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“Moltissimi
anni fa, in un’epoca di cui noi umani non abbiamo memoria, la
magia non era
diffusa sulla Terra. Ogni singola azione era svolta con le mani o con
gli
strumenti che l’uomo aveva saputo inventare: nulla poteva
volare o essere
trasportato dalla sola forza del pensiero come oggi. I ragazzi
studiavano
materie classiche come matematica o storia, non incantesimi e mutazioni.
Fu
un periodo luminoso e ricco di scoperte, forse poco pacifico ma non per
questo
meno sereno e felice. Ma come tutte le luci hanno le proprie ombre, e
come
queste sono tanto più grandi quanto più brillante
è luce, anche quella felicità
si oscurò. Un giorno, nessuno ricorda più bene
quando, apparvero sulla Terra
due oggetti che infusero la magia in ognuno di noi. Per molti millenni
la razza
umana non si rese conto del grande potere che possedeva.
Ignorò la magia che
fluiva dalle sue mani, condannò coloro che
l’accettavano e la praticavano.
Secondo
le leggende, due arcangeli, il serafino Metatron e il cherubino Raziel,
portarono sul nostro pianeta due elementi magici, custodi dei poteri
dell’angelo dai due volti. Raziel teneva con sé
Hikarihime, Principessa di Luce,
e la depose in un tempio sperduto di un bosco di millenaria esistenza;
Metatron
trattò Benihime, Principessa Scarlatta, allo stesso modo,
lasciandola però nelle
rovine di una vecchia miniera di diamanti. A causa di ciò
Lucifero, il primo e
più splendente angelo del Paradiso, si ribellò,
trascinando nel suo delirio
centinaia di giovani angeli. La battaglia tra i ribelli e i fedeli fu
lunga e
dolorosa, con innumerevoli perdite da entrambi le parti. A nulla valeva
quel sacrificio
per Lucifero, poiché credeva di agire dalla parte della
ragione.
La
guerra si concluse con l’epica battaglia tra Lucifero e
Michele. Entrambi
estremamente abili nelle evocazioni, avevano una sola differenza: la
potenza.
Lucifero combatté Michele con tutte le proprie forze, ma non
riuscì in alcun
modo ad arginare il divario tra loro e uscì sconfitto: i
ribelli suoi seguaci
furono cacciati dal Paradiso, non più degni di risiedervi, e
mai più vi
rientrarono. Questa cacciata è anche nota come la
“Caduta degli Angeli”. La
leggenda racconta ancora di come Michele, con gli arcangeli rimasti,
abbia
creato un mondo nuovo, estraneo ed esterno al Paradiso, dove i ribelli
avrebbero scontato il loro eterno esilio: un luogo freddo, lugubre,
scavato
nella roccia e nutrito dall’odio e dal rancore, dove Lucifero
avrebbe regnato
incontrastato. I ribelli non accettarono questa divisione e si
ribellarono
ancora, ma stavolta tutto fu represso nel sangue e non ebbero alcuna
opportunità di negoziazione. Gli Arcangeli crearono poi un
terzo regno a metà
fra i due, in cui avrebbero vissuto i più degni delle due
fazioni, uno per
ciascuna, e avrebbero vegliato sulla pace per entrambi. Infine Michele
pregò a
lungo affinché il loro dio creasse un terzo angelo, un
custode puro nato dalla
luce, che potesse giudicare senza influenze, e lo facesse crescere
sulla Terra
per poi farlo salire al terzo regno al momento opportuno. Nessuno sa
però se la
sua preghiera fu mai esaudita.
In
questo volume analizzeremo con obiettività la comparsa della
magia sulle Terra,
considerando gli effetti straordinari sulla vita
e…”
‹‹È
un peccato che non si possa leggere la vera leggenda anziché
il libro di Storia
della Magia, vero Dakota?››
‹‹Mah…
Sinceramente queste storie sugli angeli non mi piacciono
molto.››
‹‹Ma
dai, Dakota! La magia viene dagli angeli e tantissimi misteri su di
essa non
sono ancora stati risolti. Non ho nemmeno una briciola di magia dentro
di me e
questo mi rende curiosa.››
‹‹Verity,
sai che il motivo per cui Michelle si diverte a prenderti in giro
è proprio
questo tuo curiosare, vero?››
‹‹Già…
Ma voglio sapere la verità. Forse scoprirò anche
qualcosa su di me.››
Dakota
recitò a memoria le motivazioni dell’amica come se
fosse sul palco di un teatro
e Verity ne rise, sempre contenta che la sua vita fosse banalizzata con
poche
parole ad effetto, alleggerendo la tristezza che si portava dietro.
Il
sorriso di Dakota si spense quando volse lo sguardo verso
l’ingresso della
biblioteca. C’erano cinque ragazze disposte in cerchio
intorno a Michelle. Era
la più alta del gruppo e anche la più bella,
almeno per i ragazzi della scuola:
lunghi capelli lisci e neri e penetranti occhi color acquamarina. Le
ragazze
sedute ai tavoli sospirarono ammirando la camminata sensuale da pantera
e i
ragazzi si scambiarono sorrisi soddisfatti.
‹‹Ehy,
senza-poteri! La professoressa Anna ti aspetta nel suo
ufficio…›› le disse con
un ghigno.
L’acquamarina
e la nebbia si scontrarono: ‹‹Sempre a prenderla
in giro, Michelle. Nessuno ti
ha insegnato le buone maniere, eh‽››
‹‹E
tu sempre a difenderla, vero Dakota?››
Le
ragazze si guardavano con astio e la tensione era elettrica, ma Verity
intervenne a far da paciere: ‹‹Non iniziate a
litigare come al solito! Non ho
voglia di sentirvi gridare e nemmeno chi studia qui ne
ha››.
Disse
a Dakota che si sarebbero incontrate più tardi
all’area snack, raccolse i suoi
libri e uscì velocemente.
Si
concesse una lenta camminata nel corridoio. L’ala professori,
con gli uffici,
era dall’altro lato della scuola e il percorso sorpassava
molte aule e il
cortile interno.
Il
corridoio era terribilmente lungo, ma estremamente bello secondo la
ragazza. Grandi
arcate, alternate a colonne imponenti, formavano le pareti color panna;
le
volte del soffitto erano affrescate con storie tratte dalla Bibbia e
dalla
mitologia greca, dettagliate e colorate. I suoi preferiti erano Orfeo
ed
Euridice, protagonisti dell’omonimo mito: la loro tragica
storia d’amore faceva
sognare la giovane, raggiungendo le corde di sentimenti e destini
ancora
avvolti nelle tenebre. Orfeo, bello e prestante come gli antichi dei,
ed
Euridice, piccola e delicata, formavano una coppia invidiabile.
Il
dipinto cui si sentiva più legata era però quello
dello scontro tra Michele e
Lucifero, seguito poi dall’arcangelo intento a pregare.
Sentiva che qualcosa di
quell’atto le sfuggiva, che c’erano collegamenti da
fare e misteri da
risolvere.
Sorpassò
le aula di fisica e scienze e poté sbirciare
all’interno della seconda. La
professoressa stava preparando una mistura dall’aspetto poco
rassicurante: un
intruglio azzurro che frizzava vivacemente. Certo, spaventava un
po’ non sapere
cosa sarebbe successo, se fosse esploso o no, ma le erano sempre
piaciute le
lezioni dove l’unica abilità che le serviva non
era la magia, ma quel magico
organo che è il cervello. L’insegnante aggiunse
alcune gocce di un liquido rosso
alla soluzione e nel giro di un decimo di secondo le esplose in faccia
con una
nuvoletta violacea: gli abiti erano bagnati e, mentre la donna cercava
di
togliersi la sciarpa senza ferirsi con i cocci del becher, la classe
rideva
rumorosamente. Si unì a loro in una risata leggera e si
allontanò sorridendo,
camminando fino alla grande porta finestra che dava sul cortile interno.
‹‹Signorina
Verity! Stia attenta! In cortile ci sono delle matricole che si
esercitano, ma
non sono molto brave… Potrebbe farsi
male.››
‹‹Grazie
Mr.Jay, prometto che starò attenta.››
Mr.Jay
era un bell’uomo sulla cinquantina, forzuto e simpatico.
Amava ridere con gli
studenti e con i colleghi, ma al tempo stesso sapeva essere serio e
incutere
timore con la voce grave che aveva. Condivideva con Verity un legame
particolare e durante le lezioni di magia rimanevano insieme. Lei lo
aiutava
con alcune delle sue mansioni da bidello, poi lui la viziava offrendole
la
merenda. All’inizio la conversazione era stata scarsa a causa
della natura
timida di entrambi, ma con lo scorrere dei giorni il ghiaccio si era
sciolto in
un’amicizia sincera.
Appena
uscita Verity si accostò al muro e procedette rasente ad
esso calpestando le
foglie rosse e gialle che coprivano la terra marrone. Gli studenti non
erano
solo poco bravi, ma dei veri e propri disastri e, pur tenendosi ben
lontano dal
“campo di allenamento”, rischiò
più volte di essere colpita da un incantesimo
mal riuscito o mal direzionato, mentre il giovane che avrebbe dovuto
controllarli dormiva beatamente appoggiato contro la vecchia quercia.
Nel
torneo scolastico non sarebbero sopravvissuti nemmeno alle
qualificazioni se
non fossero migliorati. Alzò gli occhi al cielo,
passò oltre la quercia e,
felice di tornare al sicuro, rientrò nella scuola e
bussò lievemente alla
grande porta bianca che era l’ingresso della sala professori.
Attese
qualche secondo e l’insegnante di Levitazione la fece entrare.
La
professoressa Anna era seduta sul davanzale della finestra, respirando
a pieni
polmoni l’aria pura del grande parco in cui era immerso
l’istituto. Di fronte a
lei una larga scrivania in mogano piena di vecchie fotografie dominava
la
stanza. La luce illuminava le foto di studenti meritevoli del passato,
familiari e illustri insegnanti ormai ritirati. Un gusto del passato
permeava
l’ufficio, donando la sensazione del ritorno a un tempo
lontano: tantissimi
libri veri, con le pagine di carta e le parole scritte con
l’inchiostro erano
chiusi nelle vetrine, quadri dipinti da veri pennelli erano appesi alle
pareti.
In un angolo della stanza un’antichissima macchina da
scrivere era poggiata su
un tavolino di vetro e molti altri oggetti trovati in chissà
quale luogo della
Terra erano conservati sotto teche trasparenti. Anche se la
professoressa
insegnava ai suoi studenti a usare la magia, non aveva mai smesso di
credere
che le azione compiute con le mani, con il contatto fisico e la fatica,
fossero
ancora importanti: ciò che caratterizzava un oggetto creato
senza magia era
ancora pregno di un potere che nessuna magia poteva eguagliare. Questo
a
Verity, che la magia non la possedeva, sembrava magnifico e forse anche
per questo
stimava Anna. C’erano dei valori in lei che la ragazza non
aveva mai trovato in
nessun altro.
‹‹Verity
cara, come stai? Spero tu non ti sia troppo preoccupata, essere
chiamata dalla
preside spaventa sempre un
po’…››
Scese
dal davanzale e le versò una tazza di thè caldo,
facendole cenno con la mano di
sedersi, poi continuò a parlare.
‹‹Tua
madre è venuta ieri a scuola, credo ti cercasse, ma le ho
detto che eri fuori
per una ricerca. Però è rimasta a parlarmi e
ciò mi ha sorpreso non poco: mi ha
chiesto come stessi, come ti trovassi a scuola e poi mi ha domandato
come
andasse la questione della magia.››
‹‹Lei
cos’ha risposto?››
‹‹La
verità, Verity, e cioè che nulla è
cambiato da quando sei qui… Per favore, non
guardarmi con quell’espressione, l’avrebbe scoperto
prima o poi. Si è molto
arrabbiata, accusando la scuola di non saper insegnare ai suoi
studenti. Non
sono riuscita a calmarla o a farle cambiare idea, mi
spiace.››
‹‹Che
idea scusi?››
‹‹Vuole
che torni a casa. Dice che ormai hai tutti i titoli di studio che ti
servono e
che stare qui a sperare nell’impossibile non
cambierà nulla.››
Verity
era allibita. Sua madre che veniva a scuola era già un
evento epocale, scoprire
poi che aveva parlato con la professoressa Anna aveva qualcosa di
incredibile e
sapere che sarebbe dovuta tornare a casa la gettò in un
baratro di tristezza.
Forse, pensandoci in quel momento, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi
quando
Michelle l’aveva chiamata: almeno avrebbe avuto una piccola
preparazione per quello.
Posò con lentezza esasperante la
tazza sulla scrivania, terrorizzata dall’idea che, se solo
avesse provato a
dire qualcosa, le sarebbe caduta. Sentiva i palmi delle mani sudati e
lo
sguardo appannato di quando non voleva credere a ciò che
udiva. Non poteva
tornare a casa, non poteva tornare nell’unico posto al mondo
dove nessuno le
avrebbe più rivolto un sorriso di benevolenza o
comprensione. In istituto
Michelle la prendeva in giro, ma tanti l’avevano difesa nel
corso degli anni e
continuavano a farlo, professori inclusi.
Firmò
il modulo di rinuncia volontaria trattenendo le lacrime e mordendosi il
labbro
inferiore fino a farlo diventare rosso e pulsante; firmò la
sua condanna senza
nemmeno provare a protestare. Si diresse lentamente verso la porta,
carezzando
con uno sguardo d’addio quei cimeli che non avrebbe visto mai
più.
‹‹Verity,
aspetta un minuto ancora! Anche se non vivrai più qui le mie
porte sono sempre
aperte per te. Vieni ogni volta che desideri e non lasciare che tua
madre ti
cambi, okay? Vali molto più di altri studenti con la
magia…››
L’abbracciò
dolcemente, stringendo quella ragazza così pronta a donare
amore anche quando
non ne riceveva nemmeno una briciola in cambio.
Per
un’insegnante è sempre triste perdere un allievo,
meritevole o meno, ma nel
caso di Verity la tristezza era doppia: era entrata nella scuola
sconsolata e
senza speranze. Crepare la barriera gelida che indossava in ogni
momento non
era stato facile. Convincerla ad esporsi, a raccontarsi, a mostrare il
grande
cuore che possedeva era stato ancora più complicato.
La
ragazza decise di abbandonarsi a quell’abbraccio tenero,
assorbendo tutto
quello che riusciva, ma appena sentì di non poter
più trattenere le lacrime lo
sciolse e uscì con un breve ultimo saluto.
Con
gli occhi pieni di lacrime non vedeva bene dove stesse andando e
inciampò nelle
gambe di quel ragazzo appoggiato alla quercia. Si sbucciò i
palmi delle mani
che aveva proteso in avanti per attutire la caduta e sentì
il sapore salato del
pianto sulla lingua e sul palato. Il ragazzo si svegliò,
guardandola
incuriosito.
‹‹Ehy
tu, ti sei fatta male?››
Verity
non rispose e non accettò la mano che le porgeva per
aiutarla. Si alzò da sola
e scappò via, evitando per pochi centimetri un raggio
congelante su una gamba.
Gli occhi di lui la seguirono fino a che non scomparve
all’interno della
scuola. Che fretta poteva avere, si chiese, una ragazza con gli occhi
rossi per
le lacrime e un sorriso triste e finto sul viso? Guardò i
due maghi in
allenamento: non avevano notato la caduta di lei. Meglio
così, pensò, non
avrebbero notato nemmeno lui mentre andava via.
Rientrata
al caldo Verity si appoggiò alla porta e scivolò
giù, chiudendosi in se stessa.
Mr.Jay provò più volte a farle raccontare cosa
fosse accaduto, ma a ogni
tentativo il mutismo della ragazza aumentava, tanto che finì
per piangere in
silenzio tutte le sue lacrime. La prese di forza e la depose su uno dei
divani
dell’area snack, poi mandò a chiamare Dakota,
certo che in sua presenza avrebbe
parlato.
L’arrivo
dell’amica illuminò per un attimo gli occhi di
Verity, per poi lasciarli tornare
vitrei e distanti in quello successivo. Piano piano Dakota
riuscì però a farla
parlare e, sottile come un sussurro senza vita, Verity
riferì le parole della
professoressa. Parola dopo parola, frase dopo frase, i due ascoltatori
passarono dallo stupore alla rabbia e alla tristezza.
‹‹Verity,
devi parlare con i tuoi genitori! Convincili a farti rimanere. Tu
appartieni a
questa scuola. Sei qui da più tempo di qualsiasi altro
studente, non hai nulla
da spartire con i tuoi familiari. Poi, quanti anni sono che non si
fanno
vedere? Non possono pretendere che abbandoni tutto per stare da sola in
quella
casa enorme.››
Non
serviva che Dakota glielo ricordasse, sapeva cosa avrebbe dovuto fare
ma, allo
stesso tempo, conosceva bene sua madre. Eleonore era una donna
orgogliosa,
primogenita di un’antica dinastia di maghi e streghe
particolarmente potenti.
In città tutti la rispettavano per il grande nome che
portava sulle spalle e ne
riconoscevano il fascino e la bellezza: pensare prima
all’onore della famiglia
che alla felicità di Verity era la normalità.
‹‹Dovrei
andare a casa in ogni caso, ho già firmato il modulo, ma
discutere con loro è
inutile. Mio padre non c’è mai e mia
madre… Non ne parliamo. Per l’intera mia
famiglia sono uno scherzo della natura e hanno pure ragione: quando mai
la
figlia di due maghi nasce senza magia? Quando‽ Non
mi daranno spiegazioni
e meno chiedo, meglio sarà.››
‹‹Ma
sono i tuoi genitori!››
‹‹Questo
non conta nulla, Dakota, nulla.››
Dakota
decise di accompagnarla fino a casa, sperando di poter ancora farle
cambiare
idea, anche se sapeva di essere senza speranze. Sorpassarono un locale
affollato e un parco dove dei bambini giocavano e si dondolavano sulle
altalene. Verity non li notò. Chiusa nei suoi pensieri nulla
la distraeva: non
i profumi o i colori, non le risate cristalline dei piccoli. I passi
erano
lenti, le spalle incurvate come sotto il peso di un enorme macigno. Si
salutarono con un cenno del capo di fronte al cancello.
Verity
cercò la chiave arrugginita nel mazzo e varcò la
cancellata. Il giardino era
vivo, pulsante di energia positiva, ma la ragazza
l’attraversò ignorandolo. Quel
luogo era stato suo un tempo. Aveva piantato fiori di ogni specie e
colore
sotto lo sguardo attento del nonno, l’unico della famiglia a
cui piacesse
trascorrere del tempo con lei. Aveva lavorato al fianco dei
giardinieri,
aiutandoli così spesso che avevano riservato un angolo di
prato solo per lei.
Aveva riempito quel regno in poco tempo, trasformandolo in un
arcobaleno di
colori, anche se i fiori per cui aveva lavorato maggiormente erano
state le
rose nere, che la nonna le aveva portato da uno dei suoi viaggi intorno
al
mondo. Le aveva seguite gelosa, ammaliata dal profumo e dalla bellezza
mozzafiato, e le aveva usate per decorare la tavola da pranzo, la porta
della
sua stanza, i mazzi di fiori che regalava a sua madre o che lasciava
sul
tavolino in ingresso per suo padre. Erano state l’unico dono
che Eleonore aveva
apertamente mostrato di gradire.
Si
fermò sotto il portico mentre i ricordi si facevano spazio
prepotentemente: si rivedeva
seduta lì fuori, sulle gradinate, a mangiare gli acini
d’uva sputandone la
buccia; ricordava di aver cercato di arrampicarsi sull’edera
che ricopriva il
muro, di aver guardato la neve cadere infagottata nelle coperte, di
aver
cantato con i grilli nell’estate afosa di quando aveva cinque
anni; sentiva
sulla pelle il calore del vento e la sensazione di ruvidezza della
barba non
fatta di suo padre quando l’aveva salutata per l’ultima volta
prima che si trasferisse nel
collegio dell’istituto, forse uno dei pochi abbracci che
aveva ricevuto da lui
e forse la prima volta che lo avesse visto in apprensione. Adesso
c’erano solo
foglie secche e una vecchia sedia di legno scurita dal tempo.
Spalancò la porta
con un sospiro: probabilmente non avrebbe rivisto più
nessuno del dormitorio.
Non che avesse particolari rapporti con i suoi vicini, ma le piaceva
sentire la
ragazza con cui divideva la stanza cantare sotto la doccia, incurante
di essere
stonata e di urlare per superare il rumore del getto o
l’insegnante di musica
che suonava sempre l’arpa dopo pranzo e si applaudiva da
sola.
Le
sarebbero mancati tutti quanti.
‹‹C’è
qualcuno in casa?››
Non
rispose nessuno… Non che se lo aspettasse, ovviamente.
Fece
pochi passi ed entrò in quella che credeva essere la cucina,
fu felice di non
sbagliarsi e di ritrovarla spaziosa e brillante come ricordava.
Aprì le antine
e i cassetti fino a che non trovò dei biscotti e prese dal
frigo il cartone del
latte. Li lasciò su un mobile in cima alla grande scala e si
chiuse a chiave
nel bagno. Fece un doccia lunga, bollente e rilassante. Si
insaponò con
dolcezza, cercando di distendere i muscoli tesi con un massaggio,
mentre
seguiva le bolle di sapone che fluttuavano e scoppiavano a contatto con
la
parete. Uscita dal vapore quasi ustionante si fermò davanti
allo specchio
fissandosi con insistenza, attentamente. Era carina: aveva lineamenti
delicati
e il naso leggermente all’insù. I suoi tratti
esprimevano tranquillità e calma,
ma erano pochi quelli che le si avvicinavano a causa dei capelli rossi
come il
fuoco e degli occhi smeraldo. Si era spesso chiesta da quale antenato
li avesse
ereditati perché né Eleonore né Victor
li avevano verdi. Non le piacevano. Troppo
espressivi, troppo comunicativi, erano come un libro aperto dove si
leggevano
con facilità tutti i suoi sentimenti. Distolse lo sguardo e
uscì, recuperò il
mangiare e salì in soffitta.
Tutto
era esattamente come lo aveva lasciato: il letto sfatto di quando era
andata
via, i barattoli di vernice in un angolo per terra e i pennelli posati
sui
gradini della scala che portava alla terrazza. Accese la musica di un
vecchio
giradischi e, intinto uno dei pennelli in uno dei barattoli ancora
utilizzabili,
dipinse con il rosso il soffitto inclinato sopra il suo letto,
gocciolando un
poco sulle lenzuola stropicciate. Aveva dipinto spesso, da bambina,
sulle
pareti della sua stanza, soprattutto quando i suoi genitori litigavano,
magari
svegliandola nel cuore della notte. Dipinse un grande fuoco, rosso e
giallo,
tanto bello da parere vero. Presa come da un’illuminazione
controllò poi gli
altri barattoli, scoprendo che quelli vecchi erano in realtà
stati sostituiti e
rimessi al loro posto. Aggiunse allora una lunga scia luminosa, bianca
e
celeste, che nasceva dalla mano aggraziata di un angelo dalla veste
sontuosa e
dai capelli biondi e riccioluti. Dalla parte opposta
rappresentò invece un
giovane dalla carnagione abbronzata, con i capelli neri e lucidi che
cercava di
deviare quella scia con un’altra molto più scura,
ricca di riflessi violacei.
Si allontanò per osservare meglio: Michele e Lucifero
intenti a combattere,
come li descriveva il primo libro che aveva letto sul loro scontro.
Continuò
a dipingere fino a che non ebbe vuotato il cartone del latte e si rese
conto
che il viso di Lucifero assomigliava vagamente a quel ragazzo contro
cui era
inciampata quello stesso pomeriggio. Alla fine si accorse di non aver
mangiato
nessuno dei biscotti e decise di scendere in cucina per cenare con
qualcosa di
buono e salutare. Chiuse la porta a chiave e notò le luci
dell’ingresso accese.
Scese i gradini in fretta, sperando di trovare suo nonno o il suo cane.
Non
c’era nessuno, solo una luce leggera che filtrava da sotto la
porta dell’antico
salone. I genitori lo usavano solo per le cene importanti o per le
festicciole
con altre famiglie illustri di maghi. Nulla di tutto ciò
aveva mai avuto a che
fare con lei, ma non le era mai dispiaciuto davvero. Pensava sempre che
si
sarebbe annoiata e allora si chiudeva a chiave nella sua soffitta e
dipingeva.
Però era incuriosita. Si avvicinò senza fare
rumore e poggiò l’orecchio sulla
serratura per origliare la conversazione, anziché ignorarla
come avrebbe
dovuto.
La
madre si stava lamentando di qualcosa, come al solito.
Sbirciò allora nella
serratura per sapere chi fosse nella stanza. Il nonno era seduto su una
delle
poltrone di velluto verde scuro e Kai era accucciato ai suoi piedi,
mentre la
nonna stava seduta sul divano insieme agli zii. Forse per istinto Kai
alzò il
muso in direzione della porta, aprendo la bocca come per sorriderle.
‹‹Finalmente
Verity è a casa. Lasciarla a scuola era
inutile.››
‹‹Eleonore
aveva degli amici là, ora è
sola…››
‹‹Ne
abbiamo già parlato, Victor. Preferisco averla in questa
casa, dove posso
sempre sapere come sta e posso cercare di
cambiarla.››
La
nonna sbuffò annoiata, stufa di sentire sempre gli stessi
commenti fatti dalla
figlia: ‹‹Spero tu non pensi ancora che sia colpa
sua!››
‹‹E
di chi sarebbe, mamma‽ Sia
io che Victor sappiamo usare la magia, tutto dipende da
lei.››
Ci
fu un attimo di silenzio, come quando il temporale si acquieta un
secondo e poi
un fulmine più forte degli altri colpisce
all’improvviso, e il nonno si alzò in
piedi gesticolando con le mani.
‹‹La
colpa non è nostra, tutto dipende da lei…
Smettila di addossare colpe su quella
povera ragazza e inizia a comportarti come una madre amorevole,
Eleonore. L’hai
trattata come un’emarginata per tutta l’infanzia e
ora la riporti in questa
casa vuota e sai benissimo, sapete entrambi benissimo, che
sarà sola anche qui.
Poi io rimango sempre della mia idea, è simile a Mary e ogni
anno che passa le
somiglia di più: se la genetica non è
un’opinione, ha ereditato tutte le sue
caratteristiche, compresa…››
‹‹Certo,
Dante, perché l’esistenza degli angeli
è un fatto scientifico e provato. Sei
anziano ma smettila di credere in queste leggende senza
fondo!››
‹‹Eleonore,
sei la moglie di mio figlio, ma non ti permettere mai più di
mettere in dubbio
la mia intelligenza. Le antiche leggende non sono storielle per bambini
e gli Ingranaggi
avrebbero fatto bene a rimanere nascosti
dov’erano.››
Il
fratello di Eleonore disse al nonno di stare zitto, di smettere di
ripetere
ogni volta di lasciare in pace Verity e trattarla meglio di quanto non
facessero: la ragazza era uno scherzo della natura. La moglie
dell’uomo prese
poi la parola, cercando di mitigare la tensione:
‹‹Signor Dante, ci ascolti:
sono anni che studiamo gli Ingranaggi e non abbiamo ancora scoperto
nulla di
certo. Sono sicuramente una grande fonte di energia, ma da qui a
parlare di
angeli e guardiani protettori c’è ancora molta
strada da fare.››
‹‹Certo,
cerchiamo informazioni, andiamo a trovare angeli e guardiani. Se li
hanno
depositati in posti isolati ci sarà stata una ragione, no?
Ve lo sarete chiesti
spero!››
‹‹Papà,
adesso basta! Sono storie senza capo né coda, e ti
dirò di più, sono state le persone
che facevano loro da guardia a consegnarceli. Secondo loro non
c’erano problemi
e se nessuno ci ha attaccato in questi anni non vedo come potrebbero
farlo in
futuro.››
Dante
sgranò gli occhi e sedette sulla poltrona con un tonfo.
Sapeva di non avere un
figlio particolarmente saggio, ma credeva che la saggezza fosse un
requisito
fondamentale almeno per i monaci. Tutto quello che conosceva gli era
stato
trasmesso da loro e lui lo aveva tramandato a suo figlio, ma Victor non
aveva
mai compreso fino in fondo. Pochi nella famiglia in realtà
avevano capito: la
magia donava un senso di onnipotenza tale che l’esistenza di
esseri divini,
dalle capacità infinite, diventava inconcepibile, e credere
nel trascendente
era quasi impossibile. Era però abbastanza intelligente da
sapere che parlare
ancora avrebbe peggiorato l’umore di tutti e
perciò uscì dalla stanza,
premurandosi di sbattere la porta per esternare tutto il suo
disappunto.
Verity
si era allontanata già da un po’, e precisamente
alle parole “scherzo della
natura”, sedendosi sul primo scalino di fronte alla soffitta,
stanca di sentirsi
chiamare sempre allo stesso modo. Amareggiata e con le lacrime agli
occhi,
appena sentì i passi del nonno sulla scala si
alzò di corsa ed entrò, lasciando
la porta accostata e uscendo sulla terrazza. Il nonno la raggiunse e le
posò
una coperta leggera sulle spalle, sedendosi con fatica al suo fianco.
‹‹Cosa
sono quelle lacrime? Non devi piangere, piccola
mia.››
‹‹Non
riesco a smettere, nonno. Perché devono sempre parlare di me
in quel modo?››
‹‹Non
lo so, amore. Tuo padre è così assente che non
può permettersi di ribattere e
gli altri… Bah, lasciali a cuocere nel loro
brodo!››
Le
lasciò un bacio sulla fronte e rientrò in casa.
La ragazza rimase fino a che il
cielo si trasformò in una notte buia e piena di stelle: la
luna nera si
confondeva con l’infinto. Guardando con attenzione scorse una
luce in
movimento: segnali inviati dagli astronomi, pensò.
Eppure… Eppure non
lampeggiava come al solito e lasciava dietro sé una scia
violetta, appena
percepibile sul manto scuro del cielo. Si avvicinò alla
ringhiera, stringendola
fino a farsi venire le nocche bianche e sporgendosi per vedere meglio,
strizzando gli occhi. Sfortunatamente era troppo lontana e scomparve
all’improvviso,
anche se Verity avrebbe giurato di averla vista fermarsi per un
secondo.
Colpita dall’idea che si fosse arrestata per effetto dei suoi
pensieri, decise
di aggiungere quella scia al dipinto sopra il letto, pensando che
potesse
essere un angelo messaggero o un’altra creatura dei cieli.
Angolo dell'autrice
Non
è la prima volta che pubblico su Efp, ma è
assolutamente la prima che pubblico a) un originale nel fantasy e b)un
storia originale con più di due capitoli. Spero che vi
piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione, sia positiva
che negativa. Sono entrambe estreamente utili per migliorare la mia
scrittura e la storia. La trama è gia stata tutta scritta,
quindi dovrò solo postare i capitoli. Cercherò di
metterne uno alla settimana, ma siccome l'università mi
impegna moltissimo, soprattutto al pomeriggio, alcune volte potrei
saltare. Mi premurerò in ogni caso di postare sempre almeno
due capitoli al mese. Se avete delle domande, chiedete pure.
‹‹Kai,
smettila di leccarmi la faccia! Mi bagni di saliva, è
disgustoso!››
Kai
leccava la faccia della giovane padrona con cura, senza tralasciare
nulla, per
svegliarla e dirle che la casa era vuota. Quando Eleonore era in casa,
Kai
doveva rimanere in cortile o al primo piano poiché non gli
era permesso salire
le scale fino alla soffitta. Sapere di essere da sola in quella villa
così
grande la svuotò di ogni energia e voglia di fare: se non
puoi condividere la
tua esistenza con qualcuno che la renda completa, perché
alzarsi e concepire
mille mirabolanti idee?
Trascorse
la mattina a girovagare per i corridoi della villa, cercando
novità nelle
stanze che sembravano essere sempre uguali e ignorando il telefono che
continuava a squillare, insistentemente e senza sosta. La persona
dall’altro
capo dell’apparecchio doveva essere molto testarda, o molto
stupida, per
continuare a chiamare. Alla fine, presa dall’esasperazione,
rispose, pregando
tutti gli angeli che conosceva che ci fosse qualcosa di davvero
importante.
‹‹Finalmente
mi rispondi razza di degenerata! Mi stavo preoccupando
seriamente!››
‹‹Pensavo,
Dakota.››
‹‹Certo,
e posso immaginare i risultati del tuo crogiolarti nelle disgrazie che
ti
accadono.››
‹‹Prima
di risponderti erano ottimi, sai?››
‹‹Sei
una pessima bugiarda! Scommetto che ti stai annoiando a morte, vestiti
e vieni
fuori, facciamo una passeggiata.››
Verity
scostò una delle tende della sala e Dakota la
salutò con la mano e con un ampio
sorriso. Scosse la testa e andò a vestirsi, conscia che
l’amica non l’avrebbe
lasciata in pace fino a quando i suoi desideri non fossero stati
esauditi.
Dakota
era entusiasta: si sarebbe portata Verity in giro per tutto il giorno,
distraendola e occupandosi di lei. C’erano molti preparativi
da fare. Era
bastata una mattinata lontana da scuola e mille novità erano
giunte. Ci sarebbe
stata una grande festa a scuola, con un ballo, e Verity era stata
invitata
direttamente dalla preside come ospite. Doveva assolutamente
partecipare ed
essere bellissima per fare invidia a Michelle che aveva sparlato di lei
per
l’intera giornata.
Girarono
per i vicoli della parte storica della città, costellati di
boutiques minuscole
ma così piene da chiedersi come si potesse entrare dentro;
si fermarono in
un’antica, piccola pasticceria dove mangiarono qualcosa per
pranzo;
attraversarono i vicoli dei fiorai, profumati e ricolmi di fiori
esotici, e
quelli delle vecchie librerie e dei negozi degli antiquari fino a
sbucare in
una via appena più larga, quella degli abiti.
‹‹Dakota
cosa facciamo qui?››
‹‹Te
l’ho detto, ci prepariamo per la festa della scuola,
no?››
Prese
Verity per una manica e la trascinò su per una ripida
scaletta scavata nella
pietra: sul pianerottolo c’era scritto “Atelier del
fuoco”.
I
manichini erano in ogni angolo, vestiti e pronti per essere ammirati,
anche se
coperti da un sottile strato di polvere grigia. Sul grande tavolo da
lavoro
erano sparsi spilli con la capocchia colorata, un metro da sarto e
alcuni
gessetti, mentre in un mobile bianco erano ammassati rotoli di varie
stoffe e
tonalità.
Dakota,
dopo aver salutato il nonno che cuciva nel laboratorio, andò
nel retrobottega,
che per qualche motivo era più grande del laboratorio
stesso. Preparò alcune
scatole e mandò l’amica nei camerini.
‹‹Dakota,
vuoi mandarmi nelle case del piacere per caso?››
L’abito
che stava indossando era corto e rosso, molto aderente nel corpetto e
fluttuante nella gonna, con uno spacco che metteva in mostra la coscia.
Dakota
rise del commento e passò a Verity un vestito diverso,
bianco e lungo, senza
maniche. Aveva il collo alto, decorato con piccole pietre luccicanti,
ed era
abbinato a dei guanti lunghi fino al gomito di stoffa leggerissima, con
un
fiocchetto azzurro sul polso. Le stava molto bene, ma Dakota non era
soddisfatta.
Per
un’ora buona scartarono modelli e colori, ma nessuno sembrava
essere quello
giusto e Dakota cominciò a disperarsi, lanciando gridolini
di rabbia e
disappunto.
‹‹Ragazze,
come state? Avete trovato qualcosa che vada
bene?››
‹‹Nonno!
Ho perso le speranze di trovare il vestito perfetto. Pensi di poterci
dare
qualcosa tu?››
Il
nonno sorrise e richiamò una delle scatole dallo scaffale
più alto con un gesto
della mano. Questa scese dolcemente e si posò tra le mani di
una Verity
estasiata da quella magia così semplice ed elegante.
L’abito era una delle
creazioni magiche di Erald, il padre di Dakota, ma le rifiniture erano
fatte a
mano: era un vestito blu notte, lungo fino a terra. Il corpetto era
ricamato a
mano con minuscole perle blu disposte in brillanti arabeschi che
scomparivano
verso la vita; le maniche in pizzo arrivavano fino al gomito e le
spalle erano coperte.
Dakota
aveva gli occhi spalancati per la meraviglia e la soddisfazione, mentre
Verity
arrossiva sulle guance e si torturava le dita delle mani. Il nonno di
Dakota si
complimentò, dicendo che era molto bella, e riprese la sua
occupazione.
Le
due ragazze mangiarono qualcosa di veloce lungo la strada e tornarono a
casa di
Verity, chiudendosi nella soffitta. Lasciata la giacca su una sedia,
Dakota
cominciò a guardarsi intorno: non era mai stata nella camera
dell’amica anzi,
non era mai nemmeno stata a casa sua pur sapendo dove abitasse. Era
incantata
dai colori e dai dipinti sulle pareti e sul soffitto inclinato,
stupefatta
dalle meraviglie che Verity era in grado di creare, e sentiva il suo
carattere
sensibile diffondersi da ogni angolo. Accarezzò uno dei muri
dipinto di blu
scuro e punteggiato di costellazioni, riconoscendone qualcuna;
osservò con
attenzione le pieghe dei vestiti di alcune ragazze in un angolo. La
maggior
parte erano disegni dal tratto infantile, ma altri, come quelli fatti
durante
le vacanze quando si era obbligati a tornare a casa, erano splendidi e
sfumati alla
perfezione. Lo sguardo indagatore di Dakota sorpassò tutte
le superfici e si
fermò sul nuovo lavoro sopra il letto: i suoi occhi
brillavano.
‹‹Quando
lo hai fatto? Credo sia il più bello in questa
stanza…››
‹‹Ieri
pomeriggio… Avevo parecchia
ispirazione.››
‹‹Non
ti infastidisce dormirci sotto? Sembra che vogliano uscire dal soffitto
tanto
paiono reali e io ne avrei una paura matta.››
‹‹E
cosa potrebbero fare? Uscire e uccidermi durante il sonno? Se sono
sicura di
qualcosa è che in questa casa nessuna magia potrà
mai mettere i miei dipinti
contro di me.››
Si
sedette sul bordo del letto, grattando con l’unghia una
gocciolina di vernice
assorbita dalle lenzuola. Non aveva mai considerato un suo dipinto
opprimente o
inadatto a una camera, né disturbatore del sonno, e non
aveva paura di
svegliarsi nel cuore della notte e spaventarsi. I due angeli si
fronteggiavano
l’un l’altro, lei era solo l’osservatrice
fuori campo di una grande, epica
battaglia.
‹‹Certo
che no… Ma non saprei, mi fanno sempre pensare a tristi
futuri le scene di
guerra, soprattutto se messe sopra un letto!››
Fece
una linguaccia a Verity e tornò a guardarsi in giro,
respirando flebilmente nel
silenzio confortevole. Uscirono per un po’ sulla terrazza ad
ammirare le
stelle, quelle vere, con una coperta sulle spalle, e ascoltarono Kai
abbaiare
loro dal basso del cortile, poi rientrarono.
All’improvviso
la madre di Verity, Eleonore, aprì la porta con la magia e
la lasciò sbattere
contro un prato verde.La
ragazza ebbe
appena il tempo di sussurrare che solo in quella casa una porta chiusa
non
esprimeva un messaggio ben chiaro. Eleonore squadrò Dakota
dalla testa ai
piedi, concentrandosi molto sulle scarpe consumate della ragazza e la
salutò,
chiedendole poi di uscire.
‹‹Aspetterò
fuori, non c’è nessun
problema.››
‹‹No,
per favore, potresti proprio andare via?››
Dakota
si stupì ma raccolse la giacca dalla sedia e se ne
andò, offesa, intercettando
prima lo sguardo di scuse che le inviava insistentemente Verity.
‹‹Cosa
faceva lei qui? Il padre non è un uomo molto intelligente
né importante direi,
preferirei che non vedessi quella ragazza.››
Per
un attimo, per un minuscolo attimo Verity desiderò di
poterla bruciare con il
fuoco: non un’ustione grave, ma che le lasciasse un segno
abbastanza duraturo
da non farle dimenticare che poteva frequentare chi preferiva e non chi
voleva
lei. Anziché dirle la verità preferì
però annuire, borbottando che era una
ragazza molto sveglia invece. La madre aggrottò la fronte e
sorrise, fingendo
di non aver udito le parole della figlia e iniziando a parlare.
Nel
frattempo Dakota si era seduta sulla vecchia sedia della veranda,
cercando di
ricordare dove avesse già visto quella donna. Era una delle
poche ragazze a
scuola, lei, che non avesse mai incontrato la famiglia di Verity,
eppure il
viso di Eleonore le era familiare, come se lo avesse visto da poco.
‹‹Dakota,
cosa stai facendo qua fuori? Non fa così
caldo…››
Il
nonno di Verity, Dante, aveva già salito le scale e inserito
la chiave nella
toppa quando si era accorto della giovane. Era strano che la nipote
lasciasse
un’amica fuori dalla porta di casa ad aspettare, non era
affatto un
comportamento che le si addicesse.
‹‹Credo
che la mamma di Verity mi abbia cacciato di
casa.››
‹‹Niente
di più probabile›› disse ridendo.
‹‹Non le stai molto simpatica. Se non sbaglio
tuo padre non è venuto a una grande sfilata organizzata da
lei per promuoverlo
perché tu avevi la febbre: non andavano già
d’accordo prima, ma quello è stato
il massimo che Eleonore ha saputo sopportare. Non ha accettato nessuna
scusa.››
Dakota
era perplessa. Ricordava molto bene quella febbre, l’unica
che avesse avuto, e
che suo padre fosse rimasto accanto a lei tutte le notti, ma se avesse
saputo
che stava rinunciando a una serata tanto importante, lo avrebbe mandato
fuori
di casa con le poche forze che possedeva.
‹‹Prendi
la scala coperta di edera nel retro… Sembri leggera,
dovrebbe reggerti.››
‹‹Come
fa a sapere che non posso volare?>>
‹‹Lo
insegnano al decimo anno e tu sei al nono con mia nipote. Se ti
avessero visto
provare a levitare te stessa, ti avrebbero ricoverato con un braccio
rotto: lo
so per esperienza personale.››
Dakota
scoppiò in una risata cristallina e quasi le venne male alla
pancia. Sfogatasi
ringraziò il nonno e girò l’angolo per
arrampicarsi il più velocemente
possibile.
Sporgendo
appena la testa poté vedere Dante entrare nella stanza e
parlare
tranquillamente con entrambe, anche se la sua espressione tradiva la
volontà di
prendere Eleonore per un braccio e portarla fuori da quel luogo.
Sghignazzò,
cercando di contenere la voce, e tirò su con il naso per non
soffiarselo,
continuando a osservare. La mamma di Verity rimaneva a distanza dalla
figlia e
sembrava quasi che, per avendola messa al mondo, avesse paura di
toccarla e di
veder scomparire tutta la sua magia. Un po’ la comprendeva,
all’inizio aveva
avuto anche lei quella paura. Però era scivolata via man
mano che aveva
conosciuto Verity durante le lezioni, i lavori di gruppo e le nottate
passate
di nascosto nella scuola a farsi spiegare da lei tutta la teoria della
magia
che non aveva mai voglia di studiare. L’aveva vista per la
ragazza semplice e
sola che era e aveva deciso di essere più aperta con lei.
Perché la madre non
era in grado di fare lo stesso?
Appena
entrambi furono usciti, tirò la finestra verso di
sé ed entrò, sedendosi poi
sul bordo del letto. Verity si era distesa subito, coprendosi gli occhi
con
l’incavo del braccio e respirando profondamente. Le molle del
letto cigolarono per
il movimento e lei sorrise all’amica. Rimasero a
chiacchierare ancora un poco e
si accordarono per vedersi il giorno successivo.
Rimasta
poi sola, Verity continuò a guardare il dipinto sopra la sua
testa, pensando a
come la sua vita non potesse peggiorare ulteriormente. Non bastava
averla tolta
dalla scuola, l’ambiente che più le era
congeniale, doveva anche starsene a
fare da balia a quei cuginetti che la prendevano sempre in giro a
Natale perché
aveva pochi regali e camminava su e giù
dall’albero per prenderli e scartarli.
Soppesò la prospettiva della punizione con i piccoli e
quella del premio che
avrebbe ricevuto nel poter partecipare alla festa della scuola e
pensò che sì,
ne valeva la pena.
La
mattina seguente si svegliò tardi, si vestì in
fretta e uscì senza aver fatto
colazione per riuscire a prendere l’unico bus volante che
l’avrebbe portata in
centro prima di pranzo. Prese alcune meringhe nella pasticceria di
fronte alla
fermata e raggiunse Dakota nell’ala dedicata alla pausa. Lei
le offrì una
meringa ed in cambio ottenne metà del pranzo: un scambio non
molto equo ma che
lasciò entrambe soddisfatte.
‹‹La
professoressa Anna ha detto che devo pubblicizzare la festa e mi
chiedevo se
potessi avere qualche idea interessante… Ah, e ho notato una
cosa strana.››
‹‹Potresti
fare dei volantini a forma di vestito, o di rosa, con la magia e farli
svolazzare per i corridoi, quando vengono toccati si dispiegano e
appare la
scritta della festa… Che cosa di
strano?››
‹‹Idea
geniale! Comunque, che il Lucifero che hai dipinto assomiglia
enormemente al
tizio che dorme contro la quercia nel cortile interno... Qualcosa da
confessare?››
‹‹Sono
inciampata su di lui. Ha cercato di aiutarmi ma l’ho
respinto… Chi è?››
‹‹Bella
domanda. Ho guardato tra i nomi degli iscritti degli ultimi anni, sai,
il registro
con le foto tenuto dal prof. di Evocazioni, e lui non esiste. Non
esiste da
nessuna parte.››
Verity
rimase in silenzio masticando, cercando di farsi tornare alla mente il
viso di
quel ragazzo, senza riuscirci, e disse che avrebbero potuto chiedere
qualcosa
agli insegnanti o a Mr.Jay.
La
bibliotecaria annunciò però che la pausa era
finita e Dakota dovette tornare in
classe. Verity decise che sarebbe passata nel cortile interno a dare
un’occhiata, magari lo avrebbe trovato lì a
dormire e si sarebbe ricordata il
suo viso senza sovrapporlo a quello di Lucifero.
Le
sue speranze non furono deluse. Appoggiato al tronco della quercia,
quello
strano ragazzo respirava profondamente. La testa era reclinata verso il
basso e
un ciuffo di capelli neri gli copriva la fronte; accanto alle ginocchia
c’erano
alcuni libri rilegati in una pelle lucida, legati da una cintura di
cuoio
chiaro che stringeva con la mano. Le ricordava i racconti di come il
nonno
portasse i libri, alla maniera antica, come diceva lui.
Pensò inizialmente di
salutarlo, ma alla fine voleva solo vederlo in faccia, e quindi si
avvicinò
senza far rumore e si sedette di fronte a lui a gambe incrociate,
ringraziando
di essersi messa un paio di pantaloni. Lui si svegliò appena
inserì una mano
nel sacchetto delle meringhe.
‹‹Ti
sei ripresa dall’altro giorno?››
Si
immobilizzò mentre tirava fuori il dolce ma,
anziché rispondergli, cercò di
sviare la domanda offrendogliene uno; il ragazzo rifiutò e
le chiese di nuovo
come stesse. Verity non voleva ripensare a quel pomeriggio e a come era
stata
cattiva verso di lui, che aveva cercato solo di aiutarla, ma dopo vari
tentativi di cambiare discorso e vedendo che non riusciva a farlo
desistere dal
ripetere sempre la stessa frase, si forzò a dire che stava
molto meglio. Appena
ottenuta la risposta il ragazzo si alzò, tirando con
sé la cintura con i libri
e facendola galleggiare a mezz’aria. Poco prima che
rientrasse, senza
salutarla, Verity gli chiese se avrebbe partecipato alla festa della
scuola.
‹‹Forse››
disse chiudendo la portafinestra.
Verity
sorrise e pensò che un “forse”
equivalesse quasi a un “sì” e molto poco
a un
“no”. Finì di mordicchiare la meringa
che teneva in mano e anche lei tornò
dentro la scuola, chiedendosi perché fosse così
contenta di quella risposta.
Angolo
dell’autrice
Ecco
a voi il secondo capitolo! Mi spiace che il primo non abbia ricevuto
recensioni, spero che questo ne riceva almeno una, almeno per sapere se
io stia
effettivamente andando nella giusta direzione e se la lunghezza dei
capitoli
sia abbastanza o vada aumentata.
In
ogni caso ringrazio tutte le persone che hanno letto, pero che abbiate
gradito
e che vi venga voglia di lasciarmi un piccolo parere!
Per qualche tempo trascorse le mattine a scuola e i pomeriggi nel
parco cittadino pur di non rimanere troppo tempo a casa in compagnia di
sua madre. Certo, là avrebbe potuto incontrare suo nonno e forse
una sera avrebbe anche rivisto suo padre, che sembrava essersi chiuso
nel suo laboratorio, ma alla fine non le dispiaceva rimanere
all’aria aperta e tra la gente. Il pomeriggio della festa lo
trascorse da Dakota. La casa della ragazza si trovava
vicino alla scuola, nella parte antica della città, ed era
l’opposto della villa di Verity: alla larghezza e ai grandi
spazi, si sostituivano infatti stanze dai soffitti alti ma molto
strette e scale a chiocciola ripidissime che salivano in due angoli
dell’abitazione, incastrata tra due palazzi molto più
grandi. Lì ogni oggetto sembrava avere una specifica
collocazione, ogni stanza sembrava che potesse solo trovarsi lì
e non in un altro punto: due per il primo piano e tre per il secondo
più una cantina oscura e un giardinetto minuscolo con una
vecchia altalena cigolante. Le due scale a chiocciola erano disseminate
di souvenir e ricordi portati dal padre di Dakota durante i suoi viaggi
della sua giovinezza, i gradini erano incisi con frasi e discorsi
tratti dai molti libri letti da entrambi. Quella casa era stata
comprata con i risparmi dei nonni dai genitori di Dakota, subito dopo
il matrimonio, quando erano ancora troppo innamorati per capire che un
luogo simile sarebbe stato pericoloso per una bambina. Erald ed Emily
si erano sposati giovanissimi, appena ventenni, ma erano bastati pochi
anni di vita insieme perché nascessero le prime
difficoltà: avevano due idee di vita diverse, che collidevano e
si scontravano in ogni decisione da prendere, e
l’incapacità di scegliere insieme, di ascoltarsi, si era
riflessa sulla piccola che aveva imparato a convivere con se stessa e a
cavarsela per quanto riuscisse. Con il tempo la situazione era
peggiorata e la bambina li aveva visti spesso litigare nella cucina,
nascosta sull’ultimo gradino della scala a chiocciola della
stanza a fianco. La volta che avevano combattuto con la magia si era
intromessa, spaventata da quei lampi di luce che diventavano sempre
più brillanti e continui. Si era procurata una ferita grave alla
spalla, ustionata dal vapore incandescente che la madre aveva creato, e
non era mai guarita completamente. La pelle era ancora increspata come
un’onda e nessuna magia dei medici era riuscita a distenderla. Eppure Dakota era
cresciuta allegra, forte ed eccentrica. I vicini la vedevano sempre
passeggiare per le vie del centro con gli abiti di Erald mentre
mangiava enormi coni gelato o si fermava su un marciapiede mentre una
penna le scriveva i compiti che avrebbe dovuto fare di suo pugno;
quando tornava a casa, guardava le facce stanche dei genitori e si
prometteva che sua figlia non l’avrebbe mai sentita urlare,
lanciare fatture volanti o male parole al marito che un giorno avrebbe
avuto. Quando, durante il
terzo anno di istituto, si era nascosta nella stanza di Verity per due
mesi interi, i genitori avevano deciso che non potevano andare avanti a
litigare ogni volta che si rivolgevano uno sguardo e si erano separati
definitivamente: lei si era trasferita in un'altra città, mentre
Erald, dopo molti fallimenti, aveva convinto la figlia a tornare a
vivere con lui. ‹‹Papà, siamo a casa!›› Non rispose nessuno e così le due amiche salirono subito nella stanza di Dakota. ‹‹Ma dov’è tuo padre?›› ‹‹Adesso
in è in atelier, ma lo saluto ugualmente perché ha fatto
una magia speciale e mi sente quando lo faccio. Sta lavorando su degli
abiti cuciti interamente a mano e su alcuni modelli fatti di sola magia
per una stilista. Dovrebbe guadagnare molti soldi questa volta: forse
così riusciamo a pagare per intero il carico di stoffe che deve
arrivare a giorni…›› Dakota sospirò:
‹‹Non credo che riusciremo mai ad essere in ordine con i
conti in quel posto, ma va bene, è anche questo che lo rende
meraviglioso così com’è›› sorrise e
fece sedere Verity sulla sedia di fronte allo specchio. Le raccolse i
capelli in una treccia complicata, fermando le ciocche con delle
perline bianche e creando due rose dietro la testa, facendo scendere la
lunghezza sulla spalla destra. Si scambiarono i ruoli e, con
l’aiuto di Verity che le divideva le ciocche, trasformò i
suoi capelli lisci in boccoli color del pane, lasciandoli sciolti sulla
schiena. Quando Erald, tornato
dal lavoro, entrò nella stanza, bussando appena, scoppiò
a ridere per la scena: sua figlia stava pregando l’amica di
uscire dal bagno e farsi vedere. ‹‹Lascia perdere, angelo mio, la vedrò quando vi accompagnerò.›› Dakota grugnì
una specie di “va bene, papà” e lo lasciò
andare via mentre anche lei si vestiva. Continuò a parlottare a
bassa voce, commentando la timidezza dell’amica con parole poco
amichevoli e spronandola a farsi ammirare durante la serata
perché nessuna avrebbe potuto confrontarsi con lei, non quella
volta. Mentre erano sulla macchina volante, Dakota sussurrò a
Verity che il suo ragazzo si sarebbe imbucato alla festa e che glielo
avrebbe fatto conoscere. La ragazza sospirò poco entusiasta,
ricordando che l’ultima presentazione a cui aveva partecipato era
stata un fiasco, varcò il portone della Sala della Rivoluzione,
sperando che tutto filasse liscio per l’intera serata. La Sala della
Rivoluzione era una delle stanze del piano nobile dell’istituto
scolastico, l’unica in grado di accogliere insieme tutti gli
studenti dei dieci anni di corso. Per l’occasione era stata
decorata con fiori di ogni forma e colore, ma in particolare rose,
basandosi sulla leggenda per cui il nobile che ne aveva commissionato
la creazione, avesse cosparso il pavimento di petali di rosa una volta
venuto a conoscenza della Presa della Bastiglia. Con il passare del
tempo la tradizione era cambiata e quella data non rappresentava
più il simbolo di una delle più grandi imprese
rivoluzionarie della storia, era diventata solo un giorno di festa per
la scuola. L’unica particolarità era che i ragazzi
regalavano alle ragazze una rosa in base al significato o, se non lo
conoscevano, a quale colore si abbinasse meglio al vestito per
invitarle a trascorrere la serata con loro. Le più viste erano
rose rosse, bianche o gialle, ma alcuni audaci donavano quelle blu o
nere. Era un’usanza che Verity aveva sempre apprezzato, anche se
non aveva mai ricevuto un fiore in nessuna delle feste. Sorpassarono un
gruppo di ragazzi che cercavano di scegliere a chi donare il fiore che
tenevano in mano e si fermarono in un angolo, proprio sotto al piano
dell’orchestra che si stava preparando per suonare.
Accennò le prime note di una melodia dolce e le due si
spostarono, pensando di fare un giro: partirono dal colonnato a destra
dell’ingresso e passarono di fronte a diverse salette dove ci si
poteva sedere e rilassare sui divanetti o sulle poltroncine. Sotto le
volte c’erano tavoli colmi di cibi e bevande provenienti da ogni
parte del mondo: quattro erano dedicati solo ai dolci ed altrettanti
alle bevande, alcoliche e non; i restanti erano per i piatti salati
comuni e particolari come la parte indiana, africana e orientale. Le
quantità esorbitanti sarebbero bastate per un esercito molto
più numeroso della popolazione dell’istituto e
l’avrebbero sfamato per almeno un mese, garantendo un pasto
completo due volte al giorno, ma il bello della festa era anche quello,
sapere di poter mangiare tutto quello che si voleva senza limiti.
Passarono così un po’ di tempo e mentre Dakota
sgranocchiava dei crackers in uno dei salottini, lei guardava le facce
di tutti in cerca del suo “forse ma quasi si”: era certa
che sarebbe riuscita a riconoscerlo anche nella calca, ma sembrava
proprio sbagliarsi. Michelle si avvicinò a loro con le ragazze
del suo seguito. ‹‹Guarda
un po’ chi si è imbucato alla nostra festa. Cosa fai qui,
senza-poteri?›› ‹‹Mi godo quello a cui sono stata invitata.›› ‹‹Accidenti allora temo di non poterti proprio dire nulla…›› Voltandosi
colpì con il gomito il bicchiere di aranciata che Verity teneva
in mano e lo rovesciò sul vestito; in quel momento la rossa vide
anche il ragazzo che cercava avvicinarsi. ‹‹Non
posso ballare così, puoi provare a… No, vai a goderti il
tuo cavaliere imbucato, io andrò in bagno.›› Spinse piano Dakota
sulla schiena incitandola ad andare, mentre questa inveiva contro
Michelle promettendo una vendetta lunga e dolorosa. Allora la prese per
mano e la portò al centro della sala, vicino ad alcune sue
ex-compagne di classe che le erano simpatiche e poi tornò
indietro, prendendo anche un pezzetto di torta di zucca. Si
assicurò una buona visuale fermandosi nel lato opposto. Riusciva
a vedere in tutta la stanza il turbinio delle gonne e del tulle, dei
nastrini e dei fiocchi; sentiva i tacchi picchiettare sul pavimento e
respirava un piacevole profumo di lavanda proveniente da dietro le sue
spalle. Le coppie appena formatesi, o già consolidate, si
abbracciavano o dondolavano fingendo di ballare. Guardò il suo
vestito macchiato: non era possibile che quella ragazza fosse tanto
infantile da doverle versare addosso del succo per rovinarle la festa,
il solo fatto che nessuno la invitasse a ballare era di per sé
una disfatta di cui Michelle avrebbe dovuto essere felice… ‹‹Hai intenzione di piangere per una macchia di aranciata?›› Il ragazzo della
quercia le tolse il piattino di mano, lasciandolo al primo passante, e
fece scomparire la macchia con una piccola magia. Poi la portò
in mezzo alla sala, vicino a una delle finestre, proprio nel momento in
cui l’orchestra iniziava a suonare la musica di un lento. Le
cinse la vita e lei portò le braccia intorno al suo collo,
fissandolo negli occhi: erano stranamente viola, molto calmi ma animati
da qualcosa che oscillava tra la rabbia contenuta e il rancore
nascosto. Mai aveva visto simili occhi e continuò a
specchiarvisi per l’intera danza, ipnotizzata dal loro
magnetismo. Volteggiò tra le sue braccia e non si rese conto che
la stesse portando fuori fino a che non sentì l’aria
fredda sulle braccia. ‹‹Oggi è il tuo compleanno vero?›› ‹‹Nessuno lo sa, in tutta la scuola.›› ‹‹Uccellino… Verity.›› ‹‹Come… Suppongo un uccelletto anche in questo caso, vero?›› Lo vide sorridere e
sentì la musica all’interno giungere al termine e gli
studenti applaudire all’orchestra. Molti uscirono sul balcone, ma
non in quello dove si trovavano loro due. ‹‹Sarebbe bello sapere il tuo nome adesso.›› Poggiò i gomiti
sul parapetto, cercando di distinguere qualche costellazione in cielo;
lui sembrò esitare ma alla fine rispose lo stesso. ‹‹Scar.››
‹‹Significa “cicatrice”, sai? Ho sempre
pensato che i nomi che abbiamo debbano rispecchiare una nostra
caratteristica… Quindi qual è la tua
cicatrice?›› Si sporse leggermente
con le mani e guardò il parco: era immenso e illuminato quasi a
giorno, probabilmente lo avrebbe visto anche dalla terrazza. I vialetti
pavimentati avevano lampioni da entrambi i lati e nascoste tra le
piante c’erano molte luci. Sfortunatamente tutta quella
luminosità impediva di vedere bene le stelle, eppure guardava
avida, sperando di ritrovare quella scia che tanto l’aveva
impressionata. Non sapeva cosa fosse, né se ne era fatta
un’idea, ma desiderava rivederla. Un lacrima tonda le
sfuggì dalle ciglia e rotolò dalla guancia, cadendo sul
marmo. Era di tristezza o di
commozione? La domanda nasceva spontanea in Scar: quali pensieri si
aggiravano sotto quella chioma rossa finemente acconciata? Negli occhi
verdi si erano susseguiti sorpresa, ammirazione, speranza, desiderio e
poi quella lacrima. Quante emozioni poteva provare un umano tanto
minuto quanto lei? Tante… E in fondo ne aveva causate
altrettante. La vide rabbrividire e
le posò la sua giacca sulle spalle. Aveva visto altri ragazzi
farlo, poteva essere una buona idea. ‹‹Rischi di ammalarti se stai fuori al freddo.›› ‹‹Forse, ma mi piace stare all’aperto, molto di più che rimanere dentro.›› ‹‹Allora
ho un dono per te… Sono i fiori preferiti di mio fratello, non
sapevo quali scegliere.›› Scar fece apparire dal
nulla, nel palmo di una mano, una rosa appena sbocciata e senza spine,
ancora con i petali setosi. La pose nella treccia, in modo che
spuntasse alla base del collo e fosse bene visibile. Verity la
sfiorò con le dita, cercando di capire solo grazie al tatto di
che colore fosse. ‹‹È nera, come la notte.››
‹‹Significa “bellezza inconsapevole”
… È la mia preferita, anche se non è così
adatta a me.›› ‹‹Forse non te ne rendi conto, ma sei molto bella.›› C’era qualcosa
nello sguardo di Scar, qualcosa che in quel momento sembrava tutto
tranne che umano e Verity ne ebbe timore. Nessuno era su quella
terrazza e non seppe decidere abbastanza in fretta se fosse il caso di
chiedergli di rientrare che Scar sussurrò: ‹‹Ci
sono così tante cose che dovresti sapere…›› Lo vide volgersi
completamente verso il parapetto, a fissare il cielo. Trascorse molto
tempo, ma Scar non diede segno di volersi girare e il silenzio si fece
sempre più pesante e meno confortevole. Si stava trasformando in
quel tipo di silenzio in cui saresti disposto a donare una parte del
tuo corpo pur di trovare una frase qualsiasi da dire per iniziare una
conversazione, ma invece rimani a fissare l’interlocutore,
sperando che sia lui a cominciare. Verity stava per parlare quando
all’improvviso il cicaleccio delle cicale si fermò e il
vento leggero smise di spirare e accarezzarle il viso. Non si sarebbe
preoccupata se non si fossero interrotte anche la musica e le risate
dei ragazzi: era come se una bolla insonorizzata li avesse avvolti,
isolandoli da tutti. ‹‹Scar… Cosa sta succedendo?›› Lo scosse per una
spalla, aspettando una risposta che capì non sarebbe mai
arrivata ed ebbe paura. Temette che stesse male o che avesse magari
qualche problema a controllare la sua magia, anche se sarebbe stato
strano, ma dopo pochi secondi tutto svanì e Scar si voltò
verso di lei. ‹‹È freddo qua… Potremmo rientrare, che ne dici?›› Verity lo
guardò incerta, la fronte appena imperlata di sudore, le sarebbe
piaciuto tornare dentro, magari ballare un’altra volta, ma poteva
fidarsi? Era uno strano ragazzo, scostante: prima dolce, poi freddo e
indifferente, poi ancora gentile… Non c’erano spiegazioni
razionali per un comportamento del genere, a meno che non fosse
bipolare, ma nemmeno magiche: chi perdeva il controllo distruggeva
tutto quello che gli capitasse sotto mano; chi soffriva di disturbi da
personalità provocava terremoti o temporali, o influenzava
l’umore delle persone con effluvi di pura magia. Accettò
la proposta per non insospettirlo e continuò a controllare tutte
le nozioni che aveva imparato, cercando una risposta. Alla fine
però smise di pensare, lasciandosi guidare in una danza che la
distolse da tutti i suoi pensieri. Finita, Scar se ne andò,
senza salutarla. Verity rimase seduta per un po’ in uno dei
salottini e quando fu stufa uscì nel cortile, sedendosi su una
delle panchine. Osservava la natura illuminata dalle luci: era bella,
con il suo contrasto tra verdi di varie tonalità e neri e grigi.
Era quasi completamente assorta, ma intravide con la coda
dell’occhio due ombre che le si avvicinavano lente.
‹‹Verity, ti ho trovata! Non vedendoti dentro mi
sono preoccupata un sacco! Lui è il mio
cavaliere.›› Al suo fianco
c’era una ragazzo altissimo con i capelli lunghi e biondi,
raccolti in una coda. Le strinse la mano e lei gli rivolse un sorriso
imbarazzato. ‹‹Sono Liam! Dakota mi parla spesso di te… È un piacere conoscerti!›› Dakota sorrise e poi
lo spinse via, dicendogli che la serata era terminata e che dovevano
tutti andare a casa. Rimase poi con Verity a guardare il giardino per
un po’, camminando sui sentieri tra le piante e, alla fine,
andarono via davvero dalla festa. Trascorsero il resto
della notte a ridere e scherzare insieme, raccontandosi le reciproche
serate, arrossendo e imbarazzandosi spesso. Verity non disse nulla
delle stranezze di Scar, né tantomeno era così certa di
quella che aveva visto: se fosse stato solo una sua allucinazione o
un’illusione? Era davvero stato reale? Non voleva pensarci in
quel momento e scelse di tenere per se stessa ogni pensiero
sull’accaduto.
Angolo dell’autrice:
Bene, terza settimana
e terzo capitolo. È un po’ triste non ricevere nessun
parere su questa storia, ma ringrazio le persone che hanno letto i
precedenti capitoli e che leggeranno questo. Spero che vi venga voglia
di farmi sapere cosa ne pensate! Un saluto a tutti quanti e grazie per aver letto!
Buongiorno
a tutti! Oggi aggiorno di lunedì siccome ho un po’ di tempo libero. In
università è il momento della pausa per gli esami, quindi mi rilasso e studio
nel frattempo. Ringrazio le due persone che mi hanno lasciato un recensione,
siete state gentilissime e mi ha fatto molto piacere leggerle.
Vi lascio
alcune note per rispondere alla domande/critiche delle recensioni, ma che sono
molto utili per tutti a mio parere. Mi piace descrivere i personaggi man mano
che si procede nella storia, quindi non ci saranno mai descrizioni molto
precise delle loro fisicità o dei caratteri, stessa cosa vale per la loro età.
Sarà così per ogni personaggio. Per quanto riguarda la trama invece, è abbastanza
complicata. Ci saranno spesso parti poco chiare o che non si riusciranno a
collocare fin da subito in un punto preciso. Non preoccupatevi, ogni questione
lasciata in sospeso verrà risolta e spiegata, e tutto, alla fine, avrà un senso
sia nel momento, sia nel progetto globale.
Detto
ciò, un saluto e un abbraccio a tutti voi che leggete soltanto! Lasciatemi un
parere se avete voglia.
Buona
lettura,
Nemamiah
Il
pomeriggio successivo Verity tornò a casa sorridente e leggera come se potesse
spiccare il volo con un piccolo salto. Entrò nella sua camera passando per la
scaletta d’edera sul retro e rimase per un po’ sulla terrazza. Si distese come se
dovesse fare un angelo sulla neve: il sole però era alto nel cielo e il tepore
lieve dei suoi raggi riusciva ancora a scaldarle il viso.
Pensò
di essersi addormentata perché quando aprì gli occhi la temperatura si era
abbassata, il sole stava ormai tramontando e il cielo si faceva sempre più
viola e blu. Nella cucina c’era un post-it di Eleonore, dove giustificava la
sua assenza con la scusa di una cena di famiglia, e sulla segreteria telefonica
c’era un messaggio di Victor che avvisava che sarebbe rimasto tutta la notte
nel laboratorio, di nuovo.
Si
rifugiò nella biblioteca di famiglia con la cena per cercare libri o saggi
sugli angeli, sulla loro tipologia di magia, sull’apparizione e su quant’altro
fosse collegabile o potesse illuminarla su quello che aveva visto, ma trovò un
solo volume che sembrasse realmente promettente. Si accomodò sulla poltrona che
usava da bambina, grande e morbida, e si immerse nella lettura. Sperava di
trovare almeno un indizio, un appiglio per capire che genere di mago fosse Scar,
perché, con tutte le probabilità, non era nemmeno quello.Poteva essere uno di quegli stregoni
potentissimi, che creano il futuro solo immaginandolo e nascono una volta ogni
mille anni e più; forse era un essere ultraterreno, magari un messaggero degli
angeli o qualcosa di simile. La seconda possibilità l’interessava di più e,
soprattutto, la convinceva di più.
Quell’unico
libro aveva il profumo della carta antica, tenuta chiusa per molti anni, e le
pagine erano fragili, così sottili al tatto che Verity si impose di prestare
estrema attenzione per non rovinarlo. Parlava delle apparizioni degli angeli
nel corso dei secoli in modo molto accurato, ma trovando pochissimo di quello
che già aveva letto sull’argomento, dubitò di molte delle informazioni in esso
contenute. A metà lettura però non riusciva a tenere più gli occhi aperti e
tanto era il sonno che finì per addormentarsi profondamente.
Un
secondo prima era accoccolata sulla poltrona della biblioteca, un secondo dopo
si trovava su una pianura rossa di sangue e arsa dal fuoco. Le fiamme avevano
bruciato ogni sprazzo di vegetazione e ogni tanto si vedevano gli scheletri
contorti degli alberi neri, che emanavano morte, e si tendevano verso il cielo
quanto potevano in un atto di disperata richiesta di aiuto. Verity camminava
lentamente e tutto quello che vedeva le faceva accapponare la pelle, la scarica
della paura che si diffondeva per il midollo come il sangue tra le vene. Avanzò
attenta a non inciampare tra i detriti e si fermò solo di fronte a quella che
sembrava essere una fossa non troppo profonda. La vista era terrificante e
orribile: cadaveri carbonizzati, appena riconoscibili, ammucchiati l’uno
sull’altro come spazzatura, alcuni distrutti, altri dilaniati. Riusciva però a
distinguere il volto di Dakota e quello di suo padre.
