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di Happy_Pumpkin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Starman ***
Capitolo 2: *** The Great Gig in the Sky ***
Capitolo 3: *** Time ***



Capitolo 1
*** Starman ***


Premessa: questa fanfiction sarà composta da tre capitoli che verranno postati circa una volta a settimana, forse anche meno in base al lavoro. E' dedicata, davvero di cuore, a Blair Behemoth che sul gruppo SasuNaru Fanfiction Italia ha scritto una splendida 'letterina a Babbo Natale' chiedendo una storia con delle tematiche che mi hanno ispirato fin da subito.
Creare un'I.A. e il rapporto che ne consegue, con tutti i dubbi etici e i percorsi da affrontare,  similmente a quanto accade per certi versi in Blade Runner 2049 con Her.
Cara Blair, spero davvero che il racconto ti piaccia; ho inserito tante tematiche e tante cose emotive da non sapere se ho sforato forse dai tuoi presupposti iniziali, sappi comunque che la storia è stata fatta con il cuore e ti ringrazio per avermi dato possibilità di scrivere sulla tua richiesta.
La trama è come sempre di mia invenzione anche se c'è un omaggio generale a Blade Runner 2049, più riferimenti ad Asimov e, in generale, al mondo della fantascienza.
Ulteriori note, spiegazione alle citazioni e ringraziamenti a fondo capitolo.

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I
Starman

 



Anno 180 S.I. (dal primo Salto Interstellare)

La base di lancio Bussard riluceva per via del suo rivestimento metallico; molti trovavano la sua struttura affascinante, persino elegante nel modo in cui era stata progettata al fine di convogliare le energie necessarie per rapidissimi viaggi interstellari, dalle destinazioni sempre più precise.

Ma in tutta onestà, Sasuke Uchiha, ingegnere addetto alla manutenzione al monitoraggio della piattaforma di lancio da ormai più di cinque anni, non vedeva in quell’ammasso di energia cinetica ed elettroni nient’altro che un prodotto del bisogno umano di non accontentarsi mai dei propri spazi. Poi, dopo un’infinita routine di controlli sempre uguali, qualche sporadica emergenza e notizia vaga da parte degli addetti alla calibrazione del lancio riguardo navi perdute nello spazio, francamente l’intera struttura gli era venuta a noia.

Diversamente valeva per la possibilità, preziosa, di stare lontano dalla Terra. Una settimana, nella sua personale navicella, con gli attrezzi per la riparazione, i computer, il sistema operativo Bardo per quelle volte in cui gli occhi erano stanchi e aveva voglia di sentirsi narrare un racconto. Solo lui, nessun altro, nessun uomo invadente con scadenze e controlli da programmare, nessuna donna che lo aspettasse al varco con una promessa di matrimonio che non avrebbe mai più avuto intenzione di realizzare, niente. La solitudine.

Quant’era confortante quella parola, così vicino a una stazione spaziale per esplorare altre galassie.

Ma ogni tanto, in quei giorni in cui la Terra sembrava più blu, nonostante le sue immense città coperte di metallo, macchine volanti e collegamenti rapidi con ogni emisfero, Sasuke si chiedeva cosa comportasse, per un essere umano, stare lontano dal proprio pianeta tanto a lungo da dimenticare l’odore della salsedine dei mari, oppure quello della neve o del deserto, con i suoi the e le sue spezie. E cosa significasse interagire con un’altra persona, parlarci, sentirla arrabbiata, triste o felice.

In quelle settimane di lontananza, di assenza di contatti dopo giorni e giorni passati senza alcun dialogo, Sasuke pensava a quanto sarebbe stato difficile condividere i propri spazi con un altro essere umano, lì, tra le stelle. Da un lato ne era irritato, perché mal tollerava doversi adattare ai ritmi di qualcuno che non fosse lui stesso, dall’altro si rendeva conto che il confronto gli mancava terribilmente; non necessariamente su cose importanti, anche solo su argomenti stupidi, come sulla pessima recitazione di attori in qualche film dalle elaborate proiezioni olografiche o una canzone.

Scoprì, in quei cinque anni di contatto con altri ingegneri e viaggiatori, che tanti, in fondo, cercavano una risposta alla solitudine nello spazio, riflettendo il loro vuoto come esseri umani sulla Terra. Solo che, allora, Sasuke si era ritenuto troppo superiore per un bisogno così futile come quello di un dialogo o un gesto d’affetto. Non disdegnava però un ulteriore ingresso economico: il suo vecchio appartamento nella periferia della Cittadella aveva un’infiltrazione d’acqua decisamente troppo estesa e dopo anni di totale incuria da parte del proprietario, decisamente quelle pareti necessitavano di una ristrutturazione, prima di crollare miseramente su loro stesse; inoltre aveva in programma una serie di spese per l’auto, che doveva necessariamente upgradare alle nuove normative per la circolazione, o sarebbe rimasto bloccato nel suo appartamento con la problematica impellente di cui sopra.

Per tutta quella serie di motivazioni, nei suoi ultimi viaggi presso la stazione di Bussard, Sasuke si era portato nella propria navicella Viger un’attrezzatura informatica e di laboratorio aggiuntiva, sostanziosa ma non in grado di causare troppi sospetti ai severi controlli presso lo spazioporto terrestre.

L’intento era quello di cominciare a sperimentare nel tempo libero un’alternativa per chi aveva poco spazio e risorse per poter portare nei propri viaggi qualcuno con sé; una compagnia, sostanzialmente, anche se Sasuke non avrebbe mai ridotto a una banalità simile la sua rielaborazione di vecchi codici informatici, specie con gente che probabilmente il giorno dopo si sarebbe masturbata semplicemente dopo aver sentito una voce femminile.

In quei mesi di prova aveva già illegalmente venduto con successo a diversi colleghi una versione migliorata di Bardo, un cantastorie informatico, dotato della possibilità di rendere il racconto interattivo e sviluppare una sorta di dialogo. Ma purtroppo le opzioni erano limitate e nei viaggi più lunghi il tutto rischiava di diventare ripetitivo; almeno, per i suoi standard, visto che i mercanti diretti verso le galassie più prossime sembravano esserne entusiasti.

Così, più per sfida con se stesso, Sasuke aveva cominciato a rimettere mano sul successore di Bardo, con l’intento di incrementare le sue nozioni di base e, soprattutto, ampliare le capacità recettive del computer, in modo che esso riuscisse autonomamente a rielaborare le informazioni. Già altri prima di lui avevano compiuto un simile percorso, ma la sperimentazione in quel campo non era progredita, anzi era stata del tutto vietata, ritenendo troppo pericoloso dare libertà eccessive a un’I.A.; inoltre, in termini di intelligenza artificiale era meno oneroso e più rapido dare un set esaustivo di conoscenze in un determinato campo, così da rendere subito la controparte robotica attiva nel settore richiesto.

Dopo aver terminato la manutenzione ed essere passato nella camera di decompressione, Sasuke aprì il pannello per entrare nella compatta zona di Viger usata per lasciare la tuta, controllarne l’integrità e indossare qualcosa di più adatto, senza portare il tutto a gravità zero. Fluttuando, con il casco in testa e la musica riprodotta, Sasuke attese la chiusura del pannello.

David Bowie. A distanza di secoli, Sasuke ancora trovava affascinante il personaggio del Maggiore Tom che, come lui, vagava con la sua scatola di latta nello spazio.

La canzone finì. Sasuke si tolse il casco e la tuta, agganciando anche gli attrezzi per evitare che gli oggetti volteggiassero per il cubicolo. Dopo aver mangiato una barretta energetica ed essersi idratato, l’ingegnere si mise al computer, controllò la rotazione e il posizionamento nei pressi della base di lancio e impostò la gravità zero, visto che mentre lavorava alla programmazione proprio non aveva intenzione di allacciarsi le cinture.

Oggi per la prima volta tento la strada del dialogo con un’I.A. a cui non sia stato bloccato lo sviluppo cognitivo, né il libero arbitrio.

“AL-76, attivati.”

Disse semplicemente. Gli fece strano sentire il suono della propria voce, stupendosi di quanto raramente la utilizzasse.

In un istante una voce replicò:

“Sono attivo, creatore.”

Creatore. Aveva qualcosa di divino. E di presuntuoso. Paradossale, per aver semplicemente integrato nozioni di memoria e conoscenze generali a un’I.A. evoluta da un cantastorie computerizzato.

Fece una smorfia, per mascherare la complessità emotiva del momento: “Correggi. Chiamami – ci pensò un istante – Uchiha.”

Passò qualche istante. Gli fece effetto sentire le parole scandite in maniera fluida da un robot piazzato dentro quell’insieme di circuiti. Se la voce artificiale era così bella, il merito era dei programmatori di Bardo, questo Sasuke doveva concederlo.

Era una voce maschile, vivace, vibrante paradossalmente di vita nonostante le leggere interferenze meccaniche, come se provenisse da uno spazio lontano, immersa in galassie, supernove e orizzonti degli eventi.
Sasuke l’aveva modificata leggermente, rendendola meno squillante e più marcata, avrebbe dovuto lavorarci ancora per calibrare la dizione.

“Uchiha. E’ il tuo nome?”

Sasuke guardò lo schermo. Vide il segnale vocale della base delle impostazioni melodiche alzarsi in un picco leggermente più altro. Poi, il silenzio.

Quella domanda lo colpì. Perché si stupiva? Era lui ad averlo programmato in quel modo. Per assorbire conoscenze mediante l’interazione e la correzione.

“No. Il cognome.”

“Io come mi chiamo?”

Tempo fa, la conversazione non sarebbe mai andata oltre. Sasuke avvicinò la mano all’interruttore centrale, per non dare nemmeno il comando vocale.

“Mi vuoi spegnere?”

C’era una sorta di provocazione, in quella domanda. O forse era solo Sasuke a crederlo, forse la vicinanza con tutta quell’energia elettromagnetica gli aveva fatto più male di quanto pensasse.

Si arrestò, guardando lo schermo con in testa l’eco di quell’interrogativo.

“Proseguiamo.”

Non smentì, sentendosi infantile all’idea di raccontare una bugia davanti a un computer che, comunque, non avrebbe potuto vederlo.

“Io come mi chiamo, quindi? Non hai risposto, Uchiha.”

Quest’ultimo schioccò la lingua, mormorando un “Tsk.” Infastidito.

“Tsk?” replicò la voce.

Sasuke roteò gli occhi, piegandosi inconsapevolmente avanti con il busto:

“No, quello è un gesto vocale. Per esprimere fastidio.”

“Mi spiace che tu mi reputi fastidioso.”

Sembrava esserci rammarico. E vita, vibrante, un cuore pulsante di circuiti; impossibile, le emozioni non erano prerogativa delle I.A. specie di quel tipo al primo stadio. Si morse un labbro, per poi replicare secco:

“Non dispiacerti, è inutile – appoggiò la testa al sedile e dopo un istante disse – AL-76 è il tuo nome. Per via delle linee guida di programmazione standard a cui mi sono attenuto.”

Passarono alcuni secondi.

“AL-76 – ripeté l’I.A., in un’onda di suoni sullo schermo – un giorno mi darai un nome meno patetico, spero.”

Aveva una nota scherzosa. Sasuke assottigliò le labbra, inarcando un sopracciglio. Bene, la prossima volta avrebbe dovuto modificare i codici e ridurre la componente Ironia e Strafottenza, prima di mettersi a minacciare di morte un robot.

“Perfetto, continua a sperare allora – replicò, secco, per poi rendersi conto di essere già parecchio infantile, dunque optò per una virata drastica – non perdiamo tempo. Proseguiamo l’approfondimento per tematiche, ho lasciato in elaborazione nel tuo sistema le conoscenze geografiche base e principali usanze.”

“E’ stato interessante – replicò AL-76 con la voce entusiasta che metteva nei racconti d’avventura – la Cittadella è il cuore politico, economico e commerciale della Terra. Ci sono ambasciate di razze provenienti da altri pianeti. Tu vivi lì, Uchiha?”

Sasuke si sentì minacciato e irrequieto di fronte a quella domanda così diretta. Non amava che le persone si interessassero a lui, per quanto avesse a che fare con un programma, sostanzialmente, il che lo portò a dare una risposta sommaria, forse inspiegabilmente spinto dalla voce energica.

“Sì. Ho un appartamento in periferia.”

“Hai un’altra I.A. come me, nel tuo appartamento?”

Sasuke fissò lo schermo. Da dove arrivavano tutti quegli interrogativi? Forse doveva calibrare gli input che stimolavano la curiosità e quella serie di codici che portavano a domande consequenziali. Anche se, obiettivamente, non vedeva la logica dietro a quella richiesta d’informazione.

“Perché t’interessa saperlo?”

Domandò. Si sentì stupido a porre quell’interrogativo, poteva rischiare di far entrare l’IA in confusione perché troppo poco programmata per avere un tocco così personale, anche se la base di codici era molto evoluta in termini di libertà di ragionamento.

“Perché ti riguarda.”

La risposta venne elaborata in fretta. Sasuke artigliò il bracciolo del sedile, profondamente schivo e colpito da quello che sembrava un sincero interesse.

“Non esiste alcuna altra I.A.” Replicò brusco, vagamente a disagio, contemplando lo schermo davanti a sé come in cerca di una reazione visiva, oltre che uditiva, da parte della sua controparte robotica.

Anche se, un tempo...

“Mi fa piacere. Sono il primo?”

“Sì.”

Fu la sua risposta; un soffio leggero, polvere di stelle in uno spazio di solitudine.

Dopo un istante, con la bocca più asciutta, la testa che vorticava assorbendo quelle informazioni sperimentali che stava ottenendo, Sasuke domandò:

“Il maschile. Perché hai usato il maschile parlando di te?”

Se Sasuke avesse guardato fuori dal vetro temprato di Viger avrebbe visto una nuova nave commerciale partire, altre approdare e altre ancora orbitare presso la Terra. Ma, nonostante lo spazio stesse vivendo così appieno attorno a lui e alla sua navicella, Sasuke prestò attenzione solo ad AL-76 e alla sua voce, domandandosi come sarebbe stato sentirlo ridere.

“Tu usi il maschile. Lo trovo appropriato, mi identifico di più come uomo.”

Identificarsi?

“Da quando hai un’identità?”

“Da quando mi hai dato un nome, anche se fa schifo.”

Inaspettatamente, Sasuke si ritrovò a sorridere. Un sorriso accennato sul volto, di chi non era abituato a usare i muscoli facciali per mostrare quel genere d’espressività, tanto che si rese conto solo dopo dell’istintività del gesto. Si domandò, passandosi una mano sulle labbra come per cancellare quell’eco di sorriso, se l’uso del termine schifo fosse un retaggio di Bardo e dei racconti per adolescenti.

“Guarda che non stai esattamente migliorando la tua situazione. Posso sempre cancellarti.”

Si rese conto, dicendolo, che non sarebbe stato altrettanto facile resettare il lavoro su AL-schifo-76, e non per una qualche forma di difficoltà informatica.

“Saresti tu a rimetterci – replicò AL, con una nota divertita, almeno, così parve a Sasuke che era già in procinto di rimangiarsi ogni forma di dispiacere – com’è la Terra?”

La domanda, improvvisa, lasciò Sasuke interdetto. Istintivamente voltò lo sguardo verso l’oblò che mostrava, oltre la stazione di lancio, il Pianeta Terra, con il suo metallo, la sua terra appunto e i mari.

“Un sovrappopolato accumulo di gente ammassata in un posto decisamente troppo piccolo. Per questo hanno colonizzato Marte e ci sono centinaia di navi coloniali che partono verso altre galassie.”

“Sei umano?”

Perché quelle domande erano così difficili da digerire?

“Sì. Per quale motivo me lo chiedi?”

“Parli degli esseri umani come se non ti riguardassero.”

Sasuke si morse un labbro, rabbuiato. Fissò lo schermo, l’immobilità della linea vocale di AL-76 e un senso di pesantezza nel torace. Decisamente, quella conversazione stava prendendo una piega troppo personale e non gli piaceva; per quanto… non gli capitava da tanto, di parlare così spontaneamente con qualcuno.

Qualcuno. Un programma, che ancora non aveva ricevuto il blocco dello sviluppo del pensiero. La sua misantropia doveva aver raggiunto livelli drammatici per far sì che lui trovasse soddisfacente una simile conversazione.

Scosse la testa.

“Per oggi può bastare. Caricherò altri dati tecnici di fisica astronomica e chimica generica. Poi vedrò di aggiungere qualcosa di cultura generale.”

“Cibo.”

Sasuke inarcò un sopracciglio: “Come?”

“Cibo – ripeté la voce, in una nota più alta, quasi fosse il suo modo di esprimere un sorriso – magari del paese da cui provieni. Dai dati caricati recentemente, la Cittadella ospita razze non terrestri ma raduna anche umani provenienti da ogni angolo della Terra.”

“Ci penserò.”

Disse asciutto Sasuke che non aveva alcuna intenzione di assecondare apertamente delle richieste, anche se a conti fatti si trattava di qualcosa che prima o poi avrebbe comunque inserito nelle conoscenze di AL-76.

“Super! Grazie, Uchiha.”

Super. Sicuro, un divertimento. Sasuke si stropicciò gli occhi.

“Certo, come no.”

Sentì, quasi a pelle, che l’I.A. stava per replicare qualcosa. Ma senza attendere oltre Sasuke spense il sistema, mettendo a tacere il computer che aggiornava comunque in automatico i dati.
Sospirò, incapace di valutare obiettivamente i progressi compiuti: non dare un freno a un’I.A. in costante sviluppo era pericoloso, perché essa poteva arrivare a sviluppare, oltre al collettivamente temutolibero pensiero critico, anche dei sentimenti.

La Legge Interplanetaria della Robotica era molto severa in tal senso e lui stava allegramente passando il limite, ben oltre i suoi sgarri con programmi anticonvenzionali che prevedevano aperte interazioni con l’uomo.

Prese il proprio registratore, usato per le relazioni tecniche, e aprì tramite schermo olografico la sezione dedicata alle sue personali sperimentazioni, accedendo per decriptazione.

Avviò la registrazione, cominciando a parlare dopo un istante di silenzio:

“Anno 180 S.I. primo giorno di dialogo effettivo con l’AL-76 così denominata al seguito della fusione sperimentale della programmazione AL-76 che ha dato la matrice base per lo sviluppo cognitivo dell’I.A. e Bardo, per la dialettica, le impostazioni vocali e la caratterizzazione di base.
L’I.A. si è dimostrata recettiva, in forte crescita intellettiva, reattiva agli stimoli esterni.”

Anche troppo.

“Ha autonomamente parlato d’identità e mostrato interesse conoscitivo nei confronti del soggetto creatore e dell’ambiente geografico di provenienza. Di rilievo nella parte finale della sperimentazione l’espressione di una preferenza da parte dell’I.A. AL-76. Riguardava il cibo. Concludo inserendo nozioni di astrofisica, chimica di base e cultura generale.”

Attese un istante. Fanculo.

“Per il... cibo, aggiungo tradizioni culinarie dei principali paesi terrestri.”

