Amethysts bloom

di Lumen Noctis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio dall'oblio. ***
Capitolo 2: *** Slow beat. ***
Capitolo 3: *** Smooth poisoner. ***
Capitolo 4: *** Daydreams. ***
Capitolo 5: *** Cracks on glass. ***



Capitolo 1
*** Risveglio dall'oblio. ***


Capitolo 1.

Risveglio dall’oblio.

 

Era buio pesto nel momento in cui aprì gli occhi. Talmente buio che per un po’ non riuscì a capire se si fosse realmente svegliato, se avesse dischiuso lo sguardo nel mondo reale o se stesse ancora fissando il vuoto dietro le proprie palpebre. La gelida consapevolezza di essere vivo gli si insinuò lentamente nelle ossa e gli attanagliò i polmoni. Faceva fatica a respirare, come se una corda ruvida e sporca si stesse lentamente stringendo attorno al suo collo. Il respiro si accorciò e un attimo dopo l’altro diventò sempre più affannato. Le mani annasparono su quello che a prima impressione sembrava un lenzuolo. Si rese conto di trovarsi disteso, da qualche parte. La mano destra corse al proprio collo senza che potesse comandarla, le sue dita indagarono lungo la gola, senza alcuna delicatezza. Erano in cerca, in cerca di quella corda nascosta, ma non trovavano altro che la sua pallida pelle e ossa in rilievo, che sporgevano non appena affondava i polpastrelli nella carne. Non riusciva a fermarsi.

Poi una voce, che udì a malapena. «Akira! Sveglia, Akira!»

Improvvisamente si rese conto di star gridando. Fu sconvolgente al punto che non riuscì ugualmente a gestire questa nuova situazione che gli sfuggiva di mano - o forse, su cui non aveva mai avuto davvero controllo. Forse stava per morire. Non importava quanta aria cercasse di inspirare, era sempre troppo poca. Il dolore che sentiva al collo iniziava ad essere insopportabile, ma non riusciva a fermarsi. Tutto il suo corpo era come posseduto, la sua coscienza schiava del proprio unico obiettivo: sopravvivere.

«Cavolo.»

Un’altra voce, più familiare, agitata. Due mani forti afferrarono il ragazzo per le spalle, scuotendolo. Una luce si accese accecante e gli strappò un gemito, poi non vide più. D’un tratto, non avvertì più alcuna presa sulle spalle, ma sui propri polsi. Poteva sentire tutta la determinazione che scaturiva da quella stretta salda e si sentì sperduto. Si chiese chi fosse e dove fosse, se questa persona stesse cercando di fargli del male. Non riusciva a ricordare ciò che aveva sentito poco prima, la sua memoria si era ridotta in sordina. Quando il suo aggressore cercò di allontanargli le mani dal suo collo, il ragazzo urlò. Sentì la gola bruciare terribilmente. Quello che ne venne fuori fu solo il primo di una serie di grida ancora più disperate delle precedenti. In un momento di lucidità, si sarebbe definito terrificante.

«Fermati, ti prego fermati.» La voce era familiare, ma non riusciva a capire di chi fosse. Il cuore all’impazzata, senza quasi più fiato, incontrollabile, si ribellò senza conoscerne il motivo.

«No! No! No! No!»

Altre grida seguirono. Fu tutto d’un tratto che si sentì afferrare con ancora più forza. Nessuna gentilezza fu messa nei gesti che gli strapparono le mani dal corpo. L’altro tenne stretti i suoi polsi, lui si sentì sollevare e spingere all’indietro. Pensò che sarebbe caduto per sempre, finché la sua schiena non sbatté contro qualcosa che non sembrava affatto un pavimento. Pur con i polsi sollevati e bloccati sopra la testa, si agitò instancabilmente, ma la presa ferrea gli impedì di liberarsi.

«Akechi…» il suo nome, pronunciato come se fosse un peso così grave, «Akechi, sono io. Akira.» Le parole dell’altro si sovrapposero ai suoi pensieri. Non realizzò mai che il suo nome fu la prima cosa sensata che ricominciava a passargli per la mente. Col respiro ancora affannato e la sensazione di essere vicino alla morte per soffocamento, tentò di aprire nuovamente gli occhi. Tuttavia la luminosità della stanza era ancora troppo forte e rinunciò immediatamente.

«Morgana, la luce piccola vicino le scale. Me la potresti accendere?»

«Roger.»

Morgana… Qualcosa scattò, un ricordo. Il muso nero e gli occhi blu come il mare di quell’animale che Akira si portava sempre nella borsa. Inutile nasconderlo, Goro aveva sempre saputo che i due non viaggiavano mai da soli. Il gatto maledetto… ovviamente c’è… anche lui. Vi fu buio per un attimo, poi una luce più tenue illuminò la stanza. Goro continuava a respirare a un ritmo erratico e violento e sebbene fosse riuscito a formulare un pensiero coerente, fu semplicemente uno di numero. L’insufficienza d’aria gli toglieva respiro anche al cervello. Avere Akira chino su di lui era rassicurante quanto opprimente. Se avesse potuto, si sarebbe aggrappato a lui con tutte le forze, se fosse servito a non farlo affondare giù, giù, giù…

«Akechi,» il suo cognome, pronunciato così tante volte, iniziava a fargli girare la testa. Non serviva richiamare così ripetutamente la sua attenzione. Come faceva a non capire che l’aveva già? «Sei al sicuro. Sei a casa mia, non sei solo.»

Finalmente aprì gli occhi. Erano forse l’unica parte del suo corpo che non urlava, in quel momento. Piano piano il suo sguardo mise a fuoco il volto chiaro, i capelli neri corvini, quel paio di occhi grigi che appartenevano ad Akira Kurusu. Vederlo chino su di lui con quello sguardo serio dipinto in faccia per un attimo scatenò una reazione di dispetto nel suo cuore, a maggior ragione del fatto che lo stava costringendo fermo sul materasso con tanta facilità. Eppure, per quanto fosse bravo ad aggrapparsi all’odio e al rancore, il sentimento scemò velocemente come era sbocciato. La sua mente tornò indietro, alla sera che pensava sarebbe stata l’ultima della sua vita, e il furore svanì del tutto.

«Non respiro,» soffiò così velocemente che probabilmente Akira non aveva nemmeno capito. Lo guardò dritto nei suoi occhi luminosi, disperato, e ripeté. «A-aiuto. Non… respiro…»

Pensò di essere sul punto di morire. Lo credette davvero. Più si concentrava sul calmare il proprio respiro, di rallentare il battito cardiaco, più gradualmente scivolava nel panico, meno riusciva a respirare, meno riusciva a controllare il proprio corpo. Sentì che Akira si assicurava la presa sui suoi polsi in una mano sola e ritraeva l’altra. Il ragazzo si spostò verso destra e udì il rumore di cardini che scorrevano. In pochi secondi, un alito di vento investì il suo viso. Un dito di gelo segnò un solco lungo il suo collo. Il freddo mandò il suo cervello in cortocircuito per un millisecondo, poi sortì l’effetto opposto. L’improvvisa realtà del clima di stagione fu sufficiente a restituirgli un po’ di lucidità. Come incantato, cessò di dimenarsi. Seppure in modo irregolare, con continue interruzioni e tremiti, anche il respiro iniziò a regolarizzarsi, e se si affrettava era per i brividi.

Ancora chino su di lui, Akira lo osservava con attenzione e lo incoraggiava con parole che a malapena sfioravano le sue orecchie. «Bravissimo… piano. Uno… due. Uno… due…»

Goro non riusciva nemmeno a capire cosa stesse contando finché il ragazzo non gli chiese di contare assieme a lui. Dopo un tempo che gli sembrò infinito capì che si riferiva ai suoi respiri. Con poca sicurezza, seguì il consiglio. «U-uno…» il primo respirò venne fuori un po’ tremante, ma cercò di allungarlo il più possibile. «Du… due.» La voce di Akira lo accompagnava e sembrava una carezza. Non stava andando così male, ma Goro non riusciva a non arrabbiarsi con sé stesso. La cosa più naturale del mondo per chiunque vivesse, ecco, lui non riusciva a farla. I neonati respiravano e neanche ci pensavano. Ed invece eccolo lì, il miserevole Goro Akechi, disperato perché non ricordava più come si faceva a vivere.

Questi pensieri lo agitarono terribilmente. Un sorriso amaro si fece strada dentro di lui ma non raggiunse le labbra. Sarei dovuto morire lì. «U-u…» il fiato gli si mozzò in gola in un accenno di nuova iperventilazione. Il fatto che gli venisse da ridere non l’aiutava. Non merito questo. Un nodo alla gola che prima non c’era lo strinse più forte di quella corda che ora chissà dove era finita. Forse i Phantom Thieves avrebbero fatto meglio a permettergli di inscenare la propria morte fino alla fine. Sarebbe scomparso, non avrebbe più avuto bisogno di ricordare come si faceva a respirare. Se ne sarebbe andato con una morte degna di un eroe tragico shakespeariano.

«Ehi, ehi…»

Di nuovo la voce calma e sicura di Akira Kurusu. Il suo acerrimo nemico, il suo rivale. L’unica persona che fosse mai riuscita a sopravvivergli e non una, ma ben due volte. Il giorno in cui aveva sparato un proiettile dritto nelle sue tempie si era sentito l’uomo più potente del mondo. Una delle vette più alte dell’Everest. Eppure, eccolo lì. Più vivo di lui, senza dubbio, e capacissimo di fare qualsiasi cosa. Ma soprattutto, era lì per lui. Avrebbe dovuto lasciarlo a marcire in quella nave, lasciare che lo uccidessero, smettere per una volta di volersi accollare il peso della vita di qualcun altro.

«Akechi,» il viso del ragazzo di fronte a lui, pur nella penombra, era estremamente nitido ai suoi occhi, «Sei forte. Molto più forte della maggior parte delle persone che conosco. Magari non andiamo d’accordo su molte cose, io e te, ma se ti arrendi ora non avremo nemmeno mai l’occasione di parlarne, che dici?»

«D-di cosa… parlare?» Aveva la bocca così secca e impastata che anche mormorare gli costava fatica. Per la prima volta, la voce di Akira si lasciò andare ad una leggera risata. La pressione sui polsi svanì. Finalmente libero, tuttavia, Goro non si mosse di un millimetro.

«Uhm… che ne dici dei pancakes?»

«P-pan…» la sua voce si spense. Fu come se tutto si fosse spento dentro la sua testa. Non se ne accorse nemmeno. Il solo nome del cibo bastò ad aprire una voragine nel suo stomaco, che decise gentilmente di render chiaro a chiunque nella stanza il fatto che gli fosse venuta fame. Il brontolio gli guadagnò se non altro un’altra risata da parte di Akira, che gli sorrise in una maniera che Goro non avrebbe esitato a definire tenera. Invece di sentirsi imbarazzato e bizzarramente felice, avrebbe preferito provare disgusto. Il ragazzo avvicinò una mano al suo viso e con gentilezza scansò le ciocche di capelli che aveva sulla fronte umida e sudata. Goro sentì il calore della sua pelle contro la propria e rabbrividì. Poi Akira si voltò lateralmente, guardando un punto nella stanza fuori dal suo campo visivo.

«Morgana, vieni a tenergli compagnia un momento? Prendo il necessario e torno.» Prima di alzarsi dal letto, il ragazzo allungò una mano verso l’alto fece scorrere la finestra finché non fu quasi socchiusa. Goro fu felice di non avere più il vento gelido a colpirlo in volto. Senza nemmeno rendersene conto aveva finalmente ritrovato un po’ di calma. Avrebbe voluto chiedere ad Akira di non andare, ma non aveva la voce né la forza per farlo. Con sorpresa si chiese come potesse la sua presenza rassicurarlo tanto da farlo sentire smarrito nel momento in cui se ne fosse andato.

Il maledetto gatto nero dagli occhi azzurri salì sul letto prendendo il posto lasciato vuoto da Akira. Goro seguì i passi di quest’ultimo con lo sguardo, fin dove poté, mentre tutto il suo corpo si tendeva involontariamente nella stessa direzione. La sua mano sinistra ora distesa per metà fuori dal materasso era pallida come quella di un morto. In quel momento si rese conto di avere le mani sporche e bagnate. Stringendo il pugno debolmente e sfregando le dita tra loro, riconobbe la consistenza di un qualcosa che conosceva bene. Dacché pensava di cominciare a stare meglio, improvvisamente sentì lo stomaco sottosopra. La stanza girò come una ruota della fortuna e provò un conato di vomito arrivare quasi alle labbra.

«Ohi…» la voce di Morgana affondò nelle sue orecchie come una mano sott’acqua cerca di afferrare il braccio di qualcuno che sta affogando. Lentamente, si voltò verso di lui e sperò fosse un segno sufficiente a far capire che aveva la sua attenzione. Meglio che ripensare alle proprie mani sporche di sangue, che lo avrebbero perseguitato a vita. «Sono felice che ti sia svegliato…» riprese il gatto, «Siamo stati tutti in pensiero.»

Tutti… Goro storse il naso e non rispose.

«Akira mi ha detto di tenerti compagnia,» Morgana interruppe il suo corso di pensieri, «Significa che vuole che non ti addormenti di nuovo mentre lui non è qui. E che non ti senta solo, probabilmente.»

Il massimo che riuscì a fare fu annuire.

«Fai fatica a parlare, giusto? Allora parlerò un po’ io. Forse ti stai anche chiedendo varie cose quindi proverò a darti qualche informazione,» il gatto si leccò una zampa, per poi passarsela sul muso. Un gesto che, se fosse stato umano, sarebbe forse stato paragonabile al passarsi una mano tra i capelli. «Adesso è la notte tra il sette e l’otto dicembre. Ti trovi a casa di Akira, nell’attico del caffè Leblanc. Hai dormito ininterrottamente per cinque giorni. Se senti dei pizzicori alla gamba destra, è normale, la dottoressa Takemi ha avuto il suo bel daffare a disinfettare la ferita e applicare le garze. Ha detto che sei stato molto fortunato, la pallottola non ha colpito nessuna vena o arteria e anche l’osso è intatto. Ad ogni modo, se il dolore dovesse diventare insopportabile diccelo subito, abbiamo degli antidolorifici…»

Erano troppe informazioni per poterle processare correttamente una per una. La parola “pallottola” però lo colpì come se fosse stata appena sparata contro la sua testa. Goro non ricordava nemmeno di essere stato colpito. Doveva essere accaduto mentre fuggivano dal palazzo di Shido. Ora che Morgana aveva portato l’attenzione sull’argomento, si rese conto di avere delle bende saldamente avvolte attorno al polpaccio destro. Allungando una mano, toccò il tessuto sfiorandolo. «Non… fa male…»

«Ottimo.» Fu la risposta immediata di Morgana.

Poco dopo dei passi riecheggiarono dalle scale facendosi sempre più vicini. Goro li contò e arrivò fino a sette, poi Akira fu nuovamente ai piedi del letto, trasportando un vassoio che fu presto poggiato a terra. Il rumore gli diede tanto fastidio che Goro dovette coprirsi le orecchie con le mani, ma con gli occhi si permise di sbirciare. Sul vassoio una piccola bacinella, diversi fazzoletti bianchi, un bicchiere, una bottiglia d’acqua e un piatto con sopra alcuni biscotti erano allineati uno accanto all’altro. La prima cosa che Akira gli porse fu l’acqua. Sedutosi sul bordo del letto, fece scivolare un braccio sotto il collo di Goro per aiutarlo a sollevarsi. Spostandosi un po’ indietro, il ragazzo poté sedersi poggiando la schiena contro la parete. Ancora stordito, non riusciva a guardare dritto davanti a sé senza che la stanza ondeggiasse, ma la sua gola arida lo implorava di bere. Akira gli si fece più vicino e portò il bicchiere alle sue labbra. Con un po’ di incertezza, Goro chiuse le mani attorno al piccolo oggetto in vetro e attorno alle stesse dita dell’altro, che non accennarono a lasciare la presa. Lentamente, inclinò il bicchiere e bevve. In meno di un minuto, Akira si ritrovò a riempirgli altri tre bicchieri.

«Vuoi mangiare qualcosa?» Gli chiese poi, ma la domanda gli strappò una smorfia. Lentamente, scosse la testa. Se avesse mangiato in quel momento avrebbe finito col vomitare. Quando poté finalmente metter via il bicchiere, Akira lo aiutò a tornare in posizione supina sul letto. Le sue mani erano così attente e sicure… Goro rabbrividì pensando che Akira era la prima persona che lo toccava in tanto, tanto tempo. Chinandosi accanto al letto, Akira uscì dal suo campo visivo, ma Goro capì che stava armeggiando con la bacinella. Quando rifece capolino, scostatogli i capelli dal viso, poggiò il fazzoletto sulla sua fronte. Osservando per tutto il tempo il soffitto dell’attico, Goro non oppose resistenza e la sensazione del panno umido sulla pelle lo fece sentire subito meglio. Ad occhi chiusi, cercò di rilassarsi e si concentrò sul proprio respiro. Il tocco improvviso di qualcosa contro il lato sinistro del collo però lo fece sussultare.

Akira gli mostrò la mano destra, tra le cui dita teneva stretto un altro fazzoletto bagnato. Non si dissero niente e dopo poco il ragazzo riprese ciò che aveva appena iniziato. Senza una singola parola, proprio come gli si addiceva, pensò Goro. Akira passò il fazzoletto lungo tutta la pelle che riusciva a raggiungere, dalla mandibola alle clavicole. Goro si sentì scoperto e vulnerabile, per non parlare del fatto che non comprendeva quale fosse la necessità del gesto. L’attenzione con cui Akira si prendeva cura di lui era terribile e spaventosa fin nelle viscere, eppure così calda. A volte si colse quasi a rilassarsi sotto il tocco delle sue dita, ma quando meno se lo aspettava alcuni bruciori improvvisi estorcevano dei sibili alle sue labbra. In questi casi, Akira si fermava e si voltava, seguiva poi il suono del fazzoletto che veniva intinto nell’acqua della bacinella, poi il ragazzo tornava e più gentilmente di prima riprendeva il suo lavoro. Mordendosi le labbra, Goro cercava di non impazzire, di non lasciarsi cullare troppo.

«Perché fai questo?» Chiederlo fu togliersi un peso insostenibile dal petto. «Non siamo… compagni… tu non dovresti…»

Akira non rispose subito, passò il fazzoletto umido un’ultima volta sul lato destro del suo collo e si lasciò andare a un leggero sospiro. «Non preoccuparti, ho finito… E non so dirti perché…»

Goro si sentì quasi tradito dalla freddezza della risposta. Ironico, non era stato lui a tradirlo, in realtà. Per un attimo la mente gli si svuotò del tutto, ma durò un istante soltanto. Una risata sfuggì alle sue labbra ma finì in un colpo di tosse. La voce del proprio disgusto lo chiamò patetico. «Devo dedurne che soffri di una sorta di sindrome da crocerossina, Kurusu-kun?» domandò quando si fu ripreso, «Non puoi salvare chiunque. Sogni così vasti e altruisti finiscono sempre per deluderti.»

«Non voglio salvare chiunque,» rispose il ragazzo, e dal tono di voce sembrava non avesse finito, invece si voltò e senza aggiungere altro si alzò dal letto. Goro sentì il rumore di qualcosa che strusciava contro il pavimento, poi la voce del ragazzo che chiamava Morgana. In men che non si potesse dire, il maledetto gatto nero era tornato al suo fianco mentre Akira si allontanava. Da non lontano giunse il rumore di ante che si aprivano e poi sbattevano. Quando fu di ritorno, Akira teneva in mano una scatolina bianca.

«Adesso devi mangiare un biscotto,» disse mentre si sedeva e tendeva una mano verso il suo viso, come se fosse la cosa più naturale del mondo, «altrimenti non posso darti la medicina.» Goro storse il naso, chiedendosi perché mai dovesse fidarsi di una persona che non sapeva nemmeno perché lo stava aiutando. Tuttavia, non solo non aveva alternative migliori, l’unico motivo che aveva per non accettare era il suo orgoglio, e non si trattava di una motivazione sufficiente per rifiutare. Senza protestare dunque si sollevò sui gomiti, combattendo un giramento di testa, e prese in una mano il biscotto che Akira gli stava porgendo. Lo portò alle labbra e lentamente ne mandò giù un morso. La pasta frolla era buona e dolce, ma gli lasciò un retrogusto amaro in bocca. Aveva fame, ma non voleva mangiare.

«Finiscilo tutto, Akechi-kun.» Akira si guadagnò uno sguardo che era tutto fuoco e saette. Se solo fosse stato abbastanza in forze da potergli tirare un pugno in faccia e rompergli il naso, Goro lo avrebbe fatto. Nonostante ciò, obbedì.

«Ora ingoia questa.» Ancora una volta senza fiatare Goro fece come gli veniva detto e si aiutò bevendo dell’acqua. La medicina era insapore e non fece fatica a mandarla giù. Restituì il bicchiere e fissò Akira intensamente, che sostenne il suo sguardo e i due tacquero per un po’. Anche quando tornò a stendersi, liberandosi dal dolore che gli indolenziva le braccia, Goro non distolse mai lo sguardo. Stava iniziando già a dimenticare il motivo della propria fissazione quando l’altro gli parlò.

«Sai,» disse con calma, «Forse non è il momento più adatto, ma se hai qualcosa da dire dimmela. Te lo si legge in faccia.»

«Io…» iniziò, confuso con se stesso, finché non riuscì ad aggrapparsi all’unica emozione che provava intensamente da una vita e che prima, invece, l’aveva abbandonato, «Io odio… dover dipendere da te.» La propria debolezza lo ripugnava oltre ogni misura. Ripensare alla bruciante sconfitta che aveva subito per mano dei Phantom Thieves gettava solo altro sale sulle sue ferite aperte. Non importavano le loro belle parole. Non importava più nulla di fronte al proprio senso di impotenza. Una parte di lui non sarebbe mai riuscita a liberarsene. Eppure, guardando Akira, non vedeva più soltanto un’occasione mancata, un degno rivale né un nemico giurato. Vedeva una mano tesa verso di lui. Una possibilità spaventosa. «Odio dover riconoscere che ho bisogno di te…» si corresse quasi senza accorgersene.

Quegli occhi così sicuri e profondi, nell’oscurità della stanza, sembrarono brillare per un attimo. Esasperato, Goro si lasciò andare ad un sospiro che sapeva tutto di resa e scosse la testa tra sé. Questa era certamente stata una confessione che il suo vecchio sé non avrebbe mai fatto. Si domandò che fine avesse fatto.

«Capisco…» Akira sembrò pensarci su, assorto, ma un leggero sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Ad ogni modo, ora che sei qui, devi vivere. E io ti darò una mano.»

Il silenzio cadde tra di loro lasciando Goro a domandarsi se avrebbe dovuto prendere quella risposta come un incoraggiamento o come una minaccia. Ma era sempre stato così, Akira Kurusu, estremamente silenzioso e di poche parole e, nonostante tutto, aveva un coraggio e una forza ammirevoli. Le poche parole che diceva non erano quasi mai parole a caso. Goro pensò che avrebbe voluto sentirne altre, e che per farlo avrebbe volentieri risposto, tuttavia non passò molto tempo ancora prima che la medicina iniziasse ad avere effetto. I suoni divennero sempre più ovattati. Se disse qualcosa, nemmeno lo ricordò più. Senza accorgersene chiuse gli occhi e scivolò in un sonno profondo.

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Capitolo 2
*** Slow beat. ***


Capitolo 2.

Slow beat.

 

L’indomani mattina, Akira si svegliò presto, colpito in viso dai primi raggi del sole. Il divano sul quale aveva continuato a dormire per quasi cinque giorni era morbido abbastanza da permettergli un sonno sereno, ma restava ugualmente un po’ troppo corto. Come gli era successo anche le altre volte, aprì gli occhi che ancora sentiva il corpo rigido per aver dormito tutta la notte nella stessa posizione. Nonostante lo spiacevole formicolio dei suoi muscoli che si risvegliavano, tuttavia, dormire lì non gli dispiaceva. Le coperte sotto le quali si rannicchiava ogni sera gli lasciavano una piacevole sensazione di calore e sicurezza, fino al momento del risveglio. Sentiva la mancanza del suo piumone, ma aveva deciso di lasciarlo a chi in quel momento ne aveva più bisogno.

Akira sbatté le palpebre più volte mentre fissava con sguardo assente le proprie mani sul materasso, accanto al proprio viso. Nel momento in cui si era svegliato per la prima volta su quel divano, aveva avuto origine quella che stava diventando una sua pessima abitudine mattutina. Alzò lo sguardo verso il letto, dove il piumone tutto in disordine lasciava scoperto per metà il piede sinistro di Goro Akechi, ancora profondamente addormentato. Si era voltato durante la notte, perché ricordava di averlo visto addormentarsi col volto rivolto al soffitto, e adesso era disteso di fianco abbracciando un lembo del piumone, di faccia alla parete della finestra. La calma nella stanza, in cui l’aria era illuminata e tagliata dai caldi raggi del sole, scivolò lentamente su di lui e il tempo rallentò un poco. Riuscì a sentire il battito del proprio cuore pulsare piano nelle orecchie, poi mentre osservava, accelerare… era questo il momento in cui decideva di alzarsi.

Prima di farlo, allungò una mano sul tavolo da lavoro che aveva appositamente accostato al divano e recuperò i propri occhiali. Non aveva davvero bisogno di portarli per vedere bene, ma ormai era diventato un gesto abituale. Poi prese il telefono sempre dal proprio comodino improvvisato e aprì la chat di gruppo. Non c’erano messaggi nuovi dall’ultima volta che aveva controllato - il che significava, nessun nuovo messaggio dalle tre del mattino, come era giusto che fosse. Negli ultimi giorni gli argomenti erano stati più o meno sempre gli stessi, con una discussione particolarmente accesa sul da farsi nel futuro più prossimo, che poteva riguardare un’unica cosa: quando agire per rubare il cuore di Masayoshi Shido. Ovviamente, erano molti anche i messaggi che chiedevano delle condizioni di Goro. Akira sorrise, pensando che forse presto avrebbero potuto ricevere risposte positive. E assieme al buongiorno allegò la notizia di quella notte.