Arretrò
di qualche passo, con una mano di fronte alla bocca contratta in una smorfia di
puro orrore e gli occhi velati dalle lacrime. Perché vedeva il viso deturpato
di coloro che conosceva?
‹‹Tu
cosa ci fai qui?››
Si
voltò appena sentì quella voce profonda, senza perdere la luce triste e amara
dei suoi occhi, nella bocca ancora la voglia di gridare e piangere
contemporaneamente. C’era un uomo dietro di lei… No, forse un uomo era troppo.
Sembrava più un giovane adulto, retto nella postura e con un brillio sorpreso
negli occhi. I capelli erano neri come il petrolio, lunghissimi e intrecciati
con perle cremisi lucenti; gli occhi erano scuri con una vena viola, come
quelli di Scar ma con i colori invertiti, eppure erano lucidi e rossi, e le
guance erano ancora rigate dal segno delle lacrime. Ciò che era più
impressionante però, al di là dell’aspetto, erano le due ali nere che si
stagliavano eteree e bellissime.
‹‹Me
lo sto chiedendo anche io… Tu lo sai?››
Il
giovane la guardò con interesse, studiandola come se non credesse alla sua
vista.
‹‹Siamo
in una visione del futuro o meglio, uno dei possibili futuri della Terra.
Sempre che Caliel non riesca a cambiarlo.››
‹‹Caliel?
Chi è Caliel?››
‹‹Caliel
è la giustizia e l’amore. È l’equilibrio tra i mondi angelici, tra i beati e i
tristi dannati dell’Inferno; è il balsamo per la sofferenza e le tenebre che
cura il mio cuore, l’unica che riesca ancora a dargli la forza di andare avanti
dopo tutti le morti e tutta la solitudine che ha vissuto.››
‹‹Chi
sei tu?››
‹‹Lucifero,
prima e ultima luce del Paradiso.››
‹‹Il
re dei traditori…›› sussurrò Verity, senza nemmeno accorgersene.
‹‹Traditori?
Ho chiesto di poter amare, ho cercato l’amore e sono millenni che attendo. È
forse peccato, è forse tradimento amare quando siamo stati creati per farlo?››
Si
sentì in colpa, terribilmente.
Gli
occhi di Lucifero erano lucidi, come se le sue parole lo avessero trafitto
peggio di una spada: la sua espressione era sconsolata, triste, in cerca di
comprensione, e lei non se ne era accorta. Lei che pensava di saper riconoscere
il dolore e invece aveva parlato senza pensare.
‹‹No,
non lo è. Perdonami… Io non volevo addolorarti.››
‹‹Non
hai nulla da farti perdonare: so cosa dicono di me sulla Terra. Non lo
considero nemmeno più, so che lei saprà guardare oltre tutto ciò.››
‹‹Spero
sia così… Ma adesso perché io sono qui, sul campo di questo massacro?››
‹‹Lo
scoprirai presto… Mia dolce Caliel.››
Verity
sgranò gli occhi e cercò di avvicinarsi a Lucifero, urlando per attirare la sua
attenzione, per ottenere risposte, ma l’angelo alzò lo sguardo verso i nuvoloni
del cielo cremisi, dove i fulmini si rincorrevano tra loro, ignorandola e
scomparendo. Si sentiva però ancora la sua voce rimbombare.
Guarda oltre tutto quello
che ti diranno. Tutti gli angeli hanno un segreto, un sentimento a cui hanno
paura di lasciarsi andare. Soffocano le loro emozioni. Svelale, falli
comprendere.
I
contorni dell’ambiente cominciarono a svanire, sfarfallando e sbrilluccicando nell’aria
ancora pregna dell’odore del sangue, e poi tutto rimase bianco. Si respirava
un’aria pura, incontaminata, e non si distinguevano gli spazi, come in quelle
stanze create per testare la resistenza psicologica dei maghi e delle streghe.
Una volta aveva provato ad entrarvi: aveva superato il tempo massimo di
resistenza senza problemi ed era andata avanti ancora un po’. Non che avesse
dimostrato chissà quali particolari capacità, ma il silenzio non le era
dispiaciuto e aveva trovato modo di pensare e rimuginare senza che nessuno
venisse a disturbarla. Le era addirittura piaciuto, all’inizio, poter sentire
tanto chiaramente il battito del suo cuore, ma dopo averlo contato e ricontato
per curiosità infinite volte, anche lei aveva iniziato a odiarlo. Il rimbombo
nelle orecchie era perpetuo e inarrestabile: aveva visto dei ragazzi cercare di
farlo smettere dopo solo pochi minuti in quella stanza. Quando chiese di uscire
perché non riusciva più a sopportarlo, pensò che l’avrebbero presa in giro e
che sicuramente avesse fatto un tempo molto inferiore rispetto a quello dei
maghi esperti. Invece tutti le avevano fatto i complimenti e le avevano chiesto
suggerimenti su come migliorare.
Allo
stesso modo era a suo agio nel luogo in cui si trovava: non sentiva il battito
del suo cuore ma solo le parole di Lucifero, anche se erano ormai lontane e
poco più che sussurri. Il problema era la luce bianca abbagliante che la
costringeva a stringere gli occhi per poter vedere almeno un poco e non essere
completamente cieca. Nell’infinito scorse la sagoma di una donna in
avvicinamento. Dapprima ne distinse i contorni, ma in pochi minuti fu
abbastanza vicina da portela osservare in tutti i suoi particolari e di nuovo
Verity quasi si spaventò. Era una donna anziana, con la fronte e gli angoli
degli occhi segnati da molte rughe; aveva i capelli rossi come i suoi, ma molto
più lunghi, e portava una treccia intorno al capo come una corona. Le sembrava
di somigliarle e non solo per il colore dei capelli. Gli occhi avevano la
stessa sfumatura di verde smeraldo, anche se quelli della donna trasmettevano
saggezza e conoscenza. Ma la postura, il modo elegante in cui muoveva le mani,
la piega amara del sorriso, la testa leggermente piegata di lato, erano tutte
caratteristiche che Verity ritrovava in se stessa, che sapeva di avere perché
le aveva viste riflesse negli specchi e negli occhi degli amici. E soprattutto
vedeva la maschera: la donna fingeva di essere serena e tranquilla, come se
andasse tutto per il meglio, ma occhi e bocca stonavano in quel quadretto,
palesando l’animo sofferente. Come avrebbe potuto non accorgersi di quello che
faceva lei ogni volta che si sentiva triste o sola?
La
donna mosse le labbra ma Verity non udì un solo suono provenire da lei. Era
certa però che stesse dicendo qualcosa e si concentrò di più sul movimento:
ripeteva sempre la stessa frase, senza fermarsi, ma captò solo una parola in
ciò, il suo nome. Provo a chiederle perché dicesse il suo nome con tale
insistenza, ma quando si avvicinò e la sfiorò, la donna scomparve in un vortice
di luce.
Verity
si svegliò di soprassalto nella sua stanza, trovando Kai e il suo peso distesi
sulla sua pancia, pronto a leccarle il viso come tutte le mattine. Lo spinse
giù con un colpetto sulla schiena e si sedette, massaggiandosi le tempie e
passandosi le mani sugli occhi per svegliarsi: le pareva di essere ancora
dentro un sogno. E che sogno: Lucifero, una donna uguale a lei e una distesa di
sangue e cadaveri bruciati, e morte, sopra ogni cosa. Ma se senza la magia non
era possibile avere sogni premonitori, cos’era successo allora?
Probabilmente mi sono
autosuggestionata leggendo quel libro, pensò vedendolo appoggiato sulla scrivania. Non
c’erano notizie di guerre in corso anzi, erano secoli che di guerre e battaglie
non se ne vedevano: la magia aveva portato un grande senso di pace e unità e
aveva calmato la maggior parte degli animi più irosi e inclini al conflitto.
Doveva essere stato solo uno spaventoso e terrificante incubo causato dal suo
troppo pensare a storie macabre e violente. Ma se per caso fosse davvero una
visione di un possibile futuro, come aveva detto Lucifero? Cos’avrebbe potuto
fare lei a quel punto? Per iniziare una guerra però, e pensare di poterla
vincere, era necessaria un’enorme quantità di energia e solo gli Ingranaggi
potevano darla. Forse valeva la pena di chiedere a suo padre qualche
informazione, solo per stare più tranquilla. Si vestì e scese al piano terra,
dove sua nonna stava lavorando ai fornelli e il nonno era seduto a tavolo,
ascoltando le notizie dal giornale. Lo aveva sempre trovato meraviglioso: la
magia riproduceva le pagine di un giornale vero, ma anziché doverle leggere
erano gli autori stessi che uscivano dalle pagine ed esponevano ad alta voce i
propri articoli. Quando si finiva bastava un gesto della mano per farli
dissolvere in una nuvola di fumo grigio e allo stesso modo si poteva far
scomparire il giornale: così non si inquinava l’ambiente e tutti potevano
sentire le notizie mentre erano occupati in altre attività.
‹‹Buongiorno,
tesoro! Ti sei stancata molto in questi giorni… Dante ti ha dovuta portare su
di peso dalla biblioteca, non c’è stato verso di svegliarti.››
‹‹Solo
un po’, nonna, ma grazie mille. Cosa stai preparando?››
‹‹Niente
di che, solo uova e bacon per la mia nipotina.››
Le
servì un piatto abbondante e si sedette al suo posto sorseggiando un thè allo
zenzero proveniente da chissà dove. Sembrava un duchessa, o una gran dama del
passato, con i capelli grigi raccolti sulla nuca in una crocchia e il vestito
di velluto verde scuro. Teneva gli occhi chiusi e annusava il profumo ancora
non troppo forte.
Quale ricordo le porterà
alla mente?
I
viaggi erano sempre stati la passione della nonna e si poteva affermare con
sicurezza che avesse visitato quasi tutti i paesi della Terra. Per questo
motivo l’aveva sempre vista poco, ma ogni volta rimaneva affascinata dalle
storie che raccontava. Portava dai viaggi abiti, oggetti tradizionali, cibi e
tante ricette da ricreare a casa: un anno aveva mimato, per Capodanno, una
danza aborigena; l’anno successivo aveva potato dal Giappone un kimono azzurro
con un ricamo floreale fatto di fili d’oro e d’argento; per Natale preparava
sempre una cena dove ogni piatto veniva da una tradizione culinaria diversa e
la notte, quando Verity era ancora piccola, scivolava nel suo letto e le
raccontava tutte le sue avventure e di come ogni volta uscisse da grandi
pericoli per un colpo di fortuna. Conservava quei ricordi con grande gelosia e
non li aveva mai condivisi con nessuno, scegliendoli con cura quando voleva
rivederli e riponendoli con attenzione. Guardando i nonni provò un senso di
indecisione: avrebbe potuto lasciare la questione degli Ingranaggi e andare a
scuola per cercare Scar, oppure avrebbe potuto rivedere suo padre e scoprire
qualcosa di interessante e potenzialmente utile per le sue ricerche. Si
vergognava un po’ di dover andare dal padre dopo anni di silenzi e
disattenzioni verso di lui… Non che lui si fosse molto curato di lei, ma era
l’unico, insieme ai nonni, che le rivolgesse una parola, per quanto
imbarazzato, quando tornava a casa per le feste, chiedendole come stesse e
lasciandole un regalino sul letto prima di scomparire nel laboratorio.
Guarda oltre…
Proprio
in quel momento doveva pensare alle parole di Lucifero? Forse non erano una sciocchezza;
aveva sempre desiderato un padre presente nella sua vita, ma non aveva mai
lottato per ottenerlo. Una volta accettata la sconfitta avuta con Eleonore, non
aveva nemmeno avuto il coraggio di provare a creare qualcosa con lui, troppo
spaventata di ricevere un secondo rifiuto.
Sarebbe
andata da lui e se l’avesse mandata via, sarebbe entrata dalla porta sul retro;
se l’avesse cacciata di nuovo, avrebbe corrotto qualche ricercatore per farla
rimanere. In ogni caso c’era molto tempo, il messaggio nella segreteria del
giorno prima diceva che sarebbe rimasto là per almeno tutta la settimana. Nel
frattempo…
‹‹Nonna,
tu sai che legame c’è tra la magia e gli Ingranaggi.››
La
nonna non lo sapeva con precisione: le leggende erano tantissime ed estrapolare
da esse la verità era complicato, soprattutto perché molte di queste erano in
contraddizione l’una con l’altra. Si raccontava che due arcangeli tra i più
potenti li avessero portati sulla Terra per salvarli dalla ribellione di
Lucifero; altre dicevano che fossero i figli di Dio, creati dalla sua stessa
materia divina, e che rappresentassero le sue due facce, quella di tenebra e di
luce; altre ancora, appartenenti alle tribù e alle vecchie credenze, li
vedevano come i creatori del mondo.
‹‹Interessante…
Conoscevo solo la prima versione. Un’altra cosa, dov’è di preciso il
laboratorio di papà?››
Per
poco il nonno non si strozzò con il caffè e tossicchiò per un po’ prima di
risponderle. Da padre aveva sperato che figlio e nipote riuscissero ad avere
quello stesso rapporto che aveva avuto lui, ma si era reso conto che sarebbe
stato necessario un miracolo per crearlo e adesso Verity chiedeva addirittura
dove lavorasse Victor. Anche la nonna rimase molto sorpresa, ma aveva sempre
creduto che Verity sarebbe riuscita, prima o poi, a sciogliere uno dei suoi
genitori e se la scelta era ricaduta Victor, non avrebbe potuto essere più
felice: conosceva bene sua figlia e sapeva che Eleonore non era adatta per
essere il tipo di madre di cui la nipote avrebbe avuto bisogno mentre il padre
poteva essere adatto.
‹‹Fuori
città,›› disse il nonno, deglutendo rumorosamente ‹‹vicino al bosco. Ti basta
uscire dalla città seguendo la strada per il mare e svoltare quando vedi
l’indicazione.››
Ringraziò
i nonni con una grande sorriso e finì in silenzio la propria colazione. Prese
poi la bicicletta che aveva comprato con i suoi risparmi e pedalò fino a
scuola, facendo un saluto di sfuggita a Dakota e fermandosi in biblioteca,
decisa a leggere quanto poteva sugli Ingranaggi. Sapeva che, per quanto estesa,
la libreria di casa non avrebbe potuto aiutarla perché tutti i libri
sull’argomento li aveva presi Victor, portandoli nel suo ufficio. Per la
maggior parte trovò leggende, molte delle quali a lei sconosciute, e rimase
stupita dalla quantità di storie che l’uomo aveva ideato per creare una
continuità tra magia e religione. La più interessante era stata sicuramente
quella sui volti di Dio e su come esistessero una parte cattiva e una buona.
Dio, diceva la leggenda, era un concentrato di tutti i sentimenti che l’uomo
conosceva e ognuno di essi aveva, e ha, un valore positivo; gli Ingranaggi
erano invece l’emanazione di alcuni dei sentimenti, ma mentre uno era in grado
di resistere alle influenze esterne, l’altro era facilmente corruttibile,
estremizzandosi e trasformandosi in un essere malefico. Verity aveva amato il
fatto che la parte malvagia non fosse così per sua natura, ma solo perché
spinta da forze esterne. La pensava esattamente a quel modo: nessuna persona
nasceva, per natura, crudele o senza cuore, erano le circostanze della vita a
trasformarla, a corrompere lentamente il bene insito in lei fino a cambiarla,
anche completamente. Lesse anche le altre storie, ma nessuna l’entusiasmò come
quella, e alla fine uscì dalla biblioteca con una grande confusione di nomi in
testa e allo stesso tempo molta soddisfazione. In una sola giornata aveva
imparato più di quanto si aspettasse, ma i giorni successivi furono
fondamentali per riordinare accuratamente ogni cassetto della sua mente.
Fu
Dakota ad accompagnarla fino al laboratorio, con la moto che suo padre le aveva
regalato mesi prima, ma che solo in quel periodo aveva capito come guidare. Era
una vecchia moto, con le ruote nere e due borse ai lati del sedile di pelle
lucida. Faceva un rombo spaventoso ogni volta che Dakota accelerava e Verity le
stringeva la pancia in una morsa. Le aveva chiesto perché non l’avesse stregata
per farla volare e la risposta era stata: “ti
sembro la ragazza che vola su una moto?”. Non le aveva più domandato nulla
su quel mezzo infernale.
‹‹Verity,
sei sicura di voler entrare da sola? Ti accompagno volentieri: sai anche tu che
voci girano a scuola…››
La
ragazza rise: ‹‹Non pensavo ti interessassero le dicerie!››
‹‹Infatti
se dovesse entrare Michelle, non potrebbe importarmene di meno, ma tu sei tu ed
è un'altra storia.››
‹‹Vai
a casa, Dakota. C’è mio padre qui dentro, sono più al sicuro qui che in altri
luoghi. Non mi farebbe mai del male.››
Dakota
sospirò, riconoscendo come Verity avesse ragione, e ripartì velocemente per scomparire
dietro una scia di polvere alla prima curva. Non c’era davvero modo di far
cambiare idea all’amica quando si metteva in testa qualcosa.
Quando le aveva suonato alla porta quella stessa mattina con
quel sorriso strano, troppo soddisfatto, l’aveva accolta a braccia aperte,
sperando che qualsiasi cosa volesse fare non fosse pericolosa o azzardata,
anche se il brillio negli occhi le rivelava idee bizzarre e problematiche. Dopo
aver ascoltato tutto il suo “piano”, era corsa fino alla sua camera e si era
chiusa dentro, ridacchiando appoggiata alla porta. Si era anche vestita
fingendo di sbuffare per polemica, ma l’aveva accompagnata. Certo, era
preoccupata perché le voci sugli strani esperimenti esistevano realmente, ma
forse conoscere Victor nel suo ambiente naturale avrebbe prodotto un piacevole
cambiamento nella vita dell’amica.
Verity
respirò debolmente mentre apriva la porta, spingendola con poca forza ma
trovandola più leggera di quanto pensasse. Visto da fuori il laboratorio
sembrava una scatola bianca di quelle che si vedevano nei negozi di confetti,
con qualche finestra sparsa per le facciate, mentre l’ingresso sembrava quello
asettico di un ospedale, con le frecce a indicarti dove si trovassero i vari
settori e un lungo bancone dove due ragazze in camice bianco parlavano con i
vari uffici attraverso enormi schermi di particelle d’aria riunite.
All’inizio
il bianco delle pareti l’abbagliò, costringendola a pararsi gli occhi con le
mani, ma si abituò in fretta e si diresse, seguendo le frecce, al piano dei
ricercatori. Così piccolo da fuori, all’interno quel luogo era un vero labirinto,
con scale da ogni parte che salivano e scendevano, lettere e dati che volavano
rasenti il soffitto e raggiungevano chi aveva bisogno di loro. Non conosceva la
magia che permetteva di allagare gli spazi interni, dubitava che la
insegnassero nelle scuole, ma sapeva che fosse molto utilizzata, soprattutto
nelle fabbriche o nei luoghi di archiviazione cosicché occupassero il minor
spazio possibile e fossero accessibili solo a coloro che avevano partecipato
all’incantesimo iniziale o quelli cui veniva dato il permesso: se qualcuno
esterno avesse provato ad entrare, sarebbe stato distrutto dalla magia.
Teoricamente sarebbe dovuto valere anche lì, ma siccome erano tantissime le
persone che entravano e uscivano, solo la parte più interna e importante era
stata sottoposta a quel tipo di sicurezza. Oltrepassò vari uffici e la maggior
parte degli scienziati e dei ricercatori la salutarono con un gesto frettoloso
della mano, troppo impegnati con il proprio lavoro per potersi fermare ad
aiutarla. Era piuttosto imbarazzata: nessuno era riuscito a dirle dove fosse
suo padre e stava iniziando a chiedersi se non avesse sbagliato qualcosa. Aveva
chiesto solo a quelli di cui si ricordava, le cui facce riusciva ad associare
ai suoi ricordi. Nonostante nessuno riuscisse a darle una risposta, alcuni
degli studiosi, rilassati e senza fretta, le avevano fatto delle domande,
sorridendo e stringendole spesso la mano per complimentarsi, anche se non ne
capiva il motivo. Un mago avanti negli anni, con la gobba, la salvò
dall’assistente assillante che le si era attaccato da quasi un quarto d’ora,
senza dare segni di volerla lasciare libera. La trascinò via per un braccio,
urlando a tutti di tornare alle proprie mansioni, pena il saltare la pausa
pranzo per tutto il mese, con una voce rauca.
‹‹Scusalo
per l’attaccamento eccessivo… Bah, scuse in generale per tutti!››
‹‹Non
era un problema, ma non capisco perché.››
‹‹Sono
poche le donne che vengono qua, tuttalpiù Eleonore, che porta solo disordine e
confusione… E urla, come me.››
Verity
accennò una risata che cercò di trasformare, per decenza, in un colpo di tosse:
‹‹Eleonore è terribile alcune volte.››
L’anziano
mago, che aveva sentito la risata molto bene, fischiettò non sapendo cosa dire
ma pensando: È sua madre, perché la
chiama con il nome di battesimo?
Non
erano affari suoi e anche se era molto affezionato a Victor, non poteva
occuparsi di altre questioni familiari: gestire sua moglie tutte le volte che
veniva era già abbastanza stancante.
‹‹Questo
è l’ufficio di Victor, arrivederci›› le rivolse un sorriso e tornò al suo
lavoro.
Verity
fissò per un po’ la maniglia della porta, poi l’abbassò ed entrò.
Non
vedeva niente: la stanza era immersa nel buio, le imposte chiuse, le tende
abbassate e nessun raggio di luce filtrava. Fece qualche passò in avanti e
sbatté con le ginocchia contro quella che avrebbe potuto essere una scrivania;
protese le mani in avanti e toccando a destra e a sinistra raggiunse la
finestra. Tastò il vetro freddo e ne trovò il bordo, sfiorò poi la corda ruvida
e vi avvolse le dita di entrambe le mani, stringendola e tirando su una delle
tapparelle. Sentì un mugolio dietro di sé e si bloccò improvvisamente, mollando
di colpo la corda. Un fruscio di fogli proveniva dalla scrivania, di cui adesso
riconosceva i contorni e vedeva le forme. Era coperta quasi completamente da
tomi spessi e polverosi, impilati l’uno sull’altro in torri instabili; la
stessa cosa avveniva a terra, dove le pile erano ancora più alte e pericolanti.
Sopra il libri c’erano dei fogli scritti fittamente in una calligrafia quasi
illeggibile, plichi di ricerche e dati numerici, fascicoli di grafici e schemi.
In uno spiraglio minuscolo riusciva a vedere la testa bianca di suo padre.
Dormiva con una mano sotto la guancia come cuscino e aveva ancora la penna stilografica
in mano. La riconobbe subito: gliel’aveva regalata sette Natali prima… Pensava
che fosse a casa nascosta in qualche cassetto, inutilizzata. Il pensiero che la
stesse usando da sette anni le scaldò il cuore, portandola a sorridere. Si
accorse di un foglio seminascosto dal braccio di Victor e lo sfilò
delicatamente. C’erano scritte delle misurazioni che ricordava di aver fatto
dai vari dottori che l’avevano visitata nel corso degli anni, e tutti gli esami
dell’ospedale uniti ad equazioni incomprensibili collegate a dei dati sugli
Ingranaggi.
Cosa
stava studiando che la riguardasse? E soprattutto cosa centrava lei con gli
Ingranaggi e tutti quei dati?
Posò
il foglio sopra uno dei plichi e si allontanò in silenzio. Si sedette sulla
poltrona di pelle nera vicino alla finestra e guardò ancora l’ufficio. A lato
della scrivania c’erano due minuscole librerie, perpendicolari al muro e
parallele l’una all’altra: lo spazio tra le due bastava a far passare una sola
persona, magra per di più. In un cestino erano ammucchiati scatolini di cibo
take-away cinese, indiano e tailandese mentre ovunque, per terra, si
calpestavano fogli di ricerche, immagini collegate a grafici e lunghe tesi e
argomentazioni di cui non poteva capire nulla. Nella poca luce le sembrava di vedere
delle formule scritte sul muro, oltre che sulle lavagne appese sulle quattro
pareti. Rise tra sé e sé del disordine, che le sembrava tanto caratteristico di
suo padre. Finì per assopirsi sulla poltrona, posando la testa su uno dei
braccioli.
La
svegliò Victor, passandole la mano sulla spalla più volte: ‹‹Verity, cosa fai
qui? Eleonore lo sa?››
‹‹Ti
sei svegliato finalmente, ma io quanto tempo ho dormito? Comunque Eleonore non
sa nulla, è fuori tutto il giorno per qualcosa che riguarda l’anniversario
della città…››
Victor
alzò gli occhi al cielo, si passò una mano sul viso per svegliarsi e poi si
allontanò, misurando i passi per apparire il più calmo possibile. Fece più
volte il giro della stanza, quasi volesse calcolarne l’area con i piedi; aprì
la porta e guardò a destra e a sinistra; la richiuse; ritornò alla scrivania e
si sedette meccanicamente, raggruppando i fogli e infilandoli in una
cartellina. Non era tanto il comportamento di Eleonore, che era sempre in giro
con le sue amiche, a innervosirlo, ma il fatto che Verity fosse lì con lui, in
quella stessa stanza, perché sapeva che lei doveva volere qualcosa da lui, che
osservava e chissà cosa poteva pensare di un padre turbato dalla sola presenza
della figlia.
Verity
aveva seguito con lo sguardo tutti i movimenti del padre, riportando alla
memoria i pochi momenti che aveva vissuto con lui: c’erano dei week-end quando
era molto piccola, delle volte in cui l’aveva accompagnata a scuola con
quell’aria ansiosa che aveva anche in quel momento, alcuni Natali in cui si
erano ritrovati tutti insieme, come quello di sette anni prima. Il lavoro però
lo aveva sempre assorbito, togliendogli ogni forza e concentrazione; anche
quando erano a casa, il suo pensiero sembrava essere sempre volto a qualcosa di
diverso dal momento presente. Non ricordava nemmeno di averlo visto prendere
una posizione o mostrare sicurezza e autorità al di fuori dell’ambito
lavorativo, era impacciato nel parlare e nei movimenti, come in quel momento.
Vedeva bene che non aveva la più pallida idea di cosa fare.
‹‹Papà,
senti, cos’è qual foglio pieno di dati su cui ti sei addormentato?››
‹‹È
uno studio molto importante, è…››
Stava
per iniziare a spiegare minuziosamente quando si rese conto a quale foglio si
riferisse e ammutolì, interrompendo il contatto visivo con i suoi occhi
smeraldo. Non voleva risponderle dicendo la verità, ma non era capace di
inventarsi dal nulla una bugia credibile e cercò di sviare il discorso su un
altro argomento.
‹‹È
una ricerca importante ma ancora sterile al momento, non ci sono applicazioni
pratiche. Ma immagino tu non abbia pranzato... È ora di pranzo vero?››
Verity
rise, annuendo con il viso e lui sospirò sollevato.
‹‹Ottimo,
allora vieni con me… A proposito, cosa fai qui alla fine?››
Non
ottenne risposta dalla figlia, che si alzò e lo seguì fuori dalla porta,
dicendo di avere molta fame. Nel corridoio stretto, che li costringeva a
camminare spalla contro spalla, erano buffi da vedere. Sembravano amici,
conoscenti, parenti alla lontana o addirittura sconosciuti, ma non padre e
figlia. Verity era rilassata, la goffaggine del padre l’aveva calmata e in quel
momento pensava solo a cosa avrebbe potuto trovare alla mensa del laboratorio;
Victor era rigido come un manichino e cercava di ridurre al minimo il contatto,
guardando sempre di sottecchi la figlia.
Al
tavolo, seduti uno di fronte all’altra, erano rimasti in silenzio: lei
osservava gli studiosi che si sedevano e alzavano velocemente senza godersi il
pranzo, che leggevano sui loro schermi d’aria dati e grafici o parlavano dei
progressi dei figli a scuola. Sbirciò il piatto di suo padre e lo vide ancora
pieno. Si chiese perché non avesse mai notato quell’insicurezza, ma fu anche
lesta nel darsi una risposta: non lo aveva mai osservato così da vicino. Quando
erano a casa, lui rimaneva spesso lontano. Aveva realmente scambiato
l’indecisione per indifferenza o forse era davvero stato così come lo
ricordava? Non riusciva a risolvere quel dubbio. Decise che avrebbe aspettato:
era ancora in tempo per allontanarla come avrebbe sicuramente fatto Eleonore
una volta conosciuto il motivo della sua visita.
Victor
aveva notato come l’umore di Verity fosse cambiato e al posto della curiosità
il suo volto portasse i segni del dubbio e della domanda e pensò, per una
volta, di saperne il perché: non sapeva come si sarebbe comportato. Non ne era
certo nemmeno lui, pensava solo di non volerle dare l’impressione che l’avrebbe
abbandonata presto. Mentre lei era catturata dalla conversazione di due suoi
colleghi, colse l’occasione per osservarla bene, per imprimersi nella memoria
quanto fosse cambiata dalla bambina con gli occhi tristi che conservava nei
suoi ricordi. Era diventata grande, pensò, una ragazza bella e probabilmente
anche buona se aveva stretto una così bella amicizia con la figlia di Erald ed
Emily. Il modo con cui guardava quello che la circondava gli sembrava lo stesso
dell’infanzia, quando girava per la casa prendendo in mano tutti gli oggetti
che riusciva a raggiungere e li studiava con attenzione; il sorriso che faceva
aveva ancora una nota di tristezza, nascosta nell’angolo delle labbra, che
forse nessuno notava, ma che lui vedeva perché era lo stesso della sua mamma,
eppure era cambiato, anche se non avrebbe saputo descrivere come e in cosa.
Una
volta finito di mangiare le chiese di nuovo cosa facesse lì e la vide
incrociare le braccia dietro la schiena e respirare profondamente: ‹‹Vorrei
delle informazioni sugli Ingranaggi Sacri, se fosse possibile.››
Sorrise
un po’ confuso ma sollevato: per un secondo aveva creduto che fosse stata
Eleonore ad inviarla, per farlo ritornare a casa: si lamentava da molti mesi
delle sue assenze troppo lunghe, dicendo che avrebbe dovuto essere più
partecipe della vita della famiglia.
Le
disse di seguirlo e la portò al piano superiore, sbloccando l’incantesimo di
protezione per permetterle di entrare nella stanza ampia e luminosa dove
custodivano gli Ingranaggi. Salutò i suoi colleghi e presentò velocemente
Verity, per poi concentrarsi sulle due teche poste nel centro.
La
ragazza si avvicinò e sfiorò il vetro freddo con le dita, guardando con
attenzione mentre suo padre parlava. Una conteneva un ciondolo argenteo con un
pietra rossa, forse un rubino, come pendente, mentre nell’altra, appoggiato su
un cuscinetto di seta, vi era un bracciale dorato, spesso, del tipo che si
intrecciano lungo l’avambraccio fino quasi al gomito con varie gemme
incastonate: la più bella, che sembrava un enorme smeraldo, se indossata
sarebbe finita appena sopra il polso.
‹‹Sono
così banali?›› chiese ‹‹Mi aspettavo qualcosa di più grandioso, non so, uno
spadone lungo o uno scettro magari…››
‹‹Hanno
sorpreso anche me, ma così sono più semplici da studiare… Pensa come sarebbe
stato difficile analizzare la lama tagliente di una spada. È nelle piccolezze
che si trovano le cose importanti: se fossero state grandi come le avevamo
immaginate, adesso saremmo ancora a cercare un modo per capirle. I dettagli
minuscoli ci hanno aiutato molto… La collana si chiama Benihime, il bracciale
Hikarihime. Se… Se vuoi puoi prenderle in mano.››
Alcuni
ricercatori interruppero il proprio lavoro per lanciare uno sguardo preoccupato
a Victor, ma l’espressione senza insicurezze del loro capo li fece ritornare ai
propri dati con tranquillità. Due di loro aprirono le teche e misero gli
Ingranaggi nelle mani appena tremanti di Verity.
‹‹Cosa
sono? Di preciso intendo.››
‹‹Oltre
a fonti di energia? Non lo sappiamo ancora. I monaci mi hanno raccontato che se
vengono a contatto con le giuste essenze si animano e rivelano la loro vera
forma, ma non abbiamo trovato nulla che reagisca. Però mi piacerebbe davvero
scoprirlo: c’è poesia, equilibrio… Direi anche bellezza in loro. Chi le ha
portate qui, se davvero sono state portate ovviamente, doveva trovarsi in un
grande pericolo e non parlo della minaccia di Lucifero: concentrandosi a fondo
si può sentire vita dentro quelle pietre, energia che fluisce. Certe volte
penso che se riuscissimo a sfruttare tutto quel potere, potremmo fare grandi
progressi e curare meglio di quanto stiamo già facendo i disastri che ci hanno
lasciato i nostri antenati…››
Verity
stava ascoltando con interesse quando qualcosa la distrasse. Non sapeva come
fosse possibile e quasi neanche riusciva a crederci, ma sentiva quella forza di
cui suo padre parlava. Sembrava come un flusso di vita che dalle gemme entrava
direttamente dentro di lei, risvegliando qualcosa che era nascosto senza sapere
dove. Era qualcosa di vivo che donava vita, ma anche speranza e desiderio,
eppure c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutta quella magia, una
strana instabilità che non si spiegava in nessun modo e a cui suo padre non
aveva minimamente accennato, come se ad un certo momento quelle gemme sarebbero
potute esplodere diffondendo un miasma oscuro e demoniaco.
‹‹Sai
dirmi solo questo? Non avete fatto altre scoperte in tutti questi anni?››
‹‹È
imbarazzante ammetterlo, ma questo è tutto quello che abbiamo: due gioielli,
dei macchinari precisissimi e la nostra magia. Non sappiamo da dove arrivino
realmente o quale sia il loro scopo. Nessuna delle leggende sembra avere una
spiegazione razionale e scientifica o anche solo dettagli utilizzabili per le
ricerche, ci siamo solo noi con le nostre idee, spesso fallimentari.››
Perso
nel raccontare, senza averne coscienza, Victor si era avvicinato a Verity, ma
resosi conto di aver colmato la distanza che li separava quasi completamente,
si allontanò, stringendo le mani. Rimasero nel laboratorio ancora un po’ di
tempo, discutendo tra loro a voce bassa, ma alla fine Verity lo ringraziò e
andò via.
Le
piacque così tanto come si era svolta la giornata che finì per ritornare a
trovare il padre e i suoi collaboratori. L’ambiente era serio ma al contempo
appassionante, e spesso si sentivano battute e risate nelle stanze; la
conoscevano tutti e anche per entrare nella stanza degli ingranaggi non era più
vincolata a Victor, che molte volte rimaneva chiuso per lungo tempo nel suo
ufficio impegnato a cercare un qualsiasi appiglio per ottenere buoni risultati
con la ricerca. Era riuscita, anche se di sfuggita, a vedere gli zii tra una
pausa e l’altra, ma questi non le avevano parlato e lei aveva fatto
altrettanto, preferendo osservare le dolci reazioni imbarazzate del padre. In
certe occasioni le si avvicinava da dietro e le lasciava un carezza sulla
schiena per poi ritrarsi appena lei si voltava; spesso blaterava frasi a caso e
senza senso come “Ma dove sono le ventose
di questi polipi?” e arrossiva come un peperone quando si rendeva conto di
averle dette ad alta voce, zittendosi. Certo, era strano e particolare, ma
piacevole, e riusciva a vedere di che tipo di uomo si fosse innamorata sua
madre da giovane. Eppure non vedeva in Eleonore la donna che avrebbe potuto
renderlo felice e non perse l’occasione di chiedergli, la prima notte che
rimase con lui nel laboratorio, perché l’avesse sposata.
‹‹L’amavo
molto…››
‹‹L’amore
non scompare all’improvviso… Cos’è successo?››
Victor
era circondato di ricordi, indeciso se raccontarli o tenerli per sé, ma alla
fine prevalse il desiderio di accontentare la curiosità della figlia.
‹‹La
vidi per la prima volta a un congresso sull’ambiente: all’epoca ero solo il
segretario dell’ex-direttore ed ero molto più imbranato di adesso. Tenevo in
mano un pila di fogli che sarebbero serviti per la dimostrazione mentre altre
cinque o sei pile volteggiavano dietro di me e non vedevo bene cosa ci fosse
davanti. Ero quasi arrivato alla nostra postazione, intravedevo già il mio
capo, ma non notai tua madre e le andai addosso facendo cadere tutto quanto. Mi
aiutò a recuperare i fogli mentre il direttore teneva una mano sugli occhi,
rifiutandosi di guardare il disastro che avevo combinato.
Era
così bella quel giorno, delicata come una bambola e gentilissima… Fu un colpo
di fulmine per me, mi piace credere che lo sia stato anche per lei. Le feci la
corte ogni giorno, una corte spietata, e quando mi disse di sì, ignorai ogni
avvertimento di mia madre sul fatto che secondo lei la conoscessi troppo poco e
che fosse un matrimonio avventato e mal valutato. E i primi anni furono
probabilmente il periodo più bello della mia vita: non immagini la dolcezza, il
desiderio, la passione che condividevamo, ma anche il rispetto, la voglia di
creare qualcosa di reale insieme.
Poi
sei nata tu e mi sono risvegliato tutt’un tratto in un letto gelido, in una
casa senza allegria ma piena di lamenti e con una donna al fianco che non
riconoscevo più. Non era, non è, il mio posto quella villa immensa; non sono
mie quelle ricchezze che Eleonore ama tanto. Sapere che tu non eri la figlia che
desiderava mi ha fatto vedere quello che non avevo mai visto.››
‹‹Credi
sia sempre stata così?››
‹‹Non
saprei, forse. L’ho idealizzata troppo nel mio cuore, incidendo un ricordo che
ora sanguina, ma questo non significa che non l’ami più: è un amore diverso,
meno trascinante, ma più profondo. Lei ti ama, enormemente, ma non sarà mai in
grado di mostrartelo. Eppure non avrei voluto che soffrissi così tanto per
questo.››
Era
così evidente che fosse innamorato di Eleonore! Forse lui non se ne accorgeva,
ma per lei, che aveva visto Erald ed Emily insieme tanto tempo fa e aveva ben
impressi nella memoria ogni loro gesto, per lei era chiaro come la luce di una
candela nella notte. Ma a quella sensazione di ammirazione verso i sentimenti
di suo padre, si sostituì in pochi secondi un moto di irritazione e non riuscì
a tenere a freno le parole: ‹‹Potevi stare con me invece di piangerti
addosso.››
‹‹Non
sapevo come comportarmi,›› le disse ‹‹non lo so nemmeno ora e lo puoi notare da
sola senza che sia io a dirtelo. Tu non hai la magia e io non ho mai saputo se
usarla o meno in tua presenza, se ti avrebbe fatto sentire inferiore, diversa
dagli altri bambini.››
‹‹E
piuttosto che affrontare il dilemma con un esperimento, hai preferito lasciarmi
da sola? Questo mi ha fatto sentire diversa: dover comprendere, a soli cinque
anni, che non avrei mai avuto una famiglia come le altre ragazze mi ha davvero
fatto sentire inferiore e sola.››
Avrebbe
detto di tutto in quel momento, qualunque frase o parola che avesse potuto
farla tornare indietro per rivivere l’infanzia e comportarsi come il padre che
avrebbe dovuto essere. In quel preciso istante tutta la colpa che da vent’anni
assediava il suo animo esplose colpendolo dritto al cuore, chiudendogli lo
stomaco e lasciando la gola secca e la mente sgombra da pensieri. Verity la
percepì per intero e, forse, ne condivise addirittura una parte: non aveva mai
pensato che si sarebbe rivolta in quel modo a suo padre. Solo allora collegò
l’espressione enigmatica che ricordava fosse appartenuta al suo volto ogni
volta che si trovavano insieme alla paura di sbagliare e non all’indifferenza
nei suoi confronti.
‹‹Ogni
volta che ti vedevo andare via senza abbracciarmi, quando mi spingevi giù dalla
macchina per andare a scuola, quando non tornavi a casa per giorni e giorni, in
quei momenti ogni sogno infranto era più doloroso che mille colpi al cuore. Ora
però sei qui, sei al mio fianco: mi saluti e scappi via, parli a vanvera e
arrossisci. Ma sei qui e, alla fine, è l’unica cosa che conta, papà.››
Victor
si affacciò dalla finestra e vide la Cintura di Orione brillare nella notte. La
fissò senza nemmeno chiudere le palpebre: non voleva raffigurarsi gli occhi
della figlia nella mente, non desiderava neanche incontrarli nella realtà.
Avrebbero avuto la stessa sfumatura verde scuro, quasi nero, che aveva
percepito ogni volta che in passato l’aveva delusa o rattristata, perché anche
se parlava di un presente dove lui era lì, il passato non poteva essere
cancellato, e Verity avrebbe sempre portato dentro di sé il ricordo di un padre
assente e indifferente, incapace di rivelare i suoi sentimenti.
Verity
gli prese la mano, la strinse con forza imprimendogli sulle nocche il segno
degli anelli, e lui lo interpretò come un segno di fiducia, un incitamento a migliorare
per quel futuro che potevano condividere, cambiare e modificare a loro
piacimento fino a che non avesse raggiunto la forma dei loro desideri. Poi
rimasero abbracciati.
Verity
raccontò a Dakota tutto quello che si erano confessati in quei giorni. Dakota
sorrideva e annuiva, recitando abilmente la parte dell’amica sorpresa e
incredula: fin da quando aveva accettato di accompagnarla aveva saputo bene
come sarebbe terminata quella visita e anche per questo non aveva mai chiamato
Verity per farsi svelare i minimi dettagli che da sola non era riuscita a
immaginare. L’unico difetto di quella felice situazione era l’attenzione che
Verity poneva nelle parole con cui riportava i discorsi di Victor: c’era una
diffidenza appena palpabile che mai l’abbandonava, come se non fosse convinta
dell’intera faccenda. Poteva essere una sua sensazione, ma più Verity parlava e
più si persuadeva che non lo fosse.
‹‹Sai
che sei strana? Perché non ti vuoi fidare di lui? Non sto giustificando il suo
comportamento, sia chiaro, ma un poco riesco a capirlo; quando ti ho conosciuta
avevo anch’io la stessa paura di fare qualcosa di sbagliato e non sarebbe
assurdo se lui l’avesse ancora. Poi nemmeno mio papà era molto degno di fiducia
e pensa che adesso vivo con lui.››
‹‹Quanti
mesi ti sono serviti solo per mettere piede in quella casa?››
Rise:
le erano stati necessari sei mesi solo per trasferire tutta la roba che aveva
portato via e messo nella stanza di Verity e ci era voluto quasi un anno per
stabilirsi là definitivamente. Probabilmente non aveva così tanto diritto di
criticare come credeva, ma non per questo avrebbe smesso.
‹‹Situazioni
diverse. I tuoi non si lanciavano fatture oscure in salotto al posto di ben più
innocui cuscini. Dagli tempo e vedrai che sarà un ottimo papà, anche se in
ritardo.››
Verity
rise di tutto cuore, riconoscendo che la sua situazione si sarebbe sicuramente
trasformata in meglio, legandosi in un rapporto saldo.
Angolo dell’autrice
Buongiorno
a tutti! Aggiorno oggi con il nuovo capitolo, sperando che vi piaccia e che
abbiate voglia di lasciarmi una recensione.
Ringrazio
moltissime le persone che mi hanno lasciato il loro parere nei capitoli
precedenti e a tutti voi lettori silenziosi che avete letto. Sono felice che
leggiate J
Vi
chiedo scusa se aggiorno solo oggi, so di essere in ritardo di una settimana.
Quella appena passata è stata densa di impegni. Sono molto felice di dire che,
finalmente, la trama inizia ad avanzare con il primo, grande momento. Spero che
vi piaccia!
Un
grazie enorme alle due persone che mi hanno lasciato il loro parere, siete
stati meravigliosi. Spero che i lettori silenziosi abbiano voglia di lasciarmi
un parere, in caso contrario spero solamente che vi godiate la storia.
Un
saluto a tutti!
Nemamiah
Per
alcune settimane ogni momento fu per Verity pieno di gioia e allegria: i
pensieri tristi e i dubbi scivolarono nella nebbia più fitta e rimasero
invisibili a lungo.
Continuò
a vedersi con Victor quasi ogni giorno, osservandolo perdere via via imbarazzo
e timidezza. Si interessava alle sue esperienze, curiosando tra i ricordi di
vecchie gite e lezioni memorabili, divertendosi a coccolarla e ad ascoltarla
mentre raccontava. L’unico dispiacere che entrambi condividevano era la
mancanza di Eleonore: non erano riusciti a coinvolgerla nella loro relazione. Verity
non aveva neanche tentato in realtà, mentre Victor aveva provato a persuaderla
ad essere più partecipe ma aveva fallito senza ombra di dubbio.
Eppure
Verity si sentiva felice anche con un genitore solo anzi, per un po’ di tempo
sentì di non avere bisogno di null’altro per vivere appieno la sua vita,
relegando lontano l’essere stata costretta ad abbandonare gli studi per tornare
in quella casa vuota. Un giorno poi si chiese come stesse Scar e dove si
trovasse in quel momento.
Non
aveva più avuto sue notizie dalla fine del ballo, da quando lo aveva visto
eliminare tutti i suono dal mondo e tornare normale in pochi secondi.
Un
sera, distendendosi sul letto, affondò la testa nel cuscino, sbuffando: non era possibile sparire a quel modo. Nessuna persona, se di
persona si trattava, poteva esistere per una sera e scomparire completamente
dalla circolazione, pensava, soprattutto nell’ambiente scolastico dove si
sapeva sempre ogni dettaglio della vita di tutti. Ci pensò sopra per parecchie
sere dopo quella, sprecando il tempo prima di spegnere le luci con domande
senza risposta e congetture prive di logica.
Anche
la sera del sogno stava riflettendo: si addormentò prima di terminare anche un
solo ragionamento. Fu un sonno senza incubi, senza il volto di Lucifero a
popolarlo rendendo quasi reale il sogno precedente, ma risuonante di frasi per
lei incomprensibili.
‹‹Io penso che dobbiamo
imporre più regole… Non è possibile che non ci ascoltino. Dobbiamo intervenire
e non posso farlo da sola!››
Un’altra voce, più
squillante, replicò: ‹‹Ma sei tu che controlli l’Inferno. Lo conosci meglio di
chiunque altro…››
‹‹State zitte entrambe!
Mary, secondo te?››
‹‹Nulla, si aspetta. Senza
la terza guardiana è difficile anche per me capire cosa sia il caso di fare e cosa
no.››
‹‹Ma se sei tu la
guardiana!››
La
conversazione si interruppe in quel punto per Verity, lasciandola confusa e
spaventata al risveglio; in un luogo sconosciuto il dialogo continuava.
‹‹Non
sono più la custode di Eteria da una ventina d’anni carissime anzi, non ne ho
nemmeno più i poteri. Sono un banale, comune angelo… Con tutto il rispetto
possibile per i banali, comuni angeli del Paradiso.››
Un
angelo dalle ali simili alla tavolozza di un pittore, tanto erano colorate,
sgranò gli occhi e boccheggiò per lo stupore prima di rispondere: ‹‹Ma non
esistono angeli di nome Caliel! E non posso credere che lui sia nel giusto… Siamo senza guardiana e basta.››
‹‹Hariel!
Io non ero un angelo quando diventai guardiana, non lo fui per molti anni e
cara, lui ha un nome, è Lucifero, e sarebbe bello se tu lo usassi.››
Un
altro angelo, più tranquillo del primo, con i capelli neri prese la parola:
‹‹Potrebbe allora essere umana?››
‹‹Senza
dubbio… Care custodi, e tu in particolare Lelahel, vi decidete a svegliarvi?
Scar ne ha percepito l’aura appena questa si è fatta abbastanza forte, perché
voi no?››
‹‹Io
non sono brava a sentire le aure sulla Terra, sono troppe e così simili tra
loro che si confondono›› disse Hariel.
Lelahel
intanto fissava il bosco intorno alla radura, nel zona ombrosa e nascosta,
certa che Lucifero fosse lì ad ascoltarle, magari anche sorridendo soddisfatto.
Certo era strano che fosse umana, ma forse, considerando tutto, nemmeno poi
così tanto. Propose di chiedere a Scar, ma appena si avvicinò questo rivolse
loro un’espressione truce.
‹‹Lascia
perdere Scar, mia cara. Da quando ha scoperto che Lucifero le ha parlato, è di
quell’umore tetro e intrattabile.››
I
due angeli avrebbero volentieri replicato, ma l’arrivo di un angioletto con le
ali candide e uno sbuffo di neve sul naso fece loro rinunciare. Si sedette
sull’erba, lasciando intorno a sé un brina leggera e salutò la compagnia con un
sorriso cordiale: ‹‹Michele mi dice di richiamare la custode dell’Inferno e di
ricordarle che dovrebbe controllare i dannati e non chiacchierare qui... E che
i dannati stanno torturando alcuni Nephilim e vanno fermati.››
Lelahel
replicò che anche Lucifero sarebbe stato capace di porre fine alla tortura, ma
seguì lo stesso l’angioletto, facendo così terminare la conversazione.
Verity
si alzò di soprassalto, buttando le coperte da un lato del letto e respirando
affannosamente. Non bastava sognare che Lucifero le parlasse, doveva anche
sentire voci sconosciute nella sua testa‽ Camminò a piedi nudi sul
pavimento gelido e aprì la porta della camera, passandosi contemporaneamente
una mano tra i capelli per scostarli dal viso. Per poco non ruzzolò per tutta
la scalinata, mancò solo alcuni gradini. Tornò in stanza e premette più volte
l’interruttore, senza alcun risultato.
“Non c’è nessuno in casa e
non c’è la luce… Perché quando serve la magia non c’è mai‽”
Cercò
nei cassetti e nell’armadio una torcia per vedere qualcosa, ma si accontentò di
una candela e un paio di fiammiferi per accenderla. Scese di nuovo le scale con
le mani tremanti, la fiammella della candela illuminava debolmente i gradini
creando ombre sinistre in ogni angolo. Provò altri interruttori, ma nessuno sembrava
funzionare. Era strano…
Avrebbe
dovuto cavarsela da sola, ma in fondo, si disse, era solo un po’ di buio. E
allora… Cos’erano quel grattare leggero e quei mugolii bassi che provenivano
dalla cucina? Forse il suo cane?
La
luce della candela illuminava appena la porta della cucina e la cera le
gocciolava bollente sulle dita, doveva per forza entrare lì dentro per trovare
qualcosa su cui posarla, non avrebbe resistito molto al calore. Si accostò alla
porta e origliò. Quel rumore proveniva davvero dall’interno. Ebbe per un
secondo la tentazione di chiamare il suo cane ad alta voce, per assicurarsi
che, ovviamente, non ci fosse nulla da temere. Fu solo una tentazione perché
quando si rese conto che le stava leccando la mano, sentì il cuore fare una
capriola nel costato e salire fino in gola, bloccandosi.
Fissò
Kai con gli occhi spalancati dalla paura e mosse appena la mano libera,
poggiandosi l’indice sulle labbra nel chiaro segno di non fare alcun rumore.
Prese un respiro profondo, stringendo la presa delle dita sulla candela, e dopo
aver contato fino a tre entrò all’improvviso.
Se
non lo avesse visto con i suoi occhi, non avrebbe mai creduto al racconto
dell’esistenza di un essere simile. Sull’isola di marmo al centro della cucina era
seduta una piccola creatura con due ali minuscole che uscivano dalla schiena,
rosso porpora, con i bordi frastagliati e artigli arcuati e affilati.Appena si accorse di Verity, si alzò. Aveva
il corpo acerbo di una ragazzina, il viso ancora tondo circondato da una
criniera arruffata di capelli color cenere della stessa tonalità degli occhi in
cui si rifletteva la fiamma. Un lampo di crudeltà li attraversò. Si pulì le
mani dalle briciole nella canotta nera strappata e nei pantaloni.
Scese
con un piccolo saltello e la fissò curiosa, analizzandola come se potesse
vedere tutto di lei con una sola attenta occhiata. Piegava la testa a destra, a
sinistra, sovrappensiero, e sorrideva maligna mettendo in mostra i canini
brillanti.
‹‹La
mia preda è venuta da me… Il mio signore sarà felice di sapere che ti ho
eliminata tanto facilmente. Non muoverti, non soffrirai.››
La
candela scivolò dalla mano di Verity, spegnendosi, mentre lei correva fuori
dalla cucina e inciampava nel tappeto del corridoio. Nello stesso momento la
diavoletta le saltava addosso, facendole sbattere la nuca contro lo spigolo di
uno dei mobili in legno. Si azzuffarono, una cercando di liberarsi, l’altra
provando a catturarla. La ragazza demoniaca riuscì a sussurrare alcune parole
in una lingua sconosciuta e ammaliante nell’orecchio di Verity, che un secondo
dopo si ritrovò bloccata contro il muro, tenuta da una forza invisibile per il
collo.
‹‹Dimenati
pure, presto non riuscirai nemmeno più a respirare.››
Creò
una sfera concentrata di energia nel palmo della piccola mano e la scagliò
nella pancia di Verity, che urlando per il dolore si piegò su se stessa,
aumentando il senso di soffocamento. Fu solo il primo di una serie di attacchi
che lasciarono Verity esausta e senza fiato: ad ogni colpo emetteva un sospiro
sempre più sottile, un gemito sempre più flebile. Il petto era scosso da
singhiozzi sempre più forti per immettere aria nel corpo quando la stretta
mortale cessò.
Riuscì,
a fatica, ad alzare la testa quel tanto che bastava a vedere cosa fosse
successo.
Il
grosso cane peloso, che era scappato a nascondersi quando aveva aperto la porta,
era in quel momento seduto sopra la demone, scodinzolando a destra e a
sinistra, sbattendole la coda sulla sua faccia. Guardò a distanza, respirando
profondamente e a lungo. Kai si girò e iniziò a leccarle il viso e il collo
mentre lei si dimenava, cercando di spostarlo. Tremò sempre più forte, usando
tutta la forza bruta di cui disponeva, ma alla fine scoppiò in una risata
rauca.
‹‹Smettila
animale!›› Urlò tra una risata e l’altra ‹‹Lasciami andare, alzati!››
Anche
Verity rise debolmente e strisciando cercò di avvicinarsi. Sfiorò con la punta
delle dita la mano della diavoletta e questa si immobilizzò, rigida come una
statua di ghiaccio. Voltò la testa meccanicamente e la fissò negli occhi.
Un’infinità di emozioni li attraversavano, tali da dare a Verity la sensazione
di barcollare dal cornicione dell’ultimo piano di un grattacielo. C’erano
felicità e rimorso che si fondevano tra di loro, risentimento e gratitudine
bruciavano nella cenere delle iridi: sembravano gli occhi di un cieco che
vedesse il mare blu e la natura rigogliosa di un bosco per la prima volta, allo
stesso modo di chi dopo anni di oscurità finalmente tornava alla luce e alla
vita, alla pace. La diavoletta le prese la mano, stringendola appena, come se
fosse stata senza forze, e Verity si lasciò accarezzare, ipnotizzata dallo
sguardo calmo e agitato al tempo stesso.
‹‹Si
sbaglia… Non posso credere che si sia sbagliato per così tanti secoli.››
‹‹C-cosa?
Chi?››
‹‹Lui
ha paura di te, crede che lo imprigionerai di nuovo e invece tu… Tu mi fai
stare bene, mi fai sentire in armonia con me stessa e tutto il creato. Tu sei
Amore e nemmeno te ne rendi conto... Solo Lucifero ti ha vista per quello che
sei.››
La
diavoletta sorrideva, parlava lentamente scandendo le parole, scegliendole con
cura. Teneva la mano di Verity stretta nella sua e continuava a fissarla come per
rassicurarla, come per assicurarle che capiva perfettamente che le sue parole
non avevano senso per la ragazza.
‹‹Lui
ti aspetta da millenni: non lasciarlo solo.››
Una
lacrima rotolò sulla guancia di Verity e le cadde sulla mano, incontrando le
dita della diavoletta: in quel punto il corpo cominciò a sbriciolarsi. In pochi
secondi la carne si trasformò in cenere e scomparve con un inquietante
bagliore.
La
reazione di Dakota fu più che comprensibile, ritenne Verity, una volta finito
il racconto: occhi spalancati, bocca asciutta, respiro a scatti e totale
incapacità di articolare un pensiero razionale o di proferire parola per
qualche minuto. Le notizie più assurde, le avventure più spaventose e terribili
fanno sempre un effetto strano su chi le ascolta, se vengono raccontate con
calma e senza farsi prendere dall’ansia di dire tutto subito. Diventano come
fotografie di una storia dell’orrore, non lasciano niente sul momento ma bastano
pochi secondi per riconoscere e riconsiderare i particolari agghiaccianti. E
lei di particolari del genere ne aveva abbastanza.
Fiduciosa
nell’amica l’aveva chiamata: aveva bisogno di aiuto e cure e non poteva pensare
che sua madre o, peggio, suo padre potessero trovarla riversa a terra in quelle
condizioni. Dakota l’aveva guarita ma aveva anche preteso una spiegazione più
credibile di un banale “Sono caduta per tutte le rampe di scale della casa fino
al piano terra”.
‹‹Quindi,
tu mi stai dicendo che una diavoletta si è introdotta a casa tua, ha cercato di
ucciderti, sei sopravvissuta per puro miracolo, si è pentita e l’hai trasformata
in polvere?››
‹‹Direi
di sì, Dakota.››
‹‹Verity,
sarò sincera e non ti giudicherò, quali droghe hai provato? Non esistono, non
possono accadere cose del genere e tu… Tu sei senza magia, perché attaccare
te?››
Dakota
camminava avanti e indietro per la sala, agitando le mani: non riusciva a
parlare stando ferma né a controllare il volume della voce che aumentava di
parola in parola. La guardò negli occhi: ‹‹Ho dubbi sulla tua lucidità, tanti,
ma non mi hai mai mentito prima e io mi fido di te, ciecamente. Quindi mi sto
sforzando di crederti, ma spero davvero che non ci sia altro, non so se
riuscirei a sopportarlo.››
Verity
l’abbracciò goffamente, le braccia e le spalle doloranti nonostante le cure. Il
silenzio della ragazza stimolò le riflessioni di Dakota, che collegò tutti i
suoi dubbi: ‹‹Non dirmelo, non dirmelo! Non posso credere che ci sia davvero
altro!››
Verity
coprì le mani con le maniche della maglia, arrossendo a quell’accusa che sapeva
essere vera e accennò con un sussurro alla conversazione avuta con Lucifero in
sogno. Dakota respirava profondamente, ma gli occhi scagliavano fulmini e la
ragazza non riuscì a trattenere la rabbia. Urlò, furiosa come forse poche volte
era stata. Le aveva deliberatamente nascosto ogni cosa, ogni stranezza
accadutale solo perché aveva paura che l’avrebbe scambiata per una pazza
visionaria. Avrebbe dovuto sapere che i sogni, le visioni e le voci non erano
la normalità tra i maghi e che rappresentavano una preoccupante attività che da
tenere sotto controllo. Non le aveva confidato nulla delle sue ansie e
indecisioni quando invece le avrebbe accolte, come aveva fatto poco tempo prima
con la “finta caduta dalle scale” e avrebbe cercato di aiutarla. Erano amiche da
anni, si conoscevano meglio di chiunque altro e forse avrebbe potuto immaginare
che le stesse accadendo qualcosa di strano e particolare, ma mai l’avrebbe
forzata a rivelarlo. Avrebbe aspettato i suoi tempi se solo le avesse detto,
almeno, di avere dei problemi. Avevano vissuto insieme ogni genere di
esperienza tra dolori, speranze, allegrie, e poi i pianti, lo studio, le
risate, le porte chiuse contro cui si erano scontrate e quelle che avevano
aperto e spalancato insieme. Erano cresciute insieme; si erano corrette a
vicenda i difetti e lodati i pregi, confessandosi tutte le passioni e gli
hobby, anche quelli più assurdi e bizzarri che le facevano vergognare, e si
erano sempre accettate; avevano litigato altre volte per questioni stupide e
infantili ma mai, mai, si erano mentite. Dakota credeva fermamente che il loro
legame, il filo che avevano tessuto, fosse più resistente del diamante e non
effimero come il fumo del carbone.
‹‹Me
ne vado. Non ti ripresentare fino a che non avrai visto quanto sei falsa e
ipocrita, Verity! Non avremo mai più nulla da condividere fino a quel giorno.››
Costruire
qualcosa con le proprie mani è sempre difficile. Un lampadario di cristallo,
creato da un singolo artigiano, rappresenta un esempio di procedimento lungo e
complesso. Si deve creare un centro che regga il peso, che sia solido ma
piacevole alla vista; lavorare i bracci affinché siano eleganti e sembrino
leggeri e slanciati; inventare un intreccio dove verranno inserite le sfere di
cristallo più piccole che riflettano la luce omogeneamente; posizionare le
gocce e le sfere più grandi, pendenti, per ottenere la migliore illuminazione
possibile. Poi deve essere mantenuto: è necessario lucidarlo spesso perché
altrimenti la polvere coprirebbe gli arcobaleni e la rifrazione sarebbe come
sporca, contaminata, corrotta. Eppure basta un filo allentato, un punto fissato
male, un colpo accidentale e il lampadario precipita e con lui anche la
bellezza, la luce, la soddisfazione.
Anche
le amicizie possono incrinarsi e perdersi e precipitare. Si dice che sia raro,
che gli amici sinceri non si allontanino mai realmente e si portino via una
minuscola parte del nostro cuore che nemmeno sappiamo di possedere e quando
tornino la restituiscano. È vero, l’amicizia non termina mai. Per quanti torti
possiamo aver subito, per quante delusioni possiamo aver sopportato, per quante
manchevolezze possiamo aver ignorato, quella fiammella leggera che ci rende
caro chi sta andando via continua ad ardere. Niente sostituisce la vertigine,
la sensazione dell’oblio oscuro della solitudine che avevamo scordato in
compagnia e che si torna a sentire scorrere nelle vene; l’insicurezza mischiata
con l’orgoglio, la rabbia mista alla vergogna. Quando l’amico più caro che
abbiamo si allontana, nulla rimpiazza il vuoto, nemmeno la certezza che un
giorno tornerà per restituirci il cuore che ci ha rubato.
Verity
guardava Dakota mentre attraversava il giardino, inciampando sulle sporgenze
del terreno, e sentiva una corda tendersi tra le loro anime, diventandosi
sempre più tesa e dolorosa man mano che l’amica si allontanava. Si sorprese nel
non percepire il suono filaccioso della lacerazione e sospirò di sollievo, già
così era abbastanza doloroso, ma non riusciva a frenare le lacrime che
scendevano copiose dalle guance e si infilavano nel collo della maglia.
Per
alcuni le tempeste più spaventose sono interne, coinvolgono il cuore e la
mente; catturano lo stomaco, lo chiudono, mentre il cervello interrompe il
pensiero e i singhiozzi si susseguono togliendo il respiro.
Si
spostò dalla finestra e si raggomitolò sulla poltrona, poggiando la testa sulle
ginocchia e cingendole poi con le braccia. Si rimproverava di non aver detto
nulla, di non aver chiesto aiuto quando era ancora in tempo, quando avrebbe
potuto addirittura ottenere delle risposte soddisfacenti. Invece era di nuovo
sola con le sue domande. Certo, poteva confidarsi con il padre o con il nonno,
ma non voleva coinvolgere qualcun altro in quell’assurda esperienza né essere
giudicata a causa di essa. Non voleva altro che rimpiangere i propri errori e
consumarsi nel rimorso fino a che tutte le lacrime non fossero evaporate. Per
una volta fu contenta di essere a casa sola, senza nessuno che potesse
consolarla o condividere la sua sofferenza: quel dolore era solo suo e nessun altro
avrebbe dovuto conoscerlo. Si dondolò avanti e indietro, cullandosi con quel
lento ma ritmato ondeggiare, e si alzò solo quando si sentì abbastanza calma da
non scoppiare di nuovo in lacrime, tornando nella sua stanza. Sorrise solo per
un secondo quando sentì il primo tuono e una pioggia scrosciante cominciò a
cadere: il cielo, senza saperlo, era partecipe delle sue angosce.
Dakota
trascorse il resto della giornata in silenzio, arrabbiata con Verity e con il
mondo, ma la mattina seguente si svegliò con la testa pesante e un sapore amaro
in bocca, il gusto delle parole sbagliate e ingiuste, e decise di rimanere a
letto, facendo preoccupare suo padre per la sua salute.
Si
sentiva in colpa e un’amarezza di cui non riusciva a percepire la profondità le
appesantiva il cuore ripensando alla conversazione con l’amica. A mente lucida
riconosceva di aver commesso un errore che non sapeva come riparare.
Verity
era sempre stata restia a confidarsi e a condividere, anzi era molto
introversa. Preferiva chiudere i sentimenti a chiave nel cuore e nella mente
per metabolizzarli, lentamente ma dolorosamente, da sola e solo qualche volta
era riuscita a cogliere una sfumatura delle sue emozioni nei dipinti e nei
quadri. Certo piangeva, e anche tanto, ma, pur essendo lacrime sincere,
raramente erano quelle che aveva bisogno di versare per liberarsi. Però
rimaneva lo stesso la persona che la conosceva meglio di chiunque altro e anche
se si era sentita delusa, tradita, ferita nel profondo, non avrebbe dovuto
accusarla né allontanarsi da lei con una frase tanto definitiva quanto
pronunciata d’istinto. Doveva trovare un modo per riconciliarsi, ma nessuna
idea le pareva adatta. Verity non avrebbe mai accettato di rivederla e sarebbe
scappata via come un uccellino se l’avesse seguita e fermata per scusarsi.
Nei
giorni successivi, a scuola, non riuscì a prestare attenzione alle lezioni. Scrisse
idee e le cancellò prima di terminarle, scartandole: nessuna era abbastanza
efficace o soddisfacente o attuabile. Era sempre sovrappensiero, tanto che i
suoi compagni iniziarono a preoccuparsi, chiedendole spesso se stesse bene o
fosse invece ammalata. Camminando per i corridoi fissava insistentemente il
foglio su cui scriveva, pensierosa, o controllava se c’erano messaggi o chiamate
che non aveva sentito sul telefono. Non guardava neanche dove camminasse e
senza accorgersene inciampò nei piedi di Scar, che dormiva sempre nel cortile
interno e che era, stranamente, ricomparso. Alzandosi lo guardò stralunata e
pensò che lui potesse essere l’idea migliore di tutte: nell’arco di pochi
secondi pianificò qualcosa da cui Verity non sarebbe sicuramente potuta
scappare.
‹‹Scar,
ciao, sei libero sabato pomeriggio?››
‹‹Scusa,
ci conosciamo?››
Il
tono di lui era infastidito e scortese ma, in fondo, a chi piace essere
svegliato da qualcuno che inciampa nei tuoi piedi e che nemmeno conosci?
Dakota
lo prese per un braccio, tirandolo e obbligandolo ad alzarsi. Gli diede qualche
breve informazione su chi fosse e sul perché dovesse aiutarla. Gli raccontò a
grandi linee cosa fosse accaduto, tralasciando i dettagli, e gli spiegò la sua
improvvisa idea.
‹‹È
un’idea stupida, non funzionerà mai…››
‹‹Cosa
ti importa che sia stupida o meno? Deve solo funzionare e tu non dovrai
faticare così tanto, devi solo portarla fuori.››
Scar
sbuffò, ma alla fine acconsentì ad aiutarla, più che altro per non sentirla
parlare ancora. Dakota lo abbracciò e si allontanò di corsa, lasciando cadere
dalle mani i fogli delle idee scartate e tirando fuori il telefono per organizzare
ogni cosa. Scar però li raccolse e li lesse attento: erano tutte belle
proposte, anche più belle di quella che aveva accettato. Ognuna di loro avrebbe
avuto la stessa possibilità di successo e forse più di quell’ultima, ma era
interessante per lui vedere come gli umani cercassero sempre di ricostruire ciò
che essi stessi distruggevano. Avevano una perseveranza nelle relazioni che non
riusciva a comprendere, che per lungo tempo aveva creduto non potesse esistere.
Mise i fogli in una delle tasche posteriori dei pantaloni e andò a cercare
Verity in biblioteca, certo che si fosse nascosta lì.
Non
era particolarmente amante delle uscite anzi, da quando era sulla Terra non era
mai uscito con nessuno, ma sarebbe potuta rivelarsi una buona occasione per
studiare meglio la ragazza ed essere certo che fosse proprio lei. La trovò nel
punto più isolato, seduta sul davanzale della finestra, con la testa poggiata
sul vetro freddo: leggeva un libro sottile, con la copertina scura, ed era
tanto concentrata che non si sarebbe accorta di lui se non le avesse posato una
mano sulla spalla mentre la salutava.
‹‹Lasciami
sola. Ho litigato con un’amica e non voglio parlare con te, che riappari all’improvviso
senza nemmeno avere la decenza di scusarti.››
‹‹Non
avresti voglia di sfogarti con me? ››
Verity
mise un dito in mezzo al libro come segno e lo chiuse, voltandosi poi dalla sua
parte: ‹‹Preferirei delle scuse prima…››
‹‹Non
volevo scomparire, ma dovevo farlo per ragioni che non posso spiegarti. Scusami.
Ora… Come mai avete litigato?››
Verity
accennò una risata, trattenendosi: ‹‹Le tue scuse sono pessime, ma le accetto
lo stesso… Non le ho raccontato alcuni fatti strani che mi sono accaduti e lei
l’ha presa come falsità e mancanza di fiducia verso di lei.››
‹‹È
così?››
‹‹Assolutamente
no!›› si mise una mano sulla bocca, consapevole di aver alzato troppo la voce. ‹‹Ma
allo stesso tempo ho paura di confidare tutto perché temo il giudizio degli
altri. Non dovrei, lo so, ma non riesco ad evitarlo e allora sto zitta e mi
tengo ogni cosa dentro, cosicché nessuno si preoccupi per me.››
Scar,
in piedi, la fissava con interesse, chiedendosi come facesse un essere tanto
piccolo a contenere così tanta insicurezza. Era incredibile ai suoi occhi come,
nonostante la paura e la bassa autostima, andasse avanti con la vita,
affrontandola ogni giorno, senza affogare.
“Forse, un giorno, sarà un
buon angelo.”