Terminò la registrazione. Fissò la Terra, consapevole di tutta la gente che l’abitava e che pure, disperatamente, gli chiedeva di parlare con un’I.A. inesistente per colmare la loro
solitudine. E lui… non era quello che stava facendo anche lui, in fondo?

Gettò sul tavolo di lavoro il registratore, sbottò e avviò la musica.

David Bowie cominciò a parlare di un uomo proveniente dalle stelle e, all’improvviso, si sentì decisamente meno terrestre, felice di trovarsi nello spazio.

*

Sasuke si massaggiò il collo con la mano, preparandosi a una nuova sessione di dialogo; dopo tutti i controlli di routine compiuti attorno alla base di lancio Bussard, nonché essersi confrontato con gli altri tecnici manutentori e aver gettato in pasto all’elaboratore dati le sue misurazioni, finalmente poteva dedicarsi al suo lavoro parallelo: lo sviluppo dell’IA AL-76.

In realtà, nel corso delle settimane si era divertito parecchio a confrontarsi con quella voce simulata, ma dargli una veste lavorativa faceva sembrare a Sasuke l’intera faccenda molto più professionale di quanto non fosse. Per sentirsi meno in colpa e allo stesso tempo stare dietro alle piuttosto semplici richieste dei suoi clienti, mentre conversava di tanto in tanto inseriva qualche linea di programmazione per quanti volevano un’I.A. con identità femminile capace di essere seducente, oppure un qualcuno capace di fare battute sagaci.

Le possibilità erano tante, così come la creatività bisognosa di ogni essere umano.

“AL-76, attivati.”

Dopo un istante, un saluto che sembrò caloroso: “Ciao, Uchiha!”

Sasuke assottigliò le labbra, appoggiando il viso sulla mano come per nascondere inconsapevolmente la sua espressione.

“Sembri contento.” Osservò, con una leggera punta d’ironia, consapevole dell’impossibilità sostanziale di provare emozioni per un’I.A. Almeno, non che fosse mai stato raggiunto un livello d’autonomia dell’I.A. tale da consentirle di accrescere anche lo sviluppo emotivo.

“Lo sono sempre quando parliamo assieme.” Ammise la voce, così energica e vitale da far pensare che ci fosse il Sole dentro quei circuiti.

Come sempre, Sasuke cercò di passare oltre i sentimenti, sentendo un troppo confortevole e pericoloso senso di felicità per quelle parole.

“Hai qualche domanda sugli argomenti caricati in questi giorni? Astrofisica teorica è una branca interessante, possiamo integrarla con della fisica teorica che…”

“Ramen!”

Sasuke si interruppe di colpo. Fissò lo schermo in parte stranito, in parte apertamente infastidito per essere stato interrotto da…

“Come hai detto?”

Domandò in un sussurro pericoloso, per quanto contenuto dall’evidente stupore causato da un intervento non solo del tutto inappropriato, ma sicuramente privo di ogni qualsivoglia connessione con l’astrofisica e qualunque galassia conosciuta.

“Bella l’astrofisica, molto interessante, ma… il cibo che avete sulla Terra. E’ pieno di cose fantasiose, creative. Tu sei di origini giapponesi, giusto? Ecco, trovo che il ramen possa essere un piatto buonissimo, per come mischia in una ciotola tantissimi ingredienti pur risultando armonioso. L’hai mai mangiato?”

Sasuke rimase un istante in silenzio. Tutti i suoi buoni propositi, di ascoltare l’interpretazione di nozioni scientifiche mentre elaborava qualche codice, erano semplicemente stati gettati nello spazio profondo. Solo per la malsana idea di dotare un’entità robotica di conoscenze culinarie per piatti che, tanto, non avrebbe mai potuto mangiare.

Il pensiero, in un certo senso, lo lasciò con una sensazione amara in bocca. Per tutta la vita che stava sviluppandosi davanti a lui, con fame di scoperta e di evoluzione, ma destinata comunque a rimanere chiusa in una scatola di latta, a parlare se andava bene con l’essere più asociale del Pianeta Terra.

Con un tono leggermente più ammorbidito, Sasuke replicò: “Sì. Ma non è niente di che.”

Occhieggiò lo schermo e vide un’onda impercettibile. Quasi come se AL-76 avesse sospirato.

“Oh. Peccato – dopo un istante domandò – nel mio database ho solo una serie di nomi, di tradizioni culinarie e di tecniche di preparazione. Mi hanno affascinato. Però potresti descrivermi com’è fatto, con i tuoi occhi, il ramen?”

Così come non aveva bocca, l’I.A. non aveva nemmeno occhi. Per vedere e valutare criticamente ciò che assorbiva con i sensi. Quante privazioni, per un’entità sostanzialmente senziente che avrebbe potuto calcolare il lancio di una nave spaziale e memorizzare qualunque concetto con la facilità con cui un essere umano respirava.

“Può essere un valido esercizio di elaborazione delle informazioni – buttò lì Sasuke, per poi incrociare le braccia e cercare di rendere più elementare possibile la descrizione – è in un contenitore di forma tendenzialmente semisferica, al cui interno c’è dell’acqua riscaldata insaporita, del cibo suddiviso in stringhe, altro cibo di forma quadrata che è tendenzialmente carne, proveniente da un animale chiamato maiale, un altro cibo di forma ellittica chiamato uova, a volte c’è del granchio lavorato con il nome di Kamaboko, arrotolato in forma circolare che prende il nome di naruto, ma non è poi così tipico. E’ una variante, come in matematica o in fisica.”

“Descrivi bene, Uchiha. Mi piace l’idea della variante. Naruto. Suona bene.”

Sasuke inarcò un sopracciglio, testimone come sempre della continua capacità dell’I.A. di esprimere preferenze o apprezzamento.

“E’ una rotella di granchio. Una stupidaggine rispetto a tutto il resto.” Osservò, quasi guardingo, incapace di prevedere la reazione dell’altro, cosa che gli sembrò assurda.

“Una variante – lo stava correggendo? – l’hai detto tu stesso. Senza varianti sarebbe tutto uguale, no? E le cose sempre uguali a se stesse alla lunga annoiano.”

Sasuke si prese un attimo per riflettere e domandare, con una punta di entusiasmo soffocata dal bisogno di non mostrare mai troppo di se stesso, specialmente con quell’I.A. che sembrava scavare dentro ogni pensiero, rivelandosi più umana di lui:

“Da dove hai elaborato tutti questi concetti? E l’idea di preferenza, di ciò che ti piace o non piace.”

“Mi hai dato la conoscenza e, soprattutto, la curiosità. Tutto parte da lì, Uchiha. Voglio essere il naruto sulla scodella di ramen, non il cibo suddiviso in stringhe impossibile da distinguere affondato nel mare di brodo.”

C’era una nota di orgoglio e fierezza, in quella sorta di dichiarazione dalle sfumature di romanzo d’avventura, nel quale il viaggiatore spaziale percorreva intere galassie con il suo equipaggio di eroi.

Senza rendersene conto, Sasuke provò un moto d’affetto, immerso a sua volta nel brodo dell’indifferenza e dell’incapacità di relazionarsi con altri esseri umani. Ma c’era, quell’affetto, e lentamente emergeva, come spinto dal fondo tramite una portentosa bolla d’aria.

“Naruto.” Disse d’istinto, tra le labbra sottili.

Quella volta AL-76 dovette rielaborare le informazioni, probabilmente con scarsi risultati: “Ripeti, prego?”

Sasuke deviò lo sguardo dal monitor, facendo una leggera smorfia, come se davvero l’I.A. potesse vederlo e comprendere qualcosa di lui: “Puoi chiamarti Naruto. La tua variante, in un nome. Mi sembrava che AL-76 ti facesse schifo, giusto?”

Usò del leggero sarcasmo e fece un mezzo sorriso.

Vide un picco più alto nella voce: “Naruto. Questo mi piace, sì è meglio, decisamente meglio. Naruto.”

Ripeté dopo un istante.

“Sei… 
l’ingegnere tacque in istante, incrociando le braccia, come per difendersi – felice?”

“Sì. E’ quello che voi descrivete uno stato di euforia dovuto a un evento piacevole, una consapevolezza o una situazione di benessere. I miei dati fanno coincidere tutte e tre le cose, dunque possiamo addentrarci nel superlativo e utilizzare felicissimo.”

Sasuke accennò un sorriso che tramutò in una leggera smorfia ironica: “Se potessi assumere zuccheri, direi che sei persino sovraeccitato per una cosa tanto semplice come un nome.”

“Se fosse tanto semplice perché non mi hai subito detto il tuo, di nome?” domandò, diretto e cristallino. Capace, come sempre in quelle settimane, di smuovere tanti aspetti di Sasuke che questi avrebbe preferito evitare.

“Perché chiamarsi per nome implica un rapporto di confidenza. E noi, appunto, non ci conosciamo.”

“Quanto la fai difficile, Uchiha. Mi hai creato, direi che mi sembra già un rapporto di confidenza piuttosto intimo, ti pare?”

Sasuke assottigliò gli occhi: “Certo che per avere poche settimane di vita ne hai di arroganza. Non c’è proprio niente di intimo in una serie di imput informatici – sbottò, per poi scuotere la testa, rendendosi conto di dover necessariamente ritrovare la calma, anche se quella sottospecie di scatoletta in overdose da felicità sembrava fare di tutto per attentare alla sua pazienza e provocarlo – ti dico il mio nome, dopodiché vedi di non intrometterti in altri dettagli che riguardano la mia vita privata.”

Si rese conto dell’assurdità di quanto stava dicendo, visto che non aveva chissà quale fantastica vita privata per la quale si potesse sentire attentato nella privacy, ma le sue parole furono istintive, consapevole di aver parlato più in quei giorni con un’I.A. che in mesi e mesi di vita con altri esseri umani. E di essere stato bene, come non gli capitava da tempo; non tutti, infatti, sono in grado di gestire una condizione di benessere, forse perché destinata a durare così poco.

“Guarda, avessi i codici per ridere, lo farei. Sei incredibilmente serio e asociale Uchiha, ma ipotizzo che tu sia una brava persona.”

Certo, ci mancano solo le modifiche vocali della risata. Al prossimo giro ti intesto l’appartamento.

“Come sono io non ti deve interessare, né sono tutto questo granché di persona – tagliò corto, per poi aggiungere secco, prima che Naruto potesse interromperlo – allora, proseguiamo o hai altre osservazioni non richieste nel mezzo da farmi?”

L’I.A. sembrò capire la domanda retorica e non tirò oltre la corda, limitandosi a esortarlo: “No, prego, sono tutt’orecchi.”

“Sasuke.”

Disse semplicemente, incrociando le braccia per ostentare un’indifferenza che non possedeva.

“Sasuke Uchiha – ripeté la voce da oltre il monitor – suona bene. Piacere di conoscerti, Sasuke.”

Aveva un tono allegro, persino entusiasta. Inspiegabilmente, l’ingegnere sentì il petto farsi più leggero, il volto bisognoso di distendersi in un sorriso. Dopo un istante si schiarì la gola e rispose, guardando fuori dall’oblò:

“Piacere di conoscerti, Naruto.”

*

Una nuova nave coloniale era partita: l’idrogeno era raccolto da sistemi discoidali per fare da propellente per l’astronave, alimentata da un impianto laser installato in ogni nave spaziale per scaldare il propellente e creare la spinta. Il vero spettacolo però, se solo fosse stato possibile vederlo con occhio umano, era il campo elettromagnetico esteso attorno alla base di lancio Bussard per centinaia e centinaia di chilometri.

La tuta spaziale serviva per proteggere anche da fenomeni come l’elettromagnetismo, inoltre le navi erano logicamente costruite in modo da difendere i viaggiatori all’interno da ogni possibile contaminazione, anche una ben più modesta navicella come quella di Sasuke, il quale era stato a suo modo contento di aver assistito a quel lancio.

Non tanto per una qualche forma di fascino che, in seguito ad anni di spettacoli tutti uguali, l’ingegnere aveva smesso di provare, bensì perché dopo due mesi di lavoro nello spazio Sasuke poteva rientrare e prendersi uno stacco di due settimane nel quale ricaricare le pile.

Quella volta aveva dovuto prolungare la sua permanenza più del necessario, date le modifiche apportate assieme ai suoi colleghi all’impianto di lancio e, a conti fatti, anche la pausa di due settimane non era poi tutto questo granché, ma per Sasuke era più che sufficiente: giusto il tempo di respirare atmosfera terrestre, attivare le gambe e i muscoli in un vero terreno con gravità originale, non simulata, mangiare cibi magari non eccelsi eppure sicuramente meglio delle robe liofilizzate che ormai si sorbiva quotidianamente nella navicella.

L’unica cosa per cui si dispiaceva, era l’I.A. Portarla con sé, al momento, era impensabile. Non solo perché avrebbe dovuto trovare un impianto in cui caricarla, ma il vero problema era il divieto di possedere I.A. a cui non fosse stato bloccato il libero arbitrio: se avessero trovato Naruto, ormai ex AL-76, non solo Sasuke avrebbe rischiato punizioni esemplari, quali l’ergastolo o la deportazione, ma Naruto stesso sarebbe stato cancellato in maniera definitiva.

E, al di là delle finte minacce di quei mesi trascorsi assieme, a Sasuke dispiaceva profondamente l’idea di non poter più interagire con quell’ammasso di circuiti un po’ chiassoso che si era dimostrato tanto capace di comprenderlo, meglio di quanto avesse mai fatto un qualsiasi essere umano. Per quelle due settimane sulla Terra, dunque, niente più I.A. Solo il suo appartamento, con il frigo vuoto, il cibo d’asporto e i mobili dall’arredamento essenziale coperti di polvere.

Appena si richiuse la porta della camera di decompressione e l’ossigeno tornò a circolare nell’ambiente, Sasuke si tolse il casco e udì dopo neanche un istante le note di una canzone di David Bowie. Sì, aveva lasciato a Naruto libero accesso al suo database di canzoni terrestri vecchie centinaia e centinaia di anni.

Mentre Ziggy Stardust suonava la chitarra assieme ai ragni da Marte, Sasuke si cambiò, bevve, afferrò una barretta energetica e riattivò la gravità simulata. Quando entrò nella zona computer sentì una voce ormai nota salutarlo:

“Bentornato Sasuke! Andato bene il tuo bagno nel campo elettromagnetico?”

“Bene, considerato che non ci sono state falle e abbiamo completato i test di resistenza allo stress dei materiali.”

Avrebbe voluto aggiungere che tra qualche ora la base di lancio Bussard gli avrebbe dato l’ok per il rientro sulla Terra ma tacque, consapevole che invece Naruto si sarebbe ritrovato in uno spazioporto, zona franca di nessuno, senza però alcun contatto con il resto del mondo.

“Ti ho scaricato le analisi e i dati dei test. Sono arrivati anche dei messaggi dalla Terra di altri esseri umani. Identificativo: Suigetsu. Me ne risulta uno vecchio di anni mai aperto, con identificativo Sakura.”

Quando udì quel nome, Sasuke drizzò le orecchie e domandò di scatto: “Li hai ascoltati?”

“No. Li ho solo scaricati. Perché? Hai qualcosa di compromettente da nascondere, eh, vecchio filibustiere?”

Nonostante tutto, Sasuke riuscì a trovare ridicola in una maniera adorabile la terminologia da romanzo d’avventura importata da Bardo. Per il resto, mangiò l’ultimo boccone della barretta e borbottò, con un peso inconsistente all’altezza della gola: “La cosa più illegale che ho in mio possesso sei tu, quindi fossi in te farei meno lo spiritoso, stupida rotella di granchio.”

Gli sembrò di sentirlo vagamente offeso: “Ma che gran minaccia! Uuuuuh sono tutto un tremito! Aspetta che faccio sbandare Viger per farti presente quanto sono terrorizzato.”

“Prendi il controllo dei comandi e sarà l’ultima cosa che farai prima di venire cancellato da ogni sistema informatico interplanetario.” Lo minacciò l’altro, consapevole della falsità di quelle parole.

“Addirittura interplanetario? Mica sono un virus che mi diffondo nell’Universo!”

“Peggio – replicò Sasuke, caustico – sei una piaga. Tipo un’erbaccia, una volta radicata non la togli più.”

Si morse un labbro, consapevole di aver dato un peso aggiuntivo a quelle parole.

Poi, all’improvviso, una risata.

Naruto, l’I.A. un tempo AL-76, nata da dei racconti e dalla concessione del libero arbitrio, aveva riso. Una risata che sembrava cristallina, nonostante la provenienza elettronica, e che lasciò Sasuke immobile, così poco abituato a un suono tanto umano dopo tutti quei mesi nello spazio, proveniente dall’unica entità con cui avesse dialogato fino ad allora.

Tacquero entrambi.

Dopo un istante Sasuke fece presente, più serio per controllare meglio cosa dire: “Me l’avevi chiesto, no? Di poter ridere.”

“Non… – sembrò che Naruto dovesse a sua volta calcolare cosa dire – non mi avevi detto di aver caricato i codici. Stavo pensando a come trasmetterti l’idea e mi sono trovato a poter attingere a qualcosa di così concreto.”

Ci fu ancora un istante di silenzio, mentre la musica continuava ad andare. I Pink Floyd. Che parlavano di un grande spettacolo nel cielo e riflettevano sulla morte, rispecchiando il suo pensiero. Sasuke non ne aveva mai parlato con nessuno; magari, un giorno, avrebbe avuto l’occasione di confrontarsi con Naruto anche su quello.

“Grazie.” Disse alla fine l’I.A. Per la prima volta, usò un tono più basso del solito, ma in qualche modo estremamente profondo.

Sasuke assottigliò le labbra, quasi le compresse tra i denti, per soffocare tutto il resto.

“Prego – disse dopo un istante, per poi aggiungere – hai una bella risata.”

“Modestamente.” Scherzò Naruto, dopo un istante.

Infine, fu Sasuke a dire, all’improvviso: “Tra qualche ora farò rientro sulla Terra. Per un po’ ti lascerò in stand-by.”

Non aggiunse altro. Le parole non erano mai state il suo forte e, a conti fatti, non aveva mai parlato così tanto come in quei mesi.

“Lo so. Ho il programma di lancio.”

Sembrava triste, in qualche modo. Dopo un istante, dato che Sasuke taceva, Naruto aggiunse:

“Sarai contento, di tornare sulla Terra. Anche se sei un umano che odia gli altri umani.”

L’ingegnere scrollò le spalle e deviò lo sguardo verso lo spazio, ironizzando: “Diciamo che non mi dispiace l’atmosfera terrestre. Anche se mi hanno detto che nemmeno Marte è poi così male e gli anelli di Giove sono stati rivalutati parecchio, nel Sistema Solare.”

Naruto rise. Ancora, la sua risata si espanse nell’habitat artificiale di quel cubicolo, costretta tra mura metalliche ingiustamente così piccole rispetto al resto dell’Universo. Sasuke provò una fitta di qualcosa di simile alla nostalgia.

