Genesis - Rhapsody to you

di Red_Coat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il bacio della Dea ***
Capitolo 3: *** Valery Rhapsodos ***
Capitolo 4: *** Primi segni di degrado ***
Capitolo 5: *** Fratello e sorella ***
Capitolo 6: *** Grandi amicizie ***
Capitolo 7: *** Genesi di un battito del cuore ***
Capitolo 8: *** Solo un videogame ***
Capitolo 9: *** La decisione di Tseng ***
Capitolo 10: *** In fuga ***
Capitolo 11: *** "Ma che cappello mi prende?" ***
Capitolo 12: *** Epiche battaglie ***
Capitolo 13: *** Promesse ***
Capitolo 14: *** I soliti discorsi ***
Capitolo 15: *** Finalmente verità ***
Capitolo 16: *** Imprevisti fatali ***
Capitolo 17: *** Gongaga ***
Capitolo 18: *** Project G ***
Capitolo 19: *** Nient'altro che la verità ***
Capitolo 20: *** Always the same lesson ***
Capitolo 21: *** Strade ***
Capitolo 22: *** Il dono della Dea ***
Capitolo 23: *** Dove tutto ha inizio ***
Capitolo 24: *** La consapevolezza di un mostro ***
Capitolo 25: *** Under the apple trees ***
Capitolo 26: *** Dreams and Pride ***
Capitolo 27: *** Sul vento di primavera, dolciamare memorie ***
Capitolo 28: *** Quello che conta ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ciao a tutti voi che siete giunti qui, chi per amore di Genesis, chi attirato dagli altri nomi presenti nella lista della descrizione.
Non voglio trattenervi molto, e non desidero neppure spegnere il vostro interesse.
Prima di iniziare la lettura però, sento di dover spendere due parole di presentazione per questa storia.
Era il 2012, io ero ancora una ragazzina al terzo anno delle superiori, e da un anno ero iscritta su EFP.
Non conoscevo ancora il mondo di FINAL FANTASY 7, nè alcuno dei suoi personaggi, tranne Vincent di cui avevo visto solo un paio di foto.
Un giorno però, decisi di iniziare a giocare Final Fantasy 7: Crisis Core, e all'improvviso tutto cambiò.
Sono sempre stato una ragazza molto fantasiosa, a cui piace inventare mondi tramite la scrittura e sognare che
personaggi inesistenti in realtà vivano davvero, in una qualche lontana parte dell'universo.
Forse anche per questo, Genesis mi rapì, immediatamente
accendendo la mia fantasia e scaturendo in me un amore infinito e forte
che davvero è strano se rivolto ad un personaggio inesistente e immaginario.
Ma è quello che provai, quello che mi spinse a scrivere questa storia che un giorno, per varie vicissitudini
che non sto qui a spiegare, s'interruppe bruscamente.
Comunque, seppure lontana dal fandom e da EFP, continuai a crescere e con me continuarono a farlo l'amore per FINAL FANTASY 7 e per Genesis.
Fino a che, circa due anni fa, non decisi di rimettermi in gioco, con una fan fiction su Sephiroth.
Non ero ancora pronta per ritentare con questa, volevo che fosse perfetta come Genesis, che rispecchiasse tutta la passione
che avevo per lui e per il mondo di Final Fantasy 7.
Così, mentre portavo avanti la fiction sul platinato, iniziai in solitudine un duro lavoro di revisione di questa che si conclude oggi,
dopo un anno e mezzo passato a rivivere questa storia come fosse la prima volta.
Non ho voluto rimuovere quello spirito infantile che ne caratterizza la prima parte,
mi sono limitata solo ad aggiungere qualche elemento in più per renderlo più leggibiile e gradevole.
Inoltre mi sono ispirata ad Alice nel paese delle meraviglie, per restituire al personaggio di Valery
quel tanto di confusione del sogno che basta per renderla reale.
Come ho detto all'inizio, volevo adesso che questa storia comprendesse anche Vincent, e Zack.
Perchè se il primo per è come un fratello, il secondo è il mio primo amico in questo mondo,
perchè è stato il primo personaggio che ho imparato a conoscere attraverso il mio primo Final Fantasy.
Entrambi quindi avranno un ruolo molto importante nella storia.
Inoltre, sebbene questa storia si estenda da Crisis Core fino a Dirge of Cerberus,
Zack Fair
SARA' PRESENTE PER TUTTA LA DURATA DELLA FICTION.
Si si, avete capito bene.
Non posso ancora dirvi come questo sarà possibile, ma sappiate che lui ci sarà, fino alla fine, ed avrà un ruolo
importante per Valery, proprio come lo ha avuto per me.
 Valery ha molto di me, l'ho creata perchè diventasse la mia portavoce ed alter ego, e vi accorgerete che
proprio come sono cresciuta io, anche lei lo farà, nel corso della storia,
grazie a Genesis e a tutti quelli che la circonderanno, nel mondo in cui si ritroverà a vivere.
Quindi sappiate che quando andrete a leggere, sarà anche come imparare a conoscere una piccola grande parte di me.
Bene, non ho nient'altro da dirvi adesso. Non mi resta che augurarvi

BUONA LETTURA, E GRAZIE A TUTTI VOI PER IL TEMPO CHE DEDICHERETE A QUESTA MIA PICCOLA STORIA.


SARAH B. CORNWELL


PS. Se volete un piccolo spoiler e vorreste sapere come Vincent Valentine sarà inserito nella storia, potete passare a dare un'occhiata alla mia one shot pilota che lo vede protagonista assieme a Valery di una piccola scena verso la fine di final fantasy 7. La troverete a questo link:
THE REASON - UN SOLO VALIDO MOTIVO





 

“Infinite in mystery is the gift of the goddess
We seek it thus, and take it to the sky
Ripples form on the water’s surface
The wandering soul knows no rest.”
 
 
- Loveless, Atto I -


“Genesis, caro amore mio.
 
Dove sei? In questo mondo freddo, cupo e pericoloso, il tuo pensiero è l’unica cosa capace di restituirmi la forza ed il coraggio per continuare a cercarti.
Con Loveless al mio fianco, continuo ad immaginarti, perché ogni riga è una parte di te, di noi, scritta su questi fogli ingialliti con inchiostro indissolubile.
Mentre lo scorro con occhi incantati, mentre divoro queste pagine famigliari aspettandoti, continuo a sentire la tua voce.
Meravigliosa, dolce e struggente al contempo, continua a enunciare queste righe fino a giungermi chiara, oltre i confini neri e spessi della storia che inesorabile scorre con sempre maggior velocità, come faceva quando eri ancora con me. Avresti dovuto farlo per me, ogni volta che te l’avrei chiesto.
La tua voce, calda e profonda, avrebbe dovuto restare con me per sempre, assieme al tuo sguardo e al soffice bronzo dei tuoi capelli. A Banora.
Lì dove tutto è iniziato e finito, dove ora continuano a giacere nostri anni migliori, custoditi dal silenzio e dalla pace di un luogo ormai antico e nascosto dalla polvere del tempo che incontrastabile ci ha cambiati, e divisi.
Amore, ricordi? Ci eravamo appena conosciuti, io era ancora così … piccola, e ingenua. E tu … così innegabilmente bello, e dolcemente tormentato.
Non ho mai creduto alla malsana bugia che tu fossi soltanto un orribile mostro. Mai. E nel tentativo di convincerti ti promisi di rimanere al tuo fianco, solo se tu avessi continuato a recitare i versi eterni e enigmatici di Loveless. Poeticamente … solo per me.
Sono felice di avertelo chiesto. Felice d’essere rimasta.
Perché adesso, mentre aspetto e li leggo per tracciare la strada verso te, quei ricordi e quelle splendide iridi di giada sono le uniche cose di cui ho bisogno, per non arrendermi mai.
Il mondo ti ha dimenticato. Tu hai voluto fosse così.
Ma se sei riuscito a convincere chi non ti ha mai conosciuto di far finta che tu non sia mai eppure esistito, non credere ch’io ci sia cascata. Non pensarlo neanche solo per un istante.
Per quello che possano dire i membri rimasti della Shinra, o gli sguardi silenti di Vincent ch’è diventato il mio unico sostegno ormai, io so. So che tu sei esistito. E che continui a farlo.
Perché ti sento, in ogni piccola parte di me, fin dentro le ossa e nella parte più nascosta del mio animo. I ricordi, sbiaditi come vecchie fotografie in bianco e nero, si mescolano assieme alle poche realtà che mi hai lasciato per continuare a crederci: Una vecchia copia di Loveless, con ancora a margine le note che la tua penna ha scritto mentre ti consideravi ancora umano.
Accarezzo la tua calligrafia antica; assorta, quasi senza sfiorarla, per paura di cancellare per sempre, con un sol tocco, quell’ultima traccia concreta di te. E nel mentre, stringo sul mio cuore una delle lucide piume nere della tua splendida ala, come se stessi solo aspettando di vederti entrare da quella maledetta porta. Ma non succede mai.
E comincio a temere che ben presto anche io finirò col dimenticarti.
Ma come? Come potrei farlo?
Il mare limpido dei tuoi meravigliosi occhi color verde mako è troppo profondo perché io riesca ad uscirne. E anche se lo facessi, comincerei a sentire il fiato caldo dei tuoi sussurri su me, e le tue mani incredibilmente calde e soffici sfiorarmi il viso come in quella notte di finta estate, a casa tua, quando il mio sogno divenne realtà.
No, Genesis! non riuscirò mai a dimenticarti.
Non chiedermelo, perché non lo farò. Mai e poi mai.
Mentre m’aiutavi a trovare la magia del potere nascosta dentro di me, mi dicesti di accendere i sensi, e spegnere la mente, così da riuscire a trovarmi, e veder risplendere quella forza al centro del mio cuore come una gemma luminosa nell’oscurità.
Ebbene, non mi è necessario neppure chiudere gli occhi per riuscire a sentirti.  Dentro di me, brilli e ardi come la fiamma più potente della vita che scorre dentro le mie vene sin dal momento in cui tu stesso mi hai acceso.
E, finché continuerò a sentirti così forte e chiaro fin dentro il battito di ogni mio singolo respiro, io continuerò a cercarti, seguirti e rincorrerti fino a che non riuscirò a ritrovarti, e a convincerti che no, non sei mai stato un mostro, ma soltanto l’ennesima vittima innocente di quanto di più orribile e maligno possa esistere in questo mondo perennemente sull’orlo di sgretolarsi su se stesso.
Ascoltami, perché non te lo ripeterò se non fino a che non riuscirò a convincerti del tutto.
Tu sei vivo, esisti ancora ed io ti troverò, dovessi spendere tutta la mia vita in questo misero mondo malato e fronteggiare da sola delle Weapons impazzite, le orde di Deepground, le bugie di scienziati pazzi e senza scrupoli o qualunque altra piaga orrenda e mortale questa realtà abbia da offrirmi.
E nel frattempo, continuerò a nutrirmi di tutto ciò che d’intangibile mi hai lasciato, riscrivendo per l’ennesima volta la mia storia sui fogli ingialliti di questo vecchio almanacco in cuoio.
La scriverò per te, come una rapsodia che possa convincerti una volta per tutte che se riesco ancora ad amarti, è perché lo meriti davvero.
E, nello stilare queste poche righe, pregherò Minerva e ogni altro dio ch’io conosca, affinché un giorno, spero non molto lontano adesso, io possa rivederti e dimostrarti finalmente e per l’ennesima volta che avevo ragione.
Tu non sei un mostro. Non lo sei mai stato e non lo sarai mai. Riuscirò a dimostrartelo.
Perché sai che sarò incrollabile, e che non smetterò mai di ripeterlo fino a che avrò fiato nei polmoni e vita in questi miei occhi fiduciosi e determinati.
Ti amo, Genesis. Come non ho mai amato nessuno.
E adesso te lo racconterò ...

 

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Capitolo 2
*** Il bacio della Dea ***


Capitolo I

“Un bacio.
Si, che tu ci creda o no, la mia storia inizia così, con un bacio. Di Minerva in persona, sulla mia fronte pallida e giovane.
Avevo diciannove anni, e quando mi svegliai in questa realtà dalla mia, quella dal quale ero venuta, per parecchio tempo anche dopo averti incontrato non riuscì a comprendere pienamente l’inspiegabilità di ciò che mi stava accadendo, dimenticando perfino il sogno che mi aveva condotta qui.

Ma andiamo per ordine, al primo alzarsi del sipario di questa complicata e strana vita …


 
 

Tutto cominciò circa dieci anni fa, in quella dimensione che tutti coloro che la abitano definiscono Realtà.
È in quel futuro parallelo che sono nata e cresciuta, col nome di Valery Creek, nella periferia di un piccolo paesino del Kansas, nel Midwest degli Stati Uniti d’America. 

La mia infanzia è stata splendida, trascorsa in un piccolo ranch che i miei genitori avevano acquistato proprio per farmi crescere in mezzo alla natura in felicità e spensieratezza.
Amavo da morire quel posto, pieno di ogni cosa che madre natura potesse offrirmi. Possedevo dodici gatti, due cani, una fervida fantasia e boccoli biondi che scendevano delicati sul mio collo
ballonzolando su e giù come molle durante ogni mia corsa sfrenata per le praterie che circondavano la nostra abitazione.

Di quegli anni splendidi ora ricordo tutto, ma proprio tutto. Ogni singolo minuto di ogni singolo giorno.
Anche se il ricordo più struggente e vivido è quello del giorno d’autunno in cui ce ne andammo da lì, perché il dolore che sentii si riflesse in ogni cosa che incontravo.

Quel maestoso albero di quercia sotto la quale avevo giocato per dieci lunghi anni muoveva le fronde stancamente verso il cielo coperto da grigi e pesanti nuvole cariche di pioggia, come a volermi salutare, e allora io gli corsi incontro avvinghiandomi forte alla sua corteccia, le piccole braccia che non riuscirono neppure ad avvolgerne tutta la circonferenza.
Il mio gattino nero miagolò senza riposo supplicandomi di non lasciarlo, mentre con le lacrime agli occhi lo consegnavo alla vicina che si sarebbe presa cura di lui al posto mio, da quel momento fino alla sua morte, e perfino quel cespuglio di rose che cresceva rigoglioso vicino al grande porticato d’ingresso, ora sembrava piangere lacrime di fresca rugiada, che carezzava dolcemente i petali rossi e vellutati dei suoi profumatissimi fiori.
La piccola fattoria in cui ero cresciuta, il luogo in cui i miei sogni di bambina si erano materializzati giorno dopo giorno e l’unico posto di cui conoscevo ogni anfratto nascosto ed ogni singola atmosfera ad ogni ora del giorno e della notte …
Quel luogo in cui ho guardato il sole nascere per un'infinità di volte, alzandomi prima che il gallo iniziasse a cantare e calpestando l’erba fresca con i piccoli piedi morbidi di una bambina; Lo stesso in cui ho provato mille volte senza successo a contare le stelle che come piccoli diamanti trapuntavano il cielo, e ho inseguito il vento allargando le braccia e sognando mille e mille volte ancora di poter volare libera in un meraviglioso cielo terso d’estate …
Quello stesso luogo all’improvviso si era fatto vuoto, silenzioso e spento, come spogliato da ogni sua magia.
Perfino quel cielo meraviglioso si fece grigio e struggente, sopra la mia piccola testolina, in cui atroci pensieri s’agitavano come vecchi vascelli abbandonati in un mare in tempesta …


Non l’ho mai veramente dimenticato Genesis, mai. Così come tu, in fondo, non hai mai fatto con Banora, e i ricordi che ti legano ad essa.
Ma anche nella Realtà la vita continua, senza darti il tempo neppure di salutare un’ultima volta chi non rivedrai mai più, di aprire la bocca soltanto per qualche minuto ancora per dire quelle parole che mai avresti detto, se la vita non ti avesse messo di fronte al fatto compiuto.
Come successe a me …
Avevo diciassette anni, e credevo finalmente di esser riuscita a rassegnarmi alla perdita del mondo della Valery bambina.
Stavo camminando su un sottile delicato filo di ragnatela, che all’improvviso si ruppe, facendomi nuovamente precipitare.

La mia migliore amica se ne andò, a seguito d’una tremenda e sfiancante malattia che lei ebbe la forza e la tenacia di sfidare fino all’ ultimo respiro.
Si chiamava Mary … ed è stata amica, mamma, maestra, sorella e confidente. È stata … tutto.

E ora non riesco neppure a scrivere di lei, senza che le lacrime inizino a sgorgare inesorabili lungo le mie guance pallide.
Mi manca terribilmente, e non soltanto lei …
Ma se non avessi vissuto tutto questo, forse la dea non si sarebbe accorta di me. Ed è adesso, che la storia di Valery Rhapsodos ha inizio.
 
***
 
Los Angeles
02 Dicembre 2011
Ore 20.35
 
Mia sorella Stephanie entrò in camera mia per avvisarmi che la cena era pronta, e mi trovò sul letto con la mia console portatile in mano, e le guance rigate di lacrime.
 
      << Valery! >> esclamò preoccupata << Stai bene? >>
 
Sorrisi, annuendo impercettibilmente.
Altroché se stavo bene, Genesis!
Avevo appena finito di conoscere la tua storia, e dopo due settimane passate a giocare quel videogame che la narrava, ora stavo piangendo come una bambina perché … avevo appena visto morire Zack.
Si … avevo appena scorto un pezzo di quello che sarebbe stato il mio futuro, anche se ancora non lo immaginavo neppure.
Ma c’era dell’altro, in quelle lacrime. Io … non so spiegarmi ma … in tutti quei giorni passati con la mia console in mano a guardarvi vivere, e morire … è stato come rivivere in un film tutta la mia vita fino a quel giorno.
Ecco cosa c’era di diverso, in quelle lacrime: Era il ricordo risvegliato da quelle scene, le forti emozioni provocate dallo stupore nel … rivedermi in tutto, tutto ciò che quella storia raccontava. Nel rivedermi … in te.

Possibile che un videogioco, un libro o un film possano farti rivivere ogni singolo istante della tua storia? So già quale sarà la tua risposta, non preoccuparti.
Questa comunque, fu la stessa domanda che porsi a mia madre, a cena quella sera. E lei, con un dolce sorriso, scosse le spalle in un lieve cenno d’assenso.
“Certo ch’è possibile … la vita è lo stesso libro, scritto e riscritto più volte”. Aveva ragione … ah, quanto aveva ragione!

Le sorrisi, e dopo aver finito di mangiare tornai di nuovo in camera mia e ripresi la console in mano, accoccolandomi sotto le coperte.
Commossa rigiocai tutte le parti che mi erano piaciute di più, tornai indietro al tempo della tua amicizia con Angeal e Sephiroth, agli ultimi attimi di spensieratezza prima della tempesta, e desiderai ardentemente essere lì con te per stringerti e non lasciarti andare mai più, mentre ti osservavo credere alle menzogne di Hollander da dietro lo schermo che mi separava da voi, e dal vostro mondo.
Rimasi così fino a notte fonda, quando gli occhi mi si fecero doloranti e pesanti e il cuore chiese a gran voce di poter sognare un po’.
Quindi, stringendo ancora tra le mani la console, chiusi gli occhi e a poco a poco mi addormentai come avrebbe fatto quella bambina di dieci anni, ma distesa s’un prato investito dal dolce chiarore della luna.
“Quelle ali …” pensai, all’alba dei miei vent’anni “Le voglio anch’io.”
E, come se fosse sempre stata lì in attesa di sfiorare questo mio piccolo grande desiderio, fu allora che Minerva mi baciò.
E tutto divenne reale, e meraviglioso.

 

 

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Capitolo 3
*** Valery Rhapsodos ***


Capitolo II
 
<< My friend, do you fly away now? / To a world that abhors you and I? /
All that awaits you is a somber morrow / No matter where the winds may
blow >>

- Loveless, Act III
-


 
Traccia musicale consigliata: WIDE AWAKE, KATY PERRY
 

<< Che buffo, che buffissimo. >>
-Alice, Alice in Wonderland -

"- Siamo sicuri che sia viva? –
- Turk, se non ti fidi di me puoi anche andartene e lasciarmi fare! –
- Sentimi bene, Soldier. Questo è il nostro settore, tu non dovresti neanche essere qui! -
- Basta litigare, adesso! Si sta svegliando. –
- Evvai! –
 
Queste voci mi riscossero dal mio sonno.
Avevo la schiena a pezzi, eppure il mio letto era così soffice e comodo! Riconobbi immediatamente le voci di Zack che discuteva con Reno, e alla fine anche quella di Tseng, ma pensai subito di aver lasciato la consolle accesa e quella era andata avanti senza il mio permesso. Tuttavia … non ricordavo quelle battute.
Evidentemente, pensai, la mia memoria sia era persa qualche spezzone, oppure quella scena mi era del tutto sfuggita. Aprii gli occhi, ancora assonnata, e vidi davanti a me … i proprietari di quelle voci! Zack, Reno e Tseng, che mi scrutavano dall’alto.
E all’improvviso il mio cuore fece un gigantesco salto carpiato all’indietro, e io indietreggiai a mia volta, sobbalzando e vacillando a causa dei muscoli indolenziti
 
- Ehy, calmati! – esclamò Zack, tendendomi rassicurante le braccia
 
Ma io stavo già cercando disvegliarmi.
Impossibile!” pensai “… non è … possibile! Non può essere, è un mio sogno! Solo un mio sogno dal quale di sicuro mi sveglierò! E così che vanno a finire quasi tutti i drama, i manga e gli anime con cui infarcisco la mia mente ogni giorno, no? Devo averne fatto indigestione, tutto qui!”. Eppure, i secondi continuavano a passare e i contorni sembravano farsi ancora più chiari di prima
 
- Non abbiamo intenzione di farti del male, te lo assicuro. – mi tranquillizzò Tseng, facendosi dolcemente avanti
- L’unico di cui dovresti aver paura è questo bestione di SOLDIER! – aggiunse quindi Reno, indicando Zack con un cenno del capo
- Hey! Perché non chiudi il becco una volta tanto! – lo zittò quest’ultimo, picchiettando l’indice della mano destra sulle labbra sottili.
 
Il Turk wutaiano scosse il capo con serietà, incrociando le braccia. Ma dopo qualche secondo lo vidi rivolgermi un sorriso appena percepito, per poi aggiungere rivolto gentilmente a me
 
- Mi chiamo Tseng, lui è Reno, e quel “bestione” è Zack Fair, di SOLDIER. –
 
Lo so!” avrei voluto dire “Cristo, lo so! Zack!”.
Ero davanti a lui, nel bel mezzo di Midgar, e … improvvisamente ebbi voglia di piangere. Era ciò che avevo sempre desiderato, il mio sogno di sempre, impossibile e proibito, eppure ora volevo solo ritornare immediatamente indietro a casa mia, e riaprire gli occhi immediatamente. Perché … quel sogno cominciava a mandarmi in confusione, e la confusione mi faceva paura, da sempre.
 
- E tu, come ti chiami? – mi chiese ancora Tseng, gentile
 
Non risposi, ammutolita.
E’ solo un sogno” mi ripetei “basta non crederci più di tanto per svegliarmi. Non ci credo … io … io non ci posso credere!”.
Zack sospirò, portandosi una mano dietro la nuca. Cielo, com’era bello! Si, era bello. Sul serio potevo vederlo? Era lui, in carne e pixel!
Ma era un sogno, solo un sogno. Ed io dovevo solo stare immobile e aspettare che passasse. Ero talmente sconvolta, che non mi accorsi neppure dell’arrivo di un quarto individuo, spuntato dall’ombra dietro le spalle di Zack
 
-Che succede? – chiese, incrociando le braccia sul petto e guardando il giovane
- Aaah, eccone un altro! – si lamentò Reno, alzando gli occhi al cielo e roteando la folta e scomposta chioma rossiccia
 
Rimasi ammutolita a fissare il nuovo arrivato, col cuore che compiva un’altra acrobazia e il fiato corto. Angeal … era Angeal.
Il volto severo, la Buster Sword sulle spalle, l’aria minacciosa mentre mi scrutava sospettoso e rivolgeva rapide occhiate a Zack, che sembrava davvero un ragazzino innocuo messo al suo confronto, anche se non privo di muscoli.
Era di fronte a me, non più oltre lo schermo di un dispositivo elettronico. Ed era … proprio come me lo ero immaginato
 
- Zack, non dovresti essere qui. - disse, ammonendo il suo allievo
- Appunto. - soggiunse Reno, annuendo e incrociando le braccia
 
Tseng tacque portandosi dietro di me e preparandosi a sostenermi se avessi avuto un altro mancamento, mentre Fair scuoteva le spalle e assumeva un’aria implorante portando in avanti le mani giunte, verso il mentore
 
-Scusa! - si affrettò a rispondere, poi mi lanciò una rapida occhiata e aggiunse – è che avevo voglia di una boccata d’aria. Stavo girovagando, ho visto questa ragazza per terra e mi sono avvicinato. – concluse in tono concitato, continuando a lanciarmi sguardi preoccupati e a gesticolare nella mia direzione
 
In realtà, immagino che Angeal gli avesse ordinato di allenarsi e lui avesse deciso di disobbedire.
Era come se non riuscisse a togliermi gli occhi di dosso. Si, fu così. Continuava a scrutarmi con curiosità per poi tornare a fissare Angeal con aria sottomessa, sperando in un suo gesto di perdono.
Ricordavo ciò che Angeal aveva detto di lui, paragonandolo ad un cucciolo irrequieto. E in quel momento mi sembrò proprio di vederle, quelle due orecchie pelose che spuntavano da sotto i ciuffi ribelli dei suoi capelli, tagliati cortissimi e sfrangiati. Andavano ad inclinarsi all’ingiù in una silenziosa ammissione di colpa, mentre la coda continuava a scodinzolare piano ogni volta che i suoi occhi incrociavano i miei.
Sorrisi, non riuscendo a farne a meno, e abbassai gli occhi arrossendo quando lui lo fece a sua volta  guardandomi, convinto forse di avermi colpito.
Ben diversa fu la risposta di Angeal.
Mi guardò, una lunga occhiata indagatrice ch'ebbe il potere di mettermi tanta soggezione da aver voglia di svenire.
Lo sai meglio di me, in fondo, no amore? Era il potere di un uomo come lui. Un suo sguardo poteva valere più di mille parole, ecco perché il più delle volte non aveva mai bisogno di parlare troppo per farsi capire.
Fu così anche verso di me.
Quando mi sforzai di rispondergli con una rapida occhiata fugace e intimidita, non riuscii a fare a meno di notare quel lampo nei suoi occhi, una strana nota in quello sguardo che al momento non fui in grado di decifrare.
Solo in un secondo momento avrei capito di cosa si trattava, ma allora mi chiesi se magari lui sapesse perché mi trovavo lì.
No, non è possibile” pensai, trattenendo il respiro un’altra volta “Impossibile”.
Nel frattempo, Zack continuava a parlare
 
- Non siamo riusciti a scoprire molto. Sembra spaventata, e non parla. – gli spiegò
- Queste questioni spettano ai Turks. – rispose invece lui, prendendolo per un braccio e iniziando a trascinarlo via – Lascia fare a loro. –
- Cos .. ma non posso lasciarla cosi! – protestò allora Zack, gesticolando verso di me
 
Ma un’occhiata dell’altro lo costrinse a ridursi in silenzio e ad obbedire, rivolgendomi un’espressione affranta prima di voltarsi definitivamente e allontanarsi assieme ad Hewley.
Li guardai distanziarsi da noi. "Angeal", pensai di nuovo, "sembra avere … paura di me. Perché?"
Non seppi darmi una risposta, e probabilmente neanche ora ne sono certa.
Ma ripensandoci adesso, avrei voluto che quell’istante fosse durato per sempre.
 
***
 
I turks furono addetti alla mia sicurezza.
Dopo interminabili minuti rinchiusa tra le quattro mura di una delle stanze appartenenti al reparto sviluppo scientifico, in cui fui sottoposta a brevi trattamenti sanitari da alcune giovani ricercatrici che avevano avuto il compito di accertarsi che le mie condizioni di salute fosse buone, Tseng stesso tornò a riprendermi e mi accompagnò a casa sua, scusandosi con la sua solita aria distaccata per avermi lasciata sola e offrendomi la sua stanza come alloggio.
Non era male, per essere la casa di un turk.
Era un piccolo appartamento affacciato sulla via principale per la sede, quasi completamente spoglio, arredato con appena l’essenziale ma nessun tocco personale.
La porta d’ingresso dava accesso al piccolo ambiente del soggiorno, in cui si trovavano una piccola tv, una poltrona, una dispensa in legno laccato e un tavolo da pranzo su cui era appoggiato il telefono e un bicchiere vuoto.
In fondo all’ambiente le luci notturne di Midgar trapelavano chiare attraverso il vetro spoglio di una piccola finestra ad anta con apertura scorrevole verso l’alto, e all’angolo con un’altra parete divisoria, una porta che scoprii tempo dopo conduceva alla piccola cucina quasi mai utilizzata; sulla destra invece vi erano le restanti camere, quella da letto e un piccolo bagno che faceva angolo così com’era per la cucina.
A ripensarci non fu davvero uno dei miei periodi peggiori, ma sul momento fui così agitata che rifiutai perfino di mangiare, rinchiudendomi nella stanza che mi aveva gentilmente ceduto.
Rimasi in silenzio per circa ventiquattro lunghissime ore, ascoltando i pochi rumori che provenivano da fuori e cercando di calmarmi in tutti i modi a me conosciuti.
Ho sempre sofferto di attacchi di ansia o panico, e col tempo ho imparato come fare per gestirli. In una situazione come quella tutto questo si rivelò davvero molto utile.
Erano le mie prime ore in questo mondo, e a parte l’incontro con Zack erano state davvero un inferno.
Era stato già un trauma bello grosso essere catapultata in una realtà che non era la mia con la rapidità di un battito di ciglia, e l’atmosfera sterilizzata e statica del reparto scientifico in cui ero stata costretta ad entrare non aveva certo migliorato la situazione. Un'altra persona, al posto mio, forse avrebbe dato di matto, anzi quasi sicuramente lo avrebbe fatto.
Ma io no. Perchè in fondo, era quello che avevo sempre sperato. Anche se viverlo era completamenre diverso dal sognarlo
Così, cercando di riportare un po’ di ordine nel confuso mare della mia mente in tempesta, mi feci forza e mi distesi sul letto, cominciando a concentrarmi solo sul regolarizzare il mio respiro, le mani abbandonate in grembo e tremanti e gli occhi chiusi.
Respira. Inspira.
Respira. Inspira.
Sempre più lentamente, sempre più … cautamente.
Almeno, mi dissi mentre cercavo di dimenticare il bianco accecante dei fari che mi erano stati puntati addosso per controllare la mia vista, ero stata fortunata a non aver incontrato nessuno di veramente importante nel reparto. Hojo, per esempio.
Ma avrei potuto farlo molto presto, se avessi continuato a rimanere lì. Il solo pensiero di quelle mani scheletriche che toccavano il mio corpo con totale mancanza di tatto ebbe l’effetto immediato di gettarmi nel panico più totale.
Ero riuscita ad addormentarmi da appena una manciata di ore dopo una notte tumultuosa, quando quell’orribile sogno mi strinse un nodo in gola fino a darmi l’orribile sensazione di rimanere senza fiato.
Mi svegliai di soprassalto, riuscendo per fortuna a non urlare ma ritrovandomi sudata e fredda a stringere le coperte sotto di me.
Mi guardai intorno, nella speranza di tornata a casa da tutto quel sogno assurdo, ma quando, guardando fuori dalla finestra vicino al mio letto, l’immagine minacciosa della cupola d’acciaio del quartier generale colpì i miei occhi, mi sentì mancare di nuovo e in preda alla disperazione iniziai a piangere in silenzio, affondando il viso nel cuscino che profumava di pulito.
Voglio andarmene …” pensai “Adesso. Voglio andarmene da qui!
Passarono appena un paio di minuti, in cui sentii i muscoli tesi rilassarsi e il respiro regolarizzarsi pian piano dopo ripetuti sussulti soffocati.
All'improvviso, qualcuno bussò alla porta.
Mi voltai di scatto e mi rimisi a sedere, asciugandomi in fretta il volto rosso con le mani e maledicendomi per aver deciso di tagliare i capelli.
Appena in tempo, la porta si aprì e Tseng si affacciò sulla soglia. Ora come ora ammetto che fu molto più gentile e premuroso, più di quanto non avessi immaginato.
Ma era pur sempre un fedelissimo della Shinra, ed era stato lui a portarmi al HQ. Perciò nel vederlo ebbi una voglia matta di alzarmi e sferrargli un ceffone tanto forte da fargli arrossire la guancia.
Non lo feci però, limitandomi a stringere quasi convulsamente con le mani il bordo del materasso e a mordermi le labbra quasi fino a farmele sanguinare. “Se tutto questo è vero”, pensai, “e io sono davvero sotto custodia di un turk, meglio non fare stupidaggini”.
Si, lo so. Tu te ne saresti liberato. Ma io non sono un SOLDIER, né tanto meno ne possedevo i poteri. Non ancora almeno.
Perciò, era l’unica scelta sensata che potessi fare. E ti prego di non ridere di me, come sicuramente starai facendo leggendo questa parte del mio racconto. Eheh, grazie.
 
-Come ti senti? – mi chiese dunque il turk, rimanendo sulla soglia ma scrutandomi con attenzione

Annuì semplicemente, evitando il suo sguardo.
Lui annuì di rimando soddisfatto, poi mi chiese, un pò a bruciapelo
 
-Ricordi Zack, il SOLDIER? –
 
Un altro colpo al cuore. Di nuovo annuì, ma senza riuscire a non guardarlo speranzosa
 
-Bene- proseguì quindi – Non dovrei, ma se ti fa piacere posso fare uno strappo alla regola. Vuoi vederlo? –
 
Mi aprii in un sorriso, il primo dopo tutta quella paura.
Dei, se volevo! In realtà, per tutto quel tempo in cui non avevo fatto altro che chiedermi come fosse stato possibile per me tutto questo, il mio unico pensiero positivo era stato Zack.
Ero stata così felice di conoscerlo. E … lo sono ancora.
Comunque, Tseng annuì poi sparì oltre la porta e pochi secondi dopo nella stanza si accese di nuovo il sorriso ingenuo di un SOLDIER 2nd class di nome Zack Fair.
Lo guardai contenta, col cuore a mille, mentre si avvicina a me.
Indossava la sua divisa, e facendo mente locale mi ricordai che doveva avere … diciassette anni, pressappoco.
"Che bel momento per arrivare", mi dissi, anche un poco sarcastica.
Mi salutò con un cenno della mano e si avvicinò al letto
 
-Heiya! – esordì, sedendosi accanto a me – Tseng mi ha detto che non hai voglia di mangiare. Ti capisco. Li pagheranno anche bene, ma è negato per la cucina, lui. – aggiunse scherzoso, facendo segno con la testa in direzione della porta
 
Sorrisi di nuovo, scostandomi una ciocca di capelli da davanti gli occhi, mentre fissavo i suoi brillare come stelle su di me. Ora … ammetto di averlo guardato pensando: “Chissà se hai la minima idea di che bel figone diventerai da grande?”.
Mi perdonerai per questo, vero amore? Si, sono certa che lo farai. Anche perché quello che successe dopo ti confermerà che, sin dai miei primi istanti qui, è sempre stato tuo ogni mio pensiero, e ogni battito del mio cuore
 
-Hai … voglia di fare qualcosa in particolare? – mi chiese dunque, volenteroso
 
E io, per la prima volta, parlai. E dissi la cosa più stupida ma in fondo naturale che mi fosse passata per la mente
 
-Foto! – risposi annuendo
 
Zack mi guardo stupito, inarcando un sopracciglio
 
-Foto? – ripeté
 
Annuii di nuovo. Erano migliaia in realtà, le cose che m’interessavano. Vedere Midgar, viverla come mai avrei potuto fare. Stare con lui.
Ma avevo bisogno di una conferma, la più importante di tutte. Te …
 
- Va bene – annuì quindi lui, tornando a sorridere e grattandosi con una mano la nuca – Aspetta un attimo … - disse, quindi si alzò e lasciò la stanza
 
Tornò dopo qualche minuto, con in mano un piccolo fascicolo giallino
 
-Tseng e Angeal mi ammazzeranno se lo scoprono – ridacchiò, tornando a sedersi al mio fianco e abbandonando il plico sul letto in mezzo a noi - Ma credo tu intendessi queste, giusto? – chiese, aprendolo e mostrandomene il contenuto
 
Non guardai le schede. Seguitai a fissarlo assente, quasi catapultata in un’improvvisa, folle idea: Era davvero un adorabile cucciolo. Ed io ero … come lui.
Nel senso che, giocando, avevo potuto riconoscermi in quel ragazzo di campagna così scanzonato e sincero.
Il mondo che gli ruotava intorno era così immenso per lui! E, pensai, se avevo con me la console, potevo dimostrargli cosa sarebbe successo di lì a poco. Potevo… potevo salvarlo!
Lo so, era una pazzia pensare di salvare il personaggio di un videogame, ma … per me, in quel momento, fu come l’unico motivo plausibile per cui mi ero svegliata in quel mondo.
Ancora non riuscivo a capire, così come forse non riesco a farlo neppure ora che so che … devo solo ritrovarti.
Ma fu la prima speranza a cui mi aggrappai per non precipitare
 
-Mi stai ascoltando? –
 
La voce gentile di Zack mi riscosse. Lo guardai, e annuì con un mezzo sorriso. Quel pensiero mi aveva scosso, e lui doveva averlo notato
 
-Tutto okkey? – mi chiese, inclinando di lato la testa e sfiorandomi appena un braccio con la destra guantata di nero
 
Lo guardai, emozionata. Non era attrazione, neanche quella flebile vibrazione che mi facesti provare tu, tempo dopo.
Fu … emozione. Perché Zack era vero, di fronte ai miei occhi, e mi stava sostenendo con le sue mani forti. Sentii leggero il suo calore sul mio braccio, il suo tocco appena percepito sopra la stoffa leggera del mio pigiama.
Sorrisi, sciogliendomi
 
-Okkey- bofonchiai quindi, in risposta, annuendo per essere più convincente
 
Lui sorrise a sua volta, e mi consegnò la prima pagina del fascicolo, staccandola dalla graffetta che la teneva ancorata alle altre.
Sul foglio che mi aveva porto c’era una foto, quella del piccolo Rufus ShinRa assieme a sua madre e a suo padre
 
-Questo … - mi spiegò indicando l’uomo che stringeva le spalle di Rufus – è il presidente della Shinra Company, la società per cui lavoriamo io, Tseng, e tutti quelli che hai conosciuto. Quel bambino invece credo sia suo figlio … dovrebbe chiamarsi Rufus, o qualcosa del genere. Non ne sono sicuro, però. E, per logica, quella è sua madre. –
 
Annuì, sforzandomi di non sorridere di nuovo alla sua ingenuità.
Nel frattempo lui abbandonò la pagina al mio fianco e prese in mano la seconda. Quando vidi l’immagine che vi era stampata tratteni appena il fiato, inquieta, ma la presi ugualmente tra le mani.
 
-Questo invece … - mi disse con orgoglio – è il grande Sephiroth, l’eroe di SOLDIER. Io voglio diventare come lui, e lo sarò un giorno. – mi confidò, con gli occhi che gli brillavano
 
Guardai la foto, poi lui. “Si, lo sarai Zack!” pensai “Ma per me lo sei già adesso”.
Prese la terza scheda
 
-Questo è Angeal, il mio mentore. - mi disse, porgendomela – Fidati, mai farlo arrabbiar.! – scherzò, mentre la prendevo tra le mani e lo guardavo con un risolino – Però è un bravo maestro, sai? – aggiunse poi, fiero e malinconico
 
Mi venne in mente lo sguardo che avevo ricevuto poco tempo prima. E mi venne in mente Mary, la mia migliore amica che se n’era andata per sempre. Quante volte avevo pianto nel rivedere la scena della morte di Angeal.
E in quel momento mi venne quasi la voglia di rivelare a Zack ciò che sapevo. Ma mi trattenni. Dentro me, qualcosa mi disse che non era né il tempo, né la scelta più giusta.
Infine, quando Zack voltò la pagina per la quarta, il mio cuore perse un colpo, e mi portai una mano davanti alla bocca, incapace di respirare
 
-E questo è … -
-Genesis! – mormorai
 
Si, amore mio. Eri tu.
E per un istante durato secoli, la mia mente non fece che guardare quella foto, e le mie labbra ripetere senza voce il tuo nome, mentre la mano le copriva. "Genesis …"
Lo sai, che non mi stancherei mai di chiamarti. Come allora.
Zack mi guardò sorpreso, mentre io provai a sfiorare con la mano libera la tua immagine, ma non osai toccarla.
Era la conferma che cercavo. Se era vero che mi ero svegliata in quel mondo, allora era anche vero che … avrei potuto incontrarti.
Tu, quel SOLDIER che la mia mente aveva sognato chissà quante volte in chissà quanti contesti. Ti avevo visto in divisa, in abiti comuni, e anche senza. Ma sempre da dietro un maledetto schermo di un computer. Ti desideravo con tutta me stessa, ora. Dal vivo. E lo faccio ancora.
Perchè il sogno di Zack era SOLDIER, e il mio sei tu.
Mi tremarono le mani per l’emozione. Intanto, Zack continuava a guardarmi, confuso e sbigottito
 
-Chi sei …? – mi chiese quindi infine, senza riuscire a trattenersi
 
E io, guardandolo, risposi avventatamente con la menzogna più spudorata e salvifica che avesse mai potuto balenarmi in testa
 
-Rhapsodos … -  sperando di avvicinarti a me – Valery Rhapsodos. –
 
Ma subito dopo caddi in preda alla paura più folle,  chiedendosi senza riuscire a crederci: “Perché l’ho fatto?

 

Zack Fair

(...)

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Capitolo 4
*** Primi segni di degrado ***


CAPITOLO III
 
/// Flashback///
 
- Rhapsodos? – chiese Angeal, stupito
 
Si trovavano al 46esimo piano del Quartier Generale della ShinRa, intorno a loro si muoveva frenetica la vita del reparto SOLDIER, ma loro sembravano coinvolti in una conversazione abbastanza seria da spingerli a non curarsene neppure.
Angeal soprattutto, continuava a guardare il suo allievo con aria cupa e accigliata più del solito
 
-Giuro Angeal! – esclamò Zack, sporgendosi in avanti con le mani, quasi a supplicarlo di credere alla sua sincerità – Mi ha detto di chiamarsi Valery Rhapsodos!
Ma … perché ti preoccupi così tanto? – chiese infine ingenuo, dopo una breve pausa
 
Più che naturale, dato che ancora gli era segreto il legame del suo mentore col Soldier dal soprabito rosso, anche se immaginava che tra i 1st class ci fosse un certo grado di amicizia.
Angeal rimase in un silenzio pensieroso per qualche attimo, poi si riscosse scuotendo la testa e le spalle
 
-Sta mentendo. – concluse con estrema sicurezza, voltandogli le spalle e iniziando a camminare verso l’ascensore 
-E tu come fai a saperlo? – ribatté allora il più piccolo, seguendolo – A me è sembrata piuttosto sincera. – caparbio
-Lo so. – lo interruppe allora Hewley, irritato

Poi però, forse accortosi del suo tono troppo esagitato, sospirò e si sforzò di sorridere, rivolgendogli un pò più di attenzione

– Può anche darsi che abbia conosciuto Genesis, ma l’ho vista piuttosto scossa … – aggiunse – può essere abbia subìto uno shock, per questo ti ha risposto così. –

-Si, ma … -
-Zack … -
 
All'improvviso ammutolito da quel tono, il giovane 2nd class guardò negli occhi il suo mentore, che si era fatto improvvisamente serio.
Quello sguardo preoccupato e severo avrebbe anche potuto essere abbastanza, ma per rafforzare la sua decisione gli posò una mano sulla spalle e disse
 
-Lascia che se ne occupino i turks. –

Zack però, nonostante la premura di Angeal, non voleva ancora arrendersi

-Ma lei parla solo con me! - piagnucolò, caparbiamente
 
Allora con un sospiro Angeal tolse la sua mano dalla spalle dell’allievo e ricominciando a camminare gli ordinò, senza ammissione di repliche
 
- Stanne fuori! È per il tuo bene. –
 
/// Fine ///

 

 
***
 
" -Cerco di aiutarti! Perché non vuoi parlare con me? – mi chiese Tseng, in maniera quasi esasperata
 
Lo fissai, ammutolita.
Aiutarmi? E come? Spifferando tutto al Presidente, che a sua volta avrebbe scomodato il reparto scientifico, che mi avrebbe affidato alla “cure” dei Turks in maniera più formale di questa?
Certo, come no.
Ammesso che non stesse già accadendo …
Aveva già fatto abbastanza portandomi tra le mura della Shinra con la scusa di farmi medicare qualche piccola ferita che mi ero fatta cadendo.
Se avessi parlato con lui rivelandogli ciò che i suoi superiori volevano sapere, ben presto sarei di sicuro diventata come … Vincent Valentine.
E tutto volevo, tranne questo.
Avevo avuto il coraggio di parlare a Zack, anche se solo tramite una mezza verità, perché sapevo che di lui avrei potuto fidarmi.
Certo, sapevo anche che ne avrebbe parlato con Angeal, ma questo era ciò che volevo … perché di sicuro lui te ne avrebbe parlato, e magari tu avresti voluto … incontrarmi.
Era quello che speravo, fin dal principio.
Avevo paura, la sola idea di vederti mi faceva sentire così spaventata da indurmi a svenire maledicendo la mia stupidità. Non volevo vederti, perchè temevo ... una tua reazione contraria.
Ma questo era ciò che riguardava il mio io vigile. Il mio inconscio invece, la parte più profonda del mio essere, aveva sempre voluto incrociare quei magnifici occhi color mako, così belli, capaci quasi di parlare da soli.
Dio, mi faceva impazzire il solo sapere di essere così vicino a te! Così come mi fa impazzire ora, il ricordo di quei giorni … e il sapere di non averti più accanto, anche se solo temporaneamente.
La porta della stanza si aprì, io seduta sul comodo materasso del letto mi voltai di scatto, quasi presa alla sprovvista, e vidi entrare Cissnei, la giovane turk dai capelli rossi cresciuta tra le mura della Shinra
 
-Allora? – chiese, guardando prima me poi Tseng, e incrociando le braccia sul petto
 
Il wutaiano s’appoggiò alla scrivania affollata di carte, accostata alla parete a destra della porta, e scosse la testa sospirando esausto.
Per poco non scoppiai a ridere, non so perché.
 
-Niente … - disse
-Con Zack ha parlato, però. – commentò allora la ragazza
 
Il sorriso scomparve immediatamente dalle mie labbra per lasciare posto ad un’espressione quasi terrorizzata, e il cuore s'arrestò nella gola mentre i due mi rivolsero rapidi sguardi indagatori e attenti.
E se …” pensai, stringendo i pugni delle mani sul materasso e sforzandomi d’ignorarli.
No, Zack non lo farebbe mai” presi a ripetermi subito dopo, finendo per convincermene quando udii la risposta stizzita di Tseng
 
-Si, ma non ha voluto dirmi nulla. A te? – chiese quindi, senza contarci troppo
Cissnei scosse la testa
 
-Ha cambiato argomento appena gliel’ho chiesto… -
 
Sospirai, improvvisamente rilassata e sollevata, e tornai a sorridere, guardando i miei piedi nudi penzoloni a pochi centimetri dal pavimento in legno.
Tseng rimase per qualche altro secondo in un pensieroso silenzio, poi mi si avvicinò e s’inginocchio di fronte a me, prendendomi le mani e guardandomi come fossi una bambina spaurita.
Non so … forse lo ero.
 
-Perché non vuoi parlare? – domandò, teneramente –Cosa ti fa paura? –
 
Lo guardai dritto negli occhi per qualche istante, spostai poi la mia attenzione su Cissnei che mi fissava innervosita, le braccia ancora incrociate sul petto e una posizione rigida, battendo la punta del piede destro nervosamente sul vecchio pavimento in parquet.
Infine mi alzai, e aperta la finestra mi affacciai guardando in direzione della cupola del grande edificio Shinra, verso quelli che sapevo essere i laboratori Shinra.
Come avevo sperato, Tseng capì quasi subito, avvicinandosi a me e guardando nella stessa direzione
 
-Oh!- mormorò soltanto, portandosi una mano sotto il mento e abbassando lo sguardo
-Sei una cavia?- chiese invece Cissnei, facendosi anch’ella avanti
 
La guardai con un mezzo sorriso quasi impietosito dalla sua ingenuità, e scossi la testa.
 
-Credo che … non si senta al sicuro con noi Turks.- disse invece Tseng, dopo avermi osservata
 
Mi guardarono entrambi, ma io non risposi neanche con uno sguardo. Sorridendo chissà perché mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi.
Solo quando udii la porta chiudersi, e le voci appena percepite dei due infittirsi in una conversazione fuori dalla stanza, il sorriso si spense e lasciai sfuggire una lacrima da sotto le mie palpebre chiuse.
Non sapevo per quale motivo, ma avevo bisogno di piangere.

 
***
 
/// Flashback///
 
- Loveless, Atto III -
 
<< My friends, your desire is the bringer of life,
the gift of the goddess … >>
 
 
<< Genesis! >>
 
Il SOLDIER dai capelli rossi faticò non poco a distrarsi dalla lettura del suo libro preferito, per rivolgere l’attenzione ad Angeal che era appena apparso sulla soglia della sua camera da letto.
Sollevò gli occhi verso di lui senza muovere la testa, e sorrise appena, come faceva di solito non appena i suoi occhi verde oceano incrociavano quelli neri dell’amico, anche se ultimamente non riusciva più a farlo come prima.
Tutti davano la colpa all’ombra dell’invidia per Sephiroth, che comunque non era mai andata oltre alla semplice agonistica rivalità, ma la verità era ben diversa ora, da qualche mese a questa parte.
Da quando nella sua mente avevano iniziato ad insinuarsi, come famelici tarli, terribili sospetti che ormai non riusciva più a togliersi di dosso, per quanto ci provasse, alimentati da quei continui malesseri fisici che ultimamente lo coglievano sempre più spesso. Essere affetto da stanchezza cronica non era certo un vanto per un SOLDIER 1st class, per non parlare poi della recentissima scoperta di quella maestosa, inquietante ala nera che gli era spuntata sulla schiena durante una missione e che a fatica era riuscito a far scomparire.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, rendendolo ancora più inquieto e irritabile.
Solo grazie a Loveless riusciva, seppure per qualche breve attimo, a dimenticare e a rilassarsi.
 
- Angeal. - rispose, a mo’ di saluto, fingendosi distratto
 
Hewley gli si avvicinò con aria truce e preoccupata, parandoglisi davanti. Svogliatamente, Rhapsodos sospirò e chiuso il libro si mise a sedere sul letto, stampando sulle sue labbra un ghigno sornione e spostandosi un po’ per lasciar posto all’amico, che si accomodò vicino a lui guardandolo negli occhi
 
-Come stai? – gli chiese
 
La sua premura era proverbiale quasi quanto il suo senso del dovere, ma in un momento simile – soprattutto perché ancora nessuno sapeva della sua ala nera -, quella domanda lo urtò, e non poco. Tuttavia, trattenendosi decise di non darlo a vedere, rispondendo con un altro ghigno che mal celava una smorfia
 
-Ero solo un po’ … stanco. Tutto qui – come se questo non fosse già abbastanza preoccupante dopo il misero allenamento condotto quella mattina
 
Erano settimane che non riusciva più a combattere senza avere il fiatone, per la miseria!
 
- Sei venuto solo per questo? – concluse, fissandolo come se questa fosse stata una sua colpa
 
Angeal lo fissò indeciso per qualche attimo sul da farsi. Titubò, fissandolo per qualche altro istante prima di decidersi a porre la fatidica domanda
 
-Tu … - bofonchiò, poi sospirò un paio di volte ed infine tornando a guardarlo negli occhi terminò - Tu hai una sorella? –
 
A quelle parole, Genesis si esibì in un sincero sguardo sorpreso e stranito, senza sapere se riderne o esserne preoccupato.
In una circostanza normale, sicuramente la scelta sarebbe ricaduta sulla prima opzione. Una grossa risata e magari anche qualche battuta sagace per tranquillizzare gli animi scuotendo la testa.
Ora però … le circostanze erano lievemente cambiate, e dato che non sapeva più cosa aspettarsi si limitò ad aggrottare le sopracciglia e allargare il sorriso malcelando la smorfia che ci stava sotto
-Angeal … -  lo schernì - Mi meraviglio di te. Stiamo insieme da quando eravamo in fasce, dovresti saperlo ormai, da chi è composta la mia famiglia. -
 
Hewley scosse la testa e abbassò lo sguardo, affranto
 
-Lo so, ma ... – sospirò, lasciando la frase a metà come se continuarla fosse troppo pesante per entrambi
 
Genesis si fece serio, lo scrutò attentamente e mormorò, quasi preoccupato
 
- Angeal … -
 
Quello alzò gli occhi nei suoi, e bastò uno sguardo per capire che non poteva più tirare oltre la corda. Annuì, pesantemente
 
-Ieri mattina … - iniziò, ancora in dubbio tra il farlo e non farlo ma rendendosi conto di non poter più tornare indietro – Zack e due turk hanno trovato una ragazza in stato confusionale, nel settore 8. – spiegò
- E quindi? – chiese il rosso, spazientito
 
Hewley lo guardò in viso per qualche secondo, poi finalmente diede la strana e sconvolgente notizia
 
-Non parlava, fino a che non ha visto una tua foto. Ha fatto il tuo nome, e dice di chiamarsi … Valery Rhapsodos. -

 

 

Genesis Rhapsodos

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Capitolo 5
*** Fratello e sorella ***


Capitolo IV
 

-Toc, toc! –
 
Stavo riposando, sdraiata sul letto nella stanza di Tseng, in casa sua – di cui conoscevo solo l’entrata e quell’ambiente da me abitato -, quando quel suono, pronunciato da una voce gioviale, vispa e dolce, colorò istantaneamente le mie labbra con un sorriso.
Mi diedi ancora qualche secondo, poi riaprì piano gli occhi e vidi il volto bambino di Zack spuntare da dietro la porta con un sorriso, allegro e quasi tenero, mentre ciocche blu notte dei suoi capelli scivolavano appena dolci, carezzando quelle pupille azzurro cielo.
 
-Posso? – chiese gentile, piegando la testa proprio come un cucciolo curioso.
 
Sorrisi di nuovo. Non c’era da stupirsi che Angeal gli avesse affibbiato quel soprannome.
Cielo, mi sentivo come un profeta che sapeva ogni cosa di quello che sarebbe accaduto di lì a poco ma non poteva né dir nulla né fare qualcosa per impedire che accadesse.
Il senso di colpa era grande al solo pensiero, e assieme ad esso saliva la voglia di tornare immediatamente a casa.
Assorta in questi pensieri, non mi accorsi neanche che, nel frattempo, Zack era entrato e, chiusa la porta dietro di sé, si era seduto accanto a me, su un angolo libero del letto.
Mi misi a sedere anche io vicino a lui, risollevandomi e poggiando la schiena sulla spalliera di metallo poggiata a ridosso del muro. Era un po’ scomoda, ma il sorriso di Zack e la sua compagnia rendevano tutto più accettabile.
Comunque, i miei occhi dovevano aver mostrato la mia preoccupazione, perché dopo avermi scrutata un po’ preoccupato mi chiese
 
-Va tutto bene? –
 
Fui tentata di annuire, ma sapevo già che Zack non avrebbe creduto a quella menzogna, avendo già percepito il mio disagio. Perciò abbassai lo sguardo e sentii le lacrime salire ad annebbiare i miei occhi.
Fu allora, che accadde qualcosa che mi stupì, anche se in fondo speravo succedesse.
Zack mi sfiorò dolce il mento, invogliandomi piano ad alzare il viso verso di lui, e quando i nostri occhi s’incrociarono … non pensai più a nulla, perché con forza e dolcezza mi abbracciò forte, stringendomi contro il suo petto, mentre le mie braccia si allungavano ad avvolgere le sue spalle e le mie mani si aggrappavano agli spallacci della sua divisa.
Il cuore mi batté forte e veloce in petto per l’emozione, e smisi di respirare per qualche secondo mentre il calore del suo corpo mi riscaldava, ed io cercavo di seguire il suo respiro, ascoltando attentamente il battito ritmico del suo cuore.
Ancora qualche attimo, poi la sua stretta si rafforzò, come a proteggermi, il mio viso affondò nel suo petto e lui sussurrò, carezzandomi i capelli
 
-Senti … - disse, piano – Facciamo … come se fossi mia sorella. –
 
Non era una domanda, ma un proposito del suo cuore che così, all’improvviso, arrivò a sconvolgermi senza quasi darmi il tempo di capire se anche questo fosse un sogno nel sogno, o tenera realtà.
Mi risollevai appena, senza smettere di stringermi a lui, e lo guardai negli occhi a bocca aperta, stupita.
Lui arrossì, sorridendo imbarazzato
 
-Si, insomma …- balbettò, guardandosi intorno ma continuando a tenermi stretta – Fratello e sorella ti va bene?  - ribadì, tornando a guardarmi negli occhi ma con ancora quel rossore ad imporporargli le guance – Io proteggerò te, e tu … tu parlerai con me? – concluse, sbarazzandosi del pudore e sorridendomi deciso
 
Sorrisi, continuando a guardarlo negli occhi. Lo volevo. Si, lo volevo tanto. Ma … sarebbero accadute tante cose, da adesso in poi nella sua vita. Prima fra tutte … Aerith.
Tra qualche anno, si sarebbero conosciuti, e inevitabilmente questo me lo avrebbe portato via. Non potevo impedirlo, non era giusto per lui.
Così come non potevo impedire che il dolore cambiasse il suo cuore al posto della gioia, o che … la sua storia si concludesse in quel … quel modo che io …
Non potevo, ma ….
 
-E’ così importante … parlare? – chiesi, dolcemente
 
Zack mi sorrise. Perché non potevo cambiare il destino?
Esitò ancora qualche secondo, poi annuì
 
-Si. – disse – Voglio … starti vicino. –
 
Oh, Zack. No, ti prego!” pensai, e le lacrime tornarono ad annebbiare i miei occhi.
 
-Zack …- mormorai, posando le mie mani sulle sue, sulla stoffa morbida delle lenzuola
 
Dovevo dirglielo. Ma quando lui mi guardo, quasi supplicante, non ne ebbi la forza. Non potevo … spegnere quel sorriso. Perciò, mi limitai a sorridere e annuire, di tutto cuore, mentre un nodo mi si stringeva in gola
 
-Solo fratello e sorella, però! - lo raccomandai
 
Dovevo ancora conoscerti.
Lui sorrise felice, e coinvolgendomi in un altro abbraccio contento mi rispose, sincero
 
-Okkey, promesso! –
 
***
///Flashback///
 
Gli occhi di Genesis si spalancarono così come la sua bocca
 
-Che???- chiese, sorpreso
 
Angeal continuò a guardarlo, serio in volto. Il rosso lo fissò ancora per qualche secondo incredulo, poi esplose in una risata
 
-Ho capito. – disse infine, scuotendo la testa e ributtandosi sdraiato sul suo letto – E’ un altro dei tuo scherzi stupidi. E dire che stavolta c’ero quasi cascato! – ridacchiò
 
Hewley scosse la testa, grave
 
-Stavolta no, Genesis … Non è uno scherzo. –
 
Il rosso tornò a fissarlo, spegnendo il ghigno sulle sue labbra ed incupendosi all’istante.
Angeal attese ancora qualche istante, dandogli il tempo di rendersi conto della situazione, poi sospirò, tirò fuori dalla tasca del pantalone della sua divisa una foto e gliela porse.
Genesis si mise nuovamente a sedere, scattando e prendendola tra le mani per osservarla.
 
- La conosci, Genesis? -  gli chiese il moro infine
- Certo che no, Angeal! – sbottò allora lui, nervoso – Ovviamente no! E poi … oh insomma, non sarò certo l’unico in tutta Gaia a chiamarsi Rhapsodos, no? – alzandosi di scatto e avvicinandosi alla finestra aperta che deva sul lato sud del settore 8, continuando a stringere la foto della ragazza
 
Era la pura e semplice verità, non aveva mai avuto modo di conoscerla.
Hewley sospirò, quasi sollevato da quell’affermazione
 
-Speravo che mi rispondessi così. – commentò, con un sorriso appena percepito che spense però quasi subito, assumendo un’espressione più preoccupata quando si accorse di non essere più ascoltato.
 
Genesis scrutava estraniato il paesaggio fuori dalla finestra, con sguardo assorto e la foto stretta tra le mani, mentre cercava di riportare alla mente tutti i suoi “errori”, e un po’ fu anche terrorizzato dall’idea che quella ragazza che si faceva chiamare col suo cognome fosse una di quelle che … beh, che aveva “conosciuto” prima della fama che gli permetteva di concedersi molti meno divertimenti, all’epoca in cui non era neanche un 2nd class.
Non erano state tante, in realtà, e a dir la verità non si erano neanche spinti tanto oltre.
Solo con qualcuna di esse aveva sperimentato il piacere fisico, appena un paio o forse qualcuna di più.
Ghignò malandrino, ma proprio allora Angeal lo riscosse nuovamente da quei piacevoli pensieri chiamandolo per nome.
Riassunse la sua espressione sicura di sé, e guardando intensamente gli occhi dell’amico espresse la sua decisione
 
-Voglio incontrarla. – disse – Ora! -
 
(Continua …)

 

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Capitolo 6
*** Grandi amicizie ***


Capitolo V
 

(…)
 
Angeal alzò di scatto il volto verso l’amico
 
- No! - esclamò apprensivo, gli occhi sgranati e pieni di preoccupazione
 
Genesis alzò lo sguardo e corrucciandosi si voltò verso di lui, scrutandolo.
Ma che aveva quell’oggi? Era strano, molto strano, quel suo comportamento più nervoso del solito, per uno come lui che si sforzava di non perdere la calma nemmeno in situazioni di estremo pericolo.
Hewley sospirò, forse accortosi del tono troppo veemente che aveva usato. Si sforzò di sciogliersi un po’, quindi moderando la voce disse, quasi supplicandolo
 
- Non fare niente di stupido, Genesis. Per favore, lascia che se ne occupino i Turks. Lasciala a loro. -
 
Il rosso strinse i pugni. Angeal, era proprio impazzito allora! Forse dipendeva da una qualche forma d’intossicazione da Mako, o era colpa di tutto il macrobiotico di cui si nutriva.
Come poteva anche solo pensare di parlare così? Là fuori c’era una ragazza che diceva di conoscerlo, che ammutoliva di fronte a una sua foto come se avesse visto un fantasma tornare dall’oltretomba, il che non sarebbe stato altro che solita routine per lui abituato a tutte ragazzette urlanti che popolavano il suo fan club, se non fosse che quella in particolare aveva subito un qualche tipo di shock e l’unica cosa che era riuscita ricordare era di chiamarsi Rhapsodos, proprio come lui!
E per Angeal pur sapendo questo avrebbe dovuto lasciar fare ai Turks??
 
- Ti fidi troppo della Shinra, Angeal. - lo apostrofò, lanciandogli uno sguardo scettico e anche infastidito
- Forse … - rispose quello - Ma sento che quella ragazza non porterà altro che guai. -
 
Genesis ghignò, gettandogli un’altra occhiata dubbiosa
 
- Lo senti? - gli fece eco, inclinando appena il capo di lato
 
Il moro annuì, e nei suoi piccoli gesti il rosso poté leggere un velo di inquieta paura.
Angeal non aveva mai sopportato i fenomeni che non sapeva spiegarsi, lo rendevano vulnerabile e non gli piaceva quella sensazione, anche se negli ultimi tempi la vita in SOLDIER gli aveva insegnato a farsene una ragione riuscendo almeno in piccolissima parte a mitigare questo suo lato caratteriale, che però adesso era misteriosamente ritornato a galla con l’apparizione di quella strana ragazza
 
- Si, lo sento. - confermò - E mi sento anche in dovere di ricordarti che non dovresti parlare così. Sei un SOLDIER anche tu, ricordi? - lo rimproverò - La Shinra ti paga e ti concede vitto e alloggio. -
 
Il rosso sorrise di nuovo, poi con calma tornò a sdraiarsi e riprese Loveless in mano, immergendosi di nuovo nella lettura e lasciando Angeal lì a guardarlo severo
 
-Me ne ricorderò. - disse soltanto, svogliatamente - Tu però ricordati di chiudere la porta. E salutami il tuo cucciolo non appena lo rivedi. - sorridendo beffardo
 
Angeal incrociò le braccia e scuotendo la testa sbruffò, scuotendo la testa esasperato. Poi, mentre Genesis lo osservava di nascosto con un sorriso, uscì nervosamente dalla stanza senza neanche salutarlo. Tanto non gli avrebbe risposto comunque.
 
/// Fine Flashback ///
 
***
 
- Ti piace la casa di Tseng? - mi chiese Zack mentre pagava il gelato, scorgendo con la coda dell’occhio il turk a qualche metro di distanza da noi, mentre ci osservava da lontano.
 
Eravamo usciti da circa una decina di minuti, e dopo un primo “giro turistico” 8 si era offerto per pagarmi uno spuntino prima di pranzo.
Era stato proprio Zack a convincere me e soprattutto Tseng affinché uscissi a fare un giro. In realtà lo aveva stonato di chiacchiere fino a che non era crollato per sfinimento, ed era stato abile e caparbio, perché all’inizio Tseng era stato irremovibile.
 
-Non si può Zack, lo sai benissimo. – aveva detto, col suo solito tono severo, incrociando le braccia sul petto e scuotendo la testa
- Oh, andiamo! – aveva protestato l’altro, esibendosi in gesti di esasperazione – Non parla, non mangia, non beve e non esce! Ma che vi prende a tutti quanti?! Ha bisogno di aiuto, non di un carceriere! Sveglia belli!! – aveva concluso infine con foga, agitando le mani di fronte al suo naso e fissandolo come si fissa un bambino stordito appena alzato dal letto
 
Io, seduta sul letto, me ne stavo ad osservare la conversazione da lontano con un sorriso sulle labbra e tanta speranza e tenerezza in petto. Ascoltando questa ultima frase però non potei fare a meno di ridacchiare, divertita, perché nel pronunciarla Zack aveva sventolato indice e medio uniti a pochi centimetri dal naso di Tseng, che lo aveva fissato con un’espressione che definire da ebete sarebbe troppo poco. Era così ridicolo, ahah!
Una scenetta a dir poco esilarante che mi aveva spinto a dimenticare per qualche minuto gli oneri gravosi della situazione in cui ero venuta a trovarmi.
Zack e Tseng si erano fermati, e guardando nella mia direzione mi avevano lanciato un’occhiata stranita. Poi, Fair aveva esordito, indicandomi con le braccia al turk
 
-Ecco, hai visto? Scommetto che con te si annoia a morte! –
 
E così Tseng, infastidito dalla supposizione del SOLDIER, aveva accondisceso brontolando
 
-Sto giocandomi il posto, ne sono sicuro …-
-Piantala! – aveva sorriso Zack, avvicinandosi a me vittorioso – Mal che vada ti raccomando per SOLDIER, eheh. –
 
E giù un altro scroscio di risa da parte mia.
A dire la verità, era vero. Non mi ero mai sentita così bene come con Zack, anche se sapevo che non sarebbe durata a lungo quella pace, o almeno lo presupponevo. Avevo voglia di ridere, e di non pensare ad altro se non a stare insieme a lui.
 
-Allora? – mi chiese ancora lui, visto che rimanevo muta
 
Mi riscossi, lo guardai. Aspettava una risposta. Sorrisi ed annuì, ma prima di rispondere mi diedi da fare col gelato perché stava cominciando a sciogliersi e presto se non mi fossi sbrigata avrebbe finito per colarmi sul braccio.
Era buono, ma non so a che gusto fosse perché era stato Zack a sceglierlo per me, sostenendo che fosse il più buono che avesse mai mangiato, e poi perché aveva un nome così strano che faccio fatica a ricordarlo. Credo comunque dovesse esserci della ciliegia dentro, o qualcosa di simile.
Lui attese per tutto il tempo mangiando il suo, infine tornò a guardarmi ansioso di ascoltare la risposta
 
-Più o meno … - dissi infine, e vidi i suoi occhi illuminarsi e le sue labbra allargarsi in una smorfia convinta e malandrina
- Lo sapevo, ti fa schifo. – rispose, annuendo con sufficienza
 
Risi divertita, picchiandogli piano un braccio e stando attenta a non rovesciarci il gelato addosso
 
-Ma no! – ribadii, scuotendo il capo – dico sul serio. – ripetei, senza riuscire a spezzare il buon umore che mi aveva colta
 
In fondo non lo volevo neanche. Perché avrei dovuto?
 
-Si, certo. – annuì lui ridacchiando – Soprattutto la cucina. – continuò
 
Scoppiai di nuovo a ridere, trattenendomi a stento e annuendo con le lacrime agli occhi, seguita da lui che mi guardava soddisfatto. È sempre stato così … gli piace far ridere le persone, soprattutto se sono in difficoltà
 
-Si, soprattutto quella. – assentii, le guance imporporate di un lieve rossore
 
Lo vidi scrutarmi per qualche istante, intenerito e incantato mentre tornavamo alla normalità. Un sguardo quasi rapito, che … avrebbe dovuto farmi capire molte cose.
Ma allora ero ingenua, appena caduta del cielo e … ero un disastro con gli uomini, anche nel mio mondo di provenienza.
Camminammo per un po’ sorridendo e guardando le vetrine intorno a noi, poi quando finalmente ebbi mangiato anche l’ultimo pezzo di cono lui mi porse un fazzoletto pulito e mi chiese
 
-Allora, com’era il gelato? –
 
Ci pensai su ancora qualche secondo, concentrandomi sugli ultimi rimasugli di gusto che mi erano rimasti in bocca e cercando di capire gli ingredienti che componevano quella crema color nocciola dalle rosse sfumature. Non ci riuscii, perciò risposi basandomi sulle sensazioni che avevo provato mangiando
 
- Buono … - sorridendo appena e annuendo
 
Zack mi rivolse un’occhiata di sufficienza, alzando le sopracciglia. Risi
 
-Okkey, buonissimo! – ammisi quindi
 
Zack esultò
 
-Aaaah, ecco! – rispose, con un sorriso compiaciuto
 
Tuttavia la mia curiosità non era ancora soddisfatti
 
-Ma cosa c’è dentro? -  chiesi, facendomi seria
 
Lui scosse le spalle, storcendo un po’ le labbra in un’espressione dubbiosa che mi fece una tenerezza infinita, perché rivelava tutto il suo essere ancora bambino.
In un attimo di amara nostalgia pensai che tutto quel suo essere … l’avrebbe mantenuto fino alla fine, il come soltanto lui lo conosceva. Perché era la sua essenza, l’io da cui non si separava mai.
L’essere bambino fino in fondo, fino alla fine. Non dimenticando mai la propria infanzia, il momento in cui ogni cosa poteva essere possibile. A volte, per quanto mi riguarda, pensavo di avere già perso, questo mio lato pieno di innocenza e fantasia. Ma … in fondo … non sarei qui a raccontartelo, se lo avessi fatto, no?
E, mentre il tempo scorreva, stando con lui imparai a capirlo, che non era ancora finita per me, che in fondo anche io ero come lui. Per metà bambina, per metà …viva.
Dentro di me, nella mia mia mente giovane e giocosa, non c’era sogno che non potesse realizzarsi, né verità che non potesse essere compresa. Tutto era chiaro, limpido come un’alba in un mattino di primavera.
Anche … la nostra natura, amore mio. Si, la nostra. Perché dal momento in cui ci amiamo, non siamo altro che una cosa sola. Perciò … non puoi accusarmi di essere un mostro, perché sai bene che non è così. E tu sai, lo sai benissimo, che non lo sei. Non lo siamo.
Comunque, quella giornata insieme al mio “fratellino” era troppo bella per essere rovinata da pensieri funesti sul domani
 
- Cioccolata credo. - rispose Zack, alla mia domanda – E qualche cosa che assomiglia ai frutti di bosco. –
-Io ho sentito la ciliegia! –aggiunsi, alzando l’indice della destra come se avessi avuto un’illuminazione
- Mh, si. – ribatté lui annuendo – forse c’è anche quella. –
 
Così discorrendo, ci avviammo a piedi verso il piccolo parco quasi al centro del settore 4. Avremmo potuto andare in treno, ma Tseng voleva tenerci d’occhio ed era l’unica condizione da lui imposta per permetterci di uscire.
Non che sia io che Zack non avessimo voglia d’infrangerla …
L’edificio era un’enorme cupola di vetro in cui crescevano rigogliosi alberi, piante da fiori e qualche piccolo prato qua a là, giusto per non sembrare un rozzo accavallamento di piante in vaso. In realtà non sapevo neppure che a Midgar esistesse una cosa del genere, per me l’unico parco esistente era quello giochi, nei bassifondi.
 
-Sono i ricercatori della Shinra a prendersi cura di questa vegetazione. – mi spiegò invece Zack – O almeno credo sia così, se ti guardi bene in giro ne vedrai apparire qualcuno da dietro un cespuglio. – ridacchiò, raddrizzando la schiena e unendo le mani dietro la nuca per poi allargare le braccia – Però – aggiunse quindi tornando serio – ci lavorano anche molti cittadini come curatori dell’ordine, spazzini, potatori, eccetera … -
 
Lo ascoltai mentre affascinata mi guardavo intorno, abbagliata da tutto quel verde così … strano da trovare in una città come quella, più simile a un gigantesco mostro d’acciaio che si nutre di tutta la vita che viaggia sotto di lui.
Guardai verso il soffitto in vetro, dal quale la luce del sole filtrava a rischiarare e riscaldare l’ambiente, accarezzando appena con il loro oro le chiome verdi degli alberi.
Io e Zack percorremmo ancora qualche metro sul viale lastricato, poi ci sedemmo ad un panchina sul lato destro della strada, rilassandoci un po’
 
-Zack … - lo interruppi all’improvviso
 
Lui mi fissò in profondità negli occhi, e sorrise in un modo … strano, e bellissimo, allo stesso tempo
 
-Che c’è? – chiese, fingendo di non immaginare nulla
 
Lo sapeva benissimo invece, quello che stavo per dirgli. Lo immaginava solo leggendomi negli occhi.
 
Sospirai, e scossi la testa. No, lui doveva stare con Aerith, era così che doveva andare la storia, lei sarebbe arrivata e com’era giusto me lo avrebbe portato via.
Tuttavia … non era giusto neppure mentirgli, e farlo stare male per questo. Così bofonchiai, abbassando gli occhi
 
-Io … credo che … Si insomma, almeno tu DEVI saperlo. – sedendomi in modo da dirigere tutto il mio corpo verso di lui
 
Avevo il cuore a mille per la paura. Zack era dolce e comprensivo, certo. Ma avrebbe creduto a una simile assurda storia? Ancora non riuscivo a farlo neanche io!
Aprii comunque la bocca per parlare, ma inaspettatamente lui posò dolce e rapido un dito sulle mie labbra, imponendomi con un sorriso il silenzio
 
-Non qui sorellina … - mormorò, avvicinandosi un po’ e scoccandomi un occhiolino – Non adesso. – indicando appena con un movimento del capo dietro di noi.
 
I turks.
E io, sebbene mi sentissi morire dentro, annuii senza ribattere nulla. Dirgli la verità era uno sbaglio, e io …. non sapevo che fare.




NOTE DELL'AUTRICE: Allora, salve a tutti. Due paroline soltanto sull'ultima parte di questo capitolo, che potrebbe sembrare un pò ... azzardata. Parlo della descrizione
della serra, il luogo in cui Zack e Valery si ritrovano a passeggiare nell'ultima parte del racconto. Ebbene, quando ho iniziato a scrivere per la prima volta questa storia ahimè ero ancora molto inesperta sul mondo di FF7, su Midgar e sui suoi scenari, e non sapevo molto bene se una cosa del genere potesse realmente esistere in una città del genere.
Tuttavia, questa scena mi è venuta in mente così e ho deciso di scriverla.
Quando poi sono andata a revisionare, ho deciso di lasciarla invariata, perchè mi piaceva, e anche perchè volevo che rimanesse qualcosa della 12enne pazza innamorata di un personaggio immaginario. Mi sono perciò soltanto limitata ad editarla un pò e ad aggiungere qualche riga, ma nulla di più.
So che avrei potuto cambiare scenario, sceglierne uno che esiste realmente a Midgar per rendere più accurata la storia, ma ... come ho già detto, volevo rispettare quel poco di sana ingenuità che la me stessa 12enne aveva messo nello scrivere il pezzo. La sua fantasia, il suo estro.
In pratica, la fan di Genesis (e Zack) che ero all'epoca.
Bene, ho finito. Grazie per essere giunti fin qui, e a presto con un nuovo capitolo (dato che ce l'ho già pronto, lo posterò soltanto quando anche questo sarà recensito.)
Bye :*
 


 

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Capitolo 7
*** Genesi di un battito del cuore ***


Capitolo VI

 

Traccia musicale consigliata: Chiara - Il futuro che sarà



Ma se c'è un momento, di quei primi giorni a Midgar, che la mia mente proprio non riesce a dimenticare, è sicuramente il giorno in cui finalmente i nostri occhi s'incrociarono per la prima volta, guidati dalla mia colossale e galeotta bugia.

