Rescue Heart

di 50shadesofLOTS_Always
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Storm ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Stuck in reverse ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Pandering ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Like your father ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Bad Perception ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Communication interrupted ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. Challenge and Garbage ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. High Speed ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. Ice cream on the Border Line ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. Wordless ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. From your Eyes ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. Of occasions And invitations ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. Of statements And dives into the Sea ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. Reasonable Doubts ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. The Beginning ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. Spot ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Storm ***


Note pre-capitolo: la storia prende avvio dalla scena finale del primo film ed è scritta su falsa riga del secondo. Inoltre le parti in arancio e allineate a destra sono dal POV di Pepper mentre quelle blu e allineate a sinistra dal POV di Tony. Buona lettura!
 

STORM

“You terrify me,
we’ve still not kissed and yet I’ve cried.
You got too close, and
I pushed and pushed hoping you’d bite.
So I could run, run
and that I did but throught the dust.”
- Fair Game, Sia
 
“What have I been doing lately
To make you wanna go?
I take you out dancing, honey.
Spend a night romancing,
nights out on the town”
- Stick around, AC/DC

La brezza oceanica sferzava la lucida carrozzeria di una Rolls Royce nera, il cui incedere costante – direzione Malibu Point – era screziato dal sole prossimo a tramontare. Il cielo dorato e l’aria frizzante della California restituivano tutta la bellezza di fine estate. Niente a che vedere con la cappa che si era creata nell’abitacolo. I suoi passeggeri erano avvolti da un pesante silenzio, esteso anche a Happy che cominciava a sentirsi soffocare. Il suo sguardo guizzò sullo specchietto retrovisore, esitando un attimo in più sulla donna che aveva imparato a conoscere come Signorina Potts. Le labbra rosee erano rilassate come il resto dei tratti del suo volto, ma la rigidità con cui sedeva – l’atteggiamento taciturno, troppo… ma davvero troppo – la stavano tradendo ed evidenziavano ancora di più la collera, che tentava di reprimere. Ne era certo, si trattava della proverbiale calma prima della tempesta, che si sarebbe abbattuta sul loro boss, a un braccio di distanza da lei. Ma il suddetto era troppo impegnato in uno dei suoi hobby preferiti, ovvero farsi trascinare dai deliri di onnipotenza, per prestare attenzione al tempo. Infatti, come da manuale, aveva continuato a vantarsi sulla conferenza.
« E’ stato un semplice successone! Non trovi, Happy? » gongolò al colmo dell’esaltazione per poi volgersi a vedere la sua reazione. Lo chaffeur si mosse inquieto sul sedile ed evitò accuratamente il suo sguardo, avvalendosi della sacrosanta facoltà di non rispondere. Non assecondare Tony era scortese, farlo sarebbe significato innervosire la Potts. Perdere il lavoro non era lo scenario peggiore.
Il geniale cervello del miliardario intanto, subodorò quantomeno la tensione che faceva vibrare le molecole che lo separavano dalla sua compita assistente, che studiò con la coda dell’occhio. Tra le piccole mani, reggeva un tablet, su cui continuava ad appuntare con efficienza.
« Potts – esordì, come se l’avesse notata solo in quel momento - So di essere favoloso da sempre, ma non credevo che sarei riuscito a lasciarla senza parole » disse con una buona dose di autocompiacimento.
Virginia però lo ignorò spudoratamente e continuò nel proprio lavoro. Anche lei era un essere umano con dei limiti e dato che erano stati ampiamente superati, non avrebbe concesso a nessuno, men che mai a Tony, una tale soddisfazione sul proprio sistema nervoso. L’uomo, vedendo che i suoi tentativi di blandirla si stavano rivelando superflui, gonfiò le guance ed espirò rumorosamente. Insomma, cosa poteva aver mai fatto per meritare la sua indifferenza? Fu allora che notò, con una certa apprensione, che la donna non si era ancora prodigata nel fargli la ramanzina giornaliera, che tanto adorava. Soprattutto se pronunciata con una tonalità di voce che superava di due ottave quella normale.
Urgeva una soluzione drastica. Sbuffò, poi di nuovo.
« La smetta immediatamente » sbottò lei all’improvviso, facendo sobbalzare anche Happy.
Tony fu costretto a trattenere un ghigno per il risultato ottenuto, ma nel momento in cui realizzò che l’oggetto tecnologico attirava la piena attenzione della donna, cosa intollerabile per lui – “Primo comandamento: non avrai altro centro universale all’infuori di Tony Stark” – si sporse di lato per sbirciare. Fu, con una certa sorpresa, che si accorse di un pallino azzurro alla fine della pagina di quel giorno, per le ore diciannove a voler essere precisi. Quindi poco più di un’ora.
Virginia roteò gli occhi quando il miliardario decise di portarla oltre quei limiti, cliccando sul promemoria. Accanto, vi era segnato il ristorante Providence e un nome, Thomas. Si accigliò, poi diede voce con palese stizza alla prima domanda che i suoi neuroni riuscirono a formulare.
« Chi diavolo è Thomas?! L’unico che conosco con quel nome da la caccia a un topo in tv – si ritrasse per fissare la donna – E’ un nuovo membro associato? » chiese e ancora prima di ricevere una risposta, sentì la  necessità di indossare l’armatura.
« No, è un amico » rispose lei, rendendosi conto di aver appena commesso il primo errore da non compiere quando si ha l’intenzione d’ingaggiare una guerra contro l’ego di Stark.
« Che genere di amico? »
« Non sono affari suoi, Signor Stark » replicò piccata e Tony incrociò le braccia sul petto con fare seccato.
Happy, per almeno due nanosecondi, sperò che si limitasse al muto infantilismo perché conosceva perfettamente il significato di quelle parole; vale a dire un ammonimento che non avrebbe lasciato margine di trasgressione. Ma l’altro, che in quel momento non era particolarmente raziocinante – la causa più plausibile erano le gambe accavallate di Pepper – non riuscì a vedere il campo minato in cui aveva appena messo piede. Più o meno figurativamente.
« Certo che lo sono! Lei lavora per me e non… »
« Io non le ho mai chiesto che genere di amiche si porta a letto » sputò lei, col sistema nervoso ormai fuori uso. Happy scrutò di sfuggita lo specchietto e potè vedere che un’ombra era calata sul volto dell’osannato playboy. Ma dovette ricredersi e scosse il capo rassegnato quando, Tony riprese col suo classico repertorio.
« Mi sembra tesa ultimamente » disse dopo qualche attimo e l’autista sentì la donna mandare al diavolo le buone maniere.
« Forse perché lavoro per lei » ribatté, riponendo il pad nella borsa quando la vettura superò il cancello della proprietà e si avviò lungo il vialetto di ghiaia.
« Potrei darle lezioni di box » propose lui allegro, incurante del tono acido.
Quando l’auto si fermò, Happy le aprì la portiera. Virginia lo ringraziò con un cortese sorriso – se avesse parlato, probabilmente sarebbe scoppiata – e raggiunse l’ingresso della Villa con passo spedito. Tony la seguì a ruota, restando abbastanza indietro per poterla ammirare in tutta la sua leggiadria su un paio di Louboutin nere, che avrebbero fatto impallidire le più famose modelle di alta moda, tanto erano vertiginose. E lui di modelle e attrici ne aveva incontrate. Ne approfittò per un’eccellente visione del suo lato b, fasciato da un tubino in tinta, corto fino alle ginocchia.
Happy montò di nuovo in macchina e ripartì, seppur recalcitrante a lasciare il boss ad affrontare l’ira funesta dell’assistente. Già vedeva il titolo in prima pagina sul Chronicle: ‘Non fate arrabbiare le assistenti! Potrebbe essere l’ultima cosa che fate’.
Virginia digitò il codice di accesso nello stesso momento in cui Tony si fermò alle sue spalle. Si allineò al visore per la scansione retinica, compiendo un passo indietro quasi impercettibile. Dovette mantenere l’equilibrio quando con quel movimento, percepì il calore dell’uomo vicino alla schiena.
« Ma conosco anche metodi più piacevoli per distendere i nervi… » sussurrò roco.
Lei fu costretta a trattenere il fiato perché le parole soffiarono calde direttamente dietro il lobo auricolare. Fu salvata da JARVIS, che aprì la porta d’ingresso permettendole di sfuggire alla trappola del miliardario, che schioccò le labbra. Era riuscito a scorgere la tinta scarlatta che le aveva incendiato il sangue sulle guance. Trotterellò con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni fino in salotto, dove Virginia lasciò il tablet sul tavolino da caffè in vetro.
« Buonasera, Signorina Potts »
« Ciao JARVIS » rispose lei, spostandosi verso la cucina openspace.
« Ha lasciato il cellulare a casa, così mi sono preso la libertà di prendere i suoi messaggi – continuò il maggiordomo – Il Signor Reed arriverà come programmato con lei »
« Grazie JARVIS ».
Tony sollevò lo sguardo verso il soffitto, come se potesse davvero parlare col computer.
« Un momento… Tu lo sapevi? » chiese irritato.
« Certamente, Signore » rispose l’AI e Tony storse il naso, maledicendo sé stesso per averlo creato così “carino”. Lo avrebbe resettato per quel libero atto d’insubordinazione, ma prima doveva risolvere l’Enigma Potts. Il soggetto in questione si avvicinò al bancone e con gesti moderati, si versò dell’acqua in un bicchiere. Ma dal modo in cui lasciò chiudere il mobile da cui aveva preso la bottiglia, capì tutto con la stessa semplicità con cui si fa uno più uno. O almeno, questo era quello che credeva.
« Le devo fare i miei complimenti – Virginia avvicinò il bicchiere alla bocca – Fingere di avere un appuntamento galante per vendicarsi »
Pensò che non avesse sentito bene. Lei che si abbassava a un tale livello? Giammai.
« Vendicarmi di cosa? » domandò, cercando di restare calma ma finì comunque per inarcare le sopracciglia verso l’alto per l’assurdità di quell’insinuazione.
« Avanti… - sollevò un braccio verso di lei per enfatizzare il concetto – Vuol farmi credere che non ce l’ha ancora con me per quella sera? »
« Quale sera? »
« Lo sa » rispose lui, fingendo un tono indulgente quando la vide sbarrare gli occhi in modo impercettibile.
Virginia si riprese, sperando che i capelli nascondessero le orecchie bollenti.
« Quello che non so è dove vuole arrivare » disse, posando il bicchiere.
« Gliel’ho già spiegato come sono andate le cose. Non può avercela ancora con me per qualcosa che non avrei potuto… »
« Lasci che le spieghi io una cosa, Signor Stark – iniziò, appoggiandosi al bancone – Lei non è il centro della mia vita, anche perché sotto questo aspetto si compensa da solo. Perciò lei è liberissimo di dire, fare e credere quello che vuole mentre vado a prepararmi dato che la mia giornata lavorativa si è conclusa almeno un’ora fa » aggiunse, aggirando il piano per dirigersi in camera.
« Non mi piace quando ha impegni » borbottò con lo stesso tono capriccioso che una volta l’aveva fatta sorridere.
Virginia si fermò a metà passo e si girò con uno sguardo quasi omicida, Tony perse tutta la baldanza.
« Per dieci anni, ho impedito che la sua azienda finisse in bancarotta solo perché lei odia le scartoffie. L’ho difesa quando tutti la accusavano di stress post traumatico e, anche se non se lo ricorda, sono stata sempre io a raccattarla nei luoghi più impensabili quando lei era troppo arrabbiato col mondo per stare in piedi » disse con le braccia premute contro i fianchi e i pugni stretti fino a sbiancarsi le nocche.
Tony non l’aveva mai vista così e il bollettino meteo si fece immediatamente plumbeo. Era diventata un denso cumulo di parole scure miste a fulmini di rabbia a lungo imbrigliata. Il viso era diventato paonazzo e la mascella serrata.
« E indovini un po’? Non ho mai preteso un aumento, né particolari attenzioni da lei. Ma avrei gradito un minimo di riconoscimento per esserle stata fedele, perché non scherzavo quando ho detto di odiare dover cercare lavoro! – sbraitò prima di perdere la voce – Perciò se è tutto per oggi, Signor Stark, io avrei un impegno ».
Intanto Rhodey era entrato in casa e pur non avendo sentito chiaramente le parole, aveva udito una voce femminile piuttosto arrabbiata. Non aveva faticato a riconoscerla perché gli era già capitato di sentirla sgridare l’amico. Quando mise piede sulla soglia della cucina, che si affacciava sul salotto quasi come il bancone di un pub, capì però che quella che aveva interrotto non era stata una lite superficiale. Virginia infatti lo intercettò, fugacemente, con aria colpevole prima di posare nuovamente lo sguardo su Tony ancora spaventato dalla minaccia delle dimissioni, ma soprattutto per aver scorto un dettaglio sconcertante: gli occhi azzurri della donna erano ricoperti da una patina acquosa.
« E’ tutto, Signorina Potts » le assicurò a bassa voce.
Non si era neanche accorto del Colonnello a pochi passi.
« Grazie » e sparì nella propria camera per chiudersi la porta alle spalle con un leggero tonfo.
Tony si guardò intorno, come spaesato da tutta quella quiete. L’uragano si era spostato nella sua cassa toracica. Rhodey lo osservò, scendere i gradini verso il divano.
« Si può sapere qual è il tuo problema? »
« Non ti ci mettere anche tu » sbuffò il miliardario, cercando di zittirlo con un gesto vago della mano come se stesse scacciando una mosca.
« Ti abbiamo chiesto di seguire il gobbo. Non ci vuole un genio per farlo » ribatté l’altro, ormai in quarta.
Si girò, aggrottando la fronte mentre con una mano si allentava il nodo alla cravatta fino a scioglierla e lasciarla pendere al collo.
« Sbaglio o avevi detto di volerne restare fuori? » sibilò e Rhodey sollevò le braccia.
« Ero preoccupato per te »
« Per questo mi hai voltato le spalle quando ti ho chiesto di »
« …assistere al tuo suicidio? Avevi bisogno »
« …di te, Rhods! – tuonò Tony di rimando – Avevo bisogno di un amico ».
Rhodey lo osservò, cominciando a sentirsi un po’ colpevole per il modo in cui lo aveva trattato nell’angar. Lo aveva fatto credendo di aiutarlo, perché conosceva gli effetti della guerra sulle persone e Tony aveva manifestato i più gravi, come l’atteggiamento che aveva tenuto alla precedente conferenza.
« Gli amici non dicono sempre sì – si avvicinò e lo scosse per una spalla – Parliamo un po’ ».
 
Dopo tre quarti d’ora, Virginia uscì dal bagno con lo spazzolino ancora in bocca, ma coi capelli asciutti e un completo intimo color nude perché ancora non aveva deciso cosa indossare. Aveva conosciuto Thomas durante una delle tante feste a cui Tony l’aveva trascinata. Le si era avvicinato con cautela e malgrado avesse esordito con una frase fatta – < Cosa ci fa una bella ragazza come te seduta da sola? > – Pepper era rimasta folgorata dai suoi modi garbati. Chiacchierando, fra un sorso e l’altro di un Martini, era venuto fuori che si era trasferito da poco ad L.A per lavoro, in un nuovo ufficio legale. Successivamente erano rimasti in contatto con qualche mail e una volta erano riusciti a prendere perfino un caffè insieme, finché dopo quasi due settimane, l’aveva invitata a cena. Lei non aveva saputo resistere alla prospettiva allettante di una piacevole distrazione e così aveva accettato. Aprì l’armadio e passò in rassegna degli abiti, trovando per ognuno qualcosa che non andasse bene per quell’occasione. Troppo scollato, troppo elegante, troppo serio, troppo acceso. Ci aveva pensato a lungo, immersa in una nuvola vaporosa di bagnoschiuma insieme a qualche pagina di Austen, ma non aveva un’ampia scelta perché la maggior parte del proprio guardaroba si trovava nel suo appartamento in centro. Mentre alla Villa, teneva solo un paio di tailleur, alcuni cambi e gli abiti più costosi che di solito usava per eventi mondani. Tranne uno.
Sospirò dal naso, poi chiuse gli occhi e pescò una gruccia. Tirò fuori un compromesso in organza color borgogna: scollo a barca con maniche appena presenti, cinta di stoffa arricchita da un modesto ricamo floreale con perline e gonna morbida sui fianchi, fino al ginocchio. Lo adagiò sul letto e andò a sciacquarsi la bocca. Lo indossò, chiudendo la zip sulla schiena grazie ad anni di allenamento e si avvicinò allo specchio per appuntarsi i capelli con una spilla dorata. Un tocco di mascara e un paio di pizzichi sulle guance. Dalla scarpiera, prese un paio di Jimmy Choo beige con la punta placcata in oro e recuperò una pochette che le riprendesse. Con lo stretto necessario in una sola mano, prese un giubbotto in pelle beige e si avvicinò alla porta. Rimase immobile, con lo sguardo limpido fisso sul battente e un nodo alla gola.

In quel lasso temporale, Rhodey e Tony si erano accomodati su parti opposte del divano semicircolare che regnava incontrastato nel salotto.
« Se te lo dico, devi »
« …tenere la bocca chiusa. Avanti » concluse il Colonello – che aveva già fiutato il riferimento indiretto di Pepper – poggiando i gomiti sulle ginocchia.
« Il micro reattore ha un malfunzionamento » disse Tony infine, passandosi una mano su una spalla con fare nervoso.
« Malfunzionamento? »
« L’incidente alle Industries ne ha danneggiato la parete interna »
« Com’è possibile? » chiese Rhodey dubbioso.
Era un’esperto d’armi, ma si stava parlando di un congegno inventato due decenni prima e che a malapena, era stato considerato operativo. Fino ad ora.
« C’è un motivo perché era stato creato un solo reattore: se ne mettessi due, entro un certo raggio di chilometri si creerebbe una sovrapproduzione di energia. E gli esiti sarebbero imprevedibili »
« Non capisco »
« Quando ho detto a Pepper di sovraccaricare il reattore »
« Lo hai fatto di proposito?! Mi avevi detto che era stato un incidente! »
« Rhodey, tappati la bocca un secondo! – lo riprese, alzando la voce – Sapevo che la vicinanza di due reattori ad arco, anche se di dimensioni molto diverse, avrebbe fatto un bell’arrosto. Solo che quando quello della fabbrica è esploso, sono stato colpito e non era stato previsto ».
Tony distolse lo sguardo da quello dell’amico. Ricordava esattamente il momento in cui appeso per un braccio, proprio sopra il reattore, aveva gridato a Pepper di premere quel bottone. Il fascio pulsante di atomi lo aveva sferzato, facendolo sbalzare fuori l’apertura da cui Obadiah si era sporto.
« Sento che è in arrivo un »
« …ma c’è un altro problema – Rhodey sospirò – Credevo che il palladio non sarebbe risultato pericoloso. Per com’è stato concepito il micro reattore, sarebbe dovuto restare inerte »
« E invece? » domandò il Colonnello con tono circospetto, subodorando la conseguenza a quel problema.
« Sta intossicando il mio sangue. All’inizio non lo sapevo, poi ho cominciato ad avere mal di testa e nausea. La quantità di palladio nel mio organismo è arrivata al tredici percento, per adesso »
« Mi stai dicendo che »
« …sto morendo » concluse Tony, guardandolo di sottecchi.
Non voleva che provassero pietà, ma doveva assolutamente dirlo a qualcuno o avrebbe dato di matto.
« Non puoi fare nulla? »
« A parte bere litri di clorofilla e continuare coi test? ».
James si passò una mano sulla nuca mentre cominciava a ricreare il quadro completo. L’incidente alla fabbrica aveva danneggiato le pareti del reattore che racchiudevano il palladio che, non più inerte, stava avvelenando Tony. Rivelare la sua doppia identità era una scaramuccia adolescenziale a confronto.
« L’hai inventato tu, aggiusti tutto » disse dopo qualche attimo di riflessione.
« Per farlo dovrei trovare prima un elemento in grado di sostituire il nucleo di palladio. E al momento non c’è… » disse senza riuscire a celare lo sconforto.
Per la prima volta sentiva che il suo genio non valeva niente e che l’onda di eventi lo avrebbe sommerso.
Fu un suono a far sollevare il capo ai due uomini. Una porta che veniva aperta.
Tony percorse tutta la figura che si affacciò dalla camera degli ospiti: dalle caviglie sottili come quelle delle prime ballerine, le gambe snelle e i fianchi lievemente sporgenti sotto l’organza appena svasata, il petto nascosto di cui si intravedeva la clavicola, fino al volto quasi privo di make up. Approdò prima sulle labbra piegate appena verso l’alto come in principio di un sorriso, e dopo affogò nelle iridi cerulee, in parte oscurate da una deliziosa frangetta fulva. Il resto della fluente chioma era sostenuto con una morbida acconciatura dietro la nuca, da sembrare quasi fatta in fretta, e che lasciava libera una ciocca ribelle a sfiorarle uno zigomo.
Tony sentì la bocca riarsa, impiegò qualche secondo per riprendersi e tornare sul pianeta Terra. Rhodey che aveva assistito al distaccamento della sua mascella, decise di rompere il ghiaccio.
« Pepper – esordì il Colonnello con un sorriso sardonico – Sei incantevole » disse sincero, facendola involontariamente arrossire.
« Grazie, Colonnello » mormorò, sistemandosi una ciocca dietro l’orecchio.
« Meglio che vada. Devo sbrigare delle faccende – annunciò alzandosi, fissando alternativamente la donna e il migliore amico – Buona serata ad entrambi ».
Tony non lo contò neanche quando lo avvertì che lo avrebbe richiamato e balzò in piedi.
« Altrettanto » rispose Virginia, osservandolo uscire.
S’irrigidì quando vide il miliardario avvicinarsi a lei con passi cadenzati. Le porse una mano e prima ancora che potesse pensarci, lei la afferrò. Tony, con un passo, la fece girare su sé stessa. La gonna tracciò una circonferenza perfetta e quando si fermò, la stoffa danzò allegramente per qualche istante in cui colse l’occasione, datagli dalla distrazione della donna, per trarla a sè. Virginia fu costretta a fermare il dolce impatto con entrambe le mani: una reggeva ancora la pochette mentre l’altra si distese sul petto dell’uomo. La testa prese a vorticarle, forse per la piroetta o forse per il profumo virile e gradevole di Tony che la sostenne, con un braccio attorno alla sua vita.
« Se vuole, la accompagno » propose e qualcosa nei suoi occhi scuri stava per convincerla ad accettare.
« La ringrazio, ma… »
« Il Signor Reed è al cancello » intervenne JARVIS, togliendo qualsiasi possibilità.
« Fallo entrare in garage » ordinò Tony, allontanandosi per poi seguirla verso il piano inferiore, senza staccarle gli occhi di dosso.
Virginia non seppe interpretare quella richiesta, ma tutto venne accantonato nel momento in cui una macchina arrivò e fece un giro di centottanta gradi, ritrovandosi già pronta per ripartire. Il motore si spense mentre Tony si passava una mano tra i capelli. Più per darsi una calmata.
La portiera del guidatore si aprì e ne uscì un uomo alto, di bella presenza con un completo color sabbia, abbinato ad una camicia color carta da zucchero. Il volto era pulito, fresco ed era completato da un paio di occhi grigi. Prima di avvicinarsi, si chinò all’interno della vettura e prese un mazzo di calle bianchissime.
Lei si guardò le spalle, pregando il boss di comportarsi bene poi andò incontro al nuovo arrivato.
« Ciao Thomas » esordì, fermandosi dopo mezzo metro.
« Virginia, sei bellissima » mormorò l’altro affabile, baciandole una guancia.
Nel farlo, posò una mano sulla sua schiena e Tony sentì degli artigli conficcarsi nel proprio ventre, tanto da essere costretto da distogliere lo sguardo.
« Non sono alla tua altezza, ma spero che ti piacciano » aggiunse Thomas, porgendole i fiori.
Tony dovette mordersi la lingua per non fargli presente che il fiore che Pepper preferiva in assoluto era la gerbera. Si ricordava perfettamente la volta in cui gliene regalò una per puro caso, per fare lo sbruffone scoprendo invece di aver fatto centro. L’aveva tenuta in un vaso sulla propria scrivania alle Industries fino a che, purtroppo non era appassita.
Thomas si girò a destra e a sinistra con gli occhi spalancati per la meraviglia.
« Non ho mai visto tante belle auto in vita mia… ».
Virginia si volse e sorrise all’indirizzo del miliardario, che accettò il tacito invito a farsi avanti.
« Sono del mio capo. – lo indicò con un gesto della mano – Thomas, voglio presentarti Tony Stark »
« Vuoi dire quel Tony Stark? » balbettò quello.
« Tony, lui è il Signor Reed »
« E’ un piacere » asserì, mostrandosi più gentile di quanto lui stesso fosse capace.
E il fatto che quello che aveva davanti fosse un buon partito, gli rendeva il tutto ancor più difficile.
« Il piacere è tutto mio – si volse verso le vetture – Sono davvero tutte sue? ».
Le carrozzerie erano così lucide che ci si poteva specchiare senza problemi, i cerchioni così splendenti che sembravano poter scintillare. Lo sguardo di Thomas si soffermò su un telone scuro e traslucido con su impresso il logo del Motor Club di Monaco.
« Alcune erano di mio padre – lo squadrò – Che lavoro fa? »
« Sono avvocato, in attesa di una causa – Tony annuì, fingendo interesse – Lei è un genio »
« Così dicono – ‘Sono un imbecille’, pensò – In realtà il mio mestiere è fare arrabbiare la Signorina Potts. Senza di lei sarei finito »
Nessuno fiatò per un minuto abbondante, il disagio tangibile come uno spettro.
« A che ora hai prenotato? » domandò Virginia dopo essersi schiarita la voce, spezzando così l’atmosfera densa.
« Per le diciannove e trenta »
« Allora sarà il caso »
« …che andiate » terminò Tony quando lei lo guardò di sottecchi.
Thomas allungò nuovamente una mano per salutarlo e malgrado fosse riluttante, ricambiò la stretta.
« Signor Stark, è stato un onore »
« L’onore sarà mio se la riporta a casa per le undici » mormorò, smorzando il tono grave con un’espressione ilare. Lei però riuscì a captare la velata minaccia, inserita tra le righe. O almeno fu quello che le parve.
« Sarà fatto » rispose Thomas, ignaro del fatto di essersi appena accostato – per eccesso - al proprio territorio, in cui la sua assistente era inserita. In quanto playboy, non poteva tollerare la sfida di un altro Alpha. Infatti li seguì verso la macchina e prima che il damerino potesse pensarci, spalancò lo sportello del passeggero per Pepper, che lanciò un’occhiata ad entrambi. Ebbe la netta sensazione che il proprio capo stesse compiendo uno sforzo enorme nel controllarsi. Non aveva fatto battutine ambigue, allusioni impertinenti o asserzioni arroganti. Mentre uno si accomodava alla guida, l’altro la fissò come un cucciolo smarrito. Strinse un po’ di più i fiori al petto, cercando di rallentare il sangue.
« Buonanotte, Signor Stark »
« Buonanotte, Signorina Potts » rispose Tony, restando di sasso quando la donna si baciò la punta delle dita per poi premerle delicatamente sulla sua guancia. Salì a bordo e con attenzione, chiuse lo sportello per poi osservarli partire per la serata.
Si grattò la nuca, sbuffando, quando un bagliore intermittente attirò la sua attenzione. Abbassando lo sguardo, notò con un cipiglio pensieroso che il nucleo si era già esaurito. Si diresse verso la scrivania, battendo le mani e attorno ad essa presero a fluttuare degli schermi virtuali.
« Ehy J » disse, arrotolandosi le maniche della camicia fino ai gomiti.
« Signore, ho preparato la sua clorofilla »
« Quanto devo bere di questa schifezza? » disse, aprendo la borraccia con una mano e cominciando ad ingollarne il contenuto.
« Due chili al giorno per controbilanciare i sintomi » rispose l’AI mentre Tony si lasciò sfuggire un’espressione schifata.
« Ancora un po’ e diventerò io un vegetale » commentò ironico per poi aprire la finta scatola di sigari.
Con un indice, contò le sostituzioni restanti e si appuntò mentalmente di farne un nuovo ordine.
« Come vanno i test? » domandò, dando un’occhiata critica ai dati sugli schermi mentre si sbottonava la camicia.
« Ho tentato ogni combinazione possibile per ogni elemento conosciuto, ma nessuno è risultato come valido ed effettuabile rimpiazzo per il palladio » rispose JARVIS, parendo perfino dispiaciuto alle orecchie di Tony che, posizionando le dita ai lati opposti, ruotò il mini reattore e lo estrasse con cautela.
Tolse la vecchia lamina di palladio e ne inserì una nuova prima di riposizionare il congegno al proprio posto. Colpì su di esso fino a che non udì lo scatto della placca.
« La Mark V? »
« Ultimata, ma le consiglio di limitarne l’uso » aveva assunto un tono premuroso.
« Sono Ironman » annetté lui, come se fosse l’unica argomentazione da considerare.
« Me ne rendo conto, Signor Stark. Per questo se permette, le suggerisco di avvertire la Signorina Potts quanto prima »
« Infatti non te lo permetto. Se le dici anche mezza sillaba, ti disattivo per sempre » soffiò, ricordandosi come gli aveva deliberatamente nascosto l’appuntamento.
« Ma Signore, è a corto di tempo e soluzioni. Potrebbe »
« …morire?! – guardò un punto imprecisato del soffitto - A chi importerebbe… ».
Nascose la scatola in un vano a portata di mano, ma discreto sotto la scrivania, su cui giaceva la valigetta della Mark IV ancora in fase di assemblaggio. Non lasciava mai il lavoro in sospeso, ma la concentrazione era svanita e i suoi pensieri erano da tutt’altra parte. Salì fino in salotto – per cercare il proprio carburante, pizza surgelata e alcol– dove a fargli compagnia c’era solo la flebile luce dei faretti a led, che illuminavano la cascata accanto alle scale. I riflessi dell’acqua, che correva su una lastra di vetro, disegnarono sul pavimento dell’ampio soggiorno un reticolo di onde tremolanti, interrotto bruscamente sotto al cono di luce creato dalla lampada.
Fu allora che Tony vide la sagoma scura di un uomo, davanti alla finestra. Assottigliò le palpebre, indietreggiando in prossimità delle scale così da poter fuggire verso il laboratorio.
« Io sono Iron Man » lo parafrasò con voce pacata, ma solida come il ghiaccio.
Tony non replicò e attese che lo sconosciuto si voltasse. Quando lo fece, la prima cosa che lo incuriosì fu la benda in pelle nera sull’occhio sinistro, tenuta ferma dietro la testa calva da una sottile fibbia. L’abbigliamento scuro – impermeabile, pantaloni militari infilati negli anfibi, maglia a trama verticale a collo alto – accentuava l’espressione truce con cui lo stava calcolando.
Tony avvertì la stessa sgradevole sensazione che provava ogni qualvolta suo padre lo riprendeva.
« Pensa di essere l’unico supereroe al mondo? »
« Sicuramente il più fico » rispose, storcendo la bocca in una smorfia di becero narcisismo.
« Signor Stark, lei è entrato a far parte di un universo più grande. Solo che ancora non lo sa » annunciò lo sconosciuto a metà fra la solennità e l’avvertimento mentre aggirava il grosso divano in pelle color panna.
« Lei chi sarebbe? » domandò Tony, sentendosi sotto minaccia.
« Nick Fury, Direttore dello SHIELD »
« SHIELD » ripeté, senza riuscire a mostrarsi sorpreso.
Era troppo bello perché nessuno di quell’organizzazione si facesse sentire. Quasi si aspettò di vedere Coulson spuntare in una nuvola di fumo, degna di un prestigiatore, con tanto di bacchetta, guanti e cilindro.
« Strategic Home »
« ...land Intervention Enforcement Logistic Division. So benissimo chi siete – disse, avviandosi verso la cucina – Cosa volete? ».
Fury invece fu preso in contropiede, gli parve di sentire una certa autorevolezza circa l’argomento nella voce del miliardario. Era come se sapesse già tutto.
« Vogliamo aiutarla, Signor Stark » rispose, osservandolo prendere una pizza dal mini freezer e impostare il microonde.
« Aiutarmi? Tsk! Non riesco a farlo da solo, vorreste farcela voi? – rispose il miliardario con forte scetticismo – Senza offesa, ma neanche tre dei vostri migliori cervelli equivarrebbero col mio » aggiunse, aprendo un’anta in basso appena dietro il bancone.
« Quello nel suo torace è un reattore ad arco, ideato da suo padre e da uno scienziato russo deportato, Anton Vanko – si fermò dalla parte opposta – Ma è un’energia incompleta »
« No. Funziona da quando sono riuscito a… »
« E’ la chiave per qualcosa di enormemente più grande e Howard diceva che il futuro dipende da lei » lo interruppe con la stessa pazienza che usa un insegnante, per poi riprendere a passeggiare per il salotto.
« Da me? Questa è buona » ridacchiò Tony, versandosi dello scotch visto che il whiskey era terminato.
« Che ricordo ha di suo padre? » chiese Fury, guardandolo da sopra la spalla ma continuando a dargli le spalle mentre proseguiva verso un mobile che faceva angolo, di fianco al divano.
« Non ce l’ho. Non c’è mai stato, né per me né per la donna che diceva di amare – lo indicò con il bicchiere – Sa altro su di me? »
« Il palladio la sta avvelenando » rispose prontamente, fermandosi quando il suo unico occhio buono vide una piccola cornice.
« Mi sta ricattando? » chiese Tony, bevendo un sorso di alcol. Trovava intrigante quella conversazione.
« Abbiamo una formula che rallenta i sintomi » lo informò Fury, afferrando il quadretto e  tornando verso di lui, con passi lenti ma regolari.
« E’ tempo perso, Signor Fury » lo avvertì, sprezzante.
« E’ tempo perso se lei non ne fa buon uso » disse, posando la cornice sul bancone.
Tony abbassò gli occhi e il bicchiere, riconoscendo subito quella foto. Fu scattata diversi anni prima, durante una serata che ricordava con piacere: lui in uno smoking poco ortodosso e Pepper fasciata da un sobrio abito lungo e nero, durante la festa di fine anno lavorativo, il primo per lei.
« La ascolto ».

Angolo Autrice: Salve a tutti!! Comincio col ringraziare chiunque sia arrivato fin qui :*
Per chi è nuovo: "Lasciate ogne speranza a voi ch'intrate!"
Per chi già mi segue... Lo so, sono orribile. Ho ancora la serie di Iron Family da mandare avanti, ma soprattutto
devo ancora scrivere l'ultimo/gli ultimi due capitoli di You'll be in My Heart. Ma ahimè, ultimamente l'ispirazione
sembra esaurita e ha deciso di prendersi una vacanza *sob*
Inoltre queste due ultime settimane sono state piene di impegni per me, fra scuola e danza, perciò spesso non avevo
neanche molte energie da spendere.
Siccome avevo già avviato questa nuova long, ho deciso di pubblicarne il primo capitolo per farvi sapere che
sono ancora viva e che tornerò a breve, anche con nuove one-shots ;)
Quindi spero che continuerete a seguirmi mentre mi auguro che questa sottospecie di prologo sia stato di vostro 
gradimento. Se vi va, lasciate pure un commentino :)
A presto,
50shadesOfLOTS_Always!

PS: ad 
_Atlas_SignoraStark e BlackTitan, un baciotto e un GRAZIE DI <3

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. Stuck in reverse ***


STUCK IN REVERSE

“No matter what I do,
I’m no good without you.
And I can’t get enough,
must be the love on the brain, yeah.”
- Love on the brain, Rihanna


"I’m hurting, baby. I’m broken down.
I need your loving, loving I need it now.
When I’m without you,
I’m something week.
You got me begging, begging I’m on my knees."
- Sugar, Maroon 5 

I suoi occhi azzurri scrutarono la sala quasi completamente immersa nel buio, se non fosse stato per le lampade dei tavoli e quelle dei faretti posti in alto sulle pareti. Il Providence, uno dei ristoranti più costosi della città, non era particolarmente affollato quella sera e l’atmosfera era piuttosto intima e romantica. Delle decorazioni di fiori bianchi si arrampicavano sulle colonne rivestite di ebano, limitanti uno spazio centrale quadrato. Al centro, sotto un enorme lampadario scintillante, era stato ricreato una specie di salottino con poltrone e tavolini circolari. Attorno altre coppie stavano conversando a bassa voce, fra una portata e l’altra. A Pepper non dispiacque quel brusio, aveva bisogno di un paio d’ore di tranquillità dopo tutto il trambusto di quel pomeriggio.
Dopo averli accolti, il maître li condusse al loro posto, abbastanza appartato, dove Thomas la aiutò a togliersi il cappotto e tenendolo appoggiato su un braccio, le sistemò la sedia come da galateo. Fece il giro e si sedette a propria volta, dalla parte opposta mentre un cameriere si avvicinava coi menù.
Virginia ne afferrò una copia e cominciò a scorrerne il contenuto. Thomas si fermò per osservarla.
La luce color limone e soffusa creava morbide ombre sul suo viso di porcellana e le labbra risultavano ancora più rosee.
« Posso farti una confessione? » esordì e lei sollevò il capo, perplessa.
« Cioè? »
« Ho mentito, non sei bellissima. Sei meravigliosa » disse tutto d’un fiato, portandosi la mano al petto in un gesto del tutto teatrale come se si fosse liberato di un grosso peso.
Virginia ridacchiò, arrossendo furiosamente. Restarono un paio di minuti in silenzio, durante i quali scelsero cosa prendere. Il Providence offriva soprattutto pesce, perciò c’era una vasta scelta. Quasi imbarazzate come l’affermazione di Thomas poco dopo.
« Non è stato poi male »
« Cosa? » fece lei, ancora indecisa fra branzino e salmone.
« Beh, ho sentito parlare spesso del tuo capo – lei sapeva a cose si stesse riferendo, ma lo lasciò terminare – Ma non mi è sembrato così orribile come me lo hanno descritto » rispose, abbassando la carta per poterla vedere bene.
« E’ solo perché non lo conoscono – disse prima ancora di pensarci – Tony è un po’ complicato, ma è una brava persona » spiegò, sentendo un groppo indigesto a metà esofago e faticò a ricambiare l’occhiata dell’uomo. Se c’era un argomento che avrebbe voluto evitare quella stessa sera, era proprio il proprio lavoro. Non seppe spiegarsi il perché  si sentisse tanto esposta.
« Sembra che tu lo conosca molto bene invece » osservò, senza malizia né irritazione, ma lei esitò comunque nel sorridere e Thomas si accorse di aver toccato un tasto se non dolente, almeno delicato per una qualche oscura ragione.
« Scusami, non volevo essere indiscreto » si affrettò ad aggiungere dopo qualche attimo.
« No, figurati – tornò a concentrarsi sul menù – E’ solo che è stata una giornataccia e vorrei evitare l’argomento lavoro » mormorò e il disagio aleggiò fra loro finché non furono pronti per ordinare.
Un altro cameriere si avviò nelle cucine mentre un altro versò loro del vino bianco, lasciando la bottiglia.
« E così sei ancora disoccupato » esordì Virginia, aprendo il fazzoletto e sistemandolo sulle gambe.
« Sto aspettando due risposte: una da un ufficio stampa e l’altra da un industriale di New York » rispose lui, imitandola.
« Industriale? Forse posso aiutarti, come si chiama? ».
« Hammer. Justin Hammer – lei spalancò la bocca per dire qualcosa – Lo conosci? »
« Fino a qualche tempo fa, era il nostro principale concorrente… Se così si può dire » disse, arricciando il naso.
« Che intendi? »
« Durante una riunione, tredici anni fa, ai piani alti quando il governo doveva decidere da chi comprare armi, Hammer fece a Tony una proposta – lui aggrottò la fronte – Lui avrebbe messo i capitali e Tony si sarebbe occupato della parte di ingegneria »
« Ho il sospetto che abbia rifiutato » mormorò Thomas, con aria fintamente meditabonda.
« Non lo lasciò neanche finire – fece spallucce – Ebbe comunque il proprio spazio, ma siamo sempre stati noi quelli ad avere gli affari migliori. Poi Tony ha chiuso la sezione balistica, lasciando ad Hammer campo libero »
« Ma vi siete ripresi »
« Già… – ‘Tranne il CEO’, pensò – Hammer si è laureato col minimo dei voti al MIT, ma in compenso ha ottime abilità ciarliere » bisbigliò con aria cospiratrice, sporgendosi in avanti.
Thomas ridacchiò divertito e lei cercò di ignorare la strana sensazione che sorse spontanea.
« Lo hai conosciuto personalmente? »
« L’ho visto una volta sola ad un gala »
« Un gala? Credevo che non ti piacesse quel genere di eventi » mormorò con un cipiglio confuso.
Virginia accennò ad un sorriso mesto.
« Tony mi costringe sempre ad accompagnarlo. Dice che si annoierebbe senza di me, ma finisce che sono io quella a torna a casa da sola » disse, cercando di nascondere il fastidio.
Non odiava le serate dell’alta società, quando di tanto in tanto si riusciva ad incontrare persone intelligenti con cui scambiare quattro chiacchiere, non per forza attinenti al lavoro. Odiava assistere alle sbronze del capo e raccattarlo, non sempre di buon umore. Odiava chiamare un taxi perché Happy accompagnava il capo e qualche nuova amichetta, più oca della precedente, a casa.
Nel migliore dei casi al suo rientro, tutto si era già concluso.
« Se non ti piace il tuo lavoro, cambialo » le suggerì Thomas, facendo un gesto vago.
Virginia scosse vigorosamente la testa per negare, sia quella possibilità sia perché malgrado tutto, amava ciò che faceva. Compreso fare da babysitter a Tony.
« Oh, no. Non potrei mai – sospirò, perché alla fine stavano parlando del suo lavoro – Dieci anni fa mio padre è morto, senza aver detto dei debiti col gioco di azzardo, e io e mia madre ci siamo ritrovate in un monolocale »
« Mi dispiace » mormorò contrito.
Lei sollevò una spalla per fargli capire che fosse tutto a posto, anche se inevitabilmente il ricordo paterno le suscitò del dolore all’altezza del cuore.
« Per caso incontrai un’amica, fa la modella a Hollywood. Ci fermammo a bere un caffè e mentre parlavamo dei bei tempi andati, mi disse di aver trascorso la più bella notte della sua vita – disse sollevando gli occhi al cielo con finto fare sognante – In pratica a una festa a cui aveva partecipato per farsi conoscere, aveva incontrato Tony. Ti lascio immaginare il resto della notte… ».
« Continua » la esortò, divertito.
« Non so quando, ma trovarono il tempo per parlare e Tony le disse che necessitava di un’anima pia, che si occupasse delle sue scartoffie. Lei mi diede l’indirizzo e feci la più grande follia della mia vita – lui sorrise – Mi presentai alla sua porta, dicendogli ‘Buongiorno, Signor Stark. Il mio nome è Virginia Potts, ho una laurea all’Empire State University in economia e amministrazione aziendale. Non ho un’accidente di esperienza e ho un disperato bisogno di un lavoro’ »
« E lui? »
« Aprì il sottile curriculum che avevo con me e dopo averlo sfogliato mi disse ‘Sono disperato anch’io. Lei è assunta, Potts’ – risero brevemente per tornare seri – Non mi interessava il valore della busta paga, l’importante era averla in quel momento. E Tony mi prese con sé, senza neanche badare alle mie magre referenze »
« Ma tu sei brava in quello che fai » rispose Thomas sincero, facendola arrossire. Di nuovo.
Virginia cercò di mimetizzarsi con l’ambiente, sistemandosi la frangetta col dorso di una mano.
‘Controllati, per l’amor di Dio!’, la sgridò la vocina.
Malgrado si trattasse di una semplice cena da amici, non poteva fare a meno di pensare che fosse un uomo eccezionale e non poteva neanche ignorare che ricevere i complimenti da uno così, non le facesse piacere.
‘Non hai più sedici anni!’.
« Sì, ma non basta. Il settore in cui lavoro è pieno di squali e c’è molta competizione, soprattutto tra le poche donne che ci sono. La maggior parte di noi vengono denigrate e umiliate. Non hai idea di quante offerte volgari abbia ricevuto nell’arco del mio servizio alle Starks »
« Da Tony? »
« No! A Tony piace scherzare, ma non ha mai alzato un dito su di me. Mi ha sempre trattato con rispetto, non come un uomo. Ma come una donna – abbassò il viso sulle proprie dita intrecciate – Se non mi avesse assunta, probabilmente non sarei qui »
La verità taciuta era che cominciava a sentirsi in colpa. Si era infuriata molte volte, ma stavolta era stato diverso. Non si era trattato del solito teatrino quotidiano, su cui Tony avrebbe calato il sipario per poi uscire dalle quinte con una delle sue. La discussione aveva preso toni più gravi perché la faccenda stessa era diventata più grave: c’era sicuramente un motivo perché i più grandi supereroi tenevano la loro vera identità segreta, un motivo ragionevole che garantiva loro una vita tutto sommato normale. E lui come al solito non si era minimamente preoccupato e aveva sbandierato la cosa ai quattro venti.
« Allora propongo un brindisi » disse Thomas, distraendola dai pensieri.
« A cosa? » chiese, afferrando il calice.
« Al giorno in cui sei stata folle e che ti ha condotta qui » sentenziò Thomas, facendo tintinnare i cristalli.
Tre ore passarono in fretta in cui approfondirono la conoscenza l’uno dell’altra, chiacchierando del più e del meno fra un boccone e l’altro. Il lavoro venne accantonato e parlarono soprattutto dell’infanzia di lui, dei gusti letterari e cinematografici di lei. Stavano terminando il dessert, quando in sottofondo fu messa della musica blues e Thomas colse l’occasione per invitarla a ballare. Col mento indicò la sala centrale dove alcune coppia già stavano volteggiando e Virginia le osservò per un lungo istante. L’aria magica era la stessa di quella sera, ma una stonatura la ricondusse gli occhi grigi del proprio cavaliere.
« No, grazie. Non mi piace » mentì.
Per sua fortuna, l’uomo non insisté e potè tornare a godersi la serata.
Ad un tratto, Thomas si scusò per poi avviarsi verso le toilettes. Virginia allungò il collo e quando fu sola, prese la pochette e dopo averla aperta, accese il display del proprio smartphone. Nessun messaggio, né chiamata persa.
La sensazione di prima si ripresentò, più acuta e fastidiosa. Di solito Tony la molestava anche quando la giornata lavorativa si era conclusa. Invece sembrava quasi che non gli interessasse. Mise via l’oggetto tecnologico e prese a guardarsi intorno. Thomas tornò, ma non gli diede il tempo di sedersi.
« Potresti darmi un passaggio? »
« Tutto bene? » le chiese con premura.
« Sì, sono solo un po’ stanca » disse con tono sommesso, ripiegando con cura il tovagliolo.
« D’accordo » acconsentì Thomas prima di sollevare una mano per chiamare un cameriere e chiedere il conto.
 
Intanto a Malibu Point, un noto miliardario era immerso in un profondo stato di riflessione. Comunemente detta “esame di coscienza”. Alla sua sinistra, giacevano due spicchi di pizza ormai freddi. Era riuscito a scaldarla qualche ora prima senza bruciarla. Il miliardario in questione, Tony Stark, stava maneggiando dei pezzi della sua ultima creazione mentre una parte dei suoi neuroni stavano seguendo le note graffianti della chitarra, e l’altra parte stava rielaborando la lite che era avvenuta poche ore prima.
< Per dieci anni, ho impedito che la sua azienda finisse in bancarotta solo perché lei odia le scartoffie. L’ho difesa quando tutti la accusavano di stress post traumatico e, anche se non se lo ricorda, sono stata sempre io a raccattarla nei luoghi più impensabili quando lei era troppo arrabbiato col mondo per stare in piedi >.
Invece ricordava. Ricordava perfettamente – non proprio tutti, è vero – gli episodi in cui lo aveva soccorso dopo una rissa o l’attimo prima di essere arrestato per qualche bravata. Lo aveva ripreso ogni volta, e ogni volta, gli aveva sorretto la testa per evitare che affogasse abbracciato alla tazza di un water.
< E indovini un po’? Non ho mai preteso un aumento, né particolari attenzioni da lei. Ma avrei gradito un minimo di riconoscimento per esserle stata fedele, perché non scherzavo quando ho detto di odiare dover cercare lavoro! >.
Come avrebbe potuto contraddirla? Si sentiva un verme e ordinò all’AI di alzare il volume, ma il telefono squillò e JARVIS gli passò la videochiamata su una schermata, che si sovrappose alle altre già fluttuanti attorno alla scrivania.
« Stai lavorando » commentò Rhodey, il cui volto gli appariva davanti come un ologramma futuristico.
« Che acume » rispose, senza distogliere l’attenzione da ciò che stava facendo.
« Un bicchiere di whiskey » aggiunse, alludendo al bicchiere in un angolo non molto lontano dall’armatura.
« Scotch » lo corresse.
« …e la faccia Voglio-disperatamente-Pepper – sogghignò quando l’amico gli rivolse un’occhiataccia – Perché non sei con lei? »
Non aveva proprio voglia di parlare di quello stoccafisso che, facendo l’educato con lui e il cascamorto con lei, se l’era portata a cena.
« Taci – sbottò – Ho mal di testa » borbottò, dando un colpetto ad una placca che proprio non voleva fissarsi.
« La tua coscienza ti sta parlando »
« No, sono al telefono con un Colonello rompiballe ».
Rhodey lo esaminò e malgrado fossero in videochat, riuscì a vedere alcune gocce di sudore imperlargli la fronte come se fossero in piena estate. Il viso di Tony gli appariva inoltre più pallido del solito, più di quello stesso pomeriggio. Fu quel pensiero a preoccuparlo.
« Sicuro di stare bene? »
« Ti ho detto che ho mal di testa »
« E’ il palladio vero? – chiese, ma non attese la conferma – Quota? ».
Tony abbandonò gli attrezzi, passandosi un polso sulla fronte per asciugarla dal sudore febbrile.
« Quindici percento » rispose, appoggiandosi al piano e fissando la corazza smontata sul ripiano.
« Questa sceneggiata non durerà a lungo e lo sai. Non ti porterà a niente, dovresti dirglielo » lo rimbrottò Rhodey, pur sapendo che non avrebbe mai seguito alcun suggerimento. Tranne forse quelli di una donna dai capelli rossi. Fu quasi tentato di scavalcarlo e dirglielo lui stesso alla suddetta, ma se lo avesse fatto, Tony non l’avrebbe mai perdonato e inoltre, non era suo compito.
« Avresti dovuto lasciarmi in Afghanistan » bofonchiò il miliardario più rivolto a sé stesso, riscuotendolo dai suoi pensieri. Lo osservò svuotare il bicchiere di alcol e pensò a quel giorno in cui aveva sentito Pepper singhiozzare e l’altro giorno in cui l’aveva richiamata per dirle che il suo stupido capo stava tornando.
« Ho fatto un giuramento e sei mio amico. Anche se stai rendendo la cosa più difficile – disse, scuotendo il capo – E poi lo avevo promesso a Pepper »
Tony stava per dire qualcosa quando JARVIS li interruppe.
« A proposito della Signorina Potts. E’ tornata »
Tony si girò verso la parete di vetro del laboratorio da cui si vedeva la rampa di scale e si diede una ravvivata ai capelli. A quel gesto frettoloso, Rhodey rise.
« Ti sei appena... »
« Au revoir » disse, chiudendo immediatamente la chat e accendendo lo stereo.
 
Virginia scese dall’auto, facendo attenzione a dove mettesse i piedi. Salutò Thomas con una mano con cui reggeva la pochette e stringendo i fiori contro il petto, si avviò all’ingresso. Entrò, e al posto dell’accoglienza del maggiordomo virtuale, gli AC/DC le arrivarono di prepotenza dal piano inferiore. Calcolò l’idea di scendere e controllare che fosse tutto a posto – era tornata alla Villa per questo, ma non l’avrebbe mai ammesso – e che quando si sarebbe svegliata il mattino seguente, la casa non si sarebbe sbriciolata. Proprietario incluso. Socchiuse gli occhi e con un sospiro, scese la rampa di scale che portava all’antro del genio dopo aver abbandonato i fiori sul tavolino del salotto.
Tony, chinato su un pezzo della Mark IV, stava per rimproverare il computer per aver abbassato il volume dello stereo quando udì il ticchettio dei tacchi. Sollevò il capo e la vide scendere i gradini con la stessa eleganza di una regina. Si chiese perché fosse tornata proprio da lui.
Il suo appartamento era molto più vicino al Providence.
« Credevo che l’avrei rivista domattina – esordì tranquillo e quando la vide rigida, accennò un sorriso – Si accomodi ».
« V-volevo accertarmi… – mormorò, aggrottando poi le sopracciglia come faceva quando voleva capire se preoccuparsi o meno per la sua incolumità – E’ pallido, si sente bene? »
Tony annuì prima di indicarle con un cenno del capo, lo sgabello vicino al tavolo.
« Sono le dieci e mezza »
« Sì, è che… Ero un po’ stanca ed ero già sulla strada – balbettò lei, avvicinandosi come richiesto – Spero che non le dispiaccia se… »
« Assolutamente » rispose Tony, senza lasciarla terminare.
Lei era sempre la benvenuta e il fatto che gli avesse mentito – diede per certo che l’idiota delle calle avesse fatto qualche mossa errata – lo fece gongolare.
Virginia si sedette dalla parte opposta dell’uomo e lo osservò: la fronte aggrottata, lo sguardo attento e schivo, i capelli in disordine, la camicia stropicciata – lo sgridò mentalmente per la macchia scura sul fianco – le maniche arrotolate fino ai gomiti e il colletto aperto. Non seppe se fossero i bottoni fuori posto o le piccole rughe agli angoli degli occhi o piuttosto la scrupolosità che esercitava ogni qualvolta che lavorava a strani congegni, che lei non sarebbe mai stata in grado di concepire neanche con la più fervida immaginazione, ad incantarla per un paio di secondi abbondanti.
« Era gay? » le chiese, distogliendola da quello stato di trance.
« No »
« Allora era noioso » aggiunse, continuando a smanettare con le mani infilate nel metallo fra circuiti e cavi.
Virginia si morse il labbro inferiore, trattenendo l’ironia quando su un angolo del piano, vide un piatto di pizza avanzata. Nonostante la cena, sentiva un certo languorino.
« Posso? » domandò timidamente, allungando una mano verso la pizza per cambiare discorso.
« Non le ha pagato la cena? » chiese, fingendosi sconvolto.
« Ha pagato » smentì lei, piegando a metà lo spicchio.
« Ha scoperto che ha… cinque marmocchi – tirò lui ad indovinare, chinandosi un poco sull’armatura ma Virginia negò col capo – Ha fatto un commento troppo spinto » disse, sollevando gli occhi mentre addentava la pizza.
« A quelli sono abituata » ridacchiò e masticò, cercando di non notare il modo strano in cui Tony aveva preso a fissarla, facendola sentire come un qualcosa di esotico.
« Ho capito… Sottodotato »
« Signor Stark! » lo riprese con un singulto.
« Se non è quello lei è davvero incontentabile, Potts » dichiarò col suo solito brio, soddisfatto nel vedere le sue guance virare al cremisi. Era vestita in modo elegante e mangiava della banalissima pizza pseudo italiana nel proprio laboratorio. Un’immagine contrastante che però gli fece immaginare che fosse la quotidianità. Celò un sorriso quando Virginia sollevò lo sguardo. Ingollò il boccone e prese ad avvoltolare un filo di mozzarella fusa intorno a un dito.
« Signor Stark, mi dispiace per oggi. Non avrei dovuto »
« …dire la verità? » concluse Tony, guardandola finalmente da sotto le ciglia.
In quelle tre ore aveva rimuginato sulla conferenza e sulle sue parole, e dopo aver provato il rimorso per averla spaventata, era giunta la presa di coscienza su ciò che sarebbe costato loro. Non aveva esposto al mondo solo sé stesso, ma anche lei e Happy.
Virginia esitò nel portarsi il dito alla bocca per leccare via il formaggio.
« Ha ragione invece – annuì – Non ha niente di cui incolparsi » mormorò e per la prima volta, Virginia lo vide sotto una luce diversa. Sembrava stanco.
Aveva l’aria contrita di chi sa di aver fatto l’ennesima bravata e che le scuse servono a ben poco.
« Non avrei dovuto comunque alzare la voce a quel modo. Le chiedo scusa »
« Anch’io » disse sincero, le labbra incurvate in un sorriso obliquo per non rammentarle le quotidiane ramanzine.
 
Il mattino seguente parve trascinarsi faticosamente. Erano appena scoccate le tre del mattino quando Virginia si svegliò. Con un braccio si puntellò per sedersi, poi arcuò la schiena per stirarsi. Stropicciati gli occhi, si guardò attorno chiedendosi se non fosse stato il caso di andare a controllare Tony. La sera precedente, dopo che avevano terminato la pizza, erano saliti in salotto e lungo la scalinata, lo aveva visto massaggiarsi una tempia e procedere verso la propria stanza con l’andatura tipica di chi ha appena preso l’influenza. Pur riconoscendo che fosse una vera follia, si avviò al piano superiore.
Non c’erano rumori preoccupanti dal laboratorio, perciò pensò che avesse avuto il buonsenso di restarsene a letto perché anche se non l’aveva ammesso, lei sapeva che qualcosa non andava. La porta era socchiusa, le bastò spingerla appena. Fece capolino per poi avanzare verso il letto dove l’uomo stava, almeno apparentemente, dormendo. Si accostò e lo esaminò critica. Aveva la fronte imperlata di sudore e la bocca schiusa, come se faticasse a respirare. Capì che era svenuto o comunque era caduto in qualche specie di torpore febbricitante che lo avesse reso semincosciente. Premendo le labbra, si chinò verso di lui.
« Tony? » bisbigliò, poggiando una mano sulla sua fronte.
La ritrasse quando sentì che era bollente. Si diresse in bagno, prendendo due salviette di spugna. Le bagnò con acqua fredda, le strizzò un po’ e tornò verso il giaciglio. Si sedette piano sul bordo del letto e sporgendosi, posò un panno sulla fronte dell’uomo. Poi gli prese un braccio e girandolo, posò l’altro panno sul polso, sperando che gli avrebbe fornito del sollievo.
Vedendo che non si svegliava, chiese a JARVIS di avvisare Happy. Dopo poco meno di venti minuti, sentì la voce dello chauffeur al piano di sotto. Quando lo raggiunse, le mostrò la busta della farmacia – miracolosamente aperta h24 – e lei sorrise. Con un bicchiere d’acqua, senza dargli alcuna spiegazione, prese le medicine e risalì verso la camera patronale dove preparò tutto l’occorrente per quando Tony si sarebbe quantomeno ripreso abbastanza da bere un’aspirina. Nell’attesa, andò a recuperare un buon libro.
Quando tornò nella stanza, si sedette sulla poltrona poco distante, piegando le ginocchia sotto di sé.
Passò una buona mezzora prima che Tony si svegliasse. Tuttavia dovette fare diversi tentativi prima di riuscire a sollevare le palpebre. Si sentiva la testa pesante come se dentro la scatola cranica ci fosse stata una pallina di piombo. Si volse e nella penombra della lampada, in un angolo della camera, scorse la figura della propria assistente.
« Potts… » biascicò e un paio di occhi azzurri si sollevarono nella sua direzione.
« Tony » mormorò, lasciando il libro sulla seduta e avvicinandosi.
« Che è successo? »
« E’ svenuto, credo » rispose, accostandosi al comodino.
Fece sciogliere una pastiglia nell’acqua mentre Tony cercava di capire meglio la dinamica.
« Non ricordo di aver bevuto così tanto »
« Infatti ha la febbre ».
Si girò verso di lei, accigliato come se fosse impazzita.
« E’ impossibile… Io non mi ammalo mai »
« Perché è l’invincibile Ironman? »
« Esattamente – bofonchiò, fissandola con sospetto – Che ci fa qui? »
« Riesce a sedersi? » gli chiese con la tipica occhiata alla Potts e negò con un mugolio quando provandoci, finì steso come un sacco vuoto di farina.
Pepper si spostò più vicina a lui, gli fece passare una mano dietro il collo, appena sotto la nuca, e con un braccio attorno alle spalle, lo cinse per portarlo a sedersi. Allungò una mano e prese il bicchiere d’acqua con l’aspirina già disciolta.
« Che cos’è? » si informò, ritraendosi.
« Non faccia storie e beva » ripetè Virginia, porgendogli il bicchiere.
« Potrebbe essere avvelenato »
« Se avessi voluto ucciderla, lei non starebbe qui a lamentarsi » gli illustrò e alla fine, troppo esausto, cedette e aiutato, afferrò il bicchiere mandando giù la medicina, fingendo che fosse alcol.
Svuotato il contenuto, Virginia si riprese il bicchiere, lasciando Tony giusto un momento, per posarlo sul comodino. In quell’istante le crollò addosso, con la faccia schiacciata in modo imbarazzante fra i seni, e alcune ciocche scure dei suoi capelli le solleticarono la gola. Così prese forma, nella sua mente, un primo impulso: quello di spingerlo per buttarlo sul pavimento. Qualcosa però nel modo in cui il suo respiro le carezzava la clavicola, la fece desistere e anzi, posò la guancia sulla sua testa.
« Uscirà ancora con quel tipo? – alzò gli occhi al cielo e quell’impulso riemerse – Insomma se davvero tenesse a lei, saprebbe che il suo fiore preferito è la gerbera, che le fragole possono ucciderla… »
Virginia si trattenne dal rimbrottarlo e sbatté più volte le palpebre.
« Lei se ne dimentica puntualmente » mormorò, cercando capire quanto l’uomo fosse cosciente.
Era praticamente impossibile che si ricordasse di un simile dettaglio. Soprattutto se si ricordava le innumerevoli volte l’aveva quasi ammazzata, proponendole puntualmente qualcosa con le fragole.
« Dettagli – replicò lui, fioco – E comunque lo sanno tutti che gli avvocati non sono affidabili »
« E lei che ne sa? »
« Lo so, come so che le piacciono i gatti e che adora la panna »
Virginia abbassò gli occhi e vide che Tony, con la guancia premuta sulla sua spalla, era sul punto di addormentarsi. Volle credere che quelle affermazioni – peraltro vere – fossero frutto del delirium tremens.
« Torni a dormire ».
Lo aiutò a distendersi nuovamente e si alzò, posando finalmente il bicchiere. Non riuscì a drizzarsi completamente in piedi perché le agguantò le dita. La presa era piuttosto debole, segno che probabilmente non fosse conscio delle sue azioni né tantomeno delle parole.
« Resti – deglutì, rannicchiato sotto le coperte – La prego…  ».
Virginia alternò lo sguardo tra le loro mani e Tony, che le parve più un bambino bisognoso di cure che un irritante uomo d’affari.
« Sarò sulla poltrona » tentò di dissuaderlo.
« Le prometto che farò il bravo » sospirò fiacco.
Virginia sapeva che se non lo avrebbe accontentato quella a sentirsi in colpa per il resto della vita sarebbe stata lei. Così rinunciò al libro e salì sul letto.
 

*

La strada sarebbe stata buia se non fosse stato per il lampione che, come una sentinella a fine turno ormai esausta, illuminava fiocamente il lastricato e parte del bordo estremo della careggiata. Un gatto randagio scappò per nascondersi dal passaggio di un uomo, che aveva appena posteggiato la propria vettura a pochi metri. Entrò nella palazzina tranquilla, dove i suoi abitanti altrettanti pacifici stavano dormendo. Salì le scale fino al proprio appartamento. Davanti alla porta d’ingresso, si chinò a raccogliere una piccola busta color senape immacolata. Non un nome o un indirizzo.
Si guardò intorno, poi si rifugiò nel proprio appartamento. Aprì la busta e vi trovò un semplice biglietto bianco di pochi centimetri su cui era stato scritto al computer un numero di telefono. Prese il cellulare e lo compose mentre, passando davanti alla finestra, scostò la tapparella per controllare che nessuno che rientrasse nei propri sospetti lo avesse seguito. Il telefono squillò un paio di volte.
« Sì? »
« Sono contento che tu abbia rivalutato la mia offerta » esordì con un sorrisetto soddisfatto.
« Non è un’offerta, ma un accordo » specificò il suo interlocutore dall’altro capo.
La voce giungeva sgranata, la linea non era eccezionale in quel punto.
« Dov’è la differenza? »
« Che se non lo rispetti, non lo farò neanche io » rispose l’altro e il silenzio gettò un leggero velo di tensione tra i due uomini. Intanto il primo si sganciò il colletto della camicia. Non era stata una delle sue migliori serate, ma neanche una delle peggiori. Come tutte le donne, quella che aveva incontrato aveva fatto la difficile. Prima o poi sarebbe stata sua. Dopotutto si meritava una ricompensa.
« Spero che tu ci abbia pensato bene » disse, calcando particolarmente la voce sull’ultima parola.
Era un disperato, ma non così tanto da accontentarsi. Aveva un piano ben preciso e in qualsiasi modo lo avrebbe portato a termine.
« Io ho bisogno del tuo cervello, tu dei miei soldi »
« Non così tanto – gli fece notare – Comunque sia… » aggiunse, lasciando di proposito la frase in sospeso.
« Domani sarò a Washington » confermò l’altro con pesantezza.
« Sei sicuro di quello che vuoi? »
« Non sei il solo ad avere un conto in sospeso con Stark… » mormorò e sorrisero.
 
Happy scosse il capo e aprì gli occhi. Scrollò il braccio sinistro facendo scendere l’orologio sul polso, così da controllarne l’ora. Erano le cinque e mezza passata. Si era seduto sul divano in attesa, nel caso in cui il boss avesse avuto bisogno di qualcos’altro. Doveva essersi appisolato.
Seppur sentendosi un po’ impiccione, salì le scale verso la zona notte alla ricerca di Virginia, che a breve si sarebbe svegliata per prepararsi alla nuova giornata lavorativa. Si fermò davanti alla porta del capo, lasciata aperta. Avrebbe tanto voluto fare una foto ai due cocciuti che dormivano beatamente, abbracciati nel letto. I loro respiri calmi sembravano sincronizzati. Tony era scivolato nel mondo dei sogni con la testa sullo stomaco di Virginia che, con il capo di lato e le spalle contro la testata, lo cingeva con un braccio mentre l’altra mano era rimasta fra i suoi capelli.
Happy in cuor suo progettò un nuovo articolo da prima pagina. 

Angolo Autrice: Saaaaaalve a tutti! Eccomi qui, finalmente! 
Premetto che sto cercando di fare capitoli di uguale lunghezza (otto pagine word) e siccome stavolta ci saranno
altri personaggi, oltre a quei zuzzerelloni zuccherosi dei Pepperony, mi ci vorrà un po' di più per scriverli *sob*.
Prendetevela con la scuola babbana... 
Ciancio alle bande, ho già in mente una trama abbastanza precisa e come già accennato nelle note pre-prologo, si
svolgerà su falsa riga del secondo film. Perciò riprenderò anche alcuni dialoghi e/o scene, quelle che più ho
apprezzato ;) Questo dovrebbe facilitarmi nella pubblicazione, salvo imprevisti quali compiti e robaccia varia...
Detto questo, ci tenevo ad avvisare (in particolare, chi già mi segue da un po') che presto dovrei pubblicare anche
un aggiornamento per quanto riguarda la mia raccolta You'll Be in my Heart
; o in alternativa una one-shots "inedita" xD.
Non so ancora quale, vista l'altalenante ispirazione >.<
Per ulteriori chiarimenti o commenti, contattatemi :*
Un grazie speciale alla mia adorata _Atlas_ <3 e...

Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always


PS: come sempre a inizio capitolo, le parti arancio e a destra sono dal POV di Pepper mentre quelle blu e a sinistra dal POV di Tony :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. Pandering ***


PANDERING

“Eye to eye, cheek to cheek.
Side by side, you were sleeping next to me.
Arm to arm, dusk to dawn
with the curtains drawn
and a little night on these sheets.”

- California King Bed, Rihanna

“I love you anyhow
And I don’t care if you don’t want me.
I’m yours right now.
I put a spell on you,
because you’re mine.”
- I put a spell on you, Nina Simone

Il sole splendeva nel cielo, ma i suoi raggi non raggiungevano il livello 10.
Le porte si aprirono con un soffio quasi fantascientifico e Phil si avviò lungo il corridoio, scansando alcuni dei pochi colleghi, che come lui avevano il pass. Senza neanche fermarsi, estrasse la chiave d’identificazione e passò oltre, fino a raggiungere l’ufficio di Fury. Qualcuno lo adocchiò nervoso, come se sapessero tutti cosa fosse successo. Ed era così. Lo sapeva anche lui, sapeva perché Fury lo avesse convocato con tanta urgenza.
Quanti punti QI servivano per leggere una cinquina di fogliettini? Va bene l’egocentrismo, va bene la fama, ma quanti vantaggi può procurare il rivelare la propria identità al mondo intero? Anche qualcuno con un cervello nella media lo avrebbe compreso.
Nel tentativo di accantonare l’irritazione, raggiunse la grossa porta sorvegliata da due agenti grossi quanto armadi a due ante, poi bussò.
Fury arcuò un sopracciglio e girò la poltrona.
« Agente Coulson » esordì, accomodandosi quando vide il suo braccio destro fare capolino.
Alle proprie spalle fluttuavano una serie di schermi con dati e numeri. Alcuni schermi davano su telecamere fisse, altre cambiavano in base alla loro collocazione.
Ciò che però intimoriva la maggior parte degli agenti, era l’atmosfera pesante che si respirava. Una grossa aquila stilizzata le ali spiegate sembrava aumentare le dimensioni dell’uomo, che pareva gestire l’intero globo standosene seduto là.
« Direttore » balbettò Phil, ancora fermo sulla soglia.
« Venga avanti ».
Deglutì a vuoto, poi si chiuse la porta alle spalle e avanzò verso la scrivania.
« Signore… »
« La colpa è mia » lo interruppe il Direttore.
Phil aggrottò la fronte, non potendo fare a meno di sentirsi confuso.
La missione che gli era stata affidata non era arrivata a buon termine e se c’era un responsabile – oltre a Stark, ovviamente – non si trattava certo di Fury.
« Sì. Ho sottovalutato il soggetto in questione » aggiunse, ma questo non bastò a rassicurare il fedele agente. Nicholas J. Fury che diceva di aver sbagliato? Decisamente c’era qualcosa che non andava.
« Signore, io davvero… »
« Intendevo Stark » specificò il Direttore quando comprese perché la faccia dell’agente avesse assunto la forma di un grosso punto interrogativo. Aveva frainteso.
« Ow… In che senso? » chiese poi, assottigliando lo sguardo.
« Ricordi cosa hai scritto nel tuo primo rapporto? » replicò, sfogliando alcuni plichi.
« Arroganza, instabilità psicosociale… »
« Com’è che si definisce? » lo interruppe Fury, storcendo la bocca e alzandosi per imboccare un corridoio che si aprì solo quando si avvicinò al muro.
« Genio, miliardario, filantropo… - elencò Phil, seguendolo verso la sala di controllo – Che intende fare esattamente? »
« Assecondarlo ».
Per un attimo Phil, ritirando il consenso che stava per pronunciare, pensò che fosse impazzito. Se davvero avesse assecondato Stark e le sue voglia da playboy, le cose non potevano altro che peggiorare.
Aveva un gran rispetto per il proprio capo, ma quel piano Phil non lo capiva affatto.
« Ehm… Signore, se permette… Non credo sia saggio » tentò di dire e fu costretto a fermarsi quando Fury, che lo precedeva, fece altrettanto.
« Per quale ragione? »
« In fondo al rapporto ho specificato la voce “relazioni interpersonali” ».
Ci fu un attimo di silenzio poi Nick liquidò la questione con uno sbuffo.
« Ho la persona giusta »
« Veramente… – tentò di replicare, ma fu inutile – Povero Stark » sospirò Phil.
La prossima missione sarebbe stata raccattarne i resti.
 
L’unico suono proveniva dall’Oceano su cui il primo sole si rifranse in migliaia di piccole scintille, smosse dalla leggera brezza. Le tapparelle si erano appena sollevate da permettere ad alcuni raggi di rischiarare la stanza. Uno di questi baciò la fronte di Virginia che sbatté le palpebre, svegliandosi. Malgrado la mente ancora annebbiata dal sonno, si accorse di non trovarsi nella propria camera. Fu presa da un attimo di smarrimento finché i suoi occhi non si specchiarono sulla distesa d’acqua salata, che si perdeva oltre l’orizzonte. Ammirò per qualche attimo quel placido paesaggio poi spostò lo sguardo sul proprio ventre, che Tony doveva aver preso per cuscino. Le si era raggomitolato addosso, il viso rivolto verso di lei come farebbe un pulcino sotto l’ala materna.
Si era immunizzata da ciò che bastava alle altre donne per svenirgli fra le braccia – una frase sagace, un complimento o un sorriso smagliante, o tutti e tre in una volta  – ma non era riuscita a fare altrettanto con l’espressione da cane bastonato. Quella era l’unica arma che la faceva vacillare e la notte precedente, quando l’aveva sfoderata per chiederle di restare, non aveva potuto far altro che sventolare bandiera bianca. Guardandone ora i tratti sereni, non potè fare a meno di sorridere. Non era certo la prima volta che gliela dava vinta. Allungò una mano sulla sua fronte e sentì che la temperatura era scesa. Con tutta probabilità si era trattato di semplice stress. Tsk! Lui stressato…
Beh, da quando era tornato dall’Afghanistan non faceva che rintanarsi in laboratorio e Virginia non poteva non chiedersi quando avrebbe dovuto cominciare a trascinarlo fuori di lì con la forza, magari tirandolo per un orecchio. Le sue dita s’intrufolarono fra i capelli scuri di Tony, dapprima con diffidenza, poi prese a giocherellare con le corte ciocche morbide.
‘Smettila immediatamente!’, strillò la flebile voce del raziocinio, ‘Non sei affatto professionale’.
Virginia non poteva essere più d’accordo, ma la quiete di quel momento aveva assunto un sapore talmente dolce che non fu in grado di fermarsi. Era così gradevole potergli riservare quell’affetto che tanto era cresciuto nel corso di quel decennio. Decise di dare la colpa all’aria indifesa e vulnerabile di Tony. La stessa di chi sa di aver bisogno di amore, ma che non lo ammetterà mai. E lei non voleva negargli una tale possibilità. Era tutto così assurdo perché di occasioni per cedere ne aveva avute, ma non lo aveva mai fatto. Primo perché era moralmente sbagliato che intrattenesse una relazione col proprio capo e secondo specialmente se si trattava di Anthony Edward Stark.
Si disse – giusto per non prendere posizione contro il raziocinio – che al di là delle superficiali voglie da playboy, di tanto in tanto, Tony era in grado di riservarle dei sorrisi più sinceri e sguardi che sapevano parlare molto più loquacemente di quanto avrebbero potuto mai fare le parole. Non sapeva mai se giudicare quelle espressioni come semplice gratitudine lavorativa o come qualcosa di più profondo.
Senza contare ciò che era accaduto poche sere prima. Nel chiederle di ballare aveva balbettato e in tutta la sua carriera, non ricordava una sola volta in cui Tony si era mostrato nervoso nel suo fare l’idiota.
Improvvisamente l’oggetto dei suoi pensieri sospirò più profondamente e lei sollevò subito le mani, conoscendo perfettamente cosa sarebbe successo: sarebbe diventata un tutt’uno con i propri capelli e lui si sarebbe divertito a prenderla in giro fino alla fine dei tempi. Ma Tony non si svegliò e continuò a dormire, anche quando Virginia decise di spostarlo con gentilezza sulla parte libera del giaciglio.
Si volse verso la sveglia e vide che erano appena le sei del mattino. Senza fare rumore, gli rimboccò le coperte e si diresse verso la propria camera, sorridente.
 
