Saab: Down to Earth

di esmoi_pride
(/viewuser.php?uid=984263)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione / Ramoth ***
Capitolo 2: *** Vharcan ***
Capitolo 3: *** Velnarin ***
Capitolo 4: *** L'arrivo di Lupo di Neve ***
Capitolo 5: *** Re'fevd ***
Capitolo 6: *** Aster, pt.1 ***
Capitolo 7: *** Wozømû, pt. 2 ***
Capitolo 8: *** Wozømû, pt. 3 ***
Capitolo 9: *** Rhuzupømu ***
Capitolo 10: *** L'ultimo sacrificio ***



Capitolo 1
*** Introduzione / Ramoth ***


Buonanotte o buona giornata a tutti :)

sono le due del mattino ed è un orario meraviglioso per tornare su EFP ad aggiornare la mia storia o meglio, presentarvi il suo seguito. Questo periodo della mia vita è molto impegnato e perciò ho impiegato molto tempo per pianificare e scrivere la storia, ma alla fine la prima pubblicazione è qui.

Prima di proseguire nella lettura devo rendervi note due cose: la prima è che non troverete le stesse caratteristiche della prima parte.
Lo stile di scrittura e di narrazione sono cambiati (iniziando da una terza persona più neutra possibile), forse potremmo dire che si sono evoluti, e l’attenzione è stata spostata dalle relazioni dei personaggi a un respiro di eventi più ampio, di cui la narrazione aveva bisogno a questo punto della storia. Sì, significa che dovrete sperare nel NSFW e vedere se arriva.
Inoltre alcuni dettagli, piccoli o grandi, della storia, sono cambiati: ad esempio, la Città di Saab è molto più grande di come era stata inizialmente progettata. Questi cambiamenti sono dovuti a una maggiore coerenza con tutta la narrazione.

Il secondo punto è che questa storia può essere letta anche da chi non sa proprio nientenienteniente, perché ai nuovi e a quelli che si scocciano di ricordare cosa è successo, ricorderò tutto io con questo piccolo riassunto e con una piccola presentazione dei personaggi!





Nelle puntate precedenti: (leggete questa frase come se lo stesse dicendo un doppiatore di una serie tv)

Il Gran Regno di Saab, o Città di Saab, è stato rifondato dalle sue antiche rovine. È devoto a Saab, il Dio Minore del Destino che, con l’aiuto dell’Imperatore da lui scelto, ha accolto i reietti della società e li ha resi il suo popolo.

So’o Goldsmith è il Principe di Saab, figlio dell’Imperatore Azul Goldsmith e del suo Cavaliere e compagno Imesah Bones. Come un Siddharta del fantastico, So’o non può uscire dal Palazzo Imperiale e trascorre le sue giornate studiando per poter poi governare al posto del padre.

Ma le cose cambiano quando un affascinante drow lo convince a scappare dal Palazzo per un solo giorno e lo fa invaghire di lui: solo per scoprire che quel drow è il suo fratellastro maggiore, Vilya Goldsmith, il primogenito di Azul.
So’o è combattuto, alla luce di una eventuale relazione incestuosa e quindi stigmatizzata (sì, i froci vanno bene ma i fratelli no nda), per poi cedere ai propri sentimenti. Vilya invece si affeziona alla Città, della quale, per eredità, avrebbe dovuto essere il vero Principe.
Ma i problemi non sono finiti: il Comandante Ra’shak e il Consigliere Valentino annusano la puzza di una guerra che incombe, e anche avvisando l’Imperatore non possono evitare l’inevitabile. Una Alleanza formata dalle sette città più importanti della regione di Siieeth, con Città Alta a capo, dichiara guerra alla città con l’obiettivo di riprendersi gli schiavi e i cittadini che sono fuggiti dalla loro soggiogazione.
Dietro Città Alta si cela l’influenza della Signora Bianca, una astuta e subdola reggente. Ma l’Imperatore accetta la sfida a testa alta e si mostra pronto ad affrontare la minaccia.

 
Azul Goldsmith è un drow di 170 anni. Quando era un bambino, l’incidente che uccise i suoi genitori gli causò un trauma che ne cancellò la memoria. Venne rapito dalla Gilda di Ladri responsabile della morte dei genitori e costretto a divenire un assassino. A 140 anni fuggì dalla Gilda dei Ladri. Pirata, ladro, sacerdote di Pharasma, cerusico, prostituta, collezionò tante maschere quanti erano i soprannomi che vi indossava sopra. Ma quando Imesah Bones andò da lui sotto ordine di Saab, chiedendogli di divenire l’Imperatore del nuovo Impero del dio Saab, Azul vide l’occasione di riscattare coloro che come lui erano stati rifiutati dall’ordine sociale e accettò, per creare un luogo di tolleranza. Azul Goldsmith è un uomo piccolo ma carismatico, che ha imparato a indossare maschere per nascondere le sue paure. Oggi protegge ciò che ha creato con le unghie e con i denti.
Vilya Goldsmith è un drow di 130 anni. Nacque nelle zone più misere di Charrvell’rhaughaust, da una madre mendicante che venne uccisa quando lui superò la maggiore età. Senza più radici, Vilya uscì dal Sottosuolo in cerca del padre e lo trovò su una nave pirata. Tra i due si creò una relazione incestuosa, che durò cinque anni, dopo i quali Azul lo convinse a separarsi da lui e cercare una vita migliore. Dopo aver viaggiato per molto tempo e fatto le esperienze più diverse, Vilya torna dal padre, a Saab, e conosce quella città che sarebbe dovuta essere destinata a lui. Lo spirito ribelle, evasivo e infantile di Vilya gli fa rifiutare le sue responsabilità, ma davanti alla determinazione di So’o anche il suo fare da eterno bambino inizia a tentennare.
So’o Goldsmith è un mezzodrow di 17 anni. Esperimento curioso: è il primo esemplare vivente di un’unione tra due creature mortali (Imesah e Azul) e il dio Saab. Ha il sangue dei suoi tre padri nelle vene e una parte di lui è, perciò, divina. Questo gli permise di sviluppare dei poteri in tenera età, che gli permettono di manipolare la materia di questo mondo. Ha passato tutta la sua vita a Palazzo a controllare i propri poteri e studiare per essere un buon Imperatore, ma ora che Vilya ha scombussolato l’equilibrio della sua vita, la parte adolescente di So’o inizia a ribellarsi e ad andare contro l’ordine costituito. Ci sono passati tutti… a parte il dettaglio di avere un potere misterioso mai visto prima, e il peso di un intero regno sulle spalle.
Imesah Bones ha origini umili quanto misteriose. Si sa che nacque nei bassifondi di una città minore e crebbe nella Gilda dei Ladri. Adorò diverse divinità, cambiando spesso bandiera così come occupazione, ma mantenendosi sempre nella criminalità fino ai 30 anni, quando decise, all’improvviso, di vedere cosa si provasse a ‘fare del bene’. Gli abitanti di cui si prese cura iniziarono a tessere su di lui la favola del Cavaliere di Saab, e la storia si fece così seria che venne investito del cavalierato dal re stesso. Fu allora che Saab lo chiamò a sé e gli ordinò di andare in cerca del prescelto per fondare il suo nuovo regno. Non ha mai dimostrato empatia o affetto per qualcuno, ma è chiaro a tutti che quando Imesah vide Azul Goldsmith, accadde qualcosa che nessuno avrebbe mai immaginato: si innamorò perdutamente di lui.
Ra’shak è il Comandante dell’esercito del Gran Regno di Saab. È un drow adulto, più grosso e possente di un normale drow, ed è stato uno dei combattenti più letali del Sottosuolo… prima di voltare le spalle al proprio passato. Arrivò a Saab insieme al suo compagno Valentino, cinque anni dalla fondazione della città, e da allora chiamano Saab la propria casa. Ra’shak è un uomo riservato, e a questo sono dovute anche le informazioni scarse su di lui e sul suo passato prima di arrivare nella città, ma sotto la scorza di cinico guerriero idrofobo e l’inquietante sguardo assassino sempre presente sulla sua faccia, è capace di rivelare umanità. La stessa che, magari, lo ha portato fin qui. È goffo nelle questioni sentimentali fino a risultare ridicolo, e per quanto cerchi di celarlo (e lo faccia veramente male), il suo profondo affetto per Valentino si vede a chilometri di distanza.
Valentino è un mezzelfo ed è il Consigliere dell’Imperatore. Crebbe in una carovana di elfi nomadi come curatore… finché qualcosa non cambiò, evidentemente. Il passato di Valentino, come quello di Ra’shak, sono premurosamente tenuti segreti, ma da allora le doti del mezzelfo crebbero fino a renderlo un potente incantatore. Insieme a Ra’shak vagò per le terre di Siieeth finché non si fermarono a Saab. Valentino è un ragazzo giovane e bello, e il suo aspetto trarrebbe in inganno, ma ha un carattere determinato e risoluto che lo fa spesso sembrare più grande di quanto sia. Questo lo fa a volte apparire freddo e calcolatore, ma davanti alla goffezza di Ra’shak il mezzelfo si scioglie, tornando il ragazzo che è. Con Ra’shak ha accese discussioni dovute all’enorme differenza culturale tra i due, che però si risolvono in fretta: infatti, il furbetto riesce sempre a farla franca.
 
Lupo di Neve è un mannaro adulto di 50 anni. La sua forma animale è quella di un enorme lupo bianco. Come molte creature della sua razza integrate nel loro habitat naturale, Lupo di Neve indossa abiti che ricordano le atmosfere naturali e tessuti o ornamenti che provengono spesso dalla natura stessa, come pellicce per proteggersi dal freddo - spesso per mero scrupolo, essendo la loro temperatura corporea molto più alta di quella di un umano - oppure ossicini e pezzi di cuoio come ninnoli. A legarlo ulteriormente alla natura sono le sue doti di stregone, doti innate e di tipo istintivo che, attraverso l'animo, modellano gli elementi. Questo personaggio è l'ultimo che verrà presentato nella storia, più precisamente nei primi capitoli, ed è probabilmente il personaggio più misterioso tra quelli principali.



Detto questo, godetevi il primo capitolo! Il nuovo anno è veramente arrivato <3




_________________________________________________________



Storie di Saab, II (Down to Earth)


Capitolo 1 – Ramoth*
*Incubo

 

“[…] Il continente di Hyst è il secondo più esteso del pianeta.
Prima di venire smentito dalle dimensioni della Nuova Terra, si credeva sfiorasse i due poli del globo. I regni settentrionali e quelli meridionali denotano differenze significative proprio a causa delle lunghe distanze che li separano. La sua vastità è indiscutibile al credo comune anche senza considerare il formicaio umanoide che vi brulica sottoterra: il Mondo Sotterraneo.
Nelle fantasie di molti hystsiani, il Mondo Sotterraneo vanta una estensione sbalorditiva: i più ingenui credono che il sottosuolo sia in grado di comprendere quasi l’intera superficie del pianeta. Ma i drow di Hyst non sopportano la pressione del pianeta ai livelli di profondità dove tutti i territori si congiungono, e devono perciò accontentarsi di occupare la sola area del continente hystsiano. L’estensione del continente avrebbe terrorizzato le mire espansionistiche di ogni creatura di superficie, ma a malapena basta a soddisfare l’avidità delle creature del buio.

Difatti, come si osservò quattromila anni prima della Tregua del Sotto e del Sopra – gli storici così chiamarono quell’evento, misterioso quanto salvifico, in cui le perturbazioni geologiche del continente cessarono nel giro di pochi mesi e al termine del quale si iniziò a contare il calendario convenzionale – le creature del buio non si accontentarono.

Con il crescere della necessità di gestire commercio e alleanze con la gente-di-sopra, agli sbocchi delle gallerie principali del sottosuolo si svilupparono delle colonie che assurgevano a questo compito. Un processo genetico di adattamento al nuovo ecosistema portò, dopo numerosi secoli, alla nascita di una nuova stirpe drow che presentava occhi gialli anziché rossi e la cui fotosensibilità, tipica della razza, era andata persa. La loro mutazione gli impediva di vedere al buio con la perfezione dei loro discendenti più puri, ma donò la capacità di sostenere la luce del sole e un ritmo circadiano che li integrava nel mondo di superficie.

I drow di superficie divennero un asso nella manica delle regine sotterranee, strumenti da utilizzare negli unici luoghi che la macchia del sottosuolo non aveva ancora intaccato: i territori illuminati dalla luce del sole.

[…]”
 
Fauhran Davèls, “Piccole storie vere”, d.h. 304
 
***

“Prima di considerare concluso il consiglio… vorrei ricordarvi che non dovete sottovalutare la delicatezza della situazione.”

La voce di Valentino echeggiò nella Sala del Consiglio.
Il mezz’elfo era sporto sul tavolo. Torreggiava sulla mappa di Siieeth; una mappa segnata dal passaggio delle pedine di legno e di osso, tracciata dal compasso e dall’inchiostro, ormai impolverata agli angoli. Lo sguardo dell’incantatore era fisso sull’Imperatore che sedeva al di là di quel tavolo.

“Stando alle indiscrezioni raccolte dai Serpenti, al calare del tramonto Charrvel’raughaust verrà in aiuto delle sue colonie. Vi invito a ricordare quello che si sta mettendo in gioco con una mossa del genere.”

“E io ti invito a ripassare nella tua mente quanto sia importante una mossa del genere,” replicò l’Imperatore.
Azul era seduto a gambe incrociate, celate dal drappo del lungo abito. Le mani erano placidamente intrecciate sul grembo. Aveva posato il suo sguardo sul Consigliere e la luce che filtrava dalle vetrate faceva luccicare i grandi occhi gialli, lì dove le ciglia lasciavano passare la luce.

“Avete pensato a cosa fare dopo?”

“Se ci sarà un dopo,” si intromise Imesah, in piedi in una immobilità statuaria accanto alla sedia dell’Imperatore. Il suo intervento ricordò agli altri la propria presenza nella sala. Gli occhi freddi, inespressivi come il timbro della voce, accarezzavano il mezz’elfo in un modo che lo fece rabbrividire.

“Sì, Valentino. So cosa fare dopo,” replicò Azul pazientemente, aggiustandosi sulla sedia. Sciolse l’intreccio delle gambe per riaccavallarle alla maniera opposta, rivolgendosi ora verso il tavolo, così come il suo sguardo.

“E cosa faremo, dopo, di preciso? Fingeremo di avere altri assi nella manica?”

Azul si interruppe e i suoi occhi risalirono su quelli di Valentino.
“Non fingeremo,” si limitò a rispondergli. Poi le ciglia si abbassarono di nuovo, placide, verso la mappa.

“Conosci ciò che stiamo affrontando, Valentino,” Ra’shak attirò l’attenzione a sé. Aveva gli occhi puntati sul ragazzo. “Drow. Tutto ciò che cade nelle loro mani diventa un’arma per annientare l’avversario. Sfrutteranno qualsiasi cosa. Paure, debolezze…” Il Comandante voltò il capo. Cercò l’Imperatore. “Rispondere con le loro armi è la sola strada per vincere un esercito di drow.”

Valentino aveva puntato Ra’shak. La gravità dipinta sul suo volto gli dava più anni di quanti ne avesse. Dopo un istante di riflessione schiuse le labbra per rispondere, ma Azul prese un sospiro e lo interruppe prima che potesse farlo.

“Non devi preoccuparti per me, Valentino.”

Sciolse l’intreccio delle gambe e si alzò, in un ondeggiare dei fili dorati che pendevano dalla corona. Proseguì, lisciandosi il panneggio del vestito, e alzò gli occhi luccicanti verso il Consigliere.

“Se il mio destino fosse stato la morte, sarei stato spazzato via tanto tempo fa.”

“Iniziamo i preparativi per domani.”
Le parole di Imesah gli rubarono la scena. In piedi accanto alla sedia dell’Imperatore, il Cavaliere ruppe in un istante la sua compostezza marziale per superare il tavolo, diretto verso la porta.
“Valentino.”

Il Consigliere drizzò la schiena senza batter ciglio e raccolse la risma di pergamene dal tavolo, in un paio di gesti pratici, per poi seguire Imesah. Ra’shak si scostò a sua volta dal tavolo e calpestò i loro passi, seguendoli. In breve tempo i tre uscirono dalla sala e la serratura scattò pigramente dietro di loro, al chiudersi della porta, lasciando Azul immerso nel suo silenzio.

Quando l’ultimo eco di quello scatto metallico si spense, il jaluk ruppe la sua stasi e aggirò il tavolo in un passo lento. Si muoveva con la lentezza di una creatura che funzionava in un altro tempo, come se appartenesse a un mondo estraneo. Lo strascico dell’abito che indossava lo seguì come una coda. Abbassò lo sguardo ancora una volta sulla mappa, tendendo le braccia per distendere le maniche lunghe sui polsi, e intanto dischiuse le labbra piene.

“Proprio te, tra tutti, non mi aspettavo di trovare qui.”

Dopo qualche istante, il gemito di una corda vibrò nella sala.

In un tonfo, gli stivali di Vilya raggiunsero il suolo.

“Sei più deluso di vedermi qui… o di essere riuscito a trovarmi?”

Vilya si alzò e risistemandosi i vestiti cercò la figura del padre, che replicò con ironia nella voce.

“Non ti è mai importato di questo regno, ma adesso fai l’equilibrista sulle travi del soffitto per spiare tuo padre.” Azul incrociò lo sguardo del più giovane. Scrutò nel suo sguardo blu, in un modo enigmatico, che contrastò con la futura crudezza delle sue parole.
“Che cazzo fai?”

Vilya infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e si strinse nelle spalle.

“Quello che mi pare. Come sempre.”

Azul sbatté le palpebre, prima di distogliere lo sguardo dal figlio. Tornò al tavolo e la sua attenzione venne catturata da una delle pedine di legno in piedi sulla mappa. La raccolse tra le dita, lunghe e sottili come le zampe di un ragno. La portò accanto al viso e la rigirò per osservarla meglio.
“Non dovresti impicciarti in cose più grandi di te.”
Vilya abbandonò le tasche in un sospiro e camminò verso il padre.
“Hai una strana concezione di cosa sia più grande di me.”
Azul sbuffò beffardo dalle narici e si fece sfuggire una smorfia di orgoglio. Spostò lo sguardo davanti a sé e il suo sorriso si spense. Distrattamente, la pedina venne catturata tra le dita del drow fino al chiudersi del pugno attorno alla sua vittima. Presto la stretta si serrò e divenne una gabbia soffocante.
Io lo sono,” sussurrò.
“E tutto questo.”
Si voltò per puntare nuovamente l’altro. Vilya dovette affrontare lo sguardo grave del padre.
“La guerra, è più grande di te.”

Il più giovane tentò di sostenere quello sguardo, ma distolse presto il proprio e si avvicinò alla mappa sul tavolo fino a superare il padre. Gli occhi di Azul finirono così per puntare le vetrate dell’enorme sala.
“C’era una sedia vuota durante tutte queste riunioni.” Riprese Vilya, scrutando le pedine sulla pergamena.
“Come se ti importasse veramente,” replicò la voce melliflua dell’altro.
Vilya tornò al padre e una stilla di fastidio colorò la sua voce.
“Stai iniziando a parlare come Imesah, lo sai?”
“Succede,” disse l’altro con semplicità. Raccolse le mani sul grembo e camminò piano verso il ragazzo. “Ci vediamo ogni mattina da una ventina d’anni,” si strinse nelle spalle, “non ho avuto l'occasione di imparare a parlare come te e iniziare a fare stronzate dal nulla perché me l'ha detto il mio fratellino.”
Vilya si voltò del tutto verso il padre, repentino.
“È il mio principe.”
“È il tuo ragazzino,” lo corresse Azul fermamente, “E io sono il tuo Imperatore.”
Vilya avanzò verso di lui e troncò quasi le sue ultime parole con le proprie. “Ha una voce in tutto questo. È il suo regno, è la sua gente, e questa è casa sua.”
Azul corrugò la fronte e socchiuse gli occhi, piegando il capo incuriosito.
“Ti sta divertendo questo gioco, ussta dalhar?* Usi il fratellino per litigare con me? Sei nella tua fase ribelle? Nei miei calcoli doveva essersi estinta una ventina di anni fa…”
Venne interrotto dalla risata di Vilya.
“Mi conosci meglio di così, papà. Io sono sempre nella mia fase ribelle.”
“Beh, dacci un taglio, cazzo.” Azul aggirò e superò il figlio. “Mi avete spazientito tu e tuo fratello – anzi, tu.” Tornò a cercarlo con lo sguardo. “Prenditi le tue responsabilità. Fai il bravo fratello maggiore e digli che deve calmarsi.” Un cenno del capo indicò, metaforicamente, l’oggetto della discussione, assente nella sala.
Vilya allargò le braccia, e si strinse nelle spalle.
“Credevo avessi un buon rapporto con lui.”
“Funziona meglio se glielo dice suo fratello.” Ribatté. “Vilya.” Richiamò il figlio. Azzerò di nuovo le distanze tra loro in pochi passi, con uno sguardo preoccupato. “Vilya, non fare questi giochi con me.”
L’ultima stilla di ironia sul volto del moro svanì di punto in bianco.
“Di cosa hai paura, Azul?” gli sussurrò, scrutandolo bene negli occhi.
Azul non gli rispose. I suoi occhi gialli rimbalzarono in quelli blu del figlio e si colorarono di apprensione. Dischiuse appena le labbra senza che un rumore ne uscisse. Trattenne gli occhi nei suoi, intensamente, poi chiuse la bocca e si voltò per andarsene.
***

Il lucore dei candelabri era ormai pallido, in confronto alla fredda luce dell’alba che aveva iniziato a illuminare la stanza. Le medagliette d’oro dell’ornamento che l’ancella teneva tra le mani tintinnarono tra loro nello scontrarsi. La ragazza sollevò il gioiello e l’uomo al suo fianco tese il braccio per indossarlo.

“Non è presto per dare inizio alla battaglia, Imperatore?”
“Con le forze del sottosuolo è sempre tardi. Hanno iniziato i preparativi quando è calato il sole, approfittando della notte. A quest’ora saranno pronti.”
Per agganciare le sottili catenelle d’oro all’abito, la giovane scostò i capelli di Azul sulla spalla opposta e il drow voltò il capo verso la finestra per darle spazio. Gli occhi di Azul brillavano per via della luce, ma quando abbassò le palpebre essi vennero sottratti a quel gioco di colori. Dalla finestra arrivavano le voci lontane dei mercanti che aprivano la bottega, il cigolare delle ruote dei carri e gli zoccoli scalpitanti dei pochi cavalli in strada; il suono della città che si risvegliava lentamente in un pigro sbadiglio.

“Non hai mai visto una guerra.”
“No, Imperatore.” Una volta agganciato l’ornamento, l’ancella ne raccolse un altro e andò alle sue spalle. Azul abbassò il braccio e raccolse i capelli sul davanti.
“Le guerre erano lontane da me e dalla mia famiglia. Anche se… ci facevano morire di fame.”
Azul spostò lo sguardo di lato, attirato da quelle parole.
“Temi questo? La fame?”
L’ancella sospirò. Era impegnata a sistemare i gioielli lungo la schiena dell’Imperatore.
“Tutti noi temiamo il nostro peggiore incubo.” rispose dopo un lungo silenzio.
Le dita della ragazza si scostarono dalla pelle del jaluk. Azul si voltò verso la ragazza e tutti gli ornamenti si mossero insieme a lui mentre il suo sguardo incrociava quello della fanciulla, prima di sbattere le palpebre.
“Io sono diventato il mio incubo,” osservò. L’ancella scrutò nei suoi occhi brillanti. Quando ne riemerse, toccò l’avambraccio dell’uomo e lo guidò verso la sedia.


Azul si alzò dalla sedia e fronteggiò lo specchio. Alzò la mano per sfiorare i gioielli sul suo petto. Delle sottili onde di catenine dorate oscillavano a ogni piccolo movimento. Gli occhi di Azul, incorniciati da folte ciglia nere, caddero sul riflesso delle labbra carnose dipinte d’oro. L’ancella lo aveva colorato così anche attorno agli occhi in una striscia orizzontale, e gli aveva evidenziato le palpebre con il kajal nero. Il colore bianco sulla fronte invece si confondeva con l’attaccatura dei capelli spoglia, come a suggerire che mancasse qualcosa.

Risalì sul riflesso del proprio viso e osservò la maschera che si era fatto dipingere addosso.
La mano scese dal ventre all’ombelico, dove, a lato, filtrò un baluginio fioco, poi più intenso, che sembrava provenire da dentro il suo corpo. Delle fumose volute d’ombra, all’improvviso, stavano abbracciando il jaluk da dietro, e si accalcavano, silenziose, una nuvola nera sull’altra fino a superarlo in altezza. Azul socchiuse gli occhi e strinse la mano in un pugno. Fu allora che dalla foschia intravide il volto del figlio.

Sgranò le palpebre in un piccolo sussulto e si voltò di lato per guardarlo in faccia. So’o intercettò subito i suoi occhi e il velo di apprensione nello sguardo. Guardò il lucore nella pancia del padre e la sua espressione si colorò di inquietudine. Tra le mani del ragazzo c’era un copricapo d’argento, un grosso ragno con delle zampe per raccogliere i capelli. Azul drizzò la schiena e si voltò del tutto verso il ragazzo. Dischiuse le labbra, prese un respiro, ma non disse nulla. So’o rialzò gli occhi nei suoi e li incrociò di nuovo. Azul esalò via il respiro dalle narici, petto e spalle si abbassarono. Il Principe abbassò gli occhi e posò il copricapo sulla scrivania accanto. Lo scrutò un’ultima volta, poi si voltò e uscì. Gli occhi di Azul rimasero sulla porta per alcuni secondi, prima di puntarsi distrattamente sul pavimento.
***

In mezzo all’esercito di Saab si stagliava la landa arida del campo di battaglia, al di là della Foresta Incantata. L’autunno aveva dato le prime avvisaglie con la caduta delle foglie e i fili d’erba ingrigiti. I colori spenti della sterpaglia persero il poco caldo che li animava quando la luce del tramonto venne celata dalle montagne a ovest e lasciò che il freddo afferrasse ogni cosa.
“È arrivato il momento”, disse Imesah in sella al cavallo. Il suo sguardo spaziava sul campo da un’altura, a distanza di sicurezza dalla battaglia. Al fianco del Cavaliere Grigio c’era l’Imperatore. La figura di quest’ultimo era avvolta in un pregiato mantello scuro, i cui panneggi celavano le spalle strette e superavano le staffe della sella per ingrossarne la figura. Non rispose al Cavaliere. Imesah si voltò per guardarlo e lo trovò scandagliare i movimenti della battaglia.

Una lieve depressione ospitava l’infuriare di un caos che andava avanti dall’alba. Gli eserciti avevano perso da molto il vigore delle prime ore, ma non osavano fermarsi. I drow di superficie erano creature esili ma resistenti. Un solo potente colpo ne abbatteva uno… se solo si fosse riusciti a prenderlo. Quando i drow avversari erano troppo veloci per essere presi, intervenivano gli incantatori, capeggiati da Valentino. Il mezz’elfo cavalcava tra le fila di guerrieri, separava il caos di corpi con il suo cavallo e lanciava gli incantesimi più potenti con la staffa. Altri incantatori erano incaricati di restituire energia ai soldati, rallentare gli avversari o colpirli con la magia elementale. Difendere dei combattenti così vulnerabili era compito dei soldati. In quanto a ‘un solo potente colpo’, Ra’shak si occupava di darne esempio. Il Comandante si trovava in groppa a un frisone talmente grosso che le file si aprivano prima del suo arrivo, nel terrore di venire calpestate durante la corsa del cavallo. In quel preciso momento, poco lontano da lui, un jaluk delle colonie sembrava aver pianificato una strategia. Superò la difesa di un saabiano e affondò la lama del suo pugnale nell’incantatore che il soldato stava proteggendo. Ra’shak partì alla sua ennesima carica. Lo scalpitio degli zoccoli si sentiva fin sull’altura. Un grido di battaglia sovrastò il coro di urla degli altri guerrieri e in un roteare dell’arma Ra’shak schiantò un’estremità del suo martello sulla testa del jaluk, facendolo cadere nella marea di corpi a terra. La corsa del frisone rallentò. Il Comandante si assicurò brevemente che il nemico non si rialzasse più, prima di controllare l’area. Spiò la zona opposta del campo di battaglia, dove trovò Valentino incrociare il suo sguardo prima di riprendere anche lui il galoppo. Imesah vide poco dopo Azul alzare lo sguardo più lontano, verso la fenditura a Nord.

La fenditura ospitava un passo tra due montagne. La sua posizione lo rendeva oscuro per la maggior parte della giornata, ma persino allora che il sole era sparito e il crepuscolo iniziava a colorare di indaco il cielo, l’oscurità che aveva ricoperto il sentiero e che si stava riversando sulla piana era più buia di ogni altra ombra.

Imesah sgranò gli occhi. Azul sbatté le palpebre. Il cavallo del Cavaliere emise un nitrito e si smosse dalla sua posizione. Imesah si drizzò e tirò le briglie per tenerlo al suo posto, irrigidendo la postura.
“Sì. È arrivato”, sussurrò l’Imperatore.

I due osservarono la macchia nera colare nella depressione già abitata. Tra la fanteria del sottosuolo che sfilava lungo il passo si intravidero dei drow in sella a rettili e altri su ragni grossi il doppio di un cavallo. A lato tre figure accompagnavano l’esercito, distinguendosi già da quella distanza per i grandi serpenti che le trasportavano. Azul assottigliò lo sguardo.

Imesah girò il cavallo e scese l’altura, andando incontro alla Guardia Imperiale: un secondo esercito a cavallo formato dal corpo di guardia sotto l’autorità del Cavaliere. Si distinguevano per le armature bianche che indossavano. Mentre la voce dell’umano diceva loro di prepararsi alla carica, Azul osservò la massa brulicante di drow del sottosuolo infrangersi sul proprio esercito come un’onda che incontrava uno scoglio inamovibile. L’esercito fermò, in un primo momento, l’avanzare della macchia nera. Dall’altura si sentirono gli incantatori urlare gli incantesimi. Dopo lunghi secondi di tensione, l’argine dell’esercito di Saab crollò e l’esercito oscuro si riversò tra le loro file. La corruzione si fece strada nella piana.

Il rumore di zoccoli fece voltare Azul verso gli occhi verdi di Imesah, incrociandoli. Ricambiò lo sguardo grave con intensità e silenzio, scrutando il suo compagno. Imesah fece lo stesso. Il Cavaliere serrò appena le labbra. Le sue mani, che trattenevano le briglie del cavallo irrequieto, allentarono la presa e Imesah tornò a guardare davanti a sé nel superare Azul e incamminarsi verso la battaglia. In uno schioccare ritmico della lingua il Cavaliere accelerò la corsa del cavallo. La Guardia Imperiale seguì subito dopo e uno per uno abbandonarono l’Imperatore.

Scesero l’altura in corsa. Un paio di alfieri posti all’estremità del gruppo tenevano alti gli stendardi di Saab: un ragno lungo e sottile, di colore bianco, in campo nero, con quattro gemme ai lati. Una dorata, una verde, una blu e una rossa. Guidati dal Cavaliere Grigio, si mescolarono con l’esercito di Saab e proseguirono lungo il campo di battaglia fino a incrociare la macchia nera. Uno degli alfieri alzò lo stendardo e urlò una invocazione. Ci fu un lampo di luce bianca, che, nel segnare un solco di lama fino a terra, brillò per un istante sulle teste di tutti. Quel lasso di tempo bastò perché i drow del sottosuolo venissero frastornati dalla luce e non riuscissero a vedere niente per alcuni secondi. Nella libertà di manovra che l’imprevisto aveva permesso, i soldati di Saab davanti ai loro avversari non esitarono a far calare le loro spade in una facile uccisione. Più lontano, verso le fila nemiche, le zolle di terra che erano state toccate dalla lama di luce esplosero uccidendo altre vite. Le guardie sguainarono le spade, che una volta estratte dal fodero iniziarono a brillare di una luce innaturale, e caricarono la massa brulicante di creature dell’ombra. Gli alfieri ripresero subito dopo le invocazioni.

Quando le tre figure sui serpenti si avvicinarono al pieno della battaglia, Azul allentò le redini e fece vibrare un fischio. In poco tempo anche Azul fu immerso nella schiera di combattenti, e non rallentò finché non raggiunse le guardie. Imesah urlava ordini ai cavalieri. Zittì vedendo Azul e sollevò la spada oltre la propria testa per puntarla poi verso l’Imperatore a braccio teso. Da essa si sprigionò la medesima luce che illuminava le altre spade; quella che, subito dopo, si irradiò alle spalle di Azul allontanando la folla e attirando l’attenzione. L’Imperatore fermò il cavallo irrequieto e si liberò una mano per levarsi di dosso il mantello.

Il primo drow che si lanciò verso di lui aveva l’armatura leggera delle colonie di superficie. Lo sguardo concentrato di Azul lo vide arrivare e si inchiodò sulla creatura. Delle volute d’ombra si espansero attorno all’Imperatore, illese dalla luce, e ne lambirono i fianchi. Con le redini ordinò al cavallo di voltarsi verso il soldato e camminare verso di esso, ma il drow lo aggirò per mantenere il fianco dell’Imperatore. Le volute d’ombra si avvolsero attorno alle braccia e alle gambe del jaluk a cavallo. Una volta che il drow a piedi fu entrato nel campo di luce per sferrare l’attacco, Azul piegò il capo in avanti mantenendo lo sguardo su di lui.
La luce di una fiammella gialla si proiettò all’improvviso dal ventre nudo dell’Imperatore, come se provenisse da dentro. Si illuminò intensamente, sembrò consumarsi e farsi più piccola. Il fumo nero si materializzò attorno alla figura scattante del soldato. Lui ebbe pochi istanti per sgranare gli occhi, fermarsi e piegare il capo all’indietro. Una piccola sfera di luce gialla uscì dalla sua gola, che era stata avvolta dalle tenebre, per galleggiare sopra la sua testa. L’ultima cosa che fece il corpo del colono fu cadere a terra e accasciarsi per non rialzarsi più.



* = bambino mio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Vharcan ***


Ciao a tutti :) per rendervi più agevole la lettura, vi scrivo qui i significati di alcuni termini drowish che potete non sapere. Spero che gradirete questo capitolo :)



Ilharess: Sacerdotessa. La Ilharess è la matrona di un grande clan o una grande città drow.
Jallil: drow femmina.
Jaluk: drow maschio.
Ussta dalhar: bambino mio.
Dalhar: bambino.



Storie di Saab, II
Capitolo 2 – Vharcan*
*Vendetta







“[…]
Hai solcato con me gli oceani, perciò conoscerai le usanze degli dei minori che venivano venerati tra la nostra gente. Ladri, assassini, prostitute, pirati e contrabbandieri provenienti da ogni angolo del mondo: ognuno di loro portava i loro dei, le loro usanze e, con esse, a volte, i sacrifici umani.

Kitumu, la libellula rossa dei Kembe, chiede che venga versato sangue umano ogni anno perché continui a dormire. Dhalavei è la dea dei segreti e distruttrice di legami. Famosa tra le spie. Per la sua setta, i Distruttori d’Ebano, i sacrifici sono una parte importante della venerazione. Le sette di Lamashtu, o Madre Incubo, sono creature dalle fattezze bestiali come Lamashtu stessa. Hanno preso la tradizione di fare esperimenti su umanoidi, ingravidando uomini e donne per creare prole dall’aspetto mostruoso. Lo stesso nemico di Madre Incubo, Rovagug, vuole che i suoi fedeli portino una vittima all’altare sacrificale e la uccidano con violenza. L’ultima divinità che voglio nominare è il diamante della collezione, Vilya, ma tu la conosci già molto bene. Tra i loro compiti, i cacciatori del sottosuolo che vanno in superficie hanno quello di riportare indietro una vittima sacrificale. Gli umani vanno bene, gli elfi meglio. Anche se le vittime che Lolth ama di più, ussta dalhar, sono le sue stesse sacerdotesse.

