivestito lui stesso il muro con un pannello di legno e nel tempo lo aveva riempito di immagini e scritte.

Era il suo muro delle meraviglie, o meglio la più banale e becera espressione della sua giovinezza ribelle e incompresa. Lo faceva stare bene riportare per iscritto le citazioni che più lo affascinavano, eppure davanti ad un estraneo che frugava quei pensieri si sentiva ridicolo.

«”Il n'y a pas de néant. Zéro n'existe pas. Tout est quelque chose. Rien n'est rien”» lesse Arianna goffamente a bassa voce, in un sussurro, e poi si voltò appena, lo guardò con le labbra tra i denti e una guancia gonfia, il cipiglio aggrottato e buffo di chi cerca di sbrogliare un pensiero. Era terribilmente espressiva, Demian gliene dava atto. In realtà era proprio quella sua capacità di giocare con il proprio volto, neanche fosse di gomma, a renderla già di partenza, senza bisogno di parole, così dannatamente interessante.

«”Non c’è il nulla. Zero non esiste. Ogni cosa è qualche cosa. Niente non è niente”» tradusse istintivamente per lei.

«L’ho già sentita»

Le sorrise «È una citazione di Hugo. Lès Miserables, per l’esattezza. Se guardi nell’angolo in basso ce n’è un’altra sempre sua» esitò, si grattò il collo pigramente e aggiunse incerto «È uno dei miei scrittori preferiti»  

Guidata dalle sue parole, Arianna si era già chinata ad esaminare il luogo incriminato «”Tous les hommes sont la même argile. Nulle différence, ici-bas du moins, dans la prédestination. Même ombre avant, même chair pendant, même cendre après”»

«”Tutti gli uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno quaggiù, nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne durante, la medesima cenere dopo”» Arianna si lasciò sfuggire un sospiro gravido di rammarico. D’un tratto pareva afflitta, avvolta da un nuvolone carico di pioggia. Demian non la capiva, aveva uno spettro emotivo così vario da mandarlo in confusione. Tentò ancora di sorriderle

«Cosa ti prende adesso?»

I suoi eccessivi sbalzi d’umore gli davano il capogiro, un momento sembrava avesse raggiunto il Nirvana, l’attimo dopo si oscurava e una tristezza inspiegabile rendeva la sua aura nera e pesante.

«Ti pesa molto, non è vero?»

Il muscolo della mascella si contrasse in uno spasmo involontario. Finse confusione, non aveva effettivamente afferrato che cosa intendesse, ma lo intuiva e quella domanda non gli piaceva per nulla. Sperava di scoraggiarla, ma Arianna accennò un sorrisino compassato.

«Sono una stupida, non ci avevo mai pensato. In verità nemmeno ci ho mai fatto caso. Ma il resto del mondo sì, né? L’ho capito dalla faccia della mamma… e da quello che ti ha detto Dani» si afferrò il braccio sinistro, stretta in se stessa in quel modo sembrava ancora più sottile «Mi dispiace di essere stata… indelicata. Avrei dovuto avere più tatto, pensarci. Era per questo che non volevi venire a casa mia?»

«Non voglio che ci pensi» il tono eccessivamente lapidario la fece sussultare. Si mise a sedere e abbozzò un sorriso che voleva essere rassicurante, per farle capire che non era arrabbiato. Quando esitava, gli occhi di Arianna si spalancavano e ingrandivano al punto che gli sembrava potessero inghiottire qualunque cosa, un buco nero senza ritorno, lo scivolone più spaventoso e imprevisto della sua vita. Dubitava ci si potesse realmente abituare alla profondità di uno sguardo tanto innocente.

«Io non ci penso mai, quando sto con te. È bello, per una volta. Essere “normale” intendo. Almeno, esserlo più o meno» solamente ad osservarla gli veniva da ridere, aveva un’aria disastrosa e arruffata, una piccola catastrofe che si aggirava in casa sua con l’aspetto di una ragazzina gracile dai capelli ricci ribelli e spettinati raccolti in una coda quasi del tutto sfatta, una bretella della salopette scivolata sgraziatamente dalla spalla esile «Accanto a te praticamente chiunque risulta normale, anche io!»

Arianna si gonfiò come una vecchia gallina offesa e sfoderò una linguaccia infantile accompagnata da una poco elegante pernacchia. Le si leggeva in viso che comunque era sollevata e le aveva tolto un peso.

Di lei gli piaceva l’inconsapevolezza. Quando ci rifletteva, gli pareva quasi che Annie avesse vissuto una vita fuori dal mondo e le mancassero alcune nozioni base che si apprendono solo a contatto con gli altri. Come i pregiudizi. Per questo preferiva che un argomento delicato come il suo albinismo non venisse toccato più, non con lei almeno: il solo pensiero che potesse iniziare ad apparire estraniante anche agli occhi di Arianna era insopportabile, non avrebbe retto la pietà da lei, la sua diversità sarebbe stata troppo reale, se anche un occhio privo di giudizi a priori lo avesse compatito.

«Beh, visto che dormo qui, dammi qualcosa da mettere. Non ho il pigiama!»

Si risvegliò bruscamente dal suo stato ideale e realizzò in che situazione era andato a cacciarsi. La saliva gli andò di traverso e quasi si soffocò.

Tossicchiò, cercando di riprendere il controllo.

 

Sei un idiota. Come avevi fatto a non considerare che avrebbe messo qualcosa di tuo?

 

Il pensiero di vederla con indosso una delle sue magliette era estremamente eccitante, fece un rapido calcolo e imputò la colpa di quell’improvvisa perversione al troppo tempo trascorso dal suo ultimo incontro con Elena. Era in astinenza, e non era il massimo avere intorno una ragazza come Arianna, per lui evidentemente ideale e bellissima.

«Primo cassetto» raffazzonò una risposta senza guardarla, schiarendosi poi la voce arrochita. Arianna recuperò dalla cassettiera vicino all’armadio la prima maglietta della pila, che risultò essere quella dei Bon Jovi.

«Quindi è questo il tuo vero genere?» constatò con un ghigno.

«Ovviamente! E quella è nuova, vedi di trattarmela bene»

Arianna la girò per guardare le tappe del Tour sul retro «Ah, ma è di quest’anno!»

Demian si lasciò andare ad un sorriso gongolante pieno di soddisfazione, che poco aveva a che fare con le sue consuete smorfie sornione «Ventisette giugno, esatto! Abbiamo fatto una fatica assurda ad andare, Jules aveva la maturità e ha fatto un sacco di storie, ma ne è valsa la pena. È stato uno dei concerti più esaltanti della mia vita! E poi vuoi mettere? Sentire Livin’ on a player dal vivo è tutta un’altra cosa, ha proprio un’energia diversa! E vogliamo parlare di Bad Medicine? Credo di non aver mai urlato tanto! Se ci penso mi viene voglia di cantarla ancora!»

Ammutolì perché Arianna era scoppiata a ridere «Credo di non averti mai sentito parlare tanto! Te lo giuro, è la primissima volta. Me lo devo annotare che la musica ti esalta parecchio!»

Si morse l’interno della guancia e per dignità personale tentò di mascherare il disagio sollevando gli occhi al soffitto.

«Non è che mi esalti… mi aiuta a creare. Circa»

Una verità a metà era meno dannosa di una completa bugia. Era la droga a renderlo creativo, la musica era più che altro una reminiscenza infantile, un’associazione mentale a sua madre.

Forse anche a suo padre.

Probabilmente.

Ma non lo avrebbe mai ammesso e nemmeno accettato.

«Bene, vado a cambiarmi. Il bagno dove è?»

Abbassò la testa e borbottò le indicazioni, poi si sdraiò dandole la schiena, per non mostrarle chiaramente che il pensiero di lei nuda bastava a farlo arrossire. Pensava di essere diventato abbastanza immune, Elena lo aveva abituato a situazioni molto più estreme e imbarazzanti, ma c’era qualcosa in Arianna che gli rendeva tutto più difficile.

 

Mi verrebbe voglia di andare a dare un’occhiata, giusto per farmi un’idea.

 

La trovata peggiore che avrebbe potuto avere, Annie gli avrebbe spaccato la testa senza remore. Poche ore prima l’aveva vista in uno stato di alterazione abbastanza aggressivo da renderlo più consapevole dei rischi in cui sarebbe incappato se l’avesse fatta arrabbiare.

 

Non ne vale la pena, è troppo violenta. Se mi prende è la volta che è lei ad uccidermi

 

«Ehi Dem, mi senti?» la sentì urlare oltre la porta chiusa del bagno.

«Sì»

«Che altro ascolti?»

Si grattò la testa, riflettendoci senza troppo sforzo «Mhm, non saprei. Direi tutto»

La sentì ridere ancora «Troppo generale, non riesco a farmi un’idea così. Potrei pensare, che so, che magari ascolti Gigi D’Alessio»

Aggrottò le sopracciglia «E chi sarebbe?»

«Appunto!» esclamò ancora lei con tanta ovvietà e forza che quasi gli pareva di averla lì accanto e non ci fosse un tratto di corridoio e un muro a separarli. Anche sua madre aveva la brutta abitudine di parargli da camere di distanza, era una cosa che lo faceva impazzire perché maman era sorda e non sentiva mai le sue risposte, così lo costringeva sempre o a raggiungerla, interrompendo qualunque cosa stesse facendo, o ad urlare ancora più forte.

Ci si scorticava la gola, a parlare con quella donna impossibile.

«Voglio dei nomi, sei sempre troppo vago!»

Scattò nuovamente a sedere, basito «Che eresia hai appena detto? Io sarei troppo vago? Vogliamo parlare di te?»

Il cigolio della porta del bagno che si schiudeva e la voce nitida di Arianna che sbuffava impaziente «È completamente diverso come lo faccio io!»

Si ritirò lasciando la porta aperta, perché Demian sentiva perfettamente il rumore dell’acqua che scorreva nel lavandino.

«Io non ci vedo questa grande differenza»

«Pensi di rispondermi o no?» non lo disse nitidamente, Demian dovette decodificare le parole della frase, bofonchiata a bocca piena. Si stava lavando i denti con lo spazzolino di riserva che le aveva ceduto, ma questo non bastava di certo a zittirla.

«Scorpions, Ufo, Police, Rolling Stones, Green Day, Red Hot; è difficile, davvero ascolto di tutto. Ah, gli Iron Maiden, Nightwish, i Clash. Oh, e sopratutto i Sex Pistols e i Led Zeppelin»

In realtà pensare a qualche nome apriva la porta ad un’infinità di nomi, era difficile fare una selezione musicale per lui, che spaziava dal genere classico al rock, dal metal al pop. I suoi gusti erano incongruenti quanto la sua stessa persona. Nella sua testa la lista proseguiva, un vano tentativo di non pensare ad Arianna, nella stanza vicina, che si spogliava per indossare i suoi vestiti. Una prova di forza di volontà inaspettatamente difficile.

«Ci sono! Lavata e vestita, non potrai più lamentarti che sono appiccicosa di Coca Cola» Annie spuntò nel suo campo visivo raggiante e soddisfatta, e Demian rischiò di nuovo l’auto-soffocamento.

«Vestita è una parola grossa!»

La maglietta, per quanto su di lei immensa, la faceva sembrare più svestita che altro. Le arrivava a metà coscia e concedeva una perfetta visuale delle sue gambe, un po’ magre ma lunghe e flessuose come le aveva immaginate. La taglia eccessiva rendeva lo scollo troppo ampio e questo era finito per caderle, come quasi ogni maglia, sulla spalla, mostrando la linea perfetta della clavicola e dando un colpo definitivo alla sua già galoppante fantasia sessuale.

 

Ha le spalle troppo sottili, non c’è altra spiegazione, non è possibile che qualsiasi maglietta metta il risultato sia sempre lo stesso!

 

Le avesse gettato addosso un sacco di iuta probabilmente avrebbe ottenuto ancora un effetto da cartone giapponese osé di dubbio gusto. Con i riccioli sciolti sulla schiena e le spalle, ad accarezzarle la pelle candida, era davvero bellissima. Se poi sommava al suo corpo quell’aria da bambina innocente e smarrita appena uscita dal paese delle meraviglie, le sue sinapsi collassavano per surriscaldamento e tanto valeva gettarsi ai suoi piedi e dirle che sì, effettivamente poteva fare di lui quello che voleva.

Arianna non aveva una grande percezione di se stessa, e questo era ciò che più di ogni altra cosa lo fermava dal farle qualunque forma di avance o apprezzamento, era assurdamente inconsapevole e si muoveva con una nonchalance disarmante.

«Guarda che non è colpa mia se la tua maglia non è abbastanza lunga. E comunque, di tutti quelli che hai detto conosco solo i Green Day»

«Lo immaginavo» borbottò, ma non stava veramente prestando attenzione. Stava solo cercando di non fissarla come un pervertito.

«Allora mi dai dei pantaloni o devo davvero restare così?»

Demian sollevò appena l’angolo destro della bocca, in un sorriso ferino con il canino storto scoperto «Potrei seriamente pensarci»

Annie s’imbronciò e lasciò vagare gli occhi inquieti per la camera «Almeno dimmi dove dormo»

Si sentì decisamente provocato, in quel contesto, così decise di renderle l’imbarazzo, batté la mano sul letto accanto a lui e sfoderò tutta la malizia di cui fosse capace «Qui ovviamente» ammiccò.

Arianna trasalì e quasi gli venne da ridere

 

Ecco, adesso come minimo attenta alla mia vita. Ma almeno ne è valsa la pena!

 

Sottovalutava sempre quella ragazzina pestifera. Dopo un breve frammento di smarrimento, Annie sbatacchiò gli occhioni in una morbida espressione colma di languore che gli seccò la bocca. Mentre cercava di deglutire, o perlomeno di respirare scacciando qualunque pensiero non adeguato ad un’anima acerba e candida come quella di lei, Arianna si avvicinò lentamente, quasi studiando ogni passo. C’era una goffaggine immatura, in quel tentativo di fare la predatrice, eppure era tanto bella che persino la sua inesperienza la rendeva più affascinante.

La osservò chinarsi verso di lui, accostare pericolosamente il viso al suo.

Demian deglutì a vuoto e pensò che forse non era vero che doveva accantonare tutte le sue fantasie sessuali, forse Annie ci sarebbe anche stata.

Era veramente troppo bella per non sperare che ci stesse.

Arianna strusciò la punta del naso sul suo collo, ne sentiva il respiro caldo e leggero, trattenuto, e il contatto di quella punta irriverente che disegnava una linea invisibile sulla sua gola, fino all’orecchio. Quelle labbra dispettose gli sfiorarono la guancia nell’accenno di un bacio

«Dem…»

«Mmm?»

La sentì allontanarsi bruscamente. Spalancò gli occhi, colto alla sprovvista, e la ritrovò a pochi centimetri da lui, con un sorriso immenso e provocatorio «Ma dai, davvero avresti voluto una cosa simile? È così un cliché!»

Il suo ghigno perfetto e perfettamente irritante che lo sfidava con irriverenza, lo umiliò. Le dedicò un’occhiataccia colma di disprezzo, per riassumere un contegno e nascondere la portata della delusione.

 

Sei un idiota, ha ragione lei. Come cacchio hai fatto a pensare che fosse seria.

 

«Ti stavo solo assecondando» arricciò il naso.

Arianna gli sorrise e scrollò le spalle «Quindi, quando mio fratello si guarda i porno veramente vorrebbe certe cose. Adesso sono un po’ turbata! Dai, fammi posto»

«Che?»

«Hai detto che dormo qui, no?»

 

Ora il turbato sono io!

 

Considerando che aveva davanti un’ingenua senza speranza, forse più di quanto non lo fosse stato lui qualche minuto prima, e considerando che era bella, bella in modo assurdo, che gli rimestava qualcosa che proprio non riusciva a spiegarsi, la situazione per lui stava sfiorando un limite pericoloso. A pensare di toccarla si sentiva sbagliato, come se facendolo stesse provando a sporcare qualcosa di pulito. La medesima impressione che gli restava addosso quando nevicava ed era costretto a rovinare la purezza e la compattezza di tutto quel bianco con le proprie impronte, scalfendo così un’ideale di perfezione. Arianna era perfetta, forse in quel momento più di quanto non lo sarebbe mai stata in futuro. Forse perché pecche ancora non poteva averne, non gli era dato di conoscerle, avvolta com’era in quel suo alone di sorrisi furbi e traviatori.

Quel limite, per quanto davvero lo desiderasse, non lo avrebbe mai varcato. Avrebbe fatto il bravo

 

Arianna non è Elena

 

In realtà, in quel preciso istante, Annie era esattamente ciò che era stato lui a suo tempo di fronte all’infermiera: un’inconsapevole. Però nemmeno lui sarebbe stato Ellie, non avrebbe commesso lo stesso errore, non avrebbe fatto mosse che lo avrebbero fatto pentire in futuro, non mentre Arianna gli si affidava con cieca fiducia in un momento di debolezza e sconforto in cui cercava solo un luogo sicuro dove nascondere la testa dalle cose brutte.

Avrebbe rispettato il suo bisogno e le avrebbe permesso di fare lo struzzo e di cacciare la testa sotto la sabbia, almeno per quella notte. Aveva perso il conto delle volte in cui lui stesso avrebbe desiderato quella gentilezza e quella comprensione per sé.

Si alzò e recuperò dall’armadio un paio di pantaloncini neri da calcio, che le passò senza dire nulla. Arianna li afferrò al volo, ridacchiò e li indossò senza fare storie.

Poi scostò Lalami, ancora stravaccata sopra le coperte, e si infilò nel letto.

«Su, ti faccio posto, muoviti!»

«Ma che stai…»

Arianna si sfregò gli occhi con le mani a pugno, un gesto che aveva il gusto di una regressione all’infanzia dovuta alla stanchezza.

«Dormo, ovvio. Ho tanto, tanto sonno. Spegni la luce, per favore?»

Demian rimase interdetto, immobile per qualche istante, a fissare quell’alieno in forma umana che aveva impunemente occupato il suo territorio. Poi sospirò rassegnato, prese Lala in braccio e si arrese «Allora io vado in camera di maman. Buona notte»

Arianna si sporse subito e si affrancò alla sua maglietta per trattenerlo con inaspettata forza

«Non serve, resta qui. Tanto ci stiamo. Non sono abituata a dormire da sola, condivido la stanza con Giorgi, se sono sola non prendo sonno»

Tentennò, rimase in piedi di fronte a lei come un perfetto sciocco. Lalami, tra le sue braccia, aveva preso a leccargli e smangiucchiargli parte della maglietta, Arianna restava a guardarlo dal basso, quasi con supplica, come se davvero il pensiero di dormire sola le mettesse angoscia. La sua aria spaurita gli diede l’incentivo che non riusciva a trovare.

 

Non è una buona idea, è una pessima idea

 

La sua sanità mentale sarebbe andata definitivamente in pensione, ma si riteneva in bilico già da così tanto tempo che una spintarella in più verso il baratro non avrebbe fatto una differenza eccessiva. Sistemò Lala in fondo al letto, spense la luce e la raggiunse sotto la coperta. Le diede la schiena, ma questo non fermò Arianna che si accoccolò vicino a lui prima di cacciare un profondo sbadiglio.

Gli sembrava impossibile contemplare seriamente di addormentarsi.

La sentiva a ridosso del suo corpo, sentiva le gambe fredde che sfioravano le sue, sentiva la presa a pugno di quelle mani tonde affrancate alla sua maglia.

Il profumo dei riccioli sparsi sul cuscino.

E si meravigliava di se stesso. Negli anni si era convinto di aver sviluppato uno standard troppo alto con le donne, per colpa di Elena. Qualunque ragazza gli si fosse avvicinata, non era mai riuscito a provare più di un banale apprezzamento, un’attrazione pigra e blanda. Arianna invece pareva la bellezza personificata, ed era ridicolo perché non era vero. In uno spietato confronto con Elena, Annie razionalmente avrebbe perso. Ellie era l’incarnazione della bellezza da rivista patinata, inarrivabile e da togliere il respiro, concreta. Troppo concreta, una bellezza profana. 

Eppure, l’attrazione che in quel momento lo rendeva una statua di ghiaccio non l’aveva mai sentita prima e ne provava quasi un senso di panico.

I piedi di Arianna s’infilarono a tradimento tra i suoi.

 

Questa ragazza non conosce pietà!

 

«…Ehm. E tu Annie? Che musica ascolti?»

La sentì mugugnare una risata contro la sua spalla «Inorridirai di sicuro»

«Prometto che non farò l’acido»

«Mi piacciono gli 883. Ah, anche i Beach Boys» nel momento stesso in cui lo disse si mise di nuovo a ridere «Le loro canzoni mi mettono sempre di buon umore!»

Aggrottò le sopracciglia nello sforzo di ripescare qualcosa dai meandri della sua memoria, ma si rese conto ben presto di non avere idea di chi fossero.

«E chi sarebbero?»

Ed eccola che sbuffava già esasperata «Lo sapevo. Dai, non puoi non conoscerli per davvero! Hai presente Surfin USA?»

Si morse l’interno della guancia, ma non fece in tempo a negare che Arianna si era già lanciata in un canto in falsetto terribilmente stonato

 

«If everybody had an ocean

Across the U.S.A

Then everybody’d be surfin’

Like California…»

 

Demian rotolò sul fianco per potersi girare e tapparle la bocca prima che si spingesse troppo oltre

«C’est bon! J’ai compris!»

Percepì sulla pelle le labbra di quella disgraziata incurvarsi in un ghigno divertito, e subito si scostò da lei come scottato. Era già ustionato, se proprio avesse voluto essere onesto con se stesso, ma piuttosto si sarebbe tagliato una mano.

«Ecco, più o meno ascolto questo» riprese lei, ignorando quasi certamente di proposito il suo improvviso irrigidimento. Poi sbadigliò ancora e Demian ne approfittò per scacciare il disagio

«Dovremmo dormire»

Le diede nuovamente la schiena, sperando di salvarsi e di porre fine ad una conversazione che non avrebbe mai dovuto iniziare, ma Annie tornò ad appoggiarsi a lui.

«Qual è la cosa più bella che hai mai fatto per qualcuno?» gli mormorò ad un tratto, soffocando le parole nella stoffa.

Demian deglutì e provò una vertigine strana, l’impressione di cadere dal letto dopo uno spasmo.

 

Che domanda del cavolo

 

Pensò di ignorarla, di fingere sonno. Però quelle parole gli giravano in testa e frugavano nella sua memoria. Non riteneva di aver fatto molte cose belle nella sua vita, se ci rifletteva si accorgeva di quanto fosse ristretto il campo delle sue buone azioni.

Ad un tratto, il sorriso di maman affiorò tra i ricordi. L’aveva fatta sempre più piangere che ridere, ma era capitato che gli riuscisse di renderla felice, qualche volta.

«Un fiore» bisbigliò a sua volta, senza sapere davvero perché sentisse la necessità di condividere con lei quell’ombra di se stesso, del bambino che era stato. Forse, non voleva sembrare vuoto, una raccolta di fallimenti, forse voleva che Arianna sapesse che almeno una volta non era stato un mostro. «Una volta, da bambino, ho fatto un fiore di carta colorata. Pour maman»

Ricordava quel giorno come un momento surreale della sua vita, una dimensione di sogno troppo distante, che se si fosse stiracchiato in quel momento forse avrebbe scordato subito. Jenevieve si era chinata, alla sua stessa altezza gli aveva scompigliato i capelli.

Gli aveva sorriso.

Gli aveva sorriso veramente, un sorriso rivolto a lui e solo a lui, intriso di una tale dolcezza che per una volta si era sentito come l’unica cosa preziosa al mondo per lei. La ricordava con i capelli raccolti in una coda morbida sulla spalla, di un biondo dorato e splendente alla luce, la ricordava con un grembiule, forse stava cucinando.

Nella sua memoria maman non era mai stata più bella di quel momento, con quel sorriso sottile e malinconico.

«Quella volta mi ha sorriso»

Non gli aveva più sorriso così, non era mai più riuscito a farla felice come quel giorno. Per questo gli occhi di sua madre non si erano più soffermati su di lui ma l’avevano sempre attraversato per andare oltre, e quella piega delle labbra, calda e triste, era diventata sfuggente e fatata, inafferrabile. Lontana da lui.

 

Eri così bella, maman. Come stai ora?

 

Pensarla era troppo. Avrebbe davvero voluto andare a trovarla, ma non ci riusciva, non riusciva a sopportare l’idea di trovarsela di fronte, spoglia di ogni possibilità di salvezza.

 

Perché stai così male.

Perché devi morire?

 

Avrebbe voluto che lei avesse le risposte. Maman aveva una risposta per tutto, eppure non era in grado di spiegargli perché dovesse restare da solo. E se non poteva dare un senso a tutto, allora Demian voleva solo dimenticarla, per non sentire più quel vuoto immenso al centro dello stomaco.

«E la cosa più egoista che potresti chiedere a qualcuno?»

Demian si inquietò «È una domanda strana»

«È una domanda come un’altra. La risposta?»

«Probabilmente chiedere di amarmi. E tu, Annie?»

La immaginò arricciare le labbra nel buio, lo faceva quando rifletteva seriamente su qualcosa.

«Non farlo»

«Eh?»

«Non soffrire» specificò «Non stare male»

Demian valutò di alzarsi e accendere la luce, perché voleva capire il senso di quelle domande e voleva vedere quel viso chiaro dargli le risposte più oneste che le parole celavano. Eppure non si mosse

«Perché sarebbe egoista?» chiese invece.

Annie sembrò incerta, esitò «Perché non puoi ferire qualcuno e chiedergli di non stare male per avere la coscienza a posto, no?»

Non le rispose.

Paradossalmente, aveva un senso, ma questo lo turbava solo di più.

Arianna gli picchiettò la spalla con la mano «E tu perché?»

«Perché ci sono persone che non sono amabili e pretendere amore sapendo di non aver fatto nulla per meritarlo è egoismo»

Questa volta fu Annie a tacere, probabilmente cercava a sua volta d’interpretarlo. Nessuno dei due possedeva la chiave per comprendere l’altro, Demian lo capì come una rivelazione. Si esponevano, ma non lo facevano davvero.

Per questo osò porre una domanda a sua volta.

«E invece qual è la cosa più brutta che hai fatto?»

Dubitava seriamente che Annie avesse mai avuto occasione di fare qualcosa di veramente brutto nella sua candida vita. Certamente di cose belle doveva averne fatte molte, però un segreto c’era, una vena di senso di colpa irradiava dalla sua piccola figura appallottolata come un cucciolo contro la sua schiena, e avrebbe voluto capirne il motivo.

La sentì ridacchiare e seppe che non ne avrebbe ricavato nulla. Quando iniziava a sorridere, Arianna decideva di nascondersi, questo lo aveva capito, stava già stemperando la serietà di una conversazione che aveva iniziato lei.

«In realtà devo ancora farla» lo colse di sorpresa, con la sua voce sottile velata di malinconia «Quando la farò, promettimi che non mi perdonerai mai. Proprio mai. Che ogni volta ti verrà in mente e sarai arrabbiato con me»

Basito, lasciò che le braccia di Arianna lo cingessero e lei si aggrappasse completamente, restando rigido.

«Non so se riuscirei ad avercela con te»

Ebbe paura delle sue stesse parole, perché erano fin troppo oneste e vere, non era sicuro di poter provare rabbia o odio per una creatura tanto fragile, leggera in quel mondo e fuori posto per la realtà. Da una persona come lei, Demian si rendeva conto che avrebbe potuto farsi distruggere, glielo avrebbe permesso, questo era l’ascendente che riusciva ad avere su di lui.

Arianna sospirò, sfregò la guancia contro la sua spalla e gli sorrise sulla pelle «Non preoccuparti, ce la farai. Scoprirai che odiarmi non è così difficile»

Avrebbe voluto sapere, ma non aggiunse nulla.

Rimase in silenzio ad ascoltare quel respiro estraneo che si acquietava nel sonno.

 

 

 

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Capitolo 15
*** Barbi ***


À Demian

Capitolo tredicesimo

Barbi




Se fosse possibile sapere quel che ci sarà dopo la morte, allora nessuno di noi avrebbe paura nemmeno della morte. Eppure si ha paura. Si ha paura dell'ignoto, ecco di che. Per quanto si dica che l'anima andrà in cielo... noi sappiamo pure che il cielo non esiste e non c'è altro che l'atmosfera.”

 

Demian richiuse Guerra e Pace con un sospiro. Non aveva la pazienza per sopportare le paturnie mentali e le paure di Nikolaj, quando era lui il primo a sguazzare senza ritegno nelle proprie ossessioni. Si era pentito della vigliaccheria che aveva dimostrato la sera precedente. Le parole di Arianna avevano gettato su di lui una coltre di disagio troppo spessa, e sotto il peso dell’incertezza e di tutte le implicazioni che non aveva il coraggio di considerare, si era lasciato soffocare e si era tirato indietro.

Era la prima volta che riusciva a parlare, parlare davvero, con qualcuno, che sentiva il bisogno di dare risposte che avessero un senso e lo aiutassero a farsi comprendere. Eppure, nonostante tutto, quando era giunto il momento si era di nuovo tirato indietro e aveva trovato più semplice fingere di dormire.

 

Sei il solito vigliacco in pratica

 

«La vuoi smettere di venire qui a rompermi?»

«E tu la vuoi piantare di lamentarti? Sto cercando di fare una buona azione se non te ne sei accorto» rispose secco al biondino, rigidamente seduto sul suo lettino d’ospedale. Max, che da dieci minuti buoni stava cercando di dargli fuoco con lo sguardo, abbozzò un sorriso di scherno.

«Fai anche il letterato oltre che il drogato? Non convinci un cazzo di nessuno»

Demian accarezzò lentamente la copertina del libro, trattenendo un sorriso, un misto di tenerezza per l’oggetto che stringeva tra le mani e di divertimento per quel ragazzino patologico e le sue uscite infelici.

«Dovresti leggere, Max. Passeresti il tempo almeno. Quando ti dimettono?»

Il rumeno sollevò gli occhi al soffitto, senza provare minimamente a mascherare tutta l’insofferenza che sentiva nei suoi confronti.

«Grazie a te ho ancora dieci giorni. Ma si può sapere che cazzo di pugno hai? Me l’hai sbriciolata la mascella, brutto bastardo di un albino di merda» la bocca gli si piegò in una smorfia di dolore, borbottare troppo gli faceva male ma, d’altro canto, Demian aveva imparato che era impossibile zittire Maximilian, al diavolo il dolore.

Gli sorrise sornione «Tirapugni, pivello. È quello che ha fatto il danno, non io» ribatté ignorando gli insulti. Doveva ancora decidere se fosse per i sensi di colpa o per pura, inspiegata simpatia, che Max potesse rivolgersi al lui in quel modo, utilizzando certe parole che in passato lo avevano fatto imbestialire. C’era qualcosa di stranamente fresco, in quel ragazzino dai capelli paglierini, nonostante l’atteggiamento discutibile e la volgarità intrinseca.

Era diretto, onesto, e nonostante i precedenti non si tirava indietro se doveva dire la sua, a costo di prenderle di nuovo.

«E io che pensavo eri una mezza sega. Sembri una mozzarella scaduta. Ma cazzo, non puoi toglierti quel berretto di merda? Sembri un fantasma, veramente. Preferirei che spariresti!»

Demian corrugò la fronte, analizzò rapidamente i costrutti sintattici e verbali di quel ragazzo e si sentì male «Che sparissi Max, che sparissi» si concentrò sull’orrore peggiore, ignorando il resto «Ecco perché leggere non ti farebbe male»

Max cambiò rapidamente colore, dall’umiliazione alla rabbia in un istante «Me lo tieni tu il libro, cazzone? No perché grazie ad un fottuto stronzo a caso non posso muovere il collo. Accontentati che riesco a parlare per mandarti a cagare, brutto coglione»

Dem sbuffò e si alzò per sgranchirsi le gambe dopo l’ultima ora trascorsa a leggere. Era piuttosto abituato ad un linguaggio scurrile, Nicolas e gli altri non erano propriamente signorine dell’alta società e lui stesso si era trasformato in uno scaricatore di porto senza quasi accorgersene, ma Max, Max vinceva su tutti. Non era in grado di formulare un pensiero che non contenesse un “cazzo” o un “fottiti” da qualche parte.

Quando sentiva la necessità di andare a trovare maman, aveva preso l’abitudine di fermarsi da Maximilian, praticamente passava da lui a giorni alterni e per questo aveva fatto il callo a quel discutibile modo di fare.

E all’odio mortifero che il rumeno nutriva per lui.

In generale, ormai lo trovava piuttosto divertente. Perlomeno i suoi insulti erano abbastanza coloriti, spesso fin troppo astrusi e originali, diversi dalle banalità che gli venivano tirate dietro di solito. Controllò il cellulare e si accorse ancora una volta di aver superato il tempo limite per impedirsi di andare a trovare maman.

 

E anche oggi salta

                                     

Quella mattina, dopo aver scaricato Annie davanti all’ingresso degli Ospedali Riuniti, aveva deciso di affrontare Jenevieve, ma alla fine si era rifugiato da Max come da recente abitudine. Si passò una mano sul collo, i denti a tormentare l’interno della guancia, mentre si malediceva ancora per quella sua eterna e vigliacca indecisione sempre presente nei momenti importanti.

«È tardi, vado da mia sorella» avvisò Max, stiracchiando anche le braccia.

Gli occhi chiari, azzurro tiepido, del ragazzino, lo incenerirono «Ma chi te l’ha chiesto! Ti sembra che me ne freghi qualcosa? Va’ dove cazzo ti pare e non rompermi più i coglioni. Spero che cadi dalle scale e ti spacchi qualcosa, bastardo che non sei altro, così almeno stai qui per un fottuto motivo del cazzo e non solo per rompermi le palle!»

Tempo scaduto. Si accorgeva di aver superato il limite massimo con Max quando il ragazzo non riusciva più a dire una frase che contenesse più parole che parolacce. Appoggiò il libro sul comodino, accanto all’infortunato, e gli sorrise con condiscendenza.

«Lo so che per te sarà veramente troppo difficile da leggere, ma te lo lascio qui. Non sia mai che in un lampo d’intelligenza acuta tu non riesca a capirci qualcosa. Potresti farti una cultura, fa meno male di tutte le canne che ti fumi»

Maximilian s’imbronciò, era quasi ridicolo vederlo offeso dopo tutti gli auguri di morte che gli aveva propinato nell’ultima ora.

«Stronzo, sei tu che mi porti il fumo»

«Idiota, sei tu che me lo hai chiesto»

Max aprì la bocca, poi la richiuse. Rimase in silenzio per un breve istante, in ponderazione.

«Portatelo via, quel cazzo di coso. Non ce lo voglio qui, che poi magari rincoglionisco come te. Forse non è perché sei albino che sei stronzo, ma per tutti quei cazzo di libri che ti leggi»

Demian scoppiò a ridere di gusto «Cristo, tu si che sei un profondo conoscitore dell’animo umano» scrollò le spalle, scioccato e divertito. Si era aspettato di più dalle sue riflessioni, ma c’era davvero qualcosa di troppo spassoso in quel moccioso dalla bocca grande. «Ci vediamo, Max. Leggi quel libro»

«Vaffanculo stronzo»

Demian si richiuse la porta alle spalle, ma attese ancora un attimo prima di andarsene. Dal rettangolo di vetro della porta, studiò le mosse di Maximilian. In un primo momento, il ragazzo rimase imbronciato e irritato, sulle sue. Poi però lo vide esitare, afferrare il libro e sfogliarlo con la stessa aria di un uomo che maneggiasse materiale radioattivo.

Era veramente spassoso.

Stava per attraversare la porta girevole per uscire dal complesso ospedaliero, quando vibrò il cellulare. Lo tolse con calma dalla tasca, pronto a ricevere l’ennesima minaccia di Nicolas che voleva sapere che fine avesse fatto.

Sul display però capeggiava un nome tutt’altro che familiare e atteso.

Erano passate quasi due settimane da quell’episodio e Demian si era completamente scordato del compagno di classe rachitico, con le lenti degli occhiali a fondo di bottiglia. Il suo messaggio lo aveva colto alla sprovvista.

 

“Scusami se ti disturbo, ma ho bisogno di parlarti.

Mi serve il tuo aiuto. Potresti raggiungermi all’uscita

della scuola alla quinta ora?”

 

Lo aveva riletto una decina di volte, poi nel dubbio lo aveva riletto ancora. Ovviamente il pensiero di tirarsi indietro non lo aveva nemmeno sfiorato, mettendosi in mezzo per poi sparire di certo aveva incrementato i guai del ragazzo e non voleva dargli più problemi di quanti già non ne avesse.

Ricontrollò l’ora: era in ritardo di quindici minuti. Gli aveva scritto subito che probabilmente, con la mezz’ora di tempo necessaria a raggiungere l’Istituto, avrebbe fatto tardi, ma Barbi semplicemente non gli aveva più risposto. Rimise il cellulare in tasca e parcheggiò il motorino, non c’era anima viva su quel lato dell’edifico, l’ingresso della scuola era deserto e il silenzio profondo gli mise addosso un senso d’inquietudine.

 

Non so neanche se è ancora qui o se è già andato via

 

Sentiva che c’era qualcosa di storto e questo lo innervosiva, ma anche a scrutare con attenzione l’ambiente circostante più e più volte era piuttosto evidente che lì non vi fosse nessuno, eccetto le file di macchine e motorini. Molte classi avevano la sesta ora, forse anche la sua ma non ne era sicuro perché era ben lontano dall’imparare l’orario. Probabilmente non lo avrebbe imparato mai, stava valutando di mollare la scuola quell’anno.

 

È l’ultimo obbligatorio e non è che io qui ci faccia molto

 

Considerò, dedicando un’occhiata pigra e annoiata all’edificio. Quel complesso di cemento non gli trasmetteva nulla, solo una fredda indifferenza. Lentamente, ponderando tra sé quella strana impressione che gli agitava lo stomaco, raggirò l’edificio per raggiungere il parcheggio sul retro. C’era una luce fiacca tipica di un cielo gonfio di nuvole dopo un temporale, proprio come quel giorno, il giorno in cui aveva incontrato Diodoro la prima volta. Esattamente come in quell’occasione, tra l’altro, aveva dimenticato gli occhiali da sole e la sua vista debole gli stava creando problemi nel mettere a fuoco tutto ciò che fosse ad una distanza superiore ai venti metri. Tuttavia, riconobbe subito la figura di Barbi che lo attendeva nervosamente accanto ad una macchina. Aveva le braccia conserte e sembrava incapace di stare immobile. Spostava smarrito il peso da un piede all’altro ed ogni suo gesto era specchio di un’impazienza inquieta, un timore malcelato.

Demian fece un cenno con la mano per attirare l’attenzione e Barbi in risposta scattò sul posto, come un soldatino ripreso dal proprio generale.

«Ehi» lo salutò con la flemma più pacata di cui era capace, sia per non farlo agitare ulteriormente che per non lasciare trapelare il proprio turbamento. In quella manciata di anni in cui si era trovato a fronteggiare situazioni pericolose per la propria incolumità, Demian aveva sviluppato un forte istinto di sopravvivenza che lo metteva in allarme non appena qualcosa non gli tornava.

Come in quel momento, mentre leggeva sul volto smunto e butterato del ragazzo una traccia di paura.

 

Non paura, disperazione rende meglio.

Che sia per colpa mia?

 

 

«C-ciao» balbettò Diodoro, esitante.

Se avesse dovuto descriverlo, Demian avrebbe scelto l’immagine di un cerbiatto braccato, consapevole di non avere più alcuna via di fuga. Gli occhi lo fuggivano e frugavano attorno a loro con costernazione assoluta. Demian cercava di capirlo, in fondo avevano parlato solo una volta, non si conoscevano e aveva liquidato Barbi con una certa rudezza, dopo averlo per giunta aggredito e avergli promesso un aiuto che non gli aveva mai dato. Nell’insieme, i motivi per avere paura di lui non mancavano, ma questa consapevolezza non lo aiutava ad acquietarsi. Né riusciva a far tacere il sospetto, l’istinto gli gridava di guardarsi le spalle.

Sfilò una mano dalla tasca e si grattò distrattamente la nuca, a disagio, tirandosi le corte ciocche bianche alla base del collo.

«Tutto a posto, Barbi? Hai più avuto problemi con quel drogato?»

Ad averlo davanti ora, a vederlo tanto incapace e indifeso e pensarlo in balia di un armadio a due ante decisamente incline a menarlo, si sentiva malissimo, capiva il danno che aveva fatto con il suo menefreghismo.

«Ehi, che ti prende ora?» domandò ancora, confuso.

Barbi tremava.

Apriva la bocca, esitava, poi la richiudeva con l’aria terrorizzata di un bambino chiuso in una stanza buia.

«Lemaire» riuscì ad articolare in un soffio «Mi dispiace. Perdonami, non volevo»

Ogni muscolo del suo corpo s’irrigidì immediatamente, i suoi sensi si tesero inconsciamente ed il nervosismo latente si trasformò in ansia e accusa «Di che cazzo parli?» sibilò ostile. Si guardò subito attorno, studiò rapidamente il parcheggio e solo allora si accorse di quattro ragazzi che stavano uscendo da una macchina, gli sguardi fissi su di lui e sul secchione.

Barbi era ad un passo dalle lacrime e da un possibile attacco di panico.

«Mi hanno costretto, non volevo attirarti qui. Credimi» lo supplicò con gli occhi lucidi, enormi su quel viso smunto e sbattuto. Demian non gli prestò attenzione.

Osservò i nuovi venuti che lo avevano palesemente puntato. Dopo essersi dati di gomito, si avviarono verso di loro, i volti sfigurati da ghigni provocatori perversamente soddisfatti. Quell’atteggiamento attaccabrighe Dem lo conosceva anche troppo bene, sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto di lì a breve. E si sorprese nel realizzare che non era arrabbiato con Barbi, per quanto una parte di lui avrebbe voluto tirargli un pugno in un occhio per averlo venduto così vigliaccamente: era solo preoccupato. Dopo aver pestato lui, se la sarebbero presa con quel ragazzo, e pur con tutta la buona volontà Diodoro non aveva proprio l’aspetto di una persona in grado di uscire ancora in piedi da un pestaggio.

«Vattene» sibilò gelido.

Diodoro rispose con un singhiozzo stentato.

 

Cristo, è una donna non un ragazzo. Questi lo massacrano.

È già bastato Max

 

«Allora, vuoi toglierti dai coglioni?» lo aggredì per il nervoso «Qui me la sbrigo da solo, vedi di sparire all’istante»

«Ma…»

Dem non gli diede il tempo di proseguire, lo inchiodò con la sua occhiata più truce «Non sei di aiuto, sei solo un peso morto»

Sperava di spingerlo a levarsi velocemente dai piedi, ma il ragazzo pareva troppo disperato per prestargli ascolto, probabilmente il senso di colpa lo fissava al suolo e gli impediva qualunque movimento.

Si passò una mano sul volto, esasperato «Cristo Barbi. Ti credo, porca puttana ti credo! Ora sparisci, è un problema che ho creato io. A loro non interessi, sono io che li ho provocati»

Ottenne da lui solo un impercettibile movimento, un accenno al voltarsi. Un solo, minuscolo contrarsi dei muscoli, poi Diodoro lo fissò ancora, con il labbro tra i denti «Ma tu da solo… loro ti…»

Demian sospirò, i quattro erano a pochi metri da loro, ormai riusciva a distinguere perfettamente i lineamenti di ognuno, distingueva le parole che si dicevano.

«Se stai qui, questi ti massacrano. Va’ via. Per favore»

Barbi si morse le labbra, ma doveva averlo convinto con quell’ultima supplica, perché si decise e corse via. I quattro ragazzoni, capitanati da niente meno che Frankenstein, non gli prestarono un’oncia della loro attenzione, concentrati come erano a squadrarlo da capo a piede con i loro ghigni sprezzanti.

Frankenstein era tatuato e brutto come lo ricordava, con il cerotto che nascondeva il naso enorme risultava ancora più grottesco.

«Questo sarebbe il fottuto cagnolino di Niko?» domandò uno dei suoi compari, testa rasata e svastica sul collo. Erano tutti così simili che se gli avessero chiesto un riconoscimento facciale non sarebbe stato in grado di farlo, erano fotocopie malriuscite di uno stereotipo «Come cazzo hai fatto a prenderle da lui? è un albino di merda, guardalo»

Demian serrò i pugni, non abbassò lo sguardo ma fece appello a tutto il proprio autocontrollo per non peggiorare la propria situazione

«Perché il vostro amichetto del cuore non è solo un coglione, ma pure una mezzasega» gli sfuggì dalle labbra con il tono più provocatorio e sprezzante del suo ampio repertorio.

 

Ok, appello fallito

Magari provocarli non è proprio l’idea più brillante che potessi avere, ma tanto lo sai che ti menano lo stesso, tanto vale non andare per il sottile

 

Frankenstein divenne paonazzo in un istante

«Brutto pezzo di mer….»

Non gli diede l’occasione di concludere. Appena lo vide aprire bocca, Demian lo caricò con un pugno allo zigomo, senza neanche rifletterci.

 

Se deve iniziare che inizi

 

L’effetto sorpresa durò appena il tempo di un gemito, i tre compari non gli diedero la possibilità di fare altro. Uno di loro lo afferrò alle spalle, la braccia sotto le ascelle lo imprigionarono in una morsa senza possibilità. Tentò di divincolarsi, lo usò come perno, si sollevò da terra e riuscì a tirare un calcio al ginocchio del secondo Naziskin che gli si era fatto sotto per prenderlo a pugni. Un urlo accompagnò la gamba del ragazzo che cedeva, cadde a terra e Demian gli sferrò una pedata in faccia con tutta la forza di cui era capace.