Spalancò le palpebre, in bocca il sapore di un incubo degli ultimi cinque minuti o forse di un ricordo, che aveva già dimenticato o represso nel subconscio. I suoi occhi scuri vagarono per la camera lussuosa quando qualcosa, appoggiato distrattamente sulla poltrona nell’angolo accanto alla cabina armadio, attirò la sua attenzione. Un libro. Lui non leggeva libri, non libri come Madame Bovary. Poi comprese che la prima parte di quello che lui aveva ritenuto un sogno, era stato molto reale. Fu in quel frangente che i suoi sensi intorpiditi si attivarono e percepì un gradevole profumo fra le pieghe dei lenzuoli in cui era stato avvolto da mani piccole e delicate. Il cuscino accanto al suo stropicciato era segno tangibile che era rimasta lì, a vegliare su di lui. No, non era stato un sogno.
Sbadigliando, cercò di disfarsi delle coperte e dopo essersi stiracchiato, con un mugolio soddisfatto, si alzò.

Si era già fatta la doccia e indossato uno dei suoi migliori tailleur. Dopo aver “chiarito” con Tony si sentiva decisamente più serena, tant’è che si era svegliata più volentieri del solito. Ovviamente l’essergli stata accanto tutta la notte non aveva niente a che vedere con questa faccenda.
Non provava una tale felicità dal suo ultimo compleanno. Prima del viaggio in Medio Oriente. Fu un ricordo passeggero, che tornò ad inabissarsi nei meandri più bui della sua mente così come ne era emerso.
Si stava spazzolando i capelli quando qualcuno – non esattamente inaspettato – bussò alla sua porta per poi entrare senza neanche attendere il permesso.
« E’ già sveglia? » bofonchiò Tony, stropicciandosi gli occhi col dorso di una mano.
« Certamente, Signor Stark. Come si sente? ».
‘Come se fossi passato per un tritarifiuti’, pensò aspro.
« Non fa colazione? » propose invece, giusto per non pensare che quella febbre lampo non era altro che l’inizio della fine. La sua.
« L’ho già fatta – si aggiustò una ciocca della frangia – Le serve qualcosa? » domandò lei, girandosi appena per poterlo guardare in faccia mentre cercava di raccogliere i capelli in una coda di cavallo.
Tony occupò alcuni lunghi istanti nel fissarla come un bambino non proprio in forma guarderebbe un triplo cono gelato. La camicetta bianca si abbinava ad una sobria gonna a tubo color salvia fin poco sopra il ginocchio, ripresa da un paio di decolleté di una tonalità più scura.
Virginia arcuò un sopracciglio quando lo vide sbattere le palpebre più volte.
« Mi serve lei per un’opinione su un nuovo progetto che avevo in mente da un po’… - iniziò, appoggiandosi con una spalla contro lo stipite della porta – Una EXPO ».
Virginia fece appena in tempo a sistemare una forcina.
« U-una expo? – sbatté le palpebre a metà fra la sorpresa e lo sconcerto – Lei si ricorda che abbiamo già assegnato contratti per l’energia eolica… »
« Non parli di aria, mi si smuove lo stomaco » mugolò Tony con una smorfia.
« Per non parlare degli impianti per il solare in Sud Africa »
« Non mi interessa più l’ordine »
« Ma quelle persone percepiscono »
« …degli ecologisti, è palloso »
« …uno stipendio, Signor Stark! »
« Mi annoia » sbuffò lui, gonfiando le guance.
« Tony, è uno spreco di tempo » gli fece notare con un certo tono di sufficienza.
Quando voleva sapeva essere irritante tanto quanto un bambino, se non di più.
« Cosa? »
« …e di denaro »
« Il mio denaro. Di che si preoccupa? » le chiese, facendo spallucce.
‘Del lavoro che mi scaricherai, maledetto uomo’.
« Tony » riprese, facendo appello a tutta la pazienza di cui disponeva.
« E poi possiamo permettercelo, visto che le azioni stanno volando! » ribatté lui con insistenza.
« Da un punto di vista imprenditoriale » gli fece notare lei.
« Perché c’è un altro punto di vista? ».
Virginia gli rivolse ancora una volta lo sguardo trasecolato, che aveva avuto modo di perfezionare.
« Senta, perché non ci riflette ancora un po’? » propose più conciliante, sperando che questo sarebbe bastato per farla arrivare in azienda in orario.
« Perché tanta fretta? » le chiese Tony, accigliato.
« Devo andare alle Industries » disse sbrigativa.
« Deve? » come se avesse appena detto che il Sole gira intorno alla Terra mentre lo superava dopo aver arraffato la giacca in tinta e la ventiquattrore.
« Sì, visto che si rifiuta di fare la propria parte »
« Resti qui a lavorare… » le rivolse un sorriso acceso, ma una parte di sé seppe che doveva per forza avere un asso nella manica.
« In tal caso potrebbe presentarsi alla riunione – disse la donna – Oltretutto mi sembra stia meglio ».
Tony si fece serio come la peste. In quel momento era disposto a tutto pur di trattenerla fra quelle mura, compreso avere di nuovo la febbre. Il perché finse gli fosse ignoto.
« Riunione? Un’altra? – Virginia si fermò vicino al bancone, dove poggiò la borsa – Ma non l’avevamo già fatta? »
« Intende quel party di inizio anno? » chiese, restando sorpresa quando lui le sottrasse la giacca, come se le avrebbe potuto impedire di adempiere ai propri compiti.
« No alcol, no party – le fece notare, perfino pignolo – Può lavorare nel mio ufficio » aggiunse, sfoderando un sorriso da playboy che avrebbe fatto svenire qualsiasi donna.
L’espressione di Pepper gli fece chiaramente intendere che quella proposta non sarebbe stata neanche presa in considerazione, tantomeno quel sorriso. Così un po’ scocciato, orgoglioso del fatto che riuscisse a tenergli testa, la aiutò ad indossare la giacca. Virginia si volse, cercando di reprimere i brividi che avvertì sul collo. Per sbaglio – forse – Tony l’aveva sfiorata.
« Non mi dica che preferisce quelle mummie a me? » fece indispettito, incrociando le braccia sul petto.
« Non posso. Ma in ogni caso, l’azienda non va avanti da sola e credo di poter fare a meno della sua… ingombrante presenza per qualche ora » rispose con un cipiglio divertito, sistemandosi le maniche dopo aver chiuso l’unico bottone sul davanti. Tony la fissò, con un ghigno ad increspargli la bocca incorniciata dal pizzetto, perché in modo molto sottile gli aveva fatto un complimento.
« Lei lavora troppo » asserì, assottigliando lo sguardo in segno di disapprovazione.
« Forse se lei facesse il suo lavoro, io potrei… - guardò il soffitto con aria pensierosa – Com’è che dice? Godermi l’attimo? ».
« Esatto! Vede, se si impegna anche lei può imparare qualcosa – la donna roteò gli occhi e Tony la seguì a ruota verso l’ingresso – Quanto è importante questa riunione? ».
Doveva assolutamente trovare una scusa per trattenerla. La partita era ancora tutta da giocare per lui.
« Quanto l’intero fatturato delle Enterprises » rispose Virginia con fare annoiato.
Era la stessa cosa che gli diceva sempre, pur sapendo che ormai stava esaurendo la sua funzionalità. Per istinto si fermò quando non sentì i passi del miliardario e girandosi, lui la indicò.
« Le mancavo ieri sera a cena? » gongolò.
« Non dica sciocchezze »
« Altrimenti perché sarebbe tornata qui? ».
Fu per un secondo che Virginia, colta in fallo, fu tentata di cedere. Si avviò per raggiungere la macchina, che JARVIS aveva provveduto a farle trovare appena fuori la porta di casa.
« Le ha fatto del male? ».
La voce di Tony riecheggiò nell’atrio, fin dove l’aveva seguita. Virginia si bloccò a metà passo quando registrò il tono agitato – molto agitato – con cui le aveva posto il quesito. Poi girò su se stessa per accertarsi di ciò che le era parso udire, la ventiquattrore tra le mani davanti al grembo.
« No » confermò con voce ferma, ma gentile.
« Sicura? » replicò Tony, studiandola con attenzione.
« Non mi ha fatto niente »
« Okay… - la scrutò ancora, ma con un cipiglio meno guardingo – Ci va così in azienda? »
« Perché? Qualcosa non va? ».
Immediatamente si guardò addosso per cercare un filo fuori posto o qualche macchia che le fosse sfuggita nella fretta, e per evitare di arrendersi alla faccia da schiaffi del boss.
« Certo! E’ troppo carina » protestò Tony, godendosi l’espressione dell’assistente.
‘Deliziosa’, pensò mascalzone quando la vide assumere un colorito acceso.
Virginia sospirò rassegnata quando vide il sorriso sulla faccia del miliardario.
« Lei è impossibile, Signor Stark »
« Grazie, Potts. Detto da lei assume un altro significato » rispose, facendole incendiare in definitiva le guance.
« Ci vediamo » concluse la donna in modo frettoloso, prima che potesse trovare qualcosa da lanciare contro quella sua testaccia dura.
« Aspetti! Neanche un bacetto? » la blandì lui quando la vide aprire lo sportello.
« Buon lavoro, Signor Stark » rispose Virginia, potendo giurare di averlo sentito ridere.
 
Al proprio arrivo in sede, si ricordò di cosa l’attendeva e l’effetto del risveglio si affievolì. Infatti uno stuolo di giornalisti già accampato davanti all’ingresso la assediò, rivolgendole almeno una trentina di domande diverse di cui lei riuscì appena a captare una parola ciascuna. Li ignorò totalmente – anche se non mandarli al diavolo le risultò piuttosto difficile – e una volta dentro, fu al sicuro. Soprattutto perché Happy, appostato lì da un bel pezzo, si mise tra loro e le porte d’ingresso.
Bambi si avvicinò con un dossier e la informò di alcuni nuovi appuntamenti mentre prendevano l’ascensore. Da sola poi, Virginia si incamminò lungo il corridoio che portava all’ufficio di Tony, occupato da lei visto che lui non si degnava neanche di respirare la polvere di quella stanza. Immersa nel più laborioso dei silenzi, si sedette davanti al computer e cominciò a lavorare. Passarono due ore, tremende a suo avviso, in cui discusse con almeno una decina di segretarie e cinque affaristi che sapevano il fatto loro sulla testardaggine. Fu Bambi ad interrompere la revisione di alcuni contratti.
« Signorina Potts, il fotografo del People Weekly è qui ».
Virginia trattenne a stento un lamento, ma non le fu concesso neanche il tempo di rispondere, che un trentenne dall’aria spumeggiante – merito della camicia grigio topo con pois multicolori di vari dimensioni e i pantaloni rosa fluo – spalancò entrambi i battenti della porta in mogano, ricordandole una ballerina di Broadway. Era uno spettacolo che si riproponeva ogni semestre da quando era stata assunta, perciò si potrebbe pensare che non si necessitasse di convenevoli in una simile ricorrenza. Ma Virginia si alzò comunque, aggirando la scrivania perché se c’era una cosa che non ci si doveva dimenticare di fronte a Matthew Boseman, erano gli onori di casa.
« Virginia! »
« Ciao Matt » rispose garbata perché in fin dei conti, quel pazzoide, nei limiti dell’umano, s’intende; era  una compagnia amichevole e gradita nella monotonia del lavoro. La squadrò da capo a piedi, afferrandole una mano e sollevandola con riverenza.
« Sei una bomba, chérie! Fatti guardare… » esclamò con un lieve accento argentino, facendole fare una piroetta.
« Come stai? » gli domandò con un sorriso sincero.
« Miseramente a pezzi, come al solito »
« Accomodati – gli sistemò la poltrona – Posso offrirti qualcosa? »
« Vorrei tanto, amore. Ma Madre Natura non mi ha concesso una simile fortuna – rispose indicandola con un gesto vago e lei arrossì, ridacchiando – I comuni mortali come me devono stare ben lontani dalle leccornie. Uno sguardo e la bilancia si sbilancia! Ma bando alle ciance, sono qui per affari »
« Bene ».
Virginia tornò a sedersi sulla propr- ehm… La poltrona di Tony. Poi osservò Matt fare lo stesso dall’altra parte della scrivania.
« Ho bisogno di Stark in copertina per questa settimana » dichiarò.
« Questa settimana? Siamo pieni di appuntamenti » rispose Virginia, arcuando le sopracciglia.
« Concedimi solo qualche scatto »
« Va bene, fammi controllare »
« A proposito, dov’è quel bocconcino? » chiese lui, guardandosi intorno alla ricerca di un noto personaggio a caso.
« Lo sai, non qui » rispose Virginia con un cipiglio di sarcasmo.
« Allora posso parlare liberamente – constatò Matt, proteso verso di lei per confidarle un segreto – Joshua mi ha detto, che Katy gli ha detto, che una collega le ha detto di conoscere un tipo, che conosce un tale che ha beccato un losco figuro fotografare te e Anthony durante una serata di beneficenza ».
Virginia smise di cercare l’agenda e lo fissò di scatto.
« Quale serata? » schizzò lei e Matt prese la tracolla che aveva con sé.
« Forse le foto ti rinfrescheranno la memoria » borbottò, tirando fuori una busta gialla.
Virginia la prese e senza distogliere gli occhi da quelli di Matt, la aprì. Infilò una mano e le sue dita toccarono delle diapositive. Le estrasse un poco e si vide nell’inconfondibile abito blu cobalto. Premette le labbra quando le sfogliò, verificando ciò che aveva temuto.
C’erano lei e Tony mentre ballavano in sala, mentre uscivano sul balcone, mentre parlavano e una serie di ben dieci scatti, alcuni non molto nitidi, in cui si avvicinava a lui per…
Sollevò lo sguardo verso l’uomo, seduto dalla parte opposta della scrivania.
« Ti prego, dimmi che… »
« Guarda dentro » le suggerì con tono fraterno e lei affondò le dita nella busta per poi estrarne una scheda sd e una chiavetta usb. Si lasciò sfuggire un sospiro sollevato.
« Matt, ti ringrazio »
« Figurati, cara. Era così distratto che sono riuscito a sottrargliela da sotto il naso »
« Hai appena salvato la mia carriera – gli assicurò, riponendo tutto il materiale nella busta – Non so cosa avrei fatto se fossero finite sul giornale o peggio su qualche tabloid ».
Cacciò la busta dentro al cassetto in fondo alla scrivania, che si premurò di chiudere a chiave. Quando sollevò lo sguardo, Matt la stava fissando come un gatto che pregusta una cena a base di topo.
« Ci sei andata a letto? »
« No, come ti viene in mente! Non ci siamo neanche baciati, non è successo niente » rispose Virginia, scandendo bene le parole. Abbassò la voce quando si accorse che si era alzata di un’ottava.
« Ma stava per succedere – lei roteò gli occhi – Guarda che non c’è niente di male a prendersi una cotta ».
Lanciò un’occhiata in tralice a Matt, che la fissava con leggerezza.
« Non ho una cotta per Tony » protestò, senza risultare molto convincente.
« E chi ha nominato Tony? » fece lui, sollevando le mani in segno di resa.
« Sei prenotato per i servizi dei prossimi due anni, contento? – sbottò lei, chiudendo di nuovo l’agenda –Facciamo dopodomani? ».
Matt si alzò in piedi, come punto da uno spillo e tra l’indice e il medio, le porse un biglietto da visita.
« Perfetto, questo è il mio indirizzo. Chiamami quando arrivate ».
*
 Così fu. Puntuale, Virginia suonò il campanello e pochi istanti dopo una ragazza bruna aprì la porta e dopo essere stata folgorata dal sorriso impertinente di Tony, si schiarì la voce.
« Buon pomeriggio » esordì, imponendosi di ignorare ciò che era appena accaduto.
Lo faceva da dieci anni, perciò le venne naturale scusare la povera creatura, vittima dell’aura magnetica del proprio boss.
« Buon pomeriggio. Lei è? ».
Virginia stava per rispondere quando Matt si fece avanti.
« Karen, ti sembrano domande da farsi!? – disse, spingendola via – Virginia! »
« Matt » mormorò lei, lasciandosi abbracciare e sbaciucchiare.
Tony lo fissò e per conto del fotografo, ringraziò il fatto che fosse dichiaratamente e pubblicamente omossessuale.
« Anthony Stark nella mia dimora, che onore! – esclamò, battendo le mani come se avesse davanti un leccalecca gigante – Entrate, entrate! ».
Seguirono l’invito e si avviarono dentro l’abitazione, che come prevedibile, ricorreva nel profilo delle case dei superfamosi: mobili moderni, quadri altrettanto stravaganti, soprammobili insoliti e lusso. Lusso ovunque.
« Posso ridere? » chiese Tony, avvicinandosi all’orecchio dell’assistente.
« No » rispose Virginia, faticando lei stessa a trattenersi quando vide Matt ancheggiare proprio davanti ai loro occhi, verso un altro coetaneo. Ma molto più virile, come osò notare – nel silenzio mentale – Virginia. Purtroppo la sua impressione influenzò le sue labbra, curve verso l’alto, e Tony roteò gli occhi.
« Joshua! Joshua, guarda un po’ chi è arrivato »
« Tony Stark, il nuovo supereroe della Pacific Coast » esordì il nuovo personaggio, alzandosi dalla poltrona in pelle nera su cui era sprofondato per stringere loro la mano.
« Questo è il mio compagno, Joshua Davis » annunciò Matt, indicandolo con una mano e Tony, sollevato da quella frase – soprattutto dalla parola “compagno” – se lo immaginò come presentatore tv o come testimonial in una televendita.
« La intervisterò tra una foto e l’altra » disse Joshua, unendo le mani davanti al grembo.
« Karen, porta il Signor Stark nella stanza per il cambio abito! ».
La ragazza annuì e si avviò. Tony non ebbe da obbiettare e la seguì.
 
Poco dopo, Virginia si stava logorando con alcune clausole di un contratto – che si era portata appresso perché odiava starsene in panciolle – in una camera da letto, muovendo il piede senza un ritmo particolare. Tony uscì da dietro il paravento con indosso un completo tre pezzi: camicia bianca, cravatta color mercurio come la giacca gessata, a righe verde acido per riprendere il gilet.
« Come sto? » domandò come se avesse davvero bisogno dell’opinione altrui per autocelebrarsi.
Virginia dovette controllare i livelli ormonali che schizzarono verso altezze cosmiche. Non riusciva a capacitarsi come, anche con un normale completo, riuscisse sempre a risultare mostruosamente attraente. Con tutta probabilità, le sarebbe parso sexy anche con un sacco di iuta.
« Come sempre » mentì, cercando di dimenticare il fatto che fossero ad appena venti centimetri da un giaciglio…
« Non mi banalizzi »
« Perché, questo le ridimensionerebbe l’ego? » gli chiese sarcastica mentre pescava il correttore dal fondo della borsa. Lo portava con sé per ogni evenienza.
Si avvicinò a Tony, che senza farsi notare, gesticolò in direzione di Karen, giunta per terminare la preparazione. Le fece segno di allontanarsi e lasciò che Pepper si occupasse del make up. Rimase immobile, ma i suoi occhi vagarono sull’espressione concentrata della propria assistente. Le si era formata una microscopica ruga al centro della fronte, tra le sopracciglia.
« Ha visto il modo in cui Randy e il suo amico del cuore mi stavano fissando? »
« Credevo le piacesse essere al centro dell’attenzione »
« Magari della sua, non di due omosessuali » replicò con una buffa smorfia e Virginia gli rispose con l’occhiataccia tipica di una madre che riprende il figlio dalla lingua biforcuta.
« Si tenga i vestiti addosso e andrà tutto bene ».
Uscirono dalla stanza e tornarono nel salotto, che era stato adibito a set fotografico con diversi sfondi, lampade di tutte le altezze e luminosità e un divanetto in stile vittoriano.
« Cielo, non ho mai visto tanto splendore in una sola stanza! » esclamò Matt, andando loro incontro mentre Joshua sedeva su una poltrona con taccuino e registratore.
Dopo gli ultimi dettagli, Tony seguì le istruzioni del fotografo e si sistemò davanti a un fondo color pesca, che scendeva da una struttura metallica che si apriva per tre metri. Virginia tornò a sedersi in disparte col suo avvincente contratto.
A Tony però non sfuggirono gli occhi azzurri che lo osservarono da oltre il bordo di quelle carte.

Angolo Autrice: Eccomi finalmente! Lo so, lo so. Ci ho messo una vita, inoltre aggiornare a quest'ora non è proprio il massimo. Ma volevo assicurarmi che questo capitolo fosse quantomeno decente, perciò...
Dopo la one shot "Di cieli, marachelle e promesse" (che trovate sulla mia pagina) sono tornata al fluff/comico - me stava a salì na' depressione... - e spero che, malgrado sia fiacco, questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Annuncio che ci saranno periodi in cui non scriverò con costanza, come è già accaduto: sto affrontando l'ultimo anno di liceo quindi non sempre potrò dedicarmi alla scrittura *sigh* e vi chiedo scusa in anticipo se sembrerò sparire.
Ovviamente continuerò a disturbarvi, ma solo quando la scuola e i vari impegni me lo permetteranno.
Ripeto: continuerò questa storia e terminerò la mia precedente raccolta "You'll be in My Heart" ;)
Anzi, sto progettando uno speciale Natale ehehehhe...
Mi auguro che continuerete a seguirmi e un grazie a tutti voi :*
Come sempre un grazie speciale ad _Atlas_ <3
Al prossimo capitolo (o one shot),
50shadesOfLOTS_Always!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. Like your father ***


LIKE YOUR FATHER


“I want to hide the truth, I want to shelter you.
But with the beast inside there’s nowhere can hide.
No matter what we breed, we still are made of greed.
This is my Kingdom come, this is my Kingdom come.”
- Demons, Imagine Dragons

Aveva bevuto. Le pareti sembravano sciogliersi e le lampade avevano assunto strane forme contorte. Altroché se aveva bevuto… Il mondo vorticava attorno a lui mentre un corpo caldo si premeva con lascivia contro il suo. Delle dita si erano intrufolate fra i suoi capelli e un paio di labbra rosse come la Ferrari adocchiata su una rivista, forzavano le proprie. La sua testa era così leggera che gli sembrava di fluttuare e ricordava a malapena dove fosse.
Fu per esigenza di ossigeno che la ragazza bruna, la stessa che lo aveva spinto nella parte più remota di un corridoio del casinò, si staccò per sorridergli. Aveva un bel viso, carnagione olivastra e probabilmente era spagnola a giudicare da come gli aveva parlato pochi minuti prima. O si era trattato di ore?
Non ricordava neanche di averla avvicinata. Probabilmente aveva fatto tutto da sola, magari lo aveva visto particolarmente fortunato nelle puntate da averlo scelto come prossimo riccone da depredare. Magari lo aveva semplicemente riconosciuto.
La ragazza gli passò un’unghia laccata di un insolito bianco ottico sulla guancia e il brivido che lo percosse durò così poco da non renderlo piacevole. Si sentiva strano e non si trattava solo dei liquidi che ribollivano nello stomaco quasi vuoto. Fu quando incrociò i suoi occhi, quasi neri, che si risvegliò quella parte di lui non ancora affogata nei bicchieri di superalcolici. Posò una mano sul fianco formoso della donna, quel tanto da scostarla da sè. Incurante della sua disapprovazione, attraversò più in fretta che potè la sala principale del casinò. Si fece portare le chiavi della Maserati e senza neanche assicurarsi che fosse abbastanza lucido per guidare in sicurezza, si accomodò sul sedile. Chiuse lo sportello, inserendo la chiave nel quadro e si appoggiò per qualche fugace istante contro la pelle comoda. La musica di sottofondo, le chiacchiere continue e le risate sguaiate si affievolirono nei timpani per lasciare un confuso e debole eco, che continuò a riecheggiargli nel cranio. Dopo un bel respiro, mise comunque in moto e s’infilò nel traffico con un’unica manovra.
 
Poco dopo imboccò la Pacific Highway. La luna era l’unica a tenergli compagnia, rischiarando il paesaggio che superava a velocità moderata. Pepper lo avrebbe sicuramente rimproverato e al pensiero di una sua ramanzina circa il non guidare in quelle condizioni, la pericolosità del farlo e l’elenco di tutte le conseguenze che le avrebbero fatto venire un infarto, sorrise. Le sue palpebre si mossero lentamente e quando le riaprì sulla strada, improvvisamente si ritrovò davanti la silhouette di un uomo. Girò il volante e l’auto, dopo un primo sbandamento, ruotò su sé stessa per tre volte prima che la frenata si esaurisse. La macchina si fermò, non troppo scostata dalla propria corsia e quando Tony riaprì gli occhi aveva le mani bloccate sul manubrio, la vista appannata e il cuore in gola.
Quando riprese a respirare, cercò il volto che aveva visto solo pochi secondi prima.
« Sei un idiota, Stark » borbottò fra sé.
Si assicurò di non aver fatto danni a cose o persone, dopodiché riprese la strada verso casa.
Doveva farsi una bella dormita, magari dopo una bella doccia. Ghiacciata.
Percorse il viale ghiaiato e parcheggiò nel patio. Scese, appoggiandosi a tutte le superfici che incontrava finché esausto non si arrese e si lasciò cadere sul divano. Col viso sepolto fra i cuscini freschi, si addormentò.
 
Un suono flebile, come un lamento. Un altro netto e tangibile la riscosse completamente dal torpore. Non era la prima volta che le accadeva di destarsi nel cuore della notte per poi ricevere una brutta notizia.
I suoi occhi incontrarono la mezzanotte sulla sveglia, una lampada cadde in qualche parte dell’immensa Villa e la spinse a drizzarsi. Di solito non restava a dormire, ma quella sera aveva avuto diverse scartoffie da sbrigare. Inoltre c’erano guai in vista e nella decisione di aspettare il ritorno di Tony, era crollata.
« JARVIS? » sussurrò, restando con le orecchie tese.
« Sempre attivo per lei »
« C’è qualcuno in casa? » chiese un po’ perplessa e un po’ preoccupata.
Quella casa era come un bunker della Seconda Guerra Mondiale per quanto concerneva la sicurezza, ma con il proprietario non si era mai abbastanza prudenti.
« Nessuna presenza estranea, Signorina » confermò l’AI dopo qualche secondo di scansione.
« Dov’è il Signor Stark? » scostò le lenzuola che le si erano raccolte in grembo.
« In salotto ».
Si alzò ed arraffò la vestaglia, gettandosela scompostamente sulle spalle. Quando aprì la porta, si guardò intorno con circospezione. La luna era completamente oscurata da un banco di nuvole passeggero e l’unica fonte di luce proveniva dalla cascata artificiale vicina alle scale.
« Signor Stark? » mormorò, affacciandosi alla cucina.
Sembrò non esserci nulla fuori posto, ma un mormorio indistinto la attirò verso il divano. I suoi piedi nudi emisero uno scalpiccio ovattato.
« Non lo farà » rispose Tony, ma di lui alcuna traccia.
« Tony… » lo chiamò di nuovo mentre scendeva i due gradini che separavano il pavimento del salotto dal resto. A quel punto lo vide, raggomitolato sul tappeto ai piedi del grosso divano.
« No, l’acqua no » si lamentò l’uomo, tremando in modo convulso.
Virginia non capì di cosa stesse farneticando, ma dal modo in cui si agitava, seppe che si trattava di un incubo. Perché era evidente che non fosse un semplice sogno. Si chinò per spostare il tavolino in vetro quando notò alcuni cocci, che una volta erano stati un soprammobile a forma di fiore di loto. Doveva averlo urtato per sbaglio.
« Fa freddo… Lasciatemi tornare a casa » mugolò, ripiegandosi su di sé con le braccia piegate contro il petto e le mani strette a pugno.
Virginia si morse l’interno della guancia, senza sapere come agire veramente. Le avevano detto spesso che svegliare troppo bruscamente una persona in preda al delirio del subconscio non è mai una buona idea. Continuò a chiamarlo, vittima di un vortice di ricordi così intenso da isolarlo dalla realtà circostante. Sentì una mano invisibile strizzarle il cuore.
« No, non voglio… Devo tornare da Pepper ».
Il modo in cui sospirò quella frase le fece pizzicare gli occhi. Il modo in cui pronunciò il suo nome, come un’ancora di salvezza, la spiazzò.
« Tony, si svegli… » lo pregò, afferrandolo per le spalle e cominciando a scuoterlo lievemente.
« Basta, vi prego! Yinsen… » uggiolò quando cominciò ad aprire gli occhi.
Poi come se gli avessero buttato addosso un secchio d’acqua, il miliardario sobbalzò e spalancò le palpebre.
Le pupille dilatate su un altro mondo gli impedirono di riconoscere la donna, che lo stava chiamando con insistenza.
« Tony, sono qui » aggiunse Virginia, posandogli una mano sulla guancia ispida.
I suoi occhi scuri guizzarono ancora per un altro istante sull’ambiente, come per rendersi conto di dove fosse realmente. Avvertì il tocco leggero della propria assistente sul viso, poi incrociò un paio di zaffiri e Virginia vide i tratti dell’uomo rilassarsi.
« Pepper… »
« Tutto bene? » gli chiese, non convinta che fosse del tutto sveglio.
« Che succede? » domandò lui titubante.
« Credo che abbia avuto un incubo » asserì e, gli avvolse un braccio attorno alle spalle.
Tony si drizzò, appoggiandosi a lei. Virginia se ne accorse e lo lasciò fare. Sentì l’uomo aggrapparsi al suo braccio con gentilezza, come se ne avesse bisogno per restare ancorato al mondo tangibile. Aspettò che si riprendesse per poi aiutarlo a rimettersi in piedi.
« Venga, le preparo una camomilla ».
Tony non si oppose e la seguì fino in cucina con passo un po’ ciondolante. Mentre la donna raggiungeva i fornelli, lui cercò di non ruzzolare dallo sgabello. Coi gomiti sul piano liscio del tavolo a penisola, seppellì la faccia tra le palme. Il fantasma che aveva visto sul cofano gli era apparso nuovamente nel sonno. Non riusciva a capire se fossero stati gli shots al casinò o il sushi dal sapore strano. Oppure davvero il bagaglio del Medio Oriente si era fatto così pesante da portarselo appresso.
Virginia intanto accese il fornello e sistemò un pentolino per l’acqua. Quasi con timore, si girò nel momento in cui l’uomo si passò con forza le dita sugli occhi, stropicciandoli come se dovesse cancellare delle immagini da essi.
« L’ho sentita agitarsi – esordì sommessamente, ma Tony la sentì comunque e la fissò da sotto le ciglia – …e parlare »
« Si è preoccupata » biascicò l’uomo, incrociando le braccia sul tavolo.
« Pensavo che fosse entrato un ladro » ammise, pur consapevole che si trattasse di una baggianata.
« Siamo gli unici ad abitare qui nel raggio di almeno cinque chilometri – le fece notare e sentì le guance riscaldarsi, ma sperò che fosse abbastanza buio perché l’uomo non lo notasse – Che cosa ho detto? ».
Virginia percepì le domande affollarsi nella propria testa, divenendo un groviglio indistricabile.
« Non molto, ma ho dedotto che si trattasse dell’Afghanistan » disse con tutto il tatto di cui fosse capace.
Non si aspettava che le dicesse qualcosa, anche perché non era passato molto da quell’episodio ed era convinta che si trattasse di un’esperienza ancora troppo vivida per poter essere raccontata. Ogni mattina però quando scendeva in laboratorio per dargli delle comunicazioni o incaricarlo di alcune firme, non poteva fare a meno di chiedersi cosa lo avesse spinto a chiudere la produzione di armi. Inoltre l’espressione che aveva non era poi tanto diversa da quella che aveva avuto non appena sceso dall’aereo.
Infatti Tony non rispose, ma lo sguardo che le restituì, le fece capire che non si era minimamente sbagliata. Aprì uno sportello in alto per prendere due tazze, ma alla fine cedette alla curiosità che le stava causando la nausea.
« Chi è Yinsen? » domandò tutto d’un fiato.
« Era un compagno di cella… O meglio, di grotta. – specificò lui, studiando l’atteggiamento della donna – Crede che sia pazzo? ».
Il tono con cui pronunciò la domanda sembrò più un’accusa.
« Io credo che lei abbia bisogno di tempo » rispose, mantenendo un comportamento tranquillo.
Non agitarsi quando lo era Tony era la prima regola per il vivere civile.
« Non ho lo stress post-traumatico »
« Non l’ho mai detto – continuò posata, girandosi verso il piano cucina – …ma non le serve a niente ubriacarsi ».
Tony arcuò entrambe le sopracciglia, fissandola meravigliato mentre spegneva il gas. La teiera, che ancora sbuffava, smise di fischiare. Delle volute si sollevarono dal liquido giallognolo che Virginia versò.
« Nel curriculum questo non c’era » disse, abbassando il viso per nascondere il guizzo ilare della propria bocca verso l’alto.
« Non occorre un dottorato per comprenderla » ribatté Virginia, accomodandosi su uno sgabello di fronte a lui.
« A meno che non si parli di fisica ».
Nel raggiungere il manico in ceramica, le loro dita si sfiorarono in modo fugace e stavolta, Tony non potè celare un sorrisetto. Soprattutto quando la vide prima irrigidirsi e poi ritrarsi.
« Deve sempre avere l’ultima parola? » gli chiese, schiarendosi la voce e cercando di sembrare meno imbarazzata possibile.
« Solo perché mi piacciono i nostri battibecchi » disse con una scrollata di spalle.
Soffiarono sul liquido caldo e bevvero un sorso. Virginia lo osservò da oltre il bordo della tazza ancora per qualche istante. Per poco non si strozzò quando lo vide posare la tazza e passarsi la punta della lingua sulle labbra.
« Non credevo fosse qui » commentò Tony.
« Avevo degli arretrati e poi dovevo avvisarla di una missiva » rispose prontamente Virginia, protendendo una mano mettendogli una busta a un palmo dal naso.
« Guai in vista » mormorò lui, aprendola.
« Fra due giorni, a Washington per le due »
« Un invito per il thè » scherzò, dando una veloce lettura alla minaccia del Senato.
Non che fosse sorpreso, sapeva che prima o poi avrebbero chiesto spiegazioni circa l’incidente. Sarebbe stato troppo facile se lo avessero ignorato e basta.
Le viscere gli si contorsero in uno spasmo e diede la colpa alla sua sconsideratezza.
« Lei verrà con me? » chiese, richiudendo la busta col foglio dentro.
« Finché mi pagherà lo stipendio » mormorò Virginia con un sorrisetto mentre si riprendeva la tazza.
Tony la fissò e pensò che non potesse essere più bella di così: i capelli raccolti in una morbida treccia bassa sul punto di sfarsi, una canotta abbinata a dei pantaloncini di raso e la vestaglia, che le ricadeva di lato.
« Allora… Io vado a letto » balbettò quando si rese conto dove fossero gli occhi dell’uomo, che annuì.
Fissò la propria tazza e la lettera richiusa posata sul tavolo.
« Pepper? ».
Virginia si fermò poco prima di entrare nella propria stanza.
« Sì? ».
Tony si volse, ancora seduto sullo sgabello.
« Lo sa » e Virginia sorrise.

*

Lontano dal suolo, le persone concentrate su un frenetico via vai sembravano formiche. L’appartamento pareva sospeso nel vuoto, al piano più alto di uno dei tanti grattacieli eretti su Manhattan. Lui era sospeso.
Nel silenzio, nel freddo, nel dolore.
I suoi occhi scuri, come il cacao dei paesi equatoriali, fissarono con distacco la città che brulicava di vita. Poi stufo di quel deprimente spettacolo, dramma della vana ricerca della felicità, tornò verso il divano. Afferrò il cappellino natalizio, lo strinse tra le dita callose come l’uomo che ancora non era. Attorno a lui c’era un gran caos. Il toga party non era andato molto bene e un tavolino in mogano ci aveva rimesso le zampe.
Adesso nessuno lo avrebbe rimproverato…
Lanciò via il cappellino e, pur di far tacere il caos dentro sè, rovesciò il salotto da cima a fondo. Vasi di cristallo, lampade rare come opere d’arte, soprammobili fragili al solo guardarli. Finirono tutti in frantumi sul pavimento e sul tappeto persiano. Si fermò, stringendo i denti in una morsa così stretta che avrebbe potuto rompersi la mascella. Davanti a sé, un pianoforte a coda. La superficie nera riflesse il suo volto, contratto in una smorfia inaccettabile, e quello sconvolto di Nancy.
« Oh Santo Cielo… » esclamò la governante.
Aveva ancora gli occhi bordati di rosso e il naso arrossato per il pianto. Lui lo notò quando si volse di scatto. Dopo essersi accertato di avere la voce ferma, si decise a parlare.

« Che succede? »
« Il Signor Stane ha chiesto di vederla » rispose quasi intimorita.
Nancy lavorava in quella casa da quando aveva compiuto vent’anni, divenendo quasi una nipote adottiva. Tuttavia non conosceva molto il figlio dei padroni, visto che la maggior parte del tempo lo trascorreva a studiare, far baldoria o montare, Dio solo sapeva, cosa in garage. L’unico aspetto che conosceva di quel ragazzo erano le macchie d’olio per motori sui suoi abiti.
« Lo mandi via » le disse monocorde e in quella sola espressione, le ricordò il padrone.
Di quest’ultimo invece conosceva solo la moglie, gentile e bellissima.

« Ma… »
« Ho detto. Lo mandi. Via. » ribadì, stringendo le mani a pugno lungo i fianchi.
« Sì, Signorino. – asserì, scrutandolo – E’ ferito? » gli chiese, notando i frammenti di vetro e ceramica sparsi ovunque assieme a un mazzo di fiori e anche qualche libro.

« Sto bene. C’è da rimettere a posto ».
Lo seguì con lo sguardo e, senza aggiungere nulla, quando sparì al piano superiore, obbedì.

 
Mugolò, con la testa affondata sotto il cuscino e le coperte sfatte appoggiate addosso, quando la sveglia suonò l’una precisa. La sveglia che impostava per riprendersi dalla sbornia.
« Buon pomeriggio, Signor Stark. Sono le tredici e un minuto »
« Jay, ma che succede? » bofonchiò, stordito dai postumi del delirium tremens che sembravano non volerlo mollare. Neanche dopo una tazza di camomilla…
« La Signorina Potts mi ha chiesto di svegliarla in tempo per la riunione aziendale » rispose l’AI mentre qualcosa di giallo attaccato alla lampada sul comò, attirò insistentemente la sua attenzione.
Strizzò gli occhi e mise a fuoco le parole, “Riunione. Quindici.”, scritte a caratteri grandi ma graziosi su un post-it.
« Lo sto notando » mormorò quando dando un’occhiata alla stanza, vide altri post-it gemelli attaccati alla porta, sullo specchio e perfino sul completo Armani stirato e appeso ad una gruccia.
Sorrise quando nella sua mente si proiettò l’immagine di una Pepper infuriata.
 
Margaret avanzò verso il salotto con alle calcagna una delle tre inservienti, che da ormai diversi giorni si aggiravano in quell’immensa Villa come un gruppetto di mamme chiocce impazzite, correndo a destra e a manca. Era da almeno due settimane che non metteva piede in quella casa e vedere il ritratto dei suoi migliori amici la convinse che sarebbe dovuta sparire dal ’45. Le persone che amava tendevano sempre a morire… Fu con un certo stupore che vide Nancy, la mamma chioccia delle mamme chiocce, proprio sulla soglia del soggiorno alle prese con un secchio pieno di cocci, che una volta dovevano essere stati ornamenti domestici.
« Salve Nancy » esordì a bassa voce.
« Signorina Carter – rispose l’altra per poi squadrarla preoccupata – Non è »
« …stata esclusa? Fortunatamente no – sospirò – A proposito, il Signor Stane? »
« Non si è fermato a lungo, visto che il Signorino ha espresso la volontà di non incontrarlo »
« Immaginavo. E’ stato lui? – domandò indicando il secchio, dando così voce ai suoi primi sospetti e l’inserviente annuì con aria colpevole – Dov’è? ».
Nancy le indicò la stanza e Margaret affidò la busta della spesa alla cameriera che l’aveva seguita per poi superare l’angolo. Lo vide subito, raggomitolato sul comodo e lussuoso sofà. Non era la prima volta che lo trovava così, davanti al camino dove il fuoco scoppiettava allegramente. L’occasione stavolta però, era drammatica. Sapeva che adesso il suo calore non sarebbe mai stato abbastanza intenso o vicino da raggiungerlo. La bolla in cui si era isolato pareva respingere qualsiasi sensazione, qualsiasi emozione. Era diventato taciturno e ancora più antipatico, soprattutto con gli estranei.
« Tony… » mormorò e quando girò il capo lentamente come un’automa, Margaret capì quanto l’apparenza fosse ingannevole.
Esternamente appariva calmo, controllato ma dentro aveva l’inferno. I suoi grandi occhi color cacao celavano due pozzi scuri e senza fine, e pensò che niente poteva essere paragonato al dolore che vi scorgeva dentro, ogni volta che li incrociava. Somigliava molto a ciò che aveva provato lei stessa quando la comunicazione con Steve si era trasformata in un confuso gracidio. Ma non avrebbe mai potuto compararlo. Lui tornò a fissare le fiamme danzanti e quando vide Nancy andarsene con discrezione, si accomodò al suo fianco. Incredibilmente fu lui a rompere il silenzio.

« Non mi chiedi come sto? »
« Non ho bisogno di chiedertelo » rispose lei, accennando un sorriso amichevole.
« Perché sai quello che provo? » sbottò, punto sul vivo.
Non gli erano mai piaciuti i convenevoli, li trovava superflui e snervanti.

« No, Tony. Non sono così presuntuosa… »
« Allora perché sei qui? »
« Sono la tua madrina, ricordi? » gli rammentò.
 
La strada non era molto trafficata vista l’ora e il giorno. Le tre del pomeriggio di un banale mercoledì. Non molto lontano, alla propria sinistra, potè vedere l’Oceano scintillare in lontananza fino a perdersi nell’orizzonte. Una vista davvero magnifica. Guidava con gli occhiali da sole indosso e il vento che gli scompigliava la zazzera di capelli scuri. Gettò un’occhiata all’icona che comparve sullo schermo proiettato sul volante. ‘Ah, già…’, pensò mentre cliccava sul simbolo lampeggiante per rispondere.
« Signor Stark! Dove diavolo è finito? » urlò la voce furente di Pepper.
« Anch’io sono felice di sentirla, Potts » rispose ironico, ben sapendo gli effetti del proprio sarcasmo sulla donna quando era già arrabbiata oltre ogni misura.
« Le ho lasciato ben venticinque promemoria sulla riunione di quest’oggi »
« Oh, intende quegli adorabili pezzi di carta che ho trovato attaccati su qualsiasi superficie? »
« Ci sarà l’intero consiglio! Le avevo chiesto »
« Non credevo »
« …solo di presentarsi in azienda »
« …fosse oggi » protestò candidamente.
« Non è così difficile! »
‘Semplicemente adorabile’, gongolò.
« Se c’è già lei, perché devo esserci anch’io? »
« Perché sull’insegna non c’è scritto Potts, Tony! » sbraitò la donna dall’altra parte e lui cercò di figurarsi quale versione di rosso avesse assunto la sua faccia.
« Senta, io non posso venire » sentenziò più serio.
« Come sarebbe non può? »
« Ci pensi lei » mormorò, gesticolando con una mano come se le fosse di fronte.
« Cosa c’è di più importante della sua azienda? » chiese con stizza.
 
Margaret guardò di sfuggita l’albero addobbato, che scintillava a un passo dallo strumento reso muto e il pacchetto sotto le fronde aghiformi. Non aveva bisogno di leggerne il destinatario.
« Vuoi farmi un regalo per Natale? » borbottò lui, come se avesse capito la domanda che le era balzata in testa.
« Non me ne andrò, a costo di suscitare la tua ira ».

« Io voglio stare da solo » disse col tono fermo di un adulto, ma lei sapeva che sotto la facciata di giovane uomo si nascondeva un bambino tremante, come un gattino indifeso sotto la pioggia.
Lo aveva visto crescere e un po’, era diventato anche suo figlio.
« Sei un pessimo bugiardo. Come tua madre » mormorò.
« Mamma non c’è più! – sbraitò, rivolgendole un’occhiata così ferita che quasi ebbe paura – Non parlare come se fosse ancora qui, non credo alle favole! ».
Margaret si accorse di aver sbagliato. Non si poteva parlare ad un infante con la testa da genio.

« Hai ragione, ti chiedo scusa ».
Soprattutto se quel bambino era il figlio di Howard Stark. No, decisamente non era mai stato abbastanza stupido da credere alle storie della buonanotte.
« Mi stanno tutti addosso. Non li sopporto » ringhiò a braccia conserte.
« Cercano di sentirsi utili »
« Ho un quoziente intellettivo che supera di quattro volte la loro somma. Come possono aiutarmi? Con baci e carezze, con sermoni patetici circa il significato della vita? C’è forse significato per questo?! » esplose.
La voce sempre più grossa e gli occhi sempre più lucidi.
« No, non c’è » confessò Margaret.
Come poteva rincuorarlo? Non esisteva modo se non la via facile delle bugie.
« E allora spiegami perché mi lasci con Obadiah » sibilò quando ormai le lacrime lo stavano tradendo, scivolando lungo i tratti acerbi.
Margaret allungò una mano e gli asciugò una guancia, dove già era comparsa la prima barba.
« Pensi questo? » sussurrò, ma lui le allontanò la mano.
« Io non lo so più che cosa pensare! L’unica cosa che so per certo è che la storia dell’incidente è una balla! »
« Ma che stai dicendo? »
« Avevo controllato quella macchina e non c’era nessun guasto » rispose Tony col petto che si sollevava ed abbassava in fretta.

« Okay, adesso ci calmiamo » suggerì, ponendo le palme in avanti.
« No! Io non mi calmo, voglio la verità! – gridò, alzandosi dal divano – Sui giornali parlano di un problema ai freni. Continuate a dirmi che è stato un incidente, che poteva capitare a chiunque. Beh, non è così! Ho sistemato personalmente quella cazzo di macchina ».
Margaret cercò di prenderlo e trarlo a sé.
« Tony… » sussurrò quando riuscì a stringere le dita attorno ai suoi polsi.
« Lasciami » gemette lui e Margaret fu sicura che stavolta il cuore le si fosse spezzato.
« No, io non ti lascio » dichiarò, continuando a trascinarlo verso di sé con decisione.
Tony non ebbe più forze per opporsi e si afflosciò ai suoi piedi, aggrappandosi alle sue braccia. Si accucciò, evitando il suo sguardo.
« Lo so che non ti piace, ma ti voglio bene – esordì lei, sfilando la presa e allungando una mano per carezzargli i capelli – E non solo perché sei il mio figlioccio su un pezzo di carta ».

Finalmente Tony si decise a guardarla in faccia e ammettere, seppur in assoluto silenzio, che aveva bisogno dell’appoggio di qualcuno oltre a quello fornito dal proprio smisurato ego. Margaret comprese l’entità che si annidava in fondo a quei pozzi. Non si trattava di semplice dolore, ma di un insensato senso di colpa.
« I freni erano a posto… »
« Vieni qui » lo incoraggiò, cingendogli affettuosamente le spalle.
« Li ho controllati tre volte… » replicò lui, rannicchiandosi con la testa nel suo grembo.
« Ssssh… Va tutto bene ».
 
Virginia, più o meno dall’altra parte della contea, cercava di darsi un contegno. Lanciò un’occhiata alla sala, visibile da una grossa vetrata, dentro cui aspettavano i membri del consiglio. Alcuni stavano conversando, altri erano appena arrivati e stavano prendendo posto. Troppo velocemente in quel caso. Proprio il giorno in cui Tony aveva deciso di abbandonarla – non che fosse la prima volta chiaramente – erano tutti puntuali. Doveva esserci una maledizione sulla propria testa, non c’era altra spiegazione.
« Ho un appuntamento a cui non posso mancare… » tossì lui al telefono e non capì perché avesse tentennato nel risponderle.
« Potrei almeno sapere »
« Si ricorda di mia zia? »
« …che cosa… – s’interruppe bruscamente – La Signora Carter… Mi aveva chiesto le pratiche per »
« …farla trasferire alla White Dove – lo sentì inspirare, come se quello che stava per dirle fosse difficile da rivelare – Ci vado ogni mese ».
Virginia, interdetta, staccò per un attimo lo smartphone dal proprio orecchio e lo fissò con aria critica. La valanga di insulti che aveva pensato nell’arco di quella telefonata fu cestinata. Ancora una volta, Tony le stava dando un motivo per essere compreso.
« Poteva dirmelo » commentò mentre da una parte progettava un modo per strangolarlo e far passare il tutto come incidente. Dell’altra lo perdonò, semplicemente perché l’idea del proprio boss che va a trovare sua zia malata in una casa di riposo, confermava ciò che aveva sempre pensato: Tony Stark ha un cuore.
« Ha ragione »
« Come sempre » asserì, udendo in sottofondo il rombo del motore.
« Già… Le pagherò un extra per il disturbo » le assicurò.
« Se così sarà, temo che potrebbe finire sul lastrico molto presto » lo schernì lei, portandosi una mano sul fianco e contando il numero dei presenti in aula.
« In alternativa potrei farle un altro regalo. Magari un abito… »
« Tony… » lo riprese, sistemandosi la frangetta.
Diede le spalle al vetro, pregando che nessuno potesse darsi strane interpretazioni al suo viso divenuto quasi fucsia.
« Giusto. L’avvocato in gonnella… »
« Si chiama Thomas » gli rammentò con insistenza.
Controllare il proprio sistema nervoso era già divenuto un compito abbastanza complicato senza bisogno dell’impertinenza del miliardario.
« L’avvocato in gonnella »
« Può farmi un favore mentre mi lascia in balia del consiglio? » domandò retorica mentre sorrideva il più possibile a Fred, uno dei collaboratori, che le stava chiedendo quando avrebbero cominciato.
« Ma certo »
« Allenti il piede sull’acceleratore »
« Adesso comincia a farmi paura »
« Deve averne, Signor Stark » lo ammonì prima di riattaccare e dirigersi con quanta più sicurezza possibile dentro la sala dei leoni che l’avrebbero sbranata.
 
Margaret non fece nulla per spostarlo. Le sue dita continuarono a carezzargli i capelli e non potè fare a meno di pensare che tutto sarebbe stato più facile col Signor Jarvis. Tony lo aveva adorato fin dalla più tenera età e aveva trovato nella Signora Jarvis una compagna di partite a scacchi eccellente.
« Ora ascoltami… Obadiah non piace neanche a me, ma se tuo padre si fidava di lui forse dovremmo farlo anche noi »
« E’ stato lui » sentenziò tagliente.
« Tony »
« Ne sono sicuro »
« Com’è sicuro che è un’accusa grossa e infondata » disse e lui si ritrasse inorridito, come se lo avesse appena tradito.

« Infondata un corno! C’è solo una persona che poteva accedere ai progetti di Howard ».
Margaret si soffermò a riflettere sulle sue parole. Obadiah era sempre risultato una presenza astrusa accanto ad Howard e a più riprese, Maria le aveva confessato che quell'uomo le metteva i brividi.
Essendo stata forgiata dall'esercito, dopo aver esaminato il pericolo ne aveva parlato direttamente con Howard. Ovviamente il dialogo non aveva portato a dei risultati concreti e alla fine, sia lei che Maria si erano acclimatate ad Obadiah. Tuttavia Tony non si era mai fatto problemi ad esprimere il timore per quell'uomo. Anche allora, quando aveva appena compiuto quattro anni, Margaret aveva pensato che l'opinione del figlioccio fosse solo frutto di qualche ingenua impressione infantile.
Ora però i primi dubbi circa le mere intenzioni di Obadiah si stavano ripresentando in maniera molto più inquietante: a parte Tony, solo quell'uomo era abbastanza vicino ad Howard e ai suoi brevetti da provare per essi - e per l'ingente conto in banca - uno smodato desiderio. Per quanto ne sapevano, Obadiah aveva tutti i mezzi necessari per far fuori i coniugi Stark. E magari anche...

« Se così fosse, non puoi semplicemente denunciarlo. Devi avere le prove » lo ammonì, appuntandosi mentalmente di togliergli la brutta abitudine di svicolare sulla parola "papà".
« Aiutami » la supplicò lui.
« Vorrei tanto, ma mi hanno buttato fuori dallo SHIELD. Hanno reciso i miei contatti e non posso prendere l’azienda. Sono una donna. E’ già tanto che mi permettano di vederti… »
« …ti prego »
Lo prese per le braccia.
« Tony, guardami. Io sarò accanto a te. Ma se vuoi andare fino in fondo, devi prima assicurarti di avere il coltello dalla parte del manico »
« Come? »
« Devi alzare la voce e riprenderti l’azienda. Obadiah possiederà anche parte delle azioni, ma la quota maggiore era di tuo padre. E adesso quella quota passa direttamente a te »
« Non voglio fabbricare armi! Al MIT mi hanno insegnato di generare, preservare la conoscenza. Non sfruttarla per ammazzare le persone »
« Oh, Tony… – gli carezzò una guancia – E’ per questo che devi prendere il tuo posto sul trono delle Enterprises. Solo così potrai cambiare il mondo e far luce su questa storia » aggiunse con fervore.

« Non voglio uccidere nessuno » sussurrò lui e Margaret sorrise mestamente.
Aveva vent’anni, ma ancora ragionava da fanciullo.
« Neanch’io volevo, ma ho dovuto farlo per proteggere coloro che amavo ».
Tony lasciò andare il capo in avanti, fissandosi le scarpe con aria supplichevole.
« Resti a cena? » le chiese e quasi dovette sforzarsi per udirlo.
« Solo se continuerai ad insultarmi » scherzò, tirandolo a sé per stringerlo al petto come aveva sempre fatto.

Come avrebbe fatto sua madre…
 
Tony stava ripensando a quel momento, così distante nel tempo e nello spazio, mentre scendeva dall’auto con un mazzo di fiori di campo.
I preferiti di sua zia.
Suonò il campanello e dopo un paio di secondi, lo fecero entrare. La White Dove era la miglior casa di riposo della contea e malgrado l’asettica atmosfera di serenità, sentì di aver fatto la cosa giusta nel farla trasferire da quella casa di cura inglese, che pareva più un vecchio manicomio che puzzava di stantio.
Dopo aver preso l’azienda come gli aveva suggerito non era più riuscito a vederla. Obadiah gli aveva dato tanti di quei pensieri fino a un paio di anni addietro: gli era giunta una lettera, essendo la persona più vicina a un parente, in cui era stato avvisato che la donna da poco rimasta vedova si era ammalata di Alzheimer e che avrebbe avuto bisogno di cure e affetto.
Tony non aveva riflettuto e si era precipitato a Londra, senza dire niente al collaboratore. Inizialmente sua zia lo aveva scambiato per suo padre, lo aveva chiamato Howard. Ma quando aveva rettificato, era riuscita solo a piangere per l’emozione. Almeno quella volta era stato lui ad abbracciarla…
Raggiunse l’accettazione dove una donna di mezza età, con la faccia da ragazzina, lo invitò a seguirla.
« Come sta? » azzardò, cercando di sbirciare nella cartella che l’infermiera reggeva in mano.
« Non potrà migliorare, ma non ha subito peggioramenti. Per ora è stabile, anzi sembra essere rifiorita ».
Tony annuì poi entrò. La vide seduta al tavolino intenta a leggere il giornale.
« Ti stavo aspettando » esordì con la voce arrochita dal tempo e i boccoli sempre più candidi.
« Adesso prevedi il futuro? » le chiese scherzoso mentre la porta della stanza veniva richiusa.
« Non sei mai stato un mistero per me e tua madre » ridacchiò, ripiegando il quotidiano.
Lui scosse il capo e si avvicinò per poi porgerle il mazzo. L’ex Agente dell’SSR, Margaret Carter – per lui zia Peggy – sollevò gli occhi su di lui e accennò un sorriso. Uno di quelli che tacciono segreti, che camuffano esperienze strazianti, che sanno di saggezza.
« Sono per me? » domandò con un cipiglio di emozione mista a genuina timidezza.
« Beh, a chi dovrei regalarli? » rispose Tony di rimando e lei rise di nuovo mentre un’infermiera accorreva con un vaso. Dopo aver sistemato i fiori, si congedò.
« Sei un adulatore proprio come tuo padre… – tornò a guardarlo e arrossì appena – L’ho fatto di nuovo, perdonami ».
Tony scosse il capo, paziente come non era con nessuno, ed osservò il prato che circondava la proprietà.
« Facciamo una passeggiata? » propose, tendendole una mano.
Margaret annuì e accettò l’offerta. Tony aprì il finestrone col braccio libero e tenendola a braccetto, si avviò verso il campo erboso con lei. Il sole irradiava il giardino curato e una leggera brezza quasi bucolica scosse le fronde degli alberi, ombreggianti qua e là alcune panchine lignee occupate da altri anziani. L’aria era quieta e interrotta solo da un piacevole chiacchiericcio e dal cinguettio dei passerotti.
« Allora… – con l’anelito tipico di chi conosce ancor prima di sapere – Cosa ti porta a farmi visita? »
« Vengo qui regolarmente, che c’è di strano? »
« Per una volta vorrei che fossi tu a dirmelo e non io a cavartelo fuori – disse, fermandosi – Non ti sei fatto vivo per tre mesi »
« Mi piacciono le cose complicate » sdrammatizzò, percependo la bocca dello stomaco strozzarsi.
Non le aveva detto di ciò che gli era successo, c’era il rischio che fosse debole di cuore. E non aveva intenzione di scoprirlo personalmente. L’aveva solamente informata del cambio di rotta delle Enterprises, ma non le ragioni che lo avevano spinto ad una simile virata.
« Quegli occhi… » mormorò Peggy al suo fianco.
Tony, distratto, ovviamente fraintese e immaginò che si stesse riferendo a quella figlia incapace di accettare il fatto che la madre fosse troppo provata dalla vita. Tanto da dimenticarla a propria volta.
Lui invece avrebbe pagato per riavere Maria…
« Cosa? » chiese, volgendosi a guardarla.
Una fievole zaffata fresca smosse i capelli della donna, che lui vedeva ancora di un intenso color mogano, mentre le sue labbra si piegavano nell’ennesimo sorriso impregnato di affetto. Fu a quel punto che capì che stava parlando con lui.
« Che sta succedendo? ».
Tony deglutì sonoramente e non fu in grado di starsene zitto. Aveva bisogno di qualcuno – oltre Rhodey – che lo aiutasse a non dare di matto, che lo confortasse senza badare ai suoi precedenti.
« Mi sento in colpa »
« Per cosa? » aggrottò la fronte, carezzandogli il braccio.
« Ho fatto cose terribili e solo adesso me ne rendo conto – espirò profondamente, puntando lo sguardo su un bambino che giocava a carte col proprio nonno – Sono stato rapito da un gruppo di terroristi. In Afghanistan »
« Oh, Cielo… »
« No, sto bene » si affrettò a dire, accompagnando il tutto con una maschera.
« Hai appena detto il contrario » gli fece notare lei in una sorta di rimprovero, poi attese che continuasse.
Tony gliene fu grato. Era un fatto fresco di cronaca e parlarne non gli era semplice. A meno che non avesse in mano una bella bottiglia di superalcolico e al suo fianco, una donna con cui divertirsi senza eventuali “complicazioni”.
« C’era un uomo prigioniero come me ed è morto ».
Seguì un silenzio carico di disagio da parte del miliardario, straripante di comprensione da parte dell’anziana zia.
« Tony, tu sei un genio. Ma se si giudicasse un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerebbe l’intera vita a sentirsi stupido » rispose Peggy, conoscendo benissimo dove volesse andare a parare il figlioccio.
Lo vide accennare un sorriso sghembo e mai come allora, le ricordò il suo migliore amico.
« Hai scomodato Einstein per cosa? »
« La tua intelligenza ti ha portato a comprendere che chiudere il settore delle armi fosse la cosa giusta da fare – disse, stringendogli un poco il braccio – Ma la tua intelligenza ti impedisce anche di comprendere la lezione più importante »
« Cioè? »
« Non ruota tutto intorno a te, Tony ».
Ripresero a passeggiare senza fretta, godendosi il pomeriggio soleggiato e la compagnia reciproca. Si fermarono nuovamente sul un ponticello giapponese, circondato da salici piangenti i cui rami accarezzava la superficie trasparente di un laghetto artificiale. Le ninfee e le carpe koi che nuotava sotto di esse avrebbero facilmente proiettato i visitatori in un quadro di Monet.
Tony si appoggiò alla ringhiera ed osservò la natura circostante. Fu la sua espressione assorta, concentrata su un altro luogo a destare l’attenzione di Peggy, che si vide costretta a forzarlo per ottenere uno stralcio d’informazione.
« Ho l’impressione che non si tratti solo di questo ».
Lui la fissò di sottecchi, desiderando di essere sordo e muto.
« Io… Non sto molto bene. E non sto facendo niente per ingannare l’attesa » tartagliò, intaccando il legno con l’unghia del pollice.
« Vuoi dire che non stai facendo niente per conquistarla… » lo corresse lei.
« L’ho ferita e ora non ne vuole sapere. In fondo non la merito… »
« Non essere sciocco » lo rimbrottò con un gesto frivolo della mano.
« Lei ha bisogno di qualcuno che non sia incasinato… ».
Si girò a guardarla, sperduto come sempre quando si trattava di sé e dei propri sentimenti, quando Peggy poggiò una mano sulla sua.
« Hai sempre avuto una bassa considerazione di te, sotto le tonnellate di amor proprio. Cerchi costantemente di convincere gli altri che sei tarato su te stesso, ma la verità è che hai un cuore d’oro »
Tony fissò scrupolosamente le rughe di quella mano minuta, ma a suo modo in grado di serbare molte verità, incluse quelle scomode.
« Da piccolo eri una peste e non stavi fermo per più di due secondi. Avevi sempre la faccia sporca di fuliggine e una parolaccia per chiunque »
« Ma che progressi… »
« Ma ho ancora l’immagine di te, un frugoletto di appena un metro, che rimbocca le coperte alla propria madre influenzata » terminò, inclinando leggermente la testa di lato.
Tony negò, perché era assurdo, nella sua mente di essere arrossito.
« Che devo fare? » chiese con voce stanca.
« Devi lasciarti andare e smettere di essere un maniaco del controllo »
« Fammi indovinare, come papà? » borbottò e Peggy emise uno sbuffo.
« Ow, lui non aveva il minimo contegno. Era antipatico, egocentrico e opportunista »
« Confermo »
« Ma era un amico leale e un uomo buono, anche se non mi credi » specificò prima di dedicarsi all’ammirazione di quel piccolo angolo di paradiso.
« Che cosa hai combinato di tanto grave? » domandò poi incuriosita.
« L’ho mollata sul più bello – la scrutò quando di sfuggita, le udì ridere come se cercasse di contenersi – Perché ridi? »
« Sto cominciando a credere che gli Stark abbiano una naturale tendenza a innamorarsi perdutamente una sola volta nella vita ».


Angolo Autrice: Gesù, che fatica!
Sono in ritardo come al solito, ma spero che l'attesa sia valsa il capitolo ;)
E' un po' diverso dal solito perchè volevo concentrarmi su Tony, sul trimestre in Medio Oriente, ma senza intervenire direttamente nell'introspezione. Per specificare volevo che fossero le situazioni, gli ambienti e i ricordi a parlare.
Mi auguro comunque di non essere finita nel campo minato dell'OOC; tuttavia come ben sapete, mi piace fantasticare sul passato del nostro beniamino. E questa volta l'ispirazione mi è arrivata da una fanart (che avrei voluto caricare, ma ovviamente il computer mi ha dichiato guerra *grr*) in cui Peggy si prende cura di un piccolo Tony batuffoloso *-* Avendo visto la serie spin-off Agent Carter - se non l'avete vista, fatelo perchè è davvero carina - mi sono permessa di citare alcuni personaggi, come i Signori Jarvis, ed eventi vari; perchè sono convinta che  abbiano influenzato Tony, in particolare nell'infanzia e in parte nell'adolescenza. Sarà una cosa che ricorrerà in più capitoli, il motivo lo capirete leggendo :)

Dato che sono un disastro xD, mi sembra inoltre doveroso fare alcune precisazioni circa le parti precedenti:
- nel secondo capitolo 'Stuck in Reverse' ho introdotto una scena misteriosa (o almeno così è nella mia testolina bacata xD ) che porterà a qualcosa di angst/malinconico, ma non l'ho inserito fra i generi perchè non so quanto spazio si prenderà in questa long. Con tutta probabilità dovrò cambiare anche rating... o.o
- nel terzo capitolo 'Pandering', ho specificato il titolo del libro che Pepper legge in attesa che Tony si riprenda dalla febbre, "Madame Bovary" di Flaubert. Per chi non lo sapesse (tranquilli, io l'ho letto solo un mese fa ^^) è un romanzo del 1856, in cui compare un simpatico donnaiolo di nome Rodolphe che molla la protagonista Emma con una lettera che definirei piuttosto comica e niente... Ho detto tutto ahahah.

Ne approfitto, già che ci sono, per ringraziare tutti quelli giunti fin qua, in special modo
_Atlas_ : sono felice di
averti reso felice con questa nuova follia, perchè di follia si tratta - ti confesso che era da un po' che pensavo di stravolgere il secondo film della saga - pre-pepperony e no, non sbagli... Ci sono guai in vista! ;) E non preoccuparti se sembri pazza perchè sei in buona compagnia <3 Ti ringrazio per le recensioni e per i complimenti, non
vedo l'ora di leggere le tue future opinioni :*

Se ho tralasciato qualcosa, non siate timidi!
Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always


Ps: Buone Festeee!!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Bad Perception ***


BAD PERCEPTION

“I’m addicted to you,
don’t you know that you’re toxic?
And I love what you do,
don’t you know that you’re toxic?
It’s getting late to give up,
I took a sip from the devil’s cup.
Slowly, it’s taking over me.”
- Toxic, Britney Spears

“Late at night tourns down the lights,
closes up to me.
Opens my heart, tears it apart,
brings out the devil in me.”
- Hell ain’t a bad place to be, AC/DC


Fu JARVIS a farla sussultare per avvertirla dell’arrivo del Colonnello. Virginia sollevò le braccia verso l’alto, stiracchiandosi pigramente e roteò il capo per distendere il collo intorpidito. Diede uno sguardo al grazioso orologio da polso, che sua madre le aveva regalato per la maggiore età e, vide che si erano fatte le ventidue. Aveva ordinato del take away appena uscita dalle Industries e si era diretta a Villa Stark per terminare alcune faccende. Diverse riguardanti l’incontro alla capitale. Aveva consumato la cena in silenzio per poi premurarsi di lasciare qualcosa anche per Tony. Le scartoffie l’avevano tenuta molto occupata e la voce del Signor Johnson che giungeva dal laboratorio le confermò quanto il lavoro l’avesse assorbita, tanto da ignorarne il sottofondo fin troppo sonoro.
Sicura di aver ormai perso parte della propria facoltà uditiva, raggiunse il salotto dove trovò James ad attenderla in piedi, in abiti civili.
« Eccomi, Rhodey » esordì, lisciandosi la giacca del tailleur.
« Ho fatto più in fretta che ho potuto » rispose lui cordiale, stupito di vederla a quell’ora con ancora indosso i tacchi e gli abiti da ufficio. Non che l’avesse mai vista in modo diverso.
Questo non cambiava ciò che aveva sempre pensato di lei: intelligente, bellissima e pure santa.
 « Scusa se ti ho disturbato, ma ho bisogno di una mano »
« Che ha combinato? » domandò allusivo e Virginia non potè biasimarlo visti i precedenti del soggetto.
« Niente più del solito – smentì – Domani c’è una specie di processo »
« …a Washington. Lo so » sospirò James, annuendo.
« Davvero? »
« Sì. Ho ricevuto una telefonata dal Senatore Stern »
« Oh, no… » mormorò Virginia, facendosi una più che nitida idea di quanto in realtà la storia fosse seria.
Se la Corte Suprema voleva il Colonello dell’Air Force presente, significava che il peggio doveva ancora arrivare. E l’atteggiamento di Tony non era affatto d’aiuto.
« Non posso astenermi, né cambiare ciò che ho scritto nel rapporto ma lo difenderò come posso » asserì James, cercando al contempo di rassicurarla.
« Dimmi… – esordì lei, torturandosi le mani – Quante possibilità ci sono che finisca in carcere? ».
James abbozzò un sorrisetto furbo ed estrasse dalla tasca dei pantaloni una chiavetta usb.
« A questo proposito, ho qualcosa di interessante ».
Virginia abbozzò un sorriso di serenità, poi gli fece strada verso il piano inferiore. Le scale tremavano a ritmo della musica, tenuta ad alto volume. Digitò il codice mentre James dietro di lei, si tappò le orecchie. La porta si aprì con uno scatto, seguita da un fruscio che non fu minimamente udito.
« JARVIS, ti spiacerebbe abbassare? – gridò e quando l’AI eseguì, si accorse del perché il proprio boss fosse più sordo del solito – E’ incredibile… ».
In poche e rapide falcate, lo raggiunse e James si chiese come riuscisse ad inseguire l’amico per tutto il giorno su quei trampoli. Tony, come da routine, era talmente immerso nel proprio lavoro sulla Mark IV da non accorgersi neanche del loro arrivo. Al fine di rendersi nota, Virginia gli strappò le cuffie dalle orecchie.
« Ehy, che modi sono?! » strillò il miliardario.
« Sono ore che le chiedo di abbassare la musica » rispose la segretaria di pari tono.
« Ma se non ho sentito nulla! – un breve ridacchiare lo costrinse a girarsi – Che ci fai qui? » borbottò accigliato.
James non andava spesso a trovarlo visti gli impegni, perciò doveva averlo chiamato Pepper.
« Ti salvo le chiappe » rispose il Colonnello, avvicinandosi al tavolo del computer per collegare la chiavetta.
Tony si spinse con la sedia girevole ed era pronto a rimproverarlo per aver messo mano sui propri giocattoli quando sullo schermo apparvero delle immagini. La scena, ripresa dall’alto, era abbastanza chiara da mostrare una copia di Ironman attorniata da un gruppo che, dall’abbigliamento, doveva essere composto da meccanici o ingegneri.
« E quello cos’è? » domandò a metà fra la confusione e la sorpresa.
« Una riproduzione della tua armatura » attestò James, cambiando inquadrature e filmati.
Tutti palesavano grosso modo che qualcuno – cioè chiunque avesse mezzi e capitali – stesse cercando di riprodurre il progetto di Tony, che si abbandonò contro lo schienale della poltrona mentre Virginia osservava sempre più ansiosa. Il picchiettare della sua scarpa sul pavimento ne era la prova.
« Anche venti anni fa, JARVIS lo avrebbe fatto meglio. E lui non c’era vent’anni fa »
« Grazie Signore » rispose il maggiordomo.
Tutti e tre esaminarono i vari frame che scorrevano sotto ai loro occhi quando Tony intervenne, allungando una mano verso lo schermo fluttuante per bloccare il video.
« Un momento perché c’è il brutto muso di Hammer su questo schermo? ».
Con un gesto riavvolse il nastro e fermò nuovamente il video: Justin era in piedi poco lontano da una versione embrionale, molto più massiccia dell’originale, ma comunque abbastanza minacciosa che sembrava compiere un test di collaudo.
La bocca di James si arricciò in una smorfia furba. Era lì che voleva arrivare.
« Ha affittato un terreno in Texas e ora lo sta sfruttando per ricerche non autorizzate »
« E’ così incapace che non riesce neanche a copiare » borbottò Tony rivolto a sé stesso, schiacciando di nuovo play. Attorno a Justin c’erano altri Marines mentre il compagno dentro l’armatura, dipinta con un motivo mimetico – di cui si scorgeva solo il volto attraverso la maschera – testava il prototipo. Ad un certo punto, fu evidente che qualcosa doveva essere andato storto perché l’automa si bloccò per poi piegare un braccio e una gamba con un’angolazione innaturale. Delle grida di dolore, poi il filmato si oscurò.
« Oddio… » mormorò Virginia inorridita.
« Quello che mi chiedo è che cosa voglia farne » disse James, lanciandole un’occhiata.
« Mercato nero? » propose lei, le braccia conserte sotto il seno.
« O contratti governativi » disse Tony, guardando l’amico e la donna alternativamente.
I due dopo un primo momento di scetticismo, concordarono tacitamente che non era poi un'eventualità da scartare. Inoltre Tony e Virginia avevano già avuto a che fare con Hammer, e negli affari, era decisamente più meschino di quanto non fosse per natura.
« Per questo è stato cortesemente invitato domani a Washington » aggiunse lei col tono di chi ha appena risolto un rompicapo contorto.
« Chi altro ha visto questi filmati? »
« Nessuno, ma non basterà al processo » avvertì James con un’espressione da cui Tony sapeva, o comunque ebbe l’impressione, di dover dedurre la risposta alla sua seguente domanda.
« Come sarebbe a dire? » si espresse e quando si volse verso l’assistente, riuscì a vedere solo un paio di zaffiri severi.
« Dovrà comportarsi in modo egregio ».
Tony incassò lentamente la testa nelle spalle, reggendosi con le mani ai braccioli.
« Come faccio »
« Niente sproloqui » lo ammonì Virginia e per qualche assurdo motivo, Tony vide i suoi capelli diventare più rossi mentre cercava di sparire nella seduta della poltrona.
« …sempre »
« Niente doppi sensi »
« Ma… » balbettò, cercando di difendersi.
« E soprattutto dovrà indossare la faccia più raccomandabile che riesce a fare ».
Tony ammutolito, annuì vigorosamente mentre James faceva di tutto per non scoppiare a ridergli in faccia. Il più grande genio, miliardario, filantropo e playboy che regrediva allo stato di agnellino di fronte alla fulminea assistente.
« Conservala a dovere – indicò la chiavetta con un cenno del mento – E’ una copia »
« Dove vai? » chiese Tony, drizzandosi nuovamente quando lo sguardo di Virginia smise di essere minaccioso.
« A casa, a dormire. E dovresti farlo anche tu »
« Puoi restare qui. E domattina partiremo col mio jet – propose e quando lo vide esitare, assunse la faccia che usava per convincere tutti – Rhodey, non te l’ho chiesto ».
James sostenne il suo sguardo per un paio di secondi abbondanti, poi espirò e guardò Virginia in cerca di sostegno. Lei lanciò un’occhiata al proprio capo, che arcuò un sopracciglio e per una qualche ragione sconosciuta all’intero cosmo, il Colonnello fu sicuro che stessero avendo un’accesa discussione telepatica.
« Ti mostro la stanza » assentì infine la donna, facendogli strada ai piani superiori.
James sbuffò, seguendola nei movimenti mentre prendeva l’occorrente per la notte. La vide fare avanti e indietro dal bagno e dall’armadio, poggiando sul letto coperte e asciugamani puliti, in ordine.
« Posso convincerlo a farmi tornare a casa? » domandò ironico e Virginia ridacchiò mentre recuperava un pigiama. In realtà immaginava perché Tony avesse costretto l’amico a restare. Tuttavia decise di non dirlo per tutelare la sua privacy, concetto che al miliardario stesso era estraneo.
« Non credo » rispose con un cipiglio di empatia.
James la fissò serio, infilando le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni.
« Posso farti una domanda? »
« Sì, certo » mormorò Virginia, concentrata sugli scaffali dell’armadietto che stava prendendo in esame.
« Come sta davvero? ».
Si bloccò con le braccia a mezz’aria. Tutto era cominciato una settimana dopo la sua scomparsa.
In quel lasso di tempo aveva continuato a presentarsi in azienda, col suo tailleur e le scarpe abbinate. La cartellina sempre sottobraccio e un sorriso per ogni collega.
Poi una sera, all’ultimo semaforo che l’avrebbe condotta al proprio modesto appartamento in centro, aveva imboccato la Highway per raggiungere Malibu Point. Lo aveva fatto altre volte, sempre più spesso in modo direttamente proporzionale al cedere delle proprie emozioni. All’inizio si era limitata semplicemente a dormire nella stanza per gli ospiti che le era stata riservata secondo contratto.
Poi due settimane dopo si era ritrovata nella camera da letto di Tony. Il letto era stato cambiato e rifatto con dovizia dall’equipe delle pulizie, che almeno tre volte a settimana passava a rassettare. Era scesa dalle décolleté e aveva camminato scalza sul pregiato parquet fino al morbido tappeto sotto al giaciglio. Si era seduta sul bordo di esso, poi si era lasciata cadere di schiena e da lì in poi, la stanza di Tony era diventata il proprio rifugio.
Le inservienti che venivano sapevano di chi fosse quella casa e in particolare quella stanza, ma avevano fatto finta di nulla. JARVIS non le aveva mai fatto notare che si trovasse nel piano sbagliato. Né che avesse indossato un pigiama del capo…
Virginia conosceva bene quella stoffa, filo per filo, perché non molti giorni prima l’aveva indossata per assicurarsi che la fragranza di Tony – dopobarba al ginepro nero e un pizzico di un non so che, che le ricordava casa – fosse ancora lì. Per assicurarsi che la sua fede in lui e nel suo ritorno dall’inferno di sabbia fosse ancora ardente. Aveva pregato suo padre di riportare indietro Tony e forse, l’aveva ascoltata.
Tutto ciò lo aveva fatto spinta da un moto familiare. Da quel sentimento che covava da anni, ma che preferiva nascondere in un angolino del proprio cuore, come si fa con la polvere sotto il tappeto. E ogni volta che se ne solleva un lembo, si fa attenzione a non far trapelare neanche un pulviscolo.
Guardò ancora un attimo il proprio palmo sepolto tra i pigiami di Tony.
Quello in seta nera era uno dei suoi preferiti. Glielo aveva visto addosso poche volte così come la vestaglia con ghirigori e foglie d’acanto damascata, che vi era abbinata. Anche perché quando si era trovato in compagnia non aveva avuto bisogno di un pigiama. Le sovvenne che finora nessuna nuova donnina allegra avesse messo piede a Villa Stark.
James rimase ad aspettare, perché era consapevole di cosa avesse provocato nella donna e si sentì anche colpevole. In fondo però nessuno, meglio di lei, sapeva cosa passasse per la testa del genio.
Virginia gli rivolse uno sguardo strano, quasi sulla difensiva.
« Ha bisogno di tempo » disse, ripetendo ciò che aveva risposto a Tony solo il giorno prima.
Riprese nel proprio intento e tirò fuori un pigiama blu.
« Per qualsiasi cosa, rivolgiti pure a JARVIS » aggiunse con genuinità.
James annuì, ma Virginia lo superò appena di pochi centimetri perché l’uomo la afferrò per un gomito.
« Pepper – mormorò e attese che i loro occhi si incontrassero – Glielo hai detto? »
« Che cosa? – James arcuò un sopracciglio – No. E non deve saperlo » rispose Virginia, gelida.
« Ma… »
« James – sussurrò, serrando la mascella – Non deve saperlo. Promettilo ».
Lui si morse la lingua, poi assentì con un cenno del capo.
« Parola di Tenente » replicò, lasciandola andare.
Prima o poi avrebbe avuto la propria rivincita e l’avrebbe fatta pagare ad entrambi.
« Grazie. Buonanotte » si congedò Virginia prima di dirigersi nella propria stanza al piano di sotto.
Aprì il battente e lanciò un’occhiata alla rampa di scale. Le arrivò un commento aspro, indirizzato a Ferro Vecchio. E sorrise.
 
