Il ritorno della magia

di girasoledicarta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vigilia di una nuova vita ***
Capitolo 2: *** Il mistero della notte ***



Capitolo 1
*** Vigilia di una nuova vita ***


1. Vigilia di una nuova vita


C’è almeno un punto
in ogni sogno,
dove non si può
toccare il fondo: un ombelico,
in un certo senso,
che è il suo punto
di contatto con l’ignoto.
(Sigmund Freud)


 
Quella fredda mattina in Memphis scendevano in grande quantità fiocchi di neve, posandosi sulle case, sui giardini, sulle vie trafficate e sui quartieri tranquilli.
In quel piccolo angolo di periferia dove viveva Bridget, stavano per succedere cose alquanto strane che lei non avrebbe mai potuto immaginare.
Bridget aveva dei lunghi e ricci capelli rossi, accompagnati da due grandi e graziosi occhi azzurri, quasi color ghiaccio. Era una ragazza conosciuta nel suo quartiere per il suo essere molto diffidente, ma allo stesso tempo tenera. E in parecchie situazioni spiacevoli, sapeva dimostrarsi davvero coraggiosa.
Quando aprì gli occhi una realtà meravigliosa si fece spazio nella sua mente. Era il 24 dicembre. Il suo diciottesimo compleanno. La vigilia di Natale. Ed era pure in vacanza.
Dopo essersi presa qualche secondo per pensare a tutte le cose che avrebbe dovuto fare, scostò le lenzuola e la coperta con un sorriso – succedeva rare volte – e corse ad aprire gli scuri. Quel giorno era ufficialmente maggiorenne. Non sarebbe dovuta andare a scuola e il giorno seguente sarebbe stato Natale. In poche parole, era uno dei giorni più belli di tutta la sua vita.
Senza neanche fare alcuna tappa in bagno e senza togliere il pigiama, fece per scendere in salotto saltellando ma, facendo questo in estrema velocità, urtò lo scaffale di libri appoggiato al muro in corridoio. Le caddero sui piedi circa una decina di tomi, a sua detta inutili, frantumando allegoricamente in mille pezzetti le dita che imploravano pietà.
Iniziò a raccoglierli. Tutti appartenevano al padre, un medico e uomo di grande cultura: Le basi farmacologiche della terapia, Odontoiatria restaurativa, Atlante di Anatomia Fisiopatologica e Clinica, Microbiologia medica e... Wonderland?
L'ultimo libro che le aveva sbriciolato il piede non centrava assolutamente nulla con i noiosi libri scientifici di Mark.
Bridget, curiosa di sapere cosa fosse, lo aprì. Nella prima pagina c’era il disegno di una mappa di questa cosa chiamata il Paese delle Meraviglie.
Forse è una copia scarabocchiata del libro di Lewis Carroll, pensò la ragazza. Continuò a sfogliare. Nella facciata seguente, stava scritto Il Paese delle Meraviglie di Bridget Cooper.
Così improvvisamente iniziò a ricordare che apparteneva proprio a lei: lo utilizzava quasi ogni giorno quando era piccola.
Senza pensarci troppo, decise che non le sarebbe più servito, quindi lo buttò immediatamente in uno degli scatoloni delle cose da buttare. Sua madre Susan quel pomeriggio lo avrebbe fatto sparire.
Quando Bridget arrivò in salotto trovò sua sorella a bere una tazza di caffè. Si chiamava Maya e aveva vent'anni. Quando la vide fece un balzo e corse ad abbracciarla.
Per un attimo Bridget stava dimenticando che era il suo diciottesimo compleanno e per qualche secondo non capì il motivo di quel tenero attentato.
«Sei vecchia» sussurrò Maya nell’orecchio della sorella.
«Parla quella» ribatté l’altra sciogliendo la stretta.
«Pel di Carota»
«Non chiamarmi così»
Bridget aveva sempre odiato quel soprannome che tutta la mia famiglia e tutti i suoi amici usavano da quando era piccola solo per il colore dei suoi capelli. Maledetto papà, pensava sempre ridendo, se non somigliassi esteticamente a lui sarebbe tutto più semplice.
Sospirò sentendo la risata della sorella.
«Mamma e papà?» chiese a Maya, non vedendo i suoi genitori.
Lei alzò le spalle. «A farsi un giro»
Mandò un cenno d'assenso a sua sorella e si sedette comodamente sul divano con una brioche tra le mani. Allungò il braccio per arrivare al telecomando e poi accese la TV.
«Un’ondata di gelo e maltempo…» stava esordendo un uomo al telegiornale, quando la porta venne spalancata da Susan e Mark.
«Buon compleanno tesoro!» dissero in coro, andando ad abbracciare la loro figlia.
I suoi genitori erano sempre stati delle persone molto affettuose, ed era una cosa che Bridget aveva sempre apprezzato, ed erano anche due adulti molto saggi, motivo per cui li ammirava moltissimo.
Mark era un uomo di cinquant’anni, alto e con due spalle molto larghe. I suoi capelli erano lisci e arancioni e i suoi occhi di un azzurro chiarissimo, entrambe le caratteristiche ereditate poi dalla figlia Bridget. Di carattere era molto pacato, sapiente, tranquillo e rilassato, personalità molto simile a quella di Maya.
Susan invece era tutto il contrario del marito. Era una donna di quarantacinque anni, con gli occhi marroni e i capelli neri e lisci, come quelli della figlia Maya. Caratterialmente era molto ansiosa, coraggiosa e tanto affettuosa, indole trasmessa a Bridget.
«Grazie» rispose Bridget, ricambiando l’abbraccio.
 