Non
avrebbe dovuto pensarci, non avrebbe dovuto sperare o commentare, ma era sceso
lì espressamente per controllarla e capire se davvero poteva sostituire Mary. Ogni
tanto capitava che la paragonasse a qualcuno che conosceva, ma la trovava
sempre migliore. Guidò i suoi pensieri sulla missione che si era prefissato:
non doveva lasciarsi distrarre.
‹‹Devi
rilassarti e scordarti per un giorno della situazione›› disse ‹‹così ti
sentirai meglio. Perché non vieni con me all’inaugurazione del parco dei
divertimenti?››
Verity
si stupì dell’invito ma accettò, quasi convinta che avesse davvero bisogno di
svagarsi come diceva lui. Quel giorno si sarebbe divertita e avrebbe sommerso
Scar di domande camminando da un’attrazione all’altra. Lo ringraziò e riprese a
leggere.
Ritornò
a casa solo dopo essersi accordata con Scar per l’orario e si sorprese nel
trovare le luci accese e la porta aperta. Sperò che sua madre non stesse
tentando uno dei suoi esperimenti culinari, perché erano sempre finiti male.
Certe volte si era addirittura chiesta perché una persona dotata di magia
dovesse cucinare manualmente, ma probabilmente doveva essere un’abilità di cui
vantarsi con le amiche che non ne erano in grado. Poi aveva smesso di porsi
domande, vedendo che, nonostante tutti i tentativi falliti, non aveva imparato
nulla. In realtà, a parte suonare il piano, Eleonore non era capace di fare
altro.
Verity
aprì lentamente la porta della cucina, per non fare rumore, e sbirciando
riconobbe sua madre che cercava di impastare qualcosa. La richiuse e camminò in
punta di piedi fino alla soffitta, dove si concesse un sospiro di sollievo; non
aveva davvero voglia di rovinarsi la serata, e lo stomaco, con gli esprimenti
fallimentari della madre.
Io,
nonostante i ritardi dei treni, i laboratori infattibili e la neve che cade
sempre troppo lontana dal luogo in cui mi trovo, sto abbastanza bene. Il Natale
si avvicina giorno dopo giorno e il mio migliora di conseguenza. Il 25 sarò un
concentrato di euforia, allegria e cioccolata nelle vene al posto del sangue.
Mi
spiace che gli ultimi due capitoli non abbiano ricevuto nemmeno una recensione,
più che altro perché non so dove sto sbagliando, ma spero che questo vi piaccia
e che abbiate voglia di lasciarmi un parere, per quanto piccolo.
Un
saluto e un bacione a tutti voi che leggete!
Nemamiah
I
giorni che la separavano dall’appuntamento con Scar trascorsero velocemente e
Verity si ritrovò quasi senza accorgersene affacciata alla finestra in attesa
del suo accompagnatore. Quando il campanello suonò aveva appena deciso che
avrebbe mangiato qualcosa per colazione, ma rinunciò per non farlo aspettare.
Non
credeva che avrebbero viaggiato con la smaterializzazione, ma le piacque molto come
magia: era più veloce e meno fastidiosa per lo stomaco, anche se più pericolosa
del teletrasporto perché poteva capitare di ritrovarsi con un braccio al posto
della gamba, o con i capelli o gli occhi o addirittura i cervelli scambiati se
il mago non era davvero abile. Per questo era vietata a tutti i maghi al di
sotto dei trent’anni. Non chiese nulla a Scar, anche se era ovvio dal viso che
lui ne avesse molti di meno.
Mentre
Verity rifletteva sul caso, scambiando poche parole cortesi con Scar, questo osservava
con attenzione la folla, sperando di trovare Dakota e di andare via il prima
possibile: quel luogo non era per niente adatto a lui. Era troppo caotico,
quasi tutti urlavano per poter parlare tra di loro e i bambini piangevano
disperati, stanchi della coda.
Quando
si videro a vicenda, la ragazza si avvicinò.
‹‹Scar,
Verity, che sorpresa trovarvi qui!››
Dakota
era in compagnia del suo fidanzato e gli stringeva la mano.
Se
la voce squillante di Dakota non fosse bastata a far sì che Verity volesse allontanarsi,
la faccia complice di Liam era un ottimo incentivo. Il ragazzo però si
appiccicò a Scar, coinvolgendolo in una conversazione sulla magia cui Verity
non avrebbe mai potuto partecipare. Lei aveva sperato, ogni secondo di ogni
giorno successivo all’invito, in una giornata all’insegna del divertimento e
dell’allegria, e invece si ritrovava bloccata in una melma di tensione: giocare
alle “finte coppiette felici” non era mai stato il suo programma.
Nessuna
attrazione sembrava minare la parlantina di Liam: si lamentò della nausea
appena sceso dall’ottovolante ma continuò a parlare; la giostra delle tazze gli
fece girare la testa ma non smise di porre domande a Scar. Non c’era verso di
farlo smettere e la pazienza di Scar, nell’arco di poche ore, scomparve come
fumo. Quando si fermarono di fronte alla ruota panoramica, Scar vide la sua
opportunità di liberarsi di Liam e spinse le due ragazze dentro una delle
cabine, abbandonando poi il ragazzo con un brusco saluto.
Entrambe
guardavano fuori dal vetro, tese e allo stesso tempo imbarazzate: Dakota, che
si era preparata un discorso, non sapeva come cominciare e ogni parola che
avrebbe dovuto dire le sembrava sbagliata; Verity guardava fuori e basta,
decisa ad aspettare e a passare l’intera mezz’ora del giro in silenzio se fosse
stato necessario. Si sentiva morire dentro al pensiero di quello che stava
facendo, a come la stesse ignorando, ma non avrebbe parlato quella volta: aveva
la sua parte di colpa in quel litigio, ma di chiedere scusa per prima nemmeno a
parlarne. Malediceva Scar nella mente, capendo che quell’uscita era stata
programmata da Dakota e che non aveva nulla di spontaneo da parte sua, e si
ripromise di vendicarsi in qualche modo, magari portandolo a fare qualcosa di
triste e noioso.
Improvvisamente
percepì un leggero profumo di cioccolata. Cercò di ignorarlo, ma piano piano
diventò sempre più intenso e non voltarsi verso Dakota divenne sempre più
complicato. Pensò che avrebbe potuto girarsi, non sarebbe sembrato un segno di
resa o di perdono anzi, non avrebbe significato nulla.
Dakota
le stava porgendo un terzo della tavoletta e lei la prese, voltandosi di nuovo
verso il vetro, notando il suo viso riflesso, con le guance rosse e gli occhi
lucidi.
‹‹È
tutta opera mia. Ho obbligato Scar a invitarti, ma ha recitato molto bene,
sembrava davvero felice di essere con te. Glielo si leggeva negli occhi. Però
volevo trovare un modo per riappacificarmi e nessuno di quelli che avevo ideato
sembrava efficace…››
‹‹Avrei
dovuto immaginarlo.››
‹‹So
che è stato un colpo basso coinvolgerlo, ma mettiti nei miei panni: non mi
avresti mai parlato e questa ne è la dimostrazione. Preferisci guardare quel
vetro che me.››
‹‹Almeno
riflette.››
‹‹Questa
freddura non è degna di te›› disse ridacchiando ‹‹ma è abbastanza vera. Non ho
riflettuto. Non ho pensato che quelle parole avrebbero potuta ferirti così nel
profondo; che non ti saresti avvicinata a me per giorni, ignorandomi anche
quando scorgevi i miei occhi fissi nei tuoi. E avrei dovuto sapere che avresti
reagito così, come avrei dovuto capire da sola che se non mi avevi detto nulla
prima, era perché non ti sentivi pronta. Probabilmente nemmeno io ero pronta ad
ascoltarti, ma potrei esserlo adesso: sarà difficile perché me la prenderò ogni
volta che mi rivelerai un nuovo segreto, ma mi impegnerò a comprendere. Sarò
nel posto giusto, al tuo fianco, ad aiutarti in ogni modo possibile, senza
giudicarti né inveire contro di te. Ho sbagliato a scappare via dopo averti
accusato di essere un’ipocrita, non lo sei e non serve che sia io a dirtelo, lo
sai da te. Ho sbagliato e sono giorni che il senso di colpa mi tortura. Puoi
perdonarmi?››
Verity
si voltò verso di lei e la vide sconsolata come mai era stata: quando si era
rifugiata da lei a causa dei litigi dei genitori era infuriata con il mondo,
pronta ad esplodere con chiunque le desse fastidio. Adesso era diverso. Aveva
gli occhi lucidi, come i suoi, e sapeva perfettamente che fosse pentita di ogni
parola, di ogni gesto. Lo stesso provava lei, meno acuto e doloroso; diverso nella
forma ma uguale nella sostanza. Era triste allo stesso modo, sola ugualmente.
‹‹Ti
ho perdonata nel momento in cui mi hai voltato le spalle, lo sai, e una parte
di colpa è mia. Ho preteso che tu comprendessi i miei dubbi e le mie paure
quando nemmeno io ero in grado di dire con precisione perché non volessi
parlarti di questa storia assurda. Possiamo dividere le colpe, anche se tu ne
avrai sempre di più per me. Ma non posso evitare di volerti con me: sei tutto
quello che di fisso sia mai esistito nella mia vita; l’unica che mi è sempre
gravitata intorno nonostante in certi momenti diventassi insopportabile. Adesso
però… Potremmo finire quello che avevamo iniziato, non credi?››
Dakota
sorrise, saltando addosso a Verity, e quasi la stritolò nel suo abbraccio,
chiedendole ancora scusa almeno un centinaio di volte, fino a quando non
scesero dalla cabina della ruota.
All’ingresso
trovarono Liam, che si lamentò di come Scar l’avesse abbandonato bruscamente lì
ad aspettarle.
‹‹Amore,
ascoltami, Verity ed io adesso dobbiamo proprio andare via. Ti spiace se ti
lascio tutto solo a goderti le giostre mancanti?››
‹‹No,
però...››
Dakota
lo baciò su una guancia e si allontanò in fretta, prima che Liam capisse
esattamente cosa implicassero le sue parole. Non che fosse uno sciocco,
tutt’altro, ma alcune volte Dakota sfruttava la dolce tranquillità che lo
faceva ragionare con calma. Finiva così per lasciarlo solo a pensare mentre lei
era già molto lontana. Non si comportava spesso in quel modo, non le piaceva,
ma l’amicizia con Verity era più importante dell’amore per Liam e se avesse
speso il suo tempo a cercare di spiegargli il perché, avrebbe perso l’intero
pomeriggio e forse anche la serata: l’elenco di tutte le motivazioni sarebbe
stato troppo lungo.
Scar
invece, nascosto nell’ombra, le osservò andare via.
Aveva
pensato di scomparire subito dopo aver mollato Liam per strada, ma anche che
sarebbe stato interessante vedere come si sarebbe risolto il litigio tra le due
ragazze. Si scoprì a fissarle con invidia, rivedendo in quella coppia ciò che
erano stati un tempo molto lontano lui e suo fratello. Erano stati affiatati,
complici, fratelli e amici al tempo stesso; si erano confidati a vicenda ogni
strana idea che avevano e proprio a causa di una confidenza si erano
irrimediabilmente divisi.
Scosse
la testa per scacciare tutti i ricordi, sia quelli felici che rimpiangeva sia
quelli tristi, e si concentrò solo su Verity.
Umana a tutti gli effetti
o angelo?
Pensandoci,
somigliava davvero a Mary e forse era vero, aveva tutti i suoi poteri, ma
allora perché non sentiva nulla di quello che si stava diffondendo sulla Terra?
Decise
di aspettare ancora un poco, poi sarebbe intervenuto. Nel frattempo richiamò la
sua scia magica e vi scomparve all’interno, certo che nessuno lo avrebbe
notato.
Le
ragazze erano uscite dal parco e con un semplice teletrasporto si erano
ritrovate all’interno della camera di Dakota, e ancora una volta Verity espresse
la sua invidia per quell’utile magia, aggiungendo però quanto fosse stata
incredibile la smaterializzazione di Scar.
‹‹Ma
non ha trent’anni.››
‹‹Questo
non significa che non la sappia fare.››
‹‹Mio
Dio, non voglio immaginare la tua testa sul corpo di Scar o quale altra assurda
combinazione sarebbe potuta uscire se avesse fatto il minimo errore: sei stata
fortunata ad uscirne tutta intera. Non voglio sentire parlare di quella magia,
abbiamo ancora cinque anni di attesa e non ho intenzione di passarli a
crogiolarmi nella depressione: finisci il tuo di racconto, invece.››
Verity
annuì, anche se si dispiacque nel realizzare che lei, quella magia, non
l’avrebbe mai eseguita.
Raccontò
lentamente, ogni ricordo ma dosandone l’effetto: l’abito che indossava la sera
della festa e la sensazione di gelido calore mentre era sola con Scar; la
distesa di sangue e morte del sogno e i volti nella fossa; le lacrime di
Lucifero e la donna che aveva le sue stesse sembianze; le voci che aveva
sentito nell’altro sogno, che discutevano su una guardiana; la diavoletta che
prima l’aveva attaccata per ucciderla e poi le aveva chiesto di non abbandonare
Lucifero.
‹‹Cosa
centri tu con tutto ciò? Sei senza magia, non ha senso.››
‹‹Nulla
ha senso dell’intera storia, ma c’è un altro particolare, e questo è strano
davvero, forse più di tutto il resto. Nel laboratorio, mio padre mi ha lasciato
tenere in mano i due Ingranaggi contemporaneamente: ho sentito qualcosa.
Emanavano vita, speranza, le sentivo scorrere nelle mie vene e, allo stesso
tempo, c’era qualcosa di instabile, come se potessero esplodere da un momento
all’altro in qualcosa di terribile.››
‹‹Ne
hai parlato con tuo padre?››
Verity
scosse la testa per negare: non voleva diventare parte dell’esperimento, non
più di quanto già non fosse, quanto meno. Dakota si ritrovò d’accordo con lei,
in parte, ma allo stesso tempo era spaventata all’idea di non dire nulla. Per
quanto la situazione fosse assurda e incredibile, era anche spaventosa e
innaturale: erano accadute troppe anomalie una dopo l’altra per essere solo una
serie di coincidenze. Era paradossale e folle pensare che si fosse messo in
moto un qualche strano meccanismo, ancora sconosciuto, ma non riusciva a
eliminare quell’idea dalla mente, troppo ingombrante.
Pensò
che se avesse esposto quel pensiero a Verity l’avrebbe fatta preoccupare e
agitare più di quanto non fosse già, e allora lo tenne per sé, deviando
l’attenzione sui piccoli cuscini nascosti dietro la schiena dell’amica. Ne
sollevò uno in silenzio, continuando a fingere di riflettere e lo lanciò sulla
nuca dell’amica. Certo, pensare era importante ma anche divertirsi e svagarsi
sinceramente poteva rivelarsi utile.
‹‹Non
vale attaccare mentre l’altro è distratto e di spalle però!››
Verity
recuperò un cuscino da terra e provò a lanciarlo contro Dakota, ma questa si
fece scudo con quello che teneva in mano, per poi colpirla contemporaneamente
con altri due, facendoglieli volare addosso non troppo forte.
Iniziò
una battaglia dove Verity capì subito di essere svantaggiata e cercò di
sfruttare tutti i momenti in cui Dakota abbassava le difese magiche o la
colpiva di sorpresa: fu l’unica a spostarsi per la camera, riparandosi dietro
tutto quello che trovava, mentre l’amica rimaneva seduta comodamente sul letto.
Le risate che nascevano ad ogni colpo andato a segno, dall’una o dall’altra
parte, crebbero velocemente nel volume, rimbombando lungo la scala a chiocciola
ed entrando nella sala, dove Erald stava disegnando nuovi modelli,
fischiettando allegro.
Suonò
il campanello ed Erald si mise la matita dietro l’orecchio, andando ad aprire.
‹‹Eleonore,
cosa fai qui? Non ti si vede mai in questa parte della città.››
La
donna batteva velocemente la punta del piede per terra. Si lisciò un lungo
ciuffo, inserendolo con un dito nella complicata acconciatura.
‹‹Vivo
in un quartiere completamente diverso da questo, è ovvio che non mi si veda
mai. Comunque sono venuta a prendere mia figlia, lasciami entrare, Erald.››
‹‹Dai,
Eleonore! Le loro risate si sentono fin dalla strada: lasciala dormire qui. La
riporto a casa domani.››
La
donna lo fulminò con gli occhi, prendendo un respiro profondo: ‹‹Non la lascerò
qui consapevolmente: domani sera c’è la festa per la fondazione della città.
Dobbiamo preparaci e anche tua figlia dovrebbe farlo, so che il sindaco l’ha invitata.››
‹‹Sì,
un onore inaspettato ma gradito. Rimane il fatto che Verity non sia la tua
bambola, lasciala divertire! So che desideri solo il meglio per lei, ma se ti
continuerai a comportarti come so, finirà per credere il contrario.››
‹‹Fammi
entrare, Erald. Non voglio litigare, non ora e non con la possibilità che tua
figlia ci ascolti: ha già visto troppa violenza per essere così giovane.››
L’uomo
sgranò gli occhi e si fece da parte per lasciarla passare, scuotendo la testa
sconsolato quando la vide salire la scala a chiocciola ed entrare nella stanza
della figlia.
Dakota
e Verity interruppero la loro battaglia con i cuscini e la prima li liberò
dalla magia con cui fluttuavano all’improvviso: sfortunatamente uno cadde in
testa a Eleonore. La donna emise un gridolino di spavento, ma disse lo stesso a
Verity di uscire dalla stanza e tornare a casa con lei. La ragazza salutò
l’amica e si avviò fuori. Coprirono l’intera distanza tra le due case con un
preciso teletrasporto che lasciò la giovane nella sua stanza.
Verity
lesse sul biglietto lasciatole sul letto che avrebbe dovuto essere di fronte
alla porta di casa la mattina successiva. Sbuffò irritata e lanciò il pezzo di
carta nel cestino.
Perché
sua madre si ostinava a cercare di manovrarla come un burattino? Era andata a
prenderla solo perché ci sarebbe stata quella stupida festa, non perché fosse
preoccupata per lei: allora perché avrebbero dovuto passare l’intera giornata
insieme? L’avrebbe usata solo per fare una bella impressione sui ricchi maghi
presenti, o magari l’avrebbe spinta a fare amicizia con i loro figli nonché
eredi.
Alla
fine riprese il biglietto stropicciato dal cestino e lo distese sulla gambe,
lisciandolo e rileggendolo. Lamentarsi da sola non sarebbe servito a nulla e
fare felice sua madre avrebbe diminuito l’irritazione per tutta quella
mascherata.
Si
fece trovare al piano terra con indosso il vestito azzurro pastello che era
apparso nell’armadio quando lo aveva aperto e anche se non si era pettinata
bene i capelli, lasciandoli un po’ disordinati, Eleonore sorrise quando la vide
e poi la portò in un piccolo angolo di paradiso.
Erano
in uno dei pochi caffè del centro dotati di un cortile interno, dove si poteva
stare sia in estate che in inverno, quando il freddo diventava pungente e le
dita rigide. Nelle fessure tra le piastrelle ruvide spuntava ancora qualche
coraggiosa margherita, incurante del cambio di stagione, mentre i fiori più
belli erano nascosti nella piccola serra dai vetri trasparenti. Verity vi entrò,
fermandosi per annusare il profumo dei fiori e accarezzarne i petali. Erano
setosi e morbidi ed emanavano una fragranza dolce e delicata.
Vide
attraverso il vetro una donna dai capelli corvini chiedere a Eleonore qualcosa
e decise di uscire per andare a sedersi al suo fianco. In pochi secondi tè e
pasticcini si posarono delicatamente sul tavolo per magia e iniziarono a
mangiare.
‹‹Allora
Verity, come sai stasera il sindaco organizza il tradizionale ballo per la
fondazione della città e quest’anno ti vorrei con noi. Quindi oggi cercheremo
un vestito adatto e metteremo in ordine i tuoi capelli spettinati, che ho
notato, e ci ritroveremo con tuo padre. Sperando che non si sia dimenticato
dell’appuntamento…››
A
Verity non andava di partecipare alla festa, men che meno di passare il
pomeriggio tra i negozi e i parrucchieri. Aveva già tanti vestiti a casa e un
colpo di spazzola sarebbe bastato per metterla in ordine. Però,
contemporaneamente, non voleva litigare con la madre e sapeva che Dakota
sarebbe stata lì. Non avrebbe potuto abbandonarla.
‹‹Che
ruolo avrei in questo ballo, mamma?››
Eleonore
le sorrise, socchiudendo leggermente gli occhi, e disse: ‹‹Tu scenderai le
scale con il figlio del sindaco. Non hai idea della cortesia di quel ragazzo e
della piacevolezza della sua compagnia. Cerca di piacergli almeno un po’,
tesoro.››
Capì
subito a cosa alludesse: una bella relazione, magari vantaggiosa per l’onore
della famiglia. Sorrise, cercando di non mostrare il disgusto e la repulsione
che si stavano diffondendo nelle vene, e finì il suo tè, rimanendo in silenzio
per il resto della colazione, ascoltando sua madre parlare e riparlare.
Si
prestò, sempre con un finto sorriso, ad entrare e uscire dai negozi senza
comprare nulla per la maggior parte della mattina; a chiacchierare con maghi e
streghe che non aveva mai visto o con cui, da sola, non avrebbe scambiato una
parola, un po’ per l’imbarazzo e un po’ perché non avrebbe mai avuto argomenti
di conversazione.
Dopo
quattro negozi, Eleonore raggiunse il suo preferito e Verity sospirò di sollievo:
finalmente si sarebbero fermate e avrebbe potuto riposare i suoi poveri piedi.
Appena
entrate furono accolte da una giovane commessa e da un anziano signore che
doveva essere il proprietario. Lui, settantenne, indossava un completo bianco e
nero e dei gemelli brillanti sui polsi della camicia che spuntava dalla giacca;
lei, appena trentenne, aveva un abito verde pastello, stretto sotto il seno con
una fascia di seta.
Eleonore
parlò brevemente con loro, voltandosi di tanto in tanto verso la figlia,
gesticolando con le mani, poi si sedette su una delle poltrone e accavallò le
gambe, in attesa.
La
commessa, il cui nome era Vittoria, prese con gentilezza Verity per un braccio
e l’accompagnò al camerino.
L’uomo
aveva già preparato alcune scatole con abiti di varie forme e colori quando
sentirono Eleonore urlare che voleva un abito vecchio stile.
La
maggior parte degli stilisti creava gli abiti mediante la magia: muovevano
forbici, gessetti, aghi, fili, macchine da cucire con la levitazione
controllata o altre tecniche magiche più precise. I risultati erano ottimi, mai
difetti nel tessuto, mai fili da strappare o cuciture imperfette.
Insieme
a questo genere esistevano altri due tipi di stilisti: i Nostalgici e gli Innovatori.
I
primi seguivano la via tracciata dagli antichi artigiani: cucivano a mano o a
macchina, sceglievano attentamente i tessuti in base alla consistenza e,
all’occasione, ricamavano le decorazioni a mano. La magia non veniva impiegata
in nessuna delle fasi della produzione.
I
secondi creavano abiti magici nel vero senso della parola. Non c’erano stoffe o
fili, né strumenti di altro genere: ogni singola parte dell’abito era
realizzata modellando la magia emanata dallo stilista in una forma solida e stabile,
resistente ma, allo stesso tempo, abbastanza morbida da poter essere indossata.
I maghi dell’aria e del fuoco erano i più quotati per questo genere di abiti,
soprattutto perché erano le due magie più semplici da controllare. L’aria
donava ai capi una leggerezza maggiore della seta più delicata; il fuoco li
rendeva caldi e confortevoli più della lana e del cachemire ed erano in grado
di scaldare o rinfrescare il corpo in base all’emissione magica di chi li
indossava. Se si aveva freddo, bastava pensarlo e l’abito aumentava
temperatura; se si aveva caldo, il contrario.
Quindi
un abito vecchio stile era creato a mano dai Nostalgici.
L’uomo
sbuffò e cacciò via con la mano alcune scatole che stavano arrivando e altre
che, invece, erano già poggiate sul tavolo, sostituendole con pacchetti
polverosi. Guardò prima Verity, poi i vestiti, e rise sommessamente, cercando
di non farsi udire.
‹‹Sembrano
vecchi e sporchi fuori, ma dentro saranno nuovi, non preoccuparti.››
La
ragazza sorrise. In effetti, visto il dito di polvere che copriva i pacchetti,
si era chiesta da quanto tempo quegli abiti fossero lì, ma aveva anche
allontanato la domanda, pensando che la madre sapesse a cosa andasse in contro.
‹‹Immagino
sia dura vivere con una donna simile…›› disse l’uomo scartando i vari pacchetti
e lanciandole ogni volta un’occhiata veloce per misurarla con lo sguardo.
‹‹Dopo
un po’ ci si abitua.››
‹‹Menti
con chiunque, ma non con me. La vedo la faccia di Victor quando l’accompagna
qui: vorrebbe solo andare via, magari nel suo laboratorio… Hai un colore che
preferisci?>>
‹‹Va
bene uno qualsiasi›› disse. ‹‹Non sapevo che mio padre venisse qui…››
‹‹Raramente,
e mai molto volentieri mi è parso… Metti questo, dovrebbe andare bene: non ti
farò provare mille vestiti. Credo che tu ti stia annoiando molto più di quanto
dia a vedere.››
Verity
sorrise, ancora. Non riusciva a fare altro che sorridere quando qualcuno vedeva
ciò che cercava di nascondere. Prese il vestito e si cambiò in camerino.
Per
la seconda volta nel giro di poco tempo stentò a riconoscersi nello specchio:
prima l’abito di Erald, ora quello. Si sentiva diversa, come se non fosse più
lei ma qualcun altro avesse preso il suo posto. E se da una parte quella
sensazione le era scomoda e fastidiosa, simile a un sassolino nella scarpa,
dall’altro lato le piaceva. Essere diversa dalla solita sé la inondava di una
soddisfazione che non sperimentava spesso: si sentiva all’altezza di qualsiasi
cosa si aspettassero da lei.
Verity
uscì lentamente, camminando piano per timore di rovinare la gonna lunga, color
panna, ricamata di roselline di velluto nero che risalivano dall’orlo fin quasi
sulla vita, diminuendo nel numero. Il corpetto era liscio, sempre chiaro, e il
bordo era rifinito con un pizzo nero arricciato. Era senza maniche e l’uomo le
posò sulle spalle uno scialle, anch’esso di colore scuro.
Gli
occhi di Eleonore si illuminarono nel vederla così bella e per qualche secondo
non seppe cosa dire. Si riprese in fretta e si complimentò con il proprietario
per il bellissimo modello e con Verity, dispensando apprezzamenti e gentilezze
come l’abbraccio con cui la strinse.
‹‹Sei
splendida tesoro, davvero splendida.››
Si
cambiò con calma, cercando di trattenere tutto il calore che quella semplice
frase le aveva provocato, poi si sedette sulla poltrona.
La
sua ricerca era stata breve, ma quella della madre sarebbe durata molto di più.
Sfogliò alcune pagine di una rivista, ma alla fine si decise a guardare gli
abiti che uscivano da soli dalle scatole e che, sempre da soli, si infilavano
su Eleonore, stringendo fiocchi e nastrini e chiudendo cerniere o bottoni. Solo
alla fine delle prove realizzò che l’uomo non aveva usato la magia con lei e ne
fu colpita: probabilmente doveva sapere della sua situazione e l’aveva tenuta
in considerazione. Non lo fece notare a Eleonore, che si gongolava nel nuovo
vestito, ma si prestò con più allegria al pranzo. La madre le diede consigli su
come fosse meglio comportarsi ogni secondo; su quali argomenti si potessero
affrontare e quali no, aggiungendo informazioni su tutte le famiglie famose
della città che sarebbero state presenti e alle quali avrebbe dovuto
presentarsi.
Fu
un pranzo quasi insopportabile e quando credette di non riuscire più a
resistere, Eleonore si alzò da tavola, trascinandola dal suo parrucchiere.
Era
un uomo giovane, di non più di quarant’anni, alto e dal fisico asciutto. Aveva
i capelli rossi, e furono la prima cosa che Verity notò: li teneva legati in
una coda bassa che scendeva lungo le spalle per una buona spanna. Rimase
colpita però dalla barba, lunga ma nera.
‹‹Daniel,
ciao!›› lo salutò Eleonore con un sorriso che Verity non avrebbe mai pensato di
poter vedere sul viso della madre.
‹‹Potresti riordinare i capelli di mia figlia?
Stasera andremo alla festa del sindaco.››
‹‹Come
desidera, madame. Le consiglio allora di fare una lunga passeggiata: la
signorina e io impiegheremo molto tempo.››
Eleonore
annuì e se ne andò; Verity seguì lentamente l’uomo, camminando dietro di lui e
accomodandosi su una delle poltroncine di pelle. Daniel finì una signora
anziana e, una volta che questa fu uscita, chiamò la ragazza e si occupò di lei
sola.
Rimasero
in silenzio per la maggior parte del tempo: il riflesso di Daniel allo specchio
sembrava molto concentrato e la giovane non si sentì di interromperlo, anche se
era curiosa del suo aspetto. Si beò delle sue dita, delicate come una cascata
di petali di ciliegio, percependone appena il movimento. La pettinava
lentamente, sciogliendo i nodi con dolcezza e le tagliò i capelli quasi senza
fare rumore, come se fosse un rito sacro da compiere in silenzio. Trovò quasi
commovente la dedizione con cui faceva il suo lavoro e pensò che dovesse
piacergli molto e che gli desse un grande appagamento.
‹‹Continui
a fissarmi nello specchio›› disse sorridendo ‹‹Sei curiosa vero? Sono i capelli
o la barba?››
‹‹Entrambi
in realtà…››
‹‹Beh,
ovviamente i capelli sono tinti, ma li ho sempre desiderati rossi piuttosto che
neri: li coloro dal primo anno di Accademia Magica, quindi sono parecchi anni.››
‹‹Non
ti piacevano neri?››
‹‹Sì,
e molto anche. Penso che si debba amare ciò che Dio ci ha dato, è quello di cui
abbiamo bisogno ma, allo stesso tempo, ho sempre avuto una spiccata vena
artistica e il rosso era il mio modo di parlare al mondo: secondo le ragazze
ero un teppista e mi tenevano a distanza, ma questo isolamento mi ha permesso
di avvicinarmi a persone incredibili. Senza di loro non sarei qui ora››.
‹‹È
meraviglioso…››
‹‹No,
tu lo sei e stasera, quando ti farò un’acconciatura bellissima con mille perline,
lo sarai ancora di più.››
È
un mese che non aggiorno, chiedo scusa! Mi sono goduta le vacanze anche troppo,
quindi torno a lavorare con regolarità.
Spero
che il nuovo capitolo vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi un piccolo
parere!
Un
saluto a tutti!
Si
fissava insistentemente nello specchio, cercando un solo segno che indicasse
che fosse effettivamente lei e non qualcun altro: sbirciava tra i riflessi dei
boccoli e nei luccichii delle perle fissate lungo le ciocche lisce; spostava lo
scialle a destra e sinistra, coprendo prima una spalla e poi l’altra. In nessun
caso si riconobbe. Era lei, ma al tempo stesso non lo era. Indossava una pelle bellissima
ricamata che tutti i presenti avrebbero sicuramente invidiato, ma la vera lei
rimaneva sempre da qualche altra parte.
In
quel momento non le dispiacque così tanto trovarsi lì. Stava accontentando i
capricci della madre dopo averle negato per anni una risposta affermativa,
eppure stava apprezzando il profumo d’arancio che fluttuava nell’aria e la
musica bassa e delicata che proveniva dal piano inferiore. Ma dover scendere la
grande scalinata della villa del sindaco implicava anche attendere l’arrivo del
figlio chiusa in una stanza da sola, e l’attesa la stava logorando. Voleva
superare al più presto quella stupida formalità, fuggire gli occhi di tutti
coloro che avrebbero guardato, e passare l’intera serata con Dakota e, forse,
con Scar, che le era sembrato di scorgere per un attimo in un angolo.
Quando
sentì la porta aprirsi si voltò, speranzosa che fosse arrivato il suo momento,
ma ad entrare fu Victor. Le fece molti complimenti, lodando quanto fosse bella
con quell’abito e le sussurrò, abbracciandola, buona fortuna, promettendo che sarebbe stato alla base della
scalinata, pronto a prenderla per portarla lontano dalla sala principale a un
suo cenno. Lo vide, fuori dalla porta, prendere per il braccio Eleonore e
scendere giù.
‹‹Eleonore,
non ti sembra un po’ tranquillo? L’anno scorso mi avevi parlato di bambini che
correvano da una parte all’altra e di una grande confusione, anche poco prima
di questo momento…››
‹‹Zitto,
Victor. È da quando sei entrato che continui a lamentarti della tranquillità.
Inizierà tra qualche secondo, è ovvio che ci sia silenzio.››
Victor
si guardò intorno, deglutendo rumorosamente, e scosse le spalle per scacciare
la tensione.
La
discesa fu lenta e tesa. Verity guardò negli occhi ogni ospite, spostando lo
sguardo da un invitato all’altro, imbarazzata e con le guance colorate da un
lieve rossore. Victor era esattamente dove aveva promesso di stare e questo,
seppur solo in parte, la tranquillizzò; Eleonore la guardava soddisfatta e si
passava un fazzoletto sugli occhi, come se avesse le lacrime, e davvero Verity non
ne vedeva il motivo; Dakota le faceva, con finta discrezione, un segno di
approvazione con i pollici mentre, proprio in fondo alla sala, Scar la
osservava sorseggiando qualcosa da un flûte che rifletteva l’arcobaleno.
Pensandoci a posteriori si chiese come avesse fatto a scendere tutti i gradini senza
guardarli nemmeno una volta, ma ne diede il merito al figlio del sindaco,
fissato molto poco discretamente da tutti coloro che non guardavano lei. E
avevano ragione. Era impeccabile nel suo smoking nero, cucito su misura da un
sarto di un’altra città, più grande e famosa della loro, e non si stupì
minimamente di avere tutti gli occhi puntati su di lui.
Ogni
tanto sbirciava verso Verity e sorrideva fulmineo. Impiegava meno di un secondo
e la ragazza al suo fianco non si accorse di nulla. Nemmeno gli invitati
notarono quei sorrisetti, troppo ammaliati dalla bellezza che i due, come
coppia, emanavano. Solo Scar se ne avvide, ma si obbligò a pensare che quel
ragazzo stesse solo progettando di approfondire la conoscenza durante il resto
della serata. Non erano fatti suoi.
‹‹Allora
sono stata brava?›› chiese Verity a Dakota.
La
ragazza trovò che un abbraccio sarebbe stato molto più comunicativo di mille
parole e preferì stringerla piuttosto che farle gli stessi complimenti insipidi
ma sinceri che le aveva riservato la madre. Ammirò però l’acconciatura
elaborata e meravigliosa al tempo stesso, pregandola di insegnargliela in
futuro. Poi la prese per mano e l’accompagnò in giro per i vari salottini che
occupavano il piano terra della villa, approfittando di un momento di
distrazione di Eleonore e del figlio del sindaco.
A
Verity piacquero immensamente. I soffitti erano affrescati con cieli tersi e
angioletti paffuti che giocavano o suonavano strumenti musicali; alle pareti
erano appesi quadri antichi e originali che il primo cittadino aveva
collezionato durante i suoi lunghi viaggi; i pavimenti erano coperti da tappeti
pregiati o da marmi colorati e lucidi; i mobili erano sontuosi e tutti in
legno, decorati con intarsi e piccole sculture; ovunque erano esposte
porcellane, busti, antichi reperti archeologici che sarebbero stati più sicuri
in un museo ma che la moglie del sindaco amava mettere in mostra durante le
occasioni mondane più importanti.
Il
breve tour terminò davanti a un cameriere biondo che serviva flûte di Champagne.
Ebbero appena il tempo di prenderne uno che si trovarono coinvolte in una
conversazione con il figlio del primo cittadino e altre persone sconosciute. Il
ragazzo era un abile oratore, capace di far convergere su di sé l’attenzione
degli interlocutori, modulando la voce già suadente in modo da enfatizzare i
concetti che dovevano essere più importanti. Probabilmente erano argomenti
interessanti, ma Verity, piuttosto che ascoltare e capire, preferì estraniarsi
dalla conversazione, lasciandosi trasportare dalle frasi e dal ritmo cadenzato
delle parole del ragazzo, finendo per rimanere con lui per gran parte della
serata.
Scar,
a distanza, li seguiva con lo sguardo, sempre sorseggiando qualcosa che
sembrava non finire mai. Aveva una sensazione, come un segnale che cercava di
farsi strada nel suo cervello e che, allo stesso tempo, veniva fermato, e tutto
arrivava da quel ragazzo che aveva tanto ammaliato Verity con la sua
parlantina. Le parlava con familiarità, tenendola per il fianco come se fossero
una coppia a tutti gli effetti, stringendole a volte la mano, e lei sembrava
troppo intossicata dalla sua presenza perfino per accorgersi di quanto viscido
potesse sembrare quel comportamento quando non si conoscevano da più di tre
ore.
Per
caso si trovò vicino a Dakota, che già da qualche tempo vagava per i salottini
sperando che l’amica abbandonasse la conversazione per tornare da lei, e le
espresse i suoi dubbi. Lei ne rise allegramente.
‹‹Sei
solo geloso, caro mio. Se ti infastidisce così tanto, vai e portala via.››
Scar
si portò una mano alla fronte.
Le
aveva confessato una preoccupazione e lei l’aveva scambiata per un’infantile
scenata di gelosia, come poteva esistere una maga tanto sempliciotta? Pensò che
le streghe di quella città fossero davvero strane, troppo concentrate su se
stesse per cogliere i segnali, quasi urlati oltretutto, che giungevano da ogni
dove, ma alla fine l’idea che gli aveva suggerito non era tanto male: avrebbe
adempito al suo scopo quantomeno. Prese Verity letteralmente per un braccio e
la portò via, attraversando mezzo piano terra e rifugiandosi nell’ingresso,
sotto gli sguardi attoniti del gruppo in cui stava parlando. Questi però,
rassicurati da una battuta del figlio del sindaco sulla possessività di certe
persone, ritornarono a parlare fitto, dimenticandosi in fretta della ragazza.
‹‹Non
credi che sia eccessivo lasciare che ti tocchi a quel modo, come se fossi di
sua proprietà?››
‹‹Scar,
cosa vuoi?›› Gli chiese indispettita, liberandosi della stretta sul suo braccio
con uno strattone.
‹‹Lui
non mi piace.››
Tra
tutte le frasi che avrebbe potuto dire, tra tutte le scuse che avrebbe potuto
inventare, si chiese come avesse fatto a tirarne fuori una così stupida e
insensata, nemmeno fosse un novellino alle prime armi.
‹‹Scar,
sei geloso di non so cosa?››
Anche
lei. Ma possibile che le donne sapessero collegare ogni comportamento alla
gelosia e che non fossero in grado di pensare a qualcosa di più importante?
Negò
con insistenza quell’affermazione e dopo un po’ anche Verity desistette dal
cercare di farglielo ammettere, anche se continuò ironicamente ad alludervi mentre
parlavano e passeggiavano per le sale insieme a Dakota.
Tenendola
vicino a sé le apprensioni di Scar si affievolirono velocemente, ma rimase deciso
a mantenere i sensi vigili, pronti a captare il minimo cambiamento nell’aria e
nell’umore dei presenti. Anche se si sentiva più sicuro, qualcosa continuava a
turbare la sua quiete. Non proveniva più dal figlio del sindaco ma persisteva,
estenuante. Pensandoci continuamente non avrebbe risolto nulla, lo sapeva in
partenza, ma non riusciva ad allontanare la sensazione che qualcosa stesse per
accadere. Cercò di nascondere al meglio le sue preoccupazioni, concentrandosi
soprattutto sulle parole di Verity, ma i suoi discorsi lo riportavano indietro
alla giovinezza insieme al fratello. Sentiva un dolore lancinante, un tormento
possessivo perché per una sola, piccola ragazza, anche se certamente bella e
piacevole, erano nati un conflitto e un odio mai placati completamente. Anzi,
ogni generazione aveva alimentato, a modo suo, la cattiva fiamma. Eppure Verity
lo affascinava: così fragile nella sua bellezza insicura, così semplice e
ingenua nello sguardo smeraldino. Considerato tutto, era ovvio che suo fratello
si fosse innamorato di lei alla follia.
La
serata stava quasi volgendo al termine quando il sindaco propose un ultimo
ballo per concludere e la maggior parte delle ragazze esultò, felice di poter
volteggiare ancora una volta con il proprio accompagnatore. La maggior parte
tranne Verity, che sarebbe volentieri tornata a casa tanto era stanca e
assonnata, ma che accettò lo stesso l’invito di suo padre.
‹‹Ti
sei divertita, tesoro?››
Lei
sorrise e annuì, ma durò poco: ‹‹Papà, continui a guardarti intorno come Scar.
Cosa non va?››
Lui
negò ridendo, ma quando il figlio del sindaco si fece avanti e la lasciò
ballare con lui, li osservò allontanarsi con un velo di preoccupazione sulla
fronte e sobbalzò quando un tuono squarciò il cielo con il suo fragore. Si
allontanò dalla finestra, da sempre spaventato dal rombo dei temporali, e si
affiancò a Scar. Entrambi avevano la stessa sensazione negativa e, mentre fuori
la pioggia scendeva sempre più violenta e rumorosa, fissarono intensamente il
figlio del sindaco, troppo affabile per essere il bambino che aveva conosciuto
anni fa secondo Victor e troppo diverso dagli altri per essere addirittura un
umano secondo Scar.
Un
altro tuono e un fulmine vibrarono nell’aria e tra gli ospiti in disparte
cominciarono a susseguirsi mormorii e lamenti preoccupati perché il rumore
sembrava essere diventato più forte e, soprattutto, più vicino. All’improvviso
un fulmine cadde proprio nel cortile della villa, illuminandolo a giorno, e
spaventando tutti i presenti: i musicisti interruppero il valzer e i camerieri
si fermarono in mezzo alle stanze mentre la luce andò via, lasciando tutti al
buio. Certo, era solo un temporale e non erano rari in quel periodo dell’anno,
ma mai avevano visto e sentito una tale furia provenire dal cielo. Dopo i primi
attimi di paralisi però i maghi e le streghe crearono ciascuno un piccolo fuoco
fatuo, in grado di illuminare l’ambiente come prima.
‹‹Scar!››
disse Dakota stringendo il braccio del ragazzo. ‹‹Non trovo Verity… Era
nell’altra stanza ma adesso non c’è più e ho già girato quattro stanze qua
sotto…››
‹‹Si
sarà nascosta per lo spavento, tra qualche secondo tornerà.››
Ma
Dakota aveva il viso pallido e gli occhi sgranati, appena illuminati dal fuoco
che le vorticava a fianco. Scar e Victor vi aggiunsero i propri, rendendolo più
forte e luminoso, e si fecero dire precisamente dove l’avesse vista l’ultima
volta prima che saltasse la luce. Verity aveva cambiato stanza, era vero, ma
Dakota non l’aveva persa di vista un solo secondo, anche lei contagiata da
quella strana apprensione che si respirava stando con i due uomini. Ma erano
bastati quei pochi, insignificanti secondi e lei era scomparsa nel nulla, per
questo si era rivolta a loro e loro non avevano la minima idea di dove potesse
essere finita.
‹‹Edward,
lasciami! Dobbiamo rimanere giù con gli altri invitati, sarebbe meglio, non
credi?››
‹‹Per
te, sicuramente›› ghignò appena, cercando di darsi un contegno per non
spaventarla ulteriormente mentre la trascinava su dalle scale di forza,
tenendole una mano sulle costole e una intorno al polso sottile. Bastò pensarlo
e la porta che dava sulla terrazza si aprì e si trovarono investiti dalla
pioggia scrosciante. Da quando aveva iniziato a cadere la sua intensità era
aumentata ed Edward ne respirò a pieni polmoni l’odore: si sarebbe
complimentato con Veuliah per l’ottimo lavoro svolto. Lasciò andare Verity, che
scivolò sul pavimento e cadde a terra, rimanendo a fissarlo dal basso, troppo
sconvolta per trovare la forza di muoversi.
‹‹Edward,
cosa sta…››
Il
ragazzo la guardò sorridendo, mettendo in mostra i denti bianchissimi, e mosse
le dita lungo la gamba come se stesse suonando i tasti di un pianoforte
invisibile. Lenti e silenziosi, sottili fili di magia uscirono dalle fughe del
pavimento e si arrotolarono intorno ai polsi e alla caviglie di Verity, che
provò a divincolarsi per liberarsi.
‹‹Non
credi che fidarsi degli sconosciuti sia pericoloso? Io l’ho sempre pensato. Mai
ballare con chi non conosci: potrebbe pestarti i piedi o annoiarti a morte. E
poi, ti hanno avvertita in tutti i modi i tuoi amici, possibile che tu non li
abbia ascoltati? Sei già stata attaccata una volta…››
La
demone di tante sere prima si materializzò nella mente della ragazza e la
conclusione fu una sola: lui, come lei, voleva ucciderla e probabilmente questa
volta ci sarebbe anche riuscito. Nessuno avrebbe potuto salvarla da lì poiché
nessuno l’aveva vista allontanarsi.
Intanto
nuovi fili di magia si erano attorcigliati intorno al collo mentre quelli già
esistenti si stringevano sempre più risalendo lungo le braccia. Verity si
rimproverò di non aver dato ascolto a Scar mentre sentiva rivoli di sangue
fresco scivolare e li vedeva macchiare il vestito chiaro, mescolandosi alle
lacrime salate che precipitavano dalle guance. Il demone si voltò verso la
porta, come se aspettasse qualcuno: li sentiva arrivare e rideva malignamente
dentro di sé.
Scar
infatti aveva girato tutte le stanze una seconda volta prima di percepire
qualcosa di più definito di quella sensazione di pericolo: c’era magia oscura,
corrotta, che si diffondeva nell’aria leggera e che permeava i muri di quella
villa. E il centro era uno e uno soltanto ed era proprio sopra di loro. Aveva
chiamato Dakota e Victor, ordinando loro di seguirlo. Si era poi precipitato su
per la scale, prestando in realtà ben poca attenzione se i due fossero dietro
di lui e pregando chiunque gli venisse in mente di proteggerla, anche se
probabilmente era inutile. Pregare era ormai diventato un parlare vano. Sarebbe
dovuta morire lo stesso per prendere il post di Mary, ma non in quel momento.
Spalancò
la porta e tirò un sospiro di sollievo: lei era ancora lì, ancora cosciente e
viva. La magia, anche se il demone guardava dalla loro parte, agiva e la
trasportava verso il parapetto, avvinghiandosi come un tralcio di vite. Eppure
la ragazza respirava e sembrava aver capito che agitarsi avrebbe solo aumentato
la stretta, ma l’unica cosa importante era che respirasse: fino a quel momento
sarebbe stati sicuri che fosse viva.
Edward
mostrò i canini a Scar, emettendo uno spaventoso ringhio gutturale, come fosse
una bestia pronta a caricare il nemico. Dakota e Victor, ancora dietro il
ragazzo, indietreggiarono di un passo mentre Scar ne fece uno in avanti. Si
fissarono a lungo mentre Verity, appena cosciente di quello che accadeva,
mugugnava per il dolore dei tagli, brucianti al contatto con la pioggia e le
sue lacrime salate. I due cercavano punti deboli, sondando le reciproche
intenzioni, ma alla fine entrambi cedettero: gli angeli non lasciavano trasparire
le proprie debolezze in battaglia.
‹‹Scar,
non fare un passo in più o la tua amichetta non farà una bella fine e dalle sue
labbra non passerà nemmeno il più flebile dei sospiri.››
Scar
era indeciso: attaccarlo significava correre il rischio che la ragazza morisse,
ma rimanere inerte l’avrebbe uccisa allo stesso modo. Si concesse un secondo
per osservarla. I polsi erano pieni di tagli e sanguinavano copiosamente, il
collo era graffiato, come se in quel punto non fossero solo fili ma corde
ruvide. La magia si era intrufolata sotto la gonna e non si sarebbe sorpreso di
trovare tagli e sfregi anche sulle cosce intorno alla vita. Piangeva per il
dolore e per la paura. Non doveva morire, era chiaro come il sole. C’era, da
qualche parte, la mossa giusta da fare, ma quale? I secondi passavano e lui era
sempre più dubbioso: in tutte le tattiche che scorreva nella mente era sempre
presente una falla, un minuscolo dettaglio che la rendeva inutilizzabile. Quel
pensare frenetico però lo distrasse e mentre lui si concentrava solo su Edward,
non si accorse di quello che facevano le due persone dietro di lui. Troppo
concentrato non percepì Dakota, resa invisibile da una delle magie di Victor,
scivolare dietro di lui e raggiungere Verity; non vide Victor compiere lo
stesso incantesimo su se stesso e avvicinarsi a Edward da dietro. Lui però se
ne accorse. Anzi, lui li vide nonostante la magia e li lasciò agire
indisturbati fino a che la ragazza non toccò Verity e credette di poterla
salvare.
Chiuse
gli occhi e schioccò le dita con un ghigno.
Buongiorno
lettori, come state? Io sono finalmente in pausa dagli esami e quindi posso
aggiornare con tranquillità, soprattutto perché non ho esami da dare (paura per
giugno, quando avrò gli esami annuali che non posso dare adesso). Con questo
capitolo inizia una nuova parte della storia, che si sviluppa finalmente verso
l’alto. Spero che vi piaccia! Un bacione a tutti!
Nemamiah
La
prima cosa che vide fu il sorriso sghembo di Edward, poi le sue iridi rosse
come il sangue, e le sembrò strano, perché le ricordava marroni, calde come il
cioccolato fuso. Poi ci fu Scar, accasciato a terra, indifeso, con le braccia
abbandonate lungo i fianchi e le nocche delle mani che sfioravano il pavimento,
i capelli scuri che coprivano in parte il volto. Ed era strano, perché Edward
rideva ma lei era lì, e le sembrava di essere viva, e allora non capiva il
perché di quell’arrendevolezza da parte di Scar. Dakota era al suo fianco, ma
sembrava non vederla. Guardò il padre, che la fissava allibito, eppure le
pareva che non stesse davvero fissando lei. Si alzò, avvicinandosi a lui,
turbata da quello sguardo avvilito. Lo chiamò e lui non si accorse di nulla.
Indietreggiò di alcuni passi e, mentre Edward continuava a ridere, raggiunse
Scar. Nemmeno lui sembrava notare la sua presenza. Tuttavia… Tuttavia lui
piangeva, e anche suo padre, e le lacrime si mescolavano alla pioggia e la
pioggia…
La
pioggia dov’era?
Perché
non sentiva il picchiettio continuo sulla pelle?
La
vedeva, distingueva le gocce una ad una: stava cadendo, lo sapeva! Ciò
nonostante rimaneva asciutta.
Chiuse
gli occhi e contò. Uno, due, tre.
Si
girò verso Dakota. Stava scuotendo il suo corpo, tenendolo per le spalle, le
mani sporche di sangue, impastando il suo nome con le lacrime come se fosse una
litania, un incantesimo complicato. Se avesse saputo che le persone che più
amava avrebbero dovuto vederla morire, sarebbe scappata in un angolo isolato
della Terra pur di evitarlo loro. Ma non possiamo sapere quando moriremo, né in
quali circostanze, né chi sarà con noi nel nostro ultimo secondo. Non possiamo
preparare chi amiamo, né salutarli o abbracciarli o dir loro quanto siano stati
importanti per noi. Non importano le premure e le precauzioni, siamo destinati
a capitolare dal nostro ultimo gradino e l’incapacità di accettarlo ci spinge a
relegare la morte in un anfratto della nostra mente, fino a che non arriviamo a
quel fatidico momento. Un momento, un secondo che ci proietta nell’infinito.
Verity
non era pronta ad accettarlo e urlò contro Dakota, disse di essere lì e di
essere viva e di alzare lo sguardo poiché avevano ancora una lunga vita da
condividere. E urlò a Victor, e a Scar allo stesso modo, rimanendo sempre sola,
sempre ignorata, mentre Edward rideva e rideva come se avesse fiato solo per
quello. Provò a colpirlo, a saltargli addosso in un impeto di rabbia, ma era
tutto inutile: ogni tentativo era un fallimento, ogni volta lo attraversava e
cadeva sul pavimento. Anche questo era strano, era uno spirito, ma oltrepassava
solo le persone, e anche se Edward non reagiva ai suoi attacchi, era certa che
la vedesse, percependo la sua presenza. Camminò all’indietro, senza rendersi
conto di farlo realmente fino a quando non toccò il parapetto. Ci salì sopra,
guardando dall’alto il gruppo e vide due ali blu come la notte spuntare dalla
schiena di Edward. Lo vide prendere il volo e scomparire ignorandola, ma non fu
abbastanza attenta che una folata d’aria la investì e la fece precipitare giù
dal parapetto. Non riuscì a urlare che un’altra folata di vento la trasportò
dall’altra parte della strada, depositandola malamente sul terreno fangoso. Non
era sporca, e nemmeno dolorante, doveva essere stata solo una sensazione, come
l’idea che la pioggia le stesse cadendo addosso. Ne percepiva l’odore, poteva
udire l’ululato del vento e lo stormire delle fronde degli alberi, ma il tatto,
il brivido freddo e il bagnato non li avvertiva. Sentì di voler correre e
corse, a occhi chiusi e a occhi aperti, credendo di piangere ma scoprendo in
realtà di non avere lacrime da asciugare. Non si capacitò del come, ma
raggiunse la sua casa e riuscì ad attraversare tutte le porte fino alla sua
stanza. Non si pose nemmeno la domanda, accettò quella concessione sfruttandola
quanto poteva, ma alla fine non le rimase altro da fare che sedersi vicino a Kai,
senza poter comunque sentire la pelliccia morbida sotto le mani.
Sarebbe
dovuto accadere altro? Non c’erano angeli messaggeri o qualcosa di simile che
l’avrebbero portata in un paradiso o in un inferno? O doveva aspettare, e
pregare un dio che non aveva mai sentito vicino, neanche nel momento più
spaventoso? Si sentiva in pericolo, anche se era nella sua stanza, nella casa
dov’era cresciuta. Chiuse gli occhi e poggiò la testa sulle ginocchia, sperando
di riaprirli e non vedere più nulla.
Ma
smise di piovere.
E
sorse la luna.
Poi
il sole tramontò.
Scese
la neve che assorbì il raggi della stella e si sciolse.
Le
api si scontrarono contro il vetro.
La
luce entrò prepotente dalla finestra e illuminò la polvere.
Risentì
quei suoni un’infinità di volte.
E
riaprì gli occhi.
Era
come se si fosse risvegliata da un lungo sonno ma, al tempo stesso, non c’erano
l’intorpidimento e la confusione del primo risveglio. Forse non aveva davvero
dormito, forse era stata solo immobile per ore, ma era strano, perché la porta
era chiusa mentre lei ricordava di averla trovata aperta. Ricordava degli
scricchiolii ad un certo punto, dei sospiri fare avanti e indietro e i guaiti
di Kai, che avrebbero spezzato il cuore anche alla più dura delle pietre. Si
alzò e attraversò la porta prima con una mano e poi con tutto il corpo. Adesso
riusciva ad attraversare gli oggetti: forse era solo un questione di volontà.
Scese al piano di sotto.
La
biblioteca era aperta e c’era una donna, davvero simile a Eleonore, ma meno
curata, che parlava al telefono e gesticolava. La stanza era in disordine, i
libri sparsi ovunque, ma era diversa da come la ricordasse.
La
donna sbuffò e Verity la riconobbe. Solo sua madre sbuffava in quel modo, come
se l’intero mondo cospirasse contro di lei e dovesse combatterlo da sola. La
seguì e riuscì a infilarsi nella macchina prima che la porta si chiudesse. Forse
avrebbe potuto attraversarla, ma meglio non tentare. Riconobbe subito la
strada. Si stava dirigendo al laboratorio di Victor.
Victor
aveva sempre vissuto nel suo ufficio e aveva lavorato con ossessione dalle sue
ricerche: non usciva quasi mai dall’edificio e aveva il minimo contatto umano
indispensabile, ma Eleonore non avrebbe mai creduto di poter trovare la stanza
in quelle condizioni. Sulla poltrona erano accumulati camici da laboratorio e
abiti da lavare, calzini pantaloni magliette e fazzoletti; in un angolo, dove
un tempo ricordava dei libri, c’erano due paia di scarpe che avrebbero tanto
avuto bisogno di vedere la luce del sole; appese in giro c’erano cravatte
colorate ma stropicciate. Sul tavolinetto basso erano impilati libri aperti uno
sopra l’altro, macchiati dai residui unti del cibo pronto. Per terra, fogli di
carta con diagrammi, calcoli incomprensibili e ancora libri su libri. Victor
non si vedeva da nessuna parte, ma la moglie sapeva dove trovarlo. Chiuse la porta.
Era lì dietro, accucciato per terra con ancora la matita in mano ma
profondamente addormentato. Lo svegliò delicatamente e all’inizio, nella
semioscurità, non la riconobbe, boccheggiò qualche suono e scosse la testa.
‹‹E-Eleonore?
Cosa fai qui?›› chiese massaggiandosi le tempie con le mani.
‹‹Sono
venuta per portarti fuori di qui, quasi mi sorprende che tu sia ancora vivo.
Sono mesi che nemmeno ti vedo la notte, che sei rinchiuso qui dentro e-››
‹‹L’ho
sognata, ancora.››
‹‹Victor,
mi ascolti?››
L’uomo
si alzò a fatica e, nonostante inciampasse nei libri sparsi a terra, riuscì a
raggiungere la finestra e a tirare su la tapparella. Poi aprì e respirò l’aria
della calda primavera che tra non molto sarebbe diventata estate.
‹‹Camminava
su quel prato, laggiù, e mi correva incontro e, no, ci correva incontro perché
sai, c’eravamo entrambi, e aveva un cestino in mano. Stavamo organizzando un
picnic ed eravamo così felici e ridevamo così tanto. La sento qui, oggi più di
altri giorni›› Verity rabbrividì e si nascose nell’ombra ‹‹e non va mai via. Ha
quell’abito panna meraviglioso, e gli sfregi delle corde sui polsi, sul collo,
le macchie di sangue sulla gonna, e c’è Dakota al suo fianco, ma piange, e
urla, proprio come quella notte e io sono impotente e inutile e incapace e
inadatto e…››
Eleonore
lo prese per un braccio, facendolo girare verso di sé: ‹‹Basta Victor! Basta
sogni, basta pianti, basta ricordare quel dannato momento. Basta piangerti
addosso ogni giorno della tua vita perché non è stata colpa tua, non potevi
proteggerla. Forse nessuno poteva. Perseguiti te stesso, ma ti ricordi ancora
di me? Sono mesi che non ti vedo, mesi che nemmeno sento la tua voce; sono mesi
che dormo nel letto da sola e piango insieme a quel dannato cane e tuo padre
viene a svegliarmi la notte quando ho gli incubi e mentre mia madre mi guarda e
dice che appassisco ogni giorno di più e che devo riprendermi perché solo così
posso aiutare i bambini della casa e non posso piangere tutta la vita. Ma le
lacrime non si fermano, non ci riesco. Se sono in compagnia mi isolo, sento che
l’unica che vorrei vedere è lei e lei non c’è, e so che avrei dovuto capirlo
prima, ma adesso non riesco a fermarmi dal sentire da sua mancanza, dal volerla
al mio fianco. Vorrei sapere quali fossero i suoi interessi e i suoi
divertimenti, e vorrei sentirli dalla sua voce, vorrei ascoltarla cantare,
suonare il piano e…››
Scivolò
a terra e vi rimase, tremante. Era troppo da sopportare perché anche se non
aveva visto Verity, era bastata la descrizione del marito per sentirsi lì con
lui. Ma come avrebbe potuto aiutare lui se non riusciva nemmeno ad aiutare se
stessa? Era stata superficiale ed egoista, ma aveva un cuore dopotutto, e
questo stava sanguinando ormai da più di tre anni. Non aveva amato la figlia
come avrebbe dovuto, ma non poteva amare il marito se questo la lasciava sola,
non poteva condividere nulla se l’abbandonava in una casa troppo grande per lei.
Doveva alzarsi e reagire.
Il
tremolio diminuì quando Victor le accarezzò la testa dolcemente e scomparve
quando la abbracciò, con lo stesso impeto con cui si abbraccia qualcuno in
procinto di scomparire dalla nostra vita.
‹‹Perdonami,
perdonami, amore. Non avrei mai dovuto scappare da te, ma lavorare mi impediva
di pensare a lei, almeno durante il giorno. Era la nostra unica figlia e mi
sentirò sempre in colpa… Dai vieni, c’è una cosa che devi vedere. Io so che
tenevi a lei, so quanto l’amassi sotto tutta quell’alterigia e credo che anche
lei, in qualche modo, lo sapesse.››
Le
prese la mano, stringendola delicatamente, e la portò fuori dal laboratorio,
verso il sentiero che si inoltrava nel bosco. Costeggiarono per un lungo tratto
il ruscello, ascoltando la monotona ninnananna del gorgoglio dell’acqua.
Eleonore avrebbe voluto fermarsi, cogliere un fiore e annusarne il profumo, ma
Victor camminava troppo veloce e lei voleva tenere il passo per non perdersi
nel bosco. Raggiunsero una radura minuscola, un gioiello nascosto, e in fondo,
dove gli alberi si infittivano nuovamente, c’era una piccola serra in vetro.
All’interno, rose nere, molte e bellissime.
‹‹È
magica…››
‹‹Sì,
più piccola all’esterno, ma enorme all’interno e la possiamo vedere solo noi
della famiglia. Ci sono parecchi sigilli magici sopra, ma doveva essere sua, il
suo rifugio segreto nel luogo più tranquillo del mondo...››
E
Verity lo ringraziò, con parole senza suono che non arrivarono mai alle sue
orecchie. Aveva osservato ogni passo da dietro, scoprendo con piacere che non
faceva rumore nel calpestare il terreno ma che poteva inciampare nelle radici. Avrebbe
voluto essere visibile in quel momento, poterlo abbracciare e ringraziare
perché quel regalo era meraviglioso e si odiava per non poterlo fare. Le
sarebbe piaciuto parlare con la madre, sorriderle e abbracciarla invece di
poterla solo guadare piangere e ridere contemporaneamente. Ma la meraviglia più
grande, ancora più della serra, era che percepiva la magia che permeava i vetri
e usciva da ogni fessura in una nuvola che la investiva violenta. C’era anche
qualcos’altro che non riusciva a identificare, come una presenza che la stava
osservando nascosta nelle ombre degli alberi e che si avvicinava a lei. Cercò
di ignorarla: non poteva essere Edward. Probabilmente gli esperimenti del
laboratorio creavano qualche campo magico che si espandeva fino a lì.
No,
non poteva essere vero, lei non sapeva percepire la magia. Doveva solo essere
un’autosuggestione.
In
quel momento nel bosco nulla era più tranquillo e, contemporaneamente, agitato
dell’animo di Verity. Da un lato sarebbe voluta rimanere con i suoi genitori, a
guardarli invecchiare insieme, dall’altro voleva andare via, lontano, dove
nessuno l’avrebbe mai trovata. Magari poteva trovarsi un castello o una casetta
piccola e malconcia da infestare come fantasma. A detta di Eleonore erano
passati mesi della sua morte, non aveva capito esattamente quanti, e lei era
rimasta chiusa in una stanza per tutto quel tempo. Cos’era accaduto nel mondo?
Dakota stava bene o anche lei si era dimenticata di vivere? C’era anche un’altra
domanda, adesso che aveva voglia di pensare, cui avrebbe dovuto rispondere:
perché le era sembrato che per Scar, quella notte, Edward non fosse un completo
sconosciuto? Se assumeva per vera l’idea che Scar non fosse umano, allora era
possibile che lo conoscesse e tutti i fatti strani del passato diventavano
sensati, quasi ovvi, e rimaneva una soluzione sola: o era un demone, come
Edward, o un angelo, sempre che esistessero. Non poteva essere cattivo, in
fondo aveva cercato di proteggerla, e se per caso avesse voluto ucciderla,
avrebbe potuto sfruttare i loro numerosi faccia a faccia solitari. Ma se
esistevano i demoni, anche gli angeli dovevano esistere, angeli con le ali
bianche, grandi e setose. Quindi anche gli Arcangeli e quella sua antenata che
il nonno citava sempre perché identica a lei… Doveva solo trovare lui e tutti i
pezzi sarebbero, in qualche modo, finiti al posto giusto.
Il
problema era tornare indietro: aveva perso completamente l’orientamento e non
riconosceva più il bosco. Il cielo era quasi invisibile tanto fitta era la rete
delle fronde e intorno a lei diventava sempre più umido e tetro. Le foglie
erano di un verde troppo scuro per essere vero, le radici uscivano prepotenti
dalla terra scivolosa, pronte a ghermire una caviglia con la loro stretta. Si
guardò intorno più volte, ma continuava a non ritrovarsi. Allora si voltò,
pensando di fare il percorso all’indietro, ma la strada le fu sbarrata da un
gigante nero che la fissava dall’alto con un paio di occhi bianchi.
Quell’essere la guardava, la vedeva sul serio, come un uomo vede un fiore o un
dipinto, e aveva la bocca profonda spalancata. Un fruscio nell’erba poco
lontano lo distrasse per un secondo e Verity ne approfittò per scappare,
cercando di mettere la maggior distanza possibile tra di loro. Sentì un ruggito
rabbioso e cercò di correre più veloce, inciampando più volte in una pietra o
una radice troppo sporgente, voltandosi per controllare la posizione di
quell’essere. La stava seguendo, era vero, ma era molto più lento di lei e
quando scomparì, Verity si fermò per un secondo a riprendere fiato, stremata.
Si sentiva abbastanza al sicuro: non lo vedeva arrivare da nessuna parte. Un
altro fruscio alle sue spalle la fece trasalire, ma si rivelò essere un
coniglio selvatico, inoffensivo. Rise di se stessa, riconoscendo di aver avuto paura
della creatura più mansueta del mondo.
Si
girò e lo trovò di nuovo a sbarrarle la strada. Non l’aveva sentito arrivare,
non aveva fatto il minimo rumore, ma questa volta era pericolosamente vicino e
Verity ebbe appena il tempo di portare le mani di fronte al viso che la
creatura la inghiottì.
Il
mostro poi tirò un sospiro di sollievo e prese in braccio il coniglietto. Lo
coccolò qualche secondo e, dopo averlo riposato a terra, la creatura scomparve
risucchiata da se stessa.
Buongiorno
a tutti! Come state? Io mi godo ancora per un po’ la pausa universitaria,
divertendomi a scrivere e mangiare dolcetti. Vi lascio il capitolo nuovo,
sperando che vi piaccia!
Buona
lettura a tutti!
Nemamiah
Verity
si risvegliò immersa nel buio, mentre galleggiava dentro qualcosa di
inconsistente. Provò a muoversi un paio di volte e scoprì che bastava
desiderare uno spostamento e questo avveniva, anche se molto lentamente. Lo
spazio in cui era immersa rispondeva ai suoi impulsi e desideri, faceva
esattamente quello che lei voleva. Ripeté infinite volte nella testa la parola
sinistra e alla fine sbatté la testa contro una parete. Quello spazio non era
illimitato. Fece la stessa cosa a destra, in alto e in basso: si trovava in una
specie di tunnel. Camminava tenendo una mano fissa sulla parete, mentre
ordinava con la mente al suo corpo di andare avanti, sperando di aver preso la
direzione giusta. Man mano che avanzava, il mal di testa cresceva: inizialmente
non aveva sentito nulla, poi un ronzio leggero e in quel momento la testa le
pulsava dolorosamente. Il dolore aumentava proporzionalmente alla forza che
attraeva in avanti il suo corpo e diventa sempre più fastidioso. Quando non
riuscì più a resistere decise di lasciarsi trasportare. Non fu per niente una
buona idea. Sentiva l’aria tagliarle il viso e chiuse gli occhi, riaprendoli
appena in tempo per urlare un “FERMATI!”.
Si era fermata a pochi centimetri da un’affilatissima punta nera. La sfiorò con
le mani, opponendosi alla forza la spingeva verso di essa. Aveva una forma
conica e la punta l’avrebbe trafitta senza troppi problemi se non fosse
riuscita a fermarsi. Pensò allora ardentemente ai movimenti che desiderava
compiere e lentamente raggiunse la base del cono, tastandola con le dita. Percepì lettere scolpite, lettere come quelle che
usava per scrivere e che formavano, insieme, una frase: “È uno scherzo della natura”. Spostò la mano sulla parete e la fece
scorrere verso l’alto. C’era un altro cono con un'altra incisione. La decifrò,
lo fece con ogni cono che incontrò nella salita. Erano tutte frasi, buone o
crudeli, che aveva pensato o che le erano state rivolte dalle persone più
disparate. L’ultima frase Verity ricordò di averla detta un Natale di tanti
anni prima, quello che aveva passato da sola, quando era andata in centro a
trovare Babbo Natale: “Vorrei non essere
mai nata”.
Una
fitta alla testa più forte delle altre la fece piegare in due e lasciò la presa
sul cono, mentre la forza che prima la sospingeva verso l’alto la fece precipitare
verso il basso, come se si fosse lanciata da una scogliera a capofitto nel
mare. Affondò in quello spazio che ora era viscido e melmoso fino a che la
forza non la trasse fuori, di nuovo. Ricordava tutti i dettagli di ogni frase,
non solo chi l’avesse pronunciata, ma anche in quali circostanze, che età
avesse in quel momento, lo sguardo di chi parlava. E ogni frase le si
appiccicava addosso, su braccia e gambe, sulla pancia; si attorcigliava intorno
al collo e alle dita; si intrecciava nei riccioli e a ogni contatto sentiva
nuovamente la sensazione che aveva provato, riviveva quel momento e, anche se
avrebbe preferito dimenticare tutto, non riusciva a staccarsi di dosso quelle
scritte. Tuttavia non pianse. Nel turbinio di emozioni contrastanti che le affollavano
l’anima e che avrebbe fatto impazzire chiunque lei era rimasta lucida: gli
occhi vedevano, le orecchie sentivano. Parlava, balbettava, chiedeva scusa, ma
non piangeva. Allora tutte le scritte tornarono al loro posto, incidendosi
nuovamente sui quei coni che cambiavano forma e diventavano scalini, scivolosi
e instabili, ma pur sempre scalini. Li salì, con attenzione, uno alla volta,
puntando alla luce che scendeva dall’alto e si faceva sempre più intensa,
diradando le ombre. Era tanto intensa che non riuscì a tenere gli occhi aperti
quando raggiunse la cima e uscì guidata dal tatto e dai suoi piedi che sapevano
dove andare senza che lei lo pensasse.