Successe il giorno stesso della mia prima passeggiata con Zack.
Dopo una giornata passata a divertirci e chiacchierare in cui era perfino riuscito a farmi dimenticare il disagio di essere uscita con ancora il mio pigiama addosso (del resto era l'unica cosa che avevo, e Tseng non si era preoccupato di trovarmi altri vestiti), io e Zack rientrammo a casa ch'era quasi sera, le luci elettriche era già quasi tutte accese, e un pallido tramonto colorava ormai molto fiocamente le strade della città di metallo.
Quando ci trovammo davanti alla soglia della porta di quella che di fatto era diventata anche casa mia eravamo stanchi, eppure continuammo a parlare come se non volessimo mai separarci l'uno dall'altra.
Io salii sul primo gradino della scala per guardarlo meglio negli occhi, lui si avvicinò per permettermi di farlo e appoggiò il gomito destro sulla parete. Era stretto lì dentro, talmente tanto che con quel semplice gesto mi aveva praticamente intrappolata sulle scale.
Fece qualche battuta su Tseng, che di sicuro stava aspettando che io rientrassi per seguirmi o lo aveva già fatto prima lui per potermi sottoporre al solito interrogatorio, io risi accarezzandogli con una mano il petto.
Mi guardò in silenzio, arrossii. Non dovevo. Non potevamo.

-Zack ... - lo riscossi quindi, con dolcezza, spegnendo appena il sorriso e assumendo un'aria dolce e matura
- Che c'è? - rispose lui, piegando nuovamente la testa di lato

Una morbida ciocca dei suoi capelli blu notte ricadde appena a sfiorargli la forma un po' a mandorla degli occhi, brillanti di mako e ora, grazie alla luce del sole che andava affievolendosi, ancora più azzurri e vispi.
Sospirai, alzando con fatica gli occhi da quella visione e trattenendomi dall'abbracciarlo
-Si è fatto tardi... - gli ricordai, scostandomi timidamente una ciocca di capelli da davanti agli occhi e portandola dietro l'orecchio.

Ancora una volta ricordai a me stessa che non avrebbe potuto funzionare, per molti motivi. Anche se ... forse ... devo ammetterlo, entrambi stavamo iniziando a volerlo.
Lui sorrise e annuì, appena un po' triste

-Già ... - bofonchiò, spegnendo il sorriso e abbassando gli occhi, poi però si rianimò dopo nemmeno qualche secondo - Ma un abbraccio al tuo fratellino prima di andare non lo dai? -

Sorrisi, guardandomi con circospezione intorno

- Tseng ci sta guardando ... - dissi, notando il turk a pochi metri da noi che ci aspettava a braccia conserte - E poi Angeal ti ammazzerà, se ci scopre. - gli feci presente
- E che vuoi che sia un abbraccio tra fratello e sorella? - protestò vivacemente lui, poi mi guardò supplicante inclinando di nuovo di lato la testa, e facendo il labbro tenero - E dai, Valery! - ripetè incalzandomi - Sono figlio unico, non ho mai avuto una sorella. -

Scossi la testa decisa, allargando il sorriso e sperando che questo potesse bastare

- Non si può Zack, lo sai. - risposi, e mi parve quasi che il mio cuore si frantumasse in mille sanguinanti pezzi quando notai la sua espressione amaramente delusa
-Okkey ... - mormorò triste, e indietreggiato si voltò, facendo per andarsene

Poi però, all'improvviso, si girò di nuovo e mi abbracciò forte senza ch'io avessi il tempo di protestare, avvolgendomi la nuca con una mano, affondando il naso nei miei capelli e restituendomi un brivido quando, senza che io gli avessi ancora detto nulla, commentò, portando la bocca proprio a pochi centimetri dal mio orecchio destro -Ma io posso farlo però ... -

Lo guardai a bocca aperta, lui mi schioccò un occhiolino.
Sapeva. Già tutto ... ho passato intere notti a pensare a questa frase, e alla fine mi sono convinta che non si stesse riferendo alla mia situazione attuale di "prigioniera", ma al mio amore ... per te.
Lo aveva immaginato, fin dall'inizio. E la reazione di Angeal gli aveva confermato che quella del cognome fosse stata sola una palese bugia per spingerti a venire da me. Eppure, nonostante questo, continuava a non perdere le speranze. Non lo ha mai fatto, in realtà, anche se forse con il tempo penso abbia imparato a rassegnarsi, anche grazie alla presenza di Aerith.
Sono io che ancora mi sento male per questo, nonostante non abbia fatto mai nulla per incoraggiarlo.
Comunque, in quel momento pensai solo a quanto gli volevo bene, perciò dopo un primo istante di esitazione mi strinsi più forte a lui, e fu allora che capii che almeno per quel momento, sia per me che per lui quell'abbraccio non aveva niente di più che amicizia. Semplice amicizia.
Mi fece felice. Zack aveva recepito il messaggio, e da quel momento in poi sarebbe stato per sempre ...

- Sei il mio migliore amico. - mormorai, stringendogli le braccia attorno al collo e aggrappandomi a lui

Lui si fermò all'improvviso, spalancando gli occhi e trattenendo il fiato per la sorpresa, le labbra schiuse appena. Quindi sorrise, un sorriso che gli illuminò tutto il volto, e mi prese in braccio da sotto le gambe compiendo veloce un paio di giri su sé stesso, ridendo felice.
Scoppiai a ridere stringendomi di più a lui, implorandolo con poca convinzione di mettermi giù, quando in realtà speravo facesse tutto il contrario.
Durò ancora qualche attimo, poi delicatamente Zack mi posò di nuovo a terra. I nostri occhi s'incontrarono ancora, per qualche istante nessuno dei due volle sciogliere quel tenero contatto. Poi mi diede un piccolo bacio sul naso, e mi lasciò sventolando in aria una mano a mo' di saluto e scappando via felice, in direzione dell'HQ

- Ci vediamo domani! - urlò - Ti porterò una sorpresa! -
 

\\\

Rientrai, il viso rosso e gli occhi illuminati da una gioia indescrivibile.
Dentro di me sentivo il cuore battere leggero, come il frullo delle ali di un colibrì, e pensai che se le avessi avute, un paio di ali, di sicuro in questo momento sarei volata su, nel cielo terso oltre le luci di Midgar, e avrei sfiorato le stelle lanciando un grido di felicità fino a che nella gola non avrei sentito esplodere il fuoco.
Dalla morte di Mary non mi ero mai più sentita così, mai.
Non mi era più capitato d’incontrare una persona in grado di farmi sentire libera e al sicuro, qualcuno con cui condividere la mia anima senza correre il rischio che poi potesse essere nuovamente violata.
E, data la mia situazione sentimentale disastrata (sempre stata tale con gli uomini, io), non avrei neanche lontanamente immaginato che quella persona potesse essere un SOLDIER. Anzi, non uno qualunque, ma proprio lui. Proprio Zack.

Era diverso.
Non era solo un uomo, o per meglio dire un ragazzo, ma … il mio eroe, fin dal primo momento in cui ebbi la possibilità di conoscere la sua storia! Lo era, lo sarebbe sempre stato, e lo rimane, ancora oggi nonostante tutto sia così … diverso da come sarebbe dovuto essere.
Dio, com’ero felice!
Davanti mi si presentava un’occasione rara, unica, la possibilità di strappare l’esclusività a Cloud, l’occasione di diventare la sua … sorellina! Sarei stata questo per sempre, come Cloud sarebbe stato suo migliore amico, e probabilmente fu proprio questa consapevolezza a riempirmi il cuore di allegrezza e rassicurante serenità, che zampillarono fuori dai miei occhi sotto forma di piccole lacrime.
Sapevo quale sarebbe stato il suo destino, più andavamo avanti più sentivo dentro di me di dover agire. Ma ero combattuta. Molto.
Però, in questa occasione, anche se la tristezza tornò per qualche attimo ad annebbiare il mio viso, decisi di non lasciare che questa mi divorasse.
Mi accasciai con la schiena contro la parete di mattoni lungo le scale, e mi concessi ancora qualche attimo così, ad occhi chiusi e gocciolanti ripassando nella mente ogni singolo istante di quella splendida giornata con Zack.
Sorrisi, sforzandomi di non pensare al dolore che mi attanagliava il cuore. “Non qui, sorellina” aveva detto Zack “Non adesso.”
Ma io … io avevo bisogno di dirglielo, dannazione! Non potevo starmene zitta mentre lui mi regalava attimi di gioia come quelli appena trascorsi. Era già stato abbastanza aver dovuto dirgli … di no, non aver dato quel bacio che ancora mi pesava sulla coscienza ed essere stata per un secondo artefice di un suo piccolo dispiacere! Perdonami Genesis, ma … proprio non riuscivo a non sentirmi in colpa.
Anche se sapevo, so che è stato giusto così perché io ti amo … e ti amavo già allora, anche prima di conoscerti. Volevo che fosse tuo, il mio primo bacio. Ma non sono mai riuscita a dire di no senza sentirmi in colpa, con nessuno. Non è nella mia natura, forse.
Attesi ancora per qualche istante, giusto il tempo di riprendermi completamente, poi asciugai le lacrime restanti con la manica della felpa e salii in fretta la stretta rampa di scale fino al primo e unico piano, male illuminato da una singola lampadina a muro dai riflessi verdastri, posta accanto alla porta, ritrovandomi di fronte all’ingresso chiuso dell’appartamento di Tseng.
Afferrai la maniglia, presupponendo fosse aperta, e come avevo previsto quella si girò e l'uscio si spalancò lentamente davanti a me, lasciandomi libera di entrare.
Il turk non era ancora tornato. Immaginavo sarebbe salito fra poco, visto che ci era stato alle costole tutto il giorno, così lasciai aperta la porta e tirai dritta verso l’unica camera da letto (quella in cui dormivo io). Avevo intenzione di fare almeno una doccia, anche se non avrei potuto cambiare i vestiti, e cercare qualcosa su cui poter scrivere il diario di quella splendida giornata.
È sempre stato un mio vizio: Ogni volta che vivo giornate come questa, il primo istinto appena concluse è quello di prendere carta e penna e descriverle, in ogni singolo dettaglio, per fare in modo che il loro lieto ricordo non svanisca.
Non sapevo ancora però, che le sorprese per questo giorno non erano finite. Rimaneva la più sconvolgente e inaspettata di tutte.
Spinsi in giù la maniglia di metallo dorato lucido, e non appena spalancai la porta della mia camera rimasi inchiodata sulla soglia, col fiato sospeso e un improvviso colpo al cuore.
Un ragazzo poco più grande di me, alto, snello ed elegante nella postura. Indossava un’uniforme da SOLDIER 1st class sotto un pregiato soprabito di pelle rossa, guanti del medesimo colore e materiale coprivano le sue mani, e lunghi stivali dall’estremità leggermente appuntita neri arrivavano ad avvolgergli perfettamente le caviglie con due lembi di pelle, approssimandone appena un po’ il disegno. Delicati fili dei suoi capelli color rame
, tagliati corti da un lato per permettere al pendente che dondolava dal suo orecchio sinistro di fare appena capolino sotto quella splendida e lucente cascata purpurea, arrivavano a sfiorargli appena gli zigomi leggermente pronunciati e il collo.
Ma il dettaglio più magnifico, quello che colpiva di più in tutta la sua figura, o almeno che colpì me più di quanto mi sarei aspettata avrebbe fatto, furono gli occhi.
Quegli … occhi … due meravigliose, straordinarie gemme di lifestream puro, magnetiche, strabordanti di vita, passione, curiosità, esuberanza e di tutto ciò che di controverso e prezioso potesse esistere in quel mondo all’apparenza spento, senza uno scopo e privo di calore.
Quegli occhi … bruciavano. I tuoi occhi.
All’istante catturata dalla loro intensità, dal modo in cui mi scrutavano, quasi riuscissero perfettamente a leggermi nell’anima e ne fossero consapevolmente soddisfatti.
Un fuoco intenso e incontenibile divampò in quell'attimo in me, che mi sentii quasi svenire, travolta dalla strabiliante esplosione di emozioni che riuscisti ad accendere con uno solo dei tuoi sguardi. Ogni altro ricordo o pensiero scomparve zittendosi, la testa prese a vorticare pericolosamente, il respiro divenne ghiacciato in corpo e un lungo, intenso brivido percorse la mia schiena, fino a farmi dimenticare perfino quale fosse il mio nome, dove mi trovassi adesso e quali fossero state le condizioni che ci avevano portato dove eravamo adesso, l’uno di fronte all’altra.
Semplicemente, ora c’eravamo solo io, tu, e i nostri sguardi l’uno intrecciato nell’altro. Il resto, avrebbe anche potuto esplodere in quello stesso istante che non me ne sarei neppure accorta.
Un mancamento. Indietreggiai paurosamente incespicando nei miei stessi passi, e mi salvai da una rovinosa caduta solo aggrappandomi al comò con entrambe le braccia, mentre tu continuavi a fissarmi senza liberarmi neppure un attimo dall’intensità del tuo sguardo.
Lo so che ti è sempre piaciuto farlo. E quella fu l’occasione in cui scopristi quanto mi piaceva tu lo facessi, anche se rischiai davvero di farmi male.
Le tue labbra sottili s’incresparono appena all’insù, in un impercettibile ghigno. Continuasti ad osservarmi in silenzio e nel frattempo la porta si aprì, sbattendo dietro le mie spalle. La voce di Tseng tornò a farsi sentire
 
- Che succede qui?! - chiese preoccupato
 
Mi voltai, senza riuscire a farlo per più di qualche secondo perché completamente rapita da te. Non ebbi bisogno di rispondergli.
Un’occhiata alla scena, poi una a me e a te singolarmente, e tutto gli fu più chiaro. Comunque, volli sforzarmi
 
- Nulla! – sbottai, cercando coraggio nella voce
 
Ma la tua presenza non aiutava affatto
 
- Va tutto … va tutto bene. È- è tutto apposto. - balbettai, cercando di farlo con sempre maggior convinzione
 
Tseng mi scrutò attentamente, incrociando le braccia e alzando un sopracciglio. Il sorriso sulle tue labbra si accentuò un altro po’, e inclinasti appena la testa di lato, divertito. Il turk ti lanciò un’occhiataccia di rimprovero, poi
 
-Avresti dovuto avvisare, non è una casa di villeggiatura la mia. – ti ammonì, innervosito
 
Non ti scomponesti affatto
 
-Lo terrò a mente, mammina. – rispondesti anzi, schernendolo
 
Il wutaiano bofonchiò qualcosa in risposta, ma non riuscii ad udirlo perché ero già tornata a scrutarti, desiderosa di abbeverarmi di ogni tuo gesto, respiro, parola.
La porta si richiuse alle mie spalle, restammo così di nuovo soli mentre la luce del tramonto oramai aveva lasciato spazio a quella elettrica che risplendeva su di noi da dietro la lampada in vetroresina incollata al soffitto, rischiarando tutta la stanza con una stordente luce biancastra.
Ti guardai negli occhi, ormai arresa, e più la paura aumentava, più con essa cresceva il desiderio di continuare a restarti accanto, molto, molto più vicina di così.
Fino a che, quasi senza volerlo, un mio sospiro ruppe il silenzio, sfuggendomi dalle labbra
 
- Genesis … -
 
Il tuo nome.
Lo pronunciai come fosse il mio ultima alito di vita, spontaneamente, come l’atto che facciamo di respirare.
Ma mi accorsi di averlo fatto solo quando tu tornasti a scrutarmi serio, forse cercando qualche cosa che potesse confutare o sostenere la tua tesi.
In un silenzio che finì quasi per uccidermi. Continuasti a guardami per diversi minuti, avvicinandoti sempre di più mentre le placche in legno sotto i tacchetti dei tuoi stivali facevano risuonare il rumore lento dei tuoi passi nel silenzio muto della stanza.
Ti approssimavi, mi giravi intorno e poi ti allontanavi di nuovo pensieroso, e ad ogni nuovo ritorno io mi sentivo mancare osservandoti, ghermita dai tuoi occhi su di me e pensando imbarazzata che forse avrei fatto meglio a cercare di respirare regolarmente e non tremare così tanto come in effetti stavo facendo. Ma per quanto mi sforzassi, non potevo farne a meno.
Per questo arrossii, anche se, a quanto pare, tutto ciò non faceva che divertirti.
Un attimo senza fine, intenso, indomabile e stupendo pure se in effetti stavamo solo scrutandoci.
Questa, pensai, dev’essere la passione.
Infine, quando ormai pensavo te ne saresti andato così come eri giunto e senza rivolgermi neanche una parola, lo facesti, e la tua voce fu la crepa definitiva che fece crollare il mio già pericolante castello
 
- Chi sei tu? –
 
Tre parole. Una sola, semplice domanda.
Ma come sempre quell’accento melodioso mi scosse, soffiando sul mio animo come il caldo vento del deserto sulla fresca neve appena caduta, e sciogliendomi dentro.
Non fui capace di risponderti, come sai. Avrei voluto, davvero. Con tutta me stessa avrei voluto farlo ma … non ce la feci. Non mi sentivo neanche più in grado di parlare.
Temevo ti saresti arrabbiato, invece neanche allora tu ti scomponesti.
Come se ti aspettassi quella reazione sorridesti, appena un po’ malizioso, e tornando a girarmi intorno concludesti
 
-Forse dovrei smetterla di ronzarti attorno come un avvoltoio. – in quella che doveva forse sembrare una scusa ma invece aveva l’aria di essere tutto il suo opposto
 
Quindi ti fermasti a pochi centimetri da me e, all’improvviso, dopo avermi scrutata attentamente un’ultima volta avvicinasti rapido il tuo viso verso di me, sibilando
 
-No? Tu che dici? –
 
Guardai le tue labbra che si muovevano, vicinissime alle mie. Tu sorridesti accorgendotene e, tornando a voltarmi le spalle, andasti a sederti sulla sedia in legno della scrivania, accavallando le gambe una sull’altra, posando un gomito sul tavolo e sfiorandoti il mento appena con una mano, pensieroso e compiaciuto mentre l’altra mano ciondolava appoggiata su di una gamba. Sembravi in attesa di qualcosa, ma … sulle prime non riuscii proprio ad arrivarci.
Non … io non … DIO, NON MI SEMBRAVA NEANCHE VERO! Cristo santo, come eri bello! Come sei bello, amore mio!
Riuscivo a pensare solo a questo, a quanto la tua presenza mi facesse sentire bene e male al contempo, a quanto fosse minacciosa e rassicurante al contempo e anche a quanto avrei voluto …  passare tutto il resto della mia vita a viverla semplicemente fissando i tuoi occhi, bevendo dalle tue labbra e toccando il miele di quei capelli che brillavano, scintillavano di riflessi dorati perfino se colpiti dalla fioca luce di una miserevole lampadina a led!
Lo sai, non riesco a non pensarti lontano da me, sin dalla prima volta in cui ti ho visto. E la tua assenza adesso, mi fa così male da togliermi il fiato. Come la prepotenza della tua ammaliante presenza.
Mi successe anche quella volta, in cui di fronte al tuo sguardo risi dentro di me considerando che, forse, stavo pensandoti esattamente come avrebbe fatto una delle tue tante fan sfegatate, e nulla di più.
Ma la mia situazione, per più di un motivo che presto avremmo scoperto insieme, era diversa. Molto diversa.
Ero di un altro mondo, di un altro universo, di un’altra epoca. E tu, come potevi saperlo?
Tu, come Zack, ancora non potevi sapere. E in un primo momento pensai che forse non avresti mai dovuto farlo.
 
- Sei … una mia fan, per caso? –
 
La tua domanda, diretta, compiaciuta e senza preamboli inutili, arrivò proprio nel momento in cui stavo ancora decidendo se dirtelo o no.
Sembrava quasi fossi fiero di avere quello stormo di seguaci fanatiche e urlanti.
Mi spiazzò.
Scossi la testa, con un sorriso. Si che lo ero. Lo sono, prima di tutto. Ma … non sono soltanto questo. E temevo che se ti avessi risposto di sì tu avresti avuto ciò che volevi, e tutto sarebbe finito lì mandando al diavolo i miei sforzi di attirarti a me. Sarebbe stato tutto più difficile, se questo fosse accaduto.
Ti vidi scrutarmi ancor più attentamente, contrariato, come se avessi appena negato una tua ferma convinzione. Abbassai di nuovo il viso, intimidita, per non incrociare i tuoi occhi e ripiombare nel caos
 
-Ti chiami Rhapsodos. – m’incalzasti allora tu, determinato e anche un po’ infastidito – Lo sai che è anche il mio cognome, vero? –
 
Stavolta non mentii.
Non so dire esattamente perché, ma sentirti pronunciare la tua identità con la tua voce splendida e calda, ebbe l’effetto di riempirmi di una sensazione bella e strana allo stesso tempo, che partiva dallo stomaco e si propagava fino a dentro ogni singola fibra del mio corpo con un brivido, un’emozione così forte da farmi venire la nausea e arrossire fortemente. Imbarazzo forse. O … non so bene cosa fu, di preciso. Non erano ancora le farfalle nello stomaco, ma … ci andava vicino … molto vicino. Era qualcosa di più pudico.
Rimane il fatto che mi limitai ad annuire, senza parlare. Esattamente il contrario di quanto mi ero ripromessa di fare.
E a quel punto tu, in un ultimo tentativo di spingermi a farlo, assumesti un’aria spazientita, ti alzasti e dopo aver rimesso a posto la sedia ti dirigesti alla porta, afferrando la maniglia e concludendo, seccato e sbrigativo
 
-D’accordo allora. Se non vuoi parlare non vedo il motivo per cui dovrei restare dopo essere venuto fin qui da quel turk. Sogni d’oro. -
 
Il cuore mi balzò dritto in gola, un'orrenda sensazione di paura e angoscia mi soffocò all’istante. La porta era già aperta e tu eri già uscito, avviandoti verso l’ingresso.
Ti rincorsi in preda al panico, sollevando una mano verso di te ed esclamando il tuo nome.
E solo allora, finalmente, riuscii a parlarti. Mentre Tseng ci osservava sorpreso e il mio cuore continuava a fare le capriole in petto senza riuscire a fermarsi.


(CONTINUA ...)

NDA: Genesis sa come farmi battere il cuore ... ah se lo sa, amore della vita mia!! ***^***
Non c'è nulla da fare, per quanto ci provi non riesco proprio a provare gli stessi sentimenti per un altro pg, è più forte di me. Gen batte tutto e tutti <3<3 *^*

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Capitolo 8
*** Solo un videogame ***


Capitolo VII

 
(...)

-Aspetta! – esclamai, fermando la mia corsa a pochi passi da te e guardandoti, mentre annaspavo cercando di riprendere fiato.
 
Ti bloccasti, continuando a darmi le spalle e girando appena la testa verso di me.
Non mi fu possibile guardarti, da quell’angolazione, e non abbiamo mai più avuto occasione di parlarne, ma anche così nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che in quel preciso istante le tue labbra d’avorio assunsero i toni di un sorriso. Il tuo classico, appena percettibile sorriso di trionfo che usi ogni qual volta riesci ad ottenere ciò che vuoi.
In ogni campo.
Una delle tante cose che mi ha fatto innamorare di te. Comunque, quell’attimo durò poco.
La tua mano guantata di rosso allentò la presa sulla maniglia della porta, tutto si fermò.
Sospirai.
Cristo, Valery!” pensai, in un moto di disperata insurrezione “E’ solo un videogame! Un fottutissimo videogame, non è reale!”
Eppure … adesso lo era. Eri lì, a poco più di mezzo metro di distanza da me, e se ti guardavo bene riuscivo a percepire il lento respirare calmo e controllato dei tuoi polmoni, il movimento leggero dei tuoi capelli color fiamma, e perfino quello di ogni singola fibra dei tuoi vestiti che si muovevano impercettibilmente seguendo quello del battito del tuo cuore.
Quella … era la mia nuova realtà.
E fu a causa di questa nuova consapevolezza, forse, che all’improvviso mi sentii morire.
Mi mancò il fiato, iniziai a vacillare anche se non me ne accorsi. Lo fece Tseng per me, e accorse con una delle sedie del tavolo alla mia destra.
Proprio nel momento in cui tu, preoccupato, ti voltasti verso di me, fui costretta a cedere ricadendo pesantemente a sedere su di essa
 
-Aspetta … - ripetei, in un soffio flebile e stanco
 
E, senza più neanche la forza per ripensarci su una seconda volta, mi rivelai a te, seppure in parte
 
-Il mio nome … - iniziai, sollevando gli occhi stanchi e determinati verso di te – il mio … nome è Valery. Io … - un’altra pausa, per riprendere fiato – io so solo questo di me. –
 
Odiai il suono della mia voce. Mi sentii … una stupida.
Ma non potevo farci nulla. Sapevo che da sempre i misteri hanno avuto su di te un fascino irresistibile. E anche che ti volevo tutto per me, te e te solo al mio fianco. E potevo averti, ora. Perdonami per averti mentito, ma era l’unico modo che avevo per continuare a tenerti ancorato a me, come Sherazade faceva con la vita nella favola delle Mille e una notte.
Te la ricordi, no? Te la raccontai, durante i nostri giorni a Banora.
Ma c’era una sostanziale differenza tra me e lei, almeno in quel momento. Io … avevo mentito pur di avere una possibilità di vederti, ed ora mi ritrovai a cercare una spiegazione valida da darti affinché te ne andassi il più velocemente possibile da me.
Stupida, vero?
Tanto stupida quanto ingenua e infantile.
Stavo dentro ad un videogioco, diamine! Niente era reale, e tutto lecito. Eppure … per una mente ormai fin troppo ancorata alla realtà è difficile tornare a capirlo.
Tenni lo sguardo basso sul pavimento, chiudendo gli occhi lucidi di lacrime, umiliata.
Sentii il mio cuore accelerare spaventosamente i battiti quando il rumore dei tuoi passi m’indicò che ti eri voltato completamente verso di me, poi percepii il fruscio dei lembi del tuo soprabito contro la stoffa dei pantaloni della divisa, e infine il tuo sguardo, di nuovo su di me.
Dio santo, se era reale! Tutto così maledettamente reale!
Il tono prepotente e urtato della tua voce ruppe, seppure non totalmente, quel momento di meravigliosa consapevolezza
 
-E io che cosa centro? – m’incalzasti, con un’arroganza che sul momento … non sopportai.
 
Si, ebbi vogli di ribellarmi, di aprire gli occhi e risponderti a tono perché … era con quello stesso tono che il mio … che il ragazzo di cui ero stata innamorata, seppure in maniera platonica, tempo addietro mi aveva spezzato il cuore, lasciandomi sola in balia delle lacrime. Ancora, ed ancora, ed ancora.
Fino a che non avevo capito quanto fosse stato ingiusto e immotivato quel trattamento.
Solo che, stavolta … me lo ero meritato.
O almeno, me lo sarei dovuta aspettare.
Una voglia irrefrenabile di vedere il tuo viso m’indusse ad alzare lo sguardo verso di te, ma me ne pentii quasi subito perché i tuoi occhi color Mako, accarezzati appena da piccolissime ciocche rosse che ricadevano a sfiorarti la fronte, ebbero l’effetto di stregarmi con la loro luce.
Quel tuo sguardo, di curiosità e rabbia, fu il primo dei tuoi sguardi rivolti solo ed esclusivamente a me, e l’unico momento a cui penso quando vado indietro con la mente a quei giorni, al vero inizio della nostra storia.
Perché per quanto fosse ostile e minaccioso, mi si stampò negli occhi e nel cuore dal momento in cui sentii la pelle del viso avvampare forte, e il respiro mancarmi di nuovo.
Nuovamente fui costretta ad abbassare gli occhi, perdendo l’ennesimo duello
 
-Non lo so. – risposi, come se stessi togliendomi un cerotto – Non lo so, davvero. –
 
La tua espressione di rimprovero si tinse degli accesi toni di sarcastica incredulità
 
-Non lo sai? – replicasti con un appena accennato ghigno, inclinando di poco il capo e incrociando le braccia sul petto e sfiorandoti il mento con una mano
 
Stavi perdendo la pazienza, ne ero consapevole.
Ma … anche io. Non ne potevo più di essere nuovamente trattata come un’idiota opportunista, specialmente da te. " Non lasciare mai che nessuno, per nessun motivo, calpesti la tua dignità. "
Perciò, come l’improvviso risvegliarsi di un vulcano, il mio viso cambiò espressione, i miei occhi si accesero di rabbia contrariata e le mie mani si chiusero a pugno, talmente forte da spingere le nocche a cambiare colore in bianco mentre con un dolore pungente e atroce le mie unghie appena un po’ lunghe inflissero la carne dei palmi.
 
-Io non so cosa mi sia successo, Genesis, lo capisci? – sbottai rabbiosa, alzandomi di scatto dalla sedia e ritrovando all’improvviso tutto il mio coraggio.
 
Talmente tanto veemente che anche tu rimanesti sbigottito a guardami, senza parole.
 
-Non ne ho neanche la più pallida idea! So solo che stavo dormendo nel mio letto, tranquillamente, ti ho sognato e mi sono svegliata qui, a Midgar, svenuta sull’asfalto sotto l’insegna di Loveless senza neanche sapere il perché e il come! –
 
Dissi tutto d’un fiato. Senza pensare e senza fermarmi, paonazza in viso e con lacrime di rabbia che, senza che me ne accorgessi, apparvero a fiotti sulla pelle delle mie guancie scivolando veloci dal bordo dei miei occhi, fino a schiantarsi a terra.
Se ci ripenso, quella mia reazione del tutto incontrollata ed anche un po’ esagerata fu la prova più lampante di quanto quella situazione assurda in cui ero finita mi avesse sconvolta, e di quanto ancora non mi fossi per niente ripresa dallo shock, sebbene le ore passate con Zack mi avessero aiutato per qualche attimo a non pensarci.
Avrei potuto continuare a mentirti, a regalarti solo mezze verità e a giocare d’astuzia per attrarti a me ma … la sola prospettiva di perderti, unita a tutto ciò ti che ho appena detto mi aveva spinta a questo. E poi, non sono mai stata brava con le bugie, soprattutto quando non rispondo di me stessa. Non sono una di quelle ragazza che architettano piani e giocano d'anticipo, io ... sono troppo sincera, e forse anche un po’ ingenua.
E’ quello che pensai, quando mi accorsi di ciò che avevo appena detto e fatto. Mentre in silenzio tu mi scrutavi serio e improvvisamente davvero interessato ad ascoltarmi, come se ti fossi appena accorto di me, Tseng mi guardava sconvolto ed io con tutte le mie forze resistevo tremando all’ormai insostenibile voglia che avevo di abbandonarmi in ginocchio sul pavimento, prendermi il viso tra le mani e singhiozzare senza freno. Il mio corpo non ce la faceva davvero più.
Ero nel panico più totale, ma non volevo cedere in quel modo. Non davanti a te. Me ne sarei vergognata da morire ancor di più se, per un qualsiasi sfortunato motivo, questo avrebbe finito per essere il nostro ultimo incontro.
Così continuai caparbiamente a restarti davanti in piedi, stringendo i pugni e mordendomi la lingua, il viso umido di lacrime e un nuovo coraggio negli occhi, che finalmente riuscivano a sostenere quel tuo sguardo incredulo e stupito, concentrato sullo scrutarmi senza sapere più a che cosa pensare. Ero felice di essermi tolta questo peso.
E quella era un’espressione che non ti avevo mai conosciuto, almeno non visivamente.
Eri sconvolto, e ne ebbi la conferma quando, tornato serio, senza dire più neanche una parola ti voltasti e uscisti in fretta dalla casa, lasciandomi nuovamente da sola.
Fu come … se mille pugnali mi avessero oltrepassato il cuore contemporaneamente e rapidi me lo avessero trafitto a morte.
C’ero cascata, nella mia solita ingenuità, e la tua reazione mi fece sentire tradita e umiliata ancora una volta. Ma forse fu solo la goccia che fece traboccare il vaso.
In un ultimo impeto urlai il mio dolore e la mia collera, sentendo ogni singola fibra dei miei muscoli irrigidirsi e poi sciogliersi di colpo, infine mi accasciai a terra, in ginocchio, iniziando a singhiozzare senza freno mentre le prime lacrime isteriche scesero acide dagli occhi in fiamme.
Ero in trappola.
Mi sentii nuda e stupida. Cosa mi sarebbe accaduto ora che anche tu mi avevi voltato le spalle? Sarei diventata una cavia, magari una di quelle lasciate marcire in stato di decomposizione nei sotterranei bui di un maniero abbandonato.
E tutto per colpa di uno stupido videogame di cui adesso io ero una dei protagonisti!
 
///Flashback///
 
Tseng guardò sbigottito la scena, spalancando gli occhi increduli e dipingendo sul suo volto un’espressione enormemente sorpresa. Non riusciva ancora … a credere alle parole che aveva appena udito
“Io non lo so cosa mi è successo, lo capisci?” aveva sbottato la ragazza in lacrime “Non ne ho neanche la più pallida idea! So solo che stavo dormendo nel mio letto, tranquillamente, ti ho sognato e mi sono svegliata qui, a Midgar, svenuta sull’asfalto sotto l’insegna di Loveless senza neanche sapere il perché e il come!”
Ascoltò col cuore in gola il silenzio che seguì quell’affermazione, scrutando attentamente sia il SOLDIER che la giovane in attesa di una reazione da una delle due parti o da entrambe.
Genesis la scrutò a lungo, profondamente scosso e cupo in volto, poi all’improvviso e senza dare spiegazioni le voltò le spalle e se ne andò, sbattendo la porta dietro di sé.
La ragazza esplose in una crisi isterica, ma prima di soccorrerla lui aveva un’altra cosa più importante da fare.
Spalancò la porta, si precipitò giù per le scale e uscì in strada, richiamando per nome il SOLDIER dal soprabito rosso che aveva appena compiuto qualche metro davanti a lui
 
-Genesis! -
 
Il rosso si voltò di scatto, il viso infuocato da una strana emozione che non era né rabbia, né disperazione, né tantomeno incredulità. Era, forse, sconvolta sorpresa.
Tseng ebbe timore di quello sguardo, e per la veemenza del gesto, ma non lasciò che questo gli impedisse di compiere il suo dovere.
Sospirò per riprendere fiato, quindi riassunse un’espressione composta mentre lo avvisava, col solito tono perentorio
 
-Ogni cosa deve restare segreta. – lo avvisò
 
Rhapsodos fu in grado di sorridere, un sorriso che voleva essere di strafottenza ma invece finì per risultare di più come una smorfia di nervosismo
 
- Che differenza fa, che a raccontarlo sia un SOLDIER o un Turk? – lo sfidò, senza dargli ragione
- Non abbiamo prove per sostenere che ciò che ha detto sia vero. – puntualizzò allora lui, senza demordere
 
Genesis gli rivolse un’occhiataccia irritata e ripugnata squadrandolo, quasi a volerlo fulminare col solo effetto del suo sguardo. Per qualche attimo sembrò stesse per aggiungere qualche cosa, poi però lo squadrò di nuovo con aria arrogante e se andò senza aggiungere una parola, scomparendo nella notte di Midgar accesa delle sue mille psichedeliche luci.
Aveva bisogno di stare da solo, e pensare.
Sicuro che ormai continuare a parlare non sarebbe servito a nulla, il turk wutaiano lo lasciò fare, avviandosi in fretta in direzione opposta, di nuovo in casa sua, e trovando la ragazza in lacrime sul pavimento, mentre singhiozzando si teneva il viso con le mani.
Avvertì una debole ma lunga fitta al cuore, e per qualche attimo non seppe cosa fare.
Poi, con un sospiro richiuse la porta alle sue spalle, avanzò fino a trovarsi dietro di lei e toltosi la giacca gliela mise addosso, coprendole le spalle e sperando che questo potesse essere in grado di farla smettere di tremare.
Provò a farla alzare, stringendole delicatamente le spalle e attirandola appena a sé, ma oltre che a ribellarsi in un violento moto d'isteria, non appena fu in piedi lei barcollò per poi ricadergli fra le braccia, e allora lui capì che l’unica cosa di cui aveva bisogno adesso era una coperta e una tazza di un bel brodo caldo per ristabilirsi.
Continuando ad ascoltarla mentre piangeva quindi la prese tra le braccia, scoprendo quanto in realtà fosse molto più leggera di ciò che avesse potuto pensare, e la condusse a letto stendendola bene e rimboccandole le coperte fin sopra le spalle. Poi, intanto che i mugolii della giovane lamentosi e disperati continuavano ad empire il piccolo abitacolo accogliente, andò in cucina a far bollire un po’ di acqua in un pentolino per versarvi il contenuto di una bustina di preparato per zuppa, che successivamente versò in una scodella di ceramica color marroncino scuro.
Attento a non scottarsi tornò indietro stringendola tra le mani coperte da uno strofinaccio, ma una volta entrato lo accolse uno strano, rilassato silenzio, e avvicinatosi al letto notò che oramai la ragazza si era addormentata, quasi serenamente, stringendosi alle coperte.
Non prima di aver però abbandonato quasi respingendola la sua giacca nera da turk per terra, vicino al letto. O forse sarebbe stato meglio dire “riversato”, visto il modo in cui giaceva a terra.

Sospirò, posò la scodella sul comodino e raccolto il più importante pezzo della sua divisa chiuse la finestre e se ne andò in soggiorno a versarsi un bicchiere di liquore, abbandonandosi poi sulla poltrona concedendosi un pò di tempo per riflettere.


///Fine flashback///

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Capitolo 9
*** La decisione di Tseng ***


Capitolo VIII
 


- “ Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo:
niente sarebbe com'è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa!
Ciò che è non sarebbe e ciò che non è sarebbe! 

(Alice da Alice nel Paese delle meraviglie) -
 

Per quanto concitato e breve, c’è una cosa che il nostro primo colloquio mi fece capire, quasi subito: La dimensione mentale che ci accompagna per tutta la nostra vita, dipende dalla realtà in cui siamo cresciuti.
Si, insomma …
Nel mio mondo, quello in cui abitualmente vivevo ed ero abituata ad agire e comportarmi, poter per esempio evocare un mostro leggendario in mia difesa sarebbe un gran bel fenomeno paranormale, una stregoneria bella e buona!
Oppure, senza andare tanto lontano, sarebbe già abbastanza fuori dal comune nascere con i capelli argentei, o con qualche particolare caratteristica nel DNA in grado di conferirci qualche tipo di potere speciale, che possa addirittura permetterci di salvaguardare la salute dello stesso pianeta in cui viviamo.
Non sarebbe possibile, neanche con l’aiuto dei più famosi scienziati, creare un uomo in grado di volare, trasformarsi o produrre fuoco nel palmo di una mano con la sola forza del pensiero. Sarebbe soltanto pura fantasia!
Tutto questo, e molto altro ancora, nel mondo in cui mi ero catapultata era invece assurdamente scontato, e anzi alcune cose (come ad esempio la mia console) talmente tanto arretrate da risultare curiosamente nuove agli occhi della maggioranza delle persone che lo abitano.
Così, in un battito di ciglia, la mia dimensione mentale era adesso cambiata in una più ampia, e se vogliamo anche peggiore.
Si, peggiore. Perché, pensaci amore … passiamo tutta la vita a sperare, a sognare e cercare un mondo sempre al di sopra delle nostre possibilità, che ci permetta di esprimere i nostri pensieri più reconditi e i nostri istinti più irrazionali. E quando finalmente ci cadiamo dentro, l’unica cosa a cui aneliamo davvero scappare via.
Questo è ciò che successe anche a me. Avevo passato la vita a sognare un mondo come quello in cui mi trovavo adesso, e ora invece di saltare per la gioia volevo soltanto svegliarmi da quello che si era improvvisamente trasformato dal mio sogno più bello al mio incubo peggiore.
Sarà stata forse colpa di tutta quella confusione nella mia testa (che ancora ragionava secondo gli standard superati e ormai inutili del mio mondo “normale”), o più semplicemente a causa dei continui e repentini shock al quale il mio cervello era stato sottoposto. Quello ch’è certo, è che la mia paura si tramutò in un pianto dirotto e continuo, liberatorio, che mi lasciò sfibrata con la faccia sprofondata nel cuscino.
La nostra lite e il tuo sguardo erano ancora vividi nella mia mente, tanto che avrei voluto uscire di corsa da quella maledetta stanza, precipitarmi da te in strada e trovare un modo, uno qualsiasi, per farmi perdonare, anche se … per cosa poi?
Ma ero … troppo stanca, i muscoli si erano all’improvviso rilassati e non ne volevano proprio sapere di rispondere ai miei comandi, e la mia testa era completamente fuori uso, intontita e dolorante.
Mi sembrava di essere come sull’orlo di una crisi di nervi. “Tra poco” continuavo a pensare “Tra poco collasserò, mi spegnerò e mi riaccenderò all'improvviso come un robot, e dimenticherò anche la mia vita precedente.
Ma non successe, per fortuna. Però, più passavano i minuti e più sentivo di non riuscire a farcela, anche se cercavo di resistere con tutte le forze che mi erano rimaste.
Avevo paura. Che se mi fossi addormentata sarei finita senza sapere perché in un laboratorio Shinra, magari proprio nelle mani di quella specie di scienziato pazzo di Hojo, e già questa prospettiva, da sola … beh, dire che mi terrorizzava è abbastanza riduttivo.
Avevo bisogno di dormire, ma non riuscivo a chiudere gli occhi. Così, feci quello che facevo sempre in questi casi.
Mi accoccolai sotto le coperte, e cercando di respirare il più regolarmente possibile e iniziai a pregare. Si, pregare.
A mani congiunte sul petto e muovendo solo le labbra senza parlare, cercando di dimenticare tutto il resto e di non sentire l’imbarazzo e la vergogna che mi dava il ricordo della scenata che avevo fatto a Tseng, quando aveva cercato di calmarmi.
Nella foga gli avevo anche tirato uno schiaffo, ferendogli la guancia.
Alla fine, dopo non so bene quanti minuti, i miei occhi cominciarono a dolere davvero, e a bruciare da matti inumidendosi. Così li chiusi, e allora bastò veramente solo qualche minuto appena.
Benché la paura fosse ancora tanta, a poco a poco smisi di singhiozzare, i muscoli della mascella e delle mani s’allentarono di nuovo ed io crollai stravolta in un agitato sonno, pieno di incubi e angoscia.
Di certo un magnifico inizio, quello. Stupendo.
Avevo una sola certezza, nella mia vita: entrare nel tuo mondo era IMPOSSIBILE.
E adesso anche quella logica schiacciante era stata infranta.
Mi trovavo nel mondo della mia fantasia, e neanche dormendo e poi riaprendo gli occhi mi sarei potuta svegliare. Magari alla fine avrei scoperto che era la mia realtà ad essere un sogno.
Ero nei guai, in guai grossi che forse mi avrebbero portato anche alla morte, perché così com'ero non avrei potuto difendermi a lungo, e nessuno avrebbe potuto farlo per me. Se fossi morta poi, forse non sarei davvero più potuta tornare a casa.
Incertezza, sempre e solo angoscia e incertezza, e l’idea di non avere niente e nessuno qui, unita al rumore assordante delle regole solidissime della mia ragione, che all’improvviso si frantumavano in mille pezzi sotto i miei piedi.
Era questo, più di ogni altra cosa, a farmi paura.
 
\\\
 
-Tseng … dobbiamo eseguire gli ordini! –
 
Il turk wutaiano fissò senza vederla Cissnei, ma non disse nulla.
La ragazza caduta dal cielo si era addormentata da circa una ventina di minuti, e da cinque loro erano lì a discutere di ciò che era accaduto. Era stato lui a indire quella riunione speciale, dopo averci ragionato su per un po’.
Durante la lotta che aveva ingaggiato per calmare la sconosciuta, con uno schiaffo lei lo aveva leggermente ferito alla guancia destra. Era capace di una forza straordinaria, pur essendo solo una fragile ragazzina spaventata!
Comunque, appena arrivata Cissnei aveva provveduto a soccorrerlo, applicandogli sul piccolo graffio un unguento cicatrizzante made in Shinra. Ma non era questo a impensierirlo.
Anche se nel panico, la ragazza era stata molto chiara, urlandogli con una logica stringente tutta la sua sfiducia nei confronti dei Turks, della Shinra e degli scienziati.
E, si era ritrovato a pensare con rammarico, faceva bene a farlo.
Poco prima della visita di Genesis infatti, lui e Cissnei avevano ricevuto un preciso ordine, di consegnare al reparto scientifico la ragazza per un “controllo generico delle sue condizioni di salute”.
“Si, certo. Come no.” aveva pensato lui, sorprendendosi del sarcasmo e della disapprovazione con il quale lo aveva fatto.
Quella ragazza … sapeva.
Tutto. Forse non totalmente consapevole, ma era a conoscenza di ciò che sarebbe avvenuto, di lì a poco.
Questa consapevolezza si era improvvisamente fatta largo in lui, che si era ritrovato a voler infrangere, per la prima volta in vita sua, gli ordini ai quali era sempre stato ligio.
Cosa gli stava succedendo? Perché all’improvviso si ritrovava ad essere così … così… stupido! Mandare tutto all’aria, rischiare il posto e la vita, per quella che in fondo non era altro che una trovatella piovuta dal cielo su di loro.
Se il Presidente diceva di consegnarla agli scienziati, perché rifletterci su?
“Fallo e basta, Tseng!” si disse.
Ma … non ce la fece. Sentiva di non farcela stavolta, e voltandosi verso Cissnei la guardò dritta negli occhi, e scosse così la testa
 
-Lei resta qui. – decise, perentorio
 
La rossa sgranò gli occhi, sorpresa, e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi
 
-Cosa ... ? – chiese sorpresa -sei impazzito per caso? – 
-Forse. – rispose atono lui, continuando a mantenere lo sguardo fisso nel suo –Ma non me la sento di … lasciarla così. In mano … a … -
-In mano alla Shinra, Tseng! Noi lavoriamo per la Shinra, ricordi? – sbottò allora lei, quasi esasperata.
 
Di solito non era così incline a manifestare i propri sentimenti. Anzi, era sempre stata molto chiusa e riservata riguardo ai propri pensieri. Ma quella situazione stava iniziando a irritarla davvero.
Di tutti, Tseng era sempre stato quello più irremovibile e ligio al dovere, per questo veniva spontaneo chiedersi, se perfino lui ora iniziava con tutti quei patemi d’animo, come sarebbe andata a finire.
Reno intanto ascoltava senza dir nulla, alle spalle dell’unica donna del gruppo. Era già abbastanza strano vedere Tseng per la prima volta veramente indeciso sul da farsi.
Il wutaiano tacque per qualche secondo, quindi alzò lo sguardo verso di lui, che aveva comunicato ad entrambi gli ordini dei “piani alti” e rispose, perentorio
 
-Fate come se me lo aveste detto … -
 
Ignorando quindi completamente lo sbotto della collega.
 
-Dite che me ne occuperò personalmente. – concluse
 
Reno annuì semplicemente, quindi chiese sincero
 
-Che intenzioni hai? –  squadrandolo con calma
 
Cissnei tornò a incrociare le braccia sul petto, e voltò loro le spalle camminando verso la finestra aperta. Semplicemente si estraniò.
 
-Non lo so … - proseguì quindi lui, scuotendo piano la testa
 
Sembrava davvero molto preoccupato.
 
-Vuoi farla scappare e non hai neanche un piano? – lo apostrofò allora l'altro, appena un po’ sorpreso e sarcastico
-Sono un turk. – ribattè semplicemente il moro, grave – qualcosa m’inventerò. –
 
Il rosso sorrise, annuendo più volte, quindi voltatosi richiamò la collega e le fece segno di seguirlo. Anche se si sforzò di non incrociare neanche i suoi occhi, quando gli passò davanti Tseng vide in quello sguardo di sottecchi un chiaro rimprovero, a cui tuttavia non rispose.
La capiva. Del resto, i turks erano la sua unica famiglia. Ma … all’improvviso si rese conto di non poter più ignorare la sua coscienza. Anche se non riusciva ancora a capire come mai si fosse risvegliata così, tutt’ad un tratto.
 
-Avviseremo i fanti di guardia di … andare a farsi un bel giretto, stanotte. – concluse Reno, scoccandogli un occhiolino, quindi aggiunse con un sorriso complice – Solo vedi di non restarci secco, okkey? –
 
Tseng lo guardò e sorrise di rimando, talmente impercettibilmente che quasi nessuno dei due se ne accorse, e annuendo grato rispose
 
-Non credo ci sarà questo pericolo. Grazie, comunque. –
 
Infine, i due lasciarono la casa, e lui tornò a bere dal bicchiere di liquore che aveva lasciato mezzo pieno sul tavolo. Quel peso sulla coscienza … gli faceva così male, che quasi non riusciva a pensare ad altro.
Di che genere di incantesimo sconosciuto era caduto vittima, stavolta?
 

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Capitolo 10
*** In fuga ***


Capitolo IX


 
Non mi sono mai piaciute le favole, le ho sempre trovate poco realistiche, e quasi mai veritiere.
Ricordo che ce n'era una, in particolare, che mi faceva addirittura rabbrividire di paura: Alice nel paese delle meraviglie.
Un giorno, ad esempio, io e mia sorella ci ritrovammo a parlare di questa specie di fiaba, e mano a mano che ne parlavamo io sentii crescere in me un’agitazione assurda, incredibile. Così alla fine decisi di dire la mia
 
-Alice non mi piace. – dissi, seria – Non è una fiaba per bambini, è un horror camuffato da cartone animato! –
 
Mia sorella Stephanie ci rifletté su un attimo, quindi annuì con un mezzo sorriso, sorpresa
 
-In effetti è vero. – disse – Non ci aveva mai pensato! – ridacchiando
 
Ma per me non c’era proprio nulla da ridere.
 
-Si. – continuai – Se ci pensi bene, questa povera ragazza cade in un buco e si ritrova in un mondo dove tutto scombussola la logica coerente del nostro pensiero! S’imbatte nei personaggi più strampalati, alcuni veramente inquietanti e pericolosi, con cui non sa come comunicare, perché dice una cosa e loro ne capiscono un’altra! E alla fine rischia pure di morire! – mi fermai, perché l’argomento mi aveva davvero preso
 
Quindi trassi un respiro e ripresi, gesticolando con sempre più foga
 
-Quello che mi spaventa di più, però, è il fatto che lei non sappia più come uscirne! Non è un sogno, è un incubo terrificante! –
 
Mia sorella non aveva potuto fare a meno di darmi ragione.
E adesso, nel preciso istante in cui riaprii gli occhi dopo aver sognato Ifrit che mi divorava con le sue spaventose e potenti zanne infuocate, tutta sudata e tremante mi accartocciai su me stessa mettendomi seduta, stringendo le braccia attorno alle gambe e sprofondando il viso bagnato di lacrime nella calda coperta, mi resi conto di una cosa: Ero io alice.
Caduta da un buco invisibile dritta giù, fino a toccare il fondo di un mondo stranissimo che non era il mio, dove “ciò che non è, è, e ciò che è, non è”. Dove il filo logico di ogni ragionamento umano viene stravolto dalla fantasia e dove ogni cosa è possibile, in una confusione assurda di azioni insensate e impossibili eppure estremamente ragionevoli, parole scomposte eppure perfettamente coordinate tra di loro, e luoghi inesistenti eppure così vivi, reali!
Mi … mancò il fiato.
Così liberandomi dalle coperte rizzai a sedere sul bordo del letto, toccandomi con una mano il cuore che batteva all’impazzata dentro il mio petto.
Ero bagnata fradicia di sudore, io che in vita mia non ho mai sudato così tanto neanche sotto al sole cocente di agosto, e i capelli scompigliati mi si erano appiccicati alla fronte.
Gli occhi mi dolevano ancora, il respiro sembrava essersi fatto ancor più pesante, ed i muscoli non ne volevano sapere di riattivarsi. Somigliavano molto a sacchi pestanti pieni d’aria, pronti a sgonfiarsi appena mi sarei azzardata a muovere anche solo un mezzo passo.
Mi guardai intorno.
Ero ancora a casa di Tseng, ma non potevo sapere tra quanto tempo quelli del laboratorio scientifico sarebbero venuti a prendermi, se tra qualche minuto, tra qualche ora o se l’attesa sarebbe durata giorni o addirittura settimane.
Non sapevo nulla, nulla di nulla. “Niente di Niente!”.
Perché in quel mondo inesistente la mia logica mentale costruita sulle solide eppure instabili basi della realtà non valeva più neanche un Guil! Non serviva ragionare, bisognava soltanto sognare, e … per me ... che i sogni li avevo lasciati tutti in quella piccola fattoria del Texas in cui sono nata, e un po’ li avevo dati a quell’angelo che adesso giaceva in una squallida bara in un cimitero di New York, sperando invano che questo servisse e bastasse per riportarla da me … non era affatto una cosa facile, tornare a sognare.
Non … non sapevo più farlo. O meglio, non volevo più.
Perché non volevo più schiantarmi a terra, provare quel dolore, quella fitta atroce al cuore che ci metteva sempre un’eternità a passare, e m’impediva di esistere.
Non volevo più.
Per questo, credo, la mia mente si rifiutava di obbedirmi, e l’unica cosa che riuscivo a pensare era che dovevo andarmene al più presto da lì, prima che il sogno si fosse trasformato in incubo.
Sapevo … io sapevo che stava per succedere, anche se non sapevo quando. Il mio istinto mi diceva che qualcuno stava ridendo, dietro l’angolo, con quella sua risata spaventosamente stridula mentre si sfregava gli arti scheletrici impaziente di studiarmi, di dissezionarmi viva per capire solo lui sapeva cosa.
Dovevo scappare! Ma … dove?
Così, successe.
Mentre cercavo di pensare ad una soluzione ottimale che non avrebbe comportato farmi ricatturare nuovamente o magari ritrovarmi senza un tetto per strada al freddo e al buio, un rumore mi distrasse.
Rivolsi immediatamente lo sguardo sgranato alla porta, irrigidendomi terrorizzata, e la vidi chiaramente aprirsi piano senza che apparentemente nessuno la stesse toccando. “Forse” pensai “Sarà stato il vento”.
O magari qualcuno che voleva darmi un amichevole consiglio.
In quel momento pensai a Mia, la mia migliore amica che mi aveva lasciato da solo proprio quando avrei avuto più bisogno di lei. E un’illuminazione attraversò i miei pensieri, ridonandomi speranza per mezzo di un solo nome: Zack.
Ma certo, che stupida! Potevo andarmene da lui … se solo avessi saputo dove abitava.
Immaginavo che tutti i SOLDIER “stranieri”, per logica, alloggiassero in una qualche specie di dormitorio, ma non potevo sapere né se fosse realmente così né dove questo potesse trovarsi. Ora però la cosa più importante era scappare, poi in qualche modo sarei riuscita a ritrovarlo.
Non so bene … perché pensai a lui.
So solo che … ragionai che forse poteva esser stato lui, la persona scelta dal caso per svolgere questo ruolo, di protettore e amico fidato. Il mio bianconiglio.
Così, nella disperazione afferrai la mia consolle e mi precipitai alla porta, aprendola piano e affacciandomi al salotto, cercando di fare meno rumore possibile. Mi guardai intorno.
Non c’era nessuno, e Tseng dormiva sulla poltrona. Doveva essere un orario tardo, visto che sembrava essere abbastanza assorto nel suo sonno.
Mi presi qualche istante per osservarlo con attenzione.
Aveva un’espressione grave, e preoccupata, quasi quanto la mia. Sul tavolo vidi una bottiglia di quello che doveva essere un qualche tipo di liquore, consumata a metà.
Beveva? No … impossibile! O almeno … non così tanto da lui. Anzi, per come avevo imparato a conoscerlo io, non era affatto da lui darsi all’alcool, perciò sulle prime rimasi turbata da come lo lasciai, mentre con passo felpato e ai piedi solo i miei calzettoni di lana avanzai verso l’uscita, muovendomi lentamente.
Una volta afferrata la maniglia della porta però, i muscoli delle gambe e la palpebra dell’occhio destro sembrarono risvegliarsi all’improvviso, prendendo a pulsare. Finalmente in forze uscii, scesi le scale di corsa e, chiusa la porta alle mie spalle, scappai.
Più in fretta che potevo, e il più lontano possibile da lì.
 
\\\
 
Tseng riaprì gli occhi non appena fu sicuro che lei gli avesse voltato le spalle, e la guardò sgattaiolare oltre la soglia con un’espressione cupa in volto.
Poi, quando sentì il portone sbattere, all’improvviso un senso di colpa opprimente prese velocemente a crescere dentro di lui, sul suo cuore, fino a pesare quasi quanto un macigno.
“Perché glielo sto lasciando fare?” si chiese, senza trovare una risposta.
C’era stato qualcosa in quella ragazza, che lo aveva spinto ad agire in quel modo. 
Una forza magnetica e misteriosa che gli aveva imposto come comportarsi senza che lui avesse potuto almeno provare a disobbedire.
Per un attimo, un interminabile attimo, il senso di colpa si fece ancora più pesante e difficile da sopportare, e infine la rabbia esplose, fuori e dentro di lui.
S’alzò, brandendo una delle sue due pistole, e si diresse alla porta deciso a rincorrere e riacciuffare la ragazza, ma di nuovo esitò.
No.
Solo questo riuscì a pensare.
Non … non riusciva a farlo! Sentiva di … doveva lasciarla andare! Ma perché!? 
Ancora una volta non trovò una risposta, e quella domanda, come una goccia che batte ripetutamente in un silenzio assordante, continuò a ripetersi all’infinito fino a che lui, che mai e poi mai si era abbandonato a impeti di quel tipo, rinfoderò la sua arma e se la prese con il tavolo in legno del salone, scaraventandolo contro il muro con tutto ciò che c’era di sopra per poi gettarsi senza forse sulla poltrona, a riflettere.
Cos’era stata, quella forza che lo aveva praticamente obbligato a disobbedire? Coscienza? O qualche altra pericolosa stregoneria?
 
\\\
 
Corsi per le strade di Midgar, senza preoccuparmi dei SOLDIER e dei fanti che incontravo, e che per il momento sembravano totalmente disinteressati a me.
Ne fui rassicurata, ma non abbastanza.
Continuai a correre, più veloce che potevo e senza sapere bene dove andare, anche quando sentii le mie gambe cedere, il respiro mozzarsi dolorosamente nei fianchi e in gola, e il petto dolermi per il troppo sforzo.
Corsi fino a che l’aria nei polmoni non si gelò e il sudore sul mio corpo non si asciugò totalmente.
Mi sembrava di averlo fatto per secoli, eoni. Eppure probabilmente fu solo per qualche minuto.
E quando alzai gli occhi mi accorsi di esser tornata proprio lì, dove tutto era iniziato. Su viale Loveless, nel settore 8, sotto al cartellone che pubblicizzava lo spettacolo teatrale tratto da qual poema che tu amavi e ami così tanto.
Cosa?” mi chiesi, cadendo in ginocchio esausta. “Perché … perché sono venuta qui? ”.
Bastò un attimo, allora. Solo un altro, insignificante attimo.
All’improvviso tutto si spense, mi accasciai a terra priva di sensi, e la magia che mi aveva portato in questo mondo dal mio avvenne di nuovo.
 
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-Valery … -
 
Zack.
La sua voce, dolce e famigliare, arrivò a riscuotermi prudente dal buio in cui ero assopita.
Poi, dopo appena qualche secondo, un leggerissimo scossone, quasi impercettibile, mi fece ondeggiare, e quella voce bellissima tornò a chiamarmi
 
-Valery, sveglia … mi senti? –
 
Sorrisi, e inizia a svegliarmi.
 
-Z-zack …? – bofonchiai, la voce impastata dal sonno, prima di riaprire gli occhi.
 
La prima cosa che vidi, fu il suo sguardo preoccupato eppure sorridente su di me. Sospirò sollevato quando mi vide riaffacciarmi alla vita.
Mi resi conto di essere distesa nella stessa posizione in cui ero caduta, ma sul pavimento in legno di un piccolo e quasi completamente spoglio mini appartamento a cui mancavano soggiorno, corridoio e cucina.
E, per quanto fossi contenta di essere riuscita chissà come a raggiungerlo, la mia gioia fu sopraffatta totalmente da un’angoscia inspiegabile che non avevo mai provato prima: volevo che quel sogno finisse, e invece continuava a trattenermi.
Ripiombai nel buio chiudendo gli occhi stanchi e carichi di lacrime, anche se stavolta i miei sensi rimasero accesi.
Lo sentii quando mi sollevò, posando la mia schiena sulle sue possenti braccia da SOLDIER, e potei chiaramente udire il battito vivace del suo cuore mentre adagiava la mia testa sul suo petto, la mia fronte appena sotto gli spallacci della tuta da 2nd class.
Scossi piano la testa, stringendomi a lui e supplicando in silenzio. “Basta!” pensai “Basta, basta, basta! Non può essere. Ti prego, non può essere vero! Voglio tornare a casa …
Grossi e bollenti lacrimoni cominciarono a rigare le mie guance, bollenti, e il tocco dolce della mano di Zack che me le asciugava mi provocò una fitta di sollievo al cuore.
 
-Valery – mi chiese, adagiandomi piano su quello che doveva essere il suo letto, e aiutandomi a distendere le gambe – riesci a dirmi cosa ti è successo? –
 
Rialzai la schiena, e mentre mi appoggiava una coperta sulle spalle e il lenzuolo sulle gambe scossi la testa, ingoiando un po’ di saliva. La gola secca sembrò scartarsi, dolorosamente. Tossii forte, più volte, piegandomi su me stessa. Dovevo essermi presa un bel malanno, pensai.
Zack mi strinse a sé accarezzandomi la schiena, quindi attese qualche minuto così, sussurrandomi con voce rassicurante e serena di stare calma.
Calma? E come potevo? Ero appena scappata dai turks, e mi ritrovavo nella sua stanza senza neanche sapere come c’ero arrivata! Questo sogno … stava iniziando davvero a complicarsi.
 
-Non ti chiedo come hai fatto a trovarmi. – sdrammatizzò scherzoso lui a proposito, non appena mi riuscii di calmarmi un po’
 
Sorrisi, senza dir nulla. “Non saprei risponderti” pensai, appoggiandomi alla parete che faceva da testiera, mentre lui si accertava che il cuscino mi sostenesse bene la schiena. “Quello … quello che mi ha portato qui è successo di nuovo.
Poi lo vidi allontanarsi verso la parete di fianco per destreggiarsi con la piccola cucina da campo appoggiata su un mobiletto bianco, probabilmente in legno, dentro al quale teneva un paio di pentolini, qualche tazza e dei bicchieri di vetro. Prese dell’acqua da una bottiglia in plastica posta nel piccolo frigo lì di fianco, e la mise a scaldare su un fornello dentro ad un pentolino in acciaio col lungo manico in plastica nera.
Mentre aspettava che bollisse e poi che lo strano intruglio di erbe finisse la sua infusione, mi spiegò che di solito la Shinra provvedeva giornalmente al sostentamento di ogni recluta o SOLDIER, e che chi non voleva mangiare in mensa poteva anche comprare da mangiare fuori. Ma lui, almeno per un bicchiere d’acqua e qualche “spuntino extra” prima di recarsi a lavoro o durante la notte (poteva capitare che, soprattutto durante il primo periodo delle iniezioni si sentisse un certo … dolorino allo stomaco), aveva preferito aggiungere al suo alloggio quei due oggetti e qualche stoviglia. Ascoltai tranquilla, senza interrompere. Tremai, quando accennò a quello che tutte le reclute dovevano passare per diventare forti come un SOLDIER. Ma … non seppi dire se di freddo o di paura, perché mi sentivo strana. Ad un certo punto, quando lui si avvicinò di nuovo a me con la tazza piena e si sedette accanto a me, ai piedi del letto, iniziai davvero a pensare di essermi beccata un qualche tipo di malanno, magari un raffreddamento, o anche l’influenza. “Per quanto tempo sono stata svenuta in mezzo alla strada?” mi chiesi in automatico.
Presi la tazza di ceramica dalle mani di Zack, e nonostante l’odore abbastanza … forte, trattenni il fiato e inizia a sorseggiarla. Era calda, e dissetante. Sapeva di menta, solo un po’ più balsamica. Tossii di nuovo, rischiando di rovesciarmela addosso se lui non avesse prontamente recuperato la tazza dalle mie mani, adagiandola sul comodino di fianco al letto per poi aiutarmi a distendermi completamente sul materasso, la testa comodamente sprofondata nel cuscino.
Chiusi gli occhi, improvvisamente esausta.
 
-D’accordo. – disse, mentre appoggiava la stoviglia sul piccolo mobile – aspettiamo che s’intiepidisca. –
 
Quindi andò a bagnare un vecchio strofinaccio scovato sempre dal solito mobile e iniziò a tamponarmi con esso la fronte, scoccandomi un occhiolino e sorridendo
 
-Questo ti servirà per riprenderti. –
 
Avrei dovuto sentirmi bene. Ero con Zack, il mio fratellino, il mio migliore amico e il mio bianconiglio, colui che sapevo mi avrebbe protetta fino alla fine. Ma era proprio quella parola e farmi stare male ogni volta che lo guardavo, a guastare la nostra allegria e rovinare tutto proprio quando la felicità raggiungeva l’apice. Così riaprì gli occhi, per evitare di vedere quell’immagine orrenda che all’improvviso mi era balenata davanti, e il suo sorriso mi colpì come avrebbe potuto fare la lama affilata di un pugnale in pieno petto
 
-Visto? – fece, facendomi sentire al sicuro
 
E in colpa. “Basta!” pensai “Non ce la faccio più a stare zitta!
 
-Zack … - iniziai quindi, ma … di nuovo mi bloccai, e lui sorridendo ingenuamente rispose con un semplice
-Che c’è? –
 
… piccolo … brutto mascalzone!
Ci provai a continuare, ma lui seguitava a guardarmi con quel sorriso dolce, con quell’aria da bimbo indifeso, ed io … per l’ennesima volta tacqui, gettandogli le braccia al collo e iniziando a piangere senza alcun apparente motivo, almeno per lui.
Ma fu proprio merito suo se riuscii uno per scusarmi, quando stringendomi mormorò inaspettatamente 
 
-Ho saputo quello ch’è successo con Genesis. –
 
Mi gelai, immediatamente, e riavendomi lo guardai stupita. Spegnendo un po' il suo sorriso e intenerendosi, lui seguitò a fissarmi in silenzio negli occhi, complice.
Scossi la testa, sperando che questo bastasse a fargli capire che non era questo ad agitarmi così tanto, a rovinare questo ennesimo momento di gioia insieme, e aprii la bocca per parlare.
Ma lui me lo impedì di nuovo, ponendomi un dito sulle labbra e sorridendomi rassicurante
 
-Non voglio sapere nulla … - sussurrò – non adesso. –
 
Confermando i miei sospetti. Non si stava più riferendo a ciò che era successo tra me e te, ma al mio segreto. Lo fissai, trattenendo il fiato
 
-Ma io … - provai quindi a protestare – Tu devi sapere, Zack! – quasi urlando
 
Ancora una volta lui sorrise, e riprendendo la tazza dal comodino me la mise in mano, concludendo allegro
 
-Me lo dirai quando starai meglio. Ora pensa a riprenderti –
 
E io, stanca, spaventata e terribilmente in colpa, obbedii continuando a piangere e singhiozzare in silenzio mentre lui mi guardava bere tenendomi compagnia con le sue battute scherzose, i suoi aneddoti e i suoi modi dolci da fratellino di calmarmi.
Fino a che il sonno non ci vinse entrambi, e ci addormentammo sereni stretti l’una nelle braccia dell’altro.


 

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Capitolo 11
*** "Ma che cappello mi prende?" ***


Capitolo X



Fante Di Cuori: Se la state nascondendo, direte addio alla testa.
Cappellaio Matto: L'abbiamo già salutata.

-ALICE IN WONDERLAND (2013) -
 
Quella sera, dopo averla cullata per diverso tempo e aver ascoltato in silenzio i suoi vaneggiamenti nel sonno carezzandole i morbidi capelli castani, Zack Fair rimboccò le coperte sul minuto corpo della giovane, e muovendosi pianissimo le si sistemò meglio accanto, tra la parete e la sua schiena, lasciandole infine qualche tenero bacio sulla guancia come avrebbe fatto con una bambina, per calmarla dopo un incubo.
Le sistemò i capelli che per il troppo sudore le si erano appiccati al viso, quindi poggiò la testa sul cuscino e si lasciò andare a qualche ora di sonno mentre la stringeva, passandole una mano attorno al ventre.
Avrebbe chiamato un medico per sincerarsi che le sue condizioni non fossero gravi, ma ormai era tardi, e lei era ancora troppo sconvolta. Forse sarebbe stato meglio attendere qualche ora per evitare che i Turks la trovassero, visto che a quanto pare era scappata da loro.
Comunque, per quello che era riuscito a capire, sembrava aver subito uno sforzo eccessivo e la sua mente era ancora in stato di shock. In più lo sbalzo termico e il sudore della probabile corsa avevano contribuito a provocarle quel leggero stato febbricitante.
Nulla che non si potesse curare, insomma. Ne ebbe la conferma quando, verso le quattro del mattino, riuscì a convincere un medico privato a fargli visita nell’HQ, chiedendogli il massimo riserbo.
Sospirò sollevato s0rridendo appena, dopo che il dottore ebbe raccolto il suo compenso e guadagnato la porta.
Quindi mise le medicine che gli aveva prescritto sul comodino, bevve un sorso d’acqua per colmare l’arsura che lo aveva colto e tornò ad accomodarsi accanto a lei, abbracciandola di nuovo.
Trascorse un lungo e incalcolabile lasso di tempo a guardarla mentre dormiva, rallegrandosi di come la sua espressione si fosse fatta meno terrorizzata e più felice, il suo sonno meno agitato e il respiro più calmo e regolare.
E mentre lo faceva, non poté fare a meno di sorridere, intenerito.
“Da che strano universo parallelo sei piombata nel nostro mondo?” si chiese, carezzandole piano la guancia e la fronte ora meno calda, per via degli impacchi di acqua fredda che gli aveva applicato. “Forse sei un angelo che all’improvviso si è ritrovato senza ali, ed è precipitato giù?”.
Avrebbe compiuto diciotto anni tra circa un mese. E per qualche minuto la sua mente da adolescente andò avanti per la sua strada, su un film che aveva come protagonisti loro due. Poi però ricordò la promessa che le aveva fatto, e anche se a malincuore scosse la testa, mentre le si accoccolava accanto.
“Non posso…” si ripeté, chiudendo gli occhi e cercando a malincuore di convincersene “Non posso proprio.”
Ma intanto si ritrovò a stringerla più forte, e lei a sorridere nel sonno, strofinando la testa contro il suo petto forte ancora coperto dalla maglia della divisa da SOLDIER.
 
\\\
 
Una tazza di fumante the caldo, un libro di quelli assegnatagli da leggere per i compiti a casa, e un divano comodo su cui sdraiarsi, la testa poggiata sul bracciolo sinistro mentre la pantera, il suo unico e prediletto animale domestico, gli sonnecchiava affianco, ai piedi del sofà.
Ecco un tipico inizio di giornata per Rufus Shinra, anzi, il giovane Rufus Shinra, quindici anni appena compiuti e già aspirante alla carica di vice presidente di una delle più grandi multinazionali esistente al mondo.
Se ne stava lì, immerso nella lussuosa atmosfera della piccola stanza ai piani alti dell’HQ, arredata con mobili moderni, divani in pelle, una scrivania degna del direttore e piante e libri di ogni genere a riempire le librerie, con indosso solo una camicia, un pantalone e dei mocassini bianchi indosso, e scorreva assorto i suoi occhi disinteressati sulle righe del libro che stringeva tra le dita della mano destra, inumidendosi ogni tanto il dito indice di quella libera prima di voltare pagina mentre dietro di lui, oltre la vetrata che dava su una spettacolare veduta di Midgar, sulla quale risplendeva vivida la luce del sole del mattino.
Tra qualche anno, tre per la precisione, avrebbe compiuto diciotto anni e finalmente quella carica avrebbe potuto essere sua.
Per il momento però gli toccava studiare sodo, e accompagnare suo padre ogni qual volta lui lo richiedesse per imparare quanto più possibile da lui. Anche se, per quanto lo riguardava, aveva già le idee molto chiare sul modo del vecchio di gestire gli affari, ma per ora preferiva annuire e acconsentire, in attesa di “tempi migliori”.
Dietro di lui, in piedi con lo sguardo perso sullo skyline della città, Tseng preferiva invece pensare al qui e adesso, sperando che la sua punizione per quella che in realtà era stata una voluta disattenzione non fosse troppo grande da sopportare.
Quella mattina era uscito di casa col cuore in pena, mentre si chiedeva come avrebbe reagito il Presidente alla notizia che “la ragazza caduta dal cielo” era riuscita a fuggire e a far perdere le sue tracce con una simile facilità.
Quando gli aveva riferito la notizia del suo arrivo, subito dopo il suo ritrovamento, si era stupito di quanta curiosità il presidente aveste dimostrato nei confronti di quella giovane estranea una strana curiosità che non si era sentito di approfondire, e se doveva essere sincero anche il professor Hojo, all’inizio, lo aveva fatto.
Era stato una sorpresa che avesse voluto ascoltare il racconto di persona da lui e dagli altri testimoni, tranne i SOLDIER che in quel momento a quanto pare non avevano potuto presenziare alla riunione.
Hojo aveva ascoltato attentamente e poi era sembrato da subito disinteressato all’argomento, tanto che se n’era andato dalla stanza. Il Presidente invece aveva ordinato di monitorare la ragazza e l’aveva posta sotto la tutela dei turks, che oggi tutta via era riuscita ad evadere.
Perciò ora si ritrovava lì, nel quartier generale, in attesa di essere chiamato a riferire da Cissnei e Reno, che erano andati già da qualche minuto mentre invece a lui era toccato restare ad aspettare da Rufus, che proprio ora aveva richiesto inaspettatamente la sua presenza.
Lui e il giovane Shinra si conoscevano da quando quest’ultimo non era che un bambino. Era stato il suo babysitter per qualche anno, almeno i primi sei da quello in cui aveva iniziato a camminare, e aveva avuto il merito d’insegnargli anche a sparare, pure se già di per sé fosse molto portato per le armi da fuoco.
In pratica, se non fosse stato per le loro scomode posizioni sociali, il loro rapporto era quasi uguale a quello di una qualunque altra coppia di fratelli.
Nello specifico una in cui adesso il maggiore rischiava davvero grosso per una stupida negligenza.
 
-Che ti ha fatto quella ragazza per riuscire a smuoverti, Tseng?-
 
La voce del giovare Shinra lo riscosse da quei pensieri, proprio nel momento in cui essi riuscirono a farlo tremare.
Si voltò a guardarlo, e lo vide scrutarlo dritto negli occhi col solito sorriso un po’ cinico sulle labbra.
Sospirò. E voltatosi a guardarlo scosse la testa, preoccupato. Stava per rispondere, ma il ragazzo lo interruppe tornando a posare gli occhi sul libro, quasi come se fosse totalmente disinteressato alla sua reazione e alla risposta che avrebbe ricevuto in cambio.

 
-Sono secoli che provi a catturare quella ragazzetta nei bassifondi, e non ti riesce mai.- aggiunse -E ora che la preda ce l’avevi direttamente nelle mani sei riuscito a fartela sfuggire pure così.- infine sollevò di nuovo gli occhi su di lui e sorrise di nuovo, sarcasticamente divertito -A questo punto, qualcuno potrebbe cominciare a pensare che anche il turk più fedele abbia una specie di cuore che gli batte in petto.- soggiunse, toccandosi il suo all’altezza del cuore con il dito indice sinistro e strappandogli un sorriso, per poi infierire con la stoccata finale -O magari che semplicemente non è così infallibile come vuole far credere.- che inevitabilmente lo fece rabbrividire e strappò in mille pezzi quel leggero velo di allegria che era riuscito a ritrovare.
 
Rufus tornò a leggere, sghignazzando mentre la pantera sollevò per un attimo la testa guardando entrambi per poi tornare a dormire, la testa appoggiata sulle zampe anteriori una sopra l’altra.
Pochi istanti dopo, qualcuno bussò alla porta.
 
-Signorino, siamo noi!-
 
La voce di Reno ebbe l’effetto di una dolorosissima pugnalata in pieno petto e per poco Tseng riuscì a non trattenere il fiato, voltandosi a guardare la porta mentre cercava di capire solo dal tono quale fosse l’entità reale della situazione.
Rufus non rispose subito. Si soffermò a guardare dapprima il turk, osservandolo attentamente per poi rivolgergli un ghigno divertito quando i loro sguardi s’incrociarono. Sicuro di sé, divertito e disinteressato quello del futuro vice presidente, quasi terrorizzato quello del turk wutaiano.
Attese ancora qualche attimo, poi li autorizzò ad entrare.
Il primo ad accedere alla stanza fu proprio il rosso, che dopo un saluto rispettoso al più piccolo si rivolse direttamente al moro mentre Cissnei chiudeva la porta alle sue spalle e si limitava a tacere, per il momento.
 