Ti sei mai chiesto per quale motivo i nostri compagni sacrificassero i prigionieri ai loro dei, sulla riva, una volta conquistato questo forte o quella nave? Perché gli dei desiderano il sangue di un umanoide? Beh, dalhar, se ho imparato una cosa in questi centocinquant’anni di vita, è che ciò che tiene in vita gli dei siamo proprio noi. Non è il sangue o la carne smembrata che desiderano… ma piuttosto, le nostre anime. Ogni affondo di lama nel corpo di un uomo vivo ci toglie via pezzi di noi. L’anima si incrina e si sfaccetta come uno specchio rotto per ogni vita che prendiamo. Quando la morte evoca qualcosa dentro di noi - felicità, piacere, orrore, paura, vendetta, tristezza - e dedichiamo quel pezzo di noi a un dio, il dio lo divora. Se non lo facciamo, è la morte stessa a divorarci. Gli dei e la morte ci mangiano, banchettano su di noi. Banchettano su di un mondo di cadaveri. E alla millesima uccisione l’anima si spezza in mille e uno specchi, come un lago sempre torbido. Non si riesce più a specchiarcisi. Non c’è più ritorno. Non si ricorda più cosa significhi… essere umano.

Non so quante volte ho ucciso, Vilya, ho perso il conto. E non so quante anime mi mancano dal perdere quel poco che ho mai avuto di me stesso. Ma sono sicuro di due cose:
che sono ancora qui,
e che ucciderò ancora.
Undome,
d.h. 337”


 

***






L’Imperatore risollevò il viso e la sfera gialla corse verso di lui fin sulla sua gola. Si infranse sulla pelle dell’uomo, facendo brillare la pelle di Azul, e scese fino alla fiammella, ravvivandola.
Gli occhi del negromante calarono nuovamente sulla folla e la scandagliarono affamati. In un’esortazione di stinchi e bacino fece ripartire il cavallo al galoppo. Le creature nel campo di luce indietreggiarono, senza poter sconfiggere la velocità della cavalcatura. Delle urla riempirono la piana. Dal terreno emersero ombre fumose che rincorrevano i jaluk rimasti catturati nella ragnatela di luce. Tutte le sfere luminose che vennero vomitate dai nuovi cadaveri corsero verso la gola del negromante e vi si infransero come la prima.

Il campo di battaglia si aprì attorno all’Imperatore. Gli avversari che scappavano da lui vennero intrappolati dai soldati di Saab. La Guardia Imperiale si accanì sulle divise nere dei jaluk del sottosuolo. Azul aprì le file dell’esercito nero in aiuto dei suoi cavalieri, sbaragliando le forze nemiche. Il Cavaliere Grigio, immerso nella mischia, seguiva furtivamente l’Imperatore tenendosi al suo fianco a metri di distanza.
Il cavallo di Azul si impennò davanti a un enorme serpente. Posto sulla sella, il suo cavaliere, come Azul, indossava diademi, gioielli e un abito bianco, ma era una jallil. Il serpente strisciò verso Azul con avidi occhi gialli e si vide ricambiato lo sguardo. Non appena si fermò indietreggiò la testa e puntò la preda. Dischiuse le zanne in un minaccioso soffio di avvertimento.


 

***




Valentino seguì la traiettoria di uno dei tre grossi serpenti sul campo di battaglia. Con dei colpetti alla coscia del cavallo e un’esortazione lo fece partire al galoppo. Il cavallo calpestò il tappeto di cadaveri e tagliò la strada al serpente per poi fermarsi davanti ad esso.

Il mezzelfo si guadagnò l’attenzione della jallil, che sedeva sulla sella del rettile. Ricambiò lo sguardo: i suoi occhi verdi la puntarono con determinazione. La staffa del mago era stretta nella sua mano destra, con le redini nell’altra mano.
Lei, guardandolo dall’alto in un’espressione superba, alzò il mento affilato e iniziò a recitare una formula magica. La voce si alzò gradualmente. Il mezz’elfo ripose la staffa nel fodero dietro la schiena. Sollevò appena le braccia, con le mani verso il basso e i palmi rivolti verso la donna. Incalzò a sua volta la formula di un incantesimo. La donna stava venendo avvolta da tenebre violacee, innaturali; ma interruppe il suo canto nel mezzo dell’incantesimo quando la lingua del sottosuolo che Valentino stava pronunciando fu abbastanza limpida da arrivare alle sue orecchie.

La jallil abbassò il viso, sorpresa, e sgranò gli occhi, piantati sul mezzelfo. Le mani di Valentino si stavano colorando di grigio dalla punta delle dita. La pelle stava cambiando lentamente e avviluppava il ragazzo nel colorito carbone di un jaluk qualunque. I capelli sbiancavano dalle punte fino alla radice per ogni parola che scorreva dalle sue labbra. Il respiro accelerò. Gli occhi del mezz’elfo si sbarrarono con le iridi rosse fisse sulla drow. La voce limpida si appesantì di stenti. La jallil strinse convulsamente le redini del serpente e lanciò un urlo adirato. Tese il braccio verso il ragazzo. Recitò in fretta una formula, la voce si incrinò di una nota critica.

Valentino pronunciò l’ultima parola del suo incantesimo prima che lei ebbe finito. Fiamme nere avvolsero il corpo della donna e del serpente e iniziarono a consumare il suo vestito. Un altro urlo squarciò la piana. Il serpente si contorse violentemente finché le sue spire non carbonizzarono del tutto. Il tanfo della carne bruciata venne soffiato dal vento.

Solo allora, Valentino crollò sul collo del cavallo in uno stento, privo di forze. Si aggrappò alla criniera ma non riuscì a rialzarsi. I capelli riacquistarono il loro colore biondo grano, la pelle tornò rosea. Il braccio di Ra’shak arrivò al ragazzo e lo strinse a sé. Il mezzelfo si appoggiò a lui e si prese del tempo per recuperare le energie. Il jaluk osservava l’area alle spalle del mezzelfo e ascoltava il respiro del compagno che si regolarizzava piano.

“Traditore di Jhachalkhyn.
Quale onore.”
Ra’shak sgranò gli occhi. Voltò repentino il capo dietro di sé e si irrigidì nel vedere il proprietario di quella voce. Era un altro drow, più anziano, con l’armatura nera del sottosuolo e due spade corte nelle mani. Aveva un ghigno sulla faccia.
“Avrei potuto colpirti alle spalle. Il tuo stile con le Ilharess.”
Ra’shak abbandonò il mezz’elfo. Girò il frisone verso il jaluk.
Comandante,” chiamò così l’uomo a terra.

“Ti brucia ancora?”, aggiunse.
Il jaluk sbuffò dalle narici.
“Huh. Cosa, non venire perseguitato per il resto della mia vita?”
“Venire deposto dalla Ilharess,” lo corresse Ra’shak, scendendo da cavallo, “vedermi prendere il tuo posto al comando. Vedermi ucciderla al posto tuo.”
“Hai ucciso la persona sbagliata, Ra’shak,” replicò il più anziano. Si rigirò una delle spade nella mano. “Si uccidono i jaluk, non le jallil. E si scopano le jallil, non i jaluk.”
Inarcò le sopracciglia, emise un sibilo: “devi aver fatto confusione. Una gran confusione.”
Ra’shak impallidì*. L’altro indicò Valentino con un cenno del mento.
“Te lo porti ancora dietro, vedo.”
Il Comandante di Saab trattenne gli occhi in quelli dell’avversario, rigido come una statua. Poi fece un passo avanti. Le mani raggiunsero le spade che aveva infoderate dietro la schiena.
Le estrasse e si mise in posizione di attacco.
“Nessuna confusione,” sussurrò.




* = sì, lo so, è difficile da immaginare anche per me.

***






Azul rispose.
Le labbra schiuse modellarono suoni che strisciavano, sibilavano e vibravano nella gola. Il cavallo si lasciò andare in un nitrito ribelle; l’Imperatore dovette trattenerlo con le briglie mentre proseguiva. Il serpente inarcò le spire attorno a sé in risposta e sembrò più grosso di prima. Spalancò maggiormente le zanne in un altro soffio, ma poi serrò il muso, lo chinò e tirò fuori la lingua in un guizzo, nel tentativo di odorare il jaluk.

“Conosci la lingua dei serpenti?” la jallil li interruppe, con una nota di derisione.
“Gli hai chiesto di non mangiarti?”
“Gli ho chiesto cosa ci fa qui,” rispose Azul, impastando la sua voce nel timbro ruvido della sua lingua natale. “Gli ho chiesto perché sta seguendo una creatura debole come te.” La ruvidezza della voce accompagnò l’asprezza del disprezzo che colorò le sue parole.
La jallil sollevò il mento. I suoi occhi brillarono di rabbia.
“Non sai riconoscere una Ilharess quando la vedi?” sbuffò una risata, chiudendo le palpebre sotto le ciglia lunghe. “Non avrai comunque bisogno di farlo quando il mio serpente ti mangerà,” rivelò in un sospiro.
“Non lo farà,” rispose il negromante, trattenendo lo sguardo sulla figura della Ilharess. Tornò al serpente per dirgli qualcos’altro e il serpente rispose con un sibilo, facendo affiorare la lingua biforcuta.
“Thir'ku-waess**!” lo richiamò la Sacerdotessa stringendo le redini, “Avanza!”

Il serpente sovrastò Azul. La jallil si premette al suo dorso e intonò un’invocazione. Attorno a lei iniziò a materializzarsi uno sciame di dardi, con le punte dirette verso il jaluk.
Poco lontano dal confronto tra i due, Imesah invece sollevò la spada un bisbiglio. Non appena la Ilharess terminò il suo canto, i dardi si scagliarono sul jaluk talmente veloci da essere a stento visibili. Ma prima di raggiungere Azul essi si infransero nel nulla, svanendo in una voluta di fumo.

Azul non batté ciglio. Alzò la mano e voltò il palmo verso l’alto. Dei tentacoli di fumo emersero dal terreno. La Ilharess li vide salire verso la sua gonna e in un gemito di paura e smarrimento tentò di scivolare dalla loro presa. Finì per venire strattonata e ricadere sulla sella. Le spirali di fumo la avevano già avviluppata. Nello stesso momento la fiamma nel corpo del jaluk iniziò a bruciare vivida e a consumarsi. La jallil tentò di strappare via la gonna dai tentacoli in un ringhio spaventato. Le dita di Azul iniziarono a raccogliersi nella mano. Le spirali nere risalirono verso i fianchi della donna e riuscirono a cingerla in una morsa che la tenne inchiodata sulla sella, impedendole tutti i movimenti inferiori alla cintura. La drow squittì, annaspando quando i tentacoli le lambirono la pancia. Gettò il capo all’indietro e prese ad ansimare affannosamente nel tentativo di prendere il respiro. Azul chiuse il pugno in una stretta salda. Il fumo coprì il corpo della donna come un abito e lo strinse in una morsa affiatata. Gli stenti, e gli squittii, che fuoriuscivano dalle labbra della donna si interruppero, quando il fumo nero la raggiunse alla gola. Il suo corpo si irrigidì all’improvviso in uno spasmo. Allora, delle vene di liquido dorato affiorarono dalla donna e scivolarono lungo i tentacoli per poi sparire sotto il suolo. La pelle di Azul brillò ancora una volta. Il fumo svanì e il corpo dell’Ilharess, ora molle, scivolò dalla sella e si accasciò a terra.



** = Cambia-Pelle.

 


***





All’ultimo colpo sferrato, i muscoli di Ra’shak guizzarono via dall’avversario, lucidi di sudore, nel sottofondo del suo respiro affiatato. Per quanto potesse essere veloce, l’altro lo era ancora di più. Il fendente successivo sfregiò il petto di Ra’shak, costringendolo a tirarsi indietro. Era in disequilibrio, ma a farlo inciampare fu un calcio alla faccia. Ra’shak non poté controllare la caduta e batté la testa. Gemette in un sospiro. Lottò per qualche istante contro la perdita dei sensi, prima che gli si annebbiasse la testa, lasciandolo esanime a terra.

Una volta assicuratosi che Ra’shak fosse fuori gioco, l’avversario si voltò e alzò le braccia verso Valentino, tracciando una serie di gesti. Ma lo sguardo non era diretto a lui: era diretto alla terza Ilharess, davanti all’incantatore. Montava il suo serpente, che aveva puntato gli occhi sul cavallo di Valentino. Valentino era esausto, ma tentava di farlo partire con dei colpi di tallone. Il cavallo, però, incrociava lo sguardo del serpente e non si muoveva se non per spostare il peso del corpo: era ipnotizzato.
La Ilharess annuì ai segnali del jaluk e abbassò lo sguardo sul ragazzo.

In un rantolo, Valentino si fece forza e si scostò dal collo del cavallo per alzare il viso verso la jallil. Affannando, corrugò la fronte in una smorfia di sfida e le mani si strinsero attorno alla criniera del cavallo.


Ra’shak era svenuto.

Per qualche secondo.
“-Uh…”
Riaprì gli occhi confuso, prima di sgranarli subito dopo. Tese i muscoli in un’iniezione di adrenalina che lo spinse su a sedersi. Cercò il jaluk che lo aveva atterrato. Trovò l’Ilharess davanti a Valentino. Venne scosso da un violento brivido. Lo usò per darsi la carica.
Estrasse un pugnale dal fodero sulla coscia e scattò in piedi. Con un passo avanti lo incastrò tra le scapole del jaluk che gli aveva dato le spalle. L’urlo dell’uomo attirò la jallil.

Ormai Ra’shak stava correndo verso di lei, inarrestabile. L’Ilharess imprecò nella sua lingua aspra e girò il serpente verso di lui, ma il jaluk scavalcò le spire della creatura prima che essa potesse tentare di morderlo. Estrasse un altro pugnale da dietro la schiena***. Lo conficcò nel fascio di muscoli del collo del serpente e lo usò per arrampicarsi sull’animale, tirandosi su. La bestia si contorse dal dolore, sputando veleno. L’altra mano si aggrappò a una squama e la tirò via nel sollevare il resto del corpo. Ra’shak rischiò di venire sbalzato a terra dalle contorsioni della bestia, ma il pugnale resse nel muscolo del serpente e lo trattenne. L’Ilharess perse il controllo delle redini e con un gemito si aggrappò in avanti, sulle squame del serpente. Ra’shak la raggiunse. La picconata di pugnale stavolta trapassò la mano di lei nel puntare le carni del serpente, causandole un urlo.

Quello fu l’ultimo verso della Ilharess. La sua testa sbatté contro il pugno deciso di Ra’shak.
Piegato sul cavallo, Valentino sollevò le sopracciglia in un’espressione basita.





*** = c’è tutto il set di Miracle Blade là dietro.
***




Thir’ku-waess si chinò in un sibilo. Azul si arrampicò in piedi sulla sella del cavallo e tentò di aggrapparsi a quella del serpente. Riuscì ad afferrarla poco prima che il cavallo fuggisse al galoppo, lasciandolo penzolare nel vuoto, in un fioco tintinnare dei gioielli. Il jaluk scalò la sella con uno stento e montò sul serpente, prendendo le redini tra le mani. Sospirò e pronunciò un verso sibillino: il serpente si innalzò.

I due eserciti avevano smesso di combattere. All'orizzonte si vedeva solo un altro serpente come quello montato da Azul, e si contorceva su se stesso. L'urlo femminile lanciato da quella direzione fece voltare i jaluk, che videro la sagoma bianca dell'ultima Ilharess cadere dalla sella. Il silenzio invase l'aria insieme alla polvere alzata da terra.

“Charrvell'rhaughaust,” chiamò Azul, scrutando i guerrieri sotto di sé. I jaluk ricambiarono il suo sguardo.

“Avete seguito le vostre Sacerdotesse in battaglia. Le vostre Matrone. Le voci di Lolth, le prescelte.”

Voltò il capo, spaziando lo sguardo lungo la piana.

“Le Ilharess non amano uscire fuori dalla tana. Lo fanno quando si sentono al sicuro. Lo fanno per dimostrare qualcosa.”

Abbassò lo sguardo al cadavere della donna che aveva ucciso poco prima, ora ai suoi piedi.

“Oggi volevano dimostrare che il nostro Ragno Bianco fosse impotente davanti alle vaste forze della Dea Ragno. Sono uscite dal loro dominio e le abbiamo sterminate una ad una, come piccoli insetti.”

Alzò lo sguardo, nuovamente, verso l'esercito che si stagliava attorno a lui da tutte le direzioni, girando il serpente per abbracciare altri stralci di quell'orizzonte.

“Questa terra non è fatta per voi e non vi appartiene. Se continuerete a combattere vi accecheremo con la luce del Ragno Bianco e tra poche ore il sole sorgerà, spazzando via ciò che rimane di voi. Lasciate le battaglie di superficie alla superficie e tornate ai vostri domini, a governare sotto-la-terra. Tornate alle vostre signore, alle vostre padrone e ai vostri padroni.”

Allentò le redini del serpente e gli sibilò qualcosa. Il serpente tirò fuori la lingua in un guizzo, in risposta, e strisciò in un'avanzata per poi fermarsi di nuovo.

“Qui sopra-la-terra, adesso, siete padroni di voi stessi, proprio come me e il mio popolo. Le catene che vi legavano alle vostre matrone sono state distrutte. Siete come noi.
Conoscete la strada per tornare indietro... ma se deciderete di proseguire verso la strada di Saab con il mio esercito, le porte della città vi accoglieranno e la luce del mio dio non accecherà più i vostri occhi, ma vi farà vedere ciò che i vostri occhi non sono stati in grado di vedere finora.”





 
***





Lontani dalla piana osservavano la battaglia, in groppa allo stesso cavallo.

Non era un cavallo da guerra. Si trattava di una cavalcatura ben più leggera e veloce, snella e di colore scuro, che si mimetizzava col terriccio e con i loro vestiti. Delle bende gli camuffavano il volto, un cappuccio copriva il resto e la zona degli occhi era colorata di nero. Il colore delle iridi era uno dei pochi indizi che avevano dovuto lasciar trapelare. Il ragazzo di dietro, che teneva le redini, aveva intensi occhi blu. Era alto e più grosso dell’altro. Quello davanti era snello; con le mani strette sul corno della sella, scrutava il lontano Imperatore con irrequieti occhi verdi.
Scostò di getto lo sguardo in un gesto smarrito. L’altro ragazzo osservò lo stesso punto, poi si sporse in avanti e voltò il capo dalla parte opposta, dove tirò il cavallo per farlo girare. Presto il cavallo diede le spalle al campo di battaglia, facendo sì che si sottraesse agli occhi verdi del ragazzo. In un colpetto del più grande il cavallo prese il galoppo e si allontanò.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Velnarin ***








Storie di Saab, II
Capitolo 3 – Velnarin*
*Strumento, oggetto, mezzo


 
 


 
 

 
 
“Chiunque legga questo messaggio, salvi i miei bambini.
Il buio ha inghiottito la città. Non so perché, non so cosa stia succedendo… non ho fatto niente di male per avere tutto questo… ho sbarrato le finestre. Ho sbarrato tutto. Ho fatto in modo che niente entrasse. Niente dovrà entrare. Non lo permetterò.
I miei amici sono là fuori. Mia madre è là fuori. Ho sentito la voce della vicina che urlava. Stava piangendo. Poi è morta. Lo so perché l’ho sentita morire. È morta nel mio giardino. Ho preso i bambini e li ho fatti scendere nella cantina. Li ho lasciati lì con il cibo e l’acqua e li ho fatti chiudere a chiave, con le catene. Non so cosa sta succedendo. Voglio solo salvare i miei bambini. La parola d’ordine è Chiunque legga questo messaggio, salvi i miei bambini. Chiunque legga questo messaggio, salvi i miei bambini. Chiunque legga questo messaggio, salvi i miei bambini.
Spero che funzioni.”
 
 
Ritrovamento di una lettera di cinquemila anni fa,
Rovine di Fajjar Saeb.
 
 
 
 
 
***
 
 

 
La porta della Sala del Consiglio si aprì con un suono metallico della serratura. Valentino si diresse verso il fondo della sala, e i suoi passi riecheggiarono sulle pareti di pietra, fino a fermarsi davanti al basso piedistallo che ospitava il tavolo.
 
Azul Goldsmith gli dava le spalle. L’orlo del mantello era raccolto ai piedi della sua sedia, come una coda. I capelli erano raccolti in una corona di oro e rubini e aveva il viso sollevato a guardare le tre vetrate che aveva davanti. La luce del sole autunnale illuminava la sala filtrando tra i disegni incisi sul vetro.
 
“Fajjar Saeb. Cinquemila anni fa.”
 
Valentino portò le mani sul grembo, una sul polso dell’altra. Sopra le loro teste, le vetrate raffiguravano uno spargimento di sangue; a sinistra, un ragno lungo e sottile sovrastava piccole creature bluastre. Nella vetrata centrale, un continuo dell’immagine precedente, le persone correvano, circondate da un paesaggio urbano devastato. La vetrata di destra era corrotta da colori scuri, violacei, rossi, e inghiottivano tutto ciò che avevano davanti: le persone e gli edifici dorati.
 
“Un popolo pacifico e rigoglioso viene messo alla luce da Saab… poi qualcosa va storto. Gli dei maggiori si adirano, secondo i documenti storici. A ogni modo un giorno, senza spiegazioni, il Popolo di Saab è sterminato. I templi rasi al suolo, il palazzo imperiale in macerie. Non ne rimane niente.”
 
Azul indietreggiò con un piede per guardare Valentino. Il mezzelfo ricambiò il suo sguardo. L’Imperatore mosse il primo passo e si incamminò verso il mezz’elfo, sollevando un lembo dell’abito di modo che non gli intralciasse i piedi.
 
“Il primo popolo era drow.”
Valentino inarcò le sopracciglia, interdetto. Azul proseguì.
 
“La prima volta, per la sua missione, Saab scelse le creature del sottosuolo. Portò in superficie ciò che era stato creato per l’ombra, e gli diede un potere che discendeva dalle stelle. Quasi come se volesse… dimostrare qualcosa.”
 
Si fermò poco prima del limitare del piedistallo.
“Come… lo sai?”, chiese il Consigliere.
L’Imperatore si fece sfuggire una smorfia, sbuffando dalle narici.
“Me l’hai detto lui.”
“Ah,” il Consigliere sospirò, quasi sollevato, “si, certo,” dopodiché prese respiro e intavolò un nuovo discorso.
 
“Abbiamo sconfitto il sottosuolo, almeno per adesso. Ora dobbiamo occuparci del resto dell’alleanza. In questa battaglia abbiamo messo in campo ciò che avevamo e abbiamo vinto, ma la prossima sarà peggiore: più grande, più preparata.” Valentino scrollò il capo, “non c’è dubbio che, ora che hanno visto cosa siamo in grado di fare, sfrutteranno questa conoscenza per colpirci quanto più forte gli è concesso.”
Valentino alzò lo sguardo, grave, sull’Imperatore.
“Mi hai detto che abbiamo altri assi nella manica. È il momento di illustrarmeli.”
 
Azul sostenne il suo sguardo, poi, apparentemente distratto, alzò gli occhi verso le vetrate sul lato della Sala.
“Hai mai visto una mappa della Nuova Terra, Valentino?”
Valentino annuì incerto.
“E quanto è vasta la Nuova Terra?”
Il mezzelfo venne colto alla sprovvista. Provò a rispondere, ma Azul lo intercettò.
 
“Molto vasta. La più vasta di questo mondo a quanto pare, la più vasta mai vista,” il drow tornò a scrutare il biondo, “sai che Saab ha stipulato numerosi accordi con i… uhm, forestieri, di quelle terre.”
 
Valentino boccheggiò un istante, ma prese parola subito dopo.
 
“Saab è una città di commercio, è essenziale che abbia ottimi rapporti con mercanti e marinai, certo. Viste le dimensioni delle Nuove Terre non potevamo rinunciare a commerciare anche con loro. Ricaviamo oggetti preziosi, incantamenti…” borbottò, corrugando la fronte più incerto, “… non capisco ancora il tuo punto,” ammise, arrendendosi.
 
Gli occhietti gialli di Azul Goldsmith sembrarono luccicare, per un istante, alla luce delle vetrate.
 
“Le Nuove Terre non ospitano solo i mercanti e i marinai,” rispose. La voce si era abbassata in un tono più lugubre. Il drow abbassò lo sguardo e incontrò la mano destra, che aveva raccolto tra le dita un gioiello d’oro ricamato sul vestito. Lo strofinava tra le dita e quando scostò il pollice quel gioiello sembrò ammiccargli in risposta, baluginando nei suoi occhi.
 
“Pirati,” sibilò Valentino.
Quando Azul alzò gli occhi su di lui, il mezzelfo era chiaramente nervoso.
 
“Pirati, mercenari, streghe, stregoni…” lo corresse “uomini liberi, ladri. I nostri accordi coinvolgono diversi, e molti, generi di persone. Di… organizzazioni. Detto tra noi,” aggiunse, vedendo il ragazzo schiudere le labbra allibito.
 
“Ma… Azul… questa gente non è affidabile… e sono… dei ribelli, dei…” sospirò, “non saremo visti di buon occhio, useremo dei criminali stranieri per proteggere il nostro territorio!”
 
Azul ghignò.
“È questo che siamo, Val. Inutile fingere che non sia così. Siamo i ribelli, i criminali e gli stranieri. Proprio come loro,” mormorò con voce morbida, senza scomporsi, voltandosi per raggiungere il tavolo. Mentre proseguiva, recuperò un anello accanto alle carte.
“Città Alta crede di stare combattendo contro persone che hanno tutto da perdere. Gli ricorderemo ciò che brucia ancora vivido nella nostra testa: quando eravamo persone che non avevano niente.”
 
L’Imperatore infilò l’anello e si voltò nuovamente verso il Consigliere.
 
“I pirati sono la mia gente. Loro non tradiranno gli accordi; anche perché si annoiano senza far niente,” considerò in uno sbuffare beffardo, prima di continuare. “I fattucchieri sono subordinati ai pirati ed eseguiranno le loro direttive. I mercenari, invece…” scrollò le spalle, “staranno già sbavando sui racconti di un Palazzo Imperiale interamente fatto d’oro. Non sarà difficile convincerli che aiutarci sia la scelta più conveniente per loro.”
 
“Li stai sottovalutando,” lo fermò Valentino, facendo un passo verso di lui. “I mercenari sono concreti. Possono essere affascinati da un palazzo d’oro, ma vedranno che siamo in svantaggio e andranno contro di noi. Chiederanno a Città Alta un prezzo maggiore e finirà lì, se non gli diamo un motivo più convincente.”
 
Azul sollevò un sopracciglio, contrariato.
“Ah, siamo in svantaggio?”
Il mezzelfo scrollò il capo, si affrettò a spiegare, “uno contro sette? Sì, siamo in uno svantaggio nero, mio Imperatore.”
Il drow riportò le mani accanto ai fianchi, rilassate.
“Ah,” ghignò di nuovo, “ma non hai contato bene.”
Valentino sembrò confuso. L’altro chiarì subito dopo.
“Sette, contro uno… e… Saab."
Valentino sembrò colpito.
“Ah… già.”
“Hm.”
Azul sollevò i lembi del vestito per scendere lo scalino del basso piedistallo, ma Valentino, a lato, non accennò a seguirlo se non con lo sguardo.
“La storia dei mercenari non mi persuade ancora, Azul.”
“Hai ragione, Val,” gli concesse il drow una volta che ebbe sceso lo scalino. Voltò il viso verso di lui.
“Sai dove sto andando?”
“Dove stai andando?”
Azul gli sorrise.
“A dare ai mercenari quel motivo più convincente.”
Fece guizzare un occhiolino verso il Consigliere, che rimase di nuovo confuso, girandosi per guardarlo andarsene.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Steso sul grembo di una statua, Vilya godeva di quel poco sole che le nuvole lasciavano filtrare. Il suo petto si sollevò raccogliendo dalle narici il profumo del giardino attorno; tirò fuori un sospiro rilassato, poggiando la nuca sul collo dell’affascinante uomo di pietra che lo teneva sulle ginocchia.
 
Il cinguettio degli uccellini e il mormorio della corte erano un piacevole ronzio di fondo, che però fu interrotto quando la porta del chiostro venne aperta rumorosamente.
 
“Va bene. Siamo arrivati fin qui… e adesso?”
 
Il tono aspro della lingua del sottosuolo raggiunse le orecchie di Vilya. Il moro aprì gli occhi, sorpreso, e si sollevò dal petto accogliente della statua per spiare il porticato davanti a sé.
 
A fare capolino dalle colonne del chiostro erano tre jaluk. Il primo ad aver parlato era alto e giovane, snello e dai lineamenti longilinei. Spiava l’ambiente con sguardo critico. Il secondo era più basso e sembrava avere la sua stessa età, ma si guardava attorno con più circospezione. Il terzo, invece, era tozzo. Un ghigno gli deformava la faccia, e le sue mani erano aggrappate alla cintura dei pantaloni. Avanzò verso il giardino come se gli appartenesse.
 
“Ora cerchiamo l’Imperatore, e poi ce ne andiamo di qui il più presto possibile,” replicò il jaluk di mezzo, lanciando un’occhiata ansiogena agli altri due.
Il più alto sollevò un sopracciglio, scettico, mentre quello tozzo rise fragorosamente.
“Cosa c’è, Chaszmyr? Hai paura delle ombre? Se hai paura… puoi sempre tornare indietro.”
L’occhiata furba scivolò sul jaluk alto, che la ricambiò.
“Giusto Gwylyss,” lo assecondò quest’ultimo, “le sue gambette dopotutto sono arrivate qua da sole…”
“Smettetela. Smettetela.
 
Chaszmyr accelerò il passo, ma dovette interrompersi quando Vilya saltò giù dalla statua tagliando loro la strada. Il drow ansioso fece un passo indietro, tendendosi ancor di più, e cercò il viso dello sconosciuto che si alzò e tirò indietro i capelli scuri, rivelandosi a loro.
 
“… ewwwww.”
 
Fu la voce di Gwylyss a rompere il silenzio. Il drow tozzo si voltò dall’altra parte in una smorfia di disgusto.
Anche il jaluk più alto sembrava sconcertato. Chas, invece, si era raggelato nella sua ultima posizione.
Impassibile, Vilya si rivolse a loro.
“Identificatevi.”
“Identificati tu,” ribattè provocatorio il jaluk alto.
“Identifica questo cazzo,” ripeté soavemente Gwylyss una volta tornato verso gli altri. Avanzò verso Vilya, superando Chaszmyr. Vilya non si mosse, si limitò a ricambiare il suo sguardo.
“Facci passare, spiacevole aborto. Puoi ancora sistemare le cose.”
“Oh, no. Non hai capito bene.” Vilya avanzò di un passo verso il gradasso, guardandolo dall’alto.
“Tu mi dirai chi cazzo siete e perché volete vedere Azul… e io deciderò se è il caso di appenderti per gli alluci alle porte del Palazzo. Chiaro?”
Gwylyss sollevò il mento e rise, trattenendo gli occhi in quelli di Vilya prima di voltare metà busto verso i compagni. Ma all’improvviso interruppe quella risata per caricare un pugno verso la faccia del ragazzo in uno slancio del braccio. Vilya si accovacciò prontamente per schivare il colpo e poi mosse l’ultimo passo che lo separava dal jaluk basso, risalendo. Il risultato fu un montante che tirò fuori l’aria dai polmoni di Gwylyss prima di farlo indietreggiare in uno stento.
 
Chaszmyr sgranò gli occhi e indietreggiò. L’altro jaluk si fece sfuggire un sospiro sconsolato, ma non appena Gwylyss si riprese e cercò, urlando, di aggredire di nuovo un sogghignante Vilya, lui lo raggiunse per trattenerlo da sotto le ascelle.
“Lasciami, Jevan! Devo dargli la morte che i suoi genitori non gli hanno dato!”
“Calmati Gwylyss!”, esclamò Jevan, esasperato, “così peggiori solo le cose…”
“Che sta succedendo qui?”
 
La voce perentoria di Ra’shak li raggiunse. Il Comandante mosse gli ultimi passi che lo separavano dal gruppo di jaluk e li osservò uno per uno, freddamente. Vilya sciolse il ghigno che si era dipinto sulla sua faccia. Gwylyss e Jevan si fermarono per guardarlo, cauti. Chaszmyr, invece, sembrava aver raggiunto un livello di ansia ormai trascendentale.
 
Stavolta fu proprio Chaszmyr a parlare per primo. Ma il suo fu un sussurro atterrito, piuttosto.
“Ra’shak.”
 
Preso alla sprovvista, il Comandante puntò il ragazzo.
“… ci conosciamo?”
 
“Sì. Cioè, io conosco te. Tutti conoscevano te,” borbottò il giovane. Ra’shak sembrava ancora più confuso, e gli altri non osarono intromettersi. Chaszmyr tentò di chiarire, “eravamo nella stessa divisione a Jhachalkhyn. Combattevamo insieme…” e ammise, in un azzardo, “eri un esempio per gli altri.”
 
“Ah,” borbottò Gwylyss a Jevan in un ghigno, “ho capito perché è venuto qui. Ha il fidanzato.”
Jevan rimase diplomaticamente impassibile. Chazsmyr lanciò un’occhiata di disagio a Gwylyss senza dire altro. Ra’shak diede solo uno sguardo al jaluk più basso, poi tornò su Chaszmyr con una nota beffarda.
“Il vecchio Comandante non sarebbe stato d’accordo con te.”
“Lui non poteva ammettere il tuo valore,” ribatté il ragazzo, trattenendo lo sguardo su Ra’shak, “per paura di vederti prendere il suo posto.”
Il Comandante scrollò le spalle, “cosa che è successa comunque.”
“Già,” borbottò Chaszmyr. Sembrava che si fosse ammutolito, ma all’ultimo aggiunse, “dev’essere per questo che è stato così sconvolgente… tutto quello che è accaduto dopo.”
Chazsmyr titubava, tenendo lo sguardo basso, ma alla fine incrociò quello di Ra’shak.
“Non se lo aspettava nessuno.”
 
Un’atmosfera di tensione circondò il gruppo dei jaluk. Il Comandante era immobile, non muoveva neanche il petto a ritmo del respiro. Gli occhi di Chaszmyr, poi, vigili su Ra’shak, saettarono sulla figura che comparve poco dopo alle sue spalle. Inarcò le sopracciglia, raggelando, nel vedere il viso del giovane mezz’elfo che avanzava.
 
Valentino sondava le espressioni, turbate, degli uomini che aveva colto nel giardino. Avanzò, cauto, di qualche altro passo, fermandosi poco più in disparte.
“Hey,” la voce di Jevan si levò insieme al suo cipiglio incuriosito. “Non è lo schiavo di Zandor?”
“No,” berciò la voce grave di Gwylyss, sbuffando con disapprovazione, “il Comandante, qui, lo aveva com…”
La gola di Gwylyss fu serrata da un tentacolo celeste, che baluginò sotto gli occhi di tutti mentre sollevava il grosso jaluk diversi centimetri da terra. L’uomo strizzò gli occhi, boccheggiando, e tentò di liberarsi stringendo invano le dita attorno ai tentacoli.
Anche Jevan fu afferrato subito dopo, insieme all’avanzare di Valentino. Un’ombra sinistra incupiva il volto del mezz’elfo, e i suoi occhi chiari brillavano di una rabbia fremente.
 
