Storia di un Reattore e Filosofia in Pillole

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Una storia tira l'altra ***
Capitolo 2: *** Odio gli indifferenti ***
Capitolo 3: *** Sopravvivere ***
Capitolo 4: *** Learn to hate ***
Capitolo 5: *** Una casa dove la famiglia ti aspetta ***
Capitolo 6: *** Do not go gentle into that goodnight ***
Capitolo 7: *** A mani nude ***
Capitolo 8: *** Never tell me the odds ***
Capitolo 9: *** Vivere ***
Capitolo 10: *** Epilogo - Lezioni ***



Capitolo 1
*** Prologo - Una storia tira l'altra ***


Storia di un Reattore
e Filosofia in Pillole


 
*

  
Prologo 


 

Una storia tira l’altra

 



 

«Potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi quando lo dicevate.
Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto
 rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.»

[S. King da Il Corpo (Stand By Me)]

 

 

 

 

«Io sono Iron Man.»

Annuì soddisfatto, come a ribadire il pensiero a se stesso, e il concetto prese forma nella sua mente, diventando ancor più rassicurante. Voltò il capo con un sorriso trionfante, ma quello che vide smorzò del tutto il suo entusiasmo, e si ritrovò con un’espressione contrariata stampata in volto: Bruce Banner dormiva. 
Come poteva dormire?! Non gli risultava di essere così noioso; e se anche fosse, di certo quel che aveva raccontato non poteva essere considerato “noioso
.

«Banner!» lo richiamò in tono secco, consapevole di potersi rimediare un verde e potente pugno in faccia, e quello sobbalzò facendosi scivolare gli occhiali dal naso. Tentò inutilmente di ricomporsi, guardandosi intorno come se non sapesse neanche dove fosse e per un attimo sembrò sul punto di esplodere. Si calmò repentinamente, dopo appena due respiri profondi. Assicuratosi delle condizioni stabili dell’amico, Tony si decise a parlare, in tono palesemente seccato:

«Non stavi ascoltando.»

«Mi ero solo distratto...»

«Stavi dormendo!»

«Ti ho detto che non sono uno psicanalista, e comunque ho... colto i punti salienti.»

Tony scosse la testa sconsolato.

«Non ti chiederò se sai chi è in realtà il Mandarino, perché dubito che sapresti rispondermi,» sospirò rassegnato «Dove sei rimasto?»

«All’ascensore in Svizzera?»

«Non hai ascoltato una sola parola!» s’infervorò di nuovo Tony, incerto se ridere o piangere «Adesso dovrò ricominciare da capo e...»

«Calmati, stavo scherzando!» lo bloccò subito Bruce, un lampo di terrore negli occhi «Ho ascoltato il finale. Non tutto, ma l’essenziale.»

Tony bofonchiò qualcosa di inintelligibile che somigliava a un apprezzamento non molto cortese nei suoi confronti. Non sembrava intenzionato a parlare ulteriormente, e incrociò le braccia sul petto con aria offesa.

«Beh, tutto è bene quel che finisce bene, no?» concluse nervosamente Bruce.

Vedendo che Tony non accennava a rompere il suo mutismo – aveva dimenticato quanto potesse essere permaloso... – fece per alzarsi progettando di sgranchirsi le gambe indolenzite dalla lunga seduta, ma si bloccò a metà del gesto. Osservò meglio l’amico; o meglio, osservò il suo torace, dal quale scaturiva una fievole e familiare luce azzurrina.

«E quello?» si arrischiò a chiedere, additando il congegno «Non l’avevi tolto?»

Tony si rianimò all’improvviso, con un mezzo sorriso.

«Allora è vero che hai ascoltato il lieto fine!» commentò, con ancora una nota di rammarico nella voce e una luce sfuggente negli occhi.

Quello che balenava negli occhi di Bruce, invece, era puro stupore.

«Pensavo volessi liberarti di quell’affare,» commentò infine.

Tony sembrò soppesare l’affermazione, forse confuso lui stesso.

«Ha i suoi vantaggi. È un ottimo anti-stress,» e picchiettò le dita sulla superficie metallica «risolve il problema del buio quando vai al bagno la notte, offre notevoli vantaggi in situazioni intime, si abbina con tutto...» si bloccò un momento, rivolgendo lo sguardo a quello stesso soffitto che aveva fissato per tre ore come se potesse trovarvi altre motivazioni «E poi ha un valore affettivo. Mi ci sono affezionato,» buttò lì con nonchalance.

Bruce lo fissò con uno sguardo molto simile a quello che usava Pepper quando inventava una delle sue fantasiose scuse per sfuggire ai suoi doveri. Il sorrisetto innocente che ostentò non sembrò convincere il dottore della veridicità delle sue parole.

«Ti si può definire in molti modi, ma
nostalgico non è uno di questi,» commentò infatti Banner.

«Questa l’ho già sentita,» sospirò Tony, alzando gli occhi al cielo «Lo credevo anch’io... intendo, anch’io credevo di non essere un nostalgico, o uno che si affeziona alle cose o... insomma, lo credevo. Lo credo. Ma il reattore...» diede un buffetto affettuoso al cerchietto che spiccava in mezzo al suo torace «Mi ricorda le origini. Toglierlo sarebbe stato un po’ come rinnegare me stesso... o qualcosa del genere.» Corrugò le sopracciglia e scrollò le spalle con noncuranza.

Dall’espressione di Bruce, il suo discorso pareva averlo più confuso che convinto.

«Le
origini,» ripeté, incerto.

Tony sbuffò, esasperato.

«Andiamo, è stato solo tre anni fa ed era su tutti i giornali e i notiziari del mondo! Non so se ricordi il mio viaggio di piacere in Afghanistan con gli amichetti dei Dieci Anelli. Non quelli del Mandarino; quelli veri: brutti, armati e cattivi. Ti dice niente?»

Bruce adesso sembrava a disagio, ma annuì debolmente.

«Sai, la grotta dove ho visto la luce e roba simile.»

«Sì, e adesso mi dirai anche che tutte le tue vecchie fiamme erano solo amori platonici...» bofonchiò Bruce scuotendo la testa divertito e notando l’ombra vagamente confusa sul volto dell’amico, che si affrettò a continuare posando una mano sul reattore:

«Questo è un...» cercò il termine adatto «Souvenir?» tentò, sfoggiando un sorrisetto ironico «Un ricordo,» si corresse poi, più serio «O un memento.» abbassò lo sguardo, improvvisamente pensoso.

Rimase in silenzio a lungo. I suoi occhi si erano fatti più scuri. Guardò Banner con espressione incerta, prima di chiedere cautamente:

«Dottore, ha tempo per un’altra seduta?»


 


Note Dell’Autrice:
Non chiedete. Non volete davvero sapere come è nata questa fan-fiction, credetemi.
Come potete vedere, la storia del reattore in Iron Man 3 non mi è andata giù, così ho fatto di testa mia e ho scritto una caterva di roba per portare avanti la campagna "Lasciamo il Reattore a Tony e Tony al Reattore".
Deliro? Probabile.
Comunque... questa "raccolta" non è una raccolta. Nel senso che in realtà non ha ancora un ordine ben preciso, anche se cercherò di ordinare i capitoli in modo più o meno cronologico, ma in linea generale non fa differenza leggere prima l’uno o l’altro. Insieme non formano una vera e propria trama, ma seguono semplicemente la linea temporale dell’inizio del primo film.
Confermo i vostri timori: dopo aver massacrato Tony con stress post-traumatici vari e una raccolta di drabble (Upset), mi preparo a una full immersion nell’allegro soggiorno di quel pover’uomo in Afghanistan.
Fatti tutti gli avvertimenti del caso, ringrazio chiunque sia arrivato fin qui e vi invito a commentare e a fare un applauso al povero Bruce che si sorbirà gli sproloqui di Tony <3
A presto,

-Light-

P.s. Platone fa capolino nella storia perché l’ho studiato così tanto da averne fin sopra i capelli, e rispunta periodicamente nei miei sproloqui. Qui si fa un vago riferimento al "mito della caverna" da lui ideato.

 


 



 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l’autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all’originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel

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Capitolo 2
*** Odio gli indifferenti ***


1

"Odio gli indifferenti"



 

"Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno.
Ma quello che accadrà in tutti i giorni che verranno può dipendere da quello che farai tu oggi."

[E. Hemingway]

 



"A volte non ti rendi conto di ciò che fai. È Tutto così scontato, banale, persino noioso. Ti abitui a compiere azioni del tutto normali, asettiche e apparentemente innocue che sono in realtà solo preparativi alla guerra, che appare solo come un mucchio di parate militari, esibizioni e generali ritirati in alta uniforme. È quasi bella, da quel punto di vista. Parteciparvi, anche se dietro le linee, è quasi un motivo d'orgoglio. Il mio era un mondo dorato che mascherava qualcosa di molto più turpe, di cui non volevo curarmi minimamente. Ero corazzato dietro l'indifferenza perché, tanto, non sarei stato io a subire i risultati del mio stesso lavoro. Mi sarei limitato a coglierne i frutti. È facile parlare quando sei dalla parte sicura, quando il tuo punto di vista è l'unico che conosci."
 

*


Tony fissava la penna come se dovesse saltargli addosso da un momento all'altro, con uno sguardo vagamente disgustato in volto.

«È proprio necessario?»

Alzò gli occhi imploranti verso Pepper, tornando poi a scrutare in cagnesco la penna e il voluminoso fascio di documenti che occupava la sua scrivania, alla quale era miracolosamente seduto. Con una decina di schermate virtuali che gli ronzavano attorno, certo, ma almeno era fisicamente lì.

«Lo è,» rispose serafica lei, incarnazione della pazienza, mentre attendeva che il suo capo si decidesse a compilare i documenti.

Il sospiro falsamente esausto di Tony risuonò nell'ufficio.

«Qui c'è molto da scrivere,» osservò svogliatamente, dando un'occhiata a un paio di pagine. «Facciamo che lei compila il tutto e io do l'ok?» propose, esibendo un sorriso disarmante, che sottintendeva il "così vado in laboratorio a occuparmi della mia Audi".

Tornò a concentrarsi sugli schermi azzurrini, raffiguranti la struttura della suddetta auto in attesa delle sue stravaganti modifiche. Pepper lo fissò scettica, ma prima che potesse replicare Tony aveva già afferrato la penna.

«Dove devo firmare?» borbottò, facendo per posare la punta della biro sulla carta intonsa senza neanche guardare il testo.

Questo gli scivolò via da sotto al naso prima che potesse scrivere qualcosa, sottrattogli da Pepper che ora lo fissava severa.

«Dovrebbe prima leggerlo, almeno.»

«Mi fido di lei,» rispose sbrigativo Tony, leggermente contrariato nel distogliersi dai suoi progetti.

Fece di nuovo per apporre la sua firma al documento, ma Pepper lo tenne ancora fuori dalla sua portata, stavolta irritata. Avrebbe firmato un contratto di schiavitù ad occhi chiusi, pur di non scomodarsi per leggerlo. Tony lasciò ricadere mano e penna, che rimbalzò sulla scrivania per poi scivolare a terra. Era già piuttosto snervante essere costretto nel proprio ufficio senza dover anche visionare uno per uno i documenti. Insomma, aveva un'assistente per quello, o no? Quello che Pepper spacciava per una questione di vitale importanza era probabilmente l'ennesimo ordine di spedizione per i suoi rifornimenti bellici, o l'autorizzazione per lo sviluppo di una qualche altro tipo di ordigno o, ancora, il Pentagono che reclamava un rinnovo del contratto tra le Stark Industries e il governo Statunitense. Tutte faccende che rientravano nella prassi e che riteneva oltremodo tediose.

«Oh, e va bene, cos'è che dice questo importantissimo documento?» sbuffò Tony, mimando delle virgolette con le dita e mettendo per un attimo da parte le schermate luminose con palese stizza.

«Il Pentagono la sollecita ad ultimare il più rapidamente possibile il progetto della nuova arma a cui ha accennato durante l'ultima riunione...»

«Io non ho accennato a nessuna arma nel...»

«L'ho fatto io mentre lei era impegnato a presenziare alla premiazione al Cesar Hotel di Las Vegas... o meglio, nel casinò di fronte mentre Obadiah ritirava il suo...»

«Ho capito, non mi ha ancora perdonato, ora prosegua con la richiesta degli attempati del Pentagono... come mai tutta questa fretta?»

«Ci sono stati "recenti disordini in Afghanistan ad opera dei Dieci Anelli", a quanto dicono.»

«Ah, quindi si tratta del Jericho!»

«Esattamente. E a quanto vedo quello su cui sta lavorando al momento non è proprio un missile...»

Gli occhi di Pepper corsero al cumulo di schermate che aveva messo da parte. Tentare di nascondere i progetti di auto che lo avevano assorbito fino a quel momento sarebbe stato inutile, così Tony optò per sfoggiare un sorriso a trentadue denti assolutamente inattaccabile, incrociando poi le mani dietro la nuca e rilassandosi sulla sedia girevole.

«Era un momento di svago. Ci sto lavorando giorno e notte, al Jericho...»

«Se n'è dimenticato.» 

La voce di Pepper non si sforzò nemmeno di essere incredula.

«La mia mente geniale non può ricordarsi di tutte le piccolezze che richiede il Pentagono.»

Il silenzio di Pepper replicava chiaramente che quella non era una "piccolezza" e pertanto le sue non erano scuse plausibili. A quel punto Tony sbuffò, rabbuiato. Il governo avrebbe dovuto portarlo in trionfo invece di opprimerlo notte e giorno con le sue richieste. Era grazie a lui se riuscivano ancora a mantenere il controllo sulle basi in Medio Oriente e, per il quantitativo di lavoro che stava svolgendo al posto suo, lo Zio Sam avrebbe anche potuto cedergli la poltrona. Tamburellò con le dita sul tavolo, riflettendo.

«Il Jericho non sarà pronto prima di qualche settimana. L'assemblaggio non sarebbe un problema... se il progetto fosse pronto. Ma non lo è, quindi mi ci vorrà un po'. Nel frattempo...» Tony alzò una mano bloccando sul nascere l'obiezione di Pepper, «... li terremo buoni con un rifornimento extra. Se ne occupi lei, chieda di cosa hanno bisogno e soddisfi le loro richieste; tanto abbiamo sempre un surplus di armamenti da smaltire. Questo dovrebbe bastare,» e considerò chiuso il discorso, facendo per tornare ai suoi motori e auto e progetti.

Ma a quanto pareva non era lo stesso per la sua assistente, che rimase rigidamente in piedi, assottigliando con fare nervoso le labbra. Tony sospirò.

«Cosa c'è, ancora?»

Pepper rispose accigliata, con voce che si mantenne però neutrale:

«Si richiede una dimostrazione pratica delle funzionalità del Jericho prima della sua produzione in serie.»

«Che malfidati. Facciano pure: la roba è mia, ma i fondi sono loro,» sbottò, iniziando a innervosirsi.

«È richiesta la sua presenza.»

Stavolta anche Tony si accigliò.

«Dove?»

«A Gulmira, in Afghanistan, non appena completerà il Jericho.»

Tony rimase silenzioso per qualche istante, valutando la situazione.

«Grandioso,» proruppe infine. «Finirò per perdermi il convegno della USA Scientific

La leggerezza del suo tono prese in contropiede Pepper.

«Ha davvero intenzione di partire?»

Tony rivolse gli occhi al cielo, evidentemente seccato dall'inconveniente, e parlò in tono rassegnato:

«Se mi assentassi il contratto potrebbe andare a monte; poi chi lo sente Obie... saranno sei mesi che mi assilla col Jericho. Non mi ero affatto dimenticato,» ci tenne a puntualizzare. «E magari stando sul campo potrei far vedere che m'importa qualcosa di ciò che fanno con le mie armi,» aggiunse svagato.

