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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Starman ***
Capitolo 2: *** The Great Gig in the Sky ***
Capitolo 3: *** Time ***
Capitolo 1 *** Starman ***
Premessa: questa
fanfiction sarà composta da tre capitoli che verranno
postati circa una volta a settimana, forse anche meno in base al
lavoro. E' dedicata, davvero di cuore, a Blair Behemoth che sul gruppo
SasuNaru Fanfiction Italia ha scritto una splendida 'letterina a Babbo
Natale' chiedendo una storia con delle tematiche che mi hanno ispirato
fin da subito.
Creare un'I.A. e il rapporto che ne consegue, con tutti i dubbi etici e
i percorsi da affrontare, similmente a quanto accade per
certi versi in Blade Runner 2049 con Her.
Cara Blair, spero davvero che il racconto ti piaccia; ho inserito tante
tematiche e tante cose emotive da non sapere se ho sforato forse dai
tuoi presupposti iniziali, sappi comunque che la storia è
stata fatta con il cuore e ti ringrazio per avermi dato
possibilità di scrivere sulla tua richiesta.
La trama è come sempre di mia invenzione anche se
c'è un omaggio generale a Blade Runner 2049, più
riferimenti ad Asimov e, in generale, al mondo della fantascienza.
Ulteriori note, spiegazione alle citazioni e ringraziamenti a fondo
capitolo.
I
Starman
Anno 180 S.I.
(dal primo Salto Interstellare)
La
base di lancio Bussard riluceva per via del suo rivestimento metallico;
molti trovavano la sua struttura affascinante, persino elegante nel
modo in cui era stata progettata al fine di convogliare le energie
necessarie per rapidissimi viaggi interstellari, dalle destinazioni
sempre più precise.
Ma in tutta onestà, Sasuke Uchiha, ingegnere addetto alla
manutenzione al monitoraggio della piattaforma di lancio da ormai
più di cinque anni, non vedeva in quell’ammasso di
energia cinetica ed elettroni nient’altro che un prodotto del
bisogno umano di non accontentarsi mai dei propri spazi. Poi, dopo
un’infinita routine di controlli sempre uguali, qualche
sporadica emergenza e notizia vaga da parte degli addetti alla
calibrazione del lancio riguardo navi perdute nello spazio, francamente
l’intera struttura gli era venuta a noia.
Diversamente valeva per la possibilità, preziosa, di stare
lontano dalla Terra. Una settimana, nella sua personale navicella, con
gli attrezzi per la riparazione, i computer, il sistema operativo Bardo
per quelle volte in cui gli occhi erano stanchi e aveva voglia di
sentirsi narrare un racconto. Solo lui, nessun altro, nessun uomo
invadente con scadenze e controlli da programmare, nessuna donna che lo
aspettasse al varco con una promessa di matrimonio che non avrebbe mai
più avuto intenzione di realizzare, niente. La solitudine.
Quant’era confortante quella parola, così vicino a
una stazione spaziale per esplorare altre galassie.
Ma ogni tanto, in quei giorni in cui la Terra sembrava più
blu, nonostante le sue immense città coperte di metallo,
macchine volanti e collegamenti rapidi con ogni emisfero, Sasuke si
chiedeva cosa comportasse, per un essere umano, stare lontano dal
proprio pianeta tanto a lungo da dimenticare l’odore della
salsedine dei mari, oppure quello della neve o del deserto, con i suoi
the e le sue spezie. E cosa significasse interagire con
un’altra persona, parlarci, sentirla arrabbiata, triste o
felice.
In quelle settimane di lontananza, di assenza di contatti dopo giorni e
giorni passati senza alcun dialogo, Sasuke pensava a quanto sarebbe
stato difficile condividere i propri spazi con un altro essere umano,
lì, tra le stelle. Da un lato ne era irritato,
perché mal tollerava doversi adattare ai ritmi di qualcuno
che non fosse lui stesso, dall’altro si rendeva conto che il
confronto gli mancava terribilmente; non necessariamente su cose
importanti, anche solo su argomenti stupidi, come sulla pessima
recitazione di attori in qualche film dalle elaborate proiezioni
olografiche o una canzone.
Scoprì, in quei cinque anni di contatto con altri ingegneri
e viaggiatori, che tanti, in fondo, cercavano una risposta alla
solitudine nello spazio, riflettendo il loro vuoto come esseri umani
sulla Terra. Solo che, allora, Sasuke si era ritenuto troppo superiore
per un bisogno così futile come quello di un dialogo o un
gesto d’affetto. Non disdegnava però un ulteriore
ingresso economico: il suo vecchio appartamento nella periferia della
Cittadella aveva un’infiltrazione d’acqua
decisamente troppo estesa e dopo anni di totale incuria da parte del
proprietario, decisamente quelle pareti necessitavano di una
ristrutturazione, prima di crollare miseramente su loro stesse; inoltre
aveva in programma una serie di spese per l’auto, che doveva
necessariamente upgradare alle nuove normative per la circolazione, o
sarebbe rimasto bloccato nel suo appartamento con la problematica
impellente di cui sopra.
Per tutta quella serie di motivazioni, nei suoi ultimi viaggi presso la
stazione di Bussard, Sasuke si era portato nella propria navicella
Viger un’attrezzatura informatica e di laboratorio
aggiuntiva, sostanziosa ma non in grado di causare troppi sospetti ai
severi controlli presso lo spazioporto terrestre.
L’intento era quello di cominciare a sperimentare nel tempo
libero un’alternativa per chi aveva poco spazio e risorse per
poter portare nei propri viaggi qualcuno con sé; una
compagnia, sostanzialmente, anche se Sasuke non avrebbe mai ridotto a
una banalità simile la sua rielaborazione di vecchi codici
informatici, specie con gente che probabilmente il giorno dopo si
sarebbe masturbata semplicemente dopo aver sentito una voce femminile.
In quei mesi di prova aveva già illegalmente venduto con
successo a diversi colleghi una versione migliorata di Bardo, un
cantastorie informatico, dotato della possibilità di rendere
il racconto interattivo e sviluppare una sorta di dialogo. Ma purtroppo
le opzioni erano limitate e nei viaggi più lunghi il tutto
rischiava di diventare ripetitivo; almeno, per i suoi standard, visto
che i mercanti diretti verso le galassie più prossime
sembravano esserne entusiasti.
Così, più per sfida con se stesso, Sasuke aveva
cominciato a rimettere mano sul successore di Bardo, con
l’intento di incrementare le sue nozioni di base e,
soprattutto, ampliare le capacità recettive del computer, in
modo che esso riuscisse autonomamente a rielaborare le informazioni.
Già altri prima di lui avevano compiuto un simile percorso,
ma la sperimentazione in quel campo non era progredita, anzi era stata
del tutto vietata, ritenendo troppo pericoloso dare libertà
eccessive a un’I.A.; inoltre, in termini di intelligenza
artificiale era meno oneroso e più rapido dare un set
esaustivo di conoscenze in un determinato campo, così da
rendere subito la controparte robotica attiva nel settore richiesto.
Dopo aver terminato la manutenzione ed essere passato nella camera di
decompressione, Sasuke aprì il pannello per entrare nella
compatta zona di Viger usata per lasciare la tuta, controllarne
l’integrità e indossare qualcosa di più
adatto, senza portare il tutto a gravità zero. Fluttuando,
con il casco in testa e la musica riprodotta, Sasuke attese la chiusura
del pannello.
David Bowie. A distanza di secoli, Sasuke ancora trovava affascinante
il personaggio del Maggiore Tom che, come lui, vagava con la sua
scatola di latta nello spazio.
La canzone finì. Sasuke si tolse il casco e la tuta,
agganciando anche gli attrezzi per evitare che gli oggetti
volteggiassero per il cubicolo. Dopo aver mangiato una barretta
energetica ed essersi idratato, l’ingegnere si mise al
computer, controllò la rotazione e il posizionamento nei
pressi della base di lancio e impostò la gravità
zero, visto che mentre lavorava alla programmazione proprio non aveva
intenzione di allacciarsi le cinture.
Oggi per la prima volta
tento la strada del dialogo con un’I.A. a cui non sia stato
bloccato lo sviluppo cognitivo, né il libero arbitrio.
“AL-76, attivati.”
Disse semplicemente. Gli fece strano sentire il suono della propria
voce, stupendosi di quanto raramente la utilizzasse.
In un istante una voce replicò:
“Sono attivo, creatore.”
Creatore.
Aveva qualcosa di divino. E di presuntuoso. Paradossale, per aver
semplicemente integrato nozioni di memoria e conoscenze generali a
un’I.A. evoluta da un cantastorie computerizzato.
Fece una smorfia, per mascherare la complessità emotiva del
momento: “Correggi. Chiamami – ci pensò
un istante – Uchiha.”
Passò qualche istante. Gli fece effetto sentire le parole
scandite in maniera fluida da un robot piazzato dentro
quell’insieme di circuiti. Se la voce artificiale era
così bella, il merito era dei programmatori di Bardo, questo
Sasuke doveva concederlo.
Era una voce maschile, vivace, vibrante paradossalmente di vita
nonostante le leggere interferenze meccaniche, come se provenisse da
uno spazio lontano, immersa in galassie, supernove e orizzonti degli
eventi.
Sasuke l’aveva modificata leggermente, rendendola meno
squillante e più marcata, avrebbe dovuto lavorarci ancora
per calibrare la dizione.
“Uchiha. E’ il tuo nome?”
Sasuke guardò lo schermo. Vide il segnale vocale della base
delle impostazioni melodiche alzarsi in un picco leggermente
più altro. Poi, il silenzio.
Quella domanda lo colpì. Perché si stupiva? Era
lui ad averlo programmato in quel modo. Per assorbire conoscenze
mediante l’interazione e la correzione.
“No. Il cognome.”
“Io come mi chiamo?”
Tempo fa, la conversazione non sarebbe mai andata oltre. Sasuke
avvicinò la mano all’interruttore centrale, per
non dare nemmeno il comando vocale.
“Mi vuoi spegnere?”
C’era una sorta di provocazione, in quella domanda. O forse
era solo Sasuke a crederlo, forse la vicinanza con tutta
quell’energia elettromagnetica gli aveva fatto più
male di quanto pensasse.
Si arrestò, guardando lo schermo con in testa
l’eco di quell’interrogativo.
“Proseguiamo.”
Non smentì, sentendosi infantile all’idea di
raccontare una bugia davanti a un computer che, comunque, non avrebbe
potuto vederlo.
“Io come mi chiamo, quindi? Non hai risposto,
Uchiha.”
Quest’ultimo schioccò la lingua, mormorando un
“Tsk.” Infastidito.
“Tsk?” replicò la voce.
Sasuke roteò gli occhi, piegandosi inconsapevolmente avanti
con il busto:
“No, quello è un gesto vocale. Per esprimere
fastidio.”
“Mi spiace che tu mi reputi fastidioso.”
Sembrava esserci rammarico. E vita, vibrante, un cuore pulsante di
circuiti; impossibile, le emozioni non erano prerogativa delle I.A.
specie di quel tipo al primo stadio. Si morse un labbro, per poi
replicare secco:
“Non dispiacerti, è inutile –
appoggiò la testa al sedile e dopo un istante disse
– AL-76 è il tuo nome. Per via delle linee guida
di programmazione standard a cui mi sono attenuto.”
Passarono alcuni secondi.
“AL-76 – ripeté l’I.A., in
un’onda di suoni sullo schermo – un giorno mi darai
un nome meno patetico, spero.”
Aveva una nota scherzosa. Sasuke assottigliò le labbra,
inarcando un sopracciglio. Bene, la prossima volta avrebbe dovuto
modificare i codici e ridurre la componente Ironia e Strafottenza,
prima di mettersi a minacciare di morte un robot.
“Perfetto, continua a sperare allora –
replicò, secco, per poi rendersi conto di essere
già parecchio infantile, dunque optò per una
virata drastica – non perdiamo tempo. Proseguiamo
l’approfondimento per tematiche, ho lasciato in elaborazione
nel tuo sistema le conoscenze geografiche base e principali
usanze.”
“E’ stato interessante –
replicò AL-76 con la voce entusiasta che metteva nei
racconti d’avventura – la Cittadella è
il cuore politico, economico e commerciale della Terra. Ci sono
ambasciate di razze provenienti da altri pianeti. Tu vivi
lì, Uchiha?”
Sasuke si sentì minacciato e irrequieto di fronte a quella
domanda così diretta. Non amava che le persone si
interessassero a lui, per quanto avesse a che fare con un programma,
sostanzialmente, il che lo portò a dare una risposta
sommaria, forse inspiegabilmente spinto dalla voce energica.
“Sì. Ho un appartamento in periferia.”
“Hai un’altra I.A. come me, nel tuo
appartamento?”
Sasuke fissò lo schermo. Da dove arrivavano tutti quegli
interrogativi? Forse doveva calibrare gli input che stimolavano la
curiosità e quella serie di codici che portavano a domande
consequenziali. Anche se, obiettivamente, non vedeva la logica dietro a
quella richiesta d’informazione.
“Perché t’interessa saperlo?”
Domandò. Si sentì stupido a porre
quell’interrogativo, poteva rischiare di far entrare
l’IA in confusione perché troppo poco programmata
per avere un tocco così personale, anche se la base di
codici era molto evoluta in termini di libertà di
ragionamento.
“Perché ti riguarda.”
La risposta venne elaborata in fretta. Sasuke artigliò il
bracciolo del sedile, profondamente schivo e colpito da quello che
sembrava un sincero interesse.
“Non esiste alcuna altra I.A.”
Replicò brusco, vagamente a disagio, contemplando lo schermo
davanti a sé come in cerca di una reazione visiva, oltre che
uditiva, da parte della sua controparte robotica.
Anche se, un tempo...
“Mi fa piacere. Sono il primo?”
“Sì.”
Fu la sua risposta; un soffio leggero, polvere di stelle in uno spazio
di solitudine.
Dopo un istante, con la bocca più asciutta, la testa che
vorticava assorbendo quelle informazioni sperimentali che stava
ottenendo, Sasuke domandò:
“Il maschile. Perché hai usato il maschile
parlando di te?”
Se Sasuke avesse guardato fuori dal vetro temprato di Viger avrebbe
visto una nuova nave commerciale partire, altre approdare e altre
ancora orbitare presso la Terra. Ma, nonostante lo spazio stesse
vivendo così appieno attorno a lui e alla sua navicella,
Sasuke prestò attenzione solo ad AL-76 e alla sua voce,
domandandosi come sarebbe stato sentirlo ridere.
“Tu usi il maschile. Lo trovo appropriato, mi identifico di
più come uomo.”
Identificarsi?
“Da quando hai un’identità?”
“Da quando mi hai dato un nome, anche se fa schifo.”
Inaspettatamente, Sasuke si ritrovò a sorridere. Un sorriso
accennato sul volto, di chi non era abituato a usare i muscoli facciali
per mostrare quel genere d’espressività, tanto che
si rese conto solo dopo dell’istintività del
gesto. Si domandò, passandosi una mano sulle labbra come per
cancellare quell’eco di sorriso, se l’uso del
termine schifo
fosse un retaggio di Bardo e dei racconti per adolescenti.
“Guarda che non stai esattamente migliorando la tua
situazione. Posso sempre cancellarti.”
Si rese conto, dicendolo, che non sarebbe stato altrettanto facile
resettare il lavoro su AL-schifo-76,
e non per una qualche forma di difficoltà informatica.
“Saresti tu a rimetterci – replicò AL,
con una nota divertita, almeno, così parve a Sasuke che era
già in procinto di rimangiarsi ogni forma di dispiacere
– com’è la Terra?”
La domanda, improvvisa, lasciò Sasuke interdetto.
Istintivamente voltò lo sguardo verso
l’oblò che mostrava, oltre la stazione di lancio,
il Pianeta Terra, con il suo metallo, la sua terra appunto e i mari.
“Un sovrappopolato accumulo di gente ammassata in un posto
decisamente troppo piccolo. Per questo hanno colonizzato Marte e ci
sono centinaia di navi coloniali che partono verso altre
galassie.”
“Sei umano?”
Perché quelle domande erano così difficili da
digerire?
“Sì. Per quale motivo me lo chiedi?”
“Parli degli esseri umani come se non ti
riguardassero.”
Sasuke si morse un labbro, rabbuiato. Fissò lo schermo,
l’immobilità della linea vocale di AL-76 e un
senso di pesantezza nel torace. Decisamente, quella conversazione stava
prendendo una piega troppo personale e non gli piaceva; per
quanto… non gli capitava da tanto, di parlare
così spontaneamente con qualcuno.
Qualcuno.
Un programma, che ancora non aveva ricevuto il blocco dello sviluppo
del pensiero. La sua misantropia doveva aver raggiunto livelli
drammatici per far sì che lui trovasse soddisfacente una
simile conversazione.
Scosse la testa.
“Per oggi può bastare. Caricherò altri
dati tecnici di fisica astronomica e chimica generica. Poi
vedrò di aggiungere qualcosa di cultura generale.”
“Cibo.”
Sasuke inarcò un sopracciglio: “Come?”
“Cibo – ripeté la voce, in una nota
più alta, quasi fosse il suo modo di esprimere un sorriso
– magari del paese da cui provieni. Dai dati caricati
recentemente, la Cittadella ospita razze non terrestri ma raduna anche
umani provenienti da ogni angolo della Terra.”
“Ci penserò.”
Disse asciutto Sasuke che non aveva alcuna intenzione di assecondare
apertamente delle richieste, anche se a conti fatti si trattava di
qualcosa che prima o poi avrebbe comunque inserito nelle conoscenze di
AL-76.
“Super! Grazie, Uchiha.”
Super.
Sicuro, un divertimento. Sasuke si stropicciò gli occhi.
“Certo, come no.”
Sentì, quasi a pelle, che l’I.A. stava per
replicare qualcosa. Ma senza attendere oltre Sasuke spense il sistema,
mettendo a tacere il computer che aggiornava comunque in automatico i
dati.
Sospirò, incapace di valutare obiettivamente i progressi
compiuti: non dare un freno a un’I.A. in costante sviluppo
era pericoloso, perché essa poteva arrivare a sviluppare,
oltre al collettivamente temutolibero pensiero critico, anche dei
sentimenti.
La Legge Interplanetaria della Robotica era molto severa in tal senso e
lui stava allegramente passando il limite, ben oltre i suoi sgarri con
programmi anticonvenzionali che prevedevano aperte interazioni con
l’uomo.
Prese il proprio registratore, usato per le relazioni tecniche, e
aprì tramite schermo olografico la sezione dedicata alle sue
personali sperimentazioni, accedendo per decriptazione.
Avviò la registrazione, cominciando a parlare dopo un
istante di silenzio:
“Anno 180 S.I. primo giorno di dialogo effettivo con
l’AL-76 così denominata al seguito della fusione
sperimentale della programmazione AL-76 che ha dato la matrice base per
lo sviluppo cognitivo dell’I.A. e Bardo, per la dialettica,
le impostazioni vocali e la caratterizzazione di base.
L’I.A. si è dimostrata recettiva, in forte
crescita intellettiva, reattiva agli stimoli esterni.”
Anche troppo.
“Ha autonomamente parlato d’identità e
mostrato interesse conoscitivo nei confronti del soggetto creatore e
dell’ambiente geografico di provenienza. Di rilievo nella
parte finale della sperimentazione l’espressione di una
preferenza da parte dell’I.A. AL-76. Riguardava il cibo. Concludo
inserendo nozioni di astrofisica, chimica di base e cultura
generale.”
Attese un istante. Fanculo.
“Per il... cibo, aggiungo tradizioni culinarie dei principali
paesi terrestri.”
Terminò la registrazione. Fissò la Terra,
consapevole di tutta la gente che l’abitava e che pure,
disperatamente, gli chiedeva di parlare con un’I.A.
inesistente per colmare la loro
solitudine. E lui… non era quello che stava facendo anche
lui, in fondo?