Lo schizzo rosso che uscì dalla sua bocca gli sporcò la scarpa, ma non se ne accorse, era troppo concentrato nello sforzo di liberarsi dalla presa ferrea che gli immobilizzava le braccia. Il ragazzone alle spalle strinse di più, con una mano sotto il mento gli bloccò la testa e Frankenstein gli rese subito un cazzotto in pieno viso.

Il dolore assordante si tradusse in un fischio prolungato che lo intontì. I sensi intorpiditi dal colpo non mettevano a fuoco i suoi aggressori, la visuale si era riempita di puntini luminosi e indefiniti e tutto sembrava mosso al rallentatore.

Pochi secondi, una manciata, poi tutto tornò a muoversi velocemente, troppo.

Iniziarono a colpirlo senza pietà allo stomaco, al viso, e Demian non riuscì più a distinguere chi o cosa gli stesse andando addosso con tanta violenza, né dove provasse effettivamente dolore, tanto era diffuso. Cercò ancora di liberarsi, si sforzò di allontanarli con le gambe, ma lo stomaco gli doleva ed anche usare l’energumeno dietro di lui per sollevarsi si faceva più difficile. Con tutta l’energia che riuscì a raccogliere tirò una testata al ragazzo che lo bloccava.

Sentì i denti di quello entrargli nella carne della cute, gridò un lamento, ma anche il suo aguzzino imprecò e fu costretto a liberarlo. Senza un sostegno, Demian cadde quasi a carponi, attenuò il ruzzolone con le mani, una fitta gli trapassò il ventre da parte a parte e a denti stretti trattenne un altro gemito. Stava per rialzarsi quando un calcio allo stomaco lo fece capitolare. Venne sbalzato da terra per ricadere più duramente sull’asfalto del parcheggio, un metro più lontano. Batté la testa, un bruciore allucinante gli afferrò la nuca e si diffuse a raggiera in tutto il corpo, inumidendogli gli occhi per il dolore.

«Brutto bastardo maledetto! Dove credi di scappare?»

Non distinse chi dei quattro caricò il calcio alla bocca dello stomaco che gli tolse il respiro e lo lasciò boccheggiante. Sputacchiò gocce di saliva e quasi gli venne da ridere

 

Come se avesse importanza chi è stato, sono un coglione

 

Si rannicchiò a terra, in un bozzolo di braccia e gambe per proteggere al meglio il volto e il petto dai calci che i quattro cominciarono a tirargli con tutta la cattiveria di cui erano capaci. Che raggiunta una certa soglia il dolore cessasse era una vera stronzata, lo aveva già sperimentato in passato. Si centuplicava, semmai, e gli dava l’impressione di un dolore esteso e tanto intenso da avere tutte le ossa rotte. Il ronzio nelle orecchie gli impediva di districare la rete di insulti che gli stavano riversando addosso, percepiva lo scherno, la rabbia, ma i suoi sforzi erano troppo volti a restare lucido, per non svenire e rimanere totalmente indifeso in balia di quei maledetti, per dare a tutti quei suoni anche solo il minimo peso.

 

Mi viene da vomitare

 

Un urlo.

Un grido più forte degli altri, che sovrastò il brusio dei suoi aguzzini.

Bastò quel grido perché il tempo si fermasse. Ed un tratto se ne aggiunsero altri, uno sciame di parole confuse di cui non era in grado di cogliere il senso. Sapeva solo che era grazie a quel borbottio che i quattro ragazzi si erano fermati. Aprì piano gli occhi, stordito, e si accorse che, spiaccicati al vetro delle aule, facevano capolino gli studenti. Avevano assistito alla scena ed ora chiamavano aiuto.

«Cazzo, dobbiamo filarcela!»

«Aspetta un attimo, questo stronzo mi deve dei soldi»

Frankenstein si chinò su di lui, le sue mani viscide, sbeccate sulle nocche di rosso, frugarono nella tasca interna del suo giubbino fino a che non trovarono il portafoglio. Avrebbe voluto avere la forza per fermarlo, ma rimase inerte, le dita gli formicolavano ed anche contrarle in leggeri spasmi era uno sforzo immenso, in quel momento. Gli occhi però restavano vigili e con tutto il disprezzo con cui poteva caricarli, Demian osservò ogni gesto dell’energumeno e quel suo orribile volto, sbozzato malamente da una leopardiana madre natura. Il naziskin sfilò i soldi e rigettò il portafoglio a terra, accanto al suo naso, con quell’aria di superiorità che si dedica solo agli insetti. Gli afferrò i capelli e lo costrinse a reclinare il capo all’indietro per guardarlo fisso negli occhi. Demian sentì la cute tirare e bruciare dove già si era ferito nella colluttazione.

Trattenne una smorfia, osservò la grossa faccia goffa da idiota, che nemmeno il contesto riusciva a rendere temibile o almeno vagamente sveglia.

«Adesso siamo pari, albino di merda. Non metterti più tra i piedi»

Anche se non poteva muoversi, anche se si sentiva a pezzi e doveva sembrare ad un passo dalla fossa, anche così quelle parole gli risultavano insopportabili. Assottigliò gli occhi gonfi con sfida e gli sputò in faccia.

A rallentatore, basito, Frankenstein si passò una mano sulla guancia, guardò le dita sporche di saliva e cambiò colore in un secondo «Brutto bastardo!»

Strinse brutalmente la presa sui capelli candidi e gli sbatté la testa sull’asfalto.

La vista si annebbiò e Demian non vide più nulla

«Alza il culo, dobbiamo andare cazzo!»

«Molla quello stronzo e andiamo!»

«Stanno arrivando!»

Lo scalpiccio di passi frettolosi che si allontanavano fu l’unico segnale del fatto che ora era solo, abbandonato in un parcheggio, a terra. Era tutto ovattato, eppure non era ancora svenuto, e con quella poca consapevolezza che gli restava si meravigliava di questo. 

 

Quanto può sopportare il mio corpo?

Quanto può resistere?

È passato un po’ dall’ultima volta che le ho prese così,

se mi trovano in questo stato, crolla il mondo.

La scuola, la zia… maman.

Sarah

 

Sbatté e strizzò le palpebre finché le macchine intorno a lui non ripresero una certa nitidezza. Poi, si costrinse a rotolare prono e con una lentezza esasperata, che gli dava il nervoso perché mal sopportava di non poter avere controllo sul proprio corpo, fece leva sulle braccia. A tratti gattonando, a tratti sollevandosi in modo grottesco, attraversò il parcheggio e si trascinò dietro un gruppo di macchine, vicino all’uscita.

I professori e le bidelle comparvero, fortunatamente, quando ormai si era già nascosto.

«Erano qui!»

«Quei delinquenti sono scappati»

Appoggiò la testa alla portiera, trattenne il fiato.

«Dobbiamo chiamare i carabinieri» esclamò una voce maschile. Reclinò il capo e si sporse abbastanza per vederli allontanarsi.

Sospirò stancamente.

La parte più razionale e sensata di sé gli diceva di trovare la forza di alzarsi e di andarsene. I carabinieri, quando fossero arrivati lo avrebbero certamente trovato, e Demian aveva addosso anche del fumo, un quantitativo sufficiente per accusarlo di spaccio e non di uso personale.

 

Alzati, cazzo!

Prese fiato, si appoggiò al cofano della macchina e si issò barcollando peggio di un ubriaco. Le gambe molli minacciavano di mollarlo da un momento all’altro, perdeva sangue dalla testa, se ne accorse per il piccolo rivolo rosso che gli colò parzialmente sull’occhio, sfasando la sua vista già poco ottimale. Le labbra tumefatte gli dolevano, non osava immaginare quanto la sua faccia fosse viola e contusa e il dolore che gli tormentava il costato non gli lasciava presagire nulla di positivo.

 

Fantastico, conciato così dove pensi di andare, coglione?

Già non possi inosservato di norma, ora hai anche l’aspetto di uno appena finito in un tritacarne.

 

Imprecò e scivolò di nuovo a terra, con un tonfo arreso.

 

Aspetta che arrivino, che ti portino in ospedale e poi che succeda quel che deve succedere.

Chi se ne importa della zia?

Non è tua madre, smettila di darle più potere di quanto non ne abbia, maman sta morendo, al diavolo anche lei.

Cosa importa se ti accade qualcosa?

La tua vita non è più un suo problema, lei se ne sta andando, sei tu l’idiota che resterà qui, da solo, quello che ti succede è solo un problema tuo, non hai nessuno, di che ti preoccupi?

 

Però, Sarah, lei avrebbe pianto.

L’unica che aveva sempre pianto per lui era Sarah. L’unica per cui doveva avere un minimo di cura di se stesso e non lasciarsi del tutto marcire, era sempre e solo lei. Si colpì piano la guancia, in un gesto di auto-rimprovero che sperava gli ridesse un minimo di lucidità e contegno. A volte si vergognava profondamente di sé, quando scivolava nel pantano dell’autocommiserazione e concepiva pensieri aberranti che, ringraziava il cielo, maman non poteva sentire. Se avesse saputo quanto era marcio dentro e quanto era putrida la sua mente, le avrebbe spezzato il cuore.

Del tutto insperato, ma con un ottimo tempismo, comparve Diodoro che non appena lo identificò, gli corse subito incontro «Demian!»

Difficile dire se fosse più sconvolto o disperato, non che facesse una qualche differenza. Il compagno di classe esitò e lo squadrò attentamente, prima di avvicinarsi. Quell’esitazione confermò i suoi sospetti: doveva avere un aspetto a dir poco pessimo.

«Sto bene, Barbi» biascicò precedendo qualunque futile cicaleggio.

«Non stai bene per niente! Devo portarti in ospedale! Mi dispiace così tanto, davvero. Mi hanno costretto e minacciato e io…» un singulto e gli occhi sotto quelle lenti spesse sembrarono ancora più spropositatamente grandi «Ho avuto paura. Sono stato un vigliacco, non avrei dovuto…»

Demian frenò le sue ammissioni di colpa con un gesto stanco della mano. Si accasciò del tutto contro la portiera della macchina e piegò il collo alla ricerca di un sostegno per la testa troppo pesante che scoppiava dal dolore.

«Se vuoi farmi un favore, portami via da qui. Non mi serve un ospedale. Stanno per arrivare i carabinieri, sarebbe meglio se non mi trovassero»

Barbi si morse le labbra, poco convinto, ma per una volta colse l’urgenza sul suo viso e non fece storie. Demian gli passò un braccio sulle spalle e si lasciò andare di peso sul suo corpo minuto che lo aiutò a camminare.

Ci volle molto tempo prima che Demian decidesse di fermarsi, un po’ perché anche solo stare in piedi si stava rivelando un’impresa, una fatica imprevista, un po’ perché voleva allontanarsi dalla scuola quanto le sue gambe glielo avrebbero permesso.

Quando si sentì al sicuro, ad una valida distanza di sicurezza, disse a Barbi che potevano riposare. Il compagno di classe lo aiutò, con fin troppa solerzia e premura, a sedersi all’ombra di un albero che gettava le sue fronde sulla strada e le file di macchine che li nascondevano alla vista. Tossì e sputò un grumo di sangue. Non era preoccupato, la carne tenera della guancia si era lacerata, non era nulla di pericoloso ne era quasi del tutto sicuro. In compenso, anche se il dolore era aumentato in maniera vertiginosa e disomogenea, riusciva di nuovo a muoversi autonomamente.

 

Più o meno

 

«Quindi cosa facciamo? Non dovresti andare in ospedale?»

 

Dovevo proprio trovarmi una Barbi ansiosa, come compagno di fuga, mi sembra giusto

 

Sospirò e ripeté per la millesima volta «In ospedale non ci vado»

 

Anche se probabilmente Maximilian sarebbe più che contento di vedermi conciato in questo stato

 

«Ma hai bisogno di aiuto!» insisté Doro, sistemandosi nevroticamente, in un tic collaudato e inutile, gli occhiali dalle immense lenti a fondo di bottiglia. Li sistemava sulla cima del naso, poi si guardava attorno in un moto ansioso di sospetto, come se davvero pensasse che qualcuno li avesse seguiti.

«Hanno avuto ciò che volevano, non ci daranno più fastidio. Rilassati. Mi stai angosciando»

Barbi si affrettò ad annuire spasmodicamente, rimarcando ancora, con un’inconsapevolezza ingenua, quanto fosse in ansia. Le labbra stritolate dai denti, si decise finalmente a sedersi accanto a lui. «Ho racimolato tutti i soldi che volevano» iniziò a raccontare, la voce tremula che tradiva l’imbarazzo e il ricordo della vergogna subita «Ma quando glieli ho dati, mi hanno detto che non bastavano, che ci avevo messo troppo» l’ombra della paura era ancora depositata su quel viso magro e butterato da secchione.

Demian reclinò stancamente la testa all’indietro, appoggiò la nuca dolorante al tronco dell’albero e con le iridi chiare inseguì le fronde degli alberi spogli, accarezzate da un’opalescente luce irreale. Le poche foglie colorate pendevano precariamente, attaccate alla vita per un soffio. Le tinte forti e vivaci sembravano tempere ad olio e assumevano connotati differenti, erano così allegre da ricordare Arianna, per analogia.

Arianna quel giorno, in quel cortile misero.

Non era passato troppo tempo, ma sembrava ne fosse trascorso molto di più. Anche quella volta aveva un occhio nero, ne aveva portato fieramente l’alone fino a pochi giorni prima.

«Volevano troppo. Io non li avevo, tutti quei soldi. La mia famiglia non li ha. Non potevo chiederli alla mamma» a quella confessione tremò ed ebbe una leggera battuta d’arresto, un’esitazione colpevole «Mi hanno detto che se ti avessi portato da loro avrei saldato il mio debito. Altrimenti me l’avrebbero fatta pagare»

«Hanno preso anche i miei soldi» chiarì Demian laconicamente, la voce ruvida e i suoni strascicati vennero accompagnati da un altro sospiro.

Respirare gli causava una fitta acuta al petto, forse aveva una costola incrinata.

«Mi dispiace»

«Non dispiacerti» lo bloccò subito, perché era troppo stanco per sentire sciocchezze «Sono stato io a dire che glieli avrei portati. Per una serie di motivi inutili, non mi sono presentato a quell’incontro. Scusa, non volevo peggiorare la tua posizione. Volevo davvero aiutarti»

Barbi boccheggiò, gli occhi grandi un poco sconvolti «Ti hanno pestato a sangue per colpa mia, perché mi chiedi scusa?»

Dem si accigliò, ed anche se ogni movimento della testa gli causava capogiri, inclinò appena il capo verso il ragazzino che, per l’ennesima volta, sembrava ad un passo dal pianto isterico.

«Perché ho sbagliato io» affermò con una certa, perplessa ovvietà «Cioè, non fraintendermi, quando ho capito quello che avevi fatto, lì per lì avrei voluto farti ingoiare gli occhiali. Però va bene così, non è che avessi molta scelta» tossì di nuovo, in bocca gli restava quel fastidioso e ferruginoso sapore di sangue. Si pulì le labbra con il dorso della mano e lo ritrovò sporco di rosso.

«Devi andare in ospedale» ribadì Barbi, ora con un tono deciso e perentorio che non ammetteva repliche.  Quella mostra di carattere lo fece sorridere, era una sensazione estraniante vedere qualcuno al di fuori del suo mondo che si preoccupava per lui. Di solito le persone lo evitavano, lo abbandonavano in un angolo a curarsi da solo le sue ferite, ma Diodoro aveva qualcosa d’intonso in sé che gli faceva superare le sue immense e soverchianti paure.

«No»

«Allora chiamiamo la tua famiglia. Bisogna curarti!»

 

Così vedresti che non ho una famiglia

 

«No»

«Sei intenzionato a restare in questo parcheggio a morire? Ti porterei a casa mia, ma è lontana e tu, messo così male, non puoi andare molto lontano!»

Demian si contemplò un momento, in silenzio, cercando una soluzione. Barbi non aveva torto, anche solo alzare un braccio era un grande sforzo e certamente non avrebbe potuto restare lì troppo a lungo, specie con un ragazzino isterico come complice. Scorse rapidamente una lista di nomi alternativi, perché sapeva chi avrebbe dovuto chiamare e il pensiero lo inorridiva.

Tuttavia, non ne aveva, di alternative. Arianna era impensabile, non si sarebbe mai mostrato a lei in quelle condizioni, soprattutto perché poi avrebbe dovuto darle spiegazioni, ed era più che intenzionato a tenere Annie lontano da quella sua fetta di vita sporca e imbarazzante. La zia nemmeno, avrebbe fatto venire un infarto sia a lei che a Sarah. Jules era uno scavezzacollo, ma di altro livello: se la spassava con le ragazze, si fumava qualche canna all’occorrenza, ma i loro mondi erano radicalmente diversi. Julian non sapeva che razza di vita stesse conducendo e Demian preferiva davvero che continuasse a non saperlo.

Niko e gli altri lo avrebbero malmenato anche peggio, per fargli pagare di essere sparito. Si rassegnò con un ultimo sospiro di resa a chiamare l’unica persona che c’era sempre, quando aveva bisogno.

«Prendimi il cellulare dalla tasca» borbottò seccato.

Diodoro eseguì con l’impaccio di una ragazzina pudica.

 «Cerca Ellie in rubrica e chiamala» fece una smorfia, un misto tra dolore e disappunto «Dille che ho bisogno di lei, subito»

 

 

 

 

«Si è svegliato?»

«Per la centottantesima volta in due minuti: no. Sta ancora dormendo»

«Non dovremmo svegliarlo? È strano che dorma così tanto»

«Non è strano, è sotto morfina. Se non fosse stato messo così male non avrei dovuto drogarlo»

Finalmente, lo strano e smunto ragazzino che al telefono aveva scambiato per una ragazzina isterica, si decise a tacere, ma non smise di studiarla con sospetto.

Elena non era mai stata troppo empatica, non ai malumori di chiunque perlomeno, ma non le ci volle molto per scorgere, sotto tutti quei dubbi, nervosismo e imbarazzo.

Dopo quella chiamata si era precipitata in macchina a prenderli. Ritrovare Dami tanto malconcio e ormai addormentato l’aveva rigettata in un momento di panico che sperava davvero di non dover provare più. Un déjà-vu amaro che si sovrapponeva al presente e le restituiva il suo ragazzino gracile e fragile come appariva nei suoi ricordi.

«Che legame hai con lui?»

Diodoro, così si era presentato, continuava a squadrarla, forse in cerca di qualche lineamento in comune che potesse ricollegare ad una qualche parentela lontana, ma al di là di ogni sforzo, non avrebbe trovato nulla: lei e Dami erano diversi, lo erano sempre stati in ogni modo possibile, tristemente.

Dami lo ripeteva in continuazione, quando ancora riusciva a parlarle. La guardava cauto e poi borbottava, strappandole un sorriso per la tenerezza che riusciva a causarle anche solo così, con quel broncio puerile incredibilmente delicato.

Si soffermò sul suo volto a tratti pallido, a tratti sporcato da una violenza feroce che su di lui risaltava come uno sfregio su di una parete bianca, tanto il contrasto era forte e disturbante, tanto le linee che disegnavano il suo viso erano candide e pulite. Lo trovò tragicamente bello, e provò l’insostenibile desiderio di accarezzarlo, abbracciarlo e tenerlo per sé, ancora un poco, almeno mentre Dami non poteva scacciarla con il suo rancore.

Invece, fece un tiro di sigaretta, soffiò una grigia nuvola di fumo e poi accennò un sorriso divertito.

«Lui cosa ti ha detto?»

Lo chiese sfrontatamente, con la consapevolezza fin troppo chiara che Demian non avesse raccontato nulla, non di lei.

Demian non parlava più di lei, nemmeno per errore, ed infatti Diodoro confermò ogni sua certezza abbassando svilito il mento e scuotendo piano la testa, come rassegnato a restare nell’ignoranza.

Elena allora si rannicchiò il più possibile e si sforzò di non lasciar trasparire neanche una punta dell’amarezza che la travolse, perché s’impegnava ad accettarlo continuamente, l’odio di quel ragazzino dai capelli candidi e l’aria eterea. Perché non poteva lasciarsi distruggere da lui anche dalle parole non dette, o non ne sarebbe uscita viva, da quella loro ambigua relazione.

Si passò la mano tra le ciocche arruffate che le ricadevano sulla fronte, pettinandole con le dita e allontanandole dal volto, poi la nascose nella tasca della felpa e fece un altro tiro di sigaretta. Mentre il fumo le riempiva i polmoni, le parole di Demian le riempivano i pensieri. Si sentiva patetica, ma da quando lo aveva conosciuto era sempre stato così, non era mai riuscita ad impedirsi d’ingigantire qualunque cosa lo riguardasse, e per questo ogni riflessione, anche detta per errore, una considerazione espressa per caso ad alta voce, le restava impressa nella memoria come un monito. Non appena quel ragazzino rientrava nella sua sfera personale, tutto le si riversava addosso e la soffocava, di dolcezza e colpa e amarezza e tenerezza.

Demian le diceva sempre che quel suo modo flemmatico di fumare, di scivolare in vestiti troppo grandi, di appoggiare il filtro fra le labbra piene e di muovere il proprio corpo, la rendevano l’incarnazione della femme fatale. Forse, proprio a causa di queste reminiscenze aveva deciso di indossare quella felpa fra tante. Voleva che Dami la riconoscesse, che la vedesse e ricordasse qualcosa di bello, ché qualcosa di bello c’era stato anche fra loro, anche se per poco.

«Non fartene una colpa» disse con una vena di esasperazione, invece di esternare la propria delusione, abbozzando un sorriso sfuggente. Si alzò in piedi e si avvicinò a Dami, tese una mano verso di lui, esitò, ma poi il desiderio di toccarlo, di sentire la sua concretezza sulla pelle, fu più forte e la spinse ad affondare le dita fra quei capelli morbidi.

Quando dormiva, quando le sue lunghe ciglia bianche gettavano ombra sulle sue guance stanche, Elena riusciva a vedere in lui il ragazzino raccolto sulla seggiola di un ospedale, con le gambe strette al petto e lo sguardo vacuo. Lo ricordava come lo aveva conosciuto, e ne provava un sentimento soverchiante, un affetto immenso, una dolcezza materna di stringerselo al seno e baciargli piano il viso e accarezzarlo fino allo sfinimento, come avrebbe fatto solo con un cucciolo spaurito.

«Demian non è un ragazzo facile» le venne da ridere perché era stata ancora troppo delicata, Dami era un demone sotto mentite spoglie o un angelo dalle ali spezzate, non era stata onesta «Anzi, non lo è proprio per niente. È autodistruttivo, è come se passasse il tempo a escogitare nuovi modi per ferirsi, e io posso solo aiutarlo quando si presenta alla mia porta in questo stato»

Il ragazzino con gli occhiali deglutì a stento, sembrava avere un sacco di domande, eppure ne formulò solo una e lo fece balbettando il proprio sconcerto

«E succede spesso?»

Elena distolse gli occhi da Dami per posarli su Diodoro, quasi sorpresa da quella domanda. Era lecita e estremamente sensata, eppure non la aspettava. Nel suo scenario immaginario i commenti di Doro sarebbero stati altri, forse acidi, più sprezzanti, perché Demian l’aveva abituata a questo probabilmente, solo ai giudizi che sapeva ricevere.

Con le dita aveva continuato a percorrere quel profilo, solo per il piacere personale di tenere un contatto sottile, con l’adorazione con cui avrebbe potuto guardare una scultura di marmo perfettamente levigata ma sfregiata dal tempo, perché quegli sfregi potevano solo adornarlo, incrementavano la purezza di quel suo animo ferito.

Elena quell’anima avrebbe voluto sfiorarla ancora, ma sapeva di averne perso ormai il diritto.

«Abbastanza spesso. È così che ci siamo conosciuti»

Era così che era riuscita ad avvicinarlo la prima volta, quando era solo un ragazzino e aveva tredici anni e sì, di brutture ne aveva già conosciute molte, ma non le aveva ancora assaggiate tutte, e lei lo guardava da lontano ogni giorno, desiderando sapere perché quegli incredibili occhi da creatura del nord fossero tanto adulti su un corpo ancora acerbo e ingobbito dalla propria fragilità.

Un guizzo offuscò lo sguardo di Diodoro, ed in quel frammento di cedimento Elena riconobbe quello che si sarebbe aspettata fin da subito.

Paura.

Sconcerto.

Dubbi.

Lo sguardo di qualcuno che non voleva essere coinvolto, lo sguardo che aveva già conosciuto molti anni prima, che l’aveva fermata e le aveva suggerito di farsi da parte, di stare lontano da quel ragazzino pieno di problemi e con poche speranze.

«Non abbandonarlo» le sfuggì istintivamente, un mormorio che invece della supplica aveva l’amaro sapore dell’accusa. Era stanca delle persone che fuggivano, era stanca di guardare la schiena di Demian mentre lui si perdeva a guardare quella degli altri, in un infinito cerchio infelice.

Doro sussultò e spalancò gli occhi resi ancora più grandi dalle lenti spesse, scioccato.

«Come?» sussurrò, troppo basito per formulare tutto il pensiero. Elena non sapeva se quella sorpresa nascesse dalla sua intuizione che lo faceva sentire smascherato, o se davvero non avesse colto il senso di quella sua supplica, ma non importava, perché lei aveva inteso. Era un’espressione tanto nota, quella del ragazzino, che non poteva non interpretarla subito per ciò che era: un altro abbandono.

«Se quello che mi hai raccontato è vero, non puoi abbandonarlo» prese fiato, cercò un modo per spiegargli, per fargli capire che davvero doveva andare oltre, che non doveva necessariamente capirlo, sarebbe bastato che lo accettasse e forse Dami si sarebbe condannato di meno.

Forse, per una volta, non si sarebbe disprezzato.

«Tu gli piaci. Dico sul serio. Non so perché, ma è raro che Dami faccia qualcosa per gli altri. Si è sentito così tradito, che ha deciso di ignorare il mondo e chiunque ne faccia parte. È indifferente, non gli importa di nessuno»

Deglutì il peso di quelle parole, la colpa che portavano con loro. Una colpa che solo lei conosceva e che era la sua croce quando incrociava quegli occhi tanto freddi di brina e asfalto sporco di sangue. C’erano errori che difficilmente potevano essere espiati e forse, questo sarebbe sempre stato il suo più grande errore.

«Gli importa solo di sua sorella. Tu devi avere qualcosa che gli ha permesso di vederti. Lui ti ha visto, lo capisci? Non sei stato solo un’ombra»

Lasciò cadere la cenere a terra, sul bel pavimento lucido, poi spense il mozzicone sul comodino accanto al letto. Era tutta roba di suo padre quella, e per lei non aveva valore. Ora poi, che aveva minacciato di non aiutarla più se avesse proseguito per la sua strada contro ogni scelta che lui ritenesse logica, Elena aveva deciso di togliersi almeno lo sfizio di rendergli il tutto degradato come lo erano lui ed ogni membro della sua disfunzionale famiglia.

Diodoro aveva stretto il fondo della felpa con le sue mani strane, da mantide religiosa, le veniva da pensare, e guardava il pavimento con le labbra contratte in una riflessione che lei poteva solo ignorare.

S’inumidì le labbra e decise di proseguire, nonostante tutto «Se sapesse che ti sto dicendo questo, probabilmente mi toglierebbe definitivamente il saluto, ma è la verità: Dami è una bella persona, anche se può non sembrare. È solo… triste»

Il ragazzino finalmente prese fiato e alzò i grandi occhiali su di lei «Io non ho fatto nulla. Quando ci siamo conosciuti, mi ha protetto da un tizio che voleva picchiarmi» disse a raffica e poi arrossì ancora di più e le orecchie divennero stranamente fucsia «L’ho capito, che è una bella persona. Nessuno dei miei compagni mi ha mai aiutato, lui non aveva motivo di mettersi in mezzo… ma l’ha fatto lo stesso»

Nonostante quelle parole la voce aveva tremato, aveva ancora paura di Demian, Elena lo sentiva. Poteva provare a capirlo ma davvero, non le era mai riuscito di afferrare come potessero avere paura di un leoncino spaurito senza criniera. Il racconto di Doro era stato rivelatore, ancora una volta, di quanto il suo Dami fosse innocuo e terribilmente ingenuo, a modo suo.

Sospirò e tornò a concentrarsi solo sul suo volto, ché Dami era una calamita, sapeva catalizzare ogni suo sguardo, pensiero e ogni desiderio della sua anima. Sotto tutta quella strafottenza, sotto tutti i suoi sbagli, restava di una purezza disarmante e intonsa, dolorosa per lei più di qualunque cosa.  Gli scostò i capelli appiccicati alla fronte dal sudore, si chinò e gli lasciò un bacio delicato in quell’unico punto che non aveva dovuto coprire con qualche medicazione.

«Allora è per quello» constatò soltanto, tra sé e sé, e Diodoro si corrucciò «Cosa?»

Elena scrollò le spalle «Dami sa cosa significa essere indifeso. L’ho conosciuto che aveva tredici anni e posso giurare di non averlo visto un solo giorno senza qualche livido. Era sempre più viola che bianco. I ragazzini sanno essere spietati, ma con lui erano a dir poco crudeli. Certo, non ci vuole molto per capire che il suo carattere non ha mai aiutato la causa»

Guardarlo riposare la rilassava, la aiutava a tirare le fila dei suoi ricordi disordinati. In qualche modo, Demian le aveva sempre dato un ordine, un punto di partenza da cui dipanare la sua vita. Era stato così fin dal primo momento, era proprio quella sensazione di chiarezza e pienezza che l’aveva spinta ad accostarsi a lui.

«Io avevo iniziato infermieristica, ero al secondo anno ed ero stata assegnata a questo ospedale per il mio tirocinio. E questo ragazzino dall’aria tormentata era lì, tutti i giorni a tutti le ore, come un’anima in pena»

Diodoro giocava con le lunghe dita, assorto e perplesso «Ma cosa ci faceva…» si fermò da solo, come avesse ricordato qualcosa, ed Elena decise a quel punto di fugare ogni dubbio, anche se non ne aveva il diritto.

«Sua madre sta morendo»

Era sempre terribile dirlo.

Aveva conosciuto Jenevieve proprio durante quel tirocinio, quando ancora stava bene ed aveva un sorriso sbarazzino cosparso di lentiggini ed un’aria sognante da bambina. Ricordava il proprio smarrimento, tutt’ora le bastava trovarsi di fronte a quella donna per sentirsi ancora una tirocinante sciocca e impreparata che non sapeva nulla del dolore e della vita.

«All’epoca Dami non aveva afferrato del tutto la situazione. Era solo un bambino. Non che ora non lo sia più, ma ha dovuto fare i conti con la vita molto presto. La verità è che mi ha costretto a farli insieme a lui» sorrise, per nascondere l’amarezza di quel periodo, per nascondere che insieme all’amarezza si mischiava una gioia diversa, innocente. Il periodo più bello che avessero vissuto insieme, il momento che aveva segnato una svolta nella sua vita, a discapito di Demian. «Prima di conoscerlo, non avevo ben chiaro in cosa stessi andando a cacciarmi, con il corso di studi che avevo scelto. Ero stata quasi costretta dai miei genitori, cercavo solo delle scappatoie. Lui è stato lo schiaffo di vita che mi serviva, tutta la passione che mi mancava»

Elena si stiracchiò, un gesto istintivo per nascondere l’imbarazzo di una confessione troppo intima. Non riusciva a pensare a nulla di superficiale, quando parlava di Demian o anche solo lo pensava, era stato tutto sempre troppo profondo e schiacciante per ridurlo, anche solo in apparenza, ad un nulla. Se mettendo a nudo una sua intimità per una volta fosse riuscita ad aiutarlo, a fare qualcosa di buono per lui, allora si sarebbe esposta senza rimpianti «Comunque aveva sempre un aspetto orribile. Un giorno sono riuscita ad avvicinarlo, mi ero sentita una domatrice di leoni. Lo avevo convinto a farsi medicare. Era chiuso sì, ma non tanto quanto ora, prima mi era possibile parlargli. Così è diventata un’abitudine, ogni volta che si fa male, per istinto viene da me. In passato lo picchiavano spesso o si faceva coinvolgere in qualche rissa. Era ingestibile, sembrava volesse farsi del male ad ogni costo. Ad un prezzo troppo alto sono riuscita a diventare una delle poche persone fidate per lui» si fermò solo perché la voce le mancava e l’amarezza assumeva il peso di un groppo in gola, un rimpianto raggrumato in lacrime mai versate per una colpa che non meritava espiazione «Non sono mai riuscita a farlo smettere… e nemmeno a farlo stare meglio. Per lui sono più uno sfogo ormai»

Abbozzò un sorriso malinconico scrutando il volto pallido del dormiente. C’era una bellezza eterea che le abrasioni accentuavano, perché quelle macchie di colore lo rendevano reale, per lei che aveva sempre l’impressione che Demian potesse sfuggire dal concreto in ogni istante «Ma va bene così, se almeno questo lo aiuta. Glielo devo»

Diodoro, corrucciato, era in imbarazzo, li guardava di sottecchi come se si sentisse di troppo in quel momento, e in parte poteva essere vero, eppure davanti a quel desiderio l’aggrediva la tristezza dell’irrealizzabile.

«Ma perché lo picchiavano?» chiese perplesso, la voce titubante della discrezione, in palese contrasto con la viva curiosità che gli animava i grandi occhi nocciola.

Demian mugolò nel sonno e si mosse appena.

 

Sta per svegliarsi, non resta molto tempo

 

«Non credo lo abbiano mai picchiato senza un motivo. Lo prendevano in giro, questo sì, per ciò che è. E lui ha un animo attaccabrighe, c’è poco da fare. Non ci è mai passato sopra, anche quando erano in dieci e lui uno solo»

Il ragazzo magro si raccolse nelle spalle e sospirò arreso. Poi, forse finalmente più sicuro o magari solo stanco di ascoltare, abbastanza rilassato per esprimersi, borbottò «Io non lo capisco»

Elena non aggiunse né chiese nulla, gli si leggeva in viso che la frustrazione che Doro provava avrebbe trovato il suo sfogo da sé senza bisogno di esortazioni.

Ed infatti, Diodoro si morse l’unghia dell’indice e riprese «Anche io sono sempre stato preso in giro, ho l’aria da sfigato stampata in fronte, diciamocelo. Quindi non riesco a capirlo, perché non ha tenuto un basso profilo e basta? Mi fa sentire un vigliacco, quando invece è lui quello fuori di testa. Io capisco l’orgoglio, ma non è che l’abbia portato granché lontano»

Elena lo aveva ascoltato, ma gli occhi erano tornati su Demian e faticavano ad allontanarsi da lui, tanto che Diodoro sbuffò

«Sembri una leonessa che protegge il cucciolo» bofonchiò con maggiore enfasi e frustrazione «Lui ti piace» constatò poi in un sussulto. Elena si irrigidì, un solo momento in cui il corpo tradì la sua tensione. Cercò di rilassarsi, sorrise piano e non disse nulla.

«Ok, forse non è proprio la cosa più opportuna da dire, ma vista la situazione di opportuno ci vedo gran poco» sottolineò Diodoro «E poi scusa, ma quanti anni hai?»

A quel punto le venne spontaneo alzare gli occhi al cielo per esasperato divertimento e ridere di gusto. Lo guardò obliquo, con la sua migliore espressione da seduttrice incallita e il piccolo e logorroico secchione arrossì pesantemente e chinò la testa.

«Ne ho ventitré»

«Ventitré?» fece un mezzo strillo smorzato solo dalla saliva che gli andò di traverso, provocandogli una serie di colpi di tosse convulsi «Ma quindi voi siete…?» lasciò la domanda in sospeso, vergognoso e pudico come un ragazzino beccato dalla madre a nascondere riviste porno sotto il letto. Elena un’innocenza così autentica non ricordava di averla posseduta nemmeno quando sedici anni era lei ad averli.

«Vuoi sapere che relazione abbiamo?» sorrise maliziosa e Doro rimase immobile, occhioni vigili e bocca asciutta «Diciamo che sono la sua scopa-infermiera, ma preferisco definirmi sua amica»

Almeno in passato, sua amica lo era stata davvero. Avevano condiviso tutto, tutte le loro fragilità e le loro tenerezze.

 

Come potrei mai spiegare che per me è sempre stato più di un ragazzino?

 

Diodoro si massaggiava le tempie, preda di una quasi imminente crisi isterica, ad occhio e croce.

«Perché!» sbottò infine «Mi sembra impossibile che una come te possa dare attenzioni ad un ragazzino! Lemaire poi, il carattere peggiore che io abbia mai visto! Non ha senso» sputò tutto dando fiato alla bocca senza filtri, il disagio e l’inquietudine per il rapporto che si stava rivelando davanti ai suoi occhi parlavano più del pudore e del buon senso.

Elena se ne vergognò, se ne era sempre vergognata. Perché Doro non aveva torto, poco di quella relazione che lei stessa aveva contribuito a creare aveva una logica. Era tutto sbagliato, e non era mai riuscita ad impedirsi di continuare nonostante tutto. Frenò la risata che premeva per uscire, un po’ per la pantomima con cui l’ospite si esprimeva, un po’ per l’amarezza che le premeva addosso e sfociava spesso in un riso amaro.

«Mi ha sorriso» rivelò senza più remore, scrollando le spalle. Nel dirlo le labbra s’incurvarono istintivamente in un moto di tenerezza sconfinata «Sembra assurdo, lo so, ma mi ha guardata negli occhi e mi ha sorriso. Non lo puoi sapere, cosa significa ricevere un sorriso da Demian» si voltò, fissò Diodoro apertamente, voleva passargli con tutta la forza di cui era in grado quel sentimento, voleva che capisse senza giudicare che alla base di tutto c’era stato tanto, non solo sesso, non era mai stato un gioco, anche se nessuno dei due a voce lo avrebbe mai ammesso «C’è una bellezza così fragile e disarmante, in lui, da annientarmi. La verità è che Demian ha un sorriso che dà senso a tutto il resto, e se lui te lo concede tu puoi solo amarlo incondizionatamente. Non ho mai avuto davvero scelta»

«Tu lo sai che c’è qualcosa di malato in quello che hai detto, vero? Nel fatto che ti piaccia un ragazzino. Per carità, dicessi a scuola che Demian se la fa con una otto anni più grande, diventerebbe l’idolo della folla maschile, ma non sono sicuro che questo renda la cosa più sana»

 

Elena chinò il capo, sconfitta da una realtà immutabile e da un tentativo fallito. Era la prima volta che provava a condividere con qualcuno al di fuori di Demian quel loro mezzo rapporto, e comprese con tristezza che sarebbe stata l’ultima.

Sorrise con derisione «Non sono infatuata di lui. Ho sempre desiderato proteggerlo, questo sì, e ci diamo sollievo a vicenda. Non c’è nulla di strano e niente di più. Ci usiamo per scopare, talvolta, quando ne abbiamo voglia» ghignò maliziosa «Ti assicuro che è parecchio consenziente»

Si alzò di scatto, prima che Diodoro decidesse di aggiungere altro ad un discorso già fin troppo doloroso. Stiracchiò le braccia al soffitto e si lasciò sfuggire uno sbadiglio «Sarà una lunga veglia, vado a fare del caffè. Tu, se vuoi, puoi andare a casa. Ci penso io a lui»

Studiò il suo ospite mentre esitante guardava il cielo imbrunito oltre i vetri sporchi e poi Demian, profondamente addormentato. Il borbottio affamato del suo stomaco che reclamava cibo le fece provare della tenerezza per lui. Nonostante la schiettezza con cui si era espresso sul suo rapporto con Dami, Elena non nutriva astio o antipatia verso di lui: sembrava troppo imbranato e goffo perché gli si potesse portare rancore.

Diodoro ponderò tra sé qualcosa, stritolandosi le dita lunghe.

 

Quando la goffaggine dell’adolescenza se ne sarà andata, non sarà un ragazzo così terribile

 

Pensò valutando la sua figura ingobbita.

Era pomeriggio inoltrato, erano passare già un paio d’ore da quando era entrato in casa sua, non aveva pranzato eppure non pareva intenzionato ad andarsene.

«Aspetterò ancora un po’» dichiarò infatti.

Elena annuì compiaciuta ed abbandonò la camera.

In cucina preparò la moka del caffè, preparò una tazza grande e mise il latte sul fuoco. Aprì un cassetto pieno di brioche e dolci, i vizi che non riusciva a togliere a Simone, l’unica persona che conosceva in grado di ingerire merendine tutto il tempo ed uscirne perfettamente in forma.

Pensare a Simone era sempre una salvezza, in qualunque momento di sconforto, scaldava il petto e la faceva sentire meglio, meno in colpa, più in pace con il mondo.

Ne prese una a caso e si affacciò alla stanza da letto «Ehi, tu!» richiamò il ragazzino con gli occhiali, che si voltò quasi impaurito. Gli tirò la merendina che quello afferrò maldestramente al volo «Mangia qualcosa o finisce che svieni anche tu» borbottò con finto rimprovero, prima di decidersi a lasciarlo solo in quell’attesa.

Non riusciva più a condividere lo spazio con lui, si sentiva in difetto, ma era contenta al di là di tutto. Anche se non aveva compreso lo stile di vita di Dami, né tutto il resto della sua autodistruttiva esistenza, anche se non aveva compreso nemmeno lei e l’aveva fatta sentire inconsciamente uno schifo, oltre tutto questo Diodoro era rimasto. Forse aveva capito che Demian era solo un animale ferito, forse era riuscita a farglielo conoscere un poco, quel poco sufficiente per non permettergli di andarsene.

Sorrise compiaciuta, forse aveva ottenuto ciò che desidera, forse anche Diodoro non avrebbe più potuto lasciarlo ora.

 

***

 

 

Demian non sentiva nulla.

Era piacevole, non avere un corpo a cui dover rendere conto, esistere in uno stato di torpore immobile e senza sforzi. Uno stato di nulla assoluto in cui l’intontimento era tanto forte da impedirgli di pensare cose troppo complesse, troppo dolorose.

Dimenticare senza dimenticare davvero, dimenticare di ricordare qualcosa, dimenticanze di realtà scomode che rifiutavano di plasmarsi e di assumere forme definite. Era ciò che aveva sempre cercato, un distacco assoluto dal suo corpo che gli risparmiasse qualunque percezione.

Non sentiva dolore e persino i pensieri risultavano ovattati e indistinti, così confusi e distanti, come non gli appartenessero, faticavano a mettersi a fuoco.

Però c’erano dei rumori di fondo che accompagnavano quel suo galleggiare, delle parole indistinte che sembravano un filo, un nastro legato a lui come ad un palloncino, un nastro affrancato al suolo che gli impediva di distaccarsi completamente dalla terra.

Una terra che avrebbe volentieri abbandonato, probabilmente senza alcun rimpianto.

Cercò di aprire gli occhi, ma le palpebre pesavano come macigni e vibrarono appena in uno spasmo sfinito. C’erano tante cose per cui avrebbe voluto svegliarsi, tante altre per cui avrebbe voluto sparire. C’era Sarah, con i suoi capelli di sole e le lentiggini belle, e maman pallida e stanca. E poi c’era Annie, con quel suo sorriso assurdo e la primavera nello sguardo.

A nessuna di loro apparteneva la voce femminile che stava disturbando il suo riposo.

 

Non è una voce che vorrei sentire.

Vorrei non doverla sentire più

 

E proprio per questo sentimento di disgusto e repulsione, quella voce restava uno dei suoni più familiare alle sue orecchie. Si sforzò ancora di sollevare le palpebre ed una lama di luce tagliò l’oscurità sicura che fino a quel momento lo aveva avvolto. Lentamente, la luce si ritrasse per fare spazio ai dettagli sempre più nitidi della stanza: un armadio, una scrivania con computer in un angolo, una sedia vuota accanto al letto, un’altra sedia di fronte a lui, occupata dalla figura impacciata di un ragazzino occhialuto.

La figura snella di una ragazza appoggiata alla finestra con una sigaretta tra le dita ed un filo di fumo tra le labbra.

«Si sta svegliando» disse il ragazzo sulla sedia, sporgendosi verso di lui.

Un formicolio ricordò a Demian di possedere delle dita, per quanto intorpidite. Con un ulteriore sforzo di volontà riuscì a sollevarsi quel tanto che gli bastava per appoggiarsi, per non dire accasciarsi, alla testiera del letto. Il mondo intorno aveva contorni sfocati, linee incerte, e questo stato vorticoso e confusionale era accentuato dal fatto che gli avessero tolto le lenti a contatto.

«Demian? Ehi, ci sei?»

«È ancora un po’ intontito, dagli il tempo di snebbiarsi»

Era davvero Elena.

Era sempre Ellie, quando stava così, era sempre lei che si curava di lui.

Si era ripromesso molto tempo prima che non l’avrebbe più cercata, ma nel momento del bisogno alla fine dei conti, il suo nome era l’unico su cui potesse fare affidamento, l’unico di cui si fidasse completamente. E si odiava, perché aveva ancora bisogno di lei, aveva ancora bisogno di aiuto, nonostante i suoi sforzi in realtà non aveva imparato a bastare a se stesso.

Non del tutto.

Fu immediato pensare ad Arianna, pensare alla semplicità con cui gli aveva detto che non doveva restare solo, come se appoggiarsi agli altri non fosse una cosa incredibilmente assurda, stupida e sbagliata.

 

Forse lei è troppo buona, troppo bella. È troppo.

Non ricordo neanche se mi è mai successo, almeno nell’infanzia, di essere stato così candido

Probabilmente non sono davvero adatto a stare con lei

 

«Dami, come ti senti?»

Chiuse e aprì gli occhi più volte, per focalizzare il volto di Elena, liscio e caramellato. Vagliato da quell’espressione apprensiva, non riuscì a trattenere un sorriso storto e vagamente affettuoso. Quella ragazza era sempre la solita, non perdeva mai l’occasione per provocarlo, e quella felpa grigia e nera che indossava, quella ne era la prova: era sua, Ellie se ne era impossessata la prima volta che avevano fatto sesso, in quella stessa stanza.