La notte era quasi al culmine e la luna pareva splendere più del solito. Il moto ondoso dell’oceano aveva preso il posto degli AC/DC e Virginia si trovava sul punto di addormentarsi. Era giunta finalmente alle ultime pagine del libro, ma si stava sforzando per finirlo. Sobbalzò, stavolta a causa di qualcuno meno cibernetico e più fastidioso.
« Cosa c’è, Signor Stark? » chiese automaticamente quando sentì bussare.
La voce le giunse un po’ ovattata, ma comunque esasperante.
« E’ finito l’alcol » si lagnò Tony al di là della porta.
« Quindi? » domandò, sollevando un braccio con aria costernata mentre rivolgeva un’occhiataccia al legno.
« Non ho sonno » ribatté l’uomo, fissando per il mezzo minuto successivo il battente.
Virginia roteò gli occhi, ritenendo che il proprio silenzio fosse già una valida argomentazione. Non fece però in tempo a tornare alla lettura, che la testa del miliardario sbucò da oltre la porta.
« Le va di guardare un film? » propose, rivolgendole la pluritestata faccia da cucciolo bastonato.
Era divertente usarla su Pepper per costringerla a fare qualcosa per lui.
Virginia sollevò lo sguardo su di lui e preparò la bandiera bianca per la resa quando la riconobbe.
« E’ quasi mezzanotte. Chieda a Rhodey » disse con tono di sufficienza.
« Sta dormendo – arricciò il naso – Le lascerò scegliere il film… » aggiunse, ricordandole un bambino che cerca di ottenere un nuovo giocattolo con le buone.
Virginia restò a fissarlo, valutando davvero l’idea: il suo boss le stava chiedendo di guardare un film nel salotto di casa sua. Da soli. Sullo stesso divano.
Era decisamente la scelta sbagliata quella che stava per compiere, ma sapeva esattamente a cosa sarebbe andata incontro se non lo avesse fatto: per prima cosa Tony avrebbe cominciato ad insistere e le avrebbe impedito sia di terminare la lettura sia di dormire; poi si sarebbe seduto accanto a lei e in un modo o nell’altro, l’avrebbe fatta sentire in colpa.
« JARVIS? » sospirò arrendevole e Tony sorrise.
Quello era il segno che aveva vinto. Di nuovo.
« Sì, Signorina Potts? »
« Mario Caserini » bofonchiò lei, scostando le coperte.
Spostò le gambe oltre il bordo e si infilò le pantofole, dimenticando di essere in pigiama quando gli passò davanti per raggiungere il salotto.
Tony, dopo essersi scansato per darle la precedenza, si concentrò sulla canotta di raso color madreperla e i pantaloncini in pendant che accarezzavano il corpo longilineo della donna.
Virginia poggiò un ginocchio sul divano e ci si lasciò sedere mollemente, imitata poco dopo dall’uomo che l’aveva seguita soddisfatto. Afferrò un cuscino e lo strinse contro lo stomaco, tutt’ad un tratto in subbuglio.
Qualcosa di quella scena le stava dando sui nervi. Era spossata e l’unica cosa che voleva fare era lasciarsi trascinare nel mondo dei sogni. Almeno lì sperava di non dover avere a che fare col lavoro.
« Posso farle una domanda ipotetica? » domandò Tony in attesa che JARVIS caricasse il file.
« E’ ridondante »
« Cosa? »
« Una domanda è per sua stessa definizione ipotetica » gli fece notare Virginia con un cipiglio di nervosismo quando le si sedette accanto.
« Allora una domanda strana » specificò lui, reclinando la testa sullo schienale.
« Mi sorprenderei se non lo fosse » mormorò, scacciando una ciocca di capelli dal viso.
Tony ci pensò su. Sì, per la prima volta in vita propria stava contando fino a dieci. Purtroppo la domanda gli scappò dalla bocca prima di essere arrivato al tre.
« Lei vorrebbe un marito? ».
Quella domanda a bruciapelo la fece scattare immediatamente sull’attenti. Lei e Tony non avevano mai parlato della loro vita privata, anche se quella del miliardario poteva essere definita in qualsiasi modo fuorché privata. Entrambi sapevano che fosse un argomento fin troppo imbarazzante da affrontare.
« E perché se lo chiede? »
« Sono preoccupato. Perché non credo che un avvocato sia il suo tipo » rispose Tony, facendo un gesto vago con la mano.
Virginia lo fissò di traverso, punta sul vivo. Strinse di più le braccia sul cuscino, reprimendo il desiderio di usarlo per soffocarlo.
« Io invece ho molto chiaro quale sia il suo tipo ».
Tony aprì la bocca per rispondere, ma si rese conto di quanto fosse stato ridicolo. Quella risposta tagliente però diede anche credito ai suoi sospetti, che erano un po’ – e più che altro – le sue speranze.
« Okay, time-out. Lo ammetto, ho sbagliato » balbettò, puntando un palmo sull’altro come un arbitro.
Virginia tornò con gli occhi puntati sullo schermo, soddisfatta di essere riuscita una volta tanto a zittirlo.
Tony d’altro lato analizzò la sua reazione. Se c’era una cosa che lo affascinava con lo stesso magnetismo della fisica era proprio la creatura al suo fianco.
« Perché non parlano? » chiese perché a quel punto, starsene muti era peggio del continuare a conversare
« E’ un film muto » spiegò Virginia, riacquistando un briciolo della propria pazienza.
Si fissarono di sottecchi poi tornarono a guardare il film.
« Vorrei un’altra possibilità… Per rimediare – specificò Tony, senza osare muovere un muscolo – Me la concede? ».
Virginia rilassò le spalle, non si era neanche accorta di averle irrigidite. Quando comparve il titolo del film, i suoi occhi cercarono quelli di Tony e abbozzò un sorriso.
« Vedremo » disse con tono trionfante.
 
Dopo circa mezz’ora, Tony era così annoiato che in un attimo si addormentò. Era scivolato con la schiena in avanti, finendo stravaccato sul divano; un braccio piegato sul bracciolo e l’altro lungo la spalliera.
Pepper senza rendersene conto, chiuse gli occhi fattisi pesanti e si mosse alla ricerca di una posizione più comoda per poi seguirlo.
James scese le scale, intontito dal torpore interrotto dal bisogno di un po’ d’acqua fresca. Si passò una mano sul viso distrutto e dopo aver recuperato un bicchiere, si accorse delle immagini in bianco e nero che scorrevano sulle vetrate affacciate sul Pacifico. Non riconobbe il film, ma le due figure sul divano sì. Aggirò il tavolo e camminò a passo felpato verso di loro per essere sicuro di ciò che aveva effettivamente intravisto. Si affacciò, poi si spostò dinanzi alla tv per avere una migliore visuale. Era semplicemente comico e altrettanto tenero vedere Tony e Pepper smettere di bisticciare e abbracciarsi nel sonno. Nell’ora in cui entrambi erano più scoperti. Lei si era accoccolata contro il corpo caldo di lui, entrambi alla ricerca di qualcosa che avevano rischiato di perdere. Notò una coperta piegata su un altro sofà più piccolo. La afferrò e la sistemò su entrambi come potè, poi riprendendosi il bicchiere d’acqua lasciato in cucina, tornò a letto.
 
Non molte ore dopo il sole sbucò da sotto il manto blu dell’oceano, dando il buongiorno alla Villa. Il suo calore tenue raggiunse il viso di Tony che, disturbato da quella che poteva considerare la sua prima vera siesta dall’Afghanistan, compì un profondo respiro e aprì gli occhi. La cosa che attirò le sue prime funzioni sinaptiche coscienti fu un paio di braccia che gli circondavano mollemente il busto, in parte coperte da un telo di flanella con su la maschera del proprio alter ego. Mentre cercava di fornire un ordine logico a come il lenzuolo gli fosse finito addosso, girando il capo verso sinistra, si ritrovò la testa di Virginia appoggiata sul petto nell’incavo della spalla. Il suo respiro lento e regolare spirava dalla bocca schiusa. Alcune ciocche ambrate le si erano depositate sulla guancia e Tony provò il forte impulso di acciuffarle e portargliele dietro il lobo dell’orecchio. Ma rimase immobile a contemplarla. Non le era mai capitato di starle così vicino da poter studiare la curva che le sue ciglia lunghe compivano verso l’alto. Approfittò di una buona mezz’ora quando ad occhio e croce stabilì che a breve, JARVIS avrebbe attivato la sveglia. Così con estrema attenzione, scostò la donna da sé e con altrettanta delicatezza, la fece distendere sul divano. Preso un guanciale, lo infilò con una mano mentre con l’altra le reggeva la testa.
Nell’intramezzo James scese le scale, pronto per la colazione. A metà rampa scorse Tony inginocchiato davanti al divano, che sistemava la coperta sulle spalle di Virginia ancora addormentata. Scuotendo il capo, raggiunse la cucina mentre Tony si azzardava a toglierle i capelli dal viso. Si rimise in piedi e seppur a malincuore, si diresse in cucina per un caffè. Là vide l’ospite seduto su uno sgabello.
« Dormito bene? » esordì lui con un sorrisetto incontenibile a fior di labbra.
« Sì. E tu? » dichiarò rilassato, avvicinando la brocca alla macchinetta del caffè, ignaro di essere stato beccato con la guardia abbassata.
« Mai quanto te » gongolò infatti il Colonnello e nel sentire la voce allegra, un po’ canzonatoria, si volse a fissarlo mentre recuperava tre tazze.
« Perché sorridi? » domandò, aggrottando la fronte e James pensò che dovesse aggiungere attore alla lista dei pregi.
« Carina la coperta di Ironman » ghignò, aspettando solo che le parole gli arrivassero alla parte del cervello non ancora immersa in un brodo di serotonina.
« Già, uno scherzo da parte di Pepper – mormorò Tony sovrappensiero – E tu come lo sai? ».
« Ti chiamano genio per questo » lo stuzzicò James, tamburellando le dita sul tavolo.
« Sai invece come ti dovrebbero chiamare? » bofonchiò il miliardario mentre dava un’occhiata alla caffettiera.
« Cupido? »
« Idiota » sibilò, spegnendo la macchinetta per poi consegnargli la caffettiera.
« Non c’è niente di male, Tony » disse James per poi sfidarlo ancora dopo essersi versato la bevanda.
Non ci fu spazio per altro.
Virginia sopraggiunse, mettendo fine inconsapevolmente alla chiacchierata, con la coperta di flanella appoggiata sulle spalle. Trovò i due uomini al tavolo stranamente taciturni. Fu appena in grado di captare l’ombra d’inquietudine sul volto di Tony, che passò subito in secondo piano quando le sorrise.
« Buongiorno Signori »
« Buongiorno Pepper » rispose James, voltandosi appena per rivolgerle un sorriso.
Tony rimase fermo sul posto e i suoi occhi presero a scannerizzare la figura della propria assistente, che s’intrufolò fra lui e il piano per prendere la caffettiera.
« Permesso… » mormorò educatamente e i suoi polmoni riconobbero l’odore di miele della sua chioma fulva. Rimase quasi drogato e dovette sforzarsi in modo disumano per non saltarle addosso, dato che a separarlo dalle sue curve c’erano solo due miseri centimetri. Soprattutto perché sotto la coperta del proprio alter ego, indossava un pigiama che poteva – secondo l’opinione di Tony, chiaramente – usare solo in assenza di persone diverse da lui medesimo. Infatti notò all’istante l’occhiata che James, nella propria innocenza da oltre il bordo della tazza, rivolse alla donna.
Virginia, ignorante di tutto ciò, si versò senza porsi alcun tipo di problema quando finalmente, nello spostarsi, si accorse di essere oggetto d’attenzione del proprio capo.
« Cosa c’è, Signor Stark? »
« I capelli spettinati le donano » rispose Tony, rimandando a dopo eventuali e necessari chiarimenti sul mantenere le dovute distanze, con una splendida faccia da schiaffi.
« Lieta di intrattenerla a mio discapito – scherzò Virginia, stringendosi entrambi gli angoli della coperta in un pugno – Posso fare altro? »
« Per ora è tutto, Signorina Potts ».
Virginia si allontanò, aprendo la porta della propria camera con un calcetto.
Tony attese nervosamente di udire la chiave girare fino allo scatto nella toppa. Poi con gesti calibrati atti a non sfogarsi direttamente sul proprio interlocutore, afferrò la caffettiera e si versò a propria volta del caffè, iniziando a parlare in tono molto basso e pericoloso.
« Se trovo di nuovo i tuoi occhi sulle sue gambe o su qualsiasi altra parte del suo corpo, a parte gli occhi; ti farò provare l’emozione del volo in caduta libera da un’altezza di sessanta metri e mezzo sul mare – disse posando la caffettiera vuota mentre James lo fissava con un cipiglio di preoccupazione – A scopo scientifico, ovviamente » terminò Tony, senza schiodare gli occhi da quelli di lui mentre beveva un sorso.
Gli avrebbe chiesto scusa prima o poi per quelle minacce, ma il benessere indotto dallo dormire abbracciato a Pepper non era bastato quel mattino a scacciare la brutta sensazione che qualcosa quel giorno, se non l’intero giorno stesso, sarebbe andato storto.
« Ho afferrato » sussurrò James, non potendo ancora distogliere lo sguardo.
Non aveva mai visto l’amico comportarsi a quel modo, perciò lo stupore era duplicato.
« Tutto chiaro, Colonnello? »
« Limpido » asserì, memorizzando il messaggio.
« Bene. Vado… – mormorò Tony, afferrando la tazza – Dovresti prepararti anche tu » aggiunse candidamente, prima di sparire al piano di sopra.
 
Poco meno di un’ora dopo erano tutti pronti. Beh, forse non proprio tutti… Tony come al solito era in impeccabile ritardo e, a prova di ciò, il piede di Virginia picchiettava sul pavimento sempre più irritata. Gli aveva lasciato il completo pronto nell’anta interna dell’armadio. Quanto mai poteva essere difficile vestirsi?
Le lancette si spostarono di altri trenta minuti e quando fu sul punto di andarlo a ripescare lei stessa dalla stanza, il miliardario saltellò lungo i gradini diretto verso di loro.
James attese la reazione della donna a un passo dal suo fianco mentre Tony li raggiungeva con la sua solita non-chalance.
« Andiamo? » sorrise smagliante.
« Siamo in ritardo sulla tabella di marcia e lei non è ancora pronto! » rispose Virginia, facendo un passo verso di lui.
« Sono pronto invece » replicò, inforcando un paio di occhiali da sole.
Si posarono appena sul suo naso, che Virginia glieli sfilò via e prese a sistemargli il colletto della camicia come una madre sul ciglio di una crisi nevrotica.
« Oh, andiamo Pepper! Non è un’occasione così elegante » si lamentò lui.
« Si deve presentare davanti alla Corte Suprema, non ad un plotone di ragazzette » ringhiò prima di stringere il nodo della cravatta fino quasi a strozzarlo.
Tony strabuzzò gli occhi per poi stringerli su quelli dell’assistente.
James guardò altrove, premendo le labbra pur di non ridere apertamente e senza pudore.
Da quel momento ebbe il piacere – seppur minimo – di notare come il miliardario provasse un insano divertimento nell’irritare Pepper. Coglieva qualsiasi occasione, qualsiasi momento e meno appropriato era, più si divertiva. Malgrado ciò, aveva potuto constatare i sospetti che aveva avuto già molti anni addietro.
Dopo ogni bravata infatti aveva osservato Tony che, intento a godersi le risposte dell’assistente, non si rendeva conto di quanto i suoi occhi parlassero per il suo cuore: sorridevano più di quanto facessero le sue labbra.
Dopo ogni marachella aveva osservato anche Virginia che, mentre sgridava il proprio capo, non riusciva a contenere l’affetto e l’ammirazione che la legavano a lui: col viso paonazzo di rabbia o di imbarazzo finiva per perdonarlo.
Il viaggio perciò fu più allegro del previsto, ma non per Virginia.
Con una cadenza di due minuti e tre secondi – sì, li aveva segnati sull’orologio – Tony s’impegnava a trovare un nuovo modo per farle saltare i nervi o metterla a disagio, con una fantasia maniacale al pari dei peggior serial killer. Quello che sarebbe diventata lei, se il proprio boss non avesse smesso di comportarsi come un bambino viziato.
Proprio come qualche ora dopo, seduti in aula del processo dopo essere atterrati con un clamoroso ritardo, accolto con una standing ovation da stadio. Ulteriore spinta verso l’ipertrofia del suo ego e verso l’ira funesta di Virginia.
« Signor Stark? » disse qualcuno, ma Tony non si scompose minimamente.
La penna scorreva velocemente sul foglietto di carta, che aveva rubato alla reception dell’albergo dove lui e la sua assistente si sarebbero fermati per quella notte. La punta della lingua spuntò da un angolo della propria bocca mentre tracciava gli ultimi dettagli.
« Signor Stark… » ripeté, stavolta con un tono meno clemente.
Era davvero troppo occupato nel terminare la propria opera per poter prestare attenzione a Stern. Fu a quel punto che un’altra voce molto – molto più iraconda, ma più piacevole alle sue orecchie – pronunciò il suo nome a bassa voce, come quello che usa una madre per riprendere il figlio in pubblico.
« Tony ».
Si volse e sorrise alla donna, mostrandole lo schizzo che riproduceva una caricatura del Senatore, che in quel momento li stava fissando intensamente.
Virginia gli strappò il disegno di mano e fu quasi tentata di mollargli uno scappellotto in diretta televisiva.
« Signor Stark »
« Sì, tesoro? » cinguettò Tony in falsetto, suscitando un moto d’ilarità generale.
« …potrei avere la sua attenzione? » terminò Stern.
« Assolutamente » assicurò, tornando a sistemarsi sulla sedia.
« Lei è o non è in possesso di qualche arma particolare? »
« Non ce l’ho » rispose, scuotendo la testa per enfatizzare.
« Non ce l’ha… » ripeté Stern, facendo suonare quelle parole il frutto della follia.
« Ow, dipende dalla definizione della parola arma » specificò Tony dopo qualche attimo, facendo spallucce.
« L’arma Ironman »
« Il mio congegno non combacia con quella descrizione ».
« E come lo descriverebbe, di grazia? »
« Per quello che è, Signore » disse mostrando le mani per evidenziare l’ovvio.
« Sarebbe? »
Virginia socchiuse gli occhi, preparandosi alla risposta che sarebbe seguita. Parlare in modo diretto con Tony, senza dosare accuratamente le sillabe, era come servirgli le battute su un vassoio d’argento.
« Una protesi ad alta tecnologia – le persone in aula ridacchiarono come da manuale – Questa è la definizione più idonea che io le possa fornire »
« E’ un’arma » replicò Stern, appoggiandosi alla cattedra e Virginia pensò che fosse pronto a balzare giù e strangolare il miliardario a mani nude. ‘Deve mettersi in fila’.
Tony roteò gli occhi e sollevò una mano nella sua direzione.
« Oh, la prego! Se la sua priorità »
« E’ un’arma, Signor Stark »
« …fosse veramente il benessere »
« La mia priorità »
« …dei cittadini americani… » mormorò fino a zittirsi.
Con un gesto piuttosto scenico, si prese l’attaccatura del naso fra il pollice e l’indice, strizzando le palpebre.
« …è di consegnare l’arma Ironman al popolo degli Stati Uniti d’America ».
Virginia vide la testa del miliardario sollevarsi e il breve silenzio, che precedette la risposta, sembrò creare una certa suspense cinematografica.
« Beh, se lo può scordare – scattò Tony, unendo le mani sul tavolo – Io sono Ironman: l’armatura e io siamo un tutt’uno. Consegnare l’armatura vorrebbe dire consegnare me stesso e questo equivarrebbe a un contratto di schiavitù o di prostituzione, a seconda delle circostanze. Non può averla » assentì infine, gesticolando mentre i flash dei pochi fotografi ufficiali scattavano.
« Senta, io non sono un esperto »
« Di prostituzione, non di certo. Lei è un senatore, siamo seri! » rispose ad alta voce e nuovamente il pubblico rise. Virginia invece pensò di alzarsi e prenderlo a calci seduta stante.
Stern ignorò volutamente la provocazione e procedette.
« Non sono un esperto di armi, però abbiamo qui una persona che sicuramente lo è. Chiamerei in aula il Signor Justin Hammer, il nostro principale produttore di armi militari, accompagnato dal suo legale » presentò, sfogliando un fascicolo.
« Chiedo che sia messo al verbale che mentre osservavo il Signor Hammer entrare in aula, mi sono domandato se e quando sarebbe stato chiamato a deporre un vero esperto di armi » aggiunse Tony, guardando in aria con fare annoiato.
Fece appena in tempo a concludere la frase che dalla parte opposta del tavolo, oltre a Justin, si accomodò anche il baccalà che pochi giorni addietro aveva messo occhi e mani addosso alla sua assistente. Con cui avrebbe scambiato quattro accese chiacchiere appena concluso quell’appuntamento per il thè.
« Senatore Stern, visto che lei è un esperto in materia di legge e giustizia, vorrei chiederle se è un reato mangiare nel piatto altrui » sibilò, assottigliando lo sguardo su Thomas che mantenne un’espressione apatica. Aprì la giacca e si accomodò accanto all’industriale, spostando poi lo sguardo per un fugace istante su di lei.
Virginia avvampò con la stessa facilità di un fiammifero e senza riflettere, assestò di nuovo un calcio alla sedia del proprio capo, che si staccò dal microfono per rivolgerle un’occhiata in tralice.
« Non so di che cosa stia parlando, Signor Stark. Perciò le chiedo cortesemente di smetterla – mormorò Stern, facendo quasi fischiare le parole tra i denti – Prego, Signor Hammer »
« La ringrazio, Senatore – Justin si alzò con in mano il microfono – Certo… Non sono esperto come te, Anthony » cominciò con tono astioso.
« Anche i professori del MIT la pensano così » rispose Tony, sorridendo e incrociando le braccia sul petto con atteggiamento strafottente.
Il pubblicò spettegolò per qualche secondo sotto lo sguardo perplesso e irritato del Senatore, che riportò ordine senza bisogno di impugnare il martelletto.
« Tuo padre, Howard Stark, era il vero esperto. Un padre per tutti noi e per l’era industriale militare – il genio, quello vero, alzò gli occhi al cielo – Ma lui non era un figlio dei fiori, sia ben chiaro e sappiamo anche perché siamo qui: nelle ultime settimane, o forse mesi, il Signor Stark ha inventato un’arma con incommensurabili possibilità. Eppure lui insiste che è solo uno scudo e pretende la fiducia più completa mentre noi ci accucciamo dietro. Vorrei che questo mi confortasse, Anthony, dico davvero. Vorrei non chiudere la porta a chiave quando esco da casa, ma non siamo in Canada. Noi viviamo in un mondo di gravi minacce, minacce che non sempre il Signor Stark sarà in grado di prevedere – concluse e Virginia sospirò a metà fra l’indignazione e l’ironia – Grazie. Dio benedica Ironman, Dio benedica l’America ».
Tornò a sedersi, posando il microfono sul tavolo mentre pochi fra gli spettatori batterono le mani in un fiacco – e quasi sprezzante – applauso.
« Ho apprezzato il suo intervento, Signor Hammer – ‘Io no’, pensò Tony – A questo punto la commissione invita il tenente colonnello, James Rhodes, ad entrare in aula ».
Telecamere e sguardi si volsero verso i grandi pannelli in legno, che si aprirono per permettere l’entrata a James. Virginia riconobbe la divisa ufficiale, con tanto di copricapo e medagliette onorarie appuntate sul petto. I flash accompagnarono tutti il suo tragitto fino alla sedia accanto a Tony, che però non lo degnò neanche di uno sguardo. La sua valvola di sfogo si trovava dall’altra parte dell’aula.
« Ho qui davanti a me un rapporto completo sull’arma Ironman redatto dal tenente colonnello Rhodes. Colonnello, potrebbe leggere a pagina 57 paragrafo 4, perché sia messo al verbale? » chiese Stern tutto d’un fiato. James, che nel frattempo si era appena seduto, arcuò un sopracciglio.
« Mi chiede di leggere precisi stralci del mio rapporto, Senatore? » rispose con vaga retorica.
Era chiaro che nulla di quel processo stesse andando come previsto.
« Sì, Colonnello » confermò infatti il senatore.
« Avevo capito che avrei testimoniato in modo più ampio e dettagliato »
« Mi rendo conto, ma sono cambiate molte cose questa mattina » disse, fissando Tony e inevitabilmente anche Virginia, che comprese che i cambiamenti a cui si stesse riferendo era proprio il loro ritardo.
James prese un profondo respiro e unì le mani, incrociando le dita.
« Lei capisce che leggere un paragrafo estratto dal contesto non riflette affatto »
« Mi creda, Colonnello. Io capisco »
« …il riassunto delle mie conclusioni » mormorò, man mano che le sillabe gli morivano in gola.
James fissò il Senatore, poi Tony di sottecchi prima di aprire il fascicolo alla pagina richiesta. Non aveva altra scelta. A parte strangolare l’amico, ma sospettò che per quello ci fosse già la fila.
« Visto che non opera all’interno di alcun definibile settore di governo, Ironman rappresenta una reale minaccia alla sicurezza e agli interessi di questa nazione – lesse a voce alta e chiara per poi rivolgersi a Stern – Però continuo, ciononostante concludendo che i benefici di Ironman superano »
« Ah-ah-ah »
« …di gran lunga gli svantaggi »
« Basta così, Colonnello »
« …e che sarebbe di nostro interesse »
« Valuterò la carica di segretario della difesa a seguito di garbata richiesta e modifica dell’orario di lavoro » replicò Tony, salvandolo prima che affogasse.
James lo guardò, indeciso se ringraziarlo o infilargli il rapporto in bocca per farlo tacere. Girò appena il capo e vide Virginia seduta fra due esponenti dell’esercito, tre volte più grossi di lei, posata e quasi a proprio agio. O forse si trattava di semplice abitudine.
Tony assestò una gomitata a James, che seguendo il suo sguardo, vide Justin e Thomas confabulare fra loro. Virginia fece lo stesso e cominciò a chiedersi se non fosse per quel motivo, che l’avvocato avesse smesso di scriverle due giorni prima. Dopo la cena al Providence avevano continuato a vedersi, più che altro per una corsa ad un caffè o un veloce pranzo. Il tempo di informarsi sulle reciproche incombenze.
« Signor Senatore. Vorrei proseguire nel mostrare, se è possibile, le immagini che sono associate al rapporto del Colonnello Rhodes » intervenne Thomas, poggiandosi con un braccio sul banco.
« Signor Senatore, con tutto il rispetto, ritengo alquanto prematuro rendere pubbliche le immagini in questo momento » rispose James, fissando alternativamente Stern e l’avvocato.
« Colonnello, le stiamo chiedendo solamente di illustrarcele… Gliene saremmo grati » aggiunse il senatore con aria grave e, mentre alcuni addetti impostavano gli schermi, James ne approfittò per bere un lungo sorso d’acqua dalla propria bottiglietta.
La ripose al suo posto e quando scorsero i primi frame, cominciò a parlare.
« L’Intelligence suggerisce che i congegni rilevati nelle foto siano di fatto esperimenti per realizzare copie azionate dall’uomo dell’armatura del Signor Stark – il suo sguardo guizzò alla ricerca della fonte di un bip metallico – Questo è stato avvalorato dai nostri alleati e dalle agenzie locali, le quali suppongono che le armature possano essere al momento e con grande probabilità operative » si fermò quando Tony si sporse sui fogli davanti a lui con in mano il proprio smarthphone.
Il pubblico, chiacchierando concitatamente, si portò più avanti per vedere meglio
Lo puntò verso i televisori, con la fronte aggrottata in segno di concentrazione.
« Aspetta, fammi un po’ vedere… C’è qualcosa… – sorrise vittorioso – Accidenti, sono bravo! ».
Sui led intanto apparve la scritta “BENVENUTO SIGNOR STARK” e Virginia balzò dritta quando capì, al contrario dei tecnici, cosa stesse accadendo. Quelli dichiararono la loro estraneità e Stern li fulminò.
« Ma che… » borbottò mentre anche il resto dei componenti della Corte iniziò a manifestare il loro disappunto.
« Mi servono per avere un po’ di trasparenza » gli rispose Tony, aggeggiando col proprio apparecchio tecnologico.
James si guardò intorno, muovendosi irrequieto sulla sedia riservatagli.
« Tony, non ancora » sussurrò, ma il miliardario aveva già deciso il finale per quel teatrino.
Virginia invece aveva già deciso come ucciderlo.
« Vediamo che succede veramente… – mormorò lui fra sé, cliccando su un’icona e lasciando che JARVIS facesse il resto – Vi chiedo di indirizzare la vostra attenzione verso gli schermi. Credo che quella sia la Corea del Nord »
« Si può spegnere, per favore? »
« …Iran »
« Spegnete quell’affare » ordinò il Senatore mentre i filmati presero a susseguirsi uno dopo l’altro.
Esplosioni, esperimenti e prove che secondo Tony valevano più delle lauree di Hammer.
Ma questo non lo disse e si limitò a continuare, incitato anche dal brusio sempre più caotico che riecheggiava alle proprie spalle.
« Nessuna seria » dichiarò, sfogliando i file alla ricerca di ciò che gli serviva per porre fine a quella farsa.
Doveva uscire da quella sala in tutti i modi. Qualcosa non stava funzionando e si sentiva sempre più debole.
« Qualcuno lo spenga! »
« …immediata minaccia. Quello è Justin Hammer?! »
« Avanti, faccia qualcosa! » sbraitò l’industriale e Thomas si affrettò ad alzarsi e raggiungere gli schermi.
Spinse con malagrazia uno dei tecnici e si chinò per ripristinare il server.
« Justin, sei in tv. Sta’ attento! » trillò Tony, seduto comodamente sulla propria sedia.
Thomas strinse i pugni e alla fine, staccò direttamente il cavo principale della corrente. I televisori si spensero mentre in aula, era ormai scoppiato un dibattito. La Corte Suprema, escluso Stern, cominciò a calcolare Hammer in modo diverso.
Tony intanto si crogiolò nel vedere a caratteri cubitali il fastidio sulla faccia del rivale, ancora di più su quella del suo avvocato.
« Wow. Sì, direi… Molti paesi sono cinque o dieci anni indietro – disse, portandosi una mano sul mento ispido – Le Hammer Industries venti »
« Vorrei sottolineare a nome del mio cliente che quel collaudatore è sopravvissuto » ribatté Thomas che, tornando a sedersi, si girò abbastanza per vedere Virginia.
« Abbiamo concluso. Non capisco dove voglia arrivare, Signor Stark »
« Voglio arrivare a dire ‘prego’ » rispose Tony, indicandolo con un palmo verso l’alto.
« Per cosa?! » sbottò Stern a dir poco stizzito.
« …immagino. Per essere il vostro migliore deterrente nucleare. Sta funzionando. Siamo al sicuro, l’America e il mondo sono al sicuro. Volete le mie attrezzature? Non potete averle! Io vi ho fatto un grande favore! – si alzò in piedi, battendo entrambe le mani sul tavolo – Ho privatizzato la pace globale con successo ».
Nel volgersi verso il pubblico in gesto di boriosa vittoria, al contrario di James, non vide la vena sulla tempia di Virginia pulsare in modo inquietante.
« Che cosa volete di più per adesso? – allargò le braccia per poi indicare con un pollice, la Corte alle sue spalle – Cerco di collaborare con questi pagliacci rintontiti »
« Lei è uno stronzo, Signor Stark » intervenne Stern, afferrando il microfono.
« Come? »
« Lei è uno stronzo – ripeté fra gli applausi del pubblico – La seduta è sospesa, lei è stato una delizia »
« Così mi fa arrossire » rispose Tony con un gesto frivolo della mano.
Batté una pacca sulla spalla di James, che scuoteva il capo rassegnato e, passando vicino a Virginia si riprese gli occhiali da sole, sfilandoglieli dalle dita graziose. Le sorrise, poi cominciò ad avanzare senza timore, stringendo mani e parlando direttamente agli obbiettivi.
« Io servirò questa grande nazione completamente e interamente a mio piacimento. Perché se c’è una cosa che ho dimostrato, è che si deve contare su di me per appagare me stesso » concluse per poi dileguarsi fuori dalla stanza, dove fotografi e giornalisti lo reclamavano ancora a gran voce.
Virginia gli corse dietro mentre James si affrettò a raccogliere le carte. Quando guardò l’altra parte del banco, Hammer e il suo sedicente avvocato si erano già volatilizzati.

Angolo Autrice: Spuuuumeggiante!
E' così che mi sento da un po' e così oggi, dopo aver studiato il simpatico Hegel, mi sono dedicata alla stesura di questo capitolo(?)... Sì, perchè in realtà questa parte non era prevista sulla  scaletta: ovviamente i miei neuroni hanno deciso autonomamente il contrario, perciò eccoci qui!
Lo so, sono stata pessima nella pubblicazione ma mi auguro che queste nuove 10 pagine word (due in più rispetto al solito u.u) siano state di vostro gradimento. Come avrete notato, Rhodey in questa long è un po' più partecipe; soprattutto con la nostra Pep, santa donna! xD
Nonostante questo capitolo sia piuttosto fiacco, era un punto per cui mi sono resa conto di dover passare. Da questo momento infatti, entriamo nel vivo della storia; quindi più introspezione e angst ma anche tanti pasticcini e caramelle (non so perchè sto scrivendo queste cose, non chiedetemelo...). Soprattutto tanti colpi di scena per cui al 90% mi odierete, ehehehe ;P

Un'ultima precisazione: il film che Tony e Pepper guardano sul divano è una pellicola del 1913, "L'amor mio non muore" di Mario Caserini, che ho avuto l'onore di vedere ad una mostra fotografica.

A questo punto, ringrazio tutti quelli giunti fin qua e un baciotto speciale ad 
_Atlas_ (anche se non rispondo, leggo con piacere le tue recensioni - e le tue storie! Brevi o meno che siano :* Spero di recuperare ^^) di cui non vedo l'ora di conoscere nuovamente l'opinione <3

Per adesso è tutto e al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. Communication interrupted ***


COMMUNICATION INTERRUPTED

“Keeping secrets safe, every move we make
Seems like no one’s letting go.
And it’s such a shame, ‘cause if you feel the same
how am I supposed to know?”
- Pretending, Glee Cast

“I can’t tell you what it really is,
I can only tell you what it feels like.
And right now it’s a steel knife
In my windpipe.
I cant’t breathe, but I still fight.”
- Love the way you lie, Eminem


Owen, che di lavoro faceva il ficcanaso fin dalla più tenera età, si chiese se non fosse il caso di indagare più a fondo insieme alla celeberrima segretaria di Stark. Punta di comando di un gremito gruppo di cronisti d’ogni sorta, avanzò verso le porte. Ma un uomo vestito di tutto punto, con un paio di occhiali da sole alla James Bond gli si parò dinanzi, precludendogli qualsiasi visuale sulla signorina, che frettolosamente si allontanava col proprio capo.
Virginia infatti era riuscita, grazie alla mole – non del tutto indifferente – di Happy, ad evitare la pioggia di domande ed accuse dei giornalisti, per lanciarsi all’inseguimento di Tony. Lasciando così al Colonnello l’ingrato compito di vedersela col Senatore Stern.
Come non mai, si sentì vicina a quell’uomo. Avere a che fare con Anthony Edward Stark era come se qualcuno si divertisse a togliere il tappeto sotto i piedi delle vittime prescelte.
« Mi dica che è uno scherzo… » ringhiò quando riuscì ad annullare il distacco, le braccia tese lungo i fianchi che si muovevano a ritmo alternato coi suoi passi.
« E’ uno scherzo » la assecondò il miliardario, accelerando lungo quello che gli appariva come un infinito corridoio alla ricerca della toilette.
Le fitte avevano avuto inizio nel bel mezzo del processo. Inizialmente aveva creduto che si trattassero di comuni dolori intercostali – magari causati da quel damerino in cravatta che aveva avuto l’idea imbecille di corteggiare la sua segretaria – ma ben presto si era reso conto che si trattava del palladio.
I livelli dovevano essersi innalzati. Ancora.
Quel mattino aveva impiegato tanto a prepararsi perché aveva trascorso quasi più di mezz’ora a fissare sullo specchio il reattore conficcato nel proprio petto, dopo aver scoperto che l’avvelenamento era progredito inspiegabilmente fino al trenta percento. E dire che non aveva neanche toccato l’armatura.
Virginia capì dalla sua faccia che ci fosse qualcosa di strano, anche se non si poteva dire diversamente per il miliardario. Strano era la parola d’ordine nella sua vita.
« Si può sapere che cos’ha? » chiese sempre più arrabbiata perché, mentre esigeva spiegazioni sul suo comportamento, Tony la stava ignorando e in più, si comportava come sotto effetto di stupefacenti.
Aveva faticato molto per trovare una linea difensiva su cui Rhodes avrebbe dovuto muoversi per aggirare gli ostacoli posti dal senato e nel giro di pochi minuti, lui era stato in grado di gettare tutto quanto alle ortiche.
« Molte faccende da sbrigare » dichiarò evasivo per poi svoltare a destra, sia per seguire l’indicazione sia nel tentativo di seminare la donna.
« Lei mi sta »
« Lei ha »
« …prendendo in giro?! » domandò lei con retorica, senza rallentare l’andatura.
Se lo avesse fatto, sarebbe sparito e aveva bisogno di parlargli. O avrebbe sul serio contattato un analista.
« …rabbia per qualcosa»
« L’avevo intimata di »
« Non mi chiede se sono arrabbiato? » sbottò Tony, fermandosi di colpo e girandosi completamente verso Virginia che, grazie alla propria abilità – acquisita con anni di corse affannate – riuscì a fare altrettanto senza finirgli addosso.
« …comportarsi… Co-come prego? » strillò sconcertata, più per la loro imprevista vicinanza che per il timbro con cui le si era rivolta. La punta delle sue décolleté sfiorava le scarpe lucide dell’uomo.
« Insomma l’ultima volta che mi ha sgridato, ha testualmente citato la sua lealtà nei miei confronti » le ricordò lui, agitando le braccia in modo frenetico così come stava tentando di trovare una scusa perlomeno plausibile per filarsela.
« E questo che diavolo c’entra?! » proruppe lei, facendo spallucce.
« Saprebbe spiegarmi perché in aula ci fosse lo stesso deficiente con cui è uscita pochi giorni fa? » disse, indicando la direzione da cui erano arrivati fin là.
Virginia non potè credere alle proprie orecchie.
« Il Signor Reed è un uomo rispettabile e non è affatto un deficiente – replicò, intrecciando le braccia sotto seno – A differenza di lei ».
Tony dischiuse le labbra, la fronte s’incrinò in un’espressione di pura offesa mentre lei non riusciva proprio a capire, né tollerare, una simile sceneggiata.
Non era minimamente a conoscenza di Thomas e della sua assunzione presso le Hammer Industries e anche se lo avesse saputo per tempo, perché scaldarsi tanto?!
Erano usciti a cena una volta sola e da qualche tempo neanche si stavano sentendo. Fu nel compiere quelle considerazioni, che si accorse di star trovando giustificazioni alla propria vita privata per il proprio capo.
« Adesso ha anche il coraggio di insultarmi? » chiese lui scioccato, rifacendole il verso.
« Non la sto insultando, la sto descrivendo » ribadì, assestandogli anche un bel sorrisetto sardonico e nel vederlo stringere i pugni ebbe una sorta di piacevole sensazione dominante. Era bello, una volta tanto, invertire i ruoli e far saltare i nervi del boss.
Tony, dopo un primo momento in cui il sangue parve ribollirgli nelle vene, si sentì fiacco e non solo fisicamente. Era tornato da quella grotta per lei, dopo averle fatto uno sgarbo – seppur involontariamente – stava cercando di rimediare e lei lo trattava come se non le importasse nulla.
« Da quando è arrivato quel pinguino, lei non è più la stessa! » la attaccò, sbiancandosi le nocche.
« Lei non è più lo stesso dall’Afghanistan! » rispose Virginia al limite della pazienza.
Nel corridoio regnò la quiete per quasi mezzo minuto, in cui entrambi si fissarono intensamente negli occhi. Si resero conto che c’era qualcosa in sospeso fra loro. Parole non dette, atti mancati.
Mentre l’eco delle loro parole si dissolveva, come se avesse girato in tondo, Tony si trovò ancora una volta allo stesso bivio: dirle tutto o cucirsi la bocca?
‘Battere in ritirata’, gli suggerì la vocina dietro la nuca.
« Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava in lui » mormorò per poi riprendere la marcia verso i bagni.
Aveva bisogno di stare da solo.
« Oh, ma dico si sente mentre dice assurdità?! » rispose Virginia, fermandosi di nuovo quando il miliardario tornò indietro, furioso come non le era mai capitato di vederlo.
Non era un uomo paziente, ma non era neanche facilmente irritabile. Suscettibile forse.
« Non sono assurdità. E’ che lei è troppo »
« Cosa?! » lo sfidò lei, arcuando pericolosamente un sopracciglio.
Tony vacillò, ma alla fine esplose e sfogò tutta la frustrazione che da tempo cercava di reprimere.
« …presa dai suoi modi garbati »
« E’ per caso un reato?! »
« …per capire che è solo un bugiardo doppiogiochista! » abbaiò, proteso verso di lei.
James arrestò la propria corsa e tornò indietro all’angolo in cui aveva visto la chioma inconfondibile di Pepper. La vide davanti al miliardario mentre litigavano pesantemente e valutò seriamente l’opportunità di abbandonarlo al suo incauto destino.
Fu nel sentirla pronunciare il suo nome per intero che si riscosse e li raggiunse, svelto.
« Gradirei che non lo vedesse più » aggiunse Tony, assumendo il ruolo di prima donna com’era solito fare quando finiva le argomentazioni a proprio favore.
James ebbe appena il tempo di avvicinarsi quando Virginia caricò la mano per assestare un gancio dritto dritto sul naso di Tony. Dio solo sapeva quanto adorasse la forma del proprio setto nasale e malgrado James credesse che un bel cazzotto da parte della donna potesse riassestargli il cervello, decise che era meglio tenerselo con qualche rotella fuori posto che con una patologica afflizione per il naso rotto.
Niente era più irritante di un Tony lamentoso.
Riuscì ad interporsi fra i due e ad intercettare il pugno dell’assistente prima che giungesse a segno, anche perché l’amico non sembrava volersi difendere.
« Calma, calma » disse a bassa voce quando si realizzò che la donna era molto più forzuta di quanto non si ci si potesse aspettare.
« Lo dico per il suo bene. Diglielo anche tu, Rhodey » fece Tony, accompagnando la richiesta con un veloce cenno del capo.
James, ex novo, si ritrovò incastrato tra i fuochi del più rischioso fronte degli USA. Osservò Virginia per accertarsi che non sarebbe balzata a tradimento, poi lanciò uno sguardo trasecolato all’amico, che aspettava un segno da parte sua.
« Lo faccia stare zitto, Colonnello – ordinò la donna – Altrimenti sul volo del ritorno, lo scaravento dal portellone ».
James non dubitò che avrebbe tenuto fede alla minaccia, o meglio alla promessa, e quando si allontanò – quasi potè vedere la scia infuocata che si lasciò dietro – si volse adagio verso Tony. Ma lui era già sparito, senza aggiungere un fiato.
 
Scivolò oltre le porte scorrevoli sotto lo sguardo impaurito e preoccupato di alcuni agenti. L’impermeabile svolazzò dietro di lui, diretto verso una stanza ben precisa.
Si trattava di una piccola anticamera in cui di solito sostavano agenti e funzionari per un caffè e un paio di chiacchiere. Praticamente il nascondiglio ideale. Si avvicinò alla macchinetta, piena di schifezze ipercaloriche e bevande gasate, che da decenni non dava il resto.
Dopo essersi assicurato di essere davvero solo, spinse con lo stivale il cestino di rete che l’affiancava e attese qualche secondo. La parte frontale del distributore si sollevò, svelando un passaggio segreto.
Nich imboccò il corridoio che si perdeva dentro la parete di cemento armato, facendo attenzione a non battere la testa. Un attimo prima che il passaggio si richiudesse alle proprie spalle, scese la rampa di scale che giungeva nelle viscere occulte dell’agenzia.
Contò i passi verso nord. Diciassette. Est, quattordici. Ovest, quaranta. Poi di nuovo per altre tre volte. Sicuro si fermò, rivolto verso nord e allungò una mano nel vuoto finché questa non toccò la superficie fredda di una placca metallica piantata nel muro. Il battente in ferro si sollevò, permettendogli di entrare in un salottino. A sinistra bussò contro lo stipite, catturando così l’interesse dell’ospite che occupava quel mini appartamento sotterraneo da ormai qualche anno.
« Ero venuto per parlarle, ma a quanto pare non ce n’è più bisogno » esordì, pacato quando adocchiò i telegiornalisti che riportavano scene e frammenti del processo svoltosi a Washington DC, pochi minuti prima. L’uomo, seduto sul bordo inferiore del letto, lo guardò per un breve istante prima di tornare a concentrarsi sui notiziari che si susseguivano sugli schermi.
« A che punto siamo? » chiese distaccato e diretto.
« I miei migliori ingegneri sono a lavoro, ma ci vorrà un po’ di tempo »
« Non ne abbiamo molto » ribatté con aria sconfitta e visibilmente tormentata.
Alla resa dei conti, era il solo in grado di poter dare allo SHIELD un valido aiuto che non prevedesse l’uso di metodi troppo vistosi.
« Per questo ho reclutato i migliori e ho fornito loro una scorta di caffè » gli garantì Nich, credendo alle proprie parole in primis.
L’uomo però non parve della stessa opinione e puntò il telecomando verso gli schermi, che si fissarono su un’unica ripresa.
« Temo che i loro sforzi e il caffè non basteranno, Direttore » mormorò, mettendosi in piedi.
« Se ha un’idea, la ascolto » rispose conciliante e l’uomo compì un paio di passi verso il trio di televisori.
« L’unica idea da prendere in considerazione è affidarsi a Tony »
« Non credo si fidi di noi, Signore » mormorò Nich, avvicinandosi quando il proprio interlocutore schiacciò un tasto e, su tutti gli schermi, si proiettò il frame che riprendeva una donna dai capelli ramati seduta tra il pubblico della conferenza, appena dietro l’ereditiere industriale.
« Forse lui no. Ma lei sì » disse l’uomo, indicandola.
 
Niente quel giorno stava andando per il verso giusto. A parte il risveglio, chiaramente.
L’avvelenamento aveva avuto un momentaneo picco del cinquanta percento e adesso era tornato al venti. Si chiese se non fosse stato uno scherzo da parte del suo sistema nervoso, che nel giro di pochi minuti era diventato la principale fonte d’intrattenimento per Hammer e quel maledetto avvocato in gonnella.
Rigirò il piccolo strumento fra le dita e desiderò potersi illudere che la propria tecnologia sanitaria si stesse sbagliando, perché non era così che aveva progettato in cui vivere i suoi giorni terminali.
« I miei calcoli non sono mai sbagliati » mormorò a sé stesso, prima di spegnere il misuratore chimico.
Scostando un lembo della giacca, lo infilò nella tasca interna nello stesso momento in cui James fece irruzione nel bagno, dopo averlo tallonato per tutto il complesso.
« Ma dico sei scemo per conto tuo o al MIT hai frequentato un corso? » domandò con la voce più alta di due ottave, sollevando entrambe le braccia.
Tony si arrotolò le maniche e aprendo il rubinetto, lasciò scorrere l’acqua fredda sui polsi. Così come lasciò scorrere le parole dell’amico. Non aveva voglia di arrabbiarsi con lui, benché lo trovasse divertente.
Si sciacquò le mani per poi immergervi la faccia per un lungo momento.
James osservò i suoi movimenti mentre chiudeva la porta dietro di sé.
« Tony? Ti senti bene? » chiese con fare sospettoso.
I loro sguardi s’incontrarono sul riflesso dello specchio. Fu a quel punto che Tony non fu più in grado di sostenere il peso della corazza, tanto che la propria voce non convinse neanche sé stesso.
« Come sempre » bofonchiò stremato.
James si accigliò, appoggiandosi con le spalle contro la porta cosicché nessuno potesse entrare e disturbarli. Con le mani infilate nelle tasche, attese che si asciugasse il viso con un paio di salviette di carta, che poi gettò nel cestino poco lontano.
Se la chiacchierata da Colonnello non aveva sortito alcun effetto, era il momento della strigliata da amico.
« Che hai intenzione di fare? » domandò genuinamente spaventato dal modo in cui sembrava non curarsi della situazione, che andava ad aggravarsi. Sentiva che si stava lasciando andare, ogni volta che lo guardava negli occhi vedeva la sua forza vitale venir meno.
« Andarmi a prendere un hot-dog » rispose Tony, sperando di liquidare la questione.
Si girò e si diresse verso l'amico che bloccava l’uscita, ma quando cercò di spostarlo, lo spinse piano per costringerlo ad indietreggiare ed ascoltarlo.
James era consapevole di ciò che il miliardario poteva aver vissuto in quella grotta e non poteva biasimarlo se faticava ad elaborare quanto accaduto.
« Mi riferisco alla tua vita, Tony » fece con tono grave.
« Che t’importa? » domandò lui sulla difensiva.
« Come sarebbe a dire che m’importa?! ».
Aveva trascorso tre mesi a setacciare ogni singola duna di sabbia, afghana e non, con la speranza che fosse sopravvissuto nel cuore. Nella testa, il timore che fosse già morto.
Malgrado i rischi di compromettere la propria carriera – mettendo in pericolo la propria vita – in azioni di salvataggio non autorizzate in zone calde come quella di Gulmira, non si era mai fermato. Aveva smosso metà esercito per trovarlo, incoraggiato dall’immagine di riportarlo a casa fra le braccia di Pepper – che, chissà, avrebbe mandato al diavolo le scuse circa la professionalità e si sarebbe fatta avanti – non in una  bara ornata da una corona di fiori.
Non era affatto intenzionato a mollare e perdere il suo migliore amico adesso.
« Se è per i filmati, mi è parso che avessi qualche difficoltà nel rispondere » rispose Tony con aria superiore.
« Guarda che se c’è qualcuno che stava avendo difficoltà, quello eri tu »
« Io?! » quasi strillò mentre James faceva appello a tutta la propria bontà per evitare di prenderlo a schiaffi.
« Senatore Stern, visto che lei è un esperto in materia di legge e giustizia, vorrei chiederle se è un reato mangiare nel piatto altrui » citò, cercando di simulare voce e viso dell’amico.
« Era una semplice domanda » specificò lui, arcuando le sopracciglia con atteggiamento pignolo.
« Deduco che il colore viola sulla tua faccia non voglia dire niente ».
Tony preso alla sprovvista, balbettò.
« Ma tu da che parte stai, uhm? »
« Dalla tua, imbecille! » ribatté James innervosito.
« Ah, bene! Oggi è la giornata mondiale di Insultiamo Tony Stark » trillò il miliardario, roteando gli occhi.
« Non pensi di essere un po’ complice in questa cosa? »
« E’ la mia vita e la gestisco come mi pare » replicò serio, indicandosi il petto con una mano per calcare le proprie parole.
« Insultando un senatore e comportandoti come un ragazzino bullizzato? – mosse una mano in aria, spingendosi in avanti – E’ qui che ti sbagli, amico. Non c’è solo la tua vita in ballo: c’è la mia, quella di Happy. E quella di Pepper » aggiunse e vide Tony cambiare completamente espressione.
Divenne rigido e il viso si trasformo una maschera letale, quasi quanto quella del suo alter ego.
« Lasciala fuori da questo discorso » lo ammonì, ma James non demorse.
Era deciso a prendere il toro per le corna e ribaltarlo a mani nude.
« No, Tony. Non puoi escluderla solo quando ti fa comodo » lo riprese e vedendo che si ostinava a non comprendere ciò che stava per buttare al vento, infilò una mano nella tasca dei pantaloni.
Estrasse il cellulare e lui lo scrutò confuso quando lo vide armeggiare col dispositivo.
« Che stai facendo? » domandò con malcelato sdegno.
« Una cosa che avevo promesso di non fare » rispose James di pari tono, sentendo il giudizio aleggiare quando si mise a cercare tra le registrazioni salvate nella memoria del telefono. Cartella Maggio 2008.
Un paio di squilli.
< Pronto? > < Pepper… >

< Colonnello? Ma che… > < Scusa se ti chiamo a quest’ora, ma devo dirti una cosa… >.
La voce di James era bassa e fin troppo pacata.
< Okay. C’è qualche problema? > < Ecco… Tony è… Scomparso >.
Silenzio.
< Come? >.
La voce di Virginia era quasi intangibile.
< Stavamo tornando alla Base dopo la presentazione del Jerico e ci hanno attaccati. >.

Ancora silenzio.
Tony fissò attonito il cellulare e i ricordi riemersero senza che dovesse sforzarsi. La pioggia di proiettili non gli aveva neanche dato il tempo di comprendere cosa stesse succedendo. Aveva visto quei tre soldati morire ed era rimasto solo, senza protezioni. Non ricordava di aver mai provato una tale impotenza.
< Non voglio mentirti, c’è un’alta probabilità che sia… >
< No > rispose Virginia. Stavolta con un timbro tenace.
< Pepper… > < Lui. Non è. > scandì, quasi glielo stesse ordinando.

Un lieve disturbo della linea o forse un singhiozzo.
< Stai bene? > < Riportalo a casa, Rhodey. Ti prego >.

Tony squadrò James mentre cambiava registrazione. Stavolta provò nella cartella Giugno 2008.
< Rhodey > un sospiro stanco, affranto quello dell’assistente.
< Pepper, purtroppo non ho molto tempo. Volevo sincerarmi che stessi bene >

< Ho fatto richiesta in due uffici ed entrambi hanno accettato di vedermi > annunciò, come fosse un peso.
< Com’è andata? >
< Sono rimasta a casa >.
Tony percepì il proprio muscolo cardiaco mancare un battito. Un brivido gli percorse la spina dorsale e diede le spalle all’amico per celarlo.
< Perché? >
< Tony non sopporta le scartoffie >.
Sorrise, ricordando la loro prima conversazione. Poi si grattò la nuca e gli sovvenne il giorno – forse uno fra i tre più belli di tutta la propria vita – in cui la rivide per la prima volta dopo la prigionia. L’enorme portellone ci aveva impiegato un secolo, secondo lui, ad abbassarsi e quasi come un faro, i suoi occhi azzurri come il cielo terso lo avevano condotto nel Vecchio Mondo, fatto di cheeseburger e stelle e strisce. I suoi occhi azzurri come il Pacifico, lo avevano condotto a casa.
< Pepper… > < Non posso, Rhodey. Lo sai che senza di me manderà in banca rotta le Industries >
< Hai dormito un po’ stanotte? > < C’è troppo silenzio > un fil di voce sottile, venato di paura.
< Ahm… Pepper, devo andare. Ti richiamo appena posso e per favore… Cerca di riposarti >.
James mise via il telefono mentre Tony fu costretto ad appoggiarsi al lavandino.
« Ho altre registrazioni – dichiarò – Le ho chiesto io di trovarsi un altro capo e lei ha scelto te, al novantanove percento un cadavere nel deserto. E sai perché? Perché credeva nel tuo ritorno così come ci credevo io… – disse sempre più infervorato – Davvero vuoi andartene così adesso? Questa è l’ultima provocazione del grande Tony Stark? ».
Tony si girò di scatto verso il Colonnello, domandandosi se per caso avesse sentito male.
Non poteva aver conosciuto Yinsen, era sostanzialmente impossibile.
James non seppe decrittare la sua espressione, ma sospettò che avesse quantomeno attaccato la spina per far funzionare la lampadina del miliardario.
« Riflettici » mormorò prima di andarsene col morale a terra.
*
Le sue dita picchiettavano alternativamente la superficie lignea del tavolino. Le sue iridi chiare erano salde sul cordless che l’Hotel Four Season metteva a disposizione dei clienti. All’arrivo era riuscita ad impedire che Tony prenotasse la Royal Suite, un appartamento di lusso quattro volte più grande del suo ad L.A. con un solo letto matrimoniale.
La sua stanza, fra le duecentoventidue disponibili, era una delle più modeste. Le pareti erano di un tenue color pistacchio che riprendevano la moquette floreale e le coperte di un sontuoso letto a due piazze, sormontato da un trittico di quadretti moderni; un paio di lampade sostavano su mobili di legno pregiato e una grande finestra si affacciava sul patio dell’edificio.
Fu con grande stupore che il telefono prese a squillare, distogliendola dallo stato di trance indotto dal Perpendum, che volteggiava su un mobile vicino alla poltrona imbottita, posta sotto la finestra.
Afferrò la cornetta e premette il tasto verde.
« Pronto? Virginia… » esordì Thomas.
« Ciao » rispose lei timidamente, riconoscendo subito la voce dell’uomo.
« Ehy. Tutto bene? » chiese e lei recepì la premura che di solito usava con lei.
« Ehm… » mormorò, passandosi una mano sul collo senza sapere da dove iniziare.
Si era preparata un discorso da fargli, ma si era dimenticata tutto.
« Scusa, se non ti ho avvertita » mormorò l’uomo, intuendo subito il motivo di tanto impaccio.
« No »
« E’ stata una cosa dell’ultimo minuto »
« Nessun problema » lo incalzò lei, alzandosi e cominciando a passeggiare per la stanza, facendo scivolare le dita sugli spigoli dei mobili con fare distratto.
« Spero che questo non si sia ripercosso sul tuo lavoro »
« No, affatto. E’ che… »
« Che? » la esortò Thomas, guardandosi intorno e, quando sollevò il capo, intravide la figura di Tony entrare nell’hotel insieme alla guardia del corpo.
« Stavo per chiamarti per dirti che… non credo che dovremmo rivederci – mormorò Virginia senza rifletterci troppo – O sentirci ».
Passò un attimo interminabile in cui si augurò che fosse caduta la linea, perché aveva finito le cartucce per le balle da raccontargli.
« Te lo ha chiesto Tony? »
« E’ una mia scelta » rispose quasi infastidita, fermandosi con un braccio attorno allo stomaco in subbuglio.
Era ovvio che non lo facesse solo perché Tony si era comportato come… Come un uomo delle caverne. Possessivo e geloso.
‘Virginia, non è il momento adatto per farsi prendere dalla follia’, la richiamò il raziocinio.
« Posso sapere perché? » domandò Thomas, riportandola alla conversazione.
« Lo sai » sospirò, carezzando la foglia di una piantina sistemata sopra il caminetto spento.
« Non sarebbe una buona immagine » concluse lui, premendo le labbra con aria dispiaciuta.
« Non voglio che Tony abbia più rogne di quante già ne abbia » specificò lei, tornando verso la finestra.
In dieci anni aveva compreso quanto la stampa potesse essere subdola nello scovare anche il dettaglio più innocente per trasformarlo nel peggior scandalo internazionale. Un esempio le era stato fornito dalla retata di Matt, quando le aveva consegnato quella misteriosa busta.
Non sarebbe stata una buona pubblicità per le Enterprises se qualche altro fotografo sottopagato li avesse beccati a cena insieme. Per non parlare della reazione che avrebbe potuto avere un certo miliardario…
« Okay »
« Mi dispiace » quando all’improvviso qualcuno bussò alla porta.
« No, capisco » rispose Thomas nello stesso istante in cui Virginia aprì il battente.
Si ritrovò in faccia un bouquet di gerbere e fiori di campo, da cui Tony fece capolino con la classica espressione da cucciolo che ha appena fatto la pipì in salotto.
« Posso? » bisbigliò, indicando con il mento la sua stanza.
Virginia lo soppesò, il telefono ancora attaccato all’orecchio.
« Davvero? » chiese, rivolta a Thomas, spostandosi per permettergli di entrare.
Anche se sapeva che se ne sarebbe pentita entro cinque minuti al massimo.
« Sì, certo »
« Grazie » rispose, riprendendo la telefonata.
Tony aggrottò la fronte, cercando di carpirne l’argomento e pur non riuscendo a sentire neanche la voce dell’interlocutore, si fece un’idea non del tutto vaga su chi dovesse essere.
« E poi… Come posso competere con uno come Stark? » rispose Thomas, facendo segno ad un taxista che, appena lo notò, accostò l’auto al marciapiede.
Virginia sentì la bocca del proprio stomaco serrarsi e girandosi vide il proprio capo gironzolare per la camera, osservando i quadri e il tavolino su cui aveva lasciato il mazzo di fiori profumati.
« Devo andare… » disse, raggiungendo il mobile sotto la vetrata e riagganciò.
Tony la osservò da sotto le ciglia e la indicò.
« Ha un minuto? – domandò, ma lei rimase una sfinge – Ha appena attaccato perciò è libera. Trenta secondi » aggiunse senza neanche respirare.
Uscito dai bagni del Senato, aveva poi preso sul serio il suggerimento del Colonnello e vagato per la città con Happy a fargli da ombra vigile. I discorsi di Rhodey gli erano rimbalzati negli angoli della mente come una palla matta che cerca di evadere. Frastornato, non era riuscito a dimenticare le registrazioni delle telefonate. La voce distrutta di Pepper, l’esitazione e il dolore che lo avevano ferito come un dardo dritto al petto.
< Lacrime di gioia. Odio cercare altri lavori >.
Prima di quel pomeriggio, non aveva dato peso a quella frase. Non ne aveva capito il significato finché James non glielo aveva illustrato.
Sulle prime, aveva pensato che si trattasse d’ironia, la solita che contraddistingueva le loro conversazioni.
Ora si sentiva il più grande idiota sulla faccia del Pianeta, guardandola come se fosse diversa.
Durante quella passeggiata, passando davanti ad un fioraio ambulante, il profumo delle gerbere lo aveva travolto e inevitabilmente aveva pensato a lei. Là, aveva deciso.
« Ventinove » cominciò a contare Virginia, sollevando il braccio sinistro, con voce fredda e professionale, che non le si addiceva affatto. Soprattutto con Tony che spostò il peso da una gamba all’altra.
« Va bene, i-io » balbettò quando i suoi occhi si posarono su una scultura dal design moderno, il cui continuo moto rotante non fece altro che farlo sentire sempre più con l’acqua alla gola.
« …ventotto »
« …mentre stavo venendo qui, ho pensato che il motivo fosse che volevo scusarmi. Ma non è- »
« Oh, quindi non è venuto per scusarsi? » mormorò lei, portando gli arti sotto il seno.
Tony tentò di non lasciarsi impressionare, anche se il sopracciglio inarcato della donna sembrò determinare la sua fine.
‘Dannazione, smettila di guardare il Perpenduum!’, gli ordinò il cervello.
« Certo! Poi ci arriviamo… Ma non sono stato del tutto onesto con lei e volevo cercare di rimediare… – ancora una volta lo sguardo si posò sulla scultura – Lo possiamo spostare? Mi da al cervello, è come una ruota panoramica! Io non riesco »
« No » sentenziò lei.
« …mi distrae – la afferrò per le spalle e la spostò cosicché l’oggetto, che continuava a distoglierlo dal discorso, non costituisse più un problema – Sa quanto è breve la vita? E se io non riuscissi mai ad esprimere… A proposito questa è… Mi pare, io la ritengo sintomatica… ».
Il piede di Virginia cominciò a picchiettare sul pavimento mentre Tony si pizzicava l’attaccatura del naso, rimpiangendo il gobbo.
«  Mi può… No, sarebbe bello… I-io non voglio che... Che… Io vorrei riuscire a dire, anzi io dico e basta »
« Posso fermarla qui? D’accordo » lo interruppe Virginia, assottigliando le palpebre.
« …mmh-mh »
« E se proverà dire io ancora un’altra volta, le lancerò un oggetto pesante dritto alla testa ».
Tony deglutì sonoramente e chinò la testa.
« Okay… » sussurrò, prendendosi mentalmente a schiaffi.
Procedendo con ordine – o almeno così se l’era studiato – le avrebbe detto della sua decisione nei confronti dell’azienda e magari, anche del palladio. Ma come gli capitava sempre più spesso, i pensieri gli si erano annodati, rendendolo totalmente incapace di comunicare.
Sapeva insultare le persone in centinaia di modi diversi, in ben tre lingue differenti, ma non riusciva a trovare il coraggio di dichiararsi alla propria assistente, a confessarle tutto quello che gli stava accadendo senza che potesse mettere in stand by gli eventi per poter trovare una soluzione e sistemarli con calma.
« …credo »
« Insomma, io- »
« Io sto cercando di »
« Sssì… » sospirò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e maledicendo i propri neuroni.
« …portare avanti la sua azienda. Lei ha una vaga idea di che cosa significhi? » domandò Virginia, partita per la tangente da almeno un paio di minuti.
« Sì »
« La gente confida non solo sulla sua immagine per le Enterprises, ma sul fatto lei sia Ironman. E io sono qui, da sola, attaccata dall’intero Senato a cercare di calmar- » si fermò quando, guardandolo, intese che qualcosa in particolare continuava a catturare la considerazione del miliardario.
Seguendo la direzione indicatale, si orientò e lo specchio, posto in un angolo della stanza, le restituì l’immagine del Perpenduum, ancora in funzione.
Tony si riscosse quando Virginia assunse un’espressione omicida, che avrebbe fatto impallidire Happy. E perfino il capo dei Dieci Anelli.
« Sto cercando. Di fare. Il lavoro che dovrebbe fare lei » scandì, sollevando un palmo.
« E’ questo il punto » intervenne lui.
« Il punto di cosa?! Lei è »
« Voglio farla amministratore delegato! »
« …il proprietar… »
« Perché me lo impedisce?! » domandò stizzito, scrollando le spalle.
« Amministratore delegato… » ripeté la donna, incapace di raccapezzarsi.
Tony la vide indietreggiare fino al bordo del letto, dove si sedette a tentoni.
« Ci ho riflettuto, che lei ci creda o meno – mormorò sotto lo sguardo attonito di Virginia, che lo seguì mentre indugiava verso la porta – Pensavo che ci fosse qualche assurdo intoppo legale, ma la verità è che posso fare quello che voglio e ho deciso di nominarla CEO ».
Virginia credette che sarebbe svenuta. Era stata assistente di Tony per un decennio ed era stato un impiego tutt’altro che facile: doveva riordinare i documenti, firmarli perché lui era troppo pigro per farlo, litigare con lui per riunioni a cui non si sarebbe presentato comunque, seguirlo da una festa all’altra per ricordargli il nome di chi stringeva la mano, reggergli occasionalmente la testa quando rimetteva i litri di alcol assunti a stomaco vuoto, riaccompagnarlo a casa quando non era nelle condizioni per guidare senza uccidere terzi o sé stesso. Ora le stava addirittura cedendo l’azienda, o forse era meglio dire che gliela stava regalando. Su un vassoio d’argento.
« Io resterei il proprietario, ma di fatto lei possiederebbe una parte di pacchetto azionario maggiore dell’intero consiglio e minore al mio. In questo modo lei non avrà più bisogno di spostarsi continuamente e… E non avrebbe bisogno dei miei autografi – disse Tony, voltandosi completamente con le mani giunte dietro la schiena – Io ho deciso, ma mi dia un feedback » aggiunse quando vide lo sguardo perso della propria neo ex assistente.
« I-io non so cosa… che… »
« Non deve dire né fare qualcosa. Beh, a parte – girò il pomello e aprì la porta per lasciare entrare un cameriere con un secchio di ghiaccio e due flûte – …brindare ».
Liquidò l’inserviente con un bigliettone da cento e una volta soli, afferrò il collo del Dom Perignon e si sedette al suo fianco. Facendo un po’ di forza, lo stappò con uno schiocco.
« Signor Stark… » esordì Virginia, prendendo un profondo respiro per tornare lucida.
« Ah-ah! Nuova clausola di contratto: lei sarà obbligata a chiamarmi Tony » la interruppe lui, spostando la bottiglia sopra il secchio per evitare che la schiuma arrivasse sul pavimento.
« I-io non credo di essere »
« …qualificata? – domandò senza neanche lasciarla terminare – Tenga a mente quello che le dissi in laboratorio » disse, guardandola di sottecchi mentre riempiva i calici.
Posò lo champagne e ne porse un bicchiere alla donna, che ancora sconvolta, alternò lo sguardo fra esso e i suoi occhi. La incitò silenziosamente con un cenno del capo e la udì ridacchiare nervosamente. Annuì e fece tintinnare i calici, poi bevvero un sorso.
Virginia lo osservò con la coda dell’occhio, passandosi una mano sulla fronte sotto la frangetta.
« Signor Star-Tony… Posso dirle una cosa? »
« Spari » rispose lui, restando con lo sguardo perso nel bicchiere, apparentemente tranquillo.
« Riguarda la discussione di prima… » mormorò, scrutandolo da sotto le ciglia e tracciando con un dito il bordo del calice, da cui ancora lo champagne sprigionava bollicine.
Tony girò il capo e la guardò negli occhi, che mai prima di allora gli avevano concesso lo spettacolo di decine di sfaccettature d’azzurro. Una più entusiasmante dell’altra.
Notando tanta concentrazione su di sé, Virginia distolse lo sguardo per posare la flûte sul carrellino.
« Premetto che non so niente di guerra e non oso immaginare quello che ha passato laggiù… Lo so che per lei è ancora troppo presto e non ho intenzione di forzarla. Ma giunti a questo punto, devo sapere se c’è altro che la turba » disse tutto d’un fiato, lasciando andare in parte il grosso peso che gravava sul proprio torace da un po’.
Tony invece avvertì quello stesso peso farsi più opprimente. Provò a concepire le varie possibilità che avrebbero seguito la sua rivelazione circa l’avvelenamento: si sarebbe arrabbiata, lo avrebbe accusato di incoscienza e magari lo avrebbe compatito. No, forse no.
« No, non c’è altro » spirò, cercando di essere più persuasivo possibile.
Avrebbe cambiato atteggiamento, si sarebbe trasformata in un’altra donna, spaventata e più indulgente.
Aveva bisogno di lei, di Pepper. Quella delle paternali interminabili, quella del caffè puntuale con una zolletta di zucchero e quella dall’espressione rassegnata al suo caratteraccio.
Virginia, a dispetto del proprio radar femminile che sembrava suonare come un allarme antincendio, si lasciò convincere.
« Voglio che sappia però, che se avesse bisogno… – si azzardò a carezzargli una spalla – Io sarò pronta ad ascoltarla ».
Tony non smise di guardarla e posò una mano sulla sua per ringraziarla di quel tacito conforto, sperando che le bastasse. Abbozzò un sorriso mesto, che la donna ricambiò con più affetto.
« Lo sa: non ho nessuno se non lei, Tony – fece spallucce – Non mi va che qualche suo amico terrorista decida di portarla in un resort sottoterra per il mio prossimo compleanno » scherzò per smorzare la cupa atmosfera creatasi.
Il miliardario si sporse e afferrando l’opportunità, si inclinò verso di lei per schioccarle un bacio sulla guancia. Lei fece di tutto pur di controllarsi, ma alla fine arrossì.
*
Phil si chiese per la milionesima volta in cinque minuti perché toccasse sempre a lui dare le notizie agli altri Agenti. Soprattutto quelle non propriamente belle. Come quella che stava provando ad affidare ad una delle migliori spie dell’agenzia e probabilmente dell’intero globo, Natasha Romanoff.
Conosciuta al resto del mondo – in particolare quello criminale – come Vedova Nera, mai prima di allora c’era stato un membro del KGB tanto temuto. L’aria da femme fatale non era niente alla dote che la rendeva così mortale.
Phil – quasi costretto – si fece forza e si disse che perlomeno sarebbe morto da eroe. Ma se fosse sopravvissuto, avrebbe preteso un avanzamento di livello e un proprio ufficio. Deglutì sonoramente e senza perdere di vista gli smeraldi che lo stavano fissando, comunicò l’informazione.
« CHE COSA?! » sbraitò la donna, che in tutti gli anni di carriera non si sarebbe mai aspettata di sentirsi dare un simile ordine. Era inaccettabile e quasi offensivo per lei, che aveva una certa reputazione da difendere.
« Nat, aspetta… »
« Perché dovrei fare una cosa del genere?! » domandò con stizza quando la porta della stanza improvvisamente si aprì e sulla soglia, comparve la figura di Fury.
« Perché ci serve Stark » rispose semplicemente, andandosi a sedere su una poltrona poco distante.
La spia alternò lo sguardo fra il Direttore e l’Agente Coulson.
« Posso sapere perché sono stata reclutata? » domandò più posata, ma senza riuscire a nascondere l’ira.
« Vedi… Il Signor Stark ha un debole – sospirò – …per le belle donne »
« Non posso semplicemente stenderlo e portarlo qui? » propose la siberiana.
In fondo, senza armatura, era pur sempre un uomo. Il che non costituiva una minaccia per lei.
« No » rispose Coulson, che aveva già intuito i suoi pensieri.
« Allora stenderlo e guardare nei cassetti » continuò pragmatica, fermamente decisa a sostenere l’arringa.
« Non è così semplice. Villa Stark è come un bunker nazista » iniziò Phil.
« Nessun problema »
« …con una tecnologia così all’avanguardia che neanche gli hacker che ho ingaggiato sono riusciti a penetrare » intervenne Fury con tono grave e anche un po’ scocciato.
« In quanti ci hanno provato? » disse, arcuando un sopracciglio con aria di malcelato scetticismo.
« Cinquanta ».
Natasha vide sfumare lentamente i propri piani.
« Ma una volta dentro potrei staccare la spina – disse, sollevando una mano per poi accorgersi dalle espressioni di entrambi gli uomini che ci fosse un dettaglio importante da renderle noto – Che c’è? »
« C’è un’ultima difesa che non puoi oltrepassare » la ammonì il Direttore, che fece cenno al proprio braccio destro. Phil annuì e girandosi verso la scrivania, attivò il proiettore. Nell’aria prese a fluttuare l’immagine di una donna dai capelli ramati.
« Chi è? » domandò lei, scrutandola dall’alto in basso per poi constatare che non aveva affatto l’aria del nemico.
« La segretaria di Stark, Virginia Potts »
« Non è un problema » rispose infatti e Phil le rivolse un’occhiata che confermò tutt’altro.
« E’ una civile ed è l’unico appoggio dello SHIELD » specificò, pensando anche ai risvolti di un eventuale imprevisto. Se Nat avesse torto anche solo la punta di un capello a Pepper, non erano certi di come Tony avrebbe reagito. Volevano, ma soprattutto dovevano, evitare che indossasse l’armatura.
« Se è davvero un appoggio perché avete bisogno di me? » chiese allora la donna, spazientita da quel colloquio.
« Lavora per Stark da dieci anni ed è l’unica donna che in casa sua è entrata… e non è più uscita – Phil sorrise mentalmente quando vide di averla quantomeno stupita – Né in lacrime, né svestita ».
La spia valutò, attraverso la foto di quella donna apparentemente tranquilla, la missione che comportava un’identità scomoda da tenere in incognito e un sacco di problemi più o meno annessi.
« Che devo fare? » sbuffò infine per il sommo sollievo di Fury.
« Devi conquistare la loro fiducia. Staccare la spina, guardare nei cassetti »
« …e riattaccare la spina » concluse lei.
« Non deve trapelare nulla. Una volta che hai gli scheletri, vieni qui a seppellirli » sentenziò Fury prima di alzarsi e sparire.
 