Dopo pranzo, Bridget si diresse verso la sua cartolibreria di fiducia che distava a due minuti di camminata. La ragazza si avviò a piedi, dopo essersi coperta per bene.
Durante la passeggiata, i suoi scarponcini pestavano sulla neve fresca che scendeva senza sosta; un freddo gelido si insinuava tra la sciarpa della ragazza e il silenzio invernale, rotto esclusivamente dal rumore del passaggio di qualche automobile, rilassava Bridget e tutti gli altri passanti.
Quando arrivò a destinazione non indugiò a spalancare a porta del negozio per entrare immediatamente in un posto caldo. Una volta aperta, sentì un tintinnio. Un ciondolo a forma di stella cometa grigia era attaccato sopra la porta. Strano, pensò subito Bridget, osservandolo con gli occhi rivolti verso la decorazione, non c'era mai stato prima d'ora. Jade, la negoziante, una donna di circa trent’anni molto socievole ma strana, li ha sempre odiati quegli aggeggi che suonano appena qualcuno varca la soglia. Ma forse quell’anno aveva deciso di metterlo come addobbo di Natale.
Bridget diede uno sguardo intorno e si accorse di non essere entrata nella cartolibreria dove avrebbe semplicemente dovuto comprare del materiale per la scuola e un libro da regalare a sua sorella. Aggrottò la fronte e si chiese da quanto tempo esistesse un bar simile in quel quartiere. Era un ambiente buio, la cui unica luce proveniva dalle finestre semi-aperte e dal lampadario che emanava un fioco bagliore di un giallo scuro. Gli unici presenti erano un anziano signore dietro il bancone e due ragazze sedute a un tavolino con una bambina. L’uomo aveva una lunga barba grigia, indossava un tabarro nero e portava un monocolo sull’occhio destro, azzurro, e Bridget giurò di vedere in lontananza che l’occhio sinistro fosse invece marrone.
Senza farsi notare dal barista, uscì sconvolta, guardando poi l'insegna sopra la porta. Ci stava proprio scritto “cartolibreria” come tutte le altre volte. Può essere però che Jade abbia traslocato e che il proprietario si sia dimenticato di cambiare il nome, fu il pensiero di Bridget, per convincersi che non stesse avendo delle allucinazioni.
«Che cosa ti serve?» una voce alle sue spalle la fece voltare di scatto. Era una donna che parlava con un bambino.
«Le penne colorate» rispose lui.
I due entrarono in quella che era la cartolibreria e, curiosa, Bridget li seguì, per vedere la loro reazione una volta scoperto che quello in realtà era un bar. Ma una volta dentro, si ritrovò sempre in quello strano locale, e la madre e il figlio non c’erano, come se non fossero mai entrati.
Il barista la scrutò incuriosito, ma lei uscì spaventata. Che stava succedendo?
Dopo pochi secondi la donna con il bambino fecero ritorno. Lei teneva un sacchetto con all’interno le penne per il bambino.
Il cuore di Bridget cominciò a battere all'impazzata. Stava accadendo qualcosa di strano. Che fosse la troppa felicità per un giorno così tranquillo e all'insegna della gioia? O un effetto collaterale dei suoi diciotto anni?
Decise che non poteva rimanere col dubbio. Per la terza volta aprì la porta della cartolibreria/bar e si avvicinò al signore dietro il bancone che stava servendo un ragazzino. E questo quando è entrato?, si chiese Bridget, sentendosi sul punto di svenire.
«Buongiorno, desidera?» le disse l'uomo cercando di essere amichevole. A lei sembrava solo più inquietante di tutta quella situazione, con gli occhi di colore diverso come aveva notato qualche minuto prima.
«Io...» iniziò con voce acuta, ma poi l'abbassò accorgendosi che le persone presenti le avevano messo gli occhi addosso. «In realtà voglio sapere che posto è questo. Io volevo andare nella cartolibreria!»
Il barista la guardò passandosi lentamente una mano sulla fronte, confuso.
«Non so di cosa stai parlando»
«Mi sa dire che posto è questo?»
«Un bar» rispose con un sorriso. Poi, però, accadde qualcosa che non lei non si sarebbe aspettata nemmeno nei suoi sogni più assurdi. «Ah ma, Bridget! La famosa Bridget! Scommetto che sei tu! Giusto? Grazie davvero. Ci hai messo in una bella catastrofe. Ora chi risolve questa cosa? Tu! E.. Giusto, ti vado a chiamare Edward» e sparì in una porta dietro di lui.
La ragazza non seppe cosa pensare. Le venne quasi da ridere, era una situazione così strana! Pensò che forse la stavano prendendo in giro e che sicuramente era un pretesto per spaventarla, si immaginava che i suoi amici sarebbero saltati fuori da un momento all’altro spiegandole che era tutta una “festa a sorpresa”. O forse avevano sbagliato persona. C’erano tantissime altre ragazze di nome Bridget in Memphis.
L'uomo tornò con un ragazzo incappucciato che le fece segno di seguirlo.
«Neanche per idea» ribatté lei, incrociando le braccia.
Il ragazzo si tolse il cappuccio mostrando un ammasso di folti e ribelli capelli neri. I suoi occhi erano altrettanto scuri, profondi e quasi accusatori, con uno sfregio particolare sotto quello sinistro che gli conferiva un aspetto al tempo stesso affascinante ma misterioso. Aveva un filo di barba e le sue spalle larghe gli attribuivano un atteggiamento minaccioso.
Se quello fosse stato davvero uno scherzo, Bridget avrebbe seguito quel ragazzo considerata la sua bellezza, ma loro sembravano così seri che pensava di rischiare davvero la morte.
Lo sconosciuto la prese per il braccio e la spinse in quella porta dove era andato prima il barista. Lei smise di preoccuparsi. Che avrebbe potuto farle di male? Insomma, aveva già capito che era tutto uno scherzo.
Si ritrovò in un ascensore abbastanza spazioso, con le pareti di pietra, e si mise immediatamente nell'angolo per stare il più lontano possibile dall'individuo.
«Non ti mangio» borbottò, schiacciando pulsanti a raffica sul piccolo schermo attaccato alla parete.
Bridget scrollò le spalle, senza dargli una risposta. Non sapeva che cosa pensare. Se non era uno scherzo, allora che ci faceva lei? Sarebbe dovuta scappare come avrebbero fatto tutte le persone normali?
Edward si voltò a guardarla con espressione seria.
«Che c'è?» chiese lei stizzita. Non le interessava più del suo fascino, del posto sconosciuto e del suo compleanno, voleva solo una spiegazione e tornarsene a casa. Si chiese perché non avesse chiesto a sua sorella di accompagnarla, nonostante fosse abituata ad uscire sempre da sola.
A quel punto fu Edward a non risponderle, infatti riprese a fare quello che stava facendo.
Dopo un tempo che sembrò interminabile l'ascensore si fermò e si aprì.
Il posto in cui i due si ritrovarono era una sala, non troppo grande e arredata con una grande quantità di quadri raffiguranti persone con sguardi inquietanti, minacciosi e alteri.
Le pareti erano rivestite di una carta da parati rossa, e c’era un’unica finestra, chiusa, all’estremità della stanza. Gli scuri erano chiusi, quindi non si poteva vedere all’esterno. L’unica luce proveniva da una lampada appoggiata a un comò.
Al centro c’era un tavolo in legno, con sopra un’infinità di fogli in disordine e una penna d’oca con il barattolo di inchiostro lì affianco, ed erano poste due poltrone una di fronte all’altra, separate solo da quella specie di scrittoio.
«Siediti» le disse il ragazzo che prese posto su una poltrona. Bridget si sedette su quella di fronte a lui, sentendosi tremendamente a disagio. Non ci capiva niente! Non aveva mai visto quel posto e mai avrebbe potuto immaginare di vivere una situazione del genere.
«Voglio sapere cosa ci faccio qui»
«Perché? Non lo sai?» Edward scoppiò a ridere.
«No» rispose lei, non trovandoci nulla di divertente.
Il ragazzo smise di prenderla in giro.
«Ma io scherzavo! Non è possibile che tu non lo sappia! Non sai dove ti trovi? Neanche questo?» esclamò.
«No!» ribatté lei, facendogli capire che era davvero esasperata, confusa e spaventata. Pensava che fosse tutta un’allucinazione. Stava davvero diventando pazza? O quello era uno stupido scherzo?
«Per tutti i Graoully…»
«Continuo a non capire»
«Non ho ancora iniziato a spiegarti»
Bridget non rispose.
«Sei davvero così tarda?» le chiese lui, con una punta di divertimento e una di aggressività nella voce.
«Ehi!» scattò in piedi puntandogli un dito contro.
«D’accordo, calmati. Iniziamo dal principio. Wonderland ti dice niente?»