«Stanco» borbottò.

«Niente dolore?» s’informò Elena, ora tranquillamente, con lo stesso tono pacato con cui avrebbe potuto domandargli le previsioni meteo. Il dolore però, cominciava a sentirlo, leggero come un formicolio che si estendeva lentamente in tutto il corpo.

«Sopportabile» rispose spiccio, perché più del male fisico, era il mal di testa ad aumentare, mano a mano che la mente si snebbiava.

«Vuoi qualcosa?»

 

I tuoi questionari non mi sono d’aiuto

 

«Una botta in testa» biascicò mentre si massaggiava le tempie, nella speranza vana di alleviare un malessere che minacciava di crescere. La pelle del volto tirava e bruciava, sentiva le piccole, infinite ferite che si aprivano e modellavano assieme alle espressioni del suo viso. Inoltre, Elena doveva avergli fasciato il busto, perché sentiva l’impaccio dei movimenti e la rigidità che gli impediva di sedere del tutto comodamente.

Ellie ridacchiò, sfarfallando le lunghe ciglia scure «Naaah, direi che per oggi hai dormito abbastanza»

«Allora abbattimi Ellie, perché questo mal di testa mi sta uccidendo!»

«Se non ti hanno ammazzato tutte quelle botte, dubito che ci riuscirà un’emicrania!»

Demian sbuffò, assottigliò lo sguardo nel vano tentativo d’incenerirla sul posto, le iridi ridotte a due fessure minacciose.

«Melodrammatico. Posso sapere cos’hai combinato stavolta?»

«Sono entrato nel laboratorio di Mary Shelley senza permesso» rispose con una smorfia, un misto di disappunto e dolore per i tagli che si aprivano ogni volta che apriva la bocca. Qualcuno ridacchiò, per quella sua sarcastica uscita, e Demian si ricordò del ragazzino che aveva intravisto appena svegliato e di cui già aveva dimenticato la presenza. Quel ragazzo era, assurdamente, Barbi.

 

Che diavolo ci fa ancora qui?

Non può essere rimasto perché era preoccupato, non avrebbe senso.

Deve aver bisogno ancora di qualcosa

 

Elena aveva incrociato le braccia al petto ed ora lo guardava dall’alto, con un’aria giocosamente severa, impregnata di quell’indulgenza che proprio non riusciva a non provare per lui, come un tallone di Achille sempre scoperto.

«Ah, Demian, tu sei la prova che quando una persona è troppo libera può solo mettersi nei guai!»

Demian aveva già smesso di prestarle attenzione. Ora, tutto il suo essere verteva perplesso su Diodoro, da lui ricambiato con dell’evidente timore.

Elena inarcò un sopracciglio ad ala di gabbiano, sollevò gli occhi al soffitto e sbuffò infastidita, una bambina capricciosa ignorata.

«Capito l’antifona, dovete parlare. Se vi servo, sono di là»

Demian annuì distrattamente, senza sorriderle, ed Elena s’imbronciò metodicamente e se ne andò offesa. Conoscendola, glielo avrebbe fatto pesare successivamente, gli avrebbe tenuto il muso e avrebbe cercato di fargli credere che davvero era arrabbiata e ci era rimasta male. Un’ipocrisia bella e buona, solo per ottenere attenzioni, perché Demian lo sapeva fin troppo chiaramente che non ci si poteva seriamente arrabbiare con qualcuno di cui, a conti fatti, non t’importava nulla.

E lui per Ellie non era mai stato nulla.

Barbi occupò la sedia vuota accanto al letto e quando i loro sguardi s’incrociarono Dem lo vide sussultare.

«Sì, faccio senso lo so» mugugnò subito, senza sapere lui stesso se si stesse riferendo al proprio aspetto o alla propria persona, né se dovesse sentirsi ferito dal palese turbamento del compagno di classe.

«No» esclamò Barbi di getto, le orecchie un poco a sventola divennero rosse «È che non ti avevo mai visto così da vicino. I tuoi occhi sono un po’…»

«Rosati» concluse allora, abbozzando un sorriso triste «Si nota solo da vicino»

«Quindi è per questo che stai sempre lontano»

Demian sollevò le spalle in un gesto di noncuranza per camuffare una debolezza sciocca eppure per lui insopportabile «Non proprio. Fino a qualche anno fa non potevo nemmeno pensare di nasconderlo, erano rosa, c’era poco da fare»

Perlomeno, nel tempo si erano pigmentati quel tanto che bastava per renderlo umano, più o meno accettabile dal canone comune. Dimenticare l’imbarazzo e lo scherno che lo avevano accompagnato invece era meno semplice.

«Perché sei qui?»

Diodoro abbassò la testa e si grattò a disagio la guancia «Perché ti devo un favore, credo»

 

Un debito.

Beh, sicuramente ha più senso che sia qui per questo che per una qualsiasi forma di blanda preoccupazione per me

 

«Puoi saldarlo facilmente. Dimmi perché hai fatto una simile stronzata, giura che non lo farai più e sarai libero»

Non capiva perché si sentisse tanto benevolo verso quel ragazzo disagiato, normalmente lo avrebbe ignorato. Eppure, qualcosa in lui gli scatenava quasi tenerezza, sembrava troppo indifeso, una vittima perfetta.

Barbi deglutì rumorosamente, agitò le mani ossute e pallide, ma alla fine si fece coraggio e acciuffò le parole «La mia famiglia non è molto ricca, diciamo. Ho tre sorelle, una più grande e due gemelline più piccole. Recentemente mio padre ha anche perso il lavoro. I soldi hanno iniziato a mancare, mantenere la mia scuola costa»

Demian si accigliò.

Non capiva perché gli stesse raccontando certi dettagli della sua vita, né la droga, soprattutto pesante come la cocaina, dove si collocasse in tutta la vicenda. Tuttavia Diodoro lo fissava con quell’espressione così mesta, contrita, che non se la sentì di dire nulla e decise di ascoltare quella che più che una confessione, pareva uno sfogo troppo a lungo represso.

«Sai, quando mi sono iscritto pensavo davvero di avere del talento. Di poter fare qualcosa di buono, di poter essere utile alla mia famiglia un giorno. Pensavo di poter sfruttare le mie capacità. Ma ho sbattuto contro un muro a duecento all’ora. Voi non siete bravi, siete proprio artisti. Avete quella scintilla che mi manca, non riesco a stare al passo»

Demian si corrucciò ulteriormente, si morse l’interno della guancia mentre ponderava le parole, ma alla fine gli uscì solo un perplesso e forse indelicato «E quindi?»

Barbi cambiò definitivamente colore e si trasformò in uno sgargiante peperone rosso «Ho sentito molti dei nostri compagni dire che… con della roba, sai… loro trovavano ispirazione»

Oddio, questo sta per piangere… come non detto

 

Diodoro si mise a piangere come l’ultima delle femminucce, per Demian non poteva esserci nulla di peggio del ritrovarsi con un ragazzo problematico e dalla sensibilità isterica.

«Marco ha detto che era ciò che mi serviva. Io volevo solo essere all’altezza… non volevo deludere i miei» si sfregò il viso con la manica della felpa, gli occhiali si inclinarono pericolosamente sul naso e gli restituirono l’immagine goffa e puerile di un adolescente troppo insicuro «Ma non ci sono riuscito, non l’ho usata» tirò su con il naso, una maschera grottesca di disperata autocommiserazione «Non ne ho avuto il coraggio»

 

Ok, questo piagnisteo è assurdo!

 

Ignorando il dolore, afferrò Barbi per la collottola e lo scosse violentemente. Il ragazzo si spaventò tanto che smise di singhiozzare e dilatò gli occhi all’inverosimile.

«Piantala di piangerti addosso, idiota! Un conto è un tiro di canna, un altro la pippata! La dovresti conoscere la differenza, cretino! E ringrazia di essere uno smidollato, almeno non ne hai fatto uso!»

Forse aveva gridato con troppa enfasi, perché Diodoro si era incupito e pareva un animale ferito a morte. Mostrando, forse per la prima volta, un moto d’orgoglio, il ragazzino lo respinse con forza e gli riversò addosso tutto il suo rancore

«È facile parlare, per te! Sei un talento nato, sei il migliore! Fai lavori del livello di uno del quarto anno senza nemmeno seguire le lezioni, solo perché sei portato! Li ho sentiti, gli insegnanti, elogiare la testa di tigre che hai modellato. Non credevano possibile che saresti riuscito a farla, e tu in due giorni l’avevi già finita! E vieni a scuola così raramente che forse nemmeno lo sai, che ti considerano un mostro per il talento che hai! Sei detestabile, Lemaire!» singhiozzò molto poco dignitosamente.

Demian esitò e rimase a bocca schiusa, sbigottito. Non voleva essere meschino, non voleva infierire, ma per causare una reazione simile doveva essere stato troppo fuori luogo, e se ne pentì.

«Tu non puoi capire cosa si prova a non essere all’altezza. L’arte era tutto ciò che avevo, ma non so dare forma a ciò che penso, non ci riesco… ed è frustrante da morire»

Tirò ancora su con il naso e si passò le mani sul viso in gesti bruschi, gli occhi colmi di umiliazione.

«Non hai mai pensato che forse questa non sia la tua strada?» bisbigliò, la voce bassa appena udibile, sussurrata, perché sperava di manifestare il tatto con il tono, non sapeva farlo con le parole, non sapeva come avvicinarsi a qualcuno di fragile.

Barbi scosse la testa con rassegnata decisione «No. Il disegno è tutto ciò che amo fare»

Lo sorprese, Demian non si aspettava una risposta così netta e lo invidiò. Per la prima volta guardò il suo compagno di classe, che aveva sempre visto più come un moccioso che come un ragazzo delle superiori, e provò per lui una profonda ammirazione. Dami aveva sempre amato stringere una matita fra le mani, sin da quando aveva memoria, a volte quelle linee di grafite erano l’unico percorso, l’unico filo, in grado di creare un ponte tra il suo sé ed il mondo reale, l’unico modo che aveva trovato per far sì che le sue idee non restassero semplici masse informi ma prendessero vita. E, nonostante questo bisogno ancestrale che aveva nutrito la sua anima probabilmente da sempre, non aveva mai considerato quella passione come un obiettivo.

Forse, perché per se stesso un futuro non era mai riuscito a vederlo, Barbi aveva senza dubbio le idee più chiare di lui.

«Scusa, non me la devo prendere con te solo perché sei più bravo» Diodoro si sistemò gli occhiali sulla radice del naso con un gesto abituale e inconsapevole. La conversazione aveva raggiunto i livelli di un bisbiglio, entrambi erano a disagio, temevano di dire qualcosa di inadatto e Demian proprio si sforzava, ma non capiva il senso di tutta quella caparbietà.

Perché insisti, se sai che fallirai?

 

All’improvviso capì la più ovvia delle verità: Barbi non sapeva vedere se stesso. Non si rendeva conto di essere più forte di quanto potesse credere, possedeva una tenacia che Demian nemmeno riusciva a immaginare. Questo scarto tra loro lo irritava, lo faceva sentire in difetto, allo stesso tempo però stimolava in lui il desiderio di provare a superare la propria non-tenacia.

«Barbi, cosa pensi di te stesso?»

Gli veniva da sorridere, quella era una domanda alla Arianna, non alla Demian. Quella sciocca lo stava contagiando con le sue stupidate pseudo filosofiche, quei quesiti banali eppure disarmanti che lo mandavano sempre in crisi.

Anche Diodoro, lì per lì, rimase spiazzato.

«Non saprei» mormorò, stiracchiando le dita ossute «Credo di essere un fallito. Ma, forse, potrei riuscire a non esserlo più. Così papà sarebbe fiero di me e la smetterebbe di dirmi tutte quelle cose»

 

Il club degli sfigati che cercano l’approvazione paterna, insomma.

 

Anche Demian ne aveva fatto parte, tanto tempo prima, lo comprendeva ma allo stesso tempo provava compassione per Diodoro. Erano entrambi ingiustamente pietosi.

«E tu, Lemaire? Cosa pensi di te?»

Demian si appoggiò alla testiera del letto con un sospiro rassegnato.

 

Quante volte me lo sono chiesto?

 

Si era dato mille risposte e nessuna sembrava davvero onesta, tantomeno era certo di voler condividere con uno sconosciuto una così grande fetta di sé. Eppure, lo guardò e la bocca si aprì senza che gli riuscisse di fermarla

«Sono una raccolta vivente di buoni propositi andati a puttane»

Barbi tacque un lungo istante, in ponderazione. Le labbra si arcuarono lentamente, dando forma ad un sorriso che si espanse fino a trasformarsi in una leggera risata, a tratti un po’ isterica ma anche liberatoria. Tanto libera, che anche Demian si ritrovò a sorriderne.

«Lemaire… sei un caso perso!»

 

 


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Capitolo 16
*** Edoné ***


À Demian

Capitolo quattordicesimo

Edoné



Jules

Cugino idiota! Che fine hai fatto?

Ho rimorchiato una figa da paura e, visto che se non ci penso io a far uscire il tuo pisello da quei dannati pantaloni tu non combini un cazzo, le ho chiesto di portare un’amica per te.

Passo tra un’ora a casa tua, vedi di esserci

 

14/10/2001

15:40

 

 

Julian era un puttaniere senza speranze. Demian non si sarebbe stupito se tra l’Italia e la Francia avesse già diffuso la sua discendenza, probabilmente difettosa quanto lui. A suo cugino delle donne importava poco o nulla e Demian lo sapeva troppo bene, eppure rimaneva ogni volta basito dalla semplicità con cui riusciva a cambiarne una alla settimana, senza rimorso e senza il minimo legame. Da una prospettiva diversa, il vero freddo, il menefreghista distaccato tra loro due era proprio Jules.

Comunque ammirava la tenacia di quel cugino scapestrato nel tentare sempre quegli incontri combinati, perché nonostante l’insistenza Demian gli aveva dato picche ogni volta, eppure ancora ci provava, a farlo uscire con una delle sue amiche di pessima compagnia.

Deciso a ignorare Julian almeno quanto le fitte di dolore che si diramavano dal costato, si costrinse ad alzarsi dal divano, nella quale era letteralmente sprofondato ormai da ore, per andare in bagno. Il grande specchio dietro al lavandino rifletteva un’immagine decisamente malconcia e violacea. Il viso si era gonfiato dopo le botte prese, pareva una strana e informe maschera tragica che nascondeva completamente la struttura ossea di base, deformità resa più inquietante dalla sfumatura malsana dei lividi in contrasto con il suo naturale pallore.

Abbozzò un sorriso che si sgranò in una smorfia a causa delle contusioni.

 

Beh, almeno oggi non dovrò inventarmi una cazzata per non uscire.

Basterà che veda la mia faccia e sarà persuaso dal portarmi al suo incontro galante.

 

Che di galante aveva gran poco, comunque.

Si sciacquò il volto dolorante con acqua fresca e ne ottenne un tenue sollievo, un solo momento che franò nell’attimo in cui incrociò lo sguardo del suo se stesso riflesso. Esitò, si costrinse a sostenere la vacuità che leggeva nei propri occhi. Non ci era mai davvero riuscito, non senza deviare a sua volta lo sguardo con lo stesso pensiero che sfiorava tutti quelli che s’imbattevano in lui.

 

Sono uno scherzo della natura

 

Cercare di scendere a patti con se stesso non funzionava, lo vedeva chiaramente da sé che qualcosa di sbagliato, di distorto nel suo essere era innegabile, ma proprio per questo non riusciva a sopportare che questo pensiero divenisse concreto attraverso le parole degli altri.

Era troppo reale, aveva paura di odiarsi troppo.

Senza le lenti, inseguiva l’immagine riflessa della linea obliqua che tracciava il contorno della sclera, la patina di un azzurro estraniante, anemico, così lieve da scivolare nella trasparenza, come un vetro sottile. Sotto, s’intravvedevano i rigagnoli rossi dei capillari che davano all’iride una sfumatura rosata. Strizzò le palpebre con forza quasi dolorosa, come se violentandoli questi avessero potuto mutare, eppure la luce tra le tende del bagno gli restituì i medesimi, indefiniti occhi dalla pupilla nemmeno del tutto sferica. Gli restavano solo le lenti a contatto colorate come patetico sotterfugio per nascondere la propria inadeguatezza.

Sei ridicolo, sai solo nasconderti. Nascondi te stesso e nascondi la verità da te stesso.

Non hai alcun senso

 

Il campanello di casa suonò in quel preciso istante, un salvagente lanciato al momento opportuno proprio quando le forze iniziavano a mancare per restare a galla. Era così che si sentiva, quando provava ad affrontarsi, privo di forze, e almeno quel baccano insistente e stonato fungeva da valida giustificazione per abbandonare il duello silenzioso con la sua controparte nello specchio senza farlo sentire debole.

«Ehi, Dami!»

Julian spalancò la porta d’ingresso come un cavallo alla carica, portando con sé una ventata di eccessivo entusiasmo. Il cane si acquattò all’istante e iniziò a ringhiargli contro, causando l’immediato disappunto del cugino, che nemmeno aveva aspettato che Demian andasse ad aprirgli.

«Dami, dove sei? La tua palla di pelo, se non la smette, la butto fuori casa»

Con un sospiro rassegnato Demian si affacciò dal bagno e ritrovò Jules accovacciato in mezzo al corridoio, che a sua volta ringhiava molto ridicolmente a Lalami.

«Hai quasi vent’anni. Lo sai, vero?»

Julian inclinò la testa e alzò gli occhi su di lui con espressione annoiata «Non me lo faccio dire da un marmocchio che si tiene il pisello stretto, manco ce l’avesse d’oro»

Dopo averlo squadrato con un pizzico di perplessità, come avesse notato qualcosa di storto che non gli riusciva di inquadrare, per lo sgomento quasi Julian cadde con il fondoschiena sulle piastrelle.

«Ma che diavolo hai fatto?»

Non era la prima volta che si mostrava al cugino in uno stato poco dignitoso dopo un pestaggio, ma questa volta aveva addosso più segni del solito. Demian si portò una mano alla guancia in un gesto inconscio, incontrò una lesione, un lembo di pelle ruvido e irregolare, e pensò che quando lo menavano a scuola, da ragazzino, difficilmente gli colpivano il viso, per non lasciare tracce.

 

Non è proprio un dettaglio che possa importare a Frankenstein and Co.

 

Dissimulò il proprio imbarazzo passandosi le dita tra i capelli scompigliati.

«Direi il solito» cercò di minimizzare con un sorriso ironico ed una scrollata di spalle che tradiva il disagio.

«Ammettilo, ti sei fatto menare per avere una scusa per darmi buca anche stavolta!» si lamentò il cugino mentre si alzava goffamente. Lo osservò raddrizzarsi, sbattere i jeans neri con i palmi aperti delle mani per cercare di rimediare al pelo di cane che aveva già irrimediabilmente cambiato il colore dei pantaloni «Arrivi a farti livido, non sai proprio più cosa inventarti!»

Jules sollevò la mano e la lasciò sospesa tra loro, Demian esitò, ma poi la strinse «Sei davvero un coglione, giuro. Uno dei peggiori che io abbia mai incontrato»

«Hai la vita sociale di un lombrico Dami, chi cacchio vuoi aver incontrato! Se uscissi con me ne incontreresti di coglioni, e meglio ancora, anche delle fig…»

«Ok, sei stato cristallino! Puoi fermarti qui!»

Julian sfoderò il suo più brillante sorriso da marpione ripescato dai meandri del suo repertorio di scarso seduttore incallito, e gli lasciò una sonora pacca d’incoraggiamento sulla spalla, proprio mentre Demian sollevava gli occhi stanchi al soffitto. L’espressione serena si trasformò a tradimento in una smorfia di dolore mal contenuto. Demian dovette fare appello a tutto il suo amor proprio per non accasciarsi, il sottile lamento che gli sfuggì tra i denti non venne però ignorato da Jules.

«Dirti che sei messo male sarebbe un complimento, lo sai vero? Che ti hanno fatto?»

Si morse l’interno della guancia «Incidente con il motorino!?»

«Sì, certo. Il muro doveva avere un ottimo gancio destro. Dimmi qual è, così gli starò lontano»

 

Che ironia del cazzo

 

Demian si offese e strizzò la bocca in una linea esangue «Non c’è bisogno del muro, un cazzotto te lo do io con molto piacere» borbottò. Riacquisì a fatica una posizione eretta e lanciò a cugino un’occhiataccia obliqua, ma gli bastò vedere l’espressione di Jules per sentire l’orgoglio ferito ritrarsi, in imbarazzo: era palese quanto il suo amico fosse preoccupato.

 

Il più grande, insensibile puttaniere in cui sia mai incappato sembra una mamma chioccia in apprensione. Devo aver proprio toccato il fondo

 

Distolse lo sguardo, perché si vergognava. Si limitò a raggiungere il divano e con tutta la delicatezza del caso, si accomodò tra gli stessi cuscini che lo ospitavano ormai da quella mattina, circondato da cartacce di merendine e patatine perché guardare la televisione lo annoiava e il binomio tv-cibo aiutava a trascorrere quelle ore di tedio interminabili. Nei momenti di maggior sconforto, aveva rimpianto di non essersi fermato da Ellie. Sarebbe stato viziato e coccolato, e soprattutto non sarebbe rimasto solo, eppure il pensiero di restare nella stessa stanza con Elena mentre sul display comparivano i messaggi di Arianna, gli aveva morso in qualche modo la coscienza.

Gli sembrava quasi di dover scindere due mondi profondamente diversi che, nemmeno per errore, dovevano entrare in rotta di collisione, neppure attraverso la sua mente contorta.

Julian lo aveva imitato e si era stravaccato scompostamente dall’altro capo del divano.

«Non sto scherzando, ragazzino. Che hai combinato? Io te lo dico, se non me lo dici spontaneamente abbandonerò le simpatiche vesti da cugino cazzaro e assumerò quelle di una figura seria e responsabile. Che ti manca, fidati»

Demian inarcò un sopracciglio e impresse nella linea del suo sguardo obliquo tutto il suo scetticismo. Il cugino sostenne i suoi occhi per poco, poi le orecchie divennero rosse e fu costretto a deviare il volto, smozzicando «Ok, lo so benissimo che come figura di riferimento sono credibile quanto Valeria Marini Presidente del Consiglio. Però sono tipo… il tuo migliore amico, no? Il minimo che puoi fare è dirmi perché ti hanno menato» si zittì un istante, poi gli occhi gli si ingigantirono di sgomento «Non sarà per una ragazza, vero?» esclamò con troppa enfasi «Se è stato per una ragazza io te lo dico, sei proprio un coglione di quelli giganti! Cosa ti ho sempre spiegato? Una tira l’altra! A te serve solo un buco dove infilarti, il contorno è relativo»

«Credibile, detto da uno che sceglie solo strafighe assurde. Certo. Sei rivoltante, risparmiami le tue stronzate»

Solitamente condivideva tutto con Jules, anche se a volte in maniera superficiale, eppure nel caso di Arianna non se l’era sentita. Ancora non aveva definito con se stesso quale sentimento ibrido provasse per quella ragazza, né che ruolo avesse intenzione di farle occupare: la osservava con il maggior distacco possibile, guardingo. Non si fidava di lei. Non era sicuro di apprezzarla.

Eppure, bastava che inconsapevolmente Julian la definisse un buco da riempire, per fargli provare il desiderio di fargli ingoiare i denti. L’indignazione che lo aveva pervaso doveva essere visibile, perché Julian si fece serio «Oh, cavolo»

«”Oh, cavolo” cosa?»

«”Oh, cavolo” sei già stato incastrato»

Demian si accigliò «Se parlassi in modo comprensibile potrei capire di che cazzo stai parlando, lo sai?»

«Ti hanno già incastrato, è evidente. Porcaccia, chi è? Spero almeno che sia bella, ma bella tipo che ne valga davvero, davvero la pena! Porcaccia» imprecò di nuovo, scotendo la testa sconsolato «Ma da me non hai imparato nulla?»

Demian sentì un flusso di calore risalire sul viso e scottargli le guance, seppe con imbarazzo puntuale di essere appena arrossito come un peperone «Nessuno ha incastrato nessuno! Smettila di dire stronzate!» urlò, sollevandosi istintivamente con il busto troppo precipitosamente. Con un lamento ricadde tra i cuscini e imprecò a denti stretti.

Julian lo fissava incredulo, scuotendo lentamente la testa, con una punta di amarezza risentita, quasi «Col cazzo, sei incastratissimo. Peggio di quando da bambino ti sei perso nel labirinto degli specchi e mi è toccato tornare dentro a cercarti. Sei fottuto amico, stavolta non ti posso venire a recuperare!»

Di fronte a quelle accuse, Demian si sentì mortificato.

 

Non è vero un cazzo, non posso più essere incastrato, mi rifiuto. Sono indipendente, non commetterò più un errore così banale. Se ci cadi Dami, giuro che ti meno

 

Minacciarsi da solo non era mai servito a troppo, nella sua vita, eppure ci provava, talvolta, giusto per assicurarsi di aver tentato ogni via prima di fallire. Su questo punto però, su Arianna e qualunque tipo di “sentimento” avesse potuto nutrire, era categorico: sapeva già fin troppo bene che legarsi a qualcuno e schiantarsi a cento all’ora contro un guardrail era la stessa cosa, sapeva bene che dopo esserci caduto con tutte le scarpe, di lui sarebbe rimasto poco nulla.

Una carcassa spolpata da una iena, era già successo, aveva imparato.

 

Di Annie apprezzo la compagnia. Solo questo e non sarà mai, assolutamente, più di questo. Posso accettare di riderci insieme, di vederla, non mi piacciono le persone ma lei non è male.

 

Da “essere umano accettabile” a “qualcosa di più”, di acqua sotto i ponti ne passava anche troppa. Arianna era bella, solo uno scemo avrebbe potuto non notarlo o apprezzarla, ma la sua bellezza era fine a se stessa, come le scopate con Elena o quel discorso campato in aria con il cugino. Una distrazione di mezzo, dalla durata limitata.

Julian, meditabondo, scrutava il tabacco della sua sigaretta bruciare come se in quella voluta di fumo potesse scorgerci il senso dell’universo. Ad un tratto s’illuminò e si lasciò sfuggire l’ennesima imprecazione «È quella dei ritratti, vero? Altro che “solo una musa» mimò le virgolette con le dita «Tu te la sei fatta!»

«Non me la sono fatta!» urlò di nuovo, salvo pentirsene, perché la sua mancanza di contegno era solo benzina sul fuoco con suo cugino. Ed infatti, Julian si calcò in viso l’espressione più falsamente sconvolta che gli riuscì «Sei così perso, e non te la sei nemmeno fatta? Dami, le donne sono come i calzini, non puoi tenere sempre lo stesso paio!»

Demian rimase basito per qualche secondo, troppo scioccato per assimilare realmente quell’uscita infelice. Alla fine borbottò, quasi per il principio di non farsi zittire e di dargliela vinta «Neanche tu ne cambi una al giorno»

Julian roteò gli occhi «Ok, al giorno magari no, però… ecco: le donne sono come il latte»

Storse la bocca, confuso «Cioè?»

«Scadono!» disse con un’ovvietà irritante «Una settimana al massimo. Di più e rischi di avere un’intossicazione alimentare. È una fregatura, finirai al guinzaglio! Questa qui da quanto è in giro?»

In un attimo di tentennante incertezza, Demian si ritrovò sovrappensiero a fare i conti e a borbottare «Credo un paio di settimane… ma ci siamo visti solo due volte»

 

E una di quelle “due volte” ci ho dormito insieme, circa

 

Quello era decisamente un dettaglio da omettere quando si parlava ad un pervertito del calibro di Jules, che nel mentre aveva perso quattro tonalità di colore, tanto che Demian temette fosse in brachicardia. Il cugino scattò in avanti, gli afferrò il braccio con la stessa disperazione di un morto di sete e lo strattonò «Sei ancora in tempo» sibilò.

Demian se lo scollò di dosso con un gesto piuttosto brusco e risentito.

«Sto bene così» chiarì, e mise un leggero broncio infantile. Non gli piaceva, che il cugino gli parlasse in quel modo, come se gli stesse offrendo una via di fuga certa e lui stesse cercando una scusa per scappare. Non aveva motivo di allontanarsi da Annie, era tutto sotto controllo. Ora poi che i suoi le avevano comprato un cellulare, dopo la notte fuori casa che li aveva terrorizzati, poteva anche colmare il vuoto di attesa mentre aspettava che il suo aspetto fosse tornato nella media prima di rivederla, sentendola per messaggio. Pensò che non smentire Julian e fargli credere di essere accasato, potesse essere almeno una soluzione agli improponibili appuntamenti che cercava di propinargli. Inoltre, al momento era tanto concentrato su Arianna da aver scordato i segni del pestaggio che si portava addosso.

Il cellulare appoggiato sul un cuscino iniziò a vibrare. Non fece in tempo a tendersi per afferrarlo, Julian fu più veloce e glielo fregò sotto mano.

«Jules, ridammelo» sospirò, ma il cugino rispose con un sorriso sornione «Quindi sarebbe questa “Annie”?»

Si massaggiò gli occhi per contenere la crescente irritazione «Seriamente, non mi va che…»

«Fammi solo dare un’occhiata, giusto per capire quanto sei impantanato»

«… Jules»

«”Undici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum”» iniziò a leggere ad alta voce, per provocarlo, ma s’interruppe quasi subito e lo fissò confuso «Ma che razza di messaggi ti ha mandato?»

«È una fan di Sellers, e comunque non sono affari tuoi. Restituiscimi il cellulare!» gli intimò, e rimpianse di non potersi muovere liberamente per strapparglielo di mano e lasciargli un occhio nero di ricordo, magari.

«Non per essere fiscale, ma erano quindici, no?» continuò imperterrito, ignorando la sua richiesta. Tornò al telefono e riprese a scorrere la lista dei messaggi ricevuti «”Ma come pretendi che ce ne stiano quindici?” beh, la sua obiezione ha un perché però. Non ha senso, ma ha un perché. “Beh, se ce ne stanno undici, ce ne stanno anche quindici…”»

In imbarazzo, Demian ingoiò qualunque senso di autoconservazione e saltò letteralmente sulle spalle di Julian, atterrandolo. Si lanciarono in una breve colluttazione per il possesso del cellulare e alla fine, dopo essersi liberato di Jules facendolo ruzzolare poco più in là, si stese ansante con il suo bottino stretto in mano.

A Julian mancava il respiro, smozzicò «Ma che problemi hai?» tra un ansito e l’altro. Demian si mise a sedere e gli lasciò uno scappellotto poco delicato sulla testa «Che problemi hai tu. Idiota! Chi ti ha dato il permesso di leggerli?»

Il cugino s’indignò «Mi aspettavo messaggi erotici, mica quella roba lì! Ti ha fottuto il cervello quella, ti rendi conto di che discorsi fate? Sei completamente andato, se le dai corda»

«Non è vero» protestò debolmente, appoggiando la schiena al divano. Il fianco gli doleva per quell’ultima, brillante performance.

Spiegare che Arianna era in grado di fare solo discorsi completamente assurdi, senza capo ne coda era troppo difficile, richiedeva troppe parole. Non sapeva nemmeno come ci era arrivato, a parlare di Clouseau, né come poi i messaggi fossero degenerati arrivando a toccare le più inutili sciocchezze. E in realtà non gli importava capirlo, si era divertito e tanto gli bastava. A volte era pure riuscito a immaginare la faccia di Annie tra un delirio e l’altro, l’espressione concentrata e seria ed il tono con cui asseriva alcune verità per lei assolute e totalmente insensate. Era poco impegnativa, rilassante.

Julian aveva ricominciato a sorridere, mentre si rialzava da terra per tornare più comodamente a sedersi. Aveva l’atteggiamento indulgente di un adulto che stesse parlando con un bambino testardo.

«Ehi, se questa ti ha davvero incastrato devi farmela conoscere»

Non riuscì a nascondere la smorfia scettica: presentare una ragazza bellissima e ingenua in maniera irreale ad un puttaniere come Jules. Tanto valeva gettarla giù da un ponte sperando che non si rompesse una gamba o la testa. Il cugino lesse il sottinteso, perché alzò le mani in un gesto di resa «Non te la ruberò, se è questo che ti preoccupa. Non ci proverò nemmeno, giuro! Poi che me ne faccio di una che parla di casse da morto? Me lo affloscia in partenza. Di quel poco che ho letto l’unica cosa interessante era il rum!»

Se saltargli addosso fosse stata ancora un’opzione, Demian l’avrebbe fatto senza esitare, e l’avrebbe picchiato ovviamente. Tanto. Invece ingoiò il fastidio e sputò con piccato orgoglio «Non mi importa cosa farai»

Una parte di lui avrebbe voluto difendere Arianna da quel tristissimo discorso donna-oggetto. Per qualche motivo che mai gli era stato chiaro, Julian non provava interesse per nessuna, né sentiva una qualche forma di rispetto a priori per il genere femminile, il che era paradossale, contando che la persona che il cugino più ammirava e adorava nella sua vita era proprio la cugina Isabeau. Tuttavia, questo doveva valere anche per lui, prendersi la briga di difenderla significava darle un peso reale che non voleva avesse. Un errore simile lo aveva già commesso, era rimasto più che fregato ed ancora gli toccava incontrare l’oggetto della sua umiliazione a giorni alterni.

Non poteva sopportare i legami, nemmeno se con lei era semplice, se il suo sorriso diabolico riusciva ad ammaliare.

Era facile, innamorarsi di una come Arianna quando sorrideva in quel modo.

Era facile e da stupidi, non sarebbe successo.

Scrollò le spalle «Non so nemmeno se e quando la rivedrò comunque, quindi fartela conoscere è l’ultimo dei miei problemi» bofonchiò e provò uno strano senso di sconfitta.

 

Sconfitto da te stesso, benissimo. Non sai nemmeno tu quello che vuoi. Per liberarti di lei basterebbe passarla a Julian, ma ovviamente devi scegliere sempre la strada peggiore.

 

Annie era bella, ma non andava bene per lei. Ad essere del tutto onesti, era Arianna a non andare bene per lui, l’aveva già capito da un pezzo, c’era un’incompatibilità di fondo che lo avrebbe massacrato. Solo che si era confidato con lei, le aveva raccontato un sacco di stronzate, aveva condiviso la sua Sarah. In pratica, aveva già gettato il ponte che non desiderava esistesse, si era fumato il cervello proprio l’unica volta in cui non si era fatto una canna. Si era lasciato andare solo perché l’aveva conosciuta nel momento di maggior debolezza, il più sbagliato possibile.

 

E poi hai cercato di convincerti che fosse speciale, solo per non ammettere con te stesso di aver fatto la cretinata più allucinante della tua vita.

 

Era così ridicolo che gli sfuggi un sorriso «Comunque non m’importa un cazzo di lei, quindi tieni le tue teorie da psicologo fuori da questa casa»

Julian scosse le spalle e abbozzò un sorriso meno spavaldo e divertito, a manifestare la sua rassegnazione.

«Sei un caso perso, Dami. Non conosci neanche te stesso, sei un dramma vivente»

Si stizzì e arricciò il naso «Non rompermi. E passane una anche a me» ammiccò alla sigaretta, l’ennesima, che Julian si stava accendendo. Il cugino gli diede pacchetto ed accendino, senza aggiungere nulla.

Quando s’innervosiva, il sapore della nicotina al primo tiro lo rilassava. Aveva sviluppato un bisogno morboso di fumare, ne odiava il sapore ma era dipendente dalla sensazione positiva che gli restava addosso. Non quella stupida necessità che nutrivano molti ragazzini di quindici anni di tenere una sigaretta in bocca per apparire più grandi e fighi. Se contava il tempo trascorso, aveva iniziato a fumare tra i dodici e i tredici anni e non aveva più smesso. Era una droga peggiore delle canne: con quelle poteva gestirsi, non creavano dipendenza. La mancanza di una sigaretta invece lo mandava in astinenza, consumava circa un pacchetto al giorno. Se non lo avessero ammazzato gli altri di botte, prima o poi l’avrebbe fatto il cancro e sarebbe stato il degno figlio di sua madre.

«Allora, per cosa ti hanno ridotto così?»

Inclinò la bocca in una smorfia ironica «Non ti eri distratto?»

Julian inarcò un sopracciglio con fare eloquente «Pensavi davvero che mi sarei potuto distrarre sul serio?»

«Mi sono intromesso negli affari di un ragazzino» confessò, per tagliare la conversazione il prima possibile, ma questo spinse solo il cugino a sporgersi e guardarlo intensamente «Anche tu sei un ragazzino»

Demian rilasciò uno sbuffo di fumo e sorrise sardonico. D’improvviso, si sentiva di nuovo vuoto. quella parentesi di quiete si era già consumata, aveva guastato qualcosa di bello, nella sua testa, lo aveva corrotto. Succedeva sempre così, demoliva tutto ciò che di positivo potesse capitargli e poi, successivamente, si sentiva annientato dalla mancanza.

 

Una come lei non ci fa nulla, nella vita di merda che conduco. Ed io non posso uscirne in alcun modo… nemmeno per qualcuno come lei.

 

«Vuoi che resti a casa con te, stasera? Posso rinunciare a Marta»

Non gli sfuggì la vena malinconica, il sorriso appena incrinato, la testa un po’ china, quasi rassegnata. Aveva bisogno di Julian in quella vita, ma non era un bisogno reciproco. Jules stava bene senza di lui, sembrava ferito ogni volta che provava a parlargli e questo aumentava solo il disagio.

 

Non ho bisogno di lui stasera, ho bisogno di distruggermi

 

Di sfondarsi di alcol, di spaccare la faccia a qualcuno, di fumare e forse anche di qualcosa di più forte.

«Rinunceresti ad un giorno per me? Hai solo una settimana per fare centro, ricordi? Poi si cambia» lo apostrofò ironico, e Julian ampliò il sorriso e ritrovò l’allegria «Già fatto. Con lei sono alla fine della settimana, se no col cavolo che rinunciavo!»

Demian scosse appena la testa «Vai pure e sbattitela. Ho già un impegno stasera»

Con un sospiro, Julian si alzò, gettò il mozzicone della sigaretta fuori dalla finestra aperta dietro al divano, ne osservò la parabola in aria pensieroso.

«Allora io vado» mormorò distrattamente. Poi si voltò a guardarlo «Con la mamma ti copro io, ma vedi di ricominciare ad andare a scuola il prima possibile, idiota»

Demian lo seguì con gli occhi mentre raggiungeva la porta d’ingresso e abbassava la maniglia con lentezza esasperata, esitante. Il cugino si bloccò, incrociò il suo sguardo e con una serietà disarmante, che poco si addiceva alla giovialità del suo volto, aggiunse «Non fare altre stronzate, Dami, o giuro che questa è l’ultima volta che chiudo gli occhi e faccio finta di niente. Vuoterò il sacco con Claire»

«Non lo farai»

Le parole uscirono spontanee, provocatorie, eppure sicure, perché Demian lo sapeva, Jules non lo avrebbe mai tradito. Nel bene e nel male, Julian era dalla sua parte.

Lo vide serrare i pugni, offeso «Cosa te lo fa credere?»

«Tu lo sai, che lì dentro morirei peggio che qua fuori, da solo»

Era la verità: non sarebbe mai sopravvissuto nella casa della zia, con Claire, Lorenzo, Sarah ed il fantasma di maman come una spada di Damocle sopra la testa. Nessuno lo sapeva meglio di suo cugino, ed infatti, in un moto di consapevolezza Julian abbassò gli occhi, sconfitto.

«Lo credevo anche io» mormorò «Ma non sono più sicuro che tra il “qua” e il “là” ci sia differenza ormai»

Demian sorrise, una piega morta e fredda del viso congestionato. Aspirò un’altra boccata di fumo e lo congedò «Dà un bacio a Sarah da parte mia»

 

***

 

Urla, risa, fumo.

Musica.

In una parola: Edoné.

Quello era il locale preferito di Nicolas, dove tutti sapevano di poterlo trovare, perché Nico era sfuggente a tratti, la figura mitologica degli ambienti più malfamati, il pusher di cui tutti parlavano, difficile da incontrare e tanto mitizzato da risultare impossibile, ma al bere e alle donne non ci sapeva rinunciare, così come alla coca.

Confuso dalla troppa vodka ingerita che sfasava la sua vista già deteriorata, Demian barcollava fra quella massa di corpi che saltava al ritmo di musica, urtandolo fin quasi a buttarlo a terra. C’era un nuovo gruppo che suonava un metal cattivo, aggressivo, sicuramente scandinavo. Il casino era tale che era impossibile capire qualcosa, anche solo le parole della canzone che parevano, alla sua mente offuscata, strani latrati. Il costato continuava a dolergli, ma l’alcol che gli scorreva nelle vene aveva reso tutto leggero e vaporoso e niente era a fuoco, a causa anche del fumo colorato che veniva rilasciato sulla pista, s’innalzava nell’aria e fondeva le sagome in un’unica, grande massa pulsante di vita.

il cuore pompava il sangue a tempo con la musica.

In un moto di lucidità riuscì finalmente ad individuare il tavolo che Nicolas occupava abitualmente, circondato da poltrone usurate e bagnato da una luce appannata. Sul muro erano appesi vinili originali di vecchi gruppi Rock del passato, Demian una volta li aveva studiati e aveva riconosciuto qualcosa dei Pink Floyd e Phisical Graffiti dei Led Zeppelin, roba forte e sprecata in quel mare di persone strafatte e inconsapevoli.

Il suo amico era stravaccato su una poltrona a gambe divaricate, con un braccio a cingere le spalle di una ragazza parecchio disinibita e disponibile, completamente spalmata sul suo petto, il sorriso sciolto in una risata languida.  Stava fumando e gli bastava vedere l’espressione divertita sul suo viso per sapere che non era una sigaretta. Nell’ altra mano stringeva un bicchiere mezzo pieno di un qualche cocktail che ad ogni movimento inconsulto minacciava di rovesciarsi sulla sua accompagnatrice di turno. Accanto c’era Alex, capelli rasati e l’immancabile piercing al sopracciglio, un sorriso stranamente ebete e gioviale per i suoi standard; Andrea non si era fatto la barba, aveva un pizzetto imbarazzante e l’aria di un orso, accentuata dai capelli crespi troppo lunghi e unti che gli ricadevano sulla fronte, in un’inestricabile rete. Tra tutti, si sentì sollevato nel ritrovare Davide tra i presenti: con quell’aria da sfattone, la felpa enorme e la cresta biondissima sparata in aria con il gel, la testa rasata ai lati, restava l’unico che avesse voglia di vedere.

 

E almeno non c’è quel rompipalle di Teo

 

«Dem!» urlò Davide da lontano, saltando in piedi ed agitandosi come un ossesso per attirare la sua attenzione. Nico lo vide, allontanò la ragazza in modo poco gentile e si alzò per andargli incontro. Era allegro, a giudicare dall’odore già parecchio alticcio, e lo afferrò senza tanti complimenti per il collo, costringendolo ad abbassarsi. Con la testa incastrata sotto il suo braccio, Demian sentì le nocche del pugno di Nico sfregare dolorosamente contro la cute.

Scoppiò a ridere, nonostante il bruciore che gli inumidì gli occhi.

«Piccolo stronzetto ingrato, che fine avevi fatto?» urlò sopra la musica, trascinandolo dagli altri. Non lo fece rispondere, gridò ancora «Ehi, idioti! Guardate chi si è deciso a tornare!»

Alex distolse l’attenzione dalla ragazza che stava civettando con lui, Davide sorrise raggiante e gli porse subito il pugno che Demian colpì con il suo.

«Che fine avevi fatto, amico? E poi, cazzo ti è successo? Sembri finito sotto un treno!»

Alex anche, si sollevò e gli porse il pugno in segno di saluto «Hai fatto rissa senza di noi? Spero per te che gli altri siano messi peggio di quanto non lo sia tu, o ci farai fare brutta figura»

Dem sollevò le spalle con noncuranza «L’altro ha il naso rotto, direi che siamo pari»

Dave, come un criceto iperattivo e strafatto gli scrollò il braccio «Sei nei guai, Teo vuole farti nero!»

«Già. Non te la farà passare liscia tanto facilmente» commentò Andrea lugubremente, aprendo bocca per la prima volta. Il suo pessimismo cosmico ai limiti del leopardiano e il suo malumore costante lo rendevano indigesto, per cui Demian non sapeva mai come rapportarsi a quel malumore e finiva con il tacere. Andrea non si era mosso, non l’aveva salutato, era rimasto seduto con la sua birra in mano e gli occhietti acquosi annebbiati. Intervenne però Nicolas, che lo costrinse ad abbandonare la sua perplessità per sedersi accanto a lui «Non ti toccherà, non corri rischi. Sei un piccolo bastardo fortunato!»

La ragazza che fino a quel momento si era trovata in uno stato di adorazione assoluta per Nico, fu costretta ad allontanarsi e lo fece senza nascondere la propria stizza. Ora fissava Demian con l’odio più assoluto.

«Il minimo che puoi fare è dirmi perché cazzo sei sparito nel nulla. Non vorrai abbandonare il giro, spero!»

 

Come se lasciarlo fosse tanto semplice

 

Nicolas a volte lo trattava davvero come un bambino, ed era assurdo, paradossale considerando il soggetto in questione. Il resto della combriccola lo fissò con vivo interesse, fatta eccezione per Andrea che era tornato alla sua birra ed era concentrato sul liquido ambrato.

«Le solite cose. Sai di che parlo» urlò sopra la musica martellante che copriva ogni voce ed ammiccò a Nico perché cogliesse l’antifona. Il ragazzo sorrise quasi complice e si sporse verso di lui in modo che solo loro due potessero sentire «E come sta la bambolina?»

«Sta bene, aveva solo qualche esame» mentì.