-Hey amico, nottataccia eh?- fu la prima battuta di Reno, non appena lo vide
 
Lui si voltò verso il collega, serio e teso.
Aveva ragione, stavolta. Non era riuscito a chiudere occhio, e come se non bastasse adesso avrebbe anche dovuto cercare un modo accettabile per spiegare al Presidente in persona il primo fallimento della sua carriera. Decisamente sì, era stata una nottataccia.
Ancora non riusciva a capire cosa gli era passato per la testa, quale era stato il motivo.
 
-Spero solo che quella ragazza non mi ricapiti tra le mani …- bofonchiò cupo
 
La risposta di Cissnei non tardò ad arrivare.
 
-Lo sapevo che te ne saresti pentito, Tseng.- ribatté, incrociando le braccia sul petto, più intristita che contrariata
 
Qualsiasi cosa lo avesse spinto ad agire in quel modo, si era cacciato in un guaio bello grosso, ed era solo fortuna che non ci fossero state conseguenze. Non era da lui commettere simili impudenze, lo sapevano tutti.
Lui dal canto suo non rispose, e non la guardò nemmeno.
Si limitò a sospirare quando, subito dopo, Reno si sciolse in un sorriso.
 
-Cos’è, prima la salvi e poi la vuoi ammazzare?- scherzò, per poi strizzargli un occhiolino e concludere -Abbiamo parlato noi con il Presidente. Se vuoi, non è necessario che tu ci vada.-
 
Immediatamente, si ritrovò a sospirare sollevato, guardando dapprima i colleghi, che sorrisero di rimando, e poi Rufus che si limitò a lanciargli un’occhiata di sbieco inclinando in su un lato delle labbra, mentre faceva finta di continuare a leggere.
 
-Gli abbiamo detto ti ha aggredito e che abbiamo provato a riacciuffarla ma non ci è stato possibile.- lo informò Cissnei -Ci ha detto solo di provare a rintracciarla e a recuperarla. Per il resto, è disposto a passarci sopra.- lanciando un’occhiata loquace al giovane Shinra alle sue spalle
 
Bene. Ma questo significava che non era ancora finita, anzi. Ora la situazione si complicava.
 
-Chi è stato assegnato al recupero?- chiese, domandandosi subito dopo il perché di quella domanda alquanto fuori luogo e idiota
 
“E a te cosa importa?” si disse “Sei un turk, ricordi? Fa il tuo dovere e ringrazia il cielo di essertene liberato. Vedi di non cacciarti in altri guai.”
 
-Noi.- fu comunque la risposta di Reno
 
Alzò lo sguardo, e vide che a lui e Cissnei si era unito Rude. Sorrise.
 
-Sempre la stessa storia, quindi.- si azzardò a scherzare, ritrovando la serenità
-Escluso te.- confermò Reno -Hai bisogno di riposare. Va a casa e fallo nel tuo letto. Una dormita e passa tutto.-
 
Tseng scosse la testa, e si voltò a guardare Rufus, che si limitò a rispondere senza distrarsi dalla sua attività.
 
-Prendimi qualcosa da bere e poi vai. Ho sete.-
 
Annuì, e si diresse verso il retro della scrivania a pochi passi da dove stava lui, verso il frigo bar posto dietro di essa, tra una libreria e la fotocopiatrice.
Non poteva dormire, pensò mentre prendeva un bicchiere dalla mensola posta sopra al mobile e vi versava un po’ di succo d’ananas, di quelli costosi provenienti direttamente dalla zona tropicale di Costa del Sol.
Tutta quell’agitazione, la rabbia che ancora ribolliva in lui e sempre quella stessa domanda che gli ronzava in testa glielo impedivano. Aveva bisogno di calmarsi prima, altrimenti non ci sarebbe stato verso per lui di riuscire a chiudere occhi.
 
***
 
Il primo squillo del cellullare risvegliò Zack che, ancora intorpidito dalla lunga notte trascorsa a dormire sul pavimento, riaprì subito gli occhi preoccupandosi di rispondere in fretta, per non svegliare la ragazza che ancora dormiva beatamente accoccolata tra le lenzuola.
Si schiarì la voce, accorgendosi solo allora con sgomento di come ormai il giorno avesse già preso a dipingere con la sua luce dorata le pareti bianche della stanza a lui assegnatagli dalla Shinra. Era uno dei pochi a non dormire in una camerata doppia, ma in una stanzetta singola, e in questo caso non sapeva se ritenerla una fortuna o meno.
Aveva la schiena a pezzi, e quanto pareva era pure in ritardo.
 
- P-pronto?- rispose, la voce ancora un po’ impastata dal sonno
-Zack, non stavi dormendo vero?-
 
Si riscosse all’improvviso, tossendo e rizzandosi in piedi sull’attenti, quasi come se il suo mentore potesse realmente vederlo.
 
-Nossignore!- rispose prontamente -E’ successo qualcosa, Angeal?- chiese poi, subito dopo
 
L’altro parve non essere tanto convinto della risposta ricevuta, ma finse di accettarla per buona e ribatté, sorridendo e ammorbidendo il tono.
 
-Niente di grave. Da oggi hai tre giorni di ferie, vedi di non sprecarli.-
 
Zack sgranò gli occhi ed esclamò, incredulo.
 
-Tre giorni?? Sul serio, Angeal??-
 
Per la miseria, come mai tutta questa fortuna, così all’improvviso? Fortuna poi … che cosa avrebbe potuto fare in tre giorni per passare il tempo? Quasi come per cercare una soluzione si voltò verso il suo letto, e si ritrovò ad osservare con un sorriso la giovane addormentata.
“Forse lo so, cosa potrei fare …”
Proprio mentre Angeal rispondeva divertito.
 
<< Si. Cerca di non annoiarti troppo. >> concluse
<< Contaci. >> rispose lui, voltando le spalle alla giovane per poi chiudere il pugno e tirando il braccio all’indietro, in quel gesto di esultanza che ormai era diventato il suo segno distintivo.
 
Riattaccò, e si fermò un attimo ancora a fissarla, pensieroso.
Ci sarebbe voluta ancora qualche ora prima che mi svegliassi, giusto il tempo di uscire a comprare due cosette che, ne era sicuro, le sarebbero piaciute, o almeno le sarebbero tornate utili.
Ah, e poi doveva assolutamente trovare Kunsel, e chiedergli quel piccolo favore al quale aveva pensato prima di addormentarsi. Era l’occasione giusta per metterlo in atto.
 
***
 
Genesis chiuse il libro, non appena Angeal bussò alla porta della loro camera. Non capiva ancora perché, nonostante la condividessero solo loro due, si ostinasse ancora ad attenersi a quell’ormai superfluo gesto di buona educazione, anche se lui doveva ammettere di non essere esente dal commettere lo stesso peccato, a volte.
Ad ogni modo aveva l’abitudine di prenderlo in giro per questo, anche perché aveva un tocco deciso e i suoi colpi non erano mai più di tre, e lo fece anche per quel giorno, non appena lo vide entrare.
S’alzò dal letto afferrando la Rapier che riposava appoggiata alla testiera in ferro, e scoccandogli un ghigno provocatorio chiese, divertito
 
-Risparmi anche sulla forza, adesso?-
 
Angeal sorrise, accostandoglisi di fronte
 
-Se voglio battermi come si deve, si.- rispose semplicemente
 
Genesis lanciò un’occhiata alla Buster Sword, sempre sacrificata sul fodero dietro la schiena dell’amico
 
-Se usassi anche un po’ la tua spada, invece di consumare quella giocattolo che ci hanno affibbiato per l’addestramento, combatteresti di certo molto più alla tua altezza.- gli fece notare
 
L’altro sorrise di nuovo
 
-Ti ringrazio per il complimento.- replicò, annuendo quasi lusingato
 
Rhapsodos finse di averla presa male, scacciando con una mano l’aria infastidito per poi guardarlo nuovamente e sorridere, complice.
 
<< Piuttosto tu, vedi di non lasciarti prendere la mano anche oggi. >> lo ammonì infine il moro, e lui annuì, memore dell’ancora bruciante sconfitta subita da Sephiroth due giorni addietro, quando ormai abitudinariamente si erano intrufolati in camera di simulazione.
 
Per non pensare al colloquio con quella strana ragazza, che lo aveva a dir poco turbato, si era concentrato su quella sconfitta e aveva programmato tutta la sua strategia nei minimi particolari stavolta, uno schema di battaglia perfetto che avrebbe spiazzato il suo amico/nemico e gli avrebbe permesso di trionfare, stavolta.
Avrebbe battuto Sephiroth, ci sarebbe riuscito costi quel che costi!
Ma per il momento meglio non parlarne con Angeal.
Non rispose, ma si limitò a prendere con sé Loveless e a prendere con sé Loveless e ad uscire dalla stanza, seguito dall’amico che ancora non sospettava nulla.
Del resto ormai lo sapevano anche i muri: dei tre, Angeal era il più giudizioso, Sephiroth il più potente, e lui il più cocciuto e pericolosamente imprevedibile.
Un nemico assolutamente da non sottovalutare.
 
  
Rufus Shinra e Dark Nation


 Genesis Rhapsodos e Angeal Hewley

 

NOTE:

Eccomi, sono tornata anche con questa storia!! :D
Dunque, apro questo spazio per scusarmi per l'assenza e per darvi come al solito qualche curiosità. Anche in questo capitolo c'è stato molto da lavorare, e credo ce ne sarà ancora ma vabbè, questo è un lavoro che mi riservo di fare nel corso del tempo.
La scena con Rufus, che a questo punto viene introdotto nella storia da giovanissimo, è una di quelle che ho inserito nella ristesura della stessa, considerato anche il ruolo che ha assunto nel corso del tempo nella timeline che ho in testa. Sarà un personaggio importante, ed era da sempre un mio desiderio approfondirlo e approfondire il suo rapporto con i turks, visto che sembrano avere molta più sintonia insieme, di quella che si crea tra un capo e i suoi sottoposti.
Ho letto molto, riguardo questo, e alla fine ho deciso di porli in questo modo, dato anche che a quanto pare Rufus è cresciuto solo dopo la morte prematura della madre. Comunque, avremo modo di parlare molto di questo, perciò vi lascio e aspetto tanti commenti.
Un bacio :*

 

Sarah

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Capitolo 12
*** Epiche battaglie ***


Capitolo XI



(...)

Sephiroth li attendeva già dentro la cabina di simulazione.

-In anticipo come sempre.- commentò Angeal, entrando.

L'eroe sorrise al saluto, incrociando al contempo per un attimo lo sguardo di sfida di Genesis, e rispondendo al suo ghigno palesemente evidente sulle labbra con uno appena percepito.
Angeal nel frattempo si portò alla sua destra voltando le spalle al rosso e fingendo di non aver visto quel primo, simbolico duello, pensando nel frattempo che non era mai buon segno quando Genesis si comportava così, eccessivamente sicuro di sé, soprattutto proprio per lui stesso, che alla fine si ritrovava sempre in mezzo ai due per poterli dividere.
Non era affatto una piacevole sensazione ritrovarsi tra la Masamune e il pugno infuocato di Genesis, ma sapeva molto bene che quando il rosso si metteva in testa una cosa, era difficile fargli cambiare idea, ed era altrettanto impossibile sperare che vi rinunciasse.
Così, come ogni volta, bisognava solo sperare che questa volta decidesse di dimostrare almeno un po' più di giudizio.

-Chi sceglie la missione, stavolta?- chiese quindi, guardandoli a braccia conserte.

Sephiroth lo guardò e sorrise, accennando a lui col capo.

-Tocca a te.- rispose semplicemente.
-Vedi di non essere noioso come al tuo solito.- lo avvertì Genesis, superandolo mentre si avviava verso il fondo della sala e nel frattempo rivolgendogli uno sguardo loquace.

Angeal scosse la testa lanciandogli uno sguardo contrariato, in quella che poteva benissimo essere la prima risposta al favore che gli era stato chiesto.
Giunto alla meta, qualche passo più in avanti, Rhapsodos si voltò quindi nuovamente verso di lui e scuro in volto rimase a guardare innervosito mentre lui estraeva il telefonino e con calma selezionava la missione desiderata.
Qualche secondo ancora, e il simulatore s'accese, cambiando completamente forma.
Agli occhi dei tre si dipinsero rapidi i contorni dell'immensa fortezza Shinra di Junon al tramonto. Sopra di loro un immenso cielo azzurro sgombro di nuvole, e sotto, oltre al mare e al lento rumore delle onde che s'infrangevano sugli scogli sul quale esso sorgeva, il Sister Ray, un cannone che sfruttava l'energia del reattore Mako al quale era ancorato per funzionare, e per questo l'arma più potente che la Shinra potesse vantarsi di possedere. Loro si ritrovarono a camminare proprio sulla sua piattaforma di controllo, a pochi passi dalla chilometrica canna che si estendeva al di sopra del mare.
Dopo un primo momento di sconcerto, Genesis alzò stufo gli occhi al cielo e sbruffò.
Quella era una missione che ormai conoscevano tutti e tre molto bene, quasi fino alla noia perché non c'era quasi nulla da fare se non allenarsi contro i propri dati dei mesi scorsi, o in alternativa l'uno contro l'altro. Era quello che voleva, ma ... era tutto troppo semplice!

-Ah, ti prego!- si lamentò, rivolgendosi poi a Sephiroth -La prossima volta fa scegliere a me.-

L'albino sorrise.

-Ottima scelta, Angeal.- disse invece -Avevo proprio bisogno di un allenamento pomeridiano prima del colloquio con le truppe.- concluse sfoderando la sua spada e rivolgendo al moro un occhiolino.

A quanto pare, pensò quest'ultimo sollevato, anche Sephiroth aveva capito il perché di quella scelta. O forse no.

-Si ...- continuò nel frattempo Genesis, dirigendosi verso il groviglio di grossi tubi di ferro in fondo allo spiazzo, proprio vicino alla scalinata che permetteva di accedere al piano superiore -Prego, accomodatevi.- bofonchiò, contrariato.

Era irritato. Voleva sconfiggere Sephiroth, ma farlo in una missione come quella era troppo semplice, quasi assurdo! Sarebbe stato come sconfiggerlo in un duello, monotono. Sarebbe stato divertente invece farlo in una missione più complicata, magari con un agguato. Gli avrebbe permesso di mettere in mostra anche le sue doti strategiche, oltre che quelle da combattente.
Angeal. Quanto lo odiava quando si comportava così!
Come se gli avesse letto nel pensiero, Sephiroth gli lanciò un sorriso di sfida che lui ricambiò con uno sguardo determinato, poi rivolse l'attenzione ad Angeal.

-D'accordo.- disse -A quanto pare Genesis oggi ha paura di perdere di nuovo. Forza Angeal.- concluse quindi, mettendosi in posizione di attacco, gambe divaricate, schiena dritta, spada impugnata a due mani e la lunga lama della fedele Masamune rivolta verso l'avversario -Diamoci da fare.-

Hewley trattenne il fiato, all'improvviso combattuto tra l'idea di voltarsi a guardare la reazione scontata dell'amico o far finta di niente, assecondando Sephiroth.
Fino a quel momento, tutto era andato esattamente come aveva sperato. Con Genesis che non aveva voglia di combattere non ci sarebbe stato alcun pericolo e forse oggi nessuno si sarebbe fatto male. Ma all'improvviso quella frase maledettamente provocatoria aveva squarciato l'aria come un lampo e mandato in fumo tutto.
"Oh, no!" pensò quindi, sgranando gli occhi e scuotendo piano il capo rivolgendosi all'albino che gli rispose con un altro sorriso.
Troppo tardi.
Genesis, che a questo punto avrebbe tanto voluto starsene seduto a leggere mentre loro sì "divertivano" allegramente, aveva fatto appena in tempo a lasciare Loveless su uno dei tubi della struttura. Quella frase lo colpì immediatamente peggio di un colpo di spada. Si bloccò, e lentamente si voltò a guardarlo mentre l'espressione seria sul suo viso lasciava il posto ad un ghigno malefico ed i suoi occhi verde acqua pregni di mako sembravano voler dire una sola cosa: "Cosa hai appena detto?".
Sephiroth continuò a fissarlo, inclinando di lato la testa come ad invitarlo, e a quel punto lui se ne infischiò di tutto e tutti e non se lo fece ripetere due volte. Impugnò la Rapier, appoggiata a ridosso della struttura di tubi, e con uno scatto e un balzo veloci si avventò contro di lui ritrovandosi a lame incrociate contro quella della Masamune. Ghignò, e negli occhi di Sephiroth si accese una luce vittoriosa.

-Volevo risparmiarti una delusione ...- gli disse -Ma a quanto pare ci tieni a fare brutta figura.- gli occhi infuocati di alterigia.

L'albino continuò a sorridere e si limitò a respingerlo, per poi tornargli contro e ritrovarsi anche Angeal davanti, che era accorso per cercare di riuscire a salvare il salvabile, visto che ormai il guaio era fatto.

-Due contro uno?- osservò soddisfatto -Ci può stare.-

Poi, con un fendente di katana atto a respingere entrambi, diede iniziò al vero duello.
Fu un susseguirsi di attacchi frontali e veloci da parte di Rhapsodos, che però non utilizzò quasi mai la magia, e prese alle spalle da parte di Angeal che più che per allenarsi ora si ritrovò ad agire per contrastare l'impeto d'orgoglio ferito divampante nel cuore del rosso.
Anche se Sephiroth, come ormai era ben noto a tutti, sapeva difendersi benissimo anche da solo.
Lo dimostrò bene anche questa volta, facendosi largo a colpi di Masamune tra le sferzate veloci, letali e ben calibrate della Rapier e prevedendo gli attacchi a sorpresa di Angeal con un magistrale tempismo degno del più grande combattente.
Alla fine, benché Genesis non fosse ancora per nulla soddisfatto, fu lo stesso Sephiroth a fermarsi, dando lo stop a quel duello che prometteva davvero bene nonostante tutto.

-Sei migliorato.- disse, apostrofando il rosso con un sorriso.

Mentre Hewley riprendeva fiato, l'altro ghignò, affannato, rilassandosi ed abbassando la sua lama.

-Non ho bisogno che tu me lo dica. - rispose, storcendo le labbra in un'altera espressione di disprezzo.

-Bhe.- sentenziò a quel punto Angeal, voltando loro le spalle e raggiungendo nuovamente la piattaforma all'inizio del cannone -E' stato un buon duello.- ammise.

Pregando che l'ennesimo sguardo di sfida tra i due che seguì subito dopo durasse ancor meno. Fu così, almeno per stavolta.
Ancora qualche secondo, poi Genesis si avvicinò a lui e Sephiroth si voltò, raggiungendo la punta del cannone per ammirare meglio il cielo azzurro sopra di sé e il mare calmo che gli stava sotto.

-Ti hanno assegnato un'altra squadra, ho saputo.- iniziò quindi Angeal, dopo essersi appoggiato con la schiena ai tubi d'acciaio del reattore, rivolto all'eroe mentre Genesis, nella speranza di calmare sia i bollori che il fiato corto, vi si sedeva sopra con un balzo e ricominciava a leggere Loveless dal punto in cui l'aveva lasciato, ovvero l'ultima frase dell'ultimo atto, quello dal finale mancante.

Quella maledetta stanchezza, ricominciava a farsi sentire.
Ma concentrandosi su quei versi riuscì quasi a dimenticarla, anche perché, chissà come e per quale misterioso motivo, oltre a fargli tornare in mente il duello con Sephiroth appena concluso, gli fece venire in mente di nuovo anche la figura minuti di quella ragazza che diceva di chiamarsi come lui.
Le sue parole tornarono a rimbombargli in testa, turbandolo talmente tanto da estraniarlo da quella conversazione mentre continuava a fingere di leggere le righe di quel poema che tanto amava e che ora all'improvviso avevano finito per sembrargli neanche più tanto interessanti, mentre la sua mente veniva scaraventata in un baratro di immagini, pensieri e domande assurde e tormentati dal quale, quando si fecero talmente insistenti da portarlo sull'orlo della pazzia, riuscì ad uscire solo frenando bruscamente, tornando faticosamente indietro, al primo atto, e ricominciando per l'ennesima volta a rileggere dal principio.
Lo fissò in silenzio, ancora per qualche altro attimo, scorrendo quelle poche righe mentre si sforzava di raccogliere nella sua mente tutto ciò che aveva imparato studiandole.
E pian piano riuscì così a ritrovare la pace interiore perduta, fino a che non poté più trattenersi dall'enunciare ad alta voce, accorgendosi solo dopo del silenzio che era calato fra di loro

-Infinite in mistery, is the gift of the goddess.- iniziò, calmo -We seek it thus, and take to the sky. Ripples form on the water's surface, the wandering soul knows no rest ...-

Quindi alzò la testa, e proprio in quel momento Sephiroth si voltò a guardarlo, con un sorriso

-Loveless.- osservò -Atto I.- quasi anticipandolo nel recitarlo a memoria

Genesis sorrise, soddisfatto, chiudendo il libro e alzandosi nuovamente in piedi dopo averlo poggiato

-Te lo ricordi?- replicò, contento.
-Come potrei non farlo?- gli domandò scherzoso Sephiroth, voltandosi del tutto verso di loro -Visto che me l'hai inculcato.- sfiorandosi il lato destro della fronte con l'indice della mano destra

Angeal e Genesis si guardarono scambiandosi un rapido sorriso, quindi impugnando le loro spade si fermarono l'uno accanto all'altro proprio all'inizio del grande cannone, pronti a ripartire.

-Non sottovalutarlo.- lo avvisò il moro, un po' più tranquillo di poco prima nel vederlo così calmo.

Forse stavolta aveva davvero messo un po' di giudizio. Non si poteva mai sapere, Loveless aveva il potere di calmarlo più di qualunque altra medicina, grazie al cielo. Ecco perché ora era più disposto ad assecondarlo.

-Me ne ricorderò.- tuttavia Rhapsodos, prima di scagliarsi su Sephiroth che per l'ennesima volta lo respinse con estreme destrezza e facilità facendo lo stesso anche con i colpi ben mirati della spada ordinaria di SOLDIER che Hewley usava per combattere, nonostante fossero giunti quasi nello stesso istante.

-Mph.- bofonchiò, guardandoli -E' il meglio che sapete fare?- li provocò, respingendo Angeal che nel frattempo aveva nuovamente incrociato la lama con la sua.

Hewley accettò di buon grado la sconfitta, ritrovandosi nuovamente al proprio posto accanto a Genesis e abbassando la lama per poi replicare, divertito e anche un po' rassegnato.

-Inchiniamoci di fronte a Sephiroth, ah?-

Genesis invece, non aveva la benché minima intenzione di farlo.

-Angeal ...- lo richiamò, respingendolo con un bracciò e rivolgendo all'albino un lungo, determinato sguardo di sfida -Stai indietro. Affronterò Sephiroth da solo.- sentenziò, anche vagamente irritato.

L'espressione dell'amico cambiò repentinamente in una molto più preoccupata, non appena udì il tono con cui gli si era rivolto e capì le sue vere intenzioni. L'effetto distensivo di Loveless era purtroppo già finito, ed ecco che era arrivato il momento tanto atteso per Rhapsodos, quello di mettere in atto ugualmente il piano che aveva studiato, anche se con qualche piccola variante.
Sephiroth non ce l'avrebbe fatta stavolta, a meno che Angeal, sempre lui, non si fosse intromesso anche questa volta.

- Genesis ...- provò infatti ad ammonirlo, ma non servì a nulla.

Ormai era deciso. E, raddrizzando la schiena e risvegliando il potere magico della sua Rapier, il rosso si preparò ad attaccare con una frase insolente e d'effetto che tuttavia non scalfì neanche minimamente l'invincibile corazza emotiva del platinato.

-Il mondo ha bisogno di un nuovo eroe.- lo minacciò, guardandolo dritto negli occhi.

L'altro si limitò a sorridere.

-Vieni a provarci.- ribatté con tranquillità.

Fastidiosa tranquillità.

-Così presuntuoso.- replicò lui, con la stessa aria di sufficienza -Ma per quanto?-

Per poi, subito dopo, sferrare il primo potente colpo che affossò letteralmente l'albino riducendo il pavimento della piattaforma ad un piccolo cratere, e dando così inizio al fatidico, agognato scontro.

(...)




Angeal, Sephiroth e Genesis




 

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Capitolo 13
*** Promesse ***


Capitolo XII

(...)

Nel frattempo nel cortile interno del quartier generale della Shinra, quello che portava al dormitorio e in cui venivano conservati i veicoli a quattro ruote usati per gli spostamenti dei soldati e degli armamenti nei luoghi più disparati, il 2nd class Zack Fair e il suo migliore amico, il 2nd Kunsel, erano impegnati in una conversazione iniziata da poco ma che aveva tutta l'aria di essere molto sconvolgente, o almeno lo era per quest'ultimo, che all'improvviso guardando negli occhi l'amico si esibì in un'espressione sconvolta, gli occhi sempre nascosti dal casco a infrarossi che pareva amare parecchio, visto che non lo toglieva mai neanche per bere o mangiare, almeno non quando era in servizio.

-Zack, ma sei sicuro?- chiese, sconcertato -Solo il viaggio di andata, tra treno ed elicottero, non dura meno di un giorno e mezzo, forse anche due, e tu hai solo tre giorni di tempo! Che dirà Angeal quando lo scoprirà?-

Fair continuò a sorridere, anche ora leggermente nervoso. Titubò un po', soffermandosi forse a pensare che non aveva riflettuto sufficientemente su questo particolare, poi però scuotendo deciso la testa tornò a rispondere, sempre positivo.

-Tu preoccupati solo di farmi trovare l'elicottero nel punto che abbiamo stabilito. Ad Angeal ...- lasciò in sospeso la frase ancora per qualche istante, stavolta davvero in crisi, per poi infine concludere -Ad Angeal penserò io, non preoccuparti. In fondo si tratta solo di un paio di giorni in più, tra cinque sarò di ritorno. Cosa vuoi che succeda in così poco tempo?- domandò, più rivolto a sé stesso che al suo interlocutore.

Kunsel si fece serio, sospirando.

-Zack, lo sai che stai rischiando grosso, vero?-

Lui sorrise.

-Si, lo so.- annuì, sincero.

Un altro attimo di silenzio, e un'altra occhiata sinceramente preoccupata.

-E poi hai lasciato casa tua senza neanche avvisare, perché adesso ci vuoi ritornare?- tornò a chiedere Kunsel -Avevi detto che ci saresti ritornato solo da 1st, se proprio dovevi tornarci ...-
-Si, si, lo so.- risolse frettolosamente Fair, teso e anche un po' preoccupato ma deciso a proseguire per la sua strada -Ma ... è per Valery. Voglio portarla in un posto sicuro, e credo che casa mia possa esserlo.- per poi dopo una breve pausa aprirsi in un sorriso e concludere, fiducioso -Sono sicuro che mio padre la proteggerà.-

-Cos'ha di così speciale quella ragazza, che ti stai affannando così tanto per proteggerla?- ribatté allora l'altro, interessandosi improvvisamente all'argomento.

Fair sorrise, arrossendo anche un po'.

-Io ...- iniziò, ma si ritrovò a rimanere quasi subito subito senza parole, perché in fondo << Io non lo so ...- concluse -E' diversa. E ha bisogno di me. Questo mi basta.- con un sorriso felice e imbarazzato.

L'altro lo guardò stranito, quindi sorrise a sua volta e scosse la testa con rassegnazione.

-Sempre il solito.- replicò divertito -Vedi di non cacciarti in ulteriori guai, altrimenti sarai tu ad aver bisogno di me, poi.-

Fair rise rallegrato, allentando così anche la tensione nella sua anima.

-Non preoccuparti.- risolse, scoccandogli un occhiolino -Non mi caccerò in nessun casino, promesso.-

***

-Levati di mezzo!- urlò fuori di sé Genesis, irato e sull'onda di un impeto di eccitazione per quella battaglia che, se solo non fosse stato come al solito per Angeal, stavolta lo avrebbe davvero visto trionfare.

Lo mise fuorigioco avvolgendogli il volto con una magia di fuoco, quindi alzò il viso solo per accorgersi che Sephiroth era riuscito a liberarsi dalla bolla infuocata in cui lo aveva intrappolato. Aumentando la potenza ci riprovò di nuovo, incrociando la lama della Rapier contro quella della Masamune e tentando un attacco ravvicinato che però, interrotto nuovamente da Hewley, purtroppo andò a rivoltarglisi sciaguratamente contro quando la lama della spada ordinaria che li divideva si ruppe con uno schianto, scagliandosi così violentemente contro la sua spalla destra, ferendogliela profondamente e tagliandogli in due lo spallaccio del soprabito.
Cadde in ginocchio, con una mano a coprire la ferita e l'altra che ancora reggeva la spada. E per un interminabile istante il cuore di Angeal e Sephiroth perse improvvisamente un colpo.

\\\ Fine flashback \\\

 


Successe proprio quel giorno, quello del tuo ferimento, della scoperta del tuo essere diverso, speciale per me.
Riaprì di scatto gli occhi, sconvolta e sudata da quello che avevo appena visto, e trattenendo il fiato mi guardai intorno, ritrovandomi seduta sul letto in camera di Zack, tremante e col cuore che mi batteva forte in gola.
"Dio, ti scongiuro" pregai "Fa che sia stato solo un sogno."
Anche se, in cuor mio, sapevo benissimo che non lo era. Affatto. Del resto, era proprio questo il tempo.
Ero arrivata proprio quando tu stavi per andartene.

-Ben svegliata!-

Una voce, vivace e allegra, m'indusse di colpo a riemergere quasi di soprassalto dalla mia angoscia, riscuotendomi.
Guardai davanti a me, e vidi Zack con uno dei suoi soliti irresistibili sorrisi sulle labbra e una fumante tazza di ceramica stretta tra le mani. Appena fu certo di aver attirato la mia attenzione si avvicinò, guascone come sempre, e sedutosi accanto a me sul bordo del letto me la porse, affabile.
Col suo aiuto mi sistemai meglio con la schiena sulla testiera del letto a cui avevo appoggiato il cuscino, e prendendola in mano chiesi, incuriosita, lasciandomi andare ad un sospiro e sforzandomi di sorridere.

-E' un altro dei tuoi intrugli miracolosi?- chiudendo poi per un attimo gli occhi e appoggiando un po' la testa sull'orlo sottile dello schienale del letto.

La mia testa.
Faceva male, era pesante e quasi completamente vuota. Non riuscivo a non pensare a te, al sogno che avevo avuto. Avevo paura ... di quello che ti sarebbe successo.
Zack nel frattempo, ignaro di tutto, rise alla mia battuta scuotendo la testa.
Riaprii gli occhi e lo osservai intenerita, mentre i fili corvini dei suoi capelli si muovevano qua e là scossi da quel movimento deciso, e quelli più corti della frangia gli ricadevano ai lati del viso sfiorandogli gli zigomi, e appena un po' la fronte e gli occhi leggermente a mandorla.
Sorrisi di nuovo, improvvisamente calma e in pace.
Il cucciolo.
Quello ... era lo Zack che non avrei mai più dimenticato, quel piccolo grande uomo che era capace di attirare su di sé solo coccole e carezze, ma che all'occorrenza avrebbe saputo trasformarsi nel grande eroe che in futuro avrebbe saputo dimostrare di essere, disposto a dare tutto sé stesso per la salvezza dei suoi amici e di ciò in cui credeva.

-No, no.- rispose allegro -E' un comunissimo the al limone. Ma se vuoi posso migliorarlo.-

Il sorriso si allargò sul mio viso. Allungai le mani verso la tazza e prendendola la strinsi tra le dita, rilassandomi non appena il suo calore attraversò la pelle del palmo e delle dita, ed iniziando quindi a sorseggiarla, piano e godendomela fino in fondo.
Buona.
Forse un po' troppo dolce per i miei gusti, ma ...

-Va bene così.- risposi, riposando il mio sguardo su di lui.

Tuttavia, ben presto non riuscii più a far finta di nulla.
Zack prese ad osservarmi in silenzio, e dopo qualche minuto passato così all'improvviso cominciai a sentirmi piccola piccola, quasi indifesa, di fronte a quello sguardo improvvisamente profondo e a tutto quella curiosità.

-Allora?- mi chiese quindi dopo un po', impaziente.

Arrossii.

- C-Cosa?- replicai, imbarazzata.
-Com'è?- continuò lui, indicando con un movimento del capo la tazza.

Oh, ma certo. Il the.
Che diavolo avevo pensato che volesse, sennò?
Tossicchiai, e finsi di pensarci un po' su per poi storcere le labbra fingendo disgusto e scrutare la sua reazione preoccupata. "No, basta." Pensai divertita.
Non ce la facevo proprio a tenerlo sulle spine.

-Buonissimo.- risposi quindi, e vidi i suoi occhi e tutto il resto del suo viso mutare dapprima in una espressione di sorpresa e poi in una vivace, divertita.

Scoppiammo tutti e due a ridere, ed io rischiai anche di rovesciarmi il the addosso.

-Piantala!- esclamò lui, fingendosi contrariato per poi subito dopo farsi di nuovo serio e tornare a chiedere, implorante -Dai, sul serio. Sto cercando d'imparare a cucinare.-

Sorrisi di nuovo, tornando a mandar giù un altro sorso di the.

-Ah.- replicai annuendo -E usi me come cavia? Grazie.-

E giù un altro scroscio di risate.

-Va bene, lo ammetto.- concluse alla fine Zack, alzando le mani, per poi tornare ad insistere -Ancora non mi hai risposto, però. Non fare la furba.- inclinando di lato il capo supponente e incrociando le braccia sul petto forte.

Allora mandai giù tutto d'un fiato l'ultimo sorso, e colpendo il suo braccio con un leggero pugno decretai, schioccando la lingua.

-E' buono, idiota. Come vuoi che sia, una cosa cucinata da te?- posando poi la tazza sulla cassa che faceva da comodino.

Lui sgranò gli occhi, e roteò un po' la testa alzando gli occhi al cielo per poi tornare a fissarmi.

-Aaaah!- rispose -Grazie!- avvicinando così, quasi inaspettatamente il suo viso al mio, e guardandomi a lungo dritto negli occhi.

Mi ritrovai a farlo anche io, senza riuscire a stancarmene.
Com'erano ... belli.
Lui era bello, in ogni cosa.
Bello, puro e semplice, come un cielo azzurro.
E poi, eravamo così vicini da riuscire a sfiorarci, a sentire l'uno il respiro e il calore del corpo dell'altra.
In quel momento, forse per via della paura che aveva accompagnato la mia vita fino a quel momento o per colpa dell'ansia che avevo di volermene liberare, non pensai a null'altro che a noi, dimenticandomi per un attimo di tutto, anche della promessa che ci eravamo fatti e ... di te, Genesis.
Si, è vero, lo dimenticai. Ma anche così, non fu abbastanza per farlo completamente.
Le nostre labbra si fecero sempre più vicine, ma nel momento preciso in cui si sfiorarono ed io chiusi gli occhi pronta a sentirne il sapore, la consistenza e il calore, un pensiero, sempre lo stesso, tornò a porsi tra me e quella realtà virtuale.
Quella situazione, me ne ricordava un'altra, che se io avessi seguito i miei desideri del momento non si sarebbe mai avverata.
E benché Dio solo sa quanto lo volessi, in quel momento, non avrei potuto impedire che Aerith e Zack s'incontrassero, né che s'innamorassero.
Nessuno mi dava il diritto d'interferire col loro futuro, l'unico cosa buona che fosse successa nelle loro vite. Non potevo rovinarla, né togliere loro la possibilità di viverla. Anche se in quel momento avrei voluto farlo, ah se avrei voluto.
E poi ... c'eri tu.
Non potevo ingannare Zack, perché ... anche se volevo baciarlo, anche se avrei voluto stargli accanto per sempre, il mio cuore ... era te che voleva.
E lui si sa, non pensa mai a nulla e a nessuno quando si tratta di legare le persone tra di loro. Proprio come quello di Zack stava facendo con noi da quando ci eravamo visti la prima volta.
Riacquistai lucidità, e allontanandolo mi voltai e scossi la testa, chiudendo gli occhi rammaricata, sperando di non dover vedere la sua faccia delusa.
Anche così però, non fu affatto facile.
Per mezzo delle mie mani ancora sulle sue braccia, sentii i suoi muscoli forti irrigidirsi di nuovo, e quando mi voltai a guardarlo, il suo sguardo deluso frantumò il mio cuore in mille, piccoli e irrecuperabili pezzi

-Ti prego, Zack ...- mormorai, inumidendomi le labbra all'improvviso secche e traendo affranta un sospiro mentre tornavo a scuotere di nuovo il capo, supplicante.

Un solo sguardo negli occhi, e lui sembrò capirmi, perché all'improvviso la delusione lasciò il posto a quel coraggio e a quella sicurezza grazie ai quali, un giorno fortunatamente ancora molto lontano, sarebbe diventato ciò che sognava. Un eroe.

-E per via di quel segreto?- mi chiese semplicemente, comprensivo.

Lo guardai, sgranando gli occhi e spalancando meravigliata la bocca. Segreto? Quale segreto? Non si stava forse riferendo a ...
Ma come faceva? Come riusciva a leggermi così bene dentro l'anima e a capire ciò che ancora non avevo neanche avuto il coraggio di dirgli?
Mi sciolsi, e lasciando ricadere gli occhi in basso, verso la stoffa morbida delle lenzuola annuii, dispiaciuta, affrettandomi però subito dopo ad aggiungere

-Ma non è come pensi ...!-

Perché? Cosa avrebbe dovuto pensare?
Forse che il segreto riguardasse un ragazzo?
Lui scosse la testa con un sorriso tranquillo, e mi prese le mani.

-Tranquilla.- mi disse -Se c'è già un altro lo capisco.-

Ecco, appunto. Sorrisi, stringendogli di più le dita delle sue mani nelle mie.

-No, no Zack. Ti sbagli.- lo corressi, e il sollievo riempi la mia anima quando lo vidi illuminare il suo viso ed i suoi occhi azzurro cielo per mezzo di un sorriso sollevato.

E invece no, non si sbagliava. Almeno, non era completamente fuori strada, anche se il problema era un altro, e molto più grave s'è possibile, del primo.
Non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro, eppure sentivo il bisogno di dirgli la verità, esattamente come avevo provato a fare dal momento in cui lo avevo incontrato.

-E' solo che ...- iniziai quindi, tornando ad abbassare il volto.

A quel punto, inaspettatamente, Zack mi strinse di più le mani, e Dio quando avrei voluto baciarlo in quel preciso istante!
Alzai di nuovo lo sguardo verso di lui, e stavolta ciò che dissi e feci uscì dal profondo del mio cuore, dalla più intima parte di me.
E fu solo la verità, anche se non proprio quella che avrei dovuto dirgli.
Sentii le lacrime premere contro i miei occhi mentre il pensiero che ben presto si sarebbe allontanato da me già saliva a lacerarmi il cuore. Avrebbe conosciuto quell'Antica, poi Cloud, ed io sarei sparita per sempre dalla sua vita. E non avrei neanche potuto salvarlo dal tragico destino che lo attendeva.
Probabilmente, questi sarebbero stati gli unici e ultimi momenti in cui ci saremmo potuti ritrovare così vicini.
Al solo pensarlo, secondo dopo  secondo il dolore consumava gli ingranaggi del mio cuore, così come la ruggine fa con quelli di un orologio.
Quegli occhi del colore di un cielo d'estate continuavano a scrutarmi, in attesa di una risposta, e all'improvviso lasciai andare tutti i dubbi e mi buttai tra le sue braccia, in lacrime.
Lo sentii sussultare, sorpreso ma non troppo. Poi, quasi subito dopo, posò la sua testa sulla mia e mi stinse talmente tanto teneramente che il mio cuore vibrò più e più volte, riscaldato dal suo calore e confortato di quei gesti.
Avrei voluto non finisse mai, quel momento bellissimo in cui eravamo solo io e lui nella sua stanza, abbracciati proprio come fratello e sorella e forse anche come qualcosa in più.
Ma il mio destino non era legato a lui, così come il suo non era legato a me.
E tutto questo mi lacerava il cuore a morsi.

-Ho paura ...- riuscii a mormorare soltanto, tra i singhiozzi -di perderti.-

Tremò di nuovo, e trattenne per qualche istante il fiato. Poi, percepii un lieve sorriso dipingersi sulle sue labbra, e le sue braccia mi strinsero ancora di più a lui, dolcemente, mentre con le labbra sfiorava la mia testa con un tenero bacio sulla nuca

-Non mi perderai.- sussurrò, avvicinando la sua bocca al mio orecchio destro e facendomi tremare -Te lo prometto.-

No.
Non poteva. La realtà che dominava la mia mente ancora una volta si oppose a quella che stavo vivendo, fatta di sogni e fantasia. Ricordai tutte le cose e le persone che mi avevano fatto quella promessa.
Mia, la piccola fattoria in cui ero cresciuta, e il ragazzo che avevo amato.
"Non promettermelo, Zack." Pensai, riprendendo pian piano controllo di me stessa "Non farlo, ti prego!"
Quindi, sciogliendomi dall'abbraccio, lo guardai coraggiosamente negli occhi, scuotendo la testa e asciugandomi le lacrime con la manica della tuta che avevo indosso.

-Non fare mai promesse che poi non potrai mantenere.- lo avvisai, sorridendo appena e tirando su col naso.

Zack sorrise a sua volta, intenerito, e mi carezzò le guance umide avvolgendo con le sue mani i miei zigomi e scontandomi poi qualche ciocca ribelle da di fronte il viso.

-La manterrò, invece. - replicò -Dovesse essere l'ultima promessa che faccio in vita mia.- con quel guizzo fiducioso negli occhi, per poi avvicinarsi di più a me e baciarmi delicatamente sulla fronte, prima di tornare a stringermi di nuovo in un abbraccio protettivo e intimo, uno di quelli che sanno di qualcosa di più della semplice, comune promessa di amicizia che ci eravamo fatti.

Non ho idea di quanto durò quel momento, forse un quarto d'ora, forse di più o di meno.
Quello che so è che ad un certo punto Zack si rialzò, e con un sorriso ed un occhiolino mi chiese di aspettarlo per qualche istante e se ne andò con la promessa che sarebbe tornato subito.
Difatti, dovetti aspettare solo pochi minuti, giusto una manciata, prima di vedermelo ritornare con due pacchi regalo per me, piccoli ma promettenti.

-Stamane mi ha chiamato Angeal.- mi spiegò, mentre io lo osservavo sorpresa tornare a sedersi vicino a me e poggiarmeli sulle gambe -Mi ha detto che ho tre giorni di congedo, così sono uscito presto e ho fatto compere per te, prima che ti svegliassi.- quindi con un sorriso fiero e anche un po' imbarazzato indicò i pacchetti, confezionati con una luminescente carta rossa e un fiocchetto verde mako -Ho pensato che ti sarebbero piaciuti.- aggiunse, invitandomi a scartarli.

Mi aveva ... fatto un regalo?
No, anzi, non uno. Due. Ben due regali che sembravano anche belli grossi pronti lì di fronte a me da scartare.
Ignorando volontariamente l'accenno ad Angeal sorrisi, e li presi tra le mani, guardandolo ancora un po' incerta. Non ... non sapevo se accettarli o meno. La nostra situazione era già di per sé complicata, e non volevo che ci rimanesse ulteriormente male, ma non volevo neanche illuderlo più di quanto già non avessi fatto.
Ma lui non si scoraggiò. Del resto, non era nel suo stile.

-Su avanti, aprili.- m'incoraggiò.

Senza dire una parola, con gli occhi che brillavano di felicità e curiosità e la bocca ancora spalancata per la sorpresa, finalmente mi decisi ad obbedire, ed iniziai tremante a scartarli facendo attenzione a non rovinarne la confezione.
Mi sembrava fossero fatte di cristallo, per quanta cura era stata messa nel fabbricarle.
E quando ne vidi il contenuto poi, mi lasciai andare ad un'esclamazione di sorpresa lasciando che questa apparisse anche sul mio viso, assieme alla meraviglia.
Erano due capi di abbigliamento, un trench coat blu cobalto con due bottoni neri per ogni lato sul davanti, l'ingresso per una cintura che se ne stava ancora riposta nel pacchetto e un comodo cappuccio estraibile, e un lungo vestito bianco a fiori, a maniche corte, semplice ma bellissimo che arrivava più o meno sotto le ginocchia. Aveva un piccolo scollo a goccia i cui lembi erano tenuti assieme da un nastro azzurrino, e con ad esso, come ultimo regalo, Zack mi diede anche un paio di ballerine bianche di pelle lucida.
Rimasi ... senza fiato. Semplicemente senza fiato, e sbalordita, a fissarli mentre lui quasi come a volersi scusare aggiunse, gesticolando nervosamente.

-Avevi bisogno di vestiti, e così mi sono detto ... si, insomma, che questi potessero andare, come regalo. Non sapevo i tuoi gusti, perciò ho preso quello che ho pensato ti potesse piacere e ti stessero meglio.- si fermò qualche attimo per riprendere fiato e concludere, grattandosi con una mano la nuca -Se non ti piace qualcosa posso sempre cambiarli.-

Lo fissai incredula.

-Scherzi?- replica, quasi commossa.

Lui mi scrutò un po' spaurito.

-Quindi ... sono okkey?- chiese titubante.

Mi sciolsi in un sorriso, e abbandonando tutto sulle mie gambe mi misi in ginocchio sul materasso, e lo abbracciai forte rispondendo grata.

- Sono meravigliosi!- guardandolo negli occhi e vedendo sorgere un altro allegro sole in mezzo a quel cielo azzurro che fino a quel momento era stato leggermente velato dal dubbio -Grazie Zack. Davvero.-
 

(...)


 

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Capitolo 14
*** I soliti discorsi ***


Capitolo XIII
 



Era una giornata splendida, quella in cui subito dopo mi ritrovai a vivere, con indosso il vestito nuovo che mi era appena stato regalato.
Non sono mai stata il tipo da gonnella e scarpette, ma devo ammettere che quella volta non l'indossai solo per non fare un dispetto a Zack. Mi piacevano davvero tanto, soprattutto il vestito, e ... mi sentivo una piccola principessa fortunata, bellissima come non mi ero mai sentita prima, mentre stringevo la mano del mio fratellino e con lui correvo di qua e di la, alla scoperta di una Midgar come non l'avevo mai vista.
Reale. Come tutto quello che stava accadendomi intorno da quando ero giunta.
L'aria quel giorno era un po' troppo pesante, sapeva di smog e avevo il naso irritato dalle polveri sottili tanto che, sciaguratamente, più volte mi ritrovai a starnutire e per ovviare il problema alla fine alla lista di regali di Zack si aggiunse un fazzolettino di seta bianco.

-Ma non starai spendendo troppo?- chiesi, subito dopo che lo ebbe acquistato, in una graziosa boutique affacciata sulla strada principale che percorreva il settore 4.
-Figurati!- fu la sua risposta, scuotendo le spalle -Non sarò ricco come il Presidente, ma mi pagano pur sempre abbastanza bene da potermi permettermi qualche pazzia.- concluse, scoccandomi un occhiolino al quale io risposi tentando di non arrossire, scuotendo poi il capo e ribadendo sottovoce, mentre mi rigiravo il fazzoletto tra le mani.
-Comunque, a me sembra sempre che tu stia esagerando. È talmente bello che quasi mi dispiace rovinarlo per soffiarmici il naso.- aggiunsi quindi, continuando a sfregare le mie dita sulla sua stoffa morbida e delicata.

Zack rise, scuotendo il capo, poi senza aggiungere altro mi prese nuovamente per mano e riprese a trascinarmi verso un nuovo posto da visitare o uno squarcio segreto della città, esclamando eccitato.

-Oh, vieni! Questo lo devi vedere, assolutamente!-

Ed io mi lasciai trasportare, anche se faticavo parecchio a reggere il suo passo. Ma mi piaceva essere così coinvolta, perciò lo lasciai fare e nel frattempo mi sorpresi ad ammirare il cielo, sopra i grattacieli i palazzi che riempivano ogni angolo della città.
Sono una tipa di campagna, lo sai bene tu amore, la città di solito non mi è mai piaciuta.
Eppure, sarà stato forse per colpa degli occhi di Zack e della loro luce così intensa, non avrei mai creduto di trovare un cielo così bello, a Midgar, con così tanto sole.
Si, è vero, il blu ero un poco appannato dalla leggera foschia causata dai reattori e da tutto il fumo delle auto, ma c'era sole. Tanto sole.
Scintillava sopra di noi come un diamante nell'oscurità, e i suoi raggi rifulgendo si schiantavano contro le pareti delle case e dei tetti degli immensi palazzi in cui, molto spesso trovavano sede la maggior parte degli uffici e di qualche rete televisiva.
A metà mattina poi, ebbi il privilegio di poter osservare affascinata la cupola maestosa del palazzo Shinra, che rifulgeva come fosse di cristallo sotto la luce dorata del mattino.
Lo feci, quando per concedermi un po' di riposo Zack mi offrì la colazione in un bar del settore 8, uno di quelli affollatissimi di gente dove i camerieri non aveva neanche il tempo di fermarsi a respirare, e l'atmosfera era sempre vivace e allegra, accogliente.
Proprio da uno dei tavolini esterni a cui ci sedemmo, rimasi incantata ad ammirarla, pensando ... per la prima volta a quanto ci fossi vicina.
Non avrei mai creduto che una cosa simile potesse mai accadere, eppure ora ... c'ero così vicino da poterla quasi toccare. Anzi ... ci avevo praticamente dormito di dentro.
Incredula e affascinata, alzai piano la mano destra e inclinando la testa per scegliere meglio la prospettiva posi il palmo sull'immagine che avevo di essa, coprendola del tutto.
Trattenni il fiato, lasciando ricadere nuovamente la mano e ritrovandomi a bocca aperta a fissare il quadrangolo rosso inciso sul metallo.
"SHINRA." pensai "Quella ... Shinra."
"Io ... posso toccarla. Anzi, ci sto vivendo proprio dentro."
Per la prima volta mi resi veramente conto di quanto era accaduto, e tremai. Come avrei fatto a sopravvivere, in un mondo come questo? Ma soprattutto ... per quanto tempo avrei dovuto farlo?

-Bella, eh?- mi chiese ad un tratto Zack, che per tutto quel tempo non aveva fatto che fissarmi con un sorriso quasi comprensivo.

Mi voltai a guardarlo, la bocca ancora spalancata per lo stupore. Ci misi un po' a capire ciò che mi aveva chiesto, ma poi mi sciolsi e risposi con un sorriso, annuendo.

-E' il simbolo di Midgar ormai.- commentò allora lui, con una punta d'orgoglio SOLDIER portandosi le mani dietro la nuca e buttando all'indietro la testa.

Annuii di nuovo.

-Lo so.- mormorai, abbassando gli occhi sul caffè che mi era appena stato portato da un cameriere in divisa bianca, e sperando che questo bastasse a mascherare il turbamento che mi aveva colto.

Anche lui si riprese, concentrandosi sulla sua tazzina, e lo vidi guardarmi incuriosito senza dir nulla, ma con un mezzo sorriso intenerito. "Lo so che vuoi saperne di più, Zack." pensai, dando un morso ad uno dei biscotti da the che ci erano stati portati assieme al nero. Sospirai, camuffando anche quel momento con l'atto di bere l'ultima goccia dalla tazzina "Anche io credimi, vorrei tanto dirtelo. Ma ... non capiresti."
Finimmo di mangiare in silenzio, scambiandoci solo qualche battuta sul sapore dei dolci. Devo ammettere che non erano affatto male, anzi sembravano addirittura più buoni di quelli che vendevo nella pasticceria in cui lavoravo nel mio mondo, da appena qualche mese.
Gli parlai proprio di questo, anche se ovviamente non feci accenno al fatto che quella non fosse la mia realtà. Dissi semplicemente che da dove venivo io i dolci non erano così buoni, friabili e leggeri, e via discorrendo.
Andammo avanti per una decina di minuti a parlare, dopo che il cameriere fu venuto a prendersi i soldi del conto, e in quel tempo in cui lui lasciò parlare quasi sempre me sembrò non volersi mai stancare di ascoltarmi.
Poi, quasi all'improvviso, s'alzò e mi chiese di aspettare un attimo scoccandomi un occhiolino per poi avviarsi verso il retro del locale.
Lì per lì non capii, neanche quando, dopo essere tornato, mi prese per mano e mi trascinò via correndo.

-Via, adesso. Corri!- esclamò, un sorriso divertito sulle labbra.
-Zack, ma che ...- provai a ribattere, ma lui mi prevenne indicando con la testa un punto lontano alle nostre spalle.
-I turks!- esclamò.

Mi voltai, ed in effetti vidi Reno e Rude, seguiti a ruota da Cissnei. I tre, quasi colti di sorpresa, correvano verso di noi che tuttavia fummo veloci e ben presto li distanziammo.
Col fiato corto e le ginocchia tremanti seguii in quella folle fuga il mio bianconiglio fino alla stazione, dove salimmo al volo sul treno che già aveva emesso il fischio di partenza e aveva iniziato a muoversi, lasciandoli così indietro ad osservarci sbigottiti ed ansimanti sul marciapiede mentre noi ci allontanavamo ormai sempre più velocemente.
Li osservammo ancora per qualche minuto poi, quando la stazione scomparve alla nostra vista assieme a loro, entrammo dentro scoppiando in una risata fragorosa, mentre c'accomodavamo su uno dei tanti sedili vuoti rimasti.
Nonostante l'ora era davvero poca la gente che partiva.

-E adesso?- osservai, anche un po' in ansia, riprendendo fiato mentre guardavo il paesaggio scorrere velocemente fuori dal finestrino -Dove andiamo? Saremo costretti a scendere prima o poi.-

Non sapevo ancora molto bene come funzionassero i servizi ferroviari lì, ma ... mi ero fatta un'idea, e sapevo benissimo che una come me non sarebbe potuta passare inosservata a lungo.
Eppure, Zack sorrise ancora, malandrino, e mi porse un pass temporaneo, ovvero un biglietto giallo del costo di quindici gil che permetteva a chiunque non fosse residente a Midgar di viaggiare senza legalmente per una settimana. Lo presi tra le mani, stupita, e ancor più meravigliata rimasi quando mi disse la destinazione che aveva scelto.

-Gongaga?- domandai, sconvolta.

Zack annuì, vidi i suoi occhi col Mako acquistare una luce ancora una volta diversa, infantile e vispa, mentre le sue labbra s'incresparono in un sorriso eccitato e anche un po' nervoso.

-Quando ho un po' di tempo vado sempre dai miei.- mentì, senza sapere di essere in realtà già stato smascherato -Mia madre sarà felice di conoscerti.-

"Oh, no." Pensai angosciata "Non metterla su questo piano, Zack. Ti prego."

-Ma ...- bofonchiai quindi -Io ...-
-Ci fermeremo tra qualche ora, appena fuori Midgar.- continuò lui senza lasciarmi finire -Lì troveremo lo zio di Kunsel con il suo elicottero. Gli ho chiesto se poteva accompagnarci e poi riportarmi indietro.- infine si sedette nuovamente vicino a me e mi prese le mani, tremanti e sudate.

Ringraziai il cielo che avesse i guanti, anche se non potei essere sicura che anche quel mio piccolo turbamento fosse passato inosservato.
Ero come un libro aperto ormai, per lui. Non c'era nuvola nei miei occhi, anche la più piccola, che lui non riuscisse a scorgere.

-Tu rimarrai a Gongaga con loro, se ti fa piacere ...- concluse, sorridendomi coraggioso -Li sarai al sicuro, o almeno spero.- per poi distrarre un attimo il suo sguardo da me, segno che non era sicuro neanche lui di ciò che fosse sicuro per me, o no.

Ero una scheggia incontrollata in un mondo su cui la Shinra aveva pieno potere, non avrebbero mai rinunciato a lasciarmi andare. Non ero al sicuro da nessuna parte, eppure lui ... non voleva arrendersi dal dovere che si era messo in testa, di proteggermi
Ed io? Cosa avrei dovuto fare?
Come potevo dirgli di no, deluderlo dopo tutto quello che aveva fatto per me?
E, soprattutto, come potevo mentirgli?

***

/// Flashback///

Sephiroth si affacciò alla camerata proprio mentre era in corso un'animata discussione tra Genesis ed Angeal, come non ne avevano mai avute prima.
Il rosso, palesemente sfibrato, respirava a fatica ed era pallido, senza contare che solo una fasciatura gli copriva la ferita riportata appena qualche ora addietro, lasciando la spalla sinistra, il petto e le possenti braccia libere.
A causa di essa non aveva potuto indossare la maglia della sua divisa perché non riusciva quasi per niente a muovere il braccio, e il Direttore del reparto SOLDIER, Lazard Deusericus, facendo finta di essersi bevuto la storia inventata da Angeal e sostenuta da Sephiroth stesso, gli aveva concesso quasi una settimana di tempo per riprendersi da quel "infortunio sul campo".
Inutile dire che, subito dopo il duello, la preoccupazione era salita alle stelle, perciò ora il platinato si trovava lì per sincerarsi delle condizioni dell'amico.
Tuttavia, proprio nell'attimo in cui la sua mano guantata di nero si posò sulla maniglia della porta, qualcosa lo indusse a fermarsi ad ascoltare rimanendo nascosto dietro di essa.

-Se non ti fossi messo in testa di danneggiare la sala di simulazione e farci fuori entrambi.- rispose Angeal col suo solito tono ammonitore, dopo aver ascoltato Genesis prendersela con lui per essersi messo in mezzo -Perché è questo che volevi fare, non è così? Bhe, se tu avessi fatto finta di nulla e non ti fossi montato la testa come al tuo solito, forse a quest'ora non saresti qua costretto a letto mentre gli altri, come dici tu, si prendono il meglio della gloria e del divertimento.-

Genesis gli lanciò un'occhiata furiosa.

-Finta di nulla?- domandò, irato -Io avrei dovuto ...- iniziò, per poi lasciare la frase a metà e partire all'attacco con veemenza, fuori di sé dalla rabbia -Perché deve essere sempre Sephiroth ad averla vinta, Angeal? Perché è sempre lui a venir considerato come l'unico first class? Non ti dà fastidio neanche un po'? Non ti secca vivere sotto la sua ombra?-

Un minuto di silenzio era seguito a quella domanda, e Sephiroth, già di per sé colto alla sprovvista, aveva provato a immaginare lo sguardo accusatorio del rosso, l'altezzosa caparbietà che già da un po' di tempo aveva preso ad albergare in quegli occhi, e in contrasto quello di rimprovero di Angeal, che subito dopo aver risposto, pacato ma severo.

-No. - per poi aggiungere, con lo stesso tono -Perché se tu non fossi così accecato dalla smania di volere quello che non puoi, sapresti che quello che hai appena detto è una mera menzogna!-

Un altro sguardo truce da parte di Rhapsodos.
L'aria si era fatta improvvisamente talmente tanto tesa, che di nuovo l'albino si era ritrovato a trattenere il fiato, sempre più confuso e frastornato. Poteva anche sforzarsi di capire la rabbia dell'amico, ma ciò che né lui né Angeal riuscivano a spiegarsi era ...
Perché tutto d'un tratto aveva preso a comportarsi così?

-Io non voglio ciò che non posso, Angeal!- esplose allora Genesis -IO VOGLIO CIO' CHE MI SPETTA!- quindi, affannato, si alzò in piedi a fatica e continuò, senza più riuscire a fermarsi -Sephiroth, Sephiroth e ancora Sephiroth! È insopportabile!-

Lo sapevano tutti, anche lui stesso, che non era ciò che pensava. Genesis era sì, sempre stato competitivo, ma non lo aveva mai odiato per questo.
Non era da lui, tutto quell'odio. Ci doveva essere qualcos'altro, di fondo, anche se più si sforzavano, più non riuscivano a capire cosa non andasse.
Perciò, anche se ciò che aveva sentito gli aveva fatto tremare il cuore, Sephiroth decise che era giunta l'ora di porre fine a quella conversazione inutile prima che degenerasse e spingendo in avanti la porta era entrato, assumendo la sua solita espressione atona ormai così bene collaudata e facendo finta di non aver sentito nulla.
Trovò Angeal sospirante e contrariato rivolto verso Genesis, in piedi di fronte a lui, a torso nudo e con indosso solo i pantaloni della tuta da first e i suoi stivali.
Lo aveva colpito con uno sguardo infuocato, ed Angeal voltandosi e vedendolo si era ammutolito, sicuramente preoccupandosi se li avesse sentiti o meno.
Ma lui non commentò ciò che aveva udito, né gli fece capire di averlo fatto.
Semplicemente si limitò ad ignorare l'occhiataccia di Genesis e chiedergli, sinceramente preoccupato e sforzandosi di sorridere.

-Come stai?-

Il rosso sbruffò infastidito.

-Mai stato meglio.- rispose, voltandogli le spalle e rimettendosi sdraiato a leggere sempre il suo amato Loveless, appoggiato sul materasso.

Annuì, contento, quindi lanciò un'occhiata ad Angeal e lo vide rispondere scuotendo rammaricato la testa per poi dirigersi fuori, facendogli segno di seguirlo.
Sorrise impercettibilmente, e dopo un'ultima occhiata a Genesis che sembrava aver deliberatamente deciso d'ignorarlo, seguì il suggerimento accodandosi all'amico e lasciando l'altro solo nella sua stanza e nel silenzio pacifico di essa.
Rimasto solo, Genesis attese ancora una manciata di secondi, e poi alla fine abbandonò nuovamente Loveless sul materasso e messosi a sedere sprofondò le dita nel groviglio dei suoi capelli, rossi e sudati, con una gran voglia di piangere e neanche un briciolo di forza per farlo.
"Basta!" pensò, disperato. "Ma che diavolo mi sta succedendo?".

\\\

Una volta nel corridoio, anche per Sephiroth che credeva di essere la parte lesa fu invece il tempo della lavata di testa.

-Ho sentito.- iniziò, prima che Angeal potesse in qualche modo cercare di spiegargli.

Quello lo guardò dapprima preoccupato, poi però sospirò spazientito e lanciandogli un'occhiata ammonitrice iniziò, incrociando le braccia sul petto.

-Essere un eroe non vuol dire poter fare quello che ti dice la testa, lo sai vero?-

Sephiroth sorrise, e annuì sottomesso. "Ci risiamo. Mi chiedevo quando me ne avrebbe parlato." Pensò divertito, e anche un po' rassegnato.

-Non avresti dovuto incoraggiarlo.- continuò quindi Hewley, inflessibile.
-Forse ...- rispose lui, continuando a sorridere, annuendo e gettando di lato la testa.
-Noi di SOLDIER abbiamo anche un onore da difendere.- gli disse allora l'altro -Dobbiamo pensare prima di tutto a questo. Che si dirà di noi se cominciamo ad ammazzarci per puro divertimento?- poi passò al dunque, guardandolo severo negli occhi -Genesis è una testa calda, questo lo sappiamo, ma da te mi sarei aspettato un comportamento più assennato.
Ricorda che siamo il sogno di molti bambini, a Midgar e non solo, il futuro di questo pianeta, e di tutti gli altri membri di SOLDIER. Loro ci prendono a modello, ma questo non ci dà il diritto di poter sempre decidere cosa fare e cosa no. - concluse quindi, scuotendo più volte il capo in segno di disapprovazione
.

L'albino ascoltò in silenzio la ramanzina dell'amico, continuando per tutto il tempo a sorridere nel frattempo dentro di sé. Poi, quando questi gli chiese conferma della correttezza di ciò che aveva appena detto, come un bravo bambino obbediente lo guardò negli occhi e annuì serio, dimostrandosi profondamente colpito, e deciso promesse.

-Non si ripeterà mai più Angeal, promesso.-

Attirandosi uno sguardo ancora un po' infastidito ed un mormorato e contrariato.

-Lo spero.-

Per poi infine guardarlo mentre, dopo un'ultima occhiata si congedava da lui voltandogli le spalle, e tornando dentro, dall'altro lato della medaglia.
Era sempre così, da che erano diventati amici. Loro litigavano, ed Angeal metteva pace.
Ma d'un tratto, riprendendo a camminare dopo averlo visto scomparire oltre la porta, Sephiroth si ritrovò a chiedersi quanto ancora avrebbero potuto resistere, prima di esplodere.
Prima o poi, una di quelle mine sarebbe scoppiata loro in faccia, ne era certo.
Ci avevano scherzato fin troppo col fuoco.

(...)






















 



NdA: Ed eccoci giunti ormai al punto di svolta della storia, perchè da qui tutto ha inizio, e manca davvero poco a quando Genesis e Valery si rincontreranno di nuovo. Anche se per il momento però, lei si sta allontanando sempre più. Gongaga è una meta molto distante da Banora, praticamente dall'altro lato del globo.
E a proposito di questo ... si, lo so che nella storia originale Zack lasciò la sua famiglia a quindici anni per non farvi poi più ritorno, purtroppo, ma ... questa è la mia storia, Valery può cambiare il passato e lo farà, ve lo avevo detto no? Perciò si, Zack tornerà a Gongaga, rivedrà i suoi genitori e vivrà, perchè cavolo così doveva finire! Non è giusto non sia neanche riuscito a vederli, bisogna rimediare!
Nella stesura originale avevo fatto una gran confusione, ho dovuto mettere a posto un pò di cose e mi c'è voluto un pò più di tempo per superare questo pezzo, ma comunque spero di non aver tralasciato nulla e di essere rimasta in linea con lo spirito della storia.
A presto quindi, vedremo come si evolverà il rapporta tra "sorellina" e "fratellino", e nel frattempo vi mando un baciozzo grande :*
Bye

Sarah B. Cornwell

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Capitolo 15
*** Finalmente verità ***


Capitolo XIV


Non è per essere ripetitiva, ma davvero sono poche che io ricordi le giornate belle come quella prima che passai assieme a Zack Fair, allora 2nd class di appena diciassette anni.
Zack the puppy.
Me lo ripetei fino a quasi neanche più accorgermi di farlo, mentre ero con lui. E più lo facevo, più sorridevo osservandolo e stringendo la mia mano attorno al suo braccio.
Sprigionava gioia e amore, era un vulcano di energia positiva e sapeva sempre come prendermi e quando era il momento giusto per farmi ridere, piangere o riflettere.
Devo dirti la verità, Genesis … se ci penso, ancora adesso a distanza di tempo … ero e sarò sempre felice di avere al mio fianco persone come lui, che rendono meno grave e profondo il buio e il silenzio di questi giorni in tua assenza.
Quei ricordi di cui mi fece dono, quel giorno e in quelli successivi … sono le uniche cose che rendono il sole meno stanco di risplendere, assieme alla tua voce che cita i versi di Loveless solo per me.

 
***

Il nostro viaggio in treno durò all’incirca un paio di ore e mezza.
Seduti su uno dei tanti sedili all’interno del vagone di centro, le trascorremmo tutte a parlare e ridere, fermandoci ogni tanto ad osservare il paesaggio che cambiava fuori dal finestrino, ma senza dare il tempo al silenzio di gettarci addosso paure, incertezze o ansie. Lo sapevamo già benissimo entrambe, che quella situazione non sarebbe dovuta neanche esistere.
Passammo dal grigio di Midgar al deserto assolato della periferia, fino ad arrivare al multicolore vivace della campagna circostante la grande città sede della Shinra. Eppure ci volle un bel po’, davvero un bel po’, prima che la cupola del HQ scomparisse completamente dalla nostra vista, mentre il dolce tamburellare del treno sulle rotaie ci portava lontano, sempre più lontano, verso l’elicottero che ci avrebbe condotto a Gongaga … e mi avrebbe precluso la possibilità di incontrarti di nuovo.
Non sapevo ancora, se essere grata a Zack per questo visto come sarebbero andate a finire le cose. O se al contrario rimproverarlo, anche se … gli volevo troppo bene per riuscire a farlo.
 
Avevo chiuso per qualche secondo gli occhi, giusto il tempo di farli riposare dall’intensa attività a cui erano stati sottoposti.
Ascoltare il mio fratellino era un piacere e non avrei mai voluto smettere, ma la mia mente era ancora ingombrata da pensieri per la maggior parte difficili, tristi e preoccupati, per cui dovetti compiere uno sforzo immane per non lasciare che questi, uniti ai sensi di colpa che bastardi e invadenti che continuavano ad attanagliarmi e azzannarmi l’anima, prendessero il sopravvento. Sforzo che mi lasciò così sfibrata da farmi venire il mal di testa, oltre che un’ansia e una nausea tremenda, proprio a me che non avevo mai sofferto il treno né alcun altro tipo di veicolo, se non forse un po’ l’auto quando correva troppo in curva.
Così approfittai di un attimo in cui rimasi sola nella cabina per rilassarmi, o almeno cercare di farlo, mentre Zack se n’era andato a cercare il vagone ristorante per comprare qualcosa da sgranocchiare.
Poggiai la testa sul vetro, e guardando il panorama che scorreva veloce oltre esso pian piano chiusi gli occhi e mi lasciai andare. E d’un tratto, per la prima volta, iniziai ad avere come la strana, bella ma anche un po’ destabilizzante sensazione che ci fosse forse qualcosa di diverso, in me.
Non nei miei sentimento, ma in quel nuovo coraggio, quella nuova determinazione che sentii nascere dentro al mio cuore come una calda, potente e confortante luce. E mentre la osservavo crescere, con la mia immaginazione (o forse fu soltanto un sogno?), il suo calore all’improvviso divenne quasi reale, tanto che riuscii a percepirlo anche fisicamente, come un abbraccio lento ed intenso che mi trascinò dentro ad una sensazione talmente incantevole e strana da spingermi ancora oggi a chiedermi se fosse il principio di ciò che mi aveva permesso di raggiungerti, o semplicemente una dolce visione regalo della mia sempre fervida fantasia.
L’unica cosa che sapevo e di cui ancora oggi sono certa, è che fu anticipo di un cambiamento importante, per me. Il più importante di tutti, quello che mi avrebbe permesso di sopravvivere, dandomi le armi per combattere tutte le battaglie che mi avrebbero atteso, da lì a poco, troppe per me senza di te.
Come facevo a saperlo?
Neanche questo riesco a spiegarti. Lo sapevo, e basta.
E il mio cervello per la prima volta non fece ulteriori domande e si accontentò di quelle risposte vaghe e stentate, accettandole come verità incontestabili.
Che mi stessi abituando all’idea di vivere in quel mondo così lontano dagli schemi del mio, e così pericoloso?
O che invece fosse solo un effetto rilassante del sorriso di Zack dopo tutti quei continui e oserei aggiungere anche terrorizzanti shock ai quali ero stata sottoposta a Midgar?
Non ne avevo idea. Ora volevo solo pensare a cosa avrei fatto in quel mondo, perché non potevo pretendere di rimanere immune da ciò che sarebbe successo da lì a poco, non volevo lasciare … che tutto accadesse senza poterci fare nulla. Un motivo doveva pur esserci, se ero stata catapultata lì, ed io continuavo a pensare che fosse per causa tua.
Dovevo incontrarti di nuovo, volevo aiutarti, starti accanto, ma non farmi coinvolgere in quel che avresti deciso di fare. Capivo le tue scelte, sapevo fossero dettate dalla disperazione e dalla rabbia, ma proprio per questo volevo impedirti di precipitare prima che fosse troppo tardi.
Per questo dovevo assolutamente trovare un modo per raggiungerti, e una posizione da cui, eventualmente, agire senza rimanere coinvolta.
Si, lo so.
Rimasi stupita io stessa di quel pensiero così lucido che fui in grado di formulare così all’improvviso, in un momento simile e in maniera del tutto inaspettata. Così come fui stupita nel coraggio e nella forza con cui riuscii a renderlo stabile e determinato nel mio cuore. Sono sempre stata una ragazza senza peli sulla lingua, tu lo sai bene amore mio, una di quelle che quando si mettono in testa una cosa non c’è verso di togliergliela. Ma la paura ha sempre fatto di me quello che voleva, e fino a quel momento io ne avevo tanta.
Ma evidentemente mi ero ripresa abbastanza bene, e quello fu il momento per accorgermene.
Proprio nel momento in cui il torpore di quel sogno rilassante iniziò a svanire, udii alcuni passi veloci e decisi avvicinarsi verso di me, e poi qualcuno sedersi accanto a me e osservarmi per qualche istante esitante e poi sospirare, tornando a poggiare la schiena contro il sedile. Sorrisi.
Anche da quei piccoli dettagli lo avrei riconosciuto.
Immaginai i suoi occhi grandi sgranarsi per lo stupore, poi i suoi muscoli rilassarsi e infine decisi che era giunto il momento per fargli capire che non ero ancora del tutto priva di conoscenza.
 
-Zack …- bofonchiai, continuando a tenere gli occhi chiusi.
-Eh?- fece lui, rizzandosi da subito a sedere e prendendo a fissarmi attentamente.

Allargai il sorriso sulle labbra, quindi sospirai e piano riaprii gli occhi, puntandoli nei suoi e scoccandogli infine un occhiolino.
 
-Pensavo dormissi!- esclamò lui, tornando a sorridere felice -Mi hai fatto prendere un infarto!- rise poi.
 
Ormai completamente svegliata da quel suo buonumore, mi rialzai tornando a sedere composta, stiracchiai un po’ i muscoli delle spalle e il collo, e poi tornai a guardarlo come una bambina incuriosita fa col tenero gattino che ha di fronte.
Lui replicò con un sorriso complice e un occhiolino. E di nuovo i nostri sguardo s’incatenarono l’uno in quello dell’altro, tanto che alla fine mi ritrovai ad arrossire, tossicchiando e spostando il mio sguardo sul paesaggio oltre il finestrino.
Lui sembrò non darci peso. Piuttosto appoggiò un pacco di patatine e un paio di bottigliette d’acqua sul sedile vuoto accanto al suo, e dopo averle aperto entrambi me ne offrì un po’.
Accettai la bottiglia d’acqua con enorme gratitudine. Avevo un caldo quasi innaturale addosso, pensai forse per colpa dei condizionatori, e un’arsura incontrollata che seccava le labbra e la lingua. Me ne scolai quasi la metà, quindi presi dal pacchetto che era nelle sue mani anche un po’ di patatine ed iniziai a sgranocchiarle per colmare il vuoto che rodeva il mio stomaco.
Lui mi osservò in silenzio, con un sorriso più bello dell’altro.
 
-Allora …- mi decisi alla fine a parlare -Com’è Gongaga?- gli chiesi, pentendomene subito dopo.
 
Non che non lo sapessi. E' che volevo fare qualcosa per impedire che anche quel momento degenerasse, solo che … forse quello non era uno degli argomenti più opportuni, e me ne accorsi guardando il suo sorriso e l’espressione nostalgica e anche un po’ melanconica che lo seguì, mentre guardava attraverso il finestrino con gli occhi improvvisamente anche troppo lucidi per uno come lui.
 
-Com’è Gongaga …- iniziò, riflettendoci un po’ su per poi far stridere l’aria tra i denti e sospirare, tornando a rivolgersi a me con un sorriso -Mmmh, vediamo … è il posto più figo e divertente che tu abbia mai visto.- concluse con entusiasmo -Ci sono solo quattro case e due botteghe, e un reattore mako. Anzi, no. Un gigantesco reattore Mako. - si corresse, dopo averci pensato un po’ -Si, un immenso reattore Mako proprio a pochi passi dal centro.-
 
Mentendo ancora una volta spudoratamente. Sorrisi, lasciandogli credere che ci fossi cascata, pensando nel frattempo a quanto fossi stata stupida. “Non avrei dovuto fargli questa domanda. Sono stata crudele.
 
-Ah!- proseguì nel frattempo lui -E poi ovviamente ci sono i manicaretti di mia madre e le verdurine sbiadite di mio padre!- scherzò, con un pizzico di nostalgia nella voce.
 
Ancora un altro sorriso da parte mia. “Da quanto tempo è che non li vedi, Zack?” mi chiesi, senza riuscire ad impedirmelo.
 
-Mi piacerà, allora.- replicai, unendomi al suo anche se finto buon umore.
 
A quel punto lui si fermò di nuovo a guardarmi, e di nuovo fui costretta a distogliere lo sguardo per non sentire di nuovo … quella voce, dentro di me. Quella che mi diceva che non ero giusto, che stavo sbagliando tutto, e che lo stavo ingannando.
Mi adombrai di nuovo, abbassando il viso senza che riuscissi ad evitarlo.
Cristo! Perché non potevo dirglielo?!
Lui mi osservò senza fare una piega, continuando a fissarmi con intensità. Quindi, quasi senza che io me lo aspettassi, si spostò venendosi a sedere al mio fianco, e mi chiese con nonchalance
 
-Parlami del tuo mondo, adesso.-
 
Sobbalzai, rizzando il capo all’improvviso. “Non farlo!” pensai, sopraffatta dalla paura. “Qualsiasi cosa succeda, sta zitta Valery! Dovrai dirglielo, se lo fai! Dovrai dirgli … che morirà. Che sai già come andrà a finire, con lui, con SOLDIER, e con Angeal.
Lo distruggerai!
 
-I-io …- balbettai, arrossendo e abbassando di nuovo gli occhi per la paura che solo leggendomi negli occhi lui potesse carpire quei miei pensieri -Non c’è molto da dire, in realtà.- conclusi, tornando a guardare fuori dal finestrino.
 