 

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Capitolo 2
*** Il mistero della notte ***


2. Il mistero della notte



Camminare all’aperto,
di notte,
sotto il cielo silente,
lungo un corso d’acqua
che scorre quieto,
è sempre una cosa
piena di mistero,
e sommuove gli abissi dell’animo.
(Hermann Hesse)

 


Wonderland...
Wonderland?
Wonderland!
Bridget sgranò enormemente gli occhi ricordando di aver visto quella mattina, dopo anni, un libretto che portava quel nome e su cui scriveva quando era solo una bambina.
«Certo, ma non dovrebbe centrare niente con il fatto che io sia qui senza un valido motivo per restarci. Parli del mio racconto che “scrivevo” da ragazzina? Che poi è inutile, vecchissimo, una specie di diario segreto...»
«Sì, parlo proprio di quel libro… Forse per te è inutile e vecchissimo, dato che mi stai facendo capire che sei rimasta all'oscuro di tutto. Allora, vediamo di farti capire senza scandalizzarti troppo…» disse Edward, pensieroso.
Lei lo guardò intensamente, ogni cosa che diceva rendeva quella situazione sempre più assurda. Beh, cosa poteva avere di tanto scandaloso da dirle?
«Quando da bambina hai iniziato a inventarti quella favola, non ti è mai passata per l'anticamera del cervello l’idea che tutto ciò che hai scritto si sarebbe potuto realizzare? Che ci potesse essere un mondo parallelo in cui sono successe tutte le avventure che hai narrato? Ci credi se ti dico che io sono, inventato da te, il coraggioso Edward che salva le fanciulle in pericolo?»
Bridget scoppiò a ridere fragorosamente, immaginando per un attimo quel tizio che aveva tutta l’aria di essere un delinquente con tanto di pistola in tasca vestito da cavaliere e seduto sul suo cavallo con cui cercherà la sua sposa per tutto il regno!
Rise ancora di più quando notò la sua espressione incredula farsi strada sul suo volto.
«La smetti di ridere?» le chiese, stringendo i denti.
«Ascolta, mi dispiace, ma non posso proprio esserti d'aiuto. Non ci credo a quello che hai appena detto, cerca qualcun altro che stia al gioco, non mi va di essere presa in giro. E se proprio lo vuoi sapere, il libro l'ho pure buttato»
La ragazza si alzò e fece per andarsene, ma lui la precedette avvicinandosi minacciosamente.
«Che hai fatto?»
Il cuore non le era mai battuto così velocemente come quel giorno, forse. Sarebbe dovuta stare zitta. Ma che ne poteva sapere?
Bridget poteva sentire il respiro di Edward sulla sua fronte, dato che era più alto di lei di una testa. Non osò guardarlo negli occhi, ma la costrinse a farlo lui quando le sollevò il mento con un dito.
«L'ho messo nello scatolone delle cose che non servivano. Può essere però che mia madre non l'abbia ancora portato via»
Edward non fece in tempo a risponderle che dall'ascensore entrò uno strano individuo, che Bridget non aveva mai visto e non sapeva nemmeno cosa potesse essere. Ma stavano succedendo talmente tante cose strane che prima credeva fossero impossibili che ormai non si stupiva più. Solo, si chiedeva di quale animale mezzo umano si trattasse. Aveva una pelle marroncina, era basso, esile, con un naso adunco e aveva due orecchie appuntite e lunghe.
«Clark, potresti... tornare in un altro momento?» gli chiese Edward, passandosi una mano sulla faccia, scosso.
«Qualche problema?» rispose il piccolo essere, inchinandosi.
Bridget si stupì da tutta questa formalità. Lei non aveva fatto altro che insultarlo.
«No, no, non preoccuparti, è tutto sotto controllo»
«D'accordo, allora levo il disturbo. Torno tra una ventina di minuti, così ho anche il tempo per prepararvi un buon tè»
«Ai Sanghai, grazie» ordinò Edward, nominando un nome strano.
Dai, mi stupisco ancora?, si rimproverò la ragazza, scuotendo la testa.
«Agli ordini»
«Che diamine di bestia era quella? E come ha fatto ha sparire così?» domandò allibita, indicando il punto in cui era scomparso il... non sapeva nemmeno come descriverlo.
«Questa, cara Bridget, si chiama magia. E si chiama anche “quello che hai inventato tu a otto anni”. Lui è un goblin, in genere sono creature che non si metterebbero mai a servire qualcuno, infastidiscono chiunque, sono poco civilizzati e si burlano di ogni cosa. Ma tu gli hai fatto passare una brutta vita e lo hai sottoposto a un Incantesimo. Adesso è così e se gli impedisco di servirmi, si toglie la vita»
«Non può essere vero» ribatté lei, a bocca aperta. Si accorse quanto fosse fantasiosa da piccola. Questa cosa la fece rattristare un poco: crescendo aveva smesso di immaginare e credere nella magia. Ma ancora non si rendeva conto che ciò che stava succedendo era tutto vero.
«Lo è»
«Ma non può...»
«Quando lo capirai? Tu non lo vuoi accettare, ecco cosa leggo dal tuo sguardo. Non credi più nella magia, nei sogni che avevi da bambina. Sei veramente cambiata e se continui così, a partire dal fatto che hai buttato il libro, non so come si potrà continuare, è...» lo sentiva sospirare mentre camminava avanti e indietro e lei restava immobile.
«Servo proprio io o qualcuno può sostituirmi? O sennò, dimmi una delle cose che dovrei fare e io ti dico se posso esserne capace o meno» cercava di collaborare, rendersi un po' utile, ma in ogni caso il tempo stava passando e lei non aveva ancora quello che le serviva dalla cartolibreria e si sentiva troppo lontana da casa.
Edward la guardava con un vago sorriso sulle labbra. La stava prendendo in giro? Era tutta una pagliacciata?
«Combattere in un esercito? Convivere con creature magiche? Salvare Wonderland dalla guerra che potrebbe scoppiare da un momento all'altro?» la sua voce era stizzita, ma se era falso o vero quello che stava dicendo, Bridget non lo capiva ancora. Però si chiese in quale modo possa essere arrivato a sapere del suo libro, quindi qualche probabilità di verità c'era.
«Tu hai dei poteri che non sai di avere. Altrimenti non avresti mai creato questo Mondo sul serio. È una cosa che hai nelle vene, okay? Solo che non puoi usare questi poteri senza esserti esercitata e senza sapere come usarli. Hai molto da imparare. Ma almeno, una di quelle cose che ti ho elencato prima la sai fare o pensi di poterla imparare in fretta?»
«Ma che stai blaterando? Poteri? E comunque non so fare nessuna di quelle cose»
«Bene!» esclamò lui, «Ma davvero?» domandò facendosi immediatamente più serio del previsto.
«Sì. Prova a metterti nei miei panni almeno. È un giorno bellissimo, sono diventata maggiorenne, domani è Natale e mi trovo in una situazione assurda, con un tizio che si impossessa di una cartolibreria, un ragazzo che vuole arruolarmi nell'esercito e uno strano alieno che sale con l'ascensore e sparisce nel nulla»
Edward la guardò serio, senza dare segno di essere stato toccato minimamente dal suo racconto.
«Okay. Fammi tutte le domande che vuoi e poi tutto smetterà di esserti estraneo» disse poi, senza cambiare espressione.
Bridget indietreggiò un po’. Non le piaceva parlare con quel ragazzo a così poca distanza tra i loro corpi. «D'accordo. Come ha fatto a diventare realtà… tutto quello che ho scritto?»
«Te l’ho detto, hai dei poteri magici. E, cosa più importante, ci credevi davvero. E poi, mica sei l'unica. Tanti sono i bambini che hanno scritto qualcosa credendoci e si è avverato tutto»
«E.. Perché vengo a saperlo solo ora?»
«Al compimento dei diciotto anni una sorta di Incantesimo viene spezzato in modo da farti entrare a Wonderland che tu lo voglia o no»
«E tu e tutti gli altri siete solo frutto della mia fantasia? Cioè, vi posso vedere solo io?»
«In questo mondo sì, ma se io venissi sulla Terra dove vivi tu, gli altri possono vedermi»
«Okay... E dov'è la cartolibreria di Jade?»
«Jade chi?» la guardò, confuso.
«Ah, niente» Bridget scosse la testa. «Beh, e sei sicuro al cento per cento che posso avere dei poteri magici?»
«Se impari a controllarli e a controllare te stessa nei combattimenti sì»
Lei arricciò il naso, ancora sconvolta.
«Senti, ma a cosa serviva il libretto dove ho inventato questo mondo?»
«Te lo spiegherò tra poco, è un discorso un po’ complesso. In ogni caso, tu ci devi aiutare e solo tu puoi»
«Io non credo di esserne capace» si morse il labbro, terrorizzata. Lui parlava di una guerra, se fosse morta lì non sarebbe più potuta tornare dalla sua famiglia!
Edward non rispose, ma tenne lo sguardo fisso nei suoi occhi per qualche secondo, in aria di sfida. Poi si diresse verso una porta che prima Bridget non aveva notato.
«Aspetta, dove vai? Io non ho finito!» lo fermò, tirandolo per un polso.
Lui si voltò, divertito. «Finiremo in un altro momento. Sto andando ad avvertire che sei arrivata. Vieni con me?»
«Però c'è la mia famiglia che mi aspetta! Si staranno chiedendo perché non sono ancora tornata a casa. E per di più sicuramente il mio cellulare non prende qui»
«Che cos’è un cell…? Beh, comunque il concetto di tempo è diverso. Quando qui passa un anno, lì sono trascorsi solo dieci minuti»
«Fantastico» alzò gli occhi al cielo. «Ma quando ero piccola non avevo niente di meglio da fare?» borbottò, facendolo ridere. Bridget si meravigliò per essere riuscita a strappargli un sorriso sincero. Quel ragazzo sembrava veramente fatto di ghiaccio.
Poi, senza dire niente, Edward oltrepassò quella porta. Prima che potesse chiudersi alle sue spalle, ci si infilò anche lei. Dopotutto non le sembrava così tanto male quel posto e, se era lei ad essere attesa, forse si sentiva ancora più emozionata.
 