Ogni volta che necessitava di prendersi del tempo da quel gruppetto, usava Sarah come alibi. Nico la conosceva di nome e di vista, non le aveva mai parlato ma sapeva a grandi linee la situazione e quindi, se la citava, subito si ammorbidiva.

«Se è per lei sei sempre giustificato. Adoro quella bambolina, è bellissima»

«Smettila di parlare di lei così, sembri un vecchio pederesta!»

Nicolas scoppiò in una risata sguaiata ai limiti dell’animalesco, ma aveva gli occhi più buoni quando parlava di Sarah, più normali. Forse, perché anche lui aveva avuto un fratellino che però era morto in un incidente quando aveva sette anni. Lo avevano investito, e Nico non aveva mai davvero superato quella perdita. Era il suo demone. Tutti lì avevano un demone, persino Davide, in apparenza il più tranquillo e sereno. Macerie su cui, per qualche motivo, non riuscivano a ricostruirsi una vita.

«Dovrai farmela conoscere, prima o poi!»

«Non se ne parla proprio. Saresti un trauma a vita!»

 

Ma come può anche solo venirti in mente che io possa mettere la mia Sarah in contatto con uno psicopatico cocainomane? Con l’ultima riga ti sei aspirato pure il cervello!

 

«Nico, ne vuoi?»

Alex richiamò il ragazzo porgendogli un piattino con quattro strisce bianche, come a rimarcare il pensiero che lo aveva appena sfiorato. Nicolas sorrise ferino, prima di chinarsi ed aspirarne una con un suono strano simile ad un risucchio. Arricciò il naso, lo sfregò con la mano, tentò di passargli il piatto in un gesto abituale che Demian, come sempre, declinò. Aveva provato diverse schifezze nella sua breve esistenza: non aveva mai disdegnato il fumo e gli acidi. La cocaina però, restava un grande tabù non ancora infranto, nonostante tutto.

Lui e Davide erano gli unici puliti su quel versante, si spaparanzarono malamente su un divanetto e si passarono una canna. Con l’effetto del fumo, ogni pensiero eccessivamente complesso e negativo svaporava, si ritrovava con l’amico a parlare di discorsi importanti come l’Amazzonia che era il polmone della terra, o l’estinzione dei tonni. Cose senza senso che lo liberavano dal malessere.

Voleva lasciarsi andare quella sera, completamente, senza remore.

Voleva dimenticare tutto quello che gli aveva detto Jules, che Sarah avrebbe dovuto incontrare maman presto o tardi, che il futuro si presagiva uno schifo. Scordare ogni cosa, compresa la sua irremovibile decisione: che Annie non faceva per lui, che lui non faceva per lei.

 

Se per farlo serve della vodka… ne butterò giù tutta quella necessaria.

 

 

NOTE AUTRICE

 

Chi non muore si rivede! Sono molto impegnata, ma la storia non è sospesa… così, giusto per farvi sapere che non ho abbandonato il progetto nonostante l’attesa secolare tra un capitolo e l’altro!

 

A presto!


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Capitolo 17
*** Nessuno è fatto per stare da solo ***


À Demian

Capitolo quindicesimo

Nessuno è fatto per stare solo


Fu il rumore di una vibrazione amplificata dalla superficie di legno a svegliarla.

Nello stordimento di un risveglio imprevisto, ancora avviluppata dalla stanchezza e da un sogno abbastanza allucinante, non riuscì ad identificare immediatamente l’origine del suono. Non aveva sveglie in camera sua, sua madre le concedeva di dormire quanto desiderava. Poco lucidamente, pensò che potesse essere stato Daniele, in uno dei suoi dispetti costanti, e borbottò tra sé e sé maledizioni al fratello maggiore mentre allungava il braccio verso il comodino e lo tastava goffamente, senza togliere la faccia dal cuscino.

Con le dita s’imbatté nel cellulare sotto carica.

 

Cavolo, questo aggeggio infernale. Non riesco mai a ricordarmi di averne uno

 

L’aveva usato per la prima volta solo il giorno prima, per sentire Demian, ma il concetto stesso di quell’oggetto la faceva sentire priva della sua indipendenza e la infastidiva. Lo afferrò prima che il baccano svegliasse Giorgi, con cui condivideva la stanza. Ancora offuscata dal sonno, ma con un vago sorriso, si mise a sedere e accettò la chiamata in arrivo considerando che l’unica persona, oltre alla sua famiglia, a possedere quel numero, fosse appunto proprio Demian.

«Pronto?» biascicò insieme ad uno sbadiglio.

«Ciao, scusami per il disturbo. Tu sei per caso Annie?»

Fu come ricevere una secchiata d’acqua gelida in faccia. Fece scattare l’interruttore della luce, ignorando bellamente il fratellino, e balzò sul letto, in piedi «Tu non sei Demian!» constatò, scioccata. Poi si portò una mano alla bocca, come a trattenere il tono di voce, per quanto ormai fosse tardi. Le sfuggì un sospiro di sollievo nello scoprire che Giorgi non si trovava nel suo letto. Nonostante l’età, ancora gli capitava di sgattaiolare nel cuore della notte nel lettone dei loro genitori.

«No, direi di no. Ma tu sei lei, giusto?»

La voce non era quella di Demian, però poteva distinguere una leggera traccia di accento francese, una delicatezza morbida nell’accarezzare alcune consonanti, non marcata come quella di Demi ma altrettanto tenacemente aggrappata alla pronuncia.

«Sono Arianna» chiarì, senza celare la propria insofferenza. Si contenne dal domandare con tutta l’ostilità possibile come avesse recuperato il suo numero quello sconosciuto, perché per quanto ovvio, non voleva proprio credere che Dem lo avesse dato a qualcuno. Se per un momento era stata pervasa dalla gioia estatica al pensiero di star ricevendo una chiamata proprio da lui, ora la delusione l’aveva inacidita.

 

Ci potrei tenere un corso, sui cambi d’umore repentini

 

«Scusami se ti chiamo a quest’ora» attaccò imbarazzata la voce all’altro capo, fermandosi quasi subito, probabilmente alla ricerca delle parole giuste che non la spingessero a sbattergli il cellulare in faccia. Decise di non mostrare compassione per lui, nonostante avesse percepito il suo disagio, e sbuffò «Perché, che ore sarebbero?»

«Le cinque e mezza del mattino, più o meno»

La saliva le andò di traverso e quasi ci si strozzò. Tra un colpo di tosse e le lacrime agli occhi strillò ancora «Cosa? E tu chi saresti?»

Si guardò intorno alla ricerca di un orologio che confermasse quell’assurdità, salvo poi ricordarsi che aveva costretto tutta la famiglia a bandire qualunque forma di segnatempo in quella casa. In un momento di crisi, aveva deciso che il ticchettio del tempo che scorreva la innervosiva ai limiti dell’isteria, ora ovviamente se ne pentiva. Saltò giù dal letto e si precipitò verso la finestra.

«Sono Julian, il cugino di Demian» borbottò.

Arianna scostò le tende, aprì la finestra e cacciò fuori la testa. L’aria corroborante della notte le frustò le guance, era così fresca che le parve di respirare una profonda boccata di ghiaccio.

«Non ho molto tempo per spiegarti, ma potresti venire con me?»

«Ché?» esclamò ancora a voce eccessivamente alta. S’irrigidì e rimase l’attimo successivo in silenzio, per controllare di non aver svegliato nessuno.

 

Fortunatamente Daniele è un trattore e qui tutti sono abituati alla Seconda Guerra Mondiale, che se atterrasse un elicottero in giardino probabilmente nessuno se ne accorgerebbe.

 

«E perché dovrei venire con te?»

Julian sospirò abbastanza rumorosamente da farsi sentire «Sembra che Demian si sia messo di nuovo nei guai. Io non riesco più a farlo ragionare, ma forse tu…»

 

Demian

Nei guai

 

Qualsiasi forma di pensiero razionale si disperse rapidamente ed Arianna neanche aveva riflettuto e già aveva passato a quello sconosciuto il proprio indirizzo. Poteva essere benissimo un serial killer per quanto potesse riguardarla, ma anche solo un margine di dubbio le pareva sufficiente a fidarsi.

Demian era il tipo di ragazzo perfettamente in grado di mettersi nei guai. Non lo conosceva così bene, eppure ci avrebbe messo una mano sul fuoco senza esitare. Quell’impressione nasceva dai racconti di Jenevieve, che quando parlava di suo figlio si corrucciava e increspava la fronte pallida in un accenno di preoccupazione più che sufficiente: quella donna viveva sull’altra riva del fiume da sempre, era tagliata fuori dalla banalità umana, eppure, nonostante quella sua visione leggera dell’Essere, per Demian non riusciva a trattenere l’ansia. Ad Arianna questo bastava a rendere evidente la propensione alla problematicità del ragazzo. A questo si univa la sua personale sensazione, che Demi s’impegnasse a non essere troppo se stesso in sua presenza, come per preservarla da qualcosa di sgradevole.

Una fetta piuttosto ingombrante di lei voleva solo avere l’occasione di guardare oltre quel Velo di Maya e, forse, Julian l’avrebbe squarciato e le avrebbe mostrato tutto ciò che c’era da vedere. Forse avrebbe placato la sua morbosa curiosità per quello strano individuo.

 

Un perfetto, stupido ragazzo che pensa di essere in grado di nascondere le sue malefatte a sua madre

 

Si chiedeva sempre da dove venisse tutto quell’amore, quell’orgoglio assoluto che illuminava Jenevieve anche mentre le raccontava i danni che lui pensava di nasconderle, e c’era così tanta tenerezza, così tanta indulgenza per quel ragazzino, che lei stessa non aveva potuto non restare affascinata dal ritratto che quella donna aveva dipinto per lei.

Il ragazzo di cui parlava Jenevieve era un disastro ambulante, per cui però non si poteva non provare un affetto quasi istantaneo. Come lo si abbandonava un soggetto simile?

Recuperò un felpone di Daniele ed un paio di jeans smangiati, con i buchi sulle ginocchia che ormai si erano trasformati in crateri, senza mai smettere nel mentre di maledirsi.

 

Dovresti farti una buona dose di affari tuoi, piuttosto che andargli dietro, tanto lo sai benissimo che stai facendo un immenso errore, non sei una presenza sana, guardarti. Ha già i suoi problemi senza che ti aggiungi tu

 

La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.

 

Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte

 

La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita. Così lei stessa si privava della propria corolla e poi pativa nuda e sola il freddo dell’inverno.

Raccolse frettolosamente i capelli in una coda alta ed arruffata e sedette sul bordo del letto, in attesa. Il silenzio prima dell’alba era assoluto ed inquietante. Se si concentrava, le sembrava quasi di sentire il ronzio della corrente elettrica che passava attraverso i muri.

 

Lo so che sbaglio, ma stavolta non mi va proprio di fare la cosa giusta.

Per una volta, solo questa, lo giuro, però questa volta no. Anche se lui è fragile…

 

La verità era banale: un’anima sensibile come quella di Demian era troppo attraente, per lei che aveva sempre ceduto al fascino della bellezza più autentica e primitiva. C’era qualcosa di primordiale in lui, nei suoi istinti suicidi, qualcosa d’intrigante. E che non potesse guarirlo le importava poco, non pretendeva nemmeno di arrogarsi una simile responsabilità.

Guardarlo da vicino però era un sottile piacere che non voleva negarsi.

 

Non posso guarirlo… ma non posso nemmeno rinunciare a provaci

 

L’attesa però la innervosiva. Ebbe il tempo di scivolare in bagno, attraversando il corridoio della zona notte con una furtività poco sensata dopo tutti gli urli che aveva cacciato, riuscì a sciacquarsi e a tornare nella propria stanza senza ricevere notizia di Julian. Così raccattò il primo paio di scarpe che le riuscì di trovare, un paio di Adidas completamente sfondate, e aspettò in sala.

Appollaiata sul divano, nel buio di una casa addormentata, si sentiva inquieta. Quando finalmente arrivò lo squillo di Julian sentì un peso togliersi dallo stomaco, uno stato di ansia dovuto anche a sua madre e a quel muoversi furtiva in casa propria. Varcò la soglia di casa in punta di piedi, con le scarpe in mano per ridurre i suoni al minimo, e nel mentre cercò di approssimare quanto tempo ci sarebbe voluto alla sua famiglia per accorgersi della sua assenza.

 

Probabilmente un paio d’ore, non di più. Se solo la mamma fosse meno mattiniera!

 

Suo padre non era rientrato, ma anche l’avesse fatto probabilmente non avrebbe avuto la lucidità per rendersi conto o meno della sua presenza, a volte quelle sue mancanze diventavano benedizioni.

 A volte.

Scavalcò il cancellino e raggiunse l’unica macchina con i fari accesi lungo il vialetto, quasi in appostamento, saltellando come un pollo con una sola zampa mentre s’infilava le scarpe. Aprì la portiera e s’infilò nella macchina con tutta la furtività di cui era capace, solo per calarsi meglio nel ruolo di pessima spia di un film adolescenziale di dubbio gusto. Le sfuggì un sorriso: sciocchezze come fuggire di casa con uno sconosciuto, non le aveva mai fatte, ed anche se il motivo era tendenzialmente serio ed importante, la situazione la divertiva davvero troppo. Dovette rimproverarsi mentalmente per non far trasparire quella vena d’infantilismo. Ovviamente non ci riuscì, guardò il ragazzo alla guida e sfoderò involontariamente il suo sorriso più allegro.

«Buon giorno!»

Quello che doveva essere Julian, un ragazzo dal viso fine ed i capelli biondi, arruffati come fosse appena rotolato fuori dal letto, la fissava con gli occhi pesanti di borse violacee quasi sgranati per la sorpresa «Wow» si lasciò sfuggire in un borbottio, arricciando le labbra sottili «Tu saresti Annie?»

Gonfiò una guancia con disappunto «Arianna» specificò.

Non c’era una ragione precisa, però non era abituata a quel nomignolo che poco centrava con il suo nome. Detto da Demian aveva quasi senso, inspiegabilmente, ma sulle labbra di chiunque altro stonava terribilmente.

Julian accennò un sorriso saccente «Beh, “wow” comunque. Niente male davvero»

Quell’aria da padrone della situazione che mirava a metterla in imbarazzo la irritò. Inclinò il capo, sbatacchiò gli occhioni e gli sorrise maliziosa, nell’imitazione grottesca di una bambolina «Vuoi una foto, o ti basta la radiografia che mi hai appena fatto?»

Jules ingrandì il sorriso, da strafottente a pienamente divertito «Mi accontento di poter usare di nuovo il tuo numero, ma chérie»

Quella reazione scarsa la indispettì «Lascia perdere, non c’è trippa per pesci»

«Hai per caso dei pesci rossi carnivori geneticamente modificati?» la prese in giro. Era la linea provocatoria e strafottente di quella bocca ad innervosirla, non era come Demian. Non s’innervosiva, non si imbarazzava, restava tremendamente sicuro di sé.

Incrociò le braccia al petto, stizzita «Perché?»

«Ah, non saprei. Da che mondo e mondo la trippa se la mangiano i gatti. Ma ehi, sei amica di mio cugino, non mi meraviglierebbe se il tuo caso fosse un’eccezione!»

Il sangue le affluì alle guance con la stessa intensità di una colata lavica «Se avessi dei pesci rossi carnivori, te li sguinzaglierei contro!»

Julian allontanò il ciuffo biondo che gli ricadeva sul viso e assunse l’espressione caricaturale di qualcuno che voleva sembrare affascinante ma sembrava un vero imbranato «Questo non è un no» ammiccò con un occhiolino che la fece rabbrividire e sorridere insieme. Si contenne per non dargli la soddisfazione di sapere che in realtà lo trovava molto divertente, perché quella faccia tosta opposta a suo cugino, quel ghignetto sicuro e strafottente che gridava “cadrai ai miei piedi, lo sappiamo entrambi. È inutile che opponi resistenza”, si meritavano di schiantarsi contro un muro a cento all’ora. Girò la manovella del finestrino e Jules si accigliò.

Non gli disse nulla, ma aprì platealmente il cellulare, tolse la Sim e gliela mostrò con altrettanta arroganza.

«Che stai facendo?»

Con un movimento repentino, fece il gesto di gettarla fuori dal finestrino e, altrettanto velocemente, abitudine di anni di allenamento, nascose la sim tra il dito medio e l’indice. Il trucco della monetina, così lo chiamava Daniele.

Al ragazzo cascò la mandibola, Arianna si voltò soddisfatta verso di lui, senza cancellare il sorriso «Adesso puoi usarlo, se vuoi» dichiarò con una scrollata noncurante delle spalle.

Julian richiuse la bocca con uno schiocco secco, ma gli occhi, quegli occhi verdi attraversati da venature dorate, restavano dilatati in uno stupore attonito.

«Ahi» borbottò, portandosi la mano al cuore con fare teatrale.

 

si è ripreso in fretta

 

 

neanche a pensarlo, il ragazzo abbozzò subito il ghigno da predatore mancato che già Arianna aveva intuito fosse parte integrante del suo essere quanto quel taglio di capelli alla Zack Efron.

«Io te lo dico, questo netto rifiuto mi ha ferito profondamente. Sappi che hai fatto a pezzi il delicato cuore di un fanciullo sognatore in modo a dir poco barbino»

L’aria ironica e giocosa la fece, al fine, cedere, ed Arianna si ritrovò a ridere «Hai mangiato un dizionario prima di venire qui?»

«Sono solo un brillante e galante uomo d’altri tempi» la corresse lui, senza smettere di guardarla. Era uno stupido, ma sembrava genuino, quell’idiozia era più reale della facciata da predatore con cui l’aveva accolta. Arianna si sporse verso di lui, tese la mano quasi a sfiorargli il viso e notò appena la schiena di Julian pietrificarsi e perdere baldanza, come se davvero si stesse aspettando un qualche suo gesto inconsulto. Però la fissava negli occhi ed una consapevolezza strana le balenò all’improvviso

 

Non pensa che io possa fare qualcosa, è lui che vorrebbe fare qualcosa

 

Ma almeno, nonostante l’intensità sfacciata con cui la studiava, non accennava a muoversi. Così decise d’ignorare la tensione che proveniva dal corpo del ragazzo, gli passò la mano dietro l’orecchio e finse di estrarne la sim del cellulare, sfoggiando poi il suo sorriso più vittorioso e soddisfatto.

«Egocentrico, pensi davvero che rinuncerei al mio numero per te?»

Le pupille di Jules seguirono rapite la sua mano e l’oggetto che ora mostrava con tanta ovvietà.

«Ti diletti di trucchi di magia, ma chérie?»

Non avrebbe mai confessato che dopo aver letto il libro di Harry Potter aveva sognato Hogwarts, magia, gufi e lettere che non erano ovviamente arrivate. Né avrebbe mai rivelato che quello stupido trucchetto che tanto lo aveva preso in contropiede in realtà era solo uno dei molti che suo padre faceva quando era bambina e in ospedale si annoiava troppo.

Anche lei era stata entusiasta ed estatica a suo tempo, prima d’imparare, ma ora quei ricordi avevano un retrogusto un po’ più amaro.

«A volte» chiarì con un sorriso.

Il ragazzo ridacchiò «Sei una strega arruffata, inizio a capire come lo hai incastrato, quell’ingenuo di mio cugino», commentò soltanto, scuotendo piano la testa, come indulgente. Arianna guardò il suo profilo mentre si ricomponeva alla guida, e pensò che fosse un ragazzo particolare. Considerando Demi e Jenevieve, giunse alla conclusione che tutti, in quella famiglia, dovessero essere un poco fuori dalle righe, ma almeno Julian era più incline al gioco di quanto non lo fosse Demian con la sua espressione truce e corrucciata e quell’atmosfera da “ce l’ho con il mondo”.

 

Ecco, credo che lo ribattezzerò “Demian-ce-l’ho-con-il-mondo-Lemaire”

 

Paradossalmente, nonostante la sua giovialità, la sicurezza di Julian restava irritante, i tipi come lui avevano su di lei la stessa attrattiva di una giornata al mare per un vampiro. Distolse lo sguardo, in imbarazzo, e lo incitò «Muoviti, i miei si svegliano presto. Quindi portami nel posto dove mi devi portare, a recuperare quell’irrecuperabile idiota di tuo cugino!»

La macchina si accese con un rombo leggero, poco rassicurante, e Julian annuì, ora più grave «Come desideri tresòr, ma potresti non apprezzare quello che vedrai»

 

 

 

In caserma, ecco dove l’aveva portata Julian.

Dai carabinieri.

 

Che posto romantico come primo appuntamento. Ok, che non mi aspettavo una suite dell’Hilton, ma qui abbiamo toccato proprio i massimi storici della tristezza.

 

Cercò di prenderla sul ridere, almeno tra sé e sé, ma dovette ammettere di essere rimasta piuttosto turbata e mentre seguiva Julian come un pulcino dietro la chioccia, non poteva non chiedersi quale motivo l’avesse spinta ad essere lì. Il biondino aveva confabulato con un carabiniere dall’aria stropicciata e stanca e questo gli aveva lasciato una leggera pacca di conforto sconsolato sulla spalla prima di invitarli entrambi a seguirlo.

Il ragazzo la guardò con un sorrisino compassato, un misto di esasperazione e scocciatura, un atteggiamento strano per qualcuno che stesse andando a tirare fuori dai guai il cugino quindicenne, minorenne.

Si accomodarono sulle seggiole davanti ad una scrivania e il carabiniere di turno offrì loro un caffè, che Julian accettò. Lei non se la sentiva, era troppo frastornata, si rendeva conto di non riuscire a smettere di frugare l’ambiente circostante con puro sgomento dipinto in volto.

«Chiamo Antonio e torno e subito» chiarì l’uomo in divisa, prima di sparire dietro ad una porta. Arianna si sforzò di riportare gli occhi sul suo accompagnatore, ticchettò le dita con studiata nevrosi sulle braccia conserte, in un crescendo di rabbia e indignazione.

«Non dovresti dirmi qualcosa? Spiegarmi almeno la situazione?»

Julian sorseggiò un poco il caffè della macchinetta, poi sospirò «Demian sarà in una delle camere di sicurezza, sarà una cosa veloce»

«Una cosa veloce» mormorò a stento, quasi fosse un pappagallo. La nonchalance di quel ragazzo stava mettendo i suoi nervi a dura prova. Ebbe l’impulso di prendere a sberle qualcuno fino a gonfiargli la faccia, e non sapeva se quella collera fosse rivolta a Julian o a Demian. Il miracolo restava, in qualche modo si stava trattenendo.

 

Per ora, almeno.

 

Non leggere preoccupazione in quegli occhi verdi screziati d’oro, ma solo una rassegnazione dimessa che sapeva di resa, le lasciava in bocca un retrogusto amaro, un sapore inspiegato di sconfitta.

«Lo hanno arrestato?»

Jules abbozzò un sorriso stentato «Tecnicamente sarebbe in stato di fermo» la corresse, ma poi lesse la scintilla omicida che la animò perché si ricompose subito in un’espressione seria.

«Ci porteranno presto da lui, non preoccuparti»

«Demi è minorenne» osservò con circospezione, cercando di decifrare quella calma eccessiva e disagiante «Solo il suo tutore può tirarlo fuori di qui, anche se è fermo e non arresto»

Julian non riuscì a reprimere l’ennesimo sorriso, eccessivamente divertito, come si stesse prendendo gioco di lei.

«Questo è vero, ma in realtà non è propriamente in fermo. Il suo nome non comparirà su nessun documento ufficiale, diciamo così. Un favore di un amico di famiglia, più o meno. Diciamo che Antonio si cava qualche occhio per lui per non farlo mettere nei guai»

Arianna sentì le spalle cedere sotto un improvviso peso che non le riuscì di identificare. Priva di forze, si rassegnò ad accasciarsi sulla sedia e tornò a guardare davanti a sé.

 

Sembra così assurdo, cosa intende esattamente con “guai”? Qual è la vera definizione di guai?

 

Nella sua concezione, guaio era mangiare i biscotti di nascosto prima di cena, o sgattaiolare fuori casa alle cinque di mattino. Sospettava che i guai a cui si riferiva Julian fossero un po’ più grandi e complessi. Prese fiato e tornò alla carica

«Perché non c’è un adulto qui? Non dovrebbe occuparsene qualcun altro? Qualcuno di un po’ più…»

Responsabile?

Competente?

All’altezza?

 

Qualcuno in grado di fermarlo, che gli desse la sonora strigliata che si meritava e lo riportasse sulla via del ragionevole. Perché saperlo lì, sapere che quell’episodio non era a se stante, era routine, trasformava tutto in una devastante sconfitta, una battaglia di Waterloo senza speranze, come se Demian fosse già etichettato come un caso umano e fosse troppo tardi per rimediare e l’unica soluzione fosse tamponare un’anfora che faceva acqua da tutte le parti.

Per lei era inaccettabile, Arianna non era mai stata brava a perdere, la resistenza all’ovvio era il suo mantra, non avrebbe sventolato bandiera bianca nemmeno se davanti a lei si opponeva imperterrito uno scontroso che per se stesso sapeva provare solo disprezzo.

Un infervoramento improvviso la travolse e la rimestò, tanto che stare ferma gli sembrò impossibile e si agitò sulla sedia.

Julian nel mentre si stava massaggiando la fronte, sembrava stesse cercando di raccattare parole per dare un senso a qualcosa che effettivamente non ne aveva troppo.

«Ci sono meccanismi complicati, a volte» mormorò stancamente, poi però sorrise ancora e Arianna, d’un tratto, in Julian rivide un poco se stessa e quella leggerezza autoimposta a volte, per sopportare cose di difficile sopportazione.

«La tutrice di Demian è mia zia ed è impossibilitata al momento. Ci sono cose che mia mamma non sa e che mia zia non vuole che sappia. Mi ha chiesto questo favore, di fare le sue veci. Mia mamma è in gamba, ma ha i nervi fragili, la zia non pensava potesse gestire tutto questo…» la voce stemperò in un sospiro «Forse non posso nemmeno io» valutò amaramente, storcendo la bocca.

Il carabiniere di prima riapparve sulla soglia e fece cenno a Julian di seguirlo. Il ragazzo abbassò un poco le spalle, appesantito, e le sorrise di nuovo, una smorfia malinconica che non raggiungeva gli occhi «Mi portano da lui, aspetta qui»

Arianna si ritrovò ad annuire, quasi distrattamente. Quando rimase sola però, la curiosità ebbe il sopravvento. Si avvicinò alla porticina che dava sul corridoio, ci si affacciò ed inseguì con lo sguardo la figura dell’agente e di Jules che parlottavano tra loro. Ebbe solo un attimo d’indecisione, poi gli trotterellò dietro, perché era tutto troppo assurdo e per crederci voleva vedere con i suoi occhi. Fu il suono di una risata a cementificarla al suolo e impedirle di avvicinarsi oltre. Poco oltre Jules e l’agente, un uomo di guardia stava porgendo qualcosa tra le sbarre della camera di sicurezza. Una mano pallida che conosceva bene comparve nel suo campo visivo, afferrò quella che doveva essere una foto e cacciò un fischio.

«Cazzo se è cresciuta! È passato davvero così tanto dall’ultima volta che l’ho vista?» commentò il detenuto, che si rivelò ovviamente essere Demian.

Sebbene lo sapesse e in realtà fosse scontato, ne rimase davvero sconcertata. Quell’incosciente stringeva tra le mani la foto con un sorrisino strano che non gli aveva mai visto, velato di un’appiccicosa mestizia.

Era troppo lontana perché la notasse, a meno che non avesse voltato il capo nella sua direzione, ma da lì Arianna vedeva la sua figura di tre quarti, i capelli sparpagliati, quasi completamente caduti sul suo volto, come stanchi nonostante il gel ancora cercasse di far presa.

Il carabiniere scrollò le spalle «Figurati, Chiara ormai è una piccola signorina e si annoia a venire al lavoro con il suo papà. Lucia era l’unica che mi desse soddisfazione, ed ora se la prendo in braccio si mette a piangere!» sollevò gli occhi al soffitto con disperazione «Un giorno, marmocchio, mi dirai come hai traviato la mia bambina»

Demian sfoderò un ghigno spavaldo e provocatorio, che metteva in mostra il suo canino sinistro leggermente storto. Quasi sembrava una fiera, un animale impossibile da domare, una persona completamente differente da quella che lei aveva conosciuto.

 

Allora avevo ragione, ti impegni davvero a non lasciarmi sola con te

 

«Sono giovane e bello, direi che sono motivi più che sufficienti» rispose con presunzione e poi aggiunse, non senza una certa petulanza, come se quella frase l’avesse ripetuta almeno diecimila volte «Comunque la mia bestiolina resta la più bella di tutte»

Era così scioccata che per la prima volta nella sua vita si ritrovò a corto di parole. Rimase a bocca schiusa a guardarlo là, in piedi, tranquillo e sereno come non l’aveva mai visto, mentre parlava amabilmente con il suo secondino. Aveva i jeans strappati, la maglietta nera a mezze maniche era macchiata e lasciava in bella vista un brutto taglio sul braccio. Persino il viso non era esente da numerose escoriazioni, eppure sorrideva ed era a dir poco luminoso, entusiasta, mentre frugava nel portafoglio alla ricerca di una foto, quasi sicuramente di Sarah.

Stava guardando qualcosa di profondamente sbagliato, e allora perché sembrava quasi un quadretto familiare, per la quotidianità, l’intimità che trasmetteva?

Deglutì a fatica, si sentiva di troppo ed era arrabbiata, perché non era normale, non aveva senso.

 

C’è qualcosa di profondamente sbagliato, maledizione! Possibile che nessuno se ne accorga? Non lo vedono quanto tutto questo sia… malato?

 

Lo osservò, osservò quell’espressione sdilinquita mentre contemplava il suo piccolo tesoro e lo sventolava come il più ingenuo dei bambini, e capì il problema: erano tutti troppo coinvolti. Forse, lo era anche lei, perché tutta la rabbia che l’attraversava perdeva già vigore e veniva rimpiazzata da una tenerezza quasi struggente per lui.

 

Arianna Selene Alessi, riprenditi! Come diavolo fai a provare tenerezza per un tizio palesemente conciato in modo tale che è evidente sia reduce da una rissa? Per Dio, almeno tu mantieni un minimo di equilibrio, che qui tutto è al degenero anche senza di te!

 

Brillava talmente, quando parlava di Sarah, quando la pensava, che davvero, nonostante tutto fosse assurdo e insensato, Demian riusciva a dargli un senso. Lo dava per tutti i presenti, riusciva ad essere una cosa ed il suo opposto ed in qualche modo questo veniva accettato comunque, al di là del sano e del giusto.

«Ah, era anche ora. No, tranquillo Jules, fa’ pure con comodo. Tanto io qui mi stavo divertendo parecchio, non vedi? Posso parlare con tanta bella gente!» borbottò Demian con malcelata ironia «Ah, senza rancori, Anto» rettificò guardando l’agente con una scrollata incurante della testa. Il carabiniere si accigliò «Non pensi mai che averti tra i piedi sia un disturbo anche per noi, moccioso?»

Julian si avvicinò sbuffando «Questa volta sono stato seriamente tentato di abbandonarti qui, quindi ringrazia la nostra infinita bontà d’animo. Qualche giorno dentro ti farebbe solo che bene!»

 

Questa volta

Quanto era inaccettabile che Julian parlasse di quelle numerose volte come fossero marachelle senza importanza?

 

“Più volte” quante volte sottintende?

 

Lo sconcerto era più forte di qualunque collera, non ci riusciva proprio.

 

È veramente uno scemo, uno scemo oltre ogni limite. Così scemo che quando sorride in quel modo, come se fosse felice, viene spontaneo sorridergli di rimando. Tutto ciò che sembra sbagliato va al diavolo, ecco cosa c’è di tanto grottesco in tutto questo.

Non c’è nulla di giusto nella vita di Demian, ma se è lui si può perdonargli tutto, solo per poter ricevere in cambio quell’espressione di immotivata, piena felicità.

 

Quell’espressione che nasceva e moriva con Sarah.

 

Per Sarah

 

«Certo, lasciami pure qui. Così non ci sarà bisogno di mettermi dentro la prossima volta che deciderò di pestare qualcuno» ribatté ancora Dem, con quell’assurdo atteggiamento menefreghista. Sembrava reale, eppure non era vero, Arianna ne era sicura, la maschera non era quella che le aveva mostrato, per quanto lui stesso ci credesse. No, la maschera era quella farsa, quel fingere che nulla potesse toccarlo quando in realtà ogni cosa lo feriva e lasciava segni indelebili sulla sua anima fragile; restava a terra, abbandonato e sanguinante, ed era solamente troppo orgoglioso per ammettere di essere debole.

«Antonio, che ha combinato stavolta?»

«Ha assistito ad una rissa violenta fuori da un locale. Erano in parecchi, non so come lui e i suoi compari ne siano usciti interi, ma uno degli altri è stato ferito piuttosto gravemente con una bottiglia rotta» con un sospiro esasperato aggiunse «Quel gruppo di ragazzi con cui giri ci va piuttosto pesante, Demian. Veramente, è il caso che smetti di frequentarli o ti rovineranno. E non potranno coprirti per sempre»

«Metti in dubbio ch’io fossi un’anima candida nel posto sbagliato al momento sbagliatissimo?» domandò ironico, mani nelle tasche dei jeans e spalle leggermente sollevate, con un sorriso attaccabrighe di chi non esiterebbe nemmeno un secondo a litigare anche solo per uno sguardo sbagliato. Era un Demian assolutamente inedito per lei, un perfetto sconosciuto che non aveva mai incrociato, che le aveva ben nascosto.

 

Quell’insicurezza non può essere una menzogna. Julian non mi avrebbe chiesto di essere qui, se tutto fosse una bugia. Deve esistere, deve esserci per forza.

 

«Non lo metterei in dubbio se non capitasse tanto spesso di trovarti qui. Sempre casualmente. Io non so perché ti coprano ogni volta, e mi sta bene che lo facciano, onestamente. Rende più facile la mia parte. Sei un bravo ragazzo Dami, con loro non hai nulla da spartire e lo sai anche tu. Anche la macchina l’avete rubata voi, vero?»

Demian sollevò l’angolo della bocca nell’ennesima smorfia di sfida «Ho il diritto di restare in silenzio, giusto? Sono innocente fino a prova contraria. Tirami fuori»

L’agente, a cui Dem dava del “tu” con un’irriverenza e una confidenza sconvolgente, sospirò e aprì la camera di sicurezza, da cui il ragazzo uscì con la felpa in spalle e una sigaretta ancora spenta tra le labbra. Quando si voltò e finalmente la vide, perse in un colpo tutta la sua baldanza. Arianna, altrettanto immobile, vide i muscoli delle sue braccia tendersi, irrigidirsi, e un lampo indefinito attraversare i suoi occhi chiari, vetro opaco su un cielo grigio. Forse era senso di colpa, Arianna lo trovava giusto, che si sentisse in colpa. Perché così, con quel modo di essere, si rendeva irraggiungibile in maniera intollerabile.

Fu solo un lungo, sospeso istante, poi fu assalito dalla collera più cieca. Si scagliò contro Julian con una rapidità sorprendente, lo spinse contro il muro con il gomito puntato alla gola e gridò di cattiveria «Che cazzo ci fa lei qui?»

Arianna sussultò, le mani le tremarono per la paura. Tutta quella rabbia repressa, quell’incredibile odio, erano così eccessivi da non avere alcun senso, le davano il panico. Per un momento le mancò il respiro e si ritrovò ad annaspare, un terribile senso di déjà-vu le attanagliò la gola. Adesso lo vedeva davvero attraverso gli occhi di una sconosciuta, e l’insofferenza che le stava mordendo l’anima l’avrebbe messa solo nei guai. Li avrebbe messi entrambi nei guai e Demian nemmeno lo immaginava. Eppure Arianna si maledisse, perché sebbene sapesse che lui era anche questo, anche se Jenevieve molte volte le aveva lasciato intuire come Demian fosse, nonostante tutto aveva perso ogni sicurezza e ogni sua sinapsi l’aveva abbandonata al terrore. Julian boccheggiò e si agitò goffamente, per sciogliere quella presa, ma fu solo Antonio che riuscì a strappare Demian via dal cugino, lo agguantò bruscamente e riuscì a bloccargli le braccia. Jules si piegò su se stesso e tossì violentemente.  Con il dorso della mano si pulì il mento e riuscì a biascicare «Ti vergogni di te?»

Gli occhi di Demian si assottigliarono di rancore incontrollato, tentò nuovamente di raggiungerlo con uno strattone, ma la presa di Antonio fu più forte e tutto ciò che ne conseguì fu solo un mezzo latrato di frustrazione «Sei un bastardo! Come l’hai trovata, fottuto traditore? Se l’hai toccata, non me ne fraga un cazzo se hai il mio stesso sangue, ti ammazzo di botte lo stesso!» sbraitò, le vene del collo e della fronte pulsavano come impazzite e così i suoi occhi sembravano spiritati, con le sclere arrossate di capillari dilatati.

«Demian, non costringermi a rimetterti dentro! Datti una calmata immediatamente!» tuonò il carabiniere mentre con fatica lottava per trattenerlo. Demian scalciava come un animale impazzito, sembrava folle, irragionevole.

 

No, tutto questo non è accettabile, è troppo oltre

 

Arianna strinse i pugni, prese un respiro più profondo ed una calma risoluta prese il posto della paura totalizzante che l’aveva bloccata. Per lo sbigottimento dei presenti, avanzò dritta vera di lui, si fermò ad un passo da quel volto livido di collera, lo fissò dritto negli occhi.

Lo schiaffo, con il suo schiocco improvviso, fece calare un silenzio irreale, carico di tensione repressa. Demian smise di agitarsi, la guardò a sua volta e gli occhi gli si sgranarono nello stupore più genuino.

«Datti una calmata» sibilò gelida.

La mano di Julian si serrò attorno al suo braccio, Arianna sentì la pressione delle dita che cercavano di allontanarla, come se il ragazzo temesse che Demian potesse commettere uno sproposito e farle del male. Il solo pensiero la offese, scrollò l’arto e si liberò di quella stretta senza mai distogliere la sua attenzione dal viso di Demi, che a sua volta la ricambiava. Quello che stava facendo non era differente dall’ammansire un animale, ne percepiva la sfida, e proprio per questo si rifiutava di fare un passo indietro, perché era nel giusto e Demian doveva capirlo, doveva arrivarci.

Alla fine di quella battaglia silenziosa fu Demian infatti a chinare la testa, d’un tratto mansueto, e Arianna seppe di aver vinto. Non ne trasse però alcuna soddisfazione.

«Lo lasci andare» disse al carabiniere, e suonò quasi come un ordine, ma era solo l’amarezza a renderla troppo dura. Antonio esitò, quando però si rese conto che Dem era diventato completamente inoffensivo, lo liberò, non senza riluttanza. Arianna lo capiva, nulla avrebbe potuto impedirgli di avere un’altra reazione completamente fuori da ogni schema logico che non fosse istinto animale, questa giustificazione non bastava a renderla più tollerante verso quell’uomo che in teoria lo conosceva, ma in pratica aveva capito di lui poco o nulla.

«Mi scusi se mi sono intromessa. Se non le dispiace, sarebbe meglio per noi andare» accennò un sorriso più tranquillo e gli porse la mano «È stato un vero piacere, mi scusi per il disagio»

Antonio, preso in contropiede, fissò la sua manina sospesa nel vuoto qualche secondo di troppo prima di decidersi a stringerla, vittima di un palese sconcerto che aveva attraversato anche i volti degli altri presenti.

«È stato un piacere anche per me, signorina» bofonchiò tra l’imbarazzo e la perplessità. Demian, con il capo chinato dalla vergogna, recuperò la felpa da terra, si passò una mano tra i capelli in un gesto di nervosismo ed infine borbottò «Salutami Lizzie, e ringraziala da parte mia per i biscotti. E di’ a Chiara che mi dispiace di essermi perso il suo saggio. Se mi inviterete ancora, al prossimo ci sarò di sicuro»

Antonio aprì la bocca, la richiuse e il segno della barba sfatta lo fece apparire stranamente smunto. Di nuovo, Demian sembrava così stanco, così delicato, che infierire sarebbe parso una crudeltà, anche se meritata. Alla fine il carabiniere si limitò ad arricciare le labbra «Lo sai che ti inviteremo. Chiara ti vuole bene, Lucia ti adora ed Elisabetta chiede del suo figlioccio un giorno sì e l’altro pure» accennò un sorriso pietoso, una forma di affetto prostrato «Ci vediamo presto. Possibilmente non qui, la prossima volta»

 

 

I primi barbagli di luce rosata accarezzarono le palazzine grigie di cemento e le cime scheletriche dei radi alberi che adombravano i marciapiedi d’estate. Era un’alba particolarmente suggestiva, sfumava dal rosa ad un tiepido indaco con la delicatezza di un acquerello e delineava le ombre allungate delle loro figure sulla strada deserta di quella mattina umida.

Arianna osservò la luna, grande come un’unghia e altrettanto perlacea, quasi fusa allo sfondo, e pensò che quel cielo doveva essere così vivace per via di chissà quale schifezza chimica che stavano anche respirando. Era uno dei tipici commenti di suo fratello, quello, il suo lato catastrofico e pessimista lo portava sempre a cercare una spiegazione cospiratoria anche di fronte ad un evento naturale dalla bellezza sconcertante. Richiamare Daniele in quel frangente era d’aiuto a sopportare la tensione che crepitava tra loro come elettricità statica.

Più che tra loro tre, tra i due ragazzi, che Arianna aveva brillantemente pensato di dividere. Ora che si era piazzata tra i due e camminava con quell’angoscia addosso più sfibrante di un parassita, si stava pentendo: era decisa a scongiurare una qualsiasi, ipotetica nuova crisi, fosse stata essa verbale o fisica, eppure la soluzione più sensata forse era permettergli di risolvere la questione nel modo più barbaro, idiota e “virile” che ritenessero opportuno.

Cacciò una discreta occhiata in tralice a Demian e non riuscì a trattenere un sospiro.

 

Come lo prendo?

È praticamente matematico, se sbaglio mossa questo qui si trincera dietro alla sua piccola torre d’avorio e basta, fine dei giochi

 

Ogni mossa sembrava sbagliata in quel contesto, e lei non poteva permettersi di sbagliare. Una simile insistenza sembrava quasi un tentato suicidio, questa era l’unica replica sorda che emergeva da qualche anfratto del suo essere, l’eco di un istinto di sopravvivenza ormai quasi del tutto soppresso.

 

Non che ad una come me, nella situazione in cui sono, l’istinto di sopravvivenza serva ancora a qualcosa

 

 

«Lo so che è stato un colpo basso. Ma io le ho tentate tutte, Dami»

Fu Julian a spezzare quel silenzio di insulti non detti ma lanciati da occhiate omicide. Istintivamente, Demian smise la sua marcia verso il parcheggio ed Arianna lo imitò quasi in sincrono. Lo guardò sfilarsi la sigaretta dalle labbra e inarcarle in una linea maligna e derisoria.

«Fanculo» sputò, insieme ad una nuvola di fumo.

Il volto di Julian si contrasse come un pezzo di carta appallottolato malamente «Avevi detto che non avresti più fatto stronzate e nemmeno sette ore dopo mi chiama Antonio! Sinceramente speravo che vederla ti desse una cazzo di sberla alla coscienza! Che cosa avrei dovuto fare?»

«I fottuti cazzi tuoi!»

La voce di Demian si alzò di nuovo pericolosamente, lasciando trasparire tutto il rancore e la rabbia gestita ma non domata. Arianna in qualche modo si era già abituata, una volta scoperchiato il vaso di Pandora le era stato fin troppo chiaro il contenuto. Persino, rispetto alla crisi mistica avuta in caserma, ora sembrava un felice hippy che lanciava margherite proclamando “Love&Peace”.

 

Che poi, Demi con una corona di fiori in testa, degli occhiali alla John Lennon e dei pantaloni a zampa di elefante stile Beatles dopo il viaggio in India, come starebbe?

 

Immaginarlo ancheggiante e pacifista riuscì a distrarla il sufficiente per farla ridacchiare tra sé e sé ed ignorarli almeno per altri cinque nanosecondi. La sua risata trattenuta male spinse i due cugini a fermare il loro battibecco solo per guardarla storta.

 

Il signore sia lodato, almeno non sveglieranno il quartiere!

 

Con un pessimo tempismo, pure il cellulare iniziò a vibrare. Arianna decise di ignorare i due idioti ancora concentrati su di lei e piuttosto contemplò il display con indecisione: il nome di sua madre non le era mai parso più minaccioso e da evitare.

 

Ovviamente si è svegliata, le sarà venuto un mezzo attacco alle coronarie quando si è accorta che non ero nella mia stanza

 

Si rosicchiò il labbro inferiore, cercando di darsi una spinta di coraggio che non trovava.

 

Devo aver dato fondo alle mie scorte personali, diciamo che per oggi basta così con le prove di resistenza!

 

Riattaccò senza tante cerimonie e prima che quell’aggeggio infernale potesse tradirla di nuovo, spense direttamente il cellulare. Sapeva che, tornata a casa, i suoi l’avrebbero probabilmente scuoiata viva, se non sua madre di certo suo fratello, ma era un problema secondario a cui avrebbe pensato dopo, aveva una gatta da pelare ben più problematica, mezza francese e molto più rissosa di quanto non avesse messo in conto in un primo momento. La parte più razionale di lei sapeva che prima di lanciarsi di testa nei problemi altrui avrebbe almeno dovuto provare a considerare i propri, sua madre sarebbe stata in agonia per lei, non voleva ferirla né farla preoccupare.

 

D’altro canto sono anni ormai che funziona così anche se m’impegno perché non succeda. Che per una volta sia davvero colpa mia, se proprio non si può evitare. Per loro non posso fare nulla, ma forse per questo scemo… per lui c’è tempo.

E se non ci fosse, ce lo inventeremo. Lo farò bastare.

