Another world OVA - Il fantasma del Natale passato

di ryuzaki eru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Another world OVA

E dopo tanti anni sono tornata.

Non so se ci sarà qualcuno qui che ancora mi conosce, in realtà ne dubito, ed è molto probabile che queste parole finiranno nel web senza essere lette, ma correrò il rischio, come feci la prima volta che pubblicai qui su EFP senza conoscere nessuno né essere conosciuta. È un po’ come ricominciare e questo mi piace.

Per anni ho pensato di non essere più in grado di scrivere ancora di Another world, di Elle e di Emma, e di aver detto tutto quello che volevo dire.

Ma qualcosa è cambiato, quasi all’improvviso.

Questo non significa che io sia stata in grado di produrre qualcosa di buono, al contrario. Significa soltanto che mi è venuta in mente un’idea e che ho percepito un po’ di formicolio nella pancia nel pensarci su ;) Se poi l’idea ed il risultato siano buoni, non lo so, ma io, come sempre, mi sono divertita a buttarla giù, non pretendendo altro ^^

Quindi, se c’è qualcuno che leggerà mai le mie parole, vi prego di avere clemenza.

Ci sono molte altre cose da dire ma, se mai ci fosse qualcuno interessato (ma anche no!), rimando ogni mio ulteriore pensiero, considerazione e paranoia al momento in cui questa breve storia sarà finita (e non finirà con questo capitolo). Mi sento già abbastanza ridicola a scrivere queste parole prima del capitolo, con la certezza di scrivere al vento, figuriamoci alla fine in pieno delirio pre-pubblicazione!

Per ora quindi vi dico soltanto che ho deciso all’ultimo di non pubblicare in coda alla long-fiction originaria, come avevo deciso all’inizio, solo perché ho pensato che poteva sembrare un modo becero per riposizionare la mia vecchia Another World tra le storie più recenti in prima pagina. E non era questa la mia intenzione. Però tengo a precisare che ho concepito questa storia come una sorta di OVA degli anime, parte della serie completa e quindi strettamente collegato ad essa. Diciamo che però il capitolo che segue queste righe, che in origine doveva essere un’unica one-shot OVA, a conti fatti si è trasformato in un primo capitolo di introduzione, prologo o qualcosa di simile, anche se non era mia intenzione renderlo tale: come mio solito, il tutto si è dilatato, quindi ci sarà qualche altro capitolo (uno, due? Non lo so con precisione). Mi ritrovo sempre a commettere gli stessi errori, scrivo troppo!!

Dedico questo OVA di Another world a tutti coloro che mi hanno seguito ed incoraggiato in passato ed a quelli che mi hanno incitata in tutti i modi a scrivere ancora su Death Note, su Elle ed Emma, con recensioni, commenti e messaggi privati.

Questo OVA è per Voi, è il mio ritardatario regalo di Natale. Se anche non fosse di vostro gradimento, confido nel fatto che “conti il pensiero” ^^

Se poi tutti Voi non siete qui a leggere, come immagino, vorrà dire che il regalo me lo sono fatta da sola, divertendomi a scrivere ancora di Elle, di Emma e del loro “altro mondo” insieme.

 

Grazie di essere qui.

 

 

Another world OVA

Il fantasma del Natale passato

 

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Capitolo 1

 

 

 

Avevo detto che non mi divertiva narrare del “Dopo”.

Avevo detto che tutto il resto sarebbe stato noioso e che, per quanto mi riguardava, l’esperimento era finito.

Avevo anche detto di voler cambiare aria, soggetti, genere.

Era vero.

Ed è vero anche in questo momento.

Eh eh eh

Smorzati sul nascere dopo nemmeno dieci righe?

Su, su, se siete qui, mi conoscete, quindi poche storie.

Però…

Sì, che ci sarebbe stato un “però” credo fosse lapalissiano anche per i sassi: banalità e prevedibilità dell’arte del raccontare, passatemele e non fate gli schizzinosi.

Quindi, dicevo, per l’appunto c’è un “però”…

Sarà stato il Natale, periodo decisamente fertile per voi fantastici esseri umani, o perlomeno per alcuni di voi; sarà che ogni tanto lo sguardo mi sfugge verso quella dimensione ibrida che continua a trascorrere, e rido alle vostre spalle nel poter Vedere quello che voi non potete vedere, eventuali vostri film personali a parte, come sempre; sarà che finora da quelle parti non c’è stato nulla degno di essere raccontato e nulla di stimolante; saranno tutte queste cose insieme, ma oggi, in uno di quegli sguardi fugaci, mi si è riacceso l’interesse.

E sapete bene quanto questo dettaglio possa essere rischioso.

Va da sé che l’interesse non mi si sia effettivamente risvegliato per qualcosa che è fisicamente accaduto, ma più per qualcosa che forse sarebbe potuto accadere… Ma questo del resto era avvenuto anche all’inizio di tutta questa vicenda.

Ebbene, la vostra Emma, in una delle ultime conversazione che io vi raccontai, pose ad Elle la seguente domanda, palesando una certa preoccupazione: «Ma se quel Qualcuno che ha voluto giocare decidesse di farlo di nuovo?»

Lei non lo sapeva allora e non lo sa adesso, ma quel Qualcuno ero Io.

E mai come ora credo che la sua preoccupazione dovesse essere considerata fondata, sebbene allora io stesso non la ritenessi affatto tale.

Perché, adesso, ho voluto giocare ancora…

(ed anche questa frase “ad effetto”, narrativamente parlando, era prevedibile, lasciatevelo dire).

 

La neve cadeva di nuovo.

Si adagiava lentamente, leggera, sul manto bianco che si era già depositato ovunque, nei giorni e nelle ore precedenti, ed ora iniziava nuovamente a ricoprire con un sottile velo l’asfalto della strada e le impronte lasciate dagli ultimi pochi passanti.

Il bianco cielo imbruniva, mentre il sole ormai coperto da giorni dietro quella fitta coltre di nubi gelate si eclissava non visto, chissà dove, lasciando pieno campo al buio pomeriggio invernale.

I lampioni lungo la strada si accesero tentennando, dapprima con una pallida e quasi inutile luminosità.

Quell’angolo di Winchester era silenzioso. A pochi passi dal centro cittadino, quell’angolo di Winchester era già immerso nella quiete e le luci colorate ed intermittenti degli addobbi di alcune abitazioni iniziavano a stagliarsi più nettamente mentre l’oscurità avanzava.

I passi di Emma affondavano nei centimetri di neve del marciapiede con un piacevole scrocchio.

Sebbene indossasse i guanti, teneva comunque le mani affondate nelle capienti tasche del suo giubbotto da snowboard e la sciarpona le arrivava fin sopra il naso. Il cappuccio impermeabile del giubbotto le copriva il capo, già protetto da un berretto di lana, ed un piccolo zaino aderiva ben fisso sulle sue spalle.

E così Emma avanzava.

Era passato un anno.

Era passato un anno dall’ultima volta che si era messa in viaggio per Winchester, per la Wammy’s House, nel Natale del 2007. Allora non sapeva bene a cosa stesse andando incontro, né chi la stesse effettivamente aspettando, perché quello era stato l’ultimo giorno in cui Emma aveva vissuto nel dolore che il suo Elle fosse morto. Ma poi, tutto era cambiato.

Ed ora avanzava ed affrettava il passo, perché era tardi, perché faceva freddo, perché voleva arrivare alla Wammy’s House. E voleva arrivare non solo perché era tantissimo tempo che non lo vedeva, ma perché era tormentata da altro.

L’ultima volta che era riuscita ad incontrarlo era stato solo per poche ore e svariati mesi prima, a Tokyo, quando il grande detective aveva incastrato quella deviazione tra i suoi tanti spostamenti.

Per il resto, Emma aveva potuto ascoltare la sua voce calma e sensuale nei momenti più impensati, al telefono, ed aveva potuto solo immaginarselo, rannicchiato davanti al proprio Mac, mentre chattavano su messanger, a tarda notte.

Già, aveva potuto solo immaginarselo. Poteva forse essere in circolazione una foto di Elle? Avrebbe potuto Emma conservarne una? Naturalmente no. Erano stati fatti sparire pure i filmati della Todai in cui un certo Ryuga Hideki aveva tenuto il discorso di apertura dell’anno accademico 2007 insieme all’ormai tristemente noto Light Yagami.

Ma Emma di certo non soffriva per questo. Perché lei, che un tempo, nel suo vecchio mondo, aveva orgogliosamente tenuto l’immagine dell’Elle a china in bella mostra nella galleria dello screensaver del proprio pc, non era invece il tipo di persona da spiattellare la foto del “proprio amato” in carne ed ossa sul desktop dello stesso pc. E quindi certamente non soffriva del fatto di non poter avere una foto del suo Ryuzaki. Era fatta così.

E questo era soltanto uno degli elementi dell’esistenza che Emma ed Elle conducevano.

La loro vita e soprattutto tutti i loro rapporti erano infatti costantemente pervasi da ogni forma di cautela. Nulla doveva destare sospetti e ogni microscopico dettaglio doveva essere velato da minute accortezze, necessarie alla sicurezza del grande, misterioso ed anonimo detective. Nessun commento o semplice considerazione doveva intaccare l’incolumità di Elle e naturalmente, adesso, anche quella di un’anonima giovane archeologa.

E così, tra i tanti accorgimenti, Ryuzaki aveva fornito ad Emma un portatile da custodire a casa, che lui monitorava e controllava, mantenendolo sicuro e non tracciabile. Le loro conversazioni in rete potevano infatti avvenire solo su quel pc e solo da casa. Il vecchio computer di Emma era bandito per questo e lei continuava ad usarlo per il lavoro e per portarlo con sé.

Ma non era sufficiente.

Un altro esempio delle prudenti dinamiche che dovevano seguire entrambi era stato il fatto che ormai da tempo Ryuzaki non figurasse più spudoratamente su messanger col nickname e la nota effige di L. Poteva sembrare un'accortezza esagerata, perchè sicuramente Elle non si sarebbe trovato a chattare con Emma mentre lei aveva amici o altri in casa e comunque nessuno avrebbe dubitato del fatto che lo pseudonimo “L” doveva appartenere ad un amico di Emma semplicemente appassionato alla figura sconosciuta del detective del secolo; tuttavia era necessario allontanare anche qualunque commento o ingenua domanda del tipo: ma il tuo amico è fissato con Elle?

E così, Ryuzaki aveva optato per il nicknameHe”. Certo, era stato un fan di quel manga e del suo protagonista, come la stessa Emma del resto, ma il motivo della scelta non era stato dettato solo dalla sua passione da “nerd” o da “otaku” che dir si voglia.

Lui aveva giustificato ad Emma l’elezione di quel nuovo pseudonimo scrivendole così, su msn: “Vista la nostra situazione, visto il tuo attaccamento a me e, soprattutto, visti i trascorsi, ho ritenuto più che appropriato avere il nickname di uno dei tuoi idoli del mondo manga”.

Emma aveva ribattuto: “Sì, avevo immaginato qualcosa del genere… Ehi, idolo, sei il solito bastardo presuntuoso (oltre che bugiardo) :D Fammi capire, non era uguale lasciare L allora? Il senso sarebbe stato esattamente lo stesso. Hai cambiato il tuo nick per altri motivi, che conosco bene, ed hai scelto “He” solo perché volevi avere l’occasione di spiegarmi, adesso, il motivo della tua nuova scelta e volevi farlo esattamente con le parole che hai usato, compreso il famoso “idolo”. Vuoi gongolare di questa cosa! 

Lui aveva subito risposto: “Non credevo ci fosse qualcosa di scorretto in questo. Ritieni che essere contento del fatto di essere stato un tuo idolo sia sbagliato? C’è forse qualcosa che devo ancora “imparare” anche su questo dettaglio?”.