Fuori dal principesco albergo, il cielo era diventato buio come la pece e a rischiarare la città di Washington DC, era solo una sottile falce di luna. Virginia inspirò ed espirò profondamente dopo essersi seduta a gambe incrociate al centro del letto. Dopo un’abbondante cenetta consumata da sola davanti alla tv, adesso poteva godersi del meritato relax.
Anche perché, tornata a Malibu, non sapeva quando e se avrebbe potuto permettersi un simile sfizio.
Avvicinò a sé il tablet e dopo aver riordinato un paio di cose per conto delle Enterprises, avviò la videochiamata che sentiva di dover fare se non altro una volta a settimana. Giusto per ripetere a sua madre, Emma Potts, che mangiava con regolarità e che godeva di ottima salute.
« Mamma? » mormorò quando si aprì la webcam.
« Ginny? » chiese sua madre, la voce un po’ disturbata dall’altro capo.
« Mamma, mi senti? » domandò nel momento in cui sullo schermo, le apparve il volto familiare ma un po’ sfuocato sua madre. La migliore del mondo.
« Sì, cara. E ti vedo anche, sei bellissima – sorrise di rimando – Devo ancora farci l’abitudine con questo trabiccolo, tuo cugino Harry sta cercando di insegnarmi. Tu mi vedi e mi senti? »
« Sì. Come stai? » disse, appoggiando le spalle contro l’imbottitura della testata mentre la visuale sullo schermo si assestò e l’audio si mantenne nitido.
« Al solito. E tu? Ho visto la conferenza ».
‘E quello non è niente’, bisbigliò fra sé.
« Sto bene » mentì.
« Non finirai in carcere, vero? » la interrogò, sporgendosi allarmata verso il pc.
« No, mamma » sbuffò divertita.
Sua madre tendeva sempre ad esagerare i fatti e a condirli con dosi massicce di melodrammaticità.
« Sicura? Quello Stern non era propr- Ow, tesoro! Indovina chi si sposa? Tua cugina Caroline » trillò pimpante, senza neanche lasciarle comprendere il significato delle parole.
Soprattutto se si contava il fatto che non stava proprio bene. Si sentiva rintronata dall’intera giornata e sentiva che un massaggio – se non un intero soggiorno alle terme – l’avrebbe riassestata.
« Ma credevo che lei e Jimmy si fossero lasciati due settimane fa »
« Che vuoi che ti dica? Litigano da mattina a sera, ma evidentemente ci provano gusto » rispose con una scrollata di spalle e quella frase rimembrò a Virginia le interminabili strapazzate che faceva a Tony.
« Quando? » chiese, le mani abbandonate in grembo.
« A giugno. Pensi di partecipare? »
« Dovrò chied… Sì, certo » mormorò, assottigliando le palpebre.
Adesso non aveva più bisogno di chiedere il permesso al boss, perché era lei a ricoprire quel ruolo.
« Non vedo l’ora di conoscere quel giovanotto… Com’è che si chiama? Tyler? » rispose sua madre e il sorriso affiorato sulla bocca di Virginia sparì.
« Thomas non verrà » dichiarò monocorde.
Emma parve riprendersi e si fece seria.
« Che è successo? »
« Forse non era il momento giusto » liquidò un po’ rammaricata, seguendo il motivo stampato sulle coperte. Aveva tentato di trovare qualcuno che la degnasse di attenzioni, che la facesse sentire al sicuro e quando sembrava esserci riuscita, aveva compreso quanto tutto fosse stato inutile. Non era bastato a sopire quell’indefinita emozione che si ravvivava e ondeggiava, come una piccola candela – ancora troppo fragile per trasformarsi in fiamma – ogni qualvolta che Tony si trovava nelle vicinanze.
« Sei sicura di stare bene? Sembri un po’ sciupata » intuì sua madre con un'espressione misto fra l’ansia tipica di un genitore e la mitezza di una migliore amica.
« Sì, oggi è stata un po’ più dura del solito » ammise lei.
« Ecco, lo sapevo. Stai lavorando troppo. Non credi che quell’uomo ti debba delle ferie, Ginny? » domandò.
« L’ho già avute. E poi lo sai che non mi piace starmene senza far nulla » ribatté Virginia, sollevando lo sguardo su quello di sua madre che appoggiò le mani sul tavolo della cucina, che lei ricollegò ai ricordi d’infanzia.
« Potrebbe fare a meno di te per un paio di giorni, cosa mai potrebbe combinare? » chiese ancora Emma, mostrando le palme verso l’alto.
« Di tutto, mamma. Credimi » bofonchiò la figlia, arcuando entrambe le sopracciglia quando ripensò al processo.
Emma, che la conosceva bene, non necessitava di un’autorizzazione a sospettare che sua figlia – testarda com’era – si fosse infilata in qualche ingombrante situazione col Signor Stark. Non era abbastanza vecchia per essere definita saggia, ma aveva una certa esperienza e sapeva che, da diverso tempo, Virginia andasse volentieri a lavoro per un’unica ragione. Quando si era rifugiata da lei per un paio di giorni, dopo il rapimento di Tony, quasi non l’aveva riconosciuta. E per quanto potesse apparire normale in seguito a un decennio d’impiego, non si poteva rifiorire con una singola chiamata di salvataggio.
« Ginny? A me puoi dirlo, sono tua madre » aggiunse bonaria.
Virginia deglutì. Cosa doveva dirle, che non riusciva più a tener testa alla professionalità perché non ci riusciva neanche con Tony? Che aveva “mollato” Thomas perché – neanche travestendosi – sarebbe stato uguale a Tony, che aveva paura di lasciarsi andare a dispetto del rapporto poco usuale instauratosi fra loro?
« Mi ha promossa. Sono amministratrice delegata » sputò, calciando via la coscienza e osservò lo stupore dipingersi sul viso di Emma.
« Sul serio? Ma è fantastico, bambina mia! Non sei contenta? »
« Ma sì, certo » bisbigliò, stirando un sorriso.

Angolo Autrice: Salve bella gente!! Eccomi, finalmente ce l'ho fatta. Ma solo per poco, perchè da questo momento inizierà un periodo scolastico molto intenso per me. Già ora, dovrei essere a studiare... *ops*
Comunque sia, cercherò di aggiornare nuovamente... A breve, mi auguro ;)
Come avrete notato, le cose cominciano a farsi serie in particolare fra i nostri due piccioncini... *-*
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento; anche se io, personalmente, non ne sono molto soddisfatta (per non parlare del titolo...) e a tal proposito spero di leggere qualche vostra opinione.
Per questo motivo, ci tengo a ringraziare 
_Atlas_ e _Lightning_ : anche se non rispondo leggo sempre con immenso piacere le vostre recensioni, perciò GRAZIE DI <3, a voi e a tutti coloro che passano di qua :*
Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always.

Ps: fatemi presente eventuali errori di battitura (tendo a scrivere veloce e spesso non ho il tempo di revisionare) o dubbi circa un particolare della storia, se ne avete :)

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. Challenge and Garbage ***


CHALLENGE AND GARBAGE

 

“You never know what you want
and you never say what you mean.
But I start to go insane,
every time that you look at me.”
- Here we go again, Demi Lovato


“She’s got style that woman,
makes me smile that woman.
She’s got spunk that woman,
funk that woman.
She’s got speed my lady,
got what I need my babe.”
- She’s got the Balls, AC/DC
 

Il sole stava ormai per giungere al tramonto. Non mancava ormai molto e il cielo aveva cominciato a tingersi d’arancio in lontananza, oltre le colline californiane. I tiepidi raggi invernali invadevano anche l’aula Magna dove Tony stava intrattenendo un gruppo accaldato di giornalisti.
Il motivo di tanto entusiasmo era la conferenza adunata in tutta fretta e, soprattutto, a seguito del controverso processo, svoltosi a Washington due settimane addietro.
Il tutto aveva dato vita a un moto generalizzato di curiosità, più che altro per la discrezione con cui il miliardario aveva deciso di fare “Il grande passo”, come l’aveva definito lui.
Virginia – che aveva parlato invece de “La grande cavolata”, per essere meno volgari – non era stata informata della decisione di rendere pubblica la sua promozione. Doveva ancora abituarsi all’idea di essere a capo di un’azienda multinazionale, dopo anni di servizio come semplice assistente. Inoltre non era stato semplice sedersi direttamente al tavolo del Consiglio, composto da un quartetto di uomini che, malgrado sapessero svolgere il loro lavoro, erano dotati di una mentalità a dir poco retrograda. Aveva sempre partecipato alle riunioni – anche perché Tony non vi aveva mai preso parte, neanche col pensiero – ma un conto era farlo da comune impiegata. Un altro era farlo come nuovo boss. E ora ribolliva, disorientata dall’intera situazione, in un angolo della predella appena dietro il proprietario della stessa società.
« Sarò breve e conciso: dopo una lunga riflessione, sono arrivato alla soluzione finale che consentirà alle Enterprises di proseguire su un percorso finora mai intrapreso. Il mondo cambia e io non ho intenzione di restare indietro – sollevò il mento per poi scostarsi e indicarla con un gesto del braccio – Con immenso piacere, nomino la Signorina Virginia Potts come nuova amministratrice delegata. Ad effetto immediato ».
Volse il capo e la osservò nel suo composto completo. Glielo aveva scelto personalmente quando era andata nel panico subito dopo averle comunicato la propria scelta. La giacca nera le cadeva a pennello sulle spalle e copriva solo in parte il tubino bianco, stretto sotto seno da una cintura antracite, che non aiutava affatto la propria fervida immaginazione. Si ergeva su un paio di tacchi non troppo alti abbinati, che la slanciavano ulteriormente.
Si fece da parte per cederle il posto e Virginia avanzò di un paio di passi nervosi, cercando di ignorare non solo i centinaia di occhi che aveva addosso, ma anche la loro sgradevole percezione.
« Salve a tutti – esordì educatamente, cercando di costruire un discorso quantomeno adatto – Comincerò col ringraziare lei, Signor Stark, per questa promozione e per la sua profonda fiducia. Per ricambiare, m’impegnerò a condurre le Starks al meglio delle mie capacità » aggiunse per poi distogliere immediatamente lo sguardo dal sorrisetto di Tony.
Un secondo di più e glielo avrebbe cancellato con un cazzotto. E stavolta non ci sarebbe stato alcun Colonnello dell’Aereonautica a difenderlo.
Dopo una breve introduzione, venne assalita dalle domande e dai flash, che quasi la portarono alla cecità. Sollevò l’indice, in attesa che tutti tornassero ad usare un tono civile e soprattutto che parlassero uno per volta. Incuriositi, la fissarono con perplessità per poi giungere alla comprensione di ciò che stava richiedendo loro.
‘Neanche fossimo all’asilo…’, pensò Virginia prima di dare la voce ad un allampanato in seconda fila.
« Signorina Potts, ha già in mente un nuovo piano marketing? »
« A tal proposito, ci tengo a sottolineare che il Signor Stark sarà sempre coinvolto nell’attività aziendale. Pertanto mi limiterò solo ad eseguire le sue direttive » rispose subito con efficienza mentre Tony, a cui ovviamente non era sfuggita l’implicita promessa che lo avrebbe fatto sgobbare comunque – in un modo o nell’altro – lanciava un’occhiata alle proprie spalle per vedere dove fosse Happy.
« Signorina Potts, sappiamo che alcuni pezzi della collezione privata del Signor Stark sono stati ceduti ai Boyscouts d’America. Potremmo sapere a quale altra organizzazione andrà il ricavato dell’asta e se ci saranno altre aste? » chiese un tipo del Chronicle e Virginia si sentì perfino di abbozzare un sorriso.
« Parte del guadagno verrà devoluto ad un’associazione di medici che lavora nelle zone più povere dell’India e del Medio Oriente. L’altra parte invece, servirà a supportare… »
Venne bruscamente interrotta da una voce fastidiosa, l’aveva già udita. Sicuro. Era melliflua, a tratti dal sapore cinico. L’aspetto che catturò la sua personale attenzione fu il fatto che somigliava alla spazzatura che di solito doveva bidonare al mattino seguente a veri e propri veglioni anarchici organizzati dal proprio boss, conditi con fiumi di alcol e ragazze espansive.
« Mi perdoni, Signorina Potts, lei era presente a Washington DC nel processo che ha coinvolto il Signor Stark e la sua nuova identità pubblica »
« Esatto » rispose quando i propri zaffiri intercettarono una bionda fin troppo conosciuta.
Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui si era permessa di vagare nella Villa, curiosando in zone a lei precluse. Specialmente con quella camicia bordeaux. Fortunatamente JARVIS era intervenuto al suo posto…
« Come intende reagire nei confronti delle prove che sono state fornite contro Justin Hammer? » domandò Christine, seduta con le gambe accavallate.
Tony, dopo essersi annoiato a sufficienza, tornò al presente ed osservò il modo in cui Virginia e la Signorina Brown si stessero sfidando. La tensione gli contorse lo stomaco nel vedere, e sentire a fior di pelle, qualcosa di molto simile, gravitare attorno alla figura della propria ex-assistente.
Seppe chi sarebbe stata la vincitrice quando vide un sopracciglio di Virginia, arcuarsi verso l’alto in un’espressione che lui conosceva molto bene.
« Non intendo sprecare le mie energie, né tantomeno quelle delle Enterprises, correndo dietro ad un industriale come il Signor Hammer, che non riesce neanche a gestire le sue operazioni sottobanco. Ironman è un brevetto Stark ufficializzato in tutte le sue forme e appartiene al Signor Stark, così come la dignità delle sue creazioni »
« Signorina… »
« …Everheart, giusto? Potrebbe farmi la cortesia di rimandare a dopo i suoi pettegolezzi? » ribatté, inclinando leggermente la testa di lato.
Tony deglutì inutilmente prima che un pensiero sciocco, quanto inopportuno, s’insinuasse nella propria testa. Si trattava di un tarlo che aveva già infestato i suoi pensieri, ma che aveva sempre sterminato prima ancora che potesse mettere vere radici. Soprattutto per la sua improbabilità.
« Ma… ».
Virginia la fulminò e Tony vide i suoi capelli diventare ancor più rossi. Il precedente presentimento divenne conferma: la faccenda era molto più ufficiosa di quanto i presenti potessero notare. Da sempre, Vanity Fair aveva fatto allusioni più o meno sfacciate sulle mere mansioni dell’assistente del plurimiliardario di Malibu. E alcune di esse si erano spinte ben al di là della semplice speculazione a scopo di lucro.
« Dicevo… – seguì un lungo istante di silenzio in cui Christine, secondo lui, ebbe la brillante idea di non contestare – Il resto del guadagno derivato dalle aste andrà ad un’università di studi di malattie genetiche dell’Oregon ».
 
Si portò le mani fra i capelli bianchi, schizzando in piedi come punto da uno spillo.
« Non ci posso credere! Dev’essere impazzito! Non ho niente contro le donne, sia ben chiaro, ma… – cercò di riprendere fiato, sotto lo sguardo un po’ stralunato di Phil – Come può affidare l’azienda alla sua… Segretaria!? »
« Tony ha molta fiducia in lei » rispose con una buona dose di sicurezza che però vacillò, quando l’uomo si volse a guardarlo con occhi spiritati.
« Io no! – sbraitò e nel mentre, Phil gli mostrò una cartelletta – Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere una spia industriale o un’arrampicatrice sociale! Che cos’è? »
« Il rapporto completo sulla Signorina Potts » mormorò l’agente.
Lo sguardo del proprio interlocutore tentennò fra lui e la cartella, che poi gli strappò di mano. La aprì e cominciò a scorrerne il contenuto.
« Nata il 29 maggio del ’72… Laurea con lode, poche ma discrete referenze… » bofonchiò, facendo tremare i folti baffi.
« Niente di strano, dunque… » si arrischiò Phil, arcuando un sopracciglio.
Ancora una volta, Fury gli aveva lasciato il lavoro sporco da compiere.
« Questo non significa niente » ringhiò l’uomo, chiudendo di scatto la cartella prima di restituirgliela con un gesto imperioso.
« Vuole un’opinione personale? Con quello che sta affrontando Tony, ci serve qualcuno che prenda le redini delle Enterprises – sollevò il plico – E la Signorina Potts potrebbe essere l’alleato che ci occorre ».
 
Le portiere si chiusero con un tonfo dopo la loro breve fuga dalla folla e quando la Rolls Royce rombò diretta verso casa, Virginia inspirò profondamente. Si assicurò che la propria voce risultasse controllata e priva di stizza quando parlò.
« L’ha invitata lei? » esordì, fissando il poggiatesta del sedile anteriore.
« Chi? » rispose Tony, imitandola.
« Christine Everheart »
« No, ma ammetto che mi sono divertito a vederla perdere le staffe » disse, cercando di non pensare a quanto gli fosse apparsa sexy mentre ringhiava contro la giornalista.
« Su questo non avevo dubbi, ma non ho perso le staffe » specificò lei, schiarendosi la gola quando si accorse che dal proprio tono si potesse dire tutt’altro.
« Però la sua presenza l’ha infastidita » la incalzò lui, frenando il sorriso che premeva di storcere il pizzetto.
« Cosa cerca di farmi dire, Signor Stark? » chiese Virginia e le sembrò di vedere l’ombra di un ghigno sulla faccia di Happy, che rimosse lo sguardo dallo specchietto, su di lei, per porlo nuovamente dove doveva stare. Cioè sulla strada. Ci mancava solo la congiura ai danni del proprio sistema nervoso…
« E’ stata brava, per questo le concederò l’onore di organizzare la EXPO » mormorò Tony, accomodante – dato che per quel giorno l’aveva torturata abbastanza – facendo schioccare la lingua contro il palato.
La donna si volse di scatto, facendo ondeggiare la coda ramata.
« Cosa?! Credevo che la nostra discussione »
« Ha creduto male »
« …a riguardo fosse già stata archiviata – rispose, a braccia conserte – E’ la dimostrazione che il suo ego è impazzito »
« Può darsi, ma sarà un evento che ci farà guadagnare »
« Conoscendola i guadagni non risarciranno le sue casse » commentò con un pizzico di acidità che non seppe trattenere.
« Sono sicuro che troverà un modo per risparmiare » disse, posando gli occhi su di lei.
Virginia resse la sua espressione per circa un quarto di secondo poi, proprio come durante l’assemblea, smise di considerarlo. Resistere e tenere duro di fronte all’espressione cucciolosa di Tony assumeva sempre più il carattere di una missione militare. Le tecniche di persuasione del miliardario si stavano facendo gradualmente più efficaci, addirittura aggressive. O forse era lei che stava cedendo…
Fu allora che ripensò alla videochiamata con sua madre. La polvere sotto il tappeto si stava accumulando da ormai troppo tempo.
« L’offerta per aiutarla a rilassarsi è sempre valida » la riscosse Tony quando furono davanti all’ingresso dell’enorme abitazione. Superata la scansione retinica da parte dell’AI, allungò un braccio per appoggiare la borsa sul mobile, ma la mossa si bloccò a metà quando vide una figura familiare in piedi in mezzo al salotto.
« Salve Pepper – mormorò Phil, con le mani giunte davanti al grembo – Congratulazioni »
« Grazie. Posso fare qualcosa? » chiese lei, confusa e vagamente inquieta dalla sua presenza.
« Vorrei solo fare quattro chiacchiere col Signor Stark » rispose, accompagnando l’urgente richiesta con un po’ della sua naturale gentilezza.
Virginia intuì che fosse di troppo, annuì e si allontanò verso la propria stanza.
Tony la osservò sparire dietro il battente con la coda dell’occhio, poi si girò verso Phil che poneva via la maschera del poliziotto cattivo.
« Ti spiacerebbe ricordarmi quando ti ho dato le chiavi di emergenza, Agente? » disse, incrociando entrambe le braccia sul petto.
« Vengo in pace, Signor Stark » mormorò l’altro, tentando un’approccio più ironico e meno inquisitorio.
Lo valutò e si chiese se potesse essere più pericoloso di quanto non sembrasse o di quanto dicessero i rapporti, che ancora presentavano profonde lacune.
« Malgrado la sua reticenza, il Direttore Fury ha deciso di mandarle un cesto di frutta » aggiunse, infilando una mano nella tasca interna della giacca per estrarne una fialetta dal fondo squadrato.
Si chinò per appoggiarla sul tavolinetto da caffè, ma Tony non distolse lo sguardo dall’uomo.
« Quella non ha l’aria di un cestino » gli fece notare, scuro in volto.
« E’ il ritardante di cui le ha parlato il Direttore. Biossido di litio »
« E cosa dovrei farci? » domandò il miliardario, restando impassibile.
« Se non si fida, può sempre farlo esaminare da JARVIS »
« Ho le mie ragioni per non fidarmi dello SHIELD ».
Phil aggrottò le sopracciglia. Quali ragioni poteva avere Stark per diffidare dell’agenzia? Lui non era neanche nato quando quest’ultima era già sorta sulla vecchia SSR.
« Mi creda, il Direttore Fury ha molto a cuore la sua incolumità »
« E lei, Agente? »
« Io mi limito ad obbedire »
« Ed ora io le chiedo la sua opinione » replicò Tony, serrando la mascella.
« Non credo che abbia molta scelta, Signor Stark. Inoltre non posso decidere al posto suo, ma posso dirle che questa scelta potrebbe costarle molto più che un reattore nel petto » disse in tono grave, ma anche sincero come non gli capitava da anni – o forse non gli era mai successo – nella propria carriera spionistica.
 

**

Virginia attese che il cancello si aprisse, poi condusse la sua nuova auto, una Saab argentata – clausola di contratto che Tony aveva aggiunto assieme a quella del nome, di una nuova scrivania e di nuovi apparecchi tecnologici – fin nel patio. Raccolse la borsa e la ventiquattrore strapiena di documenti di cui era necessaria la supervisione del miliardario.
Malgrado la stanchezza, le faceva piacere passare alla Villa. Più di quanto fosse necessario e lecito.
Scese dalla vettura e si avviò all’ingresso, leggera sulle sue décolleté laccate.
« Salve, Signorina Potts. E’ un piacere riaverla qui » esordì l’AI quasi allegro.
« Ciao JARVIS – sorrise lei – Dov’è Tony? » chiese, poggiando la borsa sul divano.
« Nel suo ufficio » rispose, bloccandola sul posto.
Scrollò una spalla e si diresse verso la stanza indicatale. Bussò un paio di volte e quando udì il permesso, spinse il battente. Entrò e la prima cosa che Virginia pensò quando sollevò lo sguardo, non fu affatto carina. Non era la prima volta che le capitava di vedere il proprio capo in compagnia e credeva di averci ormai fatto il callo. L’occasione ora però era ben diversa di una normale mattina in cui avrebbe dovuto mettere la spazzature fuori dalla porta di casa.
Tony stava conversando amabilmente, troppo amabilmente, con la Signorina Natalie Rushman dell’ufficio legale, che Virginia stessa aveva assunto come assistente.
L’aveva osservata per una settimana intera, durante la quale aveva fatto da spola per il passaggio gestionale dell’azienda, e dopo un interrogatorio di quasi due ore, alla fine aveva ceduto: le referenze erano più che ottime, migliori delle proprie quando aveva iniziato – dettaglio che non avrebbe mai dovuto giungere alle orecchie del boss – e possedeva tutte le capacità necessarie per seguirla nei vari impegni amministrativi. Fu nel vedere la faccia da schiaffi del miliardario che si pentì immediatamente della propria scelta e rimpianse l’idea di non aver cercato qualcuno che fosse già sulla lista delle risorse umane. Soprattutto qualcuno che non avesse un fisico da pin up, anche se opportunamente coperto con abiti da ufficio. Ma era consapevole, che neanche un sacco informe avrebbe sopito il senso di playboy di Stark che, nell’adocchiarla, le rivolse un sorriso smagliante.
« Ecco la miglior CEO dell’America » esordì raggiante e Virginia dovette lottare contro l’impulso di togliersi una scarpa e lanciargliela dritta in testa.
« Bugiardo » lo riprese.
« Della California » rettificò lui, studiando la sua camminata.
Quando sfoggiava tutta quella sicurezza, gli appariva ancora più bella di quanto già non fosse. Era una vera e propria droga per la propria vista.
« Così va meglio – disse, fermandosi accanto alla ragazza – Signorina Rushman, cosa ci fa qui? Credevo che il suo turno fosse terminato due ore fa ».
Tony si rilassò contro lo schienale della poltrona e si portò le mani dietro la nuca per assistere allo spettacolo.
« Ahm… Sì, effettivamente stavo tornando a casa quando il Signor Stark mi ha chiamata al cellulare » balbettò Natalie, cioè Natasha, fissando il miliardario di sottecchi.
Improvvisamente si ricordò dell’espressione che Coulson aveva usato, prima che iniziasse la missione, per descrivere la Signorina Potts: < E’ gentile e disponibile. Come un mastino da guardia >.
Fino a quel momento non aveva capito che l’osso che il mastino in questione stesse proteggendo fosse proprio Stark, che nell’inframezzo si stava godendo una delle scene più divertenti ed eccitanti a cui avesse mai assistito. Natasha, cioè Natalie, rivolse un’espressione indifesa alla gentile e disponibile Virginia, che chinò la testa, come se si stesse contenendo.
« D’accordo... – mormorò, assumendo un atteggiamento tollerante – Passerò sopra questo episodio. Ma si ricordi che lei lavora per me, non per il Signor Stark. Perciò se mai in futuro dovesse importunarla, ignori la chiamata ».
« E se dovesse insistere? » chiese la giovane e neo-assistente, assumendo un tono preoccupato e desiderando poter mettere le mani sull’uomo che l’aveva spedita lì con quella stupida identità fittizia.
« La passi sulla mia linea – inclinò leggermente il capo di lato – Ora può andare, ci vediamo domani. In azienda » aggiunse infine.
« Sì, Signorina Potts – annuì Natalie per poi rivolgersi al miliardario – Buonasera, Signor Stark »
« Arrivederci, Natalie – trillò quest’ultimo e quando la porta si chiuse, portando via i passi della giovane, potè finalmente gustarsi il disappunto della propria CEO – Potts, qual buon vento? »
Virginia lo fissò truce, poi sorrise sardonica e dopo aver frugato nella valigetta, gli mollò due plichi strabordanti di fogli.
« Il vento degli affari. Ho bisogno che supervisioni questi contratti » rispose sbrigativa.
« L’ho eletta amministratrice delegata per non farlo »
« Giusto. Perciò se vuole un’assistente, non cerchi di rubare la mia » disse, appoggiando la ventiquattrore sul pavimento.
« Volevo conoscerla » chiarì lui, accompagnando le parole con un gesto vago.
« Come ha avuto il suo numero? » chiese, incrociando le braccia sotto seno.
« Sarebbe stato da maleducato »
« Ha guardato nella mia agenda?! » concluse stizzita, sciogliendo gli arti lungo i fianchi fasciati – per somma gioia di Tony – da un tubino sobriamente attillato.
« …non invitarla a casa »
« La Signorina Rushmann ha un contratto di lavoro presso le Starks, che lei ha deciso di regalarmi »
« Di farle amministrare » specificò il genio, raccogliendo le mani in grembo.
« …quindi ha un contratto con me. Ergo non lavora per lei » terminò e Tony si guardò intorno con teatralità.
« Mi sento solo qui – si lagnò, sollevando le gambe per poggiare le caviglie incrociate sul piano – Senza di lei, la Villa è così noiosa »
« Chiami qualche sua amichetta » gli suggerì la donna mentre lui cominciò a spingere con un piede, i documenti che ella stessa gli aveva portato.
« Le mie amichette non sono divertenti come lei, Pepper » le fece notare, premendo le labbra e continuando a far scivolare i dossier verso il bordo. Ma prima che ci riuscisse una mano di Virginia li fermò.
« Oh, lo credo – convenne, rivolgendogli uno sguardo infuocato e spingendo i fogli verso di lui – Coraggio, è meglio che si sbrighi » lo esortò e con l’altra mano, scacciò le sue scarpe dalla scrivania.
« Mi fa compagnia? ».
Sospirando, afferrò una sedia e si accomodò davanti a Tony che, dal lato opposto del tavolo, prese un foglio e iniziò a svolgere il tedioso compito, che gli era stato affidato mentre lei ripescava l’agenda e si occupava di altre innumerevoli faccende da sbrigare, fra cui qualche telefonata.
Quando il miliardario si stufò, circa mezz’ora più tardi, osservò Virginia da dietro il documento che teneva tra le mani. Aveva l’aria profondamente concentrata sul tablet, ma lui perseverò finché non sollevò la testa.
« Non capisco cosa ci sia scritto qui » mentì e arricciando il naso, allontanò il documento sulla scrivania per porlo fra loro due.
« Dove? » domandò lei, sporgendosi.
« Qui » disse Tony, indicando un punto ben preciso.
Lei abbassò gli occhi ed espirò, armandosi di tutta la pazienza che riuscì a raccogliere dall’universo.
« E’ una x »
« C’è un tesoro da trovare? – bisbigliò il miliardario brioso e quando lo guardò negli occhi, i loro volti erano vicinissimi – Oltre lei, chiaramente » aggiunse, sensuale.
Virginia inspirò e sbatté le palpebre, ben sapendo che stesse diventando di color carminio.
« L’ho segnata io per indicare dove deve apporre la sua firma » replicò e a quella distanza, Tony vide arrossire anche le efelidi che le costellavano le guance perlacee.
« Davvero premurosa » commentò mentre i suoi occhi si soffermarono fugacemente sulla bocca della donna. Sarebbe bastato un respiro per apporre una firma su di essa.
Protesi l’uno verso l’altra sul piano dello scrittoio, si sfidarono per un tempo indefinito.
« Si figuri » lo assecondò Virginia, perdendosi nello sguardo caldo dell’uomo.
Da lì, ad appena un paio di centimetri, riuscì a distinguere le venature verdastre e le pagliuzze dorate che scintillavano nelle sue iridi castane.
Prima che commettesse qualche sciocchezza, tornò a sedersi e Tony fece altrettanto, nascondendo la delusione per il mancato contatto.
« Sa cosa la renderebbe ancora più speciale? »
« Ho paura a chiederlo » borbottò lei, accavallando le gambe.
« Se lei mi accompagnasse a Monaco fra due settimane »
« Ne abbiamo già parlato: il Motor Club ha invitato lei, non me » sospirò.
La conversazione si ripeteva più o meno in modo regolare da circa un anno, senza mai cambiare di una virgola. Infatti Virginia sapeva già cosa avrebbe detto Tony…
« E io con chi dovrei andarci? » chiese con evidente sconcerto da manuale.
« Happy verrà con lei »
« Non posso lasciarla qui da sola, Potts » sentenziò sconvolto dall’eventualità e da quella che più lo impensieriva: l’Avvocato era ancora a piede libero e poteva tranquillamente riprovarci.
« Non sarò sola. Ci sarà la Signorina Rushman »
« Perfetto, porti anche lei! » propose, accompagnando l’esclamazione con un gesto della mano.
Virginia fu costretta ad interrompere quel delirio venefico, altrimenti lo avrebbe strangolato.
« Assolutamente »
« …così potrei avere delle cheerleader »
« …no » terminò lei, autoritaria.
Ma Tony era già intento ad immaginarsela con indosso un top striminzito con su stampato il logo del MIT o delle Industries, una gonnella inguinale da capogiro, e i capelli raccolti in una coda di cavallo mentre agitava un paio di pon pon scintillanti.
« Sono sicuro che la divisa le starebbe benissimo – mormorò, abbassando lo sguardo dal soffitto per porlo sulla suddetta cheerleader – E anche a Natalie »
« Tony, io non la accompagnerò a Monaco. E neanche Natalie » specificò Virginia, intuendo i pensieri del miliardario che, dopo un’elucubrazione mentale – rigorosamente segreta – trovò il modo per farla cedere.
« Lei è l’amministratrice delegata » disse.
« Sì? » mormorò lei con un cipiglio perplesso.
« Io sono il proprietario dell’azienda di cui lei è amministratrice delegata »
« Sì »
« Questo fa di me il suo capo »
« Vuole riprendersi l’azienda? » chiese con un sospiro pesante e sperando che le dicesse di sì.
« No, ma le impongo di seguirmi a Monaco fra due settimane » dichiarò Tony, tornando al documento che ancora reggeva tra le mani, senza davvero leggerlo.
« Perché ci tiene tanto alla mia presenza? » sbottò Virginia, agitando le braccia per poi lasciarle ricadere in grembo.
« Perché ho bisogno che lei esulti e mi dia un bacio quando vincerò la corsa » rispose lui candidamente.
Sollevò lo sguardo e di sottecchi, la vide arcuare un sopracciglio. Proprio come all’ultima conferenza.
« Lei non guiderà »
« Certamente »
« Lei non guiderà quella »
« A che serve avere una »
« …macchina da corsa » dissero in contemporanea.
« …se poi non la si guida? »
« A restare intero » concluse lei, guardandolo sbieca.
« Lei è davvero carina a preoccuparsi per me. Ma non deve farlo, perché vincerò e le farò una dedica » sorrise Tony, facendole l’occhiolino
« Non occorre visto che non guiderà quel go-kart » replicò Virginia con autorevolezza.
« Macchina da corsa » borbottò lui, nascondendo il sorriso dietro il documento quando la vide roteare gli occhi.

*

Ovviamente Virginia provò con tutte le proprie forze ad opporsi a quell’insensata vacanza, perché in fondo era questo di cui si trattava: una vacanza. Ma Tony le annullò tutti gli appuntamenti così da garantirsi la sua presenza a Monaco. Un appuntamento che aspettava con trepidazione da molto tempo, come un bambino che non riesce a dormire al pensiero dell’arrivo di Babbo Natale.
Almeno era riuscita a liberarsi di Natalie, che pareva stuzzicare l’appetito dell’ipertrofico ego del miliardario, che la precedeva di appena qualche passo.
Gli spettatori si erano posizionati sulle gradinate, sul limite esterno della pista che serpeggiava fra le case della ricchissima cittadina e sulla costa. Alcuni Stark fans si erano invece piazzati davanti l’entrata del Grand Hotel De Paris, dove Happy aveva posteggiato momentaneamente.
Virginia riscosse quando prima di fare il proprio ingresso nella sala da pranzo, Tony si fermò ad aspettarla. In tutti quegli anni non lo aveva mai fatto. Si accigliò, osservandolo da capo a piedi e si accorse di quanto fosse rigido e teso. Non era decisamente da lui mostrarsi a quel modo ad un evento mondano, che gli avrebbe permesso visibilità e, soprattutto, se trattava di un argomento a lui gradito come le auto da corsa.
Le grida festanti, i cronisti e le telecamere svanirono per lasciarla in una dimensione ulteriore e distante dal caotico presente. C’erano solo lei e Tony.
I suoi zaffiri si erano incatenati agli occhi dell’uomo, in un muto contatto che aveva già sperimentato. E come ogni volta, anche adesso, c’era quella quiete che di solito si prova quando ci siede davanti ad un camino, nelle notti invernali. Oppure sotto le fronde di un pioppo, nei pomeriggi marzolini. La sua sola presenza emanava un alone di sicurezza, che la faceva sentire tranquilla. Come se potesse proteggerla.
Eppure nel preambolo di uno dei più prestigiosi alberghi europei, Virginia avvertì una stonatura. Lo sguardo di Tony pareva colmo di una nuova e sconosciuta consapevolezza. Si preoccupò.
Era un uomo complesso – se non particolare – ma lei non aveva mai badato più di tanto ad alcune manie preoccupanti, quali quella di non farsi porgere le cose o l’ipocondria.
Riteneva che a tutto ci fosse una spiegazione, anche a quell’atteggiamento, divenuto frequente nel suo panorama caratteriale dal suo ritorno dall’Afghanistan. In quel momento però non seppe darsi una riposta appropriata a quel quesito.
« Pepper? – lei sbatté le palpebre – Tutto a posto? »
« Ahm… S-sì, andiamo » rispose, raggiungendolo.
Due uomini della sicurezza spalancarono i battenti ed entrando, molte fotocamere si affacciarono su di loro come fameliche belve da stampa.
« Morbida » le bisbigliò Tony, avvolgendole un braccio attorno alla vita.
Quel contatto – che non le parve così astruso – ripristinò solo in parte l’atmosfera pacata che di solito caratterizzava il proprio soggiorno alla Villa. Avrebbe voluto rispondergli che non la stava aiutando, ma era troppo preoccupata dalle idee che l’opinione pubblica avrebbe sfornato non appena le foto avessero raggiunto l’altra parte del globo.
Si accorse che era tutto finito quando la mano dell’uomo la spinse gentilmente in avanti verso la lussuosa sala ovale, addobbata con gusto retrò. I tavoli, che spiccavano per le tovaglie color primula, erano stati in parte occupati dagli ospiti mentre molti personaggi di spicco invece conversavano in piedi. Quando vide un cameriere passare con un vassoio colmo di calici di champagne, Tony afferrò al volo i suoi pensieri e la guidò verso il bancone del bar. Virginia accettò, seppur un po’ agitata per il fatto che il proprio capo avesse sviluppato capacità telepatiche.
« Deve rilassarsi, Potts » la esortò sottovoce.
« La fa semplice » borbottò lei, prendendo un respiro profondo.
« E’ semplice. Sorrida, non allarghi le narici e non si comporti da costipata – gli rivolse un’occhiata in tralice – Vuole che le faccia un massaggio? » propose Tony, gesticolando.
« Non serve »
« Ne è sicura? » insisté quando si fermarono nel bel mezzo della sala visto l’impedimento costituito da un vero e proprio cerchio impenetrabile di invitati.
« Sicura » garantì lei con un sospiro esasperato.
« Posso offrirle da bere? » domandò, sollevando le palme verso l’alto per poi abbassarle quando Virginia rispose, lasciandolo di stucco.
« Non si perda » mentre un angolo della propria bocca si sollevò ironicamente.
« Lei è crudele » le disse, senza impedirsi di ricambiare il sorriso.
« Per questo mi ha assunta » gli ricordò Virginia, osservandolo farsi spazio verso il barman, intento a servire un anziano che, a suo avviso, pareva un damerino dell’ottocento.
Si stava godendo il lusso di quella piccola vittoria contro l’ego del miliardario quando una voce nota interruppe il flusso dei suoi pensieri.
« Virginia Pepper Potts, la nuova CEO delle Stark Industries » esordì Justin Hammer, avanzando nella sua direzione con le mani infilate nelle tasche anteriori dei pantaloni.
Il completo grigio chiaro che indossava, abbinato ad una spenta cravatta color lillà, confermò le prime impressioni di Virginia, che si premurò di usare tutte le buone maniere, impartitole dalla madre nell’infanzia.
« Signor Hammer » salutò con un cenno del capo.
« Ha fatto progressi dall’ultima volta che ci siamo visti » notò l’uomo, agitando una mano nell’aria.
« Deduco che non sia qui solo per le auto » rispose di pari tono quando le si fermò ad un braccio di distanza. Giunse le mani davanti al grembo ed abbozzò un sorriso educato, che però non riuscì a cancellare del tutto il fastidio che provava.
« In realtà sono qui per far luce su una questione di carattere privato »
« Beh, se posso aiutare… » mormorò, facendo spallucce.
« Dopo il nostro ultimo incontro, il Senatore Stern ha espresso la sua preoccupazione per la salute di Tony »
« Davvero? » chiese sarcastica.
« Sì e francamente, il suo atteggiamento in aula non è stato molto “equilibrato” » mormorò Justin, sporgendosi appena verso di lei con fare confidenziale.
« Il Signor Stark sta bene, la ringrazio per l’interessamento – fece un gesto vago per enfatizzare le proprie parole – Ma se pensa che sia stata promossa solo perché persone come lei possano coinvolgermi in affari che vanno contro le volontà del Signor Stark o contro la legge, allora sta parlando con la donna sbagliata ».
Justin la squadrò da capo a piedi, ma lei rimase fiera sulle sue décolleté. Se la immaginavano come un’oca priva di materia grigia, allora non avevano proprio capito un accidente. Ormai era in grado di distinguere una comune conversazione da un dialogo pericoloso.
« E’ una minaccia? »
« Mi chiedo se le sia arrivata una lettera dalla Corte riguardo alcuni terreni in Texas » sibilò lei, inclinandosi come aveva precedentemente fatto l’industriale.
« Siamo in un Paese libero »
« Altrochè » concordò, in attesa che Justin facesse la propria mossa.
Se c’era una cosa che aveva imparato sugli uomini è che avevano tutti, nessuno escluso, una comune debolezza: finiscono sempre per rivelarsi per quello che sono quando una donna comincia ad assecondarli.
« Abbastanza libero perché lei intrattenga una relazione col mio legale ».
Virginia non potè celare lo stupore, mantenendo un certo livello di imperscrutabilità.
« A differenza dei suoi affari, quest’affermazione non ha alcun fondamento » rispose annoiata.
« …o col Signor Stark ».
Le sfuggì un sorrisetto furbo.
« Non capisco se mi stia chiedendo un appuntamento o stia solo cercando di trarre un qualche tipo di vantaggio, come ad esempio contratti militari con le Starks. Perché in entrambi i casi, la risposta sarebbe la stessa di tredici anni fa » concluse, puntando i propri zaffiri nelle pupille del suo interlocutore divenuto improvvisamente poco logorroico.
Tony, che – pur non capendo una parola della discussione – aveva assistito alla scena, tornò giusto in tempo per salvarla. Come sempre. Lei si scansò di lato mente Justin sollevò il capo nella sua direzione quando capì che non avrebbe ceduto. Neanche sotto pesanti insinuazioni.
« Tony Stark, il ragazzo delle meraviglie »
« Justin Hammer, il finto esperto d’armi » rispose il miliardario, accennando un sorrisetto sardonico.
Con estrema galanteria, porse un bicchiere di Martini a Virginia, che accettò di buon grado. Soprattutto quando notò le olive.
« E’ passato un po’ di tempo dall’ultima volta » commentò Justin, osservandoli alternativamente.
« Troppo poco per i miei gusti » bofonchiò Tony, bevendo un sorso del proprio drink.
« Ti sei scelto un'amministratrice adorabile. Sa fare ottime minacce ».
Lo fissò per un attimo, poi si volse nuovamente verso Virginia che ricambiò da sotto le ciglia. Nonostante la visuale poco chiara, riuscì a scorgere la curva verso l’alto delle sue labbra e l’espressione cospiratoria.
« Non sa solo minacciare, se la cava bene anche coi fatti » aggiunse, non potendo fare a meno di dirlo con un cipiglio di orgoglio.
« Oh, non ne dubito » disse Justin per poi congedarsi senza neanche salutare.
« La lascio sola per due minuti e lei combina un disastro? » sussurrò divertito quando rimasero soli.
Virginia ridacchiò, scostandosi una ciocca della frangia dagli occhi con un gesto della mano.
« Stavo solo distraendomi in sua attesa – si giustificò – Ho cominciato a credere che si fosse dimenticato di nuovamente di me » lo punzecchiò, passandosi la punta della lingua sulle labbra per raccogliere le stille di vodka.
Tony mandò giù un altro po’ del proprio drink, sperando che raffreddasse i bollenti spiriti che erano appena emersi. Era chiaro che la donna lo stesse prendendo in giro, facendo leva sui suoi sensi di colpa per quella sera. Non l’avrebbe mai permesso, ma d’altronde sapeva di meritarselo. Ridacchiò quando il maître suggerì loro di accomodarsi, dato che presto avrebbero servito loro in pranzo.

Angolo Autrice: Date pure inizio al lancio dei pomodori... O di qualsiasi ortaggio siate muniti...
Come al solito sono in ritardo, ma ultimamente l'ispirazione ha deciso di andarsene in vacanza insieme al mio cervello (affogato in un brodo di pigrizia) e così sono rimasta davanti al pc, senza sapere come continuare questa long per una settimana.
Inoltre la scuola non ha reso la cosa più semplice, perciò eccoci qui.
Non chiedetemi che senso abbia questo capitolo. Il punto è che avevo bisogno di affrontare alcuni momenti dal POV di Pepper, perchè ho avuto la sensazione di averla trascurata e messa un po' in disparte.
Tuttavia non sono molto soddisfatta del risultato, per questo mi affido a voi e spero che sia stato comunque di vostro gradimento.
Ringrazio come sempre tutti coloro giunti fin qui <3
Al prossimo capitolo, 
50shadesOfLOTS_Always

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. High Speed ***


HIGH SPEED

“Been seein’ to much of lately
and you’re starting to get on my nerves.
This is exatly what happened last time
And it’s not what we deserve.
It’s a waste of time lately
and I’m running out of words”
- Push, Avril Lavigne
 
“I feel something so right, doing the wrong thing.
I feel something so wrong, doing the right thing.
I could lie, couldn’t… I could lie.
Everything that kills me, makes me feel alive.”
- Counting stars, One Republic 

L’atmosfera, che si respirava nella sala da pranzo del Grand Hotel di Monaco, era piuttosto serena. L’ambiente era stato decorato in occasione del Grand Prix Historique a cui erano stati invitati molte personalità dell’alta società, non solo europea. Dai politici alle modelle, dai giornalisti agli sportivi. Della musica jazz, tenuta a basso volume mitigava il confuso chiacchiericcio che coinvolgeva anche il tavolo numero 15. Otto persone su dieci, accomodate attorno ad esso, erano impegnate in conversazioni più o meno di tipo affaristico, riguardanti redditi, azioni in borsa e capitali. Le due restanti invece, Tony e Virginia, dopo circa un’ora di pura noia – in cui lui non aveva fatto altro che lamentarsi per la scelta della loro collocazione, di cui avrebbe discusso con gli organizzatori; e lei aveva sperato che quel martirio, a cui era stata sottoposta quasi per contratto, terminasse il più velocemente possibile – avevano cominciato a parlottare fra loro, trovando un modo per sopravvivere. L’argomento del loro scambio poteva essere di facile intuizione visto quanto fossero entrambi impegnati a nascondere le loro risate dietro di tovaglioli, fra un boccone e l’altro.
Tony si stava sbizzarrendo nello descrivere ogni commensale attorno a loro, dipingendo caricature a dir poco esagerate sul loro aspetto fisico.
Virginia condiva con una buona dose d’immagini grottesche sulle loro vite private.
« …e scommetto che ha una cabina armadio solo per le parrucche » bisbigliò lui, fissando di sfuggita il Signor Whitman. Un vecchio banchiere, impegnato a sghignazzare con un altro ospite del Motor Club.
« Magari ne conserva una anche per la moglie » mormorò lei, mantenendo lo stesso tono di voce prima di portarsi alla bocca un pezzo di salmone.
Tony lanciò un’occhiata alla quarantenne che lo accompagnava mentre sorseggiava del vino, e si accostò ulteriormente a Virginia.
« Le mancano un cappotto di pelliccia e un dalmata al guinzaglio » disse, alludendo alla capigliatura vaporosa e all’abito succinto.
« Al guinzaglio potrebbe tenere il marito » osservò con malcelato sarcasmo, visti i precedenti della coppia come protagonista di un acceso litigio. Il motivo ovviamente era rimasto oscuro a tutti, ma aveva fornito ai due esponenti di Malibu un trampolino di lancio per assurde speculazioni sulla vita coniugale delle loro vittime, visti i modi con cui la consorte trattava l’ottantenne.
« Pepper…! » la riprese Tony, scoppiando a ridere con lei.
Tutti gli altri, compresi i Signori Whitman, si volsero a guardarli. Alcuni perplessi, altri irritati.
Virginia si scusò con un cenno del capo e lui abbassò lo sguardo sul proprio piatto.
« Vedo che ci sta prendendo gusto » aggiunse quando smisero di considerarli.
« E’ colpa della sua influenza negativa » rispose Virginia, sulle labbra l’eco della propria risata.
Con la coda dell’occhio intercettò lo sguardo ilare del proprio boss.
Stava finendo il proprio pasto quando all’improvviso lo sentì tossire dietro il tovagliolo. Gli posò una mano sulla spalla, in cerca di un contatto visivo.
« Tony, si sente bene? » chiese, vedendo che non smetteva.
Lui si coprì la bocca col tovagliolo e quando riuscì a riprendere fiato, con l’obiettivo di sembrare più naturale possibile, si alzò.
« Sì, devo solo… Vado a bagnarmi un po’ il becco – abbozzò un sorriso che però non la convinse, nonostante il tono scherzoso con cui la ammonì – E non osi divertirsi senza di me ».
Virginia ricambiò poi espirò, notando che il miliardario aveva a stento toccato cibo. Al contrario di come la gente potesse pensare, non amava la cucina snob. Quella tipica del suo ambiente che lei aveva imparato a denominare come “caviale e falsità”. A onor del vero però non lasciava mai niente nel piatto, a meno che…
Sollevò lo sguardo nel punto in cui lo aveva perso di vista e fu in quell’istante che un brutto presentimento cominciò a germogliare in lei.
 
Tony, dopo aver aggirato i tavoli, si diresse verso le toilettes. I passi aumentavano insieme al dolore allo stomaco, che stava risalendo verso il petto, costringendolo a stringere i denti e il fiato. Era come se qualcuno lo stesse schiacciando sotto una pressa idraulica. Percorse un paio di corridoi – fortunatamente per lui, non affollati – con una spiacevole sensazione di dejà vu. Spalancò la porta e la richiuse immediatamente dietro di sé, girando freneticamente la chiave. Si sporse sul lavandino, stringendo le mani tremanti sul bordo marmoreo per non lasciarsi cadere, col cervello completamente svuotato perché i crampi continuavano a torturargli le viscere, privandolo di qualsiasi capacità logica di cognizione. Era come se qualcuno stesse spingendo il reattore nella cavità, incastrandolo nella carne e nelle ossa del torace.
Deglutì e sulla faccia, comparve una smorfia di disgusto dovuto al sapore ambiguo che avvertiva in bocca: metallico e allo stesso tempo, acido come se avesse appena rigurgitato. Tossì più rumorosamente, strizzando gli occhi con forza e quando lì riaprì, un brivido scosse le sue membra. Le vertigini, poi la sensazione di svenimento. Quando il mondo smise di girare e la vista tornò nitida, vide due gocce vermiglie depositate sulla superficie del lavabo. Restò immobile per qualche secondo, poi mosse la testa verso l’alto, incontrando il proprio riflesso sullo specchio. Sollevò una mano e le dita s’imbrattarono di sangue. Un rivolo gli aveva macchiato le labbra, scivolando sul mento ed ora, lungo le falangi.
« Merda… » sussurrò, recuperando il rilevatore chimico con la mano pulita.
Si punse il dito ed attese il responso. Cinquanta percento.
L’avvelenamento era progredito in modo anomalo, ma rifiutò l’idea.
Appoggiò il dispositivo sul bordo del lavabo e aprì il rubinetto per sciacquarsi le mani e il viso. Intanto che l’acqua fresca scorreva sulla pelle delle nocche, cercò di riordinare il turbine nella propria mente. Se il palladio stava scatenando reazioni metaboliche imprevedibili, allora anche il proprio tempo non poteva essere calcolato. Magari era agli sgoccioli. E se fosse morto nel giro di un’ora? O di un minuto?
‘Okay, Stark. Adesso calmati e ragiona.’
Che poteva fare? Non era medico, né un santo. Era solo un meccanico, solo un uomo con un ego sproporzionato.
L’inquietudine cominciò a crescere dentro di lui, come non gli era mai capitato. Improvvisamente si sentì piccolo, impotente e anche stupido. Se si fosse accorto prima del palladio, avrebbe avuto più tempo per studiare un rimedio che non prevedesse lo SHIELD. Se si fosse accorto prima dell’inganno di Obadiah, lo avrebbe estromesso e denunciato, e lui non sarebbe mai stato rapito in Afghanistan. Se si fosse reso conto di quanto era stato inutile il proprio operato, il cui unico prodotto era stato un numero spaventoso di vittime innocenti… Se solo si fosse accorto prima che ciò di cui aveva bisogno, in realtà lo aveva da ben dieci anni… Schizzò per lo spavento quando qualcuno bussò alla porta del bagno.
« Signore, è lì? » domandò la voce rassicurante di Happy.
« Ci sono problemi? » rispose a propria volta, cercando di mantenere la voce salda.
« Volevo accertarmi che fosse tutto a posto » mormorò senza dirgli che quando si era girato per controllare che la donna fosse al proprio posto e che la situazione fosse rimasta intonsa così come l’aveva lasciata per godersi un pasto decente – ovvero qualsiasi cosa di commestibile, purché non fosse il solito panino da autogrill – lo aveva visto precipitarsi verso chissà dove.
« Lo è, non ti preoccupare » disse Tony, usando tutto il coraggio di cui disponeva.
« Continuo a sorvegliare Pepper. Tra poco dovrebbe iniziare la corsa »
« D’accordo » e tornò a guardarsi allo specchio.
Ad ogni respiro sentiva i polmoni e la gola bruciare, come se avesse appena respirato i gas di scarico di una delle proprie macchine sportive.
Fu pensando ai bolidi che gli balenò in mente un’idea. Una di quelle che chiunque, soprattutto Pepper, avrebbe chiamato in un solo modo. Una di quelle che – lo sapeva – avrebbero influito negativamente sul resto della giornata.
« Altre cattive idee? » domandò retorico, rivolto alla propria materia grigia.
 

*

Si fece lasciare a duecento metri dalla strada che proseguiva, serpeggiando all’interno della proprietà. Dopo essersi fatta riconoscere da JARVIS, infilò una mano nella tasca dei pantaloni e attivò il congegno che Topolino e Minnie le avevano affidato. Una robaccia anni quaranta che però mandava in tilt qualunque aggeggio moderno, ricalibrato perché funzionasse a corto raggio. Purtroppo si trattava di una condizione che doveva essere risolta, altrimenti la missione sarebbe fallita. Se avesse fatto passare troppo tempo, ci sarebbero stati dei licenziamenti.
Imboccò quindi una scorciatoia verso il cervello tecnologico della Villa, scovata grazie ad una planimetria che Tony – molto stupidamente, come ci si poteva aspettare da un casanova incallito – le aveva mostrato con marcate allusioni circa il fatto che la camera patronale fosse la più bella della casa.
 
Scoccò un ultimo sguardo soddisfatto alla carrozzeria lucida, che rifletteva la luce del sole di mezzo dì. Aveva revisionato tutte le componenti, anche e soprattutto le più insignificanti per assicurarsi che fosse tutto in regola. Si pulì le mani con uno strofinaccio poi si allontanò verso gli spogliatoi per cambiarsi. Gli altri concorrenti erano già pronti, ma a lui piacevano le entrate in scena a sorpresa. Si tolse il completo, sicuro che quando Pepper lo avrebbe visto macchiato di olio per motori, lo avrebbe decapitato.
Indossò la tuta blu e nera, in tinta col veicolo e mentre cercava di infilare le dita nei guanti, udì un clangore ripercuotersi sulle pareti. Seguì il suono e quando diede un’occhiata al corridoio, non vide nessuno.
 

*

Trovò subito, direttamente tagliate nella pietra, le scale che percorrevano un fianco della parete scoscesa sul Pacifico. Poi risalì un’altra rampa per svoltare verso la piscina interna, dove poco lontano era localizzata la stanza dei server. Entrò nel preciso momento in cui la ricetrasmittente – un altro regalo dei Fitzsimmons che non subisse effetti dal congegno precedente – le ricordasse che aveva un supervisore.
« Hai visto la tv? » domandò Phil con tono esasperato.
« No, sono dentro. Resta in linea » ordinò lei, facendo un sorrisetto nel vedere i pannelli sulle pareti spenti.
Si tolse la sacca da dietro la schiena e ne estrasse un piccolo laptop, che collegò al computer principale.
Ora doveva spegnere lo sviluppatore di frequenze, dopodiché aveva solo dieci minuti per dare una sbirciata, salvare sulla pen drive ciò che le sembrava rilevante, ripulire la scena dalle prove e sparire prima del riavvio dell’intero AI.
Si portò una mano all’orecchio e rispose a Phil, che aspettava sviluppi.
« Ho già messo in pausa le telecamere e JARVIS » mormorò, spegnendo il congegno, al sicuro nella tasca.
« Non hai molto tempo » le ricordò l’Agente mentre accendeva il laptop.
« Non ti agitare, Coda di coniglio » rispose mentre bypassava il sistema, di cui ormai conosceva a memoria i protocolli di sicurezza.
Imprecò quando non riuscì ad addentrarsi nei progetti perché se avesse tentato di aprirli, JARVIS si sarebbe svegliato. Inoltre provarci, le avrebbe fatto perdere minuti preziosi. Per quanto fosse stato sprovveduto nel mostrarle la mappatura della casa, non poteva rimproverarlo per il medesimo errore coi file.
Inserì l’usb, raccogliendo ciò che potè. Mentre i dati venivano trasferiti, passò alla fase due e digitò sulla tastiera aprendo le registrazioni delle telecamere. La prima cosa che vide fu il laboratorio.
Notò subito la confusione che caratterizzava l’ambiente e non si stupì del fatto che la Potts perdesse facilmente la pazienza, considerando la precisione con cui consumava i propri impegni.
Ticchettò ancora sulla tastiera, cancellò il suo ingresso quando un file fuori posto lungo la lista la insospettì.
 

*

Percepiva il rombo del proprio veicolo, come un gorgoglio rilassante all’interno del casco. I suoi occhi guizzarono al semaforo.
Tre. Inspirò ed espirò profondamente.
Due. Strinse le mani sul volante e i guanti scricchiolarono.
Uno. Nello stesso istante in cui scattò il segnale, schiacciò il pedale e nel giro di pochi secondi, raggiunse la quinta posizione.
Come quando volava con l’armatura, l’istinto sostituì al timone la parte cosciente di sé. Sentiva il bisogno di sfogare tutta quell’energia repressa, che cominciava a farlo sentire inetto. Lui era Tony Stark.
Un genio che rendeva possibile l’impossibile, un uomo che da solo salvava vite e che…
‘Stark, la corsa’.
Sterzò leggermente alla prima curva e aumentando la pressione del piede, diede gas per superare anche il terzo concorrente. Finalmente sentì di aver riacquistato il controllo della propria vita. Sul sedile del kart, gli sembrava di avere ancora una possibilità.
Terminò il primo giro, restando alle calcagna del primo della fila. Poi una curva, la numero cinque di quel percorso e la più difficile. Con la coda dell’occhio si accertò di avere campo libero, poi senza ulteriori indugi, compì una dura sterzata e spingendo con forza il pedale, tagliò la strada al concorrente. Col motore che faceva le fusa, rise. L’euforia del momento lo distolse da tutti i problemi. Il reattore, le Industries, l’avvelenamento e la questione PP.
 
Cliccò e una finestra s’ingrandì, mostrandole il garage. Tre secondi.
Arcuò un sopracciglio e guardò nuovamente per essere sicura che non si stesse sbagliando. Fu allora che si accorse di un movimento estraneo. Riavviò il nastro e lo bloccò su un frame, che aveva colto un uomo vicino al veicolo da corsa che Tony si era portato appresso.
« E tu chi sei? » sussurrò, cercando di capire qualcosa sull’identità misteriosa.
« Nat » la richiamò l’uomo dall’auricolare.
« Ho una registrazione sospetta »
« Sospetta? »
« Qualcuno è entrato nel garage appena due giorni fa »
« Deve conoscere l’abitazione e il sistema per farlo » commentò Phil con una buona dose di dubbio.
« Il punto è che solo io e Pepper possiamo entrare qui dentro senza farlo sapere all’intera California – disse, continuando a tenere d’occhio la barra progresso – E questa non è Pepper »
« Come fai a dirlo? ».
Natasha alzò gli occhi al cielo, restando china sul laptop.
« Primo: credo di sapere come sia fatta una donna, visto che lo sono – sospirò, riprendendo col proprio compito – Secondo: proprio tu dubiti della Signora Stark? ».
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Phil arcuò un sopracciglio dall’altro capo della comunicazione.
« Non sono sposati »
« Discutono come due coniugi che devono decidere dove andare per le nozze d’argento »
« Ma questo » balbettò, facendo spallucce.
« Lei mi ha fatto chiaramente intendere cosa mi farebbe, se solo osassi cedere all’avances di Stark »
« …non significa »
« E lui, dopo aver tentato con successo di farla ingelosire, continua a guardarle il fondoschiena. Perciò sì, sono sposati. Anche se non legalmente » ribadì Natasha, sicura di quanto stesse affermando.
Era stata assunta come assistente perciò aveva avuto modo di studiare il proprio datore: la Signorina Potts arrivava puntuale in ufficio – alle ore otto e zero zero, le porte in vetro si aprivano per lei – parlava con Bambi, si sedeva alla scrivania e delegava in bilico su un paio di tacchi, sistemava casini senza far scampare un capello dallo chignon e poi salutava tutti – con un sorriso che avrebbe fatto innamorare anche un palo – per recarsi a Villa Stark, dove il proprietario continuava a lasciarle la libertà di tornare nonostante pagasse l’affitto per un appartamento in centro città.
« Beh, non posso confermare ma… » rispose l’uomo, tenendosi sul vago.
« Ho letto il fascicolo, “rapporti interpersonali” » aggiunse, visionando altri filmati simili.
« Era un’informazione riservata » ringhiò Phil, maledicendo sé stesso per non essere stato più scrupoloso nel catalogare il dossier.
« E Fury mi ha spedita qui come un pezzo di carne, perciò avevo tutto il diritto di sapere con chi avrei avuto a che fare » sbottò la russa, lanciando un’occhiata nervosa al timer sull’orologio da polso.
Phil non ebbe modo di replicare o obbiettare.
« Vedi altro? » chiese, tamburellando le dita sul ginocchio.
« No, è come se i nastri fossero stati tagliati. Ma non bene come ho fatto io »
« Che senso ha? » borbottò, scuotendo il capo.
« Magari non gli interessa se viene scoperto. Anzi lascia di proposito una traccia… » ragionò Natasha, più fra sé e sé.
« E’ stupido »
« No… – annuì, mordendosi l’interno di una guancia – E’ vendetta ».
 

*

Il suo sguardo guizzava da una parte all’altra mentre si accingeva a superare anche il primo concorrente. Aveva deciso che avrebbe vinto quella corsa, a tutti i costi. Il rombo del motore aumentò d’intensità quando spinse l’acceleratore fino in fondo. L’altra macchina si trasformò in una scia e Tony raggiunse il primo posto. Aveva la vittoria in pugno.
In lontananza vide la curva che lo avrebbe poi condotto verso il centro città dove si trovava alla linea di partenza. Lasciò andare il gas e spostò il piede sul freno per rallentare. Si accigliò quando si rese conto che malgrado la pressione, il pedale sembrava non sortire alcun effetto sul veicolo. Intanto il guardrail si avvicinava pericolosamente e Tony si preparò all’impatto ormai inevitabile. JARVIS non era con lui, era solo.
 
Il piede si muoveva ritmicamente, sintomo evidente di quanto fosse ansiosa. Tra le dita appallottolava un tovagliolo, cercando di crearsi un’immagine mentale della donna che doveva aver trattenuto il proprio capo. Tanto da dimenticarsi di lei, di nuovo.
Sollevò gli occhi sugli invitati, che improvvisamente si erano adunati davanti agli schermi. Fu allora che notò il passaggio a folle velocità di una macchina che da mesi aveva preso polvere nel garage di Villa Stark.
Si alzò in piedi, lentamente così come percepì, e poi elaborò, tutto quello che accadde in quel singolo secondo. Vide la spaventosa parabola che il veicolo da corsa compì sotto la spinta della brusca sterzata, che gli aveva permesso di evitare la curva troppo stretta. Roteò in aria e continuò fin quando non incontrò il terreno. Zolle di terra ed erba vennero sollevate durante la scivolata, a velocità inudita. La fiancata grattò sull’asfalto della parte opposta della pista, generando scintille. Infine si bloccò bruscamente contro il guardrail e si capovolse un’ultima volta. Il fianco del guidatore si era accartocciato come una fisarmonica, seguito dal rinculo della parte opposta durante la prima rondata.
Tony, lasciato senza fiato, era rimasto intrappolato tra il sedile e il manubrio. Un potente scoppio e le prime fiamme divamparono mentre un gruppo di addetti si avvicinava al kart incidentato con frenesia, armati di estintori e di cassette del primo soccorso.
Happy raggiunse la donna, fermandosi appena un passo dietro di lei, con lo sguardo perso sullo schermo. Entrambi immobili e incapaci di proferir parola.
Tutti i presenti in sala erano scioccati. Diversi si volsero nella loro direzione e in quel preciso istante, Tony diede un calcio alla lamiera piegata in modo anomalo. Appeso a testa in giù, reggendosi alla parte inferiore del veicolo, sgusciò fuori da esso per poi finire in ginocchio sull’asfalto battuto dal sole del primo pomeriggio. Il principio di incendio fu definitivamente estinto e uno dei soccorritori cercò di aiutarlo. Lui rimase per un attimo immobile, cercando di fare mente locale su quanto accaduto. Era come se fosse passata un’eternità. Esattamente come in Afghanistan, quando la mina era esplosa. Lampi mnemonici gli occultarono i sensi. Le grida sugli spalti e gli urti contro le transenne mentre veniva attuata l’evacuazione ebbero le sembianze di donne col velo trucidate a sangue freddo, che facevano da scudo ai figli dai colpi di kalashnikov.
Aprì le palpebre, a corto di ossigeno e col petto che sembrava non riuscire a contenere il cuore galoppante. Si tolse un guanto e alzò un braccio per tastarsi la nuca. Quando guardò le dita, si sentì sollevato non vedendo alcuna traccia ematica. Una gamba alla volta, riuscì a rimettersi in piedi, poi cominciò a camminare con lo sguardo fisso sui propri passi barcollanti. La massa di spettatori lo guardava stupefatto, i giornalisti premevano per raggiungerlo ed Happy aspettava accanto alla limousine, davanti al Grand Hotel. Lo osservò e vide che aveva assunto la stessa espressione di un genitore fortemente deluso.
Gli aprì comunque la portiera e Tony montò, ma...
« Lei è fuori di testa! – strillò Virginia mentre lo sportello veniva richiuso – Cosa cazzo le è preso? ».
Happy rimase saggiamente fuori dalla macchina, in attesa del permesso di uno dei due occupanti.
L’unica regola che si era imposto era di non intromettersi mai nei battibecchi fra Stark e Potts. Ci si poteva solo fare male.
Tony intanto si volse a guardarla scioccato.
« Pepper! Lei ha detto una parolaccia » commentò, spostando un poco il capo all’indietro come inorridito.
« Mi sembrava che ne avessimo già discusso » continuò lei, agitando le mani.
Aveva il volto paonazzo all’inverosimile e Tony cominciò a temere che sarebbe esplosa da un momento all’altro.
« Parlato » replicò e la voce gli morì in gola quando vide una lacrima rotolare su una guancia della donna, che continuava strillare quanto fosse stato imprudente – in realtà, aveva usato un aggettivo meno carino – e su ciò che sarebbe potuto accadergli.
« Lei non ha alcun diritto » rispose Virginia, che sentiva davvero la testa pulsare mentre cercava di far capire a quello scellerato del proprio capo quanto fosse irresponsabile, oltre che egoista.
« Pepper »
« …di abusare del mio sistema nervoso »
« Scusi – disse, afferrandola per le braccia – Non volevo spaventarla » aggiunse sincero, gli occhi puntati in quelli della donna, che ricambiò con le sopracciglia appena aggrottate e le labbra serrate per la tensione.
Tony cominciò a sentirsi tremendamente male nell’illuminante comprensione che l’Afghanistan non aveva cambiato solo lui…
« Lei si farà visitare » annetté Virginia, puntandogli insistentemente l’indice sul reattore invisibile per via della tuta. Lui le afferrò il polso e le fece poggiare il palmo sul pettorale sinistro.
« Batte, no? » le chiese ironico quando notò il suo sguardo perso.
« Corre il rischio che smetta » borbottò, ritraendo la mano e stringendosela al seno.
Mentre Tony la scrutava, pentito, chinò il capo in avanti e poggiò la fronte contro il sedile anteriore, cercando di riacquistare un respiro regolare.
 