Il telefono, nell’angolo in alto a destra dello schermo, gli comunicava che erano ancora le sei e ventidue del mattino. Non aspettandosi una risposta immediata, era sul punto di mettere via il telefono nel momento in cui il suono di una notifica riverberò nella stanza. Senza pensarci, Akira abbassò subito il volume della suoneria. Il messaggio era da Haru, sorprendentemente sveglia e reattiva col telefono a portata di mano. Chissà che non stesse già badando alle sue piccole piante sulla terrazza della Shūjin.

“Ma che bella notizia!” Aveva scritto nel primo messaggio. “Come si sente?”

Akira si affrettò a dare informazioni: “Si è svegliato in mezzo alla notte e stava malissimo, non riusciva a respirare bene. Ha iniziato a graffiarsi, come se volesse farsi male, o peggio…” Prima di inviare, passandosi una mano nei capelli, alzò lo sguardo verso il ragazzo che dormiva profondamente nel suo letto. Di nuovo non poté fare a meno di notare le dita dei piedi che sbucavano a penzoloni fuori dal piumone e dal materasso, e sorrise amaramente tra sé. Forse avrebbe fatto meglio ad alzarsi e controllare meglio la sua condizione e, per qualche motivo, decise che non desiderava condividere con gli altri i dettagli peggiori di quella notte. Era rimasto turbato e avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma forse, per questo, avrebbe potuto chiedere a Morgana.

Tornando al telefono, decise di cancellare la seconda parte del messaggio e aggiunse invece “Adesso sembra stare bene.” Non tardò molto la risposta di Haru, che espresse il proprio sollievo prima di rinnovare la proposta, già reiterata più volte nei giorni precedenti, di scrivere al gruppo nel caso avesse avuto bisogno di aiuto. Questa volta, Akira ci pensò più a lungo prima di rifiutare.

“Grazie, ma non ce n’è bisogno. Più tardi però incontriamoci, è meglio parlarne di persona.”

“Certo. Solita ora?”

“Solita ora. A dopo.”

 

 

Quando il profumo del caffè di Sojiro si diffuse nel locale erano ormai quasi le sette. Akira si era vestito e aveva verificato le condizioni di Goro. Il respiro era regolare e doveva esserlo stato per tutta la notte, perché Morgana non si era svegliato come era accaduto le altre volte che il ragazzo aveva avuto degli improvvisi peggioramenti. Il sonno non sembrava nemmeno troppo pesante. Era così… sereno. Akira pensò che forse non avrebbe dovuto aspettare a lungo per vederlo aprire nuovamente gli occhi. Non appena fu pronto, scese al piano inferiore guidato dal suono di stoviglie e acqua che scorreva, segno che Sojiro era già all’opera da un po’ di tempo.

«Ben svegliato,» si sentì salutare quando giunse al bancone. Sojiro gli stava preparando il solito piatto di curry mattutino, mentre il caffè era già pronto. Ad Akira piaceva molto il curry del Leblanc, ma iniziava a pensare che fosse un po’ troppo mangiarlo ogni mattina. Quella volta che aveva domandato il suo parere avrebbe dovuto rispondergli di allargare il menù a qualcosa che non fosse curry invece di farsi trascinare dall’entusiasmo di Futaba.

«Buongiorno,» rispose prima di esibirsi in uno sbadiglio. «Grazie del cibo.»

Dopo la prima cucchiaiata scettica al piatto di curry, dimenticò ogni lamentela e si ricordò perché non proponeva mai a Sojiro qualcosa di diverso. Quel curry era davvero di un altro mondo. Mentre mangiava, decise di aggiornare anche Sojiro sulla situazione. Gli sembrò sollevato, dal modo in cui annuì tra sé e sé, ma lo capì solo perché ormai sentiva di conoscere Sojiro abbastanza bene. «Iniziavo a pensare che sarebbe morto in quel letto,» fu il suo commento, «Dunque gli altri ti raggiungono nel pomeriggio?»

«Così dovrebbe essere…» Akira fece girare il cucchiaio a vuoto nel curry per un po’, domandandosi cosa sarebbe stato più saggio fare in quanto leader dei Phantom Thieves. Dopo qualche altro attimo di silenzio, Sojiro riprese la parola.

«Ora che ci penso, ho sentito un po’ di persone per strada lamentarsi di aver sentito delle urla stanotte. Erano piuttosto terrorizzati. Io invece non mi sono svegliato.»

«Sì, era lui,» affermò Akira senza riserve, mentre portava alle labbra la tazza di caffè. Era amaro e forte, come piaceva a lui, e ormai Sojiro aveva imparato i suoi gusti. Tentò di allungarlo il più possibile, ma il caffè ci metteva così poco a finire. Le ultime gocce lo fissavano dal fondo della tazza. Rassegnatosi al fatto che non poteva di certo mettersi a leccarle via una per una, la poggiò sul bancone e tornò a rivolgersi a Sojiro. «Ho paura che se si svegliasse di nuovo potrebbe causare un pandemonio. Stanotte non era per niente in sé la metà del tempo, solo alla fine si è ripreso.»

L’aveva capito nel momento in cui Goro l’aveva guardato come se non desiderasse altro che strangolarlo. Aveva già sperimentato cosa significasse trovarsi nel mirino di un ragazzo pericoloso come lui e la consapevolezza del pericolo avrebbe dovuto inquietarlo quanto bastava per voler mantenere le distanze. Eppure, trovava un che di affascinante in quella forza. Un’euforia fulminea attraversò il suo corpo, come se un fuoco gli si fosse appena acceso nel petto, ma con ogni probabilità non era altro che il caffè che iniziava ad avere effetto.

«Uhm? Che hai da sorridere a quel modo?» l’appunto di Sojiro non era affatto fuori luogo. Anzi, Akira doveva ammettere che l’uomo era dotato di un ottimo spirito di osservazione.

«Oh?» facendo finta di nulla, si ricompose, «Niente, è che da quando ha capito dov’era e con chi stava, si è calmato, ma al tempo stesso non sembrava molto contento.» Una parte di lui non riusciva proprio a capirlo.

«Non è mai stato un tipo stupido quello, nemmeno io mi fiderei se fossi tu a prenderti cura di me e mi avessero sparato un colpo alla gamba in qualche circostanza sconosciuta,» Sojiro si abbandonò a una breve risata.

Akira alzò gli occhi al cielo con fare volutamente esagerato, ma dentro di sé stava sorridendo. Sceso dallo sgabello, portò lui stesso al lavello il piatto vuoto e la posata che aveva usato e iniziò a lavarli, mentre con la coda dell’occhio notò Sojiro che metteva via la tazza del caffè, pulendola con un panno bagnato. I residui del curry scivolavano facilmente giù dal piatto sotto il getto d’acqua.

«Dunque,» la voce di Sojiro lo richiamò, facendolo voltare mentre questi continuava, «Indirettamente, mi stai dicendo che devo tenere il locale chiuso anche oggi?»

«Oh… sì…» dopo essersi asciugato le mani con il panno appeso al lavello, ripose ogni cosa al proprio posto negli scaffali. «Mi dispiace per il disagio.»

«Finirò al verde per colpa tua, fai bene ad esser dispiaciuto.»

Dal tono della voce Sojiro non sembrava affatto arrabbiato, ma Akira si sentiva ugualmente in debito. Non riusciva quasi a credere a quanto fosse cambiato il loro rapporto dalla prima volta in cui aveva messo piede a Leblanc. All’epoca Sojiro non faceva altro che metterlo in guardia sulla sua condotta e ci voleva poco a capire che non si fidava affatto di lui. Adesso sembrava quasi trattarlo come un secondo figlio. La cosa non gli dispiaceva, anzi, trovava la sua presenza un punto fermo rassicurante della vita a Tokyo.

All’improvviso si rese conto della voce di un reporter alla tv che gli parlava nell’orecchio. Qualcosa doveva aver attirato la sua attenzione, forse un nome o una parola chiave, che si era già persa nel sottofondo dei suoi pensieri. Dopo un primo momento, in cui riconobbe quello che aveva tutta l’aria di essere un dibattito televisivo, Akira non si sforzò nemmeno di ascoltare. Senza dubbio l’oggetto del servizio sarebbe stata l’inesorabile ascesa al potere di Shido come primo ministro alle elezioni. In giro non si parlava d’altro da un po’ di tempo ormai. Pensare a tutto ciò che quell’uomo compiva sotto il naso del popolo che tanto era bravo ad adularlo gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Per non parlare delle condizioni in cui si trovava Goro, di quanto quell’uomo avesse rovinato la sua infanzia, il suo presente e il suo futuro. Se il ragazzo fosse morto su quella nave, in quella situazione, dopo tutte le parole che si erano scambiati… Akira non se lo sarebbe mai perdonato. Finì col domandarsi, tuttavia, dopo la rabbia e il desiderio di morte, cosa rimaneva a Goro Akechi?

Il telefono vibrò nella tasca dei pantaloni e il tintinnio della suoneria attirò anche l’attenzione di Sojiro, il quale smise di osservare la tv assieme a lui. Forse lui la stava ascoltando davvero, però. Riscuotendosi, Akira decise di tornare al proprio attico in cima alle scale. Il telefono squillò un’altra volta mentre andava. Morgana, che era rimasto di sopra, scodinzolò quando lo vide e scese dal letto. Si diedero il cambio come avevano fatto nei giorni precedenti e non ci volle molto prima che Sojiro iniziasse a parlare ad alta voce col gatto. Quando era in compagnia non lo dava a vedere, ma si era davvero affezionato a Morgana e tutte le attenzioni che gli riservava non passavano inosservate a nessuno. Sicuramente anche a Morgana faceva piacere.

Nel ritrovato silenzio della propria camera, Akira attraversò l’ambiente a grandi falcate e, presa la sedia vicino al muro, la trascinò fino al letto, dove si sedette per osservare con calma lo stato di Goro. Nulla era cambiato da prima, quindi si rilassò e, poggiandosi allo schienale, aprì la chat del telefono per controllare i messaggi. Il resto dei Phantom Thieves si era svegliato e tutti avevano finalmente risposto, domandando come fosse andata la nottata, perdendosi in qualche chiacchiera bizzarra e confermando la loro disponibilità per il pomeriggio. Non riuscendo a seguire molto le conversazioni contorte a cui Futaba e Yusuke avevano dato il via - nate probabilmente da qualche innovativa presa in giro un po’ nerd da parte di uno dei due - Akira rispose unicamente ai messaggi importanti e poi mise immediatamente via il telefono. Non sapeva perché, ma in quel momento non aveva voglia di chiudere la propria testa sopra un dispositivo elettronico. Ciò tuttavia lo lasciava con il dilemma di come colmare il silenzio. Senza deciderlo consapevolmente, alla fine Akira si ritrovò ad osservare il modo in cui il petto di Goro si sollevava e si abbassava lievemente sotto le coperte. La pelle chiara del collo era lasciata scoperta dai capelli, che si spargevano disordinatamente sul cuscino. Con un po’ di sollievo notò che il sangue si era già cicatrizzato in diversi punti, anche se faceva quasi male a guardare.

Avvicinandosi ancora, Akira scostò una ciocca di capelli che copriva il viso del ragazzo e si era perfino intrecciata alle sue ciglia. Con l’indice e il medio della mano destra tracciò un sentiero leggero sulla pelle del suo viso, esponendola adesso ai raggi del sole, finché tutti i capelli non furono cacciati via. Erano un po’ sporchi e unti, ma il ragazzo di fronte a lui gli appariva bello e affascinante come il primo giorno in cui si erano conosciuti, se non di più. Forse per coincidenza, proprio mentre lo toccava, Goro sospirò e Akira si sentì congelare, le dita ancora intrecciate ad alcune ciocche chiare. Si aspettò di vederlo aprire gli occhi, ma non accadde. I tratti del viso, rivolto leggermente verso la parete, si contrassero appena - fatto di cui Akira non avrebbe mai preso nota se non si fosse trovato così vicino - poi si rilassarono e fu come se non si fosse mai mosso affatto.

Akira liberò il respiro che aveva trattenuto a lungo senza rendersene conto. Ritrasse la mano con una certa fretta malcelata. Ma erano soli, non avrebbe dovuto provare tutta quell’impellenza. La stessa mano se la passò sul viso e tra i capelli neri e indomabili. Qui ne afferrò una manciata nel pugno e tirò, con forza e più di una volta, abbastanza da farsi male quel che serviva per dimenticare il battito impazzito che gli pulsava prepotentemente nelle orecchie.

 

 

«Dunque è questo il modo in cui si è procurato quelle ferite? Deve esser stato… pericoloso.» La voce profonda di Yusuke arrivava alle sue orecchie meglio delle altre. Alla fine, come era forse inevitabile, aveva raccontato ai ragazzi tutta la verità sugli avvenimenti della notte. Gli occhi di Yusuke erano puntati su Goro, che riposava nel letto nella stessa posizione di prima e non aveva mosso un muscolo nemmeno quando gli altri erano entrati. Il rumore delle sedie, il tavolo che veniva spostato, l’inconfondibile tono di voce di Ryuji, nulla di tutto ciò era riuscito a svegliarlo.

«Non ti ha ferito, vero Akira?»

«No, non ci ha nemmeno provato.»

Haru, che aveva posto la domanda, assieme a tutte le altre ragazze, sembrò tirare un sospiro di sollievo. Non capiva il perché della grande preoccupazione: aveva affrontato di peggio ed era sopravvissuto a Goro più di una volta. Nelle condizioni in cui versava, inoltre, il ragazzo non aveva nemmeno la forza di stringergli una mano attorno al collo o di trattenerlo, se solo avesse provato a scappare.

«Ehi amico,» Ryuji si sedette al contrario sulla sedia, poggiando i gomiti contro lo schienale, «Pensi che quando si riprenderà sarà ancora dalla nostra parte?»

Akira fece spallucce, «Chi lo sa.» Non era una faccenda così semplice da poterla ridurre alla “loro parte” e la “sua parte”. Goro doveva star soffrendo molto in quel momento e doveva aver sofferto molto anche in passato. Non importava quanto guardasse indietro alle singole esperienze di vita di tutti loro, nessuna era paragonabile a ciò che doveva aver portato quel ragazzo alla follia.

«Spero capisca che possiamo fare questo tutti insieme,» disse Ann con risolutezza. Futaba annuì e anche Haru si mostrò d’accordo. Makoto invece sedeva sul divano, le mani giunte in grembo e lo sguardo pensieroso. I lineamenti seri del suo viso tradivano sempre una certa grazia, agli occhi di Akira, che improvvisamente si domandò come mai Yusuke non le avesse ancora mai chiesto di posare per lui. A giudicare dal modo in cui stava lì pensosa a corrugarsi la fronte, però, meno graziose dovevano essere le parole che passavano per la sua mente.

«A cosa pensi, Makoto?» domandò infine, stanco del silenzio che era calato così presto nella stanza. La ragazza alzò lo sguardo verso di lui senza sorprendersi di esser stata interpellata, e con occhi limpidi puntati nei suoi iniziò a spiegare.

«Il fatto è che credo non sia una buona idea permettere ad Akechi di prendere parte assieme a noi allo scontro finale con Shido.»

Senza avere nemmeno il tempo di prendere un respiro e rispondere, Akira fu preceduto da Ryuji, che iniziò a parlare a voce alta ma finì per regolare presto da solo il proprio tono. «Perché no? Sarebbe una buona occasione per lui… Per vendicarsi di tutta la merda che quel coglione gli ha fatto passare, sai com’è.»

«Sì, lo penso anch’io, questo. Ma siamo sicuri che sia in grado di sostenere una pressione del genere?» Makoto era razionale, fredda e imperturbabile nel suo ragionamento. Sempre forte e pragmatica quando si trattava di compiere scelte importanti.

«Sono preoccupata per il suo stato mentale.»

«Mi trovate ad essere d’accordo,» senza sorprendere Akira più di tanto, Yusuke disse la propria «Devo ammettere che ho continuato a pensarci in questi giorni. Non dubito che le sue intenzioni nei nostri confronti siano cambiate, ma prima dell’altro giorno… non avevo mai visto nessuno perdere il controllo in maniera tanto violenta.»

Haru si alzò dalla sedia e tutti sollevarono lo sguardo verso di lei.

«P-però,» balbettò, come ogni volta in cui le emozioni la prendevano di sorpresa, «Io c’ero quando abbiamo sconfitto mio padre, ed è stata una delle più grandi liberazioni della mia vita. A prescindere da quel che è successo dopo… Non ho rimpianti! Ne avevo bisogno, ed era necessario farlo.»

Le sue parole fecero calare il silenzio nella stanza. Non era facile ignorare il parere di Haru quando si trattava di Goro. Akira poteva solo immaginare quanto fosse emotivamente stancante per lei spendere altro tempo sotto lo stesso tetto dell’assassino di suo padre. Per non parlare del fatto che sorrideva sempre e non raccontava a nessuno di tutte le difficoltà che sicuramente stava affrontando nella gestione dell’eredità paterna - economica ed emotiva.

«Perché non lo chiediamo direttamente a lui?» Infine, fu Ann a rompere il ghiaccio. Ryuji si passò una mano tra i capelli e alzò gli occhi al cielo.

«In effetti, stiamo facendo i conti senza l’oste…»

«Futaba,» Akira intervenne, dondolandosi un pochino sulla sedia. La ragazza, seduta dal lato opposto del tavolo, con Morgana in braccio che faceva le fusa, gli rivolse uno sguardo un po’ sorpreso. Forse il proprio richiamo era stato troppo improvviso - si rimproverò Akira - ma Futaba era una persona sveglia e sicuramente aveva previsto che il suo silenzio non sarebbe passato inosservato. Schiaritosi la gola, aggiunse: «Quali sono i tuoi pensieri al riguardo?»

La ragazza si morse il labbro inferiore e iniziò a giocherellare con una lunga ciocca di capelli che cadeva dalle sue spalle. «Forse dovremmo agire il prima possibile, prima ancora che si risvegli…» propose, «Statisticamente parlando, in questo modo è impossibile che finisca per intralciarci o sabotarci in qualche maniera.»

«M-ma!», lo stupore di Haru era dipinto interamente sul suo viso di porcellana, «Così non gli lasciamo alcuna scelta!»

«Giusto poco fa sembravi di tutt’altro avviso,» osservò Ann sorpresa.

«Non ho cambiato idea sul collaborare, credo solo che questa sia la maniera più efficiente di procedere.»

«Ha ragione Futaba,» Yusuke nuovamente, «Non ricordate anche voi ciò ha detto lui stesso? “Dovreste sbarazzarvi di me, se non volete che mi metta sulla vostra strada”

Akira si lasciò sfuggire una mezza risata e uno sbuffo divertito. Certo, ricordava benissimo, «“Siete veramente al di là della mia comprensione”,» citò poco prima che il suo sorriso svanisse. «Eppure, credo che far parte di questo gruppo sia ciò che desidera di più.»

Se solo ci fossimo incontrati qualche anno fa… 

Già, chissà come sarebbero andate le cose.

«Magari però è troppo tardi,» inaspettatamente, la voce di Makoto tradiva una sorta di rabbia che lei tentava ugualmente di tenere a freno. «Giunti a questo punto, non possiamo rischiare di fallire. Ne va dell’incolumità di tutti noi, della tua per primo, Akira. Poi della nostra e di tutti quelli che ci sono legati, come Sojiro e mia sorella. Infine, ne va del futuro del nostro paese. In confronto a tutto ciò, quelli di Akechi non sono altro che capricci di un bambino egoista!»

Negli attimi seguenti Akira vide Yusuke annuire, Ryuji storcere il naso e guardare altrove, mentre Haru stringeva i pugni sulle ginocchia, Futaba taceva tornando ad accarezzare Morgana e Ann taceva con le braccia incrociate al petto. Chinatosi in avanti e poggiando il proprio peso sulle gambe, con lo sguardo osservò ciascuno dei presenti.

«Non ho detto che ho intenzione di farlo venire con noi,» iniziò quindi a spiegare con calma, ascoltando l’effetto che le proprie parole ebbero sul silenzio della stanza, «Bisogna considerare anche il fatto che è stato ferito, Takemi ha detto che per un po’ non potrà nemmeno camminare senza sostegno. Tuttavia, a prescindere dalle sue condizioni fisiche, anch’io penso che non sia una buona idea portarlo con noi.»

Passò qualche istante prima che Ryuji sbuffasse divertito, «C’è un “ma” grande come una casa nella fine del tuo discorso, amico.» Akira sorrise, sorpreso che fosse stato proprio lui il primo a rendersene conto.

«Il mio ma è questo e forse non vi piacerà: non ho alcuna intenzione di portare a termine questo piano a sua insaputa.»

Gesticolando un po’ nell’aria, Ryuji portò alla luce uno dei diversi pensieri che avevano trovato spazio anche nella testa di Akira. «Dunque mi stai dicendo che quando noi andremo lì dentro, dopo aver mandato il biglietto, tu vuoi che Akechi sia sveglio e lo sappia, giusto?» Akira annuì in risposta, «E se non si sveglia in tempo?»

«Allora, ascoltate un po’,» intervenne Morgana, alzandosi dalle gambe di Futaba, per salire sul tavolo. Era giunto il momento di fare il punto della situazione. «La nostra data di scadenza coincide con le elezioni che si terranno il 18 dicembre. Per essere sicuri al cento per cento di avere il tempo di mandare il biglietto e rubare il tesoro, dobbiamo agire entro e non oltre il 16. Il 16 si manda il biglietto, il 17 si ruba il tesoro. Come hai intenzione di fare con lui, Akira?»

«Se non dovesse svegliarsi prima del 15 dicembre, passeremo all’azione indipendentemente da lui.» Nessuno sembrava avere niente da obiettare, ma Makoto non lo deluse.

«E se invece si svegliasse e decidesse di seguirci nel metaverso senza dire niente?»

«Non è una possibilità da escludere.»

Yusuke e Makoto si scambiarono uno sguardo d’intesa che finì col coinvolgere tutti quanti. Akira sapeva che era proprio in momenti come quelli che un leader doveva saper tirare le fila e risolvere la situazione. Senza vacillare, sorrise, per il bene di tutti quanti.

«Per questo, lasciate fare a me.»

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Capitolo 3
*** Smooth poisoner. ***


Capitolo 3.

Smooth poisoner.

 

Il ristorante di ramen era affollato come sempre all’ora di punta. C’erano persone che si muovevano lungo i corridoi tra le sedie e gli sgabelli, chiacchiere di ragazzi e grida per le ordinazioni che giungevano dalla cucina. Al di fuori della porta, la prima di una lunga fila di persone sbirciava all’interno oltre la tendina, dondolandosi da un piede all’altro. Ovunque, rumore di stoviglie, bacchette che tintinnavano contro i piatti, o il rumoroso risucchio dei più tradizionali appassionati di ramen. Schiamazzi e risa riempivano quel poco che rimaneva di aria serena e tranquilla. Eppure, nonostante la caoticità l’ambiente rimaneva caldo e accogliente. Trasandato, certo, e magari i proprietari avrebbero potuto prendersene più cura, ma il cibo servito restava buonissimo.

Non c’era da sorprendersi che il ragazzo al suo fianco amasse quel posto così tanto. Ryuji era esattamente il genere di persona sulla quale a prima vista nessuno avrebbe scommesso nemmeno mezzo yen, ma sarebbe bastato solo fare più attenzione per rendersi conto che per persone come lui sarebbe sempre valsa la pena di affaticarsi un po’, stare in fila anche tre ore, come quei poveri uomini fuori dalla porta in attesa che gli venisse assegnato un posto. Questo era quello che pensava Akira mentre si portava alla bocca lo spicchio di uovo sodo che galleggiava nel brodo e, accanto a lui, Ryuji mangiava con foga la sua porzione di ramen al manzo. Certo, continuò tra sé con un sorriso divertito, probabilmente l’amico non si rendeva conto di nulla e pensava unicamente al cibo buono.

Quando la fame si era placata e quel che rimaneva del ramen poteva esser mangiato in tutta calma, si sentì chiamare: «Ehi Akira, è da un pezzo che non ci alleniamo più assieme.» Il richiamo riportò in un attimo alla sua mente il sole caldo sulla schiena e il vento che gli sferzava in faccia mentre la schiena di Ryuji che correva davanti a lui si faceva sempre meno distante. Quando avevano appena iniziato ad allenarsi assieme, Akira aveva dovuto riconoscere le proprie scarse doti atletiche, ma col tempo era riuscito a raggiungere il suo amico in quelle corse nei giardini della Shūjin. Correre insieme era qualcosa che per primo Ryuji gli aveva insegnato.

«Già,» rispose con un sorriso malinconico, «Mi sa che sono passate almeno due settimane.»

«Anche di più, amico. Con tutto quel casino con la polizia, il finto suicidio, la reclusione in casa. Io direi che sono almeno tre.»

Il volto pallido di Ryuji si espresse in un sorriso un po’ tirato da un lato e Akira si sentì in colpa, anche se non sapeva per cosa precisamente. Coi suoi occhi marroni, il ragazzo fissava un punto indefinito sul tavolo. «Sai mi manca un po’,» fu la sua ultima spiegazione. Akira provò la spiacevole sensazione di ritrovarsi senza parole da dare, e si ritrovò ad agitare le proprie emozioni con le bacchette in fondo al brodo di ramen.

«Non è stato facile per nessuno, immagino,» riuscì a formulare.

Ryuji scosse la testa, «No, per un attimo abbiamo tutti pensato che fossi morto davvero. Ma dentro, in fondo in fondo, me lo sentivo che non poteva essere andata così. Insomma, tu, morto? Ma nemmeno se scende dio in terra.»

Ad Akira venne da ridere e lasciò andare le bacchette. «Siamo stati bravi. So che non dovrei dirlo, ma mi sono sentito proprio figo in quel momento.»

«Ma tu sei figo,» fece l’altro battendo un pugno sul tavolo, «Più di chiunque altro io conosca, di sicuro. Io me la sarei fatta sotto. Pensa se Akechi fosse davvero entrato nella tua stanza, avesse sorriso come il bravo ragazzo che finge di essere per poi puntarti una pistola alla testa e bam! sparare senza alcun rimorso, con te che ti sei visto passare tutta la tua vita davanti agli occhi come succede nei film.»