Emma aveva sorriso, quasi compiaciuta. Quel misto di presa in giro, velati accenni e cinica arroganza faceva parte del modo di comunicare di Elle, da sempre. Sembrava che parlasse un’altra lingua, perché tendeva sempre a deviare l’attenzione su qualcos’altro, ma in realtà c’erano sempre due livelli di conversazione ed Emma sapeva benissimo leggere dietro le righe “No, gongola pure, tanto è la verità e va bene così ^^ Cmq, a proposito del mio “attaccamento a te”, ti ricordo che sei tu quello che compare su msn e che mi scrive. E ti ricordo anche che la povera Emma, fan sfegatata ed innamorata, è una delle pochissime persone “normo-dotate” al mondo a conoscere bene la tua faccia (e non solo la tua faccia…) ed a sapere che non sei morto. Per cui, non nasconderti dietro la meluccia mordicchiata del tuo portatile!

Però, devo precisare una cosa: è vero che io adoro “He”, ma riguardo a L, be’, è tutta un’altra storia… c’è un’enorme differenza ;)

Elle non aveva risposto.

Dopo alcuni secondi in cui msn non segnalava ad Emma nemmeno che lui stesse scrivendo, lei aveva iniziato a battere di nuovo sui tasti del suo pc: “Ohi… Idolo, ci sei ancora?

La risposta era allora arrivata secca ed immediata: “

Emma non se l'era fatto dire due volte: “E allora perché non scrivi niente?

Erano passati altri lunghi secondi.

E poi Elle aveva ribattuto: “A volte dimentico quanto anche la schiettezza sia una delle caratteristiche che ti hanno fatto vincere. Vincere su tutta la linea. Temo che mi piaccia decisamente molto ricordarmene, ogni volta.

Buona notte, Emma.”

Lei aveva trattenuto il respiro: “Buon lavoro, Ryuzaki.

P.S. Comunque sto gongolando anch’io adesso e quindi hai ragione, come sempre: in effetti non credo ci sia proprio nulla di scorretto nel farlo palesemente :P

 

Sì, decisamente Elle ed Emma sono persone particolari. Come possano tollerare un rapporto a distanza in questo modo e come possano farsi andar bene conversazioni di questo tipo, non è affar mio. O meglio, diciamo che non ho proprio voglia di dilungarmi troppo su tale questione. Immagino però che, ormoni a parte, buona parte della forza gli derivi dalla sicurezza in se stessi, da quella forma di “presunzione” che in qualche maniera caratterizza entrambi, sebbene in modo completamente diverso. E forse, entrambi riescono a godere, almeno per il momento, di quella sensazione di sentirsi metaforicamente “nudi” l’uno di fronte all’altra, di potersi quindi comportare ciascuno secondo la propria indole senza temere di essere fraintesi, mai.

Non so poi quanto li strugga il desiderio, e la mancanza, di essere nudi l’uno di fronte all’altra in senso più stretto…

Eh eh eh!

Ma direi che queste sono considerazioni triviali, sulle quali, come ben sapete ed a volte con vostro rammarico, mi attardo piuttosto poco.

Quindi, direi di andare avanti.

Però, prima di ritornare alla vostra Emma in cammino per la Wammy’s House, sotto la neve, vorrei raccontarvi dell’ultima conversazione che ha avuto con Elle, pochi giorni prima, ancora dalla lontana Tokyo.

E mi pare superfluo sottolineare che, se vi racconto questo evento, esso deve avere un significato.

 

Emma era ancora a Tokyo, esausta per aver dovuto organizzare il suo definitivo rientro in Italia. I suoi due anni di lavoro per la Todai in Giappone erano conclusi ed ora era pronta per la partenza, che era stata calcolata affinché potesse ritornare in tempo per trascorrere le feste natalizie a Roma, con la sua famiglia. Ed infatti mancavano meno di quattro giorni alla Vigilia di Natale. La maggior parte della sua roba era già stata spedita, mentre il bilocale era spoglio di ogni oggetto che non fosse il mobilio compreso nell’affitto. Due enormi trolley erano poggiati vicino alla porta, con affianco un capiente zaino, da cui Emma sfilò il portatile che usava per comunicare con Elle. Entro poche ore, Kei e Misao sarebbero venuti a prenderla per accompagnarla in aeroporto.

Accese il computer in quella stanza spoglia ed ormai anonima e triste.

Era notte inoltrata.

Emma sapeva che Ryuzaki era impegnato con la risoluzione di un caso e che per farlo era partito da Winchester per recarsi sul luogo degli eventi.

Dopo la terribile vicenda Kira, il detective era naturalmente ritornato ad agire in incognito, ma ora la colossale balla dell’ “Organizzazione Elle”, o “LOrg.”, come veniva ormai comunemente abbreviata, gli permetteva di nascondersi e di difendersi anche meglio di prima. La LOrg. infatti, sebbene palesasse al mondo l’effettiva partecipazione dell’ “Elle di turno” alle indagini, tutelava in realtà il vero ed unico Elle dietro la facciata di una presunta ed eterogenea équipe di persone impegnate nelle indagini.

Ma c’era anche un'altra novità rispetto alla vita del detective precedente al caso Kira, a parte Emma ovviamente: di recente e per i casi più complessi e che più lo stuzzicavano, Ryuzaki aveva preso l’abitudine di raggiungere personalmente i paesi interessati, ovviamente procedendo nelle sue indagini in collaborazione con gli enti locali senza mai mostrarsi, godendo però di una fama e di una stima superiori a prima, che gli permettevano adesso ancor più di agire indisturbato e di ispezionare direttamente le scene del crimine in totale solitudine. Sì, le scene del crimine. In realtà era proprio questo aspetto delle indagini che ora lo incuriosiva e catturava e che l’aveva portato a desiderare di raggiungere luoghi che in precedenza non si sarebbe mai sognato di voler visitare. Le sue immense capacità e la sua curiosità lo avevano spinto a considerare, studiare e approfondire a monte anche i metodi della polizia scientifica, che aveva quindi giudicato sorpassati ed “assolutamente privi di un fondamento sistematico metodico, in sostanza da rivalutare e ridefinire sulla base di un nuovo, logico e proficuo metodo di raccolta delle prove, in loco”.

Perciò, era lui stesso che voleva ispezionare, in prima persona, le scene delle serie di rivoltanti omicidi su cui sceglieva di investigare. E così si aggirava leggero come un gatto in luoghi sinistri e transennati, di notte, con permessi speciali e con accortezze che gli davano la facoltà di agire non visto, in totale sicurezza e solitudine, Watari a parte naturalmente. Si soffermava in angoli da cui si potesse cogliere una certa prospettiva e rimaneva lì per lungo tempo, immobile, con le spalle appese, il collo proteso in avanti ed il pollice poggiato sulle labbra, spostando solo lo sguardo, osservando,  valutando le priorità, analizzando allo stesso momento gli elementi connessi al caso contingente, ma anche stabilendo una sequenza degli eventi ed una serie si scalette e schemi ripetibili per la creazione di quel logico e nuovo metodo di raccolta delle prove che stava strutturando. Il tutto naturalmente senza battere ciglio di fronte alla disumana brutalità con cui gli assassini si erano accaniti sulle miserabili vittime, che avevano lasciato questo mondo nel dolore, nella paura e nell’orrore.

La mente di Elle infatti sapeva essere fredda, distaccata; era eccezionale, incredibilmente logica ed in grado di “fotografare” indelebilmente luoghi, persone e parole; ma era anche e soprattutto brillante: la mente di Elle non poteva essere ripetitiva, abitudinaria ed assuefatta alle medesime operazioni, sempre. Lui non era prevedibile e nemmeno la sua intelligenza lo era. Erano perciò questa curiosità e vivacità intellettuale che lo spingevano a sperimentare e ricercare anche su altro.

Anche perché, in piena onestà, dopo il caso Kira, era altamente improbabile che si presentasse un’indagine altrettanto stuzzicante e complessa ed Elle, che voleva indagare solo sui rompicapo più impossibili e si “divertiva” solo con essi, di certo adesso si ritrovava, in termini prosaici, a giocare al livello 4 di un videogioco cui aveva però potuto già giocare al livello 12, con risultati eccellenti e piena vittoria. E questo poteva risultare noioso.

Emma, conoscendo questi nuovi “interessi” di Elle, se così si possono chiamare, ai quali peraltro aveva contribuito pesantemente nel corso delle loro conversazioni imperniate sul metodo archeologico-stratigrafico, di certo non aveva bisogno di chiedersi come lui facesse adesso anche ad aggirarsi in luoghi così terribili e ad osservare con la medesima freddezza certe scene macabre e gli chiedeva invece di raccontare la parte puramente logica, quella della ricostruzione della cronologia degli eventi.

E così, anche quella sera, Emma sapeva che Elle probabilmente sarebbe potuto essere altrove, non davanti al suo pc. O comunque, se anche davanti all’inseparabile portatile bianco, lo immaginava concentrato e occupato nell’incastrare il suo puzzle personale e mentale.

Ad ogni modo, sia che lui fosse presente sia che non lo fosse, il suo stato su msn era costantemente impostato come assente. Quindi Emma, anche quella sera, effettuò l’accesso a messanger ben sapendo che avrebbe dovuto comunque scrivere per accertarsi o meno della sua presenza.

Quindi inserì nickname e password.

Poi sfilò una sigaretta dal pacchetto che aveva davanti e la accese, mentre sul monitor compariva la nota schermata del programma di chat.

Si alzò e socchiuse la finestra, da cui entrò uno spiffero di aria gelida. Rabbrividendo andò a raccattare il plaid piegato sul divano, per fortuna tra le cose che non aveva dovuto inserire in valigia, e se lo adagiò sulle spalle.

Il segnale acustico della chat avvisò che era stato ricevuto un messaggio.

Emma sorrise.

Lui c’era ed aveva notato che lei aveva appena effettuato l’accesso.

 

He scrive:

Ti credevo sommersa nei preparativi dell’ultimo momento.

 

La ragazza si sedette comoda e raggomitolata nella coperta e rispose.

 

Emma scrive:

Io ti credevo immerso nelle indagini. Comunque ho finito poco fa e mi sono fatta una doccia. Adesso non riesco a dormire.

 

He scrive:

Strano. A parte lo scorso anno, in genere non hai difficoltà a dormire.

 

Emma scrive:

Sì, lo scorso anno è stato particolare, credo… Stasera però forse sono troppo stanca, ho ancora l’adrenalina in corpo per la fretta di dover finire.

E poi… Non vedo l’ora di essere a casa, di essere a casa per il Natale, con i miei…

Ma mi dispiace terribilmente lasciare Tokyo…

 

Era la prima volta che gli parlava dei suoi sentimenti riguardo il lasciare la vita che aveva vissuto nella grande capitale nipponica. E senza dubbio si trattava di molto più del semplice dispiacere cui aveva accennato. Perché Emma era schietta, diretta e non si vergognava di ciò che sentiva, ma tendeva anche a soffocare le sue paure, dolori o pensieri, a nasconderli soprattutto a se stessa e quindi di conseguenza anche ad Elle. Salvo poi esplodere, in modo più o meno contenuto.

Ma non era quello il momento di esplodere. Emma infatti continuò a scrivere subito dopo.

 

Emma scrive:

Cmq non ho proprio voglia di parlare di questo adesso. Non so nemmeno perché te l’ho scritto.

Tu come mai invece sei così apparentemente poco “occupato”?

 

He scrive:

Emma, è evidente che me l’hai scritto semplicemente per rigurgitare la tua palla di pelo. Così adesso io so che c’è qualcosa che non va e anche cosa nello specifico non va e tu ti senti più tranquilla.

 

Emma fece un grande sospiro, perché era proprio così e lei era sempre “nuda” di fronte a Ryuzaki, che tra l’altro, rispettando la voglia di silenzio di Emma su quella questione, continuò a scrivere.