“Perché siete qui?”, ringhiò gutturalmente, in una voce insolita.
I due jaluk continuavano ad annaspare, senza riuscire a recuperare il respiro né a rispondere. Chaszmyr teneva gli occhi sulla scena a bocca aperta, pietrificato.
Fu Vilya a interrompere il silenzio.
“-sono venuti per incontrare l’Imperatore!”
“Perché?”, proseguì il Consigliere.
Rispose Chaszmyr, stavolta.
“Siamo… r-rappresentiamo i drow che sono arrivati in città dopo la battaglia.”
Il mezz’elfo abbassò lo sguardo allucinato su di lui. Chaszmyr incrociò lo sguardo, con il panico nel proprio. Valentino premette le labbra in una smorfia di disprezzo, e l’attimo dopo i tentacoli sciolsero la presa sui due ed evaporarono. I jaluk caddero a terra, colti dalla tosse, piegandosi in due.
Valentino attese che ebbero finito di tossire, prima di rispondere.
“L’Imperatore è al momento impegnato.”
Abbassò gli occhi verso i jaluk ai suoi piedi, freddo come la sua voce.
“Vi porterò a un’anticamera dove potrete attenderlo.”
Si voltò e si incamminò verso la strada.
Chazsmyr lo seguì. I due jaluk annaspavano ancora. Furono costretti a correre per seguire il mezz’elfo.
 
Vilya, ammutolito, cercò Ra’shak. Il Comandante scambiò con lui un’occhiata di disagio prima di superarlo e allontanarsi.
 
 
 
***
 
 
 
 
Era raro che il punto più alto del Palazzo Imperiale fosse visitato da delle persone.
Le mura esterne del Palazzo Imperiale erano ricoperte d’oro. Quando il tramonto colpiva quelle mura, il metallo prezioso rifletteva la luce rossa come se il palazzo fosse avvolto nelle fiamme. Prima del crepuscolo estivo, lontano dal clima freddo che stava prendendo piede nella regione, il Palazzo era così lucente che rischiava di accecare chi lo guardasse, come se fosse il sole stesso.
 
In quel momento il tramonto non baciava più i piedi del palazzo. La luce era già più fioca, e l’oro delle pareti rifletteva un arancione malinconico, incapace di brillare.
 
Due ombre si affacciavano sul panorama che dava sul mare. Sotto un cielo vermiglio e delle nuvole rosee, una flotta navale dalle dimensioni disarmanti aveva assaltato il porto del Gran Regno e si affollava nel molo. Le due ombre osservavano la flotta, mani incrociate sul grembo. Azul Goldsmith indossava una corona d’oro e di rubino sopra l’abito, mentre l’uomo al suo fianco, ben più alto di lui, portava un’armatura leggera di ottima fattura, con dei simboli sfarzosi pressati sul cuoio.
 
“Fa un certo effetto, vista da qua,” osservò l’uomo. Aveva un tono di voce sicuro, spavaldo.
“Già,” convenne l’Imperatore, pacato, “essere generosi ha i suoi vantaggi.”
“Non ne dubito,” replicò l’uomo in un sospiro. Fece un passo indietro, “anche se la generosità, per mia esperienza, non ripaga quasi mai… senza un contratto.”

Azul colse con la coda dell’occhio lo sguardo furbo che il suo ospite gli aveva lanciato. Sbuffò dalle narici e indietreggiò per voltarsi verso di lui. Scrutò l’uomo, dal viso verso il basso. Lo soppesò, senza risparmiare i dettagli del suo corpo, e intanto gli rispose.
“Sareste più rassicurato se vi dessi un contratto?”
A sua volta, l’uomo stava esaminando la sagoma minuta e sinuosa del drow. Avanzò di un passo.
“La mia rassicurazione più grande è la certezza di vincere.”
Azul non poté trattenere un ghigno, e soffocò una risata nella gola.
“Se la vittoria fosse certa, non avremmo fatto ricorso ai mercenari. Non vi pare, Lyghenar?”
Mastro Lyghenar piegò il capo in un cenno assertivo.
“Così avete deciso di lanciare i vostri alleati delle Nuove Terre incontro all’intera Alleanza delle sette città di Siieeth…”

“Sapete…”, Azul lo interruppe, avanzando verso di lui senza preavviso. Avvicinò una mano all’uomo, “… cosa mi rassicura?” La mano curata di Azul si poggiò sul pettorale di cuoio altrui. Azul affondò gli occhi gialli in quelli di lui, scrutandolo dal basso, intensamente. “La vostra reputazione…” si fece sfuggire un sorriso entusiasta, “la vostra bravura in battaglia. Mi fa sentire al sicuro,” ammise con un tono di voce più caldo e basso.

Lyghenar scrutò negli occhi di Azul. Il Mastro dei Mercenari era un uomo avvenente. Dalla corporatura fiera che si addiceva a un combattente, aveva una zazzera di capelli scuri e degli occhi chiari. Possedeva uno sguardo altezzoso ma avido, che lo sbugiardava subito come un uomo arrivato in alto grazie alla furbizia, e non alla saggezza o alla nobiltà. Sgranò gli occhi quasi impercettibilmente nell’incrociare quelli dell’Imperatore, prima di sorridergli.

“Mio Imperatore…”, raggiunse la mano di Azul con la propria, tentò di stringerla contro il petto ma la mano di Azul scivolò via prima che lui potesse trattenerla. L’Imperatore si voltò, e camminò verso l’arco che mostrava il panorama. Lyghenar lo seguì, “la mia bravura è una certezza. Una di quelle che rassicurano voi… e anche me.”
Azul si affacciò al davanzale dell’arco e ammirò nuovamente il paesaggio. L’uomo lo affiancò, senza distogliere gli occhi dal drow.
“Perciò capirete bene quanto anche io abbia bisogno di… rassicurazioni, da parte vostra.”
La sua mano si adagiò sul fianco di Azul, finendo per cingerlo.
Quando Azul, con i suoi occhi liquidi, si voltò per guardarlo, trovò già i suoi occhi a esaminarlo profondamente.
“Non vi credevo un codardo, Mastro Lyghenar. Mi avevano detto che eravate un uomo capace di qualsiasi cosa.”
“Qualsiasi cosa,” confermò l’uomo, voltandosi del tutto verso Azul. Cercò di cingere i fianchi del drow con entrambe le mani, e l’altro non si oppose, rimanendo a guardarlo dalla propria altezza, “al giusto prezzo.”
“E quale sarebbe il vostro giusto prezzo?”, sussurrò roco l’Imperatore, muovendo un passo avanti verso l’uomo che aveva ormai messo le mani su di lui. Senza distogliere lo sguardo dal suo, si sollevò sulle punte dei piedi e avvicinò il viso al suo, al punto che il respiro del mercenario gli avrebbe riempito le narici.
“Un prezzo,” rispose Lyghenar, stringendo la stoffa sui fianchi del drow, “che, sono sicuro, voi ripaghereste… appieno.”

Non poté finire la frase che l’Imperatore sfuggì alla sua presa, in una risata, indietreggiando.
“Credete che io sia così semplice da comprare?”
“Semplice?”, Lyghenar inarcò un sopracciglio, sfidando l’altro, “quello che è in gioco è il vostro trono. Niente di tutto questo è semplice…” la sua voce si arrochì, e il mercenario avanzò verso Azul. Stavolta non sembrava intenzionato a farsi persuadere e riuscì a catturare il polso sottile del drow in una stretta.
“Nessuno vi biasimerebbe…”, sussurrò, scrutando gli occhi intensi del jaluk.

“Sei un gran pezzo di carne, Lyghenar.”
Azul avanzò di un passo verso l’uomo, ammorbidendo la tensione della sua stretta.
“Credi che non vorrei farmi scopare da un toro come te? Potrei darti tutto quello che vuoi.”
Abbassò gli occhi luccicanti per scrutare le labbra del più alto, che si passò la lingua attorno ad esse, assetato. Come ripresosi da una distrazione, l’Imperatore tornò a inchiodare lo sguardo nel suo.
“Vinci per me. E io ti darò tutto quello che vuoi.”

In una torsione della mano, finì per liberarsi dalla stretta di lui e afferrare, invece, lui il suo polso. Lo spinse verso il proprio corpo. Fece in modo che la sua mano potesse toccare il proprio bassoventre, rigonfio sotto le pieghe del vestito.

“Tutto il mio corpo… con i suoi gioielli,” sussurrò sulla faccia dell’uomo.

Lyghenar strinse ciò che aveva tra le mani, saggiando il rigonfiamento che gli riempiva il palmo. Iniziò a massaggiarlo, piano. Azul scrutò negli occhi offuscati dell’uomo diversi secondi, con un respiro più intenso, prima di tirargli via la mano. Si scostò e lo oltrepassò, superandolo.

“Voglio dei risultati, Lyghenar.”
Il Mastro dei mercenari si voltò verso Azul, in un sospiro impaziente, e ghignò.
“Li avrai presto, dolce imperatrice. E ti inginocchierai tra le mie cosce.”

Stavolta fu Lyghenar a superare Azul. Il drow rimase solo nel terrazzo più alto del Gran Regno, e osservò il paesaggio mozzafiato che si stagliava davanti a lui. Il cielo si stava spegnendo piano, lasciando spazio ai colori più tenui e rilassanti della sera.
Socchiuse gli occhi, e un sorriso furbo si distese sulle sue labbra.
“Sciocco idiota,” ridacchiò.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Ormai la sera era calata sul Palazzo Imperiale. Dalle finestre delle stanze private baluginavano le luci soffuse dei candelabri. Anche la stanza del Principe era avvolta in una atmosfera placida; Vilya sedeva ai piedi del letto, voltato verso il fondo della stanza dove So’o stava camminando. Il Principe aveva un’espressione tesa, dalle sopracciglia corrugate.
Si interruppe e puntò il fratello maggiore.
 
“Tu lo sapevi?”
Vilya, preso alla sprovvista, esitò a rispondere.
“… no. Perché avrei dovuto saperlo?”
“Perché non sei tu quello a cui nascondono le cose,” sospirò il più giovane.
“Stavolta le ha nascoste anche a me.” Vilya incrociò le braccia al petto, contro la maglia color sabbia. “È evidente che non sia qualcosa di cui gli piaccia parlare... ‘So’o, sono un negromante, e quando scendo in battaglia uso il mio potere per sterminare centinaia di persone. Ah, e ti voglio bene’.”
So’o cadde a sedere affianco al drow, ai piedi del letto.
“Non mi sembra un motivo valido. Credo che ce l’abbia nascosto per fare come voleva lui.”
Vilya sciolse la stretta delle braccia, interrogativo.
“Imesah gli fa fare quello che vuole, per quello che gli importa potrebbero morire tutti,” spiegò So’o. “Valentino e Ra’shak possono solo obbedirgli e credo che alla fine non capiscano la gravità della situazione…”
“Neanche io la capisco, a dire il vero,” si intromise Vilya.

So’o sgranò gli occhi nei suoi.
“Vilya, quel potere è malvagio. Il popolo di Saab ha smesso di sporcarsi le mani, vuole vivere in pace, senza crimini che gravano sulle loro coscienze.”
Avvicinò il viso a quello del ragazzo.
“Come possono sentirsi, quando il loro Imperatore usa la magia nera per salvarli? Come possono sperare di cambiare?”
Vilya sbuffò, voltando evasivo il capo.
“È la guerra, So’o. Se Azul non avesse usato quel potere, avremmo perso. Papà lo sta facendo per salvarci, lo sta facendo per qualcosa di… di buono,” azzardò.
So’o serrò le labbra con disapprovazione. Scosse piano il capo.
“Questo non rende buono quello che ha fatto.”
Stavolta fu So’o a guardare altrove, verso le tende della stanza.
 
Vilya rimase zitto per qualche secondo, guardandosi le mani, finché non trovò qualcosa da dire.
“Quando… si tratta di vita o di morte, fai tutto quello che devi per sopravvivere. Azul lo sa bene, e sono sicuro che lo sappia anche il resto di Saab.”
So’o si voltò di nuovo verso Vilya.
“Allora perché tutta Saab non fa un bel patto con un demone per diventare immortale? Forse perché gli avevamo detto che in questo posto finalmente non ne avrebbero più avuto bisogno. Ci hanno creduto, illusi…”
“Cosa faresti tu, So’o?”, chiese Vilya, scettico, “chiederesti per piacere? Credi che funzionerebbe?”
“Userei un’altra via,” rispose prontamente il ragazzo, determinato, sfidando l’altro con gli occhi nei suoi, “un altro strumento. Qualcosa che non vada contro i principi della città.”
 
Vilya restò a scrutare gli occhi verdi del mezzodrow a lungo, come in cerca del significato di quelle parole.
“… tipo?”
 
So’o abbassò lo sguardo, scrutando intensamente le coperte del materasso.
Rialzò gli occhi decisi in quelli del fratellastro.
“Saab.”
 
 




 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** L'arrivo di Lupo di Neve ***





 
Ciao a tutti quelli che sono arrivati a questo punto di “Saab: Down to Earth” :) nel capitolo 4 potrete cogliere i primi indizi sul plot twist principale assurdoassurdo della storia. Potrete anche iniziare a chiedervi chi è il misterioso personaggio gnocco con cui domani aggiornerò la lista dei personaggi principali nel capitolo uno (ovviamente una sorpresa solo per chi ha iniziato la storia prima del 6 Febbraio!). Vi consiglio di leggere la sua presentazione prima di proseguire la lettura! Questo capitolo contiene interessanti indizi anche sul nuovo personaggio: indizi ambigui ma che, se siete abbastanza attenti, riuscirete a cogliere.
 
Prima di lasciarvi al quarto capitolo devo fare un disclaimer: due dei personaggi che sono presenti in questa storia non sono di mia proprietà. Sono personaggi originali appartenenti a altre persone e ho chiesto il loro permesso e la loro approvazione prima di muoverli. I personaggi sono rispettivamente Valentino appartenente alla mente di Babuccaneer e proprio il nuovo personaggio della nostra storia, che appartiene a Capitan_Canesciolto.
Mentre il passato che lega questi personaggi ai miei è stato creato a quattro o anzi più mani (leggesi: gdr by chat/forum abusivo), la storia che state leggendo adesso è di mia invenzione. Ringrazio loro e gli altri giocatori per avermi ispirata con la loro fantasia e permesso di partecipare alla narrazione collettiva in cui i nostri personaggi si sono potuti formare!
 
Infine: in questo capitolo segnalo l’avvertimento di Contenuti forti.
 
Detto questo, buona lettura :)
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
Saab: Down to Earth
Capitolo 4 –
Lil doer del Korit'al Kal'daka*
*L'arrivo di Lupo di Neve
 
 
 
 
 
 
"Sono Wolfspirit.
Non so se questi cosi con le ali possano volare di notte.
In caso, questo messaggio ti giungerà all'alba.
Sono a Sud, alle Miniere, con il branco, per un incarico ufficiale.
Saremmo dovuti tornare la notte stessa, ma ci hanno offerto ospitalità, Lupa Morte ha accettato, e quindi anche io.
Dovrei tornare presto. Magari arriverò prima di questo messaggio.
In caso ti spiegherò la stessa cosa, ma a voce.
Mio amore? Posso scriverlo, vero?
Wolf."
 
 
 
"Cucciolotto,
Ho capito, stai facendo le tue cose da lupo. Prenditi il tuo tempo. E poi non sono l'unico ad avere bisogno di te: anche Lupa Morte conta su di te, perché sei forte e leale.
Io sarò qui quando tornerai, così potrai dirmi le novità. Spero siano positive. Ho letto di un ordigno esplosivo avversario veramente rassicurante che è stato studiato in questi giorni e questo rende tutto ancora più meraviglioso.
Stasera... ci sarà un attacco alla Piramide, e io andrò con la tua capobranco. Non dovrai preoccuparti per me, sarò vicino ad amici. Ma, sai, non si sa mai, quindi mi premurerò di strapazzarti di coccole a dovere prima di partire. Sei contento?
 
E… sì, che puoi scriverlo, amore mio.
È strano perché ti ho chiamato così tante volte nella mia testa, ma non l'ho mai detto...
Ci stringiamo presto, cucciolo.
 
o"
 
Lettere di due innamorati,
Bastioni al Ghiacciaio dell`Est,
13° anno, 1° mese, 23° giorno, data locale
d.h. 345
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Un giovane uomo dalla zazzera color carota sedeva a uno scranno, con le braccia poggiate sulla superficie di marmo e le mani intrecciate tra loro. Osservava le carte e gli oggetti sulla scrivania con la fronte corrugata. Lo scranno era di fattura ricca, così come la stanza che lo ospitava: una stanza lunga, le cui vetrate facevano penetrare la luce intensa del sole.
 
Una donna dai lunghi capelli bianchi gli stava dando le spalle. Aveva il viso chino su di un nastro di pergamena che aveva tra le dita affusolate. Alzò il viso e si incamminò verso il giovane, nascondendo lo stralcio di pergamena nella tasca.
 
“A quest’ora i nostri eserciti saranno sul campo di battaglia, Dan Domehrsein” incalzò la donna.
 
Umirr Dan Domehrsein, re di Città Alta, inarcò perplesso un sopracciglio.
“Ricordatemi perché non siamo lì…?”
“Perché la feccia non è degna della nostra presenza,” chiarì la donna. La sua mano si adagiò sull’angolo del tavolo con la delicatezza di una piuma, e Umirr inchiodò lo sguardo su quel gesto. “Finirà tutto molto presto. Non sarà neanche una battaglia decente. Non può essere considerata neanche una guerra, decente.” La donna si strinse nelle spalle armoniose, i suoi occhi dal taglio all’insù distrattamente affacciati all’arcata che aveva davanti. “Saab cadrà, e noi ci riprenderemo… quello che è nostro.”
 
Umirr sbatté le palpebre in una considerazione.
“Beh, hanno sgominato un esercito drow, dovete ammettere che finora non è andata male…”
La donna dagli abiti bianchi si voltò verso di lui.
“L’esercito drow non ha considerato le doti dell’Imperatore: noi sì. Lo abbiamo visto capace di resistere al numero di quell’armata e capovolgere le caratteristiche della battaglia a suo favore. Ma non c’è modo che le sue forze riescano a gestire sei città dell’Alleanza.”
Umirr alzò piano gli occhi, per trovare quelli glaciali della donna.
“Siete stata… una abile stratega, Signora Bianca,” le concesse, tentennando con la voce. “In fin dei conti, basta dargli un colpo deciso.”
La Signora Bianca annuì e la sua mano abbandonò il tavolo. Umirr si fece sfuggire un sospiro di sollievo.
 
Lei avanzò verso il balcone, facendosi investire da un raggio di luce.
“Non hanno risorse, capacità, numeri o disciplina. Per quanto possano fingere di essere come noi, non potranno mai uguagliarci. Sono disorganizzati, dediti al caos. Essersi uniti nello stesso luogo non li ha cambiati da quando erano un ammasso di criminali da quattro soldi.”
Si fermò sotto l’arcata e intrecciò le mani dietro la schiena. I suoi occhi scandagliarono il cielo: terso sotto la città, ma diversi chilometri più lontano le nuvole si accumulavano, man mano più grigie.
“Anzi, ormai dovranno aver dimenticato cosa significhi lottare. Meglio finirla qui e finirla subito. Non c’è motivo di protrarre qualcosa che può fermarsi senza ulteriori dispendi di energie e risorse… vedrete, il Gran Regno di Saab rimarrà sgomento quando vedrà tutti i nostri eserciti uniti per la causa. Prenderemo il Regno in poco tempo.”
La sua silhouette, lambita dal sole, la rendeva un’ombra nella luce accecante in cui si crogiolava.
Umirr sospirò e infranse una mano tra i capelli rossicci.
“Sarà meglio. Prima torneremo all’ordine naturale, meglio è. E io avrò vendicato mia sorella,” mormorò a voce più bassa, osservando le carte.
 
La Dama si voltò indietro e tornò al riparo dal sole.
“Avremo tutti quello che vogliamo.”
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
In sella a un cavallo alto e snello, Azul scrutava lo scenario che aveva davanti.
I suoi occhi gialli erano spalancati sull’armata dell’Alleanza. Risvith, Picco del Diamante, Collina Intessuta, Gola di Futhar, Città Alta e il Regno della Signora Bianca: sei eserciti gli si stagliavano davanti. Risvith, Città Alta e il Regno della Signora Bianca erano i più imponenti. I loro stendardi sfoggiavano su un esercito di umani in armatura. Gli altri eserciti erano sensibilmente più scarni, ma differenti. Picco del Diamante aveva armato i suoi stessi schiavi; ibridi, mezzosangue. I guerrieri della Gola di Futhar erano orchi e mezzorchi. La maggior parte degli incantatori, invece, apparteneva allo schieramento di Collina Intessuta.
 
Il drow minuto era infagottato in un abito pregiato e un mantello che ne nascondevano l’armatura leggera. Setacciava gli eserciti frenetico, taciturno.
 
“Bella merda, eh?”
 
Azul voltò il viso verso il messaggero, che aveva fermato il cavallo accanto a lui nel parlargli. Dall’altro lato, Imesah continuò a scandagliare gli eserciti avversari. Il drow valutò il messaggero, dai finimenti del cavallo all’elmo. La donna si schiarì la gola.
“Perdonatemi, Imperatore. Mastro Lyghenar chiede di vedervi prima della battaglia.”
Azul tornò pigramente a guardare avanti a sé.
“Può venire.”
“Vi chiede di raggiungerlo nella tenda dei Mercenari. Deve mostrarvi dei progetti, credo.”
 
Il drow alzò gli occhi sulle nuvole grigie che si erano accumulate sopra di loro. Annuì.
Imesah si voltò a guardare entrambi. Azul tirò le redini del cavallo, ma Imesah si sporse in avanti per fermarlo.
I due si scambiarono un lungo sguardo, davanti alla donna in attesa.
Imesah ritirò la mano.
“Vengo con te.”
“No.” Il drow abbassò lo sguardo, negandosi al suo. “Resta qui.”
Il Cavaliere insistette sul suo volto, esitante. Azul si ostinò a evitare i suoi occhi. Imesah rinunciò. Tornò a guardare avanti a sé senza che la tensione avesse abbandonato la sua espressione.
Azul tese di nuovo le redini e guidò il cavallo per farlo girare.
 
 
“Spero che si tratti di qualcosa di importante,” Azul scostò il drappo della tenda e si sfilò i guanti dalle dita, avanzando. “Gli eserciti sono pronti. Sii veloce.”
Lyghenar era piegato in avanti verso il tavolo centrale, occupato da mappe e pedine, con lo sguardo verso l’uscita. Vedendo Azul avvicinarsi, si alzò e lo raggiunse senza fretta.
“Devo essere veloce? Credevo che mi avresti voluto più delicato. Sai, ci potresti morire.”
Il Mastro Mercenario allungò un braccio verso il drow. Chiuse le dita attorno al polso di Azul in una presa calda, ma l’altro strattonò il braccio e si liberò dalla stretta.
“Non è il momento, Lyghenar. Vuoi la pappa? Dopo.”
L’uomo si fece sfuggire una risata.
“È così che mi vedi? O che vedi tutti quelli al tuo servizio, principessa?”
Azul fece un passo indietro, allontanandosi da lui. Iniettò uno sguardo gelido in quello dell’altro, poi si voltò verso l’uscita.
 
La nuova presa di Lyghenar sul braccio, ben più salda, lo tirò all’indietro, facendolo cadere con la schiena contro il petto di lui. Il piccolo corpo del drow veniva manipolato facilmente dalle sue mani.
 
“Credo che i nostri accordi siano troppo vaghi, Azul. Non c’è certezza che tu mi darai ciò che mi hai promesso. Parlando di quelle famose certezze, sì?”
 
L’impatto sul corpo dell’uomo lo aveva stordito. Lyghenar lo voltò verso di sé e ne afferrò il fianco nell’altra mano.
Levami le mani di dosso,” sibilò la voce di Azul.
“Altrimenti?”, Lyghenar gli lasciò il polso per spostare la mano sul petto del drow: iniziò a trafficare tra le pieghe dei vestiti, sciogliendo e aprendo il mantello, tenendolo fermo con la mano sul fianco. Azul tentò di bloccarlo senza riuscire. “Hai bisogno di me, non mi ucciderai. Ti metterai a urlare?”, il mercenario rise, “per far capire a tutti quanto sei fragile?”
 
Indossando una maschera di rabbia, Azul penetrò la carne dell’uomo con le unghie. Al gesto, Lyghenar lo spinse via senza dosare la sua forza. La violenza della spinta fece inciampare il drow sul tavolo. Vi cadde sopra sulla schiena, sbatté con la testa. Il mercenario avanzò e si sistemò tra le sue cosce. Si sporse in avanti e in uno strattone ruppe i bottoni dell’abito, aprendolo. Iniziò a trafficare con la stoffa sul bassoventre. Chiuse le mani sulle anche dell’Imperatore e in uno strattone secco gli fece impattare le natiche contro la patta dei propri pantaloni.
 
“Meglio fare silenzio e lasciarmi fare”, proseguì lui, abbassandogli i pantaloni. Azul tese il braccio verso la coscia, ma prima di riuscire a raggiungere il pugnale infoderato Lyghenar lo intercettò e fece cadere l’arma a terra. “Sarà veloce, come mi hai chiesto tu. Un piccolo assaggio, solo un piccolo assaggio…”
Il drow cercò di tirarsi su. Il braccio di Lyghenar era grosso quasi quanto la sua testa. Gli bastò premere la mano sul ventre del drow per impedirgli di alzarsi. Con l’altra mano si sbottonava la patta, tesa dall’erezione che conteneva. Azul trascinò un ringhio fra i denti.
 
“Lyghenar?”, urlò una voce dall’esterno. La tenda attutiva il suono. La voce dovette ripetersi, da più vicino, perché il mercenario smettesse di cercare di forzarsi nell’apertura del drow.
Lyghenar emise uno sbuffo snervato e voltò il capo dietro di sé, verso l’entrata della tenda.
“Ho detto che non dovete disturbarmi!”
Azul non aveva smesso di fissarlo. Strinse i denti, piegò la gamba e mollò un calcio sulla mascella del Mastro con la suola degli stivali, quanto più forte gli permetteva la spinta.
Lyghenar cadde a terra imprecando, con una mano sul viso.
Azul si tirò su velocemente, ansante. Si riallacciò i pantaloni e un laccio del mantello con le dita un po’ tremanti. Andò verso l’uscita, ma venne afferrato dal Mastro per il braccio. Gli lanciò lo sguardo rabbioso di prima e strattonò il braccio a sé. Lyghenar insisteva, in un ghigno che ne solcava le labbra.
 
“Lyghenar?”
La tenda venne aperta.
 
Davanti alla guardia, e a chi camminava nei dintorni, Lyghenar stava trattenendo l’Imperatore per il braccio, entrambi immobilizzati a guardare l’uomo che li aveva interrotti.
 
Con un ultimo strattone secco, Azul si liberò della presa del Mastro. Si passò la mano sulla zona torturata, riprendendo una posa composta, poi iniziò a riallacciarsi il mantello.
“Che cazzo ci fai qua? Ti avevo detto di restare fuori,” ruggì Lyghenar.
“Senti, mi hanno detto che era urgente. La capoclan dei mannari ti sta cercando.”
“Non mi importa cosa vuole quella troia!”, la voce dell’uomo si alzò.
 
Azul si diede un’occhiata sommaria e uscì dalla tenda, abbandonando i due alla conversazione. Camminò verso il cavallo che era legato allo stendardo del campo. Gli affondi degli stivali nel fango si univano al brusio di tutti gli altri. Le voci venivano offuscate dal clangore delle armi e delle armature. L’odore del cuoio e dei cavalli copriva quello delle persone, rendendole ormai tutte, più o meno, uguali. Il drow catturò una zaffata d’aria con le narici.
 
Si piantò a terra. A metà strada tra la tenda e il suo cavallo, Azul Goldsmith si cristallizzò per un istante. Poi si voltò e fissò il vuoto davanti a sé, frastornato. Non c’era nessuno davanti a lui. Le persone attraversavano il campo senza prestargli attenzione, passandogli vicino. Tirò di nuovo una zaffata d’aria dalle narici. Sgranò gli occhi e, respirando più affannosamente, alzò lo sguardo smarrito a setacciare la risma di persone che gli girava attorno. Si voltò verso il cavallo, cercò ancora nel vuoto. Inspirò forte una terza volta dal naso. Il respiro decelerò. Azul tornò a guardare verso la tenda, nella prima direzione dove aveva guardato. Non c’era nessuno. Sbatté le palpebre, più volte. Mosse un passo indietro, incerto. Si voltò. Proseguì piano verso il cavallo.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
La battaglia imperversava da ore. Il sangue si era mescolato al terreno, che la pioggia aveva reso un fango vermiglio. Cadaveri in armatura, spade, staffe erano sparsi sul campo in cumuli. Una risma di pirati scalò il cumulo di cadaveri per scrutare l’orizzonte, con le sciabole sguainate in mano.
 
Il pirata con la benda su un occhio alzò la mano sulla fronte per guardare meglio.
“Vedo uno stendardo succoso, aiò!”
“Che cazzo vedi, che sei cieco,” osservò delicatamente l’energumeno a petto nudo, per poi rivolgersi a una fanciulla con un tricorno sulla testa, “cosa vedi, vedetta?”
“Uno stendardo, aye!”, confermò la ragazza. Rinfoderò la sciabola e afferrò un arco da dietro la schiena. Incoccò la freccia verso il cavallo dell’alfiere. Socchiuse gli occhi, focalizzando l’obiettivo in corsa. Scoccò la freccia.
La ragazza abbassò l’arco in un sorriso soddisfatto mentre il cavallo dell’alfiere scivolava nel fango. Gli altri lo raggiunsero e con una risata avida l’energumeno passò l’alfiere a fil di spada. Il pirata orbo si accovacciò sull’uomo morente per strappargli di dosso i gioielli.
 
 
Il rombo di una grossa mazza chiodata che veniva trascinata preannunciava l’arrivo di un orco. La terra tremava sotto i suoi passi. La creatura si fermò alle spalle di un gruppo di guerrieri saabiani, messi alle strette da dei cavalieri che li avevano circondati.
L’orco alzò la mazza chiodata in un urlo. I cavalli scattarono in fuga, dando una scappatoia ai saabiani. I guerrieri corsero dalla parte opposta ma la mazza ne raggiunse la maggior parte, schiantandosi sul loro fianco.
Gli spuntoni trapassarono le armature di alcuni di loro per poi abbandonarli a terra in una caduta violenta. Il sangue fuoriuscì dalle grosse ferite e sgorgò nel fango, colorandolo di un rosso intenso.
Un lupo nero, grosso il doppio di un lupo normale, catturò un odore in una contrazione del tartufo, alzò il capo e drizzò le orecchie pelose. Voltò il muso e ringhiò, drizzando i peli sulla schiena. Il branco che lo accompagnava si raccolse attorno a lui e tese i muscoli preparandosi a uno scatto.
L’orco emise un ruggito e il suo sguardo ingordo spaziò sull’orizzonte. Un ululato, limpido come un lugubre richiamo, vibrò dietro di lui.
Una grossa pantera fece scattare le zanne attorno alla spalla dell’orco. Un giaguaro prese di mira il tendine del ginocchio e i suoi denti saldi strapparono la carne al secondo strattone. Una massa di bestie si lanciò sulla schiena dell’orco e lo spinse in avanti, facendolo cadere. Una volta che il tonfo dell’orco ruggente ebbe fatto tremare la terra, si accanirono sul suo corpo strappando pelle e muscoli pezzo per pezzo. Il grosso lupo nero alzò il muso verso il cielo e si lasciò andare a un ululato di avvertimento, che riecheggiò lungo il campo di battaglia.
 
 
So’o trasalì all’ululato, voltandosi nella direzione da cui proveniva. I suoi occhi erano stati camuffati da un contorno di pigmento nero, i capelli raccolti in un cappello, e il corpo nascosto sotto un’armatura leggera e dei vestiti umili.
“Yah!” In un suono metallico la spada di Vilya aprì la pancia di un soldato di Risvith, bagnandosi di sangue. Il drow fece avanzare il cavallo per affiancare quello del fratellastro.
“Non ti distrarre, So’o. Non voglio raccogliere la tua testa mozzata da terra. Poi chi lo sente a Imesah, uh?!”, si lamentò il maggiore, guardandosi attorno. Il caos li circondava. Vilya guardava da tutt’altra parte quando un gruppo di mezzelfi prese la rincorsa verso il Principe.
So’o strinse le mani sulle redini fino a farsi sbiancare le nocche. Mollò la presa con la mano sinistra e la protese verso i nemici in una smorfia di concentrazione.
“Posso…”, sussurrò, con voce tremolante.
 
I mezzelfi scivolarono nel fango, diventato improvvisamente più liquido. Imprecarono, insozzandosi di melma. La pozza di fango si allargò, invischiandoli dentro. Cercarono di alzarsi, ma prima di riuscirci urlarono di dolore. Continuarono a cercare di rialzarsi, ma il fango era scivoloso. Iniziò a ribollire e fumare, e i mezzelfi si contorsero tra urla febbrili mentre le loro carni bollivano nel liquido rovente. Emisero degli stenti, poi si accasciarono, morti.
 
So’o esalò un sospiro angosciato.
“Wow, figo,” considerò Vilya, osservando i cadaveri.
“Erano schiavi dalla parte sbagliata della battaglia, e sono morti,” disse So’o, inasprendo l’espressione, “non vedo in quale modo possa essere figo.”
“È figo nella misura in cui tu sei vivo, fratellino.”
Posò la mano sulla spalla del mezzodrow, che non sembrò meno turbato. Vilya lo lasciò.
“Non stiamo troppo tempo nello stesso punto…”, spiegava al ragazzo, ma il suono di un corno fece trasalire entrambi.
“RITIRATA!”, si sentì urlare dalle file nemiche.
Vilya prese un lato delle redini di So’o.
“Andiamo.”
Fece girare il cavallo dalla parte opposta e i loro cavalli presero la rincorsa, quando qualcosa li fece impennare all’improvviso.
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
Il cielo venne coperto di fumo nero, un velo sottile e impenetrabile. Salì verso l’alto come un’onda marina per poi rimanere sospeso nell’aria, attorcigliandosi voluta dopo voluta. Giù le onde proseguivano, in una valanga che avanzava con la velocità di un cavallo al galoppo. Si stavano scagliando contro una densa fila di uomini dell’Alleanza, che correvano dalla parte opposta per non venire inghiottiti. Dalle volute di fumo affiorò un cavallo alto e snello, e l’Imperatore in groppa ad esso.
 
I due fratelli trattennero i cavalli, inghiottiti nella scena.
La sorpresa di So’o scemò presto. Contrariato, con un colpo sul fianco del cavallo e uno strattone deciso delle redini fece partire il cavallo al galoppo.
 
Il richiamo del fratello maggiore si confuse con le urla della battaglia e presto fu troppo lontano per arrivare al mezzodrow. Il ragazzo assecondò i movimenti del cavallo piegandosi in avanti per farlo correre più velocemente. In breve tempo il suo cavallo si trovò tra la schiera di umani e l’ondata mortifera del padre. Lasciò le redini con una mano per protenderla verso terra. Una luce intensa scaturì da essa e venne proiettata sul fango, tracciando una linea luminosa che divise i due schieramenti. So’o si ritirò dietro la linea di luce, e quando le volute di fumo nero tentarono di oltrepassarla, un bagliore accecante assalì l’Imperatore e diradò via il suo incantesimo.
 