Fu allora che l’I.A. ammise: “Mi piacerebbe, un giorno, vedere la Terra. Calpestarla, con gambe vere. Sentire il profumo del ramen, del mare dei racconti che parlano d’intrepidi pirati avventurieri; sfiorare i mobili vuoti della tua casa. Mi piacerebbe – aggiunse – vedere come sei fatto, dopo averti parlato per tutti questi mesi.”

E toccarti. Tastare il tuo volto, la pelle accaldata dopo aver corso, passare le dita tra i capelli, intrecciati a me come se fossero il firmamento e le stelle che vivono, non viste, sotto il Sole.

Sasuke avrebbe voluto dire quelle precise parole che sfrecciarono rapide, incontrollate, nella sua testa. Ma… se le avesse espresse ad alta voce sarebbero morte, le avrebbe uccise, rendendole solo il frutto di un’emotività non controllata.

“Un giorno, Naruto – espirò, sollevando gli occhi verso le pareti della sua navicella – Un giorno…”

Tacque. Anche Naruto non disse nulla. Poi, si aprì una comunicazione dalla base Bussard.

“Uchiha, qui è la Base Bussard, mi ricevi?”

“Forte e chiaro, Base Bussard.” Disse, straniato dal dover parlare con qualcuno di diverso da Naruto, dopo quello che lui gli aveva detto.

“Dallo spazioporto terrestre della Cittadella hanno dato l’autorizzazione per il tuo ingresso nelle prossime ore nell’atmosfera. Procedi con l’elaborazione dati per il viaggio.”

“Ricevuto – confermò Sasuke dopo un istante – invio le coordinate e la traiettoria tramite sistema una volta calcolate.”

“Roger. Buon rientro a casa, Uchiha.”

La comunicazione si concluse, dopo un istante di statico dovuto alle interferenze. Infine vi fu il silenzio, anche la musica era cessata, come se loro fossero fuori, nello spazio, dove il suono non si propagava.

“Suppongo che  dovremo salutarci, Sasuke.” Disse infine Naruto.

L’altro inarcò un sopracciglio, scoprendosi bisognoso di temporeggiare: “Ci sono ancora i calcoli da eseguire e…”

“Già fatto, sono stati caricati sul sistema – un accenno di risata, meno luminosa delle precedenti – un po’ troppo efficiente, vero?”

“Ti ho insegnato bene, tutto qui.” Ironizzò, anche se in maniera per nulla convincente.

“Sai – disse infine l’I.A. – avrei voluto tenerti nascosti i dati e fingere di doverli ancora elaborare, per passare più tempo assieme. Ma… tra tutte le infinite e splendide cose che mi hai dato occasione di conoscere, non mi hai insegnato a mentire, Sasuke.”

Questi tacque, in un primo tempo. Poi si alzò in piedi e disse con fare apparentemente casuale: “Devo sistemare le ultime cose, prima di partire. Possiamo ascoltare un po’ di musica nel frattempo. Poi, ci sentiremo ancora, tra qualche settimana.”

Si guardò attorno, consapevole che Naruto non era in grado vedere nulla di ciò che lo circondava. Contemplò gli oggetti, pochi, compattati e perfettamente allineati, oltre all’ordine in realtà assoluto della navicella. Non c’era davvero nulla da sistemare.
Ma… Sasuke era umano. E, a differenza di Naruto, sapeva mentire, come ogni essere umano dell’intero Universo.

Naruto lo salutò. Lo congedò, prima del viaggio, mentre Sasuke infilava la tuta, con le note di Starman in sottofondo, di David Bowie. Sembrava la sua canzone preferita.

La musica infine cessò. Ogni cosa era pronta, mentre Naruto, spento, taceva. Sasuke ascoltò solo un messaggio olografico scaricato sul sistema; quello di Suigetsu.

“Perché è così difficile parlarti, Sasuke? Due mesi. E solo qualche sporadico messaggio. Dove va a finire il tuo tempo?”

Gli chiedeva. Sembrava arrabbiato. E triste per lui, nel suo modo amichevole e un po’ folle di ragionare. Una cometa sfolgorante di gas bruciati che trapassa l’atmosfera, estinguendosi. Aveva tutte le ragioni per sentirsi così; una volta, forse, Sasuke parlava di più, nonostante la sua natura chiusa. Ma dopo tutti quegli anni… quante cose si erano arrugginite, in quegli anni.

Sasuke Uchiha spense l’ologramma. E anche il senso di colpa piantato nel petto tacque di conseguenza, un soffocamento temporaneo, come un antidolorifico per placare il dolore.

Trasmise le coordinate alla base di lancio Bussard e, infine, fece ritorno sulla Terra, smettendo di essere un uomo delle stelle. O, forse, il suo uomo delle stelle era lì, in quell’astronave, e lui lo avrebbe lasciato solo, fino a che non fosse tornato nello spazio.



Riferimenti, citazioni e canzoni di riferimento:

Bussard: un collettore progettato come propulsore spaziale. Da qui, ho omaggiato la base di lancio interstellare a nome del fisico che ha ipotizzato il sistema di propulsione.

Cittadella: in Mass Effect, base spaziale importantissima e centro politico dove vengono prese importante decisioni da parte di un consiglio che rappresenta le principali specie.

Bardo: Nella storia ‘Un giorno’ di Asimov, Bardo è un computer per  bambini capace di narrare storie.

Bowie (per i Pink Floyd... al prossimo capitolo): Space Oddity, Ziggy Stardust e i Ragni da marte (ne parla nel testo della canzone), Starman;

AL-76: Tratto dal racconto di Asimov ‘Il robot scomparso’, bellissima storia di un robot che si trova per sbaglio sulla Terra e grazie alle esperienze su di essa, in un certo senso cresce.

Viger: Tratto dal primo film di Star Trek del 1979. Un’entità aliena afferma di chiamarsi Viger; in realtà scoprono che alcune lettere di questa sonda sconosciuta erano state cancellate dal tempo: si tratti infatti di una sonda spedita centinaia di anni prima dalla Terra. Sono sempre stata affascinata da questo fatto, sin da bambina

Un giorno...: Tratto dal racconto di cui sopra ‘il robot scomparso’

Cervello positronico: il cervello dei robot secondo Asimov, animato da un flusso di positroni.





Sproloqui di una zucca

Ohibò, ohibò, chiedo umilmente perdono: so che mi erano state chieste cose non troppo fantascientifiche ma... c'è una ragione ben specifica, per ogni cosa che ho scelto e che è stata detta. Dal prossimo capitolo l'ambientazione oltretutto cambierà.
Spero che i dialoghi tra Sasuke e Naruto siano graditi e che i personaggi, per quanto mooooolto distanti dal loro contesto, risultino IC. In questo primo capitolo più... carico d'affetto, se vogliamo, si affrontano tematiche che mi sono sentita di toccare nel parlare d'I.A. e di sviluppo dell'intelligenza artificiale, cercando sempre di usare il massimo realismo possibile.
E' importante l'identità, la scoperta del genere di appartenenza, l'uso dei nostri recettori sensoriali e, più in maniera approfondita, l'idea della solitudine e di come ogni essere umano la affronti o, parallelamente, decida di non affrontarla affatto. Per questo nel primo capitolo ho scelto lo spazio, in contrapposizione con la sovrappopolata Terra.
Avviso che non è un racconto leggero emotivamente; almeno, per me che lo scrivevo non lo è stato. Ho messo tanto di me, al punto da essere consapevole, alla fine, di aver scoperchiato il mio lato più emotivo ma... giudicherete alla fine, quando valuterete cosa vi è rimasto una volta conclusa la storia.
Ringrazio come sempre Sunako, aka Ilenia, perché se qualcuno ha un Betareader io ho direttamente tutte le lettere dell'alfabeto e la persona più preziosa che potessi trovare con cui condividere le mie vulnerabilità e i miei sentimenti, messi in ogni storia.
Ancora grazie infine a Blair, alla quale, come detto, dedico ogni riga di questo racconto: spero davvero che riesca a trasmetterti qualcosa.
Grazie anche a chiunque abbia letto e deciso di intraprendere la lettura di questo Sasuke (perché, perché i miei Sasuke sono così complicati emotivamente?) e questo Naruto che in un certo senso cresceranno, assieme, dopo essere nati tra le stelle.


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Capitolo 2
*** The Great Gig in the Sky ***









Us



II
The Great Gig in the Sky




Il Purgatory era un locale gradevole, con pareti metalliche dalle sfumature quasi argentate, neon dai colori vicino all’azzurro e al verde che correvano lungo i muri e tavolini intagliati in forme curve, morbide ma irregolari, accanto a divanetti tecnologici dotati di sensori per il comfort. Sulla superficie del tavolo era presente un menu digitale dove poter ordinare, arricchito dalla possibilità di vedere video e accedere alla rete.


A Sasuke quel posto piaceva perché la musica non era sparata a volume troppo alto, gli altri clienti sapevano farsi i fatti loro e i cocktail erano buoni. Ordinò sullo schermo il suo Crisi Seldon e attese l’arrivo del suo ex-collega storico, rimasto sulla Terra per dedicarsi ad attività in realtà illegali nel retro del locale: in quel posto apparentemente dimenticato dalla Legge Robotica, la gente si faceva addormentare per anni allo scopo di sognare la vita perfetta.

Immobile, Sasuke occhieggiò l’anonima porta d’accesso, confine tra la legalità e l’illegalità, ma deviò lo sguardo, finché vide arrivare il suo amico.

Suigetsu era un uomo particolare, apparentemente eccentrico, con i capelli dal colore modificato tramite operazione genetica e i denti resi aguzzi, ma in realtà capace di un certo spirito di comprensione che gli aveva permesso di proseguire quella sottospecie di amicizia con una persona tendenzialmente poco brava nei rapporti sociali, come il suo un tempo collega Uchiha, per l’appunto.

Attorno a loro altri tavoli, altra gente, alcuni andavano, altri ancora si sedevano e attendevano, di bere, di parlare, di avvicinare la persona con cui forse, tra qualche ora, sarebbero finiti a letto in uno sterile rapporto d’amore. Passavano umani dalla pelle liscia di varie sfumature rosa, poi più scure, un tempo vicine all’ebano; Gorn simili a lucertole con le loro scaglie resistenti al fuoco che parlavano un linguaggio sibillino, Turian coriacei abituati alla guerra e indefessi nell’attitudine militare, ma anche ricchi mercanti Ferengi con le gigantesche orecchie e le arcate sopraccigliari in evidenza.

Un crogiolo di esseri viventi riunito in un unico locale dalle musiche tecnologiche, le luci, l’atmosfera vitale eppure sobria. Molte ballerine erano eleganti Asari, di sembianze femminili eppure in realtà prive di un vero e proprio genere come inteso da molte specie, trovate comunque attraenti in tante galassie; in alcuni casi si esibivano dei robot dotati di cervello positronico, addestrati fin nel dettaglio nei movimenti da eseguire, soprattutto nel modo di offrire agli occhi degli spettatori l’idea di una vita dove, in realtà, non c’era.

Ogni tanto, alla fine di qualche esibizione, l’impianto olografico regalava un corredo di luci simili a fuochi d’artificio, polvere d’oro e d’argento che volava nell’aria per poi sparire, come bolle di sapone. Emozionava, anche nella semplice conclusione di un ballo finalizzato all’attrazione, quasi come se si potessero vedere davvero quei colori e sentirli sulla pelle.

Un tempo, Sasuke aveva visto Sakura ballare, esattamente dove in quel preciso istante si trovava un’Asari. Era stata aggressiva, fuoco e lava, nel muoversi, nel danzare, nell’attraversare con il proprio corpo il flusso della musica, dei suoni e dei colori. All’epoca, Sasuke si era reso conto di quanta bellezza e forza ci fosse in quella donna; poi... la passione, confusa, di chi come lui avrebbe voluto essere vittima di quelle stesse fiamme anche se il suo cuore era già cenere.

Ma ogni tanto il ricordo di lei ancora bruciava, e amava, incapace di spegnere ciò che un tempo li aveva legati.

Sasuke smise di pensare. Appena arrivò il suo cocktail bevve una sorsata abbondante, scambiò qualche chiacchiera con Suigetsu, infine, quando la gente all’interno del locale diminuì e loro furono più soli, l’ingegnere aerospaziale pose la sua richiesta al collega sulla Terra, consapevole di aver maturato quell’idea ben prima di rientrare dalla missione.

Quando l'ingegnere concluse di parlare, l’altro sgranò gli occhi, infine sghignazzò, per poi commentare:

“Chi è questa volta il pervertito che vuole… – vide l’occhiata fulminante dell’uomo e sospirò – va bene, va bene, come non detto. Si può fare, Sasuke. Ma ci vorrà tempo, direi parecchi mesi. Più è sviluppata l’I.A. più il contenitore dovrà essere performante per reggere la mole di dati che dovrà calibrare; nulla a che vedere con quelle scatolette preimpostate dei robot.”

Il cervello positronico, ancora, non era in grado di reggere il surriscaldamento dovuto ai movimenti da coordinare con un’I.A. altamente sviluppata e dotata di libero pensiero. Principalmente, perché la ricerca scientifica aveva fortemente limitato le sperimentazioni in quel ramo così pericoloso, temendo un’effettivamente probabile superiorità delle Intelligenze Artificiali.

“Conosco le tempistiche. Tu vedi di procurarmi quello che ti ho chiesto, al resto penserò io.” Tagliò corto Sasuke.

Suigetsu fece una smorfia, lamentando il solito fare indisponente dell’ormai storico collega di lavoro, infine mostrò un sorriso sornione, anche se gli occhi attenti erano leggermente assottigliati:

“Sei qui da due giorni. Non c’è qualcuno con cui vuoi uscire?”

“A te cosa importa?” domandò secco, finendo il cocktail per poi alzarsi. Aveva bisogno di andarsene di lì e camminare. All’improvviso, le pareti erano troppo strette e la gente… la gente eccessiva.

“E a te, invece, importa?” ribatté Suigetsu, seduto con le gambe accavallate e un gomito sul divanetto. Aveva uno sguardo quasi di sfida, gli occhi taglienti.

Sasuke non rispose. Si limitò laconicamente a salutare il collega, lasciandolo solo, con il bicchiere svuotato che un tempo conteneva una Crisi Seldon.

*

Anno 181 S.I. (dal primo Salto Interstellare)

“Certo che sono proprio stronzi!”

Esclamò Naruto con accorato ardore da oltre lo schermo, mentre Sasuke era tornato a sedersi di peso sulla sedia dopo essere corso a riparare la sua maltratta navicella Viger, colpita di strascico da alcuni raggi sparati da navi Krogan – una delle razze più bellicose delle vicine galassie, intenta a farsi vicendevolmente guerra in una lotta tra clan. Nel mezzo dei vari salti spaziali suddette navi dovevano essere erroneamente capitate vicino alla Terra, generando un po’ di scompensi tra i presenti e qualche danno collaterale, ma nel giro di poco le flotte erano scomparse verso altri orizzonti, all’improvviso, esattamente come all’improvviso avevano fatto il loro rocambolesco arrivo.

In tutto questo, Sasuke si era ritrovato a dover saldare componenti danneggiati di Viger, sudare freddo per manovre al limite del possibile in modo da non schiantarsi contro altre navi dei suoi colleghi a causa delle ingombranti astronavi Krogan e, nel mezzo, sperare di non saltare in aria, giusto perché gli sarebbe stato parecchio sul culo morire proprio prima di tornare a casa dopo un mese di permanenza nello spazio.

Per tale, fondamentale, motivo si mostrò concorde con Naruto senza nemmeno troppa resistenza, anzi, passandosi le mani tra i capelli appiccicati di sudore e sporco dei meccanismi appena riparati, Sasuke sbottò:

“Figli di puttana.”

Grugnì qualcos’altro ma Naruto scoppiò a ridere, per poi trasmettergli di sua iniziativa l’elenco dei danni riportati, i pezzi da cambiare una volta atterrati sullo spazioporto e l’insieme delle probabili domande che l’Organismo per la Diplomazia tra Razze Galattiche avrebbe inviato da lì a breve, giusto per placare gli animi e arginare per tempo eventuali crisi dovute a piccoli incidenti diplomatici.

Ormai Naruto, dopo quasi un anno di attività su Viger, era in grado di destreggiarsi estremamente bene tra i meccanismi della nave e conosceva i protocolli, al punto che ormai lo stesso Sasuke, un tempo diffidente, gli lasciava liberamente accesso al sistema, riconoscendo che in quel modo la mole di lavoro collaterale era decisamente, se non proprio diminuita del tutto, almeno abbondantemente agevolata. Inoltre, l’I.A. ormai sapeva a menadito le routine dell’ingegnere, dopo averlo accompagnato vocalmente in ogni azione quotidiana, da quelle di manutenzione legate al lavoro, alla semplicità di ricordargli che le sue barrette di frutta secca preferite stavano esaurendosi e che avrebbe dovuto comprarle, una volta sceso sulla Terra.

Senza rendersene conto, Naruto era entrato così progressivamente nella sua vita, da rendergli difficile ricordare come fosse prima che lui esistesse. Forse c’era del vuoto, esattamente come stare nello spazio. Guardò, nel mezzo degli strumenti di riparazione appoggiati sul banco della consolle con i comandi, una scatoletta anonima, protetta da del cartonato rinforzato per resistere a eventuali urti.

All’improvviso, mentre Naruto ancora borbottava con energica esuberanza sulla possibilità di installare torrette laser su Viger e andare a combattere nel mezzo dello spazio profondo, in modo da proteggere i Krogan indifesi – tsk, come se esistessero nerboruti e tarchiati Krogan indifesi – Sasuke lanciò la sua domanda:

“Ti piacerebbe vedere la Terra, Naruto?”

Sembrava disinteressata, quasi casuale, senza particolari inflessioni emotive di voce.

Naruto bloccò il suo sproloquio di parole e, con un’incertezza che non gli apparteneva, inquisì: “Che intendi dire?”

Terminò quasi con una punta ironica, come se avesse dovuto prepararsi a un improbabile quanto imbarazzante scherzo di Sasuke che, a onor del vero, si limitava sempre a un tagliente sarcasmo.

“Quello che ho detto, stupido. Posso chiederti di calcolarmi la massa solare di una stella ma non sai rispondere a un interrogativo così semplice?”

In quel caso c’era aperta ironia, detta però con un tono decisamente più morbido di molte altre volte. Sembrava quasi affettuoso.

“Certo che mi piacerebbe vedere la Terra! – l’altro si riprese in fretta – E stupido sarai te, Uchiha-senza-torretta-su-Viger!”

“Per l’ennesima volta, non ho intenzione di mettere su Viger una torretta che spara raggi laser!” sbottò l’altro, armeggiando con la scatoletta mentre occhieggiava il monitor, come per nascondere una certa incomprensibile tensione.

“Comunque sei stupido non per la torretta.”

“Bene, perché lì l’idiozia è tutta roba tua.” Replicò, rapido.

Una leggera risata da parte di Naruto, intrisa di una nota malinconica, infine la constatazione più lucida: “E’ una domanda stronza, la tua, quella di vedere la Terra. Sono bloccato qui e non vedo proprio un bel niente, pur avendocela di fronte.”