«E le importa davvero?» 

Il tono esitante di Pepper rivelò tutto il suo disagio nel porre quella domanda. L'espressione di Tony rimase imperscrutabile, quasi disinteressata. Si passò la lingua sulle labbra e rispose in fretta:

«Sinceramente? No. Meno ne so, meglio è.»

«Lei in teoria è il "difensore della patria". Dovrebbe comportarsi di conseguenza,» gli fece debolmente notare Pepper.

«Non mi sembra di aver mai deluso quest'aspettativa davanti alle telecamere.» 

Le rivolse un'occhiata disincantata.

«In realtà tutto questo dovrebbe interessarle.»

«In realtà mi è indifferente.» 

La piattezza del suo tono fece quasi trasalire la donna, che ribatté d'istinto:

«Qualcuno diceva che l'indifferenza è il peggiore dei mali,» si limitò a dire freddamente.

«Quel qualcuno si sbagliava. È solo qualcosa che ti permette di vivere più serenamente. E senza rimorsi di coscienza.»

«Sembra tutto più facile, così.»

Tony alzò ostentatamente le spalle, come se tutto quello andasse oltre il suo controllo e non potesse fare nulla per evitarlo.

«A ciascuno il suo lavoro,» affermò, firmando il foglio con uno svolazzo.



 


Note Dell'Autrice:

Dunque, che dire? Tony è stronzo, ma tanto <3 Però mi "piace" così. Nel senso che lo odio profondamente nel periodo pre-Iron Man, però è una gioia immensa "scriverlo".
Come spero abbiate notato, qui ho inserito qualche riferimento a Gramsci, a partire dal titolo. Sono ben consapevole del fatto che la sua "indifferenza" era applicata a una situazione molto diversa e decisamente più significativa, ma... ero partita da quel titolo senza avere alcuna intenzione di citarlo, poi l'accenno a lui s'è scritto da solo, che ci volete fare? Tanto sarò io a sorbirmelo in sogno mentre mi rincorre con un'ascia...
Ultimo appunto: la parte dialogata all'inizio - il monologo di Tony, per capirci - sarà presente in ogni capitolo per mantenere la connessione col "presente", cioè Tony versione-psicanalizzato che ammorba il povero Bruce con le sue vicende. Insomma, giusto per riportarvi alla mente l'immagine di lui che sproloquia e il dottore che ronfa <3

Ringrazio Alley ed evenstar che hanno recensito lo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite :)
Inoltre, un mega-ringraziamento - e non solo per il capitolo - alle mie Bete ed amiche JuliaSnape e MoonRay e a Biatheginger, che hanno dimostrato una pazienza e una disponibilità immensa in quest'ultimo periodo. Grazie di cuore, vi adoro :') 
A presto,

-Light-

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Capitolo 3
*** Sopravvivere ***


2

Sopravvivere



 

"Un essere che s'adatta a tutto: ecco, forse, la miglior definizione che si possa dare dell'uomo."

[F. Dostoevskij]




"Dicono che il bene più prezioso che abbiamo è la vita. Certo che lo è, se intendiamo come "vita" l'insieme delle cose che la rendono tale. Per me erano una bella casa, tante ragazze, un laboratorio a disposizione, auto sportive, un computer intelligente: roba del genere, a cui magari non dai tanto peso. Cose frivole che però rendono interessante la tua esistenza. Ma quando tutto questo scompare, quando la tua vita è composta unicamente dal tuo cuore che batte grazie a una batteria, dal tuo respiro che sembra sempre l'ultimo e dal tuo stesso corpo sfibrato... non è preziosa. Non è nulla. È una parola, uno stato momentaneo in cui sei intrappolato. Sei vivo, ma non vivi. A quel punto quasi speri di morire."
 

*


«Otto.»

«Undici.»

«Ti dico otto

«Sono undici.»

«Io ne ho contate otto.»

«Allora hai contato male

Yinsen si voltò finalmente verso Tony, rivolgendogli uno sguardo penetrante che lo fece ammutolire. L'uomo si mosse a disagio sulla cassa su cui era seduto e si passò nervosamente una mano sul pizzetto sfatto, ormai quasi inglobato dalla barba incolta. Yinsen si concentrò di nuovo sulla padella che sfrigolava sul fornelletto, rimestandone distrattamente il contenuto con un cucchiaio. La sua figura magra e allampanata quasi spariva nei vestiti larghi e sformati che indossava, ormai inutilmente eleganti. Gli occhiali rotondi che gli incorniciavano le iridi chiare erano appannati dal vapore, e spesso passava una manica sulle lenti per pulirli. Aggrottò la fronte mentre si domandava se quello che stava cucinando fosse commestibile. Non che facesse molta differenza. Le sue considerazioni furono interrotte dalla voce di Tony che risuonò ancora nell'ampia grotta, leggermente amplificata:

«Otto, undici... che differenza fa?» sbottò sfrontatamente e senza alcuna intenzione di demordere.

Yinsen non rispose subito, ma quando lo fece il suo tono era pacato, sebbene venato da una punta di durezza:

«Hai ragione. Non fa molta differenza essere trafitti da otto o undici proiettili, dopotutto. E tu non hai davvero bisogno di altro metallo nel tuo corpo,» aggiunse adocchiando la vistosa batteria posata sul bancone, che protendeva i cavi fino al suo petto per poi scomparire tra le bende ormai sudice che lo fasciavano.

Tony toccò nervosamente il magnete sotto la stoffa, trattenendo palesemente un singulto di dolore, ma sostenne il suo sguardo con ostinazione dettata da puro orgoglio ferito.

«Loro sono pochi e noi abbiamo un arsenale a disposizione,» ribatté, accennando ai componenti meccanici, agli ordigni e alle apparecchiature che campeggiavano lungo una parete, «Quanto pensi che mi ci vorrà per...»

«Per ritrovarti con una pallottola in testa? Poco, molto poco,» lo troncò sul nascere Yinsen.

«Cosa pensi che accadrà una volta che avrò costruito il Jericho?» insistette Tony con veemenza, facendo un brusco scatto che ricordava quello di una bestia in gabbia, o di qualcuno che volesse scacciare con forza qualcosa di molesto.

«Non ti lasceranno certo tornare a casa,» convenne lui, serafico. «Ti uccideranno, o forse ti tratterranno ancora e chiederanno un riscatto, lo otterranno e poi ti uccideranno lo stesso,» continuò con agghiacciante semplicità. «Ma questo lo sai. Pensa piuttosto a quel che puoi fare prima che accada tutto questo. E con ciò non intendo lasciarsi morire di fame,» chiarì con voce improvvisamente severa, additandolo accusatorio col cucchiaio.

Tony ignorò il commento e corrugò le sopracciglia, confuso.

«Ti sto dicendo,» la sua voce si fece più lenta, come se dubitasse di essersi spiegato bene, «che potremmo facilmente sopraffare quei terroristi, con tutto il potenziale bellico che ci hanno lasciato,» rilevò pragmaticamente.

Dalla sua espressione si poteva star certi che sarebbe stato in grado di costruire veramente di tutto anche in una situazione così disagevole. Yinsen sospirò.

«Tu mi stai dicendo che vuoi costruire una qualsiasi arma e uscire di qui sparando all'impazzata e sperando di uccidere più nemici possibili prima che ti cada quella batteria, che ti prenda un infarto o che tu svenga per le ferite,» lo corresse, e stavolta lo guardò palesemente scettico.

Tony voltò il capo a disagio e Yinsen si sentì un poco in colpa nel demolire i suoi propositi di fuga. Ma illuderlo sarebbe stato ancor più crudele. Era un uomo che era stato sicuramente abituato a veder realizzato ogni suo desiderio in qualsiasi circostanza e ad essere adulato per ogni sua azione; adesso doveva comprendere il fatto di non essere più lui a dettare le regole e che qualunque mossa errata poteva avere risvolti tutt'altro che piacevoli. La sua vita era l'unica cosa che gli fosse rimasta, per quanto diversa e dolorosa e vuota. Doveva solo accettarlo...

«È pur sempre un piano. Sicuramente meglio che rimanere qui dentro a marcire,» borbottò infine Tony, rivolgendo uno sguardo impotente alle pareti rocciose che li rinchiudevano.

... e al momento non sembrava avere la minima intenzione di farlo. Si sarebbe lasciato morire piuttosto che sottomettersi ai suoi carcerieri, questo dicevano i lividi che marchiavano il suo volto e 
il suo sguardo deciso, in qualche modo già pronto ad essere spento dalla rassegnazione. Yinsen sospirò di nuovo, più tristemente.

«Non mi sembra un gran bel piano. Sicuramente Tony Stark può far meglio di così,» concluse con veemenza, spegnendo il fornelletto e segnando così anche la fine del discorso.

Il diretto interessato non replicò, chiudendosi in un silenzio assorto, ma l'occhiata che gli rivolse sembrò forse ravvivata da quelle parole. Yinsen versò il contenuto della padella in due scodelle di latta seguito dagli occhi assenti del compagno. Ne prese una per sé e porse l'altra a Tony, che la accettò, ne scrutò dubbioso il contenuto – fagioli, prevedibilmente – e la abbandonò sul bancone accanto alla batteria. Erano due giorni, da quando si era svegliato, che non toccava cibo. Lo scrutò a lungo con rimprovero, con gli occhi azzurri che sembravano indagarlo nel profondo.

Tony incrociò le braccia sul petto, in un gesto che, se in un altro contesto sarebbe stato naturale e tendente allo spavaldo, adesso sembrava quasi di difesa, come se così potesse impedire di essere ferito o di far fermare il suo cuore. Il suo sguardo rimase fisso sul pavimento in terra battuta, gli occhi improvvisamente spenti e offuscati da pensieri cupi. Yinsen scosse la testa e non commentò, prendendo a mangiare con assoluta tranquillità. Tony sembrò apprezzare quella discrezione, perché gli scoccò un'occhiata meno cupa prima di catalizzare di nuovo la sua attenzione sull'ingombrante congegno che lo teneva in vita. Distolse bruscamente lo sguardo puntandolo sulla fila di missili allineati a pochi metri da lui, per poi passare ad osservare le pareti, il soffitto, l'occhio rosso perennemente vigile della telecamera, la porta blindata che li separava dalla libertà. La sua mano tornò a stringere inconsapevolmente il magnete. Serrò i denti e cominciò a respirare più profondamente, come se stesse cercando di domare emozioni troppo intense per essere ignorate. Chiuse gli occhi e poggiò la testa sulla mano libera, ripiegandosi su se stesso in silenzio.

Nel frattempo Yinsen finì di mangiare, si alzò e posò la ciotola vuota accanto al fornello, senza fare osservazioni sul fatto che la cena del suo coinquilino fosse ancora intatta, né aprendo bocca per la mezz'ora successiva, durante la quale se ne stette sdraiato sulla brandina a sonnecchiare, godendosi quel raro momento di quiete.

«Perché siamo ancora vivi?»

Yinsen fu strappato al dormiveglia e socchiuse gli occhi, prima di rispondere bofonchiando in un mormorio meccanico:

«Perché non ci hanno ancora uccisi.»

Udì un sospiro esasperato da parte di Tony.

«Intendo dire,» sottolineò rudemente, trattenendo la rabbia che faceva vibrare la sua voce, «per quale motivo siamo ancora vivi? Per cosa? Cosa ci resta da fare adesso che siamo prigionieri?» chiese, affannato.

«Tu hai un missile da costruire, se non sbaglio. Io sono qui per accertarmi che tu non collassi sul lavoro e per tenerti in vita il più a lungo possibile, in modo che tu completi quel missile.«»

«Non lo costruirò. E non è questa la risposta che volevo,» aggiunse, amareggiato.

A quel punto Yinsen si mise a sedere di scatto, trapassandolo coi suoi occhi chiari divenuti improvvisamente gelidi. La grotta sembrò molto più cupa adesso, mentre le fiamme stentate del focolare disegnavano ombre spigolose e primordiali sulle pareti rocciose e balenavano negli occhi dei due uomini. La sua voce risuonò di nuovo, tagliente:

«Ti aspetti una qualche spiegazione mistica a tutto questo? Vuoi sentirti dire che sei vivo per un motivo, che hai ancora qualcosa da compiere su questo mondo o che sei stato miracolato?» Tony sembrò indietreggiare di fronte a quell'esplosione, ma non mosse un muscolo, il volto contratto. «Mi dispiace deluderti, ma non c'è nessuna spiegazione, nessun perché metafisico per cui sei ancora in vita. Solo fortuna, un'operazione azzardata e una batteria per auto.»

«Questo lo so,» replicò l'altro, sferzante. «Mi chiedevo soltanto come mai io non abbia staccato il magnete da quella batteria non appena mi sono svegliato prigioniero. E perché tu, dottore, non ti sia già tagliato le vene da un pezzo con quel tuo maledetto rasoio!»

Concluse la frase in un ringhio frustrato, scoccando a Yinsen un'occhiata astiosa ma venata del timore di chi ha detto una parola di troppo a chi non la meriterebbe. Yinsen scosse la testa, ma il repentino guizzo di rabbia che l'aveva infiammato era già sopito, rimpiazzato da un sentimento più mesto e conciliante, dettato da una vita trascorsa tra guerre di armi e parole inutili. Rispose senza acredine, ma cristallino:

«Sei... siamo vivi semplicemente perché siamo umani e non possiamo rassegnarci a morire. È nella nostra natura voler sopravvivere il più a lungo possibile con ogni mezzo che abbiamo. Tentiamo di adattarci, anche se sappiamo di poter fallire o di andare incontro ad altra sofferenza, perché tutto ci sembra più allettante della morte. Non è altro che semplice istinto di conservazione, che ti piaccia o no.»

Si fissarono a lungo, l'uno in attesa che l'altro parlasse, ma l'unico suono rimasto era il crepitio del fuoco morente. Infine Yinsen si distese nuovamente, rivolgendo gli occhi stanchi al soffitto scosceso. Non arrivò nessuna replica dal suo compagno, né se ne aspettava una. Poté infine udire un sommesso rumore di stoviglie smossa e, subito dopo, lo stridio del cucchiaio che raschiava il fondo della gavetta.

«Quello di cui parli...» esordì Tony tra un boccone e l'altro, «Si chiama "speranza".» affermò semplicemente.

Yinsen sorrise tra sé, un sorriso triste che gli fece tremare gli angoli delle labbra.

«Questo può essere un inizio.»




 


 

 


Note Dell'Autrice:

Salve a tutti, non c'è bisogno di dire che sono in vergognoso ritardo come sempre, giusto? Perdonate i miei tempi di aggiornamento da incubo, ma non ho avuto veramente un minuto libero e l'ispirazione fatica a ripristinarsi come si deve. 
Bene, riguardo al capitolo: nella mia testa era molto più bello, ma è venuto fuori questo. Non sono del tutto sicura di aver reso l'idea centrale, che poi sarebbe la scelta tra vita e morte –sì, l'allegria spopola proprio nei miei scritti, ma ho pur bisogno di uno sfogo. Quindi... godetevi la visione di un Tony più frustrato, complessato e delirante che mai, col buon Virgilio Yinsen che gli mostra la retta via.
Ci tengo a sottolineare che il personaggio di Yinsen è liberamente riadattato e sviluppato dal poco che hanno fatto vedere nel primo film. Sono consapevole di averlo reso forse un po' troppo duramente, ma è una mia personale visione legata ad altri eventi di mia invenzione -o intuizione?- che verranno esposti più avanti nella storia.

Detto ciò, ringrazio quelle anime pie di Alley e evenstar che hanno recensito gli scorsi capitoli e che mi fanno felice come una Pasqua <3
Auf Wiedersehen!

-Light-

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Capitolo 4
*** Learn to hate ***


3

Learn to hate



 

"Non c'è nessuno che ti possa dare aiuto. Solo io. E io sono la Bestia."