So’o fece girare il cavallo verso il drow.
Mentre molti avevano proseguito la fuga, altri di quelli che stavano battendo la ritirata rimasero ad osservare.
Il fumo nero si dissolse e ne emerse l’Imperatore. Gli occhi gialli di Azul, due grandi occhi di rettile, penetravano l’oscurità alla vorace ricerca del cavaliere che lo aveva fermato. So’o scese da cavallo e avanzò, camuffato, verso il padre.
“Stanno scappando, Azul. Lasciali andare! Non c’è bisogno di spargere altro sangue.”
L’Imperatore socchiuse gli occhi, iniettando nel ragazzo uno sguardo velenoso.
So’o avanzò, allargando le braccia.
“Cosa vuoi dimostrare in questo modo? Loro sono come noi, perché vuoi distruggerli?”*
L’attenzione degli uomini al riparo si catalizzò sul ragazzo.
“Loro non sono come noi,” sibilò Azul, gelido.**
Fece avanzare il cavallo e alzò il braccio verso di lui. Un fiotto di magia nera si scagliò sul Principe.
 
Un urlo squarciò il campo di battaglia. Quando Vilya*** si frappose tra So’o e il dardo nero, quest’ultimo si infranse sul suo scudo. Lo scudo proiettò una luce bianca, accecante, che bruciò l’incantesimo al primo tocco. La pelle di Vilya, dietro lo scudo, si coprì per pochi istanti di una coltre notturna. Piccole costellazioni di stelle luccicavano fioche su di una carnagione bluastra, violacea, colorata di galassie. Quando la luce si diradò rimase impresso nello scudo il simbolo, luminoso, di Saab.
 
L’urlo di Vilya fu sostituito dal silenzio.
Azul osservava il primogenito, mortificato. Aveva le labbra schiuse, il respiro accelerato, rotto.
So’o era caduto. Alzandosi da terra il cappello gli scivolò di dosso, rivelando i lunghi capelli biondi. Guardò sconvolto Vilya, che si stava esaminando incredulo. Poi spostò lo sguardo sul padre. Azul stava fissando lui, in un modo indescrivibile.
 
So’o schiuse le labbra per parlare e inciampò in avanti in uno stento. Prima che emettesse suono, Azul girò il cavallo con veemenza e si allontanò.
Il Principe emise un altro stento. Posò una mano sul petto, dove si trovava il cuore.
“Stai… bene?”, chiese a Vilya.
“Sì… sì che sto bene,” replicò il fratellastro, voltandosi verso di lui. “Tu? Stai bene?”
“Sì,” ansimò So’o, guardando a terra, con uno sguardo ancora turbato.
Vilya rimase a studiarlo, con i respiri di entrambi in sottofondo.
“Andrà tutto bene.” Raggiunse il ragazzo e allungò una mano per prendere la sua.
So’o strinse forte la sua mano, ma evase lo sguardo del drow. Cercò il padre nell’orizzonte, con occhi malinconici.
 
“Sei stato molto coraggioso, ragazzino.”
So’o venne preso alla sprovvista. I due ragazzi si voltarono verso la voce alle loro spalle.
 
“O avventato, si potrebbe dire,” un sorriso colorò la voce di una nota leggera.
Davanti ai due si trovava la figura di un mannaro. Aveva delle sembianze umane, ma non poteva essere scambiato per tale. La sua stazza era troppo grossa: muscolosa, alta, stretta in vita ma imponente. Dalla veste di stregone, impreziosita da curiosi ninnoli di osso, legno e piume, affiorava una peluria bianca. Lo stesso colore dei lunghi capelli lisci raccolti in una treccia scomposta, che si era sporcata, insieme al resto degli abiti, di fango e di sangue. La carnagione, invece, era scura, tipica degli uomini del deserto. Il mannaro aveva un bel viso: lineamenti duri, zigomi pronunciati, labbra carnose, mascella sottile e due occhi verdi, che scrutarono prima il Principe, poi il fratellastro.
 
Vilya indossò un’espressione schiva e avanzò per frapporsi tra lui e il fratello minore.
“Chi sei tu?”, gli chiese, sulla difensiva.
 
Il mannaro si accigliò e scrutò il ragazzo, come perso nei suoi pensieri.
 
Vilya sollevò un sopracciglio, interrogativo. Scambiò un’occhiata curiosa con il più piccolo.
Quando Vilya schiuse le labbra, pronto a proseguire, il mannaro distese le labbra in un sorriso e gli rispose con voce calda e forte.
 
“Mi chiamo Lupo di Neve.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
* = in questo momento So’o è Pocahontas.
** = qui mi parte la canzone del Re Leone 2, non so voi.
*** = o Vilya è Pocahontas?

 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Re'fevd ***


Ciao a tutti! Perdonate la settimana di ritardo, sono stata rapita dalla famiglianza per una vacanza di carnevale di cui non posso lamentarmi ohoho. Ecco a voi il nuovo capitolo! Buona lettura <3
AH!
Dimenticavo: in questo capitolo c'è una scena rossa (siii finalmenteeeeeeeeeeeee...). Per rispettare il regolamento di EFP, la scena rossa continuerà su di un link esterno che apparirà cliccando i tre asterischi rossi all'inizio della scena (***) o andando su questo link: http://nuvianvaughan.altervista.org/refevd.html.








Saab: Down to Earth
Capitolo 5 - Re'fevd
*derubato




 
“Cinquemila anni fa, il popolo di Fajjar Saeb emerse dal nulla assoluto. Si trattava di un popolo derivato dalla razza drow che era riuscito non solo a sviluppare la tolleranza al sole, ma persino dei poteri psionici.
Le prove della mia tesi sono nei ritrovamenti delle rovine del regno: alcuni scritti emersi dagli scavi […]

Fajjar Saeb era quindi un popolo aggressivo e pericoloso, capace di riversarsi sul resto del mondo con la sola forza del pensiero. Cosa, dunque, li ha portati al disastro? […] La verità che nessuno osa rivelarvi è una sola: il giusto genocidio delle terre di Saab fu compiuto ad opera di una sola divinità, e quella divinità è Lolth. […]

Ma se il potere che Saab era capace di donare a queste creature era così grande, perché non è stato in grado di salvarli? Forse perché lui non ne era capace. Vi siete mai chiesi quale fosse il motivo per cui non aveste mai sentito parlare prima di allora di quella divinità? Perché gli altri dei non hanno relazioni con Saab, a parte l’adiratissima Lolth? Io so darvi la risposta:

Saab non è ciò che crediamo che sia. Si tratta di qualcosa di diverso, di più infimo e viscido, che giunse qui a un determinato punto della nostra storia, non prima. […] Alla luce di questa scoperta, si rimette in discussione la generosità di questa creatura. Cosa desidera dai nostri fuggiaschi? Perché manipola il corpo di chi abbindola, convincendolo di migliorarlo, e gli dona poteri estranei? […]

A parer mio, illustre lettore, noi siamo il suo esperimento. Veramente magnanimo sarà invece chi, anche con i mezzi più impietosi, libererà i suoi schiavi dal giogo della menzogna.”
 
“Il falso profeta della pace: la verità vera su Saab e il suo Regno”, Vanzel Dan Domehrsein
d.h.377
 

***




“Quindi sei delle Nuove Terre, uh?”

Alla domanda, Lupo di Neve distolse lo sguardo dalla gente che passava e sorrise a So’o. Il mannaro era grosso. Aveva finito per occupare tutta la panca del chiostro. Accanto a lui, i due ragazzi erano appollaiati sul muretto del porticato, poggiati con la schiena sulle colonne.

“Sì. Sono arrivato qui con gli altri branchi.”
Vilya cercò So’o.
“Tu lo sapevi che papà ha degli accordi con i mannari?”
So’o scosse il capo.
“Mi sembra strano. Non ha mai parlato di mannari.”
“Neanche a me.”
“Ci sono mannari, a Hyst?”, chiese il fratello.
“Non saprei. Forse ne ho incontrato qualcuno senza saperlo.” Vilya si rivolse a Lupo di Neve. “Sono tutti grossi come te?”
La risata del mannaro fu strana. Per ridere tendeva le labbra in una smorfia che, più che umana, ricordava lo snudare di denti di una bestia.
“No, alcuni sono piccoli come tuo fratello.” Con un cenno del capo indicò So’o. “Altri invece sono ancora più grossi di me. E di solito ci riuniamo in branchi,” spiegò, “è difficile, per un mannaro, sopravvivere da solo. Siamo molto più forti quando siamo uniti.”
Vilya zittì e scrutò l’altro, colpito.
“Anche il tuo branco è qui?”, chiese So’o, curioso.
Lupo di Neve scosse il capo.
“Ho… lasciato il mio branco da molto tempo,” ammise, “ho dovuto viaggiare.”
“Oh. Perché?”
“Stai cercando qualcosa?”, si intromise Vilya.
Lupo di Neve distolse di nuovo lo sguardo, distrattamente, verso chi attraversava il giardino.
“Sì,” rispose.
“È per questo che sei venuto qui?”
Il mannaro tornò a guardare i ragazzi, con il sorriso sulle labbra.
“Sì, credo di sì,” rise. “E per aiutare chi ne ha bisogno.”
Vilya inarcò le sopracciglia, nuovamente colpito.
“Credi che lo troverai?”, continuò So’o.
Il sorriso di Lupo di Neve si spense, in un’espressione riflessiva.
“Non saprei. Non ne sono sicuro.”
“Possiamo aiutarti, se vuoi.”
Vilya annuì. Il sorriso tornò sulle labbra del mannaro.
“Grazie, lo state già facendo,” disse loro, incrociando i loro sguardi con gratitudine. Sulle bocche dei ragazzi spuntò un sorriso incerto, ma rincuorato.

“Ad ogni modo,” l’espressione dell’altro si inasprì improvvisamente in un fermo biasimo, “siete stati dei veri incoscienti ad affrontare vostro padre in quel modo.”
“Uhhhhh…” gli occhi di Vilya rotearono verso l’alto e lui piegò il capo all’indietro in una smorfia di noia.
So’o sbuffò dalle narici.
“Sì, e cosa avremmo dovuto fare? Lasciarlo sterminare degli innocenti?”
Lupo di Neve scrutò negli occhi del ragazzo, verdi come i suoi. Il tono cedette appena.
“Capisco quello che dici, ma non credo che Un- che vostro padre fosse lucido in quel momento.”
Inarcò le sopracciglia, preoccupato. Vilya invece lo guardò in modo strano.
“Sarebbe potuta finire male.”
Il drow si strinse nelle spalle.
“E invece no. Invece Saab mi ha… uhm… protetto?”
“Credo che ti abbia dato un potere,” So’o lo scrutò. “Avevi la pelle strana quando sei stato colpito.”
Vilya si scrutò le mani, corrugando la fronte.
“Beh… dovrei… ringraziarlo, credo.”
Poi tornò a guardare Lupo di Neve, serio.
“Tu conosci papà,” mormorò.

Lupo di Neve sgranò gli occhi a quella affermazione. Le guance scure si colorirono di una tonalità più rosea.
“No- cioè, sì… eravamo... nella stessa resistenza,” sospirò.
“Che fatti,” commentò So’o monocorde, trattenendo gli occhi su di lui.
“Resistenza?”, chiese Vilya perplesso.
“Sì,” confermò Lupo di Neve in un annuire. “Combattevamo insieme. Ma… conoscerlo è una parola grossa!”, esclamò, in una risata nervosa, distogliendo di nuovo lo sguardo, “S-sapevo il suo nome, ecco…”, borbottò.
“Non è il suo nome,” lo interruppe Vilya.
“Cosa?”, il mannaro cercò il drow.
“‘Undome*’. Non è il suo nome.”
“… già,” ammise Lupo di Neve, in un sospiro. “Lo chiamav… chiamavano così, allora,” spiegò.
So’o si illuminò improvvisamente, drizzandosi a sedere.
“Puoi raccontarci delle storie di papà!”
Lupo di Neve rise ancora, arrossendo.
“Uhm, non saprei! Cosa potrei raccontarvi?”
“Una cosa divertente?”
“Uh… va bene,” assentì il mannaro. “Vediamo...”
Corrugò la fronte. Si incupì.
“Non… saprei.”
“Chissà com’era,” disse Vilya, giocherellando con la propria maglia.
“Hm…” Lupo di Neve sembrò riprendersi. “Beh, si lamentava,” sorrise. “Del clima, e del fatto che non ci fossero locande. O rum.”
Il drow rise, gettando il capo all’indietro.
“Tipico di lui,” commentò, con un sorriso sulle labbra.
Il mannaro rimase a guardare il sorriso del ragazzo, trattenendo il proprio, un sorriso genuino, quasi ingenuo.
“Poi però ha smesso,” continuò, con voce soave, “credo che avesse iniziato ad apprezzare quel posto.”
“E perché se n’è andato?”, chiese So’o.
Lupo di Neve smise di sorridere all’improvviso. Voltò il capo verso la gente che attraversava il giardino, evasivo. La tristezza lo afferrò.
“Non è finita bene,” mormorò.
“Oh,” commentò So’o, a disagio.
“Mh,” replicò il mannaro.

Vilya spezzò il pesante silenzio che si era posato sui tre.
“Beh, se sei qui per aiutare sarai molto utile. Sei bello grosso e… sai fare incantesimi. Credo. Vero?”
“Sì!”, esclamò Lupo di Neve, illuminandosi di nuovo, “aiuterò volentieri.”
“In realtà potresti anche andare,” osservò So’o. Vilya cercò il fratello minore, confuso. So’o incrociò il suo sguardo, prima di tornare al mannaro. “Il tuo compito è finito qui, i branchi devono essere già al porto. Tu devi proseguire la tua ricerca, no?”
“Mi farà bene restare qui ancora per un po’,” spiegò Lupo di Neve, sorridendo al ragazzo.
“Chi lo sa, magari troverò quello che cerco.”









* = ‘crepuscolo’, in lingua elfica.

***





Azul Goldsmith osservava distrattamente una parete della stanza. Con il dorso dell’indice si tormentava il labbro inferiore, mentre la mano sinistra carezzava l’animale che aveva sul grembo. L’animale strisciava pigramente sulle cosce e premeva sul ventre magro dell’uomo. Il muso della bestiola gli cozzò contro il gomito in una protesta.
Azul riemerse dai suoi pensieri per abbassare lo sguardo verso la creatura.
“Sì, piccolo,” sospirò, lisciandole il muso, “sta arrivando.”
Le rivolse un premuroso sorriso.

Un rombo bussò, turbando la quiete, prima che la porta venisse aperta e poi richiusa.

Il Mastro Mercenario Lyghenar entrò in una stanza i cui spazi, persino i più remoti, erano stati occupati dalla mole di un gigantesco serpente. Dal soffitto, il sole illuminava i muscoli striscianti del rettile, che si spostavano dove la luce colpiva il pavimento per sostituirvisi.

Le dita di Azul si racchiusero attorno al mento e lo sollevarono verso il mercenario.
“Eccoti,” disse.

Lyghenar venne attirato dalla voce dell’Imperatore. Avanzò verso di lui.
“Mi hai mandato a chiamare. Cosa vuoi?”

“La domanda più opportuna, a dire la verità, è cosa vuoi tu,” replicò l’Imperatore. In uno schiocco di lingua e un’ultima carezza al serpente si alzò, facendoselo scivolare di dosso. La creatura emise un sibilo e proseguì, scavalcata da Azul. Dietro di lui, lei succedeva con squame ad altre squame, senza che se ne vedesse la fine.

“Ti avevo promesso tutto quello che volevi,” ricordò Azul, cercando gli occhi del mercenario.
Lyghenar scrutò gli occhi dell’uomo.
“Hai un serpente bello grosso.”
Azul si fece sfuggire una risata goliardica. Si portò una mano al cuore.
“Non te l’avevo già presentato?”
Lyghenar inarcò un sopracciglio.
“Ah! Stai parlando di questo serpente,” il drow indicò la creatura dietro di sé, divertito. Si voltò un istante, lanciandole un’occhiata prima di tornare all’umano. “Si chiama Thir’ku-waess. È un mio bottino di guerra, ti piace?”
“Non ne sono sicuro,” replicò Lyghenar, diffidente.
“Guarda che meraviglia,” sorrise Azul, intrecciando le mani sul davanti e scrutando il mercenario. “Adoro i bottini di guerra. Mi sa che abbiamo qualcosa in comune.”
Lyghenar spostò lo sguardo confuso sull’Imperatore, e lo scrutò per un momento. Poi si sciolse e avanzò di un passo. A separare i due era una parte del lungo corpo del serpente, che li divideva come una linea.
“Sei saggio, Azul. Dai agli uomini ciò che è loro di diritto, dopotutto.”
“Sempre,” il drow socchiuse gli occhi, sfidando l’uomo.
“Bene,” sorrise Lyghenar. Scavalcò il serpente con un piede. Il corpo del serpente si inarcò, piano. L’uomo si interruppe e cercò di indietreggiare, ma la mano pronta di Azul lo trattenne, afferrando il suo polso. Il drow inchiodò gli occhi in quelli dell’uomo che li cercò quasi subito.
“Non devi avere paura del mio serpente, vuole solo giocare,” lo rassicurò, raggiungendo l’altro. La presa si allentò. Lo sguardo del drow si sottrasse all’altro quando si voltò per scavalcare il serpente con una gamba, dando le spalle all’uomo. Chinando il capo, tese le mani sotto di sé. Il serpente lo raggiunse, scorrendo su di esse.
“La Ilharess che ho ucciso cavalcava questo serpente”, mormorò. Piegò il capo, morbidamente, accarezzando le squame della creatura che lentamente si inarcò di più, finendo per premere tra le cosce del drow. Azul socchiuse gli occhi in un sorriso sottile e si appoggiò piano all’animale. Le mani di Lyghenar avvolsero i fianchi di Azul. Li strinsero piano, e li spinsero all’indietro. La patta tesa e calda dei suoi pantaloni premette tra le natiche del drow.
“Chissà come dev’essere, cavalcarne uno…” Lyghenar si fece sfuggire un sospiro roco.
Azul rise tra le labbra chiuse.
“Già,” concordò, chiudendo gli occhi. Inspirò rilassandosi. L’erezione del mercenario strusciava sull’altro. Azul premette le palpebre e contrasse la mascella. Strinse una mano sul muscolo del serpente, forte, fino a farla fremere, e vi affondò le unghie. Il respiro di Lyghenar si appesantì, mentre si sporgeva in avanti e sfiorava la schiena altrui. Piegò il capo in avanti, sospirando sul suo collo. Azul piegò il capo all’indietro, sospirando di rimando, in un movimento che gli abbassò il petto. Il respiro dell’altro si fece più intenso. Lyghenar si chinò sul collo del drow, schiuse le labbra e si sporse per catturarlo in un morso. Ma morse l’aria. Il drow gli sfuggì abilmente dalle mani, scavalcando con l’altra gamba.

“Ho mentito,” rise piano Azul, una volta fuori dalla portata del mercenario. Si spiegò meglio: “ho già cavalcato questo serpente.”
Lyghenar fece una smorfia contrariata. Il corpo del serpente, ora privo del calore di Azul, si sollevò per raggiungere il bacino del mercenario, finendo per premere su di esso. L’uomo, interdetto, guardò giù.
“Ma tu dovresti assolutamente provare,” considerò l’Imperatore, inarcando le sopracciglia.
“Perché non gli dai un’occasione? Ma stai attento,” disse, in un’altra risata sottile a farne vibrare la voce, “è pur sempre un animale selvatico.”
Lyghenar cercò Azul senza convinzione. Quando sollevò una gamba per smontare dal serpente, la creatura si sollevò più in alto. In un gemito di sorpresa il mercenario si spalmò sul corpo di Thir’ku-waess e vi si aggrappò per cercare di non cadere. Scaturì una risata da parte dell’Imperatore, che portò una mano alle labbra per coprirsele in un gesto educato.
“Mi sa che ti ci vorrà un po’ per imparare.”
Si voltò, dando le spalle alla scena. Camminò verso la porta.
“Sarò gentile, te lo presterò finché non sarai diventato bravo.”
“Che cazzo stai facendo, Azul?” urlò Lyghenar, in un moto di panico e rabbia.
Interdetto, l’Imperatore si voltò verso di lui e cercò il suo sguardo.
“Ti sto dando quello che volevi, no? Il mio serpente,” sorrise divertito, prima di sgranare improvvisamente gli occhi. “Non esagerare. Non gli piacciono i rumori forti.”
“Fammi scendere, brutta troia. Fammi scendere!” urlò più forte l’altro. Un sibilo aggressivo echeggiò nella stanza.
Azul si strinse nelle piccole spalle, guardando altrove.
“Mi dispiace, devo dare agli uomini ciò che è loro di diritto…” si voltò di nuovo, verso la porta.
Lyghenar urlò nuovamente, ma zittì quando il muso dell’enorme serpente si sollevò da terra per puntarlo.
“Potrei averlo lasciato digiuno per qualche giorno,” proseguì l’altro, “e sarà meglio chiudere la porta, non vorrei che scappasse…”

Azul si soffermò sull’uscio, voltando il capo verso l’interno.
“Ti augurerei buona fortuna, ma sarebbe inutile. Saab sa già cosa fare di te.”
Si fece sfuggire un sorriso, prima di sparire dietro la porta.


Imesah incrociò le braccia e si passò una mano sul mento, accarezzando la barba incolta in un suono ruvido. Gli occhi verdi puntavano una pergamena poggiata al tavolo a cui era seduto.
Il rosso emise un sospiro.
“Valentino,” si lamentò.

La porta si spalancò all’improvviso e si richiuse con la stessa violenza, in un fragore. Azul si fermò davanti al letto e si levò di dosso, in fretta, il copricapo e i gioielli. Gettò un’occhiata a Imesah, che lo stava fissando confuso, poi alla pergamena.
“Che fai?”, ringhiò.
“… niente”, rispose Imesah, intimidito.
“Bene.”

Il drow lo raggiunse. Afferrò il colletto dell’armatura leggera che indossava e lo tirò a sé, insistendo finché l’altro non fu prontamente in piedi davanti a lui in uno sguardo smarrito, che l’altro incrociò, deciso, finché la sua faccia non fu nascosta dagli abiti che si stava togliendo di dosso.
Una volta a petto nudo, Azul spinse Imesah contro di sé per un fianco. Tirò di nuovo il colletto, in basso, e lo catturò in un bacio affamato. Imesah sgranò gli occhi. Poi, ricambiando, lo prese per i fianchi e lo premette contro di sé. Azul soffiò un sospiro appesantito dalle narici; afferrò la stoffa dell’armatura e spinse via l'altro, con violenza, allontanandosi da lui.

Il respiro affannato di Imesah affiorò dalle labbra quando mollarono quelle del drow. A occhi sgranati cercò quelli dell’altro, paralizzato, mentre il petto si sollevava e abbassava. Aveva sviluppato un gonfiore nei pantaloni.
Azul fulminò Imesah, infuriato. Anche il suo respiro era appesantito. Era nella sua stessa condizione, ma fremeva di rabbia. Con un cenno del capo gli indicò il letto, in un ordine. Imesah guardò il letto, poi di nuovo lui. Camminò verso il letto, si slacciò brevemente gli stivali e vi entrò dentro.

Dopo averlo visto obbedire, anche Azul salì sul letto e lo raggiunse carponi. Con una mano premette sul suo petto e lo spinse, facendolo stendere. Imesah si fece piegare ai suoi gesti. Sopra di lui, il drow fece scorrere la mano dal petto lungo il suo corpo. Il rosso prese un sospiro di impazienza, inarcandosi piano al suo tocco. Azul lo guardava. Il respiro del drow si regolarizzò piano, in un ritmo più tranquillo.
Si fermò giù, dove incontrò i lacci dell’armatura. Li prese nella mano e tirò in uno strattone, facendo sussultare il compagno in un gemito. Imesah chiuse gli occhi e si lasciò andare a un sospiro di piacere. Azul si sistemò su di lui e con gesti fermi e calmi iniziò, piano, a slegarlo.





 
***






Vilya scrutava il soffitto, steso sul letto del fratello.
“Ci pensi?”
So’o alzò interrogativo lo sguardo dal libro che stava leggendo.
“Quel tipo conosce papà da prima di me,” spiegò il drow. “Dev’essere veeeeeecchio.”
“Ma sembra solo grande.”
So’o sbatté le palpebre, perplesso. Poi tornò a guardare il libro.
“Forse i mannari ci mettono molto più tempo per crescere.”
“Se papà non me ne ha mai parlato, comunque, dev’essere come ha detto lui. Altrimenti me ne avrebbe parlato.”
Poi si accigliò.
“Solo alcune cose che ha detto… mi hanno fatto pensare.”
“Cosa?”, chiese So’o, cercando l’altro.
“Quella cosa del branco,” rispose Vilya. “Mi ricorda quello che papà ci dice sempre.”
So’o osservò il libro, ma all’improvviso sgranò gli occhi.

Afferrò lo schienale della sedia e si gettò verso di esso, per incrociare lo sguardo allarmato di Vilya.
La sua conclusione fu drammatica.
“Un gruppo di mannari deve averlo catturato e avergli fatto il lavaggio del cervello!”
Entrambi assunsero un’espressione allucinata, continuando a fissarsi negli occhi.

Scoppiarono a ridere.
“Comunque è il suo tipo.”
“La smetti di essere geloso di tuo padre?” So’o, esasperato, chiuse il libro e si voltò verso il fratello maggiore. “È inquietante.”
“Non sono geloso!” esclamò Vilya, geloso, alzandosi a sedere per guardare l’altro. So’o si alzò dalla sedia e raggiunse l’altro gattonando sul materasso. “Sto solo dicendo che…”
Tu sei il mio tipo,” lo corresse So’o, tentando un sorriso ammiccante.
Riuscì a zittire Vilya. Il ragazzo non replicò, serrando le labbra in una smorfia sedotta. So’o si sporse verso di lui e chiuse gli occhi per premere le labbra sulle sue.

Il drow chiuse gli occhi a sua volta e, sciogliendosi, sospirò dalle narici. Alzò una mano per infrangere le dita tra i morbidi capelli biondi del fratello minore.
So’o si fece sfuggire un mugolio compiaciuto e piegò il capo, lasciando che Vilya catturasse la sua nuca e lo spingesse ad approfondire il bacio. Il respiro di entrambi si affannò, facendosi rumoroso. Le labbra erano serrate, impegnate in un bacio man mano più intenso.
So’o si sporse verso Vilya e agganciò una mano alla maglia color sabbia che indossava. Il drow gli cinse i fianchi stretti e lo premette contro di sé. Il più giovane gli cadde sopra in un gemito. Allacciò le braccia attorno al collo del maggiore per tirarsi su, strofinandosi sul suo corpo.

“Mh…”, Vilya gemette tra le labbra dell’altro. So’o era finito a strusciare sul gonfiore dei suoi pantaloni.
So’o si separò dal bacio, ansimando sul viso del drow. Il viso rosso si chinò a osservare i loro corpi caldi, uniti.
“So’o…”, lo chiamò Vilya. Gli sollevò il mento. Perdendo gli occhi nei suoi, saggiò le sue labbra con il pollice.
So’o ricambiò lo sguardo. Fremente, un po’ incerto. Fece di nuovo forza sulle braccia e catturò le labbra del ragazzo una seconda volta.
Le mani di Vilya si posarono sui lombi del biondo e risalirono piano lungo la stoffa, mentre il drow si stendeva del tutto sul letto. Ridiscese, per poi infilarsi sotto la stoffa e tracciare la sua schiena nuda. So’o trattenne un gemito nelle labbra dell’altro e premette le palpebre, rabbrividendo al tocco. Vilya tornò ai lombi e infilò le mani sotto i pantaloni del più piccolo. So’o gemette con più chiarezza e si aggrappò alle spalle del maggiore. Il drow si fermò alle sue natiche e le strinse, saldamente, premendolo contro di sé. Spinse il bacino contro il suo. Il bacio si interruppe ed entrambi gemettero.


 




 
***






Raccolto tra le braccia del fratellastro, So’o aveva affondato la faccia contro il suo petto ed era immerso in un sonno profondo. Anche Vilya, tenendo il ragazzo a sé, stava dormendo profondamente.

Un attimo prima dell’esplosione la notte era silenziosa, se non per il frinire degli insetti. Un freddo senza neve copriva le mura del Palazzo Imperiale come un lenzuolo, posandosi su ogni superficie. La luna illuminava i giardini e le pareti dorate in una luce fredda e d’alabastro, quasi sinistra.

Poi un boato squarciò il silenzio. Riempì le loro orecchie. Si alzarono a sedere in un sussulto. Presto furono afferrati dal panico. Il pavimento iniziò a tremare con violenza. Si dissestò. Sul soffitto si crearono delle crepe, che poi divennero dei buchi. Dei pezzi di muro caddero sul letto insieme alla polvere. Il letto si muoveva con il pavimento. Aveva iniziato a inclinarsi. So’o alzò gli occhi sgranati su Vilya. Vilya guardò il fratello minore, lo afferrò per il polso e lo tirò con sé giù dal letto. I piedi nudi di So’o premettero su una crepa del pavimento. Lo abbandonarono poco prima che crollasse. So’o e Vilya si gettarono fuori dalla stanza: Vilya sbatté sulla porta, la aprì e cadde davanti ad essa, sul freddo pavimento del porticato scricchiolante. So’o urlò.

“Via! Via!”

Prese il braccio di Vilya e cercò di tirarlo su. Il moro si alzò e corse verso il giardino insieme all’altro. Alcune delle colonne cedettero. I due ragazzi si fermarono al centro del giardino e Vilya catturò So’o tra le braccia per stringerlo forte, affondando la faccia tra i suoi capelli. Il Principe si nascose contro l’altro, ansante.

Quando la terra smise di tremare, i ragazzi si osservarono attorno. Altre persone si erano accalcate nel giardino. Vilya chiuse il mezzodrow nella sua vestaglia e si staccò velocemente da lui, per scappare sotto il porticato.

“Vilya!”

So’o si strinse nel lembo di stoffa che lo copriva, rabbrividendo, e cercò invano il ragazzo che era sparito tra le macerie, quando le mani di Asia lo afferrarono da dietro.

“Principe!”

Il ragazzo sussultò e si voltò verso la Gran Maestra. Gli occhi rossi di Asia erano sgranati mentre scrutavano il giovane, analizzandolo scrupolosamente.

“Siete ferito?”
“Cosa è successo?”, replicò So’o.
“Niente di cui dobbiate preoccuparvi,” tagliò corto la donna, iniziando a tastarlo. So’o le scostò le mani di dosso.
“Cosa – è – successo?”, insistette.
La Gran Maestra si ritirò, osservando l’allievo livida.

“Un’esplosione nei sotterranei, con ogni probabilità,” bisbigliò a denti stretti. Il Principe la aggirò per incamminarsi oltre il giardino. La donna si voltò per inseguirlo.
“Aspettate!”, gli ordinò, “Non potete andare…”
“Levati dalle palle, Asia!”
Asia raggelò. La sua pelle già diafana divenne totalmente bianca.
Osservò l’allievo allontanarsi, con sguardo allucinato.
“So’o!”
Il Principe si fermò per voltarsi verso la voce che lo aveva chiamato.
“Scusami…”
Un altro ragazzo superò Asia. La Gran Maestra, dopo aver posato lo sguardo su di lui, dovette indietreggiare verso la statua per sostenersi. Vilya raggiunse l’altro, in un sorriso impacciato.
“Avevo bisogno di un paio di pantaloni.”
So’o gli sorrise. Vilya, ora con dei pantaloni indosso, prese la sua mano e si allontanò con lui oltre il chiostro.



“Tu lo sapevi che c’erano dei sotterranei?”, chiese Vilya, ansante per la corsa.
“No,” rispose So’o, guardandosi attorno. “Non so neanche come ci si arrivi…”
Vilya tirò la mano di So’o, costringendolo a fermarsi. Quando So’o lo cercò, confuso, lo vide indicare davanti a loro.
“Credo che ci si arrivi da lì.”

Un buco occupava metà della stanza, aperto nel pavimento.

Delle scale di pietra, ridotte in condizioni miserabili, avrebbero portato verso il basso se fossero state ancora integre. Un curioso alone celeste, però, le ricopriva, ricostruendole là dove erano state distrutte.

Vilya e So’o incrociarono i loro sguardi.
“Valentino,” disse Vilya, confuso.
So’o trattenne gli occhi in quelli del fratello maggiore, poi strattonò la sua mano e camminò verso le scale.
“Andiamo.”

“Aspetta!”, esclamò Vilya, trattenendolo.
“No.”
So’o si voltò verso Vilya, sostenendo il suo sguardo. Il drow tirò un sospiro e annuì.
“Va bene. Andiamo.”
Seguì il fratello minore lungo le scale, ed entrambi le percorsero.

A metà percorso si interruppero.
Nella sala che stavano raggiungendo, buia se non fosse stato per la luminosa staffa di Valentino, l’incantatore era affiancato da Ra’shak e Imesah. Guardavano, tutti e tre, nello stesso punto al centro della sala. Vuoto.

Un tonfo echeggiò nella stanza. Più in disparte, Azul era caduto in ginocchio e si era seduto sui talloni. Guardava nella stessa direzione.

So’o scese gli ultimi scalini.

“Cosa è successo?”
I tre si voltarono subito verso il ragazzo, sorpresi.
Valentino sgranò gli occhi e schiuse le labbra.
Ra’shak distolse lo sguardo.
Imesah sospirò silenziosamente, guardando il figlio.

“L’hanno rubato,” mormorò Azul.

So’o guardò il padre in ginocchio. Contrasse il viso, contrariato.

“Cosa? Cosa hanno rubato?”, insistette alzando la voce.
Azul premette le labbra, restando a fissare il punto vuoto.
Valentino prese un respiro.

“Saab,” rispose.
“Hanno rubato Saab.”




 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Aster, pt.1 ***


Salve a tutti! Chiedo scusa per il ritardo c: buona lettura!
AH! Che schiocchina, stavo per dimenticare. Anche questo capitolo contiene una scena rossa, (una scena per la quale in particolare mi scuso, insomma, sapete, quando un personaggio è un pervertito. Sapete tutti di chi parlo vero? Ceeeeeeeeeeerto...), perciò per rispetto del regolamento di EFP verrà trasposta in un link esterno che troverete qui ( http://nuvianvaughan.altervista.org/aster.html ) oppure cliccando sui tre asterischi rossi ( *** ) che si trovano al posto della scena.
E visto che ci sono... volevo dirvi che il titolo della storia è stato ispirato dalla canzone "Down to Earth" di Peter Gabriel, della colonna sonora del film di animazione "Wall-E". Ovviamente non per caso. Vi lascio il link della canzone (https://www.youtube.com/watch?v=zWOLkCb5zo8) per apprezzarla <3
Detto questo, buona lettura v_v




 



Saab: Down to Earth
Capitolo 6 – Aster*, pt.1
*verità.
 








 



 
“All'inizio di questo viaggio ero un misero ladro che si offriva per denaro. Non credevo in nulla di ciò che mi avevano detto, ma ho accettato per curiosità. Volevo vedere cosa sarebbero stati in grado di fare quei ciarlatani che dicevano di volermi mettere a capo del loro regno. Ho centocinquant'anni, e ho passato gran parte della mia vita con i truffatori. Sapevo dove sarebbe andata a finire, o almeno così credevo. Tra tutte le ipotesi, però, proprio non mi aspettavo che loro avessero detto il vero.
 
Così, una volta trovatomi in questo casino e a metà dell'opera, è difficile dire di no.
Ma chi sto cercando di ingannare? Dall'inizio ho sperato che quella proposta fosse vera, ho sentito un lume di speranza nel mio cuore. L'ho sentito aprirsi per la prima volta, dopo tanto tempo. Mi ha fatto ricordare cosa si prova. Si sente un calore, dentro, rassicurante, e piacevole. Ti rilassi e ti senti bene. Come se... come se qualcuno ti stesse stringendo. Qualcuno caldo. E.... e grande.
 