Akira rise, immaginando tutta la scena come sicuramente doveva essere andata. Una manciata di spaghetti sfuggì mentre riprendeva a mangiare e ricadde dentro la ciotola, provocando qualche schizzo.

«Chi ti dice che non me la sono fatta sotto?» continuò il discorso.

«Se mi dici che ti sei sentito figo, difficilmente te la sei fatta sotto.» La risposta di Ryuji aveva un certo senso. Akira si grattò la testa, pensando. Ricordava nettamente la sensazione terribile di vuoto e attesa che l’aveva torturato in quella stanza fredda e grigia, del dolore in ogni muscolo del corpo a causa delle botte che aveva preso. Non poteva dimenticare il modo in cui il suo cuore aveva smesso di battere al dischiudersi della porta e all’apparire del volto di Sae Niijima.

«Non pensi che potrei sentirmi figo e avere una paura folle allo stesso momento?»

«Beh,» Ryuji sembrò doverci ragionare su, come se la considerasse ora lui stesso una faccenda importante, che necessitava risposte serie, «Sai che? Non lo so. Ma se si tratta di te, probabilmente la risposta è ugualmente.»

Akira sorrise, lusingato, prima di esser portato oltre dai propri pensieri. «Sai, ritornando a quella volta che chiudemmo la faccenda di Yamauchi, quando mi dicesti che prima di conoscermi non facevi altro che trovare scuse al perché non riuscissi a stare al tuo posto, dando la colpa ad altra gente…»

«Woah, frena frena,» Ryuji l’interruppe tirando su un dito. Il ragazzo ingoiò l’ultima manciata di spaghetti risucchiandoli forte con le labbra e si pulì poi le labbra col dorso della mano, prima di rendersi conto che adesso avrebbe dovuto pulire anche quella sul tovagliolo. Quando fu a posto, si volse nuovamente verso di lui. «Come mai questo salto nel passato?»

«Ho ripensato a quella volta. A volte ho come la sensazione che tutti voi non facciate altro che ammirarmi incondizionatamente, come se ogni scelta che prendessi fosse quella giusta. Dite sempre che riesco a non farmi influenzare dagli altri, e cose così.»

«Ma è vero, o sbaglio?»

«Sì, è vero…» se non fosse stato per la profonda convinzione che aveva di star facendo la cosa giusta, non sarebbe più riuscito a rimanere fedele a se stesso né ai propositi che avevano spinto i Phantom Thieves così lontano. «Però mi interessa sempre sapere le vostre opinioni. Siete i miei compagni e i miei migliori amici.»

«Stai certo che se dici qualche cazzata te lo facciamo notare,» fece l’altro con nonchalance, «Onestamente non aspettiamo altro, amico.»

«Se le cose stanno così, non mi farò cogliere impreparato.» Akira sospirò silenziosamente e tornò a concentrarsi sul cibo. Ogni tanto, tendeva a dimenticare che non era il caso di addentrarsi in discorsi complicati con Ryuji. Non era tipo da ragionamenti lunghi e impegnativi e si perdeva dietro alle parole con lo stesso sguardo confuso di quando affrontava un’equazione. Ad Akira dispiaceva non poter affrontare con lui argomenti che spesso riteneva importanti, ma allo stesso tempo non poteva dire che non fosse un grande amico. Indirizzando il discorso in altra direzione, continuarono a conversare mentre si dedicava a finire il proprio ramen.

Una mezz’oretta più tardi stavano passeggiando fianco a fianco per la strada principale di Shibuya, entrambi diretti verso la metropolitana ma senza alcuna fretta nei loro passi. Ryuji stava giusto proponendo di fermarsi a metà strada all’arcade quando Akira si rese conto che presto sarebbe stata ora di tornare a casa. Notando il suo disappunto e mostrando un acume che Akira non si sarebbe mai aspettato da lui, Ryuji si allontanò dall’ingresso della sala giochi e smise di parlare di videogames per chiedere: «Com’è la situazione a casa?»

«Al solito, Akechi dorme. Morgana è rimasto indietro per coprirmi mentre uscivamo oggi,» spiegò con non molto entusiasmo. Iniziava a dovere troppi favori al loro amico a quattro zampe.

«Eh, che dorma così tanto è strano forte, se mi chiedi.»

«Se penso a quella volta in cui Futaba ha dormito per due settimane consecutive, non mi sorprendo più di niente,» Akira sorrise facendo spallucce. Alla fine, i due superarono l’arcade senza entrarvi. Il cielo era grigio e la strada gremita di gente, in un via vai continuo e instancabile. C’erano così tante persone affacciate alle vetrine, o che uscivano dai negozi. Un uomo vendeva del cibo in una piccola bancarella ambulante, un ragazzo in un vicolo distribuiva volantini per una nuova discoteca aperta nei dintorni. Akira ripensò alla sua città natale e alla tranquillità delle sue strade. L’esatto opposto di Shibuya.

«Senti…» la voce di Ryuji lo richiamò. Akira lo guardò con curiosità. L’amico stava insistentemente calciando via i sassolini che avevano la sventura di trovarsi sulla sua strada, incurante di dove finissero. Per una volta, il suo sguardo era indecifrabile.

«Dimmi.»

Dopo un attimo di silenzio, «No, niente. Lascia perdere.»

La risposta suonava decisamente inusuale per Ryuji, che non se ne stava mai zitto. Con sguardo severo, Akira insistette, «Non fare il timido, ti ascolto.» A quel punto, i loro occhi si incrociarono e Ryuji accennò una risata nervosa, poi si passò una mano tra i capelli.

«Non so come dirlo,» sospirò, «Sono preoccupato del da farsi e al tempo stesso non so che pensare della situazione con Akechi. Ci si può fidare? Dovremmo semplicemente lasciarlo al suo destino? Convincerlo a consegnarsi alle autorità? Se penso che il ragazzo è un pluriomicida, mi si gela il sangue nelle vene, è davvero il posto che gli spetta, la prigione. Però—»

«Però?»

«Ah!» esasperato, Ryuji calciò un sasso con più forza degli altri, finendo per colpire alla testa un uomo che camminava poco più avanti. Questi imprecò, prendendo a guardarsi intorno furiosamente. «Oh merda,» Ryuji fece per scattare ma Akira lo trattenne. «Aspetta, con calma…» I due continuarono a camminare a passo normale, e l’uomo finì per non trovare nessuno di sospetto su cui scaricare la rabbia. Senza dare nell’occhio, i due si mossero di lato e accelerarono il passo per evitare quell’aura di furia omicida. Non appena furono abbastanza lontani, si lasciarono andare a una risata.

«E anche oggi, il nostro eroe ne esce indenne,» lo punzecchiò Akira col sorriso sulle labbra.

«Fatto il misfatto, amico.» Ryuji alzò il pugno, Akira batté il proprio e si sentirono entrambi leggeri. Riprendere il discorso su Goro li fece nuovamente sentire come due animali in gabbia, ma mentre i loro piedi continuavano a guidarli a destinazione, entrambi nel loro intimo dovevano aver accettato la necessità di affrontare la faccenda.

Senza bisogno di incoraggiamento, stavolta, Ryuji fece del proprio meglio per spiegare: «Il mio problema è che non importa quanto ci provi, davvero, io non riesco a giudicare Akechi a cuor leggero. Ecco, l’ho detto. Non sto dicendo che dobbiamo perdonarlo per quello che ha fatto, ma capisci, come si fa a puntargli il dito contro e dire che si merita la galera? Non è come tutti gli altri adulti corrotti che abbiamo affrontato finora. Anzi, sotto certi punti di vista, è quasi peggio: ad esempio, Kamoshida non ha mai ammazzato nessuno, e nemmeno Madarame, né Okumura… anche se penso si possa dire che tutti e tre abbiano indotto al suicidio almeno una persona ciascuno. Ah, il punto è che non riesco a capire nemmeno io come mi sento.»

Akira quasi strabuzzò gli occhi di fronte al suo ragionamento. «Secondo me hai tutto il diritto di sentirti così, e non penso tu sia l’unico.»

«Non so, amico… A parte Haru e Ann, voialtri sembrate abbastanza convinti del da farsi. Stavolta è stato impossibile avere l’unanimità e dobbiamo rimetterci al tuo giudizio.»

Akira sospirò e aggiustò gli occhiali sul naso. Con le mani in tasca, continuarono a camminare in silenzio per un poco. «Sai, nemmeno io riesco a giudicare Akechi con facilità. Non so proprio cosa dovrei fare. Anche se ho deciso di non farlo venire in missione con noi, questo non significa necessariamente che io abbia le idee chiare. Ho solo preso la scelta che mi sembrava migliore per il gruppo, date le circostanze.»

I loro sguardi si trovarono e Akira non poté non notare una punta di sorpresa negli occhi marroni di Ryuji. Era così strano che anche lui a volte non sapesse che pesci prendere? Si pentì quasi subito di aver detto quelle parole, ma prima che potesse correggersi Ryuji gli rispose.

«Quindi non sono l’unico ad avere le idee confuse? Questo mi conforta molto, iniziavo a pensare di essere strano io.»

«Il fatto è che non è una cosa buona per me, dato che sono il leader.»

«Ehi, senti… Anche i leader possono avere dei dubbi, ogni tanto. Se non ne avessero mai, sarebbero dei robot, diventerebbero dei maniaci del controllo, brutti bastardi come Kamoshida che non ascoltano mai gli altri e non provano a capirli e non sono in grado di farsi un esame di coscienza. Tu stai già facendo tanto per tutti noi, fidati.»

«Grazie, Ryuji… davvero.» Poi, Akira semplicemente restò in silenzio, perché non provava più alcuna necessità di spiegarsi. A volte bastavano poche parole a far sentire la propria vicinanza a qualcuno e lui non era un grande oratore. Sebbene avesse imparato ad esser convincente in una discussione e avesse acquisito un certo carisma, restava di natura una persona silenziosa. Per una volta era piacevole trovarsi nel ruolo di chi veniva incoraggiato, piuttosto che dall’altra parte.

«Avremo tempo per pensarci,» gli disse infine, mentre raggiungevano i tornelli della metropolitana, «Adesso dobbiamo soltanto rubare il tesoro di Shido e chiudere la faccenda una volta per tutte.»

Ryuji annuì e sorrise allegramente, dandogli una pacca sulla spalla, «Hai ragione, non c’è motivo di romperci la testa adesso.»

Akira sorrise e ricambiò il mezzo abbraccio, «Ci vediamo presto, grazie del pranzo.»

«Ma ti pare? Sei troppo formale, Akira. E poi, mica te l'ho pagato io! Ci si vede presto.»

Si salutarono e Akira scese le scale fino a raggiungere la banchina del proprio treno. Come al solito, non dovette aspettare più di due minuti e, una volta su, dovette accontentarsi di stare in piedi vicino alla porta. La sua mente era un fiume in piena. Era uscito con Ryuji per cercare di non pensare e invece lui stesso gli aveva rimandato indietro tutto ciò che stava cercando di allontanare. Era anche riuscito ad avere una conversazione seria con lui. Senza dubbio, quel giorno sarebbe diventato una pagina da ricordare nel suo diario.

Fu d’un tratto che irruppe la sensazione di qualcosa che aveva iniziato a vibrare nella tasca destra dei suoi pantaloni. Passò un istante e la suoneria del telefono proruppe nella quiete del vagone, sovrastando facilmente il leggero chiacchiericcio dei passeggeri. E no, non era la breve, semi-innocua suoneria degli sms che ti metteva un po’ di imbarazzo e poi si zittiva. Era la suoneria lunga ed insistente di quando stava ricevendo una telefonata, quella che lo costringeva ad annaspare nei pantaloni come se non sapesse dove si trovassero le tasche.

Con un accenno di panico di fronte alle occhiatacce dei vicini, infine le sue dita raggiunsero il telefono e lo sfilarono per un angolo con presa precaria – pensò che il colmo sarebbe stato farlo cadere a terra e doversi abbassare per raccoglierlo, ma per fortuna ciò non accadde. Il nome di Sojiro risaltava in bianco sullo schermo nero e Akira fece scivolare il dito sull’icona verde con una certa impazienza.

«Pronto?»

«Kurusu, dove sei?» Akira sentì il sangue gelarglisi nelle vene. La voce dall’altra parte del ricevitore non era certamente quella bassa e profonda di Sojiro e non c’era modo in cui lui non l’avrebbe riconosciuta. Il cuore gli batté più veloce e per un attimo nella sua mente si fece vuoto totale. Le parole che aveva appena sentito gli sembrarono irreali e distanti, come provenienti da un altro mondo.

Finalmente

«Sulla metro,» rispose, cercando di non far trasparire la sorpresa. Goro si era svegliato e lui, improvvisamente, non sapeva cosa dirgli - accidenti, proprio oggi che Sojiro ha riaperto il bar.

«Stai tornando?»

Non riusciva a interpretare il tono della sua voce. Non sembrava arrabbiato, ma nemmeno spaventato o confuso. Piuttosto, avrebbe detto che era calmo e controllato come tutte le altre volte che avevano parlato - prima del loro ultimo incontro nel palazzo di Shido.

«Sì, sto tornando,» scandì piano e alle sue parole seguì un silenzio inaspettatamente lungo, amplificato da quello presente nel vagone, nel quale ad Akira sembrò di poter sentire il respiro di Goro contro il microfono.

«Va bene… Fai presto, per favore.»

La linea cadde impedendogli di rispondere e Akira rimase per un po’ ad ascoltare il suono ritmico del canale interrotto. Battendo gli occhi velocemente tornò con la testa alla carrozza della metropolitana, piena di gente e sguardi indiscreti. Volendo evitare di disturbare nuovamente la quiete pubblica, mise il telefono in modalità silenziosa per il resto della tratta.

 

 

Quando il treno si fermò alla stazione di Yongen-Jaya, Akira fu uno dei primi a scendere. Si accorse di aver intrapreso lo stretto vicolo che sbucava direttamente di fronte al Leblanc piuttosto che la via principale solo quando si trovava già a metà strada. Sulla porta non c’era nessuno e il cartellino era voltato su “Aperto”. Una parte di lui tirò un sospiro di sollievo: significava che Goro, svegliandosi, non aveva creato tutti i danni che si sarebbe immaginato. Non appena fu dentro, fu salutato da Sojiro con un che di amaro sulle labbra e uno sguardo che gli indicava le scale. Colse di sfuggita le sagome degli ospiti seduti ai tavoli e raggiunse l’attico salendo gli scalini due a due.

Lì, trovò Goro che sbirciava tra le sue cose sulle mensole e Morgana che gli stava accanto sul pavimento. Al suo arrivo, il ragazzo si voltò con un veloce movimento della testa. Teneva in mano la paperella giocattolo che Iwai gli aveva regalato dopo averla trovata per caso al parco. «Oh,» si affrettò a rimetterla a posto sul ripiano. Indossava ancora il pigiama che Akira gli aveva prestato, con le maniche lunghe blu e i pantaloni della tuta color grigio chiaro. I piedi erano scalzi.

«Scusa stavo solo… ingannando il tempo.»

«Figurati.»

Akira mise via la borsa e si abbassò il cappuccio. Poi si avvicinò all’altro e lo guardò dalla testa ai piedi, come aveva fatto molte volte nei giorni precedenti, con l’unica differenza che ora Goro era in piedi di fronte a lui piuttosto che steso incosciente nel suo letto. «Come stai?»

Goro aveva il viso pallido e i suoi occhi brillavano come se fossero lucidi. Akira pensò che probabilmente aveva ancora la febbre, ma si trattenne dal mettergli una mano sulla fronte perché sarebbe risultato troppo brusco farlo senza avvisare. Goro sembrò fare fatica a trovare le parole, «Mi sento… intontito, devo dire. Ma sto bene, davvero, ce la faccio.» Dal tono della sua voce sembrava quasi che non volesse parlarne. Non resistendo più, alla fine Akira sollevò una mano vicino al suo viso e istintivamente Goro si spostò, evitandolo.

«C-che fai?»

«Controllo la temperatura. Posso?»

L’altro non rispose ma alla fine annuì. Akira se lo fece bastare. Scostando i capelli dalla fronte, vi poggiò il dorso della mano. La pelle era calda, ma non così tanto da convincerlo. Cercando di ignorare il fatto che quella vicinanza dava tutta un’altra sensazione ora che Goro era sveglio, Akira poggiò sulla propria fronte il dorso dell’altra mano. Guardò altrove per concentrarsi meglio sulla sensazione e alla fine interruppe il contatto.

«Sembra che ti sia passata la febbre.»

«Ah, sì, meno male.» Una volta libero dal suo tocco, Goro si sistemò di nuovo la frangia sulla fronte. Una smorfia piegò la linea delle sue labbra mentre tra due dita si teneva una ciocca di capelli. Nel guardarla, incrociò un po’ gli occhi. Akira pensò di non avergli mai visto fare una faccia così buffa. Quando riportò l’attenzione su di lui, il ragazzo sorrise appena. «Morgana mi ha detto tutto… Mi dispiace aver abusato così a lungo della vostra ospitalità…»

«Sei troppo formale, Akechi.»

«E tu sei stato anche troppo gentile, Kurusu.»

«No, è stata la cosa più naturale da fare. Non potevo lasciarti lì, in quello stato.»

Goro continuò a sorridere e per un attimo Akira vide di nuovo il suo viso come l’aveva osservato tante volte alla tv, con un sorriso gentile, di cortesia, superficiale affabilità. In quel preciso istante, Akira non seppe dire se si trattasse di un gesto spontaneo o della solita maschera da bravo ragazzo. Dovette ammettere però che una parte non indifferente di lui avrebbe voluto prenderlo per le spalle e scuoterlo finché non si fosse arrabbiato. Voleva vederlo furioso come era stato l’ultima volta, sentire tutta la sua energia liberarsi e investirlo in pieno, ascoltare le sue grida e poter finalmente dire di aver visto il vero Goro Akechi.

«Senti,» iniziò poi il ragazzo, tornando serio e cancellando quel sorriso che tanto gli aveva dato da pensare, «Per caso hai una doccia qui?»

Akira scosse lentamente la testa, «No, mi spiace. Quando serve vado ai bagni pubblici qui di fronte o uso la doccia di Sojiro.»

«Capisco…» Goro guardò verso le scale, tenendosi il mento con una mano, «Pensavo di lavarmi… è come se non lo facessi da una vita. Ma non voglio disturbare il capo a casa sua.»

«Ci andiamo insieme,» propose Akira, «Ai bagni pubblici, intendo». L’altro sembrò poco convinto perché rise, visibilmente a disagio, e scosse la testa. «No davvero, sarebbe strano.»

Akira alzò gli occhi al cielo e non fece alcuno sforzo per nasconderlo, «Vieni, sediamo un attimo, vorrei parlarti.» Senza aspettare una risposta, andò a sedersi sul letto. Goro lo osservò in silenzio e restò fermò dove si trovava più a lungo del necessario. Quando si mosse verso il letto, fu chiaro che faceva fatica a camminare, perché anche se si trattava di fare appena due passi e per quanto cercasse di nasconderlo, zoppicava.

Quando Goro si sedette alla sua destra, Akira si sistemò meglio sul letto, volgendosi verso di lui. Per qualche motivo, si sentiva così emozionato che per un attimo sentì la nausea. Aveva così tante cose che avrebbe voluto discutere con Goro, ma ora guardandolo dritto nei suoi occhi vermigli si perdeva e non sapeva da dove iniziare. Si sentiva come una teenager che incontrava il proprio idolo per la prima volta: indescrivibilmente patetico.

«Ti fa male la gamba?» gli chiese infine.

«Sì, un pochino,» quel sorriso appena accennato aleggiava ancora sulle sue labbra. «Ma prima sono riuscito a farmi tutte le scale da solo e a camminare avanti e indietro fin fuori dal caffè, quindi direi che non è grave.»

Morgana si lasciò sfuggire una mezza risata, ma quando Akira gli domandò cosa avesse rifiutò dicendo che non era niente. Se non aveva visto male, Akira poteva giurare di aver colto un mezzo sguardo di rimprovero per lui da parte di Goro, che comunque tacque. Chissà cosa aveva combinato da poter desiderare di non farglielo sapere. Si immaginò una scena in cui Goro si svegliava e scendeva di sotto come una furia.

«Okay, meno male,» disse tornando a guardare il ragazzo. «Dimmi, qual è l’ultima cosa che ricordi?»

L’altro si passò una mano tra i capelli e poi sul collo, ritraendola poi di scatto. «Mi ricordo un lettino in una clinica… il soffitto bianco, odore di disinfettante. C’era… una signora coi capelli scuri a caschetto…» Goro si fissò la mano sinistra per un attimo, poi alzò lo sguardo verso di lui e aveva un po’ di esitazione negli occhi. «Poi nient’altro.»

«Ti ricordi di due notti fa?»

«Erano… due notti? Non so, io… Ho questa immagine del tuo viso nel buio e poi le mie mani sporche di sangue, e Morgana sul letto. Credo di averti parlato, ma non riesco a capire se quello che ricordo è un sogno o la realtà.»

Akira sorrise, «Sì, abbiamo parlato un poco.»

«Allora scusami,» improvvisamente Goro sembrò agitarsi ed Akira si rese conto che trovava inaspettatamente bello il modo in cui sobbalzava e sgranava gli occhi ogni volta che realizzava qualcosa. «Non è vero che ti odio. Mi dispiace… anzi, ancora non ho ringraziato nessuno di voi per non avermi lasciato lì. Io ero pronto a morire e a farla finita e— ma… alla fine sono grato…» Aveva gli occhi lucidi, questa volta di pianto, e verso la fine della frase la voce aveva finito per cedere sempre più, fino al silenzio. Il suo sguardo navigò altrove, dando senza volerlo un po’ di tempo da Akira per ricomporsi dal proprio smarrimento.

«Ehi… Non fare così, è tutto a posto.» Akira si sentì come se all’improvviso fosse tornato alla notte precedente, «Faremo andare le cose per il verso giusto, tutti insieme.» Poggiò una mano sulla sua spalla e Goro reagì mordendosi le labbra. In un battito di ciglia, Goro lo guardò, lasciò andare un respiro stentato e si portò le mani al volto.

«Scusami, io non posso ancora crederci. Non guardarmi, dammi un momento soltanto».

Di fronte alla sua richiesta, Akira annuì, «Certo, non sforzarti troppo.» Voltandosi di spalle, diede al ragazzo il tempo che gli serviva per calmarsi e per un attimo fu tentato di chiedergli se avesse bisogno di un fazzoletto, ma preferì riservargli la gentilezza di non indulgere sulle sue ferite aperte. Attese, ascoltando il respiro del ragazzo alle sue spalle, e infine fu Goro a poggiare con esitazione la sua mano sulla spalla di Akira. Nel suo viso non era cambiato molto, se non il fatto che la sua carnagione non era più pallida, ma aveva assunto quel colorito acceso di quando si piange. Goro doveva aver combattuto molto per non far uscire le lacrime, perché il suo viso era asciutto ma gli occhi brillavano ancora.

«Va meglio?» Akira cercò di offrirgli il sorriso più caldo che avesse. Goro annuì.

«Sì, grazie di aver aspettato.»

«Figurati, è il minimo. Comunque, cambiamo argomento per il momento, se preferisci.»

«Sei stato tu a dire che volevi parlare, quindi se non vuoi chiedermi altro, certamente.»

«Hai ragione, detective. Volevo sapere come stavi. E dirti che mi dispiace non essere stato qui quando ti sei svegliato.»

«Nessun problema. C’era Morgana,» e infatti, sebbene passasse del tutto inosservato perché stava silenziosamente lì ai piedi del letto ad ascoltare, Morgana non se ne era mai andato. «E poi anche Sojiro mi ha aiutato.» Goro sembrò arrossire e si schiaffò una mano in faccia, per poco tempo stavolta. Akira pensò che quello schiaffo doveva aver fatto male.

«Gli ho creato un sacco di problemi,» accennò il ragazzo. Akira guardò Morgana, chiedendo spiegazioni con lo sguardo. Saltando sul letto alla destra di Goro, Morgana si mise comodo prima di rispondere.

«Penso abbia fatto fuggire qualche cliente quando è corso di sotto. Era in uno stato di panico, non proprio come l’altra notte, ma c’è voluto Sojiro per riportarlo di sopra.»

«Io,» s’intromise Goro, «Volevo solo sapere che giorno era… E a tal proposito, Akira, vorrei parlare con te del palazzo di Shido. E di tante altre cose, a dir la verità. Sono così tante che non so da dove iniziare.»

«Io propongo di iniziare con un bel bagno,» fece Akira. Non che non volesse assecondare i desideri di Goro, ma preferiva non affrettare i tempi e lasciare che entrambi affrontassero le cose con più calma. Una conversazione simile, inoltre, sarebbe durata ore e non sarebbe stata delle più facili da sostenere.

Morgana gli diede manforte, sebbene in modo del tutto imprevisto: «Concordo, puzzi un po’ Akechi,» disse e anche se il tono era scherzoso sortì l’effetto di far arrossire il ragazzo fino alla punta delle orecchie.

«E-Ehi!»

«Sei cattivo, Mor. Se continua così diventerà un semaforo, o un peperone, a tutti gli effetti.» Il gatto lo guardò con uno sguardo di ghiaccio mentre Goro non aggiunse nulla. Probabilmente in quel momento avrebbe preferito sparire.

«Guarda che non hai tanto da tirartela, Akira. Pure tu puzzi, puzzate tutti. Il mio olfatto superiore è in grado di sentire gli odori molto meglio di voi. Scommetto che Ryuji stava masticando una gomma alla fragola mentre eravate fuori, perché ne hai l’odore addosso pure tu.»

Akira osservò l’amico con visibile sorpresa, perché era vero. Aveva anche rifiutato l’offerta di Ryuji nel momento in cui gli aveva offerto una delle sue gomme alla fragola in questione. Non pensava che un dettaglio simile avrebbe fatto tutta la strada con lui fino a Yongen-Jaya. Goro l’aveva guardato un attimo, attendendosi una risposta, ed il silenzio gli era chiaramente bastato.