Poco dopo aspettava che qualcuno le desse buone notizie. Un’infermiera aveva condotto il miliardario, quaranta minuti prima, in qualche stanza per essere visitato. Happy le si avvicinò, porgendole una busta che gli aveva chiesto di recuperare all’albergo. Non disse niente neanche quando vide lo sguardo stanco della donna. Aveva le palpebre leggermente abbassate, segno che si sforzava di tenerle aperte.
Col mento le fece segno e quando si volse, la giovane di prima con una semplice divisa bianca e un paio di scarpe sanitarie, le sorrise.
« Mademoiselle Potts, le Monsieur Stark va bien. Ha riportato solo delle lievi contusioni e microfratture »
« Puis-je le voir? » domandò, stringendo fra le mani tremanti i manici della busta.
« Oui » mormorò l’altra, facendole da guida.
Virginia si volse verso Happy, che con un cenno del capo le fece capire che li avrebbe aspettati lì. Superò alcuni corridoi, senza prestare molta attenzione ai dottori e alle persone nelle salette d’attesa.
Il proprio cervello si era preso una pausa e i pensieri vagavano a briglia sciolta, senza un senso logico. Le sovvennero innumerevoli cose, come i fogli da firmare, le riunioni e i sentimenti.
Quelli sì che dovevano essere riordinati. Possibilmente in ordine alfabetico visto che la cronologia variava in continuazione, a seconda del soggetto che li suscitava.
Si riscosse quando la giovane infermiera le aprì una porta.
« Non appena le Monsieur Stark è pronto, può recarsi all’accettazione » si congedò, nel tentativo di mascherare un poco il proprio accento francofono.
« Merci » rispose lei, entrando nella stanzetta.
La porta si richiuse e quando Tony sollevò lo sguardo colpevole, mantenne un’espressione impassibile.
« Le ho portato un cambio » esordì, adocchiando il reattore che brillava al centro del suo petto, lasciato esposto.
« Lo ammetta: è qui per vedermi nudo » disse lui con un ghigno malizioso, scendendo dalla branda con un piccolo balzo.
« Se si vergogna, posso girarmi » ribatté, cercando di mantenere un certo tono professionale e soprattutto d’impedire alla propria mente, di produrre immagini vietate ai minori.
In realtà sapeva quanto fosse disturbante per lui mettere in mostra il congegno luminoso.
« A meno che non si vergogni lei » mormorò Tony, riferendosi alle guance della donna.
Si tolse la tuta, rimasta miracolosamente indenne se non per qualche macchia di fuliggine e di asfalto.
Afferrò i jeans che Virginia gli porse e li indossò senza alcun problema. Lei dovette far ricorso a tutto il proprio buonsenso per tenere gli occhi sul viso dell’uomo anche mentre gli allungava la T-shirt. Purtroppo era riuscita a cogliere la firma Calvin Klein sull’elastico dei boxer.
« Come si sente? » chiese, dopo essersi accertata che la propria voce non traballasse.
Intanto Tony si agganciò il bottone dei pantaloni e sollevò la maglietta nera, che aveva adagiato sulla lettiga, esaminandola come se avesse davanti un rompicapo.
« Un paio di costole incrinate, ma niente di grave – parlottò, infilando le braccia nelle maniche – Ho la testa dura » aggiunse mentre istintivamente, Virginia ricercò i punti elencati.
Scorse il torso ancora nudo dell’uomo e nel controllare il costato, oltre a vedere alcune macchie più scure nella zona dei fianchi – sicuramente vecchi lividi di cui temeva conoscerne la provenienza – colse una serie di cicatrici che gli segnavano verticalmente la schiena.
Distolse immediatamente lo sguardo, puntandolo sul pavimento lucido, divenuto interessante.
« Cosa non mi sta dicendo? » domandò, ignorando il suo tentativo di sminuire l’accaduto.
Tony abbassò la maglietta, fissando a propria volta le mattonelle.
L’universo gli stava concedendo un’altra occasione, un’opportunità per sputare fuori il rospo e magari, mettere fine a quell’insensata – oltre che finta – relazione lavorativa inconcludente per avviarne una seria, fatta di reciproco affetto ed ammirazione.
Poi ripensò al tragitto in macchina fin lì, al modo in cui aveva evitato di guardarlo. Col mento appoggiato su una mano, aveva tenuto la visuale fissa sul paesaggio mentre la sua mano aveva sgualcito il lembo inferiore del proprio abito. Strizzò gli occhi ed espirò senza farsi udire.
« E’ tutto a posto » disse seppur controvoglia.
D’altro canto rivelarle anche il dettaglio dei freni non avrebbe portato a nulla di buono. Inoltre l’aveva già spaventata abbastanza per quel giorno.
« Posso fare altro? »
« Sì… Faccia riportare il kart a Malibu » rispose lui, raccogliendo la tuta ed evitando accuratamente gli zaffiri della donna.
« Come vuole » si arrese lei, ormai dimentica di tutto il trambusto.
« Andiamo ».
 
Sul volo però Virginia – che conosceva Stark meglio delle proprie tasche – ebbe l’infido supposto che ci fosse ben di più che una costa fuori posto.
Si era appena recata dal pilota per chiedere un’informazione quando, tornando al proprio posto, vide Tony sul sedile con aria perseguitata da brutti presagi. Teneva la fronte premuta contro una mano e gli occhi serrati come se qualcuno avesse colpito allo stomaco.
Non ricevendo alcuna risposta, si accostò per posargli un palmo sulla fronte.
« Dev’essere qualche acciacco dall’Afghanistan – bofonchiò lui, aprendo poi un occhio per stabilire a che livello fosse giunto la sopportazione della propria ex-assistente – Non sia arrabbiata »
« Non sono arrabbiata – disse, drizzandosi in piedi – Okay. Sono arrabbiata » riconobbe con una punta di sufficienza nella voce.
« Deve ammettere però che non è stata del tutto colpa mia ».
Virginia lo fissò torva.
« Se lei mi avesse dato retta »
« Non potevo immaginare che »
« …non sarebbe successo nulla »
« …qualcuno manomettesse la macchina » concluse Tony, allargando le braccia con fare innocente per poi congelarsi quando realizzò cosa aveva appena detto. Ma Virginia era troppo furiosa per accorgersene.
« Macchina che »
« L’ho eletta CEO »
« …le avevo pregato »
« …non mamma chioccia » rispose, abbandonandosi contro il sedile imbottito.
« …di- Sa che le dico?! La prossima volta può anche rompersela quella testaccia che si ritrova » sputò la donna, lasciandolo come uno stoccafisso.
« Cos… Pepper! » la richiamò Tony, ma la donna era già sparita nella cabina di comando.
 

*

Avvitò con forza il tappo di sughero e lasciò la bottiglia sul tavolo. Prese il calice dove le bollicine ancora sfrigolavano e odorò il liquido chiaro, dai toni floreali ma non troppo dolci. Coi piedi scalzi, si accomodò sul piccolo divano per godersi la seconda parte del film. Aveva deciso di sfruttare al meglio quel periodo di stasi prima di cercarsi un lavoro. Uno vero, che non implicasse corse spericolate o discussioni interminabili.
Al ritorno dall’aeroporto non aveva impiegato più di mezz’ora a stilare le proprie dimissioni. Quando gliele aveva consegnate, Tony era rimasto ancora una volta senza parole.
Poi aveva preso le poche cose con sé e se n’era andata da quella casa, convinta che la lontananza avrebbe giovato ad entrambi. Sicuramente avrebbe permesso al miliardario di crescere un po’ dalla condizione adolescenziale e prendere sul serio la propria azienda.
Si sentiva in colpa, ma cercava di non pensarci perché sapeva che se lo avesse fatto per più di un secondo sarebbe tornata indietro. Cominciò a ponderare seriamente l’idea di restare lì, fra morbidi cuscini con un bicchiere di frizzantino tra le mani, fino alla fine dei propri giorni. Non si poteva certo dire che Virginia Potts fosse una che amasse starsene in ammollo nel flusso della vita, ma dopo tutto quello che era successo, appena due giorni prima, era sicura di meritarsi un premio. Se non due: una per la pazienza olimpionica e un’altra per la resistenza sentimentale.
Si chinò verso il tavolino da caffè per prendere il telecomando ed aumentare un po’ il volume della televisione quando lo sguardo le cadde per un attimo sul cellulare, innocuo.
‘Concentrati su Ryan Gosling’, la rimbrottò la vocina e lei le diede ascolto.

Angolo Autrice: ODDIO, che fatica!
Questo capitolo si è rivelato un vero e proprio travaglio, soprattutto dopo la visione di Infinity War... Non so voi, ma io ancora devo riprendermi *sigh*
E lo so, che sto' obbrobrio sia piuttosto fiacco ma non vi preoccupate perchè, come ho già accennato, questo è solo l'inizio. Sì, sto rendendo le cose complicate fra questi due perchè fondamentalmente sono sadica ;)
Spero comunque che questa sottospecie di capitolo sia stato di vostro gradimento e a seconda di come si protrarrà la mia giornata, credo di pubblicarne un altro in serata... eheh ^^ Ringrazio tantissimissimo 
_Lightning_ per il suo supporto e per i complimenti (appena ho cinque minuti, rispondo alle recensioni eh <3<3<3), ma anche i più silenziosi :*
Per il momento è tutto, al prossimo capitolo
50shadesOfLOTS_Always

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. Ice cream on the Border Line ***


ICE CREAM ON THE BORDER LINE

“You know exatly what to do
So that I can’t say mad at you
For too long, that’s wrong.
You know exatly how to touch
So that I don’t want to fuss and fight no more.
Said I despise that I adore you.”
- Hate that I love you, Rihanna feat Ne-Yo
 
“It’s not that I didn’t care,
It’s that I didn’t know.
It’s not what I didn’t feel,
It’s what I didn’t show.”
- Misery, Maroon 5 

« Mi serve solo sapere cosa è successo » sospirò, pensando che mai – ma proprio mai – in oltre venti anni di carriera, si sarebbe trovato costretto ad abbassarsi a tanto. Si appuntò mentalmente di farsi dare un aumento.
« C’è sempre la tv » replicò la sua Missione – la più difficile che gli avessero assegnato – al telefono.
Oltre a dover contenere lo spirito combattivo e solitario della Romanoff, doveva anche vedersela col Bambinone con le manie di protagonismo.
Phil strinse gli occhi a fessura, immaginando di puntarli sul fastidioso Signor Stark e sperando anche, che potesse avvertirne l’intensità.
« O scrive lei il rapporto »
« …internet, giornali »
« …o passerò di persona a raccogliere la sua testimonianza » lo minacciò, spazientito.
« Non sono presentabile » rispose Tony con aria annoiata.
« Vorrà dire che chiamerò la Signorina Potts per fissare un appuntamento » disse, convinto di star giocando una carta vincente. L’ultima volta aveva funzionato, anche se con risultati inimmaginabili.
« L’agenda è piena » concluse in tono burbero.
Phil – convinto che il miliardario sarebbe scattato come un molla – stava per chiedere cosa volesse dire, ma la linea cadde e udì solo un sequenza di tuu-tuu.
« Stark? Stark! – guardò la cornetta ancora una volta, poi riagganciò e prese a digitare un altro numero sul proprio cellulare  – Questo non va bene… Per niente… ».
Attese che la chiamata fosse inoltrata e si ritrovò con la fronte corrugata mentre si domandava per quale motivo Tony avesse tanta fretta. Con tutta probabilità, stava gozzovigliando nella vasca idromassaggio, con una donna e un cocktail di gamberi.
‘Perché non posso essere la suo posto?!’.
« Stark Industries, buongiorno. Sono Natalie Rushman, come posso aiutarla? » cinguettò Natasha.
Phil rimase per un attimo attonito sia per l’intonazione angelica con cui la spia russa – di cui per inciso aveva anche un po’ paura – lo aveva accolto, sia per il fatto che stesse lavorando anche di domenica. Ma quest’ultimo era un dettaglio irrilevante visto che anche lui era seduto alla propria scrivania in giorno di riposo per qualunque essere umano.
« Nat? »
« Coulson, ma che…?! – esclamò per poi abbassare subito la voce – Perché chiami su telefono normale? » chiese stizzita, chinandosi un poco verso la scrivania.
« Cosa è successo, dov’è Pepper? » chiese lui, senza permettersi di divagare.
« Si è dimessa »
« COSA?! » strillò Phil e Natasha fu costretta a distanziarsi dal telefono per massaggiarsi l’orecchio, nella speranza di non aver perso qualche decibel.
« Sì, credo che abbia raggiunto il limite. E’ comprensibile » aggiunse con una vena acida.
« Natasha, lei è fondamentale » gli rammentò l’Agente, stringendo il pugno libero.
Ancora una volta, Stark si stava rivelando una vera e propria dinamite.
« Ehy, io non faccio consulenza alle coppie in crisi. Quell’idiota non le ha ancora detto del palladio » sbottò lei, guardandosi intorno e sorridendo a un collega, che da quando era entrata sotto copertura la stava seguendo ovunque.
‘Oltre al danno, anche la beffa’, si disse.

Sbuffò, chiudendo l’interfaccia della chiamata con un gesto seccato della mano, disteso su un divanetto in terrazza. Si sedette, mugolando e portandosi gli occhiali da sole sulla testa, che ancora gli doleva. E non solo per la botta presa a Monaco.
In quei tre giorni aveva lottato contro l’insonnia e i sintomi – ben poco rassicuranti – dell’avvelenamento, facendo affidamento su vodka e company. Ovviamente il tentativo gli era costato una violenta sbornia di cui ancora il proprio corpo conservava i residui.
Era irrequieto, nervoso e quasi intrattabile perfino per JARVIS.
Fissò il cellulare e non vedendo la spia delle notifiche accesa, pensò con amarezza che avrebbe potuto organizzare un bel festino. Uno di quelli alla Stark, giusto per riempire la quiete che sembrava essersi spalmata su tutta Malibu Point.
Il Pacifico era ridotto ad una tavola, appena arricciata dalla brezza del primo pomeriggio di quella domenica, che dava l’impressione di trascinarsi a fatica verso la fine. Quasi consapevole che l’indomani sarebbe iniziata una settimana altrettanto lenta.
Con cautela tornò dentro, in salotto, incapace di sostenere la vista dell’azzurro delle acque.
Osservò l’ambiente e si rese conto di quanto fosse tornato ad essere il soggiorno bigio e asettico di una volta, quando Pepper non era ancora entrata a far parte della sua vita caotica, portando con sé una ventata di allegro ordine. Il segno più esplicito di quella condizione erano le pile di scartoffie accatastate in vari angoli della casa, più o meno nascoste ai suoi occhi.
In men che non si fosse detto, aveva compreso l’entità delle responsabilità che aveva lasciato sulle spalle della donna, ancora prima che la promuovesse ad amministratrice.
Ma l’aspetto che più lo infastidiva era il fatto di esser tornato a sentirsi solo, troppo solo per quelle immense stanze dove i suoi pensieri erano liberi di riecheggiare all’infinito, senza che potesse controllarli.
Espirò, svuotato perfino della voglia di agire. Si avvicinò al divano, cercando l’ispirazione per fare qualcosa. Qualunque cosa che gli avrebbe permesso di tenere la mente occupata sarebbe andata bene, come scendere in laboratorio e dedicarsi alla Mark V, farsi una bella nuotata o coccolarsi con una sauna. Ma neanche smontare il frullatore gli avrebbe impedito di non pensare che tutto fosse degenerato a partire dall’Afghanistan, dal non essere salito in macchina con Rhodey. Fu ripensando all’amico che gli sovvennero le chiamate che gli aveva fatto ascoltare.
« Sono rimasta a casa » aveva detto.
Drizzò il capo dallo schienale del sofà, su cui si era stravaccato.
« Jay, hai ancora le registrazioni di giugno? »
« Certamente, desidera visionarle? »
« Sì » mormorò, colto da un dubbio.
Uno schermo apparì come un miraggio virtuale davanti a lui. Aprì una cartella e iniziò ad analizzare tutte le registrazioni da quando era stato rapito. Le prime quelle di giugno furono piuttosto veloci. Pepper era passata raramente e le uniche persone a fargli visita erano state le inservienti. Cestinò e passò a luglio. Si drizzò composto, fissando il sottile ologramma.
Pepper era entrata e aveva lasciato la borsa sul divano. Poi era scesa in laboratorio e aveva cominciato a passeggiare con aria un po’ distratta, come se non conoscesse la ragione per cui si trovasse a sbirciare fra gli attrezzi e gli schizzi degli ultimi progetti per armamenti.
Cambiò filmato e di volta in volta, si accorse che la presenza della donna alla Villa si era fatta sempre più frequente. A volte era rimasta a dormire, prima sul divano e poi stabilmente, nella camera degli ospiti.
Fine luglio. Pepper aveva appena finito di parlare con Rhodey al telefono, rannicchiata su una sedia della terrazza. La vide posare con delicatezza il cordless su tavolinetto e rientrare col sole ormai affogato nell’orizzonte. Scalza, aveva raggiunto la camera patronale. Si stava sbottonando la camicetta quando l’AI mandò avanti il video.
« JARVIS! »
« Mi perdoni, Signore. L’aggiornamento del 2000 mi impedisce di rompere la privacy della Signorina Potts ».
Tony roteò gli occhi e tornò a guardare lo schermo olografico.
 
Il sole era ormai sparito dietro lo skyline di Los Angeles, tingendo il cielo con screziature e macchie violacee che rendevano l’oceano, una sterminata distesa di frammenti oscillanti.
Virginia, ancora davanti alla tv con il bicchiere di vino e in grembo, l’aggiunta di un pacchetto – ormai semivuoto e un po’ accartocciato – di patatine, era impegnata a porsi nei panni di Emma Stone. Stava pensando a quanto fosse stupida per cascare nei tranelli di uno sciupafemmine come Jacob quando il campanello trillò. Accigliata, si girò verso l’orologio che aveva appeso in cucina e che segnava le sette di sera. Chiedendosi chi potesse essere ad una tale ora, si alzò dal divano e a piedi nudi, si avvicinò alla porta. Non senza un minimo di diffidenza. Sulle punte dei piedi, sospirò dopo aver sbirciato dallo spioncino.
« Se ne vada. Non voglio sentire un’altra parola da lei » disse scocciata con voce abbastanza alta perché il miliardario la sentisse dall’altra parte.
« Pepper… »
« E’ già stato abbastanza esauriente »
« Pepper, ti prego… » ripeté l’uomo, fissando il minuscolo oblò.
Virginia si passò entrambe le mani sul viso e giurò di poter sentire la propria vocina richiamarla al suo momento di relax. Aveva pensato di metterlo alla prova, come tanto si era vantato durante il ballo di quella sera e credeva – convinta della sua testardaggine – che anche lei stessa, sarebbe potuta sopravvivere. Invece erano di nuovo insieme, seppur ancora separati da quindici centimetri di legno. Alla fine tolse la catenella e sbloccò il battente. In tutti quegli anni non l’aveva mai pregata, non con un tono che fosse almeno apparentemente sentito.
Tony – che aveva aspettato col capo chino – entrò dopo aver esitato per un lungo momento sull’uscio. La cercò con lo sguardo mentre richiudeva la porta, poi seguì la direzione indicatagli e si fermò sulla soglia del salottino. Alle pareti c’erano un sacco di quadri, tutti più o meno colorati e di stili diversi, ma la disposizione con cui erano stati appesi li rendeva perfettamente armonizzati col resto dell’ambiente newyorkese.
Virginia lo studiò da capo a piedi. Aveva indosso una semplice tuta sportiva e una giacca di pelle con la zip aperta, ma potè constatare che non era ubriaco. No, altrimenti non sarebbe stato in grado di salire le quattro rampe di scale che separavano il suo appartamento dal suolo terrestre.
« Cosa ci fa qui? » chiese, superandolo con le braccia incrociate sotto il seno.
« Dobbiamo parlare » dichiarò Tony, passandosi una mano fra i capelli dietro la nuca.
Dovette concentrare tutte le proprie forze per evitare di guardarla con troppo interesse. Se gli appariva seducente con un paio di tacchi e un completo stirato, non sapeva come definirla nel vederla con una t-shirt e un paio di leggins attillati.
« Credevo avessimo già parlato »
« No – aggrottò la fronte – Lei ha consegnato le dimissioni e se n’è andata »
« E cosa non capisce, Signor Stark? » ribatté lei, inclinando un poco la testa di lato.
No, non aveva intenzione di dargliela vinta. Lo aveva fatto troppe volte in precedenza. Pretendeva delle scuse decenti per com’era stata trattata prima di tornare a fargli da balia e da CEO.
« Va bene… Me lo sono meritato – Tony sollevò un palmo, in tono conciliante – Ora potremmo…? »
« Potremmo? »
« Discutere apertamente di »
« Non abbiamo niente »
« …quanto sia stata impulsiva »
« …su cui discutere, Signor Stark – dichiarò Virginia, spostando il peso da una gamba all’altra – Anche perché non sembra che lei voglia parlare ».
Tony non fu capace di contenersi e mise il pilota automatico.
« Beh, nemmeno lei sembra che sia disposta ad ammettere la verità »
Lei sbatté le palpebre, non riuscendo a stargli dietro.
« Non capisco di cosa stia blaterando »
« Rhodey mi ha fatto ascoltare le chiamate » rispose, deciso ad affrontare quella situazione e abbattere tutti i muri per arrivare a Virginia che, pensando a un modo per punire il Colonnello, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.
« Quindi io sono obbligata a dirle tutto mentre lei ha il diritto di nascondermi quello che più le conviene? »
« Io non le sto nascondendo niente! E’ stata lei a non dirmi nulla di quel Timothy! » aggiunse il miliardario, al limite di quella che assumeva sempre più i caratteri della gelosia.
« Come le ho già detto ad nausaem, la mia vita privata non è affar suo – replicò sulla difensiva – E si chiama Thomas » replicò lei più infervorata.
Non aveva mai pensato all’eventualità che potesse tenere a lei in modo concreto anzi, credeva che si fosse trattato di puro sfoggio di virilità, accompagnato da interminabili avances a dir poco esplicite.
« Perciò non è affar mio neanche quando indossa i miei pigiami – ogni suono fu estinto e nella stanza calò un silenzio immediato – Ho visto i filmati… Lo ammetta » continuò Tony, fissandola con intensità.
« Non c’è niente che io debba ammettere » puntualizzò lei, ma un tremito la smascherò.
Era un’ammissione di coscienza, una sfida aperta che entrambi – ognuno con le proprie motivazioni – non avevano intenzione di perdere né piantare.
« Mi guardi negli occhi, Pepper – le ordinò, prendendosi una breve pausa prima di riprendere con rinnovata fiamma – Mi guardi e mi dica che non gliene importa niente di me » la provocò quasi gridando quella presunzione, ferendo Virginia che, protesa altrettanto aggressivamente verso di lui, si ritrasse d’istinto.
Era come se fosse piombata in quel trimestre.
Aveva dubitato di aver udito realmente qualcosa. Il fastidioso ronzio del cellulare si era ripetuto, costringendola ad aprire gli occhi. A tentoni aveva acceso la lampada sul comodino mentre la sveglia aveva indicato le due e mezza del mattino. Era tornata piuttosto tardi dalla festa che sua madre le aveva organizzato per i suoi trentasei anni, pur avendo dichiarato per i primi trentacinque che non avesse nulla di particolare per festeggiarla con una tale regolarità. Le era sfuggita un’imprecazione, convinta che il rompiscatole che la stesse chiamando fosse proprio Tony che, dopo la dichiarazione dell’affare concluso, voleva comunicarle qualche sua assurda richiesta. Poco importava se lei stesse dormendo a distanza di qualche fuso orario. Senza neanche accertarsene, aveva afferrato quell’arnese infernale che aveva ripreso a suonare per portarselo all’orecchio.
« Pronto? »
Quando a risponderle era stato James, qualcosa d’indefinito le aveva fatto vibrare la schiena. Aveva cominciato a chiedersi perché il Colonnello le si stesse rivolgendo informalmente e una prima idea gliel’aveva fornita il proprio istinto.
Alla notizia della sparizione di Tony, era scattata a sedere sul letto – che le era parso fatto di chiodi – e aveva barcollato. Nella propria mente avevano iniziato a susseguirsi degli scenari, uno peggiore del precedente, ma era rimasta ancora più sbigottita dalla morsa invisibile che aveva cominciato a schiacciarla sulla testa e attorno alle braccia, rendendo il mondo più freddo e oscuro. Anche il rumore dell’auto solitaria che passò era diventato privo di senso. La sensazione di malessere, quasi claustrofobico, era aumentata col passare dei secondi fino ad annichilirla.
Non poteva, non voleva crederlo morto. Che cosa avrebbe fatto lei?
Senza Tony Stark, a cosa serviva la sua segretaria?

« …che preferirebbe non fossi mai tornato »
« Basta » mugolò, sentendo crescere in sé una rabbia estranea che non le era appartenuta.
Neanche in occasioni più sensate. O forse l’aveva ingabbiata senza però farlo a chiave.
« …che vorrebbe che fossi mo- » s’interruppe intontito dalla confessione che gli arrivò, semplice e secca.
« Lo ammetto! »
Precisa, come uno schiaffo ben assestato.
Tony si arrestò e non emise un fiato per un paio di minuti. L’aveva provocata, di proposito. La linea rossa era stata valicata, come in macchina al ritorno dall’ultima conferenza o dopo il processo e, finalmente aveva ottenuto una reazione. Stupito, scrutò Virginia che ancora cercava di capire da dove le fosse scaturito quell’inaspettata voglia di chiacchierare.
Timore della voce tagliente con cui le aveva parlato. Sdegno per non aver compreso quanto il rapimento, Natalie, la sua ostinazione alla scelta di solitudine la stessero struggendo. Risentimento per averla involontariamente accusata di essere inutile o vigliacca.
Fastidio per dubitato del suo amore.
« Ho indossato il suo pigiama p-perché ne sentivo il bisogno… – inspirò, respingendo le lacrime e torturandosi le dita – Per tre mesi ho sperato solo che tornasse ».
Con le mani contro lo stomaco, voltò il capo per nascondersi e per celare il sangue che le colorò vistosamente tutta la faccia, pregando qualunque divinità avesse intenzione di ascoltarla di aprire un buco nero sotto i suoi piedi. Con la coda dell’occhio, vide la busta che l’uomo si era portato appresso.
« Che cos’è? » domandò, infrangendo la cupola di disagio che li aveva racchiusi.
« Gelato » mormorò lui, sollevandola un poco.
« Si è fatto tutta questa strada per mangiare del gelato? ».
Tony continuò a guardarla come dietro una lente d’ingrandimento. Si stringeva il busto con le proprie braccia, tanto da fargli desiderare di essere lui a farlo.
« Non per il gelato… » specificò infine, accennando ad un sorriso mesto quando il rossore sulle guance della donna si riaccese assieme al formarsi di un broncio insolito, ma adorabile.
« Lei è il mio capo » gli ricordò Virginia, occhieggiandolo in modo indiretto e con una voce, talmente ridotta ad un sussurro infantile, che quasi non si sentì lei stessa.
« Non più » la corresse con un cipiglio malizioso e i loro sguardi si trovarono a metà strada l’uno dall’altro.
Di nuovo lo spazio tacque. C’erano solo loro due, soli. Le molecole vibravano loro attorno, caricando l’aria di una forza attrattiva che prima o poi, li avrebbe travolti e portati inevitabilmente l’uno verso l’altra.
« Non ha risposto alla mia domanda »
« Sono qui per… Quella cosa che non le ho detto a Monaco » disse Tony con titubanza, avvertendo un’irritante vocina dietro l’orecchio che continuava a consigliargli cose sconvenienti che avrebbero rovinato il momento.
Virginia lo valutò poi prese la busta dalla sua mano e si avviò in cucina, facendogli cenno di seguirla. Aprì la confezione e rimase di stucco. Panna e cioccolato.
Panna. Era il suo gusto preferito.
Tony obbedì, un po’ sconcertato e si sedette al tavolo mentre la donna preparava le coppette. Notò un attimo di smarrimento, ma non ne comprese il perché. Così semplicemente attese che si sedesse anche lei.
« Avevo controllato la macchina prima di indossare la tuta… – esordì, cominciando a mangiare – Però… Dopo i freni hanno smesso di funzionare ».
Virginia, col cucchiaio bloccato a mezz’aria, spostò gli occhi sul miliardario.
« Crede che qualcuno li abbia manomessi? »
« E chiunque sia, ha fatto un buon lavoro » asserì Tony, mortalmente serio prima di mandare giù un boccone mentre lei fu percorsa da una gelida sensazione, che la costrinse ad appoggiarsi al bordo del tavolo.
« Inoltre ho visto qualcuno uscire »
« Chi? »
« Non lo so, non ho fatto in tempo » disse, accigliandosi nel tentativo di cogliere qualsiasi dettaglio in più mentre rievocava: aveva indossato i guanti e udendo una sorta di tintinnio argentino, ovattato da dei passi, si era affacciato dallo spogliatoio. Il corridoio si era mostrato vuoto.
« Farò qualche telefonata »
« Ci vada piano – suggerì – Meglio che questa faccenda resti il più possibile fra noi ».
Lei annuì e prese a giocherellare con il gelato, rubandone qualche cucchiaiata con meno gusto malgrado il sapore del dolce fosse più che buono.
« Quando mi sono messo alla guida, non credevo che qualcosa potesse andare storto – sussurrò lui improvvisamente – Perché… avevo bisogno di… ».
Virginia vide la costernazione nel non riuscire ad esprimersi e si trovò a dover evidenziare che non era la prima volta che accadeva. Litigavano spesso, ma prima dell’Afghanistan, l’uomo non aveva mai avuto problemi ad aggirare le conversazioni.
Era successo la prima volta dopo la conferenza, poi al Senato e in albergo.
« …riprendere il controllo » terminò quando si accorse che non trovava le parole.
Tony sollevò fugacemente gli occhi dal proprio gelato e annuì.
Virginia ripulì la paletta, passandola sulle labbra.
« Io non voglio obbligarla a dirmi qualcosa di cui non vuole parlare, ma non può continuare così – disse a braccia conserte, agitando il cucchiaio con una mano – Non posso gestire la sua azienda e contemporaneamente riparare alle sue stronzate ».
Tony la guardò e un angolo della propria bocca, si inclinò verso l’alto.
« Ha ragione. Come sempre… » mormorò e rise quado Virginia, dopo aver finito la porzione nella coppetta, recuperò la confezione intera e riprese a mangiare.

*

Il pomeriggio dopo – seguito di una lista che riguardava la futura expo – Virginia si ritrovò davanti alla sontuosa Villa Stark. Era stato ovvio, fin dall’inizio, che non avrebbe mai lasciato il ruolo di CEO. Per una serie di ragioni, una più incontestabile dell’altra, a cui però aveva deciso di non dar tanto peso.
Dato che in azienda sembrava essere scoppiata la terza guerra mondiale, aveva deciso di sfuggirvi per terminare alcune pratiche di cui necessitava la massima quiete per poterle visionare. Senza che Bambi la avvisasse degli incontri o che Natalie le passasse le telefonate di clienti troppo esigenti. L’ufficio era diventato un via vai di persone che le davano informazioni, date e nominativi di cui aveva rischiato di restarne vittima. Aveva resistito per tutto quel lunedì – giorno che odiava con passione – e adesso, voleva concentrarsi sugli ultimi documenti per poi andare a casa e dormire. Rincuorata al pensiero che di lì a un paio d’ore avrebbe toccato il morbido materasso, scese dall’auto e si avviò dentro l’abitazione senza prestare più di tanta considerazione alla musica degli AC/DC che, quando entrò dopo aver effettuato la scansione retinica, ottenebrò la voce cortese di JARVIS.
Non le sarebbe parso tanto astruso se nel bel mezzo del locale non ci fosse stato un gruppo di quindici ragazze, tra i venti e i venticinque, orchestrate da un tizio in camicia che continuava ad incitarle e a contare come se conoscesse esclusivamente i numeri da cinque a otto.
« Ma che…?! » sussurrò con la valigetta stretta in una mano e proprio in quel momento, Tony apparve in tutto il suo aplomb – ricordandole stranamente Matt – allargando le braccia come una diva.
« Salve Pepper! »
« Che cos’è? » domandò, spegnendo il suo sorriso con una frecciatina.
« Cosa? – arcuò un sopracciglio, lanciando un’occhiataccia alle ballerine in tenuta tutt’altro che professionale – Ow, intende tutto questo. Expo » disse lui, roteando l’indice in aria.
« Avevamo fatto una lista e tutto questo non era previsto »
« L’idea l’ho avuta stamattina mentre facevo colazione » si giustificò e Virginia s’impose faticosamente la pace interiore, impedendosi di picchiarlo con la ventiquattrore.
« Tony, l’esposizione non è uno show »
« Non posso non fare un’entrata spettacolare »
« …né il new age del Moulin Rouge »
« …con le ballerine e i fuochi d’artificio »
« Fuochi d’artificio?! Ha bevuto per caso? » chiese con la voce più alta di almeno due ottave, inclinandosi verso di lui per sentirgli l’alito.
« Clorofilla » rispose Tony, facendo spallucce.
« Non mi pare una buona pubblicità »
« Cosa ci fa qui? » aggiunse, prendendola in contropiede.
« Cercavo un posto tranquillo dove occuparmi della sua azienda, ma a quanto pare… »
« JARVIS, insonorizza l’ufficio per Potts » ordinò senza neanche lasciarla finire.
Virginia lo fissò di traverso per poi avviarsi verso la stanza predisposta. Lungo il tragitto, squadrò alcune delle ragazze e Tony la notò sollevare inconsciamente il volto e raddrizzare le spalle, come una padrona di casa suscettibile.
« Sì, Signore » rispose l’AI mentre scoccava un’occhiolino a una delle ragazze.
Quella con la coda alta e un paio di pantaloncini striminziti. Scese le scale del laboratorio, sentendola soffiare di desiderio.
 
Sbatté le palpebre, sentendo che si stavano facendo sempre più pesanti. Non sapeva da quanto fosse lì, ma fu certa che si trattasse di abbastanza tempo da annebbiarle il cervello. Le lettere avevano cominciato a confondersi coi numeri e senza motivo, si era ritrovata a sognare. Ad occhi semi aperti, il torpore l’avrebbe condotta di lì a poco tra le braccia di Morfeo.
Come Dita Von Teese, era immersa in una gigantesca coppa di cioccolato fuso collocata su un palco sotto ad un tendone blu, molto simile a quelli da circo. Delle scintille sembravano volteggiare, rendendo la scena opaca e labile. Poi dal nulla onirico, rischiarato dalla luce di un unico lampadario di cristallo, venne investita dalla panna montata. In quella candida nuvola di zucchero, Tony sguazzò verso di lei. Completamente ricoperto di cioccolato e panna, ne raccolse un poco con l’indice per poi rivolgerle uno sguardo languido. Uno di quelli che raramente sfoggiava e che credeva potessero valergli l’ergastolo.
Stava per farsi imboccare – con la guancia appoggiata su una mano, la penna tra le dita e le labbra schiuse – quando qualcuno la colse in fallo.
« C-c’è qualche problema? » balbettò, cercando di ricomporsi.
Tony aveva aperto la porta e la fissava a metà tra la preoccupazione e la serenità.
« Sono quasi le ventidue » commentò, non potendo trattenere un sorrisetto nel vederla rimbambita dal lavoro mentre si guardava l’orologio al polso.
« Prendo le mie cose e… »
« Non credo sia il caso che si metta alla guida » aggiunse il miliardario, alludendo al nubifragio fuori dalle vetrate.
Virginia – che ancora vedeva un ricciolo di panna sulla testa dell’uomo – si girò e si accorse di quanto fosse stanca per non essersi accorta dei lampi riflessi dalle acque agitate e del forte vento che scuoteva le palme.
« Ho detto a JARVIS di prepararle la vasca »
« La vasca? – chiese, tutt’ad un tratto agitata mentre si alzava in tutta fretta per seguirlo – Intende la sua vasca? ».
 
Circa un minuto più tardi, Virginia abbassò la maniglia e scivolò nella camera padronale, sentendosi come una ladra. Si chiuse il battente alle spalle e si guardò intorno, con circospezione. Il letto perfettamente composto le rimembrò quanto fosse stata incauta e si diede della stupida, dato che non aveva alcun senso preoccuparsi. Non dopo che Rhodes e JARVIS avevano fatto la spia.
Tuttavia la sensazione di disagio non si dissolse e anzi, aumentò quando si accorse che la stanza era impersonale e spoglia di quanto non ricordasse. Nessun vaso di fiori, quadro o cuscino colorato. Le pareti bianche e la mobilia neutra rendevano tutto monocromo e triste. Non si sorprese, pensando all’insonnia di Tony.
Fermò le sue riflessioni – soprattutto perché l’avrebbero condotta in zone pericolose – e si sfilò le decolleté, lasciandole vicino al cassettone su cui si trovava una piccola cornice che non aveva mai visto. La osservò, capovolta verso il basso, cominciando a sfilarsi la giacca che ripiegò con cura su un braccio. Allungò una mano e raddrizzò la foto. La donna, i cui capelli biondo cenere sembravano quelli di un angelo, stringeva al petto un bambino di circa sei anni. Il sorriso di lei era accecante mentre rideva col figlio, che teneva le piccole mani sulle guance materne.
Virginia rimise a posto la cornice come l’aveva trovata, perché non farlo sarebbe stato come invadere l’intimità di quel bambino. Si lasciò sfuggire un respiro fiacco e senza riflettere troppo, si sbottonò la camicetta e si abbassò la gonna per poi riporre il tutto sulla superficie del cassettone. Con le mani dietro la schiena, raggiunse il gancio del reggiseno mentre si dirigeva in bagno.
 
Tony controllò la pentola che brontolava da un po’. Rimise a posto il coperchio e lasciò la gestione dei fornelli all’AI per andare a controllare le condizioni al piano di sopra. Entrò discretamente, scandagliò le quattro mura disadorne ma non vide nessuno. Stava per bussare alla porta del bagno quando scorse Virginia passeggiare nell’enorme cabina armadio, tenendosi contro il petto l’asciugamano annodato che la copriva fino a metà coscia mentre con una mano, si pettinava i capelli ancora umidi su una spalla.
Si appoggiò con un fianco allo stipite, studiando alcune goccioline che scivolavano pigramente sulla pelle della donna, fra le scapole e lungo le braccia.
Sentendosi osservata, emise un urlo quando si girò verso di lui.
« TONY »
« Il phon è in un cassetto in bagno »
« Potrebbe smetterla di comparire così?! » strillò col viso ridotto ad un’unica campitura vermiglia.
« …vicino al lavandino »
« Che diavolo ci fa qui?! » sbottò, stringendosi maggiormente nell’asciugamano.
« Stia tranquilla, non le salterò addosso – la rassicurò lui, senza scomporsi né risultare convincente – Volevo solamente dirle che la cena è quasi pronta »
« Poteva comunicarlo a JARVIS » ringhiò Virginia, sollevata quando vide che le distanze sarebbero state mantenute. L’idea che Tony potesse avvicinarsi a lei in quel momento e con quello sguardo rapace – considerando il recente sogno – la terrorizzava più di ogni altra cosa.
« E’ vero, ma non mi sarei divertito » rispose lui, scansando il cuscino appoggiato su una poltrona che la donna gli lanciò.
« Adesso se ne vada » disse perentoria, accompagnando l’ordine con un gesto frettoloso del braccio come a scacciare una gallina.
« Vuole una mano? » scherzò Tony, ridendo – sia per l’atteggiamento che per il colorito di Virginia – anche quando un secondo cuscino beccò in pieno la propria faccia.
Virginia espirò sollevata quando il miliardario si decise a lasciarla cambiarsi. Si guardò intorno e fu colpita da una considerazione che sperò non fosse arrivata a Tony.
Si avvicinò alle vestaglie, appese senza neanche una piega e diede un’occhiata ai pigiami assettati nei loro scomparti senza un pelucchio. Col diretto e previa consenso del padrone di casa, optò per una T-shirt bianca, che però le stava un po’ larga e dei pantaloni, che si accorse con notevole disappunto che le cadevano dopo ogni decina di passi, costringendola a camminare in modo che non lo facessero oltre la curva delle anche. I boxer di fortuna, che aveva dovuto indossare per cause di forza maggiore, la obbligarono a scuotere il capo per coprire i lobi auricolari incendiati coi capelli mentre scendeva le scale. ‘Lo aveva fatto di proposito’, pensò, ‘Di sicuro’.
Si affacciò sulla cucina ed emise un lamento. Un completo disastro: pentole ovunque, una confezione di frutti di mare precotti abbandonata sul pavimento e vari attrezzi da cucina sparsi sul ripiano in granito.
In mezzo a quel campo di battaglia, Tony Stark cercava di scolare il riso senza provocare altri danni.
Virginia si dimenticò di dover pagare un extra all’impresa di pulizie quando vide l’espressione del miliardario e coprendosi la bocca, ridacchiò.
« Rida, rida pure. Vorrà dire che… » s’interruppe quando le mani della donna si posarono sulle sue, che stringevano i manici della pentola.
« Lasci, faccio io » sussurrò, sbattendo le ciglia.
Tony deglutì sonoramente e compì un passo indietro, cedendole il compito. S’incantò quando un lembo della maglietta, rivelò il bordo di un indumento che non aveva ma visto addosso a una donna.
« Lei indossa i miei boxer? ».
Fu una domanda spontanea, che pronunciò ancora prima di formularla, ma che la fece comunque trasalire. Pose via la pentola, stabilendo che fosse la cosa giusta da fare se non voleva correre il rischio di ustionarsi. L’aria fischiò fra i denti quando si rese conto di essersi già scottata con l’acqua del riso, che continuava a scolare.
« Scusi, non mi era mai capitato prima – disse, ponendo le mani avanti – Ma mi creda »
« Tony »
« …la cosa è tutt’altro che spiacevole. Anzi »
« …non si azzardi »
« …la rende ancora più ecc- »
« TONY » lo incenerì Virginia con sguardo omicida.
« Okay, ha ragione – concordò lui, avvicinandosi con premura – Mi faccia dare un’occhiata »
« Cosa?! No » balzò indietro, sottraendo se stessa e la mano da Tony che la fissò, severo e indicò il suo polso con un cenno del mento.
« Pepper, potrebbe essere grave »
« Sto bene » mentì lei, continuando ad indietreggiare man mano che l’uomo avanzava.
I suoi occhi scuri la puntarono in un misto di preoccupazione e lusinga e, Virginia ebbe di nuovo l’impressione di non potergli sfuggire, di essere sua succube. Come nella vasca di cioccolato.
« Si è appena ustionata con dell’acqua bollente » le disse, visibilmente spinto dall’esigenza di sincerarsi della gravità della scottatura.
« Ho detto che sto bene » rispose finché la propria schiena non incontrò il frigorifero.
« Lei mi ha obbligato ad andare in ospedale »
« Forse perché aveva appena avuto un incidente automobilistico »
« Ancora con questa storia?! Non sapevo che l’avessero manomessa » dichiarò e senza tergiversare, le afferrò il polso.
Virginia inghiottì tutte le imprecazioni che le erano venute in mente nell’arco di pochi nanosecondi quando riconobbe la delicatezza con cui il miliardario la stava trattenendo.
« Non è grave, ma sarà meglio intervenire » sentenziò, scrutandole il dorso della mano lesionata.
Lo osservò trafficare tra i mobili poi le si affiancò, porgendole un sacchetto di ghiaccio avvolto da un panno.
« Lo tenga un po’ » le disse con fare esperto e lei lo assecondò.
Tony stappò un tubetto, lo abbandonò sul ripiano e con la mano libera, le prese nuovamente il polso. Con due dita, spalmò una goccia di crema apposita sulla scottatura.
« A cosa devo tanta gentilezza da parte sua? » tremò Virginia e lui alzò il viso verso il suo.
« Deve esserci un motivo? » mormorò, continuando nel proprio compito.
Lei non proferì altro, troppo impegnata a camuffare le emozioni tumultuose che le stava suscitando.
« Forse voglio semplicemente prendermi cura di lei, dopo tutto quello che fa per me » disse lui dopo qualche attimo in cui riconobbe di essere stato brusco.
« Grazie… » sussurrò Virginia, sorridendo quando Tony le posò un bacio di guarigione sulla mano.

Angolo Autrice: Salve bella gente!
Come avrete notato sono sparita per un po' e sparirò nuovamente, almeno fino ai primi di luglio perchè sono nell'occhio del Ciclone: per gli amici, Maturità.
Sì, oggi ho affrontato la prima prova e spero che l'allenamento qui su EFP abbia dato dei risultati ;)
Questo è un capitolo - molto meno strutturato rispetto agli altri - che ho conservato di proposito per questo momento perchè con tutta quest'ansia, ho bisogno del fluff, misto ad un po' di comicità, targato Pepperony che, spero, non via sia rimasto pesante :)
Approfitto quindi di questi ultimi minuti di libertà per ringraziarvi. Più in generale per le visite (adoro!), chi ha

messo questa follia tra preferite/seguite/ricordate e per rispondere alla mia spassosissima _Lightning_
Non hai idea di quanto io abbia riso leggendo i tuoi scleri sui precedenti capitoli (all'apparato endocrino, ho perso un polmone xD) e mi ha fatto enormemente piacere percepire tutto il tuo entusiasmo per questa long.
Ti rispondo qui perchè sono pigra - ormai lo sai :* - e parto dal capitolo 6:
- non sei la sola a trovare "interessanti" le situazioni più angst che rivelano un'altra parte del nostro caro genio e per quanto riguarda la questione fiducia/gelosia, sì, Pepper era solo presa dal momento mentre Rhodey... <3 La scelta di Phil come martire è stata inevitabile e... sì, ti confesso che stavo già pensando di "riattoppare", per usare la tua espressione, anche IM3 e sfruttare la nuova versione come sequel di questa long ma vedremo... eheheh
Inoltre hai centrato in pieno il riferimento a Molly Weasley... Anch'io amo quella donna *-*
PS: crepiiiii! 
- nel capitolo 7 mi sono sbizzarrita nel corteggiamento di quei due fagiani (ho scoperto che mi piace citarti ahahahah), fondamentalmente perchè quando scrissi il capitolo ero in una fase particolare della mia vita... Ovviamente non posso fare spoiler per quanto concerne il tizio canuto e ti ringrazio per le segnalazioni (le ultime due, sono meri errori di battitura) che vedrò di correggere quanto prima :D
- me ancora più felice nel vedere che ti sei accorta del riferimento ai Fitzsimmons <3, ma soprattutto che abbia avverato le tue aspettative! Almeno finora ;)
PPS: ho reso l'intossicazione non ancora visibile, considerando che il valore del palladio oscilla - nel mio canon - ancora tra il venti e il cinquanta percento. Poi vedrai, o meglio, leggerete... ihihihih
Ti ringrazio immensamente per il sostegno e i complimenti! GRAZIE <3

Adesso scappo! Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. Wordless ***


WORDLESS

 
“And in this world of loneliness, I see your face.
Yet everyone around me thinks that I’m going crazy, maybe… Maybe.
But I don’t care what they say, I’m in love with you.
They try to pull me away, but they don’t know the truth. ”
- Bleeding Love, Leona Lewis
 
“You gave me the world, so I feel owed you.
I been lookin’ through the mirror and that’s the old you.
Imma get it right now, don’t know how
But I promise that we’re gonna make it somehow.”
- Start Again, One Republic 

< Dove sei finito?! >
< Sto riparando ai tuoi casini, di cui tra l’altro non mi avevi avvertito >
< Perché non pensavo che avessimo il governo alle costole >
< Guardarsi alle spalle dovrà diventare una consuetudine >
< Non fare lo stronzo con me. Mi avevi promesso un successo >
< E lo sarà. Porta pazienza e prima ancora che tu te ne renda conto, di Stark resterà solo una lapide >. 

*

Era quasi l’alba quando il fruscio del battente che veniva aperto, fu il segnale per Phil – in pieno ritmo di lavoro – che una delle api più operose dell’alveare dello SHIELD era appena tornata con un grosso carico di miele.
« Agente Romanoff » esordì, sollevando la fronte alta dalle carte che gli erano state affidate per conto del Direttore. Scialba e barbosa burocrazia.
Natasha – che aveva l’aspetto tutt’altro che felice – fece il proprio ingresso con abiti civili che non si addicevano affatto alla propria fama di assassina, ma allo stesso tempo non la sminuivano né la imbruttivano. Gli smeraldi che aveva al posto degli occhi si strinsero sull’ufficio – tenuto a un livello d’assetto così maniacale, che le parve di trovarsi alle Enterprises con la Potts – e poi sul suo supervisore.
« Mi avete reclutato perché Stark ha un debole per le rosse » ringhiò, spingendo la porta alle spalle con un gesto nervoso.
Se c’era una cosa che non tollerava, era che potessero sottovalutarla. Specialmente se era un uomo a farlo.
Phil, che aveva colto in pieno lo stato d’animo della siberiana, deglutì a vuoto e poggiò le mani sulla scrivania, illudendosi che fosse un ostacolo abbastanza resistente.
« Primo: il tuo reclutamento è stata una scelta di Fury. Secondo: io avevo suggerito l’Agente Simmons – rispose a quella che, almeno inizialmente, doveva esser stata una domanda mentre invitava la donna a sedersi con un cenno – Comunque sia, Crossbow si aspetta un rapporto completo ».
La spia russa lo valutò come se avesse di fronte un testimone chiave da porre sotto torchio, poi lanciò un plico di documenti sul piano già ingombro.
« Ecco gli scheletri » presentò, ma senza accettare la seduta.
Phil aprì la cartelletta e cominciò a sfogliarla, soffermandosi su alcune foto. Le tolse dal resto e le scorse.
« Lo sconosciuto del garage » borbottò quando capì che si trattavano di frame direttamente ottenuti dai filmati di videosorveglianza della Villa.
« Sono ancora dell’idea che qualcuno stia cercando vendetta »
« Ma per cosa? » chiese e Natasha si appoggiò con entrambe le mani allo schienale della sedia.
« Avevo pensato ad un coinvolgimento in una relazione extraconiugale, ma… – fece spallucce e si drizzò, incrociando le braccia sotto il seno – La Corte Suprema lo ha chiamato dopo settimane, a Washington per l’incidente alle Industries » aggiunse mentre tornavano a guardarsi.
« Non per l’incidente, per l’armatura » specificò Phil, gesticolando.
« Appunto. Qual è il nesso? »
« Che è un pericolo pubblico? – suggerì e la donna tirò fuori un altro documento dal dossier, ponendoglielo in mano al posto delle dia positive – Cos’è? »
« 1995. Il Senato deve comprare armi per l’esercito e il Signor Hammer propone un affare a Stark, che però rifiuta » espose la donna come se stesse parlando dell’ovvio.
« Justin Hammer – rifletté l’agente – Era presente al processo. Credi che sia coinvolto? »
« Ha avviato delle attività illegali in Texas. Credo che non sia un caso che lui e Stern siano amichetti del cuore »
« Spionaggio industriale e corruzione – mormorò, arcuando un sopracciglio – Sono accuse pesanti »
« Io so solo che Hammer ha preso del thè e biscotti con Stern e, poi si è presentato al processo col proprio avvocato »
« Avvocato? »
« Thomas Reed – annuì e gli porse un secondo documento – La Potts ci è uscita un paio di volte e Stark ha dato i numeri ».
Phil lanciò un’occhiata alla foto e poi a Natasha che ricambiava dall’alto.
« E questo cosa c’entra? » domandò, cominciando a sospettare che la spia si stesse affezionando un po’ troppo meramente al lato sentimentale della causa.
« Stark non è un pericolo pubblico. E’ solo un donnaiolo che si è preso una sbandata per l’unica intelligente che non è riuscito a portarsi a letto e che cerca di proteggere »
« Dichiarandosi al mondo come Ironman? » replicò scettico e Natasha roteò gli occhi.
« E’ un uomo quindi è stupido per natura, ma ci tiene veramente. Ci sono filmati che lo provano e lei è cotta, ma non cede per via della professionalità. Per questo ha dato le dimissioni » spiegò, piegando le dita come le virgolette quando pronunciò l’ultima parola.
Phil distolse per un attimo lo sguardo da quello indagatore della donna per meglio meditare.
« Altro oltre a questo? » chiese infine, richiudendo la cartellina.
« Alcuni progetti criptati nel server. Inaccessibili, ma tutti nominati Mark »
« E a che punto è? »
« Morto. Da settimane scende in laboratorio, ma non lavora »
« Magari gli manca l’ispirazione » avanzò con un cipiglio ironico mentre apriva il cassetto, riponendo la cartella insieme alle altre sotto il nominativo “Stark”.
« O magari ha paura di morire – sbottò lei – Ho visto alcuni dati sul suo avvelenamento: ha avuto dei picchi del cinquanta percento »
« Sintomi visibili? »
« Mal di testa, febbre e vomito – elencò, inclinando leggermente la testa con fare allusivo – Sta peggiorando. Cosa aspettiamo? »
« Ha preso il siero? »
« No, ma lo tiene come una reliquia – sibilò Natasha, sporgendosi verso Phil – Forse è ora che il Signor »
« …Crossbow ritiene che Stark sia la soluzione al suo stesso problema »
« Stark è emotivamente a terra, non riesce a salvarsi. Dobbiamo intervenire »
« Ha dei sospetti riguardo Monaco? »
« Ha fatto riportare il kart a Malibu e a quanto ho capito, i freni sono stati manomessi » rispose, spostandosi i boccoli dal viso.
« Tu continuerai a sgobbare per la Potts e ti assicurerai che né lei né Stark sospettino di noi che invece, ci occuperemo di Hammer e del suo avvocato. Vediamo se nascondono qualcosa » decretò, facendo scorrere il cassetto fino alla sua chiusura.
 

***

I giorni si susseguirono veloci, come se avessero fretta. Tuttavia Virginia fu talmente immersa nel lavoro in azienda che quasi non se ne rese conto che il Natale fosse praticamente arrivato. Nel giorno della Vigilia furono le lucine colorate di una vetrina sotto casa sua a risvegliare la bambina che era in lei.
Stava aspettando Happy quando il suo sguardo si catalizzò su una finestra che dava su un quel piccolo cafè di Los Angeles. Ciò che la estraniò dal presente, fu una bambina con un paio di codine e un apparecchio odontoiatrico, seduta a un tavolino assieme a quello che doveva essere il padre. Uno di fronte all’altra con un paio di milkshakes e dei bagels appena sfornati.
« Signorina Potts? ».
La voce dello chaffeur la richiamò alla realtà, ricordandole che doveva andare a lavoro.
« Ow… Ciao Happy »
« La macchina è pronta – annuì e tornò a guardare i due comuni soggetti – Qualcosa non va? »
« Stavo solo pensando a… Vecchi ricordi » rispose, scuotendo un poco la testa come a voler distendere le acque che avevano preso ad agitarsi nel proprio inconscio.
« Happy, a te piace il Natale? » chiese  e lo chaffeur la fissò come se le fossero spuntate delle orecchie da coniglio.
« A chi non piace il Natale? » domandò in risposta e Virginia ridacchiò.
« Hai ragione. Andiamo ».
Nel pomeriggio si fece poi accompagnare a Villa Stark dove non metteva piede da qualche settimana a causa di continue riunioni e impegni amministrativi. Inoltre l’abitazione si era fatta fin troppo affollata a causa delle continue prove del gruppo di ballerine per l’apertura della expo, ancora tutta da organizzare viste i continui cambi di esigenze dell’ideatore. Tony l’aveva chiamata al telefono per infastidirla, d’altronde era stata costretta ad ammettere che la sua vita lavorativa era diventata drasticamente noiosa senza un geniale miliardario da rincorrere a destra e a manca. Non era abituata a tutta quella quiete e all’assenza del suo sorriso obliquo, dei suoi occhioni da cucciolo.
Scese dalla vettura e si avviò dentro la Villa. L’AI la salutò con garbo e l’avvertì che il proprietario si trovava in visita alla White Dove.
 
Tony infatti stava valutando il regalo che aveva scelto per sua zia.
Quel mattino si era svegliato – già di pessimo umore per via degli incubi che riguardavano incidenti automobilistici – con l’idea di non presentarsi a mani vuote, ma non potendo far affidamento sui soliti fiori di campo, si era deciso a trovare qualcosa che potesse sostituirli. Aveva aperto lo Stanzino – quello in cui aveva accatastato tutte le cose che suo padre aveva lasciato alle Industries – convinto di avervi visto, circa diciotto anni addietro, una foto con Steve Rogers. Più di una volta sua zia gli aveva raccontato del periodo della guerra e pur non dicendoglielo apertamente, non gli era sfuggito il tono con cui si riferiva al soldato. Quando poi le aveva chiesto ulteriori chiarimenti, si era limitata ad un sorriso triste come quello di un’amante che non ha potuto assaporare la primavera.
Ora che aveva tra le mani la cornice – dopo averla ripulita dallo strato di polvere e vecchiume – impacchettata e con bigliettino annesso, si chiese se fosse il caso giusto per una donna che soffriva d’alzheimer.
« Entra, caro » esordì Peggy, riscuotendolo.
Tony si affacciò oltre lo spigolo della porta, dietro cui si era nascosto a rimuginare e la vide seduta sulla poltrona vicino al finestrone, che dava sul parco. Socchiuse il battente dietro di sé e si avvicinò, tenendo il pacchetto dietro la schiena.
Si chinò per schioccarle un bacio sulla guancia e lei sorrise, lasciandogli una carezza sul volto.
« Come stai? » le chiese, osservandola con attenzione.
Nonostante le rughe e i capelli bianchi, lo scorrere del tempo non aveva cancellato la sua bellezza.
« Come una vecchia malata » rispose lei con un pizzico di autoironia, che fece scintillare i suoi occhi castani.
« Non ti si può consolare » borbottò lui, sedendosi di fronte a Peggy che lo seguì con lo sguardo.
Era teso, riusciva a percepirlo.
« E tu? »
« Io? – mormorò, spostandosi più vicino a lei con la sedia – Sto » aggiunse, facendo spallucce.
Peggy, che di anni ne aveva a sufficienza per capire le cose al volo, sospirò dolente.
« Diciassette anni… Sei andato a far loro visita? – lui negò, fissandosi le scarpe – Prima o poi dovrai farlo, Tony » lo rimbrottò, carezzando i braccioli.
Aveva aspettato che la raggiungesse e di certo, non si era fatta illusioni nel giorno dell’anniversario.
« Preferisco il poi » rispose Tony, rilassandosi sullo schienale della sedia imbottita.
Guardò il prato, poi girò la testa verso Peggy.
« Perché non ti fai accompagnare da lei? – riuscì a vedere comunque il vago rossore sotto il pizzetto – Ammetto che il cimitero non sia il luogo ideale per un primo appuntamento, ma… » ridacchiò con una smorfia e finalmente, vide l’ombra di un sorriso sul volto di colui che ormai si avvicinava ad un figlio.
Tony si passò una mano sul mento, ma non se la prese. Quello fra lui e Peggy era un rapporto peculiare che non aveva alcun riscontro. Parlarono un po’, alternando momenti di silenzio – che valevano molto di più – a vere e proprie discussioni su politica, economia e divagazioni di vario genere.
« Mi piacerebbe incontrarla » disse Peggy ad un tratto.
Tony sorrise. Non era la prima volta che gli faceva quella richiesta e non era la prima volta che ci faceva un pensierino. Per certi versi, le due donne si somigliavano in modo psicanaliticamente raccapricciante.
« Non ricordo neanche la tua prima cotta né se l’hai avuta – mormorò lei, guardando fuori – Avevi uno stuolo di ragazzine che scalpitavano per te al liceo, ma nessuna ha mai attirato la tua attenzione »
« Forse perché non era per me che scalpitavano, ma per il conto in banca » commentò quasi più a sé stesso.
« Anche lei? »
« No. Lei è diversa… – sbuffò – Se le faccio un complimento, arrossisce »
« Credevo si fossero estinte donne così – rispose Peggy e Tony la analizzò – Soddisfa la curiosità di una vecchia romantica » specificò, quasi pregandolo.
« Ha i capelli rossi, gli occhi azzurri e la pelle chiara. Di media statura… »
« Non ti ho chiesto la carta d’identità, Tony » evidenziò lei, consapevole che lo stava irritando.
Era un gioco che le permetteva di esercitare solo in quanto madrina.
« E’ intelligente, brillante… Ha il senso dell’umorismo » rispose dopo qualche attimo in cui parve incepparsi.
« Ti mancano le parole » notò la donna con un accenno d’ilarità.
« Non ci sono parole » parlottò Tony quasi disturbato nel vedere abbassarsi le proprie difese, erette con tanta pazienza.
Peggy concordò, pensando che bastasse guardarlo negli occhi.
« E’ per questo che hai esitato prima? »
Tony fece segno di no e tornò con la schiena ritta.
« Stamattina ho dato un’occhiata alle cose di Howard – lei si schiarì la gola in modo significativo – …di papà… e ho pensato di portarti questo » si corresse, porgendole il pacchetto.
Peggy lo afferrò sorpresa e lo scartò. Allontanò i lembi strappati e inclinò la testa, sorridendo.
« Oh, Tony… – bisbigliò con gli occhi lucidi – Grazie »
« Buon Natale » mormorò lui mentre posava la cornice in piedi sul tavolo.
La ammirò per qualche istante poi lo fissò come se le fosse venuto in mente qualcosa che aveva accantonato e rovistò nella tasca del trench che teneva appeso allo schienale della poltrona.
« Anch’io ho una cosa per te. L’ho trovato nel vecchio baule, che mi sono fatta portare dall’Inghilterra. Non era mai il momento adatto, ma ora sento che lo è » disse, riferendosi all’oggetto che posò al centro del suo palmo. Quando tolse la propria mano, la fronte di Tony si distese e gli occhi si spalancarono un poco mentre la mente tornava indietro a un passato lontano, nel tempo e nello spazio, ai limiti della memoria.
Con un pollice sfiorò la superficie dorata del medaglione che sua madre soleva portare e che rigirava tra le dita dopo aver litigato col marito.
« C’è un piccolo sportello all’interno, dove puoi aggiungerci un’altra foto » propose Peggy quando si decise ad aprirlo. La bocca del suo stomaco si attorcigliò quando le sue pupille riconobbero un foto-ritratto illeso, in bianco e nero, dei suoi genitori quando erano giovani e spensierati.
Tirò sul col naso e guardò sua zia, che lo studiava con gravezza.
« Sono solo un po’ stanco » si giustificò quando la propria vista si appannò.
« Tony… – lo riprese lei, dolcemente – Essere un uomo, significa non avere paura di piangere ».
Chiuse il pugno, stringendo il medaglione prima di cedere. Appoggiò le braccia incrociate sulle ginocchia di sua zia, immergendovi la faccia quando l’amarezza lo travolse come in fiume in piena, che aveva rotto gli argini. Non pianse perché negli anni la tristezza era finita per diluirsi in bicchierini di superalcolico, ma non riusciva a stare seduto composto.
Peggy si asciugò una lacrima solitaria e prese a far scorrere le dita fra i capelli dell’uomo, infondendogli fiducia. L’inclinazione dei raggi solari si spostò di qualche grado quando Tony fu di nuovo capace di compiere un respiro profondo, con cui raccolse tutti i cocci di sé. Nel raddrizzarsi Peggy lo fermò, incorniciandogli il viso con entrambe le mani.
« Il mio piccolo Eddy… – con l’indice gli schiacciò affettuosamente la punta del naso e lo lasciò andare – Scommetto che anche quest’anno non hai fatto l’albero ».
« Beccato » ammise Tony, per niente imbarazzato da quelle effusioni.
Anche se il nomignolo gli era costato un giro del reattore.
« Voglio che quando esci di qui, tu vada subito a comprare un abete. Poi chiamerai quella donna e insieme, appenderete le decorazioni. Puoi farlo? »
« Okay »
« Dovete solo decorare l’albero – lo redarguì con tono malandrino – Oh, non fare così! Sono stata giovane anch’io, sai? » gli rammentò quando lo vide passare a tutti i colori dell’arcobaleno.

*

Virginia, che si era rintanata nelle pratiche, verso sera uscì dall’ufficio del proprio capo – perché ancora, in una clausola di contratto da sette punti tipografici, lo era a tutti gli effetti – con le mani per la prima volta in quei mesi non occupate da documenti, ma con un piombino sul petto. Lo stesso che aveva provato quel mattino davanti al bar.
Era da molti anni che non viveva un Natale normale. Di solito partecipava a qualche festa organizzata dai dipendenti delle Starks oppure veniva invitata da qualche sua amica di vecchia data, se sua madre non si sentiva in vena. Dopo la dipartita di suo padre, quell’occasione aveva perso molta della sua magia e dei suoi colori per entrambe. Intrecciò le dita davanti al grembo e raggiunse il salotto, dove trovò Tony intento a frugare in degli scatoloni. In parte appoggiati sul divano e sul tavolino, in parte sparsi sul pavimento. Si chiese da quanto fosse lì e fu in quel frangente, che si accorse di non averlo sentito rientrare.
Lui si drizzò, volgendosi verso la sua direzione e qualcosa fece aggravare quel peso sul petto quando i loro sguardi s’incontrarono.
« Io avrei finito » annunciò e Tony annuì, tornando a cercare qualcosa in uno scatolone.
Aveva pensato di fare come gli aveva detto sua zia, ma dopo aver posizionato l’abete, uno strano senso di repulsione gli aveva impedito di bussare alla porta e chiamarla fuori.
« Va’ da sua madre? » tentennò.
« Sì. Quest’anno ci sarà anche mia nipote »
« Nipote…? » scherzò e Virginia non seppe dire il perché, ma si sentì meglio.
« La figlia di mia sorella »
« Si diverta » rispose, lanciandole un’occhiata e un lieve sorriso. Quasi di circostanza.
« Le direi lo stesso se non sapessi che farà ben più che divertirsi » rispose di contro, ma lui aumentò solamente la curva delle labbra. Era come se volesse dirle qualcosa, ma non riuscisse a farlo. Come se qualcuno gli stesse puntando una pistola per farlo tacere.
Tony quasi sobbalzò quando si trovò Virginia a pochi centimetri di distanza.
« Cosa sono? » domandò curiosa, affacciandosi per poter vedere meglio dentro lo scatolone.
Si scansò per farle spazio con una piccola casetta di legno, che doveva avere più di trent’anni, tra le dita ansiose. L’aveva costruita da bambino, con una piccola lampadina per dare l’impressione che la miniatura fosse realmente abitata.
Virginia esaminò il contenuto di quella scatola e sorpresa, constatò che era piena di bellissimi festoni, palline e varie decorazioni per la casa. Di qualsiasi forma e colore.
« Vuole… Vuole mettere le decorazioni? » chiese, tornando a guardarlo.
In tutti quegli anni non aveva mai visto Villa Stark addobbata. Era come se quel particolare incantesimo dicembrino giungesse in tutte le parti del globo, tranne sulla scogliera di Malibu Point. Non avrebbe mai dimenticato il suo primo anno come assistente quando, da poco abituata ai ritmi dell’eccentrico ereditiere, grazie al loro strano rapporto si era sentita quasi in dovere di trasmettergli quel genere di positività. Ma la vicenda non era finita per il verso sperato e Tony si era infuriato come una belva quando aveva visto un abete all’ingresso, dichiarando che non credeva affatto in quelle < storielle per poppanti >.
Virginia aveva intuito fin da subito che c’era qualcosa di molto sofferto e negli anni seguenti, aveva trovato un’ulteriore conferma non circoscritta al giorno di Natale. Già a fine novembre, Tony si trasformava in un fantasma e cominciava a comportarsi come se vivesse in un mondo isolato, rispondendo a monosillabi senza alcuna traccia del suo solito umorismo. Il tutto passava dopo un paio di settimane.
Non aveva capito finché, cercando in rete, non aveva trovato l’articolo che trattava la morte dei coniugi Stark. Un terribile incidente in auto, proprio all’approssimarsi della Vigilia.
Quando gli sovvenne il da poco trascorso diciassettesimo anniversario, si pentì immediatamente dell’insensibilità usata. Lo vide giocherellare con una casetta, evidentemente frutto dell’ingegno infantile. Perché, nonostante fosse di un livello intellettuale avanzato per via della lampadina che l’uomo aveva acceso grazie ad un pulsante, le pareti erano state colorate coi pennarelli e sul tettuccio era stata incollata dell’ovatta, cosparsa di brillantini. Quando Tony alzò il viso, sorrise comprensiva.
« Vuole che le dia una mano? » propose senza neanche aspettare una risposta.

Appena un’ora dopo, venne il momento dell’albero che era già stato sistemato accanto al pianoforte, riportato da poco dopo una lunga e severa riparazione che Tony aveva seguito, temendo delle persecuzioni da parte del fantasma di sua madre. Comprarne uno nuovo non era un’opzione da prendere in considerazione.
Dopo aver scelto i colori, blu e bianco, istituirono una sorta di catena di montaggio: lui – che ne approfittò per guadarla da vicino – le passava le decorazioni e Virginia si premurava di metterle nel modo e nel posto giusto. Si allungò per raggiungere i rami più alti dove fissò il boa argentato per poi scendere, ruotando attorno all’albero. Ammirò l’opera con le mani sui fianchi, senza accorgersi che il miliardario la stava sostanzialmente anatomizzando finché non sentì un anelito appena accennato. Si volse, beccandolo sul misfatto – le sembrò anche che fosse divenuto più rosso – con la casetta tra le mani. Gli andò vicino e senza distogliere gli occhi dai suoi, gli fece cenno di appenderla.
Tony, con una palla di pelo incastrata nelle corde vocali, la accontentò mentre lei fingeva di recuperare il tocco finale da uno scatolone. Di sottecchi notò la sua esitazione e sorrise quando finalmente, si decise ad apporre la propria decorazione.
« E ora la stella » annunciò, issandosi sulla scala.
Dovette sporgersi per riuscire a piazzare il grosso puntale, ma nel ripercorrere all’inverso i pioli, un piede nel vuoto le costò un volo fra le braccia di Tony che, con riflessi che non credeva di possedere, pose le braccia prima che fosse tardi.
« …cadente ».
Virginia che aveva strizzato le palpebre per non dover assistere alla propria fine, quando le riaprì desiderò essersi spiaccicata sulle mattonelle.
« Davvero spiritoso. Ora mi metta giù » ordinò, cercando di mantenere la sua solita dignità.
Tony la fissò impertinente, troppo ingordo dell’opportunità – decisamente fortuita – di tenerla stretta.
« Questo è il ringraziamento per averle salvato la vita? » fece sbalordito.
« Oh, suvvia! Sono solo cinquanta centimetri, mi metta giù » sminuì lei a metà tra la stizza e la vergogna.
« Come vuole » disse, allentando improvvisamente la presa sul busto e sotto le gambe.
« TONY » strillò Virginia, accollandosi a lui un attimo prima di sfracellarsi a terra.
« Mi ha detto di metterla giù » si difese il miliardario, continuando a reggerla a mo’ di sposa.
« Sì, ma non di lasciarmi cadere! »
« Si decida, santo Cielo! »
« La smetta, Tony o giuro che le lancio qualcosa in testa ».
Alla fine per evitare che mettesse davvero in pratica quella minaccia, Tony la riportò sul pavimento e Virginia potè ricordarsi com’è che si respira.
« Tutto bene? »
« S-sì, grazie. E si tolga quello stupido sorriso dalla faccia » aggiunse, agitandogli un dito dinanzi.
« Mi perdoni, ma se continua ad arrossire così finiranno per scambiarla per Mamma Natale » rispose lui nel primo evidente tentativo di non ridere, che cadde nell’inutile quando le labbra di Virginia si incresparono.
Tony sollevò le braccia per difendersi dalla pioggia di pugni, che scemarono mentre la donna fuggiva verso la propria camera con la scusa di doversi cambiare.
 
Si trovava sul divano quando sentì i suoi passi, non molti minuti dopo.
Virginia si girò, accostando la porta e lo adocchiò con un’espressione che la fece avvampare. Abbassò il capo, fingendo di sistemarsi la frangia.
Tony la raggiunse e con una mano a coppa sotto il mento, la esortò a guardarlo. Sedotto da lei e dal suo vestito panna, indossato elegantemente assieme a un paio di collant e degli stivaletti abbinati, con le maniche a tre quarti e la gonna svasata che le faceva la vita sottile. Il tessuto simile ad una trapunta era costellato attorno alla scollatura ampia da delle perle, riprese dall’elastico che teneva i capelli fulvi stretti in una coda di cavallo.
« E’ un incanto » sospirò.
« Come al solito non le mancano le parole »
« Mi creda, con lei il mio repertorio subisce una riduzione drastica » rispose con un sorrisetto a fior di labbra. Virginia sbatté le ciglia, come destandosi da un sogno.
« Devo andare, adesso »
« Faccia buon viaggio e vada piano – lei gli scoccò un’occhiata in tralice – Beh, non vorrei essere costretto a trovarmi un’altra CEO »
« Babysitter » ribatté.
« CEO. E sarebbe molto difficile »
« Addirittura?! » chiese interessata, portandosi le mani sui fianchi.
« Sì, perché lei è insostituibile – mormorò Tony, rettificando poi a sproposito quando la donna gli rivolse un sorriso genuino –  Insomma lo ha detto lei stessa che non sono in grado di allacciarmi le scarpe » tartagliò, gesticolando con frenesia mentre tornava vicino a lui.
« Buon Natale, Tony » sussurrò Virginia, allungandosi appena per schioccargli un bacio su una guancia.
« Buon Natale, Pep » disse con un sorrisetto quando gli sovvennero le parole di Peggy.
Poi la osservò recuperare borsa e cappotto, fermarsi nell’atrio e scrollare in alto le dita per salutarlo. Ricambiò per poi sollevare lo sguardo verso l’abete, infilando le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni. In quella destra, raccolse il medaglione senza tirarlo fuori.
« Jay, le luci – ordinò e i led si spensero, cedendosi alle lampadine multicolori dell’albero – A mamma piacerebbe tanto… »
« Che cosa, Signore? »
« L’albero. Parlavo dell’albero ».
Non era così, ma JARVIS lo sapeva da un pezzo.

*

La maggior parte delle persone a Los Angeles erano alla ricerca del regalo dell’ultimo minuto, operai appena usciti dal turno e che come lei, si apprestavano a raggiungere la festa. Il tragitto verso casa di sua madre fu un po’ più lungo del previsto visto il traffico natalizio. Fermandosi ai semafori rossi ebbe modo di vedere anche individui che, al contrario, sembravano indifferenti. Passeggiavano per le vie della città con il cellulare in mano, ferme agli angoli delle strade con una sigaretta in bocca oppure con le cuffie nelle orecchie. L’unica costante era lo sguardo spento, come se qualcosa avesse risucchiato via la loro capacità di gioire. E la sua mente volò inevitabilmente a Tony.
Sul divano davanti alla tv nella sua grande villa, aggettante sul Pacifico, con un bicchiere di scotch come unica compagnia.
Nell’addobbare l’albero insieme, Virginia aveva avvertito il tepore di un’emozione che aveva creduto dimenticata e sepolta con la bara di suo padre. Era la stessa che aveva provato nell’infanzia, quella serenità che si prova nel constatare di essere nel posto giusto. Con le persone giuste.
Continuò a ripetersi che non aveva insistito perché restasse eppure un’altra vocina dentro di lei, che albergava non distante dal cuore, le ricordò quanto Tony fosse bravo ad occultare i propri pensieri.
Immersa in quello stato inquieto, quasi non si accorse di aver raggiunto casa di sua madre – una normalissima villetta a schiera di modeste dimensioni – a Pasadena. Mise la freccia e parcheggiò nel vialetto che portava al garage. Prese la borsa e mentre apriva lo sportello qualcuno parve annunciarla come un araldo di corte, arrivandole alle orecchie carico di eccitazione.
 « E’ arrivata! Zia Ginny, è arrivata! ».
Virginia fu travolta dall’uragano Daisy: una quindicenne coi capelli dorati come il grano e una coppia di zaffiri nelle orbite. Un marchio di fabbrica, firmato Potts.
« Oh, wow! Che accoglienza » ridacchiò quando due esili braccia le cinsero la vita.
« Mi sei mancata »
« Anche tu mi sei mancata, Daisy » mormorò con la voce incrinata.
Non la vedeva dall’età di otto anni quando la secondogenita di Richard Potts aveva deciso di rompere ogni sorta di legame con le proprie radici.
I rapporti fra Virginia e Georgiana – tra cui correvano cinque anni di differenza – erano sempre stati conflittuali, a causa dell’invidia che la sorella minore provava per lei e l’armonia familiare si era incrinata ulteriormente quando a sedici anni era rimasta incinta di Daisy. Il fidanzatino dell’epoca, un poco di buono a detta di tutti, era scomparso nel nulla appena appresa la notizia.
Virginia, dopo un primo momento di delusione condivisa coi genitori, si era mostrata accogliente e disponibile con Georgiana che però, aveva ripagato tutti col disprezzo. Poi era sparita, facendosi viva di sfuggita alla veglia funebre del padre. Fortunatamente la bambina era rimasta intatta da quel ciclo di dissapori e Virginia aveva trovato in lei una nuova sorellina.
Al benvenuto si unirono anche sua cugina Avery, figlia unica di Amelia  – sorella di Emma e vedova – e di Henry Potts. Il fratello di mezzo tra Morgan e Richard, uno dei membri più onorevoli dell’esercito caduto in Vietnam.
 « Finalmente! » esultò la giovane donna, con cui Virginia condivideva il colore dei capelli ereditato dal nonno Andrew, scomparso nei gloriosi anni sessanta.
« Ciao, Avery »
« Non mi avevano detto che eri così cresciuta » sopraggiunse l’altra donna con una chioma castana e riccioluta disciplinata in uno chignon dietro la nuca.
« Zia Amelia ».
Infine arrivò anche sua madre, tornata ufficiosamente nubile come Emma Williams. Si tolse il grembiule da cucina e lo lanciò verso la sorella mentre abbracciava Virginia.
« Fate largo! »
« Mamma »
« Fatti guardare… – disse, prendendola per le spalle e allontanandola da sé – Questo vestito è un amore, ma tu staresti bene anche con uno straccio. Come ti senti? » domandò quando le altre donne erano rientrate in casa per lasciar loro un po’ d’intimità.
« Bene »
« Sei sicura? » la interrogò, stringendo le palpebre e Virginia sorrise.
« Sì, certo »
« Di’ la verità: vorresti essere sommersa dal lavoro » la accusò la madre.
« In realtà non ci tengo così tanto a quelle cartacce » disse, arcuando un sopracciglio.
« Alla cartacce no… – assentì cospiratoria – A proposito come sta il Signor Stark? ».
Eccolo lì, di nuovo. Proprio a sinistra, sul petto.
« Sta bene… »
« Potevamo invitarlo ».
Virginia assunse un’espressione che manifestava tutto il suo dubbio per una tale utopia.
« Qui? Intendi qui, a casa tua? »
« Sì, che c’è di male? »
« Mamma, siamo cinque donne più una ragazzina » rispose, riferendosi a sua zia Diane.
Moglie di Morgan con cui aveva dato vita al famoso cugino Harry, esperto di computer.
« Sei, tua nonna è dentro e sai che l’inverno le grava sulle ossa. E poi si sarebbe fatto forza con tuo zio Morgan » la corresse.
« Due uomini contro sei donne e un’adolescente? » borbottò lei, immaginandosi suo zio eclissato da qualche parte per starsene il più distante possibile da loro.
Emma le sottrasse la borsa, poi la prese per un gomito e la trascinò in casa.
« Sei sempre così musona! Forza, andiamo ».