[W. Golding da Il Signore Delle Mosche]




"Non odio mio padre. Certamente non lo trovo nemmeno particolarmente simpatico... ma negli ultimi anni si è fatto perdonare, anche se in ritardo.
Comunque, prima di diventare Iron Man credevo di odiarlo con tutto me stesso. Non era un qualcosa su cui riflettevo di frequente: se qualcuno lo nominava, mi limitavo a pensare o a dire che lo odiavo in modo quasi distratto, come se fosse stata una conoscenza acquisita nel tempo e ormai scontata, tanto da risultare superfluo ripeterla. Una specie di routine.
Non è vero che l'odiavo. L'odio è qualcosa che nasce più in profondità e che va oltre alle semplici parole e al pensiero fugace. All'improvviso lo senti dentro di te e non sai come liberartene, anzi, non vuoi farlo. Non ti abbandona mai e non vuoi che lo faccia. È sempre lì, assopito, in attesa di ciò che lo farà scatenare. E tu ti lasci andare ad esso e permetti che ti corroda, perché alla fine diventa l'unico impulso che ti permette di andare avanti quando sei allo stremo.
Ti lasceresti consumare piuttosto che rinunciarvi."

 

*


«Ne è valsa la pena.»

Tony si asciugò il rivolo di sangue che gli colava lungo il mento con il dorso della mano e sorrise sprezzante nonostante il labbro spaccato. Ignorò la fitta di dolore e si raddrizzò a sedere, mentre il sorriso si trasformava in una smorfia quando percepì i cavi della batteria tendersi e smuovere leggermente il reattore. La avvicinò a sé quasi distrattamente voltandosi verso l'altro uomo, che lo fissò di rimando.

«Stark.»

Yinsen parlò con voce particolarmente stanca dal tavolo a cui era seduto e spinse da parte il circuito sul quale stava lavorando. Tony quasi alzò gli occhi al cielo nel sentire il suo nome usato come un rimprovero e si accigliò.

«Cosa c'è, adesso?» sbottò, alzandosi in piedi un po' dolorante.

Irritato, raccolse la batteria e si avvicinò all'altro, per poi poggiarla con un movimento un po' troppo brusco sul tavolo. Entrambi sussultarono e la fissarono con vaga preoccupazione, ma il suo ronzio rassicurante si limitò a sfarfallare per mezzo secondo prima di regolarizzarsi. Tony si rilassò e riprese a respirare anche se non si era accorto di aver trattenuto il fiato, lasciando andare il manico. Essere dipendente da quell'affare cominciava a snervarlo. Yinsen indicò brevemente il congegno, alzando le sopracciglia.

«Dovresti trattarla con più garbo. Trovare batterie per auto in mezzo al deserto non è così facile,» disse col suo solito tono un po' cantilenante mentre cercava qualcosa in tasca.

«Non vorrai veramente farmi la predica anche su questo, spero. Giuro che stai iniziando a...»

«Tieni,» lo interruppe Yinsen porgendogli un fazzoletto, chissà come pulito. «Stai sanguinando,» aggiunse, invitandolo di nuovo a prenderlo.

Tony rimase interedetto per un istante. A volte aveva la netta impressione che Yinsen lo trattasse come un bambino, ma adesso ne aveva la conferma. Gli prese, o meglio strappò comunque il fazzoletto di mano e si tamponò il labbrò, per poi voltargli ostentatamente le spalle e poggiarsi al tavolo metallico. Yinsen riprese in mano il saldatore e tornò a lavorare sul circuito, dal quale si levavano ora sottili fili di fumo. Dopo pochi minuti si interruppe, sospirò, si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo, per poi incrociare le braccia.

«Stark,» chiamò, calmo.

L'altro non si girò né diede segno di voler rispondere. Yinsen raccolse i suoi pensieri per qualche secondo, con la sua solita pacatezza.
Erano ormai due settimane che Tony era prigioniero, e in quel lasso di tempo aveva avuto modo di salvargli la vita più volte, anche se probabilmente l'ex-miliardario non se ne era reso del tutto conto. L'aveva istruito in modo generico sul comportamento da tenere, ma grazie al suo carattere indomito Tony aveva finito per scontare ogni errore sulla propria pelle, a partire dal suo rifiuto categorico di assemblare il Jericho. Doveva ammettere che aveva resistito più di quanto si fosse aspettato da un ricco viziato, ma se le percosse non erano riuscite a smuoverlo, il waterboarding aveva infine spezzato la sua tenacia. La sua indole ribelle era però sopravvissuta.

Dopo solo una settimana si era ridotto a uno straccio ed era diventato cupo e taciturno anche con lui. Nonostante avessero represso a suon di pugni le sue difese principali – il sarcasmo, l'abilità nel parlare – non aveva nemmeno provato ad attenuare gli sguardi ostili che rivolgeva ai suoi carcerieri. Anzi, erano diventati ancor più intensi e frequenti, palesando tutto il disprezzo che provava nei loro confronti. E loro ricambiavano quell'astio con metodi più diretti.

Ogni sera – quella che loro chiamavano sera, visto che era impossibile dirlo nel buio della grotta – quando si buttava esausto sulla brandina, si trovava a contare i lividi del giorno e Yinsen lo ascoltava impotente mentre gli esponeva dettagliatamente, con voce glaciale, come si sarebbe liberato e soprattutto "cosa avrebbe fatto di loro" una volta libero. Il discorso di solito deviava su cosa avrebbe fatto non appena tornato a casa, il che comprendeva puntare dei missili a lungo raggio su quella zona e scatenare un potenziale Armageddon. Preferiva addormentarsi in fretta, perché dopo averlo ascoltato per qualche minuto non sapeva più se le parole di Tony e le visioni che evocavano gli provocassero più ribrezzo o piacere. Lo lasciava a parlare da solo nel buio, mentre la sua voce stremata si riduceva a un sussurro sempre più fievole fino a spegnersi del tutto. Solo allora sembrava svuotato, e si lasciava vincere anche lui dal sonno. Se avesse continuato così, sarebbe morto senza neanche rendersene conto. Yinsen si riscosse e si schiarì la gola.

«Stark,» ripeté, con più veemenza.

«Che c'è?» proruppe lui, sempre senza voltarsi.

«Non ne è valsa la pena,» disse lapidario.

Tony stavolta lo scrutò da sopra la spalla, corrucciato.

«Per me sì. Quello è il bastardo che mi ha quasi affogato,» replicò con voce vibrante di rabbia.

«E allora?»

Tony sembrò confuso a quella domanda, ma rispose con la stessa veemenza.

«Allora ho il diritto di rispondergli come mi pare e piace.»

«E di prenderti il calcio del suo fucile in faccia.»

Yinsen sospirò vedendo che Tony si tamponava con più forza il labbro sanguinante ostinandosi a non farsi sfuggire neanche un lamento.

«Quando parlavi di "speranza" non pensavo intendessi quella di farti ammazzare prima del tempo perché non riesci a tacere e a tenere un basso profilo,» lo rimbrottò aspramente.

«Non possono uccidermi finché non completo il missile,» replicò lui con tracotanza. «Ma questo non vale per me: scommetto che anche se ne facessi fuori un paio non oserebbero torcermi un capello prima di avere tra le mani un Jericho funzionante.»

L'altro non replicò, ma continuò a parlare come se non fosse mai stato interrotto, stavolta con voce grave e quasi rassegnata:

«Soprattutto, non pensavo che fossi così vulnerabile alle tue stesse emozioni.»

A quel punto Tony si alzò in piedi, frastornato. L'espressione del suo compagno di prigionia sembrava quella di un vecchio professore che avesse appena constatato i mancati progressi di un alunno che aveva un tempo ritenuto brillante. Allargò le braccia in un gesto di esasperazione.

«E questo che diavolo vuol dire?» la sua voce virò quasi sullo stridulo.

Anche Yinsen si alzò, e parlò con quella che l'uomo riconobbe come tristezza:

«Vorrei che a portarmi fuori di qui fosse un uomo che impara dai suoi errori e combatta per liberarsi, non una bestia che ha scelto di massacrare degli uomini per puro compiacimento personale.»

Tony lo fissò sconcertato e aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di riuscire a ribattere:

«Sono terroristi! Mi stai davvero chiedendo di avere pietà di loro? Ci hanno rinchiuso qui dentro e torturato!» Il suo volto era distorto dalla rabbia. «Sono loro che vanno in giro a mettere bombe sotto le auto, a fucilare chi non collabora con loro e a spedire bambini imbottiti di esplosivo nelle piazze!» elencò in un crescendo di rabbia e disgusto, tanto che la sua voce finì per tremare.

Yinsen annuì, per poi ribattere con la massima calma:

«E tu ovviamente li uccideresti per fare giustizia, non perché grazie a loro hai delle schegge nel petto che rischiano di spaccarti il miocardio, né perché vivi attaccato a una batteria, né perché ti hanno torturato e ti stanno facendo morire di stenti in questa grotta, vero? Tra l'altro, vorrei ricordarti chi ha progettato, costruito e venduto le armi per fare tutto ciò che hai appena elencato.»

Tony non riuscì a sostenere il suo sguardo limpido e inquisitore e finì per abbassare il proprio.

«Se vogliamo uscire di qui dovremo ucciderli. Spero che tu te ne renda conto,» commentò comunque, pungente.

«Certo che dovremo ucciderli: con un proiettile pulito in testa o una bomba ben piazzata. Non bruciandoli vivi o affogandoli o mutilandoli o in alcuno degli altri modi che mi hai accuratamente descritto,» la voce di Yinsen era stranamente fredda e severa, poi si addolcì un poco. «Qui non si tratta di quanto sia necessario ucciderli per evadere, ma di quanto lo sia per te

Tony strinse le labbra in una linea dura, scegliendo per una volta il silenzio come risposta.

«Pensi che non abbia notato il modo in cui li guardi?» lo incalzò allora il dottore.

Tony si sentì improvvisamente a disagio. Yinsen sembrava sapere il fatto suo quando parlava di esecuzioni e brutalità e si chiese quante persone avesse ucciso in vita sua. Sicuramente era molto più pratico di lui che, nonostante il suo mestiere richiedesse che fosse informato riguardo a qualunque ambito bellico, non si era mai trovato nella condizione di dover ricorrere alla violenza in prima persona, né ne aveva mai sentito l'esigenza, esclusa qualche rissa di poco conto. Aveva visto la morte, l'aveva vista distesa su due barelle d'obitorio coperte da lenzuola immacolate. Ma quella era stata una morte ricomposta, fredda, in cui le tracce di sangue gli erano sembrate quasi false e dipinte ad hoc su una tela umana per annunciargli di essere rimasto solo. Una morte distante che a volte aveva l'impressione di non aver visto davvero coi propri occhi.

Nemmeno la rabbia non era per lui un'emozione nuova, l'aveva provata in sordina anche all'epoca contro tutto e niente, ma l'aveva sempre incanalata nel suo sarcasmo e nelle sue battute caustiche per ferire qualcuno, se mai ne aveva sentito il bisogno. Ma quando l'immagine del capo dei Dieci Anelli gli balenava davanti nei suoi incubi, o lo vedeva entrare nella loro cella, il suo primo impulso era sempre quello di provocargli quanto più dolore fisico possibile. Ritornò con la mente alla prima volta in cui si erano confrontati, a come se ne fosse rimasto ad osservarlo con quegli occhi d'onice mentre lui annegava a poco a poco in un barile, quasi pregustando il momento in cui il suo respiro sarebbe diventato un gorgoglio asfittico. Al solo pensiero si fece strada dentro di sé quel calore bruciante e ormai familiare che gli faceva pulsare la testa e torcere le viscere, mentre ogni livido e contusione sul suo corpo provato doleva come la prima volta e i suoi polmoni bruciavano gridando contro l'acqua letale. Improvvisamente si chiese se, messo nella condizione di poterli uccidere tutti, sarebbe stato in grado di farlo. Aveva già elaborato un piano per evadere e, visto ciò che comportava, ucciderli non sarebbe stato solo possibile, ma anche estremamente facile. E no, non avrebbe esitato un istante a sporcarsi le mani.

«Li odio,» sibilò a denti stretti, senza cercare di nasconderlo minimamente; un brivido lo percorse nel sentire la sua voce trasfigurata e tremante.

Sentì una morsa chiudergli lo stomaco mentre le successive parole di Yinsen gli arrivavano come da una grande distanza:

«Lo so,» sorrise mestamente l'uomo. «È per questo, che non devi lasciarti andare.»





 

 



Note dell'Autrice:

Salve a tutti!
Credo che quest'oggi ci troviamo di fronte alla realizzazione concreta delle frasi "chi non muore si rivede" e "a volte ritornano". Non calco più le scene di EFP dalla bellezza di due anni e tutt'a un tratto ho la faccia tosta di rispuntare fuori dal nulla ripescando storie dimenticate, ma mi sentivo in dovere morale di concludere ciò che avevo iniziato. 

Avviso: qui sotto vi aspetta una tiritera infinita su questioni pseudo-filosofiche.

L'idea per il capitolo è nata da una discussione che ho avuto riguardo a quanto sia giusto uccidere qualcuno per vendetta. Voglio chiarire che in questo scritto non se ne sta facendo un problema di morale in senso stretto (per me uccidere è sempre sbagliato), ma piuttosto di conseguenze individuali: ovvero quanto l'atto di uccidere si possa ripercuotere sulla nostra psiche e sulle nostre azioni se ciò viene fatto per motivi personali. 
La mia opinione in proposito è che uccidere qualcuno spinti dall'odio rischia di desensibilizzare dall'atto stesso di uccidere, soffocando il naturale senso di colpa che ne conseguirebbe e portandoci a sottovalutare il valore stesso della vita degli altri (vedere delirio di onnipotenza che coglie molti soldati sul campo di battaglia). In molti libri, film e quant'altro le storie accennano o trattano proprio di vendetta e del suo compimento, quindi mi rendo conto che molti la pensano diversamente.
Tornando al piccolo di questo capitolo: q
uello che ho voluto far trasparire sfruttando la voce di Yinsen è che togliere la vita a qualcuno potrebbe essere giustificabile se in situazioni estreme -appunto, per scappare da un branco di terroristi-, ma va distinto chiaramente se ciò avviene per necessità o per puro desiderio di vendetta, oltre che se in modo umano o meno. Qui il punto è cosa si potrebbe rivelare nocivo per Tony in questo frangente. Nel suo caso, dopo aver dispensato per anni strumenti di morte senza venire emotivamente coinvolto nel processo, porsi in prima linea e sporcarsi le mani volontariamente e quasi con piacere non porterebbe a risultati piacevoli. Tony ha accesso a un arsenale che in nome della "giustizia", potrebbe tranquillamente scatenare a suo piacimento, trasformandolo nel villain della situazione. Un dialogo del genere avrebbe spiegato perché, più avanti nel film, Tony non uccida direttamente nessuno ponendosi come giustiziere/vigilante, ma lasci al "popolo" il compito di punire il cattivo di turno.
Chiuso l'immane ex-cursus, aspetto opinioni e commenti in proposito, perché il confronto è sempre bello e costruttivo.

Hoc dicto, io sparisco e aspetto il tradizionale lancio di frutta e ortaggi dal pubblico.
Valete

-Light-

P.S. grazie a
Angel27 che, inconsapevolmente, mi ha riportata sulla retta via della scrittura con un recensione inaspettata e grazie a D. che mi offre sempre ottimi spunti per parlare di dilemmi esistenziali.
P.P.S. Il titolo è un blando riferimento a un discorso in cui Mandela dice che l'odio non nasce spontaneamente, ma viene inculcato o acquisito nell'ambiente in cui si vive. Subito dopo dice che l'uomo è più incline ad amare che odiare, giusto per dare un po' il beneficio del dubbio a tutto ciò che ho scritto :'D
 

 

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Capitolo 5
*** Una casa dove la famiglia ti aspetta ***


4

Una casa dove la famiglia ti aspetta

 

 

 

"Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto."