Ma lui non si lasciò scoraggiare da quella freddezza. Mi prese le mani tra le sue, lasciandomi senza fiato a guardarlo. Rabbrividii, e proprio in quel momento lui rincarò la dose, cercando al contempo di tranquillizzarmi col suo tono dolce e col suo sorriso vivace.
 
-Di che hai paura? Siamo solo noi adesso, qui non ci sono turks a sorvegliarti.-
 
Io lo fissai, e mi sentii … una bastarda. Solo una stronzetta bastarda. E spudoratamente bugiarda, come mi era capitato solo una volta nella vita di sentirmi, e anche abbastanza di recente. Solo che … stavolta era vero.
 
-Non è per questo, Zack.- replicai, un nodo in gola e gli occhi improvvisamente lucidi.
-E allora?- tornò a ribattere lui, alzandosi e mettendosi in ginocchio davanti a me, tornando a tenermi le mani -Sono un SOLDIER, sorellina. Non ho paura.- concludendo quindi, mostrandosi coraggioso.
 
Mi morsi la lingua.
E se quella … fosse invece un segno, l’occasione che aspettavo da tempo per dare un senso a tutto questo? Avrei potuto … se non dirglielo, almeno farglielo capire. Mi sarai sentita meno in colpa.
E così, spinta da quel pensiero anche un po’ egoista, biascicai la risposta che credetti si avvicinasse di più a quella vera.
 
-Io … vengo dal futuro.-

Rendendomi conto solo dopo quanto fosse in realtà stupida e ridicola. Ma, forse, non tanto per lui visto che lo sentii tremare appena, e il suo sorriso si spense per qualche istante mentre la presa sulle sue mani si allentava.
Il mio cuore iniziò a battere forte nel mio petto fino a darmi l’impressione che a breve mi sarebbe scappato via dalla gola.
“Lo sapevo!” pensai, tornando a mordermi la lingua talmente tanto stavolta da farmi male, e indurre un paio di lacrime a sfuggirmi dagli occhi. “Non avrei dovuto farlo.”
Ma, nonostante tutto, continuammo a rimanere così, lui inginocchiato di fronte a me a stringermi le mani, ed io che mi ci aggrappavo mentre con gli occhi cercavo quella luce nei suoi che, per qualche istante, all’improvviso per qualche istante si spense.
Ancora qualche altre istante, poi Zack s’alzò di colpo, e prese a passeggiare avanti e indietro nervosamente per la cabina vuota, massaggiandosi le tempie, quasi stesse cercando di credere a quella che lì per lì pensai gli sembrava un’assurdità pazzesca.
Non fiatai, trattenendo di nuovo il respiro. Fino a che …
 
-Capisco.-
 
Le sue parole non m’indussero ad alzare di nuovo lo sguardo verso di lui, e ad osservarlo attentamente. Annuì, poi mi rivolse un sorriso sincero e accorse nuovamente da me, abbracciandomi talmente d’impeto e forte che non seppi come replicare
 
-Tranquilla sorellina …- mormorò, le labbra vicinissime al mio orecchio destro, tornando poi a guardarmi e scoccarmi un occhiolino -Sarà il nostro piccolo segreto.- mi promise.
 
Era sincero. Ci aveva creduto davvero, anche se la verità che avevo in mente era molto più complicata di così. Ma … non importava.
Adesso, non importava più. L’importante … l’importante era averlo accanto, e stringerlo come mi ritrovai a fare subito dopo, sciogliendomi in un pianto liberatorio e immergendo il mio naso nella stoffa della maglia della sua divisa, mentre mi ci aggrappavo forte e lo sentivo accarezzarmi dolcemente i capelli per tranquillizzarmi, come con una bambina spaurita.
Non ero sola, adesso. Non più.
E pregai grata Dio per avermi dato il coraggio di resistere, supplicandolo anche di darmi la possibilità di ricambiarlo per quello che stava facendo per me, non appena ne avrei avuto la possibilità.


 
 

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Capitolo 16
*** Imprevisti fatali ***


Capitolo XV


///Flashback///

-Genesis!-

Quella voce quasi indistinta sembrò arrivare fino a lui dall'aldilà, dalla superfice lontana del mare buio in cui si ritrovò a galleggiare, e proprio per questo il rosso non ci fece quasi caso, continuando ad occhi chiusi a lasciarsi cullare leggero dall'oscurità che lo portava sulle sue mani vellutate.
Stava ... sognando?
Forse.
Ma se di un sogno si trattava, cosa mai poteva rappresentare allora quel dolore acuto che quasi lacerava la sua spalla ferita? Forse ...
No.
Non poteva essere.

-Genesis!- ribadì di nuovo la voce, più decisa e allarmata, e stavolta la sentì molto più vicina, talmente tanto da riuscire a riconoscerne finalmente l'identità.

Angeal.
Un leggero sussulto, che agitò la corrente intorno a lui, poi un altro più violento che lo costrinse a riaprire gli occhi e puntarli dritti verso la flebile luce bianca sopra di lui, molto, molto lontana.

-Fa piano, Angeal. Così peggiorerai la cosa.-

La voce adombrata di Sephiroth si fece sentire dando un forte scossone anche al suo di cuore.

-Ma perché non apre gli occhi, maledizione?- protestò preoccupato l'altro.

E fu allora che Genesis capì di trovarsi davvero in un mare, si, ma di guai che lo sommergevano fino a molto oltre il collo.

-Resta con lui, vado a chiamare Hollander.- fu la replica angosciata dell'albino, prima che la sua voce scomparisse definitivamente lasciandolo solo, con i sospiri angosciati dell'amico d'infanzia.

Sentì il cuore prendere a battere ad una velocità assurda, quasi come fosse impazzito.
"Hollander?" si chiese, mentre la paura più pura cominciava a impossessarsi di lui "Perché? Cosa mi sta succedendo? Cos'è ... cos'è successo?".
Inquietanti interrogativi a cui, subito dopo quando provò a muoversi, se ne aggiunse uno ancora più spaventoso: "Perché non riesco a svegliarmi?".
Cercò disperatamente di farlo, ma ogni tentativo fu vano. Provò a nuotare verso la luce, ma più lo faceva più questa sembrava allontanarsi, invece di avvicinarsi. Perciò rinunciò anche a quello, e cercando per quanto gli fosse possibile di mantenersi lucido fece appello a tutte le sue forze, almeno per non lasciarsi andare a quel piacevole senso di calma che si accorse era ciò che lo tratteneva in quel ... nulla, profondo e denso come un pozzo di pece, e interminabile. Talmente tanto da diventare asfissiante.
Fece appello a tutto ciò che era in grado di captare dall'esterno, un gesto della mano di Angeal al quale si aggrappò, o almeno credette di farlo, la sua voce, quella di Sephiroth e anche perfino quella fitta dolorosa alla spalla che continuava a pulsare. Tutto, pur di non morire.
E nel frattempo si ritrovò a pensare a quanto fosse assurda tutta quella situazione. Non stava male, Hollander lo aveva curato e gli aveva detto che non era nulla di grave, niente che non potesse risolversi con "un paio di giorni di riposo". Così aveva detto.
E ora? Cosa diavolo era andato storto?
Si era addormentato nel suo letto, possibile che la situazione fosse peggiorata fino a portarlo a quel punto?

\\\

Sephiroth ed Angeal attendevano fuori dal laboratorio del professor Hollander, angosciati ed impazienti, ripensando a ciò che era appena accaduto e al poco che il professore aveva saputo dir loro in merito.
La ferita di Rhapsodos si era improvvisamente infettata e riaperta, provocandogli uno stato emorragico e febbricitante che, preso in ritardo, si era trasformato in un più grave stato comatoso.
Di fatto quindi, ora il rosso combatteva da solo in una stanza asettica tra la vita e la morte.
Angeal faticava a respirare regolarmente, boccheggiando alla ricerca d'aria travolto dall'ansia e della paura mentre, a braccia conserte sul petto, cercava di non darlo a vedere fissando sovrappensiero il pavimento sotto i suoi piedi, e il SOLDIER dai capelli argentei accanto a lui non poteva fare a meno di rimproverarsi, sempre più tormentato.
Forse, si ritrovò a pensare lanciando all'amico una breve occhiata, se non lo avesse assecondato e spinto al limite ora Genesis non si sarebbe trovato in quella terribile situazione.
Erano soldati, erano abituati al rischio. Ma perdere la vita per mano di un amico ... era tutta un'altra storia.
Vero era pure che non era certo tutta colpa sua. Se Hewley non si fosse messo in mezzo, il rosso non avrebbe reagito come al suo solito impulsivamente e, magari, quell'incidente che lo aveva ridotto così ed era costato tra le altre cose anche una nota di ammonimento a tutti e tre da parte del direttore di SOLDIER non sarebbe avvenuto.
O forse sarebbe successo di peggio? Chi poteva dirlo?
L'importante adesso era che Genesis si riprendesse, e anche alla svelta.
Solo così i sensi di colpa, quegli inutili e superflui sensi di colpa che adesso lo attanagliavano, avrebbero potuto lasciarlo andare e allontanarsi finalmente da lui. D'altronde era stato Genesis ad iniziare, dicendo quelle cose di lui ad Angeal, perché adesso proprio lui avrebbe dovuto sentirsi in colpa?
Già, perché?
...
Amicizia.
Tutta colpa di quel legame speciale che continuava a restare ancorato sempre in fondo al suo cuore. Proprio quello speciale sentimento che aveva sempre desiderato di poter provare, perché ancora non lo sapeva bene neppure lui. Per poterlo ... studiare? No. Assaporare, forse.
Era difficile capire il perché di quel tormento interiore quando per tutta la sua vita, dalla sua nascita fino a quel momento, l'unica cosa che aveva visto e vissuto era stata una fredda stanza nel laboratorio del professor Hojo, e il viso a lui famigliare e gentile del professor Gast.
Con nessun altro essere umano, tranne che con Angeal e Genesis, aveva istaurato un rapporto così ... tangibile e chiaro come quello. Perciò, nonostante negli ultimi tempo il rosso sembrava voler fare davvero di tutto per metterlo a dura prova, stupendosi di sé stesso adesso Sephiroth si ritrovò a pensare che ... avrebbe voluto e fatto qualsiasi cosa, pur di salvarlo.
Si, avrebbe tentato qualsiasi strada. Anche se, ancora nessuno di loro lo sapeva, il destino stava già decidendo per loro quale avrebbero dovuto scegliere, separandoli così per sempre.
Tutto incominciava da lì.
Rumore di passi, vacillanti e veloci. Sephiroth alzò lo sguardo all'istante assieme ad Angeal, e vide avvicinarsi l'uomo che aveva in mano il destino di tutti e tre, stavolta.

-Professor Hollander!- lo accolse, col suo solito tono atono, rotto però stavolta da una leggerissima nota di angoscia che lo tradì.

Angeal gli lanciò uno sguardo a cui lui si sottrasse subito, puntando immediatamente le sue pupille feline sullo scienziato.

-Come sta Genesis?- chiese quindi poi Hewley, dimenticando quel breve istante e concentrandosi preoccupato sul problema.

Hollander li guardò con un mezzo sorriso, poi tornò serio.

-Il problema è l'energia Mako ch'è entrata attraverso la ferita.- rispose, cercando di essere il più esaustivo possibile.
-Ma è curabile?- s'informò a quel punto sempre più in ansia il moro.

Sephiroth tacque, nel vederlo annuire titubante.

-Ha bisogno di una trasfusione, prima di tutto.- replicò lo scienziato.

Fu allora che, cogliendo al volo l'occasione senza neanche pensarci su un momento, il Generale si fece avanti, ma venne bloccato da un braccio di Hollander, che subito dopo puntò i suoi occhi su Angeal.
Il suo sguardo deluso lo tradì. "Che significa?"

-Il tuo gruppo sanguigno non è compatibile.- spiegò allora il ricercatore, scuotendo impietoso il capo, per poi indicare ad Angeal con un gesto di seguirlo, e sparire assieme a lui oltre la porta alle loro spalle.

Mentre Sephiroth rimaneva lì, da solo, senza riuscire a spiegarsi ... ciò che stava provando.
Passarono i minuti, diventarono ore. Con sguardo assente per tutto il tempo lui seguitò a fissare il pavimento gelido sotto la suola dei suoi stivali, mentre sentiva il cuore stringerglisi in gola, lo stomaco essere attraversato da una inspiegabile morsa di angoscioso dolore, gli occhi umidi di lacrime.
"La colpa è stata mia! Ho il diritto di riparare, dannazione!"
...

"Perché? Perché non posso essere io, il donatore?"

\\\

Cinque ore dopo ...

-Dovrebbe svegliarsi tra qualche secondo. Puoi aspettarlo se vuoi.-

Angeal, seduto su una sedia di plastica ai piedi del lettino in cui era stato sistemato l'amico, annuì guardando teso e al contempo speranzoso lo scienziato mentre si dirigeva all'uscita.

-Potremo andarcene?- chiese, prima che fosse troppo lontano per sentirlo.

Hollander si voltò a guardarlo sorpreso e subito dopo annuì sorridendo, come se si fosse ricordato all'ultimo minuto di quel dettaglio per lui in fondo irrilevante.

-Dovrebbe essere guarito.- confermò -Ma chiamatemi se ci sono altri disguidi.- per poi tornare a camminare e sparire oltre la porta alle sue spalle.

Hewley tornò quasi subito a guardare l'amico, ancora addormentato sotto l'effetto dell'anestetico, la nuova fasciatura a coprirgli stavolta praticamente quasi tutto il petto, il respiro lento che pian piano tornava regolare e i capelli rossi sudici per il sudore.
Buttò all'indietro la schiena e la testa sulla spalliera della sedia, sospirando e portandosi poi una mano nei capelli e poi sugli occhi, massaggiandoseli.
Erano le quattro del mattino, ma per quanto stremato e debole anche per via della trasfusione, non era minimamente riuscito ad addormentarsi durante le due ore che era stato costretto a letto.
Per tutto il tempo, non aveva fatto che tenere gli occhi ben aperti puntandoli sull'amico, come se il solo distrarsi un momento avesse finito poi per impedirgli di vigilare attentamente su di lui.
Per questo adesso, e a ragione, era completamente distrutto.
"Cosa ti è saltato in mente, Genesis?" si chiese, tornando su di lui con lo sguardo, e appoggiando i gomiti delle mani unite sulle ginocchia "Pazzo esibizionista che non sei altro! È davvero così complicato per te lasciar correre, per una volta sola?"
Ma non riuscì neanche a finire la frase, che sul suo viso teso e scuro tornò a dipingersi un sorriso, perché alzando lo sguardo verso il rosso si accorse che finalmente questi aveva riaperto gli occhi. E, alzandosi per accorrere, si concesse sollevato un pensiero.
"Non saresti tu, se non fossi così ... maledettamente testardo!"

\\\

<< Dovrebbe svegliarsi tra qualche secondo ... puoi aspettarlo se vuoi. >>

Ancora immerso in quel mare nero, adesso le parole arrivarono sempre offuscate alle sue orecchie, annebbiate ancora da quel silenzio che tuttavia pian piano sembrava stesse illuminandosi via via sempre più intensamente.
Genesis Rhapsodos ancora non sapeva neppure di star combattendo contro la morte, anche se lo immaginava oramai visto che stava lottando con tutte le sue forze per continuare a nuotare senza lasciarsi trascinare via dalla forza della corrente.
Lo seppe solo quando infine, seguendo la luce che finalmente si lasciava avvicinare, riemerse dall'oceano oscuro in cui era piombato.
Riaprì piano gli occhi, e la prima cosa che vide fu il soffitto del laboratorio, e quella che udì fu il ticchettio metallico delle macchine e il sommerso sciabordare del liquido nei contenitori per il recupero.
Poi, infine, Angeal. Sopra di lui, ansioso come non lo era mai stato. Sorrise, sollevato. E si concesse di tornare a respirare.

-Come ti senti?- gli chiese, tirando un sospiro di sollievo.

Genesis si guardò intorno ancora per qualche secondo, scrutando tutto ciò che lo circondava con aria un po' smarrita, scoprendosi leggermente confuso e anche un po' intontito. Ora sì che la stanchezza era davvero l'ultimo dei suoi problemi, pensò ironico.
Poi, pian piano piccoli flashback iniziarono a riportargli alla mente il motivo per cui era finito lì.
E intenerito e confortato allora, dalla presenza dell'amico, sorrise e rispose, anche un po' strafottente.

-Mai stato meglio.- rispose, scoccandogli un occhiolino.

Angeal lo guardò ancora per qualche istante, contrariato e serio, ma subito dopo si sciolse in un sorriso rasserenato come quando erano piccoli, e lui (sempre il solito, Rhapsodos) era caduto da un dirupo alto solo un paio di metri e mezzo uscendone fortunatamente illeso, se non per qualche piccolo graffio.
Come allora, la risposta di Angeal fu un divertito e rasserenato.

-Sei sempre il solito.-

Seguito da un sorriso più allegro, e da una stretta di mano a cui subito dopo si aggrappò per rimettersi in piedi e, rimettendosi il soprabito sulle spalle, avviarsi con lui verso la loro stanza, sorretto dalle sue robuste braccia.
E così alla fine tutto si era risolto in bene, per fortuna.
Ma ... da quel giorno, Genesis Rhapsodos non sarebbe mai più tornato lo stesso di prima.

\\\Fine flashback\\\

 

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Capitolo 17
*** Gongaga ***


Capitolo XVI


 
Il volo in elicottero fu emozionante, davvero tanto. Ero stata un paio di volte in aereo per brevi viaggi di piacere, ma mai in elicottero, e non avevo … non avevo mai visto il mare da quell’altezza!
Quando ero piccola, mio padre e mia madre ci portavano in vacanza in una località di mare stupenda, nel paese d’origine della mamma. Erano i giorni più belli dell’anno, per me, pieni gioia e avventura. Mi piaceva nuotare assieme ai miei nipoti più piccoli, giocare tra le onde con loro facendo finta che il tubo per respirare sott’acqua fosse una spada e noi impavidi avventurieri alle scoperta di terre inesplorate, e adorava anche tantissimo immergermi, per scoprire le bellezze che mi riservava il fondale.
Altre volte, soprattutto durante le vacanza di natale, decidevamo di partire per fuggire alle tormente di neve che affliggevano il nostro paese e passare un inverno più mite. Allora prendevamo in affitto una casa lì dove d’estate avevamo giocato ed eravamo fuggiti al caldo asfissiante e passavamo quasi tutti i pomeriggi a passeggiare sulla spiaggia, sferzata dagli impetuosi venti del nord che faceva agitare il mare e creava onde alte a volte anche fino a due metri. Anche quei pomeriggi, che poi dopo la morte di mio padre divennero per me, mia sorella e mamma occasioni per poter rivivere in qualche modo il passato e rafforzare ancor di più il nostro legame, continuando a sentire ancora la sua presenza con noi.
Per questo potevo dire di conoscere bene il mare, i suoi misteri e le sue meravigliose suggestioni.
Ma ora, mentre sorvolavamo la sua vastità dall’alto, la visione dell’oceano sotto i nostri piedi, delle sue acque calme, profonde e scure che allungavano le mani verso di noi senza riuscire mai a raggiungerci … rimasi senza fiato ad osservare, e fu forse quello il momento definitivo, in cui mi resi conto di trovarmi non semplicemente nel mondo della mia fantasia, ma in un altro mondo, un mondo variegato, vivo, reale!
Un mondo in cui avrei dovuto imparare a vivere, se non volevo essere trascinata dalla sua corrente. Avrei dovuto trovare qualcosa da fare, scegliere un posto in cui stare, e anche un mestiere da intraprendere che potesse aiutarmi a vivere in autonomia. Potevo scegliere di essere quello che volevo, come se cadendo dal cielo io fossi nata per la prima volta, ma …
non avevo che vent’anni, e anzi dentro mi sentivo anche molto più piccola di così.
Non sapevo affrontare la vita, non avevo mai fatto scelte senza chiedere il consenso di qualcuno di cui mi fidavo, e avevo talmente tanta frustrazione e rabbia dentro, per le cose che avevo perso e per quelle che non avevo avuto … da aver paura perfino di muovere un solo passo, pensando che tramite questo avrei potuto far del male.
Non guidavo la macchina, anche se avevo preso anche con ottimi voti la patente, né mi allontanavo dalla mia famiglia più di quanto, all’improvviso, mi ero ritrovata ad essere.
Quel pensiero, mi balenò in testa quasi all’improvviso. Sollevai gli occhi verso l’orizzonte, dove la grandezza del cielo si fondeva con quella altrettanto immensa del mare sotto di noi, e li puntai nello splendido spettacolo del sole al tramonto, rosso e grande sulla linea tra acqua ed aria che stava infuocando.
E allora mi ricordai di Stephanie, e di mia madre, di essere lontano, molto lontano da loro, e seppi che forse non sarei più potuta tornare indietro. Le avevo lasciate indietro, senza volerlo e senza sapere come ritornare. Il terrore che mi colse, il dispiacere profondo che imporporò le mie guance e inumidì i miei occhi fino a farli lacrimare … non passarono di certo inosservati a Zack che mi sedeva accanto, anche lui assicurato al sedile per mezzo della cintura e con in testa un paio di cuffie dotate di microfono che ci permettevano di comunicare tra di noi oltre il frastuono delle pale, e osservava il mio stesso panorama dal finestrino opposto.
Mi prese la mano, quasi all’improvviso, ed io sobbalzai rivolgendo il mio sguardo verso di lui e accorgendomi troppo tardi della mia espressione devastata.
 
-Tutto bene?- chiese, sorridendomi e alzando la voce per farsi sentire meglio.
 
Tentai invano di sembrare convincente, quando sorridendo tra le lacrime annuii velocemente un paio di volte, ricambiando la stretta per poi replicare tranquilla.
 
-Si.-
 
Ma come al solito lui non ne fu convinto. Ero rossa in viso, le lacrime continuavano a sgorgare avevo le guance praticamente bagnate. Mi sorrise di nuovo, e mi rivolse un altro di quei suoi sguardi comprensivi.
Quindi mi avvolse un braccio attorno alle spalle e avvicinandosi mi abbracciò ancora una volta, facendomi sentire tutta la sua presenza e la sua partecipazione, per poi tornare a guardarmi e scoccarmi un occhiolino mentre io lo fissavo sconvolta.
Scossi la testa, e sorrisi.
 
-Ancora qualche ora e saremo arrivati!- mi disse -Stanotte vedremo le stelle più belle di Gaia.-
 
Non credo proprio.” pensai, allargando il mio sorriso e annuendo per rispondere a quella sua affermazione. “Le più belle sono proprio qui di fronte a me, nei tuoi occhi.
 
\\\
 
Durò diverse ore, non so dire quante, forse tre o quattro, forse anche di più.
Per un po’ l’unica cosa che riuscimmo a vedere sopra di noi fu il cielo, e sotto noi il blu del mio grande amico.
Poi, dopo tre o quattro ore di volo, i primi lembi di costa del continente ovest iniziarono a delinearsi sempre più vicini, fino a cambiare completamente lo scenario sotto di noi in uno più variegato di alberi, vallate fertili e sterminate, boschi e praterie.
Quando giungemmo a Gongaga, erano già quasi le dieci di sera, e “le stelle più belle di Gaia” brillavano su di noi assieme alla bianca e pallida luna in un cielo blu scuro e intenso, gioiose di rivederci. O meglio, di rivedere lui, che per così tanto tempo era stato lontano da quei luoghi.
Due anni e mezzo, ormai. Era partito a quattordici anni e mezzo, e se non fosse stato per me non vi avrebbe mai più fatto ritorno.
Me lo disse mentre ci avviavamo a piedi verso il villaggio, a pochi chilometri da dove l’elicottero ci aveva lasciato. Mano nella mano percorremmo un piccolo sentiero sterrato che tagliava in due un’incantevole zona montuosa, fatta di cascate, fiumiciattoli e arbusti vari, e quando quella frase uscì dalla sua bocca, quasi per gioco, suonò quasi profetica. Così tanto che non potei non chiedere, cogliendo al volo l’occasione che di sicuro mi era stata offerta di proposito.
 
-Non sei contento di essere tornato?-
 
Lui mi guardò negli occhi, sorrise e per la prima volta vidi il suo sguardo spensierato annebbiarsi, anche se per qualche secondo appena.
 
-Si.- disse -Lo sono.- poco convinto egli stesso di quell’affermazione, e aggiungendo poi subito dopo, prendendomi nuovamente le mani tra le sue e fermandosi a guardarmi, ponendosi di fronte a me -Non vedo l’ora di farti conoscere i miei, sorellina. Vedrai, ti piaceranno!-
 
Lasciai che la tristezza scivolasse via, travolta da quel suo nuovo entusiasmo.
Sorrisi, e fissando la luce limpida della luna che si rifletteva nei suoi occhi replicai, sincera.
 
-Ne sono certa, fratellino.-
 
***
 
 ///Flashback///

-Fregati! Fregati da uno stramaledettissimo tizio di SOLDIER!-
 
Reno, indispettito, sbottò alla fine della corsa, piegandosi quindi affannato su se stesso a riprendere fiato, appoggiando i palmi aperti sulle ginocchia leggermente inclinate.
Poco dopo, appena qualche secondo, sopraggiunsero vicino a lui anche il resto della squadra, ovvero Rude e Cissnei, ugualmente indispettiti ed affannati.
Lui di più però, perché dei tre era stato quello che per un attimo s’era avvicinato di più all’obbiettivo.
 
-Qualche problema?-

Una voce seria e tonante si fece sentire a quel punto, sopraggiungendo alle loro spalle.
Tseng, che li aveva osservati da lontano, sorrise molto compostamente quando si ritrovò ad avere gli occhi dei tre colleghi puntanti su di sé.
 
- Ah! Quanto ti capisco adesso, compare!- esclamò in risposta il rosso, risollevandosi.
-Forse ora dovremmo parlarne di nuovo con il Presidente.- sospirò quasi esasperata Cissnei, anche leggermente sarcastica lanciandogli un breve sguardo.
 
Il turk wutaiano scosse la spalle e sorrise appena, fingendosi improvvisamente disinteressato.
 
-Dovreste, in teoria.- ribatté, vago.
-E in pratica?- proseguì Cissnei, ponendo le mani sui fianchi.
 
Tseng non rispose, limitandosi a scuotere le spalle e tornare a camminare, allontanandosi anche abbastanza in fretta da loro.
Reno, Cissnei e Rude lo guardarono quasi allibiti, poi il turk dai capelli rossi e dal manganello facile poggiò la sua fedele arma sulla sua spalla, inclinò leggermente la testa e inarcando le sopracciglia commentò, esibendosi in un ghigno.
 
-Credo che sia un vago ma deciso segno di disapprovazione.-
 
Rude annuì, aggiustandosi gli occhiali sul naso, e aggiunse cupo.
 
-Me too.-
 
Scuotendo le spalle mentre Cissnei scuoteva contrariata la testa.

///Fine Flashback///

 
***
 
Devo ammetterlo, non avevo mai pensato da profana di questo mondo, che il mio eroe Zack Fair potesse abitare e provenire da un villaggio così stupendamente caratteristico.
Ebbi modo di osservarlo assieme a lui l’indomani mattina, dopo una notte trascorsa a dormire in una vecchia casupola di legno proprio alle porte del villaggio che (chissà come mai) solo lui conosceva.
Dormimmo sdraiati per terra su un letto di vecchie lenzuola, perché ormai era troppo tardi per raggiungere un albergo e anche perché (e questa credo fosse la motivazione più vera), era suo desiderio incontrare i suoi genitori con la luce del giorno. Aveva paura, gli si leggeva negli occhi. Era in ansia perché non sapeva come l’avrebbero presa, e poi non aveva proprio la benché minima voglia di tornare a casa dai suoi.
Eppure … quando l’indomani al sorgere del sole salimmo su quell’altura e ci mettemmo lì, seduti ad ammirare l’alba che rischiarava l’orizzonte … per qualche istante guardando quel paesaggio lui sembrò quasi ritrovare sé stesso.
Me ne accorsi dal modo in cui mi spiegava ogni cosa di quel paesaggio, dal modo in cui le sue dita sfioravano piano le curve delle piccole colline nei dintorni e le linee rette delle dolci e fruttuose vallate in cui queste scivolavano piano, entrambi solcate da una lunga e serpeggiante strada di terra battuta che ad intermittenza collegava il villaggio al reattore, e dal suo respiro che pian piano andava rallentando sempre più, rilassandosi.
Proprio in una di quelle piccole conche in basso sul lato destro dello scenario, quasi protetto nel suo dolce palmo, se ne stava quieto il piccolo villaggio composto in prevalenza dalle case, simpatiche e vivaci sagome varianti in grandezza, ma dalla forma rotonda e dal tetto in tegole rotonde di ogni genere di colore ma prevalentemente rossastre.
Era un villaggio prevalentemente di contadini, e lo si poteva notare dagli appezzamenti di terreno che lo circondavano, anche se stranamente erano ormai pochi quelli effettivamente coltivati.
A completare quel quadretto allegro e tutto sommato solo un po’ spento poi, piccoli stralci di nuvole bianche correvano velocissimi sospinti da un piacevole venticello tiepido, solcando un cielo azzurro che pareva aver regalato un po’ del suo colore agli occhi di quel SOLDIER che mi aveva condotto fin lì.
Ciò che però mi aiutò a capire il desiderio di Zack di voler scappare via più di ogni altra cosa, fu la carcassa del reattore mako imploso, a pochi chilometri di distanza dal villaggio.
Scuro come una macchia di petrolio che si allungava coi suoi tentacoli nella distesa verde, circondato da uno spaventoso deserto che dava l’idea della vastità del danno da esso provocato …
Era orrendo. E non potei non notare quanto lo sguardo di Zack si sforzasse perfino di evitare d’incrociare la sua vista, per quanto questo fosse possibile.
 
-Quella è casa mia.- mi disse ad un tratto, indicando con l’indice della mano destra una piccola casupola blu dal tetto rosso cremisi quasi al centro dell’agglomerato, con vasi di fiori alle finestra superiori e una figura minuta, probabilmente una donna, vestita con un semplice abito blu scuro e in quel momento seduta davanti alla porta, su una sedia.
-E quella è tua madre?- chiesi, indicandola a mia volta.
 
Il suo sorriso si spense appena, il suo braccio si abbassò un po’. Per qualche istante non rispose, intristendosi, poi però tornò a guardarmi e annuì, quasi fiero.
 
-Si.- rispose, scacciando poi subito quel malumore e rianimandosi -Devi conoscerla, assolutamente.- aggiunse -E anche mio padre. Lui è una forza!-
 
Quindi si alzò, ripulì in fretta il pantalone della divisa e, con il sole ormai alto di fronte a noi, mi porse una mano, scoccandomi un occhiolino complice prima d’invitarmi con un gesto del capo a seguirlo.
 
-Andiamo?-
 
Sorrise, e annuii accento il suo aiuto. Mi rialzai, sistemai la gonna del vestito che mi aveva regalato e controllai che tutto fosse in ordine, quindi riportai lo sguardo su di lui che mi fissava felice, e senza chiedergli se fosse davvero pronto a farlo lo seguii, fiduciosa.
Avevamo parlato molto, la sera prima. Lo avevo ascoltato come i miei amici dicevano che sapevo fare, e alla fine penso che questo gli avesse fatto bene. Non avevo avuto neanche bisogno di convincerlo, perché ormai eravamo lì e una scelta era già stata fatta.
Ciò di cui aveva bisogno Zack in quel momento, e che evidentemente trovò in me, fu un appoggio necessario che lo aiutasse a sostenere il peso di ciò pensava avrebbe dovuto sopportare.
Anche se io sapevo già, in fin dei conti, che non avrebbe avuto bisogno di farsi perdonare niente, perché il solo fatto di essere di nuovo lì con loro avrebbe già di per sé fatto la differenza.
 
\\\
 
Così fu infatti, anche se in un modo completamente diverso da quello che entrambi ci aspettavamo.
Camminammo in silenzio mano nella mano fino a pochi metri dalla porta, dove la donna che se ne stava seduta senza parlare ad un certo punto si mise ad osservarci mentre avanzavamo, soprattutto lui che continuava a camminare impettito e improvvisamente rigido.
Sentii le sue dita stringersi attorno alle mie, lo sentii tremare appena e lo guardai preoccupata, ma lui non rispose al mio sguardo. Era serio … e nervoso.
Feci un rapido calcolo a mente, da esso risultò che dovevano essere passati appena un paio di anni o qualcosa in più, da quando era letteralmente fuggito dal suo villaggio, lasciando ai suoi genitori solo una rapida lettera in cui spiegava loro che sarebbe partito per inseguire i suoi sogni.
Ed ora … grazie a me, per me, era di nuovo lì, a sostenere lo sguardo di sua madre che lentamente si alzò dalla sedia e lo fissò sconvolta, quasi come se avesse visto un fantasma.
E mio Dio, non hai idea di come mi sentii quando lei mormorò il suo nome incredula, lui sospirò e si sforzò di sorriderle anche un po’ imbarazzato, alzando in aria timidamente una mano ed esordendo, sfoderando il migliore dei suoi sorrisi.
 
-Ciao mamma. Come stai?-
 
“Ciao mamma, come stai?”
Solo noi due sapevamo quanto in realtà avrebbe voluto dire ancora, ed il perché invece non lo fece. Non ebbe il tempo, e neanche la voglia in realtà, perché subito dopo sua madre lo raggiunse e lo strinse forte a sé, avvolgendogli le braccia al collo e affondando per qualche istante il naso nell’incavo del suo collo.
Lui rimase fermo così, trattenendo il fiato e le lacrime ed ascoltandola singhiozzare ripetendo il suo nome.
Per rispetto verso l’intimità di quel momento io volsi lo sguardo da un’atra parte, dietro di loro, e fu allora che lo vidi. Il signor Fair, lo riconobbi perché gli assomigliava in modo indiscutibile.
Li guardava con occhi sgranati ed espressione talmente assente da risultare quasi atona.
Mentre sua moglie continuava ad esternare senza freni la sua angoscia e la sua gioia.
 
-Zack! Tesoro mio, sei vivo! Sei qui!- gli disse, prendendogli il viso tra le lacrime e riempiendolo di baci -Oh, quanto ci hai fatto preoccupare! Lo sai, eh? Lo sai, tesoro?- concluse, fermandosi e guardandolo negli occhi.
 
Tornai a guardarli, loro due non si erano accorti di nulla.
Zack sorrise imbarazzato, ricacciando abilmente in dentro le lacrime, e stava per rispondere quando la voce di suo padre giunse a scuotere entrambi.
 
-Certo che lo sa, Vivian.- esordì, scuro.
 
Lui si voltò sorpreso, e arrossì di nuovo ancora di più.
 
-Lo sa eccome, non è così?-
-O-oh, papà!- bofonchiò a quel punto Zack, grattandosi la nuca col palmo della mano sinistra e abbassando lo sguardo imbarazzato solo per qualche istante, prima di concludere tornando a guardarlo -Io …- fece una pausa, intristendosi -Si … lo so.- ammise, abbassando di nuovo il volto -E … mi dispiace.-
 
Silenzio.
Lo vidi rabbuiarsi all’improvviso sotto il potente sguardo severo di suo padre, mentre la madre li fissava con gli occhi piani di lacrime di felicità e … per qualche breve istante avrei davvero voluto mandare tutto al diavolo, respingerli e abbracciarlo parlando per lui e spiegando loro che non era stato così facile come credevano, né così egoista. Era solo un ragazzo innamorato della vita ma cresciuto all’ombra della morte, che per sfuggirvi aveva deciso di lasciare tutto e inseguire un sogno quasi impossibile.
Ma non ce ne fu bisogno, perché proprio quando stavo per esplodere il Signor Fair si sciolse in un sorriso, e avvicinatosi lo abbracciò forte, battendogli un paio di pacche sulle spalle e invitando la moglie a unirsi in quell’abbraccio famigliare e caldo, avvolgendolo completamente.
Non ne fui sicura, perché le spalle di suo padre lo coprivano quasi completamente, ma … quasi per certo si lasciò sfuggire qualche lacrime, giusto il tempo per ringraziarli con un filo di voce.
Alla fine, quando l’abbraccio si sciolse, il Signor Fair picchiò un amichevole schiaffetto sulla sua nuca e rise divertito e felice.
 
-Ah, il nostro piccolo combinaguai! Tu guarda come gli sta bene la divisa, Vivian!-
 
La donna annui, sorridendo tra le ultime lacrime che ancora le brillavano negli occhi.
Zack sorrise, annuì, ancora vistosamente commosso e imbarazzato.
 
-Visto?- fece, cercando di darsi un tono -Ora sì che è figo tuo figlio, eh papà?-
 
L’uomo rise di nuovo.

-Figo?- chiese stranito, e Zack si morse un labbro guardandomi come se si fosse ricordato solo allora del linguaggio del posto, molto meno giovanile di quello di Midgar -Ma sentilo come parla il nostro giovanotto. Sei un giovanotto, adesso.- si fermò a guardarlo bene, spense un po’ il sorriso e nei suoi occhi apparve di nuovo quel luccichio nostalgico -Davvero, lo sei diventato.-
 
Aveva più o meno quindici anni l’ultima volta che i suoi lo avevano visto.
Ed ora … per causa mia …
Con molta, moltissima probabilità, se non ci fossi stata io, lui non li avrebbe mai più rivisti, e loro alla fine sarebbero invecchiati e morti straziati dal dolore di non averlo mai più rivisto, e non sapere neanche che fine avesse fatto. Non avrebbero neanche potuto piangere sulla sua tomba, mentre invece adesso … stavano piangendo di gioia, riabbracciandolo.
Distolsi di nuovo lo sguardo, gli occhi lucidi e un nodo in gola per l’angoscia e la gioia.
Era bello si, era giusto. Ma … non sarebbe dovuto essere così.
Avevo cambiato il corso della storia, e sebbene fosse ciò che stavo esattamente cercando di fare da che lo avevo incontrato, non ero sicura del come questo avrebbe influito su tutto il resto.
Si, insomma … come nei film di fantascienza, in tutti i libri che amavo scrivere e leggere.
Bastava un niente, e tutto sarebbe cambiato.
E quel niente era appena avvenuto.
 
-E questa bella ragazza, chi è? La tua fidanzata?-
 
La frase che ci riportò alla realtà, e mi restituì al centro dell’attenzione.
Detta ovviamente dalla signora Fair, che subito si avvicinò accogliendomi in un amichevole abbraccio.
 
-Scusaci tanto, piccola. Ci siamo lasciati prendere dall’emozione e ti abbiamo trascurata. -
-Oh, no. Non preoccupatevi.- feci imbarazzata, lasciando che mi prendesse sottobraccio e mi avvicinasse agli altri.
-Ah, già. - riprese Zack, tornando a sorridere -Lei è Valery, mamma. E no, ehm …- aggiunse imbarazzato -Non è la mia fidanzata.-
 
“Non ancora almeno.”
Sono sicura che l’abbia pensato, c’era qualcosa nello sguardo che mi fece dopo.
Sorrisi imbarazzata, abbassando lo sguardo. Maledetta faccia da cucciolo!
 
-Noi siamo …- provai a dire, ma Zack mi prevenne ancora.
-Lei è la mia sorellina, mamma.- spiegò con un sorriso, scoccandole un occhiolino -Quella che tu e papà non mi avete regalato per il mio compleanno, ricordi?- ridacchiò, i suoi genitori fecero lo stesso e mi guardarono curiosi e affettuosi -E’ arrivata a Midgar da un paese lontano, non sapeva dove si trovava e io l’ho soccorsa. In città non è una bella situazione per lei, così l’ho portata qui. Con voi starà bene, ne sono sicuro.-
 
Suo padre sorrise fiero, battendogli una nuova pacca sulla spalla e guardandomi.
 
-Molto romantico e gentile da parte tua.- osservò, scoccando a entrambi un occhiolino.
 
Ci guardammo, Zack sogghignò e io scossi il capo, nascondendo il viso tra le mani.
“Smettila!”
 
-Ho preso da te, papà.- replicò allegro, facendoci sorridere tutti.
-Ahah, poco ma sicuro!-
-Allora starai con noi, cara. Quanto ti fermerai?- chiese amorevole Vivian abbracciandomi.
 
Vacillai.
 
- Ehm … ecco, in realtà io …-
 
Ci stavo bene, ma non potevo restare per sempre. Dovevo vederti, e impedirti di fare sciocchezze.
 
-Tutto il tempo necessario.- rispose Zack -Per ora, tanto. >> concluse, scoccandomi un occhiolino.
-E tu?- replicò suo padre, tornando a guardarlo serio -Immagino dovrai tornare a Midgar, prima o poi.-
 
Zack tornò a scurirsi in volto.
Annuì tristemente.
 
-In effetti si … - disse, sincero -Dovrei tornare domani, ma chiederò al mio mentore qualche altro giorno di vacanza. Non c’è molto da fare adesso, a Midgar. Non sarà contento, ma voglio farlo.-
-Mh.- sorrise il signor Fair guardandomi -Mia cara, non so ancora molto di te, ma ti dobbiamo molto adesso. E faremo in modo che tu stia bene qui, promesso.-
 
E rieccoci.
Perché in quella famiglia erano tutti così gentili con me?
 
\\\
 
Rientrammo in casa, e mentre Zack nella sua camera si toglieva di dosso l’impaccio dell’armatura e suo padre svestiva gli abiti da commerciante, io e Vivian Fair chiacchierammo un po’, preparando la cena.
Lei mi parlò del figlio, raccontandomi qualche aneddoto di vita quotidiana degli anni passati lì con loro e facendomi ridere un pò, io le parlai di come lo avevo conosciuto ma non le dissi di provenire dal futuro, ne feci accenno ad altro di troppo complicato da spiegare.
Risolsi che mi ero ritrovata a Midgar senza sapere come, e che tornare dai miei non era facile ma stavo cercando un modo per farlo.
Mentre raccontavo, non potei fare a meno di notare le analogie con quello che sapevo io, della vera storia di Zack Fair.
 
-Povera piccola.- concluse ad un certo punto lei, rivolgendomi un dolce sorriso intenerito -Deve mancarti molto la tua famiglia.-
 
Quella frase mi colpì.
Tanto.
Ripensai a mia madre, a mia sorella Stephanie, e al modo in cui ci eravamo lasciate.
Come in ogni storia drammatica che si rispetti, avevamo litigato la sera prima con mia madre, per un motivo così stupido che neanche lo ricordavo.
E ora, ovviamente, mi sentivo in colpa.
E poi … se io ero qui, cosa mi era successo nel mio mondo? Dov’ero andata?
C’ero ancora? Ero morta? In coma? Dormivo?
Oppure ero semplicemente sparita, e loro avrebbero potuto tranquillamente pensare che me ne fossi andata, magari perché troppo offesa da quello che c’eravamo detti.
M’immaginavo già i loro pianti disperati e i loro appelli in tv per farmi tornare a casa, quando in realtà io non sarei mai voluta andarmene, ed era dall’inizio di questa strana storia che stavo cercando di tornare.
Ma … era tutto troppo complicato per poterlo spiegare a lei, che non avrebbe capito neanche con tutte le sue buone intenzioni.
E alla fine mi ritrovai a singhiozzare senza neanche capire come ci fossi arrivata, seduta al tavolo già apparecchiato per la cena, pensando a mia madre che da quando mio padre era morto non aveva fatto altro che prendersi cura di noi e spezzarsi la schiena pur di garantirci un futuro.
Non lo meritava, tutto il dolore che di sicuro ora gli avrei inflitto. Non lo meritava per niente.
 
-Oh …- fece la signora Fair, impietosendosi -Oh piccola, su con la vita. Su.- mi disse, avvicinandosi e prendendo confortatrice una mano -Non piangere, vedrai che un modo si troverà per farti tornare da loro.- tentò d’incoraggiarmi.
 
Fosse così semplice.” pensai amara “Non so nemmeno come ci sono arrivata fino a qui.
La guardai, prendendo fiato dalle lacrime per qualche istante, e ripensai a mio padre, ai suoi occhi fieri ogni volta che mi vedeva, e al suo ultimo sorriso prima di addormentarsi per sempre. Non potei non ricordare la sua mano fragile che stringeva la mia, e altre due lacrime bollenti di dolore scesero dai miei occhi fino a schiantarsi sulla stoffa del vestito che indossavo.
La ringraziai con un sorriso, le strinsi di più la mano.
E proprio allora Zack comparve sulle scale, vestito con un semplice pantalone verde bottiglia dalla foggia non poi così dissimile da quello della divisa da SOLDIER e pieno di tasche, e una maglietta azzurrina a mezze maniche.
 
-Ah, mamma!- fece, avvicinandosi a noi con un sorriso e incrociando le braccia sul petto fingendosi contrariato -Sei incorreggibile. L’ho lasciata sola con te appena cinque minuti e me la fai già piangere!-
 
Ridemmo tutti e tre, e la tristezza come al solito corse via, spazzata lontano dalla solita, innata allegria del mio fratellino.
 
-Hai ragione, Zack.- sorrise la donna, accogliendo il suo bacio sulla guancia con tanto di schiocco e poi abbracciandolo.
 
Zack la strinse forte, poi tornò a scoccarmi rapido un occhiolino rassicurante prima che lei potesse vederlo.
Sorrisi e arrossii.
 
-Scusami piccolina.- si schermì di nuovo la donna, appoggiando entrambi le mani sulle mie gambe in una carezza.
 
Scossi la testa rientrando in me.
 
-Non si preoccupi.- replicai gentile, scuotendo il capo e sorridendo serena.
-Oh, dammi del tu cara. Sei così dolce.- concluse lei.
 
Quindi dopo il mio ennesimo grazie e l’arrivo del Signor Fair, ci accomodammo a tavolo, e demmo inizio alla cena.
Era felice di avermi in famiglia, e io ero felice di stare con loro.
Zack … lui le somigliava molto, somigliava molto ad entrambi.
Era la gioia che sprigionavano a renderli fantastici. Potevi avere tutti i problemi del mondo, anche quelli più gravi, ma fino a che avresti potuto specchiarti nei loro occhi pieni di speranza e allegria nonostante tutto avresti sempre trovato il coraggio e la forza di fare la cosa giusta.
E sarebbe stato proprio quel coraggio, unito al tuo amore, ad aiutarmi a ritrovare la strada in quel mio personale, strano, pericoloso e inquietante paese delle meraviglie.
Il sorriso dello stregatto che illumina il cielo di notte e segna sempre la direzione giusta anche quando le nuvole lo offuscano.
 
\\\
 
C’era una piccola collinetta appena fuori il villaggio, a qualche minuto di cammino verso ovest.
Da lì si poteva guardare Gongaga dall’alto, nella sua interezza, e lasciar correre lo sguardo verso l’orizzonte spoglio, mentre il cielo azzurro si mostrava in tutta la sua interezza.
Fu su quella collinetta che Zack mi portò a vedere le stelle quella sera, subito dopo mangiato.
Camminammo lungo il sentiero sterrato che partiva dal villaggio e attraversava la fiorente vegetazione, mano nella mano e lui pronto a proteggermi al minimo pericolo anche se non ne avevo bisogno, quindi raggiungemmo l’orlo del precipizio e ci sdraiammo sull’erba fresca, gli occhi puntanti verso la volta e i sensi accesi dal fragrante profumo della vegetazione che ci circondava.
Era stupendo. Davvero … davvero tanto.
Un cielo così l’avevo visto solo una volta in vita mia, nella casa in cui ero nata e cresciuta e nella quale avevo lasciato il cuore. Mi scaldò il cuore, ma … senza neanche accorgermene presi a pensarti, e una lacrima rigò le mie guance.
Non so se quello che successe dopo fu volutamente dovuto a questo, o solo una piacevolissima coincidenza. Ad ogni modo Zack mi prese la mano, e sbattendo un paio di volte le palpebre per scacciare lacrime e angoscia tornai a guardarlo sorpresa.
Lui sospirò, continuando a guardare il cielo. Era … così serio, e preoccupato.
 
-Ho parlato con Angeal, prima di cena.- mi rivelò -Non è stato molto contento, ma ha detto che parlerà col direttore e vedrà di farmi avere qualche altro giorno di tempo per rientrare, a patto che dopo io mi metta sotto con gli allenamenti.-

Sorrise, tornando a guardare il cielo.

-Come se già non mi massacrasse abbastanza, rompiscatole.- ridacchiò, nostalgico e anche un pò sollevato.

Non riuscii a rispondergli.
Pensavo solo a quanto era stato disposto a rischiare per me pur sapendo che non avrei mai potuto ripagarlo come voleva.
Un bacio.
Un bacio solo, che mi sarebbe costato?
Lo pensai anche allora, lo ammetto. Ma ... non me la sentii. E così rimasi a fissare assorta e preoccupata il cielo, fino a che lui impensierito dal mio silenzio non chiamò il mio nome, stringendo di più la mia mano e riscuotendomi.
Mi voltai a guardarlo, senza preoccuparmi di nascondere gli occhi lucidi. Tanto con lui non sarebbe servito.

-Che c'è?- mi chiese premuroso, sfiorandomi la guancia destra con una carezza e asciugandola -Stai piangendo? Perché?-

Scossi il capo, chiudendo le palpebre.

-Niente ...- mormorai con un filo di voce e un peso enorme sul petto -Niente, davvero Zack. È che ...- presi fiato, tornando a guardare le stelle e sforzandomi di mantenere un minimo di contegno -Hai rischiato così tanto per me! Mi sento in colpa ...- risolsi, tornando a guardarlo e riuscendo finalmente ad aver il controllo sulle mie emozioni, o almeno quello che bastava per poter parlare senza affanni o balbettii -Mi spiace tanto di averti messo in questa situazione, non avresti dovuto farlo, come diceva Angeal.-

Lui mi guardò per qualche attimo negli occhi, una luce innamorata nei suoi. Quindi sorrise, si mise a sedere e mi trasse a sé, abbracciandomi forte e sconvolgendomi.
Ancora, ancora, ancora e ancora.

-Ma insomma sorellina.- mormorò con un mezzo sorriso accarezzandomi dolcemente la nuca -Quante volte devo dirtelo che sono io che ho voluto cacciarmici in questo guaio.-

Sorrisi, e lo abbracciai di rimando più forte, passando le mie braccia sotto le sue spalle.

-Tu sei un pazzo.- bofonchiai, confortata.

Lui ridacchiò, sciogliendomi dalla stretta e sfiorandomi col pollice della destra il mento.

-Oh, puoi dirlo forte! replicò divertito -Conosci qualcun'altro più pazzo di me? Fammelo sapere, voglio stringergli la mano.-

Ridacchiai anche io, battendogli una pacca sulla spalla e scuotendo il capo.
Poi mi feci appena un po’ più seria e tornando a guardarlo negli occhi gli chiesi, supplicante quasi.

-Promettimi almeno ... che non ti farai ammazzare.- sentendo tornare di nuovo quel nodo in gola, ma cercando d'ignorarlo.

Una piccola cosa avrebbe potuto cambiare il futuro.
Magari quella promessa ... avrebbe potuto fare la differenza.
Lui si portò una mano al cuore, raddrizzò la schiena e con sicurezza giurò

-Parola di SOLDIER, sorellina. Qualunque cosa accada, tornerò sempre da te, se dovessi averne bisogno.-

Nel concludere si fece più serio e mi lanciò un intenso sguardo complice e uno di quei suoi sorrisi birbanti che solo lui sapeva trovare, scoccandomi un altro occhiolino.
E allora io seppi che un patto era un patto, e nulla ci avrebbe potuto separare mai più, da allora in poi.

\\\
 
Il giorno della sua partenza, fu quello il giorno in cui mi portò a vedere l'alba per l'ultima volta.
E fu il più bello di tutti, anche per il carico di struggente malinconia che portò con sé.
Erano le cinque del mattino quando la voce di Zack chiamò dolcemente il mio nome, scuotendomi dal torpore del sonno profondo.
Non avevo mai dormito così bene come in quei pochi giorni lì a Gongaga, da quando ero arrivata in questo mondo.
I sensi di colpa e gli attacchi di panico si erano affievoliti ed era rimasto solo quel leggero sassolino a pesare sull’anima, e a farmi un po’ paura.
Gli attacchi di panico erano una costante anche nella mia vita precedente, a volte c’erano e altre no, senza un motivo apparente, ed io li odiavo.
Eppure ora, in quella casa, in quella stanza che un tempo era stata di Zack fino a che non era partito per Midgar, e con lui accanto a proteggermi e volermi bene … stavo iniziando a credere di potermene sbarazzare. Non temevo più nulla, tranne come sempre un prossimo attacco. Perché sapevo che quel leggero sassolino sul cuore sarebbe bastato per farmi ripiombare nel caos, se qualcos’altro sarebbe andato storto.
Ad ogni modo non volli rovinare quegli attimi, decisi d’ignorare il leggero soffio al cuore e aprii gli occhi, sorridendo.
Era il crepuscolo, la luce del mattino ancora era flebile e troppo poca per illuminare bene la stanza, anche se oltre il vetro della finestra, guardando bene verso l’orizzonte s’incominciava a intravedere il contorno dolce e morbido delle colline.
 
-Valery …- ripetè Zack, con un sorriso sporgendosi a guardarmi in viso -Sei sveglia?-
 
Sorrisi di nuovo. Era inginocchiato vicino al mio letto, e nel buio i suoi occhi coloro Mako scintillavano come quelli di un gattino curioso, riportando alla mia mente quelli di Romeo, il gatto che aveva avuto da piccolina in Texas e che piaceva tanto anche a mio padre.
Compagno di mille avventure, alla fine ero stata costretta a lasciarlo ad una vicina di casa.
Come tra poco avrei dovuto fare con lui, perché oggi sarebbe ritornato al suo dovere.
Spostai gli occhi verso l’orologio a muro di fronte a me, ma ovviamente nel buio non riuscì a scorgere l’orario esatto. Tuttavia, mi parve che la lancetta grande fosse proprio esattamente sulla quinta ora della notta.
 
-Sono le cinque del mattino, Zack ...- bofonchiai divertita, stropicciando un po’ gli occhi con le mani e appallottolandomi di più nelle coperte -Sei mattiniero.-
 
Lui ridacchio, bisbigliando.
 
-Lo sono sempre stato.- mi rispose, poi attese che mi alzassi mettendomi a sedere sul bordo del letto, e concluse propositivo, consegnandomi il vestito a fiori e il cappotto blu.
-Forza, vestiti e sbrighiamoci. Oggi è l’ultimo giorno che ho per vederla.- disse riferendosi all’alba, quindi mi lasciò sola nella stanza - Ti aspetto giù.-
 
Sorrisi sforzandomi di non sembrare troppo malinconica o triste. Ma appena richiuse la porta guardai i vestiti sulle mie gambe, poi spostai lo sguardo nel buio tutto intorno, e chiusi gli occhi ascoltai il silenzio, lasciando alle lacrime un po’ di spazio per scorrere assieme ai pensieri e ai ricordi.
Nei pochi giorni ch'eravamo stati assieme lì avevamo dormito abbracciati nella sua stanza, proprio come fratello e sorella, e ogni mattina presto ci eravamo alzati per guardare insieme il sorgere del sole prima di essere pronti ad accogliere tutto ciò che di bello aveva da regalarci quella nuova giornata in arrivo.
Mi piaceva tanto stare lì con lui, tornare dopo tanto tempo a respirare aria di campagna e sentire la natura che, seppur  malata e a tratti testimone di un passato molto più rigoglioso, fioriva e straripava intorno a me, accogliendomi.
Ma quell'oggi, tutto questo stava per finire di nuovo.
O meglio, stava per cambiare, trasformandosi in qualcosa di ancor più meraviglioso al tuo fianco.
Ma tutto cominciava con il ritorno di Zack a Midgar, per vivere tutta quella lunga serie di tragici eventi che presto l'avrebbero sconvolto, facendolo crescere.
Dolorosi ma necessari, amavano dire i grandi.
Personalmente penso che il dolore non è mai necessario, ma non è un concetto che si può spiegare ad un mondo come i nostri, soprattutto se questi non ha la minima intenzione di starti a sentire.
Ad ogni modo, ricordo ancora quel dì come se fosse appena passato, ogni singolo tono di ogni singola parola, ogni singola sfumatura di colore, e ogni ... ogni singolo soffio di quel vento che soffiando appena un po’ più forte e scompigliando i nostri vestiti e i nostri capelli sembrava volerci avvicinare ancora, più di quanto lo eravamo già, abbracciati l'una all'altro e seduti sul bordo del precipizio con le gambe penzoloni ad attendere che il sole schiudesse le sue porte.
Avrei voluto piangere, non so dire ancora, dopo tutto questo tempo, se di gioia o disperazione. Invece me ne stavo lì ad ascoltare il suo cuore, memorizzandone il ritmo deciso e vivace, giocando con la fantasia ad immaginarne la forma come quella di un volatile, un piccolo angelo della terra con forti e grandi ali per volare lontano, sperando che non finisse mai di farlo per il cielo, che quel pensiero non lo sfiorasse mai, perché quel mondo malato e triste aveva bisogno di cuori e visi come il suo, per riposare dalle sue brutture e fatiche. E ne avevo bisogno anche io.
Quando ero piccolina, in quella fattoria in cui ho lasciato il cuore, ogni giorno mio padre veniva a casa prima da lavoro proprio per portarmi su un altopiano simile, si metteva a sedere sul suo orlo e mi prendeva in braccio. Stringendoci osservavamo il cielo, senza parlare.
Proprio come io e Zack, in quel momento.
Grazie a lui, riuscii di nuovo e per la prima volta dopo tanto tempo a sentire mio padre accanto a me, come quando era in vita ed io non ero che una bambina.
Era tornato da me, attraverso l’immagine di Zack.
E fu così dolce il dolore che provai, che lacrime di commozione presero a scivolare lungo il mio viso. Avrei voluto che non finisse mai.
Ma il tempo scorreva impietoso, e l'ora della partenza si affrettava sempre più.
Lasciai correre ancora un poco il mio sguardo sullo scenario, cercando d'imprimere ogni cosa, anche minima, di quel momento come faccio con ciò che non vorrei mai più scordare. 
Il cielo era limpido, pulito e azzurrissimo come non lo era mai stato in quei tre giorni, il sole nascente oltre le colline rilucente come la gemma più preziosa degli Dei, e … quando infine venne l’ora di salutarci e ci alzammo, guardandoci occhi negli occhi e stringendoci vicendevolmente le mani … la sensazione di vicinanza e calore umano che ci pervase era così forte, così … indissolubile, da farci credere che sebbene non fossi mai andati oltre, a furia di ripeterle quelle parole eravamo davvero diventati come un fratello e una sorella, uniti da un legame indissolubile per l’eternità anche se distanti.
Tremavamo, e nessuno dei due aveva voglia di distogliere lo sguardo o arretrare per primo.
Avrei voluto dargli di più di un semplice abbraccio di commiato, ma poi pensai che cedere adesso avrebbe reso tutto più difficile.
Era il momento di separarci, era arrivato alla fine.
Sul treno ne avevamo parlato, io sarei rimasta lì a Gongaga, in attesa di quegli eventi che sarebbero dovuti inevitabilmente accadere e forse stavano già sconvolgendo il mondo che lui conosceva, mentre lui sarebbe stato in prima fila a combattere per il suo sogno, nella speranza di poter tornare da me dopo averlo realizzato.
Ma … proprio per questo continuavo a dirmi di no, che ancora una volta non avrei potuto farlo.
Tra poco sarebbe tornato a Midgar, alla sua vita da SOLDIER. E tra qualche anno … Aerith.
E se mi avesse dimenticato? Se lei gli avrebbe rubato tutto il tempo per tenerlo a sé? Ecco che ritornavano quegli interrogativi e quella maledetta gelosia che mi ero imposta di non provare.
In fin dei conti non potevo scordare che Zack non era mio, non poteva esserlo perché non era il suo destino.
E a dirla tutta io non sarei neanche dovuta essere lì.
Ma allora perché? Perché c’ero invece, e mi toccava vivere tutto questo come se fosse tutto dannatamente reale, anche quell’addio che mi lacerava il cuore?!
Ci scambiammo un rapido sorriso, ma era chiara a entrambi in realtà tutta la tristezza che i nostri occhi nascondevano oltre quello.
Cercai di resistere ancora per qualche istante, ma quando Zack mi sciolse dall’abbraccio e si staccò, lasciandomi anche le mani concludendo con un sorriso dispiaciuto.
 
-Credo sia ora. L’elicottero mi starà già aspettando.-
 
Non ce la feci più, e scoppiando di nuovo a piangere come una bambina lo abbracciai di nuovo, e più forte.
Avevo vent’anni eppure riuscivo ancora a comportarmi come una bambina di cinque, stupida che non sono altro.
Nel mio mondo chi mi voleva male diceva ch’ero infantile e ingenua, mentre chi mi amava mi descriveva come troppo sensibile.
Non sapevo da che parte fosse la ragione e da quale il torto, neanche adesso in realtà lo so, ma in quel momento non m’importava capirlo. Riuscivo solo a pensare che sarei rimasta di nuovo completamente sola e dispersa, e non volevo.
Non volevo che il mio bianconiglio fuggisse via lasciandomi senza bussola in quel paese di matti.
 
-Riportami con te, Zack.- lo supplicai singhiozzante -Ti prego …-
 
E lui, con la dolcezza di sempre, sorrise e mi strinse ancor di più a sé, lasciandomi qualche tenero bacio sulla nuca.
Attese qualche altro secondo, infine mi sfiorò con gli indici delle mani gli zigomi e la linea del mento, incoraggiandomi a guardarlo.
Alzai il viso e vidi i suoi occhi color Mako scintillare di dolcezza e serenità, e mi ricordai di quel mare stupendo che avevo visto venendo qui in elicottero, colpito dei raggi dorati del sole, che lo facevano sembrare magico come quello ove io e i miei ci recavamo in vacanza d’estate.
Ma anche la più bella delle spiagge non era nulla in confronto a quegli occhi così sorridenti, commossi e felici adesso. Gli avevo appena confermato che, in un modo o nell’altro, io lo amavo e non volevo perderlo, e … questo bastava, per lui.
 
-Hey …- mormorò, prendendo il mio viso tra le mani e baciandomi dolcemente la fronte -Qualsiasi cosa succeda, tu resterai sempre la mia sorellina. Lo sai, vero?-
 
Scossi la testa, tirando su col naso.
 
-Tu …- singhiozzai -Ti dimenticherai di me, io … io lo so!- protestai.
 
Zack sorrise, e mi strinse forte contro il suo petto avvolgendomi con le sue forti braccia ancora una volta.
Sentii il mio cuore struggersi in una morsa dolorosa, e quel silenzio ancor di più alimentò i miei timori.
Infine quell’ultimo abbraccio si sciolse di nuovo, e dopo avermi sfiorato con un sorriso la guancia col dorso della mano destra per asciugarmi le lacrime mi prese la stessa mano e mise nel mio palmo il suo telefono. Non quello di SOLDIER, ma quello vecchio stampo che aveva avuto prima di partire per Midgar la prima volta, quando era solo un ragazzo di campagna pronto a gettarsi nella mischia per inseguire un suo sogno impossibile.
Non era molto avanzato, ed era anche un po’ vecchio, tanto che le lettere e i numeri sui tasti di gomma erano quasi totalmente cancellati.
Ma sarebbe servito al suo scopo.
 
-Chiamami ogni volta che vuoi …- mi disse infine, in risposta alla mia espressione stupita -Io farò lo stesso con te.-
 
Quindi sorrise di nuovo, e mi sfiorò il naso come si fa con una bimba piccola spaventata.
 
-Ci sarò Valery. Sta tranquilla.- mi rassicurò -Ricordati la promessa.-
 
Sorrisi tra i pianti, e annuii riportando la mia attenzione sull’oggetto.
 
-Ti voglio bene, Zack.- mormorai infine, richiamando in dentro le ultime lacrime.
 
Lui allargò il suo sorriso, e una lacrime sfuggì anche dai suoi occhi. La prima, da quando ci eravamo conosciuti.
 
-Anche io.- rispose, senza preoccuparsi di nasconderla e continuando a ridere -Da morire.-


 

Valery e Zack

 





NdA: Salve a tutti di nuovo, ora che sono in pausa con "Yes,Sir" ho potuto finalmente tornare a dedicarmi alla revisione di questa storia, in particolar modo di questo capitolo che è stato particolarmente ostico perchè praticamente ho dovuto riscriverlo tutto d'accapo, in quanto la prima stesura era poco più che un abbozzo, e mancava molto di profondità.
Era scritta in maniera superficiale, e poco consona al personaggio e alle situazioni di cui volevo andare a narrare.
L'incontro di Zack coi suoi genitori è una delle fasi più commoventi, perchè nella vera storia non è mai avvenuto purtroppo, mentre in questa storia grazie a Valery il nostro piccolo grande eroe ha trovato il coraggio e la forza di tornare.
Volevo approfondire i suoi sentimenti, dare spessore ai loro e soprattutto raccontare Gongaga dal punto di vista di Valery, i suoi sentimenti nell'allontanarsi da Midgar e Gen e il suo sempre maggiore conflitto nello scegliere tra il suo fratellino e l'amore di una vita, ovvero il rosso.
Era mia intenzione farlo anche nella prima stesura, ma evidentemente non avevo gli strumenti adatti all'epoca, così ho dovuto lavorarci parecchio e oggi finalmente (anche grazie al lavoro svolto su "Yes,Sir!", devo dirlo) sono riuscita a dare a questo capitolo la luce che merita.
L'unica cosa di cui ho un pò paura è che in questi primi capitoli Valery risulti ora come una Mary Sue, seppur solo a volte. Lei non è così, affatto, è fragile, insicura e lotta contro sè stessa per sopravvivere, trovando in Gen la forza di combattere.
Spero si sia capito, e se così non è stato farò in modo di raddrizzare il tiro nei prossimi capitoli che la riguarderanno.
Infine, l'immagine che chiude il capitolo: Lo so che in questo punto della storia Zack non ha ancora quell'aspetto, ma visto che ho revisionato praticamente tutto quanto, ho voluto lasciarla perchè mi sembrava ancora attinente al capitolo, e comunque per rispettare la bambina che ero e che ha ideato e scritto per la prima volta tanto tempo fa questa storia.
Diciamo che ho un pò peccato di sentimentalismo, non me ne vorrete fare una colpa, no? ;) ^^
Questo è tutto dunque, spero vi sia piaciuto questo capitolo e come al solito attendo commenti.
A presto con ben due capitoli dedicati tutti al mio Gen, che nel frattempo sta per diventare il cattivo più braccato di Crisis Core <3
Bye :* ;D

 

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Capitolo 18
*** Project G ***


Capitolo XVII


/// Flashback ///
 
Midgar, settore 8.
Viale Loveless, zona del Teatro.
Ore 22.10
 
Era una sera pacifica, quella che stava apprestandosi a trascorrere nella immensa città di ferro made in Shinra.
Un cielo opaco in cui le stelle faticavano a brillare stanziava cupo sulle strade illuminate dalla luce dei lampioni e degli enormi fari degli otto reattori, e affollate di una vastità enorme di persone che camminavano freneticamente in ogni direzione, come tante piccole formiche pronte ad essere calpestate dalla prima tempesta senza cuore.
Il loro chiacchiericcio riempiva l’aria, e con esso il frastuono del traffico, le note stonate dei clacson e, molto in lontananza la nota melanconica di un violino proveniente dall’interno del teatro nel quale andava in scena l’ennesima replica dello spettacolo più replicato della città.
Loveless era quasi finito, Midgar era in fermento, e sul tetto del piccolo edificio di cemento una figura alata e scura se ne stava appollaiata ad osservare ogni cosa, scrutando assente ma attento i volti anonimi della gente che andava e veniva, ignara della sua presenza.
L’angelo della vendetta.
Il nuovo terrore della Shinra stava per nascere proprio lì, a pochi metri da essa, senza che nessuno ne avesse ancora neanche la più lontana idea.



In silenzio il first class Genesis Rhapsodos osservava con sguardo atono il via vai della folla che riempiva viale Loveless, quella strada che tante volte aveva percorso da solo e assieme ai suoi più cari amici, gli unici due che poteva con certezza affermare di avere.
Invisibile nell’ombra, con la sua ala nera chiusa sul lato destro della schiena e il vuoto nella mente e nel cuore.
Si trovava in cima al tetto del teatro, proprio sopra l’insegna del suo spettacolo preferito, Loveless, ma era talmente tanto nascosto dalla luce accecante che emanava il cartellone da risultare impercettibile ad un occhio poco attento.
Anche se era ormai avvezzo a mascherare i suoi veri sentimenti di fronte al pubblico, stavolta il suo viso era bagnato di lacrime, Loveless giaceva abbandonato accanto ai suoi piedi e l’unica cosa che non era mutata era il suo sguardo scuro e grave.
Seduto sull’orlo in mattoni e cemento del tetto dell’edificio, i suoi occhi color Mako, profondi e rabbiosi, osservavano le persone entrare ed uscire dalle case, camminare, ridere, litigare … vivere.
Mentre lui invece … lui non sapeva più che pensare, ne cosa farne del fiato che consumava ardente nel suo petto.
Hollander non gli aveva voluto dire cosa gli stava accadendo, perché negli ultimi tempi si era sentito così stanco, spossato, quasi allo stremo fisico e mentale, né perché la sua ferita, quella banalissima stramaledetta ferita si fosse riaperta così all’improvviso facendogli rischiare una morte così facile, così ordinaria per lui, un first class praticamente quasi invincibile.
Ma soprattutto … cosa ci facesse ora quell’ala nera, sulla sua schiena.
L’aveva scoperta quasi per caso, fortunatamente mentre era da solo in sala di simulazione a sfogare quella rabbia sempre più crescente e strana. Aveva portato il suo corpo ad un livello così alto di adrenalina, e il processo biochimico innestato probabilmente aveva innescato quella metamorfosi.
Assurda.
Inquietante.
Terrificante.
Sconvolgente.

Strana.
Aveva fissato sconvolto il suo riflesso nel vetro della porta pressurizzata, e non ci aveva capito più niente, solo … che non poteva più rimanere lì, fino a che non avrebbe capito come farla scomparire, se mai fosse stato possibile.
Questo, solo questo aveva pensato. Avrebbe voluto urlare, sfogarsi, fare qualcosa, qualunque cosa, e invece pensò … solo a scappare, via, lontano da lì prima che qualcuno avesse potuto vederlo.
E sconvolto si era presentato da Hollander, che aveva fatto di tutto per minimizzare, balbettando e continuando a ripetere che lui comunque non avrebbe potuto più aiutarlo, perché quel bastardo del Professor Hojo lo aveva fatto licenziare.
Allora aveva iniziato a capire. Che a nulla sarebbero valse le minacce, le armi e la forza … quello schifoso essere … era lui il responsabile di questo, e se lo avesse spaventato prima di riuscire a comprendere di più probabilmente avrebbe finito per perdere anche l’ultima speranza di farlo.
Così aveva fatto finta di andarsene, si era nascosto e aveva atteso che lo scienziato sparisse per frugare tra i documenti e trovare ciò che stava cercando. La prova.
Anzi, le prove.
Decine, centinaia di strane carte, studi biologici sui geni e test del DNA.
E su alcune di esse, il suo nome.
Il suo … il suo vero nome.
Project … G.
Non Genesis, al diavolo anche Rhapsodos e tutta l’umanità che aveva creduto di possedere.
Solo … G.
Un esperimento mal riuscito.
Un mostro … difettoso, creato per riuscire ad eguagliare il risultato dell’esperimento perfetto del professor Hojo, il progetto S.
S come … Sephiroth.
Le sue mani … aveva cominciato a tremare talmente tanto da non riuscire a trovare neppure la forza di reggere quei miseri fogli, di restare in piedi.
E con un colpo stanco d’ala era scomparso assieme a tutta la documentazione, alla ricerca di un posto sicuro dove restare da solo … e pensare.
Ci aveva messo un po’, prima di riuscire a farlo. E adesso …
Chiuse gli occhi lucidi a calde lacrime di rabbia, angosciato, stringendo i pugni e cercando di dominare il fiume in piena di quei sentimenti, distruttivi e roventi dentro di lui come la lava di un vulcano dormiente per tanto tempo, e ora infine esploso in tutta la sua devastante forza.
Project G. Genesis … l’inizio di una produzione di massa di armi viventi con le capacità di Jenova, un mostro caduto dal cielo più di 2.000 anni fa.
Le cellule di quell’abominio erano state usate per creare lui, Angeal e Sephiroth, in due diversi esperimenti quasi gemelli.
Lui, Angeal … Sephiroth.
Tre fratelli. Tre amici accomunati da uno stesso, orribile destino.
Non aveva potuto fare a meno di pensare a Loveless, di rileggerlo, con le lacrime agli occhi quasi mentre gli sembrava che quelle parole mai del tutto comprese ora parlassero di lui e del suo beffardo, schifoso destino.
Intanto le ore erano passate, e Angeal lo aveva chiamato più volte al telefono fino a che, fingendo almeno con la voce come abilmente sapeva fare lui, gli aveva detto di star bene e di essere uscito un po’ in città, perché aveva bisogno di stare un po’ da solo, ringraziandolo per la comprensione che fu pronto a dimostrargli.
Ne avrebbe dovuta avere molta, molta di più di quella che aveva sempre dimostrato di possedere fino ad oggi, pensò andando indietro con la mente a quella telefonata avvenuta ormai ore fa.
Se lui era figlio di un mostro, allora anche Sephiroth ed Angeal lo erano.
Non erano … non era umani. Né lui, né Angeal, né tantomeno Sephiroth, ch’era il risultato di tutti gli esperimenti condotti su di loro, il mostro perfetto, un esemplare sano, invincibile e ibrido di soldato Jenova.
E se erano nati da un progetto, da una provetta con dentro un campione umano creato in laboratorio, allora sua madre … e suo padre …
Rhapsodos.

Non era … più nulla.
Nulla.
Quel cognome non era la sua identità, le sue vere radici, le sue origini.
I ricordi di lui ed Angeal bambini, mentre giocavano nelle terre di quelli che credeva i suoi veri genitori … ora avevano un altro più disgustoso e orribile, straziante significato.
Li avevano fatti nascere come esperimenti, e poi per tenerli lontani da occhi indiscreti fino a che sarebbero stati in grado di diventare SOLDIER li avevano allontanati, affidando a Gillian Hewley che aveva prestato il suo grembo all’inseminazione di uno dei due campioni il compito di osservare la loro crescita, e di proteggerli.
Come esperimenti, e non come bambini.
Gillian … Hewley …
La madre biologica di Angeal. Quella che aveva cresciuto nella menzogna e nell’illusione di un sogno, di un onore e di una famiglia vera quel bambino innocente ch’era stato … Angeal.
E lui? Lui, Rhapsodos?
Semplicemente, nulla di quello che aveva vissuto gli era mai appartenuto davvero. I suoi … parenti, le persone a lui più vicine, di cui aveva sempre creduto di potersi fidare e su cui aveva sempre contato …
Erano state solo persone …
Altre persone a cui … lui … lui aveva voluto … bene.
Bene …
Un bene incondizionato ed ingenuo cresciuto sempre di più nonostante le poche attenzioni ricevute da quell’uomo che lui era orgoglioso di poter chiamare padre, e alimentato dai gesti di affetto di quella donna che era scopriva essere solo l’ennesima donatrice di ovulo, un grembo disposto ad accoglierlo per farlo nascere e nulla più.
Quelle … quelle persone …
Quegli esseri!
Lo avevano tradito …
Si, lo avevano ingannato, dandogli da mangiare solo per dovere, accudendolo in cambio di un sostanziale aiuto economico che garantisse loro un futuro per la loro misera azienda di confettura in scatola, trattandolo in segreto come merce di scambio del più basso ordine e nel frattempo per far sì che non se ne accorgesse e continuasse a crescere come il bravo ragazzo che in fondo era diventato infarcendolo di regali, gesti carini e pieni di un amore fasullo, melenso, avvelenato, marcio e disgustoso!
Disgustoso come tutto ciò che aveva scoperto solo ora, per caso e così, all’improvviso, gli girava intorno, a cominciare dalla più misera di quelle stramaledette costruzioni di cemento fatiscenti e vuote.
La Shinra.
La Shinra li aveva creati, li aveva fatti nascere, li aveva affidati a dei genitori adottivi perché li crescessero sotto la supervisione di una scienziata in incognito e li crescessero inculcando nel loro cuore il sogno di essere uguali a Sephiroth, pur sapendo quanto in realtà questo fosse impossibile.
Perché Sephiroth era l’esperimento perfetto, quello riuscito, e loro erano solo due scarti di laboratorio che comunque avrebbero dovuto servire la compagnia che da sempre, da ancor prima della loro nascita aveva programmato e stretto in mano ogni singola, fottuta riga del loro cammino.
Quando non era che un bambino, assieme ad Angeal aveva sognato di diventare un SOLDIER si, per difendere la giustizia, combattere e perché no anche divertirsi un po’.
Ma … aveva sempre fatto ciò per cui la maledetta Shinra lo aveva … creato. Costruito a tavolino.
E solo adesso, finalmente e per fortuna, si ritrovava a capirlo.
Gli esseri umani nascono, i first class … no.
Tutte quelle storie di Angeal sull’onore, sui sogni.
In un attimo si reso conto che … anche Angeal stava vivendo un’illusione.
L’illusione di essere un uomo.
Sorrise amaro e disgustato, guardando la sagoma del quartier generale, mentre le ultime lacrime di una rabbia talmente grande da essere scambiata per dolore scivolavano bollenti sulle sue guance pallide, e per la prima volta si ritrovò a comprendere appieno nella sua cocente e cinica interezza tutta la disgustosa verità.
Angeal Hewley, Genesis Rhapsodos, Sephiroth.
I First Class.
Un’elite di … cani della Shinra, tenuti al guinzaglio e bendati senza che neanche se ne fossero accorti.
I piccoli segugi azzanna nemici del Presidente.
Una rabbia torva, profonda s’impadronì di lui, e mentre con gesto di stizza incontrollata si passò una mano sugli occhi per asciugarsi quelle lacrime ormai inutili s’alzò, prese di nuovo tra le mani l’amato poema e spiegò nella sua totale interezza la sua immensa ala nera nell’oscurità opaca del vicolo affollato di turisti e cittadini.
Rimase così, a fissare con sguardo infuocato la sagoma dell’HQ della Shinra inc. che dominava su tutto il paesaggio, quasi a ricordare ciò che adesso aveva infine saputo, che nulla in quella città sfuggiva al suo controllo, o fluiva senza che i vertici che se ne stavano sotto la cupola a sorseggiare champagne nei loro alloggi di lusso lo volessero o sapessero.
Niente, neppure la morte o la malattia.
Era tutto programmato da quei disgustosi esseri che di umano avevano ormai solo l’aspetto.
Se la ripeté quella verità, fino a che in essa e nella rabbia, nel disgusto e nella sete di vendetta e giustizia che raggiunsero il colmo in lui non trovò la forza di reagire, tornando ad ergersi altero sul proprio destino.
Fissò rabbioso un’ultima volta la cima dell’edificio d’acciaio, il quadrangolo rosso sangue illuminato a giorno dai potenti fari appositamente collocati lì per quel lavoro.
E un ghigno prese a dipingersi sempre più determinato e beffardo sulle sue labbra sottili.
“Adesso basta.” pensò, stringendo i pugni.
“La festa è finita. È ora che quei dannati bastardi bugiardi sappiano che non mi terranno più al guinzaglio, mai più, come hanno fatto nel corso di tutti questi anni!
Adesso …
E’ ora che quel mostro che hanno creato gli si ribelli contro, ricerchi vendetta sui loro cadaveri sanguinanti per la sua innocenza e umanità perduta o anzi mai trovata, e soprattutto … è ora che anche Angeal e Sephiroth sappiano la verità.
Tutta … la stramaledetta verità.
Adesso …
E’ l’ora che la guerra delle bestie inizi, adesso. ”
Restò ancora per qualche istante a fissare la città in fermento, chiedendosi come avrebbe fatto a dire quel “basta”, con quale scusa e soprattutto quando avrebbe potuto finalmente ribellarsi, per quanto ancora avrebbe dovuto far finta di niente e sopportare di essere uno dei leccapiedi preferiti del Presidente.
“L’occasione arriverà presto.” si disse infine, fiducioso e pregando la sua amata Dea che fosse davvero così, che avesse la forza di aspettare e soprattutto di fare tutto ciò che aveva in mente, di vendicare ogni singola anima in pena per colpa delle bugie di quei farabutti per poter infine tornare al Pianeta almeno con il cuore e l’anima in pace.
Non prima di averli visti strisciare nella polvere chiedendo perdono.
Quindi con un colpo deciso d’ala spiccò il volo verso il suo domani, ch’era davvero arido di promesse per lui e per tutti i mostri come lui credeva di essere, e lasciando dietro di sé un turbinio rapido, leggero e inarrestabile di piume nere.
 