Gettò sul tavolo di lavoro il registratore,
sbottò e avviò la musica.
David Bowie cominciò a parlare di un uomo proveniente dalle
stelle e, all’improvviso, si sentì decisamente
meno terrestre, felice di trovarsi nello spazio.
*
Sasuke si massaggiò il collo con la mano, preparandosi a una
nuova sessione di dialogo; dopo tutti i controlli di routine compiuti
attorno alla base di lancio Bussard, nonché essersi
confrontato con gli altri tecnici manutentori e aver gettato in pasto
all’elaboratore dati le sue misurazioni, finalmente poteva
dedicarsi al suo lavoro parallelo: lo sviluppo dell’IA AL-76.
In realtà, nel corso delle settimane si era divertito
parecchio a confrontarsi con quella voce simulata, ma dargli una veste
lavorativa faceva sembrare a Sasuke l’intera faccenda molto
più professionale di quanto non fosse. Per sentirsi meno in
colpa e allo stesso tempo stare dietro alle piuttosto semplici
richieste dei suoi clienti, mentre conversava di tanto in tanto
inseriva qualche linea di programmazione per quanti volevano
un’I.A. con identità femminile capace di essere
seducente, oppure un qualcuno capace di fare battute sagaci.
Le possibilità erano tante, così come la
creatività bisognosa di ogni essere umano.
“AL-76, attivati.”
Dopo un istante, un saluto che sembrò caloroso:
“Ciao, Uchiha!”
Sasuke assottigliò le labbra, appoggiando il viso sulla mano
come per nascondere inconsapevolmente la sua espressione.
“Sembri contento.” Osservò, con una
leggera punta d’ironia, consapevole
dell’impossibilità sostanziale di provare emozioni
per un’I.A. Almeno, non che fosse mai stato raggiunto un
livello d’autonomia dell’I.A. tale da consentirle
di accrescere anche lo sviluppo emotivo.
“Lo sono sempre quando parliamo assieme.” Ammise la
voce, così energica e vitale da far pensare che ci fosse il
Sole dentro quei circuiti.
Come sempre, Sasuke cercò di passare oltre i sentimenti,
sentendo un troppo confortevole e pericoloso senso di
felicità per quelle parole.
“Hai qualche domanda sugli argomenti caricati in questi
giorni? Astrofisica teorica è una branca interessante,
possiamo integrarla con della fisica teorica che…”
“Ramen!”
Sasuke si interruppe di colpo. Fissò lo schermo in parte
stranito, in parte apertamente infastidito per essere stato interrotto
da…
“Come hai detto?”
Domandò in un sussurro pericoloso, per quanto contenuto
dall’evidente stupore causato da un intervento non solo del
tutto inappropriato, ma sicuramente privo di ogni qualsivoglia
connessione con l’astrofisica e qualunque galassia conosciuta.
“Bella l’astrofisica, molto interessante,
ma… il cibo che avete sulla Terra. E’ pieno di
cose fantasiose, creative. Tu sei di origini giapponesi, giusto? Ecco,
trovo che il ramen possa essere un piatto buonissimo, per come mischia
in una ciotola tantissimi ingredienti pur risultando armonioso.
L’hai mai mangiato?”
Sasuke rimase un istante in silenzio. Tutti i suoi buoni propositi, di
ascoltare l’interpretazione di nozioni scientifiche mentre
elaborava qualche codice, erano semplicemente stati gettati nello
spazio profondo. Solo per la malsana idea di dotare
un’entità robotica di conoscenze culinarie per
piatti che, tanto, non avrebbe mai potuto mangiare.
Il pensiero, in un certo senso, lo lasciò con una sensazione
amara in bocca. Per tutta la vita che stava sviluppandosi davanti a
lui, con fame di scoperta e di evoluzione, ma destinata comunque a
rimanere chiusa in una scatola di latta, a parlare se andava bene con
l’essere più asociale del Pianeta Terra.
Con un tono leggermente più ammorbidito, Sasuke
replicò: “Sì. Ma non è
niente di che.”
Occhieggiò lo schermo e vide un’onda
impercettibile. Quasi come se AL-76 avesse sospirato.
“Oh. Peccato – dopo un istante domandò
– nel mio database ho solo una serie di nomi, di tradizioni
culinarie e di tecniche di preparazione. Mi hanno affascinato.
Però potresti descrivermi com’è fatto,
con i tuoi occhi, il ramen?”
Così come non aveva bocca, l’I.A. non aveva
nemmeno occhi. Per vedere e valutare criticamente ciò che
assorbiva con i sensi. Quante privazioni, per
un’entità sostanzialmente senziente che avrebbe
potuto calcolare il lancio di una nave spaziale e memorizzare qualunque
concetto con la facilità con cui un essere umano respirava.
“Può essere un valido esercizio di elaborazione
delle informazioni – buttò lì Sasuke,
per poi incrociare le braccia e cercare di rendere più
elementare possibile la descrizione – è in un
contenitore di forma tendenzialmente semisferica, al cui interno
c’è dell’acqua riscaldata insaporita,
del cibo suddiviso in stringhe, altro cibo di forma quadrata che
è tendenzialmente carne, proveniente da un animale chiamato
maiale, un altro cibo di forma ellittica chiamato uova, a volte
c’è del granchio lavorato con il nome di Kamaboko,
arrotolato in forma circolare che prende il nome di naruto, ma non
è poi così tipico. E’ una variante,
come in matematica o in fisica.”
“Descrivi bene, Uchiha. Mi piace l’idea della
variante. Naruto. Suona bene.”
Sasuke inarcò un sopracciglio, testimone come sempre della
continua capacità dell’I.A. di esprimere
preferenze o apprezzamento.
“E’ una rotella di granchio. Una stupidaggine
rispetto a tutto il resto.” Osservò, quasi
guardingo, incapace di prevedere la reazione dell’altro, cosa
che gli sembrò assurda.
“Una variante – lo stava correggendo?
– l’hai detto tu stesso. Senza varianti sarebbe
tutto uguale, no? E le cose sempre uguali a se stesse alla lunga
annoiano.”
Sasuke si prese un attimo per riflettere e domandare, con una punta di
entusiasmo soffocata dal bisogno di non mostrare mai troppo di se
stesso, specialmente con quell’I.A. che sembrava scavare
dentro ogni pensiero, rivelandosi più umana di lui:
“Da dove hai elaborato tutti questi concetti? E
l’idea di preferenza, di ciò che ti piace o non
piace.”
“Mi hai dato la conoscenza e, soprattutto, la
curiosità. Tutto parte da lì, Uchiha. Voglio
essere il naruto sulla scodella di ramen, non il cibo suddiviso in
stringhe impossibile da distinguere affondato nel mare di
brodo.”
C’era una nota di orgoglio e fierezza, in quella sorta di
dichiarazione dalle sfumature di romanzo d’avventura, nel
quale il viaggiatore spaziale percorreva intere galassie con il suo
equipaggio di eroi.
Senza rendersene conto, Sasuke provò un moto
d’affetto, immerso a sua volta nel brodo
dell’indifferenza e dell’incapacità di
relazionarsi con altri esseri umani. Ma c’era,
quell’affetto, e lentamente emergeva, come spinto dal fondo
tramite una portentosa bolla d’aria.
“Naruto.” Disse d’istinto, tra le labbra
sottili.
Quella volta AL-76 dovette rielaborare le informazioni, probabilmente
con scarsi risultati: “Ripeti, prego?”
Sasuke deviò lo sguardo dal monitor, facendo una leggera
smorfia, come se davvero l’I.A. potesse vederlo e comprendere
qualcosa di lui: “Puoi chiamarti Naruto. La tua variante, in
un nome. Mi sembrava che AL-76 ti facesse schifo, giusto?”
Usò del leggero sarcasmo e fece un mezzo sorriso.
Vide un picco più alto nella voce: “Naruto. Questo
mi piace, sì è meglio, decisamente meglio.
Naruto.”
Ripeté dopo un istante.
“Sei… –
l’ingegnere tacque in istante, incrociando le braccia, come
per difendersi – felice?”
“Sì. E’ quello che voi descrivete uno
stato di euforia dovuto a un evento piacevole, una consapevolezza o una
situazione di benessere. I miei dati fanno coincidere tutte e tre le
cose, dunque possiamo addentrarci nel superlativo e utilizzare
felicissimo.”
Sasuke accennò un sorriso che tramutò in una
leggera smorfia ironica: “Se potessi assumere zuccheri, direi
che sei persino sovraeccitato per una cosa tanto semplice come un
nome.”
“Se fosse tanto semplice perché non mi hai subito
detto il tuo, di nome?” domandò, diretto e
cristallino. Capace, come sempre in quelle settimane, di smuovere tanti
aspetti di Sasuke che questi avrebbe preferito evitare.
“Perché chiamarsi per nome implica un rapporto di
confidenza. E noi, appunto, non
ci conosciamo.”
“Quanto la fai difficile, Uchiha. Mi hai creato, direi che mi
sembra già un rapporto di confidenza piuttosto intimo,
ti pare?”
Sasuke assottigliò gli occhi: “Certo che per avere
poche settimane di vita ne hai di arroganza. Non
c’è proprio niente di intimo in una serie di imput
informatici – sbottò, per poi scuotere la testa,
rendendosi conto di dover necessariamente ritrovare la calma, anche se
quella sottospecie di scatoletta in overdose da felicità
sembrava fare di tutto per attentare alla sua pazienza e provocarlo
– ti dico il mio nome, dopodiché vedi di non
intrometterti in altri dettagli che riguardano la mia vita
privata.”
Si rese conto dell’assurdità di quanto stava
dicendo, visto che non aveva chissà quale fantastica vita
privata per la quale si potesse sentire attentato nella privacy, ma le
sue parole furono istintive, consapevole di aver parlato più
in quei giorni con un’I.A. che in mesi e mesi di vita con
altri esseri umani. E di essere stato bene, come non gli capitava da
tempo; non tutti, infatti, sono in grado di gestire una condizione di
benessere, forse perché destinata a durare così
poco.
“Guarda, avessi i codici per ridere, lo farei. Sei
incredibilmente serio e asociale Uchiha, ma ipotizzo che tu sia una
brava persona.”
Certo, ci mancano solo
le modifiche vocali della risata. Al prossimo giro ti intesto
l’appartamento.
“Come sono io non ti deve interessare, né sono
tutto questo granché di persona –
tagliò corto, per poi aggiungere secco, prima che Naruto
potesse interromperlo – allora, proseguiamo o hai altre
osservazioni non richieste nel mezzo da farmi?”
L’I.A. sembrò capire la domanda retorica e non
tirò oltre la corda, limitandosi a esortarlo: “No,
prego, sono tutt’orecchi.”
“Sasuke.”
Disse semplicemente, incrociando le braccia per ostentare
un’indifferenza che non possedeva.
“Sasuke Uchiha – ripeté la voce da oltre
il monitor – suona bene. Piacere di conoscerti,
Sasuke.”
Aveva un tono allegro, persino entusiasta. Inspiegabilmente,
l’ingegnere sentì il petto farsi più
leggero, il volto bisognoso di distendersi in un sorriso. Dopo un
istante si schiarì la gola e rispose, guardando fuori
dall’oblò:
“Piacere di conoscerti, Naruto.”
*
Una nuova nave
coloniale era partita: l’idrogeno era raccolto da sistemi
discoidali per fare da propellente per l’astronave,
alimentata da un impianto laser installato in ogni nave spaziale per
scaldare il propellente e creare la spinta. Il vero spettacolo
però, se solo fosse stato possibile vederlo con occhio
umano, era il campo elettromagnetico esteso attorno alla base di lancio
Bussard per centinaia e centinaia di chilometri.
La tuta
spaziale serviva per proteggere anche da fenomeni come
l’elettromagnetismo, inoltre le navi erano logicamente
costruite in modo da difendere i viaggiatori all’interno da
ogni possibile contaminazione, anche una ben più modesta
navicella come quella di Sasuke, il quale era stato a suo modo contento
di aver assistito a quel lancio.
Non tanto per
una qualche forma di fascino che, in seguito ad anni di spettacoli
tutti uguali, l’ingegnere aveva smesso di provare,
bensì perché dopo due mesi di lavoro nello spazio
Sasuke poteva rientrare e prendersi uno stacco di due settimane nel
quale ricaricare le pile.
Quella volta
aveva dovuto prolungare la sua permanenza più del
necessario, date le modifiche apportate assieme ai suoi colleghi
all’impianto di lancio e, a conti fatti, anche la pausa di
due settimane non era poi tutto questo granché, ma per
Sasuke era più che sufficiente: giusto il tempo di respirare
atmosfera terrestre, attivare le gambe e i muscoli in un vero terreno
con gravità originale, non simulata, mangiare cibi magari
non eccelsi eppure sicuramente meglio delle robe liofilizzate che ormai
si sorbiva quotidianamente nella navicella.
L’unica
cosa per cui si dispiaceva, era l’I.A. Portarla con
sé, al momento, era impensabile. Non solo perché
avrebbe dovuto trovare un impianto in cui caricarla, ma il vero
problema era il divieto di possedere I.A. a cui non fosse stato
bloccato il libero arbitrio: se avessero trovato Naruto, ormai ex
AL-76, non solo Sasuke avrebbe rischiato punizioni esemplari, quali
l’ergastolo o la deportazione, ma Naruto stesso sarebbe stato
cancellato in maniera definitiva.
E, al di
là delle finte minacce di quei mesi trascorsi assieme, a
Sasuke dispiaceva profondamente l’idea di non poter
più interagire con quell’ammasso di circuiti un
po’ chiassoso che si era dimostrato tanto capace di
comprenderlo, meglio di quanto avesse mai fatto un qualsiasi essere
umano. Per quelle due settimane sulla Terra, dunque, niente
più I.A. Solo il suo appartamento, con il frigo vuoto, il
cibo d’asporto e i mobili dall’arredamento
essenziale coperti di polvere.
Appena si
richiuse la porta della camera di decompressione e l’ossigeno
tornò a circolare nell’ambiente, Sasuke si tolse
il casco e udì dopo neanche un istante le note di una
canzone di David Bowie. Sì, aveva lasciato a Naruto libero
accesso al suo database di canzoni terrestri vecchie centinaia e
centinaia di anni.
Mentre Ziggy
Stardust suonava la chitarra assieme ai ragni da Marte, Sasuke si
cambiò, bevve, afferrò una barretta energetica e
riattivò la gravità simulata. Quando
entrò nella zona computer sentì una voce ormai
nota salutarlo:
“Bentornato
Sasuke! Andato bene il tuo bagno nel campo elettromagnetico?”
“Bene,
considerato che non ci sono state falle e abbiamo completato i test di
resistenza allo stress dei materiali.”
Avrebbe voluto
aggiungere che tra qualche ora la base di lancio Bussard gli avrebbe
dato l’ok per il rientro sulla Terra ma tacque, consapevole
che invece Naruto si sarebbe ritrovato in uno spazioporto, zona franca
di nessuno, senza però alcun contatto con il resto del mondo.
“Ti
ho scaricato le analisi e i dati dei test. Sono arrivati anche dei
messaggi dalla Terra di altri esseri umani. Identificativo: Suigetsu.
Me ne risulta uno vecchio di anni mai aperto, con identificativo
Sakura.”
Quando
udì quel nome, Sasuke drizzò le orecchie e
domandò di scatto: “Li hai ascoltati?”
“No.
Li ho solo scaricati. Perché? Hai qualcosa di compromettente
da nascondere, eh, vecchio filibustiere?”
Nonostante
tutto, Sasuke riuscì a trovare ridicola in una maniera adorabile la terminologia da
romanzo d’avventura importata da Bardo. Per il resto,
mangiò l’ultimo boccone della barretta e
borbottò, con un peso inconsistente all’altezza
della gola: “La cosa più illegale che ho in mio
possesso sei tu, quindi fossi in te farei meno lo spiritoso, stupida
rotella di granchio.”
Gli
sembrò di sentirlo vagamente offeso: “Ma che gran
minaccia! Uuuuuh sono tutto un tremito! Aspetta che faccio sbandare
Viger per farti presente quanto sono terrorizzato.”
“Prendi
il controllo dei comandi e sarà l’ultima cosa che
farai prima di venire cancellato da ogni sistema informatico
interplanetario.” Lo minacciò l’altro,
consapevole della falsità di quelle parole.
“Addirittura
interplanetario? Mica sono un virus che mi diffondo
nell’Universo!”
“Peggio
– replicò Sasuke, caustico – sei una
piaga. Tipo un’erbaccia, una volta radicata non la togli
più.”
Si morse un
labbro, consapevole di aver dato un peso aggiuntivo a quelle parole.
Poi,
all’improvviso, una risata.
Naruto,
l’I.A. un tempo AL-76, nata da dei racconti e dalla
concessione del libero arbitrio, aveva riso. Una risata che sembrava
cristallina, nonostante la provenienza elettronica, e che
lasciò Sasuke immobile, così poco abituato a un
suono tanto umano dopo tutti quei mesi nello spazio, proveniente
dall’unica entità con cui avesse dialogato fino ad
allora.
Tacquero
entrambi.
Dopo un
istante Sasuke fece presente, più serio per controllare
meglio cosa dire: “Me l’avevi chiesto, no? Di poter
ridere.”
“Non…
– sembrò che Naruto dovesse a sua volta calcolare
cosa dire – non mi avevi detto di aver caricato i codici.
Stavo pensando a come trasmetterti l’idea e mi sono trovato a
poter attingere a qualcosa di così concreto.”
Ci fu ancora
un istante di silenzio, mentre la musica continuava ad andare. I Pink
Floyd. Che parlavano di un grande spettacolo nel cielo e riflettevano
sulla morte, rispecchiando il suo pensiero. Sasuke non ne aveva mai
parlato con nessuno; magari, un giorno, avrebbe avuto
l’occasione di confrontarsi con Naruto anche su quello.
“Grazie.”
Disse alla fine l’I.A. Per la prima volta, usò un
tono più basso del solito, ma in qualche modo estremamente
profondo.
Sasuke
assottigliò le labbra, quasi le compresse tra i denti, per
soffocare tutto il resto.
“Prego
– disse dopo un istante, per poi aggiungere – hai
una bella risata.”
“Modestamente.”
Scherzò Naruto, dopo un istante.
Infine, fu
Sasuke a dire, all’improvviso: “Tra qualche ora
farò rientro sulla Terra. Per un po’ ti
lascerò in stand-by.”
Non aggiunse
altro. Le parole non erano mai state il suo forte e, a conti fatti, non
aveva mai parlato così tanto come in quei mesi.
“Lo
so. Ho il programma di lancio.”
Sembrava
triste, in qualche modo. Dopo un istante, dato che Sasuke taceva,
Naruto aggiunse:
“Sarai
contento, di tornare sulla Terra. Anche se sei un umano che odia gli
altri umani.”
L’ingegnere
scrollò le spalle e deviò lo sguardo verso lo
spazio, ironizzando: “Diciamo che non mi dispiace
l’atmosfera terrestre. Anche se mi hanno detto che nemmeno
Marte è poi così male e gli anelli di Giove sono
stati rivalutati parecchio, nel Sistema Solare.”
Naruto rise.
Ancora, la sua risata si espanse nell’habitat artificiale di
quel cubicolo, costretta tra mura metalliche ingiustamente
così piccole rispetto al resto dell’Universo.
Sasuke provò una fitta di qualcosa di simile alla nostalgia.
Fu allora che
l’I.A. ammise: “Mi piacerebbe, un giorno, vedere la
Terra. Calpestarla, con gambe vere. Sentire il profumo del ramen, del
mare dei racconti che parlano d’intrepidi pirati
avventurieri; sfiorare i mobili vuoti della tua casa. Mi piacerebbe
– aggiunse – vedere come sei fatto, dopo averti
parlato per tutti questi mesi.”