[Seneca da De Brevitate Vitae]



"Essere rinchiusi in una grotta per tre mesi ti spinge a cercare dei momenti di normalità. Dopo un po' cerchi di non pensare più a quanto sia scomodo dormire per terra, ma a quanto sia stranamente bello starsene vicino al fuoco a chiacchierare fingendo che vada tutto bene. Avevo anche molto più tempo per pensare. Improvvisamente, scoprivo di avere sensi di colpa e rimpianti che avevo sempre ignorato. La mia vecchia vita non mi sembrava più così idilliaca."

 

*

 

«Attento.»

«Lo so.»

«È passato troppo tempo.»

«Mi lasci fare il mio lavoro?»

«Dottore, il tuo lavoro è tenermi in vita...»

«E ci sto riuscendo egregiamente.»

«... perciò dovresti lasciare a me il comparto tecnico, vista la tua scarsa dimestichezza,»

«Un magnete collegato a una batteria mi sembra un livello tecnico ragguardevole.»

«Permettimi di dissentire.»

«Scusa, dimenticavo che non ho una laurea al MIT come te.»

«Non serve una laurea summa cum laude al MIT per cucinare un po' di couscous.»

«Infatti ci sto riuscendo egregiamente.»

«Si sta per scuocere. E tieni quella pentola lontana dalla mia batteria.»

«Taci e cuoci le verdure.»

«Sissignore, ma se mandi in fumo il mio primo pasto decente in tre settimane giuro che ti lascio l'onore di saldare tutti i circuiti del Jericho da solo

«Non ti agitare, che ti fa male al cuore.»

«Si sta scuocendo, quindi mi agito.»

«Perché adesso sapresti anche cucinare.»

«Ci sono poche cose che non so fare. E so cucinare. Le omelettes mi vengono benissimo, per esempio.»

«Pensavo che avessi una schiera di cuochi e camerieri ai tuoi ordini.»

«Sono un miliardario playboy, non uno sceicco. Ma so riconoscere un couscous scotto.»

«E io so riconoscere delle verdure carbonizzate... da' qua.»

«Fai pure, avvelenaci con roba cruda. Chissà dove l'hanno rimediata... sei proprio sicuro di volerla mangiare?»

«Non sarà quello a cui sei abituato tu, ma non hanno alcun vantaggio ad avvelenarti. E ho fatto notare al nostro "boss" che una dieta a base di soli fagioli non ti avrebbe permesso di vivere a lungo, quindi è nel loro interesse tenerti in salute.»

«Ciò mi rassicura. Comunque sia sto benissimo, magneti a parte. Come li hai convinti?»

«Ho detto loro che eri a rischio di scorbuto.»

«Molto credibile, ma i miei denti sono ancora tutti al loro posto.»

«Ho mentito. Loro non hanno una laurea in medicina.»

«Mh. Buon per te, ma adesso il couscous lo stai bruciando. Mi ridaresti la padella?»

«So quel che faccio, Stark.»

«Sta iniziando a fumare. Come sei sopravvissuto finora? Mangiando radici?»

«Era mia moglie a cucinare.»

«Questo spiega molte cose... e scommetto che ti teneva lontano dai fornelli.»

«In effetti cucinava molto meglio di me.»

«Non le stai facendo un gran complimento, visto il tuo talento. Dov'è adesso?»

«A casa.»

«In Afghanistan?»

«A Gulmira.»

«Oh. Brutto posto. Lei è da sola?»

«I miei figli sono con lei.»

«Almeno ha compagnia. Ti staranno aspettando.»

«Già da molto tempo, ormai. Voilà, la cena è pronta.»

«Sembrerebbe commestibile. Assaggia tu per primo, però.»

«I tuoi non ti hanno insegnato a mangiare quello che hai nel piatto senza fiatare?»

«No, non c'erano mai per dirmelo.»

«Questo spiega molto sul tuo caratteraccio.»

«Prenditela con mio padre, ovunque sia.»

«Ti sta aspettando?»

«È morto.»

«Mi dispiace.»

«Fa niente. Non era decisamente il tipo da perdersi in sentimentalismi.»

«Era tuo padre. Ti avrebbe aspettato.»

«È un po' tardi per pensarci. Comunque non c'è nessuno che mi aspetti se non i giornalisti.»

«Non hai famiglia?»

«Ho un'industria. Le due cose difficilmente coesistono.»

«Anche essere Tony Stark ha degli svantaggi, allora.»

«Quando produci cose che sparano ed esplodono tendi a non stare troppo simpatico alla gente.»

«Concordo.»

«Ammettilo: se non fossi la tua unica speranza di uscire di qui mi avresti lasciato morire.»

«Il pensiero mi ha sfiorato.»

«Ah! Apprezzo la franchezza. Fai così con tutti quelli che conosci?»

«Non conosco molta gente, a parte i nostri amici dei Dieci Anelli.»

«Consolati, almeno non hai sempre a che fare con dei ricconi viziati che si ricordano che esisti solo quando organizzi una festa.»

«Gente simpatica.»

«Per loro potrei anche chiamarmi "Gatsby".»

«Organizzi feste per ritrovare una vecchia fiamma?»

«Non sono così ossessivo. E di "fiamme" ne ho anche troppe.»

«Perché, allora?»

«Ho un sacco di tempo libero.»

«Immagino.»

«E una villa enorme.»

«Lo so.»

«Con un sacco di auto di cui vantarmi, un laboratorio iper-accessoriato e un'intelligenza artificiale che si chiama Jarvis come il defunto maggiordomo dei miei.»

«Non dà l'idea di una casa allegra.»

«A volte è un po' vuota.»

«Anch'io mi sento solo, a volte.»

«... ti mancano?»

«Da morire.»

«Anche a me manca casa mia. E Rhodey e Happy. E Pepper.»

«Allora qualcuno che ti aspetta c'è.»

«Non so, quei due mi sopportano a forza da decenni... preoccuparsi a morte per me è una specie di routine mensile. E lei è solo la mia assistente. Sarà preoccupata per me, forse. Credo. È difficile.»

«Solo se vuoi renderlo tale.»

«Oh, non attaccare coi tuoi discorsi esistenziali. E non guardarmi con quell'aria da strizzacervelli.»

«Non oserei mai.»

«Ti stai divertendo un mondo, vero?»

«Stai facendo tutto da solo.»

«Appunto. Ti ho detto che è difficile.»

«Proverò a comprendere.»

«Cavoli, le soap-opera devono proprio esserti mancate.»

«Io non ho detto nulla.»

«È una mia dipendente. In pratica è sul mio libro paga.»

«Se pensasse solo ai soldi non sarebbe preoccupata per te.»

«È puro... affetto professionale. No, non intendevo...»

«Ti sta aspettando.»

«... lo spero.»

«È tutto ciò che conta, allora.»

«Immagino di sì.»

«Da quanto lavorate assieme?»

«È diventato un terzo grado, questo?»

«Parliamo del Jericho che dobbiamo assemblare?»

«Saranno... quasi dieci anni, anno più, anno meno.»

«Dieci, eh?»

«Già.»

«A cos'è che serviva una laurea summa cum laude?»

«Oh, chiudi il becco.»

 

*


«Comunque, il couscous era ottimo.»

«Ricetta di famiglia.»

 



 

  Note dell'Autrice:

"Ho già tutti i capitoli pronti, oh oh oh!" [cit. scorso capitolo]
Se... su un quaderno. Avevo dimenticato che mi ci vogliono diciotto ore per trascrivere una pagina. E sono venti pagine.
Vabbè, eccolo qua, seppur in ritardo.


Ho ricominciato a scrivere da poco, mi sento audace e me ne esco con esperimenti del genere. Ho sempre voluto scrivere una scena portata avanti dai soli dialoghi, anche se l'ho trovato molto arduo. Però mi sono anche divertita, quindi spero sia uscito fuori qualcosa di leggibile e magari anche divertente :)
Per quanto riguarda il rapporto Tony-Yinsen, non arriverei a definirlo un'amicizia, piuttosto un sentimento di rispetto reciproco in cui la fiaccola morale è ovviamente il dottore. Nonostante il periodaccio che Tony sta passando, ha pur bisogno di qualcuno con cui sfogare il suo sarcasmo, soprattutto dopo aver capito che le guardie non sono buoni interlocutori... e niente, mi andava di alleggerire un po' la raccolta.
Il titolo si rifà al quello di un capitolo del manga Fullmetal Alchemist e sta là perché ascoltavo la colonna sonora dell'anime a loop mentre scrivevo. E Seneca sta là perché mi perseguita.
Altre note puntigliose: 1)La battuta su Gatsby è lì perché nella mia testolina esiste un parallelismo tra lui e Tony; 2)La laurea di Tony è da 110 e lode, ma sembrava più altisonante summa cum laude, che è il corrispettivo anglosassone ufficiale. Francamente non l'ho mai sentito in Italia, ma potrei sbagliarmi.

Chiudo il papiro, grazie ad
_Atlas_ (intrepida fedele <3) che ha recensito lo scorso capitolo!
All my loving,

-Light-

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Capitolo 6
*** Do not go gentle into that goodnight ***


5

Do not go gentle into that goodnight

 

 

"Possono, perché credono di potere."

[Virgilio dall'Eneide]



"La cosa peggiore era il senso di frustrazione che aumentava giorno dopo giorno.
Ero considerato uno dei luminari del nuovo secolo, l'inventore più prolifico degli ultimi anni, un genio dalle mille idee. Eppure, solo allora mi sono reso conto che avevo passato dieci anni della mia vita adagiato sugli allori, e che l'unico lavoro manuale che avessi svolto era stato modificare le mie macchine sportive e costruire qualche robot per svago. Non riuscivo più a pensare. Era come se la mia mente si fosse ottenebrata all'improvviso, e dentro di me sapevo che la causa era la mia paura. Paura dell'umiliazione, del dolore, della morte, ma anche della vita e di tutto ciò che poteva ferirmi. Non riuscivo a contrastarla.
Ciò mi rendeva furioso."

 

*


Per l'ennesima volta, Tony inciampò sul terreno sconnesso e rischiò di cadere. Barcollò, stringendo la batteria al petto e sostenendosi affaticato alla parete rocciosa del tunnel. Subito la canna di un fucile premette contro la sua schiena incalzandolo a riprendere la marcia, accompagnata da un'esclamazione più simile a un latrato che a una voce. Forse, se avesse avuto la forza per parlare e camminare allo stesso tempo, avrebbe replicato con un qualche commento pungente, ma al momento le fitte al costato gli suggerivano di non creare ulteriori problemi e di risparmiare il fiato per quando avrebbe avuto qualcosa di sensato da dire.

Yinsen era stato cristallino, riguardo alle sue condizioni fisiche: poteva morire da un momento all'altro. Poteva solo evitare di procurarsi ulteriori acciacchi. Quindi non era il timore dei barbigli incastrati a pochi centimetri dal suo cuore a frenarlo – per quello non poteva fare nulla – ma la preoccupazione per la sua presunta costola incrinata. In realtà prima era semplicemente ammaccata, poi aveva avuto a ridire con una guardia riguardo al quantitativo di titanio necessario per il Jericho. La discussione si era fatta animata ed era stato il calcio robusto di un Kalašnikov a porvi un netto termine. A detta del dottore, se se la fosse rotta avrebbe gridato di dolore anche solo respirando, viste le condizioni generali pietose in cui versava suo torace. Aveva poi continuato a blaterare in termini medici volutamente incomprensibili riguardo a pleure, pericardi ed emorragie interne, fino a che Tony non si era lasciato strappare la riluttante promessa di evitare rappresaglie da quel momento in poi. A dir la verità, i suoi atti di ribellione si erano rarefatti spontaneamente nel corso dell'ultima settimana.

Lanciò un'occhiata astiosa alla guardia dietro di lui, ma riprese a camminare, sebbene con ostentata lentezza. Di tanto in tanto sentiva ancora il bisogno di ribadire quanto detestasse loro e la sua prigionia, ma aveva finito per convenire con Yinsen sul fatto che adottare un profilo più basso nella sua fase di convalescenza fosse la mossa più intelligente. Almeno finché non avesse elaborato un piano.

Senza preavviso gli venne calato in testa un cappuccio scuro. Il primo istinto fu quello di divincolarsi, ma si trattenne, anche se il cuore iniziò a martellargli nel petto in una morsa che riconobbe come quella familiare della paura. Una realizzazione improvvisa gli balenò in testa e si costrinse ad ignorarla: non aveva senso separarlo da Yinsen e portarlo fuori dalle grotte solo per ucciderlo – per un'esecuzione. Ciononostante si sentì gelare e le gambe si fecero più pesanti, perché sapeva perfettamente di essere in ritardo sulla tabella di marcia con la costruzione del missile e che non aveva a che fare con persone pazienti o tantomento civili.

La sua mente entrò in stallo. L'unico impulso che sentiva era quello di correre, ma sapeva che, se anche fosse riuscito a controllare le sue gambe pesanti come piombo, sarebbe stato freddato da una raffica di mitra. O peggio. Il barile, l'acqua torbida, i polmoni che spasimano in cerca d'aria dibattendosi nella sua gabbia toracica in fiamme. Deglutì, sentendosi sciogliere di terrore. La canna del fucile si staccò dalla sua schiena e un vuoto a precipizio gli rapptrappì lo stomaco, ma l'arma riprese a pungolarlo dopo pochi istanti. Continuò a camminare, come in trance.

Sarebbe arrivata, prima o poi. Quella pallottola in testa incombeva su di lui dal momento in cui si era svegliato, e non riusciva ancora a dissuadersi dal pensiero che fosse la via più breve per uscire di là. Anche se cercava di venire a patti con questa conclusione, un terrore cieco lo avvolgeva ogni volta che si soffermava su quella possibilità, ed era quello che gli intorpidiva la mente e gli paralizzava le membra e lo frenava dal ribellarsi, preferendo l'umiliazione alla morte.
Inciampò ancora, e stavolta scivolò su un ginocchio col fiato mozzo. Quanto in basso poteva cadere?

 

*


Dopo un tempo che gli parve infinito, la guardia lo arrestò bruscamente stringendogli la spalla in una morsa. Tony approfittò della pausa per sistemare meglio la batteria. Gli avevano legato le mani davanti a sé, incastrando il dispositivo tra le sue braccia, che adesso iniziavano a risentire del peso non indifferente. La strinse più forte in un abbraccio forzato. Perché usassero così tante precauzioni con un morto che camminava, rimaneva per lui un mistero.

I suoi occhi, anche se ormai indeboliti dai neon traballanti e dalle fioche lampade a petrolio, percepirono un lieve cambiamento di luminosità oltre lo spesso strato di juta del cappuccio. Un refolo d'aria calda gli sfiorò il viso, insinuandosi sotto il tessuto. Lo stavano portando fuori? Quasi inconsciamente accelerò il passo. L'ultima volta che aveva visto il sole sembrava mesi fa, mentre era riverso sulla sabbia del deserto con addosso un inutile giubbotto di kevlar, quando tutto ciò a cui riusciva a pensare era la foto che aveva scattato coi ragazzi della sua scorta poco prima di vederli ridotti a brandelli dalla sua bomba e le esplosioni delle raffiche a un soffio da lui e la sensazione di sentirsi squarciare il petto da un grappolo di scintille roventi e che non sarebbe stato così male morire lì sotto quel cielo troppo, assurdamente azzurro.

Capì di essere all'aperto quando sentì un piacevole tepore sulla pelle. La paura scomparve per qualche istante e sentì i muscoli rilassarsi per la prima volta dopo tanto tempo. L'idillio fu rotto dal solito mitra che lo incitava a camminare in mezzo alle vertebre e che poi gli si piantò dolorosamente e con intento sulla costola offesa. Si ritrasse istintivamente, ma si voltò a fronteggiare la guardia, pur non vendendola.