\\\
 
-Genesis.-
 
Il rosso si voltò verso la voce dell’amico che lo aveva chiamato, nel bel mezzo dell’affollato corridoio del piano SOLDIER.
Facendo finta di nulla incrociò lo sguardo di Angeal, ignaro di tutto e preoccupato più che mai per quella sua improvvisa assenza, soprattutto dopo l’incidente dell’altro giorno.
 
-Stai bene?- gli chiese infatti.
 
Sorrise, annuendo e stupendosi egli stesso della calma che riuscì a provare e dimostrare, credibile perfino agli occhi del sempre scettico Angeal Hewley.
Ora che sapeva la verità, provava tanta compassione, dolore e tenerezza per lui, senza riuscire a trattenersi dal farlo. In fin dei conti, Angeal era rimasto quel bambino ingenuo che in mezzo ai cambi di Banora apple sognava e credeva con lui in un futuro migliore, senza ingiustizie e senza guerre.
Era quello il motivo per cui combatteva, ma … ciò che non sapeva, era che fino a che la Shinra avrebbe continuato a signoreggiare con la sua avidità non ci sarebbe stata pace, in quel mondo maltrattato e affamato.
Lui … era in buona fede, ma si trovava dalla parte sbagliata del fronte.
 
-Mai stato meglio.- gli rispose comunque, annuendo e tacendo.
 
Hewley tuttavia, non si lasciò sfuggire quell’ennesimo repentino cambio di umore.
Quella calma … sembrava la quiete prima della tempesta.
Lo faceva sembrare come se gli avessero dato una botta in testa, e in più era troppo sicuro di sé.
Cosa stava architettando?

-Sei sicuro?- tornò a chiedere, incalzandolo.
 
Genesis rimase in silenzio per qualche istante a guardarlo, pensieroso, poi annuì tornando a fingere.
“Non farmi altre domande, Angeal. Non ancora …”
 
-Si, te l’ho detto. Sto bene.- rispose -Avevo solo bisogno di un po’ di arte per calmare il mal di testa.- ammiccò, certo che avrebbe colto il riferimento e bevuto la scusa come fosse il più buono dei bicchieri d’acqua.
 
Accadde.
Esattamente come aveva previsto.
 
-Bene, allora …- annuì contento e sollevato il moro-Lazard ti sta aspettando, ha detto che ha un incarico per te.- lo informò, aggiungendo quindi in tono meno formale -Dovremmo dividerci a quanto pare, al momento sei l’unico disponibile.-
-E il nostro grande eroe?- rispose allora il rosso, continuando ad utilizzare quel tono sarcastico che lo aveva sempre caratterizzato e recitando alla perfezione la parte del solito Genesis Rhapsodos, il first class indomabile e poetico che tutti avevano imparato ad apprezzare e ammirare.
 
Già, pensò tuttavia, Sephiroth …
Non era più poi così tanto sicuro di non poter riuscire a provare compassione anche per lui, che dei tre forse era stato sì il più perfetto, ma anche il più sfortunato.
Angeal sorrise e scosse il capo.
 
-Sephiroth è impegnato con l’addestramento delle nuove reclute, come me.- replicò -Per il momento …- fece per aggiungere, ma per Genesis non ce ne fu bisogno.
-Sono il solito rimpiazzo …- commentò amaro con disapprovazione, annuendo e increspando le labbra in una smorfia di disprezzo stavolta senza provare neanche a mascherarlo.

Angeal gli rivolse uno sguardo ammonitore.
 
-Faresti bene a non parlare così davanti a Lazard.- lo rimproverò.
 
A quel punto però il rosso gli voltò le spalle, iniziando deciso a camminare verso l’ascensore, il viso basso e un’espressione delusa e rabbiosa in volto.
 
-Per quello che conta, ormai.- mormorò amareggiato.
-Genesis!- lo raggiunse l’altro, ponendoglisi di fronte e incrociando le braccia mentre lo fissava con l’ennesimo sguardo ammonitore.
-Lascia stare Angeal, ho capito.- tagliò corto lui, sventolando in aria una mano e sfoderando un sorriso sardonico -Vado subito.- concluse, distaccandosi definitivamente da lui e abbandonandolo lì, probabilmente per l’ultima volta da SOLDIER.
 
Quanto avrebbe voluto mandare al diavolo tutto e tutti, liberare la sua potenza da first class e far vedere una volta tanto alla Shinra di cosa era davvero capace Genesis Rhapsodos, se ancora poteva permettersi il lusso di utilizzare per sé quel nome, radendo al suolo il loro impero!
Trattenne un pugno infuocato mentre da solo in ascensore attendeva di arrivare a destinazione.
Provava disgusto perfino per sé stesso, ma non era facendola finita che avrebbe risolto la questione.
No, adesso c’erano cose molto più importanti a cui pensare.
Ad esempio doveva cercare di fermare il degrado che aveva cominciato a mangiarsi il suo corpo, sgretolandolo fin dalla più piccola cellula come una brutta malattia a cui non esisteva per il momento rimedio.
E poi, anche Angeal e Sephiroth avrebbero dovuto sapere.
Tutti avevano il diritto di sapere quale sorta di mostri la Shinra aveva prodotto.
Si, c’era molto da fare e non poteva arrendersi, perché solo lui conosceva la verità, fino ad oggi.
Ora … era arrivato il momento di dirla, urlarla al mondo intero.
E spezzare le catene che lo legavano ai padroni divorandoli come solo un mostro ben addestrato alla guerra sapeva fare.
 
(Continua …)
 
 

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Capitolo 19
*** Nient'altro che la verità ***


Capitolo XVIII


 

( ... )

-Wutai … -
 
Genesis Rhapsodos fissò pensieroso il direttore di SOLDIER, Lazard Deusericus, seduto come al solito dietro alla sua scrivania, le braccia incrociate sul petto e le mani guantate di bianco.
Questi lo squadrò a sua volta, stupito di come avesse così freddamente accolto la notizia, pensando che forse non avesse capito bene l’ordine visto che sembrava essere sovrappensiero per qualche altra questione, probabilmente personale, anche se … era strano per un tipo come lui.
A quel punto però non gli restò che ribadire, annuendo e allungandosi verso la sua scrivania, appoggiandovi i gomiti e intrecciando le dita delle mani fra di loro.
 
-Si, andrai in Wutai. Ci serve qualcuno in gamba che riesca a porre rapidamente fine a questa guerra. È durata fin troppo …- aggiunse, impensierito e serio.
-Allora perché non ci avete mandato Sephiroth?- lo incalzò a quel punto Genesis, quasi risvegliandosi, trattenendo a stento l’impeto di nervosismo e stringendo i pugni mentre tremava cercando di non usare eccessiva forza in modo che risultasse il meno visibile possibile.
 
Lazard prese quindi a fissarlo, sorpreso e ancor più stranito e preoccupato.
 
-Sei sicuro di sentirti bene?- chiese ancora, in tono meno formale e più sinceramente interessato -Vuoi che assegni a qualcun altro questa missione?- concluse, dopo averci riflettuto ancora un poco e non aver ricevuto risposta.
 
Genesis, che nel frattempo nel tentativo di calmarsi aveva chiuso appena le palpebre e preso a recitare dentro di sé qualche passo di Loveless trovando nella melanconica e lirica poesia di quei versi un po’ di tranquillità, come faceva da bambino, dal momento in cui aveva iniziato a pensare che forse sarebbe toccato a lui svelarne il mistero, le riaprì e puntò le sue iridi d’acqua marina infuse di mako in quelle dell’uomo che ancora lo stava ad osservare, con sguardo man mano sempre più perplesso.
 
-No!- si affrettò a rispondere, fingendo di riprendersi -Sto benissimo.- concluse raddrizzando la schiena e sorridendo appena, in quel solito ghigno strafottente che ormai tutti erano abituati a vedere sul suo volto.
 
Sembrava quasi che se lo aspettassero in realtà. Anche se stavolta era meno incosciente, e più amaro, ma nessuno se ne era ancora accorto.
Non poteva perdere questa occasione, e lasciarsi sfuggire l’unica possibilità che aveva di scappare dai suoi aguzzini e di mandare la loro baracca all’aria.
Affatto. Era un’occasione ghiotta da non perdere affatto.
Aveva già in mente il piano: Una volta in Wutai non ci avrebbe messo molto a far perdere le sue tracce e poi finalmente rivelare la verità, diventare … il messaggero della verità.
La gente, e soprattutto i SOLDIER. Dovevano tutti sapere quale sorta di meschino e viscido essere fosse in realtà la Shinra, e a quali atrocità avessero dato il permesso i suoi vertici.
Si, solo quell’ultima finzione e poi sarebbe stato libero.
Libero di cercare la sua verità.
Ma prima c’erano altre cose da preparare, e il primo tassello di quel nebuloso puzzle si trovava a pochi passi dall’ufficio di Lazard.
 
-Ci andrò. Però prima devo fare una cosa.- concluse e deciso.
 
Il direttore, finalmente sereno e contento di vederlo tornare in sé, sorrise e annuì.
 
-Hai tutto il tempo.-
replicò con calma propositiva -Partirai domattina, alle otto.-
 
Genesis sorrise, ma con un sorriso che assomigliava di più ad un ghigno che al suo solito sorriso eccitato prima di ripartire per l’avventura.
Lazard tuttavia, che di certo non lo conosceva bene come Angeal o Sephiroth, non ci fece caso e lo congedò con tutte le formalità del caso.
Mentre usciva dall’ufficio e attraversava il piano SOLDIER, e poi mentre si lasciava trasportare di sotto dall’ascensore, Genesis fremette stringendo l’elsa dalla sua Rapier, fedele compagna come sempre, anche in quel momento.
Era eccitato si, ma solo perché quella era l’ultima volta che quelle soffocanti catene si sarebbero strette attorno al suo collo come un guinzaglio indistruttibile, perché tra poco lui le avrebbe frantumate in mille irricomponibili pezzi.
Eppure, benché fosse eccitato dall’idea di una totale e devastante vendetta, un sottile e assillante senso di vuoto lo colse all’improvviso, inaspettatamente.
Per cosa avrebbe dovuto lottare, adesso? Per i suoi amici? Per … quello che rimaneva della sua dignità? Del proprio orgoglio?
Richiamò all’istante i pensieri, si fece serio e torvo e mentre ascoltava l’ascensore percorrere l’ultimo tratto scosse il capo, fissando atono e tenebroso le sue porte di ferro.
Che domande inutili!
Da adesso in poi, non avrebbe più avuto un motivo per combattere, avrebbe potuto fare come gli pareva, come più avrebbe ritenuto divertente od opportuno per il suo progetto.
In fondo, loro erano mostri, e ai mostri … ai mostri non servivano tutte quelle barriere mentali, di amore, sogni, onore e simili.
I mostri non avevano sogni, nè onore … da che mondo e mondo, era sempre stato così.


 

 
 
\\\
 
Hollander si affannava innervosito a rovistare negli scatoloni che aveva trascinato fino a lì, nell’interno di un reattore semi abbandonato, sbruffando e affaccendandosi quasi maniacalmente, mettendo ogni cosa in subbuglio e lasciando dietro di sé un macello di fogli sparsi e attrezzatura scientifica fuori posto.
Furioso, era furioso!
E brontolava bestemmie e parole poco ripetibili ad orecchie ben educate, rivolgendole tutte al tanto stimato suo collega, il Professor Hojo, che pretendeva di sapere tutto sulla scienza solo perché era stato lui a trovare Jenova quando in realtà neppure questo era vero. Eppure quella mummia rinsecchita era riuscita per via di quei suoi presunti meriti a sbatterlo fuori, e ora a causa sua si ritrovava senza lavoro e senza soldi per continuare la sua ricerca, che aveva raggiunto risultati più che ottimi.
Ma questo ai vertici non importava se non facevi di nome Hojo e non avevi come minimo contribuito alla creazione di una nuova arma al loro servizio.
C’era un solo unico piccolo particolare … lui di armi ne aveva create ben due! Due! Anche se solo una perfettamente funzionante, e non aveva neanche dovuto investire sul feto, aveva direttamente usato suo figlio appena nato per farlo, in poco tempo e con meno risorse!
Hojo invece? Aveva richiesto un reparto tutto per sé, speso un capitale e passato in rassegna ogni scienziata della zona per trovare la genitrice perfetta.
Eppure, semplicemente perché il progetto S era nato per primo e aveva dato migliori risultati avevano deciso di troncare il suo per consegnare tutto a lui, che di sicuro avrebbe comunque usato i dati sviluppandoli per la sua gloria.
E così nessuno si sarebbe ricordato del geniale Hollander, ma tutti avrebbero osannato il Professor Hojo che viveva sulle spalle dei sacrifici altrui spacciandoli per propri successi.
Oltre al danno la beffa!
E avrebbe anche rischiato di rimanerci, disoccupato, perché in quel mondo, e non solo a Midgar ma in ogni dove, era la Shinra la principale fonte di guadagno di ogni anima che si muovesse su due gambe avesse problemi di sopravvivenza legati al denaro.
 
-Ma dove diavolo l’avrò messe, dannazione!- sbottò all’improvviso, fermandosi sul posto e incurvandosi appoggiando le mani sulle ginocchia, esausto.
 
Si rialzò e si stiracchio, appoggiando le mani sul fondo della schiena.
 
-Dove accidenti sono finiti quegli stramaledetti schemi!- bofonchiò, guardandosi intorno.
 
E proprio allora, all’improvviso, un’oggetto appuntito premette contro la sua schiena all’altezza del cuore, e lui si sentì raggelare all’istante, trattenendo il fiato.
Alzò le mani in un segno di resa quasi istintivo, e quando lentamente riuscì a voltarsi completamente verso la sua direzione rimase sconcertato nel venire accolto dallo strano ghigno determinato e rabbioso di
 
-Genesis!?-
 
Il rosso allargò la smorfia sulle sue labbra, e alzata la mano sinistra sventolò davanti ai suoi occhi proprio il pacco di documenti che stava cercando.
Lo scienziato impallidì trattenendo il fiato, e un orrendo sospetto s’impossessò di lui.
 
-Cercavi questi, dottore?- lo schernì il SOLDIER.
 
Hollander rimase pietrificato per qualche secondo, la bocca spalancata e tremante e la schiena inarcata all’indietro mentre cercava di tenersi il più lontano possibile dalla punta della Rapier, che continuava a rimanere fissa in direzione del cuore.
Un solo movimento azzardato e sarebbe stata la sua fine, si ritrovò a constatare con terrore.
Un uomo con i poteri di Genesis, seppure fosse un esperimento mal riuscito, poteva essere comunque molto pericoloso, soprattutto per lui che in quel momento non aveva come difendersi.
E adesso che sapeva la verità, di sicuro il soggetto G era lì per ucciderlo.
A quel pensiero, all’instante il panico più puerile s’impadronì di lui, e non riuscì più a ragionare liberamente.
 
-S-s-si, in effetti cercavo proprio quelli!- balbettò, allungandosi in uno slancio male assestato verso i documenti nel tentativo di afferrarli, e finendo quasi per cadere con la faccia a terra quando d’improvviso il SOLDIER li ritrasse lontano da lui, rimosse la spada da davanti al suo cammino e la riportò di nuovo indietro, girandosi verso le sue spalle e puntandogliela alla gola.
 
Lo scienziato trattenne il fiato quando i suoi occhi incrociarono quelli color Mako di Genesis, infuocati dall’indignazione e dall’ira ma al contempo tristi e disperati.
E guardandoli un’altra brillante idea gli balenò in testa. Era su quella disperazione che doveva lavorare per avere salva la vita.
 
-Tu, essere spregevole.- sputò Rhapsodos, sibilando e prendendo a camminare, spingendolo verso la parete in metallo dietro le sue spalle -Vile, come tutti quelli che appartengono alla Shinra!- sibilò ancora, poi sorrise amaro -Tranne che noi poveri sventurati di SOLDIER, ovviamente. Noi siamo solo carne da esperimenti, è così?- chiese sarcastico, in un tono che presupponeva fosse già molto bene a conoscenza della risposta.
- G-Genesis! Aspetta!- stridette a quel punto disperatamente Hollander, che già sentiva una soffocante e pericolosa pressione contro il gozzo della sua gola e urtando il tacco delle sue scarpe e poi l’intera schiena contro la parete si rese conto di essere in trappola come un povero topolino scarnato.
 
Il cuore prese a battere all’impazzata in petto e le mani a tremare e sudare spaventosamente, mentre i suoi occhi che continuavano a puntare in quelli del SOLDIER terrorizzati presero a muoversi incontrollati da una parte all’altra della stanza, cercando soluzioni.
 
-Perché dovrei?- ribatté ancor più sprezzante il rosso, le labbra deformate dal disgusto -Fino ad oggi le tue parole sono sempre state inutili e vuote.-
 
Ed ecco che, con tutto il fiato che aveva in gola, a quel punto lo scienziato si affretto ad urlare l’idea che già sapeva gli avrebbe risparmiato una morte straziante.
 
-Perché solo io posso arrestare il degrado!-
 
Il tempo si fermò all’istante, come aveva previsto.
Trattenne il fiato spostando freneticamente gli occhi dalla Rapier al suo possessore, mentre Genesis dapprima lo fissò con astio e severità, cercando di cogliere nel sguardo anche il minimo accenno di titubanza che avrebbe potuto smascherare una bugia, poi abbassò di solo qualche centimetro appena la spada e ripercorse con occhi assenti tutte quelle volte che s’era sentito stanco, spossato, quasi senza la minima voglia di combattere.
Tutte quelle volte che aveva ignorato le provocazioni di Sephiroth perché sapeva non sarebbe riuscito a sostenere uno scontro, stupendo perfino Angeal perché un comportamento del genere non era da lui.
Si infatti, non era da lui.
Non era mai stato lui a volersi arrendere, ma … il suo corpo, che lentamente stava cedendo senza che riuscisse a spiegarsene il perché.
Ora finalmente, tutti quei piccoli e fastidiosi acciacchi, le mancanze di fiato, gli sbalzi di umore, i mal di testa e le ferite che non guarivano avevano un nome.
E forse anche una cura.
Anche se … Hollander era capace di mentire pur di salvarsi la pelle, ma non poteva permettersi di mandare all’aria anche la più piccola possibilità di sopravvivenza.
Quelle parole, seppure fossero state detto solo per tentare d’ingannarlo, avevano un senso.
Se era stato Hollander a crearlo e a guarirlo da quella ferita, allora forse poteva anche curarlo definitivamente.
Forse, non poteva escluderlo. Ma neanche fidarsi ciecamente di un uomo che fino a poco tempo fa era stato un fedele servo della Shinra.
Hollander era un essere vile e spregevole, proprio come gli aveva ringhiato contro, e nelle sue parole doveva per forza nascondersi la paura. Forse voleva usarlo, forse no.
Nel dubbio però rimaneva il fatto che lui aveva assolutamente bisogno di aiuto, altrimenti avrebbe continuato a deteriorarsi, a peggiorare fino a non riuscire neanche più a reggere in mano neanche la spada, e lui da solo non sarebbe stato in grado di fermarlo.
Non aveva né le capacità né i mezzi. Hollander si.
Per questo pensò che avrebbe voluto sgozzarlo, lì e adesso, ma non lo fece, e tornando e stringere più forte la Rapier la spinse ancor di più contro la sua gola e gl’intimò, ringhiando minaccioso.
 
-Spiegati meglio!-
 
Hollander lasciò andare il respiro, annuì sorridendo appena.
Era fatta, per fortuna. Aveva abboccato.
Forse era riuscito a convincerlo, ora però doveva giocare bene le sue carte, raccontandogli una verità che fosse il più possibile vicino alla realtà senza svelare i suoi assi nella manica e adulando il suo istinto di sopravvivenza.
E nel frattempo sperare che lui continuasse a crederci.
Genesis aveva visto giusto a non fidarsi di lui, in realtà. Ora che la Shinra lo aveva abbandonato si era ritrovato solo e vulnerabile, ma se fosse riuscito a portare almeno quel suo esperimento fallito dalla sua parte, avrebbe potuto usarlo ancora, usare la sua forza da SOLDIER e gli inconvenienti dovuti al degrado per vendicarsi di Hojo e del Presidente.
E sebbene fosse un vile, non era di certo così sciocco da permettersi di sprecare quell’allettante possibilità.
 
-Pensaci, Genesis.- esordì quindi, sicuro di sé -Non tutti i mali vengono per nuocere. Anche tu, come me, vuoi vendetta. No?- continuò quindi nel tentativo di convincerlo.
 
Genesis abbassò lentamente la lama, fermandosi a pensarci sul serio.
Poi si riscosse, riportò la Rapier all’altezza della sua gola, e quel nuovo guizzo nei suoi occhi d’acqua marina indusse lo scienziato nuovamente a tremare temendo il peggio.
“Forse ho osato troppo!” si maledisse.
Genesis ghignò beffardo.
 
-Mi stai proponendo un’alleanza?- chiese sarcastico.
 
Poi continuando a minacciarlo con la spada prese a girargli intorno lentamente, scrutando da ogni angolazione e non perdendosi neanche un singolo movimento del suo volto e del suo corpo, come un predatore che circonda la sua preda in attesa di poterle saltare al collo.
Lo scienziato tacque, lasciando che il suo sguardo e il suo silenzio parlasse per lui.
Quindi il SOLDIER sorrise, si fermò altero a guardarlo, e puntando gli occhi verso il soffitto prese nuovamente a recitare, malinconico ma con lo sguardo pieno di speranza.
 
-Infinite in mistery, in the gift of the Goddess. We seek it thus, and take to the sky. Ripples form on the water surface, the wandering soul knows … no rest … - chiudendo poi lentamente, con la mano destra chiusa a pugno sul cuore.
 
Hollander rimase fermo a guardarlo, confuso e stranito, scaturendo nel rosso solo compassione.
Cosa ne poteva sapere lui, della fede che … che in fin dei conti era sbocciata nel suo cuore.
Una fede forte, intensa, quasi folle ma reale, viva, e divampante ogni giorno di più. Lui sapeva … sapeva che qualsiasi fosse stato il suo destino, la Dea lo avrebbe guidato verso la luce e la pace.
Mostro o no, quella era adesso la sua speranza.
E benché sapesse quando questo potesse apparire inutile e utopico agli occhi di un misero uomo di scienza, tentò comunque di spiegarglielo.
 
-Il dono della Dea mi guarirà …- disse, fiducioso, guardandolo dritto negli occhi -Non sarai né tu, la tua scienza, né nessun altro.- continuò squadrandolo dall’alto in basso, sprezzante, concludendo infine, puntando di nuovo i suoi occhi verso l’alto e nero soffitto del reattore -Solo lei. Lo troverò, e allora potrò almeno riposare in pace.-
 
Ma come previsto il manchevole scienziato non volle arrendersi.
 
-E se non ci riuscirai? Se non esistesse?- tornò ad incalzarlo -Pensaci Genesis. Nel frattempo chi ti restituirò le forze quando ti mancheranno? Chi fermerà le emorragie delle tue ferite quando sarai sconfitto? Tu hai bisogno di me!- concluse, quasi sgolandosi nel timore di star perdendo la sua ultima possibilità di vita e vendetta.
 
Genesis lo squadrò ancora una volta, quasi gli venne da ridere per la patetica, pietosa e completa assenza di fede che continuava a dimostrare, e non diede neanche peso a quegli interrogativi.
La Dea sapeva. Lo avrebbe guidato, fino a che lui sarebbe stato in grado di raggiungerla, si sarebbe dimostrato degno della sua rivelazione.
Doveva dargli la prova che la sua era fede vera, autentica, affinché lei potesse svelargli il mistero dell’ultimo atto, il significato di quel dono che a questo punto poteva anche significare salvezza e vita e redenzione, per lui.
E Hollander … sciaguratamente per lui, che lo volesse o no era l’unico mezzo per guadagnare tempo, per poter arrivare sano e salvo alla meta.
Così sospirò, e dopo ancora un breve attimo di esitazione decise di fargli credere di essere caduto nella trappola. In fondo sarebbe stato un rapporto parassitario vicendevole.
Lui avrebbe usato lo scienziato, e lo scienziato avrebbe usato lui … nella misura in cui sarebbe stato disposto a permetterglielo.
Abbassò nuovamente lo stocco, per l’ultima volta, e con un ghigno appena percepito dipinto sulle labbra spiegò la sua ala nera, sollevandosi quindi a mezzo metro da terra e lasciando sul pavimento qualche piuma corvina.
 
-Sono stato assegnato in missione in Wutai, per porre fine alla guerra.- lo informò, senza trattenersi dal guardarlo con superiorità e disgusto -Partirò domattina all’alba.-
 
Hollander annuì più volte, freneticamente e confuso.
Ci mise un po’ a riflettere, e quando pose la sua domanda Genesis stava già scuotendo il capo con un sorriso di scherno. Davvero ritardato per essere un ricercatore che aveva dato vita a un esperimento così complesso.
 
-E … io cosa dovrai fare nel frattempo?- chiese infatti, affannandosi ad urlare per paura di non essere udito.
 
Il rosso si fece serio.
 
-S'è vero tutto ciò che ho letto, fa in modo di reperire più materiale possibile … - si fermò, mancando per qualche attimo di coraggio nell’enunciare quell’ultimo, successivo ordine -Per lo scambio genetico … e raggiungimi.-
 
Lo scienziato rimase per qualche istante basito a fissarlo, inquieto.
 
-Ma …- tentò di fargli notare -Sarai ancora più soggetto a …-
-Lo so!- sbottò a quel punto con veemenza Rhapsodos, avvampando di rabbia.
 
Quindi si fermò, chiudendo gli occhi e cercando di placare il respiro affannoso e il mal di testa. Ritornò con la mente ad uno dei versi più belli di Loveless, trattenendo il respiro e rilasciandolo con sempre più calma.
 
-Lo so.- ripeté infine, riaprendo gli occhi e puntandoli freddamente contro lo scienziato che ancora attendeva un suo ultimo ordine, sotto di lui -Ma da adesso in poi sono io che comando, tu limitati a fare quello che ti dico … se vuoi restare vivo.- lo avvisò, aggiungendo poi un veloce e poco certo -So quello che faccio.- prima di scomparire infine in un ultimo, rapido battito d’ali.

///Fine Flashback///

 

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Capitolo 20
*** Always the same lesson ***


Capitolo XIX



///Flashback///

L’elicottero che aiutò Zack a raggiungere nuovamente il continente est da Gongaga lo lasciò proprio vicino alla ferrovia che attraversava il deserto e rientrava nella grande città, Midgar.
Arrivò ch’era già mattino, verso le dieci, con circa un’ora e venti minuti di ritardo, e subito dalla stazione si fiondò su per le scale diretto al quartier generale, dove era sicuro avrebbe dovuto affrontare il rimprovero di Angeal prima di tornare alla quotidiana routine frenetica di SOLDIER.
Aveva avuto molto tempo, durante il viaggio, per pensare a come affrontarlo. Alla fine si era ridotto a sperare che bastasse implorarlo per riuscire ad avere quanto meno uno sconto di pena, e nel momento in cui si ritrovò di nuovo al centro della hall del Quartier Generale si diede un attimo di tempo per riprendere fiato e guardarsi intorno, appoggiando le mani ai fianchi e sospirando ad alta voce.
 
-Ed eccoci qua, sigh … beh, che il cielo me la mandi buona.- concluse, scuotendo le spalle e ricominciando a camminare, facendosi coraggio.
 
Ma a metà strada una voce lo fermò.
 
-Hey Zack! Sei tornato!-
 
Esclamò allegro Kunsel, raggiungendolo sulle scale.
Si voltò a guardarlo, due gradini più su.
 
-Già, eccomi qua!- ribatté lui con un sorriso un po’ teso.
 
L’altro ridacchio osservandolo per bene.
 
-Preoccupato, eh?- chiese -Angeal è di sopra che ti aspetta.- lo informò, senza attendere una risposta.
 
Zack abbassò lo sguardo arrossendo appena, grattandosi con un mano la nuca come faceva quando non sapeva che dire o era troppo imbarazzato o nervoso per farlo.
 
-Ehm … grazie.- quindi fece finta di essersi ripreso e tornò a voltarsi verso la vetta della scalinata -Meglio che vada allora.- concluse, chiudendo a pugno la mano destra e indicando col pollice aperto verso quella direzione con un sorriso allegro.
 
Kunsel rise di nuovo.
 
-Va bene, vai vai. E buona fortuna! - lo raccomandò
 
Zack ridacchiò, quando in realtà avrebbe voluto quasi mettersi a piangere per il nervosismo e lo sconforto.
 
-Grazie!- lo salutò sventolando una mano e poi riprendendo il suo cammino.
 
Mentre l’ascensore saliva controllò un’ultima volta che tutto fosse in ordine nella sua divisa, fece qualche respiro profondo e ripassò un’ultima volta il suo discorso.
Infine trattene il fiato quando le porte fecero per aprirsi, e subito lo rilasciò fiondandosi fuori e attraversando di corsa tutto il corridoio del piano SOLDIER, diretto verso la sala di simulazione.
Angeal lo aspettava a braccia conserte proprio di fronte la porta.
Appena lo scorse, assunse un’espressione severa e attese che fosse abbastanza vicino per ascoltare in silenzio il suo vispo saluto.
 
-Salve, Angeal!- esclamò infatti lui, sbracciandosi affannato.
 
Il first class lo osservò in silenzio ancora per qualche istante, poi chiese severo.
 
-Dove sei stato, Zack?-
 
“Here we go!”
 
-A Gongaga, dai miei.- disse, scuotendo le spalle ed allargando le braccia -Era da un po’ che non li sentivo.- aggiunse poi, abbassando il volto un po’ impicciato -Ci eravamo lasciati … sai, un po’ … di fretta. E avevo delle cose da dirgli, volevo che sapessero che stavo bene …-
 
Angeal sospirò, sciogliendosi e scuotendo il capo mentre annuiva convinto.
 
-D’accordo, d’accordo.- fece, e Fair pensò grato di essersela scampata, ma proprio allora nuovamente il suo maestro tornò a colpire con la fatidica domanda -E Valery? C’era anche quella ragazza con te?-
 
Zack si bloccò a bocca aperta a guardarlo, paralizzato per la sorpresa. Aveva preparato tre diversi discorsi per questo ma … ora che si ritrovava di fronte quegli occhi severi non riuscì più a spiccicare neanche una sola parola.
E si ridusse a far finta di nulla, mentendo spudoratamente e neanche tanto bene.
 
-Chi?- chiese infatti, facendogli eco -Valery?- quindi ridacchio, passandosi di nuovo la mano dietro la nuca e indietreggiando di un passo distogliendo lo sguardo -No, perché avrebbe dovuto?- ridacchiò -Sarà quasi un mese che non la vedo, ormai.-
 
Angeal sospirò appena e annuì ancora, sempre più sospettoso.
 
-Ah, si?- replicò secco, quindi lo incalzò senza pietà -Allora spiegami come mai i turks ti hanno visto assieme a lei proprio il giorno della tua partenza, e hanno anche riferito che probabilmente tu l’hai aiutata a scappare, visto che a quanto pare non si trova più.-
 
Seguì un momento d’imbarazzante silenzio. Zack rimase nuovamente a bocca aperta, balbettando senza sapere cosa dire per qualche istante ancora. Infine cedette sotto il peso dello sguardo del suo mentore e si arrese rattristato, limitandosi a rimanere in silenzio abbassando il volto.
Angeal sospirò di nuovo, spazientito.
 
-Ho ricevuto l’ordine di tenerti d’occhio, Zack.- lo informò, contrariato -Ti avevo detto di stare alla larga da quella ragazza, o sbaglio?-
 
Fair annuì più volte, dispiaciuto.
 
-Si, Angeal. Scusami … - bofonchiò con la coda tra le gambe, poi però rialzò il capo verso di lui e aggiunse, quasi volendo provare a protestare un’ultima volta -E’ che non ma la sentivo di lasciarla da sola! Voglio dire … che cosa ha fatto di così sbagliato per essere trattata come una criminale?- ribadì supplicante.
 
Mentre parlava, nei suoi occhi e nella sua mente continuavano a stare le immagini di quei momenti passati insieme a lei, le sue confessioni e le sue paure, le albe i tramonti, le notti a guardare le stelle stretti mani nelle mani. E i ti voglio bene più dolce che avesse mai sussurrato.
Forse, si disse, era per un motivo ben preciso che Angeal temeva per lui.
Se era vero che quella ragazza proveniva dal futuro, allora anche solo volerle bene come fratello e sorella sarebbe stato uno sbaglio.
Un terribile sbaglio.
Ma … comunque sia meraviglioso.
Hewley osservò senza parlare il volto del suo allievo durante quel momento di muta riflessione, quindi sospirò nuovamente, arreso.
Continuare a tentare di fermarlo con la forza e i rimproveri sarebbe stato inutile. Doveva capire che se voleva diventare un first, doveva imparare a proteggere sé stesso in tutti modi possibili.
 
-Zack …- lo richiamò quindi, più paterno, lasciando scivolare di nuovo le braccia lungo i fianchi e guardandolo dritto negli occhi, con tutta l’aria di stare per pronunciare un’altra della sue famose lezioni di vita -Per diventare un 1st Class non basta la sola forza fisica …- esordì infatti.
 
Non ebbe bisogno di andare avanti però, perché immediatamente Zack ritrovando la sua vitalità si erse davanti a lui, puntando i piedi per terra e stringendo i pugni, con quella caparbietà infantile che era al contempo la sua debolezza più grave e la sua forza più grande.
 
-Proteggerò i miei sogni e il mio onore, Angeal!- replicò -E diventerò un eroe! Te lo garantisco, non ti deluderò.-
 
Il 1st class lo guardò, accennando appena un sorriso fiero sulle labbra.
E Zack sorrise a suo volta, contento.
Niente da fare, quando Angeal era soddisfatto di lui, quello sguardo aveva ogni volta l’effetto di farlo sentire già ciò che ancora non era, un eroe invincibile come Sephiroth.
Sephiroth … già.
Chissà se un giorno avrebbe mai potuto conoscerlo sul serio?
Erano tre anni ormai che si trovava a Midgar, in SOLDIER aveva iniziato a scalare la scala dei gradi ma ancora quel suo particolare sogno, forse il più grande dopo quello di diventare un 1st come lui, non si era realizzato.

Chissà quando sarebbe avvenuto, e come.
Se avrebbe mai potuto vederlo.
Forse quel giorno era ancora lontano o magari, chi poteva saperlo, si stava apprestando ad arrivare con rapidità incalzante.
A dire la verità, pensò con un sorriso, una persona che conosceva il futuro c’era già, ma lui preferiva vivere la sua vita così come gli si presentava, giorno per giorno, senza troppi magoni per ciò che sarebbe accaduto e sperando sempre che la fortuna continuasse a restare dalla sua.
Il bello di vivere in fin dei conti era quello, no?
Si certo, forse conoscendo il suo futuro avrebbe potuto evitare errori e situazioni spiacevoli che oltretutto grazie al suo lavoro da SOLDIER erano sempre costantemente dietro l’angolo, ma … come avrebbe fatto a crescere, così? Dove sarebbe stato a quel punto il divertimento?
Faceva parte del gioco, della sua missione. Del cammino per diventare un eroe.

E lui non voleva che nulla e nessuno, tantomeno la paura di sapere a cosa sarebbe andato incontro, gli facesse perdere di vista quello per cui stava lottando così tanto.
Voleva diventare un SOLDIER e c’era riuscito. Voleva diventare un 1st, e c’era quasi.
Voleva diventare un eroe … bhe, nessuno aveva detto che la strada per farcela era facile, ma lui l’avrebbe percorsa lo stesso senza rammarico.
Era quello il suo prossimo obiettivo, e costi quel che costi lo avrebbe raggiunto senza porsi troppe domande che avrebbero potuto rallentarlo.
Solo prendendo le cose di cuore e petto, e proteggendo i suoi sogni ed il suo onore come Angeal gli aveva insegnato.
Tutto quello che contava di più era soltanto questo.
 
-Bene.- rispose alfine quello, dal canto suo orgoglioso della tenacia che il suo allievo riusciva a tirar fuori ogni volta dalla sua indistruttibile corazza d’ingenuità, spensieratezza e coraggio scellerato tipico della sua età -Allora io sono con te. Andiamo adesso …- concluse quindi, tornando serio -L’allenamento è stato sospeso fin troppo a lungo.-
 
E premuto il pulsante sullo stipite attese che la porta pressurizzata di fronte a sé si aprisse per poi entrare assieme a lui, pronto a metterlo alla prova con una ostica missione di salvataggio che avrebbe testato tutti i suoi progressi in tutte le tecniche apprese fino a quel giorno.
 
\\\
 
Midgar era lo scenario, la zona della stazione e del settore 8.
Dirottare un treno preso in ostaggio da Wutai, uccidere gli invasori e fermare una belva liberata nella piazza della fontana per gettare scompiglio.
C’era riuscito alla perfezione, ma la missione invece di finire aveva avuto una … svolta imprevista, e ora voltatosi si ritrovò con la lama sottile di una spada alla gola.
Trattenne il fiato, sobbalzando per lo spavento
Non era una lama qualunque, era … quella di Sephiroth, che lo rimproverò con superiorità.

-Mostrare le spalle di fronte al tuo nemico.
La presunzione ti ucciderà.-

Lo fissò sconvolto.

Da non credere! L’eroe di SOLDIER era davanti a lui, proprio come aveva sempre sperato, ma non era per nulla piacevole vedersi in posizione svantaggiata con la sua mitica Masamune che minacciava di sgozzarlo.

- Ma c-che ... - bofonchiò scioccato -Che succede?-


Quindi fece appena in tempo a recuperare la spada per rispondere ad un suo attacco che si ritrovò a lama incrociata con quella del SOLDIER dai capelli argentei, che gli lanciò uno sguardo impietoso e un mezzo ghigno soddisfatto.
 
-Maledizione!- mormorò, vacillando sotto il peso di quei muscoli duri e forti anche più dell’acciaio -Tu non sei l’unico eroe …-
 
Ma ovviamente non fece neanche in tempo a dirlo, che con una mossa fulminea Sephiroth lo destabilizzò e lui si ritrovò senza spada, con la schiena a terra, un dolore atroce alla testa e la vita nuovamente in pericolo.
Non riuscì neanche a trovare il tempo per formulare un pensiero. L’eroe di SOLDIER girò la parte tagliente della lama verso la sua gola e fece per calarla, ma proprio quando credette fosse finita qualcosa si frappose fra loro, evitando il peggio.
Riaprì gli occhi, sciogliendo il respiro.
Un’altra lama aveva fermato quella della Masamune dal tagliargli la testa.
La presa di Sephiroth si allentò, questi si fece da parte e Zack Fair sospirò sollevato e sorrise, rialzandosi e guardando il suo salvatore.
 
-Ah.- sospirò stanco -Grazie Angeal.-
 
Hewley gli rivolse uno sguardo come al solito serio e severo, senza lasciar trasparire il sollievo che provava per essere arrivato in tempo. Quindi estrasse il telefono, digitò qualcosa su di esso e in un attimo i contorni della missione, incluse Sephiroth, iniziarono a disgregarsi in mille piccoli pixels, e tutto tornò ad essere normale, che per il 2nd class significava del colore azzurro del visore di realtà aumentata.
 
-Allenamento terminato.- decretò il suo maestro, rinfoderando il telefono in tasca.
 
Lui si esibì in una espressione stupita e anche un po’ delusa.
 
-Cosa?- protestò -Stai scherzando?-
 
Al silenzio che seguì la sua domanda, Fair esclamò ancora più scontento.
 
-Dai, stavo cominciando a scaldarmi!-
 
Ma a quel punto Angeal sorrise, e afferrando ciò che rimaneva della sua spada ordinaria da SOLDIER per il manico gliela porse, ed allora lui poté finalmente comprendere il perché di quella scelta.
La sua povera arma era praticamente stata tranciata in due da quella di Sephiroth. Ovvio che non avrebbe potuto continuare, non a mani nude o solo con la magia contro un avversario di quel livello.
Sospirò rassegnato, grattandosi il capo mentre Angeal si avviava all’uscita.
Ancora una volta, pensò, avrebbe dovuto recuperare quei giorni di allenamento persi con un mese abbondante di missioni ininterrotte, per recuperare il suo smalto.
 
-Zack!-
 
All’improvviso la voce del suo mentore si fece risentire. Si voltò sorpreso, e lo vide ancora fermo sulla porta, volto di spalle ma col capo girato verso la sua direzione.
 
-Uh?-
 
Chiese.
Angeal tacque per qualche istante, poi ripeté, più greve e serio.
 
-Abbraccia i tuoi sogni …- quindi si voltò e con un sorriso spiegò, paziente -Se vuoi essere un eroe, devi avere dei sogni e un onore.-
 
Poi tornò ad avviarsi verso l’ufficio, e mentre lo guardava allontanarsi Zack Fair, 2nd class di appena diciassette anni non poté fare a meno di riflettere su quella frase, chiedendosi forse per la prima vera volta cosa significasse per lui.
Sul serio, perché continuava a ripeterglielo?
Forse perché … evidentemente non ci credeva abbastanza?

///Fine Flashback///



 
 
 
 
 





 
NDA: Salve, eccomi anche stasera con un altro capitolo.
Dunque, brevissimo appunto solo per dirvi che entrambe le scene qui descritte sono solo parzialmente inedite. Difatti i dialoghi finali della prima (quella di Zack e Angeal che discutono di fronte alla sala di simulazione), è presente nei filmati dell’UMD, ma l’unica cosa che si vede è appunto Angeal che dice: “ Per essere un first class non basta la forza fisica.”, e Zack che risponde:” Lo so, ma io proteggerò comunque i miei sogni.”
E finisce con Angeal che conclude dicendo: “Io sono con te, allora.”
Il resto è tutto farina del mio sacco, quindi. E con la presenza di Valery questa assume anche un significato e una motivazione emozionale diversa <3
Per quanto riguarda la seconda scena invece … credo che vi sia facile capri di quale stiamo parlando. Ebbene si, Crisis Core è iniziato e Valery c’è in mezzo.
A domani con un capitolo un po’ diverso dai soliti, ma comunque molto dolce :3
Bye, e buona serata a voi tutti ^^


PS. Il mio Zaccucciolo, com'è Kawaiii così piccolino e carino, awwwwwww :3
Ah, questo nuovo tuffo nel passato mi ha fatto sentire la mancanza di Gen e quindi ho ricominciato a giocare a Crisis Core, per la ennesima volta. Niente, era tanto per sclerare con qualcuno che mi capisce, dovevo dirlo a qualcuno :3

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Capitolo 21
*** Strade ***


Capitolo XX


Allora, per cosa potrebbe combattere un angelo, Zack?
Cosa sognano gli angeli?!
Loro sognano una cosa soltanto … diventare umani.
 
-Angeal Hewley-

///Flashback///

Wutai.
Un piccolo continente sano e pacifico coinvolto in una guerra per l'avidità di una singola persona. Un'isola dispersa nel mare, un territorio fertile dove poter riposare e fiorire, un posto dove la gente aveva imparato ad amare e rispettare il continuo evolversi delle cose, la sacralità della vita e dei legami familiari, l'importanza di una coscienza onesta e pura e di un nome saldo, per poi assistere in un solo attimo alla fine di tutto da parte di strane belve simili a loro che dicevano di essere umani, parlavano con un accento strano e volevano portare la civiltà con la forza li, dove in realtà nessuno ne avrebbe mai avuto la necessità e neanche avvertito il bisogno.
Wutai, una terra in ribellione, disposta a tutto pur di difendere sé stessa dagli invasori e proteggere il tesoro di biodiversità che madre natura le aveva donato.
Quella, pensò Genesis Rhapsodos non appena riuscì a mettere piede sul suolo "nemico", era la terra di partenza perfetta per il suo nuovo inizio.
Non poteva esserci scenario migliore per la sua rinascita a portatore di verità e vendetta, di quella terra che con caparbietà e coraggio continuava ad ostinarsi a lottare contro la Shinra, un nemico molto più grande e avido delle sue possibilità.
Stavano morendo in molti, sui campi di battaglia. Eppure nessuno di loro si tirava mai indietro. Anzi, fino all'ultimo respiro continuavano ad opporsi per la salvezza della loro terra contro gli avidi speculatori sanguisughe di Mako, senza arretrare, temere o vacillare.
Diritti verso il proprio destino, uniti da un obiettivo comune: Proteggere la propria madre terra.
Li ammirava. E di sicuro se ci fosse stato Angeal avrebbe trovato di avere molto in comune con loro, e sarebbe stato onorato di battersi contro avversari simili.
Angeal ... per tutta la durata del viaggio continuò a pensarlo, ignorando le chiamati e sentendo intorno al cuore una morsa dolorosa al solo pensiero di doverlo lasciare così, senza una spiegazione.
Ma si consolò iniziando a cercare di trovare le parole giuste per rivelargli la verità e, poco prima che l'elicottero riuscisse ad atterrare, dando inizio alla sua diabolica operazione.
Non fu affatto difficile in realtà.
Aveva già programmato ogni cosa nei minimi dettagli, e dirottare il velivolo fu davvero uno scherzo quando il secondo pilota accedette allo scompartimento passeggeri e lo trovò colmo di sangue e cadaveri di 2nd e 3rd, alcuni di essi agonizzanti e con gli occhi pieni di terrore.
Lo stesso che si dipinse nei suoi occhi subito dopo, quando facendo per correre indietro a riferire si ritrovò davanti la lama della sua Rapier sporca di sangue e puntata contro la sua gola.
Genesis ghignò nell'osservare quanto fosse alta al tensione in quello che in fondo non era che un ragazzo, talmente tanto da ammutolirlo e spingerlo a tremare forte.

-Dove hai intenzione di andare?- lo apostrofò divertito.
-Pietà!- sussurrò quello in risposta, implorando per la sua vita.

In un'altra situazione lo avrebbe anche ascoltato forse, risparmiandolo.
Ma stava per iniziare una guerra, servivano soldati per il suo personale esercito e ad Hollander servivano cavie da ... trasformare.
Neanche lo ascoltò dunque, esibendosi in un ultimo ghigno per poi trafiggerlo al ventre e lasciando ricadere anche lui come gli altri sul pavimento ormai colmo della piccola stanza.
Non perse tempo ad ascoltare i rimorsi della sua coscienza, atroci. Un mostro non ne aveva alcun bisogno, quindi si diresse in cabina di comando e prese alle spalle il pilota che ignaro continuava a guidare senza essersi accorto di nulla.
Lo immobilizzò passando un braccio attorno al suo collo e minacciandolo con la sua lama come aveva fatto con gli altri.

-Tieni le mani sul volante e continua a guidare. Inverti la rotta.- ordinò.

Quello non si mosse, continuando a tremare, anche lui troppo terrorizzato per riuscire a dire o fare nulla.
Allora il 1st class strinse di più la presa, avvicinando di più la bocca al suo orecchio destro e ripetendo, più rabbioso e serpentino.

-Mi hai sentito? Inverti la rotta, ora comando io qui. Solo io.- sottolineò.

Finalmente quello si mosse, tornò a stringere con più convinzione la consolle e riprendendo in mano il velivolo chiese, balbettante.

- D-dove andiamo, a-allora?-

A quel punto, sapendo di averlo convinto, Genesis fremette e ghignò, staccandosi e lasciandolo libero, per poi puntare i suoi occhi verso il cielo azzurro sconfinato oltre il vetro della facciata anteriore.
Si fece serio, strinse i pugni e comandò, scuro.

-Banora.- lasciando che all'improvviso il suo sguardo si perdesse nei ricordi, vacuo, nostalgico e atono -torniamo a casa ...- bofonchiò in aggiunta.

Quindi tornò in sé, riacquistò il suo appena ghigno altero e famelico e rialzò la schiena, andandosi a sedere a gambe incrociate sulla sedia del povero secondo pilota con la Rapier macchiata di sangue ben in mostra, voltandosi verso il suo interlocutore e rivolgendogli infine un sorriso soave mentre concludeva calmo.

-Sappilo, ho studiato attentamente le mappe e se tenti di cambiare rotta me ne accorgerò. Perciò sii buono e obbedisci, va bene?-

E a quello, terrificato, non restò che annuire e rassegnarsi alla sua nuova posizione di ostaggio obbediente.
 
\\\
 
L’elicottero raggiunse la sua nuova destinazione circa tre giorni e mezzo dopo, e per volere del suo nuovo comandante planò sul villaggio proprio di fronte alla grande casa rossa dei signori Rhapsodos, i più ricchi abitanti.
Genesis ordinò al suo ostaggio di non spegnere i motori e attendere che lui fosse sceso per andare ad atterrare vicino alla fabbrica, sulla collina. Lo aveva ferito, per assicurarsi che non potesse andare tanto lontano in caso di fuga, perciò con un sorriso lo informò.
 
-Il professor Hollander ti sta già aspettando, lui potrà guarirti se lo vuoi, e poi …- il ghigno sulle sue labbra si accentuò –Potrai tornartene tranquillamente a casa.-
 
Quello, pallido e stanco, annuì senza capirci molto, stordito e sfiancato dallo sforzo e a causa del veleno che dalla lama dello stocco magico era entrato in circolo quando era stato colpito al fianco.
Ormai non aveva neanche più la forza di reggersi in piedi, perciò nonostante la gentilezza del suo aguzzino la convinzione che non sarebbe mai più tornato indietro si era fatta strada già da un po’ nella sua mente. La sua vita da SOLDIER era finita ancora prima di cominciare, sfortunatamente per lui.
Dal conto suo, il 1st class si preparò alla battaglia, affacciandosi al portellone e chiamando a gran voce i suoi genitori, fingendosi allegro.
 
-Mamma! Papà!- urlò per sovrastare il rumore delle pale elettriche –Sono Genesis! Sono tornato!-
 
“E avrò le mie risposte, che vogliate darmele o no.”
La prima ad uscire fuori, sconvolta e sorpresa di vederlo fu sua madre, una donna sulla quarantina dalla bellezza matura, travolgente, e ancora nel pieno del suo fiorire. Vestiva con un abito di fattura pregiata, di pizzo e broccato, portava i lunghi capelli mossi e rossi legati sopra la nuca in uno chignon ribelle, e ai piedi calzava un paio di stivaletti di robusto cuoio, marroncini.
Uscì dalla porta di casa e lo guardò parandosi gli occhi con una mano, quasi incredula.
 
-Genesis!- esclamò subito dopo, avanzando di appena qualche passo per evitare di urlare fino a sgolarsi.
-Che ci fai qui?- chiese allora suo padre prevenendola, spuntato dietro di lei.
 
Il rosso gli rivolse un lungo e intenso sguardo serio, osservandolo.
Alto, spalle larghe, magro e muscoloso. Era un uomo di qualche anno più grande di lei bello e abile negli affari, che non aveva mai lasciato libero sfogo ai propri sentimenti neanche davanti a suo figlio. Un uomo tutto d’un pezzo, come si soleva dire in questi casi, con i capelli brizzolati sempre tirati all’indietro e pregni di gel e i glaciali occhi azzurri puntanti oltre i loro, ai suoi prossimi progetti, alla sua prossima mossa.
La furbizia non gli mancava di certo, e ora anche lui, che nonostante tutto lo aveva sempre ammirato per questo, lo sapeva bene. E sapeva il perché … di molte cose che riguardavano il loro rapporto.
Sorrise, con una strana e nuova luce impaziente e torva negli occhi. Quindi con un salto agile scese dal portellone ed ordinò al soldato che vi era al comando di partire, mentre lui si avviava verso di loro, fino ad essere faccia a faccia coi loro occhi.
Si guardarono, nel poco tempo che intercorse fino a che il rumore dell’elicottero non svanì del tutto, lasciando posto di nuovo al silenzio della natura intorno a loro.
E lui sentì di nuovo il cuore spezzarglisi in petto, e quella rabbia cupa impossessarsi di nuovo di lui. Strinse forte i pugni, tentando di nasconderli dietro i lembi del soprabito.
“I miei genitori …” pensò soltanto.
Già …
La sua famiglia. Quanto li aveva amati.
E quanto ancora lo faceva, nonostante tutto …
Nonostante ora la loro maschera fosse caduta rompendosi miseramente a terra in mille pezzi, e ora apparissero per quello che erano davvero. Due avidi bugiardi.
Eppure … gli occhi di quel bambino che continuava a rimanere in lui non riuscivano proprio a staccarsi dall’immagine fasulla che per tutto quel tempo avevano guardato, ingenui e ingannati.

-Non dovresti essere qui.- lo apostrofò a quel punto suo padre, severo, rompendo il silenzio –E’ successo qualcosa?- chiese quindi, stringendo preoccupato la mano di sua moglie.
 
Li guardò arretrare impercettibilmente, e il dolore si acuì. Ma fece finta di nulla, tornando a sorridere e a fingere come oramai era diventato maestro nel fare.
 
-Entriamo?- chiese semplicemente.
-No.- fu la risposta secca dell’uomo, mentre la donna continuò a tacere ed osservarlo sempre più preoccupata –Non se prima non ci dici cosa sta succedendo? Ci sei solo tu?-
 
Il sorriso si trasformò in un ghigno, divertito e triste al contempo.
Li guardò entrambi, in silenzio per qualche istante.
 
-Perché, vi spiace?- chiese, poi senza aspettare una risposta aggiunse, calmo –Vi spiegherò tutto non appena saremo dentro. Fa un caldo infernale oggi.- concluse, guardandosi intorno e poi superandoli, ed accedendo senza chiedere ulteriori permessi a quella che, in fondo, era sempre stata anche casa sua.
 
Una casa di serpi, certo. Ma pur sempre tutto ciò per cui aveva sempre vissuto.
 
\\\
 
Tre ore dopo …
 
Nella fabbrica era tutto pronto, o quasi.
Hollander stava finendo di sistemare gli ultimi schemi al computer quando i passi lenti degli stivali dell’ex SOLDIER 1st class risuonarono nella stanza, inducendolo ad alzare il volto.
Lì per lì non si accorse neppure del suo sguardo sconvolto, degli occhi lucidi pieni di lacrime e talmente atoni da risultare quasi privi di espressione, assenti. Era troppo impegnato a gioire dei suoi successi.
 
-Ah, sei qui.-  esordì, staccandosi dal pc e raggiungendolo –Ho programmato i macchinari, non è stato difficile montarli. È tutto pronto al piano di sopra, quando vuoi.-
 
Poi però l’assenza di attenzione e risposte lo indusse a chiedersi cosa ci fosse che non andava, e quando guardò verso le sue mani guantate le vide macchiate di un liquido viscido e rosso cremisi scurissimo, e osservò inquieto qualche goccia di esso scivolare lentamente verso il basso per poi andare rapida a schiantarsi sulle assi in legno del pavimento.
 
-Sei ferito?- chiese, più preoccupato per la sua ricerca che per il suo effettivo stato di salute.
 
Fino a che non sarebbero riusciti a portare dalla loro parte anche Angeal, Genesis rimaneva l’unico campione ancora in suo possesso.
Il rosso chiuse gli occhi, accenno ad un sorriso impercettibile, e piano scosse il capo, più volte, senza fiatare.
Quindi respirò profondamente, si aggrappò alla sua sola speranza ancora rimastagli e al desiderio di vendetta che ora più che mai divampava dentro di lui come un fuoco inarrestabile, e riaperti gli occhi li puntò dritti davanti a sé, riprendendo a camminare.
 
-Iniziamo allora.- concluse, col suo solito tono deciso, ascoltando i passi di quel maiale grasso che era stato costretto a portarsi dietro raggiungerlo, e ingoiando ancora sempre più con fatica un altro groppo di lacrime.
 
Niente più famiglia, niente più umanità, niente più esitazione.
I mostri non erano in grado di trattenere a sé nulla di tutto questo, non ne erano degni. Stava soltanto … lui stava solo facendo ciò ch’era nella sua natura.
Almeno fino a quando la dea non avrebbe deciso di accoglierlo tra le sue braccia e regalargli una nuova vita e un nuovo scopo, trasformandolo in ciò che aveva sempre sognato di essere.
Semplicemente un uomo.


///Fine flashback///


 
***
 
Mittente: 01551367894
Destinatario: Zack <3
23/04
Ore 21.15
 
Ciao Fratellino, come stai?
Come te la stai passando a Midgar, con gli allenamenti, le missioni e tutto il resto?
Lo so che sono trascorsi solo due giorni da quando sei partito, e i tuoi genitori sono così buoni con me che mi verrebbe davvero così facile non sentire la tua mancanza, ma non è così.

Affatto.
Ma che gli hai detto, eheh? Forse pensano che io sia davvero tua sorella in qualche modo.
Mh, pensandoci bene no, non credo che lo pensino perché altrimenti non so se riuscirebbero ad usare la stessa gentilezza.
Tua madre è una cuoca splendida, sa cucire e conosce molte più cose di quante mi sarei aspettata, è una donna di grande cultura, davvero! Ed è davvero tanto piacevole parlare con lei.
Tuo padre invece mi fa ridere col suo adorabile senso dell’umorismo, siete così simili! E anche lui è un pozzo senza fondo di consigli.

Sto proprio bene qui, Zack. Davvero.
Grazie per avermici portato, non mi sentivo così in pace da molto tempo, e l’aria di campagna mi piace da matti. Sai, sono una ragazza di campagna anche io.
Di giorno aiuto tua madre con le faccende domestiche e verso sera faccio un giro nei dintorni. La natura è splendida qui.
Ma … mi manchi così tanto!
Continuo a pensare alla promessa che mi hai fatto … che non ti saresti mai dimenticato di me.
E mi chiedo con sempre maggior angoscia se sarai riuscito a mantenerla.
La notte non chiudo occhio, distesa nel tuo letto con gli occhi puntanti contro il soffitto e il fiato corto per colpa della paura.
Sigh …
Ma non volevo parlarti di questo, scusa. Scusami tanto, davvero. È che mi manchi da morire, mi mancano le nostre passeggiate e i nostri discorsi, i nostri abbracci.
Volevo spedirti una lettera ma non ero sicura che ti sarebbe arrivata, con gli sms invece vado sul sicuro e posso star certa che riuscirai a leggermi.
Immagino tu abbia molto da fare, spero che Angeal non abbia fatto storie per colpa della mia fuga. Scusami ancora, anche per questo.
Ora ti lascio, non mi va di tediarti.
Buona notte, fratellino.

Ti voglio bene. Tanto … anche troppo forse …
 
Valery
 
Mittente: 2nd class Zack Fair
Destinatario: Sorellina <3
23/04
Ore 00.47
 
Heilà, ciao sorellina! :D
Scusami tu se non ho potuto risponderti prima, ma sono stato parecchio impegnato.
Angeal mi sta mettendo sotto con gli allenamenti, dice che ho bisogno di affinare il mio istinto, la mia concentrazione e la mia tecnica, altrimenti potrei essere vulnerabile a molti attacchi, soprattutto quelli di sorpresa.
E lo sai? Mi sa che ha ragione, dannato.
Non c’è niente da fare, per quanto mi sforzi non riesco proprio a ricordarmi che quando una battaglia è finita non è mai detto che lo sia davvero.
Due giorni fa, al mio primo allenamento, stavo quasi rischiando di finire decapitato per colpa della mia fretta, meno male che c’era Angeal a guardarmi le spalle!
Sono felice che tu stia bene, comunque. Sul serio? Vieni anche tu da un villaggio? Eheh, ora capisco molte cose, allora ;)
Goditi Gongaga anche per me, sigh, io vorrei poterlo fare un po’ di più, ma non si sa mai, il direttore in uno slancio di generosità potrebbe decidere di concedermi qualche altro giorno di ferie (anche se la vedo dura). Ma ti raccomando, non andartene in giro di notte da sola, la selva è piena di animali selvatici viscidi e pericolosi, anche se sono convinto sapresti stenderli comunque anche senza il mio aiuto.
Sei una forza tu eheh.
Ma cosa dici, come posso averti dimenticata?
Anche tu mi manchi tanto, quando sono solo nella mia camerata ripenso a quello che ci siamo detti e alle nostre passeggiate sotto la luna, e riesco a sentirmi un po’ meno stanco e solo.
E’ dura la vita del soldato, ragazzi!
Lo sai, mi sento più tranquillo sapendo che ci sei tu assieme ai miei, così oltre che sapere come te la passi posso anche scriverti per chiederti qualcosa di loro. Mi mancano tanto …
Aaah, beata tecnologia!
A proposito, stamane ho visto Tseng e gli altri turks.
Sai, credo di non essergli molto simpatico eheheh.
Ma chi se ne importa! L’importante è sapere che tu sei al sicuro e che stai bene.
Spero di riuscire a ottenere al più presto qualche altro permesso, anche se non sarà facile ma ci proverò. Mi farò in quattro pur di riuscire a tornare da te, promesso!
Ora chiudo, sono distrutto.
Angeal non mi da tregua, però dai, devo ammettere che me lo merito ;)
Buona notte piccolina, vorrei essere lì con te per abbracciarti ma per ora mi devo accontentare di un semplice bacio virtuale, anzi tre  :* :* :*
E pure quattro e cinque :* :*
Eheh, a presto.
 
Zack.
 
 ---------------------------------------------------------------
 
Hey Zack,
 
Tra meno di tre settimane compirai diciotto anni, e tua madre non fa che ripetere ch’è un traguardo importante, ed io le rispondo che è solo il primo di una lunghissima serie :)
Credi che riuscirai a venire a festeggiare con noi? Tuo padre ne sarebbe così contento …
Ieri sera a cena abbiamo parlato di te. Sai Zack, quando parlano di te i tuoi hanno gli occhi che brillano di orgoglio.
Stai inseguendo un tuo sogno e lo stai facendo con perseveranza e costanza.
Anche io sono fiera di te.
Però … non faccio che ripensare a quello che … che … avrei dovuto dirti.
Fratellino mio, non sono mai stata una ragazza coraggiosa ma … niente, scusa.
Scusami tanto, ecco che ricomincio a fare la melodrammatica.
Lascia perdere e divertiti alla tua festa, anche se non tornerai qui ^_^ :*
Ah, a proposito, hai notizie di Genesis?
Sono … sono in pensiero per come ci siamo lasciati, tutto qui.
Un grosso e soffocante abbraccio.
 
Valery.
 
Ciao sorellina,
 
Eheh, hei, hei, hei!! Non stringere troppo, che mi fai male! :P X)
Mhhh, non credo che sarò lì a festeggiare con voi, purtroppo.
Qui alla Shinra le cose si sono stranamente fatte più dure, nessuno sembra volermi dare fiducia, Angeal non fa che stressarmi con gli allenamenti e da qualche settimana sembro non esistere per nessuno.
Il reparto SOLDIER si è svuotato, comunque, io vorrei aiutare ma … nulla. Nulla di nulla, solo allenamento sfiancante e niente riposo. E sto cominciando a stancarmi, uffffff!
Ma non guastiamoci ancora di più l’umore pensando a queste cose.
Mi fa sempre piacere vedere il tuo nome in un messaggio della mia casella di posta :) ;)
Piccola, so che provieni dal futuro e che sai molte cose. Ti credo.
Ma qualsiasi cosa tu sappia, non essere mai triste. Amica mia, qualsiasi cosa accada non preoccuparti per me, e vivi come se fosse la prima volta.
Lo so che forse è difficile, ma cerca di non pensarci.
Non sai quanto mi rincuora saperti felice, sapere che sorridi e che … che con me stai bene.
Mi basta questo per non pensare al futuro che mi si prospetta davanti.
Forse è stato qualcuno, magari un Dio, a mandarti qui.
Per me sei come il regalo più bello che io abbia mai ricevuto …
Ma non voglio farti piangere, adesso, okkey?
Non ho notizie di Genesis, per il momento, ma ti prometto che cercherò di scoprire qualcosa e appena posso fartelo sapere.
Tu nel frattempo … non smettere di scrivermi, ti raccomando.
Ogni giorno, come stai facendo adesso. Ho bisogno di sentirti … più di quanto tu creda.
Ti voglio un mondo di bene.
 
Zack
 
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Ciao sorellina,
 
Come stai? Io non molto bene, a dirla tutta.
Scusami se non mi sono fatto sentire, è che … ho una notizia bella e una brutta da darti.
Quale vuoi per prima?
 
 
 
Hey, Zack! :D
 
Ciao, com’è andata la missione assieme ad Angeal? Stavo cominciando a preoccuparmi!
È vero che la guerra tra la Shinra e Wutai è finita?
Brutte notizie? :O
Mmmh non so, fai un po’ tu. Dai, dimmi la bella così mi preparo nel frattempo per la brutta.
Spero … non sia nulla di grave …
 
 
 
Okkey, Valery.
Mhhh, non so proprio se sia o meno grave, piccola.
Comunque la bella notizia è che finalmente Lazard sembra essersi accorto di me. Sono stato assegnato assieme a Tseng in una missione di recupero che a quanto pare prima di me era stata proposta a Sephiroth. Inoltre si, la guerra è finita ma …
Ecco, questo è il momento della cattiva notizia.
Sigh …
Angeal è sparito assieme a Genesis, che ha disertato, o almeno questo è quello che sono riuscito a sapere, portandosi dietro alcuni 3rd e 2nd.
Non so che pensare, Valery …
Stavo combattendo al fianco di Angeal, in Wutai, quando è scomparso. All’improvviso non l’ho più visto.
Sephiroth dice che … che anche lui si è unito a Genesis, ma … io non ci credo … non voglio crederci!
Non è possibile che Angeal abbia potuto fare una cosa simile, tradire la compagnia e me, lasciarmi qui, da solo … senza darmi nessuna spiegazione.
No, non può essere. Deve essere successo qualcosa di grave, davvero grave. Penso che tutti si stiano sbagliando a giudicarlo così!
Valery … tu mi credi?
Io … sono sconvolto, e ora più di prima vorrei averti accanto.

Sono sicuro che ci sia una spiegazione logica a tutto questo …
Deve esserci!
...
Ora più che mai spero di riabbracciarti presto, anche se non so se potrò avere ancora la possibilità di lasciare Midgar.
Mi manchi da morire sorellina.
Risolverò tutto, e non appena sarà tutto finito te lo giuro che verrò da te.
Ti abbraccio forte, ora devo andare. Cercherò di chiamarti non appena avrò capito meglio la faccenda.
Ciao sorellina, a presto (spero).
 
Zack
 

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Capitolo 22
*** Il dono della Dea ***


 
Ave Maria
Perdonami
Non so che ho fatto ma tu

Tu lo sai …
 
 “Minerva, splendente eternità.
Signora del Cielo e Regina della Terra, personificazione della saggezza, dea dell’intelletto e delle arti.
Protettrice dei deboli e comandante suprema di un esercito volenteroso che combatte solo guerre di giustizia, Musa di tutti coloro che gemono sull’onda di un respiro ascoltando il dolore del mondo, e combattono alla ricerca di un qualche tipo di pace, ricompensa per aver sopportato tutto quel dolore.
 
Ave Maria
Questa terra è una terra straniera.
 
Io non ti conosco molto, non so bene chi tu sia davvero, nè quale sia il tuo vero scopo, ma so che se c’è qualcuno qui, una qualche divinità benevola che ascolti le preghiere degli afflitti e sia pronta ad esaudire quelli dei cuori puri e degli uomini di fede, allora quella … sei tu, e per questo è a te che mi rivolgo, adesso.
Sola, sconosciuta, disperata e dispersa in terra straniera.
 
Ave Maria
Io sono sola
Se sei madre e conosci il dolore
Qui c’è la tua bambina.”

Ti parlo con la stessa intensità d’animo con cui lo facevo col Dio nel quale credevo e credo ancora, nel mio mondo, rimettendo a te tutto il mio cuore, senza remore, timori o titubanze.
È troppo importante per me ciò che ho da dirti, perché il dubbio e la paura possano fermarmi.
Ascoltami, oh Dea potente, risplendente e luminosa di gloria e di vita, e voglia tu benedirmi.
Esaudisci la mia supplica sentita!
Tu sai, oh Onniveggente, conosci bene ogni cosa di questa tua terra.
La sua storia, sin dai suoi albori, e quella di ogni singolo abitante che dal lifestream ha viaggiato il suo viaggio terreno fino a tornarvi, più ricco e forte di quando lo aveva lasciato, e donare quella sua forza a nuova vita in un ciclo perfetto e infinito.
Tu, oh Magnanima, stupenda creatura, conosci bene la via del giudizio e anche quella del male, in tutte le sue forme e sfumature. E sai che mai, neanche una volta, il nero è stato soltanto nero e il bianco solo bianco.
Tu che doni la vita e regali agli uomini il dono della poesia.
Tu, oh Clemente, sai bene molto più di chiunque altro quale siano i sentimenti che attraversano il suo fragile animo, a volte rianimandolo, restituendogli nuova forma e nuova vita, e altre lacerandolo, quasi fino ad ucciderlo.
L’essere umani … è la cosa più difficile al mondo.
 
Ave Maria
Questo è un mondo di pazzi e non l’amo.
 
Umani … piccoli, microscopici di fronte a creature alte come gli dei.
Meschini, vigliacchi, erranti.
Eppure … forti, intensi nelle nostre emozioni, capaci di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, intensamente e fino in fondo, fino al limite della passione, cogliendone ogni più piccola sfumatura di colore e trasformandola in poemi, dipinti, romanzi e canzoni …
Umani …
Forse siamo fragili, si.
E a volte possiamo abbassarci fino a far rabbrividire le belve più feroci.
Ma ad un certo punto della nostra vita finiremo sempre per tornare indietro, a chiedere perdono e comprensione, una guida per lasciare in pace il mondo e ciò che siamo stati, nel bene e nel male.
Noi … siamo fatti così, Mia Signora. È un nostro pregio secondo alcuni, e un difetto imperdonabile per altri.
Ma è il nostro essere, inevitabile.
È tutto quello che abbiamo, e voi … voi, alla fine, non avete che noi, che dedichiamo a voi la nostra esistenza, vi parliamo interrompendo il vostro silenzio e la vostra solitudine eterna, accendiamo la vostra curiosità e consegniamo sognanti le vostre gesta al mondo, alle menti dei vostri sudditi.
È quello che anche io ho sempre fatto, oh divina creatrice, senza aspettarmi quasi nulla in cambio se non pace e felicità, in salute.
 
Ave Maria
Parlo a te come amica pagana …
 
Fino a che qualcosa o qualcuno non mi ha trascinato qui, dissolvendo come neve al sole le mie certezza e smarrendomi poi senza cura subito dopo.
Eppure, nonostante tutto, io non voglio ancora arrendermi, non fino a che so che le mie preghiere verranno almeno ascoltate.
 
Ave Maria
Io amo un uomo …

 
C’è un uomo, mia Dea, un giovane uomo a te devoto dalla fede incrollabile e dal coraggio indomito.
Bello come un sovrano e ardente come il sole di mezzogiorno, profondo e tormentato come un mare in tempesta e limpido, cristallino e puro come … come l’acqua di una sorgente, come il lifestream che sgorga da una fontana in una grotta.
È questo uomo, Mia Signora, la ragione per cui la mia fede in te esiste, il motivo per cui sicuramente sono qui e non mi do per vinta.
Si chiama Genesis Rhapsodos, è nato in mezzo a colline in fiore e alberi di melo e cresciuto tra amicizie solide come la roccia e lussi vani, e battaglie, conservando dentro di sé lo spirito di un principe e quello di un giullare.
Egli … è l’uomo che amo, ora e per sempre e nonostante tutto.
E adesso, oh eterea bellezza e indomabile forza d'una natura incontaminata e incontrollabile … adesso ha bisogno del tuo aiuto.
Ha davvero … davvero urgente bisogno di vedere la tua grazia, prima che sia troppo tardi e che ciò che resta della sua splendida curiosità, del suo candido essere, sia irrimediabilmente soffocato da una storia atroce, più grande di lui e di quanto il suo animo inquieto può sopportare.
Lui così dolce, sensibile e grande! Lui così incline alla poesia e al melodramma, così attento alla dolceamara bellezza di questo mondo in lento declino, così perspicace, luminoso e innocente.
Ora …
Sta urlando, mia Signora. Sta gridando di dolore ma in silenzio, senza voler disturbare.
 
Tu proteggilo come io l’amo.
 
Devastato, consumato, lentamente tramutato da quella assurda verità, spregevole maschera del peggio della mente umana.
Ha bisogno di te, Dea di luce, divina essenza di giustizia.
Di te e del tuo conforto.
Perciò io ti prego e in ginocchio ti chiedo, anzi no, t’imploro, mi umilio: In qualunque modo, con qualunque mezzo, a qualunque costo … curalo, per favore.
Confortalo, beatitudine immortale, ammansisci e spalma di balsamo il suo animo straziato da questa storia, e cura la sua umanità, reinventala, restaurala, e … fagli capire che mai, mai e poi mai … lui non l’ha mai persa.
Anzi, adesso … lui, coi suoi occhi da bambino cresciuto troppo in fretta e la sua voce soave, con quelle nuove ali … per volare più in alto che mai.
Può arrivare fino a te, fino al cielo. Raggiungerti e stringere le tue mani,
Io lo so, lo farà.
So che lo farà un giorno, realizzando il suo sogno.
Ma … prima di allora, ti prego, allevia le sue sofferenze.
Risparmialo se puoi, ti supplico, perché è il mio tutto e se lui muore muoio anche io, se soffre anche io gemo, e s’è felice dentro me io esulto in festa e giubilo.
E soprattutto perché è innocente e tu, se sei davvero ciò di cui ti sei designata, protettrice delle guerre giuste, dei deboli e dei poeti … non puoi lasciarlo andare così, senza far nulla.
Consumato dalla sua tragedia.
Perché altrimenti … c’è una sottile linea di confine oltre al quale il melodramma diventa orrore e delitto, e con quale altera presunzione continueresti a usare quei titoli altisonanti mentre rinneghi e denigri la tua stessa divinità, oltrepassando quel confine?
Ma se non lo farai, oh splendente Dea, io te lo giuro che farò di tutto per ringraziarti.
Ascolta questi nostri gemiti, i nostri miserabili animi in pena, ed io ti giuro che ti ripagherò con la mia stessa vita, offrendola a lui e a te per tutti quelli che gemono e urlano di rabbia, di paura e dolore.
Sarò la loro salvezza, se tu sarai la sua.
E molte meno preghiere giungeranno a disturbare il tuo silenzio e il tuo sonno, lasciandoti libera di continuare a riposare nella tua lucente e inarrivabile bellezza e divinità.
 