« Entro stasera, Colonnello. O io e lei domattina saremo spostati in un ufficio di reclutamento » sbraitò il Maggiore e James riagganciò.
In quello stesso momento, qualcuno decise di mettergli una ghigliottina tra capo e collo.
Ciò che stava per fare lo faceva sentire un traditore, ma d’altro canto quale altra scelta aveva? Aveva cercato di salvare il salvabile, ma per quanto potesse sforzarsi non avrebbe mai vinto contro l’orgoglio dell’amico.
Smontò dal taxi, lasciando il resto all’autista e si avvicinò al cancello per la scansione retinica. Mentre procedeva lungo il vialetto, il cellulare squillò nuovamente per avvisarlo di sms.
 
Ciao. Lo so che non dovrei chiedertelo,
ma farò affidamento sul tuo onore militare e sul tuo buon carattere.
Se ti capita di passare da lui, sii paziente. Non è un bel periodo.

Ps: Buon Natale da tutte le donne Potts.

Sorrise nel leggere l’ultima riga e riprese a camminare mentre digitava una breve risposta.

Farò del mio meglio. Buon Natale anche a voi, Signore.

« Buonasera, Colonnello » esordì il maggiordomo quando raggiunse l’ingresso.
« Ciao JARVIS » rispose, guardandosi attorno con perplessità.
In tutta la sua vita, da quando aveva conosciuto Tony, non aveva mai visto la sua Villa decorata in vista del Natale. Era la prima volta che vedeva un abete scintillante troneggiare sul salotto accanto al pianoforte.
« Il Signor Stark è in laboratorio » lo riscosse l’AI.
James si abbottonò la giacca e scese le scale senza fretta, ripassando mentalmente il discorso. Digitò il codice di accesso ed entrò nel locale, dove trovò il miliardario seduto al tavolo di lavoro intrattenuto da una bottiglia di alcolico – superalcolico – e una ragazza semisvestita con un cappellino da folletto, che ridacchiava sulle sue ginocchia. Non ebbe il bisogno di chiederle chi fosse, convinto che si trattasse una delle tante “amichette” che il miliardario invitava con regolarità quando si sentiva particolarmente festaiolo o pateticamente depresso.
‘Alla faccia del periodo difficile…’, e un pensiero andò a Pepper, che doveva assistere a scene simili – se non – quasi tutti i giorni.
Il Colonnello tossì e Tony si presentò oltre la spalla della corteggiatrice con un sorriso smagliante.
« Rhodey! Vuoi unirti a noi? »
« Potrebbe lasciarci soli? » mormorò rivolto direttamente alla ragazza, che afferrò la maglietta – che ben poco la copriva – e si dileguò.
Tony sghignazzò, apparentemente senza motivo, prima di scolarsi un bel sorso di scotch direttamente dalla bottiglia.
« Devo parlarti di una cosa seria, ci riesci? » esordì l’amico, appoggiandosi con le spalle al muro.
« Okay » disse, lasciandosi cadere sulla poltrona.
« Ci sono dei problemi »
« Mmh… Cosa ho fatto? » mugolò per poi mandare giù un sorso.
« Diciamo che la bravata di Monaco ha impensierito tutti » rispose James, abbassando per un attimo lo sguardo mentre quello di Tony si trasformò in aperta ostilità.
« Continua… »
« Ho ricevuto l’ordine di sequestrarti l’armatura. I miei superiori sono preoccupati »
« Già, perché non lavoro per loro » osservò acidamente.
Era ovvio che venissero a cercarlo, se già non lo aveva fatto Monocolo Fury.
« Tony, non si tratta di me. E’ già tanto che io sia qui al posto dei carri armati »
« Che vengano pure… » biascicò, scacciandolo con un gesto molle della mano mentre si alzava.
« Ma non capisci?! Se non collabori adesso, butteranno giù la tua porta di casa e io non potrò fare niente per difenderti » rispose l’altro sempre più frustrato.
Non solo perché rischiava la carriera, ma anche perché c’era in gioco la vita di un amico.
« Come a Washington? » sibilò Tony velenoso mentre James incrociava le braccia sul petto, calcolando quanto fosse lucido.
« Mi ha scritto Pepper » rispose, cambiando drasticamente i toni della conversazione.
« Perché? » sbottò il miliardario accigliato.
In un’altra occasione avrebbe sorriso di quella manifestazione di gelosia.
« E’ preoccupata e lo sono anch’io – aggiunse grave – Ma se non parli con noi, non possiamo aiutarti ».
Tony lo guardò, spostando il peso da una gamba all’altra. Era instabile, ma riusciva a capire cosa gli stesse dicendo il Colonnello. La sua coscienza tentò di riemergere dall’ebbrezza come un marinaio trascinato da un tifone, ma finì per affogare nel flusso continuo e scombinato che erano immagini, suoni e azioni.
« Nessuno può aiutarmi » dichiarò, dandogli la schiena.
« Vuoi morire? » chiese James senza mezzi termini.
Tony si bloccò sia perché se avesse fatto un passo in più sarebbe con tutta probabilità svenuto, sia perché doveva rifletterci. Cercò di stilare un elenco di pro e contro della propria morte, ma la sua mente era ridotta ad un groviglio confuso di ricordi e sogni, di persone e fantasmi.
« Tu non hai bisogno di un reattore per vivere, perciò non parlarmi come se fosse tutta una questione di volontà »
« E’ una questione di volontà » rispose l’altro, agitando le braccia.
« Ci sto provando, okay?! »
« Ubriacandoti?! ».
Tony si volse a guardarlo e con la medesima mano con cui reggeva il collo della bottiglia, lo indicò mentre avanzava in linea retta. Cosa che meravigliò anche James.
« Quando ti ho proposto di entrare nel progetto Ironman, non mi hai neanche ascoltato »
« Eri appena tornato dall’Afghanistan »
« Oh e dimmi… Tu lo sai com’è stare pigiati in un buco sottoterra dimenticato da Dio? » sussurrò a pochi centimetri dalla faccia di James, che rimase impassibile come una statua di sale.
« Forse ne avrei una vaga idea, se ne parlassi con me »
« Con te? O con le tue medaglie? » sogghignò malignamente per poi indietreggiare e ingollare altri sorsi di scotch.
« Sono tanti anni che te lo voglio chiedere… come fai ad essere così stronzo? » mormorò il Colonnello.
« Forse perché ho il peggiore amico sulla faccia della Terra » rispose il miliardario, alzando un palmo verso l’alto come un bambino che cerca di provare la propria innocenza.
« Beh, neanche tu sei così fantastico. Mi sono esposto in prima linea a quel processo e sapevi benissimo, di essere in torto! » sciorinò una serie di articoli costituzionali, norme e leggi militari, tanto che perfino faticò a seguirsi.
« Ti sei offeso perché non ti ho detto ‘grazie’? »
« Io e Pepper abbiamo lavorato a quella causa perché non ti sbattessero in prigione. Ed è quello che sarebbe successo se- »
« Smettila di metterla in mezzo! » gridò Tony, muovendo un braccio e desiderando di poter spazzar via tutto. Il palladio, lo SHIELD, Stane e il ricordo dell’obitorio.
« Tu le hai affidato le Enterprises, sottoponendola ad uno stress maggiore di quanto già non avesse facendoti da tata. L’hai esposta alla stampa, al mondo dopo esserti disegnato un bersaglio dritto in fronte – rispose James di pari tono – La metto in mezzo perché sei stato tu il primo a farlo »
« Non è vero » bofonchiò, trattenendo l’aria che risaliva dallo stomaco che pareva bruciargli le viscere e a padronanza di tutte le sue facoltà. O almeno quelle razionali.
« Ogni volta che ti rendi conto di averne fatta una delle tue, ti nascondi dietro le sue gambe perché sai che ripulirà sempre. E quel che è peggio, è che te ne approfitti » dimostrò James, fermo a un braccio da lui.
« Ora ho capito qual è il tuo problema: sei geloso »
« Sì. Sono geloso del fatto che qualcuno ti ami così tanto da oltrepassare il tuo carattere di merda e aspettarti. Al posto suo avrei consegnato le dimissioni dieci anni fa »
« Che ne sai tu… »
« Lo so, razza di idiota! Perfino JARVIS lo sa… »
« Vuoi l’armatura? Prenditela e vattene! – sbraitò e gli ci vollero tutte le forze rimastogli per pronunciare quell’accozzaglia di sillabe – Non sei mio padre »
« Probabilmente riuscirebbe a farti capire quanto tu sia stupido! » scoppiò James che non ebbe neanche il tempo di realizzare, figuriamoci fermare, il gancio che gli arrivò sul viso.
La botta, che quasi gli spezzò il naso, lo fece vacillare. Trattenne il fiato nei polmoni, la rabbia nelle mani a coprirsi il setto da cui colava sangue.
I suoi occhi si sbarrarono in quelli bui di Tony, con la cognizione che avrebbe potuto usare la bottiglia. Avrebbe voluto dirgli quanto fosse facile scappare, difficile combattere perché non si ottengono le cose solo perché le si desiderano. Ma era talmente attonito che non riusciva neanche a metabolizzare l’accaduto. Fu l’amico a farlo per lui con un’unica frase.
« Chiudi bene la porta quando te ne vai ».
 
Angolo Autrice: Voilà! Finalmente sono tornata in pista :D
La maturità è finita con risultati perfino migliori delle previsioni e adesso, sono libera di rompervi le scatole. O almeno fino ad ottobre perché poi riprenderò gli studi.
Ma state tranquilli, il mio lavoro non finirà certo in questo fandom, eheheh
Anche perché abbiamo ancora moooolto da affrontare e soprattutto Tony dovrà subire altre grosse batoste (sono sadica? certamente u.u) prima di trovare una giusta e meritata ricompensa ;)
Che altro dire? I toni di questo capitolo si sono fatti rossi e non solo perché siamo a Natale *ops* e spero che sia riuscita ad alleviare la calura di questi giorni (non so voi, ma a me manca la neve... e il gelo...) oltre che sessioni estive come quelle di 
_Lightning_, che ringrazio ancora tantissimissimo per le recensioni a cui spero di rispondere quanto prima e soprattutto in modo adeguato (le ho lette con gioia, come sempre e sì, hanno alleggerito molto la tensione degli esami <3 GRAZIE, spero di aver ricambiato il favore :* ).

Ringrazio in ultima istanza ancora tutti voi - visitatori silenziosi, inclusi - e dato che per il momento è tutto, linea allo studio!
Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always
 
PS: BUONE VACANZE A TUTTI!!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. From your Eyes ***


Note pre-capitolo: Salve salvino! Fra gli avvertimenti di questa mia ff, ho selezionato la voce “tematiche delicate”, ma ho comunque trovato opportuno fare un piccolo appunto: in un dialogo sottostante, troverete una descrizione un po’ cruda della realtà del conflitto (ho preso spunto da altri film e – purtroppo – da fatti di cronaca). Spero di non aver esagerato.
Se così fosse, fatemelo sapere e modificherò seduta stante.
Buona lettura!

FROM YOUR EYES

“I know you, you’re a special one. Some see crazy where I see love.
You fall so low but shoot so high, big dreamers shoot for open sky.
So much life in those open eyes. So much depth, you look for the light.
But when your wounds open, you will cry.”
- Rainbow, Sia
 
“Maybe it’s 6:45, maybe I’m barely alive.
Maybe you’ve taken my shit for the last time…
Maybe I know that I’m drunk, maybe I know you’re the one.
Maybe you’re thinking it’s better if you drive.”
- Girls like you, Maroon 5 

Non aveva memoria di patate così dure da schiacciare. Sua madre si era arresa alle sue continue lamentele di sentirsi messa in disparte nella preparazione della cena, a tal punto da consentirle di preparare il purè. Tuttavia, sentendo il braccio formicolare, cominciò a pentirsi di aver tanto insistito e quasi recriminava il non essersi inserita nel dibattito del momento: stabilire quante probabilità avesse il futuro matrimonio di Caroline, nipote di sua zia Diane, e di Jimmy. Per quello che ne sapeva Virginia, i due si erano lasciati e ripresi più volte nel corso di soli tre anni e dopo un altro, avevano deciso di convolare a nozze. La notizia non era stata presa bene, non da tutti in famiglia e soprattutto avevano fatto in modo che nessuno degli sposi fosse a conoscenza del diffuso disaccordo.
‘Ovviamente’, pensò mentre si fermava per rianimare la mano.
« So che ieri è andata a scegliere il vestito » mormorò Avery mentre spolverava di zucchero a velo le mince pies, che avrebbero decretato più tardi la fine del cenone.
« A che le serve? Non dureranno » dichiarò Amelia mentre sistemava due ciotoline della salsa cranberry agli estremi del tavolo, che Daisy ed Elinor – vedova del patriarca Potts – stavano apparecchiando con cura.
« Perché dici una cosa simile?! » scattò Avery suscettibile e per poco non imbiancò Emma, che stava controllando il tacchino nel forno.
« Lui è un imbecille e lei è troppo giovane » replicò la madre.
« Non esiste un’età per l’amore » la riprese la figlia dandosi delle arie da donna vissuta.
« No, ma esiste per il matrimonio. A venti anni bisognerebbe divertirsi » si associò Diane.
« Noi non potevamo permettercelo » replicò Elinor quasi sovrappensiero.
« Ben detto! Due secoli per ottenere l’indipendenza di genere e poi si corre in chiesa quando ancora si porta il pannolino » borbottò nuovamente Amelia e Virginia dovette impedirsi di ridere a crepapelle per il paragone. ‘Sono proprio sorelle’, si disse, lanciando un’occhiata alla madre.
« Ognuno ha le proprie lancette biologiche » convenne Avery infine – giusto per non darsi per vinta – innervosita.
« E poi come hanno intenzione di sopravvivere? – aggiunse Diane, agitando in aria il piccolo mestolo di legno che stava utilizzando come se avesse la sposa davanti – Non si è neanche creata una carriera per stare dietro a un uomo »
« Il lavoro non è l’unica cosa che conta. Costruirsi una famiglia è ugualmente importante » intervenne Emma con tono solenne.
« Io sarei contenta di avere una figlia intraprendente come lei – rispose l’altra, riferendosi all’unica donna che ancora non aveva aperto bocca – Tu che ne pensi, Ginny? » chiese, rivolgendoglisi direttamente.
Virginia, che stava ancora lottando con la ciotola per il purè, sollevò gli occhi sulla cugina Avery che intanto aspettava un sostegno.
« Beh… Se sono sicuri di volersi bene, non vedo perché non debbano sposarsi. Certo, è piuttosto giovane – specificò e sia Amelia che Diane si guardarono con complicità – Personalmente sono soddisfatta della mia vita eppure ho trentasei anni e non sono sposata » concluse, poggiando la ciotola sul tavolo.
« Lavori ancora per Stark, vero? » chiese Amelia e Virginia rispose con un muggito d’assenso mentre cercava di riavere indietro il paiolo di legno, che sembrava essersi incollato alla purea.
« Cosa?! » strillò Daisy che non era stata informata.
« Pensavo fosse morto in un incidente » si espresse Elinor.
« Ti confondi col padre Howard » la corresse Emma senza staccare gli occhi dalla cottura dell’arrosto.
« Tu lavori per Anthony Edward Stark? » domandò ancora la ragazzina, accantonando il proprio compito e avvicinandosi alla zia come se fosse un miraggio.
« Sì » rispose Virginia, lanciandole un’occhiata.
« Intendi quel miliardario, superfigo con un’armatura rosso e oro? – annuì di nuovo e vide gli occhi della nipote trasformarsi in due palle da biliardo luccicanti – Com’è? »
« Ehm… Beh… »
« L’ho visto sul giornale – intervenne Diane – Ha preso tutto il fascino dal padre »
« Vuoi dire i soldi » sibilò Amelia a braccia conserte.
Virginia intanto stava cercando di accontentare sua nipote.
C’erano tanti piccoli aspetti che facevano di Tony un individuo estremamente intelligente e gradevole. Al di là del puntiglioso sarcasmo, dell’irritante arroganza e del latente infantilismo, era in grado di affascinarla senza aprire bocca. Nonostante non sapesse nulla né di meccanica né di ingegneria, lo ammirava. Non solo per la laurea summa cum laude.
« E’… Un po’ eccentrico » ammise, mettendo da parte il purè e l’ennesima postilla acida di sua zia Amelia.
« Tipico »
« E alle volte può essere antipatico. Ma è… – guardò il soffitto per poi sorridere, affabile – E’ gentile e generoso con chi vuole esserlo ».
« Posso incontrarlo? » perseverò Daisy, battendo le mani per poi giungerle in preghiera.
« Daisy! » la riprese Emma.
« E’ un uomo impegnato e potrebbe… ».
Virginia intervenne, interrompendo sua zia Diane mentre Elinor studiava la nipote.
« Vedrò che posso fare, ma non ti prometto niente »
« Neanche un autografo? »
« Per quello non sarà un problema » assentì in ultima istanza e Daisy cominciò a saltellare da una parte all’altra della cucina.
« Evvai! A scuola farò un figurone. Zia Ginny, sei la migliore » decretò, strizzandola in un abbraccio per poi trotterellare verso il giardino, dove Morgan si era piazzato per a giocare a solitario.
Virginia rise, osservandola poi si girò verso le altre donne, prospettandosi un possibile incontro tra Tony e sua nipote.
« Che c’è? » domandò innocentemente, senza riuscire a far cambiare piega alle proprie labbra.
« Mmhniente… » negarono Diane ed Amelia e lei tornò seria, scrutandole con aria inquisitoria.
Puntò sua madre, che vedendo la perplessità stampata a caratteri cubitali sulla sua faccia, scosse le spalle.
« Pensano che tu e il Signor Stark »
« …abbiamo solo un rapporto professionale » terminò, appoggiandosi sul tavolo con un braccio.
« Vorresti dirmi che non hai mai fatto un pensierino sul tuo capo? » chiese Amelia mentre le levava la ciotola con le patate.
« Ma per chi mi avete presa? » sbottò, fissando alternativamente le zie.
« Per una bella » esordì Diane.
« …donna in carriera » seguitò l’altra.
« …che deve cominciare a pensare di sistemarsi »
« Ma se avete appena sostenuto il contrario?! » disse Virginia, sollevando entrambe le braccia.
« E perché non con un bel miliardario? »
« Non è per i soldi che… Uff! Mi avvalgo della facoltà di non rispondere » ritrattò, alzando entrambe le palme.
« Bambina, qui quella regola vale meno di un penny » le ricordò Elinor, compassionevole.
Virginia la guardò, buttò fuori il fiato che aveva trattenuto – per non dare in escandescenze – e rilassò la schiena. ‘Le accontenterò, così poi mi lasceranno in pace’.
« Va bene. Ammetto che è un uomo… Attraente – Diane e Amelia scoppiarono a ridere – Ma non è sicuramente il mio tipo… Mamma! » proruppe quando con la coda dell’occhio si accorse che sua madre la stava tradendo.
« Suvvia, Ginny! A noi puoi dirlo » la lusingò Diane un po’ meno canzonatoria.
« Io e Tony. Siamo. Solo. Colleghi » scandì Virginia, incrociando le braccia sotto il seno.
« Adesso l’ha chiamato Tony » sussurrò Amelia alle sue spalle come un diavoletto.
« Perché è il suo nome! »
« Se siete solo colleghi perché quando è stato rapito, sei corsa qui in lacrime? » s’intromise Emma e Virginia si volse per guardarla, ferita da quel secondo atto d’infedeltà.
Aveva faticato a confidarsi e adesso stava mettendo alla berlina le sue emozioni.
Elinor si fece scura in volto quando le nuore sghignazzavano.
« Ero sconvolta! Cosa dovevo fare, secondo voi?! » si difese, deglutendo quando si accorse con orrore che la propria voce si era incrinata.
« Raffreddate i bollenti spiriti! – si frappose Elinor, lasciando intendere la propria disapprovazione per quell’attacco – Lasciatela stare ».
Diane guardò Amelia e abbassò il capo. Emma distolse gli occhi da quelli umidi di Virginia, che aggirò il tavolo e ringraziò Elinor con un bacio sulla guancia.
« Grazie, nonna » disse per poi allontanarsi da quella stanza.
 
Neanche un’ora dopo le donne rimaste in cucina fecero il nome di Daisy, che corse al piano di sopra per lavarsi le mani. Elinor camminò verso il giardino dove il maggiore dei suoi figli aveva accolto sua nipote in una muta partita a carte.  
« Morgan, alza le chiappe e va’ a tavola – ordinò e lui obbedì, lasciando la postazione e accennando ad una carezza sulla spalla della giovane – Virginia, vieni anche tu ».
« Mi è passato l’appetito » bofonchiò lei, raccogliendo il mazzo e mescolando per iniziare il solitario.
Sapeva che il proprio atteggiamento fosse infantile, ma proprio non voleva andarle giù il comportamento di sua madre ed Elinor, che aveva compreso perfettamente, si mosse per accomodarsi al posto di Morgan.
« Stesso carattere di tuo padre – sospirò, ripensando al suo secondo figlio – Quando lo si pungeva su un nervo scoperto, teneva il muso per giorni ».
« E’ solo che non capisco perché debbano insinuare… »
« Quando hai parlato di lui a Daisy, ti si sono illuminati gli occhi – Virginia si zittì, abbandonando le carte – E hai sorriso come tuo padre quando vedeva tua madre ».
« Scusami solo un momento – disse e afferrò il cellulare che teneva in una tasca dell’abitino – Oh, no…»
« Che succede? » domandò Elinor e lei sollevò un dito.
« Happy? » rispose con l’apparecchio vicino al lobo auricolare.
Lo chaffeur, nascosto per il bene della propria incolumità, sporse appena il telefono oltre il muro dietro si era schiacciato.
Virginia socchiuse gli occhi e anelò quando sentì chiaramente il fracasso di vetri che s’infrangevano in mille pezzi e gli infissi che cadevano sul pavimento.
« Sto arrivando ».

*


Happy le aveva aperto il cancello della proprietà per poi dileguarsi senza dire una parola.
Espirò, stringendo ancora una volta le dita attorno al volante e scese dalla vettura. Digrignò i denti quando si ricordò delle tortine e dell’arrosto che sua madre le aveva confezionato – in segno di pace – con la scusa di fare assaggiare tutto al Signor Stark. Impilò le scodelle incartate su un braccio e prese la borsa con la mano libera. Chiusa la macchina si avvicinò all’ingresso, ma cambiò strada quando si ricordò che la porta era già stata sigillata dal sistema. Avanzò, preceduta dall’accensione di un sentiero che si spegneva alle sue spalle, per poter osservare il cielo stellato. La luna venne momentaneamente oscurata da un banco di nuvole quando imboccò una biforcazione, percorribile solo a piedi, che attraversava il prato. Venne condotta a un terrazzamento affacciato sul Pacifico, piatto come una tavola, dove una piscina era illuminata sul fondo da alcuni faretti azzurri. Uno dei bordi dava l’idea di gettarsi dalla scogliera, grazie ad uno spesso vetro infrangibile.
Scese alcune scalette che collegavano il terrazzo ad un altro piccolo balcone e la prima cosa che vide fu il finestrone del salotto ormai inesistente. Il tavolino giaceva inerte sul piastrellato e non sarebbe stato possibile se la finestra non fosse stata sfondata, ridotta ad una lastra con un cratere nel mezzo dell’altezza.
Attraverso le porte a vetro scorrevoli – le poche ancora integre – intravide la figura di Tony. Entrò, spingendo di lato la finestra socchiusa e vide il salotto e la cucina openspace ridotte a un disastro. Le ante dei mobili in cucina erano incrinate come se ci fosse stato spinto un elefante, i piedi del tavolo a penisola erano cosparsi di piccoli pezzi vitrei e il divano era stato ribaltato. Facendo capolino oltre un pilastro, individuò il miliardario seduto al pianoforte. Lo strumento era posto su una sorta di predella, sollevata dal pavimento del salotto da tre bassi gradini e posta davanti ad una parete trasparente, che forniva una vista panoramica sull’oceano. Intravide una bottiglia di vodka sulla parte piana dello strumento, vicino al leggio.
« Sono contento che sia tornata prima » esordì lui e ci mancò un pelo che Virginia non facesse cadere in terra tutto quanto.
Quella pacatezza contrastava con le urla che aveva sentito al cellulare e nel vederlo così vulnerabile, non riuscì ad immaginarselo come l’autore di quello sfacelo a cui solo l’abete illuminato sembrava aver resistito.
« Se si annoiava così tanto perché non ha chiamato James? » chiese retorica, non potendo trattenere l’irritazione mentre lasciava le pietanze sul tavolo.
L’impresa le costò quasi una gamba quando i tacchi scricchiolarono sui frammenti vitrei.
« Così che potesse lasciarmi solo, come ha fatto lei…? Come fanno tutti… ».
Virginia posò la borsa su una poltrona, prima di raggiungerlo. Era talmente ebbro da non essere consapevole neanche di ciò che stesse dicendo. E probabilmente corrispondeva alla verità.
« Perché non mi ha fermata allora? » rispose, aggiungendo di proposito un tono di rimprovero bonario.
« Non sarebbe rimasta »
« Ne è sicuro? » lo incalzò e per una manciata di secondi, Tony non rispose.
« Non volevo rovinarle il Natale » masticò e lei riuscì a vedere quanto fosse davvero dispiaciuto.
‘Non più di quanto non sia stato fatto’, ribatté mentalmente.
Tony la fissò ammaliato per un minuto abbondante. I suoi occhi scuri e torbidi si persero sulla figura di Virginia che, sotto la pallida luce lunare che fendeva la notte, appariva eterea. Quasi una visione celeste, frutto di un’allucinazione o una proiezione onirica.
« Sa suonarlo? » gli chiese, indicando il pianoforte così da traslare l’argomento su un soggetto che non fosse lei medesima.
« Mia madre mi ha insegnato. Era suo – disse, carezzando i tasti – Non ho più suonato da quando è morta » rivelò di getto, senza pensarci.
Virginia lo fissò un po’ stranita. Le loro conversazioni erano sostanzialmente una partita a pingpong tra grida isteriche e frasi ambigue, su argomenti piuttosto frivoli come firmare dei documenti. Non parlavano mai in modo così aperto, di cose serie come la famiglia. Quando era stata assunta, l’unica cosa che aveva notato a pelle era che Tony evitava la questione come si evita la lebbra.
« Posso? » domandò, facendo riferimento al posto accanto a lui.
Tony acconsentì ancora imbambolato e le fece spazio. Lei raccolse la gonna, drizzò la schiena e posizionò la punta di un piede sul pedale. Intonò una vecchia canzone che aveva sentito da bambina, ma ebbe appena il tempo di cominciare. Le prime note di Try To Remember stavano riecheggiando nell’aria quando una mano dell’uomo, le afferrò bruscamente un polso.
« No – strinse appena la presa – Tutte, ma non questa ».
Quando lo guardò, qualcosa di simile al dolore storse i bei lineamenti dell’uomo. Lo rassicurò con un cenno del capo e lui la lasciò andare. Sentiva il cuore a mille, ma non si era spaventata per la sua reazione. Quanto per ciò che aveva scorto nei suoi occhi.
Sorrise mesta, poi cominciò a suonare uno dei primi brani che aveva memorizzato: Claire de Lune.
« Non c’era nel curriculum – la vide improvvisamente più allegra – Dove ha imparato? »
« Mio padre »
« Perché non l’ho mai sentita? »
« Suonare mi ricorda che non c’è più – Tony stava per suggerirle di smettere, ma lei proseguì – Sosteneva che la musica avesse il potere di guarire le persone… e per un po’ ho continuato, sperando che guarisse mia madre dalla sua perdita »
« E ha funzionato? »
« No. Ho smesso quando ho capito che le facevo del male… – rispose, senza smettere di suonare – Le cose dolorose non si possono ignorare a lungo »
« Forse le si ignorano perché si preferisce dimenticare ».
Virginia terminò il brano di Debussy e mentre l’accordo andò a perdersi nell’eco della Villa, i suoi occhi azzurri si posarono su Tony. Si chiese cosa volesse dimenticare – La morte dei suoi? Il tradimento di Stane? – e inevitabilmente il suo sguardo cadde sul reattore, che splendeva al centro del suo torace. La curiosità divenne incontenibile come la sera in cui lo soccorse da un incubo.
« Che cosa è successo in Afghanistan? » esordì a bassa voce e lui seguì un filo logico molto simile al suo.
Lo sopportava trecentosessantacinque giorni l’anno e per di più, non le aveva ancora fornito una spiegazione. Poteva permetterle una domanda inopportuna.
« Sono salito su una jeep dopo la conclusione dell’affare per il Jerico… con tre marines, una donna e due uomini. Stavamo scherzando quando il veicolo davanti a noi è balzato in aria. Hanno cominciato a sparare e sono uscito per chiamare rinforzi. Poi una granata è piombata vicino a me… Una di quelle che progettai nel 2002, ricorda? – lei annuì – E’ esplosa e alcune schegge sono rimaste qui… » disse, indicandosi il torso.
Virginia prese a torturarsi le mani in grembo mentre aspettava che Tony riprendesse a parlare.
Non voleva costringerlo e dopo aver sentito quelle prime frasi, non era più così disposta a voler ascoltare il resto. Fino a quel momento non credeva che potesse farle male sentire la sua voce incespicante, debilitata da quel tremendo episodio come la sua mente.
« Ho un vuoto. Quello che ricordo prima del mio risveglio è solo dolore… Quando sono tornato, Yinsen si stava facendo la barba. E’ stato lui a impiantarmi il primo magnete – abbozzò un sorriso quando lei gli rivolse un’occhiataccia – Mi ha salvato. All’inizio funzionava con una batteria per auto, generando un campo magnetico che respingeva e bloccava i barbigli lontani dagli organi vitali » si spiegò e la fronte della donna si corrugò.
« Poi che è successo? ».
Tony si sentiva stanco, incerto. E rievocare l’accaduto faceva pulsare il suo cuore così rapidamente che poteva sentirlo riverberare nel cilindro metallico dove s’incastrava il reattore. Tra l’altro l’argomento palladio non era neanche stata minimamente accennato con Pepper e nonostante, Tony non fosse propriamente sobrio, sapeva che quello non era in momento più sensato in cui farlo.
In contemporanea voleva – e doveva – che qualcuno capisse il turbamento che si dimenava nel suo animo, rendendolo insonne.
« Mi hanno ordinato di costruire il Jerico, ma mi sono rifiutato – aggiunse anche se con un po’ di fatica – Ho resistito due mesi alle torture. Quando non mi usavano come una pentolaccia o una bambola voodoo, mi infilavano la testa in una botte piena d’acqua… Hanno dovuto smettere, altrimenti avrei rischiato l’affogamento secondario. Così sono passati alla psicologia… »
Un brivido gelido la percosse quando le sovvennero le cicatrici sulla schiena dell'uomo che aveva intravisto a Monaco, all'ospedale.
« Che intende? »
« Hanno occupato un villaggio, catturando tre bambine e due bambini. Erano così terrorizzati che non riuscivano neanche a tremare – un soffio di vento occupò quel breve istante di quiete – La più piccola aveva due o tre anni. Uno dei carcerieri le ha sparato »
« Oh mio Dio… » sussurrò Virginia con le dita di una mano sul labbro inferiore che aveva preso a tremare insieme alle ginocchia.
« No, Dio non c’entra niente… – le disse Tony, affranto – Hanno puntato i fucili sui due bambini e mi hanno assicurato che se non avessi collaborato, li avrebbero fatti fuori e si sarebbero preoccupati di farmi assistere alla “cura” delle bambine »
« Come… »
« …hanno fatto? – concluse, stringendo le mani a pugno – Con le mie armi ».
Seguì una pausa in cui lei dovette cercare di stoppare demoni che non le appartenevano, ma che era riuscita comunque a concepire mentre lui seppelliva la rabbia contro sé stesso per evitare di smantellare il resto dell’abitazione.
« Com’è scappato? »
« Ho detto loro che gli avrei dato quello che volevano: un’arma. Ma non specificai chi avrebbe dovuto usarla – fece spallucce, un po’ più libero da un grosso peso che si portava incatenato ad un piede – Coi materiali che avevo, creai la Mark I ».
Virginia si riscosse quando sentì la vibrazione del cellulare. Lo recuperò e lesse l’sms di sua madre in cui si scusava e chiedeva il motivo per cui se ne fosse andata così di fretta, se fosse tutto a posto. Spense il display e rintascò l’arnese.
« Non risponde? »
« Non è importante » liquidò senza convincere Tony che, pur non volendo interrompere quel loro nuovo contatto, fu obbligato a porle una domanda vitale.
« Potrebbe aiutarmi a raggiungere la toilette? ».
Trattenendo la voglia di prenderlo a schiaffi, Virginia gli passò un braccio sotto le spalle e lo aiutò a tirarsi in piedi. Non seppe come, ma riuscì a portarlo nel bagno. La stanza patronale si era rivelata irraggiungibile, così per evitare incidenti, aveva deviato verso la propria camera.
« Grazie, Pepper »
« Dev’essere davvero molto ubriaco per ringraziarmi » disse e subito dopo, la risposta del miliardario fu un conato di vomito.
‘Non ha neanche avuto la decenza di mangiare…’, ragionò rassegnata.
I successivi cinque minuti Tony e il water strinsero una profonda amicizia, letteralmente.
Virginia, che lo aveva abbandonato per i primi due – giusto per evitare un abbraccio di gruppo – si affacciò di nuovo nel bagno, che pareva quasi più grande della camera. Si accostò all’armadietto, prese un paio di fazzoletti in spugna e li bagnò con acqua, che JARVIS predispose a -3 gradi. Scalciò i tacchi sulla moquette, poi procedette a piedi nudi sulle piastrelle e s’inginocchiò accanto a lui.
Con un vago sentore di rabbia e con una mano dietro la nuca, gli sistemò un panno sulla fronte. Poteva comprendere la spazzatura, ma bere fino a dimenticarsi il nome e poi rimettere tutto per ritrovarsi con una cinghia di metallo attorno alla testa…
No, non riusciva proprio a trovarne il legame. Logico o meno che fosse.
« Mi spiega perché si riduce così? » sussurrò, più rivolta a sé stessa.
Tony allungò le dita fino allo sciacquone, abbassò debolmente la tavoletta e vi si spiaccicò con la faccia, cercando di riacquistare un respiro normale. Gli sembrava di dover vomitare ancora, ma lo stomaco era vuoto. Probabilmente si trattava di qualcosa di diverso dal proprio metabolismo che implorava pietà.
Virginia gli posò nuovamente il panno fresco sulla fronte.
« Tony, io non posso aiutarla se lei non me lo permette » sospirò e per un attimo Tony si aspettò una smorfia di pietà.
Invece ciò che vide sul viso della donna fu solo determinazione e – sperò – amore?
‘No, non può amarmi. Sarebbe sbagliato…’, pensò amareggiato prima che le parole di James facessero capolino da un angolino buio della propria psiche.
Abbassò lo sguardo, non riuscendo a sopportare la purezza di quello di Virginia che, dall’alto della sua femminilità, colse appieno quella richiesta d’aiuto che sapeva destinata al silenzio sempiterno.
« Ce la fa a seguirmi in cucina? »
« Non è più facile se va a prendere lei il coltello? » rispose Tony e lei non seppe se dovesse sentirsi più rinfrancata nel constatare che la sua disinvoltura non fosse finita nel cesso insieme a tutto il resto.
« Per quanto io sia tentata, non voglio ucciderla. Voglio solo prepararle una tazza di camomilla »
« Avvelenata? » domandò lui a metà tra un’esplicita richiesta e una macabra proposta.
Virginia ignorò entrambe le cose e come in precedenza, lo rimise in piedi. Dopo aver raggiunto il salotto, lo lasciò quando fu certa che potesse reggersi da solo e si allontanò verso la cucina, mandando un veloce messaggio al Colonnello, che non tardò a risponderle.
Per quanto mi riguarda, può fottersi. Lui e le sue paranoie.
 
'A quanto pare saremo io e lui contro il mondo’, determinò truce per poi spegnere direttamente il dispositivo. Lo abbandonò sul tavolo e mise il bollitore sul fornello.
Per quella sera la gente poteva credere a quello che desiderava: se credevano a Babbo Natale, potevano credere anche ad una storia tra loro.
Tony intanto dondolò verso il Blüthner a mezza coda, passandosi la mano sana tra i capelli quando Virginia gli si avvicinò con alcune stecche e delle garze – con cui sembrò intimarlo a non obiettare – per medicargli la mano. In tutto quel tempo sperava che non se ne fosse accorta, ma era pressoché impossibile visto che le nocche stavano diventando violacee e i segni irregolari lasciavano intendere che ciò a cui aveva mirato era in realtà fatto di carne.
« Ho sentito James – esordì, esaminandogli la mano prima di applicarvi una pomata – E mi ha elegantemente suggerito di mandarla al diavolo »
« Però è qui »
« Perché è Natale » concluse lei, tralasciando per un attimo il proprio compito.
Sollevò lo sguardo limpido verso quello torbido dell’uomo che la fissava come in trance. Avvicinò la mano libera al suo volto e con un dito, portò via una scia salata che Tony non aveva avuto il coraggio di asciugare per timore di esporsi. Senza parole, osservò Virginia steccargli le dita che apparivano più gonfie a causa di qualche microfrattura.
« Posso chiederle un favore? – bisbigliò mentre fermava le bende con un nodo – Suonerebbe qualcosa per me? Lo so che… Insomma, suo padre… E io n-non… »
« Tony »
« Ha la mia comprensione, se non vuole »
« Si accomodi » lo esortò.
Tony obbedì e circa un minuto dopo, Virginia fu di ritorno con una tazza di camomilla. Prese posto al fianco del miliardario mentre si raccomandava di non bruciarsi.
« Ha qualche preferenza in particolare? – lui negò col capo, poi soffiò sulla bevanda – Okay… Mi faccia pensare… ».
Tony osservò le dita della donna sfiorare l’avorio, come se dovesse prendervi confidenza.
« C’era una canzone… Mia madre… sa, è melodrammatica… la cantò quando lei e mio padre bisticciarono la prima volta – sorrise ripensando a sua nonna che le raccontava l’accaduto mentre strimpellava le prime note – Bells will be ringing the sad, sad news… Oh, what a Christmas to have the blues… My baby’s gone, I have no friends to… » tossicchiò imbarazzata mentre Tony poneva la tazza ormai mezza vuota sulla parte piana dello strumento.
« Continui »
« Choirs will be singin’ “Silent Night”, Christmas carols by candlelight… Please come home for Christmas, please come home for Christmas… If not for Christmas, by New Year’s night… Mmmh… But this is Christmas. Yes, Christmas my dear… It’s the time of year to be with the one you love… ».
Virginia si lasciò trasportare dalla musica, di cui non ricordava altre parole mentre i suoi pensieri ed emozioni si catalizzarono sull’uomo, che aveva appoggiato la tempia sulla sua spalla.
« Lei è l’unica donna a cui non interessano i miei soldi » disse come una semplice constatazione e lei non fu in grado di carpire qualunque messaggio potesse esservi celato. O comunque non poteva esserne certa.
Le parole di Tony le erano arrivate fievoli, prive di sarcasmo o scherno.
Virginia ripensò al significato di quella festività –  < Ancor più di San Valentino, Natale è il giorno dell’amore > le aveva detto suo padre dopo aver rotto col suo fidanzatino del liceo – e, sebbene una vocina continuasse a dirle che ciò che stava per fare fosse totalmente scorretto, si mise più vicina a Tony e gli avvolse un braccio attorno alle spalle curve.
Lui rimase rigido per qualche secondo in cui non seppe come interpretare quel gesto. Poi deliberò che fosse troppo ubriaco per poter riflettere a una simile ora della notte e si rilassò, poggiando la testa nell’incavo della spalla della donna. Poco gli importava se si stesse mostrando debole o se lo avrebbe considerato come un’azione dettata dall’atmosfera. Voleva solo lasciarsi stringere da Virginia, sentirsi protetto e felice come ogni volta che era con lei. Al diavolo se le accuse di Rhodey erano fondate.
Inspirò contro il suo collo, gonfiando i polmoni e l’anima di quel profumo che avrebbe riconosciuto tra mille. Esotico nel suo essere ordinario.
Chiuse gli occhi, ascoltando il battito cardiaco di Virginia che lasciò che il suo sguardo perdersi nel  paesaggio. Dopo quella che parve un’eternità, abbassò il volto verso l’uomo che si era appisolato come un neonato. Era pallido, ma l’espressione che aveva, era di pura serenità.
Girò la testa di scatto verso il divano e vide Happy che lo riportava alla sua posizione originale. Quando vide il proprio boss sciolto fra le braccia della donna, il suo primo impulso fu quello di scappare. Ma ebbe un ripensamento quando Virginia gli rivolse un’espressione implorante.
« Sta’ dormendo? »
« Happy… Dov’eri finito, amico? » biascicò Tony, pensando tristemente che si sarebbe dovuto alzare e lasciare quel posto paradisiaco che era l’abbraccio di Pepper.
Lo chaffeur si arrogò il diritto di poter tacere e si caricò il miliardario su una spalla.
« Perché lo fate? »
« Cosa? »
« Aiutarmi »
« Perché ne ha bisogno, mi pare ovvio » rispose Happy, seguendo Virginia verso la camera degli ospiti.
Tony fu scaricato a peso morto sul giaciglio e i due si soffermarono a guardarlo.
« Vuole che resti? » chiese Happy, conoscendo già la risposta della donna.
In fondo non era la prima volta che li trovava a dormire nello stesso letto e cominciò a credere che il boss si fosse ubriacato di proposito pur di ripetere l’esperienza.
« No, Happy. Va’ a casa e goditi il Natale »
« Sicura? »
« Sì – assentì lei con un sorriso – Prenda qualcosa dalle scodelle in cucina » aggiunse lei, ritenendo che fosse il minimo per ripagarlo di quel penoso Natale.
Mentre Happy se la filava con qualche pezzo di carne e una tortina alla marmellata di more, Virginia recuperò un bicchiere d’acqua e una pastiglia di analgesico. Rientrò nella stanza e si accostò al letto, posando tutto sul comodino prima di sedersi piano piano sul materasso.
« Il suo letto è molto più comodo del mio » cominciò Tony, carezzando la trapunta.
« Ah davvero? » rispose lei, fingendosi sorpresa.
« Sì… E poi profuma di… – si girò su un fianco e seppellì il viso fra i cuscini – Ftorfta di mele »
« Torta di mele? – replicò Virginia, indecisa se ridere o piangere – Su, avanti… Deve riposare »
« Mi piacerebbe dormire qui tutte le notti… »
« Questa è casa sua » gli ricordò, tirando le lenzuola per poi gettargliele addosso.
« …con te, Peps » bisbigliò Tony, guardandola da sotto il braccio con cui si era coperto la fronte e sogghignò quando lei cambiò colore.
Virginia, per preservare la propria sanità mentale, finse spudoratamente di non averlo sentito. Afferrò la coperta in flanella ai piedi del giaciglio e si distese nella parte libera, sopra il piumone che gli aveva rimboccato attorno. Adagiò la testa su un guanciale e si preparò a dormire.
« Pepper…? » sussurrò Tony.
« Sono qui » rispose lei di pari tono, strofinando una guancia sulla superficie morbida e pulita.
« Da qualche parte… Uhm… Nei miei pantaloni, c’è una cosa ».
Aprì entrambi gli occhi e se non fosse stato brillo, lo avrebbe ucciso.
« Lei è un maniaco » lo accusò, facendo fischiare le parole tra i denti.
« Potts, non la facevo così perversa… Intendevo che c’è un medaglione… » specificò Tony, tentando di allentare un poco l’involtino in cui era stato bloccato per raggiungere le tasche dei pantaloni.
« E cosa dovrei farne? » chiese Virginia con un cipiglio inquieto quando l’uomo le appioppò un ciondolo antico in una mano.
« Lo prenda e lo custodisca per me » sentenziò, infossandosi nuovamente nel giaciglio.
« Tony, i-io… non posso… »
« Mi fido solo di te… Ti prego ».
Virginia nel frattempo aveva aperto lo sportellino e alternava lo sguardo tra la miniatura degli Stark e il loro discendente.
« Ma qui ci sono »
« …i miei genitori, lo so ».
Si lasciò sfuggire un lamento, poi richiuse il medaglione e infilò la catenella.
« Va bene, ma adesso dormi ».
Si coprì, poi lentamente si addormentò fin quando un movimento al proprio fianco la ridestò un paio di ore dopo. Sollevò le palpebre e incontrò i tratti di Tony a pochi centimetri, contratti in un’espressione sofferente. Allungò una mano e titubante, la posò sulla sua guancia.
Tony si agitò un’ultima volta prima di tornare a dormire davvero mentre Virginia lasciò che le proprie dita s’impigliassero fra i suoi capelli, che seguissero il filo ispido della sua mascella fino al pizzetto.
« Sei a casa, Tony… ».
 
Arricciò il naso, tirò su e aprì le palpebre. Aggrottò la fronte quando si accorse che il letto era diverso e soprattutto era occupato da qualcun altro oltre a lui. Mise a fuoco e quando il suo cervello si collegò, riuscì a ricomporre il quadro totale della notte appena trascorsa. Rhodey era arrivato con un incarico del governo quando lui era già partito per la tangente e aveva preso la pessima scelta di chiamare una delle ballerine per la expo – ‘Da licenziare’ – per fregargli la Mark II. Poi non sapeva come aveva trovato le forze per ribaltare il piano terra della Villa e questo aveva attirato Pepper, l’edenica creatura che adesso gli dormiva ad un soffio di distanza.
Non ricordava molto della loro chiacchierata – sicuramente le aveva fatto un resoconto sul soggiorno in Medio Oriente – se non le sue dita che pigiavano con delicatezza i tasti eburnei del pianoforte, accompagnate dalla sua voce. Prima di allora credeva che nessuno, neanche lui, avrebbe restituito la vita allo strumento.
La osservò meglio e si accorse delle perle d’acqua rimaste incastrate fra le sue ciglia. Quando vide che si era liberata del lenzuolo, capì che non doveva esser stato un sonno tranquillo. Fu in quell’istante che gli sovvenne la festa a casa di sua madre. Che fosse finita male?
Un altro dettaglio di quella stramba Vigilia gli si palesò: in una mano, stringeva il medaglione – la cui catenella passava dietro il suo collo, bloccandole i capelli – di sua madre.
Non poteva sapere dell’esistenza di quel ciondolo. Inoltre, non l’avrebbe mai preso a sua insaputa perciò doveva per forza averglielo dato lui.
‘Merda. Dovevo essere davvero ubriaco…’.
Dato che il danno era stato fatto, non si crucciò e anzi sorrise. Se c’era un luogo sicuro in cui far riposare il ricordo di sua madre era proprio Pepper.
Si guardò intorno e si sporse per poter vedere l’ora sulla sveglia, posizionata proprio sul comodino alle spalle di lei. Le sette meno un quarto.
Un gemito appena spirato e quando tornò a distendersi, la mano libera della donna trovò la sua maglietta. Le si portò vicino, quasi a volerle suscitare una reazione e Virginia gli si accoccolò, attirata dal suo calore. Trattenendo il ciondolo dorato contro i seni, si raggomitolò su sé stessa e appoggiò la fronte al reattore arc.
Aiutandosi con una gamba, Tony agguantò un lembo del piumino – frenando un’imprecazione quando le dita steccate crocchiarono in modo doloroso – e lo tirò fino a coprire entrambi. Ignorando tutto ciò che era stato detto, le cinse i fianchi con un braccio e tornò a dormire.
 
Angolo Autrice:  Ad un orario improponibile, vi presento il nuovo capitolo (in realtà lo avevo pronto da settimane, ma non ho resistito per l’attesa di pubblicarlo eheh^^  e il motivo è di facile intuizione ;))!
Una nota rossa iniziale per riprendere i toni precedenti, poi via col fluff/angst, una mistura per cui vado matta… Sì perché come voi, anch’io smanio per il momento clue ma fidatevi, ne avrete per ancora un bel po’ *ops*   
Volevo ringraziare 
T612cate25 stark16 che hanno recensito precedentemente <3 ma anche tutti coloro giunti fin qua! :*

Se avete dubbi, domande anche su capitoli precedenti… non fatevi scrupoli e contattatemi :D
Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. Of occasions And invitations ***


OF OCCASIONS AND INVITATIONS

“And I want it, I want my life so bad.
I’m doing everything I can,
then another one bites the dust.
It’s hard to lose a chosen one.
You did not break me,
I’m still fighting for peace.”
- Elastic Heart, Sia
 
“I been up to my neck in wiskey,
I been up to my neck in wine.
I been up to my neck in wishin’
that this neck wasn’t mine.
I’m a loser that ain’t lost it.
Baby, you were to good…
Too good to be true.
What you done, no one else could do.”
- Up to my neck in you, AC/DC 

Quel Natale non fu dimenticato.
Virginia non poteva non sorridere ogni qualvolta le capitava di pensare al momento in cui, aprendo gli occhi, aveva scoperto che a tenerla al caldo – e al sicuro – era stato Tony al posto delle coperte.
‘Si è solo spostato e ti ha scambiata per un peluche’, la sgridò la ragione e lei mosse una mano nell’aria come a scacciare un moscerino. L’altra invece impugnava una penna che scorreva da ore sui fogli, arrecando firme, annotando vari impegni e scadenze da rispettare.
Inspirò profondamente e socchiuse le palpebre, ripensando alla tenerezza con cui l’aveva protetta e cullata durante il sonno. Non le era capitato di dormire così bene dall’ultima volta sul divano, la sera prima del processo a Washington.
Si grattò la nuca quando s’imbatté in una clausola contrattuale poco chiara. Si accigliò, avvicinando il documento al viso ma le sue dita incontrarono la catenella dorata che, da quasi una settimana, portava al collo. Seguì la filigrana pregiata fino al medaglione, che Tony doveva aver recuperato dallo Stanzino. Oppure gli era stato regalato dalla zia Carter.
Era senza alcun ombra di dubbio un oggetto d’inestimabile valore, non solo come monile di alto artigianato. La superficie liscia rifletteva la luce della lampada sulla scrivania del proprio capo, dove si era quasi segregata dopo l’ammutinamento del Colonnello.
Lasciò la biro e con una certa deferenza, schiacciò il piccolo pulsante – arricchito con un intarsio floreale – e il gioiello si aprì con un leggero scatto argentino. Inclinò un poco la testa e ammirò i due personaggi nella miniatura fotografica.
Howard Anthony Walter Stark che portava dei baffi curati, storti da un sorriso amorevole rivolto verso la sposa. E Maria Stark, i cui boccoli chiari si raccoglievano sulle spalle in sinuose volute, incorniciando il viso angelico.
Da lui il figlio aveva preso il fascino, la mascella decisa e la mente geniale. Da lei, i grandi occhi rotondi.
Cercò di figurarsi come sarebbero stati, se non fossero scomparsi così presto dalla vita di Tony. Come sarebbe stato lui, se non fosse stato abbandonato. Sicuramente Obadiah non avrebbe avuto mai modo di attuare il suo piano. Forse lei non sarebbe stata assunta.
Carezzò il bordo della foto e richiuse il medaglione, nascondendolo nella scollatura dell’abito e proprio allora, la porta di aprì. Tony entrò con una camicia e dei jeans che sembravano appena usciti dalla tintoria.
« Posso fare qualcosa per lei? » esordì cortese, riprendendo in mano il contratto.
« Una cosa ci sarebbe » ammise lui, spingendo la porta dietro di sé.
Virginia cambiò postura sulla sedia quando l’uomo prese ad avvicinarsi. Si chiese se stesse camminando così lentamente di proposito perché nessuno che appartenesse alla specie umana, secondo lei, sarebbe stato capace di trasudare tanto sex appeal senza apparire innaturale.
Tony – che ormai leggeva il suo corpo e i suoi occhi come un libro aperto – si accostò alla scrivania e con una mano, abbassò il foglio che la donna stava leggendo.
« Potrebbe smettere di lavorare e festeggiare l’ultimo dell’anno col sottoscritto » disse, carezzevole.
« Non mi dica che non è stato invitato a nessuna festa? » rispose lei, tralasciando il modo in cui la sua voce l’avesse fatta sentire debole e incapace di abbandonare il sortilegio dei suoi occhi scuri.
« In realtà il mio invito è sempre implicito »
« Nessuna amichetta? » lo stuzzicò, accigliandosi quando Tony abbassò lo sguardo sul bordo del ripiano, intaccandolo con l’unghia di un pollice.
« Nessuna disponibile » mormorò, sembrandole perfino imbarazzato.
Virginia capì il significato di quelle parole appena pronunciate e il suo ego lievitò quando realizzò cosa le avesse effettivamente rivelato.
« Che cosa c’è per cena? » chiese interessata e Tony cambiò atteggiamento.
« Ho ordinato qualcosa da Tramonto Bistrò »
« Quindi ha dato per scontato che accettassi? »
« Ho dato per scontata la sua educazione nel non rifiutare una cena pagata » mentì perché aveva semplicemente sbirciato nella sua agenda.
Virginia ridacchiò, spingendosi indietro con la sedia.
« D’accordo – disse, alzandosi e riordinando velocemente la scrivania – Mi concede qualche minuto? »
« Non ha bisogno di rendersi più bella per me » la rassicurò, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.
« E chi ha detto che voglia rendermi più bella? Magari vorrei fare l’esatto opposto » rispose lei, aggirando il tavolo e fermandosi per un attimo davanti a lui, come per sfidarlo.
« Sarebbe impossibile » la riprese, scorgendo il suo sorrisetto mentre si allontanava verso la propria stanza.
Intanto uscì dall’ufficio e si occupò di sistemare gli ultimi dettagli. Prese un tavolino dalla zona piscina e lo coprì con una tovaglia. Sistemò le stoviglie per poi occuparsi dell’ordine del ristorante, che arrivò grazie ad un facchino trafelato. Gli lasciò una più che lauta mancia e si premurò di abbellire anche la presentazione delle vivande sotto l’occhio – o per meglio dire, la voce – vigile dell’AI. Posò la bottiglia di vino e i bicchieri appena lustrati al centro quando si accorse che l’unica e ultima, nonché la più importante, cosa mancante era l’invitata.
« Jay, avverti la Signorina Potts che la cena… – si volse quando sentì i suoi passi – è servita… » mormorò quando la vide avanzare con indosso una semplice blusa bianca e dei pantaloni neri a vita alta, che le delineavano la curva delle anche e scendevano morbidi fino ai piedi, calzanti delle semplici ballerine bianche impreziosite da alcune pietre.
« Che cosa abbiamo? » cinguettò, raggiungendolo sul balcone.
Dovette sforzarsi di smettere di fissarla come la portata principale – ‘O come dessert’, pensò – di quella cena e per mascherare la manovra, sorrise.
« Lasagne e per secondo, del pollo con insalata caprese » presentò lui, scoperchiando le portate.
« Ha fatto le cose in grande »
« Sono Tony Stark » replicò con ovvietà.
« Touchè » commentò lei con un alzata di spalle.
« Adesso mi ruba le battute? » chiese indispettito.
« Sarà il caso di ridurmi lo stipendio – scherzò e Tony rise – Come va? » gli domandò poi, indicando col mento la mano fasciata.
« Meglio, uhm… grazie – farfugliò per poi indicarle la sedia – Iniziamo? ».
‘Stark, concentrati’, asserì a sé stesso.
Virginia annuì e arrossì quando lui le sistemò la sedia come prevedeva il galateo.
« Devo ammettere che sono sorpresa – mormorò, aspettando che si sedesse a sua volta – Non mi aspettavo di passare con lei anche il Capodanno » aggiunse, fingendosi volutamente irritata.
Tony captò la giocosità delle sue parole e sogghignò, pregustando la serata.
« E le dispiace? » chiese, prendendola in contropiede.
Virginia infatti abbassò gli occhi, sapendo che le proprie orecchie sarebbero diventate viola. Inoltre aveva sfoggiato nuovamente quella, maledettamente piacevole, voce. Palpitante e melliflua, come la crema al cioccolato che lo aveva ricoperto nella sua fantasia.
« No – rispose, afferrando il tovagliolo – E a lei? » domandò, accorgendosi troppo tardi quanto fosse sembrata cedevole e il suo cuore fece una doppia capriola quando Tony le restituì lo sguardo.
« Conosce già la risposta ».
Lei si aggiustò una ciocca di capelli dietro il lobo e dopo le comuni buone maniere, cominciarono a mangiare. Per i primi cinque minuti, fra loro aleggiò un lieve disagio.
Avevano mangiato insieme, in abiti decisamente più costosi, ma mai completamente soli. Al chiaro di luna, su un terrazzo di Villa Stark.
L’ottimo sapore del ragù e il formaggio filante del primo piatto però sciolse anche l’ultimo velo di tensione e Virginia trovò finalmente la risolutezza necessaria per alzare lo sguardo.
« Che c’è? » chiese quando si accorse che l’uomo la stesse già osservando. Con molta scrupolosità.
Sentì le guance prendere fuoco e temette di essersi sporcata la camicetta. O peggio ancora, la faccia.
‘Datti una calmata’, si ordinò.
« Ho notato la sparizione di una certa Gonnella » rispose Tony con non curanza, notando quel lampo di preoccupazione negli occhi della donna. Ne ebbe la conferma quando vide le sue spalle rilassarsi.
« Sono stata impegnata – disse, arcuando un sopracciglio – Ma vorrei »
« Bene. Perché non vorrei »
« …ricordarle che sono io a »
« …trovarla in situazioni compromettenti » dissero in coro.
« …con un altro eventuale spasimante »
« …con occasionali spasimanti. E sono sempre io »
« Sarebbe imbarazzante »
« …a buttare fuori la sua spazzatura »
« Se le reca tanto fastidio perché continua a farlo? » domandò Tony infine, prendendo sulla forchetta l’ultimo boccone di lasagna.
« Non mi da fastidio » rispose lei, imitandolo con un secondo di ritardo.
Tempo che le era servito per ponderare le parole adatte, che si dimostrarono dure da deglutire al contrario del pasto.
« Allora si è mai chiesta perché continuo a lasciarglielo fare? » ribatté lui prima di ripulire la posata. 
Quella di Virginia si fermò a metà lungo in tragitto verso la bocca, schiusa per replicare.
« Non si bruci l’anno nuovo ancor prima che finisca quello vecchio » lo redarguì per poi mandare giù il mozzico di pasta.
« Mi chiedo come le vengano certe perle di saggezza » asserì Tony, scuotendo lievemente il capo.
« Ritengo che lavorare per lei doni a una donna una lungimiranza sopra la media »
« Le sue parole d’amore per me mi toccano il cuore – rispose, portandosi una mano sul reattore mentre Virginia scoppiava a ridere – Non ci scherzi troppo o dovrà sostituirlo »
« Adesso so cosa fare in caso di guasti » si adeguò, tamponandosi il fazzoletto sulle labbra per provare a celare il riso.
Le fossette che si crearono sulle sue guance però la smascherarono e Tony si limitò a servirle la seconda portata. A quel punto fu tutta una discesa: continuarono a prendersi in giro, a tormentarsi come loro consuetudine e due ore e mezza volarono via.
Tony, dopo averle chiesto il permesso, si accese un sigaro. Sperando che quel vizio latente potesse impedirgli di fare pensieri proibiti sulla donna.
Soffiò via il primo tiro, volgendosi verso il mare cosicché il vento portasse via il fumo senza infastidirla. Si beò del Pacifico, rincorrendo l’orizzonte divenuto un tutt’uno con la volta celeste, punteggiata di stelle, finché il suo sguardo non raggiunse il profilo di Virginia, attratta dal paesaggio e con le dita distratte dal medaglione.
Cercò nelle sue vaste conoscenze teoriche – e non – di ricondursi ad una formula o un’equazione per dimostrare come fosse possibile l’esistenza di un’essere tanto perfetto in ogni sua minuzia. La linea del naso sembrava tracciata dalla mano di un pittore che, doveva aver poi deciso di vivacizzare le gote con delle graziose macchie di efelidi e di rendere visibile la morbidezza delle labbra color fragola.
E a lui piacevano le fragole…
« Lo sa che è maleducazione fissare tanto intensamente una persona? » si espresse lei all’improvviso per poi girarsi a guardarlo e ponendogli l’implicita richiesta di farle la domanda che si stava tenendo dentro.
Tony, allarmato di aver mutato ambito lavorativo, recuperò il decoro e riprese a fumare.
« Le va un ballo? »
« Ma non c’è musica » gli fece notare mentre si alzava, lasciando il sigaro in bilico sul posacenere.
« JARVIS? »
« Sì, Signore » rispose l’AI e da un paio di casse ben piazzate, si esibì Patrick Swayze in una canzone che Virginia non sentiva da quando si era tolta l’apparecchio ai denti.
Mentre cercava di capire se She’s like the wind fosse stata scelta dal computer o dal suo creatore, quest’ultimo le porse una mano.
« Stavolta non ci sono colleghi » le disse quando esitò.
I suoi occhi azzurri indugiarono in quelli del miliardario mentre accettava l’invito per poi lasciarsi guidare nel lento. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa per essersi concessa tanto facilmente alle sue lusinghe, per quanto innocenti le fossero apparse, ma le sembrava ancora più orribile l’idea di aver potuto rifiutare e tornarsene nel proprio appartamento a Downtown. Avrebbe festeggiato da sola con una bottiglia di vino, dei crackers e una buona dose di rancore nei confronti di sua madre. No, non le era ancora passata.
Fortunatamente il suo cuore aveva un certo diritto di veto e aveva scelto al posto del cervello, che ora galleggiava in un brodo anestetico di endorfine ed estrogeni. La loro quantità industriale era da ricollegarsi al fatto che a sostenerla non fossero le proprie gambe con l’ausilio di un discreto apparato motorio e della gravità, ma un braccio del miliardario attorno alla sua vita.
Tony invece fissò il vuoto mentre dondolava a ritmo della musica, completamente rilassato. Aumentò un poco la stretta sul busto della donna, portandola più vicina al proprio petto e non si sarebbe inquietato se non si fosse appoggiata timidamente a lui, come se non volesse mostrarsi davvero.
« Ho esagerato? » chiese, rallentando il ballo e scostandosi un poco.
Virginia negò con convinzione, facendo ondeggiare la coda.
« Stavo solo pensando »
« A cosa? Se è lecito »
« Non lo è » sussurrò e Tony non insisté nonostante la patina liquida che intravide sulle sue iridi chiare.
Vedendo che il suo rinnovato silenzio le fosse di conforto, tornò a cingerle i fianchi e le permise di appoggiare la testa sulla propria spalla. Con l’altra mano, Tony continuò a reggere – più in basso e vicino a loro – quella di lei mentre riprendeva il ritmo.
« Può pestarmi i piedi, se vuole » disse e si tranquillizzò quando la sentì ridere contro il suo collo.
Virginia fece scivolare la mano dalla spalla dell’uomo al suo bicipite, all’altezza del gomito dove la manica della camicia era stata arrotolata. Respirò il suo dopobarba al ginepro nero mischiato al lieve tocco di ammorbidente alla lavanda e alla più virile traccia della sua pelle, resa dorata dal sole straniero.
Socchiuse le palpebre, ingoiando il groppo alla gola e ringraziandolo per la sua abilità nel mettere a proprio agio le persone.
« Vorrei solo sapere il perché… ».
Tony non ebbe bisogno di delucidazioni.
« Sa, la lista delle persone a cui tengo ha subito dei tagli di recente » mormorò, desideroso di parlare con lei seriamente.
Tuttavia era terrorizzato dal confessarle – ‘Com’è che li chiama zia Peggy? Ah…’ – i propri sentimenti.
« E fra questi tagli ci sono anche le sue amichette? » chiese dopo qualche minuto, ripensando all’ultima chat avuta con James.
« Non ci sono mai state su quella lista, Pepper ».
Virginia strinse le dita sul suo avambraccio scoperto mentre la brezza salmastra soffiò da oltre oceano, offrendo ai due un po’ di ristoro dalla situazione fattasi pesante mentre aspettavano la mezzanotte.
 
*
Vennero rimossi i fermi e la saracinesca si alzò gradualmente. L’angar ombroso era decisamente più areato e meno soffocante dell’esterno, dove il sole rendeva l’aria liquida. Al centro del grosso ambiente, un’armatura argentea era stata appesa a dei grossi ganci.
La testa era leggermente inclinata in avanti e le braccia pesanti pendevano verso il basso.
« Con questa dovrei togliermi il Senato dalle palle – esordì il Generale, portandosi i pugni sui fianchi – E’ funzionante? » chiese poi senza voltarsi verso James, che gli stava accanto con le mani giunte dietro la schiena.
« Completa capacità di missione » rispose e il grosso caporale – la cui tuta mimetica poteva vantare di diverse medaglie – annuì compiaciuto.
« Chiami Hammer e la faccia armare ».
James sgranò leggermente gli occhi, che poi puntò di sottecchi sul Generale.
« Hammer? » chiese perplesso.
« Il Senato ha deciso di accogliere la sua offerta » disse, incrociando le braccia sul petto.
« E in che cosa consiste quest’offerta? » domandò lui, cercando di apparire distaccato.
« Non siamo tenuti a saperlo »
« Ma questo è »
« …un ordine, Colonnello » lo avvisò il Generale, girandosi verso di lui.
« Signor sì, Signore » cedette James, osservandolo allontanarsi.

Seppur reticente, fece quella chiamata e circa qualche ora dopo, si accingeva ad allentare dei bulloni. Non poteva fare a meno di ringraziare la sua accortezza nell’aver recuperato la Mark II e non l’ultimo modello, che con tutta probabilità doveva essere estremamente più accessoriato.
Nonostante la bile premesse per uscire ogni qualvolta ripensava alla notte della Vigilia – o quando il setto nasale tornava a dolergli – sentiva di aver fatto bene a confidare nel proprio istinto. Mentre portava via l’armatura, un brutto presentimento lo aveva spinto a non fidarsi completamente dei propri superiori. Lo stesso che adesso lo guidava mentre smontava il piastrone per raggiungere il piccolo reattore arc.
« Dice che questo è il loro alimentatore? » chiese il Maggiore, sporgendosi sul tavolo per vedere.
« Maggiore, non stiamo facendo formazione scientifica. Quello che ci interessa è armarla, va bene? » sbottò James, posizionando con cura il marchingegno in una valigetta che bloccò con dei lucchetti, con la medesima oculatezza.
« Oh, sì! – intervenne Justin – Sì, sì… dev’essere il mio compleanno! » aggiunse, ballonzolando verso di loro.
James lo fissò, avvertendo la tipica puzza di doppiogioco.
« Signor Hammer » esordì, assicurandosi che la valigetta fosse ben nascosta dallo sguardo infido dell’industriale.
« Colonnello Rhodes – mormorò l’altro, togliendosi il lecca lecca di bocca – Credevo che lei e il Signor Stark foste amici ».
James mantenne la sua espressione da sfinge, malgrado avesse annusato la trappola.
« Concentriamoci sul lavoro » lo ravvisò con tono minaccioso.
Justin sogghignò, sapendo di aver trovato un punto debole. Studiò il corpo metallico sotto il proprio naso, tornando a suggere la caramella con aria meditabonda.
« Siete sicuri che sia proprio lei? » chiese e il Colonnello riuscì a captare un fugace scintillio negli occhi dell’uomo.
« Cosa farà per noi? »
« Beh, la prima cosa che farò sarà un upgrade del vostro software e poi… »
« Mi riferivo alla potenza di fuoco » rispose James, sovrastando la fiumana di infruttuosi discorsi.
« Sono la persona giusta » dichiarò, schioccando le labbra per poi mordere il chupa chups al lampone fino a romperlo tra i denti.
 
***
Quel Natale e quel Capodanno non furono dimenticati.
A distanza di ben tre mesi, quasi quattro, Tony continuava a ripensarci e a rosicchiarsi le dita. Ipotizzava le innumerevoli opportunità che il caso gli aveva fornito e che lui non aveva colto – non che non le avesse apprezzate, visti i momenti che aveva trascorso – o perché semincosciente a causa dell’alcol o perché troppo spaventato da quella che andava sempre più ad indentificarsi con la paura di morire prima del previsto. Non era la morte in sé a fargli tremare la coscienza, e le ginocchia, quanto più le cose che si sarebbe lasciato dietro. Molte delle quali irrisolte.
Inoltre ciò che più lo tratteneva erano le conseguenze. Lui, che alle ripercussioni non vi aveva mai badato, continuava ad analizzare le possibili reazioni che la donna avrebbe potuto avere alla notizia del suo avvelenamento. Fu quel pensiero, e la fitta dolorosa al petto, a farlo svegliare di soprassalto comme succedeva sempre più spesso.
I suoi occhi si spalancarono sul presente, guizzando da una parte all’altra della propria stanza come aveva fatto molte volte nella grotta. Sicuro della non presenza di alcun tipo di estraneità, tornò ad accasciarsi sul materasso. Sbuffò e non potè fare a meno di disgustarsi quando si accorse di aver sudato come un peccatore in chiesa. Altro sintomo da aggiungere alla nausea e alle vertigini.
Si tirò su a sedere e si liberò della blusa del pigiama con un gesto nervoso. Si passò entrambe le mani sul volto e si massaggiò le tempie, augurandosi che l’emicrania che sentiva insorgere non dipendesse dal palladio. Il suo sguardo cadde sul proprio petto dove un intreccio di venule bluastre aveva cominciato a delinearsi da qualche settimana, da quando l’avvelenamento era progredito al quaranta per cento. Piuttosto stabile se non contava i picchi del cinquanta, a cui però sembrava essersi assuefatto.
Era riuscito ad allontanare la questione salute dai propri ingarbugliati processi psichici quando…
« Buongiorno, Signor Stark. Sono le quattordici e trenta del ventinove marzo. Oggi è il giorno ideale per compiere trentan- »
« Muto » grugnì mentre le sue viscere ebbero uno spasmo.
La mancanza di sonno adeguato – e soprattutto sereno – e di una dieta decente peggioravano la sua condizione. Per non parlare della morsa della solitudine.
Pepper passava solo quando era strettamente necessario e di rado, si fermava da lui per una cena.
In quegli sporadici incontri aveva annotato la crescita esponenziale delle occhiaie sul viso, sempre più defesso, della donna. Un sorriso si affacciò sul proprio quando rievocò quelle cene all’insegna di conversazioni disputate a colpi di sarcasmo e frecciatine.
Sorrideva, Pepper. Dall’altra parte della tavola imbandita, ogni volta con specialità diverse.
Sorrideva nonostante fosse prosciugata dalle pratiche e dagli incontri col Consiglio – divenuto la sua ombra – a cui andavano aggiunti i continui spostamenti fra le sedi per i piani regolatori coi governi, volti alla privatizzazione della pace globale, e l’organizzazione dell’esposizione al Flushing Meadows Park.  
Erano quel suo incrollabile sorriso e l’espressione trasecolata ad ogni sua battutina che lo avevano invogliato a riprendere il lavoro sull’armatura, la Mark V, a cui mancavano solo le cromature.
Col desiderio di completarle in fretta in vista di qualche entusiasmante collaudo, si alzò dal letto e dopo una dovuta doccia, scese al piano inferiore.
Su una poltrona del salotto c’era Natalie Rushman, che riordinava la cartellina.
« Buon pomeriggio, Signor Stark – lo anticipò, educata – Ow, buon compleanno » aggiunse con un cipiglio più allegro.
« Grazie » borbottò, diretto come un ago magnetico sul polo nord verso la caraffa di caffè.
Da quando era tornato dall’Afghanistan, era l’unica sostanza nociva di cui fosse riuscito a riappropriarsi. Gli faceva credere che non fosse cambiato nulla, che fosse tornando dal Medio Oriente senza un congegno pronto ad ucciderlo incastonato nel petto. Se ne versò una tazza abbondante, ma non la bevve subito.
La contemplò, con sguardo scoraggiato, come se potesse trarne un consiglio.
« Signor Stark? – ripeté Natalie, inclinandosi per cercare un contatto visivo – Si sente bene? ».
Una domanda che non avrebbe mai posto se non fosse stata obbligata da una copertura.
Tony si riscosse e la osservò per un attimo.
In quel fugace sprazzo di confidenza, Natasha ebbe un tuffo al cuore. Non ricordava l’ultima volta di averlo provato. Anni e anni di addestramento, torture e lavaggi del cervello l’avevano privata – o pressappoco – di qualsiasi emozione umana. Specialmente la compassione. Non c’era alcun onore in ciò che aveva fatto e non temeva una punizione che sentiva di meritare, ma qualcuno aveva deciso diversamente per lei.
« Forse dovrei… Cancellare la festa » capitolò il miliardario e lei comprese che si aspettava una conferma.
« Forse »
« Sì, perché potrebbe essere sconveniente »
« …e mal interpretabile » terminò, cominciando a nutrire una vaga inquietudine.
« Posso farle una domanda? Un po’ strana… – disse Tony, stropicciandosi un occhio – Se questo fosse il suo ultimissimo compleanno, come lo festeggerebbe? ».
« Farei tutto quello che ho voglia di fare – rispose Natasha, scrollando le spalle – Con chiunque abbia voglia di farlo ».
Restò immobile con il dossier delle Enterprises fra le mani mentre Tony assentiva, senza però aprire meramente la bocca.
‘Pepper’, si rispose mentalmente ‘Se solo Pepper lo volesse…’.
Natalie si fece un’idea sui pensieri che dovevano aver sfiorato i neuroni del bizzarro individuo, che conosceva da mesi e, se non fosse stata una spia – con una certa reputazione da difendere – gli avrebbe fatto pure una bella strigliata fino a renderlo biondo.
« Bene. Se non ha bisogno di me, io andrei »
« Dove di preciso? »
« Dalla Signorina Potts. Vuole che le dia un messaggio? » chiese mentre raccoglieva la borsa.
« No. Ma si accerti per conto mio, che stia bene »
« Certamente. A stasera » lo salutò e Tony si gustò finalmente la propria dose di caffeina.
 