 

Comunque, non sono “occupato” perché il caso è chiuso. A minuti mi collegherò con la polizia per comunicargli le ultime considerazioni e domani la stampa sarà informata. È andata come avevo ipotizzato giorni fa.

 

Emma scrive:

Quindi quella traccia di sangue sul divano era stata lasciata dopo il pasto, come avevi detto tu?

 

He scrive:

Sì.

 

Emma scrive:

Ottimo! E questa volta trapelerà qualcosa dell’interessamento della LORg.? Insomma, il tipo starà zitto?

 

He scrive:

Come sai, da lui non verrà fuori nulla.

 

Emma scrive:

Perfetto. Meglio che venga fuori solo una volta ogni tanto.

Saltando di palo in frasca: io a gennaio dovrei andare a fare un sopralluogo sul cantiere per la nuova campagna di scavo, a Roma. Me l’ha detto il prof. Usui ieri. Insieme ad alcuni operai dovrò dirigere la ripulitura del vecchio scavo prima di iniziare il nuovo e quindi studiarmi bene le interfaccia stratigrafiche rimaste dubbie: perché non vieni a vedere? È dalla prima volta che ti ho visto che vuoi vedere uno scavo in atto. E poi dovrebbe interessarti ancora di più adesso, viste le tue ultime elucubrazioni riguardo i metodi di analisi della scena del crimine ;)

 

He scrive:

Direi che hai decisamente omesso una terza argomentazione a favore del tuo dibattere la questione che io possa venire a Roma: ti manco e mi vuoi vedere.

 

Emma scrive:

Oh, ma questo non era proprio in discussione: stavo già spulciando i voli per Londra ed avevo detto a Watari che pensavo di venire per qualche giorno subito dopo Capodanno (prima non ho trovato nulla!! Londra va proprio alla grande per l’ultimo dell’anno!). Non avevo ancora prenotato perché non sapevo quando saresti tornato a Winchester. Ma ora lo so :D

Il programma quindi è stabilito: parto da qui tra poche ore e dovrei atterrare a Roma con tutta la mia roba il 23, verso le 4:00 del mattino O.o (ci saranno i miei all’aeroporto, poveretti!). Subito dopo, un Natale in pieno jet-lag coi miei, tutto il parentame e tante abbuffate all’italiana (ne ho un bisogno quasi morboso dopo mesi di Giapponesi, riso e sushi!).

Poi, al primo posto libero, Gran Bretagna e tanti ragazzini presuntuosi e “stranetti” ;)

Comunque…

Anche tu potrai tornare a casa per Natale…

Sono contenta… Immaginavo che saresti rimasto lì più a lungo…

 

He scrive:

Davvero? Chissà perché supponevo avessi più fiducia nelle mie capacità investigative.

 

Emma scrive:

Allora rettifico: non “immaginavo” che saresti rimasto lì più a lungo, diciamo che lo “temevo”, che “avevo paura” che non potessi tornare a Winchester per il Natale. Un semplice timore. Ergo, era un cosa che mi sarebbe dispiaciuta, per te. Va meglio così?

 

He scrive:

Io invece temo ci sia un equivoco di fondo: non mi avrebbe dato alcun fastidio rimanere qui a lavorare sul caso per il Natale. Quindi, non ci sarebbe stato motivo di dispiacerti per me.

 

Emma scrive:

 

He scrive:

Ti disturba esserti sbagliata su di me? In fondo, non sarebbe la prima volta.

 

Emma scrive:

Perché?

 

He scrive:

Perché sbagliare di frequente è tipico delle persone normalmente dotate.

 

Emma scrive:

Non fingere di non capire, non sei credibile: non mi importa di aver sbagliato, io non sono te. Volevo sapere perché non ti avrebbe dato alcun fastidio essere lontano da casa a Natale.

 

He scrive:

Emma, non mi interessa il Natale. Non lo amo.

Non l’ho mai amato.

 

Emma scrive:

Mai?

 

He scrive:

Domanda piuttosto inutile.

Ho in linea la polizia: devo chiudere.

Adesso vai a dormire, Emma.

Ci vedremo a Winchester appena potrai.

Buona notte e buon viaggio.

 

Emma rimase con le mani sospese sopra la tastiera, senza riuscire a replicare nulla.

“Non ho mai amato il Natale…” si ripeté nella testa.

E fu presa da un doloroso istinto, immediato ed incontrollabile.

Che sciocchezza!

Che bugiardo!

Che stupido, inutile, solito bugiardo!

Adesso l’hai  vomitata tu, la tua palla di pelo, giusto?

Sempre a testarmi, tu! Sempre a cercare di capire se posso comprenderti…

E sempre lì, da solo, da quando eri così piccolo…

Non c’era nulla che Emma potesse “scrivergli”. Perché lui, in quel momento, non voleva sentirsi dire nulla. Perché Emma avrebbe solo potuto abbracciarlo, ma non era lì, insieme a lui, come non c’era stata tante e tante altre volte… Sempre.

Dove hai passato il tuo primo Natale senza i tuoi genitori? Com’erano la tua mamma ed il tuo papà? Come ti chiamavano quando eri piccolo? Cosa facevate a Natale? Dov’eri quando sei rimasto solo? Quanto hai pianto, senza nessuno vicino?

Come faccio, come faccio…

E così non gli rispose.

Non gli diede nemmeno la buona notte, che tanto sapeva bene non avrebbe trascorso a dormire.

Ma pianse.

Pianse a lungo, da sola.

E seppe immediatamente cosa voleva e doveva fare.

 

Eh già.

Emma ha preso una decisione. Direi la sua ennesima decisione. C’è abituata lei, ci sono abituato io e dovreste esserci abituati voi.

Certo, la portata di questa decisone è ben ridotta rispetto alle precedenti che voi conoscete, anche perché ormai gli Shinigami, i quaderni della morte e le implicazioni connesse sono fortunatamente acqua passata. Tuttavia si tratta di una decisione importante, di una di quelle piccole ma significative scelte che fanno parte della vita quotidiana e, se vogliamo, dei rapporti umani.

Va da sé che vogliate sapere cosa abbia comportato questa decisione (potreste anche arrivarci da soli, viste le premesse, ma lasciamo stare).

Allora, Emma ha naturalmente lasciato il Giappone come da programma, ha trascorso quasi due giorni come in una bolla di sapone, tra la lunghissima traversata, i tempi morti dell’aeroporto e dello scalo, l’arrivo in piena notte a Roma e l’interminabile attesa per le enormi valige a Fiumicino. Poi i genitori l’hanno accompagnata nel suo appartamento.

E poi?

Be’, dopo nemmeno ventiquattro ore, all’alba del giorno della Vigilia di Natale, era di nuovo all’aeroporto, completamente sfasata, con uno zainetto sulle spalle ed un biglietto per il primo volo mattutino diretto a Londra, acquistato miracolosamente, viste le giornate “calde” delle feste, e senza nemmeno guardare che costava una fortuna.

E adesso, nel tardo pomeriggio di quella stessa giornata, la ritroviamo dove l’avevo lasciata, in cammino verso la Wammy’s House.

 

Emma continuava ad avanzare sulla neve.

Fece un profondo sospiro, che riscaldò la lana della sciarpa ed il naso congelato cui aderiva.

Strinse nella tasca un foglio che teneva piegato tra le dita.

Era lo screen-shot di parte di quell’ultima conversazione avuta con lui su messanger, tre giorni prima. Se l’era stampata, perché doveva sempre ricordare le sensazioni che aveva provato leggendo le parole che Ryuzaki le aveva scritto. Perché aveva preso la decisione giusta.

Ed ora, camminando sotto la neve e tirando su col naso per il freddo, lo sfilò dalla tasca e lo dispiegò per l’ennesima volta in quelle ultime ore.

Si fermò e lo lesse di nuovo.

Sollevò lo sguardo ed iniziò improvvisamente a correre sulla neve, col foglio svolazzante ancora tra le dita.

Corse veloce, incespicando, ed il cappuccio del giubbotto gli scese sulle spalle, ballonzolando sopra lo zaino. Ma non si preoccupò di ritirarlo su.

Corse ancora.

Attraversò la strada deserta ed ormai ricoperta da un sottile strato di neve fresca ed il muro di mattoni rossi della Wammy’s House le si presentò davanti.

Continuò a correre.

Arrivò al cancello e si aggrappò alle sbarre di ferro battuto, col fiatone.

Si allungò verso il pulsante del citofono e suonò.

Quanto avrei voluto essere lì quando eri piccolo, quando sei rimasto da solo! Tu adesso non me lo racconterai mai! Se solo potessi tornare indietro, per vederti, per sapere!

 

Cara Emma, mai esprimere un desiderio il giorno della Vigilia di Natale.

Tanto più con l’esperienza che hai passato…

Eh eh eh

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Grazie di aver letto fin qui.

Se mai ci sarà qualcuno, ci vediamo al prossimo capitolo (sì, come ho anticipato, l’OVA non finisce qui ^^)

 

Eru

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Another world OVA

Sono profondamente dispiaciuta per i tempi che ho impiegato a pubblicare questo aggiornamento. Purtroppo un impegno imprevisto al lavoro mi ha completamente fagocitata nelle ultime settimane. Va da sé che non mi aspettavo di dovermi così bruscamente arrestare e che di certo, se l’avessi saputo, avrei ritardato la pubblicazione del primo capitolo. Purtroppo capita anche questo.

Detto questo, aggiungo che sono felicissima!!

Sono ritornata ed ho ritrovato tante persone ad attendermi, pronte ad incitarmi!

Che belloooooo!!!

Ribadisco che questo OVA è per voi e vi chiedo di nuovo clemenza e di accettare almeno il pensiero.

Grazie di essere qui.

 

 

Another world OVA

Il fantasma del Natale passato

 

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Capitolo 2

 

Caro lettore, mi trovo nella circostanza di affermare con decisione che questa storia possa iniziare soltanto in un modo e cioè comunicandoti che quel Natale non si stava affatto svolgendo come Emma aveva immaginato.

Quale Natale, dirai tu?

Ma un Natale passato, naturalmente.

E cosa è successo di così spiacevole in questo Natale passato, ti chiederai poi?

Suppongo che tu debba restare ancora per un po’ con questo interrogativo, che del resto volevo farti sorgere fin da subito, motivo per cui ho affermato che questa storia non poteva che iniziare con la dichiarazione dogmatica di cui sopra.

Forse però ti è sfuggito che ti ho già concesso un indizio: ti ho rivelato che questo Natale di Emma non stava andando come lei si era immaginata perché c’è stato qualcosa di spiacevole. L’avevi capito da solo? Devi essere allora una persona piuttosto pessimista perché, non conoscendo ancora le aspettative di Emma, non potevi certo stabilire se le sue speranze erano state disilluse o se, al contrario, c’era stata una bella e piacevole sorpresa ad aspettarla.  

Mi pare perciò adesso scontato dirti che le sue aspettative erano alte. Sì, perché nella sua testolina di bambina di nove anni, lei aveva trascorso molto tempo a figurarsi quelle giornate di festa, entusiasta.

Era infatti da sempre abitudine della famiglia di Emma trascorrere alternativamente un Natale a Londra ed un Natale a Roma, coi rispettivi parenti materni e paterni, divisi tra l’Italia e la magica isola oltre la Manica.

E quell’anno toccava all’Inghilterra, che Emma adorava letteralmente, perché durante le vacanze lì, da che ne aveva ricordo, si era sempre divertita con i suoi due cugini che, più o meno suoi coetanei, erano stati soprannominati in famiglia “le due J” per via dei loro nomi, che ovviamente iniziavano entrambi per J. Sia che fossero a casa dei nonni, sia che fossero dagli zii, le giornate trascorrevano in una sorta di festa continua, dalla quale i tre ragazzini, se fossero stati da soli, di certo non si sarebbero mai allontanati, dimenticando anche di pranzare o cenare, tante erano la foga e la concentrazione nel gioco.