«Allora?» li riprese Morgana, spostando lo sguardo dall’uno all’altro, «Che sono queste facce sconvolte?»

«Beh io… Devo dire che sono impressionato,» spiegò Akira.

«Anch’io,» fece Goro, «Ma è una qualità che potrebbe tornare inaspettatamente utile.»

Questo appunto catturò la loro attenzione. «Del tipo?» domandarono all’unisono Akira e Morgana, gli sguardi puntati su Goro, che si mosse sul posto come sotto pressione.

«Oh, ecco, ad esempio… se qualcuno provasse a rifilarvi del veleno in un bicchier d’acqua o nel cibo, riusciresti a sentirlo facilmente, immagino.»

Morgana l’osservò con attenzione, prima di rispondere «Se solo sapessi che odore ha, forse potrei farlo, in effetti.» Il sollievo che emerse dal sospiro liberatorio di Goro la diceva lunga sul fatto che non erano argomenti di cui parlava spesso con la gente. Non poteva biasimarlo.

«Sai, ti basterebbe entrare in una drogheria e imparare gli odori delle erbe più dannose se somministrate in alti dosaggi, non ci vuole molto.»

«Perché?» s’intromise Akira curioso, «Tu sai farlo?»

Nel voltarsi da Morgana a lui, sul viso di Goro si dipinse un sorriso elusivo e divertito, «Sei sicuro di volerlo sapere?» Akira si sentì come se qualcosa si fosse teso dentro di lui, un breve accenno di adrenalina. Forse, tra tutti i sorrisi che Goro era in grado di mostrare, Akira aveva appena trovato quello che gli piaceva di più. Quel sorriso gli ballava sulle labbra come un equilibrista su una corda tesa, non nascondeva la propria sicurezza e non se ne vergognava – ma era pericoloso e gli dava i brividi.

Entusiasta, Akira rispose, «In questo caso, deduco che sarebbe difficile fartela sotto il naso rifilandoti un pancake avvelenato.»

«Suppongo di sì,» sorridendo ancora, Goro si appoggiò al materasso tenendosi su coi gomiti. Per continuare a guardarlo, Akira si voltò di più e salì sul letto con la gamba destra.

«Che mi dici invece dell’acqua Tofana? Direi che con quella non puoi farci molto nemmeno tu.»

«Ah, non mi fido a bere cose offerte dagli sconosciuti, per chi mi prendi?»

«Ma da me ti sei fatto passare molti bicchieri di acqua senza fiatare, per non parlare di quello che ti ho presentato come una medicina. Cosa devo dedurne?»

Goro sospirò senza rompere il contatto visivo e scosse lentamente la testa. «Non ti saresti disturbato tanto a prenderti cura di me se avessi voluto uccidermi. Inoltre, piantarmi uno dei tuoi coltelli nel cuore sarebbe stato meno dispendioso, non credi?»

«E chi lo sa… Tutte le lenzuola sporche di sangue, poi come le spieghi in lavanderia?» Akira ridacchiò, facendosi più vicino. Allungata una mano sul cuscino, lo passò a Goro suggerendo che lo piegasse e ci poggiasse la testa. Lui accettò e poté così stendersi senza fare leva sulle spalle e sui gomiti. In questo modo riuscivano ancora a guardarsi in faccia senza problemi.

«E invece, dimmi, cianuro nascosto in una torta alle mandorle?»

«Passo, non mi piacciono le mandorle.»

«Cicuta e aconite non te le chiedo nemmeno.»

«E come mai, caro il mio Kurusu?»

«La cicuta si riconosce facilmente dall’odore e l’aconite si scioglie bene nell’alcol ma non nell’acqua. Non ti ci faccio a bere alcool e poi siamo ancora entrambi minorenni.»

Il sorriso sul viso di Goro continuava ad aleggiare in un angolo delle sue labbra. Morgana li guardava e ascoltava con interesse. Probabilmente si stava domandando in quale modo astruso Akira avesse imparato tante cose sui veleni, ma essere il capo di un’organizzazione criminale in incognito richiedeva qualche precauzione, no?

«Ottime deduzioni,» Goro era visibilmente divertito e soddisfatto. Era come se quello fosse il suo vero io e si trovasse perfettamente a proprio agio. «Potrei iniziare a chiamarti Watson.»

«Che ne dici della belladonna? Facile confonderla con qualche bacca.»

«Oh no, per gusti personali, devo declinare,» stavolta Goro si lasciò andare a una vera e propria risata e aveva rimesso un po’ di rosso sulle guance. Il sorriso di adesso era un po’ diverso da quello di prima, gli scopriva tutti i denti e sembrava quasi che Goro tentasse di nasconderlo. Eppure, non c’era modo in cui Akira non avrebbe potuto notare un sorriso simile.

«Che intendi per “gusti personali”?» s’intromise Morgana, spingendo il dito nella piaga. Akira doveva ammettere che lui stesso era incuriosito dalla reazione di Goro, che era decisamente sproporzionata al modo in cui stava correndo la conversazione e stuzzicava pensieri in cui non avrebbe dovuto indulgere.

«Oh, ma ovviamente, non mi piacciono le bacche e i frutti di bosco!»

Con un invidiabile colpo di reni, Goro si tirò di nuovo su a sedere e guardò l’orologio sulla parete. Akira fece altrettanto, scoprendo che erano le sette e di aver completamente perso la concezione del tempo dal momento in cui aveva ricevuto la telefonata in metro. Il brontolio di una pancia echeggiò nella stanza e senza dubbio non era stata la sua.

Senza alcuna timidezza, Goro lo guardò come se fosse divertito da se stesso: «Kurusu, mi dispiace interrompere la nostra conversazione, ma sto morendo di fame.»

«Oh, certo. Allora vedrò di prepararti un po’ di curry.»

«Finché non l’avveleni, lo mangerò molto volentieri.»

Alzandosi, Akira raggiunse la grande scatola nella quale teneva tutti i suoi vestiti. Accanto ad essa, su uno dei ripiani della struttura in legno che ospitava lo scatolone e le altre sue scarpe, in un involucro di plastica aveva tenuto gli abiti di Goro, portati a lavare e ritirati giusto un paio di giorni prima dalla lavanderia.

«Senti, qui ci sono le tue cose,» gliele mostrò e Goro le riconobbe a colpo d’occhio. «Vuoi indossare questi? O ti presto qualcosa di mio?»

Ancora sul bordo del letto, Goro sembrò pensarci un pochino, poi scosse la testa: «I miei vestiti vanno bene, grazie.» Akira allora tornò da lui e gli porse la busta. L’altro l’accettò ma subito la mise via sul letto. Fece un tentativo per alzarsi e dovette darsi una bella spinta con le braccia per riuscirci. Una volta in piedi barcollò dal lato della gamba fasciata e Akira lo sorresse prontamente.

«Grazie, scusa…»

«Tranquillo. Tutto okay? Hai bisogno di una mano a cambiarti?»

L’altro scosse la testa, «No grazie. Anzi, mi farebbe piacere un po’ di privacy.»

«Sicuro, noi andiamo giù. Inizio a tirar fuori le mie riserve di tallio…»

Dato che non si era ancora allontanato da lui, Goro gli diede una leggera spinta, «Ehi, ti sembro forse un topo io?»

Akira rise e si prese la libertà di scompigliargli i capelli prima di voltarsi e avviarsi con Morgana al piano di sotto. Fece appena in tempo a cogliere la sorpresa per il suo gesto negli occhi di Goro. Le sue ultime parole poi gli avevano fatto pensare che Goro, in effetti, era l’unico della squadra che Akira non aveva mai visto trasformato in topo nel palazzo di Shido.  Sospirò mentre scendeva le scale.

Era proprio un peccato che avesse deciso di non fargli metter piede lì dentro mai più.













Angolo dell'autrice.

Salve a tutti! Siamo arrivati al terzo capitolo e ho pensato finalmente di ricavare un piccolo angolo qui in fondo per salutarvi. Volevo ringraziare tutti quanti per le visite ai diversi capitoli, che non sono poche e mi rendono felice nonostante non ci siano molte recensioni. Spero vivamente che la storia vi stia piacendo! Ringrazio Lerenshaw in particolare che mi lascia sempre il suo parere. Il nostro confronto mi aiuta molto anche nel ragionare sui personaggi e su ciò che accadrà più avanti, quindi davvero grazie di questa occasione. Spero di poter sentire i pareri di altre persone su questa storia, sia che il racconto vi stia piacendo che no, ovviamente. Le critiche costruttive sono sempre bene accette. Il gioco mi ha appassionata moltissimo quindi mi fa sempre piacere parlarne con altri fan. Detto ciò, è un po' tardi quindi penso proprio che andrò a dormire! 
Grazie ancora, ci sentiamo presto!
Lumen Noctis

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Capitolo 4
*** Daydreams. ***


Capitolo 4.

Daydreams.



In breve tempo il caffè Leblanc si riempì del profumo di curry e spezie. Akira osservò la propria creazione ribollire sotto il coperchio della pentola a pressione e inspirò a fondo. Sorrise, dal profumo sembrava esser venuto bene. Goro sedeva allo sgabello più vicino alla tv e s’illuminò in volto alla vista del cibo. Il suo stomaco non aveva fatto altro che brontolare dal momento in cui era sceso al piano di sotto, vestendo la sua camicia bianca e il maglione a rombi. Morgana scodinzolava, appollaiato sopra il banco dove Sojiro non gli permetteva mai di stare. Quando tutto fu pronto, Akira porse il piatto a a Goro assieme a un cucchiaio.

«Buon appetito.»

Il ragazzo ringraziò e Akira l’osservò mentre portava alle labbra il primo boccone, assaporandolo ad occhi chiusi. Restò così per un attimo ancora. Quando riaprì gli occhi, Akira avrebbe potuto giurare che fossero un po’ lucidi.

«Ehi, non scordarti di me,» miagolò Morgana, «Voglio il mio tonno!»

«In arrivo, signore.»

Contento di potersi distrarre, sorrise e tornò al lavoro. Canticchiando una melodia tra sé e sé, si rimise ai fornelli e aprì una scatolina di tonno preconfezionato, mettendolo poi sul fuoco. Mentre lo guardava cuocere lentamente, qualcosa fece scattare in lui il ricordo della conversazione intrattenuta con Sojiro poco meno di dieci minuti addietro, prima che quest’ultimo se ne andasse affidandogli le chiavi del caffè. Le bollicine di olio sulla padella si gonfiavano come palloncini, poi scoppiavano. Considerando quello che Sojiro gli aveva raccontato, Goro non si era svegliato urlando, né facendo alcun rumore che potesse preavvisare il suo arrivo al piano inferiore. Era sceso all’improvviso, precipitando per le scale, rotolando giù e schiantandosi addosso all’armadio in fondo agli scalini. Tutti i clienti si erano spaventati, Sojiro era accorso a dargli una mano, ma lui l’aveva scansato senza nemmeno guardarlo in faccia. Si era alzato, in preda a una sorta di frenesia, correndo fuori dal caffè…

«Kurusu.»

Alzando lo sguardo dal tonno, che si era cotto sotto i suoi occhi senza che lui se ne rendesse conto, si voltò verso Goro. Il ragazzo accennava un sorriso agli angoli delle labbra.

«Va tutto bene? Sembri pensieroso.»

«Oh,» iniziò sottovoce, «Non ti sfugge niente, detective.»

Il sorriso si allargò sul viso di Goro, ma non abbastanza da scoprirgli i denti, poi lui riprese a mangiare. « È il mio lavoro, farò meglio ad esser bravo.»

Mentre parlavano, Akira porse a Morgana la sua cena in un piattino, poi andò a lavarsi le mani. Quando tornò, vide che Goro era già a metà del suo piatto, non serviva chiedere per capire che gli stesse piacendo molto. Probabilmente era la prima volta che mangiava il curry del caffè Leblanc, perché ogni volta che si erano incontrati l’aveva sempre visto solo con una piccola tazza di caffè, chino sui suoi fogli e accompagnato dalla sua immancabile ventiquattrore. Mentre l’osservava, Goro poggiò il cucchiaio e portò il tovagliolo alle labbra, per poi alzare lo sguardo su di lui. Akira, poggiato con entrambi i gomiti al bancone a sorreggere il proprio viso, non cercò di nascondersi affatto quando si rese conto di esser stato colto in flagrante. Per un attimo, gli sembrò che Goro stesse arrossendo.

«Posso chiederti un bicchiere d’acqua?»

Sentendosi piuttosto al sicuro, Akira azzardò un «Anche due, tesoro,» che fece ridere l’altro, ma non gli strappò alcuna risposta. Nel momento in cui gli porse il bicchiere, Goro allungò una mano per prenderlo ma lui non lasciò la presa, guadagnandosi un’occhiata interrogativa.

«Come si dice?»

Goro sorrise furbescamente, «Hai ragione… Grazie, mamma?»

Allora Akira sbuffò alzando gli occhi al cielo e lasciò che prendesse il bicchiere.

«Incredibile, non pensavo avrebbe funzionato.»

«È brutto da dire, ma a volte mi fai cascare le braccia…»

«Ma che peccato…» il modo in cui Goro nascose il sorriso dietro al bicchiere prima di bere fece perdere un battito al cuore di Akira, che fu salvato dal miagolio soddisfatto di Morgana prima che il disagio potesse approfondirsi.

«Era buonissimo, Akira! Stai migliorando,» gli fece il gatto.

«Grazie, se lo preferisci alla piastra la prossima volta cambiamo.»

«Non so scegliere… Una volta uno e una volta l’altro!»

«Ma certo, desidera forse altro?»

«Uhm… magari la prossima volta aggiungerei più aglio.»

«Sei un gatto viziato, Mor…»

«Non sono un gatto!»

Akira rise mentre scuoteva la testa. Quando finalmente anche Goro ebbe finito di mangiare, sparecchiò ed entrambi si prepararono ad uscire dal locale. Morgana, nella sua borsa, era molto contento della piccola copertina che Akira aveva iniziato a tenerci apposta per lui.

Fuori, l’aria di dicembre li accolse, fu come tuffarsi nell’acqua di un lago di montagna. Akira chiuse a chiave la porta mentre a un tratto iniziò a sentire la pelle pizzicare. La strada era vuota e poco illuminata a quell’ora della sera, si sentivano in sottofondo i rumori della metropolitana appena dietro l’angolo e della strada dove i passeggeri dei treni entravano e uscivano dalla stazione. Chiarori soffusi giungevano dalle finestre di alcune case, illuminando i fili della corrente che passavano sopra le loro teste e delineando i contorni dei tetti più bassi. I riflessi freddi della luna tingevano di bianco il resto della strada e Akira pensò che sarebbe stato bello ricevere un po’ di neve a Natale. Per caso si accorse della condensa generata dal proprio respiro, che gli sfilò fuggevolmente davanti agli occhi. Allo stesso modo, dalle labbra di Goro, al suo fianco, scappavano tante piccole nuvole.

Il ragazzo indossava un suo cappello, nero e con una spilla dorata riportante il marchio di fabbrica. Akira glielo aveva prestato con piacere, dal momento che a lui indossare cappelli invernali non piaceva affatto. Fu sorpreso - ma non avrebbe dovuto esserlo - di come quel cappello anonimo e insignificante incorniciasse dolcemente il volto di Goro, con i ciuffi di capelli chiari che sporgevano disordinatamente da tutte le parti. Dopo nemmeno un attimo Goro lo guardò con perplessità, domandandosi probabilmente perché non si fossero ancora incamminati. Distogliendo lo sguardo, Akira dovette darsi un pizzicotto mentale come rimprovero e sotterrò l’imbarazzo mentre muoveva i primi passi.

«Vieni,» gli disse porgendogli il braccio sinistro. Goro l’osservò con serietà - e forse un po’ di contrarietà negli occhi - ma infine fece scivolare la propria mano destra sulla manica della sua giacca. Per tutto il tempo che camminarono, non si scambiarono nemmeno uno sguardo, ma Akira fece del proprio meglio per intavolare una conversazione. Aveva bisogno di distrarsi dal pensare al calore dell’altro contro il proprio braccio e a quanto fosse singolarmente piacevole sentire che per la prima volta, forse, Goro si stava affidando volontariamente a lui.

«Oggi è giovedì,» iniziò a dire distrattamente, «Fanno i bagni ai sali.»

Goro commentò con un leggero uhm, un attimo prima che la gamba ferita lo facesse zoppicare e aggrappare con più forza al braccio di Akira. Il sibilo che sfuggì alle sue labbra durò un attimo, prima che una leggera risata ne prendesse il posto. «Sembra che io abbia scelto proprio un buon giorno per tornare a questo mondo.»

Akira esitò un momento, poi sorrise intenerito. «Sì, direi di sì.»

Quando raggiunsero la porta d’ingresso, Morgana fece capolino dalla borsa di Akira. «Ragazzi, penso che farò un giro e vi raggiungerò tra un’oretta, come sempre.»

«Un’oretta? Quanto tempo ci resti di solito?» domandò Goro, al che Akira fece spallucce e abbassò la borsa verso terra, così che Morgana potesse saltare fuori più agevolmente.

«Mi piace stare a mollo nell’acqua calda…» fu tutto ciò che riuscì a offrire come spiegazione. Non ce n’erano davvero altre. Una volta che Morgana si fu allontanato, Akira aprì la porta poggiandovisi con le spalle. Entrò e restò sull’uscio, in attesa che Goro lo precedesse all’interno, sfilandogli davanti.

 

«Sei proprio sicuro che sia una buona idea?»

«Perché non dovrebbe?»

La voce di Goro era appena un sussurro, superato il banco all’ingresso, e Akira si ritrovò ad abbassare a propria volta il tono sebbene non lo ritenesse necessario. Anzi, gli sembrava quasi buffo parlare in questa maniera.

«È solo che… non dovevi pagare anche per me, Kurusu.»

Alzò gli occhi al cielo e spinse Goro in avanti verso la porta degli spogliatoi maschili. Una volta entrati, forse per via della presenza del proprietario dei bagni, Goro aveva subito insistito a non volersi far aiutare più a camminare, nonostante la gamba continuasse a fargli male. In un certo senso, Akira si sentiva spinto a rendergli le cose più difficili, perché il lato combattivo di Goro era probabilmente anche il suo aspetto più interessante - ed era segretamente offeso di non poter più dare una mano, ma era lontano dall’ammetterlo. Dopotutto, non aveva intenzione di fare niente di pericoloso: dargli qualche pizzico sui fianchi o spingerlo scherzosamente non erano dispetti imperdonabili. Inoltre, sarebbe sempre stato lì, pronto a prenderlo.

«Hai intenzione di continuare a lungo, Kurusu?» gli domandò Goro mentre entravano nella stanza. Akira si stava quasi affezionando alla pronuncia stizzita del proprio cognome sulle sue labbra. Non riusciva a ricordare se l’altro lo avesse mai chiamato per nome, e quella distanza non faceva altro che aumentare il desiderio che aveva di stargli accanto.

«Finché resta così piacevole disturbarti, penso continuerò.»

Lasciò che fosse lui a scegliere gli armadietti. Senza esitazione, o forse solo senza pensarci, Goro si avvicinò alla parete di sinistra, quella più vicina. Nella stanza altri due clienti erano in piedi di fronte ai propri armadietti.

«Non pensavo bastasse così poco per renderti contento.»

Akira rise e si spostò al fianco dell’altro, scegliendo per sé l’armadietto numero otto. Apertolo con poca cura, vi sistemò dentro la borsa e subito iniziò a spogliarsi. Si chiese perché quello che a Goro sembrava così poco per lui significasse la possibilità di avvicinarsi un po’ di più.

«Forse hai ragione,» fece infine, aprendo l’armadietto e cercando di trovare qualcosa di vero che potesse fornirgli una buona scusa, «Il punto è che mi diverte mettermi in situazioni dall’esito incerto… se così si possono chiamare.»

«Cosa vorresti dire?»

«Voglio dire che mi piacciono le sfide.»

«E punzecchiarmi sarebbe una sfida?»

«Direi di sì.»

Goro lo guardò incredulo, ma il suo sguardo non indugiò che un istante. Akira si chiese se non fosse perché aveva appena iniziato a spogliarsi. Appena un momento, però, e anche Goro cominciò a togliersi i vestiti, cominciando dal cappello, che fu fatto sparire in fondo al suo armadietto. Non vi fu alcuna grazia nel modo in cui lo fece, ma nemmeno rabbia, forse solo un po’ di nervosismo.

Il rumore di un’anta che si chiudeva richiamò l’attenzione di Akira, seguita dal leggero tintinnio metallico di chiavi e lo scattare di una serratura. Uno dei signori presenti nello spogliatoio aveva appena finito di rivestirsi coi suoi abiti da città. Uscendo, rivolse ai presenti un saluto di cortesia - uno degli infiniti convenevoli formali della loro lingua - e lasciò la stanza.

Mentre ripiegava la maglietta, Akira osservò come Goro, lentamente, si sbottonava la camicia. Odiava ammetterlo, ma ad ogni bottone che usciva dalla propria asola sotto le dita fine e lunghe di Goro, Akira si rendeva conto di quanto fosse imperativo rimuovere lo sguardo, e di quanto allo stesso tempo non potesse costringersi a farlo. Goro fece scivolare via la camicia, scoprendo prima una spalla e poi l’altra. Al contatto con l’aria un brivido lo sorprese facendogli venire la pelle d’oca e in quel momento un suo sguardo distratto cadde su di Akira, rivelandogli di essere stato per chissà quanto tempo il centro dell’attenzione dell’altro ragazzo.

Avvampando, Akira si sentì molto più in imbarazzo di quando era stato colto in flagrante al Leblanc. Sul volto di Goro si fece strada un sorriso impacciato e arrossì in maniera fulminea, dal naso agli zigomi, mentre si voltava per guardare altrove. Anche Akira distolse lo sguardo e i due non si dissero nulla. Trattenendo il desiderio di affondare la faccia nella maglietta che ancora teneva tra le mani, decise di metterla semplicemente via.

Cercando di agire nella maniera più naturale possibile, sfilò via la cinta e i pantaloni, tenendosi in punta di piedi sulle proprie scarpe finché non tirò fuori le calzature in legno dall’armadietto. Quando rimosse anche i boxer, la consapevolezza di trovarsi nudo di fronte a Goro Akechi lo fece cadere in uno stato di nervosismo che non aveva mai provato prima - nemmeno in compagnia di Ryuji e Yusuke, con i quali era già stato ai bagni tempo addietro, si era mai sentito così. Si trattava di un vero e proprio senso di vulnerabilità. Si domandò se non fosse per via di tutto ciò che era accaduto tra di loro, ripensò al giorno per cui era stato fissato il suo falso suicidio e desiderò di potersi sentire sicuro di sé come quando erano ancora a Leblanc. Non importava cosa facesse, non riusciva a fermare quel brivido che spingeva le sue mani a muoversi più velocemente del normale.

Aspettare che anche Goro finisse di spogliarsi al suo fianco era snervante. Akira esalò un respiro veloce e si impose di pensare ad altro. Poggiandosi con una mano agli armadietti chiusi, si chinò per sfilare i calzini - gli ultimi indumenti che aveva ancora addosso. Quando ebbe finito, li lanciò alla rinfusa dentro l’armadietto ed estrasse l’asciugamano pulito dal ripiano superiore.

Una risata appena accennata da parte di Goro pose fine ai suoi tentativi di distrazione. Spostando lo sguardo su di lui, vide che non indossava più nulla a sua volta, fatta eccezione per l’intimo, sul quale gli cadde lo sguardo. 

Cavolo, perché proprio degli slip così aderenti, Akechi? Si domandò, e dandosi uno schiaffo mentale - perché un pizzicotto non bastava più - tornò a guardare il ragazzo dritto nei suoi occhi quasi vermigli. Non avrebbe voluto, ma era vero che Akira amava trovarsi in difficoltà, e Goro era una persona estremamente difficile. Gli dava i brividi e non sapeva distinguere di che tipo fossero. In quel momento non gli servì incoraggiare il ragazzo affinché parlasse, proseguì da sé, dando voce ad una delle deduzioni più sbagliate della sua carriera di investigatore: «Sei incredibilmente tranquillo, Kurusu. Come sempre.»

Per un momento, si domandò se l’altro non lo stesse prendendo in giro. Poteva essere bravo quanto voleva a recitare, ma era davvero in grado di nascondere tanto bene le proprie insicurezze a fronte della figuraccia appena fatta? Mettendo su la miglior faccia da poker che conosceva, Akira cercò di non ridere della situazione.

«C’è qualche motivo per cui non dovrei esserlo?»

Goro si morse il labbro inferiore e Akira non poté evitare di guardare, poi imprecò silenziosamente tra sé. Stringendo al petto l’asciugamano, tornò al proprio armadietto e chiuse la serratura con la chiave già inserita. Doveva calmarsi o avrebbe fatto davvero una pessima figura.

«Forse sono io a non essere abituato,» riprese infine Goro, che non potendo più rimandare infine rimosse anche gli ultimi capi di abbigliamento che restavano a coprire il suo corpo. Prese l’asciugamano in dotazione e chiuse tutto con la chiave. Akira si voltò dall’altra parte senza pensarci due volte, ma nel momento in cui si incamminarono verso la stanza delle vasche i suoi occhi si puntarono sulla sua schiena, come attratti da una calamita. Senza che lo volesse, scivolarono giù ed Akira si sentì in imbarazzo con se stesso per essersi permesso di osservarlo in quella maniera. Quando il suo sguardo si posò sulla benda avvolta attorno alla gamba destra di Goro, un pensiero diverso lo colpì.

«Aspetta,» allungò una mano verso di lui, toccandogli il braccio. Questi si fermò e l’interrogò con una punta di preoccupazione negli occhi.

«Che succede?»

«Siedi un attimo qui.»

Quando Goro ubbidì, poggiando l’asciugamano sulla panca e sedendovisi poi sopra, gli occhi di Akira scivolarono di nuovo. Uno scivolone terribile e irrimediabile. Pensò che sarebbe morto per auto-maledizione prima della fine della giornata se non fosse riuscito a staccargli gli occhi di dosso. Inginocchiandosi a terra, la superficie fredda del pavimento lanciò attraverso di lui un brivido che lo distrasse appena. Tesa una mano verso la gamba destra di Goro, Akira premette il pollice sul punto in cui sapeva trovarsi la cicatrice e osservò se il ragazzo reagiva in qualche modo.