So perché quella cosa ha scelto me. Sa che io sarei in grado di fare qualsiasi cosa, ancor peggio per quello che c'è in ballo. Un farabutto come me non si tirerebbe indietro al suo piano, pur di mettere le mani sul potere che è in grado di dargli. Ma io non sono qui per il potere. Io sono morto molto tempo fa, e il mio tempo è già andato insieme a tante cose. Non sono che il fantasma di ciò che potevo essere, un desiderio che è rimasto nascosto e mai esaudito, in attesa di morire. Ma se c'è qualcosa che posso fare per questo mondo, se c'è qualcosa che posso fare per ciò che ero un tempo e per tutti quelli che... che amavo, io sacrificherò tutto ciò che ancora ho per esaudire anche solo una piccola parte di quel desiderio. La parte buona. Quella che gli altri hanno sempre visto in me, e che io non avevo la forza di tirare fuori.
Se ho accettato questo, e tutto ciò che seguirà, è per la speranza.”
 
 
Diario di Azul Goldsmith, d.h. 357
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
“Eh?”
La voce di Vilya ruppe il silenzio.
 
Valentino spostò lo sguardo teso su di lui. Ra’shak si passò una mano tra i capelli. Imesah tratteneva gli occhi tra i due ragazzi. Azul, invece, fissava il punto vuoto al centro dei tre, in un sospiro silenzioso che ne alzò e abbassò il piccolo petto.
 
“Che vuol dire ‘l’hanno rubato’?”, chiese So’o, “come è possibile?”
“Non si può rubare…”, proseguì Vilya, cercando gli occhi degli altri, “non ha… un corpo… gli dei non hanno un corpo… vero?”
 
Tre di loro ricambiarono il suo sguardo senza dargli alcuna risposta.
“Perché state zitti?”, urlò So’o. Riprendendo a scendere, inciampò per la fretta. Vilya si sporse velocemente e lo trattenne per un braccio, impedendogli di cadere. So’o si sciolse dalla presa e scese la scala.
“Rispondete! Dite qualcosa!”
Avanzò verso gli altri. Ra’shak aveva distolto lo sguardo. Valentino sembrava mortificato, ma non pronunciava nulla dalle labbra schiuse. Imesah invece lo fissava con una fermezza priva di emozioni.
 
“Dobbiamo riprendercelo.”
Azul si era alzato.
Imesah si voltò verso di lui, “c’è solo una persona che può averlo preso.”
Il drow scambiò con il rosso uno sguardo feroce.
“Quella stronza,” ringhiò.
“Per fare tutto questo casino deve tenerci veramente tanto,” disse Ra’shak, poco convinto.
Valentino avanzò verso l’Imperatore.
“Se è riuscita a fare una cosa del genere, vuol dire che sapeva cosa ci fosse sotto il Palazzo. E probabilmente è più potente di quanto avessimo immaginato… potrebbe nascondere altre sorprese.”
Azul si voltò verso Valentino.
“Chiama Sonia. Manda lì lei e i Serpenti…”
“Aspetta, Azul”, lo interruppe il Consigliere, “dobbiamo riflettere. Perché ha…?”
 
Un secondo terremoto minacciò l'equilibrio di Valentino e lo costrinse a interrompersi. Si accovacciarono nel tentativo di rimanere in piedi, tutti tranne So’o, che scrutava gli uomini davanti a sé.
 
La scossa svanì. So’o socchiuse gli occhi. Stavolta Azul gli restituì lo sguardo, ma fu Imesah a chiamarlo.
“So’o.”
Il mezzodrow guardò lui.
 “Quando Saab tornerà qui, sarà più semplice spiegare.”
Il Principe contrasse l'espressione.
“… e ti spiegheremo tutto,” aggiunse il rosso. “Te lo prometto.”
So’o prese un respiro, trattenendo lo sguardo negli occhi del padre. Espirò lentamente.
 
“Devo… devo andare io.”
Si voltarono verso Vilya.
Il moro avanzò nella stanza, superando il fratello minore. Cercò gli sguardi degli altri.
“Devo riportarlo io indietro.”
“In realtà,” lo corresse Valentino, “manderemo Sonia e…”
Imesah fermò il mezzelfo, poggiandogli una mano sul braccio e ricevendo il suo sguardo confuso.
Vilya replicò.
“No. No, io… sento che devo farlo.”
Dopo quella frase Azul sgranò gli occhi, irrigidendosi. Perse presto il suo colorito.
“Non puoi andare,” sussurrò in un soffio di voce, come se non riuscisse a respirare.
“Ma… papà, io…”
Il padre scrollò il capo con veemenza.
“No!”, recuperò presto la voce per imporsi. “Ho detto di no, tu non andrai. Da nessuna parte.”
“Azul,” Imesah lo chiamò. Il drow si voltò verso il rosso in un ringhio.
“Dì al tuo Dio di lasciare in pace la mia famiglia,” raschiò la voce roca, “non gli darò mio figlio. Non lui!”
“Ma di cosa stai parlando…” con voce acuta, fremente, So’o spostò lo sguardo dal padre al fratello maggiore.
Vilya avanzò verso il padre.
“Papà…”
“È la mia decisione.” rispose Azul in tono definitivo, voltandosi di nuovo verso il primogenito.
 
Imesah avanzò.
“Andrò io.”
Valentino sbatté le palpebre.
“Ma… non sappiamo quanto possa essere rischioso. E Sonia…”
“I Serpenti sono delle semplici spie,” replicò il rosso al Consigliere, ricambiando il suo sguardo, “ci sono emergenze che non possono gestire, come questa. È una questione troppo delicata per lasciarla in mano a loro.”
Gli occhi di tutti erano puntati sul Cavaliere. Al silenzio di Valentino, Imesah riprese a camminare verso la scala.
“Io sono il suo Cavaliere. Se c’è qualcuno che deve andare, sono io.”
Azul socchiuse gli occhi, scrutando le spalle dell’uomo che si stava allontanando.
Le due fessure gialle del drow scivolarono sul primogenito.
I passi di Imesah echeggiavano sempre più lontani nella stanza, come il ticchettare di un orologio.
Azul schiuse le labbra.
“Sei sicuro?”, chiese a Vilya.
Vilya, colpito, cercò il padre con la speranza negli occhi. Imesah si interruppe, voltando il capo di lato.
“Vuoi andare?”, chiese il drow al figlio. “Lo riporterai da me?”
Il ragazzo avanzò verso l’altro.
“Sì, papà. Te lo riporterò io.”
Azul scrutò il figlio. I suoi occhi lo indagarono. Studiarono la sua faccia, poi la sua figura.
Alla fine il drow abbassò lo sguardo verso il pavimento.
“Bene. Allora andrai tu,” mormorò, con voce più bassa.
Il moro distese le labbra in un sorriso raggiante. So’o lo guardava apprensivo. Imesah invece esaminava il compagno, in silenzio.
Azul si allontanò dal vuoto che riempiva la stanza e camminò verso le scale, senza incrociare gli occhi di nessuno.
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
So’o tirò Vilya con sé nella biblioteca e chiuse la porta, voltandosi subito dopo verso di lui.
“Ma che diavolo ti è saltato in mente?”, lo fulminò con lo sguardo. Vilya indietreggiò spaventato.
“Non lo so,” ammise incerto. Abbassò lo sguardo, riflettendo. “All’improvviso ho sentito di volerlo fare… doverlo, fare,” si corresse. “Come se avesse perfettamente senso.”
Cercò l’altro. So’o scrutava i suoi occhi, apprensivo. Sospirò.
“I seguaci di Saab, quando vengono guidati da lui…” si strinse nelle spalle, tornando a guardare il fratello maggiore, “beh, è questo che succede. Sentono di dover fare una cosa. Hanno una specie di… buon presentimento.”
“Esatto!” esclamò Vilya, in un sorriso entusiasta. “È…” sbatté le palpebre e il sorriso si affievolì, “un po’ inquietante, se ci penso.” Portò una mano al mento glabro e se lo carezzò, stuzzicandosi il bordo del labbro inferiore con il pollice. “Saab vuole… che venga a salvarlo? Mi sta… usando per farsi salvare?”
Il mezzodrow contrasse l’espressione. “Mi chiedo perché.” Abbassò lo sguardo, si fece cupo. “Hai visto la faccia di papà… e ha detto delle cose strane.”
Vilya cercò gli occhi del fratello minore, interrogativo. So’o alzò il viso per incrociarli.
“Ha detto che doveva lasciare in pace la sua famiglia.”
Gli occhi del drow si sgranarono, perdendosi in quelli del mezzodrow. Ebbe un momento di titubanza.
“Credi che Saab voglia mettermi nei guai?”
So’o ruppe quello scambio di sguardi per scrutare evasivo la stanza immersa nel buio. Solo la luce della luna, dalle finestre, filtrava l’oscurità.
“Beh, forse Saab non è ciò che credevamo,” mormorò, incerto. “Forse lui ha a cuore altro. Ha altri piani.”
Vilya zittì, scrutando il ragazzo.
Si riavvicinò al ragazzo e poggiò la mano sul suo avambraccio, in una presa calda e ferma.
Ssuss, sono sicuro che starò bene. Sento che andrà bene. Capito?”
 
So’o annuì, piano. Rialzò gli occhi nei suoi, studiandoli.
Gli prese i pantaloni per le tasche e indietreggiando lo tirò a sé, finché non si fermò di botto in un tonfo. Era inciampato contro un tavolo e si poggiava leggermente contro di esso.
Vilya ricambiò interrogativo. Abbassò lo sguardo per osservare i gesti di So’o, accorgendosi che le sue dita stavano slacciando la vestaglia. Il nodo si sbrogliò e la stoffa cedette. Gli si spalancò davanti, accarezzando morbidamente la pelle abbronzata del ragazzo e lambendo i capezzoli.
 




 



 
Vilya osservò la scena, il corpo dell’altro, cercò con gli occhi il suo viso stravolto. Poi serrò le palpebre, stordito.
Cercò lentamente di regolarizzare il respiro. So’o era già più calmo. Era rimasto accasciato sul tavolo a occhi chiusi, in un silenzio stanco e sereno, e le sue gambe erano molli sul corpo di Vilya, che le accarezzava distratto in un tocco gentile.
Il drow riaprì gli occhi, cercandolo in uno sguardo assuefatto.
 
So’o sgranò gli occhi al cigolare della porta. Saltò a sedere e chiudendosi nella vestaglia vide la porta aperta. Cercò quelli di Vilya, altrettanto afferrati dal panico.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
“La documentazione dev’essere qui. Seguimi,” disse Valentino in un gentile invito.
Ra’shak accompagnò l’incantatore con uno sbuffo seccato. I suoi occhi indagarono gli scaffali che la staffa del compagno illuminava.
“Che situazione del cazzo,” considerò.
Valentino sospirò.
“Lo so, ma dobbiamo occuparcene. Anche se non ti va di avere a che fare con dei…”*
Il mezzelfo si interruppe. Quando Ra’shak cercò, interrogativo, la sua figura, lo vide sbattere incredulo le palpebre, guardando di fronte a sé. Seguì il suo sguardo e trovò Vilya e So’o che li guardavano, in un angolo della biblioteca, immersi in un moto di imbarazzo.
 
Vilya serrò le labbra in una smorfia impacciata.
“Aehm…”, in una risata nervosa si mise davanti, nascondendo in parte il fratello minore.
“Che state facendo?”, chiese Valentino, inquietato.
Cercò gli occhi del compagno e li trovò sgranati, come se avesse visto Lolth in persona.
Lo vide puntare So’o, che avvampò e distolse lo sguardo, incrociando le braccia come per nascondersi davanti.
Il mezzelfo, confuso, si passò una mano sul collo.
“Allora? Rispondetemi ragazzi, su. So’o,” richiamò all’attenzione il più diligente.
Il Principe alternò lo sguardo tra lui e quella massa pietrificata che era diventato Ra’shak. Poi cercò un Vilya impacciato. Poi di nuovo Valentino.
Poi, con uno scatto fulmineo, prese Vilya come ostaggio, sbattendolo al muro con le mani sul petto, e lo catturò in un bacio affiatato.
 
Vilya sgranò gli occhi, sconvolto. So’o gli prese le mani e gliele poggiò sul proprio sedere, senza interrompersi. Il drow avvampò dall’imbarazzo, ma al rincarare del più giovane si lasciò andare alla sua trappola in un mugugno di sofferenza, palpandolo e poi premendolo contro il proprio corpo.
 
Valentino ora aveva raggiunto l’inquietudine del compagno. Il compagno, però, non era più al suo fianco.
La sua voce si fece sentire alle sue spalle, più lontana man mano che raggiungeva la porta.
“Fanculo, non sono stato pagato per questo. Addio.”**
Il rumore di passi seguì oltre l’uscio e lungo il porticato fino a sparire.
 
Il Consigliere, rimasto solo, indossò la sua espressione adirata.
“Ma che diavolo state combinando!”
Raggiunse i due giovani a falcate e afferrò il braccio di So’o per strapparlo via da Vilya.
So’o finì per incrociare gli occhi di Valentino. Aveva il fiatone e lo fissava in un misto di eccitazione e determinazione. Non c’era vergogna nel suo sguardo.
“Mi hai deluso molto So’o, credevo che fossi un ragazzo più responsabile! Tuo padre saprà di questo…”
Il mezzelfo esitò, sbattendo le palpebre. Proseguì.
“… non appena tutta questa storia sarà risolta,”*** concluse in un sospiro. Il suo sguardo di biasimo insistette sul mezzodrow, senza che su di esso si leggesse del dispiacere. Gli occhi di So’o lo fissavano ancora più decisi, quasi penetranti.
Valentino nascose il suo cedere con uno scrollare spazientito del capo. Spinse debolmente il braccio del Principe verso la porta prima di mollarlo.
“Sparite di qui.”
All’ammonizione del Consigliere, So’o obbedì e camminò verso la porta. Vilya si staccò subito dalla parete della biblioteca per seguirlo.
“Non intendo trovarvi di nuovo in queste condizioni!”, li ammonì, voltando il capo di lato così che la sua voce arrivasse a loro.
Non appena sentì i loro passi lontani oltre il giardino si lasciò andare a un’espressione apprensiva, un segreto che rimase confinato tra lui e la stanza vuota.
 
 
 
 
 
 
 
 
*=’… ragazzi’, continuava la frase.
**= “Fuck this shit I’m out, nope!” cit. Maroon 5…
***= Valentino is the new McGranitt.
 
***
 
 
 
 
 
So’o chiuse la porta con il mantello sottobraccio. Incamminandosi verso il chiostro successivo, indossò il mantello mentre attraversava il giardino. Se lo aggiustò sulle spalle senza porci attenzione, tenendo gli occhi sulla direzione che doveva prendere, ma inchiodò non appena girò oltre l’arco del porticato. A occhi sgranati osservò ciò che stava accadendo davanti a lui.
 
Si trattava di Lupo di Neve. Era anche lui sotto il porticato, poco lontano dal mezzodrow. Era assorto, in tensione con le labbra schiuse. Stava guardando oltre le colonne, verso il giardino. Con una mano si appoggiò al pilastro più vicino e si avvicinò verso la direzione in cui guardava, rimanendo nascosto, ingabbiato nel porticato, separato da ciò che si trovava fuori.
 
L’uscita dei sotterranei dava su quel giardino. Altre due colonne reggevano il tetto, alla fine di una breve scalinata. Azul Goldsmith sedeva sulla base di uno di quei pilastri. Una spalla era poggiata alla sua superficie curva, in una posa spenta, stanca. Azul aveva premuto anche una tempia contro la pietra, e scrutava il vuoto. Le mani ricadevano inermi tra le cosce. Affondavano sulle pieghe della tunica, un indumento semplice e di modesta fattura. Sospirò e abbassò gli occhi ai propri piedi.
 
So’o indietreggiò e si nascose dietro un pilastro addossato alla parete. Spiò da lì Lupo di Neve. Il mannaro alzò la mano sinistra e puntò il palmo aperto verso Azul. Quel palmo era sospeso tra le colonne, su di un vetro che sembrava separarli. Il Principe trasalì, il suo respiro accelerò. Si coprì bocca e naso con una mano. Attorno al mannaro si materializzò un bagliore pallido, che poi divenne violaceo.
 
Il momento dopo, l’aria nel giardino fu costellata da altri piccoli bagliori.
Luci, dalla forma di fiocchi di neve perfetti, cadevano lentamente dal cielo come minuscole stelle, adagiandosi sull’erba.
 
Quando il primo fiocco di luce si fermò ai piedi di Azul il drow sbatté le palpebre, frastornato, in un sottile cambio di espressione. Presto altri fiocchi vi si posarono accanto. Azul alzò lo sguardo, poi il viso, verso la cascata di luce che aveva iniziato a cadere su di lui in un pacifico silenzio.
Le sue mani strinsero la stoffa della veste. La strinsero piano. Poi le nocche si tesero in una morsa e le braccia fremettero.
Il viso del drow si contrasse in una maschera di rabbia e frustrazione, che presto divenne dolore.
Schiuse le labbra a denti stretti, la mascella si irrigidì e trattenne un pesante stento.
Il drow incassò la testa tra le spalle e la piegò in avanti. Strizzò gli occhi lucidi, le ciglia si imperlarono di lacrime.
Un gemito di dolore forzò la bocca ad aprirsi e uscì con una nuvola di vapore e un ansito. Il drow schiuse maggiormente le labbra in una smorfia di dolore inaspettato, più acuto, anche se la sua voce si era bloccata. Tornò poco dopo in un altro stento, come se soffocasse.
La morsa delle mani cedette in un breve urlo. Strisciò lungo i pantaloni che indossava e superò le ginocchia mentre il corpo esile dell’uomo si piegava in avanti, accartocciandosi su se stesso in una stretta ancora più sottile. Un altro urlo scivolò dalle sue labbra, più lungo. Affondò la faccia contro le ginocchia e strinse convulsamente la stoffa all’altezza delle tibie. Il grido seguente venne soffocato dai sussulti e dai singhiozzi del pianto, spezzandosi in gemiti addolorati.
 
Un tonfo distrasse So’o, attirandolo verso la fonte del rumore. Lupo di Neve si era scontrato con la parete dietro di lui. Aveva inchiodato le spalle al muro, annientato, sostenendosi su di esso. Guardava il drow a occhi sgranati. L’ampio petto del mannaro si alzava e abbassava in un ritmo agitato.
 
So’o fece leva sul pilastro e si fece avanti. Lupo di Neve sussultò nel vederlo e si voltò verso di lui. So’o indagò nei suoi occhi. Lo sguardo dello stregone fece lo stesso, frenetico per un istante. Poi i suoi occhi si socchiusero, tristi, incupiti dalle sopracciglia corrugate. Premette le labbra in una smorfia amara.
 
Il suo sguardo si spense quando abbassò le palpebre. Poi, veloce, Lupo di Neve si voltò e si allontanò. Prima che So’o potesse raggiungerlo, il mannaro aveva attraversato un arco del porticato ed era sparito oltre esso.
Il Principe scattò per inseguirlo ma esitò dopo pochi passi. Respirando affannosamente esaminò l’arco dove Lupo di Neve era sparito. Spiò il giardino: il padre aveva fatto capolino oltre le ginocchia per puntare lo sguardo vuoto sull’erba, dove i fiocchi di luce erano spariti come se non fossero mai esistiti. Un sospiro tormentato uscì dalle sue labbra.
 
So'o cercò di nuovo il buio che aveva inghiottito il mannaro. Non riusciva a vederci attraverso.
L’oscurità abbracciò il suo sguardo.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Wozømû, pt. 2 ***











Saab: Down to Earth

Capitolo 7 – Wozømû*, pt. 2
*verità, lingua mannarica




 
 
 


 
“Io e Ra’shak siamo stati scelti dall’Imperatore e dai suoi per le nostre competenze. Devono aver sentito parlare di Ra’shak, della sua fama di ricercato in tutto il Sottosuolo e del casino che abbiamo combinato. Ho anche il sospetto che ad Azul piaccia avere attorno una coppia come la nostra.
 
Quando mi hanno istruito per l'amministrazione di queste terre ho scoperto un dettaglio curioso, che non mi avevano accennato. Pur essendo vicino all'oceano, le temperature invernali di questo territorio si abbassano facilmente, e con le giuste precipitazioni la neve può coprire i tetti di Saab per diversi mesi prima che giunga la primavera. Quello che mi ha confuso è stato giungere qui alle porte dell'inverno e non vedere, lungo il mio soggiorno qui, neanche un fiocco di neve. Quando ho chiesto spiegazioni a Imesah, il Cavaliere mi ha risposto di non saperne nulla. Nel tentativo di darmi una risposta meno laconica, ha ipotizzato che Saab avesse manipolato il clima per rendere il Regno meno ostile. Ma, ho pensato io, questo è strano dal momento che le temperature rimangono rigide. Per quale motivo Saab dovrebbe aver cancellato la neve, e la neve soltanto? Non mi sembrava coerente: forse avevo trovato qualcosa di interessante.
Allora, pensando a un incantesimo o a un maleficio intessuto da una creatura magica che vive in queste terre, ho chiesto all'Imperatore. Quando sono arrivato da lui con il mio ragionamento lui si è fatto evasivo, distante, e mi ha risposto che non dovrei preoccuparmi di questo, di occuparmi di qualcosa di più significativo.
Potevo essere soddisfatto da quella risposta? Ovviamente no. Iniziava a sembrare più un segreto, così ho deciso di andare da colei che conosce tutti i segreti: Sonia, la Vipera dei Serpenti. Sonia mi ha guardato dritto negli occhi, con uno sguardo grave. Mi ha detto che si trattava di un accordo tra Saab e l'Imperatore, nato il primo giorno in cui tutti loro calpestarono la terra di Saab, e che non sapeva neanche lei il motivo di tale patto. Poi ha detto una cosa strana. Mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto che alcuni segreti, come i morti nelle tombe, vanno lasciati sepolti.
 
Avrei potuto ribattere discutendo delle attitudini dei negromanti, ma ho desistito. A pochi mesi dal mio arrivo qui, mi sembra che le mura d'oro di questo palazzo siano messe in piedi da tanti piccoli segreti. Come mattoni, costruiscono pezzo per pezzo le pareti di ogni stanza. E per quanto la mia missione sia conoscerli tutti, ho capito che ci sono segreti che nessuno di noi dovrebbe rievocare.”
 
Diario di Valentino, d.h. 342
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Giunto al limitare della foresta, Vilya scese dalla sella e agganciò a un ramo le redini del cavallo. Aggiustandosi la borsa sul fianco, voltò il capo dove le fronde degli alberi erano ormai rade e incorniciavano un lungo muro di pietra ingrigita e invasa dalle rampicanti. Gli stivali del drow calpestarono gli ultimi fili di erba rigogliosa prima di venire sporcati dalla polvere di un terreno arido, e si fermarono davanti al muro.
 
“È così strano…”, mormorò Vilya tra sé e sé, osservando le fitte trecce di rampicanti che portavano verso l’alto.
 
Incuneò un piede in una fenditura tra i mattoni di pietra e si diede la spinta per aggrapparsi alla prima rampicante. Salendo la pianta e inchiodando i piedi alle sporgenze arrivò in cima al muro. Oltre di esso si trovava un castello. Si calò dall’altra parte con le rampicanti e scese a terra in un tonfo e uno stento.
 
Si guardò velocemente intorno e corse alla parete del castello per addossarsi a una parete. Da lì sbirciò oltre, verso entrambi i lati. La zona Sud del castello non era presidiata. A Nord, invece, due guardie presidiavano l’entrata. Vilya diede un’occhiata verso l’alto, dove si trovavano un paio di finestre nella zona Sud, a una decina di metri di distanza. Esaminò le rampicanti che aveva scalato poco fa. Premette le labbra in una smorfia e rimase a spiare l’entrata a Nord. Le guardie scrutavano in silenzio il cancello, spostando il peso del corpo ogni tanto, e una terza guardia aveva appena svoltato dal lato opposto, sparendo alla vista del drow.
 
Vilya si appiattì alla parete e chiuse gli occhi in un sospiro.
“Amicone, lo so che mi senti,” mormorò tra sé e sé. “Dammi un po’ una mano a liberarmi di questi sfigati, sì? Fai il bravo Dio. O qualsiasi cosa tu sia.”
 
Aprì gli occhi. Il suo respiro si regolarizzò. Un respiro. Due. Tre.
 
In un passo si voltò per sbucare fuori dal suo nascondiglio. Confuso, sbatté le palpebre e scrutò lo spazio attorno all’entrata. Camminò guardingo verso la porta, esaminando paranoico il luogo dove prima si trovavano le due guardie, ora vuoto.
 
Salì le scale e oltrepassò la porta.
 
Nel momento in cui attraversò l’entrata, un guizzo dello sguardo gli permise di cogliere dei movimenti ai lati. Verso sinistra, qualcuno stava chiudendo la porta Ovest mostrando le spalle al drow. A destra invece la porta stava per aprirsi, ma dopo un richiamo essa venne richiusa.
 
Il drow sgranò gli occhi, immobile per qualche secondo. Un improvviso rumore, simile a un singhiozzo, echeggiò lungo il primo piano e lo fece trasalire. Vilya sondò nervoso la ringhiera sopra di sé, deserta. Si rilassò appena, ma si mosse subito dopo per salire la larga scalinata che si trovava di fronte a lui.
Sopra si trovavano due porte chiuse ai lati e una terza proseguendo avanti. Le scale proseguivano sulla sinistra.
 
Vilya avanzò di pochi passi per fermarsi alla porta che aveva davanti. Corrugò la fronte e allungò di poco le mani, stringendo piano le dita.
Dagli interstizi dello stipite affluiva una pressione, un’aria intensa, invisibile, che gli riempì i palmi. Vilya scrollò il capo, lo piegò di lato offrendo l’orecchio appuntito alla porta. Un ronzio echeggiava persistente nella testa del drow, rimbalzando, inudibile, sulle pareti del castello. Il giovane rialzò lo sguardo sulla porta, studiandola.
 
Chiuse la mano sulla maniglia.
La tensione nell’aria si strinse attorno al suo pugno e lo inclinò dolcemente, facendogli aprire la porta.
 
Il drow lasciò la maniglia. La porta si aprì in un cacofonico cigolio, che venne coperto da un frastuono all’interno. Era un frastuono metallico, e improvviso, seguito dal sottile ruggito di alcune fiamme.
 
Vilya si trovò su di un balcone che discendeva da entrambi i lati, portando a una stanza quadrata più giù. Avanzò e poggiò le mani sulla ringhiera, osservando le fonti dei rumori. Il fragore metallico era stato causato da una sorta di placca che ora ondeggiava, a terra, parte di qualcosa di ben più grosso. Accanto, degli uomini in armatura imbracciavano delle spade infuocate e studiavano l’oggetto al centro della stanza. Al centro della stanza, circondato da una piccola folla di incantatori, chierici e un paio di nobili, si trovava un enorme guscio, lungo e stretto, con otto prolungamenti altrettanto lunghi e molto sottili, che si ripiegavano fin terra a sorreggere il guscio. Un filo lungo i prolungamenti rivelava qualcosa nascosto all’interno. Ogni tanto quel qualcosa si muoveva.
 
Vilya sgranò gli occhi.
“Avanti,” uno degli uomini ben vestiti esortò i chierici. Aveva un broncio sul viso e una carnagione rossa come i capelli. “Finite il lavoro. Apritelo.”
“Sì, Mio Signore,” annuì il guerriero con l’armatura bianca, avvicinandosi al curioso oggetto. In un fendente aprì una zona adiacente del guscio e un ulteriore pezzo si smembrò dal metallo. Sotto di esso si trovava un altro guscio, perlaceo, dalle sembianze più fragili. Il chierico, ansante, indietreggiò. Il nobile lo riprese in un tono più isterico.
“Su, che aspetti?”
Il chierico si voltò verso di lui con le labbra ancora dischiuse per incamerare grosse boccate d’aria. L’altro posò su di lui uno sguardo di biasimo, ma gli occhi risalirono verso l’alto in un drammatico cambio d’espressione.
 
I labbri di uno dei prolungamenti si erano piegati verso l’esterno, apparentemente da soli. Da uno di questi affiorò qualcosa di pallido, molto simile a ciò che lo ricopriva, che si piegò lentamente e la cui punta, fine e dura, raschiò il pavimento senza graffiarlo. Un’onda d’urto rivoltò l’aria, scuotendo gli uomini. Vilya trasalì staccando le mani dalla ringhiera, trascinato all’indietro. La stanza venne avvolta da un silenzio innaturale.
Gli altri prolungamenti fecero lo stesso. Un boato di metallo che si piega di botto echeggiò nella stanza, e il guscio perlaceo scivolò oltre l’apertura che i chierici avevano tagliato nel metallo, accompagnato da un’onda più potente che investì tutti. L’uomo dai capelli rossi tirò un acuto urlo.
 
Inizialmente, la cosa che si separò dal suo guscio metallico era somigliante a un enorme ragno bianco, dalle zampe lunghe e sottili, ritirate attorno a un corpo grosso e tondo, vagamente ellittico. Poi il guscio si ingrossò.
 
Si estese orizzontalmente, rivelando un corpo più lungo. Una serie di scaglie traslucide, di un materiale che ricordava il cristallo, creava insieme delle ali, o uno strascico, che scivolò via dal corpo, denudandolo. Si trattava di una fragile camera ovoidale, ellittica, creata dallo stesso materiale, e attraverso di essa si intravedevano degli organi che fluttuavano, attaccati in una zona specifica del corpo. Al centro, una luce gialla proiettava ombre e bagliori nella stanza.
Dal guscio si protese anche una testa, sollevata da un collo lungo e muscoloso, da rettile. Il muso della creatura ricordava un elmo a forma di testa di cavallo o di drago. Era allungato, con due fessure simili a narici alla fine. Davanti, altre sei fessure, più lunghe, segnavano il punto dove dovevano trovarsi gli occhi. Dalla parte superiore spuntavano tre paia di corna, che fluttuavano, evanescenti, nell’aria, come se fossero immerse in acqua. E sotto, dove doveva trovarsi una bocca, c’erano delle zanne minacciose e affilate, senza mascella. Le zanne proseguivano di poco sul collo, dando l’idea di una bocca sempre spalancata.
 
Il muso della creatura era puntato verso il gruppo di uomini, raccoltosi in un angolo della stanza.
L’aria si ritirava e decomprimeva in ondate grosse e lente. La materia si tendeva a un punto critico, poi si distendeva poco prima del suo punto di dispersione. Si sentì arrivare la terza onda. Le mani tremanti di Vilya afferrarono saldamente la ringhiera. La terza onda d’urto fu più violenta e intensa. Gli uomini urlarono. Anche Vilya, che cadde a terra e si resse sulla ringhiera, strizzando gli occhi ed emettendo uno stento. Il pavimento del balcone gemette e crepò. La materia tornò a distendersi attorno al drow. Vilya si fece forza sulle braccia e si alzò, reggendosi sulla ringhiera per puntare la creatura. Attorno ad essa, l’energia era densa al punto che le cose vibravano, distorte fisicamente dall’onda. Aderivano ad essa, ne venivano plasmate e assumevano la sua forma, piegandosi continuamente in profonde sinusoidi.
 
L’energia si raccolse di nuovo in una lentezza minacciosa. Vilya esalò un sospiro di panico. Saab avanzò verso gli uomini, lentamente, con un movimento ipnotico delle zampe. Vilya corrugò la fronte e si fece sfuggire un gemito rotto. Strinse convulsamente la ringhiera nel sentire la tensione caricare nella stanza. Gli uomini emisero delle urla, comprimendosi l’uno sull’altro.
 
La quarta ondata venne rilasciata quasi d’improvviso. Arrivò agli uomini in un battito di ciglia. Fiotti di sangue sprizzarono dalle loro cavità e i loro corpi esanimi caddero, accasciandosi. L’ondata raggiunse anche Vilya. L’energia lo trapassò, entrando nella pelle, poi nella carne e nelle ossa. Toccò ogni cellula del suo corpo al passaggio, riempiendolo. Il ragazzo venne strappato via da dove si trovava insieme alla ringhiera. Lui urlò e la sua schiena impattò contro la porta dietro di sé.
 
Ansante, Vilya premette i palmi tremanti per terra e si costrinse a rialzarsi. Imboccò la scala di sinistra, reggendosi sulla ringhiera, e scese le scale incespicando sugli scalini. Alla base della scala alzò gli occhi.
 
La creatura lo stava puntando, con tutti e sei gli occhi, o ciò che dovevano essere degli occhi, fissi su di lui.
Il drow incrociò quello sguardo cieco in un ansito, poi venne meno. Le gambe cedettero e lui svenne per terra.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
Il rumore leggero di rametti che cozzavano tra loro venne disturbato dal fruscio del mantello di pelliccia di So’o, mentre il Principe si sedeva sull’erba fredda e umida.
Sotto l’albero da frutto che presidiava la collina, Lupo di Neve osservava vigile il gruppo di ragazzi che giocava a rincorrersi più in là. Vilya stava costruendo, con dei legnetti, una sorta di anello grosso quanto una testa. Alzò gli occhi per cercare il fratello minore appena sedutosi accanto. So’o gli sorrise, poi osservò il panorama.
 
“È stato figo scappare di soppiatto, anche se è pericoloso.”
“Non è così pericoloso con me vicino,” osservò il mannaro.
I suoi occhi, verdi come un bocciolo pronto a schiudersi, studiavano le traiettorie dei ragazzi.
“Sono contento che mi abbiate permesso di tenervi d’occhio, e ne approfitto per farmi una gita.”
Sulle labbra carnose di Lupo di Neve si dipinse un sorriso più allegro.
“Hey!”, Vilya guardò male l’uomo più grosso, “non dire così, ci fai sentire dei bravi ragazzi e se ne va tutto il divertimento!”
Provocò la risata dello stregone, che si strinse nelle ampie spalle.
“Oh, beh. Mi dispiace.” Poi sospirò, disperato. “Ah, sono vecchio…”
Vilya sbuffò, riprendendo a incastrare rametti su rametti.
“Ad ogni modo, non ha senso restare chiusi tra le mura.”
So’o annuì.
“E comunque non sono neanche i tuoi cuccioli!”
Il drow pizzicò il bicipite del mannaro. Lupo di Neve aggrottò la fronte, facendosi serio.
“Non importa. I cuccioli del branco sono i cuccioli di tutti. Tutti se ne prendono cura.”
 
Lungo le colline al di fuori della Foresta Magica, i loro amici si punzecchiavano con le spade di legno.
Il sole era in pieno cielo, ma delle nuvole ostinate ne filtravano la luce.
Vilya alzò lo sguardo, scrutando le nuvole.
 
“Fa piuttosto freddo,” osservò Lupo di Neve. “Tra poco dovrebbe iniziare a nevicare.”
“Se lo dici tu allora deve fare veramente freddo,” disse Vilya.
So’o scrollò le spalle, malinconico.
“Non nevica a Saab,” replicò piatto.
Gli altri due lo guardarono interdetti.
So’o osservava i ragazzi giocare in lontananza. Scrutò gli occhi del mannaro, poi quelli del drow.
“Si dice che una volta nevicasse.”
Lupo di Neve, sorpreso, drizzò la schiena in un movimento istintivo e rimase a fissarlo.
“Ah,” disse Vilya. Scrollò l’anello di rametti che stava intessendo. “E poi?”
Il Principe voltò il capo dalla parte opposta, fermando lo sguardo sulla Foresta Magica poco lontana.
“Qualcuno deve aver nascosto la neve.”
Si raccolse nel mantello di pelliccia che lo teneva al caldo e iniziò il racconto.
 