Inoltre, questi due fantomatici cugini seguivano Emma attivamente nei suoi mille progetti e potevano mettere a disposizione una discreta mole di giocattoli, sempre ben accetta e foriera di idee nuove. Naturalmente, a casa sua, anche lei ne aveva, di giocattoli, e lì li consumava fino all’inverosimile, ma era evidente che, dovendo affrontare il viaggio in aereo, non poteva mai portarseli dietro. Quindi, ogni volta, si era affidata ai “possedimenti” delle due J, rimanendone decisamente estasiata.

E tu non stupirti di questo, perchè sai bene come le atmosfere non abituali, la compagnia agognata di personcine che non si possono vedere tutti i giorni e luoghi normalmente poco battuti possano conferire al divertimento quel pizzico di sale in più, un sale unico ed irreperibile nella propria quotidianità. Inoltre e più semplicemente, dovresti essere altrettanto consapevole del fatto che i giochi degli altri possono essere spesso immensamente più accattivanti dei propri, almeno all’inizio, perché sono una novità, sono eccitanti, specialmente se si ha poco tempo a disposizione per poterli “sfinire” e farli diventare “propri”, come gli altri. E mi permetto di aggiungere che questo discorso non sia valido solo ed esclusivamente per i giocattoli e per quegli strani esseri che sono i bambini.

Perciò la piccola Emma, che aveva il ricordo vivo dell’ultimo Natale trascorso con i suoi cugini, che era stato il più bello in assoluto, visto che erano tutti un po’ più grandi e quindi più “maturi” nell’organizzazione del divertimento, ma anche perché probabilmente era il primo che ricordasse meglio dei precedenti, vista la sua giovane età, era eccitatissima e non vedeva l’ora che quelle giornate arrivassero.

Quell’anno tra l’altro c’era anche una novità piuttosto insolita ma elettrizzante. Visto che nei giorni immediatamente precedenti la Vigilia il papà di Emma avrebbe dovuto recarsi a Liverpool per lavoro, dopo una serie di ipotesi scartate sul come regolarsi, era arrivata la proposta di zii e nonni: e se tutti e tre - mamma, papà ed Emma - fossero partiti insieme per Londra qualche giorno prima del previsto e poi da lì i genitori avessero proseguito per Liverpool, lasciando Emma per due giorni sola con i nonni? O meglio, con i nonni o comunque con gli zii, ma soprattutto insieme alle “due J”, ventiquattro ore su ventiquattro? Ad appassionare Emma era stato naturalmente proprio quest’ultimissimo dettaglio, saggiamente proposto dagli zii, che si erano offerti di averla a casa con loro o comunque di portare i propri due figli dai nonni in modo che i tre ragazzini potessero stare insieme.

In sintesi mi pare ovvio che la possibilità di trascorrere anche le notti con le “due J” fosse assolutamente unica.

E naturalmente così fu stabilito.

Perciò Emma, con l’aiuto della mamma, si era diligentemente preparata tutte le sue cose e, la notte prima della partenza da Roma, era stata su di giri. Avrebbe voluto fare un salto ed essere già a Londra ed invece davanti aveva ancora tutta la notte, il tragitto fino all’aeroporto, l’attesa lì, e poi il volo… Quanto tempo ancora!

Ma, caro lettore, quel tempo era passato. Sebbene sembrasse infinito, incredibilmente quel tempo era passato. Misteri dell’esistenza.

E adesso Emma era finalmente arrivata all’aeroporto di Gatewick.

Con uno zainetto sulle spalle, che costituiva il suo primo bagaglio personale distinto da quello dei genitori e che quindi la faceva camminare a testa alta, come una piccola adulta, si avvicinò insieme a loro verso l’uscita del terminal.

Si fermarono tutti e tre poco prima delle porte scorrevoli oltre le quali doveva trovarsi il nonno, che era venuto a prendere la nipote perché, da lì, madre e padre avrebbero proseguito per Liverpool e quindi non sarebbero usciti insieme ad Emma. C’erano molti altri viaggiatori in arrivo che varcavano quelle soglie, quindi le fotocellule lasciavano il passaggio sempre aperto ed i genitori di Emma iniziarono a sbirciare oltre, tra la folla in attesa dall’altra parte, e scorsero il nonno.

Quell’ambiente di passaggio non aveva finestre e poteva godere di una scarsa e bianchiccia luce artificiale, mentre un odore indefinito e fastidioso, come di gomma o plastica, o ancora di automobile, lo pervadeva completamente. Un tanfo continuo e non fortissimo di un qualcosa di “finto” che Emma non sapeva definire.

Ebbene, in questo luogo e davanti a quegli scorrevoli, Emma guardò la mamma.

E le salì un nodo alla gola.

Nonostante le esaltanti aspettative e sebbene si sentisse comunque felicissima ed eccitatissima, salutare i genitori, salutarli in quel posto anonimo e dall’odore sgradevole e salutarli sapendo che sarebbero stati lontani per due giorni le fecero venire una tremenda ed immediata voglia di piangere.

Si fece allora seria seria.

«Pronta?» chiese con serenità suo padre, che tutto sommato si era aspettato un momento simile.

Emma non riuscì a parlare, perché il nodo alla gola si stringeva forte.

Poi, in un tripudio di forti e diverse sensazioni, confuse tra la voglia di piangere e l’eccitazione,  ingoiò risolutamente ed annuì.

«Bene, allora dai, che il nonno ti aspetta e le due J non vedono l’ora che arrivi!» la esortò la mamma «Pensa a divertirti, che tanto ti telefoniamo stasera e comunque ci vediamo dopodomani mattina, alla Vigilia!»

Emma annuì di nuovo, seria.

I genitori la baciarono e poi, quasi in coro,  aggiunsero «Va’»

Emma fece un saltellò per aggiustarsi la giacca a vento sotto le bretelle dello zainetto, si voltò, individuò il nonno che già le sorrideva oltre le porte e cominciò subito a correre con quel fagottello ballonzolante sulle spalle, varcò gli scorrevoli e fu dall’altra parte, dove l’aria era più fresca e “pulita”, c’era molta più luce e tante persone ridevano contente abbracciandone altre, mentre quell’antipatico odore di “finto” era molto meno pungente.

Fuori aveva appena iniziato a nevicare ed Emma, in un attimo, si ritrovò ad aver già dimenticato il breve momento di tristezza che l’aveva colta solo poco prima.

Mi pare opportuno adesso indugiare appena un po’ su questo nonno, che ti ho nominato ormai svariate volte.

Ebbene, il nonno di Emma era un insegnante delle elementari sulla soglia della pensione e, per il comune ed oggettivo sentire, non poteva certo dirsi anziano, sebbene per la nipote naturalmente lo fosse, e anche tanto. Non farti beffe di quest’ultima affermazione, perché, se non ti è già capitato, prima o poi succederà anche a te, nel pieno delle forze, di essere appellato “vecchio” da un marmocchietto che non ti arriva nemmeno al punto vita.

Ma torniamo al nonno di Emma. Aveva una corta barba curata, punzecchiata di bianco, il bel pancione tondo degli amanti della buona tavola, anche se nel complesso non si sarebbe potuto definire grasso, e delle giacche spesso consunte sui polsi, che facevano bofonchiare un po’ la nonna, molto meno comunicativa di lui, ma piuttosto indulgente – e su di lei, questo ti basti, perché la trovo un po’ indolente ed anche poco stimolante. Lui invece era simpatico, ma non nel modo compassato e “british” che ci si sarebbe potuti aspettare, piuttosto in effetti il suo essere divertente sembrava espansivo e più “mediterraneo”. Non era però ingenuo o indulgente, perché soprattutto era un uomo schietto e sapeva esserlo in modo incredibilmente saggio, sia che si trattasse di esprimere giudizi positivi sia negativi. E questa sua peculiare caratteristica, naturalmente, lo aiutava parecchio nel suo rapporto con i bambini ed in un certo qual modo sembrava essere stata ereditata da Emma, che però non sapeva ancora gestirla con la medesima saggezza e forse non ci sarebbe mai riuscita.

In un’oretta scarsa arrivarono a casa, dove però non li attendevano grandi notizie…

Ci siamo.

«Emma» esordì il nonno «la zia ha telefonato poco fa, ci ha parlato la nonna. Le due J. sono a letto con la febbre alta… Fino a stamattina sembrava stessero bene… Questa sera non vi potrete vedere e temo proprio che non potrete nemmeno domani…»

Emma rimase ferma.

I suoi pensieri ed il suo umore cambiarono in un attimo.

Com’era possibile essere così felici e poi così tristi subito dopo?

A meno che tu non sia una persona estremamente fortunata, che non ha mai subito nemmeno una delusione, credo che anche tu possa capirla, anche se forse nemmeno tu sapresti spiegarle il perché di alcuni repentini cambiamenti della vita.

L’espressione di Emma mutò con la stessa rapidità delle sue sensazioni e divenne in un attimo così sconsolata che fu difficile per il nonno replicare all’istante.

Anche perché Emma non fiatò.

Rimase zitta, con quella faccetta delusa e gli occhi adombrati.

L’unica cosa che disse, dopo lungo tempo e con una vocetta un po’ strozzata, fu «Non mi sono nemmeno portata i miei giochi…» e ovviamente l’immediato e successivo pensiero fu che avrebbe voluto avere i genitori lì.

Le vennero gli occhi lucidi.

Quella fu forse la prima grande delusione della sua vita o, perlomeno, la prima di cui potesse percepire la tristezza sorda e insinuante che provano gli adulti, perché ora lei era più grande. Sì, perché quella era una piccola grande delusione di bambina, di quelle che si ricordano anche dopo, magari con un sorriso.

Mi sento di poter ribadire a questo punto che no, decisamente quel Natale del 1991 non si stava affatto svolgendo così come aveva immaginato la giovanissima Emma, che dopo aver tanto atteso si ritrovò solo con un pugno di sabbia che sfuggiva irrefrenabile, asciutta e fine, tra le piccole dita.

«Forza e coraggio!» esordì il nonno «Ci inventeremo dei giochi, ti porterò a pattinare alla pista di ghiaccio in centro e per la Vigilia starete tutti insieme!»

Emma rimase seria ed in silenzio, accennò un sì col capo, ed il suo pugnetto chiuso si strinse intorno a quella sabbia sfuggente, residuo della speranza.

Ma l’arena asciutta, purtroppo, è destinata a volare via, è nella sua natura, ed infatti la situazione purtroppo non migliorò affatto nei due giorni successivi e crollarono anche le deboli speranze prospettate dal nonno.

La neve incessante e potente impedì l’escursione alla pista di pattinaggio e, a quanto pareva, le due J si erano prese un’influenza con la “I” maiuscola ed il giorno della Vigilia fu chiaro che avrebbero perso anche le feste di Natale e sarebbero dovuti restare a casa con aspirine, termometri e pianti disperati, perché ovviamente, oltre alla feroce influenza, erano anche andati struggendosi per non poter trascorrere quei giorni tutti insieme.

Quel che si dice una tragedia, insomma.

Potrei ribadirti ulteriormente il concetto espresso all’inizio di questa storia, ma immagino tu possa convenire con me che non ce ne sia bisogno, anche perché la “tragedia” è ancora in atto.

Di fatti, se la dissoluzione di un’aspettativa ed il successivo svanire di una residua speranza sono certamente eventi cupi, riconoscerai che lo sgretolarsi repentino di una certezza può essere drammatico.

La perturbazione che aveva tartassato il sud dell’isola, ricoprendo Londra di più neve di quanto non fosse mai accaduto, si era lentamente spostata a nord-ovest e lì si era trasformata in una vera bufera: le vie di comunicazione erano interrotte, tutti i voli da Liverpool e dintorni erano stati cancellati ed i genitori di Emma non sarebbero potuti arrivare a Londra né per la Vigilia né, apparentemente, per il 25 dicembre.