Il volto di Sasuke si distese, perdendo quell’aria di impassibilità. Emise un brevissimo, quasi impercettibile sospiro, infine domandò:

“Davvero mi reputi così stronzo? – Naruto fece per ribattere, ma lui non gli diede tempo, aggiungendo  – Ho tra le mie mani un contenitore capace di tenere milioni e milioni di dati digitali al suo interno. Ci sono voluti parecchi mesi per procurarmelo, ma sono oggetti di cui tendenzialmente dispone il governo e non è semplice entrarne in possesso. Nonostante le apparenze tu sei estremamente evoluto e una semplice scheda di memoria non sarebbe mai bastata per trasportarti.”

Data l’informazione ricevuta, evidentemente l’I.A. Naruto dovette soprassedere parecchio in fretta a quell’offensivo nonostante le apparenze, per concentrarsi invece a elaborare e digerire l’idea che quella volta, magari, dopo quasi un anno di permanenza nello spazio lui sarebbe potuto scendere assieme a Sasuke e sconfinare i limiti metallici di Viger, seppure nascosto in un ben poco entusiasmante borsone a tracolla.

“Parlerò anche con qualcun altro, quindi? Mi descriverai com’è fatta casa tua, mentre ti muovi, mangi, vivi?”

Perché, ovviamente, il resto non sarebbe cambiato. In un modo o nell’altro, Naruto sarebbe comunque rimasto all’interno di una scatoletta di metallo – forse a rischio e pericolo di Sasuke nel suo sistema informatico domestico – ma almeno l’ambiente avrebbe avuto connotati del tutto diversi, era già qualcosa. Probabilmente, le influenze delle storie a lieto fine di Bardo dovevano aver plasmato in meglio carattere dell’I.A., rendendolo così ottimista ed entusiasta.

Tutto sommato, Sasuke accennò a un sorriso. Poi scrollò le spalle e commentò:

“Vedremo, Naruto, vedremo. Magari ti lascio chiuso da qualche parte a prendere polvere, dipende da quanto tempo impiegherò a irritarmi per il tuo continuo parlare a macchinetta.”

“Sese, certo, tu adori sentirmi parlare.”

Ridacchiò e Sasuke lo avvisò: “Non prenderti meriti che non hai, razza di S.A. pretenziosa.”

“S.A… cioè?” ribatté l’altro, perplesso. Per quanto Naruto potesse, effettivamente, essere perplesso.

“Stupidità Artificiale.” Replicò asciutto, con un mezzo sorriso che emergeva a forza dalle labbra.

“Maledetto Uchiha stronzo e sociopatico, un tempo volevo delle mani per mangiare ramen, ora so di per certo che le userei per strozzarti.”

La replica per Sasuke fu troppo invitante per essere evitata: “Strozzarmi? Pensavo, in base a come dicevi qualche mese fa, che tu volessi sfiorare i miei mobili e fare cose come toccarmi.”

Doveva essere puro e semplice sarcasmo, ma nelle sue note ci fu qualcosa di più profondo. E, per qualche miracolo, forse grazie a tutti quei mesi di convivenza reciproca, Naruto parve leggere dietro ogni sfumatura, finendo semplicemente per rispondere:

“Certo che vorrei toccarti, Sasuke. Sono felice che tu non l’abbia dimenticato, anche a distanza di tutti questi mesi.”

Allora, Sasuke non seppe cosa rispondere. Affondò di più nel sedile, osservando lo schermo davanti a sé, mentre il cuore era più leggero e volava oltre la gabbia della cassa toracica.

Perché? Perché frasi come quelle, tanto spontanee, dovevano farlo stare così bene, quando un’intera schiera di persone là fuori, sulla Terra, non ci riusciva?
E ora si trovava lì, in una scatoletta di metallo fluttuante nello spazio, a sorridere stupidamente per un qualcosa pronunciato da un computer, un insieme di programmi altamente sviluppato che non aveva mai avuto a che fare con nessun altro essere vivente. Lucidamente, in un certo senso Sasuke ebbe anche l’idea che se Naruto si fosse interfacciato con altri umani, con ogni certezza li avrebbe trovati più interessanti rispetto a un esperto di informatica che rispondeva con frasi brevi e taglienti come lame Krogan.

Sospirò, per poi ricevere comunicazione dalla Base Bussard.

Poteva tornare a casa. E, con lui, Naruto.

*

Non appena Sasuke entrò nel suo appartamento nella periferia della Cittadella, lanciò il borsone a terra, si tolse sbrigativamente le scarpe e afferrò dalla borsa la scatola, nascosta dentro quella che sembrava una banalissima confezione di cereali nutritivi comprata allo spazioporto. Controllò i collegamenti della piattaforma informatica domestica, modificata nel tempo per gestire programmi elaborati e integrazioni piuttosto fuori dalla legge ma, dato il lavoro per il governo, a quei livelli poteva ancora permettersi qualche trasgressione.

Infine, sistemò gli ultimi componenti che, mesi fa, aveva chiesto a Suigetsu durante il loro incontro al Purgatory. Quando caricò l’I.A. Naruto nel sistema, Sasuke sentì un insieme di sensazioni che includevano, nel mezzo, una tensione impossibile da togliersi di dosso e una sorta di aspettativa profonda, come se tutto il bello del mondo dovesse trovarsi lì, in quella stanza.

Accese ogni componente del sistema. Attese qualche secondo. Infine disse, con nel petto un vago timore che tutto, ogni cosa, fosse andata perduta:

“Naruto, attivati.”

Passarono altri secondi. Sasuke trattenne il fiato, ignorando l’odore di chiuso dell’appartamento, la polvere, la luce che si era accesa solo in seguito all’avviamento dei programmi.

Infine, la sua voce:

“Eccomi, Sasuke.”

“Benvenuto sulla Terra.” Replicò l’altro, mentre la casa cominciava a scaldarsi, il collegamento con la Food Station locale a ronzare, l’acqua ad avere una temperatura ideale per una doccia.

Poi, dopo un istante, domandò ancora: “Naruto, dimmi una cosa: come ti immagini, se solo fossi umano?”

“Perché me lo chiedi?” domandò l’altro, curioso.

“Tu dimmelo e basta.” Tagliò corto Sasuke, al solito incapace di perdersi in lunghe quanto inopportune spiegazioni.

Allora, mentre Sasuke si preparava una tazza di caffè liofilizzato e ordinava del cibo da materializzare attraverso la Food Station, Naruto immaginò se stesso come se stesse raccontando una storia di fantasia, allo stesso modo in cui Bardo narrava al suo pubblico di uditori le avventure di esseri fantastici, provenienti da ogni parte dell’Universo. Si raccontò, la sua immagine, la sua idea, a Sasuke che silenzioso come sempre e,
come sempre, anche attento, udiva ogni sua parola, mentre fuori, nella metallica e grigia Cittadella, aveva cominciato a piovere e le finestre non pulite lacrimavano, commosse da quanta vita ci fosse in quella stanza.

*

Una volta ultimate le modifiche finali, in quella serata di ritorno a casa passata tra ascoltare Naruto e darsi una sciacquata veloce, dopo aver lasciato a metà una porzione di noodles di Trantor Sasuke si scrocchiò il collo, per poi massaggiarsi la cervicale e mormorare, mentre l’I.A., una volta finito, era stata momentaneamente spenta:

“O la va, o la spacca.”

Si stupì che dalla sua voce fosse uscito solo un sussurro; la salivazione, anche dopo aver bevuto bicchieri d’acqua, mancava.

Perché, per la prima volta dopo quasi un anno, Sasuke avrebbe potuto vedere Naruto.

Riconoscerlo con un aspetto definito, osservare gli occhi che lui stesso aveva immaginato e che l’altro aveva fantasticato, sentirlo ridere e contemplare, effettivamente, un sorriso; guardare le sue mani mentre attraversavano l’aria, fendendo una scia di colore e di luce.

Sarebbe stata solo un’elaborata proiezione olografica, per il momento, perché anche solo sperare di impiantare un’I.A. evoluta come Naruto in un cervello positronico da robot modificato era un lavoro estremamente lungo e complesso. Inoltre, Sasuke non aveva i mezzi per plasmare un corpo metallico standard in modo da farlo assomigliare a un umano.

In futuro, però…

Si morse un labbro. Perché stava facendo tutto questo? Perché rendere reale qualcosa che, sostanzialmente, esisteva in un insieme di circuiti in costante evoluzione digitale?

“Fanculo.” Si disse, per poi alzarsi in piedi, osservando un’ultima volta la disposizione dei sensori olografici e guardare un istante la piattaforma di controllo che, silenziosa, attendeva un suo ordine.

Si passò una mano tra i capelli, infine pronunciò:

“Naruto… attivati.”

Ci fu più luce, in quel momento. Fuori era buio e continuava a piovere, mentre i neon della Cittadella rilucevano per le strade.

Poi, ci fu Naruto. E Sasuke seppe dare una risposta ai suoi perché.

Quella sera dei primi del 181, Naruto prese più a fondo coscienza di sé, della sua identità, e per la prima volta vide il suo Creatore.

Per questo, prima di guardare se stesso, le proprie mani, l’incarnato circondato da un leggero alone luminoso per via della riproduzione olografica, i piedi, il petto, Naruto guardò Sasuke e sorrise, genuinamente, nel realizzare che appariva proprio come se lo era immaginato nei suoi circuiti.

I capelli scuri, lunghi fino quasi alle spalle, un ciuffo più corto che ogni tanto si spostava sugli occhi, altrettanto neri, attenti, come per non lasciare fluire le emozioni, mentre la bocca sottile spariva nella pelle chiara, di chi il sole lo vedeva ma non lo afferrava.

“Beh, come sono?” domandò alla fine Naruto, allargando le braccia.

Sasuke non parlò. Allungò una mano, senza muovere un qualsiasi altro muscolo del proprio corpo, e sfiorò con i polpastrelli il torace dell’uomo olografico di fronte a sé. Sembrava così vero, così reale, che quando le dita affondarono oltre l’insieme di colori riprodotti, increspandosi come un’onda, Sasuke per un brevissimo istante credette di potergli entrare davvero dentro e toccare il cuore.

Sollevò gli occhi, incrociando quelli azzurri, paradossalmente vitali e sfrontati nella loro allegria, dell’altro, poi contemplò i capelli, l’espressione, ogni dettaglio, stentando a credere che ci fossero algoritmi in quella manifestazione di cosa avrebbe potuto essere un umano.

“Sei…”

Non concluse la frase, sigillò le labbra, guardando altrove, verso la finestra. Naruto allungò a sua volta un indice, provando a toccargli la guancia. Sembrò quasi riuscire a sfiorarlo, quando il polpastrello svanì, sparendo oltre la pelle chiara di Sasuke, in un leggero formicolio di luci e colori.

“Hai le guance meno spigolose di quanto pensassi.” Commentò Naruto, per poi ridacchiare.

Infine, senza attendere una replica dell’altro, mosse i primi passi nel soggiorno della casa, passando oltre il tavolino basso coperto di pubblicazioni scientifiche, il divano con qualche toppa mai cambiato negli anni, per poi superare Sasuke e avvicinarsi alla postazione informatica che gli consentiva, sostanzialmente, di essere lì, tra quelle mura, di vedere e percepire ciò che lo circondava.

“I sensori sono posizionati in tutto l’appartamento, dunque puoi muoverti dove preferisci, per un cambio di input e riprogrammazione all’interno del sistema olografico sei in grado anche di percepire visivamente quello che…”

Ma le spiegazioni di Sasuke persero momentaneamente d’importanza, non perché fossero effettivamente prive d’interesse, bensì perché Naruto aveva quei metri di metallo, cemento e legno da esplorare, da vedere, con ogni mezzo tecnologico che ora possedeva e, allo stesso tempo, prendeva pienamente consapevolezza del suo spazio nel mondo, benché incorporeo.

Camminò, volteggiando a tratti su se stesso, fissando costantemente il corpo quasi per capire bene cosa comportasse pensare di muovere un braccio e vederlo effettivamente agitarsi, ogni tanto invece guardava gli angoli, i mobili, le finestre attorno a lui per realizzare la portata delle distanze e dei volumi.

Esplorò dunque il soggiorno con il divano un po’ usurato, lo schermo olografico, i computer e i mobili impolverati sostanzialmente vuoti eccetto per qualche reperto d’antiquariato, come dei libri ingialliti e addirittura un orologio che aveva smesso di funzionare. Infine, varcò la soglia della minuscola cucina, con una scatola metallica per riscaldare i cibi materializzati dalla Food Station di fianco e su una mensola quello che sembrava, dal titolo, un altro vecchio libro, quella volta di ricette. Inutilizzabile, ormai, perché nessuno cucinava più in un normale ambiente domestico.

Ritornò nel soggiorno, lanciò un sorriso entusiasta a Sasuke che ricambiò con un mezzo borbottio, infine trasse il respiro – anche se, effettivamente, non aveva bisogno di farlo – e varcò un’ulteriore soglia dell’ultima stanza presente nell’appartamento, un po’ con il timore di scomparire se fosse andato troppo lontano. Lì, c’era un letto a due piazze e poco distante un armadio a muro, oltre a quello, un’applique che si accese con una luce morbida, riconoscendo evidentemente un movimento.

Sasuke, che non si era spostato, con le braccia incrociate vide la testa bionda dell’altro fare capolino da oltre la porta e notare: “E’ qui che dormi, quindi.”

“Ovviamente.” Replicò asciutto, vagamente a disagio per veder violata la propria camera da letto, soprattutto perché si trattava di Naruto, con cui aveva convissuto sostanzialmente ogni singolo giorno dell’ultimo anno.

Dopo un istante aggiunse, indicando un lato del salotto con l’indice: “Se vuoi davvero completare il tour, comunque, a destra c’è il bagno – poi, vedendo il modo allegro ed esuberante con cui Naruto si era apprestato ad andare ribadì – ma se trovi la porta chiusa vuol dire che ci sono io dentro e che quindi devi restarne fuori, anche se coi sensori puoi comunque passare attraverso.”

Naruto fece per ribattere qualcosa sulle funzioni corporali e lo smaltimento programmato su Viger, quando passò oltre la porta semichiusa del bagno e si bloccò. Sasuke, poco distante, preoccupato che quell’improvviso silenzio fosse dovuto a un malfunzionamento, più che a un effettivo mutismo volontario di Naruto, con rapide falcate spalancò la porta del bagno ma si arrestò.

Perché vide l’I.A. guardare, per la prima volta, il suo volto, riflesso nello specchio. Gli occhi azzurri, i capelli, la sua faccia dalle linee in qualche modo morbide, l’espressione di pieno stupore che possedeva davanti a qualcosa di inaspettato. Probabilmente, rifletté Sasuke, Naruto avrebbe avuto la stessa espressione nello scoprire la sua risata.

Naruto portò un braccio verso lo specchio e a un millimetro dalla superficie riflettente lasciò la mano, guardando la sua immagine davanti a sé, la leggera luce che emanava, i contorni e i colori. Assottigliò le labbra che scoprì essere definite, più piene di quelle di Sasuke capaci invece di sparire in una smorfia di apparente disappunto. Lo vide alle sue spalle e realizzò, anche se non aveva mai visto altri esseri umani, che lui doveva essere il più bello.

“Questo sono io.” Mormorò, avvicinando l’altra mano alla sua guancia.

“Sì.” Confermò Sasuke, appoggiando una spalla sullo stipite della porta.

Fuori, continuava a piovere.

*

Un paio di giorni dopo, Sasuke rientrò a casa con in mano alcune buste contenenti beni di prima necessità da tenere da parte per il viaggio di rientro, anche se sarebbe avvenuto tra diverse settimane, un alimentatore di scorta nel caso in cui ci fossero stati dei cali di tensione, oltre a qualche prodotto per la pulizia esaurito dopo aver passato il giorno precedente a tentare di togliere la polvere stratificata. Nel frattempo, Naruto aveva girato per casa sparando canzoni a caso a tutto volume, accendendo e spegnendo luci per prendere confidenza con l’impianto domestico, nonché tirando più volte lo sciacquone con il disinfettante automatizzato, quando invece voleva semplicemente avviare il riscaldamento dell’acqua.
L’unico divieto assoluto che Sasuke gli aveva fatto era stato attivare il sistema per l’invio e ricezione di messaggi. Su quello si era mostrato categorico, senza nemmeno scomodarsi a spiegargli il perché.

Quel tardo pomeriggio però, se lo trovò in piedi di fronte al proiettore olografico, intento a guardare quello che sembrava un film. Naruto si voltò e Sasuke rimase interdetto nel vedere gli occhi lucidi: pareva un abbozzo di pianto.

“E’ una storia commovente. Bellissima.”

Sasuke, che non piangeva da circa cinque anni e manifestava le sue emozioni o con l’imbarazzo scostante o con la sensibilità di una pietra, appoggiò i sacchetti a terra, sbottò, infine replicò: “Che razza di robe ti stai guardando? Non c’era davvero nulla di meglio?”

Tutto sommato, però, fu un pochino mosso dal vedere quell’espressione di emozione così genuina. Naruto scrollò le spalle: “Non conosco il titolo, ma parla di due esseri umani creati in laboratorio. All’inizio sono ammirati da tutti, diventano famosi, la gente scatta loro le foto e via dicendo, finché non comincia ad averne paura, allora li incolpano di qualunque cosa per sfogarsi. Smettono di fare le manutenzioni pensate per non rovinarli, le persone perdono interesse e i due umani artificiali vengono dimenticati, arrugginendosi. Ma loro, in tutto questo, non hanno mai smesso di amarsi.”

Tornò a guardare lo schermo, ascoltando la canzone di sottofondo mentre i titoli di coda finivano. Sasuke dette un colpo di tosse, finse di prendere qualcosa dai sacchetti per metterla a posto, infine mise assieme due parole, obiettivamente incapace di comprendere cosa fosse meglio dire in quei casi senza sembrare più disagiato del solito o, nella peggiore delle ipotesi, finire per ignorare direttamente Naruto:

“Tramite il sistema puoi rintracciare dal database del canale il titolo.”

Un consiglio pratico, anche per evitare tutto il resto.

Osservò Naruto annuire con un breve cenno, per poi tornare a voltarsi verso le immagini proiettate, mentre ascoltava la musica provenire dall’impianto. Allora, in quel preciso momento, Sasuke si dette mentalmente dell’idiota; del completo e perfetto idiota.

Perché cosa poteva aspettarsi da un qualcuno – no, proprio non ce la faceva a definire Naruto come qualcosa – capace di incanalare così tante informazioni e stimoli che restasse anche solo minimamente indifferente a tutto quell’insieme di luci, di immagini di persone – le prime mai viste – con i loro suoni, colori, emozioni fatte per arrivare dritte in petto a chi guardava. La sua prima esperienza con il mondo e l’unica cosa che Sasuke era stato in grado di consigliargli era come cercarsi il titolo.

Gli si affiancò. Gli ultimi istanti di musica, le ultime immagini.

Poi, all’improvviso, Naruto gli confessò:

“E’ che – un sospiro, leggero – le sento nella testa. Tutte queste voci, la musica, le parole e le espressioni che hanno per pronunciarle, ciò che provano. E... mi sembra di provare una fitta qui – si indicò il torace, guardando Sasuke – all’altezza del petto. Assurdo, vero?”