 

«Ti ho messo nei guai, Annie? È tutto a posto?» Jules si era chinato su di lei, essendo almeno dieci centimetri più alto, e le aveva posato una mano sulla spalla. Alzò gli occhi su di lui con un sorriso, pronta già a rimproverarlo perché non la doveva chiamare così, ma non fece in tempo ad esprimersi che Demian lo aveva spintonato brutalmente per allontanarlo da lei. A sua volta le cinse le spalle con il suo braccio pallido e la attirò a sé con la stessa possessività di un bambino capriccioso.

«Ti ho detto di non toccarla, non devi nemmeno parlarle» ringhiò.

«È una persona, Dami, non il tuo cane!»

Demian la strinse un po’ più forte, per il suo disappunto «Hai già fatto abbastanza, non rompermi ancora i coglioni e stanne fuori!»

«Vaffanculo!» sbottò anche Julian, alterandosi a sua volta «Sei solo un piccolo stronzetto ingrato!»

 

Bene, perfetto, ed anche l’ultima isola di calma e nirvana è sprofondata! Ottimo davvero!

 

«Mi dispiace di aver preso il suo numero senza il tuo permesso, ma non avevo cattive intenzioni, cazzo! E lo sai benissimo!»

«Balle, è stata solo una scusa! Lo sappiamo entrambi che volevi vederla!»

Julian, con quel suo ciuffo da divo scarmigliato e la faccia pericolosamente rossa, sembrava sul punto di volersi mangiare le mani per la frustrazione «Io volevo aiutarti. Porca la miseria, prima di essere il mio migliore amico sei mio cugino! E adesso si sta veramente andando troppo oltre»

Arianna sentì il corpo di Demian irrigidirsi contro il suo e capì che Julian, volontariamente o meno, aveva colpito un punto nevralgico. Nonostante l’inflessibilità di quel corpo che parlava per lui, le parole uscirono fluide e spavalde «Se vuoi aiutarmi, sparisci e smettila di metterti in mezzo»

«Non hai capito un cazzo» soffiò Julian, si passò una mano sulla fronte, le iridi adombrate da una nuova determinazione. Persino Arianna capì che quello che stava per dire mirava a ferire Demi «Se non la smetti di farti io… io devo pensare a Sarah. Tu in questo momento puoi farle solo del male»

Doveva ferire Demian, eppure Arianna colse la gravità di quelle parole e quanto gli fosse pesato dirle, Julian si faceva male da sé anche solo pensarle, certe cose. Si sentì in colpa per aver dubitato di lui così, per aver pensato che stesse per dare fiato alla bocca per avere ragione.

Si sentì inerme, stare fisicamente tra quei due non cambiava le cose, non poteva essere detto nulla di più grave per ferirli entrambi.

Il braccio che la stava trattenendo perse forza e ricadde inerte, la sigaretta pigramente appoggiata tra le dita dell’altra mano scivolò a terra. Arianna si voltò a guardare Demian in viso, vide le sopracciglia bianche, spesse sulla pelle nivea, aggrottate. I suoi occhi, assurdamente chiari, quasi trasparenti con una sfumatura rosata percepibile solo ad una certa vicinanza, erano oscurati da altrettanto spesse e folte ciglia.

«Cosa vorresti dire?» proferì con tono tanto apatico e incolore che Arianna provò l’impulso di abbracciarlo, perché aveva deglutito a fatica prima di fare quella domanda e la voce era suonata roca. Quella era la disperazione più concreta.

Julian scrollò il capo e proseguì imperterrito «Io vuoto il sacco Dami, dirò la verità a mamà. Non ti permetteranno più di vederla»

Arianna riuscì a prevedere le mosse di Demian in anticipo senza difficoltà questa volta, e si lanciò su di lui per istinto, aggrappandosi al suo corpo prima che il ragazzo potesse aggredire di nuovo Jules. A muoverlo non era la rabbia cieca del tradimento stavolta, ma la disperazione di chi sta perdendo qualcosa di fondamentale.

«Tu non puoi!» la viva costernazione che traspariva era troppa, Arianna chiuse gli occhi, come per riuscire ad assimilarla meglio «Tu non puoi portarmela via! Non ne hai il diritto! Io non le farei mai del male, lo sai!»

Lo strinse più forte, un abbraccio che divenne una morsa, per quanto glielo permettessero le sue braccina esili, sperando di riuscire almeno a ostacolarlo e trattenerlo a sé. Non si era nemmeno accorta di aver incominciato a ripetere, come un mantra «Calmati, Demi! Devi stare tranquillo, reagire così non serve a nulla» con una voce tanto flebile che, in verità, dubitava seriamente il ragazzo potesse sentirla o prestarle attenzione, nello stato confusionario in cui versava.

«La tua vita le farà male! Quando scoprirà che suo fratello è un drogato del cazzo che passa più tempo a farsi di acidi e valium piuttosto che stare con lei, ne uscirà distrutta!»

Julian, inconsapevolmente, le aveva appena sferrato un montante morale che quasi la mise al tappeto. Si zittì e cercò di assimilare lentamente la notizia.

 

Si droga.

Assurdo, guardandolo non sembra una verità così improbabile. Eppure, chissà perché, non lo avevo proprio messo in conto.

 

La fitta di panico non le impedì comunque di rimanere avvinghiata al suo corpo, con una disperazione nuova a sua volta, un’incapacità di accettare una realtà che non aveva assolutamente senso per lei. Cercava di metterlo a fuoco e di comprendere che no, di lui non aveva capito proprio nulla.

 

Pensavo di averlo inquadrato

 

Faceva quasi paura realizzare quanto si fosse sbagliata. Però poi incrociò i suoi occhi tiepidi, quasi irreali per la loro trasparenza, taglienti come una scheggia di vetro con quel loro taglio nordico, e si ritrovò a sbattere brutalmente contro un muro di costernazione. C’era un tale disamore, dentro di lui, da ferirla. Guardarlo era guardare se stessa, una figura sottile come un’ombra in trasparenza annebbiata dalla troppa luce dell’alba. Era più grande di lei, Arianna si sentì incatenata.

 E il peggio era che non riusciva a dispiacersene.

La sua fragilità era tanto disarmante quanto attraente, per una bellezza così soverchiante si poteva tranquillamente scegliere di affondare consapevolmente. Lo sentì spegnersi nella sua stretta, gli arti gli ricaddero inerti e tutto il suo corpo si svuotò, come un manichino, una bambola vuota. Come se il vuoto lo avesse dentro e lo stesse inghiottendo lentamente, un buco nero che risucchiava ogni sensazione.

Solo il suo mormorio sconsolato, totalmente arreso, le diede un accenno della malinconia che si portava dietro come uno strascico troppo pesante.

«Io ho bisogno di lei»

Julian rimase pietrificato, ma solo un istante. Con un sospiro cacciò fuori tutto il suo risentimento «Sei un egoista. Lei ha solo nove anni! Non ti può salvare dalla merda da cui non vuoi uscire. Non puoi aggrapparti a lei, dovresti essere il suo punto fermo, non il contrario!»

Demian scattò di nuovo e la travolse, senza che potesse opporre la minima resistenza. Arianna si ritrovò compressa tra i corpi dei due cugini che si urlavano contro e non riuscì a far nulla per separarli.

«Sei un bastardo! Vuoi solo liberarti di me, non è vero? Sono la parte marcia, la cancrena della famiglia, lo so benissimo cosa pensate di me! Ma non vi permetterò di farlo, non vi permetterò mai di separarmi da Sarah!»

Il petto di Julian si gonfiò d’aria e indignazione «Sei tu che ti consideri un rifiuto, non gli altri che ti trattano come tale! La tua è una scelta, io non posso farci nulla se hai l’autostima sotto i piedi, ma se non ce la fai non ti permetterò di trascinarci tutti sul fondo con te!»

Demian riuscì a raggiungerlo, gli spintonò una spalla e per poco Jules non cadde a terra trascinandola irrimediabilmente con lui. Fortunatamente, il biondino l’afferrò per le spalle, frenando la sua rovinosa caduta. Arianna sentì un battito scapparle, non si era fatta niente ma l’espressione di Demi, quel gesto, l’avevano spaventata.

Eppure, quel viso candido che sembrava scolpito nel marmo incrociò il suo e Arianna lo vide trasfigurare ancora, un misto di collera e colpa, la guardava ad occhi bassi, sopraffatto.

 

Non voleva farmi male. Non voleva sfiorarmi… non voleva nemmeno che io lo vedessi in questo stato, è per questo che ha mentito. Si vergogna

 

«È per questo che l’hai portata qui, vero?» accusò di nuovo, con voce bassa, più trattenuta «Volevi dimostrarle che sei migliore di me? Volevi mostrarle quanto sono patetico?»

Julian scrollò le spalle, amareggiato «Quanto mi credi meschino? L’avrebbe scoperto lo stesso, non puoi nasconderti. Lei ha il diritto di sapere in cosa va a cacciarsi con te»

 

No, questo non è vero. Neanche Demian sa in cosa va a cacciarsi con me, così è equo. Io non sono migliore di lui, lo sembro soltanto e non è giusto

 

 Il senso di colpa le tolse la voce per dirlo. Perché Demian si presentava come la più splendente delle opportunità ed il suo lato più egoistico lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene che le possibilità non si sprecavano, che potevano non riappare più dopo.

Le piaceva, che in qualche modo distorto lui avesse bisogno di lei, le piaceva troppo e non era positivo.

«E glielo hai detto che sei un puttaniere del cazzo che da quando l’ha vista punta solo a scoparsela? Perché dovrebbe sapere anche questo!» lo assalì con ritrovato vigore, spingendola di nuovo con la schiena contro il petto di Julian «Ti avverto che non la toccherai mai, Cristo! Non ti permetterò nemmeno di sfiorarla con un dito, non la devi guardare!»

«È una mocciosa alle prime armi, come dire che potrei mai farmela! Le principianti non mi interessano! E comunque non è un cane, piantala di parlarne come se fosse Lalami!»

«Ma se ti sei vantato fino a ieri di quanto sia soddisfacente essere il primo!»

 

Ok, la conversazione sta prendendo una piega che non mi appartiene!

In quel momento avrebbe dato qualunque cosa per essere uno struzzo e poter cacciare la testa sottoterra, venti metri sotto l’asfalto fosse stato necessario a non doverli sentire urlarsi contro certe nefandezze.

«Stronzate, lo sai benissimo che le vergini non le sopporto! Ti si attaccano come una cozza e non te ne liberi più! Ed hanno anche la pretesa di essere trattate come speciali!»

Compressa tra i due, Arianna sentì le guance bollire di indignazione profonda per tutto il genere femminile esistente e di vergogna assoluta.

 

Se dicono un’altra scemenza, giuro che li prendo a ceffoni!

«Questo perché tu….»

«Sono l’ambasciatrice dei pastelli a cera del Veneto!» strillò acutamente, coprendo le loro voci con la prima cosa che le venne in mente, giusto per zittirli.

 

Perché se non tacciono, parola mia che faccio una strage!

 

Le fece eco, finalmente, il silenzio. Demian si scostò da lei e così Julian, entrambi irrigiditi nella loro perplessità la guardavano con gli occhi strabuzzati dalla confusione. La sigaretta di Dem era più cenere che altro ormai, aveva fatto in tempo a consumarsi sul marciapiede nel mentre di quella allucinante e inconcludente discussione.

 

A prezzo della mia dignità, ma almeno ho ottenuto l’effetto desiderato. E comunque fuma, annotatelo, che qui le cose di cui prendere atto stanno leggermente sfuggendo di mano

 

«Finalmente un po’ di silenzio!» esclamò stendendo le braccia per allontanarli definitivamente l’uno dall’altro. I due cugini risposero alla debole pressione delle sue mani con una passività inaspettata, senza smettere di guardarla, improvvisamente inconsapevoli o indifferenti alla reciproca presenza.

 

Se avessi saputo che bastava così poco, avrei urlato prima

 

Sollevò l’indice e lo brandì minacciosamente verso Demian, che per istinto indietreggiò di un passo, come un’abitudine, un gesto con cui si confrontava abitualmente «Tu!» lo apostrofò non senza una certa rabbia «Non trattarmi come se fossi un bambolotto, sia chiaro! E tu!» tuonò di nuovo, voltandosi verso Julian e picchiettandogli il dito sul petto. Il sorriso intenerito con cui lui ricambiò l’espressione più truce del suo repertorio indispose Arianna «Tu sei veramente pessimo!» sputò «E io so rendermi conto delle cose benissimo da sola, senza bisogno di un cavalier servente!»

«Sottotitolato: levati dalle palle» sottolineò Demian seccato, comparendo sopra la sua spalla.

 

Ecco, annotati anche che quando è arrabbiato diventa tremendamente volgare. Così, giusto per tenere una lista di punti

 

«Ti sembra che io non sappia parlare abbastanza chiaramente da me? Ti sembra che io necessiti di sottotitoli?» ringhiò, e Demian si accigliò e si ritrasse, con il volto contratto «No, ma…»

«No! Appunto!» lo interruppe prima che potesse dire qualche altra sciocchezza in grado di alterare il suo equilibrio psicofisico.

Demian schiuse la bocca e così rimase, incapace di ricollegare suoni a parole. Ovviamente, il suo altrettanto idiota ma più sfacciato cugino non riuscì a fare altrettanto.

«Ha un caratteraccio, te ne rendi conto? Solo tu potevi farti incastrare da una così»

Un’uscita infelice, per il fin troppo orgoglioso ragazzo, che vanificò ogni suo tentativo di riportare pace nella galassia. Demian si gonfiò come Anacleto quando Semola lo aveva definito “impagliato” e Arianna seppe di aver perso all’istante ogni appiglio.

«Ti ho già detto che è una cazzata. Fanculo te e lei. Io me ne torno a casa» partì a passo di marcia abbandonandoli alle sue spalle e Arianna, per un momento rimase smarrita tra loro due, incapace ancora una volta di reagire con tempismo o almeno di seguire il corso dei pensieri di quelle assurde persone. Non era una sensazione in cui incappava spesso, lo smarrimento, era più abituata a confondere che a essere confusa.

 

Ma evidentemente mi sono imbattuta in soggetti che quanto stranezza mi tengono testa e mi superano pure

 

Le spalle le si lasciarono andare in un eccesso di stanchezza, quasi slegate dal suo corpo, insieme all’ennesimo sospiro di disperazione ormai non più sopita. Con gli occhi seguì la figura di Demian, con l’incertezza di cosa fosse meglio fare a quel punto.

 

Magari non ho idea di cosa sia meglio fare, ma almeno so cosa sento di dover fare. E nel dubbio, forse è meglio affidarsi all’istinto

 

Si voltò verso Julian, rimasto in silenzio con lo sguardo basso. Le parve stranamente distrutto, sconfitto per davvero, e Arianna pensò che forse, anche quando attaccava era per difendersi ed in qualche modo ferire suo cugino lo feriva a sua volta. Quella era l’espressione contratta di un animo demolito, l’aveva vista molte volte nella sua vita.

Per questo gli sorrise con tutta la convinzione di cui era capace, cercò d’imprimere in ogni tratto del suo volto un “andrà tutto bene, non devi preoccuparti” che in qualche modo riuscì a scioglierlo, perché Jules ricambiò, seppur mestamente.

«Hai capito perché l’ho fatto?» chiese, come se avesse davvero bisogno di essere sicuro di non essere stato frainteso. Per essere più grande e così provocatorio, lasciava trasparire una profonda insicurezza.

«Certo. Ora che so, non può più fingere, giusto? Non può più nascondere i segni. Tu speri che la considerazione che ha di me lo porti a ridimensionarsi, vero?»

Non lo aveva compreso subito, eppure dopo quella discussione sembrava evidente, per qualche ragione Julian si era convinto che lei potesse avere un qualche ascendente. Sinceramente, ne dubitava, ma probabilmente Jules si stava giocando un po’ il tutto e per tutto, con quel disgraziato di suo cugino.

«Forse tu potresti…» iniziò il ragazzo, lasciando cadere la frase nel vuoto, la voce che sfumava bassa e mesta. Tutta quella dolcezza di fondo la commosse, scosse il capo agitando i riccioli e sulle labbra sentì affiorare il sorriso più vero e sereno da tanto tempo, perché quei due le scaldavano l’anima, con il loro affetto grottesco.

«Lascialo a me… mi prenderò cura di lui»

 

 

 

 

Demian aveva una camminata strascicata.

Nel silenzio in cui si era trincerato, non le restava altro che seguirlo lentamente, cercando di non irritarlo. Si era accorto di lei, ma continuava a fingere di non sentirla, aveva scelto di ignorarla deliberatamente e di crogiolarsi nel proprio personale dramma.

Si accese un’altra sigaretta, era già la seconda da quando si erano separati da Julian, le fumava con gesti nervosi, quasi nevrotici.

Ed era bello.

Arianna non ci aveva mai prestato troppa attenzione, non ci si era mai soffermata. Ora però che si trovava a spiarlo, ora che poteva vedere solo la sua schiena, i capelli più corti sul collo e in apparenza tanto morbidi, ora che al massimo le concedeva uno squarcio del suo viso di tre quarti, quella bellezza quasi sensuale la colse impreparata. Era bello anche così malconcio, con l’aria trasandata di chi nella vita sa solo trascinarsi e l’espressione un poco crucciata un poco assorta, persa da qualche parte, come capitava a Jenevieve a volte, mentre le parlava. La boccata di fumo che si disperdeva poi dalle sue labbra gonfie, rosa pallido, aveva la stessa sfumatura dei lividi che segnavano la sua pelle eccessivamente bianca.

 

Mi sembra quasi di vederlo per la prima volta

 

Da un certo punto di vista era vero, non aveva mai preso coscienza del fatto che Demian fosse un ragazzo, a modo suo affascinante, e non per i tratti del volto innegabilmente eleganti e androgini, ma proprio per quella postura china di chi ha un peso enorme che non riesce a lasciare andare, per quella fragilità nascosta eppure tanto in vista e tanto profonda da travolgerla.

 

È quasi un cliché. È aggressivo, attaccabrighe e completamente barricato in se stesso. È imperscrutabile e in alcuni momenti diventa freddo, freddissimo, e incredibilmente meschino. Eppure perché mi sembra un gattino randagio tutto sporco e spaurito che dimena vanamente la sua zampetta?

Perché mi hai fatto le fusa, se in realtà non vuoi essere avvicinato?

 

Demian le aveva mentito, le aveva mostrato una persona differente, si era nascosto dietro una facciata inconsistente. E la risposta, per quanto banale, doveva essere davvero la più scontata.

 

Nessuno è fatto per stare da solo, nemmeno tu. Per questo sono qui, vero, Demian?

 

Il ragazzo rallentò il passo ed Arianna si trovò ad imitarlo ancora, ad adeguarsi al suo ritmo. Alla fine si fermò e la guardò da sopra la spalla, senza prendersi la briga di fronteggiarla davvero.

«Hai intenzione di seguirmi ancora per molto?»

Aveva un bel profilo, la luce di quell’alba lenta illuminò la linea del naso e delle labbra, i capelli densi sembravano morbidi e consistenti come il cotone. Se avesse avuto l’occhio dell’artista, probabilmente avrebbe cercato in qualche modo di fermare l’attimo, di ricordare l’effetto caldo del sole sulla sua pelle di marmo. Arianna però mancava di talenti e se ne rammaricò, rimase stordita ad ammirare la purezza incarnata in un corpo sublime che sembrava troppo lontano dall’imperfezione umana. La pelle doveva avere la stessa compattezza di una statua antica, come le figure delle divinità sui libri di Storia dell’Arte. Le bruciarono le guance per l’improvviso ed irrazionale desiderio di toccarlo, per sentirne il calore che scacciasse quella chimera di irrealtà frustrante. Non era troppo prestante, ma la sua corporatura asciutta e sicura, con le braccia magre che esponevano le linee dei muscoli e dei tendini, dava una sensazione di solidità su cui non si era mai soffermata.

Demian ringhiò «Allora?» con sufficiente astio da farla sussultare.

La sua occhiata gelida la rese incredibilmente insicura. Se fosse stato Daniele o chiunque altro probabilmente, le sarebbe bastato un abbraccio, senza dover dire nulla o dare spiegazioni che non trovavano forma. Si morse le labbra in un attimo di ponderazione «Stanotte ho fatto un sogno strano» dichiarò, e non riuscì a trattenere il sorriso. Demian si sciolse, l’aria truce scivolò via dai suoi tratti per lasciare spazio ad una semplice ruga di perplessità tra le sopracciglia.

«Cosa?» mormorò con cautela eccessiva, diventando d’improvviso un’altra persona.

 

Non sa fare altro che saltare da una maschera all’altra, è così concentrato a difendersi da non accorgersi di nulla

 

Anche questo suo aspetto insopportabile e ingestibile l’affascinava, tragicamente.

 

Ah, io con te getto la spugna Arianna!

 

Chinò appena la testa, in imbarazzo «Ero davvero l’ambasciatrice dei pastelli a cera del Veneto. Avevo un grandissimo talento in questo campo e sono riuscita ad entrare nel marketing dei pastelli a cera, una specie di scalata al successo!»

Demian si morse l’interno della guancia, era un tic di disagio che Arianna gli aveva visto compiere spesso. Lo guardò vacillare da un piede all’altro, alla ricerca della cosa più appropriata da dire, e finalmente si voltò del tutto, annullando la sua sciocca distanza mentale.

«… intendi business?» optò infine.

Arianna si accigliò un attimo, non realizzò subito l’errore. In un secondo seppe di essere diventata rossa, perché stava morendo di caldo. Per abitudine si allargò lo scollo della maglia «Marketing, business… sono italiana, mica inglese!» sbottò, lasciandolo se possibile ancora più a corto di parole.

«E comunque, mi scaricavano un sacco di scartoffie e passavo il tempo a discutere se fossero meglio rotondi o quadrati, anche se ovviamente io insistevo per farli a stella perché dai… sono così tanto più belli a stella! Fossi una bambina e ci fossero, li comprerei solo a stella. E poi bisognava stare attenti ad un sacco di cose, come la composizione chimica della cera perché l’umidità dei canali poteva compromettere la qualità del prodotto» s’interruppe solo per sfoderare un sorrisone soddisfatto a trentadue denti «Insomma, alla fine mi hanno fatto membro onorario al congresso dei pastelli a cera! Indossavo pure un tailleur blu e, sinceramente, non mi ero mai immaginata con un tailleur. Però stavo bene!» concluse e si sentì stranamente gongolante nel ripercorre le proprie memorie accartocciate e indefinite dal sonno. Probabilmente, se Julian non l’avesse svegliata tanto malamente, avrebbe ricordato più dettagli. Le piaceva raccontare i suoi sogni a Daniele e Luca, al mattino, per fargli fare due risate. Dani avrebbe trovato la questione dei pastelli a cera estremamente esilarante, ne era certa.

Demian invece sembrava solo confuso.

«Ma cosa mangi a cena?» borbottò, gettando la sigaretta a terra. Per un momento Arianna si sentì scoraggiata, poi però Dem alzò su di lei un sorriso sfuggevole, solo un accenno che le risultò più che sufficiente. Quella linea indulgente e tremendamente sincera, al limite del disarmo, era proprio ciò che sperava di ottenere, se sorrideva allora una breccia era ancora possibile.

«Avevo anche un ufficio con una parete ricoperta di pastelli a cera in gradazione cromatica, con gli stemmi in bella vista perfettamente allineati. Pagavo una signora perché li spolverasse tutti i giorni! È stata un’illuminazione: ora non riesco a immaginare per me altro futuro!»

Dem non smise di sorridere, ma sembrava più una smorfia triste, l’ombra di un’angoscia abbastanza persistente da strozzarle la risata in gola. Quel principio di buon umore si spense sulle sue labbra, non era riuscita nel suo intento.

«Perché fai finta di niente?» le sussurrò, si stava mordendo l’interno della guancia, Arianna si rese conto che girarci intorno probabilmente, con lui, non era la giusta soluzione. Con suo fratello era più semplice, litigavano, andavano in paranoia e poi si chiarivano senza mai bisogno di spiegarsi, ma Demian era più complesso.

«Che intendi?»

Il ragazzo si adombrò lentamente. Le parve quasi possibile vedere la sua mente come una piccola proiezione, un Demian caricaturale in miniatura, che dopo aver curiosato fuori dal portone della sua imprendibile torre aveva deciso che nel mondo nulla era interessante e si sbatteva suddetta porta alle spalle.

 

Quante volte bisogna scalarla, questa parete, prima che lui si rassegni e la smetta di chiudermi fuori?

 

«Non fingere di non capire!» si alterò, gli occhi assottigliati in una linea di sprezzo e la voce più alta, senza motivo «Cosa aspetti a sparire? Ora lo sai che persona sono, vattene! Tieniti la tua compassione per te e smettila di starmi addosso!»

Arianna sbatté le palpebre a vuoto un paio di volte più del dovuto, sufficientemente confusa.

«Andarmene?» riuscì a mormorare, per essere sicura di aver davvero afferrato.

 

Quindi è tutto qui il problema? Pensavi che sarei sparita e basta, come se non avessimo condiviso proprio nulla?

È l’unica opzione che non ho davvero contemplato, che stupida. Eppure ha ragione, è la più ovvia e la più logica.

 

Eppure, il suo unico cruccio era stato cercare di capire come renderlo ragionevole, se fosse giusto davvero cercare di cambiarlo o se fosse più sensato rassegnarsi e viverlo così, per ciò che era, con tutte le conseguenze che quella sua vita avrebbe portato con sé.

 

Perché tutti meritiamo di essere amati per ciò che siamo, anche se facciamo schifo e siamo delle bestie. Basta una sola persona in grado di vederci nella nostra interezza, almeno per una volta.

 

A lei una persona sarebbe bastata, era quella che stava cercando e che sperava di ritrovare in Demian. E così, forse, a sua volta doveva essere in grado di accettare che non fosse buono, non fosse bello, non fosse per nulla giusto.

Gli rispose con un sorriso, perché non sapeva in che altro modo parlargli. Demian era un tipo che con le parole ci faceva gran poco, ma provava sempre a frugare tra i gesti, per questo scelse di sorridere con tutto l’affetto e la dolcezza che sentiva dentro, che scaturiva da lui, un gatto randagio piccolo e indifeso che tirava fuori le unghie e provava a graffiare chiunque gli si avvicinasse.

Proprio come quel gattino inconsapevole, Demian era ostile perché aveva solo fame, e nessuno lo capiva o sembrava voler rimediare a quella lenta e agonizzante morte per inedia.

Demian si irrigidì, sigillò le labbra e la studiò con sospetto, forse ora più simile ad una pantera pronta a balzare in un attacco repentino. Quella tensione nel corpo e nelle spalle le provocò un’ondata d’affetto.

«Di andarmene non ci avevo nemmeno pensato» proferì con una tranquillità fittizia che in realtà nascondeva l’ariete di sfondamento con cui contava di far tremare le mura di una torre che non aveva ragione di esserci.

 

Tu cerchi disperatamente qualcuno che legga tra le tue righe, quindi vedi di fare altrettanto!

 

La tensione del corpo e delle spalle venne meno e lentamente, quasi si stesse trattenendo per essere certo fino alla fine, Demian si rilassò e rilasciò un mezzo sospiro carico di sollievo.

 

In realtà lui è davvero incredibile, anche se non potrò mai dirglielo. Rappresenta tutto ciò che ho sempre ammirato… è pienezza, è una vita bruciata, vissuta in una manciata di anni, troppo forte forse per qualcuno che, come lui, non ha alcun motivo di avere fretta. La sua è una vita sbagliata, ma gli ha dato di più di un’esistenza intera vissuta lasciandosi vivere.

Demian è l’intensità che desidero più di tutto ma che non ho il coraggio di affrontare da sola.

Questa è bellezza, è come se dentro di lui ci fosse un richiamo categorico ad esistere.

 

«Dem, ci vuoi venire in un posto con me?»

Osservò il formarsi ormai familiare di quella ruga d’espressione tra le sopracciglia bianche «La domanda giusta è se tu vuoi andarci con me»

Il riso le venne spontaneo, come scavalcare quello stupido muro immaginario che il ragazzo aveva frapposto tra loro. Gli afferrò la mano e agitò i ricci al vento con un sorriso felice sulle labbra «Questa non è la domanda giusta, Demi, è quella stupida!»

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Tre mesi ***


À Demian

Capitolo sedicesimo

Tre mesi


Arianna aveva sempre avuto un debole per le cose rovinate, una sorta di languore per ciò che era squallido, triste, abbandonato. Fin da bambina, era in persone o in luoghi simili che aveva ritrovato i segreti più delicati ed aveva imparato che la decadenza era solo un archetipo di bellezza, una sensazione di struggente tenerezza, come osservare la desolazione di un fiore appassito.

Quei segreti poi li custodiva con cura, ci si crogiolava dentro come in una coperta d’inverno, perché davano una magia diversa a ciò che guardava.

Per questo amava i segreti e odiava svelarli. Condividere qualcosa in qualche modo la semplificava, mostrava una realtà senza ombre, senza sfumature, che erano poi ciò che amava davvero.

 

Senza sfumature il mondo è piatto, bidimensionale, quadrato. Privo di vita

 

Per una volta, però, il suo lato più egoista si era fatto da parte e Arianna aveva provato l’impulso di condividere uno di quei segreti con Demian, uno di quelli più piccoli certo, ma per la sua natura era già un grande passo avanti. Il pensiero di averlo lì, invece di impoverirla di una sua personale verità, la faceva sentire stranamente piena, soddisfatta, quasi tronfia, e questo la straniva, andava completamente contro la sua filosofia di vita.

Fece leva sulle braccia e si arrampicò sul parapetto di cemento diroccato sul quale si sedette. Gettò le gambe magre nel vuoto e, così sospesa, per un attimo trattenne il respiro a causa di una leggera ed eccitante vertigine, l’impressione di una caduta. Quell’abitudine era come una sfida, guardare il terreno metri lontano da lei e sentirsi potente: per quella manciata di minuti stringeva le redini della propria vita e della propria morte, era superiore, era perfino più di una divinità, era lei a scegliere.

Le piaceva, poter scegliere sempre, consapevolmente, la vita.

Demian esitò, piuttosto confuso dalla situazione, prima di decidersi a raggiungerla e accomodarsi accanto a lei. Arianna provava per lui la pazienza che può rivolgersi solo ad un bambino titubante, e di un bambino era stata l’espressione che aveva calcato il suo viso ancora androgino quando lo aveva condotto in una stradina secondaria dietro la stazione dei treni, vicino al deposito dei pullman. Si trovavano al secondo piano di una palazzina disabitata e ormai quasi completamente sfatta, nella periferia. Una zona piuttosto malfamata, a conti fatti. Lì era piuttosto facile imbattersi in persone con cattive intenzioni, quell’edificio nello specifico doveva essere abbattuto da anni, era sede fissa di barboni e spesso, fino a qualche tempo prima, anche di drogati. Venuti a mancare i secondi, Arianna aveva preso l’abitudine di portare da mangiare ai senzatetto, talvolta aveva portato loro anche coperte e vecchi vestiti, per cui era diventata un po’ la loro protetta e non aveva più avuto motivo di avere paura. Quelle persone la adoravano e lei, paradossalmente, ci si era affezionata. Tra i detriti, la polvere rossa dei mattoni e l’intonaco scrostato, la sensazione di sporco e bruttura creava del disagio, ma non era per la bellezza dell’edificio che si addentrava lì dentro. L’unica cosa che valesse la pena di tollerare quell’ambiente era il paesaggio. La vista di cui si godeva dalla balconata, proprio in quel punto al quarto piano, era il vero segreto di quel vecchio complesso di appartamenti mai compiuti, il mistero di quel lato di mondo all’apparenza squallido che la gente evitava come la peste.

«È la stazione dei treni?» lo sentì pronunciare alla fine, quasi con meraviglia.

Arianna annuì di sfuggita e allo stesso modo le sfuggì un sorriso, distrattamente. Era la stazione, ma da una prospettiva completamente differente che di solito non era concessa ai pendolari: da quel balcone poteva vedere i treni ricoperti di scritte scorrere come modellini giocattolo sulle rotaie, poteva osservare l’erba crescere tra la pietraia e le assi di legno che si perdevano all’orizzonte disegnando sentieri e infiniti crocevia. Gli alberi e l’erba alta, incolta, circondavano le strutture di cemento rovinate dai vandali e Arianna poteva contare le persone in attesa al proprio binario di poter raggiungere chissà quale meta, con l’aria stanca della prima mattina e gli abiti colorati. Non si vedeva la fontana dimessa, le panche marce e le porte sfondate dai vandali e rivestite con assi di legno. Non fosse stato per la modernità dei mezzi di trasporto, sarebbe potuta apparire come una di quelle vecchie stazioni dei romanzi pirandelliani che aveva letto a scuola, un luogo fuori dal tempo, sospeso, che manteneva un odore farraginoso che quasi si attaccava al palato.

 

Ecco, sembra proprio una di quelle vecchie stazioni da romanzi dimenticati, con questa vaga nebbiolina appena distesa sull’erba ingiallita che diventa opalescente quando viene accarezzata dalla luce e pare fumo. Niente è confortante come questa sensazione di non-luogo.

 

Eppure, la curiosità di Demian, quel silenzio contemplativo carico di stupore, la spinse a vedere solo lui e nient’altro, la visione onirica di un luogo che aveva sempre amato scivolava lontano dalle sue priorità. Demian riempiva il suo campo visivo.

 

Quando è iniziato tutto questo?

Come ho fatto a non rendermene conto?

 

Anche se provava a ragionarci sopra, non riusciva a rievocare un luogo o uno sguardo che avessero cambiato tutto. Semplicemente, forse era partito tutto già prima, era rimasta intrappolata, prima che da lui, dalle parole di Jenevieve, e ci si era trovata in mezzo e basta, a quella situazione, senza nemmeno accorgersi che nella sua testa quello era l’inizio di qualcosa, che in lei c’era il principio di una novità.

«Quindi tu ti siedi qui e guardi i treni?» le domandò ancora, dopo un ponderato silenzio.

 

Stranamente più loquace del solito

 

Una cosa che aveva imparato di Demian e su cui era certa di non aver sbagliato, era che non amava porre troppe domande, era un ragazzo discreto che tratteneva per sé la propria curiosità e si limitava ad accogliere ciò che lei si lasciava sfuggire.

 

L’ideale per me, visto che non mi piace dare troppe risposte

 

In questo caso però, forse a causa dell’atmosfera, condividere un pezzetto delle proprie verità non sembrava un’idea così malvagia.

«Sì. Qualche volta durante la settimana»

«Trainspotting» borbottò lui a voce bassa, dedicandole il suo odioso sorriso ironico, intriso di scherno divertito.

Lo studiò in tralice, riducendo gli occhi a due fessure di finta minaccia «Che vorrebbe dire? che poi te l’ho già detto che odio l’inglese!» Demian sollevò subito i palmi delle mani in alto, in segno di resa «Non mi incenerire! È un termine che si riferisce alle strane, nullafacenti persone che passano tempo a contare i treni» le spiegò, poi si passò le dita tra i capelli, scompigliando ulteriormente una situazione già di per sé arruffata e sul bilico del disastro.

Si sentì stranamente offesa «È questo che pensi? Che perda il mio tempo?»

Non era questo che voleva, il pensiero che non potesse capire cosa significasse per lei, che svilisse qualcosa che per lei aveva un grande valore e trasformasse il tutto in un passatempo inutile, la faceva quasi pentire di averlo portato lì. A volte, Arianna stessa arrivava a convincersi che sedersi sul quel balcone a sbirciare le esistenze altrui la rendesse solo una spettatrice della vita che trascorreva il tempo guardandola scorrere, e inorridiva ed era terrorizzata dalla propria passività, perciò non era facile sopportare che qualcuno la toccasse così indelicatamente in una parte tanto molle e vulnerabile del suo essere.

«Non proprio. Mi ricordi L’uomo dal fiore in bocca però, è una storia un po’ triste…» mormorò ed Arianna si accorse che non la guardava, ma torceva le mani nelle mani «… se desideri salirci non dovresti semplicemente prendere un treno?»

Rimase spiazzata e non riuscì a trovare una risposta immediata. Allora si chinò un poco in avanti, più vicina a quel mondo distante da dipinto, più vicina a quella linea sottile di vertigine tra il parapetto e il vuoto. Si rosicchiò il labbro, cercò di ricordare se conoscesse quel racconto ma non lo aveva mai letto, perciò gli chiese incerta «Tu lo hai mai fatto? Sei mai salito su un treno per il semplice gusto di prenderlo, senza sapere il dove, il come e il quando?»

 

È impulsivo e imprevedibile, sarebbe da lui

 

Eppure, Demian la sorprese con un sussulto e un “No” mormorato che le diede sicurezza, non la fece sentire in difetto.

«Io sto aspettando il momento giusto» confessò di sfuggita, spontaneamente, quasi senza volerlo. Rimase sorpresa da se stessa e gli sorrise, perché era piacevole poter lasciare andare certi pensieri senza timore, ed era stranamente facile se era lui ad ascoltarla. Le parve di vederlo arrossire, ma Demian distolse in fretta lo sguardo e abbassò il mento in una sorta di broncio.

«E quale sarebbe?»

 

Già, quale sarebbe?

 

«In realtà ancora non lo so. Ma ho tanto tempo per scoprirlo, la vita è lunga. E se ci penso, mi sento felice, mi sembra che quel momento potrebbe essere dietro l’angolo» sollevò le spalle d’istinto, anche se Demian non la stava guardando «Non importa se poi in realtà sarà tra dieci anni o dieci minuti, la sola idea di una libertà così grande mi basta, mi tranquillizza»

 

Sarebbe più semplice, se ogni attimo della mia vita fosse eterno, destinato a non consumarsi mai. Sarebbe più semplice, se non sapessi che per tutta questa bellezza c’è una scadenza.

Bisognerebbe ignorare la morte, bisognerebbe morire senza sapere che può succedere, che un giorno “X” tutto finisce. Vivere come in uno stato edenico senza timore di nulla, ecco come si dovrebbe vivere.

 

Come nell’unico libro di poesie che avesse mai letto, quello che suo fratello le aveva regalato per i disegni. Le piaceva la realtà che Blake raccontava nelle Canzoni d’Innocenza, le piaceva quello stato edenico incorrotto.

«Sei così candida»

Sussultò, colta in fallo. Demian lo aveva sospirato quasi con esasperazione, e forse esasperato lo era davvero, ma poi la guardava e accennava un sorriso dolciastro che le toglieva le parole.

 

Per niente. Vorrei esserlo, era più semplice quando non sapevo cosa provavo, quando certe emozioni un nome non l’avevano, forse perché nemmeno le sentivo. A riguardare il passato con lo spettro del presente, tutto si sporca, non posso essere candida.

 

Tese l’indice all’orizzonte, sentendosi un po’ infantile e goffa «Guardale, Demi. Quelle persone. Sono ferme al loro binario, conoscono già la loro meta, sono incanalate. Vedono solo dove devono andare» abbassò il braccio e abbozzò un sorriso incerto «Ma io da qui posso vedere tutto, non solo il mio treno. Posso osservarli uno per uno, senza obblighi… insomma, io posso ancora scegliere. È vero, non ho una meta così, ma posso decidere che corsa prendere, il mio è un biglietto bianco. Non potrò scegliere la fermata, ma almeno la direzione è ancora nelle mie mani» inclinò la testa, Demian si era voltato verso di lei, la ascoltava a labbra schiuse. Erano grandi e carnose, sarebbero potute apparire femminili, eppure su di lui avevano solo un tocco sensuale e, così separate, innocente.

 

Con tutte le esperienze che lo hanno sporcato, come può sembrare tanto intonso?

 

«È questo che mi fa felice, per questo amo stare qui. Mi sento di essere libera di avere tutte le possibilità del mondo, senza limiti. Posso sognare qualunque cosa, essere qualunque cosa, anche solo per un attimo. È un attimo che vale tutta la vita. Vivo mille vite, vedo mille vite, e intanto aspetto di poter scegliere la mia»

Demian si morse l’interno della guancia «Ci credi se ti dico che in quella stazione ci ho passato più tempo di qualunque altra persona su quei binari?»

Arianna aggrottò le sopracciglia «E perché?» a confonderla era soprattutto l’espressione del ragazzo, che svelava tutta l’amarezza, la vergogna.

«Non è importante» liquidò la questione con un tono di voce che in realtà sottintendeva il contrario «Comunque a tutte queste cose non avevo mai veramente pensato. Il futuro che sia bianco o scritto non conta molto… onestamente non sono nemmeno sicuro di arrivarci, ad avere un futuro. Deve essere per questo che ci penso poco» turbata, Arianna seguì la sua mano bianca dalle dita lunghe che si scompigliava i capelli, scivolava sulla nuca fragile e si agganciava al collo, sopra il cappuccio della felpa, a mostrare la sua reticenza già solo con la gestualità «Tu però dovresti provare invece che immaginare e basta… dovresti provare a vivere di più quello che sogni, aspettare di meno»

 

Tu ti bruci con la vita, non sai cosa vuol dire averne un terrore assoluto. Paura di desiderare di più e di sentirsi dire “Ne hai avuto già a sufficienza, è il tuo limite, non potrai averne più di così”. Non sai cosa significa aggrapparsi all’immaginazione per compensare una realtà svilente che ti toglie invece che darti.

 

«Da sola ho un po’ paura» mormorò, mentendo spudoratamente, perché stava raccontando una verità a metà. L’orizzonte parlava di vite e promesse che Arianna sapeva non sarebbero state mantenute ma a cui lei voleva continuare a credere. Perché finché non si realizzavano nel presente non significava assolutamente che non si sarebbero avverate dopo, e se avesse smesso di crederci ne sarebbe uscita distrutta.

 

Ed io non posso permettermelo, non posso farmi distruggere, neanche dalla paura. Anche quella serve, devo sperimentare tutto ma non devo fermarmi su nulla, o rischio di perdere troppo tempo

 

«Se aspetti troppo però, non rischi di perdere l’occasione?»

 

 

Credi che non lo sappia?

Aspettare il momento giusto, per qualcuno come me, può significare anche il non vederlo mai. Ma non siamo tutti come te, non tutti ci lanciamo senza minimamente considerare le conseguenze… io non ho niente da perdere, ma chi mi ama?

 

Gli sorrise dolcemente «Demi, c’è un posto dove vorresti andare? Che ti piacerebbe rivedere? Un posto dove sei stato veramente felice»

Si spostò nervosamente una ciocca di capelli, la solita che sfuggiva alla coda e le ricadeva sulla guancia. La rimboccò dietro l’orecchio e si morse le labbra, per non mostrargli l’imbarazzo, la vigliaccheria che ogni volta la spingeva a ritrarsi, a cambiare argomento per tornare su terreni più solidi e a lei congeniali, dove muoversi fosse meno pesante. Insieme al sole si alzava un leggero alito di vento freddo. I setosi capelli di Demian, del tutto afflosciati sulla sua fronte, si sollevarono appena, rivelando la sua aria corrucciata e pensierosa, gli occhi concentrati ombreggiati dalle ciglia. Quando Demi era nervoso si mordeva l’interno della guancia con insistenza, se n’era accorta la sera in cui aveva dormito da lui, e tra tutti i granchi che si era presa quel gesto restava l’unica, assoluta certezza. Era confortante, conoscere almeno una sua abitudine, perché se si era convinta di non conoscerlo affatto, quando poi sbatteva contro questi piccoli dettagli capiva che non era così, aveva conosciuto un lato di quel ragazzo che i più ignoravano ma che era sempre più sicura non fosse una finzione. Era forse la parte più onesta, molle e delicata di lui.

Lo ascoltò sospirare, puntare le pupille piccole come capocchie di spilli lontano, assenti.

«I miei nonni sono originari di un piccolo paesino del nord della Francia. Un posto così minuscolo che non lo conosce nessuno, sulle coste dell’Atlantico. D’inverno lì fa veramente freddo, è tutto grigio, il cielo sembra sempre nebbioso e pesante, allora c’è un silenzio assoluto, irreale» il sorriso nostalgico che gli accarezzava le belle labbra trasmetteva più tristezza che felicità, ma Arianna lo sapeva che i ricordi felici finivano con il ferire più di quelli brutti. Erano momenti perduti, irrecuperabili, e la nostalgia era una malattia terribile che corrodeva. «Quando maman stava ancora bene, era là che trascorrevo tutte le vacanze, d’estate e d’inverno. Ed il Natale, ovviamente. Un anno ha nevicato fortissimo, la neve era alta quanto Sarah ed era difficilissimo camminare per le strade. Era così tanta che aveva ricoperto la spiaggia, è stata l’unica volta nella vita in cui ho visto il mare lambire la neve, a volte quando ci penso mi chiedo se sia successo davvero. Sembra quasi più un sogno. Il cielo era grigio e fitto, non riuscivo a vedere le luci della baia di Douarnenez, e il mare era di un viola strano, bagnato di schiuma perché il vento lo faceva innervosire. Sembrava che ruggisse, ed era l’unico rumore. Poi, a volte, stridevano i gabbiani» si rosicchiò ancora la guancia, si passò le dita tra i capelli, tutti i suoi tic tradivano la vergogna, però le parlava e le si rivolse direttamente ad un tratto, tornando finalmente a quel parapetto e non alle fiabe delle sue memorie «È strana la memoria, vero? Passa il tempo e certi dettagli si fanno più nitidi invece di sparire. Ricordo che mi sembrava ruggisse, che potesse inghiottirmi. Una volta avevo rischiato, mentre ero sugli scogli, di essere travolto dalle onde. Ne ero spaventato. Poi però maman ci ha condotto attraverso il sentiero sulla scogliera giù nella spiaggia, una striscia di sabbia innevata tagliata come un’unghia, dove giocavo a raccogliere le pietre colorate e a inseguire i molluschi e gli uccelli. Non c’era nessuno, era tutto vuoto, e lei mi teneva per mano, teneva me e Sarah. L’abbiamo percorsa tutta, senza dire una parola. Faceva freddissimo, me lo ricordo bene, ma non avevo paura, era tutto immenso e silenzioso e gelido, ma non mi sentivo vuoto.  Non so se puoi capire»

Infilò malamente i pugni stretti, strettissimi, nelle tasche, per nasconderle il disagio «Penso che quella fosse felicità. Se dovessi scegliere dove tornare, vorrei che fosse lì. Ma senza di loro forse avrei ancora paura»

 

Quindi anche tu hai paura della vita. Ti getti di testa perché se no lo sai, che ti faresti mangiare vivo da qualunque cosa. Non sono sola, siamo in due, ma siamo davvero due sciocchi

 

«Prendiamolo» disse senza nemmeno rifletterci. Demian si girò di nuovo a guardarla ad occhi sgranati

«Cosa?»