Mi correggo. Adesso è una vera “tragedia”.

No, quello non era Natale.

Non poteva essere veramente Natale…

Anche se ti potrà apparire lampante, è comunque opportuno precisare che per Emma trascorrere il Natale con i propri genitori non era nemmeno una certezza, perché per poterla definire come tale la bambina avrebbe quantomeno dovuto porsi la questione, ma stare con mamma e papà in quei giorni natalizi era per lei tanto ovvio quanto il susseguirsi del giorno e della notte, sui quali, per l’appunto, non c’era alcuna questione da porsi. Era così, punto.

E invece no. In quel Natale Emma scoprì che non era così.

E lo scoprì, ancora una volta, in silenzio.

Pianse soltanto all’inizio, molto, e poi non parlò.

Era mesta e per certi versi anche arrabbiata, sebbene non le fosse ben chiaro con chi essere arrabbiata, a tratti coi cugini, a momenti coi genitori, ma poi si sentiva quasi in colpa per quella specie di rancore, perché loro gli mancavano, tanto, e quindi non capiva se ciò che provava fosse giusto o sbagliato. Forse era già abbastanza grande da non esplodere più in reazioni esagerate di pianto e capricci o magari invece il fatto di rinchiudersi in un bozzolo di riservatezza faceva già parte del suo carattere. Qualunque fossero i motivi del suo atteggiamento taciturno, la verità era che quella reazione era comprensibile e naturale, ma lei non parlò lo stesso.

Aspettò.

Se ne stette quieta e taciturna, un po’ in disparte, con indosso una tutina da ginnastica un po’ scolorita e la testolina dai cortissimi capelli neri china su un qualche disegno, con quell’aspetto da maschietto che sempre l’avrebbe caratterizzata, anche in futuro.

E aspettò.

E così aspettando, passò la Vigilia ed arrivò la mattina di Natale.

Emma ricevette dai nonni un bellissimo gioco da tavola, che aveva desiderato tanto e che, per ironia della sorte, essi le avevano regalato proprio perché potesse divertircisi con i due cugini.

Di certo la bambina non poté ignorare che quel regalo tanto desiderato fosse bellissimo, più di quanto avesse immaginato, e si rianimò un po’ nello stare intorno alla tavola, intenta a cercare di capirne le regole insieme al nonno. Si trattava inoltre di un gioco “da grandi”, dove addirittura si doveva indagare come gli investigatori per scovare un assassino, ed infatti ci si poteva giocare solo dagli otto anni in su. Ed Emma era naturalmente orgogliosa di poter dire che aveva raggiunto da molto tempo questa meta.

Il problema era che al momento Emma aveva a disposizione solo il nonno ed a quel gioco non si poteva giocare in due – ti ho già detto che la nonna non mi è sembrata molto stimolante e partecipativa, quindi la scuserai quando saprai che aveva declinato l’invito a giocare “perché era troppo ‘grande’ per certe cose, perchè non ci avrebbe capito nulla”… poco stimolante e poco partecipativa, ma direi anche un po’ egoista, tu che ne dici?

Comunque, a quel punto Emma iniziò a rimuginare sul fatto che la cosa più bella del gioco fossero i luoghi e l’atmosfera, perché tutto sommato le regole apparivano abbastanza semplici… Quindi pensò che sarebbe stato bello mettere su una sceneggiata in cui tutti interpretassero i personaggi del gioco, dal vero. Ideò anche un paio di modifiche da apportare allo studio del nonno perché diventasse simile ad una delle location rappresentate nel gioco. Sarebbe stato fantastico.

Ma poi chi avrebbe potuto giocare con lei?

Provò timidamente ad esprimere la sua idea al nonno.

«Uhm…» cominciò lui pensieroso «Penso che sia un ottimo progetto e possiamo sistemare lo studio, insieme. Mi piace. Ci vorrà un po’. Ma credo anche che, una volta fatto, domani e purtroppo forse anche dopodomani non avrai certamente a disposizione i personaggi per poterci giocare come si deve... Avresti un magnifico teatro, ma nessun attore dignitoso, perché dubito che io e la nonna possiamo essere considerati dei personaggi decenti per il tuo progetto. E mi sentirei anche di aggiungere che in questi giorni hai atteso fin troppo, per ricevere poi solo delusioni, e non mi pare il caso di produrne di nuove. E poi, soprattutto, sei già stata abbondantemente circondata da troppi adulti…»

L’uomo rimase quindi in silenzio per un po’, come rimuginando, e poi riprese «Però… Ascolta, Emma, ti andrebbe bene se ci occupassimo di attrezzare lo studio domani? Così, se avessimo bisogno di qualcosa in più, potremmo sfruttare anche dopodomani ed i negozi aperti per fare qualche giretto ed acquistare ciò che manca. E nel frattempo magari le due J si saranno rimesse in sesto. Però per oggi avrei un’idea…» era serio ma gli brillavano gli occhi «E onestamente mi sento anche uno stupido a non averci pensato prima!»

La bambina lo guardò in silenzio, attenta e seria seria.

«D’accordo. Vediamo se riesco ad organizzare quello che mi è venuto in mente. A me basta che ti fidi e che sia disposta ad uscire insieme a me subito dopo il pranzo di Natale, altrimenti sarà troppo tardi, ed a stare tutto il giorno fuori. Il resto è una sorpresa.»

«Sì» rispose lei decisa.

«Bene. Pranzeremo prima del solito e poi io e te usciremo! Sarà un Natale molto diverso dal solito. Ah, e portati anche questo gioco! Ora va’ a prepararti, che io faccio una telefonata.» e si alzò risoluto.

E la nonna? Te l’ho già detto che era indolente ed indulgente, è sufficiente.

Quanto al nonno, Emma naturalmente non ci pensò allora, ma io credo che in cuor suo avrebbe dovuto ringraziare di ritrovarsi un nonno tutto sommato piuttosto giovane, propositivo ed impaziente di mettersi tranquillamente in automobile dopo il pranzo di Natale.

Perché fu proprio in auto che la bambina si ritrovò, curiosa ed imbacuccata sopra la sua tuta da ginnastica scolorita.

Lasciarono una Londra decisamente poco trafficata e percorsero strade dai cigli innevati, immerse nella campagna dello Hampshire ricoperta dalla fitta e ferma coltre bianca caduta nei giorni precedenti. Dopo quel tempo inclemente, era incredibilmente arrivata una bellissima giornata ed il sole, che sarebbe calato dopo poche ore, era ancora luminoso.

Giunsero in una piccola cittadina che, completamente addobbata a festa e dal sapore antico, sembrava uno di quei villaggi ricostruiti dentro le sfere di vetro dei negozietti di souvenir, quelle con la neve finta.

Il nonno parcheggiò lungo il marciapiede di una strada costeggiata da un alto muro di mattoni rossi.

«Siamo arrivati.» le disse sfilando la chiave dell’accensione dal cruscotto.

Scesero dalla macchina e subito li raggiunsero voci di bambini, al di là dell’alto muro.

Il nonno guidò la nipote verso un cancello di ferro, attraverso le cui sbarre brunite  sbirciarono il grande parco completamente innevato che si trovava all’interno e dove spiccavano allegramente i giubbotti colorati di tanti ragazzini.

Emma strinse la scatola gialla del gioco che teneva tra le braccia.

Ed un accenno di speranza e trepidazione le illuminò le labbra e gli occhi.

È laborioso spiegare cosa scatti nella testa di un bambino quando si trova in vicinanza di un suo simile, specialmente in una situazione in cui non si aspetta di trovarne o se è stato a lungo da solo. Caro lettore, se ci provi, potrai riuscire a ricordartene ed io potrei tentare di aiutarti nel farlo. Forse, è come se nel bambino si attivasse una specie di calamita, che lo attira verso quelle personcine sconosciute, ma comunque indiscutibilmente affini, appartenenti allo stesso pianeta; una calamita frenata a volte dalla timidezza, dalla diffidenza e dal fatto che ancora non le conosce, ma una calamita ben evidente dallo sguardo, che rimane serio ed incollato proprio a quelle personcine sconosciute e nel quale sembrerebbe di leggere “Forse sono salvo!”.

Posso assicurarti che Emma provò questo genere di sensazione ed effettivamente, al di là delle delusioni e della mancanza dei genitori, convengo con l’affermazione di suo nonno: erano anche troppi giorni che si era ritrovata costretta nella casa dei nonni, senza poter uscire, senza giochi e circondata da soli adulti.

«Roger!» gridò contento il nonno, distogliendo Emma dal suo fissare quegli esseri della sua stessa specie che giocavano.

Un uomo che sembrava più giovane del nonno si voltò, sorrise e li salutò contento agitando le braccia «Benvenuti! Ho lasciato dentro la chiave del cancello! Aspettate un attimo e vengo ad aprirvi!» gli disse da lontano, a voce alta. Poi si rivolse alla truppa di ragazzini con lo stesso tono, in modo da raggiungerli tutti e richiamarli «È arrivata la nostra visita!»

Le aspettative di Emma crebbero: sarebbero entrati, proprio lì!

Poi un pensiero le balenò nella testa. Cosa ci facevano tutti quei bambini insieme, raggruppati in quel parco, con un adulto soltanto nei paraggi e proprio nel giorno di Natale, quando i bambini non sono mai da soli e, soprattutto, non sono mai in così netta maggioranza rispetto ai “grandi”? Anche lei, che aveva avuto la sfortuna di non poter stare con i genitori nei giorni di festa, era comunque accompagnata da suo nonno... Inoltre, se anche le due J avessero potuto trascorrere le feste col resto della famiglia, comunque non ci sarebbero stati più di tre bambini. Lì, invece, ce n’era un intero reggimento.

Mentre l’uomo spariva nell’edificio, i ragazzini, di colpo tutti rivolti verso il cancello ed i due ospiti appena arrivati, iniziarono a parlottare tra di loro, alcuni curiosi, altri ridacchianti o schivi, qualcuno iniziò anche ad esibire performances di salti e corse furiose nella neve, buttando sguardi interessati verso il cancello alla fine della propria “esecuzione”, per accertarsi di essere stato osservato. 

Il nonno, che se li guardava con un sorriso divertito negli occhi vispi, si chinò allora appena verso la nipote e la guardò ben fissa negli occhi «Non hai nulla da chiedermi? Se hai qualche domanda, è questo il momento di farmene.»

Senza farselo ripetere due volte né farsi attendere, Emma replicò all’istante «Dove sono tutti i “grandi”?»

Il nonno la esaminò con calma, serio ed incuriosito, e poi riprese a parlare «Tu sei un’ottima osservatrice ed io ti vedo troppo poco per conoscerti come si deve. Decisamente mi aspettavo un altro genere di domanda. Credevo mi avresti chiesto direttamente, e più banalmente, cos’era questo posto o chi è l’uomo che ci sta venendo ad aprire. Comunque, veniamo alla tua domanda: hai letto Tom Sawyer o Il giardino segreto o il GGG?»

La piccola Emma corrugò la fronte «Sì, li ho letti, ma… » si voltò di scatto verso il parco e considerò di nuovo i ragazzini che lo popolavano. Quindi loro sono…

«Bene. Mi sembra che tu abbia capito: il motivo per cui non ci sono “grandi”, come hai correttamente osservato, è perché i bambini che vedi, proprio come i protagonisti di quei tre romanzi, non hanno…»

Emma lo interruppe «Sono orfani. E questo è un orfanotrofio.»