Bridget sapeva che si sarebbe dovuta aspettare altre cose ancora più strane di quelle che aveva già visto o sentito. Era ancora sconvolta, disorientata e con mille domande che le frullavano per la testa. Si chiedeva quando sarebbe potuta tornare a casa o quando sarebbe potuta uscire da Wonderland per avvertire i suoi genitori che stava andando a rischiare la vita. Forse sarebbe potuta scappare e non tornare mai più, tanto la sua vita non era lì, giusto? Che senso avrebbe restare in un posto pericoloso per salvare qualcuno che nemmeno conosceva?
Mentre seguiva Edward oltre la porta, percorrendo un corridoio semibuio, qualcosa le diceva che non avrebbe dovuto lasciare tutti questi abitanti in difficoltà. Perché in fondo, per quanto impossibile le sembrasse, era stata lei a crearlo e a mettere in pericolo delle vite.
A un certo punto si fermarono davanti ad una porta, alla fine del corridoio.
«Ascoltami bene, adesso. Tu vieni dentro con me, ma lascia che sia io a parlare. I presenti non sono tutti quanti umani e potranno reagire in malo modo o insultarti una volta che avrò detto loro chi sei, ma tu non infierire, non rispondere. Sono solo molto scossi e probabilmente non ti tratteranno bene, ma io cercherò di calmarli. Non ti faranno niente, non sono cattivi» le spiegò Edward.
Il cuore di Bridget cominciò a battere sempre più velocemente. «Meraviglioso. Forse è meglio se resto qui fuori, o mi nascondo in un buco sotterraneo. Mi metti paura»
«Non c’è da aver paura, loro sono tra i miei più grandi amici. Uno di loro è il Princeps, il capo, il saggio, chiamalo come vuoi, che avvertirà tutta la popolazione del tuo arrivo»
Bridget annuì, acconsentendo di entrare insieme a lui. Era davvero irrequieta e non sapeva cosa aspettarsi.
Appena mise piede in quella grande sala, con le pareti blu e un soffitto luminoso che sembrava riflettere dell’acqua si sentì in un posto che emanava sicurezza. Non poteva credere però a quello che stava vedendo. La scena era alquanto bizzarra. C’era un caminetto acceso a destra, con tre poltrone davanti, occupate una da un uomo con in braccio una ragazza dai capelli viola, la seconda da un… fantasma? E la terza da una creatura piuttosto piccola, con delle orecchie appuntite e un paio di occhi verde smeraldo.
Appoggiata alla parete opposta c’era un pianoforte a muro, suonato da una fata, o almeno a Bridget sembrava che lo fosse, notando le sue meravigliose e delicate ali.
Al centro della stanza c’erano due bambini seduti per terra che giocano con due aggeggi che Bridget non aveva mai visto prima. E infine c’era un anziano, in piedi, che rovistava in uno scaffale colmo di libri, con indosso una redingote.
Appena tutti notarono la loro presenza, smisero di fare quello che stavano facendo.
«Oh, finalmente sei qui, Edward» esclamò la ragazza dai capelli viola. «Io e Hoodie non ricordiamo più come si chiama quell’Incantesimo per zittire Lenny» continuò indicando la strana creatura con gli occhi verde smeraldo.
«Smettila Wanda, lo sai che non esiste. Ho qualcosa di molto importante da dirvi» disse Edward, togliendosi la felpa e poggiandola su una sedia alla sua sinistra. Restò quindi con un maglietta bianca e Bridget non poté non notare i lineamenti muscolosi sulla schiena del ragazzo.
«Cosa? Maaa… Chi è questa ragazza?» domandò il fantasma, alzandosi in volo e posizionandosi in aria davanti a Bridget, scrutandola negli occhi.
Lei d’istinto fece due passi indietro, ma quello la oltrepassò facendola sentire scossa, come se per un secondo avesse perso la memoria. Vide per poco tutto annebbiato, ma si ricompose strofinando gli occhi.
«Cristopher» lo richiamò in tono di disapprovazione Edward. Bridget lo sentì fare un respiro profondo, per poi annunciare: «Lei è Bridget, colei che ci ha creati. Colei che è qui per salvarci»
La ragazza in quel momento avrebbe voluto scappare via. Lo sguardo di tutti si posò su di lei e le reazioni di ognuno furono uno schiamazzo generale di voci, alcune felici, altre arrabbiate e altre deluse.
«Una del genere non ci salverà mai, ragazzo. Siamo spacciati» disse quella bassa creatura alzandosi dalla poltrona e andando verso di loro. «Non ha un muscolo. Figuriamoci se riesce a sviluppare qualche potere»
«Tu ci hai messo in pericolo e sei qui in questa stanza, ferma a non fare nulla? Dovresti come minimo essere già ad allenarti» rimbeccò la ragazza dai capelli viola, mostrandosi tremendamente antipatica.
«Tutta la mia famiglia è morta per colpa tua» aggiunse l’uomo che teneva in braccio l’antipatica.
«Io confido in te, invece» mormorò la fata, avvicinandosi a lei e guardandola con due occhi luminosi. «Ispiri molta fiducia e lealtà, cara mia» svolazzò intorno a lei con un sorriso.
I due bambini, che fino a quel momento non avevano detto nulla e non avevano mosso un dito, corsero ad abbracciare Bridget. Uno dei due singhiozzava. «È morto il nostro papà per colpa di questa guerra che sta per scoppiare, per favore fa che non muoia anche la mamma»
«Fate silenzio, per favore» esclamò l’anziano nelle sua redingote, sempre rimasto in disparte. Bridget si era dimenticata della sua presenza. «Non temere, apprendista strega. Ce la faremo tutti insieme. Abbi fiducia in te stessa e in questo branco di scalmanati, e in tutti gli abitanti che avvertirò del tuo arrivo non appena ti avrò detto due parole, anche se temo che Edward abbia già fatto tutto il mio lavoro» disse pacato, con un flebile sorriso. La sua voce era calda ed emanava un grande senso di saggezza e protezione. Edward abbassò gli occhi, quasi arrossendo, cosa che Bridget credette impossibile. «Tutte queste cose credo ti sconvolgeranno. Come la maggior parte dei creatori di mondi come te, dopo qualche anno si dimenticano del mondo che inconsapevolmente hanno realizzato, e vengono a saperlo solo al compimento dei diciotto anni, quindi è normale se in questo momento sei molto scossa. Il motivo di questo tuo sicuro terrore è l’accoglienza che hai avuto: forse non delle migliori. Alla maggior parte dei personaggi che hai creato tu da bambina hai dato personalità esuberanti. Ma non pensare che sia colpa tua adesso, non lo è affatto. Conta su di me, mi hai descritto come una figura paterna per tutti gli abitanti. Non per niente sono il Princeps. E ora vado ad annunciare l’arrivo della nostra salvatrice» fece un sorriso rassicurante ai presenti e uscì dalla stanza, senza nemmeno presentarsi a Bridget con il suo vero nome.
 