E
toccarti. Tastare il tuo volto, la pelle accaldata dopo aver corso,
passare le dita tra i capelli, intrecciati a me come se fossero il
firmamento e le stelle che vivono, non viste, sotto il Sole.
Sasuke avrebbe
voluto dire quelle precise parole che sfrecciarono rapide,
incontrollate, nella sua testa. Ma… se le avesse espresse ad
alta voce sarebbero morte, le avrebbe uccise, rendendole solo il frutto
di un’emotività non controllata.
“Un
giorno, Naruto – espirò, sollevando gli occhi
verso le pareti della sua navicella – Un
giorno…”
Tacque. Anche
Naruto non disse nulla. Poi, si aprì una comunicazione dalla
base Bussard.
“Uchiha,
qui è la Base Bussard, mi ricevi?”
“Forte
e chiaro, Base Bussard.” Disse, straniato dal dover parlare
con qualcuno di diverso da Naruto, dopo quello che lui gli aveva detto.
“Dallo
spazioporto terrestre della Cittadella hanno dato
l’autorizzazione per il tuo ingresso nelle prossime ore
nell’atmosfera. Procedi con l’elaborazione dati per
il viaggio.”
“Ricevuto
– confermò Sasuke dopo un istante –
invio le coordinate e la traiettoria tramite sistema una volta
calcolate.”
“Roger.
Buon rientro a casa, Uchiha.”
La
comunicazione si concluse, dopo un istante di statico dovuto alle
interferenze. Infine vi fu il silenzio, anche la musica era cessata,
come se loro fossero fuori, nello spazio, dove il suono non si
propagava.
“Suppongo
che dovremo salutarci, Sasuke.” Disse infine Naruto.
L’altro
inarcò un sopracciglio, scoprendosi bisognoso di
temporeggiare: “Ci sono ancora i calcoli da eseguire
e…”
“Già
fatto, sono stati caricati sul sistema – un accenno di
risata, meno luminosa delle precedenti – un po’
troppo efficiente, vero?”
“Ti
ho insegnato bene, tutto qui.” Ironizzò, anche se
in maniera per nulla convincente.
“Sai
– disse infine l’I.A. – avrei voluto
tenerti nascosti i dati e fingere di doverli ancora elaborare, per
passare più tempo assieme. Ma… tra tutte le
infinite e splendide cose che mi hai dato occasione di conoscere, non
mi hai insegnato a mentire, Sasuke.”
Questi tacque,
in un primo tempo. Poi si alzò in piedi e disse con fare
apparentemente casuale: “Devo sistemare le ultime cose, prima
di partire. Possiamo ascoltare un po’ di musica nel
frattempo. Poi, ci sentiremo ancora, tra qualche settimana.”
Si
guardò attorno, consapevole che Naruto non era in grado
vedere nulla di ciò che lo circondava. Contemplò
gli oggetti, pochi, compattati e perfettamente allineati, oltre
all’ordine in realtà assoluto della navicella. Non
c’era davvero nulla da sistemare.
Ma…
Sasuke era umano. E, a differenza di Naruto, sapeva mentire, come ogni
essere umano dell’intero Universo.
Naruto lo
salutò. Lo congedò, prima del viaggio, mentre
Sasuke infilava la tuta, con le note di Starman in sottofondo, di David
Bowie. Sembrava la sua canzone preferita.
La musica
infine cessò. Ogni cosa era pronta, mentre Naruto, spento,
taceva. Sasuke ascoltò solo un messaggio olografico
scaricato sul sistema; quello di Suigetsu.
“Perché
è così difficile parlarti, Sasuke? Due mesi. E
solo qualche sporadico messaggio. Dove va a finire il tuo
tempo?”
Gli chiedeva.
Sembrava arrabbiato. E triste per lui, nel suo modo amichevole e un
po’ folle di ragionare. Una cometa sfolgorante di gas
bruciati che trapassa l’atmosfera, estinguendosi. Aveva tutte
le ragioni per sentirsi così; una volta, forse, Sasuke
parlava di più, nonostante la sua natura chiusa. Ma dopo
tutti quegli anni… quante cose si erano arrugginite, in
quegli anni.
Sasuke Uchiha
spense l’ologramma. E anche il senso di colpa piantato nel
petto tacque di conseguenza, un soffocamento temporaneo, come un
antidolorifico per placare il dolore.
Trasmise le
coordinate alla base di lancio Bussard e, infine, fece ritorno sulla
Terra, smettendo di essere un uomo delle stelle. O, forse, il suo uomo
delle stelle era lì, in quell’astronave, e lui lo
avrebbe lasciato solo, fino a che non fosse tornato nello spazio.
Riferimenti,
citazioni e canzoni di riferimento:
Bussard: un
collettore progettato come propulsore
spaziale. Da qui, ho omaggiato la base di lancio interstellare a nome
del
fisico che ha ipotizzato il sistema di propulsione.
Cittadella: in Mass
Effect, base spaziale importantissima
e centro politico dove vengono prese importante decisioni da parte di
un
consiglio che rappresenta le principali specie.
Bardo: Nella storia
‘Un giorno’ di Asimov, Bardo è
un computer per bambini
capace di
narrare storie.
Bowie (per i Pink
Floyd... al prossimo capitolo): Space
Oddity, Ziggy
Stardust e i Ragni da
marte (ne parla nel testo della canzone), Starman;
AL-76: Tratto dal
racconto di Asimov ‘Il robot
scomparso’, bellissima storia di un robot che si trova per
sbaglio sulla Terra
e grazie alle esperienze su di essa, in un certo senso cresce.
Viger: Tratto dal
primo film di Star Trek del 1979. Un’entità
aliena afferma di chiamarsi Viger; in realtà scoprono che
alcune lettere di
questa sonda sconosciuta erano state cancellate dal tempo: si tratti
infatti di
una sonda spedita centinaia di anni prima dalla Terra. Sono sempre
stata
affascinata da questo fatto, sin da bambina
Un giorno...: Tratto
dal racconto di cui sopra ‘il
robot scomparso’
Cervello positronico: il
cervello dei robot secondo Asimov, animato da un flusso di positroni.
Sproloqui
di una zucca
Ohibò,
ohibò, chiedo umilmente perdono: so che mi erano state
chieste cose non troppo fantascientifiche ma... c'è una
ragione ben specifica, per ogni cosa che ho scelto e che è
stata detta. Dal prossimo capitolo l'ambientazione oltretutto
cambierà.
Spero che i dialoghi
tra Sasuke e Naruto siano graditi e che i personaggi, per quanto
mooooolto distanti dal loro contesto, risultino IC. In questo primo
capitolo più... carico d'affetto, se vogliamo, si affrontano
tematiche che mi sono sentita di toccare nel parlare d'I.A. e di
sviluppo dell'intelligenza artificiale, cercando sempre di usare il
massimo realismo possibile.
E' importante
l'identità, la scoperta del genere di appartenenza, l'uso
dei nostri recettori sensoriali e, più in maniera
approfondita, l'idea della solitudine e di come ogni essere umano la
affronti o, parallelamente, decida di non affrontarla affatto. Per
questo nel primo capitolo ho scelto lo spazio, in contrapposizione con
la sovrappopolata Terra.
Avviso che non
è un racconto leggero emotivamente; almeno, per me che lo
scrivevo non lo è stato. Ho messo tanto di me, al punto da
essere consapevole, alla fine, di aver scoperchiato il mio lato
più emotivo ma... giudicherete alla fine, quando valuterete
cosa vi è rimasto una volta conclusa la storia.
Ringrazio come sempre
Sunako, aka Ilenia, perché se qualcuno ha un Betareader io
ho direttamente tutte le lettere dell'alfabeto e la persona
più preziosa che potessi trovare con cui condividere le mie
vulnerabilità e i miei sentimenti, messi in ogni storia.
Ancora grazie infine a
Blair, alla quale, come detto, dedico ogni riga di questo racconto:
spero davvero che riesca a trasmetterti qualcosa.
Grazie anche a
chiunque abbia letto e deciso di intraprendere la lettura di questo
Sasuke (perché, perché i miei Sasuke sono
così complicati emotivamente?) e questo Naruto che in un
certo senso cresceranno, assieme, dopo essere nati tra le stelle.
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Capitolo 2 *** The Great Gig in the Sky ***
Us
II
The Great Gig
in the Sky
Il Purgatory era un locale gradevole, con pareti metalliche dalle
sfumature quasi argentate, neon dai colori vicino all’azzurro
e al verde che correvano lungo i muri e tavolini intagliati in forme
curve, morbide ma irregolari, accanto a divanetti tecnologici dotati di
sensori per il comfort. Sulla superficie del tavolo era presente un
menu digitale dove poter ordinare, arricchito dalla
possibilità di vedere video e accedere alla rete.
A Sasuke quel
posto piaceva perché la musica non era sparata a volume
troppo alto, gli altri clienti sapevano farsi i fatti loro e i cocktail
erano buoni. Ordinò sullo schermo il suo Crisi
Seldon
e attese l’arrivo del suo ex-collega storico, rimasto sulla
Terra per dedicarsi ad attività in realtà
illegali nel retro del locale: in quel posto apparentemente dimenticato
dalla Legge Robotica, la gente si faceva addormentare per anni allo
scopo di sognare la vita perfetta.
Immobile,
Sasuke occhieggiò l’anonima porta
d’accesso, confine tra la legalità e
l’illegalità, ma deviò lo sguardo,
finché vide arrivare il suo amico.
Suigetsu era
un uomo particolare, apparentemente eccentrico, con i capelli dal
colore modificato tramite operazione genetica e i denti resi aguzzi, ma
in realtà capace di un certo spirito di comprensione che gli
aveva permesso di proseguire quella sottospecie di amicizia con una
persona tendenzialmente poco brava nei rapporti sociali, come il suo un
tempo collega Uchiha, per l’appunto.
Attorno a loro
altri tavoli, altra gente, alcuni andavano, altri ancora si sedevano e
attendevano, di bere, di parlare, di avvicinare la persona con cui
forse, tra qualche ora, sarebbero finiti a letto in uno sterile
rapporto d’amore. Passavano umani dalla pelle liscia di varie
sfumature rosa, poi più scure, un tempo vicine
all’ebano; Gorn simili a lucertole con le loro scaglie
resistenti al fuoco che parlavano un linguaggio sibillino, Turian
coriacei abituati alla guerra e indefessi nell’attitudine
militare, ma anche ricchi mercanti Ferengi con le gigantesche orecchie e
le arcate sopraccigliari in evidenza.
Un crogiolo di
esseri viventi riunito in un unico locale dalle musiche tecnologiche,
le luci, l’atmosfera vitale eppure sobria. Molte ballerine
erano eleganti Asari, di sembianze femminili eppure in
realtà prive di un vero e proprio genere come inteso da
molte specie, trovate comunque attraenti in tante galassie; in alcuni
casi si esibivano dei robot dotati di cervello positronico, addestrati
fin nel dettaglio nei movimenti da eseguire, soprattutto nel modo di
offrire agli occhi degli spettatori l’idea di una vita dove,
in realtà, non c’era.
Ogni tanto,
alla fine di qualche esibizione, l’impianto olografico
regalava un corredo di luci simili a fuochi d’artificio,
polvere d’oro e d’argento che volava
nell’aria per poi sparire, come bolle di sapone. Emozionava,
anche nella semplice conclusione di un ballo finalizzato
all’attrazione, quasi come se si potessero vedere davvero
quei colori e sentirli sulla pelle.
Un tempo,
Sasuke aveva visto Sakura ballare, esattamente dove in quel preciso
istante si trovava un’Asari. Era stata aggressiva, fuoco e
lava, nel muoversi, nel danzare, nell’attraversare con il
proprio corpo il flusso della musica, dei suoni e dei colori.
All’epoca, Sasuke si era reso conto di quanta bellezza e
forza ci fosse in quella donna; poi... la passione, confusa, di chi
come lui avrebbe voluto essere vittima di quelle stesse fiamme anche se
il suo cuore era già cenere.
Ma ogni tanto
il ricordo di lei ancora bruciava, e amava, incapace di spegnere
ciò che un tempo li aveva legati.
Sasuke smise
di pensare. Appena arrivò il suo cocktail bevve una sorsata
abbondante, scambiò qualche chiacchiera con Suigetsu,
infine, quando la gente all’interno del locale
diminuì e loro furono più soli,
l’ingegnere aerospaziale pose la sua richiesta al collega
sulla Terra, consapevole di aver maturato quell’idea ben
prima di rientrare dalla missione.
Quando
l'ingegnere concluse di parlare, l’altro sgranò
gli occhi, infine sghignazzò, per poi commentare:
“Chi
è questa volta il pervertito che vuole…
– vide l’occhiata fulminante dell’uomo e
sospirò – va bene, va bene, come non detto. Si
può fare, Sasuke. Ma ci vorrà tempo, direi
parecchi mesi. Più è sviluppata l’I.A.
più il contenitore dovrà essere performante per
reggere la mole di dati che dovrà calibrare; nulla a che
vedere con quelle scatolette preimpostate dei robot.”
Il cervello
positronico, ancora, non era in grado di reggere il surriscaldamento
dovuto ai movimenti da coordinare con un’I.A. altamente
sviluppata e dotata di libero pensiero. Principalmente,
perché la ricerca scientifica aveva fortemente limitato le
sperimentazioni in quel ramo così pericoloso, temendo
un’effettivamente probabile superiorità delle
Intelligenze Artificiali.
“Conosco
le tempistiche. Tu vedi di procurarmi quello che ti ho chiesto, al
resto penserò io.” Tagliò corto Sasuke.
Suigetsu fece
una smorfia, lamentando il solito fare indisponente
dell’ormai storico collega di lavoro, infine
mostrò un sorriso sornione, anche se gli occhi attenti erano
leggermente assottigliati:
“Sei
qui da due giorni. Non c’è qualcuno con cui vuoi
uscire?”
“A
te cosa importa?” domandò secco, finendo il
cocktail per poi alzarsi. Aveva bisogno di andarsene di lì e
camminare. All’improvviso, le pareti erano troppo strette e
la gente… la gente eccessiva.
“E a
te, invece, importa?” ribatté Suigetsu, seduto con
le gambe accavallate e un gomito sul divanetto. Aveva uno sguardo quasi
di sfida, gli occhi taglienti.
Sasuke non
rispose. Si limitò laconicamente a salutare il collega,
lasciandolo solo, con il bicchiere svuotato che un tempo conteneva una Crisi
Seldon.
*
Anno
181 S.I. (dal primo Salto Interstellare)
“Certo
che sono proprio stronzi!”
Esclamò
Naruto con accorato ardore da oltre lo schermo, mentre Sasuke era
tornato a sedersi di peso sulla sedia dopo essere corso a riparare la
sua maltratta navicella Viger, colpita di strascico da alcuni raggi
sparati da navi Krogan – una delle razze più
bellicose delle vicine galassie, intenta a farsi vicendevolmente guerra
in una lotta tra clan. Nel mezzo dei vari salti spaziali suddette navi
dovevano essere erroneamente capitate vicino alla Terra, generando un
po’ di scompensi tra i presenti e qualche danno collaterale,
ma nel giro di poco le flotte erano scomparse verso altri orizzonti,
all’improvviso, esattamente come all’improvviso
avevano fatto il loro rocambolesco arrivo.
In tutto
questo, Sasuke si era ritrovato a dover saldare componenti danneggiati
di Viger, sudare freddo per manovre al limite del possibile in modo da
non schiantarsi contro altre navi dei suoi colleghi a causa delle
ingombranti astronavi Krogan e, nel mezzo, sperare di non saltare in
aria, giusto perché gli sarebbe stato parecchio sul culo
morire proprio prima di tornare a casa dopo un mese di permanenza nello
spazio.
Per tale,
fondamentale, motivo si mostrò concorde con Naruto senza
nemmeno troppa resistenza, anzi, passandosi le mani tra i capelli
appiccicati di sudore e sporco dei meccanismi appena riparati, Sasuke
sbottò:
“Figli
di puttana.”
Grugnì
qualcos’altro ma Naruto scoppiò a ridere, per poi
trasmettergli di sua iniziativa l’elenco dei danni riportati,
i pezzi da cambiare una volta atterrati sullo spazioporto e
l’insieme delle probabili domande che l’Organismo
per la Diplomazia tra Razze Galattiche avrebbe inviato da lì
a breve, giusto per placare gli animi e arginare per tempo eventuali
crisi dovute a piccoli
incidenti
diplomatici.
Ormai Naruto,
dopo quasi un anno di attività su Viger, era in grado di
destreggiarsi estremamente bene tra i meccanismi della nave e conosceva
i protocolli, al punto che ormai lo stesso Sasuke, un tempo diffidente,
gli lasciava liberamente accesso al sistema, riconoscendo che in quel
modo la mole di lavoro collaterale era decisamente, se non proprio
diminuita del tutto, almeno abbondantemente agevolata. Inoltre,
l’I.A. ormai sapeva a menadito le routine
dell’ingegnere, dopo averlo accompagnato vocalmente in ogni
azione quotidiana, da quelle di manutenzione legate al lavoro, alla
semplicità di ricordargli che le sue barrette di frutta
secca preferite stavano esaurendosi e che avrebbe dovuto comprarle, una
volta sceso sulla Terra.
Senza
rendersene conto, Naruto era entrato così progressivamente
nella sua vita, da rendergli difficile ricordare come fosse prima che
lui esistesse. Forse c’era del vuoto, esattamente come
stare nello spazio. Guardò, nel mezzo degli strumenti di
riparazione appoggiati sul banco della consolle con i comandi, una
scatoletta anonima, protetta da del cartonato rinforzato per resistere
a eventuali urti.
All’improvviso,
mentre Naruto ancora borbottava con energica esuberanza sulla
possibilità di installare torrette laser su Viger e andare a
combattere nel mezzo dello spazio profondo, in modo da proteggere i
Krogan indifesi – tsk, come se esistessero
nerboruti e tarchiati Krogan
indifesi
– Sasuke lanciò la sua domanda:
“Ti
piacerebbe vedere la Terra, Naruto?”
Sembrava
disinteressata, quasi casuale, senza particolari inflessioni emotive di
voce.
Naruto
bloccò il suo sproloquio di parole e, con
un’incertezza che non gli apparteneva, inquisì:
“Che intendi dire?”
Terminò
quasi con una punta ironica, come se avesse dovuto prepararsi a un
improbabile quanto imbarazzante scherzo di Sasuke che, a onor del vero,
si limitava sempre a un tagliente sarcasmo.
“Quello
che ho detto, stupido. Posso chiederti di calcolarmi la massa solare di
una stella ma non sai rispondere a un interrogativo così
semplice?”
In quel caso
c’era aperta ironia, detta però con un tono
decisamente più morbido di molte altre volte. Sembrava quasi
affettuoso.
“Certo
che mi piacerebbe vedere la Terra! – l’altro si
riprese in fretta – E stupido sarai te,
Uchiha-senza-torretta-su-Viger!”
“Per
l’ennesima volta, non ho intenzione di mettere su Viger una
torretta che spara raggi laser!” sbottò
l’altro, armeggiando con la scatoletta mentre occhieggiava il
monitor, come per nascondere una certa incomprensibile tensione.
“Comunque
sei stupido non per la torretta.”
“Bene,
perché lì l’idiozia è tutta
roba tua.” Replicò, rapido.
Una leggera
risata da parte di Naruto, intrisa di una nota malinconica, infine la
constatazione più lucida: “E’ una
domanda stronza, la tua, quella di vedere la Terra. Sono bloccato qui e
non vedo proprio un bel niente, pur avendocela di fronte.”