«Ti fa male se tocco?»

L’altro scosse la testa, «Dici che è il caso di toglierla?»

«Penso di sì, è tempo di cambiarla, ad ogni modo.»

Goro si stava già chinando in avanti, ma Akira lo trattenne e si dedicò lui stesso a sciogliere i nodi. Quando anche l’ultima parte della garza venne via, Akira osservò il lungo segno rosso che attraversava il polpaccio, sfiorandolo lentamente con le dita. Non c’era nessun segno di infezione.

«Sembra… che sia tutto a posto,» disse infine, alzandosi e porgendo una mano a Goro perché potesse fare altrettanto. Il suono delle loro mani che si afferravano riecheggiò nelle sue orecchie.

«Fantastico. Grazie.»

 

 

La semplice vista della grande vasca piena di acqua verde-azzurra fece sentire Akira immediatamente a proprio agio. Il calore emanato dall’acqua riempiva l’aria di vapori che sfumavano i contorni della stanza e aleggiavano, avvolgendoli al loro passaggio. Il pavimento inumidito sotto le ciabatte era appena scivoloso, tutte le pareti brillavano sotto la condensa dell’acqua. Quando si immerse, affondando gradualmente nel calore dei bagni, Akira sentì i muscoli rilassarsi e la tensione scivolare via a poco a poco.

Goro, che aveva rifiutato il suo aiuto per entrare in acqua, una volta dentro si tenne lontano dal centro della vasca. Sebbene sapesse che non era molto indicato farlo, Akira si tolse gli occhiali. Non aveva voglia di alzarsi e uscire di nuovo per riporli sull’asciugamano assieme alle chiavi dell’armadietto, quindi li poggiò sul bordo della vasca in un punto che gli sembrava stabile e sicuro. Fatto ciò, guardò Goro che si era sistemato a qualche metro da lui e sorrise, poi si immerse in acqua con tutta la testa senza alcun ripensamento.

I suoni si attutirono, il calore accolse il suo viso e per un po’ Akira non sentì nient’altro. Socchiuse gli occhi, osservò le bollicine d’aria che sentiva sfuggire alle proprie labbra mentre salivano verso l’alto. Il campo visivo era ristretto, ma riusciva a vedere abbastanza nitidamente. Pensò che se fosse stato possibile non gli sarebbe dispiaciuto sparire così, sciogliersi, diventare tutt’uno col calore che lo avvolgeva e dimenticare l’immagine del corpo nudo di Goro che l’avrebbe tormentato per i giorni a venire. Stare ad occhi chiusi, o socchiusi, in quel silenzio indisturbato, colorito appena dal fruscio dell’acqua che si spostava e dal leggero ronzio del depuratore in sottofondo. Si sentiva in pace, da solo - cosa che non si verificava quasi mai da quando Morgana era entrato a far parte della sua vita. In qualche modo, affondare l’aiutava a dimenticare.

Poco prima che esaurisse il respiro e decidesse di riemergere, vide attraverso le ciglia scure un’ombra che si avvicinava. Un attimo dopo due mani lo avevano preso per le spalle e trascinato in superficie. Riemerso, si stropicciò gli occhi con le dita. Di fronte a lui, Goro lo guardava con un’espressione preoccupata.

«Ma che fai?» Fece lui, interrompendosi all’improvviso quando si rese conto di essersi esposto troppo. Akira lo fissava in silenzio, sorpreso, ed esitando alla fine Goro riprese. «T-tutto quel tempo lì sotto, mi hai fatto prendere un colpo.»

Akira dovette sbattere gli occhi più volte. «Da quando ti preoccupi così tanto per me, Sherlock?» domandò infine, rientrando in acqua fino a lasciar fuori solo gli occhi e dalla punta delle orecchie in su.

«Sei stato sott’acqua per più di due minuti,» spiegò il ragazzo, stizzito, «Non mi riterrò responsabile se la prossima volta starai davvero annegando e io non interverrò in tuo soccorso.»

Akira sorrise amaramente, ma Goro non poteva vederlo, perché le labbra erano ancora sotto il filo dell’acqua. Riemerse abbastanza per poter parlare, «Come se ti fosse mai dispiaciuta l’idea di vedermi morire.»

«Ah, no…» le sopracciglia di Goro si sollevarono sorprese, prima di impuntarsi di nuovo in un misto di indecisione, rabbia e frustrazione. «Non è questo il punto. Non l’ho fatto per piacere.»

«E chissà cosa faresti per piacere…» sussurrò a bassissima voce Akira, cercando di divertirsi tra sé quel poco che poteva, quando l’argomento internamente lo turbava più di quanto desiderasse. Goro, non riuscendolo a sentire, si chinò di più verso di lui.

«Come scusa? Hai parlato troppo piano.»

«Penso tu sia masochista, Akechi.»

L’altro lo guardò con sospetto, «E perché mai?»

«Perché ti trovi bene con me, sono una delle pochissime persone che ti ascoltano e ti vedono per chi sei veramente. Forse, sono l'unico che davvero ti abbia mai conosciuto, ti piace passare il tempo con me… eppure hai acconsentito ad uccidermi. Non deve essere stato facile, ma al tempo stesso è stato emozionante, giusto?» cercò di mantenere un tono calmo e pacato. Non lo fece solo per Goro, ma anche per se stesso, perché ripensare a determinati avvenimenti passati accendeva dentro di lui una fiamma incontrollabile. «Se fossi riuscito a uccidermi, avresti avuto la prova definitiva, come tu stesso hai detto, di essere migliore di me. Per tutte queste cose e altre che non riesco a spiegare, ma sicuramente sai…»

Lo sguardo di Goro su di lui era diventato grave e silenzioso, poi esso si distolse da lui per guardare attorno. Avevano iniziato a parlare di argomenti seri, che dovevano rimanere privati, senza nemmeno prender nota della presenza di un altro ospite nella vasca. L’uomo in questione doveva essere sulla cinquantina, capelli neri corti e corpo esile, se ne stava da solo a leggere un giornale attraverso uno spesso paio di lenti rettangolari. Giudicandolo innocuo, Goro tornò a voltarsi verso Akira e rispose a bassa voce.

«Se pure fossi masochista, non avrebbe alcuna importanza. Tutto ciò che ho compiuto in passato, però, ha il suo peso e so di non poter essere perdonato. Ah…» sospirò, distogliendo lo sguardo. «Non so bene dove vuoi arrivare con questo discorso… Ma che io sia o non sia masochista è l’ultimo dei nostri problemi.»

Akira tacque, pensando a ciò che l’altro gli aveva detto. Si era aspettato una risposta simile, ma ora non sapeva cosa farsene e la fiamma che si era accesa nel suo petto si stava affievolendo, tanto che presto non riuscì più a distinguerla dal calore dell’acqua che lo circondava. Poiché erano improvvisamente entrambi caduti nel silenzio, dopo un po’ Goro si mosse, avvicinandosi al bordo della vasca. Akira sentì che non voleva farlo allontanare.

«Anche se dici che non è rilevante, a me interessa molto sapere perché hai fatto quello che hai fatto. Per me è l’unico modo, se vogliamo andare avanti insieme.»

Goro si fermò, tornando a cercare le sue iridi grigie.

«Di cosa ti importa, realmente? A volte non riesco a capirti, ovviamente sarai stato contento di essere riuscito a sventare i miei piani, alla fine lo sono io stesso. Ma a volte… a volte ho pensato che tutto ciò non abbia fatto altro che gonfiare il tuo ego. Ancora non capisco come tu abbia fatto a salvarti.»

Akira tacque ancora. Era forse sbagliato per lui sentirsi orgoglioso di essere sopravvissuto? Non che l’altro gli stesse dicendo di non esserlo, ma non era stata nemmeno opera unicamente sua. Senza i suoi compagni e il loro prezioso aiuto, indubbiamente, Goro sarebbe riuscito ad ucciderlo quel giorno. Al solo pensiero, gli mancò il respiro. Ripensò alle dita del giovane detective che sbottonavano la camicia e alla presa gelida che avrebbero potuto avere sulla sua gola. Fece del proprio meglio per riprendersi, ormai non riusciva più a capire cosa si stessero dicendo.

«Forse un giorno te lo spiegherò,» rispose semplicemente, evitando l’argomento che principalmente lo stava confondendo e non riusciva a individuare. Al contrario la risposta di Goro fu veloce e sicura.

«Non voglio.»

Il ragazzo raggiunse il bordo della vasca, dove si fermò. «Sono un investigatore. I miei misteri devo risolverli da solo, altrimenti non avrò più un briciolo di orgoglio.»

«Poni molte domande agli altri, per essere uno che vuole risolvere le cose da solo.»

In quel momento persino lo sguardo scocciato di Goro gli scivolò addosso come acqua. L’unica cosa che aveva in testa era l’immagine del ragazzo che entrava nella cella di isolamento, rubava la pistola ad una guardia, la uccideva, e poi puntava la sua canna ancora fumante verso la sua testa. Una parte della sua coscienza era felice di non aver potuto vedere la scena, si chiedeva cosa doveva aver provato il se stesso cognitivo nel palazzo di Sae - ammesso che potesse provare sentimenti reali. Nel frattempo, la conversazione andava avanti, nella sua più completa apatia.

«Anche quello fa parte dell’essere un investigatore. Devo raccogliere informazioni e testimonianze, ma non ho intenzione di farmi spiegare le cose per filo e per segno da chi ha già tutte le risposte, almeno in questa situazione. E poi… che io risolva o meno questo piccolo caso, non fa alcuna differenza, lo faccio unicamente per curiosità personale.»

«Non smetterai mai di colpirmi, Akechi.»

Questi lo guardò ora di sottecchi. Akira non disse altro né si mosse, mentre anche Goro restava in silenzio, ma era un silenzio frenetico. Alla fine sembrò trovare il coraggio di dire qualcosa che, chiaramente, gli era frullato nella testa per un bel po’ di tempo.

«Come fai a dire di essere l’unica persona a piacermi? Sei semplicemente egocentrico o pensi davvero di conoscermi così intimamente?»

«Indubbiamente, è perché ti conosco più di molte altre persone.» Akira si appoggiò al bordo della vasca, al suo fianco, e si prese il tempo per pensarci bene. Il motivo per cui sapeva di piacere tanto a Goro era probabilmente lo stesso che gli impediva di odiarlo e cacciarlo via. Lo stesso che gli aveva fatto pensare, lì su quella lurida nave, che mettere in salvo la propria vita lasciando che lui sacrificasse la sua non sarebbe stato un atto degno di ciò che c’era stato tra di loro. Parte di quel ghiaccio che si era arenato dentro di lui sembrò sciogliersi.

Lentamente si voltò verso di lui e trovò Goro intento a osservarlo a propria volta, in silenzio, con una mano che torturava una piccola ciocca di capelli vicino l’orecchio sinistro. Era tutto così reale. Il pensiero che il ragazzo in quel momento avrebbe potuto non essere lì al suo fianco, ma morto e freddo sul pavimento metallico dell’area motori del palazzo galleggiante di Shido lo atterriva.

«Ma lo so soprattutto perché, anche se è difficile, per me è lo stesso.»

Non aveva detto molto, ma Goro sembrò capire immediatamente le sue parole, al punto che la realizzazione si rese subito evidente. Akira fremeva un po’ ogni volta che vedeva il suo viso colorarsi di rosso, come se ci fosse qualcosa in Goro Akechi che lo stregava al di là della sua comprensione.

Proprio quando iniziava a pensare che Goro non gli avrebbe mai più parlato, annegando nel proprio imbarazzo, questi ebbe un rapido scatto mentre cambiava posizione, incrociando le braccia al petto e probabilmente accavallando le gambe sott’acqua. Akira si stava già lasciando andare a una leggera risata quando l’altro gli lanciò una risposta tutto fuor che seria.

«Smettila di flirtare con me, Kurusu, sai che non attacca.»

Per un momento la testa di Akira si svuotò completamente. Il suo cervello fece fatica a registrare il cambiamento. Interdetto, tacque più a lungo del dovuto e dovette davvero sembrare a Goro di averlo ferito in qualche modo perché si sentì in dovere di correggersi. «Ehi, scusa. Stavo cercando di allentare la tensione. Probabilmente faccio schifo in queste cose.»

Solo notando la sincera preoccupazione nei suoi occhi Akira riuscì a lasciarsi andare a una risata. Il senso dell’umorismo di Goro sembrava proprio quel tipo di umorismo che entrava in azione nei momenti più inaspettati, non riuscendo a farsi capire da nessuno. Recuperando un po’ di buonumore, sfoderò il sorriso più furbo che conoscesse.

«Ma no, non preoccuparti… Sei proprio sicuro che non attacchi?»

Goro sembrò rassicurato dal fatto che avesse deciso di stare al gioco. «Certamente…» rispose, «Come se a me potessero mai piacere i ragazzi, Kurusu.»

«Oh?» Akira finse una reazione di disappunto, «E io che pensavo di avere qualche possibilità.» Staccandosi dal bordo freddo, Akira si voltò, sedendosi e poggiandosi comodamente di spalle alla parete interna della vasca. Passandosi una mano tra i capelli, li spostò via dalla fronte, sentendosi immediatamente più libero.

«Parli sul serio?» la voce di Goro era improvvisamente una sfumatura più seria. Akira non capiva, non stavano scherzando entrambi, fino a poco prima? Forse aveva detto qualcosa di strano che l’aveva messo a disagio? Invece di finire in un limbo di paranoie, Akira decise semplicemente di continuare a giocare.

«Riguardo cosa, tesoro?»

Tendendo una mano, Akira gli prese la punta del naso tra pollice e indice. Goro non riuscì a sfuggirgli e fece una faccia così buffa e infastidita che Akira non poté trattenersi dal ridere ancora. Il ragazzo prese un respiro con la bocca e, per liberarsi, si immerse a sua volta interamente nell’acqua. Quando riemerse, Akira aveva già ritirato la mano e in risposta al suo sorriso Goro mise il broncio, voltandosi dall’altra parte. Era la prima volta che aveva l’occasione di vedere il lato infantile di Goro e non poteva dire che gli dispiacesse. Era tenero, in un certo senso.

Da quella posizione non potevano guardarsi in faccia, ma per la prima volta Akira vide delle chiazze violacee sulla sua pelle, in diversi punti, sulle braccia e le spalle. Si domandò come avesse fatto a non notarle prima. Ripensò a quello che gli aveva raccontato Sojiro e vide il ragazzo rotolare giù per le scale del Leblanc come se fosse accaduto di fronte ai suoi occhi. Faceva un gran casino, i clienti si riscuotevano dalle loro chiacchiere, alcuni si alzavano in piedi, altri semplicemente si sporgevano facendo capolino dal proprio posto. Sojiro accorreva subito, ma Goro lo scansava, sbatteva un pugno a terra e si tirava su, digrignando i denti.

Dopo qualche minuto di silenzio, dal momento che Akira non gli dava corda e stanco di starsene voltato a tre quarti a fissare il muro, Goro tornò a sedersi più comodamente, anche lui portando i capelli della frangia via dal viso. Aveva una fronte inaspettatamente alta. Passò ancora del tempo e infine il signore che leggeva il giornale all’altro lato della vasca si alzò e se ne andò, portando via il quotidiano. Non appena i suoi passi furono seguiti dal suono della porta che sbatteva, il ragazzo si voltò completamente verso di lui e Akira si riscosse con uno scatto da quella tranquillità appena ritrovata.

«Scusami se te lo chiedo così, ma… A te piacciono davvero i ragazzi?»

Colto alla sprovvista per la seconda volta di fila, stavolta Akira non riuscì a cogliere nessun senso umoristico, non perché fosse ancora preso da emozioni contrastanti. Semplicemente non ve n’era nemmeno l’ombra.

«Ah. Sì… anche i ragazzi.»

«Sia uomini che donne?» Goro sembrava interessato, più di quanto si aspettasse. Aveva una certa luce negli occhi che Akira non riusciva a interpretare. Per fortuna lui non aveva problemi a parlare di questi argomenti con i suoi amici più cari e anche se Goro non poteva esser definito un suo caro amico, non vedeva perché avrebbe dovuto avere riserve con lui.

«Sì. E non mi dispiace, se devo essere onesto.»

Lo sguardo di Goro indugiò per un attimo sul pelo dell’acqua tra di loro prima di tornare a puntarsi nei suoi occhi, «E… non ti senti un po’ un deviato?» Akira corrugò la fronte, col presentimento che la sua risposta avrebbe avuto una certa rilevanza personale - ma forse era solo la sua fervida immaginazione.

«No, nemmeno un po’.»

«Eppure, nessuno ha una buona opinione dei gay, qui in Giappone almeno.»

«Per la precisione, mi considero bisessuale. Non confondiamo i dati, ispettore,» cinguettò Akira per punzecchiarlo. Goro alzò gli occhi al cielo, ma al tempo stesso gli sfuggì un sorriso all’angolo delle labbra.

«Oh, scusami, non era mia intenzione offenderti,» rispose scherzosamente, «Quello che volevo dire è che la gente non ha una buona opinione delle persone a cui piacciono altre persone dello stesso sesso. Va meglio, detta così?»

Akira sorrise, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso. «Sì, meglio. Comunque è ancora peggio quando ti piacciono entrambi i sessi. Tra quelli che ti dicono che un giorno dovrai prendere una decisione e quelli che ti vedono semplicemente come un pervertito, se dai ascolto a tutto quello che ti dicono finisci col diventare matto.» Finalmente, Goro si voltò verso di lui e i loro sguardi si incontrarono. «Comunque, perché tutte queste domande?»

Goro tacque per una manciata di secondi. Una gocciolina d’acqua scivolò rapida lungo la sua mandibola e cadde nella vasca dopo aver raggiunto il mento. «Nessun motivo in particolare,» scandì infine piano. «E poi non hai motivo di farti rovinare l’esistenza col parere degli sconosciuti.»

«Nemmeno tu, lo sai, no?»

Il ragazzo annuì brevemente, ma fece subito per guardare altrove. Agendo d’istinto Akira lo fermò, toccandogli il mento con la mano. Lo fece voltare e di fronte al suo sguardo confuso, ripeté: «Nemmeno tu.»

«Sì, sì!» sbottò l’altro, inciampando su quelle poche sillabe. «Adesso lo so anch’io… Okay? Ma lasciami andare, questa vicinanza mi mette a disagio.»

«Oh, chiedo umilmente perdono,» Akira fece finta tra sé di non essersi sentito offeso, o di non provare preoccupazione. Era perché gli aveva confidato di poter provare interesse anche per i ragazzi che gli stava dicendo quelle cose? Mentalmente, scosse la testa. «Tu però non scappare, la vigliaccheria non ti si addice.»

«Mi preferisci quando ti punto una pistola alla testa?»

Akira sorrise a bocca chiusa, stavolta molto più capace di gestire il proprio disguido interiore al riguardo. Anzi, quasi non lo sentiva più grazie al fatto di averlo affrontato poco addietro. E in fondo, non era del tutto sbagliato ciò che stava dicendo, perché senza dubbio preferiva vedere Goro combattere piuttosto che rinunciare e arrendersi. «Decisamente, ma eviterei il bis.»

Rimasero in silenzio per un po’, prima che Akira se la sentisse di aprire un altro discorso piuttosto importante. La quiete che era scesa nella stanza era rilassante tanto quanto il calore dell’acqua. Non avrebbe mai voluto rovinare l’atmosfera ma non poteva evitare la necessità di quel discorso.

«Ti importa ancora del parere di Shido?»

Come si aspettava, Goro si irrigidì visibilmente. Le sue labbra si strinsero in una linea sottile, le iridi scure riflettevano il luccichio dell’acqua. «In tutta sincerità… no, non più.» Lentamente sospirò e gli rivolse un sorriso, con gli occhi che tremavano un po’ sul suo viso. «Sono stato così ingenuo, alla fine. Dopo aver passato tutta l’infanzia a odiarlo, a cercare un modo di trovarlo e rovinargli la vita, alla fine… ero proprio io la falla nel piano. A volte sembrava quasi un padre, io chiudevo gli occhi e facevo finta che fosse vero.»

Guardarsi negli occhi fu come scambiarsi un abbraccio. Poi, all’improvviso, distaccarsi. In un battito di ciglia, Goro cambiò, come se avesse voltato pagina, in un libro illustrato in cui un disegno spaventoso ti sorprendeva in mezzo alla lettura, anticipandoti gli eventi funesti delle righe successive. «Adesso voglio solo ucciderlo e porre fine a questa storia.»

Akira sentì il desiderio di chiudere il libro, ma non ve ne erano altri nella libreria. Il cuore gli sprofondò nel petto e scuotendo la testa fece del proprio meglio per ignorare la determinazione glaciale negli occhi di Goro. «Sai che non posso permettertelo.» Il ragazzo continuò a fissarlo con serietà, ma una scintilla lampeggiò nel suo sguardo e Akira si domandò cosa mai avesse pensato.

«Per favore, sarebbe la mia ultima volta.»

Come il fumatore che promette al suo parente preoccupato che smetterà di fumare, ma ne chiede solo un’altra, solo un’altra. Akira in silenzio protese una mano e prese la sua, sott’acqua, quella sinistra, portandola oltre la superficie dell’acqua. Goro lo lasciò fare, forse intimamente turbato, senza lasciar trasparire alcun pensiero.

«Quante persone hai ucciso con questa mano, Akechi?» Domandò piano, con la voce che era poco più di un sussurro e il cuore che gli batteva forte nel petto. Usando la propria mano sinistra, Akira prese la sua, come aveva fatto sempre coi suoi amici, anche solo per salutarsi. Senza usare la destra, stavolta, per andare incontro all’altro, mentre stringeva la presa attorno al pollice, lo guardò negli occhi, «Stavolta, fa che sia diverso. Ruberemo il cuore di Shido, resta con noi.»

Un per favore gli restò sospeso in gola. Goro si voltò meglio verso di lui, in silenzio, guardò le loro mani unite e tremò anche se impercettibilmente mentre stringeva a propria volta la presa. «Ma tu capisci—» iniziò con la voce un po’ troppo bassa, si schiarì la gola e prese un respiro profondo. «Capisci che la mia vita finirà con la sua, non è vero? Una volta che avrà confessato, anche io dovrò scontare le mie colpe e marcire in una cella fredda per il resto della mia vita. Sarebbe ironico se ci mettessero nella stessa stanza, non credi? Oppure mi condanneranno direttamente a morte e dopo qualche sofferenza sarò giustiziato col cappio in tutta segretezza nazionale.»

Akira si avvicinò, per guardarlo meglio negli occhi. «Mi stai dicendo che ucciderlo ti sembra la tua unica via di uscita, giusto? I tuoi segreti andrebbero nella tomba con lui. Ma che vita ti aspetta, se lo uccidi?»

«Convivo già con me stesso da anni, Kurusu. Il suo nome sulla mia hit list non farebbe altro che alleggerirne il peso, fidati. Tutti quei nomi, tutti quei visi. Alcuni se lo meritavano davvero, ma altri…» Goro strinse la presa con più forza, «Se lui non soffre, se Shido non muore, per mano mia, ogni cosa che ho fatto finora non avrà senso, non avrà valore. Non potrò morire né vivere in pace.»

«Questo non è vero, Akechi.»

«È l’unico modo.»

«Non lo è, ci siamo noi. Quando ci hai chiesto di vendicarci di Shido anche per te, quella notte, hai deciso di fidarti di noi. Perché ora ti rimangi la parola?»

«Ma in quel momento io stavo morendo, stavo morendo! Quale altra scelta avevo?»

Akira strinse la presa con forza, quasi con cattiveria, «Mi stai dicendo che avevi solo deciso di sfruttarci per vendicarti di Shido? Tutto quello che abbiamo condiviso era solo nella mia testa?»

A questo punto il ragazzo sgranò gli occhi, percependo la serietà nella sua voce. Esitò prima di rispondere e Akira era quasi sul punto di perdere la pazienza. «No, io volevo che ve ne andaste, volevo che continuaste ciò che stavate facendo. Perché quello che fate è giusto per voi e non fate del male agli altri,» disse infine, «Ma quello che avete fatto voi fino ad ora non ho mai pensato fosse giusto per me, era semplicemente ingiusto… non ce la facevo più, e stavo per morire. Finalmente, me ne stavo andando, avrei potuto smettere di guardarti e invidiarti e pensare che fossi tutto ciò che io non ero e desideravo.»

I due tacquero per un attimo. Il contatto fra le loro mani non riusciva a coprire la distanza fra le loro vite. Ogni volta che si era sentito vicino a Goro, Akira non aveva davvero capito nulla - si ritrovò a pensare. Anche in questo momento, non sapeva in cosa fosse giusto credere.

«Sopravvivere è stato diverso,» aggiunse infine Goro, «Pensare di dover sopravvivere, ancora, è diverso.» Quasi assieme, i due lasciarono andare la presa, facendo riscivolare le mani in acqua. Akira chiuse gli occhi e si massaggiò la radice del naso.

«Sai, penso che tu non possa sfuggire al tuo destino e un giorno dovrai farci i conti. Tuttavia, c’è una possibilità che tuo padre nella confessione decida di omettere ciò che ti riguarda.»

Goro rise, divertito come se avesse appena ascoltato una battuta, «Ma con quali idee strambe te ne esci? Dopo tutto quello che ho detto poi.»

«Ascolta, il fatto è che sei suo figlio e dentro di sé deve essere consapevole di averti rovinato la vita. Quando gli avremo rubato il cuore, se ne renderà conto e forse sceglierà di proteggerti non nominandoti nella sua testimonianza.»

«Non ha senso parlare per ipotesi, Kurusu.» Non era la prima volta che gli sentiva dire una cosa del genere dal giovane detective, «Anche se lui non parlasse, altre persone sono coinvolte nella cospirazione e tutte potrebbero fare il mio nome, se catturate e interrogate. A maggior ragione del fatto che cercherebbero un modo per lavarsi le mani del peso degli omicidi.»