 
Ci fu molto subbuglio quel giorno; tutti gli abitanti avevano opinioni diverse riguardo Bridget, che però a quel punto non se ne curava più di tanto. Aveva solo bisogno di mangiare e dormire, mettendo a tacere tutte le sue preoccupazioni e insicurezze del momento. Sentiva una responsabilità troppo grossa sulle spalle, ma in quel momento non poteva fare altro che accettarlo.
Seguì Edward, come le aveva ordinato lui, per tutta l’Istituzione dove avrebbe vissuto, la cui entrata pareva essere in quello strano bar, ma l’uscita che avrebbe mostrato il centro e il resto di Wonderland sarebbe stata dalla parte opposta.
Camminando, Bridget continuava a fare domande, ma come risposta riceveva sempre un “ci sarà tempo per spiegarti ogni cosa”. La simpatia che lei provava per Edward, continuava a diminuire a vista d’occhio.
L’Istituzione, che si chiamava in realtà Palazzo della Giustizia come aveva detto il suo cicerone, era una grande residenza dove vivevano tutte le persone che avevano lo scopo di amministrare e governare Wonderland e la maggior parte di coloro che guidavano i combattimenti o erano esperti in piani d’attacco. Nell’ala Est si trovavano delle stanze e una mensa dove accogliere i bisognosi che non avevano dove vivere.
Mentre il ragazzo le mostrava i luoghi più importanti, come le diverse stanze per gli allenamenti, incontrò più volte fantasmi svolazzare per il Palazzo e creature strane osservarla con curiosità.
«Edward, perché non posso tornare dai miei genitori per raccontare loro tutto e poi tornare qui?» domandò al ragazzo.
Lui sbuffò, stanco dell’ennesima domanda. Ma stavolta rispose, moto brevemente: «Si può uscire solo una volta da questo posto. E poi non si può più tornare. L’hai scritto quando eri una bambina»
In Bridget si insinuarono un paio di sensi di colpa, che poi sparirono quasi immediatamente perché cercò di pensare ad altro, distraendo sé stessa osservandosi attorno, smettendo anche di camminare per guardare più da vicino certi quadri imponenti, statue agli angoli dei corridoi, lussuosi lampadari, soffitti che si muovevano, candelabri che accendevano e spegnevano le candele ad intermittenza…
A un certo punto, Edward svoltò per un altro corridoio. I loro passi risuonavano sul pavimento di pietra, arrivando nella grande sala da pranzo, dove erano riunite per la cena moltissimi abitanti, umani e non. Erano disposte un numero elevato di tavole rotonde già apparecchiate.
«L’unica cosa che devi fare è sederti a un tavolo. Posto sul piatto c’è una pergamena con il menu disponibile della giornata e quando avrai scelto non dovrai far altro che aspettare che un elfo arrivi al tuo tavolo, gli dirai che cosa desideri mangiare e lui lo farà comparire davanti a te» spiegò Edward, frettolosamente. Non vedeva l’ora di sedersi e lasciare quella principiante a tartassare qualcun altro. «E dato che il Princeps qualche giorno fa mi ha raccomandato di non farti mai stare da sola, ti presenterò mia sorella e una sua amica e ti siederai con loro»
Bridget annuì, senza replicare o fare domande. Si sentiva già troppo odiata da Edward per tutto ciò che gli aveva chiesto durante quella giornata.
Lo seguì, dirigendosi a un tavolo dove erano sedute due ragazze.
«Quando hai finito di mangiare ti farò vedere dov’è la tua stanza» le disse infine il ragazzo, prima di andare verso un tavolo composto da tre ragazzi e una fata.
«Ciao, piacere… Io sono Bridget» mormorò un po’ indecisa, posizionandosi davanti alle due.
«Wow, non mi aspettavo che avessi un viso così dolce! E sembra morbido! Per caso utilizzi qualche prodotto particolare?» cominciò a parlare velocemente una delle due, ma poi ricevette una gomitata dall’altra, così proseguì. «Oh, dovrai scusarmi, io mi chiamo Tin e sono la sorella di Edward»
La prima cosa che Bridget notò in Tin fu che era diversissima dal fratello; la seconda fu il suo vestiario. Indossava un dashiki molto colorato e, anche se non poteva vedere come vestiva dalla vita in giù, intuiva già il suo stile da hippie che le conferiva allegria, accoglienza e gentilezza. Sui capelli lunghi e castani portava una fascia di margherite. Aveva due occhi verde bottiglia, grandi e curiosi.
«Io sono Chelsea» fu la seconda ragazza a parlare. Quando Bridget incrociò il suo sguardo, quasi si sentì mancare.
Chelsea aveva due occhi color rosso cremisi e lunghi capelli neri raccolti in una treccia. Bridget moriva dalla voglia di chiederle qualcosa riguardo i suoi occhi, ma preferì non farlo per non sembrare troppo indiscreta. Si disse che glielo avrebbe domandato una volta conosciuta meglio.
«Come ti senti? Forse molto turbata. Girano voci che i tuoi genitori abbiano bruciato il libro. Altri raccontano che sei stata tu a bruciarlo. Sappi che io sono dalla tua parte, insomma, non ne sapevi nulla, giusto?» diceva Tin, leggendo il menu con aria indecisa.
«Così la metti ancora più sotto pressione» la rimproverò Chelsea, con sguardo accusatorio, mentre aspettava che l’elfo venisse a riempirle il piatto.
«No, non preoccupatevi» rispose subito Bridget. «Sto bene, grazie. Mi sento solo un po’ confusa e stanca. E affamata. A proposito, che cosa sarebbe un Bonpo?» domandò, leggendo questo strano nome sul menu della giornata. C’era pieno di strani nomi. Per capirne alcuni si poteva andare ad intuito, ma questo proprio no.
«Oh, è una bontà assoluta. È un piatto di uova strapazzate, ciliegie salterine, bacon croccante, crocchette di Roc, salsa olandese e muffin tostati. Ma solitamente io lo mangio a colazione insieme ad un buon dolce» spiegò Tin talmente veloce da rischiare di mangiarsi le parole, con il suo particolare modo di fare vivace.
«Scusate la domanda, ma che cosa sono le ciliegie salterine? E le crocchette di Roc? Sapete, dove vivo io queste cose non ci sono»
«Cosa?» Chelsea rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva.
«Non hai mai mangiato queste due specialità?» aggiunse Tin, sgranando i suoi già enormi occhi verdi.
«Ehm, no…» Bridget si sentì a disagio. Guardò distrattamente il menu, accorgendosi che stava arrivando un elfo, e la prima cosa che le saltò all’occhio fu “Hot Mais Dog Roc”, così lo disse alla creatura, che schioccò le dita facendo comparire nel suo piatto uno di quei panini che in Memphis mangiava spesso. Si aspettava però un gusto leggermente diverso da quello a cui era abituato, e infatti così fu.
Quando anche le altre due ragazze ebbero ordinato, cominciarono a mangiare senza tornare sull’argomento “cose che Bridget non aveva mai sentito”.
 