«Sì, Emma. Esattamente, brutalmente e senza peli sulla lingua.» rispose lui seriamente e quasi fiero dalla schiettezza della ragazzina, una schiettezza che nemmeno lui, in quel caso, era riuscito a tirar fuori. Poi continuò «Tua madre ha ragione quando dice che mi somigli... Spero che il tuo essere diretta rimanga sempre parte della tua indole e che non sia solo una caratteristica legata alla tua giovane età e destinata a svanire col crescere. In molti potranno anche criticarti per questa tua sincerità, ma sappi che a me piace molto che le persone chiamino le cose col loro nome, senza paura, ed ammetto che in questo caso e per una volta sia stato proprio io a non volerlo fare dal primo istante per una mia personale debolezza. Perciò, sincerità per sincerità, sappi che non amo il termine “orfanotrofio”, perchè quando ero un po’ più grande di te lessi dei libri che descrivevano gli orfanotrofi, per l’appunto, come luoghi veramente orribili. E devi sapere che in effetti lo erano, sicuramente nel secolo passato ed anche dopo. Quindi, preferisco pensare a questo posto qui come ad una scuola a tempo pieno, dove i bambini vivono, tutti insieme ed in tutti i giorni dell’anno. Mi farai quindi un grande favore se, tra di noi, volessimo chiamare questo posto “Casa-Scuola”.»

Emma rimase seria, poi indietreggiò appena per osservare il parco, il grande edificio al suo interno ed il cancello stesso da una prospettiva più ampia. Si soffermò sulla targa di metallo apposta sul muro di mattoni, ai lati dell’ingresso.

Poi guardò di nuovo suo nonno «Va bene. Allora chiamiamola Casa di Wammy.»

«Perfetto.»

Emma rimuginò un poco, poi disse «Nonno, quali sono i libri in cui le… le Case-Scuola come questa qui erano orribili? I libri che hai detto di aver letto quando eri un po’ più grande di me… E poi perché ci sono tante storie che parlano di bambini senza genitori?»

«Uhm…» replicò il nonno pensieroso, portandosi una mano sulla barba, all’altezza del mento, ed iniziando a massaggiarla con una certa lentezza «Penso che quest’ultima domanda non abbia una risposta molto semplice e veloce… Ma andiamo in ordine. Per quel che riguarda i libri di cui ti parlavo, si tratta principalmente di due grandi classici della letteratura mondiale, che certamente leggerai. Uno è…»

«Sono così contento che siate venuti!» la voce squillante dell’uomo che li aveva salutati da lontano li interruppe. Roger era ricomparso e, quasi giunto al cancello, si stava ora avventurando con passi lenti sulla coltre di neve intatta, dove lasciava vistose impronte «E di certo non mi sarei aspettato di vedervi oggi!» continuò sorridendo «Buon Natale!»

Li raggiunse, aprì la serratura del cancello e lo spalancò, forzandolo un po’ sulla neve, poi abbracciò il nonno affettuosamente, ribadendogli che ricevere la sua telefonata era stato un regalo meraviglioso ed inaspettato.

Infine si rivolse alla nipote, osservandola da dietro un paio di piccoli occhiali «Ciao, Emma! Sono molto felice che tu sia venuta a trovarci! Io sono Roger e per alcuni anni, all’inizio della mia carriera di insegnante, ho lavorato nella stessa scuola di tuo nonno. Devi sapere che ho imparato moltissimo da lui e che lui è stato un esempio per me. Quindi sono doppiamente onorato di conoscere sua nipote.»

Emma annuì e, inorgoglita da quelle parole, si voltò brevemente per guardare di nuovo suo nonno, l’origine di quell’orgoglio.

«Ma veniamo a te» continuò Roger «Qui ti aspettano tutti, Emma. Li avevo avvertiti che ci sarebbe stata la visita di una bambina che non avevano mai conosciuto e devi sapere che loro sono sempre molto contenti delle novità!» le strizzò l’occhio.

Emma, sebbene non fosse affatto una bambina schiva o vergognosa nel complesso, percepì immediatamente un lieve senso di disagio nell’essere al centro di un’attenzione così evidente e conclamata e si ritrovò istintivamente a stringere nuovamente tra le braccia la scatola gialla del gioco che aveva portato con sé.

Si incamminarono dunque verso l’edificio e la schiera di ragazzini, che eccitati iniziarono a raccogliersi rumorosamente nella loro direzione. Guardavano Emma sorridenti, vocianti e forti del loro essere un gruppo, che in quanto tale vanifica ogni timidezza o paura, ed una volta vicini la circondarono, bombardandola di domande concitate. La distanza ed il silenzio avrebbero inibito la nuova arrivata, ma quell’accoglienza ravvicinata e rumorosa neutralizzò facilmente ed all’istante la lieve sensazione di disagio provata poco prima ed Emma si amalgamò al gruppo con naturalezza e vivacità.

Ma c’era un paio di occhi che, fuori dal coro, la puntavano, insistentemente e, questi sì, da lontano ed in silenzio…

Il nonno propose alla nipote di prendere in custodia la scatola del suo nuovo gioco, perché senza dubbi nel parco ci sarebbero state altre attività più “fisiche” cui abbandonarsi e poi certamente, appena fosse calato il sole e tutti fossero rientrati all’interno dell’edificio, avrebbero potuto dedicarsi anche al gioco che aveva portato Emma. Lei rimase un attimo interdetta, ma poi cedette, anche perché fu subito trascinata via da un branco di ragazzine che la reclamavano dalla loro parte nel gioco che volevano mettere su contro le proposte dei maschietti, che volevano organizzarne un altro completamente diverso.

Decidere quale proposta realizzare è piuttosto arduo quando si è in tanti ed una voce in più a favore della propria idea può essere determinante.

Le femminucce volevano trascinare Emma nel fare un qualche gioco in cui loro sarebbero state le principesse. Il grosso problema consisteva nel fatto che lei, invece, preferiva decisamente l’idea dei ragazzini. Questi ultimi infatti avevano pensato di creare una specie di fortino intorno all’area giochi che, oltre a due scivoli, alcune scalette in corda ed un ponticello, aveva anche due torrette e che quindi poteva benissimo trasformarsi in un castello vero e proprio. Con la neve, si trattava quindi di innalzare il muro di cinta e pupazzi come sentinelle, ma anche di preparare palle di neve per difendersi dagli attacchi e molto altro.

Non era affatto facile appoggiare la proposta del castello quando le ragazzine si erano mostrate così entusiaste di accogliere Emma, che quindi non sapeva bene come fare per uscirne, visto che ovviamente non voleva soccombere all’idea di dover giocare a qualcosa che proprio non l’attirava. Come forse in futuro si sarebbe intuito dall’indole della Emma adulta, “fare la principessa” non era mai stato uno dei sogni di divertimento della Emma bambina, che scorrazzava con una tuta da ginnastica un po’ scolorita e con dei capelli tagliati così corti da poter essere scambiata per un bambino.

Tutta la combriccola comunque si aspettava grandi cose da lei, che era l’ “ospite inaspettato” e conteso a cui mostrare la propria “casa” e mostrarsi.

Di certo però questa empasse sarebbe stata superata con molta più facilità se solo Emma non si fosse sentita ancora addosso quei due occhi distanti e silenziosi, che la continuavano a fissare…

«Se facessimo tutti insieme il castello, poi le principesse potrebbero starci dentro… » iniziò Emma e spostò fugacemente lo sguardo dai suoi compagni per controllare quei due occhi lontani.

La scrutavano ancora intensamente…

Distolse immediatamente le pupille da quella calamita e continuò «Tutte le principesse hanno un castello, con le mura…» un’altra fuggevole occhiata, ma niente da fare, lui non mollava.

Sembrava molto più distante di quanto in realtà non fosse, perché fisicamente si trovava anzi piuttosto vicino, ma era completamente isolato dal folto gruppo degli altri, tutti radunati nei pressi dell’area giochi che si stagliava nel parco alberato come una piazzola. Tra gli alberi che la circondavano infatti, c’era anche un enorme cedro secolare, con grossi rami che partivano dal basso, già dalla base del suo imponente fusto, quasi rasenti al prato ricoperto di neve. E lui era lì, agilmente posizionato nel cantuccio che uno di quei rami creava col tronco, come adagiato nell’incavo di una falce di Luna, con la schiena aderente al fusto nodoso ed i piedi arrampicati sul ramo che proseguiva verso l’alto.

Così se ne stava, questo piccolo satellite, intento a fissare da vicino il suo pianeta.

Una Luna che però, sebbene prossima, vista dalla Terra sembrava lontana anni luce.

Emma continuò «…E poi nei castelli ci sono le guardie, che devono difendere anche le principesse…» ancora una sbirciatina? Ma sì… E quel ragazzino era ancora lì, appollaiato sul suo basso ramo, e continuava a guardarla, con quegli occhi intensi e misteriosi, che un adulto avrebbe probabilmente definito quasi inquietanti.

«…E poi, ci potremmo inventare delle regole o delle finte magie… Insomma, potrebbe essere anche un castello fatato!» chiuse infine Emma, con maggiore verve e con un tono di voce più vivace e risoluto, un po’ per farsi sentire bene dallo strano ragazzino sull’albero, che indubbiamente la incuriosiva e che, da solo, la stava facendo sentire più al centro dell’attenzione di quanto non fosse riuscita a fare tutta la moltitudine radunata intorno a lei, un po’ perché lo stesso ragazzino, e soprattutto i suoi occhi incombenti, la stavano inspiegabilmente mettendo su un piano di sfida; una sfida tutto sommato incosciente, perché dietro quello sguardo silenzioso si annidava qualcosa che, in fondo in fondo, metteva quasi paura.

La scappatoia proposta da Emma, che salvava capra e cavoli ed aggiungeva l’elemento magico tutto da inventare, sembrò essere vincente e quindi la truppa si mise subito al lavoro.

Insieme agli altri, Emma iniziò a radunare la neve, che veniva poi ammassata e compattata lungo il perimetro dell’area giochi per la costruzione del muro di cinta.

Rannicchiata ed intenta a raspare il terreno per fare il pieno di quella coltre candida e gelata, più volte sollevò lo sguardo verso la piccola Luna sull’albero, ma per lo stesso identico numero di volte lo riabbassò, perché sempre incontrò quegli occhi sinistri fissi su di lei.

Poco prima, la sensazione di sfida aveva potuto avere la meglio perché si era sentita sicura, circondata dagli altri bambini, ma ora, che scorrazzava libera e svincolata dagli altri per accaparrarsi mucchi di neve, un certo turbamento ed il senso di timore furono vincenti, così Emma iniziò ad evitare i paraggi del grosso cedro e del suo singolare abitante.

Si impose inoltre di non alzare più lo sguardo e di non farsi più distogliere da lui, anche perché il gioco che stavano organizzando la divertiva parecchio e prometteva decisamente bene. E poi, quel ragazzino era completamente ignorato anche da tutti gli altri, perché avrebbe dovuto occuparsene lei?

Tuttavia, dopo un po’ che accumulavano neve, lasciando chiazze marroncine di terra da dove la toglievano, Emma si rese conto che l’unica area ancora perfettamente intonsa era proprio quella che circondava il massiccio cedro, dove il manto bianco continuava ad essere violato dalle sole piccole impronte lasciate dal ragazzino che l’aveva occupato chissà da quanto tempo, sicuramente da prima che Emma arrivasse.

La verità era che gli altri bambini non lo ignoravano affatto. Di certo non lo guardavano, non gli parlavano, non lo avvicinavano, ma proprio per questo sarebbe stato molto più corretto affermare che lo evitavano accuratamente, perché del resto, proprio per potergli sfuggire in modo così sistematico, dovevano essere ben lungi dal trascurarlo o dal non considerarlo.

Anche Emma era riuscita abilmente a non guardare più lui ed i suoi occhi, ma la vista di quelle uniche impronte sul manto innevato presso il grande albero le fecero di nuovo spostare lo sguardo su chi le aveva lasciate.

Ciò che la colpì non furono più soltanto gli occhi che continuavano a fissarla, ma anche la singolare luce che ora li accendeva e che suggeriva una sorta di compiacimento beffardo, accentuato dagli angoli della bocca che adesso si sollevavano appena in quello che sembrava un sorrisetto infido di vittoria.