«Toglimi il cappuccio.»

La voce gli uscì quasi in un ringhio. Sapeva che da un momento all'altro si sarebbe trovato bocconi nella polvere, ma adesso sentiva le gambe più salde di quando brancolava nel buio delle grotte. Un aspro ordine risuonò nell'aria, e quando riconobbe la voce ogni briciolo di coraggio sembrò sgretolarsi dentro di lui. Si irrigidì, non osando girarsi verso l'uomo che sapeva essere alle sue spalle, a pochi passi da lui. Altre parole incomprensibili lo raggiunsero, ma quasi non le distinse oltre il sangue che gli rombava nelle orecchie.

Un paio di mani robuste lo afferrarono per le braccia e due uomini lo scortarono per una decina di metri, un po' trascinandolo, un po' sospingendolo. Lo inchiodarono di malagrazia su una sedia e solo allora gli strapparono il cappuccio dal volto. Il bagliore fu tale che sentì gli occhi riempirsi di lacrime e fu costretto a serrarli, accecato. Si arrischiò a socchiuderli e la luce lo ferì di nuovo, ma stavolta riuscì a distinguere ombre vaghe e distorte. Dopo vari battiti di palpebre, il mondo acquistò contorni più solidi. Il mondo in questione consisteva in sassi, sabbia, tende sparse e un crinale di roccia riarsa che circondava quello che sembrava un accampamento. Davanti a lui c'era un rozzo tavolo di ferro; un telo scuro sorretto da quattro pali lo schermava dal sole spietato del tardo pomeriggio afghano. Ovunque vedeva uomini armati. Ne contò più di una ventina e gli venne quasi da sorridere amaramente al pensiero delle discussioni interminabili sul numero di guardie che aveva avuto col dottore. Un'altro dettaglio avvilente era l'enorme quantità di casse recanti il marchio Stark Industries che vedeva stipate in ogni angolo.

Percepì un movimento al margine della sua visuale e si voltò di scatto, ritrovandosi a fissare l'uomo che più odiava al mondo che si era appena seduto di fronte a lui, osservandolo con un'espressione indecifrabile nei suoi acuti occhi d'onice. Tony deglutì, cercando di convincersi che essere ancora vivo a quel punto doveva essere un buon segno.

«Mi scuso per la brusca convocazione,» esordì il terrorista, con un accento marcato, e nonostante il tono fosse apertamente beffardo, non l'ombra di un sorriso incrinò il suo volto. «Ho pensato che fosse il momento di rivedere il nostro contratto lavorativo.»

Tony non sapeva se detestare più il suo tono di scherno o il fatto che si ostinasse a utilizzare un linguaggio da persone civili. L'ultima volta che avevano discusso di affari si era ritrovato con la testa in un barile pieno d'acqua ed era quasi affogato durante le trattative; non si sentiva molto in vena di ripetere l'esperienzaPer quanto si stesse sforzando di non dare troppo a vedere il suo nervosismo, sapeva di essere pallido come un cencio e non era sicuro che il tremito delle sue mani fosse così impercettibile. Per cercare di apparire disinvolto, si arrischiò a poggiare la pesante batteria sul tavolo, districando finalmente i polsi ancora legati e indolenziti, cerchiati di rosso. Non poté fare a meno di sobbalzare quando l'uomo posò una mano sul congegno, ma non fece altro che spostarlo di lato per evitare che fosse in mezzo a loro. Si maledisse per quella reazione; era sicuro che quel bastardo si stesse divertendo da matti. Sfuggì di nuovo il suo sguardo, lanciando occhiate suo malgrado incuriosite al resto del campo, annotando mentalmente la collocazione di esplosivi ed armi. Un solo colpo ben assestato e avrebbero fatto un bel botto, se solo...

«Cerchi una via di fuga, Stark?» l'altro troncò i suoi pensieri, riportando a sé la sua attenzione.

Una risposta pungente gli salì spontanea alle labbra, ma la soffocò. Doveva rimanere lucido, anche se sentirsi deridere a quel modo gli bruciava terribilmente.

«Hai il permesso di parlare,» aggiunse l'altro con condiscendenza, prendendo atto del suo insolito silenzio.

Tony si sentì avvampare per l'umiliazione, ma sapeva che una sola parola sbagliata poteva essere la sua condanna. Non raccolse la provocazione e diede invece voce a un pensiero che lo tormentava già da un po'.

«Cerco solo di capire quante delle mie armi siano finite qui.»

La voce gli tremò un poco, ma sperò che la scambiasse per rabbia e non per paura. Le due emozioni erano comunque intente ad accapigliarsi sulla sua lingua.

«Si può dire che le Stark Industries siano diventate il nostro fornitore ufficiale.,» rispose l'altro, sibillino.

Iniziò a tamburellare sul tavolo con le dita, come pensieroso. Tony non aveva bisogno di girarsi per sapere che un uomo armato con un suo mitra era due passi dietro di lui, pronto ad eseguire qualsiasi ordine gli venisse dato. Respirò a fondo, per quanto gli fu possibile. La pallottola sarebbe arrivata, prima o poi, non poteva impedirlo. Finalmente il terrorista ruppe quel ritmo snervante.

«Come procede il lavoro, Stark?»

Si impose di nuovo la calma.

"A meraviglia. Hai mai provato ad usare una saldatrice che rischia di esploderti in mano da un momento all'altro mentre provi a tenere una batteria fuori dalla portata delle scintille? Rende il lavoro molto più avvincente... a proposito, sai che esiste uno statuto dei lavoratori?"

«A rilento,» riuscì ad articolare, nel tono più piatto che gli riuscì, maledicendo la vena di sarcasmo che cercava sempre di emergere nei momenti meno opportuni.

L'altro finse un'espressione stupita.

«E perché mai?»

"Scegli la tua versione: perché avere un magnete nel petto che rischia di spegnersi da un momento all'altro potrebbe essere un impedimento non trascurabile o perché ordinare ai tuoi tirapiedi di picchiarmi un giorno sì e l'altro pure non è un buon incentivo per aumentare la mia produttività."

«Sto facendo quel che posso,» disse accennando rigidamente alla batteria.

Gestire i suoi pensieri si stava facendo più complesso e sperò di non scivolare in lapsus poco vantaggiosi.

«Stark, vorrei che tra noi parlassimo francamente.»

"Francamente, non vedo l'ora di ammazzarti."

«Hai avuto il tuo periodo di convalescenza,» gli fece notare. «Adesso mi aspetto che tu lavori a pieno ritmo.»

«Altrimenti?» stavoltà non riuscì ad evitare che la replica gli sfuggisse.

Il resto delle parole gli morì in gola. Che lo uccidessero pure, si ritrovò a pensare. Lo sguardo dell'altro uomo si fece improvvisamente gelido e pericoloso e già si aspettava di sentire un fucile premergli contro la nuca.

«Altrimenti dovrò dedurre che il dottor Ho stia avendo un'influenza negativa su di te.»

Tony sentì la bocca farsi improvvisamente secca come la sabbia che lo circondava. Ancora una volta, represse insulti e risposte amari come la bile, ma non provò nemmeno a stemperare lo sguardo astioso che rivolse al suo carceriere.

«Stai forse avendo qualche ripensamento riguardo al nostro accordo?» lo stuzzicò ancora l'altro, mellifluo.

Si sentì ribollire d'odio, ma il sentimento scemò quasi all'istante e con esso la sua rabbia. Nulla di tutto ciò l'avrebbe portato da qualche parte. Adesso riusciva a pensare più lucidamente: era come se il velo di nebbia si fosse squarciato e il suo cervello avesse ripreso lentamente a funzionare, metodico come un tempo. In quel momento non stava decidendo solo della propria vita, ma anche indirettamente di quella di Yinsen, dei suoi carcerieri e di tutti quelli che avevano e avrebbero sofferto a causa sua e delle sue armi. La sua mente tornò ai corpi straziati della sua scorta riversi nella polvere e alle cicatrici indelebili che segnavano quel Paese, che aveva volutamente ignorato al suo arrivo. Non aveva il diritto di morire. Era un lusso che non poteva concerdersi, e significava condannare altre persone innocenti con sé. Significava condannare Yinsen. E non importa quale piano di fuga avesse intenzione di ideare: tutti quanti, ogni singola versione includeva il liberare e portare con sé quel medico severo e dall'animo buono che gli aveva salvato la vita. A lui, Tony Stark, un ingrato che forse, per una volta in vita sua, avrebbe potuto non essere tale.

Batté le palpebre, schiarendosi la vista sfocata, doppia per l'ansia. Adesso doveva chinare il capo. Sarebbe stata la prima di molte altre volte, ma non l'avrebbe fatto per paura. Doveva aspettare, resistere, essere un po' meno Tony Stark. Infisse i suoi occhi accesi nei pozzi neri e inespressivi dell'altro uomo, che sembrava quasi sfidarlo a ribellarsi. Li abbassò con deliberata lentezza.

"Fanculo, voi, il Jericho e tutte le Stark Industries."

«Il missile sarà pronto in tre mesi,» mormorò senza quasi muovere le labbra.

«Ne hai già avuto uno di vacanza. Te ne concedo due.»

«Basterà,» replicò lui, atono: aveva raggiunto l'accordo che voleva.

L'altro si accorse del suo piccolo raggiro, e si sentì tenuto ad aggiungere, quasi in un sibilo:

«Se entro una settimana non vedo progressi evidenti, il dottore muore. E se ti rifiuti ancora di lavorare, ti stacco quella calamita e ti lascio ad agonizzare nel deserto.»

Tony si lasciò scorrere addosso quella minaccia, acqua fredda lungo la sua schiena, e si limitò ad annuire, toccando però inconsciamente il magnete nel suo sterno.

Il terrorista si alzò, segnando la fine del colloquio, e lui lo imitò senza aspettare il suo permesso, sorreggendosi al tavolo. Il suo sguardo si posò sulla batteria, fissandola con un misto di disgusto e rassegnazione mentre la prendeva di nuovo in braccio con fare protettivo. Il sole iniziava a tramontare e le rocce stavano assumendo sfumature rossastre e sanguigne. Si ritrovò a pensare ai tramonti  a picco sull'oceano a Villa Stark, ai quali aveva prestato sempre troppa poca attenzione. L'altro uomo sembrò leggergli nel pensiero.

«Costruisci il Jericho, e tra poco sarai a casa e potrai ricordare tutto ciò come una brutta avventura. Dacci solo ciò che vogliamo, e ti libereremo.»

"No, che non lo faremo," diceva però il suo sguardo di vipera, come quello del suo braccio destro qualche tempo prima.

Fece un brusco cenno alla guardia che l'aveva scortato fin laggiù e quella si portò alle sue spalle per portarlo di nuovo in cella. Lui lanciò un'ultima occhiata al suo carceriere e un sorriso amaro incrinò le sue labbra.

"No, che non lo farete."

Un cappuccio calò di nuovo sul suo volto tirato, celando i suoi occhi simili a braci morenti e cupe che si rifiutavano di spegnersi.

"Lo farò io."


 


 

Note Dell'Autrice:

Buonsalve, prodi lettori!
Sssì, sono in ritardo. L'università risucchia il mio tempo. E anche Dark Souls, ma chiudiamo la parentesi nerd.

La poesia di Thomas la lessi durante il liceo e me la sono ritrovata menzionata in Interstellar. È dunque anche un omaggio a quel film meraviglioso <3 
La frase di Virgilio, tratta dal Libro V dell'Eneide, si volge a una doppia interpretazione che trovo molto adatta al contesto; ovvero può essere intesa in senso positivo (forza di volontà) o negativo (abuso di potere) anche se il caro poeta la intendeva solo in quello positivo. Ma io fo' come voglio perché fregacazzi le licenze poetiche sono belle. C'è una presenza troppo massiccia di latini in queste pagine, ma il classico non ti molla più...

Sintesi: questo capitolo è RìBélLé!!11! Seriamente, il concetto espresso è molto basilare ma, mi piaceva l'idea che Tony avesse preso una posizione un po' più salda nel momento in cui si è reso conto che non si trattava solo di lui come individuo, ma che dalla sua morte sarebbe scaturita un'estesa serie di conseguenze. 
Chiudo il poema ringraziando i recensori dello scorso capitolo che, sorpresona, sono stati più di quanto mi aspettassi. Grazie a Kane0042, _Atlas_ e _Stark che hanno recensito lo scorso capitolo. Spargo cuori per voi <3 

On an (mostly) unrelated note: qualcuno nelle recensioni mi ha chiesto di Phoenix, la FF a quattro mani con la mia collega ___Moonray, e posso annunciare con certezza che verrà portata a compimento. Non so dire quando, potrebbero passare mesi come anni, ma sarà finita. Ma non voglio spammare qui, era un'info generale a chi fu seguace di quell'ammasso di angst.
Con ciò, mi dileguo.

до свидания (il Russo mi uccide e perseguita)

-Light-

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Capitolo 7
*** A mani nude ***


Capitolo 6

A mani nude


 

 

"Ogni abitudine rende la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno."

[F. Nietzsche da La Gaia Scienza]
 



"Uno dei miei primi ricordi è il laboratorio di mio padre, nel quale mi era ovviamente vietato entrare. Adesso, nonostante tutti i suoi rimproveri, mi rendo conto che se davvero non avesse voluto che ci entrassi l'avrebbe semplicemente chiuso a chiave. Ma io lo trovavo sempre aperto e mi ci rifugiavo. Era il mio personale luna park, il mio Paese dei Balocchi a portata di mano e senza effetti collaterali.
Anche da adulto, ho sempre amato più la robotica della gente e mi è sempre risultato molto più semplice relazionarmi col motore di un'auto che con una persona in carne ed ossa. Quello che costruivo e costruisco mi dà soddisfazione, è qualcosa che dalla mia testa si traspone nel mondo reale, bullone dopo bullone e contatto dopo contatto. È il processo più naturale e allo stesso tempo complesso che io riesca ad immaginare, e mi appartiene.
Che questa mia inclinazione servisse a produrre qualcosa di buono o meno, mi interessava relativamente. Il senso di colpa è arrivato dopo, il disgusto verso le mie innovazioni belliche ancora più tardi. Ma, nel buio di quella grotta, avevo iniziato a temere ciò che ero in grado di creare. Mi sembrava molto più grande di me e mi chiedevo se sarei stato in grado di controllarlo."

 

*

 

«La prossima volta potresti almeno prendere in considerazione l'idea di metterti un paio di guanti,» commentò secco Yinsen, arrotolando una benda sommariamente pulita attorno alla mano di Tony.

Lui si limitò a fare una smorfia e a guardare platealmente dalla parte opposta. Il dottore gli assicurò la fasciatura e si alzò per tornare ai circuiti del Jericho, mentre lui rimase seduto sulla cassa sbilenca. Prima di riprendere a lavorare avrebbe dovuto rendere più sicura quella fiamma ossidrica, o la prossima volta ci avrebbe rimesso un braccio. Si fissò le mani e le strinse in un pugno, sentendole indolenzite. Aveva lavorato ininterrottamente per quasi quattro ore, ma se n'era reso conto a malapena. Detestava ammetterlo persino a se stesso, ma rituffarsi nel lavoro manuale era piacevole. Gli impediva di pensare alla sua situazione, e spesso fingeva di essere di nuovo nel suo laboratorio e che quello che stava costruendo fosse un nuovo motore per le sue auto sportive, non un missile devastante. Era una bella finzione.