«Un treno, ovvio!»

Demian aprì la bocca, la richiuse, si corrucciò cercando una domanda da porle che avesse un senso ed infinse sussurrò, desolato «Per andare dove?»

Arianna si ritrovò a sbuffare, un poco annoiata da quella reticenza.

 

Ti lanci nei rischi con strafottenza, e poi sembra che io ti abbia fatto chissà quale allucinante proposta. Sei assurdo, Demian Lemaire!

 

«Che importa!» sbottò con decisione «Prendiamolo e basta! Uno a caso, e vediamo dove ci porta. Non me lo hai appena detto tu, che bisogna provare e non solo immaginare?»

Demian si accigliò ulteriormente, il volto una maschera di segni di turbamento «Aspetta un attimo! Io pensavo… non era tutto in senso figurato?»

Arianna non riuscì a trattenere la risata «Certo che no!»

Alla perplessità si stava aggiungendo una forma di paura «Non era una metafora?»

Arianna si ritrovò a scuotere platealmente la testa portandosi una mano alla fronte «Ma quale metafora e metafora! Demi, io parlo sul serio. Il figurato per me non esiste. Sono una persona pratica, io!»

 

 

 

Convincere Demian non era stato difficile.

Convincere Demi a fare qualcosa non era mai difficile.

Non perché fosse un debole, ma per una terribile forma di disamore: non gli importava nulla di se stesso e per questo si lasciava trasportare alla deriva da ogni cosa senza opporre la minima resistenza e senza curarsi di quanto i risultati potessero fargli male.

Era completamente libero, anche troppo.

Così libero da metterle tristezza.

Al di là dei problemi, senza la sua famiglia Arianna si sarebbe sentita sola da morire. Demian aveva l’aria di uno che dalla solitudine era stato schiacciato, che con quella ci aveva convissuto tanto a lungo da non riuscire più a ricordare cosa significasse avere una presenza accanto.

 

Forse perché non basta essere amati. Lui è stato amato molto, ma l’amore bisogna sentirlo, bisogna portarselo addosso, essere amati non significa sentirsi amati. A volte non è sufficiente sapere.

 

Sospirò rassegnata e un piccolo alone di condensa andò a disegnarsi sul vetro del finestrino. Il rumore del treno in partenza era un ronzio di fondo unito a leggeri sussulti, le rotaie iniziavano a scorrere lentamente sotto i suoi occhi attenti, i palazzi si susseguirono uno dietro l’altro come diapositive, si rincorrevano e davano vita ad uno spettacolo luminoso di comete di luce. Il sole era ancora basso, ma la linea della notte si era quasi del tutto ritratta, assottigliata con una calma esasperante. Così, Arianna si sentiva in uno stato di sospensione temporale, dove a sostituire le stelle ci pensavano gli infiniti lampioni ancora accesi.

A rendere tutto ancora più astratto dal reale c’era Demian, seduto accanto a lei in silenzio, sprofondato nella sua felpa con i capelli scarmigliati sulla fronte e lo sguardo basso, assorto e malinconico.  I suoi occhi erano bellissimi, Arianna lo aveva pensato in continuazione quel giorno, probabilmente perché li aveva osservati per la prima volta. Aveva osservato il taglio obliquo, la linea allungata della palpebra e quell’indefinito colore dovuto alle lenti. Non aveva mai visto il vero colore delle sue iridi, Demian non glielo aveva ancora permesso, ma dovevano essere chiare, delicatissime.

 

Potrai sembrare anche freddo agli occhi di chiunque altro, ma a me sembrerai sempre e solo troppo fragile, così tanto che la bellezza dentro te mi sfugge e la tua vulnerabilità mi agita.

Toccarti è così difficile… ho paura di frantumarti, Demi, ho il terrore di farti male.

 

Demian abbassò le palpebre lentamente, inconsciamente, e scivolò nel sedile, ripiegandosi su se stesso. Inclinò la testa e si appoggiò alla sua spalla, trattenendo uno sbadiglio. Per un attimo, Arianna ebbe paura a muoversi, come se un uccellino le fosse volato casualmente tra le mani, temeva che un respiro più pesante degli altri lo avrebbe fatto scappare. Demian però non doveva aver dormito granché, perché si acquietò subito e l’aria che usciva dalle labbra carnose si fece più regolare e pesante. Quell’espressione infantile le strappò un sorriso.

 

Ecco, ora invece sembri un bambino. Come faccio io a cucire un’immagine sensata di te, Demian? Come faccio a capire chi sei, se sei sia una vittima che un carnefice?

 

Lo ascoltò mugolare e si sentì libera di studiare il suo volto pallido ricoperto di abrasioni. Aveva un sopracciglio spaccato ed anche il labbro inferiore riportava un brutto taglio, risultato probabilmente di un pugno. Un altro segno più leggero sulla guancia già violacea e un livido vicino all’occhio. La felpa nascondeva altre ferite, ne era certa, aveva visto prima il lungo taglio che gli segnava l’avambraccio.

Gli accarezzò il profilo con la punta delle dita, quel viso tanto bello quanto maltrattato, sciupato, marcato da occhiaie profonde.

 

Non è di certo il principe azzurro. Non che abbia mai voluto un uomo in calzamaglia celeste pronto a salvarmi, in effetti

 

Di cavalieri non ne aveva desiderati nemmeno nel momento più brutto, e di uomini pronti a proteggerla ne aveva a sufficienza, i suoi fratelli erano uno scudo già abbastanza soffocante.

 

Forse ragiono come un uomo

 

Pensava alla sua aria smarrita, guardava l’espressione serena che mostrava nel sonno, rilassato come un bambino sfinito dopo una giornata di giochi, e provava una tenerezza nuova, un desiderio di preservare quel frammento di dolcezza. Affondò la guancia tra i suoi capelli setosi e così si addormentò a sua volta, tenendolo stretto in un abbraccio.

 

 

Avevano dormito ininterrottamente per quasi tre ore e si erano svegliati soltanto perché a Mestre il treno era stato abbandonato da una massa di persone piuttosto chiassose. Con qualche difficoltà e circa un’altra ora di pullman, Arianna ora camminava nella sabbia, tentando di tenere il passo di Demian.

sembrava essersi scordato completamente di lei e procedeva assorto sulla battigia.

Arianna non era mai stata a Jesolo e lui nemmeno, però quando erano scesi alla stazione, quello zuccone non le aveva neanche dato il tempo di guardarsi attorno, aveva chiesto indicazioni per la spiaggia più vicina e l’aveva trascinata con sé. Le sembravano trascorsi secoli dall’ultima volta che si era trovata in un paese di mare: così in autunno inoltrato il centro abitato cambiava volto, era spopolato. Non c’erano bancarelle estive, negozi aperti che vendessero cianfrusaglie ai turisti, non c’erano ombrelloni né le sdraio.

C’erano solo i grandi hotel che sovrastavano le piccole casette modeste ed il brutto tempo, con un sole oscurato da coltri di nuvole grigie, una ragnatela di fumo che presagiva pioggia. Si era alzato anche il vento, odorava di sale e sabbia ed era terribilmente freddo, Arianna si ritrovò a tremare, appiccicosa di salsedine e impreparata ad un clima tanto ostile. Le battevano i denti mentre arrancava nella sabbia compatta per l’umidità, nel tentativo patetico di inseguire quello stupido testardo completamente concentrato su se stesso.

Arianna aveva scelto quella destinazione senza rifletterci troppo, era il mare più vicino ed anche se non era quello della sua infanzia, intenso come le notti senza stelle, era pur sempre mare.

 

Forse, anche solo per una breve illusione, potrebbe sentirsi meglio. O almeno, ci speravo, ma non credo stia funzionando

 

Demian sembrava solo più turbato dal vuoto che li circondava. Le sferzate gelide agitavano le onde, le stavano scarmigliando i capelli e il sale appiccicato alla pelle la rendeva secca, la sentiva tirare ad ogni espressione del viso.

 

Sembra grigio come polvere da sparo

 

Era una giornata troppo brutta perché qualcuno osasse accostarsi ad un luogo tanto desolato. C’erano solo loro due su quella distesa infinita di finto oro, che in quel momento aveva assunto la sfumatura del marrone scuro tanto era compatta. Gli stabilimenti balneari erano stati quasi del tutto smantellati ed Arianna pensò che forse non era stata una buona idea, che tutto era più malinconico e deprimente del dovuto.

Si chinò e si sfilò le scarpe e i calzini, in barba a quel freddo gelido, per non incespicare nella sabbia.

 

Freddo per freddo, tanto vale godermelo

 

Così libera, aumentò il passo e riuscì a raggiungerlo, quasi ad affiancarlo. Si fermò volontariamente un passo dietro di lui e continuò a osservarlo, in silenzio. Come se l’avesse percepita, o più probabilmente perché si era reso conto di averla lasciata indietro, Demian interruppe quella sua marcia serrata lungo la costa.

Si voltò verso la distesa d’acqua grigio piombo e così rimase ancora, assorto. Il vento gli sferzava il viso, Arianna poteva immaginare quanto quel sale bruciasse, sulle ferite aperte, ma lui non accennava ad accorgersene. Quasi per abitudine, con l’espressione vacua di chi si muove per riflesso, si sollevò il cappuccio nero della felpa e ci sprofondò dentro, a nascondere un momento di profonda fragilità. Arianna non sapeva cosa stesse pensando, ma leggeva nei suoi gesti un malessere triste. Lasciò cadere le scarpe a terra e, con una leggera esitazione, si avvicinò al mare quel tanto che bastava alle onde per lambirle i piedi.

Rabbrividì, ma non si sottrasse.

«È gelida!» gli disse ridendo.

Voleva attirare la sua attenzione, riportarlo lì con lei, perché sembrava sperso, smarrito tra le sfumature che fondevano cielo e mare. Era bello, suggestivo, quel panorama, ma insinuava in lei una stilla di inquietudine.

 

Forse ora riesco a capire cosa intendessi con quel tuo ricordo, Demian, ma in tutta questa tristezza, dove è la felicità? Ci si sente minuscoli qui, quando cielo e terra si fondono.

Ci si sente come se tutta questa immensità potesse inghiottire davvero.

 

La pelle d’oca le rivestiva i polpacci, tremava, ma davanti a quegli occhi vuoti non le riusciva di muoversi. Seguì il suo sguardo che si perdeva nelle onde orlate di schiuma.

Sussultò, quando una mano s’intrecciò alla sua: non si era accorta che Demian si era avvicinato, si era incantata. Con gentilezza, la tirò per il braccio per invitarla a seguirlo, Arianna recuperò le scarpe e gli andò dietro restando scalza. La sabbia compatta sotto i piedi era viscosa e umida, ma piacevole. Poche centinaia di metri più avanti, un pontile di legno tagliava l’acqua, le onde ci si infrangevano contro. Quando lo raggiunsero, Demian volle percorrerlo, il legno viscido di alghe le diede i brividi, ma continuò a tacere, perché in fondo il ragazzo non sembrava disposto a parlare.

Arrivati in fondo, Demian si sedette senza farsi problemi, continuando a tenerle la mano. Arianna contemplò le assi viscide con una leggera repulsione, ma alla fine lo imitò senza fare storie e lasciò le gambe penzoloni a pelo dell’acqua agitata. Gli schizzi gli bagnavano i pantaloni, ma Demian continuava a non dire nulla. Quel silenzio non era scomodo, però la lasciava a macerarsi nel dubbio. Ad un senso di confidenza strana, di complicità quasi in quella situazione assurda e fuori da ogni schema, si univa il disagio del non avere idea di cosa stesse pensando.

Lo guardò dal basso e Demian le concesse un sorriso vagamente amaro, astratto, impalpabile, più simile allo spettro di un sorriso. Gli rispose più apertamente, ma non ottenne reazioni. Allora si arrischiò ad aprire bocca, pur con reticenza.

«Era così che lo ricordavi?»

Il suono della sua voce le suonò strano, inadatto al contesto. Come se avesse osato interrompere qualcosa di perfetto, di sospeso. Tutta quella calma però le pesava, voleva capire cosa passasse in quella testa scarmigliata, in quegli occhi adombrati di inquietudine. Da quando avevano lasciato il palazzo di periferia nei pressi della stazione, il ragazzo si era limitato a borbottare l’indispensabile, troppo concentrato su cose che non le era dato conoscere, purtroppo.

«No. Era completamente diverso, più cupo. Più nervoso. Come una leggenda… e poi non c’eri tu»

Si mosse irrequieta sul posto, grattò il legno marcio con l’unghia dell’indice.

«E questo cambia qualcosa?»

Demian accennò un altro sorriso, la tristezza non era scivolata via dal suo volto e questo un poco la ferì, anche se ora la guardava, intenerito «Cambia tutto»

Annuì e con una tranquillità fin troppo forzata, tornò a guardare davanti a sé, per rifuggirlo.

 

Che paradosso, aspetti per una vita di sentirti dire certe cose, di occupare un determinato ruolo per sentirti finalmente a posto, e quando poi succede, è uno schifo.

Come si fa, ad essere felice sull’infelicità altrui?

 

A quel risvolto non ci aveva pensato, ora si sentiva oppressa dal proprio egoismo.

 

Demian è disperato, per lui non è un gioco, non è un capriccio. Non c’è alcuna leggerezza in lui, in me ce ne è stata anche fin troppa. Mi sono avvicinata a lui senza pensarci, ed ora cosa faccio?

Come faccio, a non restare pienamente coinvolta senza fargli un torto?

 

Ripensò a tutto, dal primo incontro alle scoperte che l’avevano travolta quella mattina e che non aveva avuto il tempo di valutare con la giusta lucidità, mossa dai soliti impulsi irragionevoli, mossa dal rigetto per quell’autolesionismo che lo caratterizzava e che, davvero, le era incomprensibile.

Perché, per lei, amarsi era tutto, era il senso nel disastro generale degli eventi.

Amarsi più di quanto la natura l’avesse amata, per compensazione.

«Demi, perché lo fai?» trovò il coraggio di sussurrare.

Non aveva smesso di grattare il legno con le unghie, le trasmetteva calma, sfogare così il proprio nervosismo.

«Se sei così criptica, non capisco»

C’era una dolcezza nella simulata esasperazione della sua voce, le trasmetteva l’impressione che si conoscessero da sempre, che lui potesse leggere già i tratti più salienti del suo essere, prevenirli, e apprezzarli nonostante tutto.

Quella familiarità le stringeva il petto in un nodo.

«Perché ti ferisci?»

Le nocche di Demian sbiancarono, strette sul bordo di legno. Le onde sotto di loro continuavano a schiantarsi con forza contro il pontile.

«Perché non dovrei?»

La pacata tranquillità rassegnata con cui proferì quelle parole la sconvolse anche troppo. Faticò a deglutire, a trovare il coraggio di rispondere ad una tale assenza di amor proprio. Forse non era quella la domanda giusta, forse chiedergli perché si odiasse tanto avrebbe avuto più senso. Invece, preda dell’emozione, si ritrovò quasi ad urlare un’ottava sopra, senza riflettere «Stai scherzando spero! Perché è la tua vita! Perché non ne avrai un’altra se la distruggi, perché prima o poi ti farai qualcosa di tanto grave da non poter essere cancellata, e ti pentirai, Demi!»                                                                                 

Demian si irrigidì, ma non si scompose. La squadrò solo più freddo, con sufficienza e una nota di fastidio «Non mi importa niente, della mia vita. Non è una cosa che ho chiesto, mi ci hanno buttato a forza in questo mondo di merda. Ti assicuro che se Dio mi avesse permesso di visionare il prodotto prima dell’acquisto, avrei rifiutato senza rimpianti»

Quella calma era allucinante, non c’era rabbia, non c’era disappunto. Demian constatava, ogni frase detta aveva in sé la forza di qualcuno che nelle proprie sentenze ci credeva dannatamente.

 

C’è chi può pensare anche questo, credere anche questo.

Solo perché non sai, parli per ignoranza!

È inaccettabile, la tua vita è perfetta, sei un prodotto senza scadenza, anche se soffri, anche se ti accadono cose brutte, hai il tempo di cambiare tutto, di sistemare tutto! Come puoi non capirlo?

 

Il nodo alla gola minacciò di soffocarla, strizzò gli occhi, li sentiva già umidi.

Si odiava per quella debolezza, quell’emotività senza controllo che la tradiva sempre, ma non poteva farci nulla, lo sgomento era troppo grande, il dolore che la colpiva per quell’ignoranza inconsapevole era tremendo, l’espressione dura e distaccata di Demian era forte come un montante.

 

Trattieniti, maledizione, trattieniti

 

Si premette i pugni sulle palpebre chiuse, strizzate, con tutta la forza che aveva, per trattenere il magone, il pianto isterico che stava montando.

 

Non sei una persona che piange, non lo sei

 

Ma non era vero, lo sapeva fin troppo bene. Non riusciva a smettere, senza che potesse impedirlo, i lacrimoni già le rotolavano giù dalle guance, grandi come rugiada, abbondanti, pungevano la pelle già arrossata.

In passato era stata diversa, ma erano anni che aveva perso il controllo su tutto e il suo umore era un’altalena emotiva assolutamente allo sbaraglio. E così fragile, così facile da ferire, tutto crollava facilmente, come un castello di carte. La sua farsa di persona normale crollava tra le sue dita, nascondersi da lui, cercare di non fargli capire quanto instabile fosse, era impossibile, soprattutto se le faceva tanto male senza neanche accorgersene.

«Annie?»

Scacciò quella mano pallida con una sberla risentita e, per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, la sua espressione da cucciolo ferito che non comprende cosa di male possa aver fatto, le rimestò lo stomaco in un conato di rancore. Quasi odio, perché non riusciva a provare sentimenti ibridi, era sempre tutto troppo forte, troppo totalizzante. Era sopraffatta da lui, dalla crudeltà intrinseca nelle sue parole, una crudeltà che Demian non poteva scorgere perché credeva riguardasse solo lui, fossero meschine solo verso di lui, e non verso tutti gli altri, tutte quelle persone che avrebbero dato un rene per fare cambio con la sua vita da schifo, pur di avere almeno la possibilità di scegliere, al di là dello schifo. Recuperò le sue scarpe e si alzò, decisa ad andarsene e piantarlo lì.

 

Non meriti attenzioni, non meriti nulla! Non dopo la leggerezza con cui hai detto ciò che hai detto!

 

«Annie, ma cosa ti prende?»

Si voltò a guardarlo, per ingiuriargli contro, ma le parole le morirono in un singhiozzo.

Era una visione quasi poetica, vederlo in piedi, in contrasto netto con lo sfondo nebbioso e grigio, con il mare agitato come cornice. Troppo delicato per tutta quella brutalità, le ricordava un quadro che aveva visto in fotografia una volta alle medie, quando ancora frequentava regolarmente. L’uomo del dipinto era su uno scoglio, era l’unica differenza.

Quel quadro comunque l’aveva sempre angosciata, rappresentava qualcosa di troppo grande, di sublime, la faceva sentire inutile, l’uno a uno, palla al centro dell’universo contro i suoi sforzi di vincere la fortuna.

Demian le trasmetteva la medesima sensazione di frustrante impotenza e inutilità.

 

E io che mi preoccupavo di toccarlo, non ho capito nulla. Pone una tale distanza tra se stesso e gli altri che anche volendo sarebbe impossibile, non posso aiutarlo.

Ed un aiuto, per ciò che pensa, nemmeno lo merita.

 

Eppure, la sola idea le faceva montare il pianto e si sentiva prostrata dalla propria fragilità, perché per quanto si fosse mentalmente preparata ancora e ancora, certi argomenti restavano un tallone d’Achille per la sua mente debole. Si voltò e proseguì a passo di marcia. Incespicò nella sabbia, si morse un labbro per trattenere il singhiozzo di rabbia che minacciava di rompere gli argini.

Pochi passi e si fermò di nuovo.

Restò immobile, investita dalla consapevolezza: era ridicola, sembrava irragionevole, non poteva fare nulla e non poteva nemmeno fargli capire quanta e quale fosse la sua frustrazione. Era solo l’ennesimo tormento che passava per follia, perché non poteva spiegare, non c’erano parole, Demian l’avrebbe fraintesa come le era successo infinite volte, avrebbe fatto un passo indietro, l’avrebbe guardata con quella compassione mista a pietà che si riserva ai pazzi.

Lo stomaco si contrasse dolorosamente, si piegò su se stessa e così, completamente accartocciata, scoppiò in un pianto disperato.

«Non voglio…»

«Annie, cosa sta succedendo?» Demian le fu accanto in un secondo, le afferrò un braccio per scuoterla, la costrinse a rialzarsi, ma gli si mozzò il fiato in gola quando la vide in volto, doveva essere un disastro. Sentiva le guance fradice di pianto e gli occhi le bruciavano, li sfregò con il polso, con cattiveria, fino a farsi male, e lui non glielo impedì, troppo allibito. Quella passività improvvisa la fece arrabbiare solo di più, si liberò della sua mano inerte e lo spintonò, furiosa.

«Vattene! Tu non capisci niente, non sai niente e non t’importa di niente!»

 

Ed io continuo a invidiarti per questo tuo distacco dalla vita, ti invidio fin quasi ad odiarti

 

«Tu non la meriti! Ci sono persone che darebbero qualunque cosa per avere una vita intera a disposizione, senza scadenze, e tu invece non le dai un minimo di considerazione!» lo spinse ancora, bruciante di una collera irragionevole, quasi ingiusta, che però non riusciva ad esimersi dal provare «Cristo, ma ci sei mai stato nel reparto di tua madre? Le hai viste, quelle persone? Darebbero l’anima per poter avere mille rimpianti, e poi ci sono persone come te, che non capiscono un cazzo!» gli urlò contro, dandogli l’ennesimo spintone che lo tenesse lontano, perché Demian non demordeva, tentava di avvicinarla blandamente, irritandola solo di più.

Il ragazzo abbassò le braccia, gli occhi grandi di un bambino ferito e offeso «Non sono affari che ti riguardano» tentò debolmente di difendersi, ma non riuscì a prevederla. Arianna fece scattare la mano per istinto e le sue cinque dita si stamparono con violenza sul suo volto pallido, tanto da voltargli il capo.

«Non osare dire una cosa simile!» latrò, un misto di grida e pianto forte.

Demian non rialzò la testa, rimase con il volto inclinato e gli occhi bassi, puntati sulla sabbia. Arianna non sapeva se arrabbiato o, forse, pentito, ma non le importava, sentiva che non aveva ancora finito, che lui doveva comprendere. La voce però le tremò, uscì meno decisa, più spaventata «Tu prima di tutti dovresti saperlo, hai tua madre, tua sorella… tu la conosci la disperazione di chi non ha più tempo. Tu più di tutti l’importanza della vita dovresti conoscerla»

Le mani gli tremarono, Demian le strinse a pugno, la congelò con un’occhiataccia ostile «Pensi che non la cederei se potessi?» alzò i toni a sua volta, umiliato, prendendola in contropiede. Sussultò, ma lui non se ne accorse «Farei a cambio con mia sorella, se potessi! Le darei il mio cuore! Farei qualunque cosa se servisse a darmi la certezza che lei potrebbe vivere, vorrei che vivesse più di ogni altra cosa e del resto non me ne frega niente! Della mia vita senza di lei non me ne faccio un fottuto cazzo! Quello che sono, quello che faccio, non ha valore! La mia vita non ha valore, è Sarah che ha senso, solo Sarah!»

Inerme di fronte a tanta vuotezza, a tanta tristezza, Arianna sentì il petto percuotersi di singhiozzi quasi isterici, lo percepì come qualcosa di distante da lei, fuori da ogni controllo. Immersa in un pianto disperato, gli scaricò un primo pugno sulla spalla, poi un secondo.

«Non è giusto!»

Lo colpì ancora e ancora, Demian le afferrò i polsi, ma faticò a tenerla ferma, Arianna lottò con tutte le sue forze per sciogliere quella presa e ignorare l’espressione stralunata, totalmente sconvolta, con cui il ragazzo la supplicava di fermarsi.

 

Quindi io non potrò mai capirti, è questa la verità, tu mi sarai sempre estraneo.

Io non posso farti del male, nessuno può: tu sei già distrutto. Nemmeno volendo potrei farti più male di quanto tu non te ne faccia già da solo ogni giorno.

Ma come puoi alzarti tutte le mattine odiandoti così tanto?

Come si può sopravvivere così?

 

«Maledizione Annie! Che cosa ti prende?» l’aggredì ad un palmo da suo volto. Poteva sentire il suo fiato caldo, i nasi quasi si sfioravano e i suoi tratti candidi non erano del tutto a fuoco. La linea dei suoi occhi però, quell’arco aguzzo sull’angolo mediale che lo faceva apparire quasi una fiera, non le era mai parsa tanto nitida e netta, cosparsa di ciglia bianche e folte, fredde come neve posata su un ramo. Arianna smise di dimenarsi, prese un profondo respiro per recuperare una calma apparente più forte del dolore allo stomaco.

Le lacrime la tradivano, ma non esitò a guardarlo negli occhi.

 

Daniele lo dice sempre, chi dice la verità, chi non dubita di se stesso, non teme di incrociare lo sguardo di nessuno.

Non dubito di me, nonostante tutto. Ma forse ti odio, Demian, odio sapere che possiedi una cosa che ho sempre desiderato e scegli di non averne cura.

Odio vedere il mio più bel sogno calpestato

 

Il rancore annebbiava ogni suo pensiero, ma di fondo restava una pallida consapevolezza: tutto desiderava, meno che staccarsi da lui. Più quella rabbia si faceva forte, più in lei cresceva un senso di attaccamento che a mente lucida avrebbe tranquillamente definito morboso. La sua noncuranza la feriva, ma era preferibile restare ferita, portarsi sullo stomaco quelle parole pesanti come macigni, piuttosto che abbandonarlo.

 

Farei un torto a lui, e lo farei anche a me stessa

Non ho più motivo di sentirmi in colpa, non ho ragioni di esitare, ormai

 

«La voglio io» lo sfidò, decisa.

Le sopracciglia bianche si aggrottarono in tutta la loro confusione «Di cosa stai parlando ora?» domandò esasperato da quell’altalena emotiva che palesemente lo aveva sfibrato e lo stava portando vicino all’esaurimento precoce.

Arianna arricciò le labbra e ignorò tutti i segnali di un cedimento «La tua vita. Hai detto che non ha un valore, che non te ne fai nulla, no? È come se già non vivessi, è sprecata. Una vita non va sprecata. La voglio io, la voglio per me»

Demian non riuscì a deglutire per lo sbalordimento. Socchiuse le labbra, per dire qualcosa, ma gli occhi tradivano la mancata connessione tra il significato della sua richiesta e la comprensione della stessa. Riuscì a mormorare, atono «Non è divertente»

«Non volevo esserlo»

«Allora non sto capendo» ammise candidamente.

Arianna incamerò aria insieme ad una discreta dose di coraggio «Voglio tre mesi della tua vita. Voglio che me li cedi, così potrò farti cambiare idea»

Era fin troppo consapevole di quanto quella richiesta suonasse assurda e fuori luogo, però non poteva accettare una resa a priori, non poteva gettare la spugna e accettare passivamente che una realtà troppo triste si consumasse davanti al suo sguardo indifferente. Tutta la sua determinazione si era concentrata sull’unica, assoluta verità che in quel momento la dominava: non poteva lasciarlo stare, non voleva abbandonarlo.

 

Non chiedermi perché, fra tutti, ho scelto te, perché sarai tu la vittima di tutto questo. Non ne ho idea, ma se sei tu Demi, se sei tu può funzionare, è diverso. Questo è tutto quello che so

 

«Non ti sto chiedendo niente di eccessivo, se ci pensi. Allo scadere dei tre mesi sarai totalmente libero di liberarti di me. Se accetti però, potrai farlo solo allo scadere del tempo, ci saranno delle regole e le dovrai seguire categoricamente»

Il ragazzo inarcò le sopracciglia, fece un leggero passo indietro. Poi, si lasciò andare ad una risata forzata, nervosa «Tutto questo è folle, non ha senso. Perché mai dovrei accettare una proposta tanto assurda?»

Arianna arricciò il naso, scrollò le spalle per minimizzare il tutto e si ritrovò a correggerlo, accennando un sorriso compassato «Nessuno ha detto che devi. Puoi, è diverso, una possibilità»

Quella sua uscita lo rese ancora più sospettoso.

«È uno strano scherzo dei tuoi? Non sta funzionando»

«Sono serissima»

Come un animale, la guardò cauto, in tralice «E se non fossi interessato?»

Con una certa freddezza, gli porse la mano «Allora è stato un piacere conoscerti» chiarì, con tutta l’indifferenza di cui fosse capace e che il viso arrossato di pianto sicuramente stava tradendo.

 

Se rifiuta, sono categorica, non lo vedrò più. Tanto non avrebbe senso, sarebbe controproducente per entrambi. Se lui è davvero solo questo, anche io mi farò del male, non sono così forte da sopportare di vedere qualcuno che si fa a pezzi

 

Aveva un po’ paura, perché la parola data a se stessa non se la rimangiava mai, sapeva che non avrebbe ritrattato nemmeno se l’avesse desiderato più di ogni altra cosa, ma il pensiero che quel ragazzo appena conosciuto potesse già smettere di far parte della sua vita la rendeva incredibilmente infelice.

Demian indietreggiò ancora, un guizzo di inquietudine sotto la superficie di quei suoi occhi freddi e incolori, dalla sfumatura inafferrabile.

«Mi stai ricattando» constatò con un certo rancore.

Arianna ne rimase meravigliata: non l’aveva nemmeno concepita sotto quell’aspetto, ma Dem ragionava in modo totalmente imprevisto, per lei.

«Un ricatto non ha una soluzione» fece notare, inclinando la testa, come per guardarlo da un’altra prospettiva, per capire cosa potesse vederci lui, in quella situazione assurda «Tu invece hai una scelta»

Demian però non la smetteva di fissare quella mano tesa verso di lui con una sorta di avversione, un orrore inspiegabile «Se non accetto, non ti vedrò più» ripeté piano, e aggiunse più risentito «Questo è un ricatto»

Le strappò un sorriso, con quel suo broncio da bambino insoddisfatto «Non vedermi più sarebbe solo la conseguenza di una tua scelta» gli fece notare con una certa ovvietà.

Se possibile, s’indignò ancora di più «Se vuoi andartene fallo, non devi ricorrere a scemenze simili, non te ne farei una colpa comunque» la voce bassa, appena soffiata, diceva tutt’altro, non riusciva a nascondere l’acredine.

 

Eccolo, ecco il punto. Si sente abbandonato prima ancora di esserlo. È questo che devo combattere, altrimenti nulla di ciò che dirò avrà valore

 

Si avvicinò a lui, lo colse di sorpresa e gli afferrò il volto tra le mani prima che potesse arretrare ancora, costringendolo a guardarla negli occhi.

«Ascoltami» scandì severa «Ascolta quello che ti dico e solo quello che ti dico, non leggere tra le righe verità che non esistono!» prese fiato e raccolse tutto il proprio coraggio, mentre gli occhi di Demian si sgranavano davanti a lei, grandi e confusi come quelli di un bambino spaventato, limpidi di un azzurro leggerissimo, sporcato di rosa «Non voglio andarmene Demian, ok? Non lo so perché, sinceramente non ne ho assolutamente idea, so solo che voglio restare con te. Voglio che tu stia vicino a me, davvero non lo hai capito?» lo smarrimento che trasmetteva parlava per lui, per le sue labbra gonfie sigillate in uno straniante orrore. Arianna sentì il panico del fallimento «Quello che voglio non ha senso se non posso aiutarti. Se non posso fare niente per te, se stai così sulla difensiva… non devo essere un profeta per dirti che saremo infelici in due. E io non sono così forte, per questo voglio che scegli tu, anche se questo mi rende una vigliacca»

Lo liberò dalle sue mani, lasciò scivolare le dita sulla pelle bianca prima di ritrarsi, per sentirne il calore, assorbirlo, sentire che era vivo e pulsante, non un oggetto inanimato. Gli sorrise, fiaccamente «È tutto il giorno che mi tormento, ma non sono giunta a nulla oltre a questo. Perciò scegli tu, ma se scegli ch’io resti, allora devi rispettare le mie condizioni, perché che tu ci creda o meno, anche io ho paura» sollevò le spalle, per alleggerire quella confessione, sminuirla «Sono terrorizzata. E se devi stare sulla difensiva cercando di ferirmi per ogni minima cosa solo per proteggerti preventivamente, io non ce la faccio. Non sono una scalatrice, non posso assediare continuamente la stupida torre dove ti barrichi ogni volta che sbaglio a dire qualcosa!»

Demian era troppo tramortito per rispondere a quel fiume di parole, aveva l’aria di chi cercava di assimilarle, di venirne a capo. La fissava con un’intensità tale che Arianna lo sentiva, le gambe le avrebbero ceduto, forse per l’eccessiva vicinanza, perché restava lì, a poco più di una spanna da quel viso bellissimo e sciupato. Il ragazzo si morse le labbra, poi, esitante, sollevò la mano. Le sfiorò la guancia con la punta delle dita, con lentezza esasperante seguì la linea del suo profilo, la mandibola fino al mento, delicatamente. L’accarezzava con una dolcezza così struggente e ritrosa, che Arianna sentì il cuore batterle furiosamente. Non fosse stata del tutto sana, avrebbe giurato di essere ad un passo dall’infarto, non poteva credere che quell’organo potesse reggere tanta pressione, la pelle del viso bruciava come fosse rovente e si vergognava, perché Demian poteva sentirlo attraverso la punta gelida di quelle dita intirizzite dal freddo. Insieme all’eccitazione, provava una strana angustia

 

Mi tocca come se potesse rovinarmi.

Non puoi essere davvero tanto ingenuo, Demian

 

Era lusingata e oltraggiata, per quell’eccessiva delicatezza. Nel miscuglio di sensazioni che l’attanagliavano, si ritrovò a trattenere il respiro. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma era pietrificata. Quando Demian tornò a parlare, lo fece accostandosi al suo volto, in un sussurro leggero. Arianna sentì il fiato caldo, in contrasto con l’aria gelida, lambirle il collo e l’orecchio.

«Quindi, se accetto, rimani con me»

Le tremavano le mani, le strinse a pugno e raffazzonò un tentativo di risposta «Almeno per i prossimi tre mesi»

Cercò di suonare più spavalda di quanto non si sentisse, perché in quel momento le sembrava che il suo corpo fosse composto di gelatina pronta a sciogliersi.

«Allora è una promessa»

Riuscì a stento a borbottare un “Sì”, prima di ritrovarsi completamente spalmata contro di lui, in un abbraccio impetuoso a tradimento.

 

Qualunque cosa tu faccia, sembri sempre un disperato

 

Per assurdo, questo lo rendeva solo tenero. Sentiva la mano aperta sulla sua schiena, l’altra le premeva il capo contro il suo petto. Si sentiva avvolta completamente, quasi minuscola, con la sua guancia fra i capelli. Con l’improvvisa e soverchiante certezza che Demian sarebbe rimasto, gli gettò le braccia al collo e lo strinse con altrettanta forza, soddisfando il desiderio che l’aveva pervasa fin da quella mattina. La tensione ora sciolta minacciò di farla piangere ancora, ma si trattenne, perché era già sembrata sufficientemente matta, di una follia che non avrebbe potuto mai spiegargli senza spingerlo a scappare. Demian, nella sua stretta, si rilassò, abbandonò la postura rigida e sciolse i muscoli. Si aggrappò a lei come un bambino.

«Resta»

Gli passò una mano fra i capelli, intrecciò le dita a quella massa morbida.

«Resto»

 

Se dobbiamo scottarci, ustioniamoci

«Annie?» sussurrò ancora, in imbarazzo. Si scostò quel tanto sufficiente a guardarla, nonostante la sua altezza la osservava dal basso, intimorito, le fece scappare un battito, lo perse con una facilità così disarmante che quasi non le riuscì di crederci.

 

Seriamente, ma come ho fatto a non rendermi conto fin dall’inizio di quanto fosse bello? Anche con questi suoi occhi così strani, con questa sfumatura rosa che si vede solo standogli così vicino

Tutto di lui è tremendamente affascinante.

 

Era incredibile, come i suoi occhi parlassero, quando il suo muro si abbassava. Si poteva leggergli l’anima, in quello sguardo, con la giusta attenzione.

«Posso baciarti?»

L’impaccio era tale che Arianna riuscì solo a sorridergli sollevando gli occhi al cielo.

«Demi, hai l’iniziativa di un cucchiaino in una lavatrice!»

Lo vide crucciarsi, confuso, mordersi ancora la guancia con tutta la sua indecisione «Intendi lavastoviglie?» la corresse di nuovo, ed Arianna si sentì morire per l’imbarazzo dell’ennesimo errore

«Il punto è che stai lì a prendere acqua!»

Vedere le sue guance pallide arrossarsi le diede la perversa soddisfazione di essere in vantaggio.

«Io veramente…»

Non gli diede modo di concludere. Senza pensare, seguendo l’istinto, annullò la distanza che la separava dalle sue labbra ancora schiuse. Le sfiorò appena, morbide e carnose, vi sfregò contro le sue e fu pervasa da un brivido di eccitazione. Erano belle, delicate anche con la crosta del sangue coagulato, fu mossa dal desiderio di morderle ed invece si fermò, mantenne quel delicato contatto.

Non ricordava più come si respirasse, né le interessava, non sembrava più importante, come tutto il resto, alla luce delle sue labbra soffici e tiepide.

Chiuse gli occhi, troppo in imbarazzo per poterlo guardare, e posò la fronte contro la sua. Le punte dei nasi si sfioravano, così vicini, l’uno ad un soffio dall’altro, sentiva il respiro di Demian spezzarsi sulle guance accaldate.

«Non hai mai cercato di parlare così tanto» mormorò a stento, per giustificare quel suo gesto avventato. In attesa di una risposta che non sentiva arrivare, le palpebre sigillate per proteggerla dalla vergogna, percepì le mani di Demian prenderle a coppa il viso.

Questa volta fu lui a baciarla, con quella sua delicatezza eccessiva, angosciata. L’accarezzava piano, non la smetteva di toccarle il viso, faceva scivolare le dita lunghe sul collo, ma non si spingeva oltre, lambiva appena la sua bocca per discostarsene, in baci leggeri. Esasperata, Arianna si fece più audace, si lasciò andare a quel contatto e schiuse le labbra per invitarlo ad approfondire il bacio. La mano di Demian scivolò sul suo fianco, la attirò più stretta, le mancò il respiro.

 

Riesco a sentire il suo cuore

 

Batteva forte quanto il suo, sembrava stessero correndo una maratona insieme. Con un ultimo, lieve bacio a fior di labbra, Demian si separò da lei. Le sorrise, un sorriso vero, onesto e immenso. Osservò il suo canino storto, le rughe d’espressione intorno agli occhi strizzati in quel momento di puro, puerile entusiasmo. Era una felicità tanto piena da oscurare il volto segnato di lividi. Rapita dal momento, Arianna si sfiorò la bocca con la punta delle dita.

 

Non me lo immaginavo così. È stato… intenso

 

Era stata l’esperienza più inebriante della sua vita, la consapevolezza di un altro corpo, di un altro respiro, era stata schiacciante, quasi opprimente. Si guardò attorno, per riprendere contatto con la realtà. Realizzando dove si trovasse e come ancora Demian la stringesse, le venne da ridere. Si lasciò andare ad una risata sentita, quasi selvaggia, a cui il ragazzo rispose con perplessità.

«Che ti prende adesso?»

La sfumatura delusa rese la situazione ancora più divertente «Guardati intorno!» gli fece notare con ovvietà «La spiaggia, il mare… siamo praticamente dentro il più grande e banale dei cliché!»

Avvilito, Demian scrollò le spalle «Hai proprio una testa bacata» borbottò, ma in fondo trapelava una nota di divertimento che la fece sbilanciare.

«È vero, lo sai benissimo che ho ragione! Mi sento quasi banale. Sai che non ti facevo tipo da luoghi comuni?»

Il ragazzo le afferrò malamente la guancia tra il pollice e l’indice e la strattonò, provocandole un intenso bruciore e immediate lamentele «Così mi fai male!» si lagnò, e gli assestò una non troppo leggera gomitata allo sterno.

Demian sbuffò, le scompigliò i capelli lisciati dal vento e dalla salsedine, prima di allontanarsi e afferrarle la mano.

«Non ti lamentare. E comunque, sospetto che niente fatto da te potrà mai risultare un cliché!»

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Capitolo 19
*** Nicolas ***


À Demian

Capitolo diciassettesimo

Nicolas

Era una serata umida e fredda, quella, anche se era estate inoltrata.

Demian non era mai stato in quella zona della città ad un’ora così tarda. Aveva solo tredici anni, nessuna esperienza alle spalle e la voglia di invischiarsi in qualcosa di diverso, perché non sopportava più maman rinchiusa nella sua camera, non sopportava più i medici, la famiglia troppo distante; perché in quella pesante routine in cui era incastrato ci soffocava, ci annaspava tutti i giorni alla ricerca di una boccata d’ossigeno che si rifiutava di arrivare.

Persino il dolore si era trasformato in noia ormai, e si ritrovava a trascinare il proprio corpo da un posto all’altro, caracollando senza uno scopo. Allora aveva capito che forse non c’era scopo, per una persona come lui, nata per errore da un errore, destinata a restare senza posto.

Questa presa di coscienza lo aveva alleggerito, lo aveva spinto a compiere quell’atto incosciente che non aveva avuto ancora il coraggio di fare. Nicolas gli aveva dato un barlume, un accenno di possibilità, e Demian aveva deciso che non avrebbe esitato a stringerlo tra le mani, quel fuoco fatuo di sgargianti illusioni, anche a costo di ustionarsi, di sciogliersi pelle e ossa solo per avere qualche secondo di senso.

Era sceso dall’ultima corsa extraurbana del pullman ed ignorava come sarebbe rientrato a casa, perciò non gli era rimasta altra opzione che addentrarsi nelle strade della città. Dall’altro lato dello stradone, la stazione dei treni era buia e tetra, come un edificio abbandonato, non fosse stato per il pallore luminescente degli schermi che dichiaravano le tratte ancora in corso e le luci basse di pochi Watt che sembravano tremare d’incertezza.

Nella via opposta, Demian avrebbe ritrovato il caos cittadino, il viale alberato che portava in centro. Sentiva il brusio di famiglie e persone che mangiavano gelati e ridevano e passeggiavano. Invece, la piazzola della stazione presentava solo gruppi di ragazzi raccolti, dall’aria poco raccomandabile, e qualche viandante che trascinava dietro di sé una valigia, persone che uscivano velocemente e si incamminavano verso le luci dei negozi. Tutto quello squallore era quasi paradossale, la stazione era stata completamente rinnovata non molti anni prima, eppure presentava i sintomi della decadenza e dell’abbandono tipici di un edificio lasciato all’incuria del tempo. Le lamiere che avevano delimitato il cantiere e l’avevano reso inaccessibile ai civili, dopo la ristrutturazione erano state rimosse solo per essere abbandonate in una catasta arrugginita dalle piogge e dalle intemperie, proprio in mezzo al cortile. Il legno delle panche era gonfio di umidità e sbeccato ai bordi, marcito, dava sempre la sensazione di viscido e bagnato quando ci si sedeva sopra; il prato era incolto, la fontana centrale aveva smesso di funzionare da tempo immemore e le acque lì conservate, melmose e verdi, avevano dato adito a nuove forme di vita su cui Demian a volte si divertiva a fantasticare. Sotto il porticato a colonne, alcune porte erano state sbarrate con assi di legno in seguito ad atti vandalici e alcuni muri erano stati rivestiti di murales vivaci e volgari, dalle immagini spinte. La macchinetta per convalidare i biglietti era stata sradicata e pendeva mollemente, come un soldato accasciato. Nell’insieme, le macchie di umidità e il muschio agli angoli e tra le lastre della pavimentazione risultavano il problema minore.

Lo squallore che lo circondava però, per quanto lo repellesse, risultava più attraente della sua dolce e calda dimora, imperfetta ma certamente più sicura. Era di quella sicurezza, di quella protezione, che Demian era saturo, era noiosa e la noia lo intontiva, lo anestetizzava. Lui invece, voleva soffrire molto di più, aveva sempre la sensazione di non soffrire abbastanza, di non capire abbastanza. E se non poteva comprendere maman, non poteva aiutarla, non poteva sfiorarla, sarebbero sempre rimasti divisi da quella porta chiusa, un compensato sottile che sembrava indistruttibile più di un muro di cemento armato. Se fosse riuscito a soffrire di più, avrebbe pagato il debito con maman, con suo padre. Era nell’autodistruzione che gli sembrava di vedere una possibilità di pareggiare i conti.

Superato il sottopassaggio, ritrovò il parco di cui Nicolas gli aveva parlato, di fronte alla via di vecchi locali trasandati e di un grande parcheggio. Nico era proprio dove gli aveva detto che lo avrebbe trovato: seduto irriverentemente sullo schienale di una panchina, rideva sguaiatamente con i suoi amici, tanto forte da permettergli subito di individuarlo nonostante i pochi lampioni. Stringeva una sigaretta in mano, o forse una canna, e il suo sorriso, anche se immenso, manteneva sempre quel retrogusto animalesco e attaccabrighe.