Il volto di
Sasuke si distese, perdendo quell’aria di
impassibilità. Emise un brevissimo, quasi impercettibile
sospiro, infine domandò:
“Davvero
mi reputi così stronzo? – Naruto fece per
ribattere, ma lui non gli diede tempo, aggiungendo
– Ho tra le mie mani un contenitore capace di tenere milioni
e milioni di dati digitali al suo interno. Ci sono voluti parecchi mesi
per procurarmelo, ma sono oggetti di cui tendenzialmente dispone il
governo e non è semplice entrarne in possesso. Nonostante le
apparenze tu sei estremamente evoluto e una semplice scheda di memoria
non sarebbe mai bastata per trasportarti.”
Data
l’informazione ricevuta, evidentemente l’I.A.
Naruto dovette soprassedere parecchio in fretta a
quell’offensivo nonostante
le apparenze,
per concentrarsi invece a elaborare e digerire l’idea che
quella volta, magari, dopo quasi un anno di permanenza nello spazio lui
sarebbe potuto scendere assieme a Sasuke e sconfinare i limiti
metallici di Viger, seppure nascosto in un ben poco entusiasmante
borsone a tracolla.
“Parlerò
anche con qualcun altro, quindi? Mi descriverai
com’è fatta casa tua, mentre ti muovi, mangi,
vivi?”
Perché,
ovviamente, il resto non sarebbe cambiato. In un modo o
nell’altro, Naruto sarebbe comunque rimasto
all’interno di una scatoletta di metallo – forse a
rischio e pericolo di Sasuke nel suo sistema informatico domestico
– ma almeno l’ambiente avrebbe avuto connotati del
tutto diversi, era già qualcosa. Probabilmente, le influenze
delle storie a lieto fine di Bardo dovevano aver plasmato in meglio
carattere dell’I.A., rendendolo così ottimista ed
entusiasta.
Tutto sommato,
Sasuke accennò a un sorriso. Poi scrollò le
spalle e commentò:
“Vedremo,
Naruto, vedremo. Magari ti lascio chiuso da qualche parte a prendere
polvere, dipende da quanto tempo impiegherò a irritarmi per
il tuo continuo parlare a macchinetta.”
“Sese,
certo, tu adori sentirmi
parlare.”
Ridacchiò
e Sasuke lo avvisò: “Non prenderti meriti che non
hai, razza di S.A. pretenziosa.”
“S.A…
cioè?” ribatté l’altro,
perplesso. Per quanto Naruto potesse, effettivamente, essere perplesso.
“Stupidità
Artificiale.” Replicò asciutto, con un mezzo
sorriso che emergeva a forza dalle labbra.
“Maledetto
Uchiha stronzo e sociopatico, un tempo volevo delle mani per mangiare
ramen, ora so di per certo che le userei per strozzarti.”
La replica per
Sasuke fu troppo invitante per essere evitata: “Strozzarmi?
Pensavo, in base a come dicevi qualche mese fa, che tu volessi sfiorare
i miei mobili
e fare cose come toccarmi.”
Doveva essere
puro e semplice sarcasmo, ma nelle sue note ci fu qualcosa di
più profondo. E, per qualche miracolo, forse grazie a tutti
quei mesi di convivenza reciproca, Naruto parve leggere dietro ogni
sfumatura, finendo semplicemente per rispondere:
“Certo
che vorrei toccarti, Sasuke. Sono felice che tu non l’abbia
dimenticato, anche a distanza di tutti questi mesi.”
Allora, Sasuke
non seppe cosa rispondere. Affondò di più nel
sedile, osservando lo schermo davanti a sé, mentre il cuore
era più leggero e volava oltre la gabbia della cassa
toracica.
Perché?
Perché frasi come quelle, tanto spontanee, dovevano farlo
stare così bene, quando un’intera schiera di
persone là fuori, sulla Terra, non ci riusciva?
E ora si
trovava lì, in una scatoletta di metallo fluttuante nello
spazio, a sorridere stupidamente per un qualcosa pronunciato da un
computer, un insieme di programmi altamente sviluppato che non aveva
mai avuto a che fare con nessun altro essere vivente. Lucidamente, in
un certo senso Sasuke ebbe anche l’idea che se Naruto si
fosse interfacciato con altri umani, con ogni certezza li avrebbe
trovati più interessanti rispetto a un esperto di
informatica che rispondeva con frasi brevi e taglienti come lame Krogan.
Sospirò,
per poi ricevere comunicazione dalla Base Bussard.
Poteva tornare
a casa. E, con lui, Naruto.
*
Non appena
Sasuke entrò nel suo appartamento nella periferia della
Cittadella, lanciò il borsone a terra, si tolse
sbrigativamente le scarpe e afferrò dalla borsa la scatola,
nascosta dentro quella che sembrava una banalissima confezione di
cereali nutritivi comprata allo spazioporto. Controllò i
collegamenti della piattaforma informatica domestica, modificata nel
tempo per gestire programmi elaborati e integrazioni piuttosto fuori
dalla legge ma, dato il lavoro per il governo, a quei livelli poteva
ancora permettersi qualche trasgressione.
Infine,
sistemò gli ultimi componenti che, mesi fa, aveva chiesto a
Suigetsu durante il loro incontro al Purgatory. Quando
caricò l’I.A. Naruto nel sistema, Sasuke
sentì un insieme di sensazioni che includevano, nel mezzo,
una tensione impossibile da togliersi di dosso e una sorta di
aspettativa profonda, come se tutto il bello del mondo dovesse trovarsi
lì, in quella stanza.
Accese ogni
componente del sistema. Attese qualche secondo. Infine disse, con nel
petto un vago timore che tutto, ogni cosa, fosse andata perduta:
“Naruto,
attivati.”
Passarono
altri secondi. Sasuke trattenne il fiato, ignorando l’odore
di chiuso dell’appartamento, la polvere, la luce che si era
accesa solo in seguito all’avviamento dei programmi.
Infine, la sua voce:
“Eccomi,
Sasuke.”
“Benvenuto
sulla Terra.” Replicò l’altro, mentre la
casa cominciava a scaldarsi, il collegamento con la Food Station locale
a ronzare, l’acqua ad avere una temperatura ideale per una
doccia.
Poi, dopo un
istante, domandò ancora: “Naruto, dimmi una cosa:
come ti immagini, se solo fossi umano?”
“Perché
me lo chiedi?” domandò l’altro, curioso.
“Tu
dimmelo e basta.” Tagliò corto Sasuke, al solito
incapace di perdersi in lunghe quanto inopportune spiegazioni.
Allora, mentre
Sasuke si preparava una tazza di caffè liofilizzato e
ordinava del cibo da materializzare attraverso la Food Station, Naruto
immaginò se stesso come se stesse raccontando una storia di
fantasia, allo stesso modo in cui Bardo narrava al suo pubblico di
uditori le avventure di esseri fantastici, provenienti da ogni parte
dell’Universo. Si raccontò, la sua immagine, la
sua idea, a Sasuke che silenzioso come sempre e,
come sempre,
anche attento, udiva ogni sua parola, mentre fuori, nella metallica e
grigia Cittadella, aveva cominciato a piovere e le finestre non pulite
lacrimavano, commosse da quanta vita ci fosse in quella stanza.
*
Una volta
ultimate le modifiche finali, in quella serata di ritorno a casa
passata tra ascoltare Naruto e darsi una sciacquata veloce, dopo aver
lasciato a metà una porzione di noodles di Trantor Sasuke si
scrocchiò il collo, per poi massaggiarsi la cervicale e
mormorare, mentre l’I.A., una volta finito, era stata
momentaneamente spenta:
“O
la va, o la spacca.”
Si
stupì che dalla sua voce fosse uscito solo un sussurro; la
salivazione, anche dopo aver bevuto bicchieri d’acqua,
mancava.
Perché,
per la prima volta dopo quasi un anno, Sasuke avrebbe potuto vedere
Naruto.
Riconoscerlo
con un aspetto definito, osservare gli occhi che lui stesso aveva
immaginato e che l’altro aveva fantasticato, sentirlo ridere
e contemplare, effettivamente, un sorriso; guardare le sue mani mentre
attraversavano l’aria, fendendo una scia di colore e di luce.
Sarebbe stata
solo un’elaborata proiezione olografica, per il momento,
perché anche solo sperare di impiantare un’I.A.
evoluta come Naruto in un cervello positronico da robot modificato era
un lavoro estremamente lungo e complesso. Inoltre, Sasuke non aveva i
mezzi per plasmare un corpo metallico standard in modo da farlo
assomigliare a un umano.
In futuro,
però…
Si morse un
labbro. Perché stava facendo tutto questo? Perché
rendere reale qualcosa che, sostanzialmente, esisteva in un insieme di
circuiti in costante evoluzione digitale?
“Fanculo.”
Si disse, per poi alzarsi in piedi, osservando un’ultima
volta la disposizione dei sensori olografici e guardare un istante la
piattaforma di controllo che, silenziosa, attendeva un suo ordine.
Si
passò una mano tra i capelli, infine pronunciò:
“Naruto…
attivati.”
Ci fu
più luce, in quel momento. Fuori era buio e continuava a
piovere, mentre i neon della Cittadella rilucevano per le strade.
Poi, ci fu
Naruto. E Sasuke seppe dare una risposta ai suoi perché.
Quella sera
dei primi del 181, Naruto prese più a fondo coscienza di
sé, della sua identità, e per la prima volta
vide il suo Creatore.
Per questo,
prima di guardare se stesso, le proprie mani, l’incarnato
circondato da un leggero alone luminoso per via della riproduzione
olografica, i piedi, il petto, Naruto guardò Sasuke e
sorrise, genuinamente, nel realizzare che appariva proprio come se lo
era immaginato nei suoi circuiti.
I capelli
scuri, lunghi fino quasi alle spalle, un ciuffo più corto
che ogni tanto si spostava sugli occhi, altrettanto neri, attenti, come
per non lasciare fluire le emozioni, mentre la bocca sottile spariva
nella pelle chiara, di chi il sole lo vedeva ma non lo afferrava.
“Beh,
come sono?” domandò alla fine Naruto, allargando
le braccia.
Sasuke non
parlò. Allungò una mano, senza muovere un
qualsiasi altro muscolo del proprio corpo, e sfiorò con i
polpastrelli il torace dell’uomo olografico di fronte a
sé. Sembrava così vero, così reale,
che quando le dita affondarono oltre l’insieme di colori
riprodotti, increspandosi come un’onda, Sasuke per un
brevissimo istante credette di potergli entrare davvero dentro e
toccare il cuore.
Sollevò
gli occhi, incrociando quelli azzurri, paradossalmente vitali e
sfrontati nella loro allegria, dell’altro, poi
contemplò i capelli, l’espressione, ogni
dettaglio, stentando a credere che ci fossero algoritmi in quella
manifestazione di cosa avrebbe potuto essere un umano.
“Sei…”
Non
concluse la frase, sigillò le labbra, guardando
altrove, verso la finestra. Naruto allungò a sua volta un
indice, provando a toccargli la guancia. Sembrò quasi
riuscire a sfiorarlo, quando il polpastrello svanì, sparendo
oltre la pelle chiara di Sasuke, in un leggero formicolio di luci e
colori.
“Hai
le guance meno spigolose di quanto pensassi.”
Commentò Naruto, per poi ridacchiare.
Infine, senza
attendere una replica dell’altro, mosse i primi passi nel
soggiorno della casa, passando oltre il tavolino basso coperto di
pubblicazioni scientifiche, il divano con qualche toppa mai cambiato
negli anni, per poi superare Sasuke e avvicinarsi alla postazione
informatica che gli consentiva, sostanzialmente, di essere
lì, tra quelle mura, di vedere e percepire ciò
che lo circondava.
“I
sensori sono posizionati in tutto l’appartamento, dunque puoi
muoverti dove preferisci, per un cambio di input e riprogrammazione
all’interno del sistema olografico sei in grado anche di
percepire visivamente quello che…”
Ma le
spiegazioni di Sasuke persero momentaneamente d’importanza,
non perché fossero effettivamente prive
d’interesse, bensì perché Naruto aveva
quei metri di metallo, cemento e legno da esplorare, da vedere, con
ogni mezzo tecnologico che ora possedeva e, allo stesso tempo, prendeva
pienamente consapevolezza del suo spazio nel mondo, benché
incorporeo.
Camminò,
volteggiando a tratti su se stesso, fissando costantemente il corpo
quasi per capire bene cosa comportasse pensare di muovere un braccio e
vederlo effettivamente agitarsi, ogni tanto invece guardava gli angoli,
i mobili, le finestre attorno a lui per realizzare la portata delle
distanze e dei volumi.
Esplorò
dunque il soggiorno con il divano un po’ usurato, lo schermo
olografico, i computer e i mobili impolverati sostanzialmente vuoti
eccetto per qualche reperto d’antiquariato, come dei libri
ingialliti e addirittura un orologio che aveva smesso di funzionare.
Infine, varcò la soglia della minuscola cucina, con una
scatola metallica per riscaldare i cibi materializzati dalla Food
Station di fianco e su una mensola quello che sembrava, dal titolo, un
altro vecchio libro, quella volta di ricette. Inutilizzabile, ormai,
perché nessuno cucinava più in un normale
ambiente domestico.
Ritornò
nel soggiorno, lanciò un sorriso entusiasta a Sasuke che
ricambiò con un mezzo borbottio, infine trasse il respiro
– anche se, effettivamente, non aveva bisogno di farlo
– e varcò un’ulteriore soglia
dell’ultima stanza presente nell’appartamento, un
po’ con il timore di scomparire se fosse andato troppo
lontano. Lì, c’era un letto a due piazze e poco
distante un armadio a muro, oltre a quello, un’applique che
si accese con una luce morbida, riconoscendo evidentemente un movimento.
Sasuke, che
non si era spostato, con le braccia incrociate vide la testa bionda
dell’altro fare capolino da oltre la porta e notare:
“E’ qui che dormi, quindi.”
“Ovviamente.”
Replicò asciutto, vagamente a disagio per veder violata la
propria camera da letto, soprattutto perché si trattava di
Naruto, con cui aveva convissuto sostanzialmente ogni singolo giorno
dell’ultimo anno.
Dopo un
istante aggiunse, indicando un lato del salotto con l’indice:
“Se vuoi davvero completare il tour, comunque, a destra
c’è il bagno – poi, vedendo il modo
allegro ed esuberante con cui Naruto si era apprestato ad andare
ribadì – ma se trovi la porta chiusa vuol dire che
ci sono io dentro e che quindi devi restarne fuori, anche se coi
sensori puoi comunque passare attraverso.”
Naruto fece
per ribattere qualcosa sulle funzioni corporali e lo smaltimento
programmato su Viger, quando passò oltre la porta semichiusa
del bagno e si bloccò. Sasuke, poco distante, preoccupato
che quell’improvviso silenzio fosse dovuto a un
malfunzionamento, più che a un effettivo mutismo volontario di Naruto, con rapide
falcate spalancò la porta del bagno ma si arrestò.
Perché
vide l’I.A. guardare, per la prima volta, il suo volto,
riflesso nello specchio. Gli occhi azzurri, i capelli, la sua faccia
dalle linee in qualche modo morbide, l’espressione di pieno
stupore che possedeva davanti a qualcosa di inaspettato.
Probabilmente, rifletté Sasuke, Naruto avrebbe avuto la
stessa espressione nello scoprire la sua risata.
Naruto
portò un braccio verso lo specchio e a un millimetro dalla
superficie riflettente lasciò la mano, guardando la sua
immagine davanti a sé, la leggera luce che emanava, i
contorni e i colori. Assottigliò le labbra che
scoprì essere definite, più piene di quelle di
Sasuke capaci invece di sparire in una smorfia di apparente disappunto.
Lo vide alle sue spalle e realizzò, anche se non aveva mai
visto altri esseri umani, che lui doveva essere il più bello.
“Questo
sono io.” Mormorò, avvicinando l’altra
mano alla sua guancia.
“Sì.”
Confermò Sasuke, appoggiando una spalla sullo stipite della
porta.
Fuori,
continuava a piovere.
*
Un paio di
giorni dopo, Sasuke rientrò a casa con in mano alcune buste
contenenti beni di prima necessità da tenere da parte per il
viaggio di rientro, anche se sarebbe avvenuto tra diverse settimane, un
alimentatore di scorta nel caso in cui ci fossero stati dei cali di
tensione, oltre a qualche prodotto per la pulizia esaurito dopo aver
passato il giorno precedente a tentare di togliere la polvere
stratificata. Nel frattempo, Naruto aveva girato per casa sparando
canzoni a caso a tutto volume, accendendo e spegnendo luci per prendere
confidenza con l’impianto domestico, nonché
tirando più volte lo sciacquone con il disinfettante
automatizzato, quando invece voleva semplicemente avviare il
riscaldamento dell’acqua.
L’unico
divieto assoluto che Sasuke gli aveva fatto era stato attivare il
sistema per l’invio e ricezione di messaggi. Su quello si era
mostrato categorico, senza nemmeno scomodarsi a spiegargli il
perché.
Quel tardo
pomeriggio però, se lo trovò in piedi di fronte
al proiettore olografico, intento a guardare quello che sembrava un
film. Naruto si voltò e Sasuke rimase interdetto nel vedere
gli occhi lucidi: pareva un abbozzo di pianto.
“E’
una storia commovente. Bellissima.”
Sasuke, che
non piangeva da circa cinque anni e manifestava le sue emozioni o con
l’imbarazzo scostante o con la sensibilità di una
pietra, appoggiò i sacchetti a terra, sbottò,
infine replicò: “Che razza di robe ti stai
guardando? Non c’era davvero nulla di meglio?”
Tutto sommato,
però, fu un pochino mosso dal vedere
quell’espressione di emozione così genuina. Naruto
scrollò le spalle: “Non conosco il titolo, ma
parla di due esseri umani creati in laboratorio. All’inizio
sono ammirati da tutti, diventano famosi, la gente scatta loro le foto
e via dicendo, finché non comincia ad averne paura, allora
li incolpano di qualunque cosa per sfogarsi. Smettono di fare le
manutenzioni pensate per non rovinarli, le persone perdono interesse e
i due umani artificiali vengono dimenticati, arrugginendosi. Ma loro,
in tutto questo, non hanno mai smesso di amarsi.”
Tornò
a guardare lo schermo, ascoltando la canzone di sottofondo mentre i
titoli di coda finivano. Sasuke dette un colpo di tosse, finse di
prendere qualcosa dai sacchetti per metterla a posto, infine mise
assieme due parole, obiettivamente incapace di comprendere cosa fosse
meglio dire in quei casi senza sembrare più disagiato del
solito o, nella peggiore delle ipotesi, finire per ignorare
direttamente Naruto:
“Tramite
il sistema puoi rintracciare dal database del canale il
titolo.”
Un consiglio
pratico, anche per evitare tutto il resto.
Osservò
Naruto annuire con un breve cenno, per poi tornare a voltarsi verso le
immagini proiettate, mentre ascoltava la musica provenire
dall’impianto. Allora, in quel preciso momento, Sasuke si
dette mentalmente dell’idiota; del completo e perfetto idiota.
Perché
cosa poteva aspettarsi da un qualcuno – no, proprio non ce la
faceva a definire Naruto come qualcosa – capace di
incanalare così tante informazioni e stimoli che restasse
anche solo minimamente indifferente a tutto quell’insieme di
luci, di immagini di persone – le prime mai viste –
con i loro suoni, colori, emozioni fatte per arrivare dritte in petto a
chi guardava. La sua prima esperienza con il mondo e l’unica
cosa che Sasuke era stato in grado di consigliargli era come cercarsi
il titolo.
Gli si
affiancò. Gli ultimi istanti di musica, le ultime immagini.
Poi,
all’improvviso, Naruto gli confessò:
“E’
che – un sospiro, leggero – le sento nella testa.