*
Virginia fissò a lungo l’ingresso della Villa, alla guida della propria Saab. Abbassò lo specchietto e diede un’ultima avvisaglia ad inesistenti sbavature di mascara. Si aggiustò un ciuffo ribelle della frangetta e spinse nuovamente in alto il parasole.
‘Entri e gli dai il regalo. Fine’, si disse.
Ma la sua voce, neanche in testa, le suonò convinta.
Inspirò, afferrò il pacchetto e smontò dalla vettura. I fanali lampeggiarono segnalando la chiusura delle portiere mentre lei superava la scansione retinica. L’AI la accolse con l’innata ospitalità inglese, avvisandola che la festa si sarebbe svolta al piano di sotto dove già si trovava gran parte degli invitati.
Virginia si affacciò dalla rampa di scale, tornò nel corridoio precedente e salì verso il boudoir. Si fermò davanti alla porta, assalita da una serie di dubbi infinta, più o meno legati alla sua posizione attuale all’interno delle Industries. Il più terrificante comunque era che si fosse costruita un castello di carte sul semplice desiderio di sentirsi apprezzata, amata dall’unico uomo che paradossalmente le dava sicurezza pur essendosi dichiarato al mondo come Ironman.
Che avesse sbagliato, frainteso tutto a partire da quella sera?
No, non poteva essersi immaginata una cosa simile. Non dopo aver dormito – rigorosamente vestiti – insieme, non dopo essersi presi cura l’uno dell’altro, non dopo aver ammesso l’esistenza di un legame oltre la professionalità attraverso quelle assurde cene divenute quasi abituali dopo Capodanno.
Bussò, facendo capolino e lo intercettò davanti allo specchio. Aveva l’aria di chi stesse affrontando un conflitto di opinioni interne.
« Tony? » mormorò, facendolo sobbalzare.
Distolse subito lo sguardo quando notò il riflesso della camicia aperta, che lasciava intravedere quelli che pensava come solidi addominali e che il miliardario prese ad abbottonarsi.
« Pepper – quando il reattore fu nascosto, si volse per raggiungerla – Che ci fa lei qui? » domandò confuso.
Per qualche strana ragione, il suo subconscio non la voleva lì.
« Se non erro oggi è il suo compleanno » rispose lei, chiudendosi la porta alle spalle e stringendo un pacchetto fra le mani tremanti.
« Credevo che non le piacessero le feste che organizzo » disse, cercando di ignorare il fastidio che ancora gli dava la puntura all’altezza del gomito.
Quel dettaglio insieme alla rabbia per non esserci arrivato prima – e soprattutto da solo – alla soluzione contro l’avvelenamento fu sostituito dalla corroborante curiosità di conoscere il furbetto, che lo aveva superato e dall’immediata e maggior capacità di respiro. Gli sembrava che i suoi polmoni fossero capaci di trattenere più ossigeno. Ma più probabilmente la sua testa era diventata più leggera nel vedere l’unica donna che bramava presente al proprio compleanno, con un tubino che avrebbe sedotto anche un cieco.
« Oh, ma io non sono qui per la festa. D’altronde non ho ricevuto nessun invito » gli fece notare, arcuando un sopracciglio e spegnendo del tutto la sua aura di perfetta faccia di bronzo.
Tony mosse la mascella, senza parole. Com’era possibile? Avrebbe detratto una grossa fetta di stipendio alla Rushmann, ma adesso doveva porre rimedio a quel pasticcio.
« In tal caso la invito personalmente e ufficialmente alla mia festa di compleanno » asserì con un sorriso sbilenco che Virginia non potè fare a meno di ricambiare.
Il fatto di averlo colto di sorpresa però, solleticò il suo intuito femminile.
« Allora credo che potrei fermarmi per… un po’ » disse, abbassando gli occhi sulle proprie scarpe.
Fu quasi per caso che si accorse di un bottone della camicia di Tony nell’asola sbagliata che, di conseguenza, aveva sbalzato tutti gli altri. Appoggiò il regalo su un tavolino vicino, poi prese ad aggiustargli la camicia.
Tony seguì i suoi movimenti e s’irrigidì quando vide sgusciare fuori il primo bottone, vicino alla clavicola.
« Un po’ quanto? » chiese per temporeggiare.
« Dipende » mormorò Virginia, trovando qualche difficoltà a impedirsi di arrossire come un’adolescente.
Le era già capitato di occuparsi del suo abbigliamento – un pelucchio invisibile sulla giacca, una brutta piega dei pantaloni – ma c’era qualcosa di diverso…
« Da cosa? » la incalzò lui, costringendola a guardarlo negli occhi.
« Da come si comporterà » balbettò lei, continuando nel proprio compito.
Tony inspirò sollevato quando Virginia terminò coi bottoni senza aver visto il reattore e il cruciverba ad alta tecnologia che li circondava. Si appuntò mentalmente di far sparire la siringa usata.
« La prossima volta preferirei che mi spogliasse » disse sfacciato, usando volontariamente un tono basso e sensuale per cambiare discorso e lei scosse la testa, sorridendo rassegnata, ma divertita.
Poi gli porse il regalo e Tony la guardò incuriosito. Non tanto per l’oggetto, che prese e di cui riusciva a percepire il valore, quanto per l’atteggiamento astruso della donna.
« Pensavo che se ne fosse dimenticata »
« Non sono io che sto invecchiando oggi » rispose Virginia di rimando, osservando poi le sue dita callose sciogliere il fiocco bianco.
Strizzò il labbro inferiore tra gli incisivi e scrutò con attenzione il volto dell’uomo per scorgerne la reazione in tutti i dettagli. Quando aprì il cofanetto in legno scuro, riuscì a cogliere una nuova sfumatura dorata nelle iridi cioccolato del miliardario, che portò le sue labbra a schiudersi per lo stupore davanti all’orologio firmato Jaguar.
« E’ un pezzo unico… » lo avvertì pur di interrompere il silenzio.
« Non so cosa dire » rispose lui, scuotendo un poco il capo, spiazzato per poi sollevare lo sguardo su quello della donna.
« Non deve dire niente »
« …a parte grazie » concluse, scrollando una spalla.
« Devo confessarle che ho trovato qualche difficoltà a farle un presente visto che ha praticamente tutto »
« …e niente » bisbigliò Tony a sé stesso, ricordando Yinsen.
Ma Virginia non lo sentì e continuò a parlare.
« Così nel dubbio le ho preso un orologio di una casa automobilistica » concluse, dandosi mentalmente della stupida quasi si accorse di essersi trasformata in una macchinetta.
Tony sorrise e mise via la scatola, porgendole l’orologio.
« Mi farebbe l’onore? » disse, sollevando il braccio sinistro.
Virginia acconsentì e glielo allacciò al polso. Mentre lui lo studiava contento, qualcuno bussò alla porta.
« Buonasera, Signorina Potts – esordì Natalie educatamente – Signor Stark, gli ospiti cominciano a chiedere di lei »
« Arrivo – la liquidò apatico per poi volgersi verso di lei – Scende con me? ».
Il suo sguardo terso indugiò sul viso dell’uomo: gli occhioni cacao tradivano una sorta di aspettativa, le rughe agli angoli delle palpebre invece testimoniavano la serenità che albergavano in lui e le labbra cesellate erano appena increspate da un sorriso carico di dolcezza.
« Volentieri » mormorò, lasciandosi prendere a braccetto.
Insieme uscirono dalla camera patronale, indirizzati verso due piani più sotto e Virginia sentì che un cambiamento era in atto. Ma quell’atmosfera durò poco.
Infatti dopo neanche mezz’ora si rifugiò nell’unico angolo rimasto tranquillo, vicino alla parete in vetro che dava su un terrazzo. Osservò la calca di gente che ballava e un movimento in quel confuso marasma di braccia sollevate, chiome agitate e urla di eccitazione, attirò la sua attenzione.
Tony la invitò a ballare con l’indice di una mano e lei sorrise appena, scuotendo il capo per rifiutare quando intercettò un trio di sconosciute circondarlo. Stava per chiamarla, ma l’alcol che aveva già ingerito stava facendo il suo effetto e si dimenticò di lei.
Virginia rimase a fissarlo in disparte mentre le tre giovani ragazze gli ballavano attorno e addosso, strusciandosi e carezzandogli – maldestramente a suo avviso – le braccia e il collo. Cercò di distogliere lo sguardo, ma più ci provava e più tornava a guardarlo. E più gli spilli al cuore sostituivano gli istinti omicidi.
Quando non fu più in grado di sopportare quella scena, si fece spazio lungo il bordo della pista per lasciare la stanza, aggirando gli invitati e accostandosi al bancone – che conservava un’apparenza di tranquillità e di quiete – dove un barista, assunto per l’occasione, stava asciugando un bicchiere.
« Vorrei un Mart… Un Gibson » rettificò, salendo su uno sgabello.
« Arriva subito » disse, affatto stupito vista la faccia mogia della cliente che lo osservò nella preparazione.
Il gin venne versato assieme al Vermouth e al ghiaccio dentro il mixing, agitato e poi servito in una coppetta da cocktail, decisamente fredda a giudicare dalla condensa che si formò quasi subito.
Lo fermò quando volle aggiungere la cipollina di rito e lo fissò, dura come se avesse a che fare con un bambino indisciplinato.
« Questo bicchiere non dovrà mai restare a secco per più di cinque secondi » ordinò e il ragazzo annuì.
Virginia si sistemò e dopo un primo sguardo critico al drink, ne mandò giù un sorso. Scosse leggermente il capo quando l’alcol quasi le bruciò la gola, scendendo nello stomaco che sentiva pieno di bolle.
Come divenne la sua testa più meno a mezzanotte, cioè nel bel mezzo dei festeggiamenti.
La musica alta le aveva otturato i timpani e il mal di testa che stava insorgendo non migliorava certo la situazione. Non aveva neanche iniziato il secondo bicchiere quando un giovane dall’aria spavalda – e molto brilla – le si avvicinò, poggiandosi con un fianco al bancone.
« Ciao, zuccherino »
« Smamma, idiota – intervenne Matt, spingendolo di malagrazia – E’ occupata »
« Matt? » borbottò meravigliata.
« In tutto il mio splendore, chèrie » si presentò, sollevando le braccia coi palmi rivolti al cielo.
« Non credevo fossi tra gli invitati »
« Non lo sono, ma quell’adorabile orsacchiotto mi ha riconosciuto e lasciato entrare. Non potevo perdermi un simile evento » commentò frizzante come suo solito per poi farsi serio quando fece scorrere lo sguardo su di lei, che aveva arcuato un sopracciglio nel sentire l’appellativo con cui si era riferito ad Happy.
Matt la fissò con sospetto quando lei tornò ad essere taciturna, limitandosi a guardare il proprio cocktail. Guardò verso un punto imprecisato della stanza accanto e vide il festeggiato andarsene a spasso con un gruppo di galline.
« Dove vai? » chiese, scrutandola mentre faceva spallucce come se fosse un fatto di poca rilevanza.
« Fuori – disse Virginia, scendendo con attenzione dallo sgabello – Chiamami se… Ahm, se fa qualcosa d’illegale ».
Spinse la maniglia ed uscì. Il vento la raggiunse e si passò le mani sulle braccia, malgrado non fosse freddo quella sera. Salì i gradini che portavano alla piscina, scese dai tacchi e si sedette a bordo vasca. Immerse i piedi, osservando lo smalto color pesca sulle propria dita. Poi alzò gli occhi verso il manto blu sopra di sé, dove si mise a contare i diamanti che lo punteggiavano.
 
Aggrottò la fronte quando le parve di sentire un gatto agonizzante cantare Steve Wonder, ma ciò che la risvegliò dallo stato di depressione indotta dall’alcol fu uno scoppio seguito da grida un po’ troppo briose.
« Forse è meglio se vieni a dare un’occhiata, chèrie » mormorò Matt, affacciandosi dalla porta.
Virginia lo raggiunse e lo superò, diretta in pista dove spinse qualche invitato. Quello che vide la lasciò con l’amaro in bocca. Evidentemente Tony aveva pensato bene di invitare Ironman al suo posto e ora ballava – o almeno ci provava – con indosso la tuta metallica. Si chiese come riuscisse a non stritolare il microfono che teneva fra i guanti mentre annunciava che avrebbe dato prova della propria tecnologia. L’ultima parola fu pronunciata in un tentativo di malizia, ma quel dettaglio passò subito in secondo piano quando qualcuno lanciò in aria un’anguria, che venne quasi disintegrata da un fascio energetico.
Virginia e Matt si ripararono dalla pioggia appiccicosa e dai semi, che si riversarono sugli invitati.
« Come facciamo a farlo smettere? »
« Non lo so ancora… Tu butta fuori questa gente, per favore » disse prima di avviarsi a passo di carica verso il festeggiato.
 
Angolo Autrice: Pur essendo un po' di passaggio come questo magro capitolo... Salve salvino!
Vi sono mancata? *fa' l'occhiolino*
Ebbene eccoci arrivati alla fatidica festa di compleanno, vi annuncio che la situazione peggiorerà ulteriormente... ma questo già lo sappiamo tutti ;)
Prima di congedarmi per questa notte (...o mattina, a seconda dei punti di vista), voglio ringraziare 
Auroracastlecate25 e leila91, che è stata velocissima a recuperare la storia. Non so che cosa dirvi se non che mi ha fatto piacere rileggervi e che non vedo l'ora di conoscere le vostre future opinioni! :*
Un grazie enorme va anche a _Lightning_: preparati ad "ottovolare" nuovamente, perchè il meglio - o peggio - deve ancora venire. Ho riletto più di una volta le tue parole, ma non so davvero cosa scriverti (a parte che non potrei mai superarti per quanto concerne la scrittura, sei er mejo der Colosseo! :D) se non GRAZIE ancora, di tutto <3
E' una soddisfazione per me vedere che il mio lavoro venga così tanto apprezzato e condiviso! Ve' amo na' cifra *-*
Al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. Of statements And dives into the Sea ***


OF STATEMENTS AND DIVES INTO THE SEA

“Fading in, fading out. On the edge of paradise…
Every inch of your skin is a holy gray I’ve got to find,
Only you can set my heart on fire, on fire.
I’ll let you set the pace, cause I’m not thinking straight.
My head spinning around, I can’t see clear no more.
What are you waiting for?”
- Love me like you do, Ellie Goulding
 
“Something about the way that you walked into my living room,
casually and confident, lookin’ at the mess I am.
But still you, still you want me.
Stress lines and cigarettes, politics and deficits…
Late bills and overages, screamin’ and hollerin’
But still you, still you want me.”
- Next to me, Imagine Dragons 

‘Questa volta, come anni fa, ha davvero esagerato’, pensò Virginia mentre spintonava una ragazza vestita – se così si poteva dire – con un reggiseno e una gonna a vita alta.
« Una domanda che mi fanno spesso è: Tony, come fai ad andare in bagno con l’armatura? – seguì un silenzio durante il quale sperò disperatamente che non facesse… quello che stava già facendo – Ecco fatto » dichiarò il miliardario, incoraggiato dagli applausi.
Quella volta – parliamo del glorioso 2000 – l’aveva costretta ad accompagnarlo alla sua festa di compleanno che le aveva fatto organizzare presso lo Sky sulla Sunset, a ovest di Hollywood.
Non ricordava esattamente come, o meglio, lo sapeva… Ma preferiva ancora illudersi che non fossero stati lo smoking e i capelli costantemente arruffati a convincerla, bensì le sue straordinarie doti di persuasione – consistenti in un tono di voce vellutato e in un sorrisetto obliquo, sempre un po’ malizioso – che a tutt’oggi gli permettevano di farsi perdonare da lei qualsiasi casino combinasse.

Quella volta, come le altre successive, Virginia aveva pensato che il proprio boss non la pagasse abbastanza e che avrebbe presentato le dimissioni il mattino seguente. Minacce a vuoto.
Le aveva promesso che non avrebbe causato guai e pur consapevole che quelle parole valessero meno di un quarto di dollaro, gli aveva concesso il beneficio del dubbio. Soprattutto quando dopo neanche dieci minuti era stata, per così dire, rimorchiata con la galanteria vecchio stile – così l’avrebbe definita sua madre – da Michael Burns, un amico del MIT di Tony che l’aveva scaricata al bancone per inseguire le curve di una modella a bordo piscina.
Non sapeva quanto trascorse tra l’inizio della conversazione con Burns e il momento in cui aveva compreso in un nano secondo che, se non si fosse alzata, non avrebbe avuto bisogno di presentare le dimissioni perché il suo capo per allora sarebbe già morto. Interrotto il primo momento di relax e svago dalla sua assunzione, si era precipitata per impedire a un facoltoso invitato di scaraventare Tony dall’altra parte della contea a suon di cazzotti, dopo averci provato spudoratamente con la moglie.
Ci aveva poi pensato lei a trascinarlo per un orecchio, scusandosi a suo nome e, come un criminale in stato di arresto, a spingerlo sulla testa dentro la Rolls Royce, cercando contemporaneamente di non soffocarlo con le proprie mani. E lo avrebbe fatto davvero, se solo non fosse stato un reato penale e se solo lui non fosse stato così… Cuccioloso.

Non c’era all’epoca e non c’era in quel momento, un altro termine per descriverlo quando rise – totalmente ubriaco – più per circostanza per che vero divertimento.
Anche quella volta, che effettivamente non era stata diversa da tutte le altre in cui nel bel mezzo della notte, l’aveva chiamata – o chi per lui abbastanza magnanimo – per farsi raccattare in qualche bagno a vomitare, si era scolato metà bar finendo per fare cose di cui era più lei a pentirsi.
Alcune cose di quella sera continuavano a sfuggirle, ma ricordava ancora la breve conversazione avuta sui sedili posteriori della limousine.
« Pep? » aveva biascicato Tony, stravaccato sul sedile posteriore accanto a lei.
« Mi chiamo Virginia » gli aveva ricordato, forse per la milionesima volta solo quel giorno.

« Non capisco »
« Io non capisco »

« …perché si scalda tanto »
« …perché si riduce in questo stato »
« E’ la mia vita »

« Beh, la sta sprecando »
« Faccio quello che voglio »
« Mi aveva fatto una promessa »

« La pago per farmi da assistente, non da madre surrogata ».
L’aveva ignorato, sotto lo sguardo compassionevole di Happy sullo specchietto retrovisore, chiudendosi nella propria professionalità per evitare di riportarlo al bar e lasciarlo lì ad essere pestato. Si era quindi detta che quelle parole fossero figlie dell’alto tasso alcolico, poi aveva sentito qualcosa pizzicarle gli occhi e un grosso masso sul petto.
« Happy, accosta per favore » aveva detto, raccogliendo la catenella della pochette e con essa, la forza per pronunciare quella semplice frase senza tremare.
« Dove crede di andare? » aveva osato chiederle con la sua classica strafottenza, di cui per quella sera ne aveva avuto davvero abbastanza.
Si era girata a fissarlo negli occhi e per un attimo, aveva scorto un certo timore riverenziale in essi.

« Sono le due e mezza, il che significa che il suo compleanno è finito due ore e mezza fa. La mia giornata lavorativa da sei ore e mezza. Quindi a meno che non mi voglia pagare per questi extra, di cui farei volentieri a meno, se solo io non fossi così stupida e lei un dannatissimo essere umano, me ne torno a casa. Perché anch’io ho una vita e faccio quello che voglio quando non lavoro per lei, Signor Stark ».
Dopo aver sbattuto lo sportello senza neanche augurargli la buonanotte, aveva fatto cenno ad un taxi che si era appena accostato dall’altra parte della strada ed era salita per il proprio appartamento.

Perché ogni volta che si riduceva a quel modo – dopo una prima fase in cui avrebbe voluto prenderlo a schiaffi solo perché ne aveva la faccia predisposta – Virginia sentiva dentro di sè di non aver fatto abbastanza per impedirglielo. Armata di tutta la pazienza di cui fosse capace e recuperato l’equilibrio psico-fisico influenzato dai due Gibson, si avvicinò a Tony con uno dei suoi migliori sorrisi per meglio sostenere la candida bugia che fosse tutto sotto controllo.
« Però… » esordì, sfilandogli il microfono dalle mani senza troppa fatica.
« Io scendo qui » dichiarò Tony sghignazzando, piegato in due.
Virginia ritenne che fosse più opportuno piangere, visti alcuni cellulari che riprendevano il momento che poi sarebbe stato reso indelebile sul web.
« Nessun altro sa dare feste del genere » disse infatti senza riuscire peraltro a mascherare il tono acido.
« Lo so! – e quando la gente che affollava la sala esultò, comprese che probabilmente era il più sobrio della festa – Grazie, vi amo »
« Incredibile… – più rivolta a se stessa – Grazie di cuore, Tony. La ringraziamo tutti infinitamente »
« Grazie… » bofonchiò mentre allungava una mano, armata, sulla sua schiena.
Virginia trasalì quando si accorse che il suddetto guanto mirava a zone non propriamente di comune proprietà. Con una prontezza dovuta dall’istinto di conservare il proprio lavoro di CEO e la dignità del proprietario dell’azienda, afferrò il polso di Tony quasi facendosi male, prima che raggiungesse il proprio obbiettivo.
« …per questa – tentennò un attimo, alla ricerca di un aggettivo – magnifica serata. E ora dobbiamo augurarvi la buonanotte, e grazie »
« No, no, no… » protestò lui, improvvisamente conscio delle intenzioni della sua ex assistente mentre Matt sequestrava i telefonini, spacciandosi per uno della sicurezza in borghese.
Almeno JARVIS avrebbe faticato la metà.
« …a tutti per » si fermò lei, nascondendo il microfono dietro la schiena.
« N-no, non può… Perché in ef-fetti non c’è stata la torta… »
« Lei è »
« Ci sono le candeline… » continuò Tony sottovoce.
« …fuori controllo, va bene? »
« Sono fuori controllo? » chiese mentre i suoi neuroni galleggiavano nel Dom Perignon misto a chissà quale superalcolico. Alcune sinapsi però riportarono la sua attenzione su quanto Pepper fosse carina. Il tubino bordeaux le disegnava le forme e malgrado lo trovasse inappropriato con degli estranei presenti, si chiese se lo avesse scelto proprio in occasione del suo compleanno.
« Si fidi di me stavolta »
« Non sono fuori controllo… » protestò debolmente per poi sorridere inebetito, un po’ dall’alcol e un po’ dal profumo incantevole della donna.
« Okay? »
« Tu sei fuori controllo, piccola » sussurrò, gli occhi puntati sulle sue labbra.
Erano di un rosa delicato, fini e sembravano soffici come petali. Improvvisamente voleva baciarla, sembrava davvero una grande idea. Forse la più geniale che avesse mai avuto.
Il cervello di Virginia al contrario andò completamente in tilt, ma si riprese subito quando sentì il fiato dell’uomo sulle guance impregnato di alcol, a tal punto che si sarebbe potuta ubriacare anche lei. Indietreggiò, ma essendo troppo vicina al gradino, dovette bloccarsi. La gonna stretta e i tacchi alti le resero tutto ancora più difficile – come se già la situazione non fosse precaria – e la costrinsero ad aggrapparsi all’armatura per evitare di cadere.
Sottrarsi alle sue avances era sempre stata un’impresa, anche quando era sobrio.
« Tanto lo so che mi vuoi » la provocò, proteso verso di lei con un braccio attorno alla sua vita.
E per un solo, minuscolo e folle istante, una parte di lei era pronta ad allacciargli le braccia attorno al collo e assecondarlo come in una di quelle commedie romantiche che le piacevano tanto. Per fortuna, il suo raziocinio era ancora online e intervenne in modo tempestivo.
« Ha appena fatto la pipì nell’armatura » rispose, ritraendo ulteriormente la testa.
« Sì, ma »
« Non è eccitante » aggiunse con stizza.
« …si sta defiltrando » mormorò Tony, agguantando alla cieca una bottiglia di champagne dietro di sé.
« Avanti, mandi tutti a casa »
« No! »
Mentre gli invitati defluivano, intimati da Matt, il suo viso divenne una maschera inespressiva e Virginia ebbe la conferma che ci fosse qualcosa che non andava. Non aveva mai alzato la voce contro di lei. Mai.
« Non fa altro che dirmi quello che devo fare… E che quello che faccio non va bene: se le do l’azienda, non le va bene… Se cerco di baciarla, non le va bene… Sono stufo di lei e dei suoi ‘No, Signor Stark’! » disse, facendo un passo indietro.
Fu peggio che ricevere un pugno allo stomaco. Mentre lo fissava impietrita si disse che non era reale, che fosse solo ubriaco – molto, probabilmente troppo ubriaco – magari anche lei, e che quelle parole erano altrettanto ebbre. Ma non fu abbastanza perché la gola non le si annodasse e gli occhi prendessero a pizzicarle. Avrebbe voluto contrastarlo, urlargli qualcosa o tirarlo fuori da quella scatola di latta che sembrava averlo consumato. Ma non riuscì a fare niente di tutto ciò.
« Non ho bisogno di lei » concluse, infliggendole una stilettata diretta al cuore.
Le lacrime si fecero incontenibili, ma Virginia le ricacciò indietro prontamente e lasciò cadere il microfono quando ormai nella stanza c’erano solo loro due e Matt.
« Lo sospettavo – bisbigliò mentre lo strumento fischiava fastidiosamente – Addio, Signor Stark»
« Adieu, Virginia Potts! » esultò Tony, attaccandosi nuovamente alla bottiglia.
Matt la avvicinò, cercando di trattenerla ma lei fuggì verso la gradinata. Perché ragionare quando si aveva a che fare con un miliardario insensibile ed egoista?!
« Signorina Potts, s- »
« Ne ho veramente abbastanza!  Di lei, Natalia… o Natalie o come cavolo si chiama, e dei suoi Signorina Potts! Sparisca dalla mia vista almeno fino a domani, prima che la licenzi » tuonò senza voltarsi, agitando una mano per cacciarla via. Di sentire altre scuse non sentite, non era proprio il momento giusto visto che da quando era arrivata, la pazzia del boss era aumentata in modo esponenziale.
Natasha serrò la mascella, trattenendo la voglia di prendere a calci Stark e poi Coulson mentre la Potts saliva le scale come una furia per poi fermarsi a metà rampa quando udì i passi di qualcuno in cima ad essa.
Happy si presentò sulla soglia con un sorriso, che però svanì quando vide a colpo d’occhio la frustrazione e il rammarico nello sguardo di solito allegro e vitale della donna.
Virginia lo guardò appena, non disse nulla e riprese la scalinata per fuggire in camera.
« Aspetti un secondo… – mormorò, prendendola per un braccio all’altezza del gomito – Va tutto bene? » le chiese con così tanta premura che una lacrima la tradì.
« Ho solo bisogno di andare a dormire » disse, asciugandosi le guance e dopo essersi schiarita la voce, si liberò dalla stretta.
Filò nella stanza, sbattendosi la porta alle spalle perché voleva assolutamente togliersi quei tacchi che le stavano distruggendo i piedi. Li lasciò appena sotto il giaciglio, poi prese la borsa che usava durante il giorno e dopo aver spalancato le ante dell’armadio, cominciò a stiparvi i pochi abiti che teneva appesi alle grucce. Non sarebbe rimasta alla Villa neanche se gliel’avesse regalata. Appallottolò l’ultima blusa e la schiacciò dentro il grumo di abiti per poi cercare di chiudere la zip, che ovviamente si incastrò. Presa da un moto di rabbia – per sé stessa – repressa troppo a lungo, forzò la chiusura inutilmente fino quasi a romperla. Si arrese, sfinita quando si rese conto di ciò che stava facendo, soprattutto perché le sue valigie per New York erano già pronte. Si interrogò su a cosa sarebbe servita una expo se il suo ideatore era in preda a deliri di onnipotenza alternati a crisi depressive.
Col fiato corto, si lasciò cadere sulla moquette con la schiena contro il letto. Lo stesso su cui avevano dormito insieme, donandosi a vicenda un Natale migliore. Reclinò il capo pulsante, sintomo che le sarebbe scoppiato con un mal di testa da record. Sentì bussare ed effuse il proprio senso di inadeguatezza.
« Che diavolo vuole adesso?! » sbottò quasi urlando.
« Sono Happy »
« Oddio… Scusami » contrita, lanciò un’occhiata alla porta.
Per un attimo aveva creduto che si fosse trattato di Natalie. Allontanò immediatamente l’immagine di quel suo volto da bambolina prima di radere al suolo la Villa.
« Vuole che la riporti al suo appartamento? ».
Ci rifletté per un secondo e alla fine, guardò il letto che non le era mai parso così invitante.
Lasciò ricadere impotente le braccia dietro di sé, distendendo le gambe e soffocando un’imprecazione tra i denti all’indirizzo di quel disgraziato al piano di sotto. Unico responsabile di tutto quel casino.
« No, grazie… »
« Mi chiami, se cambia idea » aggiunse con delicatezza, prima di andarsene.
Si alzò, decisa a farsi una doccia sotto cui si rifugiò per ben tre quarti d’ora. Si lasciò coccolare dall’acqua e dalla fragranza del sapone per un altro quarto abbondante e quando uscì, nella densa nuvola di vapore, socchiuse gli occhi per godersi quel momentaneo paradiso afonico. Si strinse nell’accappatoio in spugna e per qualche malsana ragione, desiderò che fossero un paio di braccia corazzate a cingerla.
 
Tony si guardò intorno spaesato e per errore, calciò il microfono. Il fischio che emise per poco non gli spaccò il cranio a metà. Si massaggiò un orecchio, emettendo un mugolio infastidito.
« J-Jay, dove sono finiti tutti? »
« Se ne sono andati, Signore » rispose l’AI e per qualche strano effetto del delirium tremens, gli sembrò di aver di nuovo a che fare col Signor Jarvis e la sua consorte.
« Perché? »
« Per la loro incolumità. E per la sua, credo sia opportuno che si tolga l’armatura »
« Come vuoi – bofonchiò, poggiando per miracolo la bottiglia sul bancone dove prima si trovava il dj – Ma che è successo? ».
« Ha festeggiato il suo compleanno, Signore. Come aveva chiesto alla Signorina Rushman »
« Avrei dovuto annullare… » constatò, barcollando verso una parete dopo che i bracci robotici l’ebbero alleggerito dell’armatura.
Si appoggiò con le spalle alla muro e vi abbandonò la testa per qualche attimo, ammirando il cataclisma che sembrava essersi abbattuto sul locale. I coriandoli ricoprivano le sedute dei divanetti, dei bicchieri pieni giacevano sul ciglio di tavoli e mobili, delle bottiglie vuote erano sparse qua e là. C’era perfino una giarrettiera appesa ad una lampada.
Espirò con fatica e si trascinò su una sedia per capire da dove partire per sistemare quel macello. Con i gomiti sulle ginocchia, si passò le mani fra i capelli che sentiva incollati come i vestiti sulla pelle anche se non era effettivamente sudato. Si strofinò la faccia per poi lasciar ricadere le braccia in avanti. Il suo sguardo annebbiato mise a fuoco l’orologio che Pepper gli aveva regalato.
Se lo sfilò, facendo attenzione a non farlo cadere. Il che fu un’impresa titanica considerando le sue capacità motorie alterate. Carezzò il quadrante con un pollice e lo rigirò sull’altro palmo.
Si accorse di un’incisione sulla base, in lettere eleganti come scritte da una piuma d’oca.

Se non ci mette troppo, l’aspetterò tutta la vita.

« JARVIS, nota del giorno: sono un emerito idiota » borbottò aspro, portandosi il monile sulla fronte prima di rimetterselo al polso.
Si era chiesto più volte perché la donna fosse stata tanto nervosa quando lo aveva raggiunto in camera e credeva che fosse solamente spossata dopo un’interminabile giornata di lavoro. Gli sovvenne il dialogo di poco prima, provando la prepotente voglia di prendersi da solo a pugni.
Fece leva sulle gambe e si alzò per recuperare scopa e paletta – era il minimo che potesse fare e il primo passo per riavvicinarsi a lei – mentre chiedeva al maggiordomo di preparargli l’intruglio contro la sbornia.

*

Si avvicinò alla piastra elettronica e sollevò appena il cartellino. Compiuto lo scan, la lampadina verde si accese e Thomas potè entrare. Il suono ritmico dei suoi passi rimbalzò sulle pareti del breve corridoio che lo condusse nella sala dove Justin lo stava aspettando. Si affacciò dalla ringhiera e osservò il cadavere metallico pronto per l’autopsia.
« Il Colonnello mi ha assicurato che è Lei » esordì l’industriale mentre scendeva le scale.
« No, che non lo è  – rispose, rivolgendogli appena uno sguardo mentre girava intorno all’armatura – Innanzitutto non è rosso e oro. E con una laurea al MIT, speravo sapessi almeno leggere ».
Justin si sporse per vedere meglio la scritta impressa su un fianco dell’armatura.
« Che vuol dire? » domandò, sollevando gli occhi sul proprio interlocutore.
« E’ un prototipo. Probabilmente è la prima che ha costruito dopo… »
« Dopo? » lo esortò e Thomas tacque prima di riprendere ad ispezionare il congegno.
« Comunque è sua » dichiarò.
« Come fai a dirlo? »
« Nessuno riuscirebbe a riprodurla, senza commettere almeno un errore – guardò Justin con espressione sardonica – Dovresti saperlo »
« Non credevo fossi un fan di Stark » ringhiò lui, sbiancandosi le nocche al pensiero dell’ultimo scontro col nemico al Senato. Quei filmati avevano causato loro più problemi del previsto.
« Non lo sono. Ma non posso neanche dire che sia un incompetente – mormorò Thomas, accigliandosi quando il suo sguardo si calamitò sul foro nel petto – Dov’è l’alimentatore? »
« Alimentatore? »
« Vedi pannelli solari o piccole pale eoliche?! – sibilò – Dovresti sapere che ogni oggetto capace di autonomia necessita di energia per funzionare »
« Deve averlo il Colonnello » rispose Justin, avviandosi lungo la gradinata.
« Recuperalo entro questa settimana » lo ammonì Thomas, aprendo la propria cassetta degli attrezzi per mettersi a lavoro.
 
Si girò e le coperte le si avvolsero attorno ai fianchi e alle gambe. S’impose di dormire, ma il suo animo si ribellò. Aprì gli occhi e sul comodino, il medaglione sembrò sgridarla come sua zia Amelia aveva fatto fino al suo decimo anno di vita. Lo afferrò per relegarlo in una tasca della propria vestaglia e, vedendo l’una e quindici lampeggiante sulla sveglia, con evidente nervosismo scalciò le lenzuola. A piedi nudi uscì dalla camera e attraversò il soggiorno, poi il corridoio, maledicendosi ad ogni gradino che scese verso la sala della festa per poi fermarsi a metà rampa. La palla da discoteca continuava a roteare pigramente appesa al centro del soffitto. Vicino ad un tavolino di vetro, Tony era intento a spazzare gli ultimi coriandoli inumiditi da quello che, una volta, era stato costoso champagne fino a farne un piccolo cumulo. Più in là erano stati raccolti anche i resti del cocomero, usato come bersaglio per il tiro al piattello.
« Credevo se ne fosse andata… » mormorò e Virginia percepì della speranza nella sua voce un po’ arrochita.
Dal modo in cui si muoveva, comprese che lentamente stava smaltendo la sbornia.
« L’intenzione è ancora quella » rispose, cercando di ricordarsi il motivo dell’arrabbiatura mentre scendeva gli ultimi gradini.
« Mi odia non è vero? » sussurrò Tony, guardandola con timore mentre stirava il pigiama per coprirsi.
Sospettò che la sua mente geniale dovesse avergli fatto comprendere comunque l’antifona ma quando incontrò i suoi occhi di cacao, grandi e acquosi, ebbe il naturale impulso di stringere il medaglione in mano infilata nella tasca.
‘Magari potessi farlo’, pensò e tanti cari saluti alla ramanzina.
Quello sguardo avrebbe potuto sciogliere anche la persona più incorruttibile del pianeta. 
Virginia, decisa comunque a mantenere un atteggiamento composto e fargliela pagare, prese un rotolo e staccò un sacchetto nero, facendogli cenno di tenerne i lembi aperti. Lui obbedì, osservandola mentre raccoglieva con una spatola ciò che aveva spazzato per poi gettarlo.
Chiuse il sacco per tenere le mani occupate e quando tornò a guardarlo, non potè fare a meno di pensare a quanto somigliasse più a un bambino di cinque anni che a un uomo che, solo poche ore prima, ne aveva festeggiati trentanove: aveva il capo chino, il labbro inferiore leggermente sporto e le dita intrecciate. Spinta più dalla propria innata bontà d’animo, sparì dietro al bancone per tornargli vicino con una busta sigillata, riempita con dei cubetti di ghiaccio. Gliela appoggiò sulla fronte accaldata, compiendo inevitabilmente l’unico passo che li separava.
« Grazie » esordì Tony, sollevando una mano e posandola su quella della donna per reggere la busta sulla propria testa dove i capelli scuri cominciarono ad inumidirsi per lo sciogliersi del ghiaccio.
« Io non la odio, Signor Stark » rispose lei semplicemente, mettendo a tacere il sospiro esasperato che ormai le veniva spontaneo.
« Però ho esagerato » aggiunse e un brivido lo percosse in segreto quando percepì la pelle morbida della mano di Virginia che, colta alla sprovvista da quelle che sembravano scuse sincere, abbozzò un sorriso.
« Se non la conoscessi, direi che questo non è niente in confronto ai disastri precedenti – commentò ironica ma quando lui ricambiò, riprese le distanze – Ora è meglio se si riposa » annunciò, riscuotendolo bruscamente e lasciandogli un vuoto spandersi nel petto quando ritrasse la mano.
Tony la fissò salire i primi due scalini per poi compiere la prima scelta buona nell’arco di quei mesi.
« Se se ne va, venderò l’azienda » dichiarò fermo, senza pensarci perché non gli occorreva farlo.
A quelle parole, Virginia s’irrigidì. Si volse completamente verso di lui, sul quinto gradino, mentre ritirava il sacchetto di ghiaccio rigirandoselo tra le mani.
« Tony, lei »
« Cosa? »
« …non è »
« Non sono… cosa, lucido? – lo fissò tanto intensamente che le fece male vederlo così fiacco e, fallire ogni volta nell’aiutarlo – Non posso permettere che i miei progetti finiscano nelle mani di qualcuno come Stane o Hammer ».
Sentì la bocca dello stomaco serrarsi fino quasi a impedirle di respirare – < Non ho nessuno se non lei > – e ancora una volta, prese in mano il medaglione come se facendolo, potesse ricevere un consiglio.
« Se vuole che resti, dovranno cambiare alcune cose » mormorò, mantenendo gli occhi in quelli dell’uomo.
Era abituata alle sue scelte bizzarre, ma in quel caso non si era aspettata un simile ultimatum.
« Tutto quello che vuole – sollevò un braccio per poi lasciarlo ricadere mollemente lungo il fianco – Qualsiasi cosa »
« Voglio solo la verità, Signor Stark ».
Tony rimase muto e lei si arrese al fatto che il suo fosse solo l’ennesimo tentativo per blandirla e farla cadere di nuovo nella trappola. Ma stavolta aveva raggiunto il punto limite, quello di non ritorno.
« Il reattore ha un malfunzionamento – disse quando la vide ripartire – C’è un problema ai neutroni nella parete interna… ».
Virginia si girò di scatto e come un fulmine, la presa di coscienza la folgorò. Gli eventi dei nove mesi precedenti si distesero, collegandosi per un sottile filo rosso e divennero chiari come una cartina geografica su un tavolo: le febbri, gli incubi e Monaco. Tony sbatté le palpebre.
« Il nucleo di palladio mi sta intossicando » continuò mentre lei ridiscendeva le scale.
« E questo significa…? »
« Per citare Jay, ciò che mi tiene in vita mi sta anche uccidendo » concluse, mettendo via il sacchetto pieno d’acqua su un tavolino.
« Da quanto? » chiese sconvolta, cercando di mantenersi in piedi nonostante la ginocchia malferme.
« Dall’incidente alle Industries ».
Lo fissò, scuotendo il capo quando fu ad un passo da lui. Avrebbe dovuto allontanarsi subito, ma da quella prospettiva le sembrava di essere davanti a un altro Tony. Lo stesso di quella sera al gala di beneficenza, un’altra delle ambigue e imbarazzanti situazioni in cui era abituata a ritrovarsi, impreparata, da quando era stata assunta.
« Ma non è questo il punto… »
« E quale sarebbe?! » gemette e guardandola, Tony sentì il bisogno di scappare.
Con lei. Ovunque, il più lontano possibile. Intontito dalla sua visione, accostò il volto al suo.
Virginia trattenne il fiato, pensando a come sarebbe stato se avesse avuto abbastanza coraggio di andargli incontro. Sentì il respiro dell’uomo sulle guance, la mano grande sul proprio fianco e l’altra che stringeva dolcemente la propria sul cuore luminoso.
Il ricordo di quella sera la colse alla sprovvista quando riemerse e ad ogni battito, sentì che stava per abbandonarsi ad esso e alle labbra del miliardario, troppo vicine e attraenti per essere evitate. Deglutì sonoramente, cercando di allontanarsi ma lui strinse la sua mano più forte, premendola contro il proprio petto con gentilezza. Era tutto maledettamente giusto – anche se non erano totalmente sobri – come alla prima mezzanotte dell’anno, ed entrambi sentivano che poteva essere di più. Ma qualcosa di indefinito, le suggerì di ritrarsi finché ne avesse avuto la possibilità.
Tony la osservò indeciso, ma lei lo interruppe prima ancora che potesse farlo, posandogli un dito sulla bocca per farlo tacere. Inspirò debolmente, facendogli capire quanto fosse stanca. Troppo per elaborare tutto adesso. Quell’esiguo contatto riuscì a farla fremere come se qualcuno avesse legato i suoi arti a dei cavalli, ordinando loro di strapparla in pezzi. Aprì gli occhi, incontrando subito quelli del miliardario che abbozzò un sorriso, con aria meno rigida.
« Buonanotte, Tony »
« ‘Notte, Potts » bisbigliò, avanzando di un passo per seguirla.
Si fermò sul posto e la guardò fin a quando non sparì al piano superiore.
« Signore, devo duplicare il promemoria? » domandò JARVIS con una discrezione inumana.

*

Inspirò e si portò una mano alla testa, temendo che gli si potesse staccare dal corpo e rotolare via tanto era pesante. Muggì quando tentò di sedersi, ma alla fine rimase là dove si trovava per qualche minuto e nell’inframezzo capì che non avrebbe dormito mai più sulla poltrona del laboratorio.
Come ci era arrivato? Non era una priorità conoscere la risposta.
Si grattò le palpebre incollate dal sonno e tentò più volte di aprirle. Quando ci riuscì, percepì il chiarore ancora lontano dell’alba e davanti a lui, si stagliò il Pacifico oscurato dal cielo violaceo della notte che stava ormai sparendo.
Raccolse le forze e si mise in piedi per poi dirigersi verso l’elevatore. Salire le scale in quelle condizioni sarebbe stata una pessima idea, anche per qualcuno che non fosse un genio dell’ingegneria. L’intruglio di uova crude, salsa Worchestershire, pepe nero e succo di pomodoro – a cui aveva dato il personale contributo aggiungendoci della menta – gli aveva restituito i neuroni attivi e l’alito pulito.
Si appoggiò alla superficie metallica finché le porte non si affacciarono sul salotto. Almeno i piani superiori a quelli della festa erano rimasti intatti, altrimenti avrebbe fatto più alla svelta comprando una nuova Villa. Si stirò pigramente, piegando le spalle in avanti quando una zaffata fresca gli solleticò il volto ancora accartocciato dalla sbornia. Si girò e vide, appena socchiuso, il finestrone del terrazzo che portava alla spiaggia. Si lasciò guidare dalla brezza che giungeva debolmente, portando con sé la salsedine e, arrivò sul lido privato appena riparato dalla parete scoscesa, su cui in cima quasi sull’orlo si trovava la Villa.
Scalciò le scarpe affondate nella sabbia e proseguì a piedi nudi verso la figuretta che gli dava la schiena. Indossava una specie di golf privo di bottoni, in lana bianca e leggera – perfetta per quelle mattine di inizio primavera californiana – e il completo da notte che le aveva visto poche ore prima. La sua chioma rossa si agitava a ritmo con la risacca che le sfiorava gli alluci. La superò diretto verso le acque appena smosse, scrutando il medaglione con cui si stava gingillando e si chinò, immergendo le mani.
Non ebbe bisogno di sciacquarsi la faccia perché qualcuno lo invitò a farsi un bagno. Ingollò qualche sorso di sale e puntellando le braccia nella sabbia, riuscì a non affogare in quei pochi centimetri. Si volse e realizzò che non se l’era immaginato. No, Virginia lo aveva spinto intenzionalmente e adesso lo fissava con un’espressione indecifrabile e le braccia rigide lungo i fianchi.
Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma lei cominciò a schizzarlo.
« Potts! »
Calciò l’acqua con rabbia, inzuppandolo come se non lo fosse già e non ne fu pienamente sicuro, ma gli sembrò che lo avesse pure mandato a quel paese.
« Sei un idiota! »
« Lo so. Ho detto a JARVIS »
« …e uno stronzo »
« ….di segnarlo. Ehy! » sbottò e abbassò le braccia che aveva alzato per ripararsi, osservandola senza controbattere in alcun modo. In fondo aveva ragione, ma credeva che avesse avuto modo di sbollire.
« Quando pensavi di dirmelo? »
« Stavo cercando il momento adatto »
« Tipo?! »
« Non lo so! Avevo pensato di prepararti una cena e dirtelo »
« Abbiamo cenato almeno una volta a settimana nell’arco di questi mesi e, tu non hai trovato un momento per dirmi che stai morendo?! » urlò, paonazza.
« Avresti preferito un bigliettino? »
« Non fare lo spiritoso con me! » lo sgridò e se la prese per l’ultima volta col Pacifico, perché qualcosa la afferrò poco sopra le ginocchia, rendendola vittima della gravità.
Pose le mani avanti per frenare la caduta, ma finì direttamente tra le braccia di Tony che, col sedere sulla sabbia, si mostrò incurante delle onde che gli colpivano le spalle poiché troppo concentrato sul viso della donna che gli sedeva in grembo.
Ci fu un attimo in cui tutto tacque, tutto si congelò. Il mare, il sole, il vento e i loro cuori.
Poi così come tutto si era fermato, ripartì alla velocità della luce.
Lei si sporse e incorniciando il volto del miliardario, premendo le labbra sulle sua. Era sbagliato? Certo che lo era – chissà cos’avrebbero detto le donne di famiglia – ma non aveva intenzione di farsi indietro.
Tony rispose, forzandola a schiudere la bocca mentre affondava le dita di una mano nei suoi capelli. Sospirò – le labbra della donna erano morbide e irresistibili come gli erano parse la prima volta che avevano pronunciato un competente ‘Signor Stark’ – quando Virginia gli allacciò un braccio dietro il collo e approfondì quel bacio tanto atteso. Emise inconsciamente un verso licenzioso quando la lingua di lui trovò la propria e ad un tratto, il resto svanì. Non le importava più niente neanche di respirare. Poteva sopravvivere semplicemente avvinghiata all’uomo che amava e che sapeva di mare, alcol e mentolo. Un mix afrodisiaco in grado di mandarle in pappa il cervello. Lo allontanò bruscamente, spingendo le palme sul suo petto quando si accorse che non avevano ancora litigato a dovere.
« Perché non me lo hai detto? » chiese e le sue sopracciglia si aggrottarono in modo pericoloso.
« Disse quella delle telefonate intercontinentali con uomini in divisa » la rimbeccò lui.
« Si trattava di Rhodey » rispose allargando le braccia.
« Il mio migliore amico! » replicò Tony oltraggiato.
« …che hai preso a pugni »
« Gli ho dato un solo pugno – disse, sollevando l’indice per contare – E mi ha provocato! »
« Disse quello che ha dato del prostituto al Senatore Stern »
« Lo sa anche la Signora Stern » si giustificò, facendo schioccare la lingua sul palato.
« Era proprio necessario presentarsi al mondo come Ironman »
« Cosa c’entra adesso? »
« …o guidare un go-kart?! »
« E’ successo mesi fa! E per l’ultima volta: è una macchina da corsa » scandì, gesticolando come un forsennato mentre Virginia desiderava solo picchiarlo, strozzarlo e baciarlo – non necessariamente in quest’ordine – pur di chiudergli quella boccaccia.
« E come lo spieghi il tuo flirt con la Bambolina?! Anche lei ti ha provocato? » domandò, piccata.
« Chi?! » strillò Tony, preoccupato che fossero arrivate lettere di lamentele da parte di ballerine ingiustamente licenziate.
« Natalie! » chiarì lei, facendo fischiare quel nome tra i denti stretti.
« La Signorina Rushman? Miss Freddura Mista?! »
« Non fare l’ingenuo…! » sbraitò Virginia, dandogli un pizzicotto sul bicipite.
« Vuoi sapere una cosa, Signorina Wilde? Tu sei gelosa » la accusò e lei sgranò gli occhi.
« COSA?! »
« Mi hai sentito bene invece! E non lo vuoi ammettere » ribatté Tony sempre più convinto.
« Ti ricordo che sei stato tu »
« …come non volevi ammettere di avermi rubato il pigiama » le rinfacciò e per un attimo, Virginia pensò che stesse per farle linguaccia.
« …a diventare un neanderthal »
« E poi mi hai rubato i boxer »
« …quando hai visto Thomas »
« Ti prego, non ricordarmi il nome di quel deficiente » sbuffò lui tediato, roteando le orbite.
« Quel deficiente però non sta per morire…! – rispose adirata – Di nuovo… » aggiunse con un cipiglio di triste rimprovero.
Poggiarono la fronte l’un l’altra mentre la marea tornava ad accarezzarli, mettendo fine a quell’interminabile ma catartica discussione senza capo né coda.
« Ti ho dato così tante preoccupazioni – ammise Tony sottovoce, infilando le mani sotto al maglioncino per far scorrere le dita sulla schiena della donna – Non… Non volevo che anche il palladio diventasse un tuo problema »
« I tuoi problemi sono anche miei da dieci anni » mormorò, scuotendo lievemente in capo e spingendo contro il suo.
« Vuoi ancora dare le dimissioni? » domandò col preciso intento di provocarla.
« Per averti sulla coscienza?! » fece Virginia, guardandolo in tralice da sotto le ciglia.
« Quindi che si fa? » chiese lui, sfiorandole una guancia per portare la conversazione in zone decisamente più importanti. E urgenti.
« Andiamo a prepararci. Devi ancora »
« Prima dovremmo »
« …fare le valigie »
« …pareggiare i conti » precisò Tony, piegando la testa di lato.
« Pensavo che avessi pareggiato con la festa a cui non mi hai neanche invitata » rispose lei, scimmiottandolo.
« Ti lamenti sempre delle feste che organizzo »
« Io non mi lamento »
« Non ti stai lamentando adesso? » domandò con fare retorico.
« Mi lamento mai quando tieni il volume della musica come ad un rave party? »
« Lo sai, mi serve per concentrarmi »
« E mi lamento mai quando ti ubriachi proprio il giorno prima di una riunione »
« L’alcol mi aiuta a rilassarmi »
« …cosicché tu possa arrivare in ritardo? » disse, fissandolo in cagnesco quando la adagiò sulla battigia per alzarsi in piedi.
« Questo non cambia che mi hai buttato in acqua » le fece notare, cominciando a sbottonarsi la camicia.
« Volevo aiutarti » rispose Virginia con un sorrisetto, mantenendo lo sguardo sul volto del miliardario anziché sulla stoffa aderente ai suoi addominali.
« …e ora io ti restituirò il favore »
« Io non credo proprio »
« Non sei nelle condizioni per poterti opporre, Potts » mormorò Tony, afferrandole un braccio per tirarla su.
Lei strillò quando chinandosi, la sollevò di peso e con crescente terrore, si accorse che le sua direzione era quella del mare aperto.
« Tony »
« Sì? »
« Non avrai intenzione di fare quello che penso? » chiese Virginia, portando le cosce più vicine al petto.
« Mmhssì… » confermò lui, reggendola con un braccio attorno al busto e l’altro sotto le gambe.
« Tony, la California è famosa per gli squali »
« L’acqua non è così profonda »
« Va bene, va bene, va bene! – gridò lei, stringendosi con vigore al suo collo – Ti chiedo scusa, ero arrabbiata e… Ti scongiuro, Tony » piagnucolò quando riconobbe il luccichio malefico nei suoi occhi.
« Sei adorabile » ridacchiò lui, dandosi lo slancio per catapultarla in acqua.
Si tuffò subito dopo per raggiungerla mentre Virginia riemergeva, sputacchiando. In apnea si reimmerse per spostare i capelli all’indietro e Tony la osservò un po’ stranito, vedendo la frangetta scomposta. Ma non ebbe il tempo per fare altro perché la donna si lanciò su di lui, schiacciandogli la testa sott’acqua. Un tentativo di affogarlo che si rese vano quando tornando in superficie, riuscì a gettarla nuovamente un po’ più là. Virginia nuotò a pelo verso riva e quando le fu possibile, gattonando e aiutandosi con le braccia, cercò di tornare sulle gambe, ma Tony agguantò il golf che indossava – ormai da buttare – e la strattonò indietro, facendola cadere fra le onde.
« Tony, smettila! » sbraitò, scuotendo le spalle per togliersi il maglioncino quando finalmente riuscì a piantare i piedi nella sabbia scivolosa.
« Hai iniziato tu » la rimbeccò dispettoso per poi ammutolirsi.
I suoi occhi, ricercando quelli della donna, nel ripercorrere la sua figura avevano avuto modo di scannerizzare il suo corpo chiaramente nudo – eccezion fatta per gli slip – sotto la camicia da notte.
Virginia seguì la direzione del suo sguardo e immediatamente si riappropriò del maglioncino per coprirsi.
« Sei da rinchiudere! » lo aggredì quasi spolmonandosi.
« Hai fatto la stessa cosa » le rammentò Tony.
« Non è vero » rispose, alzando la voce di un’ottava.
« Sì, che è vero »
« No! »
« Solo che io ho avuto la decenza di spogliarmi » disse, ridendo quando lei gli lanciò l’indumento in faccia.
Rise e un ginocchio alla volta, la seguì verso la spiaggia dove si era fermata a fissarlo furente con le braccia incrociate sul petto a nascondere le nudità.
Lui lasciò il golf su una sdraio e spostandosi, aprì un piccolo scomparto dietro lo schienale dove c’era sempre un telo di scorta. Lo scosse e alzando le braccia, lo fece passare dietro le spalle di Virginia che teneva lo sguardo torvo su di lui. Avvicinò i lembi per avvolgerla e quando strinse la stoffa, si ritrovò a pochi millimetri dalla sua faccia. Con un dito sulla sua guancia, Tony la costrinse a guardarlo e lei arrossì, ma non cercò di sfuggirgli.
Happy, giunto di buon’ora per assicurarsi che nulla fosse esploso, si bloccò in quel preciso momento sul primo gradino. Da quell’altezza poteva vederli baciarsi – ‘Come avrebbero dovuto fare anni fa’, osservò – seppur con una certa imbranataggine emotiva con gli albori all’orizzonte, che li proiettava in un film romantico. Si lasciò sfuggire un risolino mentre rientrava alla Villa per chiamare l’impresa di pulizie.

Angolo Autrice: Ora potete anche lanciarmi pomodori o qualsiasi ortaggio abbiate a disposizione xD
Il capitolo era già pronto, ma per cause di forza maggiore - tra cui rete pessima e invasione di parenti... ^^ - non sono riuscita a pubblicarlo prima d'oggi.
Personalmente non sono molto soddisfatta - e te pareva ehehe - ma per quanto concerne la resa di queste scene, lascio a voi l'ultima parola.
Ringrazio tutti coloro giunti fin qua e un baciotto speciale a:
leila91a cui risolvo un dubbio: Matt è Matthew Boseman, il fotografo del settimanale People che ha compiuto la sua prima apparizione nel capitolo 3 - Pandering. Mentre Thomas Kyle, l'avvocato di Hammer, è il tipo con cui Pepper è uscita nel capitolo 2 - Stuck in reverse :*

_Lightning_ che come al solito, mi emoziona ogni volta che recensisce (devo ancora trovare le parole giuste per rispondere alla tua recensione su Only Two Days *-*) a cui dico semplicemente che questo è solo l'inizio ;) PS: no, non sono romana *sob*. Sono nata in Germania e vivo vicino a Firenze, ma adoro tantissimo i romani e la Capitale, a cui renderò omaggio fra qualche capitolo :D

Non dico di più che poi spoilero - se non ancora GRAZIE GRAZIE GRAZIE ad entrambe <3 <3 - al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. Reasonable Doubts ***


REASONABLE DOUBTS

“Nothing to prove and I’m bulletproof and know what I’m doing.
The way we’re movin’ like introducing us to a new thing.
I wanna savor, save it for later the taste of flavor.
‘Cause I’m a taker, ‘cause I’m a giver.
It’s only nature, I live for danger.”
- Dangerous woman, Ariana Grande
 
“Oh, like a fever burning faster
You spark the fire in me.
Crazy feelings got me reeling,
they got me raising steam.
Don’t you struggle, don’t you fight.”
- Let me put my love into you, AC/DC

Allentò il piede dall’acceleratore per poi spostarlo sul freno quando il semaforo divenne rosso. Nell’attesa schiacciò un pulsante dietro il volante e sul cruscotto si aprì un’interfaccia, tramite la quale avviò la videochiamata.
« Couls- Direttore? » esclamò la donna al volante, stupita dal cambio dell’interlocutore.
« Salve Agente Romanoff – esordì Nich, in piedi davanti allo schermo nel proprio ufficio – Oggi sostituisco personalmente l’Agente Coulson »
« Dove lo ha mandato questa volta? » chiese con un sorrisetto, ma non senza notare delle pieghe scure sulla sua fronte.
Quando si facevano più marcate, la benda sembrava superflua: guai in vista.
« New Mexico »
« Stark la chiamerebbe terra d’incanto – mormorò dando un’occhiata al traffico – Qualche novità su Hammer e la sua Fata madrina? »
« Ancora niente » brontolò in attesa del rapporto.
« Dopo aver condotto cinquanta test col proprio sangue, ha riprodotto l’antidoto e lo ha assunto »
« Segni di miglioramento? » domandò e Natasha storse il naso.
« Al momento sono oscurata. Ieri sera ha alzato un po’ il gomito e la Potts mi ha sbattuta fuori » mormorò.
‘Ci mancava pure la ramanzina dalla Signora Stark’, pensò aspramente.
Nonostante tutto non poteva fare a meno di esserle solidale: a far da balia a un uomo con lo stesso andamento ormonale ed emozionale di un quattordicenne sarebbe impazzito chiunque, perfino il più santo degli eletti.
« Mi sto recando alla pista privata: per le otto e trenta è previsto il decollo del jet per New York – disse, suonando il clacson quando il conducente dinanzi a sé sembrava aver deciso di farsi una pennichella – Domani sera ci sarà l’inaugurazione della Expo a cui seguirà una cena presso l’hotel St. Regis »
« Manderò Crossbow con te »
« Non è sulla lista degli invitati » ringhiò, sterzando bruscamente per poi sollevare il dito medio all’indirizzo del pancione barbuto che superò con una sgommata.
Nich – abituato a quegli sporadici sfoghi – l'adocchiò. Aveva già abbastanza faccende ben più rimarchevoli a cui dedicarsi indi per cui, pagare la cauzione ad un’Agente stressato era una di quelle che avrebbe assegnato al proprio braccio destro.
« Farai in modo che lo sia. Vorrà vedere di persona i risultati del siero su Stark » decretò infine, spegnendo la rete e augurandosi che nel tragitto non sarebbero state falciate vittime.
Natasha, affrontato l’ingorgo, proseguì verso la periferia. Individuò quasi subito l’insegna Stark Industries sulla fiancata dell’angar con mattoni a vista. Di poco distanziati vi erano altri due edifici simili e un’enorme spazio aperto in gran parte alacremente cementificato. Al cancello, visionato da telecamere e una guardia armata, mostrò il badge ed entrò, parcheggiando l’auto nel posto a lei assegnato. Un addetto la raggiunse per sistemare il suo trolley in stiva, a cui chiese inoltre di prepararsi poiché la Signorina Potts avrebbe sicuramente gradito far colazione una volta decollati.
Dovette attendere circa mezz’ora per vedere la Rolls Royce. Le gomme frenarono dolcemente, Happy smontò e aprì lo sportello posteriore. Virginia fu la prima a scendere e finalmente lei capì perché fosse in ritardo. Una quisquilia che vivacizzò immediatamente il suo interesse quando Tony la seguì dalla vettura coi suoi affezionati Ray Ban.
Essendo spia fin da quando aveva memoria, Natasha non conosceva molto bene le dinamiche di coppia e l’”istruzione” impartitole aveva avuto – da subito – il primario obiettivo di sopprimere qualunque attrattiva verso di esse. A meno che non fosse indispensabile per l’adempimento di una missione. Tuttavia, per le stesse motivazioni, era riuscita a collezionare una vasta collezione di esperienze per quanto concerneva il linguaggio del corpo e le manifestazioni emotive, specialmente quelle invisibili, degli altri. I soggetti che sorvegliava da mesi avevano risvegliato in lei una sorta di aspettativa, la stessa che colpisce uno studente volenteroso davanti a un nuovo libro da leggere e studiare.
« Buongiorno, Signorina Potts – disse, cortese mentre si avvicinavano a lei – Signor Stark »
« Buongiorno, Signorina Rushman » mormorò Virginia di pari tono, fermandosi alle scalette.
Tony le rispose con un cenno, parendole un bambino che non aveva dormito poco e male.
Happy aiutò nel carico dei bagagli e in contemporanea, Natasha ne approfittò per avviare la propria indagine su Virginia, che osservava il cielo mattutino – ‘Mani giunte davanti al grembo, schiena dritta e… ce l’ha ancora con me’ – e su Tony, che invece osservava la donna – ‘Braccia incrociate sul petto, dita strette sulle maniche della giacca in pelle nera e leggero spostamento del peso da una gamba all’altra’, si appuntò. Entrambi somigliavano a due ladruncoli di quartiere, che cercavano di passare inosservati con la refurtiva in bella mostra.
Lo chauffeur diede l’okay e il quartetto salì a bordo del jet. Virginia si sedette in direzione del muso dell’aereo e la sua assistente fece altrettanto dal lato opposto. Tony e Happy le imitarono, dando quindi le spalle alla cabina di pilotaggio.
Nel giro di tre minuti scarsi erano a diecimila metri di quota e fuori, si potevano ammirare soffici colline di zucchero filato. Natasha distolse lo sguardo da esse quando un hostess li raggiunse, avvisandoli che potevano slacciarsi le cinture di sicurezza. Nello sbloccare la propria sicura, si accorse che nessuno dei suoi superiori si fosse mosso di un millimetro. Abbassò il capo e tese le orecchie.
« Desiderate qualcosa, Signorina Potts? »
« Caffè, brioche e del succo andranno benissimo » disse Virginia con voce pacata, gentile come al solito e Natasha non si sarebbe insospettita, se nel rispondere avesse sorriso o quantomeno staccato gli occhi da alcuni documenti, tirati fuori dalla borsa non appena si erano accesi i rotori.
‘Interessante’, gongolò.
« Del caffè e un frutto, per favore » mormorò a propria volta e l’hostess si rivolse a Tony, dopo che Happy ebbe rifiutato.
« E per lei, Signor Stark? ».
« Quello che ha preso la Signorina Potts » mormorò il miliardario, passandosi l’indice sul labbro inferiore.
La ragazza in divisa si congedò e le due cavie si fissarono a vicenda per un istante quasi impercettibile prima di serrarsi in uno stoico silenzio. La diagnosi di Natasha fu fulminea: TSI, tensione sessuale irrisolta.
Dovette contenere le risate quando le sovvenne la miriade di eventuali reazioni da parte di Phil quando gli avrebbe detto che il Signor Prima Donna avrebbe presto depennato la voce “playboy” dalla sua biografia.
Il suddetto aspettò che l’hostess portasse loro le ordinazioni prima di sganciarsi la cintura di sicurezza. Il suo sguardo intercettò quello della CEO, che si chinò a prendere la propria tazza con su il logo aziendale. Lui prese la propria e continuarono a sfidarsi da dietro il bordo delle ceramiche, come due duellanti che tentano di prevedere la mossa del nemico. O in questo caso, dell’amante.
Tony non riusciva a togliersi dalla mente la proiezione di loro due, abbracciati sulla battigia sotto casa. Lambiti dall’Oceano e riscaldati dal sole morente. Avvicinò la tazza, bevendo un sorso di caffè che per poco non gli finì di traverso quando immaginò di poterlo assaggiare direttamente dalle labbra di Virginia.
Natasha li osservò di sottecchi mentre consumavano la colazione – e si consumavano fra loro a forza di frecciatine – giungendo alla conclusione che se nessuno dei due avesse compiuto il primo passo, lo avrebbe fatto lei, scaraventandoli fuori dall’aereo. Senza paracadute. Così aspettò ancora un po’ per rendere la cosa credibile e perché Happy si appisolasse, poi finse di aver bisogno della toilette.
Tony si lasciò cadere di lato. Vide la Signorina Rushman sparire dietro la porta del bagno – su cui Natasha si appoggiò, facendo aderire l’orecchio sul battente per origliare – e si alzò per accomodarsi accanto a Virginia che si stava godendo la metà rimasta della propria brioche. Al cioccolato.
« Posso fare qualcosa per lei, Signor Stark? » disse dopo aver mandato giù il boccone.
Tony – tentato dalla crema che fuoriusciva dalla pasta-sfoglia fra le graziose dita della donna – si appoggiò con un gomito al bracciolo.
« Sei arrabbiata? »
« No »
« Perché mi chiami Signor Stark? » perseverò lui, porgendole un tovagliolo quando la vide sporcarsi una guancia.
« E come dovrei chiamarla? » domandò lei, con tono quasi apatico.
« Il bacio ti ha confuso la memoria – concluse, avvicinandosi e sottraendole il fazzoletto quando tentò di afferrarlo – Forse dovrei ritentare per... ».
Virginia senza timori né remore sollevò una mano, su cui l’uomo schiacciò la bocca e il naso.
« La mia memoria funziona perfettamente – replicò e con la stessa mano, afferrò il tovagliolo – Infatti devi ancora scontare la pena per ieri sera ».
« Credevo avessimo chiarito che si fosse trattato di un malinteso. E poi l’ho invitat… – lo interruppe nuovamente con un’occhiata significativa mentre si puliva la bocca – Ah »
« I suoi neuroni non hanno subito danni a lungo termine » constatò, riordinando la propria postazione.
Tony guardò per un attimo Happy, ringraziando che avesse il sonno pesante.
« Ero ubriaco » disse, volgendosi verso la donna.
« Altrochè »
« Non lo penso davvero » aggiunse, sperando che sentisse quanto fosse contrito. Davvero.
« Lo spero per lei, Signor Stark. Anche perché tengo in seria considerazione il pensiero di Ernesto » mormorò Virginia, tornando ai documenti mentre lui tornava sconsolato al proprio posto.
Happy, col capo girato verso il proprio finestrino, sogghignò di nascosto.
 
*
Il sole di quel pomeriggio aveva tardato a raggiungere il tramonto, lasciando nel cielo una striscia di magenta a far vibrare l’azzurro dell’Hudson. I suoi caldi raggi si erano rinfranti sulle superfici specchiate della grande Mela e nei locali dell’attico che, in cima ad uno degli edifici più alti di Manhattan, era sempre stata la dimora degli Stark. Tony aveva fatto ristrutturare l’appartamento, cercando di renderlo più moderno senza però sminuire o cancellare il fascino degli anni Trenta. I suoi occhi si spostarono verso la luna che da poco sorta, stava lentamente cambiando il paesaggio.
Prese un bel respiro, aggrottando la fronte. Quel Pirata gli stava dando del filo da torcere, impedendogli di proseguire realmente sulle ricerche che aveva abbandonato per metter su le Mark II e III. Doveva aver rafforzato il software e JARVIS avrebbe dovuto lavorare il doppio per riuscire a recuperare tutto il terreno perso all’interno dell’archivio digitale dello SHIELD. Inoltre non poteva più accedere con lo stesso meccanismo, avrebbe dovuto trovare un altro cavallo di Troia prima di riuscire ad avere ciò che gli serviva.
C’erano così tanti quesiti a cui cercava risposte valide, ma durante quei vent’anni non aveva fatto altro che scoprire cose che già sapeva e bere per dimenticarle. Lo avevano fatto tutti… eppure lui non riusciva a farlo.
Obadiah e i file a lui collegati, inclusi quelli nel ghostdrive recuperati da Pepper, non avevano niente a che fare con l’incidente come invece aveva sempre sostenuto, giungendo quasi a sperarci perché in fin dei conti lo considerava come parte della famiglia.
Perlomeno avrebbe avuto un motivo in più per odiarlo. Oltre al tradimento e il tentato omicidio della sua ex assistente.
E dopo un po’ si era arreso e un bicchierino a fine settimana si era trasformato in una bottiglia al giorno. In fin dei conti, neanche lui voleva conoscere la verità. A cosa lo avrebbe portato? Però lo doveva a zia Peggy. Lo doveva a sua madre.
Improvvisamente si riscosse. Udì il flebile struscio della porta che si apriva e si chiudeva, seguito da un leggero scalpiccio di piedi nudi.
Erano quei dettagli a sorprenderlo. Di ogni donna che era riuscito a portarsi a letto, non ricordava neanche le fattezze. Dell’unica donna, a cui aveva permesso perfino di convivere con lui, aveva invece memorizzato tutto. Letteralmente. Attraverso infinitesimali variazioni aveva imparato a riconoscerne le diverse sfaccettature dei movimenti, riuscendo a stabilire se la suddetta fosse arrabbiata, serena, stressata o triste.
« Ehy » esordì e Virginia quasi cacciò un urlo.
Riuscì a trattenerlo con un singulto e si portò una mano sul petto.
« E’ ancora sveglio » mormorò retorica, attraversando il salotto per giungere all’open bar.
Si allungò verso la credenza dove aveva sistemato una cassetta, vi sbirciò dentro e ne estrasse una bustina di thè. I viaggi a volte le mandavano in tilt il metabolismo e considerando gli imminenti impegni ufficiali, una bevanda calda era la sua ultima soluzione.
Tony nel frattempo sorrise, distendendo un braccio lungo il poggiatesta del divano.
« Anche lei… – le rispose con un piglio sarcastico – Pepper? » sospirò.
« Sì? »
« E’ davvero così difficile? ».
Virginia abbassò il coperchio sul bollitore che aveva appena messo sul fornello e si appoggiò con le braccia al ripiano della cucina. Chinò il capo, fissando il proprio volto storpiato dalla lastra in granito.
Era stata la loro conversazione sul jet a impedirle di lavorare in azienda. Aveva rimuginato a lungo su quanto fosse stato semplice, meraviglioso e liberatorio, poter esprimere i propri sentimenti. Aveva gettato via il tappeto dell’indifferenza per poter eliminare davvero la polvere.
« Non lo sarebbe se ogni volta che inizio a fidarmi di te, combinassi qualcosa – si drizzò, portandosi un pugno sul fianco mentre si girava verso di lui – E poi non capisco mai quando scherzi o parli sul serio »
« Ma io scherzo sul serio quindi non sorge il problema – ghignò sornione quando lei arcuò un sopracciglio, diretta espressione della sua pazienza agli sgoccioli – Che devo fare per convincerti che ti voglio? » le domandò con tono dolente.
Premette le labbra, riducendole ad una linea piatta mentre sentiva il cuore e, i pochi neuroni rimasti immuni, squagliarsi per il miliardario più fastidioso con cui avesse mai avuto a che fare.
Tony, conscio della risposta che meritava, si appoggiò alle gambe e rigirò la boccetta di antidoto che aveva tenuto sul tavolino nel caso di bisogno.
« Che cos’è? » domandò Virginia, avvicinandosi.
« Dilitio. O se preferisci biossido di litio. Si tratta di una molecola biatomica di un metallo con una densità pari circa metà a quella dell’acqua. Come gli alcalini, reagisce con essa e... – si volse e vedendola persa, sbuffò – E sto divagando »
« A che serve? » mormorò lei, arrivando da sola al nocciolo della questione.
« E’ una specie di ritardante che contrasta gli effetti dell’avvelenamento da palladio »
« E ti guarirà? » chiese e inconsciamente, le dita ricercarono il medaglione.
« No, non è un vero antidoto – rispose Tony, poggiando la provetta al suo posto – Agente me l’ha portato per conto di Nicholas J. Fury »
« Chi è Fury? »
« Il Direttore dello SHIELD ».
Virginia cercò di ricollegarlo e quando si ricordò dell’apparizione di Coulson al ritorno dal processo, comprese che c’erano altre cose – ‘Oddio…’ – che Tony non le aveva detto.
« Non capisco… Come fa a sapere del palladio? »
« Ricordi il primo appuntamento con Coulson? – annuì incerta – Non volevo incontrarlo perché sapevo già cosa volesse da me » rispose Tony, criptico mentre poteva sentire gli ingranaggi nella testa della donna lavorare a pieno regime. Era stata presente alla richiesta di compilazione delle testimonianze di quanto era accaduto alle Industries, pertanto sapeva come funzionasse.
« Continuo a non… »
« Quando quell’agenzia è stata messa in piedi si chiamava SSR: Riserva Scientifica Strategica – disse, guardandola negli occhi – Durante la seconda guerra mondiale era guidata da un certo Erskine, il medico che creò la formula del supersoldato assieme a mio padre »
« Parli di Capitan America? ».
Lui annuì, storcendo la bocca.
« Il prototipo del suo scudo è nello Stanzino di L.A. »
« Mi stai dicendo che »
« …sono nel database dello SHIELD perché a fondarlo sono stati Howard Stark e Margaret Carter ».
Virginia spalancò le palpebre. Lo sbuffo sibilante della teiera intervenne a sproposito e JARVIS spense il fornello.
« Cosa vuole Fury in cambio? » domandò seppur intuendo a priori la risposta.
Si affidò al bracciolo mentre si sedeva sul divano vicino a Tony, che puntò lo sguardo verso le luci della metropoli.
« Ironman »
« Intende sequestrarti l’armatura? »
« No, non proprio. Vuole che faccia parte di un progetto per la protezione globale. Lo ha chiamato Progetto Vendicatori »
« E chi altro c’è oltre te? »
« Nessuno per ora… Vuole che risolva il problema del palladio così da aver poi un appoggio economico e politico. Se muoio, salta tutto » aggiunse, muovendo una mano in aria distratto.
L’aspetto che più lo pungolava era che con tutta probabilità lo SHIELD non era benvoluto al Senato – insomma, avrebbero potuto dargli mano forte al processo – visti i modi pittoreschi con cui solevano presentarsi a lui.
« Quindi ti da un contentino e sfrutta la situazione per poi incastrarti » terminò Virginia, a braccia conserte.
« Esatto » assentì l’uomo, rivolgendole uno sguardo quasi d’orgoglio.
« Ma Phil »
« …è solo una marionetta. Fury non dice tutto o almeno ti dice solo quello che lui vuole che tu sappia ».
Malgrado la sicurezza con cui le aveva parlato, lei sapeva che quelle di Tony erano poco più che congetture. Esclusa la fondazione dello SHIELD.
I suoi zaffiri si concentrarono sul profilo del miliardario, i cui pensieri sembravano essere distanti anni luce dal presente. Aveva la stessa espressione vacua ma risoluta nell’atrio dell’hotel di Monaco.
« Cosa ti spinge a non accettare? ».
Tony inspirò. Si aspettava quella domanda, prima o poi Pepper lo avrebbe capito da sola.
« All’inizio pensavo fosse stato Stane, poi mi sono reso conto che è stato lo SHIELD a uccidere mia madre ».
« Perché avrebbe dovuto farlo? » disse a voce bassa, tentando un contatto visivo.
« Dov’era lo SHIELD quando Peggy si è ammalata? Dov’era quando Obadiah progettava di uccidermi? Lo SHIELD non è quello che sembra. Sono vent’anni che cerco di arrivare al pezzo finale del puzzle… che mi addentro nel loro firewall, trovando solo nomi di scartoffie finite in cenere – si passò una mano sul volto, ripristinando il controllo – Se non sono stati loro perché nascondere la morte del loro fondatore? ».
Quando si guardarono, Virginia rispolverò una verità natalizia che l’aveva fatta sentire importante.
« Tutto questo è strano, lo devo ammettere e se vorrai far luce sulla morte dei tuoi genitori, ti darò una mano. Ma… – scosse lievemente il capo, facendo ondeggiare la cascata ramata sulle sue guance mentre si fissava le mani in grembo – Sai che odio cercare altri lavori » specificò, quasi con un borbottio dopo un attimo di silenzio.
Tony ebbe il naturale impulso di girarsi verso di lei, che fissava forzatamente il soffitto. Allungò una mano per toccarla ma, ancora prima di sollevare il palmo, Virginia si alzò per recuperare il thè, che ormai doveva essersi raffreddato abbastanza perché potesse berlo senza ustionarsi. Ma anche per ripristinare l’equilibrio del proprio animo, affrettandosi nell’asciugare le palpebre umide.
Soffiò sulle volute che si addensarono sotto il proprio naso, indice di ciò che le passava per la testa,  mentre tornava verso il sofà. Prestando attenzione a non far traboccare nulla, piegò una gamba sotto il bacino e si sedette rivolta verso l’uomo che per il tutto il tempo non le aveva tolto gli occhi di dosso.
« Hai detto che è cominciato tutto dall’esplosione alle Industries… » esordì, dopo un sorso.
« Sì. Il fascio energetico del reattore gigante ha intaccato la parete interna del mic… – si bloccò – Pepper? »
« Mmh-mh? »
« Ti ho detto io di sovraccaricare i circuiti » disse con fermezza, la stessa che usò per contrastare l’insano senso di colpa annidato dietro lo sguardo limpido della donna che abbassò la tazza, stringendola tra le mani.
« Forse se non mi avesse vista in ufficio… »
« Lo avrebbe fatto lo stesso. La differenza è che senza di te sarei morto » dichiarò convinto.
C’erano due soli modi in cui quella storia sarebbe finita. Nel primo caso, se lei non fosse stata un tipo nostalgico – non facendogli dono della teca contenente La Prova – sarebbe morto sul divano non appena la prima scheggia gli avesse perforato un arteria o per un arresto cardiaco. Nel secondo caso, di gran lunga peggiore, se non l’avesse assunta il decennio scorso, si sarebbe spento da solo e senza uno scopo. Aveva strisciato verso il laboratorio – verso la luce fuori dalla grotta – perché sapeva che l’unica salvezza era quel ammasso di filo e rottami che lei aveva conservato. Lei era il suo cuore.
« …ancora prima che Stane pianificasse tutto ».
Perché senza di lei, chissà se avesse spento trentanove candeline o piuttosto se fosse diventato poco più che una mummia sepolta nel mausoleo Stark.
Virginia drizzò piano la testa, fissandolo come stordita mentre lui prese tra le dita una ciocca dei suoi capelli biondo rossi che le era finita sullo zigomo. Si perse per un attimo nei suoi occhi, poi si accucciò tirando le gambe al petto e chiese all’AI di accendere il televisore.
Tony non aggiunse altro e a braccia conserte, fissò il proprio sguardo sul megaschermo. I primi dieci minuti si ridussero ad uno zapping senza fine per oltre duecento canali. Avevano entrambi perso il conto, quando riuscirono a beccare un film. Virginia cambiò nuovamente quando un militare sbucò armato di mitra e riprese nuovamente a pigiare il tasto avanti del telecomando. Dopo la confessione del miliardario non voleva sentir parlare né tantomeno vedere un film su uomini armati, guerra e simili.
Tony, prevedendo che ci sarebbe voluta tutta la serata, sentì venirgli l’artrosi dal modo in cui sedeva e senza distogliere lo sguardo dalle immagini che si susseguivano, allungò una mano e la strinse appena attorno a una caviglia della donna. Fece lo stesso con l’altro piede finché non ebbe le sue gambe distese sulle ginocchia. Dopo essersi assicurata che non avesse alcuno scopo ulteriore, Virginia si rilassò con le spalle contro lo schienale e sorrise quando, qualche minuto dopo, lo trovò praticamente svenuto col capo reclinato sul poggiatesta e la bocca semiaperta.
Finì il proprio thè e allungandosi, appoggiò la tazza sul tavolino su cui il miliardario aveva incrociato le caviglie. JARVIS abbassò le luci mentre Virginia si accoccolava contro la spalla di Tony per raggiungerlo nel mondo dei sogni.
 