Bridget spazzolò il piatto divorata dalla fame. Nonostante il gusto particolare di quella pietanza, considerò che non era così male come pensava.
«Ti faccio vedere dov’è la tua stanza» le disse Edward, avvicinandosi al suo tavolo.
«Veniamo anche noi» aggiunse Tin, prendendo sottobraccio Chelsea.
Uscirono dalla sala da pranzo, salendo le scale di pietra dirette ai dormitori.
«Ma qui non c’era un ascensore?» domandò Bridget, ricordando del lungo viaggio che aveva fatto in quello strano spazio fatto di pietra.
«Lo si può usare solo per andare dal bar al Palazzo della Giustizia» le disse Tin. «È una cosa che disapprovo assolutamente. Per salire questi alti gradini ci vuole molto tempo e si spreca parecchio fiato che potremmo usare per…»
«Eccoci arrivati» la interruppe il fratello, stufo di sentirla blaterale di discorsi di cui lui non era per nulla interessato.
Bridget durante il tragitto cercò di memorizzare la strada e si disse che davvero non sarebbe mai dovuta stare sola, altrimenti si sarebbe persa. Quel posto era peggio di un labirinto.
Si ritrovarono davanti ad una porta in marmo, con su scritto “DORMITORIO FEMMINILE”.
«Puoi scegliere la prima stanza libera che trovi o condividerla con qualcuno, se ci sono letti disponibili. Clean, per ordine del Princeps, passerà tra qualche minuto a prendere le tue misure per portarti i vestiti adatti a te» le spiegò Edward, guardandola con i suoi seri occhi neri.
Bridget era tentata di chiedere chi fosse Clean, ma non voleva interrompere il suo discorso rischiando di farlo arrabbiare.
«Domani mattina verrete svegliate tutte da un Pixie, circa alle sei del mattino. Il resto del programma te lo spiegheranno Tin e Chelsea, tu vai sempre con loro, così saprai cosa fare. Ah, un’ultima cosa… Domattina, nella sala da pranzo, quando ci sarà la colazione, vieni a sederti al mio tavolo. Ti dirò come saranno suddivisi i tuoi allenamenti»
«Tutto chiaro» rispose Bridget, cercando di ricordare tutto ciò che Edward le aveva spiegato.
«Buonanotte ragazze» disse infine lui, voltandosi e percorrendo il corridoio verso il dormitorio maschile.
«Finalmente se n’è andato. Mio fratello si crede superiore solo perché l’anno scorso ha ottenuto il ruolo da Brigadier General,» esclamò Tin che, vedendo lo sguardo interrogativo di Bridget, aggiunse «uno dei principali generali del Palazzo della Giustizia»
Chelsea scoppiò a ridere e fece segno a Bridget di prestare attenzione a ciò che stava per fare. Allungò una mano verso la porta di marmo e poi la appoggiò con lentezza. Improvvisamente, con grande stupore di Bridget, dalla porta svolazzò fuori un fantasma che rideva e fece spaventare anche Tin.
«Ingrato! So che stavi aspettando di impedirci di entrare!» gli urlò Chelsea, guardandolo volare via. «Lui è Grel, il fantasma più antipatico e dispettoso che abbia mai conosciuto» spiegò, tornando a fare ciò che stava facendo.
Appunto, appoggiò la mano sulla porta di marmo che si illuminò leggermente e si aprì. Lei entrò, poi la porta si richiuse.
«Funziona così: per entrare devi mettere la tua mano sulla porta, che ti riconosce. Se sei una femmina e si accorge che non sei un nemico, ti apre la porta» disse Tin con un sorriso. «È un sistema di protezione efficace per non fare entrare qualche intruso. Vai tu, poi arrivo»
Bridget fece come spiegato, sentì un formicolio piacevole alla mano quando la porta si illuminò, ed entrò. Le sembrò una grande idea, e sorrise ricordando che in realtà era stata proprio lei a inventarla. Il dormitorio aveva le pareti di un rosso scuro, quasi viola, a tratti sembrava nero, dipendeva dai riflessi che mandava la luce dei candelabri posti sulle pareti della stanza circolare. C’era un camino acceso, qualche poltrona, dei cuscini sul tappeto che coprivano il freddo pavimento, qualche ragazza che sedeva sul davanzale della finestra chiusa, altre sedevano davanti al fuoco, mentre la maggior parte invece, le spiegò Chelsea, era a dormire.
Quando le ragazze presenti, e in generale le creature femminili, notarono Bridget, le sorrisero e alcune si avvicinarono per conoscerla. Ma Tin, arrivata nel dormitorio, prese la ragazza per mano dicendole che avrebbe dovuto riposare. La accompagnò insieme a Chelsea su per una scala di pietra che Bridget non aveva notato.
Si ritrovarono al piano di sopra, dove c’erano più di una trentina di porte poste lungo un corridoio con le pareti completamente scure ma cosparse di un’infinità di stelle che brillavano e illuminavano il pavimento e il soffitto blu notte.
«Puoi scegliere tu dove andare. Io e Chelsea siamo in stanze diverse perché lei divide la sua con sua sorella, ma le camere sono una di fronte all’altra, e nella mia c’è un letto in più» le disse Tin con un sorriso, mentre camminavano per arrivare ad una porta con su scritto Stanza 29.
«Certo, vengo volentieri con te» le rispose Bridget, che non aveva la minima intenzione di restare in una stanza tutta sola. Le era tutto ancora troppo estraneo e aveva bisogno di continue spiegazioni e Tin le sembrava la persona più adatta, data la sua disponibilità, cortesia e gentilezza. Certo, era solo un po’ chiacchierona…
Si separarono da Chelsea, che entrò nella camera davanti alla loro.
 