Sbucò
in un prato, o meglio, in una grande radura circondata fittamente dagli alberi.
Uscì del tutto e si guardò intorno incuriosita. Non era la stessa di prima, di
quello era certa. Ma allora poteva essere solo un luogo…
‹‹Il
Paradiso…››
Lo
sussurrò piano, timorosa che qualcuno potesse sentirla. Era andata qualche
volta in chiesa, con la madre, ma non aveva mai creduto davvero all’esistenza
di Dio, del Paradiso e di tutte quelle belle parole che pronunciava il
sacerdote. Le piaceva discutere con lui, sentirlo spiegare la teologia, gli
angeli, i santi e tutta la storia della religione, ma crederci era un’altra
storia. Adesso però le parole di quell’uomo erano le uniche che aveva in testa,
quelle di quando le aveva parlato del Paradiso come di un luogo meraviglioso
per la vita dopo la morte. Quello lo era. C’era anche una graziosa fonte che
rifletteva le nuvole bianche che volteggiano sopra la sua testa. Parlando di
testa, qualcosa la stava accarezzando… Era il mostro che l’aveva ingoiata, che
adesso le sorrideva e non sembrava più tanto pericoloso.
‹‹Tu
mi hai portata qui? E io che sono scappata spaventata.››
‹‹Già,
Lidwig è stato bravo, vero?››
‹‹Perché
parli di te in terza persona?››
‹‹Forse
perché non è lui a parlare, mia cara.››
Sbirciò
dietro le spalle di Lidwig e vide una donna venirle incontro. Verity quasi non poteva
credere a quello che i suoi occhi stavano vedendo: la donna era quella del suo
sogno con gli stessi capelli rossi, raccolti in un treccia, e gli stessi occhi
di giada incastonati come pietre tra le ciglia. Era sicuramente avanti con
l’età ma non avrebbe saputo dargliene una precisa. L’aspetto suggeriva una
donna anziana, ma c’era qualcosa che la faceva sembrare giovane. Indossava un
abito bianco, molto leggero, stretto in vita da una brillante cintura d’oro
rosa; pareva un dea immortale. La donna le si avvicinò lentamente, per non
agitarla. Ogni passo era una lieve carezza all’erba, l’incedere solenne ma
terreno, umano. Eppure era troppo aggraziata, troppo elegante: semplicemente
troppo. Tutto quello che avrebbe mai potuto sognare di essere era davanti ai
suoi occhi e le sorrideva.
Le
circondò le spalle con un braccio, controllata, dolce, e sussurrò piano nelle
sue orecchie parole di benvenuto in una lingua sconosciuta, traducendole subito
dopo.
‹‹Ben
arrivata in Paradiso, Verity. Ti aspettavamo da molti anni…››
‹‹Mi…
Cosa?››
‹‹Angeli,
custodi, diavoli, ognuno di loro aspettava la quarta luce. Forse gli arcangeli
sono meno interessati a te, ma avrai cose più importanti da fare che stare con
loro per adesso.››
‹‹E
con voi cosa dovrei fare?››
‹‹Crescere,
proteggere, imparare, forse amare. Suvvia, non guardarmi con quello sguardo
scioccato. Sei un angelo e devi comportarti come tale.››
‹‹Cosa
intendete dire?››
La
donna rise dolcemente e la prese per mano, guidandola verso la fonte al centro
della radura.
‹‹Imparerai
che non tutti gli angeli sono buoni e generosi e che proteggerli tutti può
essere difficile, soprattutto quando non desiderano la tua protezione, ma è
quello che facciamo qui in Paradiso, cerchiamo di aiutare tutti, anche chi è
ritenuto immeritevole di aiuto, umano, angelo o dannato che sia. C’era un tempo
in cui si viveva in pace, ma quel tempo è un ricordo molto lontano…››
‹‹Non
vivete in pace adesso?››
‹‹Non
esattamente. Il Paradiso non è più in pace da quando ha dovuto cacciare
fratelli e sorelle dalle sue radure e…››
‹‹La
caduta! Stai parlando della caduta, vero? Con l’istituzione dei tre regni e
delle Guardiane, lo so, conosco la storia molto bene!››
La
donna la guardò dubbiosa ma ugualmente sorridendo: ‹‹Temo non sia andata
esattamente così, ma nemmeno io conosco cosa accadde veramente. Penso però che
troverai qualcuno che possa raccontartelo, prima o poi.››
Verity
si sentì spaesata. Poteva davvero esserci qualcosa su quella vicenda che
davvero non sapesse? Impossibile, categoricamente impossibile. Aveva letto ogni
libro, ogni leggenda e storia studiandone analogie e differenze, confrontando i
passi comuni. Lucifero voleva diventare il più potente dei beati e allora aveva
mosso guerra a tutti coloro che gli si erano opposti, aveva perso e poi erano
stati creati i regni. Punto. Stop. Fine del racconto. Non c’era nulla che
potesse aver saltato o dimenticato, nulla da aggiungere a una questione già
abbastanza complicata di per sé. E lei era morta. Tanto per aggiungere qualcosa
di importante ma non troppo. In fondo che dire, suggerirle nemmeno tanto
velatamente di dover proteggere mezzo mondo doveva sembrare una bazzecola se
confrontata con l’essere ammazzata di fronte a suo padre e alla sua migliore
amica. Una cosa da niente.
La
donna, vedendola assumere quell’espressione prima spaesata e poi arrabbiata, si
chiese se non avesse detto troppo in così poco tempo. Eppure non aveva nominato
nessuno, né parlato di fatti macabri o fuori luogo. Forse l’aveva spaventata
l’idea di dover proteggere gli angeli o forse ancora era lei a spaventarla,
anche se si erano viste nel sogno. In fondo le sembrava quasi di essere
un’amica di lunga data di Verity, con tutte le volte che il signor Dante le
aveva parlato innalzandole una preghiera. Doveva rassicurarla e calmarla per
poter completare la trasformazione in angelo.
‹‹Verity,
ascolta, so che ti senti smarrita. Il sogno con me, Lidwig, la tua morte e
quello che ti ho detto sono difficili da accettare, da capire e so che ci vorrà
tempo perché tu diventi davvero parte di questo mondo… Beh, ci ho messo molto
anche io ad ambientarmi all’inizio. Ero decisamente più agitata di te e
continuavo ad andare da un parte all’altra urlando per lo spavento, ma volevo
che tu sapessi almeno un po’ della verità.››
‹‹Questa
verità è sconvolgente.››
‹‹Facciamo
un patto, va bene? Io ti racconto esattamente tutto quello che devi sapere, che
io so, dall’inizio alla fine, se tu fai il bagno nella fonte, accetti?››
‹‹Dov’è
l’inganno? Perché sa, dopo essere stata trascinata e uccisa da un pazzo che mi
ha detto di volermi salvare, non mi fido…››
‹‹Qui
nessuno ti farà del male, per nessuna ragione al mondo, di questo puoi essere
certa.››
Verity
fissò la fonte, non vedendo come potesse essere di alcuna utilità fare un bagno
lì dentro. L’acqua era cristallina e sembrava fresca, ma non abbastanza
invitante da tentarla. La verità però… La promessa di sentire tutta la verità,
nient’altro che quella, era allettante. Si ritrovò divisa tra il desiderio di
voler entrare e quello di allontanarsi e rifletterci sopra ancora un po’ di
tempo. Era così concentrata su quei pensieri che non si accorse della mano in
movimento ma sentì solo la spinta.
Altro
che fresca! L’acqua era gelida e si infiltrò nelle ossa e nei recessi della sua
anima come un guanto ruvido, portando via tutto quello che sentiva appartenerle
e sostituendolo con qualcosa di sconosciuto, una leggera pesantezza. Non
capiva.
C’era
del nero, ordinato, come una capigliatura color carbone e una macchia rossa, molto
scura, sembrava un vestito, ma non avrebbe saputo definirlo con certezza.
Annaspò,
sentendo i polmoni bruciare mentre riprendeva fiato a respiri profondi e
tossendo per l’acqua ingerita. Quando riuscì a uscire dalla fonte rabbrividì
per il freddo, ma c’erano due ragazze a fissarla, giovani e sorridenti.
Le
due avevano osservato Verity nascoste dietro un cespuglio fin dal momento in
cui aveva salutato Lidwig e l’avevano trovata interessate, così diversa da
Mary, ma così simile allo stesso tempo. Si era guardata intorno incredula e
aveva addirittura cercato di parlare con Lidwig, cosa mai accaduta prima. Poi
era carina. Si vedeva che era interessata a quello che Mary stava dicendo
eppure, allo stesso tempo, era stata curiosa e poi arrabbiata e dopo di nuovo
curiosa ma dubbiosa.
Verity
le osservò attentamente, rimanendo vicina al bordo della fonte.
Non
si era sbagliata del tutto. L’abito della ragazza con i capelli neri, che ora
notava pettinati in un incrocio di perline colorate dal rosso al viola, era di
una calda tonalità porpora stampato con arabeschi neri in velluto, stretto
sotto il seno da un nastrino bianco. Era meraviglioso, certo, ma quello che
spuntava dalla sua schiena lo era ancora di più. Il cielo, quello che nasce
dopo il tramonto del Sole, si era nascosto nelle ali della ragazza. Il blu
della notte appena accennato si fondeva con il viola, sciogliendosi nel rosa
della stella morente e svegliandosi nell’arancio verso le estremità delle
piume. Il trionfo della luce, della natura. Non che, ovviamente, le ali della
ragazza al suo fianco fossero meno belle. Ogni singola piuma era di un colore
diverso dall’altro, come se fossero la tavolozza di un pittore impressionista.
Risaltavano moltissimo sull’abito bianco e corto, stretto dall’alta cintura argentea
che indossava.
‹‹Cosa
volete da me?››
Mary
sorrise divertita. Era certa che Hariel le avrebbe spiate, ma non avrebbe mai
pensato che Lelahel si sarebbe aggiunta. Disubbidire agli ordini non era mai un
buona idea nel Paradiso, nemmeno in una circostanza speciale come quella.
Eppure sorrise ancora e, mentre posava le mani sulla loro spalle, disse a
Verity: ‹‹Loro sono Lelahel, custode dell’Inferno e Hariel, custode del
Paradiso. Sono tue amiche e dovresti vedere le tue ali, sono magnifiche.››
Ali?
Ma lei non poteva avere delle ali, lei non poteva essere un angelo, era solo
un’anima…
Tastò
la schiena, salendo piano alla loro ricerca e le trovò, spuntavano dalle
scapole. Sembravano così resistenti e pesanti al tatto, mentre lei le sentiva
leggere e inconsistenti. Si specchiò nella fronte, sperando che riflettesse
abbastanza bene da poter distinguere i colori. Erano di un giallo pallido,
tenue come un acquerello, e sfociavano, scurendosi, nel verde del muschio. Non
erano maestose come quelle delle due ragazze, per niente, eppure le piacquero
anche di più. Le davano una strana sensazione di pace interiore ed equilibrio
che non credeva di poter provare. Quella sensazione, per lei, valeva più di
mille colori meravigliosi.
‹‹Ti
piacciono le tue ali, Verity? Secondo me sono bellissime!››
Hariel,
scuotendo la coda di capelli bianchi, le fece il complimento e la ragazza
ringraziò riconoscente, non abituata a ricevere apprezzamenti e a stare al
centro dell’attenzione. Anzi, la fissavano un po’ troppo insistentemente
rispetto alle sue abitudini, come se si aspettassero qualcosa di particolare da
lei, come una magia spettacolare che sapeva di non poter dar loro.
Mentre
era immersa nei suoi pensieri, Hariel e Lelahel si alzarono in aria sbattendo
le ali. Verity desiderò ardentemente poterle raggiungere e mosse inconsciamente
le proprie, facendo increspare l’acqua della fonte in piccole onde trasparenti.
Quando guardò giù, vide Mary salutarla da terra e si bloccò: stava davvero
volando! Si girò sorridendo verso la direzione che avevano preso le due
guardiane, ma vide solo dei puntini lontani.
Che antipatiche a non
avermi aspettato!
Poi
il vento la sospinse in avanti e lei rotolò per aria, incastrandosi in una
nuvola. Si appoggiò ad essa, stupendosi della consistenza spumosa ma che non la
faceva affondare. I batuffoli di panna la tenevano su. Ma il problema non era
la nuvola. Non aveva la minima idea su come far funzionare quelle ali che
spuntavano dalla schiena. Era impossibile riuscire a controllarle se nemmeno le
sembrava di averle attaccate al suo corpo tanto erano leggere. Fece un respiro
profondo e saltò fuori dalla nuvola spingendosi con le gambe. Non riusciva a
volare in avanti, certo, ma almeno poteva galleggiare.
Due
mani abbronzate la presero per i polsi. Erano quelle di Scar.
‹‹Allora
avevo ragione a pensare che tu non fossi umano!››
Aveva
sempre creduto che quel ragazzo avesse qualcosa di strano, troppo particolare
persino per un mago e adesso lo vedeva sotto forma di angelo di fronte ai suoi
occhi. Così vicina al suo viso, si perse ancora nei suoi occhi che erano così
simili a quelli del Lucifero del suo sogno, solo che i colori erano invertiti e
dove ci sarebbe dovuta essere una venatura viola, ce n’era una nera. Erano
occhi in cui annegare come nel mare in tempesta, guidati dal lento fluire
dell’anima viola dell’iride. Perché erano così simili, anche se opposti, a
quelli di Lucifero? E perché, soprattutto, lei ricordava così bene quelli
dell’angelo caduto? Perché a guardare bene, anche i capelli neri e lisci di
Scar erano simili a quelli di Lucifero.
Indossava
un camicia bordeaux e pantaloni in pelle strettissima che evidenziavano i
muscoli delle gambe. Ma non aveva ali. Come faceva a volare senza ali?
‹‹Scar,
ma come…››
‹‹Concentrati.
Chiudi gli occhi, senti le tue ali. Se non lo fai, non volerai mai.››
Concentrarsi…
Come se fosse facile concentrarsi mentre galleggiava per aria a cento metri da
terra, con il rischio di cadere giù e chissà cosa sarebbe potuto accadere. Però
chiuse gli occhi lo stesso, stringendo con più forza le mani intorno ai polsi
dell’angelo. Ascoltando attentamente riusciva a sentirle, ma non a muoverle.
‹‹Non
pensare. La magia non si pensa, si sente. Ascoltala parlare e trova le tue
ali.››
Verity
si concentrò ancora di più, visualizzando l’immagine delle ali e cercando di
percepirne meglio la presenza.
La
sentì.
C’era
qualcosa, qualcosa che scorreva velocissimo dentro di lei, qualcosa che non
aveva mai sentito prima ma che sembrava essere lì da sempre. Era una rete
complessa, che attraversava tutto il suo corpo, diramandosi fin sulle punte
della dita; ogni terminazione nervosa, ogni fibra del suo essere sembrava
essere percorsa da quel fluire magico così potente che si chiese come fosse
stato possibile non averlo mai percepito prima.
‹‹Qualcosa
scorre… È fresco, come la brezza che sale dal mare, ma più veloce e devastante
di una valanga. Mi travolge dall’interno, ma mi dà energia…››
‹‹Usala,
comandala. Desidera con essa, così potrai volare.››
Verity
lo abbracciò, sorridendogli gentile, ma il sorriso si spense subito. Lui non
sembrava per niente felice, tutt’altro. Era come se stesse provando nostalgia
per qualcosa o forse qualcuno. Vide Hariel e Lelahel tornare indietro, così
prese per mano Scar e si diresse verso di loro, volando in modo incerto.
‹‹Scusaci
tantissimo Verity, non avremmo dovuto abbandonarti così›› disse Hariel non
appena la raggiunse. ‹‹Se lo desideri, possiamo farti vedere il Paradiso, così
da poterlo conoscere. D’ora in poi sarà la tua casa.››
Verity
accolse la proposta con gioia, piena di curiosità e di emozione alla
prospettiva di conoscere qualcosa di nuovo, ancora euforica grazie
all’adrenalina che il volo faceva circolare nelle sue vene. Si girò verso Scar
e gli sorrise, di nuovo, chiedendogli di rimanere con lei. Lui tentò di
rifiutare, ma alla fine cedette.
Sorvolarono
un boschetto minuscolo e poi salirono verso l’alto. Verity faticava a tenere il
ritmo delle due ragazze, ma faceva del suo meglio, aiutata ogni tanto da Scar
che la spingeva con le braccia, trascinandola poi con sé. Fu però enormemente
felice quando la fecero atterrare di fronte a un arco di marmo bianco, nella
punta estrema del luogo in cui erano giunte. Sull’enorme arco erano scolpiti
innumerevoli fiori: alle basi due piante di rose, insieme all’edera, si
arrampicavano intrecciandosi tra loro in un vortice di boccioli, gemme nel
culmine della loro bellezza e giovani foglioline. Si aggiungevano margherite
minuscole, violette e non-ti-scordar-di-me talmente reali da poter essere
sfiorati sentendo la morbidezza dei petali. In alto, incisa tra i fiori, vi era
una scritta: “Dobbiamo amare ognuno in
modo diverso”.
‹‹Da
dove arriva quella frase?››
Lelahel
guardò Verity, ma non ebbe il coraggio di dirle la verità.
‹‹Lo
disse un angelo tanto tempo fa. Ma agli abitanti del Paradiso non piace
ricordare questo. È legato alla guerra.››
Il
tono di Scar diceva chiaramente che non avrebbe risposto a nessun’altra
domanda. Eppure Verity aveva carpito dolore e una nota di tristezza oltre la
rabbia. Era qualcosa che stava nascosto, in fondo all’anima, e che
probabilmente nessun altro aveva percepito. Forse gli avrebbe chiesto
spiegazioni, quanto meno per conoscere meglio quella storia.
Lelahel
la prese sottobraccio, raccontandole qualche piccola interessante notizia per
farla ambientare.
Gli
angeli vivevano nella parte bassa del Paradiso, precisamente sugli alberi in
piccole case che per magia erano più grandi all’interno di quanto paressero
all’esterno. Alcuni da soli, altri come famiglie, si ritrovavano l’uno a casa
dell’altro per passare il tempo; altri ancora tornavano su una volta ogni
tanto, quando riuscivano a prendersi una pausa dal ruolo di custodi, anche se
accadeva raramente. Nella parte alta, invece, vivevano gli Arcangeli. Lì era
sempre notte, anche se quando brillavano le stelle emettevano così tanta luce
da indurre l’osservatore a pensare che fosse giorno. Era un mondo nel mondo,
un’atmosfera completamente diversa.
Quando
si immersero nel bosco, poco dopo essere passati sotto l’arco, Lelahel continuò
a spiegare. Ogni punto del Paradiso era un ingresso e non si doveva
necessariamente passare sotto l’arco. Ciascun angelo poteva fare quello che più
gli aggradava, andare e venire con la frequenza che preferiva. L’unica regola era
che non si avvicinassero per nessuna ragione al portale per l’Inferno.
‹‹E
immagino che nessuno lo faccia, vero?››
‹‹No,
ma non per rispettare la regola. È solo per paura. Da quando i Nephilim hanno
portato qui gli ultimi caduti, tutte le volte che un angelo comune ha
attraversato il portale, è stato trovato morto.››
Verity
rabbrividì, stringendosi maggiormente al braccio di Lelahel. Avrebbe voluto
saperne di più sui Nephilim, sia perché non aveva mai incontrato il loro nome
sulla Terra, sia perché sembrava un argomento fondamentale nella storia del
Paradiso, ma in quel momento aveva troppa paura per pensare di chiederlo.
Intanto
loro continuavano a camminare e in poco tempo Verity cominciò a vedere la
natura diradarsi, lasciando posto solo a un grande prato pallido. Prima che
questa svanisse del tutto, il gruppo uscì dal sentiero calpestato, seguendo poi
un percorso silenzioso. Raggiunsero le rive di un grande lago. Sulla sabbia,
disposti lungo il perimetro, si trovavano angeli senza ali, con il volto coperto
da un velo azzurro sul cui bordo erano attaccate dracme argentate. Cantavano.
Verity si sedette al fianco di una di loro e guardò dentro le acque del lago:
adagiate sul fondo, protette dalle alghe verdi, c’erano uova dorate. Alcune
erano piccole, come quelle delle galline; altre erano grandi come noci di
cocco. Verity, lo sguardo ancora fisso sulle uova, sentì la necessità
impellente di distendersi e dormire, una sonnolenza così forte che non sentì le
mani di Scar tirarla indietro, prenderla in braccio e riportarla sul sentiero.
La depose sull’erba, con la schiena appoggiata al tronco largo di una quercia.
‹‹Cosa
mi è successo?››
Hariel,
seduta accanto a lei, le rispose con dolcezza: ‹‹Sei rimasta catturata dal
canto dei Sognatori. Non sei la prima, succede continuamente, è successo anche
a me! Ma io sono riuscita a svegliarmi da sola prima che mi suicidassi
affogandomi nel lago: per questo Michele mi ha nominato guardiana… I Sognatori
sono angeli caduti che, quando hanno capito che la guerra non stava andando a
loro favore, sono corsi dagli Arcangeli a chiedere perdono.››
‹‹Non
ne hanno trovato.››
‹‹Dovevano
punirli. Li hanno costretti a tagliarsi le ali da soli, poi hanno imposto loro
di indossare quel velo. Non possono toglierselo, né vedere attraverso. Sono
completamente ciechi. Però sognano, e da qui il nome. Sognano il futuro e il
passato ma non possono parlarne con nessuno e quindi cantano. Il loro canto
dona energia alle uova che così possono mantenere la barriera che circonda
l’Inferno. Se qualcuno si lascia ammaliare dal canto prima si addormenta, poi
cerca di uccidersi. Pochi sopravvivono e chi non si sveglia diventa un uovo.››
‹‹È
spaventoso…››
‹‹Gli
Arcangeli sono stati cattivi con i dannati, ma anche giusti.››
‹‹Quella
è crudeltà, non giustizia, Hariel… Ma grazie per avermi spiegato e grazie a te,
Scar, per avermi portata via.››
Verity
si alzò, affidandosi alla mano che Scar le aveva offerto
e raggiunse Lelahel, camminando a fianco lei. Intanto pensava. Forse anche Scar
era stato punito in qualche modo e per questo non aveva le ali. Ignorò Hariel,
che le si era affiancata, e seguì solo Lelahel.
Eliminato
il Lago di Sognatori, il Paradiso si estendeva come un’enorme foresta dove
crescevano piante di ogni specie, alberi che non avrebbero mai potuto convivere
sulla Terra perché abituati a climi diametralmente opposti; radure su radure
che creavano spazi vuoti, coperti solo di erba verde e gialla. E, al di sopra
delle cime degli altissimi abeti, si ergevano le guglie del Palazzo degli
Arcangeli. Passarono di fronte all’enorme portone nero, chiuso, ma non si
fermarono. Hariel disse che l’avrebbe accompagnata in un altro posto, molto più
utile. La portò in un punto dove la luce delle stelle splendeva meno anzi, era
quasi inesistente. In quel buio in cui Verity non riusciva a distinguere nulla,
Hariel si mosse sicura dei suoi passi, accedendo con una scintilla una piccola
candela. La luce di questa era appena sufficiente a illuminare una porta di
legno scuro con un pomello tondo in ottone al centro.
‹‹Questo
è un portale magico: in pochi secondi è in grado di trasportarti nel luogo in
cui ti sei svegliata, Eteria. Mi spiace, ma adesso devo proprio andarmene
perché ho delle cose molto importanti da fare.››
Li
salutò e li lasciò attraversare il portale con un sorriso. Appena il portone fu
chiuso, Hariel tornò velocemente indietro, verso la sua casa vicino
all’ingresso del Paradiso. Una volta dentro emise un sospiro appoggiandosi alla
porta. Nessun arcangelo era all’interno ad attenderla. Raffaele non credeva che
una terza guardiana potesse essere di alcun aiuto. Non che fosse realmente
cattivo, tutt’altro. Solamente aveva paura che si scatenasse una nuova guerra
con Lucifero per la ragazza. Hariel non pensava che il demone avrebbe mai
lottato ancora, anzi, secondo quello che diceva Lelahel, lui stava cercando da
secoli di calmare gli animi dei dannati per evitare che gli arcangeli
intervenissero e commettessero un genocidio. Si accasciò a terra, respirando
profondamente e chiuse gli occhi, sperando di non ritrovarsi una brutta
sorpresa al risveglio.
Oggi
nessuna nota particolare, vi auguro solo buona lettura!
Un
saluto a tutti.
Nemamiah
Verity
aveva dormito cullata dal leggero dondolio di una nuvola color panna,
appoggiata sul petto di Scar che si era offerto di farle da cuscino. Fu un
fulmine a svegliarla. Un fulmine che era passato proprio vicino alla spalla di
Scar, tanto vicino che lei era saltata all’indietro, spaventatissima.
‹‹Verity,
cosa succede?››
‹‹Mi
è appena passato un fulmine davanti agli occhi!››
‹‹Non
è nulla di grave, tranquilla. Significa solo che siamo molto vicini all’Inferno
e che il nostro viaggio è quasi finito. Hai passato una buona nottata?››
Verity
annuì intimorita, mentre pensava a come era morta, di fronte a suoi occhi, la
diavoletta che l’aveva attaccata quando era sulla Terra. Lelahel le sorrise,
spiegandole poi che le nuvole li avrebbero portati verso l’alto, molto più in
alto del Paradiso. Il cielo, azzurro al livello di Eteria, diventava sempre più
scuro, cupo e pericoloso. Più ci si avvicinava alla barriera, più tuoni
assordanti e fulmini si rimbombavano l’uno sull’altro, frequenti e
imprevedibili. Pochi angeli erano riusciti, volando da soli, a passare indenni
quel percorso.
‹‹Nemmeno
io passo di qui, se non davvero raramente. Preferisco il portale che non solo è
più sicuro, ma mi porta più vicina alla mia solita meta.››
La
nuvola li lasciò vicino a uno spuntone roccioso, da cui scendeva una scaletta.
Da
lì avevano una visione completa di gran parte dell’Inferno. Il paesaggio era
completamente diverso dal Paradiso. Al posto dei prati verdi e degli alberi, si
sostituivano un’enorme distesa di roccia rossiccia e rilievi aguzzi che
creavano ombre terrificanti, pronte ad imprigionare chi si fosse immerso nella
loro oscurità. Sullo spuntone dov’erano atterrate c’era un arco, come nel
Paradiso, ma scolpito con facce spaventose, smorfie terribili che facevano
accapponare la pelle e venir voglia di scappare via ad ali spiegate. Lelahel
strinse la mano di Verity per incoraggiarla e questa si girò verso Scar, invitandolo
a seguirle.
‹‹Non
vengo con voi. Non ho intenzione di entrare qui dentro.››
Verity
non riuscì a dirgli nulla poiché andò via tanto velocemente che era già in
mezzo al cielo prima di riuscire anche solo a pensare a una frase. Lo vide schivare
un fulmine e atterrare su una nuvola in discesa.
Lelahel
scosse la testa sconsolata: Scar scappava sempre quando si trattava di entrare
nell’Inferno…
‹‹Lascialo
andare. Non è un posto piacevole per lui. Porta alla mente brutti ricordi…››
‹‹Che
ricordi?››
‹‹Una
parte della sua famiglia è qui. Forse un giorno te ne parlerà. Posso solo dirti
che entrambi eravamo presenti quando Lucifero si è ribellato. Io approvavo la
sua causa, ma ho scelto di non combattere mentre Scar… Beh, lui ha scelto di
tagliarsi le ali. Ha una volontà di ferro quel ragazzo.››
‹‹A
te invece è successo qualcosa?››
‹‹Ho
perso la vista. Michele mi ha punito in questo modo perché ho guardato la
guerra da lontano ma non ho partecipato. È una pena per insegnare ai nuovi
angeli: o fai qualcosa fino in fondo o non te ne interessi nemmeno. Penso
ancora che sia sbagliato, che ognuno debba dare ciò che può, al massimo delle
proprie possibilità, ma non posso contestare la sua decisione. In ogni caso
dopo mi ha nominata guardiana dell’Inferno. So che lo ha fatto solo perché
conosco bene Lucifero e desiderava che controllassi i suoi movimenti, ma lo
ritengo lo stesso un onore. Ora però andiamo avanti. Mettiti questo addosso e
non alzare il cappuccio: guarderanno con invidia le tue ali ma non ti devono
riconoscere, almeno per ora. Avvisami se qualcosa, qualsiasi cosa, ti turba.
Sento tante emozioni, ma non le tue.››
Verity
indossò il mantello marrone che Lelahel le stava porgendo e si calò il
cappuccio sul capo, nascondendo i capelli rossi. Poi attraversarono l’arco e
non fu come in Paradiso, questa volta le sembrò davvero di oltrepassare una
barriera.
La
barriera non solo impediva ai dannati di uscire, ma aveva effetto anche sui
colori: le montagne non erano rosso mattone ma molto più scure, color porpora,
e le ombre sembravano ancora più spaventose e buie, mentre i tuoni rimbombavano
contro le pareti rocciose e il vento ululava affamato tra le cime aguzze.
Lelahel
e Verity scesero la scaletta e proseguirono sul bordo di un profondo dirupo, di
cui non si vedeva la fine. Camminarono per alcune ore prima di costeggiare un
muretto in pietra grigia e calda che le portò all’ingresso di una città con
case basse, di un colore chiaro e consumato dal tempo, con tante piccole
finestre. Sospesi in aria, di fronte a ogni porta e ad ogni incrocio,
brillavano piccoli fuochi fatui: centinaia di fiammelle che illuminavano l’aria
a giorno, rendendola una città fantastica, mistica e sfuggente. Inafferrabile.
Verity
sorrise a quella vista, stringendo la mano di Lelahel. Si era aspettata un
luogo tetro e spettrale, ma si stava rivelando esattamente l’opposto.
Nella
parte alta, dove stavano camminando, si aprivano botteghe e bazar di ogni
genere, come se fosse una comune città terrestre: banchetti di vasellame di
terracotta, dipinti con mille colori vivaci; uomini abbronzati che urlavano per
vendere frutta e verdura. Si distinguevano negozi di stoffe e vestiti dove
donne con lunghi mantelli si fermavano a osservare o comprare qualcosa. Tutti
quanti, e questo sembrava strano, indossavano quei mantelli marroni e, cosa
anch’essa strana, erano pallidi ed emaciati e tenevano lo sguardo sempre basso.
Alcuni pronunciavano parole con loro stessi, altri si sussurravano tra loro e
sembrava il sibilo dei serpenti.
‹‹Sembra
un mercato della Terra…››
‹‹Lo
è. I Nephilim sono i figli che i caduti hanno avuto sulla Terra, sono
praticamente cresciuti come umani, con le vostre abitudini. Loro vivono qui,
prima della voragine, alla luce. Però lasciali stare, non parlare con loro:
hanno tradito i loro padri, consegnandoli agli arcangeli. Nessun dannato
rivolge loro parola da quel giorno e li lasciano qui fuori, anche quando i
fulmini riescono a oltrepassare la barriera e a raggiungere la città… Ma
proseguiamo, non è qui che dobbiamo fermarci.››
Uscirono
dalla città e scesero in un tunnel appena illuminato da alcuni fuochi chiusi in
gabbie di roccia attaccate alle pareti, sempre più ripido man mano che ci si
avvicinava alla fine. Sbucarono in un’enorme pianura, arsa dal fuoco e nera
come il carbone. Ombre scure si spostavano veloci tra le rovine della città
bassa. Bastava fare pochi passi, superare la prima barriera di rocce e si
incominciavano a distinguere le prime macerie: colone distrutte, tagliate a
metà, consumate dal tempo e dal fuoco che bruciava ancora sulle porte e
anneriva le pareti delle case.
I
bisbigli dei Nephilim, la loro storia, avevano rattristato Verity. Aveva
provato compassione per la loro solitudine, ma la profonda desolazione di quel
mondo sotterraneo le opprimeva il cuore. Lì sotto tutto decadeva, moriva e si
trasformava in cenere e polveri inafferrabili. La disperazione dei dannati
aveva eliminato qualsiasi speranza di una vita, se non piacevole, quantomeno
serena, la induceva a scappare, allontanandosi da quegli angeli maledetti che
con i loro sentimenti avevano contaminato anche la terra, impregnandola con il
loro odio e della loro sete di vendetta, rendendola buia, infeconda. L’avevano
uccisa senza pensare alle conseguenze, dimenticandosi che quella terra tanto
odiata avrebbe potuto ospitarli e crescerli. Quella terra infernale li avrebbe
amati, avrebbe dato loro tutto quello di cui avrebbero potuto avere bisogno:
luce, acqua, cibo, sogni, vita. I caduti invece l’avevano attaccata e
maltrattata. Senza rispetto avevano distrutto la loro nuova madre, riducendola
a pezzi, l’avevano fatta piangere e poi annegare nelle sue stesse lacrime di
sangue scarlatto; l’avevano accecata con i bagliori della magia e assordata con
le grida di dolore. La sconfitta nella guerra, il tradimento dei figli,
l’essere esiliati e isolati dal mondo natio avevano originato rancori e
risentimenti che erano germogliati nei cuori aridi ma avidi di riconquistare la
libertà perduta e quegli stessi sentimenti, come piante maligne, avevano
attecchito nella terra, contaminandola e indebolendola.
Verity
sentiva tutto questo.
Era
chiaro e lampante nonostante avesse la mente frastornata da un battito
assordante che palpitava senza mai fermarsi. Sentiva le urla strazianti della
terra e migliaia di cuori che pulsavano all’unisono.
Si
girò verso Lelahel, scoprendo che questa la stava fissando intensamente con i
suoi occhi ciechi.
Certo,
Lelahel non poteva vedere, ma sapeva guardare. Perdere la vista l’aveva privata
del senso che maggiormente aveva sfruttato in giovinezza, quello che aveva
sviluppato nel modo più profondo, ma non aveva dimenticato. Tutto ciò che aveva
imparato, tutti i traguardi faticosamente raggiunti erano rimasti incisi a
fuoco nelle sue iridi vuote. Riusciva ancora a guardare. Vedeva, grazie alla
magia, ogni cosa intorno a lei; percepiva i sentimenti e le preoccupazioni di
ogni angelo vicino, almeno di quelli che li lasciavano uscire dalla barriera
che ognuno teneva sempre alzata intorno alla propria anima. La barriera di
Verity si era annullata completamente appena era entrata nell’Inferno. Era
rimasta talmente presa da quello che la circondava che la sua istintiva
protezione era venuta meno, senza che lei se ne accorgesse. Aveva camminato in
mezzo alle rovine, ascoltando la voce della terra, e le aveva ricostruite
sfiorandole con le mani. Tutto senza avvedersene. Poi si era girata verso di
lei. La guardava come in attesa di una risposta, ma non aveva sentito nessuna
domanda. Le sorrise e basta, sperando che bastasse a incoraggiarla.
‹‹Lottano
tra loro, lo sento. Perché? Perché distruggersi tra fratelli?››
Aveva
gli occhi lucidi e le lacrime scivolavano dalle guance come perle rotonde.
Lelahel corse verso di lei e l’abbracciò stretta. La capiva perfettamente.
Anche lei soffriva per il destino dei caduti, sebbene non potesse ammetterlo ad
alta voce ma solo cercare di aiutarli con piccole concessioni.
‹‹Perché
sono arrabbiati. Dopo millenni sono ancora arrabbiati e si scontrano tra loro
per placare questa rabbia.››
Percepiva,
nascosti dietro alcune macerie, il fremito delle ali e lo stupore perplesso di
alcuni dannati che sbirciavano le loro azioni, ma quando lasciò Verity per
proseguire, questi si allontanarono, scappando per non essere visti. Non era
una cosa rara che i più tranquilli controllassero la situazione di nascosto,
così da essere certi di non finire in mezzo a una battaglia, ma sospirò lo
stesso di sollievo quando non captò più la loro presenza: sperava solo, per una
volta, di non doverne sentire altri.
Condusse
Verity lungo quello che avrebbe dovuto essere il grande viale di una città: la
strada era cosparsa di massi e rocce, la magia residua di uno scontro ancora
percepibile nell’aria, sui lati, case, tetti crollati e muri bruciati. Quanto recente deve essere questa? Si
chiese Lelahel e si augurò di non dover trovare nessun morto cui dare una
sepoltura, non con Verity al suo fianco.
Il
viale terminava contro un’alta parete rocciosa, così liscia da non poter essere
scalata in alcun modo. Lelahel poggiò una mano contro la pietra e pronunciò alcune
parole in una strana lingua, ripentendole più volte. Spuntarono quattro gradini
proprio di fronte a loro. Lelahel salì direttamente sul secondo e poi sul
terzo, allo stesso ritmo in cui Verity era salita sul primo e poi sul
successivo. Man mano che salivano i gradini scomparivano dal fondo e
riapparivano davanti a loro fino a che non arrivarono su una piattaforma
altissima, quasi completamente irriconoscibile dal fondo, che dava accesso a un
loggiato scavato nella pietra, particolarmente profondo.
Ogni
oggetto era scolpito nei minimi dettagli come una scultura di Michelangelo o
Bernini: linee morbide, che davano l’idea della vita e del movimento della
roccia. Molte statue e busti emergevano dalle pareti con un’espressione ora
serena, ora malinconica, ma mai davvero triste, simile ai volti dei quadri di
Botticelli. Emanavano calma e rassegnazione da ogni loro forma, immobili ed
eterne. Anche la mobilia era stata ricavata dalle pareti e dal pavimento, come
piante, spuntavano un tavolo e delle sedie. Primo fra tutti spiccava però il
divano, che sembrava nascere dalla roccia e si sviluppava in un vortice di onde
e increspature sui braccioli, mentre quelli che avrebbero dovuto essere rigidi
cuscini di pietra erano veri, morbidi e comodi. Le stoffe sembravano le stesse
che aveva visto nella città di Nephilim ed erano ricamate con figure nere,
simili a quelle dipinte sui vasi dell’antica Grecia. Proprio su quel divano
stavano seduti due angeli dall’aria stanca e annoiata. Avevano lo sguardo perso
nel vuoto, le mani di uno raccolte in grembo e quelle dell’altro abbandonate
sul bracciolo. Sembravano disinteressati a ogni cosa potesse accadere intorno a
loro. O forse non accadeva mai nulla di interessante in quel luogo, pensò
Verity. Uno di loro però, appena le vide, si alzò e tese la mano a Lelahel,
pressando poi i palmi tra loro in quello che sembrava un “cinque” lento,
angelico, avrebbe detto Verity, se non avesse perfettamente saputo che quelli
che aveva davanti era angeli in tutto e per tutto. La mano di Lelahel era
abbronzata, molto più scura rispetto a quella pallida dell’angelo che aveva la
pelle bianca come la neve e gli occhi rosso porpora. I capelli erano biondi
alla radice, ma si scaldavano in un rosso carota man mano che ci si avvicinava
alle punte: li teneva racchiusi in una treccia lunga e voluminosa, dov’erano
incastonati piccoli smeraldi. Era molto bello, e alto, e magro. Dakota si
sarebbe subito attaccata a lui, magari circondandosi le spalle con la toga
romana color avorio. Dietro le sue spalle si vedevano le ali, imponenti anche
se chiuse: un verde scuro brillante, screziato da pennellate di una tonalità
più chiara. Donavano un’aura di forza e impetuosità ad un angelo che dava
l’impressione di possedere un’immensa calma e saggezza. Separatosi da Lelahel
si voltò verso di lei, baciandola su entrambe le guance, pungendola con la
barba rossiccia, ispida. Le sorrise e si inchinò con estrema grazia. L’altro
angelo si alzò, cercando il primo con lo sguardo per ottenere risposte, mentre
Verity rimase immobile, incapace di muovere un qualsiasi muscolo.
‹‹Non
preoccuparti Hesediel, è lei.››
L’angelo
la osservò perplesso, scrutandola da sotto la frangia liscia e nera con gli
occhi azzurri: la stava esaminando, passando da un particolare all’altro senza mai
soffermarsi veramente. Verity espirò, muovendo le dita e congiungendo le mani,
spostando il peso da un piede all’altro e provando a ricambiare lo sguardo che
l’analizzava con la stessa intensità. Anche quell’angelo era bello, di una
bellezza magnetica. Alcune ciocche bianche erano tenute ferme da mollette
orizzontali ricoperte da pietre viola, forse ametiste, mentre il caschetto di
capelli neri si fermava poco prima delle spalle. Indossava solo una lunga gonna
bianca, che ricordò a Verity quelle che aveva visto nel libro di storia, nel
capitolo relativo al popolo egizio; le braccia erano tatuate con geroglifici
neri, verde e oro che si susseguivano in cerchi. Anche lui teneva le ali
chiuse, eppure trasmettevano lo stesso la sensazione di uno smisurato potere.
Queste però erano solamente bianche, come quelle che chiunque assocerebbe
all’immagine di un angelo.
Verity
era senza parole nel vedere in entrambi così tanti riferimenti a popolazioni
tanto antiche e rimase a fissarli basita anche dopo che Hesediel ebbe finito la
sua analisi. Fu sul punto di chiedere qualcosa ma tacque, chiudendo la bocca.
‹‹Credo
che si stia chiedendo il perché di quelle righe lunghe sulle palpebre,
Hesediel. Cosa che tra l’altro continuo a chiedermi anche io.››
Verity
aprì ancora di più gli occhi, se possibile, perché era esattamente una delle
domande che aveva avuto intenzione di porre.
‹‹Sono
nato dalla prima piena del fiume Nilo, nell’attuale Egitto. Ho vissuto con il
popolo egizio fino a che non sono diventato un peso per la loro cultura, poi mi
sono fatto da parte. Non ho voluto, però, dimenticarmi chi sono stato e ho
deciso di conservare su di me ciò che mi hanno insegnato.››
Verity
arrossì, ma riuscì a ringraziarlo con un filo di voce, sentendosi un po’ meno
imbarazzata. L’inchino del primo angelo l’aveva davvero messa in soggezione, ma
sentirli parlare, e vedere che sembravano scherzare tra loro, l’aveva
leggermente rilassata.
‹‹Verity,
loro sono Raziel ed Hesediel. Sono due dei tre arcangeli che si sono schierati
con gli angeli caduti.››
Raziel
la invitò a sedersi sui cuscini al suo posto con un cenno della mano mentre
Hesediel chiedeva a Lelahel se poteva lasciarli soli. Verity li guardò
spaventata, ma Raziel fu lesto a tranquillizzarla: ‹‹Lelahel tornerà presto,
non appena avremo finito di parlare. Siamo felici che tu sia qui e vorremmo
conoscerti. Ci sono così tante cose che non sai su questo mondo e scommetto che
nemmeno te le hanno spiegate.››
Gli
occhi della ragazza si illuminarono per la curiosità e si accomodò meglio sui
cuscini, pronta a ricevere delle vere informazioni. La paura di essere
abbandonata scomparve in un decimo di secondo, così com’era venuta.
‹‹Allora,
cosa sai degli angeli?››
‹‹Nulla.
Ho letto tantissimo sulla Terra, ma non ritrovo quasi nulla di ciò che ho
studiato…››
‹‹Gli
umani hanno un modo strano di vedere gli angeli… In realtà hanno un modo strano
di intendere tutto il creato, ma non importa. Andiamo con ordine. Ognuno di noi
ha un nome particolare, che indica l’essenza dell’anima dell’angelo, il dono
accordatogli da Dio. Indica una caratteristica specifica del carattere, ma
anche qualcosa che accadrà in futuro o che è accaduto nel passato, a seconda
del tempo in cui consideri il nome››.
‹‹Cosa
significano i vostri nomi? E quelli degli altri? E perché avete supportato
Lucifero nella guerra? Siete stati solo voi tre? E il terzo dov’è?››
‹‹Calma,
bambina, calma. Una domanda alla volta, altrimenti me le dimenticherò per
strada. Noi siamo arcangeli e ognuno di noi rappresenta un potere enorme che
cambia a seconda della gerarchia di appartenenza. La gerarchia rappresenta la
nostra migliore caratteristica che in alcuni casi si è rivelata il difetto
peggiore. Gli angeli custodi sono divisi e protetti dai vari arcangeli, ma
hanno un potere magico minore.››
Raziel
apparteneva al Coro dei Cherubini, secondo nella gerarchia angelica, Potenza
dell’Amore e del Sapere. Era uno studioso, un filosofo e un filantropo. Era
nato in Grecia, prima dell’avvento delle polis e delle grandi guerre tra Atene
e Sparta. Aveva sfruttato al meglio il tempo concessogli nella sua patria,
trasferendosi dalle montagne alla città per conoscere Talete, Socrate,
Aristotele e Platone. Aveva studiato con loro, ascoltato e compreso tutte le
loro magnifiche idee, sia che fossero in accordo sia in contrasto, senza mai
interferire nel loro pensiero. Aveva vissuto poi a Roma, vedendo di persona le
grandi personalità politiche di Cesare e Ottaviano, e aveva letto per primo i
versi ardenti di Virgilio, ascoltato i discorsi di Cicerone, commentato lo scorrere
inesorabile del tempo insieme a Seneca pur non essendone toccato. La caduta di
Roma e del suo immenso impero l’avevano obbligato tornare definitivamente in
Paradiso, dove con gli anni aveva stretto legami forti con tutti gli abitanti,
Michele in particolare. Tornando a casa perse però i contatti con gli arcangeli
che amava di più e si ritrovò costretto a scendere nuovamente. Ritrovò Hesediel
non molto tempo dopo, presso la corte di Lorenzo de Medici, travestito per non
essere riconosciuto. La prosperità e la ricchezza di quel luogo avevano
attirato entrambi ed erano stati felici di ricongiungersi, anche perché in poco
tempo erano riusciti a trovare un altro arcangelo che aveva vissuto per secoli
mimetizzato tra le statue di marmo candido delle chiese fiorentine. Poi, tempo
dopo, la caduta.
Quell’ultimo
arcangelo era lo stesso che stava osservando Verity dal momento in cui era
entrata, ben attento a non far vedere il minimo movimento. Molte volte Metatron
aveva pensato che essere nato con l’aspetto di una statua fosse alquanto
scomodo, ma nel corso degli anni si era dovuto ricredere, anche grazie
all’abilità di mascherare le sue sembianze: così era molto più semplice
ascoltare o vedere qualsiasi tipo di conversazione, soprattutto quelle che si
svolgevano all’interno dell’Inferno, venendo facilmente a conoscenza di chi
nasceva. Metatron aveva infatti il compito, come arcangelo del Paradiso, di
dare il nome agli angeli custodi. Prima della caduta aveva nominato Lelahel con
l’essenza della luce per la sua capacità di vedere sempre la luce del bene in
tutte le persone che la circondavano. Luce che non aveva mai abbandonato, anche
se aveva perso la vista, e che anzi era cresciuta di giorno in giorno. Quando
erano ritornati in Cielo per il tradimento dei Nephilim, Lelahel aveva portato
da lui un giovanissimo angelo che aveva chiamato Hariel. La ragazza non era
nata guardiana, Michele aveva indotto lo sviluppo di quella particolare
accezione, ma l’essenza almeno era quella giusta.
‹‹Abbiamo
combattuto per Lucifero perché ci sembrava la scelta giusta, ma ormai chi può
più dire cosa sia veramente accaduto in quei giorni… Nessun angelo o arcangelo
dell’Inferno ha più visto qualcuno proveniente dal Paradiso, a parte Lelahel, e
abbiamo qualche notizia in più solo grazie alle sporadiche visite di Lucifero
dall’anziana Mary…››
‹‹Lucifero
esce dall’Inferno‽ Ma non è pericoloso‽››
‹‹Potrebbe
essere qualunque cosa, ma non pericoloso. Prima o poi lo incontrerai anche tu,
come presto o tardi incontrerai l’assemblea degli arcangeli al completo. Il
problema è che nessuno di noi può davvero raccontarti cosa successe nella
guerra. Solo Lucifero può farlo, almeno credo… È l’angelo che ha sofferto più
di tutti, quello che ha perso di più.››
Verity
non era per niente convinta. Anzi, era più che certa che la colpa delle
disgrazie che aveva passato Raziel fosse interamente di Lucifero, che li aveva
coinvolti in una sua battaglia personale contro il bene e la giustizia e… E più
si concentrava su questi pensieri, più nella sua mente vedeva il Lucifero
sconfitto del suo sogno, troppo addolorato per essere realmente malvagio,
troppo afflitto per essere davvero senza scrupoli. Nello spesso tomo delle sue
certezze le frasi stavano sbiadendo, le pagine si staccavano e tutto quello che
rimaneva erano fogli intonsi da coprire di inchiostro. La spaventavano. Senza
quel castello di certezze si sentiva scoperta, vulnerabile, senza mezzi per
capire di chi fidarsi o meno. Certo, Raziel sembrava sincero con la sua voce
calda e pacata, e spontaneamente gli avrebbe creduto, ma come poteva davvero
affidarsi alle sue parole quando lo aveva incontrato da non più di una mezz’ora
e non viveva in Cielo da più di due giorni?
‹‹Non
ti ha convinta nemmeno un po’, vero? Lo vedo riflesso nei tuoi occhi. Aspetta
però a giudicarlo, attendi di conoscerlo e, per favore, fidati di noi. Te lo
chiedo come favore a titolo personale.››
Verity
sbiancò di colpo: non aveva visto che la statua si era staccata dal muro e
aveva camminato fino ai suoi piedi. Quella statua pallida le aveva appena
parlato. Una statua, marmo freddo, si era appena comportata come se fosse stata
viva.
‹‹Metatron!
Potevi aspettare che ti nominassimo almeno. Ora è spaventata a morte.››
L’angelo
di pietra si inginocchiò, prendendole la mano calda con la sua, gelida.
‹‹Verity,
piccola giovane Verity, non dirmi che ti ho davvero spaventato: hai avuto pietà
per tutto quello che hai visto, perché non averne un po’ anche per me?››
Verity
fissò Metatron negli occhi. Il suo tocco gelido infondeva stranamente calore, un
tepore tenue che si diffondeva nel corpo. Lo sentiva sulla lingua, aveva un
sapore dolce, ma anche nelle orecchie come una lenta ninnananna e nel naso,
come un odore di fiori bianchi. La testa cominciò a girarle, un cerchio alla
volta.
‹‹Metatron,
cosa…››
‹‹Michele
sta venendo qui, Hesediel, ma Lelahel lo sta trattenendo. Non voglio che la
conosca prima di Lucifero.››
‹‹Michele
non è una minaccia e, se lo fosse, sarebbe la minore!››
‹‹Appunto
per questo, Raziel. So che Michele non è la minaccia più grave, ma se vogliamo
che funzioni, non possiamo permettere che la incontri. È troppo
influenzabile.››
Raziel
annuì gravemente e prese la ragazza, ormai svenuta, in braccio, portandola in
un'altra parte del loggiato mentre i due arcangeli rimasti preparavano
l’incantesimo.
Dopo
aver lasciato il loggiato Lelahel era tornata indietro per la strada
dell’andata, sorridendo tra sé e sé. Verity era completamente al sicuro insieme
ai tre arcangeli e lei poteva prendersi il proprio tempo per guardare con calma
la ricostruzione della ragazza. Le porte distrutte si erano completamente
riformate: il legno era vivo, i cardini d’argento lisci e i pomelli d’oro erano
gelidi al tatto, ma riusciva a vedere il loro brillio nell’oscurità. L’arco che
conteneva il portone era tornato liscio e scolpito, integro in ogni tratto di
nuovo. Rimaneva spaventoso, con quelle facce contorte in smorfie malvagie, ma
era la scultura dell’Inferno. Non poteva essere cambiata. La strada era di
nuovo lastricata uniformemente e anche lei poteva camminare senza prestare
attenzione. Si soffermò di fronte a un dipinto: non lo aveva mai visto dal
vivo, ma Raziel lo aveva descritto nei minimi particolari. Aveva deciso di
usarlo per decorare le strade della città, ma pochi dannati vi avevano prestato
attenzione e meno ancora lo avevano apprezzato. I rimanenti però non avevano
potuto fare altro che ammirarlo, estasiati dalle capacità degli uomini. A causa
delle battaglie molti pezzi erano stati perduti e in altri i colori si erano
schiariti, ma nel complesso rimaneva ancora abbastanza ben conservato. A
sinistra vi era un uomo, nudo e muscoloso, disteso su un lembo di terra verde,
che tendeva il braccio e quasi sfiorava con l’indice quello di un’altra figura
maschile, muscolosa anch’essa ma vecchia e con la barba grigia. Questa
indossava una tunica chiara fino alle ginocchia e dietro di essa un gruppo di
bambini paffutelli teneva un grande mantello color porpora. Raziel l’aveva
chiamata “La creazione di Adamo”.
‹‹Quale
artista l’ha dipinta? Boroti? Marotti?››
Sussultò,
ma riprese in fretta il controllo di sé, rispondendo all’angelo: ‹‹Buonarroti,
Michelangelo Buonarroti, Michele.››
Si
voltò per guardarlo in faccia. Come ogni volta entrambi trattennero il fiato,
lui per la visione, vera, degli occhi ciechi di lei; lei per la visione,
magica, della bellezza disarmante di lui. Nessuno avrebbe mai potuto credere
che un viso tanto bello e sensuale e delle mani così leggiadre potessero
trasformarsi in un combattente spietato se necessario. Si concesse il tempo di
lasciare che la magia formasse nella sua mente un’immagine precisa e se la
godette profondamente. Aveva i capelli bianchi e corti, con alcune ciocche che
sfumavano nell’azzurro, ed erano costellati da cristalli di ghiaccio che
scricchiolavano ogni volta che li toccava con le mani. Aveva la pelle pallida
ma morbida e liscia come seta, mentre le guance erano arrossate, come se avesse
appena finito di correre. Gli occhi, ancora fissi sul dipinto, erano color
pervinca, con pagliuzze blu vicino alla pupilla. Quando si arrabbiava
diventavano del colore del mare in tempesta, grigio, violetto e azzurro
mescolati insieme caoticamente. Non riusciva a smettere di guardarli quando
assumevano quella tonalità. Si ricordava ancora quando, da giovane, prima che
tutto precipitasse, prima ancora di aver mai visto Lucifero, gli tirava la
tunica gallica color ocra per convincerlo a giocare insieme a lei o a
insegnarle qualche semplice magia per stupire gli altri angeli. Dopo la caduta
invece non avevano più parlato così spontaneamente: lei aveva appoggiato
Lucifero e Michele si era sentito tradito, abbandonato da una delle persone di
cui si fidava maggiormente. Negli ultimi secoli si erano riavvicinati, ma il
loro rapporto era ancora teso per le ragioni mai spiegate e i chiarimenti mai
fatti.
‹‹Michele,
cosa fai qui? Non vieni mai nell’Inferno.››
‹‹Camminavo
vicino al portale dei giardini di Eteria e stavo per andarmene, ma ho sentito
la sua magia. Dov’è lei?››
‹‹Lei
ha un nome›› rispose stizzita la guardiana.
‹‹Dimmi
dove si trova e basta, Lelahel. Sento che è qui, ma non riesco a comprenderla
bene…››
‹‹Ci
credo, ha un potere molto più grande del tuo!›› disse sorridendo sprezzante.
‹‹Lelahel,
rispondi, non te lo chiederò una seconda volta.››
‹‹Dammi
un motivo valido. Se hai solo voglia di conoscerla puoi aspettare che sia lei a
venire da te.››
Michele
la spinse contro il muro, la mano che le stringeva il collo.
Le
ali, schiacciate tra il suo corpo e la parete, le dolevano e si muovevano
freneticamente, come quelle di un colibrì, cercando di liberarsi, ma Michele
era, in quel momento, molto più forte di lei.
La
osservò, sicuro che entro pochi secondi avrebbe confessato senza esitazioni,
come le altre volte in cui aveva agito così violentemente con qualcuno che non
fosse lei. Era così debole Lelahel in confronto a lui, così poco potente per
essere una guardiana che riusciva a farsi obbedire con facilità quasi sempre.
Eppure ogni volta, dopo averlo soddisfatto, lo guardava con una dolcezza e una comprensione
tali che gli sorgeva il dubbio che fosse sempre e solo lei a decidere di
rispondere alle sue domande. La lasciò, fissandosi poi la mano e chiedendosi
perché dovesse essere violento. Non desiderava essere violento.
La
ragazza rispose con un filo di voce: ‹‹È con Raziel. Ma non so cosa stiano
facendo quindi torna a casa Michele e… Smettila, smettila con tutto.››
‹‹Grazie,
mi hai detto esattamente tutto quello che volevo sapere. Me ne vado, come
desideri tu.››
Le
carezzò appena la guancia e poi spiccò il volo, raggiungendo in pochi minuti il
loggiato ed entrando senza pronunciare le parole magiche. Aveva il diritto di
entrare come e quando volesse, uno dei tanti privilegi degli arcangeli.
Le
ali di pietra di Metatron spuntavano da una porta, ma il corpo era
completamente all’interno di una stanza: forse stava facendo un incantesimo,
forse stava solo lì, fermo immobile, e non sarebbe stata la prima volta. Lo
guardò per un secondo, ma non percepì nessun effluvio magico provenire da lui e
così passò oltre. Scandagliò l’intero loggiato e non sentì nulla. Non c’era più
nessuna traccia della magia se non una lieve presenza, come se la ragazza si
fosse fermata per un po’ e poi fosse ripartita. Rivolse uno sguardo a Raziel,
certo che ne avrebbe compreso l’implicita domanda e vi avrebbe dato risposta,
ma gli occhi dell’arcangelo erano indecifrabili. Erano fissi sulla sua figura
eppure sembravano guardare oltre.
Raziel
fece un passo in avanti e si inchinò profondamente, poggiando il ginocchio a
terra. Quando si alzò, Michele era visibilmente a disagio: lo guardava
sorpreso, spaesato e aveva, inconsciamente, fatto un passo indietro e alzato un
braccio. Raziel sorrise e si trattenne dal ridere apertamente. Il grande
Michele, che l’aveva rinchiuso in quel luogo tetro, si innervosiva e si
imbarazzava nel vederlo rendergli onore. Buffo.
‹‹Michele,
per cosa ti imbarazzi? Tutti gli angeli si inchinano quando passi davanti a
loro, perché io non dovrei?››
‹‹Non
ho mai detto che questa storia degli inchini mi piacesse, men che meno fatta da
un arcangelo del tuo grado, Raziel.››
Il
rosso rise di nuovo, stavolta davvero. Erano anni che non vedeva Michele e
dovevano disquisire sulle tradizioni come primo argomento. Non era minimamente
cambiato: sempre orgoglioso, gli faceva domande silenziose con lo sguardo e lui
fingeva, con una certa abilità, di non averle comprese. Sospirò e si convinse
di non potergli assolutamente dire cosa stesse succedendo, ancora una volta.
‹‹Non
è qui, Michele. Torna a casa. Sono certo che verrà da voi non appena si sentirà
pronta a conoscervi… È solo una ragazzina spaventata, concedile il tempo di
ambientarsi.››
Michele
annuì, credendo per metà alle parole di Raziel. Era certo che non fosse lì, su
quello non gli stava mentendo, ma stava omettendo una qualche verità che non
vedeva. Fece una smorfia di disappunto mentre cercava di afferrare cosa non
avesse compreso, arrendendosi dopo poco. Pensò di andarsene, ma un desiderio
impellente lo fece rimanere.
‹‹Raziel…
Mi dispiace per le tue ali. Ho saputo che non puoi più volare a causa della mia
magia.››
‹‹Una
guerra non può essere vinta senza distruggere adeguatamente il nemico. Io e
Metatron abbiamo portato via gli Ingranaggi prima che contagiassero altri e...››
‹‹Faceste
bene. Dopo il discorso sconclusionato di Lucifero e il suo abbandono del
Paradiso avevamo completamente perso l’equilibrio. Combattere quella guerra è
stato solo il nostro vano tentativo di aggiustare qualcosa che non poteva
essere aggiustato, senza capire che in realtà stavamo distruggendo quel poco
che avevamo… Io…››
‹‹Sai,
sulla Terra alcuni umani, quando rompono cose come vasi o ciotole, li
riattaccano e riempiono la crepa con dell’oro, per valorizzarla: penso
rappresenti i cambiamenti della vita e come essa possa essere sempre più bella
man mano che si modifica. Certo, la guerra è stata dolorosa, ma gli angeli
hanno potuto vendicarsi. Se non lo aveste permesso, avrebbero rimediato da soli
con conseguenze ancora peggiori… Credo inoltre che tu sia l’unico ad essere
pentito per essa, e immagino sia per Lelahel. Sei troppo orgoglioso per
chiederle scusa per il trattamento che le hai riservato.››
‹‹Sono
stato crudele e lei non hai mai smesso di mostrarmi gentilezza e pazienza,
anche dopo secoli di maltrattamenti continua a comportarsi nello stesso modo.››
‹‹Eri
sotto l’effetto di Benihime all’epoca e sei un arcangelo: quell’influenza ci ha
messo secoli per scomparire del tutto, e forse ancora non è del tutto svanita,
e Lelahel era con te quando tornasti dalla guerra, non avresti potuto...››
‹‹L’ho
privata della vista perché mi sono sentito tradito quando ha dato ragione a
Lucifero, mentre io desideravo da lei lo stesso amore che quel dannato ha
cercato e cerca tutt’ora!››
‹‹E
lei continua a vederti come un angelo meraviglioso nonostante tutto.››
‹‹Non
dovrebbe››.
Se
Scar era uno degli angeli che avevano sofferto di più per la ribellione di
Lucifero, Michele era certamente quello non ancora guarito dalle cicatrici che
la guerra gli aveva lasciato. Dopo anni di conoscenza, dopo aver visto Lelahel
crescere, trasformarsi in una giovane donna e imparare a usare la magia, si era
affezionato a lei in un modo particolare, che non riusciva a comprendere né a
spiegarsi. Si sentiva irrimediabilmente attratto da lei, dallo sguardo vitreo,
dalle ali color del tramonto e dai modi sempre gentili e comprensivi che gli
riservava. Non si era reso bene conto di cosa provasse fino a quando non aveva
sentito Lucifero parlare con Raziel dell’amore per la prima volta e, impaurito,
aveva chiuso il suo cuore a quel sentimento, ignorandolo. Aveva fatto di tutto
per affievolire l’affetto della ragazza, che cresceva di giorno in giorno, ma
nulla era riuscito a cancellare quello che provava lui stesso, nemmeno la
delusione cocente dell’attimo eterno in cui si era schierata a favore della
prima luce. Aveva creduto che quell’angelo, l’unico che amasse, gli avesse
voltato le spalle e accecato dalla rabbia, resa doppia dalla decisione
condivisa da Raziel, aveva combattuto nella guerra. Se non si fosse sentito
terribilmente coinvolto, avrebbe fatto compagnia a Gabriele, lontano dal campo
di battaglia. Solo finita la guerra si era reso conto che Lelahel non aveva
combattuto e solo una volta tornato al palazzo aveva capito che lo aveva atteso
pazientemente seduta sul suo trono. Poi… Poi era accaduto quello che non
sarebbe dovuto accadere.
Raziel
sorrise tristemente vedendo con quanta convinzione Michele si ostinasse a
volersi incolpare, come se fosse stata una sua lucida decisione e non, come
realmente era stato, una scelta dettata da Benihime. Probabilmente non riteneva
possibile che l’Ingranaggio potesse avere tanto effetto sulla sua mente, in
fondo gli arcangeli erano esseri materiali, molto più lontani dai sentimenti
rispetto agli angeli comuni. Avrebbe dovuto resistere più facilmente al
richiamo delle emozioni. Eppure, pensava Raziel, era proprio per questo che
l’effetto era stato così devastante. Un animo non avvezzo al potere dei
sentimenti difficilmente è in grado di tenerli sotto controllo. Chi non conosce
il male, chi non ha mai dovuto affrontarlo, viene manipolato più facilmente e
non riesce a liberarsi, a riprendere il controllo di sé abbastanza in fretta da
evitare che questo prenda decisioni prima della sua coscienza.
Michele
si passò una mano sugli occhi, bisbigliando scuse e se ne andò, salutando
appena Raziel, troncando quella conversazione.
Metatron
liberò il corpo di Verity dall’incantesimo cui l’aveva costretta per eliminare
le tracce della magia e, assicuratosi che la ragazza fosse tranquilla tra le
braccia di Hesediel, sfiorò appena la mano di Raziel che fissava il puntino di
Michele volare via.
‹‹Pensi
che vorresti volare?››
‹‹Un
po’…››
Metatron,
capendo che non avrebbe ottenuto di più dall’amico, tornò da Verity e aiutò Hesediel
a farla distendere sul divano, lasciandola completamente alle sue cure. Questo
le poggiò la testa sulle sue gambe e le carezzò lentamente la fronte,
applicando una minima emanazione di magia cosicché l’effetto dell’incantesimo
svanisse prima.
L’arcangelo
di pietra non si era sbagliato, Raziel stava pensando davvero alle sue ali che
non potevano più volare, che non potevano fare più nulla se non stare attaccate
alla sua schiena, ma non perché sentisse la mancanza dell’atto in sé. Ricordava
con nostalgia e malinconia la sensazione liberatoria del vento sul viso, il
dondolio delle correnti tiepide dell’aria del Sud, ma non era quello il
problema. Il punto era che, se avesse ancora avuto delle ali funzionanti, non
avrebbe lasciato che Michele andasse via da solo. Lo avrebbe seguito, lo
avrebbe obbligato a sfogare tutti i demoni che lo consumavano, a urlare o
piangere se ne avesse avuto bisogno. Avrebbe fatto quello che nessuno in
Paradiso aveva pensato. Prima della caduta erano stati amici, avrebbero potuto
esserlo anche dopo se solo lo avesse voluto. Raziel aveva sofferto a lungo per
quella e per tutte le separazioni che l’esilio l’aveva obbligato a sopportare
in silenzio. Aveva tenuto tutti i suoi sentimenti per sé, anche se pensava che
Metatron ne avesse intravisti molti frammenti.
Si
sedette sul bracciolo del divano e fissò il volto addormentato della ragazza.
Poteva davvero essere lei? Assomigliava molto alla ragazza di cui Lucifero gli
aveva parlato, la cui bellezza era stata lodata e descritta come l’unica luce
negli anfratti oscuri della sua anima, ma non aveva il suo sguardo. Era
imbarazzata, spaventata da tutto e da tutti, ignorante del passato e del
futuro; era influenzabile, plasmabile come creta nelle loro mani. Avrebbe
potuto dirle che il suo destino era distruggere il Paradiso e forse ci avrebbe
addirittura creduto. Lo sguardo che aveva descritto Lucifero invece… Era quello
di una donna di sensuale coraggio e infinta dolcezza, di un’anima che mai
nessuno avrebbe potuto sottomettere. Dov’era l’anima che aveva descritto
quell’angelo così sfortunato? Forse, pensò, dovevano solo aspettare che si
abituasse a quella nuova vita.
Forse
doveva solo incontrare Lucifero.
Quando
si svegliò, una luce innaturale si diffondeva nel loggiato, come se una finta
luna pallida si divertisse a rendere inquietante la distesa di terra arsa
dell’Inferno. Si stropicciò gli occhi e si guardò intorno, sorridendo intontita
a Raziel, che la osservava malinconico. Hesediel la aiutò ad alzarsi e le disse
che doveva andare via. Non potevano trattenerla ancora, né proteggerla. Verity
corrugò la fronte, dubbiosa, pensando che avrebbero dovuto dirle qualcosa di
importante senza però ricordare cosa in particolare. Metatron le posò una mano
sul braccio e la ragazza lo allontanò, spaventata che potesse farla
addormentare di nuovo.
‹‹Scusami
Verity, non ho intenzione di farti svenire di nuovo e, se possibile, vorrei che
non avvenisse più. E so che pensi che abbiamo ancora informazioni importanti da
darti, ma ti assicuro che conosci già abbastanza. Ho fatto sì che tu ricordi
cosa è stato detto mentre dormivi: presto ti tornerà alla mente. Dopo farai ciò
che ritieni più opportuno.››
‹‹Lelahel
è fuori?››
‹‹No,
sarà Hesediel ad accompagnarti fino al portale per Eteria.››
Si
salutarono in modo sbrigativo, come se gli arcangeli avessero fretta di
mandarla via, ma nell’attimo prima di uscire Metatron la chiamò ancora una
volta: ‹‹A presto, Caliel!››
Hesediel
la prese per un polso e la trascinò lontano, senza darle il tempo di rispondere
all’angelo e camminando velocemente.
Verity
avrebbe preferito essere sola, la differenza sarebbe stata minima. Hesediel
proseguiva lesto, senza mai fermarsi, senza lasciarla riprendere fiato e,
soprattutto, senza parlare. Dopo un po’ l’aveva anche liberata dalla stretta,
ma non le aveva chiesto se le avesse fatto male.
Era
rimasto zitto, non l’aveva guardata e aveva sempre tenuto lo sguardo fisso
davanti a sé in una marcia serrata. Ogni tanto incontravano qualche caduto e
questo, non appena vedeva l’arcangelo, scappava via nascondendosi dietro le
rocce, tra le ombre. La ragazza per un po’ sopportò il silenzio, seguendolo
senza fiatare, ma infine trovò quella convivenza sconfortante: una parola o due
non le avrebbero dato fastidio. Eppure non era tutto completamente silenzioso,
almeno non nella sua testa. Sentiva come un doloroso mal di testa crescerle
dentro, pulsando e appannandole la vista. C’erano momenti in cui non vedeva
proprio e tutto si tingeva di nero. Le pareva che qualcuno stesse percuotendo
il suo cranio come un tamburo e man mano che avanzava, il dolore era più
intenso. Era simile al pulsare che aveva sentito con Lelahel, solo amplificato
e più insistente. Camminò dietro a Hesediel arrancando e sbuffando fin quasi
all’ingresso del portale: lì si accasciò a terra stremata, tenendo la testa tra
le mani e contorcendosi come in preda agli spasmi. Quel suono, quel battito,
risuonava violento nella mente e il dolore era così dilaniante che avrebbe
preferito non averla più, quella testa sofferente. La vista la stava
abbandonando. Lo spazio era distorto, sproporzionato, mentre i contorni si
facevano vaghi e indefiniti fino a che non scomparvero completamente. Per un
po’ tutto rimase buio poi, lentamente, si ricreò nella sua mente l’immagine del
loggiato che aveva lasciato.