Il motore del quinjet si stava riscaldando in attesa del suo passeggero.
Il Signor Crossbow, contrariamente a quanto si potesse pensare, non era abituato a scendere sul campo. Era passato molto tempo dall’ultima fuga – più di quanto consentisse la natura – che non sarebbe mai giunta al successo se non avesse avuto contati a lui fedeli nonostante il tempo e il suo pessimo caratteraccio. Sua moglie lo aveva sempre ripreso per quella parte di sé, pur tollerandola.
Si passò una mano fra i capelli bianchi, osservando un po’ frastornato l’Agente May che spostava levette sul pannello di controllo con un paio di cuffie sulla testa. L’aveva inquadrata ed era soddisfatto del suo operato, ma quando si trattava di umanità, quella donna lo metteva in soggezione.
« Speravo non ci sarebbe stato bisogno del mio intervento » bofonchiò, girandosi verso Nich, che lo aveva raggiunto per cercare di tranquillizzare il suo superiore.
« Francamente anch’io – confessò, con le mani giunte dietro la schiena – Romanoff ha aumentato la sicurezza sotto gli ordini di »
« …Potts – completò Crossbow con un accento astioso – Mi dica, Direttore… Lei crede che questa, Pepper… sia una persona capace? »
« Non la conosco personalmente, ma ho fiducia nei miei sottoposti. Chieda loro ulteriori delucidazioni, se lo ritiene opportuno »
« Opportuno? Tsk! Non parliamo della Fabbrica di Willy Wonka, ma delle Stark Industries » replicò piccato.
« Capisco, Signore » rispose prima di scendere dal velivolo quando May gli fece intuire, con un’occhiataccia, che erano in ritardo sulla tabella di marcia.
« La terrò aggiornato » borbottò Crossbow mentre la pancia del quinjet si chiudeva con un ronzio.
« Faccia buon viaggio, Signore ».
Mentre decollavano, si lasciò cadere su uno dei sedili predisposti e allungando una mano sotto di esso, rovistò in un cassetto.
« Dove diavolo è quell’affare…?! – soffiò fra sé per poi distendere il proiettore olografico su un palmo – Avvia chiamata per Agente Natalia Alianovna Romanova ».
Ci volle circa un secondo prima che sottili raggi disegnassero nell’aria il bel volto della spia.
« Signor Crossbow »
« Mi tolga una curiosità, Agente... ».
 
*
Tony passò in rassegna degli abiti appesi, ignorando totalmente le parole della commessa e i cartellini dei prezzi. Mentre era fermo ad un semaforo, sulla strada del ritorno lungo Fifth Avenue dopo aver ritirato il completo su misura per la serata, il suo sguardo aveva vagato fino a scontrarsi su una vetrina all’incrocio con la cinquantottesima. Non aveva mai fatto spese, tantomeno in un negozio di vestiario femminile ma vedendo gli eleganti manichini, gli era venuto in mente che se le parole non bastavano, poteva far breccia con un regalo e visto che l’ultimo abito da sera era stato ampiamente apprezzato – da entrambe le parti in causa – si era detto che un altro avrebbe polverizzato qualunque ragionevole dubbio la donna potesse nutrire ancora nei confronti delle sue intenzioni amorose. Protese una mano, carezzando le stoffe finché le sue dita non incontrarono un vestito, rimasto inosservato fra gli altri. Semplice ma prezioso.
Ricercò la gruccia e lo tolse dall’appendiabiti per calcolare, ad occhio e croce, le misure. Lo appoggiò sull’avambraccio e cominciò a cercare nel reparto calzature sotto lo sguardo sbigottito e imbambolato di alcune clienti. Passeggiò lungo il corridoio poi svoltò, compì due passi e si fermò. Tornò subito indietro e senza pensarci più di una volta, arraffò un paio di tacchi. Numero 37. Ripercorse i propri passi all’inverso e affidò il tutto alla commessa che, in tutto quel tempo, non si era neanche accorta della sua assenza.
« E’ possibile confezionare tutto? ».
 
Virginia con un braccio piegato verso l’alto, fissava svogliata il documento che sostava sotto il proprio naso da più di mezz’ora. Annoiata, appoggiò il mento su una mano mentre le dita dell’altra facevano roteare la penna come la mazza di una majorette. Sollevò gli occhi dal contratto quando qualcuno bussò.
« Avanti » mormorò, raddrizzandosi sulla sedia mentre Hannah – l’alter ego newyorkese di Bambi – entrava con una grossa scatola fra le mani.
« Signorina Potts, è arrivato un pacco per lei »
« Per me? » chiese perplessa, lasciando la penna per poi esortarla con un mano.
La donna percorse quasi di fretta la stanza e posò con delicatezza il regalo, incartato a regola d’arte, come se fosse stato un ordigno. Il nastro in raso allacciava tutti gli angoli ed era stato annodato con un bel fiocco.
« Chi l’ha consegnato? »
« Un fattorino di una boutique dell’Upper East ».
Virginia notò un bigliettino infilato proprio sotto il nodo. Lo sfilò e vedendolo bianco, lo girò:

La sua divisa da cheerleader.
 
Non riuscì a contenere una risatina e l’altra arcuò un sopracciglio.
« Puoi andare, Hannah. Grazie » la congedò lei e la ragazza, seppur incuriosita, la lasciò sola con la scatola.
Virginia rigirò il biglietto fra le mani, sorridendo. Sapeva benissimo chi era il megalomane che potesse farle una simile sorpresa.
Lasciò il cartoncino in un angolo e sciolse il fiocco. Poi sollevò il coperchio della scatola e spostò la carta velina. La bocca le si schiuse per la meraviglia quando vide l’etichetta, Dior. Sfiorò la stoffa in punta di dita, poi agganciò le spalline e sollevò un poco l’abito per osservarlo meglio: scollatura profonda sia sul davanti sia sulla schiena, spalline sottili come filo di ragnatela, gonna lunga dal taglio appena a sirena. La stoffa rifletteva la luce come se fosse fatta di polvere d’oro e scendeva leggera, con un breve strascico.
Sì, non c’era alcun dubbio su chi avesse compiuto una tale scelta. Lo ripiegò con cura quando notò anche i sandali firmati, in tinta con il vestito.
Con la mano libera, sollevò la cornetta del telefono e tenendola con una guancia contro la spalla, schiacciò il tasto della linea privata cosicché nessuno in ufficio potesse spiarla. Digitò il numero per poi recuperare l’apparecchio con la mano. Un paio di squilli.
« Ciao Tony » mormorò per prima e il tono di voce che usò non passò inosservato a Tony, che proprio in quel momento era rientrato all’appartamento.
« Si sta annoiando? » chiese, usando volutamente la formalità per “vendicarsi”.
« Sai, stavo lavorando e mi è capitato un fatto alquanto curioso… »
Lui rimase in attesa mentre si toglieva la giacca e la lanciava sul divano, diretto verso il laboratorio.
« Mi è stata recapitata una scatola regalo » continuò, aspettando una reazione.
« Un regalo? » ripose lui, innocente.
« Sì. Tu ne sai niente? »
« Chi è l’idiota che le fa regali senza avvertirmi? »
« Tony… » lo pregò in modo così sottile che non potè resisterle.
« Dovresti provarlo per vedere se ti sta. Anche se credo di conoscere bene le tue misure… » disse, calciando via le scarpe da ginnastica.
« Ho già degli abiti da sera » gli rammentò, carezzando l’abito.
« Ti riferisci a quello blu? »
« Anche… Perciò non c’era bisogno che me ne regalassi un altro ».
Tony sorrise. Il disinteresse per il denaro e il lusso – che da adesso avrebbe potuto permettersi – di Pepper era uno dei maggiori motivi per cui l’amava.
‘Amare!?’, strillò una vocina dietro il proprio fronte occipitale che venne mirabilmente soppressa.
« Ma quello non è un abito da sera. E’ una divisa ufficiale e – rettificò con le labbra a pochi millimetri dallo smartphone – …mi farebbe piacere se la indossassi questa sera… ».
Virginia accavallò le gambe sotto la scrivania, afferrando di nuovo la penna e cominciando a rosicchiarne la parte superiore.
« Insieme alle scarpe? » domandò con un sussurro provocatorio che riuscì ad accarezzarlo lungo la schiena.
« Per me puoi indossare anche solo le scarpe… – rispose con un sorriso – Passerò alle venti »
« Credevo ci saremmo visti direttamente all’inaugurazione » disse lei, senza però contestare.
« Ho bisogno di un incoraggiamento per l’entrata… » si limitò lui, scoccando un’occhiata all’armatura.
« Ansia da prestazione, Stark? »
« Si faccia trovare pronta, Potts » la minacciò per poi riattaccare con la sua risata cristallina nelle orecchie.

Angolo Autrice: Lo spaaasso è arrivaaaato!Sono tornata, miei cari/e lettori e lettrici con un altro capitolo di passaggio per così dire… Sì, perché se il Signor Crossbow entra in azione, significa che ci sono guai in vista eheheh
Oltre a ringraziare per l’ennesima volta voi timidoni, T612 *-* _Lightning_ <3 (PS: sono del Baden Württemberg, precisamente sono nata nella zona della Schwarzwald ;*), volevo fare un piccolo appunto riguardo alla battuta di Pepper su Ernesto: si riferisce alla citazione riportata sull’orologio che ha regalato a Tony (“Se non ci mette troppo, l’aspetterò tutta la vita”) nel capitolo precedente: è una frase della commedia di Oscar Wilde, L’importanza di essere Ernesto. Vuole essere sia un omaggio da parte mia a uno dei miei autori preferiti, sia un doppiogioco linguistico – che però in italiano non rende molto, a meno che non si conosca l’opera – come quello fatto dallo stesso Wilde.
Per il momento è tutto (se avete domande e/o commenti, contattatemi :D) al prossimo capitolo,
50shadesOfLOTS_Always

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. The Beginning ***


THE BEGINNING

“Do you feel the same when I’m away from you?
Do you know the line that I’d walk for you?
We could turn around or we could give it up.
But we’ll take what comes, take what comes.”
- Walking the wire, Imagine Dragons

“Oh, the storm is raging against us now.
If you’re afraid of falling, then don’t look down.
But we took the step and we took the leap
And we’ll take what comes, take what comes.”
- Walking the wire, Imagine Dragons


Lasciò la maniglia e sorrise verso l’ultima dei dipendenti rimasta per il turno.
« Quell’ammiratore è decisamente fortunato » esordì Hannah quando la vide uscire.
« Anche Dave  – rispose Virginia con fare allusivo, accennando al tubino senza spalline della ragazza – Se ti serve un passaggio, posso chiamare Happy »
« Grazie, ma non occorre. Dovreb… – un clacson le interruppe – Oh, eccolo! ».
Si volsero e in strada, videro un’auto da cui si affacciò un altro dipendente. Normalmente il regolamento non permetteva le relazioni tra colleghi, ma a lei era bastato promuovere Hannah e spostare il compagno, il Signor Dave Kalahan in un settore più vantaggioso. Il tutto a discrezione dei due che pur sapendo chi fosse l’artefice, continuavano a dire che fosse merito di Stark cosicché il Consiglio non avrebbe potuto dire un’acca.
« Ci vediamo più tardi » le disse prima di uscire dall’edificio.
Virginia li osservò partire insieme e sospirò, girandosi per dare un’occhiata agli opuscoli che di solito davano agli studenti in visita. Bambi le organizzava anche ad L.A e questo aveva permesso loro di assumere anche alcuni tirocinanti che si erano dimostrati all’altezza.
Li rimise a posto. Non si aspettava certo che per una volta si degnasse di comportarsi da adulto e arrivare puntuale, ma fu ben disposta a sorpassare sui dieci minuti di ritardo quando l’indice di Tony fece dondolare uno degli orecchini pendenti – che non aveva indossato finora in mancanza dell’outfit giusto – come un bambino dispettoso. L’aveva visto in tutte le mise possibili, anche quelle non propriamente adatte ai minori. Eppure ancora non riusciva a capire come un uomo, Tony, potesse passare dalla tuta da meccanico allo smoking e risultare comunque sexy e irrestibile.
« Ho azzeccato le misure » mormorò, scannerizzandola da capo a piedi.
Non aveva mai visto donna più bella perciò credeva di poter esser scusato per quella défaillance.
« Ma è in ritardo » rispose lei, mettendogli un dito sotto il mento perché la guardasse in faccia.
« Elegantemente in ritardo » si difese, mostrandole l’orologio mentre intanto, dall’altra parte della città – ovvero nella zona più sperduta di Rhode Island – un’Acura di un atipico nero rossastro si fermò davanti ad un uomo in smoking e alla sua accompagnatrice dai tratti orientali, in piedi su un marciapiede.
Un lampione a trenta passi rischiarava ad intermittenza la strada, che serpeggiava tra gli edifici di vecchie fabbriche in disuso. In uno di essi, era stato parcheggiato il quinjet.
Il finestrino del passeggero anteriore si abbassò e chinandosi, Crossbow potè vedere un paio di occhi verdissimi che lo fissavano in un misto di severità e malizia.
« Agente Romanoff »
« Signor Crossbow, Agente May… – salutò la siberiana mentre i due salivano a bordo – Mi sono assicurata che foste sulla lista degli invitati speciali » li avvisò, guardando gli specchietti.
« Abbiamo ordini del Direttore di restare in disparte il più possibile » rispose Melinda, accomodandosi impettita sui sedili posteriori.
« Meglio così – mormorò Natasha, aprendo un piccolo scomparto sotto la leva del cambio – La Signorina Potts non è stupida e se si accorgesse di voi, potrebbe insospettirsi ».
« Adesso dove andiamo? » chiese Crossbow, pettinandosi i baffi mentre con la mano libera afferrava il badge che la spia porse a lui e all’altra agente.
« Al St. Regis. E’ lì che si svolgerà la cena d’inaugurazione – li osservò – Potrete seguire la cerimonia sul palco da alcuni schermi ».
 
*
Il rotore scattava rumorosamente e le pale fendevano l’aria notturna, elevando il Bell 429 – rivisto per le proporzioni, il peso e quindi il trasporto di un’armatura – come una libellula sulla scintillante New York. Il volo si stava rivelando più stabile e gradevole del previsto. Al contrario dell’apparato digerente del proprietario del mezzo.
Virginia si spostò la frangetta dagli occhi, che sollevò verso gli altoparlanti da cui il pilota li informò che si trovavano proprio sopra il Flushing Meadows.
« Non capisco cosa c’entri io in questa messa in scena! » disse, alzando la voce per farsi sentire.
Tony si portò una mano all’addome corazzato, all’altezza dello stomaco vuoto che aveva deciso di contrarsi. Da quando era tornato all’appartamento quel pomeriggio si era sentito agitato e quella sorta d’incontinenza era peggiorata quando, facendo un veloce controllo del sangue, aveva appurato che l’antidoto era ancora in circolo. Ma doveva essere l’avvelenamento perché lui era Ironman e Ironman non soffre d’ansia da prestazione.
« Gliel’ho detto: ho bisogno di un incoraggiamento » sminuì, adottando l’approccio sfrontato.
« Credevo che il suo ego fosse sufficiente » rispose Virginia, arcuando un sopracciglio.
« Le ho fatto qualcosa? »
« Mi ha trascinata su questo trabiccolo sapendo benissimo »
« Non si agiti »
« …che soffro di vertigini » gli rammentò, puntando i pugni sui fianchi mentre cominciava a preoccuparsi per quell’accesa rimostranza del miliardario nei confronti del proprio canto del cigno.
« Sì, lo avevo notato… a Natale » la canzonò e non poté riprenderlo perché la pancia del velivolo venne aperta.
Il vento che penetrò la costrinse a riparare il viso con un braccio mentre Tony la osservava divertito col casco sotto braccio, tenuto come un pallone da basket. L’orlo inferiore della gonna svolazzava scompostamente scoprendole le gambe, i capelli ramati sfuggiti all’acconciatura frustavano l’aria a causa delle raffiche d’alta quota e le gote erano accese di cremisi per la temperatura bassa.
« Stia calma! E’ in compagnia di un supereroe »
« Lei non è un supereroe, credevo di averglielo già detto » puntualizzò lei, abbassando il braccio per coprirsi meglio con la giacca in pelle che le aveva prestato una volta saliti a bordo.
« Sempre puntigliosa, Potts – mormorò, sollevando l’elmo per poi calzarlo – Allora, come sto? » chiese con la maschera ancora sollevata, fermo sul bordo del trampolino.
Rimase fermo ed ebbe appena la possibilità di realizzare il tutto. Virginia abbassò la piastra sul suo volto, gli stampò un bacio sulla fessura delle labbra e gli diede una spintarella. Lui la assecondò e si lasciò cadere con un sorriso da ebete, abbandonandosi alla gravità per i primi cinque secondi, poi attivò i propulsori.
Piroettò diverse volte su sé stesso per poi schizzare verso il padiglione principale mentre mano a mano che si avvicinava, il volume degli AC/DC aumentava. Atterrò su un ginocchio al centro del palco, evidenziato dai riflettori e all’attacco di batteria, delle fontane pirotecniche esplosero creando alle sue spalle una parete di scintille. La folla esultava e agitava le braccia al cielo con la chitarra assordante, che dettava il ritmo delle Ironettes. Stava procedendo tutto secondo i suoi piani.
Non dovette sforzarsi di sorridere seppur qualcosa di tutta quella situazione lo infastidisse, come un sassolino che resta nella scarpa. Non appena i bracci robotici gli tolsero l’armatura e la pedana rotante si arrestò, fece un inchino e salutò le migliaia di persone che urlavano il suo nome.
Era abituato a tanto clamore e a mettersi in mostra nonostante fosse passato del tempo dall’ultima volta…
La musica terminò e le ballerine sparirono dal palco per lasciarlo solo al centro della scena.
« Siete qui per me? – chiese, spalancando le braccia – Vi sono mancato »
« Fa’ saltare in aria qualcosa! » gli gridò qualcuno da sotto il palco.
« In aria qualcosa? No, non sono qui per questo né per dirvi che il mondo goda del suo periodo più lungo di pace ininterrotta dopo anni, grazie a me – avanzò con la bocca increspata – Così come non voglio dire che, dalle ceneri di una barbara prigionia, non si sia mai personificata metafora più grande della fenice nella storia dell’uomo ».
Un’altra ovazione si sollevò e Tony dovette concentrarsi su qualcosa che non fossero le centinaia di pupille puntate come fari verso di lui. Verso il reattore ad arco…
< Che cosa mi hai fatto?! > aveva chiesto a Yinsen.
« Non voglio dire che lo zio Sam possa starsene sprofondato in una poltrona, a sorseggiare un thè freddo, perché finora non ho incontrato nessuno abbastanza uomo da competere con la mia forza e potermi sfidare – disse e alzò le palme, esibendo un segno di resa e lasciando che l’applauso scemasse – Vi prego, vi prego… Non si tratta di me, di voi e nemmeno di noi. Piuttosto è il retaggio. O meglio, ciò che noi scegliamo di lasciare alle generazioni future » dichiarò, facendo spaziare gli occhi sugli spettatori che sparivano per divenire una massa scura e informe. Come i cadaveri davanti alle mura sabbiose di Gulmira.
‘Stai calmo. Li hai in pugno, è tutto sotto controllo’, si ripeté per poi nascondere le mani nervose dietro la schiena.
« In molti si sono chiesti perché abbia abbandonato la direzione della mia azienda. Non è così. Ho scelto di fare un balzo in avanti, eleggendo una nuova figura che ha uno sguardo attento alle necessità del momento e dotata di una lungimiranza a dir poco geniale » indicò con un dito la foto di Pepper, intenta a discutere con Bambi durante un giorno qualunque alle Industries, proiettata sul megaschermo dietro di sè.
Poi riprese a passeggiare.
« Ecco perché per il prossimo anno, per la prima volta dal 1974, gli uomini e le donne più in gamba di società e nazioni di tutto il mondo metteranno insieme le loro risorse, condivideranno la loro visione per gettare le basi di un futuro più roseo – annetté con un gesto a cui seguì una lunga serie di applausi – Quindi non si tratta di noi, ma se c’è una cosa che voglio dire… se proprio devo dire qualcosa, è bentornati, alla Stark Expo! » annunciò, lasciando che il pubblico lo acclamasse ancora un po’.
« E ora voglio presentarvi un ospite speciale dall’al di là che vi esporrà il tutto: mio padre, Howard » disse, battendo in ritirata dietro le quinte, dove Happy lo stava aspettando in religioso silenzio come una statua.
« E’ pronto? Là fuori è un circo » lo ammonì quando Tony lo superò, scendendo le scalette.
« Ho affrontato dei terroristi, Happy – rispose, voltandosi indietro per guardarlo mentre l’amico si avvicinava alla maniglia a spinta – Andiamo ».
Lo scortò fuori, facendosi spazio tra i fans appostati lì in mezzo ai giornalisti da ore fino alla limousine. Gli aprì la portiera e Tony scivolò dentro, richiudendola. Davanti ai propri occhi si defilavano i volti dei cronisti armati di telecamere che tentavano di strappargli quanti più segreti possibile. Con sollievo incontrò il volto sereno di Virginia, seduta a pochi centimetri da lui.
« Dove ha preso quella foto? » gli domandò mentre Happy si metteva alla guida.
Tony unì il pollice e l’indice, passandoli sulle labbra con fare esplicativo e mentalmente, Virginia scosse il capo rassegnata.
« Comunque  ha dimenticato questi » esordì, mostrandogli i fogli su cui gli aveva preparato il discorso.
« Oh, ecco dov’era finito! Visto? Per questo l’ho portata sull’elicottero, il mio istinto aveva ragione » rispose lui, in accordo con le proprie parole.
« Non aveva bisogno di me »
« Io ho sempre bisogno di te » mormorò e Virginia ringraziò il buio dell’abitacolo.
Se c’era una cosa su cui avrebbero dovuto lavorare era quel suo vizio di uscirsene con frasi come quelle.
Era sleale, le impediva di organizzare una controffensiva.
Non ci volle molto per raggiungere l’hotel sulla cinquantacinquesima strada, lato east. Happy fermò l’auto proprio all’inizio del tappeto rosso, disteso davanti all’ingresso del locale dove ogni anno venivano solitamente organizzate le feste più sontuose. Stavolta però l’evento era ben diverso e per certi versi ancora più regale. Gli invitati erano ovviamente dipendenti, collaboratori, affiliati e i membri del Consiglio di Amministrazione, ma finirono per imbucarsi anche magnati, esperti di ogni campo scientifico, celebrità e giornalisti. Quindi non poterono mancare le Stark fans, ostacolate da transenne e una squadra di gorilla, muniti di ricetrasmittenti. Virginia ne restava indifferente nonostante le occhiatacce che riceveva da quando era stata assunta. Le bastava vedere in diretta la lievitazione dell’ego di Tony, che in quel momento era andato in brodo di giuggiole pur essendo stato il primo a proporre di tenere rigorosamente segreto quel loro nuovo stadio di relazione. Se così si poteva definire…
Rassicurando Happy, il miliardario aprì lo sportello e fu allora che Virginia, mentre si toglieva il giubbotto, si accorse della tensione che permeava il suo corpo. Poteva vedere la mascella serrata e le mani grandi scosse da un invisibile brivido, come se fosse restio a lasciare la sicurezza della Rolls Royce. Fu un dettaglio che la sconcertò perché lui, il suo eccentrico ex boss Tony Stark non si era mai fatto alcun problema di esibizionismo dinanzi agli obbiettivi. Adesso sembrava un pesce fuor d’acqua.
Non appena mise un piede fuori, si sollevò una standing ovation così fragorosa da sovrastare i suoni della città. Si sistemò la giacca, rivolgendo la più becera faccia da schiaffi che aveva, poi porse una mano a Virginia, che fece attenzione a scendere per non inciampare. Stabile sui suoi tacchi dodici, il miliardario si chinò per sistemarle la parte posteriore della lunga gonna ed evitare che rimanesse impigliata. Lei si sistemò una ciocca di capelli sfuggita alle forcine, pensando che non potesse essere più esplicito mentre faceva segno allo chaffeur di raggiungerli dopo. Le fans continuavano a reclamarlo a gran voce, ma Tony si limitò a salutare con una mano e un ampio sorriso da copertina. In un gesto spontaneo, avvolse un braccio attorno ai fianchi della donna e insieme si avviarono lungo il red carpet, dove vennero presi d’assalto.
« Signor Stark! Signor Stark, una foto » gridò uno dei giornalisti.
Tony strinse Virginia maggiormente a sé e sorrise, prestandosi a qualche scatto. Un po’ per puro diletto e un po’ per salvaguardare la propria parvenza di disinvoltura, attese che si fosse rilassata abbastanza da schioccarle un bacio sulla guancia. Il tempo necessario perché quel momento fosse immortalato così da garantirgli l’intero giro del mondo entro quella stessa notte. Poi si lasciarono alle spalle la confusione per entrare in un’atmosfera più pacata, fatta di un confuso chiacchiericcio e musica dal vivo. Molti invitati si volsero nella loro direzione con diverse reazioni: stupore, riverenza, arroganza, superficialità.
Virginia però era ancora intenta a tornare ad un colorito normale.
« Era necessario baciarmi in pubblico? » chiese da un angolo della bocca, ancora stesa in un sorriso.
« Se avessi voluto baciarla come si deve, non saremmo qui – lei lo fulminò con un’occhiataccia quando colse il riferimento alla spiaggia – A ore dodici, chi è? »
« Il Signor Young del settore informatico » bisbigliò, un istante prima che i due uomini si stringessero la mano. Ancora un sorriso poi proseguirono nella traversata, incontrando qualche celebrità del mondo musicale e televisivo.
« Io ho assunto tutta questa gente? » domandò Tony quasi disturbato di dover dare così tanti stipendi.
« Sono lieta che lo abbia notato dopo vent’anni » mormorò lei ironica, sorridendo più apertamente quando la fissò in tralice. Poi aggiunse in un sussurro il nome dell’uomo – di media statura, un po’ sovrappeso ma con un volto piacevole – che li stava raggiungendo.
« Signor Campbell » salutò mentre l’altro si abbottonava la giacca.
« Signor Stark, è un onore incontrarla di persona »
« Lo è per tutti » rispose, ricambiando la stretta.
« E lei dev’essere la formidabile Virginia Potts » mormorò il Signor Campbell con un sorriso fin troppo sincero a detta di Tony, che poteva chiaramente sentire un conato di vomito a metà esofago.
Si morse la lingua quando avvistò l’attaccatura del parrucchino.
« Finalmente ho l’opportunità di conoscerla personalmente, non solo di sentire la sua incantevole voce » aggiunse, prendendosi del tempo per un antiquato baciamano.
« La ringrazio, Signor Campbell. E’ un piacere anche per me conoscerla – Virginia s’interruppe quando i suoi occhi catturarono l’immagine di qualcuno che sapeva di aver già visto – …dal vivo »
Quando ritornò sullo stesso punto, in prossimità del bancone col pressante bisogno di controllare, scosse il capo e archiviò quella svista come uno semplice sbaglio, dovuto allo stress e al disagio che la coglievano ad ogni gala. Fu distratta dall’avvicinamento di Natalie in un sobrio abito monospalla lungo e nero.
« Il vostro tavolo è pronto. Fra pochi minuti la cena sarà servita » annunciò prima di invitarli a seguirla.
‘Ci è mancato poco’, pensò.
Quando indicò loro il tavolo, Virginia sentì qualcuno afferrarla per il gomito e nel volgersi, lo stupore le fece sgranare gli occhi.
« Sam? »
« Vedo che ti ricordi di me » rispose la giovane donna sopraggiunta.
Tony la studiò, cercando di capire perché gli desse l’impressione di averla già incontrata. I capelli lisci e biondissimi, pettinati con una riga centrale, le ricadevano su una spalla e risaltavano sull’abito verde smeraldo che le fasciava le forme senza risultare volgare.
« Oh mio Dio! » esclamò felice la rossa, stringendo l’amica in un lungo abbraccio.
« Ti ho colta di sorpresa? »
« Un po’, devo essere sincera. Non mi aspettavo che venissi, ho saputo solo l’altro ieri che eri in Svezia » rispose Virginia mentre continuavano a tenersi per le braccia con confidenza.
Tony ebbe un’illuminazione: era Samantha Myers, la modella strapagata da Vogue.
« All’inizio quando ho aperto l’invito non ci credevo. Poi ho visto il tuo biglietto extra e ho pensato ‘Cosa mi metto?!’ » mormorò con aria teatrale.
« Non sei cambiata di una virgola » commentò Virginia quando l’altra le diede un’occhiata più analitica.
« Tu invece sembra che hai fatto un salto a Beverly Hills. Hai sbagliato il lavaggio di quei noiosi tailleur? » la schernì affettuosamente.
« E’ un regalo » rettificò lei e le guance le divennero purpuree.
« Sei uno schianto. Dirò al mio agente di metterti con me sulla copertina del prossimo numero – sollevò una mano, come per stendere uno striscione – Sam e Ginny alla riscossa »
« Suona bene » notò con un sorriso sincero mentre Tony le fissava alternativamente.
« Ora che sei una boss, puoi permetterti qualsiasi cosa » disse Samantha, rivolgendo gli occhi plumbei verso di lui.
« Mi perdoni, credo di averla già vista » bofonchiò senza schiodarsi dal fianco di Virginia, che dovette staccare la spina alla propria vena velenifera per non ridere di fronte all’espressione defluita del miliardario quando l’amica gli rispose gelidamente
« Dieci anni fa per l’esattezza, nella sua camera da letto ».
Tony deglutì sonoramente.
« Nessun rancore? – recuperò un minimo di forze per non svenire quando la modella assentì col capo – Qualcosa da bere, Signore? » domandò poi con fare cerimonioso.
« A posto così » rispose Samantha e fu sollevato dal poter rivolgersi a Pepper, che sorrise quasi compassionevole.
« Lo sa – gli ricordò, allungando il collo quando lo lasciò scappare – Sei stata crudele » mormorò quando rimasero sole.
« Lo avresti fatto anche tu » le rinfacciò Samantha.
« E’ vero » ammise dopo qualche attimo.
« Dovremmo ricominciare a vederci seriamente io e te » la riprese e non poté far altro che corrispondere. Era da troppo tempo che non parlavano davvero, se non di sfuggita per posta elettronica.
Gli amici che poteva contare le avanzavano su una mano. Il suo carattere schivo l’aveva sempre isolata dai suoi coetanei e le vicende familiari non avevano giovato così come il lavoro, che pure amava con tutta sé stessa. Le Enterprises – e il loro possessore – erano la gioia della sua vita e tanto le bastava.
« Hai ragione. Sembra passata un’eternità dalla Empire »
« Già… E poi devi aggiornarmi » gongolò Samantha, facendole gomito gomito.
« Su cosa? » domandò, massaggiandosi il braccio quando le rivolse un’espressione trasecolata.
« Il più grande playboy d’America, detentore della nomina di sex symbol dal 1998 si presenta con l’unica donna che abbia mai portato a braccetto in pubblico » sentenziò con un cenno del capo verso il bancone, che Virginia guardò di sottecchi.
« Sono cambiate molte cose… »
« Per questo dobbiamo rivederci » disse prima che Tony tornasse con il cocktail in una mano.
« Ecco il suo Martini. Con tre olive » presentò e Virginia lo prese, assicurandosi che le loro dita si sfiorassero mentre Samantha frugava nella propria pochette.
« Non sparire » disse, porgendole fra due dita il proprio biglietto da visita.
« Neanche tu – replicò Virginia, osservandola raggiungere quello che doveva essere il suo manager – Tutto bene? » domandò, girandosi verso Tony che stava tornando ad un colorito più… vivente.
« Lei… Conosce… »
« Samantha Myers? E’ una delle modelle più pagate al mondo – mormorò, bevendo un sorso del proprio Martini – E la mia migliore amica dal liceo » rincarò.
« D-dal liceo? » tartagliò con un singulto.
« In realtà la conosco da molto più tempo. Sognavamo di aprire un’agenzia per modelle d’alta moda, ma l’unico fondo che avevamo finì con mio padre »
« Quindi… quando è venuta da me… ».
« E’ stato grazie a lei, ma non si agiti – gli porse il cocktail che ancora non aveva finito per farlo smettere di gesticolare – Tenga ».
 
La cena fu all’altezza delle aspettative degli invitati. I piatti ricercati avevano riacceso l’appetito di Tony per sommo sollievo di Virginia. Entrambi si stavano annoiando, anche se in misura minore. Lui non fece nulla per nasconderlo mentre lei stava conversando col Signor Jennsen, uno dei capi del consiglio. Rise in modo contenuto ad una pessima battuta, attenendosi ad un copione che già sceneggiato per evitare di dar troppo peso a quell’ambiente che in realtà la detestava. Era un’abilità insegnatale nel corso di quel decennio da Tony, il solo dentro a quelle mura che non la considerava alla stregua di una strega, che in cambio di “favori” aveva scalato la vetta. Ma la sua rabbia svanì quando proprio Tony, sentendosi in disparte, allungò una mano sotto la tovaglia per posarla sulla sua coscia.
Il contatto, tenuto accuratamente celato alle invasioni, le fece avvampare le orecchie. Si sforzò di indirizzare il flusso sanguigno al cervello, ma la mano dell’uomo rimase lì come a rivendicare la sua attenzione alla pari di un infante trascurato. Fu salvata da un altro conviviale che distolse il suo interlocutore in un altro dialogo, permettendole così di volgere lo sguardo verso di lui.
Scrutandolo, si accorse che aveva perso la maggior parte di quel nervosismo che lo aveva reso il protagonista meno loquace di quel tavolo.
« Ti infastidisce? » le chiese con un tono bassissimo.
« Non siamo soli » gli rammentò lei e Tony sorrise per quella non risposta.
« Che peccato… » commentò quando notò di sfuggita Hammer spostarsi fra gli astanti intenti a ballare e/o conversare, come se avesse qualcosa di urgente da sbrigare.
Virginia seguì la direzione del suo sguardo, ma non vide niente. Frugò fra la gente, alla ricerca di qualunque cosa avesse potuto attirare il genio quando se lo ritrovò in piedi con una mano tesa e un sorrisetto obliquo.
« E’ solo un ballo, Pep » ridimensionò lui quando la vide incerta.
Virginia avrebbe voluto obiettare che non si trattava mai solo di un ballo, ma accettò l’invito perché sapeva a priori che non avrebbe contemplato un rifiuto. Lanciò un’occhiata all’orologio sul suo polso – il suo regalo – e per fortuna, trovò un pretesto in più.
« Solo perché me ne deve ancora uno » borbottò, assicurandosi di non incespicare e consapevole che in fondo, non avrebbe mai potuto negarglielo.
Tony la portò in pista, tenendo la sua mano sollevata con la stessa riverenza che si riserva ad un’opera d’arte. Strinse un po’ di più la presa sulle sue dita e con delicatezza, la strattonò verso di sé.
Virginia inclinò la testa di lato e lui reagì al muto rimprovero con un’espressione sorniona, aprendo la mano libera sulla sua schiena nuda. Percependo la ruvidezza dei suoi polpastrelli, lei rabbrividì di piacere e d’istinto si appoggiò al corpo solido del miliardario.
« La sto mettendo di nuovo in difficoltà? » le sussurrò a pochi millimetri dal suo viso, incendiato dalla reciproca vicinanza.
« Mi chiedo perché debba sempre ballare con lei con un vestito con le spalle scoperte » disse, cercando di non badare agli sguardi di metà locale e, soprattutto al fatto che le proprie forme fossero aderenti a quelle dello scapolo più ambito e dell’industriale più odiato d’America.
Tony storse il muso, pensando che non si trattasse solo delle spalle.
« A me non dispiace… » appoggiando la guancia contro la sua e Virginia sorrise, percependo la peluria sulla sua mascella – una sensazione già provata alla Disney Hall – e cogliendo il contenuto cifrato, un invito trascurare i pettegolezzi.
Dondolarono, tenendo la cadenza della musica e gradualmente si estromisero dagli altri. Una sorta di aureola si disegnò attorno al loro, distaccandoli da tutto ciò che non fosse relativo all’uno o all’altra.
Tony si ritrasse per poter contemplare le luci dei lampadari che si appoggiavano sul volto d’alabastro mosaicato di efelidi di Virginia, le cui iridi rifulgevano come cerchi di zaffiro. Era come guardare un inestimabile manufatto egizio.
« Se continua a guardarmi così… »
« Così come? »
« Con gli occhi da pesce lesso »
« Pesce lesso? » ripeté lui a metà fra il perplesso e l’offeso.
« …domattina saremo in prima pagina e io sarò costretta a licenziarla » rispose lei di pari tono e il suo sguardo smise di evadere da quello dell’uomo, che schiuse le labbra stizzito.
La risata che le scappò le si strozzò in gola.
Tony aggrottò la fronte confuso mentre Virginia esitò sul proprio fianco, dove una macchia rosso vivo prese ad allargarsi in fretta. La scarica di dolore causata dal proiettile, che sentiva conficcato nella carne, la investì. Non riuscì a prendere fiato, i polmoni si stavano ribellando.
Gli invitati si aprirono attorno a loro, qualcuno gridò terrorizzato mentre altri si allontanarono verso l’uscita come una mandria imbizzarrita.
Tony afferrò Virginia tra le braccia e dopo aver fissato per un interminabile istante, la traccia inequivocabile di sangue sempre più ampia, i loro sguardi s’incrociarono. Aveva avuto il suo stesso pensiero, ma lei fu abbastanza audace da esprimerlo seppur con un bisbiglio.
« Non puoi stare qui… Q-quel proiettile… ».
La zittì, abbracciandola per impedirle di cadere e la accompagnò delicatamente, fino a ritrovarsi in ginocchio. Era diventata rigida come un paletto di ghiaccio.
Con un battito di ciglia il bel volto della donna si sostituì a quello sporco di fuliggine di Yinsen.
‘No. Stavolta no’, si disse e premette una mano sul suo fianco, cercando di frenare l’emorragia mentre con un braccio dietro alla schiena, la portò più vicina a sé.
Virginia si appoggiò alla sua spalla, cercando di calmare il respiro che aveva preso ad accelerare come le sue sinapsi. I neuroni sparavano, lasciandola stordita dallo shock. La ferita bruciava come se le avessero messo dei tizzoni ardenti dentro il fegato.
Qualcuno si avvicinò di corsa, spintonando la gente in fuga. Natalie si chinò e scostò la mano del miliardario dal fianco della donna.
« Le è andata bene – disse, alzando la voce per farsi udire – Il proiettile sembra non aver preso punti vitali » sentenziò dopo aver esaminato la ferita.
Tony tornò a comprimere su essa, stringendo Virginia con fare protettivo. Il gelo aveva cominciato ad avvolgerla, spingendola alla ricerca del calore dell’uomo.
« Da quando è esperta di balistica? » chiese con sospetto mentre la donna lo aiutava a sfilarsi la giacca.
« Mia madre era infermiera di pronto soccorso – rispose sbrigativa, ricambiando l’occhiataccia – Prema sulla ferita e faccia in modo che resti sveglia ».
Tony seguì le sue direttive e sistemò la propria giacca sulle spalle di Virginia.
« No, no… Pep, devi restare sveglia – sussurrò, dandole dei leggeri buffetti col dorso non sporco di sangue quando la vide abbassare pericolosamente le palpebre – Guardami… Ti ho mai detto che hai degli occhi bellissimi? »
« No, ma l’hai detto a Samantha »
« Non ero sincero » mormorò, afferrando uno dei nastri che decoravano le sedie per poi usarlo come tampone.
« Ah-ah… Davvero… ».
Natalie mandò al diavolo l’assistente in linea, acquistando coscienza che chiunque fosse il responsabile doveva aver fatto in modo che fossero isolati e, riprese ad armeggiare col cellulare mentre Tony cercava un modo per non cedere all’onda degli eventi presenti e passati. Particolare che non passò inosservato all’agente. All’improvviso una Rolls Royce per pochi centimetri non sfondò l’entrata, starnazzando.
Happy abbassò il finestrino mentre qualcuno sui sedili posteriori, aprì la portiera.
« Andiamo! » gridò Samantha – che in cerca di aiuto, aveva incrociato lo chaffeur – e Tony non perse tempo.
Cercando di non peggiorare le sue condizioni, prese Virginia a mo’ di sposa e si affrettò verso la vettura.
« Ehy – la fissò, arcuando un sopracciglio – Credi che farei prendere una pallottola al posto mio alla prima che capita? » domandò, riprendendo il discorso.
« Lei è un… uomo impossibile, Signor Stark ».
Mentre Natasha saliva come passeggero, Happy con gesti veloci e precisi, inserì la retromarcia. A tutto gas, iniziò a percorrere la città. Tony, sconvolto, teneva la donna accucciata nel proprio grembo.
« Se vuole, può approfittarne per farmi una delle sue ramanzine »
« Non ce la faccio… » spirò, rovesciando le orbite.
« Pepper… Resta con me » continuò a premere sulla ferita, lanciando occhiate verso lo specchietto retrovisore dove l’amico gli fece cenno che erano quasi vicini.
 
Col naso all’insù, Melinda vide il cecchino sgattaiolare in un corridoio secondario, abbandonando l’arma. Lottando contro la fiumana umana, raggiunse il piccolo ballatoio – la cui ringhiera era stata decorata, fornendogli inconsapevolmente un punto vantaggioso – che si affacciava sulla sala. Vide Crossbow a terra con il labbro spaccato, aveva deviato il colpo. Le fece cenno di andare e senza esitare, seguì il sicario. A un angolo estrasse la pistola che aveva tenuto nascosta in una fondina legata alla coscia, nascosta dall’abito argenteo. Non poté sporgersi perché l’uomo, ‘Arabo, sulla trentina’  osservò, le spinse l’arma contro il viso facendola barcollare. Crossbow la raggiunse e con una mano dietro la schiena, la aiutò a ristabilirsi. Quando sentirono la porta d’emergenza sbattere con violenza, ripresero ad inseguire il cecchino. Si gettò verso il battente metallico mentre prendeva la propria nove millimetri da sotto la giacca dello smoking, ritrovandosi fuori dall’edificio. Arrestò la corsa e senza pensarci, schiacciò il grilletto e l’uomo si accasciò sull’asfalto di quel vicolo buio.
« Bella mira » commentò Melinda, affacciandosi dalla sua spalla.
« Grazie » borbottò Crossbow, rimettendo la sicura all’arma.
Delle nuvolette si sollevavano dai margini della strada mentre si avvicinavano senza fretta al cadavere, entrambi non furono in grado di ricondurlo ad un’identità conosciuta.
Rientrati, avrebbero controllato nei database.
Melinda spinse il corpo con una scarpa per farlo finire sulla schiena poi si chinò su un ginocchio e cominciò a perquisirlo. Da una tasca interna del giubbotto estrasse una mazzetta.
« A quanto pare l’ipotesi della Romanoff non è del tutto da scartare »
« Quello che mi preoccupa è come sia riuscito ad avvicinarsi così tanto » borbottò più rivolto a sé stesso, ripensando a tutte le guardie che aveva visto e si guardò intorno con circospezione.
« Dobbiamo avvertire il Direttore. Le cose si stanno complicando » concordò la donna, afferrando il suo trasponder mentre Crossbow continuava a chiedersi se Potts non l’avesse riconosciuto.
 
*
Le gradevoli note di un pianoforte e di un basso erano state scambiate con gli ululati delle ambulanze, che andavano e venivano dal Mount Sinai Hospital. Il chiarore soffuso dei lampadari di cristallo si era ridotto al crudo bagliore dei neon.
Natalia sclerava al Blackberry con gli addetti della security mentre Samantha sedeva agitata su una poltroncina. Happy le si avvicinò con un caffè per cui lo ringraziò con un sorriso evanescente, prima che uscisse nel parcheggio a prendere una boccata d’aria. Non prima di aver gettato un’occhiata angustiata verso il proprio boss. Lei sollevò gli occhi, di una sfumatura tra il fumo e il ghiaccio, sul miliardario dall’altra parte della sala d’attesa. Lo aveva conosciuto – per così dire – quando aveva spento trenta candeline e se ne andava in giro col doppio dei chili d'amor proprio. Adesso invece se ne stava muto, col viso rivolto verso il basso e un piede traballante.
Si alzò, sistemandosi la giacchetta sulle spalle e si sedette accanto a Tony che teneva la fronte poggiata sulle nocche delle mani giunte, in preghiera di sua madre. Non aveva mai creduto a quel genere di cose, ma in quel momento era disposto a tutto pur di salvare Pepper. Perfino farsi prete. I pollici premevano con insistenza gli angoli interni delle palpebre e i gomiti appoggiati rigidamente sulle gambe.
La sala non era affollata, a far loro compagnia c’erano solo un senzatetto e una coppia di amici decisamente ubriachi. Chiuso nella propria bolla isolante, non si accorse subito della modella.
« Tieni » esordì Samantha amichevole.
Lui girò la testa e osservò il bicchiere di carta.
« No, grazie » disse con un fil di voce per poi tornare alla contemplazione del vuoto.
La sua mente era diventata inaspettatamente una grossa lacuna e ai confini del subconscio, orbitavano i pensieri più disparati.
< Effetti collaterali, Tony > gli aveva detto Obadiah quando gli aveva lanciato un suv con dentro una madre e tre figli.
Fu solo quando gli picchiettarono una spalla, dopo due interminabili ore, che riemerse dal flusso di coscienza e incontrò l’espressione rassicurante di un’infermiera.
« La Signorina Potts è fuori pericolo » disse e finalmente poté tornare a respirare.
Happy e Natalie si sorrisero.
« La diagnosi? »
« Al suo risveglio potrebbe manifestare qualche amnesia a causa dei farmaci, ma si rimetterà – si rivolse anche agli altri, avendo intuito il legame che li univa – Avrà bisogno di molto riposo e per almeno una settimana, non dovrà spostarsi dal letto »
« Possiamo vederla? » chiesero Tony e Samantha in coro.
L’infermiera fece loro strada lungo il corridoio di terapia intensiva fino ad una porta, che aprì con cautela.
Samantha ringraziò l’infermiera e scivolò seguita dal miliardario nella stanza asettica, avvolta nel più completo silenzio a differenza del corridoio da cui erano venuti. Camminarono verso il letto su cui giaceva Virginia. Il candido lenzuolo le arrivava al petto, passando sotto le braccia distese sul materasso. La modella aggirò la branda e rimase in piedi mentre Tony si sedette ad osservare il volto pacifico, la chioma ramata raccolta su una spalla e il movimento regolare del suo petto, scandito dai bip dei macchinari. Passarono alcuni minuti in cui non seppe se fosse o meno il caso di toccarla. Giusto per farle sapere che fosse là, che non l’avrebbe lasciata sola.
Non poté resistere e, incurante di Samantha, protese una mano per posarla su quella di Virginia. La raccolse e sorrise quando constatò quanto paresse piccina e cagionevole rispetto alla propria, grande e callosa. Si accostò maggiormente mentre col pollice tracciava dei cerchi sul dorso e sulle nocche.
 
Angolo Autrice: Eccomi qui con un altro capitolo! Corto, ma intenso ;)
Se pensavate che la storia fosse tutta cuori e fiori, dovrete ricredervi miei cari lettori/mie care lettrici :D Come intuibile dal titolo, adesso le cose si faranno un po’ più cupe e angst – proprio come piace a me muahahah – e ovviamente per non fare spoiler me ne starò qui, buona buona, a godermi i vostri insulti xD
Ci tengo a ringraziare tutti voi visitatori giunti fin qui, la dolcissima 
T612 e meine Schatze _Lightning_(devo ancora dire la mia sulla tua meravigliosa creatura Phoenix, che consiglio a tutti di leggere!!! Ti amo e ti odio, sallo ahahahah :*) che hanno recensito gli scorsi capitoli <3 <3
Per il momento è tutto, alla prossima
50shadesOfLOTS_Always

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. Spot ***


SPOT

“I fear who I am becoming,
I feel that I am losing the struggle within.
I can no longer restrain it.
My strength, it is fading…
I have to give in.”
- It’s the Fear, Within Temptation
 
“It's heaven on earth…
In her embrace, her gentle touch
And her smiling face.
I'm just one wishing
That I was a pair
With someone…
Oh, somewhere.”
- Too Afraid to Love you, Black Keys

Il nulla, vuoto come una notte senza stelle. Non importava dove volgesse lo sguardo, tutto ciò che vedeva attorno a sé era il buio. Come se l’avessero ridotta alla misura di formica e l’avessero chiusa in una grossa e sconfinata scatola nera di cui non riusciva neanche a distinguere i confini.
< Resta con me >.
Nell’astrusa tranquillità di quello spazio indefinito, Virginia percepì un tenue tepore che allontanò il primo gelo che l’aveva cullata. Non seppe quanto tempo fosse trascorso prima che l’eco sordo di un ritmico battito la raggiungesse. Distinto, ma impossibile da localizzare. Il calore nel frattempo si era gradatamente dissipato per poi ammantarla con la stessa leggerezza di una ragnatela. Piano piano come percorrendo una ripida scalinata, si accorse che il battito che sentiva somigliava sempre più ad un bip elettronico. Proveniva da sinistra.
< Resta con me >.
Fu come trovare l’interruttore per la realtà presente e quando lo schiacciò, la memoria riemerse con veemenza – il regalo di Tony che, dopo essersi lanciato dall’elicottero, l'aveva stretta durante il ballo e il suo tocco sulla schiena, il suo sorriso – fino quasi a soffocarla. Le sue palpebre ebbero appena il modo dischiudersi che fu obbligata a richiuderle quando il sole le ferì le pupille. Intanto le sovvennero il metallo nel fianco, il proprio terrore riflesso negli occhi parimente smarriti del miliardario, il rombo della Rolls Royce, Natalie o forse un’infermiera.
< Resta con me >.
Di netto, come un cazzotto nel plesso solare, avvertì lo sforzo dei propri polmoni ridotti a muscoli atrofizzati.
« T-Tony… » biascicò mentre cercava di prendere fiato e nonostante la fatica di udirsi, fu abbastanza perché qualcuno le prestasse attenzione.
« Con calma, bambina » le disse con la stessa affettuosa cadenza di sua nonna Elinor, carezzandole un braccio per rassicurarla.
Riconobbe quella sensazione, simile per certi versi all’annegamento. Episodi isolati che coincidevano con periodi stressanti, in cui non riusciva a vedersi in un domani. Applicò quindi la tecnica che aveva dedotto da vari articoli che Jarvis aveva estrapolato da internet e proiettò davanti a sé il laboratorio. Tony addormentato scompostamente davanti allo schermo del computer e intorno, i fogli disegnati alla rinfusa di qualche nuova diavoleria.
Con quell’immagine più nitida dietro le cornee, fu in grado di riacquistare la percezione di sé, stiracchiandosi come un neonato che deve ancora conoscersi e quando finalmente riuscì a scollare le ciglia, lasciò che la propria vista si abituasse al fastidioso bianco ottico delle pareti e del soffitto. Infastidita dall’alone luminoso che le appannava la vista, incontrò il viso un po’ paffuto e rigato dall’incedere temporale dell’infermiera. Adocchiò la targhetta distintiva – su cui era segnata come Dorothy – appuntata sul camice, che scendeva un po’ spiegazzato sulla costituzione robusta. I capelli che una volta dovevano esser stati di un bel biondo dorato, adesso erano quasi tutti bianchi e raccolti sotto la cuffietta sanitaria.
« Tony… »
« Il Signor Stark è qui fuori, sta bene – chiarì, facendo il giro per controllare i valori sui macchinari e annotarli su un dossier riposto in una cassetta in fondo al letto – Come si sente? »
‘Come se un bus mi fosse passato sopra’, pensò Virginia, ‘Prima normalmente e poi in retromarcia’.
« Ouch! » sussultò quando, nel tentativo di trovare una posizione più comoda, uno spillo di dolore le percorse l’intero corpo con la potenza di una mazza da baseball sulla testa, facendola sprofondare malamente sul materassino.
« Sono postumi chirurgici, ma passeranno tra un paio di giorni – le assicurò, poggiandole una mano sulla caviglia coperta dal lenzuolo – Se dovesse avvertire vertigini o nausee, non si agiti. Si tratta degli antipiretici »
« Ho la febbre? »
« Una piccola reazione al proiettile – spiegò con un sorrisetto – E’ stata fortunata ».
Virginia annuì, impaurita da tanta verità. Pochi centimetri, un passo diverso e/o una lancetta più là e sul letto ci sarebbe finito Tony che, una decina di domande e tre emocromi dopo, fece capolino nella stanza. Dorothy trattenne la porta e aggrottò stizzita le sopracciglia quando l’uomo le spinse con malagrazia un plico di carte sul petto. Virginia ebbe l’impressione che stessero per riprendere un vecchio litigio.
« I parametri sono eccellenti, proprio come avevo predetto – aggiunse l’anziana, ringhiando verso l’uomo che sembrò sul punto di rifarle il verso – Perciò nel giro di quattro settimane… »
« Cosa?! » mormorò lei con l’intenzione di balzare in piedi.
« E’ la normale prassi per questo genere di situazioni, Signorina Potts » rispose l’infermiera sporgendosi un poco mentre sbuffava.
Un mese di degenza le sembrava inammissibile dopo aver affrontato cicli lavorativi di trentasei ore consecutive, a volte con un unico pasto. Lei era Virginia Potts e la parola ‘riposo’ era inesistente nel proprio vocabolario, se non in particolari accezioni.
« E’ possibile ottenere uno sconto della pena? »
« Il Signor Stark mi aveva avvertito della sua testardaggine… » annetté Dorothy con fare ammonitivo.
« E della sua non le ha detto niente? » rispose, mordendosi il labbro inferiore quando Tony, ad appena un braccio di distanza, le lanciò un’occhiata risentita. Con un pizzico di… ‘Quello è un avvertimento?!’.
L’infermeria, che aveva avuto una prova della tenacia del genio – neanche uno spazzolone era riuscito a farlo sloggiare dalla finestra della sala operatoria – li scrutò e non potè che sorridere.
Tony le occhieggiò, incerto se sentirsi o meno in imbarazzo quando le due donne ridacchiarono. Finché la rossa non smise bruscamente, stringendo il lenzuolo fino a sbiancarsi le nocche.
« Ci dovrebbe essere un pulsante » intervenne, avvicinandosi immediatamente per rintracciare il cicalino collegato ad una delle due sacche appese accanto alle altre macchine.
« No » protestò debolmente Virginia mentre aspettava che il riverbero della scossa scemasse con un effetto Doppler.
« …per la morfina »
« Non voglio quella roba – dichiarò, aggrappandogli un avambraccio – Mi mette sonno ».
Tony intercettò prima la presa e poi gli occhi della donna, a cui rispose con una smorfia nervosa. Conosceva il disagio che si provava in ospedale. Essere assistiti era come ricevere un pugno direttamente all’orgoglio per chi era certo di poter essere invincibile.
« Dovrebbe riposare… » suggerì conciliante.
« Il Signor Stark ha ragione » concordò l’infermiera.
« Oh allora la fine del mondo è vicina » sussurrò Virginia, notando il modo in cui la stava fissando, incredulo e sollevato.
« Che è successo? » mugolò, invitandolo nello spazio libero sul bordo della lettiga mentre tornava alla modalità CEO.
« Non ha sentito Miss Kansas? » replicò Tony retorico, puntando un pollice verso la porta, oltre la quale Dorothy era sparita, e sollevando un’anca per accontentarla.
Lei scosse piano il capo, quel tanto da testare le proprie abilità motorie e per accantonare la discussione imminente.
« Gli altr…i invitati? » chiese, compiendo l’ennesima prova di riassettare i ricordi arruffati fra loro in una nebbia lanuginosa, che le ottenebrava i sensi.
« Molti feriti, ma nessuno grave » le rispose e si accorse con un secondo di ritardo che l’uomo aveva cambiato espressione. Un cipiglio suscettibile che da qualche tempo, era un segnale per qualcos’altro di ben più drammatico.
Si allungò e facendole passare una mano sotto il collo, usò l’altra per sprimacciarle il guanciale. Non lo informò della seconda sprangata che si abbatté su di lei. Per celarla, dovette stringere i denti e per ignorarla, si focalizzò sul suo palmo che le sorreggeva la nuca. Ruvido e allo stesso tempo, premuroso.
« Mi dia il suo telefono – ordinò, adagiandosi sulla branda e incurante la maniera in cui la stava squadrando – Devo chiamare Hannah ».
Tony arcuò un sopracciglio, cercando il potenziale decorso di qualche sconosciuto effetto collaterale dovuto ai farmaci che le avevano somministrato.
« Cosa? »
« …e Bambi. Dobbiamo fare un resoconto dei danni » continuò sottovoce, quasi delirante.
« Pepper »
« E devo vedere Natalie per scrivere una dichiarazione stampa »
« …fermati un secondo » mormorò, allargando le narici quando fu completamente ignorato dalla donna, a sua volta inconsapevole del caos che si era generato nelle ultime ore e che aveva disperatamente provato ad arginare fin dagli albori. Doppiamente irritato dal fatto che dei perfetti sconosciuti lo costringessero ad allontanarsi da lei, aveva lasciato Happy di guardia dinanzi al reparto in compagnia della Signorina Rushman, che si era fatta carico di tutte le postille accessorie come l’insulsa preoccupazione del Consiglio.
« …e dovrò contattare Darril del legale ».
« Stop! » sbottò, riuscendo finalmente a metter fine a quei vaneggiamenti.
La studiò in attesa, dandole modo di riprendere fiato prima di rivelarle un dettaglio di cui avrebbe voluto parlare l’indomani oppure mai. Soprattutto per impedirle di dare di matto a scapito della sua e di conseguenza, della propria salute.
« Hanno chiuso l’Expo » sospirò rumorosamente, divenuto a patti con la certezza che la propria delusione fosse troppo trasparente perché potesse sfuggirle.
« Ma… » bisbigliò, scuotendo leggermente il capo in segno di rifiuto e Tony ebbe la sensazione che il reattore si fosse spostato, se non addirittura scollegato.
« Avevano un mandato » disse col desiderio sempre più impellente di fare una capatina da Stern per rifilargli un soddisfacente gancio destro.
Virginia rimase attonita, riflettendo su quello che significava, sia per le Enterprises sia per l’uomo che ora teneva una delle sue mani fra le proprie. Avvistò le mezzelune violacee sotto i suoi occhi, i cui bordi arrossati rendevano pienamente la portata spossante di quella notte. Lunga per entrambi.
Sentì il peso del fallimento che la schiacciava come se le mura, il tetto e l’aria la stessero inscatolando. L'Expo rappresentava molto più che una semplice mostra tecnologica col duplice scopo di attrarre dipendenti e clienti. Era Il Progetto.
Ci avevano lavorato per non lasciare niente di incompiuto, per avere una soddisfazione prima di perdere tutto. Chissà, magari perfino una soluzione perché anche se non c’erano stati discorsi ad alta voce, sapeva che l’uomo stava riordinando casa: affidando a lei l’azienda – con mobili ed immobili annessi – e a Rhodey l’armatura. Nel caso in cui…
« Non è la cosa peggiore che potesse capitare comunque » aggiunse Tony con un sorriso mesto, sfregando dolcemente il pollice su ogni sua nocca.
La consapevolezza che ormai non fosse in pericolo sovrastò il resto, permettendogli di pigiare i propri demoni nell’antro più angusto che riuscì a scorgere in sé. E di rincuorarla quando sollevando lo sguardo, incrociò il suo.
Sconfortato, sfuggevole, colpevole.
« Cos-a dice la polizia…? » si schiarì la gola dopo un eterno istante in cui sembrò valutare almeno un centinaio di reazioni diverse.
La scelta lo turbò al punto da non trovare le parole per risponderle.
« Happy sta seguendo le indagini » mormorò e nella quiete che seguì, lo spazio tra loro divenne denso e grumoso.

**

Al sorgere della luna mancava appena un’ora, ma il livello più alto di grado – più basso nella quota marina – dell’Hub era ancora operativo. L’Agente May si fermò con fare circospetto quando il Signor Crossbow le diede la precedenza per entrare nella stanza, quasi interamente scura se non fosse stato per i led che segnavano il percorso. Superò la porta, salutando Coulson e Fury a capotavola. Crossbow la imitò mentre degli altoparlanti avvertivano dell’insonorizzazione. In pochi attimi il tavolo si accese di verde. L’ologramma tridimensionale sfarfallò per poi dar vita all’Agente Romanoff.
« Spero di non essermi persa nulla »
« Si è collegata appena in tempo » la accolse il Direttore, lieto di poter fare un resoconto.
« E’ evidente che qualcosa non ha funzionato » esordì Crossbow sbrigativo, senza riuscire a nascondere la seccatura per il fallimento del piano.
« I Fitzsimmons hanno effettuato un’identificazione grazie alle impronte e alle foto fornite dall’Agente May – intervenne Phil – Il cecchino è »
« Era » specificò l’altro.
« …Aamir Shahad, trentaquattrenne armeno con una discreta collezione di accuse fra cui terrorismo e pluriomicidio politico – listò, scorrendo con un dito lo schermo del proprio tablet – Ha operato come mercenario in Afghanistan, Pakistan e Iran per conto dei Dieci Anelli »
« Non credo che i cammelli sappiano volare » commentò Fury, riuscendo a strappargli un sorriso, condiviso perfino da May.
« Gli sono stati forniti dei documenti falsi insieme a un primo acconto di diecimila bigliettoni sull’ingaggio ».
Natasha sogghignò verso Fury, il cui occhio buono – per inciso, l’unico rimasto – dimostrò quanto fosse urtato dal proprio errore di calcolo.
« Le devo cinquanta dollari, Agente Romanoff » sbuffò.
« Erano cento » specificò la spia.
« Sappiamo nulla sul mandante? »
« I soldi hanno viaggiato per una serie di conti fittizi… – Phil avvicinò il viso al congegno tecnologico, non proprio sicuro di aver letto bene – …fra cui quello di un certo Tobiah Stane ».
Calò un drappo di silenzio i capi si fissarono in modo efficace.
« Ha senso. Obadiah aveva stretto un’alleanza coi Dieci Anelli » ricordò Melinda.
« Sì, ma è morto – rispose Natasha, occhieggiando i presenti – E’ morto? »
« Non è stato ritrovato il cadavere, ma dubito che possa essere sopravvissuto » rispose Phil.
« Ne dubita? » sibilò Crossbow.
« Sul luogo c’erano solo il Signor Stark e la Signorina Potts »
« Ovviamente » bofonchiò, attirando l’attenzione di tutti.
Natasha strinse gli occhi a fessura, riconoscendo l’accento astioso.
« Come ha fatto un mercenario ricercato ad infiltrarsi? » domandò Fury a cui non era ancora ben chiara la mobilità dell’inaugurazione.
« Ho richiamato tutti quelli presenti come scorta ieri sera – rispose la russa, visibilmente scocciata – Tutti hanno risposto ai recapiti tranne coloro che sorvegliavano il ballatoio. Francamente non mi spiego come sia possibile »
« C’è una talpa » si frappose Crossbow.
Phil e Melinda si adocchiarono.
« Un momento… Sta forse insinuando che la Signorina Potts sia coinvolta? » chiese Natasha, assumendo un’atteggiamento aggressivo mentre l’uomo compiva un passo avanti per farle capire che non si stava limitando ad insinuare.
« E’ ridicolo »
« Era presente alle Industries al momento dell’incidente »
« Ha salvato il Signor Stark » rispose la donna con la mascella sempre più stretta.
« Lei conosce le dinamiche? »
« Ho letto il fascicolo »
« Quindi sa di che cosa stiamo parlando »
« Mi chiedo se lo sappia lei, Signor Crossbow » disse, non riuscendo a capire come e su quali prove avesse formulato quella strampalata teoria.
« Natasha » la sgridò Fury, tagliente ma trovando una certa concordanza fra gli altri due sottoposti.
« Se è così informata, si renderà conto quanto sia sospetto »
« Cosa? Il fatto che una donna ricopra un ruolo di prestigio mentre il suo capo soffre di depressione post traumatica? – lo interruppe ancora – Sorveglio da mesi la Signorina Potts e so che passa la metà del proprio stipendio alla madre vedova. Non ha tempo per orchestrare un omicidio. Inoltre si occupa da dieci anni di ripulire il fango dalla faccia di Stark e si è beccata una pallottola per lui »
« Lei dovrebbe sapere come si comportano le spie » fischiò Crossobow, ambiguo.
« Sta forse mettendo in dubbio il mio curriculum? »
« Facciamo tutti un bel respiro e ricordiamo perché siamo qui » tuonò Fury.
« Già, potreste ricordarmelo per favore? » appuntò sarcastica.
« Abbiamo bisogno che Stark guarisca e si riprenda dall’avvelenamento » s’interpose Melinda, più remissiva.
« …cosicché possa diventare un burattino? » eruppe Crossbow e il suo sguardo scuro si posò a turno sulle due agenti, Phil e infine Nich che accolse un respiro.
« Mi aveva dato la sua approvazione, Signore » evidenziò con un cipiglio perplesso.
« Posso anche riprendermela. Si ricordi la gerarchia, Colonnello »
« Ho una buona memoria » mormorò con le mani giunte dietro la schiena.
« Bene – disse bieco – Allora si ricordi questo: raddrizzi le file e si occupi della protezione di Anthony ».

*

I primi raggi di sole s’infilavano tra gli edifici, dirottati dal metallo e dal vetro, come lame che tagliavano lo skyline della Grande Mela insonne. Happy invece si era accontentato della tregua, che i paparazzi avevano loro concesso, per riposarsi abbastanza per poter tornare al proprio posto di vedetta, consapevole che quello status si sarebbe protratto per una settimana. Mentre attraversava il reparto pressoché deserto, scandagliò tutte le facce. Conosciute e non. Ignorò le occhiate delle infermiere e dei medici, tesi almeno quanto lui dalla minaccia che incombeva su un paziente – suo malgrado – fin troppo conosciuto. Si accostò alla porta e dopo un ultimo e attento controllo, sfuggì nella stanza dove Virginia dormiva pacificamente. Il viso rivolto verso la finestra e una mano abbandonata in un’altra, più grande e abbronzata. Il proprietario, il miliardario per cui lavorava, sonnecchiava poco distante dalla branda su una poltroncina imbottita. Come se avesse annusato il caffè che gli aveva portato, si svegliò con un grugnito sommesso. Happy chiuse il battente senza far rumore, appoggiò sul pavimento il borsone sportivo richiesto e porse a Tony il bicchiere di carta da cui si sollevò una voluta. Non disse niente quando lo ringraziò con un lieve gesto, troppo stanco per qualcosa di verbale.
« A che ora la devo accompagnare in sede? » domandò, fissando la donna.
« Resterai qui » mormorò l’altro, guadagnandosi la propria apprensione.
« Non posso lasciarla da solo » sentenziò, illudendosi che la voce fosse risultata tanto perentoria da persuadere il genio dalle sue pericolose intenzioni.
« Ti scriverò al mio arrivo » replicò Tony quasi in falsetto.
« La Signorina Potts mi taglierà la testa quando si accorgerà che sono qui » protestò ancora Happy, spingendolo alla compassione.
« Per ordine del medico non può alzarsi. Se resti ad una distanza accettabile, terrai ogni pezzetto di te » mormorò, alzandosi e dirigendosi verso la sacca sportiva dove lo chauffeur aveva riposto il cambio d’abito e tutto il necessaire.
Riusciva a percepire distintamente i sentimenti che turbinavano nel suo corpo come un tornado imbottigliato. Simili ai propri del resto…
« Capo… »
« Happy, sai perché odio le guardie del corpo? – disse Tony all’improvviso, girandosi nuovamente per affrontarlo – Perché a differenza delle macchine, non possono essere programmate per la fedeltà o la discrezione » spiegò, trovando dietro i suoi occhi il riflesso del proprio senso di responsabilità.
« Non sono una macchina » balbettò Happy, preso alla sprovvista da tanta veemenza.
Rimembrava con precisione il giorno in cui era stato assunto, uno dei più bizzarri che avesse mai vissuto in effetti.
Gli sembrò di vedere l’ombra di un sorriso, a metà tra l’affetto e la stima, ma non poteva esserne sicuro.
« No, ma ti affiderò la mia vita » rispose Tony, sommesso e con lo sguardo torbido che si spostò per un brevissimo, morbido istante su Virginia.
Happy comprese che quella fra sé e il proprio ego, tra il suo migliore amico e il suo orgoglio, era una battaglia inutile: tutti si sentivano parimente smarriti nell’impotenza, sotto l'ombra di un pericolo imminente ma invisibile.

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