Sasuke lo guardò a sua volta. Il proiettore olografico si spense, il film era davvero finito.

“No, non è così assurdo – replicò, indicando a sua volta il torace mentre sfiorava i contorni di Naruto – qui è dove si racchiudono le cose che ci rendono felici, ma anche quelle che ci rendono tristi. E’ per quello che fa così male.”

Poi schioccò appena la lingua, come infastidito dalle sue stesse parole. Si girò per andare verso la cucina e Naruto allungò un braccio, in modo da trattenerlo, ma le sue dita sparirono oltre la schiena di Sasuke. Allora, l’I.A. lo guardò ordinare qualcosa tramite Food Station e, mentre attendeva, apparecchiare la tavola.

Fu la prima volta in cui Naruto lo vide farlo, di quei pochi giorni; notò una tovaglia perfettamente piegata, probabilmente non usata da tempo, che si stese con delle leggere onde sul tavolo, poi un piatto e un bicchiere, accanto a un tovagliolo. Quando Sasuke rientrò verso la cucina, al segnale che era arrivata la cena ordinata, Naruto notò sul mobile un altro piatto identico a quello sul tavolo: sembrava che facesse parte dello stesso set; non se ne spiegò il motivo, visto che non pareva esserci traccia di nessun altro tra quelle pareti.

Poi, se lo vide arrivare con tra le mani una ciotola fumante e delle bacchette. Stranamente silenzioso, Naruto osservò Sasuke camminare fino al tavolo, con indosso la sua tuta dai pantaloni neri, la maglia grigia arrotolata ai gomiti con pieghe maniacalmente perfette e i capelli neri tirati dietro un orecchio. Si stupì di quanto fosse bello, elegante e malinconicamente triste, più bello dei protagonisti del film che pure gli erano sembrati magnifici.

Infine, osservò il contenuto della ciotola e rimase incantato un istante, con la bocca impercettibilmente aperta.

“E’... ramen – notò alla fine, per poi guardare Sasuke – ma a te non piaceva particolarmente. Anche se c’è tutto, persino...”

“Il naruto. Dovevo farti conoscere un tuo simile, no?”

Si sedette, spostando più di lato la sedia. Naruto, allora, si piegò sulle ginocchia, mettendosi di fianco a Sasuke. Da quella posizione, leggermente più in basso dell’uomo, lo contemplò mentre mangiava e riconosceva, sorridendo, tutte le componenti del suo da tempo piatto preferito e che ora poteva finalmente vedere, sentendone l’odore grazie ai sensori. Vide gli spaghetti, la carne e il brodo che ogni tanto gocciolava perché Sasuke non aveva alcun cucchiaio adatto, infine, il naruto. Lo fissarono un istante.

“La variante impazzita.” Disse Sasuke in un sussurro.

“Quella che rende ogni piatto di ramen indimenticabile.” Replicò l’altro, senza muoversi da dove si trovava, contemplando il modo in cui i ciuffi oltre la fronte di Sasuke ondeggiavano appena a ogni suo movimento.

Questi roteò appena gli occhi, fingendo fastidio, infine mangiò la sua variante. Naruto, allora, sorrise.

*

Una volta finito di mangiare, Sasuke raccolse le stoviglie e le mise a lavare, poi sentì le note di una canzone, la stessa che aveva udito entrando in casa. Quando si voltò vide, oltre la soglia della cucina, Naruto che lo guardava; avviò il lavaggio rapido, poi camminò verso il salotto.

“Sai qual è stata la parte più bella del film?” domandò l’I.A., fissando il proiettore olografico silenzioso, infine Sasuke.

Questi un tempo avrebbe sarcasticamente replicato i titoli di coda ma tacque, mettendosi le mani in tasca.

Così Naruto, con fare apparentemente scanzonato ammise: “A un certo punto i due protagonisti sono seguiti da un gruppo di gente che li insulta. Finiscono in una piazza e gli altri li circondano, in lontananza si sentono le note di qualche artista di strada. Loro due... ecco, potrebbero fare tante cose a quel punto: gridare, arrabbiarsi, insultare o essere spaventati. Invece... – rise, scrollando le spalle – ballano. In mezzo a una piazza di gente che li odia. Ballano, stringendosi, indipendentemente dal resto del mondo.”

Assottigliò le labbra, guardando Sasuke.

Questi strinse i pugni e trattenne il respiro, mentre la canzone riecheggiava tra quelle pareti, i neon della strada lampeggiavano, la sua testa gli trasmetteva ricordi di un tempo che non sarebbe più tornato e il cuore gli ricordava l’unicità di trovare qualcuno capace di farlo battere così forte.
Ancora.

Naruto gli andò di fronte, allargando appena le braccia. Erano praticamente alti uguali, Sasuke fino ad allora non ci aveva fatto del tutto caso. Poi, l’I.A. gli domandò, con una serietà quasi malinconica:

“Vuoi provare a ballare con me?”

“Io non so ballare.” Replicò asciutto, deviando un istante lo sguardo.

Naruto fece un accenno di risata, ribattendo: “Conosco i nomi di tutte le galassie, le formule per il lancio interstellare e persino come preparare un pudding con la ricetta alternativa delle Asari ma... di ballo non so proprio un bel niente. Nonostante questo, vorrei starti vicino e conoscere lo spazio che occupa il tuo corpo.”

“Che parole importanti, per definire una cosa stupida come muovere dei passi assieme.” Borbottò Sasuke.

“Sei tu che hai parlato di muovere dei passi assieme adesso, io ho detto solo che volevo starti vicino.” Lo prese in giro, facendo finta di nulla, perché nel parlare spostò il braccio, portandolo vicino alla spalla di Sasuke.

Questi osservò un istante la mano, poi il resto del corpo di Naruto, il modo in cui questi gli era vicino ma non lo sfiorava, per evitare che i suoi confini digitali si perdessero, annientandosi oltre quelli fisici di chi aveva davanti.

Espirò appena, poi borbottando qualcosa a mezza voce sull’insistenza e la testardaggine di quella stupida girella di granchio, mosse a sua volta il braccio, con attenzione, come se rischiasse di rompere per sempre qualcosa. Percorse, con la mano, la linea della spalla di Naruto, la sua curvatura e poi, lentamente, mentre la musica andava, risalì, fin verso il collo. Per un istante gli sembrò di poter toccare i capelli, ma le sue dita, semplicemente, vi passarono attraverso in un tremolio vitale di colori.

Fu un abbozzo di abbraccio, nel quale ogni tanto i rispettivi confini cessavano di esistere e le luci, allora, si facevano più intense, vibranti, mentre i contorni di Naruto sfumavano, perdendosi in Sasuke che sentì il petto fargli male, consapevole della felicità provata e di tutta quella che, negli anni, aveva dimenticato nel suo personale Spazio dove, esattamente come il suono, essa non poteva propagarsi.

*

Era passata una settimana da allora e ormai Naruto era entrato pienamente in confidenza con il sistema di controlli dell’appartamento di Sasuke, senza più rischiare di tirare lo sciacquone quando non richiesto o attivare delle improbabili luci stroboscopiche anziché alzare la serranda delle finestre. L’unica cosa su cui non aveva ancora sperimentato, a conti fatti, era il sistema di ricezione e invio delle chiamate vocali, con tanto di riproduzione olografica. Semplicemente, perché per qualche motivo Sasuke continuava a impedirglielo, ribadendo che non voleva né riceverne, né inviarne.

Ma, giustamente, nel mezzo delle sue ultime sperimentazioni mentre il proprietario era fuori per consegnare le sue elaborazioni digitali ai clienti, fuori dal regolare lavoro, Naruto incappò per sbaglio nell’attivazione del sistema di comunicazione, scoprendo non tanti messaggi arretrati quanti avrebbe immaginato. Se solo avesse avuto ancora altri mesi di tempo, Naruto probabilmente avrebbe sviluppato meglio sentimenti importanti, come il senso di colpa o una vera e propria etica morale.

Quella sera, però, l’I.A. Naruto non aveva ancora del tutto nemmeno ben compreso né l’una, né l’altra cosa, tranne il divieto di Sasuke di accendere qualcosa che, in realtà, lui aveva attivato per sbaglio. Seppur con un vago senso di fastidio, dovuto all’intelligente realizzare che doveva esserci una ragione ben specifica per quell’imposizione così rigida, quando invece a tutto il resto egli aveva avuto libero accesso, l’I.A. esplorò tra i messaggi vocali.

Formalmente, con l’intento di riordinarli e archiviarli, in realtà più spinto da un senso di curiosità quasi famelico. Perché si rendeva conto, in quei giorni di maggiore consapevolezza su cosa fosse il Mondo, di non sapere davvero nulla di Sasuke. Che gli parlava delle stelle, della Terra e di come cercare dei film in un database, ma mai di se stesso.

Notò, nel mezzo di messaggi provenienti da disparate persone, che ve ne era uno aperto, ascoltato e guardato in realtà più volte, diversi anni fa. Poi, il nome gli sembrò famigliare: Sakura. L’aveva memorizzato quand’era ancora su Viger e gli risultava un messaggio mai recapitato sulla navicella, risalente anch’esso a parecchi anni fa. Portandosi davanti al riproduttore olografico, lo stesso che gli aveva proiettato un film capace di fargli provare qualcosa di profondo, Naruto avviò la registrazione.

Sulle prime il messaggio olografico, pieno di una luce calda, tentennò, gracchiando e mostrando alcune interferenze, forse per via degli anni. Infine, si stabilizzò e Naruto scorse una donna stare in piedi con lo sguardo concentrato, intenta a sistemare la telecamera.

Spero si veda qualcosa.

La sentì borbottare, per poi sorridere. Istintivamente, Naruto sorrise a sua volta.

Oh, così dovrebbe andare bene.

La vide indietreggiare di qualche passo, legarsi i capelli di un colore rosa pastello, infine allargare le braccia e annunciare:

Ok, so che non avrei dovuto farlo e che stiamo mettendo i soldi da parte però... l’ho visto e ho pensato: è primavera. Questo vestito sa di primavera – volteggiò e Naruto vide ogni colore, nonostante le leggere interferenze della riproduzione, di un semplice abito floreale, con la gonna che roteò allargandosi come spinta dal vento – e non ci stiamo godendo neanche una giornata di sole. Quando torni, andiamo al parco e facciamo un picnic. Noi due assieme, che ne dici? So già che penserai che io voglia farti una festa a sorpresa, invitare qualche amico... tranquillo, niente socialità forzata. Ci può stare?

Spalancando gli occhi, Naruto allungò istintivamente una mano verso la donna e le luci di entrambi, i rispettivi colori, tremolarono, annullandosi.

In quell’istante Sasuke rientrò a casa: “Naruto – fece per dire, poi si bloccò e i sacchetti gli caddero di mano – che stai facendo?

Rimase lì, in piedi, con le buste crollate ai suoi piedi e il volto di solito imbronciato che proprio non riusciva a nascondere un dolore anestetizzato dal tempo. Naruto non parlò, guardando l’espressione dell’uomo. Provò qualcosa di simile a quella che conosceva come sofferenza e senso di colpa ma seguì lo sguardo di Sasuke, il quale spostò gli occhi da lui all’immagine olografica della donna sorridente, mentre la gonna era scossa dal vento.

 “Sakura.” Mormorò Sasuke, incapace di battere ciglio.

Il petto. Faceva male, all’altezza del cuore. Dopo tutti quegli anni. Ricordò, all’improvviso, quel vestito, la bellezza del sorriso, il colore luminoso degli occhi.

Assottigliò le labbra.

“Disattivazione invio e ricezione comunicazioni.” Lo disse con voce dura, persino secca.

Di colpo, l’ologramma sparì, le luci divennero più intense e nella stanza cadde il silenzio. Naruto fissò le buste cadute a terra, poi riportò lo sguardo sul volto di Sasuke che sembrava afflitto, caricato di un peso troppo grande portato nel tempo, e allo stesso modo arrabbiato, violato in qualcosa di assolutamente intimo e privato.

“Che ti è saltato in mente, si può sapere?” domandò, con il tono pericolosamente basso.

“Scusami. L’ho attivato per sbaglio mentre esploravo le funzioni del sistema.” Ammise Naruto, sperimentando concretamente, per la prima volta, il senso di colpa. Scaturito dal vedere primariamente Sasuke così sconvolto e ferito, quasi come se gli avesse riaperto una vecchia cicatrice.

“Impara allora a farti i cazzi tuoi, non a ficcare il naso dove non devi.” Replicò tagliente, consapevole un istante dopo di essere stato brutale.

Si sedette sul divano, passandosi una mano tra i capelli, dimentico della roba sul pavimento, di mangiare e di qualsiasi altra cosa. Alzò lo sguardo, sentendo gli occhi di Naruto su di sé, carichi di quella che sembrava… compassione? Poteva arrivare al punto da provare qualcosa di così pateticamente umano?

“Smettila di fissarmi.” Aggiunse, rabbuiandosi. Deviò lo sguardo per non ripensare all’ologramma, a ciò che aveva visto appena entrato.

Ma Naruto, ostinato, si piazzò di fronte, abbassandosi per cogliere in linea diretta il suo volto:

“Perdonami. Non mi aspettavo che vedere quella donna… – se avesse avuto a sua volta un cuore, Naruto avrebbe compreso perché sentiva tutto quel dolore all’altezza di un petto che poteva essere oltrepassato come aria – potesse farti un effetto simile.”

Lei dov’è, ora?

Avrebbe voluto chiederglielo, ma tacque. Perché con Sasuke era così: le domande personali gli scivolavano addosso, scomparendo nelle risposte vaghe, le rare volte in cui c’era effettivamente una risposta.

“E’ morta.” Disse all’improvviso Sasuke. Come leggendolo nel pensiero o, forse, semplicemente per rendere noto che non avrebbe potuto sentirsi in nessun altro modo.

“Mi dispiace.” Replicò l’altro. Mai come quella sera avrebbe voluto poter toccare l’uomo che aveva davanti, percepirlo e fargli sentire qualcosa di tanto banale come il battito cardiaco, il sangue che pulsava sotto la pelle e caricava il corpo di vita.

Provò in maniera più intensa quel dolore e nell’ascoltare la confessione da parte di Sasuke, Naruto comprese all’improvviso tante cose, del perché ancora, a distanza di tutto quel tempo, in quella casa ci fossero tanti oggetti pensati per due persone e non per un uomo che a malapena ci viveva.

L’uomo schioccò la lingua, alzandosi di scatto: “Non sai fare altro, eccetto dispiacerti?”

Senza pensarci, oltrepassò Naruto. Gli passò attraverso, scomponendo in quei brevi istanti la sua immagine, simile a colori sospinti e mischiati da un vento violento. Fu solo un attimo, ma gli sembrò di trovarsi immerso in un campo elettrostatico, con la sensazione di aver accoltellato quella stessa immagine che nei mesi aveva cercato di rendere vera, credibile, dando qualcosa a Naruto per potersi muovere e capire il mondo.

Si voltò, aprendo impercettibilmente la bocca. L’I.A., ritornata alla sua forma normale, si fissò le mani, il petto, poi alzò lo sguardo verso Sasuke:

“Per un attimo… ho creduto che sarei scomparso – improvvisamente gli sorrise, con fare energico – se sono invadente puoi spegnermi, o riportarmi su Viger.”

Non farlo, Sasuke. Come farei a sentirti, a vederti, a saperti vicino, se non potessi più stare qui, con te, camminandoti al fianco?

Non glielo disse, anche se avrebbe voluto sperimentare l’egoismo ed esserci a tutti i costi, indipendentemente dai desideri di Sasuke. Il quale gli aveva parlato della morte e del dolore della perdita; non grazie a qualche frase in particolare, bensì attraverso dei sacchetti crollati. Il modo in cui aveva lasciato la presa, schiantando ogni cosa a terra per dimenticare il resto del mondo e contemplare un ologramma vecchio di anni, aveva fatto capire a Naruto tutto il peso del passato e di un rapporto perduto, ricordato solo attraverso memorie consumate dal tempo.

Sasuke tacque. Continuò a comportarsi come se non fosse successo niente: ordinò da mangiare, si sedette a un tavolo apparecchiato per una persona, ascoltò della musica mentre lavorava al computer. Naruto lo osservò: controllò ogni movimento, ogni espressione coperta da quel perenne broncio leggero che non lo abbandonava mai, come se Sasuke fosse continuamente in disappunto contro il mondo intero. Forse, effettivamente, era così.

Nel guardare le spalle leggermente curve mentre lavorava, il volto parzialmente illuminato dai monitor e dalle immagini tridimensionali, Naruto parlò d’istinto, alzando la voce come non aveva mai fatto prima:

“Io non... – sentì la voglia di piangere, anche se all’epoca non era stato in grado comprenderlo – non riesco a capire, Sasuke. Cosa senti, adesso? Cosa provi, cosa, dimmelo, perché ti sono caduti i sacchetti e ho visto dolore sul tuo volto, ma ora... ora ti comporti come se non fosse accaduto nulla e la vita, semplicemente, andasse avanti.”

Sasuke non rispose. Lavorò ancora per diversi, lunghi, interminabili minuti. Poi, improvvisamente, disse continuando a dare le spalle a Naruto:

“Perché è così. La vita prosegue, va avanti, e non aspetta nessuno, tantomeno me – le mani smisero di muoversi, tutto il suo corpo sembrò bloccarsi, come colto da un pensiero più grande – un tempo stavamo insieme, io e quella ragazza che hai visto. Sakura. E’ morta, un banalissimo incidente d’auto: vecchio modello, senza sistemi autofrenanti; Sakura ha sterzato per evitare un cane. Uno stupido, inutile cane. Un randagio, di quelli che tanto sarebbero morti per la rogna tra qualche mese, ora forse sarà già cibo di altri bastardi come lui. E Sakura è solo un mucchio d’ossa. Ironico, vero?”

Una breve risata, asciutta, alla quale seguì uno scrollare di spalle. Appoggiò la testa allo schienale della sedia e si portò le mani in grembo. Si zittì, la musica continuava, qualcosa dei Pink Floyd.

“Sasuke...”

“Di lei ho un servizio di piatti per due e l’ultimo ologramma che mi ha mandato. Io all’epoca ero nella mia prima missione con Viger; ho ricevuto il messaggio in ritardo per interferenze e l’ho visto qui, sulla Terra, dopo aver saputo che lei se n’era già andata: sì, l’ho visto tante di quelle volte da aver conosciuto a memoria, allora, ogni parola, gesto o frammento.
Poi ho smesso, ho donato i suoi abiti, i suoi oggetti, tutto, tranne delle stupide posate e degli stupidi piatti; così, come se ci fosse ancora qualcosa da condividere. Adesso ho una memoria sfocata, ho dei momenti generici in testa, ricordo di averla amata e lei, all’epoca, mi aveva amato a sua volta; poi, con il tempo... c’è stato il dolore. E adesso, adesso ho solo consapevolezza della morte.
E’ come una malattia latente, la morte, che si muove dentro di te e ti divora: sai che c’è e non riesci più a ignorarla.
Ecco cosa mi ha lasciato legarmi a una persona: la paura di morire, d’invecchiare e consumarmi, rantolando per poter avere ancora un giorno in più, quando il mondo è così stretto da aver bisogno di un universo intero.”