C’erano
Raziel e un altro angelo che non conosceva e ad ogni pulsazione corrispondeva
un movimento delle loro bocche, poi a parole singole e infine a intere frasi
che riusciva ad ascoltare. Probabilmente stava osservando la scena con gli occhi
di Metatron e si chiese come avesse fatto a osservare con così accurata
attenzione quando doveva occuparsi di lei e del suo incantesimo. Eppure lo
aveva fatto ed era incredibile notare come dietro a ogni sguardo si celassero
migliaia di parole inespresse: la curiosità morbosa ma controllata con cui
Michele era entrato nel loggiato e lo sconcerto nascosto nel vedere Raziel
ignorarlo e subito dopo inginocchiarsi, perché mai avrebbe pensato che un
arcangelo, che considerava un caro amico anche se non lo avrebbe ammesso per
nulla al mondo, si sarebbe abbassato al di sotto della sua gerarchia anzi,
aveva sperato che loabbracciasse e che
gli parlasse come ad un fratello. I pensieri di Metatron e di Verity si
fondevano, l’uno completando l’altro, alternandosi alle facce allegre ma grevi
di Raziel, che sorrideva e ridacchiava tra sé per le reazioni di Michele e,
contemporaneamente, si dispiaceva di non poter dire le verità che avrebbe
voluto confessare per una qualche ragione che nemmeno Metatron aveva compreso
perché non era quella che avevano concordato insieme, proteggere la guardiana.
Proteggere
la guardiana? Intendevano lei? Sicuramente Hesediel doveva saperlo, ma visti i
precedenti sarebbe sicuramente rimasto zitto… Forse allora Michele avrebbe
potuto spiegarle qualcosa.
In fondo cercava me, no?
Concentrata
sul flusso dei suoi pensieri aveva perso una parte della conversazione e tornò
a guardare i ricordi. Michele si era scusato con Raziel per qualcosa inerente
alla perdita delle ali e poi era scoppiato in una crisi, urlando di essere
colpevole e di essere stato crudele, e l’altro lo aveva osservato sempre con
quel sorrisetto che incominciava a trovare odioso. Cercò di smettere di
guardare, ma la visione non se ne andava. Se provava a scacciarla dalla sua mente
questa tornava più forte di prima, provocandole un insopportabile dolore. Vide
ancora Michele spiccare il volo dal loggiato, allontanandosi con potenti colpi
d’ala. Da lì il ricordo cominciò a sfumare e ritornò il buio con cui tutto era
cominciato. Si risvegliò tra le braccia di Hesediel che la stringeva a sé e
contemporaneamente si guardava intorno, analizzando ogni oscuro anfratto della
roccia come in attesa di un nemico.
‹‹Hesediel…
Perché non mi ricordo altro? Mi sembra di aver dormito così tanto.››
L’arcangelo
la osservò perplesso: perché non gli chiedeva spiegazioni su quello che aveva
appena visto, o sul nome con cui Metatron l’aveva salutata? Cosa c’era nel
cervello di quella ragazza che non funzionasse nel modo giusto? Non sapeva
nulla di lei o di quello che avrebbe dovuto essere, solo Lucifero e Raziel la
conoscevano e anche su questo aveva dei dubbi, ma per essere la guardiana di
Eteria era ben sciocca e tralasciava i dettagli importanti. Ma in fondo lui,
che per anni aveva scambiato gli incontri tra Raziel e Lucifero per una
semplice amicizia, come se nella loro immortale vita qualcosa potesse essere
davvero semplice, poteva davvero permettersi di giudicare? Si era ritrovato
immerso fino al collo nella guerra e si era schierato con loro solo perché si
fidava ciecamente di Raziel e del suo giudizio. Non era migliore di lei alla
fine. Non si era pentito della sua scelta, ma anche lui aveva tralasciato i
dettagli davvero importanti.
‹‹Il
ricordo è finito quando Metatron ha sciolto la magia. È servito tempo al tuo
corpo per riprendersi ma non è accaduto nulla nel frattempo.››
Verity
cercò di alzarsi, sfruttandolo come appoggio. Il dolore alla testa stava
scemando velocemente, mentre il battito, pur affievolito, non smetteva di
rimbombare nella sua mente. Si voltò. Davanti a lei c’era un enorme specchio di
magia che nasceva dal centro in un susseguirsi di onde che si muovevano
lentamente. Chiuse gli occhi, concentrandosi su gli altri sensi: respirando
profondamente sentiva il profumo salino del mare e ascoltando lo sciabordio
rotondo e lieve delle onde riempieva il silenzio dell’Inferno. Si avvicinò e
sfiorò le increspature con le dita. Queste iniziarono a generarsi più
velocemente fino a trasformarsi in una visione di più angeli
contemporaneamente: Mary affacciata sulla fonte mentre osservava all’interno;
Scar seduto sul ramo di una quercia che lanciava a terra ghiande prontamente
raccolte dai tanti scoiattoli che lo fissavano; Hariel da qualche parte stava
chiacchierando con degli angeli. In un’altra parte del bosco invece un angelo
avanzava tra le radici, lento e guardingo, con le ali chiuse dietro la schiena.
Hesediel, che guardava anch’egli nello specchio, cambiò espressione vedendo
quell’angelo. Se prima era stato assente e distratto, adesso era molto attento,
soprattutto perché la ragazza non dava nessun segno di riconoscerlo e se lo
avesse incontrato senza avere la minima idea di chi fosse, sarebbe potuto
essere un problema. Ma non era lui a doverle parlare di quell’angelo e quindi
la incitò ad entrare nel portale. Si sarebbe ritrovata in uno dei tanti boschi
di Eteria, da quel momento in poi avrebbe solo dovuto volare verso l’alto e
proseguire verso l’unico spazio vuoto dell’intero regno. Lì si sarebbe
ricongiunta all’anziana Mary. Anche lui, come Metatron, la salutò con il nome
di Caliel e una volta che ebbe attraversato, ritornò verso il loggiato.
‹‹Non
le hai parlato di Lucifero, arcangelo Hesediel. Eppure dovresti sapere che sta
a Eteria per vederla, la aspetta da millenni…››
‹‹Yelahiah.
Non ti basta mai quello che hai? Hai un regno dove nessun arcangelo possa
controllarti, devi davvero cercare di corrompere altri, come me o lei?››
Yelahiah
era sempre stato un pessimo angelo, litigioso e polemico, costantemente
impegnato a pianificare guerre e battaglie. Non era completamente colpa sua, la
sua essenza era l’arte militare, ma
lui aveva portato all’esasperazione l’aspetto più violento del suo carattere,
sembrando uno dei primi angeli a favore di Lucifero.
Solo perché pensava che fosse
un guerra contro il Paradiso, ricordò Hesediel.
Quando
poi, durante l'assemblea, aveva scoperto che Lucifero era stato mosso da un
fine molto più alto della carneficina, era esploso in tutto il suo odio e aveva
cercato l’angelo in ogni remoto angolo della Terra dopo la caduta.
Fortunatamente non lo aveva trovato. Dopo il ritorno di tutti loro in cielo,
aveva cercato di aizzare contro Lucifero i dannati dell’Inferno e in parte ci
era riuscito: molti si sarebbero apertamente schierati con lui in caso di una
nuova guerra. Per fortuna altri erano rimasti fedeli a Lucifero, anche se
questo era praticamente scomparso dall’Inferno.
Yelahiah
si passò una mano tra i capelli, tirando indietro i ribelli ciuffi biondo
cenere e ridacchiò a bassa voce. Sembrò più il ringhio di un cane rabbioso. Con
uno scatto si affiancò ad Hesediel, che non si spostò ma chiuse le ali davanti
a sé, in uno scudo contro cui la spada di Yelahiah si spezzò, cadendo a pezzi.
‹‹Da
quando usi armi tanto deboli?››
‹‹Da
quando lo trovo un interessante passatempo.››
‹‹Lascia
perdere e cerca di vivere in pace, Yelahiah››
‹‹Pace?
Per chi? Lucifero ci ha trascinato in questa prigione e solo per amore di una
stupida umana che ho personalmente ucciso. Arriverà il momento della resa dei
conti, Hesediel, e vi consiglio di scegliere bene da che parte schierarvi,
perché ti assicuro che ucciderò Lucifero con il potere degli Ingranaggi.››
‹‹Non
avete modo di recuperarli. Tutte le vie di accesso alla Terra sono chiuse per
noi.››
‹‹E
secondo te come ho fatto a uccidere l’amore di Lucifero?››
Hesediel
realizzò solo in quel momento, quando lo disse la seconda volta, che il dannato
doveva aver trovato un modo per scendere tra i mortali.Rimase fermo a fissarlo e questo colse
l’occasione per volare via.
Hesediel
pensava, rifletteva, frenetico, su come si potesse risolvere la spinosa
questione dei portali senza interpellare gli arcangeli in Paradiso. Giunse alla
conclusione che non c’era modo. Michele doveva recuperare entrambi gli
Ingranaggi per prima cosa, e metterli al sicuro. Il problema era che Michele ne
sarebbe rimasto influenzato, come durante la guerra, e si sarebbe aggiunta una
nuova complicazione; forse Raziel… No, nessun arcangelo avrebbe mai potuto
recuperare gli Ingranaggi senza essere influenzato, ma forse un angelo comune,
uno che conviveva con le emozioni da molto tempo… Forse Lucifero ne sarebbe
stato capace. Sì, decise che sarebbe stato sicuramente così. Tutta quella
situazione era una conseguenza delle sue decisioni e vi avrebbe posto rimedio,
volente o nolente. Spiccò il volo, dirigendosi verso il loggiato per informare
Raziel.
Angolo dell’autrice:
Buongiorno
a tutti! Una news importante: la prossima settimana non so se riuscirò ad
aggiornare in quanto ho delle visite da fare, tuttavia cercherò di fare del mio
meglio. Spero che il nuovo capitolo vi piaccia e che la storia continui ad interessarvi J.Sfortunatamente è da un po’ che non
ricevo recensioni. La cosa mi rattrista un po’, mi piacerebbe ricevere il
parere dei lettori. In attesa di ricevere qualche parere da voi, vi saluto e vi
ringrazio per aver letto J
Uscita
dal portale, Verity si era ritrovata nella folta foresta che aveva intravisto
poco prima. Controllò lo specchio dietro di sé. La vegetazione si stava
naturalmente muovendo verso il centro, così velocemente che coprì l’intera superficie
in pochi secondi. Il gorgoglio delle onde e l’odore del sale erano spariti,
lasciando il posto al frinire dei grilli e al muschio umido cresciuto sui
tronchi degli alberi.
Era
sola. La testa le pulsava ancora un po’, ma era felice di trovarsi lì.
L’Inferno era un regno doloroso. La disperazione emanata dalle rovine faceva
paura e si insinuava nelle vene, scorrendo lenta e contaminando il sangue di
una tristezza che arrivava al cuore e poi si diffondeva in tutto il corpo.
Quella foresta era tutto il contrario. In quel polmone verde, fitto e
intricato, dove la luce filtrava appena rendendola un poco lugubre, sentiva una
pulsazione vitale che le ristorava le forze. Le ispirava fiducia e
tranquillità, sicurezza. Luce e vita al posto della morte, un verde speranza a
sostituire il rosso del sangue. Camminò un poco sul sentiero segnato di fronte
a lei, calpestando un po’ del muschio sulle radici e godendo della sensazione
di frescura. Cercò un punto dove le fronde degli alberi si snodassero, creando
uno spazio abbastanza grande per poter spiccare il volo e raggiungere la fonte,
come le aveva detto Hesediel. Aveva appena spiegato le ali quando uno
scricchiolio la distrasse. Avrebbe dovuto ricominciare da capo a concentrarsi
per volare, ma quel rumore leggero, appena percepibile, continuava a catturare
la sua attenzione. Però non c’era nulla in movimento, nessun agitarsi dell’erba
a segnalare l’arrivo di qualcuno. In realtà anche il frinire dei grilli
sembrava scomparso e gli usignoli avevano smesso di cinguettare. Si girò più
volte in tutte le direzioni, trovando sempre silenzio e immobilità. Riconsiderò
l’idea della foresta come un luogo sicuro man mano che la paura di essere
attaccata da qualcuno prendeva il sopravvento sulla razionalità, che sempre più
debolmente le ricordava come nessun demone potesse uscire dall’Inferno né
utilizzare il portale. Aveva così tanta paura che scordò completamente di poter
volare via e tutto quello che le era stato raccontato solo poche ore prima e,
passo dopo passo, si inoltrò nella foresta, allontanandosi dal cono luminoso.
Si accorse del suo movimento solo quando la schiena e le ali cozzarono contro
il tronco di un abete. Urlò, facendo scappare tutti gli uccelli appollaiati
sugli alberi vicini in un frenetico sbattere d’ali.
Però
vide qualcosa. All’inizio fu solo un ombra scura in avvicinamento, poi una
figura sempre più delineata. Si fermò esattamente di fronte a lei.
Aveva
un bel sorriso quell’angelo, bianco e luccicante come la neve e, se l’aggettivo
poteva essere adattato, generoso. Dava l’impressione di essere una persona
simpatica, disponibile, che avrebbe sicuramente provato ad aiutarla. Lo sguardo
di Verity si abbassò sulla camicia che gli fasciava il petto ma scivolava
morbida sulle maniche, stringendosi su polsi. In vita c’era una fascia nera che
la teneva ferma cosicché la scollatura non si spostasse mai. I capelli,
nerissimi, erano tanto lunghi da sfiorargli le mani e alcune ciocche erano
intrecciate con perle rosse simili a preziosi rubini.
‹‹Ti
ho spaventata vero, Caliel?››
Quella
voce…
Aveva
già sentito quella voce, ne era certa, anche se non riusciva a ricordare con
precisione quando o a chi appartenesse. Cercò di forzare i ricordi della sua
mente a farsi avanti, ma rinunciò al primo fallimento: non aveva la forza per
pensare. Era ancora stanca e i tamburi avevano ripreso a battere, ritmici e
veloci. Alzò il volto, guardando finalmente l’angelo negli occhi e tutto le fu
chiaro.
Scar… Ma certo, il sogno!
E continuo lo stesso a non ricordarmi il nome!
Rammentava
perfettamente il viola misto al nero, così simile al colore di Scar eppure così
diverso. E gli occhi di quell’angelo erano neri, come le ali e i capelli, e
sfumature viola si confondevano e scomparivano. Quelli di Scar erano invertiti
ma l’attrazione era la stessa: potevi solo guardarli, perderti all’interno e
risvegliarti confuso, così affidabili e convincenti che avresti ascoltato e
obbedito ad ogni ordine pronunciato, perdendo quasi il controllo del tuo corpo,
ammaliato.
‹‹Cal…
Verity, stai bene?››
‹‹Non
ti avvicinare. S-Stammi lontano.››
Come
aveva fatto un passo in avanti, ne fece uno indietro, calmo ma fissandola
preoccupato. La ragazza aveva lo sguardo assente, ma questo non lo sorprendeva
più di tanto. Molti angeli avevano assunto, in passato, quell’espressione
vacua. Lei però stava sudando e non era sicuramente per il caldo. Gli chiedeva
chi fosse e cosa volesse, intimandogli di rimanere lontano: probabilmente aveva
nascosto una buona parte dei suoi ricordi attraversando il tunnel. Non
importava. Averla trovata, averla vista era abbastanza. Stava attraversando la
foresta per recarsi dall’anziana Mary e l’aveva vista di sfuggita muoversi tra
i cespugli. Il cuore aveva perso un battito, il respiro si era fermato: anni
passati a lasciarsi cullare dai ricordi, a vederla nella fonte, a sognarla e
tutto era lì a portata di mano. A pochi passi da lui. Poteva sfiorarla e
parlarle, poteva stare insieme a lei e conoscerla.
‹‹Noi
ci siamo già visti. Non ricordi il sogno?››
Certo
che lo ricordava. Ogni dettaglio, ogni particolare era impresso nella sua
memoria eccetto che, in quel momento, il suo nome le sfuggiva. E più si
ripeteva di non saperlo, più il battito dei tamburi aumentava, rimbombando nei
timpani e stordendola. E poi quell’angelo che la fissava con quello sguardo
preoccupato e le si rivolgeva con quel tono dolce… Non riusciva a mantenere la
minima concentrazione.
L’angelo
non capiva invece cosa le stesse succedendo. Verity si agitava e negli occhi
smeraldo si mostravano lampi di dolore e sofferenza.
La
ragazza si accucciò su sé stessa, portandosi le mani alla testa. Le pulsazioni
che aveva sentito all’Inferno erano niente in confronto a quelle di quel
momento. Le scorrevano lungo la colonna vertebrale, provocando scosse e tremori
in tutto il corpo.
Solo
quando vide le lacrime affacciarsi dalle ciglia l’angelo capì: il ricordo
sepolto si stava facendo strada, da solo, attraverso gli strati della memoria e
siccome era un momento della sua vita passata, questo era ancora più doloroso
di un normale battito.
Le si avvicinò e la prese per le spalle, cullandola un poco
per calmarla, e la prese in braccio. Camminò in fretta, scegliendo tutte le
scorciatoie per arrivare il prima possibile alla sua casa, situata su
un’imponente quercia. La depose sul letto di foglie e petali di fiori dove lui
dormiva quando non andava a trovare l’anziana Mary. Anche la vecchia guardiana
aveva sofferto per quel tormento, ma aveva, con il tempo, anche imparato a
conoscerlo e controllarlo. Perché invece Raziel non aveva detto nulla alla
ragazza‽ Un dolore troppo forte avrebbe anche potuto
ucciderla, come se non fosse già abbastanza in pericolo a causa degli agguati
che tendevano i seguaci di Yelahiah.
Si
sedette al suo fianco e la accarezzò lentamente dalla fronte lungo la guancia.
La tirò un poco su e appoggiò la guancia di lei sulla sua spalla, sfiorando
piano le ali e la schiena affinché non si svegliasse. Chiuse gli occhi e cercò
di ampliare i suoi poteri verso di lei per diminuire il dolore.
Dannazione!
Non
ci riusciva. Poteva distruggere qualunque cosa con il suo potere, ma non era in
grado di governarne la luce. Dalla fine della guerra quella era stata la sua
punizione. La luce nascosta nel suo animo non brillava più come quando era
giovane anzi, era sempre più difficile trovarla dentro di sé, complici la
maledizione della solitudine e il desiderio malsano di isolarsi da chiunque
volesse aiutarlo, la tristezza di aver perso il suo adorato fratellino forse
per sempre. Cercò di sforzarsi, concentrandosi il più possibile, scavando con insistenza
nelle pieghe oscure della sua anima alla ricerca di una minima fiammella che
potesse aiutarlo. Trovò i ricordi delle visioni di Verity. Solitamente li
conservava gelosamente, tirandoli fuori appena il necessario. Nemmeno Raziel,
cui aveva raccontato ogni memoria sin dall’inizio, li aveva mai visti. Pensò di
poterli usare. Il calore che emanavano sarebbe stato abbastanza forte da
ridurre i tremiti della ragazza. Quando la sentì rilassarsi tra le sue braccia,
fu certo di averne fatto buon uso e la strinse, beandosi della morbidezza della
sua pelle.
Se
Scar lo avesse visto in quel momento, gli avrebbe lanciato volentieri una
maledizione, ma da molto tempo non si vedevano. La delusione che aveva provato
a causa sua lo aveva obbligato a tagliarsi le ali da solo. Era riuscito a farsi
odiare anche dal suo fratellino, come se la maggioranza degli angeli del
Paradiso non fosse bastata. Non era più tornato a trovarlo dopo il confinamento
nell’Inferno e l’unica volta che, per un caso del destino, si erano incontrati
a Eteria, Scar lo aveva insultato, intimandogli di andare via prima che lo
uccidesse con le sue stesse mani. Dopo era volato via, senza ali. Se quelle
parole non lo avessero distrutto, avrebbe trovato la scena quasi comica.
Guardò
Verity. Aveva quasi smesso di tremare e il respiro si stava regolarizzando. Si
era addormentata tra le sue braccia. Le sue mani piccole stringevano la camicia
e il fiato caldo gli solleticava il collo. La strinse a sé ancora una volta,
poggiando poi la testa al tronco della quercia al centro della stanza.
Si
lasciò andare al sonno, riscaldato dalla sensazione insolita di averla,
fisicamente, vicino a lui.
Il
cielo era incredibilmente azzurro. Poche volte lo aveva visto con quella tonalità
così accesa, completamente privo delle sfumature delle nuvole che lo facevano
impallidire. Quell’azzurro così deciso era un inno alla vita, all’idea che
tutto possa trasformarsi in una versione migliore di sé stesso, anche dopo
essere caduto nel baratro più profondo. Eppure, nonostante quella bellezza, si
sentiva incompleta: la mancava la Terra, la presenza dirompente e sfacciata di
Dakota, l’imbarazzo di suo padre che non sapeva mai come comportarsi con lei e
allora fingeva freddezza quando in realtà era solo alla ricerca della sua
approvazione. Perché però stava guardando un cielo azzurro? Era stata in un
foresta fitta solo pochi secondi prima e aveva visto un angelo che le aveva
parlato di qualcosa e… E dopo?
Mi era venuto di nuovo
male alla testa ma ora è scomparso… E c’è così tanta luce qui, Eteria non è
così luminosa…
Si
alzò e con attenzione si guardò intorno, anche se non notò nulla di strano se
non che si trovasse su una nuvola. Decise di saltare giù, sbattendo appena le
ali per rallentare la discesa. Si trovava esattamente sopra la fonte.
Nello
stesso istante in cui Verity saltava, l’angelo dalle ali nere si svegliava
intontito. Lui non si chiese dove si trovasse, né perché fosse lì. Tutte le
volte che dormiva si ritrovava lì. Faceva sempre lo stesso sogno, deludente e
senza soluzione. Si avvicinò alla fonte e si sedette su bordo, fissando la sua
immagine riflessa. Le acque vorticarono, ricreando l’immagine di una Verity
sorridente seduta su quello stesso prato, con le briciole di una torta nascoste
tra le pieghe di una gonna ampia mentre si rivolgeva a Mary teneramente. Un
sorriso nacque spontaneamente sul suo volto: pensava, e soprattutto sperava,
che un giorno si sarebbe rivolta così anche a lui, senza la minima paura.
Sapeva però che l’avrebbero avvertita di stargli lontano. Eppure l’aveva
incontrata in quel sogno e intercettata nella foresta e l’aveva reso così
felice senza nemmeno saperlo. Dopo anni passati a osservarla solo in quel
riflesso, l’aveva potuta ammirare dal vivo, anche se lei non l’aveva
riconosciuto.
Forse è stato meglio così.
Forse sarebbe scappata via prima che avessi potuto anche solo parlarle.
Il
fruscio di un battito d’ali lo costrinse a girarsi. Mai qualcuno si era
introdotto in un suo sogno, ma mai avrebbe immagino chi stava in piedi dietro
di lui.
Verity,
scendendo, aveva notato quelle ali nere, troppo scure per quel luogo vibrante
di vita, e le aveva riconosciute: erano quelle dell’angelo della foresta. Era
atterrata a pochi passi da lui, incuriosita, ma questo si era voltato prima che
potesse coglierlo di sorpresa.
‹‹Cosa
ci fa tu qui? E non mi ha nemmeno ancora detto il tuo nome!››
‹‹Io…
Io guardo nella fonte. Da visioni del passato o del futuro, anche se l’immagine
che mostra è sempre la stessa una volta che hai guardato. Però è meglio che tu
non sappia il mio nome, andresti via altrimenti.››
‹‹Dimmi
chi sei! Altrimenti andrò via lo stesso.››
No, non può andare via ora
che l’ho trovata.
L’angelo
si era alzato di scatto, in tutta la sua statura, mentre le ali tremavano
leggermente, in tensione.
‹‹Lucifero.
Il mio nome è Lucifero.››
‹‹Cosa
mi hai fatto? Ero nella foresta e ora sono qui e…››
‹‹Caliel,
calmati, fermati! Questo è solo un sogno, non ti ho fatto nulla!››
‹‹Non
chiamarmi con quel nome. Non lo usare, me l’ha dato Metatron e tu… Tu sei solo
un mostro. Ne ha già condannati tanti, ti servo anche io nella collezione‽
Non toccarmi!››
Lucifero,
difatti, le si era avvicinato e la stava per prendere per un polso quando la
ragazza fece un passo indietro e urlò di non toccarla. Non gli avrebbe dato
nessuna possibilità di spiegarsi o di raccontarle qualcosa per discolparsi.
Verity
lo guardava disgustata. Raziel le aveva chiesto di trattarlo bene, provare a
conoscerlo, ascoltare le sue parole, ma come poteva? Come poteva ascoltare
l’angelo che aveva condannato gli angeli che lo avevano appoggiato a vivere
nell’Inferno? Non sarebbe rimasta lì, con lui, ma se davvero era all’interno di
un suo sogno non avrebbe potuto svegliarsi…
‹‹Voglio
andare via.››
‹‹Per
favore ascoltami! Non ti ho fatto nulla e tutti ti chiameranno con quel nome,
Metatron te l’ha donato apposta. Io… Ti avevo detto di ascoltare il tuo cuore,
davvero ti sta ordinando di andartene?››
‹‹Si››
rispose decisa.
‹‹Allora
desideralo, basterà a farti svegliare.››
Verity
volò via e lasciò Lucifero a guardarla fino a che non diventò un punto lontano
nel cielo. Chiuse gli occhi e cadde all’indietro sul prato, che attutì la
caduta ma non gli risparmiò il dolore. Eppure il male alla schiena e alle ali
era nulla se comparato al martellare incessante del cuore nel suo petto:
l’impressione di un vuoto colmato e svuotato nello stesso momento che si
ampliava ad ogni respiro, imprigionandolo nella realtà fuori dal sogno. La
speranza di poter trovare la sua unica metà, la fiducia che Raziel gli aveva
trasmesso avevano rinchiuso quella spaventosa sensazione in un anfratto della
sua anima, anche se gli sembrava costantemente di precipitarvi dentro e senza
mai raggiugere il fondo di quel baratro. Lui, che era stato il primo angelo, la
prima luce del Paradiso, che indicava la via a chi tornava nel mondo
ultraterreno, che era in grado di illuminare la notte più confusa, non era mai
stato in grado di combattere l’oscurità che si portava dietro. Senza più
nessuno con cui confidarsi e che potesse confortarlo con la sua presenza, aveva
iniziato a soccombere ad essa. Aveva aspettato così tanto che lei arrivasse in
Paradiso per poterla amare di quel sentimento che aveva conservato come la
perla più preziosa. Si portò un braccio sugli occhi e rimase fermo immobile,
chiedendosi come potesse essere ancora tanto debole da non riuscire a
contrastare la parte negativa di se stesso.
Verity
intanto si era svegliata. Per qualche motivo il dolore alle tempie era
scomparso anche se, concentrandosi attentamente, riusciva ancora a sentire quel
battito. Sembrava non doversi mai fermare. Riconobbe vagamente la casa dove si
trovava, l’aveva appena intravista tra le ciglia. Alzò la testa. Era lo stesso
angelo che aveva visto nel sogno, non c’erano dubbi a riguardo.
Guardandolo
ancora addormentato si rese conto di non sentire davvero il bisogno di
allontanarsi e fuggire lontano anzi, non le sarebbe dispiaciuto rimanere lì
ancora. Forse aveva esagerato nel sogno. Forse avrebbe dovuto essere più
gentile ma, pensandoci, perché si erano parlati di nuovo in un sogno? Si scostò
per osservarlo. Non sembrava realmente pericoloso o malvagio, tutt’altro. Era
più come se stesse soffrendo terribilmente.
In
fondo non lo provava. Lo sapeva, lo aveva sentito nel momento in cui aveva
detto di volersene andare, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce: il
suo cuore non voleva, né le imponeva di scappare via.Eppure la testa le intimava di allontanarsi
da quella casa, anche se non aveva in mente dei veri e propri motivi se non una
storia che pareva essere molto lontana dalla realtà. Stava cominciando a
sentirsi in colpa per averlo giudicato solo dal suo nome, senza nemmeno
ascoltare cosa avesse da dirle. Lui, che era stato così gentile con lei.
Si
alzò in piedi e si sistemò la gonna, lisciandola con le mani e lanciò un’ultima
occhiata a Lucifero. Doveva sapere cos’avesse veramente fatto e perché prima di
parlarci ancora e, forse, l’unico del Paradiso che poteva aiutarla era Michele…
Forse.
Una
lacrima era scesa lungo la guancia del diavolo e altre erano intrappolate tra
le ciglia chiuse. Baciò gli occhi di Lucifero delicatamente per non svegliarlo,
asciugò la guancia con una manica e uscì. Si arrampicò sui rami della quercia
fino a raggiungere un punto abbastanza alto da cui spiccare il volo e con un
salto si ritrovò guidata da una corrente tiepida e piacevole che la cullò fino
al cuore di Eteria. Planò lentamente e si fermò vicino all’anziana Mary, seduta
all’ombra di un albero.
Mary
le piaceva. Non perché fosse identica a lei, anche se questo era un punto a suo
favore, ma perché era stata gentile e comprensiva, concedendole spazio e
tranquillità, mentre le altre guardiane, Hariel in particolare, la portavano da
un posto all’altro, tormentandola con infinite domande. Ogni giorno era stato
una scoperta e un’avventura per lei, mentre le guardiane erano rimaste per lo
più deluse dalle risposte evasive della ragazza, che preferiva tenere per sé
discussioni e pensieri. Infastidite dal non ricevere mai spiegazioni le due
avevano deciso di insegnarle a controllare la sua magia.
Ogni
angelo e arcangelo aveva la propria specifica essenza magica, anche se era
possibile, ma raro, che due o tre essenze convivessero in contemporanea nello
stesso corpo. Insegnare a usare la magia senza conoscere l’essenza era un
procedimento lungo, ma solo in quel modo si potevano apprendere tutte le
tecniche più comuni.
Hariel
dominava l’arte del fuoco. Le aveva mostrato più volte come, stringendo
lentamente una o tutte e due le mani a pugno, fosse in grado di scaldare ogni
oggetto intorno a lei fino a renderlo ustionante. C’erano però alcune
limitazioni. Per esempio scaldare le piante risultava molto complicato e spesso
finiva per appiccare un incendio e carbonizzarle del tutto. Concentrando calore
tra i palmi delle mani invece riusciva a creare piccoli fuochi fatui in grado
di riconoscere scie magiche e analizzarle, risalendo all’essenza
corrispondente. La prima volta che Verity aveva sperimentato la magia di Hariel
era successo il disastro: la guardiana aveva provato a scaldare la corteccia di
una delle querce senza riuscire però a interrompere il processo. Il tronco
aveva preso fuoco, spaccandosi a metà in pochi secondi. Lelahel aveva sospirato
irritata. Il cielo si era scurito e i capelli neri alzati per il vento. Aveva
mosso le mani, formando più volte cerchi concentrici e le nuvole del cielo
avevano replicato lo stesso movimento, riunendosi in un’unica grande nube e
piovendo sopra l’albero in fiamme.
Lelahel
aveva detto che tutte le volte era lei a salvare Eteria dalla distruzione e
Verity aveva riso a quell’affermazione. Aveva riso così tanto che le era venuto
male alla pancia e aveva contagiato tutte loro, lasciandosi andare alla sensazione
di euforia e respirando a pieni polmoni l’odore umido della pioggia che aveva
completamente coperto quello del fuoco e della legna.Era stato bello ridere e scherzare con quella
strana nuova buffa famiglia ma, per quanto l’avesse riempita di gioia, sentiva
sempre la triste consapevolezza che non sarebbe durata. Non sapeva il motivo,
ma l’istinto le diceva che non poteva rimanere tutto così splendido. Doveva
risolvere la questione di Lucifero e questa, sicuramente, pressava la parte più
spensierata della sua mente. Quei momenti così familiari la costringevano anche
a ripensare alla sua vecchia vita e a chi aveva lasciato indietro, da solo:
Dakota, la sua famiglia, quei pochi amici che aveva avuto. E anche quello la
rattristava, ma preferiva, ancora una volta, nascondere ogni ansia dietro un
sorriso.
Mary
le strinse la mano e Verity quasi tremò a quel contatto: la pelle della donna
era rugosa, gelida come il ghiaccio ma morbida come quella di un’infante.
Sorrise, avvicinando l’indice alle labbra in un chiaro segno di smettere.
Doveva essersi accorta dei suoi pensieri. Si dissero appena qualche parola, ma
bastò per attirare l’attenzione delle guardiane che, appena Mary si fu
allontanata, le chiesero di riferire tutto. Verity non rispose e scosse la
testa in segno di diniego. Tanta era la testardaggine nel non voler condividere
una sola frase che le due finirono per arrendersi e posero fine
all’interrogatorio, cominciando finalmente a spiegarle come usare la sua magia.
Il problema non era tanto la posizione delle mani o le parole speciali da
pronunciare ma, piuttosto, percepire quel nocciolo magico dentro alla propria
anima e riuscire a materializzarlo in qualcosa di solido e, potenzialmente,
letale. Alcuni angeli ci mettevano pochi secondi a trovare il collegamento,
altri non ci riuscivano in una vita intera. L’essenza magica era una forza
alquanto singolare. Generalmente debole e sottomessa, era in grado di entrare
in contatto con la sfera emozionale dell’angelo, mostrandosi come uno spirito o
addirittura parlando, c’erano sempre argomenti di cui discutere con la propria
Magia. Così facendo si riusciva a risvegliarla con lentezza e questa si
abituava ad essere utilizzata. Allora si diffondeva nel corpo con facilità,
prendendo prima il controllo delle ali e poi, gradualmente, quello della mente,
raggiungendo per ultimo il cuore, l’organo più difficile in cui insediarsi.
C’erano, ovviamente, angeli in cui il cuore era il primo luogo dove
rintracciare la magia, ma era anche improbabile che questa vi rimanesse a lungo:
un singolo battito fuori misura, un’emozione imprevista e incontrollata
rischiavano di accendere la Magia con un potere incontenibile. E gli angeli
custodi erano sentimentali, diversamente dagli arcangeli.
Dopo
l’insediamento, la magia cominciava a fluire placidamente in tutto il corpo:
per alcuni era un caldo scorrere, per altri freddo, gelido o appena tiepido.
Ma
non sempre tutto procedeva secondo gli schemi. In rari, rarissimi casi, erano
gli angeli a piegare la Magia, obbligandola a collaborare se questa si
rifiutava, assoggettandola con violenza. Molti dei diavoli, diceva Hariel,
avevano tiranneggiato sulla propria Magia durante la guerra. Ne avevano piegato
l’essenza perché sapevano che questa non avrebbe mai accettato di uccidere un
fratello o una sorella. In realtà, solo gli angeli incredibilmente potenti ne
erano capaci e quando, una volta raggiunto lo scopo, la Magia veniva liberata,
questa poteva scegliere di uccidere il possessore tra le sofferenze più atroci.
Forse questa era la parte più spaventosa. Concepire la Magia come un essere
senziente, dotato di una coscienza, era un sentiero tortuoso ma percorribile;
accettare che fosse spietata e dotata di istinti vendicativi era quasi
inconcepibile. La Magia si risvegliava soprattutto grazie ai ricordi di intensa
gioia: la crudeltà non avrebbe dovuto appartenerle.
Per
questo Verity cercava di concentrarsi su ricordi più felici che avesse,
riprendendo quelli che usava per volare. All’inizio non si applicò molto:
Hariel la fissava insistentemente, come se fosse un curioso cucciolo da
crescere o un esperimento sconosciuto. Si concentrava su un ricordo e lo
sguardo della guardiana la distraeva, mandando in fumo qualsiasi tentativo
serio. Riuscì appena a percepire le sue ali un paio di volte, ma e la
sensazione che ne derivò la ripagò dello sforzo. Tremavano, fremevano
costantemente, pronte a schiudersi e a farla volare come un freccia scoccata
dall’arco in tensione, desiderose di cavalcare le correnti e fare a gara con
gli uccelli. Era un istinto fresco e veloce che si scaldava man mano che si
avvicinava all’attaccatura delle ali ma da lì non riusciva a seguirlo. Sapeva
che scendeva giù lungo la spina dorsale, che saliva sulle spalle e formicolava
sulla punta delle dita, ma nulla di più. Se si inoltrava nel suo corpo il
flusso scompariva.
Incrociò
le braccia al petto, indispettita: non sopportava di non riuscire a fare nulla,
anche perché ci stava già provando da qualche settimana. La irritava perché non
era possibile che, pur avendo la magia, non potesse usarla a meno che questa
non glielo permettesse. L’avevano avvisata che ci sarebbero potuti volere mesi
per risvegliarla, ma lei la voleva subito.
Angolo dell’autrice:
Buongiorno
a tutti! Mi dispiace di non essere riuscita a pubblicare il capitolo la settimana
scorsa, ma tra ospedali e viaggi su e giù da casa è stato un po’ complicato. Ringrazio
moltissimo Humor_Girl per le recensioni, sono stata
felicissima di ricevere il tuo parere! Spero che anche gli altri lettori
avranno voglia di lasciarne una.
Sono
felicissima che siate arrivati a leggere fin qui e mi auguro che la storia,
insieme ai suoi personaggi, continui a piacervi.
Mentre
Verity si infervorava, nascosto su un albero, lontano dalla vista, Scar la
osservava con attenzione. Non si sentiva a suo agio a spiare gli angeli,
soprattutto le guardiane che mai avrebbero potuto creare guai, ma Verity era
un’altra questione. Era minuta, inesperta, ancora disabituata a visitare tanti
luoghi, con il rischio di essere attaccata da un diavolo ancora arrabbiato con
Lucifero o da Lucifero stesso, anche se, forse, lui non sarebbe stato così
pericoloso…
Scese
dal larice e si incamminò verso il bosco delle querce, certo che lo avrebbe
trovato lì da qualche parte.
Come
facesse Lucifero a volare lì dentro, sarebbe sempre rimasto un mistero per
Scar. I rami erano contorti e si ostacolavano tra loro, l’edera si avviluppava
intorno ai tronchi e il muschio cresceva libero sulle radici; foglie e rametti
si impigliavano nelle ali, provocando dolorose piccole ferite. Camminare non
era certo meno difficoltoso e più volte era scivolato e caduto, come un bambino
goffo e distratto. Le foglie erano di un meraviglioso verde smeraldo, ma l’aria
era pesante: le ragnatele di rami lasciavano penetrare solo poche scie di luce
e la nebbia, il respiro del suolo, si infittiva man mano che il portale per
l’Inferno si avvicinava.Perse più volte
l’orientamento, circondato da alberi e piante tutte uguali secondo lui, e
continuò a girare in tondo, allargando e restringendo il giro, scoprendo parti
di quella foresta che non aveva mai visitato in vita sua. Usava come
riferimento i nidi degli usignoli e dei gufi, le tane degli scoiattoli e delle
volpi. Quel bosco era, e sempre sarebbe rimasto, un labirinto in cui perdersi
ogni volta che vi entrava. In più la magia di Lucifero si nascondeva
nell’oscurità, rendendosi difficile da individuare, se non completamente
impossibile una volta giunta la notte.
Quando,
dopo essere passato sotto quell’enorme quercia per almeno tre volte, capì che
quella era la casa di Lucifero, era quasi il tramonto e la foresta appariva già
lugubre.
Ad
una sua occhiata dal tronco si svilupparono gradini tozzi e grossi che usò per
salire. La porta era chiusa. Strano. Vi tirò un calcio, spalancandola, ed entrò
in quella casetta così tanto più grande di dentro rispetto a fuori. Era triste,
come tutte le volte che l’aveva visitata, se non di più: non c’erano fiori, né
pareti colorate. Giusto il minimo indispensabile per vivere ed essere in
armonia con l’umore del proprietario. Camminò fino alla camera da letto,
sorpassando la sua senza guardarla. Non l’aveva mai usata e mai avrebbe voluto
farlo.
Lucifero
era disteso sul suo letto di fiori freschi e petali. Giocava con un fuoco fatuo
nero, con una piccola sfumatura bianca all’interno. Sembrava divertirsi,
sembrava aver pianto. Lo fissò volare dalle sue mani al soffitto, fare un giro
intorno alle pareti, una capovolta e tornare al punto di partenza fino a che
non lo fece scomparire. Alzò appena gli occhi: ‹‹Ciao, Scar.››
Ora
non gli sembrava più che avesse pianto, ne era certo. Gli si strinse il cuore.
Lo ignorò.
‹‹Lucifero.
Devo parlarti della Guardiana.››
Lucifero
pensò di essere stato scoperto e che Scar fosse lì per punirlo: doveva aver
davvero spaventato quella povera ragazza.
‹‹Stalle
lontano. Non sa niente di questo mondo, meno ancora della guerra o di te. Le
causeresti solo problemi, come hai fatto con me.››
Touché.
Quello
era un colpo basso, ma insistere sul senso di colpa di Lucifero era sempre
stato il modo migliore per convincerlo ad agire come volesse lui. Non si
sarebbe mai perdonato tutto il male che aveva fatto, e questo lo rendeva buono,
ma lo aveva fatto, e questo lo rendeva cattivo.
‹‹Sei
crudele, fratello.››
‹‹Non
sono tuo fratello, non voglio essere il fratello di un traditore.››
‹‹Questo
non cambia il fatto che condividiamo lo stesso sangue nelle vene. Però arrivi
tardi, ci siamo già conosciuti.››
Non doveva accadere.
Scar
immaginò mille scenari in un secondo solo, fino a pensare a lui che cercava di
rapirla e lei che scappava urlando. Non poteva essere, non lei. Non era
possibile. Non poteva averlo incontrato e non aver detto nulla a nessuno. Non
era il tipo di ragazza che nascondeva segreti, lei era sincera e pura. L’aveva
osservata su ordine di Michele da quando era nata.
‹‹Cosa
le hai fatto?››
Scar
credeva davvero che Lucifero avrebbe potuto farle del male. Si era ribellato a
mezzo Paradiso pur di poter guardare, amare solo lei e lo stesso credeva che
avrebbe potuto essere stato violento.
‹‹Quello
che non avete fatto voi, l’ho curata. A quanto pare vi siete dimenticati che i
ricordi della vita umana tornano a galla quando meno lo si aspetta e anche
quanto siano dolorosi, come se l’esperienza di Mary non vi avesse insegnato
nulla.››
Scar
fece un passo indietro, colpito dall’aura di magia che Lucifero emanava senza
nemmeno accorgersene. Era vero, si era dimenticato dei ricordi, ma in fondo lui
non era mai stato toccato da una tale esperienza e anzi, avrebbe preferito
perderli piuttosto che doverli ricordare ogni giorno.
‹‹Tu
non hai più magia bianca…››
‹‹Ti
sei dimenticato anche gli insegnamenti di Sandalphon? Luce, ricordi, amore…››
‹‹Sai
solo parlare come lui, criptico e incomprensibile. Ci occuperemo di lei, lo
faremo meglio, ma tu non ti avvicinare mai più. Sei già fortunato a poter stare
qui.››
Lucifero
scosse la testa, per nulla sorpreso. Scar non gli avrebbe mai più concesso la
sua fiducia e nemmeno lo avrebbe mai ascoltato. Lo lasciò andare,
controllandolo mentre si allontanava.
Scar
intanto si criticava per non essere riuscito a rimanere di più, a terminare
quel discorso appena accennato. Sentirsi chiamare fratello però… Una piccola
parte di lui, quella sentimentale senza dubbio, aveva gioito, mentre un’altra,
quella seria e razionale che sapeva quale fosse il suo dovere, ne era rimasta
disgustata. Il legame di sangue non contava più nulla da molti anni. Era solo e
andava bene così. Anche se… Gli tornò alla mente l’espressione serena e
sognante con cui Lucifero guardava nella fonte e sospirava. Non gli sarebbe
dispiaciuto poter guardare qualcuno a quel modo, potergli parlare e sfogare
tutti i sentimenti che avrebbe volentieri cancellato dal suo cuore. E nel
momento in cui aveva sentito quel bisogno farsi insopportabile aveva sbriciato
nella fonte e aveva visto lei. La
stessa lei di Lucifero. Non aveva capito cosa volesse rivelargli la fonte con
quella visione, quale oscura profezia si nascondesse dietro a quelle immagini.
Perfino in quel momento continuava a non capire, ma andava bene lo stesso. Non
amava Verity, non l’avrebbe mai amata, e questo era abbastanza.
Sere
dopo quell’incontro Verity era andata a dormire nella casa di Hariel per non
rimanere completamente sola con i propri pensieri. La guardiana non era stata
di grande compagnia e si era addormentata quasi subito, lasciandola lo stesso
sola a girovagare per le numerose stanze. Erano tutte accoglienti,
piacevolmente colorate di arancio, rosso, rosa e ocra. Le aveva raccontato di
essere stata sulla Terra una volta sola, in un paese chiamato India e ne era
rimasta affascinata. Ricordava di essersi sentita male la prima volta che aveva
mangiato il curry, troppo saporito per il suo palato abituato ai cibi neutri
del Paradiso. La seconda volta era andata meglio. Alla terza se ne era
innamorata.
Allora
aveva deciso di portare un pezzo di India con sé, per non dimenticarla mai.
Cuscini sparsi in giro, morbidi e dai colori vivaci, tende rosa e arancioni
appese alla finestre, un legno caldo che bene si intonava con i colori e un
intenso profumo di spezie a permeare l’aria. Forse era un India un po’
idealizzata, ma riempiva una casa che altrimenti sarebbe stata senza
personalità.
Così
Verity si era ritrovata a fissare il cielo, sperando che le desse qualche
risposta su cosa dovesse fare e cosa le sarebbe accaduto. Erano giorni che
quelle domande le affollavano la mente e non riusciva a darvi risposta. Non
c’era modo di liberarsi di quelle fastidiose presenze e, pur non riuscendo ad
ammetterlo ad alta voce, era confusa. Confusa da Lucifero, da Scar, da Mary,
dalle guardiane, dagli arcangeli. Tutti sembravano avere un ruolo speciale in
quell’enorme famiglia e lei sentiva di essere l’unica fuori posto. Era il
giocattolo nuovo di cui presto si sarebbero stancati.
Non
aveva più intravisto Lucifero da nessuna parte. Un pomeriggio, saltando le
lezioni di magia, era andata nel bosco per trovarlo anche se stava scendendo la
sera. Non avrebbe mai lasciato quel pensiero attraversarle la mente, ma voleva
rivederlo e conoscerlo. Era come se loro due fossero l’ago della bussola e il
Polo Nord, anche se non sapeva chi fosse cosa. Aveva girovagato tra le piante a
lungo prima di riconoscere la grande quercia, ma la casa era vuota. I fiori del
materasso schiacciati e ammassati vicino alla finestra, come se le ali,
strusciando sul pavimento, ne avessero trascinata una parte. Si era affacciata
e aveva notato l’erba e il terreno segnati in direzione del portale per
l’Inferno. Poi il coraggio le era mancato. Aveva avuto paura di chi avrebbe
potuto trovare dall’altro lato dello specchio. Quando finalmente, dopo ore, era
ritornata a casa, Scar l’aveva sgridata, proibendole di aggirarsi da sola per
la foresta.
Ecco,
Scar era decisamente strano. La costringeva ad allenarsi tutti i giorni,
provando mille volte gli incantesimi ed esasperandola; ostentava allegria
quando era chiaro che si stesse annoiando terribilmente e questo la faceva
infuriare ancora di più. Mary e le guardiane stavano zitte ad osservare le loro
sfuriate, le curavano le ferite che si procurava e Hariel rideva sotto i baffi
ogni volta che sbagliava un movimento. Qualsiasi cosa volesse fare, Scar la
precedeva e la fermava. La disturbava quando provava a usare la magia per conto
suo e, soprattutto, quando provava ad andare dall’arcangelo Michele. La portava
in angoli del Paradiso che non aveva ancor visitato, piccole radure con specie
di fiori odorosi che non aveva mia visto. Era bello ma noioso, e avrebbe
preferito spendere il suo tempo libero diversamente. Fortunatamente, alcune
volte Mary era intervenuta portandola nella sua casa, lontano da Scar, dove
trovava sempre Lelahel. Mary le aveva mostrato solo una piccola parte della sua
casa, la biblioteca. Era anch’essa sottoposta all’incantesimo per ingrandirla,
ma la quantità di libri era spaventosa: migliaia di prime edizioni di libri
antichissimi, manoscritti e testi provenienti dai più disparati periodi
storici. C’erano il Corano, l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e a fianco
le opere dei drammaturghi più famosi, le commedie e le tragedie delle corti
italiane del Rinascimento. Le aveva raccontato che generazioni di angeli avevano
contribuito a creare quel tesoro di umanità, lei aveva solo avuto la fortuna di
abitare in quella casa.
Verity
amava lasciarsi ammaliare dalla poesia orientale, dei versi d’amore dei poeti
inglesi e dalle affascinanti prose russe. Eppure anche lì si ritrovava a
pensare e a riflettere su Mary e sugli sguardi preoccupati che alle volte le
rivolgeva, soprattutto quando lei e Scar rimanevano soli.
Gli
arcangeli invece non li aveva più visti da quel giorno nell’Inferno. Le avevano
chiesto, o meglio Metatron lo aveva fatto, di ascoltare Lucifero e si sentiva
terribilmente in colpa per non aver provato ad adempiere a quella semplice
richiesta. Loro però non erano stati molto chiari. Non le avevano detto nulla
riguardo alla ribellione dei caduti né del motivo per cui l’Inferno era in
rovina quando avrebbe dovuto essere il contrario.
C’era
qualcosa che non le era stato riferito. Un dettaglio che forse avrebbe fatto
abbastanza chiarezza sui suoi dubbi. E se fossero rimasti zitti per sempre,
sarebbero usciti fuori da soli e con violenza: anziché proteggerla l’avrebbero
solo danneggiata. Tutti gli angeli cercavano sempre di distrarla dai suoi
pensieri, di non lasciarla mai sola. Lei era abituata. Era una di quelle
persone che fanno paura perché sanno stare sole, senza aver timore della
solitudine. Lei era avvezza all’indipendenza, alla solida realtà di scegliere
liberamente se fermarsi, con chi e per quanto tempo. Lì decidevano al suo
posto. Forse credevano di farle una cosa gradita, ma la irritavano ogni giorno
di più fino a rendere insopportabile la loro compagnia. E Scar era il primo
della lista. C’erano momenti in cui pareva che volesse raccontarle qualcosa. La
osservava come se cercasse di entrare nella sua mente e leggervi, boccheggiava
parole mute; accennava una carezza o una abbraccio e si fermava a metà. Era
oltremodo strano.
Lucifero
invece sapeva che Verity era andata a cercarlo. Nell’esatto momento in cui Scar
gli aveva intimato di non avvicinarsi a lei, aveva avuto la conferma che
sarebbe stata lei a venire per opera di una qualche forza cosmica che iniziava
a muoversi nel verso corretto. Scar aveva promesso che si sarebbero presi cura
di lei e, almeno fisicamente, lo stavano facendo: la costringevano a mangiare
quando si rifiutava e Scar stesso si assicurava che andasse sempre a dormire
senza nessuna ferita. Eppure le si leggeva negli occhi che non era serena
nemmeno la metà rispetto alle guardiane.
Aveva
un buon rapporto con Lelahel, ma non era il caso di tediarla con i suoi
problemi e allo stesso modo non aveva intenzione di svegliare Raziel o
Metatron, che sarebbero stati ben felici tenergli compagnia. Voleva parlare con
qualcuno, ma in fondo sapeva di desiderare solo lei. Qualche tempo prima che
Verity lo andasse a cercare, aveva parlato con Mary a lungo, mentre la ragazza
era a leggere nella biblioteca. In realtà all’inizio l’aveva solo spiata, ma
l’anziana donna lo aveva scoperto e si così era fermato a parlare con lei. Le
aveva raccontato del loro primo incontro, e di come fosse stato un fallimento su
tutti i fronti anche se, orgoglioso, aveva affermato di essere riuscito a
curarla con la sua magia. La discussione non aveva portato a nessuna
conclusione, era stato solo un dolce ritrovarsi tra vecchi amici, scoprendosi
d’accordo solo sull’aspettare i tempi della ragazza. Quando poi lei si era
decisa, lui era rimasto nascosto, temendo che fosse in compagina di Scar. Era
certo però che avrebbe avuto un’altra occasione.
Verity
emise un sospiro. Aveva una bruciatura sul braccio destro e lividi ovunque.
Quel giorno non si era lasciata curare da Scar, la sua compagnia era stata così
insopportabile, che appena aveva intravisto l’opportunità di liberarsi di lui,
l’aveva colta. Aveva anche un taglio sulla tempia, ma quello non era colpa
dell’allenamento, era semplicemente caduta inciampando nei suoi piedi.
Decise
di essersi stufata di rimanere affacciata alla finestra. Tese un orecchio verso
Hariel. Dalla sua stanza provenivano i respiri regolari di un sonno profondo.
Uscì di casa. Scese lentamente dall’albero, ma una volta a terra non seppe dove
andare. Si guardò intorno, fece il giro tra i cespugli per assicurarsi che Scar
non fosse nei paraggi.
Almeno di notte non mi fa
la guardia, ci mancherebbe solo quello…
Camminò
per un po’ lungo il sentiero senza una direzione precisa fino a che non sentì
dei sussurri lievi tra gli alberi. Li seguì fino al lago cristallino che
brillava come ricoperto da un pezzetto di cielo. Si tappò le orecchie con le
mani.
I
Sognatori non smettevano mai di cantare per mantenere la barriera dell’Inferno.
Verity li guardò con curiosità, chiedendosi quale potesse essere l’aspetto
nascosto dal velo azzurro, quale fosse stato il loro passato e di che colore
fossero state le loro ali. Si avvicinò alla riva del lago e vide su quella
opposta qualcuno, e non era Scar, le ali nere parlavano per lui. Stava seduto
al fianco di un Sognatore e ne ascoltava il canto senza assopirsi, dondolando
appena la testa per seguire la melodia. Fece per togliersi le mani dalle
orecchie a cambiò idea: se l’avesse fatto si sarebbe addormentata e lui sarebbe
andato via. Corse lungo il perimetro del lago, scansando i Sognatori, ma
Lucifero non si mosse e anzi, le fece cenno di inoltrarsi nel bosco e
allontanarsi da lì. Quando il canto divenne di nuovo appena un sussurro, si
tolse le mani dalle orecchie e lo guardò.
Verity
aveva le occhiaie. Lucifero alzò la mano per accarezzarle il viso, ma lei si
scostò e lui abbassò il braccio. Aveva promesso a Scar e lui cercava sempre di
mantenere le promesse, in particolare quelle fatte a suo fratello.
‹‹Io…
Io non mi fido molto di te, ma ricordo che mi hai curata e io non ti ho nemmeno
ringraziato. Anche se non capisco perché tu l’abbia fatto.››
Lucifero
sorrise. Aveva fatto bene a infiltrarsi in Paradiso ancora una volta. Lei lo
aveva trovato. La vedeva fremere per l’impazienza di ricevere una risposta e lo
fissava. Stava per risponderle, ma lo sguardo gli cadde sulla tempia. La sfiorò
appena e lei non si ritrasse: era un brutta ferita, com’era possibile che Scar
non l’avesse curata?
‹‹Scar
avrebbe dovuto…››
‹‹L’ho
cacciato via. Avevo bisogno di tranquillità.››
La
capiva piuttosto bene. Si era comportato in modo analogo anche con lui quando
ancora vivevano insieme. Ma era un buon angelo, e questo bastava ad attenuare i
suoi difetti.
Fece
un passo avanti: ‹‹Posso?››
Gli
fece un cenno con la testa e lui concentrò abbastanza energia per richiudere
completamente la ferita. Era una sensazione piacevole, un tepore che purificava
la pelle.
‹‹Ne
hai altre? Vanno curate, sempre.››
‹‹Solo
qualche livido e… Non mi hai risposto!››
Lucifero
le propose di seguirlo fino a casa sua: lì avrebbe risposto ad ogni sua
domanda.
Verity
non avrebbe dovuto andare, la parte razionale della sua mente le stava urlando
di allontanarsi da lui invece di seguirlo. Ciò nonostante gli disse di sì.
L’istinto le suggeriva di fidarsi, lo sguardo di lui le suggeriva di fidarsi,
tutto quello che la sua anima era le suggeriva di fidarsi.
Lucifero
pose la gemma della sua collana nelle mani di Verity, stringendole, e pronunciò
poche parole. Un cerchio di fuoco bianco crebbe intorno a loro e quando Verity
riaprì gli occhi, si ritrovò nella stessa stanza dove aveva lasciato l’angelo
dormiente. La fece sedere sul quel letto improvvisato di fiori e foglie e
l’abbracciò. La ragazza cercò di divincolarsi, opponendo con forza le braccia e
le ali ma Lucifero la stringeva troppo forte perché lei riuscisse a liberarsi.
‹‹Lasciati
curare…››
Di
nuovo quel tepore salutare la investì, rilassandole i muscoli e cullandola,
obliandole i sensi e la mente. Poggiò il capò sulla spalla dell’angelo e le sue
ali nere si chiusero intoro a loro.
Sorrideva
Verity, mentre inconsciamente stringeva tra le dita la camicia di Lucifero e le
lacrime scivolavano tonde sulle sue guance. Non disse nulla, continuando a
emanare energia fino a che tutti i lividi non furono scomparsi e anche la
bruciatura, che non aveva visto ma sapeva esserci, fu curata. Eppure la ragazza
non smetteva di piangere e anzi, tremando aveva iniziato a lamentarsi nel
sonno. Si agitava esattamente come quando l’aveva trovata nel bosco e di nuovo
si chiese come fosse possibile che nessuno si accorgesse della precarietà delle
condizioni psichiche della ragazza, costretta ad ascoltare quel battito
incessante senza sapere come fermarlo. Lei lasciò la presa sulla camicia e si
tenne la testa, dondolandola a destra e a sinistra.
Lucifero
fece una smorfia. Curare le ferite fisiche era un questione, il battito delle
anime un’altra.
Cercò
di nuovo i vecchi ricordi, convinto che fosse un bel modo per consumarli, e
placò ancora gli spasmi della ragazza. Possibile che non riuscisse davvero a
fermare il battito? Anche quando, prima di lei, si era occupato dei ricordi
dolorosi di Mary, era sempre e solo riuscito a farla addormentare
profondamente. Un ottimo risultato a breve termine, ma che diventava inutile
sui lunghi periodi.
In
fondo, però, non gli dispiaceva troppo quella situazione: avrebbe potuto
guardare la sua Verity dormire tra
sue braccia per l’intera notte.
Invece non puoi.
La sua coscienza rovinava sempre i momenti idilliaci della sua
esistenza ricordandogli effettivamente cosa dovesse fare, e aveva sempre
ragione. Doveva svegliarla, altrimenti non sarebbero mai riusciti a parlare.
Angolo dell’autrice:
Buongiorno a tutti! Come state? Scusate se aggiorno con una
settimana di ritardo. Sono stati giorni intensi e faticosi, ma ora dovrei
tornare ad aggiornare con regolarità J Spero
che abbiate apprezzato il capitolo! Lasciatemi un parere please <3
Siccome la scorsa settimana non ho aggiornato, oggi capitolo
doppio, così da non rimanere indietro con la mia tabella marcia immaginaria.
Quindi, di nuovo, buona lettura!
Il
cielo era di nuovo azzurro, di quella stessa tonalità di azzurro pastello
appena velato dalle nuvole che vedeva spesso dalla terrazza di casa sua. Si
guardò intorno e per poco non urlò per lo stupore: era davvero a casa sua!
Incredula si affacciò dal parapetto per guardare nel giardino: le rose erano
fiorite ed il prato era coperto di fiorellini bianchi e blu.
‹‹Che
posto è questo?››
Dietro
di lei, Lucifero la osservava confuso. Credeva che si sarebbero ritrovati nella
finta radura di Eteria o quantomeno alla fonte, ma non aveva la minima idea di
dove si trovasse.
‹‹Siamo
sulla Terra… Ma tu cosa fai qui? Mi hai seguita?››
La
Terra… Probabilmente Verity doveva aver desiderato di tornarci e la gemma che
teneva ancora in mano li aveva condotti lì. Ora doveva solo capire se erano
fisicamente sulla Terra o se era solo un momento del tempo che la gemma aveva
scelto di far rivivere loro o se, invece, solo le loro anime erano lì.
‹‹La
gemma deve averci condotti qui…››
Verity
sembrò fermarsi a riflettere per un secondo, ma si asciugò gli occhi e sorrise
ancora una volta.
‹‹Allora
è meglio che non ti allontani troppo da me, penso sia passato troppo tempo
dall’ultima volta in cui tu sei stato sulla Terra e… Non corrompere nessuno,
almeno per ora.››
Lucifero
annuì. Nessuno a quanto pareva le aveva raccontato perché lui si fosse
ribellato e andava bene così: lo avrebbe fatto lui.
Giravano
strane voci per l’Inferno, voci che preannunciavano rivolte e nuovi
combattimenti, tutti comandati da Yelahiah. Avrebbe dovuto metterla in guardia
contro di lui, ma c’era ancora tempo. Avrebbe trovato il momento opportuno. Nel
frattempo l’avrebbe seguita, assicurandosi che non decidesse di fermarsi nel
sogno, sempre che di sogno si trattasse.
La
vedeva correre da una parte all’altra della casa, chiamando oggetti che lui non
conosceva con familiarità e nostalgia, con felicità. Eppure c’era qualcosa di
sbagliato. Verity sembrava essere il pezzo del puzzle sbagliato: si adattava a
una forma ma non era mai esattamente nel posto giusto. Non c’erano tracce di
lei in quella casa, come se non vi avesse mai veramente vissuto o avessero
provato a dimenticarsi della sua esistenza. Non c’erano sue foto nei bei quadretti
appesi al muro o negli album sopra i mobili, eppure gli sembrava che gli umani
facessero spesso cose del genere per avere sempre vicini i propri cari, vivi o
defunti.
Intanto
ricordava della Terra… Aveva passato la maggior parte dei propri anni da caduto
a nascondersi dai Nephilim e dagli arcangeli, ma ogni tanto, prima che il
destino lo obbligasse a vivere nascosto tra le ombre, aveva assistito anche a piccoli
miracoli. Anita era stata uno di questi. Quella però era una storia che non gli
apparteneva, almeno non direttamente.
Seguì
Verity nella biblioteca e poi nella cucina senza mai parlare, diventando un
attento osservatore. La casa svuotata di lei non sembrava averle fatto effetto,
tutt’altro. Verity camminava, sfiorava antichi tomi, salutava ogni oggetto con
lo sguardo quasi come se fosse sempre stato così e nulla fosse cambiato. Era
uscita di casa con un piccolo sorriso e aveva camminato veloce, conducendolo in
quella che probabilmente era una scuola. Lì cominciarono a tornargli i dubbi
sul realismo di quel momento. Nessuno si accorgeva della loro presenza. Passò
più volte davanti agli occhi degli studenti e nessuno di loro diede mai segno
di vederlo. Verity non se ne avvedeva ancora e decise di non dirglielo,
sperando contemporaneamente che non provasse a parlare con qualcuno e che le
bastasse trovare la faccia della persona che stava cercando. Quando la vide
entrare in un laboratorio capì che avrebbe dovuto fermarla prima: gli occhi
degli studenti erano spalancati e la professoressa fissava immobilizzata la
porta, mentre la mano con cui teneva il gessetto era rimasta a mezz’aria. Verity
salutò l’insegnante come una vecchia amica, la quale però non rispose né diede
segno di aver sentito il saluto; un’altra ragazza, seduta in prima fila, si
alzò per chiudere la porta e le passò attraverso.
Verity
chiamò ancora la sua amica e ogni volta il cuore di Lucifero si batté contro la
cassa toracica. Si avvicinò per confortarla un poco, ma lei si scostò,
passandosi una mano sugli occhi e scappando via.
La
lasciò andare. Se l’avesse seguita si sarebbe solo sentita peggio. Decise di
lasciarle il tempo per calmarsi da sola e solo dopo andare a parlarle. Fece un
secondo giro nella scuola, ma senza di lei era noioso e finì per camminare
senza meta nel corridoio dei laboratori, il viso rivolto verso i soffitti ad
ammirarne i dipinti. Gli piacevano quelli dei miti greci: Raziel gli aveva
spesso narrato della nascita di quelle storie meravigliose e magiche dove
l’uomo spiegava ciò che non capiva, o almeno tentava. C’era un racconto
particolare di quando, un giorno di pioggia, si era rifugiato nel grande tempio
di Atene. Una sacerdotessa pregava, con canti e lamenti, affinché la dea concedesse
alla città una tregua dalla pioggia; Raziel, invece, una volta vista
l’imponente statua di Atena, aveva iniziato a raccontare il mito della nascita
come lo aveva sentito anni prima da un pastore a Sparta. Raziel sapeva che le
preghiere sarebbero servite a ben poco, e preferì intrattenere i bambini che si
erano rifugiati con lui.
Sulle
volte però il dipinto più bello era quello di Orfeo ed Euridice, seguito
dall’epico scontro tra lui e Michele, dove l’arcangelo otteneva la vittoria e
lo scagliava giù dal Paradiso.
Smise
di guardare il soffitto. La guerra non era mai un argomento piacevole.
Si
spostò lungo il lato sinistro del corridoio, dove non c’era nessuno. Essere attraversati
dagli umani era al quanto disturbante. Sentivi l’inconsistenza di ogni parte
del tuo corpo e al passaggio la nausea e la confusione si fondevano per un
attimo in un intruglio orribile. Evitando i ragazzi cercava nella folla la
giovane che Verity aveva salutato nell’aula. Avrebbe potuto ritornare subito in
classe e seguirla, ma non ci aveva pensato e adesso doveva guardare tutte le
facce di centinaia di studenti per trovare quella giusta. Gli sembrò di averla
vista entrare nella mensa, ma si accorse tardi di essersi sbagliato.
‹‹Ci
vediamo oggi pomeriggio, vero Dakota?››
Forse
non era così sfortunato.
Seguì
quella ragazza per un po’ tra le mille svolte per i corridoi e le scale della
scuola, fermandosi un secondo di fronte alla portafinestra di un cortile interno.
Scorse Verity attraverso il vetro, accucciata contro il tronco della quercia,
ma la lasciò sola. Entrò nella biblioteca e rimase con la ragazza per tutto il
tempo della sua conversazione con un bidello. Chiacchierarono per parecchio
tempo sugli argomenti più disparati come se fossero amici da lungo tempo: un
atelier, una bambina, le vacanze che si avvicinavano e come le avrebbero
trascorse. Eppure aleggiava intorno a loro un’aura di tristezza, come se
mancasse qualcuno di importante. Di nuovo la donna di poco prima chiese a
Dakota se si sarebbero viste e questa rispose tristemente: ‹‹Oggi vado in cimitero,
Anna, magari stasera…››
Dakota
uscì dalla biblioteca con un sorriso stanco e lui lasciò la ragazza e andò da
Verity, credendo di poterle sollevare il morale. Si fermò a pochi passi da lei,
sperando che alzasse lo sguardo, ma fu un attesa vana. Non lo avrebbe mai
guardato per prima. Quando le posò una mano sulla spalla, scoppiò a piangere di
nuovo, lagnandosi ad alta voce… Nessuno, in fondo, l’avrebbe sentita.
‹‹Nessuno
si ricorda di noi dopo la morte…››
E
forse Verity diceva il vero, pensò Lucifero, ma nessuno veniva mai messo
completamente da parte.
‹‹Le
persone che ci hanno amato non si scordano facilmente di noi. Spesso capita solo
che queste inizino ad ascoltare le nostre parole quando la nostra voce non può
più pronunciarle.››
Verity
si alzò e si appoggiò a lui alla ricerca di un conforto; lui le chiese di
portarlo al cimitero, almeno per vedere Dakota un’ultima volta.
Il
cancello del cimitero era nero e lucido. Si vedeva come fosse molto antico e
decisamente ben tenuto. Da uno spiazzo di sassolini bianchi e brillanti si
diramavano quattro stradine: la prima, molto breve, portava alla casa del
custode; la seconda e la terza avanzavano tra lapidi grigie, incorniciate dai
fiori finti che i parenti avevano portato in ricordo dei cari defunti; la
quarta, che saliva lungo la collina, portava alle cappelle delle famiglie
facoltose che avevano preferito come ornamento gelide statue d’oro e d’argento.
Non
erano mai piaciute a Verity, né a Dakota: sapevano che quelle ricchezze non
erano amore.
La
cappella della famiglia della ragazza era sulla cima della collina, dove il
prato era coperto di margherite e non-ti-scordar-di-me. Era un edificio
squadrato in marmo rosa, circondato da un cancello d’argento scintillante; ai
lati dell’ingresso c’erano due leoni neri pronti a spiccare il salto e sul
tetto un angelo con la spada sguainata lo proteggeva. Pur rimanendo a distanza,
Verity e Lucifero riuscirono a vedere all’interno e la ragazza si sorprese. C’erano
Dakota e Jay da una parte, isolati, mentre Victor cingeva le spalle di Eleonore,
che pregava, con un braccio. Verity si asciugò gli occhi, grata a quella
piccola assemblea di fronte alla sua foto sbiadita, circondata da candele
profumate e da un mazzo di rose nere avvolto in una carta trasparente, fermato
da un nastro rosso. Dakota teneva dei fiori di campo e di rosmarino in mano. Li
posò vicino alle candele, stando attenta che non prendessero fuoco per la cera
calda che colava. Finita la preghiera Eleonore diede un bacio alla Verity di
carta e uscì, seguita da tutti gli altri.