Emma corrugò la fronte e per la prima volta sostenne lo sguardo a lungo, accigliandosi.

Poi si voltò, scaricò sul costruendo muro il mucchio di neve che aveva recuperato e si diresse risoluta verso l’ormai famoso albero, a testa bassa, fissando seria il terreno.

Si piantò sfacciatamente proprio sotto al cedro, guardò di nuovo il ragazzino, questa volta in modo sfrontato e grintoso, poi si accucciò ed iniziò a raccogliere la neve energicamente, a grosse manciate.  

«Ma tu lo sai che stai facendo una grossa fatica per niente, vero?» esordì lui, senza scomporre minimamente la sua posizione, esprimendo con calma e lentezza quella pillola di provocazione.

Emma sollevò la testolina di corti capelli neri, decisa e vittoriosa, perché lui si era “abbassato” a rivolgerle la parola.

«No, non lo so.» gli rispose.

Poi si alzò in piedi, continuando a guardarlo «Ma comunque non sto faticando.»

«Ah no?» domandò lui come ingenuamente, ma sempre con quel sorrisetto beffardo «A me sembrava proprio così invece… E, comunque, lo stai facendo per niente. È un gioco inutile. Lo sai che tra poco il sole tramonterà? E col buio, tu e tutti gli altri» accennò con una rapida mossa del capo verso gli altri bambini «dovrete allora per forza rientrare nell’edificio. Quindi, per oggi, è sicuro che non avrete il tempo di finire il vostro progetto di castello fatato. E per te è anche peggio, perché stasera te ne andrai e quindi non potrai nemmeno continuare domani. E poi, comunque, quando la neve si scioglierà, sparirà tutto. Per questo è un gioco inutile.»

«Inutile?» esordì Emma, stupita per quest’ultima affermazione e nient’affatto scoraggiata nelle sue intenzioni di sano divertimento dalle asettiche e disfattiste considerazioni del ragazzino «Non ho mai pensato che un gioco fosse inutile. Giocare non è mai inutile.» fece un passo e si accostò al ramo dove lui era appollaiato «Mi sembra invece inutile stare su quest’albero senza fare niente, a guardare soltanto quello che facciamo noi. Questo “per me” è inutile. Inutile e noiosissimo. Lo farai anche domani?»

Il bambino non ribatté subito, ma abbozzò di nuovo un sorrisetto, stavolta però intriso di un certo divertimento e di una luce come speranzosa, anche se ambigua. Spostò poi quegli occhi accesi un po’ più in alto, puntando attentamente poco sopra il capo di Emma, come se ci fosse stato qualcosa da guardare, e rimase così per qualche istante, in silenzio.

Infine ritornò con lo sguardo su di lei «Emma, è così che ti chiami, no? Be’, forse io starò su quest’albero anche domani, sì. Ma siccome tu mi piaci, siccome non mi sembri come tutti gli altri, qui, voglio proprio vedere se mi divertirò a giocare con te.» si disincastrò abilmente dalla posizione che aveva mantenuto fin a quel momento, si erse in piedi sul ramo e saltò giù, affianco ad Emma.

Era magro ed aveva i capelli neri.

Lei se lo guardò incuriosita ed in qualche strano modo onorata dall’essere stata praticamente “scelta” da lui, ma nello stesso tempo percependo comunque una specie di disagio, perché quella sensazione di timore non l’aveva lasciata, nonostante la grinta tirata fuori «Quindi vuoi giocare solo con me?» gli chiese.

«Sì, è quello che ho detto.»

«Ma non vuoi costruire il castello.»

«No. Voglio vedere quel tuo gioco nella scatola gialla, quello che ti sei fatta convincere a portare dentro, anche se non mi sembrava affatto che volessi separartene.»

Era un ottimo osservatore, l’aveva studiata fin troppo bene e fin dal primo istante.

E l’aveva messa nel sacco.

Emma voleva costruire il castello insieme agli altri, non c’erano dubbi, ma lui l’aveva lusingata in qualche modo e soprattutto le aveva proposto di tirare fuori il suo gioco da tavola nuovo nuovo…

«In due non ci si può giocare. E poi non sai nemmeno che gioco sia…» insinuò Emma, che era titubante, che non si fidava.

«Ma sono sceso dal mio albero, per il tuo gioco e per te. E poi, ti ho chiesto solo di mostrarmelo. Se non mi piacerà, voi due sarete la mia delusione di oggi.» e rise.

«Delusione? Guarda che lì si parla di omicidi ed assassini, mica di castelli fatati!» sbottò Emma.

«Davvero?» chiese lui con quel fare ingenuo, che però sembrava finto e nascondeva altro.

Emma pensò che era un bugiardo, che aveva saputo benissimo e fin dal primo istante di quale gioco si trattasse, che l’avesse riconosciuto dalla scatola, perché era un prodotto molto famoso e pubblicizzato. Pensò anche che quel ragazzino continuava a fargli quasi paura, che in lui ci fosse qualcosa di strano, ma che fosse piuttosto arduo dirgli di no, perché, oltre ad essere molto furbo, era magnetico.

«Sì, davvero…» rispose allora Emma poco convinta «Ma tu già lo sapevi… Secondo me tu già lo sapevi!» aggiunse scrutandolo diffidente.

Lui scrollò le spalle «Forse… Quello che conta è che ora voglio vederlo. E poi le storie di omicidi mi piacciono…»

Lui voleva solo vederlo, ed Emma naturalmente era attirata dall’idea di sfoggiare il suo gioco di fronte ad un bambino che sembrava tanto esigente. E poi, visto che in due non si poteva intavolare una partita, l’impresa sarebbe stata abbandonata e lei avrebbe potuto continuare a costruire il suo castello insieme agli altri. Il fatto che ad Emma non fosse proprio venuto in mente di proporre a qualcun altro dei bambini là fuori di unirsi a loro due per una partita fu piuttosto insolito. Si trattò probabilmente del naturale effetto della confidenza elitaria che lui le aveva concesso e che la portava a ragionare solo ed esclusivamente a due.

Quindi si decise «Va bene. Lo vado a prendere.»

Si voltò per cercare suo nonno, che in effetti non aveva più visto da un bel po’, da quando era stata catturata dalla masnada di bambini appena erano arrivati. E poi, in verità, non se ne era proprio più preoccupata. Il nonno non si vedeva, e nemmeno il suo amico Roger. L’unico adulto adesso era una donna tarchiata di una certa età, dall’espressione lievemente contrariata.

Solo allora però, guardandosi intorno, Emma si rese conto che molti dei ragazzini erano rivolti proprio verso loro due, che erano rimasti isolati sotto quell’albero. Li guardavano entrambi, diffidenti e quasi allarmati, qualcuno anche sussurrando qualcosa nell’orecchio del vicino.

«Tuo nonno è entrato dentro con Roger.» esordì placidamente il bambino dell’albero «Io ti aspetto qui. E non perderti.» aggiunse con la solita aria di sfida.

Emma non gli rispose, nemmeno lo guardò. Iniziò solo a correre verso l’ingresso dell’edificio.

Il ragazzino dell’albero era un incantatore, la incuriosiva, la faceva sentire speciale e la stuzzicava nella sua intelligenza, ma la verità era che la irritava e che, ora che si stava allontanando da lui, quasi si sentiva sollevata. E poi lui non le aveva ancora detto nemmeno il suo nome.

La prima cosa che la colpì quando entrò nell’edificio fu il calore, che si mescolava ad un dolciastro e buonissimo odore. Era il profumo dei mobili antichi, che ricordava quello del miele, era il profumo della morbida cera passata per secoli sul pavimento, le scale, i corrimano, il ballatoio che sovrastava quell’enorme stanza. E poi c’era il profumo pungente e fresco dell’imponente abete addobbato che si stagliava nell’angolo, sotto la scalinata lignea ed intarsiata.

Ed Emma solo allora si ricordò che era il giorno di Natale e pensò che quel luogo sembrava proprio il castello del piccolo Lord, dove la sua immaginazione, da quel che ricordava, aveva sempre collocato il Natale per antonomasia.

L’imponente e profumato androne, tappezzato di libri, era deserto, ma una musica vi giungeva di sottofondo, placida, anche questa dal sapore caldo e natalizio.

Emma si addentrò a passi lenti ed un po’ incerti sulle lunghe tavole appena scricchiolanti del pavimento.

La melodia proveniva da una larga porta dai due battenti spalancati.

Emma la raggiunse e si ritrovò sull’uscio di un ampio salone luminoso, ammantato di tappeti un po’ logori e dai colori scuri e dove un caminetto acceso crepitava solitario davanti ad un tavolo su cui era poggiato un vassoio con due tazze ed un piattino vuoto.

Nemmeno lì c’era nessuno.

Emma avanzò nella stanza, osservò che nelle tazze rimaneva solo una lacrima di tè e qualche rimasuglio della sua polvere.

Il nonno e Roger dovevano essere stati lì.

Toccò le tazze. Erano ancora calde. Dovevano essere stati lì fino a poco prima.

Si guardò di nuovo intorno.

No.

Qualcuno c’era…

Qualcuno seduto per terra, rannicchiato nell’angolo.

Qualcuno che non aveva alzato nemmeno la testa, che restava china e protesa verso un libro, che anche era poggiato per terra, davanti a lui.

Perché di certo era un lui, un “piccolo lui” a piedi nudi e dai folti e scompigliati capelli corvini.

Emma si avvicinò un po’, ma lui non mostrò minimamente di essersi accorto della sua presenza.

Avrebbe voluto chiedergli se sapeva dove trovare Roger e suo nonno, ma non se la sentì di chiamarlo, non seppe nemmeno lei il perché. Era come se istintivamente non volesse rovinare l’atmosfera pacifica e calda di quella stanza, che comprendeva anche lui ed il suo silenzio attento al libro che aveva davanti.

Quindi con circospezione e passi felpati si avvicinò ancora, arrivandogli proprio di fronte, vicina.

Gli osservò quindi dall’alto la folta capigliatura ed il collo magro, scandito dalle guglie angolose delle vertebre, che sotto la pelle chiara proseguivano regolari fin sotto il largo girocollo della magliettina che indossava, che era bianca e troppo ampia.

Ancora niente.

Continuava imperterrito a leggere senza spostarsi di un millimetro.

Allora si inginocchiò anche lei, tanto da poter sentire il profumo di pulito di quei capelli neri, che ora aveva proprio davanti agli occhi, vicinissimi.

«All’inizio sembrava che non mi volessi disturbare… E non mi hai chiamato.» incominciò così, calmo, continuando a tenere la testa china sul libro «Ma poi hai deciso di arrivare fin qui, senza fare rumore… Hai pensato che magari in questo modo mi avresti disturbato meno? Roger e tuo nonno, comunque, sono nello studio al piano di sopra, il tuo gioco invece è sulla sedia rossa, intorno al tavolo grande.» concluse, senza mai alzare la testa, senza mai guardarla, distaccato.

Emma non rispose, né si mise a cercare con lo sguardo la sedia rossa di cui le aveva parlato.

Si impuntò nel non volergli parlare subito.

Lui allora finalmente sollevò il capo e la fissò intensamente.

Era molto serio.

Doveva avere all’incirca la sua età, ma da come la guardava sembrava più grande.

Aveva degli occhi nerissimi ed intensissimi, che parevano enormi ed erano sottolineati da lievi occhiaie.

Erano bellissimi.

«Sì, è verissimo, prima ho pensato che avrei disturbato meno.» rispose finalmente la piccola Emma, senza alcuna incertezza o disagio «Però adesso so che tu invece ti eri accorto di me dal primo momento e già sapevi cosa volevo chiederti. Sapevi perché mi stavo avvicinando e sapevi anche il motivo per cui lo stavo facendo lentamente. Penso anche che me l’avresti potuto dire subito quello che volevo, senza farmi avvicinare, visto che l’avevi capito. Io allora avrei preso il mio gioco e me ne sarei andata. Quindi adesso penso che tu volevi essere disturbato da me e volevi che mi avvicinassi, anche se mi hai detto il contrario. Mi sa che sei proprio come il bambino dell’albero. Solo che tu sei il bambino dell’angolo.»