«E se pensassero tutti che sei morto?» Goro lo guardò con un punto interrogativo stampato sul viso. «Pensaci. Sei sparito da più di una settimana, il tuo telefono è irraggiungibile, anche in tv tra poco annunceranno la tua scomparsa, perché sei un personaggio famoso.»

«Non posso restare morto per sempre, Kurusu.»

«Esattamente.»

«Non ti seguo, mi dispiace.»

«Allora…» Akira si passò una mano sul viso, domandandosi come diavolo avesse fatto a far virare l’argomento in quella direzione. Forse aveva cercato disperatamente qualcosa per sfuggire alla piega che la conversazione aveva preso. «Tra qualche giorno, potrai tornare a casa e far sapere a uno dei tuoi paparazzi di esser stato minacciato o… che so, attaccato da qualcuno, perché avevi iniziato ad indagare una scia di sospetti che ti avrebbe portato a Shido. Se pure gli altri membri della cospirazione provassero ad accusarti dopo la sua confessione, sarà la loro parola contro la tua. In un tribunale, nessuno potrebbe provare la tua colpevolezza. A meno che non esistano prove incriminanti di cui non sono al corrente.»

Goro tacque a lungo e Akira si sentì sprofondare nella consapevolezza di aver detto cose improbabili. Notò una leggera sospensione nel respiro del ragazzo, come se si fosse sollevato e fermato per un breve istante prima di iniziare a parlare. «Dimentichi che io sono il detective che ha fatto arrestare il leader dei Phantom Thieves. Il popolo mi ha acclamato per questo, ma ho già sperimentato la volubilità della fama. Nel momento in cui svelerete i misfatti del miglior candidato al ruolo di presidente, Masayoshi Shido, il favore tornerà a voi. Io non potrò più godere della credibilità che avrei adesso. Mi si rivolteranno tutti contro un’altra volta.»

«Allora basterebbe che trovassi una motivazione plausibile al perché hai finito con l’incastrare i Phantom Thieves.»

«Del tipo?»

«Del tipo… Puoi dire che è stato un errore.»

Goro lo guardò dall’alto al basso con scetticismo. «Un errore.»

La sua non era nemmeno una domanda. Nemmeno Akira era convinto di quanto un’idea del genere potesse applicarsi efficacemente alla realtà, ma era davvero così inverosimile?

«Beh, sì. Puoi dire che le tue indagini sono state manipolate, affinché i tuoi risultati finissero per favorire la campagna elettorale di Shido.»

L’altro sospirò, esausto ed esasperato. Si lasciò scivolare nell’acqua e rimase fuori appena con la testa. «Tutta questa fatica, quando basterebbe eliminare la sua ombra.»

«Come ti ho già detto, non c’è da discutere al riguardo.»

«Lo so, lo so… Non devi dirlo sempre con tutta questa perentorietà,» il ragazzo sospirò, «Il tuo piano non è il massimo ma non è nemmeno il peggiore che potessi inventare. Andrà rifinito se vogliamo davvero sperare che funzioni. Tanto ormai… non ho più niente da perdere.»

Akira lo guardò sorpreso, pensando che Goro dovesse essere davvero disperato per considerare seriamente la sua idea raffazzonata. O più semplicemente, fu la sua rassegnazione a colpirlo. «Niente da perdere?»

Goro lo guardò come se stesse domandando l’ovvio. «Già, niente.»

Akira si lasciò scivolare a sua volta nell’acqua. Purtroppo, ricordava quel periodo della sua vita in cui si era sentito di non avere davvero nulla da perdere, ma ormai i suoi contorni avevano iniziato a sfumare, per fare spazio a tutte le persone che avevano dato colore alla sua vita a Tokyo. Adesso che si sentiva vivo era anche il momento in cui aveva di più da perdere, il momento in cui non avrebbe ceduto nemmeno un centimetro per proteggere ciò che aveva conquistato. Lentamente, il silenzio scivolò tra di loro e il tempo passato a fissare il soffitto bianco sembrò prolungarsi per ore. Quando Goro si mosse provocando piccole increspature lungo la superficie dell’acqua, Akira riaprì gli occhi che non si era nemmeno accorto di aver chiuso. «Kurusu.»

Guardarlo bastò per fargli capire che aveva la sua attenzione. Goro si era rigirato e stava adesso poggiato al bordo della vasca con entrambi i gomiti. «Che voi mi aiutate a coprire tutto quello che ho fatto… non va contro la vostra idea di giustizia?» La sua voce era calma e pacata, niente zucchero a indorare la domanda scomoda, solo puro interesse.

«Sì. Ma credo che la nostra giustizia non sia in grado di giudicarti.»

«E siete ugualmente disposti a darmi una mano?»

«Non c’è stata una decisione unanime.»

Dopo un attimo di esitazione, «Devo dedurne che tutto quello che hai detto finora è riconducibile una tua iniziativa personale?»

Akira sospirò e preferì non rispondere. Ciò non fece desistere Goro, tuttavia, che riprese con tono più insistente. «Sei davvero disposto a ignorare il fatto che ho ucciso il padre di Haru?» La domanda ebbe l’effetto di fargli storcere il naso. Perché sottolineare una cosa del genere in un momento in cui Akira invece se la sentiva di provare a dargli una mano?

Con stizza, ribatté: «Dimentichi la madre di Futaba.»

Questo ebbe l’effetto di far ammutolire il ragazzo di fronte a lui, ma il silenzio non durò a lungo. «No, quella volta è stata diversa.»

«In che senso?»

«Scusami, preferirei non parlarne adesso.»

Trattenendo la curiosità, Akira decise di non insistere. «Va bene, magari un’altra volta. Per quanto mi riguarda, comunque, è semplice. Il punto è che non vorrei vederti passare il resto della tua vita in una cella.»

«Se ci penso abbastanza a lungo, in realtà, non sarebbe così diverso da come è stato il resto della mia vita. Forse non sarebbe così male…»

Akira non poté fare altro che tacere. Nulla di ciò che avrebbe detto in risposta sarebbe stato appropriato. Non seppe mai dove trovò il coraggio, ma alla fine si girò verso di lui, con un leggero tremito.

«Vorrei che tu sapessi che c’è di meglio nella vita e che puoi essere migliore di così.»

Goro, al suo fianco, poggiò la testa sulle braccia, sull’orlo della vasca e da lì sospirò regalandogli un sorriso. Gentile e amaro. Poi chiuse gli occhi e restò lì a dondolarsi in acqua come se fosse finalmente in pace. Akira si permise di osservarlo, come lo aveva visto il giorno precedente, avvolto nelle sue coperte e ora nelle calde vesti dell’acqua. Com’è che si diceva? Bello e dannato. E irraggiungibile, avrebbe aggiunto. Quando meno se lo sarebbe aspettato, Goro aprì gli occhi e Akira si fece cogliere nuovamente impreparato. Il ragazzo sorrise teneramente e staccandosi dal bordo della vasca allungò una mano verso di lui, dita calde si chiusero attorno al suo polso. Imitando il suo gesto, Goro unì le loro mani destre assieme e strinse. Akira sentì il proprio cuore accelerare i battiti, attese col fiato sospeso, pendendo dalle sue labbra, che solo dopo un ultimo istante si aprirono.

«Grazie.»

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Capitolo 5
*** Cracks on glass. ***


Capitolo 5.

Cracks on glass.

 

«Sappiamo che sarebbe importante per te…»

«Avrei voluto fosse andata diversamente.»

«Cogliere questa opportunità non è una cosa che puoi fare due volte.»

«Ma a causa di tutto quello che è successo…»

«E per le condizioni della tua gamba.»

«Non è una scelta facile, ne abbiamo discusso molto…»

«Ma abbiamo deciso che rimarrai qui.»

 

Il libro cadde a terra sulla moquette bordeaux, tuffandosi dalle sue mani e aprendosi come le ali di una farfalla. Atterrò con un tonfo e gli occhi di Goro non osarono scollarsi dalla sua copertina scura per qualche istante, terrorizzato all’idea di aver fatto piegare in questo modo almeno una buona metà delle pagine del libro. Immediatamente dopo, venne la consapevolezza di dover rimuovere quelle scomodissime stampelle da sotto le braccia per potersi chinare. Aveva già tolto quella di destra nel momento in cui le dita affusolate di Makoto Niijima si strinsero dolcemente attorno agli angoli del libro. I suoi occhi scrutarono la copertina attentamente, vi era disegnata una piccola tazza stilizzata, dalla quale salivano scie fumanti colorate in marroncino chiaro. Quando alzò lo sguardo su di lui, sembrava divertita: «Storia del caffè.»

Akechi accennò un sorriso a bocca chiusa mentre constatava con sollievo che le pagine non si erano rovinate. Makoto chiuse il libro e glielo porse gentilmente. Ringraziandola, lui lo prese e controllò che fosse tutto a posto prima di riporlo sullo scaffale. Sapeva che non era molto corretto da fare, ma ne sfilò una copia identica: se doveva comprare quel libro, tanto valeva portarne a casa un’edizione in buono stato e lasciare indietro quello che aveva appena fatto un volo sul pavimento. Una piccola parte di sé si sentì in colpa, l’altra la silenziò e fu accompagnata dalla leggera risata di Makoto al suo fianco.

«Sei un appassionato di caffè?»

«Oh, non esattamente,» rispose piano, mentre osservava la rilegatura in cerca della più piccola imperfezione. Fortunatamente per lui, perché era l’unica altra copia disponibile, non ve ne erano. Probabilmente la ragazza non doveva esser rimasta soddisfatta della sua risposta, ma Goro non poteva proprio dire di essere preoccupato al riguardo.

«Allora è un regalo?»

Makoto Niijima era una persona brillante, a volte fin troppo intuitiva. Tuttavia Goro doveva ammettere che in quella circostanza non sarebbe stato difficile capirlo nemmeno se si fosse trattato di Ryuji. Si ritrovò a mentire per evitare l’imbarazzo.

«No, per chi mai potrei comprare un regalo del genere?»

«Forse Akira.»

Lo sguardo di Makoto al suo fianco era calmo e pacato, come il resto della sua persona. Era composta, forte, sana e tranquilla. Probabilmente tutto il contrario di quello che era lui. Improvvisamente, il pensiero del ragazzo appena nominato gli fece domandare se mai ci fosse stato qualcosa tra i due di più profondo dell’amicizia. Senza dubbio sarebbero stati una bella coppia. Tornando al presente, però, strinse la presa sul libro e scosse la testa.

«Ha già il boss a fargli da enciclopedia vivente al riguardo.»

«Su questo devo darti ragione,» senza aggiungere altro, la ragazza si voltò di lato per riprendere ad osservare i libri dallo scaffale alla sua destra, dove si era interrotta poco prima. La libreria era piccola ma ben fornita, posizionata vicina alla stazione della metro di Shibuya, e per questo frequentata da clienti sempre nuovi, anche se senza dubbio i clienti affezionati non dovevano mancare. Goro fu grato di non dover spendere altre parole di circostanza con Makoto e continuò a vagliare con lo sguardo tutta la selezione di libri sulla cucina. Dopo aver scelto la piccola guida alla storia e alle varietà di caffè nel mondo, adesso non sapeva bene quale scegliere tra un libro di ricette di dolci e uno per cibi a base di pesce. Infine, il suo sguardo si posò su un volume illustrato, piuttosto grande e all’apparenza pesante.

Avvicinatosi, maledisse il paio di stampelle che la mattina addietro la dottoressa Takemi gli aveva imposto di usare. Sospirò al ricordo. I suoi sforzi di nascondere il dolore potevano esser stati sufficienti per Akira e il maledetto gatto parlante, ma non erano valsi nulla sotto lo sguardo esperto della dottoressa. Aveva accettato di usare i sostegni unicamente perché, senza, non sarebbe guarito efficacemente in tempi brevi. Piuttosto che prolungare il periodo di guarigione preferiva mettere da parte l’orgoglio e stringere i denti. Tuttavia, era davvero scomodo muoversi e fare qualsiasi cosa con quegli aggeggi in mezzo.

«Akechi-kun, ti serve una mano?»

«Niijima-san…» disse sentendosi a disagio di fronte alla ragazza che, nuovamente, si era messa al suo fianco. Per questa volta, avrebbe accettato senza fiatare tutto l’aiuto possibile: quel libro sembrava davvero troppo pesante perché lui potesse abbassarsi e sollevarlo senza togliersi le stampelle e sentire l’ennesima stilettata di dolore alla gamba.

«Scusami, mi prenderesti quel libro laggiù? Quello grande e quadrato. In copertina mi sembra ci sia la foto di un qualche tipo di donburi [1], ma forse mi sbaglio.»

«Certo, aspetta.» Makoto si chinò verso gli scaffali obliqui più in basso, «Questo?»

«Sì, quello lì…» poi, leggendo bene il titolo, lo pronunciò ad alta voce, «Kyōdo ryōri. Cucina tradizionale, sembra interessante. Ti dispiacerebbe sfogliarlo con me?»

Makoto non si rifiutò e gli si fece vicina, aggiustandosi il libro in braccio per poi lasciare che la copertina rigida si aprisse da un lato. All’interno, la prima pagina conteneva un indice. Makoto attendeva ogni volta che fosse Goro a chiederle di voltare pagina o di sfogliare un po’. Ogni tanto si lasciava andare a qualche commento sorpreso su piatti tipici del Kantō, di cui aveva solo sentito parlare, ma che aveva paura di assaggiare per la loro fama di essere fortemente speziati.

«Come mai questo interesse per la cucina? Non ti facevo persona da comprarsi tanti ricettari, Akechi-kun,» fece la ragazza e Goro seppe che era sincera nella sua curiosità. Con un po’ di imbarazzo, fece per passarsi una mano tra i capelli ma incappò nel cappuccio che aveva calato sulla testa e sulla fronte. Akira gli aveva prestato una felpa affinché potesse nascondere il viso in pubblico ed evitare che qualcuno lo riconoscesse. Non disponendo di felpe proprie, aveva dovuto accettare la gentilezza, ma il persistente odore del ragazzo, impregnato nel tessuto, iniziava a dargli alla testa. A ogni respiro, era come sentire Akira addosso. Ringraziava i miracolosi momenti in cui era abbastanza distratto da pensare facilmente ad altro.

«Prima hai detto che stavo facendo un regalo, non ricordi?»

«Ah, ma tu hai negato,» la sorpresa sul viso di Makoto era teatralmente costruita, e non pretendeva di passare inosservata. Si trattava più di una reazione scherzosa, soddisfatta per il fatto di aver indovinato. Goro si lasciò andare a una risata più sincera dei sorrisi che le aveva propinato fino a quel momento.

«Non ho comunque intenzione di dirti chi è il destinatario.»

«Tranquillo, non serve che tu me lo dica. Mi dici, piuttosto, come pensi di portarti in giro questo mattone, nel caso lo comprassi?»

«Sai che non ne ho la più pallida idea…»

Guardandosi attorno, individuò una commessa in piedi dietro la cassa.

«Pensi che consegnino a casa?» domandò Makoto, come leggendogli nel pensiero.

Goro annuì, «Me lo stavo giusto domandando.»

«Vado a chiedere informazioni, tu non affaticarti.»

Dopo aver detto così, Makoto chiuse il libro e, stringendolo al petto, si diresse verso il banco. Mentre guardava in quella direzione, Goro notò per la prima volta la vetrata di fondo che affacciava sull’affollata piazza di Shibuya e, oltre il vetro, il piccolo gruppo di ragazzi che li stava aspettando. Akira era indubbiamente il ragazzo col cappuccio grigio in testa. Futaba, Ryuji e Yusuke sembravano star conversando serenamente con lui, per non parlare del gatto parlante che si affacciava dalla solita borsa. I quattro - o cinque - avevano deciso di restare fuori per non entrare in massa nel piccolo negozio, rischiando di attirare troppa attenzione. Come linea generale si erano raccomandati di non muoversi tutti insieme, ma in unità più piccole. Stando a quanto aveva capito del programma, Ann e Haru li avrebbero raggiunti nel prossimo luogo in cui erano diretti, che in realtà era la loro destinazione ufficiale per il pomeriggio.

Quando Makoto tornò da lui con un sorriso stampato sul volto e niente tra le mani, Goro scese con la testa dalle nuvole e le andò incontro. «Dicono che non c’è problema, bisogna pagare per il servizio, ma recapitano anche a domicilio. Ho lasciato il libro sul banco, mi sembrava di aver capito che avevi intenzione di comprarlo.»

«Sì, infatti. Grazie per l’aiuto, vado a pagare.»

«Aspetta, Akechi-kun,» fermato nei suoi passi dall’improvvisa serietà del tono, Goro non si fece pregare e i due si spostarono di lato. «Prima di uscire, volevo chiederti scusa per ieri. Sono stata brusca, quando abbiamo parlato del non farti venire con noi nel palazzo di Shido.»

Per quanto l’argomento fosse prevedibile, il ragazzo non si sarebbe mai aspettato che Makoto si scusasse con lui per la maniera in cui aveva espresso la sua opinione. Non che pensasse di meritarsele - il semplice fatto che Makoto si stesse scusando con lui, Goro non riusciva a comprenderlo. D’altro canto, per quanto non gli piacesse ammetterlo, partecipare all’operazione non sarebbe stato altro che controproducente, nelle condizioni in cui si trovava.

«Non devi scusarti. È senza dubbio la scelta migliore, so di dovermi fare da parte.»

Qualcosa nel modo in cui le aveva risposto non doveva esser piaciuto alle orecchie di Makoto. Forse era stata la cadenza sbrigativa della sua voce o forse era fin troppo evidente che l’argomento ancora bruciava dentro di lui, fatto sta che la ragazza indurì notevolmente l’espressione del viso. Con ogni probabilità, non si era nemmeno resa conto di averlo fatto.

«Se dovessi avere intenzione di seguirci ugualmente, sappi che lo scopriremmo. E comunque non credo sarebbe la cosa migliore da fare per te, sotto ogni punto di vista.»

Goro sospirò, grattandosi la testa attraverso il cappuccio e fuggendo brevemente con lo sguardo. Lo so, pensò, non c’è bisogno che me lo dica tu. Già era snervante sentirsi inerme e incapace di fare qualsiasi cosa da solo, ricevere quel tipo di discorso da Makoto lo faceva sentire di nuovo come un ragazzo delle medie che veniva messo in guardia su ciò che si poteva e non si poteva fare in classe. Anche in quei casi, si era sempre trattato di fatti palesemente ovvi.

«Dove vuoi arrivare, Niijima-san? Lo so già che il gruppo non si fida di me. È normale e comprensibile. D’altro canto, nemmeno io mi fido di voi, si può dire che siamo pari.»

Makoto non riuscì a nascondere il suo disappunto e Goro rise, sinceramente divertito. Seriamente, di cosa si stava preoccupando? Il suo cellulare era sotto sequestro e senza il Nav non sarebbe stato capace di entrare nel Metaverso nemmeno se avesse pregato in tutte le lingue del mondo. La tensione che stava crescendo tra loro non gli piaceva affatto, ma la trovava curiosamente soddisfacente.

«Non guardarmi così, non è niente di personale.»

«Al contrario tuo, non abbiamo mai fatto nulla per meritarci questa sfiducia.» Il tono di voce di Makoto era ora freddo e lapidario, non lasciava spazio nemmeno per chiedersi dove fosse finita la ragazza gentile che fino a poco prima aveva sfogliato con lui un libro sui cibi tradizionali giapponesi. A Goro venne quasi da ridere per la seconda volta.

«Al tempo stesso, non si può dire che abbiate fatto nulla per meritarvi il contrario.»

La fiamma si accendeva sempre più negli occhi di Makoto, come una tempesta tenuta lontana solo dalle finestre chiuse. Era una furia controllata o forse - Goro si ritrovò a correggersi - si trattava di indignazione. Era abituato alle persone che lo guardavano dall’alto al basso pensando che fosse soltanto un essere ingrato ed egoista.

«Ma ti abbiamo salvato da quella nave!»

«No, Akira l’ha fatto.» Sentì il cuore battergli forte nel petto per il coinvolgimento emotivo che il solo ricordo comportava. Riusciva ancora a vedere chiaramente Joker lanciarsi oltre la grata prima che questa si alzasse del tutto, cadere a terra dalla sua parte, reprimere un gemito perché aveva sbattuto un ginocchio mentre saltava e l’atterraggio era stato maldestro. Il suo viso però non aveva mostrato altro che il ghigno soddisfatto di chi sapeva di avercela fatta. Lo stesso sorriso di quando sapeva di poter vincere, ancora una volta, sfidare la sorte e uscirne indenne. E lui, invece, che aveva a malapena ancora la forza di tenere su la pistola e fingere di possedere le energie necessarie a correre via. Goro lasciò che l’emozione che l’aveva colto alla sprovvista svaporasse, prese un respiro profondo. Nel giro di qualche istante, riempito dal silenzio attonito di Makoto, fu in grado di riacquisire un tono di voce calmo.

«Soltanto Akira l’ha fatto. Ora, se non ti dispiace, vado a pagare per i miei acquisti.»

Senza attendere una risposta, impugnò saldamente le stampelle e si incamminò verso la cassa, lasciandosi alle spalle Makoto in silenzio, che probabilmente si era ormai pentita delle inutili gentilezze e delle scuse superflue che gli aveva rivolto.

 

 

Appena qualche ora più tardi, Goro si guardò nello specchio di un camerino, domandandosi in che modo, esattamente, fosse passato dal provare felpe con cappucci a indossare ogni capo di abbigliamento disponibile nel negozio. Tutto ciò che aveva indosso in quel momento, fatta eccezione per l’intimo, erano abiti che Ann gli aveva passato attraverso la tenda uno dopo l’altro. La vera domanda era come avesse fatto la ragazza a convincerlo a provarli tutti quanti.

Si osservò con calma nello specchio: stivali neri coi lacci, jeans neri strappati sulle ginocchia in diversi punti, una maglietta bianca che ricadeva lenta sul petto e tagliata in maniera incomprensibile per lui e, per finire, una giacca sempre nera in pelle che gli arrivava appena ai fianchi. I pantaloni gli fasciavano le gambe in maniera troppo aderente per i suoi gusti, gli ricordava la sensazione dell’abito che indossava sempre quando invocava Loki nel Metaverso. Non era una sensazione spiacevole in sé, ma non sarebbe mai uscito di casa con indosso abiti che lo facevano sentire così a nudo e esposto.

Gli sfuggì un sospiro. Da una parte pensava che fosse abbastanza sensuale il modo in cui tutto aderiva al suo corpo, dall’altra era convinto di apparire semplicemente ridicolo. Si domandò con una punta di imbarazzo se mai qualcuno avrebbe potuto trovarlo attraente, vestito in quella maniera. L’unica cosa che si salvava era l’orologio, anch’esso rigorosamente nero nel cinturino e nel quadrante, ma elegante con le sue lancette argentate in risalto sullo sfondo scuro. Era sul punto di tirarsi fuori da quei vestiti quando Ann lo richiamò dall’altro lato della tenda.

«A-ke-chi! Insomma, quanto ci vuole?»

«Ah, no… non penso siano adatti a me,» si affrettò a dire sperando che la ragazza non prendesse l’iniziativa, ma in meno di un battito di ciglia la tenda fu tirata di lato e il ragazzo non poté più nascondersi. Ann gli apparve di fronte e i suoi occhi azzurri lo scrutarono dalla testa ai piedi prima di rivelare la propria soddisfazione. Una risata allegra sfuggì alle labbra della ragazza, che unì le mani davanti al viso, gongolando: «Scherzi, vero? Stai benissimo!»

Goro cercò di nascondere l’imbarazzo guardando altrove, poi il suo sguardo fu catturato dal cappello che Ann stava indossando. Un berretto bordeaux con una piccola visiera rigida, simile ai cappelli della polizia, ma senza i ripiegamenti spigolosi. Tre bottoni colorati, in ordine verde scuro, rosa chiaro e nero, erano cuciti sul lato sinistro del cappello.

«Oh? E questo qui?» Le domandò, incuriosito. Lei alzò gli occhi verso l’alto e toccò il copricapo con la mano destra, dando modo a Goro di notare anche il paio di occhiali da sole che stringeva tra le dita.

«Dato che sei così lento a cambiarti, ne ho approfittato per guardarmi attorno,» fece lei senza nascondere una nota di allegria. Aprì gli occhiali e li indossò, le lenti erano tagliate a forma di cuore e colorate di un rosso ciliegia che tendeva molto al rosa, contornate da una montatura dorata. Aggiustatasi il cappello sulla testa, gli fece un occhiolino: «Che dici, come mi stanno?»

Goro si concesse un sorriso divertito, «Penso che ti stiano bene. Pensi di comprarli?»

«Ah… non lo so questo,» la ragazza sbuffò, «Questo cappello costa troppo e ho superato il mio budget mensile per le compere in vestiti nuovi. Mi toccherà aspettare, sperando che non finisca fuori catalogo.»

«Capisco, che peccato. Spero lo ritroverai.»

«Già,» fece lei pensosa, prima di tornare coi piedi per terra, «Ma non penserai certo di sfuggirmi così! Vieni qui, il camerino non è abbastanza luminoso.»

Senza voler sentire ragioni, Ann lo costrinse ad uscire dalla sua piccola tana, con tanto di stampelle, per andare a vedersi nello specchio più grande e luminoso del corridoio dei camerini. Goro non desiderava altro che poter sparire. Quando si vide nel riflesso dello specchio, il suo imbarazzo si accentuò al pensiero che chiunque avrebbe potuto vederlo conciato a quel modo. Ann invece sorrideva, insensatamente.

«Guarda, potresti fare il modello,» annuì tra sé mentre lui scuoteva la testa, «Altro che investigatore prodigio! Vuoi che ti presenti a qualche fotografo?»

Goro non sapeva se trovare tenero il modo in cui cercava di convincerlo di star bene in quegli abiti. Non poteva dire che Ann fosse una persona ostile, anzi, di tutto il gruppo, la giudicava forse la più socievole e aperta. Tuttavia iniziava a dubitare che avesse tutte le rotelle al posto giusto.