Schiuse i pugni e si ritrovò ad osservarsi le mani. La fasciatura sulla sinistra si era già allentata e scurita. Si chiese quando, esattamente, il fatto di avere le mani costantemente ricoperte di polvere e sporco avesse smesso di essere un problema. La terra rossastra delle grotte rendeva visibile ogni linea e venatura che gli solcava il palmo sano. Sfiorò col pollice i calli che si erano venuti a formare a forza di impugnare martelli, fiamme ossidriche e altri attrezzi. Senza contare la miriade di tagli, scottature ed escoriazioni che le costellavano. Il dorso della destra era attraversato da una piaga non ancora guarita, causata dal metallo bollente che vi era caduto sopra. Forse Yinsen non aveva tutti i torti, riguardo ai guanti. Si sfregò la mano sui pantaloni lisi, nel tentativo di ripulirla un poco, ma l'unico risultato fu quello di macchiarsi di grasso per motori.

Prima di partire, le sue mani sembravano quelle di un pianista, eccezion fatta per qualche lieve calletto dovuto ai suoi costanti armeggi in laboratorio. Adesso erano più simili a quelle di un manovale. Sospirò rassegnato e strinse di nuovo il pugno. Si alzò in piedi, sollevò la batteria ed esitò, poi prese di nuovo la fiamma ossidrica dal tavolo, soppesandola esitante. Doveva iniziare a lavorare sul suo piano di fuga, ma una morsa allo stomaco lo frenava mentre pensava alle possibili conseguenze. Lanciò un'occhiata a Yinsen, ancora impegnato a saldare i circuiti della centralina elettronica, poi guardò di sottecchi il cumulo di metallo, cavi e componenti che aveva conservato in un angolo, lontano da occhi indiscreti. Poteva già vedere il suo progetto sorgere da quel mucchio di rottami e portarlo fuori di lì. In quel momento, il peso della batteria divenne terribilmente invadente e sentiva il manico affondare nella fasciatura tirandolo verso il basso. La sagoma dell'uomo di ferro sembrò crollare su se stessa e venire inghiottita nuovamente da quell'ammasso informe di metallo.

Si girò un po' bruscamente verso Yinsen e si accorse che lo stava fissando acutamente oltre gli occhialetti rotondi. Non disse nulla e riprese a lavorare, ma Tony era sicuro di aver colto una traccia di delusione nei suoi occhi, un'aspettativa mancata. Fece per avvicinarsi ai componenti che aveva selezionato, ma si bloccò repentinamente e voltò loro le spalle. Poggiò la batteria sul tavolo di malagrazia e sentì una vibrazione nel petto, ma la ignorò, rimettendosi la maschera da saldatore.
Poco dopo era nuovamente immerso nel lavoro, ma non iusciva a cancellare dalla sua mente l'immagine di quell'uomo di ferro.




 

Note Dell'Autrice:

Avevo promesso di aggiornare prima di Natale! Sono brava, eh?
Questo robo è nato di getto, e si vede. Mi piaceva l'idea di partire da un dettaglio piccolo, ovvero le mani di Tony, per riferirmi alla situazione generale. E poi ovviamente ho sfaciolato nella solita insicurezza del costruire Iron Man ma di essere debilitato fisicamente e bla bla bla e Yinsen è l'ammmore. L'angst è più natalizio del torrone!


Ringrazio _Atlas_, _Stark, mega n e Kane0042 per aver recensito lo scorso capitolo!
Auguro a tutti voi un
Buon Natale e un Felice Anno Nuovo! Buone feste e strafogatevi di dolci e cose buone <3

Frohes Fest,

-Light-


 

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Capitolo 8
*** Never tell me the odds ***


Capitolo 7
 
"Never tell me the odds"


 

 

"Io sono il padrone del mio destino
Io sono il capitano della mia anima."

[W. E. Henley]




"Ho un debole per le scommesse e un'attrazione fatale per i casinò. Mi è sempre piaciuto mettermi in gioco in qualsiasi contesto, tanto meglio se le previsioni sono contro di me. Tirare un doppio sei coi dadi, scoprire un poker o fare blackjack è una riprova che anche il caso è dalla tua parte e che non avrai mai nulla da temere da lui. Lo trovavo un concetto molto rassicurante.
Puntare sulla propria stessa vita porta la faccenda su un altro livello."

 

*

 

La fiamma traballante della lampada a petrolio illuminava appena il foglio stropicciato, ingiallito dalla sabbia e macchiato d'umidità. La punta della matita tracciava con precisione i contorni dei vari meccanismi, con linee secche ma leggere, dando forma a un componente dopo l'altro. Tony si fermò un istante, osservando l'ultimo schizzo con il mozzicone che penzolava tra le labbra, poi corresse un raccordo tra le placche di metallo e modificò il circuito che aveva abbozzato là accanto. Cercò di non calcare troppo il tratto come faceva di solito: lì non aveva il lusso di una gomma per cancellare.

Uno scricchiolio improvviso fece scattare i suoi occhi verso la porta blindata; coprì d'istinto il progetto con la mano e sentì il cuore singhiozzargli nel petto. Scrutò la sua cella sforzandosi di abituare gli occhi al buio e trattenne il fiato per lunghi secondi prima di rilasciare lentamente la tensione accumulata e tornare a capo chino sul banco di lavoro. Yinsen si rigirò nel sonno, facendo cigolare la brandina, ma continuò a dormire russando appena.

Tony abbassò ancora la fiamma della lampada, tanto che gli divenne difficile decifrare la sua stessa grafia. I segni di grafite sul foglio sembravano tremolare e prendere vita nel guizzare morente della fiamma, deformata dal vetro opaco e annerito. La fissò come ipnotizzato, indeciso se dare ascolto all'idea che quell'immagine gli aveva suscitato. Picchiettò piano con la punta della matita su un altro foglio, come a prendere le misure, poi abbozzò appena il meccanismo di un lanciafiamme incastonato nella placca dell'avambraccio. Riordinò i sottili fogli nell'ordine giusto, li sovrappose e li spianò appena, controllando che tutti i componenti si incastrassero a dovere l'uno sull'altro. Annuì tra sé: iniziava a prendere forma. L'elmo era ancora un semplice quadrato leggermente smussato, con due rozzi fori simili ad occhi spalancati. Esitava ancora a dare un volto a quella creazione. Rimescolò i progetti, che a prima vista sembravano semplici bozzetti di innocui rivestimenti metallici, e li ripose con cura sotto una cassa di munizioni, celati a occhi indiscreti.

Rimase a fissare il piano di lavoro flebilmente illuminato, un isolotto chiaro in mezzo all'oscurità densa della grotta. Il suo sguardo fu calamitato dall'occhio rosso della telecamera. Era sicuro che se l'avessero visto ancora sveglio dopo il coprifuoco avrebbe passato grossi guai. Si tastò d'istinto la costola ancora dolorante: non poteva permettersi altri impedimenti. Ormai il tempo era agli sgoccioli. Avevano una settimana per assemblare il missile... o meglio, la loro via d'uscita. E mancava ancora il passo più importante. Il suo sguardò seguì i fili che dal suo petto si protendevano come serpi fino alla batteria poggiata sul bancone, la sua fonte di vita e la sua dannazione. Controllò che il foglietto accuratamente ripiegato fosse ancora incollato sotto di essa. Non aveva bisogno di aprirlo per ricordarne il contenuto. Aveva memorizzato quel progetto fin nei suoi minimi dettagli e già prima lo conosceva approfonditamente. In fin dei conti era il retaggio di suo padre.

I suoi occhi oscillarono tra i progetti dell'armatura e quelli del reattore Arc, poi si posarono sulla telecamera e avvertì la stretta della paura. La respinse con ferocia, ancorandosi al puntino rosso che lo fissava nel buio. Non poteva permettersi di aspettare ancora.

 

*

 

«E a cosa ti servirebbe tutto questo palladio?»

Tony rimase in silenzio, riluttante a rispondere, e continuò ad armeggiare con un cacciavite per disarmare la centralina elettronica del secondo missile. Staccò poi con un colpo secco la punta della fusoliera, mettendone a nudo i componenti interni e rimuovendo con delle pinzette il successivo frammento di palladio, che adagiò in una vaschetta assieme all'altro. Ne mancavano nove. Scoccò un'occhiata a Yinsen, che non si era ancora mosso né sembrava intenzionato a farlo.

«Ti ricordo che abbiamo solo una settimana prima che il nostro soggiorno giunga al termine. Non ci faranno credito ancora a lungo,» lo spronò, passando al missile successivo.

Colse con la coda dell'occhio Yinsen che scuoteva scetticamente la testa.

«Questo sarebbe un tuo piano fantasioso per farci ammazzare prima di quella scadenza?»

Tony sollevò lo sguardo dall'arma, interrompendo l'operazione di disarmo con un sospiro scocciato.

«È un piano fantasioso per farci uscire di qui.»

Quell'affermazione non parve convincere il dottore.

«E quelle?» accennò al cumulo di placche metalliche che Tony aveva saldato per conto suo e accatastato in un angolo in disparte negli ultimi giorni.

«Fanno parte del piano fantasioso,» replicò seccamente l'altro, incrociando le braccia dinanzi al magnete. «Ora, se vuoi aiutarmi a smantellare gli altri nove missili, guadagnerei un'ora di tempo che potrei impiegare in qualcosa di più utile. Altrimenti, per quanto mi riguarda puoi anche continuare ad assemblare il Jericho,» concluse, tornando a smontare la coda del missile quasi con rabbia.

Vide Yinsen che esitava ancora, probabilmente preso in contropiede da quella sua improvvisa veemenza. Non poteva biasimarlo. Nelle settimane precedenti era stato apatico, rissoso, frustrato, irascibile; un coacervo di irrequietezza pronto a saltare al minimo turbamento come un fusibile difettoso. Si rendeva conto di aver perso la bussola ed essersi arenato senza un obiettivo preciso, se non quello fumoso e ovvio di volersi liberare, senza per questo fare nulla di concreto per rendere quella meta più raggiungibile. Anche con la guida di Yinsen gli era risultato difficile rimettersi in rotta.

Era servita una minaccia diretta, un colpo di speroni inatteso e bruciante, per smuoverlo e farlo tornare in sé, per riscuoterlo da quell'indolenza rassegnata e pericolosa. Scoccò un'occhiata a Yinsen, chiedendosi come potesse sopportare la condanna a morte che incombeva sulla sua testa per causa sua. Per quanto lo riguardava, era la cosa più reale a cui riuscisse a pensare in quel momento. La parola "responsabilità" gli era sempre sembrata estranea, ma adesso pesava più che mai sulle sue spalle. Non avrebbe permesso che qualcun altro morisse per colpa sua.

Yinsen esitò ancora, per poi afferrare un missile e piazzarlo sul tavolo di fianco al suo, iniziando a seguire il suo esempio per rimuovere il palladio. Tony gli rivolse un cenno grato, senza commentare.

«È un piano sicuro?» chiese il dottore dopo un po', facendo cadere con un tintinnio la scheggia di palladio tra le altre.

La sua voce era apparentemente disinteressata, ma tradiva un tremito di aspettativa. Tony assottigliò le labbra, concentrato a manovrare il cacciavite con i gesti rapidi di un meccanico consumato che smonta l'ennesimo motore.

«Cosa, non ti fidi di me?» lo sviò, lasciando trapelare una traccia superstite del suo solito tono scherzoso prima di imprecare a mezza voce contro la fusoliera che non voleva saperne di cedere.

Si rese conto del silenzio dell'altro e si girò a guardarlo, cogliendone infine la risposta intrinseca.

«Figurarsi,» mormorò tra sé, amareggiato, dando con tutto il suo peso una gomitata alla punta dell'ordigno e riuscendo finalmente a staccarla.

Qualche minuto dopo, il quinto frammento di palladio cadde nella vaschetta.

«Non è un problema di fiducia,» rispose Yinsen dopo un lungo silenzio, ancora alle prese col suo terzo missile. «Se non avessi avuto neanche un briciolo di fiducia in te, ti avrei lasciato morire.»

«Sicuro. Ti vedo molto bendisposto e collaborativo, infatti,» ribatté acidamente lui, ignorando l'affermazione del medico che l'aveva suo malgrado colpito.

Poté percepire l'altro uomo che alzava gli occhi al cielo anche senza guardarlo.

«È una questione di probabilità.» Yinsen sollevò lo sguardo nel suo. «Quante ce ne garantisce il tuo piano?»

Tony si sentì minacciato da quella domanda e non rispose. Yinsen sospirò piano e non insistette oltre. Lui continuò a tacere, finendo di scomporre altri tre missili. Al nono si fermò e si passò una mano sul volto, poggiandosi sul piano di lavoro e chiamando a raccolta i suoi pensieri. Dopo qualche minuto, riprese a lavorare.

«Conosci il paradosso del gatto di Schrödinger?» esordì quindi, a mezza voce.

Yinsen alzò lo sguardo dai suoi circuiti e lo guardò con aria perplessa, spaesato dall'improvviso cambio di tono e argomento.

«Certo, ma non vedo come la meccanica quantistica...»

«Lascia perdere la quantistica e segui l'analogia,» lo anticipò Tony, lasciando cadere la scheggia di palladio nella vaschetta. «Finché non apri la scatola, il gatto è contemporaneamente vivo morto, giusto? Non puoi saperlo finché non la apri. Vedi questo piano come quel gatto: non ne sapremo la sorte finché non lo metteremo in pratica.»

«È un modo molto elegante per dire che è un piano con il cinquanta percento di probabilità di fallire.»

«O di avere successo.»

Tony non trattenne una smorfia al pessimismo di Yinsen.

«Non è un pronostico rassicurante,» commentò tetramente l'altro. «Siamo praticamente nelle mani del caso.»

«Se può consolarti, ho una discreta fortuna al gioco,» borbottò lui di rimando, a corto di argomentazioni ma stizzito da quelle parole.

«Speriamo che non ti abbandoni anche quella.»

Tony scosse la testa, ma incassò il colpo in silenzio. Comprendeva lo scetticismo di Yinsen, ma avrebbe voluto urlargli addosso per fargli capire che adesso sapeva quello che stava facendo. Non era più un bambino lanciato in un mondo sconosciuto che doveva imparare tutto da zero. Sentiva di aver assorbito più nozioni ed esperienza in quei tre mesi che in tutta la sua vita. Adesso si sentiva finalmente pronto ad accettarle e farle sue. Guardò la batteria, poi l'angolo nel quale era ammassato il materiale per l'armatura, infine i frammenti argentei di palladio davanti a lui. Era tutto pronto: non gli rimaneva che unire i puntini col suo ingegno, senza tirarsi indietro. Avrebbe dovuto credere che non fosse tutto merito suo, che fosse stato il caso a guidare le sue azioni?

«Il caso non esiste,» sbottò all'improvviso. «È solo una scusa conveniente per giustificare il fallimento.»

Yinsen distolse l'attenzione dal suo missile, interdetto. Tony alzò le spalle, come se ciò che aveva affermato fosse ovvio, poi riprese ad armeggiare col suo circuito e prelevò la decima dose di palladio. Poteva percepire gli occhi di Yinsen puntati su di lui, ma si accorse che non lo stava realmente guardando. Sembrava perso in riflessioni cupe, che gli adombrarono le iridi chiare di una luce inquieta e lontana.

Tony passò a lavorare sull'ultimo missile sovrappensiero. Lo smantellò rapidamente e arrivò al nucleo di palladio senza difficoltà, trattenendolo tra le pinzette. Lo osservò soddisfatto alla luce fioca dei neon, prima di lasciarlo cadere tra gli altri con un tintinnio metallico che sancì l'inizio del suo piano.






 

Nota dell'autrice:

Vabbè, ormai lo sapete. Pubblico, sparisco per due anni, poi ritorno, ripubblico e mi do alla macchia per altri due anni. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio...
Che dire, l'aver mancato di completare questa raccolta non mi andava proprio giù, così ho deciso di riprenderla sull'onda di un prepotente ritorno d'ispirazione.