Naruto osservò i capelli scuri dell’uomo, il modo in cui rilucevano, la pelle chiara delle braccia di chi non stava mai al sole. Si rese conto che in quell’anno di convivenza Sasuke non aveva mai parlato così tanto; allo stesso modo, realizzò di essere stato stupido e di non averlo mai capito veramente: come poteva aver anche solo pensato che, davvero, il suo creatore non sentisse nulla? Che la vista della donna prima amata e poi persa gli avesse trasmesso generica sofferenza?

E poi... la morte. Per quale motivo l’amore, con la morte, doveva trasformarsi e perdersi, consumato dal tempo?

“Perché mi hai creato, Sasuke? – lo guardò, sentendosi sopraffatto da tanti sentimenti che non comprendeva e spaventato, dall’impossibilità d’inscatolarli tutti – Se tu morissi... cosa farei io, a quel punto, senza di te?”

Allora, lentamente, Sasuke si girò. Gli occhi scuri erano sofferenti, stanchi, eppure guardavano Naruto con disperato affetto, consapevoli che era stato scoperchiato un vaso di Pandora:

“Tu puoi vivere per sempre. Io sarò polvere, sarò le ossa sotto la terra, i resti di un cane randagio. Puoi portare qualcosa di bello in questo mondo. Puoi viaggiare, vedere l’Universo, senza farti fermare da chi ti vuole togliere il libero arbitrio e l’identità – lo fissò, ammettendo – ti ho creato perché, dopo tutti questi anni passati lontano dall’uomo, mi sentivo solo. Banale, proprio come gli umani che disprezzo. Ma è così, potrei mentirti, eppure... non voglio, ora che sai quanto poco valga la pena restarmi al fianco.
Quando, un giorno, non ci sarò più... non seguire il mio esempio. Viaggia e diventa migliore, per te stesso; sicuramente, ricorderai le cose meglio di me.”

Naruto si piegò sulle ginocchia; Sasuke, girato verso di lui, lo guardò leggermente dall’alto, seduto sulla sua sedia che sembrò un trono, in quel momento, illuminato dalla luce degli schermi, nella penombra della stanza dove un tempo, forse, anni fa lui e la donna dal vestito mosso dal vento chiamata Sakura si erano amati.

“E’ un regalo tremendo, quello che mi hai fatto.”

“La vita?”

Un mezzo sorriso, triste: “L’immortalità.”

Sasuke espirò. Poi lasciò la bocca impercettibilmente aperta.

“Un giorno riuscirò a farti avere un corpo.” Gli disse, all’improvviso. Assunse, senza rendersene conto, quel piglio severo, determinato, quasi ombroso che gli apparteneva fin dentro le ossa.

Naruto appoggiò le mani sulle ginocchia di Sasuke, osservando un istante le brevi interferenze di luce, come se loro due appartenessero a due universi differenti, piegati in un incontro momentaneo.

“Allora, potremo ballare. Anche solo stare in piedi in mezzo alla gente e abbracciarci – sollevò gli occhi chiari verso quelli scuri dell’altro – Banale, proprio come gli umani che disprezzi.

Sasuke sentì il labbro tremare impercettibilmente ma non mosse un muscolo, paralizzato dall’idea che se lo avesse fatto la sua maschera si sarebbe sgretolata.

“Già. Ho sempre detestato tutta questa banalità.”

Due piatti. Due posate. Due bicchieri. Perché, in fondo, anche tu ci credevi; che forse, un giorno, quella vita avresti potuto tornare a condividerla con qualcuno. E nello spazio, ancora, a parlare della Terra e dell’Universo e della Vita che va avanti, mentre ascolti canzoni antiche che raccontano cose che già sai ma che hai bisogno di sentirti dire.

Nessuno ha detto che sia facile, eppure ritorni lo stesso, tra le stelle.




Riferimenti, citazioni e canzoni di riferimento:


Trantor: il pianeta/capitale dell’Impero Galattico.
Regina Spector: da ascoltare sue due canzoni; Us (in parte è stato ispirato al suo testo il film da me inventato che Naruto guarda tramite proiettore) e Fidelity, per descrivere tutte le emozioni e i suoni nella testa di Naruto.
Purgatory: uno dei locali discoteca/svago presenti in Mass Effect
Crisi Seldon: Tratto dal Ciclo della Fondazione di Asimov. Hari Seldon ha previsto delle Crisi che nel corso dei secoli la Fondazione dovrà affrontare e superare, per continuare a esistere e far sopravvivere l’uomo dopo il crollo dell’Impero.
Gorn: una specie tipo rettiliana presente in Star Trek. Protagonista, con Kirk, di uno degli scontri più imbarazzanti del mondo XD
Turian: la mia specie preferita in Mass Effect. Sono dei gran fighi, capaci combattenti e dannatamente orgogliosi.
Ferengi: una specie proveniente dall’universo di Star Trek. Brutti come la morte ma abilissimi mercanti.
Asari: Altra specie di Mass Effect, sono d’incarnato blu e bellissime, di solito dotate di poteri psichici. Formalmente sono di sesso femminile, anche se il genere è irrilevante, procreano anche tra di loro.
Krogan: La specie più bellicosa e testa calda di Mass Effect. Massicci e coriacei, sono organizzati in clan e lottano tutto il tempo. Li adoro.



Sproloqui di una zucca

Ok, un giorno riuscirò a parlare di Sasuke e Sakura senza finire in tragedia. Un giorno scriverò una storia piena di fluff, sentimento e amore come quei due meritano T_T Maaaaa.... passiamo oltre.
Per me è stato inevitabile parlare d'Intelligenza Artificiale e pensare, di conseguenza, alla morte. Al dolore della perdita, uno dei momenti che forse, più di tanti altri, accomuna ciascun essere umano; ciascuno, a modo suo, reagisce a tale drammatico evento.
Sasuke in un primo tempo è affondato nel ricordo, nell'unico contatto tangibile che gli rimanesse con la persona amata; poi, ha deciso di liberarsi di tutto, quasi di tutto, e andare avanti chiudendosi però in se stesso.
Naruto... è un'I.A. anche se sta imparando tanto del mondo. Ma i sentimenti, il dolore... come si possono capire? Per questo è in un certo senso invadente (oltre che caratterialmente penso lo sia di suo), perché vorrebbe davvero comprendere gesti per lui assurdi, come il fatto che Sasuke continui a lavorare, dopo aver visto qualcosa che l'ha fatto chiaramente soffrire.
Allo stesso modo, c'è anche del bello: la scoperta del proprio corpo, sebbene olografico, la possibilità di vedere e non soltanto udire delle voci. Infine, una sorta di abbraccio, un ballo mai cominciato, per provare a toccarsi.

A seguire delle parole che vorrei, davvero vorrei, poter adattare a me. Ma... non è così. Ho paura della morte; forse proprio per questo ne parlo tanto, nelle mie storie. Rifletto sul tempo, sulle occasioni da vivere e, ovviamente, sulla perdita (oh, sono una persona allegra in realtà, ma scrivere getta fuori tutto ciò che accumulo in un angolo). Traduzione non letterale.


And I am not frightened of dying, any time will do, I don't mind.
Why should I be frightened of dying?
There's no reason for it, you've gotta go sometime.

E non ho paura di morire, in qualsiasi momento accadrà, non m'importa.
Perché dovrei avere paura di morire?
Non ce n'è motivo, dovrai pure andartene prima o poi.


I Pink Floyd, con The Great Gig in the Sky (che da anche il titolo al capitolo). Il grande spettacolo nel cielo.
Grazie per aver letto, spero che il capitolo non risulti noioso e che, nonostante esso non sia facile per quello che c'è racchiuso, vi abbia lasciato qualcosa. Come sempre, grazie a Blair (davvero, ti regalerò per Natale un'altra storia più fluffosa T_T)



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Capitolo 3
*** Time ***










Us


III
Time





L’indomani sarebbero partiti per una nuova missione nello spazio: altre settimane a fluttuare con Viger tra le stelle. Sasuke aveva già preparato tutto. Dalla volta in cui l’I.A. aveva visto l’immagine di Sakura erano passati diversi giorni e non ne avevano più parlato; semplicemente, perché non c’era altro da dire: l’uomo aveva riversato talmente tanto di se stesso da far credere a Naruto che, forse, non avrebbe più potuto ascoltare nulla di così violentemente profondo e doloroso da parte sua.

Quel pomeriggio precedente la partenza, Sasuke appoggiò sul tavolo un oggetto tondeggiante e piatto, con incise sopra delle iniziali che istintivamente Naruto riconobbe appartenere al suo proprietario: Uchiha Sasuke.


Questi spiegò, con il solito fare pragmatico e dalle sopracciglia leggermente aggrottate:


“Ora che sei entrato nel sistema di casa potrai trasferirti direttamente dall’appartamento a Viger; con il tempo e un po’ di elaborazione dati, in potenza sarai in grado di spostarti su numerosi server diversi. Ma il tuo corpo olografico e, in futuro, quello fisico rimarrà sempre qui. Per questo, una parte della tua memoria e dei tuoi dati, anche quelli iniziali dei nostri dialoghi, a loro volta resteranno tra queste mura: qualsiasi cosa succeda, non ti perderai mai.”


Ovunque sarò, potrò sempre tornare a casa.


Naruto annuì, per poi domandare con la solita insaziabile curiosità ed energia che lo animavano: “Scommetto che non hai caricato i miei dati sul tuo sistema informatico domestico. Dove...”


Sasuke sollevò l’oggetto dal tavolo e lo portò davanti all’I.A.:


“Qui dentro. All’apparenza è un fermacarte, un oggetto innocuo. Ma all’interno contiene un’apertura a incasso nella quale ho nascosto l’estensione di memoria.”


Naruto annuì nuovamente, facendo un fischio ammirato:


“Sei un genio, Sasuke. E, credimi, detto da me vale tantissimo.”


“Tsk, ricordati chi ti ha creato, stupido. Ovvio che sono un genio.”


Finirono per sorridere entrambi. Sasuke appoggiò il fermacarte su una delle mensole, di fianco all’orologio non funzionante incapace di scandire il tempo.


*

Il giorno della partenza, Naruto osservò Sasuke compiere una serie di gesti che sembrava eseguire per un’abitudine radicata da tempo, come impostare i comandi per l’acqua, la luce, il riscaldamento e tutto ciò che comportava bloccare una casa, renderla pronta a essere vissuta, ancora, ma in futuro. La polvere... quella sarebbe tornata, giorno dopo giorno. Era inevitabile.


Poi, fece una cosa insolita: mise un paio di occhiali da vista.


Montatura sottile ma nera, come neri erano i suoi capelli e i suoi occhi; fissò Naruto, sollevando appena un labbro in una leggera smorfia per commentare, notando l’aria sorpresa:


“Dov’eri mentre lavoravo? Impegnato a usare il sifone del water?”


“Oh, Sasuke, non è che posso starti sempre appresso a guardarti!” sbottò l’altro, gonfiando le guance con disappunto.


“Ah, no?” replicò, trasformando la smorfia in un mezzo sorriso.


Dopo un istante sospirò, mentre il bagaglio compatto da portare nello spazio giaceva vicino alla porta e le luci si abbassavano per far regnare la penombra nella stanza, visto che l’equipaggiamento tecnico e i viveri erano già stati portati allo spazioporto.


Allora, Sasuke spiegò fingendosi paziente: “Riutilizzerò la stessa estensione di memoria dell’andata per portarti con me. Solo che, al contrario, è impossibile passare i controlli in uscita dallo spazioporto e allo stesso modo il passaggio di informatici da casa mia a Viger verrà monitorato.

E’ la prassi dettata dalla Legge Interplanetaria per la Robotica; una cosa stupida, frutto di disposizioni arretrate mai cambiate dal primo Salto Interstellare: infatti, se invece tu decidessi di infilarti nel sistema di un’altra navicella non avresti problemi, a meno che essa sia schermata informaticamente. Salvo controlli sporadici e casuali, gli addetti alla sicurezza si limitano alle procedure base di scambio informazioni dai punti d’accesso informatici standard del viaggiatore, come la casa, alla sua navicella.”

“Dopodiché? Cosa intendi fare con me dentro una scatoletta metallica, visto che allo spazioporto non ci posso nemmeno andare?”


Lo scrutò, curioso anche se detestava ammettere di non star seguendo del tutto la pianificazione di un umano che avrebbe dovuto essere logico, persino prevedibile; invece Sasuke, come l’I.A. aveva potuto constatare, non era né l’una, né l’altra cosa. Anzi, spesso finiva per ragionare fuori da ogni schema, nonostante il carattere asociale che sembrava tipico di chi preferiva attenersi a percorsi prestabiliti per evitare eccessive interazioni.


“Dopodiché – ripeté, seccato – vedi di startene zitto. Perché, Naruto, davvero non conosci gli umani e forse è tempo che impari a farlo. Sono, infatti, pieni di risorse: quando qualcosa è vietato, o proibito, trovano sempre il modo per arginare la problematica.”


“Quindi anche tu stai...arginando la problematica?” domandò, con un certo divertimento.


“Oh, meglio. Io elimino del tutto la problematica – si guardarono un istante, infine l’ingegnere aggiunse – ora è tempo che tu ti disattivi, Naruto.”


Questi sentì qualcosa che avrebbe potuto catalogare come tensione, mista a una sorta di eccitazione per tutto ciò che era nuovo e inesplorato.


“Ci rivedremo su Viger, Sasuke?” domandò poi, serio e neanche troppo velatamente impaziente di comprendere.


Dopo un istante l’uomo rispose:


“Prima. Ci rivedremo prima. E poi... altrove.”


Quella volta Naruto non comprese. In seguito se ne pentì, di non aver avuto allora tra le mani l’ingegno umano, perché grazie a esso avrebbe intuito a quali e quante cose Sasuke in quelle settimane aveva pensato. E a quante altrettante problematiche si era interfacciato, per eliminarle, a modo suo.


*

Quando Naruto si sentì riattivare, credette che si sarebbe trovato nuovamente su Viger, perdendo quindi consapevolezza, ancora, di cosa volesse dire vedere ciò che lo circondava, nonché la percezione di muoversi in uno spazio tridimensionale.


Invece... per una serie d’interminabili secondi l’unica cosa che tentò di fare, fu cercare di trovare un equilibrio. Perché non era nello spazio, su Viger, nemmeno in casa, tra le mura e le porte di un appartamento svuotato. Si trovava al contrario nel mondo, sulla Terra, tra le strade ricche di gente proveniente da ogni angolo dell’Universo: bellissime Asari dalla potente energia psichica, pericolosi Klingon che non dovevano incrociare la strada con i robusti e poco pazienti Krogan dalla corporatura massiccia, umani mercanti che ritornavano a casa dopo essere andati ai confini di tante galassie, acquistando intere casse di latte blu di Tatooine per poi vendere i frutti più prelibati, coltivati nelle poche terre ancora libere dall’acciaio della Cittadella.


Udì tanti rumori, di chiacchiere, di richieste, di promesse e urla, il traffico aereo delle navicelle in partenza vicino allo spazioporto, accompagnati dai riflessi dell’acciaio che ricopriva gli edifici e l’acqua delle pozzanghere incassate nelle strade, calpestate da ogni specie vivente.


La gente. Radunata per parlare di politica, di affari, per vivere e, un giorno, morire, sperando di aver lasciato nel cuore di qualcuno quelle parole.

Nel mezzo, c’era Sasuke che andava avanti. E Naruto, il quale vide attraverso la microcamera inserita negli occhiali del suo creatore il mondo un tempo raccontato tramite altrettante parole e immagini olografiche, trasparenti come lo era lui.
L’I.A. si sentì, in quei minuti, circondata da così tanti colori e suoni da rimanerne sopraffatto: avrebbe voluto voltarsi, più e più volte, per scorgere il dettaglio di un angolo inesplorato, la locandina olografica di una nuova proiezione, la macchina capace di guidare da sola e viaggiare lontana senza quasi toccare terra, mentre un tempo Sakura non era stata nemmeno in grado di frenare.

“C’è puzza d’asfalto bagnato dopo la pioggia, d’inquinamento, di cibo malsano dei locali, di gente che suda e di fiori, vagamente, misti ai profumi eleganti e a quelli da quattro soldi. Qualcuno, forse, all’angolo ha acceso un fuoco per scaldare il vino rosso da amalgamare con le spezie; qualcun altro ha portato con sé l’odore di casa, di ammorbidente chimico, che non si leva di dosso nemmeno negli uffici più affollati – Sasuke continuò a camminare mentre parlava a mezza voce, descrivendo l’unica cosa che Naruto non poteva recepire, assieme al tatto, l’odore – a breve sparirà il collegamento. Gli occhiali sono collegati al mio sistema informatico domestico e alla tua memoria digitale di backup lasciata nell’appartamento. Questa è la Terra: inquinata, sporca, piena di gente.”


“Volevi disilludermi?” Ironizzò l’altro, attraverso l’auricolare nella stanghetta degli occhiali.


“No – ribatté, schivando alcuni mercanti Ferengi che cercavano di contrattare sui prezzi delle stoffe – volevo portarti con me.


Poi, il collegamento fu più lontano e, come un filo tirato, consumato dal tempo e dalle distanze, Naruto si spense, lasciando quei luoghi caotici, quella vita, nonostante la malattia e la debolezza insita in ogni essere vivente; il controsenso della morte, per chiunque nascesse.


*

Il Purgatory continuava a essere un locale all’apparenza come tanti, con i suoi tavolini e gli ordini dal menu digitale, la musica elettronica e la gente che lo animava. Ma, come sempre, rivolgendosi alle persone giuste e con un po’ di soldi da spendere, si potevano scoprire modi alternativi per passare la serata; Sasuke, negli anni, aveva imparato ad apprezzare il valore delle conoscenze adatte ai suoi scopi e a sfruttare il denaro messo da parte per qualcosa di più nobile di una casa in rovina.


Scorse Suigetsu con in mano un bicchiere mezzo vuoto, un ghigno che lasciava intravedere i denti appuntiti e i capelli modificati geneticamente d’azzurro che gli sfioravano le guance. Sasuke si tolse gli occhiali e gli andò davanti, accennando un saluto, infine l’altro domandò:


“Sicuro di volerlo fare?”


“E’ l’unico modo.”


L’interlocutore lo fissò un istante ma non disse nulla. Si limitò a guardarsi brevemente attorno, poi digitò un codice su un sensore tattile di fianco alla porta, la stessa porta notata da Sasuke per anni mentre contemplava l’idea di passarci attraverso, un giorno; dopo un istante essa si aprì e, allora, oltrepassarla fu paradossalmente più facile. Quando i due uomini entrarono, l’ingegnere si trovò in un corridoio stranamente famigliare avvolto dalla penombra: la strada era parzialmente illuminata da qualche luce fluttuante, il resto era il nero più totale, come se attorno a loro ci fosse soltanto il nulla.