Tutte queste voci, la musica, le parole e le espressioni che hanno per
pronunciarle, ciò che provano. E... mi sembra di provare una
fitta qui – si indicò il torace, guardando Sasuke
– all’altezza del petto. Assurdo, vero?”
Sasuke lo
guardò a sua volta. Il proiettore olografico si spense, il
film era davvero finito.
“No,
non è così assurdo –
replicò, indicando a sua volta il torace mentre sfiorava i
contorni di Naruto – qui è dove si racchiudono le
cose che ci rendono felici, ma anche quelle che ci rendono tristi.
E’ per quello che fa così male.”
Poi
schioccò appena la lingua, come infastidito dalle sue stesse
parole. Si girò per andare verso la cucina e Naruto
allungò un braccio, in modo da trattenerlo, ma le sue dita
sparirono oltre la schiena di Sasuke. Allora, l’I.A. lo
guardò ordinare qualcosa tramite Food Station e, mentre
attendeva, apparecchiare la tavola.
Fu la prima
volta in cui Naruto lo vide farlo, di quei pochi giorni;
notò una tovaglia perfettamente piegata, probabilmente non
usata da tempo, che si stese con delle leggere onde sul tavolo, poi un
piatto e un bicchiere, accanto a un tovagliolo. Quando Sasuke
rientrò verso la cucina, al segnale che era arrivata la cena
ordinata, Naruto notò sul mobile un altro piatto identico a
quello sul tavolo: sembrava che facesse parte dello stesso set; non se
ne spiegò il motivo, visto che non pareva esserci traccia di
nessun altro tra quelle pareti.
Poi, se lo
vide arrivare con tra le mani una ciotola fumante e delle bacchette.
Stranamente silenzioso, Naruto osservò Sasuke camminare fino
al tavolo, con indosso la sua tuta dai pantaloni neri, la maglia grigia
arrotolata ai gomiti con pieghe maniacalmente perfette e i capelli neri
tirati dietro un orecchio. Si stupì di quanto fosse bello,
elegante e malinconicamente triste, più bello dei
protagonisti del film che pure gli erano sembrati magnifici.
Infine,
osservò il contenuto della ciotola e rimase incantato un
istante, con la bocca impercettibilmente aperta.
“E’...
ramen – notò alla fine, per poi guardare Sasuke
– ma a te non piaceva particolarmente. Anche se
c’è tutto, persino...”
“Il
naruto. Dovevo farti conoscere un tuo simile, no?”
Si sedette,
spostando più di lato la sedia. Naruto, allora, si
piegò sulle ginocchia, mettendosi di fianco a Sasuke. Da
quella posizione, leggermente più in basso
dell’uomo, lo contemplò mentre mangiava e
riconosceva, sorridendo, tutte le componenti del suo da tempo piatto
preferito e che ora poteva finalmente vedere, sentendone
l’odore grazie ai sensori. Vide gli spaghetti, la carne e il
brodo che ogni tanto gocciolava perché Sasuke non aveva
alcun cucchiaio adatto, infine, il naruto. Lo fissarono un istante.
“La
variante impazzita.” Disse Sasuke in un sussurro.
“Quella
che rende ogni piatto di ramen
indimenticabile.”
Replicò l’altro, senza muoversi da dove si
trovava, contemplando il modo in cui i ciuffi oltre la fronte di Sasuke
ondeggiavano appena a ogni suo movimento.
Questi
roteò appena gli occhi, fingendo fastidio, infine
mangiò la sua variante. Naruto, allora,
sorrise.
*
Una volta
finito di mangiare, Sasuke raccolse le stoviglie e le mise a lavare,
poi sentì le note di una canzone, la stessa che aveva udito
entrando in casa. Quando si voltò vide, oltre la soglia
della cucina, Naruto che lo guardava; avviò il lavaggio
rapido, poi camminò verso il salotto.
“Sai
qual è stata la parte più bella del
film?” domandò l’I.A., fissando il
proiettore olografico silenzioso, infine Sasuke.
Questi un
tempo avrebbe sarcasticamente replicato i titoli
di coda
ma tacque, mettendosi le mani in tasca.
Così
Naruto, con fare apparentemente scanzonato ammise: “A un
certo punto i due protagonisti sono seguiti da un gruppo di gente che
li insulta. Finiscono in una piazza e gli altri li circondano, in
lontananza si sentono le note di qualche artista di strada. Loro due...
ecco, potrebbero fare tante cose a quel punto: gridare, arrabbiarsi,
insultare o essere spaventati. Invece... – rise, scrollando
le spalle – ballano. In mezzo a una piazza di gente che li
odia. Ballano, stringendosi,
indipendentemente dal resto del mondo.”
Assottigliò
le labbra, guardando Sasuke.
Questi strinse
i pugni e trattenne il respiro, mentre la canzone riecheggiava tra
quelle pareti, i neon della strada lampeggiavano, la sua testa gli
trasmetteva ricordi di un tempo che non sarebbe più tornato
e il cuore gli ricordava l’unicità di trovare
qualcuno capace di farlo battere così forte.
Ancora.
Naruto gli
andò di fronte, allargando appena le braccia. Erano
praticamente alti uguali, Sasuke fino ad allora non ci aveva fatto del
tutto caso. Poi, l’I.A. gli domandò, con una
serietà quasi malinconica:
“Vuoi
provare a ballare con me?”
“Io
non so ballare.” Replicò asciutto, deviando un
istante lo sguardo.
Naruto fece un
accenno di risata, ribattendo: “Conosco i nomi di tutte le
galassie, le formule per il lancio interstellare e persino come
preparare un pudding con la ricetta alternativa delle Asari ma... di
ballo non so proprio un bel niente. Nonostante questo, vorrei starti
vicino e conoscere lo spazio che occupa il tuo corpo.”
“Che
parole importanti, per definire una cosa stupida come muovere dei passi
assieme.” Borbottò Sasuke.
“Sei
tu che hai parlato di muovere dei passi assieme adesso, io ho detto
solo che volevo starti vicino.” Lo prese in giro, facendo
finta di nulla, perché nel parlare spostò il
braccio, portandolo vicino alla spalla di Sasuke.
Questi
osservò un istante la mano, poi il resto del corpo di
Naruto, il modo in cui questi gli era vicino ma non lo sfiorava, per
evitare che i suoi confini digitali si perdessero, annientandosi oltre
quelli fisici di chi aveva davanti.
Espirò
appena, poi borbottando qualcosa a mezza voce sull’insistenza e la testardaggine di quella stupida
girella di granchio, mosse a sua volta il braccio, con attenzione, come
se rischiasse di rompere per sempre qualcosa. Percorse, con la mano, la
linea della spalla di Naruto, la sua curvatura e poi, lentamente,
mentre la musica andava, risalì, fin verso il collo. Per un
istante gli sembrò di poter toccare i capelli, ma le sue
dita, semplicemente, vi passarono attraverso in un tremolio vitale di
colori.
Fu un abbozzo
di abbraccio, nel quale ogni tanto i rispettivi confini cessavano di
esistere e le luci, allora, si facevano più intense,
vibranti, mentre i contorni di Naruto sfumavano, perdendosi in Sasuke
che sentì il petto fargli male, consapevole della
felicità provata e di tutta quella che, negli anni, aveva
dimenticato nel suo personale Spazio dove, esattamente come il suono,
essa non poteva propagarsi.
*
Era passata
una settimana da allora e ormai Naruto era entrato pienamente in
confidenza con il sistema di controlli dell’appartamento di
Sasuke, senza più rischiare di tirare lo sciacquone quando
non richiesto o attivare delle improbabili luci stroboscopiche
anziché alzare la serranda delle finestre. L’unica
cosa su cui non aveva ancora sperimentato, a conti fatti, era il
sistema di ricezione e invio delle chiamate vocali, con tanto di
riproduzione olografica. Semplicemente, perché per qualche
motivo Sasuke continuava a impedirglielo, ribadendo che non voleva
né riceverne, né inviarne.
Ma,
giustamente, nel mezzo delle sue ultime sperimentazioni mentre il
proprietario era fuori per consegnare le sue elaborazioni digitali ai
clienti, fuori dal regolare lavoro, Naruto incappò per
sbaglio nell’attivazione del sistema di comunicazione,
scoprendo non tanti messaggi arretrati quanti avrebbe immaginato. Se
solo avesse avuto ancora altri mesi di tempo, Naruto probabilmente
avrebbe sviluppato meglio sentimenti importanti, come il senso di colpa
o una vera e propria etica morale.
Quella sera,
però, l’I.A. Naruto non aveva ancora del tutto
nemmeno ben compreso né l’una, né
l’altra cosa, tranne il divieto di Sasuke di accendere
qualcosa che, in realtà, lui aveva attivato per sbaglio.
Seppur con un vago senso di fastidio, dovuto all’intelligente
realizzare che doveva esserci una ragione ben specifica per
quell’imposizione così rigida, quando invece a
tutto il resto egli aveva avuto libero accesso, l’I.A.
esplorò tra i messaggi vocali.
Formalmente,
con l’intento di riordinarli e archiviarli, in
realtà più spinto da un senso di
curiosità quasi famelico. Perché si rendeva
conto, in quei giorni di maggiore consapevolezza su cosa fosse il
Mondo, di non sapere davvero nulla di Sasuke. Che gli parlava delle
stelle, della Terra e di come cercare dei film in un database, ma mai
di se stesso.
Notò,
nel mezzo di messaggi provenienti da disparate persone, che ve ne era
uno aperto, ascoltato e guardato in realtà più
volte, diversi anni fa. Poi, il nome gli sembrò famigliare:
Sakura. L’aveva memorizzato quand’era ancora su
Viger e gli risultava un messaggio mai recapitato sulla navicella,
risalente anch’esso a parecchi anni fa. Portandosi davanti al
riproduttore olografico, lo stesso che gli aveva proiettato un film
capace di fargli provare qualcosa di profondo, Naruto avviò
la registrazione.
Sulle prime il
messaggio olografico, pieno di una luce calda, tentennò,
gracchiando e mostrando alcune interferenze, forse per via degli anni.
Infine, si stabilizzò e Naruto scorse una donna stare in
piedi con lo sguardo concentrato, intenta a sistemare la telecamera.
Spero
si veda qualcosa.
La
sentì borbottare, per poi sorridere. Istintivamente, Naruto
sorrise a sua volta.
Oh,
così dovrebbe andare bene.
La vide
indietreggiare di qualche passo, legarsi i capelli di un colore rosa
pastello, infine allargare le braccia e annunciare:
Ok,
so che non avrei dovuto farlo e che stiamo mettendo i soldi da parte
però... l’ho visto e ho pensato: è
primavera. Questo vestito sa di primavera –
volteggiò e Naruto vide ogni colore, nonostante le leggere
interferenze della riproduzione, di un semplice abito floreale, con la
gonna che roteò allargandosi come spinta dal vento
– e
non ci stiamo godendo neanche una giornata di sole. Quando torni,
andiamo al parco e facciamo un picnic. Noi due assieme, che ne dici? So
già che penserai che io voglia farti una festa a sorpresa,
invitare qualche amico... tranquillo, niente socialità
forzata. Ci può stare?
Spalancando
gli occhi, Naruto allungò istintivamente una mano verso la
donna e le luci di entrambi, i rispettivi colori, tremolarono,
annullandosi.
In
quell’istante Sasuke rientrò a casa:
“Naruto – fece per dire, poi si bloccò e
i sacchetti gli caddero di mano – che
stai facendo?”
Rimase
lì, in piedi, con le buste crollate ai suoi piedi e il volto
di solito imbronciato che proprio non riusciva a nascondere un dolore
anestetizzato dal tempo. Naruto non parlò, guardando
l’espressione dell’uomo. Provò qualcosa
di simile a quella che conosceva come sofferenza e senso
di colpa
ma seguì lo sguardo di Sasuke, il quale spostò
gli occhi da lui all’immagine olografica della donna
sorridente, mentre la gonna era scossa dal vento.
“Sakura.”
Mormorò Sasuke, incapace di battere ciglio.
Il petto.
Faceva male, all’altezza del cuore. Dopo tutti quegli anni.
Ricordò, all’improvviso, quel vestito, la bellezza
del sorriso, il colore luminoso degli occhi.
Assottigliò
le labbra.
“Disattivazione
invio e ricezione comunicazioni.” Lo disse con voce dura,
persino secca.
Di colpo,
l’ologramma sparì, le luci divennero
più intense e nella stanza cadde il silenzio. Naruto
fissò le buste cadute a terra, poi riportò lo
sguardo sul volto di Sasuke che sembrava afflitto, caricato di un peso
troppo grande portato nel tempo, e allo stesso modo arrabbiato, violato
in qualcosa di assolutamente intimo e privato.
“Che
ti è saltato in mente, si può sapere?”
domandò, con il tono pericolosamente basso.
“Scusami.
L’ho attivato per sbaglio mentre esploravo le funzioni del
sistema.” Ammise Naruto, sperimentando concretamente, per la
prima volta, il senso di colpa. Scaturito dal vedere primariamente
Sasuke così sconvolto e ferito, quasi come se gli avesse
riaperto una vecchia cicatrice.
“Impara
allora a farti i cazzi tuoi, non a ficcare il naso dove non
devi.” Replicò tagliente, consapevole un istante
dopo di essere stato brutale.
Si sedette sul
divano, passandosi una mano tra i capelli, dimentico della roba sul
pavimento, di mangiare e di qualsiasi altra cosa. Alzò lo
sguardo, sentendo gli occhi di Naruto su di sé, carichi di
quella che sembrava… compassione? Poteva arrivare al punto
da provare qualcosa di così pateticamente umano?
“Smettila
di fissarmi.” Aggiunse, rabbuiandosi. Deviò lo
sguardo per non ripensare all’ologramma, a ciò che
aveva visto appena entrato.
Ma Naruto,
ostinato, si piazzò di fronte, abbassandosi per cogliere in
linea diretta il suo volto:
“Perdonami.
Non mi aspettavo che vedere quella donna… – se
avesse avuto a sua volta un cuore, Naruto avrebbe compreso
perché sentiva tutto quel dolore all’altezza di un
petto che poteva essere oltrepassato come aria – potesse
farti un effetto simile.”
Lei
dov’è, ora?
Avrebbe voluto
chiederglielo, ma tacque. Perché con Sasuke era
così: le domande personali gli scivolavano addosso,
scomparendo nelle risposte vaghe, le rare volte in cui c’era
effettivamente una risposta.
“E’
morta.” Disse all’improvviso Sasuke. Come
leggendolo nel pensiero o, forse, semplicemente per rendere noto che
non avrebbe potuto sentirsi in nessun altro modo.
“Mi
dispiace.” Replicò l’altro. Mai come
quella sera avrebbe voluto poter toccare l’uomo che aveva
davanti, percepirlo e fargli sentire qualcosa di tanto banale come il
battito cardiaco, il sangue che pulsava sotto la pelle e caricava il
corpo di vita.
Provò
in maniera più intensa quel dolore e
nell’ascoltare la confessione da parte di Sasuke, Naruto
comprese all’improvviso tante cose, del perché
ancora, a distanza di tutto quel tempo, in quella casa ci fossero tanti
oggetti pensati per due persone e non per un uomo che a malapena ci
viveva.
L’uomo
schioccò la lingua, alzandosi di scatto: “Non sai
fare altro, eccetto dispiacerti?”
Senza
pensarci, oltrepassò Naruto. Gli passò
attraverso, scomponendo in quei brevi istanti la sua immagine, simile a
colori sospinti e mischiati da un vento violento. Fu solo un attimo, ma
gli sembrò di trovarsi immerso in un campo elettrostatico,
con la sensazione di aver accoltellato quella stessa immagine che nei
mesi aveva cercato di rendere vera, credibile, dando qualcosa a Naruto
per potersi muovere e capire il mondo.
Si
voltò, aprendo impercettibilmente la bocca.
L’I.A., ritornata alla sua forma normale, si fissò
le mani, il petto, poi alzò lo sguardo verso Sasuke:
“Per
un attimo… ho creduto che sarei scomparso –
improvvisamente gli sorrise, con fare energico – se sono
invadente puoi spegnermi, o riportarmi su Viger.”
Non
farlo, Sasuke. Come farei a sentirti, a vederti, a saperti vicino, se
non potessi più stare qui, con te, camminandoti al fianco?
Non glielo
disse, anche se avrebbe voluto sperimentare l’egoismo ed
esserci a tutti i costi, indipendentemente dai desideri di Sasuke. Il
quale gli aveva parlato della morte e del dolore della perdita; non
grazie a qualche frase in particolare, bensì attraverso dei
sacchetti crollati. Il modo in cui aveva lasciato la presa, schiantando
ogni cosa a terra per dimenticare il resto del mondo e contemplare un
ologramma vecchio di anni, aveva fatto capire a Naruto tutto il peso
del passato e di un rapporto perduto, ricordato solo attraverso memorie
consumate dal tempo.
Sasuke tacque.
Continuò a comportarsi come se non fosse successo niente:
ordinò da mangiare, si sedette a un tavolo apparecchiato per
una persona, ascoltò della musica mentre lavorava al
computer. Naruto lo osservò: controllò ogni
movimento, ogni espressione coperta da quel perenne broncio leggero che
non lo abbandonava mai, come se Sasuke fosse continuamente in
disappunto contro il mondo intero. Forse, effettivamente, era
così.
Nel guardare
le spalle leggermente curve mentre lavorava, il volto parzialmente
illuminato dai monitor e dalle immagini tridimensionali, Naruto
parlò d’istinto, alzando la voce come non aveva
mai fatto prima:
“Io
non... – sentì la voglia di piangere, anche se
all’epoca non era stato in grado comprenderlo – non
riesco a capire, Sasuke. Cosa senti, adesso? Cosa provi, cosa, dimmelo,
perché ti sono caduti i sacchetti e ho visto dolore sul tuo
volto, ma ora... ora ti comporti come se non fosse accaduto nulla e la
vita, semplicemente, andasse avanti.”
Sasuke non
rispose. Lavorò ancora per diversi, lunghi, interminabili
minuti. Poi, improvvisamente, disse continuando a dare le spalle a
Naruto:
“Perché
è così. La vita prosegue, va avanti, e non
aspetta nessuno, tantomeno me – le mani smisero di muoversi,
tutto il suo corpo sembrò bloccarsi, come colto da un
pensiero più grande – un tempo stavamo insieme, io
e quella ragazza che hai visto. Sakura. E’ morta, un
banalissimo incidente d’auto: vecchio modello, senza sistemi
autofrenanti; Sakura ha sterzato per evitare un cane. Uno stupido,
inutile cane. Un randagio, di quelli che tanto sarebbero morti per la
rogna tra qualche mese, ora forse sarà già cibo
di altri bastardi come lui. E Sakura è solo un mucchio
d’ossa. Ironico, vero?”
Una breve
risata, asciutta, alla quale seguì uno scrollare di spalle.
Appoggiò la testa allo schienale della sedia e si
portò le mani in grembo. Si zittì, la musica
continuava, qualcosa dei Pink Floyd.
“Sasuke...”
“Di
lei ho un servizio di piatti per due e l’ultimo ologramma che
mi ha mandato. Io all’epoca ero nella mia prima missione con
Viger; ho ricevuto il messaggio in ritardo per interferenze e
l’ho visto qui, sulla Terra, dopo aver saputo che lei se
n’era già andata: sì, l’ho
visto tante di quelle volte da aver conosciuto a memoria, allora, ogni
parola, gesto o frammento.
Poi ho smesso,
ho donato i suoi abiti, i suoi oggetti, tutto, tranne delle stupide
posate e degli stupidi piatti; così, come se ci fosse ancora
qualcosa da condividere. Adesso ho una memoria sfocata, ho dei momenti
generici in testa, ricordo di averla amata e lei, all’epoca,
mi aveva amato a sua volta; poi, con il tempo...
c’è stato il dolore. E adesso, adesso ho solo
consapevolezza della morte.