“La Dama della Neve viveva nella Foresta. Nel cuore della foresta si trovava la sua casa, una grande quercia centenaria, la più grande in effetti. In inverno, il suo compito era di ricoprire la Foresta e tutti i territori vicini con uno strato spesso di neve, per conservare e proteggere quello che si trovava sotto, in attesa della stagione di fioritura. Così d’estate lei si avvolgeva nel tronco cavo della quercia e si addormentava. Quando era inverno, invece, si risvegliava e proprio da lì iniziava a far fiorire i suoi fiori: candidi fiocchi di neve, soffici e perfetti. E li faceva cadere su tutta la terra, ricoprendola di bianco per mesi.”
 
 Vilya, scrutandolo, sbatté le palpebre.
“… ma?”, chiese Lupo di Neve.
 
“Ma un giorno giunse a Siieeth una potente strega. La Dama della Neve era meravigliosa, vestita dei suoi fiori, fiocchi che costellavano la sua pelle come pregiato pizzo e che si facevano tulle per nascondere le sue gambe. La sua bellezza trascendeva qualsiasi umanità. La strega, vestita di nero come una vedova e brutta come la morte, la vide e divenne invidiosa di quella bellezza, che le ricordava della giovinezza che lei aveva ormai perduto.
Così, in estate, mentre lei dormiva, la strega imprigionò la Dama della Neve nel tronco cavo della quercia dove abitava, con un incantesimo. Quando l’inverno tornò di nuovo, la Dama si risvegliò da prigioniera. Per quanto potesse sforzarsi, non riuscì a rompere l’incantesimo. Quello fu il primo di tanti inverni senza neve nelle terre di Siieeth. E ancora adesso, se andrai nel cuore della Foresta Magica in una notte d’inverno, la vedrai lì, prigioniera nella quercia cava più grande della foresta, sveglia, che cerca, invano, di liberarsi.”
 
“Ah,” disse Vilya in un tono abbattuto.
Lupo di Neve era zittito. Fissava So’o inquieto, e affranto.
So’o, guardandoli, si grattò la nuca incerto.
“Credo sia il prodotto di fantasia dei primi bambini di Saab, quando impararono della neve a scuola… e poi scoprirono che non l’avrebbero mai vista.”
Rise piano, imbarazzato. Vilya seguì, più spontaneo. Voltò il capo verso la foresta. Alzò il cerchio di rami e inquadrò la foresta nel proprio sguardo.
So’o scrutò l’altro, poi si sporse per raccogliere degli scarti di legno. Raddrizzandosi poggiò tre di essi sul bordo del cerchio, creando un triangolo che incorniciava la foresta.
 
“Ai bambini piace raccontare che un giorno la Dama della Neve verrà liberata.”
Gli occhi di Lupo di Neve si illuminarono di speranza.
“Mh?” Vilya abbassò la finta lente sulla coscia. So’o accompagnò il gesto. “E come?”
So’o, con un cenno del capo e l’ombra di un sorriso furbo, indicò a Vilya il triangolo che aveva creato con i legnetti.
“Con il fuoco.”
Vilya sbatté le palpebre sorpreso. Poi scoppiò a ridere. So’o rise con lui.
“Ma è stupido! Come fai a liberare la neve con il fuoco?”
“Non lo so!”, esclamò So’o, “è assurdo! Sono bambini, no?”
Lupo di Neve scrollò le spalle e rimase zitto molto tempo, mentre le risa dei due risuonavano tra le colline.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Vilya.
Un sussurro rimbombò nella testa di Vilya, muto e frastornante.
Svegliati.
Vilya spalancò gli occhi.
Voltò il capo.
La creatura lo stava fissando ancora.
Devi riportarmi a casa.
 
Vilya urlò.
Impallidito, annaspò per alzarsi. Per la fretta inciampò e cadde. Ritentò e fallì una seconda volta. Iniziò ad ansimare, in preda al panico, rialzandosi più lentamente.
La creatura non si muoveva, a parte un ondeggiare quasi impercettibile del corpo e della testa. Attese pazientemente il drow, e quando il ragazzo tornò a guardarlo la creatura indietreggiò piano, con le sue otto zampe.
Vilya urlò di nuovo e alzò le mani a palmi aperti verso di lui in posizione difensiva.
La creatura tornò a guardare il drow.
Calmati, sono io.
“Io chi?”, chiese Vilya, “io chi?”, urlò stavolta, isterico.
Saab inclinò la testa di lato.
“Hai ucciso delle persone!”, urlò il drow.
Anche tu.
“No!”, ribatté Vilya urlando, “cioè, non così, va bene? Non li ho spappolati in massa dall’interno! Non si fa questa merdata! Capito? Capito?”, insistette.
La creatura continuava a fissare il drow.
Ma volevano rendermi prigion…
“Ho detto di no! Non lo fare mai più o smetto di ringraziarti per il culo di So’o!”
Saab venne interrotto da Vilya. Si prese di nuovo il suo tempo per rispondergli.
È mio figlio.
“Appunto,” ansimò Vilya, “grazie per il culo.”
… prego,” rispose Saab, con una nota confusa.
 
Vilya deglutì. Il suo respiro iniziava a regolarizzarsi.
“A proposito, non ce l’hai con me, vero?”
Per cosa?”, chiese curioso Saab, portando avanti le due zampe anteriori.
Vilya indietreggiò di due metri.
“Per farmi tuo figlio,” specificò.
Ah.
La creatura mosse il muso, dirigendolo altrove.
No,” rispose, “in realtà vi trovo carini.
Vilya sgranò gli occhi e impallidì.
“Come car…”, bisbigliò, poi urlò di nuovo verso di lui, “come ‘carini’?”
Il muso di Saab tornò verso di lui e replicò con la stessa voce melliflua.
Non urlare, dobbiamo andarcene di qui.
“Come se tu non fossi in grado di andartene in un modo o nell’altro!”
Saab zittì per un momento.
Sei il mio preferito, lo sai?
Vilya impallidì. Portò di nuovo le braccia avanti.
“No, no, no, no, no, dev’esserci un errore- io non sono da mangiare!”
Rise nervosamente e indietreggiò.
“Sono qui per riportarti, come hai detto, non sono buono da mangiare, sono stopposo...”
Impattò contro la parete opposta e la risata che vibrò nel suo cervello gli provocò un giramento di testa.
 
Un rumore proveniente dall’altra parte della stanza lo distrasse.
Un braccio sbucò dalla massa di cadaveri sotto cui era sepolto un istante prima. La mano si aggrappò a essi e tirò per far sbucare una zazzera di capelli rossi e una faccia sporcata di sangue. Il nobile emise uno stento.
 
Saab, tuttavia, puntava ancora Vilya.
Mi annoio qui,” gli disse. “Andiamo via, così potrò parlare con tuo fratello.
“Devi anche a me delle spiegazioni,” lo minacciò Vilya, additandolo.
“Cosa… sta…”, mugugnò stordito l’uomo mezzo sepolto, accasciandosi sui corpi poco dopo in una resa.
Vilya scrutò l’uomo, poi Saab.
“Perché è vivo?”
Saab non rispose. Continuò a fissare Vilya.
Sei curioso,” disse poi.
Vilya inasprì l’espressione.
“Ma che cazzo, rispondi!”, ringhiò.
La risata riecheggiò nella sua testa, facendogli strizzare gli occhi.
Non ti darò tutte le risposte, bambino. Di queste non hai bisogno.
“Maledetto cazzone,” ringhiò Vilya.
Ti ho sentito.
“Vaffanculo!”, il drow rialzò il viso digrignato verso Saab.
La creatura non attese stavolta. Avanzò, imponente, alta diversi metri, verso il drow e gli fece scappare un urlo di panico, costringendolo a spalmarsi contro la parete.
Sei divertente,” rise Saab.
“E tu sei un sadico!”, urlò Vilya, “un sadico cazzone!”
Mmmmhhh,” rifletté Saab. Sollevò una zampa per infilzarla accanto a Vilya, a pochi centimetri di distanza.
La materia attorno alla sua zampa ondeggiava visibilmente. Anche le parti del corpo del drow che erano più vicine a quella cosa vibravano, in modo palpabile, facendo rabbrividire il ragazzo.
Vilya scostò una mano dalla parete. Molto lentamente, la avvicinò alla zampa.
Le sue dita si caricarono di energia, iniziando a trasmettere dolore al suo cervello.
 
Prima che Vilya avanzasse di un altro centimetro, Saab ritirò la zampa.
Avanti,” disse premurosamente al drow. “Prendi lo scrigno che ti hanno dato.
Vilya sospirò.
“Sì, sì,” chinò il capo verso la borsa, ma improvvisamente fulminò Saab, “come cazzo sai che mi hanno dato questo scrigno?”
Vilya, i miei occhi sono ovunque,” spiegò paziente l’altro.
Vilya scrutò nelle sei fessure che aveva sul muso.
“Ah.”
 
Seguì un gemito spezzato dalla massa di cadaveri.
Vilya tirò fuori uno scrigno di cristallo.
Lo aprì e lo voltò verso Saab.
“Ecco. Toccalo e ci entrerai dentro.”
“Aspettate!”, gemette l’uomo dai capelli rossi, tendendo un braccio verso di loro. “Dove state andando…?”
Vilya studiò l’uomo. Tornò a Saab e gli tese lo scrigno.
“No!”, esclamò il nobile. Iniziò a tirare con il braccio libero, senza riuscire a liberarsi. “Non osare…”
“Puoi farlo stare zitto?”, chiese Vilya.
Il rosso incastrato tra i cadaveri continuò a strattonare finché i suoi occhi non rotearono all’indietro e lui perse conoscenza.
“Grazie.”
Saab sollevò una zampa e la avvicinò allo scrigno. Nel momento in cui la punta ne sfiorò l’interno la creatura si smaterializzò, svanendo, e lo scrigno si chiuse in uno scatto.
Vilya aprì la borsa e ripose lo scrigno, in un sospiro.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Vilya sbucò sul giardino scendendo a falcate le scale. La sua faccia era contratta in una smorfia infuriata. Calpestò il sentiero, verso l’uscita del chiostro. So’o arrivò alle scale subito dopo.
“Vilya! Aspetta…”
 
Il drow rallentò, interrogativo. Nel tempo che ci mise a voltarsi di lato, So’o lo raggiunse.
 
“È successa un’altra cosa stanotte.”
“Cazzo,” imprecò Vilya roteando gli occhi verso l’alto, “ma questa notte non finisce mai?” Guardò So’o, scrutando nei suoi occhi. “Cosa è successo?”
Il mezzodrow esitò. Si guardò attorno, afferrò il braccio del fratello maggiore e lo trascinò oltre il giardino, dietro il porticato.
 
“Si tratta di Lupo di Neve.”
Vilya sgranò gli occhi, sorpreso. So’o proseguì.
“Ha fatto una cosa strana a papà. Non lo so che stava cercando di fare. Papà era lì,” So’o indicò una delle due colonne ai piedi delle scale, “e Lupo era… più o meno lì,” il dito si spostò più in là sul porticato, “e sono sicuro che abbia fatto un incantesimo.”
“Un incantesimo?”, Vilya corrugò la fronte, allarmato. Le sue mani si posarono sulle spalle del più giovane. “Che cosa ha fatto?”
“Non lo so!”, esclamò So’o scuotendo il capo, mentre il suo respiro accelerava, “so solo che è diventato luminoso e poi ha iniziato a cadere della neve dal cielo. Ma non era neve normale… era luminosa, come lui…”
Vilya sbatté le palpebre, confuso. So’o guardò altrove con aria smarrita.
“E poi papà ha iniziato a sentirsi male, credo. Si è rannicchiato e ha pianto, stava soffrendo…”
Il mezzodrow cercò Vilya, agitato.
“Forse voleva fargli male.”
Vilya inarcò le sopracciglia.
“Lupo di Neve? Perché dovrebbe?”
So’o scrollò il capo.
“Non saprei… a un certo punto è stato sbalzato via, da qualcosa. Forse c’erano delle difese magiche a proteggere papà… comunque mi ha visto ed è scappato. Ma ha fatto una faccia… strana.”
Vilya scosse il capo in un sospiro seccato.
“È tutto strano,” commentò. “Lupo di Neve non farebbe male a una mosca.”
“Forse è quello che voleva farci credere,” So’o cercò lo sguardo del drow. “Anche all’inizio era sospetto. Ricordi?”
Vilya valutò So’o, guardando nei suoi occhi. Non rispose, rimase a guardarlo.
“La cosa migliore è parlare con lui. Dov’è adesso?”
So’o premette le labbra in una smorfia.
Vilya si fece di nuovo interrogativo.
“Se n’è andato,” spiegò So’o.
“… come? Come ‘andato’?”
“Non è più a Palazzo. Sono entrato nella sua stanza, e ho trovato questo.”
Il mezzodrow porse a Vilya un biglietto.
 
‘Sono WLupo di Neve.
Vi ringrazio per l’ospitalità. Siete stati gentili con me, anche se non eravate obbligati, e ve ne sono grato.
Il vostro Regno è meraviglioso e così il Palazzo e le persone che ci abitano. Sarei voluto restare, ma questo non è possibile. È meglio per tutti che io mi allontani.
Sono contento di avervi conosciuto e custodirò i tempi trascorsi insieme come un ricordo felice.
Addio. ’
 
Vilya esaminò diverse volte lo scritto, con un’espressione tesa.
“Direi che il problema si è risolto da solo,” disse So’o, stringendosi nelle spalle, “ma se Lupo avesse fatto qualcosa a papà e ora stesse scappando, forse dovremmo raggiungerlo prima che ci sfugga.”
Vilya non diede segno di aver sentito. Strinse un lembo dello scritto ed esaminò maniacale le prime parole.
“… Vilya?”
Vilya alzò il viso verso il fratello minore quando venne richiamato. Il suo sguardo grave si posò su So’o.
“Credo di sapere dove possiamo trovarlo.”
So’o inarcò le sopracciglia.
“Dove?”
Vilya alzò lo sguardo verso l’uscita del porticato.
“La quercia della Foresta. Sembrava molto incuriosito, ma non lo abbiamo mai portato a vederla. Credo che vorrebbe cercarla, prima di andarsene.”
So’o lo guardò negli occhi e sospirò, incerto.
“Immagino sia la sola strada che abbiamo.”
Vilya guardò di nuovo l’altro.
“È la strada giusta So’o.”
Si avvicinò al ragazzo e posò una mano sul suo viso, accarezzandolo. So’o rialzò gli occhi nei suoi.
“Come lo sai?”
Vilya sorrise.
“Ho un presentimento.”
Il sorriso si spense. La mano si allontanò dal viso di So’o e scese, intrecciandosi alla mano del ragazzo.
“Andiamo.”
So’o annuì. I due uscirono dal porticato.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Wozømû, pt. 3 ***


Salve a tutti! Ho saltato una settimana perché di nuovo in vacanza *-* l'introduzione di questo capitolo c'è, ma non può ancora venire inserita per non spoilerare una sorpresa u.u verrà inserita non appena possibile. Invece insieme a questo capitolo avevo intenzione di pubblicare una mappa generale della zona di Saab che metterò stasera se tutto va bene aggiornando la storia!
Per quello che riguarda il capitolo precedente immagino che l'abbiate capito da soli ma se non è così ve lo dico io: c'è stata una scena di flashback e una di flashforward, ovvero i tempi della storia non erano lineari, ma è una peculiarità solo di quel capitolo (perché in quel capitolo c'è Saab e quindi è come se la dimensione spaziotemporale si dilatasse, una specie di rottura della quarta parete u.u) (u_u')
Buona lettura!

 





Saab: Down to Earth
Capitolo 8 – Wozømû*, pt. 3**
*verità

** ultima, loggiuro
 
 
 




 
 
 
***
 
 


 
 
Azul Goldsmith era seduto sul muretto del porticato. Il suo sguardo era basso, sulle mani scure che si rigiravano sul grembo. Un mantello nero lo proteggeva dal freddo della notte invernale, e una sciarpa gli cingeva il collo, nascondendone le labbra piene.
Gli occhi gialli scivolarono sulla linea delle mani. Si passò le dita di una sul dorso dell’altra in una carezza. Il calore del palmo si diffuse sul dorso e Azul socchiuse gli occhi, mentre l’eco del vento che spirava tra gli alberi gli sfiorava le orecchie appuntite.
 
Le orecchie fremettero a un suono di passi. Azul sbatté gli occhi, li sgranò. Si tirò in piedi e corse verso la direzione del rumore, interrompendosi davanti al sentiero dove Vilya fu costretto a fermarsi.
 
“Papà…” lo chiamò Vilya, sorpreso. Azul lo esaminò febbrile prima di alzare il viso a incrociarne gli occhi blu. Si tese in avanti e si aggrappò alle spalle del ragazzo, gettandosi tra le sue braccia.
Vilya lo strinse forte a sé, contro il proprio petto. Premette le palpebre inspirando a fondo l’odore del padre.
Azul nascose il viso sul il collo del figlio, senza cedere la presa.
“Ussta dalhar… bel'la yah*…”, sospirò in un fil di voce. Le unghie delle lunghe dita si incastrarono tra le ciocche di capelli mori e le strinsero, affondandovi dentro. Il drow premette la faccia contro il petto del figlio.
“Rilbol zhah ula,” sussurrò in risposta il più giovane, strofinando la punta del naso tra i capelli grigi dell’altro. “Usstan tlun ghil nin*.”
Azul sciolse la presa per catturare il viso del ragazzo tra le mani. I propri occhi, ancora spaventati, scrutarono nei suoi.
“Lu'oh gumash usstan xun xuileb dos*?”
Vilya posò le proprie mani sulle sue.
“Usstan orn'la neitar sevir dos maglust, kel'nar,*” disse, ricambiando il suo sguardo. Azul socchiuse gli occhi.
 
Si allontanò da Vilya quando arrivarono gli altri.
“Ce l’hai fatta?”, chiese Valentino.
Vilya ricambiò il suo sguardo severamente e annuì. Li scavalcò per proseguire, lasciando Valentino interdetto. So’o lo attendeva sulle scale d’ingresso e lo accompagnò mentre scendevano le scale che portavano ai sotterranei.
 
 
Si disposero in cerchio attorno al centro della stanza. Vilya avanzò, estrasse lo scrigno dalla borsa e si accovacciò per poggiarlo. Dischiuse il coperchio e si rialzò, indietreggiando velocemente. Nel farlo premette una mano sul petto del fratello minore.
“Allontanati,” lo avvertì. So’o lo assecondò finché Vilya non lo lasciò. Il drow raggiunse la mano di So’o e la strinse. Il biondo ricambiò debolmente.
 
Un raggio di luce inondò le sale, accecandoli. Quando la luce svanì, davanti ai loro occhi si trovava Saab. Il soffitto alto della stanza era appena sopra di lui. L’alieno si protendeva per metri e metri con le otto zampe, lunghe e sottili, schiudendosi e protendendo il collo in avanti per mostrare il muso allungato. Alla luce dei fuochi fatui di Valentino rilucevano le finte zanne che adornavano il collo della creatura, in un baluginio sinistro. Distese le ali di cristallo lungo il fragile corpo dal quale partiva il lampeggio della luce gialla.  
 
Gli occhi del mezzodrow erano sgranati sull’alieno. Vilya strinse più forte la mano di So’o. Lo sentì vacillare e gli si avvicinò poggiando una mano sul suo fianco. So’o gemette e cadde contro di lui, chiudendo la mano in quella del drow senza riuscire a stringerla. Vilya gli cinse i fianchi e lo resse.
 
“Cosa… cosa significa…” balbettò So’o.
“Questa è una bella domanda,” replicò Vilya. Si voltò verso gli altri. “Cosa significa?”
“Cosa ti sembra che significhi?”, chiese Imesah sostenendo il suo sguardo.
Vilya gli riservò un’occhiata ostile. Ra’shak, al fianco di Imesah, si limitò a grattarsi la nuca.
“Basta…” So’o scosse il capo, stanco. “Basta deviare le domande… ci dovete una spiegazione ora.”
Anche il mezzodrow alzò lo sguardo verso Imesah, contrariato.
Azul scrutò i due figli.
“Ragazzi…”
Fu Valentino a parlare. Avanzò verso i due, allontanandosi da Azul che aveva accanto.
“La verità è che neanche noi sappiamo come rispondervi.”
 
“Non sono niente che voi possiate spiegarvi.”
La voce di Saab risuonò nella loro testa. Valentino sussultò appena. So’o si irrigidì e afferrò il braccio di Vilya. Emanata da ogni superficie nella stanza, quel suono piegava l’aria sulla propria vibrazione.
“Vengo da molto lontano. Molto più lontano delle stelle che riuscite a vedere di notte, in un luogo dove la luce del vostro sole non riesce ancora ad arrivare. Caddi qui più di cinquemila anni fa, come un piccolo meteorite che precipitava nella vostra atmosfera.”
“Atmoche?”, chiese Vilya, confuso.
Il Principe alzò lo sguardo verso l’alieno. Reggendosi sul braccio del fratello si scostò da lui e avanzò verso la creatura.
“Va bene… quindi non sei un dio…”
La testa di Saab venne scossa lentamente.
“Ma allora cos’è tutto questo? Perché lo hai fatto?”
“Questo può spiegartelo tuo padre…”, replicò Saab, puntando Azul.
“Oh no,” il jaluk scosse il capo in una risata sarcastica, “non mi mettere in mezzo, hai evitato le domande da diciassette anni e ora te le becchi tutte quante, te le becchi, cazzo. Siamo in tre e devo rispondere solo io eh. Stronzi.”
Imesah, guardandolo, sbatté le palpebre.
Saab tornò a So’o.
“Diciamo che mi sono affezionato. Mi piacciono le creature di questo mondo. Si può dire... che mi sia innamorato.”
Azul roteò gli occhi in alto, esasperato.
“Così ho provato a… integrarmi.”
“Aspetta, integrarti?”, Vilya superò So’o e si avvicinò all’alieno, “fingerti una divinità e manipolare le persone ti sembra integrarti? E non solo quello, cos'altro sei in grado di fare? Come diavolo funzioni?”
Saab chinò il capo e le sei fessure sul suo muso si trovarono davanti al moro. Vilya si calmò in un sospiro, rilassando i muscoli. Piegò le ginocchia e si sedette a terra incrociando le gambe. Guardò riflessivo il terreno per dei secondi prima di sgranare gli occhi, smarrito.
 
So’o osservò l’espressione persa del fratello maggiore e rialzò gli occhi su Saab.
“Secondo la venerazione di Saab, Saab è una divinità del destino. È in grado di cambiare le sorti degli uomini. Ma se tu non sei un dio…”
“Siamo creature molto antiche. Nate da, e con, le stesse stelle. Le leggi fisiche…”
“Eh?”, fece Vilya.
“… reagiscono alla nostra energia come muscoli. E noi siamo come... nodi. Interferiamo con l'energia che ci attraversa per modellare tutto ciò che vi è collegato. Cioè, tutto.”
So’o contrasse il viso dalla confusione. Il ragazzo abbassò il capo, reggendosi la testa. Gemette. Vilya si voltò a guardarlo, preoccupato e si alzò di nuovo in piedi per raggiungerlo.
“Quindi ci stai modellando. Ci stai… manipolando,” sospirò So’o.
“Un po’,” ammise Saab.
Vilya si voltò verso l’alieno, in una smorfia contrariata.
“Ho creduto per mesi alle tue bugie… ho combattuto per il tuo regno e ho rischiato di morire. Migliaia di persone sono morte! E tu le riempi di bugie, le manovri, e loro non sanno niente! Tutto per i tuoi capricci!”
Dopo le parole di Vilya cadde il silenzio. Saab era immobile. Vilya avanzò ulteriormente, alzando la voce, e Saab indietreggiò sinuosamente.
“Tu hai portato papà qui! TU hai fatto costruire questo posto... tu hai permesso… che scoppiasse la guerra!”
“Non funziona così,” rimbombò severa la voce di Saab, “non sono responsabile di ogni cosa che ti succede.”
“Non saprei,” replicò l’altro in una nota affranta, “non sono più sicuro di cosa io abbia fatto di mia volontà, sai?”
La sua voce spezzata echeggiò nella sala silenziosa. Il drow scrutò intensamente le sei fessure sul muso dell’alieno. Riprese in un mormorio.
“Quando... quando ho trovato mio padre. Eri tu? O quando ho protetto So'o. O quando ho conosciuto mio fratello.”
So’o scostò la mano dalla fronte e scrutò i due, titubante.
“Ero una pedina del tuo romanzo preferito... forse sono tutto un tuo scherzo. Potrei non essere nato se non ci avessi pensato tu…”
Le parole di Vilya sfumarono in una vibrazione sarcastica. Il drow abbassò lo sguardo e lo perse in un punto impreciso.
“Anche io ero un tuo piano…” mormorò So’o, osservando Saab. Aveva uno sguardo triste. Socchiuse gli occhi. “Un… esperimento.”
Imesah osservò l’espressione sul volto del figlio, impassibile.
Azul invece indossava una maschera di apprensione.
 
L’Imperatore fece un passo in avanti e schiuse le labbra, prendendo un respiro.
“Saab non è un dio,” mormorò guardando i figli. Vilya e So’o alzarono lo sguardo verso di lui, smarriti.
“E vi ha mentito, come me… e tutti gli altri,” ammise, abbassando lo sguardo e voltando il capo di lato, così da donare il profilo a Valentino, che si incupì.
“E abbiamo mentito all'intero regno.” Azul tornò a guardare i due ragazzi negli occhi, senza esitazione.
“Un regno che prima non esisteva. Che ospita persone ora libere, prigioniere prima di arrivare qui.”
Azul spostò lo sguardo su Imesah e Ra’shak. L’ultimo intercettò il suo sguardo e lo evitò, guardando altrove.
“Gli abbiamo dato un riparo. Gli abbiamo dato un luogo a cui appartenere. E gli abbiamo dato la speranza.”
Il drow corrugò la fronte. “Sì, vi abbiamo mentito,” ammise. Cercò di nuovo gli occhi dei figli.
“L'abbiamo fatto per questo.”
 
So’o prese un respiro che gli sollevò le spalle. Strinse la stoffa della tunica pregiata che indossava.
“Questo dovrebbe giustificare tutto,” bisbigliò.
Azul aggrottò la fronte.
“No,” replicò grave, “ma almeno vi farebbe capire perché l’abbiamo fatto.”
Il Principe inchiodò lo sguardo a terra, chiudendosi nel silenzio dei suoi pensieri.
“Mi state fraintendendo,” la voce di Saab riemerse dal silenzio, facendo vibrare la sala.
Vilya alzò il viso verso la creatura che lo sovrastava. Saab avanzò per recuperare la zona che occupava prima e il moro indietreggiò, tornando accanto a So’o.
“Potrei convincervi che un’idea è migliore di un’altra, ma manipolarvi… perché?”
L’alieno si fermò sullo stesso punto di prima. Sull’estremità delle sue zampe, dove incontravano il terreno, le colorava un sottile bagliore giallo.
“Non lo sai, Vilya? Se ami qualcuno, devi lasciarlo andare.”
Vilya rivolse all’alieno uno sguardo combattivo.
Azul li interruppe, con voce più alta.
“Sarà meglio andare. Non possiamo restare attorno a Saab per troppo tempo.”
“E ne abbiamo avuto anche troppo per oggi…” sospirò Valentino, stanco, passandosi una mano tra i capelli biondi. Ra’shak aggirò la creatura per raggiungere il compagno. Gli rimase accanto, e lo attese per camminare verso le scale. Si fermarono lì. Valentino cercò Azul.
Saab voltò la testa in direzione dell’Imperatore.
“Voglio un’altra armatura…”
“Sì, sì,” sospirò Azul, liquidando l’alieno con un gesto civettuolo della mano. “Troveremo un modo, bene o male. Ma dovevi proprio farti aprire?”, chiese indispettito.
“Ma era scenico,” si lamentò Saab. “Non hai idea delle facce che hanno fatto…”
Azul scrollò il capo, “tutta la fatica dei tuoi sudditi per niente, cinquemila anni buttati…”
“Per tutte le volte che fai tu bella figura,” insistette Saab.
 
Vilya li interruppe avanzando di nuovo verso l’alieno.
“Non è finita tra me e te, Saab. Ci sono tante cose che dovrai ancora spiegarci.”
Trattenne lo sguardo arrabbiato verso Saab, che puntò lui a sua volta.
“A presto.”
Il drow si voltò e camminò verso le scale, nervoso.
So’o lo seguì.
 
Vilya sbucò sul giardino scendendo a falcate le scale. La sua faccia era contratta in una smorfia infuriata. Calpestò il sentiero, verso l’uscita del chiostro. So’o arrivò alle scale subito dopo.
“Vilya! Aspetta…”
 
Il drow rallentò, interrogativo. Nel tempo che ci mise a voltarsi di lato, So’o lo raggiunse.
 
“È successa un’altra cosa stanotte.”
“Cazzo,” imprecò Vilya roteando gli occhi verso l’alto, “ma questa notte non finisce mai?” Guardò So’o, scrutando nei suoi occhi. “Cosa è successo?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
* = “Bambino mio… grazie a Dio…”
“Va tutto bene, sono qui adesso.”
“Come avrei fatto senza di te?”
“Non ti avrei mai lasciato solo, papà.”

 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Vilya tirò le redini del cavallo finché quello non si fermò.
Lui e So’o si trovavano nel fitto della foresta. Il sentiero li aveva portati vicini alla grande quercia che si intravedeva poco lontano. Nelle ultime ore della notte il cielo si era dipinto di un nero accecante, ma la Foresta Incantata illuminava la strada con le luci colorate delle sue piante. Baluginii di colori diversi fluttuavano saltando di ramo in ramo. Il silenzio era spezzato dai pigri ritmi degli animali notturni, in un suono cullante.
 
So’o sganciò da sella, Vilya lo seguì. Il moro legò le redini del cavallo a un ramo e lanciò uno sguardo verso la loro direzione. Scavalcò le prime foglie che lambivano il sentiero. Il fratello minore era dietro di lui e imitava i suoi passi.
 
I due arrivarono a una radura. Lo spiazzo si aprì davanti ai loro occhi non appena oltrepassarono l’ultima fitta fila di alberi. L’erba verde, illuminata dalla traiettoria fluttuante di piccole creature, lasciava posto a un rigoglioso muschio che copriva enormi radici, grosse come cavalli. Delle rampicanti cingevano l’ampia base del tronco e risalivano in spirali verso i rami. Il tronco era modellato in venature sottili, scavate dal tempo, dalla pioggia e dal vento, e una parte di esso si ripiegava su se stessa come una coperta rimboccata.
 
Su di essa era poggiato il palmo bronzeo di una mano. Dal palmo si era diramata una fitta ragnatela di ghiaccio, che aveva creato uno spesso strato di fiocchi di neve dall’aspetto soffice e sottile, fragile. Si diramava ancora alle estremità, lentamente, creando steli di fiocchi su steli, in una composizione elegante illuminata dalle luci della Foresta, che essa rifletteva in meravigliose sfumature.
Ai piedi della quercia cadeva un lento strato di neve bianca, come cristallizzato nel tempo.
 
Lupo di Neve era assorto. Studiava catturato la quercia con verdi occhi attenti. Abbassò lo sguardo alle radici, come seguendo un flusso. Lo rialzò piano, fino alla mano e più su, verso i rami. Le sue narici fremettero nel catturare di nuovo l’odore intenso dell’albero. Socchiuse lo sguardo, immergendosi in un pensiero, e si fece sfuggire un enigmatico sorriso.
 
So’o cercò lo sguardo di Vilya. Lo scoprì assorto anche lui, quasi malinconico mentre scrutava il mannaro. Il moro notò il suo sguardo addosso e lo ricambiò. Quando tornarono a guardare ciò che avevano davanti, i loro occhi si ritrovarono a notare una serie di ombre, fitte come i tronchi degli alberi, che filtravano all’improvviso le luci della Foresta.
Vilya strinse forte la mano di So’o per trattenere un sussulto. Erano delle sagome minute, basse, simili a dei bambini. Circondavano la quercia, ferme e silenziose, raccolte tutte verso lo stregone.
 
Il drow si fece sfuggire un ansito più pesante. All’unisono, le creature si voltarono verso i due. So’o sgranò gli occhi, raggelando. Vilya gemette.
 
“Oh. Ragazzi.”
Lupo di Neve li stava guardando, sorpreso.
Si voltò verso di loro e la mano abbandonò la corteccia della quercia. Gli ultimi fiocchi di neve si posarono sulle sue radici in un riflesso colorato, restituendo la luce delle piante. Smise di nevicare. Il ghiaccio rimase solido sul tronco, accolto dal freddo della Foresta.
Le ombre, invece, erano sparite, lasciando sgombra la radura. Di loro non rimaneva traccia.
 
So’o scosse il capo in un nuovo brivido.
“Li… li hai visti anche tu, quelli?” chiese Vilya, preoccupato.
“Quelle creature che erano qui prima, intendi?” Lupo di Neve sorrise a Vilya, “certo, sono amici.”
Vilya sollevò un sopracciglio, sconcertato. So’o cercò inquieto gli occhi di Vilya.
Lupo di Neve avanzò verso di loro, scendendo da una radice.
“Ma voi cosa ci fate qui?”
“Volevamo raggiungerti prima che te ne andassi,” rivelò So’o, guardandolo.
Il mannaro scavalcò una pianta e sospirò, con uno sguardo più spento.
“È meglio che vada via da qui. Ma sono contento di potervi salutare prima di andarmene,” ammise. Rialzò lo sguardo sui ragazzi, riacquistando vivacità, e un accenno di sorriso genuino solcò di nuovo le labbra carnose.
Quello sguardo venne ricambiato. So’o e Vilya studiarono il suo sorriso. Era strano, magnetico. Gli occhi verdi dell’uomo trasmettevano un’energia insolita, eppure erano rassicuranti.
 
“Lupo, perché stai andando via?” chiese So’o. “Cosa… cosa volevi fare ad Azul?”
Lupo di Neve si incupì nuovamente. Prima che potesse rispondere, la voce di Vilya rispose per lui.
“Tu non vuoi salutarci,” mormorò il drow, serio.
Lupo di Neve, interdetto, incrociò gli occhi del ragazzo.
“Tu vuoi vederci per l’ultima volta.”
Il mannaro sbatté le palpebre, ancora confuso.
Vilya avanzò verso di lui, tenendo la mano di So’o nella propria. Anche So’o guardava il drow, interrogativo.
“Credevo che mio padre non mi avesse parlato di te,” proseguì, “ma… non è così.”
Il drow abbassò lo sguardo, perdendosi nei propri ricordi.
“Lui l’ha fatto. Una volta,” specificò, con voce appena più alta. “Una sola volta.”
 
Lupo di Neve sgranò gli occhi. Una luce consapevole li animò. Drizzò le spalle, ferme, pesanti.
 
“Mi raccontò… di essersi innamorato, una volta.”
Vilya alzò gli occhi e li inchiodò in quelli del mannaro.
So’o gemette stancamente, tenendosi la testa. Indietreggiò, inciampando quasi in una radice su cui si sedette.
Lupo di Neve sostenne lo sguardo di Vilya. Sotto la luce soffusa della Foresta, quegli occhi sembrarono fremere come lingue di fuoco. Poi glieli negò, afferrati da una profonda malinconia, abbassando le palpebre.
 