La
Verity di carne e ossa era sbalordita. Aveva dimenticato la discussione a cui
aveva assistito nel bosco, nascondendo anche la sensazione di gioia che quelle
parole le avevano portato perché per una delle prime volte della sua vita si
era sentita amata da sua madre. Tutte le immagini che aveva rimosso stavano
ritornando, seguite da dolori alla testa che però sembravano rimanere
sopportabili, e diventavano nitide e precise, e lei aveva di nuovo le lacrime
agli occhi in un ciclo che pensava si sarebbe ripetuto per sempre. Camminò con
gli occhi appannati, seguendo la sua famiglia che, silenziosa, accompagnava Jay
e Dakota nel parcheggio. Lucifero osservava con interesse ogni movimento e ogni
reazione della ragazza: gli procurava una strana sensazione allo stomaco, come
farfalle, ma piacevole. Era un brivido che sapeva di non aver mai provato prima,
ma che adorava ogni secondo di più. Avrebbe fatto di tutto affinché lei si
sentisse al sicuro insieme a lui. Manteneva una certa distanza, non si fidava
di lui, e la capiva perfettamente, ma le avrebbe fatto cambiare idea. Il rombo
della moto di Dakota risvegliò la sua concentrazione sul mondo intorno. Era
andata via lasciando una scia nera sull’asfalto, mentre il bidello partiva
lentamente con la sua bicicletta. Victor ed Eleonore si stavano avviando verso
la loro villa a piedi, abbracciati l’uno all’altra. Vide Verity accennare un
passo per seguirli, ma si bloccò, girandosi a guardarlo. Gli mimò con le labbra
di seguirla e camminò nella direzione opposta a quella presa dai genitori.
Proseguirono a lungo sul bordo della strada e poi deviarono su uno sterrato che
si trasformò in breve tempo in un sentiero appena riconoscibile tra le felci e
le radici degli alberi. Quel bosco oscuro era tanto simile a quello in cui
viveva a Eteria, quasi come fosse un gemello: la stessa oscurità scivolava dai
rami e dalle foglie, concedendo a pochi raggi isolati di filtrare, e così
l’ambiente era umido, ricco di un muschio fresco e morbido. I suoi passi era
sicuri, diversamente da quelli di Verity che più volte era scivolata o
inciampata in una radice. L’aveva sempre aiutata a rialzarsi, anche se cercava di
opporsi. Ad ogni caduta si alzava da sola, probabilmente per orgoglio, per non
sembrare una bella principessa in attesa del cavaliere. Nonostante
l’insicurezza e l’accondiscendenza, Verity era molto orgogliosa: non di sé
stessa, non lo era mai stata, ma di tutto quello che aveva imparato a fare, sì.
Era stata una delusione per i suoi parenti, per sua madre che aveva sperato in
un grande maga come figlia, per suo padre che non aveva mai saputo come
comportarsi con lei ma che, a conti fatti, era stato più dispiaciuto per sé
stesso. Però aveva imparato a ridere delle prese in giro e delle malignità che
dicevano alle sue spalle, aveva imparato a vivere senza magia in un mondo dove
sembrava impossibile esistere senza. Anche nei momenti peggiori, quando si era
sentita inutile e sbagliata, aveva imparato a trovare la bellezza in ciò che
possedeva. Per ogni parola che l’aveva lasciata affondare nella tristezza era
riuscita, un po’ con l’aiuto di Dakota e un po’ da sola, a rialzarsi. Giorno
dopo giorno, senza che se ne accorgesse, era cresciuta forte e orgogliosa delle
proprie capacità, poco contava che fossero magiche o meno.
Camminarono
a lungo, inoltrandosi nella vegetazione in un silenzio tale che Lucifero
cominciò a preoccuparsi, pensando che si fossero persi e che Verity non volesse
confessarlo. La ragazza ogni tanto si guardava intorno per orientarsi, ma rimase
zitto. Fece bene. Pochi passi e arrivarono a una serra da vetri opachi, scura
all’interno. Verity entrò e si sedette sul piano da lavoro, aspettando Lucifero
con impazienza: sarebbe stata un lunga notte con tante domande cui dare
risposta.
‹‹Immagino
tu adesso voglia le tue risposte.››
‹‹Si…
Pensi di poter rispondere a tutto?››
‹‹Tutto
quello che so è tuo. Niente segreti.››
Verity
sorrise, contenta di sentire quella che pareva una promessa, e accarezzò con
una mano un bocciolo di rosa nera che presto si sarebbe mostrato nella sua
poetica bellezza. Disse a Lucifero di voler conoscere tutto: chi erano Dio e
Gesù, se mai fosse esistito; come nascevano gli angeli, cosa l’avesse portato a
ribellarsi e cosa fosse successo quel giorno; cosa sarebbe accaduto in futuro e
quale fosse il suo ruolo.
Sarebbero
state necessarie molte ore per rispondere a ogni domanda, pensò Lucifero, ma la
prospettiva lo entusiasmò. Chiuse gli occhi cercando di mettere insieme almeno
un paio di argomenti per cominciare quando Verity lo interruppe.
‹‹Torniamo
a Eteria. Voglio che parli là, a casa tua, nel bosco.››
Lucifero
sorrise e concentrò la sua magia nella pietra e chiese alla ragazza di
desiderare di tornare a casa. Era ancora lei a tenerla in mano, un suo
desiderio non sarebbe servito a nulla. Fiamme bianche li avvolsero ancora e si
ritrovarono nella realtà, abbracciati come quando si erano addormentati. Solo
che Verity non si mosse e chiese che le spiegasse anche il battito nella sua
testa. La preoccupava.
‹‹Ogni
domanda a suo tempo›› disse, e poi cominciò.
‹‹La
religione della Terra vi insegna che Dio abbia creato l’universo così come voi
lo conoscete, nella sua materialità, in sei giorni, ma mi pare che i vostri
studiosi, millenni fa, abbiano anche scoperto come non sia andata realmente
così: da una lato hanno entrambi ragione, dall’altro hanno entrambi torto. Dio
ha partecipato alla creazione, è vero, ma sotto una forma molto più adatta alla
sua natura, ineffabile e spirituale. La sua forza sono le emozioni, buone o
cattive che siano: amore, bontà, coraggio. Quanti sono i sentimenti che tu
riesci a immaginare o che hai incontrato, tante sono le accezioni di Dio e
tanti ne dona, ancora oggi, a chi ne ha bisogno, che venga chiesto con una
preghiera o no. Dio è l’emozione, la qualità dell’anima, la caratteristica che
fa parte della tua essenza e della mia ed è in ognuno di noi senza esserci veramente.
Pensa a una qualità semplice come la bellezza, quella interiore che rende
splendido ciò che esteriormente non lo è: è un dono di Dio, una concessione che
Dio non sceglie di fare, ma di cui ha l’obbligo perché è la sua natura, e
riguarda anche le piante e gli animali. Ogni essere vivente porta dentro di sé
l’amore di Dio e lo sviluppa in maniera diversa. Le piante per esempio hanno
effetti particolari sugli umani e gli animali…››
‹‹Come
quando hanno effetto sull’umore? Ma non è questione di chimica quella?››
‹‹Ci
metti poco a capire. È un misto di entrambi, non credere mai che sia tutto
scritto e facile.››
‹‹Vai
avanti.››
‹‹Stavamo
parlando di animali… Sì, anche loro hanno qualità divine come la fedeltà incondizionata
al padrone o l’istinto di proteggere i propri cuccioli o come quando specie
naturalmente nemiche riescono a fare amicizia e gli uomini le studiano perché
non trovano fin da subito una risposta razionale. Una parte di tutto ciò è data
dalla sensibilità, ma Dio ha un ruolo in tutto questo. La manifestazione
maggiore è però nell’uomo. In lui è sconvolgente e spettacolare perché basta
un’influenza minima per creare qualsiasi cosa, una sola piccola scintilla di
speranza o di immaginazione o bellezza e nasce un mondo intero. Chi aveva
scolpite nell’anima la bellezza o la passione ha creato opere che mai si smette
di ammirare tanto ci coinvolgono, che hanno sempre una consiglio da suggerire o
un spunto per riflettere e generare altre bellezze con cui adornare quella
cornice alla vita che è il mondo: statue, dipinti, libri e musiche che non mi
stancavo mai di ascoltare quando ero sulla Terra…››
‹‹Sei
stato sulla Terra? Quando?››
‹‹Fammi
finire, ti ho promesso di raccontarti tutto e lo farò. Stavo dicendo… Ci sono stati
uomini che con poca immaginazione hanno inventato quanto di più sconvolgente
potesse esistere e con la speranza hanno trovato la forza di affrontare i
recessi più oscuri della propria anima, seguendo solo le proprie idee e
cambiando il mondo. Dio è emozione, ideale, amore. Tutto ciò che non capiamo,
quanto di sentimentale e spirituale esista. Dona così tanto che ho sempre
trovato questo suo obbligo meraviglioso. Per me Dio è sempre stato meraviglia,
prima di ogni altra accezione. L’uomo però ha sempre avuto difficoltà nel
vederla, nel guardare oltre la superficie, concentrandosi sugli altri e non su
sé stesso… Beh, diciamo che non è il solo nell’universo: anche noi angeli non
brilliamo per amore e umiltà. Siamo stati capaci di grande odio e di caparbia
arroganza, io per primo. L’amore è un emozione individuale, nasce solo e deriva
da Dio solo, ma è anche un sentimento collettivo e noi l’abbiamo dimenticato.
Per qualche ragione dentro di noi sappiamo che l’unico amore che ci è permesso
provare dovrebbe essere quello verso Dio, ma a molti angeli non basta. L’amore
è caldo, è rosso come il fuoco che brucia e consuma la vita, ma se è a senso
unico con il tempo si trasforma in un ghiaccio affilato che distrugge chiunque
lo riceva. Per me, almeno, è stato così, ma sono felice dell’amore che ho provato.
Senza, non sarei lo stesso.››
Parlando
dell’amore Lucifero aveva aumentato la stretta in cui teneva Verity e lei aveva
sentito il battito del suo cuore accelerare. Gli occhi di Lucifero erano fissi
davanti a lui e guardavano il vuoto, ricordando qualcosa, sicuramente doloroso.
Forse, pensò Verity, poteva accontentarsi e non farlo soffrire oltre...
‹‹Andiamo
avanti, altrimenti la notte finirà e noi non saremo nemmeno a metà discorso. Mi
avevi chiesto di Gesù e…››
‹‹Non
mi interessa! Dimmi degli angeli, com’è possibile che sentiate dentro di voi
chi dovete amare?››
‹‹Come
vuoi tu, va bene. Allora, da dove posso iniziare… Certo! Dio ha generato,
fisicamente, due persone dai suoi sentimenti. Voi le chiamate Benihime, che è
nata dalla passione, e Hikarihime, nata dalla speranza. Io in realtà non le ho
mai viste in tutta la mia vita, ma sono cresciuto con l’angelo che loro hanno
concepito, quindi per forza credo nella loro esistenza. La sua nascita è un po’
strana come fatto, ma è la pura verità. Loro sono nate dai due sentimenti più
potenti che Dio possiede, che uniti insieme sono l’amore, e quindi sono esse
stesse energia e la emanano, diffondendola intorno a loro, ma sono anche in
grado di assorbirla, mostrandone poi i caratteri. Avendo vissuto a contatto con
Dio esse hanno potuto assimilare ogni suo sentimento, spartendoli poi
equamente. Loro sono due gemelle, completamente identiche, e l’angelo che mi ha
cresciuto diceva che nemmeno Dio era in grado di distinguerle. Anziché rimanere
nei cieli però, queste hanno preferito scendere sulla Terra e vivere lì: l’uomo
non esisteva ancora. Benihime e Hikarihime hanno vissuto millenni sulla Terra,
assorbendo parte dell’energia che essa emanava così come avevano fatto con Dio
e, contemporaneamente, restituendo la loro magia al pianeta. Da questo ammasso
informe di energia sarebbe nato un angelo che chiamarono Sandalphon. Sandalphon
era… Non conosco parole abbastanza belle per descriverlo. Non è mai esistito un
angelo, o meglio un arcangelo, come lui. Grazie al potere enorme che gli
scorreva nelle vene, creò tutti gli angeli custodi che vivono nel Paradiso o
nell’Inferno. Nel corso dei millenni alcuni sono morti e sono stati sostituiti
da umani speciali, come te, ma il numero dei custodi rimane sempre lo stesso,
poi si aggiungono tutte le anime che diventano angeli per qualche motivo. Lui
ci ha dato la vita con i sentimenti di Dio e un corpo materiale con l’energia
della Terra. Per molti di noi è stato come un padre, per me e Scar più di
tutti. Gli chiedevamo spesso di giocare con noi, distraendolo dai suoi doveri,
e ogni volta accettava, insegnandoci qualche trucco magico…››
‹‹Vi
ha dato lui i nomi? So che sono collegati all’essenza, al passato o al futuro
di un angelo.››
‹‹Sì,
e no. Fu lui a chiamarmi Lucifero, e in passato mi sono sempre sentito adatto a
questo nome, ma fu solo Metatron, molti secoli dopo, a nominare tutti gli
altri, Scar escluso. Per qualche motivo fu lui ad ereditare la conoscenza del
futuro di ognuno di noi, la stessa conoscenza che possedeva Sandalphon. E mai
dono fu più adatto a un arcangelo se non questo: Metatron non ha mai sbagliato
un nome, né si è mai approfittato del suo potere per conoscere il futuro.
Preferisce le sorprese.››
‹‹Cosa
significa Lucifero?››
‹‹Portatore
di luce… Ma Sandalphon soleva chiamarmi prima
luce: sono stato il primo angelo tra tutti.››
‹‹Ti
sarai sentito solo.››
‹‹No.
Con me c’era Sandalphon e quando poi ha creato Scar mi ha fatto il regalo più
bello che potessi chiedere: un fratello. Essere il fratello maggiore mi ha
fatto prendere sul serio la faccenda del portare la luce, dell’essere una guida
per gli altri angeli… Ultimamente non ho svolto molto bene il mio ruolo, ma un
tempo gli arcangeli raggiungevano il Paradiso solo grazie alla mia luce bianca
e…››
‹‹Cosa
non va?››
Lucifero
non rispose, ma gli occhi brillavano di tristezza e nostalgia.
Gli
mancava la sua precedente esistenza, quando ancora la sua luce si diffondeva
nella notte fino all’alba, quando era con suo fratello e non aveva bisogno di
nascondersi. Da quando aveva consacrato la sua vita all’attesa di lei, era
stato solo. Certo, Raziel e Metatron erano rimasti sempre al suo fianco, ma
sentiva la mancanza del suo fratellino e la solitudine l’aveva morso lentamente,
affondando i denti ogni giorno di più. Senza che se ne accorgesse era diventato
oscuro, cupo e non brillava più.
‹‹Quando
Sandalphon ha ritenuto di aver creato abbastanza angeli, è sceso sulla Terra.
Sai, noi non eravamo esattamente una comunità ordinata. Lottavamo, litigavamo
spesso. Nessuno accettava gli ordini di un altro, ubbidivamo solo a lui e così
lui creò qualcuno che avrebbe potuto tenerci tranquilli. Si fuse con il nucleo
della Terra e in varie epoche storiche nacquero gli arcangeli, ognuno ottenendo
un diverso bagaglio di conoscenze.››
‹‹Praticamente,
tutto deriva da Dio come in una lunga catena. Siete tutti collegati a lui.››
‹‹Sì…
Ma la cosa bella è che lui non ci controlla. Non gli interessa cosa facciamo,
se ci piace il rosso o il blu, se scherziamo tra noi o combattiamo: lui ci ama
in ogni caso perché ci ha fatto il dono più grande, la libertà. La coincidenza
di materia spirituale però ci spinge verso di lui come una marea, e sentiamo di
dovergli amore e riconoscenza. Gli arcangeli, che però di spirito ne hanno
molto poco, ci hanno sempre detto che non potevamo amare nessun altro all’infuori
di Dio, che sarebbe stato irrispettoso.››
‹‹Allora
è per questo ti sei ribellato, vero? Perché non potevi amare chi desideravi.››
‹‹Sì,
qualcosa del genere. Anche se non è andata esattamente come speravo andasse. Ho
trascinato con me molti angeli che erano felici lo stesso. Non so se Sandalphon
sarebbe orgoglioso del mio comportamento, a volte penso che non lo sarebbe
affatto››.
Tutto
il castello che Verity aveva costruito negli anni di studio sulla Terra era
crollato nel giro di poche conversazioni. E se Lucifero non si era ribellato
per superbia, chissà quante altre cose erano sbagliate nei libri che aveva
letto! Ma diversamente da quando aveva parlato con Raziel, quella volta non le
sembrò di sentirsi cadere il mondo addosso. Lucifero parlava tranquillamente, e
provava in tutti modi a metterla a suo agio; tutto quello che diceva aveva un
filo logico, una direzione che non poteva essere cambiata. Se fosse stato tutto
falso, sarebbe stata una menzogna troppo dettagliata. Sarebbe bastata una
domanda specifica fuori programma e l’avrebbe smontata. Eppure non riusciva a
fare a meno di credere ad ogni singola parola, come se sentisse, nel suo profondo,
che fosse tutto vero. Decise di non fingere allora, e di esprimere solo quello
che realmente pensava.
‹‹Non
credo. Ti sei battuto per i tuoi sentimenti in fondo… Forse il metodo era un
po’ sbagliato, ma non penso che tu lo abbia deluso.››
Lucifero,
per la prima volta in quella discussione, sorrise, pensando a quanto l’essenza
di Caliel fosse presente in quella ragazza. Chiuse gli occhi un secondo e si
beò del calore di Verity: la sua sola presenza bastava a rasserenare la sua
anima nera. Ascoltava dentro di sé e sentiva la sua forza crescere e
cementificarsi mentre occupava lo spazio vuoto della sua immortalità; percepiva
la luce leggera che gli scorreva come sangue nelle vene e rifioriva come i
gigli bianchi, riscaldandolo.
Si
era sempre chiesto cos’avrebbe provato nell’abbracciare la donna che amava, nel
tenere stretta a sé l’unica donna per cui avrebbe perso tutta la sua luce pur
di vederla brillare e parlarle, raccontarle la sua vita e le sue avventure.
Aveva provato a immaginarlo nella sua mente, chiudendosi tra le ali nere, ma
nulla era paragonabile alla realtà. C’erano leggerezza e responsabilità,
coraggio e paura mescolati.
‹‹…
Di chi eri innamorato?››
‹‹Di
una donna bellissima›› sussurrò, guardando per un istante fuori dalla finestra.
Verity
avrebbe voluto essere guardata negli occhi mentre pronunciava quelle parole.
Qualcosa le prese lo stomaco, lasciandole l’amaro in bocca, come se si sentisse
offesa dal sentirlo parlare di un’altra donna mentre la stringeva tra le sue
braccia. Non era accettabile… In fondo, però, perché avrebbe dovuto importarle?
Certo, le sorrideva con un sorriso che avrebbe fatto sciogliere anche un
castello di ghiaccio, ma lui si era ribellato per una donna che non era lei e
lei doveva sapere cosa fosse accaduto per decidere se fidarsi di lui o meno, se
credere alle sue belle parole o meno. Si stava pentendo di aver fatto quella
domanda così spontaneamente.
Lucifero
si era probabilmente accorto dei suoi pensieri, perché posò la guancia sulla
testa di lei e la strinse ancora un po’ di più a sé.
Questa
volta fu Verity a guardare fuori dalla finestra. Balzò in piedi vedendo le
nuvole rosee dell’alba, preoccupata che non sarebbe riuscita a tornare indietro
prima che Hariel andasse a svegliarla. Si mosse di pochi passi intorno e si
voltò verso Lucifero: la fissava disorientato, sfiorando con la mano il punto
dove aveva tenuto la camicia. Sembrava un bambino abbandonato dalla madre, non
un angelo. Sembrava solo un uomo.
‹‹Perché
mi fissi così?›› gli chiese in un sussurro.
‹‹Speravo
avessimo più tempo, che avremmo potuto parlare di più.››
Lucifero
però sapeva che la ragazza doveva tornare da Hariel il prima possibile se non
voleva essere scoperta e rimproverata per essere uscita sola. Le disse di desiderarlo
come ogni volta e la gemma l’avrebbe riportata a casa. Lei scomparve tra le
fiamme bianche, mimando scuse invisibili con le labbra.
Lucifero sbatté la nuca contro la parete, non riuscendo a
credere che il tempo fosse passato così velocemente. Non le aveva nemmeno
accennato cosa fosse accaduto durante la guerra e sicuramente aveva frainteso
la donna per cui si era ribellato. Avrebbero dovuto chiarire al più presto
quella questione… Ma quando si sarebbero rivisti ancora?
Verity
si svegliò emettendo un sonoro sbadiglio. Era rimasta a chiacchierare con
Hariel fino a notte fonda, lasciandola raccontare tutto quello che le veniva in
mente e rispondendo gentilmente ad ogni sua domanda. Rimase nel letto a
dormicchiare ancora un po’, poi si alzò e fece colazione con l’amica, scoprendo
che quella mattina l’allenamento si sarebbe svolto solo con Scar.
Com’è possibile? Nemmeno
Lelahel a farmi compagnia o ad aiutarmi…
Sbuffò
quando fu costretta a dividersi da Hariel al bivio e proseguì da sola verso la
radura dove si era svegliata la prima volta, planando lentamente dal Paradiso.
Scar l’aspettava già, seduto sul prato ancora fresco per la rugiada, e la
osservò fino a che non lo raggiunse.La
salutò educatamente ma in modo freddo e Verity si chiese se fosse ancora
arrabbiato per averlo cacciato il giorno prima.
Le
spiegò a parole qualche incanto per difendersi in caso di necessità, glieli
fece vedere e lavorarono su di essi gran parte della mattinata.
All’inizio
non riusciva nemmeno a concentrare abbastanza energia e canalizzarla al di
fuori del proprio corpo, facendosi scudo dagli attacchi di Scar solo con le ali
che irrigidiva. Alcune volte però, accadde che, mentre spostava le ali, una
piccola parte di magia venisse abbandonata, aggregandosi spontaneamente in una
forma circolare che svaniva quasi subito. Dedicò l’intera mattina solo a quello
e alla fine poteva dire di essere, almeno un minimo, migliorata, passando da
piccoli scudi inconsistenti a vere e proprie protezioni che la coprivano
completamente, anche se duravano una manciata di secondi e non resistevano ad
un attacco debole. Crearli la stancava, soprattutto a livello mentale.
A
pranzo mangiò appena qualche fragola, distendendosi sull’erba all’ombra di una
quercia. Lo sforzo le aveva chiuso lo stomaco e sentiva un po’ di nausea.
Nonostante la delusione dipinta sul volto di Scar, si rifiutò di mangiare
altro.
Sulla
radura scese un silenzio assordante, interrotto appena dal timido gorgoglio
della fonte. Né Verity né Scar sentivano il bisogno di parlare, entrambi
perfettamente a loro agio nella quiete. La ragazza guardava il cielo, ancora
stupita dal fatto che quel giorno non ci fosse nessuna nuvola a coprirlo. Era
bello, ma piatto come uno specchio, senza la possibilità di cambiare
espressione. Aveva smesso di contare i giorni passati da quando si era
risvegliata e così fissava il cielo, distratta ogni tanto dal volo di una
farfalla o di una coccinella che riposavano sul suo naso e ripartivano. Pensava
a Lucifero, e non capiva perché occupasse una così grande parte dei suoi
pensieri. In ogni argomento, in ogni ricordo che affiorava alla sua memoria,
Lucifero si infiltrava anche se non era per nulla connesso. Anche mentre Scar
parlava, la voce del caduto si sovrapponeva alla sua, distraendola dal filo del
discorso. E mentre pensava non sentì Scar chiederle qualcosa, come non lo aveva
sentito avvicinarsi.
Più
Scar la osservava, più sentiva che lei poteva aiutarlo: gli donava tranquillità
e serenità, liberando la mente da ogni pensiero.
Chissà se per Lucifero è
la stessa sensazione,
si chiese.
Alcune
sere prima era andato da Hariel per scusarsi, ma non l’aveva trovata nel suo
letto. Per un attimo aveva sudato freddo, pensando che qualcuno l’avesse rapita
o le avesse fatto del male, ma non c’erano segni di lotta nella stanza. Hariel
dormiva profondamente e si era tranquillizzato. Se fosse accaduto qualcosa,
sarebbe stata in piedi, a girare come una disperata per la casa, senza sapere
cosa fare. Convinto che fosse al sicuro e non sapendo dove cercarla, era
tornato sulla Terra per eseguire gli ordini di Michele.
Quella
mattina aveva sospirato di sollievo vedendola arrivare, ma non lo aveva
mostrato, rimanendo freddo. Eppure desiderava mostrare a Verity le gentilezze
di cui era capace e farle sapere che lui era lì per lei, per aiutarla. L’aveva
scossa appena per la spalla, ma non aveva dato segno di accorgersene. Pensò che
fosse svenuta dato che aveva mangiato pochissimo, ma dopo un po’ si risvegliò.
‹‹Dobbiamo
allenarci ancora?›› gli chiese con la voce impastata dal silenzio.
‹‹No,
possiamo aspettare ancora un po’… Però volevo sapere, dove hai dormito alcune
notti fa? Sono venuto a controllare che stessi bene, ma non c’eri.››
Verity
sgranò gli occhi, come se si sentisse insultata dalla domanda.
‹‹Controllarmi?
Scar basta, non sono un cagnolino, mi sono stufata di essere guardata a vista,
e comunque non sono affari tuoi quello che faccio o non faccio.››
Scar
la prese per un polso mentre si alzava, trattenendola al suo fianco: ‹‹Sono
affari miei invece, dato che ho il compito di proteggerti.››
Verity
guardava dall’altra parte, di fronte a sé, irata. Provò a liberarsi con un
primo strattone ma fallì.
‹‹Non
te l’ho chiesto io.››
Strattonò
ancora una volta e Scar la lasciò andare. Sbatté le ali con forza e si alzò in
volo, dirigendosi verso il bosco.
Scar
fissò quel puntino fino a che non scomparve completamente nell’azzurro del
cielo. Cosa passasse per la testa di quella ragazza davvero non riusciva a
capirlo: perché non poteva lasciarlo essere la sua ombra senza mostrarsi così
risentita? Era solo per lei…
Verity
volava veloce sopra una corrente gelida. Tremava per il freddo, ma in quel
momento non le importava. Il volo non durò molto e atterò di fronte all’entrata
del bosco di Lucifero. Vi si avventurò seguendo il sentiero per il portale. Non
voleva vedere angeli, e sicuramente lì dentro non ne avrebbe incontrati: era un
luogo troppo oscuro per un angelo comune. Si sedette sul muschio umido e
appoggiò la schiena, le ali, a un tronco verde scuro, pensando alle parole di
Scar.
Da quando proteggermi è un
suo compito?Deve farlo perché lo desidera, ma perché?
Forse può avergli detto qualcosa Lelahel, chissà…
Una
gazza spiccò il volo da un cespuglio, spostandone leggermente i rametti. Spuntò
un pezzo del portale.
Verity
si alzò e spostò la vegetazione, guardando dentro quella finestra sull’Inferno.
Non c’erano dannati in vista, né sembravano essercene nascosti nell’ombra.
Forse poteva andare da Raziel e Metatron: avrebbero fatto apparire la scala per
salire al loggiato anche senza parole magiche. Sfiorò il portale. Sembrava di
vetro, ma era scivoloso e fluido al tatto. Spinse la mano all’interno e la
sentì anche uscire, come se lo strato fosse spesso poche decine di centimetri.
Si immerse fino alla spalla, poi fece uscire la testa e infine il resto del
corpo con le ali.
Sorrise
tra sé, spostando il peso da un piede all’altro e inclinando la testa a
sinistra, con un’espressione eccitata e sorpresa. Guardò la landa desolata di
fronte a lei. Era sempre arsa dal fuoco, ma le pareva meno spaventosa della
prima volta. In lontananza vedeva le rovine della vecchia città e decise di
muoversi verso di loro, sperando di non incontrare nessuno. Non avrebbe saputo
cosa dire, né cosa fare. Probabilmente avrebbe potuto volare fin lì, ma
camminare le piaceva di più, anche se stava impolverando l’orlo del vestito,
macchiandolo di terra rossa. La terra era tiepida e il contatto piacevole anche
se i sassolini ogni tanto le davano fastidio.
Proseguì
con calma per un po’, guardandosi intorno come non aveva fatto con Hesediel,
quando cercava solo di sopportare il mal di testa. Non l’aveva quasi più
infastidita dalla prima volta in cui aveva incontrato Lucifero. Il suono dei
tamburi si era molto affievolito e, anche se lo sentiva ancora rimbombare
lontano, non la faceva soffrire. Com’era riuscito a quietarlo?
L’aveva
abbracciata e dopo aveva emanato quel calore meraviglioso e rilassante, ma
ricordava solo di essersi svegliata tra le sue braccia, cullata dolcemente e
fissata dai suoi occhi neri.
Quando
qualcuno le picchiettò sulla spalla destra si girò con naturalezza. Udì una
melodia dolce e cadde tra le braccia di qualcuno.
Scar
era rimasto sotto l’albero ancora qualche ora dopo la fuga di Verity, sapendo
di aver sbagliato qualcosa, anche se non capiva cosa. Si stava arrovellando per
trovare l’errore quando fu raggiunto da Hariel, che proveniva dal palazzo degli
arcangeli e cercava la ragazza.
‹‹È
scappata via da qualche parte.››
Hariel
guardò Scar un po’ sorpresa, poi abbassò gli occhi. Si concentrava per trovare
la sua anima.
Hariel
era in grado di percepire l’anima di ogni angelo. Sentiva quelli del Paradiso,
gli arcangeli, gli umani defunti che vegliavano sui propri cari, ma Verity… Lei
non la sentiva.
‹‹Hariel,
la senti?››
‹‹No››
disse lei con gli occhi già pieni di lacrime ‹‹Dobbiamo trovarla, potrebbe
essere in pericolo!››
Scar
la prese per un braccio e mormorando parole sottovoce li smaterializzò di fronte
alla casa dell’anziana Mary.
‹‹Mary,
siamo noi! È urgente, dove sei?›› urlò Hariel appena entrata, ma nessuno le
rispose.
La
casa di Mary era anch’essa più grande all’interno, ma molto di più rispetto a
quella di Hariel: c’erano molte stanze, collegate da porte di legno scuro,
liscissime, dai pomelli dorati. All’interno i mobili erano di ebano nero,
coperti da centrini in pizzo e vasi di fiori; le pareti erano cilindri di legno
posti l’uno accanto all’altro e l’aria era impregnata di resina e cannella, che
pungeva le narici e faceva starnutire Hariel di continuo.
Attraversarono
alcune stanze, sempre chiamando la donna, ma ancora non rispondeva.
In
cucina videro la teiera sui fornelli spenti, a fianco una teglia di biscotti e
un dolce di pan di spagna tagliato a metà. Profumava di rose e Scar si
irrigidì. Conosceva una sola persona che mangiasse torte alle rose e non aveva
la minima voglia di incontrarla.
Uscirono
e percorsero un lungo corridoio coperto di tappeti che si susseguivano in un
arcobaleno di colori caldi e freddi. Tutte le camere che si affacciavano erano però
vuote.
Cominciarono
a preoccuparsi.
Il
corridoio terminava con un altro portone, simile a quello d’ingresso, ma con
una finestrella in vetro giallo al centro. Sbirciarono e sospirarono di
sollievo: Mary era dentro, seduta su una poltrona dall’aspetto confortevole, in
stoffa verde, con un libro in mano e una pila di libriccini sul tavolino alla
sua destra. C’era anche la metà mancante del dolce, dei piattini e un coltello.
Su uno dei ripiani liberi della libreria vi era invece una fila di tazzine di
porcellana azzurra, una teiera argentea e dei cucchiaini in una scatola
trasparente.
Agli
angeli piacevano gli oggetti creati dagli umani e Mary non era da meno nella
sua collezione. Per tutta la sua vita aveva raccolto, catalogato e utilizzato
come preferiva ogni reliquia che i
giovani le portavano, la biblioteca era solo una piccola parte.
Entrarono
spingendo la porta insieme: loro avevano il fiatone, mentre Mary alzò con calma
lo sguardo dal libro, accogliendoli dolcemente.
Probabilmente
era la persona più enigmatica del Paradiso, ancora più di Kamael, per via di quel
sorriso sempre benevolo che sembrava stampato sul suo viso. Scar non ricordava
di averla mai vista arrabbiata o averla sentita urlare. Quello sarebbe stato il
giorno.
‹‹Scar,
Hariel, che piacere vedervi. Accomodatevi pure, volete della torta?››
I
due si guardarono rapidi. Hariel diede una gomitata al costato di Scar, che
sobbalzò.
‹‹Io
e Verity abbiamo avuto una discussione. È scappata via e non riusciamo a
trovarla.››
Il
sorriso scomparve sul viso dell’anziana, che posò il volume sopra gli altri. Si
alzò e si avvicinò a Scar, lentamente. Gli accarezzò la guancia con materno
affetto.
‹‹Razza
di idiota!›› disse schiaffeggiandolo.
‹‹Mary,
che succede?›› chiese una voce dal davanzale della finestra.
Il
volto di Scar, voltato a sinistra, era rivolto verso la parete della
biblioteca; Mary si era girata a destra per rispondere al nuovo arrivato come
se nulla fosse accaduto; Hariel continuava a spostare lo sguardo da una persona
all’altra, sconvolta da tutti e tre. Scar non reagiva, Mary gli aveva tirato
una sberla e Lucifero stava scendendo dal davanzale come se fosse la cosa più
normale del mondo.
Ora
che ci pensava era una delle prime volte che vedeva Lucifero in circostanze
così informali. Si erano seduti sulle poltrone e sul divano e stavano mangiando
la torta alle rose. Tolto Scar, e lei stessa, gli altri due sembravano a loro
agio, come se eventi del genere accadessero ogni giorno.
Lucifero
si era accomodato sulla poltrona senza invito, come se conoscesse già il suo
posto a fianco a Mary. Sicuramente era stupito dalla loro presenza, ma non lo
aveva dato a vedere più del necessario, salutandoli cordialmente. Si era
soffermato su Scar, indugiando sul suo volto, e aveva sospirato tristemente.
Sapeva che non andavano d’accordo, anche se non aveva ben chiara quanta
distanza li dividesse. In realtà non le era importato più di tanto all’inizio e
anche in quel momento le sembrava una questione marginale. Solo che le loro
divergenze avrebbero potuto impedire una collaborazione per trovare Verity.
Ritornò nella stanza anche con la mente per ascoltare la conversazione, che
sembrava vertere sulla bontà della torta.
Lucifero
aveva più volte cercato di cambiare argomento, con poco successo.
Alla
fine ci riuscì: ‹‹Mary, perché hai schiaffeggiato mio fratello?››
Hariel
vide i nervi di Scar tendersi, le mani stringere con forza gli avambracci, come
se avesse avuto paura di una reazione del caduto.Certo, Lucifero possedeva un fisico
invidiabile, ma qualcosa nell’espressione le suggeriva che non avrebbe mai
fatto seriamente del male all’angelo al suo fianco.
‹‹È
scappata dopo una discussione con lui e non riescono a trovarla›› disse Mary.
Lucifero
scattò in piedi, rovesciando il thè, i libri e il divano e sbatté Scar contro
il muro, a fianco alla finestra, tenendolo per la gola. Gli sussurrava qualcosa
in un’antica lingua e lui rispondeva in rantoli strozzati: lo stava strangolando.
Hariel si era alzata in piedi e li fissava sconvolta. La manica della camicia
di Lucifero, lasciata sbottonata, scivolava sul braccio e mostrava il muscolo
in tensione. Non era fuori controllo, tutt’altro. Lucifero stava stringendo
molto meno di quanto avrebbe voluto.
‹‹Avevi
promesso, Scar.››
‹‹L’ho
fatto, lei… Lei non vuole essere controllata…››
‹‹Certo!
La soffochi, la soffocate tutti!›› urlò l’angelo.
Mary
posò una mano sulla spalla sinistra di Lucifero e questo lasciò la gola di
Scar, indietreggiando di qualche passo e appoggiandosi allo schienale del
divano che aveva rimesso a posto mentalmente con una magia. Si coprì il viso
con un braccio, respirando pesantemente e cercando di dominare la rabbia.
Non guardare nessuno
probabilmente lo aiuta, pensò Hariel.
Improvvisamente
le venne in mente un’altra idea: quanto poteva essere stato terribile e
instancabile quell’angelo durante la guerra? Era scattato come un animale
selvatico, come una madre che vede i suoi cuccioli minacciati, senza pensare
che avrebbe potuto ferire seriamente Scar o forse lo aveva fatto… Questo
avrebbe spiegato il controllo della forza, ma non lo scatto ferino di pochi
secondi prima.
Mentre
Hariel pensava tra sé e sé, gli altri avevano iniziato a parlare, discutendo
animatamente. Le voci si accavallavano così tanto che era difficile capire chi
avesse proposto prima una determinata idea, ed erano solamente in tre.
‹‹Hariel,
tu cosa proponi di fare?›› le chiese Scar.
Le
guance le si colorarono di un rosso acceso: non aveva capito una sola parola di
quello che avevano detto fino a quel momento. Sorrise imbarazzata e Scar le
spiegò che pensavano di parlare con Michele e chiedere il suo aiuto.
‹‹Aspetta,
dove hai detto che si è diretta?›› chiese Lucifero.
‹‹Verso
il tuo bosco, perché?››
‹‹Nel
bosco c’è il portale per l’Inferno, Scar, e credo che lei sappia della sua
esistenza.››
Più
che un’ipotesi, quella di Lucifero sembrava una certezza.
‹‹Se
fosse vero sarebbe in grave pericolo! Un qualunque dannato potrebbe attaccarla
senza pietà.››
Lucifero
fissò Hariel, stupito che avesse parlato. La guardiana aveva una strana visione
degli angeli dell’Inferno. Sapeva per certo che fosse scesa nella voragine una
sola volta e perciò i suoi commenti diventavano automaticamente invalidi. Ma
lei era la custode del Paradiso, e il solo fatto di non essere legata a nessuno
di quel luogo probabilmente doveva elevarla molto al di sopra degli angeli
caduti, o almeno così dovevano averle insegnato. Restava il fatto che ben pochi
avrebbero mai fatto del male alla custode di Eteria: i più vendicativi
avrebbero preferito farla schiava e sfruttare il suo immenso potere per
combattere un’altra guerra; gli altri erano pezzi di pane che l’avrebbero
accolta nelle loro misere abitazioni. Eppure conosceva ogni angelo rinchiuso lì
e gli angeli crudeli non si contavano sulla punta delle dita. Oppure Verity
avrebbe potuto anche solo nascondersi per rimanere sola. L’avrebbe capito.
Ricordava bene l’oppressione del controllo e quella sensazione di impotenza e
prigionia che ne deriva e che ti blocca mattone dopo mattone nel mezzo della
tua esistenza.
‹‹I
dannati non possono superare la barriera, è molto più probabile che l’abbia
oltrepassata lei.››
Mary
guardò Lucifero e lui le porse il braccio, invitandola a uscire.
‹‹Dove
state andando?››
‹‹Nell’Inferno,
Hariel. Ed è bene che ci segua anche tu, dovrai localizzare l’anima di Verity
una volta là o, almeno, provarci›› disse l’anziana.
Lelahel
si svegliò all’improvviso, sentendo un gruppo di angeli attraversare il
portale, precisamente quattro. Lo sguardo cieco fissava il buio, cercando di
collegare le anime ai nomi, per decidere se accoglierli o portarli dagli arcangeli.
Riconobbe
Scar, Hariel e… Lucifero? Allora chi aveva attraversato lo specchio poche ore
prima?
Si
congedò dagli arcangeli, che la osservavano allarmati, con un sorriso forzato e
la fronte corrugata nello sforzo di espandere quanto più possibile i suoi sensi
per trovare la prima anima entrata nel Regno.
Volando
velocemente verso il primo gruppo, si fermò davanti ad un palazzo in rovina,
interamente bruciato. Sentiva la presenza di qualcuno sotto le macerie anzi, di
tanti angeli che contenevano la propria anima in un’emanazione minima, tanto
bassa che tutte insieme non ne formavano una intera. Atterò su un masso
sporgente, ma nulla intorno a lei suggeriva la presenza di un ingresso
nascosto, a meno che… Una singola colonna era rimasta in piedi, per nulla rovinata
dal fuoco e dal fumo. Strano, pensò.
Picchettò con le nocche. Era cava, dunque leggera, dunque poteva calarsi.
La
cavità si sviluppava in un tunnel non molto lungo, illuminato dal bagliore che
arrivava dalla fine. Avrebbe dovuto raggiungere il gruppo, sapere perché
fossero insieme lì, forse avrebbe addirittura dovuto portare gli arcangeli con
lei per sicurezza.
No.
La
guardiana era lei, il resto avrebbe aspettato i suoi tempi.
Non
c’era motivo per i dannati di nascondersi tra di loro, né da lei: se lo
facevano, c’era allora qualcosa che non funzionava. Era quasi giunta alla fine
del tunnel quando notò due angeli a fare da guardia all’apertura nella roccia
che si apriva dall’altro lato.
Non
voleva fare loro del male.
Non
poteva fare loro del male, erano suoi fratelli.
Scelse
di addormentarli con una vecchia ninnananna insegnatale da Haniel, che ogni
sera gliela cantava quando era piccola. Li avrebbe fatti dormire profondamente
per alcune ore e avrebbero sognato soltanto felicità e allegria.
La
nenia raccontava di una donna che aspettava il marito, marinaio, partito per
mare, e delle avventure che questo viveva sul veliero. Finiva in modo ambiguo:
l’uomo si innamorava di una sirena, ma non si capiva se, alla fine, rimanesse
con lei o tornasse dalla moglie. Era da tempo però che non cantava il finale. Tutti
si addormentavano sempre prima e lei non aveva il cuore di terminare la strofa.
Mai.
Li
sorpassò con un sospiro stanco: erano, ancora, Harael e Lecabel. Ciò
significava solo che dall’altra parte della stanza c’era Yelahiah con chissà
quali altri suoi seguaci. Non c’era modo di far cambiare idea a quell’angelo e
fargli capire le motivazioni di Lucifero. Lui doveva sempre avere un motivo per
creare discordie e per lottare. Scivolò silenziosa lungo il corridoio di
pietra, fino a una sporgenza nella roccia che sfruttò per nascondersi. Stava
per ripartire quando sentì Yelahiah parlare e le gelò il sangue.
‹‹Bene,
bene, bene. Da quando una custode viene nell’Inferno tutta sola? Non te l’hanno
insegnato, piccola Verity, che questo luogo è pericoloso?››
Da
quanto tempo Verity era rinchiusa sottoterra? Quante ore potevano essere
passate da quando era entrata nell’Inferno? Quante ancora ne sarebbero
trascorso prima che la lasciassero andare?
Verity
non rispose al dannato, anche se le sarebbe piaciuto farlo. L’aspetto da angelo
lo aveva cambiato. Era diventato più muscoloso, incredibili le trasformazioni
fisiche che la magia poteva compiere. Avrebbe però riconosciuto quegli occhi
ovunque e su qualsiasi corpo li avesse visti, anche in mezzo ad una folla di
iridi rosse. Non si dimenticano facilmente gli occhi di chi ti ha ucciso.
‹‹Perché
non mi rispondi‽ Dov’è il tuo orgoglio, andiamo! Lelahel avrebbe
combattuto, forse ci avrebbe uccisi tutti e…››
‹‹Hai
un’idea sbagliata di Lelahel. La conosco poco, ma so per certo che non vi
ammazzerebbe mai.››
Verity
cercava di conservare tutte le energie che riusciva a racimolare: la testa le
girava vorticosamente, in un girotondo infinito che le rendeva difficile anche
solo pensare al suo nome. La frase che aveva appena detto le era costata molto.
I muscoli le dolevano per gli sforzi che aveva fatto nel cercare di liberarsi
da quell’incantesimo immobilizzante; il fianco pulsava dolorosamente per ferite
che nemmeno più ricordava di aver subito. Gli insegnamenti di Scar erano valsi
a ben poco ed era solo colpa della sua ingenuità se era andata in giro
distrattamente come una sciocca ragazzina.
E
si era fatta catturare.
‹‹La
conosco molto meglio di te, e so che farebbe qualsiasi cosa…››
‹‹A
parte uccidere un fratello, Yelahiah.››
Lelahel
era uscita dal suo nascondiglio indignata dalle parole dell’angelo: ‹‹Non ho
combattuto contro di voi durante la guerra, non potrei mai farlo ora. Lo sai
benissimo.››
La
guardiana era adesso faccia a faccia con l’angelo e aveva aperto le ali come
un’aquila, per cercare di intimorirlo. Non lo avrebbe mai spaventato così tanto
da perdere la sua maschera di spavalderia, ma abbastanza da fargli
riconsiderare l’idea di attaccarla, con il rischio di far crollare tutto il
sotterraneo.
‹‹Dammi
Verity e me ne andrò senza fare nulla.››
‹‹Dici
di non voler combattere ma mi minacci?››
Lelahel
stava calcolando il tempo, cercando di farne passare la massima quantità
possibile in attesa che arrivassero Scar e Lucifero. Così la minaccia sarebbe
stata più reale ma, soprattutto, avrebbe avuto la certezza che non si sarebbero
scontrati.
‹‹Lucifero
sta arrivando. Io non vorrei essere al tuo posto quando lui la vedrà in questo
stato. Rimane l’angelo più potente dell’intero creato, con o senza luce.››
La
minaccia di Lelahel era diventata un consiglio: Lucifero non avrebbe avuto
pietà di lui. E nemmeno i dannati che parteggiavano per Lucifero.
Lelahel
sperava di evitare una nuova lotta e un’ulteriore distruzione dell’Inferno,
soprattutto perché Verity, anche se quasi incosciente, l’avrebbe percepita e ne
avrebbe sofferto. Era così distrutta che lei stessa riusciva a sentirne le
emozioni: sarebbe crollata da un momento all’altro. Le arrivavano ondate di
paura e sconforto. Tutte le difese della ragazza erano scomparse.
‹‹A
una condizione›› disse Yelahiah.
‹‹Cosa
vuoi?››
‹‹L’accesso
alla Terra. Voglio poter attraversare la barriera quando desidero, senza
infrangere la legge.››
Che bastardo!
Yelahiah
sapeva uscire senza essere visto e ritornare senza che nessuno, neppure lei, si
accorgesse della sua assenza e pretendeva un accesso regolare‽ Era un diavolo, non un
angelo, e per giunta un diavolo pericoloso e violento. Eppure, per quanto
ardentemente lo desiderasse, non poteva rifiutargli la richiesta, a meno di non
abbandonare Verity o scatenare una battaglia con Lucifero.
Sospirò
a malincuore: ‹‹Accetto.››
Non
avrebbe mai abbandonato Verity.
Yelahiah
si spostò di lato, sotto lo sguardo un po’ stupito dei due angeli che erano con
lui, e Lelahel poté avvicinarsi alla guardiana. La prese in braccio, rendendosi
conto che non c’era spazio per passare entrambe a quel modo.
‹‹Vai
tranquilla, Lelahel. Non abbiamo intenzione di attaccarvi: ora ho tutto quello
di cui ho bisogno.››
Fece
levitare Verity di fronte a lei e ripercorse il tunnel, tirando un sospiro di
sollievo quando uscirono nella piana. Lì la prese in braccio. Si allontanò
volando, cercando di intravedere Lucifero, Scar e Hariel in lontananza. Li vide
ad appena qualche minuto di distanza, al livello del suolo. Scese di quota e
disse loro di seguirla fino dagli arcangeli: ‹‹Adesso è lei la priorità.››
L’unico
arcangelo presente era Raziel, che non fece domande e si prodigò per fornire
tutto quello che aveva per prendersi cura della ragazza. Questa si era abbandonata
tra le braccia di Lelahel durante il volo, perdendo i sensi. La distesero sul
divano, poggiando la testa sulle gambe di Mary, che le pulì il viso e le
braccia con un panno inumidito. Raziel, in piedi accanto alla donna, osservava
con preoccupazione le ferite della giovane. Le avevano tolto l’abito bianco,
lasciandola solo con la sottoveste azzurra, macchiata di sangue.
Hariel
la osservava spaventata. Lei non ricordava bene quello che aveva visto la prima
volta che era entrata nell’Inferno e nemmeno aveva mai voluto sentire i resoconti
delle battaglie a cui gli arcangeli avevano assistito. Non voleva ammetterlo
ma, per la prima volta da quando era stata nominata guardiana, aveva paura. Lei
non avrebbe saputo come gestire una situazione come quella. Non sarebbe
risuscita nemmeno a tirare fuori un solo incantesimo utile per salvare la guardiana.
Placare le controversie in Paradiso era molto più semplice che nell’Inferno,
bastava discutere civilmente. Andò da Lelahel: voleva sapere tutto, voleva
essere pronta per il futuro.
Scar
e Lucifero, in un angolo, fissavano Verity animati da diversi stati d’animo.
Scar
non osava incontrare lo sguardo di Lucifero. Non voleva essere sbattuto contro
il muro e quasi strangolato un’altra volta, anche se sentiva di meritarlo. La
colpa era sua, e lo sapeva, ma non aveva idea di come avrebbe potuto evitarlo. Non
comprendeva le ragioni di Verity e men che meno perché avesse deciso di
rifugiarsi proprio nell’Inferno. Non era stato in grado di relazionarsi con
lei: o si ignoravano completamente o litigavano, e a quel punto giurare di
volerla proteggere diventava ininfluente. Aveva promesso che si sarebbe
occupato di lei, ma la sua presenza era mal tollerata. Tanto valeva allora che
Lucifero si preoccupasse di lei. Però dovevano chiarire, doveva sapere. Guardò
Lucifero, senza muovere il volto per non farsi scoprire. Avrebbe riconosciuto
quello sguardo ovunque, quell’espressione in qualsiasi momento. Era quella che
indossava quando era furioso con se stesso e, contemporaneamente, deluso;
quando tratteneva il desiderio di compiere una strage perché sapeva che dopo se
ne sarebbe pentito. Anche se aveva tagliato i rapporti e cercato di dimenticare
quella che era stata la loro fratellanza, non riusciva a fare a meno di volerlo
aiutare, di voler alleviare ciò che provava. Non poter fare nulla acuiva il
senso di colpa.
Verity
iniziò a lamentarsi nel sonno, prima sommessamente con appena qualche sussurro e
poi sempre più rumorosamente. Lucifero fu in un secondo accanto a lei mentre
Mary le rinfrescò la fronte con più frequenza. Cercarono per qualche minuto di
calmarla con le parole e di tenerla ferma per paura che le ferite sanguinassero
ancora. Funzionò poco. Alla fine Verity si liberò della stretta di Mary e di
Raziel, che si era avvicinato per aiutare, mentre Scar e le guardiane
rimanevano a distanza.
‹‹Sta
ricordando qualcosa della sua vita passata?›› chiese Hariel, incerta.
Aveva
sentito che i ricordi portavano alle anime umane una grande sofferenza nella
mente, soprattutto se queste si incarnavano in angeli custodi, anche se non
aveva mai approfondito l’argomento.
Lucifero
rispose prima ancora che Mary potesse pensare a una risposta: ‹‹No, abbiamo
recuperato la maggior parte della memoria in un sogno… Questi sono i battiti
dell’anima.››
‹‹Battiti…
Come quelli che sente Gabriele?››
Hariel
adesso era curiosa. I battiti dell’anima erano qualcosa di sconosciuto. Fino ad
allora solo Gabriele li aveva sentiti, e, anche se lui raccontava molto poco di
quello che provava, lei aveva cercato di scoprire quanto più possibile.
‹‹Ma
è una cosa fantastica, incredibile, è un…››
‹‹È
un dolore immenso, Hariel. Smettila di esaltarti! Anzi, smettila di comportarti
come un angioletto stupido e superficiale.››
‹‹Lucifero,
non è il caso…››
‹‹E
invece si, Mary. Deve aprire gli occhi: il Paradiso è bello e piacevole, ma
all’Inferno si cresce in fretta. E lei, che è una guardiana, dovrebbe saperlo. Ora
andate a fermare quel pazzo! Se lo facessi io non risponderei di me stesso e
non voglio aggiungere altre vite spezzate di cui pentirmi.››
Lelahel
fece un cenno con il capo e ordinò ad Hariel di seguirla fuori dal loggiato;
Scar, capendo che non sarebbe stato di nessuna utilità lì, decise di andare con
loro. Inoltre, senza di lui, Lucifero si sarebbe calmato prima.
Mary
continuò ad accarezzare la fronte di Verity e Lucifero le rimase accanto,
entrambi sopportando le grida e le lacrime della guardiana. Raziel, che si era
allontanato lasciando il suo posto a Lucifero, rifletteva tra sé e sé, passando
freneticamente da un pensiero all’altro, pieno di dubbi su quello che fosse
accaduto alla ragazza. Se avesse potuto, ne avrebbe parlato con Michele, che
sicuramente avrebbe formulato un teoria in pochi secondi. Non importava.
Avrebbe discusso con Metatron non appena fosse tornato dalla città dei
Nephilim.
‹‹Lucifero,
non è meglio se riduciamo il battito? Ha già sofferto abbastanza per le ferite
di Yelahiah.››
L’angelo
dai capelli neri annuì, guardando dolcemente Verity che si agitava e digrignava
i denti. Le poggiò una mano sul cuore e chiuse gli occhi per concentrarsi.
‹‹Lo
è. Dammi un po’ di tempo e lo abbasso.››
‹‹Lo
posso fare io, non serve che ti sforzi.››
‹‹Stai
tranquillo, Raziel. Te l’avevo detto no? Lei mi fa brillare.››
Raziel
sorrise, ma rimase vicino a lui, ad osservare con attenzione quello che l’amico
stava per compiere; Mary fece per alzarsi, ma Lucifero le disse che non era
necessario che si spostasse. Scavò dentro di sé, alla ricerca della scintilla
che l’avrebbe aiutato. Trovarla diventava ogni volta più facile e veloce,
soprattutto se doveva richiamarla per lei. Lasciò che quel potere gli scorresse
nelle vene insieme al sangue, mescolandosi con esso, fino a che non sentì le
dita formicolare. Lo emanò piano, a flussi regolari e aumentò per gradi man
mano che Verity si calmava, creando intorno a sé una bolla di magia
semitrasparente che li inglobò per qualche tempo e che Raziel guardò con
speranzoso interesse.
Quando
Lucifero aprì gli occhi, la sfera si dissolse e Verity sembrava essersi
addormentata tranquillamente. Si girò sul lato sinistro, verso l’angelo, posando
la mano sul suo avambraccio con un sospiro di dolore: le ferite non erano state
guarite. Si alzò e le sfiorò la fronte fresca con la mano. Le tolse il
ciondolo, lo rigirò tra le dita per qualche secondo, assicurandosi che non
avesse assorbito l’energia appena emanata e lo lasciò a Raziel, che continuava
a sorridere. Lucifero non ne capiva il motivo. Erano secoli che non bruciava a
quel modo, quello era vero, ma non giustificava il suo sorriso. Nemmeno vederlo
accanto a Verity poteva… E allora? Lasciò perdere e si voltò verso la ragazza,
concentrando un po’ del suo calore nel palmo delle mani e chiudendo le ferite.
Verity mugolò di piacere a quel calore purificante e si sistemò meglio sul
divano, mettendo un braccio sotto la testa mentre i capelli scendevano sugli
occhi. Lucifero li scostò e le lasciò un bacio sulla fronte, un bacio lungo e
dolce, e uno sulla guancia. Quando si rialzò, trovo Raziel a fissarlo.
‹‹Raziel,
cosa non va?››
‹‹Le
tue ali sono diventante bianche mentre usavi la magia. Sono solo felice di
essermi sbagliato.››
‹‹Su
cosa?››
‹‹Avevo
giudicato male Verity. L’avevo vista debole, influenzabile, diversa dalla
guardiana che mi avevi descritto con tanto ardore. Pensavo che fosse l’angelo
sbagliato e che lei non potesse fare nulla per te, o per noi. Eppure vedo che
la sua sola presenza ti riporta indietro a quello che eri, all’angelo guida che
ho conosciuto. Certo, è ancora piccola e insicura, ma può crescere.››
Lucifero
sorrise, guardando Verity.
‹‹Te
l’ho sempre detto, lei è tutto. Se penso poi che gli arcangeli non dovrebbero
nemmeno avere rapporti con lei… E invece sei stato il primo tra loro a
conoscerla.››
Per
poco Raziel non scoppiò a ridere, pensando che quelle stesse parole, come gli
aveva riferito Lelahel, erano state pronunciate da Michele quando aveva
investito delle loro cariche le guardiane. Era un bel ricordo. Aveva riso a
lungo, mescolando l’allegria e il divertimento verso un ordine tanto stupido
con lacrime di disperazione poiché quella decisione non usciva dalla testa di
Michele ma dall’influenza di Benihime. In quel momento però non era il caso di
rivangare il passato: avrebbe fatto volentieri dell’ironia con Lucifero, ma
avrebbero potuto svegliare Verity.
‹‹Lucifero,
cos’hai in mente di fare ora?››
‹‹Non
lo so. Per il momento rimarrò da qualche parte nascosto, fino a che la
situazione non si sarà calmata. Poi… Chi lo sa.››
‹‹Lei
chiederà di te questa volta. Potrebbe cercarti.››
‹‹La
terrete lontana, almeno per un po’. Spero solo di aver risolto i miei dubbi per
allora.››
Le
rimise la collana, spalancò le ali e si buttò giù dal loggiato, allontanandosi
in volo a grande velocità.
Raziel
guardò Mary, cercando risposte, ma la donna era altrettanto perplessa: nemmeno
lei aveva inteso le parole di Lucifero. L’arcangelo si sedette a terra, di fronte
al viso sereno di Verity: ‹‹Aspetteremo che si risvegli, dopo di che dovrà
tornare in Paradiso.››
‹‹Credo
anche io che sia l’idea migliore›› rispose Mary con un ampio sorriso.
Scar
e le guardiane avevano fermato Yelahiah e i suoi compagni, obbligandoli a
smettere di distruggere le macerie della città e mettendoli in fuga. Non
avevano impiegato molto in realtà: avevano iniziato a scappare non appena li
avevano visti arrivare. Solo Yelahiah era rimasto, salutandoli con un profondo
inchino e un ghigno cinico e inquietante sul viso. Spaventoso, pensava Scar,
come un angelo potesse essere corrotto così facilmente dal desiderio di
vendetta e come potesse essere così tranquillo alla prospettiva che avrebbe
dovuto uccidere i suoi fratelli per soddisfarla.
Lasciò
quei pensieri da parte quando Lelahel, tornata in Paradiso, fece agli arcangeli
il resoconto di ciò che era accaduto, omettendo la parte in cui Lucifero era
presente. Li informò soprattutto della concessione che aveva dovuto dare a
Yelahiah per salvare la ragazza. La Sala del Consiglio era il cuore del palazzo,
un luogo senza finestre né sbocchi diretti verso l’esterno. Una volta terminato
il racconto, Lelahel andò a sedersi al fianco dei suoi compagni mentre gli arcangeli
la fissavano, chi deluso, chi comprensivo, chi completamente indifferente.
‹‹Dov’è
la guardiana ora?›› chiese l’arcangelo Gabriele. Non era minimamente
interessato al rapimento o al comportamento preoccupante e pericoloso di
Yelahiah, ma le condizioni della ragazza e la possibilità che fosse gravemente
ferita lo angustiavano. Tutto ciò, unito al battito ritmato che sentiva in
testa, lo innervosiva, dissolvendo l’aura di calma con cui solitamente si
presentava ai consigli per non essere interpellato.
‹‹Adesso
si trova con Mary. L’abbiamo lasciata appena siamo stati certi che fosse al
sicuro.››
Gabriele
annuì con un cenno del viso mentre un altro arcangelo, Kamael, prendeva la
parola.
‹‹E
Yelahiah invece? Cosa abbiamo intenzione di fare con lui?››
Lelahel
rispose che avrebbero solo potuto aspettare: quello tra lei e il dannato era un
accordo e non poteva romperlo, anche se lo avrebbe fatto volentieri.
Un
altro arcangelo, alzandosi in piedi, parlò: ‹‹La ragazza è ben lontana da
Lucifero, spero. Michele non parla mai di lui e incomincio ad insospettirmi.››
Lelahel
non era pronta ad una simile affermazione. Non aveva una storia credibile a
portata di mano da raccontare per tirare Michele e tutti loro fuori dalle
domande di Raffaele. Scar fu più lesto di lei a rispondere.
‹‹Non
c’è nulla di cui insospettirsi, Raffaele. La guardiana non sa nulla di Lucifero
e lui difficilmente esce da casa sua. Lo controllo io.››
Raffaele
sorrise compiaciuto e lo ringraziò, iniziando poi a parlottare con Gabriele e
perdendo qualsiasi interesse nella compagnia.
In
realtà, dalle parole di Scar fino a quando non furono congedati, nessuno si
preoccupò più della loro presenza eccetto la bella Haniel, che ogni tanto
lanciava loro occhiate pensierose, tentando contemporaneamente di prestare
attenzione alle parole concitate di Binael, che non sembravano mai giungere
alla fine. Fu Michele, quando entrò nella sala, a lasciarli liberi: ‹‹Qualunque
cosa abbiate fatto, andatevene. La sentirò un’altra volta.››
Il
trio uscì dalla sala, il consiglio si divise e Michele tornò nelle sue stanze
senza parlare con nessuno.
Non
ne aveva bisogno.
Aveva
origliato tutta la conversazione, eccetto i saluti iniziali, seduto sul
pavimento lucido e appoggiato alla porta. Le pulsioni che aveva sentito, nel
cuore e nella mente, erano completamente diverse. Il cuore gli aveva detto di
entrare, ascoltare con attenzione e rassicurare Lelahel che la sua scelta non
fosse stata un errore. Non avrebbe dovuto lasciare a Yelahiah il permesso di
uscire dall’Inferno, ma era anche stato l’unico modo per salvare la custode e
per questo non l’avrebbe mai sgridata. L’avrebbe portata via con sé finita e
l’assemblea e avrebbe… Cos’avrebbe fatto? Non lo sapeva nemmeno lui. Voleva
abbracciarla e dirle che tutto si sarebbe concluso per il meglio, ma come
avrebbe potuto dopo averla trattata con sufficienza per anni? Nemmeno lei, con
quel suo sguardo dolce e adorante, avrebbe accettato un gesto d’affetto senza
chiedersi il motivo, senza pensare che fosse solo per ottenere qualcosa in
cambio. La mente invece gli ordinava a gran voce di punirla, di mostrarle
quanto grande in realtà fosse stato il suo errore e quanto sbagliato lasciare
un dannato libero di muoversi sulla Terra a suo piacimento. Sarebbe stato duro
e antipatico, ma a Raffaele sarebbe piaciuta una simile dimostrazione di
autorità.
Come se ne avessi davvero
bisogno.
Alla
fine non aveva realizzato nessuna delle due alternative, limitandosi a un
freddo congedo quando aveva capito che nessuno avrebbe più parlato.
Ed
ora, nella sua stanza, osservava la guardiana allontanarsi insieme a Scar e
Hariel.
‹‹Ti
piacerebbe essere con lei, vero Michele?››
Solo
Haniel avrebbe avuto, tra tutti gli arcangeli rimasti, un tono di voce tanto
dolce nei suoi confronti. Ed era lei, non si sbagliava.
I
capelli biondi, lunghi e mossi, erano tenuti fermi da un cerchietto di corallo
e minuscole stelle marine bianche. Lo guardava con occhi blu come zaffiri e un
sorriso appena accennato che metteva lo stesso in mostra i denti bianchi,
mentre si rigirava un lembo del mantello nero tra le dita. Lo slacciò e lo posò
sulla poltrona, lasciando che sfiorasse il pavimento, e prese la mano di
Michele, coprendola con l’ampia manica dell’abito viola, accarezzandola con il
pollice.
‹‹No,
pensavo se punirla o meno, Haniel.››
‹‹Sono
l’arcangelo dell’amore, Michele. Non starai davvero cercando di prendermi in
giro, giusto? E poi conosco molto bene sia te che Lelahel, e i vostri cuori.››
Michele
arrossì ma non disse nulla, e Haniel continuò a parlare.
‹‹Dovresti
parlarle. Sono certa che ti ascolterebbe più che volentieri se tu le dicessi la
verità anziché comportarti come quel ghiacciolo di Raffaele. Ti capirebbe. È
sempre stata istintiva, non ha mai avuto problemi ad accettare i sentimenti
degli altri né i propri e la cecità le ha donato una sensibilità particolare:
vede, scusami il gioco di parole, ciò che non si vede come se fosse chiaramente
inciso su una roccia. Forse non comprende all’istante le sfumature dell’anima,
ma le riconosce. Pensi davvero che non capirebbe te, che l’hai vista crescere e
l’hai ammirata da lontano per così tanti anni?››
‹‹L’ho
resa cieca io. Non potrebbe mai perdonarmi.››
‹‹Michele,
è ovvio che non lo possa fare: l’ha già fatto. E te l’ha dimostrato tornando
qui ogni giorno ad occuparsi di te mentre smaltivi gli effetti devastanti di
Benihime. È stata lei a portare qui Mary per curarti, anche se avrebbe dovuto
abbandonarti dopo la punizione che le hai inflitto, io lo avrei fatto. Ma sei
tu che non riesci a perdonarti, che non riesci a fare altro se non accusarti e
privarti di quanto ci sia di più bello al mondo. Sei troppo orgoglioso per
chiedere scusa e troppo legato alle regole per cedere ai tuoi sentimenti. Ma
saresti felice se lo facessi.››
Michele
replicò con poca convinzione: ‹‹Finirei per soffrire come Lucifero e sperare in
un sogno irrealizzabile che Raffaele ostacolerebbe in ogni modo possibile.››
‹‹Scusa,
chi ti ha detto che Lucifero soffra? Ha sofferto in passato, quando era solo
con la sua solitudine e nessuno voleva ascoltarlo; ora sta meglio invece, e gli
angeli lo sentono. L’amore lo rende forte, lo fa tornare a brillare com’era in
principio. Lo stesso accadrebbe a te. Non ti curare di cosa direbbe o farebbe
Raffaele, la vostra fratellanza sulla Terra non conta se si tratta dei tuoi
sentimenti. Lo so che la nostra natura ci spinge verso Dio, vedendo solo in lui
il padrone del nostro cuore, ma per una volta arrenditi a quanto di più buono e
bello possa vivere in te. Credici. Dimostrami di essere abbastanza intelligente
da scegliere la tua felicità e non quella di qualcun altro.››
Strinse
con più forza la mano di Michele e lo abbracciò teneramente, sussurrandogli
ancora di fare la scelta giusta per se stesso. Riallacciò il mantello di
velluto nero con un fiocco, si assicurò che la spilla di perle fosse ben salda
e si calò il cappuccio sulla testa.
‹‹Haniel!
Ho sempre desiderato chiedertelo, ma non ho mai trovato l’occasione: perché non
hai seguito Lucifero se credi così tanto nell’amore? Lui, in fondo, se n’è
andato per quello.››
Lei
si girò verso l’arcangelo, gli occhi azzurri scintillavano sotto il cappuccio.
‹‹Non
avrei mai potuto abbandonare Gabriele. Non avrei mai sopportato di non poter
sentire mai più il suono della sua voce.››
‹‹Lui
non ha mai…››
‹‹Lo
so. Ma il fatto che tu non lo abbia notato o che lui non lo abbia mostrato
apertamente, non significa che non ci sia. Abbiamo solo preferito non buttare
via la possibilità di costruire qualcosa dall’esperienza di Lucifero, tutto qui.››
‹‹Vi
amate?››
Non
era una domanda vera, ma il tono incerto la fece sembrare tale.
‹‹Credo
tu abbia già la risposta.››
Lo
salutò con un altro sorriso e uscì dalla stanza con il passo saltellante di una
bimba, soddisfatta del discorso appena tenuto.
Michele
rimase all’interno e si distese sul letto, pensando che forse Haniel poteva
avere ragione e che tutti i problemi fossero nella sua testa. Quando gli aveva
dato dell’orgoglioso, aveva provato un senso di déjà-vu, ricordandosi che
Raziel gli aveva detto la stessa frase il giorno in cui era andato a cercare la
guardiana.Gli venne quasi da ridere a
pensare che entrambi lo reputavano tanto orgoglioso da non riuscire a chiedere
scusa, ma avevano ragione. Era in grado di riconoscerlo anche da solo, ma
doveva necessariamente trovare un modo per togliersi quel peso gravoso. Chiuse
gli occhi e si addormentò in pochi minuti, con la mente impegnata da piani e
progetti.
Angolo
dell'Autrice!
Buonsalve
a tutti!
Sono
davvero dispiaciuta del ritardo stratosferico di questo aggiornamento. Potrei
dire che si avvicina la sessione esami, ma non è una scusa accettabile, almeno
secondo me. Quindi sono davvero spiacente e spero che nonostante tutto abbiate
ancora voglia di proseguire nella storia.
Mi
auguro che il capitolo vi sia piaciuto e sia sempre interessante.
Lasciatemi
una piccola recensione se avete voglia, mi farebbe molto piacere!
Per
qualche giorno nessuna delle guardiane ebbe contatti con Mary o Verity,
che alla fine erano rimaste nell'Inferno. Metatron era ritornato la
mattina dopo il salvataggio della ragazza, trasportato in volo da
Hesediel, ed era rimasto molto sorpreso nel trovare quel bizzarro trio
addormentato sui cuscini del divano. Bastò uno sguardo con
Raziel per capire che la questione era molto più complicata di
quanto sembrasse ad un primo sguardo. Per tutta quella giornata i due
arcangeli discussero tra loro a bassa voce mentre Verity continuava a
dormire vicino a Mary. La donna ascoltava le loro parole senza
replicare, dando ragione all'uno o all'altro con un cenno del capo. Metatron si domandava
perché Yelahiah avesse voluto l'accesso libero alla Terra in
cambio della ragazza quando era evidente che non ne avrebbe ricavato
nulla di buono: non poteva pensare di rubare gli Ingranaggi né
di accumulare abbastanza energia per aprire un varco per l'Inferno.
Qualsiasi azione sarebbe stata una perdita di tempo. Dopo qualche
argomentazione contraria, Raziel si trovò d'accordo, per lo meno
sull'apparente inutilità della richiesta, rimanendo però
dell'opinione che, nascosto, esistesse un progetto più grande e
ambizioso. Raziel diresse la sua mente verse Hesediel, cercando di
cavargli le sue impressioni: vide un'altra volta il ricordo dell'ultimo
incontro con Yelahiah. Il dannato voleva vendetta su Lucifero, punirlo
per quello che reputava fosse stata solo una presa in giro e,
probabilmente, usare gli Ingranaggi per uccidere gli arcangeli. Loro
forse non sarebbero stati toccati da quella purificazione, ma tra i
loro compagni in Paradiso non sarebbe sopravvissuto nessuno. Dare una
piccola lezione a qualcuno di loro sarebbe stato uno sfizio non da
poco, ma non erano dei sadici: con qualche graffio e qualche livido
tutto si sarebbe risolto. Sarebbe stata solo una piccola zuffa per
rimettere al proprio posto gli arcangeli degli ordini inferiori, per
ricordare loro, senza cattiveria, che non potevano dettare legge e
giudicare da soli, senza il consiglio al completo. Questa volta però
era necessario riflettere sulla possibile prossima mossa di Yelahiah.