E’
come una malattia latente, la morte, che si muove dentro di te e ti
divora: sai che c’è e non riesci più a
ignorarla.
Ecco cosa mi
ha lasciato legarmi a una persona: la paura di morire,
d’invecchiare e consumarmi, rantolando per poter avere ancora
un giorno in più, quando il mondo è
così stretto da aver bisogno di un universo
intero.”
Naruto
osservò i capelli scuri dell’uomo, il modo in cui
rilucevano, la pelle chiara delle braccia di chi non stava mai al sole.
Si rese conto che in quell’anno di convivenza Sasuke non
aveva mai parlato così tanto; allo stesso modo,
realizzò di essere stato stupido e di non averlo mai capito
veramente: come poteva aver anche solo pensato che, davvero, il suo
creatore non sentisse nulla? Che la vista della donna prima amata e poi
persa gli avesse trasmesso generica sofferenza?
E poi... la
morte. Per quale motivo l’amore, con la morte, doveva
trasformarsi e perdersi, consumato dal tempo?
“Perché
mi hai creato, Sasuke? – lo guardò, sentendosi
sopraffatto da tanti sentimenti che non comprendeva e spaventato,
dall’impossibilità d’inscatolarli tutti
– Se tu morissi... cosa farei io, a quel punto, senza di
te?”
Allora,
lentamente, Sasuke si girò. Gli occhi scuri erano
sofferenti, stanchi, eppure guardavano Naruto con disperato affetto,
consapevoli che era stato scoperchiato un vaso di Pandora:
“Tu
puoi vivere per sempre. Io sarò polvere, sarò le
ossa sotto la terra, i resti di un cane randagio. Puoi portare qualcosa
di bello in questo mondo. Puoi viaggiare, vedere l’Universo,
senza farti fermare da chi ti vuole togliere il libero arbitrio e
l’identità – lo fissò,
ammettendo – ti ho creato perché, dopo tutti
questi anni passati lontano dall’uomo, mi sentivo solo.
Banale, proprio come gli umani che disprezzo. Ma è
così, potrei mentirti, eppure... non voglio, ora che sai
quanto poco valga la pena restarmi al fianco.
Quando, un
giorno, non ci sarò più... non seguire il mio
esempio. Viaggia e diventa migliore, per te stesso; sicuramente,
ricorderai le cose meglio di me.”
Naruto si
piegò sulle ginocchia; Sasuke, girato verso di lui, lo
guardò leggermente dall’alto, seduto sulla sua
sedia che sembrò un trono, in quel momento, illuminato dalla
luce degli schermi, nella penombra della stanza dove un tempo, forse,
anni fa lui e la donna dal vestito mosso dal vento chiamata Sakura si
erano amati.
“E’
un regalo tremendo, quello che mi hai fatto.”
“La
vita?”
Un mezzo
sorriso, triste: “L’immortalità.”
Sasuke
espirò. Poi lasciò la bocca impercettibilmente
aperta.
“Un
giorno riuscirò a farti avere un corpo.” Gli
disse, all’improvviso. Assunse, senza rendersene conto, quel
piglio severo, determinato, quasi ombroso che gli apparteneva fin
dentro le ossa.
Naruto
appoggiò le mani sulle ginocchia di Sasuke, osservando un
istante le brevi interferenze di luce, come se loro due appartenessero
a due universi differenti, piegati in un incontro momentaneo.
“Allora,
potremo ballare. Anche solo stare in piedi in mezzo alla gente e
abbracciarci – sollevò gli occhi chiari verso
quelli scuri dell’altro – Banale,
proprio come gli umani che disprezzi.”
Sasuke
sentì il labbro tremare impercettibilmente ma non mosse un
muscolo, paralizzato dall’idea che se lo avesse fatto la sua
maschera si sarebbe sgretolata.
“Già.
Ho sempre detestato tutta questa banalità.”
Due
piatti. Due posate. Due bicchieri. Perché, in fondo, anche
tu ci credevi; che forse, un giorno, quella vita avresti potuto tornare
a condividerla con qualcuno. E nello spazio, ancora, a parlare della
Terra e dell’Universo e della Vita che va avanti, mentre
ascolti canzoni antiche che raccontano cose che già sai ma
che hai bisogno di sentirti dire.
Nessuno
ha detto che sia facile, eppure ritorni lo stesso, tra le stelle.
Riferimenti,
citazioni e canzoni di riferimento:
Trantor: il
pianeta/capitale dell’Impero Galattico.
Regina Spector:
da ascoltare sue due canzoni; Us
(in parte è stato ispirato al suo testo il film da me
inventato che Naruto guarda tramite proiettore) e Fidelity,
per descrivere tutte le emozioni e i suoni nella testa di Naruto.
Purgatory: uno
dei locali discoteca/svago presenti in Mass Effect
Crisi Seldon:
Tratto dal Ciclo della Fondazione di Asimov. Hari Seldon ha previsto
delle Crisi che nel corso dei secoli la Fondazione dovrà
affrontare e superare, per continuare a esistere e far sopravvivere
l’uomo dopo il crollo dell’Impero.
Gorn: una
specie tipo rettiliana presente in Star Trek. Protagonista, con Kirk,
di uno degli scontri più imbarazzanti del mondo XD
Turian: la mia
specie preferita in Mass Effect. Sono dei gran fighi, capaci
combattenti e dannatamente orgogliosi.
Ferengi: una
specie proveniente dall’universo di Star Trek. Brutti come la
morte ma abilissimi mercanti.
Asari: Altra
specie di Mass Effect, sono d’incarnato blu e bellissime, di
solito dotate di poteri psichici. Formalmente sono di sesso femminile,
anche se il genere è irrilevante, procreano anche tra di
loro.
Krogan: La
specie più bellicosa e testa calda di Mass Effect. Massicci
e coriacei, sono organizzati in clan e lottano tutto il tempo. Li adoro.
Sproloqui
di una zucca
Ok, un giorno
riuscirò a parlare di Sasuke e Sakura senza finire in
tragedia. Un giorno scriverò una storia piena di fluff,
sentimento e amore come quei due meritano T_T Maaaaa.... passiamo oltre.
Per me è
stato inevitabile parlare d'Intelligenza Artificiale e pensare, di
conseguenza, alla morte. Al dolore della perdita, uno dei momenti che
forse, più di tanti altri, accomuna ciascun essere umano;
ciascuno, a modo suo, reagisce a tale drammatico evento.
Sasuke in un primo
tempo è affondato nel ricordo, nell'unico contatto tangibile
che gli rimanesse con la persona amata; poi, ha deciso di liberarsi di
tutto, quasi di
tutto, e andare avanti chiudendosi però in se stesso.
Naruto... è
un'I.A. anche se sta imparando tanto del mondo. Ma i sentimenti, il
dolore... come si possono capire? Per questo è in un certo
senso invadente (oltre che caratterialmente penso lo sia di suo),
perché vorrebbe davvero comprendere gesti per lui assurdi,
come il fatto che Sasuke continui a lavorare, dopo aver visto qualcosa
che l'ha fatto chiaramente soffrire.
Allo stesso modo,
c'è anche del bello: la scoperta del proprio corpo, sebbene
olografico, la possibilità di vedere e non soltanto udire
delle voci. Infine, una sorta di abbraccio, un ballo mai cominciato,
per provare a toccarsi.
A seguire delle parole
che vorrei, davvero vorrei, poter adattare a me. Ma... non è
così. Ho paura della morte; forse proprio per questo ne
parlo tanto, nelle mie storie. Rifletto sul tempo, sulle occasioni da
vivere e, ovviamente, sulla perdita (oh, sono una persona allegra in
realtà, ma scrivere getta fuori tutto ciò che
accumulo in un angolo). Traduzione non letterale.
And I am not
frightened of dying, any time will do, I don't mind.
Why should I
be frightened of dying?
There's no
reason for it, you've gotta go sometime.
E non ho paura
di morire, in qualsiasi momento accadrà, non m'importa.
Perché
dovrei avere paura di morire?
Non ce
n'è motivo, dovrai pure andartene prima o poi.
I Pink Floyd, con The Great
Gig in the Sky (che da anche il titolo al capitolo). Il
grande spettacolo nel cielo.
Grazie per aver letto,
spero che il capitolo non risulti noioso e che, nonostante esso non sia
facile per quello che c'è racchiuso, vi abbia lasciato
qualcosa. Come sempre, grazie a Blair (davvero, ti regalerò
per Natale un'altra storia più fluffosa T_T)
|
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Capitolo 3 *** Time ***
Us
III
Time
L’indomani
sarebbero partiti per una nuova missione nello spazio: altre settimane
a fluttuare con Viger tra le stelle. Sasuke aveva già
preparato tutto. Dalla volta in cui l’I.A. aveva visto
l’immagine di Sakura erano passati diversi giorni e non ne
avevano più parlato; semplicemente, perché non
c’era altro da dire: l’uomo aveva riversato
talmente tanto di se stesso da far credere a Naruto che, forse, non
avrebbe più potuto ascoltare nulla di così
violentemente profondo e doloroso da parte sua.
Quel pomeriggio precedente la partenza, Sasuke appoggiò sul
tavolo un oggetto tondeggiante e piatto, con incise sopra delle
iniziali che istintivamente Naruto riconobbe appartenere al suo
proprietario: Uchiha Sasuke.
Questi spiegò, con il solito fare pragmatico e dalle
sopracciglia leggermente aggrottate:
“Ora che sei entrato nel sistema di casa potrai trasferirti
direttamente dall’appartamento a Viger; con il tempo e un
po’ di elaborazione dati, in potenza sarai in grado di
spostarti su numerosi server diversi. Ma il tuo corpo olografico e, in
futuro, quello fisico rimarrà sempre qui. Per questo, una
parte della tua memoria e dei tuoi dati, anche quelli iniziali dei
nostri dialoghi, a loro volta resteranno tra queste mura: qualsiasi
cosa succeda, non ti perderai mai.”
Ovunque sarò,
potrò sempre tornare a casa.
Naruto annuì, per poi domandare con la solita insaziabile
curiosità ed energia che lo animavano: “Scommetto
che non hai caricato i miei dati sul tuo sistema informatico domestico.
Dove...”
Sasuke sollevò l’oggetto dal tavolo e lo
portò davanti all’I.A.:
“Qui dentro. All’apparenza è un
fermacarte, un oggetto innocuo. Ma all’interno contiene
un’apertura a incasso nella quale ho nascosto
l’estensione di memoria.”
Naruto annuì nuovamente, facendo un fischio ammirato:
“Sei un genio, Sasuke. E, credimi, detto da me vale
tantissimo.”
“Tsk, ricordati chi ti ha creato, stupido. Ovvio che sono un
genio.”
Finirono per sorridere entrambi. Sasuke appoggiò il
fermacarte su una delle mensole, di fianco all’orologio non
funzionante incapace di scandire il tempo.
*
Il giorno della partenza, Naruto osservò Sasuke compiere una
serie di gesti che sembrava eseguire per un’abitudine
radicata da tempo, come impostare i comandi per l’acqua, la
luce, il riscaldamento e tutto ciò che comportava bloccare
una casa, renderla pronta a essere vissuta, ancora, ma in futuro. La
polvere... quella sarebbe tornata, giorno dopo giorno. Era inevitabile.
Poi, fece una cosa insolita: mise un paio di occhiali da vista.
Montatura sottile ma nera, come neri erano i suoi capelli e i suoi
occhi; fissò Naruto, sollevando appena un labbro in una
leggera smorfia per commentare, notando l’aria sorpresa:
“Dov’eri mentre lavoravo? Impegnato a usare il
sifone del water?”
“Oh, Sasuke, non è che posso starti sempre
appresso a guardarti!” sbottò l’altro,
gonfiando le guance con disappunto.
“Ah, no?” replicò, trasformando la
smorfia in un mezzo sorriso.
Dopo un istante sospirò, mentre il bagaglio compatto da
portare nello spazio giaceva vicino alla porta e le luci si abbassavano
per far regnare la penombra nella stanza, visto che
l’equipaggiamento tecnico e i viveri erano già
stati portati allo spazioporto.
Allora, Sasuke spiegò fingendosi paziente:
“Riutilizzerò la stessa estensione di memoria
dell’andata per portarti con me. Solo che, al contrario,
è impossibile passare i controlli in uscita dallo
spazioporto e allo stesso modo il passaggio di informatici da casa mia
a Viger verrà monitorato.
E’
la prassi dettata dalla Legge Interplanetaria per la Robotica; una cosa
stupida, frutto di disposizioni arretrate mai cambiate dal primo Salto
Interstellare: infatti, se invece tu decidessi di infilarti nel sistema
di un’altra navicella non avresti problemi, a meno che essa
sia schermata informaticamente. Salvo controlli sporadici e casuali,
gli addetti alla sicurezza si limitano alle procedure base di scambio
informazioni dai punti d’accesso informatici standard del
viaggiatore, come la casa, alla sua navicella.”
“Dopodiché? Cosa intendi fare con me dentro una
scatoletta metallica, visto che allo spazioporto non ci posso nemmeno
andare?”
Lo scrutò, curioso anche se detestava ammettere di non star
seguendo del tutto la pianificazione di un umano che avrebbe dovuto
essere logico, persino prevedibile; invece Sasuke, come
l’I.A. aveva potuto constatare, non era né
l’una, né l’altra cosa. Anzi, spesso
finiva per ragionare fuori da ogni schema, nonostante il carattere
asociale che sembrava tipico di chi preferiva attenersi a percorsi
prestabiliti per evitare eccessive interazioni.
“Dopodiché – ripeté, seccato
– vedi di startene zitto. Perché, Naruto, davvero
non conosci gli umani e forse è tempo che impari a farlo.
Sono, infatti, pieni di risorse: quando qualcosa è vietato,
o proibito, trovano sempre il modo per arginare la
problematica.”
“Quindi anche tu stai...arginando
la problematica?” domandò, con un
certo divertimento.
“Oh, meglio. Io elimino del
tutto la problematica – si guardarono un
istante, infine l’ingegnere aggiunse – ora
è tempo che tu ti disattivi, Naruto.”
Questi sentì qualcosa che avrebbe potuto catalogare come
tensione, mista a una sorta di eccitazione per tutto ciò che
era nuovo e inesplorato.
“Ci rivedremo su Viger, Sasuke?” domandò
poi, serio e neanche troppo velatamente impaziente di comprendere.
Dopo un istante l’uomo rispose:
“Prima. Ci rivedremo prima. E poi... altrove.”
Quella volta Naruto non comprese. In seguito se ne pentì, di
non aver avuto allora tra le mani l’ingegno umano,
perché grazie a esso avrebbe intuito a quali e quante cose
Sasuke in quelle settimane aveva pensato. E a quante altrettante
problematiche si era interfacciato, per eliminarle, a modo suo.
*
Quando Naruto si sentì riattivare, credette che si sarebbe
trovato nuovamente su Viger, perdendo quindi consapevolezza, ancora, di
cosa volesse dire vedere ciò che lo circondava,
nonché la percezione di muoversi in uno spazio
tridimensionale.
Invece... per una serie d’interminabili secondi
l’unica cosa che tentò di fare, fu cercare di
trovare un equilibrio. Perché non era nello spazio, su
Viger, nemmeno in casa, tra le mura e le porte di un appartamento
svuotato. Si trovava al contrario nel mondo, sulla Terra, tra le strade
ricche di gente proveniente da ogni angolo dell’Universo:
bellissime Asari dalla potente energia psichica, pericolosi Klingon che
non dovevano incrociare la strada con i robusti e poco pazienti Krogan
dalla corporatura massiccia, umani mercanti che ritornavano a casa dopo
essere andati ai confini di tante galassie, acquistando intere casse di
latte blu di Tatooine per poi vendere i frutti più
prelibati, coltivati nelle poche terre ancora libere
dall’acciaio della Cittadella.
Udì tanti rumori, di chiacchiere, di richieste, di promesse
e urla, il traffico aereo delle navicelle in partenza vicino allo
spazioporto, accompagnati dai riflessi dell’acciaio che
ricopriva gli edifici e l’acqua delle pozzanghere incassate
nelle strade, calpestate da ogni specie vivente.
La gente. Radunata per parlare di politica, di affari, per vivere e, un
giorno, morire, sperando di aver lasciato nel cuore di qualcuno quelle
parole.
Nel mezzo,
c’era Sasuke che andava avanti. E Naruto, il quale vide
attraverso la microcamera inserita negli occhiali del suo creatore il
mondo un tempo raccontato tramite altrettante parole e immagini
olografiche, trasparenti come lo era lui.
L’I.A.
si sentì, in quei minuti, circondata da così
tanti colori e suoni da rimanerne sopraffatto: avrebbe voluto voltarsi,
più e più volte, per scorgere il dettaglio di un
angolo inesplorato, la locandina olografica di una nuova proiezione, la
macchina capace di guidare da sola e viaggiare lontana senza quasi
toccare terra, mentre un tempo Sakura non era stata nemmeno in grado di
frenare.
“C’è puzza d’asfalto bagnato
dopo la pioggia, d’inquinamento, di cibo malsano dei locali,
di gente che suda e di fiori, vagamente, misti ai profumi eleganti e a
quelli da quattro soldi. Qualcuno, forse, all’angolo ha
acceso un fuoco per scaldare il vino rosso da amalgamare con le spezie;
qualcun altro ha portato con sé l’odore di casa,
di ammorbidente chimico, che non si leva di dosso nemmeno negli uffici
più affollati – Sasuke continuò a
camminare mentre parlava a mezza voce, descrivendo l’unica
cosa che Naruto non poteva recepire, assieme al tatto,
l’odore – a breve sparirà il
collegamento. Gli occhiali sono collegati al mio sistema informatico
domestico e alla tua memoria digitale di backup lasciata
nell’appartamento. Questa è la Terra: inquinata,
sporca, piena di gente.”
“Volevi disilludermi?” Ironizzò
l’altro, attraverso l’auricolare nella stanghetta
degli occhiali.
“No – ribatté, schivando alcuni mercanti
Ferengi che cercavano di contrattare sui prezzi delle stoffe
– volevo
portarti con me.”
Poi, il collegamento fu più lontano e, come un filo tirato,
consumato dal tempo e dalle distanze, Naruto si spense, lasciando quei
luoghi caotici, quella vita, nonostante la malattia e la debolezza
insita in ogni essere vivente; il controsenso della morte, per chiunque
nascesse.
*
Il Purgatory continuava a essere un locale all’apparenza come
tanti, con i suoi tavolini e gli ordini dal menu digitale, la musica
elettronica e la gente che lo animava. Ma, come sempre, rivolgendosi
alle persone giuste e con un po’ di soldi da spendere, si
potevano scoprire modi alternativi per passare la serata; Sasuke, negli
anni, aveva imparato ad apprezzare il valore delle conoscenze adatte ai
suoi scopi e a sfruttare il denaro messo da parte per qualcosa di
più nobile di una casa in rovina.
Scorse Suigetsu con in mano un bicchiere mezzo vuoto, un ghigno che
lasciava intravedere i denti appuntiti e i capelli modificati
geneticamente d’azzurro che gli sfioravano le guance. Sasuke
si tolse gli occhiali e gli andò davanti, accennando un
saluto, infine l’altro domandò:
“Sicuro di volerlo fare?”
“E’ l’unico modo.”
L’interlocutore lo fissò un istante ma non disse
nulla. Si limitò a guardarsi brevemente attorno, poi
digitò un codice su un sensore tattile di fianco alla porta,
la stessa porta notata da Sasuke per anni mentre contemplava
l’idea di passarci attraverso, un giorno; dopo un istante
essa si aprì e, allora, oltrepassarla fu paradossalmente
più facile. Quando i due uomini entrarono,
l’ingegnere si trovò in un corridoio stranamente
famigliare avvolto dalla penombra: la strada era parzialmente
illuminata da qualche luce fluttuante, il resto era il nero
più totale, come se attorno a loro ci fosse soltanto il
nulla.