Questo capitolo non è tra i miei favoriti, ma sicuramente lo preferisco al precedente, che a rileggerlo è un po' raffazzonato. La stesura ha richiesto un consulto tecnico, causa mia ignoranza in materia scientifica, nonostante abbia affrontato il paradosso del gatto di Schrödinger in filosofia qualche lustro fa. Quindi grazie ad M. che è stato coinvolto suo malgrado nel processo creativo :)
Ho sempre visto Tony come una persona scettica riguardo al "caso", ma più propensa a credere nel destino (soprattutto dopo le esperienze in Afghanistan e a New York). Non ho voluto dare forma ai pensieri di Yinsen per il semplice fatto che è un personaggio che funziona da solo, coi suoi silenzi e le sue occhiate indecifrabili. Ha sofferto molto e perso la sua famiglia, è plausibile che voglia attribuire tutto a un caso malevolo, ma in fondo se ne sente responsabile e sa che ne è responsabile indirettamente anche Tony.
Chiudo il papiro dicendo che, nonostante il fulcro di questa raccolta sia il reattore, la sua creazione materiale non verrà trattata, principalmente perché già l'ho descritta in una mia vecchia fic (
Guiding Light). Sarebbe ridondante riprenderla qui.

Piccola nota aggiuntiva: la raccolta è finita, nel senso che ho terminato di scriverla. I i tempi di aggiornamento saranno di un capitolo a settimana (ne mancano due).

Grazie a chiunque leggerà o recensirà <3

-Light-

P.S. Il titolo è una citazione di Han Solo, tradotta in italiano con un opinabile "risparmiami i pronostici" rivolto a C3P0.

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Capitolo 9
*** Vivere ***


Capitolo 8 

Vivere




"La bellezza salverà il mondo."

[F. Dostoevskij da L'Idiota]


 

"Un tempo ero convinto che l'apice della bellezza fosse l'ultimo modello della Audi R8. O magari il nuovo calendario di Playboy. O una modella di quel calendario di Playboy nel mio letto. Avevo l'imbarazzo della scelta: vivevo circondato dalla bellezza, ne ero assuefatto. Ciò che saltava all'occhio era, com'è ovvio, la bruttezza. Ne ero estremamente critico, quasi disgustato.
Poi le mie priorità sono cambiate e ho iniziato a valutare la bellezza nella sua assenza, nel cercarla ovunque in un luogo dove non si spera di trovarla. A volte ci riuscivo, ma ho dovuto prima cambiare i miei parametri. Esiste un tipo di bellezza che non è solo bello o piacevole da guardare. È qualcosa di più ambiguo che si annida ai margini del buio. È sofferenza, e la capacità di vincerla. È una luce blu in mezzo al petto che ti ricorda da dove sei partito. È il momento di gelo in cui ti ritrovi a fissare lo spazio profondo e sai di aver fatto tutto ciò che potevi. È il rimprovero severo di chi ti ama e cerca di guidarti. Sono gli occhi limpidi di un uomo che muore per ciò che ritiene giusto, senza rimpianti. È la consapevolezza dei propri errori e la volontà di ripararli. È tragedia e resilienza e impeto disperato verso qualcosa di più.
È quella bellezza che non puoi limitarti ad ammirare da lontano e che non si concede facilmente. Devi tuffartici dentro, cercare di conquistarla e sperare che non ti consumi."

 

*

 

Mentre martellava energicamente il ferro arroventato, Tony pensava di nuovo al mare. Non era ben sicuro di come le sue riflessioni orientate su piani di fuga e perfezionamenti dell'armatura l'avessero portato là, tra i flutti del Pacifico, ma era sicuramente un pensiero più piacevole del solito. Gli portò una calma inaspettata, come se quelle onde lontane si fossero insinuate nel suo petto e avessero preso a seguire una risacca immaginaria a tempo col martello, alleviando il calore bruciante che si levava con le volute di vapore e le scintille.

Si fermò brevemente, riprendendo fiato nell'aria soffocante. Sentiva la pressione del reattore nel petto, un blocco rigido che gli premeva doloroso contro lo sterno e che sembrava aumentare di consistenza ad ogni respiro. Non faceva più così male come il primo giorno, ma dubitava che quella sensazione opprimente sarebbe mai svanita del tutto. Aveva iniziato ad abituarsi alla luce azzurrina che gli scaturiva dal petto. Di notte, quando era disteso sul suo mucchio di coperte ruvide, immerso nel buio gelido, era diventato una compagnia rassicurante: un semplice cerchietto blu che scalfiva le tenebre rendendole meno tetre e più sopportabili. A volte si tirava il lenzuolo fin sopra la testa e rimaneva nella penombra tinta di un azzurro soffuso. Il reattore sfarfallava appena, creando giochi di luci ed ombre sulle pieghe del tessuto. Lì, in quella volta celeste improvvisata che gli faceva agognare il cielo vero, pensava spesso al mare, rievocato da quell'accenno di colore freddo ma così familiare. Gli venivano in mente le mattinate passate in spiaggia ad oziare, le feste sulla terrazza a picco sulla scogliera, i tramonti mozzafiato a cui non prestava attenzione, il semplice gettare uno sguardo fuori dalla vetrata e constatarne la presenza immutata. Non si addentrava troppo nei ricordi: rischiavano di perdere la loro dolcezza, di scivolare nel dolceamaro, di tramutarsi in amarezza. Si accontentava di quel vago richiamo lanciato da un congegno che stava ancora imparando ad accettare come parte di sé.

In quel momento, avrebbe voluto poter dormire un'altra notte per calarsi di nuovo in quell'atmosfera accogliente, per lasciarsi scivolare dalle spalle il peso di ciò che lo attendeva. Portò una mano al petto, incontrando la superficie appena tiepida del reattore, e gli diede un colpetto come a riscuotersi da quelle fantasticherie. Non c'era più tempo.

Sollevò con le pinze la rozza maschera di ferro che stava forgiando e la tuffò nell'acqua per temprarla, sollevando un'eruzione sibilante di vapore. La poggiò bruscamente sul piano di lavoro, davanti a Yinsen, che trasalì a quel suono metallico come di un martelletto di una giuria che conferma una sentenza. Non ebbe bisogno di aggiungere nulla. Il dottore lo fissò brevemente negli occhi, come ad accertarsi delle sue intenzioni, poi smise di lavorare sui componenti del Jericho e si alzò con efficiente rapidità, ma senza concitazione. I suoi movimenti erano misurati come sempre, sicuri di sé. Tony, al contrario, sentì un lieve tremito invadergli le mani e si aggrappò al bordo del tavolo per domarlo.

«Andrà bene...» mormorò tra sé con voce bassa e tesa, fissando la maschera sul tavolo che ricambiò con orbite vuote e ostili.

«Lo stai affermando o me lo stai chiedendo?» gli arrivò in risposta la voce del dottore, serafica.

«Lo sto sperando,» rispose di getto, e serrò le labbra per non aggiungere altro.

«È già qualcosa.»

Yinsen gli scoccò un'occhiata tranquilla, fiduciosa, e prese a radunare in silenzio i componenti dell'armatura. Tony strinse il reattore nel palmo e ne avvertì il ronzio sommesso. Pensò al mare, al cielo, al calore del sole sulla pelle, al vento in faccia e a chi lo aspettava. In confronto a tutto ciò, gli sembrava di non aver mai desiderato niente di bello in vita sua. Ciò che lo attendeva fuori da quella grotta poteva ben compensare tutte le sue sofferenze, e si rese conto che sarebbe stato disposto a patirle di nuovo, se erano davvero l'unico mezzo per liberarsi. Per liberarsi davvero. Un sentimento quasi furioso gli risalì le viscere e lo riportò al presente, all'aria stantia della grotta, al buio umido, ai fucili, alle percosse e all'odio domato che ribolliva dentro di sé e che incanalava con forza in determinazione.

Fissò un'ultima volta la maschera ancora fumante sul tavolo e si avvicinò a Yinsen, già pronto a bardarlo con l'armatura metallica. Fece un respiro profondo e il reattore premette contro le costole, dolorosamente rassicurante e minaccioso. Soffermò lo sguardo sulle proprie mani, escoriate e fuligginose. Avevano ancora molto da costruire e ancor più da riparare. Afferrò un rotolo di nastro adesivo e iniziò a fasciarle, avvertendo uno strano distacco che lo avvolgeva nonostante i battiti aumentati del suo cuore. Non aveva mai combattuto in vita sua, ma sentiva il suo corpo che si preparava allo scontro, teso e nervoso, seguendo un istinto antico. Era una sensazione rinvigorente, quasi piacevole e colma di aspettativa, tanto da farlo fremere nel presagire la lotta.

«Andrà bene.»

Stavolta fissò dritto negli occhi il medico, con fermezza.

«Pensavo che potessimo solo sperarlo.»

Yinsen lo scrutò a fondo, come a sondare i suoi veri pensieri.

«Non è abbastanza. Non posso...» s'interruppe, sentendo la sua sicurezza incrinarsi nell'incespicare delle sue stesse parole. «Tutto questo è troppo importante.»

Terminò in fretta il suo intervento sconclusionato, abbassando lo sguardo e incapace di esprimere a voce ciò che sentiva rimescolarsi dentro di sé: la netta, chiara nozione che quella fuga fosse una porta su qualcosa di diverso, che ci dovesse essere un motivo per cui tutto ciò stava accadendo, nonostante Yinsen non volesse ammetterlo. Non sapeva cosa avrebbe fatto una volta varcata quella soglia, ma sapeva di volerla assolutamente superare. Ripensò al discorso del giorno prima, alla sua negazione del caso, a quanto si fosse sentito sperduto all'inizio della sua prigionia nel constatare di essere in balìa degli eventi e a quanto si sentiva determinato adesso.

Strinse i pugni, calzando gli spessi guanti di cuoio e saggiandone la tenuta. Yinsen lo aiutò a indossare l'imbragatura, iniziando a fissarvi la corazza coi legacci. Tony lanciava continue occhiate alla porta, assicurandosi che l'ordigno artigianale fosse ancora al suo posto. L'immagine del missile col suo nome sopra, un istante prima della detonazione, gli si parò davanti. Sospirò ad occhi chiusi nel pensare alla sua vita passata a creare armi. Quella era l'ultima volta.

Percepì il peso imponente del ferro gravargli addosso, assieme alla sicurezza di poterlo sostenere. Non ricordava di essersi mai sentito così vivo come in quel momento. Alzò lo sguardo su Yinsen, impegnato ad avvitare rapidamente le placche metalliche. Avrebbe dovuto ringraziarlo. Il pensiero gli balenò nella mente con urgenza, ma non riuscì a trovare le parole giuste, così deglutì e rimase in silenzio per qualche istante. Si trovò a fissare la luce azzurrina del reattore incastonato nel suo petto e cercò di trarne ancora più forza, così che bastasse per entrambi.

«Tre mesi fa, avrei pensato di poter uscire di qui da solo, a discapito di tutto e tutti, perché ero... beh, perché sono Tony Stark,» proruppe infine, senza riuscire a guardare negli occhi il suo compagno di prigionia. «Ora sono... sono contento di aver accettato il tuo aiuto, di averti ascoltato,» riuscì a dire infine, esitando impacciato, per poi continuare con impeto, convogliando in quelle parole tutta la gratitudine che faticava ad esternare. «Ti giuro che ce la faremo. E quando sarò fuori di qui farò tutto ciò che è in mio potere per rimediare.»

Gli parve di scorgere un'espressione divertita formarsi sul volto del dottore, e lo fissò interrogativo. Yinsen notò la sua confusione e gli sorrise apertamente. Per un attimo, con il suo completo elegante e liso, con gli occhiali rotondi e storti che gli incorniciavano gli occhi acuti, riprese quell'aria da vecchio e severo professore che faceva capolino quando parlava con lui per riprenderlo e correggerlo. Stavolta però non sembrava scrutarlo con delusione, ma con lo sguardo benevolo di chi riconosce che un allievo è ormai pronto a proseguire da solo sulla sua strada.

«Comunque vada, tu sei già là fuori, Stark.»

 

*

 

Il cielo era di un azzurro così profondo da dargli le vertigini. Lo attraversavano delle nuvole rade e sfilacciate, spinte in un passaggio frettoloso dal vento caldo e teso. Poteva essere una qualunque giornata d'estate a Villa Stark, una di quelle che avrebbe passato a crogiolarsi sulla spiaggia. Poteva essere un giorno di tre mesi prima, quando era riverso come adesso nella sabbia macchiata di sangue a chiedersi se stesse per morire.

Rimase accasciato tra i rottami col respiro rotto, lasciando vagare lo sguardo sul paesaggio riverberante di luce mentre cercava di ricomporsi. L'eco metallica degli spari gli risuonava ancora in testa, assieme al clangore dei proiettili sull'elmo. Percepiva ancora il lezzo nauseante del sangue e di corpi bruciati, sentiva il calore divampante del fuoco addosso che arroventava la sua corazza di ferro. La fuliggine e la sabbia aderivano come un sudario al suo corpo. Represse un conato e si voltò per affondare il volto nella sabbia, cercando a lungo di scacciare quelle immagini vivide, che sembravano tornare e tornare ancora in ondate violente.

Dopo quelle che parvero ore, ma che erano stati probabilmente pochi minuti, si sollevò a fatica su una mano, tentando di mettersi a sedere, e sentì le sue dita fare presa sulla sabbia rovente. I suoi pensieri si schiarirono, come riportati al presente da quel semplice gesto. Strinse i granelli nel pugno fino a farsi male, a imprimere quella sensazione nella carne. Non riusciva a credere di essere all'aperto, né di stare fissando quel cielo vasto e non il soffitto costellato di asperità della grotta, né di non avere un fucile puntato addosso. Si aspettava di ritrovarsi da un momento all'altro nella sua brandina, destato dal freddo pungente e da urla feroci, con un'altra giornata di lavoro forzato e percosse davanti a sé.

Il sole continuò a picchiare sulla sua pelle diventata cerea e sensibile, ustionandolo. Sentiva il sibilo del vento che lo sfiorava, portando con sé granelli di sabbia che si impigliavano nei suoi capelli arruffati. Riuscì ad alzarsi a fatica sulle ginocchia, spaziando lo sguardo sulle dune che si dipanavano caoticamente fino all'orizzonte, dividendo nettamente il mondo in azzurro e oro rosso. Ispirò a fondo l'aria calda, così diversa da quella a lui familiare, ma che recava già con sé una traccia di casa.

Era ancora vivo, finalmente libero.
Yinsen era morto.

Il pensiero sembrò ergersi in quella distesa desolata come una sfinge minacciosa, solitaria e imponente, riverberando nella sua mente in un rintocco funebre e assordante. Non riusciva a capacitarsi di ciò che era accaduto in quegli ultimi, frenetici minuti. Se guardava dietro di sé percepiva solo una massa ingarbugliata di immagini, sensazioni e suoni stridenti, impossibili da mettere a fuoco chiaramente. Solo i suoi occhi morenti erano nitidi nella sua memoria. Ricordava l'istante in cui le iridi azzurre avevano avuto un ultimo guizzo, per poi appannarsi come vetro, cieche al mondo ma serene.

"Non sprecare la tua vita."

Il suo ultimo gesto era stato un dono disinteressato per lui, per qualcuno che avrebbe dovuto odiare, che probabilmente era responsabile per tutto ciò che gli era accaduto. Gli aveva donato una seconda possibilità con la stessa fiducia immotivata che ha un bambino verso il mondo intero, quando ancora non ne ha scoperto il lato efferato e ingannevole. Aveva voluto credere in lui, al punto da riscattarlo con la propria vita permettendogli di redimere la sua, ma senza la certezza che l'avrebbe davvero fatto. In quel momento realizzò che, dopo tutto quel parlare di caso, possibilità, sopravvivenza e rassegnazione, Yinsen non era mai davvero riuscito a rinunciare alla speranza. L'aveva semplicemente affidata a lui, forse intuendo che ne avrebbe fatto un uso migliore. E lui non poteva deludere quell'aspettativa.