Lo prego, con tutto il mio cuore, e così sia.
Fino al mio ultimo respiro.”
 
Ave Maria …
 
 
\\\
 
Più la luce del mattino avanza, più le tenebre calano sui nostri cuori e sul nostro futuro.
 
-Romeo e Giulietta (Sheakspear)-
 
Era sempre lo stesso incubo, da quel giorno in montagna assieme a mia madre e mio padre, uno degli ultimi.
Avevano sette anni o qualcosa di più, ero curiosa e non riuscivo a star ferma senza esplorare quando mi trovavo in mezzo alla natura.
Quel giorno loro si erano allontanati un attimo dalla macchina per andare a far scorta di acqua pura da una sorgente vicina e io ero rimasta sola in macchina ad aspettarli, addormentata come un sasso sul sedile posteriore.
Mi svegliai proprio nel momento in cui udii mio padre chiedere a mia madre se non fosse il caso di portarmi con loro, ma lei gli disse che la fontana era solo a pochi metri e che comunque se mi fossi svegliata avrei potuto scendere dalla macchina e vederli.
Mi svegliai e mettendomi a sedere li osservai allontanarsi, con i manici dei portabottiglie pieni di bottiglie di plastica vuote stretti tra le mani.
Ma invece di raggiungerli ebbi la malsana idea di scendere oltre il ciglio della strada, in una sorta di palude recintata da un sottile filo elettrico a bassa tensione che serviva a mantenere dentro i confini le mucche che di solito pascolavano liberamente lì, ma che quel giorno non erano presenti.
Non ce n’era neanche una, e io volevo raggiungere il lago, che splendido si espandeva a perdita d’occhio all’orizzonte.
Mi sembrava un po’ lontano, ma nulla che in fondo non si potesse attraversare nel giro di qualche minuto.
Mera illusione, e in breve quel luogo mi apparve come un pericoloso miraggio nel deserto mentre mi accorsi di non riuscire più ad avanzare né avanti e né indietro nella melma, ch’era arrivata a raggiungermi le ginocchia e a quel punto avrebbe potuto nascondere di tutto, anche serpi velenose.
Rimasi immobilizzata per qualche istante, paralizzata dal terrore. Ogni cosa adesso mi sembrava un pericolo imminente, e il mio cuore iniziò a battere all’impazzata mentre presi a maledirmi. Non piansi nè urlai, come avrei voluto fare e come forse sarebbe stato anche normale per una bambina di quell’età.
Non volevo far preoccupare i miei, le cui voci tornavano a farsi sempre più vicine.
Così, sfidando la paura e tremando come una foglia mi voltai, incespicando in quelle assurde sabbie mobili melmose, e con fatica riuscii a ritrovare una via d’uscita.
Rimaneva solo un ostacolo: Il punto in cui ero tornata era più alto di quello da cui ero scesa, ed io mi resi conto d’iniziare a sprofondare sempre più senza riuscire ad arrampicarmi e tornare su.
Mio padre si accorse che non ero in macchina, iniziò a chiamarmi preoccupato.
Gli risposi quasi urlando, e fortunatamente lui accorse in mio aiuto, allungandomi un braccio e tirandomi su.
Mi strinse forte, mi mostrai sorridente e sollevata, e dopo aver appurato che non avevo riportato graffi o ferite e avermi sgridato bonariamente salimmo in macchina diretti verso casa, ed io mi riaddormentai sul sedile di dietro, con gli stivali sporchi di fango fino all’orlo il corpo stanco e spossato per colpa di quella troppa adrenalina ch’era restata in circolo per così tanto tempo.
Un’esperienza da non ripetere ma finita bene, per fortuna.
Eppure da quel momento in poi quel miraggio paludoso non fece che ripresentarsi nei miei sogni come simbolo di paure e insicurezze, ogni volta che una situazione incontrollata di cui avevo paura si ripresentava nella mia vita.
Incontrollata e terrificante, come il ritrovarsi improvvisamente sola e lontano da casa in un mondo come Gaia, malato e sottomesso.
Quale migliore situazione di quella che stavo vivendo adesso allora, per tornare a sognarlo?
Successe cinque giorni dopo la partenza di Zack, poco tempo prima di ricevere quel maledetto messaggio, in una notte in cui il silenzio era più assordante del solito, l’aria più calda e il cuore aveva deciso di accelerare i suoi battiti.
Avevo mangiato poco quella sera, trascorso qualche ora a guardare angosciata e triste le stelle tentando di sopportare le lacrime il mal di testa, e infine quando anche le luci della nostra casa si erano spente ero salita di sopra e mi ero distesa sul letto, tentando addormentarmi.
Senza successo.
Ero rimasta delle ore a fissare il soffitto, pregando e sonnecchiando quando gli occhi diventavano troppo brucianti e pesanti per restare aperti.
Infine travolta dalla stanchezza avevo ceduto al sonno e allora mi ero ritrovata lì, sola in mezzo a quella prateria sconfinata, splendida fino a pochi attimi prima ma adesso improvvisamente piena zeppa di pericoli mortali, grovigli di rovi, pantani melmosi, insetti, rettili velenosi e cardi.
Il ronzio dei fili elettrici mi faceva drizzare i peli dalla paura.
Tutto, dal canto delle cicale al languido scroscìo delle acque sotto i miei piedi, mi sembrava improvvisamente vivo e pronto a inghiottirmi.
Mi ritrovai completamente immobilizzata dal terrore, con la mente paralizzata e il respiro sempre più corto e strozzato che non accennava a riprendersi, gli occhi lucidi pieni di paura che continuavano a fissare frenetici e spalancati gli alti e rinsecchiti steli spinosi che mi crescevano intorno e sui quali mi attendevano cauti e immobili grossi e orridi ragni, dalla testa piccola e spugnosa e dal corpo peloso.
Inorridita, impedita e senza neppure la forza di arretrare, improvvisamente sentii qualcosa muoversi sotto la suola dei miei stivali, sul fondo del terreno fangoso nel quale erano immersi.
Lo sentii avvinghiarsi strisciando attorno alla mia caviglia e salire poi, viscido e lento, lungo tutta la gamba, fino a che non me lo ritrovai avvitato intorno al girovita.
E solo allora trovai il coraggio di guardarlo, abbassando piano la testa.
Un grosso serpente squamoso e nero dagli occhi vitrei, che mi guardava tirando fuori la lingua e sibilando famelico, in attesa di un singolo movimento avventato per poter infliggere il colpo fatale.
Lo guardai e senza riuscire più a resistere persi completamente il controllo. E proprio in quel momento urlando mi svegliai, o almeno credetti di farlo.
Saltai immediatamente giù dal letto, ancora addosso la bruttissima sensazione della serpe contro la mia pelle e il disgusto, che mi spinse a scagliare lontano le coperte per timore che si nascondesse ancora lì.
Mi guardai intorno, il viso inondato di lacrime, tremando e rabbrividendo all’aria gelida della notte che soffiava dalla finestra aperta alla mia destra.
E fu allora che la sentii, quella voce. La voce della divinità che avevo invocato senza saperlo e che da tutta una vita invece tu stavi disperatamente cercando di raggiungere.
Era dolce, ma anche decisa e salda.
Sembrava quella di una bambina.
Sussurrò il mio nome, talmente piano che quasi credetti di essermelo solo immaginato.
Poi parlò, e quando mi voltai a guardare nella direzione della voce mi accorsi che proprio vicino alla finestra era apparsa una luce, dorata e lucente come quella di un piccolo sole, di una fata.
Volteggiava nell’aria standomi davanti, come un granello di polvere o una manciata di polline.
 
-Valery Creek …- ripeté, calma e invitante.
 
Rimasi stupita a fissarla. Mi aveva chiamata per nome …
Quella luce … sapeva il mio nome.
Ma come …?
 
-Come fai tu a …?- bofonchiai, alzando un dito verso di lei, quasi a sfiorarla.
 
L’entità scomparve all’istante per riapparirmi alle spalle, in direzione della porta.
 
-Valery …- mi chiamò di nuovo, sussurrando, quindi oltrepassò lo stipite e in un attimo scomparve, lasciandomi nuovamente sola al buio e nel silenzio.
 
Rimasi per qualche istante interdetta, guardandomi intorno senza riuscire più a ritrovarla poi, senza più esitare, mi feci coraggio e avanzai veloce verso la porta, spalancandola e scegliendo di scendere lentamente al piano di sotto, avvolta dall’oscurità.
Giunsi nel salone, tutto era muto e fermo come quando lo avevo lasciato. Ma della luce non c’era traccia.
Mi guardai intorno, continuando ad avanzare quasi a tastoni vero la cucina finché all’improvviso un soffio di campanelli non m’indusse a voltarmi nuovamente da dove ero venuta.
Era riapparsa, quella luce. Proprio vicino alla porta d’ingresso, che ora era aperta.
Svolazzò allegra compiendo qualche giravolta, ridacchiò e ritornando a chiamarmi per nome mi disse semplicemente, uscendo fuori dalla porta, nel buio della notte illuminato dalla candida luce della luna piena.
 
-Seguimi!-
 
Obbedii, restandole sempre alle calcagna, e quando fui abbastanza lontano tornai a chiederle, ora più che mai curiosa di conoscerne l’origine.
 
-Chi sei?-
 
Quella volteggiò ancora nell’aria più velocemente, come se fosse stata scossa da una folata di vento più forte delle altre, anche se quella notte non soffiava che una leggera brezza.
Ridacchiò divertita ma non rispose, e allora inizia ad esserne un po’ inquietata.
Era una fata, una creatura della natura, su questo non c’erano dubbi.
Il rumore dei campanelli, il corpicino talmente minuscolo da essere invisibile, l’aspetto di una lucciola.
Ma … secondo ciò che si diceva nel mio mondo, quelle creature potevano essere benigne o altresì talmente maligne da fare orrore.
E questa? Chi era? Una creatura maligna o benigna?

-Hey tu!- chiesi ancora affannata, mentre attraversavo assieme a lei la fitta vegetazione intorno a Gongaga sulla via dell’altopiano –Non ce la faccio più a starti dietro! Vuoi dirmi chi sei? Cosa vuoi da me?-
 
La incalzai.
E allora la piccola luce scomparve, dissolvendosi in un bagliore quasi accecante che mi costrinse a nascondere gli occhi chiusi dietro le braccia.
Quando li riaprì non c’era più, ma la luce della luna era stranamente più potente, talmente tanto da illuminare i dintorni a giorno.
Mi trovavo a metà strada dalla mia meta solita, vicino ad uno dei tanti ruscelletti che sgorgavano da sorgenti di acqua pura fino verso il male, in quella giungla addomesticata.
Ero ancora sul sentiero, in un piccolo spiazzo circondato a destra da alberi da frutto e a sinistra da massi di roccia ferrosa.
Mi guardai intorno, poi fissai le stelle stupita di quanto potesse essere forte la loro luce, e allora quella voce tornò a chiamarmi di nuovo. Voce di bambina, così familiare … anche troppo.
Ero io, mi riconobbi subito. Io … da bambina.
E quando mi voltai verso il margine del sentiero ricolmo di alberi mi osservai senza fiato.
Era la me stessa di sette anni, risplendente di luce propria come se l’avesse rubata alla luna. Nei lunghi capelli castani una ghirlanda di fiori, indosso un grazioso vestitino verde scuro dello stesso colore della vegetazione che ci circondava e tra le braccia stretto un tenero coniglio bianco come quello che avevo nel mio adorato ranch, il mio preferito. Si chiamava Macchia, per via della macchia nera che aveva sul naso. E, anzi … ora che lo guardavo meglio non era come quello … era proprio lui.
Era Macchia!
Trattenni il fiato, sentendo un groppo di lacrime salirmi in gola.
E’ Gongaga …” mi dissi. “Questo posto mi fa male al cuore.
Ben sapendo che in realtà Gongaga o Banora … non avrebbe fatto differenza. Erano entrambi specchio di ciò che avevo vissuto, due realtà parallele. Come le due metà di un cuore, il mio.
 
-T-tu …- bofonchiai, incredula e sull’orlo delle lacrime, senza neanche avere il coraggio di alzare contro di lei un dito.
 
La bambina smise di accarezzare il coniglio, alzò lo sguardo verso di me e mi fissò intensamente, con i suoi grandi occhi castani.
Le prime lacrime iniziarono a solcare il mio viso.
 
-Tu …- ripetei, senza fiato.
 
Quanto aveva sofferto, povera creatura!
E quanto, in quella sofferenza, io avevo contribuito! Con i miei sbalzi di umore da adolescente, la mia rabbia repressa, la mia … voglia inconsapevole di farmi del male.
Ce ne avevo messo di tempo, per capirlo. Ma ancora non riuscivo a non convincermi del tutto che non era stata colpa mia.
 
-Non piangere, creatura.- esordì a quel punto lei, tornando a sorridere e abbassando le braccia, lasciando cadere il suo animale sull’erba fresca.
 
Stupita la osservai, smettendo per qualche istante di lacrimare.
E allora lei si preparò ad enunciare la sua sentenza.
 
-La Dea, splendente bellezza, saggezza e potenza … - iniziò –Ella, nella sua magnanimità ha udito la tua preghiera d’amore. Le hai toccato il cuore, per questo ha deciso di ascoltarla.-
 
Sul mio volto si dipinse la speranza, le lacrime lasciarono il posto ad un sorriso appena accennato.
 
-Davvero?- chiesi.
 
Non per mancanza di fede, ma semplicemente … perché avevo bisogno di sapere quale parte di quel sogno avrei potuto considerare fasulla e quale no.
Avevo bisogno della conferma che tutto questo non fosse solo una mera illusione della mia mente stanca. E la ebbi, una prima, subito dopo, quando la bambina si tramutò di nuovo in un piccola lucciola e volteggiando iniziò ad avanzare verso di me.
 
- “Ascolta, figlio mio, io sono la voce della tua storia. Non temere, vieni e seguimi. Rispondi alla mia chiamata, e io ti libererò.” -
 
Conoscevo molto bene quelle parole, facevano parte di una canzone che aveva segnato indelebilmente il mio cuore dal momento in cui l’avevo sentita, perché le avevo sempre considerate come il richiamo della mia terra perduta.
Ora invece … erano diventate il giuramento di una Dea ai suoi servitori fedeli, perché subito dopo averle pronunciate la voce tornò a tacere e volteggiandomi intorno sempre più veloce mi arrivò vicinissima finché non fu in grado di saltarmi addosso, conficcandosi dentro al mio cuore.
Mi mozzò il fiato, ma non sentii alcun dolore.
Semplicemente caddi a terra, svenuta, e quando riaprii gli occhi mi ritrovai finalmente sveglia per davvero, nel mio letto, mentre le prime luci dell’alba facevano capolino dietro le alte cime delle montagne e un nuovo giorno aveva inizio, fuori e dentro di me.

 
***
 
///Flashback///
 
-Genesis!-
 
L’ormai ex SOLDIER 1st class riaprì piano gli occhi, richiamato alla luce dalla voce del suo migliore amico e fratello e si guardò intorno, solo per accorgersi di aver semplicemente assistito a una mera illusione della sua mente.
Sospirò, chiudendo di nuovo gli occhi e dandosi tempo. La testa gli girava da morire, il corpo faceva male fino all’ultima fibra e una pesante nausea gli attanagliava lo stomaco.
Si trovava nel nuovo laboratorio improvvisato del Professor Hollander, in uno dei due piccoli depositi secondari al piano terra della fabbrica appartenente alla sua famiglia … quella che tante volte aveva visitato da bambino, orgoglioso di poter collaborare a quel piccolo miracolo con le banora bianche, per rendere più ricco e famoso il suo paese.
Ora non restava che un sogno infranto, di quella speranza. E quell’edificio stava diventando la sua personale fabbrica di mostri, tutti con le sue sembianze.
Riaprì gli occhi lentamente una seconda volta, puntandoli al soffitto in legno e rinunciando alla possibilità di potersi alzare.
L’ultima cosa che ricordava prima di addormentarsi era stata la voce di Hollander che lo avvertiva.
 
-Il processo sarà un po’ debilitante, soprattutto ora ch’è la prima volta per te.-
 
Aveva ghignato. “Ne dubito fortemente:” aveva pensato senza esporsi “Dubito che tu non lo abbia già fatto a mia insaputa.”
 
-Sto iniettando l’anestetizzante nella flebo.- aveva quindi concluso lo scienziato, avvicinandosi –Non sentirai nulla durante tutta l’operazione. Quando ti sveglierai però potresti non essere in grado di reggerti in piedi. Rimani per qualche ora sdraiato qui, prima di rialzarti.-
 
“Ricevuto.”
Aveva pensato soltanto, stringendo i pugni e i denti. Poi aveva chiuso gli occhi e lasciato che il buio e il silenzio lo divorassero, e sperando in fondo al suo cuore che qualcosa andasse maledettamente storto, ponendo fine a quella vita miserabile.
Ma non era accaduto, purtroppo o per fortuna, e adesso eccolo lì, nuovamente in grado di pensare oltre che di respirare.
Vivo … a quanto sembrava.
Avrebbe voluto piangere ma non aveva neppure la forza di farlo, quindi si abbandonò di nuovo sul cuscino del lettino medico e si addormentò ancora per qualche ora, prima di essere in grado di rinvenire.
Quando finalmente riuscì ad alzarsi era diventato notte, le stelle brillavano in cielo come non avevano mai fatto prima di allora, e lui voleva soltanto raggiungerle.
Si mise a sedere, passò una mano tra i capelli sudati e scompigliati e riprendendo fiato. Poi finalmente riuscì barcollante a rimettersi in piedi, prese il suo soprabito dalla sedia lì vicino e se lo mise sulle spalle coprendo appena il petto nudo, e riappropriandosi anche dei guanti li strinse tra le mani e uscì, ignorando il dolore al braccio sul quale era incollato il cerotto che copriva il foro della flebo e della siringa.
Camminò a passo stanco nel silenzio tranquillo della notte, accarezzato da un vento gentile che soffiò a rinfrescarlo e rinvigorirlo un po’ e talmente stanco da non udire neanche il suo leggero bisbigliare e il tranquillo canto dei grilli nascosti tra i fili d'erba.
Entrò in casa sua spingendo piano la porta in avanti, come l’ultima volta; attraversò l’ampio salotto rustico, salì le scale e si diresse verso la porta della sua vecchia camera da letto, ancora intatta come quando l’aveva lasciata.

E una volta lì fece per raggiungere il letto, ma qualcosa a metà strada lo fermò.
C’era uno specchio vicino alla finestra aperta, che lasciava entrare la brezza della sera e la candida luce della luna.
E in esso, dalla testa ai piedi, vide riflessa la sua nuova immagine.
Quella di un uomo stanco, un combattente esausto dallo sguardo malinconico e atono, occhi e guance scavate, fisico in gran forma ma cuore in pezzi.
Sorrise appena, lasciò cadere a terra il soprabito, e quasi in contemporanea liberò la sua ala nera, avvicinandosi di più e sfiorando con la mano destra l’immagine riflessa.
Cosa … cosa era diventato?
In cosa lo avevano trasformato? Anzi … cosa aveva scoperto di essere?
Di sicuro … non ciò che aveva sempre sognato da bambino, quando l’innocenza ancora faceva parte perfino dei suoi peggiori incubi.
“Angeal …” pensò con rammarico e nostalgia “Vorrei che tu fossi qui.
Ma sono contento che tu non ci sia … non ancora.”
 
///Fine Flashback///


 

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Capitolo 23
*** Dove tutto ha inizio ***


Capitolo XXII


///Flashback///
 
-Genesis!-
 
Il giovanissimo Angeal Hewley smise per un momento di correre e si guardò intorno, in ansia, scrutando attentamente ogni cosa attorno a sé e rivolgendo particolare attenzione agli alberi di banora bianche che si piegavano a proteggere con la loro ombra l’inizio del sentiero di terra battuta che attraversava tutto il loro villaggio, e a tutti gli altri possibili nascondigli che potevano rivelarsi utili al gioco che stavano facendo.
Lo odiava, quel gioco. Ma a Genesis piaceva e così per farlo contento aveva deciso di accettare di partecipare, visto che quel giorno era appena iniziato e sembrava non voler passare mai.
Si erano ritrovati dopo colazione, di fronte a casa del rosso, e avevano dapprima iniziato a giocare a palla (era stato lui a proporlo), poi Genesis si era scocciato e allora ecco l’idea.
 
-Giochiamo a nascondino!- aveva esclamato entusiasta.
 
Hewley aveva storto il naso.
 
-No.- aveva brontolato –Non mi va.-
 
Rhapsodos lo aveva guardato rivolgendogli un’espressione furbescamente divertita, inclinando appena il capo da un lato.
 
-E dai, Angeal …- lo aveva quindi supplicato, stringendo di più le labbra e piegando all’ingiù quello inferiore –Io ti ho fatto contento, fallo tu con me adesso. Per favoreee!-
 
Portandosi dietro di lui e abbracciandolo.
 
-No, non voglio.- aveva invece insistito lui, scurendosi –Alla fine vinci sempre tu, e mi fai spaventare! Odio gli scherzi che mi fai!-
-Giuro che stavolta non lo faccio.- aveva promesso allora l’altro, saltando di fronte a lui e posando una mano chiusa a pugno sul cuore, e il dito indice e medio dell’altra incrociate dietro la schiena.
 
Lui gli aveva creduto, e ora ecco che si trovava di nuovo inevitabilmente in quella situazione.
Era letteralmente passata quasi un’ora da che lo stava cercando, era talmente nervoso e preoccupato da voler soltanto arrendersi, cadere in ginocchio lì dov’era e piangere disperato.
Ma resistette, e alzando gli occhi al cielo esclamò, stufo.
 
-Dai, Genesis! Vieni fuori, mi sono seccato! Io non gioco più, te l’ho già detto.-
 
Ma non ci fu risposta, solo il canto degli uccelli e delle cicale e il leggero fruscio della brezza del mattino tra le fronde degli alberi. E allora la disperazione e la frustrazione raggiunsero il loro culmine e lui abbassò il volto, gli occhi lucidi di lacrime, stringendo i pugni lungo i fianchi.
Ma proprio nel momento in cui la prima lacrima solcò le sue guance arrossate qualcosa lo colpì alla nuca, facendolo sobbalzare per lo spavento e il dolore.
 
-Ahi!- esclamò, coprendosi con una mano la testa e cercando di capire cosa lo avesse colpito.
 
Non ci mise molto, in realtà.
Gli bastò guardare avanti alle suole consumate delle sue vecchie scarpine marroncine per vedere una mela rotolare davanti ad esse, e quando alzò gli occhi verso su sentì l’inconfondibile risata del suo amico raggiungere le sue orecchie, e lo vide rotolare divertito mentre seduto su un robusto ramo se ne stava lì ad osservando, le gambe penzoloni e le mani ora appoggiate sul legno.
 
-Genesis, mi hai fatto male!- protestò a quel punto, scoppiando a piangere coprendosi il viso con le mani.
 
Se ne vergognava un po’, ma non poteva farci nulla. Genesis sapeva sempre come portarlo all’esasperazione e fargli fare queste figure, maledetto!
E dire che dopo dieci anni di vita insieme avrebbe dovuto imparare a sapere come trattarlo, ma sembrava non essere mai abbastanza.
 
-Dai, piagnone!- lo canzonò a quel punto il rosso, intenerito, balzando giù e accorrendo a stringerlo forte –Non fare così, era un gioco. Dove pensavi che fossi?-
-Mi sono spaventato!- si ribellò Angeal, tra le lacrime, stringendosi di più all’amico –Ho avuto paura che ti fosse successo qualcosa. Lo sai che non mi piace nascondino, proprio per questo!-
 
Genesis sorrise. Da quando suo padre era morto stroncato da un infarto, appena quasi dieci mesi addietro, Angeal era diventato ancora più spaventato dalla vita del solito, più responsabile di prima.
Alcuni scherzi non poteva più farglieli, li prendeva troppo sul serio.
Ma erano gli unici due bambini in un piccolo villaggio sperduto tra le colline di un’isola, qualcosa dovevano pur trovarla per non annoiarsi.
Da adesso in poi avrebbe di sicuro dovuto trovare qualcos’altro però, quegli scherzi non erano più tanto divertenti.
 
-Va bene, scusami.- rispose quindi, sciogliendolo e asciugandogli le lacrime con una mano, sorridendogli –Smettila adesso però, così mi fai sentire in colpa.- ridacchiò poi, vedendo che la situazione non migliorava.
 
Hewley scosse la testa, tornando a singhiozzare più forte di prima e abbandonandosi seduto a terra, il viso basso e gli occhi chiusi.
 
-Non ci riesco!- rispose, annaspando disperato e scuotendo più volte la testa –I-Io … non ce la faccio!- ribadì, tornando poi a guardarlo e concludendo, tirando su col naso –Scusami, non ce la faccio!-
 
Genesis lo osservò attentamente per qualche attimo, in silenzio.
Quindi tornò a sorridere, prese una piccola banora bianca dalla tasca del pantaloncino che indossava e dopo averla pulita per bene usando la manica del suo maglioncino rosso gliela porse, continuando a sorridergli e scoccandogli un occhiolino.
 
-Tieni.- disse soltanto.
 
Hewley smise quasi all’istante di lamentarsi, fissando il frutto con occhi gonfi e senza riuscire a nascondere il desiderio.
Come … come faceva a sapere che aveva fame?
Lo fissò, spostando lo sguardo dalla sua mano ai suoi occhi.
Poi scurendosi decise di rifiutare, giusto così, per una questione di principio e dignità.
 
-Non mi va, adesso.- lo respinse, voltando di lato il viso e dandosi un tono.
 
Rhapsodos ridacchiò.
 
-Dai, non fare il musone, adesso.- ripeté divertito -Prendila.- afferrandogli una mano e appoggiandogli il frutto nel palmo.
 
Quindi, mentre l’altro iniziava a mangiare dopo averlo ringraziato con un filo di voce, gli si sedette accanto, stringendo le ginocchia tra le braccia e osservando i rami che ricoprivano il cielo azzurro, proteggendoli dalla luce calda e forte del sole estivo.
Rimasero per un po’ in silenzio, anche dopo che il moro ebbe finito la sua colazione.
 
-Angeal …- esordì ad un certo punto Genesis, tornando a guardarlo.
 
L’altro voltò la testa verso di lui, dalla posizione supina in cui si trovava. Si era disteso sul soffice manto d’erba che ricopriva il bordo del sentiero, per godersi meglio il panorama e quel sottile venticello rinfrescante mentre attendeva che anche l’amico facesse lo stesso dal canto suo.
“Quando saremo grandi, facciamo che non cambieremo mai?”
Ecco ciò che avrebbe voluto chiedere Rhapsodos ora, al suo migliore amico. Era il momento perfetto. Ma … forse lo era anche troppo, per essere rovinato di nuovo dalla tristezza.
 
-Mh?- chiese il diretto interessato, impensierito da quel suo lungo silenzio assorto.
 
E a quel punto Genesis tornò a sorridere, scosse il capo e tornando a rivolgerli uno sguardo sereno propose, decidendo di seguire il suo istinto.
 
-Ti va … d’imparare a leggere?-
 
L’amico lo guardò stranito.
 
-Voglio dire … tu sai leggere? I tuoi te lo hanno insegnato?- si affrettò ad aggiungere, temendo di essere risultato troppo stupido.
 
Hewley ci pensò su per qualche istante, rialzandosi e mettendosi a sedere.
 
-Mamma aveva incominciato.- rivelò –Prima che morisse papà. Poi però ci siamo fermati.
L’alfabeto lo so però … fino alla m.- ammise, abbassando il volto un po’ imbarazzato.
 
Sul volto del rosso si dipinse un’altra espressione contenta.
 
-Allora potrei finire di insegnartelo io.- propose –Vuoi? Leggiamo insieme, qualche volta.-
 
Angeal sorrise, poi appoggiò le mani sul terreno all’altezza delle spalle, e rilassando la schiena buttò il capo all’indietro, puntando sognante gli occhi verso gli sprazzi di cielo che facevano capolino da dietro il verde e il viola che lo nascondevano.
 
-Mh, perché no?- chiese –Si, sarebbe divertente.- acconsenti –Ma quando?- replicò, tornando a guardarlo serio.
 
Genesis lo imitò, assumendo la sua stessa posizione e guardando avanti a sé, fiducioso ed eccitato.
 
-Potremmo fare anche oggi pomeriggio, dopo mangiato.- propose, aggiungendo fiero -A casa mia, abbiamo tanti libri!-
 
Sorrisero entrambi, allietati da quell’idea che all’improvviso sembrò loro la più bella che avessero mai potuto avere. Finalmente qualcosa da fare che non avrebbe fatto piangere o annoiato nessuno.
Almeno per i primi tempi. E poi … Angeal ripensò a suo padre, e a quanto avesse voluto prima che quell’infarto lo stroncasse che il suo unico figlio trovasse il suo posto nel mondo e avesse il sufficiente livello di cultura per riuscire a farcela.
Era stato lui che aveva avuto l’idea di insegnargli a leggere, in assenza di una scuola vicina.
Genesis invece aveva avuto un maestro privato che veniva direttamente da Midgar e gli aveva insegnato i fondamenti di molte altre cose, oltre alla lettura.
Matematica, storia, geografia e anche arte e musica.
Era … era anche per quello che suo padre negli ultimi tempi aveva deciso di lavorare instancabilmente, fino allo sfinimento. Avrebbe voluto avere abbastanza soldi per riuscire a dare anche a suo figlio quello che i Rhapsodos avevano dato al loro.
Ma, per quanto riguardava Angeal … lui sarebbe stato stracontento se solo lo avesse avuto ancora accanto.
E ora, anche se non c’era più, aveva l’opportunità di renderlo felice.
Sorrise, gli occhi nuovamente lucidi ma stavolta di un sentimento molto diverso dalla paura o dall’angoscia.
 
-Okkey.- replicò, annuendo deciso –Facciamolo.-
 
E a quel punto Genesis Rhapsodos, ridacchiando felice, stabilì scherzoso.
 
-Così sia. Ma ti avverto, sarò un maestro severo.- lo minacciò senza riuscire ad essere troppo serio.
 
Ma fiero di poter essere d’aiuto in qualche modo al suo migliore amico, e trascinando entrambi in una risata serena e sinceramente divertita che si elevò fino a toccare il blu sgombro da nuvole.
Non ce ne sarebbero state, ancora per lungo tempo. E avrebbero avuto abbastanza luce per riuscire ad imparare il restante alfabeto, assieme al senso più profondo della vita.
 
 
 
 
***
 
Anni dopo …
 
Erano passate solo tre settimane e mezzo da quando Zack era tornato a Midgar.
Ma già il futuro stava oramai sempre più rapidamente trasformandosi in angoscioso presente.
 
Il SOLDIER 1st class Angeal Hewley stava percorrendo a passo deciso e spedito il tratto del corridoio del piano SOLDIER che dall’ascensore portava alla sala di addestramento, quando all’improvviso il trillo del suo cellulare lo indusse a fermarsi e pervi attenzione.
Lo estrasse dalla tasca e rispose, riconoscendo dalla suoneria il numero del Direttore Lazard.
 
-1st class Hewley a rapporto.- esordi serio.
 
L’uomo dall’altro capo del telefono sorrise appena.
 
-Angeal.- esordì, facendosi però subito dopo serio, e lasciandogli intuire dal tono delle sue successive parole che qualsiasi cosa lo avesse spinto a rivolgersi a lui fosse una situazione della massima urgenza e riservatezza –Vieni immediatamente nel mio ufficio, ho urgente bisogno di parlarti.-
 
Il moro rabbrividì, e il suo pensiero corse immediatamente al suo amico e commilitone Genesis Rhapsodos, partito in missione verso Wutai e di cui da giorni ormai non aveva più notizie, nonostante avesse provato a telefonargli più e più volte e gli avesse mandato qualche mail, senza ricevere alcuna risposta.
Certo, quella era una missione importante e difficile e per questo richiedeva la massima concentrazione per essere portata a buon fine.
Ma non era mai successa una cosa del genere, in tanti anni di amicizia e di servizio militare assieme.
Di solito, quando entrambi o solo uno dei due era in missione, usavano tenersi ugualmente in contatto proprio tramite email e telefono, e non passava giorno senza che ognuno ricevesse notizie dall’altro.
Invece ora da quando era partito per quella guerra Genesis letteralmente sparito nel nulla, e lui era preoccupato, molto preoccupato, soprattutto se continuava a pensare a come si erano lasciati, al tono di voce e allo sguardo che il rosso aveva usato per salutarlo. Gli era sembrato molto scostante, e quasi triste.
Era palese che ci fosse qualcosa che non andava, ma nonostante le sue insistenze non era riuscito a scoprire cosa fosse, l’altro non aveva voluto rivelargli nulla. E quel silenzio improvviso adesso non faceva che alimentare i suoi dubbi e le sue ansie.
L’ultima volta che aveva provato a ricontattarlo era stato appena qualche minuto fa, in ascensore. Anche quella senza nessun esito positivo. Anzi, stavolta il telefono era risultato “spento o inesistente.”
E il suo cuore si era fermato per qualche istante di troppo. “Genesis. Che ti è successo?” aveva pensato, pochi secondi prima che le porte si aprissero di nuovo.
 
-Direttore Lazard.- disse quindi ora –Ci sono novità?-
 
Mentre un terrificante sospetto s’insinuò sempre più a fondo nella sua mente e nel suo cuore la speranza che non fosse vero.
Tremò quasi vistosamente e puntò il suo sguardo terrorizzato davanti a sé, trattenendo il fiato, quando con voce stranamente cupa quello rispose.
 
-Purtroppo si, Angeal. Vieni immediatamente nel mio ufficio, ti spiegherò tutto faccia a faccia.-
 
Poi chiuse la chiamata e lui, senza farselo ripetere due volte obbedì, col cuore che batteva all’impazzata e un nodo stretto in gola.
 
***
 
Sessantatré chiamate senza risposta e ventisei messaggi non letti.
Genesis Rhapsodos sorrise quasi intenerito, fissando lo schermo del telefonino appena acceso dopo quasi due settimane in cui lo aveva tenuto spento per far perdere le sue tracce.
La malinconia strinse con una leggera morsa il suo cuore, e per poco le lacrime non gli sfuggirono dagli occhi, sfiorandogli le guance pallide.
Sospirò, spense nuovamente il telefono e ricacciandole in dentro bruscamente scagliò a terra l’apparecchiò, verso un grosso masso lì vicino, talmente tanto forte da distruggerlo in mille pezzi per poi colpirlo con una palla di fuoco che li bruciò, incenerendoli, per poi incamminarsi verso la vecchia fabbrica.
Angeal lo avrebbe perdonato, o almeno compreso, quando avrebbe saputo ogni cosa, si consolò.
Ma per il momento doveva essere pronto anche al suo disprezzo, al suo rammarico e alla sua comprensibile rabbia. Erano reazioni alle quali doveva prepararsi, pensò mentre attraversava il villaggio invaso dalla rilucente luce del sole, che rendeva più brillanti i colori dei verdi alberi, dei mattoni delle casupole ormai quasi del tutto semi abbandonate dell’azzurro cielo, mentre un vento birichino e tiepido spettinava i lunghi fili d’erba dei prati che ricoprivano le collinette e i bordi del sentiero.
Inevitabili conseguenze dalle quali non voleva e non poteva esimersi, perché sarebbero servite a loro, per capire.
Proprio come era successo a lui.
 
-Genesis.-
 
La fastidiosamente pastosa e roca voce di Hollander lo accolse, non appena mise piede nella grande stanza deposito al secondo piano. Lo trovò come al solito intento a digitare formule incomprensibili al computer, in piedi di fronte al suo schermo sul lato sinistro della stanza.
Gli rivolse la sua attenzione e una smorfia disgustata che quello, stupido com’era, interpretò come un sogghigno, sorridendo a suo volta e indicandogli con un cenno del capo i tre gusci di metallo che contenevano le sue prime creazioni, immerse in un liquido amniotico verdastro che con molta probabilità doveva essere una miscela composta da mako e altri elementi utili allo sviluppo delle creature.
Ai SOLDIER non era concesso venire a conoscenza dei “segreti” degli scienziati, ma ad essere sinceri a lui per primo non interessava saperlo. Bastava solo … riuscire a trovare una cura e una vendetta, il come ormai era irrilevante.
Rivolse la sua attenzione ai bozzoli, e lentamente s’avvicinò.
I suoi passi risuonarono sicuri e decisi, rimbalzando dalle assi del pavimento sulle pareti in legno e mescolandosi al lento fruscio delle piume della sua enorme ala, chiusa sulla sua schiena, ma il forte tamburellare del suo cuore sembrava quasi voler esplodere, risuonando forte nelle sue orecchie e mozzandogli il fiato in gola.
Solo quando si trovò faccia a faccia con quello che le capsule contenevano, capì il motivo di tutta quella sua esitazione.
Paura. Paura di ritrovarsi faccia a faccia con … il mostro che era.
Avvicinò il viso all’oblò di vetro, e allora tutti i suoi incubi si trasformarono in realtà
Erano in tre, uno per ciascuna capsula.
Cinque mostri sgorbi alla quale aveva donato volto e sembianze. Rabbrividì e sospirò, abbassando il viso e chiudendo per un attimo gli occhi, compiendo un passo indietro.
Si diede il tempo di riprendersi, stringendo i denti e opponendosi ancora una volta alle lacrime. Quindi strinse i pugni, e passando all’altra si sporse di nuovo a guardare, appoggiando una mano guantata di rosso contro il metallo e ascoltandone il suono, il lento sciabordare del liquido e il respirare affannoso delle creature in stasi, il ronzio e il tremolare del metallo e del motore che ne mandava avanti il meccanismo.
E mentre guardava imperterrito, senza riuscire più a staccarsene, la convinzione divenne certezza, granitica e imperante come il marmo.
Niente più umano, niente più Genesis Rhapsodos. Niente, nulla più.
Solo "rivoltante mostro".
Non poteva chiamarsi altrimenti.

 
***
 
Ancora una licenza dopo un’intera, snervante e spossante giornata di allenamenti quasi del tutto ininterrotti.
Zack Fair, disteso sul letto della sua camerata, aveva appena finito di rispondere all’ultimo messaggio email da parte della sua sorellina e subito si lasciò andare ad un pesante sospiro, allargando le braccia e lasciandole ricadere verso l’esterno.
 
-Che noia!- esclamò ad alta voce, chiudendo successivamente gli occhi e appoggiando il telefono a terra e le mani dietro la nuca.
 
Rimase in silenzio per qualche istante, lasciando correre la mente verso la sua casa e immaginandosi lì, assieme ai suoi genitori e a lei, che più il tempo passava e più si accorgeva non fosse più una semplice amica, come gli era stato chiesto di pensare.
Ci aveva provato, sul serio, ad adempiere a quello promessa. Si era sforzato con tutto sé stesso, ma alla fine si era reso conto di avere ogni pensiero completamente invaso da lei, dal suo sorriso, dai suoi modi delicati e dalla sua espressione assorta, mentre guardava fuori dal finestrino o in cielo, verso le stelle.
L’unico motivo per cui aveva cercato di dimenticarla, era perché le voleva bene e voleva renderla felice.
Sospirò, ancor più pesantemente, e spazientito s’alzò scattando in piedi col solo aiuto della schiena e del morbido materasso che la sosteneva.
S’avvicino guascone e svogliato alla finestra e si perse ad osservava lo scorrere monotono della vita a Midgar, sotto di lui, ma dopo neanche un paio di minuti tornò a sedersi sul letto, e proprio allora un piccolo pulcino giallo sgusciò fuori da sotto le coperte e gli saltò sulla spalla, cinguettando con un’espressione del piccolo becco e una tale allegria negli occhi da sembrare quasi stesse sorridendo.
 
-He-hey, Choco!- lo accolse allegro lui, sollevando la mano sinistra e aprendo il palmo per accoglierlo.
 
Un altro pigolio. Il pulcino saltellò battendo le piccole ali, arrivando a sfiorargli la guancia con il becco come se volesse dargli un bacino, quindi con lo stesso metodo si spostò sulla sua mano.
Zack sospirò sorridendo nostalgico. Era un regalo per lei, l’aveva acquistato in un negozio di animali nel settore due, durante una di quelle interminabili pause in cui era stato costretto a rimanere in città senza far nulla.
 
-Qualcosa mi dice che ci vorrà ancora qualche mese …- gli disse, intristendosi un poco - … prima di riuscire a portarti da lei, piccolo.-
 
L’animale tornò sulla sua spalla pigolando di nuovo, in tono più basso, e allora lui s’alzò voltandosi e rivolgendo nuovamente lo sguardo oltre il vetro, correndo col pensiero a quel tramonto sulla pianura di Gongaga.
Perché improvvisamente tutto il mondo sembrava avercela con lui?
Richiuse gli occhi e cercò di non pensarci, lasciandosi portar via dai ricordi.
In fondo, si disse per consolarsi, avrebbe dovuto aspettarselo.
La strada per diventare un eroe non era mai stata dritta, e la vita non faceva sconti a nessuno, neanche una volta soltanto.
 
***
 
-Perso i contatti?-
 
All’istante, subito dopo aver udito quella notizia dalla voce del Direttore che gli stava di fronte, Hewley sentì il sangue gelarglisi nelle vene e il cuore tremò dentro al suo petto, provocandogli un brivido freddo lungo tutta la schiena.
Sgranò gli occhi e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, sconvolto.
 
- C-che … che significa? –
 
Lazard lo osservò attentamente, poi annuì, dispiaciuto e comprensivo, e alzatosi si diresse di fronte ad uno dei monitor presenti nell’ampio spazio della sala riunioni, quello centrale.
 
-Genesis ha lasciato il Quartier Generale esattamente undici giorni fa, alle 8.00 del mattino.- iniziò, muovendo il mouse.
 
Mentre ancora parlava, sul grande schermo a cristalli liquidi di fronte a loro, in fondo alla stanza, apparve la scheda illustrativa del 1st class Genesis Rhapsodos, con la sua foto segnaletica e la scritta rossa lampeggiante MISSING IN MISSION.
Ancora una volta Angeal si sentì mozzare il fiato. Il suo incubo peggiore alla fine si era avverato, e adesso lui si ritrovò incapace di distogliere lo sguardo dalla foto dell’amico e da quella maledetta striscia rossa che continuava a lampeggiare, mentre ascoltava Lazard quasi senza neppure udirlo, sovrappensiero.
-Ed esattamente sette giorni fa, il ventidue di questo mese alle ore 4.45 del mattino, il suo telefono ha smesso di funzionare e lanciare segnali. - proseguì nel frattempo quello, voltandosi poi ancora verso di lui a guardarlo, e concludendo serio –Da allora abbiamo più potuto in alcun modo conoscere la sua posizione attuale.-
-Avete provato a contattare la sua squadra?- domandò a quel punto Angeal. Riavendosi per un attimo dallo shock e rivolgendo al direttore di SOLDIER uno sguardo serio che nascondeva il più totale panico.
 
Quello annuì tristemente.
 
-Abbiamo perso i contatti anche con loro.-
 
E allora Angeal, che non aveva mai mostrato segni d’impazienza in tutti quegli anni di onorata carriera in SOLDIER, sbottò.
 
-Mi sta dicendo che pensate abbia disertato? Portandosi dietro anche la sua squadra?-
 
Lazard tacque, fissandolo in silenzio e stupito dalla veemenza con la quale aveva pronunciato quella domanda. Lo capiva. Doveva essere difficile per un uomo d’onore come lui pensare che il suo migliore amico fraterno avesse deciso d’infrangere tutte le regole a lui care, scegliendo quella strada che oltre ad essere difficile andava anche contro la legge, morale e giuridica. Scosse le spalle sospirando.
 
-Tutto fa presupporre questo, Angeal.- rispose semplicemente
-Ma è impossibile!- tornò ad esclamare Angeal, in quella che più che rabbia era … un vero e proprio tentativo di rifiutare la realtà –Tutto cosa? Non sappiamo nulla di fatto, ancora. Potrebbe anche trattarsi di un ammutinamento, no? Sono cose che succedono.-
 
Il direttore annuì, senza perdere la calma, e sorrise comprensivo.
 
-Possibile, si …- replicò, scuotendo poi subito dopo la testa –Ma molto improbabile…- risolse.
 
Calò di nuovo il silenzio, teso e duraturo. Angeal rimase in silenzio a fissare un punto imprecisato del pavimento il metallo sotto i suoi piedi, pensando che improbabile era una parola troppo piccola per Genesis.
Tutti conoscevano il suo temperamento e soprattutto la sua forza, e soltanto degli stupidi si sarebbero sognati di ammutinarsi. E poi se anche avessero tentato di farlo probabilmente una semplice squadriglia di venti o anche trenta persone non sarebbe bastata per metterlo totalmente K.O.
Inoltre, la Shinra l’avrebbe saputo comunque.
Hewley riportò la sua mente ancora al loro ultimo incontro, e adesso quel sorriso stranamente malinconico e quelle risposte a monosillabi avevano finalmente un senso, anche se proprio quello che aveva temuto di più.
Ora i dubbi si trasformarono in paure e tutte le sue certezze iniziarono pian piano a scricchiolare, minacciando di sgretolarsi sotto i suoi piedi.
 
-Mi spiace Angeal.- mormorò dal canto suo Lazard, rispettando quel momento e avvicinandosi per appoggiargli partecipe una mano sulla spalla –Ma siamo costretti a … -
-Lo so.- lo prevenne a quel punto lui, tornando a rivolgergli uno sguardo serio e rivolgendone un ultimo alla foto segnaletica di fronte a loro. –Però …- iniziò, bloccandosi sul nascere.
 
No, era impossibile.
Si rifiutava di credere che Genesis avesse fatto una cosa del genere. Era uno scapestrato, ma non un pazzo degenere. Eppure … tutti quei ragionamenti contorti su Lazard, Sephiroth, sulla Shinra e tutta quella voglia di ribellione che ultimamente lo avevano reso così … inquieto.
Potevano avere una sola risposta, ch’era quella suggerita dal direttore. Il cuore gli si strinse in una terribile morsa di dolore. “Genesis, dimmi che non lo hai fatto. Ti prego.” Pensò “Per favore, dimmi che non è così. O dammi un motivo valido per tutto questo.”
 
-Manderemo una squadra per cercarlo, anche se non possiamo sapere se sia ancora in Wutai.- propose a quel punto il direttore, capendo il suo disagio –Il motivo ufficiale sarà ancora quello di porre fine alla guerra, inviando rinforzi. Ma se non lo troveremo … - si fermò un secondo, affranto di dovergli dare quell’ennesima pessima notizia –Temo che dovremmo lasciare che se ne occupino i turks.-
-E la cosa diventerebbe di dominio pubblico, allora …- mormorò a quel punto amaramente il moro, abbassando il volto.
 
Il direttore annuì, rassegnato.
E allora, quasi nell’ultimo disperato tentativo di salvare quella disperata situazione, Hewley esclamò, speranzoso tornando a rivolgergli la sua attenzione.
 
-Mandate Zack!-
 
Deusericus lo squadrò per un attimo, pensieroso. Poi si sfiorò il mento con la mano destra, riflettendoci su.
 
-Non saprei …- disse –Questa missione richiede l’impiego di almeno un first.-
 
Angeal sorrise fiducioso.
 
-Mettetelo alla prova.- gli assicurò –Non ve ne pentirete.-
 
In realtà non era così tanto sicuro che Zack fosse pronto, ma si disse che non doveva lasciare che lo shock prendesse il sopravvento. Doveva piuttosto pensare alla altre persone che contavano su di lui, e una di quelle … anzi, la più importante, era proprio Zack.
Lo aveva abbandonato un po’ a sé stesso, ultimamente. Ora di sicuro sarebbe stato contento di avere finalmente qualcosa da fare che non richiedesse sempre e solo impegno senza soddisfazioni. Doveva ammetterlo, a lungo andare anche per lui sempre missioni senza un po’ di adrenalinica prova sul campo avrebbero iniziato a stufare. Molto a lungo andare, però.
 
-Va bene, mi fido di te allora.- concluse soddisfatto e divertito il direttore dopo averci pensato su un altro po’ –Però lo accompagnerai.- gl’impose.
 
Hewley annuì volenteroso e soddisfatto.
In questo modo, oltre a continuare l’addestramento di Zack avrebbe anche potuto incontrare Genesis.
Di persona, vivo, perché non aveva neanche il minimo dubbio né sul fatto che fosse vivo e vegeto né su ciò che avrebbe dovuto dirgli.
Ma … non aveva neanche la più pallida idea di ciò che sarebbe accaduto, e non voleva neanche pensare ad un esito negativo della ricerca.
 
-Dovrebbe esserci anche Sephiroth, lì vicino.- concluse il direttore –E’ assegnato all’unità B.- infine gli ordinò –Bene, non c’è altro. Non abbiamo tempo da perdere, chiama la tua recluta migliore, Angeal.- gli suggerì con un sorriso, scoccandogli un occhiolino –Partirete appena possibile.-
 
E lui, col cuore e la mente in tumulto, obbedì di buon grado.



 
 

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Capitolo 24
*** La consapevolezza di un mostro ***


Capitolo XXIII


 
///Flashback///
 
L’assalto all’ultima roccaforte di Wutai ancora in piedi, meglio conosciuta col nome di Forte Tamblin, era riuscito, grazie alla guida di Angeal Hewley e Zack Fair e al supporto tecnico di Sephiroth e della sua unità B.
Ora i due SOLDIER avrebbero dovuto rientrare alla base, scortando il direttore Lazard, ma proprio sulla strada del ritorno s’imbatterono in una imprevista imboscata che non era composta da soldati di Wutai ma da strani esseri deformi, non così tanto indifesi come chiunque avrebbe potuto pensare, a prima vista.
 
-Ci penso io!- esclamò coraggiosamente Angeal, per poi rivolgersi al suo pupillo e ordinargli –Zack! Scorta al sicuro il Direttore.-
-Si, signore!- ribatté pronto quello.
-Avvisa Sephiroth!- aggiunse Lazard rivolto al 1st, ma questi si permise di contraddirlo –Zack basta e avanza.- replicò, lasciandoli quindi andare e fiondandosi in quella piccola scaramuccia che in confronto alla missione appena conclusa non era altro che una bazzecola.
 
Ci mise poco a finirli, davvero poco anche se doveva ammettere di averli sottovalutati.
Eppure … più si scontrava contro di loro e più c’era qualcosa di strano, che lo confondeva e inquietava. Non era il loro aspetto emaciato, gli arti storti e minuti e neanche la loro voce roca.
No, c’era qualcosa di più. E se ne rese conto solo quando l’ultimo di quei mostri fu abbattuto.
Era il loro modo di combattere, così assurdamente affine con quello di … Genesis.
La sua agilità, la sua forza e la sua tenacia, ma anche molte delle sue mosse. Sembravano come ricopiarlo, ma rabbrividì e scosse il capo, rifiutandosi anche solo di pensare oltre.
“E’ suggestione” si disse. “Solo suggestione.”
E attribuì quella intuizione fasulla ancora una volta allo stato di shock e alla preoccupazione che lo attanagliavano. In fondo la missione era finita, e di Genesis neanche l’ombra, era normale che si sentisse così, ora.
Eppure, nonostante fosse riuscito alla fine a imporsi un autocontrollo più che sufficiente a terminare velocemente e senza alcun danno lo scontro, quel pensiero continuò a insinuarsi e ingigantirsi sempre più nella sua mente, sempre più insistentemente fino a che non fu costretto a dargli ascolto.
Solo in mezzo ai corpi di quegli orridi esseri dall’aspetto umano, si piegò su uno di loro e levandogli il casco protettivo rimase senza fiato a guardarlo, rivedendo finalmente il volto dell’amico ma ritrovandosi all’improvviso sconvolto dall’angoscia e dalla paura, ripensando allo scontro appena terminato. Lui … lui lo aveva …
 
-Copie…- esordì qualcuno alle sue spalle, in tono mesto e calmo –Non preoccuparti.-
 
Quella voce.
Angeal Hewley si voltò di scatto verso di essa e il battito del suo cuore fermò di colpo la sua corsa folle iniziata con quella visione. Si ritrovò ad annaspare, incapace di ritornare a respirare mentre i suoi occhi s’incastravano di nuovo in quelli magnetici dell’amico d’infanzia.
 
-Genesis …- mormorò, un filo di voce, rialzandosi piano e guardandolo da capo a piedi più e più volte per sincerarsi che non fosse un’altra semplice illusione.
 
Quello sorrise, l’ala nera che si portava dietro la spalla destra si sollevò appena assieme al suo braccio, ed Hewley si ritrovò a pensare che sarebbe stato felice di rivederlo, in altre circostanze.
Ma adesso …
 
-Cosa …- bofonchiò –C-che cosa significa tutto questo? – chiese confuso e sbigottito, guardandosi intorno e indicando con lo sguardo e un movimento delle braccia i cadaveri attorno a lui, tutti uguali e tutti vestiti di rosso.
 
Per la prima volta in vita sua, Angeal Hewley quelle poche certezze ancora in piedi venir meno, lasciandolo precipitare nel caos, e le parole abbandonare la sua bocca.
Perché Genesis aveva quell’aspetto malaticcio? Da dove veniva quella strana ala sulla spalla? E cos’erano quegli abomini che aveva appena sconfitto?
Che stava succedendo?
Domande, domande, domande e ancora domande.
L’unica certezza che ancora aveva era che tutto ciò doveva per forza essere collegato a quel cambiamento che Genesis aveva manifestato negli ultime mesi. Era un altro di quegli inevitabili incidenti, e quel qualcosa che il suo migliore amico d’infanzia non aveva mai voluto rivelargli.
Lo stesso motivo che lo aveva spinto a … a disertare, macchiando per sempre il suo onore e segnando il suo destino.
E così, quasi per caso sulla scia di quei rocamboleschi pensieri riuscì finalmente a rendersi conto di quanto Lazard avesse avuto ragione, seguendo quell’intuizione che lui invece aveva fino all’ultimo voluto rinnegare.
Genesis … aveva disertato e tradito la compagnia.
Ma perché?? Perché, dannazione??
 
-Che diamine stai facendo, Genesis?!?- sbottò a quel punto sgomento –Cosa ti sei messo in testa?-
 
Il rosso sorrise ancora una volta, tristemente. Possibile che gli anni della loro amicizia non gli avessero insegnato nulla?
 
-Hai detto una volgarità, Hewley.- replicò in tono vagamente canzonatorio, per quanto lui stesso si rendesse che la situazione in cui si era cacciato fosse tutto fuorché ridicola.
-Smettila!- lo ammonì autoritario a quel punto l’altro, rivolgendogli una seria e dura occhiataccia guardandolo dritto negli occhi, e avvicinandosi di più a lui –Hai firmato la tua condanna a morte, lo sai questo?- domandò nel tentativo di scuoterlo, senza preoccuparsi di mascherare la delusione e la rabbia che gl’invadevano il volto e rendevano roca la sua voce.
 
Genesis seguitò ad osservarlo, senza dire una parola, solo con quel sorriso amaro dipinto sul volto. Rimasero in silenzio per un interminabile istante, impegnati in quell’intenso duello, e per tutto quel tempo lo sguardo di Hewley riuscì a ferire Rhapsodos perfino più della verità di cui era venuto a conoscenza.
Lo sapeva.
Sapeva che sarebbe arrivato quel momento. Ma faceva ugualmente un male cane.
-Sono un mostro, Angeal.- mormorò alla fine, comprendendo lo sgomento dell’amico e ripensando con angosciosa melanconia agli immortali passi di Loveless.
 
Neanche loro ora furo in grado di lenire totalmente il suo dolore, ma almeno diedero un senso a tutto quell’assurdo trambusto.
Sorrise di nuovo, certo di sapere a cosa stesse pensando.
 
-Ammettilo. L’hai pensato anche tu quando hai visto le mie copie, e … quest’ala.- disse, miseramente rassegnato, facendo un passo indietro e dispiegandola in tutta la sua maestosa larghezza.
 
Hewley lo ignorò, distogliendo quasi subito lo sguardo da quella e continuando a fissarlo negli occhi. Scosse la testa contrariato.
 
-Guardami Angeal.- lo incalzò allora Genesis, tornando ad avvicinarsi –Guardami allora, se non è così.- quindi si fermò e fissò drammatico il cielo nero sopra di loro, gli occhi improvvisamente lucidi di lacrime –E dimmelo …- concluse tristemente –A cosa può valere la mia vita, adesso?-
 
Il moro tornò a rivolgergli uno sguardo infuocato, pieno di rabbia e amarezza.
 
-A cosa può valere la tua vita?- gli fece eco, quasi disgustato da quelle parole –Tu hai letto troppo, Genesis! Hai visto troppi spettacoli teatrali per i miei gusti e ti sei dimenticato di me!- sbottò, indicando sé stesso con un pugno chiuso sul cuore –A quanto pare allora, secondo te per me la tua vita non vale più di quella dei nostri nemici?- esclamò.
 
Poi riprese la spada che aveva abbandonato a terra e si avventò contro di lui sferrandogli un fendente che quello parò soltanto sollevandosi in volo, ed evitandolo appena mentre lo guardava sorpreso.
Non era da lui usare quel tipo di violenza, ma lo scontro diretto era l’unico modo per far ragionare Genesis e … per non pensare a tutta quella confusione che all’improvviso si era impossessato di lui, gettandolo nel panico che a questo punto si rese conto di non poter più controllare.
Per la prima volta, Angeal Hewley stava vacillando sotto il peso schiacciante degli eventi.
Succede anche ai più desti, l’aveva sempre saputo. Ma viverlo sulla propria pelle era molto diverso.
 
-Non osare mai più dire una sciocchezza del genere!- ringhiò minaccioso, guardando in alto verso il rosso.
-E’ la verità, Angeal.- ribadì però quello, tristemente –E che tu lo voglia o no, ci sei dentro fino al collo come me.-
-Basta, smettila!- urlò allora lui, che non ce la faceva più a sentirlo parlare così, scagliandogli contro un fulmine usando una materia.
 
Anche stavolta Genesis lo scansò, spostandosi dietro di lui e planando di nuovo a terra, alle sue spalle.
 
-Tu sei fuori di testa, Genesis!- ribadì, stavolta con meno veemenza ma con voce tremula, scuotendo il capo più volte –Prima l’invidia verso Sephiroth, poi l’insoddisfazione contro il reparto e adesso la diserzione.- tacque, respingendo testardamente un groppo di lacrime –La tua è follia…-
 
Ma in risposta Genesis tornò sorridere, amaro e impietosito, per l’ennesima volta.
 
-Sephiroth …- ripeté, puntando pensieroso i suoi occhi ancora su di sé e poi tornando a guardarlo, dopo un breve istante di nostalgico silenzio –Ci siamo dentro tutti e tre.- disse allora, preparandosi a rivelare quella verità che finalmente … non sarebbe stata più soltanto sua –Non lo capisci che ci hanno usati, e continueranno a farlo fino a che non ci vedranno morti? Magari …- aggiunse continuando a mostrarsi calmo, ma rincarando la dose – Saranno proprio loro a ucciderci, facendolo passare per un incidente sul campo.-
-Non voglio ascoltarti.- tagliò corto caparbiamente l’altro, voltandosi e facendo per riprendere la via del ritorno.
-Devi farlo, Angeal!- lo richiamò allora Rhapsodos, assumendo quel tono di voce di comando così autoritario, lo stesso che usava con le sue reclute disobbedienti per incutere loro quel po’ di sano timore che li avrebbe addomesticati.
 
Il moro si fermò, non tanto per quel timore ma per il tono diverso di voce che aveva riconosciuto. Era drasticamente cambiato, oberato e spezzato da una nota di amarezza e forte … dolore.
Si, un dolore talmente atroce da rendere quella voce di solito ferma quasi straziata, e la mente folle.
Si voltò e lo vide come non lo aveva mai visto, neanche una volta in vita loro. Sull’orlo delle lacrime.
Il sorriso era sparito dal suo volto, gli occhi si erano fatti lucidi e la Rapier stretta a malapena nella mano destra toccava miseramente il suolo. Sentì il cuore stringersi in una morsa, forse la più dolorosa mai provata in tutta la sua vita.
 
-Angeal …- gli disse, quasi supplicante –Tutti questi strani eventi, tutta la nostra vita e il fatto che i nostri destini siano così finemente incrociati, che i nostri genitori non ce l’abbiano impedito nonostante le apparenze da mantenere, le nostre diverse condizioni sociali. – infine rincarò la dose, allargando le braccia verso di lui quando lo vide scuotere ancora il capo titubante, mentre compieva di nuovo un passo indietro senza staccarsi dai suoi occhi – Perfino la nostra promozione a 1st, così rapida, e il particolare accorgimento che tutti gli scienziati della Shinra avevano nei nostri confronti. Tutto questo …- si fermò, smettendo di avanzare e ritrovandosi faccia a faccia con lui, il suo vecchio amico d’infanzia –Non ti dice nulla, Angeal? Proprio nulla?-
 
Hewley rimase in silenzio, turbato.
Stavolta … Genesis era ragione. Lo vide avvicinarsi a lui e supplicarlo con quel tono di voce come se fosse davvero suo fratello, il suo unico vero fratello, esattamente come aveva sempre fatto.
La sua mente tornò indietro alla loro infanzia, e lo rivide seduto accanto a lui mentre le lacrime per la morte di suo padre rigavano il suo viso. Il calore di un suo abbraccio, la sicurezza di quegli occhi testardi. In fin dei conti, Genesis era sempre stato vicino a lui come un vero amico, e lui aveva sempre agito per ripagarlo.
Anche adesso, con la convinzione di poter farlo ragionare.
Ma quel tono di voce, quelle … quelle lacrime che facevano scintillare di più quegli occhi color mako.
Lo convinsero ad ascoltarlo, anche se s’impose che non avrebbe creduto neanche ad una sola parole di fra quelle che avrebbe udito. Neanche una.
 
-No.- continuò a ribadire proprio per questo, seguitando a mostrarsi contrariato anche se, in  fondo al cuore, non sapeva neanche più se esserlo davvero.
 
Era come aveva auspicato Genesis. Lo avrebbe compreso, prima o poi, dopo aver saputo.
E proprio per questo a quel punto leggendo nell’indecisione della sua voce un’opportunità, Rhapsodos colse l’attimo e sorrise, alzando lo sguardo sopra la selva, verso il cielo trapunto di stelle.
Si staccò da lui, voltandosi.
 
-Neanche a me dicevano nulla.- ribadì –Poi un giorno sono entrato in possesso di alcuni documenti, carte importanti riguardanti i biechi affari di quegli scienziati …- aggiunse abbassando il volto e tornando a rivolgersi a lui.
-Chi te le ha date?- lo apostrofò Angeal.
-Questo non ha importanza.- replicò pazientemente lui, scuotendo il capo –L’importante è che lì dentro c’era scritto il nostro destino, e la risposta che cercavo.-
-Quale risposta?-
 
Il rosso si fermò a guardarlo, il suo sorriso si accentuò, gli occhi tornarono a brillare lucidi.
 
-La risposta a tutte quelle domande che prima o poi arriverai a farti anche tu … quando ti spunterà un’ala simile a questa, e comincerai a chiederti che razza di essere sei sempre stato senza saperlo.- soggiunse, allargando le braccia e l’ala nera con esse, e alzando altero il capo –Quando ti accorgerai che tutto intorno a te sta cambiando, e tu puoi solo aggrapparti alla speranza di un miracolo …-
 
“E di una morte felice, da libero.” Pensò dentro di sé, ma senza aggiungerlo. Angeal non avrebbe retto ad un’altra di quelle parole.
Difatti, lo ascoltò quasi terrorizzato quelle parole, sconcertato e incredulo.
 
-Che cosa stai dicendo, Genesis?- mormorò infine, più rivolto a sé stesso che a lui, scuotendo sempre più piano la testa e abbassando gli occhi.
 
E a quel punto al rosso non restò che esibirsi nelle sue ultime battute, prima di chiudere il sipario su quel primo atto, preludio di molti altri tragici eventi che di lì a poco li avrebbero coinvolti.
 
-Vieni con me.- lo invitò, tornando ad avvicinarsi –Te lo farò vedere con i tuoi stessi occhi.-
-No!- si oppose quello, riscuotendosi e indietreggiando bruscamente –Non diserterò se è questo che vuoi!- ribadì, deciso e caparbio –Tu forse avrai altre cose a cui pensare, ora, ma io devo ancora proteggere l’unica cosa che mi resta. Il mio onore e il mio nome.-
 
Genesis scosse tranquillo il capo, sorridendogli pacifico.
 
-Non ti sto chiedendo di disertare con me.- lo tranquillizzò –Ti sto solo chiedendo di dedicarmi un po’ del tuo tempo, tutto qui.- insistette ancora, supplicante –Questione di giorni, massimo di un paio di settimane. Forse addirittura di ore.- si fermò, per dargli l’opportunità di scrutarlo e pensare –Dammi solo un’occasione per dirti quello che so … poi deciderai tu stesso cosa fare. Come ho fatto io …-
 
Angeal sospirò, affranto.
 
-Genesis …- provò a opporsi un’ultima volta.
 
Ma quello non si perse d’animo. Era troppo importante, per pensare di farlo. Erano fratelli.
 
-Pensaci Angeal. Per favore.- lo implorò.
 
E a quel punto lui si scurì in volto, indeciso e preoccupato.
Cosa voleva Genesis da lui? Perché all’improvviso tutte quelle domande, tutti quei dubbi? E poi … se fosse andato con lui, cosa avrebbe fatto o pensato Zack di lui?
Non era ancora pronto per combattere da solo, in situazioni così critiche. Non voleva lasciarlo solo così, senza sapere se poi sarebbe potuto ritornare o meno. Quella situazione rischiava di prendere una piega inaspettatamente drammatica, ma non poteva neppure lasciare andare il suo migliore amico così, incontro alla sua follia senza neanche provare a fermarlo. Del resto era per questo ch’era giunto lì, per ritrovarlo e convincerlo a tornare.
Poteva ancora aiutarlo a redimersi, ma … cosa aveva intenzione di dirgli? Che cosa avrebbe scoperto se lo avesse seguito?
Forse … la domanda giusta da farsi era un’altra.
Tu, Angeal Hewley, sei pronto alla verità?
Restava … ancora un’ultima questione da chiarire, prima di decidere.
 
-Dove hai intenzione di andare?- domandò.
 
Genesis sorrise, tranquillo e malinconico, senza riuscire a nascondere la contentezza nel sapere di essere riuscito a convincerlo almeno ad ascoltarlo.
 
-Dove tutto è iniziato, amico mio …- rispose calmo –A Banora.-

 

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Capitolo 25
*** Under the apple trees ***


Capitolo XXIII
 
 
Alice: “E’ impossibile!”
Cappellaio: “Solo se pensi che lo sia.”

(Alice in Wonderland)
 
Genesis Rhapsodos.
Gli haters lo odiano, pensano non sia altro che un ricco figlio di papà montato di testa, orgoglioso, testardo e sbruffone, in cerca di un tesoro che non esiste e ossessionato semplicemente da un libro che non è mai stato completato, perché convinto di poterne scoprire il reale significato.
I fan lo adorano, attratti dal suo carisma, dalla sua passionalità, dal suo aspetto e dalla posizione che ricopre, come membro d’élite dell’élite della Shinra.
Io, invece … lo amo, e basta, dal primo momento in cui vidi quei suoi occhi intensi e tristi e capii che non c’era superbia nel suo cuore, né orgoglio nel suo sguardo. Solo dolore e tanta voglia di sapere, di redimere sé stesso e riuscire anche solo un’ultima volta a identificarsi ancora con quell’umanità che credeva di aver perso per sempre. Tornare a sentirsi normale, bambino, anche solo per una volta ancora prima di chiudere gli occhi nel dolce sonno della morte.
Ognuno dà alla parola eroe un significato diverso, più adatto alle proprie aspirazioni e inclinazioni d’animo.
Per Angeal significava non perdere mai l’onore, la propria dignità, e credere sempre nei propri obiettivi e sogni, qualsiasi ostacolo si potesse incontrare sul proprio cammino.
Per il diciottenne Zack Fair significava diventare un first come il suo beniamino, Sephiroth, essere invincibile e ammirato, capace di prodezze ineguagliabili.
Per Sephiroth era solo un carico in più di responsabilità e oneri da portare.
Per Genesis invece … diventare un eroe non voleva dire altro che completare il messaggio della dea, trovarne il segreto. E così restituire al mondo una parte immortale di sé, quella a cui in fondo tutti gli artisti ambiscono e che continua a vivere dopo di loro attraverso le proprie opere.
La tua, amore mio, sarebbe stata la più indimenticabile di tutte. L’ultimo atto di Loveless.
E tu saresti stato colui che né svelò il mistero.
 
***
 
Il giorno dopo la rivelazione fu il principio della mia nuova vita.
Ancora confusa dal sogno che avevo avuto, riaprii gli occhi e mi guardai intorno.
La luce del sole del mattino inondava la stanza, rischiarandola col suo piacevole tepore, e dal piano di sotto non proveniva ancora nessun rumore. Lanciai un’occhiata alla sveglia, segnava qualche secondo alle otto.
Cacciai la testa da fuori le coperte e aprii la bocca, concedendomi qualche secondo per respirare visto che mi accorsi di iniziare a farlo con fatica.
Mi succede a volte.
In quel preciso istante poi mi sembrava come se il cuore mi battesse forte in petto. Mi misi supina sul materasso e provai a regolare la respirazione, appoggiando una mano sul cuore per sentirlo ma accorgendomi invece di come battesse calmo e regolare come al solito.
Sospirai. “Ci risiamo.” Pensai rassegnata.
Quindi mi alzai mettendomi a sedere, ma evidentemente lo feci troppo bruscamente e la testa mi girò facendomi malissimo.
Strinsi le tempie con entrambe le mani, e i denti.
È sempre stato così da quando sono nata. Di solito quei giramenti di testa mi colpivano spesso quando ero stanca o debilitata e mi sottoponevo a sforzi estremi o movimenti bruschi.
Lo sai, questa è una cosa di me che credo di non averti mai raccontato, ma che mi rappresenta molto.
All’epoca della mia venuta al mondo questi mi sembrava così bello ed emozionante da vivere che decisi di fare in fretta a farlo, e così nacqui un mese prima.
Quello che non potevo sapere però è che questo mi avrebbe causato molti problemi, nel corso della mia vita, tra i quali costituzione gracile e convulsioni, soprattutto quando la febbre saliva oltre i trentasette e non si abbassava più, per via della mancanza in me di un sistema immunitario completamente formato.
Presi medicine fino all’età di dieci anni, e non so dirti quante visite mediche mensili feci ogni anno, e quanti natali e inverni passai in ospedale, solo per colpa di un semplice raffreddore o di un’influenza.
Ad ogni modo la vita in campagna, fino a che ci fu, alleviò il mio sconforto e mi regalò la gioia di vivere, e col passare del tempo questi problemi si fecero sempre meno evidenti fino a scomparire, e il mio corpo si rimise in sesto da solo seguendo le leggi di madre natura.
Ma qualche cicatrice me l’ha lasciata, come gli attacchi di panico, ma non solo.
Non posso sopportare le alte temperature, il freddo alle orecchie e al collo, determinati cibi mi sono indigesti e ho bisogno di un ricostituente, ogni tanto.
A volte sono così stanca da non avere nemmeno la forza di alzarmi dal letto.
Come quel giorno.
Attesi qualche istante ancora prima di alzarmi completamente.
Stropicciai gli occhi con le dita delle mani e feci un paio di lunghi sospiri senza riaprire le palpebre.
Ascoltai il silenzio della campagna, il dolce canto degli uccelli e il ticchettare della vecchia sveglia sul comodino.
Sentii qualcosa vibrare un paio di volte proprio sopra di esso e solo allora mi ricordai di aver lasciato il telefono acceso dopo aver risposto al messaggio di buonanotte di Zack.
Pensai fosse il suo buongiorno, quindi sorrisi e riaprendo gli occhi di fretta lo afferrai, curiosa e ansiosa di leggerlo.
Quei messaggi … non erano una novità ormai per me, neanche nel loro contenuto.
Ma mi facevano bene al cuore, erano diventati ciò che più aspettavo durante tutto l’arco della giornata, per questo non avrei mai voluto rinunciarci.
Tuttavia, un messaggio come quello che stavo apprestandomi a leggere … era proprio quello che temevo di più, e a cui invece avrei rinunciato volentieri.
 
\\\
 
Ora più che mai spero di riabbracciarti presto. Mi manchi da morire, sorellina.
Ti giuro, non appena tutto sarà risolto verrò da te.
Un abbraccio.
 
Zack
 
Rimasi gelida davanti allo schermo del telefono, incredula, senza … senza riuscire a pensare a nulla.
Riuscivo solo a rileggere quasi caparbiamente quelle poche tragiche righe, immaginando il tono di voce di Zack, distrutto e impensierito, mentre le enunciava.
A bocca aperta annaspavo, inspiegabili lacrime cominciarono a scivolare lente e bollenti lungo le mie guance mentre con le mani coprivo la bocca e tentavo di soffocare i singhiozzi, sempre più incessanti.
Non hai idea di come fossi stata, da quando Zack mi aveva lasciato lì.
Il giorno tornavo bambina, con i suoi genitori e la natura che mi circondava, ma la notte.
La notte era orribile, affollata di pensieri e dilaniata da un silenzio insopportabile.
Ogni giorno verso il tramonto Zack mi mandava quei messaggi, per sincerarsi che stessi bene e che anche i suoi fossero al sicuro. Ormai li aspettavo con ansia, come l’unica consolazione dello starmene lì ad aspettare che il tempo passasse.
Mi sentivo impazzire.
E quando poi, all’improvviso, quel messaggio arrivò … mi sentii morire, e una paura folle s’impossessò di me mozzandomi il fiato.
Avrei preferito non saperlo. O in alternativa … avrei preferito essere ancora lì con te, anche se questo avrebbe voluto dire stare nel bel mezzo dell’occhio del ciclone.
Invece ero milioni di chilometri distante, e tu … tu te ne eri appena andato via.
 
Genesis ha disertato, o almeno questo è quello che sono riuscito a capire, e con sé ha trascinato molti 3rd e 2nd class.
 
Ecco che il momento era arrivato, alla fine.
Ma … in fondo io avrei dovuto saperlo.
Che fa male innamorarsi perdutamente di un personaggio dal destino così crudele, che non c’è speranza … se sei una ragazza che viene dal futuro e non puoi modificare neanche una singola riga di quello che poi diventerà rapidamente passato.
Mi sentii mancare davvero, stavolta. E un singhiozzo strozzato sfuggì dalla mia gola.
Le mani tremavano, gli occhi si riempirono di lacrime. Un calore assurdo divampò in me, fino a infuocarmi gli occhi.
Mi riscoprii devastata, e pensai che quella doveva essere semplicemente l’ennesima reazione fisica a quell’emozione così forte.
Iniziai a singhiozzare portandomi una mano davanti alla bocca e premendo per impedirmi di fare rumore. Non volevo che i genitori di Zack si preoccupassero, dato che molto probabilmente almeno sua madre stava dormendo nella stanza accanto alla mia.
Provai a smettere senza riuscirci, poi all’improvviso un bagliore attirò i miei occhi e uno strano gelo prese ad accarezzarmi il mento, le labbra e la parte di viso dove il palmo premeva contro la pelle.
Sobbalzai e mi guardai le mani, gli occhi gonfi e appannati.
Vivide fiamme danzavano sulle mie dita, intense e scoppiettanti ma ... quasi inesistenti per me, non le sentivo proprio non fosse stata per quella strana frescura sulla punta.
Mi sembrò … di stare sognando di nuovo.
Continuai a fissarle incredula, a muovere le mani chiudendo e aprendo i pugni, e ci misi un po’ prima di capire che invece quella era un’altra sorpresa della mia nuova, stupefacente realtà.
Me ne accorsi quando, alzando lo sguardo, vidi riflesso nello specchio in fondo alla camera il mio viso, e in particolare i miei occhi. Infuocati e ardenti come un tizzone acceso.
Scattai in piedi trattenendo un urlo, il fuoco nelle mani sparì in quell’istante ma non quello nei miei occhi. Avvertii ancora una volta quella sensazione di forte calore crescere in me, nel mio petto, fino a bruciarlo e strinsi le labbra trattenendo un grido di paura e dolore.
Annaspai. “Devo uscire immediatamente”.
Ma come feci per alzarmi le gambe tremarono e caddi a terra, le mani protese in avanti e poi una a stringere forte la stoffa della maglietta azzurra che mi copriva il petto. Era un regalo della madre di Zack. Quella famiglia mi ha dato tanto … e io sono sparita così.
Sembra essere il loro destino, donare senza ricevere nulla in cambio, solo preoccupazione e dolore.