«Non mi sento per niente a mio agio con questo stile… E no, grazie, nessuno mi prenderebbe, sarei troppo impacciato.» Non che la sua mente avesse mai accarezzato l’idea di poter fare il modello. Al contrario, non provava alcun interesse per l’attività in sé. E poi non aveva certamente le qualità per dedicarsi a una cosa del genere.

«Senza dubbio non assomiglia affatto a quello che porti di solito,» commentò la ragazza, portandosi una mano al mento. L’osservò e fece un giro intero intorno a lui, mentre Goro teneva salda la presa delle mani sulle stampelle e si lasciava ondeggiare avanti e indietro. Era strano non indossare i guanti, ma Ann l’aveva costretto a rimuoverli per “il bene superiore dell’estetica”. Come conseguenza, Goro non faceva altro che cercare di nasconderle il più possibile.

«Forse è la maglietta che non ti convince? O è la giacca?» chiese Ann analizzando la faccenda come se fosse un problema serio - e, soprattutto, come se fosse la prima volta che non andavano d’accordo sulle scelte di vestiario che lei gli aveva proposto.

«Devo dire che la maglietta non mi fa impazzire… ma temo sia l’insieme a non convincermi.»

«Impossibile! Questi pantaloni ti stanno troppo bene, e anche gli stivali, ti slanciano.»

«Se può consolarti, l’orologio mi piace molto.»

Ann sbuffò mentre tornava di fronte a lui, ma la sua smorfia concentrata mal nascondeva un sorriso. Ann afferrò il colletto della giacca che stava indossando e lo sistemò meglio, poi prese gentilmente il suo mento tra le dita e lo costrinse a voltarsi di lato, da una parte e poi dall’altra. Goro si lasciò guidare senza protestare. Si stava abituando ai suoi modi di fare, Ann era una persona chiara e diretta, gli sembrava di sentire una sorta di connessione con lei in quel momento. Come se fossero stati amici da una vita e andare insieme per negozi a provare vestiti inusuali fosse un’abitudine più che un evento eccezionale. Non le tolse gli occhi di dosso, chiedendosi se stesse diventando pazzo tutto all’improvviso.

«Ho avuto un’idea!» annunciò infine lei. S’infilò una mano nella tasca destra della felpa e ne tirò fuori un elastico nero, poi si spostò nuovamente alle sue spalle e senza chiedere il permesso iniziò a toccargli i capelli. Goro non si lamentò, né disse alcunché, stringendo i denti ogni volta che Ann gli tirava i capelli con troppa forza.

«Comunque, Akechi-kun…» le parole della ragazza lo raggiunsero, richiamandolo dai suoi pensieri. La voce era scivolata lentamente verso un tono più basso, mentre le sue dita si impegnavano ancora per legare le ciocche più alte in un piccolo codino dietro la sua nuca, «Volevo chiederti come ti senti, mi sembri di buon umore oggi.»

«In che senso?» chiese, imponendosi di evitare l’argomento come sempre, anche se stavolta il compito si prospettava più difficile di quanto non fosse in passato. Il solo interesse di Ann al riguardo lo faceva sentire vulnerabile.

«Nel senso: come stai? Dopo ieri, in generale…»

«Oh, sto bene, suppongo.»

Ann tacque e continuò a lavorare coi suoi capelli, tirandoli ogni tanto, e Goro si mordeva silenziosamente le labbra. Nel silenzio che si era appena creato, il ragazzo riusciva a sentire il battito forte del proprio cuore nelle orecchie.

«Anche se non ne parli, so che non è facile per te,» riprese improvvisamente la ragazza, «Speravo che alla fine saresti potuto venire con noi, ma vedrai che porteremo a termine il piano senza fallire. Fidati di noi.» Ann lasciò andare i suoi capelli. Senza pretendere alcuna risposta, tornò di fronte a lui e osservò il risultato del proprio lavoro.

«Ecco, guarda, stai bene anche coi capelli un po’ portati all’indietro.»

Seguendo il suo sguardo, Goro lasciò che i propri occhi scivolassero di nuovo verso lo specchio. Sorprendentemente, doveva ammettere però che l’esito non era poi così terribile. Forse avrebbe dovuto considerare la possibilità di farsi crescere i capelli: tenerli legati quando era a casa da solo sarebbe stato più comodo che ritrovarseli sempre davanti al viso. Inoltre, doveva anche riconoscere che questa acconciatura si intonava meglio allo stile di vestiti che Ann gli aveva proposto. Osservandosi nell’insieme, per un attimo non si riconobbe più, era diventato solo un ragazzo giapponese vestito in maniera punk-rock in uno dei numerosissimi negozi affollati di Harajuku. Mancavano la catenina in metallo legata alle asole dei pantaloni, una collana e magari un piercing o un dilatatore all’orecchio, e avrebbe potuto uscire per le strade senza un cappuccio in testa. La gente non avrebbe mai potuto riconoscere il celebre detective prodigio in un individuo come lui, al massimo sarebbe stato possibile dire che si somigliavano molto, che erano sosia o gemelli separati alla nascita. Fu la sensazione più strana della giornata.

«Allora, ti piaci di più?»

«Io… non lo so,» uscendo da quel piccolo ma infinitamente lungo attimo di trance, Goro scosse la testa, tornando a se stesso. Non sapeva se riprendere l’argomento aperto poco prima da Ann o continuare a conversare con lei come se quel breve scambio non si fosse mai verificato. Prese un respiro profondo, che bloccò appena prima di espirare, poi si sciolse in un sorriso: «Questa roba però non la compro ugualmente.»

Ann si illuminò in un altro dei suoi sorrisi, chiudendo gli occhi dietro le lenti a forma di cuore, poi riaprendoli. Goro si sarebbe aspettato una reazione diversa, non poté mancare di chiedersi cosa trovasse di così positivo nel suo rifiuto. La reazione più naturale sarebbe stata mettere il broncio, anche solo per stare al gioco. Nonostante tutto, la ragazza non sembrava intenzionata a demordere: «I pantaloni e gli stivali sì. E anche l’orologio.»

«Solo l’orologio,» contestò lui.

«Tutti e tre!»

Proprio nell’istante in cui Goro si lasciava andare a una leggera risata, ai due si avvicinò una persona con il viso interamente coperto da un passamontagna nero, fatta eccezione per una piccola porzione ritagliata che lasciava scoperti gli occhi color marrone scuro. Senza dubbio si sarebbero entrambi spaventati se il resto del corpo di questa figura non fosse appartenuto inconfondibilmente a Ryuji.

«Hey, piccioncini, che ne dite? Perfetto per l’operazione di stasera, non trovate?»

«Ryuji!» Lo sguardo di Ann saettò intorno per il negozio e arrossendo diede un pizzicotto al braccio del ragazzo. Abbassando il tono della voce, «Come ti viene in mente di mettertelo qui dentro? Tutti i commessi e i clienti ti stanno fissando. Vuoi farti denunciare?»

«Ahi, ahi!» fece lui, liberandosi dalla sua persa e massaggiandosi il punto incriminato, poi si adoperò per sfilare il passamontagna. La sua chioma bionda e arruffata fece capolino e Ryuji cercò di sistemarla con una mano. «Che hai da arrabbiarti così tanto? Volevo solo fartelo vedere. Se continui così poi pare che sto cercando di rapinarti quando invece sei solo tu che fai l’isterica.»

Ann gonfiò le guance, trattenendo la rabbia per le redini. «Sei solo stato inopportuno.»

«Io trovo che sia perfetto,» si intromise Goro cercando di rasserenare la conversazione. Ryuji lo fulminò con lo sguardo come se l’avesse appena insultato, senza aggiungere una parola, e Goro desiderò potersi fare piccolo e svanire. La consapevolezza di essere sgradito - o meglio, indesiderato - gli affondò nello stomaco. Come una sanguisuga che si attacca alla pelle e succhia via il sangue lentamente ma inesorabilmente, allo stesso modo quest’ansia gli si avvinghiò con le unghie vicino al cuore, dove poteva avere il controllo di ogni sua emozione. Adesso ricordava perché da bambino i suoi tentativi di socializzare con gli altri ragazzi degli orfanotrofi avevano sempre avuto vita breve. Ogni volta il ruolo di ultimo arrivato ricadeva su di lui come una condanna, continuamente spostato da una casa di accoglienza all’altra, tormentato dai falsi allarmi di qualche famiglia che prima diceva di volerlo adottare, poi improvvisamente cambiava idea. Se pure fosse riuscito a fare amicizia, non sarebbe durata, perché la sua permanenza raramente superava i sei mesi. Col tempo, aveva imparato a non desiderare alcun contatto con gli altri, a vivere per sé e a familiarizzare con la solitudine. Anche adesso, per il tempo che sarebbe rimasto, aveva davvero senso per lui cercare di farsi degli amici?

Nel silenzio pieno di disagio che era scivolato tra loro, inaspettatamente Ann avvicinò la mano destra al viso di Ryuji e gli lasciò una schicchera proprio in mezzo agli occhi. Il gesto fu così naturale che nessuno dei due ragazzi se ne accorse prima che fosse troppo tardi. Goro non riuscì a trattenere lo stupore e sotto il suo sguardo attonito Ryuji indietreggiò di un passo, portandosi subito le mani al viso.

«Ehi, ma sei impazzita? Ma che ti prende?» lamentò strascicando le parole tra i denti, sorprendentemente molto meno arrabbiato di quanto Goro si sarebbe aspettato. Per un attimo si chiese se non fosse successo qualcosa tra i due per cui ora reagivano a quella maniera. A ripensarci, per la maggior parte del tempo che avevano trascorso assieme i due non si erano rivolti altro che scambi veloci, ignorandosi per quello che rimaneva.

«Smettila, sai di cosa parlo e non ho voglia di ripetermi,» Ann parlò esattamente come Goro immaginava che avrebbe fatto una madre col proprio bambino; come forse aveva sentito fare ad alcune signore durante le sue passeggiate in qualche parco pubblico di Tokyo.

«Oh, scusami tanto se ti ho rovinato il divertimento, miss sono meglio io,» rispose Ryuji, le sopracciglia aggrottate per la frustrazione, «O forse preferisci miss “meniamo gli amici, abbracciamo i nem—”»

«Stai esagerando!» fece lei, interrompendolo e arrossendo per la rabbia. Goro, preso tra i due fuochi, non sapeva davvero come fare per calmare la situazione e si sentì mortificato. Non voleva che Ann prendesse le sue difese, non ce n’era bisogno, e Ryuji non faceva niente di male nel riconoscere che non c’era nemmeno l’ombra di un’amicizia tra di loro.

«Ragazzi… Non fa niente, davvero, non ha fatto niente di male.»

I due lo guardarono in silenzio, entrambi ancora gonfi di parole infiammate che, senza dubbio, continuavano a lanciarsi mentalmente senza dar loro voce. Goro riusciva quasi a cogliere gli insulti che correvano tra uno sguardo furtivo e l’altro. Poi, col suo passo silenzioso, la familiare presenza di Akira si avvicinò al piccolo gruppo. Colta al volo l’atmosfera tesa il ragazzo li osservò tutti e tre uno dopo l’altro e Goro si ricordò improvvisamente di come era vestito. Avrebbe voluto tornare a nascondersi nel camerino inventando qualche scusa ma tutto ciò che riuscì a fare fu dondolare nervosamente sul posto.

«Qualcosa non va?» domandò Akira con tono di voce serio, che fece scattare Ryuji.

«No, è tutto a posto. Qui qualcuno non apprezza il senso dell’umorismo.»

Così dicendo, il ragazzo dai capelli biondi si mise le mani in tasca assieme al passamontagna e se ne andò a grandi falcate. Un sospiro sfuggì alle labbra di Akira, mentre Ann incrociava le braccia al petto e voltava lo sguardo in direzione opposta a Ryuji. Goro aprì e strinse la presa più volte sulle impugnature delle stampelle, cercando disperatamente qualcosa di interessante su cui posare lo sguardo che non fossero i due ancora in piedi di fronte a lui.

«Ann, stai bene?» si informò Akira, al che la ragazza sembrò sciogliersi un po’ e la tensione alleviarsi. Mentre lei gli rispondeva, Goro lasciò scivolare il proprio sguardo altrove. In un piccolo angolo del negozio, riconobbe Yusuke e Futaba, intenti a provarsi diversi tipi di occhiali da sole dalle forme strane. In quel momento, il giovane artista ne indossava ben due paia insieme, uno decorato con fenicotteri rosa e un altro con al centro un’ananas gigante. Poco distanti, Makoto e Haru osservavano gli espositori pieni di sciarpe invernali. Per qualche istante la sua attenzione si concentrò sui lineamenti del viso di Haru, che sorrideva apparendo spensierata.

«Akechi,» la voce di Akira lo richiamò e i suoi occhi corsero verso di lui. Solo in quel momento Goro si accorse che il ragazzo teneva stretta tra le mani una camicia chiara, di un azzurro tenue, e gliela stava porgendo. «Tieni.»

Goro lasciò la presa sulla stampella sinistra e strinse le dita attorno alla camicia, avvicinandola per poterla osservare meglio. Aveva un leggero motivo di pois bianchi, ma erano così piccoli e distanziati che quasi non si notavano. Trovandosi di fronte a un vuoto di parole, poiché non sapeva interpretare la presenza di quell’oggetto fra le sue mani, guardò Akira in cerca di una spiegazione e l’altro sembrò capire.

«Mi è stato detto di non dirtelo, ma lo faccio ugualmente. L’hanno trovata Haru e Makoto laggiù e hanno pensato che ti si addicesse. Mi hanno chiesto di portartela.»

Senza pensarci Goro tornò a guardare le due ragazze, intente ora a provare insieme una sciarpa che sembrava decisamente troppo lunga per una persona sola, sempre che uno non avesse voluto sotterrarcisi dentro. Realizzare che proprio da loro giungeva il pensiero gli strinse lo stomaco.

«G-grazie…» disse con poca sicurezza ad Akira, «Ti chiederei di ringraziare anche loro, ma non credo tu possa.»

«No, infatti,» il ragazzo si voltò ora verso Ann, «E anche tu, acqua in bocca.»

Lei annuì senza esitare, prima che l’altro riprendesse.

«Non metteteci troppo, comunque, tra poco sarà tempo di andare.»

«Certo, ci sbrighiamo.»

«Scusatemi per tutto il tempo che vi sto trattenendo qui,» s’intromise Goro, sentendosi sempre peggio, per motivi che non sapeva spiegare nemmeno a se stesso. «Ci metto molto anche per via di queste…» spiegò facendo cenno alle stampelle. Akira gli sorrise dolcemente e Goro sentì il cuore sprofondargli in fondo allo stomaco.

«Non preoccuparti, è solo che dobbiamo fermarci a cena da qualche parte,» così dicendo si passò una mano tra i capelli dietro l’orecchio. «Ah, tra le altre cose, volevo dirti che stai benissimo così, anche coi capelli legati,» aggiunse, e accompagnò le ultime parole con un gesto della mano che stava a indicare la piccola coda che Ann gli aveva fatto. Senza riuscire a processare la cosa razionalmente in meno di tre secondi, Goro si maledisse perché non riusciva a costruire una frase di risposta coerente, finendo col ripiegare su un «Oh, grazie,» poco convinto.

Akira si lasciò sfuggire una risata e fece un cenno di saluto ad entrambi. «Adesso vado, fate presto.»

Con quest’ultima raccomandazione, si allontanò, senza attendere una risposta da nessuno dei due, e Goro si sentì sollevato nel ritrovarsi di nuovo solo con Ann. Dopo un attimo di pausa, lei batté le mani tra loro, come a voler fare il punto della situazione.

«Visto? Non sono l’unica a pensare che stai benissimo così. Cosa vogliamo fare?»

Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei, ancora stordito. Come incoraggiato e senza pensarci su, si girò un’ultima volta verso lo specchio. Sorprendentemente, più che un’altra persona, adesso riusciva a scorgere un lato di sé che non gli era affatto nuovo, ma privato e probabilmente inesplorato. Uno che in qualche maniera quadrava nel tutto di quell’immagine riflessa. La sensazione di diversità era scomoda, ma si rivelava interessante.

«Sai… Penso che prenderò tutto, alla fine.»

«Uh? Tutto il completo?» esclamò la ragazza, sgranando gli occhi. La mano destra corse a giocare con alcune ciocche di capelli che le ricadevano sulle spalle, «Come mai hai cambiato idea?»

«Non saprei,» cercò di evitare l’argomento. Non lo sapeva bene nemmeno lui.

«Ah! E questa qui non te la provi?»

Ann riportò l’attenzione sulla camicia che ancora teneva in mano. Goro la sfregò lentamente tra le dita. Il tessuto era piacevole al tatto, il colore tranquillo, non dava nell’occhio e incontrava il suo senso estetico. Si rese conto, rigirandola, che il taglio delle maniche era corto, con il risvolto. Sebbene il modello fosse fuori stagione, non aveva molta importanza. Per un attimo si chiese se avrebbe mai davvero avuto l’occasione di indossarla e sentì il cuore farsi più pesante, al punto che quasi gli mancò il respiro. Voltandosi verso Ann, infine, deglutì e scosse la testa, cercando di mostrarle un sorriso. «No, non serve… La prendo.»

Per qualche motivo, non aveva dubbi che la misura fosse giusta. E se pure non lo fosse stata, se ne sarebbe fatto una ragione. Voleva quella camicia, esattamente e unicamente quella, per poter conservare il ricordo intatto, per sempre.

 

 

«Dunque, ricapitoliamo.»

Futaba stava camminando sul bordo rialzato di un’aiuola, le braccia tese per mantenere l’equilibrio, e non si poteva dire se fosse più concentrata sul parlare o sul non cadere. Al suo fianco, Akira era pronto a prenderla in caso di necessità. «Dovrebbero essercene cinque, più o meno. Una all’ingresso del palazzo, una sul pianerottolo, probabilmente due nel salotto e una nel corridoio.»

«Sì,» rispose Goro continuando a ragionarci su, «Non vedo che necessità ci sia di metterne anche in bagno, in cucina e in camera da letto. Sono tutte aree della casa alle quali si accede passando prima nel salotto e nel corridoio.»

«Se fossi nella testa di Shido, penserei di volerti spiare in qualsiasi cosa tu faccia, una volta tornato a casa. Insomma, non mi accontenterei di sapere che sei rientrato.»

L’appunto di Makoto giunse puntuale come lo scoccare della mezzanotte. La ragazza camminava alla sua sinistra e portava tra le mani una delle diverse buste di acquisti che aveva fatto. Goro non avrebbe voluto lasciare che gli altri portassero le sue cose, ma tutti avevano insistito dal momento che non poteva farlo da solo. Tutti, fatta eccezione per Ryuji, che però aveva acconsentito solo dopo aver ricevuto l’ennesima gomitata nel fianco da parte di Ann. Il gruppo si era ridimensionato, dal momento che Yusuke era dovuto rientrare in dormitorio per via del coprifuoco e Haru non se l’era sentita di accompagnarli. Goro non poteva biasimarla né dirsi scontento della sua assenza. Morgana, da bravo gentiluomo, aveva deciso di accompagnarla a casa e aveva abbandonato il gruppo a sua volta.

“Ve la caverete anche senza di me,” aveva detto prima di saltare giù dalla borsa di Akira. Forse era stato per il meglio.

«Ha ragione,» accordò Futaba mentre tornava coi piedi sul marciapiede, eseguendo un saltello entusiasta. «Sono pronta a scommettere che ce ne sono anche lì, come sono certa che ci saranno delle cimici installate in tutto l’appartamento.»

«Per le microspie non c’è altro modo che trovarle e disattivarle, ma non possiamo farlo sotto gli occhi delle telecamere,» appuntò Akira lanciando uno sguardo d’intesa a Futaba. La ragazza sorrise diabolicamente soddisfatta.

«Non temete, ragazzi. Come vi avevo promesso, ho trovato la soluzione al problema.» Dalla tasca destra del giaccone verde tirò fuori una custodia nera e la agitò in aria con fare trionfante. «Ta-dan! Occhiali a infrarossi!»

Il gruppo intero la guardò con stupore. Futaba aveva detto al gruppo che avrebbe trovato un modo per individuare la posizione delle telecamere in uno schiocco di dita, ma non pensavano sarebbe riuscita a procurarsi un dispositivo così. Ryuji fu il primo a lasciarsi andare all’entusiasmo: «Capperi, come funzionano? Me li fai provare?»

«Posso rispondere solo alla tua inaspettata sete di conoscenza,» la ragazza gli fece la linguaccia e Ryuji rispose con una smorfia a propria volta, mentre allungava una mano per prendere la custodia. Futaba si mosse indietro sfuggendogli.

«Ehi, giù le mani!»

«Dai, facceli vedere almeno!»

«Quando saremo arrivati.»

«Lo siamo,» disse Goro fermandosi all’angolo della strada, sotto il cerchio luminoso di un lampione. Gli altri fecero altrettanto, azzittendosi immediatamente. Goro guardò in fondo alla strada, la palazzina nella quale abitava era la terza sul lato sinistro, in tutto simile alle altre. Le mura esterne pitturate di blu ceruleo, con davanzali e finestre dagli infissi bianchi, i giardini erano pieni di alberi che in primavera si riempivano di gemme chiare. Non era un brutto luogo in cui abitare, ma Goro si sentiva sempre nel posto sbagliato. Il peso delle chiavi nella sua tasca si fece improvvisamente più evidente.

«Bene, come procediamo da qui in poi?» la voce pacata ma risoluta di Makoto lo richiamò all’attenzione. Ryuji, che aveva entrambe le mani occupate per via delle buste, scalpitò sul posto.

«Per prima cosa, nascondiamo questa roba da qualche parte.»

«Sì, magari in un posto dove non ingombrano… sperando che nessuno le veda e pensi di rubarle,» enfatizzò Ann, mordendosi un labbro e lanciando qualche occhiata ricognitiva intorno. Goro fece qualche passo avanti e indicò l’area condominiale.

«C’è un angolo, nel giardino, che non è facile da individuare dall’ingresso,» iniziò a spiegare, «Nessuno dei condomini ha animali, quindi non rischiamo di incontrare qualcuno che porti a spasso il cane. Non ci sono molti cespugli, ma la siepe di recinzione dovrebbe bastare. Ci sono anche abbastanza alberi nei dintorni, credo sia il punto migliore per lasciare le cose.»

«Credo possa andare, ma come ci arriviamo?»

«Forse voi riuscireste a scavalcare il recinto, ma per me è impossibile in queste condizioni. L’unico accesso diretto è il cancello, Niijima-san.»

«Pensate ci sia una telecamera anche lì?» Fu Akira ad informarsi, direttamente rivolto più a Goro e a Futaba che al resto della squadra. Il ragazzo si grattò la testa, pensandoci su.

«Mi sembra eccessivo…» mormorò, ma forse Shido era disposto a prendere misure drastiche.

«Già, pensa che sbatti controllare tutta la gente che entra ed esce,» sbuffò Ryuji.

«Un gruppo numeroso come il nostro che entra per la prima volta, però, salterebbe subito all’occhio, nel caso ci sia davvero qualcuno a guardare.» Ann aveva un punto a suo favore. Sfortunatamente, non potevano permettersi di essere incoscienti e, a differenza del Metaverso, nessun travestimento qui sarebbe stato in grado di nascondere le loro identità. Dopo aver osservato le prime reazioni, Futaba dondolò sui tacchi dei suoi stivali e ridacchiò soddisfatta, come se il loro arrovellarsi sulla faccenda fosse cosa superflua.

«Ragazzi, non serve fasciarsi la testa prima di rompersela,» sollevò la custodia nera per mostrargliela nuovamente, «Intanto vediamo se c’è davvero una telecamera all’ingresso. Poi andiamo in cerca del pannello di controllo dell’elettricità della palazzina. Le telecamere di sorveglianza necessitano di un’alimentazione costante per poter funzionare ventiquattro ore su ventiquattro, altrimenti bisognerebbe dotarle di pile e cambiarle continuamente non appena si scaricano. La stessa cosa è valida per possibili microfoni nascosti, per questo le cimici saranno verosimilmente connesse a reti elettriche fisse.»

«Shido non è il tipo da sprecare uomini in compiti futili come sostituire le batterie alle telecamere, sfrutterebbe senza dubbio la corrente elettrica,» completò Goro. Un senso di fastidio allo stomaco gli strinse le viscere al pensiero di quanto sarebbe stato pericoloso fare quello che era necessario fare. Ann distolse lo sguardo dall’edificio per puntarlo su di lui, seria come non l’aveva ancora mai vista in quella giornata, e lui si preparò ad ascoltarla.

«Akechi-kun, avevi detto che il quadro di controllo si trova nel seminterrato?»

«Sì, proprio in fondo alle scale.»

«Cosa c’è lì sotto?» Domandò Ryuji, «È un garage?»

«No, no…» Goro cercò di richiamare tutte le proprie conoscenze al riguardo, «Non ci vado quasi mai, ma ci sono soltanto cantine e ripostigli. Io non ne ho una, tengo la mia bici in casa. Ad ogni modo, non offre nessuna uscita secondaria, quindi dubito fortemente che abbiano installato una telecamera lì.»

«Concordo, è un vicolo cieco e Shido sicuramente sa che non hai una cantina.»

Futaba si accodò al commento di Makoto, «Dunque sfrutteremo il pannello di controllo per far saltare la corrente nella palazzina e, una volta dentro l’appartamento dovrò essere veloce a disattivare le telecamere, piazzando su ciascuna di esse… uno di questi qui!»

Dalla stessa tasca di prima, estrasse un piccolo oggetto metallico, dotato di un pungiglione che non doveva essere più lungo di cinque millimetri. Il resto del corpo era nero e tondeggiante, la grandezza simile a quella di una biglia. Ryuji di nuovo liberò una mano dalle buste e fece per toccare il piccolo oggetto tra le dita di Futaba, ma esattamente come prima la ragazza si scansò. «Non provarci nemmeno, sono delicati!»

«Eh ma è tutto delicato, per te!»

«Che cos’è, esattamente?» La sola voce di Akira calmò il dibattito. Come sempre, Goro era colpito dalla sua capacità di rimanere in silenzio e usare le parole al momento giusto - qualcosa che sentiva estremamente distante dalla propria realtà. Futaba rivolse le proprie energie alla spiegazione, mentre si voltava verso Akira e dimenticava le pretese di Ryuji.