“Non credeva che avrebbe trovato qualcosa, in un luogo del genere. Era… freddo, inospitale.”
Vilya corrugò la fronte in uno sforzo.
“E invece trovò lui. Un lupo del deserto, un giovane mannaro. In mezzo al casino della guerra, in quella situazione difficile, tra i ghiacciai, scoprirono chi erano veramente.”
Il drow fece un altro passo verso Lupo di Neve, piano. Le luci della Foresta danzavano sulle ciglia umide dello stregone che ancora si negava all’altro, seppur in ascolto.
“Combatterono insieme, senza mai dubitare l'uno dell'altro. Il cuore di mio padre... è sempre stato chiuso, come uno scrigno. Ma il lupo era la sua chiave. Lui lo faceva sorridere. Era luminoso come il sole. ‘Il suo tesoro più prezioso’, lo chiamava.”
L’ultima frase del drow fece alzare di nuovo il viso di Lupo di Neve per fissarlo. Quel viso era contratto, sconvolto dal dolore, e le lacrime sulle ciglia del lupo tremavano come lumi di candela mentre incrociava intensamente gli occhi del ragazzo. Il respiro si era fatto corto, e in un inspirare delle narici l’ampio petto dello stregone si gonfiò veloce.
So’o li osservava, apprensivo.
Vlya sostenne quello sguardo.
“… quel lupo è morto in battaglia,” sussurrò. “E non è tornato indietro.”
Il mannaro premette le palpebre e delle gocce si liberarono dalle sue ciglia. Due lacrime caddero sui lineamenti piacevoli dell’uomo e gli rigarono le guance.
“Quel lupo eri tu. Wolfspirit.”
 
Wolfspirit si chiuse in un triste silenzio.
So’o lo scrutava. Tese le orecchie. La Foresta Incantata si era improvvisamente ammutolita. Gli occhi del ragazzo scattarono appena di lato, spiando, prima che lui si voltasse in uno scatto repentino.
Per un istante c’era un’ombra davanti a lui e subito dopo un fruscio. Ma non c’era nulla.
 
“È vero quello che hai detto… a parte una cosa.”
La voce di Wolfspirit risuonò nella radura, cupa.
So’o tornò verso i due. Il lupo guardò di nuovo Vilya.
“Io sono tornato indietro. Ma quando l’ho fatto…”
Chiuse gli occhi di nuovo, scrollando il capo con angoscia.
“Erano passati decenni. Era tardi ormai: Undome era salpato per un altro continente, senza lasciare... indizi, su dove potesse essere trovato.”
Il suo sguardo determinato puntò i due ragazzi, armandosi di un limpido bagliore.
“Ho lasciato il branco e sono andato alla sua ricerca. Quando ho scoperto dove si trovava ho fatto di tutto per arrivare qui. La guerra, per quanto sia brutto dirlo, mi ha dato l'occasione di tornare da lui.”
 
So’o corrugò la fronte, confuso.
“Tu sei tornato dalla morte,” bisbigliò So’o. Wolfspirit posò l’attenzione su di lui, interrogativo.
“Dopo decenni, in una nuova vita, e senza indizi su mio padre. Avresti potuto andare avanti,” scrollò il capo, inasprendo maggiormente l’espressione, “dimenticare. Invece… hai abbandonato la tua gente e hai cercato per anni qualcosa che forse non avresti mai trovato.”
Wolfspirit si fece serio. I lineamenti piacevoli vennero offuscati dalla severità che assunse il suo viso.
“So'o, niente mi avrebbe separato da tuo padre. Neppure la morte. Gliel'avevo promesso...”
L’ultima frase venne appesantita dalla malinconia e si spense insieme al suo abbassare delle palpebre. Il lupo guardò una radice della quercia, con sguardo distante, afferrato dalla tristezza.
Anche So’o abbassò lo sguardo in un punto impreciso.
“Gliel’avevi promesso…” ripeté fra sé e sé. Lo cercò di nuovo, turbato.
 
Vilya scrutò il lupo con il medesimo sguardo.
Avanzò verso il mannaro. Wolfspirit tornò a incrociare i suoi occhi.
“E allora perché stai scappando adesso? Ora che sei a un passo da ciò che cercavi?”
Lo stregone sbatté le palpebre e guardò altrove, evasivo.
“Lui sta bene senza di me,” replicò, amaro. “Ha una nuova vita, un uomo. Ha voi.”
Vilya voltò il capo per trovare So’o intercettare i suoi occhi. I due fratelli si guardarono.
So’o cercò di nuovo il lupo.
“Non credo di aver mai visto mio padre innamorato.”
Il mannaro guardò in giù, più titubante. Poi incrociò i suoi occhi.
“Non credo di averlo mai visto veramente felice. C'è sempre stata... un'ombra, sul suo viso.”
Wolfspirit sbuffò dalle narici. Scrollò le spalle.
“Non posso tornare da lui. Riuscirei solo a farlo stare peggio…”
“Le tue sono solo supposizioni,” intervenne Vilya alzando la voce, in un gesto esasperato delle braccia. “Perché non glielo chiedi e basta?”
“No!”, il lupo scosse il capo, agitandosi. “Ho provato ad avvicinarmi, e questo è il risultato! So’o, tu hai visto cosa ho fatto. È meglio che io lo lasci in pace.” Il nodo formatosi in gola gli fece tremare la voce.
Vilya mosse gli ultimi passi che lo separavano da Wolfspirit, azzerando quasi le distanze.
Catturò i suoi occhi, fissandolo dal basso, con mento sollevato.
“Non ti credevo così codardo.”
Wolfspirit sgranò gli occhi, disarmato.
“Papà dovrebbe scegliere da solo,” disse So’o. “Non dovresti scegliere tu per lui.”
Vilya si voltò per guardarlo. Anche l’attenzione del lupo si spostò su di lui. So’o alzò gli occhi dai fili d’erba della radura per scrutare i loro occhi.
“E se soffrisse per questo, sarebbe solo il giusto prezzo per la verità... e io credo che preferirebbe conoscerla.”
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
Il Principe osservò oltre le mura del Palazzo Imperiale. Lungo il tragitto per tornare a casa avevano potuto ammirare il cielo impallidire. Adesso l’alba era sorta, e il cielo iniziava lentamente a riprendere un colore celeste.
Il mezzodrow sospirò, esausto.
“Doveva accadere proprio oggi… proprio stanotte. Proprio tutto insieme.”
Vilya si fermò accanto a lui.
“Dovremmo aver salvato circa mezzo continente nel giro di una notte!”, rise.
So’o scrollò il capo.
“Finalmente è finita. Vado a dormire.”
“Ti raggiungo tra poco, va bene?”
Il biondo annuì lanciandogli un’ultima occhiata. Intrecciò la mano alla sua e la strinse piano, prima di mollarla. Lo superò e si insinuò sotto il porticato per poi sparire oltre un arco.
 
Vilya salì le scale che portavano ai camminamenti. Si guardò attorno. Wolfspirit era poco lontano, in piedi, e osservava le sfumature dell’alba, colto in una piega apprensiva del volto, perso tra i propri pensieri.
Il drow lo raggiunse senza fretta.
“Tu pensi molto, vero?”
Wolfspirit sbatté le palpebre dalla sorpresa e si trovò Vilya accanto.
“Ah! Sei tu.”
Lo studiò un istante, prima di accennare un sorriso impacciato.
“Immagino di sì. Ma quando ero giovane credevo di essere stupido, sai?”
Vilya inarcò le sopracciglia, interrogativo.
“Ah, sì? Perché?”
Wolfspirit rise.
“Perché ero diverso. Ma non ero stupido.”
Il lupo tornò a perdersi tra i colori dell’albero.
Vilya sbuffò dalle narici, seccato. Wolfspirit sbatté le palpebre al suono, interdetto.
“Io non sono stupido. Imesah magari mi chiama ‘cane’, ma stupido non lo sono.”
Il mannaro aggrottò la fronte.
“Credi di essere un… cane?”
Il drow scrollò le spalle. Osservò l’orizzonte a Sud, riflettendo.
Si strappò le parole dalla gola, costringendole a uscire.
“Non ho fatto cose belle,” ammise.
Wolfspirit cercò il ragazzo.
“A me sembri una brava persona.”
Vilya rise, “tu non mi conosci.**” Voltò il capo verso il lupo.
Lui corrugò la fronte, contrariato.
“Ti ho conosciuto abbastanza da capire che combatti per quello che è giusto, Vilya.”
Wolfspirit si avvicinò al drow. Vilya sbatté le palpebre, sorpreso.
“Eri accanto a tuo fratello, a sacrificarti per proteggere la sua vita quando vi ho conosciuti. Non hai avuto un momento di esitazione. E anche adesso, quello che stai facendo per la tua gente, per le persone che ami. La fermezza con cui mi hai fermato, stanotte.
Vilya… ti dirò qualcosa che mi disse anche tuo padre, tempo fa.”
Il lupo alzò una mano, poggiandola sulla spalla di Vilya. Il drow si fece sfuggire un ansito di sorpresa, guardando il gesto. La stretta morbida, ma decisa, del mannaro aveva un calore intenso, quasi invadente. Attraversava i vestiti e si insinuava sottopelle, riscaldando il ragazzo. I muscoli del suo corpo si rilassarono involontariamente nel sentire quel calore.
Vilya alzò gli occhi in quelli verdi dell’uomo, incorniciati da una chioma bianca che contrastava sulla pelle abbronzata. Gli occhi penetranti di Wolfspirit affondarono dentro di lui, sgranandosi appena.
“Tu non sei un cane. Tu sei un lupo.”
Un brivido scosse Vilya. Lui sbatté le palpebre, schiuse le labbra, muto.

Wolfspirit lo scrutò ancora. La tensione del suo sguardo si sciolse, in un sorriso premuroso.
“… per quanto i cani siano anch’essi delle creature meravigliose, comunque, e io non ci trovi nulla di male. Inoltre tu non sei tecnicamente un lupo, mentre io sì, ma…” si strinse nelle spalle ampie, “non fa molta differenza in fondo. Credo che il punto non fosse quello.” Socchiuse gli occhi, confuso, portandosi una mano sulle labbra carnose. “O forse sì?”
Vilya sbatté le palpebre basito e si fece sfuggire una risata.
“Che c’è?”, chiese Wolfspirit, perplesso.
Il ragazzo scosse il capo, ridendo ancora.
Wolfspirit, guardandolo, si fece sfuggire un sorriso contento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
** = ‘tu non sai che mi sono trombato il tuo ex ragazzo’, intendeva dire Vilya, ma per fortuna non l’ha detto.
 
 

 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Rhuzupømu ***


metterò dei disegni. lo giuro.






 





Saab: Down to Earth
Capitolo 9 – Rhuzupømu
*parassita






La Piazza del Mercato si era sfollata. Erano rimasti pochi mercanti dietro i banchi allestiti, e alcuni di essi chiacchieravano tra loro e con i passanti. Più in là, la città era deserta. Le porte e le finestre erano chiuse. Gli unici suoni nell’aria erano i pochi di chi lavorava non appena finito il suo pasto, e i bisbigli nelle case. Valentino era sporto a una finestra del muro dorato del Palazzo Imperiale, con le braccia incrociate e poggiate sul davanzale.
Le sue orecchie fremettero cogliendo un rumore vicino, un fruscio di vestiti. Ra’shak lo imitò, poggiandosi in avanti sui gomiti, accanto al mezzelfo. Teneva lo sguardo alto e osservava le nuvole grigie che minacciavano la città, oscurando il sole.

“Sembra una città fantasma,” mormorò Valentino, scandagliando per l’ennesima volta le stradine vuote tra gli edifici. “Hanno sentito un’esplosione e hanno visto il fumo salire dal Palazzo. Credevano che fossimo intoccabili, ma non era così. Abbiamo detto alla popolazione che il colpevole era stato preso e il pericolo scampato, ma non ci hanno creduto. Sono troppo intelligenti per crederci. Ora hanno paura.”
Ra’shak sospirò, abbassando gli occhi gialli verso la discesa della Strada del Pirata che portava dritto alla spiaggia. Nel porto erano ancora attraccate alcune grandi navi, arrivate insieme agli alleati delle Nuove Terre. Omini piccoli come formiche trafficavano sul molo, avanti e indietro.
“Ti stai preoccupando troppo per gli altri. Non farmi diventare geloso.”
Valentino scrollò il capo, proseguendo, più severo.
“Non sono stupidi. Sanno che siamo in svantaggio. È solo fortuna che non si sia scoperto cosa è successo veramente. C’è tensione, e non si fidano di me, te o di Azul. Sanno che gli mentiremmo per tenerli a bada.”
Gettò un sospiro fuori dalle labbra e abbassò lo sguardo, irrequieto.

Ra’shak voltò il capo per scrutare il ragazzo.
“I miei ragazzi sono determinati. Per quanto le loro famiglie siano degli sciocchi smidollati, i guerrieri di Saab non esiteranno davanti al nemico.” Allungò una mano per intrecciarla alle dita di quella di Valentino, che serrò le labbra in una smorfia. Il drow ne studiò l’espressione assorta. “L’hai detto ad Azul?”
Valentino si strinse nelle spalle. “Azul lo sa già…”
“Non parlo di questo.”
Valentino colse il cenno del capo di Ra’shak verso l’interno del palazzo. Si portò le mani sulla faccia e sospirò, abbassando il viso, così che le mani si infrangessero tra i capelli biondi.
“No, non ancora. È troppo scosso. Forse per il ritorno di Vilya, forse per il ratto di Saab… ma non mi sembra stare bene. Non voglio dargli altri pensieri, e quei ragazzini sono degli incoscienti a mettersi ancora di più nei guai in una situazione già così fragile…”
“Val,” lo chiamò Ra’shak. Afferrò la spalla del mezzelfo, facendolo sussultare appena, “non farti trascinare da questa merda.”
Valentino scostò le mani dal volto e guardò Ra’shak.
“No,” annuì, “certo. Siamo ancora vivi e casa nostra è ancora un luogo sicuro, dopotutto. Non ho idea di come siano entrati… ma dev’essere qualcosa che non possono fare sempre, no? Altrimenti saremmo già finiti, no?”
“Questo è molto rassicurante,” rise Ra’shak abbandonando la spalla del compagno.
“Già,” rise Valentino. Studiò il volto del drow. “Ti amo.”
“Anche io, Val,” sussurrò in risposta l’altro, ricambiando lo sguardo per un istante prima di affacciarsi di nuovo alla città oltre la finestra.

“Vorrei… che finisse tutto.”
“Tutto cosa?”, chiese Valentino, sorpreso, “tutto il mondo?”, rise.
Ra’shak sbuffò dalle narici in un sorriso, che si spense presto.
“La guerra. I problemi. Azul… vorrei che sistemasse le cose con Imesah.”
Valentino inarcò le sopracciglia.
“Così potrai chiedermi qualcosa dopo?”, rise di nuovo, arrossendo. Ra’shak piantò gli occhi in basso, ma le sue labbra si piegarono in un accenno di sorriso. Valentino proseguì, più serio. “Non credo che abbia dei problemi con Imesah. Credo che abbia dei problemi con… se stesso.”
“È un drow,” replicò Ra’shak, “cosa pretendi? Non mostra affetto come gli altri. Va bene così.”
“In quindici anni non ho visto un uomo forte, Ra’sh,” obiettò Valentino. “Ho visto un uomo debole, solo. Non lascia entrare niente, e mai troppo vicino.”

“Evidentemente gli sta bene.” Ra’shak si alzò dal davanzale, drizzando la schiena. “Evidentemente sta bene a entrambi. Non è lo stesso per me.”
Valentino si voltò per incrociare lo sguardo rosso del jaluk.
“Anche io avevo paura, ma sono andato avanti.”
Valentino sorrise.
“Hai tagliato la testa di un orco e l’hai portato alla Ilharess per riavermi indietro, intendi dire.”
“Sì,” ammise Ra’shak, arrossendo, “anche se era proibito. Anche se non sapevo cosa mi stava succedendo. Io ho lottato, per questo.”

Il mezzelfo si strinse nelle spalle.
“Strano, mi sembrava di capire che non dovrei pretendere molto dai drow.”
Ra’shak raggiunse Valentino dei pochi passi che li separavano e catturò la sua mano nella propria, guardandolo negli occhi. Inarcò un sopracciglio.
“Io sono un drow molto motivato.”
Tirò a sé la mano del mezzelfo, scostandolo dalla finestra. Valentino si voltò verso di lui e gli allacciò le braccia al collo quando Ra’shak cinse i suoi fianchi. Il drow lo fece aderire al muro e lo imprigionò contro il proprio corpo, incontrando le sue labbra.




 



***
 




La pioggia iniziò a bagnare la strada. Le prime gocce d’acqua si posarono sul vetro in un ticchettio che proseguì ritmicamente, in un suono sommesso e rilassante.
Vilya guardava, oltre il vetro, la luce del giorno sfiorire lentamente. So’o sospirò accanto a lui e allungò una mano alla bottiglia poggiata sul tavolo. La luce della candela, tremula per le correnti d’aria, rendeva più caldi i colori di quell’angolo riservato nella locanda. La musica pigra di un liuto vibrava sul nuovo ritmo della pioggia.

“Finalmente possiamo goderci un po’ di pace,” mormorò Vilya.
So’o versò il succo corretto nel bicchiere e lo portò a sé. Osservò il fratello maggiore, valutandolo.
“Ha ragione, sai?”
Vilya inarcò un sopracciglio.
“Chi?”
“Wolfspirit. Tu… sei nato per questo.”
Vilya corrugò la fronte. Voltò il capo verso il ragazzo. Il biondino aveva raccolto i lunghi capelli in un cappello e segnato gli occhi con il kajal. Degli abiti semplici completavano il camuffamento.
“Questo cosa? Che dice Wolfspirit?”
“Questo!”, esclamò So’o insistente. “Per guidare. Per lottare per la tua gente.”
Il drow sgranò gli occhi.
“Quando ha detto questa cosa? Ma che dici? Che diavolo ti salta in testa? Come ti escono queste cose?”
Il mezzodrow si strinse nelle spalle.
“Sei bravo… mi hai aiutato.”
Vilya scrollò il capo. Si voltò del tutto verso il fratello minore.
Tu sei nato per questo. Sei cresciuto, per questo. Io non sono che un paria drow,” rise sarcastico.
So’o lo guardò contrariato, inasprendo l’espressione del volto.
“Non dovresti giudicare te stesso dal tuo passato.”

Il drow evitò lo sguardo dell’altro. Abbassò le palpebre, sotto il tavolo. So’o bevve un sorso del suo bicchiere.
“Non so se posso prendermi cura di qualcun altro,” ammise.
“L’hai già fatto,” sorrise So’o, rivolgendogli uno sguardo grato.
Vilya incrociò i suoi occhi.
“Di me lo stai facendo,” proseguì il mezzodrow, “mi stai aiutando a scoprire la verità. Abbiamo capito tante cose.”
“Sì, è vero,” disse Vilya. Aggiunse, frettoloso, “insieme. Tante volte, se non mi avessi convinto tu… non saremmo andati avanti.”
“Hm,” So’o annuì, scrutando il volto del drow. “Allora insieme,” aggiunse. Gli sorrise di nuovo.
Il drow ricambiò il sorriso. “Sì, insieme.”
Vilya allungò un braccio per prendere la mano di So’o nella propria. Il mezzodrow bevve un altro sorso, trattenendo gli occhi nei suoi.

“Ti ho protetto, quella volta,” disse Vilya. “Sono riuscito a difenderti. È stato bello sapere di poterlo fare. È da allora che… che ho iniziato a fidarmi di Saab, sai,” il ragazzo sbuffò beffardo, evasivo con lo sguardo, “… e a cercare di fare la cosa giusta. Credevo che con lui ci sarei riuscito. Sentivo della… speranza.”
Il mezzodrow indagò la sua espressione.
“Forse non è così male, in fondo,” rispose So’o.
Vilya incrociò i suoi occhi.
“Assecondare Saab,” chiarì il ragazzo. “Non è andata male finora.”
Vilya scrollò il capo in una smorfia severa delle labbra.
“Non sai dove ci sta portando. Non sai quali sono le sue intenzioni. Vuoi berti anche quello che ti dice?” Contrariato, Vilya scrutò negli occhi verdi del fratello minore.
So’o ricambiò quello sguardo, poi abbassò il viso, assorto.
“Saab sembra una creatura ragionevole. Ci faremo dire la verità anche da lui.”
Il mezzodrow recuperò il contatto con gli occhi blu del drow.
“E da lì decideremo.”

L’espressione di Vilya si attenuò.
“Poteva controllare l’intero mondo. Entrare nella testa di chiunque e fargli fare quello che voleva lui. Se avesse voluto, saremmo diventati le sue pedine.”
Contrasse la fronte, confuso.
“Allora perché ci ha lasciati liberi?”
So’o finì il bicchiere e lo posò sul tavolo di legno.
“Parti con l’idea che gli interessi controllarci. Forse non vuole farlo, forse…” scrollò le spalle “gli piace guardarci.”
“Va bene, ma allora cosa vorrà da noi?”
Vilya afferrò una fetta di torta e si sbrodolò le briciole sui vestiti nell’addentare la punta finora illesa.
“Ha creato, dal nulla, una città, che poi è stata spazzata via da…” socchiuse gli occhi all’improvviso e tornò a So’o “se è in grado di fare tutto questo, come ha fatto a venire sconfitto la prima volta?”
Il mezzodrow si strinse nelle spalle, versandosi dell’altro succo corretto nel bicchiere. Vilya proseguì.
“Cosa dobbiamo aspettarci? C’è qualcosa di più grande di lui? Qualcosa come lui? E comunque, se ha fatto tutto questo ci sarà un motivo. Raccogliere delle persone ‘difficili’ in un solo posto. Farsi adorare da loro. Creare un regno.”
“Non lo adorano,” lo corresse So’o, sollevando il bicchiere per puntualizzare. “I saabiani sono liberi di adorare chiunque vogliano. Molti di loro adorano Saab per avergli dato una casa, ma Saab non li obbliga a venerarli.” Il mezzodrow si prese del tempo per riflettere. “Anche se potrebbe,” osservò, stringendosi nelle spalle. Bevve.
“Esatto!”, esclamò Vilya esasperato. “Cosa lo spinge a lasciare le persone libere di rifiutarlo? Perché non usa il suo potere per ottenere ciò che vuole- voglio dire… sembra farlo male. Dovrebbe semplicemente far esplodere le cervella di tutti quelli che vogliono attaccarci.”
“Questo è semplicistico,” commentò So’o.
“È diretto, ed efficace,” sospirò Vilya ritirandosi contro lo schienale della panca imbottita.
Si occupò la bocca con un altro morso di torta. Si creò un piacevole silenzio, disturbato solo dal rumore grigio della pioggia in sottofondo.
“Segnati tutto,” mormorò So’o, dopo un altro sorso.








 
***
 






“Scusate l’attesa.”
Azul Goldsmith si levò di dosso il tabarro nero, fradicio di pioggia, raggiungendo il tavolo in fondo alla Sala del Consiglio. Salì l’unico scalino che rialzava quella zona dal resto della sala e si fermò davanti a coloro che si trovavano già lì. Imesah puntò gli occhi verdi sul drow.
“Dov’eri?”
“Mi stavo facendo limare per bene le unghie,” rispose Azul abbandonando il tabarro su una sedia. Lanciò un’occhiata evasiva a Imesah prima di tornare a osservare i propri gesti, “mi servono per vendicarmi se vengo svegliato di nuovo nel cuore della notte. Era urgente, immagino possiate capire.”
Imesah scrutò i movimenti del compagno.
“Sembra che l’Alleanza non abbia più idee valide,” incalzò Valentino, guardando Azul. “Le nostre spie non vedono movimento, non hanno altre informazioni. È come se fossero fermi, in una situazione di stallo.”
Il drow spostò gli occhi sul mezzelfo, lasciando che la conversazione lo distraesse dal rosso.
“Pensavano di averci in pugno rapendo Saab, ma hanno fallito. Devono inventarsi qualcos’altro. Avremo tempo mentre loro penseranno alla prossima strategia.”
Ra’shak alzò gli occhi dalle mappe geografiche sul tavolo, osservando gli altri tre.
“Sarebbe una buona occasione per essere i primi ad attaccare, stavolta.”
“Sì,” rispose Azul con voce granitica, “dove? Quale delle sette forze più grandi di noi?”
“Quella più importante,” Ra’shak incrociò gli occhi gialli del drow. “Città Alta. Chi sta organizzando tutto questo.”
“Non è Città Alta a organizzare tutto questo, Città Alta è solo la facciata,” lo corresse Valentino, guardandolo.
Ra’shak infranse le dita tra i capelli, scostandoli dalla nuca in un gesto pensieroso.
“Sarebbe un messaggio,” disse.
“Non voglio messaggi,” rispose Azul, “voglio convincerli a rinunciare.”
“Allora diamogli il messaggio di rinunciare,” osservò Imesah, incrociando le braccia al petto. Guardò Ra’shak.
Ra’shak ricambiò quello sguardo, poi tornò ad Azul.
“Non possiamo sterminarli, non ne abbiamo il potere, a meno che Saab non ritratti improvvisamente la sua morale. Possiamo solo minacciarli. Loro hanno paura di quello che potremmo fare.”
“Quello che potremmo e non possiamo fare,” considerò Azul in un sospiro.
“Credo che Saab ci proteggerebbe solo se ci attaccassero direttamente,” osservò Valentino, guardando Imesah.

Il Cavaliere considerò le parole di Valentino.
“Saab non farebbe niente che possa sconvolgere il flusso delle cose.”
“Oh, che gioco divertente,” ironizzò secco Azul, guardando dalla parte opposta.
Imesah gli lanciò un’occhiata. Si avvicinò a lui, ma guardò Ra’shak.
“Colpiamo i loro punti deboli. Diamogli l’impressione che stiano perdendo e che non possano rialzarsi. Facciamogli perdere i loro punti di riferimento e le loro certezze. Basterà confonderli, le nostre spie possono deviare il traffico commerciale, gli illusionisti tireranno qualche brutto scherzo al sole e faranno diventare l’acqua rossa. La loro mente farà il resto. Si arrenderanno quando gli diremo che un grosso sasso li colpirà dal cielo se non fanno ciò che gli diremo.”
Valentino sbatté le palpebre interdetto. Ra’shak annuì piano.
“Li inganneremo. Quest’uomo mi piace,” commentò, guardando poi il mezzelfo. Valentino rispose.
“Anche se la situazione sembra a nostro vantaggio, per ora, non dobbiamo sottovalutarli. C’è tensione nel Palazzo della Signora Bianca. Potrebbero architettare mosse simili a quella del ratto di Saab.”
Azul avanzò deciso.
“Valentino, avvisa Sonia di trovare informazioni più dettagliate sui piani di Quella Stronza prima che sia troppo tardi. E seguiamo il piano di Imesah.”
Ra’shak e Valentino annuirono. Allontanandosi dal tavolo, si diressero verso la porta.

Quando Azul e Imesah furono soli, il drow si voltò verso l’altro. Gli scoccò un sorriso compiaciuto.
“Beh, tu non hai niente da fare?”
“Non sei contento che abbiamo trovato le soluzioni ai nostri problemi?”, chiese Imesah. Cercò il fianco di Azul con la mano.
Il corpo del drow si irrigidì, ma lui piegò il capo di lato trattenendo gli occhi nei suoi.
“Quali problemi? Siamo ancora nella merda fino al collo, carino.”
Il rosso si strinse nelle spalle.
“Potremmo fingere che non sia così. Vedi merda qui in giro?”
Il drow mormorò, incerto, guardando verso le vetrate, dove la pioggia bussava incessante.
Imesah si chinò su di lui. Piegò il capo per affondare il viso contro il collo di Azul, in un bacio.
Azul rabbrividì. Serrò le palpebre, in tensione.
Imesah lo spinse a sé e tracciò la pelle scura del drow con la lingua. Azul emise uno stento. Piegò il capo all’indietro, si offrì a lui. Corrugò la fronte in un’espressione combattuta mentre Imesah risaliva e addentava il bordo dell’orecchio appuntito del drow. Azul si fece sfuggire un gemito e premette le mani sul petto del compagno. Arrossì, con vergogna. Imesah gettò un caldo sospiro di piacere sul suo collo e spinse l’altro a sé, annullando le loro distanze. Il drow chinò il capo così da nascondere il volto. I capelli grigi scivolarono in avanti e lo celarono al rosso.

Imesah infilò una mano tra i loro corpi e strattonò la patta dei pantaloni dell’altro, iniziando a sbottonarla. Il respiro di Azul si appesantì. Strinse la stoffa imbottita tra le dita affusolate come zampe di ragno. Il rosso si insinuò sotto la stoffa e iniziò a prendersi cura di lui con carezze intense, tra le cosce. Il drow soffocò il respiro sul collo dell’altro, spingendosi piano nella sua mano.

“Se ci fosse qualcosa che non va… me lo diresti, vero?”, chiese Imesah con voce roca, all’orecchio di Azul.
Il drow contrasse di nuovo la fronte, seguendo il ritmo lento della mano altrui con il bacino.
“Lo vuoi sapere?”, replicò Azul, affannato.
Imesah insistette nelle carezze. “Sì,” sospirò al suo orecchio.
Azul gemette di sollievo. Le sue mani risalirono, fino a intrecciarsi attorno al collo di Imesah.
“È… tutto sbagliato,” sospirò Azul. Le dita di Imesah si avvolsero attorno a lui e iniziarono un movimento di polso, strappandogli un altro verso di piacere. Abbandonò la fronte sul suo petto.
“E come possiamo sistemarlo?”, chiese l’altro. La mano libera scivolò su una natica del drow e la afferrò in una stretta salda. Azul esortò la mano davanti con i propri fianchi.
“Così,” gemette Azul, “va bene così… vai avanti.”







 
***








La pioggia aveva assalito il chiostro. Perle d’acqua impreziosivano gli alberi radi e si infrangevano tra i fili d’erba ingialliti. L’odore intenso di terriccio e piante si diffondeva nell’aria insieme all’umidità. Wolfspirit catturò quell’odore tra le narici prendendo un profondo respiro che gli sollevò il petto. Osservò la cascata di pioggia che si riversava davanti a lui, protetto dal tetto del porticato.

Una pelliccia bianca cingeva le spalle del mannaro e tratteneva il calore del suo corpo. Nascondeva una manciata di collane che portava al collo, di cuoio, ossa, stoffa e piccole pietre. Su di essa, i capelli dello stregone erano raccolti in una lunga treccia bianca, poggiati su una spalla. La pelliccia si dilungava dietro in un cappuccio e dopo le spalle lasciava spazio a un mantello scuro che si apriva davanti, mostrando un torace quasi nudo. Una protezione di metallo copriva il pettorale sinistro, lasciando nudo il resto del busto. La peluria bianca contrastava con la pelle abbronzata del mannaro, e ne percorreva gli addominali scolpiti sparendo in una cintura di metallo, al cui centro si trovava una curiosa gemma rilucente. Dei pantaloni larghi, a sbuffo e dalla stoffa pesante si posavano sulle sue gambe, sedute sul muretto, in un elegante drappeggio, lasciandogli i piedi nudi.

Wolfspirit corrugò la fronte, turbato, quando un nuovo odore si mescolò agli altri e arrivò a lui. Era una zaffata calda. Era sudata, intensa. Trasportava con sé un altro odore, altrettanto intenso.
Il mannaro serrò la mascella. Le labbra carnose dell’uomo si schiusero e i suoi occhi verdi si assottigliarono, fulminando l’erba, persi in essa, afferrati da uno sguardo improvvisamente ferale. Un ringhio gorgogliò dalla gola del mannaro, che inasprì l’espressione, e attorno a lui si dipanò un bagliore rosso rubino.

“C’è qualche problema?”
Il lupo voltò il capo verso la fonte della voce. Dall’altra parte di una colonna, un uomo dai capelli mossi lo stava tenendo d’occhio. Aveva una barba incolta e due occhi verdi, ma più scuri e torbidi, che lo studiavano. Scrutò nelle iridi senza riuscire a coglierne lo sguardo.
Il mannaro strinse convulsamente la stoffa del pantalone in un pugno, sul ginocchio. L’espressione ostile si attenuò in uno sforzo, lui serrò le labbra e trattenne gli occhi severi nei suoi, nervoso.
“Sì. Non sono più solo,” rispose secco. L’aura dello stregone si affievolì.
Imesah tirò un sospiro e tornò a guardare davanti a sé. Sfilò da una tasca un curioso involto cilindrico e sottile, dall’aroma speziato.
“Mi accendi?”, chiese il rosso, lanciando un’altra occhiata al mannaro.
Wolfspirit sbuffò dalle narici.
“Subito,” replicò, alzando una mano verso di lui, “inizio dalla testa?”
Imesah inarcò un sopracciglio, interdetto. Una luce di preoccupazione scoccò nel suo sguardo.
“Intendo questa,” disse sollevando la mano con l’involto.
“Oh,” mormorò deluso lo stregone, “uhm, va bene.”
Chiuse la mano in un morbido pugno e fece schioccare le dita. Una fiammella investì l’involto speziato, protendendosi verso l’alto. La combustione coinvolse una ciocca di capelli rossi e la barba sul mento. Imesah urlò un’imprecazione e soffocò il piccolo incendio con la mano, perdendo la presa sull’involto, che cadde a terra.

Il mannaro rise divertito, prima di farsi apprensivo e studiare Imesah.
Il rosso guardò l’altro con aria contrariata e si accovacciò per recuperare l’oggetto. Lo pulì sommariamente e lo portò alle labbra, prendendo un tiro. La punta bruciata si accese come un tizzone e consumò parte dell’erba all’interno.


“Non ti ho mai visto in giro.”
Imesah soffiò via il fumo dalle labbra, la mano prese l’erba e la allontanò dalle labbra.
“Che ci fai qui?”
“Non lo so,” rispose Wolfspirit.
Perse di nuovo lo sguardo sulla pioggia.
“Questo posto non sembra volermi.”
“E che ti importa?”, chiese Imesah. Studiò il mannaro dall’altra parte della colonna.
“Se io la pensassi come te, non sarei qui.”
“No, immagino di no,” ringhiò il mannaro, negandosi all’altro.
“Sei abituato a sentirti fuori luogo?”
“Sono abituato a crearmi il mio luogo,” replicò il rosso.
Portò di nuovo l’erba alle labbra e zittì per assaporarla.
 
“Come un parassita, insomma,” osservò Wolfspirit.
“Sì!” annuì Imesah in un tono più entusiasta, “come un parassita.”


Lo stregone sbuffò dalle narici, contrariato. Il suo volto si inasprì di nuovo. La luce rossastra attorno a lui vibrò. Un accenno di erba cattiva ai suoi piedi fu colta da una combustione lenta e agonizzante, accartocciandosi su se stessa prima che le sue estremità prendessero fuoco, divorandola centimetro per centimetro, finché non si ridusse totalmente in cenere.

La mano, che aveva stretto convulsamente a sé la stoffa dei pantaloni, li mollò all’improvviso. Il mannaro si alzò e senza replicare altro avanzò, lasciando che la cascata di pioggia lo investisse. Attraversò il chiostro a piedi nudi allontanandosi e sparì dall’altra parte.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** L'ultimo sacrificio ***


 
 
 


 
 
 
 
Saab: Down to Earth
Capitolo 10 –  V'Yvmørå ðutzøløtÿ*
*l’ultimo sacrificio
 
 
 

 

 
 
 


 
“Cari lettori,
Se avete scelto questo tomo dev’essere perché, come tanti altri hystsiani, siete rimasti affascinati dai misteri del nostro mondo.
La scienza, l’ingegneria e la filosofia ci aiutano a comprendere meglio ciò che ci è attorno dal momento in cui esse si sono sviluppate, e hanno scacciato le ombre di ciò che non conoscevamo. Eppure ci sono fenomeni ed eventi che nessuna delle tre discipline può spiegare.
 
Uno di questi fenomeni è la Catastrofe o altrimenti detto il Sotto e il Sopra.
 