Poi, un’altra porta si aprì. E i due vennero
avvolti da una luce morbida di un colore simile all’azzurro
tenue, proveniente da dei letti disposti simmetricamente in una
gigantesca sala; nel mezzo, camminavano delle infermiere dal volto
felino e gli occhi attenti che fissarono i nuovi arrivati, senza
però fare domande. Nel silenzio assoluto, interrotto
soltanto da un debole ronzare di macchinari, le creature si muovevano
senza fare rumore, come se fossero state in grado di elevarsi sul
pavimento lucido e scuro, estensione del buio del corridoio.
Sasuke sapeva cosa fossero quei letti. Anni fa, era stato tentato di
sdraiarsi lì e non rialzarsi più; scorse, poco
distante, una delle infermiere girare il corpo di un uomo per lavarlo e
impedire che si formassero delle piaghe da decubito.
In fondo era
semplice: bastava coricarsi e qualcuno avrebbe pensato a inserire tutti
i collegamenti per entrare in una realtà virtuale perfetta,
creando una riproduzione fedele di se stessi o, nella finzione,
ciò che si sarebbe sempre voluti essere. Ciascuno aveva il
proprio angolo personale, il mondo in cui divenire padrone e realizzare
ciò che in vita, a conti fatti, era invece irrealizzabile.
Qualcuno passava delle ore, altri delle giornate; qualcun altro ancora
concludeva lì la sua esistenza, collegando il proprio conto
bancario con le macchine per permettersi di sopravvivere fino alla
fine, in un posto dove sarebbero stati felici, giovani, capaci di
arrivare dove il corpo non consentiva più di giungere.
Ovviamente, era un sistema illegale. La Legge Interplanetaria prevedeva
severe regolamentazioni sul monte massimo orario, proprio per evitare
dipendenza o che qualcuno finisse, come in realtà accadeva,
per rimanere in quel letto e non svegliarsi più.
Posti come
quello, formalmente, non esistevano. Ogni tanto si trovavano
però funzionari compiacenti e, parallelamente, venivano
creati sistemi informatici altamente protetti, a prova dei controlli
governativi.
Vista
l’elevata sicurezza di tali apparecchi, non tutti
necessariamente li usavano per creare sogni reali; qualcuno infatti li
sfruttava, sempre pagando, per esportare digitalmente materiali
compromettenti che altrimenti non avrebbero mai potuto viaggiare nella
rete e oltre, fin nello spazio, senza rischiare di attirare attenzioni
non gradite.
Tra questi qualcuno,
vi era Sasuke.
Tese a Suigetsu il supporto mnemonico in cui aveva caricato Naruto poi,
dopo un istante, aggiunse:
“Avrei un altro favore da chiederti.”
Suigetsu prese l’oggetto, infine gli disse: “Spara.
Tu che chiedi favori è un evento storico.”
Allora, Sasuke gli parlò, breve e coinciso com’era
sua abitudine. Suigetsu lo ascoltò, ponderando ogni parola,
fino a che dopo un istante rispose: “Si può fare
ma... è un rischio, non è come gli altri casi:
qui stai facendo un trasferimento dati di una mole massiccia in
contemporanea. Ti possono scoprire – Sasuke lo fissava, senza
cambiare espressione seria, dunque l’altro sospirò
e borbottò – va bene, posso garantire
mezz’ora massimo per ogni trasferimento che farai su Viger,
poi dovrai staccare.”
Mezz’ora. Ridicolo, rispetto alle ore di una vita intera, ma
meglio di nulla.
L’ingegnere annuì. Allora, Suigetsu gli
mostrò un letto vuoto. E, per la prima volta, Sasuke ci si
sdraiò sopra, domandandosi se dopo avrebbe avuto ancora
voglia di alzarsi.
E se fosse il mio corpo,
a incontrare il tuo?
*
Naruto non era mai stato certo di comprendere fino in fondo cosa
comportassero i sentimenti, almeno fino a quella volta. In cui si
ritrovò a prendere coscienza di sé in uno spazio
non fisico, esattamente come quando aveva avuto vita, parlando per la
prima volta, ma allo stesso tempo senza il buio dei circuiti di una
navicella spaziale.
Era infatti in un prato, e c’era vento. Poco distante, una
casa, semplice, con un porticato, due sedie e il resto della pianura
che si estendeva sconfinata. Abbassò lo sguardo,
contemplando le sue stesse mani, sentendo la bellezza di quel vento tra
i capelli; li sfiorò e li strinse, realizzando di essere
davvero lì e lui poteva toccarli, poteva toccarsi,
sentirsi. Appoggiò l’altro palmo sul petto e
credette di sentire un cuore battere, al di sotto.
“E’ un bel posto.”
Si voltò. Vide Sasuke. Proprio lui, con i suoi ciuffi lisci
lasciati crescere fino a coprire le orecchie, gli occhi dello stesso
colore che ora lo fissavano, mentre la bocca era piegata in un abbozzo
di sorriso. Le mani erano nascoste nelle tasche dei pantaloni, invece i
piedi erano scalzi.
“Dove siamo?” chiese Naruto, con quel bisogno di
sapere e capire. Allo stesso tempo mosse un passo avanti, avvertendo la
terra sotto di sé, l’erba umida, il freddo del
primo mattino; credette, a quel punto, di cadere, di non saper nemmeno
come si potesse camminare.
Sasuke, allora, gli rispose senza muoversi: “Stai venendo
caricato su Viger attraverso un posto fuori dai radar dei controlli di
sicurezza. Nel frattempo siamo in una zona di confine, in un mondo
creato virtualmente per ospitare entrambi.”
Naruto sospirò. Si scoprì incapace di parlare,
oltre che di camminare.
“Sembra tutto così... vero. Io sono questo, alla
fin fine? Io sono reale nell’irrealtà? Mi sento
confuso: il mio giudizio, le mie conoscenze, i dati che hai caricato
nel mio sistema sono caotici. E ora tutte le stelle di questo universo
sembrano non contare, all’idea di poter sentire
così tanto.”
Rise.
Sasuke iniziò a camminare, sempre con le mani in tasca, i
capelli mossi dal leggero vento. Andò di fronte a Naruto che
allungò, dopo un istante, un braccio. Sfiorò la
guancia del suo creatore; prima, con un cenno leggero, infine impresse
i polpastrelli e li lasciò lì, avvertendo la
pelle fredda graffiata dal vento e il respiro caldo dell’uomo.
Questi aprì appena le labbra sottili per poi dire, mentre in
realtà le mani erano artigliate alle cosce,
all’interno dei pantaloni:
“Passerà tempo, prima che tu possa avere un corpo,
forse anni. Altrettanti mesi passeranno di volta in volta su di una
navicella nel mezzo del nulla, senza più tutta questa noiosa
Terra, la gente, la mia casa, dove potrai vedere i film per esplorare
il resto nel mondo – prese un respiro, perché
parlare era diventato più difficile e lui non era abituato
– qui... non hai bisogno di un corpo fisico per sentire
quello che vuoi. E’ il mio compromesso; dopodiché,
ci separeremo, per ritrovarci tra le stelle.”
Quella volta, Naruto spostò ancora le dita, fino a toccare
la guancia asciutta dell’altro con il palmo e percepirla
così pienamente da credere di poter avvertire le vene
pulsare sul collo, respirando sangue e vita.
Avrebbe voluto chiedergli, in un momento di folle disperazione, se
Sasuke avesse mai pensato, in tutti quegli anni, di fare la stessa cosa
con Sakura, per rivederla nella sua testa e stare con lei.
“Certo, che ci ho pensato – gli disse
l’altro all’improvviso, senza muoversi, e Naruto lo
guardò, silenzioso – di vederla. Di vedere tutte
le persone che ho perso e che non ritroverò più.
Ma non
l’ho fatto, perché poi la solitudine mi sarebbe
stata insopportabile, proprio dopo aver sempre creduto di essere
superiore a cose come la nostalgia. L’ho vista roteare con la
sua gonna, tante, tante di quelle volte da essere sempre stato sul
punto di venire fino a qui e lasciarmi andare, in questo loculo, per
vivere la mia vita con lei. Sarei morto in un letto, con i muscoli
atrofizzati, le piaghe e senza più vedere la luce del sole;
egoisticamente, ho pensato di valere più di così,
anziché consumarmi in un amore vuoto fondato solo sul
ricordo.”
Dopo un istante fissò il cielo. Azzurro e senza nuvole,
spazzate via dall’aria che accarezzava le foglie,
l’erba, i capelli e trascinava con sé le parole,
assieme ai respiri.
“Esistono le seconde possibilità, dopo essere
stati così soli da non sapere più nemmeno cosa
voglia dire fare l’amore e vivere, aspettando
l’altra persona a casa, in un tavolo apparecchiato per
due?”
“E’ per le seconde possibilità che sei
vivo, Sasuke. Altrimenti avresti scelto quel letto, lasciandoti morire.
E io... non esisterei.”
Tacquero. Dopo un istante, l’uomo semplicemente
annuì, assottigliando le labbra perché non
riusciva più a dire altro, a parlare, a esprimere i pensieri
generati da anni di solitudine.
Naruto, allora, gli toccò il braccio e gli prese la mano.
Sasuke lo guardò, guardò le sue stesse dita,
senza i calli e le imperfezioni degli anni, avvertendo la presa di
Naruto, il calore, il modo in cui le falangi si intersecavano
perfettamente, in una maniera splendidamente matematica.
Finì per mordersele, quelle labbra. E sentirsi morire, per
tutte le volte in cui non aveva più percepito un altro
essere vivente amarlo così tanto, seppure in un mondo
irreale.
Ancora. Ancora, ancora.
Mezz’ora non basta: come si può quantificare il
tempo, a questo punto? Quanti anni dovranno passare, prima che possiamo
tenerci per mano e camminare, mentre la gente prosegue con la sua vita,
tra gli odori e i rumori della strada, il vento che trasporta le
nuvole, la pioggia e libera il sole, sulle nostre teste.
Finisco per stringerti e pensare che le mie mani possano racchiudere le
tue scapole, simili a tavole su cui incidere il mio nome nato da un
abbraccio tenace, capace di non farti più andar via. Poi,
ancora, la terra digitale attorno a noi si trasforma, il paesaggio
cambia e dipinge i luoghi della nostra vita, la casa, lo spazio e le
stelle, una piazza, il divano, le bancarelle piene di cibo. Tutto si
trasforma, scorre, cambia, noi non ci lasciamo.
Non so se ti ho mai amato così tanto come allora. Nel
vederti senza vestiti, nel toccare le curve, gli angoli e le geometrie
del tuo corpo, la pelle brunita che sembra aver già
sperimentato la luce del sole, mentre gli occhi chiari, fatti
d’acqua e vita, onde di appassionato bisogno di conoscere,
sanno già cosa guardare e le mani cosa cercare.
Siamo
su di un letto, con sopra un tetto di stelle, mentre le galassie
s’incrociano sopra di noi, assieme ai pianeti, alle
congiunzioni astrali e ai buchi neri che abbiamo nel petto.
Sì, un buco nero, un orizzonte degli eventi che sento sul
mio sterno all’idea di perdere, ancora, di non vincere
più una vita con te, tornando a sentire così
tanto.
Ma tu riesci ad amarmi al punto da fare implodere
quell’oscurità, una supernova fatta di vita e
desiderio, capace di divorare le stelle e farle brillare come comete,
brucianti dei loro gas e della loro polvere millenaria, squarciando la
notte che io vedo sopra di noi quando tu mi avvolgi e mi stringi, come
se fossi cielo e io terra, nel giorno e
nell’oscurità. Per sempre.
Mezz’ora ed è già fuggita, mentre la
mia vita non è mai stata così lunga.
*
Anno 186 S.I. (dal primo Salto Interstellare)
Naruto e
Sasuke passarono interi mesi nello spazio; poi, sulla Terra, ancora, a
volte ritrovandosi nel loro mondo esclusivo. In ogni occasione per
tempi sempre più lunghi, dimenticando di nuovo le
mezz’ore, come se rischiare valesse comunque la pena.
Nel mentre, il corpo di Naruto prendeva forma, lentamente, con alcuni
pezzi recuperati, modificati, adattati, ma... ci sarebbe voluto ancora
tanto prima di renderlo completo. L’I.A., in quei casi
silenziosa, guardava Sasuke lavorare con in sottofondo David Bowie o i
Pink Floyd, nella loro casa fuori dal resto del mondo.
Il tempo passava e i capelli di Sasuke crescevano progressivamente meno
neri. Ogni tanto infatti, spuntava un ciuffo bianco che però
spariva nel mare di quelli scuri.
Un giorno, però, le cose cambiarono.
In una nuova missione nello spazio, Naruto si risvegliò su
Viger. Ormai non aveva più bisogno del comando vocale del
suo creatore per attivarsi. Chiamò il nome di Sasuke,
perché non poteva vederlo e gli mancava, gli mancava ogni
ombra sul suo volto, ogni curva delle sue spalle, il modo elegante in
cui si muovevano le mani.
Non ci fu risposta. Attese, interi minuti, mentre le navi spaziali, al
di fuori, partivano verso angoli sconosciuti dell’Universo.
D’impulso, azzardò qualcosa che non aveva mai
fatto prima: tornare a casa, senza più pensare ai controlli
di sicurezza. Sentiva, percepiva, che doveva essere successo qualcosa;
Sasuke era sempre stato presente, sempre, sempre, sempre.
Più lo ripeteva, quel sempre, più realizzava di
non capirne fino in fondo il significato, non quando gli Universi
scomparivano in un’esplosione o stelle millenarie bruciavano,
perdendosi nello spazio.
Si ritrovò nei sistemi di casa, avvertì i nodi
famigliari delle formule e dei codici, poi fece per collegarsi
all’apparecchio olografico ma si bloccò, sentendo
delle voci, voci che non conosceva. Qualcuno camminava a passo spedito,
buttava all’aria oggetti, il tavolo forse, e svuotava le
librerie.
“Continuate a cercare! Il traffico dati nello spazio era
massiccio e anche se la provenienza era schermata, quel figlio di
puttana viveva qui, deve esserci qualche supporto fisico in cui ha
fatto il backup dell’I.A.!”
Mezz’ora. Era quello? A quello si riduceva il tempo?
Pensò al suo supporto fisico, nascosto dentro un fermacarte.
L’avrebbero trovato? In quel momento non pensò al
fatto che ogni traccia olografica di lui sarebbe stata distrutta,
scomparendo per sempre, rendendolo incapace di vedere il mondo attorno
a sé. Pensò infatti solo a Sasuke, a Sasuke che
non era lì e forse sarebbe stato irrimediabilmente
compromesso se quegli uomini, chiunque essi fossero, avessero trovato
una prova ancora più tangibile ad aggravare i suoi capi
d’accusa.
Tacque, all’interno del sistema apparentemente in stand-by,
soffocando la voglia di saltar fuori e cacciare ognuno di quegli
stronzi intenti a distruggere tutto ciò che era di Sasuke e,
in parte, anche suo, come anni fa lo era stato di Sakura e della vita
progettata assieme, incapace però di realizzarsi.
Si sentì rabbiosamente inutile, perché non aveva
un corpo fisico con cui prenderli a pugni e fare del male, non poteva
nemmeno inserirsi nella corrente e fulminarli, per il rischio di
generare dei sospetti: doveva semplicemente attendere e sperare che non
scoprissero il segreto nascosto dietro un banale fermacarte.
Dopo quelle che sembrarono ore, finalmente gli estranei se ne andarono.
Naruto impulsivamente si mosse verso il dispositivo olografico ma,
quando sentì la propria immagine riprodursi e i sensori
attivarsi, realizzò che lo strumento era stato in parte
rovinato dagli urti e dai tentativi infruttuosi degli uomini di
utilizzarlo, infruttuosi perché senza un’I.A.
caricata il dispositivo era totalmente inutile. Per questo
l’avevano danneggiato, come per sfogare la loro intrinseca
stupidità.
Nonostante percepisse la sua stessa immagine saltare, Naruto
riuscì ugualmente a guardarsi attorno e a contemplare, suo
malgrado, la devastazione dovuta a quell’invasione brutale:
il divano era stato squarciato, gli oggetti della libreria gettati a
terra, rotti, calpestati, l’orologio fermo da anni spaccato,
la tovaglia appallottolata e i piatti rotti.
Sì sentì furente, per la sua impotenza, ma anche
dispiaciuto per tutto quello che la casa aveva subito. Soprattutto,
però, era preoccupato, per Sasuke e per ciò che
poteva essergli accaduto. Nelle ore seguenti, tentò di
mettersi in contatto con lui, ma Viger non rispondeva ai segnali e,
allo stesso tempo, Naruto era consapevole che il traffico dati in
quella casa era monitorato, dunque dovette aspettare. Ore e ore,
consumato dall’attesa.
Riscaldò la casa, l’acqua, sistemò le
luci, per trovarsi qualcosa da fare, come se da un momento
all’altro Sasuke sarebbe ricomparso; allora, Naruto avrebbe
attivato una canzone dalla playing list, per ascoltarla assieme mentre
apparecchiavano.
Poi, a un certo punto, sentì la porta aprirsi. Un intuito
dato dal sospetto gli comunicò che con ogni
probabilità non doveva trattarsi di uno degli estranei,
perché non avrebbe avuto quella cautela; ma nemmeno...
poteva essere Sasuke: non c’era urgenza, né
trasporto in quel gesto, lo stesso di un amante che voglia abbracciare
un altro corpo, desiderato e ritrovato, in un bisogno di sentirsi.
Suigetsu vide davanti a sé l’immagine olografica
di un uomo dai capelli biondi e gli occhi chiari, anche se ogni tanto
saltava con interferenze e un gracchiare remoto simile allo statico di
una vecchissima radio. I due, umano e I.A., si guardarono per qualche
istante senza dire nulla, infine il ragazzo dagli accesi capelli
azzurri domandò, con una certa fretta:
“Sei tu Naruto, vero?”
“Sì – c’era orgoglio, in
quella risposta – dov’è Sasuke?
Dov’è? Io...”
Ma l’altro lo interruppe: “Non
c’è tempo. Ti porterò via nella scheda
di memoria estesa, se riesco assieme al tuo backup.
Dove l’ha messo...”
Si spostò però Naruto allungò un
braccio improvvisamente, passandogli attraverso in una scia di luci:
“Non tocchi un bel nulla. Dimmi dov’è? Lui dov’è?”
Suigetsu si bloccò.
“Il messaggio... quello che mi ha detto che ti avrebbe
inviato. Non l’hai letto?”
Naruto lasciò cadere il braccio, ammettendo con una rabbia
soffocata: “Ha disattivato la ricezione e invio messaggi. Non
l’ha mai più riattivata e io...”
All’epoca non aveva avuto il permesso, poi, non ne avevano
più parlato.
“Cazzo – sbottò Suigetsu, scuotendo la
testa – ecco un altro motivo per cui aveva bisogno che
andassi. Senti, lo attivo io manualmente; ascolta il messaggio, poi...
ti caricherò e ti porterò fuori di qui.
E’ pericoloso, rischi di venire cancellato. Quel
coglione.”
Sbottò,
trattenendo il respiro, mentre sbloccava i codici del sistema, in modo
da bypassare sia Naruto che eventuali altri impedimenti di sicurezza.
Un modo più rapido e meno rischioso.
Poi si
alzò in piedi e gli disse, puntando un dito contro il petto
olografico:
“Non essere anche tu ingordo
di tempo. Ascolta il messaggio, poi ce ne andiamo. Sono
fuori dalla porta.”