Aveva sempre agito da solo, impartendo ordini ai suoi sottoposti e
controllando ogni movimento nell'ombra. Se adesso era uscito allo
scoperto con un'azione tanto eclatante doveva esserci qualcosa di
davvero rilevante. Il giorno dopo Verity si
svegliò, passandosi più volte le mani sugli occhi mentre
Raziel le offriva sorridente una colazione. La trangugiò di
tutta fretta, percependo crudeli i morsi della fame. ‹‹Felici che il pasto ti sia piaciuto!›› disse Metatron. Impiegò qualche secondo a riconoscerlo e a pronunciare il suo nome, timorosa di scambiarlo per qualcun altro. ‹‹Mi hanno raccontato la tua triste avventura, ma vedo che te la sei cavata egregiamente.›› ‹‹Non ricordo nulla da quando sono svenuta, credo in braccio a Lelahel, ma perdonatemi!›› Metatron sorrise e Mary
le accarezzò una guancia, dicendole che non aveva nulla di cui
scusarsi o dispiacersi; era piuttosto comune non ricordare e le sue
azioni non dovevano essere perdonate da nessuno. Le raccontarono
brevemente come Lucifero l'avesse curata e di come fosse poi andato
via, aggiungendo di non sapere né dove fosse né quando
sarebbe tornato. Il viso di Verity si
incrinò in una piega amara a quelle parole e le sue guance
arrossirono quando si accorse che tutti la stavano fissando
incuriositi, Hesediel compreso. ‹‹Io credo
che tornerà presto›› disse Raziel alzandosi.
‹‹Non ti starà molto lontano ora che ha
conquistato la tua fiducia.›› ‹‹Io non mi fido di lui... Io...›› Non sapeva come proseguire. Non voleva proseguire. Le sarebbe piaciuto
credere che fosse la verità, ma, come quando lo aveva lasciato
in lacrime nella sua capanna, il cuore le diceva che in realtà
si fidava di lui e che avrebbe solo detto una bugia. Abbassò la
testa. Non se la sentiva di ammetterlo, né di negarlo
completamente. ‹‹Lo hai
conosciuto un poco allora. Mi basta sapere questo, che tu sia stata
giusta e lo abbia ascoltato.›› ‹‹Non
credo di aver fatto una cosa così strabiliante. Mi ha solo
spiegato come siete nati›› rispose la ragazza incerta,
non avendo inteso bene le parole di Metatron. ‹‹È
già abbastanza, anzi è molto. Non hai idea di quanto la
tua presenza faccia nascere in lui, di quanta luce lo inondi. Lui ti ha
sempre a...›› ‹‹Metatron!
Stai zitto e non divagare su questioni che non ti
riguardano›› lo interruppe Raziel prima che terminasse. ‹‹No! Lo voglio sapere ora.›› Era curiosa. Era
interessata. Fremeva per il desiderio di sentire la conclusione di
quella frase, quale fosse la parola con la A. Non aveva idea del
motivo, ma desiderava soltanto che la completasse, anche a costo di
cucire la bocca a tutti i presenti per farlo parlare. Metatron guardò
allarmato Raziel, che alzò impercettibilmente le spalle, e alla
fine non negò a Verity la risposta. ‹‹Attesa.
È più di qualche millennio che ti aspetta. Perdonami,
pensavo ti avesse parlato della fonte di Eteria.›› ‹‹Credo non ne abbia avuto il tempo.›› ‹‹Te ne parlerà quando vi rincontrerete, Caliel.›› Ancora quel nome. La prima volta che si
erano incontrati l'aveva congedata con quel nome e anche Lucifero
l'aveva chiamata così nel bosco. Solo loro due, ed Hesediel,
l'avevano usato: come potevano conoscerlo quando anche le altre
guardiane la chiamavano Verity? Ricordava bene che Lucifero le aveva
detto che era Metatron a scegliere il nome degli angeli, in base alla
conoscenza del loro futuro o passato e che ognuno rappresentava
un'essenza particolare. ‹‹Perché quel nome? E come fa Lucifero a conoscerlo?›› ‹‹Diciamo
che, in qualche modo, Lucifero lo ha pronunciato per primo. Ti ha vista
e ti ha chiamata così, senza una motivazione particolare. Quel
nome mi è piaciuto, mi è sembrato adatto e deciso di
nominarti così. Non ho guardato nel tuo futuro, né nel
tuo passato, nel caso tu te lo stia chiedendo.›› Metatron cercava di
dosare le sue parole e controllare i pensieri, selezionando con
attenzione quali esprimere ad alta voce e quali tenere per sé.
In caso contrario, avrebbe raccontato tutto quello che sapeva mentre
era Lucifero, a tempo debito, che doveva confessare alla ragazza il suo
passato. Anche se era abbastanza certo che Verity avesse già
capito qualcosa o, quantomeno, lo avesse immaginato. ‹‹Va bene... E quale sarebbe la mia essenza?›› ‹‹Nessuno te lo ha detto?›› Metatron era
sinceramente stupito: non era possibile che non sapesse. Tutti gli
angeli dovevano essere a conoscenza della sua essenza. ‹‹Nessuno sa del nome, credo, e io non ne ho mai parlato alle altre guardiane.›› Metatron sorrise,
pensando che alla fine fosse stato meglio così. Molti angeli,
dopo aver conosciuto la propria essenza, avevano assunto determinati
comportamenti solo per dimostrare di esserne all'altezza, dimenticando
che era la normalità a mostrarla e non la sua ostentazione. Se
Verity non la conosceva, voleva solo dire che tutto quello che aveva
fatto, detto e pensato era stato spontaneo: era venuta a patti con
sé stessa. Aveva ascoltato Lucifero perché sapeva che
fosse giusto; era scappata da Scar perché, pur non capendolo,
era giusto; non aveva giudicato né Lucifero né Yelahiah,
né alcuno di loro perché non li conosceva abbastanza,
perché quasi tutto quello che aveva imparato sulla Terra si
stava rivelando falso. ‹‹Giustizia.
La tua essenza è la giustizia, Caliel. Non te ne sei accorta da
sola, vero? La giustizia è parte fondamentale della tua anima,
la governa da dentro. Non è la capacità di distinguere
male e bene, dividere bianco e nero: è l'equilibrio delle parti.
Scegliere cosa sia meglio fare, indipendentemente dalla morale; saper
ascoltare e saper rimanere in silenzio. Sapere quando è il
momento di uccidere e perdonare; amare in silenzio ma dirlo ad alta
voce. È un'essenza molto forte, che condizionerà le tue
scelte molto più di quanto altre essenze potrebbero fare, ma
è anche una delle più sfaccettate e belle, almeno secondo
me.›› Verity si sentì
importante all'improvviso e sorrise, abbassando lo sguardo, e
ripensando alle parole di Mary queste assumevano all'improvviso un
significato più chiaro. ‹‹Ti avevo
detto che eri importante, no?›› disse Mary
abbracciandola, con l'espressione di chi sapeva molto più di
quanto rivelasse. ‹‹Grazie. Metatron, adesso cosa si fa? Con Yelahiah intendo.›› ‹‹Aspettiamo››
si intromise Hesediel. ‹‹Le tue ferite sono chiuse, ma ti
faranno male per un po' e noi da soli non possiamo uscire dall'Inferno,
né tu puoi uscire dal Paradiso senza il permesso degli arcangeli
per seguirlo e scoprire cosa stia facendo.›› Raziel lo guardò contrariato: non era quello che avevano concordato di dirle... ‹‹E Lucifero? Devo parlargli e ottenere alcune risposte.›› Raziel le disse di
lasciarlo ai suoi impegni: era andato a controllare qualcosa per conto
suo e se non aveva chiesto aiuto, non era il caso di proporglielo. ‹‹Ha bisogno di stare solo per qualche tempo. Non è un comportamento raro da parte sua.›› Verity cedette alle
parole di Raziel e accantonò l'idea di cercare Lucifero. Per un
secondo pensò di scomparire con la pietra che portava al collo,
ma decise di lasciar perdere. Se avesse aspettato pazientemente,
Lucifero sarebbe tornato da lei. Rimase nell'Inferno fino
a che i dolori per le ferite non furono scomparsi completamente,
trascorrendo la maggior parte del tempo avventurandosi fuori in
compagnia di Raziel. Metatron scomparve insieme ad Hesediel e Verity
non lo vide più fino al giorno in cui se ne andò. Raziel
fu invece così gentile da intrattenerla sempre, passeggiando per
l'Inferno e raccontandole aneddoti della sua vita passata, sia in
Paradiso che sulla Terra. E a lei piaceva ascoltare, immensamente. Era un'opportunità meravigliosa e imparare le era sempre piaciuto. Raziel aveva più
di cinquemila anni di vita, quindi di esperienza, e poteva insegnarle
molto su come trattare con angeli e arcangeli. Aveva infatti deciso di
conoscere Michele. Aveva riflettuto a lungo su quali sarebbero potute
essere le conseguenze e, fattasi spiegare nel particolare quali fossero
i suoi compiti di custode, aveva deciso di non attendere il ritorno di
Lucifero nel torpore. ‹‹Non ti
faranno parlare direttamente con Michele, di questi tempi preferiscono
accogliere gli angeli mettendoli in soggezione. Ovviamente non sono
tutti così spavaldi, ma litigare non piace e se possono,
soprattutto dalla fine della guerra, seguono Raffaele. È stato
il fratello di Michele sulla Terra e spesso prende decisioni al suo
posto. Da quel che so, si comporta così da quando Michele ha
iniziato a smaltire gli effetti che la magia di Benihime ha avuto su di
lui: non era in grado di prendere decisioni all'epoca. Quindi dicevo,
devi preoccuparti solo di Raffaele. Se convinci Raffaele di essere
completamente e devotamente fedele a lui, non troverai mai una porta
chiusa in Paradiso. Ovviamente è un po' difficile che si fidi di
te fin da subito, ma puoi riuscirci.›› Le parole di Raziel
erano state rassicuranti e, mentre camminava per i sentieri del
Paradiso con Hariel, Verity se le ripeteva nella mente come un mantra.
Lelahel e lei si erano scambiate: la guardiana aveva preferito tornare
nell'Inferno per essere pronta a sedare ogni eventuale iniziativa dei
dannati. Scar aveva invece deciso di andare sulla Terra e Verity fu
felice della notizia, Hariel non avrebbe potuto comunicargliene una
più piacevole. Avevano così percorso la strada dal
portale dell'Inferno di Eteria fino alla Roccaforte. La guardiana non
aveva smesso per un attimo di parlare, raccontandole dello spavento che
aveva provato quando aveva smesso di percepire la sua anima e nel
vederla ferita tra le braccia di Lelahel. Verity aveva ascoltato solo
con un orecchio, e, sfruttando la distrazione di Hariel, era riuscita a
sbirciare nella casa di Lucifero dal basso, sperando di cogliere un
movimento indice della sua presenza. Fu una speranza vana. Davanti alle scale che
conducevano al portone centrale l'attenzione verso Hariel crebbe: stava
parlando di quando Lucifero era entrato a casa di Mary e
dell'impressione rimastale. ‹‹Mi ha
spaventata terribilmente! È scattato verso la gola di Scar come
un animale. Ho pensato che in guerra dovesse essere stato un vero
mostro...›› ‹‹Da quel che so, si diventa spesso mostri quando si difendono i propri desideri...›› Verity sapeva più
di lei sulla ribellione di Lucifero, anche senza aver sentito la
versione ufficiale, e stava per dire qualcosa di più quando
pensò che non fosse il caso di pronunciare parole in suo favore
su quella scalinata. Salì alcun gradini fino a che Hariel le
disse che non sarebbe entrata. ‹‹Come‽ Avevi detto che saresti venuta con me!›› ‹‹Gli
arcangeli mi hanno sempre innervosito, e non penso che Raffaele sarebbe
felice di rivedermi dopo l'ultima sgridata che mi ha
fatto.›› ‹‹Ha paura
anche io. È come se stessi andando a visitare il mio patibolo,
tutti hanno descritto questo luogo come qualcosa di terribile. In due
andrà meglio, no?›› E Hariel si sentì
convinta da quelle parole perché portò Verity nella Sala
del Consiglio, tenendola a braccetto. Senza che un solo
arcangelo fosse presente, quella sala riuscì a metterla in
soggezione. C'erano nove gradoni di nove colori diversi, disposti in
cerchi concentrici dal più piccolo al più grande, come in
un teatro greco, ognuno indicante il nome di un arcangelo con una targa
di ottone. Il marmo colorato emanava pesantezza e Verity percepì
un senso di impotenza, quasi il desiderio di uscire di corsa da quella
sala. Diede un'occhiata veloce, cercando il nome di Raziel. Aguzzando
la vista riuscì a scorgerlo sulla targa del secondo cerchio in
alto, Metatron era sul primo ed Hesediel sul quarto. Dopo di lui
venivano Kamael, Raffaele, Haniel, Michele e Gabriele. Si accorse in
quel momento che, sul cerchio più basso, c'erano due arcangeli. Gabriele era infatti
disteso sul suo gradone e Haniel al suo fianco gli spostava un ricciolo
dagli occhi con una mano, mentre con l'altra intrecciava le dita a
quelle dell'altro. Verity arrossì
nel vedere la loro intimità, fu solo grazie ad Hariel, che si
schiarì la gola, se si riprese e osò pensare a qualcosa
da dire. Non riuscì a pronunciare una parola. Emise un grido acuto e
cadde in ginocchio tenendosi la testa tra le mani. Hariel le
circondò le spalle con un braccio, provando a farla alzare, ma
la ragazza voleva rimanere accucciata e rifiutava di muoversi. Haniel
guardò Gabriele e questo scese dal gradone per affiancarsi alla
ragazza, dicendo alla guardiana di allontanarsi. ‹‹Gabriele cosa sta succedendo?›› ‹‹L'eco
della Terra. Non è che io non lo senta, ma sono così
abituato alla sua presenza che per me questo è un banale mal di
testa.›› Haniel suggerì di portarla via prima che qualche altro arcangelo entrasse e la vedesse. ‹‹Perché?›› chiese Hariel. Gabriele le rispose che
dovevano trovare il modo di calmarla. Se avesse sopportato un dolore
così lancinante troppo a lungo, sarebbe finita con il cercare di
placarlo da sola e la conclusione sarebbe stata una e definitiva. ‹‹Inoltre
è meglio che Raffaele non la incontri. Farebbe di tutto per
trovare l'origine dell'eco invece di farlo diminuire.›› Scostò le mani di
Verity dalle orecchie e la ragazza lo fissò con gli occhi pieni
di lacrime, mordendosi le labbra così forte da farle sanguinare.
Tenendola per i polsi, Gabriele la fece alzare lentamente, mantenendo
il contatto visivo. Haniel li precedette e andò ad aprire la
porta che conduceva all'appartamento più alto, quello di
Metatron. Almeno sarebbero stati certi di non essere disturbati da
nessuno. Il corridoio che percorsero era personale: nessuna intersezione con altri corridoi o con porte e scale. La fecero sedere sul
letto impolverato mentre Gabriele le parlava con sussurri che solo lei
riusciva ad udire, stringendole le mani. Le diceva di smettere di
pensare al dolore, di lasciarlo scorrere in tutto il suo corpo e dopo
di richiamarlo indietro per eliminarlo. Doveva immaginare di
rinchiuderlo in un posto irraggiungibile, con chiavi e lucchetti
pesanti, difficili da aprire. Si doveva allontanare lentamente,
guardando il dolore dibattersi tra le sue mura e morire. Ripeté
quegli ordini fino a che la stretta di Verity non si allentò
completamente e questa smise di torturarsi le labbra. Piangeva, certo,
ma non tremava più eccetto che per brevi scrolloni delle spalle
tra un singhiozzo e l'altro. Gabriele si
guardò intorno: né Haniel, né Hariel erano nella
stanza. Probabilmente dovevano essersi dirette nella Sala del Consiglio
per capire insieme agli altri arcangeli cosa fosse successo di preciso,
forse anche grazie all'aiuto di Scar. Se nessuna era venuta a cercarlo,
voleva dire che Haniel aveva convinto tutti che stesse davvero male.
Guardò fuori dalla finestra. L'incantesimo che Metatron aveva
applicato millenni prima, affinché dall'interno vedesse la luce
del sole e non delle stelle funzionava sempre. Ritornò dalla
ragazza, che lo osservava stringendosi le braccia intorno al corpo,
confortandosi da sola. ‹‹Cos'è successo?›› gli chiese. ‹‹Un attacco magico, abbastanza forte tra l'altro.›› ‹‹Dove?›› ‹‹Sulla Terra.›› Verity si alzò di
scatto e mosse qualche passo in avanti. Inciampò nei suoi piedi
e cadde tra le braccia di Gabriele, che prontamente la intercettarono.
Le consigliò di tornare a sedersi e di non fare sforzi. L'eco
l'aveva stancata abbastanza senza che lei cercasse di sabotare la sua
salute da sola. Doveva essere accaduto
qualcosa di davvero terrificante sulla Terra per richiamare un'eco
tanto potente da un luogo fisicamente tanto lontano e Gabriele si
sforzò per recuperarne la scia e vederne le immagini nella sua
mente. All'inizio era solo
fumo, grigio e fitto, come un enorme mare di nebbia tossica. Nulla era
riconoscibile e dovette attendere un po' prima di poter avanzare nella
visione. C'era caldo però, e persone che gridavano spaventate,
chiedendo di essere liberate. All'improvviso una trave cadde di fronte
a lui e sentì il grido strozzato di una donna. Era rimasta
schiacciata. Ancora non vedeva chiaramente, ma passo dopo passo la
visibilità migliorava: cominciò a distinguere i contorni
ed intravedere i colori. Non era fisicamente
lì, ma rabbrividì ugualmente: stava iniziando a farsi
un'idea abbastanza precisa degli eventi. Aggirò la trave, non
amando la sensazione dell'attraversare gli oggetti, e camminò in
giro, creandosi una planimetria del luogo nella testa per orientarsi.
Prima aveva attraversato un cortile circondato da una vegetazione in
fiamme. C'erano bambini distesi sulla pietra sporca della
pavimentazione: alcuni respiravano ancora, ma nessuno sarebbe riuscito
a salvarli. Sentì uno di loro spegnersi. Gli adulti erano
all'interno del tempio, in un'ala laterale, abbracciati l'uno
all'altro, mentre i più coraggiosi lanciavano incantesimi di
difesa e protezione. A prima vista l'unico pericolo sembravano le
fiamme, ma non poteva esserci solo quello. Gli umani morivano ogni
giorno e nessuno di loro generava un'eco del genere: c'era qualcun
altro o qualcos'altro appartenente al suo mondo lì, pronto ad
agire. Sperò non fosse lui. Lasciò gli adulti e
proseguì verso il cuore del tempio, dove nascevano le lingue di
fuoco. Il cadavere di un sacerdote, coperto di sangue, era riverso
sull'altare. La gola era ancora stretta in una sottile corda nera.
C'era un angelo sull'altare, ali blu e capelli color cenere.
Bisbigliava furioso, conficcandosi le unghie nei palmi delle mani.
Sentì la parola laboratorio soffiata tra i denti. Verity guardava Gabriele
con attenzione: sembrava assorto e pensieroso, come se si fosse
incantato a guardare qualcosa nella sua mente e nessuno potesse
distoglierlo. ‹‹Cos'hai visto?›› gli chiese appena si destò. Non rispose subito, diviso tra raccontarle esattamente la verità o rimanere vago. ‹‹Quello che è successo sulla Terra.›› Verity aspettò un
secondo, indecisa su cosa chiedergli ancora. Voleva sapere di preciso
cosa fosse accaduto, ma anche come Gabriele ci fosse riuscito.
Optò per la seconda domanda. Gabriele aveva compreso perché aveva seguito la traccia, le rispose. Il dolore che sentiva
costantemente nella testa, alcune volte più forte altre
più debole, lui lo chiamava battito o eco dell'anima. Era una
sorta di collegamento, una vicinanza lontana che legava lei, lui e
tutte le altre creature. Si trattava di una percezione simile a quella
Hariel, ma mentre lei percepiva solo la posizione delle anime, l'eco
era molto più personale. Era il battito del cuore, il dolore e
la tristezza; era una condivisione profonda della propria esistenza che
pochi erano in grado di percepire. Chi sentiva si
ritrovava nell'interiorità degli altri, partecipando senza
volerlo alle sensazioni e ai sentimenti, fino a che questi non
diventavano parte integrante dell'anima, rivelando indizi sul loro
futuro. Accedere ad anime sfaccettate poteva però rivelarsi
un'esperienza distruttiva per i meno esperti. Fino a che i sentimenti
rimanevano positivi poteva anche essere divertente perché niente
come le emozioni dava sollievo alla mente ed al corpo, ma, quando
l'anima ascoltata soffriva o era triste o provava una qualsiasi
sensazione negativa ed esasperata, diventava pesante. Si trasformava in
un logorante ed insopportabile battito, ritmato come la percussione dei
tamburi da guerra, che perforava il corpo, provocando un dolore
incommensurabile che condizionava le azioni di chi non riusciva a
resistere. Qualche volta le conseguenze erano solo parole non pensate,
piccole ferite; altre volte, quando il dolore raggiungeva il limite,
gli angeli finivano per ferirsi seriamente o addirittura uccidersi. Per fortuna non accadeva
spesso, anche perché connessioni così profonde erano
difficili da creare. Nella maggior parte dei casi l'eco nasceva solo in
concomitanza con gradi stragi, soprattutto se causate da attacchi
divini, o quando umani dotati di una fede incrollabile venivano a
mancare. Era anche per questo che
lei era stata così male: tra i tanti morti del tempio c'era
stato uno dei sacerdoti, forse il più anziano, discepolo del
precedente, ma non ne era certo. Sapeva però che la fede di
quell'uomo era talmente profonda e sincera da distinguerlo da tutti gli
altri fedeli che avevano varcato la soglia del tempio e per questo era
stato la prima vittima di Yelahiah. Il dannato doveva essere andato
lì per recuperare uno degli ingranaggi, chissà quale, e
per sfruttarne il potere immenso. ‹‹Ma perché? A cosa gli servirebbe?›› chiese Verity. Quando l'aveva rapita,
Yelahiah non aveva mai, nemmeno per sbaglio, rivelato un solo
insignificante dettaglio del suo piano ed era stato ben attento che non
lo facessero i suoi compagni. ‹‹Vuole
vendetta probabilmente. Su Lucifero, su noi arcangeli. Lo abbiamo
confinato noi nell'Inferno, non mi stupisco che covi un po' di rancore
nei nostri confronti. Anche se, in realtà, io non ho combattuto
in quella guerra, né mi sono interessato particolarmente alle
parole di Lucifero nell'assemblea. Vorrei potermi permettere il lusso
di non schierarmi nemmeno questa volta, ma adesso c'è Haniel da
proteggere e non posso rimanere completamente in disparte. L'unica che
mi interessa è lei.›› ‹‹Sei egoista, non credi?›› Era stata posta come una domanda, ma Verity credeva che fosse la verità. ‹‹Ognuno
è egoista a modo suo. È egoista la madre che mette al
mondo un figlio, è egoista chi salva una vita, è egoista
chi odia. Alcuni lo sono per orgoglio, altri per rancore o per invidia.
Io lo sono per amore. Non mi giustifica, certo, ma ho paura di rimanere
solo e allora farò qualunque cosa per Haniel, fosse anche
l'ultima che faccio come arcangelo del Paradiso.›› Verity annuì,
capendo in parte il punto di vista dell'arcangelo, mantenendo
nonostante tutto un'espressione poco convinta. ‹‹Ti leggo
negli occhi che non sei d'accordo. Non è giusto quello che dice,
non sta in equilibrio, pensi. La mia non è l'affermazione tipica
di un arcangelo, non dovrei lasciarmi controllare dai sentimenti, ma
non posso fare altrimenti. Sono certo che prima o poi capirai quello
che intendo.›› Detto ciò si
alzò,lasciando la presa sulle spalle di Verity che sicuramente
sarebbe stata in gradodi rimanere seduta da sola. Era un bene che
riuscisse a parlare senzainterrompersi o doversi fermare a pensare
più del necessario. Significava cheil dolore alla testa,
così com'era nato, era anche scomparso. Era un bene cheavesse
reazioni così diverse dalle sue. Lui agli inizi era stato male
persettimane, almeno fino a quando non aveva imparato ad ignorare
stoicamentetutti gli echi, anche quelli che lo rendevano felice.
Angolo dell'autrice
Buongiorno a tutti! Oggi giornata di aggiornamento, spero vi faccia piacere! Sono un po' in ritardo,
mi scuso moltissimo, ma la sessione esami estiva mi sta prendendo molto
più tempo del previsto, soprattuto consideratto che devo dare
almeno 5 dei 7 esami che ho... Ad ogni modo, spero sia stata una piacevole lettura e che abbiate voglia di lasciarmi un parere! Un saluto a tutti,
Buongiorno
a tutti, oggi giornata di aggiornamento!
Siccome
è da un po’ che non venivo su Efp sono contenta di
pubblicare oggi. è arrivato il
momento per Verity di inserirsi ancora di più nel mondo degli angeli, andando
direttamente a parlare con Michele.
Ma niente più spoiler, vi
auguro semplicemente buona lettura, sperando che abbiate voglia di lasciarmi un
piccolo parere.
Nemamiah
Rimasero
insieme in quella stanza per almeno tre ore, aspettando che qualcuno venisse a
chiamarli, mentre la luce delle stelle fuori scemava, lasciando solo il nero
opaco della notte. Lui guardava fuori dalla finestra, scrutando nell’oscurità,
accarezzando con lo sguardo le piccole luci lontane delle case degli angeli. Verity
si era addormentata sul letto e respirava regolarmente, come se non fosse
accaduto nulla.
Haniel
entrò piano, socchiudendo la porta con attenzione per non svegliare la ragazza.
Entro qualche minuto sarebbe arrivata Hariel e avrebbero dovuto parlare tutti
insieme.
Insieme
alla guardiana giunsero anche Scar e Lelahel, che rimasero in piedi in
silenzio. Dopo essersi fissati l’un l’altro negli occhi per un po’, Gabriele si
decise a richiamare Verity dai suoi sogni. Salutò con un sorriso assonnato le
donne nella stanza e quando lo sguardo si posò su Scar, lo abbassò
all’improvviso, vergognandosi delle parole che gli aveva rivolto. Non riuscì a
dirgli nulla perché Haniel parlò per prima.
‹‹Verity,
perché sei venuta? Mi fa certamente piacere, ma non credo che tu sia qui per
fare conoscenza.››
‹‹Mi
piacerebbe parlare con Michele, se possibile.››
‹‹Perché?››
chiese Gabriele. ‹‹Non ti ascolterà.››
Lo
avrebbe fatto invece, si disse Verity, perché era stato lui a cercarla per
primo nell’Inferno. Era stata colpa sua se era stata male la prima volta e gli
avrebbero già parlato se non ci fossero state questioni più importanti.
‹‹Sono
quasi certa che lo farà. Lasciatemi provare.››
Gabriele
guardò Haniel e, appena questa fece un cenno di assenso, disse che per lui
andava bene. Non era sbagliato fare un tentativo. Decise allora di raccontare
alla ragazza tutto quello che aveva visto nella scia e poi uscì dalla stanza,
portandosi dietro tutti eccetto Scar, che si mantenne a distanza ma la osservò
intensamente.
Era
lo stesso sguardo che indossava quando la voleva controllare: le bastava
vederlo per innervosirsi. Prese un respiro profondo e cercò di alzarsi,
spingendosi con le braccia. Le gambe l’abbandonarono una seconda volta e dopo
pochi secondi ricadde sul letto, sentendosi come una bambina. Era abituata ad
affrontare i problemi da sola e non riuscire nemmeno a reggersi in piedi era
frustante: non aveva nemmeno l’autonomia minima necessaria per andare da
Michele.
‹‹Vuoi
un aiuto?››
Le
chiese Scar con il tono di voce più gentile che riuscì a trovare tra le mille
sfumature sgarbate e sarcastiche che possedeva. Voleva che la ragazza si
trovasse a suo agio e non provasse a scappare ancora. Le tese la mano,
diminuendo la distanza tra loro.
‹‹Si,
grazie. Ma non prendermi in braccio, vorrei provare a camminare.››
Scar
sorrise e fece ancora un passo avanti, stringendo la mano di Verity e
passandole un braccio intorno alla vita per sostenerla. La aiutò ad alzarsi e,
un passo alla volta, la condusse fuori. Percorsero un tratto del corridoio
verso nord e poi svoltarono dentro una porticina bianca, nascosta nelle striature
del marmo. Scar la chiuse con attenzione dietro di sé e poi iniziarono a
scendere le scale verso il piano inferiore. Entrambi erano silenziosi. Scar
pensava a quanto fosse dolce il profumo della pelle e dei capelli di Verity,
così facile da riconoscere; lei pensava a cosa avrebbe detto a Michele e quale
sarebbe potuta essere la sua reazione. Giunse alla conclusione che non aveva
senso programmare le parole da dire o i gesti da compiere, intanto avrebbe
potuto rimediare a qualcos’altro.
‹‹Scar,
scusa se sono scappata. Hariel mi ha raccontato che sei stato sgridato da
Raffaele insieme a lei.››
L’angelo
le rispose che non era stato un grosso problema e che l’importante era che lei
stesse bene.
‹‹Mi
ha anche parlato della reazione di Lucifero… Ti ha fatto molto male?››
Scar
si schiarì la voce, dicendole che nemmeno quello era stato un problema, anche
se avrebbe evitato volentieri di ripetere l’esperienza. Era, in genere, un
angelo che imparava dai propri errori: non le avrebbe mai più permesso di
fuggire. Verity rabbrividì a quell’affermazione, credendo che le stesse
prospettando tristi giornate sempre in sua compagnia. Non sarebbe riuscita a sopportarlo.
Scar rise invece.
‹‹Sei
libera. Basta che mi informi se vuoi fare qualche gitarella fuori programma.››
È un buon compromesso, pensò, anche perché mi osserverà sicuramente a
distanza…
Non
espresse a voce alta questo pensiero, ma chiese dove fosse Lucifero.
Fu
il turno di Scar di irrigidirsi. Non si aspettava quella domanda. Forse poteva
ritardare la risposta, la scala era quasi terminata e lui avrebbe dovuto aprire
un’altra porta, ma Verity era impaziente: ‹‹So che è tuo fratello. Se sai
qualcosa non nasconderlo, non a me.››
Scar
sospirò, lasciandola libera dalla stretta: ‹‹Non so nulla›› e scomparve
nell’aria come fumo tra le dita.
Sbattendo
piano le ali, scoprì di essere in grado di sostenersi senza troppa fatica e
aprì la porta, entrando nella stanza.
La
camera di Metatron, dove era stata prima, era impersonale e anonima; quella in
cui si trovava in quel momento era invece estremamente particolare. A metà
stanza c’era un gradino che la divideva in due parti. Quella più bassa era di
un lucente marmo verde che proseguiva anche sulle pareti in venature ordinate,
simili a una foresta rigogliosa, illuminata da smeraldi di varie dimensioni.
Vasi neri e arancioni, dipinti con immagini e nomi di angeli sconosciuti, erano
sulle mensole attaccate al muro. Al di là del gradino il pavimento si
trasformava in una distesa di quadrati concentrici blu su fondo bianco, mentre
sulle pareti rimaneva lo stesso motivo, anche se lì erano incastonati zaffiri e
non smeraldi. Da quel lato si trovavano anche un letto a baldacchino ricoperto
di cuscini candidi e quello che sembrava un trono coperto da un telo azzurro.
Nell’aria
galleggiavano cristalli di ghiaccio, brillanti nella notte. C’erano fiori
gelidi coperti di goccioline congelate e stelle che rimanevano rasenti il
soffitto; in un angolo una fontanella lasciava che l’acqua scorresse lungo i
lati della stanza in un gioco di arcobaleni. Sul vetro dell’enorme finestra
invece si diramavano ghirigori ghiacciati che Michele espandeva accarezzandone
l’origine. Verity rimase ad ammirare lo spettacolo fino a quando il vetro non
fu completamente coperto.
‹‹Cosa
fai qui?›› le chiese l’arcangelo.
Come ha fatto a sentirmi?
La
porta non aveva cigolato, né la maniglia aveva fatto rumore nel chiudersi e il
fruscio delle sue ali era impercettibile.
‹‹La
temperatura della stanza è cambiata dopo il tuo ingresso. Il tuo respiro è
molto caldo.››
In
quel momento la guardò e a Verity parve molto stanco. Non sembrava un angelo
capace di così tanta crudeltà da privare della vista un’amica, l’angelo che lei
aveva immaginato era altezzoso e arrogante.
Aveva
solo un sguardo affaticato e il viso pallido tipico degli ammalati: però gli
angeli non potevano ammalarsi…
‹‹Come
mai sei qui? Per la disgrazia accaduta sulla Terra?››
Verity
rispose che in parte era per quello anzi, era maggiormente per quello, ma che
voleva anche conoscerlo e parlare con lui come aveva già fatto con altri
arcangeli. Era una custode, era uno dei suoi doveri.
‹‹Non
ho il carattere accomodante degli arcangeli che hai conosciuto, né la loro
pazienza. Non sono il più simpatico e, attualmente, sono quello più pietoso,
oserei dire.››
‹‹Ma
sei un amico di Raziel, ne sono certa. Ho una grande stima di lui e se ti
considera suo amico, allora anche io lo farò.››
Verity
volò fino al letto, sedendosi per non sforzare le ali. All’inizio aveva pensato
di andare sul trono, ma aveva accantonato l’idea pensando che era stato coperto
per un motivo e che quel motivo non era evitare la polvere. Michele aveva
invece sgranato gli occhi per la sorpresa sentendo la considerazione che Raziel
aveva ancora per lui. Non meritava, né aveva mai meritato, l’amicizia di
quell’arcangelo così saggio e giusto, sempre gentile con tutti. Era come se
avesse ricevuto un grazia da quella ragazza che fino a pochi mesi prima desiderava
ardentemente dalla propria parte. Per fortuna non ci era riuscito. Le sue
migliori azioni erano sempre state il frutto di un piano miseramente fallito,
mentre il raggiungimento dei suoi personali obiettivi non aveva quasi mai
portato ad una felice conclusione.
‹‹Perché
dici questo? È stato Raziel a confessartelo?››
‹‹No,
l’ho visto quando sei andato al loggiato e hai parlato con lui. Metatron mi
aveva inglobata con la sua magia, ma mi ha lasciato il ricordo della vostra
conversazione, soprattutto delle vostre espressioni. Alla fine, Raziel
sorrideva. Mi era sembrato un sorriso inopportuno, quasi odioso: quando mai si
sorride se qualcuno sfoga con te i suoi sentimenti? Ma ho visto il suo sguardo
quando ti nominava, prima che io venissi qui, ed era preoccupato. È lo stesso
sguardo che ha Haniel, anche se non credo se ne accorga. Non ci preoccupiamo
per chi ci è indifferente: è una lezione che ho imparato in fretta da umana,
quando vedevo le persone intorno a me fingersi gentili nei miei confronti come
se fosse un obbligo. Ma basta una scintilla, magari la prima di una lunga serie
o l’unica che mai conosceremo, e ci sentiamo così legati che la preoccupazione
nasce spontanea. E se ci interessiamo, spesso e volentieri ci consideriamo
amici. È tutta una mia deduzione ma, come ho già detto, ne sono certa.››
Michele
rimase sorpreso, ancora, ma per qualche motivo sentirla parlare gli scaldava il
cuore. Era gentile, ma determinata, con una sicurezza e una dolcezza nella voce
che la rendevano amabile e simpatica. Parlava degli altri e di se stessa
unendoli con semplicità, socchiudendo un poco gli occhi verdissimi quando
riportava a galla il passato ma guardando con attenzione l’interlocutore. Il
tono della voce, da solo, portava neve leggera sulle ferite della sua anima,
riempiendo di ghiaccio caldo gli anfratti bui.
‹‹È
confortante ciò che dici. Se poi penso che non mi sono nemmeno accorto della
tua presenza… Lelahel ha concesso a Metatron molto tempo.››
Verity
non sapeva che l’avesse fatto.
‹‹Oh
sì, è da quando sei arrivata che l’anziana Mary dirige la banda a ritmo di
danza. Un valzer lento per far sì che nessun arcangelo del Paradiso ti portasse
a odiare Lucifero prima di averlo conosciuto; cosicché tu imparassi da sola da
chi soffre ancora delle conseguenze della guerra come comportarti con noi, con
me. Lelahel deve averti raccontato cosa le ho fatto.››
Indicò
il trono, avvicinandosi al letto: ‹‹Era seduta lì sopra quando sono tornato
dalla guerra, passava le dita tra gli intarsi del legno. Appena l’ho vista,
l’ho resa cieca, urlandole contro che fosse una vigliacca e che dovesse
andarsene con quella feccia angelica che aveva approvato durante la votazione.
Invece non è mai scappata via. Per quanto ogni volta la cacciassi, lei tornava
sempre. Rimaneva con me anche la notte, quando gli incubi di Benihime
prendevano il controllo e io non sapevo nemmeno come mi chiamassi. Una volta
guarito, è rimasta lontana per un po’, facendomi visita e raccontandomi con
gentilezza cosa accadesse in Paradiso, portando il cibo che aveva cucinato e
imboccandomi se opponevo resistenza. Tutte le visite erano una sofferenza
quando inciampava sul gradino o sbatteva contro il trono, quando non trovava la
maniglia della porta…››
Michele
si sedette sul letto a fianco alla ragazza e lei gli prese la mano: ‹‹Ti sarai
sentito immensamente in colpa, vero? Scommetto che, ancora oggi, non riesci a
perdonarti. Io…››
Michele
si alzò di scatto, gridando: ‹‹Cosa pensi di saperne, tu‽››
I
fiori di ghiaccio si trasformarono in frecce affilate, pronte a essere scoccate
da un arco invisibile.
‹‹Non
riesco a dissolvere questo peso… Cosa puoi capire tu, che di pesi sull’anima
non ne hai mai avuti?››
La
reazione improvvisa spaventò Verity e gli occhi le si riempirono di lacrime,
come accadeva quando era ancora umana. Non ebbe la prontezza di replicare con
forza alle parole dell’arcangelo e finì per asciugarsi le lacrime nelle maniche
del vestito, provando a contenersi. Michele la guardò stralunato. Non capiva
più nulla. Possibile che così poche ingenue parole fossero sufficienti a far
emergere la parte più irrazionale e violenta di sé? Possibile che i desideri,
mai ammessi ad alta voce, nemmeno a se stesso, bruciassero ancora il suo
autocontrollo? Si passò una mano sulla faccia e si spostò di fronte alla
finestra, lontano dalla ragazza, sussurrando scuse su scuse fino a che Verity
non lo zittì lanciandogli uno dei cuscini.
‹‹Non
sei l’unico ad avere dei pesi, anche se i miei appartengono a un’altra,
irrecuperabile vita… Lasciamo perdere la questione, senza amore siamo come
fiori appassiti, senza speranza di trovare un’altra fioritura. Sono sicura che
Lelahel tenga molto a te e tu, in qualche modo, devi risolvere questa stupida
situazione con lei. Non voglio che tu ti sfoghi con me, o che mi confidi i tuoi
sentimenti; il mio bagaglio è abbastanza, ma lei sarebbe felice. Credo che
voglia parlare con te e che non ti odi per ciò che le hai fatto. Ti ama in un
modo tutto suo e…››
Michele
la fermò, chiedendole se fosse davvero sicura delle sue parole.
‹‹No.
Sto tirando a indovinare, ma non gioco con i tuoi sentimenti. Penso davvero che
tu la ami, in un modo strano e contorto, ma sempre amore è. Vivere senza amare
è il primo passo per non vivere. Senza amore finiamo come i fiori, appassiamo e
non rinveniamo mai completamente. Allo stesso modo penso che lei possa amarti
ma, se non le dici nulla, rimarrà solo un’occasione sprecata.››
Possibile
che tutti quanti gli suggerissero di aprirsi? In fondo, però, aveva già deciso
di farlo. Un consiglio in più rappresentava solo un incentivo, una sicurezza
contro la collezione di indecisioni che si affollavano nella sua mente. Guardò
fuori dalla finestra si lasciò andare ad un profondo respiro, cambiando poi
argomento e tornando a quello con cui avevano iniziato.
‹‹Rifletterò
sulle tue parole. A parte questo, cosa vuoi realmente da me?››
Tono
di accusa: Fantastico! pensò Verity. Come
faceva a trasformarsi così velocemente? Prima accomodante, poi minaccioso e
arrabbiato, adesso indisponente.
Verity
raccontò allora tutto quello che le era stato detto nei giorni precedenti,
chiedendo poi cosa lei dovesse fare. Era a suo agio con le questioni
sentimentali, ma in quelle pratiche aveva bisogno di aiuto.
‹‹Continuiamo
a osservare quello che succede. Aspettiamo la prossima mossa. Spero solo che questa
volta non moriranno altri innocenti… E ancora non sappiamo cosa indichi la
parola laboratorio.››
Laboratorio…
Laboratorio‽
All’inizio
non l’aveva analizzata seriamente anzi, l’aveva completamente ignorata. Era
stata una parola come un’altra nella frase, stupidamente ininfluente, scomparsa
in fretta nella moltitudine di parole e informazioni che aveva assimilato.
Yelahiah voleva ottenere Benihime per vendicarsi e si era recato in un tempio
per recuperarla, ma non era mai stata lasciata in un tempio. Yelahiah cercava
gli Ingranaggi nei loro luoghi originari, ma non li aveva trovati perché non
erano più custoditi là, e lei questo lo sapeva. Anzi, lei sapeva molto di più.
‹‹Io
so dove si trova! So dov’è Benihime, so dove ha intenzione di andare
Yelahiah!››
Raccontò
di come suo padre stesse studiando l’Ingranaggio con la magia, insieme alla
gemella Hikarihime. Sperava di poter trovare un nuovo potere e utilizzarlo per
migliorare la Terra e aiutare la popolazione. Era un esperimento importante e
interessante in cui erano state coinvolte le maggiori personalità del mondo
magico terrestre. Lei li aveva visti, gli Ingranaggi, e sapeva in quale parte
del laboratorio si trovassero: ‹‹Possiamo andare lì e assicurarci che Yelahiah
non le trovi!››
‹‹Tu
non puoi scendere sulla Terra, sarebbe troppo pericoloso per te, che non sei
nemmeno capace di combattere e proteggerti.››
Verity
mise il broncio, cercando di protestare, e Michele scoppiò a ridere: ‹‹Qualcuno
ti insegnerà a farlo, ma devo prima parlare con gli arcangeli. Decideremo noi
se inviare qualcuno, e chi.››
Verity
tornò normale, pensando che le rimanesse ancora un’opportunità di partecipare,
ma le sorse un dubbio su un’altra questione, irrilevante riguardo il recupero
degli ingranaggi: ‹‹Perché cambi umore così facilmente?››
Michele
impiegò qualche secondo per rispondere: ‹‹Benihime ha lasciato una traccia su
di me una volta smaltitone l’effetto. A volte capita che, con certe parole o
certi discorsi, questa influenzi i miei comportamenti. Spero sempre di
liberarmene, ma mi porterò questo peso nella tomba, probabilmente… Sempre che
ci arrivi, in una tomba.››
La
accompagnò alla porta, promettendole riluttante che avrebbe provato a farla
partecipare a un’eventuale spedizione.
Fuori
dalla stanza trovò Lelahel, appoggiata al muro, quasi addormentata, ad
aspettarla. Michele la chiamò e la svegliò scuotendola appena per un braccio.
Lei sbadigliò un poco e salutò entrambi mentre si stropicciava gli occhi con le
mani. Prese poi Verity in braccio e salutò l’arcangelo in un sussurro. Lui
rimase a osservarle per un po’ mentre si allontanavano e rientrò nella sua
stanza, pensando di dormire un poco. Avrebbe indetto la riunione solo dopo aver
recuperato qualche ora di sonno.
Uscita
dalla roccaforte Verity chiese all’amica di lasciarla a terra e così
camminarono fino alla casa di Hariel lentamente. Passarono di fronte al luogo
dove aveva incontrato Lucifero e la ragazza sbirciò fra gli alberi sperando di
intravederlo nell’oscurità, ma i suoi occhi trovarono solo abeti alti e scuri.
Hariel le aspettava sulla soglia e sorrise vedendole arrivare, entrando poi per
accedere una luce. Lelahel accompagnò Verity fino al letto, mentre Hariel le
guardava preoccupata.
‹‹Lelahel,
hai visto Lucifero?›› sussurrò Verity una volta distesa.
La
guardiana le rispose che non aveva la minima idea di dove si trovasse. Però, in
quel momento, era meglio che dormisse e riposasse. Non mancava poi così tanto
all’alba.
‹‹Appena
Michele avrà discusso con gli altri arcangeli te lo farò sapere, adesso pensa
solo a questo›› uscì dalla stanza, chiudendo piano la porta, e la lasciò sola.
Le
due guardiane parlarono tra loro ancora per un po’, ma la ragazza non riuscì a
sentire nulla tanto basse erano le loro voci, e alla fine si rigirò nel letto
un paio di volte, fermandosi sul fianco cosicché la ferita che aveva non dolesse.
Era guarita, ma ancora la faceva soffrire. Cercò di calmarsi con respiri
profondi e di addormentarsi, ma nulla le fu utile. La notte, anche se avrebbe
preferito dormire, finiva sempre per pensare a Lucifero e a cosa stesse facendo
in quel preciso momento; se, per qualche motivo, anche lui non stesse pensando
un poco a lei. Lucifero la confondeva non poco. Non poteva essersi già
affezionata a lui, non dopo così poco tempo di conoscenza. Erano parecchi mesi,
non sapeva nemmeno quanti, nell’arco dei quali i loro incontri erano stati i
due in cui avevano veramente parlato e altri in cui si erano scambiati occhiate
casuali quando lo scopriva a guardarla di nascosto. Chissà quante volte doveva
averla spiata in quel modo.
Non
aveva la risposta, ma era ugualmente preoccupata che non fosse tornato da lei e
che fosse completamente sparito dai Regni. E perché nessuno andava a cercarlo?
Quasi nessuno era in pensiero per lui e Raziel le aveva spiegato come non fosse
raro che trascorresse del tempo in solitudine, ma non era un buon motivo per
lasciarlo solo. Non avrebbe mai dovuto essere solo, lui.
Poi non ha ancora finito
di raccontarmi il suo passato e voglio sapere di più sulla giovane per cui si è
ribellato…
Un
altro pensiero geloso che non voleva analizzare. Non voleva pensare a cosa quel
dannato significasse per lei, non in quel momento. Era più comodo pensare che
quella non fosse gelosia, e che tra di loro non sentisse alcun legame, nonostante
lui si infiltrasse in tutti i suoi propositi e l’avesse abbracciata e stretta a
sé. Al momento preferiva davvero la sua falsa comodità alla prospettiva di aggiungere
altri problemi. Nascevano già senza il suo intervento.
Alla
fine, continuando a pensare tra sé, la ragazza si addormentò, ma il sonno non
durò a lungo. Né quella mattina, né quelle successive riuscì a dormire
abbastanza da poter dire di aver recuperato le energie spese durante il giorno.
Le ore passavano placide senza nessuna notizia dagli arcangeli e passarono così
tanti giorni che credette di essere stata messa da parte nell’intera questione,
quando era stata lei a fornire l’informazione più importante di tutte. I primi
tempi camminava per il Paradiso, chiacchierando con gli angeli che incontrava
per i sentieri. La maggior parte di loro indossava abiti antichi, lasciti di
chi li aveva preceduti come custodi o gli stessi che avevano indossato quando
ancora erano in vita. Fu felice di scoprire quanto il mito degli angeli biondi
con gli occhi azzurri fosse solo una fantasia terrestre: il Paradiso era un
turbinio di colori. Capigliature brune, nere, rossicce, ma anche grigie e
bianche, con ciocche celesti, verdi e viola. C’erano acconciature di tutti i
generi, dai banali capelli sciolti a meravigliosi giochi con le trecce che si
era divertita a commentare tra sé e sé, ammirandone la semplicità o la
ricercatezza. Alla lunga si stancò però anche di quel gioco, annoiandosi nel
parlare sempre dello stesso argomento.
Finì
per trasferirsi da Mary, che l’accolse raggiante. Verity si chiedeva come mai
vivesse lì da sola. Qualche volta degli angeli andavano a trovarla, ma
solitamente trascorreva le sue giornate a leggere all’ombra degli alberi o a
passeggiare piacevolmente di radura in radura o a cucinare dolci leggeri e
gustosi. Ogni tanto metteva in ordine la casa o fingeva di curare le piante
selvagge del giardino. Aveva un’espressione distesa e dolce mentre lavorava con
le sue adorate piante, in contatto con la natura.
Stando con lei aveva però imparato novità interessanti, come
il fatto che anche gli angeli invecchiassero, proprio come gli umani. L’unica
differenza è che lo facevano molto più lentamente e ad un certo momento della
loro esistenza si fermavano, diventando immortali. La maggior parte smetteva di
crescere a un’età compresa tra i trenta e quarant’anni, mentre pochissimi
oltrepassavano i sessant’anni d’età. Mary ne aveva novecento, ed era ferma alla
veneranda età di settant’anni da poco più di trecento, circa da quando aveva smesso
di essere una guardiana.
‹‹Michele
mi aveva promesso che qualcuno mi avrebbe insegnato a combattere…›› disse
Verity un giorno, stanca di stare seduta a leggere.
‹‹Possiamo
farlo. Tempo fa anche io sapevo combattere, sai? Posso insegnarti molto più di
quello che oseresti immaginare, ero pur sempre la precedente guardiana››
rispose Mary.
Ricordava
abbastanza bene le lezioni che la giovane aveva avuto con le altre guardiane, e
come queste non fossero state brillanti, ma era certa che, senza la loro pressione,
sarebbe migliorata facilmente.
Anziché
allenarsi vicino alla fonte, la portò in un’altra radura, più piccola e
nascosta dagli alberi, vicino a casa sua. Inoltrandosi tra olmi e querce
incontrarono un piccolo prato circolare, superati un paio di tane di volpi e
alcune cespugli di more esso si apriva in tutta la sua bellezza. Era un soffice
tappeto erboso, coperto di margherite e violette, a sinistra un nuovo sentiero
scompariva nel bosco, conducendo chissà dove. L’aria profumava di erba fresca e
l’odore dei fiori pungeva appena le narici, lasciando la sensazione di uno
starnuto in arrivo. Verity si passò la mano sul naso per scacciare il prurito e
fece qualche passo all’interno. Mary la portò a destra, verso un tozzo tavolo
di pietra e sedette a terra.
‹‹So
che Scar ti ha insegnato a creare degli scudi ma, secondo la mia esperienza,
uno scudo serve a ben poco senza una buona base d’attacco. Prima devi sapere
come distruggere qualcuno, dopo come difenderti nel caso sia sopravvissuto.
Questo non significa che tu debba concentrarti solo sull’attacco, ma nel tuo
caso è più importante.››
Verity
trovò l’idea del distruggere un po’ troppo violenta per i suoi gusti ma
motivante al tempo stesso, e pensò che avrebbe avuto ben pochi problemi ad
imparare.
Per
prima cosa, le disse Mary, doveva ascoltarsi.
Non
c’era nulla di più difficile che ascoltare se stessi e la propria magia. Lì non
contava tanto la concentrazione, ma la volontà di riuscire a conoscere qualcosa
di sconosciuto e, potenzialmente, pericoloso.
‹‹La
Magia è viva, Verity. È un’altra te stessa.››
Verity
teneva gli occhi chiusi, pensando che in qualche modo l’avrebbe aiutata a
percepire la sua Magia. La sentiva fluire dentro di sé, scorrere come sempre
nelle ali e nelle vene, ma anche scendere lungo la schiena e attraversare le
gambe e le braccia, espandersi e concentrarsi nel suo cuore. Ma come avrebbe
mai potuto ascoltarla? Non parlava, non c’erano sussurri o sibili, solo
sensazioni.
Mary,
dall’esterno, la vedeva in difficoltà, come anche lei era stata la prima volta.
La ragazza faceva smorfie esilaranti, sbuffava infastidita e cambiava
posizione. Era evidente come non riuscisse a comunicare.
‹‹Immaginala
come un’altra te stessa, estrai il flusso dal tuo corpo e plasmalo secondo le
tue sembianze.››
Verity
annuì appena, ascoltando le parole della donna con un solo orecchio per non
deconcentrarsi, e creò la sua gemella nella mente.
All’improvviso
rilassò i muscoli, rendendosi conto solo in quell’istante di quanto fosse tesa,
e aprendo gli occhi scoprì che la figura che aveva creato la osservava con
insistenza. Per lo spavento perse il contatto.
Mary
la stava sollevando per un braccio, dicendo che aveva fatto abbastanza.
‹‹Ma
l’ho vista! Posso andare avanti, ancora un pochino, ti prego!››
L’anziana
disse che avrebbero riprovato il giorno dopo, assoggettare la Magia sarebbe
stato complicato ed era meglio che riprovasse il giorno dopo.
Si
rese conto del perché nessuna delle guardiane l’avesse approcciata alla magia
con quella tecnica: i progressi erano minuscoli e impercettibili. Prima la sua
copia l’aveva osservata da lontano, poi si era avvicinata un passo alla volta,
senza mai smettere di studiarla. E Verity l’aveva vista sempre più uguale a
lei, e allora aveva provato a salutarla con un filo di voce, ma questa era
scomparsa. Non era riuscita a richiamarla per giorni e Mary finì per chiedersi
se non fosse la stessa Magia a non volersi far vedere, ma relegò il pensiero in
un angolo della mente, ignorandolo.
Un
giorno in cui era più rilassata del solito, la copia le rispose, dicendole di
smetterla di importunarla dandole tutte le volte quella forma.
‹‹Io…
Scusami. Mi è stato detto che per poter controllare la magia devo ascoltarla
e-…›
‹‹Cosa
ti fa pensare che io voglia essere controllata? Hai vissuto per anni senza
magia, non puoi accontentarti di svolazzare in giro?››
‹‹Pensavo
che avremmo potuto trovare una specie di accordo o…››
‹‹O
cosa? Non saresti capace di controllarmi nemmeno se ti dessi il permesso. Hai
paura di te stessa, di quello che provi. Non sei nemmeno capace di accettare i
tuoi sentimenti e preferisci dire bugie a tutti quanti. E lo so perché sono
dentro di te, sento tutto quello che senti tu. Sono qui da quando sei nata, ho
vissuto tutto quello che hai vissuto tu.››
Verity
si risentì a quelle parole, smettendo di provare a parlare.
‹‹Non
isolarti come facevi da viva. Non sei una bambina piagnucolona, anche se lo
sembri. A tutti.››
Era
vero, quando si sentiva minacciata, si isolava dal mondo per non sentirsi
debole e indifesa. Fingere di essere da sola le dava il tempo di pensare e
analizzare chi aveva davanti per rispondergli, anche se la maggior parte delle
volte rimaneva in silenzio e resisteva fino a quando non poteva scoppiare a
piangere liberamente per allentare la tensione. Però la sua copia aveva detto
che non era una bambina piagnucolona…
‹‹Non
piangi più, sciocca. Non hai pianto nemmeno quando Yelahiah ti ha torturata.››
Non
le era sembrato così importante quel dettaglio, ma aveva ragione. Era stato
ovvio non farlo: non voleva concedere un’altra soddisfazione a quel dannato. E
la stessa cosa era accaduta quando aveva difeso Lelahel. Lo aveva fatto per…
Per cosa?
‹‹Orgoglio,
almeno credo sia stato quello. E felicità. E gratitudine. Sei così grata della
considerazione in cui ti tengono che non ti sogni neanche lontanamente di
creare problemi. Anche se alla fine lo fai lo stesso. Il punto, però, è che sei
un bel burattino nelle loro mani. Hai sempre paura. Per non parlare di
Lucifero. Non fai mai nulla quando sei con lui. Sembri un baccalà nelle sue
braccia. Hai una paura enorme che ti giudichino.››
Aveva
ragione, almeno in parte. Lo riconosceva, lo sapeva. Quando Raziel aveva
affermato che avesse fiducia in lui, lei aveva negato, cercando una scusa che
alla fine non aveva trovato. Non si vergognava di fidarsi di lui, e nemmeno
dell’aver provato gelosia quando aveva nominato la ragazza bellissima che
amava, ma, al tempo stesso, aveva avuto paura che qualcuno giudicasse sbagliate
le sue azioni e non ne aveva parlato con nessuno. Credeva che non l’avrebbero
appoggiata, o, peggio, che l’avrebbero isolata: la bastò pensare a come Hariel
le aveva raccontato di Lucifero. Il tono di voce era stato spaventato, quasi
terrorizzato.
‹‹Avresti
paura anche tu, al posto mio›› disse alla sua copia.
‹‹Forse.
Ma pensa, ti sei lasciata manipolare da tua madre e dalle sue idee: non le
piacevi senza magia, ma ti voleva bene, e la visione con Lucifero ne è stata la
prova. Adesso ti dicono di lasciarlo solo e tu, da bravo cagnolino, ubbidisci,
mentre potresti raggiungerlo solo desiderandolo grazie alla pietra che porti al
collo. Non capisco cosa tu voglia fare. La tua mente passa da una decisione
all’altra, ritorni indietro sulle tue scelte e obbedisci agli ordini. Mi
confondi, il tuo modo di scegliere mi confonde e ne ho avuto abbastanza di
angeli incerti e insicuri.››
La
copia aveva parlato con agitazione, calcando sull’idea di confusione e
incertezza. Verity sorrise, pensando che la sua Magia accusatrice e scorbutica
non fosse poi così diversa da lei, era solo più spavalda.
‹‹Voglio
vederli felici. Voglio che non soffrano perché la guerra, per quanto poco io ne
sappia, ha già portato abbastanza dolore. Ho visto la crudeltà di Yelahiah, so
cos’ha fatto nel tempio, anche tu. Non voglio che si ripeta, non voglio vederli
morire.››
Verity
parlò con sicurezza. Stava dicendo la verità, era esattamente ciò che intendeva
fare, anche se avrebbe sicuramente cambiato tattiche e piani almeno altre mille
volte. La sua copia sembrò sollevata nel sentire quelle parole e sorrise con un
ghigno.
‹‹Saresti
disposta a morire per loro, senza nemmeno conoscerli veramente?››
Non
aveva pensato a una simile eventualità, a una simile conclusione della sua
avventura da guardiana.
‹‹Forse
sì. Non lo so, non credo di poterlo sapere adesso. Ora ti direi assolutamente
sì, ma non so se sceglierei lo stesso in una situazione critica. Preferirei non
dover scegliere.››
La
Magia sorrise nuovamente, stavolta in una dolce tensione delle labbra.
‹‹Pensavo
avresti detto no. Pensavo che, pur di non far soffrire chi ami per la tua
morte, avresti cercato un accordo, come volevi fare con me. È interessante scoprire che non sei
ovvia come credevo, potrei anche darti un po’ del mio potere dopotutto. Ma ti
consiglio di non dimenticare qual è il prezzo della morte, nemmeno quando
sembra l’unica soluzione possibile…››
Gli
occhi di Verity brillarono di speranza.
‹‹In
ogni caso, ti avviso, non sono un potere facile da usare, nemmeno se mi
concedessi completamente a te. Avresti enormi difficoltà. Derivo da un’essenza
un po’ complicata, un po’ antipatica a volte, nonostante Metatron mi consideri
una delle più affascinati.››
‹‹Derivi
dalla giustizia, cosa c’è di complicato?››
‹‹Chi
pensi decida cosa sia giusto e cosa sbagliato? Il nero è bianco, e il bianco è nero, tutte le sfumature dell’esistenza sono racchiuse
tra di loro e nulla può essere definito da una sola tonalità. Non siamo solo
cattivi, non siamo solo buoni. Siamo amori che sono anche odio, e felicità che
è anche tristezza. Tutto ciò che di buono conosci è anche cattivo. Chi sei tu
per decidere dove inserire qualcuno o qualcosa? Non prendermi mai sottogamba,
io sono la giustizia, l’equilibrio tra essere e non essere. Tutto quello che io
rappresento e sono è complicato, non scordarlo mai.››
Verity
non le rispose subito, riconoscendo la veridicità delle sue parole e pensando a
come avesse avuto la stessa idea mentre era sulla Terra. Non aveva mai
collegato quei pensieri a principi di giustizia ed equilibrio, ma in effetti
erano concetti vicinissimi…
‹‹Prometto
di non sottovalutarti mai, e di impegnarmi per controllare il tuo potere senza
opprimerti!››
La
Magia sgranò gli occhi: come poteva la ragazza sapere dell’oppressione?
Verity
disse che Hariel e Lelahel ne avevano parlato con lei, specificando come
durante la guerra alcuni angeli avessero costretto la propria magia ad andare
contro la propria natura: ‹‹Io ho bisogno di te per proteggermi, altrimenti
sarà sempre qualcun altro a morire per me.››
‹‹E
sia›› disse la copia. ‹‹Mi concedo a te. Sei impaurita e debole, indecisa, ma
puoi diventare una guardiana vera, ho fede in questo. Sei disposta a
sacrificarti, e questo per me è segno di grande forza.››
Mentre
parlava, piano piano aveva iniziato a scomparire. Era diventata pallida come un
fantasma e poi trasparente, inconsistente, dissolvendosi nell’aria in una
polvere argentea. Si era ricomposta poi in un diadema nelle mani della ragazza.
Al centro della fronte si sarebbe trovata una pietra nera e brillante, al di
sotto della quale si snodava un incrocio di fili terminante in un piccolo
diamante. Ai lati la struttura si intrecciava nuovamente, creando il cerchio
per la testa da cui pendevano altri fili sottilissimi che si riunivano sulla
nuca con un’altra pietra nera.
La
voce intanto parlava.
‹‹Questa
è la mia forma. Sarò sempre sulla tua fronte, ma interverrò solo se avrai
bisogno di me. Non farmi pentire della mia scelta.››
Si
dissolse per riapparire sulla fronte di Verity e l’illusione finì, lasciando lo
sguardo della giovane libero di vagare nella radura.
Ci sono riuscita… Aveva davvero parlato con
la sua magia, l’aveva ascoltata, aveva la sua fiducia.
“Adesso non esagerare. Ho
detto che ti aiuterò, non che mi fido di te.”
Verity
trasalì, non avrebbe davvero dovuto ascoltarla ogni giorno? Sarebbe diventata
pazza.
“Non parlerò, ti voglio
sana di mente. Era solo per chiarire la questione della fiducia. Penso che non
mi farò viva per molto tempo.”
Verity
tirò un sospiro di sollievo e si rivolse a Mary, che già da tempo la osservava
incuriosita. Le disse che la Magia si era concessa a lei.
‹‹E
che forma ha? Cambia da angelo ad angelo.››
Era
bellissima, come mai si sarebbe aspettata. Era un gioiello degno di una regina
e si perse nel descriverlo in ogni dettaglio, dove e come brillasse e come,
nonostante sembrasse fragile, fosse in realtà resistente e forte. Le raccontò
della sensazione di tenerlo in mano e quella spettacolare dell’indossarlo. Ed
era strano, perché la faceva sentire imbattibile, come se fosse pronta a
compiere le più grandi imprese. Avrebbe potuto distruggere Yelahiah solo
volendolo, tanto si sentiva audace e coraggiosa.
Mary
le sorrise come una madre e la prese sotto braccio, complimentandosi con lei e
consigliandole di tornare a casa e riposarsi per potersi allenare ancora il
giorno dopo.
La
mattina dopo tutto fu strano, e anche le giornate successive lo furono. Mary la
obbligava a rimanere seduta sull’erba, dicendole di concentrarsi ed emanare la
magia lentamente, irradiandola da tutto il corpo per creare un sfera intorno a
sé. Scoprì di non avere una magia elementale: non fuoco, né acqua, terra o
aria; non usava le loro particolarità come ghiaccio o calore. Non era nemmeno
una magia di luce o buio. Mary la faceva stare ferma in quella posizione per
cercare di capire cosa fosse, ma nemmeno lei riusciva davvero a comprendere
quella magia che non cambiava in modo consistente nulla intorno a sé.
Per
settimane continuarono quel buffo esperimento, ma alla fine arrivarono a una
soluzione, anche se non fu tutto merito loro.
Verity,
concentrata com’era nell’emanazione, non si accorse della presenza di quattro
angioletti nascosti tra gli alberi, antichi e giovani al contempo, anch’essi
figli di Sandalphon. Erano quattro fratelli messaggeri che da tempo cercavano
di parlare con le due donne, ma che erano affascinati da quella strana e rara
magia, così tanto da scordarsi ogni volta di riferire il proprio messaggio.
Mary li aveva intravisti mentre si sporgevano sempre più fuori dalle chiome
degli alberi e un giorno, mentre Verity riposava, li aveva fatti scendere,
iniziando a discutere con loro. Tutti e quattro le avevano dato la stessa risposta
anche se con modi differenti. Fuyu, con le ali candide e il naso coperto di neve,
aveva solamente annuito al fratello della primavera; questo, chiamato Haru,
aveva parlato a bassa voce, spostandosi i riccioli biondi e sbattendo appena le
ali, profumando di fiori appena sbocciati l’ambiente. Natsu aveva quasi urlato,
rischiando di svegliare la guardiana appisolata, ed era rimasto ben lontano da
Fuyu per paura di scaldarlo. L’unico che aveva parlato tranquillamente era
stato Aki, che aveva nominato la magia torturando una delle foglie rosse che
ornavano la sua corona.
‹‹Purificazione
e corruzione… È un potere molto raro. Ed è strano che si sviluppi associato
all’essenza della giustizia. Capirei la purificazione, ma la giustizia non
dovrebbe fare del male.››
‹‹Gli
angeli dell’Inferno hanno piegato la propria magia per uccidere i propri
fratelli. Anche la magia ha un suo lato oscuro, non pensi, Mary?››
Pensò
che ci mancasse solo quello.
I
quattro angioletti corsero via spaventati dallo sguardo severo che il possessore
della voce aveva rivolto loro, mentre Mary si voltava lentamente, sforzandosi
di assumere un’espressione cordiale.
‹‹Buongiorno,
Raffaele, come mai sei venuto a trovarci?››
Osservò
Verity. Gli sembrò ingenua, e forse non era nemmeno il primo a pensarlo, e rise
al pensiero di una cosina così
piccola che combatteva.
‹‹Michele
ha inviato a voi tutti e quattro i messaggeri, mi domandavo il motivo. Non mi
ha raccontato nulla, non lo fa da molto ormai…››
Mary
disse che probabilmente doveva solo parlare con loro e che li avesse inviati
tutti perché non erano tornati indietro con una risposta.
‹‹Avrebbe
potuto parlarmene ugualmente.››
No, non avrebbe potuto, pensò Mary, lo avresti bloccato o non avresti capito.
La
risposta che diede fu però più cortese: ‹‹Probabilmente non era così
importante, oppure non ha pensato di chiedere il tuo parere.››
Forse, pensò Raffaele, anche se
non era poi così convinto.
Michele
era cambiato dalla fine della guerra, da quando si era ripreso da Benihime.
Lentamente si era allontanato da lui e il sentimento fraterno che li aveva
uniti sulla Terra si era sfilacciato, assottigliandosi sempre più.
Lui
era un po’ come Scar. Era stato un fratello generoso, ma le attenzioni che
aveva dedicato a Michele erano state opprimenti alcune volte. Pensare che non
condividessero più le stesse idee lo aveva spaventato, portandolo a credere che
sarebbero potuti persino essere nemici o che potesse aver avuto dei
ripensamenti sulle passate decisioni. Parlare però di Michele con l’anziana
Mary sarebbe stato uno spreco di tempo e lui non si voleva confidare con quella
donna, non con tutti gli aiuti che quella dispensava a Lucifero e al suo amore
impossibile.
Lui
si sarebbe concentrato solo sulla piccola guardiana dal viso di porcellana.
‹‹Purificazione
e corruzione quindi… Su quale vi concentrerete? È opportuno che vi concentriate
su un aspetto, no?››
Quella
che aveva posto come una domanda era in realtà una decisione ovvia per lui, non
c’erano nemmeno discussioni da fare.
‹‹Perché
scegliere? Sono due facce della stessa medaglia e, come hai detto poco fa,
anche la magia ha un suo lato oscuro, no? Favorirne solo una potrebbe
sbilanciarla. Materia e anima devono rimanere in equilibrio.››
Raffaele
sgranò gli occhi, percependo una sottile accusa, come se in lui ci fosse
qualcosa di sbagliato e cercasse di farglielo notare delicatamente.
‹‹Non
sono in equilibrio già normalmente, soprattutto in noi arcangeli. Non so quanto
lei sia diversa da noi, era pur sempre un’umana.››
‹‹Ha
molta più anima di quanto tu creda, è la grande forza degli umani. I sentimenti
li smuovono dal torpore e dall’immobilità. Li fanno diventare coraggiosi,
intrepidi e incuranti del pericolo. Dio non poteva fare loro un dono più magico
e tu, come Arcangelo della Volontà, dovresti aver provato la forza dei
sentimenti almeno una volta, anche se non la condividi.››
Raffaele
strinse i pugni per l’irritazione, controllando l’istinto di far tacere la
donna con la violenza, come assolutamente non avrebbe dovuto fare. Non che lui
non condividesse i sentimenti umani, il problema era che quelli gli avevano
portato solo sofferenza e disperazione. Avrebbe vissuto senza volentieri.
Amava
suo fratello Michele in un modo che non sapeva spiegare, lo amava di un
attaccamento che non riusciva ad accettare nemmeno nel profondo del suo cuore e
che non sapeva definire. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di renderlo felice,
ma, allo stesso tempo, nulla gli aveva portato più angoscia di quelle idee.
All’inizio, in Paradiso, era stato combattuto su come comportarsi e se mostrare
anche lì la stessa premura che aveva usato sulla Terra, ma aveva visto come
Scar agiva nei confronti di Lucifero e si era sentito disgustato all’idea di
abbassarsi al livello di un patetico umano quando era ben superiore. Prese un
respiro profondo e chiese a Mary se potesse aiutarlo nell’allenamento.