Soffocai un altro grido, anche se stavolta fu più difficile e dovetti mordermi la lingua per resistere al dolore.
Una luce sempre più sfavillante iniziò a propagarsi dal centro del mio petto. Ebbi paura, una paura assurda. Non sapevo ancora cosa mi stava accadendo. Quello fu l’inizio di tutto.
Mi rialzai di nuovo, determinata a uscire fuori prima di venire scoperta, e radunando tutte le mie forze mi spinsi fino al piano di sotto, trascinandomi lungo la ringhiera delle scale e strisciando sui muri.
Attraversai di nuovo il breve corridoio tra salotto e cucina, verso l’uscita, quindi spalancai la porta e … ancora una volta, il miracolo avvenne.
Non fu il paesaggio di Gongaga ad accogliermi, ma uno più addomesticato, tranquillo e fiorente.
Era un villaggio sì, ma non quello in cui mi trovavo fino a pochi attimi fa.
Lo compresi dalla fattura diversa delle case, dall’atmosfera, e … dagli alberi di accidenmele sparsi qua e là lungo il sentiero di terra battuta che lo percorreva.
Un’espressione sbalordita e incredula si dipinse sul mio volto, la luce nel mio petto si spense.
Banora.
Era … io ero … ero arrivata a Banora. Ancora?
Ma come … come accidenti ci ero riuscita?!
 
 

///Flashback///
 
Ventidue anni dopo la sua partenza dal villaggio natio, non appena Angeal Hewley rimise piede sul suolo di Banora un nugolo di ricordi invase la sua mente, e guardandosi intorno assorto, quasi accecato da tutti quei colori che si scoprì non essere più abituato a vedere, sempre immerso com’era stato nel grigiore cupo e malato di Midgar, ci mise qualche minuto a elaborare ciò che gli era appena accaduto, ritrovandosi nuovamente a terra, proprio di fronte all’entrata del villaggio, il sentiero ricoperto dalle alte cime degli alberi di accidenmele.
Osservò a bocca aperta i nodosi e robusti rami degli alberi che crescevano sempre più carichi di frutti, e tutto gli sembrò esattamente come lo aveva lasciato, quasi come parte di una immortale cartolina, mentre nella sua mente scorrevano le lunghe giornate passate a giocare con Genesis sotto di essi, seduti sulla soffice erba ai lati del sentiero.
Genesis …
Era stata una sensazione strana, essere trasportato proprio da lui fin lì, sulle ali del vento, coi piedi sospesi a diversi metri da terra.
Un shock sentire di alzarsi in volo, stretto nella sua presa, e guardare la sua enorme ala nera sbattere i primi colpi in aria.
 
-Genesis …- aveva mormorato rivolgendogli uno sguardo stupefatto e sconcertato –Cosa sei tu?-
 
Quello era tornato a sorridere, malinconico e quasi addolorato.
 
-Te l’ho detto, Angeal …- era stata la risposta –Un mostro.-
 
Poi era tornato a guardarlo negli occhi e aveva concluso, con un’espressione affranta prima di incominciare a volare via da lì.
 
-Ma la domanda che dovresti farti è … chi siamo noi?-
 
Ci avevano impiegato quasi una settimana a raggiungere Banora da Wutai. Il volo in due stancava, e più volte Genesis aveva dovuto fermarsi a riposare, toccando di nuovo terra.
Ma per tutto quel tempo mentre lo guardava senza essere più capace di dire anche solo una parola Angeal non era riuscito a darsi una risposta, senza neanche comprendere fino in fondo il senso di quelle parole. Più volte Genesis gli aveva sorriso tranquillo, senza aggiungere altro, quasi fosse sicuro che, prima o poi, anche lui sarebbe arrivato a comprendere.
Avrebbe voluto avere la sua stessa fiducia.
 
-Bentornato a casa, amico mio.-
 
La voce del rosso lo riscosse da quei ricordi, riportandolo al presente.
Si voltò. Genesis richiuse la sua ala, sospirando stanco, quindi si guardò intorno nostalgico e infine si sedette a terra, proprio sotto uno di quegli alberi, appoggiò la schiena al suo tronco e toltosi un guanto affondò la mano nei suoi capelli arruffati dal vento e sudati, per poi riportarla atterra accanto a sé e raschiando con le dita la terra nuda e morbida sotto di esse, buttando indietro la testa ed emettendo un lungo sospiro mentre chiudeva gli occhi.
Affannava alla ricerca di aria.
 
-Sei stanco?- gli chiese dunque Angeal, preoccupato, avvicinandosi.
 
Quello tornò a guardarlo e a sorridere, sforzandosi con tutto sé stesso di farlo il più serenamente possibile.
 
-Sei pesante da portare …- scherzò –quasi più della tua spada.-
 
Angeal seguitò ad osservarlo, sempre più confuso e dispiaciuto.
Tutto era così … maledettamente cambiato, in pochi giorni. O magari senza che lui se ne fosse accorto era avvenuto l’evento più folle e pazzesco del mondo: Il tempo era tornato indietro, ma loro continuavano a crescere.
E, quasi senza che lo volesse, fu allora che si ricordo di lei, quella strana ragazza piovuta dal cielo.
Forse anche a loro era successa la stessa cosa, rifletté.
Erano stati catapultati nel passato, o forse …
Fermò i pensieri, imponendosi autocontrollo ma riuscendoci solo per metà. Che stupidate stava pensando? Genesis avevo ragione, forse tutti quegli sconvolgimenti stavano cominciando a farlo diventare matto.
 
-Ho bisogno di riposare.- aggiunse Rhapsodos a quel punto, e quando gli rivolse di nuovo attenzione notò ch’era pallido e aveva la fronte imperlata di sudore.
 
Quasi come una strana, consolatoria coincidenza, una leggera brezza fresca prese a soffiare in risposta a quella sua richiesta, scuotendo appena i fili ambrati dei suoi capelli. Genesis chiuse gli occhi per un attimo, sorridendo e assaporando quel momento di sollievo.
 
-Vuoi che resti con te?- gli chiese, ma l’altro scosse sicuro la testa e rivolgendogli di uno la sua attenzione suggerì, traendo un largo sorso di fiato.
-Gillian … va da lei, chiedile ciò di cui abbiamo parlato.-
 
Angeal rabbrividì.
 
-L’hai vista?- chiese ansioso.
 
Il rosso sorrise e annuì.
 
-Sta bene.- replicò tranquillizzandolo –Va’ …- seguitò ad incoraggiarlo .-Ti aspetto domani sotto all’albero di fronte a casa mia. Prenditi tutto il tempo che ti serve.-
-E tu che farai, nel frattempo?-
 
Seguì un breve attimo di assorto silenzio.
Genesis Rhapsodos, stremato, si diede ancora qualche istante prima di rispondere.
“Rimarrò da solo con la mia mostruosità, porterò dei fiori sulla tomba di quelli che un tempo mi chiamavano figlio.” Pensò amaro, ma ancora una volta evitò di appesantire il cuore già gravato dell’amico con quei suoi melodrammatici pensieri.
Non voleva dargli altri dispiaceri oltre a quelli che sarebbe stato costretto a subire, nei giorni a venire, e poi … non voleva in alcun modo vedere ancora una smorfia di paura o disgusto nei suoi confronti sul viso dell’amico del cuore.
 
-Andrò dai miei …- mentì, consapevole che prima o poi sarebbe stato costretto a dirglielo –Non temere.-
 
Angeal annuì, lasciando andare il fiato.
 
-Non cacciarti nei guai.- sorrise, sforzandosi di non apparire turbato più di quanto già non lo fosse.
 
Lontano da lì, Lazard aveva probabilmente avviato anche le sue ricerche, e tra poche ore o giorni anche lui sarebbe stato considerato un disertore alla stregua di Genesis.
E Zack? Cosa avrebbe pensato di lui?
Tutto questo … tutto questo andava contra la sua idea di onore.
Genesis sorrise e gli scoccò un occhiolino.
 
-Noted.- replicò.
 
Eppure, nonostante tutto, Angeal continuò a restare ancora qualche minuto con lui, fino a che, mosso dai continui incoraggiamenti, se ne andò verso casa sua e il suo destino.
E, poche ore più tardi, il messaggero di Minerva raggiunse il luogo a cui era destinata.
 
///Fine Flashback///
 
Da non crederci. Per l’emozione quasi non mi mancò il fiato.
Come … com’era stato possibile, di nuovo? Guardai le dita delle mie mani e vidi piccole fiammelle spegnersi velocemente sulle punte, e allora ripensai a quel sogno, alle parole della me stessa bambina.
Che centrasse questo?
Era magari, opera della dea?
Non seppi deciderlo, in quel momento avevo solo tanto stupore e tanta paura dentro di me.
Banora.
Come potevo essere a Banora, dall’altra parte del globo?
E soprattutto, quando ero arrivata lì? In che momento della tua storia?
Di sicuro prima che la tragedia si abbattesse anche su quelle case, visto ch’erano ancora intatte e non incenerite dal fuoco.
Un altro sordo dolore al petto, come una fitta dolorosa.
Dalle mie labbra sfuggì un lamento e afferrai di nuovo la stoffa della maglia sul cuore, abbassando il volto e stringendo i denti.
La mia bocca si aprì in un lamento.
 
-Ah!- esclamai dolorante annaspando, e per poco non ricaddi a terra.
 
Fu come essere pugnalata al cuore, o come quando qualcuno rigira il coltello nella piaga.
Ma durò pochissimo, e fortunatamente tornai a respirare.
Sollevata presi ampie boccate d’aria, continuando a chiedermi cosa mi stesse accadendo, e nel frattempo mi voltai a guardare la casa, e mi accorsi che anche quella era cambiata.
Ora mi trovavo in una baracca abbandonata, probabilmente un tempo abitata ma ora spoglia e piena di erba e polvere.
Sul fondo della piccola stanza dormiva una belva dalla pelle viola e dalla coda in fiamme, accucciata sul pavimento. Trattenni il fiato guardandola, temendo che potesse saltarmi addosso, ma non si era accorta neanche minimamente del mio arrivo e questo contribuì al mio stupore e alla mia incredulità.
Scossi il capo, richiusi la porta.
Non è possibile, sto sognando di nuovo.” Pensai, senza considerare che nel mondo in cui ero stata catapultata l’impossibile era soltanto ciò che i tuoi occhi non volevano vedere.
Un sogno? Forse. O forse no.
Ma non potevo starmene lì ferma a guardare quella belva feroce dormire in attesa di scoprirlo, così mi feci coraggio e aprii nuovamente la porta, mi immisi nel villaggio semideserto iniziando a camminare lungo il suo sentiero, tra voli d’insetti e polline, il profumo dell’erba estiva e un silenzio pacifico, mentre una brezza dolce mi accompagnava nel mio cammino spettinando il prato intorno a me e scuotendo le chiome degli alberi, avvolgendomi quasi a farmi coraggio.
Continuai ad avanzare a bocca aperta, e quasi senza che me ne accorgessi un dolore sordo mi circondò il cuore, ed i miei occhi si riempirono di lacrime che iniziarono a rigarmi il viso.
La casa di Angeal, la tua, quella grande e ampia dal tetto in tegole e i muri verniciati di cremisi, il grande albero di banora apple. Li superai tutti, fermandomi soltanto per un breve attimo di fronte alla tomba, proprio sotto a quest’ultimo.
Non caddi in ginocchio soltanto perché una forza misteriosa che mai avrei creduto di trovare in me me lo impedì, ma sentii comunque le gambe tremare paurosamente, e i singhiozzi ricominciarono, il viso rosso fu inondato di nuovo dalle lacrime.
Dunque … ecco il punto della tua storia in cui ero arrivata.
Tardi, visto che avevi già disertato e … ucciso la tua famiglia.
Non riuscivo … neanche a pensarlo.
E l’immagine di te cozzava costantemente contro l’immagine di quei fiori freschi su un paio di cumuli di terra senza nome.
L’avevi … già fatto. Ed io non ero riuscita ad impedirtelo, ero arrivata tardi.
Un dolore che mi lacerò l’animo, ripensando a tutti i giorni inutili che avevo trascorso sola a Gongaga, in attesa del ritorno di Zack, mentre tu soffrivi da solo e in silenzio, lontano da tutti.
Un’altra folata di vento, più forte delle altre, mi riscosse. Alzai il volto verso il cielo, nella speranza che questa bastasse ad asciugare tutte le lacrime e portar via il sale amaro che mi si era posato sulle guance in bocca, e voltando le spalle al sepolcro fu allora che, come un’epifania, ti vidi: Lontano, ma proprio di fronte a me, sulla collinetta che dava le spalle alla fabbrica al centro dell’ampio spiazzo in cui sfociava il sentiero.
Mi mancò il fiato, una mano si strinse sul cuore e l’ultimo singulto ricacciò in dentro l’aria di cui i polmoni avevano bisogno.
Te ne stavi seduto sopra un masso piatto, sotto un piccolo albero di banora white, e assorto osservavi tutto in silenzio, chiudendo ogni tanto gli occhi e riaprendoli velocemente come a ricacciare in dentro il dolore.
Sospirai, strinsi i pugni ed iniziai ad avanzare, decisa a raggiungerti. Mano a mano che avanzavo il mio passo si faceva più veloce e sicuro, le mie gambe ritrovavano forza e la tristezza sul mio volto lasciava il posto ad un sorriso sollevato.
È vero, ero stata lontana e forse non sarei più riuscita a rimediare agli errori che avevi già commesso. Ma avrei ancora potuto salvarti, starti vicino, amarti e consolarti. Abbracciarti.
Era quello che volevo fare, più di ogni altra cosa. Abbracciarti e basta, ripeterti che non era ancora finita.
Ma quando riuscii finalmente ad essere a pochi metri dietro di te, che non ti era ancora accorto di me, ancora una volta rimasi in silenzio a guardarti, rispettosa come un appassionato di fronte alla più bella opera d’arte mai vista prima.
La tua immagine forte, nonostante tutto, si stagliava malinconica e dolce in mezzo al magico sfondo del villaggio natio, Banora, coi suoi tetti di legno, le sue dolci colline e il verde prorompente, i tuoi capelli rossi dai riflessi accesi come il sole risaltavano ancor di più contro il blu intenso del cielo mentre i tuoi occhi verde acqua osservavano le piccole nuvolette che lo solcavano correre veloci verso l’orizzonte e sparire, distanti da tutto e da tutti. Come avresti voluto fare tu, ma le tue ali stanche non avrebbero avuto la forza di condurti là.
Soffocai un singhiozzo, troppo tardi però perché riuscissi a non disturbarti.
All’improvviso ti risvegliasti, alzasti la testa allertato e ti voltasti a guardarmi, colorando i tuoi occhi di stupore.
Tremai.
Quello sguardo, il tuo sguardo.
Stupefancente, ipnotico, misterioso con quei piccoli ciuffi rossi che ricadevano piano a coprirlo. E poi tutto il resto.
Il tuo modo di fare, il tuo corpo avvolto dalla divisa nera e da quel lungo e pregiato soprabito rosso i cui lembi erano ora accarezzati dal vento, la tua postura, dritta, decisa, sicura anche adesso che il degrado la appesantiva un po’.
Estasi.
Ancora una volta rischia di svenire, le lacrime che ricominciarono a scivolare giù dagli occhi e la bocca incapace di mormorare altro che non fosse il tuo nome.
 
- Genesis … - mi lasciai sfuggire, coprendomi subito dopo la bocca con la mano destra, incredula di me stessa.
 
Tu rimanesti lì immobile, continuando a fissarmi come la prima volta, con quello sguardo intenso e severo, stringendo i pugni quasi minaccioso dopo un breve attimo di stupore.
 
- Tu … - dicesti - Che ci fai qui? Come mi hai trovato? -
 
Incalzata, incapace di rispondere, annaspando nel tuo essere. Rimasi muta ancora una volta ripensando a quanto anche soltanto la tua immagine significava per me.
Ora, e anche prima di conoscerti, durante tutti i giorni della mia esistenza … tu sei il mio tutto, tutta la mia vita riassunta in uno sguardo.
Qualcosa capace di sopraffare chiunque.
Le mie paure, le mie gioie, le mie ansie, i miei dolori, le mie mille domande. Il mio modo di vedere e vivere, la mia passione per la scrittura, l’arte, la religione.
Tu sei … uguale a me. Sei me.
E sei anche dannatamente bello, da mozzare il fiato.
Ma adesso pretendevi una risposta, ed era anche giusto che fosse così. Non avresti potuto scappare, eravamo l’uno di fronte all’altro in una situazione senza via di uscita.
Scossi il capo, cercando di calmarmi e riprendere fiato.
 
- Non … - mormorai, senza riuscire a finire la frase.
 
Mi guardasti ancora per qualche istante, sospettoso, ed io ringraziai il cielo per l’ennesima folata di vento che mi sfiorò, perché soggiogata annaspai alla ricerca d’aria mentre la temperatura del mio corpo continuava a salire, salire, vertiginosamente, e qualcosa dentro di me cambiava, si muoveva.
Passione? O soltanto semplice timidezza?
La mia mente corse a qualche anno prima, mi ricordai di quel ragazzo di cui mi ero follemente innamorata ai tempi del liceo. Un inseguimento senza nessuno scopo, un amore non ricambiato e stancante, sfibrante. Alla fine la mia autostima ne era uscita pesantemente lacerata, e avevo capito che per tornare ad essere me stessa davvero avrei dovuto smettere di correre e imparare ad amarmi, prima di amare qualcun altro.
Con te, all’inizio, tutto tornò. Forse non avevo ancora imparato a scegliere l’uomo giusto per me, ancora non avevo smesso di correre dietro ai cuori di pietra.
Sapevo e so che non lo sei, non lo sei mai stato. Ma quando ti comportavi in quel modo era davvero difficile guardare oltre le apparenze, soprattutto dato il periodo di forte confusione che stavo attraversando. Ecco perché la dolcezza di Zack aveva fatto breccia nel mio cuore. Mi faceva sentire al sicuro, invece il tuo astio e la tua passionalità, seppur simile alle mie, mi spaventavano e mi tarpavano le ali.
Ghignasti, quasi sprezzante.
 
- Non vorrai di nuovo dirmi che non lo sai. - mi rimbeccasti.
 
Sollevai i miei occhi dentro i tuoi, smisi di piangere e sostenni il tuo sguardo con coraggio.
Strinsi i pugni. Cosa dovevo risponderti?
Non mi avresti creduto comunque, ma continuai a guardarti lo stesso lasciando che fossero i miei occhi a parlare per me.
Non credesti neppure a loro, e con una smorfia sbruffasti e tornasti a schernirmi, indicandomi con un cenno del capo.
 
- Ecco un’altra pedina del Presidente. -

Subito dopo, senza neanche darmi tempo di risponderti, mi scagliasti contro un globo infuocato dalla mano destra.
 
- No! - urlai, il cuore che mi rimbalzò in gola battendo all’impazzata, distogliendo lo sguardo, chiudendo gli occhi e incrociando le braccia davanti al viso quasi come se soltanto questo bastasse a proteggermi.
 
Chiunque, inclusi tu ed io, avrebbe saputo che quel banale gesto non sarebbe bastato a salvarmi.
Proprio per questo entrambi rimanemmo sorpresi a fissarci quando ci accorgemmo di ciò che era appena accaduto: Non solo non mi era successo nulla, ma … avevo chissà per mezzo di quale arcano potere creato una barriera magica che mi aveva protetto dal tuo attacco, lasciandomi indenne.
Trattenni il respiro osservando meravigliata il bagliore bluetto della barriera che velocemente si dissolveva.
Ecco un’altra di quelle cose che non riuscivo a spiegarmi. Questa però era ancora più evidente, ed era apparsa proprio davanti ai tuoi occhi.
Cosa … come … c’ero riuscita?
E … se avevo fatto questo, chissà cos’altro sarei stata capace di fare.
Cos’altro mi era accaduto durante al viaggio dalla mia dimensione alla tua?
Era diventata … una SOLDIER?
Alzai gli occhi di nuovo sui tuoi, specchiandomici quasi, e ripensando alla mia immagine nello specchio del bagno di casa di Tseng.
L’assenza di bagliori Mako nei miei occhi sarebbe bastata a scongiurare questa ipotesi?
Mentre me lo chiedevo, struggendomi e affannandomi a ricercare una risposta al più presto, all’improvviso tu avanzasti veloce verso di me, portandoti a pochi centimetri davvero dal mio viso, mi afferrasti il polso destro con la tua mano guantata di pelle color porpora e fissandomi ringhiasti, pretendendo una risposta.
 
- Come diavolo hai fatto, ragazzina? Cosa sei? Da dove vieni? -
 
Senza riuscire a staccare gli occhi dai tuoi, sopraffatta dalla vicinanza e dall’intensità del momento, lanciai un rapido sguardo prima alle mie mani, incredula, poi di nuovo tornai a sostenere il tuo e risposi, supplicante e disperata scuotendo il capo.
 
- Io non lo so, Genesis … - la voce tremula, quasi sull’orlo delle lacrime - Non lo so, credimi! -
 
Mi respingesti, scacciandomi nervosamente lontano esattamente sul ciglio della collina dove prima stavi tu. Ricominciai a piangere in silenzio, mentre ti osservavo sospirare spazientito e tornare a fissarmi con astio.
 
- Non lo so più cosa sono, io non riesco a capire cosa accidenti mi stia accadendo! - sbottai, tornando a piangere mentre seguivo a voce alta il filo scoordinato e confuso dei miei pensieri - Né perché sono piombata qui, dal mio mondo! Io non sapevo nemmeno di riuscire a fare … - gli mostrai le mani, tremanti - Questo! Tutto quello che ti ho detto fino ad oggi è vero! Tutto vero, io non ho la più pallida idea di che cosa devo fare adesso! -
 
Avevo la gola in fiamme quando finii di urlarti contro la mia agitazione. Ardente come tutto il resto del mio corpo, invaso da un calore innaturale che si propagava dal cuore e imperlava la mia fronte di sudore e di una carica di energia mai provata prima.
Tu restasti in silenzio ad ascoltarmi, pian piano la rabbia sul tuo volto scomparve per lasciar posto dapprima allo stupore e poi, sempre più chiaro, ad un bagliore di amorevole comprensione che trasformò i tuoi occhi e colorò le tue labbra avorio di un sorriso.
Era come se avessi all’improvviso compreso ogni cosa, come se un pensiero fosse giunto a darti la rivelazione, ma io ancora non riuscivo a decifrarla.
Di nuovo, inaspettatamente prendesti ad avanzare verso di me, ti avvicinasti con calma e infine stringendomi le spalle mi guardasti dritta negli occhi carico di speranza e disperazione. Le stesse che si riflessero nei miei occhi non appena mi accorsi che il vento stava cambiando.
 
- Valery … - mormorasti.
 
Rabbrividii, chiudendo per un attimo gli occhi e deglutendo a vuoto.
Il mio nome. Sorrisi appena, confortata.
“Dillo ancora, ti prego. Dillo di nuovo, il mio nome. Dillo per sempre … Genesis.”
Ora che i tuoi occhi erano inchiodati così a fondo nei miei. Adesso che le tue mani mi stringevano, e che potevo sentire forte la tua presenta, averti davvero accanto e non attraverso lo schermo di un dispositivo elettronico a dividerci …
Ora più che mai avevo bisogno di sentire la tua voce, calda e melodiosa, che mi aveva sempre infuso calma e serenità dalla prima volta in cui l’avevo sentita.
Era il mio calmante, il mio elisir.
Quando avevo bisogno di riposo, di distendere i nervi e pensare ad altro, mi chiudevo nella mia stanza e ascoltavo con le cuffie nelle orecchie Loveless dalla tua voce. Incantato, melodico, armonioso meglio della più bella delle sinfonie. E tutte le volte inevitabilmente mi ritrovavo a sorridere, come in quel momento.
La tua voce faceva parte del divino incanto che era la tua esistenza, e adesso sentirla decantare il mio nome come fosse parte di quei versi magici da te tanto amati …
Era ciò di cui avevo bisogno per dimenticare la verità e fare un sogno la mia realtà.
Mi chiamò di nuovo, più sommessamente stavolta.
 
- Guardami. - mi ordinasti dolcemente.
 
E quando lo feci, come risvegliandomi da un sogno, con una luce diversa negli occhi, quasi sognante, invasa dalla speranza, i tuoi occhi mi comunicarono ciò che tu ancora non avevi nemmeno avuto la forza di dire.
Un moto di fastidio (o forse era paura), mi coinvolse senza che riuscissi neanche a spiegarmelo.
Mi ribellai, prendendomela con me stessa, ti respinsi e mi voltai a guardare la vallata voltandoti le spalle. Sopraffatta.
 
- Io non sono il tuo dono della Dea! - sbottai - Sono soltanto una ragazza disperata quanto te … che probabilmente … è destinata a rimanere qui per sempre. -
 
Fu come sentire il cuore spezzarsi in petto.
Seguii un lungo istante, in cui mi chiesi il perché di tutto questo. In fondo dalle tue labbra non era uscita parola, non avrei dovuto spiegare o aggiungere nulla, ma … perché avevo sentito il bisogno di farlo invece? Cosa mi aveva spinto a dire quelle frasi che neppure io comprendevo appieno?
Il vento scosse leggero l’erba folta del prato intorno a noi, e mentre cercavo con ogni mezzo di frenare i singhiozzi sempre più violenti e di riprendermi da quella profonda tristezza che di nuovo mi aveva sopraffatto, di nuovo udii i tuoi passi felpati venire verso di me, attutiti dalla terra sul quale camminavi e mescolati al lento frusciare del vento tra le foglie, fino a che non fosti di nuovo dietro di me.
D’improvviso il calore si fece di nuovo molto più forte. Ti sentii, vicinissimo, ma nonostante tutto continuai a rimanere in mobile, gli occhi chiusi e i pugni stretti in una morsa isterica.
 
-My friend … - iniziasti, e una lacrima sfuggì al mio controllo arrendendosi alla solennità del momento - Do you fly away now, to a world that abhors you and I … -
 
Poi, inaspettatamente e senza che io riuscissi neanche a realizzarlo, mi spingesti giù, lanciandomi nel vuoto.
Urlai di nuovo, e ciò che doveva succedere accadde. Il fuoco divampò su tutto il mio corpo durante la discesa. Pregai di non morire, la paura si appropriò di me facendomi quasi impazzire e i pensieri si affollarono nella mia mente.
Perché l’avevi fatto?
Lo capii solo dopo, quando riuscii nuovamente a toccare terra. Ma nel frattempo il dolore al petto si fece così intenso da indurmi ad urlare, sembrò quasi che la mia anima stesse bruciando in mezzo al fuoco dell’inferno. Un grido si mescolò al mio, acuto, simile a quello di un'aquila, mi graffio la gola e qualcosa come una luce brillante si staccò dal mio petto. Svenni senza vedere quello che successe dopo, per poi rinvenire a pochi metri da terra, risvegliata da un’irradiante luce che fece esplodere il giorno nella mia mente e tutto intorno a me.
Qualcosa si spalancò alle mie spalle, riversando la sua ombra avvolgente sul terreno sottostante, e tutto il mio corpo ardente sembrò riacquistare vitalità mentre planavo piano, appoggiando dolcemente i piedi a terra, e cadendo subito dopo all’indietro, trovando le tue mani a sorreggermi.
Mi sentivo … confusa.
Stanchissima … ma in pace.
Perfino le palpebre faticavano a rimanere aperte, ma quel poco che fecero fu sufficiente per permettermi di vedere l’espressione del tuo viso luminosa e sbalordita, il tuo sorriso, e le mie mani sulle tue spalle forti.
Mi avvolgesti i fianchi, fissando un punto alto dietro la mia schiena e poi restituendomi lo sguardo.
 
- C-cosa ... - mormorai stanca - Cos’è successo? -
 
Tu continuasti a sorridere, poi tenendomi ancora stretta mi aiutasti a sedermi, e infine ti facesti da parte, indicando con un movimento della mano l’ombra di fronte a me.
La fissai, confusa.
Non capisco …
Sembravo io. Anzi, no ... ero io, visto che anche lei era seduta.
Ma … cos’erano quelle due sporgenze morbide che si protendevano verso l’alto e si muovevano frementi, scosse dal vento?
Ci misi un po’ a capire, guardandolo osservarmi con un sorriso quasi commosso.
L’epifania l’ebbi solo quando guardandomi le spalle scoprii che non erano più nude, ma da esse partivano alti tese piumate che si ergevano contro il cielo azzurro, dando l’impressione quasi di sfiorarlo.
Ali.
Quelle erano … ali.
Maestose, forti, grandi!
Una bianca, l’altra nera. Entrambe infuocate.
Le mie …
Le mie nuove ... ali.
Il fulcro del mio presente, e un cielo azzurro in cui edificare il mio radiante futuro. Il nostro futuro.
Forse non avrei mai saputo della loro esistenza se non fosse stato per te.
(Continua ...)

 

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Capitolo 26
*** Dreams and Pride ***


Capitolo XXIV


Proteggere: che assurda, arcaica, meravigliosa parola.
(LesFleursduMar, Twitter)
 
Quel che successe in seguito, amore mio, non è un mistero per nessuno di noi due ma voglio raccontarlo lo stesso, in questa mia lunga prosa d'amore per te, per ricordare, e trovare sollievo dagli orrori di questa epoca buia, la più buia che Gaia abbia mai vissuto dai tempi della sua nascita, fatta di mostri dalle sembianze d'uomo ma dal cuore di demone, orrende malattie e oscurità, oscurità fitta di sogni, pensiero, valori, parole.  Un mondo piegato, riverso su sé stesso nella totale assenza del tuo ardore, del calore della tua poesia e dei tuoi amabili gesti, un mondo in cui perfino il calore della fiamma della vita che è in me rischia, giorno dopo giorno, di venire per sempre soffocato dalle tenebre e dalla paura più folle e cupa.
Dall'assenza di te.

\\\

In un primo momento, subito dopo la nascita della fenice in me, non riuscii ad alzarmi da terra. Non è che non volessi, ma il mio corpo era ... così debole! Mi sembrava di essere stata completamente svuotata di tutte le mie forze, come se un terribile ciclone mi si fosse abbattuto contro con furia ed io gli fossi sopravvissuta per miracolo.
Ad occhi lucidi, la mente confusa e lo sguardo incantato, rimasi ad osservare lo splendore di quelle immense ali, e per un pò lo facesti anche tu, con un sorriso stupefatto in volto che poi si addolcì,  quando tornasti a guardarmi.
La tua immagine serena, nonostante tutto, mi regalò un pò di tranquillità.
Seguendoti in silenzio solo con lo sguardo ti osservai chinare di lato la testa, quasi intenerito.
Quindi facesti qualche passo verso di me e t'inchinasti alla mia altezza, sfiorandomi una guancia sudata per scostarmi qualche ciocca ribelle dal viso e concludendo, con la stessa melodrammatica nota nella voce di poco prima.

- Wings of light and dark spread afar ... - attraversando rapido con lo sguardo tutta me stessa e raggiungendo la vetta delle mie "ali di luce", evidente dimostrazione del mio personale dono, concessomi da Minerva.

Sorrisi, comprendendo finalmente il perché del tuo apparentemente folle e crudele gesto. 
Ai tuoi occhi abituati a scrutare oltre le apparenze in cerca di un segno, uno qualunque che avesse qualcosa di divino e sacro, era riuscito a palesarsi ancor prima che io stessa riuscissi a comprendere.

- She guides us to bliss... - conclusi tremante, il cuore colmo di gioia soltanto nel pensare di star finalmente recitando proprio a te quei versi ora anche per me così amabili, che per anni erano stati l’unico ponte di congiunzione tra le nostre due anime coì distanti. Per questo, nello stesso momento, una rapida una lacrima stanca scese a brillare sul mio volto, schiantandosi poi a terra e dando alla luce un piccolo fiore di cui nessuno dei due quasi si accorse - Her gift everlasting ... -

I tuoi magnifici occhi verde acqua brillarono nei miei. Per me.
Tu continuasti a guardarmi, sempre più felice, sempre più … commosso. La luce di qualche lacrima apparve anche lì dove non avrei mai creduto di riuscire a scorgerne qualcuna.
Mi prendesti dolce una mano, intrecciasti le dita tra le mie che seguitava ad osservarti incantata, emozionata. Rapita.
 
- Cosa sai tu, di Loveless? - chiedesti, sussurrando.
 
Tornai a sorridere, trovando il coraggio per azzardare una carezza su quel tuo viso perfetto, un brivido estasiante toccarlo senza che tu ti opponessi.
Fu qualcosa di magico, una magia straordinaria, più delle mie ali e di tutto il resto della mia trasformazione.
Il sentirti totalmente vicino come avrei sempre sognato, anche in un gesto insignificante come quella semplice carezza che tu osservasti in silenzio, prendendo poi di nuovo la mia mano nella tua e quasi meravigliandoti di sentirmi tremare, della nuova ennesima lacrima che vedesti spuntare sul mio volto.
Era una lacrima di gioia.
Mia madre e mia sorella avevano tremendamente ragione: Io e te eravamo e siamo ancora legati dal filo indissolubile delle nostre storie.
Forse fu questa la sicurezza che riuscì a rendere tutto questo realtà.
 
- Più di quanto tu creda … - risposi, aggiungendo poi, il viso rosso per l’emozione e le lacrime che continuavano ad affollarsi attorno ai miei occhi – Ma lo sai … qual è la cosa buffa? È che … - sospirai, prendendo l’altra tua mano nella mia e tornando a guardarti grata negli occhi – Sei stato tu ad insegnarmelo. –
 
Non potevi aspettartelo, lo so.
C’erano tanto ragazze in quel tuo mondo che avevano conosciuto Loveless grazie a te, ma per me era diverso. Io venivo da un altro mondo, da un'altra realtà in cui Loveless, Minerva, Genesis Rhapsodos non erano altro che immagini e parole su di uno schermo.
E adesso tu lo sapevi, perciò rimanesti sorpreso a guardarmi, un sorriso anche un po’ amaro sulle labbra sottili.
Avresti voluto chiedere di più, ma all’improvviso ti rendesti conto che non era quello né il tempo né il luogo quando le mie ali scomparvero in un turbinio di pulviscolo luminoso, ed io ebbi un altro piccolo mancamento che mi indusse a chiudere gli occhi e sfiorare le tempie con le dita.
La trasformazione era stancante, soprattutto in quei primi attimi. La fenice è una creatura così forte e indomabile che ancora oggi fatico a spiegarmi come abbia fatto a integrarsi col mio corpo fragile senza distruggerlo.
Comunque sia, senza perdere tempo tu deciso sollevasti un mio braccio sulla tua spalla, invitandomi a fare lo stesso con l’altro mentre mi prendevi con te sollevandomi da terra e stringendomi forte.
Ricordo tutto di quei momenti.
Ogni più piccola sensazione, il calore del tuo corpo contro il mio attraverso i vestiti, la mia testa appoggiata al tuo petto forte e il battito del tuo cuore che pulsava così forte da voler quasi scoppiare.
La dolce sensazione di essere finalmente al sicuro, nel posto in cui dovevo essere e al momento giusto.
Non ebbi paura neanche quando all’improvviso ti bloccasti e guardasti serio la persona apparsa davanti a noi a sbarrarci la strada.
Forse perché ero troppo felice, stordita, non riuscivo neppure a muovermi. O forse perché semplicemente dentro di me sapevo che se fosse stato il volere della Dea anche con lui sarebbe andato tutto a posto.
Fu il momento in cui inizia a non sentirmi neanche più spaventata di essere qui, in questo mondo estraneo. E tu la pensavi esattamente come me.
 
- Angeal. –
 
Riscossa dalla tua voce sollevai lo sguardo e lo vidi, che ci fissava cupo e sorpreso.
Mi lanciò un’occhiata che riuscii a sostenere, stringendomi a te.
 
- Che ci fa lei, qui? – chiese, continuando a stringere in mano la sua Buster Sword – Come ci ha trovati? – guardandosi intorno con preoccupazione.
 
Non aveva ancora trovato il coraggio di parlare a sua madre.
Tu sorridesti, mi guardasti scoccandomi un occhiolino come a dirmi di non preoccuparmi, poi vedendomi annuire tornasti a parlargli.
 
- Nello stesso identico modo in cui è riuscita a raggiungerci a Midgar, a quanto pare. – rispondesti, tornando nuovamente a guardarmi e lanciandomi di nuovo un occhiolino rassicurante.
 
Lo fui davvero stavolta. Ora sì che mi avevi creduto. E arrossendo sorrisi, abbassando gli occhi che all’improvviso si riempirono di nuovo di lacrime.
Angeal tacque, probabilmente talmente sconvolto da non riuscire neppure ad opporsi.
 
-Andiamo a casa. Ha bisogno di riposare. – lo informasti, per poi prendere assieme a me la via del ritorno.
 
Non ci fermò nemmeno allora, e guardandolo da oltre le tue spalle forti io … mi sentii quasi male per lui.
Banora … tu ed io … probabilmente, visto che ancora non si era separato dalla sua spada, non era neanche riuscito ad ascoltare la verità da sua madre.
O forse … non aveva neanche la sua ala, quindi … non l’aveva neanche scoperta.
Mi sentii davvero male per lui, ma presto, molto presto, avrei saputo cosa fare.
 
\\\
 
Avevo bisogno di riposo, è vero.
Ma contrariamente a ogni mia previsione mi permettesti di farlo in quella che una volta era  stata casa tua, nella tua stanza da letto ancora piena di te dove, nell'accogliente atmosfera di un ambiente rustico, tra fiori freschi sulla scrivania perfettamente in ordine, l'odore delle assi di legno che ricoprivano pareti e pavimento e del tuo inconfondibile, forte profumo di colonia mista all'odore della tua pelle, nell'ampia libreria che ricopriva tutte le pareti tranne quella del letto e della finestra sulla sinistra strabordavano i libri, vecchi volumi polverosi pieni di storie, e le foto che la rendevano anche parte della tua.
In ogni angolo ce n'era una, e vicino c'era sempre qualcosa che ti apparteneva, come quella di te che adolescente leggevi concentrato sotto un albero di Banora White a cui avevi accostato un vecchio calamaio con la sua penna, una liscia e brillante piuma bianca, o quella di te o Angeal abbracciati e felici a quattro anni, a cui era accostata una scultura in legno di un'accidenmela, abilmente lavorata e finemente dipinta.
Furono quelle che notai per prime, quando mi adagiasti personalmente e con dolcezza sul materasso e mi sfiorasti la fronte con una carezza, lasciandomi poi un bacio su di essa e scoccandomi un breve occhiolino.
Vidi poi Angeal spuntare sull’uscio, osservarmi cupo a braccia conserte.

- Riposa. Io torno subito. –
 
Mi raccomandasti, poi sparisti assieme a lui a passo deciso, lasciandomi sola.
Chiusi gli occhi, ascoltando quasi commossa il rumore dei tuoi passi, ritmici e veloci, farsi sempre più lontano fino a perdersi come echi nel tempo, avvolta nel frattempo dal tuo profumo intenso ed avvolgente.
Deciso ma dolce.

Questa … è una di quelle sensazioni, quei ricordi di te che non mi abbandonano mai, mi fanno compagnia nelle ore vuote, nei giorni di tenebra e di nebbia.
In quelli di lacrime in cui tutto mi sembra perduto. Quando sento il tuo ricordo affievolirsi chiudo gli occhi, stringo a me la tua personale copia di Loveless e richiamo alla mente quei suoi, quegli odori.
Ogni volta grazie a ciò ti sento tornare da me, come quella volta.
Mi addormentai quasi senza accorgermene, l’animo finalmente in pace, ma mi risvegliai di soprassalto perché una voce era giunta a sfiorarmi le orecchie, e un freddo gelido a sfiorarmi il petto.
Capii subito di chi si trattava, la fiamma nel mio cuore divampò ruggendo ed io mi alzai di scatto, urlando
 
-Non mi toccare!-
 
Hollander indietreggiò, guardandomi dapprima sorpreso e poi contrariato. Anche tu ed Angeal mi fissaste quasi sconcertati.
 
-Sta buona, ragazzina.- ridacchiò quello con la sua voce grassa, tornando a fare qualche passo verso di me che all’improvviso mi accesi di fiamma, deformando quasi senza accorgermene le mie unghie in artigli e infuocando anche i miei occhi.
 
Non avrei dovuto mostrarglielo, ma col senno di poi mi accorgo che forse feci bene a farlo.
 
-Non chiamarmi ragazzina! – sbottai.
 
Odiavo e odio ancora il senso di superiorità con cui gli scienziati della Shinra ci trattavano. Come se fossero i padroni creatori del mondo. Blasfemi e disgustosi.
 
-E non osare avvicinarti, o non risponderò di me stessa…- lo minacciai in un sussurro cupo.
 
La mia voce non sembrava neanche più la mia, e forse fu così. Ricordo bene di aver detto quelle parole, e anche il tuo sorriso ammirato con cui mi guardasti e che mi fece sentire ancora più forte.
 
-Ah! Stupida!- mi apostrofò irritato lui, aggiungendo poi con disprezzo – Qualunque cosa tu sia, sta buona! –
 
Mi sfidò di nuovo, provando ad avvicinarsi per la terza volta ma stavolta tu glielo impedisti afferrandogli una spalla e traendolo a sé. I nostri occhi s’incrociarono, il tuo sorriso sicuro si mescolò al mio sguardo torvo e rinvigorì i miei occhi lucidi.
Hollander si zittì, guardandoti mentre venivi verso di me e prendendo delicatamente le tue mani nelle mie le stringevi, avvicinando il viso sempre più al mio.
Le fiamme si spensero appena, di nuovo i nostri sguardi coraggiosi s’intrecciarono.
 
-Valery … - mormorasti calmo, e il battito imbizzarrito del mio cuore tacque come addomesticato – Cosa c’è? –
 
Deformai le labbra in una smorfia.
 
-Quell’uomo mi disgusta, Genesis. – risposi senza mezzi termini, e lo vidi corrucciarsi contrariato.
 
Un ghigno si dipinse anche sul tuo viso. Eri d’accordo.
Mi sfiorasti il mento con una mano, baciasti piano di nuovo la mia fronte e mormorasti, dolcemente preoccupato.
 
-Lo so. Ma è l’unico medico che abbiamo. Lascia che ti controlli, solo stavolta. –
 
Scossi di nuovo il capo, decisa.
 
-Non voglio che mi sfiori neanche col pensiero. - sibilai, quindi col cuore in fiamme guardai le mie mani strette nelle tue, il tuo viso perfetto, e dissi ciò che avrei sempre voluto dire, col dolore negli occhi – E non dovresti volerlo neanche tu. –
 
Per poi staccarmi da te, dal tuo sguardo improvvisamente serio e triste, e correre via, verso la fabbrica di mostri che quel vile aveva creato alle tue spalle.
A fare ciò ch’era meglio per te e per noi tutti. Anche per Angeal.
 
\\\
 
Due delle tre capsule contenenti le tue copie erano già state distrutte, nel momento in cui arrivaste a fermarmi. Anzi, proprio in quell’istante un globo di fuoco partì a distruggere la seconda, e Hollander urlò sbracciandosi e strappandosi i capelli per la disperazione.
 
-NO! FERMA! I miei campioni! I miei preziosi campioni!-
 
Una smorfia si dipinse sul mio viso sudato.
Disgusto, disgusto e rabbia purissimi.
 
-AL DIAVOLO!- risposi a tono, fuori di me gettando all’aria le carte e il tavolo appoggiato al muro di fianco all’ultima – AL DIAVOLO TUTTO! –
- Tu sei completamente fuori di testa! – sbraitò lui irato, poi si rivolse ad Angeal ordinandogli di fare qualcosa ma questi stette a guardarmi in silenzio, una luce diversa negli occhi.
 
Sembrava non avere neanche la benché minima intenzione di rispondere all’ordine, allora Hollander s’infuriò ancora di più e fece per avventarsi su di me per fermarmi, ma la lama della tua Rapier lo bloccò, piazzandosi proprio sotto la sua gola e facendolo rabbrividire.
Ti guardò sconvolto e terrorizzato, tu lo rimbeccasti con uno sguardo minaccioso e rovente.
 
- Toccala e ti ammazzo.- sibilasti, lasciando entrambi di stucco.
 
Poi lo superasti tornando ad ignorarlo e accorresti a calmarmi, perché io senza più controllo della mia mente continuavo a strillare e mettere tutto in subbuglio. Danneggiai anche l’ultima capsula presente in quella stanza, strappando come una furia i fili che la collegavano all’elettricità con l’uso degli artigli e stavo per incenerirla con tutto il suo contenuto quando la tua mano arrivò ad afferrare il mio fragile polso.
Occhi negli occhi di nuovo, sembrò come se finalmente riuscissi a rendermi di nuovo conto di me stessa. Quando la fenice prendeva il controllo della mia mente con la sua furia, era davvero difficile resisterle o riprendermi la mia lucidità.
Ma prima che imparassi a controllarmi tu, con i tuoi occhi e la tua voce, la tua sola presenza … eri l’unico antidoto alla follia.
Il fuoco sulla mia pelle si spense piano, le mani tornarono quelle di prima. Solo le lacrime rimasero a rigarmi il volto, e i singhiozzi a scuotere il petto.
Non parlasti, ma un sorriso quasi compassionevole apparve sulle tue labbra avorio, sottili e delicate.
Mi stringesti a te, appoggiando una mano sulla mia nuca, io chiusi i pugni contro il tuo petto e per qualche istante tornai a singhiozzare senza riuscire a fare altro.
 
- Perché??- chiesi ad un certo punto, tra le lacrime – P-perché stai … stai facendo tutto questo? –
 
Ti sentii tremare, e alzando il viso rosso verso di te vidi il tuo sguardo sicuro vacillare.
 
- Smettila per favore. – supplicai.
- Guarda che disastro!- continuò nel frattempo a lamentarsi borioso Hollander, avvicinandosi esterrefatto alle macchine semi carbonizzate dentro al quale continuavano a rimanere il liquido amniotico e le copie –Ci vorranno settimane per recuperarle, mesi! –
-Sta’ zitto!- sbottasti all’improvviso tu rivolgendogli uno sguardo infuriato.
 
Quello lo fece all’istante, paralizzandosi.
 
-C-cosa? – balbettò.
 
Allora, senza dare spiegazioni, mi prendesti per mano e mi trascinasti via, lontano da quell’ambiente e soprattutto da quell’uomo, di nuovo a casa tua dove mi facesti sedere sul divano dell’ampio soggiorno rustico e mi stringesti le mani tra le tue, inginocchiandoti di fronte a me e asciugandomi con le mani sul viso le lacrime.
Non riuscivo ancora a smettere di piangere, anzi sentivo di doverlo fare sempre di più ad ogni minuto che passava. Non potevo sopportare la vista del tuo viso emaciato, dei tuoi occhi stanchi e tristi, dell’argento nel rame dei tuoi capelli, del fiato corto nei tuoi polmoni.
Non potevo continuare a vederti in quello stato, ora.
Mi guardasti intensamente, scrutandomi riflessivo.
Poi sospirasti, e tornasti a chiedere quasi rassegnato.
 
- Quanto sai … di me? –
 
Tutto. E niente adesso.
Ce la feci a sorridere amara, stringendo di più le tue mani.
 
- Quanto basta. – risposi, ma per te non fu sufficiente.
 
Scuotesti il capo, facendoti serio.
 
- Ho bisogno di saperlo, Valery …- iniziasti, ma t’interruppi subito ribattendo frustrata.
- Ne so abbastanza da non sopportare che tu ti faccia questo! –
 
Il sorriso amaro tornò anche sul tuo volto, unito ad una luce più dolce, amorevole.
Evidentemente dovevo sembrarti solo una bambina spaventata, per il mio aspetto minuto e sconvolto. Ma non lo ero e non lo sono. Era vero ciò che avevo detto, sapevo ciò che stava accadendo ed ero decisa a fermarti. Ad ogni costo.
Ma dovevo dimostrarti non fosse solo un capriccio. Quanto tempo avevo per farlo prima che la Shinra arrivasse a cercarti? Non ne avevo la più pallida idea, perciò mi sarei giocata ogni secondo.
 
- Va bene … - concludesti tu, ad un tratto, rialzandoti deciso e guardandoti quindi intorno.
 
C’era una spessa coperta di lana e filo arancione sul bordo del divano sul quale ero seduta, un sofà rustico ricoperto da sei grandi cuscini beige, tre per la seduta e tre per lo schienale.
La prendesti e dopo averla aperta me la mettesti sulle spalle perché senza accorgermene stavo tremando, e anche tanto.
 
- Sei stanca e sconvolta, ora devi riposare. Ne riparleremo quando ti sveglierai. –
 
Quindi facesti per andartene voltandomi le spalle ma io mi rialzai di nuovo, afferrandoti per un braccio. I miei occhi terrorizzati nei tuoi, sorpresi e anche un po’ infastiditi.
Li guardai, sostenni quel sentimento fintanto che ti sentii tremare appena.
 
- E tu dove vai, adesso? –
 
Sospirasti, stringendo i pugni. Volevi liberarti della mia presa ma qualcosa te lo impedì. Forse le mie lacrime, la mia testardaggine, la tensione forte nata tra di noi, palpabile e presente, o quel filo rosso che alla fine, dopo mille impossibili peripezie, era giunto a ritrovare l’altro lato di sé.
Per qualche istante ti vidi reprimere un altro sbotto di rabbia, stupendomi io stessa di questa tua forza d’animo. Poi sospirasti di nuovo, afferrasti il mio polso e avvicinasti in un istante intenso il tuo viso al mio, vicinissimo alle mie labbra ma senza sfiorarle, solo guardandomi dapprima rabbrividire, poi tentare in ogni modo di non chiudere gli occhi e di non risponderti, di non cedere alla trappola di quel bacio che chiamava entrambi, non abboccare all’esca, come stavi cercando di fare anche tu.
Infine mi lasciasti andare nuovamente, voltandoti e scomparendo senza dare spiegazioni mentre io ti seguivo con gli occhi fino alla fine e poi mi abbandonavo sconfitta sul divano, stringendomi nel mio leggero vestito a fiori e tornando a piangere stringendo rabbiosa i pugni e scuotendo il capo.
Anche questa, ora come ora, è un’immagine che riecheggia nel tempo, profeta dei giorni che ora sono giunti.
Ma non mi hai fermato allora e non lo farai adesso dal cercarti, abbracciarti, e riportarti qui. Da me, e con me.
Per sempre.
 
///Flashback///
 
Angeal lo aspettava fuori dalla porta d’ingresso, braccia conserte, viso serio e schiena poggiata a ridosso della parete verniciata di rosso.
Non appena lo vide, ancora una volta Genesis ghignò quasi impietosito, voltandosi completamente verso di lui.
 
- Non glielo hai ancora chiesto, vero? –
 
Hewley scosse il capo severo.
 
-Ho altro di più grave a cui pensare, adesso. –
 
Il sorriso si allargò sul volto del rosso.
 
-Fidati, non ce l’hai. – replicò tristemente.
-Quella ragazza resterà qui, allora? –
 
Genesis annuì tranquillamente, riprendendo il suo cammino seguito da lui.
 
-Non mi sembra abbia altre alternative. – disse - Non sa nemmeno come ci è arrivata, qui. –
 
Stavolta fu Angeal a fermarsi di botto, abbassando grave il volto.
 
-Quindi anche tu le credi … -
 
Rhapsodos in un primo momento sorrise, poi tornò a farsi serio e annuì, profondamente convinto.
 
- Fa’ come ti ho detto, Angeal. – gli disse –Trova il coraggio e chiedi a tua madre la verità. Dopo le crederai anche tu. – sospirò infine, voltandogli una volta per tutte le spalle e dirigendosi verso la vecchia fabbrica adibita a laboratorio scientifico, mentre l’amico rimase lì in bilico tra la voglia di seguire il consiglio e la folle paura di farlo.
 
Trovò Hollander innervosito, intento ad aggiustare uno dei suoi due preziosi macchinari che la ragazza aveva distrutto assieme ad una copia, ormai completamente inutilizzabile.
Genesis non aveva voluto vederla, nonostante si ostinasse a sostenere il contrario non riusciva ancora a osservare quelle brutte copie deformi di sé stesso senza rabbrividire.
Aveva imposto all’uomo di sbarazzarsene prima del suo ritorno e fu contento di constatare che questi avesse obbedito.
 
- Ah, sei qui. – lo accolse lo scienziato contrariato, rialzandosi a guardarlo – Quella ragazzetta ha distrutto tutto, ho provato a riparare almeno questa ma è tutto inutile. Spero la punirai per … -
- Non ci penso nemmeno. – tagliò corto lui, seccato.
 
Valery aveva ragione in fondo, pensò. Quell’uomo era davvero irritante.
Gli rivolse uno sguardo stupito e balbettò, quasi sconcertato.
 
- C-come? Non hai intenzione di … -
- Useremo le altre due del piano di sotto, il nostro piano non cambia. – concluse sbrigativo, ordinandogli poi di muoversi mentre gli voltava le spalle.
- Ma Genesis! Quella … - provò ad obbiettare allora lo scienziato raggiungendolo di corsa.
 
Ma cogliendolo di sorpresa il SOLDIER si voltò ad afferrarlo per il colletto del camicie con entrambi le mani e sibilò, guardandolo minacciosamente negli occhi.
 
- Credevo di essere stato abbastanza chiaro, quando abbiamo fatto questo patto. Qui non siamo alla Shinra: Io ordino, tu obbedisci. Devo spiegartelo con i fatti? – Allungando una mano verso la sua fedele Rapier che gli stava al fianco.
 
Hollander tremò.
 
-N-no! No! Non c’è n’è bisogno, davvero! Ho capito! – esclamò parando le mani in avanti e scuotendo forte il capo.
 
Il ghigno serpentino riapparve sulle labbra sottili del 1st class.
 
- Bene. – concluse, lasciandolo quindi andare e riprendendo a camminare con lui appresso come un cuccioletto.
 
Era quasi comica. Angeal aveva Zack e lui Hollander. Tsè … avrebbe fatto volentieri a cambio, ma tanto non sarebbe durata a lungo.
La dea gli avrebbe presto rivelato il suo segreto … se non lo aveva già fatto, regalandogli la presenza di quella misteriosa e stupefacente ragazza che aveva nel cuore l’immortale fenice.
Non era qualcosa che potesse ottenersi tramite un esperimento, quello che aveva visto.
Era qualcosa di divino, un dono speciale per un animo forte.
 
///Fine flashback///
 
Era notte fonda quando tornasti, ma la casa era vuota.
Non ero riuscita ad addormentarmi, troppo scossa e affranta.
Le spalle che bruciavano e quel fuoco dentro di me che divampava, ardendo il mio corpo, le mie mani, i miei occhi.
Trovai un pò di sollievo liberando le mie ali, quindi con ancora addosso il leggero vestitino di seta a fiori regalatomi da Zack me ne ero andata via, sulla collinetta più alta di fra quelle che circondavano il villaggio, dal quale potevo osservare il cielo e ogni cosa sotto di esso.
Erano le due e dieci di sera quando ti vidi uscire dalla fabbrica.
Fu come una pugnalata al cuore vederti camminare a stento, reggendoti la testa confuso. I singhiozzi cui ero stata preda si accentuarono scuotendo forte il mio petto, dai miei tornarono a scendere ardenti lacrime che macchiarono di cenere il mio volto.
Trattenni il fiato quando ti vidi fermarti ad osservare stupito il mazzo di fiori di campo che avevo appoggiato sulla tomba dei tuoi genitori.
Li fissasti in silenzio, incredulo.
Era stato allora, dopo aver pregato per loro e per te alla luce sempre più fioca del tramonto, che avevo iniziato a tremare e piangere, senza tregua e respiro.
Ogni cosa sulla tua pelle era come un riflesso condizionato su di me, che ti amo, ti amavo così tanto.
Può sembrare stupido e scontato, ma non era nient'altro. Nessun particolare potere, nessun incantesimo o sesto senso. Solo ciò che da sempre, anche nel mio mondo, mi accadeva con le persone a cui volevo più bene.
Sentivo sulla mia pelle il loro dolore e la loro gioia anche senza saperlo, proprio come fossero i miei.
Solo che il tuo ... il tuo era così grande e profondo da trafiggermi il cuore da parte a parte.
Ti vidi chinarti a sfiorare i petali con le dita, tremante. Quel dolore m'indusse a piegarmi su me stessa afferrando con una mano la stoffa dalla parte del muscolo cardiaco.
Altre lacrime, mentre rientravi.
Ormai ti aspettavo, e mezz'ora dopo ti sentii arrivare alle mie spalle, oltre i miei singhiozzi.
I tuoi passi felpati sull'erba fresca, il fuoco sulla mia pelle che all'improvviso sembrò smorzarsi. Cercai di smettere di piangere, ma riuscii solo a farlo di meno.
Poi la tua voce chiamò di nuovo il mio nome e la mia mente, il grido furioso della fenice che la riempiva fino a stordirmi, si placò. Anche il mal di testa diminuì, iniziando a sparire.
Non risposi, non avevo ancora abbastanza fiato per farlo. Ma ti guardai negli occhi non appena tu ti chinasti di fronte a me, appoggiando un ginocchio a terra e prendendomi le mani tra le tue. Morbide, calde.
Non avevi indosso i guanti, né la Rapier, solo il soprabito e il resto della divisa. E lo scintillio nei tuoi occhi brillava più delle stelle che riempivano il cielo, lasciando intravedere qualche lacrima.
 
- Valery ... - mormorasti nuovamente, più dolce - Da quanto tempo sei qui? -
 
Avrei voluto abbracciarti e prenderti a sberle nello stesso momento. Maledetto!
Ma non lo feci ...
Mi limitai a distogliere lo sguardo da te, tornando a guardare la luna piena che dal cielo illuminava tutto a giorno.
 
- Lo hai fatto di nuovo, vero? - chiesi contrariata e triste.
 
Tu tremasti. Poi con la coda degli occhi ti vidi fermarti a guardare le mie ali e sorridere, tenero.
Ti rialzasti, continuando a tenermi la mano.
 
- Vieni. Fa freddo stasera ... - mi dicesti invitandomi a seguirmi.
- Non lo sento. - replicai imperterrita, seguitando ad evitare di guardarti - Vattene pure tu, se vuoi. -
 
Ma a quel punto non servì più di tanto continuare. La tua mano afferrò la mia, mi traesti quasi rabbioso a te e mi baciasti, così, d’improvviso, stringendo il mio viso per non farmi andare via.
Occhi negli occhi vidi riflesso nei tuoi il bagliore dorato del fuoco che continuava ad avvolgermi, le tue mani delicate avvolte dalle fiamme che le sfioravano ma non le intaccavano, quasi non esistessero neppure. Lì per lì … non seppi muovermi. Chiusi solo gli occhi e mi abbandonai a quel momento, avvicinandomi di più sulla punta dei piedi per raggiungerti e alzando le mani a imitarti, accarezzando quel tuo viso perfetto, i fili rossicci dei tuoi capelli.
Ci assaggiammo con rabbia, e con la stessa all’improvviso ti respinsi con uno schiaffo, tornando a lacrimare e voltandoti le spalle.
In silenzio, la mano destra che copriva la guancia arrossata, tu mi guardasti stupito e affascinato.
 
- Perché? – bofonchiai straziata, singhiozzando.
- Perché cosa? – mi chiedesti tu, senza capire ma continuando a sorridere.
 
Il fuoco divampò di nuovo fuori e dentro di me.
 
- Perché mi fai così male? Cosa ti ho fatto per spingerti ad odiarmi tanto!? – urlai, le lacrime che colavano dagli occhi e dalle labbra.
 
Sulle prime non capisti.
Continuasti a guardarmi confuso, con quel sorriso frastornato e quella curiosità negli occhi che quasi mi spinse sull’orlo della pazzia.
Poi, all’improvviso, una luce diversa si accese in essi. Più triste, sconcertata.
Scuotesti il capo, aprendo la bocca per chiedere ma io ti prevenni, ribellandomi implorante.
 
- Smettila di pensarti come un mostro, Genesis. –
 
Alla luce fioca della luna, delle stelle e del fuoco che mi bruciava senza consumarmi, ti vidi sbiancare sorpreso e tornare serio ad ascoltarmi, tremando.
 
- Tu non lo sei, io non lo sono. Noi … noi non siamo ciò che la Shinra vuole farci credere. Smettila di credere alle loro menzogne. Tutte. –
 
Un sorriso amaro e stanco tornò a colorare a malapena le tue sottili labbra avorio.
 
- Hai visto anche tu cosa c’era, lì dentro. – mormorasti, indicando con un cenno del capo in direzione della vecchia fabbrica.
 
Annuii. Ingoiando le mie lacrime.
 
- Nessuno può creare mostri simili. Se non un altro mostro. –
 
Fu la tua conclusione finale, abbassando il volto e poi rialzandolo verso la luna.
Con un tonfo sordo e un turbinio di piume, l’ala nera riapparve sulla tua schiena. Ti vidi chiudere gli occhi stringendo i pugni, quasi stessi cercando con tutto te stesso di resistere ad un dolore. Tremai di nuovo.
 
- Forse non sarò un mostro … - dicesti, una smorfia amara sul volto innocente – Forse … avrei potuto non esserlo … - poi lo abbassasti e scuotesti la folta chioma, arreso, tornando a guardare la luna – Ma ormai è troppo tardi … -
- No! –
 
Ancora una volta la mia protesta ti stupì. Mi guardasti come fossi un angelo sceso dal cielo, io mi avvicinai, sfiorai il tuo viso con una carezza, le tue labbra con un bacio appena percepito e poi ti abbracciai. Forte, bagnando con le mie lacrime di cenere il tuo petto, ascoltando il tuo cuore forte battere oltre l’armatura che lo proteggeva.
 
- No … Non lo è. Non lo è mai … se continui a ricordarti cosa vuol dire amare. –
 
Un altro sorriso amaro.
 
- I mostri non sanno amare. –
- Ma tu si! – tornai a ribattere io, stringendomi di più a te e guardandoti negli occhi.
 
Stupito, abbassasti i tuoi su di me respirando piano.
 
- Tu si …- sussurrai, imitando la voce del vento.
 
Silenzio.
Un silenzio lungo, intenso, pacifico in cui tornammo a guardarci senza fiatare.
 
- E tu come fai a saperlo? – chiedesti alla fine, scherzando poi, cercando di non lasciar posto alle lacrime – Non dirmi che non ne hai idea. –
 
Io sorrisi, ti lasciai andare e presi le tue mani nelle mie, guardandoti negli occhi. Innamorata della tua anima.
 
- Perché io ti conosco, Genesis … so chi sei anche senza che tu dica nulla. – risposi semplicemente, sfiorando poi la forma preziosa dei tuoi occhi con una carezza – L’ho imparato osservandoti … e so che un poeta non può essere un mostro, mai.
Neanche volendolo. –
 
Tremasti. Stavolta di più, in un modo che terrorizzò anche me. E proprio quando la prima, preziosa lacrima scivolò in silenzio sulla tua guancia all’improvviso, forse per nascondermela o per resistergli, tu mi abbracciasti forte, in un modo che non avrei mai creduto possibile. In una maniera che mai avrei sperato di attribuire a te.
Rompendo il muro del tuo orgoglio e del personaggio che avevi voluto creare di te.
Non so se piangesti davvero dopo. Non ci furono singhiozzi, né alcun altro suono che potesse aiutarmi a capirlo, solo il battito potente dei nostri cuori.
Ma per certo so che per la prima volta il bambino ferito, e non il 1st class né il disertore, venne da me, e chiese aiuto con quel semplice gesto.
Mi chiese indietro i suoi sogni, la sua innocenza perduta, ciò che restava del suo animo gioioso e profondo. E io, benché non avessi tra le mani nessuna di questa cose, lo abbracciai di rimando affondando il viso nell’incavo del suo collo e sorridendo tra le lacrime, il cuore scosso e confortato al contempo, promettendogli così almeno di aiutarlo a ritrovarli, o a rimetterne insieme i pezzi. Con la luna e le dolci colline di Banora, i suoi alberi di accidenmele a fare da testimoni mentre il fuoco che fino a poco fa mi ricopriva lentamente si estinse, lasciandomi brillare solo della luce lunare che mi ricopriva.
Non ho idea di quanto tempo durò.
Tremavamo entrambi quando infine riuscimmo a guardarci di nuovo negli occhi. Ti vidi sorridere, mi stringesti la mano e in silenzio ti sedesti sull’erba fresca e m’invitasti a fare lo stesso, tra le tue braccia.
Restammo, a guardare la luna e il cielo attorno ad essa.
Sgombro da nuvole.
 
- Tu non sai davvero nulla dei tuoi poteri? – mi chiedesti, dopo un po’.
 
Sorrisi, accarezzando sognante le dita di una tua mano. Scossi il capo.
 
- No … niente. – dissi semplicemente – Non so nemmeno perché sono qui. -
- Allora resta. –
 
Tornai seria, mi bloccai e smettendo di accarezzarti ti guardai, sollevando il capo. I tuoi occhi intensi e seri mi colpirono dritta al cuore.
Era una domanda seria. Aspettavi una risposta.
Ci pensai un attimo su, anche se in fondo non ne avevo affatto bisogno.
Era il mio destino, ciò per cui ero qui. Stare con te. Ma … non avrebbe potuto essere sempre tutto rose e fiori.
Sospirai, tornando a giocherellare con un filo d’erba mentre tu mi osservavi attento.
 
- Rinuncerai alla vendetta? – chiesi
 
Stavolta fu il tuo turno di riflettere.
E il silenzio fu più lungo di quanto avessi potuto credere. Tanto che alla fine dovetti tornare a guardarti risolvendo io stessa, contrariata.
 
- Io ti starò vicino ugualmente, qualsiasi sia la tua scelta. Ma non ti sosterrò, sappilo. – scossi il capo, cupa – Non posso farlo, aiutarti a distruggerti. Mi limiterò a sopportare il dolore con te. –
 
Ti vidi sorridere, osservandomi sempre più rapito.
 
- Ad una condizione però. Anzi, due. – aggiunse quindi, sollevando la mano destra con solo indice e medio alzati a pochi centimetri dal tuo naso.
 
Mi fissasti continuando a sorridere, divertito e intenerito.
 
- Quali? –
 
Sorrisi, ma a metà.
Non era propriamente il risultato che avevo sperato di ottenere, ma avrei sempre avuto una chance se ti fossi stata accanto. Era un inizio.
Neanche io sapevo ancora bene di quale sorta di lunga e complicata storia.
Tornai a guardarti seria, innamorata.
 
- Primo … - iniziai, lasciando in alto solo l’indice – Dovrai insegnarmi a usare i miei poteri, e a combattere come si deve. –
 
Il sorriso si trasformò in una risatina sommessa. Ne feci uno vispo, fingendomi contrariata.
 
- Non sono un SOLDIER, ma a quanto pare devo imparare almeno a difendermi se voglio rimanere sana e salva in questo folle mondo. –
 
Annuisti, inclinando la testa prima da un lato e poi dall’altro divertito.
 
- A quanto pare, si. – replicasti scherzoso, poi tornando a guardarmi chiedesti, curioso – E la seconda condizione? Quale sarebbe? –
 
Mi feci seria, tornando a guardarti negli occhi. Il mio sorriso si fece più nostalgico, sognante.
 
- E secondo … - inizia, sollevando in aria anche il dito medio - … dovrai leggermi Loveless. Recitarlo, solo per me. Almeno una volta al giorno. –
 
Ti sorpresi. Lo notai dall’espressione seria e dal guizzo curioso che all’improvviso apparvero sul tuo viso.
E subito dopo un sorriso fiero e divertito tornò a illuminarlo. Ci provasti, ma nel vedermi sorridere di rimando non ce la facesti a non ridere assieme a me, e un’allegria magica e dolce simile a quella che riempie le sere d’estate accorse rapidamente avvolgerci.
 
- Si può fare direi. Iniziamo domani, allora? – concludesti contento.
 
Io seguitai a guardarti, complice.
 
- Perché non facciamo stasera …? – chiesi, scoccandoti un occhiolino e avvicinandomi di più alle tue labbra – Tanto la sai a memoria, no? –
 
Un ghigno divertito, con le labbra sfiorasti le mie e un altro bacio mano a mano sempre più dolce e intenso ci coinvolse.
 
- In effetti, si … -


 
 Valery e Genesis ( Ringrazio davvero tantissimo Martina Ini per il disegno <3 :3 )
 
***

///Flashback///
 
Faceva freddo, quella sera.
Non molto, ma quanto bastava per rendere piacevole il calore e la luce di un camino acceso nel silenzio e nell’oscurità della notte.
Angeal Hewley, seduto al tavolo da pranzo della casa che lo aveva visto nascere e crescere, continuava a fissare in silenzio il piatto pieno di zuppa calda senza avere il coraggio e di assaggiarla, e neanche di alzare lo sguardo verso gli occhi tranquilli ma preoccupati di sua madre che lo osservava in silenzio, con un sorriso appena percepito sul volto.
La donna, i bianchi capelli raccolti in uno chignon sopra la testa e le spalle protette da una scialle di lana verde, appoggiò il cucchiaio di metallo sul bordo del piatto e sospirando allungo una mano verso la sua accarezzandola e sentendola tremare.
Angeal la ritrasse quasi subito, accorgendosi troppo tardi del suo gesto e sentendo il suo cuore riempirsi di angoscia e dolore, nell’incrociare la tristezza che all’improvviso adombrò il suo volto.
Sospirò, rompendo gli indugi e alzandosi.
 
- Scusa, mamma … - disse soltanto, abbassando gli occhi.
 
“Devo andarmene. Non ce la faccio a restare qui e a non pensare di volertelo chiedere.”
Gillian sorrise, continuando a mostrarsi calma. Si alzò e andò ad abbracciarlo.
Lo guardò negli occhi, sfiorò i suoi scostando una ciocca di capelli dal suo viso. In silenzio, senza dir nulla.
E lasciò che lui le prendesse le mani, stampando sopra di esse un soffice e commosso bacio prima di voltarsi e uscire, lasciando lì da lei la Buster Sword, l’unica cosa che davvero rappresentasse ciò che credeva di essere stato, tutto quello che lentamente stava scricchiolando e sgretolandosi sotto ai suoi occhi increduli.
Mancava solo il colpo finale, e lui non era ancora pronto a riceverlo. Non ancora.
Ma il tempo era sempre più poco e le condizioni del suo cuore sempre più instabili, tanto da fargli credere che prima o poi sarebbe precipitato all’inferno.
 
***
 
Midgar, Settore 0.
Quartier Generale della Shinra.
 
Altri due lunghi bip.
Il telefono squillò a vuoto ancora un altro paio di volte, infine Zack Fair lo richiuse nervoso e gettò all’indietro la testa, chiudendo gli occhi e appoggiandosi al soffice schienale di pelle del divanetto situato nella hall del piano SOLDIER, semivuoto.
“Perché non risponde?” protestò nervoso, passandosi una mano tra i capelli. “Prima Angeal, ora anche Valery … maledizione sorellina, dove sei finita anche tu?”
Sospirò di nuovo, rialzandosi e prendendosi il viso tra le mani.
Da quando Angeal aveva seguito Genesis nella sua diserzione, i tempi si erano fatti ancora più duri e lui aveva dovuto sostenere da solo lo sguardo a volte anche sospettoso dei suoi colleghi più giovani e di molti fanti.
“Meno male che almeno è rimasto Sephiroth …” avrebbe potuto dire.
E invece no, perché anche lui non sembrava averla presa molto bene, nonostante la guerra contro Wutai fosse stata un enorme successo per lui.
Ora più che mai Fair avrebbe avuto bisogno di un po’ di conforto, e invece si ritrovava sempre più solo. Rischiava quasi d’impazzire tanto a volte si ritrovava ad essere disperato.
 
- Hey, Zack! –
 
La voce un po’ roca e allegra di Kunsel lo raggiunse.
Riaprì gli occhi e lo vide scendere la scalinata e andare a sedersi proprio di fronte a lui, col suo solito sorriso sempre allegro sulle labbra e quel casco sempre calato sugli occhi.
 
- Stai bene? – gli chiese – Hai una faccia. –
 
“Bhe, direi. Il mio maestro è scomparso da giorni e quella che avrebbe potuto essere la mia ragazza prima o poi neanche risponde al telefono da quando gli ho detto che Genesis ha disertato.”
Avrebbe tanto voluto dirglielo, ma si trattenne.
Non era nel suo carattere, e comunque non era proprio il caso di fare sfuriate. Non avrebbe risolto nulla.
 
- Aaah! Mi sembra d’impazzire! – si lamentò, passandosi nuovamente una mano tra i capelli.
 
Il commilitone sorrise.
 
- Posso provare a capirti. – replicò, nel tentativo di consolarlo – Lo sai che ti dico? Penso che Angeal si farà di nuovo vivo, prima o poi. –
 
Zack alzò speranzoso lo sguardo verso di lui, trasformando subito dopo quell’espressione in una più angosciata.
 
- Lo spero anche io … - mormorò tornando a sospirare.
- E anche lei lo farà, porta pazienza … -  aggiunse l’altro, per poi battergli una pacca sulla spalla e rialzandosi riprendere la strada verso il dormitorio.
 
Zack annuì sovrappensiero, quindi all’improvviso parve accorgersi di ciò che aveva appena detto e si rialzò di scatto, sorpreso.
 
- Sul serio? Come fai a saperlo? – esclamò agitandosi.
 
Kunsel rise, scuotendo il capo.
 
- Le ragazze sono così, Zack. Tu dovresti saperlo. – replicò continuando a ridersela fino a sparire oltre la curva del corridoio che portava all’ascensore.
 
Rimasto solo Fair si sforzò di sorridere, ma quel che ottenne fu solo una debole smorfia poco convinta.
 
- Le ragazze sono così, eh? – sospirò, tornando a sedersi e incrociando le dita delle mani fra di loro.
 
“Sigh, non credo Kunsel. Non tutte. O almeno … non lei.”
 
///Fine flashback///


 

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Capitolo 27
*** Sul vento di primavera, dolciamare memorie ***


Capitolo XXV


 


Mi ha stretto tra le braccia e mi ha baciato la fronte.
Ho pensato: ‘Stavolta o mi salva o mi uccide.’

(Anonimo, Tumblr.)
 
///Flashback///
 
Una dolce melodia, lenta e coinvolgente.
Una scala di note suonate al piano forte che scendevano e salivano, salivano e scendevano ma senza monotonia, con armonia delicata e ad ogni gradino.
Sulla leggera armonia della delicata brezza primaverile che soffiava tiepido entrando dalla finestra socchiusa e portandogli l’odore dell’erba nuova e degli alberi di Banora White in fiore, il piccolo Genesis ascoltò per qualche breve istante quella dolce melodia continuando a tenere gli occhi chiusi e lasciando che questa sì mescolasse ai suoi sogni e al dolce tepore del risveglio.
Ancora qualche altro piccolo istante accoccolato sotto le lenzuola di fresco cotone, poi si alzò dal letto e indossò ancora un po’ intontito la piccola vestaglia da notte appoggiata sul piccolo trespolo appendiabiti vicino all’armadio, coprendo il completo da notte che indossava (casacca di fresco e pregiato cotone coloro crema e un paio di calzoni rosso cremisi, morbidi e comodi).
Infilò ai piedini le ciabatte a scarponcino del medesimo colore dei calzoni e allora si tirò su, iniziando a camminare seguendo quel suono angelico con tutta la dolcezza dei suoi quattro anni e mezzo di età, ansioso di poterne identificare la fonte.
Nel grande salone a cui giunse poco dopo, percorrendo il breve corridoio pieno di statue, foto, piante e vanesie suppellettili pregiate, regnava la pace.
La luce del primo mattino lo inondava illuminandolo pienamente, e al centro d’esso, troneggiante in mezzo a quadri di paesaggi rustici, arazzi, pareti verniciate di bianco e verde, divani in broccato e ancora busti in marmo e mobili in legno levigato come tavoli, credenze e una libreria ampiamente piena di oggetti di uso frequente e qualche manuale, seduta di fronte al grande pianoforte a coda nero lucido sua madre, Elizabeth Rhapsodos, sfiorava veloce e sognante i tasti con le dita e nel frattempo muoveva lenta e con trasporto il busto pieno e filiforme, il ventre piatto e snello e il seno stretto nel corsetto marroncino e pieno di bottoni del vestito da cavallerizza, come se stesse danzando un valzerino travolgente con il suo strumento, improvvisamente trasformatosi in un affascinante cavaliere.
Era sola nella stanza. Con molta probabilità suo padre era già uscito per supervisionare i lavori nella loro ampia proprietà terriera che comprendeva oltre a un meleto anche magazzini per le macchine e ampi spazi per il momento vuoti, che voleva convertire alla produzione ancora più ampia di accidenmele.
Rimanevano solo loro due quindi in casa.
Incantato e sempre più coinvolto da quella musica, Genesis si nascose dietro lo stipite della porta e restò ad osservarla in silenzio, rapito, a bocca aperta trattenendo il fiato fino a che la melodia finì in un calando malinconico di note e lei riaprì le palpebre guardando di fronte a sé, ed accorgendosi per la prima volta di lui.
Allargò dolcemente il suo sorriso
 
-Buongiorno, Genesis.- lo accolse con la serenità e la gentilezza che le erano avvezze.
 
Il bimbo annuì.
 
-‘Giorno madre …- mormorò timido.
 