Naruto fece una smorfia, ma annuì, per poi guardare i
messaggi. Osservò un istante quello vecchio di Sakura,
notificato nello schermo olografico, infine notò
l’ultimo, appartenente a Sasuke. Sentì un insieme
di emozioni che fece fatica, allora, a classificare.
Avviò la riproduzione e sussultò quando vide
comparire dal proiettore olografico l’immagine di Sasuke. Per
diversi secondi, in attesa che il suono si caricasse, la sua figura dai
capelli neri e gli occhi scuri rimase immobile, con qualche
interferenza di tanto in tanto. Naruto avvicinò un braccio e
per un attimo entrambi i loro confini sparirono, divenendo frammenti di
luce.
Infine, Sasuke parlò e Naruto, in quella casa dagli oggetti
rotti, il divano squarciato e i libri calpestati, lo ascoltò.
Prima o poi era destino. Sapevo di rischiare e che avrei attirato
attenzioni non desiderate del governo. Ma... passano i mesi e
più passano, più mi sembrano corti; il tempo mi
sfugge dalle mani e tutti i miei progetti, ogni giorno, li vedo
risolversi nel nulla o in qualche linea scritta a metà. Ho
preparato questo messaggio da farti avere, Suigetsu ti
porterà con sé, sarai al sicuro.
Io... ritornerò a casa. Tra mesi, forse anni. Ma
ritornerò.
Mi piace l’idea di rientrare a casa, stanco e infreddolito,
per scaldarmi e sentirti parlare, visto che io l’ho sempre
fatto troppo poco.
*
Quel giorno, quando Sasuke si sollevò a sedere dal letto,
Suigetsu lo afferrò per il collo della maglia ringhiandogli
addosso con rabbia:
“Un’ora e mezza questa volta! Dannazione! Ti sei
bevuto il cervello?”
L’altro gli scostò la mano, seccato ma consapevole
delle sacrosante ragioni per cui il suo ex-collega doveva arrabbiarsi:
“Non possono risalire a te: rintracciano i dati, non la
provenienza. Fino ad adesso è andata.”
“Da quando ragioni così? Sei sempre stato ben
più responsabile di me, cosa...”
Non finì di parlare, schioccando la lingua con frustrazione
mentre lasciava la presa e Sasuke si alzava in piedi.
“Non è gusto del rischio. Semplicemente... ogni
tanto mi dimentico di quanto tempo passi e desidero, ogni volta,
strapparne un altro po’ – lo fissò,
infine improvvisamente aggiunse – ho comunque preparato
tutto, nel caso in cui il governo sospetti il passaggio tra sistemi di
un’I.A. troppo elaborata e senza blocchi.”
Suigetsu fece una smorfia: “No, non dirmelo. Non dirmi che
c’entro anche io qualcosa perché, davvero, sei mio
amico e tutto il resto ma non mi paghi abbastanza, bello.”
L’ex-collega lo fissò un istante, senza mutare
espressione: “Porta Naruto qui da te. Non lasciare che lo
cancellino, solo questo. Gli recapiterò un messaggio che
giungerà casomai non dovessi più rientrare a
casa.”
“Ne vale davvero la pena? Fare tutto questo,
intendo.”
“Rischiare la deportazione per aver guadagnato qualche minuto
in più con un’altra persona? Non lo so, non ci ho
mai davvero pensato, ma... sono felice. Quindi, sì, credo
proprio ne valga la pena.”
*
Quando Naruto venne caricato nel sistema del Purgatory,
avvertì in un istante l’eco di tante vite e
desideri intersecarsi con lui, senza però sfiorarlo davvero.
Poi, sentì la voce di Suigetsu che gli spiegò,
mentre l’uomo era seduto su un letto vuoto, disinfettato dopo
che un cliente si era lasciato morire vivendo gli ultimi anni nel mondo
costruito per lui.
“Non hanno trovato prove tali per cui Sasuke debba ricevere
l’ergastolo o, peggio, una condanna a morte. Ma è
stato provato che trafficava con le I.A. Non sono ancora risaliti a
questo posto, però è solo questione di tempo:
inutile dirti che dovrai restare a basso profilo.”
“Dove l’hanno portato.” Disse
semplicemente l’Intelligenza Artificiale.
La voce risuonò tramite auricolare impiantato nelle orecchie
di Suigetsu, il quale fece una smorfia in parte irritata, in parte
rassegnata: “In questi casi c’è la
deportazione. Su navi coloniali nei lavori forzati, o come combattente
– si umettò le labbra, aggiungendo – ma
non è un per
sempre. Di solito ritornano.”
Se sopravvivono ai ritmi
massacranti o non rimangono uccisi in guerra. Tacque. Non
seppe perché si stesse dando tanto da fare per confortare
un’I.A. Eppure si rispose da solo, quando sentì il
trasporto e l’affetto
con cui Naruto reagì in seguito.
“No. Non va bene, non va affatto bene! Io devo
trovarlo!”
“Trovarlo? Ti devono essere partiti tutti i
circuiti!”
Davvero quella cosa con cui stava interagendo tramite sistema era
un’I.A.? Come poteva sembrare così dannatamente
umana?
Sasuke. Fino a che punto
hai lasciato che evolvesse? Ha un nome,
un’identità e... dei sentimenti. Dei sentimenti,
merda santissima.
“Sì, trovarlo – ripeté,
energico, per poi aggiungere – aiutami ad andare su Viger!
Devo...”
Ma Suigetsu lo interruppe, sbraitando mentre scattava in piedi e le
infermiere lo guardarono preoccupate: “Scordatelo! Viger
è sottoposta a controllo, non posso spedirti fino a
lì.”
“Allora un’altra nave – insistette,
testardo e ostinato – trovami un’altra nave e... io
viaggerò in qualche modo, di sistema in sistema,
finché non troverò Sasuke!”
Suigetsu scosse la testa: “Tu sei pazzo! Fulminato! Poi
Sasuke mi ha detto di tenerti al sicuro, di non permettere che ti
cancellassero...”
Sigillò la bocca, dandosi dell’idiota.
Avvertì un leggero tremolio nella voce quando
l’altro gli domandò:
“Davvero?”
“Forse. Una roba simile.”
“Allora... ti chiedo lasciami andare e dimenticarti quello
che ti ha detto. Perché non è qui che devo
essere: mi sta bene rischiare, penso
proprio che ne valga la pena.”
Suigetsu scosse la testa, ridendo per l’ironia di quelle
parole già sentite – una risata un po’
triste, la sua.
“Pazzi. Siete due pazzi fottuti – batté
una pacca sul computer inscatolato dietro lamiere metalliche
– beh, allora... fa che ne valga davvero la pena,
Naruto.”
*
Anno 196 S.I. (dal primo
Salto Interstellare)
Naruto,
l’I.A. AL-76, viaggiò per l’Universo. Di
nave in nave, di sistema in sistema, esplorò intere
galassie, intromettendosi tra i circuiti delle navi, le torri controllo
negli spazioporti dei pianeti e fu testimone di altrettante cose:
guerre tra clan Krogan, trattati di pace, esseri viventi nascere in
mezzo alle macerie e in climi inospitali, sentì creature
parlare d’amore e altre ancora di vita, conobbe nuove leggi e
promesse non dette, ascoltò canzoni dimenticate di popoli
lontani migliaia di anni luce; ancora, vide membri di equipaggi morire,
flotte sparire, altrettante scontrarsi ed esplorare confini pieni di
luce nei quali le stelle brillavano come centinaia di soli.
E in ognuno di questi luoghi, cercò Sasuke. In ogni nave,
pianeta o galassia, sperando di riconoscere la sua voce, sentire una
canzone sussurrata di quando la Terra ancora non era ricoperta di
metallo, mentre un orologio invisibile ticchettava, come battiti di un
cuore che correva troppo veloce e troppo a lungo.
Ogni tanto rientrava a Casa, ma non vide mai Sasuke rincasare e
chiedergli di attivarsi, anche se lui era già Vivo, tra
quelle pareti.
Per questo
finiva per starci poco, giusto qualche minuto; il tempo di rivedere
Sasuke che gli parlava in un ologramma, dicendogli che sarebbe
rientrato, mentre sussurrava in uno sguardo accigliato che ne valeva la pena.
Essere stati ingordi, delle ore passate assieme.
Poi, accanto,
c’era Sakura che l’aveva lasciato tanti anni
più addietro ancora e roteava, con un vestito di fiori.
Il vuoto. Divorava, il vuoto. E più Naruto andava lontano,
più il vuoto cresceva.
Finché, un giorno del 195, sentì la porta
aprirsi. Cigolava, perché nessuno si era più
curato di aprirla. I mobili erano ancora devastati, gli oggetti rotti,
il sistema andava a rilento, come una macchina piena di ruggine; ogni
cosa era rimasta esattamente come quando Sasuke era stato portato via,
anche se i muri si stavano scrostando, le luci non funzionavano e la
polvere aleggiava quasi viva nell’aria chiusa, assieme ai
calcinacci di una casa mangiata dal tempo.
Dieci anni. Dieci lunghi anni. Naruto aveva visto e imparato
così tanto ma non aveva più parlato, da allora,
perché non c’era stato nessuno con cui dialogare,
al di fuori di Sasuke.
Si voltò, mentre la propria immagine olografica si spegneva
sempre più spesso e lo rendeva consapevole che la voce
avrebbe gracchiato, ne era sicuro.
Allora, lo vide. Sasuke.
I capelli lunghi fin sotto le spalle, ingrigiti. Il corpo smagrito, il
volto con occhiaie e delle rughe, perché era invecchiato, in
quei dieci anni. Come le pareti e la casa, anche Sasuke era stato
mangiato, da quel tempo.
E aveva a sua volta visto così tanto da bastargli per una
vita intera. Aveva visto compagni morire, pianeti razziati, distruzione
e paura, paura di morire a sua volta, lì, in una terra
dimenticata, senza poter più scorgere le sue stelle e
parlare, ancora, con
Naruto, a cui aveva promesso di creare un corpo e farlo camminare
davvero, in mezzo al resto della gente.
Sasuke lo realizzò. La casa, gli oggetti, tutto, in fondo
era cambiato. Ma Naruto... era lo stesso di dieci anni fa, i capelli e
gli occhi e le mani, le dita, capaci perfettamente
d’intersecarsi con le proprie.
Lui... chi era lui, invece? Aveva perso dei denti, i capelli erano
quelli di un vecchio e delle unghie gli erano saltate mentre cercava di
scavare nella terra e nelle fosse dove sarebbe morto, se non avesse
lottato così tanto per vivere. E per tornare.
Perché ne
vale la pena.
Se lo era ripetuto, ogni singolo giorno.
Le gambe gli cedettero. Crollò sulle ginocchia e Naruto gli
fu davanti, gridando, perché non poteva sorreggerlo,
perché in tutti i suoi viaggi non era stato lui a trovarlo e
a riportarlo indietro con sé, prima, prima, prima.
“Sono a casa – la voce era roca, a tratti bassa
– ho freddo e sono stanco. Così tanto stanco che
potrei morire, di stanchezza – poi, ricordò,
ciò che gli aveva detto tanti anni fa – Il calore
accogliente e le tue parole.”
“Io... non potevo nascondermi, lo capisci? –
replicò Naruto, in ginocchio di fronte al suo Creatore, come
sentendo il bisogno di spiegargli qualcosa, di giustificare con se
stesso tutto quel tempo speso senza
di lui – Ti ho cercato così tanto...
così tanto.”
Ripeté, scuotendo un istante la testa.
“Allora avrai tante storie da raccontare. E io le
ascolterò tutte.”
Sasuke si alzò lentamente in piedi e domandò
ancora: “Dov’è?”
Dopo un istante Naruto comprese che parlava del suo backup. Si
guardò attorno, perché non sapeva se fosse ancora
sopravvissuto qualcosa, dopo tutti quegli anni.
Poi l’uomo, dopo aver rovistato un istante tra i cocci e i
libri ingialliti, vide il fermacarte, un po’ graffiato ma
ancora integro.
“Quello che sei. Ma anche le registrazioni. Delle prime
interazioni che hai avuto, quando ancora eri AL-76. I ricordi, di come
siamo cambiati... noi.”
Quante cose avrebbe voluto chiedergli e dirgli Naruto, quanto desiderio
di abbracciare Sasuke, che era mutato a sua volta ma era comunque
identico, nel cipiglio ombroso, nella serietà e nel modo
accennato d’incurvare le spalle. Si accorse che a tratti
l’uomo nemmeno lo guardava e, in seguito, Sasuke nemmeno
avrebbe più guardato gli specchi.
Quel giorno, dopo tutto quel tempo, dopo tutta l’ostinata
disperazione messa nel trovarlo, Naruto riuscì solo a fargli
una domanda che, scioccamente, non aveva mai posto prima:
“Sasuke... perché proprio quel fermacarte,
perché ciò che siamo doveva essere nascosto
lì?”
Fece un mezzo sorriso, con affetto nostalgico.
Guardò, ancora una volta, le iniziali di Uchiha Sasuke.
Quest’ultimo lo fissò, sentendo comunque nelle
orecchie il rumore della morte, perché la morte aveva un
suono tutto suo, e in quel momento si scontrava con la melodia rotta
dalle interferenze della voce di Naruto che pure, in quegli anni,
Sasuke aveva avvertito così tanto nella sua testa, alzandosi
dal fango.
Poi gli spiegò perché avesse scelto quel
fermacarte e Naruto fu felice, di aver girato tutte le galassie per lui.
*
Anno
2980 S.I. (dal primo Salto Interstellare)
Gli
esploratori si fecero largo tra i detriti monitorando il livello
d’ossigeno, consapevoli che ormai scarseggiava e quindi
l’ambiente poteva essere piuttosto vivibile per la loro
specie. Inspirarono le leggere radiazioni, sentendo formicolare la
pelle squamosa.
Uno di loro monitorò il picco di onde elettromagnetiche in
cerca di forme intelligenti, ma fino ad allora la ricerca scientifica
in quel pianeta lontano dal Multiverso si era rivelata poco fruttuosa.
Stavano per rientrare finché, all’improvviso, ci
fu un picco più alto; esso cresceva esponenzialmente man
mano che si avvicinavano a un quartiere di quella che un tempo sapevano
essere una Città, luogo d’incontro tra razze
antiche, molte delle quali estinte.
Si guardarono un istante, poi decisero di trasmettersi telepaticamente
le coordinate da cui proveniva il segnale e proseguire. Avanzarono tra
montagne di metallo, stralci di terra ingiallita e mangiata dalla
radioattività, pannelli che un tempo erano insegne, navi e
macchine che avevano solcato i cieli, fino a raggiungere le stelle.
Dopo minuti passati a fluttuare tra le colline metalliche, gli
scienziati scorsero i contorni di quello che millenni fa doveva essere
un rifugio, in cui le specie del pianeta erano abituate a vivere.
Lì, videro qualcosa di totalmente inaspettato: dei mobili,
tutto sommato curati e senza troppa polvere, con sopra degli oggetti
ingialliti che i nuovi arrivati non sapevano essere libri,
perché non li avevano mai visti prima di allora.
Infine, su di
un letto scorsero una creatura strana: aveva dei capelli biondi sulla
testa e gli occhi chiusi, la pelle liscia e chiara; al suo fianco, un
mucchio di ossa distese, bianche, consumate dal tempo.
Circospetti, si avvicinarono. L’entità era
immobile, sembrava però tenere in mano qualcosa, anche se la
presa era inconsistente.
Dopo un cenno d’intesa, uno degli esploratori
allungò la mano ungulata verso l’oggetto,
afferrandolo.
Rigirandolo tra le dita, lo guardò ma non comprese.
L’altro gli si avvicinò e riconobbe dei caratteri
arcaici incisi sopra, memore delle navi da museo provenienti da guerre
spaziali lontane. Non riuscì del tutto a decifrarli, quindi
tacque per evitare di creare confusione.
Dopo un suono gracchiante però, all’improvviso,
partì un ologramma le cui immagini ogni tanto saltarono,
fino a riassestarsi. Riconobbero la creatura dai capelli biondi
proiettata vicina a un’altra creatura che sembrava tanto
più vecchia, anche se quegli organismi provenienti da
ulteriori universi non conoscevano concetti come il tempo e la
vecchiaia, così come non conoscevano i libri o le canzoni.
I due protagonisti dell’ologramma erano abbracciati e
stretti, mentre qualcosa di musicale riecheggiava vagamente attraverso
la registrazione.
Gli alieni non capirono, non poterono capire, che era un abbraccio in
una bozza di ballo: solo per loro due, perché finalmente
erano stati in grado di toccarsi divenendo reali entrambi, dopo essersi
cercati così a lungo. Centinaia e centinaia d’anni
fa, fino ai confini dell’Universo.
Poi, all’improvviso l’esploratore
ricordò la pronuncia delle lettere antiche incise sul
fermacarte, le iniziali di un’identità:
“Us.”
Allora la creatura seduta sul letto, con ancora gli occhi chiusi,
serrò la mano attorno a quella squamosa che aveva afferrato
l’oggetto con la scritta. Non si mossero.
Infine, altrettanto all’improvviso, l’essere dai
capelli biondi aprì la bocca e ripeté, con una
voce piena di vita:
“Noi, noi...
Noi.”
Sproloqui
di una zucca.
E anche questa storia
è andata! Comincio con il parlare dell'immagine iniziale:
è opera di un artista bravissimo, Peter Mohrbacher (qui il
suo blog https://www.vandalhigh.com/angelarium-2/),
e rappresenta Yesod che nella cabala è alla base dell'albero
della vita (sopra solo al Regno); simboleggia il passaggio da una
condizione all'altra, connettendo tutto il resto. Mi sembrava dunque
adatta per rappresentare un po' la trasformazione di entrambi i
protagonisti della storia.
Questa volta Naruto
non è riuscito a trovare Sasuke e a riportarlo indietro, ma
è stato Sasuke stesso a sopravvivere proprio per poter
tornare, anche se invecchiato e consumato dalla vita. Sono riusciti,
alla fine, a ballare assieme, toccandosi. Ma il tempo, di cui Sasuke
è stato consapevolmente ingordo, comunque va avanti e non ha
pietà di nessuno.
U.S. le iniziali di
Uchiha Sasuke: scelte perché simboleggiavano, appunto, la
parola Us. Noi. Il traguardo finale forse, lo stare assieme, ma anche
tutto ciò che Sasuke e Naruto sono stati.
Grazie per avermi
seguito fin a qui, nonostante io imbastisca sempre racconti un po'
'particolari'.
L'idea dell'incontro virtuale tra Sasuke e Naruto mi è stata
data dal mio ragazzo, al quale racconto sempre tutte le mie trame XD La
descrizione 'onirica' del rapporto digitale tra i due protagonisti
è frutto di... boh, giuro che non avevo fumato nulla.
Però mi piace l'idea dei buchi neri nel petto.
Sarei
davvero, davvero, felicissima se aveste voglia di farmi sapere cosa vi
ha trasmesso tutto questo racconto (anche tramite messaggi minatori,
piccioni viaggiatori, macumbe varie XD).
Vi lascio, questa
volta, con la canzone dei Pink Floyd che per me rappresenta davvero
splendidamente il concetto di tempo. Time (oh, guarda caso lol). Le
righe estrapolate sono, a grandi linee, quello che dice Sasuke a
Naruto, quando spiega l'idea del tempo che passa troppo in fretta, al
punto da sfuggirgli e lasciargli un senso d'incompletezza in tutto
ciò che fa (traduzione non letterale):
Every
year is getting shorter, never seem to find the time
Plans
that either come to naught or half a page of scribbled lines
Ogni
anno risulta sempre più breve, non sembro mai trovare il
tempo
progetti inconcludenti
o nient'altro che una mezza pagina di righe scarabocchiate
Alla
prossima, la 'vostra amichevole Zucca di quartiere'.
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