Manifestatosi più di quattromila anni fa, si tratta di un evento di cui non è possibile ottenere documentazioni dettagliate per via della deteriorabilità delle testimonianze e dell’inferiore grado di civiltà di quei tempi, ma il poco che è stato recuperato prima di questo periodo dipinge il mondo come un luogo florido e pacifico prima della Catastrofe. Maremoti, terremoti, eruzioni vulcaniche e trombe d’aria erano dei fenomeni naturali particolarmente rari, che si verificavano peraltro solo in determinate e previste zone del nostro continente.
 
La Catastrofe avvenne all’improvviso. Sui diari di bordo delle navi e nei registri amministrativi dei regni, prima del giorno della Catastrofe, qualsiasi fosse il calendario di riferimento, non era stata registrata nessuna anomalia. Da un momento all’altro, le energie del mondo esplosero. Il mare invase interi territori, distruggendo ciò che era stato creato e rendendolo ciò che vediamo oggi. I venti spazzarono via i regni degli uomini, spingendoli a cercare metodi più efficaci per la costruzione dei loro rifugi. La terra tremò così che dovessero ricostruire ogni volta, senza lasciare loro un momento di tregua, e rompendosi faceva dilagare il magma dalla superficie del mondo, bruciando raccolti, foreste, vite.
 
[…] La Catastrofe si ritirò dalle vite dei nostri antenati trecentocinquanta anni fa, così come era giunta: un giorno, senza preavviso. I mari erano di nuovo piatti e navigabili, la terra solida e immobile, il vento piacevole, i vulcani dormienti. Ad oggi ancora non abbiamo spiegazioni scientifiche sul fenomeno che ha sconvolto questa terra e gli altri continenti, e alcuni di noi temono in un ritorno di quei momenti bui. Forgiati dagli insegnamenti di tempi più duri, siamo abituati a vivere pronti per la prossima Catastrofe ma, intanto, ci godiamo quello che i nostri avi avrebbero voluto godersi e lo facciamo anche per loro. Ce lo godiamo, questo mondo.”
 

 
Reveel Ma’hasu, “il Sotto e il Sopra”, d.h. 350
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
Vilya e So’o osservarono davanti ai loro piedi il pavimento di pietra della stanza.
 
“Devono aver chiuso l’accesso.”
“Mh,” So’o annuì. Si accovacciò per esaminare la pietra, premendo i polpastrelli delle dita abbronzate sulla superficie fredda e liscia.
Vilya spostò gli occhi su So’o.
“Riusciresti a… ad aprirla?”
So’o alzò il viso e incrociò lo sguardo del fratello maggiore.
Si alzò.
“Fatti indietro.”
Insieme al drow, So’o indietreggiò di un paio di passi e puntò lo sguardo in un punto del pavimento. Chiuse piano i pugni. Inspirò, sollevando petto e spalle. Sgranò gli occhi. Il respiro uscì dalle narici, rilassando di nuovo il suo corpo.
 
Un lembo di pietra si piegò, modellandosi morbidamente come miele. Si sollevò in una elastica goccia di materia fusa, poi si appiattì nuovamente a terra e si espanse dal proprio centro, fino a spalmarsi allo stremo, creando un sottile cratere. Dal punto centrale iniziò a dilatarsi il resto della pietra. Il cratere si espanse man mano che la pietra si scioglieva e si dilatava. Quando So’o si fermò, la scala di pietra che Vilya e So’o avevano sceso la prima volta si stagliò davanti a loro.
 
Il mezzodrow aveva sviluppato un respiro affannato. La mano sinistra cercò il fratello maggiore e gli afferrò l’avambraccio per tenersi. Vilya ridusse le distanze con il biondo e infranse una mano tra i suoi capelli, in una carezza.
 
“Stai bene?”
“Sì,” sospirò So’o, “ho fatto di peggio.”
“Va bene. Andiamo.”
 
I fratelli scesero le scale. La stanza era più pulita di come l’avevano lasciata. Dalla luce della stanza superiore si intravedeva un pavimento liscio, privo delle macerie che prima lo sporcavano. Gran parte dello spazio era nascosto dal buio: l’unica luce nella stanza era un fioco bagliore giallo nel mezzo del buio.
 
So’o si fermò a metà delle scale e protese una mano verso un lato della stanza, indicando la parete di sinistra con l’indice. Dal punto che stava indicando e che fissava con concentrazione partì un baluginio. Si creò dal nulla una luce che si irradiò, rivelando adesso, ai due ragazzi, una sagoma mastodontica.
 
La luce drammatica segnava un’ombra affilata lì dove non poteva colpire le forme di Saab, inasprendo i tratti della faccia mostruosa. Era bianco, marmoreo, e immobile, se non per le appendici evanescenti che si muovevano sul suo capo, come se fossero immerse in acqua, delle sorta di corna o di pinne. Una seconda luce sulla parete opposta ammorbidì le ombre sul suo volto e scacciò gran parte del buio.
 
I due proseguirono la discesa e mossero gli ultimi passi verso Saab. Si fermarono davanti a lui, osservandolo. Vilya cercò la mano di So’o e intrecciò le dita alle sue.
 
Delle otto lunghe zampe sottili dell’alieno, una si mosse in avanti verso i ragazzi e si fermò al fianco destro di So’o, a poca distanza dal suo corpo.
 
“Cosa vi porta qui, bambini miei?”
“Io non sono tuo,” obiettò Vilya contrariato.
“Vogliamo farti delle domande,” rispose So’o trattenendo lo sguardo nelle fessure sulla testa dell’alieno.
La creatura rimase immobile per dei secondi, poi il collo indietreggiò e Saab si smosse del tutto, smuovendosi dalla sua posizione. L’aria vibrò partendo dal suo corpo, in un’onda che fece rabbrividire Vilya.
 
“Che tipo di domande?”
So’o guardò il fratello maggiore. Vilya incrociò il suo sguardo, poi insistette guardando Saab.
“Qual è il tuo piano?”
Saab si prese ancora il suo tempo. Quando rispose, la voce che echeggiò nelle teste dei due e lungo le pareti li fece quasi sussultare.
 
“È un piano molto grande, iniziato cinquemila anni fa. Sapete, io… mi sentivo solo.”
Vilya inasprì il viso per la confusione.
So’o sbatté le palpebre, sorpreso.
“Non ci sono altri come te?”
“No, non vicini almeno… secondo il mio concetto di vicino, che per voi, conoscendo le creature di questo mondo, è più lontano di quanto possiate immaginare. Sono arrivato dove altri non sono mai stati. Avventuroso, sì. Ma... solitario. Sono l'unico di me stesso, non è un po' triste?”
So’o rilassò le spalle, perdendo lo sguardo in un punto impreciso.
“Continua,” lo esortò Vilya.
Saab si smosse, allontanando le zampe dai ragazzi. Alzò il busto, restando giù con l’addome.
“Cinquemila anni fa, decisi di... creare qualcosa di mio. Una minoranza di drow si ribellava alle regole della loro società. Io diedi loro la possibilità di fare qualcosa di diverso, insieme. Costruimmo un luogo, una casa tutta nostra, un nuovo posto per noi, e i drow ebbero dei figli da me.”
Vilya rabbrividì e si espresse con una smorfia di disgusto.
“… in che senso,” sospirò So’o in un fil di voce.
La risata dell’alieno risuonò nella sala.
“Ve lo spiegherò più tardi.”
La sua voce riprese serietà.
“I loro figli alzarono in piedi il mio regno. ‘Fajjar Saeb’, il Regno di Saab. Questi incroci di drow con il mio sangue diede loro delle potenzialità che non avevo previsto. Erano capaci di regolare la mente delle persone, e attingevano dall'energia di questo mondo per qualsiasi cosa. La mettevano nel cibo, negli oggetti che facevano, la scambiavano tra loro. Erano... creature di energia. Di luce.”
Vilya e So’o si scambiarono uno sguardo sorpreso, prima di tornare a scrutare il viso inespressivo dell’alieno.
“E…”, biascicò So’o. Vilya finì la frase.
“E poi?”
“E poi finì tutto, come già sapete.”
Saab sospirò nel dirlo, smuovendo nuovamente la postura del corpo. Si avvicinò ai ragazzi con il busto, abbassando la testa.
“Lolth non era contenta di ciò che avevo fatto alle sue creature. Si vendicò, in un modo che potesse danneggiarmi. In un modo che distrusse tutto ciò che avevo.”
So’o e Vilya scrutavano nelle sei fessure sul suo muso, catturati. Saab proseguì.
“Usò i suoi incantesimi di necromanzia più proibiti. Quando poi io rimasi l'unico sopravvissuto, strappò con l'inganno l'organo che mi tiene vivo.”
Al centro dell’addome, il bagliore giallo che illuminava fiocamente la stanza si intensificò, lampeggiando un paio di volte.
“Lo usò per manipolare il mondo. Fu allora che iniziò il Sotto e il Sopra, che presero piede le catastrofi naturali. Lolth voleva il caos, ma non sapeva usare questo strumento. Ciò che fece fu misero in confronto a quanto avrebbe potuto fare. Ma prima che mi rubasse la vita, avevo fatto in modo che qualcuno lo ritrovasse per me, prima o poi. E fu così. Un ladro lo rubò ai drow delle gallerie e lo rimise al suo posto. Da allora, il mondo si calmò e io tornai a essere vivo. Progettai con calma il mio nuovo piano.”
 
“Quello… di adesso, intendi,” precisò So’o, guardando l’alieno.
Vilya seguì.
“Convincere mio padre a rifondare la città… dargli il potere necessario per farlo… portare qui le tue cavie e costruirci un regno. Erano queste le tue intenzioni?”
“Sì, ma non le avrei chiamate cavie…”
Fu interrotto da Vilya.
“Certo, perché sei un liberatore,” ringhiò il drow.
So’o scrutò, apprensivo, il fratello maggiore.
“Devi sentirti proprio una brava pers… un bravo… coso! Abbiamo bisogno di te, altrimenti come facciamo?”, proseguì feroce.
“Preferisco il termine ‘creatura’”, lo intimò buffamente l’alieno.
 
Vilya sbuffò dalle narici, trattenendo gli occhi sulla testa dell’essere. Saab proseguì.
“Una volta integro, intendevo provarci di nuovo. Volevo un popolo che fosse mio, dopotutto, ed ero affascinato dalle creature di questo mondo, e ancora di più dalle potenzialità che avevano mostrato incrociandosi con il mio sangue.”
 
So’o avanzò di un passo verso Saab. La luce nei suoi occhi tremolava flebilmente.
“Come incrociavi il vostro sangue?”, fremette la sua voce. Saab replicò imperturbato.
“Loro lo chiamavano rito, ma si trattava in realtà di un procedimento abbastanza semplice. Avevo bisogno del loro sangue, e di un oggetto che contenesse una buona parte della materia necessaria. Usavamo un sasso. Lo manipolavo a mio piacimento e gli davo la mia energia, così che prendesse vita e avesse, nel sangue dei suoi genitori, anche il mio.”
 
Vilya sgranò gli occhi e spalancò la bocca.
“Creavi persone dai sassi?”, esclamò allibito.
“Anche io sono stato creato così?”, chiese So’o con voce più alta, irrequieto.
“Sì, So’o,” confermò Saab, puntando le sei fessure del muso verso di lui, “eri un sasso carinissimo, appena nato.”
Gli occhi sgranati di So’o scivolarono lentamente via dal viso dell’alieno, verso il suo corpo, perdendosi in un punto impreciso. La fronte era contratta in un’espressione sgomenta, perso.
Vilya lo osservò. Apprensivo, strinse più forte la sua mano prima di abbandonarla. Mettendosi dietro di lui gli cinse i fianchi e lo premette a sé, accarezzandogli la pancia.
“Non sono sicuro che avrei voluto veramente saperlo,” sussurrò smarrito il mezzodrow, voltandosi verso Vilya e dando le spalle a Saab. Nascose la faccia contro il petto del drow che portò una mano alla sua nuca e accompagnò il movimento, dolcemente.
 
“Mi dispiace, ragazzi. Sto solo rispondendo alle vostre domande,” disse Saab, “possiamo smettere quando volete.”
Vilya alzò lo sguardo verso la creatura, determinato.
“No, andiamo avanti. Devi finire di raccontarci.”
So’o si rilassò contro il corpo del fratello maggiore, mentre Saab proseguiva.
“Lolth è una dea astuta, ma aveva fatto un errore. Gli incantesimi di necromanzia che aveva usato per sterminare la mia gente le erano stati richiesti da una sua discepola, per realizzare il volere di Lolth in superficie. Lolth si fidò di lei e cristallizzò le sue conoscenze in un libro, il Necronomicon. Lolth è una divinità… e va oltre tutto ciò che posso manipolare. Lei non è in mio potere. Ma gli uomini sì, e così feci in modo che il Necronomicon arrivasse tra le mani di vostro padre. Rubai la chiave segreta per il tomo nella mente della discepola e gliela feci dimenticare, per darla ad Azul quando sarebbe stato il momento.”
 
“Il potere che ha nostro padre, quindi, è lo stesso che ha raso al suolo il regno quattromila anni fa?”, chiese Vilya, confuso.
“Esattamente.”
“Questo è oscuro,” commentò So’o, socchiudendo gli occhi in un’espressione incupita.
Vilya chinò il capo verso la sua nuca bionda e posò una nuova carezza sul capo del fratello minore.
“E per ottenerlo ha dovuto sacrificare molto,” disse Saab, “ma se non fosse stato così, oggi nessuno nel regno potrebbe probabilmente dirsi vivo.”
“È questo, dunque? quello che stai facendo...”
Vilya scrutò l’alieno.
“Vuoi solo... compagnia?”
“Un luogo, una famiglia. Qualcuno o qualcosa a cui appartenere, sì. Voglio fare questo.”
Saab si sistemò nel suo piccolo spazio, ora statuario, nella posizione in cui l’avevano trovato.
“Non è quello che vogliono tutti, alla fine?”, chiese, con una nota ridente nel tono.
 
“Non sembra,” mormorò So’o a bassa voce, lasciando che il suo sguardo si perdesse nella sala.
Il Principe si scostò da Vilya per rivolgersi verso Saab e scrutarlo.
“Con il tuo potere, Lolth ha scatenato il caos in questo mondo. Tu, invece, l’hai usato per donare una nuova vita.”
Fece un passo verso l’alieno.
“Ma il potere di Lolth, invece, può essere usato solo per fare del male. Capovolge le leggi di questo mondo, porta morte e nient’altro. Non possiamo usare il suo stesso strumento per renderci liberi.”
Saab chinò il capo, così da puntarlo dritto verso di lui.
“Ed è per questo che tu sei qui, So’o.”
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
“Non capisco perché tu ci stia mettendo così tanto,” borbottò spazientito Vilya, seguendo Wolfspirit lungo i corridoi chiusi del Palazzo.
Il mannaro guardava altrove, lungo le pareti illuminate da graziosi fuochi fatui.
“È complicato, Vilya, non posso presentarmi all’improvviso. Ci vuole il momento giusto…”
Il drow sospirò.
“Non sarà mai il momento giusto, Wolfspirit.”
“Puoi chiamarmi anche Lupo Sabbia.”
“Non era Lupo di Neve?”, chiese confuso il ragazzo.
Wolfspirit rise.
“Sì, ma era un nome finto. Non potevo darvi il mio vero nome, no?”
“Neanche Lupo Sabbia è il tuo vero nome!”, obiettò Vilya.
“No, ma è come mi conosce tuo padre.”
“Lupo Sabbia? Lupo di Sabbia? Sei fatto di sabbia?”, Vilya pizzicò il bicipite definito del mannaro, provocandogli una risata allegra.
“Non è per questo! Sono nato nel deserto, sai?”
“Cavolo, che storia,” Vilya inarcò le sopracciglia, “dal deserto, ai ghiacciai… fino a qui. Devi aver visto tante cose.”
 
“Stai iniziando a parlare da solo, Vilya? Devo chiamare qualcuno?”
 
Wolfspirit sbarrò le palpebre e si fermò sul posto, interrompendo il cammino.
Vilya, pietrificato, si voltò lentamente, rigido, per vedere Azul fermo davanti a lui.
 
“O è solo l’inizio di un lento processo di degrado cerebrale causato da tutte le sostanze di dubbia provenienza che ti sei calato negli ultimi decenni?”
Azul gli rivolse un sorriso mellifluo, socchiudendo gli occhi gialli in due lunette ridenti.
Indossava degli abiti sobri; i lunghi capelli grigi ricadevano morbidamente su di una vestaglia aperta sul davanti e legata alla vita con una cintura di stoffa. Davanti si intravedevano una maglia e dei pantaloni calzanti, infilati in un paio di stivali. Una sottile collana d’oro era poggiata sul suo petto, e una serie di piccoli orecchini dorati gli tempestavano le orecchie appuntite.
 
Vilya scoppiò in una risata isterica.
“Dev’essere la seconda…”, concordò nervosamente.
Il padre trattenne gli occhi su di lui. Le luci dei fuochi fatui si riflettevano sul giallo delle sue iridi, facendole luccicare come due monetine. Le labbra piene si erano rilassate, ma mantenevano il disegno di un sorriso deliziato. Avanzò verso di lui senza fretta. Wolfspirit si voltò e indietreggiò cauto, muovendosi con passo felpato. Le orecchie di Azul fremettero quasi impercettibilmente, senza che il drow si distraesse dal figlio.
“O forse è Saab, ti ha incasinato la testa, lo sapevo che quello stronzo voleva renderti un demente.”
“Ma non sono demente, papà,” rise di nuovo Vilya, mentre iniziava a sudare freddo. Azul protese una mano verso l’altro e gli aggiustò premurosamente una ciocca di capelli mori dietro l’orecchio.
“Almeno sei ancora carino. Ecco,” disse, ritirando di nuovo la mano.
Dopo avergli dedicato un’ultima occhiata orgogliosa, Azul si voltò e si incamminò dalla parte opposta.
 
Vilya lo guardò allontanarsi, ansioso. Fissò Wolfspirit. Il mannaro incrociò i suoi occhi, nel panico. Scosse energicamente la testa, ma il drow puntò il padre e camminò verso di lui.
“Papà! Aspetta…”
Azul si fermò e si voltò per guardare il figlio, interrogativo.
“Volevo chiederti di una cosa di cui mi parlasti tempo fa.”
Lui attese pazientemente. Vilya scrutò nei suoi occhi e prese un respiro. Wolfspirit poggiò una mano alla parete per reggersi.
 
“Quando eravamo in ciurma, una notte mi parlasti di una persona. Di Wolfspirit.”
 
L’espressione di Azul si capovolse. Il calore degli occhi luccicanti si spense, trasmettendo freddezza. L’uomo raggelò, osservando Vilya con sguardo distante.
Vilya scrutò nei suoi occhi. Avanzò di un passo verso il padre.
“Ricordi quella notte?”
Azul abbassò lo sguardo agli stivali del figlio.
“Non voglio parlarne.”
Si voltò. Vilya si protese verso di lui e gli afferrò il braccio, fermandolo.
“Papà, ti prego.”
Azul restituì lo sguardo dell’altro con un veemente voltare del capo, fulminandolo.
“Dovevi fingere che non te l’avessi mai detto, forse non ci sei arrivato,” scrollò il braccio. Vilya lo liberò. “Rispetta la mia scelta e non insistere.”
“E se non fosse come pensi?”
Vilya sovrastò il padre, affrontò il suo sguardo ormai adirato. Proseguì imperterrito.
“E se ti sbagliassi? Non sarebbe la prima volta. Papà, pensaci…”
 
Azul rabbrividì. Le labbra e lo sguardo fremettero. In uno scatto le sue mani afferrarono la maglia color sabbia di Vilya per il colletto e la strinsero in una morsa convulsa che gli fece sbiancare le nocche. In pochi passi lo spinse contro la parete e poi lo tirò a sé, sbuffandogli ferocemente aria sul mento dalle narici.
 
“Quella persona è morta. L’uomo che amavo… è morto,” gli scandì in un mormorio a denti digrignati, su una voce tremolante di furia. Lo sguardo si inumidì. “E non tornerà indietro.” Scosse piano il capo, senza perdere contatto con gli occhi del figlio. “L’ho visto morto. Ho visto fallire il rito che l’avrebbe riportato indietro. La morte l’ha preso, e io non potevo riscattarlo. Questo è abbastanza per me. Abbastanza per non dimenticarlo mai più. Non sai cosa vuol dire, Vilya… vuol dire che me ne sono dovuto andare da lì. Vuol dire che ho abbandonato le persone a cui volevo bene perché mi ricordavano lui, e ho perso tutto ciò che avevo.”
 
Azul serrò le labbra. Gli occhi umidi gli bagnarono le ciglia.
Le sue mani sciolsero la presa sul colletto di Vilya, abbassandosi di nuovo ai fianchi. Il figlio si perse negli occhi del padre. Chiuse la bocca e contrasse la faccia con determinazione.
“Ma forse ci sono altri modi. Modi che non conosci, se funzionassero… tu lo rivorresti indietro, vero?”
Azul deglutì rumorosamente. Strizzò gli occhi e lasciò che le lacrime cadessero sulle sue guance, chinando esausto il capo.
“Non dovresti lasciarlo andare,” insisté Vilya, “lui non l’avrebbe mai fatto, sarebbe sceso anche nel piano degli spiriti…”
“Smettila, Vilya!”, urlò il più grande, in un pianto. Alzò il viso verso il figlio, trattenendo i singhiozzi a denti stretti. “Non c’è un altro modo. Non c’è.” Socchiuse gli occhi. Iniettò uno sguardo di puro dolore negli occhi di Vilya. Il moro zittì e Azul indietreggiò.
 
“Lui era forte, e anche io lo ero per lui. Ma c’era qualcosa più grande di noi. E questo non potevamo cambiarlo.”
Il drow tirò su con il naso. Si strofinò il dorso sulla guancia, asciugando una lacrima, prima di rialzare il viso verso Vilya. Ora più calmo, trattenendo la tristezza negli occhi.
“Non intendo tormentare il riposo di quel ragazzo. L’ultimo espediente è la magia nera. Ma la magia nera, Vilya… quella non ha niente a che fare con l’amore.”
 
Il drow abbassò lo sguardo, si asciugò le ultime lacrime e si voltò, incamminandosi lontano da loro.
 
Vilya voltò il capo verso Wolfspirit, che lo aveva raggiunto.
“Dovevi rivelarti, era il tuo momento!”
“Non ce l’ho fatta,” ammise Wolfspirit. Specchiò gli occhi lucidi in quelli del drow. “Stava soffrendo troppo.”
Vilya esalò un sospiro esasperato. Si voltò verso il mannaro. Lo afferrò per le ampie spalle, guardandolo dal basso.
“Wolf, stava soffrendo perché tu gli manchi. Perché vorrebbe tanto che tu fossi qui e crede che non sia possibile. Se vuoi che sia felice, che sia davvero felice… vai da lui. Adesso.”
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
Wolfspirit seguì Azul oltre il corridoio, sbucando nel chiostro. Si fermò dopo la porta per guardarlo allontanarsi. Prese un respiro che gli sollevò il petto, contraendo la fronte, combattuto.
“Devo andare,” sussurrò. “Adesso.”
Per un istante un riflesso rimbalzò attorno al mannaro, come se avesse colpito una sfera invisibile. Il riflesso svanì subito dopo. Wolfspirit avanzò verso Azul, prendendo velocità.
 
 
“Azul, ci sono novità.”
 
Wolfspirit sgranò gli occhi interdetto. Si fermò in mezzo al giardino.
 
Quella voce apparteneva a Valentino. Il Consigliere raggiunse Azul con passo accelerato, fermandosi davanti all’Imperatore. Azul si voltò verso di lui, studiando l’espressione tesa del mezzelfo. Valentino intercettò lo sguardo dell’Imperatore.
 
Il riflesso rimbalzò di nuovo sulla sfera invisibile che ora proteggeva di nuovo Wolfspirit, mentre il mannaro indietreggiava di un passo, titubante.
 
“Niente di rassicurante,” gli mormorò. “I Serpenti registrano dei movimenti sospetti, è come se i funzionari avversari avessero paura di qualcosa. Qualcosa che non siamo noi.”
Azul sbatté le palpebre, perplesso. Wolfspirit scrutò attentamente Valentino.
“In che senso? Dopotutto gli abbiamo dato validi motivi per avere paura di noi, non dovrebbe essere insolito.”
Valentino scosse il capo.
“È troppo presto perché si preoccupino delle nostre manovre. Si tratta di qualcos’altro, e sospetto che non sarà molto diverso da ciò che è successo l’ultima volta.”
Azul scrutò turbato il biondo. Posò una mano sul braccio del ragazzo.
“Mantieni la tua freddezza, Val. Non è questo il luogo, ne parleremo più tardi a un Consiglio.”
Valentino sospirò.
“Sono irrequieto perché loro sono imprevedibili, Azul. Non ci aspettavamo l’esplosione nei sotterranei. Non sappiamo cosa sono capaci di fare. Potrebbero essere qui adesso, potrebbero essere già in azione.”
 
Wolfspirit tese le labbra ed emise un ringhio minaccioso. Le orecchie appuntite del drow si drizzarono, al rumore. Azul piantò fulmineo gli occhi su di lui. Il mannaro si paralizzò e gli si mozzò il respiro. Azul scrutò attentamente in sua direzione, allarmato, quasi senza più respirare.
“Azul.”
Valentino premette una mano sulla sua.
Azul si voltò smarrito, e osservò gli occhi azzurri del Consigliere, che lo puntavano determinati.
 
 
Prima che Valentino potesse proseguire, al centro del giardino si materializzò un punto di luce che inizialmente accecò tutti. La luce bluastra, fredda, si espanse fino a formare uno scuro specchio ovoidale. Il Consigliere sussultò ed estrasse subito dopo la staffa da dietro la schiena. Azul sbatté le palpebre, voltandosi verso il portale.
 
Dallo specchio dimensionale emerse un abito lungo e bianco, così come i capelli della donna che vi era avvolta dentro. Le sue labbra si appiattirono in una smorfia di disappunto mentre si osservava attorno, e l’ultima persona che puntò fu Azul.
“Cosa… cosa ci fate qui?”, esclamò Valentino, abbassando la staffa.
Il drow socchiuse gli occhi in uno sguardo velenoso.
“Oh, cara mia, non è proprio giornata…”
Avanzò verso la Signora Bianca. Lingue di fumo scuro iniziarono ad avviluppare la figura dell’Imperatore.
 
La donna protese la mano verso un punto del Palazzo e pronunciò una formula magica. Una nuova luce fredda invase la sua mano, e il momento dopo, un grosso tomo nero era nelle sue mani.
Mentre Azul sgranava gli occhi, le lingue di fumo attorno a lui svanirono nel nulla.
“Questo è mio,” disse la Signora Bianca con voce roca, sfidando l’altro con lo sguardo.
Le sue labbra si piegarono in un sorriso velenoso.
 
Azul scattò verso di lei.
“Azul, no!”, esclamò Valentino, protendendo la staffa verso la Signora Bianca.
La donna lanciò un controincantesimo. Il fiotto di luce che partiva dalla staffa del mezzelfo fu fermato prima di raggiungerla. Azul invece le arrivò davanti e caricò un pugno per abbatterlo sulla faccia della donna. La Signora Bianca gemette voltando il capo, ma protese la mano e afferrò il braccio dell’Imperatore. Azul ringhiò.
 
“Undome!”, chiamò Wolfspirit allarmandosi. L’aura arcana esplose attorno a lui in una rivoluzione turbolenta, irradiando luce rossastra.
“Cosa… sta…”
Azul voltò il capo verso di lui, prima che la voce della donna gli urtasse le orecchie.
 “Tu verrai con me!”
 
Azul incrociò lo sguardo della Signora Bianca, confuso, e strattonò in un ringhio quando lei lo spinse verso il portale. Poco più lontano, la terra ai piedi dello stregone iniziò a incendiarsi. Centimetro dopo centimetro, un fuoco arancione prese a divorare la terra.
 
Dalla mano di lei un’altra luce bluastra avvolse il corpo dell’Imperatore. Azul emise uno stento. Fremette, senza più muoversi. La donna dischiuse le labbra in un ghigno.
 
L’urlo di Wolfspirit fu coperto dal divampare ruggente del fuoco. La sfera invisibile che lo proteggeva si infranse. Il mannaro era ora invaso dallo stesso incendio che aveva scatenato. Imesah sbucò dal porticato solo per cadere insieme a Valentino, scagliati via dal boato della combustione.
 
Azul cadde gemente ai piedi della donna. In uno stento lei protese la mano verso Wolfspirit, e una grossa sfera di luce si creò separando loro due dallo stregone e tenendo fuori l’incendio che divampava. Lei si chinò e afferrò di nuovo il braccio del drow.
 
Imesah e Valentino si coprivano il viso con le braccia, proni a terra. Quando si rialzarono Imesah cercò il mezzelfo.
“Che diavolo sta succedendo?”, urlò il Cavaliere, cercando di sovrastare il frastuono.
“Non lo so!”, esclamò Valentino mentre si rialzava frettolosamente, “allontanati!”
In una corsa affiatata riuscì a ripararsi sotto il porticato e inciampò dietro al muretto. Imesah lo raggiunse in tempo perché la barriera di pietra lo proteggesse da un nuovo boato. Il fuoco aveva raggiunto le colonne. Il mezzelfo alzò lo sguardo verso di esse. La pietra iniziò a squagliarsi.
 
La barriera di luce veniva divorata velocemente dalle fiamme. Partendo dalla sommità e dal terreno, si squagliava sotto le lingue di fuoco. La Signora Bianca imprecò e protese nuovamente la mano. La barriera si rigenerò solo per venire consumata ancora più velocemente. La donna gemette, affaticata.
 
Azul scrutò la donna ansante. Contrasse la faccia in una smorfia e spinse via la donna, liberandosi della sua presa. La Signora Bianca gemette ma afferrò il drow per il colletto, costringendolo ad alzarsi da terra. Azul la afferrò per gli avambracci, cercando di spingerla via. Lei insistette e scostò la mano per afferrare la gola dell’Imperatore. Azul premette gli occhi e boccheggiò, afferrò convulsamente la stoffa delle sue maniche e tirò, strappando una di esse. La stoffa dell’abito cadde sull’erba ancora integra.
 
La barriera si esaurì. Come Wolfspirit avanzò il fuoco prese piede, raggiungendo la Signora Bianca e il suo ostaggio. La donna gemette e distese il palmo libero. Da esso partì un nuovo fiotto di luce. Lei cadde in ginocchio e fece cadere Azul con sé. La barriera si rigenerò, più debole di prima, a un paio di metri da loro.
 
“Questo posto sta per fondersi!”, esclamò Valentino, “andiamocene, Imesah!”
Il mezzelfo indietreggiò e si nascose dietro un arco.
“Azul è là in mezzo!”, insistette il rosso. Cercò gli occhi azzurri del Consigliere. “Estingui le fiamme!”
“Non posso!”, il mezzelfo scosse il capo nell’incrociare gli occhi dell’altro, “qualsiasi cosa sia, sta contrastando la strega! Sta proteggendo Azul!”
Imesah sbatté le palpebre, confuso.
 
La Signora Bianca alzò il viso e puntò gli occhi frementi in quelli del drow, tenendolo per il collo.
“Il tuo stregone non riuscirà a salvarti!”, ringhiò.
Azul scrutò negli occhi della donna, smarrito.
“… stregone?”, sussurrò in un fil di voce. Alzò il capo sopra le loro teste, dove in pochi secondi la barriera venne consumata dalle fiamme. Voltò il capo verso la fonte. Una grossa sagoma sembrava essere al centro dell’incendio.
 
Un sospiro esaurì l’aria nei polmoni del drow. Azul sollevò il petto per prendere un respiro più intenso, a occhi sgranati. Le sue labbra si schiusero senza pronunciare suono. Protese la mano verso di lui, a palmo aperto, in un disperato tentativo.
La Signora Bianca lo spinse debolmente dalla parte opposta. Azul si voltò verso di lei e le mollò un gancio sulla faccia, facendola cadere a terra. Il drow gemette, il suo corpo tremante si alzò da terra e corse verso la barriera che si stava consumando, inciampando un paio di volte nell’erba prima di rialzarsi con veemenza.
 
La barriera svanì.
Il fuoco lo avvolgeva.
La sagoma si avvicinava, man mano più consistente.
 
Azul rallentò. Il suo corpo smise di obbedirgli, improvvisamente paralizzato, a un passo dalle fiamme.
Urlò e cercò, invano, di opporsi alla paralisi.
La barriera si ricompose di nuovo.
Il suo corpo venne spinto all’indietro.
Contrasse la faccia in una maschera di rabbia e dolore, lanciando un grido infuriato.
 
“Undome!”
L’urlo di Wolfspirit arrivò ora limpido alle orecchie del drow.
Sgranò gli occhi che divennero lucidi. La bocca si spalancò. Un nodo in gola gli impedì di tirare fuori il fiato finché non si fece scappare un gemito. Gettò il capo all’indietro mentre il suo corpo veniva attirato dalla Signora Bianca e stringendo i pugni emise un ultimo urlo.
 
Cadde a terra. L’ultima barriera si esaurì. La donna era accanto a lui, a terra, tremante. Si reggeva a stento. Alzò il viso per lanciare uno sguardo allarmato verso Wolfspirit. Azul puntò le mani a terra e tese le braccia, poi le gambe. Si alzò di nuovo. La donna lo imitò. Lo raggiunse per afferrargli i capelli, provocandogli un guaito. Azul le afferrò il vestito, cercando di spingerla via. La Signora Bianca lo sovrastò e lo fece indietreggiare, premendolo contro il portale. La luce bluastra baluginò sulla pelle del drow e lo paralizzò di nuovo. Davanti a lui, nascosto dalla figura della donna, Wolfspirit correva verso di loro. La donna lo spinse e Azul cadde all’indietro, svanendo nel portale.
 
“No!”, urlò il mannaro.
Il fuoco investì la donna in pieno. In un grido di dolore, la Signora Bianca si gettò nel portale.
Prima che Wolfspirit lo lambisse, questo si chiuse a un passo dal suo naso.
 
 
Quando il fuoco svanì, il giardino era in cenere. Lo stesso porticato era stato divorato dalle fiamme.
L’aura del mannaro divampava ancora, fulgida, attorno a lui in un’esplosione di energia. Wolfspirit, ansante, sollevava e abbassava senza sosta l’ampio petto e le spalle, osservando il punto in cui il portale era svanito con uno sguardo smarrito.
 
Valentino e Imesah sbucarono dall’arco, in parte squagliato dal fuoco arcano, e scrutarono l’uomo fermo nel giardino ormai in macerie.
 
Wolfspirit esalò un sospiro affranto.
“Troppo tardi,” mormorò. “È sempre… troppo tardi.”
 
Abbassò lo sguardo a terra.
“Per noi due. Non ho saputo raggiungerti neanche adesso, a un passo da te.”
 
Sbatté le palpebre. Sgranò piano gli occhi.
Avanzò di poco prima di accovacciarsi.
 
Protese la mano e prese qualcosa dall’erba, portandolo a sé ed esaminandolo. Era un breve straccio di abito, ingrigito dalle fiamme arcane. Lo rigirò, scrutandolo. I polpastrelli della mano si illuminarono di un curioso bagliore azzurrino.
 
“Ma stavolta non ti lascerò andare, amore mio.”
 
L’attimo dopo, un portale si materializzò davanti a lui. Il mannaro dalla pelle abbronzata si alzò in piedi e attraversò il portale, che svanì poco dopo, dietro di lui.
 
 
 
Vilya, davanti alla porta del corridoio, osservò la scena con occhi spalancati.
“Fuoco,” sussurrò a fil di voce.
 
Imesah avanzò nel giardino carbonizzato e osservò gli spettatori.
Contrasse la fronte in un cipiglio inferocito.
 
“Chi cazzo è quello?”
 
 





 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3736743