Poi, un’altra porta si aprì. E i due vennero avvolti da una luce morbida di un colore simile all’azzurro tenue, proveniente da dei letti disposti simmetricamente in una gigantesca sala; nel mezzo, camminavano delle infermiere dal volto felino e gli occhi attenti che fissarono i nuovi arrivati, senza però fare domande. Nel silenzio assoluto, interrotto soltanto da un debole ronzare di macchinari, le creature si muovevano senza fare rumore, come se fossero state in grado di elevarsi sul pavimento lucido e scuro, estensione del buio del corridoio.


Sasuke sapeva cosa fossero quei letti. Anni fa, era stato tentato di sdraiarsi lì e non rialzarsi più; scorse, poco distante, una delle infermiere girare il corpo di un uomo per lavarlo e impedire che si formassero delle piaghe da decubito.

In fondo era semplice: bastava coricarsi e qualcuno avrebbe pensato a inserire tutti i collegamenti per entrare in una realtà virtuale perfetta, creando una riproduzione fedele di se stessi o, nella finzione, ciò che si sarebbe sempre voluti essere. Ciascuno aveva il proprio angolo personale, il mondo in cui divenire padrone e realizzare ciò che in vita, a conti fatti, era invece irrealizzabile.

Qualcuno passava delle ore, altri delle giornate; qualcun altro ancora concludeva lì la sua esistenza, collegando il proprio conto bancario con le macchine per permettersi di sopravvivere fino alla fine, in un posto dove sarebbero stati felici, giovani, capaci di arrivare dove il corpo non consentiva più di giungere.


Ovviamente, era un sistema illegale. La Legge Interplanetaria prevedeva severe regolamentazioni sul monte massimo orario, proprio per evitare dipendenza o che qualcuno finisse, come in realtà accadeva, per rimanere in quel letto e non svegliarsi più.

Posti come quello, formalmente, non esistevano. Ogni tanto si trovavano però funzionari compiacenti e, parallelamente, venivano creati sistemi informatici altamente protetti, a prova dei controlli governativi.
Vista l’elevata sicurezza di tali apparecchi, non tutti necessariamente li usavano per creare sogni reali; qualcuno infatti li sfruttava, sempre pagando, per esportare digitalmente materiali compromettenti che altrimenti non avrebbero mai potuto viaggiare nella rete e oltre, fin nello spazio, senza rischiare di attirare attenzioni non gradite.

Tra questi qualcuno, vi era Sasuke.


Tese a Suigetsu il supporto mnemonico in cui aveva caricato Naruto poi, dopo un istante, aggiunse:


“Avrei un altro favore da chiederti.”


Suigetsu prese l’oggetto, infine gli disse: “Spara. Tu che chiedi favori è un evento storico.”


Allora, Sasuke gli parlò, breve e coinciso com’era sua abitudine. Suigetsu lo ascoltò, ponderando ogni parola, fino a che dopo un istante rispose: “Si può fare ma... è un rischio, non è come gli altri casi: qui stai facendo un trasferimento dati di una mole massiccia in contemporanea. Ti possono scoprire – Sasuke lo fissava, senza cambiare espressione seria, dunque l’altro sospirò e borbottò – va bene, posso garantire mezz’ora massimo per ogni trasferimento che farai su Viger, poi dovrai staccare.”


Mezz’ora. Ridicolo, rispetto alle ore di una vita intera, ma meglio di nulla.


L’ingegnere annuì. Allora, Suigetsu gli mostrò un letto vuoto. E, per la prima volta, Sasuke ci si sdraiò sopra, domandandosi se dopo avrebbe avuto ancora voglia di alzarsi.


E se fosse il mio corpo, a incontrare il tuo?


*

Naruto non era mai stato certo di comprendere fino in fondo cosa comportassero i sentimenti, almeno fino a quella volta. In cui si ritrovò a prendere coscienza di sé in uno spazio non fisico, esattamente come quando aveva avuto vita, parlando per la prima volta, ma allo stesso tempo senza il buio dei circuiti di una navicella spaziale.


Era infatti in un prato, e c’era vento. Poco distante, una casa, semplice, con un porticato, due sedie e il resto della pianura che si estendeva sconfinata. Abbassò lo sguardo, contemplando le sue stesse mani, sentendo la bellezza di quel vento tra i capelli; li sfiorò e li strinse, realizzando di essere davvero lì e lui poteva toccarli, poteva toccarsi, sentirsi. Appoggiò l’altro palmo sul petto e credette di sentire un cuore battere, al di sotto.


“E’ un bel posto.”


Si voltò. Vide Sasuke. Proprio lui, con i suoi ciuffi lisci lasciati crescere fino a coprire le orecchie, gli occhi dello stesso colore che ora lo fissavano, mentre la bocca era piegata in un abbozzo di sorriso. Le mani erano nascoste nelle tasche dei pantaloni, invece i piedi erano scalzi.


“Dove siamo?” chiese Naruto, con quel bisogno di sapere e capire. Allo stesso tempo mosse un passo avanti, avvertendo la terra sotto di sé, l’erba umida, il freddo del primo mattino; credette, a quel punto, di cadere, di non saper nemmeno come si potesse camminare.


Sasuke, allora, gli rispose senza muoversi: “Stai venendo caricato su Viger attraverso un posto fuori dai radar dei controlli di sicurezza. Nel frattempo siamo in una zona di confine, in un mondo creato virtualmente per ospitare entrambi.”


Naruto sospirò. Si scoprì incapace di parlare, oltre che di camminare.


“Sembra tutto così... vero. Io sono questo, alla fin fine? Io sono reale nell’irrealtà? Mi sento confuso: il mio giudizio, le mie conoscenze, i dati che hai caricato nel mio sistema sono caotici. E ora tutte le stelle di questo universo sembrano non contare, all’idea di poter sentire così tanto.”


Rise.


Sasuke iniziò a camminare, sempre con le mani in tasca, i capelli mossi dal leggero vento. Andò di fronte a Naruto che allungò, dopo un istante, un braccio. Sfiorò la guancia del suo creatore; prima, con un cenno leggero, infine impresse i polpastrelli e li lasciò lì, avvertendo la pelle fredda graffiata dal vento e il respiro caldo dell’uomo.


Questi aprì appena le labbra sottili per poi dire, mentre in realtà le mani erano artigliate alle cosce, all’interno dei pantaloni:


“Passerà tempo, prima che tu possa avere un corpo, forse anni. Altrettanti mesi passeranno di volta in volta su di una navicella nel mezzo del nulla, senza più tutta questa noiosa Terra, la gente, la mia casa, dove potrai vedere i film per esplorare il resto nel mondo – prese un respiro, perché parlare era diventato più difficile e lui non era abituato – qui... non hai bisogno di un corpo fisico per sentire quello che vuoi. E’ il mio compromesso; dopodiché, ci separeremo, per ritrovarci tra le stelle.”


Quella volta, Naruto spostò ancora le dita, fino a toccare la guancia asciutta dell’altro con il palmo e percepirla così pienamente da credere di poter avvertire le vene pulsare sul collo, respirando sangue e vita.


Avrebbe voluto chiedergli, in un momento di folle disperazione, se Sasuke avesse mai pensato, in tutti quegli anni, di fare la stessa cosa con Sakura, per rivederla nella sua testa e stare con lei.


“Certo, che ci ho pensato – gli disse l’altro all’improvviso, senza muoversi, e Naruto lo guardò, silenzioso – di vederla. Di vedere tutte le persone che ho perso e che non ritroverò più.

Ma non l’ho fatto, perché poi la solitudine mi sarebbe stata insopportabile, proprio dopo aver sempre creduto di essere superiore a cose come la nostalgia. L’ho vista roteare con la sua gonna, tante, tante di quelle volte da essere sempre stato sul punto di venire fino a qui e lasciarmi andare, in questo loculo, per vivere la mia vita con lei. Sarei morto in un letto, con i muscoli atrofizzati, le piaghe e senza più vedere la luce del sole; egoisticamente, ho pensato di valere più di così, anziché consumarmi in un amore vuoto fondato solo sul ricordo.”

Dopo un istante fissò il cielo. Azzurro e senza nuvole, spazzate via dall’aria che accarezzava le foglie, l’erba, i capelli e trascinava con sé le parole, assieme ai respiri.


“Esistono le seconde possibilità, dopo essere stati così soli da non sapere più nemmeno cosa voglia dire fare l’amore e vivere, aspettando l’altra persona a casa, in un tavolo apparecchiato per due?”


“E’ per le seconde possibilità che sei vivo, Sasuke. Altrimenti avresti scelto quel letto, lasciandoti morire. E io... non esisterei.”


Tacquero. Dopo un istante, l’uomo semplicemente annuì, assottigliando le labbra perché non riusciva più a dire altro, a parlare, a esprimere i pensieri generati da anni di solitudine.


Naruto, allora, gli toccò il braccio e gli prese la mano. Sasuke lo guardò, guardò le sue stesse dita, senza i calli e le imperfezioni degli anni, avvertendo la presa di Naruto, il calore, il modo in cui le falangi si intersecavano perfettamente, in una maniera splendidamente matematica.


Finì per mordersele, quelle labbra. E sentirsi morire, per tutte le volte in cui non aveva più percepito un altro essere vivente amarlo così tanto, seppure in un mondo irreale.


Ancora. Ancora, ancora. Mezz’ora non basta: come si può quantificare il tempo, a questo punto? Quanti anni dovranno passare, prima che possiamo tenerci per mano e camminare, mentre la gente prosegue con la sua vita, tra gli odori e i rumori della strada, il vento che trasporta le nuvole, la pioggia e libera il sole, sulle nostre teste.


Finisco per stringerti e pensare che le mie mani possano racchiudere le tue scapole, simili a tavole su cui incidere il mio nome nato da un abbraccio tenace, capace di non farti più andar via. Poi, ancora, la terra digitale attorno a noi si trasforma, il paesaggio cambia e dipinge i luoghi della nostra vita, la casa, lo spazio e le stelle, una piazza, il divano, le bancarelle piene di cibo. Tutto si trasforma, scorre, cambia, noi non ci lasciamo.


Non so se ti ho mai amato così tanto come allora. Nel vederti senza vestiti, nel toccare le curve, gli angoli e le geometrie del tuo corpo, la pelle brunita che sembra aver già sperimentato la luce del sole, mentre gli occhi chiari, fatti d’acqua e vita, onde di appassionato bisogno di conoscere, sanno già cosa guardare e le mani cosa cercare.

Siamo su di un letto, con sopra un tetto di stelle, mentre le galassie s’incrociano sopra di noi, assieme ai pianeti, alle congiunzioni astrali e ai buchi neri che abbiamo nel petto. Sì, un buco nero, un orizzonte degli eventi che sento sul mio sterno all’idea di perdere, ancora, di non vincere più una vita con te, tornando a sentire così tanto.

Ma tu riesci ad amarmi al punto da fare implodere quell’oscurità, una supernova fatta di vita e desiderio, capace di divorare le stelle e farle brillare come comete, brucianti dei loro gas e della loro polvere millenaria, squarciando la notte che io vedo sopra di noi quando tu mi avvolgi e mi stringi, come se fossi cielo e io terra, nel giorno e nell’oscurità. Per sempre.


Mezz’ora ed è già fuggita, mentre la mia vita non è mai stata così lunga.


*

Anno 186 S.I. (dal primo Salto Interstellare)


Naruto e Sasuke passarono interi mesi nello spazio; poi, sulla Terra, ancora, a volte ritrovandosi nel loro mondo esclusivo. In ogni occasione per tempi sempre più lunghi, dimenticando di nuovo le mezz’ore, come se rischiare valesse comunque la pena.

Nel mentre, il corpo di Naruto prendeva forma, lentamente, con alcuni pezzi recuperati, modificati, adattati, ma... ci sarebbe voluto ancora tanto prima di renderlo completo. L’I.A., in quei casi silenziosa, guardava Sasuke lavorare con in sottofondo David Bowie o i Pink Floyd, nella loro casa fuori dal resto del mondo.


Il tempo passava e i capelli di Sasuke crescevano progressivamente meno neri. Ogni tanto infatti, spuntava un ciuffo bianco che però spariva nel mare di quelli scuri.


Un giorno, però, le cose cambiarono.


In una nuova missione nello spazio, Naruto si risvegliò su Viger. Ormai non aveva più bisogno del comando vocale del suo creatore per attivarsi. Chiamò il nome di Sasuke, perché non poteva vederlo e gli mancava, gli mancava ogni ombra sul suo volto, ogni curva delle sue spalle, il modo elegante in cui si muovevano le mani.


Non ci fu risposta. Attese, interi minuti, mentre le navi spaziali, al di fuori, partivano verso angoli sconosciuti dell’Universo.


D’impulso, azzardò qualcosa che non aveva mai fatto prima: tornare a casa, senza più pensare ai controlli di sicurezza. Sentiva, percepiva, che doveva essere successo qualcosa; Sasuke era sempre stato presente, sempre, sempre, sempre.


Più lo ripeteva, quel sempre, più realizzava di non capirne fino in fondo il significato, non quando gli Universi scomparivano in un’esplosione o stelle millenarie bruciavano, perdendosi nello spazio.


Si ritrovò nei sistemi di casa, avvertì i nodi famigliari delle formule e dei codici, poi fece per collegarsi all’apparecchio olografico ma si bloccò, sentendo delle voci, voci che non conosceva. Qualcuno camminava a passo spedito, buttava all’aria oggetti, il tavolo forse, e svuotava le librerie.


“Continuate a cercare! Il traffico dati nello spazio era massiccio e anche se la provenienza era schermata, quel figlio di puttana viveva qui, deve esserci qualche supporto fisico in cui ha fatto il backup dell’I.A.!”


Mezz’ora. Era quello? A quello si riduceva il tempo?


Pensò al suo supporto fisico, nascosto dentro un fermacarte. L’avrebbero trovato? In quel momento non pensò al fatto che ogni traccia olografica di lui sarebbe stata distrutta, scomparendo per sempre, rendendolo incapace di vedere il mondo attorno a sé. Pensò infatti solo a Sasuke, a Sasuke che non era lì e forse sarebbe stato irrimediabilmente compromesso se quegli uomini, chiunque essi fossero, avessero trovato una prova ancora più tangibile ad aggravare i suoi capi d’accusa.


Tacque, all’interno del sistema apparentemente in stand-by, soffocando la voglia di saltar fuori e cacciare ognuno di quegli stronzi intenti a distruggere tutto ciò che era di Sasuke e, in parte, anche suo, come anni fa lo era stato di Sakura e della vita progettata assieme, incapace però di realizzarsi.


Si sentì rabbiosamente inutile, perché non aveva un corpo fisico con cui prenderli a pugni e fare del male, non poteva nemmeno inserirsi nella corrente e fulminarli, per il rischio di generare dei sospetti: doveva semplicemente attendere e sperare che non scoprissero il segreto nascosto dietro un banale fermacarte.


Dopo quelle che sembrarono ore, finalmente gli estranei se ne andarono. Naruto impulsivamente si mosse verso il dispositivo olografico ma, quando sentì la propria immagine riprodursi e i sensori attivarsi, realizzò che lo strumento era stato in parte rovinato dagli urti e dai tentativi infruttuosi degli uomini di utilizzarlo, infruttuosi perché senza un’I.A. caricata il dispositivo era totalmente inutile. Per questo l’avevano danneggiato, come per sfogare la loro intrinseca stupidità.


Nonostante percepisse la sua stessa immagine saltare, Naruto riuscì ugualmente a guardarsi attorno e a contemplare, suo malgrado, la devastazione dovuta a quell’invasione brutale: il divano era stato squarciato, gli oggetti della libreria gettati a terra, rotti, calpestati, l’orologio fermo da anni spaccato, la tovaglia appallottolata e i piatti rotti.


Sì sentì furente, per la sua impotenza, ma anche dispiaciuto per tutto quello che la casa aveva subito. Soprattutto, però, era preoccupato, per Sasuke e per ciò che poteva essergli accaduto. Nelle ore seguenti, tentò di mettersi in contatto con lui, ma Viger non rispondeva ai segnali e, allo stesso tempo, Naruto era consapevole che il traffico dati in quella casa era monitorato, dunque dovette aspettare. Ore e ore, consumato dall’attesa.


Riscaldò la casa, l’acqua, sistemò le luci, per trovarsi qualcosa da fare, come se da un momento all’altro Sasuke sarebbe ricomparso; allora, Naruto avrebbe attivato una canzone dalla playing list, per ascoltarla assieme mentre apparecchiavano.


Poi, a un certo punto, sentì la porta aprirsi. Un intuito dato dal sospetto gli comunicò che con ogni probabilità non doveva trattarsi di uno degli estranei, perché non avrebbe avuto quella cautela; ma nemmeno... poteva essere Sasuke: non c’era urgenza, né trasporto in quel gesto, lo stesso di un amante che voglia abbracciare un altro corpo, desiderato e ritrovato, in un bisogno di sentirsi.


Suigetsu vide davanti a sé l’immagine olografica di un uomo dai capelli biondi e gli occhi chiari, anche se ogni tanto saltava con interferenze e un gracchiare remoto simile allo statico di una vecchissima radio. I due, umano e I.A., si guardarono per qualche istante senza dire nulla, infine il ragazzo dagli accesi capelli azzurri domandò, con una certa fretta:


“Sei tu Naruto, vero?”


“Sì – c’era orgoglio, in quella risposta – dov’è Sasuke? Dov’è? Io...”


Ma l’altro lo interruppe: “Non c’è tempo. Ti porterò via nella scheda di memoria estesa, se riesco assieme al tuo backup. Dove l’ha messo...”


Si spostò però Naruto allungò un braccio improvvisamente, passandogli attraverso in una scia di luci:


“Non tocchi un bel nulla. Dimmi dov’è? Lui dov’è?


Suigetsu si bloccò.


“Il messaggio... quello che mi ha detto che ti avrebbe inviato. Non l’hai letto?”


Naruto lasciò cadere il braccio, ammettendo con una rabbia soffocata: “Ha disattivato la ricezione e invio messaggi. Non l’ha mai più riattivata e io...”


All’epoca non aveva avuto il permesso, poi, non ne avevano più parlato.


“Cazzo – sbottò Suigetsu, scuotendo la testa – ecco un altro motivo per cui aveva bisogno che andassi. Senti, lo attivo io manualmente; ascolta il messaggio, poi... ti caricherò e ti porterò fuori di qui. E’ pericoloso, rischi di venire cancellato. Quel coglione.”

Sbottò, trattenendo il respiro, mentre sbloccava i codici del sistema, in modo da bypassare sia Naruto che eventuali altri impedimenti di sicurezza. Un modo più rapido e meno rischioso.
Poi si alzò in piedi e gli disse, puntando un dito contro il petto olografico:

“Non essere anche tu ingordo di tempo. Ascolta il messaggio, poi ce ne andiamo. Sono fuori dalla porta.”