«Un trasmettitore, ma non uno qualunque. Questi qui li ho modificati io stessa, con l’aiuto di qualche amico esperto online…» dalla tasca, estrasse un’altra manciata di quegli oggetti tondi e scuri, tenendoli sul palmo della mano, «Il prezzo non è elevato, ma non ho potuto fabbricarne di più in così poco tempo. Questo piccolo ago qui va inserito nei cavi di collegamento elettrico delle telecamere, è abbastanza appuntito da perforarli e non troppo lungo da bucarli da parte a parte.»

«Suppongo tu abbia il ricevitore,» Goro si lasciò sfuggire ciò che stava pensando. Futaba sorrise e con la mano libera diede una leggera pacca alla borsa che teneva a tracolla. La ragazza non usciva mai con borse o zaini, teneva sempre tutto nelle grandi tasche della giacca verde. A giudicare dalla forma rettangolare, Goro dedusse che all’interno vi si trovasse il suo laptop.

«Precisamente,» Futaba sembrava contenta del fatto che tutti stessero seguendo il suo discorso, «Ma come vi ho detto, non si tratta di semplici trasmettitori. Dal mio computer posso mandare degli input e modificare il funzionamento interno delle registrazioni. Non è una cosa facile da fare, né da spiegare… ma la farò funzionare, non serve che vi ci arrovelliate sopra.»

«In poche parole, vuoi hackerare le telecamere,» fece Ann, ricevendo risposta positiva. Senza perdere tempo, Futaba si voltò verso Akira, affidandogli tutti i piccoli trasmettitori. Il ragazzo li prese e ne saggiò il peso nel palmo della mano. Subito dopo, la più piccola del gruppo aprì la custodia dei fantomatici occhiali a infrarossi e li indossò. Le lenti erano tonde, arancioni e leggermente protuberanti, montate su una struttura a fascia dall’aspetto saldo. Inutile dirlo, la somiglianza con la maschera di Oracle era sorprendente.

«Beh, che ne pensate? Forti vero?»

Lo stesso pensiero era corso, probabilmente, nelle menti di tutti. Soddisfatta della sorpresa e dei complimenti ricevuti, la ragazza iniziò a spiegare a tutti in che modo funzionassero gli occhiali a infrarossi, rispondendo alle domande entusiastiche di Ryuji, che poi però finiva inevitabilmente per non capirci nulla. Per Goro il concetto era piuttosto chiaro, sebbene non se ne intendesse granché di tecnologie all’avanguardia. Non avrebbe saputo dire quale fosse la differenza esatta tra i modelli di terza e quarta generazione, a cui secondo quanto diceva la ragazza questi occhiali si avvicinavano, ma non ne aveva bisogno. Per quanto potesse essere difficile per lui, finché Futaba avrebbe saputo come sfruttarli, si sarebbe fidato di lei senza porre domande.

«Adesso, Akira, tu dovrai entrare usando le chiavi di Akechi, scendere nello scantinato e far saltare la corrente. A questo punto, torni indietro e piazzi uno di questi amichetti sulla telecamera dell’ingresso. Dopo qualche secondo, dovrebbe illuminarsi un Led, probabilmente sarà rosso all’inizio ma poi diventerà verde» spiegò Futaba, mentre si guardava attorno con gli occhiali e si esibiva in una piccola smorfia. «Ah, troppo luminoso qui.»

«E per il cancello all’area condominiale?» Domandò Makoto.

«Oh, giusto. Di solito ci sta sempre una telecamera, ma in pochi sanno che sono finte. Basterà comunque che anche qui Akira, una volta entrato, ci piazzi sopra uno dei trasmettitori. Se la luce che si accende è rossa, significa che in realtà non c’è alcuna trasmissione di dati in atto, quindi puoi ritirare il trasmettitore e usarlo su un’altra telecamera. Meglio non sprecare questi cosetti.»

«Ricevuto,» disse Akira poggiando a terra la busta che stava portando e tirandosi il cappuccio il più giù possibile sugli occhi. Goro si domandò se ci avrebbe davvero visto qualcosa in quel modo. Durante il dibattito che si era acceso il giorno prima riguardo questa operazione, aveva insistito molto affinché non fosse Akira ad esporsi tanto passando sotto le telecamere ancora attive. La sua preoccupazione era probabilmente passata per scetticismo, perché non era bravo ad esprimere questo tipo di interesse per gli altri, e quasi per ripicca Akira aveva deciso di assumersi il compito. Col suo solito, maledetto sorriso di quando la decisione era presa e non sarebbe tornato indietro.

«Ripetiamo le altre tappe del piano,» sollecitò Makoto, «una volta che Akira ha sistemato la telecamera esterna e riattivato la corrente, Futaba si occuperà di manomettere le trasmissioni così da permetterci di entrare a nostra volta senza farci vedere. A questo punto, dovremo innescare un secondo blackout nella palazzina: dal momento che gli altri condomini senza dubbio inizieranno ad allarmarsi, da quel momento in poi il tempo a nostra disposizione sarà indeterminato, finché qualcuno non scenderà nello scantinato per riattivare la corrente.»

Il gruppo annuì, Futaba ridacchiò soddisfatta, «Poi lasciate fare a me.»

 

 

L’appartamento era silenzioso, la corrente ancora non accennava a tornare e dal piccolo sgabuzzino buio in cui si era nascosto assieme a metà del gruppo non proveniva alcun suono. Goro, accovacciato a terra con le spalle al muro, teneva le stampelle tra le gambe e poggiava la fronte al loro corpo metallico. Respirava piano, non si azzardava a muovere un muscolo e avrebbe voluto che i propri pensieri fossero altrettanto silenziosi. Alla sua sinistra stava un mobiletto pieno di cianfrusaglie utili per la casa, alla destra Ryuji era a propria volta seduto a terra e faceva del proprio meglio affinché i loro corpi non si toccassero. Goro ne era grato da una parte, ferito dall’altra, ma sapeva di meritare ogni tipo di sfiducia e persino repulsione da parte loro. Se avesse potuto, lui stesso si sarebbe evitato come si fa con la gente malata.

Voltato il viso verso il mobile, si abbracciò le ginocchia, con tanto di stampelle in mezzo che ricadevano ora sulla sua spalla, e vi poggiò sopra la guancia destra. Avrebbe voluto farsi piccolo e sparire sotto gli occhi di tutti, si sentiva stanco dalla giornata, stanco dell’operazione per recuperare la sua casa che tanto odiava e tutti i ricordi che vi albergavano dentro come fantasmi. Tutto quello in cui aveva creduto fino a qualche giorno prima era crollato in pezzi, il piano che aveva perseguito per così tanti anni era destinato a fallire fin dall’inizio e se era ancora vivo, su quel pavimento freddo e polveroso, era grazie alle persone che ora lo circondavano, a quelle altre che si nascondevano in cucina e alle altre tre che non erano presenti. Il fatto che non potesse considerare nessuna di queste persone un amico non lo sorprendeva, ma faceva male come un ago che gli affondava lentamente nello stomaco.

Passò un tempo infinito in quel silenzio.

 

 

Un leggerissimo bussare riscosse i ragazzi nello stanzino e la porta si schiuse. Con l’indice alzato sulle labbra, Futaba apparve oltre lo spiraglio e fece loro segno di uscire. Accompagnati dalla silenziosità che si addiceva a dei ladri professionisti, Ann, Makoto e Ryuji si alzarono da terra. Goro rifiutò scuotendo la testa l’aiuto ad alzarsi propostogli dalle ragazze, le quali finirono per precederlo. Una volta da solo, Goro ebbe premura di spostare silenziosamente le stampelle da un lato e si alzò sostenendosi al mobile al suo fianco e facendo leva sulla gamba sana. Akira si affacciò alla porta in quel momento e, raggiuntolo, lo fermò prima che potesse riprendere le stampelle. In labiale, gli spiegò, fanno rumore.

Goro annuì e si avvicinò da solo alla porta. Ogni passo poggiato sulla gamba destra era come una lama che affondava nel muscolo e scavava fino all’osso. Faceva sempre così male ricevere una pallottola? Non gli era mai successo prima, né aveva mai trascorso del tempo a immaginarselo.

La prima cosa che notò, entrato nella cucina, fu la lampada del soffitto smontata e poggiata sul bancone vicino ai fornelli. L’ambiente era quasi del tutto avvolto nell’oscurità, l’unica luce giungeva dalla finestra del salotto ed era tenue, ritagliava la sagoma della porta sul pavimento in un piccolo tappeto luminescente. Indicando i fili scoperti e l’attacco vuoto della lampadina, Goro si voltò verso Akira, che annuì in risposta. Quando fece ruotare il dito alludendo al resto della stanza, invece, il ragazzo gli indicò un punto preciso e lo Goro seguì con lo sguardo. Nell’angolo vicino al forno al microonde, una piccola luce verde lampeggiava ad indicare la presenza di una telecamera attiva, ma dirottata. Deglutendo, Goro cercò di restare calmo e con l’indice indicò il proprio orecchio, poi la presa della corrente scoperta della lampada da soffitto e nuovamente tutta la stanza. Akira non colse immediatamente e alzò un sopracciglio nella sua direzione, Goro ripeté il gesto finché non fu chiaro, e la risposta che ricevette stavolta fu negativa.

Pur rivolgendogli un “ok” con la mano, Goro non si sentiva abbastanza tranquillo e iniziò ad aprire cautamente tutti gli scaffali, in cerca di altre videocamere o microspie nascoste. Questo gesto lo riportava indietro di anni, a quando per la prima volta aveva scoperto di venire spiato da suo padre, a quel giorno in cui aveva ringraziato di non aver mai avuto amici a cui poter raccontare i propri segreti, o semplicemente di non aver mai preso l’abitudine di parlare da solo. Da quella volta in poi, aveva iniziato a controllare regolarmente ogni angolo della casa, circa una volta a settimana, per anni e anni. Conosceva a memoria quali fossero i punti migliori per posizionare telecamere e lo stesso poteva dirsi delle spie audio. Difatti, non si sorprese che la propria ricerca tra gli scaffali della cucina si rivelasse infruttuosa, ma si sentì ugualmente più sicuro in questa maniera.

La casa era silenziosa, sembrava non vi fosse davvero nessuno. Il gruppo sapeva dimostrare le proprie abilità quando necessario, perfino una persona chiassosa come Ryuji non sollevava un filo d’aria. Messo piede nel salotto, il suo sguardo registrò immediatamente tutti gli oggetti che erano stati spostati, soprattutto libri e sedie. Per il resto, l’appartamento si presentava esattamente come l’aveva lasciato una settimana addietro. Akira lo seguì nella stanza e facendogli un cenno lo portò verso la libreria che si trovava alla loro sinistra; qui gli mostrò una piccola telecamera nascosta in mezzo ai libri. Era identica alla stessa che Goro aveva adocchiato in cucina: grande quanto un pugno chiuso, nera e tondeggiante; sul retro uno dei trasmettitori di Futaba era stato inserito nel cavo di alimentazione ed emetteva una luce verde lampeggiante. Di fronte all’occhio della telecamera, le mani di Goro iniziarono a sudare. Lo sguardo che lanciò ad Akira dovette essere piuttosto eloquente, perché il ragazzo lo rassicurò e fece ruotare un indice in orizzontale, segno che le spiegazioni avrebbero avuto attendere.

Con passo felpato, Futaba fece capolino dal corridoio, occhiali a infrarossi sul viso e un altro dispositivo stretto in mano. Quando vide Goro, unì i polpastrelli di indice e pollice verso di lui come a chiedergli se fosse tutto a posto e con un accenno di incertezza lui rispose alzando il pollice in su. Con un sorriso soddisfatto, la ragazza riprese la ricognizione della stanza, avvicinando il dispositivo dallo schermo luminoso a diversi oggetti. I vasi di piante allineati sul davanzale sotto la finestra, il tavolino della televisione - la quale era già stata scollegata dalla corrente - il tappeto al centro della stanza. Quando arrivò al divano, lo schermo del dispositivo iniziò a lampeggiare. Futaba si fermò e fece cenno ai due ragazzi di avvicinarsi. Come previsto, Akira fu il primo a raggiungerla, muovendosi con passi leggeri.

Quando anche lui arrivò, Goro comprese al volo la situazione e Futaba confermò il suo pensiero mostrando loro un messaggio scritto sul suo smartphone: “Ce ne sta uno nei cuscini”. E quando diceva nei cuscini, intendeva proprio dentro. Akira si dedicò subito a rimuoverli con la maggior cura possibile: la corrente era tornata già da prima che Goro e gli altri uscissero dallo sgabuzzino, ciò significava che tutte le microspie ancora non rinvenute si erano riattivate. Fu facile individuare il cavo di collegamento alla corrente che sbucava da sotto uno dei cuscini dello schienale. Con un gesto deciso Futaba scansò Akira e tagliò il cavo utilizzando un paio di forbici dalle lame grandi e spesse. Il filo si spezzò senza proteste e Futaba non perse tempo ad accertarsi che non ve ne fossero altri, poi proseguì.

Goro si chiese quante microspie Shido avesse fatto installare in quell’appartamento in seguito alla sua scomparsa. Era sicuro che non ve ne fossero prima, ma ovviamente quell’uomo avrebbe voluto saperlo immediatamente se lui fosse mai rientrato in casa. Non poteva permettersi di farselo sfuggire, era il suo asso nella manica, dopotutto - gli serviva ancora. Goro storse il naso, stizzito e si guardò attorno. Ad essere analizzati e aperti o smontati erano stati anche quadri, lampade, scaffali, tende, orologi da parete. Cose così rumorose dovevano esser state fatte immediatamente, quando la corrente non era ancora stata ripristinata, e quello che non erano riusciti a rimettere a posto in tempo ancora giaceva sul pavimento. Per fortuna, il telefono fisso non lo aveva mai avuto, quindi era un fastidio in meno a cui pensare per tutti loro. Ora che non disponeva più di un telefono cellulare, tuttavia, Goro si domandò come avrebbe fatto per contattare i Phantom Thieves in caso di necessità. Se tutto fosse andato per il verso giusto, ne avrebbe parlato con gli altri alla fine dell’operazione.

Quando Makoto, Ann e Ryuji si unirono a loro all’ingresso, la più grande rivolse a Futaba un pollice alzato, la quale rispose facendole cenno di attendere. Preso in mano il telefono, scrisse un messaggio che poi fece passare a tutti loro: “Faccio un ultimo controllo, voi aspettate qui”. Così dicendo, si posizionò al centro della sala e, trascorsi alcuni attimi di silenzio, si schiarì rumorosamente la gola, osservando il proprio dispositivo. Nulla accadde e la ragazza, spostandosi in diversi angoli della stanza ripeté il test emettendo degli uhm o altri suoni che potevano passare come rumori accidentali. Fece altrettanto in cucina, nello sgabuzzino, nel corridoio, nel bagno e nella camera da letto, con il gruppo che osservava i suoi movimenti fin dove poteva senza seguirla nelle stanze. Al suo ritorno, Futaba si avvicinò a loro quasi saltellando lungo il corridoio e quando li raggiunse si lasciò andare in un sorriso a trentadue denti. «Ragazzi, è fatta!»

 

 

La tensione si era sciolta in un attimo. Per qualche tempo sentire di nuovo le voci di tutti riempire l’aria fu strano, ma Goro si sentì singolarmente felice della loro presenza. Dopotutto, era la prima volta da quando viveva lì che quelle quattro mura accoglievano tante voci diverse allo stesso tempo. La prima cosa che fece fu informarsi da Futaba di come fosse andata l’operazione e lei lo trascinò in camera, dove vennero seguiti poco dopo anche da Ann. Qui ogni cosa era fuori posto, dai libri alla lampada smontata sulla sua scrivania, a quella del comodino, per non parlare degli abiti riposti a terra fuori dall’armadio. La confusione era spiacevole a vedersi, ma sarebbe stato preoccupante trovare la situazione opposta.

«C’erano cinque telecamere, una in salotto, una in cucina, una nel bagno, una qui in camera e una nel corridoio. Per non parlare delle microspie, ne abbiamo collezionate una ventina. Shido deve avere proprio tanti soldi da spendere, peccato doverle buttare, sono modelli piuttosto avanzati,» spiegò la ragazza avvicinandosi al letto, dove aveva poggiato il laptop. Sullo schermo, scorrevano stringhe infinite di codici e cinque finestre rettangolari mostravano un’inquadratura ferma di diversi angoli della casa. Notando il suo sguardo, la ragazza aggiunse: «Non preoccuparti, è tutto a posto. Ho copiato le immagini delle registrazioni dei giorni scorsi e le ho sovrapposte alla registrazione in tempo reale. Non possono beccarci e in questa maniera non penseranno nemmeno che sia cambiato qualcosa. Per i minuti di blackout non possiamo farci nulla, ma dato che abbiamo coinvolto l’intero condominio il fatto che la corrente sia saltata non dovrebbe destare sospetti.»

L’entusiasmo con cui spiegava queste cose le faceva brillare gli occhi e a Goro venne da sorridere in maniera spontanea. Non riusciva a credere che tutti quanti, ma lei in particolar modo, si fossero impegnati tanto solo per permettergli di rimetter piede in casa sua.

«Non ho idea di come tu faccia, ma è davvero…» Prima che potesse concludere la frase, tuttavia, venne chiamato da qualcuno e la voce allegra di Ann precedette il suo arrivo nella stanza. Il ragazzo si voltò con un balzo di sorpresa.

«Akechi! La tua camera è così ordinata! Cioè, era, prima che la mettessimo sottosopra,» si lasciò andare a una risata divertita, «Mi piace molto, e ho potuto sbirciare un po’ tra i tuoi vestiti. Ora io ed Akira scendiamo a recuperare le buste con i nuovi acquisti. Appena rientro, prometto di darti una mano a rimettere tutto a posto.»

Goro sorrise, «Ma no, davvero. Non è necessario, si sta anche facendo tardi.» La ragazza non diede segno di accettare né di rifiutare la condizione e semplicemente uscì dalla stanza. Senza sapere lui stesso in che maniera si sarebbe svolto il resto della serata, Goro andò a sedersi sul bordo del letto, dove Futaba si era stesa. Dondolando i piedi a mezz’aria, la ragazza continuava a lavorare al computer; i suoi occhi scorrevano lungo lo schermo luminoso, mentre Goro si soffermò semplicemente ad osservare i tratti dei suo viso.

«Grazie per l’aiuto, con… le telecamere e il resto,» prese infine il coraggio di dirle. Futaba, richiamata dalla sua voce, distolse la propria attenzione da quello che stava facendo e si voltò per metà verso di lui. Per un attimo si guardò attorno come chiedendosi se stesse parlando proprio con lei.

«Figurati, non pensarci nemmeno,» rispose infine con nonchalance, «Potrai offrirmi qualcosa da mangiare nei prossimi giorni per sdebitarti.»

«Senza dubbio,» il ragazzo sorrise appena tra sé. Lei tornò al suo daffare e Goro si permise di sbirciare da sopra la sua spalla, «Cosa stai facendo, esattamente?»

«Programmo le registrazioni per le prossime ore, mi servirà del tempo per coprire più giorni, ma ora come ora riesco a coprire senza dubbio tutta la giornata di domani. Dovrò tornare per continuare a lavorarci su.»

«Non riesci a controllarlo da casa?»

La ragazza scosse la testa, «No, purtroppo i trasmettitori e il ricevitore riescono a collegarsi solo entro un raggio massimo di cinquanta metri.»

«Capisco, sembra roba complicata.»

«Lo è, devo dire che questo non è nemmeno il mio campo d’azione primario. Ho dovuto studiare per conto mio per riuscirci! Non succedeva da anni.»

«Penso tu sia una persona geniale, Sakura-chan. Anche se non si direbbe, io non riuscirei mai a imparare tante cose complesse in così poco tempo.»

La ragazza sorrise soddisfatta, «Eheh, grazie. È un bel complimento da parte tua.»

Goro si fissò le mani, timidamente. Dopo non molto tempo, si sentì bussare alla porta, il volto incorniciato da indomabili capelli corvini di Akira fece capolino sulla soglia. Assieme ad Ann, il ragazzo portò dentro le buste degli acquisti, poggiandole vicino al letto mentre la ragazza andava ad aprire l’armadio. «Volete del caffè? Posso prepararne un po’, se volete,» propose.

Le ragazze accettarono di buon grado, mentre Goro declinò gentilmente, consapevole che altrimenti non sarebbe stato in grado di dormire quella notte. Il resto del tempo passò più in fretta di quanto pensasse, non sapendo se esserne felice o meno. Ann si divertì molto a sistemare assieme a lui i vestiti, vecchi e nuovi, dentro i cassetti e sulle stampelle. Ancora una volta, Goro riuscì a sentirsi come una persona qualsiasi, con amici invitati a casa per festeggiare un buon voto, raccontarsi i segreti, giocare, restare a dormire assieme ma finire col guardare serie tv fino all’alba. Ne aveva sentite di storie così, ne aveva lette nei libri, viste nei film, e aveva sempre pensato a quanto gli sembrassero irreali e inverosimili.

Quando Akira e Ryuji rientrarono nella stanza per offrire a tutti il caffè, con Makoto che sorseggiava la propria tazzina ferma sulla porta, ormai avevano finito di riordinare e la camera aveva ripreso parte della sua familiare parvenza di ordine. L’unica altra persona a non bere il caffè fu Ryuji, al qualche non piaceva, ma che a quanto diceva aveva appena imparato come prepararne da solo. Che avesse chiesto ad Akira di insegnarglielo per poter fare colpo su qualcuno? Non che le sue motivazioni l’interessassero, si disse Goro. Non che Akira avesse mai fatto colpo su qualcuno preparando del caffè, giusto?

Il ragazzo in questione si sedette sul letto al suo fianco e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Akechi, scusami.»

«Dimmi tutto.»

«Hai un doppione delle chiavi di casa? Vorrei che le affidassi a me, per il tempo necessario.»

Dopo uno straziante momento di esitazione, Goro annuì. Pensava non avrebbe mai dato le chiavi di casa a qualcuno, nemmeno in circostanze simili. Sapeva che non vi era alcuna implicazione sentimentale, che era una mera esigenza pratica, ma il fatto che fosse Akira la persona a cui avrebbe affidato quelle chiavi l’imbarazzava molto più di quanto lo rassicurasse.

«Sono lì… nel secondo cassetto del comodino.»

«Ci starò attento, non preoccuparti.»

«Non ho dubbi al riguardo.»

Finalmente non vi fu più nulla da fare e i ragazzi si radunarono sulla porta d’ingresso, pronti a tornare ognuno a casa propria, tuttavia Goro prese il coraggio che gli era mancato fino a quel momento e fermò Akira e Futaba prima che uscissero. Seppur tentennando, decise di buttar fuori il peso che si era incastrato nel suo petto.

«Tornerete domattina?»

«Sì,» Akira lo guardò con uno sguardo chiaramente preoccupato. Goro si sentì stupido fin nel midollo, perché ne avevano già parlato e sapeva di star chiedendo l’ovvio. In realtà, il problema era soltanto che non sapeva da che punto cominciare.

«Ecco io… Vorrei che ci foste solo voi due, se è possibile. Ho bisogno di parlarvi.» Fissò lo sguardo su Futaba, che l’osservava con curiosità. Goro non sapeva davvero cosa la ragazza pensasse di lui, ma ormai sentiva che era giunto il momento di affrontare la questione. «Io, in particolare, vorrei parlare con te, Sakura-chan.»

Sentendo gli occhi pizzicare, abbassò lo sguardo. Odiava sentirsi così, ma era finalmente arrivato il tempo di rispolverare quel cassetto del suo passato. Forse allora se ne sarebbe potuto andare con un peso in meno sulla coscienza. Tornando a guardare Futaba, che stava lì, di fronte a lui, con sguardo silenzioso e in completa attesa, si maledisse perché entrambi avrebbero intravisto un lato di lui che aveva sepolto per anni.

«Ho bisogno di parlarti, riguardo tua madre.»









 

Note:

[1] Donburi: è un piatto giapponese a base di riso servito in una scodella assieme a pesce, carne, verdure, uova o altri ingredienti che vengono serviti sopra il riso. Donburi è sia il nome del piatto che della scodella nella quale viene servito. Ne esistono tantissimi tipi diversi, tra i più famosi l’okayodon, il katsudontamagodon e così via.




Note dell'autrice.
Salve a tutti! Questo quinto capitolo è davvero lungo, complimenti a chi è giunto fino in fondo! Ci tengo a spiegarvi bene alcune cose, quindi appongo questa nota: oggi è il 21 giugno e finalmente ho finito di aggiornare tutti i capitoli, ai quali ho dedicato una seconda lettura attenta nelle ultime settimane perché avevo bisogno di rileggerli prima di dedicarmi alla stesura del sesto capitolo. Cogliendo questa occasione, ho cambiato alcune cose: si tratta soprattutto della formulazione di alcune frasi e concetti, ma in altri punti anche piccoli dettagli e contenuti sono cambati. 
Questo capitolo 5 è stato il più soggetto a modifiche. Una mia amica mi aveva infatti segnalato delle falle logiche nelle idee che avevo trasposto in questo capitolo. Per chi ha avuto l'occasione di leggere entrambe le versioni, noterà che in questa ho aggiunto molti dettagli riguardarti la presenza di microspie nell'appartamento di Goro, punto sul quale avevo completamente sorvolato durante la prima scrittura del capitolo. Ringrazio moltissimo Lerenshaw da cui era giunto l'appunto e la mia carissima amica Mary che con tanta pazienza ha riletto i capitoli corretti, segnalandomi i refusi e i punti che meno le sembravano ben resi. Senza queste due persone, probabilmente, non sarei tanto spronata a fare del mio meglio. Ringrazio tantissimo inoltre tutte le altre persone che hanno dedicato parte del loro tempo a recensirmi e anche quelle che pur silenziosamente continuano a seguire questa storia!

Grazie a tutti, ci leggeremo presto con il prossimo capitolo!
Aspettatene delle belle!

Lumen Noctis

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