La stanza di Tin era piccola, accogliente ma soprattutto molto personalizzata.
«Se ti dà fastidio qualche decorazione o fotografia, toglila pure. Ora la stanza è anche tua, logico. E sarebbe bello se potessi aggiungere qualcosa di tuo, anche se credo che tu abbia tutto nel tuo mondo» disse Tin concludendo con uno sbadiglio, buttandosi comodamente sul suo letto, posto sotto ad una finestra.
L’altro letto libero era quello destinato a Bridget, sistemato accanto ad un’altra finestra, che dava la vista su uno splendido lago.
«Non preoccuparti» disse Bridget, guardando il panorama con una stretta allo stomaco. Improvvisamente le venne in mente la sua famiglia, la lontananza da casa… E quello scuro lago illuminato dalla luce della luna la faceva sentire come se ci fosse qualcosa che la stesse spingendo in mezzo al buio, senza poter risalire verso la luce.
«C’è qualcosa che non va?» domandò Tin, alzandosi e avvicinandosi a lei. Si sedette sul letto, accanto a Bridget. Sembrava che avesse capito tutto dal suo comportamento. «Sai, capisco se ti senti un po’ infelice. Anche la mia vita non è tutta rosa e fiori, anche se potrebbe sembrare il contrario. Io ed Edward non abbiamo mai conosciuto nostra madre, e nostro padre è scomparso qualche settimana fa… Era andato in missione con altri soldati verso Malum, il paese che sta progettando altre spedizioni di conquista verso il nostro territorio. Sono tornati tutti da quella spedizione, eccetto lui ed un soldato che è stato ucciso. Potrebbe essere ovunque. Così come morto in qualche buco all’oscuro della civiltà»
Bridget si sentì ancora più triste e guardò Tin con uno sguardo vacuo.
«Mi dispiace» disse. «Sì, c’è qualcosa che mi turba, ma non penso sia il momento giusto per parlarne, siamo stanchissime. Piuttosto, se vuoi sfogarti con me, fallo pure»
«Certo» le rispose Tin, con gli occhi verdi che le si illuminavano. «Anche tu»
«Affare fatto. A proposito, sai dirmi che cos’è un Pixie? Sono un po’ inquieta… Verrò svegliata da una creatura che non conosco»
«Oh! Io li adoro» esclamò prontamente Tin, facendo un balzo e tornando sul suo letto. «Anche se non tutti la pensano come me. I Pixie sono dei folletti, un po’ fastidiosi a volte, lo ammetto. Ma fanno il proprio lavoro. Il loro aspetto dipende dalla loro provenienza. Quelli che sono qui sono alti come dei bambini, a mio parere sono tenerissimi»
Bridget non fece in tempo a rispondere che al centro della stanza comparve improvvisamente una strana creatura dagli occhi vacui che si presentò con il nome di Clean.
 