C’era l’intero gruppo già da quella sera, quel gruppo che avrebbe imparato a conoscere a fondo con il tempo, che avrebbe amato e disprezzato.

Ognuno di loro aveva la propria dipendenza e la propria storia, ma il legame che li spingeva a restare tutti insieme al di là delle divergenze era Nicolas, che se li giostrava e giocava con loro come fossero bambole nelle sue mani inesperte e capricciose. Nico non era il più grande, però sapeva farsi rispettare, anche di brutto quando era necessario. Un po’ per il suo retaggio familiare, che Demian avrebbe scoperto solo in seguito, un po’ per la sua natura brutale e meschina. Teo aveva sette anni in più di lui, era irragionevole ed aggressivo già allora, ma davanti a Nico faceva sempre un passo indietro e chinava la testa. La verità circa il loro rapporto non gli era chiara, Matteo era uno strascico della generazione X di Kurt Cobain, figlio del grunge e uno dei pochi eroinomani sopravvissuti agli anni novanta. Il primo bucomane con cui Demian avesse avuto a che fare, perché all’alba del duemila era la cocaina ad andare per la maggiore.

Aveva scoperto un giorno da Alex che il più grande si era indebitato, anni prima, tentando di entrare nel giro come pusher. La sua dipendenza spietata aveva rivelato presto che non fosse tagliato per lo spaccio, il suo consumo di ero era aumentato, aveva rischiato una morte da overdose e si era indebitato al punto che lo spacciatore a cui si era appoggiato aveva minacciato di gambizzarlo, non avesse riavuto i suoi soldi.

Era stato in quel momento che aveva conosciuto Nicolas, quello spacciatore era suo zio.

Nico era intervenuto a suo favore, si era fatto carico del debito, stretto un accordo con lo zio, e infine lo aveva assoldato: Teo sarebbe stato uno dei suoi, avrebbe smerciato cocaina per lui e in cambio Nicolas si sarebbe assicurato di non lasciarlo mai in astinenza.

I dettagli di quel controverso rapporto non li conosceva nessuno, era il debito il vincolo di Teo.

Tutti nel gruppo avevano un debito con Nico, era così che lavorava, che si creava attorno la cerchia di accoliti perfetta, fondata sulla necessità della sua persona. Gli altri componenti di quella banda erano più che altro delinquenti di poco conto, quasi banali: Andrea era un etilico perso, completamente annegato nell’alcol e impasticcato fino al midollo, ci andava pensante con i cocktail di efedrina e valium che lo obnubilavano più delle droghe pesanti, dandogli l’aspetto perennemente sperso e confuso e un’espressione assente, smarrita, a tratti quasi infantile sotto gli strati di capelli unti e la barba incolta. Perlomeno non si faceva di coca e questo lo rendeva abbastanza affidabile, almeno nello spaccio, gli servivano i soldi per affogare nell’alcol quanto desiderava. Era stato un assiduo debitore e in nessun bar della zona veniva più servito, per la sua cattiva fama, ma assurdamente la dipendenza da alcool risultava una condanna peggiore della coca stessa, perché quando Andrea restava sobrio troppo a lungo perdeva compostezza e tranquillità e dava fuori di matto, irragionevole peggio che se fosse in rota. L’Edoné era però territorio di Nicolas, lo sapevano tutti, e tutti conoscevano Nico. Il resto era venuto da sé e far credito per cifre esorbitanti non era più stato un problema, dopo essersi unito a lui.

Alex era un cocainomane con un senso notevole degli affari, il braccio destro di Nicolas, uno che dalla droga era stato tirato sotto in pieno ma riusciva ancora a rialzarsi per fare il suo dovere. Il bell’aspetto curato, i piercing eccessivi e i vestiti ricercati creavano un contrasto insolito tra lui e gli altri membri della banda, la cosa però non lo disturbava particolarmente, Alex era super partes, indifferente a tutto ciò che non avesse un valore economico o utilitario.

Infine, per ultimo c’era Davide, il suo preferito. Un punk in ritardo sui tempi, erede nostalgico degli anni ottanta e del rock più aggressivo, il suo unico scopo sembrava voler emulare John Lydon, un’icona fondamentale del suo larario personale. Era un fattone con al cresta colorata più allucinata che Dami avesse mai visto, ed era paradossale perché, come gli avrebbe raccontato poi, la sua era una famiglia bene, con una villa da capogiro nel quartiere alto della città e genitori che lo avevano iscritto a forza alla più prestigiosa università di economia di Milano nonostante i suoi scarsi risultati, solo per il principio assurdo secondo cui doveva portare avanti il buon nome di famiglia. Dave rifuggiva la realtà imbottendosi di MD e LSD, ma il fumo restava sempre il suo vocabolo preferito e in seguito non aveva esitato a condividerlo con lui. Con la sua allegria a volte un po’ artificiosa e quell’ingenuità che probabilmente era più frutto dei neuroni bruciati che di predisposizione naturale, sembrava l’unico in grado di poter superare i vent’anni quasi del tutto normalmente.

Quella sera, quando Nico l’aveva visto, era balzato in piedi con uno scatto rapito e felino, quasi elegante, e gli si era fatto vicino con un mezzo sorriso che a tratti sapeva di scherno. Non aveva detto nulla, gli aveva gettato un braccio attorno alle spalle e l’aveva attirato a sé con nonchalance, poi si era voltato platealmente verso il suo piccolo gruppo di fedeli.

«Ragazzi, lui è Demian. Dem da oggi sarà dei nostri» aveva esordito, senza consultarlo. E Dami, guardandolo dal basso con gli occhi immensi, aveva compreso tutto ad un tratto la portata di quel suo gesto avventato, aveva capito di aver appena venduto l’anima al diavolo, un piccolo passo verso un baratro profondo e oscuro. Nicolas aveva ricambiato il suo sguardo, una scintilla provocatoria nelle iridi grigie d’acqua sporca, come a sfidarlo a dire il contrario.

«Giusto, Dem?»

Le parole gli mancarono, così Demian si ritrovò ad annuire lentamente, quasi temendo che un gesto brusco avrebbe risvegliato l’animale sopito dentro il corpo di quel ragazzo strafottente. La dannazione Nicolas l’aveva cucita in ogni tratto del suo volto spigoloso, lo stomaco si rattrappiva per il senso d’allarme che riusciva a trasmettergli.

Aveva stretto davvero il patto con il Demonio.

 

Ero troppo giovane, troppo innocente e tentato per poter vedere la clausola nascosta del contratto, quella piccola e quasi invisibile linea sul fondo del foglio, accanto alla mia firma

 

Aveva battuto il pugno con tutti i membri, tranne Matteo che, a distanza, lo fissava in cagnesco, pronto a ringhiare al minimo cenno di invasione del suo territorio da parte di Dami. Davide invece l’aveva preso in particolare simpatia, nonostante gli anni che li separavano, e nel giro di poco aveva scoperto che con lui non provava né imbarazzo né paura. Gli si era seduto accanto e il punk più disastrato di sempre gli aveva offerto la sua prima sigaretta con un sorrisino incoraggiante, così estatico che Demian pensò non fosse una sigaretta, ad averlo reso felice.

In quell’astrazione dal reale, tra un colpo di tosse e un altro, si era sentito più leggero.

Aveva sorriso.

Immotivatamente, perché niente aveva importanza in quel frangente. A malapena ricordava sua madre, circondato da quei ragazzi, né la Francia, che fosse lontana, che forse non ci sarebbe tornato, non avrebbe rivisto la sua famiglia quell’anno.

«Ehi Dem, ma si può sapere quanti anni hai?»

«Quasi tredici» aveva tossito, e il sorriso sciocco di Dave si era incrinato, gli angoli della bocca si erano piegati verso un basso perplesso.

 

Non avevo torto, a pensare che quel detto fosse vero, che il riso davvero abbonda sulla bocca degli stolti. Era la prima volta, che mi sono reso conto che i detti hanno ragione di essere.

 

Davide era già sospeso in un eterno ed estraniato stato di beatitudine che sfiorava la deficienza. Il silenzio che era crollato però, non aveva colpito solo Dave, l’intera compagnia era rimasta attonita di fronte alla sua giovane età. Alex aveva occhieggiato Nicolas, confuso, alla ricerca di una risposta sensata su quel viso incattivito e perfidamente divertito, macchiato di scherno.

«Stai scherzando spero» dichiarò allargando le braccia in un gesto inconscio.

Nicolas aveva scrollato le spalle, incurante «È in gamba. Ha carattere. Ed è schifosamente onesto» chiarì. Poi lo aveva guardato e Demian si era sentito pietrificare «Non mi serve altro»

«È un moccioso» rimarcò Alex, aggrottando le sopracciglia, la destra deformata da un piercing troppo pesante.

«Anche, sì»

Teo, a braccia conserte in disparte, con quell’odio instillato in ogni gesto mentre lo studiava come un gatto con il topo, si staccò bruscamente dal muretto, senza preavviso. Un paio di falcate e gli si era fatto sotto, lo aveva afferrato per la collottola e sollevato senza sforzo.

Lo ricordava, che gli era mancato il fiato.

Che aveva avuto paura e si era sostenuto a stento, sulle punte dei piedi, per non soffocare. All’epoca era piccolo, mingherlino da far spavento, quasi imbarazzante per la debolezza che trasmetteva.

«Sei un cazzo di moccioso e basta. Mi dai fastidio» glielo aveva ringhiato in faccia, a un palmo dal suo viso, insieme a schizzi di saliva e ad un alito forte, con un retrogusto di birra in bottiglia.

Dave si aggrappò al braccio muscoloso del più grande, lo supplicò «Teo mollalo, è solo un bambino» ma venne allontanato con un semplice movimento del braccio, deciso e abbastanza forte da farlo cadere a terra come un sacco vuoto e sbalordito.

«Tu sta’ zitto, fattone del cazzo. Faccio già fatica a sopportare te, questo scherzo della natura mi fa troppo schif…» non aveva finito, con sgomento aveva guardato quel minuto e pallido fantasma che stringeva tra le mani e che aveva avuto l’ardire di sputargli in faccia.

Senza fiato e senza forze, Demian aveva assottigliato gli occhi «Fottiti»

Di fronte a quella sfrontata prova di forza, Alex e Davide scoppiarono a ridere, persino Nico abbozzò un accenno di ilarità. L’espressione di Teo si contorse nello sdegno e nella rabbia più primitiva, Demian seguì, quasi accadesse a rallentatore, il braccio del ragazzo che si sollevava in un pugno pronto a spaccargli la faccia e chiuse gli occhi, come se non vedere potesse aiutarlo ad incassare.

 

Ne avevo ricevuti di cazzotti nella mia vita, pensavo che non sarebbe stato niente di trascendentale. Ancora non conoscevo Matteo o sarei stato meno spavaldo. Con il senno del poi, se non ci fosse stato Nicolas ora non avrei più la mia faccia, probabilmente.

 

«Adesso basta»

Il dolore non era arrivato e la voce di Nicolas non era mai sembrata tanto perentoria, assoluta. Demian si era arrischiato ad aprire l’occhio destro, per sbirciare la situazione, ed aveva ritrovato il pugno di Teo a pochi centimetri dal suo viso, bloccato soltanto da Nico, che sorrideva beffardo al ragazzo più grande.

«Ora datti una calmata, o ti faccio ingoiare i denti. Ho detto che è dei nostri, è la mia ultima parola»

Teo tremava di collera, la bocca sigillata con tanta forza che Demian poteva sentire i denti scricchiolare per lo sforzo di quella risposta trattenuta, il pomo d’Adamo che vibrava. Rimase in silenzio qualche secondo, poi chinò il capo in segno di resa e lo scaricò a terra con cattiveria.

Demian impattò con la schiena, riuscì a limitare la caduta con le braccia per non battere la testa, ma la fitta che dall’osso sacro gli attraversò la schiena bastò a deformargli la bocca in una smorfia di dolore.

Accanto a lui, ancora disteso nel prato e vittima di una risata allucinata, c’era Davide.

«Bravo, Teo» lo schernì Nico, con un sorriso ironico, lasciandogli una pacca mortificante sulla spalla prima di abbandonarlo lì, patetico e umiliato.

Alex gli si era avvicinato, gli aveva porto una mano più che per solidarietà, per paura di contraddire Nico, ma Demian non aveva voluto soffermarsi troppo su quella verità e aveva accettato l’aiuto.

«Sei fortunato. Hai rischiato grosso»

L’aveva tirato su di peso, Dami si era sentito tremendamente leggero ed inutile, esposto «Ma se accetti un consiglio, non tirare troppo la corda con Teo o potrebbe veramente ammazzarti. Nico non sarà sempre nei dintorni per pararti il culo. Mi stai simpatico moccioso, ma se quello s’incazza, col cazzo che ti aiuto, ho reso l’idea?»

Si era affrettato di nuovo ad annuire.

Era turbato, eppure in lui strisciava una latente soddisfazione. In tutta la sua vita non aveva mai potuto replicare ad un’offesa senza pagarne le conseguenze, questa volta però era in piedi, stava bene ed aveva lavato l’onta dal suo orgoglio ferito.

Guardava Nicolas e ci vedeva un mostro, razionalmente sarebbe fuggito a gambe levate da quei pazzi psicopatici, ma il corpo no, non rispondeva, faceva tutt’altro, voleva restare lì con loro, provare il sollievo di una sicurezza.

 

Nicolas era un mostro, ma il mostro è stato il primo ed unico che mi abbia mai coperto davvero le spalle.

 

 

 

«Questa è la tua copia»

Nicolas gli tirò a tradimento un piccolo oggetto sbrilluccicante e Demian fece appena in tempo a afferrarlo al volo perché non gli si stampasse sulla guancia.

Tra le mani si era ritrovato una piccola chiave argentata, ancora lucida come fosse appena stata fatta. Era ritornato da Kerlaz da meno di una settimana, quell’anno le vacanze con la famiglia non erano durate tutta l’estate e Demian aveva dovuto salutare i cugini prima ancora di potersi davvero riacclimatare alla sua vita francese, tutto a causa dei controlli di sua madre.

Non era abituato a trascorrere l’estate in Italia, non aveva amici lì, solo compagni di classe che non aveva mai frequentato oltre la scuola, perciò senza Jules si era ritrovato a non sapere cosa fare di sé. Scodinzolare dietro a Nicolas era stato istintivo, il ragazzo lo definiva la mascotte del gruppo e ormai se lo portava anche a casa. Per questo, quella sera era spaparanzato su una poltrona sfondata, in casa di Nicolas, mentre la televisione trasmetteva una partita di calcio a cui tutti gli altri prestavano attenzione, ma a cui lui non era particolarmente interessato.

Di calcio non ci aveva mai capito molto, un po’ perché non ci vedeva nulla di particolarmente intelligente nell’osservare un gruppo di idioti in pantaloncini correre dietro ad una palla, un po’ perché era sempre stato così debole che nessuno gli aveva mai permesso di giocare. L’avevano sempre tagliato fuori, lasciato a bordo campo a fingere di arbitrare partite sconclusionate, se proprio doveva fare qualcosa. Molte volte si era chiesto se fosse divertente, i suoi compagni ridevano sempre negli spogliatoi e si davano grandi pacche di congratulazioni sulle spalle.

 

Troppe volte mi ero domandato se sarebbero saltati addosso anche a me urlando d’entusiasmo e gioia come facevano tra di loro, se fossi riuscito ad attraversare l’intero campo correndo per poi fare gol.

Ma alla fine, era inutile chiederselo, non l’ho mai scoperto

 

Sotto eccessivo sforzo, sveniva. Gli albini non avevano una grande resistenza fisica, nel suo caso una pressione bassa e la leggera anemia avevano solo contribuito a renderlo un caso disperato. In cambio di un aspetto quasi normale, per dispetto il suo corpo aveva ceduto tutta la propria resistenza, una sorta di scambio con l’universo che lo aveva lasciato fregato. Però Nicolas non era d’accordo, lo stava spronando ad allenarsi, come un fratello maggiore un po’ manesco faceva a botte con lui, per insegnargli a resistere, a parare. Gli faceva male, ma mai troppo, il giusto perché imparasse, e Demian di quelle attenzioni era grato, stava imparando ad incassare, ad attaccare, ad essere meno fragile.

«Adesso sei ufficialmente dei nostri» Alex aveva ammiccato verso la chiave e poi gli aveva scompigliato i capelli, con una sorta di indulgenza.

«Ma che cazzo sta facendo Inzaghi?» urlò Dave, saltando letteralmente in piedi sul divano «Quel coglione ci farà perdere la partita!»

«Chi te l’ha detto che tifo Juve e non Lazio?» lo apostrofò Alex incrociando le braccia al petto, con fare strafottente. Andrea aveva sollevato pigramente gli occhi dalla sua bottiglia e con voce impastata aveva sentenziato «Scommetto che è espulso»

«Come dire! Sarebbero dei bastardi, è evidente che…» la sua voce era sfumata nell’incredulità mentre in televisione faceva mostra l’immagine dell’arbitro che estraeva lo spietato cartellino rosso.

«È espulso» concluse per lui Alex, piegato in due dal ridere.

Davide era davvero sconvolto e fuori di sé «È un arbitro ladro, cazzo, si vede benissimo che l’hanno pagato. Venduto di merda!»

«Non dire stronzate, ha trattenuto Venturin! Era fallo!»

«Non l’ha fatto apposta!»

«Sei troppo fatto per guardare la partita, vai a farti un trip invece di dire cazzate!» Alex non smetteva di ridere e Davide fremeva sempre più d’indignazione.

«Sono lucido! Lo sai che sono sempre lucido quando gioca la Juve!»

«Sì, per vederla perdere!» lo derise ancora l’amico, accasciandosi tra i cuscini del divano.

«Abbiamo vinto lo scudetto quest’anno, siamo i migliori!» tentò ancora di protestare il punk. Un colpo di tosse però lo spinse ad irrigidirsi, Davide alzò il viso per incontrare gli occhi nocciola e contrariati di Teo, che lo fissava come fosse la cosa più repellente del mondo.

Alla presenza di Matteo, anche Demian sentì i peli del collo rizzarsi. D’istinto, s’incassò più a fondo nella poltrona, cercò di fondersi con la stoffa, per seguire il blando consiglio che gli era stato dato qualche tempo prima. Si stava divertendo a guardare Alex e Dave bisticciare, non era abituato a condividere certi momenti fuori dalla sua famiglia e ne era felice, ma Teo lo inquietava.

Anzi, lo spaventava. Era l’orgoglio che gli impediva di ammetterlo e di farsi troppo piccolo. Le persone come Matteo la paura la fiutavano, se voleva sopravvivergli doveva essere sempre forte in sua presenza.

«Chi sarebbe la migliore?» domandò brusco, perentorio.

«La Juve!» esclamò Dave in un impeto di coraggio che si sgonfiò come un palloncino rapidamente quanto rapidamente si era gonfiato «Dopo il Milan, ovviamente» mormorò abbassando in sottomissione la testa.

Teo sfoderò un ghigno di disprezzo e soddisfazione che lo irritarono, perché Demian la prepotenza proprio non riusciva a reggerla.

«Che io sappia il Milan quest’anno ha fatto schifo. Com’è che era finita l’ultima volta? Quattro a uno per la Juve o ricordo male?»

La risata di Alex stemperò lentamente nel silenzio, negli occhi una muta preghiera lo invitava a stare zitto. Una preghiera che Demian non era intenzionato ad ascoltare. Rinvigorito, Dave s’illuminò «Sì esatto!» confermò con troppo entusiasmo, dovuto più alla soddisfazione di avere un alleato che non ai risultati della sua squadra del cuore, per una volta «E ci siamo portati a casa anche lo scudetto!»

Avere una spalla lo aveva reso baldanzoso, sorrideva a Teo con tutti i denti in bella vista.

«Da quando gli scherzi della natura hanno il diritto di parlare?» Teo gli scoccò un’occhiata intrisa d’odio, i denti digrignati nella rabbia dell’impotenza. La vena del collo aveva già iniziato a pulsare, eppure era frenato, questo diede a Demian una strana sicurezza, la certezza che nemmeno volendo quell’energumeno lo avrebbe toccato.

«Hai ragione, che sbadato. Sono due anni che fate schifo e non vincete un cazzo, quasi me ne scordavo. Era sei a uno? Come squadra migliore fa un po’ pena, ma suppongo che i perdenti tifino i perdenti»

Alex trattenne il fiato, Dave perse completamente colore, Andrea gli dedicò solo un’enigmatica occhiata, una scintilla di ammirazione nei suoi occhietti annacquati. Prima che Teo, completamente rosso di collera, gli saltasse addosso e gli staccasse la testa, una fragorosa risata ghiacciò tutti.

Era Nicolas che rideva, questo era più sconvolgente di tutto.

«Beh, Teo, qualcuno prima o poi la verità doveva dirtela!»

Alla vena sul collo si aggiunse il pulsare inquietante di quella sulla fronte, ma questo fece sorridere Demian più che preoccuparlo.

«Questo bastardo non arriverà a casa sulle sue gambe!» ringhiò sfidando Nicolas, che non smise di ridergli in faccia e rispose con una scrollata delle spalle «Tecnicamente non deve tornare a casa. Ha una copia delle chiavi, anche lui può fermarsi qui quando vuole»

La sua vita si era cristallizzata in quel momento, il momento in cui aveva potuto sfidare quel gigante biondo senza avere nemmeno un graffio come conseguenza. Perché Teo non era più riuscito a muoversi, era rimasto paralizzato dalla collera, era veramente impotente, persino davanti a lui, un mocciosetto pallido e debole.

 

Era stata la prima volta nella vita in cui qualcuno mi aveva difeso così, a spada tratta. La prima volta in cui avevo potuto dire davvero quello che pensavo, in cui un bullo non mi aveva potuto toccare.

Ero un intoccabile, grazie a Nicolas. Era questo il potere di Nico, la magia che lo circondava. Nessuno mi aveva mai fatto sentire tanto potente, tanto invincibile, sopra tutto e sopra tutti, sapevo che sarebbe stato sempre così, finché mi avesse preferito

 

Come un cane bastonato, Teo aveva abbandonato immediatamente la casa, sbattendosi la porta alle spalle con tanta forza da staccare pezzi d’intonaco dal soffitto.

«Tu vuoi morire giovane!» sfiatò Alex, ancora scioccato, sembrava che il sangue nemmeno scorresse più nel suo corpo accasciato grottescamente sul divano. Dave invece, si riprese subito, gli saltò addosso, gli imprigionò la testa con il braccio e sfregò duramente le nocche contro la cute.

«Sei un mito, cazzo! È da una vita che volevo dirglielo a quello stronzo, che la sua squadra è una merda!»

La testa gli bruciava tanto che gli occhi erano diventati lucidi, eppure anche Demian si ritrovò a ridere, sorpreso della propria ilarità, spontanea, felice. Come la fine di una maledizione.

Era libero per la prima volta.

29 Agosto 1998: la Juve era stata massacrata dal Lazio, Dave aveva inveito contro la televisione tanto che Alex e Dem l’avevano dovuto placcare fisicamente perché non la gettasse fuori dalla finestra; si erano ubriacati fino a notte fonda e Andrea era stato veramente sul punto di cadere in coma etilico costringendoli a chiamare un’ambulanza.

Teo non si era più fatto vedere e Nico gli aveva permesso di dormire sul divano per non farsi vedere da sua madre a rientrare a casa impregnato di fumo e alcol.

Una delle sere più belle della sua vita.

 

L’inizio di una nuova maledizione che ancora non riuscivo a vedere

 

 

***

Demian una vita simile non l’aveva mai nemmeno immaginata, eppure gli sembrava ciò che di meglio potesse desiderare. Meglio di qualunque aspirazione.

Nella sua breve vita, la solitudine e il senso d’inadeguatezza avevano sempre dominato e integrarsi gli era risultato impossibile. Quando giungeva l’estate, con maman e Sarah tornavano sempre dai nonni e lì vi trascorrevano i tre mesi di sole, poi con le vacanze di Natale accadeva lo stesso. Demian sapeva che i suoi compagni di classe trascorrevano molto tempo insieme, andavano al CRE nella stagione calda e si ritrovavano nei pomeriggi a giocare all’oratorio, ma i suoi spostamenti gli avevano impedito di tessere quei legami banali. Così, ogni anno ritrovava coalizioni di ragazzi sempre più forti e ostracizzanti: era stato destinato a rimanere lo strano, l’albino, quel ragazzo inquietante e dall’aspetto malato che nessuno conosceva davvero e nessuno voleva davvero conoscere. Ma ora le cose erano cambiante, Nicolas lo aveva accolto senza chiedergli nulla, gli insegnava a difendersi, non era più il debole, l’incapace, gli aveva aperto casa sua.

In uno stanzino della rimessa aveva gettato un materasso per lui, gli aveva dato lenzuola pulite anche se consunte e gli aveva detto che quel posto era suo, avrebbe potuto rifugiarcisi quando avesse voluto. In quell’appartamento abusivo, la libertà era assoluta: lui e Davide avevano comprato delle bombolette spray e decorato i muri dei corridoi con dei murales, scritte vivaci, disegni astratti, bolle colorate in gradazione. L’effetto psichedelico aveva esaltato Nicolas che gli aveva scompigliato affettuosamente i capelli e aveva sorriso sinceramente, un gesto così raro sul suo volto duro e cinico, da averlo riempito di calore.

Non aveva capito subito che quello era ciò che voleva, ma dopo le molte serate trascorse sul tavolo di plastica da esterno in mezzo alla rimessa, a scarabocchiare, avvolto in un maglione immenso di lana per combattere il freddo dell’inverno, con solo la stufetta a compensare la mancanza di riscaldamento, si era riscoperto felice. Davide era tipo da vinili e giradischi, riempiva il silenzio con vecchi brani punk rock, suonava la chitarra stravaccato a terra, e Demian a volte si sedeva, gliela toglieva di mano e gli insegnava qualche riff ereditato dalla durezza paterna.

Si era unito a loro con l’impaccio dell’essere il più piccolo e sprovveduto, uno stupido ragazzino che i tredici anni li aveva appena fatti. Teo lo viveva con un’insofferenza esasperata, lo avrebbe volentieri menato ogni volta che lo incrociava, ma con irrequietezza aveva imparato ad accettare la sua presenza nel tempo, perché non c’era scelta, lo voleva Nicolas: gli si era affezionato senza riserve come un fratellino, o almeno era di questo che si era convinto all’inizio, quando non capiva. Nicolas era troppo difficile da comprendere, per un ingenuo come lui, era facile farsi trascinare dal suo entusiasmo crudele, dal sorriso arrogante anche mentre spaccava la faccia a qualcuno.

Nico era veramente una persona affascinante che avrebbe convinto chiunque a fare qualunque cosa, grazie all’innato carisma distorto che lo caratterizzava attirava le persone e aveva attirato lui. Bazzicare quella casa, quel quartiere più frequentemente di quanto non si potesse permettere era stato naturale, passare i pomeriggi fino a sera tarda nel parco vicino alla stazione, seduto su una panchina ad ascoltare i discorsi “da grandi” che i suoi compagni facevano nell’attesa di un cliente abituale, era altrettanto ovvio.

All’inizio fumava sigarette e non faceva nulla, né nessuno si aspettava qualcosa. Era stato dopo aver conosciuto Elena, che le cose erano cambiate. Un disastro poteva solo chiamarne un altro, così Ellie, dall’aspetto angelico di una salvatrice, lo aveva avvicinato, lo aveva illuso e gli aveva spezzato il cuore. Ritrovarsi così giovane invischiato in un rapporto che non sapeva gestire era stato troppo per lui, maman aveva avuto una ricaduta, il tumore era più grave che mai, Elena aveva scelto Simone, Sarah era troppo piccola per poter essere un supporto, Julian era il suo eroe, non voleva deluderlo.

Avrebbe solo voluto scappare, Davide era bravo ad evadere dalla realtà. Si era fatto la sua prima canna, poi era passato agli acidi, ai trip allucinanti che lo scollavano dalla vita vera. Il primo era stato terribile e gli aveva lasciato addosso un senso di disagio tanto soverchiante che si era convinto non avrebbe più provato dell’LSD, ma non era vero, ovviamente. Perché poi era andato da Elena, a pregarla, supplicarla di rimettere le cose a posto, e aveva scoperto che era tornata con Simone, esattamente il giorno successivo alla prima volta che aveva fatto l’amore con lui.

Allora aveva capito che la realtà non poteva sopportarla, che era una medicina troppo amara per qualcuno come lui, un debole, un incapace.

Troppo sicuro di sé per vedere la realtà, era rimasto impantanato anche fin troppo in quell’ambiente. Senza riflettere, quasi per automatismo, aveva iniziato a fare dei lavoretti per Nicolas dopo la scuola. Solo erba all’inizio, poi acidi.

Il primo passo di una routine che quasi non coglieva. Guadagnava bene, aveva sempre droghe di qualità sotto mano ed aveva la libertà di fare quello che desiderava senza dover dipendere da maman e darle alcuna spiegazione. Faceva parte di un gruppo, e non uno qualsiasi: era Il Gruppo, quello che tutti rispettavano, che guardavano con timore, che poteva fare qualunque cosa senza opposizione.

Questo era stare sotto l’ala di Nicolas, sotto la protezione di suo zio. Nico era al di sopra di tutti, finché aveva la sua famiglia. Stare accanto a lui permetteva di sperimentare uno stato di superiorità, di libertà, che gli era sempre stato sconosciuto, non era l’albino di merda, non era un sociopatico da sfottere, era quello che stava con Nico. Era qualcuno in un mare di nessuno.

Era l’albino della banda di Nicolas.

 

Per uno come me, tenuto all’angolo da tutta la vita, questa condizione valeva più di qualunque cosa, per questo ero ingenuo, per questo ero un idiota. Non sapevo ancora che ogni possibilità, ogni felicità ha un prezzo, una conseguenza.

 

Con il senno del poi era facile vedere l’errore, ma all’epoca voleva davvero, essere uno del gruppo, era disposto a qualunque compromesso, pur di non restare indietro.

 

 

 

 

 

«Dami, dove sei stato?»

 

Odiavo questa domanda

 

Era la prima cosa che si sentiva chiedere ogni volta che varcava la soglia di casa. Lui non rispondeva e allora Jenevieve iniziava ad urlargli contro.

All’epoca maman era ancora abbastanza presente da rendersi conto che le cose non stessero andando bene, ed i litigi pesanti si sprecavano ed erano all’ordine del giorno. Questo lo spingeva a restare fuori casa il più possibile e a rientrare quando sperava che Jen dormisse.

Socchiudeva piano la porta, l’attraversava quasi in punta di piedi, togliendosi le scarpe prima di entrare. Puntava dritto alla camera di Sarah, perché vederla dormire lo rilassava e in quel periodo la viveva sempre meno. Sua sorella era piccola, dolce, non sapeva riconoscere l’odore che si portava addosso, attaccato ai vestiti come un miasma; lei non lo capiva, cosa stesse facendo, lo amava incondizionatamente e basta.

A volte, Demian si bloccava, in corridoio, e lo stomaco si torceva al punto che gli veniva da vomitare, e non per ciò che aveva ingerito.

Sentiva maman piangere, chiusa in camera sua, e si appoggiava alla sua porta, rannicchiato con le mani tra i capelli e una muta disperazione, finché Jen non si addormentava. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva desiderato sfondarla, quella porta, e abbracciarla e piangere sulla sua spalla e pregarla di stare meglio. Maman era egoista però, soffriva da sola, di nascosto, non chiedeva conforto e non ne donava, semplicemente lo escludeva, come se la questione non lo riguardasse minimamente.

 

Allora come oggi, non mi ha mai dato uno straccio di speranza

 

Perciò non lo aveva mai fatto, restava sfibrato contro quel muro di legno ai suoi occhi impenetrabile.

 

 

 

 

«Demian, non puoi ignorarmi così, sono tua madre!» la voce disperata di maman era stata soffocata dalla porta di camera sua che si chiudeva. Sarah lo aveva fissato, piccola e fragile come non mai, rattrappita nell’angolo del suo lettino, con il fedele coniglio stretto tra le braccia.

Tratteneva le lacrime, piangeva tanto.

Demian aveva dato un giro di chiave proprio un attimo prima che maman tentasse di abbassare la maniglia, così Jenevieve aveva iniziato a tempestare la superficie di legno con i pugni, urlandogli contro.

«Apri immediatamente! Ti sto parlando Demian, non puoi comportarti così!» e poi con voce più acuta, furente «Apri questa maledetta porta!»

Sarah aveva iniziato a singhiozzare silenziosamente, si faceva scudo con Amber, spelacchiato per quanto ci si era aggrappata negli anni. A guardarla, qualcosa in lui si era rotto. L’aveva raggiunta in due falcate e si era inginocchiato davanti a lei, ma era incerto e non sapeva come sfiorarla.

 

Nel libro che maman mi leggeva quando ero piccolo, ad un tratto il protagonista diceva “Il paese delle lacrime è così misterioso”. Non avevo mai capito davvero cosa volesse dire, non fino a quel momento. Di fronte a Sarah, all’improvviso aveva assunto un senso, Sarah ha sempre dato senso a ogni cosa

 

Sembrava impossibile toccarla senza farle del male, un cristallo incrinato pronto a frantumarsi.

 

O forse in frantumi ci sarei andato io, se Sarah mi avesse rifiutato

 

Jenevieve non smetteva di urlare ed inveire.

Anche lei aveva iniziato a piangere, lo sapeva. Lo capiva, perché la voce di maman era dura come la pietra nel dolore, spietata e fredda, una sofferenza negata, ma nascondeva una lieve inflessione di cedimento, l’aveva sentita piangere troppe volte nella sua vita per non aver imparato a riconoscerla.

Era lui a farla piangere, non era mai stato diverso da suo padre.

«Sarah…»

Aveva sempre paura di perderla, un terrore così radicato che pensava spesso di esserci nato, con quel sentimento, anche quando Sarah ancora non era nata, un legame di anime che si trascinavano l’una con l’altra. Per questo, se sua sorella lo avesse allontanato, si sarebbe sentito smarrito come un uomo in mezzo al deserto, privo di punti di riferimento.

Sarah era il nord, la bussola, aveva bisogno di essere perdonato per ciò che stava facendo.

 

Perché se non lo avesse fatto lei, cosa mi sarebbe mai rimasto? Come mi sarei ritrovato?

Sarah era me quanto io stesso, è sempre stata la sua esistenza a dare un senso alla mia

 

Sarah aveva scostato il coniglio, gli aveva mostrato le guance screpolate di lacrime secche e occhi lucidi, un’immagine tanto pietosa da risultargli insostenibile.

«Perché maman è sempre arrabbiata con te?» la vocina era labile e tremula.

Salì sul letto, l’abbracciò stretta, tanto forte da temere di farle male.

 

Se solo avessimo potuto essere un tutt’uno. Se solo il tuo cuore funzionasse. Mi sarei annullato per te, se potessi mi annullerei

 

«Non devi preoccuparti di nulla, Sarah. Va tutto bene»

«Dami, apri la porta, ti prego» il tono di Jenevieve si era abbassato ad una supplica disperata.

«Perché non le apri?»

Sarah aveva gli stessi occhi di maman, grandi e dorati di un calore sconosciuto, era il suo sole sconsolato e triste, tremante.

O forse era stato lui a tremare, non ricordava.

«Adesso esco io» aveva sussurrato, le aveva accarezzato i capelli «Ma prima tu devi farmi una promessa»

Sua sorella aveva annuito subito «Se lo faccio non litigate più?»

Si era morso l’interno della guancia, aveva tentennato «Non ci sentirai più litigare» aveva mormorato alla fine, lo sguardo basso «Ma devi giurarmelo Sarah. È importante che tu lo faccia sempre»

La bambina aveva annuito seria, allora Demian si era alzato, aveva frugato nel secondo cassetto della sua scrivania dove teneva il Walkman e i CD, musica che sua sorella adorava: Roxette, Marillion, Scorpions.

Era tornato da lei, le aveva fatto indossare le cuffie

«Ogni volta che mi senti rientrare a casa, devi chiuderti in camera e ascoltare uno di questi. Al massimo volume»

Il corpicino aveva sussultato, si era rannicchiato dietro al peluche, uno scudo morbido e inutile che non era in grado di proteggerla dal dolore.

«Ma così…» sussurrò in un principio di pianto.

«Me l’hai promesso, Sarah. Te lo regalo, puoi prendere tutti i CD che vuoi. Lo so che ti piacciono, me li rubi sempre» le aveva scompigliato i capelli, un sorriso costipato «Te li regalo tutti. Farai questa cosa per me?»

Sarah aveva confermato con un lento, insicuro gesto del capo, stretta ad Amber come ne andasse della sua vita. Le aveva asciugato la guancia con un gesto ruvido del pollice, lì dove una lacrima le era sfuggita, poi l’aveva baciata sulla fronte prima di allontanarsi. Sulla porta, ad un passo dal girare la chiave, si era voltato a guardare ancora Sarah, con un groppo in gola.

«Fa’ come ti ho detto»

 

Non volevo che sentisse le cattiverie che ci saremmo detti. Non volevo che sapesse che potevo dire certe cose, nella disperazione. Non era per lei, era per me, perché non sopportavo ci fossero delle prove che dimostrassero che ero una bestia

 

Solo quando aveva sentito le note di You don’t understand me aveva avuto il coraggio di aprire.

 

 

 

Era diventata quella la consuetudine, per molto tempo.

Sarah ascoltava tantissima musica, ogni volta che sentiva la porta di casa aprirsi e maman rientrava. Demian la ritrovava completamente estraniata, con la musica al massimo nelle orecchie, anche quando il silenzio in casa era assoluto, perché non voleva più sentire. China su un foglio, disegnava, tanto, ogni giorno, quell’astrazione dalla realtà preoccupava Demian, che tuttavia la spingeva a separarsi da loro piuttosto che restare incastrata in una situazione familiare allo sbando. La salutava sempre con un bacio sulla fronte, ritornava che già dormiva, si sedeva accanto a lei.

Le cantava la sua ninna nanna preferita, quella che maman non cantava più.

Spesso, Sarah fingeva soltanto di dormire, teneva gli occhi chiusi, troppo chiusi per non essere scoperta, smascherata dalla sua ingenuità. Gli cercava la mano con la sua, come fosse casuale, ci si aggrappava con tutta la sua debole forza, e Demian si sentiva un cane.

Già allora, sapeva di starla abbandonando, e più questa consapevolezza lo opprimeva più fuggiva e la fuga lo portava da Nicolas e lo legava a lui. Sfogava il suo nervoso in costanti litigi, in bravate sempre più stravaganti, eccessive, e i lividi che collezionava non riusciva più nemmeno a contarli. Né gli importava, non erano mai abbastanza.

Al contempo riusciva a sentirsi incredibilmente fortunato all’improvviso, perché almeno nella progressiva disgregazione del suo nido materno, del porto sicuro, aveva trovato altro dalla propria famiglia, certezze più tangibili, più forti. Qualunque cosa fosse accaduta, non sarebbe rimasto solo, avrebbe avuto qualcuno a coprirgli le spalle, aveva un gruppo ora.

Così, quell’anno era trascorso in una strana sospensione, un equilibrio precario ai suoi occhi infrangibile, in bilico tra le droghe di uso quotidiano e una realtà tanto assurda, paradossale, da risultare troppo irreale per essere credibile.

L’equilibrio però si era infranto, a tradimento, proprio quando si era convinto che tutto sarebbe rimasto immobile come si sentiva lui. Era stato un giorno come un altro, ma era diventato quel giorno, quello in cui, rientrando a casa, aveva trovato la zia con una valigia.

Quello in cui, entrato in camera, aveva trovato Sarah rannicchiata nel letto, che piangeva.

 

Avevo pensato che fosse tutto sbagliato, che nessun bambino avrebbe mai dovuto piangere così, da solo

 

 

***

 

La mente indugiava spesso, a quei momenti, quando si ritrovava a fissare il vuoto, a tirare le somme. Nelle orecchie sentiva ancora la voce spezzata di sua madre sul cuscino, il duro e freddo legno contro la schiena. 

Un’angoscia inspiegata e opprimente gli accartocciò lo stomaco.

L’unica certezza che aveva era di non voler ricordare, eppure non riusciva nemmeno a dimenticare, si crogiolava e macerava nell’amarezza di un passato sbagliato, caricava di significato attimi che erano trascorsi senza particolare enfasi, mentre li aveva vissuti. Era quello il problema del guardarsi indietro invece di andare avanti, tutte le ombre passate si ingigantivano, diventavano più imponenti e soffocanti, allungavano i loro artigli sul presente e lo influenzavano: così ora soffriva di più per ciò che era stato di quanto non ne avesse sofferto all’epoca. Era ancorato ai ricordi con un’ostinazione che lui stesso non sapeva spiegarsi.

«Ehi Dem, chi era la ragazza di stamattina?»

Davide, con la bocca impastata e i suoi suoni strascicati, lo riportò alla realtà. Era sdraiato su una panchina e con lo sguardo vacuo vagava tra i rami scheletrici degli alberi e il cielo nero. Demian, seduto a terra con la schiena appoggiata alle assi di legno, rilasciò insieme al fumo una nuvola di condensa.

«Non so di che parli» replicò svogliato.

Aveva incredibilmente, ossessivamente fame. Fame chimica, si sarebbe mangiato senza dubbio il primo gatto sventurato che fosse passato di lì per errore, se avesse potuto.

«Perché cazzo ci dimentichiamo sempre di portare più cibo?» sbottò alterato, lanciando un sasso che fu repentinamente inghiottito dal buio, oltre il confine di luce segnato dal lampione.  Aveva fumato per rilassarsi e farsi meno seghe mentali, eppure non aveva funzionato: il suo Io filosofico, che riemergeva sempre tra una canna e l’altra per parlare di soluzioni futuristiche e utopistiche ai problemi del mondo, quella sera aveva deciso di non mostrarsi e addosso gli era rimasto solo malumore.

Dopo aver passato quel pomeriggio con Arianna, dopo averla baciata, per un momento si era illuso di voler essere diverso, migliore, di meritare un contesto migliore. Era stato uno sciocco pensiero morto sul nascere, aveva ricevuto un messaggio da Davide e raggiungerlo era stato scontato.

Avevano incontrato qualche cliente abituale, aveva scoperto che gli altri del gruppo sarebbero stati trattenuti fino all’indomani, questo aveva detto Dave, ma con tutti gli acidi che si faceva Dem non sapeva se fidarsi, il cervello se lo era bruciato prima ancora di conoscerlo.

Sfortunatamente si trovava nella stanza di detenzione di fronte alla sua, e lo spettacolino di quella mattina non gli era sfuggito.

«Peccato, era proprio una grandissima fig…» Demian lo colpì allo stomaco con un pugno, ad una velocità sorprendente, impedendogli di finire il suo gran poco lusinghiero commento.

«Non parlare di lei in questo modo» sibilò, mentre Davide soffocava tra colpi di tosse «Sei un coglione, potevi uccidermi!»

«Vedi di non dire niente su di lei e non accadrà più» ribadì.

Lo stomaco borbottava, chiuse gli occhi, il viso bello di Arianna riaffiorava, un modello plastico che si delineava da una macchia oscura. Sorrise di sé stesso, del proprio infantilismo. Credere ad un tratto di volere altro, di meritare altro, era davvero da sciocchi.

 

Sai cosa sei e cosa meriti.

Sai come sei arrivato qui, sai dove sei destinato ad andare.

È tutto semplice, è tutto qui. Non c’è altro nella vita, vivi di negazioni, puoi delinearti solo attraverso i “no”, sei composto di incertezze, di forse. La vita esiste, è un anelito potente, e immensa e soverchiante. È come il mare, scarno, allucinato, avvolgente.

Ma tu non puoi farne parte.

Puoi solo amarla e guardarla, da lontano.

Sei l’uomo sulla spiaggia.

Ne sei escluso, sei sempre stato a bordo campo a desiderare con un tormento esasperato l’esistenza, e quello sarà sempre il tuo posto.

Devi accettare di essere uno spettatore impotente.

 

«Cazzo. C’ho fame Dave, andiamo a comprare un panino. Sto morendo»

Per quella sera avevano finito, l’ultimo cliente era andato via da poco e non sarebbe più passato nessuno a cercarli, oltretutto aveva freddo.

«Allora la conosci…» bofonchiò imperterrito Davide «E comunque di un panino non me ne faccio niente, parola mia che svuoto le scorte del primo bar che trovo!»

Rotolò giù dalla panca con una goffaggine al limite del sopportabile, cadde a terra carponi e si risollevò sulle gambe magre, instabili. Con nonchalance si ripulì le ginocchia dalla polvere e si stiracchiò. Demian osservò tutto il procedimento con la solita perplessità che lo muoveva verso Davide.

«Me la presenti?» tentò di nuovo il punk dalla cresta afflosciata.

 

Ma cazzo, è una fissazione!

 

«È la mia ragazza» mentì «Guardala e ti cavo gli occhi»

Davide s’irrigidì, strabuzzò gli occhi arrossati dal fumo «Hai una ragazza?» esclamò con tale meraviglia che Demian se ne sentì irritato.

«Qualcosa in contrario? Devo rendere conto anche di questo?»

A tredici anni era stato cieco, sciocco, ingenuo.

Ora riusciva a vedere la trappola, la prigionia di quell’eccessiva libertà. Ora sapeva cosa Nico avesse desiderato da lui fin dall’inizio, aveva imparato che il disinteresse non esisteva. Nicolas voleva solo un braccio destro, un affidabile, fedele braccio destro, cresciuto e istruito nella sua ombra.

Voleva qualcuno di cui potersi fidare ciecamente.