"Non sprecare la tua vita."

Tony si asciugò gli occhi con un gesto deciso, tracciandosi scie salate sulle guance, e si alzò in piedi tra i resti dell'armatura. Portò una mano al petto, cercando la presenza rassicurante del reattore, e lanciò un'ultima occhiata al cielo azzurro e sconfinato, lambito dalle dune dorate che segnavano un orizzonte raggiungibile.

La strada era ancora lunga, ma adesso aveva tutto ciò che gli serviva per percorrerla fino in fondo.






Note dell'autrice:

Io che sono puntuale con un aggiornamento? Ragnarok è vicino!
Che dire... questo capitolo è forse è il mio preferito della raccolta, a voler essere un po' narcisisti come il caro Tony.

E adesso si apre il pippone la parte dei chiarimenti vari, quindi chi vuol fuggire, lo faccia ora!

Mi rendo conto che il collegamento tra la citazione sulla bellezza e lo svolgimento del capitolo può risultare un po' oscuro, eccettuato l'esplicito riferimento iniziale di Tony. Per farla breve – ed esulando dal motivo teologico, visto che comunque Dostoevskij era di un fervore che rasentava la bigotteria – la visione della bellezza nei suoi libri è abbastanza anticonvenzionale, considerando che scrive principalmente di derelitti e miserabili ( consumato tema della bellezza anche nella bruttezza&co). Lui però porta la cosa a un livello superiore, affermando che la bellezza va ricercata proprio nel momento di maggior sofferenza, poiché è quello che spinge ad amare o a provare compassione per il prossimo o semplicemente a tirar fuori il proprio lato più vulnerabile e umano. Ovviamente, vi è un chiaro sottotesto religioso (Passione cristiana ecc.) che esula da ciò che prendo in considerazione e dalla mia stessa visione del mondo, ma spero che sia chiaro come si inserisce in questo contesto.
Qui è riferita in primis a Yinsen e collateralmente a Tony, in quanto le conseguenze del gesto nobile/bello di Yinsen plasmeranno il resto della sua vita, arrivando appunto a salvare il mondo.

Chiudo l'esoso papiro col dire che questo capitolo è legato a doppio filo col capitolo 2 della raccolta, sia per il titolo, sia per i richiami testuali.
Ringrazio tantissimo
_Atlas_, fedele adepta, che continua a seguirmi e recensire nonostante io mi dia puntualmente alla macchia. Grazie per le tue recensioni e soprattutto per il tuo supporto <3
Alla prossima, ovvero tra una settimana, per il capitolo conclusivo (non ci credo, sta per finire!)

-Light-

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Capitolo 10
*** Epilogo - Lezioni ***


Epilogo

Lezioni


 
 

"L’inferno è per i puri [...] e peccare si può soltanto contro la propria purezza."

[T. Mann da Joseph der Ernäher]


 

«Credo sia tutto.»

Tony si voltò a guardare il dottor Banner trovandolo stranamente sveglio e attento, al contrario di quanto si era aspettato.

«Stavi veramente ascoltando o hai trovato un modo per dormire ad occhi aperti?» lo stuzzicò con un sorrisetto impertinente.

«Stavo ascoltando,» replicò l'altro, leggermente risentito.

«Sicuro?»

«Vuoi un riassunto scritto?»

«Potrei sottoporti un questionario. Con valutazione tenuta da me, ovviamente.»

Bruce sospirò e si distese in un sorriso rinunciando a proseguire quel battibecco, e ciò suscitò l'ilarità di Tony. Doveva ammettere che, a prescindere dall'attenzione del suo amico si sentiva molto più leggero. Magari era vero, quello che dicevano riguardo alla psicoterapia.

«Commenti dal pubblico?» lo incalzò giocoso, ma in fin dei conti spinto da una curiosità sincera, sebbene un poco apprensiva.

Si trattava comunque della sua vita, ed era sempre piuttosto suscettibile a qualunque critica in proposito. Bruce si accarezzò sovrappensiero la barba, come consapevole di ciò e intento a formulare un commento il più delicato e neutrale possibile.

«Diciamo che adesso capisco un bel po' di cose,» disse infine. «Su di te, su alcuni dei tuoi comportamenti e sulle scelte che hai fatto,» continuò, notando l'occhiata dell'amico.

Tony si fece attento. Bruce Banner che esprimeva un'opinione su qualcosa? Era sicuro che Natale fosse passato da un pezzo.

«Per esempio? Mi illumini, dottore, dopotutto sono qui per lavorare su me stesso.»

Sorrise, ma il suo nervosismo era evidente, così come la reticenza di Bruce nel dire ciò che pensava.

«Per esempio,» esordì infine, «le tue varie discussioni con Rogers. Il perché tu ti sia così risentito per le sue parole.»

Scosse la testa esasperato al solo ricordo, e Tony fece spallucce con un'aria da discolo professionista.

«Qualcuno deve pur riportare quel pallone gonfiato coi piedi per terra,» osservò con convinzione, strappando a Banner uno sguardo che diceva chiaramente "da che pulpito..."

Il dottore scosse la testa, riprendendo il discorso:

«O il modo in cui hai completamente cambiato atteggiamento quando hai saputo che l'agente Coulson era morto.»

A questo Tony non rispose. Si limitò a un lieve cenno d'assenso, impreparato a quell'argomento. Ma riconobbe che, sì, in quel frangente qualcosa era scattato in lui con prepotenza, ponendo in secondo piano persino se stesso e il suo ego. Non aveva mai riflettuto sulla cosa, ma era stato sempre intrinsecamente consapevole di quali corde avesse toccato quell'evento. Bruce fece per aggiungere altro, poi esitò brevemente, sapendo di entrare in un terreno delicato.

«E poi, quello che hai fatto a New York... è stato inaspettato per tutti noi. Credo che all'epoca te ne sia reso conto. Adesso mi è più chiaro, in un certo senso.»

Allargò le mani senza aggiungere altro, non sapendo come esprimere meglio quel concetto e non volendo approfondirlo, perché dopotutto era uno scienziato, non uno psicologo. Tony s'irrigidì a quelle parole, provando un'improvvisa, crescente e spiacevole sensazione di vuoto allo stomaco, quella che precedeva i suoi attacchi di panico. Chiuse brevemente gli occhi e inspirò a fondo, sentendo il cuore che prendeva a battere in modo irregolare.

«Tony? Scusa, non pensavo che...» la voce di Bruce gli arrivò ovattata.

«Prima o poi devi insegnarmi i tuoi trucchetti per rimanere calmo,» lo interruppe lui con un mezzo sorriso forzato, senza riuscire a contenere il suo respiro accelerato né a scacciare del tutto dalla sua mente la visione intermittente del portale spalancato sullo spazio profondo.

Stava diventando a poco a poco più facile sfuggire all'ansia che gli arpionava le viscere, ma richiedeva ancora uno sforzo di volontà enorme. Con Pepper era più facile; si ritrovò a desiderare che fosse lì con lui a stringerlo, come durante i suoi incubi, e solo il pensiero lo aiutò lentamente a calmarsi.

«Sono lieto che tu abbia capito perché ho fatto quel che ho fatto, ma in questo momento preferirei parlare un altro paio d'ore di grotte in Afghanistan e Natali rovinati piuttosto che un altro minuto di... quello,» riuscì a formulare, vago. «Tra un paio d'anni magari ti concedo una puntata speciale dedicata esclusivamente a New– a quello, ma per ora dovrai accontentarti,» concluse sbrigativo.

«Sì, certo,» si affrettò a concordare Bruce, a disagio, quasi percepisse fisicamente la sua ansia. «Prima... prima parlavamo del reattore, giusto?»

«Il reattore, certo!» concordò Tony rianimandosi, e diede una pacca sollevata all'oggetto in questione lieto di tornare a un argomento quasi leggero. «Insomma, adesso capisci perché non voglio ancora abbandonarlo

Bruce corrugò le sopracciglia, perplesso dalla sua scelta di parole, ma decise di soprassedere.

«Più o meno. È una specie di "incentivo" per continuare ad essere Iron Man,» dedusse cautamente, scrutando la reazione dell'amico.

Tony portò una mano al pizzetto come colpito da quell'affermazione, e fece con la testa un gesto a metà tra un cenno d'assenso e uno di diniego.

«Mh. Forse un tempo. Immagino di sì, in un certo senso, ma non è più quello il motivo che mi spinge a tenerlo,» sospirò, rendendosi conto di quanto fosse difficile raccogliere i suoi pensieri su quell'argomento, e di quanto i suoi giri di parole stessero confondendo Bruce. «Il punto è che il reattore non è legato ad Iron Man. Cioè, tecnicamente lo è, ma non sto parlando di questo, adesso,» precisò, notando la dubbiosità di Bruce. «Verrà il giorno in cui potrò gettare questa lampadina in mare senza rimpianti, ma non significa che smetterò mai di far parte della vostra boy-band male assortita.»

«E perché non lo fai ora?»

A quel punto Tony incrociò le braccia, improvvisamente tetro. Schioccò la lingua, si mosse a disagio sul lettino, poi parlò senza guardarlo, con gli occhi fissi sul soffitto:

«Non ne sono ancora all'altezza,» confessò a mezza voce.

Bruce rimase in silenzio, sorpreso da quell'esternazione di umiltà decisamente insolita per Tony Stark, e aspettò che continuasse.

«Insomma, con tutti i miei buoni propositi ho causato una marea di problemi e guai a me stesso e agli altri, immagina se non avessi avuto alcun freno inibitore o bussola morale,» sbottò, con più forza del dovuto e quasi ritraendosi alla vista di Bruce.

Gli riusciva sempre estremamente difficile ammettere a se stesso i propri errori, figurarsi a qualcun altro.

«Potrò anche essere stato un "eroe" a New York. Ciò non toglie che avrei potuto fare molto di più in mille altre occasioni. Stress post-traumatico e ossessione per le armature a parte con conseguenti fuochi d'artificio targati Stark. Quella.. quella è un'altra storia ancora.»

Si passò una mano sul volto, stropicciandosi gli occhi per non divagare di nuovo.

«Magari non ho sprecato del tutto la mia vita, ma ho deluso molte aspettative,» concluse mestamente, scuotendo il capo.

Ripensò alle parole di Yinsen, che avevano continuato a riecheggiare nella sua mente nel corso di quegli anni. Spesso le aveva ascoltate, a volte ignorate; lo avevano incoraggiato o biasimato, lo avevano spinto a dare il meglio e il peggio di se stesso. Avevano ancora molto da insegnargli e lui molto da imparare.

«Penso che tu ti sia impegnato oltre ogni aspettativa che il tuo amico avrebbe potuto avere,» lo riscosse Bruce, dopo qualche istante.

«Forse, ma non è ancora abbastanza,» insistette Tony con nuova energia. «Posso correggere i miei errori, non cancellarli. E al contrario di voi, non sono invincibile.»

«Nessuno è invincibile,» mormorò Bruce, distogliendo gli occhi.

«Sai cosa intendo,» ribatté Tony, cercando di ammorbidire il tono, ma Bruce non se la prese e gli fece cenno di continuare. «Ho... passato buona parte della mia vita su una strada che non sentivo mia, seminando morte senza neanche rendermene conto. Non potrò mai cambiare questo fatto e non potrò mai fare ammenda, non importa quante volte indosserò l'armatura.»

Prese un respiro, sentendosi schiacciare da quel macigno che portava con sé ormai da anni e che non accennava a diventare più leggero, solo più sostenibile.

«Ho avuto la fortuna...» s'interruppe per correggersi. «Mi è stato concesso di imboccare un'altra strada. Ma commetto ancora errori. Grandi, spesso irreparabili. Sono cosciente di poter fallire e sbagliare, ma a volte...» colse l'occhiata accusatoria di Bruce «...spesso tendo a sopravvalutarmi e a dimenticarlo. Divento impulsivo, fa parte del mio carattere,» disse a mo' di scusa, con aria un po' colpevole e un gesto frivolo della mano.

«Su quello devi ancora lavorare,» concordò l'amico, con uno sguardo eloquente che rimandava a ville distrutte, armature che esplodevano o, più semplicemente, a rivelazioni pubbliche di identità segrete.

Tony si passò una mano sulla nuca, colto in fallo, ma ad entrambi scappo' un sorriso.

«Sono pur sempre il figlio di mio padre... era incluso nel pacchetto del retaggio,» borbottò contrariato, accennando al reattore.

Rimase in silenzio per un po', raccogliendo di nuovo le fila del discorso. Abbassò gli occhi incontrando la familiare luce azzurrina, così pura nonostante il corpo in cui si trovava.

«È proprio per via degli errori che continuo a commettere che non posso sbarazzarmi di lui adesso.» Picchiettò lentamente sul dischetto metallico, assorto nelle sue riflessioni e nei ricordi. «È vero, ho capito che non ho bisogno del reattore per essere Iron Man.»

Si voltò a guardare Bruce con l'ombra di sorriso mesto.

«Ma ne ho ancora bisogno per ricordarmi chi fossi prima.»



 

Fine






Note dell'autrice:

Ma buonsalve! :D
Chiudere questa raccolta è un po' un colpo al cuore... stento io stessa a credere di esserci riuscita e ho l'impressione che finirà per mancarmi, visto quanto mi ci sono affezionata.
Ma finalmente ecco a voi l'epilogo!

Sono andata a parare in una direzione un po' diversa da quella che avevo previsto inizialmente. Questa raccolta era iniziata come una campagna pro-reattore arc "a prescindere" ma ora non mi sento più di affermare lo stesso, soprattutto con gli sviluppi che ha avuto il MCU negli ultimi anni (ricordo che l'ho iniziata nell'immediato post-Iron Man 3, ben prima di Age of Ultron).
Non sono più convinta che Tony non avrebbe dovuto toglierselo – anzi, ha fatto bene – ma sostengo comunque che Iron Man 3 fosse ancora troppo presto per lui. A parer mio non gli siano stati forniti presupposti sufficienti per farlo in quel momento specifico. Senza dilungarmi troppo, credo semplicemente che Tony in quel frangente fosse ancora troppo fragile per compiere un passo così grande. Forse nel post-Civil War avrei ben visto una rimozione del reattore e l'avrei anche applaudita. In IM3 mi sembra ancora buttata lì, anche se ho finito per apprezzare il discorso generale di Tony e la sua evoluzione come personaggio, estrapolati dal contesto della trama terribile.
Quest'ultimo capitolo vuole essere in un certo senso uno pseudo-prologo al disastro che combina Tony con Ultron proprio per limitare i propri errori e per non scendere a compromessi, cosa che si ritroverà obbligato a fare in Civil War (perché, a dispetto di quanto si dica, Tony impara sempre dai propri errori, anche se ne commette altri). 

La citazione di Mann si presta a diverse interpretazioni, ma l'ho pensata in parallelismo/antitesi col filo conduttore del film "noi creiamo i nostri demoni". In realtà Tony canna alla grande la citazione, visto che Wilde disse "noi siamo il demone di noi stessi", concludendo "e facciamo del mondo il nostro inferno", che si siallaccia appunto a Mann, riprendendo inoltre il fatto di "partire da qualcosa di puro" di cui parla Tony nel film.

Questo fa parte del trittico di capitoli della raccolta di cui mi sento più soddisfatta e spero che lo riteniate una degna conclusione, anche se come ho detto mi sono un po' discostata dall'intento iniziale :)
Ringrazio infinitamente tutti coloro che hanno recensito, letto e inserito la storia tra le seguite, ricordate o preferite.
Come sempre un grazie speciale ad
_Atlas_, le cui recensioni mi mandano sempre al settimo cielo, e a cui prometto che avrà presto molto, molto altro da leggere su questi schermi :P

Au revoir,

-Light-

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