Lui si grattò la nuca «…Come il bambino dell’albero… Davvero pensi che io volessi che tu ti avvicinassi?» chiese candidamente.

Emma ci dovette pensare un attimo, perché si era aspettata da lui una risposta diversa, magari fastidiosa e finta come quelle che aveva ricevuto poco prima nel parco, mentre quella nuova conoscenza sembrava adesso sincera.

Perciò rispose sinceramente «Adesso non ne sono più tanto sicura…»

«Perché non volevi disturbare?» chiese di nuovo lui, incuriosito.

«Non è che non volevo disturbare… Forse non volevo parlare… Si stava così bene qui dentro...» si guardò intorno di nuovo «Prima, nel parco, quasi non mi sembrava più che fosse Natale… Ma poi…» ritornò a scrutarlo in quegli occhi ed istintivamente, senza sapere bene il perché, il suo stato d’animo si oscurò.

Quegli occhi erano così seri, ma adesso sembravano così carichi di un’immensa tristezza.

Una tristezza che solo pochi istanti prima non c’era stata e che aveva invece ora adombrato lo sprazzo di ingenua curiosità del bambino dell’angolo.

Emma allora continuò «Grazie per il gioco… Mi dispiace tanto di averti disturbato. E mi dispiace tanto di averti fatto diventare triste… Scusami…»

Il bambino non abbassò lo sguardo, ma delicatamente fece scivolare le braccia sotto alle ginocchia rannicchiate e le avvicinò ancor più al corpicino, che era ingolfato dalle pieghe della magliettina ampia che indossava «Penso che ti sbagli. Mi hai disturbato, ma non mi hai fatto diventare triste.» e serrò le dita intorno alle ginocchia.

Emma corrugò le sopracciglia, perché era certa che le avesse appena mentito. E non era il primo a farlo, in quella singolare giornata. Cambiò di nuovo idea su di lui. Quindi lo fissò ancora per un po’ in silenzio, poi gli rispose «Io sono sicura di quello che io ti ho appena detto. Tu invece mi hai detto una bugia. Anche il bambino sull’albero mi ha detto delle bugie, io lo so. Lo so che non mi conoscete, ma non capisco perché l’avete fatto…»

«Ancora il bambino sull’albero…» disse distaccato il ragazzino, con ancora le dita serrate sotto le ginocchia «Ti ha parlato?»

Emma annuì.

Era improvvisamente ritornato ad essere quello di prima, quello che sembrava più grande.

«E scommetto che tu sei entrata qui a cercare quel gioco perché te l’ha chiesto lui…»

«Sì…» rispose Emma e si alzò, trovò la scatola gialla sulla sedia rossa, la prese e ritornò a sedersi davanti a lui, guardandolo, come in attesa che lui continuasse a pararle.

«Puoi essere certa che il tuo gioco non gli piacerà.» proseguì il bambino.

«No, vero…?» ribatté lei un po’ sconsolata, ma in fondo poco stupita «Se me lo dici tu che lo conosci, ti credo. Basta che non sia un’altra tua bugia.»

«Io non lo conosco, non ci ho mai parlato. Ma so quello che fa e quello che dice ed un gioco in cui bisogna fare i detective per scovare un assassino non gli piacerebbe…»

«Ha detto che gli piacevano le storie di omicidi…» disse Emma.

«Appunto. Non quelle di detective.»

Emma sospirò.

«E poi questo gioco è troppo semplice.» continuò lui, sganciando le mani dalle ginocchia ed aprendo la scatola che Emma aveva poggiato a terra.

Emma lo lasciò fare, ormai sconfitta «Quindi non piace nemmeno a te.»

«Ho detto che è troppo facile, non che non mi piace.» ribatté lui mentre osservava accuratamente i componenti «Però si potrebbe rendere molto più difficile…»

Emma aguzzò le orecchie e si entusiasmò subito «Io non ci ho ancora potuto giocare, però anche a me era sembrato semplice ed avevo pensato di sfruttarlo in un altro modo! Avevo pensato di metterlo in scena, addobbando lo studio di nonno! Ma la tua idea sarebbe fantastica! Magari potremmo fare le due cose insieme: prima io ti aiuto a farlo più difficile e poi tu mi aiuti a farlo diventare “vero”!» si guardò intorno un’altra volta «Questo edificio è perfetto! Ci sono tante stanze perfette!»

Lui sollevò lo sguardo, si portò il pollice sul labbro e placidamente le rispose «Sì, potremmo.» poi i suoi occhi si spostarono e fissarono qualcosa alle spalle di Emma.

La sua espressione mutò, divenendo dura e molto più distaccata.

«Mi piace l’idea di farlo diventare “vero”…» furono le parole di qualcuno che doveva essere entrato da poco nella stanza.

Emma si girò di scatto.

Era il bambino dell’albero, fermo sull’uscio della porta.

«Non ti vedevo tornare e ho pensato che ti fossi persa… Questo posto è grande e pieno di stanze… E invece sei qui a giocare con lui.» la squadrò con rancore.

«Ti ho già detto che non si può fare una partita in due.» ribatté Emma.

«Mi sembra che questa regola valga solo per me, però. Perché con lui sei disposta a giocare in qualche modo.»

«Sì. Perché lui mi ha proposto qualcosa di divertente. Tu hai solo detto che se il gioco non ti fosse piaciuto, ti avrei deluso. Se fossi al mio posto, chi sceglieresti? Lui o te stesso?»

Il ragazzino dell’albero sgranò quegli occhi sinistri, trattenne il respiro e poi rise, improvvisamente «E dimmi un po’, se volete farlo dal “vero”, avrete bisogno anche di un morto “vero”…»

Emma indietreggiò appena. Le venne istintivo avvicinarsi al bambino rannicchiato alle sue spalle, che le dava sicurezza, ma che ancora non era intervenuto.

La sua partecipazione non si fece però attendere ulteriormente «Non credo proprio che tu non capisca che non ci sarebbe nessun divertimento nell’insistere sulla vittima. Non lo credo perchè sei intelligente.» disse, calmo come prima «Sai benissimo che l’obiettivo del gioco è scovare l’assassino e divertirsi nel farlo. Dare forma alla vittima sarebbe perfettamente inutile, oltre che assolutamente irrilevante. Probabilmente anche sgradevole, tanto più per dei bambini della nostra età. Ma magari per te non è così tanto spiacevole… Comunque, non mi resta che pensare che, parlando di “morti”, tu voglia metterle paura, che voglia mettere paura a tutti e che in generale ti piaccia trasmettere a tutti un disagio, sempre. E davvero non capisco cosa ti porti a farlo, né perché questo possa divertirti. Ma forse non ci ho mai pensato abbastanza. Anzi, non ci ho mai pensato e basta.»

Era fantastico.

Non si poteva non stare dalla sua parte ed in fondo Emma l’aveva sentito dal primo momento, anche se lui era strano e le aveva suscitato dei dubbi.

Parlava di affari di bambini, li valutava con estrema serietà, perché anche lui era un bambino. Ma ne parlava usando le parole degli adulti ed era vincente.

L’avversario sull’uscio della porta non fece attendere la sua replica «Sembra che non ti importi mai nulla di nessuno. Ma pare che proprio tu, che sei quello che non ci considera affatto, proprio tu sia parecchio interessato a me e che mi conosca bene.» e sfoggiò un sorriso pungente e compiaciuto.

«Ti ho solo osservato, come ho fatto con tutti, perché sono dotato di occhi, orecchie ed intelligenza. E non dimentico nulla di quello che osservo. Tuttavia, se fossi stato interessato, ti sarei venuto a cercare e potrei dire adesso di conoscerti. Ma, in verità, non so nemmeno come ti chiami e non me lo sono mai chiesto.»

Era stato durissimo, spietato… E la cosa più impressionante era stata la quiete con cui aveva sganciato le sue bombe mortificanti.

Emma pensò che non sarebbe mai riuscita ad essere così cruda. Ma pensò anche che quella durezza fosse una verità. Su questo il suo paladino dai bellissimi occhi neri non aveva mentito.

Quasi le dispiacque per il ragazzino dell’albero, che aveva ora perso tutto il suo magnetismo e mostrò un’espressione quasi ferita sul volto scarno.

Poi però abbozzò un sorriso sarcastico «D’accordo. Magari un giorno lo saprai, il mio nome, e forse non te lo scorderai.»

«Ti ho già detto che è difficile che possa scordarmi qualcosa.» ribatté l’altro.

«Me ne ricorderò.» disse il bambino dell’albero mentre si voltava.

E se ne andò.

Emma rimase zitta per un po’.

Poi si girò di nuovo verso il suo “bambino-adulto” «Davvero non sai come si chiama?»

«No, non lo so.»

Lei si accigliò «Anche tu sei un po’ cattivo, lo sai? Giusto, ma cattivo.»

«È da cattivi dire la verità?» le chiese lui ingenuamente.

«Ma tu non dici sempre la verità… Prima mi hai mentito…» poi però gli sorrise «Io comunque mi chiamo Emma. Non voglio che tu possa dire, magari domani, che non mi conosci e che non sai nemmeno come mi chiamo.»

«Non me lo dimenticherò, Emma.»

«Questo l’avevo capito.» rise lei contenta «E tu, invece, chi sei?»

«Io sono Elle.»

 

Deve sempre rovinarmi il divertimento…

Ed io che avevo fatto di tutto per farvi credere che il piccolo Elle fosse proprio il bambino sull’albero…

Eh eh eh…

Ma no, sono certo che appena è comparso quel qualcuno rannicchiato nell’angolo della stanza avete capito.

Chi sarà mai il bambino dell’albero?

Rimuginate, rimuginate, anche se è piuttosto facile…

Oggi non ho voluto disturbarvi nella lettura, ma sono sicuro che non vi sia sfuggita la presenza di una voce narrante un po’ diversa dal consueto…

Niente film mentali.

Ovviamente ero sempre io, ma, come mi capita spesso, amo variare e quindi ho voluto raccontare questa parte della storia aggiungendoci quel sapore un po’ antico dei narratori di una volta.

Del resto, stavo parlando di un Natale passato…

 

 

 

 

 

Un capitolo molto lungo.

Come al solito, ho scritto troppo ed il tutto si è dilatato… Quindi? Quindi vi ritrovate il capitolo troncato così, come tante volte anche in passato mi era capitato di dover fare… Col prossimo ritroveremo Emma ed L in quella stanza (sempre se non vi ho stroncato con la lentezza di questo).

Spero vivamente di non avervi annoiato troppo, specialmente nella prima parte, dove ho dovuto gettare delle basi.

Non aggiungo altro, perchè mi sono ripromessa di non tediarvi con le mie ansie, che vi assicuro essere veramente enormi, perché con questo capitolo ho dovuto veramente ricominciare una storia da capo… Ma una promessa è una promessa, quindi mi tappo la bocca.

 

Per la cronaca, il famoso gioco da tavola onnipresente, è il Cluedo, ma tra PS4, smartphone, Candy crash o Clash royale, dubito che sia ancora di “moda” tra i ragazzini. Di certo ai tempi di L ed Emma andava alla grande.

I due libri in cui si descrivevano gli orfanotrofi cui accenna il nonno di Emma? Ma naturalmente Oliver Twist e Jane Eyre ;)

 

Grazie di avermi seguito e di aver già inserito in tanti questa storia tra le ricordate e preferite.

Mi aspettavo di no avere nemmeno un lettore…

Grazie di aver letto fin qui e, per chi ci sarà ancora, ci vediamo al prossimo capitolo ^^

 

Eru

PS Buona Pasquaaaaaaaaaa!!! :D

 

 

 

 

 

 

 

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