 

E da stupido ragazzino, io mi sono servito su un piatto d’argento

 

«È per questo che sei sparito nell’ultimo periodo? Dovresti dirlo a Nico, sai?»

 

Certo, non vedo l’ora di condividere tutti i dettagli dei cazzi miei

 

«Vita privata ti dice niente?» borbottò avviandosi lungo la stradina acciottolata con quel disastro ambulante che quasi lo seguiva trotterellando, euforico per le sostanze assunte.

«Fa’ come ti pare, ma si incazzerà se saprà che non fai il tuo dovere per una ragazza. Non hai venduto granché questo mese, no? Rischi di non riuscire a pagarlo»

In silenzio si passò una mano sul viso, sfregò bruscamente la pelle e intrecciò le dita ai capelli, in un moto di disperazione.

 

Sarà un idiota, ma ha ragione. Mi toccherà fare qualche serata in discoteca per smerciare la roba il prima possibile, o con il cazzo che copro questo mese.

 

Il problema delle serate in discoteca era che finivano sempre male. Gli bastava ripensare alla sera precedente per tirare le somme del fallimento. Era stato così ubriaco che quando Dave aveva fatto partire la macchina di uno dei tizi con cui Alex stava litigando, Demian non se ne era reso conto. Certo, non fino a quando Nico non si era scontrato contro un muretto sfondando il muso dell’auto e facendogli tirare una testata fortissima al cruscotto. La rissa che ne era seguita con gli amici del proprietario era stata la conseguenza più prevedibile, ma erano ubriachi quanto loro e la situazione era drasticamente degenerata in un vero bagno di sangue, con una bottiglia rotta di contorno e qualche osso non più integro.

 

No, non posso sopportare due serate consecutive così, sono troppo anche per me

 

«Andiamo a casa di Nico, sono stanco morto» tagliò corto.

 

Ai soldi ci penserò domani

Si erano fermati a fare scorte di viveri prima di avviarsi nel buco che Nicolas osava definire appartamento: un’abitazione abusiva ai piedi di una palazzina di periferia, senza portinaio, l’ascensore rotto e una piccola scalinata interrata che conduceva all’ingresso di casa sua, separato da quello ufficiale. Cinque piani di appartamenti di cemento che ricordavano una scatola informe e degradata. Saltando i gradini a due a due Demian aprì la porticina che rispose con un cigolio sommesso.

Non riusciva a smettere di pensare a Nico, al passato, alla sua momentanea situazione, al debito.

 

La verità è che sono già fottuto. Devo compiere sedici anni e sono già fottuto, Nicolas ha incastrato anche me, sono più fregato di questa manica di drogati.

 

E la sua fregatura era banalmente l’affetto, Nico lo aveva incastrato con l’affetto. Anche con la consapevolezza di essere stato usato, Demian non poteva esimersi dal volergli bene, la sua parte più irrazionale continuava a vedere in Nicolas la fuga, la mano protesa in un aiuto, uno scudo dal mondo. Era ciò che era perché Nicolas gli aveva coperto le spalle.

 

E quindi eccola, la verità, mediocre e ovvia. Gli sono più fedele di chiunque altro, proprio come aveva previsto. Farei qualunque cosa per lui, più di chiunque altro. Se mi chiedesse di sbarazzarmi di un corpo, lo farei. Per lui lo farei.

 

La sua era pura gratitudine, autentica, perché in fondo Nicolas, l’incarnazione del diavolo, era stato l’unico a dargli un posto a cui poter fare ritorno.

                                                                                                             

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Capitolo 20
*** Normalità, quasi ***


À Demian

Capitolo diciottesimo

Normalità, quasi

Gli occhi bruciavano e la guancia formicolava, la medesima impressione di un arto addormentato sotto un peso eccessivo. Demian rotolò sulla pancia e infossò il volto nel cuscino, ci sprofondò dentro con una certa soddisfazione e ci si sfregò contro come un gatto indolente, facendo le fusa.

Era a pezzi, nonostante la dormita moriva ancora di sonno, gli sembrava che ogni arto fosse dislocato, staccato dal suo corpo, rifiutava categoricamente di alzarsi solo perché uno stupido e dispettoso raggio di sole era riuscito in qualche modo a penetrare le imposte per andare a sbattere contro la sua faccia.

Stava per riaddormentarsi quando, con suo disappunto, sentì che la coperta gli veniva lentamente sottratta. Arrancando a tastoni e occhi chiusi ne afferrò un lembo e tentò malamente di ricoprirsi.

Più tirava più quella però opponeva resistenza.

L’irritazione cresceva, ma era ancora troppo deciso a non rimuovere la faccia dal cuscino per ragione alcuna, anche se questo implicava la perdita del piumino con quel freddo.

Lasciò perdere la coperta che gli venne rapidamente tolta del tutto e si rannicchiò con le ginocchia al petto, in posizione fetale, per cercare di scaldarsi il più possibile. Quella casa, sfortunatamente, era una ghiacciaia, non avere l’abitabilità e un sistema di riscaldamento non era un problema per Nicolas, che sembrava sopravvivere di se stesso, ma inficiava tutti gli altri. Spilli di gelo iniziarono a penetrargli nei vestiti con spietata precisione, acuiti dall’eccessiva umidità, fino a quando, esasperato, Demian si mise a sedere con un’imprecazione soffiata a denti stretti.

Il divano sgangherato della saletta era duro e pieno di bozzi, Dave dormiva a terra, sul tappeto lurido, avvolto nel suo piumino come in un bozzo. La televisione ancora accesa trasmetteva programmi del mattino, i cartoni che guadava con sua sorella durante la colazione. In quel momento andava in onda Lady Oscar e questo gli permise di stimare, con una certa disperazione, che dovevano essere circa le sette e mezza del mattino.

 

Come diavolo sono riuscito a svegliarmi così presto?

 

Incenerì con la sua occhiata più ostile l’imposta incriminata, rotta e impossibile da chiudere del tutto.

 

È colpa tua, se anche oggi non dormirò un cazzo e sembrerò uno zombie strafatto più del solito

 

Barcollando, avvolto da un intontimento in crescendo, scavalcò il cumulo di coperte e cuscini che dovevano celare Davide, da qualche parte, e attraversò il corridoio per raggiungere quel tentativo di cucina che era la rimessa. La casa di Nicolas era fatiscente, bastava entrare per capire che il proprietario di pulizie e manutenzione non se ne preoccupava. Dominava il puzzo di fumo, aria viziata e vomito, una commistione di odori che prendevano alla gola. I mobili erano pochi e spaiati, in uno stato di usura tale da provocare disagio. Il cucinino era costituito da un mobile a cassettoni su cui poggiava un vecchio fornelletto da campeggio. Una piccola credenza e due scaffali di metallo con scorte di conserve in scatola completavano il quadro desolante, insieme ad un frigo in miniatura. Quando Dem iniziò a frugare nei vari scomparti, alla ricerca di cibo, per poco un’anta non gli rimase in mano. Fissò l’oggetto con sgomento qualche istante, il fiato trattenuto che veniva liberato in un sospiro di rassegnazione.

 

È già tanto che i mobili ci siano ancora

 

I drogati avevano il vizio di venderli per farsi una dose in più, in genere, ma effettivamente Nico non aveva bisogno di arrivare a tanto per un grammo, aveva così tanti soldi che quella casa malmessa a conti fatti sarebbe risultata inspiegabile, se Demian non avesse scoperto tempo prima che veniva usato come piccolo deposito di partite di droga dallo zio. Dopo aver controllato ogni anfratto e aver verificato che di viveri non ne avrebbe trovati nemmeno per errore, salvo piselli e carotine Bonduelle, valutò il frigo stipato di birre con una certa tentazione.

 

Forse cominciare a bere a quest’ora è troppo anche per me, valutò richiudendo lo sportello con un certo rammarico. Rinunciato alla birra, decise di uscire per procacciarsi la colazione, perché Davide russava troppo e ad ogni rumore di bocca corrispondeva, in maniera imbarazzante, un peto. La sala era una camera a gas.

Si rifugiò in bagno, giusto per gettarsi un po’ d’acqua gelida sul volto e non uscire di casa con l’aria stordita da pessimo elemento – che comunque non riuscì a eliminare grazie alle occhiaie profonde –, indossò lo zuccotto nero ed il cappuccio e abbandonò rapidamente l’abitazione. Ad occhi bassi, potè solo appoggiare il piede sul primo gradino che per poco non rischiò di essere travolto da una ragazza. Riuscì ad aggrapparsi al corrimano di ferro arrugginito appena in tempo per fermare il clamoroso ruzzolone di entrambi grazie al gridolino d’allarme che le era sfuggito.

L’impropero gli morì in gola di fronte agli occhioni da cerbiatta spaurita di lei.

 

Cazzo, ho rischiato grosso

 

Nicolas lo proteggeva, ma fosse successo qualcosa a lei in sua presenza, gliel’avrebbe fatta pagare con una cattiveria che Demian non voleva nemmeno immaginare. Le avesse torto la più inutile doppia punta sarebbe morto male.

«Oddio, Demian! Sei tu! Mi hai spaventata a morte!» esclamò con la mano sul cuore e le guance sgargiantemente arrossate. Aveva i capelli rossi raccolti nella solita treccia severa, gli occhiali a coprire il mare di lentiggini spruzzate sul naso; il volto a cuore, senza la minima traccia di trucco, illuminato dal sollievo, il maglione a collo alto, sformato, beige, e la gonna lunga che la faceva sembrare ancora più piccola della sua piccola altezza.

Restava sempre un metro e un tappo di rigore e diligenza, era questo che pensava di lei.

Arrangiò subito un sorriso di cortesia velato d’urgenza.

«Ciao Lisa, come mai già sveglia?»

Era un tacito e comune accordo essere gentili e disponibili con lei, una questione di sopravvivenza. Per qualche strana congiunzione astrale, Lisa era un’amica d’infanzia di Nicolas oltre che vicina di casa. Nico parlava sempre di lei con una dolcezza estraniante alla sua figura, la adorava e provava per lei un rispetto ed un affetto che Demian non gli aveva mai visto riservare a nessuno. A volte, aveva pensato che a modo suo, un modo distorto dalla sua percezione instabile della vita, Nicolas la amasse, però poi lo vedeva trastullarsi con molte ragazze senza mai considerare Lys oltre l’aspetto emotivo, e quindi non ne era più stato tanto sicuro.

 

Probabilmente, rappresenta semplicemente l’ultimo frammento di famiglia che gli resta, l’ultimo brandello di un’umanità scialacquata nella violenza. D’altro canto, Lisa lo adora, tra un rimprovero e un sorriso ha per lui la stessa indulgenza di una madre

 

 Lisa mostrò timidamente il sacchettino che stringeva tra le mani e abbozzò un sorrisino imbarazzato.

«Stavo portando la colazione a Niki» mormorò, le guance rubiconde.

 

Solo lei può chiamare un instabile, violento, sadico ed insensibile spacciatore “Niki”, con un simile candore

 

«L’ho sentito rientrare stanotte. Non sapevo ci fosse anche tu, non ti ho portato nulla» si scusò, diventando se possibile ancora più rossa.

In difficoltà, Demian scosse la testa «Ci siamo solo io e Dave. Nico… beh, diciamo che non c’è»

La delusione si dipinse negli occhi grigi della ragazza, una sfumatura metallica simile all’argento, ma subito tentò di dissimularla.

«Sai dove ha passato la notte?» domandò a voce tanto labile che Demian stentò a capirla.

 

Come glielo dico che il suo adorabile “Niki”, puro e candido amichetto d’infanzia, è in stato di fermo in attesa del giudice?

 

Non c’erano problemi, probabilmente suo zio era già intervenuto insieme ai suoi avvocati ben retribuiti per farlo uscire pulito da qualunque faccenda, un grande classico.

 

Il problema è Lisa, odio rifilarle certe sciocchezze, la feriscono

 

Prese una grande boccata di ossigeno «È rimasto da una sua amica» mentì, imbastendo la più banale ed efficace delle scuse. Lisa divenne mortalmente pallida, le efelidi sembravano più scure e definite, una manciata di semi in campo bianco. La ragazza accennò ancora un sorriso compassato.

«Il solito Don Giovanni» constatò guardandolo negli occhi con una tale intensità che, per un istante, Demian pensò che la sua ingenua menzogna fosse stata smascherata, che lei sapesse fosse una bugia bella e buona, la balla che tutti le propinavano quando Nicolas spariva.

«Hai lezione ora?»

Lisa scosse la testa «Solo nel pomeriggio oggi»

Demian le porse cavallerescamente un braccio, da bravo gentleman, e sperò di non puzzare tanto da risultare sgradevole «Allora ti offro io la colazione, visto che Nico non c’è»

Lys esitò un istante, poi schiuse le labbra in un sorriso più sincero e tremendamente imbarazzato e si affrancò a lui con la delicatezza di un uccellino.

 

Fosse stata Annie, il braccio me lo avrebbe staccato

 

Il confronto immediato era stato spontaneo. Lisa non era così, non era irruente ma discreta, quasi anonima, un’apparenza fragile che celava una volontà d’acciaio. Era grazie a quella sua volontà che era riuscita a diventare tanto cara a Nicolas e a restare, nonostante tutto, l’unica persona di cui il mostro si fidasse e a cui avrebbe dato tutto. Andava all’università, studiava per diventare farmacista come sua madre per ereditare l’attività di famiglia: s’impegnava con tanta dedizione da provocare disagio a volte, perché chiunque accanto a lei si sentiva inetto e svogliato. Capitava che la trovassero a casa di Nico, di tanto in tanto, seduta al suo tavolo con una biro incastrata dietro l’orecchio, l’evidenziatore nella mano e un libro davanti a sé da cui non distoglieva lo sguardo un solo istante, con Nicolas sempre lì accanto che non faceva altro che ingurgitare caffè. A vederla, d’improvviso veniva quasi voglia anche a loro di tirarsi insieme, di decidersi a riprendere in mano i libri per combinare qualcosa, perché fatto da lei sembrava davvero avere un senso.

Una specie di Beatrice dantesca, di donna angelo che ammansiva anche l’animo più brutale con la sua timidezza e i suoi saluti appena accennati.

Fuori da quel complesso di cemento soffocante l’aria era frizzante, corroborante, limpida come dopo una nevicata e con il medesimo profumo impresso sulle cose. Demian riempì i polmoni più che poté prima di espirare: insieme all’anidride carbonica si sentiva svuotato di un grande peso che aveva premuto per tutta la notte sempre lì, sulla bocca dello stomaco, causandogli un malessere costante di cui ormai stentava ad accorgersi, tanto sapeva essere spaventosa l’abitudine.

Quando il male diventa abitudine, è la fine, vero?

 

Le pensiline erano gremite di studenti in attesa dell’autobus, Demian si ritrovò a osservarli e si rese conto con sgomento, una rivelazione assurda per quanto fosse scontata, che anche lui avrebbe dovuto essere lì, con loro. Eppure, nulla gli era mai parso tanto distante, era come guardarli dall’altro lato dello specchio, quasi non erano reali ma un’imitazione di quotidianità cinematografica.

 

Sembrano così piccoli… e spensierati

 

Cercò di immedesimarsi, per un attimo, pensò che avrebbe potuto essere uno qualunque di quelle persone, che avrebbe potuto ridere liberamente, con le spalle doloranti, lamentandosi di una verifica, disperandosi per un quattro irrecuperabile ancora da confessare a sua madre.

 

… maman

 

L’aveva pensata tutta la sera, l’aveva sognata quella notte, aveva bevuto fino allo svenimento, solo per dimenticarla.

Non era riuscito a cancellare il suono della sua voce rotta dal pianto. Non era riuscito a non pensare a Sarah, a mettere da parte quell’orribile giorno in cui gliel’avevano portata via e aveva lasciato casa. Nella sua testa, quello era stato il punto di non ritorno, l’inizio della fine.

Il segno definitivo che avrebbe perso maman.

Lisa stava seguendo il suo sguardo smarrito in quel mare di ragazzi.

«Demi, quanti anni hai?»

Demian sussultò, gli occhi di Lys erano espressivi, da cerbiatta, pensò che forse era la prima volta che la guardava davvero.

 

È bella, a modo suo

 

Certo, avrebbe potuto esserlo di più se non si fosse vestita da suora di clausura, se si fosse sciolta quella severa treccia che le induriva il viso e avesse lasciato anche solo immaginare che, sotto quei vestiti informi, un corpo c’era.

Ma era bella nonostante questo. Perché lo si percepiva subito, che era dotata di una sua gentilezza, di una sua delicatezza interiore, un’eleganza che nulla, neanche gli occhiali troppo grandi che le nascondevano il viso, poteva celare.

«Sedici tra due settimane» stirò un sorriso fiacco.

Non era come sorridere ad Annie, non dava quel senso di pace assoluta, come trovarsi all’improvviso in un luogo silenzioso e tranquillo, all’ombra, con una brezza leggera a stemperare l’ansia. Ma Annie forse era semplicemente Annie.

 

Dubito che possa esistere realmente qualcun altro come lei.

 

Lisa ponderò qualcosa per un momento e, preso il coraggio, domandò più risoluta «Non dovresti andare a scuola?»

 

Dovrei.

So davvero che dovrei, ma non so come fare.

Mi sembra sempre di cercare di tornare in un posto che era mio, ma che ora non mi appartiene più.

Sono estraneo lì dentro.

Sto male, per questo straniamento. Adesso avrei voglia solo di vedere Arianna, non so nemmeno il perché. In realtà non ho neanche il coraggio di incontrarla di nuovo. Non dopo ieri sera. Non posso cambiare, è evidente, nemmeno per lei, nemmeno se lo volessi. Mi detesto, perché per qualcuno come lei vorrei farlo davvero, per Sarah vorrei farlo davvero.

So solo ferirli, ma non sopporto di fargli del male.

 

«C’è l’assemblea di classe» improvvisò senza alcuno sforzo. Mentiva così tanto e così spesso, ogni giorno, da essersi ormai trasformato in un bugiardo patentato senza speranza di redenzione. Mentire era e la prima e più grande prerogativa di un drogato, a riprova che ci navigava dentro fino al collo, in quell’ambiente.

Lys gli sorrise, una sfumatura di condiscendenza.

Erano entrati nel bar dall’altro lato della strada, Lisa si allontanò con delicatezza da lui per potersi accomodare al tavolino traballante che aveva scelto. Rimase fermo a fissarla ancora, seduta con le mani in grembo e la schiena rigida, uno strano e nobile animale.

 

Che stupido che sei, Nico!

Non fa altro che prendersi cura di te, preoccuparsi per te, e in cambio riceve solo ferite!

Possibile che nemmeno per lei puoi farcela, a essere migliore?

 

Un sudore freddo gli ghiacciò la schiena, ansia congestionata.

Paura.

Paura, in fondo, di non essere diverso dall’amico, non sarebbe stato migliore. Arianna era bella e buona, era l’incarnazione dell’arcaico valore assoluto di bellezza sublime donata ai mortali dagli dei, nel senso più complesso della sua valenza, per la raccolta di virtù che raccoglieva, e lui non era in grado di avvicinarcisi senza farle del male. Con il suo egoistico autolesionismo l’avrebbe ferita.

 

Perché si fa sempre male alle persone che ci amano quando non amiamo abbastanza noi stessi. L’amore è distruttivo. Essere amato da lei la distruggerà… mi distruggerà.

 

«Demi, non ti siedi?»

 «Certo, scusa. Mi sono incantato»

«Ti sei medicato appropriatamente?»

Demian si accigliò, mormorò distrattamente «Come?»

«Il tuo viso, Demi. Il taglio sul sopracciglio sta facendo infezione. Ti sei medicato?»

Si portò sovrappensiero una mano alla fronte, tastò appena la pelle, gli sfuggì una smorfia.

«Non proprio»

 

Non ne ho avuto il tempo, nemmeno ci ho pensato

 

«E scommetto che non è l’unica ferita che hai» constatò con una calma chirurgica, come fosse fin troppo abituata a fare simili osservazioni. E probabilmente era così, Nico era il caso perso per eccellenza.

 

Chissà quante volte, da ragazzino, le è arrivato a casa malconcio

 

La cameriera giunse a prendere le ordinazioni e mentre Demian si limitava ad un cappuccino, Lisa prese un caffè ed una brioche.

«Non ti facevo tipa da caffè, è amaro. Stride un po’ con la tua personalità»

Lisa ridacchiò, lo sguardo basso, intimidito avrebbe detto, non avesse saputo che non era poi tanto timida «È questo che pensate? Che sia tutta zucchero e miele?» lo osservò da sotto le lunghe ciglia con una punta di malizia.

Demian si morse l’interno della guancia, ci rifletté seriamente «No, direi di no. Sopporti Nico, non l’hai ancora picchiato nonostante la voglia di ammazzarlo debba essere davvero forte… e stai facendo colazione con me» sollevò l’angolo destro della bocca in un ghigno ironico «Naaah, non funzioni proprio, come damigella indifesa!»

«In verità il caffè non mi piace neanche un po’, ma da quando ho iniziato l’università ne bevo a litri. Quando studi tutto il giorno e cerchi un modo per poter resistere al sonno, il caffè diventa una droga!»

Alla sola idea di “studiare tutto il giorno”, Demian piegò la bocca in una smorfia contrariata che la fece ridacchiare. Lisa scosse piano la testa, a scacciare l’ilarità per bilanciarla subito con un rimprovero «Dovresti andare a scuola»

Questa volta lo affermò con una certa sicurezza.

Le mani nascoste dai guanti tagliati sulle dita, strette tenacemente intorno alla tazza, Demian si concentrò sulla macchia di crema del cappuccio che galleggiava nel liquido scuro.

«Non sono come te»

«No, decisamente no. E forse è meglio, non ti ci vedo rosso e con le lentiggini. Sei come te stesso, e non è così male» tacque un attimo di più, si guardò le mani ed abbozzò un sorriso un poco triste «Sai» gli confidò «Sono contenta che tra tutti, ci sia tu con Niki. Lo so, è uno scapestrato senza speranza, per non dire di peggio… ma lo conosco da sempre, non è solo colpa sua. So anche che non posso redimerlo, ma gli voglio bene. E tu sei pulito Dami, sei la persona più limpida vicino a lui, sono più tranquilla da quando ci sei»

Demian si sentì smarrito. Sollevò su di lei due occhi grandi di sorpresa, incapace di rispondere.

Lisa non ricambiava, era distratta, fissava qualcosa d’impreciso oltre la sua spalla, al di là della vetrata, sulla strada, ed era incredibilmente rilassata.

«Immagino che nel vostro mondo nel mondo, cose come lealtà e amicizia siano molto relative. Ma Niki ti stima davvero, anzi, ti adora. Gli ricordi Chris… non me lo ha mai detto, ma so che è così perché lo ricordi anche a me. Era un bravo bambino, come te. Introverso e timido. Debole. I compagni se la prendevano sempre con lui»

 

Come fa a saperlo?

Quante cosa sa Lys? E quante gliene ha dette Nico? Quante sono sue speculazioni?

 

«Niki ti vuole bene, quindi sono contenta. Ma tu hai solo sedici anni, Demi. Non rovinarti la vita, neanche per lui. Nicolas ha fatto le sue scelte, rimarrò sempre io per non lasciarlo solo. Ma anche se sono contenta che sei qui, tirati fuori da tutto questo, non è ancora troppo tardi»

 

Non sarebbe troppo tardi per me?

 

Lisa non lo vedeva, che si era bruciato, che lui e Nicolas avevano in comune più di quanto avrebbe preferito ammettere.

«Pulvis et umbra sumus» mormorò, lo sguardo ancorato alla tazza da cui non aveva ancora bevuto un solo sorso «Ci sono persone che non meritano niente, sono solo ombre che camminano. La nostra vita “è un’ombra che cammina, una favola raccontata da un idiota, piena di strepito e furore, che non significa niente”»

Lisa inclinò appena la testa e sorrise teneramente «Shakespeare» constatò, poi scrollò le spalle «Ti piace leggere, eh? Niki me lo aveva detto, che sei un letterato capitato lì per errore»

 

Capitato lì per errore? È questo che dice?

Che bugiardo, è stato lui a volermi, è stato lui a desiderare qualcuno destinato a diventare il suo braccio destro, qualcuno di cui potersi fidare.

Non si può proprio dire che io sia capitato qui per errore

 

E comunque non gli riusciva di farne una colpa, a quel ragazzo, alla fine non fosse stato per Nicolas avrebbe semplicemente rimandato ancora di poco l’inevitabile: era solo questione di tempo, ma la sua vita era destinata a prendere una piega disastrosa comunque, a scivolare sul versante delle risse e delle droghe.

 

Per persone come me non c’è altro destino che questo

 

Lisa mangiava compostamente la sua brioche alla marmellata, senza sporcarsi le dita, senza lasciar cadere nemmeno una briciola. Una principessina perfettamente educata nata in periferia, metodica persino nello sbocconcellare qualcosa. Riusciva a farlo con una naturalezza tale da non far sentire inetto chi gli stava accanto.

«Se vuoi ti dò un passaggio» bisbigliò arrossendo, forse sentendo la propria proposta invadente.

 

Eccola, invincibile e timida, che combinazione paradossale

 

«Le lezioni con le assemblee erano divertenti. Nella mia classe ricordo che si faceva sempre un baccano allucinante, eravamo la disperazione degli insegnanti!»

A Demian sfuggì un ghigno «Non ti ci vedo proprio in versione ribelle. Scommetto che tu eri la ragazzina carina nell’angolo della classe, che cercava di leggere leziosamente un libro!»

Lisa aprì la bocca per rispondere, ma fu interrotta da un «Non credo proprio!» accompagnato da una risata intrisa di scherno.

Due braccia la strinsero da dietro mentre Nico si appoggiava con il mento sulla spalla della ragazza, con quella piega della bocca provocatrice che si ostinava a chiamare sorriso, incisa a forza nella pelle.

«Ce ne hai messo di tempo. Che staresti insinuando?» lo istigò Lisa, inarcando un sopracciglio.

«Che non eri carina, tanto meno leziosa!» Alzò gli occhi su di lui, Demian rimaneva sempre basito dal cambiamento che sfigurava Nicolas quando c’era lei «È stata la capoclasse più terribile della storia, la chiamavamo “la dittatrice”. Hitler sarebbe impallidito!»

Al ricordo si lasciò andare ad una risata stranamente genuina, mentre si staccava da lei per stravaccarsi malamente sull’ultima sedia vuota del tavolo «Pensa» riprese nostalgico «Che in classe l’avevamo eletta perché sembrava la più innocua. Pensavano tutti di scaricarle addosso ogni responsabilità, ci siamo detti “con lei possiamo fare quello che vogliamo”»

Lisa si risentì «Mi avevano provocato!» protestò arrossendo fino alla radice dei capelli ancora più rossi «Io sarei stata più docile se loro…»

«Lys, tesoro, gli insegnanti erano terrorizzati da te! Ti ricordi quando litigavi per gli articoli che volevi pubblicare sul giornalino della scuola? Se la vicepreside ti vedeva avanzare verso di lei in corridoio cambiava direzione, pur di non incrociarti!»

Demian sgranò gli occhi per la sorpresa e si ritrovò a ridere «Seriamente? Lisa? La nostra Lys?»

«La mia» puntualizzò Nicolas, severo.

«La Lisa di se stessa» chiarì invece lei, con un’occhiataccia ammonitrice al suo amico d’infanzia «Tua sarà senz’altro la conturbante meretrice con cui hai trascorso la notte»

Nicolas, preso in contropiede, si accigliò: Demian riusciva tranquillamente a immaginare gli ingranaggi di quel cervelletto provato, incepparsi nella perplessità.

«Conturbante meretrice?» si volse verso di lui con una domanda impressa negli occhi fangosi e Demian provò una profonda mortificazione. Sembrava gli stesse urlando contro mentalmente “Non potevi trovare un’altra scusa?”.

«Ho già scordato il suo nome» si riprese prontamente con un ghigno strafottente che convinceva poco.

«È già tanto se ricordi il tuo dopo quello che fai tutte le sere» lo rimbeccò lei, ed il sorriso appena accennato celava una nota dolente che provocava una grande tenerezza.

Demian vedeva in lei una dolcezza struggente che cercava di proteggersi, di fronte a tanta forza, una forza che aveva visto e riconosciuto solo nelle donne, come traessero dalle proprie fragilità un senso. Sentì l’urgenza di rivedere Arianna, perché si era già pentito di ciò che aveva fatto, si era pentito di aver pensato che non potesse valere abbastanza. Avrebbe voluto baciarla, baciarle ogni centimetro di viso, soprattutto il suo naso, quel naso buffo e irriverente leggermente rivolto verso l’alto in una sfida. Voleva essere in grado di prometterle che non l’avrebbe ferita, che non sarebbe stato come Nicolas, perché li vedeva chiaramente gli errori dell’amico e non voleva rifarli su una persona candida come Annie, caparbia di una caparbietà che l’avrebbe annientata, se lui per primo non si fosse regolato.

«Il mio posso anche dimenticarlo, l’importante Lys, è che non scordi il tuo» Nico le sorrise quasi con dolcezza, ma fu solo un istante «Perché parlavate di scuola, comunque?»

«Perché Demi dovrebbe andarci, Niki. Ha sedici anni, non può stare in giro tutto il giorno a gozzovigliare con uno svogliato come te!» disse seria, rimproverandolo con ogni singolo gesto del suo corpo, tanto che Nicolas dovette alzare le mani in segno di resa.

«Ok, ok, tutto chiaro. Alzati e vai a renderti umano, Dem, ti dò un passaggio»

Demian boccheggiò, incredulo.

 

È uno scherzo, vero?

 

«Ma… sei serio?»

Nicolas sollevò gli occhi al soffitto «Hai sentito la mia Signora. Ogni suo desiderio è un ordine»

Lisa sorrideva trionfante, ora perfino più rossa dei suoi capelli.

 

***

 

 

Avevano fatto deviazione e lo avevano portato a casa sua. C’era voluto parecchio, per il traffico mattutino e perché il paesino in cui abitava distava una quindicina di chilometri dal centro, ma Nicolas era stato irremovibile.

Aveva raccattato lo zaino e ne aveva approfittato per “rendersi umano”, alla detta di Nico, ovvero si era lavato per non puzzare più come un barbone della stazione. Gli doleva ancora il costato, il volto non era più gonfio ma restava contuso e ammaccato peggio della macchina che avevano fatto schiantare contro il muro la sera prima. Alcuni tagli stavano facendo infezione, erano ponfi dai bordi slabbrati e sanguigni. Avrebbe voluto solo buttarsi nel letto, eppure quei due strani esseri lo stavano aspettando in macchina come due genitori apprensivi.

Quasi, gli strappavano un po’ di buon umore.

 

Insomma, vedere Lys che addomestica Nicolas è sempre uno spasso

 

Prima di uscire diede da mangiare a Lalami e si annotò di ringraziare Julian appena ne avesse avuto l’occasione, o Claire, perché era evidente che uno dei due fosse passato a pulire e avesse rimediato alla sua negligenza, impedendo alla cucciola di morire di fame.

 

Sei un padrone idiota e sconsiderato

 

«Ohi, ce ne hai messo di tempo! Cos’è, ti sei fatto il bagno con i Sali profumati?» lo apostrofò Nicolas, mettendo in moto il motore della macchina.

«Anche fosse, è comunque più sconvolgente che tu sappia cosa siano, dei Sali da bagno!» rise Lisa, la bocca coperta d’istinto con la mano.

Demian era abituato a partire la mattina presto in motorino, fu contento di ricevere un passaggio perché iniziava veramente a fare troppo freddo e il giubbino e i guanti non erano più d’aiuto.

 

Ancora qualche giorno e mi toccherà fare l’abbonamento dell’autobus, se non voglio finire assiderato

 

«Fai l’artistico, Demi? Non lo sapevo. Per tutte le citazioni che fai ti credevo uno studente da Classico» commentò Lisa, che aveva appena notato l’enorme cartelletta rossa che si portava appresso e conteneva tutti i lavori iniziati in classe, ovviamente mai conclusi.

«È anche bravo» aggiunse Nicolas, voltandosi appena a guardarlo «Anche se ha sempre un cazzo di libro in mano»

Lisa lo colpì prontamente con un buffetto alla testa, preciso e metodico «Voltati. Guarda la strada. E rallenta!» lo rimproverò colorandosi nuovamente di rosso «Se mi accade qualcosa perché tu vai troppo veloce non ti perdonerò!»

Nicolas sbuffò, ma nonostante la ritrosia ridusse drasticamente la velocità e, miracolosamente, si fermò davanti al semaforo rosso. Tutto questo senza imprecare neanche una volta, anche se gli si leggeva tranquillamente in viso quanto desiderasse farlo.

 

Dio, le donne hanno un potere spaventoso, ha ragione Julian!

 

«E comunque non lo sai, se sono bravo» si ritrovò a protestare, in maniera quasi infantile «Non hai mai visto i miei lavori»

«Stronzate!» Lisa lo ammonì con lo sguardo e Nico corresse il tiro «Ok, sciocchezze! Disegni costantemente, non ti si può lasciare una biro in mano, scarabocchi ovunque. Anche sul tavolo della mia cucina!»

 

Se ne è accorto? Nicolas è il tipo di persona che presta attenzione a certe cose?

Potrei quasi pensare che gli importi

 

Ed era da tempo ormai, che era sceso a patti con se stesso e aveva smesso di credere in sottintesi che con quel ragazzo non avevano valore.

«Cucina è un parolone per quel buco» sottolineò invece «Stamattina per poco non mi è rimasta in mano un’anta!»

Discretamente, per non farsi notare da Lisa, Nico gli mostrò il medio accompagnato da un sorriso strafottente attraverso lo specchietto retrovisore «Sbaglio, Lemaire, o oggi sei particolarmente eloquente?»

«Sbaglio o oggi sei più gentile del solito, Niki?»

Nicolas perse strati di colori per lo shock, Lisa scoppiò a ridere «Uno a zero, palla al centro!» dichiarò, dando di gomito al suo migliore amico, che sibilò «È rimasto con te dieci minuti, Cristo, solo dieci minuti! E me lo hai già rovinato. Non l’ho mai sentito parlare così tanto e lo conosco da tre anni. Sei tremenda Lys!»

 

Cavolo, ha ragione

 

Da quando aveva compreso in cosa si era cacciato, aveva limitato le sue interazioni al minimo, non aveva mai parlato così spontaneamente se non per discutere con Teo. Di certo, non aveva mai osato provocare Nicolas! Ed il problema non era Lisa, il problema era Arianna, era come si era sentito stando con lei: come vedere un buco nella rete, uno squarcio nel muro. Assistere all’apparizione miracolosa di un fantasma. E allora, con quel senso di possibilità improvvisa, di mondo spalancato, si era acceso in lui un barlume.

Un barlume simile a quello che Nicolas gli aveva stretto tra le mani anni prima, l’idea improvvisa e soverchiante di una scelta.

Nicolas parcheggiò proprio di fronte all’entrata deserta della scuola e Demian balzò fuori con un saluto frettoloso, a disagio. Mentre si allontanava, in uno strano stato sospeso, vagamente comatoso, con l’energia e la voglia di vivere di una patella affrancata al suo scoglio, li vide ricominciare a bisticciare.

Nicolas aveva un sorriso più buono, forse avrebbe potuto esserlo, più buono, se ce ne fosse stata l’occasione.

Sollevò il cappuccio e s’infilò le cuffiette dell’Mp3, per isolarsi il più possibile dagli sguardi dei bidelli e degli studenti che girovagavano come anime in pena durante il cambio dell’ora. Raggiunse il banco della segreteria e compilò silenziosamente il documento della giustificazione provvisoria, senza che la bidella dicesse nulla. Lo conosceva e sapeva perfettamente che tentare di parlargli era inutile: non le avrebbe risposto, nei migliori dei casi si limitava a mugugnare qualcosa d’incomprensibile.

Ripose la penna e raggiunse l’ufficio del vicepreside per farsi firmare, da prassi, il permesso di rientrare a lezione anche senza la firma di sua madre.

Anche quello stupido vecchietto, il Professor Vezzoli, insegnate d’inglese fortunatamente non nella sua sezione, era abituato a vederlo entrare agli orari più disparati e ormai aveva rinunciato a qualunque paternale. Lo accoglieva, firmava e lo spediva in classe, negli occhi quella compassione familiare che lo faceva sentire appestato, come fosse un cane abbandonato in autostrada, destinato a morire di stenti.

Lo sguardo che si dedicava ad una persona senza speranza e senza futuro.

 

Pulvis et umbra

 

Varcò la porta aperta dell’aula con le cuffiette ancora nelle orecchie, anche se la musica era spenta, per fingere di non poter sentire alcun commento. Il professore non era ancora arrivato, c’era un gran casino, si sentiva esposto agli occhi dei curiosi. Sospirò e si concentrò per assumere l’aria più ostile e distaccata possibile.

«Lemaire!»

Preso in contropiede, Demian sollevò la testa di scatto.

 

Nessuno qui mi ha mai chiamato

 

Tanto meno, una voce evidentemente felice di vederlo. Con sgomento, ritrovò Diodoro che sventolava la mano dal fondo dell’aula, con un sorrisone immenso stampato in viso. Per reazione, ovviamente, il resto della classe manifestò la propria perplessità con un improvviso silenzio.

Si riscosse dalla sua paralisi e si sfilò lentamente le cuffiette, riavvolgendole con calma per prendere tempo.

«Ciao Barbi» mormorò infine, imbarazzato per l’imbarazzo che trapelava dalla propria voce.

I rumori ricominciarono, i compagni erano tornati a farsi i fatti propri, forse, o a commentare. Non voleva essere paranoico, ma sentiva la loro curiosità come fosse fisica, farfalle che si posavano sul suo corpo.

Raggiunse il compagno e occupò la sedia accanto a lui.

«Ehi, ti ha investito un tir?»

«Eh?»

Diodoro roteò gli occhi «La tua faccia, Lemaire, la tua faccia. Ti avevo lasciato pesto, ma sei riuscito persino a peggiorare, dall’ultima volta che ti ho visto!»

Confuso, Demian scrollò le spalle «Già» si limitò a borbottare.

«Ciao Dem, bentornato!» ecco un’altra voce pimpante che si apriva a forza una strada tra gli strati di cumulonembi dei suoi pensieri. Giulia, allegra e raggiante, si fece avanti appoggiando un quaderno sul suo banco, di fronte al suo viso corrucciato.

«C-ciao» esitò, perplesso.

 

Ma che sta succedendo?

Mi sono perso qualcosa?

 

«Non te lo chiedo nemmeno, se ti servono gli appunti, perché tanto lo so già che dici di “no” per principio, visto che sei un musone» esordì lei, abbozzando un sorriso paziente e dolce «Però te li ho presi lo stesso. Sai, con tutte le assenze che stai facendo rischi di restare indietro»

Il professore fece la sua comparsa il quel momento, salvandolo dall’impaccio di trovare una risposta che proprio non gli veniva. Giulia accennò un saluto infantile con la mano e lo liquidò con un «Ti spiego all’intervallo, intanto se hai voglia dagli un occhio» prima di dileguarsi e raggiungere il suo posto.

«E ti pareva, se non avevi anche la fortuna della secchiona che ti passa gli appunti! Condividi, Lemaire»

Demian corrugò la fronte, finalmente lo fissò «Ma tu non eri uno che studiava?»

«Anche se non esco con una ventitreenne sono un ragazzo anche io. Non è che siccome ho gli occhiali sono un genio per forza! Questo è un pregiudizio!» chiarì Barbi, impettito come un gufo offeso, prima di allungare la sua manaccia sul quaderno di Giulia, sfilandoglielo da sotto il naso. Istintivamente, si sporse e lo bloccò «Ehi, non ho mai detto che te lo avrei prestato» si ritrovò a dire, senza una ragione precisa. Non significava nulla, eppure non voleva cederlo.

 

È stato fatto per me, una cosa fatta per me!

 

Diodoro tentò di sfuggirgli, al che nacque una piccola colluttazione in cui il ragazzo ebbe ben presto la peggio. Demian imprigionò la sua testa con un braccio, in una presa ferrea, mentre con la mano libera gli sventolò davanti il quaderno, con fare vittorioso.

«Lemaire, dai! Cavolo, vuoi strozzarmi? Sei un egoista! Tra amici si collabora, no?»

«Non mi hai dato nulla in cambio. E non dirmi la gratitudine, quella non vale!» lo precedette quando lo vide aprire la bocca per ribattere con fare petulante.

«Demian Lemaire. Sono felice che ti sei deciso a illuminarci con la tua presenza, ma lascia Barbadico, ora. I tuoi compagni non sono barbari, né animali. Il liceo non è uno zoo, in caso ti fosse sfuggito» la voce ostile e gelida del Professor Albani tagliò il pesante silenzio che Demian non si era reso conto essersi formato in classe. Eppure, era evidente, perché i suoi compagni continuavano a fissarli borbottando tra loro, sconvolti. Liberò il compagno di banco che si risistemò prontamente gli occhiali «Colpa mia, Prof, ci scusi» disse Barbi, dissimulando il nervosismo.

«Oh, conoscendo il soggetto non credo proprio. Hai la giustificazione per l’entrata in ritardo, Lemaire?»

Demian lo fulminò e senza dire una parola si alzò e andò a porgergli quello stupido pezzo di carta. Albani lo squadrò con aria critica «Pensi che tua madre ti giustificherà prima o poi, o continueremo a lungo con questa sceneggiata?»

«Non molto a lungo, tra una chemio e l’altra tirerà presto le cuoia. Suppongo che poi qualcun altro avrà il diritto di firmare e lei avrà la sua stupida giustifica» sibilò a denti digrignati, in modo che nessuno potesse sentirlo a parte il professore e qualche curioso della prima fila dall’udito particolarmente fino.

Albani piegò la bocca in una smorfia costipata «Il vittimismo non ti salverà dalla bocciatura. Sei un delinquente, qualunque cosa tu dica. Vettene a posto e ringrazia che non ti spedisco dal preside» aprì il registro con uno schiocco secco e vi infilò la giustificazione.

Demian si morse la lingua e tornò al suo banco con più bile in bocca che saliva. Per nulla interessato alla lezione, recuperò un libro dallo zaino e, con sua sorpresa, prima che potesse aprire l’astuccio Barbi gli porse una matita. Non lo guardava, fissava la lavagna, ma aveva un sorriso appena accennato, divertito.

 

Ok, oggi c’è proprio qualcosa che non va

 

Gliela sfilò dalle dita, gli diede un leggero pugno sulla spalla, poi si dedicò a Il Racconto di Due Città.

 

“Erano i tempi migliori, erano i tempi peggiori, erano giorni di saggezza, erano giorni di follia, era l’epoca della fede, era l’epoca del dubbio, era la stagione della Luce, era la stagione del Buio, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, avevamo tutto davanti a noi e davanti a noi non avevamo nulla, marciavamo diretti verso il Paradiso e andavamo nella direzione opposta”

 

A volte aveva l’impressione che quella manciata di righe descrivessero perfettamente il precario equilibrio della sua esistenza, per questo prima di riprendere da dove lo aveva lasciato, rileggeva sempre l’esordio. Quelle parole gli ricordavano se stesso.

In passato, quando si era sentito tremendamente solo, i libri erano stati l’unico sostegno, solamente nelle parole stampate aveva ritrovato un conforto che gli aveva permesso di non cedere, perché se qualcuno poteva scrivere di dolore con tale nitidezza, di paura, di angoscia, allora Demian si sentiva meno sbagliato, aveva la certezza che esistevano persone che stavano o erano state come lui, peggio di lui. Non era pazzo, e nemmeno solo, quando stringeva un libro.

In quel preciso istante, ancora una volta erano quelle pagine ruvide a dargli un sentore di cosa stesse provando, una traccia da interpretare nel momento in cui lui per primo non era all’altezza di comprendersi.

 

Avanzare verso il paradiso e andare nella direzione opposta

 

Era l’antitesi interiore che gli provocava Arianna. Sembrava un Eden in cui nascondersi dalle brutture della vita, eppure ogni passo verso di lei aveva il retrogusto del disastro.

Se lei sparisse, ora forse sarebbe un inferno. Ma ha giurato.

Mi ha guardato negli occhi e ha promesso.

Ha visto il peggio di me e non è fuggita

 

Sfilò il cellulare dalla tasca e, non senza titubanza, si ritrovò a digitare

 

 

Dami

 

Ehi, Annie

 

17/10/2001

9:18

 

Pochi secondi e l’apparecchio gli vibrò tra le dita, inoltrandogli l’immediata risposta.

 

 

Annie

Come mai così mattiniero? =)

17/10/2001

9:19

 

Dami

Ho voglia di disegnarti

17/10/2001

9:20

 

Annie

Ooook! Beh, sono una bellissima musa, non posso biasimarti! Fallo pure =)

17/10/2001

9:22

 

Dami

Se ti vedo è più facile

17/10/2001

9:23

 

Annie

E allora vediamoci, no?

17/10/2001

9:24

 

La semplicità con cui potevano trovarsi era quasi da capogiro, impensabile fino a qualche giorno prima. Incredibile, come lei, gli veniva da pensare, perché fino a qualche settimana prima nemmeno la conosceva, e allora come era successo che fosse diventata un pezzo così fondante della sua quotidianità?

 

 

Dami

Oggi pomeriggio?

17/10/2001

9:26

 

Annie

Ogni volta che vuoi =)

17/10/2001

9:27

 

Demian ripose nuovamente il cellulare nella tasca dei jeans, il petto si stava gonfiando di una strana euforia che quasi gli toglieva il fiato per il bruciore che causava. Dovette trattenersi dal sorridere, perché si sentiva un beota.

 

Pulvis e umbra.

Non è vero, non sono un’ombra, quando c’è lei. Arianna le ombre le dissipa, allontana anche la mia.

Quando c’è lei, mi sembra di essere.

 

 

 

 

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