‹‹Siamo
in grado di fare da sole e, in ogni caso, non scomoderemmo mai un arcangelo
della tua levatura.››
Si
inchinò e lui capì che doveva andarsene.
‹‹Un
arcangelo della sua importanza?›› domandò Verity fingendo di svegliarsi.
‹‹Raziel mi ha detto che se lo convinco a fidarsi di me, avrò la fiducia di
tutti gli altri. È davvero così influente?››
‹‹Ora
sì; un tempo, prima della guerra, meno. Sai, c’è una specie di gerarchia tra
gli arcangeli, immaginala come una scala da uno a dieci in cui ogni numero
indica il Coro cui appartengono. Raffaele appartiene al Sesto Coro, quello
della Virtù. Da quando Metatron, Raziel ed Hesediel sono stati banditi, ha
preso il controllo della situazione. È l’arcangelo dal carattere più deciso e,
all’apparenza, quello che è uscito con meno danni di tutti dalla guerra.››
‹‹Mary,
raccontamela. Per ogni parola o evento che accade, fate sempre riferimento a
quella maledetta guerra, e io non ne so nulla!››
Mary
le disse che non poteva. Non aveva partecipato, non era nemmeno nata a quel
tempo: ‹‹Sono certa che Lucifero voglia essere il primo e l’unico a
parlartene.››
‹‹E
allora dove diavolo è? Sono passate settimane, se non almeno un mese, e non è
ancora tornato! Io… Io…››
Le
lacrime le appannarono la vista e Mary l’abbracciò di slancio, stringendola e
aspettando che le sfogasse tutte. Verity in realtà non pianse. Singhiozzò fino
a calmarsi e cercò di terminare quella frase. Aveva fisicamente bisogno di
finirla. Se non lo avesse fatto, probabilmente sarebbe implosa. Doveva
ammettere qualcosa, almeno una piccola verità.
‹‹Io
voglio vederlo. Non voglio andare da lui, Raziel mi ha detto di lasciarlo in pace,
ma ho bisogno di sentirlo parlare con me…››
E ho bisogno del calore
confortante del suo abbraccio.
Lo avrebbe sicuramente rivisto
presto, le promise Mary, doveva solo aspettare e pazientare ancora un po’ di
tempo.
Angolo dell’autrice
Buonasera a tutti, come state?
Come al solito sono un poco in ritardo, ma spero mi perdonerete visto che siamo
ormai quasi a metà storia. Verity ha finalmente conosciuto la sua Magia, con
tutte le riflessioni che dovranno derivarne ed è entrato in scena ance l’arcangelo
Raffaele. Spero che entrambi i personaggi vi piacciano!
Grazie a tutti per aver letto il
capitolo J
Lasciatemi un parere per sapere
se vi è piaciuto o se posso migliorare.
Raffaele
si era allontanato velocemente, sforzando la resistenza delle sue ali,
dirigendosi
prima verso il palazzo e poi virando all’improvviso verso la
porta del
Paradiso, preferendo continuare la strada a piedi. Rimaneva sempre un
luogo
tranquillo e poco frequentato. Oltrepassò l’arco
bianco con passo lento ma
deciso, senza prestare attenzione alle finissime decorazioni
né alla scritta
incisa. Le risposte di Mary lo avevano irritato, accendendo il suo
orgoglio già
offeso dalla poca considerazione che gli aveva riservato.
Continuò a stringere
i pugni fino a che le nocche non impallidirono e le mani formicolarono
per la
mancanza di sangue. Quella donna lo aveva quasi ignorato, trattandolo
come un
comune angelo e non l’arcangelo che aveva preso le redini del
Paradiso per evitare
che andasse in mille pezzi. E addirittura lo aveva mandato via.
Camminò
tra i cespugli che aumentavano man mano che si inoltrava nel bosco,
nascondendosi
dietro la vegetazione. Non aveva voglia di essere fermato da un qualche
angelo
e perdere tempo. Voleva muoversi e tornare al più presto al
palazzo, ma prima
doveva fermarsi da un’altra parte.
Il
canto dei Sognatori faceva addormentare chiunque tranne lui: aveva
imparato a
resistervi per il tempo necessario per una conversazione. Si sedette al
fianco di
un Sognatore, uno con cui aveva già parlato precedentemente,
ordinandogli di
smettere di cantare e rispondere alle sue domande.
‹‹La
custode di Eteria è stata qui da sola? O con
Lucifero?››
Il
Sognatore, anzi sarebbe meglio dire la Sognatrice, disse che la ragazza
era
stata lì tempo fa, insieme alle altre guardiane, e non era
più ritornata;
Lucifero era stato bandito, non poteva entrare in Paradiso.
‹‹Non
è vero. Sono certo che Lucifero sia stato qui, sento la
traccia del suo
passaggio.››
La
Sognatrice rispose nuovamente che era impossibile, nulla del genere
poteva
essere accaduto.
‹‹Posso
accettare che tu menta alle guardiane magari, ma non a me. Ho bisogno
di sapere
la verità.››
Gli
disse che lei non era in grado di mentirgli e che nemmeno desiderava
farlo. Il
suo compito era mantenere la barriera, non coprire le scappatelle
amorose di un
angelo bandito. Riprese a cantare e ignorò le successive
domande di Raffaele.
L’arcangelo,
ancora più irritato, si alzò e si diresse, senza
più intenzione di fare deviazioni,
verso il palazzo.
Quando
si fu allontanato abbastanza e non poteva più sentirli, un
Sognatore smise di
cantare e si rivolse alla donna: ‹‹Tu non menti
mai, vero?››
Non
potevano vedersi negli occhi a causa del velo e delle visioni, ma
entrambi
sapevano che stavano sorridendo.
‹‹Qualche
volta, per un amico, sono disposta ad andare contro la mia natura
sincera.››
‹‹Sarà››
disse l’angelo. ‹‹Ma non mi pare una
buona idea. Pensa se Raffaele lo
scoprisse.››
Lei
rise, dicendo che non avrebbe potuto punirla in un modo peggiore di
quanto non
avesse già fatto, e ritornò a cantare. Il
Sognatore sbuffò, esasperato
dall’ottimismo della donna e dalla punizione che da molti
secoli non sopportava
più, e anche lui iniziò a cantare, ignorando le
visioni sotto le palpebre.
Raffaele
entrò nel palazzo, dirigendosi velocemente verso la stanza
al piano inferiore
ma, non trovando nessuno, salì nella Sala del Consiglio. Non
era nel suo cerchio,
né in nessun altro. Gli arcangeli presenti, Binael e Kamael,
lo salutarono,
chiedendo poi dove fosse stato, ma Raffaele uscì di corsa,
salendo le scale
fino all’appartamento di Raziel.
Lo
trovò affacciato alla finestra che aveva coperto con una
lastra di ghiaccio che
filtrava la luce accecante delle stelle. A Raffaele si strinse il cuore
nel
vederlo guardare fuori e per un momento si dimenticò del
proposito di fargli
confessare cosa stesse tramando. Durò poco, meno di un
secondo, e andò a
sedersi sul trono.
‹‹Raffaele,
levati da quel trono. Sai che non mi piace che venga
usato.››
‹‹È
vero, fratello. Ma volevo vedere se riesco ad attirare ancora la tua
attenzione. E ora che ne sono certo, mi alzo subito. Sono qui
perché ho visto i
quattro messaggeri andare dall’anziana Mary, mi chiedevo
perché li avessi
inviati.››
‹‹Abbiamo
delle informazioni su Yelahiah e sugli Ingranaggi. Pensavo fosse
importante
trasmetterle alla custode e alla precedente
guardiana.››
Ma
non me ne hai parlato,
pensò Raffaele e se ne
rattristò, deluso dall’amato fratello. Lo fissava,
aspettando che parlasse
ancora e condividesse anche con lui quelle preziose informazioni.
‹‹Yelahiah
vuole controllare Benihime, ma possiamo evitarlo se lo precediamo.
Sappiamo già
dove si trovano i due Ingranaggi e possiamo prenderli prima di lui. Non
ci
saranno battaglie o guerre se rimangono nelle nostre
mani.››
Aveva
ragione, pienamente ragione: ‹‹Ma
perché chiamare la custode?››
Era
giovane, debole e inadatta al combattimento, per non aggiungere una
certa
inutilità e paura di agire, disse Raffaele.
‹‹Non
è debole, fratello. È sicuramente giovane, ma
tutt’altro che debole o paurosa.
Anzi, ha avuto il coraggio di sgridarmi e dirmi cosa fosse meglio fare.
È stata
lei a svelarmi dove si trovino gli Ingranaggi.››
Raffaele
perse ogni eccitazione e felicità, analizzando Michele con
gli occhi,
incredulo. Non poteva essere vero, aveva parlato con la custode? E lei
lo aveva
sgridato?
‹‹Michele,
ti sei fatto rimproverare da una ragazzina? Dov’è
finito il tuo orgoglio di arcangelo?
Siamo fratelli, non di sangue, ma comunque fratelli: come hai potuto
non dirmi
una cosa del genere! Michele! Non ridere, non ridere di me, hai
disubbidito a
un mio ordine.››
Michele
stava ridendo della reazione assurda di Raffaele, provando a trattenere
quel
suono melodioso tra le labbra ora serrate. Non avrebbe offeso il
fratello più
di quanto non avesse già fatto. Impiegò alcuni
minuti per calmarsi
completamente, mentre Raffaele lo guardava in silenzio, severo.
‹‹Il
mio orgoglio ha creato molti danni durante e dopo la guerra e ricorda
che una
custode, per quanto inesperta, rimane sempre più forte di
noi. Ha più capacità,
più sensibilità e comprensione di noi: riesce a
capire i sentimenti. È una
giovane particolare e non ti ho detto della sua visita
perché non la
consideravo importante o, quantomeno, gli Ingranaggi e la loro
ubicazione lo
erano maggiormente e ancora più di questo volevo muovermi
con discrezione. Le
voci passano dal Paradiso all’Inferno come se non ci fosse
una barriera a
dividerci, quindi calmati. Potremo lavorare insieme d’ora in
poi, lei sarà con
noi e vinceremo questa guerra.››
‹‹Non
ci sarà nessuna guerra, Michele.››
‹‹Così
crederanno tutti gli angeli e possiamo solo sperare che sia
così. Sai bene
quanto me che Yelahiah non si arrenderà tanto facilmente, ha
accumulato
abbastanza desiderio di vendetta da poterci seppellire solo con quello.
Dobbiamo prendere le necessarie precauzioni.››
Raffaele
espirò profondamente. Era ancora arrabbiato, irritato e
infastidito per essere
stato tenuto all’oscuro delle sue azioni ma,
contemporaneamente, sapeva di non
essere l’unico a non conoscere la situazione nei dettagli e
questo lo calmò,
rendendolo un poco più razionale. Ragionò sulle
decisioni del fratello e le
trovò corrette.
‹‹Ti
aiuterò, voglio davvero credere che non ci sarà
un’altra guerra, faremo in modo
che non accada. Ti ho già visto impazzire una volta e non
permetterò che si
ripeta. Non farai nulla direttamente: rimarrai a dare gli ordini. Sei
sempre
stato più bravo di me.››
Michele
rimase amareggiato dalla conclusione. Chiunque si sarebbe arrabbiato
con
Raffaele, probabilmente cacciandolo via a male parole per quella che
sarebbe
sembrata una mancanza di fiducia, ma lui lo conosceva bene. Raffaele
aveva
davvero paura per lui e, forse, ne avrebbe sempre avuta. Sorrise un
po’ incerto
e si lasciò abbracciare dal fratello, che lo strinse
teneramente come quando
era piccolo e le nevicate ricoprivano la Gallia.
Si
separarono e discussero ancora sulla custode, cercarono di trovarle un
ruolo
d’azione nel recupero degli Ingranaggi, anche se alla fine
decisero che
avrebbero fatto un’assemblea per informare tutti gli angeli
che avrebbero
voluto partecipare.
Infine
Raffaele se ne andò e Michele si lasciò cadere
sul letto, pensando a come suo
fratello non capisse nulla di sentimenti. Non che lui fosse migliore
ovviamente, ma almeno percepiva la tenerezza e la dolcezza dei suoi
abbracci e
sapeva che non era tutto amore fraterno. Avrebbe dovuto dirgli di
lasciar
perdere, ma non aveva mai trovato il coraggio. Forse, un giorno,
avrebbe
affrontato quella discussione; per il momento si sarebbero concentrati
sul
Paradiso e su come proteggerlo.
In
pochi giorni si diffuse in tutto il Paradiso la voce di una riunione
nel
palazzo degli arcangeli. Era bastato dirlo agli angeli giusti e tutti
ne erano
venuti a conoscenza, anche se pochi avevano intenzione di andare. Tra
quelli,
Hariel fu la prima a varcare la soglia della sala e andò a
salutare Verity,
seduta nel cerchio di Michele. La ragazza si ripassava un lembo del
vestito tra
le mani e fissava insistentemente la porta, chiedendosi chi altro
sarebbe
entrato. Gli unici furono Lelahel e due angeli tremanti che rimasero
per quasi
tutta la discussione vicino alla guardiana del Paradiso,
l’unica che
conoscessero. Michele sospirò, mentre Haniel
guardò Gabriele dall’alto del suo
cerchio con un sorriso a metà tra te
l’avevo detto e peccato
che siano
così pochi e si alzò per dare il
benvenuto a tutti loro. Gabriele si
distese sulla sua gradinata e chiuse gli occhi. Raffaele
iniziò a parlare e
Verity si spostò, raggiungendo l’arcangelo e
sedendosi di fianco alla sua
testa. La voce di Raffaele riempiva lo spazio della sala, una voce
basse che
rimbombava contro le pareti e colpiva prepotentemente tutti loro. E li
spaventava.
Raffaele
non se ne curava. Incutere timore non era mai stato un problema. Sapere
che
bastava la sua sola voce per farsi obbedire, senza dover ricorrere ad
altri
espedienti, era una sollievo. Non aveva effetto su tutti, Gabriele
rimaneva la
sua eccezione, ma poco importava. Quest’ultimo non era mai
stato un arcangelo
disponibile a combattere anzi, era già tanto che qualche
volta si fosse mosso e
avesse fatto un giro sulla Terra per osservarne gli abitanti
anziché perdersi
in lunghe dormite e momenti meditativi proprio come in quel frangente.
Continuò
a spiegare ai due angeli la situazione, calcando sulla
pericolosità di Yelahiah
e sulla necessità che nessun angelo dell’Inferno
avesse il minimo sentore delle
loro azioni, soprattutto Lucifero e gli arcangeli là
rinchiusi. Quest’ultima
richiesta era rivolta più alle guardiane, ma vedere la mano
di Verity stringere
spasmodicamente la gonna al nome del dannato gli fece credere di non
averlo
nominato in vano. Lo preoccupò non poco, ma
lasciò scorrere la preoccupazione
via dal suo sguardo, dando ordini e istruzioni.
‹‹Smettila
di stringere la gonna. Lo ha notato e ti assicuro che non gli piace per
niente.››
Verity
sussultò nel sentire Gabriele, non credendo che avrebbe
parlato e troppo
concentrata sugli ordini di Raffaele che avrebbe dovuto eseguire anche
lei.
Pensava però anche a quando si erano parlati quella stessa
mattina, prima della
riunione.
Si
erano fissati negli occhi, in silenzio, per un po’. Lei
cercava di capire che
tipo di angelo fosse, che segreto nascondesse; lui l’aveva
analizzata e
studiata attentamente, concentrandosi sull’aura leggera che
emanava. Come lui
sfruttava la propria magia per guardarla dentro, lei faceva lo stesso,
ma senza
risultati. Poteva spiare dentro di lui quanto volesse, non avrebbe mai
trovato
nulla, solo un velo che ostacolava la sua vista e che le avrebbe
impedito di
superare la sua barriera.
Verity
ricordava bene quando Lucifero le aveva suggerito di svelare i segreti
degli
angeli e ogni tanto ci provava, anche se non aveva mai successo. Aveva
capito
qualcosa di Michele, ma era stato solo un leggero increspamento della
superficie. Non aveva davvero raggiunto qualcosa.
Dopo
alcuni minuti era stato Raffaele a rompere il silenzio, chiedendole
come
procedessero gli allenamenti e se avesse imparato ad usare la sua
magia. Doveva
essere pronta a combattere, ad uccidere se necessario.
‹‹Uccidere
non penso proprio!›› gli aveva risposto e
dopodiché era entrata nella Sala.
Tornando
al presente, pensò che Gabriele dovesse avere ragione.
Raffaele era sicuramente
l’arcangelo più intollerante di tutti ed era
meglio non contrariarlo, anche se
non le piaceva che descrivesse Lucifero come un alleato di Yelahiah.
Aveva
paura che l’arcangelo capisse che aveva incontrato Lucifero
più di una volta e
che aveva intenzione di farlo ancora. Sapeva di non poter reagire e
cercò di
contenere la voglia di protestare con decenza, ma non riuscì
a impedire alle
sue mani di torturare se stesse e la gonna del vestito. Non
c’era volontà che
riuscisse a controllarle.
Una
volta finito di parlare, Raffaele sorrise a Michele e uscì
dalla sala, seguito
poi dagli altri arcangeli. Rimase solo Gabriele, che ancora fingeva di
dormire.
I
due angeli si chiamavano Reiyel ed Elemiah. Il primo aveva una barba
ispida,
color caramello, dello stesso colore dei capelli, intrecciati con fili
d’argento. Indossava un paio di pantaloni bianchi, di lino, e
una tunica color
sabbia da cui spuntavano ali simili alla corteccia degli alberi per le
mille
sfumature di marrone e verde. Aveva l’aspetto di un anziano e
l’atteggiamento
di un giovane, timido e insicuro, rimanendo dietro Hariel. Elemiah
aveva i
capelli corti e neri, con appena un accenno di barba. Si guardava
intorno con
occhi blu come zaffiri che si spalancarono quando incontrarono quelli
smeraldo
di Verity.
Lei
strinse le mani a entrambi e questi si inchinarono, sfiorando il
pavimento con
le ginocchia e abbassando lo sguardo. La ragazza li fece alzare,
imbarazzata.
‹‹Tu
sei la custode, sei molto più potente di noi. Dobbiamo
omaggiare il tuo ruolo e
il tuo potere›› disse Reiyel.
‹‹Sono gli ordini di Raffaele, lo ha detto poco
fa.››
‹‹Temo
di non aver sentito tutto il discorso, ma non fatelo, ve ne prego. Mi
mette
solamente in imbarazzo e non serve a nulla.››
Lelahel
sorrise. Lei aveva ascoltato tutti gli ordini dell’arcangelo
con finto
interesse ed era felice che Verity avesse rifiutato quella
formalità.
‹‹Verity,
hai sentito qualcosa delle istruzioni per la missione? Tipo che non
puoi
partecipare perché è troppo
pericoloso…››
Verity
disse di non aver sentito nulla a proposito.
‹‹La
custode andrà, con o senza la benedizione di Raffaele. I
guardiani sono liberi,
non dipendono dalle nostre regole, anche se ci piace crederlo.
Basterà che
parta dopo di lui e non ci saranno problemi››
disse Gabriele spostandosi dagli
occhi colore cenere i capelli castani, alzandosi lentamente.
Fissò Lelahel e
Hariel con insistenza, come a dire di lasciarli soli. Poi prese per un
braccio
Verity, obbligandola a camminare con lui, e si allontanò dal
gruppetto.
‹‹Non
parlare mai, per nessun motivo, di Lucifero in presenza di Raffaele e
smettila
di reagire ogni volta che viene pronunciato il suo nome. Più
lo fai, più la sua
mente penserà al motivo e ti assicuro che ho già
dovuto ascoltare le sue teorie
abbastanza. E… Stai attenta a controllare l’eco.
Non so quanto Yelahiah possa
diventare pericoloso, ma l’eco sarà molto
più forte sulla Terra. Sentirai le
morti molto più precisamente e sarà doloroso.
Cerca di ignorarlo, sempre.››
‹‹Gabriele,
perché cerchi di aiutarmi? So che vuoi proteggere Haniel, ma
io cosa c’entro?››
Gabriele
si fermò all’improvviso, aprendo poi una porta con
pannelli d’oro.
‹‹Vedi,
io amo Haniel, e questo è vero, ma sono anche un arcangelo.
Sono l’Arcangelo
della Riproduzione e della Fecondità, tengo molto alla
Terra. Desidero che
l’umanità sopravviva, che nascano ancora donne e
uomini dal cuore buono che con
il loro amore nutrano il mio potere in Paradiso. La guerra di Lucifero
non
avrebbe mai influenzato la Terra e non me ne sono interessato, non
più di altre
faccende angeliche. Inoltre è meglio che io non combatta,
l’eco me lo rende quasi
insopportabile. Ma Yelahiah… Yelahiah ha ucciso delle
persone, persone che non
dovevano ancora morire ed è mio dovere aiutarti nei limiti
delle mie
possibilità. Molti in Paradiso credono che io sia un pessimo
combattente, ma il
problema è che l’eco mi ruba energia, causandomi
un dolore insopportabile
quando lo sfrutto, e che cerco di conservarne il più
possibile per Haniel. Se
sarò obbligato, combatterò anche io, ma se posso
evitarlo… Tu invece sei il mio
opposto. Tu hai un potere immenso, talmente grande che l’eco
lo scalfisce
appena, l’unico problema è che devi imparare a
controllarlo ed usarlo per
proteggerti. Inoltre sei la custode di Eteria, sei l’angelo
che deve vegliare
su entrambi i regni, hai un compito molto importante. Per questa, e per
molte
altre ragioni, stavolta devo intervenire e non fare
l’indifferente. E, in
ultimo, Lucifero ha il diritto di amare chi vuole. In passato non votai
nell’assemblea, ma questo non significa che non mi fossi
fatto un’opinione.››
Gabriele
sorrise, di un
sorriso confortante che piacque molto alla ragazza, di quelli che le
facevano
credere che il mondo fosse ancora un luogo accogliente. Si perdeva in
quei
sorrisi che erano come quelli che le riservava il nonno. Navigava
letteralmente, andando con lentezza alla deriva, affogando consenziente
nella
fiducia di un sorriso amico. Strinse la mano di Gabriele in un gesto
riconoscente e attraversò la porta che, secondo le sue
parole, l’avrebbe
portata a Eteria.
Angolo
dell'autrice :)
Buongiorno a tutti, come state?
Come anticipato ieri nella mia pagina facebook da oggi torno ad
aggiornare il più regolarmente possibile, pregando che
l'università mi dia il tempo di farlo...
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di
lasciarmi un parere :)
Dall’altro
lato Scar la stava aspettando e prima che Verity dicesse una qualsiasi cosa in
merito alla promessa, alzò le mani in segno di resa, dicendo che doveva solo
aiutarla.
La
ragazza per poco non scoppiò a ridere, abbassandogli le mani e lasciandosi
accompagnare fino alla radura centrale, vicino alla fonte. Scar si chiese cosa
rendesse la ragazza così allegra, mai aveva mostrato tanta felicità e, strano a
dirlo per lui, lo contagiò. Lentamente sbocciò un sorriso anche sul suo volto,
meno convinto di quello di Verity ma altrettanto sereno.
Ancora
una volta la presenza della ragazza gli distendeva i nervi, drogandoli con
quella dolce influenza che lo inebriava e abbassava le barriere di
intransigenza che teneva sempre sollevate. E nel mentre nasceva il desiderio di
raccontarle un po’ del suo passato, pensando che lei vi avrebbe letto
l’invisibile e che avrebbe consolato la sua anima come nessun’altro. Nonostante
tutto non le avrebbe parlato. Avrebbe aspettato il momento in cui sarebbe stata
lei a chiedergli, a voler conoscere i suoi segreti. Adesso doveva solo aiutarla
ad andare sulla Terra senza essere percepita.
‹‹Dimmi,
cosa devo fare?›› Verity era ferma, con la schiena rivolta alla fonte, e lo
fissava aspettando di ricevere gli ordini.
Lelahel
aveva concordato, insieme a Mary, che la ragazza avrebbe viaggiato attraverso
la scia di Scar, così da arrivare a destinazione senza intoppi.
La
scia angelica era sicuramente il metodo più veloce per viaggiare: era un lungo
corridoio in grado di allargarsi o allungarsi a seconda di dove l’angelo dovesse
dirigersi. Ne esistevano di fisse, scie legate a un luogo di partenza preciso,
oppure potevano essere create sul momento, adattandole alle esigenze. La scia
di Scar era una delle più precise.
Il
giovane chiamò Lidwig ad alta voce e questo si materializzò in pochi secondi,
salutando Verity con un carezza che le scompigliò i capelli. Si arrotolò su se
stesso, guidato dalla magia di Scar, e si trasformò poi in un portone nero e
tondo.
‹‹Tieni
gli occhi chiusi, per favore. Preferirei che per ora non vedessi i ricordi che
contiene.››
Verity
annuì e li chiuse, ma Scar li coprì lo stesso con una benda scura; la prese per
mano e la condusse all’interno.
Scar
camminava in silenzio, sospirando quando si imbatteva in uno dei ricordi felici
della sua infanzia, mentre Verity arricciava il naso ogni volta che lo sentiva,
chiedendosi cosa si stesse perdendo e perché non potesse vederlo. Non poteva
avere un passato così terribile.
Nella
sua mente intanto la Magia aveva preso a sussurrare, commentando acida il
comportamento di Scar e distraendo la ragazza dal prurito al naso che la benda
le causava.
“Ti sta nascondendo
qualcosa. Non si fida di te probabilmente, quindi perché tu dovresti?”
Verity
le ordinò, mentalmente, di stare zitta e non importunarla. Lelahel diceva che
Scar era uno degli angeli che aveva sofferto maggiormente in guerra. Non la
condivideva, ma capiva in parte la decisione di non mostrarle il suo passato.
“Certo, perché tu di
ricordi tristi non ne hai. Sei la custode, non dovrebbe nasconderti nulla, men
che meno memorie della guerra di cui abbiamo disperatamente bisogno.”
Non
aveva mai creduto che il suo titolo le desse il diritto di curiosare
indiscretamente nei ricordi degli altri angeli e nemmeno che sapere della
guerra fosse necessario in quel momento. Cosa le avrebbe portato? Non avrebbe
cambiato la sua opinione su Lucifero né sugli arcangeli.
“Perché ti sei fatta
un’opinione su di loro, sul serio? Credevo che stessi ancora cercando di capire
cosa tu stia facendo qui di preciso.”
Non avevamo deciso di avere
un rapporto civile, senza sarcasmo?
Aveva
una piccola opinione, nulla di importante, e che sarebbe sicuramente cambiata
col tempo, man mano che scopriva nuove sfaccettature degli angeli. Ma in quel
momento doveva arrivare sulla Terra e cercare di dare una mano.
“Va bene, pensala come
vuoi. In ogni caso io starei molto attenta con quei due Ingranaggi, avevi
sentito una certa energia provenire da loro. Qualcosa di decisamente
instabile.”
Come diamine?
“Devo ricordarti ancora
che vedo tutti i tuoi ricordi? Qualche volta mi perdo quelli recenti, non li
condividi con me, ma alla fine forzo la barriera e li guardo.”
Poteva
conoscere proprio tutti i suoi ricordi quindi…
“Non quelli di Lucifero:
li tieni troppo stretti a te. Oserei dire che ne sei quasi gelosa, ed è un
bene. Così nessuno potrà mai vederli, nemmeno forzando le tue barriere, e
smettila di sorridere perché so che lo stai facendo e non credo che apparirebbe
molto nomale agli occhi di Scar. Sii felice internamente. Raffaele non capirà
mai quanto tu ami quell’angelo.”
Io non lo amo!
“Certo, stavi solo per
scoppiare a piangere mentre chiedevi a Mary dove fosse… Ops, troppo sarcasmo?”
Ero solo tesa, nulla di
più, e sì, troppo sarcasmo.
“Certo, la stessa tensione
che hai provato quando hai provato a dire a Metatron e Raziel che non ti fidi
di lui…”
Erano solo indecisione e
imbarazzo.
“Certo, lo stesso
imbarazzo di quando sei scappata da lui la prima volta, lo stesso di quando ti
sei ingelosita per la donna bellissima per cui si è ribellato. Puoi prendere in
giro chiunque, davvero tutti, anche te stessa se decidi di farlo, ma non me. Io
sono te.”
Verity
si sentì colpita nel vivo questa volta e non pensò a nulla.
“Non mi rispondi? Hai
esaurito le scuse? Finalmente, temevo non sarebbe mai giunto questo momento.”
Verity
non aveva mai pensato che quell’affezione per Lucifero, non aveva senso
negarla, potesse essere amore. Non ci aveva ragionato sopra, non…
“Non serve a nulla. Non
puoi ragionare sui sentimenti, è inutile, oltre che doloroso. Cuore e ragione
non camminano a braccetto, altrimenti Lucifero non si sarebbe mai ribellato.
Non puoi analizzare ciò che è irrazionale con il razionale, è come far crescere
fiori con il veleno anziché con l’acqua. Al momento giusto capirai da sola,
senza aver dovuto ragionare, quali forze invisibili siano nascoste in te, e
saprai anche cosa sarai disposta a sacrificare per esse.”
Cos’è questa improvvisa
gentilezza?
“Qualche volta anche io
sono gentile. Ma sai, è molto più divertente sgridarti, non posso farne a
meno.”
Stava
per ringraziarla, ma non percepì più la sua presenza; sentì le dita di Scar
allentarle la benda e sfiorarle gli zigomi. Fu felice di poter rivedere la
Terra, anche se era inverno e la natura era addormentata. Il cielo era limpido
e brillava un sole pallido; i rami degli alberi si innalzavano nudi verso il
cielo in una tacita richiesta di calore; il suolo era coperto da un sottile
strato di neve ghiacciata e luccicava. Guardando attentamente riconobbe il
vialetto e il giardino di una casa vicina alla sua, pensò a quanto tempo fosse
passato.
Scar
la riscosse dai suoi pensieri saltando giù dalla terrazza e Verity gli chiese
se non fosse il caso di nascondere le ali.
‹‹Non
ne avremo bisogno. Fino a quando non libererai la magia rimarranno nascoste e sembreremo
dei comuni umani, anche se in realtà staremo volando. E ora, muoviamoci.››
Verity
annuì e fece segno a Scar di seguirla, invece di dirigersi verso la strada.
‹‹Se
passiamo per la strada ci metteremo una vita, è meglio tagliare tra i giardini
delle case in periferia. Arriveremo prima e senza farci notare.››
Scar
la seguì, mantenendo il passo lesto della ragazza. Quando arrivarono alla porta
sul retro del laboratorio fu costretto a darle ragione. Avevano impiegato
pochissimo tempo, anche se più volte l’aveva quasi persa tra gli alberi a causa
del frequente inciampare tra le radici.
Verity
sfiorò la maniglia della porta e una scarica elettrica le percorse il corpo,
scaricandosi nelle ali, facendola arretrare di alcuni passi. Sentiva un ronzio
nella testa, diverso dal battito dell’anima, come se uno sciame di api la
seguisse. Doveva ignorarlo, come le aveva detto Gabriele.
Scar
aprì la porta come se non si fosse accorto della scossa e camminò lentamente
all’interno. Sapeva che Raffaele non avrebbe mai messo nessuno a guardia delle
scale sul retro, troppo sicuro delle proprie capacità. Salirono al piano di
sopra, scoprendosi nascosti da uno dei grandi macchinari presenti nella stanza
e per poco non inciamparono nei cavi che uscivano da un suo angolo. Sbirciarono
con gli occhi, velocemente, ma non trovarono nulla di diverso da come avrebbe
dovuto essere: non c’erano né angeli né dannati nella stanza. I ricercatori
stavano lavorando e nessuno si era accorto della loro presenza, concentrati
com’erano nelle loro analisi. Ogni tanto guardavano lo schema dei dati di
Verity che la ragazza aveva trovato molto tempo prima, osservando poi i grafici
relativi alla magia degli Ingranaggi.E
Verity lo trovò strano. Strano perché suo padre non era lì a direzionarli; strano
perché erano come automi che non parlavano, non scherzavano, non si scambiavano
occhiate di complicità e soddisfazione come avevano fatto quando lei era andata
lì per la prima volta. Sbirciò più volte l’intera stanza, cercando qualcosa che
spiegasse quel comportamento, mentre Scar si spostava in avanti, lasciandola
indietro. Notò un minuscolo movimento dietro un altro macchinario, una piuma
macchiata di rosso e la riconobbe subito: era una delle piume colorate di
Hariel. Notò anche la comoda disposizione dei macchinari, che le avrebbe permesso
di raggiungerla senza mai uscire dalla loro protezione. Hariel la riconobbe e
fu abbastanza calma da farle solo segno di avvicinarsi. Le parlò con un tono di
voce appena udibile.
‹‹Raffaele
è in un’altra stanza, ma sono tutti così. Sono sicuramente sotto un incanto
della mente, ma non sappiamo da dove arrivi.››
Verity
annuì e si sostituì ad Hariel per osservare la stanza da un altro punto di
vista. E colse una nuova stranezza: alcuni ricercatori si muovevano appena
prima degli altri, come se non fossero controllati.Era però una differenza quasi impercettibile,
e si stupì di averla notata, pensando che fosse un’illusione creata dal suo
desiderio di vedere qualcosa.
All’improvviso
Victor entrò nella stanza, proprio mentre uno dei ricercatori che sembravano
liberi scostava la teca in vetro che conteneva Benihime.
‹‹Fuori
di qui! Non avete il diritto di stare qui e men che meno di toccare gli
Ingranaggi.››
Fermato
di colpo, gli occhi blu del ricercatore si colorarono di rosso e questo
pronunciò alcune parole a bassa voce.
Fu
l’unica a riconoscerlo, l’unica a muoversi prima di tutti gli altri.
‹‹Papà!››
Si
parò di fronte a lui, chiudendo le ali ricche di magia davanti a sé come uno
scudo e respinse l’onda di fuoco nero. Victor aveva inutilmente portato le
braccia di fronte al viso, generando un piccolo scudo, sapendo che non sarebbe
bastato. Credette di sognare sentendo qualcuno chiamarlo papà e quando riaprì le palpebre trovò i meravigliosi occhi
smeraldo di Verity che lo guardavano fisso. La ragazza fece un sorriso veloce e
ritornò seria, ma quel breve attimo bastò a fargli capire come quella di fronte
a lui fosse davvero sua figlia, la sua dolce figlia che lo proteggeva.
Yelahiah
aveva ripreso la propria forma angelica insieme agli altri dannati del gruppo:
tre in quella stanza. Sentirono un’esplosione e delle urla provenire dalle
stanze adiacenti, mentre Raffaele e gli altri entrarono indietreggiando e
l’ombra di Lelahel si affacciò sul tetto a forma di cupola.
Yelahiah
sorrideva con gli occhi e con la bocca, come se fosse stato contento di avere
lì tutti loro: ‹‹Immagino non siate qui per giocare, e nemmeno per parlare, ma
non abbiamo intenzione di andarcene senza il premio.››
Raffaele
aveva colto un momento per voltarsi mentre il dannato parlava, rispondendo a un
attacco subito dopo.
“Stai pronta. Stai pronta
e qualsiasi cosa faccia Yelahiah, fermalo. Chiamami.”
La
voce della Magia impartì a Verity il suo ordine e il diadema si fece visibile
sulla testa, mentre le gemme cominciavano a brillare.
Yelahiah
si librò in volo nel momento in cui Lelahel provò a colpirlo con due colonne
d’acqua che al suo posto investirono Lecabel e Yeiayel, facendo svenire
quest’ultimo, e contemporaneamente Harael intonò un canto che obbligò i
ricercatori ad alzarsi e ad attaccare Hariel, ancora nascosta, e Dakota, che
aveva seguito Victor nel laboratorio. Veuliah proteggeva la compagna e le bastò
aprire gli occhi per lanciare una scarica elettrica che creò un cortocircuito
in tutti i macchinari, costringendo Hariel ad uscire allo scoperto.
Raffaele
cercò di limitare i poteri dell’angelo dell’elettricità alzando muri di terra
intorno a lei che però resistevano troppo poco perché potessero sortire un
effetto importante. Dakota si avvicinò a Victor, incredulo, e cercò di
trascinarlo via, ma si ritrovò costretta a fronteggiare Lecabel.
Scar
si stava occupando di Yeiayel, assicurandosi che non si risvegliasse nel mezzo
della battaglia, ma guardò esterrefatto Verity alzarsi in volo verso Yelahiah
quando nessuno si stava curando degli Ingranaggi.
In
aria, tra scariche elettriche, colonne d’acqua e di fuoco, detriti di terra e
massi volanti, per Verity era quasi impossibile volare senza prestare anche
attenzione a quello che accadeva sotto e non si accorse subito di come Yelahiah
stesse concentrando magia nera nelle sue mani.
Gli
piaceva. A Yelahiah piaceva Verity. Era l’unica a non avere paura di lui e
questo, ai suoi occhi, la rendeva immensamente interessante. C’era agitazione
sottopelle, ma anche adrenalina e voglia di rivincita; il battito accelerato di
un cuore che stava richiamando la magia senza chiamare chi la possedesse. Non
aveva però né il tempo, né la voglia di giocare con quella ragazzina che recitava
la sua parte di custode, per quanto superba fosse l’interpretazione. Sbirciò in basso: Lecabel stava combattendo
con quell’umana e con Hariel mentre Yeiayel era ancora a terra svenuto; Harael
continuava a cantare con la sua bellissima voce, controllando i ricercatori e
attaccando nello stesso momento i due banali angeli custodi che si erano
aggiunti alla comitiva; Veuliah teneva occupati l’arcangelo e Lelahel con un
campo elettrico impenetrabile; Scar combatteva contro i ricercatori mentre
l’uomo che Verity aveva protetto prendeva gli Ingranaggi dalle teche. Doveva
sbrigarsi.
‹‹Allora
piccola custode, stiamo qui a fissarci o ti senti in grado di combattere? Sai,
anche gli angeli possono morire… Moriresti due volte, pochi possono dire di aver
vissuto un tale miracolo.››
‹‹Vattene
via, Yelahiah. Non hai nessuna opportunità, richiama i tuoi e torna
nell’Inferno. Non voglio sentire nessuna parola uscire dalla tua bocca.››
Yelahiah
sorrise di nuovo, ghignando: ‹‹Hai per caso paura di quello che potrei dire?
Non serve fingere di non volermi ascoltare, lo so che lo vuoi.››
Verity
prese una lunga boccata d’aria. Certo che voleva ascoltarlo: ogni sua parola
avrebbe potuto aiutarli a capire come intendesse sfruttare gli Ingranaggi e che
trattamento avrebbe riservato ai Regni Angelici.
‹‹Dirò
solo questo, è tutto quello di cui ho bisogno. Specchiati nella fonte di Eteria
e fammi sapere di che morte morirai.››
Sorrise
ancora, allargò le ali e aprì le mani.
Verity
ebbe appena un battito di ciglia per decidere cosa fare e, istintivamente,
allungò le mani, emanando magia pura dal cristallo bianco sulla fronte. Sentì
Yelahiah ringhiare e aprì gli occhi. Aveva purificato il fuoco nero del
dannato, trasformandolo in una bianca fiamma che roteò per la stanza, favorendo
i compagni della ragazza nella battaglia.
Fu
il fuoco bianco a tradirla, impedendole di guardare i movimenti di Yelahiah. Questo
rideva tenendo gli Ingranaggi in mano, ai suoi piedi il corpo del padre di
Verity si contorceva su se stesso, nel dolore che il fuoco nero provocava nelle
sue carni mortali. Scomparve in una nube di fumo nera insieme ai suoi quattro
seguaci, mentre Verity l’osservava impotente, incapace di muoversi.
La
sua risata maligna risuonò nelle orecchie di Verity a lungo, mentre abbracciava
il corpo senza vita di Victor, piangendo lacrime amare.
Avrebbe
dovuto muoversi; avrebbe dovuto dire a Michele di proteggere suo padre, di
farla partecipare fin da subito a quella spedizione invece di lasciare a
Raffaele la scelta; avrebbe dovuto diventare molto più potente e fermare
Yelahiah, farlo soffrire così tanto da obbligarlo a chiedere pietà, a
implorarla di non ucciderlo. Sì, in quel momento lo avrebbe ucciso, pur sapendo
che si sarebbe pentita successivamente, ma lo avrebbe condannato senza dubbi.
Dakota
si era avvicinata a Victor, ma era anche indietreggiata appena aveva
riconosciuto il volto di Verity nascosto dalle ali, rimanendo a distanza con il
cuore spezzato, senza parole come gli angeli presenti nella stanza. Erano tutti
feriti, chi più gravemente come Raffaele, che si stava ricucendo malamente con
un filo magico il braccio squarciato da un fulmine, chi meno come Hariel o
Scar. Nessuno osava parlare e si sentivano appena i respiri pesanti, coperti
dai lamenti della ragazza. Dopo un po’ Dakota decise di avvicinarsi,
inginocchiandosi al fianco della giovane, posandole delicatamente una mano
sulla spalla. Qualsiasi cosa fosse appena successa, pensava Dakota, quell’angelo
era Verity e aveva bisogno di lei perché, per quanto quella situazione
sembrasse un sogno, l’uomo morto tra le braccia della ragazza era reale. Verity
si girò a quel tocco, e le sue ali cambiarono colore per un istante, diventando
rosse come il sangue, ma appena riconobbe Dakota si rilassò, lasciando che la
ragazza l’abbracciasse. E nel tornare del colore abituale, le ali rilasciarono
la magia di cui ancora erano impregnate, curando le ferite di chi le stava
intorno senza averlo desiderato. Raffaele guardò il suo braccio di nuovo sano,
poi Verity e, nonostante la rabbia per averla trovata lì quando sarebbe dovuta
essere in Paradiso, pensò che non fosse stata un tragedia la sua presenza. Era
stata utile, almeno un poco.
‹‹Dovremmo
seguirli, possiamo ancora prenderli›› disse l’arcangelo.
Verity
alzò il viso dalla spalla di Dakota, le guance rosse rigate di lacrime, e lo
fulminò con lo sguardo: ‹‹Sta zitto. Tornatene nel Paradiso e sta zitto. Lasciami
in pace. Mio padre è morto e...››
‹‹Quello
non è più tuo padre, lo dovresti sapere.››
Nessuno
si sarebbe aspettato la reazione della ragazza. Si alzò in piedi, fermandosi di
fronte all’arcangelo e lo schiaffeggiò.
‹‹Ho
detto che mio padre è morto e io non ho potuto salvarlo. Lui sarà sempre mio
padre, anche se non sono più un’umana. Non osare parlare, non osare commentare
ciò che non vuoi comprendere. Torna a fare il capitano delle truppe e vai
via.››
‹‹Dovrei
punirti per l’affronto che mi rivolgi.››
‹‹Fallo.
Ma pensi davvero che mi farei qualche scrupolo prima di ucciderti, ora?››
Raffaele
non replicò, vedendo nello sguardo spento della custode la ferma intenzione di
distruggerlo nel caso l’avesse affrontata in quel momento. Preferì andarsene da
solo e tornare a casa.
Dakota
prese Verity a braccetto, portandola fuori da quella stanza, al piano di sotto,
nell’ufficio di Victor. Dopo di che tornò al piano di sopra, dicendo che li
avrebbe teletrasportati tutti in un altro luogo, dove avrebbero potuto riposare.
Nessuno si oppose e li portò nell’appartamento dove abitava, certa che lì
nessuno li avrebbe visti.
Una
volta messa a letto Verity e assicuratasi che non si sarebbe risvegliata per
parecchie ore, si sedette su una delle sedie della cucina, cercando di dare un
senso a ciò che aveva appena vissuto. Da qualche parte c’era una spiegazione
per tutto quello e forse ne avrebbe afferrata una parte. Mentre pensava, non si
accorse degli ordini impartiti da Lelahel e che inviarono Hariel, insieme ai
due angeli ancora presenti, in Paradiso e di come Scar avesse salito le scale.
Si risvegliò quando Lelahel si sedette su una sedia vicina, chiedendole se
volesse sapere i dettagli di quella faccenda. Lentamente le spiegò cosa fosse
avvenuto sotto i suoi occhi, e quanto fosse stato importante, procedendo
all’indietro e arrivando a raccontarle delle origini, descrivendo brevemente la
posizione di Verity in quella confusione di intrecci. Ci vollero tutte le ore
in cui la ragazza avrebbe dovuto dormire e una volta che Lelahel ebbe
terminato, nonostante il caos di pensieri che le affollavano la mente, le era
tutto un po’ più chiaro e sembrava anche meno spaventoso.
Angolo dell’autrice
Aggiornamenti
regolari, questi sconosciuti… Mi dispiace davvero per non essere riuscita ad
aggiornare prima di oggi, mi rendo conto di non essere molto affidabile. Tuttavia
vi ringrazio per aver continuato a leggere, vi vedo carissimi, e spero che
questo capitolo vi sia piaciuto!
In quello stesso momento di placida calma, Verity sedeva sul letto di Dakota e Scar era al suo fianco. L’aveva vegliata nel sonno e, quando l’aveva vista agitarsi per un incubo, l’aveva risvegliata, cominciando a parlare di tutto quello che gli passava per la mente. All’inizio Verity pensò che fosse un bene, il suo parlare ininterrotto le impediva di scoppiare a piangere nuovamente e dava sollievo alla sua mente, ma si stufò quando Scar diede inizio a una serie di lamentele sulla sua vita che non aveva né la voglia, né la forza per ascoltare.
‹‹Perché? Perché hai fermato l’attacco di Yelahiah purificandolo? Dovevi farlo, era necessario, altrimenti ora saremmo tutti morti, ma perché non hai provato ad avvisarmi? Avrei potuto fare qualcosa, avrei potuto proteggere tuo padre. Ogni volta che ti accade qualcosa, io sono impotente. Ogni singola volta io guardo gli eventi scorrere di fronte ai miei occhi senza poter intervenire. Non sono io il fratello importante, lo so. Sono sempre stato il secondo, il secondo più luminoso, il secondo più saggio. Mai considerato, mai amato abbastanza da mio padre. E mi sarebbe piaciuto fare di più, dimostrare a me stesso che non sono un fallimento come angelo.››
‹‹Scar, smettila. Cosa stai dicendo?››
‹‹E sai perché sono un fallimento?›› disse lui senza aver dato segno di averla sentita, preso dalla sua macchinazione. ‹‹Perché sono pieno di odio e risentimento e a causa loro creo problemi dal nulla. Le persone intorno a me finiscono per allontanarsi ed escludermi. Lucifero ne è un esempio, anche tu. Quando ancora vivevamo insieme in Paradiso, Lucifero ed io, non ci separavamo mai. Ero preso da un attaccamento morboso verso di lui su cui avevo basato la mia intera esistenza, credendo che se lui fosse scomparso, lo stesso avrei fatto io. Poi lui ha iniziato a passare più tempo con gli arcangeli che con me, ha guardato nella fonte. Non sopportava più che io stessi costantemente con lui, diceva di avere bisogno di spazio e che non si trovava bene in Paradiso, che doveva scendere sulla Terra. Solo ora riconosco quanto io debba essere stato fastidioso: lui aveva bisogno di aiuto e io pretendevo che si occupasse di me, senza mai considerare le sue necessità. Come lui era cresciuto solo con Sandalphon, io ero cresciuto solo con lui e non volevo condividere mio fratello con nessun’altra creatura, angelica o terrestre. Poi mi raccontò di essersi innamorato e io fuggii inorridito a quella dichiarazione. Quello divenne il nostro personale muro invalicabile. Sandalphon mi aveva detto poco dell’amore, ma ero certo che avrebbe portato Lucifero via da me e non potevo permetterlo. Ero ancora giovane, egoista e infantile. Non ci fu scala, corda o magia in grado di aprire una crepa in quel muro altissimo. Odiai Lucifero con tutto il mio cuore e anche se avemmo occasioni per riappacificarci, le ignorai tutte. Una volta terminato il Grande Consiglio, una volta che Lucifero ebbe chiesto il permesso di amare qualcun altro oltre a Dio, decisi di tagliarmi le ali, non volendo più essere associato a lui. L’ho fatto da solo, in pieno giorno. Urlavo dal dolore e pregavo che un angelo saggio mi fermasse, ma se questo si avvicinava, gli intimavo di allontanarsi e lasciarmi in pace. Desideravo entrambe le cose, che qualcuno mi fermasse e che mi lasciassero andare avanti.››
Scar guardava davanti a sé mentre parlava, come se in pochi minuti avesse rivisto quelle immagini, sentendo le sue grida di dolore rimbalzargli nella mente. Non sapeva di preciso nemmeno cosa stesse dicendo a Verity, le parole scorrevano via come acqua tra le dita e non ne rimaneva un ricordo preciso. Verity, già… Si ripromise di stare attento a non dire che lei fosse la causa di tutto. Non gli sarebbe dispiaciuto mettere Lucifero in un problema più grande di lui ma, allo stesso tempo, l’opportunità di essere nuovamente strangolato contro una parete non lo attirava. Conseguenza sicura nel caso avesse davvero detto una cosa del genere. Lucifero voleva gestire la situazione a suo modo e lui doveva accettare che si vedessero di nascosto e parlassero, fingendo di non esserne a conoscenza.
‹‹Scar, smettila. Sono esausta, non ho la forza per ascoltarti. Sono triste e arrabbiata eppure il mio corpo mi obbliga a farlo per questa stupida essenza che pensa sia giusto. Quindi smetti di dire stupidaggini che non meriti.››
‹‹Vedi, io invece le merito. Anche tu ti sei allontanata da me. Io ti ho braccata come un cane da quando sei arrivata qui perché volevo proteggerti da Lucifero e da chiunque altro in questo mondo, perché io ti ho vista nella fonte e non ne capisco il motivo. Ho fatto tutto quello perché nel mio immaginario tu non avresti dovuto mai incontrarlo. Non saresti nemmeno dovuta morire, se non ad una veneranda età e con un sacco di figli e nipoti a portare avanti la tua stirpe. Penso che saresti stata una buona madre, e invece sei condannata a non provare mai la gioia del tenere una vita tra le braccia.››
Verity lo guardò sorpresa. Non aveva mai pensato che Scar avesse una sua personale idea di quella che sarebbe dovuta essere la sua vita. Nemmeno lei ci aveva molto riflettuto, né quando sulla Terra avrebbe dovuto pensare al futuro che desiderava, né una volta giunta in Paradiso, catapultata in un mondo di magia e misteri che l’avevano rapita nel loro vortice. In quel momento però la prospettiva di avere una famiglia le risultava quasi sgradita, sentendosi completamente inadatta a una vita simile. Tornò a pensare a Scar. Forse era lui a desiderare di nuovo una famiglia. L’aver abbandonato Lucifero doveva averlo distrutto molto più di quanto le avesse mostrato, non era affatto pieno d’odio e rancore. Era triste, spesso indisponente, ma soprattutto era solo.
‹‹Io non cerco di allontanarmi da te, almeno non sempre, e non voglio mettermi in mezzo al tuo rapporto disastrato con Lucifero. Non puoi incolparti di quello che faccio o non faccio. Nessuno in Paradiso voleva che mi incontrassi con Lucifero, né che morissi, credo. Se non fosse accaduto però, ritengo che mio padre non sarebbe morto e forse adesso saremmo insieme, a leggere i dati dai computer e ad imbarazzarci l’un con l’altro.››
Si era alzata, mettendosi davanti al viso di Scar, abbassandosi alla sua altezza. Lei aveva le lacrime agli occhi, ma non riusciva a versarle, probabilmente a causa dell’influenza dell’essenza magica, e le guance rosse.
‹‹Non si può cambiare il passato, Scar, l’ho imparato sulla Terra fin da piccola. L’unica cosa che possiamo fare è provare a migliorare giorno per giorno il nostro futuro.››
Scar la fissava, anch’egli con gli occhi lucidi, chiedendosi da quali parole del suo discorso la ragazza avesse percepito nostalgia riguardo il suo passato e come potesse percepire quella strana fiducia nel futuro che non c’era mai stata. Verity era confortante, si disse. Pura, fiduciosa e abbastanza forte da soffrire in silenzio mentre lo ascoltava vaneggiare.
Era stato insensibile e rude, un vero bruto a sfogarsi con lei, lasciandosi trasportare e senza pensare alle conseguenze.
Che stupido che sono.
Abbassò il capo e si alzò in piedi. Rifletté un secondo se parlare o meno, ma Lelahel entrò nella stanza.
‹‹Verity, sei sveglia! Che bello! La tua amica Dakota ci permette di rimanere qui fino a domani. Riposa ancora amica mia, domani sarà una giornata migliore.››
Le strinse una mano e la portò fuori nel corridoio, sorridendo, lasciandola con Dakota.
Andarono nella camera da letto del padre di Dakota, la più ampia della casa, e mentre la ragazza di distese sul letto, Verity si guardò solamente intorno, un po’ a disagio.
‹‹Quell’angelo con i capelli neri mi ha raccontato molte cose. Erano strane, ma dopo quello che ho visto oggi risultavano alquanto facili da credere. Come ti senti? Accomodati, siediti anche tu.››
Dakota le sorrideva per tranquillizzarla e Verity ne fu felice.
‹‹Sei cambiata›› disse in un sussurro sedendosi.
‹‹Sono passati quattro anni da quella sera e sono accadute tante cose. Ormai gli studi sono finiti da un po’, anche se qualche volta do una mano a scuola, e lavoro all’atelier di mio padre: sono la nuova proprietaria, mentre lui si è ritirato. E comunque anche tu sei cambiata, sai?››
Dakota si era tirata un po’ su, poggiando la schiena sulla testiera rigida del letto, vedendo come Verity non riuscisse a comprendere in cosa fosse cambiata. Dakota sapeva leggerla senza problemi lei. Tutti gli altri angeli avevano ancora molto da imparare.
‹‹Sembri più determinata, e non è la magia a renderti tale. Non so cosa tu abbia visto in questi anni, ma prima non avresti mai urlato per la disperazione in faccia a qualcuno. Avresti pianto, molto e a lungo, avresti dipinto un muro e ti saresti isolata nel silenzio, trincerandoti dietro di esso ed evitando qualsiasi contatto umano. Ti conosco bene, io.››
Verity guardava Dakota parlarle in quel modo tanto familiare, come se fossero passati pochi giorni dalla loro separazione e non quattro anni. E se da un lato credeva che fosse un’allucinazione incredibilmente reale, dall’altro desiderava ardentemente confessarsi con la sua amica, raccontarle tutti i dubbi e le domande che aveva, sapendo che lei l’avrebbe capita. Decise anche che non lo avrebbe fatto. Era abbastanza forte da sopportare il suo fato da sola, tenendo la maggior parte dei pensieri solo per sé.
‹‹Forse mi conosci anche meglio di me stessa. Credo che le persone che ho incontrato mi abbiano cambiata. Sono tutti incredibili…››
‹‹Posso immaginarlo… Quella con cui ho parlato prima era di una calma inumana, quasi spaventosa oserei dire. Non vorrei incontrarla da arrabbiata!››
‹‹Lelahel… È stata una delle prime che ho incontrato. Lei è cieca, ma vede più di chiunque altro. È gentile e intelligente, è una vera amica. Se non fosse per lei sarei ancora prigioniera di Yelahiah…››
‹‹È lui, vero?››
‹‹Si. È quello che ha ammazzato mio padre e verrà punito anche per questo, un giorno.››
‹‹È crudele da pensare, ma non possono eliminarlo fisicamente una volta per tutte?››
‹‹Possono, ma non vogliono. Gli angeli sono tutti fratelli, tutti nati dallo stesso padre, e non si sentono capaci di uccidere un fratello per punizione.››
Dakota annuì poco convinta. Era certa che ci fosse qualcosa che Verity non le stava dicendo, non le aveva confermato nemmeno se gli angeli potessero morire o fossero immortali.
‹‹Lui ha detto che gli angeli possono morire. L’ha detto mentre volavamo uno di fronte all’altro. Poi mi ha suggerito di sbirciare nel mio futuro e dirgli come sarei morta.››
Verity si era alzata e svolazzava per la stanza sovrappensiero, riflettendo sulle parole di Yelahiah a cui, in altre circostanze, non avrebbe prestato attenzione. Yelahiah era però riuscito a fuggire con i suoi compagni e aveva entrambi gli Ingranaggi. La situazione non era normale, richiedeva attenzione, anche ai dettagli insignificanti. Doveva pensare al significato delle sue parole, capire se avessero potuto influenzarla sensibilmente o se fossero solo minacce vane.
‹‹Io guarderei, anche se ti ha parlato di morte, e smettila di svolazzare per la stanza. Fai aria, e fredda per di più.››
Risero insieme per un secondo e poi Verity posò dolcemente i piedi a terra. Dakota le fece spazio tra le lenzuola disfatte e l’angelo si distese su un fianco, lasciando le ali a penzoloni fuori dal letto. Dakota lo pensò e la luce si spense. Nel buio la guardiana si sentì a proprio agio.
C’è qualcosa di tranquillizzante nell’oscurità, nel sapere che nessuno a parte te stesso potrà mai sapere come ti stai muovendo o conoscere le tue reazioni. In quel momento tu solo sai chi sei, nella confusione e nella calma. Non ci sono gesti, solo increspature di luce che si percepiscono nell’aria, come un profumo che pizzica le narici ma alla fine non fa starnutire. Tutti amano l’oscurità, anche chi lo nega, perché porta la speranza della luce e, la maggior parte delle volte, è l’unica certezza di cui necessitiamo.
Dakota sapeva di poter sfruttare l’oscurità a suo vantaggio e si girò verso Verity, ritrovandosi a pochi centimetri dal suo viso.
‹‹C’è altro. Io ti conosco, so quando pensi e so anche a cosa pensi: la tua amica ha accennato a un qualcuno, ma si è guardata bene dal pronunciare il suo nome o dal darmi indizi precisi. Ma ti fa pensare, e molto.››
‹‹Si… Ma non c’è nulla che io possa fare. Si è allontanato da noi da un po’ di tempo, gli altri dicono che tornerà.››
‹‹Non è questo quello che devi confessarmi.››
‹‹Sono preoccupata e non so perché, ma l’idea di non poterlo rivedere mai più mi fa piangere e ci metto l’intera notte a calmarmi.››
Dakota mormorò un capisco con tono fraterno e preferì non intervenire ulteriormente. Aveva una vaga idea di cosa stesse provando Verity e doveva aiutarsi da sola. Lei non poteva nulla in quell’ambito. Aveva lasciato che Liam si prendesse gioco di lei come una sciocca, non poteva proprio dispensare consigli.
Verity si abbandonò ad un sospiro di sollievo quando sentì il respiro dell’amica normalizzarsi. Il suo corpo non sembrava intenzionato a lasciarle scaricare nel sonno la tensione della magia che ancora non aveva smesso di fluire. Rimase però distesa, immobile. Non aveva nulla da confessare a Dakota, non l’avrebbe caricata dei suoi dubbi, ma forse era arrivato il momento di ammettere un’altra piccola verità con se stessa, e non solo che desiderasse vederlo come aveva confidato a Mary.
Si era affezionata, lo sapeva, ma quanto profondo era il suo attaccamento? Si fidava di lui, e più cercava di trovare lati negativi in quella relazione, più ne spuntavano di positivi, rinforzati dai ricordi della bontà e della comprensione che le aveva mostrato. Se si concentrava a fondo, poteva sentire addirittura il calore del suo abbraccio e rappresentava la sicurezza, la certezza della sua presenza. Non bastava questo a decretare che ci fosse molto più di una leggera affezione? La sua Magia aveva parlato di amore… Lei, che non aveva mai amato, poteva davvero amare qualcuno che conosceva così poco? Forse era solo amicizia, lo stesso tipo di affetto sincero che condivideva con Dakota, ma questo non le sembrava sufficiente, Lui era lì con la dolcezza nello sguardo e aveva notato come si preoccupasse di ogni sua reazione, anche involontaria, come se avesse sempre paura che lei si allontanasse. Era scappata la prima volta, ma fin dal principio aveva saputo che non lo aveva realmente desiderato e che fosse sbagliato. Solo non aveva avuto il coraggio di credere in se stessa anziché in nozioni terrestri che non avevano senso in Paradiso. Le leggi che governavano quei due mondi erano diverse, e si era resa conto di come non potesse comprenderne uno se non accettava l’altro. Ma accettare il Paradiso avrebbe comportato l’accettazione di Lucifero e del suo particolare bisogno di averla per sé, e accoglierlo con sollievo l’avrebbe rimandata all’amore che aveva citato la Magia. Doveva evitarlo. Lui amava già una donna, quella bellissima donna per cui si era ribellato, ed era giusto che lei non cercasse di appropriarsi di quell’anfratto del cuore del dannato dedicato all’amata. Non era il suo. Rinchiuse il pensiero dell’amore in un angolo della mente, dietro una porta massiccia, e ne chiuse la serratura, conscia che la voce nella sua testa contraria a quell’idea non avrebbe mai gettato la chiave, conservandola sempre a portata di mano.
Trasse ancora un profondo respiro e sperò di riuscire ad addormentarsi.
Avrebbe dormito ancora qualche ora se Lelahel non fosse entrata trafelata nella stanza, dicendole che dovevano tornare in Paradiso al più presto, anche perché non ne vedeva il motivo.
‹‹Sento la presenza di Yelahiah nei paraggi, e voglio lasciare questa città prima di scatenare una nuova battaglia con nuovi morti… Non la svegliare, sarà più sicuro per lei, fidati di me.››
Verity annuì lievemente, ancora assonnata, e guardò Dakota sbadigliando. Adocchiò una penna e un foglio di carta sul comodino e decise di scrivere un piccolo messaggio, cosicché capisse che non l’aveva abbandonata. Uscì dalla stanza e trovò Scar ad aspettarla, appoggiato al muro. Lo seguì nella strada ancora illuminata dai lampioni galleggianti. Lelahel aveva già aperto la sua scia e li salutò con una mano. Scar ricreò la sua, ma non mise la benda sugli occhi di Verity come la prima volta. La sera prima aveva detto molto, un ricordo in più non avrebbe fatto la differenza nel suo patetico sentimentalismo e delle scuse non avrebbero sortito l’effetto di cancellare le parole dette.
Verity fu felice di entrambe le scelte. Una parte di lei comprendeva perché Scar si fosse sfogato con lei proprio quella sera ed era felice che non volesse nasconderle altre memorie dietro un pezzo di stoffa nera. Preferì comunque non guardare, non sentendosi in diritto di conoscere così intimamente Scar, e tenne lo sguardo fisso sui suoi piedi per quasi tutto il viaggio. Quasi tutto perché fu Scar a chiederle di osservare un ricordo che, pensandoci successivamente, avrebbe evitato volentieri. Scar spiegò che risaliva al periodo appena prima della guerra, dopo la votazione, quando alcuni angeli si erano schierati dalla parte di Lucifero e altri dalla parte del Paradiso. Scar era seduto su un prato e alcuni angeli lo osservavano da lontano. Era immerso in una pozza di sangue scuro che gli scivolava lungo le braccia e sul petto nudo. Piangeva e urlava.
Ci mise qualche minuto a collegare la scena cui stava assistendo e il ricordo della sera prima. Si era concentrata talmente tanto sull’espressione agonizzante e sulle urla raccapriccianti da non notare la presenza di una sola, grande ala nera sulla schiena dell’angelo.
‹‹Non avresti mai dovuto infliggerti tanto dolore… Perché?››
Glielo chiese anche se lo sapeva già e, pur non approvandolo, riusciva a comprenderlo. Tante volte lei stessa si era guardata allo specchio e aveva sorriso felice scoprendosi sempre diversa dalla sua famiglia, riconoscendo negli occhi verdi e nei capelli rossi la distinzione che cercava. Aveva avuto i suoi momenti di profonda tristezza proprio a causa di quella differenza, ma l’aveva anche rincuorata.
Poteva sentire le emozioni di Scar, comprenderle allo stesso modo. Il dolore dell’uguaglianza superato da quello fisico, l’idea della fratellanza scucita filo dopo filo fino a lasciar posto a un rassicurante senso di vuoto e di armonia con la visione di se stessi. Forse non si era mai ferita di proposito per quello. Aveva paura di quella completezza che avrebbe rappresentato il raggiungimento del suo traguardo personale, il timore che recidendo anche l’ultimo legame con i suoi familiari avrebbe perso completamente la sua identità senza guadagnarne una nuova. Quella finitezza che credeva di poter ottenere l’avrebbe resa forte ma, con il passare del tempo, anche sola.
Riteneva che Scar dovesse aver affrontato lo stesso dilemma ma che, alla fine, la prospettiva della solitudine non lo avesse spaventato così tanto.
‹‹Il ricordo non è ancora finito… C’è una parte che non conosci.››
Gli occhi verdi si aprirono più profondamente: a quale altra tortura avrebbe dovuto assistere? Scar intercettò quello sguardo e le disse che non si trattava di lui.
Verity tornò a guardare. Un paio di ali nere si erano avvicinate alla testa ciondolante di Scar e un paio di piedi nudi spuntavano nell’erba. Le ginocchia si piegarono, inzuppando i pantaloni bianchi di sangue, si sentirono dei singhiozzi e Verity seppe fin da subito a chi appartenessero.
‹‹Scar, cos’hai fatto? E perché poi? Ti prego, non dirmi che sei scappato appena finita l’assemblea per farti questo, ti prego…››
Scar alzò la testa, fissando suo fratello con gli occhi pieni di lacrime, annuendo, dicendo che lui non era un traditore
‹‹Scar, io non ho tradito Dio, sforzati di capire. Entrambi desideriamo la felicità, e come io voglio la tua, tu vuoi la mia. Non...››
‹‹E allora perché ti ribelli? Perché chiedi di poter amare qualcuno che non sia Dio, abbandonandomi? Così non farai mai la mia felicità.››
‹‹Io eseguo ordini da quando vivo qui e cerco di fare tutto quello che posso affinché tutti vivano bene. Ho te, ho gli arcangeli che sono diventati come una seconda famiglia, ma mi manca la sensazione che provavo quando stavo con Sandalphon, quando lo amavo, quando ero ancora libero, Scar, e felice. La mia luce si assottiglia, giorno per giorno, e ho bisogno, necessito di aiuto per non soccombere alle tenebre nel mio cuore. Tutti gli angeli hanno il loro sollazzo, che lo ammettano o meno, mentre io non l’ho mai avuto. Ora che finalmente trovo qualcuno a cui donare il mio cuore, e che potrà custodirlo e amarlo, non voglio che mi venga negato. Non dico di non amare Dio, voglio solo poter amare qualcuno così forte e pienamente e quel qualcuno non è Dio. Riesci a capire almeno una piccola parte di quello che dico?››
Il viso di Scar era diventato rosso e gli occhi, prima sofferenti, mandarono saette verso Lucifero.
‹‹Esiste un solo amore, quello verso Dio. Io capisco solo che ti importa di te stesso. Non hai interesse verso di noi, non hai rispetto verso chi ci ha creato e ci ha dato un ruolo in questo cosmo confusionario. Capisco che tu non sia un angelo, ma solo un pazzo visionario a cui non voglio più essere associato. Ho troppo rispetto per il creatore per togliermi la vita e allora mi farò bastare le ali. Passeranno i millenni e gli angeli dimenticheranno che sono stato tuo fratello.››
‹‹Scar, cosa stai dicendo! Tu… Perché non puoi sforzarti un poco e guardare oltre la tua realtà? Sono secoli che soffro, fratello, perché non lo vedi!››
‹‹E per cosa soffriresti, di preciso? Quella donna che hai visto nella fonte non ti amerà mai, e lo sai bene. Allora ti do io un motivo per soffrire: io non sono tuo fratello. Non avrò mai più nulla da spartire con te e non tornerò indietro. Sei un pericolo per l’equilibrio, sei un estraneo e un traditore. E ora lasciami in pace, vattene.››
Il ricordo non proseguì oltre, dissolvendosi nell’aria e lasciando i due angeli soli nel tunnel. Insieme ad esso si dissolse anche la tranquillità di Verity ed il senso di compassione e comprensione che aveva provato fino ad allora. Non era più così sicura dei suoi sentimenti. In un angolino sentiva ancora pietà per il suo dolore, ma la maggior parte era diretta verso Lucifero, che si era visto chiudere in faccia ogni possibilità di riconciliazione dall’unica persona che avrebbe dovuto aiutarlo e supportarlo. C’erano anche delusione e risentimento verso Scar per le parole che aveva pronunciato, per non essere stato capace di guardare oltre la propria felicità. Eppure non lasciò quella mano che stringeva forte la sua, aggrappandosi a lei: non voleva lasciarlo solo. Alla fine lo sentì emettere un sospiro e la trascinò via dal quel punto dove il ricordo si stava riformando per cominciare nuovamente.
In pochi minuti si ritrovò fuori dalla scia, ancora indecisa su quali emozioni dedicare a Scar e quali a Lucifero. Ma forse non era importante decidere in quel momento, avrebbe potuto riflettere più tardi.
‹‹Ho sbagliato, non dovevo farti vedere nulla. Ora sei agitata.››
‹‹E invece hai fatto la cosa giusta, come posso aiutarti se non conosco la verità? Hai scelto il momento sbagliato. Ieri ti dissi che non volevo ascoltare, ed era vero, ma voglio ricambiare il tuo sostegno sulla Terra e questo è l’unico modo che ho.››
Gli sorrise un’ultima volta e si voltò, riconoscendo subito la radura di Eteria e chiedendosi come avrebbe dovuto agire da quel momento in avanti per onorare tutti gli impegni che aveva preso con se stessa. Soprattutto avrebbe dovuto trovare un modo per scusarsi con Raffaele per la scenata e una tattica per recuperare gli Ingranaggi dalle mani di Yelahiah. Non sapeva bene cosa stava per abbattersi sul Paradiso, ma l’istinto le suggeriva che non sarebbe stata una fortuna.
‹‹Verity, te la senti di rimanere qui sola? Io dovrei andare da Michele…››
Disse a Scar che poteva andare, lei sarebbe stata bene anche da sola. Lo guardò volare via fino a che non scomparve dalla sua vista, poi si inoltrò nei boschi per raggiungere il portale. Anche lei avrebbe parlato con gli arcangeli.
Angolo dell'autrice
E rieccoci agli aggiornamenti saltuari e completamente a caso... Me ne dispiaccio molto, ma è stato un periodo particolarmente duro e faticoso. Detto ciò... Spero che questo capitolo vi piaccia e se avete voglia lasciatemi una recensione!