La donna staccò con dolcezza e grazia le mani dalla tastiera, con un gesto e movenze quasi plateali le appoggiò delicatamente sulla spazio vuoto della sgabello accanto a lei.
 
-Vieni.- lo incoraggiò –Siediti vicino a me. Coraggio.-
 
Lui accolse volentieri l’invito, uscendo ubbidientemente allo scoperto. Inclinò il petto in avanti accennando ad un inchino rispettoso, le braccia inchiodati lungo i fianchi.
 
-Grazie.- rispose.
 
Quindi corse da lei, che lo accolse abbracciandolo e scompigliandogli teneramente i rossi capelli ancora in disordine, lunghi fino a coprire le orecchi.
Lo amava.
Lo sapeva da come lo trattava, da come lo osservava fiera e felice. Amava quel suo essere educato, vivace e curioso. La sua voglia insaziabile di sapere che lo portava spesso e volentieri a porsi domande sempre più complicate e profonde per la sua età, a voler leggere i libri più complicati nonostante non sapesse ancora farlo. Il più delle volte ne prendeva uno e correva da lei a chiederle di farlo per lui, non solo per la favola della buona notte.
E amava anche il suo aspetto, in tutto e per tutto simile a quello di suo padre diceva lei, nonostante quest’ultimo invece avesse sempre dimostrato nei suoi confronti un certo grado di distacco.
“E’ il suo carattere” aveva cercato di giustificarlo la donna “Ti ama molto anche lui, sai?” gli aveva detto rassicurandolo.
Ma per quanto si sforzasse di convincersene restava sempre un po’ di distanza, un piccolo dubbio in fondo al cuore che alimentava una certa difficoltà nel relazionarsi con lui, anche se lo trattava sempre con rispetto e obbedienza.
Con Elizabeth invece tutto questo non esisteva.
Erano affiatati, si capivano al volo, proprio come una mamma e un figlio dovrebbero fare.
Esattamente come successe anche quella mattina, quando dopo averlo accolto gli chiese, guardandolo negli occhi color verde acqua.
 
-Vuoi imparare?-
 
Genesis annuì senza esitare, con un sorriso impaziente e grato.
 
-Si, per favore.- replicò, annuendo guardando prima lei e poi i tasti bianchi e neri.
 
La donna sorrise di nuovo, e allungando una mano verso la tastiera ne sfiorò con delicatezza uno dei tasti bianchi, seguendone poi il suono con la sua stupenda e altrettanto dolce voce.
La ascoltò cantare la note e sorrise, inclinando di lato la testa come un cucciolo curioso.
 
-Questo è un LA. LA Maggiore per la precisione.- gli spiegò tornando a rivolgergli attenzione.
 
Successivamente ne suonò un altro, non molto distante, dal suono simile ma un po’ più basso, melanconico.
 
Sembravano la stessa nota eppure non lo erano.
 
- Questa invece è il LA Minore, il suo fratellino.- gli spiegò infatti la donna, sorridendogli divertita e aggiungendo poi – Uno e allegro, l’altro e adagio. Ma sono la stessa nota. –
 
Il piccolo Genesis sorrise di nuovo, contento di aver imparato qualcosa di nuovo, e guardandosi negli occhi risero insieme, complici e divertiti.
 
-Ora proviamo a suonare qualcosa solo con queste due note, e tu la imparerai bene. Quando lo avrai fatto ti insegnerò il MI. D’accordo? – propose quindi Elizabeth.
 
Il bambino si sistemò eccitato al suo posto, annuendo e allungando le dita affusolate appena sopra i tasti.
Sua madre gli rivolse un ultimo sguardo soddisfatto e contento, poi diede inizio alla prima parte della melodia per fargliela prima ascoltare, esordendo così nella loro prima lezione di musica.
Non sarebbe stata l’unica, né tantomeno l’ultima.
E ognuna gli avrebbe regalato un nugolo di ricordi che mai più lo avrebbero abbandonato. Nemmeno dopo aver saputo la verità e aver deciso di lasciarla andare via per sempre dalla sua vita, ma non dalla sua memoria.
Questo non avrebbe mai più potuto farlo.
 
\\\Fine Flashback\\\
 
 
***
 
Riaprii gli occhi sfiorata dal vento. Erano le nove del mattino, o almeno questo diceva l’orologio sul comodino, e dalla porta socchiusa giungevano quasi in lontananza chiare le note armoniche e vivaci di un dolce e allegro valzerino in LA, suonato al pianoforte.
Dalla finestra aperta la luce del mattino e il profumo avvolgente della campagna mi accolse accarezzandomi con dolcezza, e mentre la musica continuava mi misi a sedere aprendo definitivamente gli occhi e rialzando la schiena.
Una dolceamara sensazione mi avvolse il cuore, lo sentii pizzicato appena da un dolore sordo, come una nota tremante, e i miei occhi s’inumidirono di lacrime.
Era strano.
Ero a casa tua, nella tua stanza. Lo vedevo dalle mille foto, dai libri, dagli alberi di Banora White fuori dalla finestra. Eppure mi sembrò di essere ritornata di essere dove avrei sempre dovuto essere: A casa mia.
Di solito mi capitava spesso di sognare quel momento, soprattutto dopo morte di mio padre o, più tardi, durante un periodo particolarmente stressante.
Andavo a letto piangendo, devastata, e prima di svegliarmi facevo quel sogno: Riaprivo gli occhi ed ero a casa, di nuovo nel mio letto della mia camera, al ranch.
Gli uccellini mi salutavano canticchiando allegramente fuori dalla finestra: “Bentornata!”.
I raggi del sole mi accarezzavano il viso con le loro intangibili mani calde e il mio cuore si rimarginava un poco.
Poi mi alzavo, scendevo giù in cucina e tutto era esattamente come quando lo avevo lasciato: Mia madre e mia sorella chiacchieravano amabilmente in cucina, papà guardava la vecchia TV in salotto prima di andare a lavoro, sorseggiando il suo caffè.
Lo guardavo incredula, ogni volta sempre meno sconvolta fino a che non finì per apparirmi normale. Mi chiamava vicino a sé, lo raggiungevo e mi sedevo al suo fianco lasciandomi abbracciare, e qual punto mi chiedeva sempre, ogni volta:
 
-Sei contenta?-
-Siamo tornati.- rispondevo io felice guardandolo.
 
Era come se non se ne fosse mai andato.
 
-Si.- annuiva –E resteremo per sempre.-
 
A quel punto si che gioivo. Lo abbracciavo forte, ringraziandolo. Lui rideva tornando a scherzare e la vita ricominciava dal punto preciso in cui l’avevamo lasciata.
Il sogno continuava fino a che il mio animo non si era acquietato, ammantato di agrodolce felicità.
Poi svaniva sfumando, lasciandomi alla realtà con almeno un po’ più di coraggio per affrontarla.
Avrei voluto però, che una cosa simile accadesse davvero, un giorno.
Tornare indietro, dove avevo lasciato quella bambina a giocare col suo coniglio, arrampicarmi sui rami di Choco e riabbracciare papà, per non perderlo mai più.
Insieme di nuovo a casa nostra, come una famiglia.
In realtà mi sarebbe anche bastato pure solo risvegliarmi in quella casa e saperla di nuovo solo mia, coi suoi ricordi e le sue pietra, gli angoli nascosti che solo io avevo amato e conoscevo.
E quella mattina, all’improvviso, quando il suono del pianoforte mi svegliò, fu esattamente come se il mio sogno si fosse realizzato. Esattamente così.
Banora divenne il Texas, e quella casa la mia.
Quella che mi aveva visto crescere, la stessa che lo aveva fatto con te.
Uguali e indivisibili come un’unica realtà.
Trattenni il fiato, sorrisi alzandomi in piedi e mi avvicinai alla finestra, respirando l’odore selvaggio della prateria.
Anche quello era lo stesso.
Quindi resistendo alle lacrime di gioia iniziai a camminare a piedi nudi sulle assi di legno del pavimento seguendo il dolce suono, indosso soltanto la lunga veste da notte in pizzo bianco e sete appartenuta a tua madre e che tu stesso mi aveva fatto indossare la sera prima, quando già dormivo, prima di mettermi a letto.
Il sogno si trasformò presto in viva realtà, stavolta non scomparendo, ma fondendosi ad essa.
C’eri anche tu.
Eri lì, al centro della stanza, seduto al pianoforte e con occhi lucidi ne sfioravi abile i tasti, triste e malinconico.
Nel vedermi, per un interminabile istante ti fermasti a scrutarmi, la melodia s’interruppe e vidi nei tuoi occhi un terrore che seppi spiegarmi solo accorgendomi che non era me che stavi fissando, ma il mio abito, i miei capelli sciolti a sfiorarmi il collo, e il fantasma che questa immagine portava con sé.
Sospirai, capendo.
E con amore sorrisi appena, mi avvicinai e sedutami al tuo fianco sfiorai piano il tuo viso con una carezza, addolorata, piangendo insieme a te dello stesso male quando all’improvviso ti vidi chinare con dolore il capo e chiudere gli occhi alle lacrime, una smorfia affrante sulle labbra.
In silenzio ti abbracciai piano, avvolgendoti la nuca con la mano e traendoti a me, stringendoti e ascoltando i tuoi singhiozzi.
Non volevo che ti facessi così male.
 
-Scusami …- mormorai con un filo di voce – Per non essere arrivata in tempo.-
 
Ti fermasti a guardarmi, smettendo all’istante di singhiozzare e guardandomi come se mi vedessi per la prima volta.
Sorrisi di nuovo, commossa. Scossi piano il capo e allungai la mano destra a sfiorarti i capelli fulvi con una carezza.
 
-Avrei potuto impedirtelo … se solo fossi arrivata prima.- aggiunsi.
 
Ma ormai non aveva più importanza. L’importante … era esserti accanto.
Scuotesti il capo, deciso, scacciando i ricordi.
Poi prendesti il mio viso tra le tue calde mani e mi baciasti forte, all’improvviso, assaporando le mie labbra con disperazione.
Non mi opposi.
Era l’unica cosa che potevo fare per te, renderti meno amaro il veleno.
E anzi, quando le tue mani si staccarono dal mia volto e cercarono un contatto diretto col resto del mio corpo, accarezzando ogni lembo di pelle sulla stoffa morbida della camicia da notte, nonostante tremassi perché nessuno prima di allora, davvero nessuno, mi aveva mai sfiorata in quel modo come hai fatto tu, ti lasciai campo libero, alzandomi senza staccare la mia bocca dalla tua e sedendomi sulle tue gambe, avvolgendoti poi le braccia attorno al collo e vivendo quel bacio, il mio primo vero bacio, con ancor più intensità, senza neanche respirare.
Sarei una bugiarda e un’ipocrita se dicessi di non aver mai provato passione, di non aver mai cercato quel sentimento e quell’estasi che solo quei gesti d’amore potevano dare. Di non aver mai immaginato o cercato di farlo, di non aver mai sperato che un giorno avrei anch’io assaggiato quegli attimi magici con un uomo che mi amava davvero. Ma fino ad allora, nel mio mondo, non avevo mai trovato l’uomo che sapesse darmeli.
L’amore fisico per me, il mio corpo, erano cose pure, dolci e delicate.
Un dono unico da dare non a chiunque, ma solo a colui che avrebbe acceso il mio cuore facendolo battere di nuovo, e stavolta per sempre. Soltanto all’uomo che mi avrebbe amata col cuore e con la mente e non solo col corpo per divertimento, solo a lui sarei stata fedele, solo lui avrebbe potuto arrivare lì dove nessun altro uomo sarebbe mai stato. Solo con lui sarei finalmente diventata donna.
E adesso … quell’uomo stavi diventando tu. Avevo paura, come al solito quando pensavo a quegli attimi, a come sarebbero stati. Ma non troppo, perché ero nelle tue mani. E ti amavo da morire, sarei andata anche all’inferno con te se me lo avessi chiesto, neanche le fiamme e i forconi mi avrebbero fatto paura se tu mi avresti stretto la mano.
Sfiorasti la mia schiena, i miei fianchi, fino ai glutei dove ci fermammo, entrambi affannati ed emozionati.
 
-Non importa …- mi rispondesti tornando a sorridermi –Il passato è passato. È ora il mio presente.-
 
Sorrisi anche io.
Annuii felice di sentire dalla tua voce quelle parole rivolte a me, e tornai a guardare quegli occhi verde acqua in cui brillava il mako. Stupendi.
Quei capelli in cui rifulgeva l’ambra, quel viso perfetto anche se ora appena un po’ più pallido e stanco. Sfiorai tutti quei dettagli con le mani i tuoi zigomi, il tuo naso, le tu labbra. Sognante, incredula, mentre tu mi guardavi e continuavi a stringermi, incantato e con un sorriso appena accennato sulle labbra.
E quando indugiai queste ultime con dita tremanti e il fiato corto per l’emozione, le avvicinasti alle mie, mostrandomele nella loro sfacciata delicatezza cercando un altro ultimo piccolo contatto fugace.
Altri piccoli baci, assaggi di un amore appena nato in te ma in me presente già da molto più tempo di quanto ebbi mai modo di raccontarti.
Da sempre.
Dal momento in cui una matita si posò a disegnarti, un cantante a darti la voce e una penna a scrivere la tua storia.
Tornasti ad abbracciarmi e a piangere, stringendomi forte e affondando il tuo viso nell’incavo del mio collo.
Ero … così devastata nel sentirti piangere così.
Ma allo stesso tempo tanto grata alla dea di averci avvicinati per poterti essere un angelo custode e consolatore, l’amore di cui avevi bisogno per rinascere.
Proprio io. Solo io.
Ti strinsi forte, affondai a mia volta le dita nei fili morbidi dei tuoi capelli e abbassai il volto avvicinando la mia bocca alla tua nuca, vezzeggiandoti con piccoli e teneri baci.
Non ricordo per quanto tempo restammo lì seduti così, ad amarci in silenzio.
In tutta sincerità non me lo chiesi neppure perché ero lì per questo, per te, e non volevo altro.
Amarti e raccogliere le tue lacrime.
Infine alzasti di nuovo il tuo sguardo su di me, e una luce diversa tornò a illuminare i tuoi occhi stanchi.
Più serena, meno tormentata.
Rimasi in attesa, era come se da un momento all’altro avessi voluto dirmi qualcosa ma per un po’ non lo facesti, rimanendo a guardarmi in silenzio con un sorriso diverso sulle labbra, mentre mi accarezzavi il viso scostandomi una ciocca di capelli da davanti agli occhi e poi rimanendo a guardarmi.
Ti sorrisi, mi chinai a sfiorare le tue labbra con un bacio appena accennato.
Tu chiudesti gli occhi sospirando e sorridendo, quindi li riapristi e finalmente, rompendo gli indugi, concludesti, scaldandomi il cuore ancor più della fenice che vi si era rifugiata.
 
-Valery Rhapsodos … Io credo di amarti.-
 
Ed io, sorridendo a mia volta radiosa, non potei che replicare con la semplice verità, tornando ad accarezzarti il volto.
 
-Genesis Rhapsodos … io lo faccio da sempre, ormai.-
 
***
 
///Flashback///
 
-Angeal!!-
 
Con un urlo angosciato Gillian Hewley spalancò la porta di casa e si affacciò in strada, scrutandola ansiosamente.
Non era un bel periodo quello per loro.
Suo marito era morto da una sola settimana, e da quel brutto giorno suo figlio, sette anni, era cambiato.
Aveva pianto tanto e urla, quel giorno, quando lo aveva saputo.
Le aveva dato della bugiarda, l’aveva spinta ed era scappato fuori cadendo poi in ginocchio a terra, il viso tra le mani, singhiozzando.
Lei lo aveva rincorso e abbracciato, aveva ascoltato a lungo i suoi singhiozzi e poi con parole dolci aveva cercato di tranquillizzarlo, di confortarlo per quanto le riuscisse possibile.
E credeva di esserci riuscita davvero visto che lo aveva convinto a rientrare insieme a casa.
Ma ora, sette giorni dopo, il bambino era sparito di nuovo. Lei stava riposando nel lettone, perché da quando suo marito era scomparso oltre al lavoro di casa aveva dovuto accollarsi anche altri lavori più pesanti di manutenzione perché non avevano i soldi per poter pagare qualcuno che li facesse, e in più era rimasta l’unica a prendersi cura dell’educazione di suo figlio, che aveva sempre amato alla follia suo padre.
Si sentì spaventata e disperata.
Non si era accorta di nulla, e adesso non sapeva dove cercarlo.
 
-Angeal!!!- urlò di nuovo, guardandosi intorno.
 
Il mondo vorticò spaventosamente nei suoi occhi, talmente veloce da confondere. Non udì nessuna risposta, e allora si mise a correre più che poteva, cercandolo nelle case che la circondavano, sopra agli alberi, e perfino dentro gli anfratti più nascosti.
Fino a che, disperata, non raggiunse la porta dei suoi vicini, i Rhapsodos, come ultimo tentativo.
 
-Angeal!! Sei qui?! Rispondi per favore, vieni fuori! Sono molto preoccupata.-
 
Le aprì Kei Rhapsodos, il capofamiglia.
 
-Gillian, che ci fai qui? Cos’hai da strillare tanto? - la rimproverò cupo, affacciandosi sulla soglia.
 
Dietro di lui, preoccupati, vide apparire anche Elizabeth e il piccolo Genesis, che la scrutò corrucciandosi inquieto.
 
-Angeal è scappato!- li informò prendendo fiato –Non riesco più a trovarlo da nessuna parte, pensavo fosse con Genesis.-
 
I due guardarono il ragazzo, che scosse il capo sicuro.
 
-Sono stato con te tutto il tempo, madre.- disse alla donna che gli appoggiava le mani sulle spalle –Stavo studiando pianoforte.- spiegò poi alla signora Hewley tornando a guardarla –Non l’ho visto oggi, mi spiace.- concluse sincero.
 
Gillian sospirò affranta.
 
-Non hai idea di dove possa essere andato?- tornò a chiedere –Devo trovarlo prima che faccia buio, la prateria è pericolosa di notte.-
 
Genesis scosse di nuovo il capo dispiaciuto.
 
-Non saprei …- rispose scuotendo le spalle.
 
Ma nel momento stesso in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca una lampadina si accese nella sua mente.
 
-Anche se …- soggiunse facendosi pensieroso –Forse un posto così c’è.-
 
Gillian tornò ad alzare la testa guardandolo speranzosa.
 
-Dove?- lo incalzò supplicante, mentre il sole si avvicinava sempre di più all’inizio del tramonto.
-Il viale di accidenmele all’inizio del villaggio.- replicò sicuro guardandolo.
-Ho già guardato anche lì.- gli rispose scoraggiata la donna, iniziando a disperare.
-A volte usiamo gli alberi più alti per giocare a nascondino.- rivelò allora lui, spiegando poi –Alcuni hanno le fronde così alte e folte che è quasi impossibile essere visti, bisogna guardare bene.-
 
Suo padre sgranò inorridito gli occhi.
 
-Ma siete pazzi?- lo ammonì suo padre contrariato –Rischiate di farvi male sul serio, cadere da quell’altezza è un suicidio!-
 
Sembrava più preoccupato di dover andare a recuperarlo e fare i conti con le conseguenze del suo comportamento irrequieto che per la sua effettiva salute. In fondo (ma questo i bambini ancora non lo sapevano) la Shinra aveva speso fior di quattrini per crearli e avrebbe fatto pagare altrettanto cara la conseguenza di un loro eventuale “danneggiamento permanente”. Erano il futuro di SOLDIER, in fondo.
 
-Scusa papà.- annuì distaccato Genesis, inchinandosi appena, poi si rivolse a Gillian –Vado a chiamarlo io, sono sicuro sia lì.-
 
Elizabeth guardò il marito e annuì. Kei sospirò seccato.
 
-Vengo anche io. Qualcuno dovrà pur tirarlo giù da lì.-
-Grazie.- mormorò sollevata Gillian inchinandosi appena e poi seguendoli, prendendo tra le mani il lembo della lunga gonna nera tra le mani per evitare di incespicare.
 
\\\
 
Camminarono insieme fino al limitare del viale, poi Genesis si fermò e si volse a guardare suo padre.
 
-Forse è meglio se restate qui.- disse –Vi chiamo io quando l’ho trovato.-
-Non se ne parla!- decretò severo il genitore –Non ti azzardare di nuovo a salire su uno di questi alberi.-
 
Il bambino sospirò dentro di sé.
 
-E’ probabile che non risponda se vede adulti con me.- gli spiegò.
 
Gillian annuì.
 
-Va bene. Genesis ha ragione.- disse all’uomo –Sarà meglio aspettare qui.-
 
A quel punto l’uomo lo scrutò corrucciato ancora per qualche attimo, in silenzio. Poi sospirò a sua volta.
 
-Vai.- risolse –Ma sta attento.- lo ammonì alzando il dito indice della mano destra.
 
Il giovane Rhapsodos contenne a stento un sorriso trionfante, s’inchinò come sempre con rispetto e poi corse verso il centro del lungo viale alberato, voltandosi solo quando fu sicuro di esserseli lasciati alle spalle.
Si guardò intorno. La luce dorata del sole filtrava attraverso gli alberi a stento, illuminando a chiazze chiaroscure il terreno scuro sottostante.
Quello era il punto più fitto.
 
-Angeal …- iniziò con un mezzo sorriso –Lo so che sei qui, ti sento piangere.-
 
Il lieve vento che sfiorava le fronde si acquietò per qualche attimo e il rumore di un pianto silenzioso tirato su col naso a forza si fece ancora più udibile.
 
-Dai, sono solo.- lo incoraggiò –Dimmi almeno dove sei.-
 
Finalmente la voce si fece sentire. Rotta e stanca, ma lo udì chiaramente piagnucolare deciso.
 
-No.-
 
Seguendola Genesis si voltò con un sorriso verso il grande albero alle sue spalle e vide una piccola gamba magra ricadere penzoloni verso il basso.
Sorrise voltandosi totalmente in quella direzione.
 
-Gillian ti sta cercando.- lo informò –E’ molto preoccupata.-
 
Angeal non rispose, ma riprese a singhiozzare più forte. Genesis sospirò, dispiacendosi ma continuando a sorridere.
 
-Hai intenzione di stare lassù per molto?- chiese paziente e scherzoso.
-Fino a morire di fame.- rispose l’altro musone.
-Pff!- ridacchiò il rosso –Morire di fame con tutte quelle mele? Non mi sembra possibile …- soggiunse scuotendo il capo.
-Non le mangerò.- replicò intestardendosi l’altro, ma nel frattempo la sua voce si fece sempre più salda, anche se triste –E anche se dovessi farlo prima o poi finiranno.-
-Potresti sempre cambiare albero.- ipotizzò allora Rhapsodos fingendosi serio –E comunque ci metteresti almeno due mesi per morire di fame. Mi sembra troppo anche per uno come te.-
-Allora morirò prima di sonno o di freddo.- determinò a quel punto Hewley.
-Ma siamo in estate!- replicò Genesis con l’intento di spazientirlo, alzando le braccia e guardandosi intorno – E non ho mai sentito di qualcuno morto di sonno, è solo un modo di dire.-
-Allora mi butterò giù da un burrone, okkey?- sbottò a quel punto Hewley –Appena te ne sarai andato troverò un burrone alto e mi lancerò da lì, contento?- innervosendosi e ricominciando a singhiozzare.
-Ma che sei venuto a fare qui? Vattene Genesis!- lo respinse esasperato quello.
 
Il rosso tornò a sorridere ascoltandolo piangere.
 
-No.- decretò calmo e secco.
 
Quindi si sedette a terra a gambe incrociate, strappò un filo d’erba e iniziò a giocarci distrattamente.
 
-Si invece!- ribadì l’altro –Vattene, lasciami da solo. Voglio morire!-
 
Quindi ricominciò a piangere singhiozzando ancora più forte.
Genesis avrebbe voluto abbracciarlo, ma dovette fare molto sforzo per restare dove si trovava e continuare a far finta di nulla. Avrebbe voluto raggiungerlo e abbracciarlo ma conoscendolo avrebbe cercato di respingerlo e si sarebbero fatti male cadendo giù, perciò decise che sarebbe stato meglio per entrambi rimanere dove si trovava e confortarlo con le parole.
 
-E io cosa faccio da solo se tu muori?- gli chiese.
 
Quella domanda parve quasi sorprendendolo.
All’improvviso smise di piangere, tirò un’ultima volta su col naso e poi rimase in silenzio a pensarci.
Genesis sorrise appena continuando a tenere la testa bassa e a fingere disinteresse tormentando tra le dita sempre lo stesso filo d’erba.
 
-Tu hai i tuoi libri …- rispose dopo un po’ Angeal – E i tuoi genitori sono ancora vivi, tutti e due.-
 
Genesis sorrise.
 
-Si, ma sono vecchi.- risolse quindi sbrigativo tornando serio –Moriranno anche loro prima o poi. E cosa farò dopo? Tutto solo fino a che non avrò finito tutti i libri, sai che noia!- quindi scosse il capo –E se avrò voglia di giocare a nascondino o a palla? Se dovesse venirmi voglia di buttarmi da una rupe con qualcuno? Non potrò farlo perché tu lo hai già fatto prima di me e sei morto.-
 
Nascosto dietro al cespuglio di rami nel quale aveva trovato rifugio, con gli occhi lucidi il piccolo Angeal sorrise e abbassò il capo, asciugandosi gli occhi con le manine scorticate qua e là per lo sforzo di arrampicarsi fin lì.
I piedi nudi non stavano meglio.
 
-Va bene allora …- si arrese –Non morirò. Ma non la voglio quella spada.- bofonchiò resistendo alla tentazione di mettersi di nuovo a piangere.
 
Genesis alzò lo sguardo attento.
 
-Quale spada?- chiese corrucciandosi.
-E’ arrivata stamattina. Papà ha lavorato troppo per potermela regalare, per questo è morto.-
 
Le lacrime comparirono di nuovo pressanti nei suoi occhi. Si morse le labbra, il nasino rosso.
 
-Io non gli ho mai chiesto niente …- bofonchiò.
 
Genesis annuì spalancando riflessivo la bocca. Ecco perché era scappato proprio quel giorno, allora.
Si sentiva in colpa per la morte di suo padre ora che sapeva il motivo per cui si era dovuto allontanare da loro per lavorare fino alla morte.
 
-E’ bella …?- chiese curioso.
 
Angeal annuì.
 
-Mh …- bofonchiò –E grande.- aggiunse.
 
Genesis annuì di nuovo, poi scosse le spalle e il capo.
 
-E’ normale che te l’abbia regalata, allora.- risolse – Infatti i regali non si chiedono.- gli fece notare –Comunque se non la vuoi puoi darla a tua madre.- rispose.
-E lei che se ne fa di una spada?- chiese a sua volta Angeal.
 
Rhapsodos scosse le spalle.
 
-La restituirà. O magari la venderà così potrete pagarvi qualche vestito nuovo e pure un maestro come il mio, per te.-
 
D’improvviso Angeal sentì il cuore fargli le capriole fino in gola, gli mancò il fiato e come un forsennato venne preso dal panico.
 
-No!- esclamò, rialzando di scatto la testa e scostando il ramo per guardarlo.
 
La odiava.
Odiava quell’arnese inutile, suo padre era morto per potergliela regalare, in funzione del fatto che un giorno avrebbe potuto usarla in SOLDIER secondo il suo sogno da bambino.
Ma … proprio per questo … quella era l’unica cosa che gli restava di suo padre.
Genesis si voltò a guardarlo, sostenendo serio il suo sguardo.
Ero pallido, aveva gli occhi arrossati e gonfi da quanto aveva pianto.
 
-Io … non voglio.- gli disse, calmandosi e rendendosi conto di aver esagerato senza un motivo apparente.
-La vuoi o no?- chiese a sua volta il rosso, deciso.
-Non voglio usarla, ma non voglio che mamma la venda.- decise Hewley sicuro –Papà … è morto per regalarmela.- concluse, tornando ad abbassare di nuovo il volto.
 
Genesis sorrise, guardandolo deformare le labbra con dolore e tornare a singhiozzare lasciando andare il ramo e nascondendosi il viso tra le mani.
 
-Allora la terrà tua madre fino a che non la vorrai.- risolse a quel punto tranquillo, poi intenerito aggiunse, spronandolo –Dai, scendi e andiamo a casa.-
 
Angeal sospirò pesantemente.
 
-No …- tornò a ripetere singhiozzando.
 
Ora fu il rosso a sospirare spazientito.
 
-Perché no? Vuoi ancora morire?-
 
Angeal scosse il capo, tirò su col naso e si asciugò gli occhi con la manica della maglietta.
 
-Non è questo …- bofonchiò –E’ che …-
-Cosa?- lo incoraggio l’amico.
-Non riesco a scendere- gli svelò lui, tornando a singhiozzare abbassando arreso il capo –Ho tutti i piedi e le mani scorticati, mi sanguinano e fanno male.-
 
Genesis guardò il piedino penzoloni e in effetti si accorse fosse rosso e gonfio.
Sospirò e si alzò, sistemandosi la camicetta rossa che indossava e controllando che i pantaloni non fossero sporchi.
 
-Vado a chiamare aiuto, aspetta un istante.- risolse annuendo e tornando a sorridere.
 
Angeal tornò a guardarlo scostando il ramo col gomito e annuì, sorridendo a sua volta grato. Genesis gli scoccò un occhiolino e infine corse veloce più che poté verso Gillian e suo padre, che lo attendevano impazienti alle porte del villaggio.
 
-E’ dove avevo detto io.- annunciò.
 
Gillian si portò una mano al cuore sospirando sollevata.
 
-Si è arrampicato su un albero a piedi nudi e se li è scorticati, per questo non riesce più a scendere.-
 
Suo padre sospirò e annuì.
 
-Lo tiro giù io.- decise, quindi seguì il figlio e riportò il bambino da Gillian, che non appena lo vide lo prese tra le braccia stringendolo forte e avvolgendogli protettiva una mano attorno alla nuca, accarezzandogli i capelli.
 
-Angeal, mi hai fatto morire di paura!- gli disse accarezzandogli il viso umido di lacrime come se volesse accertarsi di averlo davvero di nuovo sano e salvo fra le sue braccia.
 
Il bambino abbassò il volto, guardò Genesis che gli sorrise portandosi i due indici delle mani a posarsi incrociati sulle labbra, in una muta promessa di mantenere il segreto.
Sorrise assieme a lui.
 
-Scusa mamma …- mormorò –Mi spiace.-
 
La donna lo guardò negli occhi lucidi, tornando a sorridergli di nuovo tranquilla.
 
-Non fa niente. È tutto finito adesso.- replicò –Ma non farmi più questi scherzetti, va bene? Promesso?-
 
Il bambino annuì più volte, quindi l’abbraccio forte e dopo aver ringraziato sia Genesis che suo padre tornarono insieme di nuovo a casa, quella che da quel momento sarebbe stata solo la loro, il loro piccolo rifugio dal mondo molto più triste e complicato di quanto non sembrasse.
Dormirono insieme quella sera, nel lettone stretti l’uno tra le braccia dell’altra.
Gillian lo strinse vicino al proprio cuore e tornò ad accarezzargli i capelli, corvini come i suoi, stampandogli piccoli baci rassicuranti sulla nuca.
 
-Mi spiace tanto, piccolo mio.- mormorò quando sentì il suo respiro farsi più lento, e fu sicura di non essere ascoltata –Un giorno ti racconterò tutto … ti chiederò scusa anche per quello. Un giorno … quando sarai abbastanza forte da capire e riuscire se vuoi a perdonarmi.
Te lo prometto … lo farò.-
 
Quindi chiuse gli occhi anche lei, e si addormentò.
Quel giorno in fondo era ancora molto lontano per il momento, e lei era stanca e distrutta per la perdita di quell’uomo che in fondo l’aveva amata più di quanto avesse in realtà fatto lei quando aveva deciso di sposarlo.

 
 
\\\
 
Anni dopo …
 
Angeal, con sempre indosso la sua divisa da first che non aveva mai tolto da quando era arrivato nuovamente a Banora, scese in fretta le scale e aprì la porta, salutando con uno sbrigativo “buongiorno” sua madre che se ne stava seduta al tavolo ad attenderlo, avvolta nel suo scialle di lana verde, pulendo un vecchio pestatoio di rame con un pezzo di stoffa imbevuto di aceto.
 
-Angeal …- lo richiamò stancamente.
 
Lui si bloccò sulla soglia, rabbrividendo. Gillian sorrise intenerita e triste, si allungò verso la sedia alla sua sinistra e la spinse indietro, fuori dal tavolo.
 
-Siediti un istante qui, per favore.-
 
Il SOLDIER scosse con vigore il capo corrucciandosi, quasi ne avesse paura.
 
-Non posso adesso, mamma.- risolse, aggiungendo poi con rammarico –Scusa.- abbassando il volto.
 
Quindi uscì fuori e si richiuse la porta alle spalle, fermandosi per un istante appena a sospirare nervosamente, guardando con occhi lucidi il cielo azzurro sopra di sé, cercando di calmarsi.
Infine scosse il capo con durezza, e facendosi forza riprese a camminare.
Per dove? Non lo sapeva neanche lui, ormai. Il suo cuore era diviso tra il restare e il tornare a Midgar, da Zack e al suo dovere di maestro e SOLDIER. La sua testa … era semplicemente piena di pensieri confusi, i più inutili e ansiogeni.
Gli sembrava d’impazzire sempre di più ad ogni minuto che passava.
 
///Fine Flashback///
 
***
 
Indossai il vestitino bianco a fiori che mi aveva regalato Zack e risistemai un po’ il mio aspetto sconvolto, poi tornai da te che mi aspettavi seduto a gambe incrociate sul sofà a tre posti leggendo Loveless.
 
-Vado bene? È l’unica cosa che aveva.- dissi mostrandomi di fronte a te e allargando le braccia.
 
Sorridesti guardandomi tutta, dalla testa ai piedi.
 
-Mh.- facesti –Si. Ma quelle non sono adatte per l’allenamento. – aggiungesti quindi indicando le ballerine bianche –E i capelli potrebbero darti fastidio nei movimenti.-
 
Sorrisi un po’ dispettosa.
 
-Per quanto ne so, anche Sephiroth combatte coi capelli sciolti. E lui non ha problemi a batterti.- replicai sfidandoti.
 
Raccogliendo la provocazione tu ghignasti, sbruffando e inclinando di lato il capo e stendendo le braccia sul poggiatesta in velluto rosso.
 
-Tsh! Tanto per essere precisi quel pallone gonfiato ha comunque un punto debole in questo, che non rivelerò mai neanche sotto tortura per non giocarmi la mia carta vincente. E poi … - aggiungesti alzandoti e recandoti con calma e sicurezza verso la credenza appoggiata alla parete alla nostra destra, aprendola e tirando fuori da essa una piccola e graziosissima scatola portagioie in legno verniciata d’oro e verde e dipinta con disegni floreali multicolore come quelli sul mio vestito.
 
La apristi e traesti dal fondo una spilla d’oro forgiata a forma di una meravigliosa fenice ad ali spiegate.
Ti voltasti verso di me, che ti scrutavo curiosa, sorridesti nuovamente e ti avvicinasti con scioltezza e calma, rigirandoti il gioiello tra le dita. Sfiorasti piano il viso con una carezza mentre magnetico osservavi i movimenti dei miei occhi con i tuoi.

-E poi …?- chiesi incantata, senza staccarmi da te.
 
Il tuo sorriso si accentuò. Ti fermasti a guardarmi, tirasti piano all’indietro le due ciocche di capelli più vicine agli zigomi prendendole tra le dita e le fermasti con la spilla all’altezza della nuca.
Quindi abbassasti il tuo volto avvicinandolo al mio e sfiorasti di nuovo le mie labbra con un dolce bacio lento, approfondendo poi il contatto assaporandole sempre più profondamente.
Tremai, chiudendo gli occhi e lasciando che quei brividi, le tue labbra che mordevano le mie e le tue mani calde sul mio viso fossero le uniche sensazioni da sentire.
 
- E poi …- continuasti, tornando a sorridermi complice –Tu non sei Sephiroth …- prendesti un istante di pausa per riprendere fiato e sorridesti guardandomi, lo feci anche io –Decisamente non lo sei …- aggiungesti con soddisfazione – E neanche un SOLDIER. Solo una ragazza … una splendida ragazza …- lentamente, stregandomi col tono della tua calda voce e l’espressione assorta del tuo viso che scrutava il mio.
 
Sorrisi ancora, sussurrando a tono con un sogghigno.
 
-Che vuoi dire?- ti chiesi inclinando appena di lato il capo –Sono una donna, ma non sottovalutarmi.-
 
Sorridemmo entrambi, divertiti e uniti. Mai come allora.
 
-Non lo farò.- promettesti tu –Ma l’allenamento è una cosa seria, ti serve un abbigliamento adeguato.-
 
E allora mi prendesti per mano e mi accompagnasti verso la stanza dei tuoi genitori, qualche metro più in su della tua.
Un ampio ambiente luminoso con due finestre che coprivano tutta la parete in legno ad ovest, un grande letto rustico al centro del pavimento in parquet, in legno scurissimo, e due enormi armadi di fronte ad esso, uno per tua madre e uno per tuo padre.
Ti avvicinasti al primo, lo apristi e tirasti fuori un pantalone da cavallerizza color cremisi, una camicia bianca dalle ampie maniche a sbuffo e una giubba di cuoio marroncino scuro. Li posasti sul letto.
 
-Questi non sono proprio il massimo della comodità ma dovrebbero andare.-
 
Ti voltasti verso la grande scarpiera a muro alle mie spalle e afferrasti dal primo scaffale un paio di stivali in pelle dello stesso colore della giubba, robusti e dalle falde alte, con un piccolo tacco in legno sotto la sua e un paio di fibbie dorate sulla caviglia.
 
-Vestiti. Ti aspetto di fronte alla fabbrica.- risolvesti, lasciando le calzature vicino ai piedi del letto e ordinandomelo.
 
Poi ti voltasti ancora a schioccarmi un occhiolino e te ne andasti, richiudendo la porta dietro di te.
Rimasta sola mi concessi qualche istante ancora, prima di obbedire. Mi guardai intorno e tutto ciò che vidi mi riportò al passato.
Anche mia madre e mio padre avevano un armadio simile al ranch, solo un po’ più piccolo.
Aprii di nuovo le ante, osservai la mia immagine riflessa nel lungo specchio a figura intera che vi era appeso scrutando la spilla e poi i nuovi vestiti sul letto.
Erano … di tua madre anche quelli.
E mi sentii in colpa.
Stavi cercando di cancellarli e cancellarti col loro ricordo, e io ti stavo aiutando senza accorgermene? Oppure non lo sapevi bene neanche tu, ancora …?
Guardai la foto di tua madre e tuo padre stretti in un abbraccio.
Lei era bella e forte, aveva i capelli rossi e ricci lunghi fin oltre il bacino, e uno sguardo dolce.
Lui era più severo … ma come se si nascondesse dietro una scorza.
Allungai una mano verso il ciondolo a forma di cuore che portavo al petto, lo afferrai stringendolo.
Genesis...” pensai con dolore “Cosa stai facendo?
Quindi sospirai, decidendomi a sbrigarmi.
Tu mi stavi aspettando, io potevo ancora fermarti.
 
\\\
 
Un quarto d’ora più tardi giunsi nel piccolo spiazzo di fronte alla fabbrica.
Eri seduto su una roccia, stavi parlando con Hollander.
Al solo vederlo sentii lo stomaco stringersi dalla rabbia in una morsa dolorosa, e le mie mani s’infuocarono di nuovo.
Come se mi aveste sentito arrivare entrambi vi voltaste, i suoi occhi mi scrutarono con terrore e i miei si accesero della luce di vita della fenice.
Ti rivolse un’ultima volta la parola per dirti non so cosa, quindi si dileguò rientrando nel grande stabile di fronte a noi.
Sospirai, cercando di calmarmi. Tu mi sorridesti, da lontano mi facesti cenno di avvicinarmi appoggiando poi le mani sulle ginocchia e alzandoti mi venisti incontro.
 
-Niente male.- commentasti guardandomi.
-Genesis …- iniziai nervosa, ma tu mi impedisti di continuare.
-Mia madre era un po’ più alta di te, ma ti stanno bene lo stesso.- aggiungesti soddisfatto – Puoi prendere tutti i vestiti che vuoi, se ti piacciono. Sono tuoi.-
-Gen…- ripetei sempre più contrita.
 
Ti fermasti a guardarmi in silenzio. Sospirai.
 
-Loro verranno a cercarti.- esordii preoccupata.
 
Il tuo sorriso non si spense, si intristì solo un po’.
 
-Lo so.- rispondesti calmo.
-Banora …- aggiunsi addolorata, sospirando e guardandomi intorno per staccarmi dall’angoscia nei tuoi occhi – Tutto questo …- trassi un altro respiro, la voce incrinata dall’emozione –Non rimarrà più niente. La distruggeranno.-
-Per eliminare le prove.- annuisti, amaro e consapevole –E’ questo che fa la Shinra. Quello che gli riesce meglio. Distruggere … e creare mostri per farlo.-
 
Come me.”
Tornasti serio e abbassasti il volto. Un breve istante, poi tornasti a guardarmi con una luce più dolceamara negli occhi, speranzosa.
 
-Ma non conoscono la forza di questa terra.- risolvesti, prendendomi le mani e guardandoti intorno, inducendomi a fare lo stesso –La sua vitalità e la sua tenacia, la voglia di rinascere.-
 
Sorridesti di nuovo, guardandomi negli occhi. E concludesti sicuro.
 
-Potranno distruggere le case, le tracce della mia famiglia, quella a cui mi hanno affidato dopo avermi creato. Ma gli alberi … l’erba, la vera natura di Banora. Non moriranno mai.
Aspetterà solo il momento giusto per rinascere.-
 
Qualcosa. Qualcosa di profondo e forte, di commovente cantò dentro di me.
Sorrisi a mia volta, dolcemente impietosita.
E sollevai una mano ancora stretta nella tua ad accarezzarti piano il viso. Mi guardasti, sorpreso e incantato. Sembrava volessi piangere da un momento all’altro, ma i tuoi occhi ridevano. Umidi di lacrime.
Ti abbracciai forte, allungandomi sulle punte per riuscire a farlo raggiungendo la tua altezza. Tu ti abbassasti per facilitarmi i movimenti e affondasti il naso nei miei capelli, stringendomi a te.
Non c’era nient’altro da dire. Entrambi sapevamo che quella era la pura e semplice verità.
Entrambi eravamo consapevoli … di quel melanconico dolore che ci avvolgeva il cuore.
Solo … forse solamente io ero davvero pienamente al corrente di quanto profondamente questo ci avvicinasse.
Ancora qualche attimo, poi decidesti di staccarti da me e tornare al presente.
 
-Il tempo è poco.- risolvesti –Iniziamo o no questo addestramento?-
 
Sorrisi continuando a scrutarti toccata.
 
-Si.- annuii, ma aggiungendo subito dopo, innamorata –Solo … non parlare più di te stesso come una creatura o un mostro. Tu non sei nessuna delle due cose, ma … un uomo. Semplicemente un uomo … il mio.-
 
E tu, guardandomi, illuminasti nuovamente i tuoi occhi di quella luce piena e fiera, diversa, e fiduciosa.
 
-Non posso promettertelo.- replicasti scuotendo il capo.
 
Lo feci anche io.
 
-Puoi. Hai tutto il diritto di farlo, come chiunque altro essere umano.-
 
(Continua …)

 

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Capitolo 28
*** Quello che conta ***


Capitolo XXVI

"Può nascere dovunque
Anche dove non ti aspetti
Dove non lo avresti detto
Dove non lo cercheresti
Può crescere dal nulla
Sbocciare in un secondo

Può bastagli un solo sguardo per capirti fino in fondo"

-L'amore esiste (Francesca Michelin)-

///Flashback///
 
Era la sua prima missione come 3rd, la prima veramente tosta che se sarebbe andata bene lo avrebbe avvicinato sempre più alla carica di 2nd.
Era iniziata bene, nonostante la difficoltà del doversi destreggiare nei cunicoli infiniti di quella grotta e doversi continuamente guardare le spalle da mostri che sbucavano anche dal soffitto e guerriglieri nemici armati fino ai denti. Erano civili ribelli che volevano sbarazzarsi della Shinra e si erano appropriati indebitamente di un carico di armi da usare contro i legittimi proprietari. Il motivo? Sempre lo stesso: Impedire alla Shinra la costruzione di un altro reattore.
Li avevano scovati e provocati, ora non dovevano fare altro che correre verso l'uscita dove li attendevano rinforzi.
Solo che ... quelli continuavano a sparare e all'improvviso di fronte a loro apparve un muro.
Era un alto gradone da cui erano saltati giù all'andata, ma che ora si era trasformato in un ostacolo non proprio insormontabile, ma che rischiava di compromettere la loro vita e anche la missione.
Zack si guardò intorno cercando un'altra via di fuga: Non ce n'erano.
Allora, anche un pò inquietato, si rivolse al suo maestro chiamandolo per nome ma accorgendosi però che questi stava già rimediando arrampicandosi.
In un paio di mosse azzeccate fu già in cima, ma i ribelli continuarono a sparare e i proiettili erano sempre più vicini.
 
-Zack, afferra la mia mano!- esclamò allora Angeal urlando per sovrastare il rumore degli spari.
 
Prontamente il giovane lo fece, e così fu salvo anche.
 
-Uff!- esclamò tornando a sorridere mentre insieme ripresero a correre -Grazie Angeal. Meno male che c'eri tu, sarei stato spacciato.- ridacchiò.
 
Questi gli rivolse un finto sguardo severo ridendo sotto i baffi senza riuscire a trattenersi.
 
-Appena torniamo intensifichiamo gli allenamenti, però. Avresti dovuto pensarci da solo.- decise, e Fair accolse il verdetto con una smorfia annoiata a cui seguì un'altra risata da parte di entrambi.
-Allora adesso che facciamo coi ribelli? - chiese, indicando con un cenno del capo la strada che si erano lasciati alle spalle.
-Il piano non cambia.- decise il first tornando serio -Ormai sono in trappola, non esistono altre uscite principali oltre a quella che presidiamo.-
 
Zack ridacchiò.
 
-Quindi li acciuffiamo con le spalle al muro. - disse soddisfatto.
-Si, ma senza ulteriore violenza. Dobbiamo prenderli vivi e riconsegnarli a chi di dovere.- annuì sempre più serio Hewley -Non deve morire nessuno.-
 
Il più piccolo corrucciò la fronte stranito.
 
-Loro non sembrano dello stesso avviso, però.-
 
Angeal scosse le spalle.
 
-Combattono per una causa e per la loro terra, esattamente come noi. Solo che siamo su due fronti diversi. - concluse, poi tornò a guardare di fronte a sé.
 
Erano quasi vicino all'uscita, iniziavano a intravedere i primi fanti a protezione dell'ingresso.
 
-Allora ricordati, nessun morto se non è necessario.- ordinò.
 
Zack Fair annuì facendosi serio.
 
-Si, signore.- replicò obbediente portandosi indice e medio della mano destra uniti alla fronte e poi tornando a sorridere eccitato -Farò del mio meglio.-
 
 
***
 
Anni dopo …
 
-Zack!-
 
Il 2nd class seduto ad annoiarsi e struggersi su di una panchina di fronte alla sede, sospirò senza neanche accorgersi di Kunsel che, accorso in fretta da lui chiamandolo più volte per nome gli si era seduto accanto, scrutandolo preoccupato.
 
-Hey!- lo fissò di nuovo, sventolando una mano guantata di fronte alla sua faccia.
 
Finalmente Fair sembrò risvegliarsi.
Lo guardò angosciato negli occhi, sospirando di nuovo.
 
-Eh?- mormorò.
-Dio mio, che faccia!- osservò preoccupato l’altro –Dai, su con la vita! Non ti ho mai visto così da quando sei entrato in SOLDIER.-
 
L’ennesimo sospiro.
“Su con la vita, certo.” Pensò tra se amaro il giovane 2nd. “Angeal è sparito, tutti sono convinti che abbia disertato e Valery non risponde più al telefono, non so neanche più sicuro sia ancora a casa dei miei. E ancora niente missioni!
S’è fermato tutto e non che altro aspettarmi. Che mi crolli il cielo sopra la testa da un momento all’altro o la terra sotto i piedi?”
Sospirò ancora dalle narici, più pesantemente, senza esprimersi.
Quindi in un impeto spazientito affondò le dita delle mani nei capelli e se li scompigliò, scuotendo il capo e poi alzandosi in piedi.
 
-Basta, non ce la faccio più!- sbottò –Ti va di allenarti? Ho bisogno di scaricare la tensione.- chiese.
 
Kunsel lo scrutò stranito, quindi annuì sorridendo divertito.
 
-Ancora non si sono fatti vivi, eh?- chiese centrando il punto –Né Angeal, né quella ragazza.-
 
Fair tornò ad abbattersi e quel punto Kunsel esplose in una risposta e alzatosi gli batté una pacca sulla spalla, incoraggiandolo o almeno cercando di farlo.
 
-Dai, andiamo in sala di simulazione. Vedrai che tutto si risolverà.- risolse ottimista.
 
Anche più di Zack stesso che stavolta proprio non riusciva ad esserlo. Più passava il tempo e più si sentiva sempre più abbandonato e solo. Senza contare poi i pessimi presentimenti che crescevano sempre più numerosi come erbacce senza che lui riuscisse ad estirparle.
 
-Grazie …- mormorò.
 
Quindi insieme si avviarono dentro al grande edificio attraversando l’ingresso principale.
Nel frattempo alle loro spalle, ben distante e nascosto nel silenzio, Sephiroth si fermò a scrutare il tormento del giovane con aria cupa e l’animo tormentato.
Dalla scomparsa di Genesis non riusciva più a chiudere occhio, e ora anche Angeal …
Alla fine anche loro lo avevano abbandonato, se n’erano andati, ma non era questo a fargli male. Non quanto il tormento di non sapere perché lo avessero fatto e il continuare a chiedersi se, almeno in parte, fosse stata anche un po’ colpa sua.
Una domanda a cui era convinto non avrebbe mai veramente trovato una risposta.
 
///Fine Flashback///
 
L’addestramento: Giorno 1.
 
Una spada ordinaria di SOLDIER. La corta lama portava su di sé i segni dell’usura ma era ancora in condizioni più o meno perfette, la croce davanti manico leggermene incurvata verso l’impugnatura per proteggere le dita e il manico foderato di cuoio robusto.
La afferrasti dalla roccia sul quale eri seduto e me la puntasti contro, sogghignando.
Osservai sorpresa la lama affilata e lucida, spostando poi la tua attenzione di nuovo su di me.
 
-Prendila.- mi ordinasti allentando appena la presa e porgendomela ruotando il polso.
 
Allungai timidamente un braccio e la presi dalla tua mano, impugnandola goffamente nella destra e osservandola.
 
-Questa è una spada fabbricata dalla Shinra, una delle più scadenti aggiungerei. Funge al suo dovere ma contro nemici più forti potrebbe facilmente spezzarsi.- esordisti spiegandomi.
 
Ripensai a Zack contro la simulazione di Sephiroth e ad Angeal contro di te. Era stata una spada come quella a ferirti spingendoti a questo, appena pochi giorni prima.
 
-Che tipo di nemici?- chiesi, facendo appello a tutta la mia forza di volontà per non spostare gli occhi sulla tua spalla.
 
Non avevo più avuto modo di chiederti come stava, mi tornò in mente solo allora ma sembravi star bene adesso, almeno per quanto riguardava quell’incidente.
Non fu necessario però fingere. Tu te ne accorgesti comunque e sogghignasti di nuovo, facendo poi finta di nulla. Ma non troppo.
 
-Quelli dotati di notevole forza bruta.- replicasti –Come creature gigantesche dai muscoli possenti, Summons quali il Bahamut corazzato e SOLDIER 1st class, ma solo quelli bravi e abbastanza incazzati.-
 
Ghignammo insieme.
 
-Capito.- sorrisi imbarazzata io, prendendo a due mani l’elsa.
-S’impugna con entrambe le mani.- annuisti tu avvicinandoti un po’ di più e osservandomi attentamente –Verso il basso, braccia tese e gambe leggermente divaricate.-
 
Avevo visto quella posizione un centinaio, un migliaio di volte, ma replicarla fu molto più imbarazzante del previsto. Sorridesti divertito nel vedermi in difficolta. Me ne accorsi e ti lanciai un’occhiata di fuoco.
 
-Se lo stai facendo apposta giuro che mi vendicherò. - minacciai.
 
Ridacchiasti, gingillando altero col capo.
 
-Non lo faccio apposta, no.- negasti tranquillo –Comunque se ti vuoi vendicare fai pure.- aggiungesti aprendo le braccia – Non temo Sephiroth, figuriamoci te.-
 
Sbruffai e sogghignai fingendomi imbronciata.
 
-Ancora con questa storia?- replicai –Non so se sentirmi più offesa o gelosa.-
-Fai tu.- rispondesti scuotendo le spalle, quindi tornasti serio e riprendesti a girarmi intorno soffocando un ghigno –Torniamo a noi … schiena dritta e petto in fuori!-
 
Obbedii all’istante come un bravo soldatino. “Maledetto.”
Sogghignammo entrambi sotto i baffi prima di riprendere i nostri ruoli.
 
-Quando combatti la tua mente deve mantenersi concentrata solo ed esclusivamente al presente.- continuasti a spiegare –Niente sé, niente ma, non devi avere in testa null’altro che non riguardi il campo di battaglia e i tuoi nemici.-
-E nel frattempo devo anche mantenere questa posizione da idioti?- scherzai continuando a stuzzicarti invece di ascoltare.
-Io preferisco non farlo.- ghignasti tu –Ma ad un 1st è concesso tutto.- concludesti scuotendo le spalle.
 
Strinsi le labbra mordendomele per non scoppiare a ridere.
Tu mi voltasti le spalle, seguitasti a girarmi intorno a braccia conserte e poi ordinasti nuovamente con fare sicuro e tono marziale.
 
-Braccia in avanti! Gambe divaricate! Gira la testa verso destra e apri le braccia impugnando la spada con la lama in verticale.-
 
Continuai attentamente a seguire il dettato, mentre ti sentivo scrutarmi con attenzione e un ghigno soddisfatto a fil di labbra.
 
-Schiena più dritta.-
 
Obbedii, con qualche difficoltà.
 
-Ora volta la testa dall’altro lato e ripeti spostando il peso da un piede all’altro.-
 
Sospirasti quando terminai di eseguire. Scuotesti il capo e decretasti secco.
 
-Sei troppo rigida.-
 
Lasciai andare il fiato fuori dai polmoni, stancamente, rialzandomi.
Stavo per rispondere ma tu mi sorprendesti portandoti dietro di me avvicinandoti alle mie spalle, inchiodando il tuo corpo contro il mio e afferrandomi le mani con le tue, prive dei guanti, morbide e calde.
Avvertii il calore ardente della tua pelle, del tuo respiro vicino al mio orecchio destro, con la coda dell’occhio vidi il tuo ghigno.
Fissavi me o la spada?
 
-Rilassati.- mormorasti –La scherma è come una danza.-
 
Il tuo braccio sinistro indusse piano il mio a piegarsi verso destra, la testa seguì con fluidità il movimento nella stessa direzione della tua e il peso si spostò da un piede all’altro proprio come facesti anche tu.
 
-Così …-
 
Rimasi senza fiato e sorrisi appena, incredula ed emozionata.
Stavamo … stavamo danzando davvero.
E mi ritrovai affannata a seguire con attenzione tutti i movimenti stregata dalla magica presenza. Provammo diversi schemi, differenti passi di “danza”, continuando a spostarci lentamente assieme alla spada sulle punte dei piedi, sulle note di un dolce vento tiepido che aveva ripreso a soffiare.
Quando alla fine mi resi conto di ciò che stava accadendo era già tutto finito.
Avevo danzato sulla tua coreografia letale con te, come ti avevo visto fare mille volte attraverso lo schermo della mia PSP.
Incatenata ai tuoi occhi sospirai, riprendendo fiato. Sorridesti.
 
-Niente male, come prima lezione. Mi aspettavo di peggio.-
 
Sogghignai soddisfatta.
 
-Te lo avevo detto di non sottovalutarmi.-
 
Ridacchiasti, quindi tornasti a stringerti a me afferrando nella tua mano la mia, quella che reggeva la spada.
Mi spingesti ad alzarla, portando il filo in orizzontale e la lama in parallelo col terreno, all’altezza della mia spalla.
 
-Senti la sua massa?- domandasti.
 
Annuii.
 
-E’ pesante.- replicai
 
Sorridesti.
 
-Mph. Questa è l’arma più leggera che potrebbe capitarti di impugnare se decidessi di arruolarti.- replicasti, aggiungendo poi dopo esser tornato a guardare la lama –Quando infliggi un colpo, se vuoi essere il più letale possibile puoi scegliere di affondare o in orizzontale, come abbiamo visto sino ad ora, o in verticale impugnandola a due mani.-
 
Prendesti anche la mia sinistra nella tua, mi spingesti a chiudere le braccia, afferrare l’elsa a due mani e sollevarla al cielo lasciandola poi ricadere lentamente giù, contro il terreno sotto la suola dei nostri stivali e parallelamente al mio viso.
 
-Maggiore è la velocità con cui affondi, più grave sarà il danno inflitto.-
 
Sorrisi tornando a guardarti negli occhi.
 
-Non sapevo fossi anche un esperto di fisica.- scherzai.
 
Ti fermasti a guardarmi e sogghignasti inclinando di lato il capo.
 
-Allora c’è qualcosa che non sai su di me.-
 
Ridacchiammo insieme, poi mi lasciasti andare e tornasti a restare di nuovo di fronte a me, abbassando con un movimento fluido le braccia.
 
-Dovrai esercitarti a ripetere gli schemi ogni giorno anche più volte, fino a memorizzarli bene.- concludesti serio –Deve venirti naturale muoverti in questo modo, e reggere in mano la spada rafforzerò i muscoli delle braccia.-
 
Annuii responsabile.
 
-E dopo che avrò imparato?- chiesi.
 
Tu sogghignasti guardandomi e portando di nuovo le braccia incrociate sul petto, fingendo di pensarci.
 
-Quando avrai superato l’esame di scherma …- risolvesti con un sogghigno furbo sulle labbra –Ti insegnerò a usare la magia e le materie.-
-Credo che la priorità per lei sia prima di tutto imparare a dominare il suo potere.-
 
Ci voltammo sorpresi, la voce profonda di Angeal ci aveva riscosso. Lo osservammo avanzare serio fino a portarsi a pochi passi da noi. Mi guardò e rabbrividii di nuovo, ma stavolta … provai anche tanta tristezza. Era stanco e preoccupato, glielo si leggeva in faccia molto chiaramente.
 
-Dovresti insegnarle prima di tutto questo, poi passare alla scherma.- ti consigliò guardandoti.
 
Sorridesti.
 
-Bentornato.- lo accogliesti sollevato –Mi mancavano le tue perle di saggezza.-
 
Si corrucciò.
 
-Non avresti resistito neanche mezza giornata in SOLDIER col tuo carattere, senza le mie “perle”.- ti apostrofò severo.
 
Annuisti alzando le braccia coi palmi aperti delle mani bene in mostra, in segno di resa.
Ti voltasti a scoccarmi un occhiolino e io sorrisi, arrossendo e abbassando il volto.
Angeal vi osservò in silenzio, quindi sbruffò e fece per andarsene.
D’istinto però lo richiamai, col terrore nella voce, ma quando si voltò a guardarmi sorpreso io … non seppi neanche perché lo avevo fatto.
Semplicemente in testa cominciarono a vorticare veloci i ricordi ed ebbi un istante di esitazione in cui mi sentii mancare.
Vi avvicinaste entrambi a soccorrermi, guardandomi negli occhi.
 
-Valery …- mormorasti preoccupato tu –Stai bene?-
 
Guardai Angeal, corrucciato a scrutarmi. Strinsi forte la sua mano, inconsapevole di farlo. Fu strano.
 
-I-io …- mormorai stanca.
 
La mia stessa voce parve quasi rimbombare nelle mie orecchie mentre le immagini si facevano sempre più vivide.
Titubai per qualche istante, poi annuii con tutta la decisione che riuscii a trovare, quando tutto questo sembrò attutirsi e lentamente scomparire.
Cercai di rimettermi sulle mie gambe, e appena fui in grado di farlo guardai affranta Angeal e lo supplicai, gli occhi improvvisamente lucidi.
 
-E’ … un tempo difficile per tutti. Ma … non lo fare. Qualsiasi cosa sia … non farlo. Pensa a Zack. Lui non sarebbe più lo stesso, dopo.-
 
E lui, incredulo e sconcertato, voltandosi di nuovo a guardarmi sgranò gli occhi e la bocca in una muta espressione di sorpresa osservando la pallida lacrima che attraversò la mia guancia destra e si schiantò a bagnare l’erba sotto i miei piedi, prima di vedermi svenire precipitando nuovamente al suolo con essa, priva di sensi.

 
///Flashback///
 
Poco prima che potesse urtare il capo contro la nuda e dura terra, Genesis Rhapsodos afferò abilmente il corpo della giovane tra le braccia e la sollevò prendendola con sé.
La guardò preoccupato e angosciato, Hewley fece lo stesso avvicinandosi. Si scambiarono una torva e intensa occhiata.
 
-Angeal …- mormorò Rhapsodos serio –Di che stava parlando?-
 
Il moro rimase in silenzio scuotendo la testa con decisione, ma sgranando gli occhi come se stesse cercando di nascondere la verità perfino a sé stesso.
Genesis lo scrutò negli occhi ancora per qualche istante, sospirò e decise incamminandosi.
 
-Ne riparliamo più tardi. Ora deve riposare.-
 
La accompagnarono insieme a casa, Angeal aprì la porta della camera e Rhapsodos entrò spedito ad adagiarla sul letto rifatto da lei stessa quella mattina.
Levò le coperte, le tolse gli stivali, la sistemò per bene sul materasso e il capo comodamente sul cuscino e la coprì nuovamente.
Sfiorò la sua fronte con una carezza, scostandole una ciocca di capelli della frangia che era andata a ricoprirle le palpebre chiuse.
Tremavano, e l’espressione del suo viso era stanca e triste.
Un’altra lacrima sfiorò veloce il suo volto delicato. Gliela asciugò piano con un dito, quella rifulse sulla sua pelle umida per un istante appena, poi scomparve lasciandolo stupito a guardare.
“Le lacrime della fenice.”
 
-Ha la febbre?- chiese Angeal ignaro ma ancora preoccupato.
 
Genesis si voltò a guardarlo e scosse il capo.
 
-No.- disse tornando a guardarlo –Ma ha avuto una visione, credo. Deve essersi stancata molto.-
 
Quindi gli fece segno di uscire. Lo fecero insieme e richiusa la porta si diressero nell’ampio salotto.
 
-Potrebbe volerci qualche ora prima che si svegli.- riflettè il rosso versandosi un bicchierino di liquore nel carrellino vicino al sofà e poi sedendosi a gambe incrociate a sorseggiarlo cercando di calmarsi.
 
Angeal rimase in silenzio, il volto basso e l’espressione cupa. Zack … perché quella ragazza … perché aveva parlato di Zack? Perché proprio ora?
 
-Angeal …-
 
La voce di Genesis lo riscosse.
Alzò gli occhi a guardarlo e lo vide tornare a scrutarlo con attenzione, gli occhi che si muovevano agitati.
-Hai parlato con Gillian?-
 
Sospirò pesantemente tornando a scuotere più volte il capo.
 
-Non ancora.- replicò.
-Non starai pensando di nuovo di suicidarti?-
 
La domanda giunse all’improvviso a sconvolgerlo. Alzò di scatto il volto e lo guardò irato.
 
- Non è certo colpa mia se mi trovo in questa situazione!- sbottò.
 
Genesis sorrise amaro scuotendo appena il capo.
 
-Siamo disertori, Genesis! Disertori! Lo sai che significa questo? Hai anche solo la più pallida idea di cosa significhi?-
-Si.- replicò deciso Rhapsodos –Che abbiamo volontariamente lasciato la Shinra, la sua ragnatela di bugie e i suoi maledetti obblighi e abbiamo deciso di prendere in mano la nostra vita. – aggiungendo poi con un altro sorriso amaro –O almeno questo è quello che ho fatto io …-
 
Quindi alzò gli occhi sull’amico e concluse.
 
-Tu devi ancora decidere, e se continui a non voler sapere non potrai mai farlo.-
 
Angeal sospirò, prendendosi il viso tra le mani e poi spostandole su, fino ad aggrovigliare le dita dentro ai capelli, quasi volesse strapparseli dalla testa.
 
-Continui a parlare di verità …- mormorò stanco e nervoso lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi –Come fai a sapere che io sia pronto a volerla ascoltare?-
 
Si guardarono negli occhi.
Ad Angeal quasi non parve vero di esser riuscito a parlare con tanta sincerità di sé stesso in merito a quella situazione. Lo aveva già fatto, ma ora era tutto più complicato.
Genesis sospirò.
 
-Non lo so, infatti.- ammise –Ho solo sperato fino all’ultimo che lo fossi.-
 
Nel sorpreso e pallido silenzio che seguì subito dopo i loro occhi s’incrociarono e rimasero a fissarsi sconcertati per diverso tempo prima che fossero in grado di tornare a parlare, tesi come se stessero firmando un trattato di pace.
Con sé stessi e tra di loro. Come se all’improvviso si fossero svegliati da un incubo.
 
-Tu …- esordì con voce tremula Angeal, puntandogli un dito contro –Hai creato mostri con la tua faccia con l’intento di attaccare e distruggere, vieni a rimproverare me se dopo tutto questo penso anche solo per un istante di voler morire?-
 
Rhapsodos si alzò in piedi e “appoggiò con decisione” il bicchiere dove lo aveva preso, sul vetro azzurro del carrellino.
 
-Nessun luogo, nessun uomo e nessuna altra creatura su questo pianeta sarà mai al sicuro fino a che la Shinra esisterà! – rispose a tono –Guarda cosa hanno fatto a noi! Guarda Sephiroth! È tutta una gigantesca trappola e lui è l’esca. Ti sembra giusto? Puoi continuare a sopportarlo? Io no.- decise.
-Non è giusto neanche sbattere in faccia la verità a chi non è pronto a riceverla e uccidere altri innocenti per raggiungere i propri scopi. Ti stai abbassando al livello della stessa gente contro cui dici di volerti vendicare! -
 
Lo incalzò duro Hewley, preoccupandosi subito dopo della sua successiva reazione ma restando stupito, ancora una volta e sempre di più.
In altre circostanze avrebbe dato ascolto al suo orgoglio. Ma adesso … stranamente … Genesis sorrise e abbassò il volto, quindi gli voltò le spalle e dopo un altro istante silenzio replicò, annuendo.
 
-Non è giusto, no. Ma non vedevo altra via d’uscita … soprattutto dopo …-
 
Quindi lasciò uscire la sua ala stringendo i denti per resistere ad un dolore ormai quasi inesistente, e in un turbinio di piume che vorticarono intorno a lui fino a posarsi a terra allargò le braccia, voltandosi lentamente e mostrandosi.
 
-Non sono un essere umano.- concluse, con gli occhi lucidi –Valery continua a sostenere che non sono un mostro. Allora cosa sono, Angeal? È questo che mi ha tolto la Shinra. Cosa sono? Che senso ha tutto quello che ho fatto fino ad oggi? Il modo in cui ho vissuto?
Io non ho più niente da perdere.-
 
Smise di parlare, si voltò di nuovo avvicinandosi alla finestra che dava sull’ampio spiazzo sterrato di fronte alla casa e stringendo i pugni per resistere all’improvviso impeto d’ira e frustrazione.
Angeal sospirò. Faticava ancora a guardare quell’ala nera sulla sua schiena. In base ai documenti che Genesis e Hollander gli avevano mostrato anche lui avrebbe dovuto averne una. Solo che ancora non era abbastanza forte e mentalmente preparato per richiamarla.
Eppure … nonostante il terrore, la confusione … lo sgomento …
All’improvviso ripensando a quella ragazza riuscì a trovare una risposta, seppur minima e non abbastanza esaustiva per colmare quegli improvvisi vuoti.
 
-Valery … -soggiunse –Quella ragazza ti ama. E per me sei tutto ciò che mi è rimasto.-
 
Incredulo Genesis tornò a scrutarlo negli occhi e li vidi scintillare di commozione.
Angeal sospirò di nuovo, ancor più pesantemente.
 
-Sei il mio migliore amico, mio fratello, la mia famiglia. – seguitò –Angelo, umano o mostro.- scosse la testa alzando le spalle –Non importa più di tanto, sinceramente. Ecco cosa sei … per me, almeno.-
 
Mentre ascoltava le sue parole, Rhapsodos all’improvviso ripensò a tutto, tutto il resto. A Valery e a tutti quei suoi discorsi che per lui erano stati in un primo momento solo inutili e irrealistiche favole. Proprio lui, che per anni aveva cercato il significato nascosto dietro ad un poema incompleto e aveva creduto, continuava a credere ad una redenzione pur non ammettendolo neanche a sé stesso. La guerra delle bestie … il dono della dea … non aveva mai smesso di cercarla. Eppure era diventato così cieco, il dolore lo aveva talmente accecato da spingerlo a mandare al diavolo anche l’ultimo briciolo di umanità rimastagli. Adesso sì che era un mostro, ma non per colpa di quelle ali.
Un dolore sordo al cuore e un magone stretto in gola, gli occhi verde acqua si riempirono di lacrime.
 
-Valery …- mormorò abbassando il volto verso la punta dei suoi stivali –Ora capisco perché ti faceva così paura.-
 
Quindi alzò di nuovo il viso a guardarlo e concluse, commosso e sollevato.
 
-La Dea l’ha mandata per aprirci gli occhi su ciò che ancora dovevamo vedere. Non su Loveless, sul suo dono. Ma su noi stessi …-
 
Era come se all’improvviso qualcuno avesse afferrato di peso tutto ciò che grava sul suo cuore e lo avesse sollevato, portandolo via lontano.
Il più grande dono … era la vita.
Hewley ci pensò un attimo su, poi annuì ma tornò a sospirare preoccupato.
 
-Ma ormai è tardi.- disse scuotendo il capo –Quel che è fatto è fatto, non possiamo più tornare indietro.-
 
Genesis si fece serio, annuì a sua volta.
 
-Io no … forse.- mormorò, tornando poi a guardarlo sorridendogli –Ma tu si.-
 
Angeal alzò lo sguardo di colpo a scrutarlo, sgranando gli occhi.
 
-Torna da Zack, a Midgar. – risolse –Fallo, se è questo che desideri. Non verrai coinvolto più di tanto se non ti troveranno qui.-
 
Un colpo al cuore.
 
-Cosa…?- incredulo il moro lo scrutò come se avesse appena assistito ad un miracolo.
 
Era … davvero Genesis quello che stava parlandogli ora?
Sbatté le palpebre un paio di volte per sincerarsene ma l’immagine non svanì, quindi poté dedurne che non era un sogno né un illusione. Ma anche questa nuova realtà aveva i suoi risvolti negativi.
 
-Mi chiederanno di te, lo faranno sicuramente.- esclamò spaventato.
 
Genesis sorrise.
 
-Digli tutto quello che sai.- acconsentì.
 
Angeal scosse con vigore il capo, rabbrividendo.
 
-Non posso!-
 
Il rosso sospirò.
 
-Angeal …-
-No!- sbottò categorico quello –Prima mi chiedi di unirmi a te e poi mi liberi ma mi consigli di tradirti. Non lo farò, ne va del mio onore!-
 
Genesis Rhapsodos buttò la testa all’indietro e alzò esasperato e annoiato gli occhi al cielo.
 
-Manda al diavolo il tuo onore una buona volta, Angeal!- lo apostrofò –Qui c’è in gioco molto di più di questo, smettila di nasconderti!-
 
Scese di nuovo il silenzio, ed Angeal rimase di stucco a guardarlo. Per un istante non seppe cosa dire.
Poi ad un tratto sospirò e rispose, sorridendo incredulo e quasi commosso.
 
-Ora ti riconosco. Bentornato Genesis …-
 
Il rosso sorrise.
 
-Ci voleva una ragazza a farti rinsavire, sei sempre il solito.- scherzò Angeal scuotendo il capo.
 
Risero entrambi, sospirando con sollievo. E per la prima volta dopo tanto tempo qualcosa sembrò tornare al posto giusto, tra di loro e nelle loro vite.
C’erano ancora tante cosa da sistemare, questioni in sospeso da risolvere e identità da ritrovare, ma erano a buon punto per quanto riguardava il loro posto nel mondo. Un buon punto di ripartenza.
Almeno ora avevano capito che farsi del male fino ad annientarsi non sarebbe servito proprio a nulla, se non a peggiorare ulteriormente la situazione.
Ma anche così, nessuno dei due aveva la benché minima intenzione di smettere di combattere.
 
///Fine Flashback///
 
***
 
Ancor oggi fatico a trovare una spiegazione a ciò ch’è accaduto quel giorno. Stavo cambiando il futuro è vero, ma io non avrei dovuto esserne intaccata.
Non facevo parte né del passato né del presente di quel mondo, quindi non avrei dovuto sentirmi così male, ma la fenice sì. E forse una prima spiegazione plausibile sarebbe potuta essere proprio questa, anche se lei era un uccello mitologico, lontana dalle vicende degli uomini, perciò neppure lei avrebbe dovuto farlo.
Non saprei proprio a cosa altro appellarmi per risolvere questo piccolo enigma.
Comunque sia, svenni e passarono diverse ore prima che riuscissi a riaprire gli occhi.
Era sera, le stelle brillavano in cielo e il frinire dei grilli cullava il mio dormiveglia.
Dalla finestra aperta un venticello fresco mi portava il profumo della prateria e degli alberi di Banora White, tutte le luce erano spente e c’era silenzio.
Stropicciai gli occhi e battei le palpebre un paio di volte, quindi mi tirai su passandomi una mano tra i capelli e accorgendomi così della spille, e che fossi ancora vestita con gli abiti dell’allenamento tranne che per gli stivali appoggiati ai piedi del letto.
Li vidi e mi ricordai di te.
Ti cercai alzando intorno a me lo sguardo sulle ombre, ma non c’eri.
Così decisi di alzarmi e a piedi nudi percorsi lentamente il breve tratto fino al soggiorno silenzioso, dove ti trovai.
Sul tavolo rotondo il legno levigato l’enorme candelabro acceso illuminava appena il tuo profilo, disteso sul sofà dormivi profondamente con una espressione stanca sulle labbra e Loveless aperto tra le mani, appoggiate con esso sul petto.
M’intristii … eri stato da quel verme sanguisuga di Hollander, me ne accorsi dal pallore della tua pelle.
Il grigio dei capelli stava iniziando ad essere visibile, anche se era ancora una sfumatura leggera appena accennata.
Mi avvicinai senza far rumore e con occhi lucidi m’inginocchiai di fronte al tuo viso, osservandoti e sfiorando quella prima ciocca.
Fu come vedere un’opera d’arte sfregiata, un dolore profondo pervase il mio cuore.
Mi morsi le labbra per non piangere ma un paio di lacrime bollenti solcarono comunque il mio viso sfuggendo al mio controllo.
Proprio in quel momento apristi gli occhi e io cercai con un sorriso di ricompormi, ma capii dalla tua espressione confusa che forse eri così spossato da non riuscire neanche ad accorgerti del mio turbamento.
Serviva anche sangue per creare le copie. Abbastanza da ridurti così.
 
-Sei sveglia …- mormorasti sollevato.
 
Annuii vacillante e tenera, gettando di lato il capo.
Sorridesti e provasti a rialzarti spostando il peso sul gomito destro, ma con un gemito ti mettesti a sedere in fretta traendolo al petto con dolore per mezzo dell’altra mano.
Lo sfiorai spaventata appoggiandovi le dita, e senza accorgermene liberai un po’ dell’energia curativa della fenice, guarendo la ferita dell’ago sotto la manica del soprabito.
Mi guardasti sorpreso, solo allora ti accorgesti delle mie lacrime.
Sorridesti, prendendomi le mani.
 
-Non ti fermerai, vero?- chiesi singhiozzando.
 
Scuotesti il capo, continuando a sorridere.
 
-Non posso.- mormorasti dispiaciuto in risposta –E’ tardi ormai.-
 
Scossi con vigore il capo, chiudendo gli occhi alle lacrime.
 
-Non vuoi.- replicai correggendoti –Ecco la verità.-
 
Tu mi sfiorasti lo zigomo destro con la punta delle dita, indugiasti a guardarmi negli occhi e invitandomi a fare lo stesso.
Quindi avvicinasti le tue labbra alle mie e le accarezzasti con un bacio prima di trarmi a te e lasciare che ricominciassi a singhiozzare seduta sulle tue gambe, il viso contro il tuo petto forte, all’altezza del cuore.
 
-Promettimi solo …- mormorai distrutta –Di non lasciarmi sola.- stringendo i pungi contro di te.
 
Ti ascoltai sorridere appena e poi sospirare, stringermi di più appoggiando una mano sulla mia nuca e un bacio tenero sulla testa.
 
-E tu promettimi che ce la farai.- rispondesti, uno strano tremolio nella voce –Anche per me.-

 
 

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