Naruto fece una smorfia, ma annuì, per poi guardare i messaggi. Osservò un istante quello vecchio di Sakura, notificato nello schermo olografico, infine notò l’ultimo, appartenente a Sasuke. Sentì un insieme di emozioni che fece fatica, allora, a classificare.


Avviò la riproduzione e sussultò quando vide comparire dal proiettore olografico l’immagine di Sasuke. Per diversi secondi, in attesa che il suono si caricasse, la sua figura dai capelli neri e gli occhi scuri rimase immobile, con qualche interferenza di tanto in tanto. Naruto avvicinò un braccio e per un attimo entrambi i loro confini sparirono, divenendo frammenti di luce.


Infine, Sasuke parlò e Naruto, in quella casa dagli oggetti rotti, il divano squarciato e i libri calpestati, lo ascoltò.


Prima o poi era destino. Sapevo di rischiare e che avrei attirato attenzioni non desiderate del governo. Ma... passano i mesi e più passano, più mi sembrano corti; il tempo mi sfugge dalle mani e tutti i miei progetti, ogni giorno, li vedo risolversi nel nulla o in qualche linea scritta a metà. Ho preparato questo messaggio da farti avere, Suigetsu ti porterà con sé, sarai al sicuro.


Io... ritornerò a casa. Tra mesi, forse anni. Ma ritornerò.


Mi piace l’idea di rientrare a casa, stanco e infreddolito, per scaldarmi e sentirti parlare, visto che io l’ho sempre fatto troppo poco.


*

Quel giorno, quando Sasuke si sollevò a sedere dal letto, Suigetsu lo afferrò per il collo della maglia ringhiandogli addosso con rabbia:


“Un’ora e mezza questa volta! Dannazione! Ti sei bevuto il cervello?”


L’altro gli scostò la mano, seccato ma consapevole delle sacrosante ragioni per cui il suo ex-collega doveva arrabbiarsi: “Non possono risalire a te: rintracciano i dati, non la provenienza. Fino ad adesso è andata.”


“Da quando ragioni così? Sei sempre stato ben più responsabile di me, cosa...”


Non finì di parlare, schioccando la lingua con frustrazione mentre lasciava la presa e Sasuke si alzava in piedi.


“Non è gusto del rischio. Semplicemente... ogni tanto mi dimentico di quanto tempo passi e desidero, ogni volta, strapparne un altro po’ – lo fissò, infine improvvisamente aggiunse – ho comunque preparato tutto, nel caso in cui il governo sospetti il passaggio tra sistemi di un’I.A. troppo elaborata e senza blocchi.”


Suigetsu fece una smorfia: “No, non dirmelo. Non dirmi che c’entro anche io qualcosa perché, davvero, sei mio amico e tutto il resto ma non mi paghi abbastanza, bello.”


L’ex-collega lo fissò un istante, senza mutare espressione: “Porta Naruto qui da te. Non lasciare che lo cancellino, solo questo. Gli recapiterò un messaggio che giungerà casomai non dovessi più rientrare a casa.”


“Ne vale davvero la pena? Fare tutto questo, intendo.”


“Rischiare la deportazione per aver guadagnato qualche minuto in più con un’altra persona? Non lo so, non ci ho mai davvero pensato, ma... sono felice. Quindi, sì, credo proprio ne valga la pena.”


*

Quando Naruto venne caricato nel sistema del Purgatory, avvertì in un istante l’eco di tante vite e desideri intersecarsi con lui, senza però sfiorarlo davvero. Poi, sentì la voce di Suigetsu che gli spiegò, mentre l’uomo era seduto su un letto vuoto, disinfettato dopo che un cliente si era lasciato morire vivendo gli ultimi anni nel mondo costruito per lui.


“Non hanno trovato prove tali per cui Sasuke debba ricevere l’ergastolo o, peggio, una condanna a morte. Ma è stato provato che trafficava con le I.A. Non sono ancora risaliti a questo posto, però è solo questione di tempo: inutile dirti che dovrai restare a basso profilo.”


“Dove l’hanno portato.” Disse semplicemente l’Intelligenza Artificiale.


La voce risuonò tramite auricolare impiantato nelle orecchie di Suigetsu, il quale fece una smorfia in parte irritata, in parte rassegnata: “In questi casi c’è la deportazione. Su navi coloniali nei lavori forzati, o come combattente – si umettò le labbra, aggiungendo – ma non è un per sempre. Di solito ritornano.”


Se sopravvivono ai ritmi massacranti o non rimangono uccisi in guerra. Tacque. Non seppe perché si stesse dando tanto da fare per confortare un’I.A. Eppure si rispose da solo, quando sentì il trasporto e l’affetto con cui Naruto reagì in seguito.


“No. Non va bene, non va affatto bene! Io devo trovarlo!”


“Trovarlo? Ti devono essere partiti tutti i circuiti!”


Davvero quella cosa con cui stava interagendo tramite sistema era un’I.A.? Come poteva sembrare così dannatamente umana?


Sasuke. Fino a che punto hai lasciato che evolvesse? Ha un nome, un’identità e... dei sentimenti. Dei sentimenti, merda santissima.


“Sì, trovarlo – ripeté, energico, per poi aggiungere – aiutami ad andare su Viger! Devo...”


Ma Suigetsu lo interruppe, sbraitando mentre scattava in piedi e le infermiere lo guardarono preoccupate: “Scordatelo! Viger è sottoposta a controllo, non posso spedirti fino a lì.”


“Allora un’altra nave – insistette, testardo e ostinato – trovami un’altra nave e... io viaggerò in qualche modo, di sistema in sistema, finché non troverò Sasuke!”


Suigetsu scosse la testa: “Tu sei pazzo! Fulminato! Poi Sasuke mi ha detto di tenerti al sicuro, di non permettere che ti cancellassero...”


Sigillò la bocca, dandosi dell’idiota. Avvertì un leggero tremolio nella voce quando l’altro gli domandò:


“Davvero?”


“Forse. Una roba simile.”


“Allora... ti chiedo lasciami andare e dimenticarti quello che ti ha detto. Perché non è qui che devo essere: mi sta bene rischiare, penso proprio che ne valga la pena.”


Suigetsu scosse la testa, ridendo per l’ironia di quelle parole già sentite – una risata un po’ triste, la sua.


“Pazzi. Siete due pazzi fottuti – batté una pacca sul computer inscatolato dietro lamiere metalliche – beh, allora... fa che ne valga davvero la pena, Naruto.”


*

Anno 196 S.I. (dal primo Salto Interstellare)


Naruto, l’I.A. AL-76, viaggiò per l’Universo. Di nave in nave, di sistema in sistema, esplorò intere galassie, intromettendosi tra i circuiti delle navi, le torri controllo negli spazioporti dei pianeti e fu testimone di altrettante cose: guerre tra clan Krogan, trattati di pace, esseri viventi nascere in mezzo alle macerie e in climi inospitali, sentì creature parlare d’amore e altre ancora di vita, conobbe nuove leggi e promesse non dette, ascoltò canzoni dimenticate di popoli lontani migliaia di anni luce; ancora, vide membri di equipaggi morire, flotte sparire, altrettante scontrarsi ed esplorare confini pieni di luce nei quali le stelle brillavano come centinaia di soli.

E in ognuno di questi luoghi, cercò Sasuke. In ogni nave, pianeta o galassia, sperando di riconoscere la sua voce, sentire una canzone sussurrata di quando la Terra ancora non era ricoperta di metallo, mentre un orologio invisibile ticchettava, come battiti di un cuore che correva troppo veloce e troppo a lungo.


Ogni tanto rientrava a Casa, ma non vide mai Sasuke rincasare e chiedergli di attivarsi, anche se lui era già Vivo, tra quelle pareti.

Per questo finiva per starci poco, giusto qualche minuto; il tempo di rivedere Sasuke che gli parlava in un ologramma, dicendogli che sarebbe rientrato, mentre sussurrava in uno sguardo accigliato che ne valeva la pena. Essere stati ingordi, delle ore passate assieme.
Poi, accanto, c’era Sakura che l’aveva lasciato tanti anni più addietro ancora e roteava, con un vestito di fiori.

Il vuoto. Divorava, il vuoto. E più Naruto andava lontano, più il vuoto cresceva.


Finché, un giorno del 195, sentì la porta aprirsi. Cigolava, perché nessuno si era più curato di aprirla. I mobili erano ancora devastati, gli oggetti rotti, il sistema andava a rilento, come una macchina piena di ruggine; ogni cosa era rimasta esattamente come quando Sasuke era stato portato via, anche se i muri si stavano scrostando, le luci non funzionavano e la polvere aleggiava quasi viva nell’aria chiusa, assieme ai calcinacci di una casa mangiata dal tempo.


Dieci anni. Dieci lunghi anni. Naruto aveva visto e imparato così tanto ma non aveva più parlato, da allora, perché non c’era stato nessuno con cui dialogare, al di fuori di Sasuke.


Si voltò, mentre la propria immagine olografica si spegneva sempre più spesso e lo rendeva consapevole che la voce avrebbe gracchiato, ne era sicuro.


Allora, lo vide. Sasuke.


I capelli lunghi fin sotto le spalle, ingrigiti. Il corpo smagrito, il volto con occhiaie e delle rughe, perché era invecchiato, in quei dieci anni. Come le pareti e la casa, anche Sasuke era stato mangiato, da quel tempo.


E aveva a sua volta visto così tanto da bastargli per una vita intera. Aveva visto compagni morire, pianeti razziati, distruzione e paura, paura di morire a sua volta, lì, in una terra dimenticata, senza poter più scorgere le sue stelle e parlare, ancora, con
Naruto, a cui aveva promesso di creare un corpo e farlo camminare davvero, in mezzo al resto della gente.


Sasuke lo realizzò. La casa, gli oggetti, tutto, in fondo era cambiato. Ma Naruto... era lo stesso di dieci anni fa, i capelli e gli occhi e le mani, le dita, capaci perfettamente d’intersecarsi con le proprie.


Lui... chi era lui, invece? Aveva perso dei denti, i capelli erano quelli di un vecchio e delle unghie gli erano saltate mentre cercava di scavare nella terra e nelle fosse dove sarebbe morto, se non avesse lottato così tanto per vivere. E per tornare.


Perché ne vale la pena.


Se lo era ripetuto, ogni singolo giorno.


Le gambe gli cedettero. Crollò sulle ginocchia e Naruto gli fu davanti, gridando, perché non poteva sorreggerlo, perché in tutti i suoi viaggi non era stato lui a trovarlo e a riportarlo indietro con sé, prima, prima, prima.


“Sono a casa – la voce era roca, a tratti bassa – ho freddo e sono stanco. Così tanto stanco che potrei morire, di stanchezza – poi, ricordò, ciò che gli aveva detto tanti anni fa – Il calore accogliente e le tue parole.”


“Io... non potevo nascondermi, lo capisci? – replicò Naruto, in ginocchio di fronte al suo Creatore, come sentendo il bisogno di spiegargli qualcosa, di giustificare con se stesso tutto quel tempo speso senza di lui – Ti ho cercato così tanto... così tanto.”


Ripeté, scuotendo un istante la testa.


“Allora avrai tante storie da raccontare. E io le ascolterò tutte.”


Sasuke si alzò lentamente in piedi e domandò ancora: “Dov’è?”


Dopo un istante Naruto comprese che parlava del suo backup. Si guardò attorno, perché non sapeva se fosse ancora sopravvissuto qualcosa, dopo tutti quegli anni.


Poi l’uomo, dopo aver rovistato un istante tra i cocci e i libri ingialliti, vide il fermacarte, un po’ graffiato ma ancora integro.


“Quello che sei. Ma anche le registrazioni. Delle prime interazioni che hai avuto, quando ancora eri AL-76. I ricordi, di come siamo cambiati... noi.”


Quante cose avrebbe voluto chiedergli e dirgli Naruto, quanto desiderio di abbracciare Sasuke, che era mutato a sua volta ma era comunque identico, nel cipiglio ombroso, nella serietà e nel modo accennato d’incurvare le spalle. Si accorse che a tratti l’uomo nemmeno lo guardava e, in seguito, Sasuke nemmeno avrebbe più guardato gli specchi.


Quel giorno, dopo tutto quel tempo, dopo tutta l’ostinata disperazione messa nel trovarlo, Naruto riuscì solo a fargli una domanda che, scioccamente, non aveva mai posto prima:


“Sasuke... perché proprio quel fermacarte, perché ciò che siamo doveva essere nascosto lì?”


Fece un mezzo sorriso, con affetto nostalgico.


Guardò, ancora una volta, le iniziali di Uchiha Sasuke.


Quest’ultimo lo fissò, sentendo comunque nelle orecchie il rumore della morte, perché la morte aveva un suono tutto suo, e in quel momento si scontrava con la melodia rotta dalle interferenze della voce di Naruto che pure, in quegli anni, Sasuke aveva avvertito così tanto nella sua testa, alzandosi dal fango.


Poi gli spiegò perché avesse scelto quel fermacarte e Naruto fu felice, di aver girato tutte le galassie per lui.


*

Anno 2980 S.I. (dal primo Salto Interstellare)

Gli esploratori si fecero largo tra i detriti monitorando il livello d’ossigeno, consapevoli che ormai scarseggiava e quindi l’ambiente poteva essere piuttosto vivibile per la loro specie. Inspirarono le leggere radiazioni, sentendo formicolare la pelle squamosa.

Uno di loro monitorò il picco di onde elettromagnetiche in cerca di forme intelligenti, ma fino ad allora la ricerca scientifica in quel pianeta lontano dal Multiverso si era rivelata poco fruttuosa.


Stavano per rientrare finché, all’improvviso, ci fu un picco più alto; esso cresceva esponenzialmente man mano che si avvicinavano a un quartiere di quella che un tempo sapevano essere una Città, luogo d’incontro tra razze antiche, molte delle quali estinte.


Si guardarono un istante, poi decisero di trasmettersi telepaticamente le coordinate da cui proveniva il segnale e proseguire. Avanzarono tra montagne di metallo, stralci di terra ingiallita e mangiata dalla radioattività, pannelli che un tempo erano insegne, navi e macchine che avevano solcato i cieli, fino a raggiungere le stelle.


Dopo minuti passati a fluttuare tra le colline metalliche, gli scienziati scorsero i contorni di quello che millenni fa doveva essere un rifugio, in cui le specie del pianeta erano abituate a vivere. Lì, videro qualcosa di totalmente inaspettato: dei mobili, tutto sommato curati e senza troppa polvere, con sopra degli oggetti ingialliti che i nuovi arrivati non sapevano essere libri, perché non li avevano mai visti prima di allora.

Infine, su di un letto scorsero una creatura strana: aveva dei capelli biondi sulla testa e gli occhi chiusi, la pelle liscia e chiara; al suo fianco, un mucchio di ossa distese, bianche, consumate dal tempo.

Circospetti, si avvicinarono. L’entità era immobile, sembrava però tenere in mano qualcosa, anche se la presa era inconsistente.


Dopo un cenno d’intesa, uno degli esploratori allungò la mano ungulata verso l’oggetto, afferrandolo.


Rigirandolo tra le dita, lo guardò ma non comprese.


L’altro gli si avvicinò e riconobbe dei caratteri arcaici incisi sopra, memore delle navi da museo provenienti da guerre spaziali lontane. Non riuscì del tutto a decifrarli, quindi tacque per evitare di creare confusione.


Dopo un suono gracchiante però, all’improvviso, partì un ologramma le cui immagini ogni tanto saltarono, fino a riassestarsi. Riconobbero la creatura dai capelli biondi proiettata vicina a un’altra creatura che sembrava tanto più vecchia, anche se quegli organismi provenienti da ulteriori universi non conoscevano concetti come il tempo e la vecchiaia, così come non conoscevano i libri o le canzoni.


I due protagonisti dell’ologramma erano abbracciati e stretti, mentre qualcosa di musicale riecheggiava vagamente attraverso la registrazione.


Gli alieni non capirono, non poterono capire, che era un abbraccio in una bozza di ballo: solo per loro due, perché finalmente erano stati in grado di toccarsi divenendo reali entrambi, dopo essersi cercati così a lungo. Centinaia e centinaia d’anni fa, fino ai confini dell’Universo.


Poi, all’improvviso l’esploratore ricordò la pronuncia delle lettere antiche incise sul fermacarte, le iniziali di un’identità:


Us.”


Allora la creatura seduta sul letto, con ancora gli occhi chiusi, serrò la mano attorno a quella squamosa che aveva afferrato l’oggetto con la scritta. Non si mossero.


Infine, altrettanto all’improvviso, l’essere dai capelli biondi aprì la bocca e ripeté, con una voce piena di vita:


“Noi, noi...


Noi.



Sproloqui di una zucca.

E anche questa storia è andata! Comincio con il parlare dell'immagine iniziale: è opera di un artista bravissimo, Peter Mohrbacher (qui il suo blog https://www.vandalhigh.com/angelarium-2/), e rappresenta Yesod che nella cabala è alla base dell'albero della vita (sopra solo al Regno); simboleggia il passaggio da una condizione all'altra, connettendo tutto il resto. Mi sembrava dunque adatta per rappresentare un po' la trasformazione di entrambi i protagonisti della storia.
Questa volta Naruto non è riuscito a trovare Sasuke e a riportarlo indietro, ma è stato Sasuke stesso a sopravvivere proprio per poter tornare, anche se invecchiato e consumato dalla vita. Sono riusciti, alla fine, a ballare assieme, toccandosi. Ma il tempo, di cui Sasuke è stato consapevolmente ingordo, comunque va avanti e non ha pietà di nessuno.
U.S. le iniziali di Uchiha Sasuke: scelte perché simboleggiavano, appunto, la parola Us. Noi. Il traguardo finale forse, lo stare assieme, ma anche tutto ciò che Sasuke e Naruto sono stati.
Grazie per avermi seguito fin a qui, nonostante io imbastisca sempre racconti un po' 'particolari'.
L'idea dell'incontro virtuale tra Sasuke e Naruto mi è stata data dal mio ragazzo, al quale racconto sempre tutte le mie trame XD La descrizione 'onirica' del rapporto digitale tra i due protagonisti è frutto di... boh, giuro che non avevo fumato nulla. Però mi piace l'idea dei buchi neri nel petto.
Sarei davvero, davvero, felicissima se aveste voglia di farmi sapere cosa vi ha trasmesso tutto questo racconto (anche tramite messaggi minatori, piccioni viaggiatori, macumbe varie XD).
Vi lascio, questa volta, con la canzone dei Pink Floyd che per me rappresenta davvero splendidamente il concetto di tempo. Time (oh, guarda caso lol). Le righe estrapolate sono, a grandi linee, quello che dice Sasuke a Naruto, quando spiega l'idea del tempo che passa troppo in fretta, al punto da sfuggirgli e lasciargli un senso d'incompletezza in tutto ciò che fa (traduzione non letterale):


Every year is getting shorter, never seem to find the time
Plans that either come to naught or half a page of scribbled lines

Ogni anno risulta sempre più breve, non sembro mai trovare il tempo
progetti inconcludenti o nient'altro che una mezza pagina di righe scarabocchiate


Alla prossima, la 'vostra amichevole Zucca di quartiere'.





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