Si era addormentata da poco. Ancora il sonno era leggero. Le lenzuola la avvolgevano teneramente e Tin la guardava pensierosa, provando a mettersi nei panni della sua nuova amica e sentendo un’ondata di tristezza e solidarietà nei suoi confronti. Era ormai notte fonda; le due erano rimaste a chiacchierare di sciocchezze, dopo che Clean se n’era andato, osservando la luna splendere nel cielo scuro.
Tin si ritrovò di nuovo a fissare all’esterno e improvvisamente notò qualcosa. Qualcosa che non era normale vedere nel bel mezzo della notte, soprattutto durante un periodo prossimo alla guerra, perché lasciava pensare che fosse successo qualcosa che riguardasse un attacco.
Suo fratello stava correndo, diretto alla Residenza del Princeps. La sua abitazione era collegata al Palazzo della Giustizia, ma il modo più veloce per raggiungerla era quella di percorrere un tratto all’aperto, uscendo dalla porta a Sud dell’edificio.
Tin spalancò la finestra e, non potendo urlare, lanciò nella direzione di Edward un doppione dei suoi grossi e vecchi sassi della sua collezione. Questo cadde a qualche metro di distanza dal ragazzo, che se ne accorse e si voltò, notando la sorella che sventolava il braccio dall’altro della finestra del secondo piano.
«Che cosa fai?» disse sottovoce Tin, tremando alla brezza notturna. Nel silenzio quasi surreale di quel momento, la frase arrivò come un soffio alle orecchie di Edward che capì la domanda anche aiutato dal gesticolare della sorella.
Lui andò esattamente sotto la finestra. «Probabilmente suonerà un allarme tra poco per una riunione con il Princeps. Ora ne parlo con lui, intanto torna a dormire» disse con voce affannata. Era evidentemente molto scosso. Tin iniziò a preoccuparsi.
«Riunione con il Princeps nel bel mezzo della notte? Cosa è successo?»
«Senti, ora non ti preoccup…»
«Non ti preoccupare? Mi dici “non ti preoccupare” pensando che io…»
«Che succede?»
Tin sussultò e si voltò di scatto, sentendo la voce di Bridget. La trovò seduta sul letto, svegliata dalle parole dell’amica che, senza rendersene conto, si era ritrovata ad urlare.
«Tin, è urgente, devo andare! Torna a letto, non so se si farà ora o stamattina, lascia che gliene parli» disse Edward, con sguardo rimproveratore.
«Voglio sapere!» esclamò la sorella, allungando una mano, afferrando l’aria, il vuoto, sperando di poter fermare Edward. Era preoccupata. Ma lui se ne stava già correndo via, sferzando l’aria gelida e passando tra la leggera nebbiolina che calava su Wonderland.
Tin raccontò la scena a Bridget, raccontando le sue preoccupazioni.
«Non è mai successo che si tenesse una riunione durante la notte?»
«No Bridget, mai. Per questo sono tanto preoccupata, non è assolutamente normale. Una delle vigili regole che ci sono qui, oltretutto, è quella di non uscire dalla residenza durante la notte. Sempre che uno non abbia il permesso dal Princeps o che non ci sia un motivo valido per uscire, come un incendio, ad esempio. Ma in quel caso sarebbe suonato un allarme e abbiamo comunque i modi per spegnerlo grazie a qualcuno che ha dei particolari poteri collegati al fuoco. Mio fratello si sente di violare le regole solo per il suo titolo…» e poi sbuffò, guardando di nuovo fuori dalla finestra. Edward non c’era più, probabilmente era già entrato nella Residenza del Princeps.
Tin si mise di nuovo sotto le coperte, per poi alzarsi irrequieta: non poteva dormire. Non poteva stare ferma. Non era da lei.
Si mise una vestaglia in fretta e furia, appoggiata malamente sulla sedia del suo scrittoio.
«Cosa intendi fare?» chiese Bridget, alzandosi di scatto.
«Tu stai qui» rispose Tin, con fermezza.
Bridget non avrebbe mai pensato di poterla vedere così seria e determinata.
«No! Non se ne parla, io non me ne sto qui da sola»
«Voglio chiamare Chelsea. Nelle situazioni di pericolo sa come tranquillizzarmi e decide di andare all’attacco. Devo scoprire cosa sta succedendo» spiegò Tin.
«Sei sicura che sia la scelta giusta?» mormorò Bridget, infilando la giacca che aveva sistemato nel suo nuovo armadio.
Tin scosse la testa, ma sorrise. A quanto pare, essere avventurieri era una cosa divertente a Wonderland.
Le due ragazze aprirono la porta, silenziosamente. La luce fioca proveniva da alcuni candelabri ancora accesi. Tin non fece in tempo a raggiungere la stanza di Chelsea che un suono forte iniziò a invadere alcune camere.
«Ecco l’allarme. Un giorno imparerai a riconoscerli. Questo è quello delle riunioni, e va ad intermittenza. Suona solo nelle stanze di coloro che fanno parte delle missioni» disse Tin.
«Ma io devo venire?» domandò Bridget. Insomma, era appena arrivata a Wonderland, non conosceva nulla di missioni e avrebbe anche dovuto partecipare? Si aspettava, come minimo, un no come risposta.
«Ma è ovvio. Tu sei la prima che deve venire. Devi sapere cosa succedere ora che non hai il tuo libro per poter scrivere. Sai, al compimento dei diciotto anni, la storia va avanti da sola, tu potresti fermarla o cambiarla soltanto scrivendo. Qui, puoi solo aiutarci a fare in modo che il mondo non venga distrutto» rispose la ragazza, parlando velocemente e sgranando sempre di più gli occhi color verde bottiglia.
Alcune porte cominciarono a spalancarsi. Anche quella di Chelsea.
«Vi sembra normale fare una riunione di notte?» sbottò, chiudendo i bottoni del suo cappotto nero. Poi si voltò verso l’interno della sua stanza, dicendo: «No, Sophie. Sei troppo piccola per partecipare alle riunioni, torna a letto»
«Beh, andiamo?» propose Bridget, osservando le altre ragazze che si affrettavano ad uscire dal dormitorio.
«Sì, e in fretta»
«Sembri preoccupata, Tin»
«Lo sono, Seasea»
«Non chiamarmi Seasea» ribatté Chelsea.
«Sono nervosa! Ho visto mio fratello nel bel mezzo della notte correre verso casa del Princeps! Allora gli ho chiesto perché, ma non ha voluto dirmelo. Sembrava veramente allarmato» spiegò Tin, battendo i denti per il freddo che si insinuò tra le ragazze mentre percorrevano il corridoio verso l’uscita Sud.
Con loro, si apprestavano a recarsi alla riunione anche molte creature, fantasmi e personaggi particolari che facevano rizzare i capelli a Bridget. C’erano molti ragazzi, alcuni erano visibilmente agitati, certi arrabbiati, altri ancora pronti a tutto, con sguardo determinato.
«Buonasera ragazze! O dovrei dire buongiorno» disse un ragazzo molto alto, con i capelli biondi e ricci e due splendenti occhi azzurri. Sulla sua bocca aleggiava un sorriso e Bridget notò con piacere e precisione che ammiccò a Tin.
«Buongiorno un cazzo» rispose Chelsea.
«Dai, Seasea» rise il ragazzo.
A quanto pare, era una moda chiamare Chelsea con il nomignolo che più le dava fastidio.
«Dov’è Nene?» chiese Tin, per sviare il discorso, notando lo sguardo dell’amica che iniziò a sbuffare e ad alzare gli occhi al cielo.
«Penso sia già arrivata. Spesso usa il turbo anche quando non le serve serve… Ah, tu devi essere Bridget! Piacere, sono Theo» le allungò la mano.
Bridget la strinse, sorridendo. Era felice di sapere che a Wonderland ci fosse qualcuno felice di conoscerla senza prima lanciarle una strana occhiata. Forse, da bambina, aveva anche interesse per le persone carine ed educate.
Ormai erano giunti all’aperto. L’aria fredda sferzava i loro capelli e le voci si mischiavano al sibilare del vento, che cominciava a farsi più forte. La luna illuminava il prato, il lago lì accanto, gli alberi che circondavano la Residenza, i volti di ognuno di loro.
Bridget era a dir poco ansiosa, ma la curiosità che caratterizzava il suo carattere da sempre, si fece sentire più forte che mai, e l’adrenalina cominciò a scorrerle nelle vene, facendole dimenticare il suo brusco risveglio. Chelsea aveva un viso rabbuiato ma velato, anche il suo, di interesse.
La preoccupazione di Tin, riguardava più che altro il fratello. Aveva paura che fosse coinvolto in qualcosa di pericoloso, ma l’arrivo di Theo le scaldò il cuore e quasi si dimenticò del motivo per cui stavano camminando a passo spedito ad una riunione con il Princeps.
La porta della Residenza del saggio si aprì e cominciarono ad entrare le prime persone e creature; sapevano dove recarsi: al piano di sopra, nella sala delle riunioni.
Bridget cercò di non soffermarsi troppo a guardare l’aspetto dell’abitazione ma di non distogliere mai lo sguardo da Tin e Chelsea. Non voleva separarsene, la loro compagnia in qualche modo la tranquillizzava.
Fuori dalla porta d’entrata della sala, c’era Edward. Quando le ragazze fecero per entrare, lui prese Bridget per il polso e la trascinò fuori dalla folla.
«Cosa succede?» domandò lei, presa alla sprovvista.
«Devi fare un discorso, dopo che il Princeps avrà finito di parlare. Ora vieni con me, io ed Ebony ti spiegheremo cos’hai da dire»
Partendo dal fatto che Bridget non sapeva neanche lontanamente chi fosse questa Ebony, e aggiungendo il fattore notte, stanchezza e il suo essere scombussolata, non se la sentiva proprio di parlare davanti a gran parte della popolazione, non sapendo nemmeno cosa dovesse dire e di cosa trattasse la riunione. In più l’arroganza di Edward la fece irritare maggiormente.
«Un discorso? Io non ho intenzione di fare nessun discorso» rispose lei, cercando di imporsi, ma con scarsi risultati. Purtroppo, non aveva idea di come ci si potesse far valere di fronte a una persona come lui.
«Senti, non mi importa quello che vuoi fare o meno. Ci hai messo tu in questo pasticcio, ricordi? Non ti chiedo tanto, cosa ti succede se dici due parole davanti ad un pubblico?» le sue parole la colpirono come una lama. Come se per farle fare qualsiasi cosa, bastasse giustificarsi con un “ci hai messo tu in questo pasticcio”.
«Oh, sembri persino gentile e interessato al mio volere»
«Non mi interessa di cosa ti sembro»
«Ma a te non interessa proprio niente? Sei un sociopatico insensibile. I sentimenti degli altri ti scivolano addosso come olio e te ne sei sempre fregato. Sì, forse verrò da un altro mondo ma certi tipi di persone li riconosco»
Fece per andarsene, ma lui la trattenne, facendo pressione sul suo polso.
«Non mi piace essere trattata così. E non rispondere ancora “non mi importa”, perché altrimenti apro quella porta e me vado. Fammi il piacere di trattarmi come una persona e non come spazzatura»
«Non voglio fare il piacere di nessuno. Ti tratto a dovere. Non è il momento di fare i moralisti adesso, non ci fai nessuna figura. Farai quel discorso e poi ti lascerò stare. Se mi odi così tanto, potrai fare gli allenamenti con qualcun altro, basta solo fare la richiesta al Princeps»
«Gli farò la richiesta. D’accordo. E farò questo discorso»
Edward per un momento sembrò confuso, quasi come sorpreso dalla sua risposta finalmente positiva. Senza tanti complimenti, le disse di seguirlo lungo il corridoio, per poi entrare in una stanza alla loro sinistra. Sulla porta c’era disegnata una freccia che indicava il palcoscenico. Forse era una sorta di dietro le quinte.
La stanza era piccola, senza finestre. C’era una poltrona, uno scrittoio, una lampada ad olio e… una bambina, con due guance rosee e paffute, seduta sul pavimento con un libro sotto gli occhi. Quando i due entrarono, la piccola alzò lo sguardo.
Scrutò molto bene Bridget, e poi esclamò, rivolta ad Edward: «Papà, mi sai dire chi è quella ragazza? Sembra una leonessa, guarda che capelli ricci!»









Angolino: ho approfittato del mio miracoloso tempo libero per pubblicare il secondo capitolo. Mi rendo conto della sua lunghezza, rispetto al precedente, ma era inevitabile per entrare nel vivo della storia. Spero che non vi abbia stufato. Voglio ringraziare di nuovo le persone che hanno gentilmente lasciato il proprio parere :)
Non so quanto tornerò con il prossimo, spero di non farvi attendere troppo a lungo. Purtroppo vengo sempre colta da imprevisti... A presto!
Girasoledicarta

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